Il fuoco della Fenice

di Marty_199
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 0 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 -passato I- ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 -Passato II- ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 -Dokor- ***



Capitolo 1
*** Capitolo 0 ***


CAPITOLO 0

Con un sospirò tornò a guardarlo, per poi osservarsi le mani. «Dokor è il mio nome.»
«Ruvido come il deserto. Ti s'addice.»
«Grazie, credo.» Lo osservò per qualche istante, in attesa.
«Elyim.»
«Il tuo è leggero come il vento, sembra quasi voler volare via» si ritrovò a sussurrare. Per assurdo si rese conto che colui che fino a quel momento aveva fatto il duro e lo sbruffone si era colorato sulle gote di un lieve rossore che andava solo lontanamente a riprendere il rosso infuocato dei suoi occhi. Non gli sembrava di aver detto nulla di particolare, ma distolse lo sguardo nello stesso momento in cui lo fece Elyim.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1
-Dokor-

«Dokor?»
Continuava a colpire il manichino che aveva davanti senza sosta, il rumore sordo dei pugni raggiunse le sue orecchie, sperava di poter colpire così forte anche i suoi stessi pensieri e nonostante la loro materia fosse di aria e vuote parole nella sua testa da giorni cominciavano a prendere la pesante consistenza della roccia, sovrastavano qualsiasi cosa lui cercasse di portare a termine; in quel caso, fare tanto rumore da poter udire solo quello.

«Lasciami qui e vattene. Non mi interessa cosa mi succederà, se mi lascerai uscire farò in modo che la sabbia copra le vostre rovine.»
Doveva uscire dalla sua testa. Un altro pugno si abbatté sul sacco, tanto pesante da riuscire a spostarlo.
«Dokor.»
La luce del sole filtrava dalle volte delle finestre, gli bruciava sulla schiena nuda imperlandolo di sudore. Per terra aveva lasciato cadere le bende insanguinate che avrebbero dovuto tamponare la sua ferita al petto.
«Sei ridicolo, mi hai lasciato vivere. Cosa speravi che avremmo avuto un amorevole incontro e mi sarei pentito? So bene chi sono, sei tu a presumere di conoscermi.»
La sua risata lo ossessionava ancora. Avrebbe voluto che fosse derisoria, se non addirittura malvagia, ma ciò che aveva udito era la risata di qualcuno che si era abbandonato al suo destino. Qualcuno che trovava sinceramente divertente una situazione del genere.
La sentiva ancora, nella sua testa, rimbalzava fastidiosamente da un estremo all'altro facendolo impazzire. Non era ancora pronto ad affrontare la giornata, voleva rimanere in quel limbo personale, ogni pugno smorzava un pensiero, ogni tonfo gli faceva dolere le ossa già stanche. Sapeva che non appena sarebbe tornato a prendere coscienza di ciò che lo circondava sarebbe stato schiacciato di nuovo da un macigno di preoccupazioni. No, voleva smettere di pensare.
«DOKOR.»
Sospirò appena quando venne definitivamente strappato da quel vortice. Posò il pugno contro il sacco di stoffa e sabbia che penzolava, fermandone l'oscillazione. Con un profondo respiro irritato si voltò verso la donna dietro di lui, il petto gli si muoveva accelerato dal respiro irregolare e non aveva idea di che ora della giornata fosse o per quanto tempo fosse stato chiuso lì.
Drutia lo osservò con le sopracciglia scure aggrottate in modo pronunciato, aveva ancora il labbro spaccato e il sopracciglio aperto da una ferita ormai pulita, ma per il resto era impeccabile: indossava una veste di lino aderente al corpo, un corpetto stretto simile ad un'armatura le stringeva la vita, ricordando a tutti il suo grado da soldato al comando della fazione della guarnigione Est. I capelli raccolti delicatamente dietro il viso e soli due bracciali dorati ai polsi.
Dokor poteva essere certo che sotto la gonna nascondesse il suo pugnale preferito, mentre la cintura alla vita di cuoio teneva la spada lucidata nella fondina di un lato e la pistola nell'altro.
«Sei ancora in questo stato? Tu… è sangue quello?»
Dokor si poggiò al sacco con le mani, affondandoci il viso. «No. Non di adesso» rispose subito con un mugugno. «Che ore sono?»
«È tardi, il processo sta per iniziare e tu puzzi di sudore, sei sporco e insanguinato.»
Dokor accennò un sorriso per il suo tono spazientito. Si passò una mano sulla pelle ruvida delle guance per poi abbassarsi a prendere le bende. Non aveva alcuna voglia di funzionare quel giorno, non ci sarebbe stato nulla di positivo nelle ore a venire, avrebbe voluto chiedere agli Dei di cancellarle come si sarebbe potuta eliminare una riga da un vecchio papiro.
«Come mai sei venuta tu a recuperarmi?»
Sperava di averla fatta franca, di aver saltato il processo ma a quanto pareva si era solo illuso. Una volta raccolte le pezze a terra con un gesto della mano fece sgonfiare il sacco composto di sabbia su cui aveva scaricato parte del suo nervosismo. La sabbia fuoriuscì dai piccoli buchi della stoffa intrecciata e si raggrumò a terra in piccole cascate di granelli che con un movimento con delle dita Dokor fece muovere e aderire al suo polso sotto forma di bracciale. Si addensò intorno alla sua pelle assumendo la consistenza della pietra sotto il suo volere.
«In molti stanno facendo troppo caso alla tua assenza.»
«Ero… sono in convalescenza» borbottò e mentì. «Mi preparo subito.»
Dokor si incamminò verso le sue stanze, per i corridoi del palazzo non incontrò quasi nessuno. Le grandi arcate lasciavano entrare la luce rovente e aranciata del sole, il vento era lieve e faceva muovere dolcemente i tendaggi bianchi. Le pitture lungo i muri erano da poco state raffrescate, quando era partito era certo non fossero così evidenti.
«Sai non ti giudico, è giusto riposare, che si sia considerati semidei o meno.»
Poteva sentirlo nel suo tono che non voleva infastidirlo e di quello Dokor la ringraziava, cercava di dirgli qualcosa o forse semplicemente di distrarlo e anche in quel caso gliene era grato. Ma non era certo che stesse funzionando.
«Vieni dentro, non ci metterò molto.» Dokor le lasciò la porta aperta entrando per primo. La stanza era come l'aveva lasciata, anzi più ordinata, le ancelle dovevano essere entrate mentre non c'era per riordinare e spolverare. Se non fosse stato per la grandezza naturale della stanza e la sfarzosità del palazzo, Dokor avrebbe scelto sicuramente una stanza più umile nei dettagli e poco interessante per gli amanti dello sfarzo. Il letto spazioso e dalle lenzuola pulite era colmo di una moltitudine di cuscini di cui non sapeva mai che farsi, la testata in legno lavorato e scuro proveniente da terre lontane, come le colonne che sorreggevano il baldacchino e le leggere tende trasparenti che cadevano ai lati del letto. Si chiedeva del perché di tutti quei dettagli inutili, qualsiasi azione vi compiesse dentro non era mai andato a guardare quanto il suo letto quel giorno fosse sistemato.
Per il resto le mura erano adorne di mobili in legno lucido che riflettevano la luce delle lanterne a gas il cui geroglifico runico all’interno permetteva alla fiamma di rimanere sempre accesa, un tavolino nel centro per poggiare le sue cose, su cui era momentaneamente appuntata una mappa ingiallita dal tempo e un papiro arrotolato.
Buttò le fasce insanguinate a terra e si voltò verso Drutia ferma allo stipite della porta, mentre i suoi occhi scuri scrutavano la stanza e i suoi lati. Dokor poteva capirla, non sarebbe mai entrata in quel momento senza una valida ragione, avrebbe destato chiacchiere non desiderate ed effettivamente nessuno dei due ne aveva bisogno.
Andò a lavarsi, cercando di essere rapido ed efficiente, la sua sala da bagno era altrettanto grande e lussuosa, un lavabo largo e una vasca altrettanto spaziosa, tubature in ottone portavano l'acqua che necessitava per lavarsi benché anche per loro che erano nobili fosse centillinata. Con velocità iniziò a pulirsi il viso senza guardarsi troppo allo specchio.
«Hai comprato quel papiro da quattro soldi "la voce del deserto?"» domandò Drutia, doveva aver scrutato per bene la sua stanza da fuori.
«Un'ancella l'ha dimenticato e io l'ho preso.» Inventò sul momento passandosi un panno sul viso per asciugarlo. I capelli negli ultimi anni gli erano cresciuti troppo, avrebbe dovuto farli tagliare. Nella fretta li legò con un nastro scuro in modo che non lo infastidissero.
«Da domani avrai una fila di spasimanti e duchesse pronte a sposarti» subito dopo udì la sua risatina.
Indossò la gonnella di lino al posto dei pantaloni in pelle, per quanto li preferisse li aveva portati così tanto che l'idea di vestire in maniera formale ma con i suoi vestiti tradizionali non lo infastidiva. Alla vita si strinse la cintura con le armi lucidate e sopra la veste altrettanto bianca che copriva il petto scuro legò l'armatura in cuoio con lo stemma del Re, richiamando il suo grado di generale delle truppe dorate del deserto, ma permettendo ai suoi muscoli di non sorbire la fatica di appesantirsi con la sua armatura ufficiale. Lasciò perdere qualsiasi gioiello se non la collana con la pietra di giada rossa che aveva al collo, coperta dalle sue vesti e a contatto con la sua pelle. Si chiese se in quell'occasione non fosse il caso di toglierla, riporta in un contenitore e non riaprirlo mai più.
Si osservò un momento allo specchio, i capelli neri erano secchi e rovinati sulle punte ma legati indietro da una bassa coda avevano assunto un'aria ordinata. Le cicatrici sul suo volto erano guarite e la pelle scura era di nuovo più compatta e liscia, forse un poco più scavata del solito, poteva leggervi i segni della sua stanchezza. Si passò nuovamente le mani sul viso per strofinare via qualsiasi sensazione vi fosse riflessa e decise che nessun pennello e nessuna pittura avrebbero toccato il suo viso, non ne aveva più l'abitudine, durante le battaglie erano rari i momenti in cui si sarebbe potuto sistemare dinanzi uno specchio per truccare la sua pelle. Per quanto agli umani piacesse pensare che loro potessero combattere e allo stesso tempo essere perfetti come gli Dei, la verità era che il sangue, il sudore e il fango del campo erano uguali per tutti. Non c'era momento migliore in cui tutta la loro umanità si facesse notare come in quei momenti.
Uscì dalla stanza per raggiungere Drutia fuori, si incamminarono in un silenzio più pesante e consapevole.
«Non abbiamo avuto modo di parlare, ma...»
«Non c'è molto di cui parlare» tagliò corto, sperando di chiudere lì il discorso. Avrebbe dovuto sopportare già abbastanza sguardi.
«Non devi fingere con me.»
Avrebbe potuto ringraziarla per quella sincera proposta di aiuto, dentro di sé sapeva di doverle essere grato, non l'avrebbe ricevuto facilmente da chiunque, non in quel modo. Drutia nonostante gli fosse inferiore di grado, ceto sociale e potere, da quando glielo aveva concesso non si era mai tirata indietro nell'essere una persona sincera e schietta. Ma quello fu un momento in cui non glielo concesse, il suo silenzio si rifletté su di lei che non insistette.
Più tardi si sarebbe fatto perdonare.

***

Il palazzo del processo si trovava poco distante dal palazzo reale. C'erano abbastanza mezzi per raggiungerlo tranquillamente, avrebbe potuto prendere la piccola monorotaia che da anni gli umani avevano costruito spianando le dune del deserto e sulle quali alla punta si trovava incisa una runa geroglifica che ne fungeva da protezione e faceva sì che un campo d’aria la circondasse continuamente permettendogli di aprirsi la strada in caso la sabbia fosse tornata a riprendersi il suo spazio, un dono che Endall, discendente del Dio della protezione, aveva volentieri concesso.
Si poteva arrivare tramite le carovane per coloro che avevano abbastanza per affittarne una con i relativi cammelli o con i fendi sabbia, aveva sempre trovato quella specie equina speciale ma troppo intelligente per essere relegata a un mero lavoro di tiro.
Dokor decise che nessuna di quelle era un'opzione che sentiva adeguata, in entrambe avrebbe dovuto incontrare troppe persone lungo la strada per arrivare al suo posto. Con al suo seguito Drutia, a cui non aveva concesso in egual modo di valutare le due opzioni, si diresse verso l'uscita sul resto del palazzo.
Al contrario della centrale non era adorna di enormi scalinate in pietra lavorata, palme verdi e alte colonne decorate con fiaccole a gas sempre accese, era più simile ad uno spiazzo in pietra che andava a perdersi tra le dune arancioni del deserto, il vento ne muoveva i granelli senza gli intoppi dei palazzi. Non erano presenti mura e mai lo sarebbero state, nessun esercito al di fuori di quello del deserto sarebbe stato in grado di sopravvivere al deserto selvaggio e arido che si apriva fino alla linea con il cielo, se non fosse stata la fame o la sete a ucciderli, ci avrebbero pensato le creature che vivevano al suo interno. Motivo per cui Dokor si ritrovò su di uno spiazzo completamente aperto.
Per scendere si potevano variare due opzioni, piccole e strette scale attaccate al muro un poco rovinate dato che nessuna ancella aveva l'ardire di rischiare la caduta, o si poteva seguire il cammino che andava aprendosi in una balconata senza bordi aperta sul vuoto sotto di loro. Diversi metri separavano il pavimento da dove si trovavano.
Il vento soffiò poco più forte, Dokor chiuse un momento gli occhi e si fermò ad un passo dal baratro, percepiva Drutia pochi passi dietro di lui.
«Caa'li.» La profondità del suo tono mosse le montagne di sabbia sotto di lui. In lontananza udì il terreno tremare e le sabbie spostarsi e compattarsi tra loro, aprì gli occhi per vedere il movimento del deserto farsi sinuoso fino ad aprirsi al passare della sua creatura. Caa'li strisciò sulle dune spianandole sotto il suo peso, le squame giallo sabbia brillavano di diversi riflessi sotto il sole, ricoperte di macchie più scure sparse sul suo dorso in forme irregolari. Si fermò dinanzi il bordo, sollevandosi per arrivare alla sua altezza, il muso allungato dinanzi a lui mentre i suoi occhi neri lo scrutavano.
Dokor poggiò una mano sul suo muso e chinò il capo salutandolo con rispetto, le squame vibrarono producendo un basso brusio mentre la lingua biforcuta ebbe un guizzo.
Caa'li era al suo servizio da anni, si era piegato sotto il suo potere quando era ancora un ragazzo. Tuttavia era anche uno dei più grandi serpenti del mare di sabbia, un Majid del Deserto, le "Grandi creature", così veniva chiamato da chi possedeva la magia del deserto e riconosceva in quelle creature il potere della natura e degli Dei stessi. 
Dokor non gli aveva mai mancato di rispetto benché ne fosse il padrone, quell'equilibrio si sarebbe potuto spezzare come niente e nonostante la cerchia delle dieci famiglie appartenenti al Dekaetum, coloro che discendevano dalle dieci divinità principali, fossero avvantaggiate dal pizzico di magia che vibrava nel loro sangue, aveva faticato molto per avere la sua fiducia. Un Efir come Elyim, non ci avrebbe messo più di un giorno, loro sapevano come parlare alle creature del mondo.
«Salute amico mio, ho disturbato il tuo sonno ma non dovremmo muoverci per i prossimi giorni.»
Caa'li si spostò di fianco dandogli il permesso di salire. Sul suo fianco spiccò il geroglifico dell'occhio che fungeva da runa geroglifica per incanalare la sua magia, gliela aveva imposta nel momento in cui si era piegato sotto il suo volere. Calimath glielo aveva spiegato molto bene quando era arrivato a palazzo, le creature come i Jiin o gli Efir non avevano alcun bisogno di tramiti, la magia aveva la capacità di scorrere in loro come un fluido in piena. Per loro del Dekaetum era diverso, il popolo non possedeva nessuna qualità magica innata, le grandi famiglie come la sua erano le uniche a conservare la magia degli Dei, che potevano attivare al massimo della forza tramite le rune geroglifiche di canalizzazione, geroglifici antichi che secondo la leggenda che vigeva tra loro altro non erano che l'antica scrittura degli Dei lasciata a loro tramite i secoli. 
Non era l’unico modo in cui nei secoli avevano rafforzato quella discendenza magica, Dokor per un momento fece cadere l’occhio su l'anello che portava al dito, di ferro ricoperto in oro, perfettamente levigato a forma di serpente con i due piccoli occhi rossi e fiammeggianti di vita, uno degli oggetti venuti fuori grazie alla magia che strappavano agli Efir. Distolse lo sguardo velocemente, Elyim gli aveva sempre detto che la riteneva solo magia riciclata, Dokor non era fiero dell'utilizzo di quello che era stato fatto alle creature motivo per cui si atteneva strettamente ai patti che vigevano tra loro. 
Tuttavia rafforzare la sua magia era stato il modo di differenziarsi dal popolo, Dokor non aveva potuto tirarsi indietro, non aveva voluto. Era parte di quella corte e non più di quelle strade.
«Quindi... puoi richiamarlo anche per gli spostamenti? Come un cammello per una carovana?»
Dokor sorrise lievemente, posizionando i piedi sulle squame per issarsi e sistemarsi seduto poco più in alto del solito, quasi sulla sua testa. In quel momento la sua sella non sarebbe stata necessaria. Si voltò verso Drutia, ancora ferma dov'era.
«Più veloce e spero per i tuoi gusti più maestoso di un cammello. Una vista migliore e nessuna carovana barcollante» allungò poi la mano verso di lei, «vieni.»
Sotto il vento i suoi capelli castani erano un poco più spettinati, alcune ciocche si erano liberate dalle forcine alle quali le aveva costrette. Con un sospiro rassegnato allungò la mano verso di lui e un'altra la posò sul corpo di Caa'li per reggersi. Le squame sotto la sua mano vibrarono e si mossero spontaneamente, non riconoscendo il tocco. Dokor lo calmò per poi tirare su Drutia con poco sforzo, facendola sedere al suo fianco e indicandole dove reggersi, se lui poteva essere allenato nel rimanere in equilibrio mentre Caa'li camminava non poteva dire lo stesso di Drutia e voleva evitare che cadesse di sotto.
«Puoi avanzare.»
Caa'li prese a muoversi subito dopo, tenne la testa alta mentre iniziava a farsi spazio passando lontano dal solito cammino e addentrandosi nelle dune che li circondavano.
Dokor prese ad osservarsi intorno il deserto che tanto conosceva: il calore bruciante del sole, l'aria colma di granelli di sabbia e il lino contro la sua pelle accaldata. Il movimento ondulatorio di Caa'li riuscì un minimo a tranquillizzarlo e si immaginò di essere solo con lui, di poter sparire tra quelle dune.
In lontananza vide il palazzo farsi sempre più vicino, aveva preso il giro lungo e poteva osservarlo in tutta la sua austera magnificenza, la pietra bianca risplendeva, la cupola si allungava verso il cielo con il pennacchio in oro che riluceva sotto i raggi del sole. Dalla sua distanza riusciva già a scorgere la monorotaia che sfrecciava verso la sua direzione, le carovane ferme davanti lo spiazzo dell'entrata e piccole figure che si muovevano salendo i gradini. La sua possibilità di sparire si faceva sempre meno probabile e tornava a galla il suo vero intento, farsi vedere forte e deciso, in sella alla sua creatura per non permettere che nessuno osasse mettere in discussione la sua determinazione.
Non doveva far altro che tirare su un ottimo teatrino e per le persone comuni della città non sarebbe stato difficile, un serpente gigante era già abbastanza. La vera difficoltà sarebbe giunta dopo ma l'avrebbe affrontata a tempo debito.
Più si faceva vicino e più era certo di poterla sentire, la sua voce trasportata dal vento mentre lo prendeva in giro per farlo irritare.
«Sbruffone.»
Si voltò aspettandosi di trovarselo accanto. Gli occhi nocciola di Drutia lo scrutarono con una scintilla di curiosità, non aveva mai smesso di reggersi per tutto il tragitto, solo nelle battaglie più efferate l'aveva vista farsi sbiancare le nocche per una presa tanto ferrea. Scacciò i suoi pensieri e sorrise debolmente.
«Abbastanza plateale?»
«Compra La Voce del Deserto domani, non ci saranno altro che tue raffigurazioni.»
Il che non era una cattiva prospettiva, non avrebbe rischiato di trovarsi in giro per la città troppe raffigurazioni del processato del giorno.
Una volta vicino al palazzo una moltitudine di occhi si voltarono verso di loro, alcuni cammelli si agitarono e i proprietari dovettero calmarli tenendo strette le briglie. La maggior parte di loro si fermò ad ammirare l'enorme bestia dinanzi i loro occhi, maestosa e terrificante. Arrivati al balconcino Caa'li si fermò abbassando la testa con un sibilo che si protrasse nell'aria, permettendogli così di scendere.
Non appena toccò con i piedi la pietra sotto di lui Dokor allungò una mano verso Drutia per aiutarla a scendere, sapeva che in realtà lei non ne aveva bisogno, era allenata e benché la paura di una bestia a lei non avvicinabile la spaventasse, se avesse dovuto scendere non se lo sarebbe fatto ripetere due volte. Dokor voleva solo avere una scusa in più per prendere tempo da chi gli era alle spalle, la sua entrata era stata certamente plateale ma non si aspettava di trovarsi subito qualcuno ad aspettarlo.
Prese Drutia per la vita facendola toccare con i sandali a terra, Dokor sapeva che un contatto così ravvicinato davanti a tutti non era la migliore delle idee, quando tornava nel mezzo dello sfarzo del palazzo non era più solo il generale dell'esercito. Ogni suo tocco e ogni sua parola poteva venir soppesata, l'avere un contatto fisico stretto con uno dei comandanti donna sotto il suo comando, senza marito e di buona famiglia era un'azione che non passava inosservata.
Dokor non vi faceva caso e nonostante fosse sempre Drutia a riprenderlo per certe cose, su quello anche lei era poco attenta. Passavano tanto tempo insieme nel mezzo delle battaglie, si erano ritrovati a lottare uniti nel campo nel mezzo di una miriade di corpi, avevano lottato tra loro per tenersi allenati nei momenti morti, fare caso a un contatto tanto normale per loro era difficile. Era uno dei motivi per cui Dokor preferiva la quieta solitudine. Era cresciuto in un contesto troppo differente da quello interno al Dekatum, aveva compreso come muoversi e chi essere ma non era mai riuscito a farlo del tutto suo.
Lasciò andare Caa'li con un gesto di ringraziamento portandosi la mano alla fronte e poi verso di lui, in una imitazione del ringraziamento degli Efir, Caa'li mosse il capo oscillando come se gli stesse rispondendo, con il movimento flessuoso del suo corpo si mosse per voltarsi e si allontanò inoltrandosi nuovamente nel deserto senza che nessuno lo disturbasse.
Hurin li aspettava poco distante, con gli occhi seguiva ancora i movimenti del serpente sulla sabbia.
«Oggi mi raggiungono tutte persone che non mi aspettavo venirmi incontro spontaneamente.»
Hurin spostò gli occhi su di loro. Drutia aveva nuovamente preso una certa distanza da lui e con un cenno del capo si era chinata alla vista di Hurin, che aveva ricambiato con un veloce cenno della testa.
«Come sapevi che sarei entrato da qui?»
«Ho visto le dune muoversi e il modo in cui lo fanno all'arrivo di Caa'li è così morbido che non poteva che essere lui. Ho pensato che qualcuno avrebbe dovuto aspettarvi.» La sua veste di lino era nera e tanto leggera da muoversi con i pochi spifferi di vento che ogni tanto giungevano, Dokor riusciva a intravedere i suoi lembi di pelle al di sotto, la linea dritta dello stomaco fino all'inizio del petto che invece era completamente coperto da una collana d'oro che portava al collo posta sulla veste che si apriva a ventaglio e risaltava prepotentemente. La cintura lavorata andava stringendogli appena la vita rendendo la forma triangolare della gonna senza lasciare intravedere qualcosa, i sandali intrecciati di cuoio erano appena sollevati da un leggero tacco. L’anello al dito brillò sotto la luce del sole.
Dokor sapeva che Hurin avrebbe dovuto presenziare ad un processo tanto importante, in quanto discendente del Dio Heis della saggezza, dell’intelletto e dell'ingegno in ogni campo della sua attuazione. Ma vedere la sua figura lì presente era da una parte sorprendente, dall'altra parte era grato che Hurin l'avesse accolto, tanti sguardi ma poche domande, Hurin sapeva trarre da sé le sue conclusioni, uno dei suoi aspetti più spaventosi ma che in quella giornata facevano proprio al suo caso.
Si addentrarono nel palazzo della corte dove poco dopo Dokor dovette separarsi da Drutia, che avrebbe presenziato dai lati del balconcino con tutte le sfere più alte dell'esercito, aveva un grado importante ma nessuna relazione con la corte del Dekatum. Mentre sotto di loro si sarebbero trovati i rappresentanti dell'esercito.
Il tribunale interno consisteva in un'enorme sala ad anfiteatro, con al centro sistemata la pedana di metallo e ottone ricoperta di rune geroglifiche incise per tutta la sua lunghezza, con un palo al suo centro dove sarebbe stato incatenato l'imputato. Dinanzi a lui si sarebbero trovati i tribuni con i seggi rialzati dove avrebbe seduto il Re, il grande consigliere e gli otto del consiglio. Sui muri di pietra erano apportati ulteriori dipinti della bilancia, della giustizia e dell'occhio dell'anima, situati dietro i loro seggi mentre al loro fianco si innalzavano le statue simbolo del Deserto, alte e imponenti allungavano le loro braccia verso l'alto per sorreggere il tetto con le loro mani, le maschere che ne coprivano i volti allontanandoli dall'essere umano e fondendosi con i loro corpi fatti di pietra e ricoperti di bronzo, scintillavano sotto le luci del sole e delle fiaccole che ardevano ai lati del muro.
Dokor si incamminò verso il suo seggio, la sala straripava di persone e un gran vociare riverberava tra le pareti, sotto di lui riuscì ad adocchiare la fazione dei soldati alla sua sinistra e gli sembrò di notare i capelli di Drutia, mentre lungo il resto della sala si andavano sedendo la gilda dell'Eka nella destra seduti su di un rialzo, maghi di corte e studiosi dei geroglifici runici, la gilda dei mercati gli era accanto e i popolani, o chiunque avesse una fazione abbastanza importante da poter avere un proprio posto, si trovavano nel mezzo della sala che era divisa dalle guardie per lasciare un passaggio per il condannato.
Oltre le Tribune d'Onore erano accalcati sui restanti spazi funzionari, nobili, storici, studiosi e un paio di articolisti. Volti noti e meno noti ma tutti fra i più alti incarichi, la maggior parte appartenenti a illustri famiglie. 
Nessuno si lasciò andare in volgari applausi popolani ma Dokor poteva sentire i loro occhi su di sé, prese posto sulla sua seggiola sospirando, Hurin si sedette alla distanza di due seggiole da lui, la parte più esterna, se avesse potuto avrebbe volentieri fatto a cambio.
Quando il Re entrò la sala si ammutolì per un momento. Suo fratello entrò in completo silenzio, la lunga gonna di lino gli copriva le gambe fin sotto le ginocchia con lo stesso disegno a triangolo composto con la cintura in oro lavorato che gli stringeva i fianchi, i sandali erano stretti e leggermente rialzati da un tacco di legno che si intrecciavano lungo la gamba, al collo portava una collana che si apriva lungo il petto scoperto, coperto solo dalla pittura che si arrampicava lungo la sua pelle dorata rendendola più luminosa, i polsi erano coperti da bracciali e alla mano sinistra portava l'anello di osso e avorio lavorato a forma di scorpione. Il viso spigoloso era come sempre dipinto, gli occhi circondati di una linea nera spessa e decorati poi con sottili linee in oro, le labbra scintillavano dello stesso colore. 
Sul capo portava la corona che andava allargandosi sia verso l’alto che verso il basso sul suo volto, coprendo una sua parte e andando a creare la maschera che lo copriva, i capelli erano poco più lunghi di quelli che ricordava e a differenza della maggior parte delle persone il loro castano chiaro si faceva riconoscere.
Gli scoccò una lieve occhiata per poi sedersi al seggio alla sua destra, il centrale e più alto, nel punto preciso della pupilla dell'occhio che era dipinto alle loro spalle. 
Vide Nohldir entrare e nella sua bruta possanza prendere il suo posto, possedeva il doppio dei suoi muscoli e la metà del suo cervello, discendente del Dio nomade e della conquista, non si voltò verso di lui e Dokor ne fu lieto, non aveva l'ardire di starsi a sorbire le sue solite chiacchiere su quanto la sua posizione ereditaria nella famiglia reale gli avesse impedito di arrivare dove meritava e di quanto Dokor non fosse appropriato per il ruolo di generale.
Dokor non poteva competere contro di lui sul campo della forza bruta, la forza di quei muscoli sotto quella pelle sembrava in grado di frantumare qualsiasi cosa, eppure Dokor
lo aveva battuto e aveva dovuto vivere nel fango per guadagnarsi il posto dove era seduto. Nohldir sembrava essersi tirato a lucido, indossava anche la sua maschera nera sul viso che si allungava verso il basso simili a dei pugnali o a due zanne.

Zydite sedette al suo fianco, discendente dalla Dea Thut della verità, la collana con l'occhio di perla come unico ornamento, la maschera le copriva il viso e gli occhi vacui che erano celati sotto di essa, non vi era nulla sulla sua maschera, solo una colata di bronzo con le sembianze di un volto dagli occhi mai aperti. Dokor l'aveva sempre trovata affascinante e spaventosa, non era ancora riuscito bene a capire come si potesse muovere a suo piacimento.
Niphine, discendente dalla Dea Aesis dei raccolti e della maternità, nella sua delicata eleganza dai capelli neri e ricci nei quali erano incastonati i fiori del deserto. 
Amus, discendente dal Dio Fentho messaggero e del vento, con la sua maschera fatta di piume chiare e ben lavorate unite tra loro a forma di ali al di sopra la sua pelle scura come la notte. Sidite, discendente della Dea Pasha della magia e della scrittura, portava sulla pelle le decine di disegni delle rune geroglifiche antiche, trasformandola in una preziosa pergamena mentre il suo volto era coperto da un velo d'oro.
Endall che discendeva dal Dio Tafeal, osservatore e della protezione della terra e dei vivi, con i suoi occhi ambrati scrutava la sala attento, i capelli racchiusi in lunghe trecce pesanti e spesse, la veste di un dorato leggero che rimandava a tutta la sua nobiltà nei movimenti che accentuava.
Ricordava quanto gli era parso strano da ragazzo dover vivere in un palazzo condiviso con altre dieci persone presenti, più le guardie a protezione e i servitori sempre all'opera. In quell'occasione era stato suo fratello a spiegargli come vivesse la sua famiglia e quindi il Dekatum.
Quando i loro seggi furono pieni, tutta l'atmosfera da preparazione svanì e ogni persona prese il proprio posto. Dokor si isolò presto dalla situazione e cercò di pensare a qualcosa che lo distraesse da quel senso di oppressione che sentiva sul petto. Portò fugacemente lo sguardo verso il seggio vuoto al fianco sinistro di suo fratello.
«Fate entrare l'imputato.»
Qualsiasi ricordo stesse affiorando alla sua mente si dissolse velocemente ed ogni cosa venne invasa da Elyim: la sua mente, i suoi occhi, la sala stessa ed ogni persona lì presente percepirono la sua aurea prima ancora che facesse il primo passo verso la pedana.
Non c'era alcun modo di estraniarsi dalla sua presenza. Nella sala calò il silenzio mentre il prigioniero avanzava trascinando le catene, i polsi erano incatenati, aveva addosso stracci logori macchiati di sangue e sporchi. Niente a che vedere con gli abiti eleganti e pregiati che indossava in libertà, era una figura logorata, eppure aveva un portamento regale, come sempre, tipico degli Efir.
Camminava verso il palo con la testa alta, nessuna particolare espressione sul volto ma nessun segno di cedimento. I lunghi capelli solitamente rossi come una cascata di fuoco erano sporchi e ricadevano lungo il bacino in modo disordinato e selvaggio, gli occhi rossi e iridescenti come il sole saettarono verso di lui, come calamitati. Aveva lo zigomo spaccato e un grosso livido violaceo sul lato del viso, il labbro spaccato e l'occhio destro gonfio, solcati entrambi da profonde occhiaie violacee.
Eppure non dava cenni di dolore o cedimento, avanzava guardando in faccia i presenti con calma, raggiunse il suo posto al centro della sala sulla pedana, senza proferire parola nemmeno mentre lo incatenavano al palo strattonandolo.
Nessuno parlò per un lungo istante, anche dopo essere stato privato della sua magia, questa sembrava vibrare nel suo corpo e nell'aria potente e selvaggia, riempiva la sala rendendola elettrica, le ombre della sala sembravano volersi allungare verso di lui nonostante non potessero ricevere una risposta.
Dokor, suo fratello e sua sorella benché come gli altri discendessero da una Dea, Nises, colei che possedeva il potere del deserto, delle sabbie, del cielo e il suo calore venendo innalzata alla più potente delle dieci, non avrebbero mai potuto comprendere quel tipo di magia e il suo flusso che attraversava ogni Efir. 
Potevano avergli strappato la sua parte magica ma non potevano arrestare il flusso che lo attraversava. 
Ognuno del Dekaetum doveva avere con sé un talismano, un oggetto che ne facilitasse il tramite e la perfetta incanalazione o ricorrere all'utilizzo delle rune. 
Elyim era una creatura della terra, la magia primordiale gli concedeva un accesso diretto all'energia del loro mondo, il suo corpo era fatto apposta per la magia nella sua forma più pura e sfrenata, questo non poteva essergli strappato via. Ogni creatura della terra era pericolosa per gli uomini se non gli veniva imposto un freno, e nonostante gli umani avessero imparato a rubarla e ad apprenderla nessuno di loro avrebbe mai raggiunto un tale potere.
Tuttavia non era solo la sua magia a richiamare tutti quegli sguardi, anche il suo aspetto aveva creato quel profondo vuoto di rumori. Il terrore delle creature era dato dalla loro dissomiglianza e benché chi avesse sangue misto per la maggiore avesse l'aspetto umano in pochi si sarebbero aspettati un essere tanto efebico ed estraneo a ciò che
conoscevano. 

La sua pelle era bronzea, ma troppo luminosa in confronto a chiunque lì dentro, come un pezzo di ambra lavorata nel mezzo di una moltitudine di chicchi di caffè, i tratti affilati delle creature che gli conferivano un'aria efebica, le orecchie un poco allungate e a punta come gli occhi, tratti smorzati solo dalla parte di sangue umano che scorreva il lui.
Era bello in modo ultraterreno ma se lo si osservava bene qualcosa man mano andava stonando all'occhio, una bellezza ipnotica come lo strisciare di un serpente, era pericolosamente attraente, come un fiore velenoso.
Endall aveva iniziato a parlare ma Dokor se ne accorse a malapena, la giada sotto i suoi abiti prese quasi a bruciargli contro la pelle e gli tornò alla mente la prima volta che lo aveva conosciuto, o che meglio, lo aveva ritrovato nella stessa accademia, con i vestiti da allenamento, i capelli legati in una bassa e lunga treccia e gli occhi di un rosso vivace, simili a un tramonto dai colori violenti, curioso e tanto accaldato dal sole da avere i rossi sul viso.
"Perché mi fissi?"
Si era infuriato con lui dal primo istante, e poi se lo era ritrovato nella stessa stanza, seduto sul bordo della volta aperta con gli occhi verso la luce di una giornata assolata e il volto che risplendeva alla luce del sole. Si era voltato immediatamente verso di lui.
"Ti ho rotto il naso?"
«Elyim Dreimeirt, l'imputato.» Endall aveva preso a parlare e la sua voce possente coprì lo scorcio di quei ricordi. «Figlio di una popolana e una di creatura primordiale non identificata, adottato sotto il nome di Dreimeirt, al servizio della famiglia reale e condannato oggi per i seguenti crimini...»
Dokor rimase fermo nella sua posizione sentendo il peso di quelle accuse. I loro destini si erano intrecciati e non si capacitava di come Elyim, una creatura che credeva nella forza del destino tanto quanto negli Dei, riuscisse ad isolarsi da ciò che stava avvenendo. Non sembrava minimamente toccato o pentito, solo annoiato e distratto, la sua mente era altrove e Dokor non aveva modo di seguirlo per poter capire. Elyim non gli aveva mai dato la possibilità di comprendere, perché doveva cercarla in quel momento?
«Il mio occhio non riesce a vedere quasi nulla, percepisco solo la sua grande forza ora schiacciata.»
Dokor voltò appena lo sguardo verso Zydite, l’cchio di ferro con al centro una pietra azzurra colma di energia vibrava contro il suo petto. Per lei giudicare gli imputati tramite il suo occhio era semplice se questi non erano Efir.
Ma lì c'era poco da giudicare. Elyim era un assassino e un traditore.
Un condannato che era distante ma cosciente della situazione, poteva leggerlo nei suoi occhi. Semplicemente sembrava che la sua mente non fosse lì, come quando lo aveva scorto più volte ad ascoltare il vento in silenzio, fermo mentre questo sussurrava tra i suoi capelli segreti che nessuno poteva capire. Lo aveva visto far ballare il fuoco e parlarci, giocare con granelli di sabbia creando figure in essa ma nello stato in cui si trovava non avrebbe potuto dar loro la forza di manifestarsi. Elyim appariva come un guscio vuoto ma con ancora qualcosa che gli ronzava nella testa tanto da distrarlo al suo stesso processo.
Sapeva di esserne lui una parte della causa, lo aveva braccato e combattuto, colto in un momento di debolezza e approfittato per riportarlo in catene. Era certo che Elyim lo avrebbe deriso di meno se lo avesse ucciso sul momento, non era necessario un processo per le sue colpe, eppure riusciva a percepire quel peso sul petto nonostante non fosse dispiaciuto per lui.
Lo merita. Ha ucciso delle persone. Ha ucciso mia sorella e il suo bambino, ha negato al nostro regno il futuro.
I suoi occhi si calamitarono verso suo fratello, seduto al suo fianco. La maschera celava i suoi lineamenti solo per metà e nonostante tutto Dokor non riusciva a leggervi una chiara emozione, era convinto che vi avrebbe letto odio, rabbia, forse gioia. Ma tutto ciò che vide fu l'occhio libero incollato alla figura di Elyim e le labbra serrate, le mani rilassate sui braccioli e il corpo poggiato allo schienale. Avrebbe potuto intenderla come una muta soddisfazione, eppure voltandosi verso il processato sotto di lui, si ricordò un'altra colpa che non poteva perdonargli.
Non mi hai mai detto la verità.
Passarono diverse ore prima che la sentenza venisse emessa. Dokor si chiese la necessità di tutta quella lunga farsa, era ovvio che servisse a mostrare al popolo e alle varie fazioni presenti, nonché alle creature stesse, il loro potere e a mettere in mostra come un traditore tra i più potenti fosse stato ridotto. Elyim era stato messo in bella vista, emaciato, picchiato e legato nel mezzo di una pedana, in piedi per ore.
La sentenza di morte venne emessa da Endall con il benestare del Re, il volere dell'Eka, dei sacerdoti e dei mercanti, tutte fazioni che avevano al potere anche esseri mezzosangue come Elyim ma a cui non era stato permesso di partecipare. Il popolo rimaneva in un attento silenzio .
Dokor era certo lo avrebbero ucciso con il soffocamento, avrebbero ristretto l'ossigeno intorno a lui. Nessuna parte del suo corpo sarebbe stata rovinata  e dopo la sua morte, i maghi e i sacerdoti avrebbero proceduto alla mummificazione del corpo, non per elogiarlo nell'immortalità come gli antichi re, ma per poter sfruttare quel flusso che ancora scorreva. Un potente conduttore di magia che avrebbe servito il regno, i cui organi sarebbero tornati utili per un futuro utilizzo, le cui ossa sarebbero potute divenire talismani. Niente di più sacrilego esisteva per gli Efir che alla loro morte cremavano i propri corpi.
Dokor avrebbe camminato sui pavimenti che al di sotto avrebbero custodito il corpo di Elyim mummificato fino alla consumazione della sua carne e dei suoi organi.
«Riteniamo che siano i nostri esponenti più alti a doversene occupare. È un essere di grande potere e l'Eka è la più adatta per una tale esecuzione.»
Si udì un verso di disappunto nella sala, un sacerdote dai vestiti eleganti si alzò in piedi.
«Non è accettabile che un atto sacro come la mummificazione non avvenga per nostra mano, inoltre tra i vostri maghi vi sono dei mezzosangue e sappiamo tutti ormai quanto non siano affidabili.» L’uomo riservò un’espressione di finta compassione verso il condannato, sotto il trucco dei suoi occhi. «I suoi organi potrebbero essere distribuiti tra i vari templi e legandoli ai geroglifici runici potremmo garantire più protezione.»
Dokor si mosse a disagio.
«È uno spettacolo aberrante.» Hurin si poggiò con il gomito al bracciolo, gli occhi puntati sulla folla.
«Fastidioso direi.» Zydite incrociò le gambe tra loro, facendo scivolare la sottile gonna di lino. Dokor non ebbe la forza di ribattere, rimase fermo ad osservare la scena. Elyim sembrava improvvisamente interessato, si guardava intorno ascoltando come se avesse potuto decidere, fino a che Endall prese la parola, mettendo un freno a quella pratica.
«Dati i poteri del soggetto il suo corpo rimarrà custodito nel palazzo reale e i suoi organi saranno distribuiti equamente, ogni fazione potrà beneficiare della protezione e del potere che potranno offrire. Una volta che la sua carne sarà consumata il suo cranio rimarrà alla famiglia reale e le sue ossa saranno lavorate dall’Eka.»
Il cranio era la parte più agognata. Quando si trattava di creature purosangue Efir dopo la loro magia era ciò che valeva di più. Con il giusto trattamento sarebbero divenuti dei conduttori molto potenti e capaci di permettere uno sguardo all'interno di quello che loro chiamavano il soffio del destino. Gli Efir come Elyim erano strettamente legati ad esso, lo vivevano potendolo percepire e influenzare, osservare e predire. Un’altra cosa che nessuno era mai stato in grado di strappargli. 
Il cranio di uno di loro diventava un conduttore in grado di offrire uno squarcio su di una forza che agli uomini non era concesso conoscere.
Elyim gli lanciò un’occhiata e Dokor la sostenne aspettandosi di vedere qualcosa, odio forse, rancore, furia, ma nei suoi occhi nuovamente si celava qualcosa che non riusciva
a leggere.

Cosa provi? Fino alla fine vuoi tenermi nascosto ciò che sai. Dì qualcosa.
Si aspettava che finalmente fosse finita, ma una ragazza prese la parola dalle tribune degli aristocratici e dagli studiosi. I capelli ricci acconciati, gli occhi scuri dall'odio e il sorriso soddisfatto.
«Vogliate perdonarmi, il condannato è appartenuto anche alla mia famiglia. Mio zio, che voi ricorderete come lo studioso delle rune che ci hanno permesso di difenderci e conoscere più a fondo la magia, Calimath Dreimeirt, lo ha trovato nei bassifondi della città, lo ha comprato e gli ha permesso di usare il cognome di famiglia per diversi anni. Di fronte a quanto accaduto, senza ledere alle vostre maestà, parte del suo corpo o della sua magia ci spetta di diritto.»
Dokor colse un accenno di divertimento sul viso di Elyim. Non poteva dirsi sorpreso ma decisamente amareggiato. Quella donna aveva ereditato la sua posizione dalla morte di Calimath, si era sempre tenuta lontana da diverse pratiche ma si era gettata sulle spoglie dello zio come un avvoltoio e in quel momento si stava solo gettando su una preda più grossa.
Nonostante fosse stato Elyim stesso ad assassinare Calimath, Dokor era certo che quest'ultimo non avrebbe mai desiderato che la sua casa permettesse il dissacramento di una creatura Efir, a maggior ragione di quello che era stato il suo figlioccio prescelto. Era una completa mancanza di rispetto nei confronti di un uomo che aveva avuto sangue di Jiin nelle vene.
«Che gli Dei gli abbiano permesso di varcare la porta, fu Calimath stesso a portarlo tra noi e ad insegnargli la magia. Aveva sangue di Jiin, per quanto ne sappiamo poteva essere invischiato con l'Arkadia.»
Dokor strinse il pugno. L'Arkardia era l'associazione delle creature contro cui si stavano battendo ferocemente da anni in guerre ormai di logoramento. Non c'era altro che schiavitù, guerra e stanchezza ormai non aveva sapeva più se ci fosse un vero obiettivo dietro tutto ciò. 
Dokor era certo che uno dei pochi a salvarsi da quel giro fosse stato proprio Calimath.
Finalmente dietro di sé udì l'unica voce davvero in grado di mettere fine a quel processo. Il Re sollevò la mano per far tacere chiunque stesse ribattendo. Si sporse in avanti, osservando la sala.
«Prenderemo in considerazione ogni proposta, sarà indetto un incontro per discutere a fondo di ciò, dopo l'esecuzione, che avverrà con la fine della grande afa, nella piazza centrale ai piedi del tempio degli Dei.»
Una settimana. Dokor si sarebbe trovato già lontano a quel punto.
Lanciò un'occhiata verso Drutia e invece di notare i suoi capelli scuri, vide le ombre delle colonne allungarsi e arrampicarsi lungo il pavimento sotto la pedana. Sapeva che il sole non aveva compiuto nessun giro che permettesse loro quel movimento, a meno che le fiaccole alle pareti non avessero preso a muoversi. L’aria intorno a loro vibrò leggermente, Dokor allungò lo sguardo verso gli altri soldati presenti, li vide tutti essere attraversati da un lieve brivido, Drutia voltò lievemente il capo osservandosi intorno. 
Per un momento fu sul punto di lanciare la sua sabbia verso il condannato ma con un fugace sguardo si rese conto che anche Elyim era entrato in allerta allo stesso modo, gli occhi rossi si erano socchiusi e fatti più attenti, erano saettati a destra e sinistra e la sua schiena si era di poco incurvata in avanti.
Nel momento stesso in cui tutti coloro che erano lì dentro si resero conto del pericolo Dokor si alzò con uno scatto ma il colpo li raggiunse troppo velocemente, facendo tremare le pareti della sala. Le guardie già in allerta cominciarono a far spostare chi era sugli spalti, un gran vociare confuso si sparse per la sala. Dokor riacquistò l'equilibrio e si mise in piedi osservando immediatamente Elyim, che si guardava intorno mentre la sala pian piano veniva svuotata.
«Ci attaccano da fuori?» Chiese Zydite allungando la mano verso Hurin al suo fianco. 
«Non sono mai arrivati così vicini alla città.» Rispose Hurin facendo vagare lo sguardo, Dokor cominciò a rilasciare la sabbia stretta intorno al suo polso. 
«Non si avvicinano ancora così tanto alla città, non credo che–» la sua frase venne interrotta da un secondo colpo più forte, le pareti vibrarono nuovamente e alcune crepe cominciarono a crearsi andando a spezzare i geroglifici runici impressi su di essi. Da fuori le urla spaventate della folla giunsero fino a loro. 
All’interno della sala i nobili, i mercanti e il popolo raggrumato sui propri spalti prese a correre di fuori senza più ordine, Sidite di alzò in piedi cominciando a concentrare la propria energia nelle proprie mani dove erano disegnati perennemente due geroglifici sui palmi che ebbero un lieve scintillio, andando a ripristinare l’energia che attraversava le mura che li circondavano per non far crollare il marmo solitamente protetto. 
Nohldir cominciò ad abbaiare ordini contro i soldati che li circondavano intimandogli di spargersi fuori alla ricerca di chi stava attaccando, cosa che avrebbe dovuto fare Dokor ma il suo sguardo saettò verso suo fratello Erix che aveva cominciato a far muovere tutti quelli del Dekaetum fuori dalla sala. 
Hurin aveva lasciato Zydite nelle mani di Niphine e si trovava al fianco della sorella Sidite che continuava a infondere energia nelle rune, le sopracciglia arricciate in un’espressione di concentrazione. 
«Trattenere il prigioniero!» ringhiò Nohldir un secondo troppo tardi. Dokor lanciò la sua sabbia contro di lui ma le fiamme la bloccarono quasi coscienziosamente, le stesse fiamme che aveva visto muoversi prima che quell’attacco iniziasse si andavano arrampicavano lungo il pavimento e le pareti, dirette verso il prigioniero che dal canto suo si era già mosso, con la seconda serie di attacchi aveva colto l’attimo in cui era stato liberato dal palo per colpire le guardie, con una mossa veloce aveva estratto il pugnale legato alla gamba di uno dei soldati affondando la lama nel suo petto, pronto a colpire l’altro. Dokor agì velocemente scagliando la sua sabbia contro il secondo soldato facendolo cadere indietro e allontanando quanto bastava mentre le fiamme si aprirono in un’esplosione, come fauci affamate. 
Le persone continuavano a spingersi verso l'uscita e i soldati a sguainare le proprie armi. Dokor vide le mani di Elyim muoversi veloci nonostante fossero ancora costrette nei ceppi. Il fuoco si gettò verso di lui ma lo evitò con un salto veloce, rotolò a terra e si rialzò con uno scatto puntando verso l’uscita. 
Mentre Amus faceva muovere l’aria all’interno cercando di restringere l'ossigeno intorno alle fiamme e trattenere i calcinacci in aria per non farli schiantare a terra, Dokor vide nel mezzo del casino i soldati sugli spalti in alto incoccare le frecce per colpire il fuggitivo. 
«Colpirete anche gli altri così!» la voce di Drutia venne inghiottita dal rombo di un ulteriore colpo contro le mura che fece crollare una parte del soffitto oltre che spargere un denso strato di polvere. 
La figura di Elyim si muoveva veloce mentre si faceva largo senza badare a chi colpiva. 
Dokor percepì i fili degli archi dei soldati che veniva tirato e lo spostamento d’aria mentre prendevano la mira, Endall prese a innalzare una barriera sopra di loro, piccoli filamenti argentei uscirono dalle sue mani andando a solidificarsi per creare una protezione. 
Dokor era pronto a lanciarsi nel mezzo con tutti gli altri soldati, riusciva ancora a vedere la sua chioma rossa, se fosse riuscito ad afferrarlo nessuna freccia avrebbe colpito qualsiasi altra persona che spintonava per la propria salvezza. 
Con un movimento veloce saltò giù prima che la barriera di Endall potesse solidificarsi e la forza del suo corpo gli permise di atterrare sulle sue gambe senza sforzo mentre le fiamme continuavano a divampare lanciandoglisi contro. Dokor non perse tempo e si buttò in avanti a sua volta impattando ai piedi della pedana di ferro, si risollevò velocemente e non appena riprese la concentrazione qualcosa lo distrasse nuovamente. 
Una freccia era volata verso Elyim mentre si scontrava con un soldato. Dokor percepì qualcosa dentro di lui ribellarsi e tirare come un uncino nelle carni, la sua mente si oscurò e una necessità profonda e imprescindibile prese il sopravvento sui suoi sensi. 
Una pioggia di frecce sfrecciò verso Elyim e lo stesso fece la sua sabbia, si liberò sotto il suo comando allungandosi verso di lui e aprendosi a ventaglio in un’esplosione che la fece solidificare abbastanza da bloccare le frecce a un passo dal colpire il condannato. 
Dokor lo vide, vide quegli occhi rossi svettare verso di lui lievemente sgranati dalla sorpresa per poco più di qualche secondo, subito dopo Elyim si liberò dalla presa del soldato mentre il fuoco si gettava su di lui. Dokor lo intravide prima che qualcosa sotto la sua pelle iniziasse a bruciare, lungo le sue braccia iniziarono ad arrampicarsi striature rosse e un dolore lancinante lo colpì lungo gli arti facendolo gemere di dolore. Le vide scurirsi, come fossero pronte a incenerirsi. Ed era quello che sentiva, il fuoco che gli divampava dentro come se avesse potuto bere la lava.
«Fermatelo!» La voce imponente di Nohldir riverberò tra le pareti facendolo scattare sull'attenti, si era liberato anche lui della protezione di Endall ed era in procinto di buttarsi nella mischia. Quel dolore lancinante lo aveva bloccato dal dare un ulteriore ordine e la sua sabbia non sembrava disposta ad ascoltarlo ancora, la sua testa si era improvvisamente oscurata e solo un bisogno primordiale premeva in lui, c’era un pericolo e doveva scongiurarlo.
Nonostante l'imperversare delle fiamme e del caos, le frecce furono scagliate nuovamente. Superò il suo dolore quando con la sabbia creò il suo arco e le sue braccia si mossero per afferrarlo. Scoccò le sue frecce di sabbia solida e appuntita verso i soldati.
«Dokor!»
La voce di una donna. Doveva essere Drutia che si muoveva per scendere dalla sua postazione e prendere posto al fianco dei soldati che in quel momento parvero ai suoi occhi mosche senza un obiettivo preciso, la vide spingere ed estrarre il suo pugnale.
«Che cosa stai facendo? Fermati, traditore!» la voce di Nohldir, la maschera che sembrava essersi allungata e appuntita nel percepire tutto il caos di quello scontro.
I suoi occhi vennero calamitati verso il successivo soldato, la sua sabbia vi ci scagliò contro mentre era ancora macchiata del sangue degli altri. Non riusciva a bloccarsi. Doveva proteggere e uccidere.
Il dolore nel suo corpo divenne tanto forte da portarlo a lanciare un urlo roco. Elyim cadde in ginocchio afflosciandosi a terra poco dopo essersi voltato verso di lui confuso, era circondato dal rosso ardente del fuoco e Dokor non fece in tempo a vedere se una freccia lo avesse colpito, un soldato o se le fiamme avessero iniziato a divorarlo. Era certo che stessero divorando lui e si accasciò un secondo dopo mentre la sua sabbia si disperdeva nell'aria ancora macchiata di sangue.
 

