Depressione maggiore, cronache di un malato

di Velidart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Buttare Fuori ***
Capitolo 2: *** Alessandra ***
Capitolo 3: *** La Morsa ***
Capitolo 4: *** Un piccolo miracolo ***
Capitolo 5: *** La nausea ***
Capitolo 6: *** La piccola spinta e la punizione divina ***
Capitolo 7: *** Volontà ***
Capitolo 8: *** Ne uscirò di nuovo ***
Capitolo 9: *** Che cos'è la depressione? ***
Capitolo 10: *** Chi è Nocciola ***
Capitolo 11: *** Le amicizie di un depresso ***
Capitolo 12: *** Le relazioni di un depresso ***
Capitolo 13: *** Selene ***



Capitolo 1
*** Buttare Fuori ***


Sapete, trovarsi di fronte a una tastiera, a uno schermo con una pagina bianca vuota in questa situazione è estenuante. L'unica cosa che desideri è la fine. Ed è in questo caso che, tirando fuori una forza di volontà che sembra ormai un ricordo vago, ti costringi e ti imponi a buttare giù qualche riga. Buttare fuori.

Ecco, ho scritto queste cinque righe e già mi viene da piangere, l'oppressione al petto aumenta e la nausea torna a colpirmi come se mi avessero tirato un manrovescio di quelli pesanti, di quelli che ti ricorderai per tutta la vita. Perché funziona così: butta fuori piangendo, spolverando i libri, portando a spasso il cane.. piccolezze che una volta forse ti davano soddisfazione, ma adesso non fanno altro che costringerti a lottare. 

So bene come ti senti: vorresti stare da solo, a letto e dormire. Ah si, dormire: che cosa meravigliosa! Il momento in cui tutto scompare, la nausea non ti attanaglia più lo stomaco, smetti di rimuginare in continuazione, il peso che hai sul petto svanisce e ti immergi nei sogni che, quando va bene, non sono neanche così male. Poi ti svegli, passano quei dieci secondi che dal rincoglionimento ti riportano alla realtà e riparte tutto: inizialmente lo stomaco gorgoglia, senti dei movimenti intestinali poco entusiasmanti e ricominci a pensare e a domandarti perché.

E allora riparte tutto, peggio di quando ti sei abbandonato alle braccia di Morfeo.

Un'altra giornata di merda, un'altro giorno per stare male, ancora pensieri che non riesci ad abbandonare, a buttare via.

E allora pensi "mi devo alzare" e se non lo fai per andare a vomitare devi ritirare fuori quella forza di volontà che pesa come un macigno insostenibile per spostare le coperte e metterti anche solo seduto.

 

Ho iniziato a scrivere perché so che è una delle pochissime cose, forse l'unica, che arrivato alla ventisettesima riga mi consente di distrarmi un po'. Pazzesco se ci pensate: stai descrivendo la merda che stai vivendo e ti senti meglio. Forse quello psicologo che fa i tutorial su youtube non è proprio un ciarlatano vai a pensare. Ma allora perché, ad esempio, la musica che ti ha sempre fatto stare così bene oggi non riesce più a coinvolgerti? Si è un mese e mezzo che praticamente non tocco più la chitarra: quando faccio gli accordi sono da un'altra parte, non sento minimamente la musica, suonare quello che so fare da vent'anni è un'impresa. Tu pensa, quel maledetto assolo di "All Right Now" dei Free che suoni da una vita non te lo ricordi più.  E allora vai nel panico, ti dici che ti sei "rotto", che la tua mente non riesce nemmeno più a ricordare un passaggio così semplice, che non hai più la capacità di immaginare, di prestare attenzione e vivi nel "chissenefrega", distante da tutto quello che ti dicono gli altri. Per rispondere a un "ciao come va" devi pregare Ercole di darti la forza; inebetito chiedi a quello che ti sta di fronte di ripetere la domanda una seconda, poi una terza e poi una quarta volta e tu ancora non capisci: ti sembra arabo e con la mente sei distante. 

Perdonatemi se quel che vi sto scrivendo non sembra avere un filo logico: ma sono nella fase in cui devo semplicemente "buttare fuori" e scrivere quello che mi passa per la testa mi sta facendo bene perché la nausea un po' se n'è andata e il peso allo stomaco è al limite della sopportazione, non insopportabile come sempre. Mi sembra giusto e doveroso però, visto che devo buttare fuori, partire da un inizio anche se, nel mio caso, trovare un inizio è pressoché impossibile.

Sapete a volte penso "Quanto sono fortunati quelli che hanno un evento da stress post traumatico, almeno sanno qual'è il motivo", io non ce l'ho il motivo, o forse ne ho talmente tanti che ormai la mia memoria si rifiuta di ricordarli e semplicemente li archivia in un posto dove non li posso trovare nemmeno a forza.  Allora da dove partire? Direi dal momento in cui si è scatenata questa forte crisi, anche se magari con il passare delle pagine mi verrà in mente qualcos'altro. Probabilmente non sarà un racconto facile, anche dal punto di vista cronologico, perché voglio scrivere dei capitoli "alla giornata", ovvero seguendo le fasi che mi danno più da pensare e che voglio buttare fuori in quel momento.

Quante volte ho scritto buttare fuori in queste due righe? Pazzesco, eppure è proprio quello di cui ho bisogno a quanto pare, forse perché sono stufo di farlo piangendo o rompendo le scatole a quei poveri cristi che per me ci sono e che mi ascoltano impanicati e terrorizzati di dire qualcosa che, invece di migliorare la situazione, possa peggiorarla.

Chiudo questa prefazione così: oggi mi sto imponendo di fare. Stamattina ho portato il cane a spasso in una passeggiata più lunga del solito, nonostante ci abbia messo quasi un'ora a trovare la forza di alzarmi dal letto, poi sono tornato a casa, ho aiutato mia madre a spolverare le mensole e i libri e poi mi sono messo qui a scrivere. C'è stato un miglioramento? Beh, forse minimo, ma mi da speranza. Mi sono imposto il programma di oggi: suonare per almeno venti minuti, anche se mi fa schifo, andare a ordinare la mia corona d'alloro per la laurea (e questo implica lavarmi, vestirmi, prendere la macchina e affrontare una commessa con il sorriso), contattare la tizia che molto professionalmente non mi caga e che dovrebbe avermi già mandato il preventivo per la festa di laurea nel suo locale e poi cercare qualche altra diavoleria per tenere la mia mente distante dal dolore opprimente che mi schiaccia il petto e mi fa venire voglia di vomitare h24.

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Capitolo 2
*** Alessandra ***


Oggi sento il bisogno di scrivere. Vedete, è passato solo un giorno: ieri mi sembrava impossibile poter buttare fuori qualcosa di decente (si, ormai è assodato, il termine buttare fuori sarà molto ricorrente nel corso di queste pagine) ed ora invece, appena tornato da una camminata riflessiva di una straordinariamente calda giornata di metà gennaio, ho la necessità di scrivere e buttare giù qualche riga. Ieri è successo qualcosa di straordinario in un certo senso: dopo aver concluso l'introduzione di questo scritto intitolata "buttare fuori", ho pranzato, mi sono buttato a letto e ho pianto. Un pianto durato veramente pochi secondi, ma mi ha permesso di addormentarmi relativamente serenamente. 

Questo perché è arrivata Alessandra. Dobbiamo dirci tutto no? Alessandra è la personificazione di un impulso che temevo, terrorizzato, di aver perso: la sessualità.

Dovete sapere che da anni una delle mie principali valvole di sfogo prima di addormentarmi è quello che in questo momento mi accingo a chiamare Alessandra. Lei è una donna, bellissima, formosa, maiala: la personificazione dei miei desideri sessuali più spinti e nascosti. Assume forme, volti, dimensioni, caratteri diversi: a volte è un'infermiera, a volte una sconosciuta che mi corteggia, altre volte una misstress implacabile e sadica che mi comanda, che realizza tutte i miei osceni desideri senza battere ciglia ma anzi, provando piacere nell'umiliarmi, nel comandarmi, nel rendermi una mera macchina del sesso. 

E' così dall'adolescenza, da quando inizialmente Alessandra era la mia compagna di classe, la sconosciuta incontrata per strada, la madre vogliosa della mia fidanzatina. E' lo sfogo, la personificazione dell'eccitazione carnale che mi svuota la mente, che sazia i miei desideri e mi allontana da una faticosa, triste, dura realtà. Alessandra è la mia creatività: colei che mi permette di inventare situazioni, contesti, visitare luoghi e avere dei contatti immaginari con altre persone. 

Ecco Alessandra era sparita da mesi, forse ormai un anno: da quando quella fastidiosa sensazione di morte mi svegliava nel cuore della notte, o mi coglieva alla sprovvista poco prima di addormentarmi spazzandola via improvvisamente. Questo dolore, che si chiamerò "il sussulto" è una vecchia conoscenza che ha fatto capolino nella mia vita fra il 2015 e il 2017, non ricordo precisamente la data.

Inizialmente il sussulto era sporadico, si manifestava in rarissimi casi, poi è diventato via via sempre più insistente, sempre più pressante. Ora però, per correttezza, devo spiegarvi in cosa consiste il sussulto.

