Il Richiamo di Cthulhu: Il Guardiano di MedusaNoir (/viewuser.php?uid=85659)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 20: *** Capitolo XX ***
Capitolo 21: *** Capitolo XXI ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXII ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXIII ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIV ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXV ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXVI ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXVII ***
Capitolo 1 *** Capitolo I ***
Il Richiamo
di Cthulhu: Il Guardiano
Capitolo I
Campus universitario,
Arkham, 23 ottobre 1928
Erano diversi gli aggettivi
con cui Ellen Lawlier era
solita descrivere se stessa: solitaria, intelligente, curiosa. Molti di
più
erano quelli utilizzati dalle persone che, nel corso dei suoi ultimi
anni di
vita, avevano avuto la sfortuna di incontrarla: fastidiosa, supponente,
arrogante, testarda, antipatica erano solo alcuni di essi. Eppure,
quella
mattina di un consueto ottobre dal cielo coperto da fitte nubi
nerastre, Ellen
aveva appena scoperto un nuovo termine per definire se stessa:
entusiasta.
Soltanto un’ora
prima credeva di dovere affrontare l’ennesimo,
tedioso lunedì sprecato dietro le fandonie di Peabody, che
in aula si
comportava come fosse il migliore insegnante sulla faccia della Terra,
quando a
sentirlo parlare diveniva evidente che non lo fosse nemmeno comparato
al
proprio riflesso nello specchio. Quasi settanta anni dopo la
pubblicazione
delle teorie di Charles Darwin che avevano rivoluzionato il mondo delle
scienze, il “professor” Peabody si ostinava a
negarle; non le confutava, le
negava e basta. Se fosse stato un docente di Teologia, Ellen se ne
sarebbe
infischiata, ma lavorava all’interno della facoltà
di Biologia, tenendo uno dei
corsi obbligatori, e le innumerevoli lamentele che lei aveva posto al
decano
Miller non erano riuscite a mettere quantomeno in discussione il suo
incarico:
i Peabody erano una famiglia influente di Arkham, e a quanto pare
ciò bastava
per permettere loro di sparare stronzate a destra e a manca.
Quel lunedì,
però, Ellen non avrebbe dovuto seguire il
corso di Peabody, perché la sua presenza era stata richiesta
altrove. Aveva
ricevuto una convocazione nell’ufficio del decano, il quale
la invitava a
presentarsi alle nove nella Science Hall. Ellen ne aveva approfittato
per fare
una sostanziosa colazione in sala mensa, stirare in lavanderia la sua
divisa
migliore e sistemare meglio che poteva i corti capelli ramati. Alle
otto e
cinquanta minuti era fuori dall’Upman Hall, il dormitorio
femminile, e si trovava
di fronte alla statua del decano Hasley quando una voce
richiamò la sua
attenzione.
Non si era rivolta a lei, ma
ne aveva riconosciuto il
timbro. Pensando che quella giornata stesse andando di bene in meglio,
si voltò
e si affrettò a raggiungere la sua sola amica al mondo. Il
volto di Janet Holmes
era nascosto dietro la sciarpa di lana, tirata su fino al naso, e una
sola
ciocca bionda le scappava ribelle dal cappello; l’archeologa
era immersa in una
fitta conversazione con il professor Wingate Peaslee, docente di
Psicologia, e
quando sollevò lo sguardo e incontrò quello di
Ellen le rivolse un sorriso carico
d’affetto.
«Ellie!»
Nonostante non si vedessero
da appena qualche giorno,
Ellen era convinta che avrebbe cercato di abbracciarla se solo non
avesse
trasportato dei libri tra le mani, e fu grata a suddetti volumi per
averla
preventivamente tratta d’impaccio.
«Ciao, Janet. Come
mai sei da queste parti?» Si voltò poi
verso il professor Peaslee, aggrottando la fronte per la sorpresa.
«Buongiorno,
professore.»
«Buongiorno,
signorina…?»
«Lawlier»
intervenne Janet. «Lei è la signorina Ellen
Lawlier, studia nella facoltà di Biologia. Te ne avevo
parlato» aggiunse con
colloquialità, e questo confuse Ellen ancora di
più.
Da quanto tempo la sua amica
conosceva il professor
Peaslee? Perché erano entrambi vicini allo Science Hall? E
per quale motivo
Janet gli aveva parlato di lei?
«Perdonami, ma
sono di fretta» disse, ricordando l’appuntamento
con il decano. «Ci vediamo a pranzo?»
«Stiamo andando
nella stessa direzione.» Janet sorrise,
ma era un sorriso teso, nervoso. «Il decano Miller ha
convocato anche il
professor Peaslee e me.» Esitò. «In
realtà… Sai di cosa si tratta?»
Certo che lo sapeva. La
richiesta di Miller non era stata
accompagnata da delucidazioni, ma al Campus non si parlava
d’altro dalla sera
prima. La mattina precedente, infatti, qualcuno aveva rivenuto una
carcassa
sulle sponde del Miskatonic River; a una rapida analisi, era stato
chiaro che
appartenesse a una creatura ignota, o probabilmente non identificabile
nell’immediato,
forse proprio per via delle ferite che l’avevano condotta
alla morte. Sulle
dimensioni c’erano pareri discordanti: alcuni sostenevano che
fosse lunga
quindici piedi e robusta quanto un orso bruno, altri che superasse di
poco la
stazza di un cane di medie dimensioni e che fosse in gran parte
scheletrica.
Ellen non si era interessata alla notizia, certa che si trattasse di un
animale
deturpato dal suo predatore e dal tempo trascorso in acqua, fino a
quando non
era stata chiamata in causa. Una convocazione ufficiale aveva
risvegliato
completamente il suo interesse accademico, facendole intuire che, sotto
lo
strato della bizzarra diceria, ci fosse qualcosa di vero.
«Girano delle voci
su una carcassa» rispose infine. «Un
animale ritrovato sul Miskatonic River.»
«Esattamente.»
«Quindi sono
vere?» Le sfuggiva ancora la presenza di
Janet e del docente di Psicologia. «Tu l’hai
vista?»
Janet esitò, poi
rispose: «Io l’ho
trovata, Ellen.»
«Dovremmo
andare.» La voce del professor Peaslee si
stagliò nel silenzio appena sceso fra loro. «Il
decano Miller non ama i
ritardatari.»
***
Quando il trio giunse
nell’ufficio del decano Miller, lo
trovò affollato. Oltre al cinquantottenne, che sedeva con
gli occhiali sul naso
dietro l’imponente scrivania, c’era un altro membro
del corpo docenti.
Riconoscere la professoressa Mary Baker, insegnante di Biologia
Animale, le
fece storcere il naso – esattamente lo stesso gesto eseguito
dalla donna non
appena la vide. Si scrutarono a fondo prima di distogliere entrambe lo
sguardo.
Ellen non provava simpatia per la professoressa, ed era reciproco: la
Baker mal
sopportava i suoi interventi durante le lezioni, nonché il
tono supponente che
la ragazza non si curava di mascherare. Si erano riprese a vicenda
più di una
volta, confutando quanto appena detto dall’altra, e, sebbene
fossero
consapevoli di rappresentare uno spettacolo divertente per il resto
della
classe, non si sentivano per nulla divertite a loro volta. Ellen lo era
stata,
la prima volta in cui aveva interrotto una lezione della Baker per
farle notare
un errore grossolano durante la spiegazione, ma ben presto la
professoressa
aveva avuto la sua rivincita, e allora ogni lezione ed esame di
Biologia
Animale era divenuto terreno di scontro.
Girandosi, Ellen riconobbe
anche il dottor Crown,
anatomopatologo del St Mary che per decenni aveva insegnato Anatomia
Patologica
alla Miskatonic University; giunto alla veneranda età di
sessant’anni l’uomo
aveva deciso di operare per via esclusiva all’interno
dell’ospedale, con grande
sollievo delle studentesse di Medicina, che da oltre un lustro avevano
quindi
smesso di sentirsi molestate dai suoi occhi indagatori, fin troppo
spesso fissi
all’altezza del seno, e dalle sue richieste di dare gli esami
in sede privata.
Per fortuna, il lavoro che svolgeva in quel momento gli impediva di
importunare
le tirocinanti: ormai poteva molestare soltanto i cadaveri.
C’era una quarta
persona nell’ufficio, un uomo alto che
dava loro le spalle, intento a fumare accanto a una delle due finestre
della
stanza. A Ellen non parve di conoscerlo.
«Signorine,
benvenute» le salutò il decano non appena
furono entrate. I suoi occhiali però erano puntati sul solo
uomo che era con
loro. «Professor Peaslee, a cosa devo la vostra
presenza?»
«Ho pensato di
accompagnare la signorina Holmes. Spero
non sia un problema.»
«No,
affatto.»
L’espressione di
Miller pareva suggerire il contrario;
tuttavia, il decano si limitò a inspirare profondamente e a
fare alle donne
cenno di accomodarsi – non c’era spazio per il
professor Peaslee, ma ciò non lo
dissuase dal sedersi nella poltrona riservata all’uomo in
piedi, il quale dal
canto suo non diede alcun segno di fastidio. Ellen si
ritrovò a fissarlo
intensamente, cercando di riconoscerne i lunghi capelli neri o la
figura
slanciata, ma era sempre più certa di non averlo mai visto
prima.
«Come ben
sapete» proseguì Miller «ci sono delle
voci nel
Campus riguardo il motivo per cui vi ho chiesto di essere qui, questa
mattina.»
Crown ne
approfittò per interromperlo subito. «Abbiamo
sentito… parlo per me, certo, ma credo che le voci siano le
stesse. Abbiamo
sentito di un… ritrovamento, mi sbaglio?»
«Non
sbagliate» rispose Miller, assottigliando le labbra.
«La scorsa mattina la signorina Holmes, che alcuni di voi
conoscono in quanto
collaboratrice presso la nostra facoltà di Archeologia, ha
scovato presso le
rive del Miskatonic la carcassa di un animale che non ha ancora potuto
identificare…»
«Sfido»
lo interruppe stavolta la professoressa Baker,
rivolgendosi a Janet. «Voi siete un’archeologa, no?
Che cosa pensavate di
capirci?»
«Certo molto
più di quello che potete capire voi senza
neanche avere visto la carcassa.»
La voce di Ellen fece calare
il gelo nell’ufficio. Miller
e Crown erano chiaramente a disagio, Peaslee si era lasciato sfuggire
una
smorfia divertita, e perfino l’uomo alla finestra le aveva
lanciato uno sguardo
incuriosito. La Baker sembrava furiosa.
«Come mai questa
ragazzina è qui? Credevo si trattasse di
un consulto serio.»
«E lo
è, signorina Baker.»
«Professoressa»
ringhiò lei, mentre Ellen
sorrideva intimamente.
Miller la ignorò.
«La signorina Lawlier è qui su
richiesta della signorina Holmes» proseguì, e
ciò inferse un colpo all’orgoglio
di Ellen. Fino a quel momento, era stata certa che la sua presenza
fosse dovuta
alle doti scolastiche, alla media che la rendeva la migliore
studentessa di
Biologia, a…
A niente,
rifletté. Sono
qui solo perché
lo ha voluto Janet.
«Credo sia il
momento opportuno per fare le
presentazioni» parlò finalmente l’uomo
alla finestra, spegnendo la sigaretta e
girandosi verso di loro.
Ellen si era aspettava un
volto misterioso, occhi color
ghiaccio, un qualunque tratto distintivo, e invece si
ritrovò di fronte una
persona comune. Aveva bei tratti, un viso pulito, rasato di fresco. La
sola
cosa che destò di nuovo la sua curiosità fu il
suo accento. Non lo riconobbe:
non era inglese, né italiano, e neanche latino. Da dove
poteva venire?
La risposta giunse
inaspettatamente da Miller.
«Avete ragione,
dottor Fauerbach. Tra di noi ci
conosciamo tutti… più o meno… ma
è necessario fare delle presentazioni prima di
continuare. Conoscete già Mary Baker.» Miller
evitò di aggiungere “signorina” o
“professoressa”. «Il dottor Robert Crown,
un tempo docente di Anatomia
Patologica e attualmente il nostro migliore anatomopatologo. Il
professor
Wingate Peaslee, insegnante di Psicologia. La signorina Janet Holmes,
un’archeologa
che ha spesso partecipato alle spedizioni compiute insieme
all’università di
Harvard, e la signorina Lawlier, nostra allieva. Signori, lui
è il dottor
Michael Fauerbach, altro collaboratore della nostra illustre
università.
Trovandosi ad Arkham, ha acconsentito volentieri a unirsi
all’equipe.»
Il dottor Fauerbach fece un
cenno con il capo per
ringraziare Miller, poi sorrise in direzione di Janet. «Vi
prego, signorina
Holmes, potete dirci del vostro ritrovamento?»
Ora che la tensione pareva
essersi dissipata, Janet
sorrise a sua volta. «Grazie, dottore. Come il decano Miller
stava illustrando,
domenica mattina durante una passeggiata nella Downtown con
un’amica ho notato
uno strano esemplare sulle rive del fiume. Siamo scese a controllare e
infine,
di comune accordo, abbiamo allertato la vicina stazione di
polizia.»
«L’esemplare
era ancora in vita?» domandò la Baker.
«No. Al momento
però non ne eravamo certe, e date le sue
dimensioni temevamo potesse rappresentare un pericolo. Per fortuna, gli
agenti
sono accorsi a controllare e io stessa sono riuscita a mettermi in
contatto con
l’università, certa che la scoperta potesse essere
di vostro interesse.»
«Possiamo vederlo?
È qui nel Campus?»
«Un momento,
signorina Baker» si intromise Miller.
«Professoressa Baker.»
Per la seconda volta, il
decano la ignorò. «Preferisco
che veniate prima messi a parte dell’aspetto della creatura.
Vederla potrebbe…
destabilizzarvi.» Ellen si accorse che lo sguardo
dell’uomo si puntò in
particolare modo su di lei e sulla Baker.
Siamo biologhe, pezzo di
merda,
avrebbe voluto rispondergli. Abbiamo
visto più cadaveri animali
di te, che sei solo un patetico esempio di nepotismo.
Janet però
annuì. «Sono d’accordo. La carcassa che
abbiamo rinvenuto ha un aspetto inusuale. Assomiglia a un anfibio,
possiede
arti palmati e branchie ai lati del collo tozzo, ma è
incredibilmente grande,
di dimensioni più che umane. Non abbiamo neanche compreso il
motivo della sua
morte, e questo forse è il particolare più
inquietante.» Deglutì. «Dobbiamo
fare attenzione, perché accanto a lui abbiamo trovato anche
un banco di pesci.
Morti. Non perché fossero fuori
dall’acqua… no, tutti loro manifestano segni di
avvelenamento. Potrebbe essere stato lo stesso veleno che ha ucciso la
creatura, o al contrario averlo generato lei stessa morendo. Non sono
che un’archeologa»
proseguì, ma non lanciò sguardi significativi
alla Baker «però so che bisogna
fare attenzione a specie a noi ignote.»
Dopo un minuto di silenzio,
il dottor Fauerbach parlò.
«Dove si trova adesso?»
«L’abbiamo
fatta trasportare nel laboratorio A» rispose
Miller, alzandosi. «Albert Proctor, un nostro ricercatore, ci
sta lavorando in
questo momento.» Lanciò un’occhiata a
Janet. «Provvisto di strumentazione e
maschera adeguate, ovviamente.»
***
Il Charles Tyner Science Lab
si ergeva adiacente lo
Science Hall, di fronte al campanile neogotico e accanto
all’edificio preposto
all’insegnamento di lingue, letterature e arti. Era
relativamente giovane,
inaugurato solo otto anni prima in onore del dottor Tyner, insigne
ricercatore
della Miskatonic University; al momento rappresentava anche la
struttura più
all’avanguardia del Campus, con i suoi laboratori dedicati
alla fisica e alla
chimica, e ovviamente alla biologia. A eccezione dello Science Hall e
del
dormitorio femminile, era insieme alla Miskatonic Library il luogo del
Campus
maggiormente frequentato da Ellen.
Non appena ebbero superato
il portone di ingresso,
svoltarono a destra per salire al piano superiore e poi a sinistra
verso il
magazzino in cui erano riposte tutte le attrezzature necessarie per le
analisi,
suddivise per campo e utilizzo. Un incaricato procurò loro
una mascherina e un
paio di guanti ciascuno, e Miller li rassicurò che sarebbero
bastati per il
solo esame visivo della carcassa.
Ellen però non ne
fu certa finché Janet non glielo ebbe
confermato. «All’esterno non ci sono stati
problemi, ma all’interno… non posso
esserne sicura, ecco. Però la analizzeremo a distanza, solo
per darvi un’idea
del suo aspetto. Forse non dovremo neppure entrare nel
laboratorio.»
La fai facile tu,
pensò Ellen, che con i suoi scarsi cinque piedi di altezza
stentava a
raggiungere le finestrelle montate sulla doppia porta dei laboratori.
Infilò i guanti e
fece aderire con cura la mascherina al
volto. Tutto procedette nel massimo silenzio, come se i pensieri di
ciascuno
fossero concentrati sulla misteriosa creatura che di lì a
poco avrebbero
visionato. A parlare, infine, fu Miller.
«Professor
Peaslee» esordì. «Se preferite voi
potete
attenderci fuori…»
«Nessun disturbo,
decano Miller. È un onore per me poter
assistere alla vostra indagine.»
Un onore che,
rifletté Ellen, Miller gli avrebbe
volentieri negato.
«Procediamo,
allora.»
Scesero di nuovo al piano
inferiore e procedettero verso
il fondo del corridoio, diretti al laboratorio A. Superarono diverse
svolte e,
a un certo punto, Ellen avvertì chiaramente un pizzicore
sulla nuca. Si voltò
di scatto, pronta a fronteggiare l’ennesima occhiataccia
della professoressa
Baker, ma incontrò il volto del dottor Fauerbach. Il tedesco
– o
austriaco, quel che è –
le sorrise affabile, ma lei non
ricambiò: quell’uomo la inquietava. Non
l’aveva mai incontrato al Campus, né ne
aveva sentito parlare, e a quanto sembrava conosceva la Baker. Tutti
ottimi
motivi per tenersene alla larga.
Era ancora sovrappensiero
quando raggiunsero la doppia
porta del laboratorio A, così andò a cozzare
contro la schiena di Miller, che
si era fermato di colpo.
«Cosa succede,
decano?» domandò Crown facendosi avanti.
«Non trovate le chiavi…?» Si
bloccò anche lui, guardando attraverso la finestra
rettangolare in alto.
Si erano ammutoliti
entrambi. Ellen dovette alzarsi in
punta di piedi per scoprire cosa avevano visto i professori, ma non
appena il
suo sguardo vagò oltre il vetro si sentì
pietrificare.
La prima cosa che aveva
notato era la viscida carcassa
verdastra, stesa sul primo tavolo da lavoro e aperta in due.
La seconda era il corpo che
dondolava sopra la creatura.
Guardando meglio, Ellen
riconobbe Proctor.
Una fune
robusta cingeva il suo collo spezzato.
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Capitolo 2 *** Capitolo II ***
Capitolo
II
«Passatemi il
bisturi.»
«Signorina Baker,
sono io l’anatomopatologo, forse dovrei…»
«Professoressa Baker.
Voi pensate agli umani e passatemi il bisturi.»
Le voci continuavano a
inseguirsi alle sue spalle; le era
balenata l’idea di mettersi di fronte alla scena, ma poi
aveva optato per
sedersi dall’altro lato del secondo tavolo, in modo da tenere
a bada la
curiosità. Aveva del lavoro da fare
sull’epidermide della carcassa, e solo dopo
avrebbe osservato lo scempio che i due dottori e la docente di Biologia
Animale
stavano facendo sul resto del corpo. Erano già in ritardo,
era il momento di
dire basta alle distrazioni.
Quella mattina, dopo il
ritrovamento del dottor Proctor,
il decano aveva quasi avuto un mancamento; per fortuna, aveva pensato
Ellen,
Crown era già lì per un’eventuale
autopsia su Miller. Non si erano trovati
davanti un bello spettacolo, ma nemmeno uno dei peggiori: a eccezione
della
carcassa viscida e integra sul tavolo e del ricercatore impiccato
appena sopra,
il laboratorio appariva in ordine. Ellen si era appuntata mentalmente
anche un
dettaglio che era certa le sarebbe tornato utile in una discussione
futura.
La sicurezza del Campus era
stata allertata e il dottor
Proctor era stato sciolto dalla fune, calato sul pavimento e, accertata
da
Crown e Fauerbach la sua effettiva dipartita, spostato infine
nell’obitorio del
St Mary, a pochi isolati del Tyner Science Lab. Sfortunatamente, la
barella era
passata davanti al dipartimento di Educazione Fisica, i cui studenti si
stavano
per gran parte esercitando nel campo esterno, e a quello di Medicina,
adiacente
uno dei dormitori; nel giro di un quarto d’ora,
l’intero Campus era stato messo
al corrente di ciò che era accaduto, più o meno.
Erano cominciate a circolare
voci sull’identità della vittima e
l’ingresso al laboratorio A era stato vietato
in quanto scena del crimine, ma la Baker si era impuntata, e per la
prima volta
Ellen si era trovata d’accordo con lei: il loro lavoro doveva
proseguire, molto
tempo era già stato perso, quindi che la carcassa venisse
spostata nel
laboratorio B. E così era stato fatto.
Un altro particolare che a
Ellen non era sfuggito era
stato il sollievo dei due uomini di guardia. Non avevano assecondato la
Baker
per galanteria o per togliersela dalle palle come avrebbero fatto in
qualunque
altro contesto, bensì perché si sentivano a
disagio in presenza della creatura.
Ellen aveva notato il sudore imperlare il volto di uno di loro mentre
la Baker
aveva avanzato le sue pretese.
L’indagine aveva
potuto riprendere a distanza di qualche
ora, dopo che Crown e il suo assistente ebbero effettuato
l’autopsia su
Proctor, dichiarando che, nonostante la giovane età e una
brillante carriera
davanti a sé, la causa della morte era stato effettivamente
un suicidio. Una
volta entrati nel laboratorio B, sempre forniti di mascherina e guanti
protettivi, si erano divisi il lavoro: la Baker, Crown e Fauerbach
avevano
deciso di analizzare la carcassa da vicino, operando anche su di essa
un’autopsia,
mentre Janet ed Ellen avevano preso posto al tavolo accanto, preferendo
concentrarsi su alcune parti asportate alla creatura: un lembo di pelle
coriacea, un’unghia e una delle branchie. Ellen era curiosa,
ma intenzionata a
non rivolgere alla “star” di quella giornata
più dell’attenzione necessaria:
anche lei si sentiva a disagio guardandola.
Le aveva scoccato qualche
occhiata da quando erano a
lavoro, per cui si era fatta un’idea della creatura con cui
stavano avendo a
che fare. Corrispondeva ovviamente alla descrizione di Janet, ma
c’erano altri
particolari che la caratterizzavano: aveva le sembianze di un enorme
anfibio,
tutte e quattro le zampe palmate e branchie tra la testa e le spalle;
l’addome
era bianco, a differenza del resto del corpo, che variava tra il verde
spento e
il grigio; infine – ed era ciò che la spronava a
smettere di guardarla – aveva
dei tratti tanto somiglianti a quelli umani da farle drizzare i
capelli. Ellen
si era aspettata una sorta di pesce gigante, o un anfibio come una rana
parecchio cresciuta, non una creatura umanoide. Adesso comprendeva
l’urgenza di
Janet di farlo esaminare dall’università: avrebbe
portato alla Miskatonic
parecchio prestigio scoprire cosa fosse.
Le tornò in mente
un particolare. «Janet…»
esordì,
rivolta all’amica che era china sull’unghia da cui
stava delicatamente
asportando il terriccio. Da archeologa, sapeva agire delicatamente e
teneva in
considerazione fattori esterni come l’ambiente; infatti, era
stata la prima a
ipotizzare che la creatura non fosse morta nel fiume, ma che vi fosse
stata
trasportata. D’altronde, come mai un essere simile era stato
avvistato soltanto
adesso? Il Miskatonic River divideva in due la città, ma non
era un bacino
abbastanza ampio da nascondere l’esistenza di anfibi del
genere.
«Mh?»
fece lei in risposta.
«Con chi stavi
passeggiando ieri mattina?»
Sarebbe parsa la domanda di
un’amica gelosa in altri
contesti, se ad esempio fossero state a Boston, luogo in cui
l’archeologa
risiedeva tra un viaggio e l’altro; ad Arkham,
però, Janet aveva solo un’amica
e una manciata di conoscenti, che per quanto ne sapeva Ellen erano
tutti di
sesso maschile.
Janet esitò.
«Ah… sì. Ecco, si trattava di
un’amica di
Boston. Sto dormendo a casa sua, te lo avevo accennato.»
No, mi avevi solo accennato
che non dormivi nel Campus.
«È una
storia complicata, ma… ci trovavamo in zona di
notte. Eravamo con un nostro comune amico e con un
maggiordomo…»
«Janet, ti sto
perdendo. Di che cazzo parli?»
La sua schiettezza fece
emettere a Janet una risatina
nervosa. «Te l’ho detto, è una storia
complicata, te la racconterò in un altro
momento.»
Ellen interpretò
il breve lasso di silenzio che seguì
come un «Forse».
«Eravamo
là per un altro motivo, diretti all’Ye
Olde
Booke Shoppe, hai presente?»
Ellen annuì. Un
po’ tardi per una scappata in libreria,
pensò.
«Non dovevamo
esattamente… essere
visti.» Janet aveva
cominciato a parlare a voce bassa e in maniera concitata.
«Comunque, tornando
in auto il maggiordomo di Giraud…»
«Giraud?»
«Giraud Des
Chateaubriand, l’Arcivescovo» Janet fece un
cenno con la mano per minimizzare e andare avanti, ma ora Ellen la
fissava a
occhi spalancati. «Comunque sia, Jeremy – il
maggiordomo – si era allontanato
dall’auto in nostra assenza e aveva notato questa grossa
creatura sulla riva del
fiume. Era proprio sotto la luce di un lampione…»
«Un
lampione?»
«Sulla strada
sopra, ovviamente. Siamo scesi a
controllare perché Alexander si sentiva
scosso…»
«Alexander?»
«Ellen, lascia
stare e ascoltami! Comunque,
quando ci siamo
trovati davanti la carcassa abbiamo deciso di chiamare la polizia. Chi
poteva
avere ammazzato una creatura così grande? E se ce ne fossero
state altre in
giro?»
«Ma Miller ha
detto che il ritrovamento è stato fatto di
prima mattina…»
Janet avvampò.
«Beh…» tentennò.
«Non saremmo dovuti essere
là, ecco. Quindi ho aspettato l’alba, sperando che
nessun altro si imbattesse
nella carcassa, e poi sono tornata lì con Lilyan.»
«Che è
la tua amica.»
«Sì»
confermò, prima di rimanere un attimo in silenzio.
Sapeva quale domanda stava per porre Ellen.
«Miller non
avrebbe mai accettato di farla esaminare, non
è vero?»
«Ho dovuto
smuovere le acque rivolgendomi a Wingate. Suo
padre, Nathaniel Peaslee, ha un’onorata carriera alle spalle,
e la parola del
figlio viene tutt’ora presa in considerazione.
Perciò…»
“Onorata
carriera” era un modo carino per dire “il
vecchio pazzo che vive nel Campus”, ma Ellen non la corresse
e trasse invece le
conclusioni.
«Peaslee Jr ha
fatto girare la voce della scoperta e poi
l’ha riferito anche a Miller, che non avrebbe più
potuto tirarsi indietro.»
Janet sorrise dietro la
mascherina, ma Ellen riuscì a
capirlo dagli occhi azzurri che le brillarono.
«Però
non mi hai ancora spiegato chi siano i tuoi amici e
cosa ci facevate…»
«Cazzo!»
L’esclamazione
della Baker, poco adatta al suo repertorio
di imprecazioni, le fece sussultare entrambe. Avevano tranciato la
carotide
della creatura? Per la sua conformazione fisica, Ellen non poteva dare
per
scontato che il sangue non scorresse ancora denso e liquido.
Tuttavia, si
trovò davanti solo il ventre aperto della
creatura. Janet si portò le mani alla bocca, ma Ellen
dovette avvicinarsi per
vedere meglio.
Nel ventre ormai privo di
vita, giacevano due uova.
***
Ellen voleva quelle
uova. Analizzare dei gusci
non comportava osservare anche la loro madre., prospettiva che non la
entusiasmava; inoltre, era certa di ottenere maggiore prestigio da un
simile
esame, piuttosto che da un lembo di pelle.
La Baker, ovviamente, glielo
impedì.
«No»
esclamò ferma, mettendosi tra Ellen e la
carcassa. «Non permetterò che una studentessa
faccia danni.»
«Mi hanno chiamata
a partecipare, non sono una
sprovveduta.»
«Sì, vi
ha invitata un’archeologa»
sibilò la professoressa. Si voltò verso Janet.
«Perdonatemi, dottoressa Holmes,
ma è la pura verità: voi non sareste qui se non
aveste ritrovato la carcassa.
Immagino che nel suo campo siate un’eccellenza, tuttavia
anche il professor
Peaslee ha compreso che i suoi studi da psicologo sarebbero stati
inutili in…»
«Credo nelle doti
di Ellen» la interruppe Janet, e un
calore scaldò il cuore dell’amica. Adesso
l’archeologa fronteggiava la Baker,
gli occhi fissi nei suoi. «È vero, è
solo una studentessa, ma non imparerà
niente se verrà ostacolata dai suoi stessi
insegnanti.»
«In effetti, mi
ricorda un po’ come eravate voi dieci
anni fa…» provò a inserirsi Crown,
ricevendo uno sguardo rabbioso dalla
professoressa.
La Baker non voleva cedere.
Incrociò le braccia al petto,
poi proseguì: «La signorina Lawlier non ha mai
guidato una spedizione, né un’equipe,
compito che all’inizio del pomeriggio avete affidato a me, se
non erro.»
«Perché
vi siete imposta» ribatté Ellen.
«Perché
sono la più qualificata, e il dottor Fauerbach
può confermarvelo.»
Il medico, chiamato in
causa, lasciò perdere l’esame
visivo delle uova e sollevò il capo. Si schiarì
la voce, ma nei suoi occhi
apparve una scintilla che svelò a Ellen come non si sentisse
a disagio. Si
stava divertendo,
proprio
come tutti i suoi colleghi durante le lezioni della Baker.
Avvertì montare la
rabbia.
«La professoressa
Baker ha ragione, dottoressa Holmes. La
vostra amica potrà anche essere una valida studentessa, e
non dubito delle
motivazioni che, oltre alla vostra insistenza, hanno convinto il decano
ad annetterla
all’equipe… Tuttavia, ho avuto modo di lavorare
con la professoressa Baker in
passato, e so che il suo approccio, seppure rude, è
appropriato per il tipo di
ricerca che stiamo svolgendo.»
Quanti paroloni per leccarle
il culo,
pensò Ellen.
Stava per ribattere, quando
tutti furono attratti da un
rumore alle loro spalle. Nel corso della discussione, si erano
allontanati dal
primo tavolo da lavoro, quello su cui giaceva la carcassa, ma pur senza
vederlo
ciascuno di loro riconobbe il crepitio di un guscio rotto.
Cinque paia di occhi si
concentrarono sulla creaturina
che stava nascendo. Una zampa palmata si fece largo tra le crepe del
guscio,
riversando fuori un liquido amniotico denso e giallastro. Ellen sporse
il collo
per avvicinarsi all’essere, ma la mano di Fauerbach si
posò sulla sua spalla
per impedirglielo. Subito dopo, capì che qualcosa non andava.
L’uovo misurava
venti pollici, ma la zampa che si era
guadagnata l’uscita ne era lunga quindici, e continuava a
crescere; quando
finalmente si posò sul ventre della madre, era abbastanza
grande da circondare
l’altro uovo. Ellen mosse d’istinto un piede
indietro, calpestando quello di
Crown, che lasciò andare un gemito. A quel rumore, gli occhi
della creatura
neonata, ormai del tutto fuori dal guscio, scattarono su di loro.
Poi fu il turno del suo
intero corpo.
Si lanciò su
Fauerbach, il più vicino, ma il medico lo
respinse con la lente di ingrandimento che teneva ancora in mano.
Nel laboratorio si
scatenò il panico, perché la creatura
non smetteva di aumentare di stazza.
Ellen si lanciò
nel corridoio, seguita da Janet, che
nella corsa sbatté contro un becher e si tagliò
con il vetro. L’odore del
sangue parve benefico per la rabbia della creatura, che si mosse ancora
verso
di loro. Ripresero a fuggire e, quando Ellen lanciò uno
sguardo dietro di sé,
notò che quell’idiota di Crown aveva lasciato la
doppia porta spalancata.
Imprecando si strappò via la mascherina, che le impediva di
respirare
regolarmente, e corse verso l’uscita.
Quando mancavano solo due
svolte, una mano la afferrò e
la spinse indietro, all’interno di una nicchia.
Sentì il guanto rotto premerle
contro il viso, e a malapena riconobbe Fauerbach. La testa era andata a
sbattere contro il suo torace, ma Ellen non si lamentò del
colpo: il cuore le
martellava rapidissimo, trattenne perfino il respiro per evitare di
essere
udita. Dall’altro lato, nascosti in altre rientranze dei muri
in corrispondenza
delle porte, Ellen riconobbe Janet, Crown e la Baker.
Era così vicina a
Fauerbach che avrebbe potuto sentire l’odore
del suo dopobarba. Immaginò che fosse così,
perché il tanfo che le arrivava
alle narici nascondeva ogni altro olezzo. Avvertì il suono
strascicato dei
passi lungo il pavimento per un tempo che le parve infinito, prima di
notare le
quattro zampe della creatura che si muovevano lente, sollevandosi
appena,
ancora bagnate dal liquido amniotico. Chiuse gli occhi in preda al
terrore, il
tanfo mefitico sempre più vicino…
Poi passò. Non
seppe come, né quanto ci mise, ma la prima
cosa che avvertì fu la fine della presa di Fauerbach. La sua
bocca ora era
libera e lei espirò profondamente, tossendo perfino, e dal
rumore proveniente
dall’altro lato del corridoio comprese che anche altri
avevano avuto la sua
stessa reazione.
«È
entrato in un laboratorio» mormorò Fauerbach.
«Corriamo fuori.»
***
Ancora una volta, la
sicurezza del Campus era stata
allertata con solerzia. Per fortuna, a causa del suicidio di Proctor,
nel Tyner
Science Lab erano rimasti soltanto loro cinque, e questo aveva permesso
alla
professoressa Baker e al dottor Fauerbach di serrare la porta
principale dell’edificio
senza alcun tipo di rimorso; provvidenzialmente, i due uomini preposti
al
sorvegliamento del laboratorio A erano in cortile a fumare, e
l’equipe aveva
impiegato diversi minuti per convincerli che non stavano mentendo sulla
bestia
che li aveva aggrediti. Il gruppo aveva poi spiegato la situazione al
resto
delle guardie e al decano Miller, e insieme avevano deciso di imbastire
una
storia per gli altri residenti nel Campus, in modo da evitare scandali
o
richieste di spiegazioni. Che genere di spiegazioni avrebbero potuto
dare, in
fondo? Non avevano una risposta neanche per se stessi.
Nel giro di un paio
d’ore, l’intero Tyner Science Lab era
stato messo sotto osservazione e loro erano stati mandati a fare i
bagagli per
una nottata fuori dall’ordinario. Il decano, infatti, aveva
insistito che
fossero tutti riuniti nel Faculty & Graduated Residence, dove
già dormiva
Fauerbach; secondo Miller, sarebbero stati più al sicuro se
fossero rimasti
uniti. Un grande atto di empatia che nascondeva un misero piano: Miller
voleva
evitare che diffondessero informazioni, e il modo migliore e
più rapido per
farlo era rinchiuderli in un edificio mezzo vuoto, confinati su due
piani e con
un portiere pronto ad avvertirlo nel caso in cui uno di loro avesse
tentato di
uscire o di ricevere visite.
C’erano state
delle lamentele da parte dei membri dell’equipe,
ma tutte poco convinte; avevano ben altro nella testa. Ellen aveva
dovuto
attendere l’assegnazione della stanza prima di aprire di
nuovo bocca, e l’aveva
fatto solo per vomitare. Poco dopo, seduta sul pavimento dalla propria
stanza e
con una mano premuta contro la fronte, Ellen cercava di razionalizzare
quanto
accaduto.
La risposta data agli
studenti, ai professori e a tutti
gli altri lavoratori o abitanti del Campus era stata semplice, lineare
e sotto
ogni aspetto credibile: dei vandali erano entrati nel Tyner Science
Lab,
violando le misure di sicurezza, e questo aveva fatto imporre al decano
Miller
una chiusura completa dell’area. La carcassa era quella di un
animale marino,
niente di particolare, e il suicidio di Proctor era del tutto
scollegato dal
suo ritrovamento. In effetti, Albert Proctor stava passando un brutto
periodo,
aveva problemi sia in ambito accademico che personale, e questa era
forse la
sola verità in quell’ammasso di bugie: chi lo
conosceva aveva affermato che Proctor
fosse davvero sul punto di mollare il lavoro, dopo che il suo
fidanzamento era
stato sciolto proprio per via del suo grosso impegno
all’università e di una
spedizione in partenza della quale non aveva intenzione di fare parte.
Il suicidio del ricercatore
era dunque archiviabile per
Ellen, e d’altronde l’autopsia effettuata sul corpo
non aveva dato indizi
discordanti. Poteva inoltre togliere di mezzo l’idea
dell’avvelenamento, poiché
Proctor indossava guanti e mascherina mentre si toglieva la vita.
Questo,
tuttavia, poneva un altro quesito: perché?
No, si disse, doveva pensare
ad altro, per esempio a come
giustificare l’esistenza di quelle creature. Sperava che
fossero state
annientate dalle guardie, che perlomeno disponevano di armi.
Ciò fece nascere
un’ulteriore domanda in lei: se avesse avuto una pistola con
sé, avrebbe
sparato?
Neanche so come cazzo si usi
una pistola, si rispose subito.
D’accordo, via il
pensiero sulle armi e pure sul suicidio
di Proctor. Cos’erano quelle creature e come erano finite nel
Miskatonic River?
Qualcosa le solleticò la mente, un ricordo che non
riuscì ad acchiappare, ed
era la seconda volta che accadeva dopo la loro fuga. Sospirò
e si rimise in
piedi, diretta verso il proprio letto.
A differenza dei suoi nuovi
“compagni di dormitorio”,
Ellen era potuta rientrare in fretta all’Upman Hall e
prendere una camicia da
notte e un cambio per il giorno dopo. A Janet e alla professoressa
Baker, che
dormivano sul suo stesso piano, erano state fornite delle vesti nuove
dalla
lavanderia dell’università, e così era
stato per Crown, che ora alloggiava al
secondo piano – gli uomini e le donne non potevano dormire in
camere adiacenti
nemmeno quando ne andava della loro sicurezza, constatò.
Si era addormentata da poco
quando udì un tonfo sordo all’esterno.
Scattò a sedere e accese l’abat-jour. Altri rumori
si inseguirono nel corridoio.
Rumori di lotta,
comprese.
Si alzò stando
attenta a non produrre alcun suono, poi
appoggiò l’orecchio alla porta. Sì,
aveva ragione: qualcuno stava combattendo là
fuori. Com’era possibile? C’erano solo Janet e la
Baker sul suo piano, eppure…
Un urlo le fermò
il cuore per un attimo.
Janet!
Fu sul punto di spalancare
la porta e correre da lei, poi
una sensazione di déjà-vu si
impossessò del suo corpo. Arretrò tremando,
continuando a sentire le urla disperate di Janet provenire dal
corridoio, e
avrebbe davvero voluto uscire ad aiutare l’amica – ma
come? –
e avrebbe davvero desiderato
mettersi tra lei e ciò che minacciava di farle del male, una
bestia i cui suoni
rauchi si facevano spazio nella sua testa, riecheggiando furiosi.
Invece continuò
ad arretrare fino al muro, gli occhi
fissi sulla porta, e scivolò lungo la parete con le mani
premute contro le
orecchie.
Un urlo, ancora una volta di
Janet.
Un urlo più
disperato che mai.
Un urlo
spezzato a metà.
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Capitolo 3 *** Capitolo III ***
Capitolo
III
Ellen aveva conosciuto Janet
un freddo marzo di tre anni
prima. Era in mensa, seduta a un tavolo vuoto per suo stesso desiderio,
e
giocherellava con il purè di patate rimasto: troppi grumi e
un’acidità che non
prometteva nulla di buono. Dopo un fugace sguardo alla finestra di
fronte,
aveva deciso di rimanere lì per studiare, invece di
avventurarsi sotto la
pioggia ed essere costretta all’ennesimo viaggio nella
lavanderia dell’università.
Aveva appena estratto un
voluminoso tomo quando una voce
femminile si era rivolta a lei.
«Posso
sedermi?»
Di solito, nessuno si
rivolgeva a lei. Quando si era
immatricolata alla facoltà di Biologia, il suo aspetto aveva
tenuto i colleghi
alla larga: non solo era una donna, ma neanche si curava del proprio
corpo. Era
stato in quell’occasione che aveva tagliato i lunghi capelli
color rame,
decidendo che fosse molto più comoda
un’acconciatura veloce da lavare e
sistemare.
Con il tempo, i colleghi
avevano mantenuto le distanze a
causa del suo atteggiamento rude, e di questo non le interessava
granché: l’aspetto
poco curato rischiava di far saltare il suo camuffamento, un carattere
da
stronza no.
Perciò, quando
Janet le aveva parlato per la prima volta,
era stata costretta a ripetere la domanda ad alta voce,
perché Ellen era stata certa che non
parlasse con lei.
«Posso
sedermi?»
Il suo tono non si era fatto
infastidito. Ellen aveva
alzato la testa, stupita, e le aveva istintivamente fatto cenno di
sì, per poi
pentirsene subito dopo: era stata presa alla sprovvista.
Per fortuna la sconosciuta
pareva essere solo
intenzionata a mangiare, perché per diversi minuti era
rimasta in silenzio.
Passati quei minuti, Ellen si era tuttavia sentita osservata. Aveva
alzato di
nuovo la testa, incrociando il suo sguardo, e allora la ragazza le
aveva
sorriso. Una bella ragazza, rifletté, e subito dopo comprese
cosa stonasse nel
suo aspetto: non la chioma bionda, non gli occhiali, nemmeno lo strano
sorriso;
la sconosciuta non indossava una divisa.
La squadrò meglio
e si soffermò sui pantaloni che le
scivolavano lungo le gambe. I suoi occhi si spalancarono.
La ragazza rise.
«Ti piacciono?»
Sì, le piacevano.
Prima di immatricolarsi alla Miskatonic
University, Ellen si era sempre messa dei pantaloni per muoversi lungo
le vie
della città; pantaloni da uomo, logori e di terza mano, non
eleganti e
raffinati come quelli che aveva di fronte. Provò un pizzico
di invidia per il
coraggio della sconosciuta.
«Sono comodi per
il lavoro» continuò lei. «Mi chiamo
Janet. Cosa stai leggendo?»
Era cominciata
così la loro amicizia, tra un purè
avariato e un paio di pantaloni avana. Ellen aveva messo da parte lo
studio per
ascoltare resoconti di viaggi lontani, tra l’Inghilterra e
l’Argentina. Janet
era un’archeologa che portava avanti il mestiere di famiglia,
e poteva perfino
vantare di essere nata a Il Cairo. Prima di iscriversi ad Harvard,
aveva
viaggiato parecchio con i genitori, imparando tedesco, francese, hindi
e arabo;
quando le loro trasferte di lavoro erano brevi la lasciavano dai nonni
materni
a Boston, e quando duravano dalle tre settimane ai sei mesi la
portavano con
sé; al momento risiedevano nelle Indie, il luogo da loro
più amato.
Janet, invece, per quanto
adorasse la giungla e la vita
nella remota colonia britannica, si era sempre sentita legata alle
proprie
radici nordafricane. A Harvard aveva studiato l’Antico
Egitto, e dal momento
della sua laurea aveva passato nell’appartamento acquistato a
Boston solo lo
stretto necessario: era sempre in viaggio, spesso in Europa o in
Africa, e aveva
cominciato presto a collaborare con la Miskatonic University per le
spedizioni
in terre lontane.
Quando aveva incontrato
Ellen, quel marzo del 1925, era
di ritorno da una delle prime spedizioni compiute insieme al
dipartimento di
Archeologia di Arkham. Da lei una Ellen sempre avida di conoscenza
aveva
appreso delle tribù Ashanti, dei manufatti Chimú
e delle tigri del Bengala;
Janet si era perfino dichiarata agnostica, ridendo
dell’espressione sconvolta
della studentessa di Biologia. Ciò che era nata nel tempo
tra le due era una
profonda amicizia, un legame che Ellen non aveva mai sviluppato prima
per sua
stessa volontà, ma del quale non poteva fare a meno.
Rivedere Janet ogni tre o
quattro mesi, scambiarsi pareri e informazioni su quanto appreso nel
tempo restante,
tutto ciò era diventato una boccata d’aria fresca
per lei.
Janet era l’unico
legame umano che avesse, l’unico che
realmente significasse qualcosa.
Quella notte, per poco non
l’aveva persa per sempre.
***
Oltre la porta i rumori
erano cessati. Forse,
avvicinandosi alla soglia, Ellen avrebbe potuto udirne qualcuno, come
un
respiro affannato, un gemito di dolore, piedi che strisciavano lungo il
corridoio; eppure era certa che non ci sarebbe riuscita,
poiché il suo cuore
batteva troppo forte, più forte ancora di una manciata di
ore prima, quando era
fuggita dal laboratorio B.
Inspirò,
espirò e ripeté il gesto almeno una decina di
volte, prima di decidersi ad alzarsi in piedi. Era spaventata, ma
voleva – doveva sapere.
«La
curiosità uccise il gatto.»
Il ricordo le fece tremare
le gambe. Si appoggiò alla
parete, procedendo lentamente fino al comodino. Staccò
l’abat-jour e arrotolò
il filo intorno al manico, stringendolo meglio che poteva. A passi
incerti si
diresse verso la porta e, dopo un giro di chiave e l’ennesima
inspirazione,
piegò la maniglia.
Si era aspettata…
di tutto, in effetti, e prima di ogni
cosa il cadavere dilaniato della sua unica amica. Quello che vide
riuscì
comunque a sorprenderla.
Per terra, a tre porte di
distanza, giacevano due
versioni ridotte della carcassa chiusa nel laboratorio B. Le
soppesò
attentamente, reprimendo un conato di vomito, e si accorse che questa
volta la
causa della loro morte era evidente: fori di proiettile lungo il corpo
per la
prima creatura, un solo colpo in testa per l’altra. Ora che
li aveva notati,
altri rumori esplosero nella sua testa, spari che prima erano stati
sovrastati
dalle urla di Janet, le uniche sulle quali il suo udito si fosse
soffermato.
Gli occhi vitrei delle
creature la fissavano,
costringendola a distogliere lo sguardo, a portarlo altrove, verso la
fine del
corridoio.
Una risata amara
scoppiò nel silenzio. «La nostra promessa
accademica si è svegliata!» Era stata Mary Baker a
parlare con voce rauca. La
schiena contro il muro, si teneva il braccio destro.
Ellen non si
soffermò sulla manica della camicia da notte
strappata, né sul sangue che ne usciva. Vide Janet a terra e
corse in avanti,
il cuore a mille.
Sempre tardi sempre tardi
sempre tardi…
C’era del sangue
anche sulle sue mani. Ellen l’afferrò
per le spalle, la guardò in viso, osservò il
petto e l’addome, ma stava bene.
Stava… bene.
E allora quel sangue?
Steso accanto a lei
c’era il professor Fauerbach, con una
mano premuta sul fianco. Cinque artigli si erano fatti strada nella sua
carne,
segni decisi e profondi, e ora un liquido scuro colava sul pavimento,
sulle
mani di Janet, ovunque.
«La… la
mia…»
«Fatti bastare
questa, Michael.» La Baker era tornata in
piedi e si era strappata la manica ancora intatta. «Ti
portiamo subito in
ospedale.»
«Dovremmo…»
tentennò Janet. «Dovremmo chiamare
Crown…?»
Anche Fauerbach rise privo
di gioia. «Non è… ancora…
così
tardi…»
Non lo era.
Ellen corse verso
l’altra estremità del corridoio, dove
come in ogni dormitorio dimoravano i bagni comuni. Aprì
l’armadietto che conteneva
l’attrezzatura necessaria per il primo soccorso e prese
ciò di cui aveva
bisogno.
Non so combattere, ma so
curare.
Tornò in fretta
da Fauerbach, che non riusciva a essere
sollevato da terra in quelle condizioni, e con una delle braccia della
Baker
fuori uso. Si chinò sulla ferita e cominciò a
disinfettarla, e per una volta la
professoressa la lasciò fare senza interferire; Fauerbach
stesso guidò Ellen
con la bocca impastata dalla saliva.
«Garza…
ah… ci sono residui?... ahi…»
Ellen non aveva un tocco
delicato, lo sapeva, ma sapeva
anche di dovere agire alla svelta.
Mentre terminava la
fasciatura, un volto noto si affacciò
dalle scale.
«Chiami
qualcuno!» ringhiò la Baker a Crown, che
sussultò
e tornò indietro. «Almeno sarà utile in
qualche modo… Tieni, Michael, questa è
tua.» La mano destra della professoressa si aprì
per consegnare al medico un
revolver. L’uomo lo nascose nei pantaloni, l’unico
abito che indossava. Non fu
un gesto anomalo per Ellen: era vietato portare armi
all’interno del Campus,
meglio farle sparire in fretta.
Quando fu certa che il
medico fosse fuori pericolo ed
ebbe udito i passi veloci e le voci di alcuni uomini provenire dai
piani
inferiori, Ellen si rivolse finalmente a Janet. Era intonsa, a
eccezione del
taglio che si era procurata con il becher nel pomeriggio.
La sua amica rispose alla
muta domanda di Ellen.
«Ero…
ero andata in bagno» esordì. Tossì e
poi continuò:
«Avevo fatto un incubo, la stanza allagata… Volevo
sciacquarmi il viso e… e
solo allora ho sentito quel rumore.»
