Chimes at Midnight

di Sapphire_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***



Chimes at Midnight








Non ero mai stata una persona a cui dispiace aspettare.
È solo una questione di trovarsi qualcosa da fare nel frattempo, mi dicevo sempre, e me lo ripetevo anche in quel momento. Ma l’attesa stava diventando davvero insopportabile.
Forse perché il mio vestito da Carnevale era troppo leggero per le nove di sera di febbraio, forse perché durante la notte a Venezia c’è sempre stata davvero troppa umidità, forse perché ero ferma nello stesso punto da circa venti minuti e Veronica non si vedeva ancora da nessuna parte.
Sospirai e il vapore del mio respiro fluttuò sopra la mia testa, illuminato dallo schermo azzurrino del mio telefono che restava fisso su quella schermata di WhatsApp che segnava solo la doppia spunta grigia del mio ultimo messaggio. Ero consapevole che non sarebbe mai diventata azzurra, ma continuai a osservare lo schermo nella speranza di vedere il suo “sta scrivendo”.
La musica proveniente dal palazzo veneziano sembrava frutto della mia immaginazione, eppure era lì, a pochi passi di distanza, e osservai la porta chiusa illuminata dalla lampada fissata all’arco che la sormontava. Fui tentata per un attimo di mordermi il labbro, ma il pensiero di rovinarmi anche di poco il make-up che avevo preparato per quella serata mi fece desistere.
Era da venti giorni che attendevo quel Giovedì Grasso. In attesa nel mio vestito lungo, chiaro e dal tessuto leggero e morbido, mi sembrava già di essere a pochi passi da una fiaba che mi aspettava all’interno di un favoloso palazzo veneziano appartenente a chissà quale Ca’ famosa di cui mi sfuggiva il nome in quel momento.
Ogni fiaba che si rispetti inizia con una festa, no? Fremevo così tanto per avere una storia tutta mia, per essere la protagonista di una storia, anche se ero consapevole che mi si confaceva più il ruolo di ‘migliore amica di’. Non che ci fosse qualcosa di male, e comunque io ero più che felice di essere amica di Veronica, ma il suo essere protagonista così facilmente, senza apparente sforzo, mi faceva chiedere se sbagliassi qualcosa nel mio modo di comportarmi.
Scossi la testa. Ecco, questo era la cosa peggiore da pensare, e lo sapevo bene – la mia psicologa me l’aveva ripetuto un sacco di volte che non dovevo paragonarmi agli altri. Ma era difficile applicarlo quando ci si sentiva così ‘non abbastanza’, anche se quel ‘non abbastanza’ non trovava risposta quando gli si chiedeva ‘rispetto a cosa?’.
Mi sembrò passata un’eternità e fu quando avevo perso quasi del tutto la speranza che dei passi mi distrassero, facendomi girare alla mia destra, lungo la calle immersa nella penombra, e dal ponte di metallo che collegava le due sponde del canale vidi un’alta figura avvolta da un cappotto e un cappuccio. Le mie mani sudarono quando per un attimo ebbi l’ansia che fosse qualche sconosciuto – cosa perfettamente probabile, dato che già alcune persone erano passate per di là da quando ero arrivata, per poi entrare alla festa, ma dopo pochi passi riconobbi subito Veronica e la tenaglia d’ansia che mi aveva avvolto in quell’ultima mezzora scomparve all’improvviso.
«Vero! Eccoti qui!»
Evitai di fare un commento sul suo ritardo. Non avevo voglia di fare polemica, e poi sapevo che lei si sarebbe limitata a scrollare le spalle e borbottare qualcosa del tipo “io nemmeno ci volevo venire a questa festa”.
«Ehi.»
Le sorrisi entusiasta mentre la osservavo, cercando di scorgere il suo costume, cosa piuttosto difficile considerando che come me era avvolta da un cappotto; riuscivo però a intravedere il suo trucco nella penombra e sentii una piccola fitta di gelosia nell’osservare i suoi stupendi occhi azzurri truccati in un make-up che ricordavano un taglio felino.
«Hai un trucco stupendo!»
Per quanto fossi stata gelosa, cercavo sempre di essere più sincera possibile con i complimenti. Il mio senso di inadeguatezza non era colpa sua, più un mio limite mentale che ignoravo con consumata abilità. E, comunque fosse, era anche il momento di smetterla di considerare gli occhi chiari più belli di quelli nocciola, o almeno questo è quello che mi ripetevo continuamente nella mia testa.
«Grazie.»
Veronica non era mai stata una di troppe parole, lo sapevo bene, ma ci rimasi comunque un po’ male per la sua risposta piuttosto arida.
«Sto morendo di freddo, entriamo subito, ti prego!» anche perché la festa era già iniziata, ma non lo dissi a voce alta «Hai il biglietto, vero?»
La mia amica si limitò a far ondeggiare il telefono di fronte a me – lo stesso che aveva tenuto tutto il tempo in mano ma con il quale comunque non mi aveva risposto. Ignorai quel pensiero che mi era passato rapido per la mente e la precedetti, assicurandomi con una breve occhiata che lei mi stesse seguendo.
La porta era più pesante di quanto pensassi e dopo un attimo di difficoltà sentii Veronica trattenere una risata e spingerla per me.
«E per fortuna dici di andare in palestra.» mi prese in giro.
«Ho meno forza di te perché sono bassa.»
Pronunciai quelle parole come se avessero un completo e ovvio senso logico, ignorando la sua occhiata dubbiosa e mi guardai attorno.
L’atrio di quel palazzo veneziano era spettacolare – non che avessi dubbi, considerando che era una festa a numero limitato e quindi abbastanza esclusiva. Avevo fatto carte false per ottenere questi biglietti, uno per me e uno per Veronica, tra cui promettere gli appunti dell’intero corso di Micro e Macroeconomia a un’idiota che aveva la sola fortuna di essere veneziano di nascita e di avere mille conoscenze che gli assicuravano le feste più esclusive.
Mi guardai intorno, notando il pavimento in mosaico veneziano dai motivi geometrici, sopra il quale si intravedeva l’impronta di qualche scarpa; l’ambiente era illuminato dagli alti faretti fissati alle colonne rivestite di marmo come le pareti. In quel punto la musica giungeva soffusa, attutita dalla distanza.
Prima della scalinata che portava ai piani superiori sostavano due uomini dall’aria piuttosto massiccia, uno seduto di fronte a un tavolo e l’altro in corrispondenza del primo scalino.
«Buonasera!» trillai entusiasta, ma evidentemente loro erano già stanchi di ciò che gli si prospettava davanti perché si limitarono a un distaccato ‘buonasera, biglietti?’. Di fianco a me, Veronica sembrava stanca quanto loro e in qualche modo mi sentii in colpa per averla trascinata fin là.
«Veronica e…» disse l’uomo seduto al tavolo, cercando di leggere meglio il nome sul biglietto digitale. Mi accorsi che il mio schermo si era spento nel frattempo e lo riaccesi subito.
«Iris.» lo anticipai con un sorriso. Lui guardò lo schermo del tablet di fronte a sé e annuì.
«Bene. Allora, il guardaroba è al primo piano, costa sette euro a persona. Se dovete fumare ci sono le apposite zone. Non fumate nei bagni, non assumete droghe dentro il palazzo, se fate casino sarete accompagnate all’uscita e fine della festa, va bene?»
Mi limitai ad annuire e ad assumere un’espressione che mi facesse sembrare la persona più innocente del mondo.
Ci fecero passare appena dopo aver dato un’occhiata al contenuto delle borse e superato l’omone mi misi quasi a correre su per le scale di marmo, i tacchi bassi che si percepivano a stento mentre la musica aumentava in concomitanza con gli scalini.
«Sette euro per un guardaroba? Sono dei ladri.»
Feci un mezzo sorriso al commento di Veronica.
«In effetti… Ma almeno è un free drink.»
«Sì, beh, con quello che costa il biglietto ci mancherebbe solo che ci facessero pagare anche quelli.» borbottò ancora.
Non le davo tutti i torti, non era stato particolarmente economico. Ma era da un’eternità che sognavo un evento del genere, e non appena avevo saputo chi ci sarebbe stato… Insomma, perdere quella festa non la consideravo un’opzione valida, e sono sempre stata una piuttosto ostinata quando voleva.
Arrivate al primo piano, la musica si era già fatta abbastanza intensa, ma non abbastanza da impedirci di sentire i discorsi delle persone vicino a noi. Dei cartelli indicavano una sala per il guardaroba e anticipai Veronica che, come sempre, si limitò a seguirmi. C’erano due file distinte da dei cordoni rossi e mi fermai di fronte ad esse, cercando di capire in quale ci fosse il minor tempo di attesa, ma finii per sceglierne una a caso dato che, per fortuna, non sembrava esserci da aspettare in nessuna delle due.
«Oddio, non vedo l’ora di entrare!» mi lasciai sfuggire entusiasta e mi voltai verso Veronica con un sorriso. Era ancora più alta del solito grazie ai tacchi.
«A chi lo dici.»
Feci una smorfia.
«Dai, Vero! Ti divertirai anche tu, fidati di me!»
«In mezzo a ventenni ubriachi impegnati a limonare in ogni singolo divanetto disponibile? Di sicuro.» la palese ironia stonava con il suo volto, ancora impassibile.
Sbuffai.
Iniziavo a sentire davvero caldo avvolta com’ero nel mio cappotto, ma mi sentii improvvisamente in imbarazzo a togliermelo e a mostrare il mio abito.
Non mi vergognavo, assolutamente. Avevo solo paura che sembrasse… Troppo? Troppo poco? Non lo sapevo nemmeno io.
Mi guardai attorno, e le ragazze di fronte a me erano già senza giacca, ridenti e all’apparenza appena un po’ brille – cosa che invidiavo, dato che uno spritz sarebbe stato perfetto per eliminare quel senso di inadeguatezza. Erano tutte bellissime e tremendamente sexy e improvvisamente l’idea che il mio vestito fosse troppo poco audace mi investì in pieno.
E se magari pensasse che-
«Qua dentro c’è da morire di caldo.»
Mi voltai verso Veronica e la vidi fare una smorfia di fastidio prima di iniziare a levarsi sciarpa, cappuccio e cappotto uno strato dopo l’altro. Fu inevitabile perdermi a osservare com’era vestita.
Indossava un miniabito nero, che si apriva dalla vita in giù in una gonna opaca che terminava un po’ più sopra il ginocchio, mentre le maniche rivestite in pizzo facevano intravedere la pelle abbronzata; in vita e sul seno era stretta da un corpetto lucido di pelle con mille lacci, che le stringeva il decolté mettendolo ben in mostra senza sembrare volgare. Gli stivali che superavano il ginocchio compensavano le gambe nude. Insieme al make-up nero che enfatizzava ancora di più i suoi occhi azzurri e gli accessori argento che davano luminosità al tutto, era innegabilmente meravigliosa. E anche molto seducente.
«Stai da Dio.» mi sfuggì mentre spalancavo gli occhi «Sei vestita da…» mi interruppi, un attimo dubbiosa, ma i simboli dei suoi gioielli mi diedero un piccolo suggerimento «Strega?»
Non ero molto sicura, avevo più tirato a indovinare che altro.
«Non sono vestita da niente. Non avevo voglia di comprare nuovi vestiti per stasera e ho riadattato cose che avevo a casa.» lo disse mentre con una mano si sistemava distratta il caschetto nero.
Ecco cosa intendevo dire quando parlavo di ‘essere protagonista senza sforzo’. Conoscendola, probabilmente aveva preso le prime cose nell’armadio, eppure era riuscita a risultare meravigliosa e adatta senza troppo impegno.
Le mancava solo una cosa.
«Sapevo che te la saresti dimenticata, per fortuna ci ho pensato io!»
Lei mi guardò confusa mentre io trafficavo nella mia borsetta alla ricerca di…
«Una maschera? Non pensavo fosse obbligatoria.» commentò Veronica.
«Non lo è, ma che festa in maschera è senza averne una?»
Le avevo ordinate su internet qualche giorno prima, una nera per Veronica (anche senza sapere il suo costume non avevo avuto molti dubbi) e una bianca per me. Peccato che ci fosse stato un problema con l’ordine e ne fosse arrivata una nera e una rosso scuro – bordeaux, sarebbe più corretto dire.
Fissai sconsolata la seconda, che perlomeno non era completamente inadatta al mio outfit.
«Non hai caldo? Potresti toglierti il cappotto anche tu, fra poco tocca a noi.»
Mi voltai e, in effetti, di fronte a noi c’era solo quel gruppo di ragazze bellissime.
«Sì, hai ragione.» balbettai appena e dopo qualche momento di confusione, in cui Veronica finì per prendermi dalle mani borsa, maschere e telefono per darmi una mano, riuscii anche io a levarmi il cappotto. Sentii subito un brivido lungo la schiena per la differenza di temperatura, ma mi abituai in fretta.
Guardai in basso, verso la parte inferiore del vestito, di un delicato rosa pallido e composta da una sottoveste più corta e uno strato più leggero, che sfiorava appena il pavimento e a ogni movimento rivelava dei piccoli fiori ricamati lungo tutto il tratto della gonna. Sulla vita era stretta da una cintura in tessuto della stessa tonalità di rosa chiaro, legata con un fiocco sul lato sinistro, e il corpetto risaliva riprendendo in maniera più fitta i ricami della gonna in una decorazione floreale dai colori pastello. La scollatura era piuttosto accentuata e terminava in una V lungo i seni, l’unico elemento marcatamente sensuale del vestito, mentre le maniche a sbuffo si distaccavano dal tessuto del corpetto per continuare in uno strato quasi trasparente fino ai polsi.
Poteva sembrare un vestito da fata dei fiori qualunque, se non per un elemento ben preciso che mi ero assicurata fosse ricorrente: un melograno ricamato per tutto il corpetto, ben visibile tra i fiori, una collana dorata con tante piccole pietre che ricordavano dei chicchi di melograno (che avevo finito per trovare per pura fortuna in un negozietto di Murano), e per terminare una spilla con il medesimo frutto che spuntava ben visibile nei miei capelli raccolti, appena mossi e castano chiaro.
«Bel vestito.» commentò Veronica «Sei…» si interruppe, per potermi dare un’occhiata più attenta.
La guardai con un sorrisone.
«Una ninfa?» terminò dubbiosa.
Il mio sorriso si spense immediatamente.
«Ma no! Dai, guarda, ci sono i melograni, è palese che-»
«Ragazze, tocca a voi!»
La voce spazientita di una donna mi interruppe e mi voltai di scatto, quasi spaventata.
«Sì, sì.» mugugnò Veronica, e si avvicinò al bancone.
Rimasi in silenzio mentre ascoltavo con un solo orecchio la donna che ci spiegava di non perdere assolutamente il biglietto con scritto il numero di riferimento dei nostri cappotti – “Se non lo avete, considerate pure le vostre cose perse, avete capito?” – piuttosto mi concentrai sul mio vestito di cui, in quel momento, non ero più sicura.
«Dio, quanto si lamentava quella.» borbottava Veronica mentre, per la prima volta, mi precedeva lungo le scale al secondo piano.
Non dissi nulla, osservando la sua figura che con sicurezza saliva i gradini, le luci che si abbassavano sempre di più al contrario della musica, che si faceva sempre più alta e nascondeva del tutto il ticchettio delle nostre scarpe. Il vociare giunse appena dopo e un attimo prima di iniziare a vedere sempre più persone che affollavano il luogo.