Angolino🐍 

Ciao a tutti! Spero che questo primo vero capitolo vi abbia interessato o incuriosito e vi ringrazio per essere arrivati fino a qui.
Spero che possa intrattenere, ci sarà la storia d'amore che sarà una slow burn, quindi col tempo ci saranno scene più mature e molto probabilmente cambierò il rating al momento necessario.
Scrivere del mondo magico, delle varie differenze e implicazioni è per me una delle parti più difficili e spero che le informazioni in questo capitolo siano abbastanza chiare, mi sembravano tutte necessarie per capire l'inizio ma più avanti saranno distribuite al meglio che potrò.
Ogni capitolo nuovo sarà pubblicato di giovedì (spero).
Per ultimo lascio qualche appunto che magari può essere utile:
-La terra in cui si svolge la storia è inventata ma ho cercato di prendere come riferimento l'antico Egitto, in particolare per le descrizioni, i templi, la religione, il vestiario e alcune usanze.
-Come avrete notato alcune creature sono inventate come gli Efir, (consideratele circa come fate del deserto) altre sono parte della mitologia esistente come i Jiin, anche se mi sono presa diverse libertà interpretative.
-Il Dekatum è inventato, basato a grandi linee sull'idea dell'Enneade (secondo la mitologia il gruppo delle principali nove divinità egizie), che qui ho reso dieci, motivo della parola Deka (10 in greco antico secondo le mie modeste ricerche) e la parola Desertum. Ogni divinità è inventata da me, sempre con riferimenti a quelle "vere" della mitologia egizia.
-Ultima cosa, nel tipo di coppia ho inserito il Crack Pairing, ovvero coppie improbabili o inesistenti, per un motivo futuro quando si saprà come alcune creature del deserto si sono unite agli umani acquistando poi anche un aspetto più umanoide. Diciamo che per il tipo di "rapporto" che avviene mi sembrava adeguato.
Con questo penso di aver concluso, più che angolino è un angolone ma spero siano informazioni utili :)

Vi ringrazio ancora per aver letto e vi saluto ^^.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


 

CAPITOLO 2

-Dokor-

Qualcosa nel suo petto prese nuovamente a tirare con insistenza, sentiva di doversi alzare, di dover aprire gli occhi. 
Dokor sbatté le palpebre e riprese piano conoscenza, tornò immediatamente vigile e nervoso, spalancò gli occhi e cercò di tirarsi a sedere.
«Fa piano.»
Hurin era al suo fianco. Dokor si accorse di non trovarsi più nella sala del ricevimento, il soffitto sopra di lui era di pietra scura, il letto sul quale era sdraiato duro come un pezzo di legno e improvvisamente la secchezza di quel posto gli si attaccò alla pelle.
Voltò lo sguardo vedendo che nella stanza aleggiava una luce scura, le fiaccole rendevano chiara la presenza di pesanti sbarre di ferro attraversate dall’energia delle rune incise a fuoco su di esse, l'echeggiare delle armature dei soldati che sorvegliavano le prigioni e la polvere mista a sabbia che rendeva l’aria pesante.
Ogni malessere sembrò sparire dal suo corpo finalmente sveglio.
Le immagini delle mura del palazzo di giustizia che si crepavano e il bruciore delle fiamme lo destarono dall’osservarsi intorno.
«Cosa è successo?» Non sapeva spiegarsi come avesse fatto a svenire.
«Un Majid del Deserto ha attaccato il palazzo» Hurin si sistemò comodo sulla stessa brandina di Dokor, «uno scorpione nero, non sappiamo come sia giunto qui o perché abbia attaccato la città. Avresti dovuto vederlo, era maestoso.» I suoi occhi scintillarono.
Dokor si mise a sedere lentamente mentre nel petto continuava ad aleggiargli quella sensazione lontana di inquietudine, pressante e opprimente, il dolore che ricordava di aver provato era svanito, ma nei suoi occhi riusciva solo a rivedere lo sguardo di Elyim e le fiamme che lo divoravano.
«Non ci sono più creature Giganti che siano libere vicino le nostre città, i loro nidi sono lontani perché avvicinarsi così?»
Hurin si voltò verso di lui, indossava le stesse vesti che aveva durante il processo, ormai rovinate e sporche, i chiari capelli erano sfuggiti all’acconciatura e li aveva semplicemente lasciati sciolti sulle spalle come raramente si concedeva.
«Chi può saperlo, l’idea più logica è che lo abbiano spronato gli Efir dell’Arkadia.»
«Sai meglio di me che sono sacri per loro, non li manderebbero a morire in un attacco suicida.» Dokor aveva dato per scontato che la creatura fosse stata uccisa e nello sguardo di Hurin vi lesse la conferma.
C’erano troppi soldati e la loro forza nella loro città era troppo forte perché una creatura potesse vincere contro di loro da sola.
«Durante questi anni molte cose sono cambiate, non dovremmo dar per scontato che gli Efir non possano cambiare i loro principi», gli rispose semplicemente mentre si alzava «sono rimasti coinvolti diversi cittadini e alcuni palazzi dei nobili sono crollati o sono stati danneggiati.»
Dokor lo osservò, era certo che nessuno di quei dettagli interessasse Hurin per davvero, era solo un modo gentile di tenerlo informato prima di iniziare il tutto. Poteva sentire su di sé il peso delle rune di privazione incise nelle mura in cui era stato chiuso dopo l’attacco.
Abbassò lo sguardo verso la sabbia chiusa contro il suo polso.
La grave consapevolezza di aver agito contro il Dekatum e contro i suoi soldati gli pesò sulle spalle.
Le sue braccia erano intonse e senza nessuna ferita a dispetto del fuoco che aveva sentito divorarle.
«Sono stato colpito?»
«No, ma dei soldati sono stati colpiti da te.» La voce severa di Nohldir arrivò dal fondo della stanza, verso le sbarre aperte, appoggiato al muro i suoi occhi scuri lo osservavano con crudezza, senza la maschera era in grado di leggere quanto in sé la situazione non gli dispiacesse.
«Fa silenzio ora, non è il momento per il tuo sollazzo personale o per la vostra piccola guerra interna.» Hurin osservò con neutralità Nohldir che dal canto suo si fece più vicino.
Portava la spada posta nella fondina al suo fianco e l’armatura a scaglie si estendeva sul suo petto.
Una rifinita lavorazione di ferro importato decorata in bronzo, l’occhio del dio Tefeal della protezione al suo centro, le ali per solcare i venti e vincere i nemici distese lungo i fianchi in linee perfettamente geometriche decorata poi da pietre dure, copriva tutto il suo petto.
«Sappiamo che le sue azioni erano prive di intenzioni.»
«Prive di intenzioni? La sua freccia ha trapassato i nostri soldati, pronti a fermare il traditore dalla sua fuga. Abbiamo lottato contro quella creatura gigante mentre il generale versava a terra svenuto.»
Dokor si passò una mano sulla testa, massaggiandola e voltando gli occhi intorno a sé; il posto dove si trovava era una delle celle sotto il palazzo, l’aria gli pesava sui polmoni e il calore era soffocante, il letto su cui era seduto una striscia di legno con sopra un materasso indurito e dalle coperte ispide che gli erano state lasciate, era anche molto ovvio che le ancelle avessero sistemato al meglio possibile la sua cella.
«Non posso averli colpiti.» Sbatté le palpebre incredulo.
«Lo hai fatto, ma poco dopo sei svenuto, nello stesso momento in cui il condannato è stato colpito e fermato.» Hurin si toccò distrattamente i capelli. «Hai iniziato a comportarti in modo strano dal momento in cui la vita del condannato è stata effettivamente in pericolo.
Ma il vero motivo per cui, mio principe, siete stato imprigionato è l’aiuto che avete dato al condannato.»
«Il nostro Re ha dato questa disposizione.» La voce di Nohldir nascose soddisfazione dietro una placida osservazione razionale. Davanti ad Hurin riusciva a mettere su la maschera più finta che Dokor gli avesse mai visto, doveva ancora capire quale strano rapporto si fosse instaurato tra i due.
Si mise in piedi passandosi una mano sul petto, non poteva biasimare la scelta di suo fratello e della corte del Dekatum, cominciava a ricordare le azioni che aveva compiuto, la sua sabbia che si allungava come un arto a protezione di Elyim, che creava una arco e scoccava le sue frecce nei petti sbagliati mentre tutti gli altri erano impegnati a proteggere il popolo.
«Devo parlare con il Re.»
«Verrà lui a ricevervi.»
Dokor si voltò verso Hurin rimanendo in silenzio.
Il Re non scendeva mai nelle celle, non dava udienza a nessun condannato se non davanti la corte di giustizia, e non parlava con lui in una stanza con solo tre persone presenti da tempo.
Non riusciva ancora a comprendere cosa girasse nella sua testa, suo fratello si muoveva secondo i suoi piani e riusciva sempre a sorprenderlo.
Non gli era concesso scendere nelle celle sotto il palazzo ma sarebbe sceso per lui, solo che Dokor si rese conto che non era per forza detto che lo facesse per stare al suo fianco.
Durante quei semplici pensieri i passi di Erix rimbombarono per le pareti, il volto era scoperto dalla maschera ma il trucco la faceva da padrone sul suo viso, indossava vestiti puliti e l’anello a scorpione rilasciò un fascio di luce sotto le fiaccole.
Dokor, Nohldir e Hurin si inchinarono, il principe osservò per un momento i sandali ornati che portava ai piedi, leggermente rialzati ma non troppo.
Glielo aveva sempre detto che non li gradiva particolarmente alti.
«Ho parlato con Sidite e ha analizzato il tuo corpo mentre eri svenuto.»
Dokor sollevò la testa e lo sguardo verso l’espressione marmorea di Erix, le torce rendevano evidenti i riflessi dorati tra i suoi capelli.
«Ha confermato che su di te non vi è alcuna runa imposta e che il movimento della tua magia è caotico.»
«Non mi sono mosso per colpire i nostri soldati.»
Nohldir si staccò dal muro con un verso sprezzante. «Se posso permettermi… abbiamo assistito tutti alle azioni del principe nonché mio generale. Non credo che sia per noi possibile affidargli altri incarichi fino a che non avremo chiaro che relazione ha con il condannato.»
«Attento a come parli. Sono ancora il tuo principe.» Dokor dosò il proprio tono stringendo i pugni. Nohldir fece un piccolo passo indietro. Riportò gli occhi verso Erix. «Fatemi passare sotto l’occhio di Zydite, saprete che non mento. Non so spiegarmi cosa mi abbia mosso a muovermi contro la mia volontà, ma non mi sono mosso per tradire il mio stesso esercito.»
«La sua simpatia per gli Efir non sarebbe nuova» le parole di Nohldir aleggiarono tra loro per tre lunghi secondi. Erix rimase in silenzio e fu la voce di Hurin a farsi avanti. «Se Sidite non è in grado di decifrare la magia che lo scuote, forse non appartiene alla nostra magia» parlò con voce sicura «non abbiamo più le capacità del mastro Calimath ma gli allievi dell’Heka hanno appreso molto dai suoi studi. Un mezzosangue ne potrebbe capire di più.»
«E sia, fanne giungere uno di tua conoscenza e potremo verificare.»
Hurin si inchinò nuovamente, Dokor portò gli occhi verso Hurin e dopo verso Erix, nessuno dei due aveva preso l’iniziativa di smentire le accuse contro di lui, tuttavia fino a quel momento Hurin era l’unica persona che si era sporta dalla sua parte, si chiedeva se riuscisse a riscuotere favore solo da coloro che avevano sangue Efir, per quanto Hurin ne avesse poco, quanto necessitava per colorare solo i suoi occhi di un arancione sbiadito.
Le ore successive furono estremamente lente, la porta della sua cella venne nuovamente chiusa e Dokor si ritrovò a sedere sul duro materasso della stanza benché non lo infastidisse più di tanto, doveva ringraziare i mesi passati fuori il palazzo.
Si sfregò le mani tra loro mentre osservava la luce del sole fare il giro verso il basso e assumere una sfumatura sempre più arancione, tendendo a spegnersi man mano che giungeva il buio.
Nel momento in cui il cigolio della cella lo destò nuovamente dai suoi pensieri era rimasto a malapena un flebile raggio che faticava ad illuminare da solo l’angolo della stanza, mentre le fiaccole appese al muro avevano aumentato la loro potenza.
Una donna con indosso le lunghe vesti blu scuro dell’Heka fece ingresso nella sua cella con un inchino di riverenza, seguita dal Re, da Hurin e da Nohldir, tutti con la propria maschera sul volto, «Mio principe, sono una mezzosangue dell'Heka, posso?»
Dokor fece un cenno con la testa senza smettere di guardarla. I lunghi capelli color del bronzo erano legati in tante piccole trecce che partivano dal cuoio capelluto fino alle punte.
Sul collo svettava il geroglifico del sole alato impresso sulla sua pelle, ali che lo circondavano andandosi a sfiorare vicino l’ugola, erano affascinanti e terribilmente soffocanti da osservare.
I suoi occhi erano gialli ma tendenti al castano, le sue orecchie appena allungate e le sue gambe troppo lunghe per la sua stazza, donandogli un'altezza che non conferiva con la sua struttura, il tratto più anomalo che presentava, non doveva avere una forte discendenza Efir.
Prese a passargli una mano ad un centimetro dal corpo socchiudendo gli occhi, le pupille al di sotto iniziarono a muoversi a scatti e le rune impresse sul suo corpo si illuminarono leggermente nel richiamare la sua magia.
Sapeva che sui mezzosangue parte dell’Heka o di qualsiasi fazione nella loro città fosse sottoposto a quel trattamento per porre dei limiti e un contenimento alla loro magia, ma vederli in azione era strabiliante ogni volta, la loro pelle si illuminava e le linee geometriche dei geroglifici si riempivano di un’energia che le faceva risplendere.
Si era sempre chiesto se mai la magia di Elyim ne potesse essere limitata anche se la risposta negativa era giunta in quei giorni, era la motivazione per cui gli era stata risucchiata tramite un anello contenitivo e non con l’imposizione delle rune, era molto più doloroso.
Quando riaprì gli occhi il lieve luccichio giallognolo si affievolì fino a svanire.
«Credo che vi sia tra voi un vincolo o un legame di qualche entità.»
«Cosa...?»
«Quindi un legame, non lo rende forse un traditore?» Dokor sentiva nuovamente le forze essere al loro pieno potere, avrebbe voluto alzarsi e prendere a pugni quel fascio di muscoli ma doveva rimanere calmo, avrebbe pensato dopo ai tentativi di Nohldir di fargli perdere il suo potere sull’esercito, in quel momento aveva problemi più seri.
«Credevo che il nostro principe ti avesse già lanciato un avvertimento riguardo l’uso delle parole.»
Nohldir fece scrocchiare la mascella infastidito mentre l’antrace dei suoi occhi andava scontrandosi con il tramonto morente in quelli di Hurin.
«Fate silenzio ora. Dobbiamo prima capire e poi giudicare.» La voce di Erix giunse inaspettata dopo il silenzio che lo aveva caratterizzato in quella situazione, calma e dosata, non si era sporto troppo.
Dokor non si aspettava certo che prendesse le sue parti.
«Basandomi su ciò che mi è stato riferito, la vostra magia è entrata in atto nel momento in cui il condannato è stato ferito, o comunque che è stato in pericolo. Esistono diversi patti e vincoli che gli Efir, e prima ancora i Jiin, stipulavano tra loro o con gli uomini. Da come la vostra magia si muove è inevitabilmente collegata alla Fenice.»
Dokor deglutì nel sentire quel soprannome, Elyim non se lo era dato da solo ma col tempo seguendo le leggende del suo popolo il suo nome era andato a mascherarsi dietro quella figura.
«Che tipo di vincolo?»
«Sicuramente un vincolo interno e intimo, non vi sono segni sul vostro corpo. L’entità sembra... di protezione.»Dokor non riusciva del tutto a seguire, si mise seduto. «Come ha potuto utilizzare la magia e lanciarne uno? Era bloccata.» Lo disse con tono duro, mentre osservava le reazioni di chi lo circondava.
«Un vincolo non è istantaneo, può essere stato lanciato prima ed essere stato attivato dopo, non è possibile da sapere.»
Hurin si fece avanti, osservando con riflessione la donna. «Di protezione, vuol dire che il principe scatta per proteggere il condannato? E’ anche da tenere sotto controllo il fatto che sia svenuto nel momento in cui il condannato è stato colpito.»
Dokor fece un cenno, sfiorando con le dita la sua sabbia macchiata. «Ho provato dolore in quel momento» sospirò «e inoltre, me ne sarei accorto se mi fosse stata lanciato un incantesimo.»
La maga dell’Heka lo guardò, «non in questo caso mio principe, i vincoli sono per la maggior parte silenti. Alcuni non necessitano nemmeno delle parole per essere lanciati ma solo di una valvola per l’attivazione. La vostra magia si muove nella direzione dell’Efir come se… come se parte del suo sangue vi scorresse dentro.»
«Sangue per attivarlo?» Domandò Hurin, sembrava genuinamente interessato alla questione. Quella situazione doveva essere stimolante per le sue ricerche.
La donna rispose con un cenno positivo, «non posso dire con esattezza come. Ogni vincolo ha il suo modo di essere applicato, inoltre con gli studi degli ultimi anni molti sono stati modificati dall'intervento umano.» Si portò una treccina dietro le spalle. «Si potrebbe accettare la profondità o l'entità del vincolo.»
Erix la osservò «Come?»
«Sarebbe da testare la forza del loro vincolo con la presenza del condannato.»
«Non in vostra presenza.» L’ostilità di Nohldir non venne mascherata da nessuna nota di finzione, ma la donna si mantenne con le spalle dritte, si voltò verso il Re porgendogli i propri omaggi e successivamente verso Hurin con il capo chino. «Il mio consiglio è di chiamare uno studioso esperto di vincoli o patti ora che il tipo di magia è stato identificato.»
Hurin le fece un segno di assenso. «Sono d’accordo, vi ringrazio per il vostro parere, potete attendermi nella mia carovana, vi scorterò alla sede dell’Heka.»
La donna si incamminò fuori dalla cella lanciandogli un ultimo sguardo scintillante, come attratta dalla magia che circondava il corpo di Dokor, Hurin si sollevò la maschera liberando il volto.
«Possiamo chiamare il mago di corte e Sidite.»
«Questo mi scagiona dalle accuse.» Dokor si fece sentire prima che potessero muoversi, l’asprezza del suo tono porto Erix a guardarlo negli occhi.
L’oro al loro interno poteva apparire caldo o freddo come il metallo che era.
«Non c’è motivo di lasciare che resti qui, capiremo che cosa sta succedendo e come tutto questo è avvenuto. Nel frattempo non possiamo abbassare la guardia, l’esercito deve essere tenuto attivo in vista dell’attacco che abbiamo subito oggi» spostò lo sguardo verso Nohldir «fino a che non capiremo l’entità del patto l’esercito dorato rimarrà sotto la guida di Nohldir.»
Il pavimento sotto i piedi di Dokor sembrò tremare. «Vuoi lasciare l’esercito a lui? L’esercito è sotto la mia guida e destabilizzarlo così non farà che colpirci.»
«Non possiamo sapere che cosa comporterà il vincolo, inoltre dobbiamo essere sicuri quando parleremo alle truppe del deserto dicendogli che ciò che hanno visto non è un tradimento ma un sortilegio di cui sei stato vittima.»
Dokor strinse il pugno. «Si fidano di me.»
«E lo faranno ancora. Ma non possiamo permetterci delle crepe. La debolezza e l’incertezza in questo momento ci farebbero crollare.» La fermezza della sua voce assunse una nota più bassa e le fiaccole tremarono dietro le sue spalle, Dokor si bloccò mentre le unghie si infilavano nei sui palmi. Elyim si era nuovamente infilato nella sua vita e la stava facendo sgretolare.
Una crepa… una debolezza.
Quello era stato considerato per parte della sua esistenza da persone che fino a che non si erano presentate nella sua vita non erano altro che lontani semidei di famiglie racchiusi in palazzi dorati, li aveva guardati dalle strade della bassa città e non ne aveva mai sentito la mancanza o la vicinanza.
Non si era mai considerato una crepa fino a che non gli era stato detto.
Una crepa creata da altri che lui aveva risanato in quegli anni con la fatica.
Non si sarebbe lasciato portare tutto via.
Osservò ancora per un momento suo fratello, senza mai abbassare lo sguardo davanti alla maschera che rendeva i suoi lineamenti così distanti dal umano.
«Non credo sia necessario che il principe rimanga nelle celle. Potrebbe passare il messaggio sbagliato mio Re.» Hurin si inchinò e quella muta conversazione tra loro venne stroncata.
«Il principe riposerà nel palazzo, è la sua casa non gli sarà negato nessun accesso, al di fuori delle celle.»
Con un gesto Erix si voltò per lasciargli il passaggio aperto, la mantella che portava dietro sfiorava appena il pavimento, una piccola macchia che avrebbe potuto considerare come l’unica parte in grado di ricollegare a quello che un tempo aveva visto come suo fratello che ancora cercava di scorgere.
Con un movimento veloce uscì fuori senza guardare ulteriormente nessuno dei tre, improvvisamente l’afa di quel posto gli si era aggrappata alla gola e finalmente percepiva la sabbia al polso muoversi sotto il suo volere nel seguire le sue emozioni, il marchio della runa Geroglifica dell’occhio con il sole al centro bruciò sul suo collo mentre risaliva le scale e la lieve e unica brezza notturna di quelle giornate impattava contro il suo corpo.

***

Aveva raggiunto le sue stanze velocemente chiudendosi la porta dietro mentre le guardie a protezione della stessa vi si piazzavano davanti.
Non appena i suoi occhi si erano ritrovati sulla scrivania l’aveva rovesciata con un gesto veloce dando sfogo all’impeto e alla rabbia che aveva tenuto bloccata dentro di sé.
Il silenzio del castello era calato con forza sulle sue spalle portandolo a sedersi e a calmare il battito del cuore, mentre quel uncino nelle carni aveva ripreso a tirare con forza.
Una maledizione...un veleno che continuo a trovarmi nel bicchiere.
Riusciva a vedere gli occhi di Elyim che lo fissavano sorpresi e sgranati mentre veniva attaccato, lo conosceva, Dokor era certo che se fosse stato lui a scagliarlo non si sarebbe lasciato scappare l’occasione, se avesse avuto il tempo di ricorrere alla magia non avrebbe perso tempo a legarlo a lui.
Era stato Elyim a troncare tutto ciò che lo legava alla vita in quella città, era divenuto sabbia nel deserto selvaggio e proprio nel momento in cui Dokor era certo di essere riuscito ad afferrarla non era più certo che la sua mano fosse quella che la stringeva davvero.
Il palazzo reale raramente dormiva, nessuno di loro lì dentro aveva davvero in corpo quella necessità, almeno non era così forte da portarli a riposare tutte le notti, parte delle ancelle del palazzo erano dedite al dio minore Udis delle arti, della musica e dell’armonia, e in quelle ore della notte il loro lieve canto si innalzava verso quell’ora viaggiando per i corridoi e per le stanze accompagnando le notti insonni di chi viveva lì.
Le stelle e la luna gettavano un pallido raggio nella sua stanza che veniva smorzato dalle fiaccole che con il calare della notte avevano aumentato la loro forza, i disegni geroglifici lungo le pareti scintillavano sotto di esse venendo attraversati dalla magia di protezione che Dokor si era sempre immaginato come una bolla intorno a loro.
Passarono diverse ore prima che Zydite venisse nella sua stanza, indossava una lunga veste arancione, bracciali blu notte le stringevano la pelle e la sua maschera era stata lasciata da parte, il viso
giovane e dagli occhi vacui si posò su di lui senza entrare oltre la soglia.
«Il Re e il sommo Hurin vi attendono.»
Dokor la osservò, raggiungendola poco dopo e porgendole il braccio.
Zydite vi si aggrappò poggiando la mano delicatamente ma con sicurezza, come se sapesse ogni volta dove trovare un appoggio negli altri.
I capelli erano nascosti sotto un velo che dalla fronte scendeva lungo le spalle.
Dokor si incamminò con lei, «sei venuta ad esaminarmi?»
La collana dell’occhio tra le pieghe del vestito ebbe uno scintillio azzurro. «Sai molte più volte di quanto si crede è difficile per me giudicare a un solo sguardo, posso vedere solo determinati frammenti delle intenzioni.»
I corridoi erano illuminati e benché a quell’orario fossero più vuoti non aveva quasi mai la sensazione di essere solo, un aspetto che i primi tempi lo aveva spaventato quando era un ragazzo di città portato tra quelle mura.
Con gli anni però era divenuta una sensazioni di pace e appartenenza, aveva colmato quel vuoto di solitudine che lo aveva accompagnato, non aveva mai chiesto se fosse la presenza delle rune geroglifiche, della magia o l’appartenenza lontana che scorreva nel suo sangue, ma era certo di non essere l’unico a provarlo.
«E cosa vedi in quei frammenti?»
«Niente a dire vero, è come guardare un Efir, è tutto così confuso, una struttura che il mio occhio non sa decifrare.»
Dokor sospirò «bene la mia unica possibilità di innocenza si è appena frantumata.»
Zydite sorrise con delicatezza mentre seguiva i suoi passi. «Hai dei legami qui, alcuni sono forti. Non dovresti dubitarne.»
«Il tuo consiglio è la fiducia?»
«Verso te stesso, verso i tuoi legami e verso le tue scelte. Ma io non sono adatta al rilascio di consigli»
Dokor si voltò verso di lei, i suoi occhi chiari e senza luce gli restituirono uno sguardo all’apparenza privo di emozioni. «Mi stai suggerendo qualcosa?»
Zydite voltò lo sguardo verso la porta che si trovava dinanzi a loro, le guardie si fecero da parte e Dokor percepì gli occhi su di sé, occhi attenti e guardinghi.
Non erano parte del suo esercito del deserto ma sole guardie del palazzo, il loro compito era proteggere chi vi viveva all’interno.
Quando era un ragazzo Dokor si era chiesto da chi e da cosa li dovessero proteggere, nessuno era mai arrivato ad attaccare il palazzo reale, nessuno al di fuori del Dekatum e di chi vi veniva invitato su richiesta poteva entrare, tutti i servitori erano devoti e la runa della dea Thut, il geroglifico della bilancia, spiccava sulle loro spalle o sul loro avambraccio, Zydite era la prima a poter percepire delle intenzioni ostili.
Con gli anni si era convinto che oltre a svolgere un compito di mera precauzione, forse dovevano proteggerli da loro stessi.
Zydite lo lasciò nel momento in cui le porte vennero aperte per lui, Erix, Hurin e sua sorella Sidite, Nohldir, insieme al mago di corte, lo attendevano all’interno, aveva visto quella stanza molte volta prima che divenisse di qualcun altro che non fosse Calimath.
Un mago di corte veniva scelto nel momento in cui dimostrava una profonda conoscenza delle rune Geroglifiche e della magia degli Efir o dei Jiin tanto da poter studiare per tentare di unirle, per portare tramite le sue scoperte alla creazione di oggetti in grado di migliorare la dura vita del deserto.
Poteva capire la presenza di Sidite per la sua discendenza dalla Dea Pasha della magia, di Hurin e anche del mago di corte, ma si chiedeva se Nohldir non avesse deciso di pedinarlo fino allo sfiancamento.
Hurin fece un cenno a Zydite avvicinandosi a loro e prendendole la mano gentilmente.
«Non mi è possibile dirvi nulla, non ho potuto vedere nulla con solo il mio occhio.»
«Era ciò che temevamo, il vincolo che l’ha colpito funge come un velo.»
Hurin la accompagnò da una delle guardie, facendola accompagnare nelle proprie stanze. Zydite era strana, conosceva quei corridoi a memoria grazie a tutti gli altri suoi sensi, Dokor era certo che si sarebbe potuta muovere da sola ma preferiva essere scortata ogni volta.
Dokor si voltò verso i restanti nella sala nel momento in cui vennero chiuse le porte alle sue spalle.
«Avete scoperto qualcosa?»
«Dobbiamo accertarci della profondità del vincolo.» Sidite si lisciò la gonna di raso dorata, le rune sulla sua pelle scintillavano e per la prima volta nel vederle sulla sua pelle Dokor le trovava soffocanti, come se non fossero più in sintonia con lui.
Il portone di legno si aprì con un grosso cigolio e alcune guardie sciamarono all’interno del laboratorio, trascinarono Elyim che aveva un aspetto pallido e debilitato, la fasciatura intorno al collo macchiata di sangue e gli occhi incavati, appannati dalla rabbia.
«Afferma di non sapere nulla di un possibile vincolo tra voi.» commentò Hurin.
Fu lanciato a terra e atterrò in avanti, si sollevò in ginocchio aiutandosi con i gomiti a terra. «Perché non lo so.» Il suo respiro inciampava per l’affanno.
«Stai mentendo. Qui nessuno dice la verità.» Tuonò Nohldir, si avvicinò a lui con grandi falcate e gli prese la mano tirandolo in avanti. Elyim fu costretto a sollevarsi con il busto, la forza dello strattone lo fece barcollare. Dokor vide che i moncherini delle sue dita sulla mano destra erano stati lasciati così, le tre dita di ottone articolate e pregiate nella loro forgiatura gli erano state strappate via.
Nohldir estrasse il proprio pugnale dalla fondina e con un gesto secco lo piantò nella mano che teneva stretta. Elyim si lasciò uscire un gemito roco con una smorfia, Dokor lo vide stringere i denti e mordersi il labbro per non lasciar uscire nemmeno un fiato.
Un secondo dopo percepì un formicolio alla mano, una lieve pungolata, come se una spina si fosse infilata nel suo palmo, ma subito dopo quella pressione nel petto esplose, portandolo ad estrarre il suo pugnale. L’uncino nelle sue carni lo tirò e si ritrovò davanti il corpo di Elyim, il pugnale alto verso la gola di Nohldir.
Dokor vide tutti voltarsi verso di lui, la nebbia nella sua testa si dissolse e la prima cosa che vide fu il sorriso soddisfatto di Nohldir.
Hurin gli prese il polso, i suoi occhi studiosi e indagatori osservarono la sua mano.
«Non hai riportato ferite.»
Percepì Elyim dietro di lui estrarre il pugnale nella sua mano, voltandosi lo vide tenersela stretta al petto mentre rivoli di sangue avevano preso a scendere lungo il braccio. I suoi occhi colmi di una rabbia ferina, lievemente appannati dal dolore.
Le guardie lo presero nuovamente per le braccia trattenendolo.
Si sentiva soffocare non dalla mancanza di aria, ma da una cieca necessità. Il suo intero corpo aveva preso a dolere, qualcosa mancava ma decise di concentrarsi sulle sue parole. «Non le ho mai
riportare, se lo avete interrogato...»
«Non abbiamo utilizzato nessun interrogatorio pericoloso se non la magia, non sapevamo che effetti avrebbe avuto su di voi. Dato che durante l’attacco al palazzo di giustizia, il fuoco che ha intaccato il prigioniero ha fatto provare dolore anche a voi.» Sidite si fece avanti facendo frusciare la sua veste, si mise seduta sulla poltrona di velluto dinanzi alla scrivania nella stanza. «Ma ne sappiamo davvero molto poco. Appartiene strettamente alle capacità delle creature Efir, stiamo iniziando a replicarli per controllarli ma il loro studio è ostico. Le creature stesse non amano imporre vincoli tra di loro.»
Dokor aggrottò le sopracciglia «perché?», domandò.
«Sono troppo imprevedibili e duraturi, si evolvono insieme a coloro che ne sono costretti, possono avere risvolti non richiesti e sono complicati da rimuovere, non hanno per forza un obiettivo. Calimath ne era un grande studioso, ma nemmeno lui aveva mai osato utilizzarli.»
Elyim che fino a quel momento era rimasto in silenzio, spalancò gli occhi come se improvvisamente avesse compreso qualcosa.
«Da quanto ho compreso.» Il mago prese parola. «Il vincolo che vi lega permette al nostro principe di percepire il dolore del condannato ma solo dopo determinate condizioni.
Per certo è, secondo la risposta che ha avuto prima il principe, che davanti una situazione di pericolo per il mezzo Efir scatta la necessità di protezione. Non appena sono stato avvertito ho cercato negli archivi e ciò che ne è uscito fuori è un vincolo che venne creato anni fa, lo si voleva utilizzare per legare delle creature dal sangue Efir alla famiglia reale in modo che fossero leali e pronte a proteggerla. Ma era troppo imprevedibile, come abbiamo visto, ha portato molto probabilmente il principe ad uccidere i suoi stessi soldati.»
Elyim appariva fuori di sé.
«Qualsiasi azione compiamo contro di lui, fino a che avrete il vincolo, avremo una vostra reazione.»
Dokor per un momento si chiese se non fosse tutta una burla.
Poteva percepire intorno a sé che gli occhi erano puntati su di lui, sui suoi muscoli tesi contro il suo volere, i suoi sensi in allerta.
Era pronto a colpire.
«Il rischio peggiore è la sua evoluzione, andando avanti non possiamo sapere che cosa succederà se uno dei due muore.» aggiunse Sidite.
Hurin si lisciò i capelli. «Quanto tempo ci vuole perché il vincolo evolva?»
Il mago scosse la testa, pensieroso. «Non possiamo saperlo. È molto intimo in sé oltre che potente. Certo una creatura di enorme potere potrebbe lanciarlo se avesse le giuste conoscenze…»
«Non guardate me! La sola idea di questo vincolo mi stomaca» commentò piccato Elyim.
«Ne avresti avuti i mezzi, avresti rimandato la tua esecuzione.» Insistette il mago.
Elyim scrollò la testa, sfinito. «Il mio tentativo di dare fuoco a tutto è proprio sfuggito, avrei di gran lunga preferito che le fiamme mi divorassero.»
Dokor sospirò. «Se questo vincolo è stato creato qui come potrebbe un Efir lanciarlo o conoscerlo?»
Sidite lo guardò «non è da escludere che lo conoscano, noi li studiamo ma questo tipo di magia parte da loro. Potrebbero aver avuto il modo di infiltrarsi e renderlo loro.»
Hurin guardò Elyim con malcelato interesse, mentre Sidite faceva un cenno verso le guardie «colpitelo di nuovo, Nohldir tieni fermo il principe.»
«Cosa? E’ davvero necessario?»
Le sue parole si persero nella stanza nel momento in cui le guardie colpirono nuovamente Elyim buttandolo a terra e facendolo tossire violentemente per il colpo subito, il sangue alla mano prese a uscire copiosamente dalla sua ferita.
Un ulteriore colpo si abbatté sulle sue costole facendolo rantolare.
Nel momento in cui Dokor fece per voltarsi, il fuoco gli esplose dentro e la sua mente divenne un buco nero di necessità, venne trattenuto e il suo impeto di muoversi in avanti venne bloccato bruscamente, delle mani lo afferrarono e trattennero con forza.
La sua mente si annebbiò del tutto, percepiva solo quella necessità, nel petto vibrava il bisogno di farsi avanti.
Doveva proteggere.
Sentì il suo sangue ribollire e mentre la sua sabbia iniziava a fremere contro la sua pelle improvvisamente iniziò a mancargli il respiro. Un dolore lancinante gli esplose in petto e lungo il costato, concentrandosi poi nel palmo della sua mano dove vide apparire l’aprirsi di una ferita.
Prima che potesse fermarli si strinse la mano verso il petto che gli scoppiava con un verso di sorpresa e tutti si voltarono verso di lui.
Elyim stesso lo osservò da terra a malapena cosciente, gli occhi rossi.
Le guardie si fermarono sotto ordine ed Elyim da terra prese a boccheggiare con avidità, tossendo e riprendendo aria.
Dokor tossì appena, in lui svanì quella sensazione ma rimase la necessità di intervenire.
Elyim venne preso e sollevato di forza, riusciva a reggersi solo per la presenza delle guardie.
Sidite si pronunciò «Temo che la sua esecuzione debba essere rimandata se teniamo all'incolumità del principe.»
Nohldir fece trascinare via Elyim che nonostante le sue condizioni tentò di camminare sulle sue gambe senza farsi trascinare a forza.
Nell'ultima occhiata che gli lanciò Dokor vi lesse una profonda furia repressa, quella di una bestia in gabbia.
Le porte si chiusero dietro di lui, portandosi via anche quella scintilla che aveva intravisto.
«Cosa vuol dire?» Hurin si fece avanti, lasciando la presa su di lui e allungando le mani per controllare la sua ferita alla mano, non era profonda, come se fosse riuscita ad aprirsi del tutto.
La morsa sul suo petto invece divenne un fastidioso e continuo pungolare.
«Ha reagito come se non potendo intervenire per proteggerlo stesse subendo le stesse conseguenze. Non possiamo affermare fin dove possa arrivare.» Il mago rispose per Sidite che nel frattempo si era avvicinata ad Hurin.
«Potrebbe ucciderlo?» La seconda domanda di suo fratello.
«Potrebbe. Per certo è solo che la morte del prigioniero avrebbe delle ripercussioni sul principe e non possiamo sapere di quale natura.» Il mago piegò la testa verso una delle librerie, prendendo a scaglionare i libri posti al di sopra. La sua mente era già nel mezzo dei suoi studi. «Concedendomi qualche giorno è possibile che riesca a trovare qualcosa.»
«Seguiremo gli studi con lei.»
Il mago si inchinò rispettosamente ad Hurin e Sidite, non potendo rifiutare. Dokor era decisamente sollevato, non sarebbe divenuto una cavia da esperimenti per i santuari dell’Heka.

***

Le strade della città erano ancora ricolme dei festeggiamenti per la fine dell’Afa e per la vittoria riportata in guerra mentre i calcinacci del palazzo di giustizia e i feriti si andavano mischiando ad essi, era stato catturato e gettato in cella un criminale, riusciva a intravedere i colori dei coriandoli mischiati tra la sabbia per le strade, l’odore delle piccole magie che avevano intrattenuto il popolo vibrava nell’aria mentre l’attivazione delle rune lungo i palazzi accendeva un richiamo bruciante in ognuno di loro e l’aria gioiosa tra i nobili erano andate sfumando in una nube di attenzione e sospetto.
Nessuno nella città media e nella città bassa conosceva la vera situazione che si era venuta a creare, o nessuno ne conosceva i precisi dettagli.
Dokor osservò il deserto oltre la città, una lontana distesa che andava a perdersi a vista d’occhio svanendo tra i forti venti, i crepacci, le rocce e le oasi, fino alla città successiva. Cominciava ad invidiare i mercanti con le loro carovane e i loro cammelli che si incamminavano in esso.
Quando fece per rientrare nel palazzo dai lussuriosi giardini il suo umore era un po' migliorato, erano due giorni che non si prendeva il tempo per osservare il deserto e mesi che non passeggiava con Caa’li tra le sue dune, aveva anche assunto un atteggiamento un po' sciocco con una ancella, le aveva sorriso nel tentativo di non pensare a nulla ma non aveva poi sentito la voglia di andare oltre, non era il caso di infilarsi in altre situazioni, era già in una situazione complicata di suo, se per sbaglio si fosse avvicinato alle ancelle di Niphine sarebbe stato complicato levarsele di torno, tendevano a volere subito qualcuno che le sposasse e desse loro un figlio.
Degne della Dea Aseis della maternità e dei raccolti che rendeva il corpo di Niphine, sua discendente, così prospero.
Quel briciolo di buon umore che era riuscito a recuperare gli scivolò via quando vide di fronte la porta del palazzo Nohldir. La sua faccia si inasprì per effetto naturale.
Tutta la situazione in cui era finito lo faceva sentire decisamente uno schifo, vedere quella faccia ingrugnita non era il massimo. Soprattutto se sul capo sfoggiava un elmo da generale.
Suo fratello non aveva ancora parlato con lui, non lo aveva ricevuto e non lo aveva fatto chiamare, ma aveva mantenuto invariate le decisioni prese.
Percepiva intorno a sé l’aria di tensione tipica di un campo di battaglia, l’elettricità sotto la sua pelle, i peli dritti delle braccia e gli sguardi furtivi tra i corridoi.
Le sue azioni al tribunale non erano passate inosservate per nessuno, il suo passato non era stato dimenticato ma la posizione che aveva raggiunto era riuscito ad oscurarlo.
Ora era come una rovina venuta fuori dalla sabbia.
Nohldir non aspettava altro, l’unica certezza che Dokor aveva con sé era la spada al suo fianco, il simbolo del suo comando delle truppe. Nessuno poteva muoversi troppo fino a che l’esercito rimaneva suo, benché temporaneamente.
Il suo caro cugino, almeno aveva capito fosse così, non aspettava altro, doveva essersi legato al dito quando aveva sventato un suo tentativo di vendita di creature Efir.
Il destino delle creature era quasi sempre atroce tra quelle terre, finivano schiavi, venivano strappati alla loro magia, comprati o venduti per il soddisfacimento dei piaceri dei nobili e della supremazia
che vantavano. Avevano stretto degli accordi con le loro Corti e benché si fossero ormai incrinati Dokor credeva fermamente che questi andassero preservati.

Gli umani lo facevano già di loro, senza che vi ci si mettesse un mezzo idiota di buona famiglia che credeva di averne il diritto in quanto il suo sangue gli aveva donato solo qualche muscolo in più, Dokor lo aveva sempre creduto un po' deforme in realtà.
«Che incontro fortuito, avete fatto fuori qualche altra guardia?»
Dokor fece una smorfia, le parole di Elyim gli tornarono all’orecchio: “Sei tanto grosso quanto intelligente?"
«Cosa ti porta qui?» domandò freddo.
Voleva raggiungere la sua vecchia casa lontano da lì, non ci tornava da tempo, l’aveva quasi dimenticata.
«Desolato di aver disturbato l’intrepido guerriero, ma avevo urgente bisogno di parlarvi.»
«Sono qui.»
Non gli avrebbe fatto vedere la strada che portava in una delle parti più intime del suo passato, in pochi la conoscevano, uno di loro sarebbe dovuto morire in quei giorni. Il silenzio divenne fastidioso ma Nohldir sembrava calmo, vestito elegante, il viso scoperto della maschera.
Gli zigomi alti e il naso prorompente, la mascella squadrata e le labbra sporgenti, la pelle liscia e l’aspetto giovanile che cozzava con le cicatrici, la dicevano lunga sui suoi metodi di combattimento, rappresentavano il suo modo di combattere.
«Sono qui per proporvi un accordo.»
Dokor si irrigidì. «Un accordo? E perché dovrei averne bisogno?»
«Non siete in una buona posizione, mio principe.» Quel tono formale sembrava molto una presa in giro. Nohldir si dipinse un falso sorriso sulle labbra. «Il nostro Re non vi ha ancora ricevuto, gli unici funerali che si sono svolti sono stati per i soldati dell’esercito. In mancanza di una soluzione, abbiamo guadagnato due traditori da giustiziare.»
Dokor strinse la mascella. La sabbia sotto i suoi piedi si mosse. «Attento a come parli, sono il tuo principe.»
«Mio principe non ho l’ardire di prendervi il vostro titolo nobiliare. Ma… prima che il vostro retaggio tornasse a noi l’esercito era il mio destino. Cedetemelo permanentemente, e io e il mio esercito voteremo contro la vostra condanna a morte.»
Dokor sbatté le palpebre e quasi inciampò sui suoi stessi piedi.
«Usi parole errate. Non ti ho ancora concesso nessun esercito, non nominarlo come tuo. Non necessito di nessun accordo, la votazione è già avvenuta.»
Nohldir sorrise mentre lo superava camminando, la sua voce roca gli graffiò i timpani. «La prima votazione certo, e hanno anche decretato che per ora siete innocente, ma tutti qui conosciamo i trascorsi che vi pesano sulle spalle. Non si sa ancora che cosa risulterà dagli studi dei maghi.»
Dokor sentiva pulsare dentro di sé la necessità di colpirlo, dritto sul naso.
«E in un'altra votazione perché l’intera città dovrebbe mettersi a rischio per un principe che ha difeso il traditore, che ha interrotto gli interrogatori e che lo ha protetto. Per non parlare delle azioni passate, niente come gli errori del presente fanno riemergere alla mente gli errori del passato.» Nohldir ghignò, a malapena riusciva a contenersi.
Dokor percepiva un fischio nelle orecchie oltre che una profonda acidità di stomaco, si inumidì le labbra e socchiuse gli occhi, trattenendo a stento la rabbia.
Le parole gli uscirono basse e ferali.
«Mi stai ricattando Nohldir?»
Nohldir sventolò una mano, «non fatela così tragica, tra di noi si chiama scambio di favori. Nessuno può toccare la vostra nomina da principe, vi scorre nelle vene. Ma non siete nato per essere a capo dell’esercito. Lo avrete comunque dalla vostra parte sotto il mio favore, un vantaggio per voi non credete? Non potete essere certo che voteranno per voi nelle condizioni attuali.
Alla fine non sto chiedendo molto.»
Dokor poteva solo immaginare che cosa avrebbe fatto Nohldir con l’esercito sotto il suo comando. Il deserto come ogni altra nazione doveva potersi difendere, attaccare le creature era lecito sotto la necessità di proteggere la pace.
Nohldir era dedito alla violenza e alla battaglia, il suo posto non era a capo di un esercito ma tra di esso. Dokor aveva portato l’esercito dorato del deserto a grandi e sanguinose battaglie, ma per quanto possibile aveva limitato lo scambio degli schiavi e il saccheggio nelle terre degli Efir.
Aveva le sue colpe, ma non avrebbe ceduto l’esercito a un essere tanto avido, non era solo una questione di potere.
Nohldir si lisciò la gonnella di lino. «Forse non vi è ancora chiara la vostra posizione precaria. Il popolo ha imparato a conoscervi e vi adora, anche l'esercito vi riconosce e tutti nel palazzo hanno imparato a temervi e rispettarvi, ma la possibilità di una guerra con le creature e l’odio per il traditore può sorvolare tutto questo. Avete bisogno di alleati e di stretti, ne contate davvero pochi.
Non dovete rispondermi subito, mio principe, siete libero di prendervi il tempo che necessitate finché ve ne sarà.»
Dokor lo superò senza nemmeno voltarsi, sentiva la profonda necessità di prendere a pugni qualcosa, per non rischiare di seguirlo e prendere a pugni lui, compromettendo ancor di più la sua condizione ribaltò nuovamente il tavolino nella sua stanza che le ancelle avevano sistemato la mattina, creando un frastuono fastidioso.
Sentiva di funzionare molto meglio su di un campo di battaglia che tra le insidie di quel palazzo, aveva imparato negli anni come muoversi ed era stato capace di arrivare fin dove si trovava, non poteva cedere in quel momento.
C’era ancora tanto che non conosceva e tanto che ancora doveva avere. Si mise seduto sul letto iniziando a cercare una soluzione.
Nohldir non era il primo che veniva da lui alla ricerca di un accordo in vista della futura votazione che sarebbe avvenuta per decidere il futuro di tutta quella situazione, Dokor sapeva che non avrebbe potuto partecipare in quanto la sua parola con il vincolo attivo non sarebbe stata tenuta di conto.
I sacerdoti si appellavano ad Amus, discendete del Dio messaggero, per poter estrapolare dei favori particolari dalla situazione, spingendo su di lui perché potesse fare pressioni sull’Heka e passare determinati privilegi nelle loro mani.
Endall era favorevole alla protezione della città e di tutti loro a qualsiasi costo, era tra i più tradizionalisti e non lo aveva mai tenuto molto di conto se non per le funzioni in cui era costretto.
Da quando Erix aveva preso a isolarsi tutti quelli che lo circondavano avevano creduto che la sua posizione potesse traballare, li aveva fatti ricredere ma con la comparsa di quel vincolo non si era mai sentito tanto instabile.
Sarebbe più facile se non avessi di mio i miei dubbi su tutta questa guerra.
C’era un’idea che continuava a sussurrargli all’orecchio in modo seducente, ma ascoltarla significava mettere a repentaglio tutto e commettere nello stesso tempo un terribile errore, e ciò la diceva lunga data la situazione in cui versava.
«Chiuso in questo palazzo non concluderò nulla...» sussurrò a se stesso, «decideranno loro per me.»
Era come essere tornato un semplice ragazzo per metà sangue regale senza la scelta di dove poteva vivere, di che cosa poteva fare e senza un'identità sua.
Aveva lottato per avere tutto ciò.
Elyim saprebbe muoversi tra queste mura. Le creature sono le più brave a questi giochi.
Mente fredda.
Cosa farebbe?
Dokor scosse la testa, non era certo l’idea migliore immedesimarsi in qualcuno che avrebbe potuto uccidere tutto il palazzo pur di non essere messo a morte segnato dal destino di un altro.
Ma era anche certo che, al di fuori della sua sete di sangue e rivoluzione, Elyim avrebbe valutato l'opportunità senza pensarci due volte.
Lui non avrebbe nulla da perdere.
Dokor si alzò in piedi, passandosi una mano tra i capelli e voltando gli occhi verso la città sotto di lui. Aveva troppo da perdere per rischiare.
Forse doveva concentrarsi su cosa ne avrebbe guadagnato.

 

 
ANGOLINO
Ecco qui.
Capitoli un po' lunghini :).
Spero che man mano i nomi dei personaggi secondari non causino confusione.

E niente ringrazio chiunque legga questi lunghi capitoli ^^.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3

-Elyim-

Elyim non si sentiva molto bene e non c'entrava solo la sua situazione fisica, per quanto odiasse ammettere a se stesso verità scomode, o meglio verità sul suo conto, doveva fare i conti con la situazione in cui si era cacciato.
Il suo piano non era stato un completo fallimento, ma doveva ammettere di aver sottovalutato le forze contro cui si sarebbe scontrato e le misure di sicurezza a cui era poi stato sottoposto, l'odio dei soldati se lo aspettava, ma non era pronto ad essere catturato proprio da Dokor, né tanto meno all'attivazione di quell’assurdo vincolo tra di loro.

«Cammina.»
La guardia tirò le catene legate intorno ai suoi polsi facendolo un poco sbilanciare in avanti, il ferro sfregò sulle sue ferite aperte ma non se ne preoccupò, il dolore non lo impensieriva.
Poche cose ci riuscivano a quel punto, una delle principali era quell'idiota di un principe frustrato e ossessionato.

Elyim non avrebbe mai ammesso a voce alta che Dokor era riuscito a sconfiggerlo davvero. Lo aveva preso per stanchezza e aveva continuato a colpire, erano arrivati entrambi al baratro dello sfinimento e per poco non erano morti. Elyim si sorprendeva ancora dell'essere vivo, non aveva avuto il coraggio di ucciderlo?
Tutti quegli anni di inseguimento e di odio solo per vederlo in catene e umiliarlo?
Non era una mossa da Dokor, sarebbe stata più la sua.

Mentre camminava per una direzione a lui ignota, una piccola dose di sconforto lo portò a sospirare. Le guardie carcerarie tra un calcio alle costole e una minaccia colorita lo avevano informato del rimando della sua esecuzione.
La morte sembrava evitarlo e tuttavia non poteva del tutto gioire, uscire da quella situazione sarebbe stato complicato e tornare nell’Arkadia non sarebbe stata una passeggiata.
Cercò di mettere a tacere i suoi pensieri per concentrarsi sul momento presente, se fosse riuscito a tenere lontano la corda dal suo collo in quel luogo, avrebbe poi pensato al resto.

Era ancora bendato ma aveva tenuto conto dei passi fatti e delle svolte prese, sapeva di essere ancora sotto terra, nelle celle.
Il terreno sotto di lui era irregolare, sassi di diverse grandezze gli ferivano i piedi nudi, la roccia sotto di loro doveva essere stata scavata da relativamente poco; i cunicoli che stava attraversando erano nuovi e poco frequentati.
Avrebbe potuto magari ricavarne qualcosa nel ricordarsi le svolte, soprattutto constatando che erano in salita, poteva solo significare che stavano salendo.

Quando la benda gli venne tolta da sopra gli occhi una porta in legno spesso era aperta davanti a lui.
Elyim venne spinto dentro e si guardò intorno. Una stanza adibita come una camera da letto si aprì dinanzi a lui, era abbastanza piccola, sicuramente il suo primo utilizzo non doveva essere stato quello per cui era sistemata. Le pareti erano ricoperte di velluto, due divanetti arredavano l'interno insieme a un mobile, il leggero vento che entrava da una finestra aperta muoveva tende color panna lasciando intravedere la presenza di un balcone.
Un dettaglio interessante che Elyim registrò.
Quasi ad occupare per la maggior parte dello spazio, sopra un morbido tappeto si trovava un letto a baldacchino, decisamente pacchiano ma dall'aria comoda, era quasi un mese che non vedeva un cuscino o un materasso vero. E tuttavia, la presenza del letto cominciò a fargli intuire qualcosa.

Nel mezzo delle lenzuola si trovava Treis, non appena notò il suo arrivo si sollevò in piedi posando il bicchiere di vino che aveva tra le mani e lasciando che la vestaglia rimanesse semi aperta.
Elyim lo aveva intravisto al processo, ma averlo davanti in una condizione così poco formale riuscì a infastidirlo, a maggior ragione notando l'occhiata languida che gli riservò.

«Ti stavo aspettando.»
«Davvero? Avreste potuto iniziare da solo.»
Gli si avvicinò velocemente, i capelli castani appena brizzolati, un accenno di barba e un corpo con cui gli anni erano stati clementi, anche se era sparita qualsiasi traccia del guerriero che era stato ora che sedeva nelle sfere dei mercanti, il suo status sociale gli aveva permesso di superare l'accademia senza mai entrare in guerra come ogni soldato.
Un inutile inetto oltre che un codardo.

I suoi occhi erano affamati e rabbiosi, Elyim sapeva da cosa era dovuto. Venne afferrato per i capelli e tirato verso di lui.
«Lo ricordi vero? Quello che mi hai fatto con quello sporco sangue di Jiin che ti ritrovi.»
Ancora non ha capito che il sangue di Jiin non c'entra nulla con me. Parla come un popolano ignorante.
Sapeva che se mai avesse messo piede nella capitale lo avrebbero fatto a pezzi, Treis era solo uno dei tanti da aggiungere alla lista.
Dovevano solo decidersi ad ucciderlo del tutto, perché la pietà che Dokor aveva mostrato nei suoi confronti, le umiliazioni che continuavano a riservargli picchiandolo e umiliandolo gliele avrebbe fatte pagare cento volte tanto.
La furia di un Efir, anche se solo per metà, non doveva mai essere sottovalutata, il loro orgoglio mai ferito, la loro crudeltà mai spinta a mostrarsi; erano lezioni basilari presenti all'accademia e nelle storie che tanto piaceva a loro raccontare, Elyim era certo che tutti le avessero apprese a livello teorico, sarebbe stato ben felice di mostrargliele dal vivo, se mai fosse sopravvissuto avrebbe raso al suolo quel fottuto posto.

Treis strinse di più la presa sui suoi capelli avvicinando il viso al suo. «Ti farò pentire della tua maledizione.»
Elyim abbassò un poco gli occhi, anche tramite la vestaglia poteva intravedere che tra le gambe del suo vecchio compagno di accademia qualcosa si era smosso dal suo torpore. Un sorriso di scherno si appropriò delle sue labbra.
«Non darti troppe arie era solo una piccola fattura. Mi sono assicurato che almeno qualcuno fosse felice nell'eventualità di un mio ritorno.»
Il viso di Treis si fece livido, il pugno allo stomaco che lo colpì lo fece piegare in avanti.
Avrebbe potuto stenderlo e ricambiare con facilità se solo non avesse passato due settimane in catene, picchiato e affamato, ed era certo di avere più di un osso rotto.

«Patirai ogni secondo di questa eventualità.»
Lo prese da sotto il mento costringendolo ad alzare il viso, mentre con l'altra mano strappò lo straccio che indossava come camicia, creando uno squarcio davanti al suo petto, nel tentativo di denudarlo.
«Ti sono mancato così tanto? Potevi almeno corteggiarmi prima.»
Sotto un cenno del capo di Treis le guardie lo afferrarono nuovamente da sotto le braccia trascinandolo verso il letto, era decisamente troppo esausto per opporre una vera resistenza.
Fu sbattuto su di esso di pancia e non ebbe nemmeno il tempo di sollevarsi sui gomiti che si sentì schiacciare dal corpo di quel maiale.

Le sue mani si posarono sulla sua schiena, mentre Elyim percepiva già qualcosa premere contro il suo sedere.
Percepì un sospiro di godimento dal suo improvviso compagno di avventure di letto, il disgusto si palesò sul suo volto ma non si mosse per levarselo di dosso, nonostante il suo peso lo stesse schiacciando a tal punto da sentirsi soffocare.
La costola rotta che gli avevano procurato lanciava fitte interminabili lungo tutto il suo corpo.

«Ho aspettato fin troppo. Dovrai arrivare ad implorare la morte che hai scampato.»
Elyim non si mosse mentre sentiva che anche la parte sotto dei pochi stracci che gli erano rimasti veniva abbassata.
Quella poteva essere un'opportunità, se lo avevano spostato in gran segreto non dovevano esserci molte guardie a controllare la porta e nessuno che sapesse dove cercare se mai fosse riuscito ad allontanarsi da lì, la finestra era aperta ma avrebbe dovuto accertarsi dell'altezza prima di valutare quella opzione, o qualsiasi altra.
Perciò se quel porco voleva accomodarsi ad usare il suo corpo glielo avrebbe lasciato fare.

In ogni caso si era preparato a quell'idea, ma non avrebbe mai pensato che il dopo avrebbe potuto offrirgli un'occasione del genere.
Dopo aver fatto i suoi comodi, Treis avrebbe certamente abbassato la guardia e quella sarebbe stata la sua occasione.
«Quindi riesce ancora ad indurirsi? Ricordo bene la filastrocca… in questi anni è stato come avere una lumaca tra le gambe?»
Treis si slacciò la vestaglia e di tutta risposta tirò i suoi capelli stretti tra le dita, facendogli piegare la testa all'indietro. Era certo che poche cose riuscissero a smuoverlo per davvero, eppure quando sentì quelle mani che iniziavano a toccarlo, le dita che si poggiavano tra le sue gambe, insistenti, aveva cominciato a desiderare di svenire, d'altronde per il suo possibile piano doveva essere pienamente cosciente solo per il dopo.
Non che sperasse che a quel miserabile bastasse usarlo come una bambola, era certo che lo volesse sveglio.
Represse un conato di vomito nel percepire la carne di quell'uomo farsi strada su di lui. Gli avrebbe tagliato le mani e magari non solo quelle, negli anni passati era stato troppo indulgente.
«Cos'è sei diventato frigido? Gli anni da puttana all'accademia ti hanno saziato troppo?»
«Mi lusinghi, è un lavoro troppo impegnativo per me non ho così larghe conoscenze. E con i tuoi anni di impotenza, temo che rimarremo entrambi delusi…»
Treis era famelico di quel contatto, Elyim glielo aveva negato anni fa, ora avrebbe potuto fare ciò che voleva. Era già sporco di suo, ma l'idea della sua saliva sulla sua pelle lo disgustò più di tutto il fango addosso.
Da fuori la porta, mentre stringeva i denti tra loro, percepì dei tonfi. I soldati che erano fuori dovevano aver fermato dei visitatori invadenti, sentì il loro respiro mozzarsi in un attimo, fu talmente veloce e impercettibile che l'uomo che gli era sopra non udì nulla, era decisamente troppo impegnato.
Elyim poteva anche essere stordito dai veleni che gli avevano mandato giù in gola e dall’assenza della sua magia ma i suoi sensi, nonostante tutto, difficilmente lo avrebbero tradito. Qualcosa stava succedendo poco distante da loro e fece giusto in tempo a pensarlo che le porte vennero aperte con un colpo.
Treis sobbalzò per sollevarsi di scatto con il corpo, rimanendo a cavalcioni su di lui.
«Ho dato chiari ordini di rimanere fuori!»
Elyim sollevò di poco il volto, tra le ciocche dei suoi capelli rossi scorse la figura che meno si sarebbe aspettato di vedere in quel momento. Dokor era in piedi dinanzi la porta sradicata, da dietro si potevano intravedere le guardie stese a terra.
Il peso sul suo corpo si fece più leggero, Treis si era sollevato e aveva indossato nuovamente la vestaglia per coprirsi, Elyim riuscì nuovamente a incanalare ossigeno nei suoi polmoni ma il dolore rimase.
Il volto di Dokor divenne rosso, non sapeva capire se per la rabbia o l'imbarazzo di ciò che si era trovato davanti.

«Che cosa ci fate qui mio… principe?»
«Che cosa sta succedendo.»
La sua ingenuità era davvero stupida, Elyim non era certo di riuscire a sostenerlo.
A maggior ragione ora che aveva mandato in fumo i suoi piani con quella sua stupida entrata in scena, riusciva quasi ad affermare che avrebbe preferito che quel inetto di Treis continuasse pur di non trovarsi in compagnia di Dokor, era riuscito nuovamente a mandare all'aria i suoi piani.

«Una rimpatriata notturna, ti unisci a noi?»
Dokor si voltò verso di lui che nel frattempo si era tirato su sui gomiti, senza la minima vergogna sul volto.
Si mise comodo mentre osservava Dokor afferrare Treis per il colletto e inveirgli contro, un colorito elogio di imprecazioni e farneticazioni sul rischio di portarlo lì di nascosto, sulla immoralità dello scomparsi un prigioniero e altre sviolinate che con un gemito di stanchezza Elyim non riuscì più a sopportare.
Si mise a sfregare i polsi tra loro con una smorfia, cercando di liberare le mani e farle passare tramite il ferro delle catene ma su questo erano stati particolarmente parsimoniosi, sembravano fatte su misura per lui, continuando così non faceva altro che procurarsi dolore ai polsi già gravemente scorticati.

I suoi occhi caddero sul resto della camera, alla ricerca di qualcosa che potesse tornargli utile di lì a poco.
Quando senti il corpo di un altro crollare a terra con un tonfo più rumoroso si voltò di scatto.
Il corpo di Treis era a terra, la vestaglia ridicolmente semi aperta. Elyim poté percepire sul suo corpo gli occhi scuri di Dokor, nonostante la sua aitante figura racchiusa in vestiti borghesi e raffinati, le orecchie erano leggermente rosse.
Nel momento in cui Elyim si sollevò dal letto il suo corpo si tese i muscoli si tirarono e la sua espressione ebbe una lieve esitazione, appena percettibile, dopodiché come se avesse preso coscienza della situazione, si espresse in una imprecazione.

Elyim sollevò un sopracciglio, scrocchiando il collo indolenzito, la posizione in cui era stato costretto era decisamente scomoda.
«Ci mancava un idiota come Treis. Che diavolo ci fai tu qui.»
«Stavamo aprendo i nostri cuori e ricordando i momenti passati. Vuoi approfittare del momento?»
L'insinuazione velata lo prese alla sprovvista e lo fece indignare.
«Credevo di non aver bisogno di certi stratagemmi io.»
Un punto per lui.
Elyim sorrise in modo mellifluo, nascondendo l'irritazione.
Senza abbassare mai lo sguardo da lui, con le mani spostò quel che rimaneva della sua camicia e mosse i polsi e le dita mentre si tirava in piedi e si spostava, Dokor non smise di osservarlo in volto. Come aveva fatto a trovarlo? Dubitava che Dokor c'entrasse qualcosa con quel suo spostamento e tutto ciò che comportava, era moralmente discutibile come persona ma aveva il suo onore su determinate questioni.
Un contrasto che Elyim si divertiva a soppesare, era sempre stato eccitato all'idea di vedere fin dove Dokor sapesse spingersi, tra l'immorale e morale, onore e dovere, le sue pulsioni e il doverle trattenere.

Soprattutto da quando era divenuto il principe e aveva riscoperto quello che affermava esserne il suo posto, la sua casa.
«Credevo che il caro Treis volesse un incontro intimo, come lo hai trovato?»
«Il vincolo.»
Il suo tono fu più grave di quello che si sarebbe aspettato e non aggiunse alcuna spiegazione in più. Elyim si prese qualche secondo in più per osservarlo; in quegli anni era cambiato, era sempre stato portato per la prestanza fisica, ma mai come in quegli anni il suo corpo si era sviluppato.
La sua presenza era opprimente, era alto, le spalle larghe e il fisico prestante di un soldato continuamente in movimento, soltanto i suoi lineamenti appena smorzati dal sangue degli Dei che si diceva scorresse nelle sue vene ingentilivano la sua espressione corrucciata, le sopracciglia nere e i capelli altrettanto scuri, più corti a differenza degli anni passati.

La pelle non più ramata ma resa più scura dalla forza del sole, il bracciale di sabbia intorno al polso, simbolo del suo antico retaggio.
«Sei in ritardo per la protezione della mia virtù o per atteggiarti a paladino dei prigionieri. Credo che molti altri avranno fatto delle piccole visite qui. Non mi sorprenderebbe sapere che ogni singolo membro dei piccoli consigli lo conoscano.»
Dokor si sporse verso di lui con il pugno stretto e l'espressione tesa.
Nonostante gli anni passati c'erano ancora alcune espressioni del suo viso che non era in grado di decifrare a pieno, dovevano essere stati gli anni di lontananza o il fatto che di lì a dieci anni fosse diventato un maestro nell'osservare solo le sue espressioni negative, stentava a ricordare come fosse stato prima, se mai gli avesse davvero rivolto un sorriso.

Erano stati alleati e nemici, preda e predatore, in quell'esatto momento era difficile comprendere quale sentimento li accomunasse al di fuori del vincolo.
Il che era abbastanza preoccupante, Elyim poteva affermare che avere un soldato pronto a proteggerlo dalla morte in qualsiasi momento poteva rivelarsi interessante in quell'occasione, ma non se proprio per ciò era in grado di rintracciarlo in qualsiasi momento e a maggior ragione se il soldato in questione portava il nome di Dokor.

«Quindi ora che hai salvato il mio culo cosa vuoi? Se ti aspetti un ringraziamento torna da dove sei apparso, non voglio stare ad ascoltarti.»
La tensione all'interno di quella stanza era palpabile, Elyim avrebbe potuto tagliarla con un coltello.
Il suo corpo era ferito e tremante per la stanchezza ma i muscoli sotto la sua pelle erano attivi, sentiva una flebile elettricità attraversarli, per un momento pensò di poter utilizzare la sua magia ma niente si smosse da dentro di lui.
Quel sentore rimase semplicemente assopito, gli appariva come un arto fantasma, tentava di muovere qualcosa che era temporaneamente sparito, che gli era stato strappato via.

Altre volte la avvertiva come una belva incatenata che si faceva sentire ma che non poteva agire, lontana da lui e dal suo controllo. Era più frustrante di qualsiasi tortura gli avessero inflitto in quei giorni. Quantomeno, il suo corpo era pronto a scattare.
L'energia del corpo di Dokor era più nervosa, si andava scontrando con la sua. Elyim era certo che una sola mossa da parte di uno dei due avrebbe fatto esplodere tutto.
«Chi altro?»
Elyim sollevò le sopracciglia, spostandosi per sedersi su una delle poltrone della stanza, i suoi passi furono lenti, come fu lento il movimento una volta stravaccato su una di quelle.
Era rossa e rivestita in pelle, gli si appiccicò alla pelle sudata e sporca, le settimane di prigionia non avevano giovato al suo aspetto e la secchiata d'acqua che gli avevano tirato era riuscita solo a renderlo bagnato.

Vide per un solo secondo gli occhi di Dokor socchiudersi.
«Stai calmo pudica ragazzina, oltre il mio ammiratore nessun altro si era ancora dichiarato con certi mezzi.»
Elyim sorvolò sulle minacce che aveva ricevuto riguardo il tema. In ogni caso Dokor non sembrava convinto, ma doveva avere pensieri molto più logoranti della sua virtù, aveva lasciato addirittura perdere l'insulto.
Elyim dal canto suo era enormemente infastidito da quella sua presa di posizione, lo compativa? O fingeva di non sapere che cosa sarebbe accaduto?
La sua altezzosità morale lo disgustava e faceva imbestialire, non si era fatto vedere nemmeno una volta durante gli interrogatori ma aveva l'ardire di esporsi in una entrata trionfale e chiedergli dei soprusi subiti dei quali era la principale causa scatenante.
E tutto nonostante Elyim sapesse cosa si nascondesse dietro quegli occhi limpidi e quei bei vestiti da bravo principino, osava mostrarsi come se fosse migliore di lui.
«Ora rispondi, cosa ci fai qui? Oltre atteggiarti nel tuo atto eroico.» Il corpo di Elyim era ancora attraversato da brividi ma la sua mente si allontanò da quel pensiero.
Stentava a credere del tutto che fosse il vincolo ad averlo spinto, insomma, un vincolo di sangue era attento a chi se lo portava a letto? Non era una situazione di pericolo di morte, Treis non aveva in mente di ucciderlo e scoparselo da cadavere.

Cominciava sinceramente a domandarsi con preoccupazione fino a dove il vincolo potesse spingersi o se si fosse già evoluto.
«Voglio trovare una soluzione a questo vincolo. Per ora la tua condanna è stata rimandata ma…»
«A chi ti sei raccomandato per questa clemenza? Al tuo caro fratello?»
Elyim notò un muscolo sulla guancia scattare, quantomeno era riuscito ad innervosirlo.
«Sarai infastidito anche tu da questo legame.»
«Io? Perché dovrei, un aitante principe arriva in mio soccorso ogni volta che sono in pericolo, non ho mai trovato così eccitante l'idea di cacciarmi nei guai. Sono estasiato all'idea della mia condanna a morte, cosa ti inventerai?»
Elyim si sistemò comodo sulla poltrona, i suoi muscoli massacrati si bearono di quella piccola clemenza. La nudità sotto gli occhi di Dokor non era un problema, non per lui almeno.
Non parlava di questioni interessanti con qualcuno da settimane e la presa di consapevolezza del potere che ora poteva esercitare su Dokor lo riempiva di una soddisfazione indescrivibile.

Non avrebbe mai permesso la sua condanna a morte o il vincolo lo avrebbe costretto a reagire e a quanto aveva compreso, più alto era il grado di pericolo a cui veniva esposto più gravi sarebbero state le sue mosse per poterlo salvare, con o senza la consapevolezza della sua coscienza.
Avrebbero potuto anche ripercuotersi su di lui. Qualunque fosse stato il modo, Dokor sarebbe stato marchiato come traditore, mettendo fine a tutte le trame che in quegli anni aveva mosso per rivendicare il suo diritto nella cerchia. O sarebbe morto da martire per il bene superiore. Almeno aveva ben due scelte a sua portata.

La sua posizione con la corte non era certa con tutti, molti continuavano ad andargli contro.
Con il fratello in quanto Re Elyim sapeva che si era rafforzata negli anni, ma lui sapeva anche quanto Erix sapesse essere falso e forse Dokor cominciava a sentire le spire di quella serpe farsi avanti.

Non doveva avere la certezza che avrebbero interceduto per lui per sempre, al contrario, qualcuno non aspettava altro che una sua mossa sbagliata per distruggerlo.
Dokor negli anni della sua ripresa di posizione era sempre stato troppo intelligente per dare loro l'occasione di metterlo in discussione, Elyim lo sapeva, aveva portato dalla sua parte l'esercito intero, guidava i soldati contro la guerra al popolo Efir e alle sue corti, il principe del deserto che tutto il popolo aveva visto in azione sul campo e che proteggeva la sua città. L'influenza di Dokor non era mai stata così potente come in quel momento e il vincolo rischiava di rovinargli ogni cosa.
Proprio ora che era all’apice se lo stava trascinando dietro.