“Quel”
rumore. Ellen non aveva bisogno di chiederle
quale, ricordava ancora i passi strascicati e umidi delle quattro zampe
sul
pavimento del laboratorio.
«Non so come abbia
fatto a liberarsi… e a trovare proprio
noi… però mi è venuto
addosso… Ho urlato, e per fortuna la professoressa Baker
e il dottor Fauerbach sono accorsi… Hanno tirato fuori una
pistola, il dottore
ha ucciso la prima creatura, ma ne è arrivata
un’altra…» Deglutì.
«Ce l’avevano con
me, Ellie. Hanno ferito la
professoressa solo per raggiungermi e se non fosse stato per
Fauerbach… si è
gettato fra me e il mostro…»
Ellen lanciò uno
sguardo al medico, con cui la Baker
stava parlando a bassa voce. Altri volti comparvero sulle scale alle
loro
spalle.
«Mi
dispiace…» mormorò Ellen continuando a
osservare
Fauerbach, senza il coraggio di spostare gli occhi sulla sua amica.
«No, no, Ellie,
per fortuna non c’eri… Hai fatto bene a
rimanere in camera, non so cosa avrebbe potuto
farti…»
«Nasconditi,
Ellie. Qui non ti troverà. Resta zitta e
aspettami.»
«Mi
dispiace» disse ancora, la voce inudibile sotto il
chiasso degli uomini appena arrivati.
***
Quel pomeriggio cambiarono
nuovamente residenza. Il
decano Miller aveva provato a imporsi, spiegando loro
l’importanza di rimanere
nel Campus, magari adibendo a dormitorio un’ala dismessa del
St Mary, ma poi
Fauerbach aveva parlato, con voce calma e allusiva.
«Sarebbe una
pessima pubblicità per la Miskatonic
University se si venisse a sapere cos’è successo
questa notte.»
I pettegolezzi erano
ciò che preoccupavano Miller, e i
reali resoconti lo spaventavano ancora di più. Fauerbach
aveva sollevato le
labbra in un sorriso cordiale, eppure la sua velata minaccia era stata
recepita: il decano aveva fatto le sue scuse, permettendo loro di
tornare nelle
proprie abitazioni mentre il Faculty & Graduated Residence
veniva
sottoposto al controllo della polizia. Potevano tornare nel Campus il
giorno
seguente, senza fretta, o decidere di abbandonare la ricerca. Crown non
se l’era
fatto dire due volte.
Ellen non si sentiva al
sicuro nel proprio dormitorio,
dopo ciò che era accaduto ai due guardiani del Tyner Science
Lab e al portiere
dell’edificio in cui avevano passato parte della notte:
uccisi e smembrati, si
diceva, ma non aveva voluto accertarsi della veridicità di
tali affermazioni;
così, quando Janet aveva proposto di spostarsi a French
Hill, nella villa in
cui dimorava da circa una settimana, aveva accettato di buon grado.
Anche
Fauerbach e la Baker erano andati con loro. Tutto sommato, i due erano
messi
bene: la ferita della Baker era solo un graffio, medicabile con una
fasciatura
al St Mary, mentre Fauerbach era stato rilasciato
dall’ospedale su sua stessa
richiesta. Non era pericoloso per lui alzarsi dal letto, aveva detto, e
in
quanto medico nessuno aveva osato contraddirlo.
Chateaubriand Manor era una
villa georgiana su tre piani,
di cui uno interrato. Sorgeva al centro del quartiere perbene della
città,
frequentato da persone perbene con
lavori perbene e una
vita… forse non del tutto
perbene, ma di certo alquanto diversa da ciò che era
accaduto loro quella
notte. Janet aveva detto che apparteneva a un uomo di Chiesa, un
Vescovo o
qualcosa del genere, tuttavia il loro ospite non era in casa al
momento; la sua
amica ne giustificò l’assenza imputandola a
un’improvvisa partenza per Salem,
viaggio eseguito in compagnia delle altre due persone da lei nominate
il
pomeriggio precedente.
Sentir citare Salem la fece
rabbrividire di nuovo, ma per
fortuna avrebbe potuto imputarlo al ricordo della nottata o al freddo
pungente
di fine ottobre. Cercò di concentrarsi sulla delusione di
non potere conoscere
i misteriosi amici di Janet.
Almeno aveva incontrato il
maggiordomo. Era un uomo sui
quarantacinque, cinquant’anni, ed Ellen non aveva mai visto
una persona più inglese di lui.
Jeremy – così si chiamava –
indossava la livrea e serviva il tè con le mani guantate di
bianco, eseguendo
manovre studiate per versare la bevanda e trasportare il vassoio
d’argento. Non
parlava, si limitava a poche parole di circostanza, ed Ellen
pensò che sarebbero
potuti andare d’accordo.
Da quando erano
lì, circa mezz’ora, Ellen si era guardata
parecchio attorno, studiando ogni angolo raggiungibile con la vista.
Non c’erano
indizi sul mestiere del padrone di casa, a eccezione di alcuni
crocifissi di
ottima fattura esposti nell’ingresso e nel salotto, dove si
trovavano in quel
momento. Le credenze e le librerie sembravano antiche, almeno di un
secolo
prima, ma erano ben tenute e spolverate. Sopra al camino
c’era un’unica
stonatura, uno spazio troppo vuoto. Janet aveva solo accennato a un
dipinto che
vi sarebbe stato collocato di lì a poco.
Era nervosa, non serviva
conoscerla per capirlo. A un
certo punto si alzò di scatto e si mosse rapida verso la
finestra, scrutando
all’esterno.
«Mi era
sembrato… Niente, mi sono sbagliata.»
«Non credo ci
abbiano seguiti.»
«No, Ellie, mi
riferivo a qualcosa di umano.»
Che strana parola. Fino a
quel momento Ellen l’aveva
utilizzata per distinguere la razza umana dal mondo animale e da quello
vegetale; in un contesto simile, tuttavia, il suo significato assumeva
diverse
sfumature.
Era così assorta
da non accorgersi che la Baker stava
parlando con lei.
«Signorina
Lawlier?» ripeté.
«Scusi?»
«Vi ricordate
delle storie che circolavano quest’estate
sul cane di Armitage?»
Un formicolio alle tempie la
fece tornare alla notte
prima, al pensiero che non era riuscita a cogliere.
«Sì… il tentato furto»
ricordò finalmente.
La Baker annuì.
«Ho sempre pensato si trattasse di
fandonie, ma ora comincio a nutrire dei seri dubbi.»
Lo sguardo interrogativo di
Janet vagò da lei a Ellen.
«Di cosa parlate?»
«Ad
agosto» riprese la Baker, allontanando dalle labbra
la tazza di tè bollente che continuò a tenere tra
le mani per scaldarsi «è
accaduta una circostanza particolare nel Campus. Il dottor Armitage,
responsabile della biblioteca, aveva avvertito la sicurezza a seguito
di un’effrazione
all’ultimo piano della Miskatonic Library. Non so se voi vi
siate mai recata
lì, dottoressa, ma è su quel piano che il dottor
Armitage custodisce i volumi
rari e antichi, libri dal valore troppo alto per potere essere
maneggiati dagli
studenti senza previa autorizzazione. Era dunque credibile la presenza
di un
ladro all’interno dell’ultimo piano della
biblioteca.»
«Lo era meno
quella del cane» rifletté Ellen ad alta
voce, e la Baker annuì concorde.
«In molti ci
ponemmo quella domanda. Se i volumi lì
riposti sono così importanti, per qualche motivo al suo
mastino era consentito
rimanere da solo a farne la guardia? Un cane non è una
persona: ha dei bisogni
fisiologici, per non parlare di ciò che potrebbe fare ai
libri solo per gioco.»
«Forse quei volumi
erano custoditi in teche chiuse a
chiave?» tentennò Janet.
«Fu questa la
risposta di Armitage secondo le dicerie, ma
non la stessa che diede a me quando gli chiesi delucidazioni in maniera
informale, da amica e collega.» La Baker esitò,
mandò giù un sorso di tè e poi
posò la tazza sul piattino. «La verità
è che non c’era alcun cane, perché non
c’era
stato alcun ladro.»
Il silenzio sceso fu
interrotto solo da Janet. «Non
capisco… perché allora erano circolate quelle
voci?»
«Da qualche tempo,
il dottor Armitage riceveva lettere e
visite di un uomo di cui non aveva stima. Qualcuno se ne accorse, e
decise di
mettere in piedi un teatrino per raccontare l’incredibile
tentativo di furto
nella Miskatonic Library. Secondo Armitage, niente di simile era mai
accaduto.
E fino a questa notte credevo fosse la verità.»
«Perdonami,
Mary» si inserì Fauerbach, seduto sulla
poltrona di fronte alla sua, mentre Ellen e Janet si dividevano il
divano.
Teneva un braccio poggiato sul fianco destro, come per schermire la
ferita.
«Questo cosa ha a che fare con le creature che ci hanno
attaccato? E perché, se
un tentativo di furto era effettivamente avvenuto, il dottor Armitage
avrebbe
preferito fingere che fosse uno scherzo di cattivo gusto?»
«Per via di quello
che il cane uccise.»
Era stata Ellen a
rispondere, sovrappensiero. Gli sguardi
dei presenti vagarono su di lei, ma la Baker non diede segno di volere
proseguire, preferendo invece riprendere a sorseggiare il suo
tè, così la
ragazza comprese che era arrivato il suo turno.
«Quando la
sicurezza giunse sul posto, trovò qualcosa di
terribile. Non… umano. Non del tutto, perlomeno. Sono
talmente numerose le
storie che ne parlano che non si sa quale si avvicini più
alla verità. Forse
aveva delle menomazioni, forse era un soldato che aveva perso le gambe
in
guerra, e questo spiegherebbe perché si parli del visitatore
di Armitage come
di una persona che faticava a reggersi in piedi. In tutta
onestà, io non l’ho
mai visto.» Prese fiato: non era abituata a parlare tanto a
lungo. «Per questo
motivo, però, pare che abbiano descritto il ladro come un
essere in parte umano
– la parte superiore del corpo, dal busto alla testa
– e in parte… animale. C’è
chi parla di tentacoli, chi di zampe caprine, chi ancora di zoccoli da
cavallo.»
«Per mettere a
tacere le voci» proseguì per lei la Baker
«dovettero fingere che il tentato furto non fosse mai
avvenuto. Era più
semplice negare che dare spiegazioni, e ben presto si smisero di
conoscere i
nomi delle due guardie che avevano trovato il corpo, poi si mise in
dubbio l’esistenza
del mastino.»
«“Ciò
che è noto racchiude in sé meno terrore di
ciò che
è soltanto sussurrato e fantasticato”»
citò Ellen.
«Il
segugio dei Baskerville» sottolineò
Fauerbach.
«Mastino,
segugio… fa lo stesso.»
«Dunque credete
che a rubare i libri…?» cominciò Janet,
ma la Baker la interruppe.
«No, non penso
fosse la stessa creatura. Credo però che
questo ci spinga a mettere in dubbio quanto appreso finora.»
«“Es
gibt Dinge zwischen Himmel und Erde, Horatio, von
denen sich eure Schulweisheit nichts träumen
läßt”» disse
Fauerbach,
aprendo il suo portasigarette d’argento.
«“Ci
sono più cose in cielo
e in terra, Orazio, di quante tu ne possa
sognare nella tua
filosofia”» tradusse Janet. Si scambiarono un
sorriso. «Non vi ho ancora
ringraziato per avermi salvato la vita, dottor Fauerbach.»
«Chiamatemi
Michael, dottoressa Holmes. Non siate come la
professoressa Baker, che ha impiegato dieci giorni per farlo.»
Sebbene la mente di Ellen
fosse ormai persa nel ricordo
di quell’agosto, pronta a esaminare ogni dettaglio che poteva
esserle sfuggito
al tempo, riuscì comunque a cogliere quel particolare.
Fauerbach era il solo
membro dell’equipe a chiamare le donne
“dottoressa” e “professoressa”.
Forse in
Europa avevano una maggiore stima delle donne, o forse, semplicemente,
lui non
era un pezzo di merda come Miller e Crown.
L’ingresso di
Jeremy la fece concentrare su tutt’altro:
il maggiordomo posò sul tavolino una torta al cioccolato
già divisa in fette
grosse quanto le mani di Ellen, i cui occhi si illuminarono mentre
fiondava le
suddette mani sulla glassa perfetta e lucida. Un formicolio diverso la
distrasse per un momento, questa volta posizionato sulla zona della
nuca, e
voltandosi si accorse che Fauerbach la stava fissando divertito.
Ti risparmio solo
perché hai salvato la vita a Janet.
Adesso però ogni
suo pensiero era rivolto all’uomo che
fumava alla sua sinistra, le gambe accavallate, la schiena ben dritta
sulla
poltrona.
Quella notte, il dottor
Fauerbach era accorso insieme
alla professoressa Baker per aiutare Janet. C’era un piano di
distanza tra le
loro stanze, eppure aveva sentito l’urlo di Janet e si era
precipitato.
Nonostante il freddo, inoltre, dormiva a petto nudo.
Lo sguardo le cadde sulla
Baker, e ora alcuni elementi
cominciarono a legarsi fra loro. I due si conoscevano già,
lei aveva impiegato
dieci giorni per chiamarlo per nome, e il modo in cui Miller aveva
giustificato
alla professoressa la presenza di Ellen… Non era certa se i
due avessero una
relazione, ma un dettaglio era chiaro: come Janet con lei, era stato
Fauerbach
a esigere la presenza della Baker nell’equipe.
Sentì torcersi lo
stomaco. Detestava la Baker, ma non la
disprezzava, a differenza dei suoi colleghi, perfino del suo stesso
decano. Era
una donna intelligente e testarda, che si era fatta strada
probabilmente a
fatica per diventare la prima docente di sesso femminile
all’interno della
Miskatonic University, e dopo tutto quel lavoro ancora stentavano a
prenderla
sul serio. La chiamavano “signorina”, denigrando
tutto il suo impegno, e la
tenevano in considerazione come ultima risorsa, seconda perfino a un
vecchio
viscido e rivoltante come Crown. C’erano uomini divenuti
insegnanti per il buon
nome della propria famiglia, e c’erano donne che dovevano
studiare il triplo
anche solo per sperare di avere una possibilità nella vita.
Era quello ciò che
la aspettava?
Persa in quelle deprimenti
riflessioni, non si accorse
del rumore di freni all’esterno. Janet saltò in
piedi e corse alla finestra,
sorridendo sollevata.
«Sono
tornati.»
Si diresse
verso la porta senza neanche procurarsi un
cappotto, la spalancò e proseguì veloce lungo il
vialetto. Ellen scrutò dal
vetro della finestra, curiosa di scoprire chi fossero gli amici di
Janet e
quale aspetto avesse il loro venerabile ospite. Sussultò
quando la portiera si
aprì e una ragazza cadde tra le braccia di Janet, urlando di
una disperazione
che le tolse il fiato.
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Capitolo 4 *** Capitolo IV ***
Capitolo
IV
La pendola suonò
le sei. Ellen teneva tra le mani la
tazza di tè vuota da tempo solo per avere qualcosa da fare.
Avvertiva il freddo
della ceramica contro la pelle, e stava riflettendo se abbandonarla di
nuovo
per mettere l’ennesimo ciocco nel camino. In una situazione
diversa, avrebbe
approfittato dell’attesa per esplorare la libreria alla sua
destra, scegliere
un libro e sfogliare le sue pagine; in quel momento, tuttavia, le
domande si
rincorrevano nella sua testa, aggredendosi per essere le prime a
sperare in una
risposta. Ellen avrebbe voluto fare da paciere, ma era impossibile,
perché non
aveva idea di cosa stesse accadendo intorno a lei.
Fece il punto della
situazione. Quando l’auto si era
fermata di fronte al cancello, ne era uscita una ragazzina in lacrime,
che si
era subito gettata tra le braccia di Janet in cerca di conforto; pochi
istanti
dopo, a scendere dal lato passeggero era stato un uomo, poi la macchina
era
ripartita.
Uno.
Due.
I conti non tornavano, e a
sostegno della tesi di Ellen – Due
persone, una di loro piange –
il secondo arrivato aveva guardato
Janet e scosso mestamente il capo.
Janet e la ragazzina era
salite al piano superiore, da
dove per diverso tempo Ellen aveva udito pianti, grida, disperazione.
Immaginava l’archeologa cullare l’amica,
confortarla e ascoltare quanto era
avvenuto a Salem.
Nel frattempo,
l’uomo che era con lei e Jeremy si erano
chiusi in cucina. Il maggiordomo le era parso profondamente turbato
quando,
come Ellen, aveva intuito il motivo delle lacrime della ragazzina; non
si era
più fatto vedere, e lei li immaginava davanti a una
bottiglia di whiskey ben
nascosta, forse messa da parte per le grandi occasioni.
Dal canto loro, Fauerbach e
la Baker avevano compreso di
essere di troppo e avevano lasciato la villa, diretti verso casa della
professoressa. Ellen, invece, aveva preferito l’imbarazzo al
pericolo: Janet si
era offerta di ospitarli per la notte, e forse per gli altri due il
programma
era cambiato, probabilmente lei stessa sarebbe dovuta tornare
all’Upman Hall e
lasciare il gruppo al proprio dolore, ma finché non le
sarebbe stato detto di
andarsene lei sarebbe rimasta. Le dispiaceva essere di troppo, per
questo
rimaneva in disparte fingendo di non esistere, ma non aveva intenzione
di
tornare al Campus.
Quando il pendolo
suonò le sei e un quarto, la ceramica
della tazza era congelata. Ellen si chinò per riporla sul
tavolino basso, e in
quel momento la porta del salotto si aprì.
«Ah, sei ancora
qui.»
Non c’era
rimprovero nel tono di Janet. Si lasciò cadere
sul divano, accanto a lei, e dietro le lenti Ellen notò gli
occhi arrossati.
«Come
sta?»
Non le interessava davvero,
ma davanti alla disperazione
evidente della ragazzina le sembra fuori luogo chiedere a Janet come
stesse lei.
«Si è
addormentata, credo. Era sfinita.» L’archeologa si
massaggiò le tempie e sospirò.
«Immagino… Avrai delle domande.»
Ellen annuì.
“Quando sei
pronta”, avrebbe voluto aggiungere, ma la
curiosità la stava divorando.
«Sì,
penso sia arrivato il momento. Mi aiuterà a… a
non
pensare… A Salem, almeno.» Janet fece un profondo
respiro, poi cominciò.
***
Tutto è iniziato
il quindici ottobre a Boston. Ero stata
invitata a una festa a casa del senatore Butler, con cui i miei
genitori sono
molto amici, nonostante le loro visioni differenti. Arthur è
un brav’uomo, lo
conosco da quando ero una bambina, e dopo la perdita della moglie si
è
impegnato per crescere da solo la figlia Lilyan. Con lei abbiamo sette
anni di
differenza, quindi la nostra amicizia è nata da poco, ma
è un cara ragazza,
tanto affezionata al padre. Stavo parlando con lei quando nella sala da
ballo
siamo state raggiunte dall’Arcivescovo Giraud Des
Chateaubriand, di cui non
avevo ancora avuto il piacere di fare la conoscenza. Lilyan era
felicissima di
vedere il suo padrino, siamo andati ad annunciare al padre il suo
arrivo, e da
lì ha avuto inizio tutto quanto.
Il senatore Butler era
immerso in una conversazione
privata con il detective Alexander Blake, che conoscevo soltanto di
vista.
Alexander era profondamente turbato, e Arthur ha pensato che la
presenza del
Monsignore potesse confortarlo, e dal momento che Lilyan insisteva per
rimanere
con loro abbiamo ascoltato tutto.
Quella mattina, Alexander
aveva ricevuto una telefonata
dal notaio Nichols, che rappresenta lo studio Hicksley,
Forder & Williams
di Arkham. Nichols gli aveva comunicato la morte di uno zio, con
l’eredità che
ne derivava in quanto nominato nel testamento stesso. Alexander aveva
esitato,
non conoscendo il Silas McCrindle di cui il notaio gli stava parlando,
e solo
confrontandosi con sua madre aveva scoperto la verità: era
stato adottato.
Aveva poco più di
quattro anni all’epoca, logicamente non
ricordava della famiglia biologica, ma un giorno Silas si era
presentato alla
porta dei Blake, amici di lunga data, e aveva affidato loro il bambino.
I suoi
genitori erano morti, questo era tutto ciò che la signora
Blake sapeva.
Lo stato di Alexander era
pessimo quella sera. Non era
solo un collaboratore di Arthur, erano diventati molto amici con il
passare del
tempo, e aveva pensato di confidarsi con lui su come agire. Se avesse
seguito l’istinto,
avrebbe voltato le spalle all’eredità, ma sua
madre insisteva che si recasse ad
Arkham per capire cosa fosse accaduto allo zio, e a quel punto
l’Arcivescovo
era intervenuto. Credeva che fosse opportuno per Alexander chiudere con
il
passato, se davvero lo desiderava, ma senza rimpianti, quindi si
offrì di
ospitarlo nella sua villa di Arkham. Lilyan insistette per andare con
loro e
dato che anche io dovevo recarmi alla Miskatonic University ho
rassicurato
Arthur, sostenendo che sarei stata una compagna di viaggio per la
figlia. Era
la prima volta che viaggiava senza il padre e soltanto questo lo
convinse a
lasciarla andare. Se avessi saputo cosa ci aspettava, avrei trovato una
scusa
per impedirle di seguirci.
Siamo partiti il giorno
seguente, e nel giro di trentasei
ore Alexander aveva parlato con il notaio, scoperto che lo zio era
deceduto
cadendo dalle scale e visionato la casa che, insieme a una cospicua
somma di
denaro, aveva ricevuto in eredità. Non era messa in buone
condizioni. Silas
McCrindle viveva in eremitaggio, senza ricevere ospiti e facendosi
recapitare
la spesa a domicilio, a eccezione di rare uscite in città.
All’interno dell’abitazione
abbiamo trovato di tutto, dal cibo ammuffito ai ratti morti…
Alexander però era
determinato: mentre l’Arcivescovo svolgeva le sue faccende,
Lilyan girava i
negozi e i teatri di Arkham e io facevo delle sortite in
università, lui si è
dedicato a sistemare la casa per rivenderla o farla buttare
giù. Voleva vedere
se ci fosse qualcosa di utile, e anche se non l’ha mai detto
chiaramente
pensavamo tutti che fosse alla ricerca di dettagli sulla famiglia
biologica.
Forse voleva capire suo zio, o cosa fosse accaduto ai genitori, o quale
fosse
la sua città di origine. Mi sono offerta io stessa di dargli
una mano, e ha
accettato volentieri. Dopo tre giorni di lavoro, abbiamo organizzato un
mercatino in giardino, per dare via tutti gli oggetti in buono stato.
Per
fortuna, infatti, alcune stanze tra cui la camera da letto e lo studio
erano
intatte, soltanto molto impolverate e caotiche.
Un uomo, in particolare, si
è mostrato interessato agli
oggetti in vendita. Era una persona distinta, un librario, che mi ha
detto di
chiamarsi Jefferson Masters e di avere un negozio nella Downtown. Ha
comprato
parecchi volumi per rivenderli, e altri per collezionarli. Sosteneva di
avere
circa diecimila libri in casa, tra cui la copia originale di Ventimila
leghe sotto i mari.
Non la prima edizione: il manoscritto stesso di Verne. È per
questo che mi sono
ricordata di lui quando, il giorno successivo, il notaio Nichols si
è
precipitato alla vecchia casa di Silas.
Si è profuso in
mille scuse con Alexander. A quanto pare,
al testamento era allegata una lettera a cui nessuno nello studio aveva
fatto
caso. Alexander l’ha letta subito, pensando che ci fossero
finalmente
delucidazioni sul suo passato, ma alla fine della lettura era
sconvolto. Ho
provato a chiedergli il motivo, credevo avesse appreso qualcosa di
terribile
sulla morte dei genitori, invece mi ha risposto che suo zio era un
vecchio
pazzo con manie di persecuzione, e che gli aveva dato delle istruzioni
da
seguire. Ancora una volta, Alexander era combattuto tra lasciarsi tutto
alle
spalle oppure completare prima ogni incombenza.
Ho con me la lettera, ho
chiesto ad Alexander di
potertela mostrare. Te la leggo.
“Caro nipote,
da quando eri un ragazzino
ti ho protetto dalla verità;
tuttavia è arrivato il tempo in cui la tua sola protezione
può essere la
verità… Quindi senza procrastinare oltre giungo
al punto.
Oltre venti anni fa una
terribile tragedia ha colpito la
tua famiglia naturale – i McCrindle di Greenville, nel Maine.
Tuo padre, Owen,
era una persona straordinaria, per questo era divenuto il Guardiano di
alcuni
libri, ma è stato sfidato da nostro fratello Darcus
– un uomo malvagio, perfido
– corrotto dalla brama incontenibile di ottenere quei libri
per sé. Nella cieca
ambizione di raggiungere il suo scopo ha tradito la fiducia di Owen e
massacrato la tua famiglia. Avrebbe ucciso anche te, per questo ti ho
mandato
lontano – molto, molto lontano da lui, affidandoti a una
famiglia che ti
avrebbe cresciuto come se fossi stato il loro vero figlio. Ma non eri
il solo
che volessi proteggere… c’erano anche i libri. Li
ho presi e sono scivolato
nell’ombra qui ad Arkham divenendo un eremita. Un vecchio
pazzo, secondo quel
che ho sentito dire.
Per seicento anni la nostra
famiglia è stata custode
della tradizione: quattro libri di un’incredibile conoscenza
arcana che possono
portare al declino dell’umanità. Questi libri sono
nell’attico.
Il primo libro è
in pelle nera e ha uno stampo profondo.
Il tomo contiene diverse centinaia di pagine spesse come un papiro.
Il secondo libro
è verde e il suo titolo, Monstres
and their Kynde, è scritto in lettere
dorate. Alcune porzioni sono
state significativamente rovinate dai topi.
Il terzo libro è
marrone e privo di titolo, anche se
secondo alcune pagine dovrebbe essere Cthaat
Aqaudingen. È composto da duecento pagine ed
è datato, ma mancano autore e
tipografia.
Il quarto libro è
il più misterioso poiché è scritto a
mano in un linguaggio non appartenente a questo pianeta. I simboli non
possono
essere tradotti, ma tutto suggerisce che si tratti di un codice.
Inoltre, ho conosciuto un
uomo di nome Jefferson Master
in un pub e abbiamo iniziato a parlare – è stato
un errore… mi sta tormentando
da settimane, prima per consultare e poi per acquistare i libri.
Sebbene lui
non mi spaventi, temo che possa fare qualcosa nel tentativo di ottenere
i
quattro volumi. Per questo motivo ti sto scrivendo questa lettera, nel
caso che
i suoi tentativi si spingano troppo oltre.
Adesso che sei tu il
guardiano non devi mai rivelare
l’esistenza dei libri, al
contrario di quanto sfortunatamente abbia fatto io. Il nostro nemico
è potente.
Non fermarti mai. Non cedere… Resta sempre in guardia. Per
il bene dell’intero
genere umano ti prego dalla tomba di proteggere questi libri e di non
venderli
mai.”
Alexander era arrabbiato, e
potevo capire il suo stato d’animo:
quello che c’era scritto nella lettera sembrava il delirio di
un uomo preda
della follia, rimasto solo troppo a lungo, ma verso la fine della
lettura mi
sono ricreduta. Silas parlava di Jefferson Masters, e questo non poteva
essere
un caso. Lo stesso Masters aveva acquistato dei libri, il suo mestiere
ne
giustificava l’interesse, ma glieli avevo venduti io stessa e
ricordavo come
fosse stato felice di ottenere proprio quattro tomi messi in pessime
condizioni. Sul momento avevo creduto potessero avere un valore
altissimo per
un collezionista, ma dopo la lettera ho ricordato un particolare. I
quattro
libri, secondo Silas, erano nel solaio; non ricordo se li avessi
trovati lì, ma
soltanto che Alexander non era riuscito a salire. Diceva di sentirsi
poco bene,
la testa gli girava e non si sentiva sicuro sulla scala traballante.
Anche
durante il mercatino si è tenuto a distanza, chiuso in casa
a sistemare le
stanze rimanenti. In altre parole, era stato inconsapevolmente alla
larga dai
libri.
Esistono molti miti nelle
culture di ogni civiltà, e
alcuni riguardano proprio dei libri “maledetti”.
Non credevo che i volumi
custoditi prima dal padre e poi dallo zio di Alexander fossero
pericolosi, e
non sono ancora sicura di crederci, ma ricordavo le parole
dell’Arcivescovo:
Alexander doveva chiudere con il passato senza rimpianti.
L’ho convinto allora
a recarsi allo Ye Olde Booke Shoppe, la libreria di
Masters, e anche il
nostro ospite e Lilyan si sono detti d’accordo.
Così, quello stesso pomeriggio
ci siamo recati al negozio, ma l’assistente di Masters ci ha
detto che il
proprietario era fuori città, a Salem. Abbiamo chiesto
informazioni sui libri
acquistati da Masters, però lui non ne sapeva niente.
Stavamo per andarcene
quando Alexander è passato di fronte al retrobottega e ha
avvertito una fitta
alla testa.
Più tardi, qui
nella villa, abbiamo provato a farlo
ragionare. Saremmo partiti per Salem il giorno seguente e avremmo
chiesto
direttamente a Masters, ma Alexander era determinato ad arrivare in
fondo alla
faccenda. Era convinto, infatti, che i libri fossero nel retrobottega.
Non
siamo riusciti a fargli cambiare idea, quindi io, lui e Lilyan ci siamo
fatti
accompagnare da Jeremy nella Downtown, di nascosto
dall’Arcivescovo, che di
certo non avrebbe approvato ciò che Alexander aveva in
mente. È riuscito a
disattivare l’allarme appena in tempo e, utilizzando il
dolore alle tempie come
una sorta di mappa, ha recuperato due di quei libri. Stando a quanto
scritto
nella lettera di Silas, dovrebbero essere il secondo, Monstres
and their Kynde, e il
quarto, il volume scritto in un alfabeto sconosciuto.
È stato allora,
mentre tornavamo all’auto, che Jeremy ci
ha avvertiti della carcassa. Abbiamo atteso la mattina per avvertire la
polizia, in modo da non essere ricollegati all’effrazione. A
quel punto, consci
che non servisse andare tutti a Salem, abbiamo deciso che io sarei
rimasta ad
Arkham a indagare sulla creatura, pur immaginando che non avesse a che
fare con
i quattro libri. Alexander, Lilyan e l’Arcivescovo Giraud
sono invece partiti
per Salem.
Il resto lo sai…
fino a un certo punto.
***
«Fino a un certo
punto?»
La domanda di Ellen giunse
dopo il silenzio che era
calato tra loro. Janet aveva raccontato quasi senza interrompersi,
facendo solo
un paio di pause per schiarire la gola, ma poi si era fermata e
l’aveva
soppesata con uno sguardo strano, indecifrabile. Sospirando, Janet
mostrò la
borsa che aveva con sé, e di cui Ellen fino a quel momento
non si era accorta.
La aprì e le porse il contenuto.
«Sono
questi?» domandò incredula, passando le dita sulle
fragili copertine dei due tomi misteriosi.
Janet non rispose, ma
esitò ancora prima di aggiungere:
«Credevo che Alexander si stesse autoconvincendo dei mal di
testa. Credevo che io mi
stessi autoconvincendo di vedere un
uomo spiarci dalla strada. Credevo che Silas McCrindle fosse solo un
invasato.
Poi abbiamo trovato la carcassa, ci siamo divisi e… e non
volevo lasciare i
libri in casa. Da una parte temevo che la polizia avrebbe potuto
ricondurre
alla nostra presenza nella Downtown l’effrazione allo Ye
Olde Booke Shoppe,
e non volevo mettere l’Arcivescovo Giraud nei guai facendo
rinvenire nella sua
villa i volumi trafugati. Dall’altra parte… avevo
un dubbio, e ce l’ho ancora.»
Sollevò lo sguardo e lo puntò su quello di Ellen.
Era risoluta, come se volesse
che la sua amica le credesse. «La data riportata sulla
lettera rivela che l’incidente
in cui è morto Silas è avvenuto poco tempo dopo
la sua stesura. Ho iniziato a
credere che non sia stata una semplice caduta. La casa è
vecchia, ma i gradini
sono solidi e Silas non era così anziano, aveva meno di
cinquant’anni. Forse…
forse qualcuno ha tentato di irrompere nella sua abitazione per rubare
i libri,
e lui ci è andato di mezzo.»
«Se pensi a
Masters, perché sarebbe dovuto tornare solo
giorni dopo? E per quale motivo vi avrebbe detto il suo nome?»
Si strinse nelle spalle e
scrollò la testa. «Forse al
momento non li aveva trovati, o era andato nel panico, e quando ha
visto il
mercatino ha pensato che fossimo… non so…
volontari del comune o della chiesa,
e che stessimo sgombrando l’area. Forse non credeva che Silas
avesse dei
parenti, visto lo stato in cui viveva.»
La tesi di Janet aveva un
senso, pensò Ellen, che se non
avesse visto lei stessa dei mostri girare per il Campus avrebbe pensato
che la
sua amica stesse impazzendo come Silas McCrindle. Quel ricordo le
accese un
campanello nella testa.
«Vuoi dirmi
che… i libri sono stati sempre con te?»
Janet annuì piano.
«Anche ieri, nel
laboratorio? Anche stanotte?»
«Anche ieri e
anche stanotte» confermò. «Potrebbero
essere coincidenze – la morte del Guardiano dei libri e
l’avvistamento della carcassa
– però… Quando stanotte le due creature
sono entrate nel dormitorio, credevo
avessero seguito l’odore del mio sangue. Sai, il taglio che
mi ero fatta con il
becher. Tuttavia…»
«Potrebbero avere
seguito i libri» concluse Ellen.
«Proprio come il mostro dilaniato nella Miskatonic
Library.»
«Non so se
Armitage tenga volumi simili in biblioteca,
non so nemmeno se le zampe di quei… cosi…
avrebbero potuto trasportare un libro, in realtà ne
dubito… però questa è
l’unica
spiegazione che mi viene in mente. Non è possibile che si
tratti soltanto di
coincidenze o di autosuggestione.»
C’era un
particolare che a Ellen premeva chiarire. «Ma…
domenica avete tenuto i libri qui? E nessuno li ha toccati?»
«Ellie,
sarò sincera: la mia è solo un’ipotesi,
forse
quelle creature non c’entravano niente con Silas e con i
libri, altrimenti
avrebbero attaccato la libreria. Masters li ha tenuti per almeno due
giorni.»
Si rigirò i
volumi fra le mani, ma Janet non sembrava
interessata ad averli indietro. Per quanto la prospettiva di attirare
altri
esseri mostruosi la spaventasse, la curiosità di sapere
più di quei libri la
stava divorando.
«Posso rimanere
qui stanotte? So che la situazione è
tesa, ma…»
«Certo, rimani
pure. Ti lascio la mia stanza, dormirò con
Lilyan, ha bisogno di compagnia. Ora scusami, vado a cercare Jeremy,
credo che
qualcosa di caldo sia ciò che serve a tutti
quanti…»
Mentre si alzava, Ellen le
pose la domanda fatidica:
«Janet… cos’è successo a
Salem?»
Vide la sua schiena
irrigidirsi. Le rispose senza voltarsi.
«Non lo so. Lilyan mi ha detto soltanto che…
l’Arcivescovo è morto.»
Esitò.
«Aspetterò che siano pronti a parlarne.»
«Lo capisco.
Grazie e… grazie, davvero.»
Janet era uscita da pochi
secondi quando un’altra persona
fece il suo ingresso nel salotto. Ellen alzò lo sguardo,
credendo che fosse Jeremy,
ma riconobbe Fauerbach. Non credeva sarebbe tornato.
«È una
storia interessante» esordì l’uomo,
rimanendo in
piedi.
Ellen si
accigliò. «Avete origliato?»
«Sì.»
Non c’era imbarazzo nella sua risposta. «Sono
arrivato qui nel bel mezzo della vostra chiacchierata, e non ho avuto
cuore di
interrompervi. Sono quelli i libri?»
Con un cenno del capo,
Fauerbach indicò i due volumi che
Ellen teneva in grembo; lei aggrottò ancora di
più la fronte.
«Non voglio
leggerli, era solo curiosità. A quanto pare
non si limita tutto alla carcassa…»
Sospirò, lo sguardo perso nel vuoto. «Ho
sentito che voi rimarrete qui questa notte.»
Ellen annuì piano.
«Chiederò
alla dottoressa Holmes di potere fare
altrettanto. Mary si è offerta di ospitarmi, dato che non
posso andare al
dormitorio, ma il mio istinto mi ha suggerito di tornare indietro. Se
quei
mostri sono alla ricerca dei libri, Mary è al sicuro. Voi
no.»
«Siete quasi
morto, stanotte. Come potreste esserci
utile?»
Fauerbach sorrise.
«Un medico è sempre utile, ragazzina.»
Infastidita, Ellen si
alzò e lasciò la stanza, portandosi
dietro i due libri. Per l’ennesima volta, avvertì
lo sguardo di Fauerbach su di
sé.
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Capitolo 5 *** Capitolo V ***
Capitolo
V
Ellen trascorse i due giorni
seguenti facendo la spola
tra il Tyner Science Lab, riaperto su insistenza dell’equipe,
e Chateaubriand
Manor – che presto, pensava, avrebbe dovuto scegliere un
altro nome. Fauerbach
era sempre con lei, mentre Janet si divideva tra le ricerche sulle
ormai tre
carcasse e la cura di Lilyan Butler, la ragazzina che si disperava
ancora per
la morte dell’Arcivescovo Giraud. Era stato durante le loro
passeggiate
mattutine tra French Hill e il campus, quando erano in tre, che Janet
aveva
descritto meglio i suoi amici, narrandone in parte la storia personale.
Lilyan era una ventenne di
Boston, figlia del senatore
repubblicano Arthur W. Butler. Sua madre era deceduta durante
l’infanzia della
figlia, e il padre si era fatto in quattro per consentirle di soffrire
quel
dolore il meno possibile. Janet la conosceva da quando Lilyan gattonava
sul
portico della loro villa coloniale di due piani, ma quei sette anni di
differenza tra loro erano sempre pesati parecchio; la futura archeologa
l’aveva
tenuta in braccio, ci aveva giocato pazientemente quando Lilyan le
aveva
mostrato le prime bambole, ne aveva ammirato la bellezza quando era
entrata
nell’adolescenza, ma non erano mai state amiche prima di
allora; Janet le aveva
portato souvenir dai suoi viaggi, senza discutere del lavoro compiuto
durante
le spedizioni come invece faceva con Ellen, conosciuta già
adulta, tuttavia la
solare e vivace Lilyan le aveva detto tutto sul suo sogno di diventare
un’attrice
teatrale. La piccola ereditiera sapeva cantare, recitare e suonare il
piano a
tredici anni, ma non le bastava trovare un marito ricco e bello come
aveva
fatto sua madre: lei desiderava emergere e brillare, anche se Ellen, a
differenza probabilmente della sempre ottimista Janet, credeva che lo
avrebbe
fatto solo per il buon nome del padre.
L’Arcivescovo
Giraud Des Chateaubriand era stato il suo
padrino. Amico del padre dal tempo del collegio in Francia, il loro
legame si
era rinsaldato quando i voti lo avevano portato negli Stati Uniti. Da
quel che
Janet aveva potuto vedere in quella settimana insieme, Lilyan stravedeva per il
padrino, tanto che l’archeologa
si era chiesta chi tra lui e suo padre sarebbe prevalso nel suo cuore.
Ormai non avrebbe
più dovuto scegliere.
Lilyan passava le mattine
nel proprio letto, e questo non
aveva permesso a Ellen di scoprire come fosse effettivamente fatta.
L’aveva
osservata solo durante il suo ritorno da Salem, intravedendo occhi
verdi e
arrossati in un volto delicato, incorniciato da lunghi riccioli neri,
ma niente
di più. La ricordava esile, però non era certa
che ciò fosse dovuto alla sua
corporatura o al dolore che la rendeva minuta, impotente. Sapeva bene
che il
senso di vuoto e perdita poteva avere quell’effetto.
Janet non le aveva accennato
della loro permanenza,
perlomeno non in presenza degli ospiti; l’aveva fatto invece
con Alexander, e
lui aveva annuito mestamente. D’altronde, chi poteva ormai
dirsi proprietario
di quella casa? Forse avrebbero dovuto chiedere al maggiordomo di poter
restare
per i giorni seguenti?
Jeremy si era ripreso in
fretta, indossando la maschera
di efficiente maggiordomo inglese già dal giorno successivo
alla morte del suo
padrone. Probabilmente si proteggeva così, concentrandosi
sui propri compiti di
domestico tuttofare e rimandando alla notte i pensieri funesti. Era
assurdo:
non aveva più un datore di lavoro, eppure continuava a
prendersi cura dei suoi
ospiti.
Il detective Alexander
Blake, o McCrindle, al contrario
appariva parecchio turbato. Ellen aveva appreso da Janet altri
particolari
circa la sua indesiderata eredità, tuttavia il suo sguardo
aveva una miriade di
significati, tra i quali predominavano ostinazione, stanchezza e senso
di
colpa. Janet non sapeva ancora cosa fosse accaduto
all’Arcivescovo, ma nessuno
di loro sarebbe andato a Salem se non fosse stato per
l’eredità di Silas
McCrindle, e questo doveva pesare sulle spalle del detective. Lo aveva
visto muoversi
costantemente, uscendo di giorno e di notte per cercare di capire dove
si
trovasse Jefferson Masters, il possessore degli ultimi due libri, e il
primo
pomeriggio si era addirittura recato in università con loro,
per prendere in
prestito dei volumi alla Miskatonic Library. Ellen aveva
però fatto caso a un
particolare: non lasciava mai sola Lilyan, e anche nel caso di quella
singola
uscita si era mosso in fretta. Con lei c’erano Janet e
Jeremy, ma se ciò che
leggeva Ellen nei suoi occhi erano davvero rammarico e rimpianto
comprendeva
perché volesse essere lui a starle accanto. Si era tuttavia
accorta che il
detective non aveva mai provato, almeno in sua presenza, a bussare alla
camera
che Lilyan divideva con Janet. Al momento, pur conoscendolo appena e
non
sapendo cosa fosse accaduto al Monsignore, Ellen percepiva Alexander
Blake come
la persona più simile a lei, perlomeno nelle emozioni che
sembrava provare.
Durante il tragitto verso il
campus, Fauerbach aveva
tentato di porgli qualche domanda. Il detective aveva risposto a
malapena, ma l’aveva
fatto. Con Janet era stato più facile parlare: a ogni
domanda di Fauerbach
seguiva un lungo resoconto sulla sua vita e sul suo passato, e anche il
medico
era stato ampio di parole. Ellen ascoltava in silenzio, apprendendo
tutto ciò
che udiva, come il fatto che Fauerbach fosse austriaco e che
esercitasse a
Salisburgo presso lo studio di suo zio, oppure che aveva spesso
collaborato con
la Miskatonic University sia per il St Mary che per le spedizioni
all’estero.
Si teneva comunque sul pubblico, non accennando al proprio passato e
alla
famiglia di origine, però Ellen sapeva che era lei a cercare
il marcio in quell’uomo;
infatti, lui stesso aveva chiesto a Janet del suo lavoro e del lavoro
soltanto,
ed era stata lei ad ampliare il discorso descrivendo le persone che
aveva
accanto da oltre dieci giorni a quella parte.
Con suo enorme sollievo,
ogni volta che dal pranzo a
Chateaubriand Manor rientravano in due al campus, Fauerbach rimaneva in
silenzio. Ogni tanto accennava agli esami da effettuare nel pomeriggio
insieme
alla professoressa Baker, che li attendeva nel laboratorio, ma nulla di
più. La
sua compagnia non era detestabile quanto Ellen aveva immaginato e
temuto.
***
Quel pomeriggio, quando
rientrarono nel Tyner Science
Lab, la scena che si palesò di fronte ai loro occhi
sconvolse Ellen più di
tutto quello che era accaduto nell’edificio negli ultimi
giorni. C’era un via
vai di gente che non conosceva e che trasportava scatoloni, risme di
fogli
compilati, materiale in provette; per un folle attimo Ellen credette
che Miller
si fosse deciso ad affidare il caso ad altri ricercatori oltre a loro,
in modo
da giungere il prima possibile alla scoperta del secolo, ma si dovette
ricredere ben presto: le bastò un cenno di Fauerbach in
direzione dell’uomo in
fondo al corridoio.
Non serviva la divisa per
riconoscere chi rappresentava:
era in piedi, spalle dritte, mani intrecciate dietro la schiena, lo
sguardo che
guizzava da un uomo all’altro, da chi usciva a chi rientrava.
L’esercito.
Avrebbe voluto chiedere a
Fauerbach cosa pensava potesse
farci l’esercito nella Miskatonic University, ma prima che
aprisse bocca un
voce indignata si fece largo tra la folla.
«…non
è possibile, mi oppongo! State portando via il mio
lavoro, chi vi ha autorizzati?!»
Ellen riconobbe la donna che
ora si stagliava di fronte
al soldato, il quale teneva il mento dritto, gli occhi ostinatamente
lontani da
quelli della professoressa Baker. Quando lei notò Ellen e
Fauerbach, lanciò un’imprecazione
e si diresse in fretta verso di loro, trascinandoli in un laboratorio
vuoto.
«È
inconcepibile!»
«Com’è
successo?» chiese Fauerbach.
Ellen non aveva ancora
chiaro ciò che stava accadendo,
mentre l’espressione cupa del medico dimostrava che lui aveva
capito benissimo
e che ciò non gli piaceva per niente.
Dovette poggiare entrambe la
mani sulle spalle della
Baker per convincerla a calmarsi: la professoressa si muoveva avanti e
indietro
per la stanza, sbuffando e lanciando maledizioni al soldato che aveva
finto di
non vederla.
«Mary.»
La Baker trasse un profondo
respiro, poi guardò prima
Fauerbach e poi Ellen. «Ci hanno tolto il caso.»
Ellen sussultò.
«Com’è possibile? Chi…?
L’hanno dato a un
altro docente?»
La risata della Baker fu
tanto amara da ricordarle la
notte nel dormitorio, quando Ellen era uscita allo scoperto al termine
del
combattimento; rispetto ad allora, quella risata pareva perfino
più acre.
«Ha fatto la
stessa fine del cane di Armitage.»
«Cosa…?»
Un lampo di consapevolezza attraversò gli occhi
di Ellen. «Stanno insabbiando tutto?»
«“Il
caso è di proprietà del governo degli Stati Uniti
d’America”»
recitò la Baker, la rabbia che le grattava la gola.
«Stando a loro, i civili
non sono autorizzati a effettuare ricerche di questo tipo. Ma allora
chi
dovrebbe farlo, un coglione in mimetica?»
«Mary, abbassa la
voce» la ammonì Fauerbach.
«Perché?
Ha ragione!» ribatté Ellen, ma il medico scosse
la testa.
«Quello
è un generale dell’esercito, non un soldato
qualunque. Forse non ha conoscenze in campo scientifico… ma
per essere qui ne
ha ben altre.»
«Non mi importa un
cazzo, Michael!» sbottò la Baker.
Sembrava sconvolta. «Non… non stanno portando via
solo le nostre ricerche sulle
carcasse.» Deglutì. «Hanno svuotato il
mio studio.»
Calò un silenzio
carico di significato. Ellen non era mai
stata testimone di un torto simile, non aveva mai assistito a una
riassegnazione di lavoro che non fosse all’interno
dell’ambito universitario,
per questo aveva tardato a comprendere la situazione. Le era
però chiaro il brivido
che per un attimo le era sceso lungo la nuca.
La Baker aveva lavorato sodo
per ottenere una cattedra e
i riconoscimenti dovuti; veniva mandata spesso fuori Arkham per una
serie di
spedizioni che potessero tenerla lontano
dall’università, ed era stata ammessa
nell’equipe di Miller solo per intercessione di un conoscente
esterno alla
Miskatonic. Tutto passava in secondo piano perché era una
donna, ma in quel
momento non si trattava di una questione di genere. Lo capì
dallo sguardo che
intercorse tra lei e Fauerbach.
«Il lavoro di una
vita…» esalò la Baker lasciandosi
cadere su una sedia, le mani davanti al viso. «Dopo essere
stata in mensa sono
passata nel mio ufficio, e lì ho trovato… Era
tutto vuoto: cassetti aperti,
schedario all'aria, tutti i miei appunti erano scomparsi. Ho avuto un
presentimento e sono venuta qui… e li ho visti.»
Adesso Ellen capiva
perché i militari stessero portando
via intere risme di fogli, sebbene ne avessero compilati ben meno:
provenivano
dall’ufficio della Baker, e forse se li erano portati dietro
per unirli ai loro
appunti.
«Sono stati anche
nella vostra stanza» disse d’un tratto
la Baker, rivolta a Ellen.
«Cosa?»
«Me lo ha detto
Peaslee. Cercava la dottoressa Holmes,
voleva sapere dove fosse… Sapeva che vi è vietato
portare documenti riservati
fuori dal Campus, e non sa dove state abitando al momento,
così ha ipotizzato
che ci fosse qualcosa nelle camere in cui avete dormito. Il Faculty
&
Graduated era già stato scandagliato con la scusa
dell’attacco di qualche notte
fa, non potevamo sapere cosa stessero davvero cercando, ma Peaslee ha
fatto due
più due e ha chiesto ad alcune studentesse. Sono state ben
lieti di raccontare
che la stanza di una collega era stata messa sottosopra durante il
pranzo.»
«Non avevo
niente…» mormorò Ellen.
«Già,
perché ci siamo fidati di loro. Abbiamo lasciato davvero tutto
nel laboratorio, e loro ce lo
hanno requisito.» Sospirò. «Temo che non
troverà nemmeno il suo materiale di
studio.»
«No, quello me lo
sono portato dietro» minimizzò Ellen.
Era sinceramente abbattuta per ciò che era accaduto alla
Baker: se qualcuno le
avesse tolto gli appunti presi durante le lezioni si sarebbe infuriata,
ma
confiscare anni di ricerche e studi?