Immaginate Alessandra, tutta bagnata e vogliosa che mi afferra il pene e lo masturba convulsamente, col sorriso sulle labbra desiderosa di vedere schizzare fuori il frutto del mio desiderio. In quel momento Alessandra diventa confusa, la mia lucidità comincia a perdere colpi e le immagini di sogni che preannunciano l'addormentamento sfocano tutto il contesto, tutta la scena. E all'improvviso, proprio quando sento che la mia mente si sta abbandonando a Morfeo, arriva LUI. Mi toglie il fiato, mi colpisce lo sterno come un pugno degno di Ken il Guerriero, mi afferra lo stomaco e lo stringe. A quel punto mi sveglio di colpo, mi aggrappo in preda al panico alle coperte e cerco di alzarmi con la bocca aperta e con un'immensa fame d'aria.

Sento che sto per morire.

Dura un paio di secondi, forse cinque al massimo, e poi torno a respirare. Ma non finisce qui perché il sussulto è insidioso: mi scatena una serie di reazioni fisiche e mentali devastanti. La mia temperatura corporea sembra scendere di colpo: ho freddo, un freddo di quelli che neanche dieci coperte riescono a placare, si insinua dentro ogni fibra del mio corpo e mi fa tremare, i brividi continuano a manifestarsi anche per ventiquattro ore, il naso mi cola, sento una sensazione di malessere che mi pervade e che è impossibile da descrivere. Comincio a sbuffare acido, sento lo stomaco contorcersi in continuazione e bruciare dall'interno. E poi c'è il danno mentale: non solo Alessandra scompare, ma la mia mente vaga alla cieca. Se chiudo gli occhi vedo elefanti in bicicletta, poi un signore che suona la tromba, e via via così in una serie di immagini che saettano nella mia mente senza un senso logico. E' come se qualcuno prendesse una scatola di giocattoli ordinati e li spargesse a terra di colpo e continuasse a rimescolarli e trasfigurarli. E badate: è una cosa velocissima, sono immagini e suoni che si materializzando e cambiano, scompaiono in pochi istanti.

E' a tutti gli effetti quello che gli esperti definirebbero come "confusione mentale".  Questo mi impedisce di ragionare, di concentrarmi.

Riaddormentarsi è un incubo perché non riesco a concentrarmi su Alessandra, non ne vuole sapere di ricomparire se non per un paio di secondi con ghigni distorti e contorni non ben definiti; il sussulto torna ogni volta che io cerco di riaddormentarmi e mi ghermisce impedendomi di abbandonarmi al mondo dove tutto è possibile. E quando finalmente ci riesco poi mi risveglio da schifo, poiché tutti i sintomi fisici e mentali perdurano per il resto della giornata impedendomi di concentrarmi, di vivere, di distogliere e liberare la mente. Il sussulto è durato fino a novembre, fin quando un bravo medico mi ha dato una spiegazione fisica non riducendo il tutto a "lei è ansioso, non ha nulla", mi ha dato una cura e mi ha fatto sparire questo male. Ma Alessandra non è più tornata, se non raramente e in poche occasioni a farmi visita. Nel corso di questi mesi ho imparato ad addormentarmi senza di lei, ma ammetto che è una presenza che mi è mancata, così come mi è mancata la concentrazione e la creatività che lei mi regalava.

Fino a ieri.

Ieri mi sono imposto di pensare a lei, ci ho creduto fino in fondo perché sapevo che avrebbe potuto farmi star meglio: e Alessandra, con non pochi sforzi, alla fine è tornata e mi ha tenuto compagnia per un bel pezzo. Al mio risveglio stavo decisamente meglio.

Il resto della giornata, merito anche di una conversazione motivante con me stesso, è andata alla grande: sono riuscito a stare come non stavo da un bel pezzo, abbastanza spensierato e con la rinnovata voglia di fare. Oggi, prima di mettermi qui a scrivere queste ulteriori due pagine, stavo male e non sapevo nemmeno bene cosa avrei scritto. Ma ora sto meglio, ora so che scrivere della mia situazione mi aiuta. E chissenefrega degli errori, dell'ortografia, delle ripetizioni e della consecutio temporis. Per oggi va bene così, perché ora il peso allo stomaco si è ridimensionato parecchio e la nausea si è placata un poco. Ho ancora molto da raccontare, ma ieri ho capito che se voglio Alessandra è ancora a mia disposizione: è lì pronta a soddisfare i miei desideri e a donarmi un po' di spensieratezza.

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Capitolo 3
*** La Morsa ***


Ho appena pianto. Non è stato uno di quei pianti lunghi, urlati, soffocati per non fare rumore. Sono state più che altro delle lacrime solitarie, silenziose e che stentavano a venire fuori. Alessandra alla fine è arrivata, ma non mi ha portato il sollievo sperato; non sono nemmeno riuscito a dormire. 

Mi sono alzato verso le 17.00 con il peso sullo sterno, quello solito che ormai da un mese mi fa compagnia, ma per fortuna senza nausee (di cui parleremo più avanti). Si: è stata una giornata strana, non terribile come sabato scorso di cui non vi ho parlato, ma che grazie a Dio ho trascorso con Elisa, la mia fidanzata, ma una giornata in cui, seppure non abbia fatto particolari pensieri, mi ha fatto trascorrere tutto il resto del giorno con addosso la tristezza. Forse è una tristezza immotivata, forse perché sento l'avvicinarsi di domani: il gran giorno della più grande finzione della mia vita, o forse semplicemente perché tutta la serie di accumuli che la mia mente ha prodotto nel corso della giornata doveva sfogarsi.

Stasera quindi voglio parlarvi della tristezza, che in modo più fantasioso se vogliamo, chiamerò "la morsa". 

La morsa mi fa compagnia da tanti anni, ufficialmente dal 2011, ma in realtà credo che la sua nascita sia arrivata ben prima, quando ancora i baffi non crescevano sul mio viso. La morsa è un peso allo sterno, profondo, nascosto, celato da carne e ossa che mi tormenta e mi preme sullo stomaco. E' una sensazione indefinibile, una di quelle che non si può spiegare in modo ben definito ma che provoca una serie di reazioni mentali tali da divorare lentamente chi la subisce. La morsa tocca tanti punti: ricordi, passato, presente, futuro, situazioni, agitazioni, ansie. Lei è li che salta fuori quando meno te lo aspetti e di solito si manifesta in seguito a uno spavento, al conseguimento di una spiacevole notizia, a una grande delusione d'amore. Insomma, la morsa compare come un mostro nascosto nell'angolo più buio del nostro cervello, ti artiglia la mente e ti ricorda che è li pronta a tenderti un'imboscata quando meno te l'aspetti. In passato l'avevo sperimentata così: sporadicamente, come accade a molti di voi che in gergo lo chiamano anche "tuffo al cuore", ma di tuffo al cuore non si può più parlare se diventa continua, come un dolore sordo che non vuole assolutamente lasciarti andare. 

La prima volta che la morsa mi ha tormentato per tanto tempo, almeno da che ne ho memoria, è stato al primo anno di università quando è iniziata la mia ipocondria che è durata per un paio d'anni. I pensieri ricorrenti alla morte, all'avere una brutta malattia incurabile, inconsciamente terrorizzato che me ne sarei potuto andare all'altro mondo, l'aveva fatta comparire come un'ombra perennemente al mio fianco che neppure la giornata più limpida poteva spazzare via. Poi si è ripresentata nel 2013, poi ancora nel 2017, anche se fortunatamente in forma più lieve, e poi nel 2020 quando ho subito una grande perdita amorosa. E poi oggi. 

Il problema è che oggi, a dispetto di ciò che ricordo del passato (ma con il beneficio del dubbio, perché sapete quando si è stati tanto male si tende a dimenticare quanto realmente lo si è stati) oggi è una bestia carnivora feroce che non vuole accennare a mollare la presa nemmeno per un secondo. Perfino ieri sera, che stavo relativamente bene, sentivo la sua presenza nascosta nelle tenebre del mio inconscio. E speravo, speravo che non si sarebbe più ripresentata ma alla fine è saltata fuori. E quando ciò accade non vuoi altro che vada via, che scompaia e ti lasci libero di respirare, di ragionare lucidamente, di concentrarti sul resto del mondo scollandoti di dosso la sua presenza.

Perdonatemi, davvero so di scrivere solamente una cascata di parole che dicono la stessa cosa, ma ho bisogno di fissare al mio meglio questa spiacevole morsa al foglio che mi sta di fronte. Voglio fissarla bene, quasi assicurarmi di trasferirla al foglio di carta per togliermela di dosso. E ci sto riuscendo un pochino. Ora voglio solo andare a dormire, ma dormire è una condanna: perché so che quando mi addormenterò la morsa mollerà la presa, per poi tornare più forte domani mattina. Lei sarà li, pronta a darmi il buongiorno con il suo ghigno sardonico e le unghie affilate fuori dalle zampe. Ed io la subirò di nuovo e ricomincerà la solita tiritera: un Nocciola che si dispera e che rimugina ed un altro, stanco, debole ma determinato che sprona il corpo e la mente a non abbandonare la speranza. 

Vi parlerò anche dei due Nocciola che da parecchio tempo si contendono questo pezzo di carne, anche se quello depresso, insicuro, infantile e spaesato ha il controllo della mente da tantissimo tempo; l'altro continua a lottare ma prende il sopravvento veramente di rado. Ora sono soddisfatto.