Elyim era esaltato all'idea, non avrebbe nemmeno dovuto muovere un dito solo attendere e osservare come ogni cosa avrebbe preso a sgretolarsi tra le mani di Dokor e del Dekatum, forse riuscendo persino a rimanere in vita.
«Ti farò rinchiudere a vita nel buco più profondo del deserto.»
«Vorrei vederti provare. Tuttavia, temo che al tuo circolo di esaltati e al tuo amato Re potrebbe non bastare. E poi nessuno conosce bene il deserto come chi ne ha nel sangue la magia, idiota.»
Gli occhi di Dokor si fecero febbricitanti, gettò un'occhiata alla porta sradicata dietro di sé, prima di tornare a guardarlo.
«Motivo per cui devo liberarmi del vincolo prima che l’idea di ucciderti sorvoli anche la mia sicurezza.»
Qualcosa scattò nella testa di Elyim, un dubbio profondo che tenne dentro di sé.
«Ottimo, ma si dà il caso che a me non interessi dei tuoi problemi. Per di più se credi che io possa fare qualcosa a riguardo sei più idiota di quello che ricordavo. Non ho la mia magia e per ironia della sorte, questo è un vincolo creato da voi, non ho idea di come abbiate pasticciato con la magia.»
«Fa silenzio e ascolta.» Il suo tono era seccato mentre si passava una mano tra i capelli neri scompigliati, continuava a guardare il corpo di Treis a terra con evidente preoccupazione. Per sé stesso.
«È questa la tortura? Stare qui ad ascoltarti con quel tuo tono grave e vedere se non mi butto dalla finestra.»
«È difficile distinguere la verità dalla menzogna con te, perciò dimmi senza giri di parole, vuoi sciogliere o no questo vincolo?»
Elyim lo studiò per qualche secondo, lo sguardo concentrato.
«Dipende.»
Piegò la testa di un lato, osservando la giugulare sul suo collo che pompava sangue. Sollevò la mano prendendo la lampada posta al comodino di fianco a lui lanciandola contro la sua faccia.
Dokor la schivò abilmente, nonostante i suoi occhi avessero indugiato solo per un secondo sul suo inguine e su tutta la parte bassa del suo corpo, era stato in grado di rispondere grazie ai suoi riflessi e in poco se lo ritrovò contro.
Dokor si lanciò su di lui per bloccare qualsiasi sua mossa, Elyim evitò la sua presa, lo colpì al fianco con la gamba serrandola abbastanza forte intorno al suo fianco da fare peso, era troppo debole per contare solo sui suoi muscoli per poterlo sbilanciare, usò tutto il peso del suo corpo.
Per quanto anche di peso ne fosse rimasto poco Dokor si sbilanciò abbastanza da finire contro la poltrona, voltandosi immediatamente si ritrovò spinto all'indietro con la schiena contro di essa, ed Elyim per assicurarsi che almeno un po' rimanesse seduto e calmo, si mise seduto su di lui.

Le pupille di Dokor si allargarono, le iridi marroni furono inghiottite dal loro nero.
Elyim mosse lo stiletto che aveva nascosto tra le mani e lo poggiò sulla pelle bronzea di Dokor, era abbastanza piccolo ma ben affilato, quell'idiota di Treis aveva lasciato un'arma in giro mentre progettava di scoparselo. Non sapeva se ritenersi più offeso di come lo avesse sottovalutato e idealizzato come una povera vittima, o grato per la sua stupidità.
L'entrata in scena di Dokor gli aveva permesso di afferrarlo quando lo aveva individuato, ma tenerlo lontano dai suoi occhi era stato più complicato, aveva dovuto soppesare i suoi movimenti, le sue espressioni, mantenere il contatto visivo e fare in modo che la guardia di Dokor fosse più concentrata sui suoi passi che sul gioco accennato delle sue mani.
Quello che rimaneva della sua camicia aveva permesso il resto, nascondendo i palmi sotto di essa e la lama tra i polsi.

Tenere lo stiletto tra le mani legate era complicato, ancor di più lo era spingerlo sulla sua pelle. Dokor sollevò una mano con cui afferrò il suo polso.
Un verso di frustrazione sfuggì dalle labbra di Elyim.
«Che vincolo inutile è? Tu devi proteggermi ma io non posso ucciderti?»
Non era la resistenza di Dokor ad effettuare il massimo del blocco, era il suo stesso braccio ad essere bloccato, non riusciva ad avere il controllo sulla pressione da esercitare e odiava non sapere come imbrogliare un vincolo, in quanto mezzo Efir per lui non sarebbe dovuto essere difficile, ma quello era stato inventato dagli uomini, il che lo rendeva imprevedibile e sconosciuto più di quanto non fossero già di loro.
«Anche il mio sangue ti scorre dentro.»
«Cosa c’entra il sangue?»
«E’ possibile che sia stato attivato dal nostro sangue entrato in noi tramite… contatto.»
Elyim strinse le labbra, quella cosa non gli piaceva, i vincoli così intimi erano un problema.
«Non mi sono messo a leccarti le ferite o le armi con cui te le ho procurate.»
«Pochi giorni fa.»
Elyim socchiuse gli occhi, nella sua bocca poteva ancora sentire il sapore del sangue che aveva inondato la sua bocca dopo i pestaggi ricevuti e non aveva mai avuto altro sangue sulle sue labbra, se non poche settimane fa.
Mentre lo baciava Dokor aveva il labbro spaccato, doveva essere quella l'occasione.

Lo aveva fatto per prendersi gioco di lui, per ridicolizzarlo, per ridere di lui. E se ne era pentito pochi secondi dopo, non era riuscito a ridere con soddisfazione, solo con una muta rassegnazione che aveva investito il suo essere.
Un odio ceco investì il suo essere, voleva solo premere quella maledetta lama e liberarsi. Aveva lottato per anni, contro sé stesso e contro la gabbia in cui volevano rinchiuderlo, credeva nella causa mossa dall'alleanza ma credeva anche in sé stesso, nel suo orgoglio, nella sua battaglia.
«Hai finito ora? Hai fatto il tuo piccolo esperimento.»
«Posso sempre farti uccidere.»
«Provaci.»
L'idea lo allettava e non era del tutto impossibile da mettere in atto, ma si sarebbe rivelata una vera scocciatura, per dì più non aveva idea di come un'azione del genere si sarebbe rivoltata contro di lui. Non poteva agire incautamente con quel vincolo tra di loro, non se teneva alla sua vita.
Doveva dargliela vinta, ed era già la seconda volta. Gli occhi di Dokor rimasero su di lui, l'ondata omicida che aveva percepito poco prima era scemata piano, alleggerendo anche la morsa che bloccava il suo braccio.
Poggiò nuovamente la lama sul suo collo, sollevandogli un poco il mento, questa volta non ci fu opposizione da parte del vincolo.

«Occhi su, so che ti piace il mio corpo ma ti voglio concentrato.»
«Come se la posizione assunta non fosse di tuo gradimento.»
La mano di Dokor si strinse sul suo fianco, era calda a contatto con la sua pelle.
Era certo che il disgusto sarebbe stato il primo a manifestarsi, seguito dal desiderio di allontanarsi.
Si era nuovamente sbagliato, per di più Dokor sembrava essere meno pudico e imbarazzato di quando erano ragazzini, Elyim odiò ammettere a se stesso la sorpresa di quella scoperta, mentre nel suo corpo il sangue ribolliva rimase immobile mantenendo la sua posizione, non avrebbe ammesso un'ulteriore sconfitta.

«Nessuno nel consiglio o nel Dekatum mi darà il consenso, motivo per cui non lo chiederò. Tu verrai con me.»
«Dove di grazia?» Elyim si ritenne sorpreso, ma anche alquanto divertito da quella imposizione convinta.
«Un Jiin mi deve un favore, mi diede la sua posizione. Al limitare del mare di polvere nel deserto di roccia. Nessuno sa nulla sui vincoli e nessuno potrebbe aiutarci davvero, è magia antica e la combatteremo con la stessa magia. Solo Cal… solo il membro di spicco della famiglia Dreimeirt sarebbe stato in grado di scioglierlo.»
Decise di rimanere sordo a quell’ultima affermazione.
Elyim assimilò le informazioni e le mise da parte, concentrandosi poi sull'altra parte del discorso, che ci mise qualche secondo in più ad elaborare.
Lo guardò cercando di capire il livello di serietà con cui parlava, conosceva bene le espressioni negative di Dokor tanto da capire se ciò che dichiarava fosse verità o una mera provocazione, e quello era il caso di espressione negativa.

Anche se stentava ad ammetterlo avevano passato troppo tempo insieme e una buona metà era stata volta a un inseguimento continuo, la complessità di ciò che si portavano tra loro abbassava le sue capacità di interpretazione.
Poteva rincuorarsi pensando che anche per lui doveva essere lo stesso.

«Sei serio quindi? Vuoi attuare un piano di fuga.» Non riuscì a trattenere una nota di sorpresa.
Dokor socchiuse gli occhi «Non è esattamente così che immaginavo finissero questi sette anni, ma non ho altre alternative. O meglio, tra le molte, è l'unica che mi lascia una possibilità.»
«Devo farti presente che anche questo è tradimento. Ti guadagnerai un posto diretto al mio fianco sul patibolo.»
Intravide un accenno di stanchezza nei suoi occhi, la sua presa era debole sul suo braccio, rappresentava più una presa di posizione nel volerlo tenere lontano.
«Non ti deve interessare, penserò io al resto.»
Elyim avvicinò il suo viso a Dokor, le sue ciocche rosse e umide si confusero con quelle nere, gocciolando.
Da così vicino poté sentire il suo odore, era forte, ma poteva percepire il sentore selvaggio del retaggio antico che lo caratterizzava.

«E io che ci guadagno?»
«La libertà da una seccatura?»
Elyim sorrise divertito. «La stessa che nonostante tutto mi tiene in vita? Puoi fingere di non essere così stupido per un attimo? Credi che mi farò questa passeggiata con te e dopo tornerò qui in cella ad attendere la morte?»
«Puoi biasimare solo te stesso per questo.»
La rabbia di Elyim tornò ad esplodere come un vulcano, non avere la magia per incanalarla era un dolore fisico e psichico, non poteva sfogarsi con essa.
Lo avrebbe ridotto in cenere in pochi secondi se solo avesse potuto. E non poteva ucciderlo con quel pugnale, dentro di sé percepiva una forza frenante e soffocante, gli opprimeva gli organi e la coscienza, mentre i suoi occhi si iniettavano di sangue per la furia.

«Adesso la morale è davvero l'ultima cosa che ti puoi permettere di esprimermi. Che ti piaccia o meno la tua scelta ti porta ad essere un traditore tanto quanto me.»
Non gli importava cosa gli altri pensassero di lui, tutto il regno poteva chiamarlo come meglio desiderava, la sua furia non si concentrava sui singoli in particolare ma contro il sistema corrotto di cui per un periodo era riuscito a far parte, l'ipocrisia degli uomini che pregavano e idolatravano semidei che si crogiolavano nella certezza del diritto a un potere maggiore.
Non avevano ancora aperto gli occhi, non avevano ancora visto il covo di serpi nel quale stavano annegando, non conoscevano la realtà del pericolo. Elyim ne conosceva alcuni, di cui negli anni era riuscito a mantenere una flebile stima ma nessuno aveva provato a disegnare un quadro generale.
Si erano fermati a una guerra che continuava a logorare le loro terre.

Ma per Dokor il discorso cambiava, lo odiava per il suo tradimento ma non si era mai sporto per capirlo e d'altro canto Elyim non glielo aveva mai spiegato, Dokor aveva tutte le carte e le capacità per arrivarci da solo, tanto meno si era mai nascosto a lui per ciò che era, non abbastanza da sorprenderlo nelle sue scelte. In questo lo aveva sopravvalutato.
Gli aveva portato via due persone a lui care, che amava. C’era troppo sangue amaro perché potesse mettersi lì a cercare di spiegargli tutto.
Non raccolse l'offesa, sembrò evitare del tutto il discorso. Elyim poté però leggere nei suoi occhi una nota inquieta, troppo veloce perché riuscisse a capirne la provenienza.
«Bene, saremo due traditori. Sei più contento ora che l'ho ammesso?»
«Abbastanza» qualcosa in tutta quella situazione gli stava sfuggendo, ma allo stesso tempo, era un'ottima opportunità. «Voglio la mia parte, non lo sai? In un patto c'è sempre un'altra parte da soddisfare.»
«Cosa?»
La mano di Dokor non lasciava la presa sul suo corpo. Elyim sapeva che il coltello era inutile in quel momento, ma gli sembrava impossibile lasciarlo.
«Evitare il patibolo.»
«Sei tu ad aver detto: "va a farti fottere e porta la tua pietà lontano da qui".»
Elyim sospirò, allontanandosi con il busto da lui. «Mi hai dato nuove prospettive.»
Posso cogliere un’occasione. Mi sta aspettando al limitare del deserto.
«Al ritorno prenderò nuovamente le redini dell'esercito intero e avrò ancora la fiducia del Dekatum che non potrà essere messa in discussione, sono sempre il loro principe. Potrò sicuramente fare qualcosa. Potrei tenerti in vita nelle carceri, troverò un altro modo di farti scontare le tue pene.»
Elyim si alzò in piedi, ma prima di poterlo fare Dokor afferrò il suo polso e strinse. I suoi occhi si posarono sul pugnale. Elyim lo lasciò cadere a terra con un tonfo, in quel momento era del tutto inutile. Cosa credeva? Non avevano appena appurato che non poteva sgozzarlo? Per di più stava contrattando per la sua vita, non si sarebbe certamente sgozzato da solo.
Non sapendo che così lo avrebbe liberato di un peso.

«Così che possano sospettare di te dopo?»
Finalmente riuscì a leggere quella piccola scintilla che gli sfuggiva all'inizio, seppur Dokor non rispose direttamente, Elyim riuscì a leggere sul suo volto ciò che stava per dire: “Tutti sospettano di tutti.”
Decise di mollare l’osso solo per quel momento.
«Mi dovrei fidare e basta?»
«Hai altre prospettive?»
Elyim liberò il polso dalla sua presa per poi liberarsi degli stracci che portava come camicia. Avrebbe voluto poter fare lo stesso con le sue catene. Portò lo sguardo su Treis steso a terra e si accovacciò davanti a lui.
«Tu sei troppo ottimista, ti uccideranno non appena rimetterai piede nel tuo lussuoso palazzo.» Mentre parlava prese a tirare la vestaglia dal corpo di Treis, facendolo girare di lato man mano che cercava di sfilargliela dal corpo.
«Il Dekatum non è così cruento nella condanna a morte…»
«No, voi fare le grandi scenate dentro un ulteriore palazzo lussuoso, mentre nei sotterranei ci eviscerate e strappate la magia» bisbigliò Elyim, non era sicuro se Dokor lo avesse sentito o meno, ma non era importante, in quel momento l'unica cosa che voleva era riuscire ad accaparrarsi quella maledetta vestaglia, persino da svenuto Treis sembrava opporre resistenza, aveva mosso appena le palpebre.
«Non oseranno tanto, il popolo è diviso dalla guerra, ci sono disordini dilaganti e la mia posizione è ben solida nelle loro menti e nell'esercito, un loro atto nei miei confronti e potrei portarmi via metà della loro potenza militare, dei loro segreti e del sangue che vantiamo nelle vene» nelle sue parole non era presente alcuna nota di vanto, era una mera osservazione oggettiva, concepita da una mente fredda in grado di razionalizzare le sue possibilità e le sue prospettive.
Elyim poteva essere certo che la scelta dell'evasione doveva averla valutata al massimo delle sue possibilità, certamente non era una decisione presa d'impulso, nonostante non avesse molte prospettive positive.
«Il Re ha fatto della tua cattura un vanto e un esempio per l’Arcadia, nel momento in cui sparirai non andranno a dirlo in giro. La situazione è precaria da anni, la città diverrebbe un bersaglio di debolezza se dovesse mandare una legione a cercarti, si mostrerebbe debole.»
Elyim prese la vestaglia, osservandola per un momento. Il tessuto sotto le sue dita era soffice e decisamente raffinato.
«Ma certo, quale circolo di esaltati cattura il proprio nemico e poi lo perde dal proprio carcere. Dei veri zimbelli.»
Dokor annuì con un cenno, l'espressione seria, mentre lo osservava incuriosito da ciò che stava facendo.
Elyim semplicemente ricambiò il suo sguardo sollevandosi in piedi con la vestaglia tra le mani, Treis sotto di lui aveva preso a muoversi e a mugugnare. La sua nudità mentre era steso a terra era davvero patetica.

Elyim si spostò una ciocca da davanti il viso, osservando le catene.
«Io sono colui che ti ha catturato una volta. Sarò l'unico che potrà farlo di nuovo, motivo per cui sarò anche il primo che manderanno, anche per la loro sicurezza.»
Elyim soppesò le sue parole, effettivamente cominciava quasi a pensare che potesse avere ragione.
«Tu si che sai come essere fedele. E Smetti di girare il dito nella piaga. Cosa ti fa credere che ti manderanno?» Ogni singolo secondo di prigionia glielo avrebbe fatto pagare il doppio.
L'occhiataccia che Dokor gli rivolse fu più che eloquente: «In quel caso mi offrirò io stesso. Lo faremo stanotte, non possiamo aspettare di più. Senza volerlo Treis ci ha portato l'occasione perfetta. Ti porterò nella mia casa fuori di qui, dopodiché contatterò il Dekatum. Mi manderanno a cercarti nuovamente e terranno il tutto segreto il più a lungo possibile, né le stampe né altri sapranno nulla. E solo dopo ciò ci allontaneremo dalla città fino al confine.»
Aveva parlato con l'efficienza rigorosa di un comandante. Elyim doveva a malincuore ammettere di essere stupito e stava decisamente succedendo fin troppo spesso mentre era in sua compagnia, gli era sempre costato ammettere che Dokor non era un completo stupido, solo la maggior parte delle volte.
«Sospetteranno di te.»
«Ovviamente, ma sono l'unico legato con un vincolo a te capace quindi di trovarti, per di più hanno speso belle parole nel rimandare la condanna il più possibile per una soluzione, avrebbe avuto senso farlo prima, accusarmi non gli gioverebbe ora. Sono colui che rischia di più nel sbagliare le sue mosse, ma non sono l'unico. Il Dekatum ha da perdere e il Re stesso ne ha. C'è troppo in ballo e il rischio è troppo alto per iniziare una guerra interna ora. Il sospetto cadrà su qualche nobile, sanno che hai degli alleati.» Si sollevò tirandosi in piedi e calciando via lo stiletto. «Manderanno certamente qualcuno sulle mie tracce, ma noi agiremo più velocemente.»
Mosse la testa annuendo, alla stregua di un professore con il suo alunno. «Hai pensato a tutto, ti sfugge solo un particolare, io non tornerò in cella e sai anche tu che farò di tutto per non tornarci.»
Dokor si avvicinò. «Ci tornerai invece, ma se vuoi provare, scappa. Sono certo che approfondendo il nostro legame troverò sempre il modo di ritrovarti.»
Elyim lascio uscire un verso di irritazione. Malgrado tutto, i fatti restavano invariati: lì dentro era solo carne pronta per una fune intorno al collo nella piazza pubblica. Tanto valeva tentare di giocarsela.
Si avvicinò a sua volta, allungando le mani incatenate. «Abbiamo un accordo allora.» commentò con un sorriso soddisfatto. Dokor guardò la mano come se potesse morderlo, sollevando gli occhi su di lui socchiudendoli appena.
«Se farai qualcosa di sospetto, agirò. Non posso ucciderti, ma posso fare molto altro per tenerti buono.»
Elyim lo avvicinò a sé con uno strattone, era difficile spostarlo data la sua stazza ma riuscì comunque nel suo intento, portando le mani legate dietro il suo collo e le labbra vicine al suo orecchio.
«Vorrei tanto vedere quali sono queste altre cose.»
Dokor si liberò velocemente, ma nonostante tutto Elyim colse un lieve rossore alle orecchie, difficile a dirsi quale emozione l'avesse scatenato.
Metterlo in imbarazzo era sempre stato per lui fonte di divertimento, anche solo per vedere che cosa ne scaturisse dopo, il carattere di Dokor, almeno da ragazzo, andava solo scaldato un po' per far fuoriuscire tutta la lava che conteneva. Elyim era divenuto un maestro in ciò. E nonostante quei cambiamenti, poteva portare con sé quella piccola vittoria.

Elyim allungò le mani verso di lui, con un cenno indicò le catene. Dokor lo osservò eloquente, decisamente diffidente.
«Andiamo. Voglio solo mettermi questa addosso, credo di essere abbastanza visibile.»
«L'idea è che nessuno ti veda uscire.»
«Allora potrei prendere freddo o essere infastidito dalle tue occhiate, perché credi che con la lampada abbia mirato alla tua faccia? Non puoi mica guardare dove vuoi.» Il suo tono piccato e infantile dovette infastidire Dokor, che con un verso esasperato e un rossore ancora lievemente accennato, gli sistemò la vestaglia sul corpo sistemandola al meglio per non farla cadere, almeno per il tragitto che li aspettava.
Subito dopo Dokor strinse la piccola catena che le teneva unite nella mano, non poteva riportarlo in cella in quel momento o la possibilità si sarebbe sfumata e tutto si sarebbe complicato, così se lo trascinò dietro verso il piccolo balcone della stanza, chiudendo prima le tende e poi le finestre.
L'aria fredda fece rabbrividire Elyim, che tuttavia comprese le intenzioni di Dokor.

«Vuoi usare la magia?»
Dokor ci mise qualche secondo per rispondere, come se fosse incerto.
«Sarebbe la cosa più facile. Ma non è una buona idea...Zydite, Sidite o altri potrebbero percepirla.»
Elyim sbuffò. Dokor voltò appena il viso verso di lui, l'unica parte che poteva vedere conteneva un occhio completamente nero. Sembrava incerto. Elyim si passò una mano sul viso, in un gesto di estremo stress «Stai scherzando? Escogiti un piano che quasi sembra sensato e poi fai cilecca alla prima mossa? La tua idea era la magia e non ne hai una di riserva?»
Dokor incrociò le braccia al petto, i capelli neri scompigliati dal vento. «Se non fosse per me saresti a far compagnia a Treis.»
«Già, e nonostante la mancanza di corteggiamento poteva quasi incuriosirmi, magari mi hai fatto perdere una serata interessante per un piano fallito dall'inizio. Avrei fatto di meglio da solo.»
«Tanto meglio che tra i due quello in catene sei tu.»
Elyim dovette chiudere la bocca e far tacere la sua rabbia.
Continuava a rivoltargli contro la sua perdita sul campo di battaglia, ma ogni pungolata sull'argomento era un motivo in più per fargliela pagare quando avesse rivoltato le loro situazioni.

«Te la sei presa tanto? Non è colpa mia se i tuoi piani sono un fallimento, hai una bella parlantina ma per il resto» Elyim Scosse la testa, «non potevi essere diventato intelligente tutto insieme.»
Dokor lo ignorò con una smorfia, rientrando nella stanza con a seguito Elyim che lo osservava tra il divertito e lo spazientito, odiava dover ammettere a se stesso che in quel caso era complicato anche per lui trovare un modo per uscirne, non aveva modo di liberarsi dalle catene se avesse voluto provare ad arrampicarsi e in ogni caso si era osservato intorno mentre erano fuori e da quel balcone le possibilità di salita o discesa erano davvero limitate.
Dokor prese a tastare la parete vicino il letto, era nuda e senza troppi ornamenti, con solo qualche geroglifico inciso o dipinto abbastanza freschi da mantenere la loro energia.
«Se è una stanza che deve rimanere segreta ai più dubito che usino i corridoi classici del palazzo» mentre parlava Dokor si era mosso, con una pressione maggiore spinse sul una piccola parte del muro indicata da un geroglifico di un dio alato dalla testa di uccello con in mano un bastone, poteva sembrare essere messo lì a caso ma non appena fece più pressione una piccola porta si aprì.
Elyim la osservò, non era particolarmente ingegnosa come piaceva a loro, un buco grezzo nel muro adoperato come porta, pesante da spostare e che sotto la pressione del corpo di Dokor per aprirla rilasciò diversa polvere.

«Bene, forse non siamo del tutto spacciati» vide Dokor fare un respiro profondo. Oltre la porta si apriva un corridoio abbastanza largo e illuminato da poche fiaccole a gas sparse lungo il suo tragitto. Dokor prese la sua catena tra le mani ed Elyim lo seguì al suo interno, le pareti erano soffocanti e l’aria era pesante, non gli fu facile respirare data già la sua difficoltà a causa dei giorni di prigionia.
Strinse le palpebre mentre la porta si richiudeva dietro di loro, in poco tempo si abituò alla semi oscurità e si chiese quanto stupidi potessero essere in quel palazzo da sopportare un corridoio del genere solo per scoparsi dei prigionieri senza farlo sapere a nessuno, come se le pratiche controverse interne a quel palazzo non fossero già conosciute.

***

Quando si ritrovarono all’interno della stanza di Dokor Elyim non aveva mai smesso di contare i passo e le svolte che avevano compiuto.
Si erano più volte ritrovati in vicoli ciechi ed erano dovuti passare dagli alloggi allestiti per la presenza di Treis per poi riuscire a raggiungere la stanza tramite ulteriori passaggi nascosti tra le pareti che permettevano agli abitanti del palazzo di spostarsi nelle camere dei propri amanti, alle ancelle e ai servitori di muoversi in maniera più discreta e che solo chi viveva al suo interno conosceva.
Dokor si era preso la briga di bendarlo lungo il tragitto e quando la stanza illuminata dalle fiaccole a gas riempì la sua vista Elyim fu grato che la luce fosse così soffusa.

«Quasi decente, ti sei perso un paio di volte? Ad un certo punto siamo tornati indietro.»
«Fa silenzio, siamo arrivati dove dovevamo.»
Elyim si guardò intorno. «Piano con i toni, siamo traditori uniti ora.»
«Siamo alleati.» ribadì Dokor a labbra strette.
«E io che ho detto? E poi devi lasciarti prendere in giro senza lamentarti dato che dovremmo essere già fuori e invece...»
La sua camera era semplice ma degna di un principe, nulla di più di un letto dall'aria comoda, le lenzuola chiare e pulite, mobili in legno scuro con qualche vaso di fiori morti sopra, di sicuro non erano un’idea di Dokor; una poltrona e un tavolino nel mezzo, un armadio per i vestiti e un soffice tappeto sotto i suoi piedi che gli diede un immediato sollievo. Ancora più sollevato fu nel vedere la porta che dava sul bagno privato.
Era coperto di fango, piscio e sputo e l'idea di un bagno caldo quasi lo fece gemere di piacere.

«Io alloggio qui da giorni, perciò è più sensato che io sia qui e non in uno dei miei appartamenti in città. Risulterebbe più sospetto se facessi avanti e indietro, in teoria è la scelta più logica è partire da qui.»
«In pratica ti stai arrampicando sugli specchi ma va bene. Sei tu a doverci far fuggire anche se siamo spacciati, non mi do per vinto, devi proteggermi giusto? Io aspetterò con tranquillità.»
«Bene, aspetta in silenzio.»
Dokor si passò una mano tra i capelli, con la chiara intenzione di bloccare il prurito che doveva essergli preso.
Elyim dal canto suo per ora gli aveva dato abbastanza fastidio, cominciava ad annoiarsi anche lui e se il piano fosse fallito prima ancora di iniziare davvero quantomeno si sarebbe concesso un piccolo premio per aver tentato.

Sotto lo sguardo guardingo di Dokor si diresse verso il bagno. Una vasca di bronzo con i piedini che la sostenevano in ottone era posizionata di un lato, con accanto un banchetto con sopra sapone e lembi di spugna bianchi e puliti per asciugarsi, la sola vista gli fece illuminare gli occhi.
Il pavimento in mattonelle bianche con piccole strisce in oro era freddo, il lavabo con il rubinetto in bronzo e marmo. Lo sfoggio della ricchezza.
Elyim si strappò di dosso la vestaglia con poco interesse e apri l'acqua calda, il vapore prese ad uscire velocemente e la vasca si riempì mentre si levava di dosso quello che poteva.
«Che stai facendo?»
Dokor si avvicinò, rimanendo sul limitare della porta. I suoi occhi nuovamente si fermarono sul suo corpo. Elyim era magro, la sua pelle era cosparsa di lividi, ogni volta che si guardava ne vedeva sbocciare uno nuovo.
Era sporco, ovunque, i suoi capelli lerci cadevano in ciocche scomposte lungo la sua schiena. E nonostante il suo aspetto pietoso, Dokor continuava ad osservarlo con malcelato desiderio, se poi si trattasse di quello di prenderlo anche lui a pugni non poteva saperlo.

«Ancora che guardi? Preferisci un banchetto sui denti di una lampada in faccia?»
Elyim lasciò cadere la saponetta nell'acqua con la mano, per poi riafferrarla tra le dita. Le catene erano fastidiose ma non gli avrebbero impedito di godersi il suo piccolo premio.
«Sei diventato pudico? Beh non preoccuparti per questo, sto solo controllando.»
«Che cosa? Che non mi affoghi?» Elyim strinse le dita intorno alla saponetta, prendendo a passarsela lungo il corpo mentre scavalcava la vasca ed entrava con le gambe nell'acqua, un sospiro lasciò le sua labbra mentre con la mano si passava la saponetta sulla pelle.
«Vedi di sbrigarti.»
Elyim si immerse nell'acqua calda, i suoi muscoli si rilassarono immediatamente, la stanchezza gli pesava addosso come un macigno, non era mai rimasto per troppo tempo ferito, la magia era in grado di guarirlo velocemente, aveva quasi dimenticato l'uso di garze e fasce in quegli anni.
Si immerse con la testa sotto l'acqua, per poi poggiarsi con la schiena all'indietro.
«Devi parlare con il tuo circolo e il Re no? Metti in atto la tua messinscena.»
«Non ti lascerò libero per la mia camera.»
Elyim dovette accettare che non avrebbe avuto alcuna privacy e nessun momento di relax, sospirando si finì di levare di dosso lo sporco più incrostato, le sue ciocche da marroncine tornarono al loro rosso naturale, l'acqua si scurì ed Elyim si sentì decisamente meglio.
«Hai almeno due stracci da portarmi o vuoi che vada in giro nudo?»
Dokor gli recuperò un paio di pantaloni lunghi neri e un maglia di lana che sul suo corpo era decisamente troppo grande, ma quantomeno lo avrebbe tenuto al caldo.
Guardo Dokor sollevando nuovamente le mani verso di lui con un cenno eloquente, Dokor lo osservò per un lungo momento per poi recuperare il necessario per levargliele senza possedere e chiavi, le lasciò cadere a terra con un clangore metallico.
Finalmente sparite osservò i suoi polsi rossi e feriti.

Elyim sciolse più volte le spalle e le braccia con un sospiro, spostandosi nella camera da letto.
«Avvicinati al letto.»
Elyim sfoderò un ghigno divertito, facendo evidentemente saltare le ultime briciole di pazienza che Dokor era stato in grado di mantenere.
«Mi piace questo lato autoritario. Peccato per la performance poco convincente di prima.»
Elyim si avvicinò al letto, quando Dokor lo raggiunse legò le sue mani con una corda spessa intorno alla colonna che teneva in piedi il baldacchino e strinse le corde nuovamente intorno ai suoi polsi.
La corda troppo stretta gli mordeva nuovamente lembi di pelle già feriti. Per poco era stato sul punto di dirgli di allentarle, ma l'unica cosa che era riuscito a proferire fu un insulto, il che non era gratuito… non sapeva nemmeno stringere una corda in modo adeguato senza fargli rischiare l'amputazione?
Per di più la posizione in cui lo aveva legato non era molto comoda, quasi quasi stava meglio nella sua cella.

Osservò nuovamente le dita di Dokor passare sulle corde, doveva aver constatato che aveva stretto troppo ma non aveva tempo di preoccuparsene, mentre Elyim aveva tutto il tempo che voleva per divertirsi almeno un po'.
«Quindi ora vengo a conoscenza dei tuoi veri gusti, vederlo da me è davvero un'esperienza unica.»
La fulminata che gli rivolse Dokor fu abbastanza eloquente, si leggeva tutto l'astio che stava trattenendo.
«Maledetti siano gli antichi, non sai stare in silenzio dieci minuti?»
Elyim si lasciò uscire un verso di disappunto a quella imprecazione ma Dokor non parve curarsene, prese un lembo di qualcosa per farne il bavaglio che gli piazzò in bocca, fermando il flusso di insulti a cui Elyim si era lasciato andare prima di essere zittito.
Nella sua mente la lista delle azioni da fargli pagare si allungava senza vergogna e non era nemmeno certo che per ognuna vi fosse una punizione precisa, forse si sarebbe accontentato di vedere il suo cadavere una volta sistemata quella situazione.
Ma non si poteva dire non interessato, era curioso di sapere come avrebbe convinto il consiglio e il Re, come li avrebbe tirati fuori da quella situazione.

Sono sicuro che sarà interessante.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


 

CAPITOLO 4

-Dokor-

Dokor uscì da quella stanza chiudendo la porta alle sue spalle con un sospiro di sfinimento, in tutti i possibili scenari che si era creato non aveva certo idea di ritrovarsi in una situazione del genere.
Nella sua testa le maledizioni agli antichi Dei erano un vortice infinito e fitto, sapeva che non doveva essere il caso se sperava in una loro benedizione nel piano che aveva pensato ma nello stesso momento non riusciva a farne a meno.
La notte gli aveva permesso di passare inosservato per i corridoi del palazzo senza destare attenzioni.
Si mosse per i corridoi illuminati dalle lampade ad olio mentre i dubbi lo assalivano, il fuoco riusciva ad allungare in ogni angolo del palazzo e dove non riusciva, la luna interveniva con i suoi raggi argentati.
Dentro di sé continuava a percepire quella sensazione di inquietudine, gli si era ghiacciata nelle vene e gli aveva stretto lo stomaco in una morsa quando il pericolo aveva strisciato lungo il suo corpo e la necessità di intervenire lo aveva portato al limite della coscienza, mentre le sue gambe correvano senza sapere esattamente dove andare, si era sentito sul punto di vomitare. Non sapeva dirsi come aveva trovato Elyim in una stanza che non conosceva, quella sensazione lo aveva trascinato come il filo di uno spago. Era sempre più ovvio che non poteva fuggire al vincolo e man mano che andava avanti la sicurezza della sua salvezza gli scivolava dalle mani.
Ne vale davvero la pena? Sto rischiando tutto per la mia salvezza ma forse potrei…
Le sue gambe lo portarono verso l’uscita dal palazzo per respirare l’aria della sera prima che la morsa gli stringesse troppo la gola, non era certo di riuscire a distinguere se fosse una sua sensazione o qualcosa che riguardasse il vincolo.
«Cosa vedono i miei occhi.»
Quella voce lo riportò alla realtà facendogli perdere un piccolo battito. Quando era solo una ragazzo aveva vissuto per le strade della città bassa di Bograd, cresciuto per parte della sua vita lontano dal palazzo, da una madre adottiva povera, un padre inesistente e il suo potere che non voleva mostrarsi.
Ricordava i particolari della sua casa; era abbastanza spartana ma non del tutto orribile, la sua famiglia di sangue era pur sempre la reale, senza saperlo non era stato del tutto abbandonato. Le mura erano dipinte di bianco, le piccole colonne del porticato che tenevano alto l’ingresso esterno, i tendaggi pesanti alle finestre e le fiaccole in ottone che illuminavano la facciata in pietra.
Non era tornato spesso in quel posto, si era sempre detto che non ne aveva il tempo. E ora davanti la figura di Aghata il suo cuore ebbe un flebile tremito. Era invecchiata, la pelle si era diramata in tante piccole rughe, gli occhi si erano increspati e avevano assunto una nota più dolce e più sapiente al tempo stesso, il nero dei suoi occhi sembrava pesare di più. I suoi capelli erano più radi e più corti di quelli che ricordava, indossava un corpetto color bronzo e una lunga gonna scura, il collo pieno di ciondoli e due orecchini di osso. Lungo le mani poteva intravedere il nero dei tatuaggi simbolo della cultura del deserto del Sud.
La sua pelle era impregnata dell’odore delle spezie che utilizzava nella sua cucina, Dokor aveva mangiato spesso i suoi piatti nella vecchia casa che aveva. Aghata era una maga di quartiere che si era occupata di lui fino ai sedici anni, nella sua vecchia casa Dokor aveva visto diversi cimeli provenienti dalle creature Efir e dai Majid del deserto che benché non avessero molti residui dell’energia magica dell’Icore della terra tutti l’avevano sempre considerata una potente maga e a lei era sempre piaciuto atteggiarsi a tale mentre creava i suoi famosi infusi.
Sua madre la frequentava spesso così come molte persone, soprattutto prima degli equinozi e dei solstizi, dei cicli lunari o delle varie festività per proteggersi dalla magia maligna degli Efir.
Avrebbe voluto dirgli tante cose.
«Mi dispiace di non essere mai venuto…»
«Silenzio ragazzo, non voglio sentire inutili scuse. Sei più grosso dell’arcata della tua vecchia casa! Tieni, guarda cosa ti ho portato, datteri i tuoi preferiti.»
Dokor rimase sopraffatto da quelle sensazioni e da quelle parole. Non ricordava l’ultima volta che qualcuno che lo conosceva gli aveva parlato senza considerare mai il suo posto e la nobiltà del suo sangue. I popolani che non lo riconoscevano senza la maschera non contavano.
«Cosa fai qui?»
«Sono venuta quando ho percepito che qualcosa non andava ragazzo mio, volevo vederti e ho richiesto udienza.» Si strinse la mantella addosso. La grande Afa portava il sole rovente di giorno e vento freddo nella notte. Aghata allungò una mano verso di lui, sfiorandogli il viso.
«Un tempo non toccavi le arcate con la testa, piccolo granello.»
Dokor osservò sopra di sé l’arcata sotto cui si era fermato, a una passo da uscire lungo la grande entrata esterna con il padiglione sorretto dalle imponenti colonne.
«Sei un principe ora, non dovresti vestire in modo così anonimo.» Continuò a riprenderlo lei, facendogli sfuggire un sorriso e liberandolo da quella sensazione di incanto nella quale si era bloccato.
«Ah quindi lo sai? Credevo non l’avessi notato», rise in seguito all’occhiata che gli giunse dalla donna.
«Per me sarai sempre il piccolo granello di sabbia sperduto e ghiotto di datteri.»
Dokor sorrise mentre prendeva tra le mani la piccola sacchetta che gli porse la donna con dentro i datteri, non se la sentì di rivelarle che da quando aveva rubato un vaso intero e ne aveva mangiati a decine, non riusciva quasi più a vederli.
Ne prese uno dalla sacca volendo tornare un po' quel bambino magro e turbolento che era stato, poteva illudersi di esserlo e di calmare il caos nella sua testa dando un morso e lasciando esplodere la sua dolcezza sulla sua lingua.
«Lo sapevo che il tuo sangue era troppo prezioso per rimanere confinato. Guardati, principe e comandante delle armate del deserto, domatore del grande serpente. Ho pregato gli Dei e l’antica magia perché ti guidassero al tuo destino.»
Ridacchiò. «Già, sembra che ora mi vogliano prendere in giro. Forse mi hanno dato troppo tutto insieme.»
«Non prenderti gioco degli Dei. Guarda chi sei, non puoi permetterti queste affermazioni risentite.»
«Un minimo di risentimento e di scetticismo devi lasciarmelo.» Dokor era semplicemente scettico che gli Dei ascoltassero per davvero, erano un antico retaggio ma ciò che avveniva sulla terra era certo non fosse più di loro stretto interesse. Quale Dio si sarebbe immesso in una guerra tra creature che ai loro occhi non sarebbe potuta apparire altro che una zuffa tra formiche?
«Come hai fatto a sapere che qualcosa non andava?»
Il sorriso che gli conferì gli scaldò il petto. Aghata ai suoi occhi era sempre una bella donna, un sentimento di adorazione simile a quello che era riuscito ad avere per un periodo con sua madre.
«Da quando il tuo retaggio è stato risvegliato ho sempre percepito il tuo Icore e la tua magia differenti dalle altre. È calda e rilascia un’aurea dorata dalla quale non ho mai staccato gli occhi. È dal giorno del processo che la percepisco debole, coperta.
E ciò che ho percepito non è errato, ti vedo così stanco.»
Nessuno glielo avrebbe mai detto, non dormiva da giorni ma per lui non sarebbe dovuto essere strettamente un problema.
Improvvisamente la colpa di non essere mai andato a trovarla negli ultimi anni lo assalì completamente.
«Sto bene.»
Aghata lasciò uscire un verso di disappunto portandosi ciocche scure e ricce striate di grigio dietro l’orecchio. «O ci credo. Avrai tante dame pronte ad aprire le gambe per te e dissipare le tue preoccupazioni.»
Dokor rise appena, scuotendo la testa. «Stai parlando con un principe.»
Anche Aghata si unì alla risata. «Voi nei vostri sontuosi palazzi fate la guerra fuori e l’amore nel letto ogni notte, non oso immaginare quanti segreti si nascondano tra queste stanze. Sei stato troppo tempo attento alla tua figura esterna e tra i nobili se così poco può scandalizzarti» non tutti erano in grado di mettere bocca sulle pratiche sessuali delle famiglie del Dekatum, seppur fossero ben note a tutti.
In realtà erano molto semplici; non esistevano freni.
Matrimoni di convenienza ma amanti e i sotterfugi erano infiniti, Dokor non ne era interessato ma era impossibile non osservarli intorno a sé, a maggior ragione quando si era reso conto che il Re, suo fratello, aveva sposato sua sorella. Si era sentito fuori posto all’inizio, poi aveva cancellato quel sentimento estraneo, non era importante.
Aveva giaciuto con donne e uomini, non tutti del deserto, non tutti umani, ma era da diverso tempo che non passava la notte con…
Perché diavolo ci sto pensando ora. Una delle persone che mi sono portato nel letto è diventato un terrorista contro la nostra nazione. Devo davvero avere il sangue degli Dei, ogni relazione chiude un rapporto malsano o discutibile.
«Non mi hanno fatto arrivare a te, Amus il messaggero mi ha accolto ma il palazzo sembra nel caos. Ho sentito qualcosa di quello che sta succedendo. Ha segni addosso?» Sapeva che Aghata sarebbe venuta a sapere più cose di quante dovesse.
Dokor strinse le mani tra sé. «No, nessun segno del vincolo, nessuna runa e no, non chiedermi di entrare da qualche parte e spogliarmi, sono certo che Hurin abbia guardato ovunque.»
Non aveva avvertito alcuna vergogna nel denudarsi dinanzi a lui, se le loro trattative amorose non erano uno scandalo vedersi nudi a vicenda non era solito ma non destava alcun sentimento di pudicizia.
A maggior ragione Hurin sembrava privo del desiderio nel suo corpo. Di quello carnale almeno.
«Raccontami.»
Dokor strinse le labbra, aveva il profondo desiderio di raccontarle tutto e liberarsi di quel peso che lo stava opprimendo, ma il tempo scorreva e doveva agire per portare avanti il piano che ormai aveva cominciato.
«Mi sono ritrovato in un vero casino Aghata» scosse la testa.
Aveva sputato sangue per arrivare lì, il suo potere aveva tardato a manifestarsi e nonostante il suo retaggio era cresciuto come un umano, addestrato come un soldato e portato poi a vivere nella lussuosa stanza di un palazzo colmo di esseri assetati di potere e conoscenza, avidità e generosità, amore e possesso, vizi e concessioni.
Sentiva dentro di sé che man mano che andava avanti non faceva più parte di quelle strade, non si adattava più al mondo di una vita mortale. A richiamarlo erano le dune del deserto, l’antica magia nel suo sangue.
Aveva sanguinato per la sua famiglia ritrovata, combattuto all’ombra delle dune e sotto il sole rovente aveva sentito la brutalità delle battaglie seccarsi sulla sua pelle.
Aveva visto le creature e la loro grandezza, aveva lottato contro di loro, si era preparato ed era pronto alla guerra che sarebbe potuta avvenire di lì a poco.
Aveva perso quella che credeva fosse sue madre anni fa, sua sorella, il suo mentore e colui che credeva…
Sentiva il cuore martellare sotto le costole, si chiedeva se anche gli altri del Dekatum lo percepissero.
La sua ascesa gli aveva insegnato che potevano essere più umani di quanto non apparissero, ma anche più potenti. Una combinazione che poteva essere letale.
«Non ho il tempo per raccontarti tutto Aghata, perdonami.» Gli parlò usando la sua lingua. La sua popolazione era chiamata Asdrul, erano pochi e vivevano nel Sud del deserto roccioso a stretto contatto con gli Efir, non avevano molte caratteristiche diverse se non una maggiore propensione per la magia sensitiva e l’utilizzo di una lingua diversa, più profonda e gutturale, dalle intonazioni aspre e dalla grammatica differente, in pochi nella città di Bograd la conoscevano, Dokor era uno di quelli proprio grazie a lei.
I suoi occhi scuri lo scrutarono con attenzione.
«Ragazzo tu hai sopportato tante difficoltà. Io rivolgo le mie preghiere agli antichi Dei e alle antiche creature perché veglino sulle forze che comandano ciò che non conosciamo ancora. I semidei come te sono qui per proteggere le nostre città, per garantire la pace e la conoscenza, per proteggere tramite i doni che gli sono conferiti, eppure recentemente… lo sento, è come se un’ombra sia calata su questo deserto.
L’aumento dell’esercito come strumento di guerra contro le creature e la schiavitù che dilaga… avvengono atti immondi e tutto ciò che si fa per fermarli è iniziare nuove guerre. Tu devi trovare la tua strada, questo legame… non so quale entità abbia ma…
»
«Aghata, non posso davvero…»
«Ascoltami ragazzo mio. Sei venuto a trovarmi mesi dopo la tua venuta a palazzo e dopo l’accademia, eri vicino a quel Efir e ricordo i tuoi occhi quando me ne parlai. Quel legame e ora il vincolo, nulla è per caso, il tuo destino seguirà la giusta via se sarai accompagnato da lui.» Le persone come Aghata erano sempre state amiche del popolo degli Efir e ritenevano quelle guerre solo violenza e sangue ma non conoscevano davvero la situazione.
Dokor aveva cercato di capirle, aveva visto i lunghi carri di schiavi, aveva visto come le mezze creature venivano trattate, cosa rimaneva di loro.

Aveva tentato di intervenire, aveva aiutato, ci aveva creduto. E lo aveva fatto anche sua sorella. Ora di lei non rimaneva che un trono vuoto e un corpo che aveva bruciato su di una pira.
Aghata sembrava aver letto tutto quello che doveva e avergli dato la sua risposta.
«Aghata, sto per agire d’impulso...» si guardò intorno sussurrando appena, «se mi scoprono sarò un traditore, ma è l’unico modo che ho per assicurarmi di avere decisione sul mio destino.»
«
Se seguirai il tuo cammino affianco ad una creatura dedita al destino, sicuramente andrai sulla via giusta.»
«No. Nulla c'entra il mio cammino con quello di quel criminale. Lo faccio per me stesso, per liberarmi di un vincolo indesiderato, non gli permetterò di trascinarmi con lui. L’unico effetto collaterale positivo sarà la possibilità di scoprire qualcosa in più su tutta la situazione.»
«Dokor» Aghata mormorò, il suo tono era serio. «Di chi sospetti davvero?»
Di mio fratello.
Quel pensiero fu tanto fulminante che lo bloccò. Non si era mai posto quella domanda direttamente e non si era mai concesso una risposta secca. Conosceva i delitti di Elyim, sapeva che creatura infida fosse e benché potesse avergli mentito su molte cose, per altre doveva addossarsi la colpa di non aver voluto cogliere i segnali.
Ma da anni aveva preso ad osservare come suo fratello si muoveva, come la corte stessa si muoveva. Gli accordi erano saltati e i movimenti dei semidei per rimediare erano stati lenti. La guerra era scoppiata come un’epidemia, le tensioni non facevano che aumentare. E in tutto quello la figura del Re rimaneva offuscata da un velo che ne rendeva i bordi poco delineati.
C’era qualcosa e dentro di sé sapeva che Elyim era parte del disegno generale. Forse un poco lo sperava, gli avrebbe permesso di comprendere le sue azioni.
Non ci fu bisogno di una risposta, Aghata vide la tempesta nei suoi occhi.
«
Se gli permetti di decidere non scoprirai mai nulla, potrebbero addirittura…»
«Lo so, ma ho voluto raggiungere la cima e a cosa serve se poi sono sempre destinato al cambiamento? A cosa mi porterebbe ora rischiare di diventare un traditore? Nulla di tutto questo doveva andare così, neanche con Elyim.»
«Volevi che morisse?»
«Per anni non ho voluto altro che annientarlo per tutto quello che aveva fatto» strinse un pugno. «Ma so che ci sono ancora molte cose di cui sono all’oscuro e questa è un’altra colpa che mi tormenta. Non che abbia importanza ora, non cambierebbe il passato.» Si voltò all’indietro nella necessità di muoversi.
«Ora ascoltami, uno dei miei cimeli si è attivato e mi ha mostrato in sogno qualcosa, è anche per questo che sono venuta. Sono certo che riguardasse te, l’ho sentito. Mi ha mostrato la carta del bambino, della terra spezzata, del re, della regina e della creatura Efir.»
Dokor si accigliò, le carte erano un altro modo delle creature per predire e parlare del futuro e del destino, molte giravano tra le persone, nei mercati neri o lungo la grande strada del mercato. Accessibili a pochi e dal potere ancor più complicato, non si rivelavano spesso e i loro messaggi non erano mai chiari.
«Le carte non hanno potere di chiaroveggenza Aghata, non in mano a chi non ha sangue Efir.»
Aghata non abbassò la sua espressione seria. «Hai ragione. Ma ora è stata la loro magia a richiamarle, nelle mie terre le carte sono profondamente studiate. E tu devi comprenderne il messaggio.» Abbassò nuovamente la voce. «Prima di lasciarti seguire la tua strada lascia che ti riferisca quello che ho visto, le ho studiate per anni. Il bambino indica una sorpresa, qualcosa che devi scoprire, è un simbolo di cambiamento ma potrebbe essere estremamente negativo. I bambini sono molto considerati nella cultura delle creature, possono essere benedetti o maledetti e da questo dipende il destino di coloro che ne sono legati.
La sua figura era strettamente legata a quella del Efir, le due carte avevano un mezzo sole a sinistra e una mezza luna a destra.
Sono simboli che si utilizzano a
lla venuta di un nascituro per capire se un Efir possa aver benedetto o maledetto il bambino. Se le due carte capitano a specchio in modo da completare il sole, sarà benedetto, se completerà la luna la sua benedizione avrà una connotazione più oscura.
»
«
La luna è sacra per gli Efir.»
Aghata annuì
, «ma la luna nera no. Non nello stesso modo.»
Dokor rimase in silenzio assimilando quelle parole, sapeva che Aghata non l’avrebbe mai imbrogliato, poteva inventare effetti riguardanti gli infusi che vendeva ma mai sui segnali che la magia degli Efir le avrebbe mandato.

«Le carte non parlavano solo a te ma anche del Efir a cui sei legato. La carta della creatura non era legata solo al bambino ma anche al re che riguarda te e il tuo sangue reale. Ricordo che c’erano anche le carte del cieco e il muto.»
Dokor si fece serio e attento
.
«La terra spezzata simboleggia un sacrificio, una condizione sfavorevole da sopportare, legata al passato ma anche al futuro, necessaria per raggiungere uno scopo. Ti potrà richiedere diversi sacrifici, necessita la verità. Non è un caso che io abbia visto il cieco, qualcuno deve venire a conoscenza di ciò che sta succedendo e dovrà confrontarsi con il muto, colui che custodisce il segreto.»
«
Perché dovrebbe riguardare me ed Elyim?»
«Perché per ultima ho visto la carta del nodo, un'unione intima ma anche infida. Può divenire una maledizione o una benedizione. Questi segni dovranno collaborare tra loro.»
«Ma cosa vuol dire tutto questo? Mi stanno consigliando o stanno cercando di spaventarmi?»
Aghata sospirò alzando gli occhi scuri su di lui.
«I segni delle carte non danno un consiglio, sono una guida o un avvertimento, il destino non può essere imbrigliato può solo indicare la via nel bene o nel male che sarà percorsa. Tu hai già deciso la tua.»

***

 

Dopo che Aghata se ne andò Dokor riprese a seguire la sua strada per portare avanti la messinscena che avrebbe dovuto portare avanti.
Si ritrovò dinanzi la porta di legno massiccio dagli imponenti manici in ottone lucente, l’aprì senza bussare, era certo che Hurin fosse ancora in piedi, non andava quasi mai a dormire, non prima che la luna cominciasse a schiarirsi per il calare del sole. Affermava che i testi di diplomazia, le strategie militari e lo studio delle mappe fossero più facili con la quiete e la delicatezza della notte e non risentiva mai delle poche ore di sonno.
Dokor fu lieto di vedere Hurin sedere sull'enorme poltrona della stanza, dinanzi a sé aveva un lungo testo su di un foglio di papiro mangiato dal tempo, mentre poco più avanti una mappa si estendeva sul tavolo.
I suoi capelli lunghi e lisci erano raccolti in una delicata coda bassa fermata da un fermaglio dorato, il viso dai tratti misti decorato con il solito filo di pittura scura intorno agli occhi, allungando i suoi lineamenti in parte statici, i vestiti larghi coprivano tutto il suo corpo, una cintura di seta la teneva stretta alla vita, i piedi erano ora nudi e le braccia muscolose ma sottili lasciate scoperte.
Dokor aveva sempre avuto un buon rapporto con Hurin, sin dal momento in cui era riuscito a salire i gradini di quel palazzo e in quanto dedito alla battaglia, la sua vicinanza per la sua conoscenza delle strategie e dei territori era stata necessaria.
Gli dispiaceva che proprio Hurin dovesse essere l’inizio di quel piano, avrebbe voluto che ci fosse un altro modo ma aveva bisogno di alimentare altri sospetti e assicurarsi che almeno per i primi giorni tutto filasse liscio.
«Hurin?»
Le lampade ad olio in quella stanza erano più sbiadite, per permettere agli occhi di non soffrire una luce troppo forte e di addolcire la lettura e i pensieri, la grande arcata aperta dava sul giardino esterno, in lontananza riusciva a vedere le luci della città sotto di loro.
Hurin si voltò verso di lui portandosi il bicchiere di idromele alle labbra, gli occhi non erano per nulla stanchi, appena lo videro si illuminarono di una nuova luce rilucendo di un arancio giallognolo.
«Dokor, non mi aspettavo una tua visita.» La sua voce delicata ma roca gli fece intendere che dovevano essere giorni che non parlava con nessuno, era un poco più roca del solito.
Molte volte Hurin si rinchiudeva tra le sue pergamene senza che nessuno sapesse che cosa stesse cercando di preciso, era uno dei tanti misteri che circondavano la sua figura.
«Volevo sapere direttamente da te se avessi trovato qualcosa riguardo il vincolo in una delle tue pergamene.»
Hurin cercò di sorridergli, solitamente la sua espressione era molto neutra ma per questo non seria o scostante, gli fece cenno di sedersi e Dokor si mise seduto sulla sedia di fronte a Hurin, buttando un occhio sulla mappa.
«Non ho un altro calice.»
«Sto bene così.»
Hurin si sistemò sulla poltrona, drizzando la schiena e spostando la coda dietro le spalle.
«Il prigioniero continua a negare qualsiasi coinvolgimento in questo, giudicarlo come sai per Zydite non è possibile, anche con l’utilizzo della magia non è venuto fuori nulla se non che fosse sincero, non che io ti possa confermare se ci sia da fidarsi del tutto o meno.» Prese un ulteriore sorso dal suo bicchiere per poi versarsi altro idromele dalla brocca al centro del tavolo. «Lo hanno anche malmenato, ma non ha mai ritrattato. Il che è tutto dire contando con quanta violenza devono avergli rotto diverse ossa. Non sanno mai quando fermarsi, ma io non ho potere sugli uomini delle carceri, sono devoti a Nohldir quindi temo fosse inevitabile.»
Dokor non commentò rimanendo ad ascoltare ciò che già sapeva, se avesse avuto il coraggio e la forza necessaria si sarebbe presentato nel mezzo degli interrogatori per impedire determinati scenari. Ma temeva quale reazione avrebbe potuto avere in una situazione del genere, non sapeva cosa avrebbe fatto, a sé stesso, ad Elyim e alla posizione che aveva raggiunto con fatica negli anni, non aveva voluto rischiare e aveva preferito tenersi alla larga.
Alla fine tutto era degenerato in un modo in cui non si sarebbe potuto immaginare.
«Capisco...»
Dokor posò nuovamente gli occhi sulla mappa, attirato dalle terre che conteneva al suo interno.
«È frustrante non essere più tra i più sapienti ora.»
Dokor alzò nuovamente lo sguardo su di lui corrucciando un poco le sopracciglia, il vento gli smosse i capelli. Sentirlo sulla pelle accaldata dal giorno passato gli procurò un sospiro di sollievo. «Nessuno conosce le scritture come te.»
«Temo sia il problema e la mia limitazione. Solo scritture, i tuoi occhi, la tua pelle, il tuo tatto, tutto di te è più sapiente di me su le altre terre del deserto di cui faccio parte.» Hurin indicò con un cenno del capo la cartina dinanzi a loro, per poi piegare un poco il capo di lato lasciando scivolare una ciocca più corta davanti il suo viso.
Per quanto Dokor si fosse sforzato da ragazzo non era mai riuscito a comprendere se fosse una donna o un uomo, nessuno di loro lo sapeva per certo e Hurin si sentiva completo nella sua celata identità, nessuno aveva osato recargli offesa costringendolo a rivelarla, per quanto se ne sapesse l’unica relazione che fosse in grado di intrattenere era con la sapienza e l’unico piacere del quale era in ricerca riguardava la stimolazione del suo cervello.
Dokor era certo che un viaggio come il suo sarebbero stato l’apice per qualcuno come Hurin ma era troppo raro per chi non facesse parte dei soldati muoversi al di fuori della loro terra.
«Sarò lieto di condividere con te tutto ciò che conosco.» Era una bugia, presto sarebbe sparito, se qualcosa fosse andato male sicuramente non avrebbe più messo piede in quel palazzo, eppure era anche estremamente sincero.
Hurin lo ringraziò con un cenno, Dokor intuì che ben presto si sarebbe limitato all’interno di parole scritte.
«Non voglio disturbarti più del necessario ma sei tu che gestisci alcune questioni dei nostri palazzi e sai che ho una predilezione nel confrontarmi con te. Volevo interrogare il prigioniero ma quando sono arrivato nella sua cella non era presente.»
Hurin si irrigidì appena, un altro accenno di emozione. Solitamente si teneva neutro su qualsiasi questione anche se era a conoscenza di ognuna di esse.
«A sì?»
«Le guardie mi hanno riferito che Nohldir stesso voleva interrogarlo in privato ma da ciò che so lui non si occupa di queste questioni.»
«Nohldir è impegnato nell’addestramento dei soldati per la battaglia che si terrà con le creature del deserto nel Ovest.»
Dokor annuì. Era intenzionato ad unirsi a quelle truppe e stare fuori per quanto tempo quella battaglia avesse preso lasciandosi tutto alle spalle e tornando in sintonia con le sabbie del deserto.
«Ho fatto pressioni a una delle guardie e mi hanno rivelato che il prigioniero è stato portato in una stanza apposita per gli interrogatori con Treis, che è stato presente al processo, da quando gli è concesso avere certe libertà?»
La domanda infastidì Hurin abbastanza da concedersi una smorfia sul viso. «Alcuni stanno rientrando nelle file del tribunale cercando di aiutare con le loro possibilità. La posizione di Trei è tanto ben affermata nel mercato delle armi che può permettersi di mostrare la sua presenza qui. Credo bene di sapere a quale tipo di interrogatorio volesse sottoporlo.» Sospirò, più per fastidio che per stanchezza. «Manderò immediatamente dei soldati a recuperare i loro compagni per un’adeguata punizione, al sorgere del sole parlerò con Treis, la situazione è già complicata di suo, ci mancava uno scontro con Nohldir.»
Dokor sapeva bene quanto Hurin mal sopportasse che si muovesse un’azione interna al palazzo senza che ne fosse informato, quel piccolo movimento lo avrebbe certo infastidito e quel piccolo scontro tra loro non avrebbe altro che aiutato la sua causa.
Si sentiva un verme a dover tirare in ballo Hurin e tirare in ballo la pace nella quale gli piaceva circondarsi, ma manipolarli era indispensabile. Doveva comunque stare attento; né Hurin né gli altri, per quanto questionabili, erano dei completi idioti, manipolarli troppo li avrebbe insospettiti.
Per ora doveva stare attento ad Hurin.
«Sembri teso.»
Dokor sollevò gli occhi come un animale colto in flagrante. «Lo sono, ma sono anche stanco.»
Sapeva di non poter mentire su quello, non gli conveniva, doveva mettere almeno un minimo di verità, che si parlasse di fatti o di emozioni.
«Eravate amanti.»
Strinse la mano sotto il tavolo, voltando immediatamente lo sguardo verso l’arcata aperta sulla città. Era interessante sapere cosa succedesse tra le sue lenzuola? Forse capiva ancora davvero poco di loro, la superficialità tra loro era un tratto sorprendentemente preponderante.
«Erro?»
«Avere tra le stesse lenzuola una persona per breve tempo lo rende automaticamente un amante
«Lo eravate?»
«Non lo eravamo.» Replicò in fretta. Non sentiva di mentire, qualsiasi rapporto ci fosse stato tra loro ai tempi non sapeva come considerarlo.
Hurin tenne gli occhi chiari su di lui per ancora qualche secondo, cercando di leggere qualcosa che avrebbero potuto cogliere solo occhi così allenati.
«Andrò a parlare con le guardie, preferisco risolvere velocemente questa questione.»
Dokor fece un cenno positivo, sollevandosi dalla sedia e avviandosi verso la porta, si fermò un solo momento prima di uscire, sentiva quella presenza nell’aria come un’ombra opprimente.
«Ti raggiungerò a breve.»
Lasciò la stanza e si diresse nuovamente verso la sua camera privata, c’erano state volte nella sua vita da mortale in cui l’ansia aveva reso le sue mani scivolose dal sudore, come la sua prima battaglia con una Efir purosangue. Ricordava ancora l’odore dei cadaveri marciti misto a quello dolciastro dei fiori del deserto, la risata cristallina e ipnotizzante, le vittime e gli occhi pieni di un orrore impronunciabile.
Eppure in quel momento l’angoscia di riaprire quelle porte e scoprire che tutto era andato in fumo lo colpì in modo violento, era troppo consapevole di ciò che stava rischiando di perdere, era riuscito a risalire e risvegliare la sua parte di sangue data dal suo retaggio proveniente dagli Dei, aveva sopportato molte angherie e aveva pazientato imparando a muoversi per arrivare nel posto che era destinato a lui, aveva combattuto contro la maledizione che credeva fosse stata imposta lui, non voleva diventare uno strumento nelle mani degli altri e non avrebbe permesso ad Elyim di portarselo dietro nella sua discesa alla rovina. Nello stesso momento dentro di lui lottava da anni il desiderio di conoscere il motivo dietro tutti quegli avvenimenti, tentava di sbocciare in lui violentemente e Dokor faticava ad ammettere che quella occasione gli offriva due possibilità nello stesso momento.
Avrebbe potuto scoprire perché Elyim aveva tradito, avrebbe potuto scoprire perché suo fratello sembrava muoversi nell’ombra e perché sua sorella era stata brutalmente uccisa.
Elyim aveva affermato di amarla ma non aveva mai lasciato uscire una lacrima dai suoi occhi per lei, si era immerso nel suo sangue e non aveva mai mostrato rimorso.
Come la bestia che si era rivelato negli anni a venire.
Doveva rimanere calmo, tentò di regolare il respiro per evitare di entrare e rompergli una brocca in testa.
Elyim era sdraiato sul suo letto, le corde con cui lo aveva legato erano a terra, teneva gli occhi chiusi e pareva dormire ma non appena lo percepì entrare i suoi occhi chiari si aprirono di scatto pienamente consapevoli.
Nonostante fosse più pulito stentava ancora a riconoscere la sua figura, l’ira dei suoi occhi era smorzata dalla magrezza del suo corpo e dalla stanchezza dei suoi lineamenti.
Non avrebbe voluto sentire quella sensazione negativa quando osservava le condizioni in cui si ritrovava, benché riuscisse comunque a vantare la fastidiosa, fredda ed alienante perfezione delle creature. Doveva rimanere distaccato, era solo una questione di bisogno l’essere tornati a incontrarsi senza che vi fossero delle armi tra loro.
«Credevo te la fossi fatta sotto e mi stessi denunciando.»
«Cosa diavolo fai sul mio letto.» Dokor tentò di mantenere il tono calmo, chiudendosi la porta dietro le spalle e assicurandosi che nessuno potesse aprirla.
Elyim si sollevò con una calma irritante, roteando le spalle come se si fosse appena svegliato, «di solito sul letto ci si riposa, si fanno anche cose più interessanti.» Si alzò in piedi e si stiracchiò, muovendo il collo e stendendo un braccio.
«Rimetti le mani al palo.»
Elyim sfoderò un ghigno di quelli che riusciva ad alterare la pazienza di Dokor, e lui si faceva vanto di averne molta. «Non farmi ripetere.»
«È una cosa stupida, per quanto mi piaccia questo lato autoritario.»
«Se ti piace allora vedi di stare zitto.»
Elyim si avvicinò al palo, senza accennare ad un ulteriore movimento se non poggiarcisi con la schiena. «La prossima mossa? Come usciamo da qui?»
«Pensi che te lo dirò?»
Elyim sbuffò. «Hai il cervello acceso o no? Stiamo pianificando una fuga non una passeggiata nel deserto, mi serve sapere come ci muoveremo se devo venire con te.»
Dokor rimase vigile e attento al prigioniero mentre si avvicinava ad un cassetto per tirarne fuori un pugnale racchiuso in un telo, lo osservò per un momento, sotto lo sguardo impaziente di Elyim dietro di lui.
«So già come uscire da qui.»
«Come sei efficiente, come l’idea dello spostamento con la magia? Stessa idea intelligente spero con migliore esecuzione. Sono sinceramente colpito, condividi le tue idee con me.»
«Non serve, tu devi stare zitto e seguire il piano.»
Riuscì a percepire l’occhiata che ricevette alle spalle, ne conosceva la consistenza, tante erano state le occasioni per guardarsi male o per guardarsi di nascosto.
Dokor prese un bel respiro e tirò fuori il piccolo pugnale, non lo fece vedere agli occhi avidi di Elyim e lo infilò velocemente nella fondina al suo fianco.
«Sarai andato da Hurin, avrai sproloquiato qualche bugia e ora starà intervenendo per riprendere le guardie di Nohldir per tornare a rinchiudersi in qualche buco, e perché per quanto mascheri la sua persona, freme dalla necessità di mostrare quanto la forza di Nohldir sia inutile senza strategia. Mi immagino già la sua faccia e la soddisfazione su di essa nel poterlo esporre dinanzi a tutti per non aver disciplinato i suoi uomini e aver lasciato che fossero facilmente corruttibili.»
Dokor rimase ad ascoltarlo blaterale, molte volte dimenticava che Elyim aveva vissuto tra loro, aveva avuto un maestro e aveva una conoscenza di chi vi viveva e del luogo pari alla sua.
Non si stava muovendo con qualcuno di impreparato, motivo per cui doveva stare molto attento.
Dokor si voltò verso di lui, Elyim aveva gli occhi fissi sulla sua figura, il corpo era teso ma nonostante tutto non aveva tentato la fuga, il che era logico, non aveva nessun modo in cui fuggire da solo in quel momento avrebbe potuto aiutarlo.
La sua mente era spaventosamente lucida e calcolatrice, se da un lato sapeva essere l’essere più insopportabile della terra dall’altro era qualcuno che in una situazione disperata e strategica come quella sarebbe stato buono avere accanto.
Se fosse stato impossibile non avrebbe avuto scrupoli a dirglielo o meglio ancora a dimostrarglielo tentando di uccidersi dinanzi a tutti per costringerlo ad intervenire e portarselo dietro. Dokor sapeva che c’era una speranza, e dentro di lui ardeva la volontà di conoscere cosa avesse portato Elyim ad abbandonarsi a cogliere una così flebile e scomoda opportunità.
«Esco da solo.»
«Non se ne parla.» Brontolò, scuotendo la testa.
«Non possiamo muoverci assieme qui. Io sono quello che è fuggito, so come muovermi per il palazzo ma non posso camminare per i suoi corridoi e nascondermi dietro le tende, tu passerai dentro io da fuori. Potrò muovermi più liberamente quando sarete tutti nella vostra stupida riunione. Tu mi raggiungerai quando ti avranno lasciato andare.»
Non era un’idea del tutto malsana, se non che la persona con cui la stava condividendo era un terrorista e un assassino, nonché una creatura della quale non si poteva fidare.
«Sei lievemente facile da riconoscere. E poi la magia del palazzo, le sue rune, ti indeboliscono.»
Dokor osservò nuovamente le ciocche lunghe e rosse di capelli che cadevano sulle sue spalle, voleva infilarci la mano e stringerli, sentirne la consistenza setosa scivolargli tra le dita.
Stringere senza permettergli di allontanarsi.
«A questo penso io. So come muovermi, non ho fatto un patto con te per farmi catturare poco dopo. Certo posso sempre stare tranquillo, mi verrai a salvare tu se qualcosa andrà storto.»
Il suo sorriso irritante gli fece desiderare di tagliargli tutte quelle ciocche che solo pochi secondi prima avrebbe voluto toccare. Ricordava ancora la furia di Elyim quando per curiosità aveva pulito il suo viso dalla pittura sui suoi occhi, gli aveva tirato addosso il cassetto e aveva borbottato insulti per tutta la sera cercando qualsiasi cosa con cui ridefinire il suo viso.
Subito dopo per dispetto gli aveva arricciato tutti i capelli, non si erano sciolti per una settimana.
Da lì aveva imparato quando le creature erano vanitose. Non osava immaginare se avesse toccato i suoi capelli.
«Cosa mi garantisce che non fuggirai?»
«Lo stesso motivo per cui non mi sono mosso da questa stanza. Non resto con te per piacere.» Il tono della sua voce fu tanto aspro da portarlo a chiedersi se davvero tutta quella situazione potessero funzionare.
Di una cosa era certo, quello era il momento in cui doveva preoccuparsi meno di Elyim, se avesse pianificato una fuga l'avrebbe certamente messa in atto in un momento più propizio. Se ne sarebbe occupato più avanti, ora doveva pensare ad uscire.
Dokor lo osservò senza dire una parola. «E va bene. Ci ritroviamo alla porta che da sul fiume.»
Per un momento si bloccò ad osservarlo, avrebbe voluto capire se una qualche espressione lo avrebbe tradito. Continuava a cercare segnali in qualcosa in cui era certo non avrebbe dovuto credere nemmeno in passato. Elyim rimase composto, smise per un momento di massaggiarsi il polso, gli occhi rossi che luccicavano appena.
«Non posso esimermi dal rispettare i tuoi ordini se mi parli con quel tono così autoritario.» Si passò una mano sul collo per sciogliere i muscoli mentre si avvicinava alla finestra senza degnarlo di un ulteriore sguardo.
«Due ore» scandì Dokor.
«Non farmi attendere.»
Quando Dokor si voltò verso di lui per rispondergli o forse per lanciargli qualcosa, Elyim era sparito, non rimaneva altro che la finestra e il lieve movimento della tenda.