La rabbia stava montando
anche dentro di lei quando
Fauerbach parlò: «Nel giro di due ore sono stati
nel tuo ufficio, nella camera
del dormitorio e qui nel Tyner. Hanno scandagliato tutto.»
«È come
pensi: sono troppi.»
Troppi per cosa, si chiese
Ellen? Credevano forse di
attaccarli e fuggire via con le loro ricerche? Poi capì.
«Sono troppi per
un semplice insabbiamento» rifletté ad
alta voce.
«E… e
non vi ho detto tutto» riprese la Baker. La furia
era svanita dalla sua voce e dal suo viso, lasciando posto a una triste
rassegnazione. «Mi mandano via. Una spedizione in Polinesia.
Niente di strano,
ci sono abituata… ma di solito me lo comunicano con
settimane di anticipo.»
«Quando
parti?» le domandò Fauerbach.
«Domani mattina. E
ti suggerisco di fare lo stesso.»
Si guardarono negli occhi
per un intero minuto,
comunicando in silenzio tutto ciò che implicava il
suggerimento della Baker.
«Ci
penserò» disse infine Fauerbach. «Ora
lascia che ti
accompagni a casa…»
«No, voglio
parlare con Miller. Se me ne vado senza
alzare un polverone, capirà che…
Capirà.»
Capirà che ha
paura,
concluse Ellen.
La professoressa Baker si
alzò e si lisciò la gonna, per
poi ricomporsi completamente. «Michael, è stato un
onore lavorare insieme,
spero accadrà di nuovo. E… Lawlier.» La
fissò negli occhi. Ellen era pronta: si
aspettava parole di circostanza, il consiglio di essere meno
presuntuosa con
gli insegnanti, magari perfino un riconoscimento da pari a pari.
Ciò che la
professoressa disse la sorprese. «Qui non troverete futuro.
Andatevene il prima
possibile.»
***
«Vi va una
cioccolata calda?»
Ellen corrugò la
fronte, osservando stupita il volto
gentile di Fauerbach. Aveva due domande in testa.
La prima riguardava la
deprimente conversazione che avevano
appena avuto con la professoressa Baker, la quale non solo aveva detto
che
tutto il loro lavoro era stato sequestrato dall’esercito
degli Stati Uniti, ma
aveva anche suggerito di cambiare città, contea, nazione.
Come gli veniva in
mente di pensare ad altro?
La seconda era: come diavolo
faceva Fauerbach a sapere
che Ellen stava ardendo dal
desiderio di una cioccolata calda?
«Dopotutto, siamo
già in giro» continuò il medico di
fronte al suo silenzio. «E sta per mettersi a
piovere…»
«Va
bene» mugugnò Ellen.
Alle motivazioni di
Fauerbach, aggiunse mentalmente il
suo terrore di rientrare a Chateaubriand Manor prima del dovuto. Temeva
le
domande di Janet, perché sapeva che fornirle spiegazioni
l’avrebbe fatta inalberare,
ma ancor più temeva di incontrare la ragazzina. Non sapeva
se durante la loro
assenza uscisse dalla propria camera e non le interessava scoprirlo.
Adesso che
aveva avuto la conferma di potere dormire nella villa, si sentiva a
disagio al
pensiero di incontrarla; inoltre, temeva che la piccola ereditiera
l’avrebbe
cacciata via, e ora dove sarebbe andata a dormire?
Al porto, magari?
Si fermò davanti
all'ingresso del Bell Cafe. Sollevando il
capo, fisso come sempre sulle proprie scarpe, si accorse che Fauerbach
le stava
tenendo la porta aperta. Gli rivolse uno sguardo interrogativo, poi
entrò nella
caffetteria e si sedette nel tavolino più lontano dal resto
dei clienti. Era
stata lei a condurre Fauerbach in quel posto: si era detta che era
meglio
allontanarsi dal Campus, e la caffetteria più vicina era nel
Merchant District;
prima di entrare, però, il medico l’aveva
superata, e lei credeva lo avesse
fatto per ripararsi prima dalla pioggia che aveva cominciato a
scendere, e
invece le aveva aperto la porta. Per chi l’aveva presa, per
la regina Maria?
Lo soppesò mentre
si sedeva al posto libero davanti al
suo. Una cameriera arrivò subito per prendere il loro ordine
e le sue gote
pallide arrossirono di fronte al sorriso dell’uomo.
Perfetto, meno male che non
volevo dare nell’occhio.
Attesero in silenzio il
ritorno della cameriera, la cui
espressione fece roteare al soffitto gli occhi di Ellen. Sì,
Fauerbach era un
bell’uomo, e allora? Che si decidesse a darle quella cazzo di
cioccolata calda,
maledizione!
Di qualcosa le fu grata,
però: di non fissarla con astio.
Aveva ormai imparato, osservando le sue coetanee, che, quando un uomo
di
aspetto piacevole si faceva vedere in compagnia di una ragazza, le
altre donne
le rivolgevano sguardi di fuoco. La cameriera, invece, sembrava non
notarla, e
questo significava che Ellen non aveva l’aspetto di una
ragazza disperata in
cerca dell’amore eterno.
Prima non aveva udito
l’ordine, così fu sorpresa quando
la donna lasciò sul tavolo anche due fette di torta al
cioccolato. Afferrò la
propria tazza mentre Fauerbach sorseggiava il caffè.
«Sono entrambe per
voi» disse d’un tratto il medico,
indicando le fette di torta con un cenno del capo.
«Grazie»
mormorò Ellen, stupita.
Fauerbach attese qualche
altro secondo, poi si decise ad
affrontare il discorso su cui – Ellen ne era certa
– si stavano lambiccando
entrambi.
«Tornerete al
Campus?»
«No. Penso sia
meglio starne alla larga, per il momento.»
«Saggia decisione,
ma non dovete seguire le lezioni?»
«Ho finito, mi
mancano un paio di esami, e le “lezioni”
rimaste sono insulse.»
Pensò a Peabody,
e al fatto che saltare le sei ore
settimanali con lui fosse il solo risvolto positivo della vicenda.
Fauerbach giocherellava con
il manico della tazza. «Credo
che dovrei lasciare anche io la città. A meno che lo spirito
dell’Arcivescovo
non sia disposto a ospitarci ancora.»
Ellen sollevò un
sopracciglio di fronte alla smorfia
divertita dell’uomo.
«Voi non ridete
mai, signorina Lawlier?»
«No, se posso
farne a meno.»
Si costrinse a ritrarre la
naturale scontrosità per un solo
momento.
«Dottor
Fauerbach…»
«Michael.»
«Dottor
Fauerbach» ripeté Ellen. «Grazie per
avere
salvato Janet.»
«Grazie a voi per
avermi medicato.»
Ellen pensava che quel
discorso potesse essere ormai
chiuso: si era sentita in colpa per non avere aiutato Janet durante
l’attacco
delle creature e aveva bisogno di ringraziare il medico che le aveva
fatto da
scudo con il proprio corpo, pur non conoscendola nemmeno. Adesso poteva
addentare la prima fetta di torta senza quel groppo sullo stomaco
– al quale si
erano tuttavia sostituite le notizie dell’ultima ora.
«Dove avete
imparato a farlo?»
«Sono le basi del
primo soccorso» rispose secca.
Voleva mangiare, non
dialogare amabilmente con quel
bellimbusto che non cessava di lanciare sorrisetti alla cameriera.
«Da dove
venite?» insistette Fauerbach.
«Da
Arkham» mentì lei.
«Dunque potreste
appoggiarvi a casa dei vostri genitori?»
«No.»
Fu il turno di Fauerbach di
alzare un sopracciglio.
«Conoscete la signorina Holmes da tanto?»
«È un
interrogatorio?»
Lui rise. «Vi
prego, non volevo mettervi sulla difensiva.
Mi limitavo a conversare.»
La cameriera si
fermò per chiedere come andasse, e non
appena si fu allontanata Ellen sbottò: «Vi scopate
la Baker?»
Non sapeva da dove fosse
nata quell’insofferenza. Aveva
sempre detestato la professoressa Baker, ma negli ultimi giorni aveva
iniziato
a rivalutarla, e ora si chiedeva se fosse giusto vedere il suo presunto
fidanzato rivolgere sguardi languidi a un’altra donna.
Per tutta risposta,
Fauerbach scoppiò a ridere. Sembrava
sinceramente stupito. «Siete molto diretta, signorina
Lawlier. Se volete
saperlo, conosco Mary Baker da alcuni anni. Abbiamo lavorato insieme
durante
uno scavo in Egitto e siamo rimasti in contatto.»
Esitò. «Siamo amici di
vecchia data, ma ciò non esclude che occasionalmente ci
piaccia passare del
tempo assieme.»
Quindi era vero, il mondo
stava cambiando. Ellen aveva
sentito parlare di donne emancipate che avevano smesso di mettere un
buon
matrimonio al primo posto; di solito coniugavano successo lavorativo e
nozze,
come nel caso di Marie Curie, ma avere rapporti occasionali era un
discorso a
parte, che perfino molte suffragette non avevano condiviso.
«Posso chiamarvi
Ellen?»
«Perché?»
replicò infastidita.
«Perché
chiamarvi “signorina Lawlier” mi sembra
terribilmente
formale se intendo chiedervi di venire a letto con me.»
Per poco Ellen non si
strozzò con la seconda fetta di
torta. Tossì dandosi pugni sul petto, mentre attirava lo
sguardo di alcuni
presenti.
«Io…»
cominciò una volta che ebbe ripreso a respirare.
«Ma che cazzo vi viene in mente?!»
«Scusatemi,
pensavo foste interessata, data la sua
domanda. Non credevo certo che foste una pettegola come le vostre
coetanee.»
Ellen avvampò per
un misto di imbarazzo e rabbia. «Non
sono pettegola, volevo solo sapere una cosa!»
«Una cosa su cui
spettegolare.»
«E certo, e con
chi?!»
«Non ne ho idea.
Allora, volete venire a letto con me?»
Insisteva! Ellen non sapeva
più da che parte guardare:
davanti a sé aveva il volto tronfio e fastidioso di
Fauerbach, sul tavolo
giacevano la tazza e i piatti vuoti dell’ordinazione che lui
aveva fatto senza
interpellarla, e con la coda dell’occhio intravedeva la
giovane cameriera che
ora l’uomo evitava accuratamente. Pensò di
concentrarsi sul proprio grembo, ma
lo ritenne subito un gesto non conforme al suo carattere schietto, come
se la
vergogna e la timidezza si fossero impadronite di lei. Allora,
d’improvviso,
scelse di sollevare la testa e fissare Fauerbach negli occhi.
Sentì la sua voce
uscire prima ancora di riflettere.
«Va
bene.»
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Capitolo 6 *** Capitolo VI ***
Capitolo
VI
Il mattino successivo alla
confisca del proprio lavoro da
parte dell’esercito americano, Ellen era ancora incerta su
come agire. Aveva
detto la verità soltanto a Janet, generando in lei
l’indignazione che si era
aspettata. Le parole dell’archeologa erano state una sequela
di: «Come si sono
permessi? Il decano Miller ne è al corrente? Dovrei
assolutamente parlarci!
Cosa ne pensa la professoressa Baker? Qualcuno deve avere fatto una
soffiata…».
Ellen aveva sorvolato sulle informazioni più allarmanti,
come il fatto che la
sua camera e lo studio della Baker fossero stati scandagliati da cima a
fondo,
o che la professoressa di Biologia Animale fosse in partenza per
qualche angolo
remoto della Polinesia. Con tutto ciò che stava accadendo ai
residenti di
quella villa nel quartiere di French Hill, credeva fosse meglio farle
ignorare
ulteriori notizie che potessero gettarla nel panico.
Da parte sua, il
collegamento tra l’esercito e i libri di
Silas McCrindle era palese, doveva solo comprendere di quale natura
fosse. Da
quando Janet le aveva rivelato di essersi portata dietro, la notte
dell’attacco, i due tomi trafugati allo Ye
Olde Booke Shoppe, Ellen aveva scorso il legame tra il
desiderio dell’eremita
di lasciarli celati e l’improvvisa apparizione di quelle
creature, tuttavia era
ancora incapace di spiegarlo anche a se stessa. In realtà,
la tesi di Janet
doveva essere ormai confutata dall’assenza di ulteriori
attacchi da quando i
libri erano tornati a Chateaubriand Manor, e forse davvero la prima
ipotesi –
secondo cui le creature erano state attratte dal sangue
dell’archeologa – era
stata quella esatta. Nonostante tutto, i dubbi si susseguivano nella
sua testa,
uno dietro l’altro, ed essere rimasta senza materiale da
analizzare sul campo
la rendeva maggiormente irrequieta.
Aveva chiesto a Janet di
tenere il segreto con i suoi
amici di Boston, spiegando che era troppo stanca per tornare al Campus
quella
sera, per cui avrebbe continuato ad approfittare per una notte ancora
della sua
stanza nella villa, ma ora doveva trovare un’altra scusa o
dirle la verità:
«Janet, io in quel cazzo di dormitorio non ci voglio
tornare.»
Sospirò,
riflettendo che ormai erano due i dormitori da
cui intendeva stare alla larga: non si sentiva sicura nella stanza che
le era
appartenuta per anni, non dopo che dei militari avevano toccato i suoi
oggetti
personali. Per fortuna, al momento di trasferirsi nella camera di Janet
si era
portata dietro i libri e gli appunti sugli esami da dare e i pochi
vestiti che
possedeva, e perfino la divisa della Miskatonic University. Del resto,
non le
importava alcunché.
Doveva dire la
verità a Janet o avrebbe dovuto inventare
una scusa? Oppure doveva limitarsi a trovare un altro posto in cui
dormire?
Sospirò e
riportò l’attenzione sul libro di Fisiologia
che teneva in grembo, scaldata dal fuoco che scoppiettava nel camino
del
salotto. Non era sola: sulla poltrona di fronte sedeva il detective
Blake.
Anche lui era concentrato su un mucchietto di fogli, che esaminava con
attenzione tale da lasciare il caffè preparato da Jeremy a
raffreddare,
intonso, sul tavolinetto che li separava. Aveva fatto appena un cenno
quando
lei era entrata nel salotto e da allora non le aveva rivolto parola.
Considerando il suo consueto silenzio nelle poche occasioni insieme,
come
durante i pasti, Ellen si era sentita a proprio agio e aveva deciso di
smettere
di cercare un posto in cui studiare. Le piaceva la stanza di Janet, ma
la sua
amica aveva lasciato lì tutti i suoi abiti, e il suo
muoversi avanti e
indietro, oltre a disturbarla, la faceva sentire tesa, con il timore
che l’archeologa
potesse chiederle quando intendesse restituirle la camera e tornare al
Campus.
In cucina si affaccendava Jeremy, il maggiordomo, e nelle altre stanze
poteva
apparire da un momento all’altro la persona da cui le premeva
di più stare alla
larga.
Condividere il salotto con
un silenzioso detective le era
sembrata la scelta migliore.
Di certo, però,
non si stava dimostrando la più adatta a
farla concentrare su Fisiologia. Adesso che si era ricordata della sua
presenza, Ellen cominciava a porsi diverse domande su Blake. Non si era
rasato
e i suoi occhi erano rossi, sintomi che indicavano la preoccupazione
lacerante
e la notte insonne. Sfogliava i documenti e gli articoli di giornale
con
estrema cura, cercando di non tralasciare indizi, ed Ellen voleva davvero chiedergli
se avesse bisogno di
una mano. Non le interessava essere di aiuto, ma spostare i propri
pensieri su
qualcosa di fruttuoso, visto che Fisiologia non andava giù
– no, in realtà
sapeva ogni manuale a memoria ed era sciocco insistere in un inutile
ripasso.
Si era quasi convinta a
schiarirsi la voce per parlare,
quando il suono del campanello aveva attraversato l’ingresso,
giungendo fino al
salotto. Ellen aveva notato le spalle del detective che si
irrigidivano,
comprendendo subito che era in attesa di quella visita, ma anche che
non ne era
propriamente felice.
«Scusatemi»
mormorò come se si stessero tendendo
compagnia a vicenda, e si alzò dalla poltrona per accogliere
il visitatore.
Oltre la porta che aveva
lasciato aperta, Ellen notò un
uomo con il volto da furetto e un lungo naso appuntito, che doveva
avere sui
quaranta anni.
Capì chi era
quando Jeremy lo annunciò: «Il notaio
Nichols, signore».
***
Durante il pranzo i vari
residenti di Chateaubriand Manor
si erano riuniti, come di consueto, nella sala rettangolare sul lato
ovest
della villa – tutti a eccezione della ragazzina, a cui Jeremy
portava sempre un
vassoio in camera. Ellen leggeva sul volto di Janet la
necessità di
interrompere il silenzio imbarazzato in qualche modo: solitamente
comunicava ad
Alexander le svolte sul loro lavoro al Campus, o discuteva le sue
teorie con
Fauerbach; quel giorno, tuttavia, nemmeno il medico aveva aperto bocca,
sovrappensiero come il resto dei presenti. Il detective Blake era
quello più
taciturno e concentrato sulle proprie riflessioni: aveva toccato cibo a
malapena ed Ellen era piuttosto sicura che non si fosse realmente
accorto che,
quella mattina, avevano passato tutti del tempo nella villa, invece di
recarsi
all’università come di consueto.
Quando Jeremy ebbe
sparecchiato la tavola, ignorando
educatamente che il detective non aveva toccato il suo arrosto, Ellen
fece per
ritirarsi di nuovo nello studio per rimandare ancora una volta le
spiegazioni – ogni
tipo di
spiegazione – ma poi Blake si
schiarì la gola.
«Vorrei chiedervi
di rimanere qualche minuto mentre
Jeremy ci servirà il caffè.»
Era una richiesta inusuale,
ma Ellen ne comprese
immediatamente il significato: l’uomo stava per cacciarli.
Peggio di così
non può andare, pensò, e allora
si concesse di fermare Jeremy per
chiederle di portarle una cioccolata calda al posto del
caffè, che mai aveva
sopportato. Tornò a sedere e si preparò alla
formalità con cui il detective
stava per dire a due di loro che dovevano tornare nei propri alloggi.
«Presumo che Janet
vi abbia ormai spiegato nei dettagli
il motivo per cui ci troviamo ad Arkham» cominciò.
«So che qualche notte fa
avete passato qualcosa di simile… a ciò che
è accaduto a noi a Salem.»
Udire il nome della
città la fece rabbrividire per i
ricordi e fremere per la curiosità. Dunque erano stati
attaccati anche loro da
strane creature? Era così che l’Arcivescovo Giraud
aveva perso la vita?
Purtroppo il detective
sorvolò sull’avvenimento e
riprese: «Per questi motivi, credo sia opportuno rendervi
partecipe del
risultato delle mie ricerche. Solo un paio di ore fa ho appreso che
Jefferson
Masters si trova a Boston, e intendo andare a trovarlo.»
Janet sussultò
sorpresa. «Ne sei certo, Alexander?»
Lui annuì con
decisione. «Al cento per cento. Ha lasciato
la villa di Arkham, ma ho saputo che possiede un’altra
abitazione, ed è lì che
dovremmo cercarlo.»
Ecco perché il
notaio era qui, comprese Ellen.
Il detective doveva averlo
pagato per scoprire se Masters
possedesse altre case nel Massachusetts, e facendo parte di uno studio
legale
con diverse funzioni – stando alle parole di Janet
– il notaio doveva avere
chiuso un occhio sul segreto professionale e avergli comunicato dove
trovarlo.
Si mosse sulla sedia mentre
Jeremy le serviva la tazza di
cioccolata richiesta. Era curiosa, ma allo stesso tempo temeva ancora
che il
detective fosse sul punto di mandarli via: sarebbero tornati tutti a
Boston,
dunque la villa sarebbe rimasta vuota. Chi avrebbe garantito per la
loro
presenza lì?
Avvertì su di
sé lo sguardo di Fauerbach, che
probabilmente si poneva lo stesso quesito, ma evitò
accuratamente di
incontrarlo. Fu proprio il medico a chiedere delucidazioni.
«Immagino che la
vostra partenza significhi che dovrò
togliere il disturbo.»
Aveva parlato solo per se
stesso, forse immaginando che l’amicizia
tra lei e Janet l’avrebbe portata a trasferirsi nella sua
casa di Boston.
Pensandoci, non era una cattiva idea. Doveva ancora dirle la
verità, però.
«Tuttavia»
continuò Fauerbach, spegnendo la sigaretta che
teneva tra le mani «per ringraziarvi
dell’ospitalità ricevuta, credo che dovrei
fornire io stesso alcune spiegazioni. Il caso che stavamo esaminando
con la
dottoressa Holmes e la signorina Lawlier ci è stato
revocato. È finito in mani
altrui.»
Blake parve sorpreso, ed
Ellen ebbe la conferma che non
si fosse proprio accorto della loro inconsueta presenza mattutina.
«Stavo soppesando
se tornare in Europa anticipatamente,
ma se siete d’accordo, detective Blake, mi piacerebbe
aiutarvi nella vostra
indagine.»
«Sarebbe molto
utile» si intromise immediatamente Janet.
«Alexander, potremmo trovarci ancora di fronte
quegli… esseri.»
Dunque Ellen non era la sola
a continuare a credere in un
collegamento tra libri e creature.
«Il dottor
Fauerbach ha dimostrato di poterli affrontare,
e io mi fido di lui. E tu, Ellen?»
La domanda giunse tanto
inaspettata da farla sobbalzare
sulla sedia. Perché le chiedeva se anche lei si fidasse di
Fauerbach? Possibile
che avesse scoperto…?
«Sarai dei
nostri?» insisté Janet, ed Ellen si
rilassò.
Con la coda dell’occhio, notò una smorfia
divertita sul volto di Fauerbach ed
ebbe il forte istinto di fracassargli il naso con un pugno.
«Non…
non ho niente da fare qui.» E
non voglio tornare al Campus. «Sì,
potrei accompagnarvi, se il
detective è d’accordo.»
«In un modo o
nell’altro, ci siamo dentro tutti» rispose
lui stringendosi nelle spalle. La scoperta dell’ubicazione di
Masters pareva
averlo rinvigorito, perché bevve il suo caffè
senza farlo raffreddare, a
differenza della mattina.
«Possiamo quindi
chiedervi di abusare della vostra
ospitalità per un’altra notte?»
domandò Fauerbach.
«Oh…»
Di colpo lo sguardo del detective tornò a
oscurarsi. «Non sono io… a poter
decidere.»
Ellen notò che
Janet si stava torcendo le mani, per
niente stupita da quella risposta; al contrario, lei si chiedeva il
perché di
quell’improvviso cambio di registro. Non era stato lui a dare
il suo benestare
quando erano tornati da Salem?
Fu Janet a rispondere dopo
un profondo sospiro. «Questa
mattina il notaio Nichols è stato qui. Sapeva che eravamo in
città con… con l’Arcivescovo,
e quindi ha immaginato dove trovarci… dove trovare
Lilyan.»
Ellen corrugò la
fronte, perplessa, ma Janet proseguì
svelando il mistero.
«Ci ha comunicato
che l’Arcivescovo Giraud Des
Chateaubriand è deceduto a Salem lo scorso
lunedì, a seguito di un’emorragia
cerebrale.»
Il suo sguardo
saettò su Blake, ed Ellen comprese che l’uomo
non poteva essere stato ucciso dalle stesse creature del laboratorio.
Possibile
che fosse davvero morto per cause naturali? Dall’espressione
colpevole del
detective, intuì che quella non era la risposta esatta.
Janet deglutì.
«Abbiamo finto di essere… scioccati dalla
notizia. Non vedevamo il Monsignore da alcuni giorni, ma sapevamo che
doveva
sbrigare degli affari lavorativi nella chiesa di Salem e per questo non
ci
eravamo preoccupati. Il notaio Nichols, ritenendo che potessimo essere
ancora
ad Arkham, ha pensato di informare personalmente la sua erede, invece
che
comunicarlo per via telefonica.»
La sua erede?
«Giraud ha
lasciato tutto ad associazioni umanitarie
cattoliche, a eccezione della casa» concluse Blake.
«La villa ora appartiene a
Lilyan.»
Ellen si sentiva a disagio:
era ovvio, la ragazzina era
la sua figlioccia, era stato un bel pensiero lasciarle qualcosa. La
sorprendeva
maggiormente sapere che un uomo non proprio anziano avesse deciso di
fare
testamento. Quante altre proprietà aveva posseduto
l’Arcivescovo? Aveva intuito
che ogni dipinto o pezzo di arredamento nella villa fosse appartenuto
ai suoi
antenati, così come il nome di Chateaubriand Manor, ma fare
testamento a
nemmeno cinquanta anni presupponeva che o fosse esageratamente
ricco o
si sentisse davvero in pericolo.
«Dobbiamo inoltre
trovare un posto per domani notte»
proseguì il detective. «Vorrei evitare di far
sapere a mia madre che sono a
Boston, non prima di concludere la storia
dell’eredità di zio Silas.»
«Il mio
appartamento è molto piccolo, posso ospitare solo
una seconda persona» si scusò Janet.
«Gli altri potrebbero dormire in un
albergo, o…»
«Chiederò
a mio padre di ospitarci tutti quanti.»
Una voce nuova si fece largo
nella stanza. Guardando alle
proprie spalle, Ellen riconobbe la figura esile che aveva visto giorni
prima. I
capelli ricci erano tenuti legati da un fiocco rosa, poco adatto
all’abito nero
che indossava, e non c’erano segni di pianto sul volto; gli
occhi, però, erano
carichi di determinazione.
«Lilyan,
sei…»
La ragazzina interruppe
Janet e spostò lo sguardo prima
su Fauerbach e poi su Ellen. «Mi spiace non esserci
presentati in maniera
opportuna. Sono Lilyan Butler, e per me non c’è
alcun problema nel continuare a
ospitarvi fra queste mura. Adesso perdonatemi, ma devo discutere con
Jeremy di
alcune questioni.»
Li superò senza
degnare di attenzione Blake, che fissava
il tavolo a occhi sgranati.
Dio, che cavolo era successo
a Salem?
***
Gli undici rintocchi della
pendola rimbombarono per i tre
piani di Chateaubriand Manor, ma non destarono Ellen: era ancora china
sulla
scrivania, sepolta dietro decine di libri accatastati uno sopra
l’altro. Gli
occhi scorrevano febbrilmente tra due dizionari e il tomo che occupava
lo
spazio centrale del piano di lavoro. Ellen sfogliò una
pagina del dizionario a
destra, poi si rivolse al tomo in cima alla pila di sinistra. Stava per
prenderlo quando udì bussare alla porta.
Blake mi ha scoperta,
pensò demoralizzata.
Si alzò,
chiudendo la vestaglia con la cintura per tenere
un briciolo di dignità mentre gli avrebbe confessato il suo
furto, e raggiunse
la porta a piedi nudi. Quando la aprì, comprese di essersi
sbagliata. Si pentì
subito di non avere finto di dormire.
«Buonasera»
la salutò Fauerbach con un ghigno sul volto.
A differenza sua, indossava ancora gli abiti con cui era uscito a cena.
Doveva
essere appena tornato dalla sua serata solitaria.
«Cosa
volete?»
«Posso
entrare?»
Ellen sapeva che non se ne
sarebbe andato facilmente, e
non voleva rischiare che qualcuno degli altri ospiti, affacciandosi in
corridoio, si accorgesse di lui. Si scostò e chiuse la
porta, poi tornò alla
scrivania per mostrargli che era impegnata.
«Cosa state
leggendo?» chiese lui interessato. Si avvicinò
e posò lo sguardo su ogni singolo titolo che circondava
Ellen. «Manuale di
Fisiologia… Storia e leggende americane… Dizionario
di yiddish?» Aggrottò le
sopracciglia. «Conoscete l’ebraico?»
«Sto
imparando.»
Prima che potesse nascondere
il testo su cui stava
realmente lavorando, Fauerbach lo notò e
l’espressione sul suo volto si fece
chiara. «Oh. È uno dei libri.»
Ellen sospirò e
si scostò appena, permettendogli di dare
un’occhiata. Dopotutto, nel corso dei giorni trascorsi
insieme nel laboratorio
B, aveva appreso che il medico possedeva uno straordinario intuito,
oltre che
un’ampia conoscenza e una presunzione che sembrava nascondere
meglio di lei e
della Baker.
«Non dovrebbe
essere sottochiave?»
«Blake non
è bravo a nascondere le sue cose. Ho trovato
anche l’altro, ma questo mi incuriosiva di
più.»
«Cos’avete
scoperto?»
«Poco e niente.
Non è scritto in alfabeto latino, greco o
cirillico, ma questo mi è stato subito chiaro. I segni sono
diversi anche dall’arabo,
vedete?»
Fauerbach annuì
concentrato. «Di certo non è scrittura
cuneiforme.»
«Già.
Sembrano solo simboli, ma si ripetono in maniera
tale da rappresentare un alfabeto.»
«Abugida?»
«Ho pensato fosse
partito dal ge’ez o dal devanàgari.
Vedete queste curve?»
«La dottoressa
Holmes ha vissuto in India, non è vero?
Forse potrebbe saperne qualcosa.»
«Sì,
avevo pensato di parlargliene domani, ma…»
«Ma potrebbe dirlo
al detective.»
Fu il suo turno di annuire.
«Penso sia meglio pensarci da
sola, ma la biblioteca in questa casa è carente.»
«Tornare alla
Miskatonic Library potrebbe essere
rischioso. Non credo che possiamo dirci in pericolo, ma Mary ha
consigliato a
entrambi di starne alla larga.»
Ellen si
infervorò: era certa che
avrebbe trovato ciò che le serviva
nella collezione privata di Armitage.
«Ma la biblioteca
di Arkham racchiude alcuni dei tomi più
rari dell’intero pianeta!»
«Potrebbero
insospettirsi vedendoci tornare, e non credo
proprio che vogliate mandare un altro al posto nostro.»
«No, devo vederli
io stessa. Potrei fingere di essere lì
per motivi di studio, dopotutto sono ancora una
studentessa…»
«Una studentessa
la cui camera è stata perquisita. Come
Mary, voi alzereste un polverone in merito, ne sono certo.»
«Non
c’era niente di importante là dentro,
ma… sì, è
vero.»
«Potremmo pensarci
al ritorno da Boston. Forse sarà
Masters stesso a darci delle risposte.»
«Improbabile, ma
è una possibilità.»
Quando smisero di parlare,
Ellen si rese conto della
situazione. Fauerbach era seduto a un’estremità
del suo letto, in modo da
starle di fronte, e sembrava pensieroso quanto lei. Aveva
però anche uno strano
modo di guardarla.
Avvampò e si
girò verso il muro. Come era finita di nuovo
in quella situazione? Credeva che il giorno prima fosse stata una
circostanza
eccezionale, da vivere e poi dimenticare. Le era successo tante volte,
durante
l’adolescenza, di approfittare di un momento di
felicità per poi costringersi a
scordarlo, conscia di non poterlo ripetere: un pasto caldo, un letto
morbido,
un vestito di prima mano… Tutti sogni che non le
appartenevano e che dovevano
rimanere tali. Solo addentare una fetta di torta al cioccolato
l’aveva segnata
per sempre, accendendo la sua gola dal desiderio di ripetere ancora
quell’esperienza,
e così era stato. Ciò che era accaduto il
pomeriggio del giorno prima con
Fauerbach era un episodio che, al contrario, non intendeva ripetere.
Ricordava chiaramente
l’espressione disorientata quando
aveva mormorato il suo assenso. Era quasi convinta di guardare in uno
specchio,
certa com’era di avere avuto la stessa, identica confusione
dipinta sul volto.
Avrebbe potuto finire tutto in quel momento, dopo una risata di
Fauerbach nel
quale le annunciava che stava scherzando, invece il medico aveva
estratto il
portafoglio, aveva pagato e poi in silenzio l’aveva condotta
verso l’hotel più
lussuoso della città. Ripensandosi, Ellen avvertiva lo
stomaco sottosopra.
«Mi state
evitando» disse infine Fauerbach. Non era una
domanda.
«Abbiamo ben poco
da dirci.»
«Non direi:
abbiamo appena avuto una stimolante
conversazione accademica.»
Ellen si voltò
verso di lui, vergognandosi dell’imbarazzo
che l’aveva spinta a dargli le spalle. Si alzò e
incrociò le braccia al petto.
«Una conversazione
che sarebbe potuta avvenire fuori
dalla mia stanza.»
«Ne dubito, visto
che avete rubato il libro che state
esaminando.»
«Un libro rubato a
sua volta.»
«E comprato
legalmente dalla persona che, con tutta
probabilità, ne ha ucciso il precedente
proprietario.»
Ellen trasse un lungo
respiro infastidito.
«Mi state
evitando» continuò Fauerbach, di nuovo il
sorriso sghembo sulle labbra. «Sarò in vostra
compagnia almeno per un altro
paio di giorni, mi dispiace turbarvi tanto. Cosa posso fare per
rimediare?»
«Uscire da questa
stanza e non parlarne più.»
«Di
cosa?»
«Lo sapete, di
cosa.»
«E se ne avessi
ancora voglia?»
Ellen deglutì e
lo fissò. Fauerbach non smetteva di
sorridere, ma sembrava sincero. Di fronte al suo silenzio,
l’uomo sollevò le
braccia e le portò sui suoi fianchi, avvicinandola
lentamente. Lei non si
ritrasse.
«Non
voglio… non voglio…»
Non riusciva a concludere la
frase. Avrebbe potuto
cacciarlo e basta, ma voleva mettere in chiaro un punto per lei
fondamentale.
Lasciò che le proprie braccia si sciogliessero, ricadendo
lungo il busto tanto
vicine a quelle di Fauerbach da poterle toccare, se avesse voluto.
Prese fiato e concluse:
«Non voglio una relazione
sentimentale.»
«Vi sembro il
tipo?»
Fauerbach aveva parlato a
voce bassa, senza derisione
nella voce. Era una domanda sincera.
«Non è
questo che insinuavo. Non voglio relazioni di alcun
tipo con nessuno. Quello che è successo ieri… non
mi stavo illudendo o roba
simile.»
«Ellen.»
La fissò negli
occhi, ora così vicini ai suoi. Lei non lo
corresse imponendogli di chiamarla con il suo cognome, non aveva
più alcun
senso.
«Non ho mai
pensato questo di te.»
La strinse più
forte e la baciò, lasciando che lei si
lasciasse trasportare. Ci volle poco.
Quando la pendola
suonò l’una del mattino, Ellen udì
Fauerbach muoversi alle sue spalle. L’uomo si alzò
e si rivestì; si chinò solo
per darle un bacio sulla testa, poi uscì dalla sua stanza.
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Capitolo 7 *** Capitolo VII ***
Capitolo
VII
Salirono sul primo treno per
Boston, dopo un breve
viaggio nel Northside per raggiungere la stazione sita nella West High
Lane.
Per ringraziare la giovane doppiamente ereditiera
dell’ospitalità,
Fauerbach si offrì di pagare il viaggio per tutti, elargendo
alla donna nella
biglietteria una banconota da dieci e una da un dollaro. Ellen stava
attenta a
ogni dettaglio, soppesava i gesti del medico, cercava di analizzare i
modi che
reputava fin troppo gentili; quando infine prese posto accanto a lei e
iniziò a
sfogliare l’Arkham Gazette del
ventinove ottobre, Ellen scosse la
testa ed estrasse un taccuino, sul quale segnò quanto
appreso fino a quel
momento, e non in
relazione a Michael Fauerbach.
La sua mente sempre in moto
la costringeva a prendere
nota di tutto ciò che le accadeva intorno, analizzando le
persone che stava
accompagnando a Boston e delle quali, fino a una settimana prima,
ignorava
ancora l’esistenza.
La ragazzina dalla chioma
riccia sedeva con le spalle
tanto aderenti alla poltrona da sembrare parte
dell’arredamento della carrozza.
Teneva lo sguardo ancorato al finestrino, alla nebbia che celava la
campagna
attorno ad Arkham, e non sembrava disposta a scambiare alcuna
chiacchiera con i
compagni di viaggio. Ellen la osservò attentamente, sorpresa
dell’espressione
stoica e di quel fiocco rosa che continuava a indossare con cura sopra
gli
abiti del lutto. Si chiese se suo padre avesse già saputo
della morte del
padrino, o se fosse quello il vero motivo per cui si era decisa a
lasciare la
propria camera per ospitarli a Boston.
Blake sedeva al posto
più vicino al corridoio, e per una
volta i suoi pensieri non erano concentrati sulla scottante
eredità lasciatagli
dallo zio: rivolgeva sguardi fugaci alla giovane, e lo faceva tanto
spesso da
portare Ellen a chiedersi se la ragazzina non se ne fosse accorta.
Profonde
occhiaie solcavano ancora il volto del detective, che alla fine aveva
deciso di
passare il resto del viaggio provando a dormire.
A dividerli c’era
Janet, la sola persona che non stonasse
in quel contesto, poiché la sola che Ellen conoscesse da
più di una manciata di
giorni. Si dedicava come Fauerbach alla lettura, ma di un saggio dal
titolo in
devanàgari che fece ricordare a Ellen la conversazione di
quella notte: forse
avrebbe dovuto chiederle di analizzare il volume misterioso, ma temeva
la sua
risposta. Janet era stata a contatto con il libro e aveva parlato di
una lingua
indecifrabile, per cui doveva avere poco in comune con
l’hindi o con il
sanscrito.
Sospirò e si
lasciò cadere contro il sedile, cercando
altro su cui rimuginare, quando alla sua destra Fauerbach le porse il
quotidiano.
«Tieni»
disse soltanto, ed Ellen annuì per ringraziarlo.
Era certa che il medico
avesse notato il suo sguardo,
perché ora anche i suoi occhi si erano posati sulla borsa di
Janet, che celava
due dei libri custoditi dalla famiglia McCrindle.
Meglio concentrarsi sulle
notizie del giorno, pensò, conscia
che il detective non avrebbe approvato l’interesse
di una semisconosciuta per dei tomi maledetti, o quel che erano.
Raggiunsero Boston in poco
tempo, e mentre scendevano dal
treno la ragazzina esordì: «Prendiamo due
carrozze, casa mia è lontana.»
Nessuno replicò
che forse dovevano andare subito in cerca
di Masters, nemmeno il detective, che sembrava tanto determinato a
gettarsi
tutta quella storia alle spalle; al contrario, Blake e Janet annuirono
e
cercarono due carrozze libere. Ellen avrebbe preferito salire con
l’archeologa,
ma Fauerbach la sospinse verso la seconda carrozza, alla quale si stava
avvicinando anche Blake.
«Non ci pensare
nemmeno» le sussurrò prima di raggiungere
il detective.
«Non intendevo rubare i
libri» soffiò lei per non essere
udita da altri.
«Meglio prevenire
che curare.»
Impiegarono altri quaranta
minuti tra le strade della
città. Ellen si chiedeva quanto fosse valsa la pena prendere
due carrozze, se
il ritmo dei cavalli era uguale a quello dei suoi piedi, ma poi si
rispose che
la ragazzina dovesse essere poco a proprio agio nel camminare, dal
momento che
anche per muoversi da French Hill al Northside di Arkham aveva preteso
che Jeremy
li portasse in auto.
Forse era troppo critica nei
suoi confronti, e dopotutto
la ragazzina la stava ospitando in ben due ville di lusso, dunque
perché tanto
astio?
Per ciò che
rappresenta.
Sospirò di nuovo
mentre giungevano finalmente in
prossimità della villa del senatore Butler. Fauerbach scese
dopo di Blake,
pretese di pagare anche quel viaggio e tentò di allungare un
braccio per
aiutare Ellen a uscire, ma lei lo ignorò deliberatamente. Lo
avrebbe fatto
comunque, troppo concentrata sulla villetta coloniale che li si era
parata
davanti. Uno stuolo di domestici in divisa era già sul
portico, ed Ellen si
chiese se l’ereditiera fosse riuscita a chiamare il padre per
avvisarlo dell’imminente
arrivo o se quei poveracci fossero costretti a passare la mattina al
freddo in
attesa di eventuali ospiti.
Mentre rifletteva, un uomo
dalla pancia prominente uscì
dalla porta principale, le braccia allargate verso la figlia e un
sorriso splendente
stampato sul volto. Un attimo dopo, la ragazzina era contro il suo
petto, in
lacrime e singhiozzante, libera dallo stoicismo che aveva invano tenuto
in
presenza dei suoi ospiti. Dall’espressione confusa del
senatore, che si
spostava tra i presenti, Ellen comprese che era ancora
all’oscuro di tutto.
***
La cuoca del senatore Butler
era brava, ma non all’altezza
di Jeremy, il quale possedeva la straordinaria abilità di
tirare fuori un pasto
completo per tutte le persone presenti, non importa se fossero state
annunciate
soltanto cinque minuti prima. La “Mrs Qualcosa”
tanto decantata dal padrone di
casa e da sua figlia cucinava in maniera raffinata, probabilmente
aiutata da
altri cuochi o da servette, ed Ellen sperava vivamente che le porzioni
esigue
fosse dovuto al loro arrivo improvviso. Scansò un asparago
con la punta della
forchetta, chiedendosi quando fosse diventata così pretenziosa,
e se lo portò alla
bocca.
Per fortuna, non era la sola
ad avere ancora qualcosa nel
piatto. Il senatore sembrava una persona avvezza al buon cibo,
poiché aveva
esaltato tutto ciò che veniva portato sulla tavola, ma aveva
mangiato poco,
così come la figlia e il detective Blake. Janet e Fauerbach,
dal canto loro,
mantenevano un’amabile conversazione con il padrone di casa,
il quale cercava
in maniera alquanto evidente di non sembrare in apprensione per la
figlia.
«Lily, tesoro, Mrs
Graham ha preparato il tuo dolce
preferito, ve lo faccio portare subito?» chiese di fronte al
piatto che la
ragazza aveva lasciato intonso e che un cameriere in livrea stava
togliendo dal
tavolo.
«Purtroppo siamo
di fretta» rispose lei, azzardando un
sorriso che si spense immediatamente. «Abbiamo delle
commissioni da fare in
città ed è già trascorsa tutta la
mattinata…»
«Lo mangeremo
questa sera, allora.»
«Grazie ancora per
l’ospitalità.»
«Questa
è casa tua, Lily, non devi ringraziarmi. Ed è un
piacere conoscere i tuoi amici.»
Ellen non ne era tanto
certa: il senatore aveva
comprensibilmente rivolto a lei e a Fauerbach poche occhiate e giusto
paio di
domande. Era preoccupato per sua figlia, fremeva dal desiderio di
sapere cosa
fosse accaduto all’Arcivescovo e al contempo avrebbe voluto
stare con la
ragazza il più possibile. Cosa le aveva detto Janet? Che
quello era il primo
viaggio che l’ereditiera aveva fatto senza il padre? Un
inizio davvero pessimo.
Lilyan non provò
a sorridere una seconda volta, ma si
avvicinò al padre e lo baciò sulla guancia irsuta.
«Vado un attimo in
camera, Mary mi aiuterà a scegliere
gli abiti da portare ad Arkham…»
«E se rimanessi a
Boston, invece?»
La ragazza esitò.
La domanda, in effetti, era del tutto
sensata. Non si trattava solo dell’apprensione di un padre:
se tutto fosse
andato come speravano, quel pomeriggio stesso il detective sarebbe
rientrato in
possesso di tutti e quattro i libri. La storia sarebbe finita
là, e
probabilmente ognuno sarebbe tornato alla propria vita a Boston. Blake
avrebbe
avuto il coraggio di rivedere la madre adottiva senza più
pesi sulle spalle,
Lilyan avrebbe venduto Chateaubriand Manor portando Jeremy a vivere con
loro
oppure cedendolo con tutta la proprietà, Janet avrebbe
ripreso a lavorare per
Harvard ed Ellen le avrebbe chiesto di rimanere per un po’
nel suo
appartamento. E Fauerbach…
Beh, affari suoi.
Ellen comprese e condivise
quindi la risposta che Lilyan
diede al padre: «Ne parleremo questa sera.»
Quando fu uscita dalla sala
da pranzo, il senatore Butler
soppesò per la prima volta le occhiaie scavate di Blake.
«Quando?»
Fu Janet a rispondere.
«Non lo sappiamo con esattezza… Lunedì
sera, credo. Lilyan e Alexander erano appena tornati ad
Arkham.»
«Per fortuna non
eravate… lì.»
Ellen vide chiaramente il
dolore farsi largo sul suo
viso: ora che la figlia era lontana, il senatore poteva lasciarsi
andare. Da
quello che le aveva detto Janet, l’Arcivescovo era stato un
grande amico del
padrone di casa, e la sua morte doveva addolorarlo almeno la
metà di quanto
aveva devastato Lilyan.
Janet allungò una
mano per stringere quella del senatore
Butler. «Non ha sofferto.»
Le sue parole furono seguite
dal raschiare di una sedia
contro il pavimento. Il detective si era mosso di scatto e ora anche
sul suo
viso era dipinta un’espressione contrita. Sembrava essere
stato sul punto di
dire qualcosa, per poi decidere di tenerla per sé.
Di fronte a quel gesto, che
attrasse l’attenzione di
tutti i presenti, il senatore si asciugò gli occhi con il
tovagliolo, si alzò e
girò intorno al tavolo fino a raggiungere lo schienale della
sedia di Blake.
«Non è
colpa tua.»
Le spalle del detective si
rilassarono di colpo. Ellen
non sapeva ancora cosa fosse accaduto a Salem, né Blake o la
piccola Butler lo
avevano detto a qualcuno, ma in quel momento realizzò che,
ancor di più
dell'evento in sé, a far nascere nel detective il lacerante
senso di colpa era
stato tutto ciò che aveva portato alla morte
dell’Arcivescovo, a partire dalla
festa che si era tenuta proprio in quella casa soltanto due settimane
prima.
Ellen distolse lo sguardo, a
disagio, mentre il senatore
continuava ad assolvere Blake.
«Sarebbe potuto
accadere in qualunque luogo e in
qualunque momento, e se tu fossi stato presente non avresti potuto
salvarlo. Se
quello che vi ha detto il notaio Nichols è vero, e non ho
motivo di dubitarne,
Giraud è morto sul colpo.» Tentennò
facendo il nome dell’amico, ma poi riprese
a parlare, la voce ora tremante. «Poteva succedere durante il
sonno. C’era
qualcosa che non andava nel suo corpo e… mio Dio, lo avevo
pregato così spesso
di farsi visitare da un medico. Le sue frequenti emicranie,
l’incapacità di
prendersi un giorno di pausa… Se c’è
qualcuno da biasimare, quello sono io. Ma»
proseguì prima che Blake o Janet potessero interromperlo, le
mani ferme sulle
spalle del detective «non provo rimpianti, perché
ho imparato ad accettare
tanto tempo fa che, quando il Signore chiama un’anima a
sé, noi non possiamo
impedirglielo. Avrei potuto insistere… come avrei potuto
vietare alla mia Lily
di partire. Non possiamo vivere nella paura e nel rimorso, Alexander.
Ora lui è
in pace.»
In altri momenti, Ellen
avrebbe provato disgusto per
quella sequela di parole vuote; tuttavia, ora non sembravano tali. Pur
non
conoscendo bene il senatore Butler o sua figlia, pur non sapendo cosa
avessero
passato alla morte della signora Butler o quanto fossero effettivamente
legati
all’Arcivescovo Giraud, comprese il dolore e la
verità di ciò che aveva appena
udito.
Serrando la mascella, si
domandò perché quelle parole non
potessero essere valide per confortare ogni uomo che calpestava questa
Terra.
Chi assolverebbe me?
***
«Dove si trova la
casa?»
«Zona sud di
Boston, non lontano dal centro. Manca poco.
Il mio informatore mi ha comunicato soltanto l’indirizzo, ma
se ricordo bene
non ci sono condomini da quelle parti. Credo che viva in una villetta
autonoma,
proprio come ad Arkham.»
Si erano incamminati subito
dopo pranzo. Niente auto o
carrozze: volevano godere del tepore del sole autunnale sul viso, gioia
preclusa dal perenne maltempo di Arkham. Per fortuna, solo una decina
di
isolati li dividevano dalla loro meta, che raggiunsero prima che la
lancetta corta
dell’orologio da taschino di Fauerbach avesse raggiunto le
due.
«Potremmo avere
dei problemi con il signor Masters?»
Alla seconda domanda del
medico, Blake annuì mestamente.
«Non voleva essere rintracciato. Sono certo che il suo
assistente lo abbia
avvertito quando abbiamo recuperato i primi due libri… per
questo non lo
abbiamo trovato a Salem.»
«Se
n’era già andato, comprensibile.»
«E si è
nascosto qui a Boston. Almeno spero.»
«Che
possibilità ci sono di trovare soltanto i libri,
come allo Ye
Olde?»
domandò Ellen, gli occhi grigi fissi sulla borsa che
tamburellava ritmica sul
fianco di Janet.
«Zero, temo. Dopo
l’effrazione, avrà capito che fosse
meglio portarseli dietro. Dobbiamo sperare che Masters sia ancora
qui.»
Blake concluse la frase
proprio mentre, svoltato l’angolo,
si trovarono davanti una villa di due piani, di costruzione non troppo
recente,
ma ben tenuta.
«Quando ha
acquistato i libri, Jefferson ha parlato di
una casa di famiglia, però credevo fosse quella di
Arkham» disse Janet. «Forse
non dovrei farmi vedere… mi conosce già, e
cercherà di evitarmi.»
«Buona idea.
Resterò qui con voi, dottoressa Holmes»
propose Fauerbach estraendo il portasigarette.
Ellen strinse le palpebre:
ancora una volta, il medico
aveva anticipato le sue azioni. Quel comportamento iniziava a parerle
sospetto.
«L’avete
visto anche voi?» chiese invece Blake,
avvicinandosi ai due.
«Sì.
È solo una sensazione, ma…»
«Di che
parlate?» si intromise Janet.
Blake esitò,
controllando rapidamente che l’ereditiera
non potesse udirlo; lei però era persa nei propri pensieri,
a qualche passo da
loro, ed era semplice intuire quali fossero.
«Ti eri sentita
osservata ad Arkham, non è vero? Io ho
l’impressione
di essere seguito da quando abbiamo lasciato la villa di
Arthur.»
«Com’è
fatto?» si infervorò Janet, le vene sul collo tese
nello sforzo di tenere lo sguardo sul suo interlocutore.