Ora vi ho parlato della morsa e forse tornerò a farlo in futuro, ma per oggi va bene così: è il momento di portare fuori il cane, spegnere il cervello e dormire. Tanto già lo so, domani sarà una giornata terribile a cominciare dal mio risveglio. Ma lascio al Nocciola di domani le parole da aggiungere, io per il momento vi saluto qui, speranzoso che Morfeo mi possa almeno regalare qualche momento di distrazione in sogno.

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Capitolo 4
*** Un piccolo miracolo ***


Stamattina stavo da cani, solita morsa, solita nausea (di cui mi rendo conto di non avervi ancora parlato) e terrore per il futuro.

Con terrore per il futuro intendo quel terribile malessere, ansioso e impanicato, di non riuscire più a uscire da questa situazione; che non ci sia più possibilità di un futuro, non dico felice, ma almeno sereno e meno impattante sulla mia vita. E' una sensazione terribile: ti senti anedonico, apatico, perso solo nel tuo dolore e nell'ansia di doverti anche solo alzare dal letto, di sforzarti di mangiare, di vedere gli amici. Qualsiasi decisione, qualsiasi prova che ti provi a mettere davanti, anche il solo e semplice passeggiare, sembra un ostacolo insormontabile, uno di quelli che ti fa venire voglia di vomitare e basta e che dentro ti fa dire "No, starò solo peggio, non ce la posso fare, non posso sostenere questa situazione". Così stanco e sconsolato mi sono alzato a un orario decente, ho preso la macchina e mi sono diretto verso la psicologa per la terza volta con la speranza che a sto giro (è la terza che vado) avrebbe potuto aiutarmi almeno un poco a sedare il mio dolore. Ci speravo ma non ci credevo, lo ammetto, anche perché questa psicoterapeuta opera con un metodo chiamato EMDR: nella pratica si tratta di mettere di fronte al paziente una sorgente luminosa che si muove in continuazione a destra e a sinistra. Seguendola con gli occhi e ripensando all'evento traumatico, si dovrebbe entrare in una sorta di trance con se stessi per scandagliare a fondo il problema. Detta così è molto riduttiva: non sono uno psicologo e non sono capace di spiegarvi nel dettaglio come funziona o perché dovrebbe farci stare meglio.

Sono sincero: questa psicologa in passato aveva già provato questa metodologia su di me con scarsi risultati. Forse non era stata fatta sui "traumi" giusti o semplicemente ero io a mettere una barriera, un muro mentale nella convinzione che questa "magia" fosse soltanto una cazzata e che non servisse a nulla. Sta di fatto che stavolta, complice anche il fatto che in questo periodo non desidero altro che stare meglio, confido nel miracolo insomma, ha funzionato.

La dottoressa mi ha fatto ripensare al periodo della mia vita di cui vi avevo già parlato nel paragrafo "Alessandra" e, postami davanti agli occhi questa lampada particolare, mi ha fatto seguire la luce con gli occhi dicendomi a cosa pensare. In breve: mi sono rivisto steso nel mio letto, ho ripercorso quel dolore, quella sensazione di morte che mi veniva durante un attacco e mi ha detto di focalizzarla. Mentre lo facevo la nausea è aumentata e la morsa è diventata quasi insostenibile: mi ha detto di pensare solo a questo dolore e di massaggiarmi lentamente lo stomaco con una mano (naturalmente continuando a seguire la luce). A questo punto mi ha dato due aggeggi che vibravano in modo intermittente da stringere fra le mani, mi ha fatto chiudere gli occhi e mi ha detto di andare a rassicurare l'Andrea di allora perché non sarei morto, perché sarei stato bene, perché il mio problema era un problema che l'Andrea di oggi ha risolto.

E BAM.

Ragazzi non so come spiegarvelo: dentro di me è scoppiato un fiume. Ho sentito la mia voce dentro di me ripetermi che sarebbe tutto passato, che sarei guarito, che tutto si sarebbe sistemato e che io SONO FORTE. Con una tale intensità, una tale furia da lasciarmi completamente intontito e privo di forze. Era da anni che non venivo investito da una simile "botta" (no, non mi sono mai drogato se pensate a questo), da questa cascata di parole che aveva una potenza e rimbombava nella mia testa in maniera incredibile. Ho aperto gli occhi intontito, tremante, con le lacrime agli occhi ma la morsa è diminuita immediatamente, la nausea pure. Sono tornato a casa felice, con rinnovato vigore, con tanta voglia di fare. Per me le successive tre ore al trattamento sono state un miracolo, tanto che ora sono di nuovo al lavoro in studio (anche se sto scrivendo questo testo). 

Ora? Ora non sto bene come questa mattina, ho di nuovo la morsa e un po' di nausea ma guardo al futuro con fiducia: ora so che se voglio ce la posso fare, che dentro di me c'è ancora una forza di volontà, ben nascosta, incredibile e pronta ad esplodere. Una gioia, una volontà di vivere e di apprezzare le piccole cose che non sentivo veramente da tanto. Non so come andrà stasera, non so se nei prossimi giorni tornerà tutto come prima, ma una cosa la so: posso guarire. Posso essere forte. Posso salvarmi. Posso continuare a sperare e a vivere.

E non mollerò, costi quel che costi.

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Capitolo 5
*** La nausea ***


Mi perdonerete se non scrivo quotidianamente, ma vedete lo stato in cui sono non mi consente di scrivere tutti i giorni. Ieri è stata una giornata discreta: male la mattina, meglio il pomeriggio, liberazione alla sera. Da qualche giorno mi sembra questo il trend: la mattina la situazione è critica e poi migliora via via che passano le ore, complice molto probabilmente anche il pianto che è liberatorio e che mi aiuta a scaricare e a buttare fuori (alla fine di questo scritto imparerete ad amare o ad odiare questa parola).

Oggi parliamo della nausea. 

E' cominciata nei primi giorni di gennaio, e mai mi sarei aspettato che avesse preannunciato questa terribile malattia in cui mi sono trovato. Anzi, ancora oggi per certi versi mi viene il dubbio che non sia la depressione a causarmela, ma poi nei momenti in cui sto meglio noto che questa si affievolisce, fin quasi a scomparire, lasciandomi solamente "lo stomaco chiuso". Tutti voi avete avuto, almeno una volta nella vita, la nausea e quindi mi pare superfluo star qui a descrivere come agisce e come si manifesta: vi basti sapere che questa compare negli immediati e successivi minuti al risveglio mattutino e prosegue per tutta la giornata, con picchi nelle ore imminenti al pasto.

Il pasto è un supplizio, ma già peso poco e, conscio che se dimagrissi ulteriormente non ne verrei più fuori, mi impongo e costringo a mangiare. Il primo boccone è sempre il più difficile perché resistere alla tentazione di correre in bagno a vomitare è estenuante. Ma un passo alla volta, sono sempre riuscito a svuotare il piatto. Certo, le porzioni non sono quelle di prima, ma il mio piatto di pasta me lo porto a casa, come si suol dire. Dopo pranzo paradossalmente la nausea diminuisce e nel corso della giornata tende ad affievolirsi lasciandomi solamente la sgradevole sensazione dello stomaco chiuso. Non ho appetito, nessuna voglia di mangiare anche solo un dolcetto. Ieri pomeriggio mi sono concesso un gelato alla nocciola - oddio da quanto non mangiavo un gelato? - E mandarlo giù è stato davvero faticoso. Sapete, nei momenti di maggiore sconforto ripenso al miracolo che è avvenuto l'altro giorno: quello aiuta davvero. Sapere di avere dentro questa forza così travolgente mi aiuta ad avere una visione più positivista del futuro. Vi deluderà sapere che al momento non ho altro da aggiungere, spero solo che con i farmaci che inizierò a prendere la morsa e la nausea possano farsi più dolci, più leggere. 

Ora parto: vado in montagna con la mia splendida ragazza (vi parlerò anche di lei e come sia la mia forza della natura) per un paio di giorni. Giusto per mettermi alla prova e per vedere se staccando un attimo dall'ambiente casalingo, possa venire fuori qualcosa di buono. Ho paura? Certo. La affronto lo stesso? DEVO.

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Capitolo 6
*** La piccola spinta e la punizione divina ***


Torno a scrivere oggi dopo qualche giorno, un po' perché sono stato impegnato, un po' perché sono successe tante cose. Avrei voluto scrivere di questi giorni in cui sono stato via, avrei voluto scrivere di come un pochino da un paio di giorni a questa parte sto meglio. Oggi parlerò brevemente invece della "piccola spinta" e della "punizione divina". In verità, avrei voluto scrivere solo della prima, ma visti gli ultimi sviluppi credo sia un argomento strettamente correlato, sebbene all'opposto. 

Torniamo indietro di qualche giorno...