Il secondo piano era da un atrio che si apriva immediatamente su una sala enorme, caratterizzata da faretti alti, luci soffuse di diversi colori e penombra. C’erano ampie finestre, tutte che riflettevano le sagome mascherate delle persone all’interno e le luci multicolori che roteavano creando un caleidoscopio sul soffitto ampio, fatto di travi a vista che poco si intravedevano nell’oscurità. C’era odore di alcol zuccherato e un miscuglio di profumi di diverso genere che mi tolsero dal torpore di inadeguatezza che mi stava perseguitando.
«Vero, tieni!» dovetti alzare la voce per farmi sentire, e dopo aver dato la maschera nera alla mia amica mi occupai di indossare la mia – il fatto che nascondesse il make-up luminoso che avevo accuratamente preparato mi intristì un po’, l’obiettivo iniziale infatti era avere una maschera bianca che illuminasse l’outfit.
«Ho bisogno di un drink.» sentii la mia amica pronunciare quelle parole e quasi sorrisi isterica.
«Anche io, decisamente.»
«Dove diavolo è il bar in questo posto?»
La osservai guardarsi intorno, mentre io nemmeno tentai di trovare il bancone – l’essere alta solo 1.63 in una folla del genere era un po’ inutile, invece Veronica dalla sua parte aveva dei tacchi oltre al suo metro e settanta e qualcosa. Piuttosto mi fissai sulle persone, alla ricerca di qualcuno che conoscessi.
Sarà già arrivato? E chi lo trova più in questa folla.
«Ecco!»
Veronica mi afferrò per la manica e si fece strada tra la folla di gente, tra persone che si muovevano a ritmo di musica e altre che chiacchieravano a voce altissima pur di farsi sentire. Non dovetti spintonare qualcuno per passare, per fortuna, e guardandomi intorno riuscii ad intuire che la zona in cui si ballava era più avanti, vicina al dj set. Riuscii a notare anche altre porte che conducevano ad altre stanze, ma non feci in tempo a guardarmi ulteriormente intorno perché arrivammo di fronte al bancone.
Era già umido di condensa e feci attenzione a non poggiarmi mentre fissavo gli abili bartender che si prodigavano in alcune acrobazie nella preparazione dei drink. Mi persi a fissare un giovane moro che faceva roteare la bottiglia con consumata abilità, già arresa a dover aspettare un po’ prima di ricevere un minimo di attenzione – non avevo considerato la carta ‘Veronica’.
«Ragazze, cosa volete?»
Il barman di fronte a me aveva una dentatura perfetta che spiccava nella pelle nera e il suo sorriso affascinante era tutto riservato a Veronica.
«Un gin tonic.» affermò lapidaria.
«Uno spritz campari.»
Meglio andarci cauti, pensai mentre sorridevo al bartender. Il mio obiettivo era sì essere un po’ brilla, ma mi conoscevo da ubriaca: spesso e volentieri perdevo completamente il controllo, e la serata era ancora lunga. Veronica invece aveva la fortuna di essere completamente ubriaca ed ingannare chiunque – me lo aveva rivelato lei una serata, quando all’ennesimo amaro l’avevo supplicata per sapere il suo segreto.
«Bene, e ora?» mi chiese Veronica dopo aver preso un bel sorso dal suo drink.
Io mi guardai intorno.
A essere completamente onesta, il mio obiettivo per quella serata era trovare qualcuno. Quel qualcuno non era una persona a caso, ovviamente, ma un mio compagno di corso – l’unico ragazzo appartenente alla facoltà di Economia e Management che non si vestiva come un tizio di Wall Street, probabilmente, e le cui uniche conversazioni fino a quel momento si erano limitate a commenti su prof, appunti e aule introvabili.
In poche parole, il mio obiettivo era trovare Giacomo, il ragazzo per cui mi ero presa una cotta negli ultimi due mesi.
Ovviamente Veronica non ne aveva idea, perché se avesse saputo che volevo andare a quella festa solo per un ragazzo mi avrebbe volentieri defenestrata – riteneva che l’unica cosa che valesse la pena inseguire fosse un buon parrucchiere, dato che era difficile trovarne uno. Un ragazzo? Assolutamente no. Se per piacere a qualcuno avesse dovuto inseguirlo allora sarebbe rimasta volentieri sola, diceva sempre. Rimaneva realmente sola? Certo che no, quelle come lei non si dovevano nemmeno impegnare e la cosa più assurda era che i ragazzi sembravano felici di essere trattati così.
Io, in compenso, ero quella che si potrebbe facilmente identificare come una sottona.
«Andiamo un po’ a ballare? La musica non è male.» accennai un sorriso incoraggiante e lei, dopo un altro sorso di gin tonic, annuì arrendevole.
Il tragitto verso la pista da ballo fu particolarmente ostico per me: la scelta di un abito lungo non era stata particolarmente intelligente, dato che chiunque camminava senza guardare dove metteva i piedi, e dovetti fare tutto il tragitto sollevandomi il vestito. La maggior parte delle ragazze intorno a me aveva, molto più saggiamente a quanto pareva, indossato miniabiti, gonne o pantaloni di diversa lunghezza in un insieme di outfit che mi ricordava più Halloween che Carnevale.
Dovetti trangugiare quasi tutto lo spritz prima di riuscire a muovermi senza sentirmi ridicola, mentre Veronica di fronte a me già si era lasciata andare al ritmo, gli occhi chiusi e un’aurea da dea che la circondava. Io, del canto mio, mi sentivo rigida a causa dell’imbarazzo, ma dopo essermi ripetuta più volte che nessuno mi stava guardando riuscii a lasciarmi andare, muovendo i fianchi e perdendomi nelle luci colorate che illuminavano le pareti in un connubio tra antico e moderno strano ma piacevole agli occhi.
Il mio reale obiettivo era però sempre lì, fisso nella mia mente, e non perdevo occasione di guardarmi attorno.
Passavano veloci i minuti, ma in quel marasma di persone che aumentava sempre di più era difficile individuare chiunque. Ogni persona aveva qualche caratteristica che mi faceva voltare di scatto, convinta di averlo trovato: prima era qualcuno alto come lui, poi qualcuno con gli stessi capelli neri, poi ancora un altro con il suo stesso sorriso.
«Cerchi qualcuno?»
Sobbalzai alla domanda improvvisa di Veronica.
«No!» mi sfuggii veloce «Pensavo solo di voler un altro spritz.»
«Io ho appena finito il mio gin tonic, andiamo?»
Non aspettò il mio assenso, come prima mi prese per la manica e mi trascinò verso il bancone. Questa volta c’era più gente in fila e dovemmo aspettare qualche minuto – minuti nel quale io mi persi di nuovo a osservare la folla, notando come ci fosse una migliore visuale da quella posizione.
«Un altro spritz?» la voce di Veronica mi richiamò all’attenzione.
«Sì, grazie.» risposi distratta.
Mi arrivò il bicchiere tra le mani prima che potessi realmente rendermene conto e forse fu l’ansia di non trovare Giacomo, o forse fu perché ero a stomaco vuoto e il primo spritz lo sentivo già nella testa, ma terminai il secondo dopo pochi sorsi.
«Un altro.» mi girai verso Veronica che, in silenzio, mi osservava di sottecchi.
«Tutto bene?»
Trattenni una smorfia.
«Sì, tutto alla grande.» mi limitai a dire, sforzando un sorriso.
Possibile che non sia venuto?
Mi costrinsi a fare un respiro profondo mentre Veronica riusciva a fare un cenno al barista per chiedere il terzo spritz. Non aveva senso farmi prendere dalla preoccupazione, considerando che era passata solo – diedi una rapida occhiata al telefono – circa un’ora. Erano solo le dieci e mezza e, in effetti, poteva essere arrivato in ritardo. O poteva essere già lì e io non me n’ero semplicemente accorta.
Il punto era che per me era fondamentale trovarlo lì, perché sapevo che sarebbe stata la mia unica possibilità di intavolare una conversazione più casuale che non coinvolgesse l’università – e forse lui mi avrebbe notata.
«Ehi ragazze.»
La voce di un giovane catturò la nostra attenzione e fu inevitabile sperare che fosse Giacomo.
Non ero così fortunata, ovviamente.
«Ci conosciamo?»
Veronica gli lanciò un’occhiata indifferente e il ragazzo – alto, mascherato da pirata e piuttosto affascinante – sembrò deliziato.
«No, ma ti ho vista e mi sono chiesto se fossi una ladra. Perché hai rubato il mio cuore.»
Fu difficile trattenere la risata e quasi mi strozzai con lo spritz. La mia amica, d’altro canto, lo guardò senza proferire parola per un paio di secondi.
« Iris, andiamo.»
E per la terza volta nella serata, sentii Veronica afferrarmi per la manica e trascinarmi via. Tossii un paio di volte per riprendermi.
«Non era male.» ironizzai tra un sorso e l’altro.
La vidi alzare gli occhi al cielo.
«Sì, se ti piace lo stile anni ’90 e le pick-up line squallide.»
Scoppiai a ridere, quella volta apertamente.
«Non sentivo una frase del genere da quando ancora usavo Facebook.» dissi tra una risata e l’altra, le lacrime agli occhi mentre ripensavo alla scena a cui avevo appena assistito.
«Dio, ho bisogno di una sigaretta.» gemette Veronica, per poi guardarsi attorno «Dove cavolo si può fumare qui dentro?»
Mi guardai intorno proprio mentre un’idea geniale mi sfrecciava nella mente.
Giacomo fuma! Ecco dove potrei trovarlo!
L’ansia che mi stava accompagnando fino a quel momento scomparve come un palloncino ad elio nel cielo. Sorrisi luminosa.
«La sala fumatori, è vero!» mi sfuggì entusiasta, e prima di lasciare il tempo a Veronica di dire alcunché mi lanciai tra la folla, dirigendomi verso la porta che avevo vista in precedenza.
«Aspetta, Iris!»
Veronica mi afferrò la mano appena prima di perdermi tra le persone, mentre io spintonavo qualcuno che iniziava a essere un po’ troppo brillo per rendersi conto di ciò che lo circondava.
Capii ben presto però che non avevo la minima idea di dove stessi andando, e mi ritrovai in un’altra sala, un po’ più piccola della precedente ma nella quale potevo intravedere la presenza di alcuni balconi. Fu Veronica a prendere in mano la situazione, afferrando per la spalla la prima persona che vide e chiedendole della sala fumatori.
«Si può uscire in quei balconi.» fu la risposta sbiascicata di un ragazzo vestito da… Non riuscivo a capire da cosa fosse vestito.
Veronica fuggì prima ancora che il ragazzo potesse dire un’altra parola, o almeno così sembrava intenzionato a fare.
Eravamo a poca distanza dai balconi, potevo già scorgere in lontananza la sagoma del vetro e il riflesso che impediva di vedere l’esterno, e lo notai immediatamente.
Riconobbi subito la folta chioma riccia e scura di Giacomo, il suo sorriso che si apriva in una risata mentre apriva la portafinestra dello stesso balcone in cui eravamo dirette anche io e Veronica, la mano ricoperta in un guanto che reggeva la porta per far passare il suo amico e poi seguirlo.
Lo raggiungemmo prima di quanto mi aspettassi grazie a Veronica che faceva spostare chiunque nel nostro cammino.
Vorrei poter dire che la prima cosa a cui pensai fu la straordinaria bellezza di Giacomo mentre con un gesto abitudinario si accendeva una sigaretta, ma in realtà fu semplicemente ‘Cazzo, che freddo’ – quel vestitino era davvero troppo leggero per la temperatura esterna, e di sicuro non ero la solita a pensarlo dato che la maggior parte dei pochi coraggiosi lì fuori cercava di non tremare in maniera troppo vistosa.
Veronica non era tra quelle, e una volta fuori si chinò appena per tirare fuori dal bordo dello stivale il pacchetto di sigarette e un vecchio accendino. Inarcai un sopracciglio senza volerlo a quella scena, senza parole, ma lei sembrava così abituata che non ebbi davvero la forza di dirle niente. In compenso, si trovò piuttosto in difficoltà nel momento in cui si accorse che l’accendino non aveva alcuna intenzione di collaborare.
«Merda.» mugugnò. Notai subito il suo sguardo che si perdeva tra le persone, alla ricerca di qualcuno a cui chiedere l’accendino in prestito – qualcuno di inoffensivo, conoscendola, magari una ragazza – ma quell’occasione era troppo perfetta per farla sfuggire via così.
La fortuna è dalla mia parte, pensai vittoriosa mentre, trattenendo i violenti brividi che mi scuotevano, le sfioravo il gomito.
«Ehi, c’è un mio compagno di corso lì. Ti va se ci avviciniamo a salutarlo? Ha anche un accendino.»
Tentai di sembrare più innocente possibile e in quel caso ringraziai il totale disinteresse di Veronica per la mia vita sentimentale – e quella di qualsiasi altra persona – che non le fece accorgere di nulla.
«Chi?»
«Il ragazzo moro e riccio, lo vedi? Che parla con quel tipo con la maglia rossa.»
Veronica lo individuò dopo un paio di secondi di confusione.
«Oh, beh, ok.» rispose scrollando le spalle.
Fu sufficiente. Mi stampai in faccia il sorriso più tranquillo e al contempo affascinante che sapessi fare e, dopo aver raddrizzato le spalle, mi incamminai verso Giacomo.
Mi notò quasi subito.
«…Iris?»
Dovevo ammettere che se il suo obiettivo era quello di non sembrare sorpreso, fallì terribilmente perché la sua espressione era quasi esilarante dallo stupore.
«Giacomo, ciao!» sapevo che dovevo sorridere meno, che avrei dovuto sembrare più composta, più disinteressata, ma non riuscivo proprio a trattenere l’euforia di quel momento.
«Che ci fai qui?»
Non ero sicura se dovessi sentirmi offesa per quella domanda o meno, ma sentii le guance andare a fuoco mentre abbassavo per un istante gli occhi in imbarazzo.
«Ho comprato i biglietti per la festa, come tutti gli altri immagino.» scherzai, ma l’imbarazzo non voleva abbandonarmi e mentre con le mani improvvisamente sudate mi lisciavo la gonna del vestito mi sentii sfiorare da Veronica, in silenzio dietro di me.
«Hai un accendino per la mia amica?» feci la domanda di getto, indicando con un cenno Veronica il cui viso abbronzato non sembrava turbato dall’aria gelida.
Solo in quel momento si rese conto che non ero da sola e sollevò lo sguardo verso Veronica.
Quello che successe era stato il timore che mi aveva accompagnato dallo stesso istante in cui avevo comprato quei biglietti – ci avevo sperato fino all’ultimo che non accadesse, ma una parte di me sapeva già che sarebbe stata una partita persa in partenza.
Perché conoscevo fin troppo bene quelli come Giacomo: affascinanti senza sforzo, sicuri di sé e con quel modo di fare un po’ stronzo che trovavano la loro controparte in quelle come Veronica. Li si vede sempre nei film, nelle serie tv, ma anche nella vita reale: inseguono sempre quella ragazza che non ci prova nemmeno a conquistarli, punti nell’orgoglio di quella sconfitta e decisi a fare il possibile per farle cambiare idea.
Le sorrise – quel sorriso che gli avevo visto solo un paio di altre volte, non in mia direzione, e lo capii subito.
«Oh, ciao. Io sono Giacomo, tu sei…?»
Le porse la mano con naturalezza e in quel momento capitò la cosa che meno mi aspettavo.
Veronica lo fissò da sotto le ciglia scure, indecisa solo per un istante prima di aprirsi in un sorriso accennato e ricambiare la stretta.
«Veronica.» disse solo.
Un lieve colpo di tosse mi fece voltare verso l’altro ragazzo, quello con la maglia rossa.
«Io sono Nicola, piacere.»
Veronica strinse la mano dell’altro ragazzo con più freddezza prima che il giovane la porgesse verso di me. Mi sforzai di sorridere.