«Un uomo di
mezz’età in un pastrano scuro. Aveva il
cappello calato sul volto. Potrebbe essere lui?»
«Sì…
credo.»
«Di chi
parlate?» Ellen ripeté la domanda di Janet.
«Ricordi il
pomeriggio dopo l’attacco nel dormitorio,
quando siete venuti a Chateaubriand Manor con la professoressa Baker?
Mi era
sembrato di vedere un uomo dalla finestra del salotto, ma ho pensato di
avere i
nervi tesi.»
«Potrebbero
esserlo ancora adesso» sottolineò Fauerbach,
facendo un cenno con il mento alla piccola Butler, che si era accorta
del loro
confabulare. «Andate avanti, resto io con la
dottoressa.»
Ellen si ricordò
solo in quel momento della pistola in
possesso di Fauerbach e tirò un sospiro di sollievo. Doveva
smettere di
dubitare di chiunque: l’austriaco aveva già
salvato Janet una volta, e se
avesse voluto rubarle i libri avrebbe potuto farlo in qualsiasi
momento.
Persino la notte prima, quando era andato da lei.
«Provo a
suonare» annunciò Blake mentre si avvicinava al
cancello socchiuso. Lo superò e proseguì fino
alla porta, accanto alla quale
svettava una vecchia campana d’ottone. Tirò la
cordicella una, due, tre volte,
e fece lo stesso con i due pesanti batacchi, fino a quando un fischio
li fece
voltare.
Fauerbach stava indicando il
piano superiore. Ellen,
Blake e Lilyan arretrarono, scoprendo che dalla finestra sopra
l’ingresso era
ben visibile il profilo di un uomo chino su una scrivania. Da
lì poteva vederli
anche lui, ma stava deliberatamente evitando di alzare lo sguardo.
Janet e Fauerbach si
avvicinarono. «Vi ha visti» disse
l’archeologa.
«Ha sussultato e… si è messo qualcosa
nelle orecchie. Cotone, forse.»
Ellen imprecò
sottovoce. «Cerchiamo un altro ingresso.»
«Ma…»
tentennò Janet.
«Oh, andiamo, non
è la prima volta» la interruppe Lilyan
con una maleducazione che poco si confaceva a una bella e giovane
fanciulla del
suo rango. Parve rendersene conto anche lei. «Io…
Scusa, Janet, voglio solo
chiudere questa storia.»
Quando il resto del gruppo
la raggiunse sul lato est
della casa, Ellen aveva già aperto la porta della cucina.
«Non era chiusa»
mentì.
Fauerbach sollevò
un sopracciglio, ma non disse nulla.
La stanza era piccola e
sporca – non al livello in cui
era stata trovata la cucina di Silas McCrindle, probabilmente, tuttavia
dava l’impressione
di non venire pulita da giorni. Anche la sala da pranzo, che si
affacciava alla
loro destra, ospitava una pila di piatti usati. Proseguirono oltre,
spuntando
in un ampio ingresso con doppia scalinata, e prima di potere
raggiungere il
primo gradino Ellen sentì una voce fermarla.
«Aspettate!»
sibilò Janet, in un tono abbastanza alto da
essere udito soltanto da loro. Era entrata nella sala di fronte alla
cucina.
«Qui c’è una libreria…
è immensa.»
«Pensi che
potrebbe tenere qui gli ultimi due libri?»
Ellen trovò una
risposta alla propria domanda quando
superò anche lei la soglia.
«D’accordo…
d’accordo, questo è
inquietante.»
C’erano centinaia,
migliaia di volumi sistemati con cura
sulle numerose mensole che li circondavano, ma non serviva esaminarli
tutti per
capire che si trattava soltanto di Ventimila
leghe sotto i mari.
«Mi aveva detto di
avere una passione per Jules Verne»
rifletté Janet «ma non credevo fino a questo
punto.»
«O a
questo.»
Fauerbach portò
la loro attenzione sulla teca che
stazionava al centro della biblioteca. Oltre i vetri lucidi, si
intravedeva
chiaramente un manoscritto redatto a mano.
«La versione
originale… allora era vero. Non ci avevo
realmente creduto.»
«Dubito che i
nostri libri siano qui» mise loro
fretta Blake, che come Lilyan doveva morire dalla voglia di chiudere
quel
capitolo della loro vita il prima possibile. «Saliamo e
chiediamoglielo
direttamente.»
Procedettero con passi lievi
fino al piano superiore,
immaginando che Masters fosse ancora dove lo avevano intravisto prima
di
entrare nella villa. Quando bussarono alla porta aperta di quello che
poteva
essere il suo studio, l’uomo sobbalzò, decidendosi
infine di degnarli di
attenzione.
«Cosa fate qui?
Che volete? Andate via!» sbottò saltando
in piedi. Parve riconoscere Janet, perché le sue mani
afferrarono il libro che
stava leggendo, un volume dalla copertina marrone e priva di titolo, e
la pelle
del volto divenne pallida, quasi perlacea. Janet gliene aveva parlato
come di
un uomo sui cinquanta o sessant’anni, ma sembrava molto
più anziano: le dita
tremavano, le guance erano smunte, gli occhi incavati. «Ora
chiamo la polizia!»
«Non lo farete,
signor Masters» cominciò Blake mettendosi
alla testa del gruppo. Ellen notò che si era portato una
mano alla tempia
destra, come se fosse appena stato attraversato da una fitta di dolore.
«Vogliamo parlare con voi di Silas McCrindle.»
«È morto!
Che altro c’è da sapere?»
«L’avete
ucciso voi?»
«Chi vi autorizza
a fare queste domande e… e a essere
dentro casa mia?»
Masters sembrava una preda
messa alle strette da un
grosso felino affamato. Indietreggiò fino alla finestra,
stringendo il libro
marrone al petto, mentre lo sguardo saettava sui loro visi, come in
attesa di
scoprire chi avrebbe fatto la prima mossa.
«Avete ucciso voi
Silas McCrindle?» ripeté Blake con una
punta di rabbia nella voce.
«No…
no, io non c’entro niente!»
«Ne siete
sicuro?»
«Dovevano solo
derubarlo, non certo ucciderlo!»
La confessione parziale non
sembrò liberarlo dalla paura.
Masters non temeva di essere ricondotto alla morte di Silas: era
terrorizzato
all’idea di perdere un altro dei suoi fottuti libri.
Blake fece istintivamente un
passo avanti e altrettanto d’istinto
Masters arretrò, finendo con la schiena contro la vetrata.
Che si infranse verso
l’interno.
Ellen si chinò
per schivare le schegge di vetro che
volarono attraverso la stanza, e la sua mente non fece in tempo a
chiedersi cosa
fosse accaduto: vide Masters
librarsi in aria come se qualcosa di invisibile lo avesse afferrato,
poi notò
il sangue schizzare ovunque, lembi di pelle strapparsi dal corpo e
cadere a
terra, fino a quando il restante cadavere dell’uomo non venne
lanciato oltre la
finestra rotta.
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Capitolo 8 *** Capitolo VIII ***
Capitolo
VIII
Blake era stato il
più vicino a Masters. Socchiudendo le
palpebre, mentre si teneva la testa tra le mani nel caso in cui altri
frammenti
di vetro si fossero sollevati contro di loro, Ellen lo vide correre
alla
finestra ormai distrutta, appoggiarsi all’intelaiatura e
guardare fuori. Si
teneva ancora la tempia destra, forse per l’emicrania o per
un taglio, ma a
colpire Ellen furono i suoi occhi, che si spalancarono per lo stupore,
Quando
si voltò per comunicare agli altri lo stato in cui doveva
essere Masters, però,
l’espressione di stupore si tramutò e
congelò in terrore puro.
Ellen seguì il
suo sguardo – piano, lentamente, come se
il tempo si fosse fermato e lei non volesse scoprire cosa lo
spaventasse a tal
punto da portare la mano alla fondina. Nel breve tragitto tra Blake e
l’altro
lato dello studio, i suoi occhi incontrarono vetri, sangue e… carne.
Con un conato di vomito
ricordò il roastbeef del pranzo, il colore rosato, la
consistenza morbida, ma
fu solo quando distolse l’attenzione dai resti di Masters che
comprese la paura
di Blake.
Ciò che aveva
attaccato il bibliofilo non era più
invisibile. Masticava piano, un suono disgustoso e rivoltante, ma mai
quanto il
suo aspetto: il panico si impadronì di Ellen quando si
accorse della sagoma
gocciolante liquido scuro, percorsa per tutto il corpo da lunghi
tentacoli; non
aveva un volto, né occhi né bocca, era solo una
massa informe che si librava
nell’aria proprio sopra di loro. Era grande abbastanza da
riempire metà della
stanza. Ellen avvertì le gambe tremare nel momento in cui si
rese conto di un
altro, terribile particolare: le sole parti visibili della creatura
erano
quella bagnate dal sangue di Masters.
Indietreggiò e
quasi cadde, incapace di reagire, e subito
sentì un braccio afferrarla e trascinarla dietro
la scrivania ribaltata.
«Sta’
qui» le ordinò la voce ferma di Fauerbach. Come
poteva essere così calmo? Come riusciva a…?
Non c’era il tempo
di riflettere. Si nascose meglio,
mentre Fauerbach estraeva la pistola nello stesso momento in cui Blake
faceva
partire il primo sparo.
«Sta scomparendo
di nuovo!» gridò uno di loro – ma
chi?
«Sopra di
te!»
«No,
giù, vattene via!»
Ogni formalità
era cessata. Ora erano solo due uomini che
lottavano contro un mostro, proprio come nel dormitorio, proprio
come…
Si paralizzò di
nuovo quando vide Janet. Era al riparo
come lei, celata dietro una libreria che era stata ribaltata nella
furia del
combattimento, e teneva in mano un candelabro. Si stava alzando.
Avrebbe voluto gridare
«Janet, no!» ma le parole le
morirono in gola. Mentre il mostro veniva distratto dagli spari dei due
uomini,
Janet lo colpì in un punto a caso, non visibile ad occhio
nudo, e saltò
indietro per tornare a nascondersi. Questo diede il tempo a Blake di
ricaricare
la pistola, e gli occhi di Ellen non riuscivano a distogliersi dalle
sue mani:
apriva, caricava, chiudeva. Le dita erano ferme, proprio come quelle di
Fauerbach che ora stavano eseguendo lo steso rituale: aprire, caricare,
chiudere. Come potevano restare così calmi?
Un libro
attraversò in volo la stanza, schivando la
creatura.
La ragazzina.
Dal suo nascondiglio, Lilyan
stava lanciando un oggetto
dietro l’altro: libri, calamai, un secondo candelabro.
Cercava di colpire il
mostro che, poco alla volta, perdeva consistenza, rischiando di tornare
invisibile e ancor più pericoloso. Ellen si
guardò intorno, notò alcuni oggetti
e si soffermò sul tagliacarte affilato che era caduto
proprio ai suoi piedi. Lo
osservò, vide la lama scintillare, mandarle riflessi per
incitarla a prenderlo,
ma rimase immobile. Si portò le mani alla testa e si
costrinse a isolarsi.
Ci penserà
qualcun altro, ci penserà qualcun altro…, ripeteva come un mantra.
«Resta qui, Ellie,
non farti vedere…»
Aprì gli occhi.
No, ora non doveva isolarsi, ora rischiava
di uccisa da un momento all’altro. La creatura poteva
interessarsi a lei,
poteva volerla attaccare e cibarsi di nuovo, ed Ellen era la sola a non
avere
qualcosa con cui difendersi; scivolò lungo il pavimento
viscido, le mani a
contatto con il sangue di Masters, fino a raggiungere il tagliacarte.
Non
appena lo ebbe preso, lo strinse tra le mani e si riparò
meglio dietro la
scrivania, piegandosi per farsi più piccola possibile
– come aveva imparato tanto
tempo prima – con l’intenzione di difendersi se
fosse stata costretta a farlo.
Non voleva attaccare, non si
sarebbe mossa. Quando il
mostro avrebbe ucciso tutti sarebbe venuto da lei, e allora…
No, Janet…
Lo pensò, ma non
fece niente. Non voleva nemmeno
guardare, tuttavia si costrinse a farlo per poter tenere
d’occhio la
situazione. Sollevò appena la testa, chiedendosi quanto
tempo fosse passato, e
si rese allora conto di non udire più spari. Lilyan
continuava a lanciare libri
e soprammobili, ma le pistole erano ferme. Scariche o…
«Lilyan,
basta!» gridò una voce – Blake.
Solo allora Ellen
guardò oltre il proprio riparo. La
creatura era scomparsa – non invisibile, se ne era andata.
C’era sangue
ovunque, impossibile comprendere a chi appartenesse. Blake si teneva
ancora la
testa e Fauerbach si lanciò verso di lui, zoppicando, ma il
detective lo
tranquillizzò. Il medico si voltò verso Ellen e
la vide, e lei avvertì il
bruciore della vergogna attraversarle tutto il corpo. Un solo sguardo,
poi
Fauerbach zoppicò verso le altre due donne, assicurandosi
che stessero bene.
«Il
libro…» mugugnò Blake, che ora premeva
una mano
contro la spalla sinistra.
Ellen seguì la
direzione indicata e vide un volume in
pelle nera con una grossa incisione al centro. Senza attendere altre
istruzioni, si allungò per afferrarlo. Fu come se le sue
mani ardessero per un’ustione:
le ritrasse, guardando Blake, che ora aveva appoggiato la testa alla
parete, le
mascelle serrate per il dolore.
***
Le tremavano ancora le dita
mentre si portava alle labbra
la tazza calda. Fuori dalla caffetteria, i pendolari camminavano avanti
e
indietro lungo le banchine, in attesa che giungesse il loro treno; le
locomotive fischiavano annunciando l’ingresso in stazione, ed
Ellen poteva
udire la voce di Lilyan solo perché il suo tavolino si
trovava proprio accanto
al telefono del locale.
«Papà…
sono ad Arkham.»
La bugia venne enunciata
senza difficoltà: era più
complicato reprimere la paura e l’affanno.
«Lo so,
papà… ma ho pensato fosse meglio sistemare le
cose qui. Sai, devo organizzarmi con il maggiordomo, con la
villa… Certo, posso
farlo anche in un altro momento, ma sento che mi aiuterà a
tenere lontani i
pensieri.»
Forse l’ultima non
era una bugia. Davanti a lei, Janet
finiva il suo caffè, sospirando per l’ennesima
volta da quando si erano
allontanati dalla casa di Masters.
«Ti prego di
capirmi, devo trovare la mia strada, e non
posso farlo rimanendo qui… lì con
te.»
Un’altra bugia o
una seconda verità? Janet non la aiutava
a capire, il capo chino sul tavolo.
«Sì…
sì, hai ragione. Sarei dovuta passare. La valigia?
Sì, fammela portare da Devon, ma non servirà che
resti. Il maggiordomo di… di…
Il maggiordomo mi basterà.»
Ancora un sospiro.
D’istinto, Ellen allontanò il palmo
dalla ceramica e lo portò sulle dita di Janet. Erano fredde.
Lei non parlò, ma
ricambiò la stretta.
«Ti chiamo domani,
va bene? Ora devo proprio andare…»
Alzarono entrambe lo
sguardo: dal vetro, Fauerbach faceva
loro segno di sbrigarsi. Il treno era arrivato.
Non appena Lilyan ebbe
appeso la cornetta, le sue due
compagne si alzarono e la seguirono fuori dalla caffetteria, nella
stazione
rumorosa. Ellen stringeva ancora la mano di Janet, che
lasciò andare non appena
un ricordo spuntò nella sua mente; l’amica non
parve accorgersene. Camminarono
spedite verso il treno che sarebbe ripartito entro qualche minuto,
aiutate a
salire da Fauerbach. Blake era già all’interno e
si teneva ancora la spalla,
mentre il medico aveva smesso di zoppicare.
«Ho solo urtato
contro un mobile» aveva spiegato in
fretta, concentrato come loro sulle prossime azioni.
Sul momento
l’istinto aveva preso il sopravvento: Ellen
aveva provato di nuovo ad afferrare il libro in pelle nera, riuscendoci
finalmente,
e lo aveva riposto nella propria borsa; se ne erano andati senza
controllare di
non essere seguiti, e le sole parole pronunciate erano state quelle di
Lilyan:
«Non metteremo mio padre in pericolo.»
Erano stati tutti
implicitamente d’accordo. Il treno per
Arkham sarebbe partito entro un’ora e Lilyan aveva rimandato
la telefonata fino
all’ultimo momento, fingendo di avere già lasciato
Boston per impedire che il
padre potesse fermarla. Forse il senatore avrebbe controllato
l’orario delle
corse tra le due città, ma a Ellen sembrava che
l’uomo si fidasse ciecamente
delle parole della figlia.
Quando infine il treno
partì, soli nella carrozza da sei
posti che occupavano in cinque, Blake aprì la bocca.
«Tenetelo lontano
da me» biascicò.
Ellen, che era seduta di
fronte a lui, capì che parlava
del libro che teneva nella propria borsa. La diede a Janet, che la
lasciò nel
posto libero davanti alla porta, il più distante possibile
in quello spazio
ristretto.
«Devo dirvi una
cosa.»
«Cos’hai
visto fuori dalla finestra?» tagliò corto
Fauerbach, che si era chinato per esaminare la spalla ferita del
detective.
«Non era solo… il resto del cadavere di Jefferson
Masters.»
Blake scosse la testa.
«C’era qualcuno.»
«Il nostro
inseguitore?»
«Sì, ne
sono certo. Ci guardava… e non pareva sconvolto
dal cadavere dilaniato ai suoi pedi.»
Rimasero in silenzio, in
attesa, ma lui non continuò.
«C’è
altro?» chiese infine Fauerbach.
«Ha preso il
libro.»
Ellen sobbalzò.
Era certa che anche il libro mancante
fosse stato divorato dal mostro.
«Intendi
dire…?»
«Non lo so, ma con
tutto quello che abbiamo scoperto
negli ultimi giorni, non escluderei che la creatura sia stata mandata
da quell’uomo.»
«Come
all’università…»
mormorò Janet.
«Non ha
senso» esclamò Ellen. «Perché
farlo in quel
momento? Voleva prendere due piccioni con una fava? Sarebbe stato
meglio
attaccarci prima e toglierci intanto gli altri due libri.»
«Invece ha
senso» proseguì Janet, che finalmente parve
riscuotersi dallo shock. Si tirò in grembo la borsa e la
aprì.
Era vuota.
«Li ha
già…?»
«No, sono ad
Arkham. Scusatemi, avrei dovuto dirvelo, è
solo che… che ho avuto un’intuizione.»
«Di che
tipo?» domandò Fauerbach finendo di fasciare la
spalla di Blake.
«È…
è assurdo che a dirlo sia io. Chi mi conosce sa che
non sono credente…»
Ellen parve comprendere.
«Le uniche volte in cui siamo
stati al sicuro, tenendo i libri con noi, è stato a
Chateaubriand Manor.»
Janet annuì.
«Esatto. Credo di avere avuto ragione: non
ci hanno attaccati finché non abbiamo trovato gli altri
due.»
«Siamo stati noi a
condurlo da Masters…»
Blake pareva addolorato da
quella scoperta, ma Lilyan lo
fulminò con lo sguardo.
«Ha ucciso tuo
zio, o lo hanno fatto i suoi sicari. Non
perdere tempo a piangere per lui.»
Aveva ragione,
così come aveva avuto ragione Janet. La
sua amica li aveva raggirati tutti…
«La domanda
rimasta è una sola» disse infine Fauerbach,
socchiudendo le palpebre per riflettere. «Chi vuole i libri?
Chi ne è a
conoscenza?»
«Sono tutti
morti» cercò di ricordare Ellen, e in parte
si biasimò per avere liquidato in poche parole la famiglia
di Blake. «Solo
Silas McCrindle sapeva dei libri, e Masters, ma…»
«Non sono tutti
morti.»
Blake aveva parlato con
decisione: era chiaro che avesse
un sospetto ben preciso.
«Mio zio Darcus
è ancora vivo.»
***
«Posso
entrare?»
Ellen rispose con un
grugnito, che Fauerbach dovette
recepire come un “sì”. Camminava
incessantemente lungo la camera da letto, e si
chiese se l’uomo fosse lì per gli stessi motivi
della sera precedente o se
volesse pregarla di fermarsi, fare un respiro profondo e poi andare al
diavolo,
permettendo finalmente a lui e al resto della casa di addormentarsi.
«Ellen.»
Non le piaceva essere
chiamata per nome: Janet usava un
nomignolo e i pochi che le rivolgevano parola
all’università, perlopiù
professori, si limitavano a uno scocciato “signorina
Lawlier”.
«Adesso vado a
dormire, va bene?» sbottò mentre Fauerbach
si richiudeva la porta alle spalle. Aveva un sorriso divertito.
«Sai che anche il
detective Blake si sta dedicando a
passeggiate notturne?» la informò. «Non
sapevo a chi portare una camomilla.»
«A me non
l’hai portata» bofonchiò lei.
Fauerbach si stava frugando
nella tasca interna della
giacca, dove difficilmente avrebbe potuto tenere una bevanda bollente.
«No, alla fine per
te ho pensato ad altro.»
Estrasse una tavoletta
rettangolare che posò sulla
scrivania, come se temesse che avvicinandosi troppo Ellen gli avrebbe
staccato
le mani.
«Cos’è?»
«Cioccolato.»
Lei non disse niente. Smise
di camminare con passo
nervoso e si diresse piano verso la scrivania. Fauerbach aveva detto la
verità,
e lei non sapeva se ciò le facesse piacere o meno. Avrebbe
volentieri gettato
il medico fuori dalla sua stanza, se si fosse presentato a mani vuote e
solo
per farle una ramanzina. Non le aveva rivolto un singolo sguardo da
quando
erano usciti dalla casa di Masters, correndo via come indemoniati per
non farsi
trovare dalle pattuglie di polizia che, a giudicare dalle sirene, si
stavano
già appropinquando al luogo del delitto. Avevano fatto un
bel fracasso, in
effetti.
«Ti va di
parlare?»
«Per
niente.»
«Allora mangia,
parlerò io.»
Si lasciò cadere
sul letto mentre Fauerbach appoggiava la
schiena alla parete, accanto alla porta che dava sul bagno condiviso
con la stanza
di Janet e Lilyan.
«Non ho voglia di
sorbirmi una ramanzina.»
«Una ramanzina?
Per cosa?»
Ellen lo guardò.
Era sinceramente stupito.
«Per…
per essermi nascosta.»
«Stai scherzando?
Ti ho messa io al sicuro.»
«E io ci sono
rimasta.»
Improvvisamente, Fauerbach
scoppiò a ridere. «Ed era
proprio quello che dovevi fare. Zum Teufel,
mi sembravi
intelligente.»
«Lo
sono!»
«No, non lo sei,
perché altrimenti saresti rimasta
nascosta e senza pensarci troppo.»
«È
che… che…»
Anche la ragazzina si
è data da fare.
Prima di potere formulare
quella frase in modo da non
risultare più codarda di quanto non si sentisse, Fauerbach
percorse la distanza
fra loro e le prese il mento tra le dita.
«Se non hai
un’arma, è meglio non fare un cazzo.»
Rimase immobile a fissarlo.
Era serio adesso, e qualcosa
le suggeriva che, se avesse provato anche lei a lanciare un libro
contro il
mostro, sarebbe stato diverso il discorso che avrebbero fatto. Forse in
quel
caso sarebbe stata davvero una ramanzina.
Fauerbach la
lasciò andare e si frugò di nuovo nelle
tasche. Questa volta estrasse qualcosa di più voluminoso e
che aveva perfino meno
senso di essere lì rispetto alla cioccolata.
«Sai
usarla?»
Le porse un revolver per la
canna. Ellen non capiva
granché di armi, ma non riconobbe la pistola da lui
impugnata quel pomeriggio,
e nemmeno quella di Blake.
«È una
Colt. Sai usarla?» ripeté.
Ellen non rispose, incerta
su cosa fare.
«Non è
carica, sta’ tranquilla.»
Alla fine la prese e ne
esaminò il peso. Riusciva a
tenerla agilmente in mano, ma le dava una strana sensazione.
«È un
Colt M1917, simile al modello Smith & Wesson
del detective» le spiegò Fauerbach riprendendola
per un momento e accompagnando
le parole con una dimostrazione visiva. «Il tamburo ha sei
colpi, si estrae in
questo modo, si carica e si inserisce di nuovo. Puoi anche dimezzare i
tempi di
ricarica estraendone metà, così da inserire solo
tre proiettili. Ruoti, ne
metti altri tre e hai fatto. Non è la migliore sul
mercato… ma lo è su quello
americano.» Gliela restituì, sempre evitando di
mettere realmente dei
proiettili. «La mia è un’Astra, una
semiautomatica spagnola. Alla fine comunque
si usano nello stesso modo. E tu sai usarla?» Questa volta la
domanda uscì
infastidita.
«No, cazzo, non so
neanche come si regge!» sbottò Ellen,
che avrebbe volentieri fatto a meno di altre dimostrazioni simili.
«La tua mira
com’è?»
«Buona.»
Era vero: se si fosse decisa
a lanciare almeno il
tagliacarte, avrebbe di sicuro colpito il mostro. Aveva affinato la
propria
mira durante l’adolescenza, tirando pietre a barattoli vuoti
che sistemava
sempre più lontano.
«È un
passo avanti. Bene, ora tienila in questo modo…»
La spiegazione
durò poco. Le fece mettere una mano sul
grilletto e le chiese di puntate alla porta, poi al terzo cassetto del
comodino
e infine alla sua testa; le venne automatico posizionare la canna
all’altezza
giusta, e lo fu ancor di più quando la mirò alla
fronte di Fauerbach. Per tutta
risposta, lui sogghignò.
«L’importante
è avere la giusta motivazione…»
sospirò
divertito, avvicinandosi per toglierle il revolver. «Adesso
devi solo trovare
il sangue freddo per sparare.»
«Chi dice che lo
farò?»
«Io,
perché un giorno ti stancherai di nasconderti e
vorrei lo facessi sapendo usare una pistola, stupida
ragazzina.» Le afferrò il
polso e la tirò a sé. «Adesso
concentriamoci su qualcosa di più produttivo.»
Quando quella notte
Fauerbach lasciò la sua camera, Ellen
si girò nel letto per spegnere l’abat-jour e vide
qualcosa sul comodino. L’uomo
aveva lasciato la Colt con sei proiettili estratti.
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Capitolo 9 *** Capitolo IX ***
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morte di bambini
Capitolo
IX
La fine di ottobre del 1928
si presentò come una mattina
uggiosa, tipica dell’autunno di Arkham. Si svegliarono dopo
avere dormito tutti
a malapena, carichi di domande a cui non sapevano dare una risposta,
oltre che
pervasi da un senso di pericolo imminente. Janet poteva
avere avuto ragione ipotizzando che i libri fossero al sicuro
all’interno di
Chateaubriand Manor, oppure poteva essere stato soltanto un caso;
questa
incertezza li rendeva tesi, incapaci di prendere sonno e gustarsi la
calma che
li aveva circondati il giorno dopo il loro rientro da Boston. Si erano
lambiccati il cervello in cerca di soluzioni, e non erano riusciti a
ottenere
uno straccio di indizio.
Dopo avere ricordato al
resto del gruppo che Darcus
McCrindle, lo sterminatore della sua stessa famiglia, era ancora vivo,
Blake
aveva precisato che lo sapeva rinchiuso nel manicomio di Greenville,
nel Maine,
parecchio lontano da Arkham e soprattutto circondato da solide mura di
cemento.
Aveva provato a chiamare per chiedere informazioni, ma gli erano state
negate,
in quanto non risultava che McCrindle avesse dei parenti ancora in vita
a
eccezione del fratello; forse non tutti erano a conoscenza del doppio
fallimento
di Darcus, oppure nel corso degli anni di detenzione erano stati molti
i
ficcanaso che si erano interessati alla macabra vicenda.
Blake sapeva poco dello zio
sopravvissuto, solo ciò che
Silas aveva lasciato scritto nella lettera di commiato al nipote, unito
alle
informazioni ottenute chiamando la centrale di polizia di Greenville,
che lo
aveva tranquillizzato sulla cattura di Darcus, avvenuta il giorno
successivo
alla strage. La sua teoria prevedeva la presenza di una seconda
persona, un
complice acquisito negli anni, come un paziente rilasciato –
sebbene ciò
avvenisse molto di rado nei manicomi criminali – o peggio
l’uomo che lo aveva
aiutato a disfarsi dei McCrindle. Secondo Blake, era stato lui a
seguirli e a
evocare i mostri.
“Evocare”:
quella parola suonava così strana, eppure al
contempo appropriata. I ricordi del detective potevano essere stati
falsati
dagli eventi avvenuti a casa di Jefferson Masters, ma Blake insisteva
di avere
visto due libri accanto al cadavere del bibliofilo. Erano entrambi
aperti, uno
per la caduta, ma l’altro? Possibile che il presunto complice
di Darcus lo
stesse consultando in quel momento? E per fare cosa, se non evocare un
demone o
roba simile? Ellen non avrebbe mai creduto a questa teoria, se nel giro
di una
settimana non avesse visto ben due creature inimmaginabili tentare
di staccarle la testa.
Mentre il detective si
dedicava a cercare informazioni
sullo zio in cella, dunque, il resto del gruppo si era concentrato
sullo studio
dei mostri, in base alle informazioni che ricordavano su di loro. Ogni
volta
che Ellen ripensava alla creatura di Boston si sentiva torcere le
budella,
quindi aveva scelto di prendere in considerazione, per il momento, solo
le
carcasse su cui aveva già lavorato. Era stata una giornata
piena di indagini,
effettuata suo malgrado nella poco fornita biblioteca
dell’Arcivescovo Giraud,
per niente avvezza ad accogliere volumi su magia e stregoneria;
l’alternativa sarebbe
stata la Miskatonic Library, ma Ellen era restia a uscire di
casa, ormai
non soltanto per tenere un basso profilo
all’università. Janet le aveva dato
una mano a scandagliare ogni libro presente a Chateaubriand Manor, e
Fauerbach
le aveva dato il cambio quando l’archeologa si era
addormentata sul tavolo
della sala da pranzo, e fu una fortuna: le ricerche continuarono a
rivelarsi
infruttuose, ma perlomeno chiudersi in camera con il medico austriaco
le aveva
alleviato la tensione per un paio d’ore; al suo risveglio
– avvenuto in assenza
di Fauerbach – i dubbi erano ricominciati insieme a un forte
odore di bruciato.
Si era vestita in fretta e
furia, pervasa da una strana
sensazione che le aveva attanagliato lo stomaco, ed entrando in salotto
aveva
osservato Blake estrarre dal camino il volume nero recuperato da
Boston. Era
incredula: non perché il libro sembrava intonso, ma
perché non riusciva a
comprendere come Blake fosse passato da “Guardiano”
a “Distruttore di questi
libri del cazzo”. Si era bloccata prima di prenderlo a pugni;
dopotutto, il suo
tentativo di bruciare il tomo non era riuscito, quindi niente di
inestimabile
era stato distrutto, per il momento. Avvertiva ancora
l’attrazione e la
contemporanea repulsione verso quei tre volumi, e cercava di combattere
il
desiderio di metterci le mani sopra per studiarli accuratamente.
Era rimasta nella sala da
pranzo, incapace di riprendere
sonno, fino all’alba, quando anche il resto della casa si era
destato. Jeremy
aveva preparato una sostanziosa colazione che, per un momento, li aveva
fatti
sentire in pace con loro stessi, poi Lilyan lo aveva requisito per
parlare di
alcune migliorie da apportare alla villa. Fu chiaro a tutti che la sua
fosse
solo una scusa per restare del tempo con il maggiordomo di Giraud Des
Chateaubriand,
forse per conoscere aneddoti su di lui che ancora ignorava, o perfino
per
tenere il naso fuori dagli affari di Blake, verso il quale sembrava
provare un
forte astio che Ellen aveva cominciato a imputare ai misteriosi
“fatti di Salem”.
Quando si spostarono in
salotto per fumare, il detective
afferrò la copia dell’Arkham Advertiser che era
stata consegnata mentre ancora
tentava di bruciare i libri che avrebbe dovuto custodire, e nel giro di
un paio
di minuti sbiancò, accartocciò il quotidiano e lo
gettò nel camino. Questa
volta, le pagine arsero di fronte ai suoi occhi.
Ellen aggrottò la
fronte e non fu la sola: ora tutti
guardavano Blake, domandandosi cosa ci fosse mai scritto di tanto
sconvolgente.
«Alexander?»
esordì infine Janet, avvicinandosi all’amico.
Lui rimase in silenzio
ancora per qualche secondo.
«Lilyan non doveva vederlo» esalò
infine, una risposta per nulla esaustiva.
«Vedere
cosa?»
Blake alzò lo
sguardo su Janet, poi lo portò su Ellen e
su Fauerbach. Con un sospiro, si lasciò ricadere sulla
poltrona e accettò la
sigaretta che gli porgeva l’austriaco.
«Salem»
mormorò, ed Ellen avvertì un brivido lungo la
schiena.
«Ha a che fare
con… con quello è vi è successo
laggiù?»
Blake annuì alla
domanda di Janet, espirò il fumo e si schiarì
la gola, e ora Ellen seppe che era
giunto il momento.
«Devo raccontarvi
la verità.»
***
Siamo partiti per Salem la
mattina dopo il rinvenimento
della carcassa sulle sponde del Miskatonic River.
L’assistente di Jefferson
Masters non dubitava delle nostre intenzioni, e credo che tuttora ci
ritenga
all'oscuro di quanto accaduto quella notte, quindi
l’indirizzo che ci aveva
consegnato corrispondeva, in effetti, all’albergo dove aveva
alloggiato Masters.
Non sappiamo se lui ci abbia visto arrivare o se la sua partenza fosse
dovuta
all’effrazione allo Ye Olde Booke Shoppe;
la nostra sola certezza è
stata la sua camera vuota. Saremmo prontamente rientrati ad Arkham, se
la vista
dall’Arcivescovo Giraud Des Chateaubriand non avesse spinto
alcune donne a
richiedere il suo aiuto.
Ricordo di avere pensato che
le poverette fossero delle
esagitate, ma Giraud ha voluto ascoltare le loro parole,
perciò una di loro ci
ha invitato a casa sua per parlarne davanti a una tavola imbandita.
Samantha
Brown, si chiamava, e la donna con lei era Madeleine Dupont. Abbiamo
intuito
subito che il motivo del suo invito non fosse ingraziarsi
l’Arcivescovo, bensì
mostrarci lo stato delle loro figlie. La più grande, Cecilie
Brown, stava bene:
ci ha riempiti di attenzioni, ha giocato con Lilyan e le ha mostrato le
sue
bambole preferite, ma la sorellina, Lynda, presentava lo stesso
comportamento
della piccola Judie Dupont, caratterizzato in primo luogo da un
inconsueto
mutismo. Ricordo che Giraud le osservò per tutta la durata
del pranzo, e io non
potei che fare lo stesso: Lynda e Judie mangiavano portandosi il
cucchiaio alla
bocca nello stesso momento, sorseggiavano l’acqua nella
stessa maniera e, allo
stesso modo, tenevano lo sguardo chino sul piatto. Ho chiesto alle loro
madri
se fossero cresciute insieme, perché sapevo di bambine che
sviluppavano
atteggiamenti simili per “preservare” la loro
amicizia, ma la risposta mi ha
fatto ricredere. Non solo Lynda e Judie si conoscevano da poco
più di un anno;
il loro strano carattere, il silenzio e la timidezza erano tutti
condivisi
dalle bambine della loro classe.
Quando le due donne hanno
pregato Giraud di indagare in
merito a una presunta possessione demoniaca, l’Arcivescovo le
ha
tranquillizzate, spiegando che doveva trattarsi di
tutt’altro, ma ci ha anche
chiesto di rimandare il rientro ad Arkham. Entrambi abbiamo accettato:
non c’era
fretta nel rincorrere Masters, e fino a due giorni fa credevo che le
storie sui
libri maledetti dei McCrindle fossero fandonie, senza contare che
Giraud era
stato ospitale con me.
Se me ne sono pentito?
Sì, completamente.
Se le donne pensavano che il
diavolo avesse preso
possesso delle bambine della seconda classe, Giraud aveva
un’altra teoria.
Ricordo ancora che lo tenemmo nascosto a Lilyan per non turbarla.
Abbiamo
atteso il mattino successivo, poi ci siamo recati alla scuola inferiore
di
Salem per conoscere la loro maestra, con la scusa di una visita
ufficiale dell’Arcivescovo
Giraud. Se anche non avessimo conosciuto la classe frequentata da Lynda
e
Judie, l’avremmo capito subito: mi sono pietrificato alla
vista delle dieci
bambine che ci guardavano con espressione apatica, mute e bianche come
cadaveri. Tra di loro non c’erano le figlie di Samantha e
Madeleine, perché
Giraud aveva consigliato di tenerle in casa per un paio di giorni, ma
la
somiglianza con il loro atteggiamento era evidente. Tanto per scacciare
ogni
dubbio, Giraud ha benedetto l’aula con acqua santa,
soffermandosi sulla
cattedra della maestra, ma la signorina Smith non ha avuto alcuna
reazione. Ha
ringraziato l’Arcivescovo e gli ha chiesto di uscire per
proseguire la lezione.
Ero intenzionato a chiedere
a Giraud se condividesse
ancora i miei timori in merito alla maestra, ma prima di lasciare la
scuola
abbiamo notato del terriccio sul pavimento, e poi ancora impronte di
scarpe
infangate. Portavano tutte alla classe della signorina Smith. Le
abbiamo
seguite in senso contrario, fino a raggiungere una scala che puntava
verso il
basso, finendo contro una porta chiusa in modo da non poter essere
forzata
facilmente, nonostante io stesso ci abbia provato mentre Giraud e
Lilyan
facevano la guardia.
Nel pomeriggio siamo tornati
a casa dei Brown, dove
abbiamo visto le tre bambine giocare tutte insieme: si rincorrevano in
cortile,
ridevano e sembravano piene di gioia. La stessa Cecilie, la
più grande, ci ha
ringraziato per “averle restituito la sorellina”.
Qualcosa non andava, e aveva
a che fare con ciò che accadeva nei sotterranei della
scuola. Volevo dedicarmi
al pedinamento della signorina Smith, ma pur attendendo fuori dalla
scuola non
l’ho mai vista lasciare l’edificio. Nel frattempo,
Giraud ha cercato
informazioni sul luogo di costruzione della scuola, e questo mi ha
insospettito: sembrava che non pensasse più a molestie da
parte dell’insegnante,
a una verga usata un po’ troppo spesso, bensì che
avesse un’idea… diversa. La
sera stessa, infatti, si è presentato con un documento che
attestava la
presenza, nel luogo in cui ora sorge la scuola, della casa di una certa
Goody
Fowler.
Pronunciando il suo nome ha
incontrato lo sguardo di
Lilyan, che è apparsa profondamente colpita, e insieme mi
hanno narrato un
racconto su una presunta strega che aveva abitato ad Arkham, e che
lì era stata
uccisa agli inizi del diciottesimo secolo. Nessuno dei tre credeva a
quella
storia, forse solo un pochino Lilyan, che era la più giovane
e suscettibile fra
noi, però abbiamo temuto che la signorina Smith, giunta a
Salem proprio un mese
prima per sostituire la signorina Spire, scomparsa
all’improvviso, potesse
avere cattive intenzioni.
Ne abbiamo avuto la certezza
quando Samantha, disperata,
si è presentata al nostro albergo mentre facevamo colazione,
affermando che la
signorina Smith aveva preteso di portare la bambina a scuola. Il signor
Brown
non era presente, e la piccola Lynda era apparsa così
spaventata da annuire e
seguire la sua maestra senza fare storie. Ci siamo recati a scuola,
destando di
certo dei sospetti nella maestra, ma siamo riusciti a portare via Lynda
e
Judie, che come l’amica era stata trascinata a scuola contro
il volere di Madeleine.
Non è stato,
però, il solo evento sospetto tra il lunedì
e il martedì passati a Salem. Quella notte, vicino al nostro
albergo, un
edificio era andato in fiamme. Soltanto al mattino abbiamo saputo che
si trattava
del Palazzo di Giustizia, il luogo dove un tempo venivano giudicate le
presunte
streghe.
Era ormai chiaro che
dovessimo agire. Giraud, in veste di
rispettato Arcivescovo, ha deciso di andare al consiglio della
città, che si
stava svolgendo proprio in quelle ore, per convincere il sindaco a
indagare
sulla signorina Smith, mentre io e, mio malgrado, Lilyan e Samantha
siamo
tornati a scuola riuscendo finalmente a forzare la porta chiusa.
Samantha è
rimasta fuori a fare la guardia, mentre io e Lilyan siamo scesi e i
miei timori
si sono rivelati fondati… o quasi: dietro ogni cosa doveva
esserci la signorina
Smith, ma le bambine erano più in pericolo di quanto avessi
creduto.
La porta affacciava su un
magazzino, dietro il quale il
muro era stato buttato giù. Proseguendo, Lilyan e io siamo
finiti in un
corridoio buio, che sembrava sorretto soltanto da travi malmesse e da
cui
proveniva senza dubbio il fango e il terriccio che avevamo rinvenuto al
piano
superiore. Ben presto abbiamo raggiunto una stanza ubicata esattamente
sotto l’aula
della signorina Smith, e lì c’era… un
calderone. Come nelle storie sulle
streghe, nel calderone bolliva una sostanza nerastra, e Lilyan ha fatto
l’errore
di sporgersi… È stata colpita al viso da uno
schizzo del liquido ed è quasi svenuta
tra le mie braccia. Delirava, affermava di avere visto
qualcosa… qualcuno… una
vecchia donna. Sarei volentieri tornato in superficie per aiutarla, ma
in quel
momento sono giunte tre persone. Una era la signorina Smith, e le
altre… due
bambine di sei, sette anni. Nonostante la maestra apparisse giovane,
per un
attimo mi è sembrato di vedere una vecchia di fronte a me, e
sono stato
assalito dal terrore. Sarei rimasto paralizzato se proprio allora non
fosse
arrivato Giraud. La sorpresa suscitata nella donna dalla sua presenza
mi ha
dato l’opportunità di estrarre la pistola e
puntarla alla maestra.
È stato allora
che mi sono accorto di non avere più la
sua attenzione: la donna fissava Giraud, e così le bambine.
Avevano occhi
soltanto per lui. Se non avessero chiuso il passaggio, sarei potuto
scappare
con Lilyan, e Giraud deve avere pensato lo stesso, perché ha
dato loro le
spalle e ha cominciato a correre. Le nostre avversarie lo hanno
inseguito
mentre io facevo la sola cosa che in quel momento mi era parsa utile:
far
crollare le travi marce che già reggevano a malapena il peso
dell’aula
sovrastante. È avvenuto tutto troppo velocemente…
Il calderone è rimasto
sepolto e così… così anche una
bambina, colpita dalle macerie che si sono
subito sviluppate nel corridoio fino al magazzino. Non ho potuto fare
niente
per lei, ho provato ad allungare un braccio per afferrarla, ma
è stato inutile.
Quando la maestra ha tentato di lanciarsi su Giraud, però,
ho sparato due
colpi, forse anche tre o quattro: volevo solo che morisse. Non
è… non ne vado
fiero, ma ero spaventato e per un momento ho creduto alle leggende,
alle storie…
e adesso comprendo come fossero vere.
Lilyan si stava riprendendo
velocemente, ma non riusciva
a reggersi in piedi, così Giraud ci ha ordinato di uscire.
Voleva far ragionare
la bambina, che ormai sembrava innocua senza l’influenza
della maestra. Era
immobile, bianca come un cencio, ma stava bene. Lo… lo
sembrava davvero. Mi
sono rifiutato: sentivo che c’era qualcosa di sbagliato e che
non potevo
lasciarlo da solo. Lilyan era disarmata, certo, ma era una
bambina… una
bambina, dannazione, cosa poteva farci? Così non
ho ascoltato il suo…
Ho sbagliato.
All’improvviso la bambina si è messa a
gridare. Un grido lacerante. Avrei potuto sparare… potevo
farlo… ma ho scelto
di aspettare. Mi sono coperto le orecchie come ha fatto Lilyan, e solo
allora
ho visto del sangue uscire da… dalle orecchie di
Giraud… e lui crollare a
terra. Mi fissava… mi fissava con occhi spenti. Nichols ha
ragione: ha avuto un’emorragia
cerebrale, ma non sa cosa sia realmente accaduto. E non sa che, alla
fine, ho
sparato alla bambina. Che ho ucciso volontariamente una bambina.
Ho trascinato il corpo di
Giraud all’esterno, dove ci
aspettava Samantha, e non ho permesso a Lilyan di… di
restare con lui. Ho
dovuto afferrarla e portarla via con me, il più lontano
possibile, in cerca di
una corriera per Arkham, lasciando che Samantha spostasse il corpo di
Giraud.
Io… ho dovuto.
***
«Non hai
dovuto.»
Ellen si girò
verso la soglia, scoprendo l’esile figura
di Lilyan che a braccia conserte li osservava forse da parecchio tempo,
forse
perfino dall’inizio del racconto. Blake, che già
aveva un’espressione colpevole
sul volto, ora appariva profondamente addolorato.
«Lilyan…»
«Non hai dovuto.
Hai voluto.
Tutto ciò che sta succedendo da quando siamo giunti ad
Arkham è un tuo volere:
il testamento di Silas, la casa da sistemare, la ricerca dei
libri… Non dovevi
fare niente. Se volevi, avresti potuto accettare i soldi del
testamento,
ignorare la casa e farci tornare a Boston, invece ci hai messo nei
casini.
Siamo stati attaccati alla villa di Masters, siamo andati a Salem,
siamo ancora
in pericolo. È vero, a quel punto era troppo tardi per
Giraud, ma sii
consapevole che la sua morte è tutta colpa tua.»
Nessuno osò
replicare. Nemmeno Janet, che conosceva
Lilyan da quando era stata una bambina, provò a difendere
Blake; era ancora
turbata dal racconto e fissava il pavimento con occhi lucidi. Ellen
ignorava
cosa le facesse più male, sapere il modo in cui
l’Arcivescovo era morto, udire
le parole dure di Lilyan – eppure
così sincere –
o la
confessione di un omicidio che lo stesso Blake dubitava fosse
indispensabile. L’omicidio
di una bambina.
Ellen rabbrividì
e ne approfittò per mettere altra legna
nel camino, fra la cui cenere si notavano ancora piccoli brandelli
bruciati
dell’Arkham Advertiser.
«Perché
ne stiamo parlando?» insistette Lilyan.
«Volevo…
che sapessero.»
«Stronzate.
Dimmelo, lo scoprirei comunque. Non sono una
ragazzina da proteggere.»
La sua voce lieve,
l’aspetto fanciullesco, il fiocco rosa
fra i capelli, tutto suggeriva il contrario, ma la determinazione che
si
leggeva nei suoi occhi confermava le parole di Lilyan. Blake
sospirò come se si
preparasse alla parte peggiore della storia. Cosa c’era
ancora?
«L’Arkham
Advertiser riporta
dei fatti successi a Salem.»
«Quei fatti?»
«No. Finora
nessuno ha unito gli omicidi, e Gi…
l’Arcivescovo è stato trovato lontano dalla
scuola… ma forse ora hanno un
indizio.» Blake sollevò lo sguardo su Lilyan, e
apparve ancora più dispiaciuto.
«Hanno trovato due famiglie assassinate. Mi spiace, Lilyan,
io…»
«No, no,
no…» La ragazza indietreggiò verso la
parete, le
mani che salivano alle orecchie, come per impedirsi di ascoltare.
«Non può… non
loro…»
Solo a quel punto Janet si
alzò e corse ad abbracciarla, intuendo
come tutti loro chi fossero le due famiglie, forse ripercorrendo
mentalmente i
loro nomi allo stesso modo in cui lo stava facendo Ellen.
Samantha, Madeleine. E
Lynda, Judie, e Cecilie che non c’entrava
niente.
Lynda…
Si alzò
bruscamente e uscì dalla stanza, turbata e
assillata dal proprio passato. Niente di buono accadeva a Salem, e
Lilyan aveva
ragione: tutto quello che era capitato a lei e prima ancora a loro era
da
imputare a Blake; tuttavia Ellen non riusciva a biasimarlo,
perché la
sofferenza e il rimorso erano tanto forti che non poteva accusarlo di
avere
agito senza pensare. Quel poveraccio era stato strappato alla sua
tranquilla
vita familiare per finire in un incubo, dal quale nessuno di loro,
ormai, sarebbe
riuscito a svegliarsi.
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Capitolo 10 *** Capitolo X ***
Capitolo
X
«Queste possono
andare bene?»
Janet sollevò lo
sguardo sulle mele che Ellen teneva in
mano e annuì. «Sì, sono perfette per la
torta. Hanno la consistenza giusta per…»
«Prendiamole e
basta» tagliò corto Lilyan.
Dopo ciò che era
avvenuto quella mattina nel salotto di
Chateaubriand Manor, la giovane ereditiera aveva dato sfogo a una serie
di
comportamenti contraddittori; in quell’istante, era di nuovo
passata a
detestare l’idea di festeggiare il compleanno di Blake. Janet
lo aveva
annunciato durante il pranzo, allo scopo di sollevare gli animi dei
presenti,
ma il detective non era parso contento della sua proposta; a sua volta,
Lilyan
aveva bofonchiato un «Non sappiamo nemmeno quando sia il suo
vero compleanno»,
ma a sostegno di Janet si era lanciato Fauerbach, il quale aveva
passato intere
ore in silenzio, riflettendo probabilmente sul racconto di Blake.
Secondo il medico austriaco,
fingere di essere un normale
gruppo di amici o conoscenti riunitasi per una gioiosa occasione li
avrebbe
aiutati a dimenticare, per almeno una serata, l’orrore che si
stavano portando
dietro da settimane. Ellen stentava a credere che appena sette giorni
prima si
era svegliata entusiasta per dovere saltare la lezione di Peabody e
partecipare
a una ricerca scientifica.
No, lunedì
scorso, a quest’ora, avevamo già trovato il
cadavere di Proctor.
Su un punto, Janet e
Fauerbach avevano ragione: le
indagini stavano andando a rilento, il manicomio di Greenville non
sarebbe
stato reperibile fino al mattino successivo, dunque meglio divagare. Lo
stesso
Fauerbach aveva convinto Blake a uscire per una passeggiata mentre le
tre donne
si occupavano della spesa.