Ero in un paese della provincia di Belluno con la mia ragazza e, colto da un momento di tristezza, ho fatto quello che volevo fare già da qualche settimana a questa parte: andare in cimitero a trovare la mia bisnonna e mio nonno. Non sono un credente, non uno convenzionale quanto meno, ma nei momenti di difficoltà, di estrema difficoltà, forse anche solo per trovare un piccolo sollievo al mio malessere mi rivolgo ai miei antenati. Una volta lo facevo anche con Dio, ma ormai ho smesso: da quella volta che sono andato in chiesa e non ho sentito nulla per la precisione. In questo caso, e pensate nemmeno ricordavo che mio nonno è stato cremato e che non è sepolto in cimitero da talmente male che stavo, ho preso la macchina da solo e me ne sono andato per una ventina di minuti in cimitero. All'entrata ho sentito qualcosa, non ci credevo, ma ho come sentito un'ondata di comprensione avvolgere il mio corpo; quando mi sono avvicinato alla tomba poi e ho visto la foto di mia nonna ho "sentito" che questa volta sarei stato ascoltato. Non ricordo bene cosa mi sia passato per la testa, cosa abbia pensato, che discorso le abbia fatto, ma mentre guardavo il suo sorriso scolpito sulla foto della lapide sentivo semplicemente un po' di pace: come se quell'espressione fosse viva di fronte a me, come se mi trovassi di fronte a una persona che realmente potesse capirmi. Quello che ricordo di aver chiesto con insistenza è stato semplicemente "una piccola spinta" per stare meglio. L'ho chiesta con insistenza, pregando mia nonna di ascoltare questa preghiera e togliermi il dolore che avevo dentro. 

Ieri sono stato meglio, oggi anche. 

Non so se la piccola spinta sia realmente arrivata, se sia solo un effetto placebo della mia testa, ma un piccolo miglioramento c'è stato. Per carità, magari domani starò di nuovo malissimo, forse peggiorerò nuovamente, ma nella mia testa si fa sempre più viva l'idea che qualcosa al di sopra ci sia veramente, forse per la prima volta. 

Di contro, stamattina ho portato la mia gattina, di cui non vi ho mai parlato, che ha appena sei mesi dal veterinario. Perché? Sospetto avvelenamento per ingestione di sostanze tossiche: non è certo che si salverà e potrebbe anche perdere la lingua (è ridotta a un colabrodo segno che qualcosa di acido se l'è bevuto). Ecco voi direte: TAC! Appena la situazione sembra migliorare un poco qualcosa di brutto accade. E credetemi: nella mia vita, nella mia famiglia è una costante. 

Si, da quando ho memoria questo succede: se la situazione sembra migliorare un po' arriva immediatamente qualcos'altro a farmi ricadere nella delusione, nel malessere, nella malattia, nella tristezza. Io stesso, se ho qualche malattia che passa, che guarisce, poi mi ritrovo immediatamente con qualcosa di nuovo.  Se non è mal di testa è mal di stomaco, se non è mal di stomaco è epicondilite, se non è epicondilite è depressione.. Insomma, c'è sempre, SEMPRE, qualcosa di nuovo che va a smorzare l'entusiasmo di una situazione che si è appena smossa o risolta.

E questo io la chiamo "la punizione divina". Forse voi potreste chiamarla maledizione, non lo so, ma so che aleggia da sempre sulla mia famiglia. Tutti non ci credono all'inizio, poi mi conoscono e scoprono che è una verità: anche la mia ragazza lo ha capito e io non so come spiegarmelo. A volte immagino che ci sia qualcuno di sadico lassù che si diverte a premere i bottoni sbagliati in continuazione, per divertimento. Ed io non posso far altro che subire, in continuazione, con la forza di volontà che mi spinge ad andare avanti. Quello che so, è che ora non posso pensare anche al gatto. Non posso sobbarcarmi altri pesi, devo semplicemente estraniarmi da questa situazione e passarci sopra in qualsiasi modo vada a finire.

Non posso permettermi di stare COSI' MALE di nuovo.

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Capitolo 7
*** Volontà ***


 

Come sta andando? Questa è la domanda che mi preme indagare oggi. Perché le cose sono peggiorate, ed oggi voglio parlare di volontà.

C'è stata più o meno una settimana di stallo: la tristezza era scomparsa, sostituita solo da ansia, ma poi sono tornato a lavorare e il mio stato d'animo mi ha fatto tornare indietro. Questo mi ha fatto riflettere: che la causa del mio malessere sia effettivamente il lavoro, o forse si va ancora più in profondità e bisogna tenere conto del fatto che non so che cosa voglia fare della mia vita che mi possa rendere felice? Questo mi terrorizza. Mi terrorizza perché per me hanno sempre deciso altri, sono sempre stato accompagnato nelle mie scelte, non ho mai agito da solo: studi, acquisti, esperienze di varia natura nel corso della mia vita vissute sempre con il supporto dei miei. 

La strada era tracciata: studiare all'università scienze giuridiche, laurearmi, fare il praticantato e sostituire mio padre. Fine. Così, per tutta la vita. Ma pare che alla mia mente, al mio essere, questa strada non vada giù, che non piaccia.

Prossimamente parlerò in modo più approfondito della RESPONSABILITA', ma non oggi.

Oggi voglio parlare di un lato di me che tengo "nascosto" da anni, fin da quando probabilmente ero bambino e che oggi mi crea tantissimi problemi: la volontà. Perché vedete, io sono consapevole di avere una bella testa, di essere un ragazzo intelligente e che se solo lo volessi potrei veramente fare quasi tutto nella vita. Il problema è che non ho voglia.  Non ho mai avuto voglia di portare a termine qualcosa nella mia vita, non ho mai fatto nulla di impegnativo da solo e sono sempre stato aiutato. Mancanza di ambizione? Si probabilmente è anche per questo, ma soprattutto per il fatto che qualsiasi cosa inizi a fare mi porterà inevitabilmente al fallimento. 

Nella mia testa è così: inizio un lavoro, e quando sono a un decimo dell'opera mollo perché so già che il risultato finale sarà mediocre, pessimo. Inizio un disegno? Lo mollo li perché lo reputo brutto; inizio una canzone? La abbozzo ma non la porto a termine perché mi sembra una schifezza. Inizio una nuova attività? No, troppa fatica per un risultato che bisogna sudare e che sarà scarso.

Questo è il mio problema: quello che faccio farà schifo e non vale la pena portarlo a termine. Perché? 

La giustificazione che mi do è che nella mia vita ho vissuto talmente tanti fallimenti, tanti brutti momenti che non ho più la forza di mettermi li per creare qualcosa di bello. Nella mia testa tutto ciò che inizio non può finire bene. Ho questa concezione della vita: penso sempre a come le cose andranno male, mai bene; a come il prossimo mi fregherà, a come la vita sia brutta e cattiva e non ci sia spazio per i buoni. Eccolo lì uno dei miei grossi problemi: la mancanza di fiducia in me stesso. E questo inevitabilmente si ripercuote sulla situazione lavorativa che sto vivendo adesso: mi sento un incapace, sento il peso incredibile del confronto con mio padre, sento che non sarò alla sua altezza, sento che sono destinato a fallire in questo lavoro. Non riesco a vedere il lato positivo.

Venerdì scorso mi sono messo a guardare i criteri per diventare consulente del lavoro, fra cui il tipo di esame di stato che dovrò sostenere: mi è venuta la nausea e sono caduto nel panico perché ho pensato che sarà per me un limite invalicabile e che non ce la farò mai. 

Sono terrorizzato, lo ripeto e non so davvero come acquisire fiducia in me stesso. Vorrei dirmi che ce la posso fare, e me lo dico, ma nel momento in cui provo a fare qualcosa, qualsiasi cosa, in me parte un meccanismo di noia, di disinteresse, di allontanamento mentale da quella cosa che mi stacca completamente dalla realtà. Anche studiare è impossibile, perché dopo qualche minuto la mia mente vaga al fallimento. Inizio a pensare che è troppo difficile, che non posso ricordarmi tutto, che fallirò, penso alla scappatoia per potermi salvare da questa situazione. La conclusione è che io non so se questo lavoro mi piaccia o meno, d'altronde nemmeno lo sto ancora facendo, ma non so neanche se potrò mai fare un altro lavoro perché nella mia testa io sono destinato a fallire e basta.

Io ricordo la famosa estate del 2020 quando, per pochi mesi, avevo una ambizione e una forza di volontà incredibili nonostante stessi male. Ecco, io vorrei ritrovare quella forza di volontà, quella voglia di riscatto, quell'ambizione incredibile che avevo allora e lasciarmi alle spalle questa enorme ansia e insicurezza che mi porto dietro fin da quando ero adolescente.

Lo voglio davvero.

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Capitolo 8
*** Ne uscirò di nuovo ***


NOTA DELL'AUTORE: Lo scritto che state leggendo è stato redatto nel corso del 2023. All'epoca non ponevo alcuna attenzione a errori grammaticali, refusi o sciatterie letterarie di vario genere: quel che volevo davvero era buttare fuori il mio malessere senza alcuna velleità di far leggere i miei deliri a qualcuno. 
Ho volutamente deciso di lasciare questa sorta di diario così com'è: per farvi vivere davvero che cosa pensa, scrive e prova una persona depressa. Con tutti i suoi deliri e i suoi errori che ne condizionano le capacità mentali.

 

Il giorno in cui ho cominciato a stare davvero meglio è stato il 17 marzo. Oggi è il 6 aprile e mi sto rendendo conto, purtroppo, che da un paio di giorni non sto nuovamente bene e ormai ho consolidato che, dopo neanche un mese, sto avendo una ricaduta. 