«Sei una nostra compagna di corso? Non ti ho mai vista a lezione.» continuò Giacomo mentre tirava fuori l’accendino dalla tasca. Se non fossi stata già completamente infreddolita, il sangue mi si sarebbe gelato al notare come le si avvicinasse per accenderle la sigaretta già sulle labbra tinte di una cupa tonalità di viola.
«No.»
«Emh, io e Veronica ci siamo conosciute in biblioteca, lei studia lingue orientali.» mi inserii nel discorso e Giacomo si voltò per un secondo verso di me prima di dedicare la sua attenzione di nuovo alla mia amica.
«Oh, lingue. E quali, se posso sapere?»
Veronica tirò un lungo e lento tiro alla sigaretta, per poi fissare la nube di fumo che si sollevò dalle sue labbra prima di rispondere.
«Cinese e thailandese.» disse solo.
Avrei dovuto dirglielo, pensai solo.
Avrei dovuto dirle di Giacomo, di come mi piaceva, pensavo in un unico e ininterrotto pensiero mentre osservavo la scena paralizzata, il battito che seguiva il ritmo folle della musica proveniente dall’interno. Faceva freddo, eppure all’improvviso non avevo mai sentito così caldo.
In quell’istante di disperazione che mi stava cogliendo nel rendermi conto che il ragazzo che mi piaceva ci stava provando con la mia amica, mi ero completamente dimenticata del mio vestito e di come esso strisciasse per terra, lungo il pavimento marmoreo del balcone. Una mia disattenzione, chiaramente – mi ero improvvisamente dimenticata delle persone attorno a me, la maggior parte probabilmente brille, e come nessuna di loro fosse incline a guardare dove metteva i piedi. Del tutto immersa e spettatrice di quella scena che si svolgeva di fronte ai miei occhi, il mio cervello recepì in ritardo il rumore dello strappo del vestito, ma percepii chiaramente qualcosa che mi tirava, sbilanciandomi all’indietro mentre istintivamente afferravo il braccio di Veronica per non cadere.
Veronica si girò appena in tempo per vedere una ragazza dietro di me che, impegnata in una risata che sapeva di alcol, si rendeva conto in ritardo di cosa aveva calpestato. Si girò verso di me proprio mentre io mi voltavo, la sorda consapevolezza di ciò che era successo gelida quanto la temperatura esterna, e nessuna delle due previde la seconda cosa che stava per succede: il suo bicchiere colmo di qualcosa che, a causa della penombra, non riuscii a riconoscere, scontrò contro il mio braccio e lei perse la presa. Più precisamente, tutto il suo contenuto volò sull’intero corsetto del mio vestito.
Sentii improvvisamente qualcosa di freddo e umido addosso, oltre l’odore intenso del vino rosso che si mischiava a quello più frizzante dello spritz che, nonostante fosse stato tenuto saldamente dalla mia mano destra, a causa del mancato equilibrio era schizzato sulla manica e sul bordo del mio vestito.
Per un paio di secondi non sentii né la musica né le voci intorno a me – come se qualcuno avesse spento la radio, rimaneva solo un leggero fischio nelle orecchie.
Riuscivo a pensare a solo una cosa.
Il mio vestito è rovinato.
«Iris!»
La voce di Veronica mi risvegliò dal momento di stasi in cui ero caduta.
«Ti sei fatta male?»
«Oddio! Mi dispiace tantissimo, stai bene?»
Da una parte la voce di Veronica, gli occhi azzurri spalancati in preoccupazione, dall’altra la ragazza del vino che si portava alla bocca una mano guantata, lo sguardo colmo di imbarazzo.
Sbattei gli occhi un paio di volte, non riuscendo a parlare – sto bene? Sì, beh, non mi sono fatta male – e solo dopo essermi resa conto che intorno a me diverse persone si erano perse a fissare la scena riuscii a scuotermi.
«Io…» tacqui un attimo e sentii immediatamente le lacrime agli occhi.
Fu con un’incredibile forza di volontà e freddezza che mi costrinsi a ridere.
«Oddio, che paura!» dissi tra le risate – forzate, ma mentre la gola mi doleva dallo sforzo di trattenermi pregai che non si notasse «Sto benissimo, ragazze, non preoccupatevi!» lo dissi mentre afferravo il fazzoletto che mi porgeva una terza ragazza e mi asciugai lei mani.
Erano terribilmente appiccicose.
«È solo un po’ di vino, che sarà mai.» mi interruppi appena in tempo per evitare che il nodo alla gola si sentisse. Deglutii e sollevai lo sguardo verso Veronica – pessima idea, dato che un velo di lacrime mi appannò la vista quasi istantaneamente. Sbattei le palpebre, furiosa, cercando di farle sparire, e mi sforzai in un altro sorriso in direzione di Giacomo che mi osservava con la bocca semiaperta.
«Tanto è buio, nemmeno si vede.» continuavo a blaterare senza sentire realmente ciò che dicevo, sorridendo a destra e a manca per tranquillizzare le persone intorno a me.
E invece si vedeva eccome. Il rosso emergeva come una macchia fin troppo riconoscibile sul corpetto chiaro e abbassando lo sguardo notai che continuava a colare sullo strato trasparente della gonna, che aveva il lato sinistro squarciato dallo strappo.
Notando quello una lacrima sfuggì al mio controllo, ma fui fortunata perché rimase intrappolata nella trama della maschera che celava in parte la mia espressione.
«Iris…» per l’ennesima volta, la voce di Veronica mi richiamò.
Feci un profondo respiro prima di voltarmi in sua direzione. Gli occhi azzurri erano corrucciati in un velo di preoccupazione, ma oltre questo sembrava confusa, incerta su come comportarsi.
Forse non era la scelta migliore, ma mi venne automatico levarle il peso di quell’incertezza.
«Sta tranquilla, non è successo nulla.» ripetendolo, forse me lo sarei messa in testa anche io «Faccio giusto un salto in bagno a lavarmi le mani – anzi, forse riesco a nascondere un po’ la macchia, ma comunque non si nota chissà quanto.» blateravo e gesticolavo contemporaneamente, un mezzo sorriso sul volto che sentivo arrossarsi dal disagio.
«Vengo con te.»
«No.» mi uscì più categorico di quanto volessi e mi morsi un labbro notando la sua occhiata confusa. Mi schiarii la gola.
Feci un profondo respiro e sorrisi a lei, a Giacomo e anche a Nicola, la cui sigaretta era appesa al labbro fumandosi da sola.
«No, tranquilla, vado da sola.» continuai a dire mentre gesticolavo in direzione dell’interno «Poi, di sicuro ci sarà una marea di gente in bagno e so che non ti piace fare la fila, mi occupo io di questo e ci becchiamo fra dieci minuti.»
Riuscii ad aspettare solo il suo cenno incerto prima di scappare dentro tra la folla, lo sguardo tenuto basso per non incrociare quello di nessun altro e ondate di calore che mi attanagliavano le guance e il collo e il petto. Sollevavo il vestito meccanicamente mentre in un angolo della mia testa pensavo a quanto ormai fosse inutile, e continuai a camminare tra la gente, ricevendo qualche spintone di tanto in tanto.
Alzai lo sguardo solo una volta arrivata vicino alla scalinata e mi guardai intorno, confusa su dove dovessi andare. Le scale che conducevano al piano superiore attirarono il mio sguardo e prima ancora che potessi valutare la cosa – era permesso salire o no? – mi precipitai su, lasciando che la musica si affievolisse dietro di me insieme al vociare delle persone che ballavano e bevevano.
Avevo il fiatone una volta arrivata al terzo piano e mi guardai attorno, notando qualche coppia che si baciava e altri pochi gruppetti che parlottavano tra di loro. Mi inoltrai tra le stanze, la maggior parte di esse tenute al buio e illuminate appena dalla luce che proveniva da fuori, mentre in sottofondo qualche risatina e lo schiocco di un bacio mi ricordava che non ero sola.
Fu quasi per caso che incrociai un cartello con su scritto ‘toilette’ e una freccia sottostante che mi indicava la sinistra.
Se avessi pensato di trovare parecchia gente mi sarei sbagliata, perché in quella penombra non c’era nessuno – probabilmente c’erano degli altri bagni al piano di sotto, molto più affollati, notò una piccola parte della mia mente.
C’erano due porte, una di fronte all’altra, e prima che potessi capire in quale dovessi entrare quella a sinistra si spalancò e ne uscì una ragazza. Si fermò interdetta, quasi stupita di vedermi lì, e notai immediatamente gli occhi lucidi che risaltavano nel trucco verde-acqua che ricordava delle squame di pesce. Ma durò solo un secondo: abbassò lo sguardo in imbarazzo e mi superò in un fruscio del vestito dello stesso colore del trucco e mi persi a osservarla mentre si perdeva in direzione delle scale.
Non sono l’unica che si passa una brutta serata, pensai laconica.
Mi limitai a sospirare ed entrai dalla stessa porta in cui era uscita la ragazza.
Il bagno era straordinariamente pulito e non molto illuminato, ma i miei occhi abituati all’oscurità precedente individuarono subito i due lavelli, gli specchi sopra ciascuno di essi, e i tre bagni dalla porta chiusa.
Il silenzio sarebbe stato assoluto se la musica del piano di sotto non fosse giunta fino a lì e ringraziai di essere da sola.
Almeno potevo piangere.
Mi tolsi la maschera e con passi lenti mi trascinai di fronte a uno dei due specchi. 
Il riflesso mi restituì la mia immagine che ormai era molto diversa da quella che avevo visto qualche ora prima, quando ancora ero a casa e mi rimiravo allo specchio alla ricerca di imperfezioni.
Ormai di imperfezioni, in quel momento, ce n’erano anche troppe.
Sul corpetto si estendeva una vistosa macchia rossastra, mentre alcuni schizzi tinteggiavano le maniche, e su una di esse si notava il rosso del Campari che avevo fatto ondeggiare poco prima e che avevo abbandonato in mano a Veronica. Con quella luce impietosa lo strappo del vestito era ancora più vistoso e la gonna cascava da un lato senza forma, segnata anch’essa da rivoli di vino che avevano raggiungo ormai il livello delle ginocchia.
Sembrava la pallida e ridicola imitazione di una macchia di sangue e quella volta, finalmente da sola, non riuscii a trattenere le lacrime che iniziarono a scivolarmi lungo le guance, arrossandole e creando delle scie nere dove il mascara non reggeva.
Ero orribile.
Ero orribile e Giacomo mi aveva visto in quelle condizioni.
Ero orribile e il ragazzo che mi piaceva ci stava provando con la mia amica.
Ero orribile e non potevo farci assolutamente nulla.
Non era nemmeno mezzanotte e la mia fiaba era già finita – sì, era un po’ ridicolo definire quella serata ‘una fiaba’, ma avevo bisogno di essere drammatica in quel momento e mentre singhiozzavo rendendomi conto che, per quanto mi sforzassi, non riuscivo proprio a essere la protagonista di nessuna storia, non mi resi proprio conto della porta di uno dei bagni che si apriva, né tantomeno della persona che uscì da essa.
«Ne hai ancora per molto?»
Se ne avessi avuto le forze avrei strillato, ma in quelle condizioni la prima reazione spontanea fu quella di voltarmi spaventata verso colui che aveva parlato.
Mi ricorderò per sempre la sua espressione annoiata, la sigaretta che si rigirava distratto tra le dita, gli occhi rossi che scivolavano sul mio vestito, stringendosi al notare le condizioni in cui versava.
Poi però mi guardò dritto negli occhi.
«Sai, questo è il bagno dei ragazzi.»
Solo a posteriori considerai che, in effetti, non tutte le storie sono delle fiabe.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Chimes at Midnight







No, questo è il bagno delle ragazze.
Solo dopo un paio di secondi mi resi conto che non avevo parlato a voce alta.
Arrossii e feci un passo indietro – sbattei contro il lavandino, ma il dolore era nulla in confronto all’imbarazzo.
«Ma la ragazza è uscita da qui.» mi ritrovai a giustificarmi.
Il ragazzo lanciò appena un’occhiata alla porta prima di ripuntare quegli assurdi occhi rossi su di me – erano lenti a contatto, ovviamente.
Lo erano, vero?
«Sì, era con me.» si limitò a rispondere.
Non sapevo come replicare e tacqui, mentre con le mani mi aggrappavo al lavandino sentendo delle gocce d’acqua inumidirmi la pelle.
Mi persi a fissarlo e notai solo in quel momento la camicia bianca sporca di ditate di sangue. Aveva i primi bottoni slacciati e una collana argentata che si perdeva oltre il tessuto, una giacca nera poggiata sulle spalle e le maniche puntellate di rosso arrotolate. Si notava appena un tatuaggio, ma anch’esso come la collana si perdeva dentro la camicia, lasciata fuori dai pantaloni neri.
Il suo viso, invece, sembrava uscito da un libro. O da una copertina di moda.
Aveva i tratti cesellati, la pelle chiara che veniva risaltata dagli occhi rossi e dai folti capelli neri, mossi e abbastanza lunghi da sfiorargli il colletto della camicia.
«Hai intenzione di stare qui ancora per molto?»
Sobbalzai nuovamente e mi accorsi di essere tesa come una corda di violino. Aprii la bocca per rispondere ma non ero sicura di cosa volessi dire, perciò la richiusi.
Lui continuava a fissarmi senza alcuna espressione in volto e – non ho la minima idea del perché ­– mi venne di nuovo da piangere.
«Io…» mugugnai, prima di abbassare la sguardo e vedere nuovamente il vestito disastrato, cosa che mi fece piangere ancora di più.
In quell’istante avevo la vista appannata dalle lacrime e non vidi l’espressione che fece, ma in mezzo ai singhiozzi trattenuti udii un sospiro – seccato? Esasperato? Non riuscii a capirlo.
«Senti, non ho la minima idea di cosa ti sia successo e, detto in tutta onestà, non mi interessa nemmeno. Quindi, ecco, potresti andare a piangere da un’altra parte?»
Anche senza tutte quelle lacrime che mi chiudevano la gola, non avrei saputo che rispondergli. Perciò mi limitai ad alzare la testa, ad afferrare un fazzoletto dal dispenser di fianco e fissarlo mentre uno strano sentimento – un misto di rabbia, imbarazzo, tristezza e qualcos’altro di indefinibile – mi permetteva di riscuotermi.
«Tu…» iniziai, ma un singhiozzo mi interruppe brutalmente, ciononostante deglutii e mi sforzai di continuare «Tu sei proprio uno stronzo!»
Onestamente? Non ero mai stata una da insultare sconosciuti. Anzi, a dire il vero ero una di quelle che non riusciva nemmeno a replicare quando veniva trattata male da un commesso, uno sconosciuto in strada o qualsiasi altra persona. Ero quella che si immobilizzava, che si imbarazzava all’idea di cosa avrebbero potuto pensare gli altri se avessi risposto, che tratteneva le lacrime e che poi, una volta sola, tirava fuori le risposte perfette per le occasioni mancate.
Era un po’ una ricorrente nella mia vita: sforzandomi di creare l’immagine di una me pulita, ero così impegnata a ricoprirmi di sapone che tutto mi scivolava dalle dita – dalla vita.
Eppure, in quel momento non riuscii a fare un sorriso imbarazzato. Piangere, beh, lo stavo già facendo per altri motivi.
Il ragazzo prese quell’insulto come qualcuno già abituato a riceverne simili, ovvero scrollò le spalle disinteressato.
«Senti, Persefone
Di certo, tra tutte le cose che avrebbe potuto dirmi, non mi aspettavo quella.
Lo interruppi brutalmente.