Ecco, quello era
stato il primo segnale ambiguo da
parte di Lilyan. Janet avrebbe voluto organizzare la serata e aveva
già
preparato un elenco di acquisti da affidare a Jeremy, quando Lilyan
aveva
asserito che il maggiordomo fosse fin troppo carico di impegni, quindi
sarebbero andate loro tre al suo posto. Era stata una strana proposta
da parte
di una persona che, appena qualche minuto prima, si era detta contraria
a
festeggiare il compleanno dell’uomo con cui ce
l’aveva a morte – compleanno
reale o inventato che fosse – tuttavia Janet aveva sorriso e
si era dichiarata
bendisposta a dedicarsi alle compere. Ellen sarebbe andata comunque con
loro,
anche se Lilyan non l’avesse invitata, perché
conscia di avere bisogno di una
pausa.
Si erano inoltrate nel
Merchant District, il quartiere
che divideva French Hill e il Campus dal Miskatonic River, ed erano
state liete
di trovare un mercato a cielo aperto nonostante il tempo perfino
più ostile di
Lilyan. L’intenzione di Janet era di acquistare il necessario
per un pasto che
restituisse loro il calore familiare, e qualcosa suggeriva a Ellen che
avrebbe
insistito per apparecchiare il tavolo della cucina, con grande
disappunto di
Jeremy e Lilyan, ma poco importava: le interessava soltanto dedicarsi
alla
scelta delle mele perfette per la loro torta, perché per un
pomeriggio voleva
sentirsi frivola. No, non era vero: voleva provare cosa significasse
avere come
unico problema il dilemma fra mele rosse e mele gialle –
avevano dei nomi, ma
lei non si era mai degnata di impararli.
«Grazie»
sussurrò improvvisamente Janet alle sue
orecchie. Ellen la guardò, scoprendo
un’espressione contrita dietro gli
occhiali spessi. «Di essere ancora qui, intendo. Non avrei
dovuto trascinarti
in questa storia… La colpa è di Alexander quanto
mia.»
Ellen non sapeva come
reagire, perché le parole di Janet
non avevano senso: era stata lei a voler rimanere a Chateaubriand
Manor, e
sempre lei a essersi dimostrata entusiasta per essere stata inserita
nell’equipe
di Miller. A sollevarla dalla risposta fu Lilyan, che si era avvicinata
in
fretta.
«Penso che ci
stiano seguendo» annunciò a bassa voce.
Janet sollevò
d’istinto il capo, mentre Ellen rimase
concentrata sulle mele che stava imbustando. «Non
guardare» la ammonì.
Consegnò la spesa
al venditore, conscia che dietro ogni
banco del mercato ci fossero le vetrine dei negozi, chiusi per il
giorno di
riposo settimanale. La superficie lucida le restituì il
riflesso di due persone
che sembravano osservarle dall’altro lato della strada. Si
voltò di colpo come
se volesse soltanto consegnare le buste alle due ragazze per
alleggerire il
peso sulle braccia, e il suo sguardo indifferente vagò sulla
coppia che le
stava fissando.
Rilassò le
spalle, sollevata. «Vi guardavano solo perché,
a differenza nostra, non avete certo l’aspetto di una
servetta o di chi deve
mandare avanti da sola una famiglia» spiegò a
Lilyan, la quale era uscita in
abiti eleganti che si confacevano più alle strade di French
Hill che a un
mercato contadino.
La coppia che ora dava loro
le spalle, infatti, era
composta da un uomo e una donna che si tenevano a braccetto e
confabulavano tra
loro.
Janet sospirò e
rivolse un gran sorriso a Lilyan. «È
tutto a posto, siamo solo un po’ nervose. Adesso rientriamo e
prepariamo questa
torta!»
***
«Una cena ottima,
i miei complimenti agli chef.»
Fauerbach portò il tovagliolo alle labbra e si
pulì educatamente, gli occhi
puntati prima su Janet e poi su Jeremy, che era appena entrato nella
sala da pranzo.
Come Ellen aveva intuito,
Janet aveva proposto di
spostare la cena in cucina, ma la consueta espressione impassibile del
maggiordomo si era tramutata in qualcosa di simile al panico
– in altre parole,
aveva sussultato impercettibilmente e sollevato un sopracciglio. La
tavola
della sala da pranzo era stata quindi imbandita a festa, e in quel
momento
Jeremy era tornato per sparecchiare e servire loro la torta di mele
cucinata
insieme a Janet.
«Oh, Michael,
ancora non hai assaggiato ciò che ho
preparato!» rise l’archeologa. «Propongo
un brindisi per il nostro Jeremy, che
ci regala sempre pasti eccezionali.»
Fauerbach
sospirò. «Se solo potessimo brindare come si
deve…» Cercò di incontrare lo sguardo
del maggiordomo, ma non ebbe successo, e
la stessa padrona di casa scelse di ignorarlo, o non comprese la sua
allusione.
Se fosse stato per Ellen, il
proibizionismo sarebbe
potuto durare in eterno, però solo in quel momento si chiese
come fossero le
cose in Europa. Era concesso bere alcolici? Forse i soldati schierati
in
trincea durante la Grande Guerra si erano scaldati con una fiaschetta
di
whiskey? Sperava non fosse stato così, perché
l’alcol offuscava le menti, e
loro avevano bisogno di essere lucidi, non di morire senza neanche
rendersene
conto.
Tornò alla
realtà quando Jeremy entrò trasportando la
torta per Blake, che aveva partecipato ai festeggiamenti tanto quanto
Lilyan. Ellen
stava ancora pregustando il sapore del dolce quando un botto
echeggiò nella
stanza.
D’istinto, Ellen
si buttò sotto il tavolo. Non aveva
capito subito che tipo di esplosione fosse, tuttavia guardando il vetro
della
finestra infranto riconobbe le crepe lasciate da un proiettile. Si
alzò e si
guardò intorno: la sua bramata torta era finita a terra, ma
per fortuna
sembrava che nessuno si fosse fatto male. Vide Fauerbach estrarre la
propria
pistola e Blake fare lo stesso.
Il mio revolver,
ricordò.
Non aveva ancora provato a
usarlo, ma altri colpi
esplosero dall’esterno verso la sala da pranzo, e
l’idea più saggia che le
venne in mente fu di correre nella propria camera per prendere il
revolver
nascosto nel baule. Si ritrovò ad agire a mente lucida,
forse perché in quel
momento non rischiava la vita per un mostro ricoperto da tentacoli o un
anfibio
troppo cresciuto: Ellen conosceva le pistole, era già
scappata a una raffica di
proiettili in passato e, dopo gli avvenimenti degli ultimi giorni,
trovava
quasi facile fronteggiare dei semplici
umani.
Mentre si lanciava
giù per le scale, notò qualcosa di
inaspettato: Jeremy, che era scomparso insieme a lei, stava tornando
con più di
un’arma in mano. Consegnò una pistola a Lilyan e
un’altra a Janet; solo l’archeologa
sembrava sorpresa da quel gesto. Non ebbero tempo di fare domande,
perché altri
colpi furono sparati alle loro spalle, da una direzione diversa, come
se i loro
assalitori avessero deciso di accerchiarli. Ellen corse alla finestra
più
vicina per vedere meglio, riparandosi dietro il muro, e il suo cuore
mancò un
battito quando si accorse che Fauerbach e Blake erano usciti; Jeremy li
stava
seguendo in quel momento.
Che cazzo fanno?!
Alla sua destra, Lilyan
stava provando a sparare attraverso
la portafinestra aperta, ma era chiaro che fosse la prima volta che lo
faceva.
Il contraccolpo, seppur lieve, la spinse indietro. Dal canto suo Janet
non
sapeva come agire, e invece di usare l’arma
afferrò il telefono per chiamare la
centrale di polizia. Era un’ottima idea, tuttavia Ellen
sperava che i vicini ci
avessero già pensato: non sapeva quanto avrebbero resistito
all’assedio, non
riusciva neanche a capire in quanti fossero a sparare.
A quel punto si rese conto
che il rumore di vetri rotti
era cessato, e capì che la sparatoria stava continuando
contro gli uomini all’esterno
della casa. Si azzardò quindi ad affacciarsi meglio,
approfittando del buco
nella finestra più vicina per puntare l’arma, nel
caso ce ne fosse stata la
necessità, e diede un rapido controllo alla situazione.
Fauerbach era riparato
dietro una siepe, Blake e Jeremy
si trovavano nel portico, all’altro lato del giardino
anteriore. Gli assalitori
si nascondevano oltre il cancello serrato, non avevano provato a
forzarlo, ma
avevano sparato direttamente attraverso le grate. Quasi le cadde
l’arma di mano
quando si accorse che i loro avversari erano più impacciati
di lei. Riconobbe i
profili di un uomo e di una donna, per quel poco che riusciva a vedere
sotto la
luce fioca dei lampioni, poi notò una seconda figura
femminile arrampicarsi
sulla recinzione di ottone che correva intorno alla villa. Voleva
tenerla sotto
tiro, nel caso si fosse avvicinata a Blake e Jeremy che, al contrario,
tenevano
d’occhio gli aggressori ancora all’esterno del
giardino, quando un movimento più
vicino la colpì.
Fauerbach, come lei, stava
puntando alla donna che aveva
scavalcato la ringhiera, e non si era accorto dell’uomo che
invece correva
silenziosamente verso di lui, la pistola stretta, le braccia tese,
pronto a
sparare. Ellen fu presa dal panico: alzò anche lei il
revolver, lo puntò all’uomo
e fece esplodere un colpo, che lo raggiunse alla spalla. Fauerbach si
voltò
udendo lo sparo e l’uomo che imprecava; mentre lo sconosciuto
cadeva a terra, l’austriaco
rivolse uno sguardo stupito a Ellen, e ancora una volta alle sue spalle
un
grilletto venne rilasciato.
***
«Ellen!»
Fauerbach corse verso di lei
mentre Ellen teneva ancora
la pistola in mano, ora puntata verso il pavimento. Quando
appurò che la
ragazza era indenne, Fauerbach le tolse delicatamente il revolver dalle
mani e
lo poggiò sulla superficie più vicina.
«Stai
bene?»
Lei esitò,
deglutì e infine annuì, esalando un profondo
respiro. All’esterno le voci erano aumentate, confermando
ciò che Ellen aveva
creduto di vedere: la polizia era finalmente arrivata. Concesse a
Fauerbach di
premerle una mano contro la schiena, come se temesse che lei potesse
svenire in
quell’esatto istante, e si lasciò trasportare
verso il divano.
«Mettila con le
altre» udì dire dalla voce di Fauerbach.
L’austriaco si era rivolto a Jeremy, che afferrò
il revolver di Ellen mentre il
suo interlocutore riponeva il proprio sotto la giacca,
all’altezza della
cintura. «Teniamo solo la mia pistola e quella di Blake,
siamo gli unici
autorizzati ad averle.»
Era sensato, perfettamente
sensato, come lo era il fatto
che i due uomini sembrassero a posto dopo avere rischiato la vita in
prima
linea. Dopotutto, per quanto ne sapeva avevano fatto entrambi la
guerra, e lo
stesso doveva valere per il detective, quindi era normale che solo lei
si
sentisse priva di forze.
Sollevò il capo
verso Fauerbach, che si era rapidamente assicurato
che stesse realmente bene.
«Sono al
sicuro» rispose lui alla sua muta domanda.
«Janet è un po’ scossa, ma la sua
pistola non ha mai sparato, mentre Lilyan…»
Il suo sguardo vagò alla finestra rotta, e solo allora le
orecchie di Ellen smisero
di fischiare e colsero l’urlo disperato che proveniva
dall’esterno. «Ha colpito
la donna che aveva scavalcato. La nostra ospite sta bene, ma ha bisogno
di una
tisana, e vorrei chiedere a te di pensarci. Jeremy
è… impegnato con altro, come
avrai capito.»
Ellen annuì
ancora e si alzò, le gambe di nuovo
funzionanti e rigide; coprì in pochi passi la distanza che
la separava da
Lilyan, che osservava la scena in giardino con occhi sgranati. Come
aveva fatto
Fauerbach, le poggiò una mano dietro la schiena e la
sospinse nella cucina,
dove trovarono anche Janet. Fu lei a preparare il tè per
Lilyan, sconvolta per
avere colpito un essere umano, e questo permise a Ellen di recarsi
all’esterno
per controllare di persona la situazione.
C’era una piccola
folla oltre il cancello ora aperto,
curiosi che si mescolavano ad agenti già stufi di mandarli
via. Tra loro si
stavano facendo largo due barellieri, chiamati forse da Janet insieme
alla
polizia. Per fortuna, il loro gruppo era illeso, ma ciò non
si poteva dire degli
assalitori. Erano due uomini e due donne; la coppia che era rimasta
fuori dal
cancello era stava ammanettata e, a parte i vestiti sgualciti e i
capelli
arruffati, era sostanzialmente a posto, mentre l’uomo colpito
da Ellen si
lamentava per la ferita alla spalla. Non aveva preso un punto vitale,
ma l’impatto
ravvicinato del proiettile contro il muscolo lo aveva buttato a terra
per il
dolore. La barella, però, era per la quarta persona, la
donna che Lilyan aveva
in qualche modo preso alla gamba: perdeva parecchio sangue e urlava
disperata.
Con un lampo di
consapevolezza, l’attenzione di Ellen
tornò alla coppia illesa. Riconobbe i due che le stavano
spiando al mercato, e
si diede dell’idiota per avere minimizzato
l’accaduto. Forse Lilyan aveva avuto
ragione: le stavano seguendo, e alla fine avevano scoperto dove
vivevano. La
vera domanda era chi
cazzo
fossero.
Raggiunse Fauerbach e Blake,
che stavano discutendo con
un agente. No, Fauerbach parlava: Blake fissava il vuoto.
«…mi
rincresce, avrei dovuto capire che potevate essere
in pericolo.»
«Come avreste
potuto? Non c’erano indizi, hanno soltanto
chiesto dove fosse la villa dell’Arcivescovo.»
«Lo so, ma
è stato inusuale. Capita raramente che delle
persone si rechino in centrale per domandare l’ubicazione di
una casa, e…»
«…e
questo li rendeva ancor meno sospetti. Soltanto dei
pazzi potrebbero rivolgersi alla polizia per sapere dove abitano coloro
che
intendono uccidere. Pazzi o disperati.»
«Propenderei per
la seconda ipotesi.» L’agente guardò
Ellen, esitando, ma Fauerbach gli fece cenno di andare avanti.
«Stando alla
dichiarazione di una degli arrestati… volevano
giustizia.»
Ellen stentava a comprendere
di cosa stesse parlando il
poliziotto. La sua mente cercava un nesso tra quelle persone che, come
lei,
dovevano avere impugnato un’arma per la prima volta solo
quella sera e tutto
ciò che era accaduto dall’arrivo del gruppo ad
Arkham. Possibile che fossero
loro i complici di Darcus? Non reggeva l’ipotesi di una
giustizia personale,
come stava invece spiegando l’agente. Si concentrò
allora su Blake. Si era
sbagliata: il detective non stava fissando il vuoto, bensì
la donna in manette
che urlava e urlava.
«…mia
figlia! Avete ucciso mia figlia!»
«Queste persone
vengono da Salem» continuò il poliziotto
quando ormai ciò era diventato chiaro anche a Ellen.
«Seconda la loro
dichiarazione, imputano a voi la morte delle loro due figlie. Avete
idea di che
cosa stiano parlando?»
Finalmente Blake
annuì. «Sì.»
«Ma si
sbagliano» intervenne Fauerbach prima che il
detective potesse confessare altro.
«Ho bisogno che mi
seguiate in centrale.»
«Verremo
volentieri, ma potremmo lasciare fuori le
signore?»
«Sono
ferite?»
«No, sono un
medico, mi sono già assicurato della loro
salute fisica. Tuttavia sono molto provate dall’attacco e non
vorremmo turbarle
altrimenti.»
Ellen sapeva di avere un
aspetto più pallido del solito,
dunque fu facile sostenere le parole di Fauerbach.
«Mi… mi occuperò delle
altre.»
Entrò in casa
seguita dalle urla delle donne, entrambe
ululanti di dolore e disperazione. Ora anche i loro mariti si erano
aggiunti e,
a giudicare dall’espressione dura di Lilyan, lei stessa
doveva avere capito con
chi avevano avuto a che fare.
«Che muoiano
tutti» ringhiò la ragazzina.
***
Finalmente.
Ellen corse alla porta
sentendo le nocche di Fauerbach
bussare sul legno: lo aveva aspettato in piedi, certa che non sarebbe
riuscita
a dormire senza sapere come fosse andata alla centrale di polizia, se
qualcuno
di loro fosse nei guai per essersi difeso o se, peggio, fosse stato
scoperto un
reale collegamento tra Blake, Lilyan e la morte delle due bambine.
«Allora,
cosa…?»
Fu interrotta dalle labbra
di Fauerbach che la baciarono
voracemente, mentre il suo corpo la spingeva contro lo stipite.
L’uomo la
sollevò e la trasportò dentro, chiudendo la porta
con un calcio, e continuò a
baciarla contro la parete. Quando si allontanò, le sembrava
di non respirare da
secoli.
«Mi hai salvato la
vita» spiegò Fauerbach – Michael,
Michael, era stupido
continuare a pensare a lui come a uno sconosciuto. Non lo contraddisse,
sebbene
non le sembrasse di avere compiuto chissà quale impresa,
sparando quasi a caso
e rischiando perfino di colpire lui; non lo contraddisse
perché le piaceva il
modo in cui la faceva sentire in quel momento, così diverso
dalle occasioni
precedenti: sembrava che fossero stati entrambi a un passo
dall’essere uccisi,
ancora di più che a Boston, e i corpi di entrambi fremevano.
Rimandarono le chiacchiere a dopo.
«La situazione
è risolta» spiegò alla fine Fauerbach
nell’oscurità
della camera da letto.
«Risolta?»
«Nel senso che non
dobbiamo più preoccuparci di Salem. Ho
spiegato che siamo stati assediati durante la cena, e che io e il
detective
Blake, gli unici a possedere un porto d’armi, ci siamo
solamente difesi. Ci
hanno chiesto anche delle accuse a nostro carico, ma Blake non si
è fatto
venire inutili scrupoli.»
«Lilyan ci sarebbe
andata di mezzo.»
«Brava. Blake non
poteva lavarsi la coscienza in questo
modo.»
«Cosa
sapevano?»
«Le due donne, la
Brown e la Dupont, avevano cominciato a
parlare di possessioni ben prima dell’arrivo dei nostri a
Salem, e quando l’Arcivescovo
è stato trovato morto… hanno agito nella maniera
peggiore possibile.»
«Che
intendi?»
«La Brown aveva
trascinato il cadavere su una stradina
secondaria che collega il municipio alla scuola, in modo che sembrasse
che l’Arcivescovo
avesse avuto un malore mentre precedeva il consiglio cittadino dalla
signorina
Smith. La polizia di Arkham non dubita del tipo di morte: verso le
undici ha
svegliato il medico legale di Salem e si è fatta dettare il
referto. C’era
sangue nelle orecchie dell’uomo, non poteva trattarsi di
omicidio.»
«Veleno?»
«Perché
controllare? L’unica erede dell’Arcivescovo non
l’ha
richiesto, quindi un’emorragia è parsa la
soluzione più semplice. Poi però… la
Brown ha voluto fare di testa sua. Si è messa a raccontare
che la maestra era
una strega e che le bambine erano sotto il suo controllo. Mettiti nei
panni dei
genitori che hanno perso le figlie a causa di Blake: due bambine sono
morte per
il crollo di parte dell’edificio scolastico, e invece di fare
le condoglianze
Samantha e Madeleine hanno pensato bene di sottolineare quanto bene
stessero
ora le loro figliolette.»
«Cazzo…»
«Hanno fatto fuori
entrambe le famiglie un giorno fa,
incolpandole di essere in combutta con un falso prete e con dei
forestieri, poi
hanno capito che si erano spinti troppo oltre per fermarsi, e hanno
puntato a
Lilyan e Blake.»
«Come li hanno
uccisi?»
«Non lo vuoi
sapere. Sul serio, Ellen, non voglio
dirtelo.»
«Va bene. Mi
sfugge però perché… perché
sia stato tutto
così semplice.»
«Per i presunti
colpevoli, intendi? Prova pensarci. Uno
era un rispettabilissimo uomo di Chiesa, mentre
l’altra…»
«…è
la figlia di un senatore. Con il quale Blake ha una
forte amicizia.»
«Dubito che il
nostro caro senatore Butler sappia
qualcosa di queste accuse, altrimenti avrebbe già mandato un
paio di auto a
prelevare Lilyan. Il suo nome è bastato per far ipotizzare
alla polizia di
Arkham e di Salem che alcuni genitori in lutto hanno deciso di
trasformare il
dolore in vendetta, o in giustizia, come la vogliono
chiamare.»
«Avevano
ragione… in parte. Blake…»
«Non parliamone
più. Adesso quei tre sono in cella e ci
resteranno per parecchio.»
«Tre?»
Michael esitò. Ci
mise qualche secondo per rispondere
alla domanda di Ellen. «La quarta è morta in
ospedale. Quella che Lilyan ha
colpito.»
Calò il silenzio,
un silenzio grave e pieno di
significato, che alla fine fu interrotto da una risatina inaspettata e
fuori
luogo da parte dell’uomo. Era una risata amara, tuttavia, ed
Ellen ipotizzò che
Michael volesse solo stemperare la gravità della situazione.
«Scusa, non
è il momento, è solo che… Altro che
“nuova
gestione della casa” e “troppi compiti per
occuparsi anche della spesa”: il
motivo per cui Lilyan e Jeremy discutevano di nascosto e non ci
volevano in
giro era l’acquisto delle armi.»
«Cosa?!»
«Già,
me l’ha rivelato lui quando gli ho chiesto da dove
fossero uscite quelle pistole in più. Stando alla sua nuova
padrona, dovevate
imparare a difendervi. Il fatto che sia riuscito a procurarsele
addirittura
oggi rivela due cose. La prima è la nostra colossale fortuna
nella merda in cui
navighiamo.»
«E la
seconda?»
«Che nessuno
può ottenere delle armi nel giro di una
giornata. Il maggiordomo nasconde qualcosa, ragazzina.»
Scivolò fuori
dalle coperte e si rivestì in fretta,
lasciandola riflettere sulle ultime informazioni ricevute. Quando si
chinò per
baciarle la fronte, però, riuscì a lasciarla con
un ulteriore quesito.
«Cerca di dormire:
domani partiamo.»
|
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Capitolo 11 *** Capitolo XI ***
[TW:
morte di bambini]
Capitolo
XI
La speranza di recuperare in
treno il sonno perduto era
condivisa da ogni membro del gruppo, e ugualmente vana. Il viaggio
sarebbe
durato diverse ore, poiché la loro meta era ben
più distante di Boston, e forse
a un certo punto sarebbero crollati, ma ad appena due stazioni dalla
partenza
le loro menti sembravano più sveglie che mai, in aperto
contrasto con gli
sbadigli e gli occhi arrossati. Michael aveva abbassato le palpebre e,
come
Lilyan, aveva appoggiato la testa al finestrino, mentre Ellen e Blake
sfogliavano le pagine dei loro rispettivi taccuini; la ragazza
avvertiva su di
sé lo sguardo di Janet, come se l’archeologa fosse
spesso sul punto di dire
qualcosa, ma il sonno glielo stesse impedendo.
Nessuno di loro aveva
provato a dormire durante la notte
appena passata. Michael e Blake erano rientrati tardi dalla centrale,
intorno
alle due del mattino, e nel bagno che Lilyan e Janet condividevano con
lei
Ellen aveva udito numerosi e ripetuti passi, segno che avevano fatto
avanti e
indietro almeno fino all’una, quando i rumori erano cessati;
tuttavia, i loro
volti stanchi rivelavano che avevano passato entrambe una notte
insonne. Dal
canto suo, Ellen già era rimasta sveglia per
l’ansia di sapere i due uomini a
colloquio con la polizia, e una volta udito il resoconto di Michael i
pensieri
si erano fatti più fitti e ingarbugliati.
«Cosa hai
scritto?» si decise infine a chiederle Janet,
scrutando il taccuino da sopra la sua spalla.
«Solo qualche
ipotesi che ho buttato giù da quando
abbiamo cominciato a indagare.» Ellen tornò
indietro alle prime pagine e prese
a girarle in modo da farle vedere meglio i suoi appunti. «Ho
cominciato il
lunedì nel Tyner Science Lab con le osservazioni sulla
carcassa, poi ho
aggiunto le analisi dei giorni successivi e infine…
ecco… mi sono soffermata
anche su Masters e i libri. A grandi linee, intendo.»
Si era fermata prima di
rivelare gli studi fatti sul volume
impossibile da decifrare, in modo da non destarle sospetti.
Janet sospirò e
lasciò ricadere la testa contro il
sedile. «Capisco. Su Darcus invece cosa abbiamo?»
domandò poi a Blake.
«Proprio
niente… a parte quello che Silas ha scritto
nella sua lettera.» Il detective estrasse un foglio e lesse:
«“…è stato sfidato
da nostro fratello Darcus – un uomo malvagio, perfido
– corrotto dalla brama
incontenibile di ottenere quei libri per sé…
Nella cieca ambizione di
raggiungere il suo scopo ha tradito la fiducia di Owen e massacrato la
tua
famiglia… Avrebbe ucciso anche te, per questo ti ho mandato
lontano – molto,
molto lontano da lui…”»
Pronunciò quelle frasi come se fossero passi di un
romanzo, non parti del suo passato. Probabilmente desiderava tenere a
distanza
da sé la sua famiglia naturale e tutto ciò che a
essa ancora lo legava, e
Darcus di certo non faceva parte degli affetti da ricordare.
Stavano andando da lui. Quel
pensiero rendeva Ellen allo
stesso modo in cui la rendeva la vicinanza di uno qualsiasi dei tre
libri
maledetti in loro possesso: elettrizzata e nauseata. Vedere un vecchio
pazzo
chiuso in manicomio non la entusiasmava, ma era stanca di formulare
ipotesi con
le sole informazioni tuttora in loro possesso. Di Darcus McCrindle
sapevano
solo quel che ne aveva scritto il fratello minore: era malvagio,
ambizioso e
pronto a uccidere per ottenere la custodia dei libri. Per loro fortuna,
avevano
deciso di comune accordo di lasciarli a Chateaubriand Manor, visto che
il
nascondiglio si stava rivelando sicuro.
Quel viaggio non stava
avvenendo solo per comunicare
direttamente con il direttore del Greenville Asylum, che avrebbe potuto
continuare a eludere le richieste di Blake: la villa
dell’Arcivescovo aveva
bisogno di essere sistemata, soprattutto per quanto riguardava vetrate
e
finestre, e allontanarsi da Arkham poteva fare bene alla loro
sanità mentale.
Pur essendo partiti di prima mattina, infatti, si erano trovati
assediati da
vicini curiosi che mai in precedenza avevano rivolto la parola a Lilyan
o
probabilmente allo stesso Arcivescovo, e la nuova proprietaria di
Chateaubriand
Manor pareva pronta a scattare in qualsiasi momento. Lo shock era solo
in parte
passato quando aveva compreso chi fossero
coloro che avevano provato a
ucciderli, e soprattutto perché lo
avessero fatto, ma Ellen sapeva che
né Michael né Blake erano propensi a informarla
della sorte della donna che
aveva, suo malgrado, ucciso.
Con le dita tremanti, Ellen
riprese a sfogliare il
taccuino, sperando che il sonno si muovesse a raggiungerla: non aveva
alcuna
voglia di ripensare alla sera precedente.
***
Il Greenville Asylum aveva
poco da invidiare all’Arkham
Sanitarium, in termini di tetraggine e brutti presentimenti. Era meno
imponente
dell’edificio a cinque piani che sorgeva nella Downtown,
eppure era ammantato
come esso di un’ombra impenetrabile. Ellen aveva sentito
parlare dei manicomi
e, sebbene non ne avesse mai visitato uno prima di allora, ne conosceva
la
reputazione per nulla candida.
L’edificio che si
stagliava davanti a loro, in quel primo
novembre, era di soli due piani e non faceva angolo come il manicomio
di
Arkham, mostrando due ali ben distinte – la prima riservata
ai pazienti fissi,
l’altra per coloro che, pagando una cifra astronomica,
potevano essere trattati
in tempi brevi e ricevere le cure di un normale ospedale. Il Greenville
Asylum
era isolato dalla città e, per quel che aveva capito Ellen
dalle sue ricerche,
era considerato perlopiù un manicomio criminale.
Il luogo perfetto per
un’ammazzafamiglie.
Il direttore Abner non li
fece attendere troppo. Una
volta estratto il tesserino da detective di Blake e annunciato che, tra
gli
stimati visitatori, c’erano anche un giovane dottore di fama
mondiale e la
figlia di un importante senatore repubblicano, Abner riuscì
incredibilmente a
liberarsi degli appuntamenti successivi. Era un uomo sui settanta anni
che si
muoveva ancora con sorprendente agilità, ma i cui occhi
vedevano ormai poco; le
orecchie per fortuna sentivano bene, eppure tutti loro ne ebbero il
dubbio
quando, dopo essersi seduti nello studio di Abner, non ricevettero
risposte
alla loro richiesta di vedere Darcus McCrindle.
«Ah…
voi siete il signor Alexander McCrindle» disse
infine Abner. Diede un colpo di tosse e si sedette dietro la scrivania.
«Preferisco
Alexander Blake, se non vi dispiace.»
«Come potrebbe?
Prego, accomodatevi. Il caso di vostro
zio richiede tempo, e dubito vogliate restare in piedi per la durata
del
racconto.»
Mentre il gruppo
“più prestigioso” prendeva posto sulle
tre sedie di fronte alla scrivania, Ellen e Janet si accomodarono sul
divanetto
alla sinistra della porta.
«Per prima
cosa» esordì Abner dopo un secondo colpo di
tosse «voglio scusarmi per non avere permesso alla mia
segretaria di darvi
informazioni sul signor McCrindle per via telefonica. Nel corso degli
anni ci
sono stati diversi… ficcanaso… che hanno tentato
di scoprire qualcosa sui
nostri pazienti, senza contare che ieri è stata la prima
volta in cui ho
sentito parlare di un secondo sopravvissuto alla strage del 1904. Oltre
a Silas
McCrindle, ovviamente. A proposito, come sta vostro zio?»
«È
deceduto da qualche tempo» tagliò corto Blake.
«Mi rincresce
saperlo. Se può esservi di consolazione,
non abbiamo mai parlato al nostro paziente della fuga del fratello,
lasciandogli credere che fosse morto nella strage. Abbiamo creduto che
Silas
fosse più al sicuro in questo modo.»
«Quindi sapevate
di Silas… ma non di me?»
«La vostra
famiglia era conosciuta, detective Blake, e
sapevamo che il caro Owen aveva avuto due bambini, tuttavia ignoravamo
che il
maggiore dei figli fosse scampato alla strage. E… e ora
capirete perché.»
Blake si mosse sulla sedia,
a disagio. Ellen immaginò il
suo pensiero: due
bambini.
Il detective si era preparato ad ascoltare la storia della morte di suo
padre,
forse anche di sua madre e di altri membri della famiglia, ma non aveva
idea di
avere avuto un fratello più piccolo.
«Darcus McCrindle
è sempre stato un ragazzo problematico,
che dava tanti problemi ai poveri Joe ed Emily. Era considerato la
pecora nera
della famiglia perché si metteva spesso nei guai. Nonostante
il suo costante
atteggiamento di ribellione, aveva un gran cervello, e lo
usò per prendere l’abilitazione
in Medicina. Questo parve tranquillizzare Joe, che lo avrebbe saputo
realizzato
e con la testa a posto, seppure lontano dall’azienda di
famiglia.» Abner tossì
ancora. «Non fu così. A ventidue anni Darcus si
trasferì a Boston, dove aprì
una sede medica… che chiuse sei mesi dopo.»
«Aveva poco
successo?» domandò Michael. Blake sembrava
incapace di proferire parola, ma il direttore si era fermato di nuovo,
forse
per prendere fiato, e serviva riportarlo sul suo racconto prima che
morisse di
vecchiaia.
«No, non fu quello
il motivo. Darcus venne espulso dall’albo
per i metodi… poco ortodossi. Praticava aborti e quelli che
posso solo definire
come “esperimenti chirurgici” sulle sue pazienti.
Dubito che loro fossero
consenzienti. Ha continuato a lavorare di nascosto, poi un giorno,
durante
l’estate del 1904, è tornato a Greenville e ha
massacrato la sua famiglia.»
Ellen era perplessa.
«Perdonatemi, ma… perché?»
Lei sapeva dei libri,
ma dalla storia non traspariva alcun indizio che collegasse la strage
al loro
possesso. Era probabile che i McCrindle avessero tenuto nascosto il
loro
compito di Guardiani, ma in quanto medico curante Abner doveva avere
un’ipotesi,
per quanto sciocca, sulla repentina pazzia di Darcus.
«Litigi familiari.
Darcus non ha mai confessato il
movente dell’omicidio, ma conoscevo Joe, suo padre, e sapevo
che non era
intenzionato a finanziare il lavoro folle del figlio. La lite si
è scatenata il
giorno stesso del suo rientro e ha coinvolto l’intera
famiglia.» Abner guardò
Blake. «O quasi.»
«Prima avete detto
che avremmo capito perché avevate dato
per scontato che fossi morto» disse infine Blake, prima che
il direttore
potesse esitare di nuovo.
Il vecchio
deglutì e si sistemò gli occhiali sul naso
adunco prima di rispondere. «Darcus McCrindle ha fatto a
pezzi la sua stessa
famiglia con una scure.»
Ellen sarebbe rabbrividita
se il suo sguardo non avesse
intercettato la visione di Lilyan che, per poco, non scivolava dalla
sedia;
Michael, accanto alla ragazza, le poggiò una mano sulla
spalla per sorreggerla.
Alla sua sinistra, invece, Janet era sul punto di vomitare, mentre il
volto di
Blake era fuori dalla sua visuale.
Non sapeva cosa stesse
pensando, ma Ellen comprendeva la
risposta implicita nell’ultima dichiarazione di Abner: i
corpi erano talmente
maciullati e sparsi da essere irriconoscibili. E poi… se
l’anno di nascita di
Blake era esatto e nel 1904 lui aveva quattro o cinque anni, quanto
doveva
essere piccolo suo fratello minore? Come avevano trovato il suo
corpicino?
D’un tratto, Blake
si alzò. «Vogliamo vedere Darcus.»
Se possibile, Abner parve
ancora più in imbarazzo.
Tentennava. «Vedete, signor Blake…
detective… Eravamo certi che solo suo
fratello Silas fosse ancora in vita… e non sapevamo come
contattarlo… quindi
abbiamo deciso di… di tenerlo nascosto… di
informare solo le autorità delle
città più vicine a
Greenville…»
Un cupo presentimento
attraversò l’intero gruppo.
«Cosa volete
dire?» chiese lentamente Blake.
«Darcus McCrindle
è evaso sei mesi fa.»
***
Vollero comunque visitare la
cella in cui Darcus era
stato rinchiuso per quasi ventiquattro anni e Abner non poté
negarglielo.
Durante il tragitto, spiegò meglio la situazione
dell’evaso: Darcus McCrindle
era un detenuto esemplare e, sebbene non fosse possibile né
saggio rimetterlo
in libertà, la sua guardia era stata allentata.
«Gli è
stato permesso comunicare con l’esterno,
attraverso lettere che passavano prima a noi. Dopo avere appurato che
non
contenevano niente di pericoloso, ho lasciato che negli ultimi tre anni
fossero
gli infermieri a leggerle, e nessuno ha mai trovato qualcosa di
sospetto. Era
in contatto con diversi luminari della medicina, e molto spesso le sue
missive
non ricevevano risposta. Altri però… continuavano
a scrivergli, e presto gli
permettemmo di richiedere anche dei libri.»
«Che tipo di
libri?» si insospettì Blake.
«Romanzi,
soprattutto. Non stupitevi: sono gli unici
libri che possediamo. Abbiamo anche manuali di medicina e saggi, in
realtà… ma
non abbiamo ritenuto opportuno lasciarglieli avere. Potevano
ricordargli il
passato e scatenare una nuova crisi.»
«Ne ha mai fatto
richiesta?»
«Certo, ma senza
successo.»
«E con le lettere
avete mai avuto problemi?»
«Solo una volta.
Darcus… il signor McCrindle sapeva che
il giovedì era il giorno delle lettere e lo attendeva
pazientemente, a parte in
un’occasione. Due anni fa, in ottobre, l’infermiere
Erikson si è lasciato
sfuggire che una certa lettera era già giunta. Forse lo fece
perché il signor
McCrindle non smetteva di fare domande in merito, trepidante per quella
missiva
in particolare, ma il paziente ebbe una reazione inusuale:
attaccò Erikson e
tentò di sopraffarlo. Lui è… ancora
molto forte, ma per fortuna tutti i nostri
infermieri ricoprono anche il ruolo di guardie, in quanto i nostri
pazienti
sono difficoltosi, ed Erikson non ha riportato ferite gravi. McCrindle
è stato
messo in isolamento e curato finché non ha riacquistato la
lucidità necessaria
per un reintegro.»
«Se i vostri
infermieri sono così esperti, come ha fatto
a fuggire?»
«È…
una domanda alla quale non so dare una risposta.
Ritengo che uno di loro sia stato corrotto. Non so cosa abbia potuto
promettere
McCrindle, ma ho fatto in modo che Erikson e gli altri due con cui il
paziente
era entrato in contatto fossero trasferiti in un altro posto. Non posso
rischiare che accada di nuovo.»
«Avete eluso la
mia domanda. Volevo sapere come abbia
fatto, non se abbia avuto un
aiuto.»
Abner si fermò e
fronteggiò Blake, che pareva avere un’idea
in mente, e il direttore doveva avere immaginato che il detective
intuisse la
verità, almeno in parte.
«È
scomparso nel nulla» rivelò infine.
«Niente porte
forzate, niente infermieri coinvolti… per quanto ne
sappiamo… e niente segni
nel fango intorno all’ospedale.» Attesero che
riprendesse a camminare, ma Abner
indicò la porta alla loro destra. «Prego, siamo
arrivati.»
Era una pesante porta di
metallo che dovettero spingere
per riuscire a entrare; non c’erano finestre. Un odore arduo
da riconoscere,
vagamente metallico, si fece largo nelle narici di Ellen.
«L’illuminazione
non funziona bene… aspettate, accendo
subito…»
Una luce intermittente
apparve sopra di loro, che
sussultarono quasi all’unisono: rimasero interdetti
osservando i disegni e le
scritte che attraversavano le pareti, il pavimento, il soffitto. Non
c’era un
angolo vuoto, nemmeno la panca di legno su cui Darcus aveva dormito.
Ogni linea
era di un marrone malsano.
«È…»
iniziò Ellen, incapace di finire la frase.
«Sangue,
sì.»
«Come avete potuto
lasciare che un uomo così disturbato potesse
avere dei privilegi?» sbottò
finalmente Blake. «Di chi è questo sangue?
È suo? Di altri pazienti?»
«Non posso
rispondere con certezza alla seconda domanda,
sebbene ipotizzi che sì, sia il suo sangue, ma posso
spiegarvi perché gli siano
stati concessi quei privilegi: tutto ciò che vedete
ora… sulle pareti, sul suo
letto… dalle scritte ai simboli… non
c’era prima della sua fuga.»
Di nuovo lo stupore
zittì ogni protesta. Se quello era il
sangue di Darcus, e lo aveva perso in una sola volta, come poteva
essere ancora
vivo?
***
Per fortuna, Ellen possedeva
buona memoria. Aveva segnato
tutte le scritte rinvenute nella sudicia cella di Darcus e parte dei
simboli,
ma aveva intuito che ripetere ciascuno di quei segni, peraltro nello
stesso
ordine, poteva essere rischioso, così li aveva osservati per
imprimerli a fondo
nella memoria. Qualcosa le era subito balenato nella mente: la
somiglianza tra
alcuni segni e il contenuto del libro indecifrabile. Significava che
Darcus l’aveva
letto o…?
Non sapeva trovare una
risposta, ne avrebbe parlato con
Michael se, quella notte, fosse passato da lei come al solito.
Greenville non
disponeva di un albergo di lusso e nemmeno di qualcosa di decente: era
di
infima categoria, ma per fortuna vuoto. Janet e Lilyan avevano
condiviso di
nuovo una stanza, gli altri si erano potuti sistemare in tre camere
singole.
Alla fine, avevano dormito poco durante il viaggio tra Arkham e
Greenville,
quindi a seguito della visita al manicomio erano stati tutti
d’accordo sul
cercare subito un posto dove riposare. Quello non era il solo motivo
per cui
non erano già ripartiti: alla stanchezza si sommava la
necessità di Blake di
scoprire altro sulla sua famiglia di origine. Il detective li aveva
messi in
quei casini e ora bisognava uscirne tutti insieme. Dal canto suo, Ellen
voleva
soltanto indagare.
In attesa
dell’arrivo di Michael, si dedicò a
ripercorrere con un dito le scritte: “Liberazione”,
“Sacrificio”,
“Culto”… e
poi quella parola che non riusciva a decifrare perché
composta non in alfabeto
latino, ma in… Greco? Fenicio? Tre lettere e basta.
Le altre parole si
ripetevano, quasi fossero un mantra o…
Un incantesimo,
pensò.
Le scappò uno
sbuffo divertito. Quando aveva cominciato a
credere a certe storie? Quando aveva pensato che incantesimi e magia
facessero
parte della vita reale?
Quando un mostro ha cercato
di ammazzarmi nel Campus.
Era una risposta accettabile.
Passò le dita su
uno dei pochi simboli che aveva avuto il
coraggio – o la sventatezza – di appuntare sul
taccuino. C’era un punto al
centro, dal quale partivano tre linee, una più corta e le
altre ricurve, somiglianti
a punti interrogativi. Alcuni simboli erano più complessi,
come quello che si
trovava sull’ultimo libro recuperato e che le era parso di
vedere anche sul
pavimento della cella, o forse erano soltanto altre stelle in altri
cerchi, e
ce ne era perfino uno che avrebbe potuto descrivere solo come onde del
mare, ma
era quello che aveva segnato a rischiare di farla impazzire.
Non solo lo fissava, si era
ritrovata anche a ripeterlo
con la punta delle dita sulla polvere del comodino. Per fortuna
l’arrivo di
Michael la riscosse. Con un gesto della mano cancellò tutto
e andò ad aprirgli.
«Finalmente! Dove
eri finito?»
«Non credevo
bramassi la mia compagnia tanto da non
poterne fare a meno per una notte…»
«Non dire
stronzate, dobbiamo parlare.»
«Hai ragione. Come
stai?»
Ellen si fermò
mentre raggiungeva il comodino sul quale
stava sfogliando il taccuino e si voltò a fronteggiare
Michael, sorpresa. «Come
sto?» ripeté.
Michael non rispose subito.
Chiuse la porta e si sedette
sul letto, estraendo il portasigarette.
«Le tue
mani.»
Per un attimo Ellen credette
che, in qualche modo, il
simbolo si fosse impresso sulla sua pelle mentre lo cancellava e si
guardò il
palmo. Non notò alcunché di strano, se
non…
Oh, merda.
Le dita tremavano.
«Sei tesa da ieri
sera.»
«Sono sempre
tesa.»
«Ma non
così tanto. Dimmi la verità: era la prima volta
che ferivi una persona?»
«No…
no, beh, non proprio. È una storia lunga.»
Michael annuì.
«Ieri come ti ha fatta sentire?»
Lei aveva una risposta, ma
non sapeva esprimerla a voce
alta; nemmeno credeva che fosse furbo condividerla. Alla fine disse
soltanto:
«Strana.»
«Hai voglia di
sparare ancora.»
«No! No, io non
voglio… Cioè, se dovessi
difendermi…»
«Esatto.»
Michael le sorrise. «Hai sparato. Ti sei
difesa. In realtà hai difeso me, ma il succo è lo
stesso: hai provato la
sensazione di poterti
difendere.»
Ellen sospirò,
incerta, però credeva che Michael fosse
nel giusto. Sul momento si era sentita colpevole,
e nonostante avesse preso un punto non vitale aveva temuto per un
attimo di
avere ucciso qualcuno, ma quando poi ci aveva riflettuto…
aveva provato il
desiderio di impugnare di nuovo un’arma. Aveva temuto che
ciò significasse
qualcosa di negativo, ma la spiegazione di Michael aveva più
senso; perlomeno,
la faceva sentire meno sadica e pericolosa.
«Tieni.»
Michael portò un braccio dietro la schiena,
sotto la giacca, e le porse il revolver che la sera prima aveva
affidato a
Jeremy. «Devi esercitarti, non puoi contare solo sui colpi di
fortuna.»
«Tu non
contare solo sulla fortuna» lo rimbeccò Ellen.
«Ti lanci sempre in mezzo, ti
poni tra Janet e un mostro marino… Come mai non hai paura di
morire?»
«Perché
mi piace vivere, e il brivido è di aiuto.»
«Sei un
coglione.»
Per tutta risposta, Michael
rise. «Su, ora fammi vedere
cosa hai scritto. E, ti prego, dimmi che non hai evocato un demone per
sbaglio.»
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Capitolo 12 *** Capitolo XII ***
TW:
morte di bambini
Capitolo
XII
Il Greenville Asylum
ospitava i detenuti della contea, ma
il paese da cui prendeva il nome contava solo qualche centinaio di
abitanti;
fortunatamente, una centrale di polizia era sempre presente, e fu
lì che Blake
propose di recarsi il mattino successivo. Nonostante avessero dormito
nell’equivalente
a pagamento di una topaia, si sentivano riposati dopo trentasei ore di
veglia
continua, ma il desiderio condiviso era tanto evidente da non avere
bisogno di
essere espresso ad alta voce: volevano i letti di Chateaubriand Manor,
quindi
dovevano fare in modo di ultimare al più presto le indagini
nel Maine. L’ultimo
treno sarebbe partito alle quattro del pomeriggio.
Ad accoglierli in centrale
fu un giovane agente, che
presto scoprirono essere il solo poliziotto in servizio; allertato
della loro
presenza, tuttavia, l’ispettore Gerber si
precipitò sul posto per parlare di
persona con “l’ultimo discendente di quei maledetti
McCrindle”. Era un tipo
basso e tarchiato, con folti baffi neri e una voglia rossa sul lato
destro del
volto. Li accolse con un sorriso, mandò via
l’agente ed estrasse dalla
scrivania una bottiglia di cognac. Lilyan e Janet si guardarono,
probabilmente
chiedendosi se non fosse una trappola, ma Michael e Blake avevano
già afferrato
il bicchiere porto dall’ispettore; alla fine le due ragazze
fecero altrettanto,
a differenza di Ellen, che rifiutò in maniera brusca.
Gerber sollevò il
bicchiere ed esclamò: «Ai fottuti
McCrindle!» Nel suo tono, però, non
c’era ostilità verso quella famiglia che
stava riempiendo di epiteti poco affettuosi. «Così
tu sei il piccolo Xander,
non è vero? Diamine, sei identico a tuo padre.»
«Lo conoscevate
bene?»
«Se lo conoscevo?
Ah! Sono stato il suo testimone di
nozze!» Scoppiò in una risata, poi si
versò un altro sorso di cognac,
diventando d’improvviso silenzioso. Fissò il
liquido con espressione
nostalgica. «Eh, il caro Owen… Ero un agente
quando avvenne il fattaccio. Più
grande di quel succhiatette là fuori, ma sempre con poco
sale in zucca. Meglio
di tuo zio, però.»
Non serviva chiedere a quale
dei fratelli di Owen si
stesse riferendo.
«L’ho
trovato io, sai? Era nascosto in un canale di
scolo, fradicio e sotto shock… Per un po’ pensai
perfino che fosse una
vittima.»
«Ispettore
Gerber…»
«Luke, ragazzo
mio.»
«Luke, puoi dirci
con esattezza cosa accadde quella
notte?»
«Aaah,
è una storia lunga…»
«Abbiamo
tempo.»
«E soprattutto hai
il diritto di ascoltarla. Se fossi
venuto da me qualche anno fa, forse ti avrei mandato via, ma sei grande
abbastanza per sapere la verità, e cioè che tuo
zio è un fottuto mostro e
meritava di finire impiccato.» Bevve d’un fiato il
secondo bicchiere, si pulì
la bocca con l’avambraccio e poi si raddrizzò
sulla sedia. «D’accordo, andiamo
con ordine. Suppongo che tu non sappia niente della tua famiglia, a
parte quel
che deve averti detto Silas, giusto? Quel cervellone… Mi
mancano i suoi enigmi,
era bravo a organizzare le cacce al tesoro, ma Dio mi fulmini se quel
bastardo
pronunciava più di cinque parole in una frase. Dicevo,
probabilmente non sai
niente dei McCrindle, quindi sappi che vieni dalla Scozia. I tuoi
parenti
provengono da Kilmarnock e sono arrivati qua con la Mayflower, nel
milleseicento-qualcosa. Cent’anni dopo, si sono stabiliti nel
Maine e hanno
fatto fortuna vendendo liquore alle ciliegie. E sai perché
so tutte queste
cose? Perché il vecchio Joe non smetteva di vantarsene ogni
singola volta che
Owen mi invitava a cena – e, beh, passavo praticamente tutta
la settimana a
casa loro.» Sospirò malinconico.
«Davvero, somigli un sacco a tuo padre,
ragazzo mio. Lo conosco da quando eravamo entrambi in fasce,
perché Emily, tua
nonna, mi ha fatto da madre dopo che la mia è crepata di
vaiolo. Il mio vecchio
era sempre a lavoro, qui alla centrale, e io mi divertivo a scorrazzare
con i tre
fratelli McCrindle. Sguazzavano nei dollari, ma non mi facevano mai
sentire un
poveraccio. Passavamo il tempo a nuotare nel lago, a inventarci
avventure
assurde e pure a fare gli scherzi alla vedova Hopkins, che era un dito
in culo…
Scusate.»
Scoppiò a ridere
e Blake ne approfittò per chiedere:
«Tutti e tre, hai detto?»