Ma va bene così, Nocciola ha ricevuto 20 giorni di grazia e sebbene sperassi di essermi tolto dalle scatole la depressione per un periodo più lungo, ora ho comunque capito che ce la posso fare davvero.

Ero tornato a vivere: la sessualità  ricomparsa al centro della mia vita. Avevo riscoperto il piacere di suonare, di interessarmi alle cose che leggevo su internet; il piacere di uscire con gli amici. Quando ho suonato il 19 marzo alla prima data dell'anno è stata una giornata bellissima, dove sono stato veramente felice. Tutto sembrava andare per il meglio: il farmaco stava finalmente facendo effetto, riuscivo a sorridere e a ritrovare la gioia di nuovo... e allora cos'è successo? Perché sono tornato in così breve tempo allo stadio di prima?

E' iniziato tutto lunedì, quattro giorni fa. Di ritorno dal lavoro mi sono sentito completamente apatico, come svuotato: senza più nessuna voglia di fare qualcosa. Alla sera sono andato a suonare con mio padre e, lo ammetto, stavo malissimo: non avevo voglia di farlo e di stare li con loro. Martedì poi la stoccata: la mia situazione familiare che sembra precipitare di nuovo nel baratro, veleni, sospetti, dichiarazioni eclatanti.. un nuovo revival del 2013. Ho dovuto sentire dei discorsi di mio padre e di mia madre che mi hanno fatto stare male. 

E lo ammetto: ho avuto paura. Paura di ricadere nella depressione, che questa potesse tornare a condizionare nuovamente la mia vita. E così è stato: non sono triste, almeno per adesso, non ho la paura che avevo all'inizio. 

Ho ansia, questo si: sono pieno di paure e di insicurezze.

Eppure una cosa, nonostante la mia fragilità attuale la so: ne sono uscito una volta, anche se per poco, ma l'ho fatto. E ne uscirò di nuovo perché se l'ho fatto una volta, posso farlo ancora. Non mi arrenderò, lotterò con tutto me stesso. Accetto che ormai la depressione farà parte della mia vita e che ci dovrò convivere fino alla fine dei miei giorni, ma farò di tutto per non lasciarle prendere il sopravvento. Lotterò con tutto me stesso. Perché io sono forte, io ce la posso fare, io ho tutto il necessario dentro me stesso per superare queste fasi. 

Ce la farò, lo so.


 

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Capitolo 9
*** Che cos'è la depressione? ***


Sapete, un giorno arriva il momento in cui la maggior parte di noi si chiede "ma che cos'è sta depressione?", questo perché in fondo non conosciamo esattamente cosa voglia dire essere depressi. O meglio; c'è una ignorante banalizzazione del termine e la si associa a un momento della vita in cui si è tristi, annoiati, demotivati.

E in generale si, è vero, ma chi ci ascolta per la prima volta non riesce a capacitarsi di come possa "un po'" di tristezza rendere un vegetale un essere vivente. 

Onestamente, devo essere sincero con voi, anche io non me ne capacitavo: è una vita che affermo di essere depresso senza realmente conoscere la sofferenza di chi lo è sul serio. La depressione è una scusa che ognuno di noi utilizza quando si dimostra svogliato, annoiato, triste o per enfatizzare i problemi (spesso futili) che incontra nell'arco delle sue giornate.

Ebbene,  se così fosse realmente saremmo tutti depressi, e forse un po' la società ne è pregna visto che esistono vari stadi di depressione; ma se con la maggior parte di questi stadi ci si convive senza particolari problemi, quando entra in campo la "maggiore" le cose cambiano drasticamente.

Se scrivete su Google "che cos'è la depressione" troverete una miriade di risultati che vi spiegano le condizioni generali di un malato: sintomi, meccanismi psicologici e fisici, comportamenti del depresso ecc. ecc..

Il problema è che nessuno realmente si è mai chiesto "ma che cos'è PRINCIPALMENTE la depressione?"

La mia personale risposta, che non deve essere quella definitiva ma quella che per me è valida nel mio specifico caso è questa: la depressione è l'annullamento di una parte del nostro pensiero.

Mi spiego meglio: avete presente quando fantasticate su una vostra passione? Su quanto sia bello poter andare in moto con gli amici o con la fidanzata e vi figurate davanti la gioia, i percorsi, le situazioni, il modello del ciclomotore che andrete a scegliere? Sintetizzando, avete presente i vostri sogni positivi che fate ad occhi aperti? Ecco quelli spariscono completamente. 

Un depresso non riesce a formulare un pensiero positivo, non riesce a immaginare eroticamente una situazione, non riesce a fantasticare, non riesce a pensare all'imminente vacanza e alle cose belle che ha organizzato.. niente.

E sforzarsi è impossibile ragazzi, ve lo giuro: nel momento in cui vi imponente di farlo sentite un fastidio interiore impossibile da ignorare, una morsa al petto che vi spinge contro lo sterno, un rifiuto mentale impossibile da ignorare.

Questa, principalmente, è la depressione. 

E a che cosa pensi? A quanto stai male, alla paura di non uscirne, alla stanchezza e alla nausea che ti piombano addosso, alla morsa che ti prende il petto e in generale a tutte quelle svariate cose che vi ho descritto nei precedenti capitoli. Puoi farti forza certo, ma la negatività è sempre li pronta a distoglierti da un qualsiasi pensiero positivo. 

E poi c'è tutto il resto chiaramente.

Quindi si, la depressione è l'annullamento totale e incontrastato di quella parte positiva del nostro pensiero, della fantasia, della creatività, della gioia, della visione della bellezza e dell'interesse verso il mondo che ci circonda; perché l'unica cosa che vuoi realmente quando ti piomba addosso è che finisca, in un modo o nell'altro..

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Capitolo 10
*** Chi è Nocciola ***


 

Pages, il programma di scrittura nativo del sistema operativo Macintosh, mi dice che non scrivo dal 25 agosto 2023. 

Oggi è il 10 gennaio 2024.

Si, è vero: non scrivo da un bel pezzo, ma dovete portare pazienza. Ci sono dei periodi in cui cerco di allontanarmi dalla mia malattia, dei mesi in cui sto relativamente bene; altri invece dove di colpo questa torna a ricordarmi che c'è, esiste ed è un problema. Oggi è uno di questi.

In breve, ho sostituito il farmaco che prendevo con uno chiamato Venlafaxina: oltre al principio serotoninergico, agisce anche sulla noradrenalina che in teoria dovrebbe diminuire l'ansia e aumentare la voglia di fare, diminuendo di conseguenza l'anedonia. E in un certo senso è vero: non vi mentirò, le cose sono migliorate nettamente rispetto a quando prendevo escitalopram, ma i sintomi non sono passati del tutto.

Permangono, nei momenti di crisi che possono durare ore o giorni, sonnolenza, disagi intestinali, annebbiamento mentale e la famosa "morsa" allo stomaco. Insomma, una sensazione che ci sia qualcosa che non va, una sorta di inquietudine perpetua e immotivata che mi prende l'animo. Di positivo c'è che le crisi non sono più così violente da lasciarmi inerte ma la capacità di agire, e reagire, rimangono: se qualcuno o qualcosa riesce a catturare la mia attenzione torno a distrarmi molto più facilmente rispetto a prima.

Questo è un breve sunto della mia situazione, anche se di cose da dire ce ne sarebbero, come sempre: le dirò, ma non oggi.

Oggi voglio concentrarmi su Nocciola, ma non su quello del presente bensì quello del passato: chi era? Che cosa faceva? Cosa lo ha portato a vivere costantemente la sua vita nell'inquietudine?

 

Nocciola nasce l'11 ottobre del 1992 da due genitore italiani ma di città diverse: L. è una madre apprensiva, colta da forti attacchi di ansia e rabbia; F. è un genitore che cerca di soddisfare tutti i desideri dei figli per farli contenti, ma la cui affettività fisica è quasi inesistente. La loro gioia (?) per il nuovo nascituro viene presto distrutta dal referto medico del neonato: patologia di Guillan Barrè, deve essere operato d'urgenza. Da quel momento parte un periodo di circa due mesi che si rivela essere un inferno per la coppia del nuovo arrivato: poche speranze di vita per il bimbo, problemi cardiaci che influenzeranno la vita del piccolo per tutta la sua esistenza e prospettive pessime in tutto e per tutto. La fortuna piomba dal cielo grazie a un medico pediatra, di cui non ricordo sfortunatamente il nome, che insiste sul fatto che la diagnosi sia sbagliata e che il bambino non debba essere operato. L. e F. decidono di affidarsi ai consigli del medico e optano di non far operare il figlio, in breve poi la patologia verrà ridimensionata di molto e il piccolo si dimostrerà affetto da un DIV: non dovrà fare sforzi, stancarsi troppo, subire forti emozioni o praticare sport a livello agonistico; per il resto un controllo all'anno e via passa la paura.

Ma quell'esperienza turba profondamente i neo genitori e da quel momento Nocciola è fonte costante di ansia: cresce in una bolla, vive di raccomandazioni su raccomandazioni e gli viene negata la spensieratezza che ogni bambino dovrebbe avere il diritto di vivere. Per via della sfortuna che si somma ad altra sfortuna, il bambino è cagionevole di salute: si ammala spesso, prende un sacco di antibiotici per evitare possibili comparse di streptococchi che potrebbero influire sul corretto funzionamento del cuore e via dicendo.