***

«Non è né all’interno della cella, né nella stanza privata di Treis.»
La voce di Hurin non era preoccupata, semplicemente infastidita, bassa e monocorde. Dokor rimase immobile mentre le mani di Niphine si strinsero a pugno sopra il tavolo, poté osservare come il suo corpo era teso. Si trovavano nella sala centrale del palazzo, erano stati richiamati solo quattro di loro, Dokor sapeva che presto la notizia si sarebbe diffusa, ma per ora erano solo loro.
«Hurin ne hai la certezza?»
«Appena il principe mi ha parlato di queste guardie e dello spostamento non autorizzato ho controllato la cella trovandola vuota, non c’erano segni di scasso ma le guardie erano svenute vicino questa stanza nascosta, quando le ho risvegliate hanno provato a mentire, in ogni caso sapevano poco. Erano corrotte quanto bastava perché non facessero troppe domande. Ho controllato la suddetta stanza adiacente alle celle ed effettivamente c’erano diversi modi per fuggire di lì.»
Dokor si guardò distrattamente intorno, nella semi oscurità quella stanza sembrava rimpicciolirsi e nascondersi tra le ombre, le colonne alte e spoglie, i dipinti sulla parete appena illuminati dalle fiamme, simboli magici risalenti a secoli passati ora dormienti, la loro magia non era attiva in quel momento.
«Dokor, tu lo conosci meglio di noi, come può aver fatto?»
Dokor riportò lo sguardo verso Niphine, i suoi occhi scuri erano giovani come quelli di tutti loro, ma più li guardava più poteva essere certo di scorgere delle rughe di stanchezza ai loro lati.
«Se qualcuno lo avesse prelevato per fargli del male lo avrei percepito, anche solo se il prigioniero si fosse sentito in pericolo sarei stato costretto ad intervenire e questo ci avrebbe allarmato sul momento. Escluderei qualsiasi nemico.» Si passò una mano tra i capelli, mentre una sensazione strisciante gli risaliva dallo stomaco. «Lo conosco abbastanza bene da sapere che anche con la sua magia bloccata potrebbe aver ucciso Treis se questo lo avesse prelevato nuovamente.»
Hurin intervenne «Treis è vivo e il prigioniero non è con lui.»
«Non posso escludere un aiuto esterno, siamo in guerra con gli Efir da tempo. La sua cattura non è passata inosservata.»
Niphine sospirò pesantemente lanciando poi un’occhiataccia ad Amus che si lasciò andare ad una colorita imprecazione contro gli antichi Efir, un messaggero degli Dei non poteva certo imprecarli.
«Dovevano sorvegliarlo quei maledetti uomini dell’esercito di Nohldir? Violenti e senza strategia, sanno usare solo due spade e pensano più a quella nei loro pantaloni che a quella nella fondina.» L’astio nella sua voce fu profondo.
Dokor non poteva biasimarlo, aveva visto distruggere diversi suoi tempi a causa di Elyim e nessun uomo di Nohldir era intervenuto per tempo, aveva le sue ragioni per covare astio nei confronti di entrambi ma mentre con uno poteva dare il suo voto per la pena di morte, con l’altro aveva dovuto tacere la maggior parte delle volte. Le lotte interne a palazzo tra le varie famiglie dal sangue degli Dei erano un punto che man mano rischiava di rendere debole l’interno.
Dokor aveva ben stretto con Hurin proprio per quel motivo, erano gli ultimi arrivati e avevano lottato per ottenere il potere che vantavano ora.

«Potreste percepirlo?» Niphine tenne ancora il tono neutro, i capelli ricci senza alcuna decorazione di corone dorate, anche nella semplicità della notte quando si trattava della protezione della sua città il suo fervore era affascinate, la Dea della maternità infondeva in lei devozione per la sua terra.
«Sarà sicuramente sceso verso il centro della città, se è attento alle ultime mosse del nostro esercito sarà diretto verso Sud.»
«Non dovreste intervenire dato il vostro vincolo?»
«Da ciò che abbiamo compreso il vincolo lo porta ad intervenire solo se l’altro si sente in pericolo o ci si trova effettivamente, è sensato che non abbia percepito nulla.» Hurin osservò Amus come se se avesse preso coscienza solo in quel momento della sua presenza.
«Il re sa della fuga?»
Hurin annuì. «Arriverà tra poco.»
«Non abbiamo certo bisogno del Re per sapere cosa fare. Mobilitiamo i guerrieri, asserragliandolo il principe Dokor potrà dirci se si trova in quelle zone, sentirà la sensazione di pericolo se gli scagliamo contro gli eserciti del deserto.»
«No.» lo interruppe Hurin. «Mobilitare i nostri eserciti attirerebbe l’attenzione delle creature Efir e delle corti che sono ancora neutre agli accordi o alla guerra, complicare la situazione ora non gioverebbe. E far sapere alle persone che il criminale più ricercato è fuggito dal palazzo degli Dei li porterebbe a diffidare del nostro potere. Non abbiamo solo i nostri affari in gioco, non possiamo apparire deboli.»
Dokor prese la parola a sua volta. «Ed Elyim non si farà trovare. È molto abile a muoversi nelle strade e conosce bene i nostri movimenti, sa come andremo ad agire con un esercito. Non ha la sua magia ma è comunque un Efir, non sarà più facile da catturare delle altre volte. Va trovato prima che raggiunga i suoi alleati.»
«Non può allontanarsi troppo con il vincolo.»
«Non ne sono certo. Il vincolo si attiva nel momento in cui si trova in pericolo, non so quanto questo possa impedirgli di allontanarsi.» E anche questo era vero, Dokor non aveva idea di cosa sarebbe successo se si fossero allontanati troppo l’uno dall’altro, o se Elyim si fosse trovato in pericolo e lui impossibilitato a raggiungerlo, pregava di non doverlo scoprire in quel momento dinanzi a tutti.
Amus aveva una smorfia di sdegno che gli attraversava il viso e la mascella serrata, non era mai riuscito a farsi piacere da lui, non che ci tenesse.
«Se si saprà ogni gilda manderà sulle tracce del traditore nella speranza di una alta ricompensa e noi dobbiamo muoverci prima.»
La porta si spalancò ed Erix entrò, non indossava vestiti eleganti e nessuna maschera sul volto, Dokor non vedeva il suo viso da un pò. Era giovane come sempre, bello e serio.
«Manderemo pochi soldati scelti nei punti principali. Con cui andrai anche tu. Non possiamo muovere un esercito adesso, la città necessita di protezione dopo l’ultimo attacco e al confine Ovest non possiamo togliere le nostre guarnigioni.» Erix rimase in piedi, osservando il tavolo, tutti fecero un cenno di riverenza, Dokor li seguì ma non abbassò mai lo sguardo dagli occhi di suo fratello.
Era la prima cosa che aveva riconosciuto in lui, lo aveva guardato e in quei lineamenti e in quel colore aveva rivisto il suo.
Rimase ad osservarlo, lo avrebbe davvero mandato da solo alla ricerca di Elyim? Era quello che si sarebbe aspettato gli venisse richiesto ma non aveva programmato che la proposta venisse dal suo Re.
Decise di tentare il tutto per tutto, annuì con un cenno, portando gli occhi sulla mappa sul tavolo.
«Stavo per proporlo, ma devo andare da solo, un gruppo seppur piccolo mi rallenterebbe devo poter seguire le sensazioni che il vincolo mi manderà, e rallenterebbe la ricerca. Mandate più soldati in diverse direzioni così gli taglieremo più vie di fuga. Per me sarà più facile che per gli altri, prima o poi percepirà un pericolo e io potrò localizzarlo e agire di fretta. Conosco le strade quanto lui e conosco il lui
Hurin si accarezzò nuovamente i capelli. «Vi metterete a rischio, non sappiamo come funzioni il vincolo.»
«Per questo non voglio né grandi né piccoli gruppi, dev’essere un’azione rapida. Sarà anche potente ma è stanco, ferito, affamato e solo. Lo prenderò, come l’ultima volta.»
Il vento delle finestre smosse le fiaccole che illuminavano la stanza. Si chiese se Elyim stesse camminando da qualche parte sopra di loro, ascoltando quello che stava dicendo, non si sarebbe sorpreso. Aveva i passi leggeri e un udito raffinato.
Quando posò nuovamente gli occhi su Erix non era pienamente in grado di comprendere cosa stesse pensando ma quella sensazione di insicurezza strisciò sotto la sua pelle ricordandogli il dubbio che provava nei suoi confronti. Non era così anni fa, era stato suo alleato, seppur sempre molto silente, niente in confronto a sua sorella che lo aveva accolto, accudito, nonostante la sua difficoltà nel rimanere ancorata alla realtà gli era rimasta vicino fino all’ultimo. O fino a che aveva potuto, anche lei se ne era andata senza dirgli nulla, si era fidata di Elyim, si era allontanata e niente di lei era tornato.
Suo fratello non aveva mai apertamente parlato di ciò che era successo, non era mai riuscito a capire se fosse un lutto o una mancanza che aveva sentito solo per l’abitudine di avere accanto la sorella che lui aveva fatto divenire sua moglie. Dokor non si sentiva molto diverso da lui, non si era mai espresso su ciò.
Amus si portò le dita al mento, pensieroso. «Quindi vorreste davvero andare da solo?»
«È la mia caccia.» Calcò la voce di risentimento, senza fingere. Si pentì immediatamente delle sue parole.
«Lo troverò, accetterò la sentenza se sarà di morire per permettere la pace ma non potete chiedermi di rimanere fermo a guardare. In realtà non devo chiedere a nessuno se non al mio Re.» Si chiese se quel traditore di Elyim si fosse mai sentito come lui in quel momento, un essere indegno, stava utilizzando il suo rango e nonostante tutto quello era uno dei pochi modi che aveva per avere delle risposte, inoltre si parlava della sua vita in quel caso.
Ma dentro di sé Dokor non riusciva a mentirsi. Non poteva più tirarsi indietro.
Non voglio tirarmi indietro.
«È importante per ora che la notizia non trapeli, l’obiettivo primario è catturare il traditore senza coinvolgere l’esercito e qualsiasi altra persona fuori da questo palazzo. Significherebbe complicare la situazione e in quel caso nessuno potrà assicurare la sicurezza di nessuno.» Erix parlò passando gli occhi su tutti, ma Dokor fu in grado di recepire il messaggio per lui. 
Mi sto muovendo su di una linea molto sottile, non voglio mentire. Questa è la mia casa nonostante tutto, metterò tutto apposto, e avrò le mie risposte.

ANGOLINO
Comunque spero che il capitolo vi piaccia, Elyim è tosto da tenere a bada. 
Hurin è un'altro dei personaggi che amo scrivere ma é anche complicatino, spero lo apprezziate anche voi. Ora si da il via all’avventura tra i due :)


   

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5

-Elyim-

Elyim sapeva di essere debilitato ma non credeva che anche sollevarsi con la sola forza delle sue braccia gli richiedesse tanto sforzo.
Il balcone della camera di Dokor dava sulla faccia esterna Sud del palazzo, sulla parte più vicina al deserto e le case erano abbastanza lontane perché non fosse visibile agli occhi dei paesani. Si aggrappò alla parete di pietra facendo leva con le gambe, il pianerottolo che raggiunse gli permise di riposare un momento, riprese respiro e guardò il cielo.
Aveva provato a richiamare il vento per aiutarlo a sollevarsi ma non gli aveva risposto, poteva sentirlo accarezzargli la pelle, passare tra i suoi capelli e tra le sue dita, ma non riusciva a sentirlo parlare, non poteva chiamarlo.
Si sollevò guardando a destra, il vuoto sotto di lui gli fece quasi girare la testa, non aveva mai amato molto le altezze, ma quella era l’opzione migliore, quando era più giovane si arrampicava solitamente su quei tetti sperando di riuscire a scorgere le lontane corti Efir nel deserto inoltrato, nascoste tra il mare di polvere e l’orizzonte del cielo, in pochi sapevano di quel suo passatempo, non erano tetti costruiti per arrampicarvici sopra.
Loro e questi palazzi maledettamente complicati.
Gli faceva male ogni parte del corpo, non riuscire a guarire o riprendersi era qualcosa a cui non era più abituato e una fitta al polso lo fece gemere di dolore.
In quei giorni non aveva mai dato altro che gemiti di dolore e parole sprezzanti per i suoi carcerieri, lo avevano picchiato tutti i giorni e a malapena aveva mangiato qualcosa, gli avevano ficcato il cibo in bocca con forza.
Si erano trattenuti solo per la sicurezza del loro principe, o così avevano detto.
Non esagerate, il principe potrebbe accorgersene” aveva gli occhi socchiusi ma era certo che fosse stato il capo del gruppo delle guardie a parlare, gli vennero afferrati i capelli e tirata su la testa di forza. Il ghigno distorto di una guardia fu ciò che si ritrovò davanti.
Il principe non sentirà nulla fino a che lo teniamo vivo.”
Non possiamo saperlo, potrebbe accorgersene.”
Gli era venuto da ridere, il principe. Lo ricordava solo lui come il piccolo sfollato del palazzo? Persino lui stesso era più importante di Dokor appena era arrivato, sempre fuori dagli schemi, con una calligrafia illeggibile e una conoscenza ridicola della storia.
Ricordava quel ragazzino ma credeva anche di essere l’unico a rammentarlo in quei termini, la sua realtà era stata mutata in un Dokor che lo odiava, che lo braccava e che lo aveva catturato. Quindi per quale motivo si preoccupava di cosa gli veniva fatto dietro quelle sbarre?
Fece leva con il piede sollevandosi verso una sporgenza e allungando il braccio per afferrare la parte sopra di sé, il tetto era vicino e da lì sarebbe stato più facile camminare per raggiungere la parte dietro del palazzo.
Voleva solo chiudere gli occhi e riposare.
Rischiò di mancare una presa sentendo la mancanza delle sue tre dita metalliche. Non era abituato, dal momento in cui gli erano state strappate via Calimath, il suo benefattore, le aveva sostituite con un ingegnoso marchingegno di ottone e magia, aveva sempre avuto tre dita di ottone a compensare la sua mancanza, la magia unita all’ingegno umano gli permetteva di muoverle in modo tale che in quegli anni si era dimenticato di averle perse.
Sono ben fatte, potrai sicuramente impugnare qualsiasi arma con la mano destra, potrai fare qualsiasi cosa e nessuno se ne accorgerà se le terrai sotto un guanto.”
La voce di Calimath gli giungeva sempre accompagnata dal vento, l’azzurro dei suoi occhi lo tormentava ogni volta che osservava il cielo di giorno. Aveva fatto ciò che doveva e non avrebbe dovuto sentire alcun rimorso, non ce n'era motivo, era un sentimento inutile che lo avrebbe solo portato a perdere tempo nella ricerca di una cura per il suo dolore.
Lo aveva fatto anni prima e aveva rischiato grosso, Dokor non era stato in grado di lenire nessun dolore, aveva creduto di sì ma si era sbagliato.
Lo aveva trasformato nella sua personale forma di rancore, teneva le dita mozzate nascoste per celare quanto odio fosse in grado di provare, anche se Dokor le aveva viste quasi subito..
In cella aveva voluto che le guardie lo picchiassero fino a spezzargli le ossa, voleva che Dokor potesse percepirlo senza poter fare nulla. Che quella illusione di bravo e valoroso principe generale crollasse sotto i suoi piedi.
Se lui avesse messo le mani su Dokor non avrebbe fatto andare le cose così, non avrebbe finto di essere migliore di lui innalzandosi su di un piedistallo.
Il suo cuore pulsava tra le costole, le mani erano rese scivolose dal sudore e ad accoglierlo sotto non c’era altro che il vuoto, chissà che risate si sarebbe fatto se fosse morto proprio nel momento in cui aveva una possibilità di riuscita.
E tuttavia l’unica cosa a cui riusciva a pensare era il passato, forse per esorcizzare il dolore sfiancante che provava ovunque. Si era sempre arrampicato a mani nude.
Arrampicati.
Anche quando era dovuto fuggire da dei mercanti violenti che gli avevano tagliato ciocche di capelli e che volevano sicuramente levargli altro, era fuggito. Si era arrampicato agilmente su una di quelle case e aveva aspettato che il sole calasse.
Contrasse le dita dei piedi dentro le scarpe di pelle che Dokor gli aveva rimediato all’ultimo e si lanciò su verso un ulteriore sporgenza, armato solo della fiducia in se stesso.
Aveva sopportato di peggio, aveva un punto dove arrivare e sarebbe tornato nel mezzo di quelle dune, aveva stupidamente fatto una promessa nel mezzo del deserto e il suo corpo gli impartiva di rispettarla, non era certo un umano, avrebbe tenuto fede ad un giuramento fino a che ne avesse avuto le forze.

Tornerò se ne avrò la possibilità, non spingerti oltre le dune. Resta nella corte e non venire a cercarmi. L’unico motivo per cui ci rivedremo sarà perché io sarò riuscito a tornare.”
Quel maledetto ragazzino lo aveva guardato con quegli occhi misti che si ritrovava, un freddo azzurro cielo e un dolce marrone come uno scuro chicco di caffè. Elyim era certo che fosse una sorta di punizione inflittagli dagli Dei che venerava,
Resta concentrato.
Quando le sue dita toccarono la pietra il fiato gli uscì fuori con un sibilo. Persino attraverso la pelle avvertiva il calore dell’aria che lo accarezzava e della sabbia che lo attendeva di sotto se non fosse stato in grado di tenersi aggrappato.
Non c’era altro da fare che resistere. Si arrampicò; una mano e poi un piede, seguito dall’altra mano, cercando una fessura dietro l’altra, una sporgenza dove poggiarsi.
Il sudore gli colava lungo la schiena, aveva inzuppato i suoi vestiti, i piedi gli pulsavano per la fatica, li percepiva pesanti e impacciati, come se appartenessero a qualcun altro.
Sei proprio impacciato. Hai i piedi goffi come gli zoccoli di un cammello.”
Quante volte lo aveva detto a Dokor? Tutte le volte che per quel mese lo aveva battuto nei campi di addestramento e nell’arrampicarsi.
Lo aveva recuperato facilmente, imparando a una velocità che non si era aspettato. Ne era rimasto piacevolmente sorpreso.

Non era divertente confrontarsi con qualcuno di meno capace.
Cercò di concentrarsi, conosceva il proprio corpo e la propria forza e sapeva fin dove poteva spingersi. Sollevò un'altra mano con un verso di sforzo, costringendo le gambe a collaborare ad un ritmo unico che trovò complicato mantenere, qualcosa si metteva sempre di mezzo; un respiro mancato, un rantolo di dolore, uno scricchiolio delle sue ossa stanche o un pensiero di troppo.
Allungò la mano verso la presa successiva, i capelli frustrati dal vento.
Aveva passato le mani tra i suoi capelli tanto spesso che ora, tra le sue dita, sembravano una cascata di fuoco. La stessa che bruciava dentro di lui e intorno a loro.
Sarebbe rimasto in quel letto per altre ore, sarebbe rimasto aggrappato a quel calore per altri giorni.
A pochi aveva permesso di toccare il suo corpo e di scatenarvi i propri desideri sopra. In quel momento i desideri di Dokor erano trasmessi dalle sue mani che erano in grado di accendere anche i suoi, di farglieli provare con piacere.
Gli scivolò un piede. Le dita persero la loro presa e in quel secondo lo stomaco gli sobbalzò in gola. Si aggrappò alla pietra maledicendo il groviglio che si era creato nella sua mente, saltellava da un pensiero a un altro, era sempre stato abbastanza bravo a mantenere sotto controllo la sua testa.
Cercò un nuovo appiglio e si tenne stabile, respirando profondamente. Si sollevò su l’altro piede, non aveva assolutamente nessuna intenzione di morire per un piano mal azzardato.
Si obbligò a trovare la presa successiva, chiedendosi perché aveva accettato, era vero che era la sicura possibilità di uscire di lì ma di certo non doveva essere l’unica, credeva di sapere come fosse stato lanciato quel vincolo ma non aveva parlato, lasciando a Dokor le sue insinuazioni.
Lo stava aiutando cercando di uscirne più pulito possibile? Non poteva semplicemente lasciare le parti complicate a lui e starsene seduto? D'altronde se li avessero beccati sarebbe stata solo che una vittoria per Elyim, almeno a livello morale.
Non poteva nemmeno accettare il pensiero che quel bastardo avesse ancora qualche ascendente su di lui. Aveva fatto la sua scelta anni fa e non era mai tornato indietro, d'altro canto Elyim lo aveva colpito duramente e non si era mai scusato.
Con una spinta si issò sul tetto aggrappandosi con tutta la forza delle braccia e tirandosi sulla parte più pianeggiante, appoggiò un ginocchio e poi l’altro.
Il respiro gli raschiò in gola e si concesse di cedere in avanti, girandosi sulla schiena e respirando profondamente per calmare il fuoco che gli imperversava nei polmoni. Ad osservarlo c’erano solo le stelle, testimoni dei suoi pensieri.
Chiuse gli occhi ringraziandole con un basso canto a sussurro, niente di quello che aveva pensato avrebbe lasciato le sue labbra.

***

Ricordava di aver provato tanto caldo da rischiare di morire sotto il sole cocente, si era nascosto sotto una carovana ferma al limitare della strada all’inizio del mercato, nessuno fino a quel momento lo aveva cacciato e ne aveva approfittato per rannicchiarsi lì sotto portandosi le ginocchia al petto.
I lunghi capelli rossi e la sua pelle erano ricoperti di sabbia e sporco, ma nulla importava se non il sangue che continuava a colare dalla sua mano, i moncherini delle tre dita ormai mancanti continuavano a lacerargli il braccio di dolore, si allungava lungo la spalla giungendo fino allo stomaco.
Non aveva nulla per fermare il sangue, solo un misero fazzoletto per impedire che la sabbia penetrasse e infettasse le sue ferite.
Era stato sul punto di morire, aveva perso tanto sangue e non aveva mai provato tanto dolore irradiarsi per tutto il suo corpo, o almeno in quel momento non riusciva a ricordarlo.
Un lieve gemito lasciò le sua labbra quando provò a stringere la mano ferita vicino al petto, voleva fermare lo scorrere del sangue, la pelle dei moncherini era lacerata e gonfia e riusciva a intravedere l’osso nel mezzo.
Gliele avevano strappate via senza pietà, senza pensarci troppo quantomeno erano state recise con un colpo solo.
Intorno a lui vedeva le persone camminare, dalla sua visuale poteva solo intravedere le loro gambe e i loro piedi sollevare la polvere con i loro passi, facendolo tossire debolmente. Aveva sete.
Fa male.
Sapeva che sua madre non era mai riuscita a guardarlo, sapeva che l’uomo a cui si accompagnava attendeva solo il momento in cui avrebbe potuto fare qualcosa del bastardo della famiglia. Aveva visto la carne di quelli come lui venduta nei mercati neri, pezzi di loro.
Sapeva che sarebbe potuto essere lui lì sopra ma non avrebbe mai creduto che a mettere i suoi pezzi sul mercato sarebbe stata sua madre.
Sentiva crescere dentro di sé una rabbia incontrollabile, voleva fargliela pagare. Non aveva mai provato affetto per loro, non era nella natura di quelli come lui dover provare affetto per la propria famiglia, glielo aveva detto una cartomante pochi mesi prima, si era fidato di lei perché possedeva le carte degli Efir.
Si era seduto ad ascoltare mentre gli veniva detto che i sentimenti di uno come lui erano mutevoli come le direzioni del vento, immensi quanto il cielo e minuscoli quanto una formica.
In quell'esatto istante tutte le sue emozioni si erano concentrate in quel nodulo di bile che sentiva graffiargli la gola.
Non c’era spazio per la tristezza, per una qualche tipo di mancanza dentro di sé, non li aveva mai amati nemmeno lui, li aveva sopportati nel ricambio del favore di un tetto e del cibo da avere.
Lo avevano tradito e in quel momento voleva solo distruggerli.
Una fitta di dolore lo portò nuovamente alla realtà, si chiuse su se stesso cercando l’ombra e sfuggendo al sole che mano a mano si stava infiltrando sotto la carovana. Ai lati degli occhi riusciva a vedere solo puntini neri farsi avanti.
Due piedi racchiusi in un paio di sandali bassi e di cuoio scuro si fermarono dinanzi la carovana, per un momento rimasero immobili, poi il viso di un uomo riempì la visuale sfocata di Elyim.
Un uomo giovane, la pelle era dello stesso colore dell’argilla cotta, i capelli scuri cadevano verso un lato mentre lo osservava piegando la testa, con folte ciglia corrucciate in un’espressione confusa.
Occhi azzurri che lo scrutavano, appena li incrociò Elyim percepì una scossa lungo la spina dorsale. Non erano occhi naturali, difficilmente era in grado di incontrare occhi diversi dal nero o dal marrone nel deserto, se non in quelli come lui.
Ma quell’uomo appariva del tutto normale al di fuori di quel colore. Sembrava aver voluto confinare il cielo dentro il suo sguardo.
Elyim ne rimase tanto colpito da rimanere fermo ad osservarlo, nonostante volesse disperatamente muoversi per fuggire.
Era ferito e qualsiasi mercante avrebbe approfittato di quella situazione per riuscire a prenderlo. L’uomo dinanzi a lui non disse nulla, mosse gli occhi dal suo viso alla sua mano ferita. Lo schiamazzare di tutte quelle persone intorno a lui cominciava a dargli alla testa, i suoi muscoli erano tesi ma il suo corpo era bloccato. Sarebbe potuto strisciare di lato, ma non era certo di riuscire a correre.
«Allunga la mano verso di me.»
Quella voce calmò il caos che lo circondava. Scese lungo il suo udito affabile e calda, come quando il sole sorgeva e non bruciava troppo sulla pelle scoperta, era gentile. Era persuadente.
I suoi occhi blu sfavillavano, ne era certo, non erano occhi umani. Eppure quel formicolio si presentò nuovamente sulla sua spina dorsale, attraversò tutto il suo corpo facendo distendere i suoi muscoli e un solo pensiero gli venne in mente.
Casa.
Allungò la mano verso di lui docilmente, lasciandosi trascinare fuori. Nel momento in cui sentì le braccia dell’uomo stringerlo e tirarlo su si mosse ribellandosi, ridestandosi da quel torpore che lo aveva colto.
«Non preoccuparti, nessun altro tuo pezzo verrà messo sul mercato. Adesso rilassati.»
Il sole lo costrinse ad assottigliare gli occhi, intorno a lui diverse figure passarono ma tra le braccia di quell’uomo la sonnolenza lo rapì nuovamente, era poggiato contro il suo petto, sotto i vestiti spessi che portava sentiva battere debolmente il suo cuore.
Sollevò lo sguardo verso il viso dell’uomo ma sentì la testa cadere indietro e si ritrovò ad osservare nuovamente il cielo.
Era tanto azzurro, tanto luminoso. Chiuse gli occhi chiedendosi cosa avrebbe visto una volta riaperti.

Quando si era svegliato si era ritrovato in una stanza che non riconosceva, aveva sentito il cuore in gola e un secondo dopo uno spasmo lo aveva investito, partiva dalle dita e si allungava verso il petto, facendolo fremere di dolore nel respiro.
Tenne gli occhi chiusi nel momento in cui percepì qualcuno intorno.
«Perché lo hai portato qui? Dovremo comprarlo dalla famiglia e occuparcene noi.»
Era voce femminile che non conosceva austera e bassa, non troppo lontana, Elyim fece in modo di non muovere un muscolo.
«I fondi non ci mancano, per ripagare dei paesani per la perdita del figlio basta una cifra modica, a cui andranno aggiunti solo pochi spiccioli in più per il suo sangue di Efir.»
«Pochi spiccioli? È così che parli dei fondi della nostra famiglia? Forse dovresti pensare ai tuoi studi e lasciare la gestione del denaro a me Calimath.»
Riconosceva quella voce maschile, era la stessa che aveva sentito mentre era nascosto sotto quel carro, la stessa che era stato in grado di stregarlo tanto da farlo avvicinare.
Quantomeno era ancora vivo, regolò il respiro e tenne sotto controllo l’ondata di dolore che lo aveva colto; stavano parlando di comprare, comprare lui dalla sua famiglia. Chi era Calimath?
Ha importanza?
Aveva detto che lo voleva comprare, doveva tenera accesso quel campanello d'allarme, il suo respirò cambio e un movimento accanto a lui gli fece intendere che qualcuno si era avvicinato al letto su cui doveva trovarsi.
«La decisione è presa, sono sicuro che per quanto ne possiamo perdere in termini di spesa adesso, avere nella famiglia una creatura con sangue Efir puro farà rientrare le perdite.»
Una porta che sbatteva gli fece intendere che la donna doveva aver lasciato la stanza senza nessuna risposta, valutò di rimanere ancora fermo fino a che non lo sentì parlare; «Adesso puoi aprire gli occhi se lo desideri, scommetto che muori dalla curiosità di sapere dove si trovi.»
Elyim non si scompose, lentamente aprì gli occhi venendo infastidito dalla luce che lo circondava, percepì la seta sotto il suo corpo e tra le sue dita, l’altro braccio era fasciato e copriva i moncherini della sua ferita, niente più sangue.
La stanza era grande ed elegante, mobili in legno lavorato la adornavano, un tendaggio bianco impediva ai raggi del sole di penetrare con insistenza e si muoveva con il leggero vento caldo proveniente da fuori.
Voltò gli occhi verso la persona che era con lui, indossava abiti di seta lavorata e colorata, il viola era il colore predominante accompagnato da ricamature giallo dorate, sandali in pelle nera e un turbante sulla testa ne copriva i capelli che dovevano essere neri come la barba, il viso era giovane ma anche consapevole, piccole rughe che prima non aveva visto si annidavano agli angoli degli occhi e delle labbra, conferendogli un’età senza tempo.
L’azzurro dei suoi occhi lo stava soppesando, passandogli altri brividi lungo il corpo che vennero smorzati solo dall’espressione celatamente gentile.
«Cosa mi ha tradito?» riuscì a chiedere con voce roca, non era la prima domanda che avrebbe voluto fare, era solo la prima uscita. Solitamente nessuno si accorgeva quando fingeva.
L’uomo arricciò le labbra in un sorriso, versando da una brocca di ottone dell’acqua in una coppa.
«Il respiro, è cambiato quando ci hai sentito parlare dei soldi che avremmo speso per comprarti.»

Elyim si tirò poco su, aiutandosi a sostenersi con la testiera che trovò dietro di lui, addosso aveva una coperta di lino leggera e morbida. Nessuno gli aveva mai messo addosso una coperta.
«Quindi vuoi comprarmi.»
L’uomo fece un sospiro, portando gli occhi verso la finestra.
«Devo scusarmi per i termini utilizzati prima, non sei merce. Non mi aggradano ma è l’unico modo per farti rimanere qui. Se vuoi rimanere.»
Elyim si guardò la fasciatura intorno alla mano, i moncherini non sanguinavano più ed erano fasciati in garze di seta che fasciavano la sua mano fino al polso.
L’indice e il pollice erano stati lasciati fuori, aveva le unghie sporche e rovinate.
«Perché dovrei rispondere?» si passò una mano sulle ciocche più corte davanti al viso, quei maledetti mercanti, li avrebbe fatti fuori tutti prima o poi.
L’uomo si avvicinò cauto al letto, come se temesse di spaventarlo. Era lo stesso modo in cui Elyim si era avvicinato a un Ghoul vicino una fossa comune ai margini della città bassa, era riuscito ad essere abbastanza silenzioso da osservarlo per un paio di ore mentre osservava uno dei demoni muoversi tra i cadaveri.
In quel momento sentiva di essere lui quello studiato.
«Sei tu che dovrai rimanere qui.»
«E dov’è qui?»
Aveva riconosciuto la ricchezza del luogo e aveva capito di non trovarsi più nel mezzo della parte bassa della città, o in una delle sue case.
La persona che l’aveva trovato era di buona famiglia e molto probabilmente aveva un retaggio magico nel sangue maggiore degli altri, poteva essere sia una buona che una cattiva notizia.
Finire nelle stanze di un ricco per qualcuno come lui molto spesso non era una buona cosa, aveva visto i carri di schiavi mezzosangue che finivano nei letti dei vecchi ricchi o sfoggiati come trofei per la loro bellezza e la loro particolarità.
L’uomo gli porse il calice d’acqua ed Elyim rimase immobile nonostante sentisse la gola secca.
«Sei nella casa della famiglia Dreimeirt, una delle dieci famiglie discendente dal sangue degli Dei, faccio parte della corte del palazzo reale, come studioso di rune e mago di palazzo nelle necessità.»
Elyim fece una piccola smorfia, aveva sentito della corte reale e del Dekatum e sapeva ciò che bastava su quelle dieci famiglie.
Non aveva mai ricevuto abbastanza istruzione da sapere tutti i nomi e non aveva mai avuto tempo di informarsi in giro, era troppo occupato a tenersi i pezzi del corpo attaccati e a cercare nella sabbia la via di casa sua.
Non era mai riuscito ad andare oltre le grandi dune al limitare della città, non aveva abbastanza viveri con sé da potersi permettere un viaggio del genere e non aveva sviluppato le sue capacità magiche, percepiva dentro di sé il silente ronfare di un’energia che aspettava solo di essere liberata, ne era attraversato ogni giorno ma non riusciva mai ad imbrigliarla.
Aveva raccolto il suo coraggio e aveva dato sfogo al suo orgoglio, essere venduto come la merce che gli ripetevano fosse gli fece stringere con rabbia il lenzuolo tra le dita.
«Se non mi interessasse? Se non volessi stare qui?»
«Ritirerò l’offerta alla tua famiglia e rimarrò a mani vuote facendo la figura dell’idiota con mia sorella, e tu torneresti nella città bassa.»
Elyim sollevò per la prima volta gli occhi in quelli dell’uomo, ripetendosi il suo nome nella testa, Calimath. Non stava usando il tono di voce che aveva usato quando l’aveva trovato, la sua voce era bassa e lievemente cantilenante, come se non potesse fare a meno di risultare affabile e convincente.
«Ti piacciono gli Efir mezzosangue?»
Calimath aveva sollevato un sopracciglio scuro.
«Sì, in particolare mi piace vedere quando riescono a sopravvivere. E non per quello che pensi, so bene che fine fanno la maggior parte di quelli giovani che finiscono nelle mani dei nobili. Abbastanza potenti da essere utili, non abbastanza da ribellarsi a un destino avverso in questa città. Scommetto che non sai utilizzare la tua magia.»
Elyim si era fatto piccolo piccolo, punto nel vivo.
«Posso percepirla, è molto forte. Qual è il tuo nome?»
«Elyim.»
Non aveva mai avuto un cognome, non era interessato ad avere lo stesso dell’uomo che lo aveva tenuto dentro casa e non aveva idea di chi fosse suo padre, non poteva assumere il nome della sua corte.
Gli bastava il suo nome.
«Elyim, in me scorre sangue di Jiin da generazioni, e posso aiutarti.»
Sangue di Jiin, ora mi spiego la voce e i suoi occhi.
I Jiin non erano benevoli ed erano creature estremamente potenti e temute.
Venivano denominati in diversi modi; demoni del deserto, padroni del fuoco, creatori di desideri, mangia anime.
Elyim non ne aveva mai visto uno ma avrebbe saputo riconoscere la loro magia, gli avrebbe parlato entrando in sintonia con il suo corpo, una lontana conoscenza che non avrebbe saputo spiegarsi ma che apparteneva al suo sangue, al suo essere.
Dopo quella rivelazione poteva spiegarsi i brividi che aveva provato quando aveva sentito la sua voce e aveva visto i suoi occhi.
Deve essere in parte Amìr.
Erano la tipologia di Jiin più innocui, anche se quel termine non era mai piaciuto ad Elyim.
I mercanti e la maggior parte degli umani denominavano i Jiin e gli Efir come demoniaci,
dispettosi se non malvagi, di pochi andavano dicendo che erano innocui o avvicinabili. Erano loro a non capire, la loro natura derivava dall’ambiente in cui erano nati, erano così e basta, tutte quelle persone non volevano capire come poter entrare in sintonia con loro.
Elyim non si era mai sentito malvagio, anche adesso che voleva ferire la sua famiglia come loro avevano ferito lui. Non era malvagio, era semplicemente fatto così.
«La nostra situazione non sarebbe facile a palazzo, ma potresti imparare molto.»
«La nostra?»
«Desidererei che tu restassi in questa casa, sotto la mia custodia.»
«Perché?»
«Potresti imparare molto sulla magia, sulla tua specie, sulle corti, su tutto. Potresti entrare a palazzo e col tempo divenire un mezzo tra le creature mezze Efir e la corte dei dieci, chissà. Sicuramente il futuro si prospetterebbe migliore di quello che avresti nel mezzo della polvere.»
Ad Elyim parve di udire un tono paternale che lo infastidì.
«Hai detto che mi compravi.»
Calimath nascose un sorriso divertito, i suoi occhi brillarono.
«È il temine che ho utilizzato, perché in questa città esiste la schiavitù o la compravendita. Ti ho comprato per dei fini personali della famiglia Dreimeirt, è questo quello che sentirai, è questo quello che posso dire. Se per te fa la differenza l’uso delle parole allora ti conviene tornare alla tua casa, qui le parole contano molto e ne sentirai di ogni genere su di te, sulla tua specie e sulla mia. Non ti negherò che la tua vita qui non sarà facile come potrebbe apparire.»
«Sono libero di dire di no.»
Elyim capì che Calimath aveva compreso le sue parole. Non era un mero capriccio, che quella fosse l’opzione migliore per lui gli era chiaro, non si sarebbe messo a piangere per tornare tra le braccia di una madre che non aveva.
Lui doveva affermare la sua libertà, era una necessità primordiale che premeva in lui e seguiva i battiti del suo cuore, se non avesse potuto vagliare quella opportunità avrebbe lottato per prendersela.
Ogni creatura nata dalla terra era caratterizzata dalla mutevolezza e dall’inafferrabilità.

«Ovviamente.»
Nuovamente percepì quel tono soave e seducente, tipico della voce dei Jiin. Erano maestri di seduzione e di grande intelletto, o così gli era stato detto.
Davanti a quel tono si rese conto di tremare lievemente.
«D’accordo.»
«Cominciamo col cambiare gli stracci che porti. Dopodiché penseremo alle dita» aveva detto lui mentre si avvicinava al tavolo, dopo che Elyim aveva preso la coppa d’acqua.
«Vuoi sapere quanto mi è costato comprarti?»

***

A dire il vero Elyim non riusciva ancora a capire se quella domanda Calimath gliela avesse fatta perché sapeva del suo orgoglio o per divertirsi.
Quel giorno si era fidato di Calimath e negli anni aveva imparato a utilizzare la sua magia, aveva capito chi era e aveva studiato, si era allenato. Era diventato ciò che era e nessuno aveva più potuto cercare di smembrarlo.
I muscoli delle gambe erano scossi da tremori invisibili, in un attimo si accorse che la consistenza del suo ricordo si era mischiato al sonno che l’aveva colpito, non era certo che fosse andato tutto così, Calimath aveva davvero sorriso così? Era sempre stato una persona affabile ma non era certo di averlo visto sempre sorridere così tanto, erano mesti e nascosti, le sue labbra si arricciavano appena, celate ulteriormente dalla barba che portava.
Si chiese se tutto quello avesse senso, mentre era sdraiato lì sopra in bilico, non lo avrebbe aspettato niente di facile anche superata la missione che stava portando avanti.
Da tempo Calimath non intercedeva più per lui, da tempo si chiedeva se fosse d’accordo con quello che stava facendo. Non che potesse avere una risposta, motivo per cui quelle domande erano inutili.
Calimath era polvere mescolata alla sabbia, lui era sangue e carne pronto ad agire. Se si fosse arreso avrebbe perso tutto e non poteva farlo.
Quanto tempo era passato da quando era svenuto lì sopra? Si sollevò con la schiena stringendo con le mani l’appiglio più vicino che trovò, anche il palazzo reale aveva diversi dispositivi di raccolta dell’acqua sulla tettoia che gli avrebbero permesso di camminare con più facilità.
Prese un respiro profondo, non doveva essere passato molto. Aveva un obiettivo e doveva portarlo a termine, poi sarebbe passato al successivo e non appena ne avesse avuto il tempo avrebbe pensato a quanto stare nella corte gli mancasse.
Attraversato il palazzo si ritrovò nella parte sud-est, da lì sopra poteva sentire le acque del fiume che attraversava la città.
Scese lungo il muro e fu molto più facile, dovette darsi un tempo più lento ma riuscì a compiere ciò che doveva.
In pochi sapevano che la parte bassa del palazzo reale nascondeva una serie di cunicoli scavati nella sabbia risalenti alle antiche epoche, diverse creature del deserto erano solite costruire percorsi al di sotto della sabbia, creature delle quali gli umani non sapevano nulla si muovevano tramite essi in secoli passati e avevano lasciato grandi cave in segno del loro passaggio che una volta Elyim e Dokor avevano attraversato, incuriositi dalla scoperta.
C’era un’altra donna che sapeva di quei passaggi, Elyim ne aveva dimenticato il nome corretto ma l’aveva vista molte volte al fianco di Dokor nei campi.
Anche Hurin ne era a conoscenza, motivo per cui sarebbe stato logico pensare che avrebbe suggerito a Dokor di prendere quella strada per controllarle.

Elyim scese al limitare del fiume, tra il palazzo e il bordo vi era solo una piccola stradina sterrata che andava perdendosi nel centro della città o nel continuo del deserto, aggirando l’enorme palazzo in entrambi i casi.
Lì a pochi passi da lui l’acqua imperversava nell’antico canale scavato nella sabbia e reso solido dalla pietra e dalle rune magiche. Gli sarebbe piaciuto saltarci dentro e rinfrescarsi, ricaricarsi con la forza dell’acqua contro il suo corpo.
La porta in ottone era pesante e se ben ricordava chiusa dall’interno, nessuno sarebbe potuto entrare di soppiatto ma ve ne sarebbe potuto solo uscire.

***

Elyim lo aveva spinto contro quella porta con rabbia, lo aveva battuto ma non era quello l’importante, aveva imparato la mossa che era stata usata contro di lui, non sarebbe stata più efficace da quel momento in poi.
Ma quel Dokor lo aveva preso in giro.
I suoi occhi suoi si alzarono contro di lui, adesso che era riuscito a vederlo, leggeva anche la rabbia che era celata dietro quella lieve contrazione.
«Che vuoi?»
«Come hai fatto?»
Elyim percepì i suoi occhi addosso, non era la prima volta, tentò di non farci molto caso. Il loro aspetto era fatto per essere attraente agli occhi umani,o meglio loro erano semplicemente così, potevano attirare come un cielo stellato e spaventare con una tormenta in atto.
Molti di loro li seguivano spontaneamente tra le dune, non si trattava solo di bellezza, aveva scorto più sguardi osservarlo con paura, eppure non smettevano. Gli piaceva pensare non di essere attraente, ma attirante come un fiore velenoso per un insetto.
«Cosa? Mi dispiace per il braccio.»
«Non è vero, stai fingendo di nuovo» lo aveva sbattuto contro la parete nuovamente, Dokor non si era ribellato ma la sua espressione rimandava una certa aggressività.
Elyim mostrò i denti, il braccio non gli faceva più male.
«Sapevo che voi Jiin siete orgogliosi ma questo è decisamente poco sportivo» era troppo vicino, riusciva a vedergli ogni riflesso ambrato negli occhi.
«Sei anche stupido.» Perché tutti credevano che avesse sangue di Jiin?
Dokor lo guardò indignato e fece per spostarlo malamente. Elyim mantenne la presa sui sui vestiti.
«Che diavolo vuoi? Davvero non sai accettare la sconfitta?»
«No se sono stato imbrogliato! Fuori il palazzo ti sei comportato come un burbero contadino pronto a caricare come un mulo. Qui hai accentuato la recita, il principino che non sa adeguarsi, venuto dai bassifondi.» Elyim non riusciva a trattenere la sua indignazione, si era comportato come un idiota e lui gli aveva creduto, aveva abbassato la guarda e sottostimato.
Calimath lo avrebbe certamente rimproverato e chi lo aveva visto avrebbe creduto che non era un bravo calcolatore.
Finalmente vide i muscoli di Dokor tendersi, finalmente stava avendo un riscontro, sembrava pronto per la rissa, Elyim aveva troppo sangue al cervello per ragionare con lucidità.
Nessuno l’avrebbe mai ripreso per una perdita sul campo, non quanto avrebbero fatto se avesse tirato in ballo una rissa con il principe.
«Chi dice che sono recite? Chi ti credi di essere.»
«Chi ti ha insegnato?»
Il principe fece spallucce, «l’hai fatta tu con me, io l’ho solo copiata.»
«Era diversa.»
«L’ho resa adatta al mio modo di combattere.»
Elyim sbuffò, per poi accennare un sorriso di scherno. «Già, quello di un mulo.»
E tutto si svolse troppo in fretta perché Elyim potesse ragionarci troppo sopra, Dokor fece per colpirlo senza un obiettivo preciso, mirò alla cieca contro la sua faccia, Elyim riuscì a schivarlo velocemente e gli sorrise con rabbia, decise di colpirlo con un calcio diretto e nello stesso istante il suo avversario fece per afferrarlo, in questo modo persero l’equilibrio tutti e due cadendo all’indietro.
Elyim lanciò un verso di sorpresa quando cadde addosso a Dokor trapassando il muro, doveva essersi aperta la porta di metallo che avevano alle spalle, non se lo aspettava di certo, era sicuro che fosse ben chiusa.
«Maledizione che botta» esclamò Dokor sotto di lui, erano un groviglio di gambe e braccia.
Elyim con agilità si sollevò lanciandogli uno sguardo di fuoco e lasciando il principe per terra. Ebbe il tempo di sollevare gli occhi che udì la porta cigolare e chiudersi con un tonfo alle loro spalle.
«Al diavolo!» incespicò per un momento sbattendo contro le gambe del principe, per poi avvicinarcisi e provare a tirarla verso di sé o verso avanti, non si mosse nulla. Doveva essere stata accostata, qualcuno era uscito e non l’aveva chiusa, adesso lo era e da quanto sapeva Elyim si apriva solo con chi ne possedeva le chiavi, ovvero una adeguata capacità magica di attivare le rune che la chiudevano per entrare e per uscire. Ne percepiva la staticità che la bloccava ma non era in grado di leggerla e decifrarla con la sua, gli sembrava di trovarsi tra due forze negative che si annullavano tra loro, la sua magia e le rune.
Gli sfuggì un verso di stizza e si voltò verso Dokor, era ancora seduto a terra e si guardava intorno, il labbro perdeva sangue e le vesti erano sfatte.
«Siamo nel retro del palazzo.» Elyim si voltò, la porta dava sul nulla. Era un piccolo corridoio aperto che finiva in un piccolo spiazzo di pietra sul quale erano caduti, era piccolo ed erano stati fortunati a non rotolare di sotto.
Sotto di loro c’era solo la nuda pietra, sembrava che non ci fosse via di accesso ma Elyim aveva già visto un posto del genere, al palazzo reale c’era la stessa identica uscita o entrata sul retro, solo più in grande.
«Perspicace, perché non alzate il culo e non mi aiutate? Vossignoria.»
Dokor gli scoccò un'occhiata irritata. «Smettila, ho un nome.»
Elyim fece spallucce come se non gli interessasse, ed effettivamente era così. In quel momento dovevano solo uscire di lì, era l’unico motivo per cui non lo aveva ancora colpito.
«E poi serve la magia, io non ho ancora iniziato ad utilizzarla, non sei tu quello magico qui?» si sollevò spostandosi i capelli scompigliati da davanti alla fronte.
Elyim strinse il pugno, non sapeva ancora leggere quella magia, Calimath non glielo aveva ancora insegnato e da quando era lì metteva poco in pratica le sue capacità.
«Perciò anche tu fingi, sembri sapere tutto e ti atteggi ma non sai aprire una porta.»
Elyim aveva sorriso nonostante lo stesse insultando, era riuscito a scaldare quel sangue da frigido principino che sembrava trovarsi e si era decisamente divertito a farlo.
Sembrava essere una persona interessante nonostante all’inizio lo avesse completamente ignorato.
«Allora le hai un po' di palle. I bassifondi insegnano bene.»
Elyim si mise seduto a terra, era certo che ci fosse il modo per scendere, esattamente come c’era nel palazzo reale, bisognava solo conoscerlo, semplicemente non voleva ancora.
Il vento caldo smosse i suoi capelli, avrebbe voluto tagliarli un po', arrivavano fino ai suoi gomiti e cominciavano a dargli fastidio negli allenamenti, ma non voleva lasciarli a nessuno della famiglia Dreimat.
«Non appartengo ai bassifondi, sono parte della famiglia reale.»
Elyim percepì la rabbia nel suo tono e la menzogna velata da una cieca necessità. Sembrava aver provato quella frase mille volte davanti a uno specchio cercando di renderla sua.
Di nuovo fingeva e cercava di imbrogliare.
Elyim incrociò le gambe poggiando le braccia sulle cosce.
«Non è colpa mia se sembri un popolano qualsiasi. Un fabbricante direi» inclinò la testa guardandolo, mentre gli scoccava un altro sguardo di fuoco, si sporse verso la fine del corridoio
«Sei insopportabile.»
«Non sei il primo a dirlo.»
Elyim sorrise spontaneamente, non era più tanto irritato, solo molto curioso.
«Tutti quelli con il sangue di Jiin sono così?»
«Lo vedi che sei ignorante?Non ho sangue di Jiin.»
Lo vide arrossire lievemente e spostare gli occhi di lato. Il sole era alto e lo spostamento della nuvola fece sì che i suoi raggi li illuminassero, Elyim notò che aveva decisamente i capelli molto neri, in quel caso i suoi occhi color nocciola risaltavano di più, suo fratello era totalmente diverso, aveva capelli chiari e occhi ambrati, il suo comportamento regale era innato e freddo.
Sospirò risentito. «Ho sangue Efir, per metà.»
«Oh, non sono ancora molto informato. Forse hai ragione, sono un popolano, per le strade la maggior parte non sono in grado di differenziare la cosa.» Sembrava assorto ma sincero, Elyim lo osservò con interesse, per poi liquidare la cosa con un gesto della mano.
Non aveva voglia di rendere quel momento ancora più ostico, la sua frustrazione si era incenerita come si era accesa di botto.
«Sei più forte di quello che appari. Sembri un Aigamuxa, combatti con forza ma non hai un ordine di attacco.»
Non sapeva se si stava complimentando o meno, non sembrava comunque essersela presa, ma data la sua espressione non doveva nemmeno aver compreso di cosa stava parlando. Per la prima volta gli sorrise appena, continuando a guardare oltre il corridoio.
L’accademia si trovava in una zona più isolata e sopraelevata, non quanto il palazzo reale, ma poteva vedere le case sotto abbastanza vicine e i tetti, sotto di loro una strada portava al centro del mercato, doveva volerci una buona dose di camminata.
«Ti stai scusando?»
«E tu stai ancora fingendo?»
Si osservarono per un momento, nessuno dei due rispose. Con un sospiro il principe continuò a guardarlo per poi osservarsi le mani. «Dokor, è il mio nome.»
«Ruvido come il deserto. Ti s'addice.»
«Grazie, credo.»
Elyim non lo avrebbe mai ammesso in quel momento, ma percepiva una grande forza provenire da Dokor, esattamente come la magia scorreva fluida in lui, il sole e il vento scorrevano attraverso il corpo di quel principe, dandogli una forza che non era in grado di percepire da solo e di tirare fuori.
Dokor rimase a fissarlo per qualche istante e poco dopo Elyim si ritrovò ad abbassare appena lo sguardo «Elyim.»
«Il tuo è leggero come il vento, sembra quasi voler volare via» sussurrò lui.
Elyim si sentì avvampare le guance senza nessun motivo, nessuno aveva mai cercato un significato nel suo nome, non gli avevano mai dato la stessa importanza che gli Efir ricercavano. Si alzò stiracchiandosi per scacciare la sua reazione.
Dokor non sembrò accorgersi di nulla, «però voglio saperlo, cercavi di scusarti?»
«Solo un po'.» Glielo concesse bofonchiando tra sé e sé. Osservò il muro che aveva davanti, non era possibile aprire la porta ma dovevano esserci delle scalette nascoste da cui scendere, stava per proporlo: «Dovremmo saltare?»
Elyim ridacchiò. «Salta pure, ti aspetterò giù» e si voltò.
Dokor si voltò verso di lui corrucciato, si fece vicino lievemente esitante. Elyim si avvicinò al muro, c’erano diverse piante arrampicate su di esso, era simile all’edera che aveva visto nei libri ma quella del deserto era molto diversa, era spessa e tendente al marroncino, non c’erano foglie lungo il gambo ma solo piccoli fiori violacei con il centro rosso e i pistilli rossastri da cui veniva distillato un veleno molto potente.
Non aveva nulla con cui procurarsi una ferita e semplificare quello scambio, decise di concentrare un goccio della sua magia sui polpastrelli, seppe di esserci riuscito nel momento in cui percepì quell’energia fluida concentrarsi e renderli leggermente più caldi, passò la mano sulla pianta e questa si contrasse ritirandosi lentamente tramite la sua energia vitale, sentì i polpastrelli freddi e il calore passare nel fusto della pianta, mentre si ritirava vide che altri fiori presero a sbocciare innaturalmente veloci dagli altri lati.
«Sai usarla la magia allora.»
«La mia e quella delle rune sono diverse, ho facile accesso al flusso dell’Icore della terra e di qualsiasi elemento. Quello delle rune mi è ostico.»
Non voleva spiegargli come funzionasse, prima o poi avrebbe dovuto scoprirlo da solo.
«Scendiamo giù e vediamo se c’è un modo per entrare senza essere visti, vai a destra io andrò di qui, ci rivediamo qui sotto tra un’ora.»
«Non dovresti darmi degli ordini.» Replicò Dokor dietro di lui, mentre si voltava verso l’altra scala, anche quella libera dalle piante.
Elyim era sempre più sicuro che quella non fosse altro che un prova costruita per il piacere degli studenti, nel momento in cui avessero imparato a padroneggiare tutte e due i fluidi magici avrebbe potuto utilizzare quella porta per sgattaiolare fuori e rientrare prima delle lezioni.
«Hai un’idea migliore da proporre?»
«Ehm… no.»
«Bene.»
Elyim scese senza attenderlo e si avviò.
Alla fine erano stati trovati e non erano riusciti ad eludere nessuno, erano stati beccati e i lividi che si portavano in faccia avevano chiarito a tutti la situazione.
Dopo la strigliata che si era preso da Calimath, si era ritrovato nella stessa stanza del principe.