Gerber annuì.
«Owen, Silas e… Darcus. Si passavano tutti
un paio d’anni fra loro, ma avevano una passione in comune:
la lettura. Mi
facevano impazzire quando decidevano di stare tutto il pomeriggio sui
libri, e
Owen non faceva che dire che era “il suo destino”,
come se servisse chissà
quale cervello per star dietro a un libro contabile! Oddio,
probabilmente sì,
ma le letture di Owen erano diverse. Era fissato con le leggende della
zona,
mentre Silas inventava indovinelli di continuo, ispirandosi a qualche
romanzo
letto che io ignoravo bellamente. Darcus invece… lui si
chiudeva in camera, per
cui non so esattamente quali fossero i suoi gusti. Quando siamo
cresciuti, Owen
si è diplomato a pieni voti, al contrario di me, e Silas
l’ha seguito poco
dopo. Darcus ce l’ha fatta per il rotto della cuffia
– non perché fosse
stupido, al contrario è stata la sua intelligenza a
permettergli di finire la
scuola. Mio padre, che faceva lo stesso lavoro che faccio io adesso,
aveva
provato a tirarlo fuori dai guai, ma erano troppi quelli in cui si
ficcava.
Dava fuoco ai raccolti, squartava i gatti randagi, si metteva pure a
rubare,
anche se la sua famiglia era impaccata di soldi. Quando se ne
andò a Boston,
per i suoi fu una vera liberazione.»
«Quello che si
dice sui suoi esperimenti…»
«Ah,
l’hai saputo?» Gerber tirò fuori una
pipa e iniziò a
caricarla. Solo quando fu pronto per fumare continuò:
«Sì, roba pesante. Non so
quanto ci fosse di vero… ma la sua clinica venne chiusa e
lui fuggì con la coda
fra le gambe. Passò diverso tempo prima che si rifacesse
vedere qui in zona…
Aveva ventisette anni, credo. Sì, era il 1904: Owen e io
avevamo ventinove
anni, Darcus ventisette e Silas venticinque. Darcus se n’era
andato subito dopo
il matrimonio di tuo padre, quando tu eri solo un cosino nella pancia
di
Alyson. Stewie non era ancora nei piani di…»
Gerber si interruppe e prese
fiato. Dietro la nuvola di
fumo, a Ellen parve di intravedere i suoi occhi farsi lucidi.
«Ho trovato anche
Stewie, sai? Era ancora nella culla.
Una… una parte.» Deglutì e
versò altro cognac per Blake, che lo bevve in un
unico sorso. «Scusa, non penso tu volessi saperlo. Tornando a
Darcus, ricordo
di averlo incrociato il giorno del suo rientro. Gli ho mostrato la mia
nuova
divisa appena ritirata, gli ho chiesto di Boston, cose così,
però lui non mi
sentiva. Era… turbato. Aveva qualcosa in mente e Dio mi
fulmini avrei voluto
intuirlo. L’ho lasciato tornare dai suoi e il giorno
dopo… Beh, ecco qua.»
Aprì un cassetto
ed estrasse una seconda bottiglia di
cognac e un faldone. Glielo porse, in modo che potessero leggere. Fu
Janet, con
la voce spezzata, a descrivere il contenuto di un pezzo di giornale:
«“Massacro
nella proprietà colonica… La città di
Greenville, oggi, è stata sconvolta dalla
notizia di un orrendo massacro nella proprietà dei
McCrindle. La polizia era
stata chiamata per rumori molesti, ma è arrivata in tempo
solo per scorgere i
corpi mut… i corpi dei membri della famiglia. Più
tardi, l’agente Luke Gerber
ha arrestato Darcus McCrindle per i crudeli omicidi. La polizia non
vuole
rilasciare commenti…”»
«Più o
meno è andata così. Non c’è
scritto che fui io a
ricevere la chiamata sui rumori molesti e a presentarmi dai McCrindle
per dire
loro di abbassare i toni, nel caso di un litigio, o di farmi
partecipare alla
festa. Non c’è scritto nemmeno che la prima
persona che ho trovato è stata
Emily, che mi aveva cresciuto come una madre.» Anche la sua
voce aveva iniziato
a tremare. «E soprattutto non c’è
scritto che la mia divisa nuova di zecca era
lercia quando ho accompagnato Darcus in centrale, perché non
appena l’ho visto
in quel canale di scolo l’ho abbracciato credendo che fosse
sfuggito a un
pazzo, e non che il pazzo fosse lui.»
***
Era stata una mattinata
pesante per tutti, e senza dubbio
Blake doveva sentirsi un vero schifo. L’ispettore Gerber lo
aveva obbligato a
farsi offrire il pranzo, requisendolo per almeno un’ora con
la scusa di
raccontargli aneddoti su suo padre, ma forse era lui a voler rievocare
il
fantasma di Owen McCrindle attraverso il figlio redivivo. Dopotutto,
Blake
aveva appena compiuto ventinove anni, la stessa età che
aveva avuto Owen quando
era morto, e stando alle parole di Gerber i due si somigliavano
parecchio.
Approfittando della sua
assenza, Michael aveva proposto
un pranzo al “ristorante” del paese, una bettola
che poteva benissimo ospitare
il loro ultimo pasto, ed era immerso in una conversazione con Lilyan
quando
Janet afferrò la manica di Ellen per farla rallentare.
«Cosa
c'è?» le chiese, guardandosi subito intorno.
«Hai
visto qualcosa?»
«No,
Ellie… Volevo parlarti.»
«Delle
indagini?»
«No. Di
te.»
Ellen alzò gli
occhi al cielo. Com’era possibile che, con
quel che stava accadendo nelle loro vite, tutti sembravano
più interessati a
parlarle di
lei?
«…e
pare tu abbia capito dove voglia andare a parare.»
«No, Janet, non ne
ho la minima idea. È solo che… non sei
la prima a interessarti a me. Come mai? Fossi in te, sarei in pensiero
per
Blake…»
«Alexander. Non
sappiamo ancora se, dopo questo viaggio
nel passato, voglia essere chiamato “detective
Blake”.»
«Alexander,
bene. O “Xander”, come dice Gerber. Va
bene, dimmi. È per l’università? Non
credo sia il caso di dividerci in questo
momento. O per il tizio che ho colpito? Non volevo ferirlo, ho sparato
a caso e…»
«Parlo di
Fauerbach.»
Ellen, che aveva ripreso a
camminare, si fermò di colpo.
«Di Fauerbach?»
«E di
te.»
«Ah.» Si
passò una mano tra le ciocche rosse, a disagio.
«Non… Che vuoi sapere?»
«Niente, Ellie.
Voglio solo che tu stia attenta.»
Sollevò un
sopracciglio. «Attenta?»
«Sì.
Quella notte, al dormitorio, il dottor Fauerbach…»
«Michael»
la rimbeccò a sua volta.
«…Michael
è uscito dalla camera della professoressa
Baker, ed è chiaro quel che stavano facendo.» Se
Ellen provava imbarazzo ad
ascoltare quel discorso, a giudicare dal rossore sulle guance di Janet
l’archeologa
ne stava provando parecchio di più. «Non ho detto
niente perché non amo fare
pettegolezzi, e poi è successo un guaio dietro
l’altro. La scorsa notte, però,
quando sono tornati dalla centrale, ho sentito Michael che bussava alla
tua
porta e… non ho origliato, te lo assicuro, ma quando sono
tornata in bagno lui
era ancora nella tua stanza. E anche stanotte l’ho visto
venire da te e…»
«Non sono affari
tuoi» tagliò corto Ellen.
Janet parve ferita nel
profondo. «Ellie, mi sto solo
preoccupando per te.»
«E non
devi.»
«Ma…»
«So di che pasta
è fatto Michael Fauerbach, e mi va bene
così. E poi» continuò prima che potesse
interromperla «quella famosa notte in
cui l’hai visto uscire dalla camera della Baker è
la stessa in cui ti ha fatto da
scudo con il suo corpo. Non mi pare educato dubitare del suo buon
cuore,
adesso.» Lo aveva detto con una punta di divertimento,
perché per quanto la
infastidisse che qualcuno si facesse gli affari suoi era grata che
Janet non ne
stesse facendo una questione di stato davanti al resto del gruppo.
Inoltre,
ricordandole quell’episodio voleva scongiurare che la sua
amica si rivolgesse
anche a Michael.
«Ellie.»
Janet però la afferrò di nuovo, costringendola a
voltarsi. «Non c’ero solo io nel bagno
l’altra notte.»
«E va bene, la
ragazzina ha scoperto il mondo degli
adulti…»
«No, non
è questo. Siamo tornate dopo un po’, per capire
se Michael ti stesse dicendo qualcosa sull’attacco alla
villa. Ho detto che non
abbiamo sentito bene… ma qualcosa sì.»
Si fece cupa e lanciò un’occhiata a
Lilyan, che ora li attendeva insieme a Michael di fronte
all’entrata della
trattoria. «Lilyan sa che ha ucciso una donna.»
Anche Ellen
spostò lo sguardo verso l’ereditiera.
Ricordava il suo nervosismo e lo imputava alla mancanza di sonno, e
ricordava
anche l’astio con cui aveva inveito contro gli assalitori;
solo ora notava che
lo stesso Michael teneva sotto controllo il comportamento di Lilyan, le
mani
che andavano spesso ai capelli, i sussulti improvvisi, la pallidezza
dell’incarnato.
«Non volevamo che
lo sapesse così… Non volevamo che lo
sapesse e basta.»
«Lo so, e non
è colpa vostra. Però forse dobbiamo
smettere di trattarla come una bambina, e io per prima dovrei cambiare
atteggiamento e capire che non è più quella che
giocava con le bambole a casa
del padre.»
Janet si costrinse a
sorridere e corse avanti, verso
Lilyan, verso una ventenne che troppo bruscamente aveva dovuto dire
addio alla
propria giovinezza.
***
Janet aveva ragione: dopo
quel breve viaggio nel Maine,
Alexander sarebbe potuto diventare a tutti gli effetti un McCrindle, e
non per
repulsione nei confronti della famiglia adottiva. Prima aveva saputo
poco delle
sue origini, un poco che era stato suddiviso in diverse occasioni,
dalla
notizia della morte di Silas alla lettera che il notaio aveva
dimenticato di
dargli insieme al testamento; nel giro di appena un giorno, invece,
aveva
accumulato tante di quelle informazioni da non potere recidere i conti
con il
passato come se niente fosse stato. Era tornato presto dal pranzo con
l’ispettore
Gerber, comunicando loro che avrebbero dovuto fare un’ultima
tappa prima di
recarsi alla stazione. Janet gli chiese, con tutto il tatto di cui era
disponibile, se intendesse passare al cimitero, ma Alexander gli
rispose che c’era
appena stato.
«La villa dei miei
genitori» rivelò. «È
lì che voglio
andare. Credo possa esserci un indizio su dove possa nascondersi Darcus
in
questo momento.»
«Hai pensato alla
possibilità che…?»
«Sì, ma
ho bisogno di conferme.»
La tenuta coloniale si
trovava alla periferia della
città, immersa in un ciliegeto spoglio, tuttavia ben tenuto.
Gerber aveva detto
ad Alexander che l’azienda di famiglia era passata a un
sottoposto dei
McCrindle, un’ottima notizia per i dipendenti che, alla morte
del vecchio capo,
non avrebbero perso il lavoro; l’uomo, che al tempo di Joe e
Owen era stato
vicedirettore, aveva preteso che la villa rimanesse intatta, al centro
di quel
ciliegeto che i McCrindle avevano piantato tre secoli prima, ma al
contempo che
nessuno vi bivaccasse intorno.
La casa era stata rispettata
come a Greenville lo erano
stati i suoi ultimi proprietari. Era tenuta sotto costanti manutenzione
e
pulizia, eppure al suo interno l’arredamento era rimasto lo
stesso di ventiquattro
anni prima, a eccezione dei segni del massacro avvenuto
nell’estate del 1904. C’erano
centrotavola d’argento e quadri alle pareti, librerie colme
di volumi antichi e
letti appena rifatti: la tenuta appariva vissuta e allo stesso tempo
venerata
con un luogo sacro, ed Ellen si chiese se i McCrindle avessero fatto
del bene
soltanto a un piccolo orfano di madre che invitavano sempre a cena.
Su ogni superficie
c’erano cornici con foto di famiglia,
ritratti e riconoscimenti del loro duro lavoro. Una fotografia spiccava
su
tutte, posta nella parete di fronte alla porta di ingresso: sei persone
erano
in posa davanti all’obiettivo, composte ed eleganti; sotto,
una targa in oro
presentava i soggetti.
Lilyan lesse a bassa voce:
«Joseph, Emily, Silas, Owen,
Alexander, Alyson e Stewart McCrindle, estate 1903.»
Sette persone: tra le
braccia della donna più giovane c’era
un fagottino che doveva essere nato da poco, la testa ancora calva
appena
visibile. Ellen analizzò la fotografia, incontrando
finalmente il famoso Silas
che li aveva cacciati in quella storia, gli occhiali tondi e i capelli
ordinati
con una riga centrale; i suoi genitori dovevano avere sui cinquanta o
sessanta
anni, mentre la cognata Alyson ne dimostrava poco più di
venti. Se Ellen e il
resto del gruppo non fossero stati avvertiti da Gerber, avrebbero
appurato con
i propri occhi la somiglianza tra Alexander e Owen McCrindle: erano
alti, con
spalle larghe e un cipiglio determinato, ed entrambi tenevano barba e
capelli
ricci tagliati corti – gli stessi capelli ricci del piccolo
bambino in prima
fila.
Estate 1903, un anno esatto
prima del massacro.
«Salgo sopra,
controllate il resto del piano.»
Annuirono
all’ordine di Alexander. Immaginavano dove
fosse diretto: nell’unica stanza in cui avrebbe potuto
trovare delle risposte.
Beh, non l’unica.
Ellen cercò lo
studio, certa che dei ricconi come i
McCrindle non avrebbero mai tenuto i propri documenti in camera da
letto. Lo
trovò sul lato est della casa: la porta era inchiavata, ma
la chiave era
inserita nella toppa. Ciò la scoraggiò, facendole
intuire che non avrebbe
trovato niente relativo al vero
lavoro della
famiglia, e così
fu. Dopo dieci minuti di infruttuosa ricerca, decise di ignorare
l’implicita
richiesta di Alexander di essere lasciato solo e si diresse verso le
scale,
davanti alle quali trovò Michael, un sorriso sornione sulle
labbra.
«Ti sei decisa,
ragazzina.»
Lo fulminò con lo
sguardo e salì, precedendolo al piano
superiore. Un lungo corridoio collegava tutte le camere, le cui porte
si
affacciavano sia sul lato sinistro che su quello destro. Trovarono
Alexander
nella terza stanza sulla sinistra, il luogo in cui un tempo era vissuto
Darcus
McCrindle. Fu subito chiaro come il detective fosse riuscito a
riconoscerla, e
non ci fossero volute le doti legate al suo lavoro: era
l’unica stanza dell’intera
casa a essere stata lasciata come un tempo. Era polverosa e
disordinata, e dal
letto sfatto proveniva un odore poco gradevole. Alexander aveva scelto
di
sedersi sul pavimento per analizzare quel poco che aveva trovato. Ellen
e
Michael lo imitarono.
«Lettere»
spiegò Alexander porgendone un paio.
Ellen aprì la
busta sgualcita e lesse attentamente,
cercando di intuire il senso della manciata di parole che non erano
state
cancellate dal tempo e dalla cattiva conservazione.
«“Stimato
amico… è con piacere che… accogliamo
nel nostro
modesto…” Non si legge più niente fino
a “Saremmo felici di dialogare con lei…
se vorrà raccontarci di…” E
basta.»
Michael sospirò
riponendo da un lato il foglio che stava
analizzando lui. «Qui è lo stesso.
Però… Aspetta, Alexander, lo hai
notato?»
Il detective
sollevò lo sguardo sul punto della busta che
Michael gli stava indicando. «Sì»
rispose mestamente, forse deluso che non si
trattasse di qualcosa che aveva ignorato per errore. «Quel
simbolo è su ogni
lettera, nella stessa filigrana. Non ne conosco il
significato.»
Ellen guardò
meglio: si trattava di una croce greca con
tre frecce al centro; partivano tutte dallo stesso punto in basso.
Prese in
mano un’altra busta, trovò il simbolo e
stirò la lettera all’interno,
osservando controluce la filigrana. Alexander aveva ragione. Stava per
metterla
via quando si accorse che era tenuta in condizioni migliori delle
precedenti.
«Chi è
Carl Standford?»
Alexander si
avvicinò. «Dove lo hai letto?»
«Sopra la firma
c’è scritto il suo nome. È come
se…
volesse autenticare il documento. Le altre firme mancano del tutto, non
sono
sbiadite come il resto del testo, mentre qui ci sono addirittura il
nome
scritto in chiaro e la firma. È strano.»
Lui prese il foglio e
cercò di leggere, ma questa volta
non fu difficile.
«“Stimato
amico, ci fa un immenso piacere sapere che ti
fidi di noi per parlarci del tesoro custodito dalla tua famiglia.
Sarebbe un
onore poter tenere in mano quei
preziosi…”» Sollevò lo
sguardo. «Darcus ha
detto a Standford dei libri.»
«Va’
avanti» lo spronò Michael.
«“L’Ordine
del Crepuscolo d’Argento potrebbe giungere
all’estrema
conoscenza se…”»
«Se ne entrasse in
possesso» concluse Ellen per lui.
«Quindi è vero: Darcus aveva dei complici. E forse
uno di loro ci ha seguiti a
Boston…»
«No, ti sbagli.
Non era un complice.» Alexander afferrò
la cornice appoggiata sul comodino, il vetro rotto e la foto segnata da
crepe,
ma il profilo del soggetto ancora riconoscibile. «Era
Darcus.»
Il silenzio calò
nella stanza, un silenzio carico di
domande, risposte e troppe informazioni da digerire tutte insieme.
«Portiamo
via tutto» propose
infine Michael, alzandosi da terra. «Ellen, mettile in
borsa.»
Lei annuì e fece
per prendere le buste che Michael le
stava porgendo, poi si interruppe. Aveva visto qualcosa dietro una di
esse, un
appunto che pareva essere fatto da una penna diversa rispetto
all’indirizzo
inciso sul dorso. Erano tre segni. La mise via in fretta, separandola
dalle
altre, e si preparò a raggiungere il resto del gruppo fuori
dalla casa.
***
«Secondo
te si tratta delle
stesse persone che hanno scritto a Darcus in prigione?»
«Senza
dubbio.
Il loro piano è andato male, ma lui rimaneva
l’unico collegamento con i libri.»
«Non
torna.
Perché farlo rimanere in prigione per ventiquattro
anni?»
«Forse
prima non
potevano liberarlo.»
«Ma
avrebbero
potuto cercare da soli i libri…»
«O forse quei
libri non sono così importanti
per l’Ordine a differenza di quel che credeva Darcus. Si
sarà sentito onorato
di farne parte e altre stronzate simili e…»
«E
ha trucidato
la sua famiglia per questo?»
«Ascoltami
bene:
se vuoi delle risposte, devi darmi il tempo di leggere questa
roba.»
«Perché…?
Oh,
non ha senso chiederti perché queste buste non siano in
camera del detective.»
«Non
le ho
rubate, stavolta. Ha dimenticato che le avevo messe nella borsa.
Domattina
gliele restituirò.»
«E
il libro?»
Ellen inspirò a
fondo, spostando l’attenzione sul volume
che giaceva al centro della scrivania.
«Senti, Michael,
Alexander è un Guardiano del cazzo. È
già la seconda volta che glielo porto via… al
rientro da Greenville si è
limitato a controllare che i libri ci fossero ancora ed è
andato a dormire!»
«Quindi
non li tiene in
stanza?»
«Non ho alcuna
intenzione di rivelare il suo presunto
nascondiglio.»
Michael rise e le
passò una mano sulla testa,
arruffandole i capelli. «Mi
fa male sapere che dubiti
del mio buon cuore, ragazzina. Però ho una domanda
più impellente da porti.» Si
avvicinò alle sue orecchie. «Perché
stiamo sussurrando?»
«Ieri
ci hanno
sentiti.»
L’uomo
parve
sorpreso. «Ah, sì? Pensavo lo avrebbero fatto
prima, con le due camere
comunicanti…» Fece un sospiro melodrammatico.
«Non so come abbia reagito la tua
cara Janet, ma spero di non avere scandalizzato la nostra padrona di
casa…»
«E
invece lo hai
fatto» soffiò Ellen. «Ti ha sentito
parlare del suo omicidio.»
Come
lei quel
pomeriggio, anche Michael parve costernato dalla scoperta.
«Mi dispiace, non
credevo ci stessero ascoltando.»
«Lascia
stare,
ormai il danno è fatto. Proviamo però
a… a tenere i toni più bassi.»
«Soprattutto
perché hai di nuovo rapinato il nostro
detective…»
Ellen
lo ignorò
facendogli invece cenno di raggiungere la scrivania.
«Guarda.» Aveva aperto il
libro intraducibile, ponendoci sopra gli appunti presi nella cella del
Greenville Asylum e la busta con i simboli.
«L’alfabeto con cui Darcus ha
scritto in manicomio è lo stesso presente in queste
pagine.»
«Sì,
era
sembrato anche a me. Ma questo è diverso.» Michael
indicò la busta.
«Questo
possiamo
tradurlo. E potrei averlo già fatto.» Ellen
afferrò un vocabolario che aveva
messo da parte e lo aprì dove aveva lasciato un segno.
«Ricordi quando tentavo
di capire che in che lingua fosse scritto il primo testo? Mi ero munita
di
tutti i vocabolari che avevo trovato qui nella villa e… e a
quanto pare ho
trovato una corrispondenza, ma con l’altra
scritta.» Fece scorrere le dita
lungo la pagina. «Questo sta per
“dā”… e questo per…»
«Dāgān»
lesse Michael, tenendo la busta davanti agli occhi.
«È
il fenicio
per Dagon. Ho letto di lui, è una divinità
semitica, ma non ricordo altro.
Dovremmo cercare…» Ellen sospirò.
«Dovremmo cercare alla Miskatonic Library,
basta rimandare ancora.»
Michael
le
sollevò il mento e sorrise. «Brava la mia
cervellona» le diede un bacio.
«Adesso, se non ti spiace, vorrei dormire. Sono parecchio
stanco.»
«Va
bene, a
domani.»
Lui
esitò. «E se
restassi?»
Ellen
fu presa
in contropiede. Gli aveva già dato le spalle e si
voltò di nuovo verso di lui.
«Cosa?»
«Se
restassi? Mi
sono stufato di dormire negli alloggi della servitù.
Giù è umido, non lo sai?
Inoltre… la nostra padrona di casa sa di noi, quindi che
senso ha fingere
ancora?»
«Che
cosa
staremmo fingendo?»
«Di
non essere
intimi.»
«Noi
non siamo
intimi.»
«Mi
spiace
dissentire, ma in certo modo lo siamo. Ellen»
proseguì tornando serio. «Voglio
solo stare più comodo. E… e magari divertirmi
più di una volta a notte, che ne
pensi?»
«Fa’
come cazzo
ti pare» sbottò lei, infilandosi sotto le coperte.
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Capitolo 13 *** Capitolo XIII ***
Capitolo
XIII
Alla fine, furono costretti
ad arrangiare almeno un pasto
in cucina. Il tavolo era capace di ospitarli tutti, ma le sedie erano
meno e
dovettero arrangiarsi prelevandone un paio dalla sala da pranzo ancora
inagibile. Jeremy, il fedele maggiordomo dell’Arcivescovo
Giraud e ora della
signorina Butler, durante la loro assenza aveva infatti
contattato una
ditta per sistemare il disastro avvenuto la sera del trentuno ottobre;
la
situazione era migliorata rispetto a due mattine prima, quando avevano
deciso
di partire per il Maine, tuttavia in quel momento gli operai stavano
finendo di
montare le ultime finestre, e il gruppo aveva tacitamente concluso che
fosse
rischioso fare colazione in mezzo a dei perfetti sconosciuti: nel giro
di
quindici minuti, Janet aveva già rischiato per ben due volte
di enunciare frasi
poco comprensibili a orecchie diverse dalle loro, e che comunque
avrebbero
potuto farli finire nei pasticci.
La cucina presentava
un’unica finestra che tennero ben
chiusa, preoccupandosi inoltre di serrare le due porte in modo che
nessuno
potesse udirli. Jeremy si muoveva tra loro come una presenza eterea,
preparando
altro tè e un’intera caraffa di cioccolata calda
per Ellen, e nessuno pareva
intenzionato a chiedergli di lasciarli soli; dopotutto, era nei guai
fino al
collo proprio come loro.
«Ellen, non volevi
andare in biblioteca oggi?»
Era alla seconda tazza di
cioccolata quando Michael aveva
parlato. Era seduto accanto a lei e teneva fra le mani l’Arkham
Gazette.
«In biblioteca? La biblioteca?»
cominciò ad allarmarsi
Janet, che si sentiva sul filo del rasoio da quando si era alzata dal
letto,
quella mattina. Sembrava pronta a scoppiare da un momento
all’altro. «Non credo
sia prudente tornare al Campus al momento, ma in effetti servono
informazioni,
e non possiamo rimanere chiusi in casa a…»
«No, non
è prudente andarci» ripeté Michael,
poggiando
sul tavolo la pagina che stava leggendo.
Ellen diede una rapida
occhiata, poi alzò il giornale e
annuncio: «Hanno scassinato la Miskatonic Library!»
Fino a quel momento il loro
tono di voce si era tenuto
basso, ma una tale notizia non poteva che sconvolgerli, senza
però destare
sospetti negli operai a lavoro dall’altra parte del muro.
Solo Jeremy rimase
impassibile: Lilyan e Alexander, al contrario, scattarono in piedi
nello stesso
momento, e Janet parve essere sul punto di avere un mancamento.
«Potrebbe non
essere niente di che» precisò subito Ellen,
ricomponendosi. «Qui dice che questa notte qualcuno si
è introdotto nel Campus
per… ah, ecco.»
«Cosa?»
domandò inquieta Janet.
«“Per
vandalizzare l’antica e rinomata struttura della
Miskatonic Library, come qualche giorno fa era avvenuto per il Charles
Tyner
Science Lab”» lesse Ellen, poi sospirò.
«Vandali.»
«Solo che
l’altra volta non erano stati i vandali,
giusto?» chiese Lilyan.
«Esatto, ma
è stata la storia che Miller ha deciso di
fornire alla stampa.»
«Quindi potrebbe
essere colpa di…?»
«A questo punto
non possiamo saperlo. Forse sono stati
davvero dei vandali o forse…»
«…è
il cane di Armitage» concluse Michael, guardando
Ellen per un istante, prima di scuotere la testa. «Scusateci,
storia lunga.»
Ellen credeva di trovare la
stessa confusione di Lilyan
anche sul volto di Alexander, e stava per narrare tutta la vicenda di
cui
avevano discusso con la professoressa Baker durante il loro primo
pomeriggio
nella villa dell’Arcivescovo, quando si accorse che il
detective era sotto
shock. Le nocche delle dita che stringevano il tavolo erano diventate
bianche.
«Alexander?»
L’uomo parve udire
solo la voce di Janet, che come Ellen
si era resa conto che qualcosa non andava in lui. Seguirono entrambe il
suo
sguardo, fisso sulla pagina di giornale che la studentessa reggeva tra
le mani.
«Darcus…
quello è Darcus.»
Ellen capì
subito. Voltò la pagina e la appiattì sul
tavolo, tanto velocemente da rischiare di rovesciare la teiera
bollente. Adesso
tutti loro potevano osservare la foto rettangolare a cui si riferiva
l’articolo
sottostante, il cui titolo recitava: “O’Bannion
acquista le proprietà del
defunto Potrello”.
Si concentrarono sulla
fotografia, osservando per primo l’uomo
massiccio dai folti capelli ricci e il sigaro in bocca, che Ellen
sapeva bene
essere Danny O’Bannion; accanto a lui c’erano un
paio dei suoi tirapiedi,
entrambi alti e dinoccolati. Sebbene non potesse vederle, Ellen era
certa che
sotto le loro giacche si nascondessero altrettante pistole.
Dopo un minuto di silenzio,
fu Janet a parlare:
«Alexander… di chi parli?»
Forse, come Ellen, anche lei
e il resto dei presenti
avevano letto l’articolo per cercare di comprendere se il
detective si
riferisse al suo contenuto, a una frase poco chiara, magari riferita a
un certo
manicomio nel Maine, ma nulla. L’Arkham Gazette si
limitava a leccare il culo a O’Bannion,
boss della criminalità organizzata irlandese che il reporter
descriveva come un
“importante e astuto uomo d’affari”. A
quanto sembrava, O’Bannion aveva
ampliato i suoi possedimenti grazie alla inaspettata e per nulla
sospetta morte
di Giuseppe “Joe” Potrello e di suo figlio Frank;
l’omicidio, che alla Gazette piaceva
chiamare “tremendo
incidente nautico”, era avvenuto appena due giorni prima,
all’inizio di
novembre, e O’Bannion non aveva atteso i funerali per
impossessarsi dei più
remunerativi possedimenti del rivale.
Si stava ancora chiedendo
cosa intendesse Alexander,
quando lui parlò di nuovo, l’indice puntato sulla
foto. «Lui è Darcus!»
Stava indicando
l’uomo più vicino al boss irlandese, che
Ellen sapeva chiamarsi Sills; era il suo braccio destro, tutti in
città ne
conoscevano il nome e il volto, e soprattutto sapevano che solcava le
scene di
Arkham già da parecchio tempo.
«No, lui
è Bobby Sills» precisò allora.
Cercò di non
trasmetterlo nella propria voce, ma temeva che il detective fosse sul
punto di
impazzire. I giorni precedenti, in effetti, non erano stati facili per
lui.
Alexander però
scosse la testa e continuò a premere il
dito sul foglio. «Vi dico che questo è Darcus.
Lo… lo so, e non so spiegarmi
perché. Ha dei lineamenti che me lo ricordano, e poi il suo
sguardo…»
Ellen non sapeva cosa ci
fosse nello sguardo di Sills, ma
era certa di ciò che leggeva in quello dei suoi compagni di
sventura.
Alexander
sospirò, ricadendo a sedere. «Forse mi sbaglio,
forse sono solo… stanco, o ancora addormentato.
Scusatemi.»
***
Biblioteca o meno, Ellen
voleva uscire di casa. Prese il
cappotto, aprì la porta e si addentrò
nell’umido autunno di Arkham senza dire
una parola. Non avrebbe saputo a chi rivolgersi, in verità:
Janet e Lilyan si
erano chiuse in camera, forse per discutere sulla probabile pazzia di
Alexander, che dal canto suo era in salotto a fumare e a schiarirsi i
pensieri;
di Michael non c’era traccia, poiché
l’aveva informata che intendeva uscire
dopo la colazione, come se a lei fosse fregato qualcosa. Per scrupolo,
aveva
comunque controllato il nascondiglio del detective, appurando che i tre
libri
fossero ancora al loro posto, e ci aveva messo anche le lettere
recuperate
dalla casa dei McCrindle. Se a quel punto Alexander non capiva che
tutti erano
in grado di accedere al suo “posto segreto”, Ellen
non sapeva che altro fare.
Faceva freddo, avrebbe
preferito rimanere in casa, ma era
conscia che non avrebbe concluso granché, per cui aveva
scelto di seguire una
pista. Dopotutto, erano anni che si teneva lontana da una certa zona
del
Merchant District.
Mentre svoltava
l’ennesimo angolo lungo la ragnatela di
strade secondarie che l’avrebbero condotta alla sua meta, si
accorse di essere
seguita. Mantenne la calma, ripetendosi per prima cosa che non aveva i
libri
con sé, dunque Darcus non avrebbe dovuto romperle le palle.
Finse di essere
sovrappensiero e si infilò in un vicolo dopo essersi
accuratamente guardata a
destra e a sinistra, e si nascose in una seconda stradina in attesa del
suo
pedinatore. Per fortuna, aveva deciso di portarsi la pistola dietro.
Attese solo qualche attimo,
poi la puntò contro la figura
appena apparsa.
«Perché
cazzo mi stai seguendo?»
Michael rise e
recuperò il portasigarette dal taschino,
senza curarsi della canna premuta contro il suo fianco. «Ero
curioso. Dove stai
andando?»
«Non eri
uscito?» chiese invece lei, riponendo l’arma al
suo posto.
«Ti ho vista
mentre stavo rientrando. Credevo volessi
andare comunque al Campus, e invece eccoti qua.»
«Già,
eccomi qua.»
Era scocciata: Michael dava
l’impressione di non volerla
mai lasciare agire da sola. La anticipava, sia nelle parole che nelle
azioni,
le stava sempre accanto nei momenti decisivi, come quando avevano
raggiunto
entrambi Alexander in camera di Darcus e scovato le sue lettere, e ora
aveva
perfino iniziato a pretendere di dormire con lei! Non lo trovava
sospetto: lo
trovava fastidioso.
«Vattene, ho da
fare.»
«Ti
accompagno.»
«No,
grazie» replicò sottolineando la seconda parola
con
una punta di sarcasmo.
«Non ho niente da
fare.»
«Dov’eri
stamattina?»
«Da
Mary.»
Ellen finalmente lo
guardò. «La Baker? Non era…?»
«Sì, ma
volevo averne la certezza. Sono passato a casa
sua ed è chiusa, c’è anche un messaggio
sulla porta per il lattaio e per il
postino. Da una parte mi dispiace che sia stata allontanata
così di fretta.»
Michael fece una pausa per soffiare il fumo.
«Dall’altra credo sia stato un
bene.»
Ellen si strinse nelle
spalle. «Non lo so. Questa storia
mi fa incazzare comunque la guardi.»
«Credevo avessi
una scarsa opinione di Mary.»
«Ti sbagli.
È una persona detestabile, ma la stimo.»
«Come
me?»
«Chi dice che io
ti stimi?»
Michael sorrise e spense la
sigaretta a terra. «Ora che
mi sono accertato che hai qualcosa con cui difenderti, posso tornare a
casa. Fa’
attenzione, ragazzina.»
Era stato facile liberarsi
di lui, rifletté Ellen. Fin
troppo: forse avrebbe dovuto attendere qualche minuto prima di
riprendere il
cammino, accertandosi che Michael se ne fosse davvero…
«Mani in
alto!»
Oh, che palle,
pensò con un sospiro.
Il rapinatore non ce
l’aveva con lei, ma con quel
damerino che sfoggiava un completo firmato vicino ai Docks. Nessuno
andava in
giro così da quelle parti, a meno di non far parte della
criminalità
organizzata, e il ladruncolo che puntava una lama alla schiena di
Michael
conosceva ogni singolo mafioso della zona, che fosse irlandese o
italiano.
«Ehi!»
esclamò per attirare l’attenzione del furfante.
Lui sobbalzò e girò la testa verso di lei, ma
senza staccare il coltello dalla
sua preda. «Ha una pistola sotto la giacca, ti conviene
togliergliela.»
Adesso anche Michael aveva
voltato il capo in modo da
guardarla. Era sorpreso, confuso, ed Ellen godette interiormente di
essere
riuscita a lasciarlo senza parole, una buona volta.
Storse le labbra in quello
che riuscì a rendere più
simile a un ghigno. «Ciao, Logan, è un piacere
vederti.»
***
«Devo procedere
così ancora per molto?»
«Sta’
zitto!»
Ellen sorrise intimamente
all’ordine di Logan, il
dodicenne tutt’ossa che stava spingendo Michael con la punta
del coltello. L’austriaco
avanzava con un’espressione sorniona sul volto, come se si
divertisse un mondo,
ma ogni volta che avvertiva la lama contro la schiena sussultava. Un
gesto
quasi impercettibile, e che tuttavia Ellen riconosceva con crescente
soddisfazione.
Finalmente qualcuno riesce a
metterti al tuo posto.
«Ci siamo
quasi» avvertì il ragazzino, facendo un cenno
verso destra.
Ellen annuì ed
entrò nell’edificio diroccato, e fu
costretta a fare un piccolo salto per raggiungere i pochi gradini
rimasti che
portavano al piano superiore. «Levagli la benda, non ho
voglia di tirarlo su.»
Logan obbedì, ma
non prima di avere ricordato a Michael:
«Ho un coltello e la mia amica ha la tua pistola, non fare
scherzi.»
«A essere precisi,
la tua amica ha due pistole» sentenziò
Michael sbattendo le palpebre. «Dove siamo?»
«A casa»
si limitò a rispondere Logan. Aspettò che il suo
ostaggio seguisse Ellen al secondo piano, poi si arrampicò
per fare
altrettanto; passò davanti a entrambi e scostò
una logora tenda grigia, che un
tempo doveva essere stata di un verde brillante.
Lo stomaco di Ellen si
contorse. Il covo era cambiato, si
era spostato in un’altra zona dei Docks, però era
molto simile a quello che
aveva lasciato anni prima: sporco, umido e maleodorante, con mobili
marci da
cui ricavare una pessima legna per l’inverno in arrivo. Si
impose di non
storcere il naso per evitare di offendere Logan.
«Dove sono gli
altri?» chiese quasi con timore, sperando
che il ragazzino non fosse rimasto a vivere da solo.
«Stanno
lavorando. Quello che dovrebbe fare Logan.»
Una figura emerse dalla
penombra ed Ellen si maledisse per
essere stata colta alla sprovvista: non era il messaggio che voleva
dare di sé.
«Io stavo lavorando,
ma poi ho
incontrato Ellen e…»
«…e
hai pensato che fosse il caso di portartela
dietro. Niente di male, Logan, ma quello chi cazzo è?»
Le ultime frasi
erano state scambiate in italiano, una lingua che Ellen conosceva bene,
essendo
cresciuta con colui che ora stava allargando le braccia nella sua
direzione. «Bentornata.»
Ellen fece un cenno di
saluto con il capo, rifiutando l’abbraccio,
ma Marco non si offese: la conosceva bene, sapeva che mai si sarebbe
sciolta in
gesti d’affetto. Si limitò a far ricadere gli arti
lungo il corpo e a girare
intorno a Michael, che a sua volta lo soppesava con sospetto. Da un
lato, Ellen
comprendeva la preoccupazione di Marco, poco incline a ospitare
sconosciuti nel
suo covo; dall’altra non poteva biasimare la
curiosità del medico austriaco
verso quel ragazzetto allampanato dai capelli biondo cenere e lo
sguardo vispo
che aveva solo un paio di anni più di lei.
«Parla» ordinò
Marco voltandosi verso Ellen. Non era un vero e proprio ordine:
racchiudeva una
serie di non detti, fra cui “Perché sei tornata
qui?” e “Chi è il damerino che
ti accompagna?”.
«In
inglese» propose lei lasciandosi cadere su una
vecchia poltrona con le molle a vista. «Non ho voglia di
riassumergli tutta la
conversazione, dopo.»
Marco annuì,
mentre Logan prendeva posto insieme a lui
sul tappeto muffo; Michael, dal canto suo, preferì restare
in piedi, forse
temendo di sciupare il suo bel completo su misura. Ellen
guardò i presenti,
soffermandosi sulle chiare differenze, e provò una seconda
stretta allo stomaco
di fronte alla miseria di coloro che, per anni, erano stati la sua
famiglia.
Soltanto allora si ricordò di avere qualcosa nella borsa; la
aprì ed estrasse
quel poco che era riuscita a prelevare dalla cucina di Chateaubriand
Manor dopo
la colazione, qualche fetta di pane morbido.
«Non abbiamo
bisogno della tua carità» esclamò
Marco,
mentre la sua pancia mandava un gorgoglio contrastante.
Ellen gli mostrò
un sogghigno. «Il pane era per
nascondere questi.» Bene al sicuro all’interno
della borsa, contro la mollica che
aveva impedito di farli cozzare l’uno contro
l’altro, c’erano alcuni pezzi di
argenteria che all’Arcivescovo Giraud non sarebbero
più serviti. Con la coda
dell’occhio, Ellen notò Michael sollevare un
sopracciglio, senza tuttavia dire
niente. «Vendeteli e prendete ciò che riuscite a
ricavarci.»
«Credevo stessi
tenendo un basso profilo» mormorò Marco
rigirandosi tra le mani callose una forchetta lucidata alla perfezione.
«Se ti
beccano…»
«Non mi
beccheranno. Ci abito.» Quasi rise davanti
all’espressione
sconcertata di Logan, così riprese: «Stanno
succedendo delle cose strane ad
Arkham, e potrei esserci
finita in mezzo.»
«Certo, se vivi in
un posto con roba simile ci credo che
stanno succedendo cose strane…»
«Mi sono
immischiata in faccende che non mi riguardavano,
mettiamola in questo modo. E lui» Ellen indicò
Michael «mi sta dando una mano.
Potete fidarvi.»
«Possiamo
davvero?»
«Mi ha dato una
pistola. O è stupido, o è affidabile.»
«E stupido»
precisò Logan in italiano.
Ellen cercò le
parole per raccontare soltanto ciò che
serviva: voleva che Marco si fidasse, ma al contempo preferiva tenere
lui e gli
altri fuori dalla schifosa situazione in cui si era cacciata. Decise di
andare
subito al sodo. «Come vanno le cose con
O’Bannion?»
«Ah, hai saputo
che Potrello è schiattato.» Marco parve
rilassarsi, come se si sentisse maggiormente a proprio agio in un
terreno
conosciuto. «Incidente in mare, dicono… e potrebbe
anche essere vero.»
Fu a quel punto che Michael
scelse di intervenire. «“Potrebbe
anche essere vero”?» chiese meravigliato.
«Credevo che fossero rivali.»
«Potrello non
valeva un cazzo» spiegò Ellen. «Nemmeno
i
Rocks lo seguivano, figurarsi se poteva rappresentare un problema per
O’Bannion.»
Di fronte alla sua espressione interrogativa, continuò:
«I Rocks sono i giovani
criminali italiani del Southside, si contendono le zone
d’azione con i ’Finns,
ma a differenza loro non seguono un boss.»
«Potrello era un
pesce piccolo. Figurati che quell’idiota
non riusciva neanche a tenere O’Bannion lontano dal
Southside!» rincarò Marco,
rivolgendosi a Michael senza tanti fronzoli, poi tornò a
guardare Ellen. «Alla
morte di Potrello e del figlio, O’Bannion si è
lanciato sul The Club, in
modo da iniziare a controllare attivamente anche il sud della
città, ma… È
stato un incidente, ti dico. Leary avrebbe potuto ammazzarlo davanti al
The
Club, con un’esecuzione in piena regola. Dammi
retta: O’Bannion non ha
mandato avanti i suoi scagnozzi perché gli faceva comodo
avere contro uno
scarto come Potrello, e si è lanciato sul suo territorio
proprio per evitare
che i Rocks scegliessero qualcuno fra loro.»
«Il primo che
rimane in piedi» sbuffò Logan, incrociando
le braccia al petto. Ellen si accorse che stava cercando di apparire
più adulto
di quanto non fosse, e che per farlo aveva deciso di imitare ogni gesto
di
Marco.
Estrasse dalla borsa anche
un frammento di giornale, la
pagina con la foto di O’Bannion in compagnia dei suoi
tirapiedi.
«Leary
è questo, no?» chiese, indicando l’uomo
sulla
sinistra.
«Sì,
proprio lui. Cazzo, dimenticavo che sono anni che
sei fuori dal giro, ma qui tutti conoscono Leary.»
«L’altro
invece è Bobby Sills.»
Era
un’affermazione, ma sapeva di avere tentennato, come
se stesse chiedendo una conferma e ne temesse la risposta.
«È
Sills» annuì Marco. Ellen non fece in tempo a
sospirare, maledicendo l’infondata teoria di Alexander,
perché il ragazzo
continuò: «Lui è un problema.»
«Che
intendi?» chiese Michael con la fronte aggrottata.
«Bobby Sills
è il braccio destro di O’Bannion. Visto che
il boss fa affari per tutta l’area intorno a Boston,
è spesso lontano di
Arkham, quindi è Sills a occuparsi davvero della banda. Lo
ha sempre fatto con
prudenza esagerata: per ogni colpo, aspettava il via libera del capo, e
spesso
hanno perso l’occasione. Da un po’ però
le cose sono cambiate. Qualsiasi cosa
pensi Sills… la mette in atto nel giro di un’ora.
Nessuno riesce a stargli
appresso: decide e agisce. Strano per lui.»
«Forse ha paura
che O’Bannion lo faccia fuori?»
«No, non
è così. In tal caso, potrebbe fare errori. Un
casino di errori, direi. E invece ne azzecca una dopo
l’altra.»
«Da quanto
tempo?»
«Questo
è il vero problema. Da… una settimana. Anche
meno.»
Ellen scambiò
un’occhiata allarmata con Michael.
«Racconta.»
«Ne so ancora
poco, però non c’è solo Potrello. Hanno
acquistato delle azioni che li hanno arricchiti ancora di
più, questo è quel
che si dice in giro. Nanny li ha visti aggirarsi qui intorno,
comprare… barche,
dice. In contanti. Non può venire tutto dai guadagni del Lucky,
no?
Quanto cazzo ci guadagnano a vendere alcol?»
«E Sills era
presente» ipotizzò Ellen, cauta.
«Sills è sempre presente.
Prima non lo si vedeva mai
girare a piedi, sempre su quell’auto da riccone, e adesso
dovunque vai te lo
trovi davanti, imbottito di uomini e armi. Logan e Nanny hanno paura a
lavorare
con lui nei paraggi, così ci stiamo spostando.»
«Non potete andare
nel Southside!»
Marco scoppiò a
ridere. «Non così tanto.
Cambiamo aria, ci dedichiamo
alle zone meno frequentate dagli irlandesi, cose del genere.»
Tornò di colpo
serio. «Ne ho tanti da sfamare, Scricciolo, ma non posso
rischiare le nostre
vite.»
Ellen lo sapeva bene: Marco
aveva sempre agito per
interesse dei più piccoli, fin da quando lei aveva poco
più dell’età di Logan e
l’aveva presa sotto le sue ali, però adesso il
favore che voleva chiedergli
rischiava di essere troppo, e sapeva che quella manciata di posate
d’argento
non sarebbe bastata.
Ci provò, pronta
a ricevere un secco rifiuto. «Marco…»
A interromperla fu il rumore
metallico di un sacchetto
lanciato a terra, tra le gambe dei due italo-americani. Logan corse ad
aprirlo
e rivolse all’uomo che aveva tentato di rapinare uno sguardo
carico di domande.
«È un
anticipo» spiegò Michael con noncuranza.
«Per
scoprire qualcosa di interessante su Sills. Ci trovate a French Hill,
nella
villa del defunto Arcivescovo Giraud Des Chateaubriand: tornate con
delle
informazioni utili e vi daremo altro denaro.»
Ellen fremette. Era evidente
che Michael non si fosse
reso conto di essersi appena comportato come un fumante e molle pezzo
di merda.
Si fece avanti prima che Marco potesse scattare in piedi per
affrontarlo.
«Ti prego, Marco,
non te lo chiederei se non fosse
davvero importante. Per favore, accettali.»
Marco avrebbe volentieri
preso a schiaffi quel damerino
da quattro soldi, tuttavia i suoi occhi caddero su Logan, che osservava
a bocca
spalancata il contenuto del sacchetto, ora riverso sulle sue mani. Non
c’erano
solo monete, ma anche biglietti da venti.
«Va
bene» decise infine, serrando i pugni. «Ti
manderò
Logan.»
«Grazie.»
Ellen stava per uscire quando si voltò verso
Marco. «Fate attenzione. Se è… se
è come penso, dovrete fare molta più
attenzione di prima.»
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Capitolo 14 *** Capitolo XIV ***
Capitolo
XIV
«Vai ancora a
scuola?»
«Più o
meno.»
«Che rottura di
palle.»
«Non ti farebbe
male imparare almeno a leggere, Logan.»
«E a che serve?
Legge Nanny per me.»
Ellen sospirò,
tornando con la mente a quando al posto di
“Nanny” c’era il suo nome; le vanne quasi
di ridere al pensiero che la stessa
Nanny aveva pronunciato quella frase, prima di scivolare nel suo angolo
buio,
una notte, per pregarla di insegnarle a farlo.
«Così sarò più brava di
loro»
era stata la sua scusa. La bambina aveva appena sette anni ed Ellen
avrebbe
cominciato una nuova vita di lì a qualche mese, per cui la
sua richiesta era
giunta al momento opportuno. Da quel che ricordava, lo stesso Marco era
analfabeta, e c’era bisogno di almeno una persona in grado di
interpretare un
volantino affisso al muro, così da distinguere la
pubblicità di un nuovo locale
da un avviso di demolizione.
Erano tornati tra le strade
del Merchant District, con
Michael ormai sbendato perché non rappresentava
più un pericolo per Logan, e il
ragazzino li stava accompagnando ufficialmente per tornare a
“lavoro”, ma Ellen
sospettava che volesse sapere il più possibile da quella
donna che non vedeva
da quattro anni.
«Quindi che
combini?»
«Niente di
emozionante, a dirla tutta.»
«Scricciolo, ci
hai appena chiesto di spiare quei fottuti
irlandesi. Qualcosa di emozionante c’è,
sotto.»
Stupì anche se
stessa quando afferrò Logan e lo trascinò
in un vicolo, tenendolo per il bavero unto e macchiato.
«Primo» sussurrò contrò
il volto del dodicenne «non puoi chiamarmi
“Scricciolo” se sei messo peggio di
me. E secondo…» Fino a quel momento aveva
scherzato, ma adesso era importante
mettergli quel concetto bene in testa. «Non insultare
più gli irlandesi nella
loro zona.»
Logan provò a
lamentarsi, dandosi ancora una volta le
arie di un adulto. «Ma non mi fanno…»
«Le cose stanno
cambiando, Logan, lo ha detto anche
Marco. Fa’ un favore a entrambi e tieni la bocca
chiusa.»
Aveva parlato con tale
veemenza che il suo interlocutore
capì che era meglio non replicare. Si sistemò il
colletto e il cappello, poi
rivolse un ultimo sguardo a Ellen e Michael.
«Cercherò Nanny e vedremo di
scoprire qualcosa. Avrai nostre notizie.» Senza aggiungere
altro, si voltò e
corse via, diretto forse alla zona in cui stava operando sua sorella.