Crescerà così nell'ansia, specialmente della madre, e cagionevole di salute.

Gli anni passano e Nocciola incomincia a frequentare le elementari e poi le medie: qui scoprirà quanto l'essere umano può essere cattivo in quanto, i bambini in special modo non hanno freni morali o inibitori. Vivrà anni tormentato da bulli che gliene combineranno di tutti i colori, verrà persino legato a un albero, schernito e preso a sassate. La sua gioia per la vita comincia quindi a vedere sfumature di grigio e crescerà ben presto con la consapevolezza che il mondo non è tutto rose e fiori, molto prima degli altri bambini. Eppure Nocciola, nonostante i momenti di ansia e tristezza, cresce buttandosi i problemi alle spalle e ricordandosi della loro esistenza solo quando glielo rimembrano mamma e papà, o quando è costretto a frequentare una scuola in cui non si trova affatto a suo agio. Per questo motivo, sopraggiunto il periodo delle superiori, molla tutto e decide di frequentare una classe, e un istituto, dove non conosce nessuno.

Il primo anno fila liscio, Nocciola è contento, spensierato, si fa tanti nuovi amici e va più o meno d'accordo con tutti. Il secondo anno invece qualcosa cambia e Nocciola subisce una trasformazione caratteriale che da quel momento scandirà la vita "adulta" del ragazzo. 

Mi sono sempre chiesto a che cosa sia dovuto questo cambiamento: il Nocciola ragazzino era socievole, forte nella sua salute precaria, combattivo, amante del gioco e della compagnia ed estroverso. Il nuovo è un ragazzo schivo, amante della solitudine, che si annoia facilmente, che pensa tanto, tantissimo, e piuttosto introverso caratterialmente. 

Sembrano, a guardarli con occhio clinico, due persone completamente diverse. 

Come vi dicevo non comprendo le ragioni di questo cambiamento repentino: forse la scoperta della sessualità, visto che durante il secondo anno di liceo ci sarà la prima fidanzatina; forse il ritorno di episodi poco piacevoli in classe (ma fortunatamente dal terzo anno in poi gli elementi indesiderati vengono allontanati...), forse il cambiamento dalla fanciullezza all'età adulta nell'emulazione del carattere paterno (sono esattamente la sua copia sputata) o forse qualche trauma subito di cui ho rimosso ogni ricordo.. fatto sta che Nocciola da quel momento non è più lo stesso: con l'avanzare dell'età aumentano l'ansia, la riflessione, la tristezza e la noia nello stare con gli altri. 

Due considero gli step successivi che sono stati fondamentali per la mia evoluzione negativa: il viaggio di maturità ad Amsterdam e la separazione dei miei genitori.

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Capitolo 11
*** Le amicizie di un depresso ***


La depressione ha i suoi lati positivi, sembra incredibile ma è così. L'argomento amicizia è uno di questi: la malattia ti permette di capire quali siano le persone che ci tengono veramente a te e quali invece sono semplicemente figure che compaiono e scompaiono nell'arco della tua vita e di cui non si ha bisogno. 

Permettetemi di dire che l'amicizia, quella vera, è uno degli elementi fondamentali della vita, perché gli amici ti salvano la vita: provato sulla mia pelle. 

Se inizialmente parlare della mia malattia era fonte di vergogna, oggi posso dire con un certo orgoglio che lo faccio piuttosto liberamente: è anche un modo per rendermi conto della sensibilità di chi mi sta di fronte. Non prendetelo come un modo per essere compatiti, non è questa la mia intenzione, ma avvertire l'altra persona che si hanno delle problematiche importanti è assolutamente fondamentale per il benessere personale e altrui, per la costruzione di un rapporto sano e duraturo. 

Lo è perché un depresso non ha bisogno di persone di "comodo" o di elementi con cui passare il tempo per una bevuta e via; il depresso ha bisogno di persone che comprendano la sua situazione e che accettino i suoi ritmi. Allo stesso modo, una persona che ha già tante problematiche probabilmente non ha bisogno di circondarsi di una persona "negativa". Non crediate perciò che non capisca coloro che non vogliono legarsi a qualcuno come me: di loro non penso che siano meschine, menefreghiste o altro; ma credo che semplicemente siano persone con cui io non debba sprecare il mio tempo e viceversa. Sapete, anche io in passato ho rifiutato di coltivare amicizie con persone parecchio problematiche, e credo che sia una cosa che capita a tanti: siamo talmente carichi di malesseri che sobbarcarci anche di quelli altri non facciano che peggiorare la situazione; perciò comprendo perfettamente questo atteggiamento, ve lo assicuro.

Ciò che non tollero invece sono quelle persone che pensano di trovarsi davanti un pazzo, un possibile maniaco omicida schizzoide. Questo è l'aspetto che più mi ha ferito, e che mi ha fatto selezionare bene le persone che mi volevano davvero bene. 

Si, purtroppo mi è capitato: amicizie che credevo avessero un valore si sono spente improvvisamente proprio per questo motivo; ma in fondo a un anno e passa di distanza mi dico che va bene così. Sono frutto della disinformazione, di una società vecchia basata su antichi principi genitoriali, al rifiuto che una malattia possa essere mentale anziché solo fisica; vecchi preconcetti legati ai manicomi e via dicendo. 

Ma le amicizie vere, io le ho ritrovate anche in altri contesti: amici non sono solo quelli che ti ascoltano e che ci sono sempre per te; ma anche coloro che capiscono i tuoi ritmi senza rompere le scatole. 

Sono coloro che hanno la discrezione di non chiederti perché non esci una sera, di rinfacciarti che non sei rimasto fino a una certa ora o che non hai voglia di fare una determinata attività. Sono quelli che non sbuffano se te ne vai all'improvviso, se rinunci all'ultimo per una crisi o se ti rifiuti di bere perché prendi farmaci, se non rispondi ai messaggi e magari addirittura fai passare qualche giorno. Sono piccole cose, piccole accortezze che però ti fanno capire che le persone ti accettano così come sei, perché ti vogliono bene, non soltanto perché gli fa comodo avere una persona in più per fare gruppo.

E per mia grande fortuna, contro ogni aspettativa, di individui così ne ho trovati tanti, più di quelli che pensavo. E sono riuscito a rivalutare anche delle persone per cui ero convinto di non essere abbastanza importante. Questo è di estremo conforto.

Una certezza me la sono fatta: so che ci sono alcune persone che, nel momento del bisogno, ci saranno. Anche se non le sento spesso, anche se le vedo poco.

Ricordate: gli amici vi salvano la vita.

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Capitolo 12
*** Le relazioni di un depresso ***


Reduce di una cocente delusione amorosa (ieri), ho deciso che è arrivato il momento di parlarvi anche di questo, giusto per sfogare un po' il mio attuale disagio verso l'universo relazionale umano.

Diciamolo subito: è una fase della vita che prima o poi, volenti o nolenti, tocca a tutti; arriva quella persona che ci fa sbrilluccicare gli occhioni, che ci provoca un intenso senso di benessere e che poi ce la mette nel culo. Io personalmente non amo la definizione che va tanto di moda oggi, specialmente fra il gentil sesso, per etichettare tutta quella categoria di persone che purtroppo (o per fortuna), non sono compatibili con il nostro modo di vivere. Sto parlando naturalmente dei cosiddetti "Casi Umani". 

Perché non amo questo termine? Semplice: nessuno in realtà sà che cosa sia un "Caso Umano", o meglio ognuno lo sà a modo suo. Non troverete mai una definizione univoca di questo soggetto mirabolante: per alcuni è lo stronzo, per altri il ghostatore; altri ancora lo definiscono come un soggetto problematico e dalla psiche contorta, altri come un narcisista... insomma, alla fine dei conti, un caso umano è una persona che ci delude, che non soddisfa le nostre aspettative e che ci ha illusi. Ma allora posso tranquillamente azzardarmi a dire che siamo tutti i casi umani di qualcuno, e probabilmente i grandi amori per qualcun altro. Mettiamocela via.

 

Perdonate questa breve deviazione di percorso, ma d'altronde non posso solamente parlarvi delle mie turbe mentali, altrimenti rischierei di diventare pesante. Se siete comunque giunti qui vi faccio i miei complimenti: siete davvero dei masochisti provetti per esservi lanciati in questa tiritera di "miserie".

 

Detto questo, ne approfitto per raccontarvi un po' come ho vissuto le mie relazioni nel corso di questo anno e mezzo di delirio depressivo.