***

Il cielo era scuro e rimase ad osservarlo per alcuni minuti mentre aspettava Dokor, appoggiato alla parete Elyim si teneva in piedi con le ultime forze, non aveva alcuna intenzione di farsi trovare seduto e stremato dalla scalata, nonostante le gambe e le braccia fossero morsi da crampi di dolore.
Non sapeva dirsi perché quella situazione gli avesse riportato alla mente quell’avvenimento, non era nemmeno lo stesso palazzo ed erano anni che non vedeva l’accademia, era certo che fosse cambiata e che i suoi ricordi ne conoscessero la versione vecchia.
Era stata la prima volta che avevano attraversato una porta con rune magiche ma avevano continuato a farlo fino a scoprire quella del palazzo reale, solo quattro volte si erano visti alla “porta sul fiume".
Ora che ben ricordava era stato Dokor a chiamarla così la prima volta, anche all’accademia. La porta dava su di una strada che li avrebbe portati nel mezzo del mercato seguendo il fiume poco distante che costeggiava la strada.
Ci vediamo alla porta che dà sul fiume.
Appariva sempre così pateticamente poetico.
Aveva vive sulla pelle le sensazioni che aveva provato l’ultima volta che erano usciti di nascosto.
Ringraziò il vento che soffiò in quel momento, mascherando i brividi che percepiva sul corpo e raffreddò un poco la sua rabbia e la sua frustrazione.

Quando sentì la porta cigolare il suo corpo si mise in allarme, mentre Dokor usciva con sul braccio due vesti lunghe e due veli scuri. Vederlo gli fece stringere le labbra in una riga piatta di disappunto per se stesso, non era più tempo per certe situazioni.
È sempre stato il più lento dei due, mi faceva sempre aspettare.

 

ANGOLINO

PS: tutti i nomi di strane creature verranno man mano spiegati giuro.

E grazie a chi legge ^.^


 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


CAPITOLO 6

-Dokor-

La loro fuga era stata tanto azzardata quanto assurdamente funzionale.
Una volta scesi da palazzo si erano dovuti vestire con i teli sul volto e sui capelli con lunghe tuniche scure a coprire i vestiti di Dokor e gli stracci di Elyim.
Avevano camminato dietro il palazzo e avevano seguito il fiume, la strada spianata era abbastanza silenziosa e isolata, qualche bambino correva e qualche persona si avviava verso la loro stessa direzione, verso il centro del mercato.
Le strade erano ancora addobbate a festa, fiaccole e lanterne illuminavano le strade a giorno e lunghi tendaggi correvano da una casa all’altra colorando le volte sopra di loro, l’aria era frizzante di magia e dell’odore di piccole polvere da sparo che rilasciavano giochi di luci.
Erano presenti nell’aria anche lanterne tonde e svolazzanti nel cielo che rendevano l’atmosfera più magica, le persone erano avvolte con i loro migliori vestiti, i mercanti vendevano la loro merce e diversi suonatori rilasciavano la loro musica che viaggiava tra le strade a ritmi differenti, incantatori di serpenti stregavano occhi giovani ed Elyim si fermò un momento ad osservarne uno.
Dokor lo condusse lungo la strada centrale camminando al lato della strada, evitando il contatto con tutti.
La festa per la fine della grande Afa durava poco e quindi i festeggiamenti erano sempre molto concentrati, da quando le corti Efir avevano portato la bellezza del godere dei festeggiamenti le città come El-Sahar.
Una volta davanti la sua vecchia casa vide che le luci erano spente, anni addietro l’aveva lasciata ad Aghata in segno di riconoscenza ma come immaginava la donna sarebbe rimasta fuori tutta la notte a distribuire pozioni e consigli tramite le sue amate visioni, sicuramente si sarebbe cimentata nella lettura della mano e dei segni, non voleva pensare che fosse un’imbrogliona, non aveva visioni istantanee su tutti ma alla fine aiutava sempre le persone che venivano da lei e nessuno se ne era mai lamentato. Le sue pozioni erano funzionali.
Aprì la porta conoscendone il meccanismo che la chiudeva ed entrò senza voltarsi indietro trascinando dentro anche Elyim chiudendo la porta con un sospiro, i festeggiamenti non erano stati un problema come aveva immaginato, la confusione gli aveva permesso di sparire tra la folla ed era bastato buttare un telo sui capelli di Elyim e la mascherina viso con due fori sugli occhi con doppia
lente scura a coprire gli occhi per coprire la sua figura e nessuno aveva fatto troppo caso a loro.

Da fuori la porta poteva udire il vociare, la musica e i passi delle ballerine in un miscuglio confusionario. Voltò lo sguardo verso Elyim che trafficava con le mani cercando di allentare le corde, mentre il suo sguardo vagava per la stanza, osservandola.
«Dopo tutto questo tempo è qui che mi porti? In una catapecchia.» Si voltò con una smorfia in volto.
Più lo osservava più si rendeva conto di quanto la sua figura fosse magra, aveva come la sensazione che si reggesse in piedi a malapena. Era stato un idiota a lasciarlo arrampicarsi e rischiare di dover scattare per salvarlo, se Elyim si fosse messo in pericolo tutto il piano sarebbe saltato.
Per un momento era certo di aver percepito uno strattone all’altezza del petto, aveva stretto i denti per pochi secondi, poi quella sensazione era svanita da sola.
Aveva legato i polsi ad Elyim non appena lo aveva rivisto fuori dalla porta sul retro del palazzo, lo aveva zittito prima che potesse buttarsi in qualche commento.
Si avvicinò legando la fune che teneva in mano a un mobile, Elyim rimase sorprendentemente fermo, osservandolo per poi sbuffare.
«Non credi sia stupido? Mi sono o no riunito a te fuori da palazzo?»
Dokor scosse la testa, tenendo l’estremità della fune stretta in mano.
«Avevo la certezza che ti servisse aiuto per uscire da palazzo, adesso sei fuori e non c’è motivo per cui io debba assumermi il rischio.»
Elyim storse la bocca inclinando la testa di lato, alcune ciocche si spostarono davanti il suo viso, Dokor si sentì soppesato e studiato. Con irritazione legò l’estremità a uno dei mobili passandosi poi una mano dietro il collo.
Aveva preso una decisione d’impulso e cominciava già a pentirsene, valeva davvero la pena rischiare tutto quello che aveva guadagnato in quegli anni per un traditore e un assassino? Lo osservò nuovamente, i lunghi capelli erano sfilacciati ma non avevano perso la loro forza nel colore, sarebbe stato complicato nasconderli per tutto il viaggio, in particolare di giorno quando il sole li infuocava.
Dokor si spostò verso la cucina cercando qualcosa da mangiare che fosse appetibile per lui e il suo irritante compagno temporaneo. Avrebbe dovuto chiedere scusa ad Aghata per quell’intrusione, era casa sua ormai ma non aveva altro luogo dove andare e non gliene era venuto in mente uno migliore in ogni caso.
Trovò della frutta sul tavolo della cucina e tornò indietro verso Elyim, lanciandogliela tra le mani.
«Mangia.»
Elyim non rispose, prese solo a cibarsi con calma, doveva star morendo di fame ma nonostante tutto mantenne la sua compostezza.
Non poteva credere di dover lodare la sua testardaggine anche in quella occasione, era orgoglioso e quel suo aspetto negli anni non era mai mutato.
«Nohldir sospetterà di te subito.» La sua voce lo raggiunse dal salone dove era legato, Dokor prese del cibo per sé infilandolo nella sacca che si sarebbe portato in spalla, era certo che non sarebbe riuscito a mangiare in modo tranquillo fino a che non si sarebbe ritrovato seduto su di una monorotaia diretta verso le cittadelle nel deserto roccioso.
«E sicuramente instillerà il dubbio in tutti.»
«È il motivo per cui ci muoveremo con le primi luci dell’alba.»
Riempì la sacca di tela posandola poi sul tavolino in salone. Elyim si era seduto a terra dopo aver mangiato e nonostante la corda tirasse leggermente le sue braccia verso l’alto non sembrava intenzionato ad alzarsi.
Lo sguardo che gli lanciò aveva diverse domande scritte in volto e Dokor si ritrovò a rispondere ad esse senza che lui dovesse parlare.
Avevano davvero raggiunto quella sintonia scambiandosi colpi per anni? Dentro di sé il sangue gli ribolliva di ira, era certo che quella sorta di sintonia fosse il risultato dei loro anni nella stessa accademia e nello stesso palazzo ma non era vero, perché se fosse stato in grado di comprenderla prima sarebbe stato capace di fermarlo dalle azioni che aveva compiuto.
Elyim dovette annusare la sua collera e un lieve sorriso gli si abbozzò sul volto. Dokor era certo che se avesse detto anche solo una parola avrebbe rischiato qualsiasi punizione del vincolo per colpirlo in testa e portarselo dietro come un mero sacco di patate, pesante ma innocuo.
Doveva liberarsi del vincolo, solo quello.
Non è l’unico motivo per cui l’ho portato qui.
Voltò lo sguardo verso le spesse mensole che infestavano ormai la casa, erano piene di barattoli con dentro cianfrusaglie, scatole adorne contenenti la polvere del The e i datteri dentro piccoli cofanetti di vetro.
Per quanto tempo Aghata aveva aspettato una sua visita?
«Le monorotaie sono fuori uso per tutta la notte. Domani saranno in molti a dover tornare alle loro case, ci sarà più folla del previsto e sarà più facile mischiarsi ad essa.»
«Anche per il generale delle truppe? Ti lamenti tanto di me ma tu non sei molto più invisibile.»
Aveva fatto di tutto per non esserlo in quegli anni. Certo aveva voluto prendersi il suo posto e negli anni passati Elyim lo aveva supportato, nel modo indiretto di cui erano in grado gli Efir.
Quel sostegno non era altro che mutato in disprezzo nel momento in cui aveva capito che si sarebbe schierato al seguito della sua gente. Nell’esercito era avanzato di grado velocemente ed era stato in grado di capeggiarne le file al di fuori della sua legittimità di sangue, si era guadagnato il posto dove si trovava.
Elyim non aveva alcuna ragione di pungerlo con quel tono di scherno e di ripicca, lui aveva fatto la stessa identica scelta seguendo un percorso parallelo al suo.
«Ero un popolano. So mischiarmi tra la folla molto bene.»
Non era mai stato bravo a nascondere le sue emozioni, doveva essere stato facile per un mezzo Efir come lui capire come raggirarlo per bene.
In quel caso poteva essere utile, non aveva alcuna intenzione di mostrargli altro che il disprezzo che provava per lui.
Elyim aveva gli occhi incavati e le palpebre quasi chiuse, si sorprese di comprendere che doveva avere sonno nonostante gli resistesse. I polsi gocciolavano sangue e si rese conto che nell’agitazione della situazione doveva averglieli stretti troppo.
Si spostò verso una mensola dove solitamente ricordava fossero presenti bende e impacchi, per fortuna Aghata non aveva spostato troppo le cose lì dentro.
Prese bende pulite di lino e un unguento dentro una boccetta di vetro chiusa da un tappo di sughero, ricordava che solitamente Aghata gli spalmava quella sostanza dal colorito giallognolo sulle abrasioni, non era miracolosa ma poteva quantomeno alleviare il dolore e fermare il sangue.
Si voltò tornando verso Elyim e si sorprese nel vedere che aveva chiuso gli occhi e inclinato appena la testa verso il basso, sembrava quasi dormire.
Si avvicinò slegandogli i polsi, il cambio di respiro di Elyim fu immediato ed aprì immediatamente gli occhi arrossati e cerchiati di nero. Dokor si era già spostato.
«Ho bende e unguento. Non puoi gocciolare sangue in giro se dobbiamo essere furtivi. Domani mattina dovremo essere pronti.»
«Che carino» Elyim finì di sciogliersi i nodi ai polsi, con un po' di difficoltà con la mano destra.
Le guardie gli aveva strappato le dita che Calimath aveva costruito per lui, compensando quelle che gli erano state strappate da ragazzo.
In quel momento ne aveva solo due e non doveva essere abituato a quell’assenza. Tuttavia non si mosse per aiutarlo ed Elyim non gli chiese nulla, sciolse il nodo e tastò i posi gonfi e doloranti.
Dokor gli porse la mano per bendare i polsi ed Elyim lo guardò come se fosse avvelenata.
«Stai lontano e passami le bende, faccio da solo.»
La voce roca dalla stanchezza si colmò di disprezzo.
Gli tese le bende e l’unguento voltandosi per finire di riempire la sacca, avrebbe portato tutto sulle sue spalle e non si sarebbe azzardato a dare nulla al suo improvvisato compagno di avventure. Aveva
già abbastanza motivi per voler scappare e rendergli il viaggio un inferno, non gli avrebbe dato una spinta in più facendogli portare dei viveri.

Con la coda dell’occhio lo tenne sempre nel suo raggio di vista, una bestia sopita rimaneva comunque feroce.
Lo intravide passarsi l’unguento lungo le ferite, nessuna smorfia attraversò i suoi lineamenti se non una lieve contrazione degli occhi. Prese a fasciarsi i polsi con le bende in modo meticoloso e attento.
«Quindi, dove vorresti portarci?»
Dokor prese a levarsi di dosso tutto ciò che potesse ricondurlo al palazzo, le polsiere dorate, la cinta lavorata, la tunica leggera e finemente lavorata, chiudendoli dentro il baule in legno di Aghata.
«Prenderemo la monorotaia e arriveremo al deserto roccioso fino alle Oasi del Bianco Miraggio, da lì ci incammineremo per il Crepaccio Nero.»
Non osservò l’espressione di Elyim ma percepì i suoi occhi sulla schiena. Si infilò una lunga casacca marrone e prese diversi veli scuri con cui si sarebbe coperto il volto fino alle cittadelle del deserto roccioso. Sapeva che anche per le creature come Elyim il Crepaccio Nero non era sicuro, come per nessuno, uno spaccato nel mezzo del deserto che racchiudeva il potere schiacciante di diversi Jiin, nonché la loro casa, abbastanza lontano dalla civiltà ma non abbastanza da essere stato risparmiato dal risentimento della guerra che imperversava da anni.
«Sai arrivarci?»
«Troveremo una guida, ci faremo portare alle rovine dell’antico palazzo adiacente, da lì il Crepaccio è visibile.»
Già lì il loro viaggio si sarebbe fatto estremamente complicato. I Jiin adoravano le rovine e quelle erano la loro casa da secoli, non si sapeva di chi fossero, molti dicevano che non fosse altro che un’antica popolazione, o forse un antico regno di cui non rimaneva altro che lo scheletro del palazzo centrale.
Con un movimento veloce si infilò le armi alla cintura intorno alla vita.
«Quale Jiin ti deve un favore?»
«Non ti è necessario saperlo.»
Elyim sbuffò, poggiando la testa contro il mobile con un tonfo, «come prenderemo la monorotaia?»
La sua voce cantilenante gli diede ai nervi, tutta la sua preoccupazione per i suoi polsi venne sostituita dal desiderio di vederlo nuovamente addormentato e zitto.
«Ci copriremo il volto con i veli, nascondendo i tuoi capelli sotto uno di quelli e i tuoi occhi dietro gli occhiali protettivi da saldatore. Ho i permessi per muovermi sulla monorotaia, avremo una delle
piccole cabine e nessuno verrà a disturbarci.»

Elyim nascose un risolino dietro uno sbuffo. «Ti piace l’idea. Che pervertito.»
Dokor si voltò vedendo la scintilla negli occhi di Elyim, non sopportava quei commenti, soprattutto considerando quello che era successo tra loro anni prima.
«Smetti di parlare a vanvera. Vedi di riposare, alle prime luci partiremo» si stropicciò gli occhi, sedendosi a una delle sedie del tavolo.
«Che bravo paladino.»
Dokor avrebbe voluto rispondere tenendo il suo tono di sfida, era lui che era stato rinchiuso in cella per giorni e che non riusciva a reggersi in piedi per quanto tentasse di nasconderlo.
Ma rispondere voleva dire portare avanti quella piccola battaglia ancora per molto, alla fine gli avrebbe concesso di avere l’ultima parola per quella sera.
Portò gli occhi verso la finestra dalla persiana di legno chiusa. Se ben ci pensava Elyim era sempre in grado di vincere avendo l’ultima parola, Dokor era orgoglioso ma non poteva competere con una creatura nella quale era certo scorresse fuoco al posto del sangue.
Gli piaceva lasciarlo vincere, il silenzio che seguiva non lo metteva mai a disagio, Elyim era orgoglioso ma non si vantava della ragione, lasciava aleggiare tra loro un’aria che col tempo si era tramutata in semi complicità.
Dokor percepì il suo respiro farsi più profondo, irregolare. Si voltò vedendo la testa di Elyim ciondolare e le mani poste in grembo.
Le palpebre si muovevano a piccoli scatti. Non era in una sonno profondo ma quantomeno stava riposando, non poteva aspettarsi di certo di vederlo completamente inerme in un momento di debolezza pieno.
Era certo che al primo movimento avrebbe spalancato gli occhi pronto a scattare.
Dokor non si mosse e il silenzio non fece che pesare sulle sue spalle.

***

La mattina seguente si passò il velo scuro intorno alla testa coprendo una parte della testa e lo fissò in modo che gli coprisse anche il volto dal naso al mento, sistemò le armi nella fondina e due pugnali sotto la casacca che portava. Una volta presa la sacca si voltò verso Elyim, liberando la corda che lo teneva inchiodato al mobile.
«Allora? So che ti piace dare sfoggio del tuo potere su di me ma dovrò coprirmi anche io, no?» la velata sensualità della sua voce mischiata al disprezzo del suo volto furono il buongiorno che Dokor si aspettava, ignorò le sue parole e le mani alte verso di lui per essere sciolte.
Gli passò il velo sulla testa e glielo sistemò sul volto allo stesso modo in cui lo aveva lui, gli occhi rossi di Elyim non si staccarono dal suo volto, osservando ogni suo minimo movimento, quando percepì il suo respiro sulla sua mano non fu in grado di reprimere dei brividi.
Avrebbe voluto che fossero banali brividi di ribrezzo. Lo avrebbe desiderato ardentemente, avrebbero reso tutto più facile.
«Questi puoi indossarli da solo» gli passò degli occhiali da saldatore a doppia lente, venivano portati da coloro che forgiavano le armi o da quelli che avevano la sfortuna di nascere con gli occhi troppo chiari e deboli per la forza del loro sole in quelle terre.
Elyim li prese in mano e li indossò senza parlare per un momento. «Che parte devo interpretare?»
Dokor non riuscì a trattenersi.
«Una che ti sia facile, non dovrebbe essere difficile, sai fingere per bene» sputò indignato.
«Non ti starai confondendo con te stesso?» Elyim portò gli occhiali sul volto, il rosso venne inghiottito e coperto. Dokor strinse la corda tra le mani tirandola verso di sé e facendo sì che Elyim fosse costretto a muovere qualche passo in avanti verso di lui.
Il suo aspetto con i capelli e gli occhi coperti era abbastanza ordinario, la veste bianca sotto era abbastanza lunga da coprire il suo corpo e la casacca sopra di un semplice marrone chiaro con le maniche che coprivano le manette che gli legavano le mani.
«Devi stare vicino o vedranno la corda.»
Elyim gli rivolse uno sguardo indignato. «Credevo che ti piacesse l’idea.»
La città era ancora in fermento mentre uscivano da quella stanza. I festeggiamenti sarebbero dovuti finire da un po' ma insieme all’inizio del periodo delle Piogge era avvenuta la cattura di un terrorista, motivo per cui si poteva ancora respirare un’aria di festa.
Le persone si aggiravano per le botteghe e i mercati sulle strade con entusiasmo, l’aria era densa ma più umida, segno che di lì a qualche giorno sarebbero scesi acquazzoni dal cielo, sopra ogni casa erano state sistemate le tubature dirette all’interno per la raccolta dell’acqua dal cielo, ampolle di vetro erano sistemate sulle piante in modo che potessero nutrirsi dell’acqua.
Il mercato era in fermento e la monorotaia strideva in lontananza in continuo movimento, si immersero nella folla camminando nella grande via centrale della città. Dietro i loro banconi di legno i mercanti vendevano i loro prodotti; era possibile trovarvi di tutto, sui mercati fissi, dalle strutture solide e piantate nel terreno riportavano tutto ciò che c’era di tradizionale nel loro territorio.
Le carovane dei mercanti nomadi erano più particolari, strutture non fisse e sempre pronte al prossimo spostamento, banconi in ferro leggero pronti ad essere smontati e caricati sulle carovane che attraversavano il deserto per arrivare nelle città vicine o lontane che fossero, pronte a tornare con nuovi prodotti.
Le tende venivano piegate e montate alla necessità.
Diversi ragazzini correvano facendo volare libellule meccaniche dalle ali veloci in grado di cavalcare il vento, Dokor le vedeva finire sempre sopra qualche casa o qualche finestra, ricordava che da bambino ne aveva trovata una così, benché avesse le ali rotte l’aveva trovata affascinante.
Elyim camminava a pochi passi dietro di lui, non riusciva a vedergli gli occhi ma era certo che si stesse guardando intorno. Erano anni che non tornava lì, per Dokor non era cambiato molto ma era certo che Elyim riuscisse a cogliere molti dettagli differenti. I mercanti vendevano nuove spezie di territori lontani, le finestre delle case erano state sistemate in modo che le giunture fossero ermetiche e potessero proteggere gli interni dalle tempeste di sabbia.
Mentre camminava Dokor si fermò sentendo la corda tirare, si voltò di scatto vedendo Elyim fermo ad osservare un punto nel mezzo del mercato.
Seguì con lo sguardo il suo, stava guardando la costruzione sulla casa adibita a raccogliere la pioggia, una creazione in metallo ben assembrata, sui lati erano stati applicati dei simboli runici nei punti in cui i filtri avrebbero purificato l’acqua che sarebbe scesa lungo il tubo, giungendo nella casa pulita dalla sabbia che trasportava con sé.
Elyim ne aveva visto i prototipi ma non li aveva mai osservati costruiti direttamente sulle case. Dokor avrebbe voluto osservare quella scintilla di stupore accendersi nei suoi occhi.
Scosse la testa e tirò leggermente la corda, facendolo voltare verso di lui e incitandolo a continuare a camminare senza parlare.
Nessuno prestò troppa attenzione a loro per fortuna, gli schiavi erano molto noti nel deserto e quello che Dokor trovava spregevole ora era tornato a suo vantaggio. L’unica cosa importante era raggiungere la monorotaia.
«Quindi ti piace davvero eh, io prima ci scherzavo un po' su.»
«Che?»
«Portarmi in giro al guinzaglio, darmi ordini, tenermi così legato a te. Ora magari dopo anni ho scoperto il vero te. Pensavo però fossi tu a trovare piacevole avere un guinzaglio visto come esegui gli ordini.»
Dokor pregò una qualsiasi divinità di dargli la forza di non abbandonare quella follia per l’irritazione che quell’essere era in grado di scatenargli.
«Non potevano sigillarti la bocca.»
«Perché mai? La mia bocca sa fare così tante cose.»
Con uno strattone Elyim allungo le braccia afferrando una libellula volante, le ali attaccate a piccoli arti metallici si muovevano veloci per tenersi in aria mentre il vento non era forte, sapevano cambiare la velocità a seconda della necessità. Elyim la osservò inclinando appena la testa di lato, mentre un bambino dai capelli castani lo indicava piagnucolando che era il suo gioco.
Elyim lo ignorò fino a che Dokor non si voltò e glielo strappò dalle mani, rilanciandolo al bambino in modo che lo seguisse mentre volava in aria. Elyim era dispettoso ma non infantile, semplicemente la sua curiosità da creatura Efir aveva molto spesso la meglio su di lui, non poteva resistergli, esattamente come per il raccogli pioggia. Si guardava in giro, attento.
Lo stridio della monorotaia gli fece finalmente tirare un piccolo sospiro di sollievo, erano quasi arrivati.
Le case cominciarono ad assumere un aspetto più nobiliare, si innalzavano verso l’alto in marmo bianco, con entrate e colonne, per raggiungerla ci era voluta più di un’ora.
La monorotaia era singola e per questo aveva diversi vagoni, tutti costruiti in ferro. Il binario su cui correva si andava perdendo verso le colline desertiche nella quali la città svaniva e la vista si riempiva della sola sabbia.
Il ferro che la componeva era spesso per poter resistere alle intemperie e ai possibili attacchi. Le vetture sputavano fuori fumo che si agglomerava per poi perdersi per aria, sulla fiancata ferrea erano impresse rune geroglifiche che venivano ravvivate a ogni viaggio per permettere alla magia di aiutare il suo viaggio e renderlo più semplice fendendo l’aria che poteva divenire pesante in particolare durante le tempeste di sabbia, i vetri erano spessi il doppio.
Dokor aveva sempre trovato difficoltà nell’unire quello spettacolo di tecnica e meccanica insieme alle statue che adornavano la piazza centrale richiamando al loro antico passato.
C’era più folla del solito, molti stavano tornando alle loro case nelle città vicine, non erano molti a potersela permettere, solitamente la gente comune preferiva le carovane, erano riusciti ad accettare i cammelli meccanici che rendevano il viaggio più sicuro ma quel mostro di ferro era ancora troppo innovativo, solo le famiglie più altolocate se lo permettevano.
«Allora?»
Dokor si osservò intorno, c’erano diverse guardie che controllavano le persone, in quanto non era raro che ci fossero furti e fuggitivi che tentavano di salire sui vagoni, erano abbastanza vicini ai bassifondi della città.
Si voltò verso Elyim, il suo tono era stato basso ed effettivamente gli sembrava che camminasse un poco più curvo, anche se fingeva di essere a suo agio. Dokor aveva dimenticato che anche sul treno erano presenti rune che allontanavano le creature Efir e i Jiin, una sorta di magia che secondo le loro parole era come un lento veleno, andava in contrasto con la purezza del loro flusso, li conteneva e li schiacciava e molte volte non riuscivano a schermarsi da quelle intossicazioni, il ferro in più non aiutava.
Elyim sollevò lo sguardo ed era certo che vi fosse ira dietro quelle lenti.
Dokor prese a camminare verso la fiumara di viaggiatori presenti scesi o in partenza, puntando a un vagone nel mezzo, non aveva alcun permesso ma a lui come a tutte le famiglie facoltose bastava mostrare il simbolo della propria famiglia, Dokor avrebbe mostrato quello della famiglia di Calimath per evitare di coinvolgere il palazzo reale.
La moltitudine di voci copriva gli altri rumori e per passare Dokor si fece largo tra la folla, mostrando il sigillo, uno scarabeo viola. La guardia lo osservò e fece un cenno con la testa.
«Posso avvertire della sua permanenza, sono presenti anche carovane completamente libere, sarebbero a vostra completa disposizione.»
Era grado di non aver dovuto mentire su una qualche parentela con la famiglia Dreimath, per quanto era certo che mentire su quello non sarebbe stato complicato, tutti coloro che si trovavano lontani da palazzo avevano difficoltà a capire le loro parente e le loro relazioni. Dokor doveva ammettere che delle volte ne aveva anche lui.
«No. Devo muovermi velocemente per questioni interne al palazzo, prenderò qualsiasi carrozza con il mio adepto.» Aveva usato un tono educato ma aveva dovuto modulare la sua voce, senza escludere una nota di autorità.
Una volta saliti dentro l’aria era meno densa e più fresca, merito delle rune e degli impianti meccanici che a quanto ne sapeva depuravano l’aria.
Dokor prese un profondo respiro, l’interno era decorato con un tappetto dai disegni ornamentali, ma per il resto erano molto sobri e le lampade erano luminose, le pareti erano state dipinte di un bronzo chiaro ma brillante.
Dokor camminò fino a che non trovò una cabina vuota nel centro, aveva puntato al centro della monorotaia di solito destinata alle famiglie più facoltose. All’interno della cabina erano presenti sedute per due rese morbide dalle piume rivestite di cuoio, le porte in ferro scorrevano e la luce entrava dalla grande finestra lì presente.
Chiuse la porta a chiave dietro di sé, ben sapendo che nessuno avrebbe provato a riprenderlo per averne occupata una intera solo per due. Sciolse i polsi ad Elyim e si mise la chiave in tasca.
Elyim si guardò intorno levandosi gli occhiali e lasciandosi cadere seduto con un sospiro.
«Come ti senti?»
Elyim si voltò verso di lui, passandosi la mano sul volto per levarsi il velo e lasciar ricadere anche quello affianco a sé, prese alcune sue ciocche di capelli e iniziò ad intrecciarle tra loro, con la luce del giorno scintillarono come metallo fuso.
«Benissimo, era da un po' che non facevo un viaggio rilassante. Se poi mi porterà lontano da questo schifo di città tanto meglio.»
«C’è da mangiare.»
Dokor indicò con un cenno della testa il cesto di frutta posto sul piccolo tavolino tra i due divanetti.
«Avrei bisogno di qualcosa di più sostanzioso» le sue pupille si erano dilatate per la fame ma rimase composto.
Dokor corrugò la fronte. «Posso ordinare qualcosa.»
«Non voglio la vostra merda e non voglio la tua pietà.»
Dokor non riuscì a trattenersi dal commentare. «Ti piacevano i piatti elaborati della… della famiglia Dreimath.»
Dokor dosò il proprio tono, non era certo se dire o meno il nome di Calimath, era stato il suo maestro e l’aveva amato come la figura paterna che non era mai riuscito a vedere in suo padre. Dire quel nome ad alta voce non avrebbe giovato ad Elyim come non avrebbe aiutato lui o la sua missione.
Non sapeva nemmeno perché stava facendo quella domanda.
Elyim assaporò la frutta che si trovava davanti, i suoi occhi si allontanarono vero il paesaggio esterno, la monorotaia aveva iniziato a muoversi e un leggero dondolio cominciò a cullarli facendo ondeggiare i loro corpi.
«Certo, sapeva come cucinare piatti decenti, aveva dei gusti molto più simili ai miei.»
Era come se un fantasma fosse lì ad osservarli e nessuno volesse ammettere la sua presenza, Dokor non sapeva spiegarsi il motivo ma per un attimo gli parve di vederli lì, attaccati alla sua schiena e non sapeva dirsi se per proteggerlo o per appesantire il suo camminare. Per un singolo istante gli sembrò di provare pietà.
«In ogni caso dovrai accontentarti, siamo in viaggio e devi essere in forze.»
«Starò subito meglio se starai zitto e smetterai di fare il curioso. Anzi sai quando starò in forze? Quando sarai sotto tre metri di sabbia.» Il suo tono era denso di veleno, poi si lasciò cadere sfatto sulla poltrona.
Dokor fece spallucce, «era solo un consiglio.»
Si mise seduto, mentre Elyim finiva di intrecciare i capelli in una lunga e lenta treccia che lasciò ricadere lungo la spalla.
«Niente consigli, mettiamo in chiaro le regole.»
Elyim alzò gli occhi al cielo. «Non siamo nell’esercito, rilassati» si poggiò allo schienale.
Dokor lo ignorò.
«Non esci di qui, mi occupo io di tutto, tu dormirai legato qui e lo sarai per tutto il viaggio. E qualsiasi cosa tu debba fare, anche pisciare, non ti serve nessuna privacy, ti controllerò in ogni caso.»
«Che romantico, guarda che solo perché sono un Efir e sono disinibito non vuol dire che tu possa liberamente guardare qualsiasi cosa, dove hai lasciato il tuo fascino? Avrai poca fortuna in amore.»
«Non che mi faccia piacere starti appiccicato ma non mi posso fidare.»
«Sembra che il rapitore qui sia io e non tu. Rigiri sempre tutto a tuo favore e sarei io quello di cui mal fidare.»
«Rapito? Mi hai seguito spontaneamente.»
Elyim inclinò a testa di lato poggiandola poi indietro, socchiudendo gli occhi. «Spontaneamente, che parolone. Non avevo molte alterative.»
Dokor sapeva che avrebbero potuto portare avanti quel botta e risposta per ore ma semplicemente non ne aveva voglia, avrebbe solo voluto rilassare i muscoli e zittirlo. Ma come ben sapeva era difficile vincere avendo l’ultima parola. L’assassino lì dentro era Elyim e non gli avrebbe concesso di vincere tramite i suoi raggiri.
«Queste sono le regole, puoi seguirle come no. Dovessi trascinarti dietro sulla spalle.» Replicò brusco.
«Va bene come vuoi, non ti alterare, sei davvero peggiorato. Parlami del Jiin, sarà anche in debito con te ma io ho sangue Efir, so contrattare meglio con loro e potrebbe essere utile.»
Dokor si mise seduto prendendo un frutto e poggiando la sacca accanto a sé. Il succo fresco gli scese in gola e la polpa dolciastra gli diete la forza di continuare quel discorso, cominciava a sentire la stanchezza sugli arti e nella mente, avrebbe voluto dormire e già temeva quel momento.
Dalla sacca tirò fuori la mappa stendendola sul tavolo tra di loro, Elyim rimase nella sua posizione ma sapeva che lo stava ascoltando.
«Il Jiin faceva parte della corte sud, dopo lo scontro che l’esercito ha avuto due anni fa si erano dispersi, molti Efir li ho visti chiusi nelle carovane schiaviste.» Caricò la parola di amarezza, non perché avesse accanto un Efir, Elyim non si era neanche mosso. «Poco lontano un gruppo stava cercando di incanalare l'energia del Jiin all’interno di una lampada, li ho fermati e il Jiin mi è stato
riconoscente.»

Ricordava ancora le urla del Jiin, erano rare da sentire e da quel momento aveva capito perché, il lamento di un Jiin intrappolato è inudibile e una volta liberato non mostrerebbe mai il suo dolore ma un Jiin che sta venendo catturato lanciava sibili e urla simili a delle unghie grattate contro una parete liscia, erano tanto piene di risentimento e di ira, di disperazione, che per un momento quando quegli occhi gialli e innaturali si erano posati su di lui, aveva creduto che l’avrebbe ucciso.
Sarebbe dovuto rimanere nel suo, avevano vinto la battaglia, avevano fatto prigioniero coloro che si erano schierati contro la sua gente e che avevano assaltato un villaggio vicino ma davanti quelle file
di Efir non riusciva a non vedere quali pezzi sarebbero finiti sul mercato e quali, i più giovani e i più belli, incatenati a letti di nobili facoltosi, prima di venir smembrati.

Il Jiin aveva liberato tutte le creature e Dokor sapeva che sarebbe successo, lo aveva liberato lo stesso.
«Eroico.»
Ignorò quel commento, in realtà non avrebbe saputo come rispondere. Il Jiin stesso gli aveva rivelato quanto incongruente fosse il suo cuore nelle azioni e nei desideri.
Se lui li combatteva doveva accettare quello che avveniva dopo, gli Efir dell’Arkadia non si facevano scrupoli ad uccidere chiunque si mettesse sulla loro strada, che fosse l’esercito o un villaggio innocente. Sentiva ancora il puzzo dei corpi marci aggrovigliati all’edera rossa, aveva visto corpi sepolti dalla sabbia, mura distrutte e bambini piangere disperati.
«Ti ha detto il suo nome?»
«Sì, perciò potrò richiamarlo quando sarà il momento. La sua magia è antica e potrebbe velocemente liberarci da questo vincolo.»
Elyim aprì gli occhi, vagamente interessato e scosse le spalle irriverente. «Sicuramente, non hai altri desideri?»
Dokor rimase in silenzio davanti quell’improvviso cambio di discorso.
«Lo sai no? Potrebbe aiutarti in qualsiasi cosa e tu lo usi per un vincolo?»
«È la cosa più logica ed efficiente da fare ora.»
Un verso di frustrazione lasciò le labbra di Elyim. «Alla malora la logica, sto parlando di altro.»
«Ora non abbiamo tempo e non è importante.»
«Rispondi sempre uguale eh. Che noia.» Elyim chiuse nuovamente gli occhi, il dondolio della monorotaia sembrava infastidirlo, era lievemente più pallido.
Dokor invece non si sentiva meno stanco di lui e decise di bloccare qualsiasi ricordo stesse sgorgando dalla sua testa.
«Hai pensato alla loro magia? Questo Jiin ti dovrà anche un favore ma gli altri no, se ci sarà qualche Jiin libero o qualche purosangue Efir saremo sottoposti alla loro magia.» Elyim sembrava
pensieroso. «E la mia magia è bloccata, sarò carne da macello se loro vorranno.»

«Non succederà.»
«Avere il bisogno di proteggermi non ti rende onnipotente. Tu troverai anche romantica l’idea di morire così ma a me ripugna.» Elyim parlò con noncuranza, osservando con criticità un frutto
leggermente più rovinato degli altri.

Dokor sbuffò, chiudendo la mappa e passandosi una mano sugli occhi. Aveva pensato a quella evenienza ma si era anche detto che una volta vicini a quel problema avrebbero trovato un modo per risolvere, d’altronde non era solo e per quanto gli costasse era certo che con Elyim avrebbe trovato un modo per uscire di lì.
«Accetterò consigli quando smetterai di fare il bel Efir ironico e inizierai a pensare a una soluzione. L’ultima volta che hai portato avanti una strategia ti sei ritrovato in catene.»
«Sapevo di avere ancora fascino su di te.» Sorrise in maniera irritante, per poi sistemarsi sulla poltrona. «Non sfoggiare troppo la tua fortuna, la ruota gira e io farò in modo che la mia ti schiacci.»
Dokor per un momento non seppe cosa rispondere, si chiese se una risata isterica fosse troppo.
«Ora che ci siamo scambiati promesse d’amore possiamo andare avanti ed escogitare qualcosa.»
«Io non devo escogitare nulla, se non la mia fuga. Sono un prigioniero, non era stato detto da nessuna parte che dovessi aiutare, te l’ho chiesto ricordi? E tu mi hai risposto che non dovevo sapere nulla e stare zitto.»
«Se devi fare quello che dico vai fino in fondo e stai anche veramente in silenzio.»
Elyim fece per replicare ma il pallore sul suo viso si espanse e per un momento Dokor pensò che avrebbe vomitato. Rimase in silenzio per una manciata di secondi con il volto basso, «devo dormire...»
Deglutì ed affondò i denti nel labbro inferiore.
«Dormi, ti legherò se avrò bisogno di dormire anche io.»
Elyim lo guardò sollevando lo sguardo. Il suo orgoglio si era spento e la sua faccia strafottente era sparita lasciando spazio al malessere che provava, una smorfia amara si impadronì di lui mentre poggiava la schiena contro il divano e si allungava.
«Ti fa piacere?»
Era amareggiato e finalmente Dokor riuscì a scorgere qualcosa al di sotto della sua corazza. Aveva creduto di sapere quale fosse il vero Elyim, negli anni aveva dubitato ma quell’espressione spenta e fioca come una latenza quasi consumata non sapeva ancora interpretarla.
Non riusciva ad accettare che fosse arrivato ad accogliere sul proprio volto un’espressione del genere, delle emozioni del genere, come se fosse pronto a mollare da un momento all’altro.
Eccoti. Tu sei anche questo ora. Forse lo sei sempre stato. Tu sei tutto questo ma io non riesco ad afferrarti mai.
Uno spiraglio al di sopra di quella strafottenza e boriosità che andava esasperando dalla mattina alla sera, l’aveva vista anche all’accademia ne era certo ma l’aveva dimenticata e rivederla dietro le sbarre lo aveva colpito, era come se in parte Elyim avesse sempre aspettato quel momento.
Avrebbe potuto approfittare di quel attimo, colpirlo per affondarlo, Elyim aveva colpito e colpito senza mai voltarsi a vedere se stesse bene, che Dokor riuscisse ad accettarlo o meno.
Eppure quella sensazione strisciò in lui come veleno, avrebbe voluto estirparla da sé e sperava che quel viaggio riuscisse a liberarlo da quel tormento. In quel momento decise di non ribattere, decise di non voler comprendere cosa provasse e di non rischiare di esporsi troppo. Non riusciva a farlo affondare, era ancora troppo presto, sarebbe affondato anche lui.
«Dovrebbe farmi piacere? È per questo che siamo arrivati a questo? Ci ha reso solo più spregevoli ed egoisti.»
Dokor non lo guardò. Elyim rimase in silenzio per alcuni secondi, poi si voltò di lato, la treccia scivolò dietro la sua schiena toccando il pavimento. «Sembra non bastare mai.»
Dokor non rispose, nonostante avesse sentito del risentimento nel suo tono aveva anche percepito quanto fosse caldo, come quello di un amante.
Il suo corpo fu scosso da brividi e decise di non girare lo sguardo verso Elyim. Sapeva già cosa lui provasse nei suoi confronti e aveva ben accettato di essere odiato, prima ancora che la morte delle persone a loro care creasse una voragine tra di loro, eppure non era in grado di interpretare quella frase, Elyim aveva imparato molto bene l’arte della parola da Calimath; cosa voleva dire? Che voleva vederlo più spregevole? Non gli sarebbe stato troppo difficile.
Sentiva un formicolio sulla nuca e un fuoco ardergli nel petto come una lenta minaccia, era certo che fossero gli occhi di Elyim su di lui.
Dokor osservò le dune sabbiose e il cielo farsi arancione fino a che non percepì il respiro di Elyim alleggerirsi e regolarizzarsi, prese un bel respiro osservandolo di nascosto.
I ricordi lo investirono; tutte le notti che aveva passato ad osservarlo di nascosto quando dormiva, quando dava il suo ringraziamento alle stelle e la luna che illuminava la sua pelle rendendola eterea.
Avrebbe voluto negare con tutto se stesso, anche solo pensarlo era nel suo animo regale un tradimento e nel suo intimo un tormento, una debolezza che aveva tentato di gettare via.
Ma era difficile dimenticare quanto male gli avesse fatto.
Quanto male gli faceva ancora.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 -passato I- ***


CAPITOLO 7

-Elyim passato I-

Erano passati tre anni da quando Calimath lo aveva preso sotto la sua ala. Elyim aveva iniziato a studiare e a conoscere la sua magia, come Calimath gli aveva predetto la vita che gli aveva offerto era migliore della precedente ma non meno pericolosa, al di fuori di lui, tutti in quella famiglia lo osservavano come se fosse un parassita.
Non osavano andare oltre con le parole ma parlavano tramite i loro sguardi. Molte volte era rimasto solo in quella casa, Calimath era solito recarsi al palazzo reale per offrire i suoi servigi in quanto era un membro importante della corte e quando non era lì a richiamarlo era l’Accademia nel quale si andavano formando i futuri soldati o i futuri maghi di corte.
Elyim non era interessato a partecipare a quel circolo di esaltati fino a che non aveva constatato quanto tempo avrebbe dovuto passare a fare il ricco annoiato all’interno di una casa che gli era nuovamente ostica. La sorella di Calimath, Samia, non aveva perso tempo a tagliargli i capelli quando era stato necessario e a farne delle ciocche per ogni membro della famiglia, gli aveva strappato ben due denti che dondolavano esordendo che quello era il minimo pagamento che gli dovesse.
Elyim glieli aveva lasciati e poche settimane dopo aveva visto che portava al dito un nuovo anello bianco e levigato.
In quegli ultimi mesi il suo aspetto stava affrontando diversi cambiamenti, nonostante avesse raggiunto i sedici anni da poco il suo corpo era pienamente sviluppato al contrario della sua magia e delle sue capacità e controllarle cominciava a divenire un problema. Aveva chiesto a Calimath di essere portato con lui nella sua missione in città e aveva deciso che presto gli avrebbe chiesto di seguire l’Accademia.
Lì avrebbe potuto mettere in gioco il proprio corpo e la propria magia e avrebbe potuto scegliere cosa fare in futuro.
«Ho fatto in modo di farti venire ma devi starmi dietro. Questa è una questione privata che riguarda la famiglia reale.»
Elyim annuì, assorto dai pensieri mentre il paesaggio fuori dalla carovana in ottone cambiava aspetto. In lontananza poteva vedere la monorotaia di ferro, ottone e fumo puzzolente che attraversava la città, un insieme di ingegno notevole e tuttavia Elyim benché doveva ammettere che erano molto più pratiche e facili da gestire, tuttavia la vedeva come un oggetto pesante e sgraziato, non riusciva ad apprezzarla del tutto, preferiva i cavalli, il rumore degli zoccoli sulla roccia e non lo stridio delle ruote, addirittura era portato a preferire i cammelli con il loro dondolio continuo.
La carovana sobbalzava lievemente sui ciottoli della strada rialzati ma le poltroncine interne erano abbastanza imbottite da non lasciargli percepire quel fastidio, i vetri erano puliti e gli permettevano di vedere la città che gli passava davanti, colorata di un'atmosfera bronzea a metà tra la magia e la sensazione di un artificioso soffocamento. Elyim era certo che nel mezzo del deserto e delle sue corti quella sensazione non si sarebbe mai presentata.
Il suo vecchio maestro era seduto dinanzi a lui, la schiena comodamente poggiata allo schienale, la barba era curata e scura nonostante l’età che doveva avere non mostrava nessun cenno di peluria bianca, i capelli castani non coperti dal turbante, erano tagliati corti, i suoi occhi erano posati sul paesaggio che avanzava mentre attraversava le strade, osservando il panorama modificare davanti a loro. Elyim era sempre sorpreso di quanto la bassa cittadina sembrasse un mondo distante e sull'orlo del collasso, almeno da quando poteva vederla da lontano.
Elyim si concentrò sullo sguardo del suo maestro, nei suoi lineamenti, se si escludevano gli occhi, c’erano solo accenni al suo lignaggio da Jiin, eppure sembrava abbastanza perché tutti si girassero a guardarlo almeno una volta di troppo. Intorno ad essi erano concentrate piccole rughe che li increspavano ogni volta che un'emozione attraversava il suo volto, conferendogli un’aria più pesante della solita baldanza che mostrava.
Indossava una semplice uniforme da viaggio, comoda e pratica, senza nessun segno particolarmente visibile che richiamasse al suo retaggio nobile o al suo grado di mago. Pantaloni neri di pelle, stivali lucidati e fibbie strette, una lunga veste bianca con ricami violacei e una polsiera nascosta dalle maniche con il simbolo della sua famiglia, lo scarabeo viola.
Alle spalle il mantello era lungo fino ai piedi e chiuso al collo da un bottone argentato liscio, solitamente sapevano essere scomodi in caso di scontri ma per la bassa città l'anonimato doveva essere la loro prima impressione, il che era ironico dato che tutto di Elyim poteva avere qualsiasi connotazione al di fuori dell’anonimo; i suoi capelli lunghi e rossi spiccavano sotto il sole, la sua pelle era ambrata e i suoi occhi infuocati dalla cornea rossa erano caratteristici delle creature Efir di rango alto, suo padre doveva essere una figura potente tra le creature.
Le sue orecchie a punta potevano essere la parte meno preoccupante a lungo pensare, ma tutto il suo retaggio fatato da Efir si poteva ben leggere sulla conformazione del suo corpo e del suo viso, la grazia innata che lo muoveva, il suo viso efebo e immacolato, non era possibile stabilire gli anni che aveva, sapeva sembrare un bambino o un ragazzo nel pieno della sua forma nello stesso momento dinanzi uno sguardo esterno. Elyim stesso aveva smesso di contare gli anni che passavano, non se riguardavano la sua età.
Era stato fornito di qualche oggetto in più, portava occhiali tondi da fabbricante a doppia lente scura sul capo, per quanto li odiasse erano necessari per celare i suoi occhi, come lo era il cappuccio che avrebbe dovuto tirarsi sul capo una volta legati i capelli.
La sua mano destra era coperta da un guanto nero a celare le cinque dita di metallo unite alla sua carne.
«Sei mai stato in questa parte della città bassa?» Non sapeva se nel suo tono vi fosse semplice curiosità o speranza, Elyim era consapevole di aver raccontato molto poco sul suo passato. Gli occhi del
suo maestro si fecero attenti, mentre la carovana si fermava.

Dovevano destare poca attenzione, non era una missione che richiedesse degli scontri o quantomeno questo era quello che speravano.
«Sì, poche volte.»
Si comincio a sistemare i capelli con un nastro nero. Non voleva parlare con lui del suo passato, non che ci fosse molto da raccontare, semplicemente non ne era interessato. Era fuggito dai mercanti che avevano cercato di adescarlo e alla cattiveria di sua madre e in quel momento era lì, non aveva importanza raccontare se non aveva davanti un’occasione per abbeverare la sua sete di vendetta. Calimath non doveva essere coinvolto in ciò che lo riguardava nel passato.
Elyim scacciò la visione del suo maestro che veniva a scoprire tutto ciò che era stato o che scoprisse tutto ciò che gli passava nella mente, non era capace di ammetterlo totalmente a sé stesso ma teneva alla visione che Calimath aveva di lui.
Sentimenti grandi come il cielo o piccoli come formiche.”
Ciò che era passato lo avrebbe sepolto da solo, schiacciandolo come le formiche.
«Percepisco il tuo malcontento.»
«Malcontento...» Elyim ripeté quella parola, non suonava bene con ciò che provava. «Non voglio stare in quella casa.»
«Samia o i suoi figli ti hanno importunato?» Nel suo tono non riuscì a leggervi nessuna nota particolare, sembrava interessato ma anche capace di lasciarsi scivolare quell’emozione di dosso. Elyim era fiero di quelle sue capacità solo quando non venivano usate contro di lui, Calimath gli aveva detto che presto avrebbe imparato a capire le creature come lui, che sarebbe stato facile per lui osservarle e comprenderle.
Come guardarsi allo specchio.”
Ma non ne era ancora in grado e il suo maestro usava troppo spesso quella cosa contro di lui.
«È importante?» Non gli aveva detto dei denti, Calimath aveva visto solo i capelli, piccole trecce rosse che i suoi nipoti portavano dietro come talismano. Non si era espresso, l’aveva guardato ed Elyim aveva solo affermato che tanto avrebbe dovuto tagliarsi i capelli per fare in modo che gli dessero meno fastidio.
Nascose l’altra verità dietro quelle parole, ribolliva in lui una rabbia celata dalla finta indifferenza, erano parenti di Calimath e non avrebbe potuto ferirli, non che a lui importasse del loro bene. Ma era un Efir, doveva molto a Calimath e quel debito era profondamente radicato in lui.
Non poteva del tutto mentire, così aveva celato la verità. Non si era più tagliato i capelli da quel momento ed era certo che Calimath lo avesse notato senza mai parlare.
«Lo diventa se lo è per te.»
Sapeva di non poter ancora vincere quelle piccole battaglie. Elyim non riusciva a capire come Calimath celasse dei mondi dietro semplici frasi. Chiara e limpida era stata la sua risposta e tuttavia aveva creato della nebbia nella sua mente; era interessato al suo bene? Se non lo era perché aveva chiesto? Se per lui fosse stato importante lo avrebbe rivelato a Calimath immediatamente e quella conversazione non sarebbe avvenuta. Elyim aveva letto che le creature come lui o come il suo maestro, che fossero anche solo per metà di tale retaggio erano direttamente collegati al territorio che li circondava, questo formava il loro aspetto e le loro caratteristiche, la loro magia e molte volte il loro carattere.
Dentro di loro confluiva l’Icore stesso della terra e di tutte le creature viventi, come poteva Calimath escludere dalle sue parole toni ed emozionali? Apparire sempre impassibile dinanzi a tutto. Gli Efir erano pericolosi proprio per le loro emozioni.
Elyim si lasciò sfuggire un verso stizzito e osservò come le labbra del suo maestro si arricciarono sotto la barba.
«Voglio imparare di più.»
«Mi va bene, ma approfondiremo l’argomento dopo.»
Il suo maestro lo osservò mentre si tirava su il cappuccio per poi aprire lo sportello, Elyim si sistemò gli occhiali tondi sugli occhi per poi seguirlo al di fuori stando attento a nascondere i suoi capelli al di sotto del cappuccio.
Tra le piccole case della città bassa l'aria sapeva dell'acqua di sentina e del fumo che arrivava dalla monorotaia, delle fabbriche e raffinerie circostanti che con il vento di quei giorni avevano innalzato la sabbia sopra il cielo scuro, il sole faticava a far risplendere i suoi raggi. La città di bronzo si ergeva al di sopra di un terreno poco più rialzato, rigoglioso, in grado di far risplendere il bronzo dei palazzi alla luce del sole, rilucendo come un gioiello lontano.
La bassa città si arrampicava in una parte del terreno più incavata verso il basso e mano a mano sembrava sprofondare sempre di più, facendo erigere quel lontano luccichio dorato come sempre più alto. Elyim poteva quasi immaginarsi i grandi fondatori della città riunirsi dopo la guerra con le creature e tracciare delle linee sulla cartina, il luogo per il loro retaggio privilegiato e il buco dove lasciar cadere e marcire tutti coloro che rimanevano indietro, tutte le creature scomode rimaste incastrate nel mondo umano.
Il terreno era concavo, le case si arrampicavano lungo di esso nella parte iniziale e per quello erano storte e disallineate, più poveri si era più si finiva in alto, il che era un eufemismo ma nei giorni di pioggia si creavano dei canali che non intaccavano la roccia ma solo le case che la occupavano e quelle in alto erano le prime a crollare, anche per la loro situazione di equilibrio poco cauta.
Le altre seguivano il terreno con un asse centrato. In lontananza poteva sentire lo scorrere del fiume, mentre le fiaccole a gas emanavano una luce un poco fioca insieme alle lanterne che illuminavano la strada, le case e le taverne ma che riusciva anche ad illuminare decemente i ciottoli della strada e le persone che ci camminavano, di sera per quello vi era il cielo che risplendeva sopra di loro tra le stelle e la luna una volta abituato l’occhio era possibile camminare senza troppe difficoltà.
Infine le strade e i palazzi erano ricoperti da uno strato maggiore di sabbia.
«Non usare le tue capacità magiche, qui non passerebbero inosservate e potremmo dover ricorrere al conflitto, brulica di mercati neri e noi siamo qui per ritrovare il principe.»
Elyim sospirò guardandolo. Non era interessato molto a quella piccola missione di recupero, aveva visto poche volte i reali e non aveva compreso tutte le parentele ed un principe eccentrico che si era allontanato da palazzo per mero capriccio era davvero patetico, non aveva nemmeno idea di che volto avesse e non era interessato a saperlo.
Lo immaginava come un paffuto bimbo dagli occhi annoiati e sbadatamente vestito come un popolano, lo divertiva abbastanza e si accontentava di quell’idea.
Per di più sapeva fin troppo bene come funzionava lì sotto per chiunque avesse del sangue misto alla magia. Si osservò le dita di metallo coperte dal guanto.
«Ho un forte spirito di conservazione.»
«Presta in ogni caso attenzione, tendi ad essere impulsivo.»
Elyim sbuffò con fastidio ma non rispose. Effettivamente sarebbe stato ipocrita, se lo aveva seguito lo aveva fatto per interesse personale, dettato dall'istinto.
Perciò si concentrò nell'osservare ciò che lo circondava, il fango attaccò i suoi stivali e sporcò il lembo finale del suo mantello mentre camminava. Respirò profondamente, già da lì riusciva a sentire l'odore di un'aria più pesante. Calimath continuò a tenere lo sguardo verso le case ammucchiate tra loro, si potevano intravedere i grandi tubi di metallo che attraversavano alcuni tetti e le persone che camminavano poco distanti da loro.
Si erano fermati proprio al limitare.
«Andiamo.»
Elyim si voltò appena verso di lui. Era passato abbastanza tempo da liberare i suoi polmoni appesantiti ma non troppo da permettergli di dimenticarsi come ci si muovesse tra quei tetti e quelle strade. Era certo che ad apprezzare quel posto lurido fosse la sua parte umana, era sempre più certo di non sbagliare nel considerarla marcia allo stesso modo.
Prima che Calimath ebbe il tempo di contestare la sua scelta, Elyim avanzò di un passo in mezzo alle persone che cominciarono a circondarli svoltò nel mezzo di due case ritrovandosi in un vicolo e inoltrandosi nel piccolo labirinto di quelle case.
C’erano donne in vesti semplici e con turbanti sui capelli che sbattevano tappeti di lana, bambini che correvano e si litigavano un gioco e diverse taverne. Il gas interno ai lampioni era in grado di illuminare la strada di un giallo pallido che si rifletteva sulla pelle di tutti coloro che camminavano lungo la via.
Con frustrazione si rese conto di non ricordare la strada, si inoltrò in un vicolo per poi arrampicarsi su una delle case di pietra atterrando sul tetto della stessa consistenza. Per quanto potessero essere poveri le case non potevano che essere resistenti in vista delle tempeste di sabbia. Si mise a correre saltando da un tetto all’altro.
La forza dell'aria circondò il suo corpo e i suoi sensi si acuirono mentre prendeva un ritmo ben centrato. Le sue ginocchia si piegarono, i suoi piedi cercarono la stabilità e il suo corpo si accucciò per poi sollevarsi senza sforzo.
Elyim sorrise lievemente, i capelli legati ora scomposti e lasciati liberi dal cappuccio ma nessuno lì sotto era solito puntare lo sguardo in alto.
Saltò su di un altro, prendendo a scendere gradualmente tra di essi avvicinandosi al centro della città, per atterrare sui ciottoli discostati della strada in un vincolo tra due case nell'ombra, finalmente riconosceva qualcosa. Prima che i suoi piedi toccassero terra si tirò su il cappuccio e lo tenne per non farlo calare, i suoi piedi toccarono il terreno con un lieve tonfo.
Per la prima volta riuscì a percepire quanto lì sotto l'intera aria riuscisse a pesare sulle spalle di chi vi abitava ancora. Prese subito a camminare, entrando in una via più principale.
I mercati lungo la strada erano aperti, macellai che tritavano la carne e ne vendevano altra sotto sale, lo stesso per il pesce, le luci rosse di una casa del piacere si rifletterono sui suoi occhiali da fabbricante, donne e uomini agghindati aspettavano fuori con sguardo languido e probabilmente drogato, il corpo esposto e il viso pitturato.
Vecchi templi della zona erano stati agghindati con lanterne rosse e gialle che risplendevano attirando gli uomini come mosche in bische e scommesse, l'odore di piscio di alcuni punti di scarico rendeva tutto più degradante.
Aveva passato i suoi primi anni in quel luogo, fino ai suoi tredici anni, quando era stato notato da Calimath e portato nel cuore pulsante della città di Bronzo. Era magro e pesto di lividi, sporco come un maiale e scorbutico ma era bastato il suo sangue di Efir a far sì che una famiglia nobile lo adottasse come figlio.
Non che questo avesse cambiato le sue condizioni familiari o lo avessero riempito di calore, era una mera questione di potere tenerlo nella famiglia, Calimath era stato chiaro sin dal primo giorno su ciò che si sarebbe dovuto aspettare da chi lo circondava, non aveva mai parlato di cosa si sarebbe dovuto aspettare da lui.
Era comunque servito affinché si trovasse dove era. Tutto quello che aveva fatto per arrivarci lo aveva cancellato, non contava nulla, al pari delle orme che ora lasciava nella sabbia resa fango, presto si sarebbero cancellate. Era lì solo per piacere personale, se fosse riuscito a trovare chi cercava sarebbe riuscito a regolare vecchi conti.
L'orgoglio era la punta d'acciaio del suo carattere, il rancore era presente in lui quanto in ogni creatura Efir, aveva sentito una filastrocca a riguardo che secondo le credenze popolare avrebbe fatto allontanare una fata del deserto rancorosa se invocata in suo presenza. Elyim l'avrebbe tanto voluto vedere se fosse possibile, d’altronde i canti della sua specie potevano essere ammalianti e intrisi di magia:
O voi le fate, voi le potenze
Siete per gli uomini temibili presenze
Andate nelle fauci del vento più amaro
Lasciate la pace in ciò che ci è caro
Uscite dai corpi e dalle menti
Perdetevi tra le nubi, tra i turbini e i deserti
Rendete agli uomini la loro salute
E una spada di fuoco vi rimandi da dove siete venute.”*
Certo era che nel ferire una creatura magica in particolare una fata, avrebbe voluto dire prepararsi anche alla portata del suo rancore. Gli Efir erano in grado di serbare il loro disappunto e il loro risentimento se necessario per secoli e se lo sfortunato era un umano destinato a perire prima della caduta di quei sentimenti, si sarebbero ben accontentate della famiglia rimanente. Elyim non era mai stato da meno.
Si fermò in tempo con i suoi pensieri, osservando una locanda che aveva davanti, dal suo interno provenivano canti disconnessi e urla di ubriachi, sentiva la musica incalzante riversarsi verso di lui, una di quelle ballate volgari che erano soliti cantare gli uomini ubriachi e a malapena coscienti, o troppo presi dall'euforia dell'alcool. Elyim si avvicinò con passo felpato, gli occhi di alcuni cominciarono a
posarsi su di lui guardinghi ma li ignorò.