«Come mi hai chiamato?»
Una lontana parte del mio cervello registrò il tono sepolcrale che mi era uscito, ma non quella presente in quel momento.
Per la prima volta da quando si era rivolto a me mostrò un’altra espressione oltre la solita indifferenza. Confusione.
«Persefone?» ripeté, per poi lasciar scivolare lo sguardo nuovamente sul mio vestito – arrossii, fin troppo consapevole del suo stato.
«Perché, ho frainteso?» lo chiese inclinando appena la testa.
Era di una bellezza assurda, quasi angelica, e il pensiero mi colpì come uno schiaffo mentre mi rendevo conto che era la prima persona in quella serata – no, anzi, la prima persona in generale ­­­– che capiva da chi fossi vestita senza che io glielo dovessi spiegare. Le mie coinquiline, mia madre, persino mio fratello mi avevano guardata (o meglio, avevano guardato la foto che avevo inviato) e avevano blaterato qualcosa a proposito di fata, ninfa, druida o qualsiasi altra cosa potesse ricollegarsi ai fiori.
«…no.» quasi sussurrai, ma nel silenzio del bagno fu comunque ben udibile. Feci un flebile sorriso.
«Sei l’unica persona che l’ha capito.» ammisi con gli occhi bassi, più amara di quanto volessi.
Lui taceva e quando alzai lo sguardo lo trovai nuovamente a fissarmi, questa volta con meno freddezza rispetto a prima.
Sospirò, e quella volta capii il suo sospiro. Era arreso.
Lo osservai mentre si avvicinava alla finestra, la apriva e, con un agile movimento facilitato dalla sua altezza, saltava sul davanzale a cavalcioni.
«Attento!» mi sfuggì prima che potessi farne a meno, ma lui mi ignorò e lo osservai accendersi la sigaretta con cui fino a quel momento aveva giocherellato distratto. Fece scattare lo zippo di metallo e osservai ipnotizzata la fiamma che si avvicinava alla sigaretta, per poi notare gli anelli sulle dita lunghe e pallide.
Rimasi in silenzio mentre lo osservavo ispirare, le labbra semiaperte che lasciavano uscire pigramente il fumo in piccole volute che si disperdevano nell’aria fredda proveniente dall’esterno. La luce bassa ammorbidiva i contrasti provocati dai capelli scuri e la camicia bianca e, se anche avessi voluto dire qualcosa, quello sconosciuto possedeva un certo tipo di bellezza che lasciava letteralmente senza fiato.
O forse a lasciarmi senza fiato erano solo gli spritz.
Sembra uscito da un quadro.
«Avanti, che è successo?»
Non mi accorsi di aver allargato gli occhi, né dello stupore dipinto in faccia, ma i suoi occhi rossi improvvisamente puntati su di me lo notarono eccome e, anche se lo dissimulò rapido, notai il sorrisino prima che alzasse gli occhi al cielo.
«Sei qui, in lacrime, con un vestito distrutto e macchiato di vino. Mi hai già disturbato e insultato, tanto vale sapere che è successo.»
La sua voce non faceva trasparire molta curiosità e una parte di me pensò che gli facessi un po’ di pena. Scossi mentalmente la testa: dopo averlo sentito candidamente ammettere che non gli interessava ciò che mi era successo, potevo dire che non mi sembrava una persona particolarmente premurosa.
Mi sono sempre considerata una persona chiacchierona, anche con gli sconosciuti – cosa che cozzava abbastanza con l’idea di black cat girl che avrei tanto voluto dare, fallendo miseramente quando la mia personalità da golden retriever emergeva – eppure sfogarmi con un completo sconosciuto sul teatrino imbarazzante di cui ero appena stata la protagonista non l’avrei definito proprio un tratto distintivo della mia personalità.
Tuttavia, sarà stata la sua indifferenza, la sua bellezza ammaliatrice, o semplicemente la me stessa che aveva bisogno di dire a voce alta quello che era appena successo. Fatto sta che mi ritrovai ad aprire la bocca senza volerlo.
«C’è un motivo preciso per cui sono voluta venire a questa festa, ed è perché ho una tremenda cotta per un mio compagno di corso che sapevo ci sarebbe stato.» iniziai così, a casaccio, o ‘in medias res’ come avrebbe detto la mia vecchia prof di latino. Mi sfuggì una risatina prima di continuare.
«Ho promesso tutti gli appunti di Micro e Macroeconomia per poter avere questi biglietti – sai cosa significa? Mi sono fatta il culo per averli perfetti e chiunque sano di mente li avrebbe venduti. Invece no! Io sono una sottona senza speranza, quindi quando quell’idiota di Alessio mi ha detto “o gli appunti o niente biglietti” io ho detto “ma certo”!»
Il mio tono era più isterico di quanto volessi e mi schiarii la gola, fingendo indifferenza mentre lo sconosciuto mi fissava espirando il fumo in maniera così lenta che per un paio di secondi mi persi nuovamente nei rivoli che scivolavano dalle sue labbra.
«Volevo fare colpo su Giacomo, ovviamente, dato che non mi considera di striscio se non per quanto riguarda roba di università e, detto francamente, che palle! Cioè, sono una bella ragazza, ok, non sarò una modella, ma è palese che sono interessata a te, almeno quando propongo di andare a prendere uno spritz non invitare il resto della classe!» colma di frustrazione diedi un colpo al lavandino e l’anello che portavo al medio sinistro tintinnò.
«Insomma, mi sono impegnata un sacco in questo vestito – volevo qualcosa di originale, di romantico ma anche un po’ seducente, però non volevo che sembrasse che gliela tirassi addosso e quindi ho pensato “ma sì, un vestito lungo sarebbe perfetto!”.» tacqui e lanciai uno sguardo allo specchio «Un’idea proprio di merda.» continuai amareggiata e spostai di nuovo lo sguardo su di lui.
Tacqui un paio di istanti, cercando di capire se volesse intervenire o meno, ma lo sconosciuto continuava a fissarmi in silenzio e decisi di proseguire.
«Non avevo considerato la praticità della cosa, lo devo ammettere.» feci un cenno verso la porta, fuori dove il resto delle persone continuava a godersi il resto della serata «Insomma, siamo praticamente al buio, è un free-drink e la maggior parte di queste persone berrà fino a star male, dove volevo andare con questo vestito? Era praticamente scritto che qualcuno ci avrebbe inciampato – anzi, forse sono fortunata a non esserci inciampata io stessa.» terminai sarcastica.
Quella volta non trattenne il sorrisetto spontaneo che gli sorse sulle labbra e, anche se in maniera piuttosto insensata, vederlo ridere mi alleggerì un poco.
«E, infatti, indovina un po’? Una ragazza è inciampata sul mio vestito, strappandolo» lo dissi mentre con una mano mostravo il lungo squarcio che partiva dal basso e terminava poco più su del ginocchio «e mi ha rovesciato tutto il suo vino rosso addosso, e ora sembro solo ridicola.»
Scoppiai a ridere, ormai quasi divertita da quel mini-show a cui mi stavo lasciando andare mentre gesticolavo e mi muovevo per mettere in mostra lo spacco sul tessuto.
«E non è finita qui!» lo dissi alzando l’indice, la scarsa imitazione di una maestrina, e osservai il suo sguardo illuminarsi mentre poggiava un gomito su un ginocchio, sporgendosi in avanti.
«No, dai, e poi?» mi stuzzicò con un mezzo sorriso.
Non ero sicura che mi stesse prendendo in giro o meno, ma decisi di continuare lo stesso.
«Beh, ovviamente tutto questo non è successo mentre ero in mezzo a degli sconosciuti. No, assolutamente, piuttosto proprio davanti a…» mi interruppi, un sorriso sarcastico stampato in volto.
«Fammi indovinare, Giacomo.»
Continuavo a non saper dire se mi stesse prendendo in giro o meno, ma la cosa certa era che il suo tono era alquanto coinvolto.
«Esatto!» trillai e schioccai le dita «Ma questa non è la parte peggiore.» lo dissi mettendomi una mano sul petto e una alla fronte, in una posa esageratamente drammatica.
«Oddio, perché, può andare peggio di così?»
«Può sempre andare peggio, ricordatelo.» lo fissai terribilmente seria, prima di continuare con il mio teatrino a cui ormai avevo preso gusto.
«Perché, vedi, io non sono venuta da sola a questa festa, ma con una mia amica, Veronica.»
Nominarla mi fece venire in mente che le avevo detto di vederci in dieci minuti. Sotto lo sguardo attento del bel sconosciuto diedi una rapida occhiata al telefono: nessun messaggio.
Non sapevo come sentirmi a quel proposito, perciò decisi di continuare a parlare.
«Vedi, la mia amica è una gran figa. Non c’è proprio nulla da fare, è proprio bella senza il minimo sforzo. Potrebbe uscire anche con un sacco e farebbe comunque voltare qualcuno per strada – credo sia proprio l’aura che la circonda, sai?» il mio tono si era fatto improvvisamente pensieroso «Lei è una di quelle molto sicure di sé, hai presente? E io le voglio davvero tanto bene, però a volte la invidio così tanto che mi sento davvero una persona di merda.»
Dirlo ad alta voce era peggio di quanto pensassi, e il silenzio era fastidiosamente pesante.
Ma quando alzai lo sguardo, il suo sguardo così intenso era puntato su di me e non percepivo alcun giudizio nei suoi occhi. Mi fissava in attesa, la sigaretta che penzolava tra il medio e l’indice, una ciocca di capelli neri che gli cadeva sull’occhio destro, la bocca chiusa che formava una linea dritta.
Abbassai lo sguardo verso la collana che, data la posizione, penzolava dal suo collo. Era una croce al contrario che sembrava parte del costume.
Lui continuava a tacere. Non sembrava intenzionato a pronunciare alcuna frase consolatoria, insomma, qualcosa che chiunque avrebbe finito per propinare – qualcosa che io avrei potuto dire se mi fossi trovata al suo posto.
Continuava ad aspettare che io finissi.
Sospirai e abbassai lo sguardo verso la maschera che tenevo in mano. Improvvisamente quel bordeaux sembrò terribilmente premonitore.
«Quando Veronica ha deciso di andare a fumare e ho visto Giacomo ho pensato che fossi davvero fortunata. Io non fumo, sai, e sarebbe stato strano uscire fuori così, dal nulla, e dentro è difficile approcciare qualcuno con tutta quella musica.» continuavo a rigirarmi la mascherina tra le mani, improvvisamente spenta di tutte le energie precedenti.
«Sapevo che sarebbe successo, perché conosco quelli come Giacomo. Cascano sempre per le tipe come Veronica, e io sono stata davvero una stupida perché non ho mai detto a Veronica di lui – l’ho fatto perché lei sembra sempre così disinteressata e seccata quando parlo di questo genere di cose che…» mi interruppi, incerta di cosa dire.
Veronica non era la tipa a cui piaceva fare quel genere di chiacchiere, e andava bene, insomma non è obbligatorio. Però rendeva difficile intavolare quel genere di conversazione e nei momenti in cui avevo pensato di dirglielo, dopo poco avevo cambiato idea e lasciato perdere, pensando ‘la prossima volta lo farò’.
«Lui l’ha vista e ho notato come l’ha guardata. Era ammaliato da lei e io non esistevo più.»
La scena si ripeté nella mia mente a rallentatore e sentii nuovamente gli occhi inumidirsi.
«E lei di solito è una tipa così disinteressata ai ragazzi. Odia quando ci provano, ma gli ha sorriso, e io la conosco, lei non sorride mai in questi casi a patto che il ragazzo non le interessi.» enfatizzai quel ‘mai’ mentre le parole uscivano una dopo l’altra senza pause.
Dopo tutte quelle confessioni rialzai lo sguardo verso di lui e notai che aveva cambiato posizione senza che me ne accorgessi. Aveva sollevato la gamba, il gomito rimaneva poggiato su di essa mentre si reggeva la testa con una mano. L’altra reggeva la sigaretta ormai finita.
«Quindi, insomma, in questa bella serata sono riuscita a rovinare il mio vestito, a fare una figura di merda di fronte al ragazzo che mi piace e, per non farmi mancare nulla, ho visto il suddetto ragazzo rimanere folgorato dalla mia amica.»
Feci silenzio mentre riassaporavo le parole amare appena pronunciate. L’eco di una risata sguaiata provenne dalla finestra aperta e mi ridestò.
«Cavolo, detto così è davvero brutto.» mormorai con un mezzo sorriso che rifletteva la stessa amarezza.
«Già.» mi rispose lui.
Scoppiai a ridere a quella franchezza – una come me non sarebbe mai riuscita ad essere così schietta e non ero sicura fosse un lato del tutto positivo.
«Beh, grazie per avermi ascoltata. Ti ringrazio a nome della mia coinquilina che non si dovrà sorbire questo monologo.» ironizzai.
Non che le avrei raccontato tutto nei minimi dettagli come avevo appena fatto – forse mi sarei risparmiata alcuni particolari, tipo l’intero discorso su Veronica.
Lanciai uno sguardo verso lo specchio, il quale mi restituì l’immagine di una ragazza dallo sguardo sconsolato, il mascara colato dagli occhi nocciola ancora illuminati dall’ombretto brillante, il rossetto rosato quasi del tutto scomparso. Nel complesso ero pallida, se non per il naso e gli occhi arrossati.
«Credo che per me la serata sia finita qui, è meglio che me ne torni a casa. Dovrei ancora avere una bottiglia di vino da qualche parte.» borbottai l’ultima parte, voltandomi verso la porta.
«Beh, grazie anc-»
«Aspetta.»
La sua voce mi interruppe brutalmente appena prima di vedere la sua mano che con un gesto improvviso quanto rapido richiudeva la porta, il rumore secco mascherato dalla musica. Trattenni il respiro senza volerlo, notando con la coda dell’occhio il braccio disteso alla mia sinistra, ma ripresi a respirare proprio nel momento in cui mi voltai, un secondo dopo.
Forse fu peggio.
Era stato così veloce che non mi ero accorta si fosse mosso. A quella distanza potevo notare perfettamente il cerchio attorno alla cornea che rivelava le lenti a contatto, così come potevo sentire il profumo di sigaretta misto a qualcos’altro che non riuscivo ben a identificare a causa del fumo. Era stranamente piacevole.
Mi fissava dal suo metro e tanta altezza e, nonostante non mi fossi mai sentita particolarmente bassa, mi sentii ancora più minuta.
«Cosa c’è?»
Non ero intenzionata a sussurrare, eppure la voce mi uscì in un filo.
Non parlò subito, lasciò vagare i propri occhi sul mio volto e per la prima volta nella mia vita capii cosa si intendeva quando, nelle centinaia di libri romance che leggevo, vedevo descrivere sguardi brucianti.
Perché, in quel momento, mi sembrava di bruciare sotto le sue cornee tinte di quel finto rosso.
Sorrise, ma non era un sorriso divertito, piuttosto rivelava un pizzico di malizia e di intenzioni che non riuscii a identificare.
Stavo per dirgli di allontanarsi quando lui abbassò il braccio, facendo un passo indietro.
«La tua serata non deve per forza finire qua.» lo disse con naturalezza e anche se non potevo guardarmi allo specchio, ero sicura che la mia espressione fosse di totale confusione.
«Vieni con me.» disse solo.
Non mi diede il tempo di fare domande.
Mi afferrò il braccio e mi resi conto di scottare solo quando la sua pelle gelida venne in contatto con la mia attraverso lo strato sottile della manica.