«Speriamo che non
si cacci nei guai» sospirò Michael.
«È
un bel tipetto.»
Ellen non gli rispose,
riprendendo a camminare in
silenzio. L’uomo attese ancora qualche minuto prima di
provare di nuovo a
rivolgerle la parola.
«Ho
l’impressione che tu ce l’abbia con me.»
Gli occhi grigi di Ellen
dardeggiarono su Michael, sul
suo viso pulito, le mani curate, l’abito di sartoria.
«Come ti è venuto in
mente di parlargli in quel modo?» ringhiò furente.
Michael parve preso in
contropiede. «A chi? Al capetto?»
«Tu non hai
proprio idea che esiste un mondo oltre il tuo
fottutamente privilegiato? Credi che tutti agiscano per soldi e potere?
Che
ogni persona possa essere comprata?»
«Ellen, avevamo
bisogno del loro aiuto. Li ho solo
pagati.»
«Li hai umiliati!
Non hai fatto una richiesta, non hai atteso che parlassi io, ma hai
deciso a
nome di tutti che avrebbero lavorato per te. Li hai pagati
presupponendo che
avrebbero accettato qualunque lavoro in cambio di denaro.»
Stava ansimando per la
rabbia. «Non abbiamo bisogno della
tua carità» aveva detto Marco, e l’aveva
detto a lei, che conosceva da tredici
anni, per poi ritrovarsi ad accettarla da uno sconosciuto che si
credeva Dio
sceso in Terra – perché Logan aveva fame, e anche
Nanny, e anche gli altri bambini
che dipendevano da lui, ma in cambio chiedeva solo di non essere
considerato un
poveraccio disposto a vendersi per un tozzo di pane.
Davanti a lei, Michael
chinò il capo. «Hai ragione»
mormorò.
«Mi dispiace.»
Non se lo aspettava: era
pronta a una discussione che l’avrebbe
fatta soltanto infuriare di più, invece l’uomo
aveva compreso il proprio
sbaglio. E si stava scusando.
«Beh, evita di
rifarlo» concluse lei dandogli le spalle e
riprendendo a camminare in direzione di French Hill. «Quando
torneranno,
aspetteremo di sentire cosa avranno raccolto. E li pagheremo solo se
avranno
informazioni utili.»
Il silenzio
scivolò di nuovo fra loro come la pioggia che
aveva iniziato a cadere; Ellen non aveva un ombrello con sé,
a differenza di
Michael, che le fece un muto cenno di ripararsi sotto, accanto a lui.
Proseguirono ancora per diversi isolati ed erano quasi fuori dal
Merchant
District quando Michael parlò di nuovo.
«Hai un passato
interessante. Janet ne è al corrente?»
«In
parte.» Per quanto fosse arrabbiata con lui, sapeva
di dovere chiarire subito un punto fondamentale: questa volta, sarebbe
stata
lei a parlare con il gruppo di Chateaubriand Manor, fornendo solo le
informazioni necessarie. «Sa che sono cresciuta con altri
bambini, ma non le ho
mai specificato nulla, né me lo ha chiesto. Credo pensi che
abbia vissuto in
orfanotrofio fino alla maggiore età.»
«Sei
alfabetizzata: è logico che non ti abbia preso per
qualcuno proveniente dalla strada.»
Non rispose alla sua domanda
implicita. Continuò a camminare,
gli stivaletti che si riempivano di fango scuro come il suo umore.
«Esistono
criminali alfabetizzati» insistette Michael,
facendole chiedere dove volesse andare a parare. «Io, per
esempio.»
Ora Ellen sbuffò.
«Tu?»
«Ho un…
secondo lavoro.»
«Del
tipo?»
«Contrabbandiere.»
«Andresti
d’accordo con O’Bannion.»
«Non contrabbando
alcolici, ma tabacco francese.»
«Wow, non mi
aspettavo niente di così sensazionale…»
«E
organi.»
Ellen si zittì, i
piedi che continuavano a seguire la
strada ormai familiare. Un passo e un altro, sotto la pioggia che
scrosciava
sempre più forte.
«Viaggio molto per
il tabacco, perché per la seconda…
“merce”…
ritengo sia meglio operare in patria, e alla svelta. Ma ho svolto
qualche
lavoro del genere anche qui ad Arkham.»
Un passo e un altro, la
pioggia intorno a loro.
«Non lavoro solo
per chi può pagarmi. Ci tenevo a
precisarlo.»
Gocce, passi, un tuono.
«Molti cadaveri
sono in buone condizioni: vittime di un
omicidio, uomini depressi che mettono fine alla propria vita, pazienti
ricoverati per un secondo infarto… Controllo che non abbiano
malattie tenute
nascoste ai parenti e asporto gli organi che possono ancora essere
utili.
Alcuni cadaveri non vengono neppure reclamati, e posso evitare di
ricucirli
prima che vengano gettati in una fossa comune.»
Un secondo tuono, altra
pioggia.
«Proctor si
è suicidato.»
Ellen si fermò e
alzò lo sguardo su Michael. L’uomo
fissava la strada davanti a sé.
«Il suo corpo
è rimasto nell’obitorio più del
previsto.
Ne ho approfittato per visitarlo e… asportare gli organi che
mi servivano.
Questa mattina, prima di passare a casa di Mary, ero andato a
controllare che
il paziente stesse reagendo bene al nuovo fegato.»
Spostò gli occhi su Ellen.
«Ti sei fidata di me, ora faccio lo stesso.»
Non era vero: la fiducia
aveva poco a che fare con la
situazione che si era creata qualche ora prima. Ellen stava andando ai
Docks
per cercare i suoi vecchi compagni, Logan aveva tentato di rapinare
Michael e
lui avrebbe potuto consegnarlo alla polizia; era necessario che vedesse
di
persona le condizioni del ragazzino. Inoltre, difficilmente avrebbe
potuto
liberarsi di Michael, a quel punto.
Inspirò
profondamente. «Marco mi ha raccolta a undici
anni. Prima… mi arrangiavo. Era appena più grande
di me, ma ha convinto il
resto del gruppo ad accogliermi. A nutrirmi. Ci ho messo settimane
prima di
pronunciare una frase completa.»
Ricordava ancora le
espressioni dei ragazzi più grandi:
avevano detto a Marco che, se voleva portarsi dietro una randagia,
avrebbe dovuto
dividere i pasti con lei; mesi dopo, quegli stessi ragazzi la
trattavano come
se fosse sempre stata una di loro.
«Lui e i suoi
amici mi hanno insegnato a rubare senza
essere vista, a scivolare nelle ombre come una creatura notturna, a
penetrare
nelle case più promettenti. Mi chiamarono
“Scricciolo” perché riuscivo a
infilarmi ovunque… anche nei camini.»
Esitò. «Quello è accaduto una volta
soltanto, e Marco mi ha fatto promettere di non farlo mai
più.»
Era stata male per giorni, e
si era dovuta sorbire i rimproveri
di Marco e una tosse che per poco non l’aveva uccisa. Con il
ricavato di quella
rapina, però, aveva potuto sfamare Logan e Nanny, che una
“sorella” di Marco
aveva abbandonato ai Docks, e per questo non si era pentita di avere
rischiato
la vita.
«Non facciamo
parte della criminalità organizzata,
nemmeno dei gruppi che coinvolgono i giovani. Da una parte ci sono gli
irlandesi, nel Merchant, con i ’Finns che lavorano a French
Hills, dall’altra
gli italiani guidati da Potrello e i Rocks, che si sono instaurati nel
Southside. Non abbiamo niente a che fare con loro, ci limitiamo a
sopravvivere.»
Stava parlando al plurale,
annettendo se stessa a quel
gruppo che aveva lasciato anni prima, ma le veniva naturale ogni volta
che
venivano nominati i Rocks; lo era da quando Giovanni li aveva mollati
per
unirsi a loro, perché voleva il potere, e non più
occuparsi di una manciata di
mocciosi. Marco aveva preso il suo posto quando aveva solo sedici anni,
promettendo che nessuno dei piccoli sarebbe rimasto indietro, non
importava
cosa sostenesse il fratello – un fratello di sangue, il solo
che Marco avesse
mai avuto.
Quel ricordo fu troppo forte
per lei, che si era gettata
nel passato da un giorno all’altro, senza fare una prima
immersione vicino alla
riva, come invece le avevano insegnato Marco e Giovanni.
«Torniamo a casa,
dobbiamo parlare con gli altri»
concluse.
Riprese a camminare e
Michael fece lo stesso.
***
Quando arrivarono a
Chateaubriand Manor, Ellen si sentiva
sfinita. Al contrario di quanto progettato non raggiunse il gruppo in
cucina,
dove stavano mangiando, né lo mise al corrente di quanto
accaduto quella
mattina; afferrò invece la mano che Michael le porgeva e lo
seguì in camera,
lasciando che ogni traccia del suo passato – quel
passato che faceva meno male, quello di cui poteva parlare –
venisse lavata via dalle sue
carezze.
Neanche dopo
comunicò a Janet, Lilyan o Alexander della
visita ai Docks. A quel punto fu una scelta ponderata: di fatto,
avevano solo
aperto un canale di comunicazione con possibili informatori, e le
dicerie su
Sills potevano essere solo questo – dicerie.
Potrello era morto sulla
sua barca per un incidente, e O’Bannion si era fatto avanti
per evitare che i
Rocks si impadronissero del Southside, mettendo subito in chiaro che
ora
possedeva anche quell’area della città; sarebbe
giunto un altro rivale, ma per
il momento la dipartita di Potrello non aveva causato incredibili
svolte nella
sua organizzazione.
Sills aveva acquistato delle
barche a nome del boss
irlandese, e quando Ellen aveva chiesto a Logan di dirle con precisione
il
giorno in cui Nanny lo avrebbe visto saldare tutto in contanti lui le
aveva
risposto che era avvenuto dopo la morte di Potrello, e non prima;
inoltre, O’Bannion
era noto per le esecuzioni pubbliche, per le quali non avrebbe dovuto
scucire
un centesimo. Le barche forse avevano lo stesso scopo della Lucky
Clover Cartage: spostare
gli alcolici da una zona all’altra della Miskatonic Valley,
forse nascondendola
addirittura sull’isoletta al centro del fiume che divideva in
due Arkham. La
ditta di autotrasporti di O’Bannion arrivava fino a Boston,
ma serviva un posto
in cui tenere la merce da contrabbandare.
Sills si muoveva sempre in
compagnia di altri scagnozzi
di O’Bannion, e anche in questo caso c’erano poche
teorie da formulare. Si
stavano arricchendo, portavano perfino in giro borse colme di contanti,
dunque
era logico pretendere maggiori difese. Un’ipotesi ancora
più assurda vedeva
Sills temere di fare la stessa fine di Potrello.
Era sensato. Tutto
completamente sensato. Ciò che però
faceva rodere il fegato di Ellen era la data: fine ottobre 1928. Lo
stesso
periodo in cui Darcus aveva rubato uno dei libri dal cadavere di
Masters.
Presupponendo che anche la creatura invisibile fosse stata evocata da
un libro
proibito, lo zio meno amato di Alexander ora era in possesso di ben due
volumi
che potevano celare altri modi per ottenere il potere e disfarsi degli
avversari.
Darcus avrebbe potuto prendere le sembianze di Sills e scalare la
criminalità
organizzata di Arkham dall’interno, e c’era un che
di grottescamente poetico
nello scegliere un uomo con un cognome che ricordava il fratello minore
da poco
deceduto.
Mancava lo scopo.
Teoricamente, Darcus voleva entrare in
possesso di tutti e quattro i libri, forse per ingraziarsi quel famoso
Ordine
con cui aveva scambiato una fitta corrispondenza, quindi
perché concentrarsi
sulla mafia irlandese? Aveva poco – nulla a
che vedere con il Darcus che
faceva esperimenti sulle pazienti, massacrava la propria famiglia e
cercava il
favore di altri esaltati.
A seguito di quella
riflessione, che Ellen ripeteva a
cadenza costante, aveva deciso di tacere con il resto del gruppo;
semmai Logan
o Nanny si fossero presentati con informazioni utili ad avvalorare o
confutare
una determinata tesi, gliene avrebbe parlato. Per il momento, meglio
concentrarsi sull’idea di Alexander.
Erano passati un paio di
giorni dalla visita di Ellen e
Michael ai Docks, e già dal mattino precedente il detective
li aveva condotti
in una zona periferica dove potersi esercitare con il tiro al
bersaglio. Ellen
aveva una buona mira, ma aveva sparato solo una volta in vita sua,
contando su
un colpo di fortuna che doveva tenere bene a mente prima di provare a
colpire
di nuovo un bersaglio tanto vicino a un alleato; Janet aveva sempre
detestato
le armi da fuoco, tuttavia ora era giunto il momento di sapere come
tenerle in
mano; Lilyan, infine, se la stava facendo sotto. La prima mattina era
rimasta
seduta, incapace di reggere la stessa pistola con cui aveva ucciso una
donna, e
per una volta non poteva biasimare Alexander: sembrava che nessuno
avesse avuto
il coraggio di dirgli che Lilyan era venuta a conoscenza del decesso
della sua
vittima, perciò non si era posto troppi problemi a
includerla nell’allenamento.
Quella seconda mattina, tuttavia, era finalmente riuscita a premere il
grilletto, sebbene con scarsi risultati. Ellen si chiedeva se non fosse
lei
stessa a trattenersi.
L’auto di Jeremy
li aveva appena riportati a French Hill
quando una mano prese ad agitarsi in lontananza, facendo segno a Ellen
di
avvicinarsi.
«Chi è
quello?» chiese Janet, che come lei si era accorta
del bambino che stava cercando di attirare l’attenzione di
Ellen.
«Ve lo diremo fra
poco» si limitò a rispondere Michael
mentre la ragazza si dirigeva in fretta verso Logan, il cappello tenuto
basso
per occultare il viso.
«Devi lavorare
sulle tue doti di occultamento» lo avvertì
Ellen.
«Di che?»
«Non sai
nasconderti. Di’, hai qualcosa di utile per me?»
Logan però
fissava un punto alle sue spalle, ed Ellen
credette che stesse cercando il suo “benefattore”,
forse temendo che lei non
sarebbe stata tanto generosa con il pagamento; seguendo il suo sguardo,
però,
si rese conto che stava osservando con curiosità e stupore
le persone che erano
scese dall’auto, l’auto stessa e il cortile dentro
cui la suddetta auto stava
parcheggiando.
«È lì che
abiti?»
«Solo per il
momento» tagliò corto lei. «Potrei anche
fartici fare un giro, ma prima dimmi
perché sei qui.»
Quella prospettiva parve
recuperare l’attenzione di
Logan. «Ho qualcosa, ma non so se è utile. Tu vai
a scuola, no?»
«È
un’università, ma sì,
perché?»
«L’hanno
rapinata. L’edificio con i libri…
l’hanno
scassinato l’altra sera.»
«Sì»
confermò Ellen, cercando di capire dove volesse
andare a parare, ma sembrava che Logan avesse finito.
«No,
intendo… sono stati loro. Gli irlandesi hanno rubato
qualcosa.»
***
«Ellie…
chi è quel ragazzino seduto in cucina?»
Le rivelazioni di Logan
erano state tanto grosse da
dovere mantenere quell’accenno di promessa che gli aveva
fatto, così se lo era
portato in casa, la mente troppo carica per pensare che forse avrebbe
dovuto
chiedere il permesso di Lilyan. Lo aveva condotto in cucina mentre lui
si
guardava intorno del tutto rapito dal lusso che lo circondava, e che
per una
volta poteva gustare senza fretta, privo di un bottino con cui
scappare; lo
aveva poi lasciato a Jeremy con la richiesta di preparargli una
cioccolata
calda, aveva chiuso la porta ed era rimasta immobile, sovrappensiero,
finché la
voce di Janet non l’aveva riscossa. Solo allora si accorse di
avere davanti le
espressioni confuse di Janet, Alexander e Lilyan –
quest’ultima anche abbastanza
contrariata.
Fu Michael a rispondere al
posto suo. «Non conoscete i
ragazzini di Sherlock Holmes? Una cosa simile.»
Ecco, ora Lilyan era
soltanto confusa. «I… ragazzini?»
«Lo abbiamo pagato
per tenere d’occhio gli irlandesi»
tagliò corto Ellen. «Possiamo lasciarlo solo con
Jeremy, è innocuo.»
«Uno dei due lo
è» sussurrò Michael, che non era il
solo
a non essere riuscito completamente a inquadrare il maggiordomo. In
quel
contesto, tuttavia, Ellen credeva di potere considerare Logan al sicuro.
«Andiamo nel
salotto» disse precedendoli. Come due mattine
prima, quando si era recata con Michael nel covo di Marco, si trovava a
doversi
spiegare senza dire troppo, ma ora il carico di informazioni era
maggiore. «Lui…
vive nel Merchant District, la zona degli irlandesi, ma non fa parte di
loro.
In alcun modo.»
«Perché
volevi tenere d’occhio gli…? Oh.»
Lilyan
realizzò. «Non vorrai credere alle parole di
Alexander.» Non sembrò curarsi del
fatto che il detective fosse seduto proprio di fronte a lei.
«Ero incerta,
così ho fatto qualche indagine. È venuto
fuori che l’uomo che Alexander crede sia Darcus è,
in effetti, Bobby Sills,
braccio destro di O’Bannion. Non so quanto sappiate della
malavita di Arkham,
ma si tratta di criminalità organizzata.»
«Ma questo
è Sills, no? Cosa c’entra con Darcus?»
«Quando
O’Bannion è fuori città,
cioè quasi sempre, Sills
si occupa della banda. Pare che nel giro di una settimana gli irlandesi
si
siano arricchiti all’improvviso. Controllano gli ex
possedimenti di Potrello,
il boss italiano morto qualche giorno fa, girano pesantemente armati e
fanno
costosi acquisti in contanti. Tanti contanti»
specificò. «Così ho chiesto al
ragazzino di guardarsi intorno e… sono venute fuori alcune
novità.»
Sollevò lo
sguardo e lo puntò su tutti loro, che la
fissavano in attesa.
«La Miskatonic
Library è stata scassinata da loro.»
«Che
cosa?!» Janet scattò in piedi.
«Hanno preso dei
libri. Non so quanti, ma… Alexander,
potrebbero esserci altre copie dei tuoi?»
«N-no…
non credo» tentennò il detective, stringendosi la
testa fra le mani. «Però potrebbero non essere gli
unici… a contenere qualcosa
di strano, intendo.»
«Ellie, potrebbe
non c’entrare niente.»
«Conosci dei
mafiosi interessati alla lettura?»
«Non è
questo, è…»
«Tutto
ciò gioca a nostro favore» intervenne Michael, e
ora tutti erano concentrati su di lui, in attesa di sapere il lato
positivo di
quella situazione. «Adesso sappiamo dove si nasconde Darcus.
Alexander lo
conosce poco quanto noi, ma ha notato qualcosa nella fisionomia di
Sills che
glielo ha ricordato. Sono parenti, chi può dire se non abbia
avuto ragione?»
«Considerate anche
che la fortuna degli irlandesi è
scappata fuori proprio quando Darcus ha rubato uno dei libri, a
Boston.»
«È
poco» decretò Lilyan. A giudicare dal pallore sul
suo
volto, stava cercando di convincersi. «Possono essere solo
coincidenze.»
«Possiamo
scoprirlo stasera stessa.» Ellen inspirò
profondamente, sapendo che era giunto il momento di comunicare loro
l’ultima
informazione ottenuta da Logan. «Sills ha fatto spargere la
voce di un incarico
urgente, per il quale è disposto a pagare una bella somma.
Gli servono dei
marinai, qualcuno che si presenti alle dieci al molo e che non faccia
troppe
domande. Pagamento anticipato.»
«Suona
male…» rifletté Michael, esprimendo ad
alta voce ciò
che tutti stavano pensando.
«C’è
una fregatura, è vero, ma… possiamo
provare.»
«No, ragazzina, noi possiamo
provare. Alexander ed io.»
Aveva ragione. Loro potevano
passare per due marinai,
accuratamente camuffati, ma le tre donne no, né Sills le
avrebbe volute sulle
loro barche per un incarico delicato. Era l’unica soluzione,
per quanto
sgradita.
Nel corso degli ultimi due
giorni, avevano provato a
recarsi da Armitage, che non aveva esitato a darsi malato e a pregare
il
rettore e i decani di tenere i curiosi lontani dalla biblioteca per
qualche
tempo. I danni erano incalcolabili, si diceva, e chi aveva visto
Armitage
sosteneva che fosse perfino più turbato di
quell’estate, segno che il colpo era
riuscito. Se la Baker fosse stata ancora ad Arkham, forse avrebbe
potuto
convincerlo a parlare, ma tra i presenti nessuno aveva confidenza con
il
bibliotecario, dunque nessuno avrebbe ottenuto risposte.
La sola altra pista da
seguire riguardava le barche
acquistate da Sills. Avrebbero potuto attendere per capire se davvero
Alexander
avesse preso un abbaglio, ma la criminalità irlandese si
stava muovendo troppo
in fretta e non potevano sapere quando li avrebbero attaccati; forse,
una volta
sistemati gli affari della banda, Sills – o Darcus
– li avrebbe fatti seguire e
rapire per scoprire il nascondiglio dei tre libri rimasti.
Rimasero in silenzio per un
po’, rimuginando sulla
decisione da prendere. A un certo punto Ellen uscì dal
salotto, ricordandosi
della presenza di Logan in casa, e lo congedò dopo avergli
dato un paio di
banconote prelevate dal portafoglio di Michael; notando quanto fosse
gonfio, ne
sfilò una terza e la consegnò al ragazzino.
«Va’
dritto da Marco. Prendi Nanny e gli altri. Di’ loro
di non azzardarsi ad accettare l’incarico di Sills: stanotte
dovete stare
lontano da quelle barche, intesi?»
Logan annuì e se
ne andò con la bocca ancora sporca di
cioccolato, lasciando Ellen sola con le proprie paure. Tornò
in camera e provò
a concentrarsi sui simboli che aveva ricopiato al Greenville Asylum,
confrontandoli con quelli presenti in uno dei libri dei McCrindle;
rimase assorta
in quel compito fino a tarda sera, saltando perfino la cena, e si
riscosse
soltanto quando Michael uscì dal bagno.
«Vado,
allora.»
Sussultò e lo
guardò: si era cambiato, sporcandosi il
viso e le mani per sembrare un senzatetto del porto, e a quello scopo
aveva
sostituito il bel completo con alcuni abiti di terza mano che Jeremy
aveva
procurato a lui e ad Alexander. Emanava un odore di pesce avariato.
Eppure, stava per chiedergli
di restare.
Parve leggerle nella mente.
«Se ci sbagliamo, saranno
solo dei soldi in più» provò a
scherzare, ma la sua voce era tesa. «Altrimenti
avremo trovato il nostro uomo.»
Ellen annuì
mestamente e si costrinse a mettere da parte
il nervosismo. «Torna in fretta.»
Michael sorrise.
«Te lo prometto.» Le arruffò i capelli
rossi e si allontanò deciso.
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Capitolo 15 *** Capitolo XV ***
Capitolo XV
Dieci. Undici. Dodici.
L’ultimo rintocco
echeggiò nella
villa silenziosa, rimbombando dall’ingresso al salotto dove
le tre donne
sedevano in attesa.
Dio, ora spacco quella cazzo di
pendola.
Ellen non si era mai accorta di
quanto fosse fastidiosa: suonava ogni quarto d’ora,
ricordando loro l’incessante
scorrere del tempo; era un rumore tanto contenuto da non svegliare
alcun
abitante della casa durante la notte, ma in quella interminabile notte
Ellen
riusciva a udire perfino ogni singolo crepitio del fuoco.
Michael e Alexander erano usciti
intorno alle nove, in modo da avere maggiori possibilità di
essere reclutati
per l’incarico delle dieci; una parte di Ellen aveva sperato
che rientrassero
nel giro di un’ora, spiegando che gli irlandesi non avevano
più posto per altri
marinai.
A mezzanotte, ancora nessuna
notizia.
Ogni tanto Jeremy si affacciava in
salotto con la scusa di non potersi ritirare finché la
padrona di casa non
fosse andata a dormire, e alla fine Lilyan aveva ceduto, permettendogli
di
controllare il camino, servire dei dolci, sostituire le tazze vuote con
tazze
calde e fumanti. Janet stava bevendo parecchio tè e ogni
volta che lo
avvicinava alle labbra le dita strette intorno alla ceramica tremavano;
Lilyan,
che appariva più tranquilla dell’amica, era
ugualmente tesa, e a rivelarlo era
il pallore innaturale del suo volto. Entrambe stavano provando a
leggere, ed
entrambe erano ferme sulla stessa pagina da venti minuti.
Ellen da quaranta.
Conosceva e condivideva il motivo
del loro nervosismo. Un conto era sentire il sudore freddo sulla nuca,
la
visione spaventosa del proprio avversario, la sensazione di essere sul
punto di
morire, un altro era attendere,
e senza sapere cosa. Per quanto potevano immaginare, i due uomini erano
al sicuro,
e si erano anche guadagnati un discreto gruzzolo per un lavoro da fare
in
fretta e furia, aiutando la criminalità organizzata di
Arkham a crescere
prosperosa; oppure – e questo contorceva lo stomaco di tutte
le presenti –
potevano essere già morti. Forse fin dalle dieci, o anche
dalle nove e cinque
minuti, una volta giunti fuori di casa. Forse erano già cibo
per i pesci, e forse…
Smettila.
Era sciocco pensare alle ipotesi
peggiori, lo stavano già facendo Janet e Lilyan. Nessuna di
loro parlava,
nessuna guardava l’altra, ciascuna concentrata sul proprio
libro e sulle
proprie preoccupazioni. Era insopportabile aspettare, e per la prima
volta
Ellen sperò che, la prossima volta che il gruppo avrebbe
corso un pericolo
mortale, questo avvenisse davanti ai suoi occhi, in sua presenza, anche
nel
caso che la sua vita venisse messa a rischio. Voleva vedere,
ed era frustrante che
quella serata fosse giunta proprio adesso che lei aveva cominciato a
tirare
fuori un briciolo di coraggio.
Mezzanotte e un quarto.
Jeremy entrò, mise altra
legna,
portò l’ennesima torta già divisa in
fette. Con estrema e incredibile calma ne
servì un pezzo su un piattino e la porse a Ellen, che fece
un vago segno del
capo per ringraziarlo; a Janet tolse la tazza ormai vuota,
restituendola piena
di liquido ambrato che corresse con un goccio di latte, mentre per
Lilyan portò
una seconda coperta, che le adagiò sulla schiena. Ellen
guardò sul tavolino e
scoprì che quella era la terza fetta di torta che Jeremy le
aveva servito. Erano
tutti dolci differenti, tutti al cioccolato. Probabilmente li aveva
preparati
per tenersi occupato, oppure stava cercando quello che Ellen avrebbe
finalmente
mangiato. Lei però aveva lo stomaco chiuso, nelle narici
ancora il tanfo di
pesce andato a male con cui Michael l’aveva lasciata.
Si alzò, un movimento
brusco che
attrasse l’attenzione delle due donne, il cui sguardo corse
subito alla
finestra.
«Vado in bagno»
annunciò. Non era
vero, ma doveva fare qualcosa.
Si diresse al nascondiglio in cui
Alexander teneva i libri e ricontrollò una delle lettere,
quella su cui
qualcuno aveva segnato il nome fenicio di Dagon.
Mezzanotte e mezza.
Dagon… La puzza di
pesce… Le
barche appena acquistate…
La pendola suonava.
La carcassa sul fiume… Il
sogno di
Janet nel dormitorio…
L’ennesimo rintocco.
L’indagine
insabbiata… L’incidente
di Potrello in mare…
Un rumore nell’ingresso.
Ellen
abbandonò la lettera e richiuse in fretta il nascondiglio,
la mano destra già
all’altezza della gonna, dove aveva riposto la pistola. Si
mosse velocemente e
con prudenza, pronta a scontrarsi contro qualunque creatura si
stesse…
Due figure entrarono in casa, gli
abiti fradici, gocciolando acqua sul pavimento lucido.
Un gridolino attraversò il
silenzio, e subito Lilyan, noncurante della sua condizione,
dell’abito da sera
appena acquistato, del rancore che aveva provato per giorni, si
lanciò tra le
braccia di Alexander, ringraziando ad alta voce il Cielo per averlo
riportato
da lei sano e salvo. Al suo fianco, l’altra figura
alzò lo sguardo e incontrò
quello di Ellen. Come Alexander era bagnato dalla testa ai piedi,
stanco e
maleodorante, e un sorriso sincero si stava facendo largo sul suo volto.
Ellen si pietrificò. Rimase
zitta
per un paio di secondi, solo il proprio respiro nelle orecchie, poi la
sua
espressione si indurì mentre incrociava le braccia davanti
al petto.
«Ci avete messo
tanto.»
Stavolta, a pietrificarsi fu il
sorriso di Michael. Il suo viso si oscurò, le labbra presero
un’altra forma,
gli occhi…
Per fortuna in quel momento Janet
lo abbracciò, evitando a Ellen di soccombere sotto la
delusione di quello
sguardo.
***
Nonostante l’ora tarda,
nessuno
aveva voglia di dormire. Michael e Alexander furono mandati a godersi
un bagno
ristoratore e a indossare abiti asciutti, mentre Lilyan e Janet
organizzavano
in salotto un piccolo buffet per festeggiare il loro ritorno, aiutate
da
Jeremy, il quale sembrava davvero in grado di sfornare una leccornia
dietro l’altra.
All’una e un quarto del mattino, erano ormai tutti riuniti
nel salotto, pronti
a gustare una cena che quella sera nessuno aveva consumato, e Lilyan
aveva
perfino chiesto un favore al maggiordomo. Dieci minuti dopo, Jeremy era
tornato
nella stanza con una bottiglia di vino pregiato che teneva nascosto
chissà
dove.
Le emozioni che attraversavano il
gruppo erano contrastanti e mutavano nel corso della festicciola
improvvisata.
Lilyan e Janet erano euforiche,
e sul loro volto era possibile leggere qualcosa di inedito fino a
quella notte,
un sollievo che sarebbe scemato il mattino seguente, quando sarebbe
rimasto
solo il senso di urgenza e pericolo incombente, ma che
l’alcol poteva serbare
ancora per qualche ora. Janet sorrideva e rideva, non faceva altro, e
ancora
prima di bere un goccio di vino rosso; i suoi occhi erano lucidi, e
quando si
allontanò per andare in bagno tutti seppero che si stava
lasciando andare a un
pianto liberatorio.
Lilyan sembrava una persona
diversa. Continuava a portare il lutto, sia negli abiti che nello
sguardo, ma
aveva finalmente iniziato a rivolgere dei sorrisi ad Alexander, e ora
appariva
più giovane, lontana dalla sofferenza degli ultimi giorni;
per tutto il tempo
che trascorsero in salotto si concesse solo un bicchiere di vino, che
toccò a
malapena. Accanto a lei sedeva un Alexander confuso e felice
– di quella
felicità che, come il sollievo, lo avrebbe abbandonato il
mattino dopo. Non era
chiaro quanto fosse forte l’amicizia tra i due, che si
passavano ancor più anni
che Lilyan e Janet, ma il senso di colpa doveva averla divorata sapendo
che,
dopo quel lavoro al molo, avrebbe potuto non rivederlo mai
più, senza averlo
perdonato per la morte dell’Arcivescovo.
Michael era accanto al fuoco, e
sembrava non essere stato contagiato dalla gioia del momento. Fissava
le fiamme
nel camino e appariva pensieroso, ma quando finalmente rivolse
un’occhiata ai
tre compagni sorrise e si alzò in piedi, come se non volesse
guastare il clima
allegro deprimendosi per quello che doveva essere accaduto al molo.
Poi c’era Ellen, che sedeva
in
disparte, nell’angolo più in ombra del salotto. Li
fissava tutti e aspettava, e
il suo sguardo saettava sempre più spesso verso di Michael,
ma nessuna parola
uscì dalla sua bocca. La gola era completamente arida.
«Alexander… credo
dovremmo mettere
le nostre signore a conoscenza degli eventi di questa sera»
disse infine
Michael, sebbene apparisse sinceramente dispiaciuto di interrompere
quell’esplosione
di positività tanto inattesa.
Alexander annuì.
Tossì, ma non
lasciò andare la mano di Lilyan, che continuava a stringere
le sue dita come se
temesse che potesse svanire da un momento all’altro,
costringendola a
svegliarsi conscia di dover portare due lutti.
«Stasera,
sì» esordì con un
secondo colpo di tosse. «Scusami, Michael, ma…
credo sarebbe meglio se lo
facessi tu.»
Ellen aggrottò la fronte,
tuttavia
Michael sembrava comprendere benissimo il motivo di quella richiesta.
Si mise
comodo, in piedi con le spalle al camino, e sorseggiò dal
calice riempito per
la seconda volta.
«Il nostro informatore ci ha
dato
la pista giusta. Gli uomini di O’Bannion erano alla ricerca
di marinai per un
incarico insolito, e non pretendevano esperienza o altro. Quando
Alexander e io
siamo arrivati al molo, c’era una dozzina di persone in fila,
e altri ancora si
sono uniti entro le dieci. Non ci hanno chiesto se fossimo
effettivamente dei
marinai, o se sapessimo nuotare… niente del genere. Alla
fine ci è stato chiaro
il perché: dovevamo solo remare. Quattro per ogni
barca.»
Sapevano tutti che qualcosa era
andato storto; lo sapevano anche le tre donne, che non erano state con
loro, ma
che li avevano visti rientrare completamente bagnati in una notte priva
di
pioggia.
«Ufficialmente, dovevamo
accompagnare un’imbarcazione più grande. Fare
da… deterrente per eventuali
curiosi, o per le forze dell’ordine. Non ci serviva mostrare
le pistole, perché
qualunque poliziotto avrebbe desistito all’idea di affrontare
tanti uomini. In
ogni caso, noi le avevamo portate dietro.» Esitò.
«Ma non ci sono state utili.»
“Non ci sono
servite”: questo
avrebbe significato che il lavoro si era svolto nel migliore dei modi,
perlomeno per i due marinai occasionali, eppure Michael aveva scelto
altre
parole. Parlava un inglese perfetto, dunque era stata una consapevole
selezione
di vocaboli.
«La destinazione era
l’isola nel
Miskatonic River. Piccola, ma perfetta per nascondere merce di
contrabbando»
proseguì Michael. «Abbiamo presunto che la merce
fosse davvero tanta, per via
della fretta che avevano di spostarla, e avevamo ragione. Ci hanno
fatto remare
fino alla riva e poi scaricare l’imbarcazione di
Sills.»
Lilyan sobbalzò.
«Darcus era lì?»
«Sì»
confermò Alexander. «E io…
l’ho
sentito. Ha davvero preso le sembianze di Sills.»
«Come fai a esserne
certo?» chiese
ora Janet.
Il detective non rispose, per cui
fu Michael a spiegare al posto suo: «Alexander soffre in
presenza dell’occulto.
Non l’abbiamo mai detto apertamente, ma l’abbiamo
pensato tutti. Io
sicuramente. Janet ha raccontato dei problemi nel salire nella soffitta
di
Silas McCrindle, dove si trovavano i libri – libri da cui
Alexander si tiene
bene alla larga. Anche quando eravamo da Masters mi è
sembrato distratto, e
nella cella di Darcus si teneva le tempie.» Bevve un altro
sorso. «Perciò,
quando stasera Sills si è affacciato sul ponte e Alexander
ha rischiato di
svenire davanti ai miei occhi, ne abbiamo avuto la conferma: Sills
è Darcus.»
«E il vero Sills? Come hanno
fatto
a liberarsene senza destare sospetti?»
Era una domanda semplice. Bastava
rispondere che Darcus l’aveva nascosto da qualche parte, o
ucciso, e che si era
presentato il giorno successivo nei suoi panni fingendo che nulla fosse
accaduto; eppure alle parole di Janet seguirono solo un lungo silenzio
e uno
sguardo d’intesa tra i due uomini.
«Crediamo… di
sapere che fine
abbia fatto» tentennò Alexander.
«Una cosa alla
volta» lo
interruppe Michael. «Come vi dicevo, il nostro caro detective
si è sentito
male, così siamo tornati in fretta alla nostra barca:
avremmo destato molti più
sospetti rimanendo lì, e ci siamo beccati solo qualche
derisione da parte di
uno dei marinai con noi, sicuro di aver fatto una buona impressione ai
capi a
differenza nostra. Allontanandoci, Alexander si è finalmente
ripreso.»
«Non ricordo bene
ciò che è
successo da quando abbiamo lasciato il molo»
spiegò il detective. «È come
se…
se avessi dimenticato tutto. Michael dice che abbiamo scaricato delle
casse, ma
non lo ricordo. So solo che, a un certo punto, abbiamo ricominciato a
remare,
allontanandoci dall’isola quanto bastava ad attendere gli
ordini di Sills.
Pensavamo che fosse ormai finita, e che se anche Darcus si celava sotto
la sua
identità il vero compito era effettivamente trasportare
montagne di alcolici.
Ne ero sicuro perché… perché Sills era
scomparso dal ponte, e io cominciavo a
sentirmi meglio.»
Nessuno dei due proseguì il
racconto: prima, Michael si versò altro vino e fece lo
stesso con Alexander e
Janet, mentre Lilyan rifiutò. Ellen nemmeno aveva preso un
calice per sé, e lui
non le rivolse la minima attenzione.
«Eravamo a venti piedi
dall’isola.
Tutte le barche in semicerchio, pronte per scortare Sills e i suoi.
È stato
allora che Sills… Darcus è ricomparso, e in mano
aveva qualcosa.»
Janet tremò. «Un
libro…»
Michael non perse tempo ad
annuire. «Stava recitando una formula. Per fortuna, eravamo
abbastanza distanti
da lui perché potesse provocare dolore ad Alexander,
altrimenti non so se
saremmo tornati entrambi.»
«Ha evocato… qualcosa»
proseguì il
detective. «Presto le barche hanno iniziato a oscillare, e
qualcosa è emerso
dalle acque.»
Michael fissò Janet negli
occhi.
«Sì, quel qualcosa.»
«La creatura del
laboratorio…»
«Ne ho contate
cinque.»
«Come… come avete
fatto a…?»
«Un colpo di
fortuna.»
A quelle parole, Alexander gli
rivolse un’occhiata di biasimo. «Non la
sua.»
L’altro si limitò
a stringersi
nelle spalle. «Mi interessa la nostra. Uno dei marinai sulla
nostra barca si è
alzato in piedi per capire cosa stesse succedendo, ma è
caduto in acqua. E un
paio di quei mostri si sono lanciati su di lui.»
Ellen avvertì un senso di
nausea,
e fu lieta di non avere mangiato niente da quella mattina.
«Ne abbiamo approfittato per
scappare. Non potevamo sparare, altrimenti…»
«…gli irlandesi
se ne sarebbero
accorti» concluse Alexander. «E Darcus
anche.»
«Abbiamo preferito fuggire,
e non
ce l’avremmo fatta se le due creature più vicine
non si fossero avventate sul
nostro compagno. Mi spiace per Willie, ma sono felice che le nostre
pellacce
siano salve.»
***
Quando Jeremy tornò con una
bottiglia di scotch, Ellen capì che era il momento di
congedarsi. Non disse
niente, si allontanò nello stesso silenzio in cui si era
chiusa da ore; li
lasciò mentre il maggiordomo cambiava i bicchieri e versava
un dito di whiskey
a testa, esclusa Lilyan, che rifiutò educatamente e represse
uno sbadiglio.
Stavano tutti crollando dal sonno, perfino l’efficientissimo
Jeremy, ma
ritirarsi nelle proprie stanze e dormire significava mettere un punto a
quell’unica
parentesi di illusoria gioia, e prepararsi ad affrontare un nemico
più
pericoloso che mai.
La pendola suonò due volte
mentre
Ellen le passava accanto e saliva le scale verso la camera in cui
soggiornava
da quasi un paio di settimane. Si sfregò le palpebre, ma non
era ancora pronta
a cedere al sonno; prima, si concesse anche lei un bagno per schiarirsi
le
idee.
Le creature studiate nel
laboratorio era collegate a Darcus, ormai ne avevano le prove. Era
dunque più
probabile l’ipotesi che fossero state mandate da lui nel
Campus per recuperare
i libri che Janet si era portata dietro.
Darcus era in grado di
richiamarle. Il mostro capace di diventare invisibile che li aveva
attaccati a
casa di Masters era la sua seconda evocazione, ed era servito al
medesimo
scopo.
Le uniche occasioni in cui erano
stati presi di mira da Darcus erano avvenute fuori da Chateaubriand
Manor, e
con i libri presenti. Quella sera Darcus, o Sills, non aveva
riconosciuto
Alexander, o era stato troppo concentrato sui sacrifici, che dovevano
avere
avuto un ruolo propiziatorio.
Darcus aveva scalato le vette
della criminalità organizzata per avere a disposizione
più vittime possibili.
No, questo non quadrava, doveva esserci anche altro sotto:
O’Bannion era ancora
vivo, perciò gli serviva.
Potrello però era morto,
ucciso
con molta probabilità, come il vero Sills, dalle stesse
creature che quella
notte si erano cibate di una ventina di uomini alla disperata ricerca
di un
lavoro, uomini per la cui morte nessuno capace di fare scalpore avrebbe
pianto.
Anche la morte di Potrello era necessaria, dunque.
Dagon.
Avevano bisogno di consultare una
biblioteca o una libreria qualsiasi, sperando di ricavare altre
informazioni
oltre quelle possedute da Ellen. Ricordava che Dagon era una
divinità cananaica,
ma ignorava perché lo conoscesse. Forse era stata Janet a
parlargliene a
seguito di un viaggio o uno scavo, era la sola spiegazione che le
venisse in
mente. Allora perché non gliene aveva ancora parlato?
Stiamo facendo tutto da soli.
Non stava incolpando nessuno se
non se stessa. Aveva condiviso le sue teorie solo con Michael, e solo
in quella
stanza, come se le quattro mura contenessero un microcosmo che non
poteva
esistere oltre la porta. Esattamente come lei e Michael.
Uscì dalla vasca mentre
nuovi pensieri
la aggredivano, pensieri che aveva tenuto separati dal resto per
permettersi di
riflettere in maniera lucida; ora, tuttavia, varcando di nuovo la
soglia che
dal bagno la riconduceva in camera da letto, stava tornando nel
microcosmo in
cui quegli stessi pensieri potevano proliferare, sebbene malvolentieri.
L’espressione sul viso di
Michael
le sarebbe rimasta impressa nella mente per sempre, anche una volta
cessato di
vivere a contatto con lui, anche giunta alla vecchiaia – se
Darcus non li
avesse uccisi prima. Ricordava il sorriso che si spegneva,
un’ombra che calava
sul suo volto.
Non è colpa mia.
Avrebbe potuto essere più
gentile
con lui, sarebbe bastato rimanere zitta, dirgli
«Bentornato» o chiedergli come
stesse; poteva fare tutte quelle cose senza sorridere, mantenendo il
solito
distacco emotivo e rimanendo, a conti fatti, fedele a se stessa.
Non l’aveva fatto, e forse
sì,
quella era colpa sua, perché dopo avere rischiato la vita
per delle persone che
non avevano niente a che fare con lui si era aspettato solo un grazie.
Ricordava male, o era stata proprio lei a sentirsi obbligata a
ringraziarlo
quando aveva evitato che Janet venisse uccisa da un mostro marino? Cosa
era
cambiato da allora?
Era certa di non provare
sentimenti per Michael – non quel tipo di
sentimenti. Se durante la
visita ai Docks fosse scoppiata una violenta lite fra lui e Marco,
Ellen non
nutriva dubbi verso chi lei avrebbe puntato la pistola per fermarli;
eppure
neanche per Marco nutriva affetto, solo riconoscenza.
Michael aveva salvato la vita di
Janet, quindi Ellen aveva acconsentito ad andare a letto con lui. Aveva
salvato
la sua, a Boston, e lei aveva sparato all’uomo che stava per
ammazzarlo.
Semplice, lineare.
Oh, non dire stronzate!
Perché avrebbe continuato
ad
andarci a letto, se fosse stato solo quello il motivo? Si sentiva bene
a fare quel
che facevano, tutto lì.
Ciò non cambiava il fatto che avrebbe potuto mostrarsi
riconoscente anche nei
suoi confronti, visto che lui e Alexander avevano rischiato di morire
pur di
raccogliere informazioni.
Forse meritava di sapere
perché
lei era incapace di dare fiducia ad altri esseri umani. Non tutto, ma
qualcosa.
Un centesimo di quello che Ellen aveva passato prima di compiere undici
anni.
Le avrebbe fatto male, e ci stava già ripensando, quando il
sonno la avvolse.
Si svegliò di colpo. Era
mattino
inoltrato e un sole autunnale splendeva oltre la finestra, dimostrando
di
essere finalmente riuscito a farsi strada tra le nubi dei giorni
precedenti. Si
sentiva raffreddata perché non si era completamente
asciugata prima di mettersi
a letto, e si girò per controllare se Michael fosse ancora
addormentato.
Non c’era.
Qualcuno bussò alla porta,
e
allora Ellen si ricordò che era stato un suono identico a
destarla. Si alzò e
andò ad aprire, mentre nascondeva la camicia da notte sotto
la vestaglia.
Davanti a lei c’era Janet,
il
volto grondante di lacrime.
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Capitolo 16 *** Capitolo XVI ***
Attenzione:
le idee espresse dalla protagonista non sono condivise
dall’autrice.
Capitolo
XVI
«Janet! Che
cosa…?»
Nel tempo occorso a
pronunciare quelle tre parole, mille
immagini catastrofiche si erano affacciata nella sua mente: un
incantesimo narcotizzante
che Darcus aveva lanciato su loro per potersi appropriare di Alexander
e dei
libri; un’aggressione da parte degli irlandesi mentre la sua
amica stava
passeggiando lontano dall’incomprensibile protezione fornita
dalla casa; una
richiesta di riscatto per il padre di Lilyan mandata da
O’Bannion, che al
momento si trovava a Boston…
Ogni parola,
un’ipotesi, ma poi Janet tirò su con il naso
e balbettò qualcosa sottovoce. «Po-posso
e-entrare?»
Non c’era urgenza,
quindi ciò che la stava facendo
piangere era già avvenuto. Ellen annuì e si
scostò per farle spazio,
approfittando del suo ingresso per scrutare quante più zone
del suo corpo
possibili, in modo da rassicurarsi che, almeno fisicamente, lei stesse
bene.
Janet entrò, tentennò, si sedette sul letto e
chinò il capo.
«Mi stai
spaventando» la avvertì Ellen. Non era una
persona empatica, ma la situazione le suggerì di accomodarsi
accanto a lei. «È
successo qualcosa agli altri?»
«No, no, stanno
bene!» si affrettò a rispondere Janet,
che ora la guardava di nuovo.
«E a te?»
Quell’esitazione
le fece mancare un battito.
«Janet, cosa cazzo
ti hanno fatto?»
La ragazza scattò
in piedi, d’un tratto incapace di sopportare
la vicinanza di Ellen. «Sto bene»
puntualizzò.
«Non
sembra.»
«È
successa una cosa.»
«Parla. Janet, sul
serio, mi stai spaventando.»
Lei trasse un profondo
respiro prima di decidersi a dare
una spiegazione. «Stanotte, quando sei andata a
dormire… Alexander e Lilyan ti
hanno raggiunta poco dopo. Credo. Non… non mi sono accorta
che te ne eri…»
Sembrò assalita da un pizzico di vergogna.
«Ero stanca,
e… onestamente, non riuscivo a sentirmi come
voi» Ellen mentì in parte. «Vi conoscete
da tanto, ne avete passate più di me,
e ho preferito non guastare il vostro umore ricordandovi che siamo
ancora nella
merda.»
Le era parso di dovere
giustificare la propria assenza
perché ciò che leggeva negli occhi lucidi e
arrossati di Janet era davvero vergogna.
«Quindi?
Cos’è accaduto dopo?» la
esortò.
«Sono…
rimasta sola con Michael» rivelò Janet a voce
tanto bassa che Ellen rischiò di non udirla. Rimase in
silenzio.
Ellen stava per urlarle
contro di dire quel che diamine era
accaduto senza tanti giri di parole: Janet stava male e lei voleva
conoscerne
il motivo, e non sapeva se quell’idiota di Michael le avesse
rivelato qualcosa
di spaventoso, qualcosa che l’aveva turbata, o se…
Ah.
Ellen
sbatté le palpebre. Che mondo era il loro, se il
primo pensiero nel vedere un’amica
piangere riguardava delle evocazioni demoniache e una banda di gangster
irlandesi in agguato? Dopodiché, le montò dentro
la rabbia.
«Che cazzo ha
fatto?»
L’immagine dei due
bicchieri di vino bevuti dall’uomo,
poi il whiskey e chissà che altro…
«Ci siamo
baciati.» Janet aveva parlato ancora con un
filo di voce. «Tutto qui, Ellie, io…»
«Che
cazzo ha fatto?» ripeté però
l’altra, in un
ringhio che fece sussultare l’amica.
Michael aveva bevuto.
Michael era rimasto solo con Janet.
Michael…
Michael non è lui,
si disse, cercando di recuperare la calma.
«Niente che io non
volessi!»
Le parole di Janet la
spinsero a respirare di nuovo: non
si era accorta di trattenere l’aria nei polmoni, ma avvertiva
chiaramente le
guance dolere per il calore. No, Michael non aveva fatto del male a
Janet, non
era quel tipo di persona; era un donnaiolo, certo, ed Ellen credeva che
fosse
andato a letto con altre donne oltre a lei da quando avevano cominciato
ad
avvicinarsi, però questo non significava che esigesse la loro
compagnia.
Non con la forza,
realizzò.
Guardò Janet, che
aveva continuato a parlare senza che
lei se ne rendesse conto.
«…sono
stata in piedi tutta la notte, aspettavo che ti
svegliassi, avevo bisogno dirtelo… Non avrei dovuto farlo,
so che tra voi due c’è
qualcosa, e ho agito da sciocca, e…»
«Tra noi due non
c’è niente» la tranquillizzò
Ellen, ma
il suo stomaco si stava contorcendo come la sera prima, quando aveva
temuto per
la sorte di Michael. «Ci limitiamo a fare qualcosa che piace
a entrambi.»