Ricordava quella locanda, ci era passato davanti diverse volte, uno dei pochi luoghi che sapeva apprezzare di quel buco. Forse era il suo sangue di Efir ma aveva sempre adorato le ballate e le canzoni, seppur volgari e stonate che cantavano lì dentro.
Entrando il calore lo investì insieme ad un misto di odori. Il pavimento in legno ricoperto di paglia era rovinato dai liquidi versati e dal fango proveniente da fuori, la sabbia si infiltrava rendendolo solo più sporco. Donne con stretti corpetti neri e stecche decorate che li tenevano saldi contro i loro corpi si muovevano sinuose, con gonne di lana lavorata per renderla simile al lino e strette sulle gambe camminavano per i tavoli, i capelli erano lasciati sciolti per la maggior parte di loro, decorati con fermagli o fiori, il viso pesantemente truccato col carbone e la cera rossa per le labbra, la maggior parte di loro teneva una parte della gonna agganciata alla vita, permettendo la vista delle cosce.
La pelle scura riluceva alla luce calda delle lanterne. Gli uomini bevevano da enormi coppe di ottone e ferro, che risplendevano sotto la luce gialla delle lampade a gas alla parete e al soffitto, attaccate ad alcuni stipiti portanti sotto cui erano ammucchiate delle tresche, su un piccolo rialzo una banda di uomini suonava e tutti cantavano, chi più chi meno, una ballata.
Tutta l’aria lì dentro gli passava una sensazione soffocante sulla pelle, c’era troppo calore in un luogo chiuso benché fosse l’imbrunire.
Elyim camminò agilmente tra tutte quelle persone: alcuni erano saliti sui tavoli, coppe in mano e labbra aperte in un canto gioioso. Ascoltando bene sapeva anche riconoscerla, una ballata su di un uomo che aveva perso la fiducia in sé stesso e la ritrovava cantando con un suo amico tutte le sue lodi. Ridicola, ma Elyim l'aveva sempre trovata orecchiabile.
Nel mezzo della sala uomini e donne danzavano insieme, volteggiando con poca grazia e tanta goffaggine, ridendo e strillando tra loro battendo i piedi in basso e le mani in alto a tempo.
Era cambiato, c'erano più tavoli da scommessa con dadi intagliati dal legno che roteavano, Elyim voltò lo sguardo con un’espressione di diniego nel vedere un dado bianco e scintillante rotolare tra gli altri.
Un dado fortunato, così venivano chiamati, si chiese se le sue dita fossero servite a uno scopo tanto futile. La gente che urlava quando vinceva e quando perdeva, unendosi al coro di chi beveva e cantava fino a cadere terra senza sensi; inebriante, spaventoso e stupido.
Elyim sapeva che in pochi ricavano denaro dagli stolti che frequentavano quei luoghi. Non gli interessava nulla di quel luogo, era certo che prima o poi quel buco sarebbe presto stato riempito di sabbia e tutto sepolto sotto di essa.
«Gradisce bere?»
Elyim guardò la donna dinanzi a lui, si chiese come sarebbe stato danzare con lei in quel luogo. Con un cenno della testa le fece di no.
«Piccolo bastardo, cos'è quello il sigillo reale? Credi che qui valga qualcosa? Stai barando e ora mi ripaghi.»
Elyim si voltò verso quella voce ruvida e furiosa, un ragazzone dai muscoli prominenti era in piedi dinanzi un ragazzo più piccolo di stazza che lo fissava come se non fosse altro che un escremento capitatogli dinanzi. Dalla sua posizione riusciva a vedere poco ma riuscì a riconoscere quella specie di gorilla in piedi che inveiva contro l'altro ragazzo.
Quei calzoni scuri e quella camicia coperta da un gilet di pelle di finta buona fattura, il simbolo della sua banda cucito sopra di un rosso sgargiante, era davvero patetico.
Non dovette dire nulla per far sì che si accorgessero della sua presenza, quando gli fu abbastanza vicino fu uno di loro a voltarsi verso di lui e osservarlo.
Elyim dal canto suo fece una prospettiva più ristretta di ciò che aveva davanti, quello era sicuramente Darren, il capo banda di uno dei pezzi di terra della bassa città, come avesse fatto a divenirlo per lui rimaneva un mistero, sapeva tirare fuori l'astuzia di un lombrico e le capacità intellettive di una mosca.
Dalla sua parte aveva solo la forza bruta, da solo sarebbe durato tanto quanto il ciclo vitale di quei poveri insetti ed Elyim non aveva intenzione di lasciargli nemmeno quello.
Il ragazzo dinanzi a lui e contro cui stavano inveendo rimaneva seduto ma riuscì subito a notare la differenza con l'ambiente che lo circondava, era come una lucciola tra i moscerini.
I capelli neri erano lunghi e puliti, legati da un nastro in una bassa coda dietro le spalle, erano resi opachi solo dalla polvere che avevano preso. I vestiti non erano di ottimi fattura, doveva averli comprati in una bottega poco fuori il centro della città, il fango aveva fatto il resto ma la mantella che portava sopra era decisamente di una fattura differente, setosa e visibilmente costosa con cucito il simbolo della casata reale, lo scorpione giallo, una delle creature più pericolose e letali nascoste tra le dune desertiche.
Elyim sapeva che chi era parte della famiglia reale avrebbe potuto cavalcare le grandi creature sovrane del deserto, aveva letto che solo il re aveva la possibilità di cavalcare lo Scorpione giallo reale, se mai fosse riuscito a catturarlo e renderlo suo senza morire.
Certo, sicuramente non poteva che passare per rubata e lui poteva apparire come il capo di una banda superiore per il disinteresse che ostentava sul volto e la cura maggiore che aveva nell'aspetto, ma le sue mani e il suo viso smontarono quella possibilità davanti i suoi occhi.
Elyim notò come le mani fossero curate, o meglio, maggiormente curate, come se i calli sottopelle e le vecchie sbucciature da impugnatura fossero state accuratamente trattate con oli pregiati, la postura era più eretta, il volto dalla pelle bronzea non aveva cicatrici e non era rovinata, se non per un livido nero che copriva un occhio e spezzava la visione di un volto curato e agiato.
Poteva essere il principe? Possibile che fosse così diverso dal suo immaginario? Nella sorpresa della sua scoperta Elyim rimase qualche secondo di troppo ad osservarlo, senza accorgersi che Darren si era avvicinato a lui.
«Che hai da guardare tu con quegli occhiali?»
Lo spintonò all'improvviso, Elyim non perse l'equilibrio, era allenato ma il movimento del suo corpo fece abbassare il cappuccio, mostrando i suoi capelli.
Elyim si voltò verso di lui. Bastò solo quello perché Darren lo riconoscesse, lo sapeva, non poteva passare inosservato, in quel momento avrebbe voluto mostrare a Calimath che aveva ragione.
«Uh… non ci credo», subito il tono di Darren si tinse di una nota diversa, divenne bassa e viscida quanto il suo sorriso a mezza bocca «la piccola puttana dai capelli rossi è tornata.»
L’occhio scuro e ancora aperto del ragazzo seduto si voltò appena verso di loro. Elyim da una parte poteva essere soddisfatto, avrebbe fatto ciò che voleva e forse aveva anche trovato il principe.
Sapeva che ammirare quella taverna puzzolente lo avrebbe ripagato.

«Ti ricordi di me? Ti sono davvero mancato così tanto?»
Darren gli si fece vicino, il viso rovinato da una barba poco curata e le ferite cicatrizzate male. Fu fiero di non dover inclinare la testa per guardarlo, la sua altezza si era sviluppata tutta insieme.
Simultaneamente a quel gorilla che puzzava di birra, intorno a lui cominciò a vedere altre persone con lo stesso stemma. La ballata era finita e la musica era variata, le persone per lo più lanciarono solo qualche sguardo incuriosito e attento, per il resto, tutti continuarono a festeggiare. Elyim non voleva interrompere quell'aria gioiosa.
Una mano lo afferrò per l’attaccatura dei capelli, portandogli la testa più vicino.
«Si sente sempre la mancanza di un sacco d’oro come te, cosa hai fatto eh? Se hai ancora tutti i pezzi suppongo che tu ti sia venduto a un vecchio nobile e ti ha preso come cagnolino notturno?»
Elyim mantenne il sorriso sulle labbra.
Sacco d’oro.
Agli occhi dei più non era altro che una sacca piena di parti utili nella rivendita, un suo osso, un occhio o i capelli avrebbero fatto guadagnare a un popolano quanto bastava per un periodo di agevolezze. Se quelli come lui non erano sotto la protezione di qualcuno, finivano all’interno dei giri del mercato.
C’erano solo due opzioni e nessuna delle due vantava una posizione gradevole.
«Geloso? Ho cercato qualcuno che almeno sapesse farselo alzare.»
Nessuno doveva sapere di Calimath in quel buco. Gli avrebbe dato la versione che meritavano.
Il viso di Darren divenne livido e le labbra si serrarono tra loro, gli animi cominciarono a scaldarsi, il ragazzo seduto al tavolo si alzò disinteressato e con la chiara intenzione di non attirare altra attenzione su di sé. Elyim era più che certo che non volesse attirare la sua.
«Ora ti faccio vedere chi è il maiale tra i due.» Percepì la sua stessa voce abbassarsi e farsi cupa, l'idea di ciò che stava per compiere lo elettrizzava e riempiva di eccitazione, il brivido lungo la spina dorsale e l'elettricità lungo i suoi arti gli rizzarono i peli sulle braccia. Con un sorriso e una piccola filastrocca lanciò il suo incantesimo.
Le urla dei ragazzi intorno a lui lo fecero sorridere di più, una misera fattura bastava a farli tremare così?
Certo non era un bello spettacolo da vedere, la mano sui suoi capelli lasciò la sua presa e il corpo di Darren fu preso da scossoni e convulsioni mentre si accasciata a terra e tentava di urlare, riuscendo solo a emettere pochi gridolini.
Il volto fu il primo a mutare, gli occhi si allargarono e la testa si schiacciò, i capelli gli caddero e la pelle cominciò a mutare di colore, di un rosa più acceso e animale, le ossa mutarono la loro conformazione, le dita delle mani si chiusero e solidificarono come zoccoli, gli arti si accorciano come il busto, tutta la sua conformazione ossea si modificò sotto i loro occhi con una lentezza straziante e degli scricchiolii sinistri, le orecchie si allungarono e una coda a ricciolo spuntò fuori.
Quelle poche urla udibili divennero grugniti e quello che era un corpo umano si trasmutò in un enorme maiale deforme e steso a terra che grugniva nel tentativo di sollevarsi.
Elyim poteva ritenersi macabramente soddisfatto della sua riuscita, lo osservò per qualche altro secondo mentre si sollevata e riproducendo quei fastidiosi versi cominciava a correre per tutta la sala, i vestiti stracciati dimenticati sul pavimento e in parte ancora addosso al suo corpo mutato. Gli uomini erano troppo ubriachi, avrebbero ricordato quell'evento come un'allucinazione, degli altri non gli interessava, se lo avessero temuto ne avrebbe solo guadagnato.
Aveva passato anni a sentirsi chiamare maiale, mentre lo picchiavano fino a fargli sputare sangue, fino a rompergli le ossa.
"Le fate vengono mangiate, non lo sapevi? La tua è carne da macello, non sei niente di più che un maiale."
"Quantomeno hai un bel viso, potremmo trovarti una sistemazione prima."
"Tua madre ha già provato a ucciderti? Vieni, ti faccio vedere come si sventra un maiale."
Lo aveva visto, mentre lo tenevano fermo e aveva vomitato poco dopo nel vedere delle ossa messe in vendita. Era stato buttato nel fango con i maiali e aveva sopportato altri anni di soprusi, sua madre non era interessata a ciò.
Ricordava il giorno in cui lo avevano accerchiato e avevano tentato di abusare del suo corpo, non era interessato che fosse o meno la sua prima relazione sessuale quando al disprezzo e al disgusto che crescevano in lui come edera velenosa.
Lo avevano buttato a terra, lo avevano fatto sentire come se stesse soffocando. Se l’era risparmiata per l’incapacità di Darren di farselo venire dritto in una capanna per il bestiame.
C’è tempo tanto. Ci divertiremo un’altra volta se avrai ancora i pezzi addosso. Tanto non ci serve che tu sia tutto intero.”
Sua madre aveva deciso di tagliargli le dita solo il giorno dopo. Aveva visto una lucertola gialla poco prima, simbolo di buono auspicio ed era rimasto a guardare mentre il coltello gli tranciava le dita. Calimath era arrivato la mattina seguente.
La magia nel suo corpo si acquietò con calma, sul suo petto sentiva uno strano peso e aveva il fiatone. Non era ancora così abituato come gli piaceva credere e presto quella piccola fattura avrebbe consumato la sua energia, donando a Darren di nuovo il suo corpo, sempre che non morisse nella trasformazione inversa.
Spostò gli occhi verso il ragazzo dai capelli neri, aveva l’occhio leggermente sgranato e lo guardava come se finalmente lo avesse osservato bene. Dovette subito capire, perché non c'era paura nel suo
sguardo ma solo consapevolezza, buttò le carte sul tavolo e si avviò di tutta fretta verso l'uscita alla taverna.
Elyim lo seguì mentre i ragazzi intorno a lui erano piegati a vomitare per ciò che avevano visto o con occhi sgranati si allontanavano da lui rivolgendogli epiteti demoniaci; da maiale a demone poteva essere considerato un salto di qualità.
Accorse fuori, evitato l'enorme maiale/Darren che correva tra i tavoli battendoci contro e il freddo lo colpì, in quel momento lo senti più forte contro il suo corpo affaticato dalla magia. La musica si allontanò mentre seguiva quella figura che camminava veloce.
Una volta svoltato in un vicolo che poco più avanti dava su una piazzetta, questo si fermò.
«Smettila di seguirmi.»
La sua voce era giovane e calda, un poco più bassa della sua e in quel momento ostile.
«Siete il principe Dokor?»
le sue spalle si irrigidirono e si voltò verso di Elyim, l'occhio era acceso di curiosità e sfida, l’altro faticava a rimanere aperto.
«Se anche fosse? Che vuole un mezzo Jiin?»
Elyim sollevò un sopracciglio, era idiota? Se non sapeva distinguerlo forse era davvero un popolano.
«Devi seguirmi a palazzo.»
L'espressione del principe si fece divertita, Elyim non sapeva dire se si fosse accorto del suo errore o meno.
«Ah sì? Avrai si è no la mia età, sei di rango più basso ma mi vieni a dire con tono autoritario che io devo seguire te?»
Era davvero stupido allora. «Se aveste tenuto al rango non vi sareste ricoperto di fango nella bassa città con l'odore di sigaro addosso, siete lievemente ridicolo… mio principe» Elyim sbuffò, l'unico motivo per cui lo aveva seguito era la possibilità che rappresentava, se mai Calimath avesse visto il maiale lo avrebbe certamente ripreso per l'utilizzo della magia.
Portargli il principe e riportare di come quella magia fosse stata necessaria avrebbe salvato le sue povere orecchie. A sua sorpresa, quel Dokor sorrise divertito. Davanti a quella reazione poteva quasi trovarlo interessante.
«E se mi rifiuto?»
«Vi ci porterò comunque, non sono qui per fare giochetti.»
«Una mezza creatura che non fa giochetti? Osservando lo spettacolo di prima credo sia proprio una bugia.»
Più Elyim si faceva vicino a lui più era in grado di percepire che qualcosa lo richiamava, un’antica e dormiente somiglianza, come se alla lontana potessero avere qualcosa in comune. Ma era impossibile, il suo sangue era per metà fatato ed era l'unica metà che contasse davvero.
Se voleva testare la sua pazienza, lo avrebbe accontentato.
Sorrise. «Quindi devo rompervi le gambe e trascinarvi a palazzo?»
«Sarebbe divertente quantomeno.»
Era un sadico? Il sorriso sulle labbra di Elyim si allargò genuinamente per poi slacciarsi il mantello e buttarlo a terra. Quantomeno era elettrizzante, non un semplice e idiota bambino noioso e paffuto, o meglio, forse idiota lo era ma sembrava quasi il lato divertente della situazione.
Sarà sicuramente interessante.
Anche il principe si preparò e si ritrovarono avvinghiati a terra nel fango, cercando di prevalere l'uno sull'altro. Elyim si mosse veloce sollevandosi abbastanza da colpirlo al volto, il ragazzo sotto di lui non demorse e con un calcio lo allontanò da sé guadagnando lo spazio necessario per muoversi.
Elyim si ritrovò a terra e con uno slancio si sollevò nuovamente in piedi, il fango si era attaccato ai suoi vestiti scurendoli con macchie marroni. Il principe che stava inseguendo aveva il suo stesso aspetto disordinato, tra i capelli qualche traccia del terreno su cui era impattato, gli occhi determinati ma la postura curva, sembrava pronto ad incassare ma non del tutto all’altezza dello scontro.
Con pochi passi lo raggiunse e lo colpì al fianco velocemente senza dargli il tempo di pararsi, lo vide annaspare e stringere la labbra per il dolore, Elyim tentò di bloccarlo da dietro ma il principe fu veloce quella volta, lo colpì al volto con una gomitata costringendolo ad arretrare, lo aveva preso abbastanza bene da fargli scattare la testa indietro ma allo stesso tempo aveva schivato la possibilità che gli rompesse il naso.
Era più veloce e rude di quello che si era aspettato. Elyim si accovacciò e volteggiò sul suo piede colpendolo alle gambe per farlo cadere a terra. Il tonfo sordo del principe che cadeva lo fece scattare immediatamente sulla sua schiena, appesantendone lo scontro con il terreno sotto di lui.
Il principe era decisamente allenato ma Elyim aveva dalla sua parte più mesi di esperienza in combattimenti dove nessuno ci andava piano con lui, sospettava che il principe non avesse mai avuto un vero avversario disposto a combatterlo.
Con più facilità del previsto Elyim lo stese a terra, si posizionò dietro di lui tenendo il suo braccio in una presa scomoda dietro la sua schiena, nel suo petto il cuore aveva pompato adrenalina e la sua magia si era ridestata per un nuovo utilizzo, la zittì con un profondo respiro.
Se ne avesse usata altra avrebbe del tutto esaurito le sue forze.
«Ho vinto.»
«Non ancora.»
Qualcosa in quel tono gli risuonò di un retrogusto selvaggio. Pensava che lo avesse risparmiato? La loro posta in gioco erano le gambe spezzate o quantomeno un osso, ma mai aveva visto nei suoi incontri che i suoi avversari volessero che andasse fino in fondo.
Il fermarsi prima per gli uomini era ben accetto, per Elyim se un avversario lo avesse risparmiato in tal modo nessuno di quei pensieri lo avrebbe sfiorato. Era una fata del deserto, era orgoglioso, nessuna pietà da parte di un avversario sarebbe potuto sembrare altro se non come un segno di debolezza.
E il ragazzo sotto di lui sembrava spingerlo a continuare e a incolparlo di essersi fermato troppo presto.
Elyim sorrise, tuttavia mentre con un gesto secco fece scrocchiare la spalla del suo avversario che produsse un rumore sordo, non si spinse oltre una semplice slogatura.
Era pur sempre il principe, non avrebbe rischiato la testa per uno scontro, non per uno così futile. L'orgoglio non ostacolava la sua capacità di giudizio.
Il principe emise un verso roco dal profondo della gola, a metà tra un urlo strozzato e un ringhio, dall'unica parte di viso che poteva vedere e che non era schiacciata sul pavimento, Elyim sorgeva una luce febbrile risplendergli negli occhi ma subito dopo il suo corpo ebbe un fremito, i suoi muscoli non erano più tesi per la lotta, pian piano si afflosciano e un gemito di dolore uscì dalle sua labbra.
Elyim si sollevò in piedi osservandolo ancora, prima di vedere che dal vicolo in cui si erano infilati si avvicinava una persona, fu in grado di riconoscerla subito. I suoi occhi castani si posarono sulla scena dinanzi a lui e subito si indurirono.
«Elyim, non era questo il compito che ci era stato affidato.»
Calimath si avvicinò al ragazzo ancora steso a terra aiutandolo ad alzarsi e mettendo sulle sua spalle il mantello che indossava, osservandogli la spalla con delicatezza. I capelli neri del principe erano appiccicati al suo volto sporco.
«L'ho ritrovato come richiesto... è stato necessario per fermarlo.»
«Ne parleremo dopo.» Calimath portò una mano dietro la schiena del principe, incitandolo a camminare dinanzi a lui per poi seguirlo.
Elyim si sollevò il cappuccio con un gesto secco, il nastrino si era sciolto nel mezzo della lotta e riusciva a respirare nell'aria la pioggia che di lì a poco sarebbe precipitata dal cielo che si era fatto scuro, aveva quasi dimenticato che presto sarebbe stato il periodo delle piogge, la città sarebbe presto messa in atto per portare avanti i festeggiamenti.
Camminò dietro di loro con gli occhi fissi su quei capelli neri. Lo sguardo del principe si voltò appena verso di lui per poi proseguire ad andare avanti, in quel momento sembrava niente di più di un ragazzino che seguiva le direttive di un adulto a lui superiore, tutta la sfacciataggine che aveva mostrato poco prima si era smontata.
Risalire il borgo fu complicato, diversi occhi si voltarono verso di loro e sguardi ostili e diffidenti si fecero avanti. Elyim li conosceva bene, era certo che di lì a poco avrebbero subito un attacco se non si fosse avvicinata la loro carovana nel mezzo delle case.
Avvertiva i muscoli tesi e pronti, si sentì fremere e la magia dentro di lui si preparò ad esplodere quando una mano gli toccò la spalla, il suo respiro si velocizzò ma non appena percepì la consistenza di quel tocco socchiuse gli occhi, avvertì il proprio corpo reagire e una sensazione di calore si condensò all’altezza della sua spalla, lo aveva riconosciuto. Voltò appena gli occhi verso Calimath, non voleva che ne vedesse il pericolo che aveva avvertito e le sue pupille che sicuramente si erano ristrette.
Calimath non cercò il suo sguardo oltre quel tocco, si voltò invece nella direzione della strada che dava verso la taverna che Elyim aveva visitato, si potevano ancora udire le urla lontane e la gente che si allontanava velocemente, qualcuno doveva stare anche inseguendo il maiale.
Non ci mise più di un secondo a voltarsi verso di lui, con severità e attenzione ma senza allontanare la mano.
«Cosa è successo?»
Non poteva del tutto mentire. «Niente di pericoloso per me.» Elyim lo superò per entrare nella carovana subito dopo il principe, che si prese un intero sedile per lui, Elyim gli si mise seduto di fronte.
«Sento l'odore della tua magia Elyim.»
«Sono una creatura magica…è il mio odore naturale.»
Quando si mise seduto sul sedile di pelle imbottito i suoi occhi si scontrarono immediatamente con quelli ambrati del principe, riusciva ancora a vedere quella luce di sfida e di rabbia. Un animale chiuso in gabbia, questo era quello che riusciva a percepire da lui, la sua vicinanza gli causava un pizzicore sulle braccia, elettrico, come se la sua magia riuscisse ad entrare in sintonia con quel principe seduto scomposto dinanzi a lui.
Eppure da quando era arrivato Calimath oltre quella scintilla tutto il suo aspetto era mutato nell’ordinario di un ragazzino ribelle.Calimath si mise seduto al suo fianco, facendo cenno al cocchiere di partire. L’aria nella carovana si caricò di tensione trattenuta. Calimath si sistemò la camicia che portava.
«Perdonate le maniere del mio protetto mio principe, siamo stati incaricati di riportarla a palazzo incolume. Le azioni di Elyim non sono perdonabili ma se posso permettermi mi preoccuperò di punirlo personalmente.»
Elyim osservò con avversione l’uomo che era seduto al suo fianco. Era in possesso di imponenti capacità magiche e di un'ottima conoscenza della storia e delle scienze, forse uno dei pochi delle grandi famiglie che era stato in grado di sfruttare il suo tramandato sangue da Jiin per avvicinare le creature Efir pacificamente per la pura curiosità e per il fascino che provava per loro e che soprattutto era stato in grado di stuzzicare con il suo intelletto, facendosi insegnare rune magiche e cure mediche miracolose che non avrebbe mai potuto apprendere da solo.
Eppure dinanzi a quel ragazzo sporco, dallo sguardo annoiato che sedeva scomposto davanti a loro usava un tono servile e controllato, addirittura cercava di chiedere un favore per il suo bene.
Elyim non riusciva ad essergli grato, in quel momento riusciva solo a vedere la pazzia di quella situazione, persino lui era riuscito a battere quel ragazzo e un uomo più potente si abbassava dinanzi il suo rango unicamente familiare, Elyim al di fuori di quella sensazione sotto pelle non scorgeva altro nel principe e quello non sembrava nemmeno interessato a dargli importanza, guardava fuori la finestra mentre Calimath gli parlava.
Elyim sapeva che Calimath amava la sua terra e non aveva mai prediletto la famiglia reale o apprezzato le loro scelte di regime, non c'era il segno di una qualche tipo di lealtà in quel tono, solo la consapevolezza di un rango maggiore.
Per Elyim quello non era altro che un ragazzino che amava farsi pestare e che avrebbe pestato volentieri ancora.
Non ci fu risposta a quelle richieste, il principe si tenne il braccio ferito e parlò. «Potete guarire la mia spalla?»
Calimath, fece un cenno con il capo. Si erano già allontanati dalla città bassa e le case si erano fatte più grandi e imponenti, avevano superato il mercato passandogli dietro e costeggiando la monorotaia.
«Vi accompagnerò a palazzo e me ne occuperò personalmente.»
Elyim osservò i palazzi delle grandi dieci famiglie, erano molto vicini al palazzo e si rese conto di essere arrivati quando dinanzi a loro si aprì il giardino del palazzo reale. Nonostante quello che poteva pensare di loro Elyim lo aveva sempre trovato affascinante da guardare e poteva capire perché molti nella città bassa la chiamassero “la dimora degli dei”.
Agli occhi di chiunque sarebbe parsa come un’oasi, racchiusa nella sua bolla come un piccolo gioiello; il palazzo in marmo bianco e bronzo risplendeva ora sotto la luce pallida della luna e ai riflessi caldi delle fiaccole, si innalzava verso il cielo scuro coprendo alcune stelle al suo sguardo. Le palme erano rigogliose e il vento più freddo della notte faceva muovere le foglie.Il prato era curato e diverse fonti di acqua l’attraversavano prese dal fiume che passava al suo fianco. Le scalinate erano vuote il quel momento e illuminate dalle fiaccole poste a terra.
Guardie con indosso le loro armature corazzate si fecero avanti e nel momento in cui la carovana si fermò e aprirono lo sportello, Calimath fece scendere per primo il principe, aiutandolo sotto gli occhi attenti di Elyim che dal canto suo non si mosse. Rimase solo ad osservare, per un secondo gli occhi del principe si fermarono su di lui, non sapeva ben dire con che sensazioni stesse sostenendo il suo sguardo.
«Accompagnerò il principe dentro e gli dedicherò le mie cure, il mio protetto attenderà nella carovana.»
Elyim si chiuse da solo lo sportello osservandoli mentre si incamminarono all’interno del giardino illuminato, mentre una guardia rimaneva a controllare la carovana dove si trovava lui.
Elyim si lasciò scivolare scomposto sui sedili incrociando la braccia tra loro. Punizione, che diavolo voleva dire? Anche Calimath si sarebbe preso un pezzo di lui per mostrargli quale era il suo posto? Che sarebbe dovuto essere più cauto?
Con un verso di frustrazione batté un piede nervoso, tentando di contenere il flusso della sua magia al suo interno, era presto per sentirsi strisciare addosso il peso di una minaccia, che gli piacesse o no aveva riposto un pizzico della sua fiducia in quell’uomo e fino a che non l’avesse vista tradire voleva tenerla custodita, nascosta tra le mani di Calimath.
Non era necessario che lui sapesse, se ne sarebbe potuto approfittare, in quel modo invece qualsiasi tentativo di tradimento sarebbe stato reale e immediato agli occhi di Elyim.
Mentre pensava percepì qualcosa sulla sua mano, la sollevò ritrovandosi sopra il dorso un piccolo ragno che camminava per poi fermarsi al centro. Era piccolo abbastanza da essere innocuo, Elyim lo osservò portandolo vicino il volto, era di un colorito rossiccio, un poco di peluria ricopriva le zampe altrimenti fini. Voltò la mano seguendo il suo camminare lungo il suo palmo, era calmo come se avesse riconosciuto il suo sangue.
Simbolo del destino che si intreccia. Dove avrà lasciato la sua ragnatela? Quella di questa specie è una delle più complesse.
Elyim si chiese in che frangente la piccola creatura fosse salita sulla sua mano, aveva ancora un lembo di ragnatela attaccato al dorso, l’aria doveva averlo fatto volare fino a lui, non che fosse importante il momento, aveva recepito il messaggio che Gea* gli aveva inviato, generico sì, ma qualcosa nel suo petto si acquietò, il suo cuore rallentò i battiti e quella sensazione di pericolo scomparve.
Doveva essere un simbolo di buono auspicio, una ragnatela era andata distrutta ma il ragno era sopravvissuto ed era volato lontano. Forse il suo destino non era così avverso benché il rosso fosse un colore forte da associale al simbolo dei fili che si sarebbero andati ad intrecciare, esattamente come quelli della ragnatela che presto quel ragno avrebbe tessuto.
Lo osservò ancora un momento per poi soffiarci leggermente sopra, la creaturina si racchiuse per proteggersi e mantenersi salda, ma Elyim smise subito dopo quando lo vide librarsi in aria sotto quella piccola richiesta che aveva fatto al vento, non aveva dovuto dare un tributo per richiedere quella magia, era il ragno stesso il tributo che aveva affidato al vento, lo avrebbe trasportato lontano da qualche altra parte per permettergli di tessere la sua ragnatela.
Lo osservò allontanarsi e solo dopo si accorse che vicino la carovana qualcuno lo osservava. Si voltò incrociando gli occhi chiari di Calimath, non sapeva da quanto fosse lì ma sembrava essere stato intenzionato a non disturbarlo.
Fece un cenno alla guardia che si allontanò e salì al suo posto, facendo partire la carovana.
Il silenzio fu presto spezzato.
«Un segno benevolo?»
Elyim si strinse nelle spalle, abbassandosi poi il cappuccio.
«Generico ma benevolo, l’intreccio del destino sembra essere irruento ma… si intreccerà comunque. Era positivo, il ragno è sopravvissuto alla distruzione e ora può tessere un’altra tela.»
Quelle erano le grandi differenze tra lui e Calimath, Elyim era un purosangue e benché fosse per metà umano e Calimath vantasse capacità maggiori dettate 0dalla sua esperienza e dal suo continuo applicarsi, ben presto Elyim sarebbe stato più potente di lui.
E a sua differenza Calimath non era mai riuscito ad entrare in sintonia completa con ciò che lo circondava, non sapeva interpretare i segni di Gea o di Nut*, non sapeva salutarli e molte volte faticava a capire come ricompensarli per attingere all’Icore di ciò che lo circondava.
Tutto quello era semplicemente innato in Elyim, nessuno glielo aveva propriamente spiegato o insegnato, qualcosa dentro di lui rispondeva con naturalezza e sapeva percepire se ciò che stava compiendo era giusto o sbagliato, come sapeva cogliere i segni che la terra o il cielo gli mandavano: Una farfalla o una lucertola gialla per il buon auspicio, un ragno nero per un pericoloso intrigo, uno scorpione per il dolore, il ciclo della luna per comprendere quali notti fossero favorevoli e quali governate da influenze negative.
Ne conosceva tanti ed era certo che presto ne avrebbe scoperti di nuovi, le sensazioni che scatenavano in lui e il modo in cui il flusso che lo attraversava gli rispondeva gli fornivano tutte le risposte di cui aveva bisogno. D’altronde alla sua morte sarebbe dovuto divenire cenere, sarebbe tornato a Gea e anche lui avrebbe potuto esser parte di quei segni.
Gli occhi di Calimath si accesero come due fari. «È sempre affascinante da vedere.»
«Sono oggetto del tuo studio?» Il suo tono fu più duro del previsto ma Calimath non ne sembrò intaccato.
«Sei parte del mio apprendimento. Da te posso imparare molto più di quanto farei da solo.»
Elyim si ritrovò ad arrossire violentemente, non aveva mai pensato al loro rapporto in quei termini, era convinto di essere lui a star imparando, usando in prestito la conoscenza di Calimath per la sua magia e i suoi libri per la loro conoscenza.
Voltò lo sguardo di lato sperando che la mancanza della luce del giorno coprisse il suo volto quanto bastava.
«Se solo non fossi così impetuoso. Hai rischiato oggi ed è una fortuna che il principe sia così disinteressato a ciò che lo circonda.»
«Me l’ha chiesto lui, io non avevo intenzione di combattere.»
Calimath piegò appena la testa di lato, poi sospirò. «E di utilizzare la magia nella città bassa?»
Elyim si morse il labbro. Non poteva mentire ne nascondere la verità in quel momento.
«È solo una piccola fattura, svanirà da sola non ho la forza necessaria per farne una permanente.»
«La trasmutazione inversa potrebbe ucciderlo.»
«Il mondo ne piangerà sicuramente.»
Rispose con cattiva ironia, non era intenzionato a provare pietà per quell’essere. Darren se lo era lasciato sfuggire quando aveva la possibilità di ferirlo o di ucciderlo, Elyim non aveva lasciato nessun conto in sospeso, era andato fino in fondo.
«Non è quello il punto, prima di tutto la magia che hai utilizzato avrebbe potuto richiederti troppo sforzo nello scambio. Se fossi svenuto lì in mezzo avrebbero potuto prenderti una volta superato lo shock e non avrebbero perso tempo a farti a pezzi.»
Vedere quella scintilla di preoccupazione per lui fece luccicare appena la fiducia che aveva riposto in lui, Elyim se la immaginava come una piccola lucciola tra le mani di Calimath. In quel momento, nonostante i rimproveri, stava brillando.
«Non sarebbe successo… so che in parte gli uomini hanno una parentela con gli animali, è bastato richiamare quel lontano retaggio e modificarlo con ciò che volevo divenisse, è stato uno scambio quasi… semplice.»
La carovana rallentò appena il suo oscillare, segno che dovevano essere quasi arrivati.
«Stai migliorando.» C’era approvazione nel suo tono. «Ma questo non ti giustifica nel portare avanti certi atti.» La voce si scurì di diniego.
«Cosa faresti se qualcuno volesse rinchiuderti in una lampada o bottiglia di ferro? Se ci avessero provato? Li lasceresti andare?» Voltò lo sguardo furente verso di lui, avrebbe voluto pungerlo nel vivo. Non c’era nulla di peggio per i Jiin che venir rinchiusi. «Il perbenismo della società umana non mi appartiene.»
«Elyim.»
Eccolo, il suo tono da Jiin. Lo usa poche volte.
Nonostante i brividi era sempre bello da ascoltare. Almeno quando non era usato contro di lui e Calimath non l’aveva mai fatto se non per riprenderlo col suo nome.
«Ricordi perché ti ho fatto venire con me? Se avessi solo voluto salvare un bambino maltrattato dal sangue misto avrei potuto scegliere tra tanti, non sei l’unico in questa città. Ma non ho così tanta presunzione da credere di poterli salvare tutti.
In compenso ho la certezza di poter crescere te, di poter utilizzare la mia posizione sociale unito al mio sangue di Jiin per creare uno spiraglio nella battaglia che umani e creature del deserto si fanno. O quantomeno per aiutare i mezzosangue che vivono nella nostra società.»
La sua voce era tornata normale e se avesse voluto Elyim avrebbe potuto smettere di ascoltare in qualsiasi momento. Eppure rimase attento.
«Io ho solo un antico retaggio e nessun figlio a cui donarlo. Ma sto crescendo te, un ragazzo mezzosangue con discendenza diretta a un purosangue, vorrei che vedessi di più all’interno dei miei sforzi. Si parte da un piccolo cambiamento per arrivare ai grandi, se cercherai di integrarti sfruttando la mia posizione e rendendola tua, tutti i mezzosangue che non ho potuto portare con me potresti aiutarli tu in futuro.»
«Dovrei far unire umani e d Efir?» Elyim aggrottò le sopracciglia, le creature e gli umani parlavano ed agivano in due maniere differenti e nessuna delle due era più incline a voler comprendere del tutto l’altra. Le corti erano chiuse e serbavano rigide regole agli umani che le visitavano, le città era poco sicure e un qualsiasi Efir anche purosangue proveniente da fuori i loro territori cittadini sarebbe stato scortato.
«Non ti chiedo così tanto. Ma potresti tentare di migliorare la vita dei mezzosangue e delle creature che ci sono qui, non sarai da solo ma sarai fondamentale dato il tuo sangue.»
«Come se fossi una dimostrazione.» Nuovamente qualcosa da guardare, da soppesare. Veniva soppesato da tutta la vita.
Quanto varranno i suoi occhi? Una ciocca dei suoi capelli.” L’uomo che viveva nella sua vecchia casa tornò ad infestare la sua mente.
«Un esempio.» Calimath lo cacciò rispondendogli. «E solo agli inizi, se sfrutterai la posizione che potrei offrirti col tempo potrai agire, non sottovalutare il potere che hai.»
«Quindi tu non li reputi malvagi?»
Calimath lo guardò con curiosità.
«Gli Efir e le creature esterne, come li ritieni? La loro magia è al di fuori del controllo che applicano gli umani, sanno essere molto crudeli no? Non sanno trattenersi davanti le emozioni che provano e quindi sono volubili, possono benedire e maledire...» avrebbe potuto continuare ma era certo che Calimath avesse compreso cosa voleva dirgli.
«Non pretendo di capirli del tutto ma per tutti i loro lati negativi ne hanno uno che è molto rilevante, la verità. Sono veri, la natura da cui provengono li ha resi così e così loro semplicemente e in modo terrificante sono, non si nascondono e per questo appaiono più crudeli, anche ai miei occhi. Tuttavia non si potrà mai dire di non sapere che quel lato di loro esista, non lo rinnegano mai.»
«Vanno combattuti secondo te?»
Calimath accennò un sorriso mesto. «Mi porgi domande complicate Elyim, non credere che io abbia tutte le risposte solo perché stai imparando ciò che prima non conoscevi da me. Non saprei dirtelo, le battaglie hanno un motivo dietro, che poi ne cela un altro e un altro ancora fino a giungere al nocciolo e non so nemmeno dirti se una volta giunti al centro
sapremo se ci sono i buoni o i cattivi.»

Elyim sospirò, cominciava quasi a girargli la testa e avrebbe preferito tornare ai rimproveri.
«Cosa pensi dell’Arkadia?»
Aveva sentito quel nome molto spesso fuoriuscire dai soldati nella città, dai popolani e dalle sedute che Calimath faceva chiuso nel suo studio con la porta semi aperta, avrebbe dovuto immaginare che Elyim avrebbe ascoltato, altrimenti perché non chiuderla?
Si era informato e mettendo insieme tutti i tasselli di ciò che aveva udito sapeva di cosa si trattava; un’unione di Efir e diverse creature che combattevano guerre contro il regime della città, contro il re e contro l’esercito, contro i patti che erano stati istituiti secoli fa e che erano ormai solo note di un papiro più simili a un consiglio che a una regola.
Calimath mutò espressione, qualcosa si celò nel suo sguardo e i suoi occhi scivolarono verso l’anello che portava al dito, oro e bronzo levigati e colorati di viola lì dove l’immagine di uno scarabeo prendeva forma, apparendo posato e dormiente sul dito di Calimath. Un muscolo della guancia ebbe uno spasmo ma quella piccola breccia venne prontamente nascosta dalla sua solita espressione mesta.
«Ha i suoi scopi.» Non disse oltre e la carovana si fermò dinanzi il suo palazzo.
Elyim trattenne la curiosità e il lieve sospetto che erano scintillati in lui per un momento, Calimath non voleva ancora condividere con lui nessuna questione politica.
«Credo che tu ti sia stancato abbastanza ad ascoltarmi. Domani andrò a rimediare all’incidente nella taverna.»
Elyim fece per scendere dietro di lui ma Calimath si bloccò un momento, guardandolo.
«Puoi chiedere adesso.»
«Cosa?»
«Devo porre io le domande che vuoi farmi tu? So che vuoi andare dell’accademia. L’Heka mi chiede di te già da tempo, volevo aspettare che in te sorgesse un qualche tipo di desiderio prima di decidere.»
Elyim lo seguì fuori, era sorpreso ma forse non troppo, Calimath lo osservava e molte volte sembrava sapere meglio di lui cosa volesse. Era fastidioso ma delle volte riusciva a rassicurarlo. Si sfilò il mantello, godendosi l’aria fredda della notte sulla pelle, come poteva mutare il deserto dal giorno alla notte era una vera e propria magia.
«Non ho interesse per l’Heka.»
La gilda dei maghi di corte e dei maghi ufficiali in città. Ne facevano parte discendenti come lui o umani che vantavano un retaggio magico strappato durante la Grande Caccia nei secoli passati. Elyim la vedeva come una magia ostica, gli era avversa, percepiva quelle rune e il confine che creavano intorno alla magia creando un limite che sulla sua pelle creava una sensazione di soffocamento.
Non riusciva ad entrarvi in sintonia e non voleva studiarla in quel posto.
«Preferisci frequentare l’Accademia?»
«Sì.»Nell’accademia erano ammessi per la maggior parte solo figli o parenti di famiglie facoltose, con più qualità date dal loro sangue e di lì le strade erano differenti, si poteva divenire studiosi, soldati o esperti di materiali per divenire fabbricanti o mercanti. Le strade erano varie e l’accademia era dura, si veniva espulsi, si veniva feriti e per ogni percorso scelto si sarebbe affrontata una sfida finale.
Sapeva che alcuni erano morti, ma quello era il rischio.
«Molto bene. Ah e lì dovrai chiamarmi maestro, ne sono un membro ufficiale.»
Aveva sorriso.

Angolino
Non voglio dilungarmi troppo, innanzi tutto buon inizio del 2024! :)
Poi, lascio sotto qualche piccola nota di spiegazione che ho”messo in evidenza” con un asterisco.

* La filastrocca o poesia che si voglia non è di mia invenzione ma l’ho recuperata dal sito:  https://digilander.libero.it/officinadellefate/europa.html, io le rime non le so proprio fare :(, ma spero di imparare prima o poi perché cercarle è altrettanto difficile hahaha.

* Gea e Nut: all’interno della storia c’è un insieme di divinità importanti che saranno nominate ma avvenendo questo di capitolo in capitolo metterò qualche piccola nota, in questo caso parliamo delle divinità principale, la terra e il cielo, quelle che per gli Efir (fate del deserto) sono gli unici da “pregare” che gli mandano segni divini ecc... sono simili a quelle egiziane in quanto Gea è fisicamente la terra e Nut è fisicamente il cielo, ma ovviamente mi sono solo ispirata prendendomi poi le libertà che la mia fantasia ha potuto tirare fuori.

Un saluto e un ringraziamento a tutti >.< al prossimo Giovedì!

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8

-Elyim-

Elyim si svegliò di sobbalzo, il rumore della monorotaia gli trapanava le orecchie. Il sole era calato e la notte aveva preso possesso del cielo. Anche l’aria lì dentro si era raffrescata ma non così tanto da costringerlo a coprirsi come succedeva nel mezzo del deserto libero.
La corte gli mancava, le serate passate intorno al fuoco mentre qualcuno gli ricuciva le ferite, l’idromele che gli bruciava nella gola e i canti che duravano fino all’imbrunire o fino all’alba, quando il freddo svaniva e il sole tornava a rendere incandescente la sabbia e l’aria, facendola bollire a contatto con la sua pelle.
Quella era la sensazione che più amava, si sentiva rinascere, sentiva il flusso della sua magia come liquido caldo lungo il corpo, era soffocante ma nonostante tutto aveva sempre sentito i polmoni liberi.

In quel momento respirare gli era più complicato, una sensazione mista all’impotenza e alla rassegnazione infestavano il suo petto.
I ricordi lo avevano portato lontano solo per un po', dopo erano arrivati gli incubi. Mosse le braccia cercando una posizione che fosse comoda, Dokor dormiva dall’altro lato e lui non poteva sollevarsi per mettersi seduto, prima di ronfare su quelle poltrone si era assicurato di legarlo in modo che non potesse muoversi.
In verità il suo respiro non gli dava fastidio, era basso e regolato, non sapeva se nelle sensazioni che provava, nel cuore che gli batteva troppo veloce avessero influito gli incubi, i ricordi, i sensi di colpa o l’agitazione di avere quel principe da strapazzo accanto.
Aveva un forte mal di testa e si sentiva tutt’altro che riposato, portò gli occhi verso su, era grato di essersi legato i capelli quantomeno non gli erano finito sul viso.

Rimase fermo per un tempo quasi indefinito, quantomeno da come era legato su quella stupida panca riusciva a scorgere una parte del cielo dalla finestra della cabina che avevano. Le stelle brillavano ma non era visibile ancora nessuna costellazione, non doveva essere notte inoltrata.
«Hai intensione di svegliarti? Ho fame, slegami o mi cadranno le braccia.»
Elyim batté il piede contro la parete con insistenza, fino a che non sentì un respiro irritato e la voce baritonale di Dokor che gli rispondeva, era ancora assonnata.
«Sei davvero una maledizione.
È notte, vedi di dormire e fare poco casino, basso profilo.»
«Il mio stomaco non terrà un basso profilo quando comincerà a farsi sentire per la fame, hai o no cibo in quella sacca?»
Dokor sospirò ma Elyim non demorse, aveva passato giorni con la morsa della fame a stringerlo e non aveva intenzione di ripetere l’esperienza, si sentiva già abbastanza vuoto senza la sua magia.
Lo sentì muoversi con un sospiro esasperato, allungandosi verso di lui per sciogliergli le corde che lo legavano, era sempre sorprendente scoprire di riuscire a fare leva su di lui. O molto più probabilmente voleva solo farlo stare zitto. Non glielo avrebbe mai reso facile.
«Potreste sbrigarvi vostra altezza?»
«No.»
Elyim strinse le labbra per trattenere l’insulto che gli premeva in gola, quando finalmente si sentì libero si tastò i punti in cui la corda lo aveva stretto, i segni delle catene erano ancora visibili e avrebbe tanto voluto un guanto per coprirsi le tre dita mozzate.
Dokor allungò la sacca sul tavolo, Elyim si mise seduto velocemente aprendola, l’odore della carne secca non era mai stato così invitante.

«Sto morendo di fame.» sospirò, addentandone una velocemente. Dokor sembrava infastidito dal suo risveglio, Ma completamente presente e vigile. «Non potevi prendere
qualcos'altro? Tanta carne secca, qualche biscotto, datteri… quanto ci faremo? A me serve qualcosa di più sostanzioso.»
Dokor si allungò prendendo un pezzo di carne a cui Elyim aveva puntato. «Alla prossima meta prenderemo altro cibo. Smettila di criticare e dare ordini.»
Elyim scrocchiò il collo passandoci una mano mentre cominciava a mangiare, Dokor aveva l’aspetto di un completo soldato ma da quando aveva preso a far parte della corte aveva assunto un aspetto aristocratico, il collo sempre alto e la posa eretta. Un contrasto che in qualche modo era sempre sembrato intrigante ai suoi occhi, ma anche completamente falso.
Dokor aveva sempre avuto l’aspetto splendente del suo retaggio ma ne aveva avuto paura al di fuori della corte della quale cercava l’approvazione. Era patetico.

«Cosa faremo una volta arrivati?»
«Studierò un pieno per continuare a muoverci. Tu potrai dormire, o mangiare senza lamentele.»
«Mi conveniva scappare da solo» Elyim sospirò con noia, sprofondando sul sedile. «Avrei saputo come divertirmi di più.» diete un ulteriore mozzico alla carne secca, sembrava la cosa più gustosa che avesse mai ingerito e aveva appena finito l’ultimo pezzo. L’altro lo aveva in mano Dokor, era lento anche a mangiare.
«Puoi procurarmi almeno...qualcosa con cui passare il tempo?»
«Appena posso ti trovo un giocattolo va...» Dokor sobbalzò ed Elyim sorrise quando lo vide interdetto mentre lo fissava. Si era sporto e aveva dato un morso alla carne secca che teneva in mano, non riusciva a non nascondere il divertimento che quell’espressione gli aveva causato. Si ributtò sulla poltrona sotto il suo sguardo truce.
«Te l’ho detto che ho fame.» commentò con divertimento, Dokor sembrava a un passo dal prenderlo a pugni.
«Appena sarà mattina controllerò la monorotaia prima di scendere.»
Elyim annuì, il peso delle rune che lo circondavano in tutto quel ferro gli rendeva pesante non solo il respiro ma anche le spalle, la sua pelle continuava a bruciare per quelle imposte sul suo corpo. Ma quella era una struttura costruita per proteggere i viaggiatori, motivo per cui dovevano esserci diverse guardie, non che tutti conoscessero il suo volto, su di lui giravano solo disegni e al processo avevano partecipato soltanto le grandi famiglie e i nobili più facoltosi.
Per di più era certo che Dokor sarebbe stato meticoloso nel nascondere il suo aspetto.

Alzò gli occhi su di lui, mentre rifletteva. Dokor avrebbe tenuto sotto controllo ogni sua singola mossa, Elyim non poteva uscire dalla cabina e quel ordine imperativo era l’unica cosa che potesse dar per buona a Dokor, non gli avrebbe giovato. Doveva tornare nell’Arkadia al più presto, poi avrebbe potuto trovare un modo per sistemare le cose, non potevano mandarlo via, Elyim gli aveva offerto una strada, un futuro e aveva rinunciato a tutto. Non avrebbe accettato di essere mandato via, di subire un esecuzione.
Mi aspetta al limitare del deserto...gli somiglia.
Elyim nascose un’occhiata verso il suo carceriere, tra di loro c’era poco più di un metro di distanza ma c’erano troppe verità nascoste che aleggiavano in quel piccolo spazio, facendogli sentire le miglia che li separavano. Gli aveva negato molte verità, nascosto segreti e portato via più di quanto fosse disposto a ricordare. Non poteva pentirsi o tornare indietro, solo andare avanti.
O almeno quelli erano i segni che Gea gli aveva inviato anni addietro, erano anni che non ne riceveva uno chiaro.

Al limitare del deserto...
Proprio come lui teneva dentro di sé una nota poetica ed infantile.
La porta sul fiume. E il limitare del deserto.
Perché mai aveva solo incontri in punti di limite o di chiusura?
«Stai ascoltando? Ti incanti sempre»
Elyim si riprese. «Devo stare ad ascoltarti blaterare? Sei un indeciso cronico, non avevi detto che non dovevo sapere nulla?»
«Ci sono dei dettagli che devi sapere anche tu.» aveva il tono stanco, mentre tirava fuori la cartina dalla sacca posandola nel mezzo del tavolino per prendere a tracciarne il percorso.
Elyim sbadigliò, giocherellando con la sua treccia. «Ti ascolto, sempre se saprai tenermi sveglio.»
Dokor prese a tracciare il percorso con il carboncino, le lampade erano spente ma la luce della luna bastava per illuminare quanto serviva. Elyim si sollevò in avanti con la schiena osservando il carboncino nero, leggendo il percorso. Alzò gli occhi, facendo un cenno ammirato. «Come sei preparato quando tradisci la tua bella Corte, il tuo re e il tuo rango.»
Dokor lo allontanò con un gesto brusco. «So come muovermi e come funziona il loro modo di pensare, è facile raggirarli dopo aver capito.»
Elyim non riusciva a smettere di guardarlo. Ricordava che anni prima Dokor si era sentito in imbarazzo per i suoi modi di fare, si avvicinava troppo, senza pudore, lo guardava in modo insistente, gli si avvicinava senza avvertire e i primi giorni lo aveva visto arrossire diverse volte, dopo si era abituato e non sembrava più farci caso. Non lo aveva visto le prime volte che gli si era avvicinato di soppiatto, dopo non ci era più riuscito.
Dokor lo aveva continuato a vedere, anche mentre gli dava incessantemente la caccia.

Lo vide mentre si grattava l’ombra di una barba che non aveva potuto curare nelle ultime ore.
Non c’era motivo di resistere a quella domanda che premeva dentro di lui, non era nella sua natura resistere alla curiosità.
«Perché mi hai tirato fuori di lì?»
Dokor smise di far girare le rotelle che aveva in testa, non lo guardo subito e solo il vento contro la monorotaia e quel continuo cigolio metallico riempirono la spazio tra loro.
«Dov’eri in queste ultime ore?»
«Davvero credi che ti avrebbero fatto morire? Hai aspettato troppo poco per poterlo sapere, se ti fidi davvero così tanto di loro perché fuggire?»
«Ho riposto la mia fiducia in pochi luoghi, e in poche persone.»
«Hai scelto la tua casa, hai scelto una parte.» Elyim trattenne l’astio rimandandolo giù.
«Ho scelto…»Una sfumatura di ironia ricoprì le sue parole. «Questo non vuol dire che io riponga tutta la mia fiducia nel luogo che ho scelto. Sono consapevole di ciò che mi circonda Elyim, ho fatto parte di quella corte per più tempo di te.»
Per un momento anche il rumore che lo circondava sparì dietro il suo nome pronunciato da quel tono. Erano anni che non lo sentiva, gli sembrava strano, quasi sbagliato.
«Hai appena usato il mio nome.»
Ci fu una pausa troppo lunga.
«E allora?»
«Non lo usavi da anni.»
Dokor voltò lo sguardo, liquidando la cosa. Elyim non demorse. «Di solito usavi epiteti così mediocri, traditore, assassino, bugiardo, condannato...»
«Cose che sei, ti si addicono più del tuo nome. Che ora abbia usato il tuo nome è stato solo un caso» C’era tanta rabbia repressa nel suo tono, sembrava volerla sopprimere ma gli era impossibile. Elyim rimase per un momento in silenzio, si sentiva vacillare e doveva reggersi con tutte le sue forze per non cadere.
«Sì va bene, come preferisci, ero solo curioso. Tornando al discorso centrale, perché? Mi hai braccato, hai vinto e poi? Per anni ho avuto la sensazione che tu avessi dedicato la tua vita a me, ne ero lusigato fino a che non sei diventato troppo insistente, credevo c’erano altri modi per colpirmi ma no, tu non colpivi l’Arkadia, colpivi me. Non ti sei mai trovato un hobby diverso.» Colorò la sua voce di falsa ironia, sapeva che nessuno avrebbe potuto distinguere il suo tono e le vere emozioni che provava dentro di sé, il suo più grande talento e la sua maledizione.
«Tu lo hai reso personale. Nel momento in cui hai strappato dalla mia vita due persone che amavo, le uniche che per prime mi hanno fatto sentire a casa. Persone che credevo amassi anche tu e che per colpa della fiducia che ho riposto in te sono morte. Mi hai usato. Li hai usati e gettati alle tue spalle, Calimath, mia sorella. Puoi pensare quello che vuoi, che sia vendetta, che sia un tentativo di rimediare a un errore. Tu non mi hai mai parlato, tutto ciò che hai detto sono state bugie, ho addirittura alleviato il tuo dolore non sapendo cosa avevi fatto. Hai agito di testa tua e io sono giunto alle mie conclusioni, avrei potuto fermarti e non l’ho fatto. Ora ne ho il potere.»
Per un momento calò il completo silenzio. Dokor gli aveva fatto un discorso simile anni prima, più duro ma con tono più rabbioso e colmo di dolore e tradimento, sentirselo rivolgere contro con quel tono controllato gli fece scorrere dei brividi lungo la schiena e invano tentò di tenere la sua compostezza.
Sarebbe potuto essere fiero del suo nemico, finalmente sapeva pensare con testa lucida, ma tutto ciò che percepì fu il disgusto.
Anni prima gli aveva promesso che lo avrebbe ucciso ed Elyim non aveva mai smesso di sentire quel tono nella sua testa. Non poteva permettergli di vederlo, forse gli facevano male quelle parole, nel mezzo della rabbia che provava era come rigirare un coltello nella stessa ferita, ma c’era molto più in ballo delle zuffe tra loro e del loro odio reciproco, quella non era altro che una parentesi, prima o poi gli schieramenti si sarebbero delineati di nuovo e tutto quello non avrebbe avuto importanza.

O almeno era quello che si augurava e che cercava di credere con tutto se stesso.
Decise di cambiare discorso, troppi dubbi cominciavano ad affollarsi l’uno sull’altro; «va bene mi odi, questo è chiaro da molto. Ma non ti ho chiesto questo.»

«Potevano usarlo contro di me. La mia posizione non è ben vista da tutti date le mie origini ma non avevano nulla contro di me. Non volevo dargli la possibilità di usarmi.»
«A chi? Alle gilde? Ai sacerdoti? Al tuo circolo o alle grandi famiglie?»
« Ho preso in mano una situazione che mi riguarda, che mi è sempre riguardata» per un momento davanti a quelle parole Elyim fu vigile, Dokor cercava molto di più della risoluzione al loro problema. «E non andrò oltre, se hai finito di parlare posso concentrarmi su cose più importanti?»
Elyim portò lo sguardo verso fuori. Per le seguenti ore nessuno dei due parlò o prese nuovamente sonno, Elyim rimase ad osservare il cielo schiarirsi e i raggi illuminare ciò che li circondava, il sole si era innalzato piano e nessuna nuvola sporcava il limpido celeste, doveva essere un buon segno Nut poteva osservare ogni cosa sarebbe avvenuta sulla terra.
Dokor lo legò nel momento in cui decise di uscire per controllare la monorotaia, Elyim lo infastidì abbastanza da farlo arrossire con le sue battutine, dopo di che si ritrovò da solo. Mentre osservava fuori notò in lontananza il movimento nel mezzo delle dune sabbiose, una parve distruggersi e aprirsi come al passaggio di una creatura più grande. Elyim si chiese se Ca’li stesse seguendo il suo padrone a distanza, ma non avrebbe avuto molto senso.
Un serpente del deserto fiero e maestoso come lui non avrebbe preso l’iniziativa se non sotto il comando di Dokor, e quello sarebbe stato un rischio troppo grande, Ca’li era potente ma non adatto a una missione come quella.
Gli sarebbe piaciuto poterlo vedere, quando Dokor era riuscito nell’impresa di piegarlo al suo volere, Elyim era già lontano, lo aveva saputo dalle voci che giravano, lo aveva visto solo in lontananza nel campo di battaglia, al di sopra del grande serpente del deserto, i capelli neri intorno e i muscoli in tensione per tenersi sul suo dorso.
Lo aveva trovato maestoso, ogni segnale che riguardava Dokor era sempre stato forte, collegato agli scorpioni gialli reali, ai serpenti, la prima volta che Gea gli aveva inviato un segnale da leggere per capire il loro legame, era stato un riccio ed Elyim aveva creduto che non sarebbe mai mutato, e invece Dokor si era rivelato il soldato e il principe di cui aveva letto nei segnali, non ne era rimasto sorpreso quando lo aveva visto, ma da ciò che aveva provato nel vederlo.

Elyim sentì il chiavistello della cabina che veniva smosso e sospirò con noia, tirandosi poco più su nel momento in cui la cabina venne aperta.
«Finalmente, se mi cascano le braccia ti riterrò direttamente colpevole.» Si bloccò sul momento quando sollevò gli occhi verso la porta della cabina. Al posto di Dokor si ritrovò davanti una donna, subito i loro occhi si incrociarono e familiari brividi gli corsero lungo la schiena.
Aveva capelli rossi ma più tendenti all’aranciato, gli occhi fini e un poco allungati, zigomi alti e labbra piccole, gli occhi erano neri con qualche scaglia rosse che riverberò quando si osservarono, tuttavia non riuscì a entrare in completa sintonia con lei e a riconoscerla, la sua magia si dimenava ma era bloccata e non poteva rispondere.

Una ladra? Di giorno?
Indossava pantaloni neri di un tessuto ruvido e una larga camicia che gli aveva lasciato scoperti alcuni punti di pelle un poco arrossati, il turbante che portava intorno al capo era chiaro e anonimo, molto lontani dai vestiti che aveva visto nella capitale solo pochi giorni prima, e molto lontani dai vestiti magnificamente magici delle corti.
I suoi occhi passarono lungo la sua figura fino ad arrivare alle corde che lo bloccavano per le braccia.
«Dovrebbe essere vuota la cabina.»
Elyim piegò di lato la testa. «Me ne andrei ma sono impossibilitato.» Mosse le dita come un piccolo saluto, rimase con i sensi in allerta benché fosse legato. La mezza Efir si fece avanti, senza avvicinarsi a lui. I suoi occhi svirgolarono verso la borsa al posto dove sedeva Dokor.
«Ruba pure se vuoi, non è mia. Anche se non credo che ci troverai molto, ci siamo anche mangiati le provviste che c’erano.»
«Sei uno schiavo?» rovistò nella sacca prendendo un piccolo pugnale che Dokor vi aveva messo dentro.
«Solo perché sono legato? Ma diciamo che è un gioco che ci piace. Più a lui che a me, ma mi adeguo.» Il suo tono prese un sapore melenso. Era pronto a parlare con quella donna quanto bastava per il ritorno di Dokor, era certo che entro poco si sarebbe fatto vedere, non l’avrebbe lasciato troppo tempo da solo, quella piccola intrusione non era programmata ed Elyim non aveva intenzione di fargli percepire le sue sensazioni.
«Tu cosa fai? Sei...» si bloccò nel momento in cui vide tra le sue dita una catenina in oro perfettamente pulita e scintillante, con un elaborato disegno di uno scorpione e una volpe. Elyim sentì l’agitazione montare nel suo petto, erano anni che non vedeva quel braccialetto e il freddo che aveva lasciato sul suo polso si era sopito da tempo. Non credeva che lo avrebbe mai rivisto, lo aveva perso ed era certo che fosse stata la terra a riprenderselo, che fosse tornato nelle mani di Aesis.
Lo aveva tenuto lui per tutti quegli anni? Quando lo aveva trovato? Elyim stesso non ricordava quando lo aveva perso, motivo per cui non lo aveva mai cercato, si era rassegnato convinto che fosse una debole punizione dei suoi Dei, degli Dei che pregava Aesis, di lei stessa che voleva levarglielo. E lui non si era comunque mai fermato, aveva solo lasciato che la familiare sensazione di sentirlo a contatto con la sua pelle svanisse.
La donna se lo passò tra le dita, per poi voltarsi verso di lui e sollevarsi con la schiena dritta, il pugnale in mano.

«Ti posso liberare solo perché sei un mezzo Efir come me. Vedi di non fare strane scenate o ti ci sgozzo col coltello.» Si avvicinò a lui.
«Mettilo giù.» Elyim sentì la propria voce scurirsi.
«Non ti allarmare, è per le corde.»
«Non parlo del pugnale.»
La donna si tirò poco indietro, Elyim sentiva dentro di sé la magia ululare dalla frustrazione, l’ilarità di un momento prima era svanita sotto l’agitazione che lo scuoteva.
«C’era qualcosa qui?»
La voce di un uomo li raggiunse, Elyim non voltò lo sguardo ma tenne gli occhi fissi sulla donna, che con un piccolo balzo si fece indietro.
«Quasi nulla...»
«Direi che c’è molto più di nulla, una vera sacca d’oro.»
Elyim voltò la testa a quella affermazione, un uomo ben vestito sostava dinanzi la porta, portava una tunica elegante con un gilet elaborato, sandali di cuoio e un turbante bianco e ben sistemato, aveva una lunga barba scura e riccia i capelli coperti, in mano teneva una valigetta ben chiusa, gli occhi neri lo osservavano e le rughe sul suo volto si erano mosse per un’espressione di sorpresa e compiacimento nel vederlo.
«Ladri ben vestiti? Cos’è lei è quella che va avanti e voi prendente il bottino?»
«Sono un mercante in realtà, questa seconda mansione è per arrotondare, di solito non dovrebbe esserci nessuno nella cabina di mattina.» Sembrava sorridere. Elyim doveva dargli ragione, nessuno portava cibo alle cabine e per mangiare era necessario spostarsi, non che vi fosse una sala ristorazione, ma quantomeno si potevano avere delle provviste.
Elyim doveva ammettere che sarebbe volentieri uscito anche solo per sgranchirsi le gambe dopo una notte passata lì dentro, e sicuramente era il genere di pensieri su cui si basavano quei ladri.