Sarò sincera: se fosse stato meno affascinante di quel che era non mi sarei lasciata condurre così tranquillamente tra le stanze buie di quell’antico palazzo veneziano, eppure il mio istinto di autoconservazione era andato a farsi benedire nel momento in cui quello sconosciuto aveva invaso la mia distanza personale e pensai che, anche se fosse stato un vero vampiro, forse come fine serata non sarebbe andata nemmeno troppo male considerando il suo inizio.
«Aspetta, dove stiamo andando?»
Questo non significava che non avrei fatto alcuna domanda.
«Shhh!» mi zittì e appena prima che potessi protestare mi trascinò dentro una stanza al buio per poi chiudere la porta a chiave.
Forse non avrei dovuto seguirlo senza domande, pensai vaga mentre il prospetto di un omicidio mi aleggiava in testa. Cosa avevo detto poco prima? ‘Può sempre andare peggio’, giusto.
«Vuoi uccidermi?» piagnucolai.
Una mezza risata fu la sua unica risposta prima di sentire il rumore di un interruttore e venire accecata dalle luci di quello che sembrava…
«Un altro bagno?» feci dubbiosa.
Era un bagno, ma era molto diverso da quello da cui eravamo appena usciti: era un bagno ‘vero’, come quelli che si trovano dentro le abitazioni. Era fatto in marmo rosa, aveva una vasca ampia, due lavandini sormontati da un grande specchio e un bancone ricolmo di un sacco di oggetti. Riconobbi make-up, una piastra per capelli, forbici, stole di fili di diverso colore e pezzi di stoffa.
«Non dovresti essere qui, ma considerando che mi hanno fatto lavorare gratis direi che potranno considerare questo il prezzo da pagare.» disse lo sconosciuto con una mezza smorfia seccata, lasciandomi il braccio.
Senza pensarci sfiorai con l’altra mano il punto in cui mi aveva toccata, guardandomi intorno in maniera confusa.
«Non capisco perché mi hai portata qui.»
Ed ero più che sincera, non avevo una mezza idea di cosa volesse fare e, considerando che l’effetto degli spritz ormai stava svanendo, iniziava a venirmi un po’ di ansia.
«Non ti ucciderò con delle forbici da cucito, tranquilla.» motteggiò lui, mentre si avvicinava al banco e afferrava le suddette forbici. Ci giocherellò con consumata abitudine mentre ripuntava i suoi soliti occhi scarlatti su di me.
«Sai, me la cavo con i vestiti.» disse improvvisamente e con aria casuale, per poi spostare lo sguardo dal mio volto e farlo scendere sul mio vestito. O quello che ne rimaneva.
«Inoltre, la tua idea non era male. Certo, non hai tenuto in considerazione alcuni dettagli, ma la base c’era, questo è l’importante.» continuò, per poi voltarsi e iniziare a frugare tra la pila di oggetti «E, in tutta onestà, mi fai un po’ pena.» ammise scrollando le spalle.
Non dovetti avere uno specchio di fronte a me per arrossire violentemente.
«Sei uno stronzo!»
«Sì, lo so, me l’hai già detto.» rispose lui, ma questa volta mi guardò e mi lanciò un sorriso ammiccante, per poi continuare a frugare.
Io tacqui, improvvisamente senza parole.
«Oh, eccolo qui!»
Lo disse mentre tirava fuori una bottiglietta con il tappo a punta, simile a quelle che vedevo dalla parrucchiera. Feci un passo indietro.
«Cos’è quella roba?»
Lui la fece ondeggiare in mia direzione.
«Sangue finto. Ti servirà per coprire quella macchia di vino.» lo disse avvicinandosi, in una mano le forbici e nell’altra la piccola bottiglia. Spalancai gli occhi.
«Cos’hai intenzione di fare?!» questa volta feci diversi passi verso la porta.
Lui sospirò.
«Aiutarti.» indicò il mio vestito «Sinceramente, ormai è un disastro. Ritornare alla festa in quelle condizioni sarebbe ridicolo – e non mi sarei fatto problemi a rimandarti indietro così, prima, ma come ti ho detto-»
«Ti ho fatto un po’ pena.» lo scimmiottai stringendo gli occhi.
Lui fece un mezzo sorriso, quello ammiccante di poco prima.
«Esatto. Ma è una cosa buona, se no non avrei deciso di volerti aiutare.» disse facendo spallucce «Te l’ho detto, me la cavo con i vestiti. Se mi lasci fare sono sicuro di fare un lavoro migliore di quello iniziale.»
Ed era così sicuro di sé mentre pronunciava quelle parole, che per un attimo non ebbi il minimo dubbio. Una parte di me però mi spinse a parlare.
«Cos’hai intenzione di fare?»
Lui sospirò, sembrava seccato dalle mie continue domande, ma si arrese a rispondermi.
«Come ti ho detto, l’idea iniziale non era male, ma ti sei concentrata sulla figura di Persefone prima di andare nell’Ade.» sottolineò il ‘prima’ con particolare enfasi «Per sistemare quel casino l’obiettivo è puntare sulla versione di Persefone dopo la scesa nell’Ade, quindi creare un look più sexy e provocatorio.» questa volta accentuò il ‘dopo’.
Improvvisamente capii cosa intendesse.
Guardai per l’ennesima volta il mio vestito, in silenzio.
«Pensi davvero di riuscire a sistemarlo?» sussurrai.
Non rispose subito e, in attesa, alzai lo sguardo verso di lui, trovandolo che mi fissava.
«Ti fidi di me?»
«No.» risposi di getto.
Lui rise – la prima vera risata che gli sentii fare e osservai la fila di denti bianchi mentre si passava una mano tra i capelli, ma la levò subito, come infastidito dal contatto.
«Fai bene. Ma per questa volta credo che sia la tua unica opzione.»
Non ha tutti i torti. Questo vestito non può andare peggio di così, così come questa serata.
Feci un lungo e profondo respiro.
«Va bene.» capitolai, dopo alcuni secondi «Cosa devo fare?»
Lui mi guardò come se non avesse avuto il minimo dubbio sulla mia risposta e mi lanciò un sorriso ammiccante.
«Prima di tutto, è il caso di tagliare il superfluo.» disse mentre apriva e richiudeva ripetutamente le forbici «Vieni qui, non è il caso di stare di fianco alla porta.»
Mi avvicinai, ancora dubbiosa, ma poi guardai il telefono.
Ancora nessuna notifica.
Una fitta sorda al petto mi fece più male di quanto volessi – possibile che Veronica non si fosse accorta che mancassi da ben più di dieci minuti ormai?
«Avanti, taglia quello che devi tagliare.» dissi più secca di quanto volessi essere.
Se lui notò il mio tono o il mio sguardo al telefono, non fece commenti. Piuttosto, si inginocchiò di fronte a me – e fu difficile non trattenere il respiro mentre lo vedevo lì, ai miei piedi, la testa al livello del mio bacino sollevata verso di me e gli occhi che mi lanciavano un’ultima occhiata carica di un qualcosa che non riuscii a comprendere prima di afferrare il tessuto del mio vestito.
Aspettativa? Malizia? Conforto? Quegli occhi rossi non rivelavano chiaramente le proprie intenzioni.
Ma in quella posizione ricordava la statua di un angelo, bianca e marmorea, e se mi avesse chiesto qualsiasi cosa non ero sicura che sarei riuscita a dire di no.
È legale essere così belli?, pensai appena prima di sentire le sue dita gelide sfiorare la porzione di pelle sopra il ginocchio. Rabbrividii e sperai che non se ne accorgesse.
A quel punto trattenni davvero il respiro.
Il primo zac fu quasi doloroso e mi fece male il cuore vedere le forbici che si infilavano nel tessuto con estrema scioltezza, ma poi il rumore ritmico si fece rilassante e senza accorgermene mi persi a osservarlo tagliare la gonna appena sopra il ginocchio, seguendo l’altezza dello spacco che si era creato con lo strappo. Era straordinariamente dritto nonostante lo stesse facendo a occhio, notai.
Il suo tocco ghiacciato all’improvviso era diventato confortante ed era ipnotico guardare le sue dita misurare la quantità di tessuto con fare esperto, le sue labbra che mormoravano qualcosa tra sé e sé appena prima di tagliare ancora un po’.
Terminò dopo pochi minuti e si sollevò con un gesto fluido, per poi allontanarsi e darmi una migliore occhiata generale.
«Fai una giravolta.» mi ordinò «Lentamente.»
Mi sentii un po’ ridicola mentre giravo a piccoli passi intorno a me stessa, lasciando scivolare lo sguardo sulle mattonelle rosate.
Quando ritornai di fronte a lui, sorrideva.
«Direi che la lunghezza è perfetta.»
Abbassai lo sguardo, osservano il risultato: la sottoveste era stata tagliata per arrivare a coprirmi fino a metà coscia, mentre lo strato superiore era appena più lungo. Il taglio era straordinariamente netto e pulito e pensai che io non sarei riuscita nemmeno a tagliare un foglio di carta poggiata su un tavolo in quella maniera.
«Morirò di freddo quando uscirò fuori.» considerai.
«Questo è sicuro.»
Mi rispose dopo aver poggiato le forbici e aver preso in mano il sangue finto.
Dovetti aver fatto un’espressione di orrore dato che lui mi guardò inarcando un sopracciglio.
«Tranquilla, non ho intenzione di replicare Carrie.» mi prese in giro. Lo guardai confusa.
«Chi?»
La sua espressione sconvolta era terribilmente esilarante e non risi solo perché mi lanciò un’occhiata omicida.
«Non so se sono ancora disposto ad aiutarti dopo questa affermazione.»
Arrossii.
«Non è colpa mia se non la conosco!» mugugnai.
«Il fatto stesso di non conoscere Carrie è una colpa.» replicò lui sventolando la bottiglia, ma il suo tono accondiscendente nascondeva una punta di ironia che sciolse il mio imbarazzo «Avanti, fila dentro la vasca.» ordinò poi.
«Cosa?»
Alzò per l’ennesima volta gli occhi al cielo.
«Fila. Dentro. La. Vasca.» scandì, porgendomi una mano per aiutarmi. Il mio sguardo incerto si spostò dal suo volto alla sua mano tesa.
Questa volta non feci domande, dato che intuii il motivo di quella richiesta. Non ero sicura che il sangue finto fosse facile da togliere via dal marmo.
La sua mano era fredda e solida mentre mi aiutava a scavalcare il bordo e cercai di non perdere l’equilibrio poggiandomi sul muro gelido fatto di mattonelle. I tacchi che indossavo non erano troppo alti, ma il fondo della vasca non era del tutto piano.
La parte del mio cervello convinta che lui sarebbe rimasto fuori dalla vasca rimase scioccata quando lo vide seguirmi. Ma lui rimase lì, vicino a me eppure lontano abbastanza da poter guardare il suo viso senza alzare troppo la testa.
Il silenzio disturbato dall’eco della musica alle mie orecchie sembrò teso mentre vedevo le sue dita sfiorare con delicatezza il corpetto macchiato di vino. La verità era che ero io a essere tesa, e non ero sicura di dovermi sentire così.
Sollevai lo sguardo e lo fissai.
«Cosa stai facendo?» suonai più accusatrice di quanto volessi – era strano come mi tirasse fuori questa strana aggressività.
Lui però si limitò a sorridere.
«Cerco di capire dove mettere il sangue finto.»
Il suo tono era ricolmo di innocenza e lo guardai dubbiosa. Era chiaro che quella innocenza fosse solo una facciata, eppure non capivo che reali intenzioni avesse. Voleva solo aiutarmi? Se così era, perché aveva quel modo ammiccante di guardare e parlare?
Scossi mentalmente la testa – no, a dire il vero mi sembrava il classico tipo provocatorio che lo è senza nemmeno provarci. Forse era scritto nel DNA delle persone terribilmente belle l’abilità di flirtare senza volerlo.
Stavo per voltarmi a osservare il nostro riflesso sullo specchio appeso alla parete, ma lui mi anticipò.
«Ok, come prima cosa direi di occuparci del corpetto. Il mio obiettivo è quello di farlo sembrare una ferita al cuore, quindi stai immobile che l’alternativa è fare un casino e peggiorare questo disastro.» lo disse alzando appena gli occhi al cielo.
«L’hai fatto altre volte?»
Lui mi lanciò un sorriso candido.
«No, ma non sarà difficile.»
«Cosa?!»
Poggiò l’indice sulle mie labbra prima di sorridere divertito.
«Rilassati, scherzavo.» motteggiò «Ammetto che, l’ultima volta, avevo un manichino su cui lavorare e non una persona viva e vegeta, ma se stai ferma non sarà molto diverso.»
Non ero sicura se dovessi sentirmi offesa o meno, ma decisi comunque di lanciargli un’occhiata truce che ignorò con un altro sorriso splendente.
«Immobile, sono stato chiaro?»
Attese il mio cenno prima di aprire la bottiglia, il tappo che finiva tra i denti candidi e l’espressione sorniona che si tendeva in una concentrata. Resistetti alla tentazione di guardare in basso, verso il corpetto, dove con la coda dell’occhio notavo le sue mani muoversi. Il suo tocco era attutito dal tessuto e sperai che non sentisse il battito accelerato del mio cuore – non volevo che sentisse la mia ansia, anche se penso che la intuisse dal mio respiro irregolare che sembrava assordante nel bagno. Ma, anche quella volta, la sua calma e naturalezza nel compiere quei movimenti di precisione ebbe un effetto calmante.
Quand’era stata l’ultima volta che ero stata a contatto così ravvicinato con un ragazzo? Dovetti fare un attimo mente locale prima di ricordarmi l’ottobre precedente quando, in seguito a un aperitivo protrattosi troppo a lungo (storia ricorrente nella città lagunare), ero finita tra le braccia di uno studente di Storia e Filosofia, il quale il giorno dopo si era protratto in una conversazione sul femminismo come nuova forma di controllo di quegli poveri uomini vittima di un sistema fatto per avvantaggiare noi donne. Ero scappata a gambe levate senza guardarmi più indietro, ovviamente.
«A che pensi?»
A quella volta in cui avrei dovuto chiudere le gambe invece di darlo a uno con il cervello di un microcefalo.
«Che potrei essere in compagnia di un potenziale assassino e non averne la minima idea.»
Sentii uno sbuffo divertito.
«Perché usare il sangue finto, allora?»
Mi morsi un labbro, pensierosa.
«Per depistare le tracce?»
Lo sentii fermarsi, ma non osai muovermi. Fu lui a sollevarsi dalla posizione in cui si era chinato, ritornando a vincermi di parecchi centimetri, e la sua espressione presentava la stessa indifferenza che mi aveva riservato all’inizio.
«Troppo lavoro. Se dovessi uccidere qualcuno, di certo prima non mi perderei a sistemargli il costume di Carnevale.»
«Magari hai un fetish.» puntualizzai.
«O magari sono davvero un vampiro e sto aspettando il momento giusto per affondare i miei denti sul tuo collo.»
Non ero sicura che fosse giusto pensare seriamente alla sua bocca sul mio collo, non in quel frangente almeno.
«Mi dispiace, ma non sono più vergine.» ironizzai cercando di scacciare quell’idea dalla mia testa.
Non rispose subito, piuttosto lasciò scivolare lo sguardo sul mio volto, per poi continuare verso il mio petto e poi ancora più giù, fino a giungere ai miei piedi.
«Non avevo molti dubbi.» rispose solo.
Mi morsi l’interno della guancia, trattenendo il desiderio di fare una frecciatina, e lo osservai mentre si chinava nuovamente, questa volta in corrispondenza della gonna, dove agitò il sangue finto replicando schizzi di sangue sul tessuto.
«Dovrebbe essere a posto.» concluse, sollevandosi e uscendo dalla vasca. Mi porse nuovamente una mano per aiutarmi, che questa volta accettai senza indecisione.