Partendo dal principio, posso dirvi che la mia depressione è iniziata ufficialmente a gennaio 2023, quando stavo con una ragazz(in)a da ormai un anno e mezzo. Non fraintendetemi, ho usato questo termine non in senso dispregiativo, ma per evidenziare la differenza d'età che incombeva fra me e lei. Detto questo la ragazza, che chiameremo fantasiosamente Sole, è riuscita a supportarmi e a sopportarmi durante il mio peggior periodo: ovvero i primi quattro mesi dell'anno. In un certo senso, quello che mi aveva colpito di lei era la sua incredibile solarità e fanciullezza: mi ero fatto conquistare da una ragazza che era ancora figlia del mondo della Mulino Bianco. Non aveva mai conosciuto grossi dolori, disagi famigliari o della vita: era cresciuta in una bolla di sapone attraverso la quale vedeva un mondo filtrato e colorato; perciò assolutamente ingenua verso le avversità della vita. Posso affermare con una certa soddisfazione che è cresciuta tanto con me, che sono stato anche il suo primo ragazzo, e che sono riuscito poco a poco a farle affrontare la vita con più coraggio e consapevolezza. Oggi di tanto in tanto ci sentiamo amichevolmente ancora. Per farvi capire, Sole andava nel panico per ogni minimo compito che doveva svolgere in solitaria, anche quello più banale, e il minimo problema le causava dei forti stati di ansia. Eppure nel frattempo ha cominciato a lavorare, a essere meno dipendente dalla parola dei suoi genitori che fino a poco prima era legge inattaccabile, a studiare per prendere la patente (all'epoca aveva 22 anni), a concedersi una vacanza con sottoscritto, a vedere le cose con occhio un po' più cinico e con meno buonismo. Ora che vi ho descritto un po' quello che era Sole, posso dirvi che la sua compagnia mi faceva stare bene: ritrovavo con lei quella spensieratezza un po' adolescenziale che mi mancava a dire il vero, perché Sole aveva sempre il sorriso sulle labbra ed era pronta a risollevare il morale a chiunque ne fosse bisognoso. Nonostante questo, la mia malattia per lei è stata devastante. 

Sebbene tentassi in tutti i modi di non farle pesare la cosa, come ad esempio facendomi vedere e sentire solo nei giorni in cui materialmente riuscivo a farlo, lo stress è stato troppo pesante per lei ed è finita. Non c'è l'ho assolutamente con lei, anzi: ne ammiro la costanza con cui è riuscita a resistere. È sopravvissuta per tre mesi con una persona che faticava a camminare per la nausea, proiettata solo sul suo malessere, incapace di formulare discussioni e pensieri positivi, dallo sguardo costantemente assente e dalla lacrima facile. Lo ammetto: se non ci fosse stata lei, pronta a vedermi quando ne avevo veramente necessità, non so come ne sarei uscito.

No, quando mi ha lasciato dicendomi che non ce la faceva più a sostenere una situazione simile e che stavo intaccando il suo stato d'animo provocandole ansie particolarmente profonde, ho accettato senza problemi la fine della relazione. 

Questo perché ero, forse anche fortunatamente, in una fase dove il dolore veniva prevalentemente da dentro me stesso e quindi ciò che era all'esterno non faceva poi così male. Ad oggi guardandomi indietro sono contento che sia finita così: la differenza d'età era troppa e gli obiettivi della vita completamente diversi. Sole deve viversi, finché può, delle relazioni semplici, perlopiù sane, con persone positive che non intacchino il suo animo e io purtroppo non sono una di queste. Io le sarò sempre riconoscente per essermi stata comunque accanto quando ne avevo davvero bisogno.

 

Nei mesi successivi l'amore è stato qualcosa a cui non ho minimamente pensato, anche se qualche conoscenza breve c'è stata. Vi voglio comunque parlare di Marlene, ovviamente sempre nome di fantasia scaturito dalla mela che ho davanti in questo momento, comparsa magicamente alla fine dell'estate. Più vicina alla mia età, Marlene è il contrario di Sole: indipendente, gran lavoratrice, reduce di un fidanzato con cui aveva convissuto e con cui si era da poco lasciata, sembrava avere chiaro in testa quello che voleva e come lo voleva. La conoscenza si prolunga, io naturalmente le parlo del mio problema perché voglio mettere le cose in chiaro sin da subito, ma lei appare sicura di poter reggere tranquillamente la situazione. Dopo un mese scompare all'improvviso dicendomi che non si sente pronta per una nuova relazione, io me l'aspettavo, perciò la saluto cordialmente e la lascio proseguire per la sua strada; se nonché dopo un paio di settimane si rifà viva venendomi a trovare al lavoro nel giorno del mio compleanno. Dopo una breve chiacchierata Marlene mi dice che le manco, che si è spaventata per l'inizio di una possibile nuova relazione e che è pronta a riprendere da dove avevamo lasciato. Titubante e scettico, decido di darle una seconda opportunità. Così la conoscenza prosegue e dopo un mese e mezzo, Marlene confida di essersi innamorata di me: parla di venire a vivere con me, fa grandi progetti eccetera eccetera. Io annuisco, ma conscio della sua situazione con l'ex e di quello che era successo, tengo la guardia alta: d'altronde, il lupo perde il pelo ma non il vizio. Succede che un giorno di metà novembre ho una delle mie crisi mentre sono con lei: ovviamente cambio completamente. Sono di poche parole, scorbutico, desideroso di rimanere da solo e poco avvezzo all'affetto intimo. L'avevo ovviamente ampiamente avvertita dei miei stati d'animo durante le crisi che non dipendevano da lei ma dai miei problemi psicologici. Risultato? Il giorno dopo ricevo questo messaggio, che riporto letteralmente:

 

"Guarda mi dispiace ma sti giorni mi hanno fatto pensare che io non sono pronta a una relazione più importante, pensavo di si ma purtroppo non riesco. Non voglio continuare una relazione sforzandomi e non sentendomi me stessa al 100%"

 

La mia risposta è stata: " Stammi bene".

 

E tanti cari saluti a Marlene. Probabilmente, visto che avevo preventivato questa possibilità, la cosa non mi ha toccato particolarmente e dopo una settimana Marlene era solamente il ricordo di una conoscenza piacevole.

 

Il problema, in un certo senso, arriva ora: parliamo di Selene, sempre nome di fantasia, comparsa sotto il periodo natalizio... Vedete, io ho la straordinaria capacità di andarmi a infilare con persone che in realtà vogliono lo scaccia-chiodo. 

Il problema è che Selene mi ha fregato, perché questa volta ci sono rimasto sotto. Metteteci il mio stato emotivamente fragile prodotto dalla malattia, e il fatto che stavolta mi ero illuso di poter costruire qualcosa effettivamente di bello, beh... il risultato è che oggi sto di merda. E il punto è questo: la mia paura è che questo malessere mi scateni nuovamente una forte depressione. Ora, le cose sono ancora da chiarire bene, perciò rimando la storia fra me e Selene a un capitolo successivo. Quello che mi premeva dirvi alla fine è questo: un depresso ha paura a intraprendere nuove relazioni, sapete perché? Perché teme che l'altra persona non riesca a reggerlo. Stare con uno come me non è semplice, ve lo assicuro, e voi direte: rimani da solo finché non guarisci. Avete ragione in un certo senso, ma la solitudine peggiora la mia condizione; inoltre la consapevolezza che questa malattia potrebbe anche non passare mai, mi fa pensare che forse me la merito un pochino una persona che mi ami e che mi voglia bene. Non trovate? Ve lo dico chiaro e tondo: tantissime ragazze si spaventano e fuggono quando sentono che ho problemi depressivi; altre spavaldamente minimizzano la cosa per poi rendersi conto che è effettivamente una situazione difficile da gestire. Questo solleva una serie di considerazioni relazionali e filosofiche non di poco conto, ma la mia idea è questa: amarsi vuol dire supportarsi e sopportarsi. Se una persona si arrende dopo  qualche sporadico episodio che può capitare, allora evidentemente non mi merita.

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Capitolo 13
*** Selene ***


La storia con Selene inizia in maniera abbastanza banale: noto questa ragazza su instagram poiché è una delle incallite seguaci delle mie storie; inoltre nel corso degli anni sono anche numerosi i suoi "like" ai miei post. Apro così il suo profilo e vedo che, nelle immagini della sua pagina, è sempre in compagnia del suo ragazzo. L'ultimo post con lui risale a fine agosto dello scorso anno. 

Guardo meglio lei: è una bella ragazza, non certo il mio prototipo ideale ma comunque una persona con cui berrei volentieri un aperitivo. Passa qualche giorno e vedo, nelle sue storie, che è in montagna con amici in comune fra cui la mia migliore amica. Decido di scrivere a quest'ultima per chiedere qualche informazione e scopro con interesse che in quei giorni lei e questa Selene parlavano proprio di me. Vengo così a scoprire che Selene si è lasciata da un paio di mesi con il suo ex ragazzo e che vorrebbe conoscermi. Decido quindi di prendere l'iniziativa e scriverle. Si dimostra subito interessante: sembra matura, non risponde a monosillabi (cosa che odio) e pare curiosa di conoscere il sottoscritto. Dopo neanche dieci giorni parte il primo appuntamento: la giornata trascorre bene, ci raccontiamo molto l'uno dell'altra e lei mi spiega che esce da una relazione di dodici anni con un ragazzo, con cui ha convissuto per cinque. 

I miei sensi di allarme scattano: come può una ragazza che esce da una relazione così lunga, con una persona con cui è praticamente cresciuta, decidere dopo un paio di mesi di buttarsi nuovamente in un'avventura amorosa? Sono titubante e scettico: capisco che lei è interessata ma le rivolgo immediatamente tutta una serie di domande mirate a comprendere il suo stato mentale in proposito. Ma Selene mi rassicura: mi dice che era da tempo che le cose non funzionavano, che è stata la cosa migliore, che non prova assolutamente più nulla per questo ragazzo e che desidera al suo fianco una persona seria, non cerca una scopata e via ma qualcuno con cui costruire qualcosa di solido. 