«Trovandola chiusa credevo ci fosse qualcosa di estremo valore.»
«Beh non ti sei sbagliata, ci sono io.» sorrise Elyim, per poi tornare a guardare l’uomo che si era fatto avanti nella cabina.
«Siete un mezzo Efir, uno schiavo?»
«Non mi piace parlare quando sono legato...»
«Rimediamo subito.»
Quell’uomo aveva un che di predatorio nello sguardo mentre lo osservava, Elyim era conscio di avere i capelli e gli occhi liberi dalle protezioni, anche le sue orecchie a punta erano visibili, ma c’erano poche probabilità che potessero riconoscerlo. Al contrario con l’arrivo di Dokor non era sicuro che la loro copertura sarebbe durata. Doveva tenere sotto controllo quella sensazione di pericolo che sentiva aleggiare nella stanza. Qualcosa da quella valigetta sembrava chiamarlo.
Nel suo petto un battito gli sfuggì e una sensazione di richiamo si scaturì lungo il suo corpo, fuoriuscendo da lui in modo fluido come la sua magia, riuscì percepire quando si collegò a qualcuno, la sua urgenza crebbe fino a che i suoi occhi non furono calamitati all’entrata.
Dokor comparve sulla soglia, aveva il telo sul volto ma gli occhi scintillavano di serietà, il pugno era chiuso lungo il fianco e i muscoli erano in tensione, sembrava essere scattato lì vicino e qualcosa sotto le costole di Elyim smise di agitarsi.

La mezza Efir e l’uomo si voltarono verso di lui, per fortuna non vi fu nessun riconoscimento ma Elyim rimase attento e tenne alta quella sensazione di vigilanza che sentiva premere nella sua testa.
«Cosa succede qui?»
«Una visita.» Elyim sorrise, senza staccare gli occhi da Dokor, lui sembrò capirlo al volo.
«Fuori.»
«Mi scuso per l’intrusione, avete un aspetto familiare, vi conosco?»
Dokor fece un passo nella cabina, posando gli occhi verso la sacca aperta e verso la mezza Efir con il pugnale ancora in mano. L’uomo con la valigia non sembrava per nulla preoccupato, come fosse pronto a contrattare con semplicità. Si passò una mano sulla tunica, come se fosse perfettamente a suo agio, ma Elyim poteva vedere che anche il suo corpo era in tensione.
«Non credo, ora fuori. Se siete ladri non chiamerò le guardie ma dovete andarvene ora.»
«Sono una mercante, anche io mi occupo delle fate del deserto...»
Elyim portò lo sguardo alla valigetta, lungo la gola sentì risalirgli un conato di disgusto.
«Non c’è nessun affare qui da portare avanti. Lui mi appartiene.» Il tono di Dokor su gutturale e benché Elyim sapesse che quella recita era necessaria, un lieve pizzicore gli solleticò i polpastrelli, gli succedeva spesso quando provava emozioni forti. Ricordava che quando era ai tempi dell’accademia non era in grado di gestirla e parte della sua magia veniva rilasciata nell’aria.
«Io glielo avevo detto che è un giochetto privato tra di noi… preferisco farlo in privato però.» Elyim indicò con le dita le corde, piegando la testa di lato mentre osservava l’uomo nel mezzo della stanza.
«Molto bene, questa volta non abbiamo fatto bene il nostro lavoro Felyana.» L’uomo svirgolò con gli occhi verso la sua partner, con un solo cenno la fece allontanare dopo che Elyim si sentì finalmente i polsi liberi. «Usciamo adesso. Terremo fede al nostro patto, spero che lo farete anche voi» la voce dell’uomo sembrò mantenere una lieve nota di minaccia e consapevolezza. Dokor si fece da parte per farlo passare, senza mai staccare gli occhi da lui, un predatore pronto ad attaccare, esattamente come un serpente sotto la sabbia.
Elyim si mise seduto più dritto, dentro di sé l’urgenza di colpirli si fece avanti e con gli occhi osservò tutta la cabina, non aveva nulla a portata di mano. La donna, Felyana lo osservò, ed Elyim ricambiò lo sguardo assottigliandolo. Dokor la bloccò prima di uscire, afferrandole il polso con cui teneva il pugnale.
«Questo lo riprendo io.» Glielo sfilò.
«C’è anche altro che devi restituire.»
La donna si voltò appena verso Elyim, tirando fuori dal taschino il braccialetto che aveva preso. Dokor spalancò appena gli occhi e lo prese immediatamente in mano, chiudendola poi a pungo, come se non volesse farglielo vedere. In quel momento Elyim ebbe l’impulso di pugnalare anche lui.
Dokor chiuse con un tondo la porta nuovamente dietro di lui, chiudendola a chiave per poi levarsi con un gesto seccato il velo intorno al capo e voltandosi verso di lui.
«Che diavolo credevi di fare?»
Elyim sollevò un sopracciglio. «Di che parli, credi fossero con me?»
«E con chi sennò? Guarda caso sono entrati quando eri solo.» La sua voce era colma di sospetto, ma ripose il pugnale nella sacca, Elyim fece giusto in tempo a scorgere il brilluccichio dorato.
«Sarei dovuto essere fuori anche io, sospetti di cose stupide. Se non mi avessi legato mi sarei volentieri fatto un giro, ho il culo quadrato a forza di stare seduto. E poi se fossero stati miei alleati ti avrebbero combattuto, non hai una reputazione doro nell’Arkadia.» Elyim si sollevò stirando le braccia e la schiena, i suoi muscoli si tesero. «E poi perché attirarti con una sensazione di pericolo?»
«Non sei l’unico a saper comprendere le situazioni, sei stato catturato, potresti aver parlato. Non credo stenderanno striscioni per te. L’Arkadia mette davanti a tutto i risultati non i singoli.»
Elyim imprecò. «Bene, allora se lo sai smetti di fare il paranoico. Sei calato bene nella parte.» Dokor lo tirò su di peso e lo sbatté contro la parete dietro di lui. «La smetti di giocare? Di chi è la colpa se non mi posso fidare? Non ti guardi nemmeno indietro, sei ripugnante.»
Elyim strinse gli occhi offeso, allontanandolo con una spinta «Da che pulpito, io ho solo preso le mie decisioni, non riversare la tua frustrazione su di me.»
Si osservarono con tensione crescente, Elyim aveva abbandonato la sua solita posa, si sentiva più curvo, più concentrato sulla minaccia che era legato a lui da un vincolo. «Da quando hai quel bracciale.»
«Non devo risponderti.» Dokor sembrava pronto a saltargli addosso da un momento all’altro.
«Mi appartiene.»
«Ti apparteneva. Non è più tuo, ne hai perso il diritto tempo fa.»
Elyim si strabbuzzò gli occhi, avrebbe voluto nascondere il suo disappunto ma non ci riusciva, credeva di poter gestire meglio la situazione. Decise di lasciare cadere l’argomento, non era il momento adatto, se lo sarebbe ripreso.
Perché lo ha tenuto? Per ricordarsi il suo odio di sicuro.
Dokor sistemò la sacca con una imprecazione, Elyim strinse le labbra tornando concentrato. «Non erano dell’Arkadia? O di qualsiasi altra organizzazione?»
«Nessuna in cui io sia coinvolto, Per gli antichi non vorrai darmi la colpa anche della presenza dei ladri? Dalla alle vostre stupide guardie! Anche volendo non potrei mandare un segnale con la mia magia, un bambino è più forte di me.»
Elyim rimase in piedi continuando a stirarsi i muscoli, inarcò la schiena con un mugugno di piacere. Dokor finì di sistemare ciò che avevano, senza rispondergli ma senza smettere di tenergli gli occhi addosso.
«Anzi, dovremmo ucciderli.»
Dokor si voltò osservandolo. Elyim si portò indietro ciocche di capelli, disfacendosi la treccia e facendosene un’altra più stretta. Odiava non avere le sue tre dita meccaniche, era più lento anche in una semplice azione come quella.
«Non sappiamo chi sono, ma il mercante sembrava sospettare, potrebbe riferire qualcosa e salterebbe tutta la tua bella copertura.»
«Non uccideremo.»
«Se tu non hai il coraggio lo faccio io. Ma lasciarli vivere è una cosa stupida! Ma come hai fatto a diventare generale con questa spicciola moralità che ti ritrovi? Funziona solo con chi dici tu eh?»
Dokor strinse il pugno, chiudendo la sacca con un gesto secco e prendendo le sue vesti. «Ho detto che nessuno ucciderà nessuno. Se proverai a fare qualcosa ti lego di nuovo.»
Gli lanciò la veste e il velo che Elyim si sistemò sul corpo, prendendo poi gli occhiali da copertura e sistemandoseli sulla testa.
«
È un rischio stupido.»
«Potrebbero non averci riconosciuto.»
«Non lo puoi sapere!» Esclamò con irritazione.
«Avrebbero potuto ricattarci di più, non lo hanno fatto. Ce ne andremo e spariremo nella prossima città.» il suo tono era pratico, trattenuto, anche lui aveva letto la minaccia nei loro occhi ma si rifiutava di agire. In quel momento aveva il forte istinto di volerlo picchiare. «Direi che hai abbastanza uccisioni sulle tue mani.»
Elyim strinse le labbra e le mani a per un momento, dimenticava sempre quanto odioso potesse essere il piedistallo dove lo vedeva sempre arrampicarsi. «Le tue continue lusinghe mi faranno montare la testa prima o poi.» Rispose con sarcasmo, era certo che per quanto dolore potesse provare, avrebbe sempre trovato una risposta ironica dietro cui celarsi. «Quale è la prossima città?»
«Badain Aral.»
Elyim sollevò la testa di scatto. «Quanto staremo?»
«Il tempo di trovare un modo per spostarci, seguiremo la via del mercato, è la più frequentata ma anche la più veloce.»
Dokor lo osservò per un lungo momento mentre la monorotaia rallentava per l’avvicinarsi della meta. Elyim aveva sempre odiato quella città, da lì partiva il giro di schiavi che dilagava per tutto il deserto, una autentica città mercato, niente contava di più se non il profitto e la vendita, solo lunghe file di schiavi in catene, di pezzi di corpi da cui sentiva scaturire la magia, di carovane e gabbie immerse nella sabbia.
Era la prossima città da attaccare. Non ho idea se sia già avvenuto o se avverrà a breve.
Decise di tenere quell’informazione per sé, stringendo le labbra e abbassandosi gli occhiali sugli occhi, Dokor avrebbe potuto intuire qualcosa solo dal suo sguardo.
Avrebbe dovuto nascondersi meticolosamente, si tirò su il cappuccio dopo aver coperto le orecchie con i capelli legati, ogni traccia del rosso venne coperta, indossò i guanti neri coprendo le unghie spezzate, i moncherini e i segni delle corde sui polsi.
«Ci sei stato?» Dokor si mise il telo sulla testa dopo essersi legato i capelli in una coda bassa ed essersi sistemato la sacca sulla schiena.
«Solo per un paio di notti.»
«Quindi è qui che ti sei nascosto, qualche tuo amante ti ha aiutato a fuggire?»
Non sapeva dire se il risentimento in quella voce riguardasse la sua attiva vita mondana o solo l’idea che fosse fuggito sotto gli occhi di tutti. «Non avevo amanti quel periodo, lo sai.» Rispose serio.
Era inutile dirgli tutto, non avrebbe avuto importanza. Era riuscito a fuggire grazie a un piccolo nobile venuto in visita alla corte esterna del Dekaetum, figlio di mercanti e schiavisti che avevano
fatto la loro fortuna. Ricordava quanto quell’uomo, Mirio, si fosse invaghito di lui, delle sue azioni e fosse affascinato dalla sua magia, lo aveva ammaliato con i propri propositi nella testa e dopo era fuggito quando questo lo aveva portato abbastanza lontano da Bagrad. Sperava solo di non rincontrarlo.

Dokor fece spallucce come per liquidare il discorso, non sembrava interessato a ricordare nulla.
«Potrebbe essere stato uno di loro a lanciare il vincolo.»
«Dici per gelosia?»
«O per salvarti. Ti ha evitato la condanna.» Elyim sollevò un sopracciglio davanti il sorriso nervoso di Dokor.
«Invidioso?» Voltò lo sguardo dilato. «Comunque è difficile, non ho mai instaurato rapporti profondi.»
C’era un periodo in cui credevo di sì.
«Non è all’interno del vostro circo che andate a letto tra parenti e altro? Ognuno di voi avrà circa tre amanti a persona, perciò sentiamo...»
Dokor si portò una mano sulla nuca scrollando le spalle. «Non ho avuto tempo, tutte le persone con cui sono stato lo sapevano.»
«Qualche nemico?»
«Escluso il peggiore?» Lo guardò, per poi sollevare gli occhi verso su. «Credo tanti, con l’accezione allargata di questa parola e non solo nell’Arkadia.»
Elyim rise appena, non voleva prenderlo in giro, rise con autenticità. «Abbiamo ancora molto in comune vedi? Ma almeno possiamo dire che, per ora, possiamo escludere la persona in cima alla lista.» Gli sembrò di vedere Dokor sopprimere un sorriso.
«La lista è troppo lunga e credo non avrebbe senso, se qualcuno avesse voluto colpire me o te lo avrebbe fatto direttamente, questo vincolo è quasi personale, è servito qualcosa di individuale come il mio o il tuo sangue per iniziarlo, è qualcuno che ci conosce da vicino.»
Elyim annuì, forse sapeva chi poteva essere stato, ma perché non lo aveva avvertito?
«Di questo passo non capiremo mai chi è stato. Sei stato a letto con qualche Efir? Deve essere qualcuno che sa ben usare la magia, quindi o un discendente come me, la tua bella cerchia o qualche gilda invidiosa.»
Dokor sembrava provato dall'argomento, gli occhi saettarono verso di lui mentre si grattava la testa sconsolato, Elyim dalla sua aveva gli occhi nascosti, qualsiasi guizzo li avesse colti Dokor non avrebbe potuto leggerli. Non sapeva nemmeno lui perché volesse sapere quella informazione, si era detto di smettere di pensare al passato.
«Adesso è inutile scervellarci, andiamo dal Jiin, lui saprà liberarci dal vincolo, dopo...» Dokor si fermò, effettivamente nessuno di loro aveva pensato a un dopo, non insieme. Entrambi erano consapevoli che da quel momento in poi il dopo avrebbe avuto due concezioni diverse per ognuno. Si osservarono per un momento, riflettendo entrambi sulla conversazione, senza parlare.
«Non sarà facile e dobbiamo sbrigarci, i vincoli si evolvono in maniera autonoma, sono un flusso vivo e autonomo una volta scagliati. Non possiamo sapere cosa succederà dopo e come ci colpirà.»
«Lo so.»
Uscirono dalla cabina nel momento in cui la monorotaia frenò fermandosi definitivamente, uscirono dalla cabina.
Non ci sarà nessun dopo.
 

Angolino
Grazie mille a chi legge >.<

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 -Passato II- ***


CAPITOLO 9

-DOKOR passato-

7 anni prima.

Dokor non aveva salutato sua madre, era riuscito a correre da Agatha svirgolando per le strade fino a che non si era intrufolato nella sua casa. Sapeva che lo avrebbero trovato ma quelle quattro mura di fango e pietra lo facevano sentire al sicuro.
Agatha lo aveva consolato e Dokor era rimasto ad ascoltare le sue parole, cercando di farsi rinfrancare senza pensarci troppo sopra, Agatha odiava le bugie e non lo avrebbe preso in giro edulcorando qualcosa che non era vero almeno un pochino.

A palazzo sarai trattato bene, sei un principe mio piccolo granello di sabbia. Le tue carte parlano di un futuro prospero, pieno di gloria. È la tua opportunità, tu sei molto di più. Riavrai i tuoi fratelli.”
Ci aveva creduto, ma non appena aveva visto l’enormità del palazzo reale, chi ci viveva e il modo in cui veniva guardato si era sentito fuori posto.
Non che lui si impegnasse al massimo, era sempre corrucciato, non sorrideva mai e se lo faceva l’unica cosa che ne veniva fuori era una smorfia aggressiva, dalla sua parte aveva solo la sua postura solitamente rigida che gli conferiva un’aurea più posata.
Quella che era sua sorella lo aveva subito elogiato e avrebbe forse dovuto sorriderle, ma non ci era riuscito, e ormai era certo di essergli andato in antipatia.
Non che avesse particoalre importanza, quella non era casa sua e quella non era altro che una sorella che si era ritrovato per caso dello stesso sangue. Quello che era suo fratello non si era nemmeno degnato di farsi vedere, non era rimasto deluso dalla mancanza dei suoi veri genitori, ma aveva per un attimo creduto che almeno suoi fratello maggiore lo avrebbe accolto, che si sarebbe fatto vedere per conoscerlo.
Per quel motivo Dokor quel pomeriggio aveva indossato dei vestiti anonimi che si era portato dietro dalla sua vecchia casa, si era legato i capelli e aveva indossato la prima mantella che era riuscito a trovare.
Aveva girato per giorni tra quei corridoi e ne aveva memorizzato alcune formazioni, quante finestre fossero presenti e su cosa affacciassero, dove portavano le scale e i corridoi, i punti in cui nascondersi e quelli dove avrebbe potuto sedersi e riflettere.

Per quello non gli era stato difficile trovare il modo di uscire dal palazzo senza essere visto, nessuno faceva ancora troppo caso a lui e aveva sfruttato quella frustrazione per ritrovarsi fuori senza essere seguito.
Aveva camminato nel retro evitando il giardino principale e si era ritrovato a vagare nella parte Nord della città, la parte più altolocata, prima di allora l’aveva osservava solo da dentro una carovana chiusa, senza mai metterci piede.
Le case erano molto diverse, pietra bianca e lavorata le teneva in piedi, erano grandi e maestose, molte racchiuse in giardini che le rendevano simili a piccole oasi illuminate da lanterne esterne che rilasciavano abbastanza luci da farle risplendere, con le guardie a farne da protezione e i simboli di ogni grande famiglia posti sulle mura.
Le strade erano sabbiose come quelle a cui era abituato a camminare vicino la città bassa, ma delineate e attraversate da persone ben vestite, con lunghe vesti di lino lavorato per le donne, con maniche corte raccolte a forma di ventaglio o da frange per lasciar intrvedere i monili che portavano ai polsi e sulle braccia che risplendevano sotto la luce del sole, capelli resi lucidi dalla cera e pittura colorata sugli occhi resi profondi dalle linee scure del carbone o dalla cenere dell'incenso mischiata al miele.
Gli uomini portavano vesti di altrettanta qualità o pantaloni di lana e camicie larghe ma ben lavorate, alcuni coprivano il capo con dei turbanti o dei veli di seta agghindandoli con pendenti di vetro, oro o maiolica.

Il rumore del fiume era forte e in lontananza avvertiva il cigolio della monorotaia che si muoveva per allontanarsi in qualche città vicina.
Una volta uscito dalla zona nobiliare Dokor vide aprirsi dinanzi a sé la parte centrale della città con il mercato, le case erano più modeste ma pur sempre di uno stile adeguato, la strada si allargava davanti hai suoi occhi e ai lati mercati di ogni genere prendevano il loro spazio facendo sentire le loro voci, lunghi teli di seta colorata erano legati tra le varie carovane del mercato e tra i tetti delle case, rendenvano il tutto più colorato mentre i raggi del sole li attraversavano rigettando ombre di colore su chi camminava e offrivano al tempo stesso un riparo creando zone d’ombra più scure.
L’odore del cibo e delle spezie aleggiava nell’aria mescolato a quello dei vari incensi, Dokor osservò diverse donne avvicinarsi a mercanti con teli per vestiti di diverso tipo, provenienti da territori più lontani o tipici di altre zone del deserto. Allungò l’occhio verso altri mercanti con lunghe barbe scure e capelli ricci che tentavano di avvicinare vari compratori.
Si voltò verso alcune esposizioni da cui percepì un lieve brivido di richiamo; bracciali, anelli e amuleti erano messi in vendita e scintillavano sotto la luce del sole, non erano né di oro né di avorio, il loro richiamo gli andava dicendo che erano stati levigati dalle ossa delle creature Efir. Ne aveva visti pochi nella bassa città, sapeva che solitamente venivano adottati da famiglie nobili o finivano in mercati come quelli, erano già rari di loro ma ancora più rado era che qualcuno del popolo potesse metterne uno al mondo.
Decise di voltare lo sguardo e tenerlo basso per attraversare tutta la via senza farsi notare, superare il centro della città e immergersi verso la città bassa, le carovane lavorate finivano il loro percorso che veniva sostituito da cammelli e carovane in legno, le case divenivano un ammasso di mattoni di pietra uniti dal fango mescolato con la sabbia, l’unico accenno di costruzione in ferro erano le chiuse delle volte a finestra per le violente tempeste di sabbia e alcuni raccoglitori d’acqua per la stagione delle piogge.
Dokor si infilò nelle varie stradine che mano a mano si facevano più strette nel lieve avvallamento che portava alla parte più bassa della città. Dokor aveva frequentato poco quelle zone ma sapeva come ci si muoveva ed improvvisamente si sentì più al sicuro e, in qualche moodo, a suo agio.
Sua madre non aveva mai voluto che si allontanasse troppo, per tutta la vita era stato certo che fosse per la sua sicurezza, cominciava a comprendere solo in quel momento che forse era stato perché sua madre aveva sempre saputo chi era in realtà e il valore che aveva la sua vita, e non poteva permettersi che qualcosa gli accadesse.
Per entrambe le situazioni valeva lo stesso pensiero scaturito però da emozioni diverse che avevano fatto cambiare a Dokor il modo di guardare indietro agli anni passati con sua madre.
Si sentiva arrabbiato, frustrato e immensamente triste, come se improvvisamente la scoperta di chi poteva essere avesse cancellato chiunque fosse stato prima, non che avesse vissuto chissà quanto, stava per compiere diciassette anni, ma gli era sempre bastato chi era e quello che aveva avuto.

Si infilò in una delle tante taverne lì presenti, non aveva idea di che cosa voleva fare. Era sempre stato bravo con le carte o a giocare a dadi, molte volte aveva riportato a casa soldi in più utili per comprare da mangiare, dentro di sé voleva solo risentire quella punta di orgoglio e soddisfazione, benché non gli sarebbe stata utile a niente.
Sua madre aveva sorriso rare volte e non si era mai lasciata andare ad effusioni affettive, eppure quel muto consenso e quei piccoli gesti che gli concedeva avevano sempre riempito il suo petto di una punta di calore che Dokor aveva custodito per anni, un affetto che aveva nutrito e che in quei giorni aveva invece lasciato spazio al gelo del nuovo palazzo.

Dokor aveva giocato a dadi per ore, si era scontrato con quel tipo a capo di una banda della bassa città ed era certo di essere andato vicino ad una rissa se solo non fosse comparso quel tipo mezzosangue. Lo aveva riconosciuto subito dai colori, capelli rossi accesi e orecchie a punta, non poteva che essere un mezzo Jiin o un vecchio discendente dell’unione delle razze.
Ne era rimasto sorpreso, aveva una postura tirata e retta e inizialmente non si era nemmeno degnato di guardarlo, quando Dokor aveva percepito l’antico richiamo della magia era rimasto a guardare, non aveva mai visto un mezzo Efir farne ricorso.
Nella camera in cui si trovava in quel momento più ci pensava e più piccoli brividi correvano lungo il suo corpo, facendolo fremere dal dolore per il braccio lussato. Alla fine aveva avuto la rissa che tanto desiderava, quel fuoco aveva calmato la sua rabbia e quel dolore aveva riempito il suo vuoto mentre nella sua camera attendeva che quel Calimath lo guarisse. Non era venuto ancora nessuno a vederlo benché tutti sapessero che era stato ritrovato.
Dokor si strinse la mano sulla spalla con una smorfia, quel ragazzo non lo aveva certo trattato come il nuovo principe ritrovato, per quanto gli avesse fatto male almeno non gli era sembrato che lo prendesse in giro.
«Se mi porgete piano il braccio farò in modo di sistemarlo.» L’uomo era entrato e si era fermato davanti a lui, seduto su una poltrona imbottita di cuscini. Vestiva come un maestro e aveva il viso gentile benché gli fosse complicato capire quali fossero le sue emozioni, aveva gli occhi azzurri vispi e molto attenti, gli fu difficile non fissarli.
Dokor gli porse il braccio, l’uomo lo sistemò in modo da farvi la pressione necessaria per aiutarlo, gli sfuggì un verso roco di dolore e sorpresa.
«Credevo che avreste utilizzato la magia.»
L’uomo lasciò la presa per poi fasciargli il braccio con delicatezza e passare poi la fasciatura dietro il suo collo. La fitta di dolore acuto gli passò velocemente come era comparsa per lasciare spazio ad un fastidio continuo all’altezza del punto in cui Calimath aveva attuato la maggiore pressione.
«Lascio l’utilizzo della magia al momento in cui è strettamente necessaria, richiede sempre un piccolo tributo e non ho più l’età di un tempo per permettermi di farne un uso sconsiderato, mio principe.» Si voltò per sistemare ciò che rimaneva della benda. «Sapevate che sono un mezzo Jiin?»
Dokor voltò appena lo sguardo.
«No, ho immaginato che aveste un qualche tipo di retaggio per gli occhi. E poi una persona con retaggio magico credo sia cresciuto da qualcuno con altrettanto sangue misto.»
«Siete un ottimo osservatore. Per il mio allievo… dovrei chiedervi la cortesia di non immischiarlo in questa storia, è ancora molto impulsivo e fa fatica a contenere quel lato di sé. Non sa dire di no ad una sfida, benché dinanzi a lui vi sia il principe.»
Dokor fece spallucce, per poi pentirsene e mordersi il labbro per il dolore. Si sistemò sulla sedia ripensando alla mossa che quel ragazzo aveva usato contro di lui, era stata efficace e veloce, nonostante fosse decisamente più piccolo di lui e anche più leggero non era riuscito a liberarsi una volta che lo aveva atterrato.
«L’ho sfidato io.» Ammise in fine.
L’uomo non riuscì a rispondergli perché qualcuno entrò nella sua stanza senza bussare. Dokor rimase sorpreso nel vedere suo fratello maggiore, indossava una lunga mantella marrone dai ricami dorati e dalle maniche larghe, pantaloni leggeri e una blusa svolazzante, i capelli biondi erano ordinati in piccole treccine e nessun trucco gli appesantiva il volto, in quel modo sembrava avere la sua stessa età.
Si avvicinò nella stanza posando gli occhi prima su l’uomo che lo aveva guarito e poi su di lui.
«Chi hai sfidato? Chi ti ha fatto male?»
Per un momento Dokor non rispose.
In tutte quelle settimane aveva visto suo fratello solo da lontano, sapeva soltanto il suo nome ma anche nella sua testa suonava troppo personale per essere pronunciato, alla stregua di un religioso col proprio Dio gli era troppo lontano perché potesse entrarci in confidenza, figurarsi trovarselo dentro la stessa stanza. Sembrava così giovane e così calmo, era posato m da lui scaturiva un’aura molto forte.
Calimath piegò la testa in un lieve inchino a cui suo fratello ricambiò con reverenza.
«Nessuno ecco… ero nella città bassa, un ragazzo mi ha sfidato e ho accettato.»
«Poteva ucciderti.» Commentò suo fratello, guardandolo quasi incerto, come se non ricordasse il suo nome. «Devi essere più responsabile. Non c’è bisogno che scappi di nascosto, sei libero di fare quello che vuoi. Ma adesso le tua azioni avranno un peso, sei un principe Dokor, non puoi agire in modo avventato.»
Dokor arrossì violentemente voltandosi di scatto, davvero stava ricevendo la paternale da suo fratello?
Almeno sa come mi chiamo.
«Non volevo fare a botte.» Un patetico tentativo di difesa, Dokor si maledì per il tono da bambino che si sentì uscire. «Non succederà più.»
Suo fratello lo osservò per un momento, per poi voltarsi verso Calimath. «Il suo braccio sta bene?»
«È in ottime condizioni, basterà qualche giorno e potrà muoverlo senza problemi.»
Dokor doveva ancora farsi entrare in testa che aveva il sangue dei discendenti, aveva sentito qualche voce e si era informato quanto bastava per sapere che le loro dieci famiglie erano le uniche ad avere una così detta discendenza divina dagli Dei, motivo per cui avevano diverse capacità.
Dokor era sempre riuscito a guarire velocemente ma solo ora riusciva a capirne il vero motivo. Alcuni di loro li consideravano addirittura dei semi dei, e guardando suo fratello poteva cominciare a capirne il perché.
Prima o poi avrebbe ereditato non solo il regno, ma sarebbe stato in grado di prendere e cavalcare il grande scorpione del deserto, una delle tante creature nel mare di sabbia libero, e aveva anche saputo che ognuno delle dieci famiglie poteva avere la possibilità di conquistarne uno.

Quindi anche io.
Non riusciva a pensare ad altro quando vedeva suo fratello.
Potevano imparare ad incanalare quel pizzico di magia che gli scorreva nelle vene, poteva imparare ad usare le rune e tanto altro, cose che aveva solo potuto immaginare.
«Posso esservi d’aiuto in qualche altro modo?»
Erix fece cenno di no con la testa, una treccina di capelli scivolò sul suo viso. «Il Re e la Regina vi ripagheranno per il servizio, io posso solo porgere i miei ringraziamenti.»
Ha un modo così altolocato di parlare, ma un tono completamente monocorde.
«Vi ringrazio, in questo caso mi ritirerò.» Calimath fece un ulteriore cenno, non solo verso suo fratello ma anche verso Dokor, che ricambiò con un cenno della testa un poco sbrigativo e meno posato. Dopo una lunga occhiata l’uomo uscì dalla stanza e la pesantezza nella stessa divenne persistente.
Cosa avrebbe dovuto dire a suo fratello? Ringraziarlo perché era venuto? Non si era mai presentato prima e non riusciva a capire perché lo avesse fatto in quel momento, neanche lui sembrava sapere bene cosa dire.
Sembrava osservare la stanza come se non la conoscesse, il letto era ampio e forse non era destinato a lui, perché una sola persona avrebbe dovuto aver bisogno di tutto quello spazio? Tutti quei cuscini morbidi ma troppo soffici quasi, non ci si era ancora abituato.

La volta aperta era la sua parte preferita, coperta da semplici tende dava sulla parte un po' più nascosta della città, da cui poteva sentire il rumore del fiume e il vento che proveniva dal lontano Deserto del Sud. Le librerie in legno lavorato erano colme di pergamene e libri che non aveva ancora aperto e un pratico piccolo tavolo era sistemato nel mezzo della stanza, ai suoi occhi appariva pratica e molto impersonale, come non fosse mai appartenuta a nessuno.
«Aesis ti cercava.»
Dokor sollevò la testa, giocherellando con il lembo della sua maglietta. «La vado subito a trovare.»
«Non serve, la manderò qui.»
Dokor annuì, per poi vedere suo fratello uscire dalla stanza chiudendosi la porta dietro. Sua sorella era l’unica che quei giorni sembrava ancora interessata a volere un qualche tipo di rapporto con lui, benché Dokor non avesse fatto nulla per incitarla.
Si alzò e si buttò di schiena sul letto osservando la volta del baldacchino e trovandola decisamente pacchiana, ad Agatha era certo sarebbe certamente piaciuto un letto del genere, vistoso ed eccentrico.
Quando la porta si aprì sollevò appena la testa, una ragazza dal corpo minuto si fece avanti, i capelli castano chiaro legati da un nastro bianco in una lenta treccia che le ricadeva sulle spalle e tra di essi filamenti in oro erano intrecciati e impreziositi da perle incastonate, anche lei indossava una tunica a due pezzi bianco perla con un corpetto elaborato che le stringeva la vita e la gonna tradizionale che le fasciava le gambe, i polsi erano scoperti dei soliti monili con i quali risplendeva e portava solo un semplice bracciale d’oro con su elaborati un piccolo scorpione e il muso di una volpe, le sue creature preferite a quanto gli aveva riferito.
Dokor si tirò immediatamente su e arrossì nel vedere che la veste che le si intrecciava davanti era troppo trasparente sul petto, e sua sorella non sembrava minimamente preoccuparsene. A quanto sapeva nessuno si preoccupava tanto di quelle piccolezze, anzi, l’armonia dei loro corpi, le loro forme e i colori erano sempre valorizzati e lasciati in vista.

Non c’erano molti limiti quando si parlava di certi atteggiamenti.
«Sei tornato.»
«Non avevo intenzione di andare via.»
Dove sarebbe potuto andare? Quella era la sua nuova casa e in ogni caso era sicuro che lo avrebbero sempre trovato. Per di più non era pronto ad affrontare in nessuno modo quella che aveva considerato sua madre per anni, non dopo che lo aveva lasciato andare così facilmente.
Aesis inclinò appena il capo di lato sedendosi al suo fianco. Aveva la pelle poco più scura di Erix, più simile alla sua, ma gli occhi tendevano ad un colorito ambrato di cui Dokor contava solo poche scaglie che si animavano sotto la luce.
Non che qualcuno le avesse mai notate davvero, nessuno lo aveva ancora guardato dritto negli occhi, solo Aesis, ma lei era diversa.
«Cosa hai fatto?» indicò la sua spalla. Per qualche motivo Dokor si ritrovò a dire la verità.
«Stavo facendo una partita a dadi e quello che credo sia l’allievo di quel tipo… Calimath, ha accettato la sfida che gli ho lanciato.»
«Quale sfida?»
«Doveva rompermi qualcosa per riportarmi a palazzo, non ha esitato a farlo.»
Non si sentiva arrabbiato, solo frustrato per la perdita. Avrebbe voluto incontrarlo di nuovo e provare ad usare quella mossa.
Aesis lo osservò per un lungo momento, per poi ruotare lo sguardo verso la volta aperta da cui entrò un soffio di vento caldo. Rimase ferma, persa nella sua mente per qualche secondo.
Dokor aveva saputo che Aesis era particolare, aveva come tutti lì dentro la discendenza dal sangue degli Dei ma al contrario di altri era stata anche maledetta da una fata del deserto, nessuno gli aveva raccontato come fosse avvenuto, Dokor cominciava a credere che nessuno lo sapesse davvero.
Aveva subito intuito la situazione, tutti nella città come nel deserto sapevano che le creature vantavano da sempre un collegamento diretto con le forze che smuovevano il destino, Agatha un tempo aveva cercato di spiegarglielo, gli aveva detto che tutti possedevano un filo conduttore legato alla grande madre che li aveva creati, Gea, ma che solo le creature Efir avevano accesso alla sua vista e all’interpretazione dei suoi segnali.
Era stato un concetto troppo complicato perché potesse apprenderlo a pieno ma sapeva che una delle azioni che potevano compiere erano la benedizione o la maledizione dei bambini appena nati, influendo così enormemente sull’andare del loro destino.
Era il motivo per cui molte volte aveva visto persone fare offerte fuori le loro case per assicurarsi il buon auspicio sul nuovo nascituro, invocare canti per attirare le creature benevole o utilizzare filastrocche e trucchi magici per allontanarne altre.

Dokor era certo che per la maggior parte le creature non fossero davvero interessate ai nascituri a meno che non avessero già dei conti in sospeso con la famiglia, certo per il popolo valeva sempre la pena di tentare. Sua sorella ne era la prova, Dokor sapeva anche quanto astio ci fosse tra i reali delle corti Efir e i reali della città di El-Sahar.
Nessuno sapeva dirgli su cosa avesse influito la benedizione inversa, non era una maledizione vera e propria da ciò che gli era stato detto, più simile una benedizione nera. Sua sorella era stata riconosciuta da una creatura Efir, aveva acquisito delle capacità che, malgrado tutto, molte volte la sua mente non era in grado di processare.
Una benedizione che nessuno avrebbe mai davvero voluto.

Aesis aveva sviluppato un collegamento con quelle creature e molte volte era in grado di vederle e percepirle, soprattutto le più pericolose.
«L’allievo di Calimath… è il suo pupillo, ha sangue misto. Sono sempre molto onesti e molto corretti, se la sfida era quella l’ha portata a termine come pattuito.»
Dokor annuì, chiedendosi se si potesse parlare di correttezza. Di certo però lo aveva trovato interessante.
Aesis si lisciò la parte finale della treccia 
«ma la domanda è il perché di quella sfida.»
«Ero arrabbiato.»
«Non capisco...» lo osservò, smettendo di giocare con i suoi capelli e cominciando a giocherellare col suo bracciale. Dokor tenne lo sguardo basso sulle sue mani, non riusciva a guardarla senza arrossire un minimo e non voleva farglielo notare.
«Volevo provare qualcosa che mi infuocasse ecco… questi giorni sono strani.»
Sua sorella si stese sul suo letto. Dokor rimase immobile, nessuno aveva il senso del minimo pudore, lei era cresciuta così e non sapeva come dirgli, senza rischiare di risultare scorbutico, che lui invece amava i suoi spazi personali.
«Tu hai il fuoco dentro, si vede dai tuoi occhi.»
«Davvero?»
«Sì, ma è ancora sopito.»
Dokor si voltò per osservarla, Aesis era sdraiata con la treccia stesa di lato e le braccia tirate verso su, lo sguardo era ancora una volta diretto verso la volta che dava sulla città, un movimento del vento scosse i tendaggi improvvisamente e lei sorrise, come se avesse appena visto qualcosa, benché Dokor fosse certo che lì non ci fosse niente.
«Erix sarà mandato all’Accademia tra poco, dovrà affinare la sue capacità.»
«All’accademia...»
Dokor ci pensò su mentre sentiva il braccio formicolare. Era consapevole che, dal momento che lo avevano portato forzatamente lì, la sua vita sarebbe stata lì dentro e l’unica cosa che avrebbe potuto fare sarebbe stata percorrere quella strada e aprirsene col tempo una sua. Aveva letto e sentito dell’Accademia, per la maggior parte coloro che entravano erano tutti parenti delle grandi dieci famiglie, per secondi i figli dei nobili e per ultimi i popolani, almeno chi vi riusciva.
Sua madre l’aveva lasciato nelle mani dei reali di palazzo ed Agatha, come degna donna del Sud, aveva fatto si che seguisse la strada che secondo lei era stata segnata dal destino, chi lo aveva portato lì non gli aveva dato un valido motivo per il suo allontanamento o per il suo ritorno come terzo figlio bastardo dei Re.
Si sentiva come una carovana nel mezzo di una tempesta di sabbia.
Poteva tentare di prendere in mano la situazione, avrebbe potuto studiare l’arte del combattimento, imparare a muoversi tra la sabbia come un vero soldato, imparare a sfruttare la magia che scorreva in lui e a conoscere le rune. Forse un giorno avrebbe reclamato a sé una delle grandi creature del deserto.
Sto viaggiando troppo con la fantasia. Un passo alla volta.
L’unica cosa che sapeva fare in quel momento era lottare nella mischia, correre veloce e avere una buona mira. Una partenza non del tutto orribile.
Mi sono fatto battere da un Efir tutto tirato e mingherlino, se continuo così sarò davvero inutile, chiuso in un palazzo che nemmeno conosco.
«Se volessi frequentarla anche io?»
Aesis si sollevò, osservandolo mentre era poggiata sui gomiti. «Dovresti partire da zero. Sai Erix si prepara da tutta la vita.»
«Mi va bene.»
Partire da zero. È quello che devo fare.
Sentire quel vuoto lo stava lentamente facendo cadere nella rabbia e nell’autocommiserazione, doveva costruirsi una nuova strada, prima non ne aveva mai avuta una certa, era stato abituato a sopravvivere giorno per giorno, in quel momento si sentiva allo stesso modo ma con l’aggiunta pericolosa di un territorio del tutto sconosciuto.
«Dovrai chiedere...»
Dokor annuì, d’altronde era certo che non ci fosse motivo di negarglielo, avrebbe imparato e sarebbe stato in grado di entrare a far parte di quel mondo, forse.

***

Partire da zero era diventato velocemente il suo mantra, da quando gli era stato accordato di poter far parte dell’Accademia non ci aveva mai ripensato, era partito con solo lo stemma della famiglia reale sulla mantella e il saluto dei suoi fratelli, quello di Aesis se lo era aspettato, lo aveva abbracciato e gli aveva detto che si sarebbero visti per i festeggiamenti del ciclo lunare e dell’arrivo delle piogge.
Suo fratello era stato inaspettato, nonostante la consapevolezza che avrebbero preso un percorso simile, Erix sarebbe stato nelle alte sfere dell’addestramento, non aveva bisogno delle basi e l’Heka, la gilda che studiava la magia e le rune, l’avrebbe accolto per accrescere le sue capacità, veniva concesso solo a quelli come lui di potervi entrare per poi uscire, di solito chi ve ne entrava a far parte si univa definitivamente agli studiosi della magia.
Lo aveva salutato dicendogli di fare del suo meglio e che il suo sangue e il suo retaggio lo avrebbero portato dove doveva, nonostante la sua espressione non variasse spesso gli aveva sorriso, e per un solo secondo era sembrato un ragazzo come lui.
Dokor si era esibito in un lieve cenno impacciato. Il re e la Regina non si erano fatti vedere, ma non era cosa nuova, molto presto sarebbero scomparsi tra le dune o sarebbero morti. Era qualcosa che Dokor non sapeva ancora spiegarsi, potevano avere una vita molto più lunga di quella dei popolani e il cambio generazionale avveniva a distanza di anche cento anni, ed era sempre un grande evento nel loro mondo e in quel momento man mano coloro che avevano regnato prima finivano per sparire.
Sapere di essere parte di un cambio per il quale si era atteso cento anni lo metteva lievemente sotto pressione.
«Prestate attenzione, tutti, anche tu.»
Il maestro di fermò dinanzi a lui, guardandolo con serietà. Dokor si riprese dai suoi pensieri e rimase serio davanti la ripresa. Non aveva rivelato a tutti di essere il membro ritrovato della famiglia reale, in pochi lì dentro ne erano a conoscenza e tenevano quell’informazione ancora segreta.
Prima o poi si sarebbe venuto a sapere, ma quando Aesis gli aveva detto che sarebbe partito da zero era stata sincera, per imparare le basi doveva essere trattato come tutti gli altri. Anche perché era sicuro che nessuno lo considerasse più di quello che era in quel momento.
Nessuno voleva aiutarlo con un rango e un sangue che non volevano riconoscergli. Dokor avrebbe spianato la sua strada da solo e si sarebbe fatto riconoscere.
Erano in piedi disposti in fila sotto il sole cocente del pomeriggio. Nei sandali gli era entrata la sabbia rovente del campo, la schiena e il petto coperti solo da una maglia di lino cui sotto la pelle era attraversata da gocce di sudore, c’era chi portava gonnelle di lino o chi come lui aveva optato per pratici pantaloni di tessuto lunghi.
L’accademia sapeva essere raffinata e rude al tempo stesso, lo spazio aperto nel quale si trovavano era adibito ai combattimenti e alle lezioni di tipo fisico. Era circondato da mura che chiudevano l’esterno fuori, ricoperto di sabbia che in alcuni punti era stata bagnata per permettere una maggiore presa per certe tipologie di combattimento, due pedane erano disposte al lato e venivano utilizzate quando gli scontri divenivano delle sfide tra cadetti.
Diverse armi erano disposte per il campo: lance, spade, archi e balestre, armi più sofisticate con polvere da sparo e qualsiasi cosa potesse tornare utile all’interno di un combattimento.

Negli scontri fisici era portato ed era stato in grado di farsi riconoscere in poco tempo, per il resto era ancora abbastanza anonimo, non voleva farsi identificare e molti non lo avevano preso in simpatia, non conoscendo chi era lo avevano semplicemente considerato un popolano fortunato anche solo ad essere entrato lì dentro e per quel momento gli andava bene così.
Non avrebbe nemmeno saputo come farsi riconoscere in altro modo, era lì da solo una settimana.
«Dreimeirt, che uno di noi sia il tuo benefattore adottivo non ti esonera dal presentarti con tutti gli altri.»
Dokor allungò lo sguardo verso il ragazzo che si stava avvicinando, indossava una maglia bianca e leggera a maniche lunghe, i pantaloni tendevano al marroncino e i capelli lunghi erano legati in una stretta treccia che si infuocava sotto la luce del sole, aveva la fronte imperlata di sudore ma se non fosse stata per quella la sua figura appariva una spanna sopra tutti: la postura eretta, il respiro regolare e non sembrava minimamente toccato dal calore del sole.
Dokor non lo aveva mai incrociato in quella settimana, ed era certo che non gli fosse sfuggito, era impossibile non notarlo.
Non era nemmeno certo che lo avrebbe mai rivisto, sapeva chi era Calimath e ricordava ancora vividamente quel pomeriggio, non credeva che quel ragazzo sarebbe entrato a far parte dell’Accademia, sapeva che era presente un mezzosangue di nome Elyim, ma non aveva pensato a lui.
«Sono desolato. Non ricapiterà.»
Lo stava osservando e se ne rese conto solo nel momento in cui quello si voltò verso di lui, percependo forse la pesantezza del suo sguardo. Si accigliò e i suoi occhi ebbero un luccichio, tuttavia non sembrò riconoscerlo. Si mise in fila al suo posto a distanza di due persone da lui.
Era lievemente più muscoloso di come lo ricordava, ma sapeva che chi possedeva sangue misto preponderante manteneva una caratteristica conformazione fisica tendente al
magro, erano forti ma sempre leggeri, alcuni osavano definirli perfettamente bilanciati. A lui pareva solo irritante.
«Con l’avvicinarsi delle varie selezioni mi servono più scontri a coppie, inizieremo subito.»
Dokor prese a sciogliersi i muscoli come fecero gli altri cadetti, non era mai stato molto sciolto ma non ne aveva mai avuto bisogno. Un pungo era sempre un pugno.
«Lo sai che chi viene dalla città bassa dura poco qui?»
Eccoli lì, i fastidiosi e prepotenti nobili del momento, perché doveva attirarli proprio lui?
Tuttavia quando si voltò non era a lui che erano stati rivolti gli insulti.
«E tu che ne sai da dove vengo?» Il ragazzo si smosse la treccia dietro le spalle con disinteresse.
«Non hai titoli se non quello di chi ti ha comprato, il che non è affatto giusto, chissà cosa fai per mantenere vivo il suo interesse nel tenerti tutto intero.»
Dokor per lo più si era sentito chiamare faccia burbera, molte volte se lo era detto da solo, non sorrideva spesso, aveva una mascella abbastanza squadrata e sopracciglia che potevano divenire folte se non le curava, ma per il resto si era sempre auto convinto di avere una faccia normale. Aveva addirittura creduto di somigliare a suo fratello, solo che lui sapeva come distendere il volto, come apparire reale e nobile, magari un giorno ci sarebbe riuscito anche lui.
Ma nessuno oltre qualche commento aveva mai insinuato che si fosse venduto per entrare in qualche modo. Il ragazzo strinse le labbra ma li ignorò.
Dokor invidiò la sua compostezza, lui non ne sarebbe stato in grado, era ancora troppo dubbioso di sé. Era ancora complicato saper separare le due persone che era, forse avrebbe dovuto unirle. Aveva solo sedici anni e non riusciva a comprendere chi avrebbe dovuto essere.
Sicuramente non doveva essere facile per tutti, come per quel Elyim, ma lui si sentiva di partire doppiamente svantaggiato, almeno chi lo circondava lì aveva avuto la stessa vita fino a quel momento, chi meglio chi peggio.

«Vedete di metterci impegno, la selezione sarà anche motivo di poca insicurezza, ma dopo, qualsiasi sia la strada che scegliere affronterete una prova finale. E dopo quella ad aspettarvi ci sarà il campo aperto, gli Efir non sono gentili e le grandi bestie del deserto vi spezzeranno in due se non sarete veloci a correre.»
Quella specifica Accademia era riservata ai comandanti di domani, ai soldati d’élite, era il posto dove le famiglie più importanti mandavano i figli che non avrebbero ereditato granché, per trasformarli in valenti condottieri. Oltre che un onore era anche un lavoro molto redditizio.
Era il motivo per cui molti tentavano di entrare anche quando non avevano niente, ma partire totalmente da zero non era facile e si veniva scartati molto velocemente, bisognava nascondere un talento particolare.
Dokor era anche certo che in parte fosse dovuto alla salvaguardia delle vite, negli anni la guerra con gli Efir non aveva fatto altro che peggiorare e la nascita di un’unione come l’Arkadia aveva reso necessaria la creazione di soldati d'élite pronti a battersi contro la magia folle degli Efir, contro la loro crudeltà e contro la supremazia che tanto millantavano.
E più rimaneva lì dentro più percepiva quella differenza, doveva ancora imparare a scrivere bene, a leggere in modo fluido e a rimanere concentrato alle lezioni teoriche. Aveva avuto come istruzione solo quella che sua madre gli aveva lasciato con qualche aggiunta delle lezioni impartitegli da Aghata, ma mai in modo assiduo nonostante non lo avrebbe rifiutato, nella parte bassa della città la maggior parte delle persone non aveva la necessità di essere perfettamente acculturata, sapersi muovere in modo basico nella scrittura, nel far di conto e nella lettura era già abbastanza.
Il maestro chiamò due cadetti a combattere sulla parte di sabbia bagnata, senza armi, richiedendo un combattimento corpo a corpo. I due al suo fianco si mossero e Dokor vide che voltando lo sguardo l’allievo di Calimath era sulla sua linea di sguardo, nuovamente si prese il suo momento per osservarlo, si stava sciogliendo un muscolo della spalla con lo sguardo perso in qualcosa di lontano, non sembrava molto interessato a ciò che lo circondava, come se per lui fosse inutile.
Dokor riportò alla memoria la mossa che aveva utilizzato contro di lui, era stata veloce ed efficace, era perfettamente allenato quindi aveva senso che non prestasse attenzione.
L’allievo di Calimath si voltò verso di lui di scatto, mentre la lotta tra i due cadetti era iniziata e versi di sforzo giungevano dalla loro destra.
«Perché mi fissi?»
Dokor si accigliò, non ricordava? Lo aveva inseguito per le strade della bassa città e gli aveva lussato una spalla, lo aveva anche visto lanciare la sua piccola fattura. Non era passato molto tempo, Dokor ricordava tutto.
Con un tonfo sordo venne sancito il vincitore. Nessun osso rotto e nessuna ferita letale, per ora le regole dei combattimenti le vietavano ma molto presto avrebbero iniziato a ferirsi tra di loro. Dokor si voltò giusto in tempo per vedere uno dei due cadetti steso a terra con una smorfia, circondato da una nuvola di polvere.
Il maestro fece un cenno e, una volta decretato il vincitore, guardò verso di loro.
«Dato che eravate entrambi distratti, mostrateci le vostre mosse, siete tra i migliori nel combattimento e non vi siete ancora affrontati. Avranno qualcosa da imparare guardandovi.»
I suoi occhi saettarono verso l’avversario in un moto di eccitazione. Nonostante ciò Elyim non sembrava ricordare ancora nulla, si posizionarono uno dinanzi all’altro e tutto ciò che gli mostrò fu una faccia disinteressata, aveva gambe e braccia lunghe, muscoli appena pronunciati ma duri e in tensione, come fossero costantemente in tensione, ed effettivamente il loro modo di essere slanciati dava questa impressione, era qualcosa che chiunque avrebbe osservato per ore nel tentativo di capire quale parte scaturisse una sensazione di etereo ma anche di lieve inquietudine. La sua corporatura era elegante ed affusolata al limite dell'accettazione.
I cadetti rimasero in silenzio ma Dokor era certo di sentire tutti gli occhi verso di loro, non erano sempre così educati con Elyim o riservati con lui, ma in quel momento ciò che importava e che attirava la loro attenzione era decretare un vincitore tra chi negli scontri precedenti non aveva mai perso.
Dokor si mise in posizione e osservò il suo avversario, sicuramente era veloce e capace nelle prese, ma non aveva idea di quanta effettiva forza bruta avesse, avrebbe potuto puntare su quella. Dal canto suo Elyim non sembrava starsi impegnando nello studiare il suo avversario, dalla loro avevano le capacità magiche e raramente si rendeva possibile uno scontro a mani nude, ma mai dire mai, dovevano essere comunque pronti.
Si stiracchiò il collo spostandosi la treccia dietro le spalle. Dokor avvertì l’irritazione montare dentro di lui, era vero che si era reso una specie di fantasma lì dentro ma nel mezzo delle lezioni sul campo tutti avevano almeno imparato ad osservarlo, Elyim invece lo guardava come se la sua mente fosse altrove.
Non gli stava prestando alcuna attenzione benché nella città bassa gli avesse dato del filo da torcere, 
Dokor sapeva di avere un fisico prestante, ed era alto, ma ad Elyim non sembrava in ogni caso interessargli.
«Iniziate.»
Elyim si mosse prima che i suoi occhi potessero vederlo. Lo prese lateralmente con un calcio nel fianco e tentò di saltargli sulla schiena per immobilizzarlo. Dokor tentò di reagire, ma non fece a tempo. Il braccio di Elyim si strinse intorno al suo collo e lo tirò indietro con forza, bloccandogli la gola.
Per essere così agile non avrebbe dovuto possedere tutta quella forza. Dokor gli assestò un colpo al fianco prima di rischiare di perdere i sensi, per poi colpirlo con una testata all’indietro, esattamente come aveva fatto nella città bassa. Elyim si portò le mani al naso, indietreggiando di qualche passo e mollando la presa su di lui.

«Ecco perché lo hanno preso.»
«Il ragazzo misterioso non è affatto male.»
Decise di ignorare i commenti e osservò il suo avversario. Per la prima volta notò che lo stava davvero studiando a sua volta, una piccola scintilla di comprensione negli occhi, come avesse riconosciuto quel suo modo di fare.
«Ma dai, usi le stesse mosse?» Commentò Elyim, perdendo quella foschia di distrazione.
Si passò il dorso della mano sul viso pulendosi dal sangue che dal naso era colato alle sue labbra. Aveva lievemente gli occhi lucidi ma lo sguardo era colmo di determinazione. Dokor non perse tempo e gli assestò un calcio al fianco, Elyim si parò con il braccio senza riuscire ad evitare il colpo e barcollò leggermente. Dokor sentì scorrere dentro di sé lo stesso fuoco che lo aveva preso decine di volte quando combatteva nella città bassa o nei vicoli vicino casa.
Tante volte era anche dovuto fuggire dai ragazzi più grandi, ma in nessun caso aveva permesso a qualcuno di metterlo all’angolo. Lì non era molto diverso, doveva batterli a forza prima che potessero tirare fuori le loro mosse raffinate ed elaborate, doveva colpire per primo.
Elyim assottigliò lo sguardo, neanche nella città bassa lo aveva visto così concentrato, come se avesse compreso che doveva fare sul serio. Lievi mormorii si erano alzati intorno a loro, chi sussurrava che Calimath si sarebbe infuriato, chi che avrebbe rischiato una fattura.
Elyim ne sembrò infastidito e si lanciò contro di lui con tanta furia quanto con più precisione, lo colpì con un pugno sulle costole, bloccandogli il respiro e facendolo tossire, tentò di fargli uno sgambetto volteggiando su se stesso con una leggiadria incongruente con la forza che aveva dimostrato nei colpi.
Ma Dokor aveva già subito un attacco simile, fece uno scatto veloce indietro, barcollando e vedendo appannato per il dolore. Frappose la gamba tra quelle di Elyim leggermente aperte e gli afferrò il polso, ricordava la sua mossa ma Dokor non poteva essere leggiadro come lui, non poteva zampettargli intorno, e decise di usare la sua forza.
Si voltò di schiena trattenendolo per il polso e sollevandolo di forza.
Funzionò nel momento in cui il suo avversario preso alla sprovvista non riuscì a mantenersi saldo a terra e volò in aria, per poi atterrare davanti a lui con un tonfo sordo, non gli diete tempo per ricambiare, gli tenne il braccio torcendolo dietro la sua schiena in modo simile a come lui aveva fatto nel vicolo della città bassa.

Elyim sotto di lui si dimenò e tento di colpirlo in tutti i modi, sembrava non interessargli del rischio che correva con la spalla messa in quella posizione. Dokor tenne duro nonostante le fitte di dolore che sentiva.
«L’incontro è finito.» Sancì poco dopo il maestro.
Dokor lasciò subito la presa su di lui ed Elyim si voltò di scatto con gli occhi che emanavano scintille mentre lo guardava. Dokor avrebbe voluto offrirgli una mano per rialzarsi, ma temette che se l’avesse avvicinata a lui in quel momento gliela avrebbe staccata in qualche modo.
«La sua tecnica è stata molto buona seppur non perfetta, si è assicurato di immobilizzarlo e non si è basato solo sulla sua forza bruta. Sotto quella presa avrebbe potuto batterlo con facilità.»
Tornarono alla loro postazione sfatti e sporchi di sabbia, se la sentiva ovunque, anche in bocca e tra i capelli. I muscoli erano stanchi e qualche fitta ancora lo attraversava nonostante avesse in corpo l’adrenalina della vittoria. Elyim non era messo meglio, la treccia era sfatta e il naso colava ancora sangue, i vestiti sfatti e con essi gran parte della sua eleganza si era persa.
Elyim gli tenne gli occhi addosso per un lungo momento e non sapeva dirsi se l’espressione che aveva verso di lui fosse per il dolore o per la rabbia.
Dokor lo ignorò, era riuscito nel suo piccolo intento, non voleva dargli la soddisfazione di guardarlo a sua volta.
Certo che colpisce con rabbia.
Sentiva già i lividi che si stavano andando a creare sul suo addome. Si voltò verso un campo vicino, c’erano diversi altri cadetti che stavano intrattenendo combattimenti di valutazione e ognuno osservava gli altri piccoli campi, diversi occhi si erano voltati versi di loro quando avevano lottato. Ne aveva notati un paio, castani e vispi, una delle ragazze dell’accademia era stata molto interessata e diverse volte si era congratulata con lui per le sue tecniche, benché gli avesse detto che era rozzo e troppo bruto.
E anche in quel momento lo aveva guardato, gli fece un lieve sorriso e un cenno di saluto con la mano, Dokor ricambiò appena, a disagio. Lei non era tra le migliori al corpo libero ma sapeva che era una delle più brave con l’arco e con la spada.
Attese la fine della lezione, ogni tanto i suoi occhi svirgolarono verso il protetto di Calimath che continuava a toccarsi la spalla cercando di non farsi vedere, doveva essere parecchio orgoglioso. Cosa tipica dei Jiin, mezzo Efir era un termine comune e generico, in pochi effettivamente discendevano da un vero Efir, molte volte erano mezzi Jiin o mezzi Ghoul.
Si allontanò nel momento in cui vennero lasciati liberi, voleva andarsene nei bagni pubblici e lavarsi per poi andare nella sua stanza, presto gliela avrebbero cambiata e non sarebbe più stato solo, a nessuno che partiva da zero era concessa una stanza tutta sua, motivo per cui teneva ancora tutte le sue cose chiuse in una sacca pronto a spostarsi, sperava solo di finire con qualcuno di sopportabile.