Mi voltai verso lo specchio e, se qualche istante prima avevo qualche dubbio sul potenziale risultato, dovetti ammettere che quel tipo sapeva davvero cosa stesse facendo: la chiazza di vino era completamente nascosta, sostituita da una macchia vermiglia in corrispondenza del cuore, come se qualcuno mi avesse pugnalato, e il sangue finto gocciolava sul resto del corpetto evidenziando la sagoma del melograno. Alcune gocce mi macchiavano il decolté e il collo e pensai come non mi fossi affatto accorta della cosa. Gli schizzi proseguivano sulla gonna, punti di diverse dimensioni che si mischiavano ai fiori in una macabra fantasia.
Era bellissimo, e mi sentivo bellissima, eppure…
«C’è qualcosa che non va.»
Lo sconosciuto anticipò i miei pensieri.
«Cosa?»
Lui mi girò intorno prima di rispondermi, lo sguardo critico che si puntò sulle maniche trasparenti del vestito.
«Quelle cose.» lo disse quasi disgustato, indicando le suddette maniche. E aveva ragione: se nell’idea di una candida Persefone che avevo in precedenza parevano adatte, in quel nuovo stile stonavano terribilmente.
Istintivamente mi strofinai le braccia.
«Cosa pensi di fare?»
Non mi ero nemmeno accorta di essermi automaticamente affidata a lui.
Lui sembrò ponderare le opzioni nella sua testa, spostando rapido lo sguardo dalle maniche al vestito e viceversa, prima di girarsi e afferrare le forbici.
«Semplice. Le tagliamo.»
Non protestai. Sapevo già che aveva ragione e lui doveva averlo intuito in qualche modo, perché accennò un sorriso beffardo.
«Vieni qui.»
Non ero sicura di dover essere così accondiscendente – Veronica, al mio posto, lo avrebbe guardato impassibile e avrebbe risposto qualcosa tipo “non sono il tuo cane”. E forse avrebbe avuto ragione.
Ma io non ero lei e farsi trattare come un manichino mi dava una strana sensazione di euforia.
Il suo respiro mi fa solletico, pensai mentre lui era chinato su di me, le mani poggiate sulla spalla destra alla ricerca di qualcosa che non sapevo. Alcune ciocche nere mi sfiorarono la guancia e il contatto fu strano, quasi spiacevole.
Si allontanò prima che potessi pensarci ancora.
«Ok, è fattibile..» mugugnò sovrappensiero, continuando a saggiare il tessuto con le mani «Prima ti ho detto di stare immobile, vero?»
Annuii.
«Ecco, ora dovrai essere una statua, sono stato chiaro? Sarebbe problematico se ti infilzassi con le forbici.» lo disse come se stesse parlando di essere punti da un ago da cucito.
«Come un manichino.» commentai.
Lui mi lanciò un’occhiata imperscrutabile e poi sorrise – lo stesso sorriso luccicante che aveva un ché di fasullo.
«Esatto, cara Persefone.»
Il suo tono suonò provocatorio alle mie orecchie, ma non mi diede tempo di rispondere e avvicinò le forbici alla spalla, motivo per il quale rimasi di nuovo immobile.
Quella distanza era ancora più limitata rispetto alla precedente. Per quanto avesse le mani ancora gelide e il suo tocco mi scatenasse brividi che nascondevo con relativo successo, il suo corpo era una presenza calda e, come avevo notato prima, stranamente confortante. Il suono delle forbici mi solleticava l’orecchio e sussultai quando parlò a quella scarsa distanza.
«Solleva il braccio.»
Feci come mi era stato ordinato e sperai con tutto il cuore di non aver sudato troppo, perché l’ultima cosa che avrei voluto era sentirlo fare commenti su odori vari ed eventuali. Non mi sembrava il tipo da tacere per educazione, piuttosto uno che si sarebbe divertito a farmi morire dall’imbarazzo.
Fortunatamente per me, l’operazione si concluse senza alcun genere di commento. Eseguì le stesse azioni sull’altro braccio e terminò prima del previsto.
Questa volta, quando mi osservò a debita distanza per contemplare il risultato, il suo sorriso pareva realmente soddisfatto.
«Ora ci siamo.»
Ed aveva ragione.
Senza le maniche, sembrava un altro vestito. Più sensuale. Io mi sentivo più sensuale.
Del vestito lungo e candido di prima rimaneva poco e niente: l’aveva trasformato in un miniabito che di innocente aveva poco o niente, ma non era solo per la gonna improvvisamente corta, o il sangue che mi faceva sembrare una fanciulla accoltellata al cuore. Era qualcosa che più la guardavo, più mi sfuggiva.
Il mio trucco, però, rimaneva un disastro.
«Vorrei che potessi fare la stessa magia alla mia faccia.» non volevo usare un tono così desolato e mi affrettai ad abbozzare un sorriso «Il vestito però è meraviglioso, sei davvero bravo.»
Lui però non mi rispose. La sua espressione si era fatta di nuovo indifferente mentre mi fissava. Ma questa volta non guardava il vestito, piuttosto i suoi occhi rossi erano fissi sui miei, alla ricerca di qualcosa che non capivo.
«È la tua serata fortunata.» lo osservai poggiare le forbici e frugare nuovamente sul bancone e tirare fuori una trousse di trucchi «Ammetto che non è la mia specialità, ma la base c’è, basterà sistemare qualche dettaglio.»
«Sinceramente, non so più se dovrei stupirmi o meno.» sospirai.
Ed era la verità, perché quello sconosciuto aveva più abilità di quanto desse ad intendere e mi lasciava davvero senza parole.
Mi lanciò l’ennesimo sorriso scintillante.
«E non hai visto ancora tutte le mie abilità.» replicò beffardo e insinuante in un modo che mi fece arrossire.
Dalla trousse aveva tirato fuori un eyeliner e una matita nera, del mascara e un rossetto dal colore che non riuscivo a indovinare. Notai con un attimo di ritardo un altro dettaglio.
«Sono di Chanel?» il mio tono dovette divertirlo perché soffocò una risata, ma non rispose.
«Chiudi gli occhi.» mi ordinò invece e io lo feci immediatamente – non posi nemmeno una domanda nella cieca fedeltà in cui mi ritrovavo immersa.
Forse dovrei essere più diffidente, pensai mentre lo sentivo avvicinarsi. Non che ora come ora farebbe molta differenza.
Anche se non potevo vederlo, lo sentivo vicino a me. Ero poggiata di schiena al bancone di marmo di fianco a uno dei lavandini, e aspettavo che facesse la sua magia come aveva fatto poco prima sul mio vestito.
Di certo non mi aspettavo le sue mani sui fianchi e l’essere sollevata con tremenda facilità.
Aprii gli occhi di scatto proprio nel momento in cui mi poggiava sul piano di marmo, gelido a contatto con le mie gambe nude, e trovarmi la sua testa finalmente al mio stesso livello mi prese talmente alla sprovvista che mi allontanai di scatto. Ringraziai i suoi riflessi, tuttavia, dato che mise la mano sulla mia nuca appena prima dell’urto con le mattonelle.
Trattenni appena un’esclamazione di sorpresa.
«Avresti potuto farti molto male, lo sai?» lo disse con un sorriso beffardo, come se il suo obiettivo fosse stato proprio ottenere quella mia reazione e si stesse divertendo ad osservare la sua stessa creazione.
«Sei un idiota!» lo dissi spingendolo via ma lui fu più rapido e mi afferrò il polso, mentre il suo sorriso rimaneva immacolato.
«Un idiota che ti sta aiutando.» puntualizzò.
Mi limitai a sbuffare solo perché non sapevo come rispondergli.
«Avanti, chiudi gli occhi.» mi ripeté e questa volta mi trattenni a fissarlo per qualche secondo.
«Non osare fare nulla di strano.»
«Tipo cosa?» lo disse spostando il suo sguardo dal mio per puntarlo sulle labbra – ed ero certa che l’avesse fatto apposta.
«Sbrigati.» glissai sulla sua domanda e chiusi gli occhi, decisa a non dargliela vinta, e lo udii trattenere una breve risata prima di percepire le sue mani gelide sul mio viso incandescente.
Il suo tocco era delicato e sicuro, come se fosse abituato a truccare una ragazza e una parte di me si chiese quante altre volte gli fosse capitata una situazione del genere.
Il tocco morbido di un pennello da cipria mi solleticò il naso e trattenni uno starnuto, per poi sentire l’umido del pennello dell’eyeliner su cui si soffermò per un paio di minuti.
«Apri gli occhi.»
Mi persi a osservare la sua espressione concentrata mentre continuavo a rimanere immobile, le sue mani che aggiungevano un leggero strato di mascara ai miei occhi.
Si allontanò di poco per osservare meglio il mio viso.
Lo osservai poi annuire convinto per poi afferrare lo stick che rivelò un bordeaux dai toni pieni e profondi, uguale alla maschera che ancora stringevo tra le mani.
«Non è un po’ troppo scuro?» commentai incerta «I colori scuri non mi stanno molto bene.»
«Che stronzata.» fu la sua unica risposta.
Le sue dita gelide mi sfiorarono nuovamente il viso, questa volta poggiandosi sul mio mento e sollevandolo leggermente.
«Socchiudi le labbra.» mormorò concentrato – abbastanza concentrato da non notare il rossore sulle mie guance, pregai dentro di me.
La consistenza del rossetto era morbida mentre veniva picchiettato con delicatezza sulle mie labbra socchiuse, e spostai lo sguardo oltre lo sconosciuto, cercando di non fissare ancora i suoi occhi rossi che seguivano con attenzione il tratto della propria mano, le sue ciglia chiare che incorniciavano lo sguardo intenso.
Quando si allontanò da me sentii un leggero brivido di freddo risalirmi lungo la schiena, fino al collo, e mi conficcai le unghie sul palmo per impedirmi di tremare.
«Direi che così è perfetto.»
Non attese una mia risposta e fu con una strana naturalezza che mi afferrò nuovamente per i fianchi per poi poggiarmi a terra proprio mentre d’istinto poggiavo le mani sulle sue spalle. Eppure, lui non mi lasciò andare immediatamente: mi afferrò per una mano, gelide come prima, e mi fece fare una piroetta che seguii prima ancora di pensare cosa mi volesse far fare.
«Perfetta.»
E forse fu il suo tono, forse fu il mio riflesso allo specchio che mi ricordava una persona completamente diversa rispetto a quella che era entrata dalla porta poco tempo prima, forse fu il suo sguardo tanto caldo quanto le sue mani erano fredde – o forse, più semplicemente, era un mix di tutte quelle cose che mi pensare ‘sì, ha proprio ragione’.
Del concept iniziale era rimasto solo l’idea principale – perché Persefone era sempre lì, nei fiori color pastello e nel melograno, nel tenue rosa del tessuto, ma non era più la delicata dea a cui avevo pensato inizialmente.
Era la regina insanguinata dell’Ade e sposa del dio degli Inferi.
Ero così concentrata sul mio riflesso che mi accorsi in ritardo dello sconosciuto che, di fianco a me, sfilava con un gesto rapido il fermacapelli permettendo ai miei capelli mossi di scivolarmi addosso in una cascata che giungeva fino a metà schiena.
«Hai dei capelli davvero belli, sarebbe un peccato tenerli legati.» si giustificò al mio sguardo sorpreso.
Tacqui per un paio di secondi prima di voltarmi verso di lui che, con un leggero sorriso spiegato sul volto, mi osservava senza dire niente.
«Non so come ringraziarti.» ed era vero, perché aveva appena salvato quella che, senza di lui, sarebbe stata una serata da dimenticare «Non so come avrei fatto senza di te.»
«Probabilmente saresti tornata a casa a bere quella bottiglia di vino.»
Lo disse abbagliandomi con uno di quei sorrisi ammiccanti che mi avevano fatto arrossire più di una volta, e nemmeno in quel caso riuscii a fare a meno di sentire il calore risalirmi sulle guance.
«Probabilmente hai ragione.» ammisi con meno amarezza di quanto mi aspettassi.
Lui mi guardò in silenzio e sembrò sul punto di dire qualcosa, ma come aprì la bocca per farlo la suoneria di un telefono irruppe nel silenzio creatosi tra di noi.
Lo osservai tirare fuori il cellulare dalla tasca, una smorfia gli distorse il volto al leggere il nome sullo schermo che però non riuscii a scorgere dalla mia posizione. Sbuffò e rispose.
«Che c’è?»
Nonostante ci fosse silenzio, non riuscii comunque a capire le parole che provenivano dall’altro capo del telefono a causa della musica che si mischiava ad esse, distinsi solo una voce femminile dal tono alquanto concitato. Lui sembrava annoiato mentre ascoltava e dopo aver ricevuto una sua occhiata mi venne spontaneo spostare lo sguardo e fare finta di non star ascoltando. Presi il telefono e notai solo in quel momento il messaggio di Veronica. Risaliva ad appena cinque minuti prima.
Tutto bene? Hai bisogno di aiuto?’.
Tentennai appena prima di risponderle.
Sì, tranquilla, stavo sistemando il vestito’, omisi che non avevo fatto proprio tutto da sola, e aggiunsi ‘Arrivo tra poco, dove sei?’.
La risposto arrivò dopo pochi secondi.
Al bar, sono con Giacomo.’.
La vista mi si annebbiò per un istante e quasi non mi resi conto di aver stretto la mano a pugno, o perlomeno non me ne accorsi finché la mano gelida dello sconosciuto sfiorò la mia per attirare la mia attenzione.
Sollevai la testa di scatto e lui mi guardava con una vaga aria interrogativa in viso, il telefono sempre poggiato all’orecchio.
«Ho capito, non c’è bisogno di ripeterlo venti volte.» disse alzando gli occhi al cielo «Adesso arrivo e lo sistemo io, ma sappi che non lo farò senza nulla in cambio.» aggiunse con il medesimo tono ammiccante che aveva riservato anche a me. Per un attimo mi chiesi che cosa avrebbe richiesto in cambio per qualsiasi cosa dovesse fare – fu abbastanza da distrarmi dal messaggio di Veronica che mi aveva dato più fastidio di quanto volessi pensare in quel momento.
Chiuse la chiamata mentre ancora si udiva la voce della ragazza dall’altra parte del telefono.
«Emh, non penso avesse finito di parlare.» non tentai nemmeno di nascondere di essermene accorta.
Lui scrollò le spalle indifferente e si diresse verso la porta, poggiando una mano gelida alla base della mia schiena per indirizzarmi nella stessa direzione. Ne ero così consapevole che quasi non udii la sua risposta.
«Capirai, non sta mai zitta.»
La porta si aprì e il corridoio buio ci accolse con la sua musica più intensa. Mi lasciai condurre tra le stanze come poco prima, questa volta meno timorosa, la sua mano che mi sfiorava appena mentre mi accompagnava nell’oscurità a cui mi abituai in fretta e arrivammo alle scale in fretta. Nel frattempo, le coppie erano aumentate e cercai di non fissare nessuna di esse, in leggero imbarazzo.
Al piano di sotto c’era ancora più gente di prima e la musica appariva più alta, mentre l’alcol scorreva a fiumi.
Mi venne assurdamente spontaneo seguirlo tra la folla anche quando smise di condurmi, e una parte di me pensò a quanto fosse comodo muovermi tra la gente in quel vestito riadattato. Con la coda dell’occhio notai più di un paio di persone osservarmi e mi chiesi se guardassero l’abito o me.
Ero così immersa in quel pensiero che quasi non mi accorsi di come si fosse fermato. Mi bloccai appena prima di andargli addosso. Si chinò su di me prima che potessi capire che stesse facendo.