L'appuntamento termina e io me ne torno a casa scettico, decido comunque di provare a uscire nuovamente con questa ragazza e di vedere come si evolvono le cose. 

Non sono rimasto particolarmente colpito la prima volta, vi dirò la verità, ma complice anche il fascino che mi ha provocato questa persona che, al momento in cui le ho esposto il mio problema, non si è tirata indietro ma anzi si è dimostrata determinata a conoscermi, ha contribuito a spingermi a rivederla. Siamo così usciti una seconda e una terza volta, poi una quarta e ho imparato a conoscerla meglio. Mi ha conquistato la sua maturità: i suoi discorsi sensati, il suo rispetto verso gli spazi per sé, la libertà di vivere la conoscenza in modo sereno senza stupide pretese di vedersi a tutti i costi per forza o di scriversi per mandarsi "buonanotte e buongiorno"... Insomma l'ho trovata una relazione decisamente più matura, che non basa la sua solidità sulla finta presenza dietro ad un telefono, ma più che altro nei gesti quotidiani o nella presenza fisica della persona. Mi ha assuefatto. 

Nel giro di un paio di mesi Selene era diventata il mio centro, la mia sicurezza: la vedevo, la sentivo e trascorrevo il tempo con lei sempre con piacere e non trovavo assolutamente nulla che non andasse in lei. Certo qualche difettuccio, come gli abbiamo tutti, era chiaramente presente; ma io sono sempre stato una persona che passa sopra certe cose perché so che in una relazione bisogna supportarsi e sopportarsi. I giorni passano e Selene ogni tanto mi ribadisce che non vuole affrettare le cose: andiamoci piano con le presentazioni di amici, genitori, gite fuori porta e tutto il resto. Io ogni tanto gliela butto lì, ma più che altro per farmi un'idea di come la pensa lei riguardo certi argomenti piuttosto che per spingere le cose: vorresti sposarti, avere figli? Come li chiameresti? Guarda quel vestito da sposa, ti starebbe bene... Insomma, ogni tanto fantasticavo sul futuro con lei, ma senza le pretese di voler affrettare le cose, anche perché lei ai primi di marzo mi aveva candidamente detto che si stava innamorando di me. 

All'inizio della primavera lei mi chiede di accompagnarla al babyshower di una sua amica, io accetto, e poi mi informa che ha paura di passare la pasqua da sola perché i suoi parenti sono via. Allora la invito a passarla con me e la mia famiglia e lei, dopo un po' di titubanza accetta. Nel frattempo, mi racconta che ad aprile dovrà lasciare la casa dove conviveva con il suo ex e che questo aspetto la spaventa molto: tornare dai suoi, lasciare la casa che si è costruita dopo tanti anni, lo reputa un fallimento. In quel momento, visto che mi ero davvero preso per lei, le propongo di venire a stare da me e le consegno anche le chiavi di casa mia. Lei accetta e sembra anche felice della cosa. Qualche giorno dopo viene da me, mi aiuta con le pulizie e poi ci facciamo un giro, sembra andare tutto alla grande. 

Eppure in quella giornata se ne esce con una frase che un po' mi turba: mi dice che sono un ragazzo perfetto, dolce, premuroso, intelligente, ma che sono un po' moscio. 

-Moscio?- 

-Si, troppo tranquillo.-

Fra me e me penso: "Certo che sono moscio, prendo botte di psicofarmaci e la depressione mi ha cambiato la vita. Ovviamente non sono un spirito di vita, e fra l'altro la mia indole è sempre stata abbastanza tranquilla."

Decido però di scherzarci su e di lasciar correre, anche se ammetto che la cosa mi ha ferito.

Pasqua arriva, la giornata trascorre serenamente e lei pare contenta di aver conosciuto i miei e di essersi trovata bene; il giorno dopo siamo invitati per pasquetta a casa delle sue migliori amiche. Ci presentiamo alle 11.00 della mattina, la giornata sembra trascorrere bene, ma alle 17.00 mi parte un attacco. Le spiego che è meglio che tolga il disturbo, ma i suoi amici insistono perché rimanga, così onde evitare di dover dare spiegazioni, mi sforzo di rimanere con loro fino al dopocena. Ma l'attacco è forte e si nota che vorrei essere da un'altra parte, lontano da tutti, ma mi impongo di rimanere li per lei. 

Da quel momento cambia tutto.

Il giorno dopo mi scrive che preferirebbe andare al babyshower da sola, e io le rispondo che va bene - Avrai i tuoi motivi - le scrivo semplicemente.

Ma Selene si stacca, il suo atteggiamento si fa più freddo e i messaggi meno affettuosi. 

La domenica successiva la vedo, ma sento che qualcosa non va. Insisto, cerco di rassicurarla che parlare le fa bene e che io sono pronto ad ascoltarla.

Selene mi racconta alla fine che sta realizzando ora, con l'imminente abbandono della casa quello che sta succedendo. È terrorizzata dal dover abbandonare il suo luogo sicuro, si sente una fallita perché a 30 anni non ha una casa sua, non ha un compagno stabile, non ha dei figli, ha un lavoro incerto perché il suo titolare sta andando in pensione e il suo indeterminato non sa per quanto durerà. Io cerco di rassicurarla, le parlo di tutte le soluzioni che si possono trovare e la spingo a vedere le cose da un punto di vista differente, più positivo. Ma alla fine scoppia a piangere e mi dice che ora non se la sente di stare con nessuno e che vuole pensare solo a se stessa. Lì mi arriva la martellata al cuore: il panico e l'ansia mi attanagliano lo stomaco e il terrore di un'altra persona a cui tenevo che mi abbandona mi fa sprofondare in un vortice nero. 

Torniamo a casa in silenzio, io non vedo l'ora che se ne vada: in quel momento la sua presenza mi crea fastidio, disagio. Prego che se ne vada prima che possa vedermi scoppiare a piangere, debole. La lascio vicino alla sua macchina, scendo e le dico semplicemente "Scrivimi quando arrivi a casa".

Lei pare delusa, mi risponde "Non odiarmi. Io vorrei comunque continuare a vederti perché sei una bellissima persona". Poi mi abbraccia, sale in macchina e se ne va.

Salgo in casa: sono distrutto. Prego che torni indietro, suoni il campanello di casa mia e ci ripensi. Ma Selene non torna più e nei giorni successivi non mi scrive, non mi chiama. La cerco io, arrivato al limite, dopo quattro giorni. Le chiedo se con "Continuare a vedersi" intenda proseguire la conoscenza, oppure rimanere solo amici. Ma le chiarisco sin da subito che io, nelle condizioni in cui sono, non posso esserle amico, non ora perlomeno. Lei ci pensa su e mi dice che vuole proseguire la conoscenza, io la invito a pensarci su ma lei mi conferma con fermezza che vuole andare avanti. Nei giorni successivi ci sentiamo, molto più raramente di prima, ma lei non manifesta che le manco né l'intenzione di vedermi. Io aspetto, vedo come si muove ma lentamente muoio dentro. Dopo tre settimane così, a scambiarsi qualche sporadico messaggio, sparisce e non mi risponde per due giorni.

E li capisco. Capisco che Selene non è innamorata di me, capisco che io ero solo un tentativo di proseguire quella mancanza che le era piombata addosso dopo una relazione così lunga. Capisco che dopo dodici anni con cui è letteralmente cresciuta con un ragazzo ed essere stata lasciata non può lasciare andare così di colpo. Lei mi paragona a lui in tutto nella sua mente. Capisco che il "moscio" era riferito al fatto che lei desiderava semplicemente qualcuno di positivo con cui divertirsi e svagarsi, e che infondo lo stronzo che tanto le donne ripudiano, è sempre affascinante, specialmente in questi casi. Perché altrimenti se la relazione scorre liscia come l'olio è tutto troppo facile, scontato. Ci si stufa insomma.

Sono stato lo "scacciachiodo", e va bene sono contento di averle regalato qualche attimo di felicità; ma io sono rimasto fregato di nuovo e nella mia condizione questo non ha fatto che peggiorare le cose. Sono passati dieci giorni e di Selene neanche l'ombra. Vado avanti spingendomi a non chiamarla né a scriverle: non servirebbe a nulla, già lo so. E allora ingoio il boccone e vado avanti e mi crogiolo nella terribile sensazione che tutti noi conosciamo: ci sentiamo soli, abbandonati, disillusi, traditi. Poi passa, lentamente e con il tempo, ma tutto passa.

Rimango però convinto di una cosa: sono stato perfetto, le ho dato tutto quello che potevo e non le ho fatto mancare nulla. E questa è la prima volta che lo faccio per una persona: se in passato ho avuto da recriminarmi molte cose, questa volta sono sicuro di aver dato tutto me stesso. 

Pazienza, prima o poi arriverà qualcuno che mi apprezzerà per come sono. Con tutti i miei pregi e difetti. Le mie amiche mi dicono che ho corso troppo, ma io non l'ho costretta a fare nulla che non si sentisse di fare. E sono convinto che se davvero fosse stata un briciolo innamorata di me, si sarebbe rifatta viva.

Ora mi dovrà ridare le chiavi di casa, vedremo come fare: se le consegnerà alla nostra amica in comune o se deciderà di scrivermi più avanti per darmele di persona.

A voi i commenti, che sono molto graditi.

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