***

«Ti è stata assegnata una camera.»
Dokor guardò il maestro che era venuto a prenderlo nella sua stanza, era passato un giorno da quando erano stati beccati, lui ed Elyim, fuori dall’accademia che cercavano un modo di rientrare senza farsi scoprire. Non che fosse stato intenzionale, lo avevano messo subito in chiaro e gli avevano creduto abbastanza facilmente, il difficile era stato convincerli che non stavano facendo a botte tra di loro, dati i vestiti sfatti e i lividi sul viso.
Si era aspettato una qualche punizione per la loro mancanza di decoro, ma nessuno si era ancora mai pronunciato, Calimath aveva guardato seriamente il suo pupillo, che dal canto suo non aveva mai abbassato lo sguardo.
Dokor non sapeva cosa aspettarsi, qualsiasi fosse la punizione l’avrebbe portata avanti e si sarebbe dimenticato di quella storia. Prese la sua roba e seguì il maestro fuori dalla stanza singola, attraversò i lunghi corridoi di pietra, poco decorati se non per diverse rune di protezione, armi, qualche arazzo di qualche allievo che era divenuto un eroe e armature scintillanti degli stessi eroi che erano caduti e ora riposavano sotto la sabbia, mentre le loro armature venivano lucidate ogni giorno per mantenere vivo lo splendore di un tempo.
Quel giorno il sole era più rovente del solito, diversi cadetti si erano sentiti male e le lezioni esterne erano state sospese e continuate quelle di teoria nel pomeriggio, la mattinata perciò sarebbe stata libera ed era facilmente notabile data la grande presenza di allievi nei corridoi e fuori le stanze, la leggerezza nell’aria stonava con il posto in cui si trovavano, sembravano tutti dei semplici ragazzi, la serietà e la determinazione nei loro occhi aveva lasciato spazio a volti più rilassati.
Si fecero strada fino a una delle stanze, quando entrò Dokor vide che c’era comunque una grande arcata come finestra e ne fu grado, due letti disposti uno a destra e uno a sinistra, proprio sotto l’apertura del muro e due scrivanie in legno. Spoglia ma abbastanza grande.
Il suo compagno di stanza era seduto sul bordo dell’arcata, intento a guardare fuori, una lunga treccia poggiata sulla spalla destra che penzolava fino a poco prima del fianco. Una ciocca più corta gli arrivava al mento, come se avesse sbagliato a tagliarli. Dokor si lasciò sfuggire un verso di sorpresa che fece voltare il suo nuovo compagno verso di lui.
Il maestro aveva parlato alle loro spalle. «Calimath ha proposto di farvi stare nella stessa stanza, entrambi sapete di dover mantenere il silenzio su diverse questioni, vedete di trovare il modo di andare d’accordo.» Fece una pausa osservandoli seriamente. «Tra un’ora vi spetto nell’ala centrale. Vediamo se vi passa la voglia di comportarvi come bestie.»
Si soffermò con lo sguardo su Elyim per poi uscire e chiudere la porta alle spalle di Dokor, Elyim fece una smorfia di fastidio per poi tornare con lo sguardo verso il cielo infuocato, nessuna nuvola quel giorno voleva avere pietà di loro. Persino il vento era silente.
Dokor si avvicinò verso il letto libero alla parte opposta alla volta, posandoci la sacca sopra. Avrebbe dovuto dire qualcosa? E perché? Non era colpa sua se erano in quella situazione. E poi non si erano parlati quando si erano ritrovati fuori? Forse stava pensando troppo.
Si mise a sistemare le sue cose in silenzio, osservando di nascosto il suo nuovo compagno che rimaneva dov’era senza accennare a voler avere nessun rapporto. Si voltò verso di lui non appena ebbe finito, quel silenzio era fastidioso.
Lo colse nel momento in cui si toccava il naso con le dita come per accertarsi che non sanguinasse più.
«Ti ho rotto il naso?»
Elyim si voltò verso di lui, poggiando la schiena al muro. «Quasi.» Rispose sincero.
Calò nuovamente il silenzio, cosa doveva dire, che gli dispiaceva? Era stato un combattimento era normale che si facessero male.
«Non osare scusarti, la colpa è mia ma non succederà più. Io non mi scuserò con te.»
«Per cosa?» chiese Dokor, curioso.
«Per quando combatteremo di nuovo.»
Dokor si mise seduto sul letto, improvvisamente nuovamente interessato.
«Mi stai sottovalutando di nuovo?»
«Niente affatto, ti ho studiato, per ora so come batterti.» Sembrava tanto sicuro di sé che Dokor non seppe cosa rispondere sul momento. Il suo tono non era di sfida o di scherno, sembrava solo affermare qualcosa che già sapeva, forse poteva giusto intravedere un lieve sorriso ma stranamente non lo infastidiva.
«Suppongo che lo vedremo.»
Elyim saltò giù dal muro dell’arcata dirigendosi verso la porta, ora che era più vicino poteva vedere che aveva il naso leggermente pesto, così come l’occhio destro. Erano davvero conciati male tutti e due.
«Hai finito di sistemarti? Ci aspettano.»
Dokor si alzò dal letto e lo seguì fuori, da una parte non trovava giusto che anche lui dovesse essere punito per non aver fatto quasi nulla. Ma se aveva deciso di partire da zero doveva anche stare alle regole. Per di più lo incuriosiva passare tempo con Elyim, lui sapeva chi era e nonostante ciò sembrava ignorarlo del tutto.
Raggiunsero la sala centrale, era molto grande e circolare, il pavimento era ricoperto di marmo importato e le colonne sostenevano la parte superiore. Ad attenderli c’era lo stesso maestro che lo aveva condotto nella nuova stanza, se ben ricordava si chiamava Kraven, ed era uno dei pochi a sapere chi era. Lo attendeva con davanti a sé due secchi con dentro quattro spugne, due ruvide e due morbide fatte in lana.
«Questi servono per le armature, dovete finire entro l’orario delle lezioni o continuerete domani. Verrà qualcuno a chiamarvi quando sarà il momento.» Allungò poi dei guanti di pelle verso Dokor, che senza pensarci li prese, per poi notare che erano solo due.
Kraven lo guardò indicandoli con un cenno della testa.
«L’acqua dei secchi contiene i sali acidi utilizzati dalle ancelle per lucidare, può irritare la pelle a lungo andare. Se sarete veloci non saranno necessari.»
«Oh sì, adoro le irritazioni sulla pelle. Di solito mi faccio il bagno in secchi del genere per procurarmene un po'.» Elyim osservò Kraven mesto, non sembrava provare nessuna particolare emozione, i suo occhi erano seri, le labbra strette.
Dokor notò solo un lieve movimento sulle sue dita, come se la luce che entrava da fuori avesse danzato su di esse per qualche secondo.
«Non ne abbiamo molti, le ancelle e i domestici ne hanno continuo bisogno. Confido che ti proteggerai con la tua magia, cadetto.»
Dokor osservò il suo maestro e subito dopo i guanti che aveva in mano, per la prima volta in quell’Accademia si sentì mortificato per la sua posizione, li aveva presi senza pensarci, ma gli fu evidente la preferenza che gli era stata messa davanti gli occhi, chi sapeva che era il principe non avrebbe potuto che trattarlo con adeguato riserbo.
Tuttavia anche Elyim era importante lì no? Era il pupillo di uno degli illustri capi di una delle dieci famiglie, Calimath insegnava in quell’accademia ed era tenuto di conto dalla famiglia reale.
Elyim fece spallucce, come fosse abituato a ciò mentre il maestro si allontanava. Dokor percepì piccole ondate di energia provenire dal suo nuovo compagno ma non sapeva decifrarne le emozioni che provava, gli avevano solo fatto venire lievi brividi.
Osservò ancora i guanti di pelle mentre Elyim prendeva il secchio e si dirigeva verso il corridoio centrale che partiva dalla sala, dove erano riposte le armature più importanti.
«Allora? Ti sei incantato? Di questo passo non finiremo nemmeno domani.»
Dokor era ancora frastornato ma raccolse il suo secchio e lo seguì.
«Inizia da quella infondo, solo ventiquattro quindi saranno dodici a testa. Fatte le mie dodici non starò ad aiutarti con le tue se non ti muovi, sia chiaro.»
«Guarda che dovrei essere io quello infastidito, siamo qui per colpa tua.»
«Se tu ti fossi fatto dare un pugno sarebbe tutto finito più velocemente» fece spallucce Elyim tenendo gli occhi bassi come per nasconderglieli. Dokor raccolse il suo secchio infastidito e fece per andare.
Elyim iniziò immediatamente a pulire l’armatura che aveva davanti senza aggiungere altro. Era così irritante che volesse avere ragione quando anche lui doveva sapere che era colpa sua.
Si bloccò nel momento in cui si accorse di starsi per infilare un guanto e voltandosi verso Elyim lo osservò immergere la mano nel secchio senza dire nulla e cominciando a strofinare la statua che aveva davanti.
Dokor non ci pensò molto e sospirando con frustrazione si avvicinò nuovamente a lui. Elyim sollevò lo sguardo quando lo notò. «Hai intenzione di iniziare prima o poi?»
Dokor alzò lo sguardo, torvo.
«Potresti anche usare un tono meno irritato sai, ho lavorato in due fabbriche e in alcune botteghe prima di essere qui, so essere veloce nei lavori manuali.»
«Davvero?»
«Per poco, eravamo alle strette.»
Elyim fermò la mano dallo strofinare, osservandolo con fare pensieroso. «Quindi la maggior parte di noi, nonostante tutto, per te è un nobile fastidioso.»
Dokor si accigliò, guardando l’armatura. «Non lo so, forse, alcuni. Non sono qui per questo.» Non doveva giudicare più di tanto, faceva parte anche lui di quel mondo a quanto pareva, o comunque presto ne avrebbe fatto parte, che prospettiva avrebbe avuto se fosse cresciuto lì?
Di merda, niente cambia che molti sono davvero dei viziati.
Tenne quel pensiero per sé ma gli parve che Elyim potesse percepirlo, perché fece una faccia di diniego davanti le sue parole.
«Fingi ancora.»
Immerse nuovamente la spugna ruvida nell’acqua del secchio.
Dokor ignorò quel commento e prendendo un guanto glielo porse senza troppi giri di parole. Si era sentito troppo soppesato e voleva darci un taglio.
«Non ero qui per parlare di questo. Prendi.»
Due sfere rosse si posarono nuovamente su di lui, scintillando appena, lievemente sorprese.
«Vuoi darli a me?»
L’ironia sembrava voler eclissare quella sorpresa che ormai aveva letto nel suo sguardo, a Dokor non sembrava poi un gesto così strano.
«No, insomma sono due, se immergiamo una sola mano ne basta uno a testa, no?» Dokor si grattò la nuca, perché improvvisamente doveva sentirsi in imbarazzo?
«Ci rallenterà lavorare con una mano.»
«Allora ne useremo due e ne salveremo una dall’irritazione» rispose spazientito.
Elyim lo osservò e con tutta sorpresa ridacchiò. «Ti senti in colpa? Mi avrebbe trattato così con chiunque.»
«Senti, vuoi il guanto o no?»
Elyim lo guardò con la testa inclinata, la ciocca più corta che pendeva da un lato.
«Va bene...» lasciò il resto in sospeso, come se dovesse giungere un ringraziamento che non raggiunse le sue labbra. Andava bene così, Dokor non lo aveva fatto per riceve un grazie. In realtà non sapeva bene perché lo aveva fatto.
Elyim prese il guanto e lo indossò. «L’armatura nel mezzo la pulisco io.»
«Va bene, perché?»
«È di uno dei miei eroi preferiti» rispose Elyim, indossando il guanto sulla mano che aveva tre dita meccaniche, Dokor le aveva notate solo quel pomeriggio ed era curioso di chiedere, non che fossero abbastanza in confidenza, non sapeva nemmeno se lo sarebbero stati mai.
«Davvero?»
«Certo, ancora non hai letto molto tu è. Il Disseminatore, lo troverai nei libri che andremo a studiare.»
«Tu già lo conosci.»
«Ovviamente, ho già letto diversi libri di teoria.»
Dokor percepì una lieve sensazione di mortificazione che lo portò ad annuire semplicemente con un cenno e a tornare verso la sua statua. Una piccola imprecazione giunse alle sue spalle, dopo di che si sentì richiamare. Si voltò, Elyim si era alzato e si era avvicinato.
«Non volevo... ecco...»
Dokor fece spallucce, imitando il suo modo di fare. Lo aveva visto da poche ore ma aveva notato che ripeteva alcuni gesti.
«Non fa nulla. Ti senti in colpa? Chiunque avrebbe potuto dirlo ed è la verità. Non devi scusarti.»
«Non mi stavo...» Elyim rilasciò uno sbuffo «non mi piace essere scortese con chi ha mostrato gentilezza, è una specie di legge scritta nel mio gene mezzo Efir.»
«Vuoi forse dire che sai essere gentile? Mi volevi picchiare perché hai perso con la tua stessa mossa!»
«Io so essere gentile.»
«Forse con altri.»
«Oh scusa tanto principino, lo sei da nemmeno una settimana e già vuoi gente prostrata ai tuoi piedi?»
Dokor rise appena, seguito da Elyim mentre presero a spintonarsi piano, avrebbe potuto dire quasi amichevolmente.
«Chi è che mi fa perdere tempo ora? Non finiremo mai.»
«Aspetta.» Elyim prese il suo braccio non protetto dal guanto e dopo essersi guardato intorno passò il dito sul suo avambraccio disegnando qualcosa di invisibile, dopo di che gli sfregò sulla sua pelle con un po' di forza, Dokor non si sottrasse ma rimase interdetto. Elyim avvicinò il viso per soffiarci sopra come se volesse pulirlo dalla polvere, disse qualcosa in una lingua che Dokor non comprese e dopo gli lasciò il braccio.
Lo avvertì subito, come se un piccola forza avesse circondato quella sua parte di pelle, invisibile ma presente, sottile più di un foglio.
«Cosa hai fatto?»
«Un piccolo incantesimo di protezione. Non durerà molto ma abbastanza da farci pulire almeno metà delle statue che abbiamo a testa.»
«Puoi fare cose del genere?»
«E molto di più, è tutto nell’incanalazione» rispose con un sorriso beffardo «questo è niente.»
Dokor era senza parole. «Cos’era quello sfregare?»
«L’icore di qualsiasi energia mi è completamente aperto ma... non so ancora incanalare del tutto le varie forze che ci circondano o saper dare in cambio la mia energia per usare la magia, è un continuo dare e avere, un flusso infinito a cui non ho ancora pieno accesso. Fino ad allora devo dare un tributo per la magia che uso, in questo caso erano le tue cellule per il vento.»
Dokor si accigliò, suonava strano. «Ah?»
«Perdiamo cellule nuove in favore delle vecchie, è così che funziona il tuo corpo e quello di tutti» il suo tono assunse una tinta di scherno.
«E che se ne fa il vento?»
«Tu non hai idea di quante creature ci circondino, molte volte sono tanto piccole da essere invisibili, alcune sono celate anche a me e saresti sorpreso di scoprire che alcune possono nutrirsi di piccole cellule che viaggiano nell’aria. In cambio il vento mi ha concesso protezione, solidificando la sua energia intorno al tuo braccio e ai miei.» Un lieve rossore imporporava le sue guance, lasciò il suo braccio portandosi la ciocca sfuggita dietro l’orecchio.
«Il vento si prende tutto quello che può attraversarlo, certo dei semi sarebbero meglio ma sono più difficili da trovare...» aggiunse in fine.
Dokor osservò il suo braccio e scosse la testa. Tornando a guardare Elyim.
«Allora non ti serviva il guanto.»
Il rossore sulle guance di Elyim aumentò vividamente, voltò lo sguardo tornando a inginocchiarsi davanti la sua armatura, prendendo la spugna in mano per tornare a pulirne la parte delle gambe.
«Non mi aspettavo certo che avrei avuto qualcosa con cui coprirmi.» Bofonchiò a mezza bocca, senza più voltarsi.
Dokor sorrise lievemente senza aggiungere altro, tornando verso la sua postazione e iniziando a lavorare, era strano, dopo tanti giorni gli veniva spontaneo di sorridere.


Angolino
Granzie mille a chi legge >.<

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 -Dokor- ***


Capitolo 10
-Dokor-


Appena la monorotaia si fermò nella città di Bagrad Dokor ed Elyim scesero velocemente dopo essersi coperti per bene
Si erano affrettati ad allontanarsi di lì, Dokor si era guardato bene intorno cercando con lo sguardo il ladro mercante ma non lo aveva trovato, se mai avesse avuto dei dubbi si sarebbero dovuti allontanare prima che quelli potessero riversarsi su di loro.
Molto presto avrebbe dovuto cominciare a mandare dei segnali alla corte del Dekatum, doveva mantenere salda l’idea che aveva voluto dare loro.
Elyim camminava di fianco a lui in silenzio e ben coperto. Raggiunsero velocemente il centro della città, non distava molto da dove la monorotaia si fermava, era una delle città più importanti in particolare per tutto ciò che riguardava il mondo del mercato.
La via centrale e la piazza erano colorati da teli stesi tra i tetti delle case, il doppio di quanti ne avesse mai visti nella capitale e dalle fantasie più disparate, erano appese lanterne per la notte e campanelli che suonavano con il passare del vento, un rumore che veniva sovrastato dalle mille voci che attraversavano il mercato continuamente.
Non c’era momento in cui qualcuno non stesse comprando o vendendo qualcosa, non era una città nella quale si andava per riposare. Mercanti con lunghi cappotti vendevano nei vicoli oggetti rubati, carovane allestite erano appostate in ogni antro di strada e sui loro banconi era poggiato di tutto, dai giochi per bambini, alle mille spezie dei continenti del deserto ed esterni, vestiti di ogni provenienza e ogni colore, lo scintillio di bigiotteria di ogni tipo rifletteva la luce del sole, si potevano trovare in ottone, in ferro, in oro e in argento o in vetro, pietre preziose e addirittura armi che ad occhio nudo Dokor avrebbe sostenuto essere di buona fattura.
Era il posto perfetto per fare uno scambio con qualcuno che fosse disinteressato a chi erano. In quella città esisteva una ristretta cerchia di sette, facoltosi mercanti che si erano innalzati e avevano guadagnato tanto denaro da ergersi sopra gli altri. Rimanevano sotto il controllo della capitale, ma tutto ciò che riguardava gli affari di mercato era di loro competenza, avevano la piena libertà sotto il benestare del loro re.
Il palazzo nel quale si riunivano era posto alla fine della grande via del mercato che durava interi chilometri, da lontano Dokor poteva osservarlo, era maestoso e molto pacchiano, molto più di quanto poteva esserlo il palazzo reale. In effetti non aveva nulla di reale, era solo un ammasso di pietra ricoperta di ogni possibile decorazione che lo faceva scintillare sotto il sole, come a voler ricordare quanto l’oro fosse importante, dove si poteva arrivare essendo dei mercanti.
Per la maggior parte le case delle vie erano delle vere e proprie botteghe, le persone di quella città, almeno la maggior parte, tendevano a vivere e dormire nelle loro botteghe di vendita, anche di quelle era possibile trovarne di ogni tipo e quasi tutti i mercanti avevano uno schiavo al loro seguito, quasi sempre erano mezzosangue, o Efir intrappolati.
Dokor percepì immediatamente una forte magia aleggiare nell’aria, lasciata a se stessa. Era la stessa magia che veniva rilasciata dai corpi smembrati delle creature. Non aveva voluto notarli ma erano lì, solitamente non venivano mai messi in mostra pezzi non lavorati, c’erano ossa levigate in bracciali, anelli, dadi e qualsiasi altro oggetto nel quale sarebbero tornati utili, ciocche di capelli tagliate e legate da nastri colorati, occhi racchiusi in barattoli e divisi per colore, con un incantesimo di protezione potevano mantenersi per molto tempo e i loro colori erano considerati di tale bellezza che molti erano disposti a pagare cifre molto alte per averli, erano una delle parti più difficili da mantenere, motivo per cui avevano un costo così elevato.
Dokor si voltò appena verso Elyim, non poteva vederne il volto ma gli sembrava di percepire una calma furia. Era certo che sotto quegli occhiali i suoi occhi non si erano lasciati sfuggire nulla.
«Dobbiamo trovare cibo e una carovana.»
Un mezzo Efir con una benda sull’occhio passò davanti a loro, una manica penzolante senza un braccio da riempire e nell’altra mano teneva un sacco. I capelli aranciati erano tagliati in maniera irregolare, l’occhio spento per un momento si voltò verso la loro direzione, guardando dritto verso Elyim ma senza fermarsi a dire nulla, subito dopo aveva continuato il suo camminare.
Dokor riprese a camminare tenendo sempre gli occhi sulla figura di Elyim in quel momento silente, non sembrava essere stato interessato a quello sguardo. Sicuramente l’altro lo aveva percepito, Elyim aveva cercato di spiegarglielo tempo addietro il collegamento che tutte le creature avevano tra loro.
Potevano odiarsi o meno, provare meno o più simpatia ma sarebbero comunque rimaste legate, come un filo conduttore che li legava tutti insieme ma lasciandogli il libero arbitrio. Era un sentimento che Dokor non aveva ben compreso, non credeva che esistesse qualcosa del genere tra gli umani, non in quella maniera.
Si fermò davanti una carovana e scambiò uno il suo pugnale per del cibo, prese altra carne secca, ottima per il viaggio, frutta essiccata, arachidi e cereali, una boccetta di cannella in polvere, del Kefir in ciotole chiuse e due brocche di acqua piene, presto avrebbe avuto una carovana dove sistemare tutte quelle cose.
Si mise sulle spalle la sacca e le due sacche d’acqua in pelle, non avrebbe potuto permettersi quelle più raffinate con ciò che si era portato dietro. E questo fece sorgere in lui il dubbio di come avrebbe fatto a barattare una carovana con un cammello per trainarla, o un asino in caso.
«Non hai altro di valore?» Elyim doveva aver intuito lo stesso problema.
«Non molto, e non possiamo prendere un rottame o non ci porterà molto lontano.»
Una carovana in lontananza era stata lasciata nel mezzo della strada in attesa del permesso per passare, dentro vi erano solo schiavi, dalla pelle sporca, gli occhi bassi o infuriati e la maggior parte avevano le orecchie a punta. Dokor tenne lo sguardo su di essa per un momento, sapeva che diversi trattamenti e diverse leggi stavano venendo attuate per diverse ragioni ma quasi nessuna includeva la fine dello sfruttamento degli Efir più sfortunati, e come avrebbe potuto, come potevano rinunciare a qualcosa che gli aveva permesso di evolversi più velocemente e di migliorare le loro capacità.
Da quando l’Arkadia era venuta fuori la motivazione dello schiavismo politico non era che accresciuto.
Non è il momento di pensarci.
«Rubiamo qualcosa allora.»
«È pieno di guardie proprio per questo, sarebbe il posto perfetto per rubare e non sarebbe chiamata la città dei mercanti, ma dei ladri, se non ci fosse la giusta sicurezza.»
Elyim sospirò, sollevando la testa verso il sole. «Che facciamo allora?»
Dokor scosse la testa, osservando il cielo, era ancora giorno ma muoversi troppo per quelle strade non era un’idea saggia, le guardie avrebbero potuto notarli, qualcuno avrebbe potuto riconoscerlo, in quella città erano molto tenuti di conto due persone, gli Efir e la famiglia reale, il che li metteva in una posizione scomoda, ma nella fretta di far uscire quei due ladri dalla sua cabina non aveva notato che effettivamente avevano rubato ciò che gli serviva.
Ho il bracciale. Ma non potrei mai darlo via, e sono sicuro che Elyim sarebbe il primo a vendere me pur di tenerlo ora che sa che lo ho.
«Troviamo una taverna dove riposare, domani mattina ci inventeremo qualcosa.»
«Questo piano è tutto un inventare è, potrebbe a modo suo essere considerata una strategia.»
Dokor ignorò la sua ironia e si diressero verso la taverna che aveva notato, dentro era molto più confortevole dell’aspetto che dava da fuori.
Il legno emanava un odore gradevole di incenso, l’atrio aveva diversi tavoli per il momento per lo più vuoti, diverse ancelle camminavano tra i tavoli pulendoli e preparandoli per la sera. Delle scale poste quasi nascoste portavano a un piano superiore dove Dokor immaginava ci fossero le camere per dormire. Il pavimento era in terriccio e le finestre lasciavano entrare la luce del sole, colonne di legno sorreggevano la struttura, sembravano essere ben salde, forse protette dalla magia.
Una donna si avvicinò a loro, indossava lunghe vesti di rosso acceso con diverse fantasie sulla gonna, un corpetto stretto e la pelle un poco troppo chiara, bruciata dal sole. I capelli neri erano corti e lisci fino al mento, aveva un naso pronunciato e un’espressione non del tutto cordiale.
«Chi siete?»
«Viandanti, abbiamo bisogno di un posto dove riposare per la notte.»
La donna lo squadrò, poi fece un cenno portandosi una pipa di ottima fattura alle labbra e inspirando.
«Avete di che pagare?»
Dokor annuì. Tirando fuori le poche monete rimaste chiuse in una sacchetta. Gli occhi scuri della donna le osservarono per poi prenderle.
«Queste bastano per una sola stanza.»
«Ce ne serve solo una.»
Elyim dietro di lui accennò un risolino infantile.
«Potresti almeno chiedermelo.» Sussurrò alle sue spalle, Dokor decise nuovamente di ignorarlo, la donna parve curiosa ma non si intromise, facendogli cenno di salire le scale.
«L'ultima è ancora libera.»
Dokor si avviò senza aggiungere altro seguito da Elyim e le scale sotto di loro cigolarono appena, una volta sul piano Dokor aprì l'ultima porta e una volta dentro la richiuse, facendo scattare il chiavistello.
La stanza era molto essenziale con un letto semplice un po' più grande, una finestra chiusa e il pavimento non del tutto pulito e un mini tavolo dove Dokor poté porre le sacche che si portava sulla schiena. Elyim si guardò intorno, levandosi gli occhiali e facendo calare il cappuccio.
«Che schifo di bettola, almeno c'è il bagno benché sia in comune.» Si voltò sorridendo, piccoli solchi rossi intorno agli occhi segnavano il punto in cui gli occhiali aderivano alla pelle. «Sai che bello quando scopriranno che facciamo tutto insieme? Anche pisciare.»
«Meglio che dormire per le strade, non sei tu quello che vive nel mezzo del deserto? A cosa ti servono certe comodità?»
«Questa fogna mancata non ha nulla a che vedere con le Corti Efir.» Si avvicinò con fare critico al tavolo che doveva avere almeno un dito di polvere, sicuramente non era un luogo famoso per l'ospitalità notturna.
Dokor scosse la testa, gli sarebbe piaciuto vedere una vera corte Efir, una di quelle nascoste, difficilmente accessibili se non nei giorni di festa con determinate regole, ne aveva vista solo una interna. Agli uomini era concesso l'accesso ai territori Efir ma difficilmente si addentravano nel vivo della corte.
Poteva essere un viaggio di sola andata.
La stanchezza sul suo corpo cominciò a farsi sentire, doveva decisamente riposare. Decise di fare in modo che Elyim non potesse disturbarlo o non potesse muoversi per permettersi di dormire e recuperare le forze che sentiva scivolare via, erano giorni che non chiudeva gli occhi in modo adeguato per permettere al proprio cervello di riposare. Il letto non era comodo, il materasso sotto di lui era duro ma aveva dormito in posti peggiori.

***

«Tu mi vorrai ancora bene fratello?»
Dokor aveva guardato sua sorella con serietà, colpito dalla domanda. «Perché non dovrei?»
«Non lo so, vivi a palazzo con noi da anni ma temo che questa situazione possa cambiare l’idea che hai di tutti noi…di me.»
Dokor non aveva risposto subito, le paure della sorella erano ben fondate. Non riusciva a capire tutta quella situazione, non la voleva capire né fare sua, se si immaginava al posto del fratello una stretta lo colpiva allo stomaco. Ma non era solo l’idea del matrimonio, aveva vissuto con loro abbastanza da comprenderne le motivazioni, mantenere la linea pura era importante per la salvaguardia della famiglia reale, erano secoli che non nasceva della stessa linea reale un fratello e una sorella. E l’affetto tra loro non sarebbe mancato, a sua sorpresa nella sua testa non lo trovava più molto strano.
Ciò che non riusciva a mandare giù era l’espressione che Aesis aveva assunto da quando lo era venuta a sapere. Forse era cresciuta con quella consapevolezza ma si era resa reale solo in quel momento. Non era felice, solo consapevole.
I capelli più lunghi al vento, gli occhi in quel momento erano lucidi e consapevoli, la veste lunga e larga e le guance lievemente porpore. Era tanto bella e tanto triste. 
«No, sei mia sorella e lui è mio fratello, questo non cambia.»
Erix però era cambiato, da quando aveva il potere di regnare, da quando aveva deciso di sposare sua sorella. Tuttavia non riusciva a smettere di volergli bene, vedeva crescere in lui qualcosa di oscuro che voleva celare ai suoi occhi. Aveva da poco ritrovato una strada e su di essa qualcosa simile a un affetto familiare si era venuto a creare, non voleva perderlo, aveva già perso la persona che aveva creduto di amare e non aveva ancora avuto il tempo di essere triste, solo arrabbiato.
Aesis si era portata la mano al polso, dove un tempo teneva il suo bracciale che da molto non indossava più. Dokor non gli aveva ancora chiesto dove lo avesse messo.
«Le carte mi hanno letto che tutto sta per cambiare.»
«Non dovresti basare la tua vita su delle stupide carte. Avranno anche un potere divinatorio ma devi viverla tu la tua vita.»
Aesis sorrise. «Non devi odiarli solo perché chi ami ti ha allontanato.»
Dokor aveva stretto il pugno, voltando lo sguardo. «Ma per il tradimento posso.»
«Dokor…non eri l’unico ad amarlo. Ha fatto la sua scelta.»
«Non ne voglio parlare. Devo partire ora.»
Era stata l’ultima conversazione su Elyim che avessero mai avuto. Poco dopo il nucleo familiare che credeva di aver creato si era sfaldato tra le sue mani.

Dokor si svegliò di soprassalto, il volto di sua sorella ancora impresso sotto le palpebre come un marchio a fuoco. Avrebbe voluto ricordare i momenti in cui sorrideva e non quel periodo in cui la sua espressione era mutata in una costante rassegnazione.
Non avevano mai più parlato di Elyim e Dokor a lungo andare se ne era pentito, si chiedeva se Aesis in caso contrario si sarebbe comportata diversamente e gli avrebbe detto della sua volontà di vederlo e del motivo, magari non sarebbe morta.
Dokor non sapeva nemmeno se il pugnale che l’aveva colpita era stato quello di Elyim, forse nella corte era successo qualcosa, ma niente cambiava che Elyim era stato presente e che non aveva fatto quanto bastava per riportarla viva a casa sua.
Si sollevò dal letto guardandosi intorno e imprecando. Le corde con cui aveva legato Elyim erano vuote e di lui non c’era traccia nella stanza.
Era certo di averlo legato stretto e di averlo anche imbavagliato per impedirgli di disturbare il suo sonno. Si sollevò di scatto recuperando il suo pugnale e la mantella e coprendosi quanto bastava per celare il suo volto. Aprì la porta e si fiondò giù per le scale. Cercò di percepire qualcosa dal legame ma era completamente silente, voleva dire che non si trovava in pericolo il che non era un buon segno, che avesse già trovato qualcuno dell’Arkadia per fuggire?
Si ritrovò nel piano terra della locanda, le fiaccole delle lanterne erano accese e rilasciavano una fioca luce aranciata, il sole era calato e il cielo si era scurito, tutta la stanza era resa opaca dalla grande quantità di fumo delle pipe e dei sigari e una piccola banda aveva preso a strimpellare, molti erano quelli che bevevano bevande tra le più disparate.
Dokor evitò un’ancella e si fece largo fino a che non notò una figura seduta in mezzo alle altre, aveva gli occhiali a doppio fondo sugli occhi e il velo intorno al capo che mascherava i suoi capelli lasciando intravedere solo le punte, anche le orecchie erano tenute nascoste e aveva indossato dei guanti che aveva sicuramente rubato. Teneva in mano delle carte e intorno a quel tavolo c’erano diverse persone.
Dokor strinse la mascella facendosi avanti.
«Oh bene, ecco il mio compagno. Vedi di non barare come prima.»
Elyim sorrise al suo avversario, un uomo panciuto con un sigaro tra le labbra coperte dalla folta barba, i capelli nascosti da un turbante che nel centro aveva una gemma. Portava diversi anelli e diversi bracciali, alcuni dei quali rilasciavano una debole energia magica.
«Che stai facendo.»
«Ci sto procurando quello che ci serve. In modo leale.» Buttò giù la sua carta, mostrando la regina di Fiori. Una donna si avvicinò a lui, strusciandosi in modo mellifluo e mettendo in mostra il seno.
«Incredibile la fortuna è proprio dalla vostra parte.»
«Il vostro compagno non gioisce con voi?» Commentò un’altra, guardandolo. Dokor roteò gli occhi riuscendo a stento a mantenere la rabbia.
«Lui non sa divertirsi, né festeggiare.» Elyim prese il gruzzoletto chiuso nella sacca posta dinanzi a lui, era lo stesso che Dokor aveva nella sacca, solo che ora contava più monete. L’avversario mandò un’imprecazione agli antichi dei e buttò le carte sul tavolo.
«Bene qui hai finito, dobbiamo tornare nella stanza e riposare prima del viaggio.» Voleva ucciderlo, era convinto che in quel caso nemmeno il loro legame sarebbe stato in grado di salvarlo. Vederlo lì circondato di un numero consistente di persone e con in mano un bicchiere di liquore scadente.
Elyim lo guardò per poi alzarsi tenendo stretta la sacca. «E qui finisce il divertimento.» Una donna strinse il suo braccio per poi farsi vicino a Dokor, aveva un profumo molto forte, un corsetto ricamato e una gonna lunga. «Ce lo aveva detto che il suo maestro era severo, ma perché non vi unite a noi invece di tornare in cabina?»
«Venite del palazzo reale?»
«No.» Dokor continuò a guardare con insistenza Elyim, mentre sorrideva cordialmente alla donna, l’unica cosa che riusciva a sentire chiaramente era il suo pugno che si stringeva e il braccio che era pronto per colpire, era a un passo dall’accogliere quella necessità.
Elyim si stiracchiò, mentre l’uomo gli richiedeva un ulteriore scontro con le carte. Era incredibile come fosse a suo agio in una situazione del genere, aveva vissuto come un nobile per anni e doveva aver frequentato molti di quei posti, per di più aveva vissuto nelle corti, quella sua apparente flemma e noncuranza erano tipici. Anche in quel momento che era un ricercato e un prigioniero si comportava come se tutto fosse nelle sue mani.
Maledetto bastardo.
Non poteva certo mettersi a urlargli contro in quel momento, ma poteva emanare sentenze di morte da tutto il suo corpo, mentre l’altro gli sorrideva in modo beffardo.
«Avrei giurato di sentir salire qualcuno proveniente dal palazzo reale.»
«Davvero?» la donna sorrise, mentre altri si facevano vicini.
«Mi sembra di averti già visto.»
Cominciava a sentirsi sopraffatto, emanando sguardi di fuoco verso Elyim, che dal canto suo continuava a sorridere come se si stesse divertente, mischiando le carte senza un motivo. Voltò solo gli occhi verso il suo avversario, serio. «Chi perde non chiede al vincitore di riprovare. Mi sono stufato.»
«Siete un soldato de deserto? Solo loro hanno una postura così dritta e portano i capelli legati in questa maniera.» Parlò un altro lì in mezzo, erano tutti abbastanza allegri da essere interessati a lui senza un valido motivo.
«Sì mio caro maestro e amico, raccontagli delle tue battaglie in campo.» mormorò Elyim, mentre prendeva un sigaro da una ragazza.
Ma non riesce a capire quanto sia rischioso?
Dokor strinse le labbra, poi la sua attenzione venne spostata a una ragazza che era certo di aver già visto, indossava gli stessi vestiti che aveva sul treno, ma non riuscì a vedere l’uomo che l’aveva accompagnata.
«È per questo che prima ho affermato di conoscervi, vengo dalla capitale e voi avete uno sguardo conosciuto, se siete un soldato potrei avervi visto, tratto molto spesso con l’esercito.»
Se lo ritrovò tra la folla di persone che ora si erano interessati a loro, Dokor gli rivolse uno sguardo veloce, per poi voltarsi verso Elyim, anche lui lo stava osservando con attenzione, gli occhi socchiusi illuminati dal sigaro che bruciava, fece una profonda tirata per poi alzarsi.
Il mercante si fece vicino, aveva anche lui le stesse vesti e lo tesso sguardo che lo aveva impensierito quando lo aveva trovato nella cabina, era furbo e attento, e ogni persona che conosceva con quello sguardo aveva tentato di fregarlo.
«Potreste dirmi la divisione di cui fate parte.»
«Non serve, non ho mai molto trattato con i mercanti, sono un pessimo barattatore.»
L’uomo spostò lo sguardo su Elyim che con la sua solita calma si era avvicinato con passo felpato e lo aveva ignorato, rivolgendo il suo sguardo verso Dokor. «Mi raggiungi in cabina? Ci aspettano giochetti interessanti.»
Nell’ultima parte aveva rivolto lo sguardo verso il mercante accennando un sorriso. Dokor aveva liquidato tutti e gli era andato dietro trattenendosi dallo sbatterlo al muro e prenderlo a pugni.
Quando la porta si era chiusa dietro di lui lo aveva visto muoversi come un gatto che si sgrullava la cenere di dosso, mentre poggiava il sigaro spento sul mobile vicino il letto e si liberava i capelli dal telo.
«Sei impazzito? Quale parte della necessità di rimanere nascosti non hai capito?»
«Non lo so, tu non sei molto chiaro.»
Non aveva urlato, il suo tono si era abbassato mal celando un’ira che lo investì tutto insieme, si ritrovò a prenderlo per il colletto della veste. «Credi che sia un gioco?»
«Forse.»
Dokor imprecò, stringendo la presa. Voleva così disperatamente picchiarlo anche se cominciava già a sentire le restrizioni del vincolo attanagliare i suoi arti.
«Non prendermi per il culo Elyim!»
I suoi occhi scintillarono, le sua mani dalle dita lunghe e le unghie spezzate si aggrapparono alla sue, coprendole.
«L’ultima volta che ci siamo visti l’hai fatto tu con me.» Sussurrò con malizia.
Dokor lo colpì senza pensarci, aspettandosi di sentirsi bloccare. Le sue nocche entrarono in contatto con lo zigomo di Elyim che fece un passo indietro per il colpo incontrando il letto dietro di sé, Dokor lo vide cadere all’indietro perdendo l’equilibrio con un verso di sorpresa.
Lo aveva potuto colpire? Che diavolo voleva dire? Il vincolo doveva essere mutato o non avevano considerato che gli avrebbe permesso di prendersi a pugni fino a che fossero rimasti vivi? Poteva apprezzare quel risvolto.
Un verso inaspettato e di dolore uscì dalla gola di Dokor quando Elyim aveva alzato la gamba per colpirlo con un calcio al ginocchio, prendendolo al centro. Dokor non si era aspettato tutta quella situazione, cadendo in avanti e ritrovandosi addosso ad Elyim e permettendogli così di prendere l’iniziativa di colpirlo al fianco, se non fosse stato così debole ancora era certo che sarebbe riuscito a fargli molto più male.
«A quindi possiamo pestarci, ottimo a sapersi.»
«Smettila.»
«Hai iniziato tu, principe idiota e mi stai anche addosso! Levati!»
Lo spinse con forza. Dokor si sollevò mettendosi di lato e fermando il pugno che Elyim aveva diretto verso il suo viso quando si era sollevato e messo seduto. Tenne il polso stretto bloccandoglielo e senza pensarci lo tirò verso di sé, facendolo sbilanciare in avanti. Per un momento più lungo del previsto i loro respiri si unirono, Dokor riuscì nuovamente ad osservare le varie tonalità di rosso che Elyim aveva chiuse dentro gli occhi.
Dokor si impose di calmarsi, non sapeva spiegarsi perché avesse agito così, perché lo avesse tirato verso di sé in quel modo, sperava solo che i suoi vestiti mascherassero il rumore che il suo cuore faceva, il suo sangue pompava nelle vene a una velocità che non si era aspettato, era furioso e se avesse potuto avrebbe voluto schiacciarlo sotto di sé.
Era certo che se avesse mostrato parte di quelle sue sensazioni Elyim sarebbe stato in grado di rigirarle a sua favore.
«Vuoi rompermi il polso? Dopo ci penserai tu a risolvere il problema.»
Era austero, i suoi occhi erano mortalmente seri, niente a che vedere con la prima volta in cui si erano ritrovati su di un letto insieme, riusciva ancora a ricordarne le sensazioni e a riviverne le immagini coperte solo da una lieve nebbia dettata dal tempo. Avrebbe potuto ripercorrere tutto il percorso che le sue mani avevano compiuto.
Le pupille di Elyim erano ristrette come quelle di un gatto, un tempo era successo quando lo aveva toccato senza chiedergli nulla, come se si fosse sentito in pericolo. Le altre volte era stato per le emozioni che aveva provato, per il modo in cui lo aveva toccato, avrebbe voluto chiedergli perché gli stava succedendo anche in quel momento.
«Il tuo corpo è più sincero di te.»
Un singulto colpì il respiro di Elyim, i suoi capelli erano sfuggiti alla treccia e delle ciocche erano calate in avanti tra loro. Non voleva lasciarlo andare e lui doveva aver compreso cosa stava accadendo.
Ecco, ora puoi fare quello che vuoi.
D’altronde anche Elyim era un cacciatore, lo erano entrambi, per quello era sempre così difficile riuscire a prendersi.
«Anche tu sei più sincero ora, da quanto volevi questo è?» i suoi occhi si assottigliarono con sospetto. Dokor sentì montare l'ennesima ondata di desiderio senza saperla comprendere.
«Di averti tra le mie mani? Non l’ho mai nascosto.» Un uncino nella carni gli tirava il petto, come se dovesse avvicinarsi di più. L’espressione di Elyim cambiò, come se non fosse riuscito a reprimere del tutto i piccoli segnali della sorpresa e Dokor sentì il suo corpo rispondere con un altro strattone nel petto alla vista dei suoi occhi.
«Tra le tue mani...»
Lo ripeté con voce più bassa e quelle parole sembrarono metterlo a nudo, la verità allo scoperto aleggiava tra loro e il silenzio li aveva colti come se potesse colmare il baratro che li separava. Elyim aveva il respiro corto, così simile al proprio. Dokor allungò una mano pronto a cogliere qualsiasi movimento della pupilla dell’altro, ma dove prima si era avventato ferocemente in quell’istante le sue dita si poggiarono più dolcemente di quanto si aspettasse, sotto la pelle calda di Elyim percepì un piccolo spasmo, a Dokor ricordava molto il modo in cui Caa’li riconosceva il suo tocco.
Posò le dita sulla sua mascella e il pollice lungo la curva del collo, avrebbe potuto fare tutto, anche stringere fino a lasciarlo senza fiato. Era certo di volerlo fare, era certo che doveva pagare.
Il corpo di Elyim era sempre controllato, in quel momento sembrava pronto alla fuga, lo sentiva da come emanava tensione e da come il fluido fantasma della sua magia entrava in contatto con lui facendo frizzare l’aria tra di loro. Si allungò appena verso la guancia, lasciando scivolare da sé la fantasia di quel potere che avrebbe potuto avere approfittando di quel momento.
Dokor in quel momento si sentì rinchiuso nel suo corpo di sette anni prima, quando erano entrati nella locanda per gioco, sfottendosi della situazione in cui si erano cacciati e non erano usciti più dopo due ore ma solo la mattina seguente. I suoi occhi si spostarono verso le sue labbra, si sentiva famelico e quel fuoco aveva bruciato ogni ragionamento logico.
«Siete nella vostra cabina?»
Qualcuno bussò e improvvisamente tutto divenne lucido. Elyim ebbe un piccolo sobbalzo e imprecò a bassa voce. Si separarono velocemente e Dokor si maledì, come aveva fatto a non sentire i passi arrivare vicino la porta?
Si sollevò in piedi con lo stomaco annodato e fece qualche passo verso la porta, senza voltarsi.
Non sarei dovuto entrare in una locanda con lui. Avremmo dovuto dormire per strada.
Dokor aprì lentamente la porta ritrovandosi davanti il mercante ladro. Avrebbe voluto sbattergliela sulla faccia e lasciarlo svenuto a terra.
«C’è un particolare motivo per cui mi ritrovo il vostro volto sempre da qualche parte?»
«Mi dovete scusare l’increscioso disturbo, volevo solo discutere un po' con voi.»
Dokor strinse il pugno.
«Stiamo riposando, ci attende un lungo viaggio.»
«Temo che le persone potrebbero pensare che il vostro...compagno abbia rubato qualcosa, qualche moneta di troppo.»
In quel momento era complicato comprendere se il calore che sentiva fosse dato da ciò che era successo poco prima o dall’urgenza di picchiare Elyim.
Il diretto interessato aprì la porta da dietro a lui, i capelli poco prima sfatti coperti nuovamente dal velo, il sorriso sul volto, «ma prego entrate pure, avevo voglia di giocare con i dadi nel frattempo ma il mio compagno è un pessimo giocatore e sfidante. Mentre parliamo potreste unirvi al gioco.»
L’uomo sorrise con fare predatorio.
«Perché no, gran parte dei miei affari sono basati sulla fortuna che mi accompagna.»
Dokor chiuse la porta quando entrò anche la donna, che era rimasta in silenzio per tutto il tempo. L’uomo osservò la stanza nel centro, tenendo sempre in mano la sua piccola sacca di cuoio. Elyim aveva nel frattempo già tirato fuori i dadi e la bottiglia di alcool offerto dalla locanda con qualche bicchiere.
«Tutte le cabine sono uguali, abbastanza fatiscenti. La vostra quantomeno è più grande.» Portò gli occhi nuovamente su di loro. «Mi presento finalmente, mi chiamo Dreium
Grad, sono un mercante.»

«E una sorta di ladro che usa la scusa di un furto per entrare nella stanza di quello che accusa di essere un ladro.» Sorrise Elyim sedendosi sulla sua sedia e prendendo dei dadi in mano, Dreium si fece avanti e si mise seduto dinanzi a lui, la donna prese il posto al suo fianco.
Dokor si fece da parte sconsolato, la sua mente stava viaggiando, avrebbe voluto cacciarli senza pensarci troppo sopra ma c’era certamente qualcosa che non tornava e temeva che quell’uomo sapesse qualcosa, forse in parte voleva credere che anche Elyim avesse notato qualcosa di più, sperava solo nel suo buonsenso o l’intero deserto si sarebbe messo a braccarli.
Si mise seduto di fianco ad Elyim aspettando il suo turno. Il primo giro di lanci avvenne in silenzio, il vincente fu Elyim, Dokor non ne fu sorpreso, aveva passato notti intere a sperare di batterlo, ci era riuscito raramente e non era certo che fosse avvenuto per la sua fortuna quanto per un sentimento di pietà dal suo compagno di stanza.
Elyim si accese un altro sigaro che gli venne offerto dall’uomo per la sua vincita, dopo il secondo turno il mercante sorrise.
«Avete una mano decisamente fortunata.» Mise la mano in tasca tirando fuori due dadi bianchi e lucidi. «Userò i miei ora, potremmo alzare la posta in gioco.»
Elyim non si scompose, poggiandosi contro lo schienale. «Ovvero?»
La donna rimase in silenzio mentre l’uomo parlava, anche lei aveva buoni lanci ma nessuno che fosse servito a battere Elyim. «Siete un mezzo Efir, niente ha più valore. Una ciocca di capelli?»
Dokor scattò. «No.» S’intromise serio.
«È solo una ciocca, porterà fortuna nel mio viaggio se potrò averla. Lo percepisco da lontano che avete una retaggio molto potente, i vostri colori così rossi lo affermano.»
Elyim si irrigidì, Dokor lo percepì mentre era seduto al suo fianco e lo osservava levarsi il velo dalla testa.
«Voi potrete non avere rispetto per il vostro corpo ma qui non si tratta di una ciocca di capelli. Si tratta del fatto che il suo corpo non è una vincita. Vi accontenterete dei soldi che abbiamo.»
Era agitato, troppo agitato. Era troppo rischioso, voleva mandarli fuori prima che potessero intuire troppo. Lo sguardo di Elyim si posò su di lui ma Dokor era troppo nervoso perché potesse notare l’assottigliarsi del suo sguardo.
«Il mio compagno è molto protettivo nei miei confronti, teme gli schiavisti, ma qui siamo tra gentiluomini. Una scommessa è una scommessa solo se divertente, mi va bene, vi darò una ciocca solo se la vostra fortuna avrà l’ardire di sfidare la mia.»
Dokor ricordava che anche lui un tempo aveva creduto che in quel gioco contasse solo la fortuna e per quel motivo lo aveva sempre ritenuto abbastanza stupido, accanirsi per qualcosa che era dettato dal fato. Elyim gli aveva spiegato che grazie a ciò nessuno si concentrava mai su come lanciare i dadi, avevano una forma ottagonale e quindi il modo in cui li si faceva ruotare nel palmo poteva determinare l’uscita di un numero alto o basso, non era mai certo ma aggiungeva una percentuale di vincita notevole al di fuori della fortuna. Aveva provato ad imparare ma non ci era mai riuscito molto.
Dokor cercò di non dare a vedere quanto fosse contrariato dalla situazione, riempì i bicchieri una volta che si svuotarono. Nel mentre cominciarono a conversare del più e del meno, come se fossero amici di vecchia data, la maggior parte dei discorsi che stavamo intrattenendo lo annoiavano ed era certo che annoiassero anche Elyim.
Era bravo anche in quello, far sentire coloro con cui parlava pieni di attenzioni o dei completi idioti nel momento in cui si annoiava.
«So che ci sono dei disordini nella capitale.»
Elyim fece spallucce, buttando giù la cenere del suo sigaro. «Ah si?»
«Non venite da lì? Facevate parte della guardia d’orata? Avrete certamente frequentato l’accademia.»
Dokor prese la parola mentre faceva il suo lancio, uscì un numero alto. «È molto che non torniamo in realtà, non abbiamo diretti contatti da mesi e per questo non sappiamo tutte le ultime notizie del momento.»
«Dicono che nessuno abbia più visto il processato e che L’Arkadia si sia fatta più forte, non essendo intimorita da un processo che, sempre secondo le voci, si dice non avverrà.»
Elyim sorrise lievemente. «Parlate di un possibile perdono?»
Il suo lancio ebbe due numeri in più di Dokor, quattro in più dei loro sfidanti, segnando la sua vittoria, si allungò verso il mazzetto di monete portandolo verso di sé.
«Di una fuga, dicono che durante il processo sia successo qualcosa e nessuno ha più visto gli interni al Dekatum né la famiglia reale, si pensa che se lo siano lasciato sfuggire sotto il naso.»
«Eravate al processo?» Dokor si sistemò sulla sedia, mascherando il suo nervosismo dietro la serietà.
L’uomo di mezz’età scosse la testa, spegnendo il sigaro consumato.
«No, ma ho buoni informatori tra i mercanti delle alte sfere, gran parte dei loro rifornimenti li gestisco io.»
«Non sarebbe davvero scandaloso se fosse così? Vantano una così grande schiera di guerrieri.» Elyim bevve subito dopo per mascherare una risata. Dokor lo colpì sotto al tavolo facendolo sussultare appena.
«So che il generale, il nostro principe, ha dei lati simpatizzanti per le creature del deserto, e in particolare per gli Efir.»
«Davvero? E dovrebbe essere di una qualche importanza?» Elyim guardò la donna e subito dopo il loro ospite indesiderato. «Anche voi non sembrate negarvi la nostra compagnia. Nella gilda dei mercati tra i più facoltosi nascondono retaggi di sangue Efir nelle vene.»
«Oh non vorrei essere impreciso, chi ha sangue misto non ha alcuna colpa del suo retaggio, benché non siano totalmente affidabili, tra me e la mia compagna di viaggio c’è un patto di garanzia reciproco.»
«Non ho scelto io di essere così, ma almeno cerco di sfruttarlo a mia vantaggio.»
Rispose lei tenendosi sempre sulle sue, aveva un retaggio abbastanza debole se messo in confronto a quello di Elyim. Tuttavia era raro trovare qualcuno che lo rinnegasse in tal modo. Ed era il motivo per cui Dokor osservò Elyim interessarsi solo a lei in pochi secondi e non in maniera positiva, tutta la sua energia e la sua aurea emanarono una sensazione di pericolo e tradimento. Come se il rinnegare di quella donna lo coinvolgesse personalmente.
«In ogni caso, si vocifera che il principe si sia opposto alla condanna a morte.»
Dokor divenne teso e tenne gli occhi verso il mercante. «Ah sì? Forse può esserci strategia in un tale pensiero. Posso sapere da chi viene la diceria? Dai mercanti?»
L’uomo annuì.
«Non hanno mai nutrito simpatia nei suoi confronti.»
«Sicuramente avrà avuto qualcosa in mente, è solo che molte volte le sue azioni non sono ben comprensibili.»
Dokor si irritò ma guardò la donna che continuò a parlare. «Non ha ancora mosso l’esercito contro le terre rocciose, il mercato subisce danni continuamente per il mancato collegamento.»
«Sapete, la mia casa è lì vicino, forse conoscere voi era destino. Credete che sarebbe possibile per voi… fare una richiesta di aiuto?»
«Aiuto?» Dokor osservò velocemente Elyim, che nuovamente nascose un sorriso divertito dietro la mano.
«A fare in modo che si possa creare una via mercantile da attraversare facendo spostare la corte che si trova lì.»
Dokor trattenne la sorpresa e la risata che gli stava per sgorgare dalla gola, di Elyim non poté dire lo stesso.«Il deserto roccioso? Lo stesso territorio che è sotto il potere del re delle rocce? Lo Spaccatore? Nessun esercito prenderebbe iniziativa per muoversi in quel verso, è una delle poche corti rimaste neutre alla guerra, purché si rispettino i loro territori.»
«Dovremmo quindi accettare che il mercato rallenti i suoi giri? Che i nostri territori siano usurpati.»
«Le creature del deserto c’erano prima. È il loro territorio.»
Elyim bevve un sorso sollevando il sopracciglio mentre lo guardava, posò il bicchiere sul tavolino attirando l’attenzione con il tonfo che fece.
«So che il mercato ha già la sua via che aggira la corte, ci sono addirittura pochi scontri, lo Spaccatore non è interessato al mercato umano, con una via sicura perché scatenare uno scontro? Per cosa poi? Un pezzo di deserto senza acqua, pieno di rocce, secco e terribilmente afoso, non c’è nemmeno un’oasi vicina.»
La donna li guardò con sufficienza. «La via è troppo lunga ed è stancante per i mercanti, per non parlare dei molti carichi che marciscono nel viaggio.»
«Inoltre ritengo che definire una strada sicura con una Corte Efir così vicina non sia del tutto corretto, la maggior parte dei mercanti ne percepisce la minaccia.»
Elyim poggiò la schiena alla sedia, guardandolo. «Mi sembra troppo chiedere una guerra per una strada. Gli Efir di quel territorio comandano la terra e si nutrono dell’afa che il calore crea in quella zona, gli umani solitamente ci muoiono. Ho sentito anche di chi vi prende fuoco sotto il calore del sole quando è nel punto più alto del cielo.» Trasse l’ultimo tiro dal suo sigaro, per poi spegnerlo senza curarsi della cenere che cadeva a terra. Fece l’ultimo tiro con il dado, sorridendo divertito. «Ho vinto, non avrete oggi i miei capelli.»
Dokor cercò di calmare gli animi mettendosi dritto con la schiena e restituendo il dado a Dreium.
«Vedrò se riuscirò a mettermi in contatto con qualcuno dell’esercito e se con gli ultimi movimenti sia possibile fare qualcosa. Adesso direi che la partita è conclusa.»
«E quando avverrà? Nel frattempo i miei carichi e quelli della gilda dei mercanti sono in continuo rischio. Sappiamo bene quali azioni andrebbero svolte ma sarebbe necessario parlare con il Re, so che la sua clemenza nei confronti degli Efir è diminuita, forse finalmente qualcuno che potrà liberarci dalla loro piaga.»
Dokor strinse il pugno, ma non fece in tempo a parlare che il mercante si voltò nuovamente verso Elyim. «Volete alzare un po' la posta in gioco?»
«Potrebbe essere divertente. Ma altri soldi? Non sono interessato, abbiamo vinto quanto ci basta.»
Rispose annoiato, voltando lo sguardo. L’uomo richiamò la sua attenzione prendendo la sacca e tirando fuori da essa un barattolo con al suo interno contenuti una decina di occhi ammucchiati tra loro e non lavorati per la presentazione.
Solitamente sul mercato erano cristallizzati, resi come se fossero pezzi di vetro lavorato e difficilmente si andava a pensare con quanta violenza venissero strappati da dei corpi reali. Non li si vedevano mai in quello stato, sporchi di sangue raggrumato, spenti di ogni possibile luce, schiacciati tra loro mentre anche da chiusi emanavano un odore nauseabondo. Tirò fuori un ulteriore scatola sigillata e l’aprì rivelando delle dita essiccate, delle ossa non lavorate e piccole creature bloccate da spilli.
Dokor fece una smorfia di disgusto e vide Elyim sbiancare, perdendo del tutto il sorriso che fino a poco prima aveva. La sua postura era rigida e i muscoli tirati, spostò gli occhi verso la donna che non sembrava molto toccata dalla cosa, anche se aveva voltato lo sguardo.
Poteva sentire la sua ira crescere.
«Che cos’è questa roba?» Dokor sollevò gli occhi sul mercante, stringendo le labbra tra loro senza nascondere il disprezzo.
«Mercanzia.»
«È una tratta di parti illegale, non si possono trasportare senza permesso tanto meno prenderle.»
«Permesso? Sono parte della Gilda dei mercanti, il mio lavoro è avere la materia migliore per permettere la creazione di oggetti utili a tutti, anche il vostro anello di osso è stato creato grazie ai mercanti.»
Dokor allontanò la mano come se fosse stato scottato, aveva odiato dover indossare quell’oggetto ma era stato necessario per portare avanti le sue qualità magiche, si era assicurato che fosse stato trattato da ossa di una creatura appartenente alla gilda dei maghi che era morto per cause naturali, ma questo aveva alleviato di poco il peso di averlo al dito.
«In ogni caso provengo da una famiglia di buona casta a cui è stata data la licenza per esercitare la professione all’interno della gilda dei mercati.»
«Non del mercato nero» rispose Dokor con tono baritonale, sentendo montare dentro di sé una forte collera. All’interno del mercato nero le cose giravano in modo diverso, non tutte quelle parti provenivano da creature morte o quantomeno adulte.
«Cosa volete?» intervenne Elyim, senza staccare gli occhi dall’uomo.
«Avete degli occhi splenditi, siete sicuramente un discendente di casta importante. Nessuno dei pezzi che ho ha questi colori, siete quel tipo di Efir che viene denominato una “giada del deserto”, mi manca.»
Devo mettere fine a questa storia.
L’uomo allungò appena la mano verso il volto di Elyim, indicando le parti che agognava di avere. Un verso di sorpresa lasciò le sue labbra quando il suo braccio venne sbattuto contro il tavolino con forza sotto la presa della mano di Dokor. Era certo di non aver sentito alcuna sensazione di pericolo da parte di Elyim, solo disprezzo, eppure era intervenuto lo stesso.
«Qui dentro non si fanno trattative per il mercato nero. Ho detto che il suo corpo non è oggetto di scommessa. Potrei denunciarvi alla guardia d’orata, non si possono avere parti di corpo dei Efir se sono in vita, non se si fa parte del mercato legalizzato.»
Dreium si voltò verso di lui, non sembrava troppo colpito dalla minaccia. La donna aveva messo la mano al pugnale, pronta a colpire.
«Non scateniamo una guerra qui dentro, abbiamo trovato una maniera molto più divertente e civile. Se non volete partecipare potete uscire.»
«Fatti da parte» Elyim gli spostò il braccio facendogli lasciare la presa sull’uomo, Dokor si voltò verso di lui.
«Sei fuori di testa? Che pensi di fare?»
«Ho detto che devi farti gli affari tuoi.» I suoi occhi scintillarono e la sua voce fu simile a un ringhio. Tornò a guardare l’uomo. «Affare fatto, se vinco io avremo tutti i pezzi e tutto il denaro in vostro possesso, nonché la vostra identità nelle mie mani. Per la vostra parte in caso di vincita avrete sicuramente ciò che necessità per l’estrazione.»
L’uomo fece un cenno ed Elyim chiuse il pugno con forza. Dokor non gli avrebbe permesso di andare fino in fondo o che quel mercante lo toccasse, sarebbe intervenuto in qualsiasi modo. Era una situazione troppo pericolosa, soprattutto per la perdita di controllo che il suo compagno stava avendo.
«Vedi di stare calmo, non è il momento adatto.»
Elyim si voltò verso di lui con uno scatto.
«Di ogni pezzo richiesto ne ho un altro. Si chiama contrattare, se non sei capace fatti da parte.» Lo fronteggiò sollevandosi in piedi.
Dokor si fece vicino. «Stai perdendo il controllo, non sei lucido.»
«Non ti mettere in mezzo. Potrei dire a tutti chi sono e cosa stiamo facendo.»
«Oh su questo non preoccupatevi troppo, avevo qualche dubbio ma mi sembra di capire che forse la fuga del prigioniero non è poi tanto fasulla.»
Nonostante le parole dell’uomo Elyim non smise di guardare Dokor, che dal canto suo continuò a ricambiare lo sguardo. Avrebbe voluto afferrarlo e allontanarsi da lì o prenderlo a schiaffi. Poteva capire la sua ira ma stava del tutto perdendo le staffe.
«Bene. Se sapete chi siamo non perdete tempo a fare le vostre minacce e sparite di qui.»
«Siete sicuro di ciò che dite? Ne avrei più da guadagnare a consegnarvi.»
«Sei il prigioniero...fai parte dell’Arkadia.» La donna si sollevò di scatto, allontanandosi di qualche passo. La mano stringeva ormai l’elsa del pugnale.
Elyim si voltò nuovamente tornando con gli occhi scintillanti di rabbia verso l’uomo. «Abbiamo un accordo.»
«Ho detto di no. Fuori di qui.» Ringhiò Dokor, furibondo.
«Davvero? Non mi interessa cosa fate con lui, ma questo accordo è conveniente per tutti noi, non sono interessato al suo arresto, la guerra non fa che aumentare il disprezzo per le creature e può tornare utile ai miei fini. Voglio solo le parti del corpo richieste, che voi vogliate riportarlo in cella o farne un uso personale è conveniente anche per voi, sarà più docile.»
Dokor tremò dalla rabbia, Elyim aveva perso le staffe ma qualcosa dentro di lui si ruppe e la voce che gli imponeva di rimanere imparziale il più possibile si spense. Non aveva avuto la certezza che quell’uomo avesse intuito chi era, era stato chiaro solo su di Elyim, avrebbe rovinato la sua vita, tutta la scalata che aveva portato avanti, tutta la falsa che aveva montato per tenersi il posto che si era guadagnato. Tutto scomparve e il suo tono di fece imponente mentre sbatteva la mano sul tavolino.
«Fuori. Ora
Dreium sussultò appena ma nessuno dei due fece in tempo a fermare la mossa di Elyim. Si era spostato velocemente verso la donna, sbattendola contro la parete e colpendola con furia. Dokor se lo sarebbe dovuto aspettare, il tradimento che doveva aver sentito dentro di sé non era qualcosa che avrebbe ignorato, nessuna creatura vi sarebbe passata sopra.
Poteva avere la vita da criminale che desiderava, ma che si affiancasse in quel modo a un mercante del mercato nero e che rinnegasse il suo sangue era stato troppo. Dokor fece per avvicinarsi ma fu distratto dal dover bloccare il mercante dal colpirlo.
Un rombo lontano fermò il tempo. Le finestre chiuse bloccarono il corpo proveniente da fuori ma l’intera casa sembrò tremare facendoli barcollare tutti, Dokor riuscì a tenersi in piedi mentre Dreium cadde a terra. Elyim e la donna si schiantarono contro la parete di pietra impreparati.
Qualcosa stava avvenendo fuori dalla locanda. Dokor si avvicinò alla finestra, aprendo una sola anta. L’aria era piena di sabbia sollevata da quella che doveva essere stata un’esplosione relativamente lontana, sotto di lui, per la strada, diverse persone avevano preso a correre in confusione.
«Un attacco.»
«Maledetti Efir. Hanno attaccato i nostri territori. Sono i terroristi dell’Arkadia.»
Elyim sollevò il volto, rimettendosi dritto e separandosi dalla donna. «Devono aver attaccato una monorotaia vicina.»
Dokor si voltò, chiudendo l’anta mentre percepiva il tremolio del terreno sotto di loro. Lo scontro non doveva essere finito.
«Le monorotaie sono controllate, ogni singolo Efir deve essere dichiarato e avere un permesso, sono controllate e protette dalle rune.»
«Non tutto passa per la magia.» Elyim sorrise. «Voi inventate marchingegni come le bombe, possiamo usarle anche noi. Devono essersi infiltrati, avranno fatto saltare qualche carico. Tra poco potrebbero attaccare la città.»
Dokor trattenne la rabbia nel sentire che il suo tono era calmo e lucido, come sapesse del pericolo e di quella eventualità, non glielo aveva detto. La città mercato era tra le più sorvegliate di tutte per la sua importanza e per i continui attacchi che subiva, la maggior parte appartenevano a piccole fazioni ribelli che avevano voluto affrontare la fortuna.
L’arkadia in sé non aveva mai tentato un diretto attacco e Dokor sperava di non ritrovarsi proprio in quella eventualità.
«Fate qualcos...!»
La voce della donna morì in un gorgoglio improvviso, i suoi occhi si spalancarono e il sangue prese a sgorgare dalla sua gola aperta, riuscì a portare le mani intorno al collo emettendo gli ultimi versi grotteschi prima di perdere qualsiasi luce negli occhi. Elyim roteo nella mano il pugnale che gli aveva rubato, macchiato di sangue come le sue vesti.
«Adesso avete nuovo materiale per la vostra collezione.»
Si voltò nuovamente verso il mercante, seduto a terra ed immobile.
«Peccato che non avrete nessuna collezione da portare avanti. È davvero una noia, io non ci ricaverò niente dal vostro corpo.»

ANGOLINO
Grazie a chiunque legga >.<

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