«Dov’è la tua amica?» mi chiese a bruciapelo, la bocca vicina al mio orecchio per sorpassare il volume della musica sparata a palla. Le luci colorate illuminavano i suoi occhi rossi che in quell’oscurità sembravano più scuri.
«Al bar.»
Lo osservai guardarsi intorno.
«Ok, è da quella parte.» indicò verso la sua sinistra.
«Lo so.» risposi di getto.
Mi lanciò una breve occhiata ricca di qualcosa che non riuscii a capire.
«Ti conviene andare, la tua amica ti starà aspettando.» questa volta alzò la voce per farsi sentire e una parte di me si chiese perché non si fosse chinato nuovamente.
Aprii la bocca per rispondere – per dirgli cosa? Non lo sapevo nemmeno io, solo non ero sicura di volere che se ne andasse così.
Non so nemmeno il suo nome.
Questo pensiero mi colpì come uno schiaffo e spalancai gli occhi, stupita, e lui reagì con un vago accenno di confusione prima che si voltasse di scatto, come richiamato da qualcuno che però io non udii assordata dalla musica. Nella penombra notai solo la sua espressione spazientita e lo osservai alzare un braccio e fare un cenno a qualcuno che, dalla mia postazione, non riuscivo a vedere.
«Mi spiace ma devo andare, a quanto pare c’è un’emergenza.» lo disse con un tono misto tra fastidio e ironia, ma subito dopo mi sorrise – quel sorriso splendente ma allo stesso tempo beffardo «Spero che il resto della serata sia migliore di com’è iniziata.»
Mi sfiorò una ciocca di capelli, sistemandola al lato del viso con aria distratta, e fece un passo verso il resto della folla, pronto a immergersi nel marasma di gente che intorno a noi continuava a ridere e cantare a ritmo di musica.
Per un attimo non riuscii a muovermi. Rimanevo immobile mentre lo sconosciuto mi dava le spalle e sfruttava la propria altezza per farsi spazio tra le persone, i miei occhi sulla nuca e sulle spalle coperte dalla giacca nera.
Poi ricevetti una spinta e fu come svegliarmi dalla paralisi.
«Aspetta!»
Avevo urlato, eppure nessuno intorno a me ci fece caso, tutti troppo ubriachi evidentemente, ma lui mi sentì appena prima che fosse troppo distante e si voltò puntando uno sguardo interrogativo su di me.
Mi sentii improvvisamente in ansia e sentii un calore invadermi le guance e il collo, e ringraziai le luci stroboscopiche e la distanza che camuffarono il mio aspetto.
«Non mi hai detto il tuo nome.»
Questa volta non avevo alzato troppo la voce, ma sapevo che lui mi aveva sentito. Lo sapevo perché allargò gli occhi a quella frase, come se non avesse pensato a quel dettaglio, o forse stupito che io glielo avessi chiesto.
Sembrò pensarci un attimo, poi distese il viso in un sorriso sornione.
«Ma come, Persefone, non l’hai ancora capito?»
Lo guardai confusa e lui allargò il proprio sorriso.
«Sono la tua fata madrina.»
Fece solo un occhiolino prima di voltarsi e immergersi tra la gente.
Potevo seguirlo? Assolutamente sì.
Lo feci? Assolutamente no.
Lo lasciai dileguarsi in mezzo alla folla ubriaca e danzante, la sua testa che ben presto divenne una tra le tante. E in mezzo al frastuono della musica, avrei potuto giurare di udire il rintocco di un campanile che segnava la mezzanotte.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Chimes at Midnight








Non so dire esattamente il momento nel quale mi ero addormentata, ma a svegliarmi fu la voce nasale della Giamberti – decisamente non un risveglio piacevole.
«Vi ricordo che la scadenza per la consegna del paper è fra due settimane, potrete caricarlo a partire dalla prossima settimana.»
Il terrore di essere stata vista mi fece tirare su più velocemente di quanto volessi e finii per colpire accidentalmente il telefono poggiato di fianco al pc, che nel frattempo era andato in stand-by. Soffocai un’imprecazione mentre mi chinavo per raccoglierlo e, distratta e ancora assonnata, non mi accorsi del bordo sporgente finché non lo colpii con la testa.
«Merda.» questa volta non riuscii a trattenermi.
«Buongiorno, stellina.»
Lanciai un’occhiataccia a Giulia che, non cercando minimamente di trattenere le risate, sistemava il laptop dentro lo zaino.
«Potevi svegliarmi.» borbottai infastidita – ebbene sì, appena sveglia ero una di quelle persone insopportabili.
«Ci ho provato tre volte e ogni volta mugugnavi qualcosa e continuavi a dormire. Ho lasciato perdere prima che la Giamberti se ne accorgesse.» mi rispose per poi alzare gli occhi al cielo «Anche se conoscendola non so quanto le sarebbe importato.» mugugnò più tra sé che altro.
Il mio imbarazzo fu mascherato solo dal trucco più pesante che avevo usato quella mattina – unico modo per nascondere la faccia devastata dalla stanchezza della nottata precedente.
Ero tornata alle cinque del mattino e, piuttosto coraggiosamente oserei dire, mi ero trascinata alla lezione di mezzogiorno dopo qualche ora di sonno che non si era rivelata riposante quanto speravo, data la quantità di gin lemon ingeriti durante la notte. Il ricordo dei bicchieri che trangugiavo per non fare caso a Giacomo e Veronica che parlavano e ballavano ininterrottamente riemerse prepotente.
«Alla fine non mi hai ancora fatto vedere il vestito che hai indossato.»
Giulia mi riscosse dai pensieri e mi sbrigai a mettere via le mie cose mentre l’aula iniziava già a svuotarsi.
«Era su Persefone, giusto?» continuò guardandomi in attesa, già infilata nel cappotto caldo e con lo zaino poggiato sul banco.
Ma come, Persefone, non l’hai ancora capito? Sono la tua fata madrina”.
Le parole dello sconosciuto venivano scandite con estrema chiarezza nella mia mente, e con la stessa chiarezza il suo viso e la sua espressione si dipanavano tra i miei ricordi. Potevo ancora percepire distintamente come mi ero sentita quando, dopo il suo incantesimo, avevo osservato il mio riflesso.
La mitologia e la fiaba si erano mescolati in un altro racconto di finzione da cui avevo cercato di sfuggire per tutta la notte, cercando di concentrarmi sul presente, ma allo stesso tempo la mia stessa testa si prendeva gioco di me e accarezzava continuamente quei brevi ricordi cercando un modo per estraniarmi dalla sensazione di disagio scaturita dalla visione di Veronica e Giacomo.
«Sì.» risposi con finta indifferenza mentre mi avvolgevo la sciarpa al collo.
Giulia parve perplessa.
«?» ripeté «E mi dici solo questo? Mi hai tormentata con questo vestito per una settimana!»
«Tormentata? Gentile da parte tua.» ironizzai e l’anticipai verso l’uscita.
«Oh, avanti, sai che intendo! Non mi hai nemmeno mostrato una foto.» insistette lei.
Fuori il campus di San Giobbe era desolato come al solito, gli edifici aranciati che ricordavano capannoni invasi dagli studenti che si spostavano da un’aula all’altra.
Quando raccontavo di studiare a Venezia, la maggior parte delle persone pensava che facessi lezione in mezzo ai canali, o forse su una gondola, ma la verità era che la facoltà di Economia veneziana era circoscritta a un campus a differenza del resto delle facoltà umanistiche, sparse per i sestieri della città. Il resto degli studenti ci invidiava da morire per questo – Veronica in primis, che si lamentava di come dovesse girare come una trottola da una parte all’altra tra le diverse lezioni – e in generale non potevo negare la comodità di avere aule, biblioteca e bar vicini, ma rimanere sempre in quella circoscrizione era piuttosto deprimente.
Da quel punto di vista, il fatto che non fossi una pendolare e vivessi stabile a Venezia mi consentiva perlomeno di godermi la città nel tempo libero.
«A dire il vero c’è stato un problema con il vestito.» le accennai sedendomi rapida su una panchina miracolosamente libera.
«Che genere di problema?» mi guardò con gli occhi chiari spalancati, impegnata a girare una sigaretta con le dita veloci e abituate.
Tacqui per qualche secondo, incerta su cosa dire.
«In pratica, durante la serata una ragazza è inciampata sul mio vestito e l’ha strappato.» a quelle parole Giulia si bloccò con l’accendino a mezz’aria, un’espressione orripilata sul viso che mi fece quasi scoppiare a ridere «E poi la stessa ragazza mi ha versato per sbaglio il vino sul vestito.» conclusi con una smorfia.
Ancora ricordavo con vivido imbarazzo la sensazione di freddo e appiccicaticcio datami dal vino.
«Non ci credo.»
«Sul momento nemmeno io.»
Giulia continuava a guardarmi con gli occhi a palla e quell’espressione, unita ai suoi riccioli tinti di rosso, mi fecero ricordare una vecchia bambola che avevo da piccola.
Com’è che l’avevo chiamata? Lulù?
Mi distrassi appena con quel ricordo, ma ritornai subito al presente.
«No, vabbè, e tu cos’hai fatto?» mi chiese tirando nervosamente dalla sigaretta.
«In quel momento? Niente. Ho fatto finta di nulla perché – indovina un po’, sai di fronte a chi mi è successo?» le lanciai un sorriso amaro mentre lei, alla mia espressione, inorridiva ancora di più mentre comprendeva a chi mi riferissi.
«No.» disse incredula.
Annuii.
«E invece sì.»
Giulia si mise una mano sulla bocca.
«Giacomo? Proprio lui?» anticipò a bassa voce – perlomeno aveva l’accortezza di non urlare, dato che i nostri compagni di corso erano ancora intorno a noi. Mi si avvicinò.
«Ma scusa, non c’era con te quella tua amica – Veronica, giusto? Ti avrà aiutata, spero.» parlò a bassa voce e per la vicinanza il prepotente odore di fumo mi invase le narici.
«Sì, ma…» tacqui, incerta su cosa dire.
Non volevo parlare male della mia amica, d’altronde non era colpa sua né il fatto che Giacomo ci avesse provato con lei né che lei ci stesse. Piuttosto, io avrei dovuto essere più sincera. Ero consapevole di tutto ciò, ma non cambiava come mi sentivo.
Ovvero una schifezza.
Giulia mi guardava in attesa.
«Allora?»
Sbuffai.
«Proprio due minuti prima che succedesse questo casino con il vestito, Giacomo ha iniziato a provarci con lei e lei ci è stata.» dissi secca.
Se il ricordo non fosse stato ancora dolorosamente bruciante, sarei scoppiata a ridere all’espressione scioccata di Giulia, era come guardare un meme. Le ci volle qualche secondo per rispondere.
«Ma che stronza!»
Quella volta non tentò nemmeno di sussurrare e alcuni studenti intorno a noi le lanciarono un’occhiata.
«No, Giulia, frena.» la bloccai «Non è colpa sua, non ha idea che mi piaccia.» ammisi.
«Come non lo sa?»
Scrollai le spalle, a disagio, e spostai lo sguardo su un gruppo di ragazzi poggiati su uno dei tavoli esterni della caffetteria.
«Non gliel’ho detto.»
«Ma va? Fin qua c’ero arrivata anche io.» replicò sarcastica «Intendevo perché.»
«Lei non è una di quelle a cui piace parlare di ragazzi e cose così.» borbottai giocando distrattamente con la fibbia dello zaino «Volevo parlargliene, ma ogni volta rimandavo e alla fine non c’è stata l’occasione. E ieri sera non mi sembrava proprio il caso di tirare fuori il discorso.»
Giulia mi osservò in silenzio, per poi terminare la sigaretta e gettare il mozzicone all’interno di un posacenere esterno.
«Quindi, ricapitoliamo: durante la festa, dopo che hai beccato Giacomo» sussurrò appena il suo nome «lui ha iniziato a provarci con la tua amica, e poco dopo una tizia a caso è inciampata sul tuo vestito, te l’ha strappato e ti ha versato lo spritz addosso, giusto?» sintetizzò massaggiandosi il ponte del naso con l’indice e il pollice.
«Il vino.» la corressi.
«Sì, quello che è.»
«Esatto.»
Lei mi guardò, gli occhi celesti colmi di fastidio – verso la situazione, immaginai.
«Quindi tu che hai fatto?»
«Che dovevo fare?» replicai «Sono andata in bagno cercando di non piangere e facendo finta che non fosse successo nulla, ovvio. Non volevo che Giacomo mi vedesse in quelle condizioni.» la vidi aprire la bocca e la anticipai «E Veronica voleva venire con me, sono io che le ho detto di rimanere lì, avevo bisogno di stare da sola.»
Giulia mi guardò dubbiosa.
«Quindi te ne sei andata a casa?»
«L’idea era quella sinceramente.» ammisi «Ma in pratica è successa una cosa stranissima.»
«Oddio, cosa?»
L’urgenza della sua voce mi fece sorridere, eppure mi bloccai.
Non avevo raccontato ancora a nessuno dello strano incontro con quello sconosciuto. Nemmeno a Veronica che, quando mi aveva vista arrivare al bar in cui mi aspettava con Giacomo e Nicola, sul momento non mi aveva riconosciuta. Era stato alquanto divertente, dovevo ammetterlo, ma quando mi aveva chiesto che cosa fosse successo al mio vestito, al mio trucco e, insomma, a tutto il resto, mentire mi era venuto assolutamente spontaneo. 
Ho usato un po’ d’inventiva”, avevo detto ridendo e lei era sembrata sollevata di vedere quell’espressione distesa, e aveva deciso di non farmi ulteriori domande.
Ero decisa a non raccontare a nessuno di cosa fosse successo, a dire il vero. Non per qualche motivo in particolare, semplicemente volevo tenere la cosa per me. Per questo, una volta tornata a casa, mi ero ripromessa di non raccontarlo né a Veronica, né ad Agnese e Rebecca, le mie coinquiline.
Alzai lo sguardo verso Giulia, ancora in attesa.
Lei era la mia unica vera amica di università. Avevo stretto diverse amicizie durante il mio percorso, la maggior parte di esse perse si erano affievolite o erano andate perse, ma lei era l’unica che condivideva ogni singolo corso con me e sarà stato il suo modo di fare, simile ma anche così diverso dal mio, sarà stata la nostra passione per i romantasy, sarà stato per tutte le bestemmie tirate insieme dopo ogni singolo esame dato…
«Ho incontrato un ragazzo.»
Giulia mi fissò in silenzio, per poi sbattere lenta gli occhi.
«…senti, non vorrei deluderti, ma, ecco, non credo si possa definire una cosa stranissima. Insomma, eri a una festa-»
«Sei proprio simpatica, sai?» la interruppi sarcastica.
Giulia sbuffò.
«Questo lo so già.» replicò con finta noia «Tu però continui a perderti nel discorso. Vai al punto, dai!» mi spronò.
«È per il climax.»
«E ‘sti cazzi il climax. Muoviti.»
Alzai gli occhi al cielo, ma mi sbrigai a continuare prima che Giulia mi tormentasse ulteriormente.
«Come ti ho già detto, sono andata in bagno per riprendermi, e sono finita al piano di sopra di questo palazzo – un vero labirinto, lasciami dire, poi era tutto buio…»
«Iris…»
«Sì, va bene, arrivo al punto!» dissi e iniziai a dondolare le gambe sulla panchina «Il punto è che da una delle porte del bagno vedo uscire una ragazza e allora non mi sono messa a guardare se quello fosse il bagno delle donne o meno, capisci no?»
«Oddio, era quello degli uomini?»
Giulia sembrava combattuta tra la pietà e la più crudele derisione.
«Esatto. Il punto è che io sono entrata e mi sono messa a piangere – era davvero una scena orribile. Avevo il vestito distrutto, pieno di vino, il trucco sciolto dalle lacrime… Facevo davvero pena.» lo dissi ricordando il riflesso che mi aveva restituito lo specchio quella sera.
«Fammi indovinare, c’era il ragazzo che mi dicevi?»
Annuii.
«Esatto.» confermai «E, devo proprio ammetterlo, questo qua era…» mi interruppi nuovamente e ripensai al ragazzo di cui non avrei mai saputo il nome.
Giulia però mi guardava fremente.
«Com’era? Bello? Brutto? Un cesso a pedali?» mi incalzò mentre si girava un’altra sigaretta presa dall’ansia «Ti prego dimmi che era bello perché se no rovini tutto il film mentale che mi sonno fatta finora.» piagnucolò.
Scoppiai a ridere.
«Bello?» iniziai retorica. Ripensai al viso cesellato, alla figura alta e proporzionata, alla bocca disegnata e l’espressione che oscillava tra la noia e la malizia.
«Cazzo, era stupendo.» ammisi, ancora persa tra i ricordi.
«Oddio!» Giulia ce la mise tutta a evitare di strillare concitata, notai, ma non aveva avuto troppo successo «Descrivilo!»
«Anche se te lo descrivessi non rende l’idea.» replicai «Comunque era alto, parecchio – un metro e ottanta, ottantacinque forse, non so con esattezza.» risposi cercando di mettere più a fuoco i ricordi «Capelli neri, arruffati, abbastanza lunghi.» aggiunsi.
«E gli occhi? Com’erano?»
Il ricordo di quegli occhi rossi e della pesantezza di quello sguardo era ancora estremamente vivido. Peccato che non conoscessi il reale colore delle sue iridi.
«Non lo so. Cioè, portava delle lenti a contatto rosse. Non so di che colore abbia gli occhi per davvero.» lo dissi scrollando le spalle, come se non mi importasse. Giulia parve delusa.
«Che palle.» borbottò, ma non si crogiolò troppo in quella delusione e mi incitò ancora «Ma quindi che è successo?»
«È successo che ha fatto lo stronzo.»
«Stronzo affascinante o stronzo stronzo
«Stronzo stronzo.» risposi ironica.
«Oh, che delusione.»
«Sì, beh, però ecco, sai che io sono la tipa che non risponde mai o che comunque non vuole fare casino…»
«Intendi dire che ti fai mettere i piedi in testa? Sì, lo so.» intervenne asciutta la mia amica, e per quanto volessi dirle che non era vero, in tutta coscienza sapevo che sarebbe stato stupido negare l’evidenza. Era la verità, mi facevo spesso mettere i piedi in testa.
«Beh, in quel momento non ce l’ho proprio fatta. Forse sarà stato perché ero incazzata e delusa e amareggiata da tutta la situazione, o saranno stati gli spritz, non lo so, fatto sta che gli ho risposto.»
Giulia mi guardò con tanto d’occhi.
«No, dai! Non ci credo, l’hai fatto davvero?»
Una parte di me era leggermente irritata che fosse così sorpresa, ma la ignorai.
«Sì.» replicai «Comunque sia, per fartela breve dato che la sto tirando avanti per le lunghe, gli ho fatto così pena che mi ha chiesto cosa fosse successo e, sempre per i motivi di prima, ho finito per raccontargli tutto.»
«Cosa intendi per tutto?»
«Intendo tutto. Ero tipo un fiume in piena, ho fatto un monologo.» arrossii al ricordo, ma Giulia di fronte a me scrollò le spalle.
«Hai fatto bene, sfogarsi è sempre meglio.»
«Di fronte a uno sconosciuto?»
«Sì, se è figo.»
Decisi di ignorare la totale mancanza di senso della sua risposta, dato che anche io ero capace di fare frasi del genere, e continuai.
«Comunque, la parte stranissima arriva ora.»
Giulia si mise sull’attenti.
«Era ora.»
«Il mio racconto deve essere stato davvero patetico, perché dopo che ho finito ed ero pronta ad andarmene – e, come ti dicevo, a tornare a casa per scolarmi una bottiglia di vino e piangere tutte le mie lacrime – questo tipo mi dice che la serata non deve per forza finire così.»
Le parole che mi aveva rivolto erano straordinariamente vivide nella mia mente e mi sembrava di sentire ancora l’odore di fumo che aveva addosso.
O forse era solo Giulia che si era accesa un’altra sigaretta.
«No, vabbè, ma davvero? Cioè, come te l’ha detto? Voglio la dinamica.»
«Non c’è nessuna dinamica da spiegare.» mentii spudoratamente, sorvolando su come si fosse avvicinato a me e mi avesse sorriso in quel modo che mi aveva fatta sentire come la protagonista di un romance «Dopo questo in pratica si è proposto di sistemarmi il vestito.» snocciolai veloce, pregando che non insistesse sul punto precedente.
Ed evidentemente la mia ultima frase aveva sortito l’effetto sperato, perché Giulia parve essersene dimenticata in un secondo.
«Sistemarti il vestito?» ripeté. Il suo sguardo incredulo mi fece sorridere e ripensai a come in effetti dovesse suonare il racconto ad orecchie esterne.
Più ci penso, più mi rendo conto di quanto sia assurda tutta la situazione.
«Esatto. Immagino studi o lavori nel campo della moda o qualcosa del genere, perché sapeva esattamente cosa fare e non ci ha pensato troppo.» considerai.
Giulia alzò gli occhi pensierosa.
«Che sia uno studente dello IUAV?» propose «O forse dell’Accademia.» aggiunse.
«Non saprei. Non gliel’ho chiesto e lui non mi ha detto niente, ma considerando che era pieno di studenti ieri sera non è da escludere.» risposi «Poi, ha anche detto qualcosa su come l’hanno fatto lavorare gratis, quindi magari era lì per dare una mano con i costumi.» ponderai.
Era un pensiero che mi si era già fatto largo nella mia mente la notte prima, mentre mi rendevo conto di come ci fossero inservienti di vario genere – ballerini, camerieri, baristi e non solo ­– dai costumi e trucchi elaborati.
«Quindi, mi stai dicendo che questo sconosciuto, esperto di moda, dopo averti sentito lamentare della serata di merda che avevi appena passato si è volontariamente proposto per dare una sistemata al tuo vestito?» ricapitolò Giulia, il tono che si era fatto meno incredulo e più curioso.
«E il trucco.» aggiunsi.
«Anche quello?!»
Scoppiai a ridere.
«Ti giuro, per un attimo mi sembrava di essere dentro a un film.»
«O dentro un libro.» aggiunse Giulia e il sorriso che ci scambiammo in quel momento era sia ammiccante che complice.
«Adesso voglio vedere il vestito!»
Presi il telefono dalla tasca.
«A dire il vero non so se ho delle foto decenti del vestito modificato. Forse quelle fatte in bagno con Veronica.» dissi più tra me che verso Giulia, che nel frattempo si era seduta di fianco a me e sbirciava lo schermo del mio telefono.
Notai appena l’ombra che si era poggiata su di me, concentrata com’ero sul telefono, e sobbalzai al sentirmi chiamare.
«Iris! Non ti ho vista prima a lezione.»
Avevo perso il conto di quante volte avessi desiderato ardentemente che Giacomo si fermasse e pronunciasse quelle parole, e per un attimo temetti di essermele immaginata. Invece lui era proprio lì, di fronte a me, le mani infilate nelle tasche del giubbotto nero, un cappello calcato tra i riccioli neri e gli occhi castano-verdi fissi su di me.
Di fianco a me, anche Giulia sembrava a corto di parole, ma dopo qualche istante di confusione mi affrettai a rispondere.
«Ehi!» la voce mi uscì appena un po’ strozzata dalla sorpresa e arrossii «Ero seduta in fondo.» risposi mentre mi alzavo dalla panchina, troppo agitata per rimanere seduta.
«Ecco perché non ti ho vista. Di solito ti siedi nelle prime file, no?» la domanda era retorica ma mi venne spontaneo annuire «Ciao Giulia.» disse poi verso la mia amica che si limitò a un rapido ‘ciao’ di risposta.
Si ricorda dove mi siedo!
Doveva pur significare qualcosa, no? Eppure, nonostante tutte le volte che l’avevo fermato e avevo cercato di fare conversazione, non si era mai preso la briga di rivolgermi la parola per primo.
«Non ero proprio in forma oggi, era meglio rimanere in fondo all’aula.» scherzai abbozzando una risatina nervosa.
«Ti capisco, mi sono dovuto trascinare a lezione a forza.»
Dentro la mia testa, i miei neuroni sembravano impegnati nella lotta del secolo: sentivo i pensieri correre da una parte all’altra, analizzare ogni singolo dettaglio di Giacomo, a partire da com’era vestito, per poi passare allo strato di barba che iniziava a infoltirsi, per finire al ricciolo che sfuggiva al cappello e gli sfiorava il sopracciglio scuro.
Lo guardai, incerta su cosa dire.
Parla, Iris!
Aprii la bocca – per dire qualcosa che non sapevo nemmeno io, a dire il vero, ma qualsiasi cosa sarebbe andata bene per riempire quel vuoto imbarazzante.
«Questo sabato hai da fare?» mi anticipò di un secondo, salvandomi dal disagio di non sapere cosa dire. Di certo, tuttavia, non mi aspettavo proprio quella domanda.
«Eh?» non riuscii a fare a meno di emettere quel suono e, di fianco a me, Giulia mi diede un colpo attenta a non farsi notare da Giacomo che aveva spostato lo sguardo per prendere una sigaretta dal pacchetto.
«Dici domani?» mi affrettai ad aggiungere per non fare la figura della stupida.
Mi vuole invitare ad uscire?
L’idea mi sembrava assurda. Ieri sera mi sembrava abbastanza coinvolto da Veronica dato che era stato in nostra compagnia tutta la sera – avevamo parlato anche noi due, questo era ovvio. Possibile che…
«Sì. Sto organizzando una cena con amici e Veronica non era sicura di venire, ma se siete insieme non ci sono problemi, no?»
La presa sulla mano da parte di Giulia fu decisa e improvvisa, ma fu l’unica cosa che mi permise di rimanere ancorata alla realtà e stamparmi un sorriso sul volto mentre dentro di me la voglia di scoppiare a piangere, per la seconda volta in un giorno e mezzo, si faceva prepotente.
«…penso di no. Non ci siamo ancora sentite, però.»
La mia voce era più fievole di quanto volessi, ma Giacomo non parve accorgersene.
In realtà, sembrava che non si accorgesse proprio di niente, nemmeno di Giulia che continuava a stare di fianco a me in silenzio – non potevo vedere la sua espressione, troppo presa dal continuare a sorridere scioccamente mentre fissavo Giacomo. Quest’ultimo, evidentemente, si rese conto in ritardo della sua presenza e si affrettò a estendere l’invito.
«Puoi venire anche tu, se vuoi.»
Il suo tono non era assolutamente forzato, ma qualcosa stonava – qualcosa che, se fossi stata io la destinataria di quell’invito, mi avrebbe impedito di accettare senza problemi. Giulia, per sua fortuna, non era quel genere di ragazza e non sembrò minimamente turbata dalla scena.
«Purtroppo ho già un impegno, sarà per la prossima volta.» si limitò a rispondere in maniera piuttosto asciutta.
Giacomo non insistette e si voltò di nuovo verso di me, un sorriso leggero stampato in faccia.
«Beh, allora fatemi sapere tu e Veronica.» mi disse «Dillo pure a lei, ha il mio numero.» aggiunse.
«Sicuro.» mi limitai a rispondere.
«Beh, allora ci vediamo domani!»
Sia io che Giulia ci limitammo a un saluto poco entusiasta mentre lui si allontanava e raggiungeva il suo solito gruppo di amici.
«Io lo ammazzo.»
Se la situazione non mi avesse fatto venire voglia di piangere, sarei scoppiata a ridere al tono funereo usato dalla mia amica.
«Giulia…» sospirai.
«Non dirmi ‘Giulia’ in quel modo! Avanti, ma che cazzo di modi sono? Praticamente ti ha invitata solo per assicurarsi che venga anche quella tua amica!»
«Si chiama Veronica e lo sai.»
«Sai quanto me ne frega di come si chiama! È stato uno stronzo.» borbottò mentre le sue guance prendevano sempre di più il colore dei suoi capelli «‘Puoi venire anche tu, se vuoi’.» lo scimmiottò abbassando la voce in un vago borbottio «Sai quanto me ne frega del tuo invito a cena, coglione.»
«Giulia.» ripetei, questa volta un po’ più convinta.
«Hai davvero intenzione di andarci?»
Ci riflettei.
Veronica non era la tipa da dire cose come ‘se non vai tu non vado nemmeno io’, quindi pensavo che la sua indecisione fosse reale e non limitata a una semplice questione di imbarazzo. In pratica, anche se io non ci fossi voluta andare, lei ci sarebbe andata lo stesso se quella era la sua intenzione.
Non andarci implicava che mi sarei risparmiata la scena di Giacomo che flirtava con lei tutta la sera – ovvero mi sarei risparmiata una notte di lacrime. Ma una parte di me, la più masochista molto probabilmente, mi spingeva ad andare: volevo vedere con i miei occhi il ragazzo per cui avevo una cotta provarci con la mia amica, anche se questo avrebbe significato sentire quel fastidioso macigno sul petto tutta la sera, che conoscendomi avrei cercato di ignorare scolandomi un paio di bicchieri in più.
«Penso di sì.» mi limitai a rispondere.
Giulia mi guardò desolata.
«Senti, non tenterò di convincerti a fare il contrario perché so che molto probabilmente farei la stessa cosa.» iniziò con un sospiro «Ma perlomeno, perché non provi a spiegare a Veronica la situazione?»
Scossi la testa così velocemente che mi feci male.
«Assolutamente no!»
«Perché?»
«Perché non voglio incasinare la situazione. Veronica sembrava interessata a Giacomo e so che se le dicessi qualcosa lei smetterebbe di rispondergli, ma non voglio fare la stronza della situazione.»
«Sì, ma ci stai male tu.» puntualizzò Giulia.
Sbuffai.
«Non voglio fare la martire della situazione, non preoccuparti. È solo una semplice cotta, non è l’amore della mia vita, mi passerà presto. Perché rovinare una possibile relazione tra due persone per una cosa del genere?» il mio tono voleva essere retorico, ma Giulia mi rispose ugualmente.
«Perché ci rimarrai di merda e lo sai anche tu.»
Non aveva tutti i torti e lo sapevo, ma da una parte ero sicura che dirlo a Veronica non ne valesse la pena.
Non stavo cercando di fare l’eroina o qualcosa del genere, ma riconoscevo che la mia era una solo una cotta che mi portavo avanti da qualche mese, e sapevo anche che era nei confronti di una persona che non conoscevo davvero. Di Giacomo mi piaceva l’idea che mi ero fatta nella mia testa, e non ero sicura che corrispondesse alla realtà – certo, sarebbe stato bello conoscerlo e capire se la mia idea fosse reale o meno, ma non sempre le cose vanno come si vorrebbe.
«Possibile, ma almeno così pago la psicologa per qualcosa.» ironizzai.
Il colpo in testa mi arrivò prima che potessi evitarlo.
«Sei un’idiota.»
«Grazie mille!»
«Non era un complimento.»
Non risposi e mi limitai a scoppiare a ridere. Mi diressi verso l’uscita del campus assicurandomi che Giulia fosse dietro di me, e dopo il suo sguardo incerto le feci un sorriso luminoso.
«Andiamo. Ho davvero bisogno di uno spritz ora come ora. Non vorrai abbandonarmi così.»
Lei si affrettò a raggiungermi.
«Mai.»

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