Janet ora appariva davvero
sorpresa. E confusa. E forse
in parte sollevata, e questo le diede fastidio.
«Ci ha provato
lui?»
«Non…
non lo so» rivelò l’amica.
«Avevamo bevuto entrambi
e ricordo poco, solo che… l’ho incoraggiato. Mi
dispiace, non ho pensato a te. Ho
bevuto e…»
«Allora te la sei
cercata.»
Calò il gelo.
Janet tacque, smettendo di giustificarsi;
nei suoi occhi riapparvero calde lacrime per le quali Ellen non si
sentì per
niente in colpa.
«Hai ragione,
è colpa mia.» La sua voce era rotta, mentre
si sforzava di pronunciare quelle ultime parole. «Volevo
soltanto chiederti
scusa. Non importa se voi due non avete una relazione, avrei dovuto
pensarci
meglio.»
Si girò e
lasciò la camera, chiudendosi piano la porta
alle spalle e permettendo a Ellen di affondare in un vortice di
sensazioni
atroci.
***
Il resto della giornata
passò nell’apatia generale.
Janet si era chiusa in
camera, lamentando di avere dolore
alla testa per il vino bevuto la notte precedente, mentre Alexander
dovette
realmente recuperare il sonno perduto e uscì dalla propria
stanza solo a
pomeriggio inoltrato; Lilyan invece era pensierosa, e il suo unico
tragitto fu
dalla cucina, dove aveva confabulato con Jeremy, al salotto, dove si
era
rintanata per un motivo a tutti ignoto. Dal canto suo, Ellen aveva
avuto modo
di incontrare quasi ogni singolo abitante della casa, cercando in modo
maldestro di evitarli tutti, e stava pensando di avventurarsi alla
ricerca di
Logan quando la porta della camera da letto si aprì ed
entrò Michael.
Dopo la confusione del
risveglio e il dialogo con Janet,
Ellen aveva capito che non aveva dormito nel suo letto, e fu ben presto
chiaro
che era uscito da Chateaubriand Manor quella stessa notte, per tornare
solo
ora, dopo il tramonto del sole. Non lo degnò di uno sguardo
e continuò a
preparare la borsa, premurandosi di prendere la pistola.
«Stai
uscendo?»
Era sorpreso, e non poteva
biasimarlo – non per quel
motivo. Era poco saggio avventurarsi nei Docks con il buio, alla
completa mercé
degli irlandesi; una parte di Ellen sperava che Marco fosse disposto a
ospitarla per la notte, anche a costo di tornare a dormire su travi di
legno
mezze marcite.
«È
pericoloso» aggiunse Michael davanti alla sua muta
risposta. «Vengo con te.»
«No.»
Stare con lui era
l’ultima cosa che Ellen desiderava: c’era
troppa confusione nella sua testa, da tempo immemore abituata a pensare
in
maniera logica e lineare, senza interferenze emotive o soprannaturali.
«Se stai andando
da sola nella tana del lupo, non posso
lasciartelo fare.»
Nella voce di Michael non
c’era il tono canzonatorio che
usava quando lei si metteva in testa di fare una qualche azione
avventata; era
serio, fermo e sicuro, ed Ellen capì che non avrebbe cercato
di farla
ragionare, bensì si sarebbe frapposto fisicamente fra lei e
il proposito di
lasciare la villa.
«Fammi
uscire.»
Per tutta risposta, Michael
chiuse la porta. «Dobbiamo
parlare.»
«Non voglio stare
con te, Michael» replicò in tono fermo.
Si sentì in dovere di precisare: «Voglio che tu mi
stia lontano.»
«Ho fatto una
stronzata, ma credo tu lo sappia già. Ci
tengo però a puntualizzare che se non mi sono spinto oltre
è stato per non
farle del male.»
La rabbia ribollì
nel petto di Ellen. «L’hai baciata» gli
ricordò. «E non crederò neanche per un
istante che sia stato tu a ferm…»
«Sì,
sono stato io. Lei… non era in sé, e io ne ho
approfittato. Domani le farò le mie scuse, ma oggi ho
bisogno che tu lo sappia:
ho sbagliato. Mi sono fermato per evitare di rovinarla.»
Le scappò una
risata amara. «“Rovinarla”? Ma come cazzo
parli? È una donna adulta, sa prendere le proprie
decisioni.»
«Posso solo
immaginare il suo sistema di valori, non la
conosco tanto quanto te, ma so per certo che in quel contesto non era
in grado
di prenderle.»
«E tu ne hai
approfittato!»
Era scoppiata. Nonostante
avesse biasimato Janet per
essersi messa volontariamente in quella situazione, detestava ancor di
più
Michael per averla provocata, perché di una cosa era certa:
Janet non avrebbe
mai tradito la sua amicizia, e poco importava se tra Ellen e Michael
non c’era
niente, perché lei credeva che fossero una coppia, e
– chissà – forse perfino
il primo amore della sua “Ellie”, e non aveva
motivi per farla soffrire. Per
Michael, invece, Ellen non era che un passatempo, dunque doveva essere
stato lui
a sedurre la sua amica.
«Potevi corteggiarla,
o come cazzo si dice» riprese, dando sfogo alla collera. «Potevi
chiederle chiaramente di venire a letto con te, lo hai già
fatto con me, no? Bastava
che aspettassi stamattina, che lei fosse lucida e…»
«Volevo
ferirti!»
Era la prima volta che
Michael alzava la voce. Aveva
sempre tenuto un tono moderato, e perfino durante gli scontri aveva
gridato
soltanto per farsi udire sopra il rumore e gli spari; adesso era
diverso, però,
e fu chiaro dal resto della sua frase.
«Non pensare
neanche per un momento che volessi
approfittarmi di lei.»
Aveva ragione. Si
conoscevano da appena due settimane, ma
Ellen dubitava delle accuse che gli aveva rivolto, che fossero
esplicite o
implicite. Lo stomaco si strinse ancora di più quando
rifletté sulle sue prime
parole.
«Volevi
ferirmi?»
«Ho sbagliato,
è stato un comportamento infantile»
cercò
di tagliare corto lui, ma capì presto che Ellen non glielo
avrebbe concesso.
Sorrise beffardo e aggiunse: «Per un attimo ho dimenticato
che qualche parola
seccata è l’unica cosa che posso aspettarmi da
te.»
Quello non era
stato un tentativo di ferirla, significava soltanto che conosceva il
suo
carattere; eppure le fece parecchio male.
Il suo silenzio non era
incoraggiante per Michael, che
tentò di poggiarla una mano sulla spalla.
«È tutto a posto?»
Ellen però lo
scostò. No, non era tutto a posto, e la
colpa era sua. Era inutile che gli rivolgesse ignobili accuse, la
verità è che
un solo pensiero l’aveva assillata da quando Janet si era
presentata nella loro
stanza, ed era stato così pressante da mettere in secondo
luogo il rimorso per
come l’aveva trattata e il terrore che Michael avesse voluto
approfittare di
lei, dimostrandosi così diverso dalla persona con cui
giaceva sotto le coperte.
Era un pensiero talmente spregevole da impedirle di guardare Michael
negli
occhi, e probabilmente anche Janet.
«Vuoi la
verità?»
La voce dell’uomo
le impedì di annegare nel disgusto per
se stessa. Di colpo, Michael sembrava tornato quello di sempre, pronto
a schernirla
per il divertimento di vederla in difficoltà; le prese il
mento tra le dita e
la costrinse a guardare il suo sorriso sornione.
«Mi
intrigavi. Mi intrigava il
tuo rapporto con Mary, e quel viscido di Crown ha detto forse la sola
cosa
giusta nella sua vita: siete fottutamente simili.» Si strinse nelle spalle.
«Volevo vedere se lo fossi anche
a letto. C’è una mente però
là dentro che continua a stuzzicare il mio
interesse, ed è per questo che ho continuato a scegliere te.
Avrei potuto
sedurre Janet in ogni momento, come era mia intenzione quando le ho
salvato la
vita al Campus, ed è stato soddisfacente sentire il suo
odore addosso, sapere
che avrei potuto averla se fosse stata sobria e non avesse scoperto di
noi due.
E avrei anche voluto fottermi quella signorina di buona famiglia, se il
suo
cuore non fosse legato a un cadavere. Ma ho
scelto…»
«Aspetta, che hai
detto?»
Michael si era lanciato in
un monologo che, pensò Ellen,
avrebbe dovuto farla sentire desiderata o cazzate del genere, e che
sicuramente
avrebbe allentato per un po’ la tensione e il suo odio verso
se stessa, ma poi
aveva pronunciato una frase che l’aveva presa in contropiede.
Lo vide
aggrottare la fronte.
«Lilyan»
precisò lei. «Hai detto…»
La risata di Michael fu
sincera e spontanea. La lasciò
andare e si portò un braccio davanti alla bocca.
«Per
essere… com’era?… “la
studentessa migliore del suo
corso”, sei davvero un’ingenua.»
«Non
può essere vero! Era il suo padrino!»
«E
allora?»
«Un…
un Arcivescovo, cazzo!»
«E
quindi?»
«Aveva
l’età di suo padre!»
«Continuo a non
vedere il problema. Ellen, non
soffrirebbe così tanto se non fosse stata invaghita di lui.
Oserei dire perfino
innamorata.»
Non riusciva a crederci,
eppure adesso era talmente
evidente… Il rancore
nei confronti di Alexander, che non aveva sparato a una bambina senza
sapere
cosa quella avrebbe fatto; il desiderio di lasciare la
tranquillità e gli agi
di Boston per seguire il padrino in una città deprimente
come Arkham; il lutto
che ancora portava e avrebbe portato a lungo…
Con la coda
dell’occhio, notò Michael togliersi la giacca
e appenderla nell’armadio, e ritornò alla
realtà. Si rialzò dal materasso su
cui si era seduta e afferrò di nuovo la borsa.
«Ellen,
no» ripeté Michael, ma lei era decisa.
«Non voglio
dormire con te. Chiederò… chiederò a
Jeremy
di sistemarmi nella stanza che occupavi prima, so che se ti ordinassi
di
andartene non lo faresti. Mi sposterò io.»
«Ellen, non
devi.» Le mise di nuovo una mano sulla
spalla, e questa volta lei non glielo impedì.
Doveva, invece,
perché dopo quella parentesi i pensieri
miserabili erano tornati, ed Ellen non poteva accettarli; il solo modo
per
combatterli era, paradossalmente, assecondare la loro
probabilità di avverarsi.
Avrebbe lasciato la camera di Michael, si sarebbe allontanata da lui e
forse
Janet avrebbe preso il suo posto, o forse no. Si accorse di tremare e
si
vergognò sapendo che anche Michael doveva averlo avvertito.
Non posso dirti che ho paura
che tu e Janet vi
proteggerete a vicenda, dimenticandovi di me. Non posso dirti che mi
faccio
schifo perché metto la mia vita prima della vostra.
«Mi dispiace,
Michael, ma non mi fido più di te» disse
con voce ferma, e ancora una volta era una mezza verità.
«L’ho dimostrato
accusandoti di volerti approfittare di Janet. Preferirei che le cose
tra noi
finissero qui.»
Era una richiesta sensata e
convalidata da quanto
accaduto nelle ultime ventiquattro ore: Michael doveva accettare la sua
decisione.
Le afferrò la
mano libera. «Va bene, puoi andare via, o
se preferisci me ne vado io, ma devi avere un punto ben chiaro in
mente» disse,
fissandola negli occhi grigi. Era tornato serio, di nuovo
l’espressione di chi
doveva far comprendere un messaggio a tutti i costi. «Puoi
non fidarti di me
quando si parla di noi due, è un tuo diritto e non mi
opporrò. Però ho bisogno
di avere la tua fiducia in combattimento. Devo sapere che avrai la
certezza che
ti sto guardando le spalle, perché l’ultima cosa
che ti serve è dubitare di me
in un frangente simile.»
Si fermò e
rifletté a lungo prima di continuare, e quando
lo fece qualcosa cambiò nella sua voce. No, non nella voce.
«Se per avere
quella fiducia devo guadagnarmela una volta
per tutte, sono pronto a dirti la verità. Ogni
cosa.»
Il suo accento austriaco era
sparito.
***
Il mio nome è
Stephen Crawl. Sono nato a Londra il cinque
novembre del 1896, quindi il mio vero compleanno è appena
passato: come
Alexander, non amo festeggiare. So che stai pensando che abbia assunto
una doppia
identità per il mio “secondo lavoro”, ma
non è così. È iniziato molto tempo
prima, quando ero un ragazzino. Ho detto però che ti avrei
raccontato ogni
cosa, quindi partiamo dalla mia famiglia.
William Crawl era un medico
illustre, molto più di quanto
lo sia io al momento – e al contempo molto meno informato.
Sapeva imbonire i
colleghi e i mecenati, e ogni sua operazione andava a buon fine. Aveva
un
grande cervello, non lo nego, però era convinto che la
scienza non potesse
progredire più rapidamente di come aveva fatto fino a quel
momento, e commise
degli errori. Uno dei quali non fu costringermi a intraprendere la sua
stessa
carriera.
Con lui avevo un rapporto
freddo, che all’epoca credevo
naturale, perfino encomiabile: poneva la salute dei pazienti davanti
alla
famiglia, un dottore a cui dare piena fiducia. Con mia madre andava
meglio,
perché sebbene lei stessa fosse stata cresciuta con distacco
emotivo ero il suo
unico figlio, e mi ha amato sopra ogni cosa. Si chiamava Gertrude
Crawl, nata
Bergen, ed entrambi sono morti credendo che io avessi raggiunto la
tomba prima
di loro.
Non occorre dire come mi
senta in proposito, credo che
potrai dedurlo tu stessa dal resto del racconto. Quando vivevo a
Londra, il mio
unico scopo era divenire un dottore al pari di mio padre, se non
addirittura
migliore, sia per fare su di lui una buona impressione, che per
alimentare il
mio ego. La sera, però, mi divertivo come i miei coetanei,
per tornare il
figlio devoto e perfetto il mattino seguente. Già allora
avevo cominciato a
condurre due vite differenti.
Il tempo speso con i miei
amici non era di soli bagordi.
Discutevamo di quello che credevamo più importante
all’epoca: politica e
guerra. Sentivamo che ne stava per scoppiare una, la situazione in
Europa era
troppo tesa per rimanere ancora in stasi, e noi non eravamo certo i
soli che
speravano di distinguersi e portare gloria alla propria nazione.
Così, quando l’estate
del 1914 la guerra effettivamente scoppiò, ci facemmo
trovare pronti. Ero
ancora diciassettenne, ma mi sentivo adulto, in grado di reggere uno
sforzo
bellico, e così ho falsificato la mia identità
per la prima volta, aumentando
la mia età. All’esercito regio poco interessava di
chi fossi il promettente
erede o quanti anni avessi davvero: mi presero, e lo comunicai ai miei
genitori. Mia madre si indignò, ma non poté fare
nulla davanti all’espressione
orgogliosa di mio padre. Aveva combattuto in passato, e reputava un
onore che
suo figlio stesse seguendo le sue orme anche in quella seconda
direzione.
La mia carriera militare fu
parecchio breve. L’esercito
inglese si unì a quello francese dopo l’invasione
del Lussemburgo e del Belgio
da parte dei tedeschi, quindi ad agosto avevamo già
attraversato la Manica. Ero
un soldato comune, carne da macello, ma avevo velleità
giovanili e trovavo il
conflitto armato stimolante.
Almeno fino a quando non mi
ci sono trovato in mezzo.
Non ho ricordi di allora.
No, sto sbagliando: non ho
ricordi di un singolo giorno, perché adesso mi sembra che
tutto si sia svolto
senza tregua, un minuto dopo l’altro. Ignoro in quale ordine
combattei le varie
battaglie, o se partecipai a più di una, o quale fu il primo
uomo che uccisi; è
una massa confusa nella mia testa, e la tengo lì, per non
sbrogliarla mai, nel
caso minacciasse di inglobare anche il resto dei miei ricordi.
Poi avvenne qualcosa, la
fine della guerra. La fine della mia guerra.
Scoprii in seguito che il mio
ultimo combattimento sul campo fu al termine di agosto del 1914, vicino
a
Saint-Quentin. C’è ancora chi sostiene che i
francesi vinsero e chi la celebra
come una vittoria conclamata dei tedeschi, ma per me cambia poco: quel
giorno
morii.
Mi risvegliai quando le
truppe inglesi avevano già
arretrato. Ero rimasto incastrato durante una ritirata o uno scontro,
non
ricordo niente. La gamba mi faceva un male terribile e impiegai del
tempo per
ricominciare a muoverla, il tempo che bastò per accorgermi
che il cadavere in
uniforme tedesca che giaceva al mio fianco respirava ancora. Era il
solo uomo
rimasto, ed era finito come me in una buca forse scavata come trappola,
una
buca così profonda da impedirci di uscire.
Mia madre era austriaca, mio
padre era un medico, perciò
unii le due conoscenze che mi avevano impartito per occuparmi del
ferito.
Divenimmo amici, più amici di quanto non furono mai stati
quelli che avevo
lasciato a Londra o nelle truppe che mi avevano inconsapevolmente
abbandonato.
Sai cosa si prova perché lo stai passando tu in questo
momento: il pericolo
incombente, la vicinanza della morte, tutto ciò cementifica
i legami fra
persone che nulla hanno in comune. Cosa condivido io con Alexander
McCrindle?
Cosa condividi tu con Lilyan Butler? È l’urgenza
che ci avvicina, e perfino io
e te non dormiremmo nello stesso letto se un maledetto stregone non
stesse
cercando di farci fuori.
Sì, quel tedesco
a cui avrò ammazzato almeno un compagno
era diventato il mio migliore amico. Ci scambiammo storie sulle nostre
patrie,
aneddoti di scuola e segreti inconfessabili, perché era
chiaro che nessuno dei
due avrebbe potuto raccontarli in giro. Saremmo morti là
dentro.
La voglia di vivere,
tuttavia, era grande, e non serve
spiegarti cosa dovemmo fare per procurarci i liquidi necessari al
nostro
sostentamento. La mia gamba era ancora dolorante e avevo troppa poca
energia
per aggrapparmi alla manciata di radici sporgenti. Lui era messo peggio
di me,
e nel giro di qualche tempo morì.
A quel punto, ho fatto
qualcosa di inesprimibile. Mi
professo ateo perché non posso spiegare il motivo per cui i
cancelli del
Paradiso rimarranno sempre chiusi per me. Fu poco, veramente poco a
pensarci
adesso, ma non cambia molto.
Mi servì a
trovare la forza di volontà, oltre che fisica,
per provare a salvarmi. Ci provai e riprovai infinite volte, e alla
fine
riuscii a rivedere il cielo, a stendermi sull’erba bagnata da
una pioggia che
mi stava deridendo, decidendosi a scendere solo allora. I tedeschi
erano
avanzati, e quando mi trovarono non mi riconobbero: dovettero dare per
vero
quello che era inciso sulla piastrina che stringevo nella mano, in modo
da non
dimenticare. Non la mia, che era andata perduta da tempo, ma quella del
cadetto
Michael Fauerbach.
Fui congedato per una serie
di motivi che ora non riesco
a ricordare, ma non andai in Germania dalla mia presunta famiglia,
né ebbi il
coraggio di tornare a casa, a Londra, non dopo quello che avevo fatto.
Tenni
quell’identità e mi spinsi fino in Austria, fino a
un appartamento al centro di
Salisburgo, dove sapevo che viveva il fratello di mia madre.
Non mi ha mai chiesto
spiegazioni e credo che continuerà
a non farlo. Mi ha visto arrivare con una divisa tedesca e un accento
inglese
che avevo mascherato solo fingendo di essere rimasto muto per lo shock;
sapevo
troppe informazioni su Jan Bergen e sua sorella perché non
credesse alle mie
parole. Lo supplicai soltanto di tenerlo per sé,
poiché da quel momento io
sarei stato Michael Fauerbach, un giovane studente preso sotto la sua
ala, e solo
quando mi spingo oltre il confine posso arrischiarmi a chiamarlo
“zio Jan”,
certo che nessuno potrà mai trovare un collegamento.
***
Quando finì il
racconto, era interamente calata la notte,
e loro non avevano acceso alcuna luce. Ellen aveva lasciato che gli
occhi si
abituassero al buio, e ora fissava il punto in cui sedeva Michael, o
Stephen, e
aspettava che aggiungesse altro.
«Nessuno conosce
la mia storia, e forse te l’ho
raccontata per lo stesso motivo per cui parlai dei miei piccoli segreti
con il
soldato Fauerbach: chissà se uno di noi vivrà
abbastanza a lungo da riferirla
ad anima viva. Forse, però, l’ho fatto
perché so che vivremo entrambi, e che
posso fidarmi di te, perché non sei ancora scappata via. Non
mi hai gridato che
sono un mostro, come nella mia testa è successo tutte le
volte in cui ho
immaginato di rivelarlo a mio zio. So che nascondi qualcosa oltre alla
tua
infanzia da ladruncola, Ellen, ma va bene così. Io mi fido
già.»
Sbuffò e si
alzò in piedi, decretando di avere concluso e
che ora Ellen poteva trarne le opportune conseguenze.
«Vado io, ti
lascio la stanza. Alla fine, era la tua.»
«No.»
Ellen lasciò scivolare la borsa a terra.
«Resta.»
|
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Capitolo 17 *** Capitolo XVII ***
Capitolo
XVII
Quella mattina il cielo era stato
clemente, permettendo al sole di farsi largo tra le nubi giusto il
tempo di una
passeggiata fra le vie della zona settentrionale di Arkham. Erano
giunti fin là
in quattro, trasportati da un taxi da un lato all’altro del
Miskatonic River,
che di giorno appariva meno spettrale di quello che –
immaginava Ellen – era
stato la notte del sacrificio; avevano preferito lasciare Jeremy a
casa, in
modo che potesse vegliare sui libri, come se ce ne fosse stato il
bisogno:
sembrava che Chateaubriand Manor stessa tenesse lontani curiosi e
ladri. Jeremy
era rimasto anche per un secondo motivo, attendere Janet, la quale era
già
uscita quando Ellen aveva provato ad avere un colloquio con lei.
Neanche Lilyan
si era accorta della sua fuga, se tale poteva essere chiamata; in
realtà, Janet
aveva portato con sé solo il cappotto e la borsa, dunque
erano certi che
sarebbe tornata. Forse aveva deciso di schiarirsi le idee fuori da
quelle
quattro mura.
Ellen la capiva, eppure avrebbe
preferito parlarle subito al suo risveglio. Era stata una notte
intensa, ma non
come quella passata dalla sua amica in piedi nell’attesa di
potersi scusare con
lei; la confessione di Michael – Michael? –
l’aveva provata, e il sonno era
calato su di lei prima che la sua mente potesse elaborare del tutto
quelle
informazioni. Quando si era svegliata erano ormai le nove passate, e di
Janet
non c’era più traccia.
Scesa per fare colazione, aveva
trovato il resto del gruppo riunito attorno al tavolo della sala da
pranzo,
tutti loro così intenti a fare congetture da non accorgersi
quasi del suo
arrivo. La priorità, concordavano
all’unanimità, era togliere a Darcus
l’ultimo
dei quattro tomi che il Guardiano, Alexander, avrebbe dovuto custodire,
ed
eventualmente quello o quelli prelevati dalla Miskatonic Library.
Avevano fatto
uno schema dei poteri di cui Darcus sembrava dotato: evocazione di
creature
soprannaturali, trasfigurazione del proprio aspetto e un terzo punto di
cui, a
mente fredda, Michael e Alexander si erano ricordati riguardo la
fatidica notte
sul fiume: gli uomini che accompagnavano Sills sulla sua imbarcazione
personale
erano parsi non agire di volontà propria. Michael
raccontò dei loro sguardi
vacui, degli occhi vitrei, e l’attenzione di Ellen si era
subito concentrata su
Lilyan, al ricordo di ciò che Alexander aveva detto in
merito alle bambine di
Salem. Che anche Darcus, come la signorina Smith, fosse uno stregone?
Michael
lo aveva chiamato così scherzosamente, ma adesso quella
definizione sembrava
calzargli a pennello.
Lilyan però era stata
forte,
mantenendo un’espressione risoluta e concentrata, e alla fine
aveva proposto di
uscire di casa per indagare. Peccato che non sapessero dove andare, se
non in
mezzo ai criminali di O’Bannion, finché Ellen non
aveva dato loro un’idea.
E così,
quell’insolitamente calda
mattina di novembre, si erano diretti nella parte alta di Arkham, nei
distretti
riservati al municipio e alla principale centrale di polizia, agli
uffici dei
quotidiani e al cupo Arkham Sanitarium. Con la Miskatonic Library fuori
uso,
avevano dovuto accontentarsi di altre due mete: Rare
Books and Maps, il negozio
dedicato alle rarità sito nel Northside
all’incrocio tra Gedney Street e West
Hyde Street, e l’Arkham Public Library nella
Downtown. Alexander e Lilyan erano stati destinati al costoso esercizio
che
confinava con la Camera di Commercio presentandosi con le
generalità della
signorina Butler, in modo che lei fosse immediatamente considerata una
cliente
che poteva permettersi di acquistare al suo interno; Michael avrebbe
voluto
accompagnarla, forse perché entusiasta alla prospettiva di
estrarre a sua volta
un portafoglio colmo di pezzi da venti, ma lei aveva declinato
chiedendo invece
ad Alexander di farle compagnia. Non si trattava di sfiducia nei
confronti di
Michael, credeva Ellen, bensì dell’appena
riallacciata amicizia tra Lilyan e il
detective di Boston.
Oppure sa cos’è
accaduto tra
Michael e Janet e vuole evitare di fare la stessa fine.
Ellen e Michael avevano quindi
preso la direzione opposta, inoltrandosi nella Downtown chiassosa di
metà
settimana, e tra il Tribunale e la Banca Nazionale si trovavano ora a
pochi
passi dalla biblioteca pubblica della città. Lo scopo era lo
stesso: cercare
informazioni utili sui pochi dettagli in loro possesso, da Dagon
all’Ordine del
Crepuscolo d’Argento, da rari libri proibiti a eventuali
avvistamenti di altre
creature mostruose tra le strade di Arkham. Quest’ultima era
un’idea che Ellen
non aveva ancora condiviso con il resto del gruppo, nemmeno con
Michael, e che
le suggeriva piuttosto di cercare negli archivi storici o dei
quotidiani
locali.
Lo farò domani, ora
pensiamo allo
scopo di oggi.
C’era poi un pensiero che le
ronzava in testa e che non riusciva a cogliere. Le sembrava che
stessero
dimenticando qualcosa di essenziale.
«Dove pensi che
sarà andata?»
Da quando erano rimasti soli,
Michael aveva eliminato il falso accento teutonico, ma Ellen ancora
doveva
abituarcisi.
«Janet, intendi?»
«Mh-mh. Volevo scusarmi per
l’altra
sera, ma… Pensi che ci stia evitando?»
«È possibile.
Aspetta, ci siamo.»
Si fermò di fronte
all’ingresso
dell’Arkham Public Library, ringraziando
la biblioteca per avere
interrotto quella conversazione imbarazzante: non voleva parlare di
Janet
perché non voleva ricordare quanto si sentisse miserabile
nei suoi confronti, e
neanche voleva ripensare al discorso di Michael, che le tornava alla
mente ogni
volta che lui apriva bocca. Era troppo per lei
in quel momento, che doveva
trascorrere indagando su un nemico che si faceva sempre più
determinato e
insidioso.
L’edificio era stato
costruito
nella prima metà del XIX secolo, decenni prima della
Miskatonic Library, eppure
il suo splendore e la sua fama erano stati presto soppiantati dalla
biblioteca
universitaria, nota in tutto il Massachusetts. Si diceva che avesse
circa
diciottomila volumi, suddivisi nei due piani in cui si articolava la
biblioteca, e che essi provenissero principalmente da donazioni di
privati
cittadini. Ellen si chiese se lì ci fosse una copia di Ventimila
leghe sotto i mari, o
se Masters si fosse appropriato anche di quella.
C’era un discreto viavai
quel
giorno, perlopiù composto da studenti che si erano ritrovati
privi di un luogo
dove studiare o preparare le tesi di laurea; con un groppo allo
stomaco, Ellen
provò una sorta di nostalgia e ulteriore senso di colpa che
si sbrigò ad
allontanare.
«Sarà impossibile
cercare qualcosa
qui in mezzo…» mormorò Michael, che
tuttavia si diresse subito in direzione
della zona Enciclopedie.
Tornò dopo tre minuti esatti.
«Gli studenti non ti
lasciano
passare?»
«Non solo: un paio di loro
si sta
litigando un libro e non voglio finirci in mezzo.»
Ellen sospirò.
«Come diavolo
facciamo a trovare informazioni in questo caos?»
«Ti stai già
demoralizzando?»
«Se fossi alla Miskatonic,
saprei
dove cercare. Terzo piano, a destra, terzo scaffale dal fondo: Religione»
ripeté,
visualizzando la mappa dell’amata biblioteca nella propria
testa.
Michael rise. «E il
quarto?»
«Antropologia,
come il
quinto. Il secondo invece è Mitologia,
e anche quello potrebbe esserci utile, mentre il primo
è…» Ellen rimase a bocca
aperta, riflettendo sul ricordo. «Vuoto.»
«Vuoto? Credevo stessero
prendendo
in considerazione di aprire una nuova ala per via di
tutti…»
«No, non era vuoto, un
tempo. È stato
da… da agosto. Me ne sono ricordata solo ora.»
«Dopo la prima tentata
rapina?»
«La presunta prima
tentata rapina.»
Michael sollevò un
sopracciglio,
scettico.
«D’accordo, la
rapina è avvenuta. Ci
hanno provato, non ci sono riusciti, e Armitage ha fatto sparire tutto
ciò che
poteva essere di interesse per il ladro.»
«Quindi…
rarità?»
Ellen scosse la testa. «No,
li
tiene in una stanza chiusa e accessibile solo a lui e a professori con
permessi
firmati e controfirmati. Là invece
c’erano… libri di mitologia, se non erro.
Anche se…» Rifletté per qualche secondo
prima di guardare di nuovo Michael.
«Nella stessa zona ci sono i libri di Archeologia,
me lo ricordo perché spesso Janet studiava nei tavoli
adiacenti. Ed è stata lei
a dirmi che… che… No, troppe
coincidenze.»
«A dirti cosa?»
«Che secondo lei i tomi
lì
presenti potevano essere raccolti sotto la targhetta Occultismo.»
***
La ricerca era stata infruttuosa
per entrambi i gruppi. Lilyan si era fatta passare per una se stessa
curiosa e
vivace, accompagnata da un cavaliere di cui non aveva voluto rivelare
il nome,
ma non avevano trovato alcunché di utile tra le merci che
Edwin Tillinghast
continuava a proporre loro, e alla fine avevano ceduto proprio come
avevano
fatto Ellen e Michael. A differenza dei loro compagni, i due erano
rimasti più
a lungo nella biblioteca e avevano anche chiesto aiuto alla signorina
Whitmarsh, la quale apparve però profondamente infastidita
dalle loro domande.
Ellen si era domandata se il motivo fosse l’argomento delle
sue ricerche, la
religione cananea, ma poi aveva visto rivolgere la stessa espressione
scocciata
a una matricola che desiderava solo un dizionario di latino.
L’appuntamento con il resto
del
gruppo era a Chateaubriand Manor, e fu solo mentre stavano rientrando
che
Michael, ritrovando l’accento austriaco, aveva suggerito:
«Potremmo tornarci
con Alexander. Stando al racconto di Janet, ha
“sentito” la presenza dei libri
nell’ufficio di Masters, allo Ye
Olde Booke Shoppe, quindi se siamo
fortunati…»
«Michael, ci serve un libro
di
mitologia o religione, non uno maledetto.»
«Proviamo lo
ste…»
Si interruppe quando,
attraversando l’ingresso, si accorse del ritorno di Janet.
Prima che Ellen
potesse fare altro, Michael la precedette e prese da parte la sua
amica. Ellen
sospirò: avrebbe aspettato ancora, ma era giusto che lui le
parlasse. Rimase
lontana, gli occhi puntati su di loro, ripetendo le parole che lei
stessa
avrebbe rivolto a Janet, e fu così che si accorse che la
donna era assente. Un
brivido la colse, ma ci volle solo un attimo perché capisse
che non era sotto l’influsso
di una seconda mente: era soltanto pensierosa. Fece un cenno con il
capo a
Michael e gli sorrise, poi esitò di fronte a Ellen.
Per tutta risposta, lei la
trascinò in salotto. Era pronta ad affrontarla, ad
affrontare parte dei propri
demoni, eppure dovette fermarsi notando l’improvviso cambio
di arredamento.
Ecco cosa stava facendo Lilyan
ieri.
Sopra il camino, sulla parete che
fino a quel momento Ellen aveva visto vuota, spiccava il maestoso
ritratto di
un uomo sulla cinquantina, coperto da un elegante abito nero, un
altrettanto
signorile mantello che gli adornava le spalle e, stretto dal pugno
sinistro, un
lungo bastone dalla punta tonda.
Per la prima volta, Ellen aveva
davanti l’Arcivescovo Giraud Des Chateaubriand.
«È un ottimo
lavoro, non trovi?»
La voce di Janet era dolce e
melodiosa come al solito, ma attraversata da un tremore che ne rivelava
il
nervosismo. Non era giusto che soffrisse ancora.
«Sono stata troppo dura con
te,
Janet, e voglio che tu sappia che non ho nulla da rimproverarti. Spero
che
Michael ti abbia dato la sua versione e si sia scusato adeguatamente,
sennò
stanotte lo sgozzo in un…»
Per tutta risposta, Janet
allargò
le braccia e corse ad abbracciarla, mentre un sorriso sollevato si
faceva largo
sul suo volto.
«È tutto come
prima?»
«Come prima e ancora
meglio.»
L’accenno di un sorriso
apparve
anche sulle labbra di Ellen, ma non durò a lungo.
C’era altro che turbava
Janet, e al contempo la rendeva euforica.
«Vieni, siediti»
le fece segno di
accomodarsi sul divano accanto a lei. «Questa mattina sono
stata al Campus.»
Ellen sgranò gli occhi.
«Alla
Miskatonic Library?»
«No, non è ancora
accessibile.
Però ho parlato con Wingate… con il professor
Peaslee, te lo ricordi? Bene, suo
padre era molto amico del dottor Armitage prima di… di
invecchiare.»
Di perdere tutte le rotelle, la corresse mentalmente Ellen.
Era vero: Peaslee Sr non soffriva di demenza senile, ma era impazzito
da un
giorno all’altro, e non c’era ancora modo di
capirne il motivo.
«Speravo che potesse
intercedere
per me, domandargli cosa fosse successo nella biblioteca, e alla fine
abbiamo
deciso di passare a casa sua.»
«E?»
«Lui e sua moglie vivono
nell’Uptown,
non troppo distanti dal Campus.» Janet sospirò.
«Purtroppo non ha voluto
riceverci.»
C’era altro, Ellen lo
capì
immediatamente. «Cos’hai scoperto?»
«Ho parlato con Eleanor, sua
moglie. È una signora tanto a modo, ed era davvero
preoccupata per suo marito…
Ci ha fatto stare nel portico, non ha osato imporci di andarcene come
aveva
fatto con altri curiosi. Dice di ricordare Wingate quando era un
bambino e
scorrazzava sul loro prato… e ammetto che abbiamo fatto leva
su quell’affetto.»
Janet si adombrò per un istante, come vergognandosi di se
stessa. «Suo marito
non lascia l’abitazione da quando è avvenuto lo
scasso, e ha concesso solo al
suo psichiatra di vederlo. Nonostante il segreto professionale, il
medico ha
rincuorato Eleanor spiegandole che Henry era soltanto scosso, che certe
avventure non andavano bene alla sua età e che aveva solo
bisogno di riposo.
Però lei è preoccupata
perché… ecco… Henry ha dato fuoco ai
suoi libri.»
Ellen sussultò, e dallo
sguardo di
Janet comprese che entrambe stavano immaginando la grave perdita che
poteva avere
apportato quel gesto. «I… i suoi libri? Tutti
quelli che aveva in casa?»
«No, Eleanor è
stata precisa: la
scorsa estate, dopo il primo tentativo di furto, Henry si era portato
dietro
una pila di volumi che si era rifiutato di farle vedere, e che teneva
chiusi in
una cassaforte nel proprio studio. Quando un paio di giorni fa ha visto
che il
marito era finalmente uscito dallo studio per accendere il camino, ha
notato
che stava bruciando quegli stessi libri. Li ha riconosciuti, dice
che… le
davano una strana sensazione.»
Oh no.
«E… e non
è solo questo, Ellie. A
quanto pare, il secondo furto ha avuto successo ed è stato
rubato lo stesso
libro che interessava al primo ladro. È solo
un’ipotesi di Eleanor, ma ha
senso, perché ha sentito il marito dire che rimpiangeva di
non averlo dato alle
fiamme quando avrebbe potuto farlo.»
***
«Quindi l’uomo che
ha tentato di
rubare il libro quest’estate…?»
«No, non può
essere Darcus.»
«Ma era già
evaso.»
«Lo scasso è
avvenuto ad agosto,
Darcus è evaso nello stesso periodo.»
«Il cane, dimenticate il
cane!»
«Specifica, Ellen:
dimentichiamo l’uomo sbranato dal
cane.»
«Che potrebbe essere
stato… come
si chiamava?»
«Carl Sanford.»
«Quello delle
lettere?»
«Quello delle
lettere.»
«Quindi dovremmo cercare un
cadavere. Forse è passato per l’obitorio, forse
è stato proprio Crown a
esaminarlo…»
«Chi è
Crown?»
«No, lo hanno fatto sparire.
Forse
invece c’entrano i militari…»
«Ho mal di testa.»
Lilyan si
lasciò cadere sulla sedia, strofinandosi le tempie.
«E non del tipo…
McCrindle.»
«Non è una bella
definizione.»
Alexander storse il naso.
«Hai capito cosa
intendevo.»
«Per fortuna
non è del tipo
McCrindle» precisò Ellen, e allora si ricordo
dell’intuizione di Michael.
«Alexander, forse potremmo tornare con te alla libreria
pubblica.»
«Perché? Non
avevate trovato
niente.»
«Ma non avevamo te
come… bussola.»
Ora gli sguardi di tutti erano
puntati su di lei.
«Oh, andiamo, ho ragione!
Potrebbe
essere utile! Forse esistono dei volumi con… incantesimi,
maledizioni, roba
simile. Se ipotizziamo che siano quelli i libri che Armitage ha
distrutto,
forse ne hanno altri…»
«…alla biblioteca
pubblica?»
«Sì, beh, tu li
hai venduti a un
mercatino!»
«Touché»
fece Michael,
avvicinandosi all’attaccapanni per recuperare cappotto e
guanti. Il clima
esterno si stava nuovamente guastando. «Chi vuole venire con
noi?» Senza
aspettare una risposta, si mosse per precederli fuori, ma quando ebbe
aperto la
porta si immobilizzò. «Ah. Buonasera.»
Ellen si affacciò e
notò che stava
guardando in basso. Questo poteva solo significare che Logan era
tornato;
eppure un istante dopo a correre in casa fu una ragazzina gracile da
capelli
stopposi. Si fermò di fronte a lei e la soppesò
con occhi spalancati.
«Wooow»
esalò infine, e mosse il
naso per cercare di catturare un profumo.
«Cos’è questo odore?»
«Pulito»
mormorò Michael
richiudendo la porta e preparandosi a disfarsi del cappotto.
Ellen gli scoccò uno
sguardo
ostile. «Nanny, è bello vederti.»
Se Logan aveva preso
l’abitudine
di imitare Marco, in quegli anni di lontananza Nanny non aveva perso
quella di
atteggiarsi come Ellen: le si leggeva in faccia che avrebbe voluto
saltarle in
braccio, ma si trattenne e mise su un’espressione
indifferente.
«Anche per me,
Ellen.»
Questa volta, Lilyan era preparata
e per niente disposta a lasciar passare. «Ellen, mi
spieghi?»
«Conosci già
Logan» rispose lei,
indicando il ragazzino che era entrato dietro di Nanny. «Lei
invece è Anna…
Nanny. Sono i nostri informatori.»
«Che è successo
al fiume? Marco è
talmente furioso che non voleva lasciarci venire» chiese
Logan ignorando
completamente Lilyan. Parlava solo con Ellen, come se fosse lei la
proprietaria
di casa.
Di nuovo Lilyan si portò le
mani
alle tempie. «Vado in salotto. Voi non fate danni.»
Alexander e Janet esitarono, si
guardarono, poi decisero di seguire Lilyan. Molto bene,
pensò Ellen: i due
ragazzini avrebbero parlato più chiaramente senza
sconosciuti fra i piedi.
«Spostiamoci in cucina,
Jeremy vi
preparerà qualcosa di caldo.»
Loro avevano appena pranzato, ma
Ellen immaginava che Logan e Nanny seguissero la ferrea dieta della
strada, che
imponeva loro di mangiare solo una volta al giorno, due in quelli di
festa. Per
forza erano ancora gracilini. Prese quindi gli avanzi dei giorni
precedenti –
roastbeef, patate, formaggio fuso, pane morbido, torte al cioccolato,
biscotti
sfornati durante la loro escursione mattiniera – e li
distribuì sul tavolo,
davanti alle tazze di tè che Jeremy stava servendo, mentre
fingeva di non
vedere Nanny che nascondeva dei biscotti nel cappotto sformato. Il
fatto che
stessero sporcando il pavimento che lucidava con accuratezza ogni
giorno non
sembrava disturbarlo.
«Cosa stavi dicendo sul
fiume?»
Jeremy era uscito, lasciando Ellen
e Michael con i due piccoli ospiti. Nanny scrutò sospettosa
Michael, ma Logan
le diede una gomitata. «Lui è quello con i
soldi» spiegò.
«Quello con i
soldi… Ottima
definizione» rifletté Michael reprimendo una
risata. Si sedette davanti a loro,
nel posto accanto a Ellen. «Il fiume»
ricordò a Logan.
«Abbiamo visto i rottami di
un
paio di barche» iniziò lui con la bocca piena di
roastbeef. «E ci sono uomini
che non si trovano. Torzi, Rossetti, il Guercio… questi
qua.»
«Gente che bazzica il
porto»
precisò Nanny. Stava masticando in fretta quanto Logan, ma
aveva avuto il buon
senso di inghiottire prima di parlare.
«Marco gli aveva detto di
non
impicciarsi con gli affari degli irlandesi, ma l’hanno
ascoltato? No, e ora
sono spariti.»
«E voi?» Nella
voce di Ellen c’era
l’urgenza di una risposta. Michael non poteva conoscere tutti
i membri del
gruppo di Marco, dunque non avrebbe potuto allentare quella morsa sul
suo petto
descrivendole i marinai sacrificati da Darcus.
«Noi siamo rimasti nel covo,
come
ci hai consigliato. E adesso Marco è convinto che porti
rogne.»
«Vuole che ti stiamo
lontani»
proseguì Nanny. «Dice che tanto ora abbiamo di che
mangiare e che non serve
mettersi ancora nei guai.»
«E ha ragione»
intervenne Michael.
Ellen lo fissò sbalordita. «È vero,
Ellen: non ci servono altre informazioni
sugli irlandesi, sappiamo già chi c’è
dietro tutta questa storia.»
«Però…»
«Non mettiamoli in
pericolo»
aggiunse a voce più bassa, stringendole una mano.
Ellen esitava. Se sia Marco che
Michael pensavano che fosse meglio tenere i due bambini lontano da
quella
storia, come poteva contraddirli rischiando di farli uccidere? Era un
tarlo che
non avrebbe potuto aggiungere alla pila che già serbava nel
cuore.
Michael la lasciò andare e
tastò
la giacca in cerca del portafoglio, disposto a ricompensarli sebbene
non
avessero niente per loro, ma poi si fermò e
guardò Logan. «Non siete venuti qui
per salutare Ellen.»
«Abbiamo saputo una
cosa» disse il
ragazzino con un sorriso sporco di senape.
«Non “abbiamo saputo”,
l’ho letto io» replicò
orgogliosamente Nanny. «O’Bannion dà una
festa a casa sua, al Timbleton Arms.
Ci sarà un mucchio di gente di quella che conta, ricconi e
truffatori. Pure
Sills e Leary ci saranno, i ’Finns si stanno rodendo il
fegato perché non li
hanno invitati.»
«Cosa festeggia?»
«L’acquisizione
delle proprietà di
Potrello, oltre a un nuovo incarico che pare gli abbiano dato fuori da
Arkham.»
«“L’acquisizione”?»
«Boh, il fatto che ora siano
sue.
Dicono tutti questa parola, giù ai…»
«Dobbiamo andarci»
la interruppe
Ellen, gli occhi grigi puntati su quelli neri di Michael.
«O’Bannion abita all’ultimo
piano del Timbleton Arms. C’è un solo spazio
là per ospitare una festa, ed è al
primo piano.»
«L’appartamento
rimarrà scoperto.»
Era la loro migliore occasione per
scoprire la prossima mossa di Darcus.
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Capitolo 18 *** Capitolo XVIII ***
Capitolo
XVIII
«Assolutamente no!»
La voce di Alexander si era alzata
di un’ottava, mentre il suo pugno batteva sul legno massiccio
del tavolo da
pranzo. Ellen roteò gli occhi: possibile che gli uomini in
quella casa
dovessero fornire il proprio virile punto di vista
per ciò che
concerneva le donne a loro vicine? Dopotutto, la proposta di Michael
era sensata,
e avrebbe messo Lilyan e Janet in molti meno guai di quelli in cui si
sarebbe
cacciata lei.
«Mio caro
Alexander» esordì
Michael con un tono calmo, nel tentativo di farlo ragionare
«ci si presenta un’occasione
dal valore inestimabile. Con tutta probabilità la migliore
per indagare…»
«Dicevate lo stesso sul
contrabbando notturno» lo interruppe Alexander, spostando un
indice accusatorio
dal suo interlocutore a Ellen, che non si sentì
completamente di dargli torto.
Incrociò invece le braccia al petto e attese che Michael se
la sbrogliasse da
solo, per una volta.
«Contrabbando notturno: hai
detto
bene. Nessuno doveva vedere ciò che stava accadendo
sull’isola, e di
conseguenza sul fiume, fornendo un’ottima
opportunità al nostro nemico di unire
l’utile al dilettevole.»
Utile: contrabbandare alcolici.
Dilettevole: sacrificare dei poveri innocenti. O era il contrario?
«Non puoi negare che abbiamo
appreso dettagli interessanti da quella sortita.»
«La loro sortita.»
Michael arricciò il naso.
«Il
risultato è lo stesso. Questa volta gli eventi si
svolgeranno in maniera
differente, e senza pericolo per le nostre amiche.»
Ellen si ritrovò a
osservare il
metodo dell’uomo: parlava al plurale, facendo in modo da
coinvolgere sia
Alexander che il resto del gruppo nelle decisioni già prese
e nelle vicende
passate, e tenendo un tono di voce appena più basso di
quello del detective; se
Alexander lo alzava, lui faceva lo stesso, e viceversa, guardandosi dal
tenerlo
troppo vicino o lontano dal suo. Doveva averlo appreso comunicando le
cattive
notizie ai pazienti, o nel corso del suo “lavoro
occasionale”.
«Non andranno da
sole.» Adesso
Alexander sembrava disposto a ragionare. Rimase in piedi, ma le spalle
si
rilassarono.
«Mai. Ci sarò io
con loro.»
Sia Ellen che il detective
aggrottarono la fronte confusi, ma lei rimase in silenzio, cercando di
capire
dove volesse arrivare.
Michael si sbrigò ad
aggiungere:
«Tu andrai con Ellen.»
“Andrai”, non “andresti”:
decisione presa nella sua
mente, che loro lo volessero o meno. Rendeva tutto più
reale. «Qualunque
travestimento potresti scegliere per infiltrarti insieme a noi, Darcus
ti
riconoscerebbe di sicuro. Saresti più vicino, a portata di
sguardo, e
passeresti il tempo a nasconderti da lui. Ma fuori»
portò una mano sulla mappa
dettagliata della città che Jeremy gli aveva fornito
«potresti aiutare Ellen e
i suoi amici.»
«È pericoloso per
lei» disse a
quel punto Alexander, spostando l’attenzione sulla terza
persona presente nella
stanza.
«Mi ci vedi in abito da
sera?»
domandò Ellen, decidendosi a intervenire.
«Desterebbe
sospetti» concordò
Michael.
Alexander sospirò
profondamente,
poi fissò la mappa e si arrese:
«D’accordo, rispiegami il piano.»
«La signorina Butler, la
dottoressa Holmes e io ci recheremo alla festa. Sono certo che faremo
tutti un’ottima
impressione in abiti eleganti. Forse dovremmo lavorare sulla postura
della
nostra bella archeologa, ma è un dettaglio da poco. Mi
interessa soprattutto
che la piccola Lilyan sia avvezza ai ricevimenti e sappia perfettamente
come
comportarsi. Mi presenterò come un importante medico di
Boston con le mani in…
affari loschi.»
Ellen sbuffò. In
pratica sarai te stesso.
«Le signorine saranno le mie
accompagnatrici. Potrei anche far passare Lilyan come la sorellina a
cui
presentare la crème
de la
crème del
Massachusetts, e
nel frattempo informarmi sui carichi speciali della Lucky
Clover Cartage.
In tal modo, terremo sotto controllo il padrone di casa e gli ospiti,
tra cui
secondo le indiscrezioni ci saranno anche Sills e Leary, i due bracci
destri di
O’Bannion, mentre voi vi dedicherete alla parte
più importante del piano.»
Michael tacque, ed Ellen si
chinò
sulla mappa per illustrare ad Alexander le sue intenzioni.
«La festa si
svolgerà al primo
piano, nella sala da ballo del Timbleton Arms. È un
complesso di appartamenti
di lusso, dunque possiede una zona in cui organizzare feste di ogni
genere. Le
finestre corrono lungo tutto il perimetro, permettendo a noi, che
saremo all’esterno,
di tenere sott’occhio la situazione. Saremo io, te, Logan e
Nanny. Nanny farà
da palo» aggiunse subito «perché conosce
gli irlandesi di O’Bannion e può
comunicarci in anticipo se qualcuno si accorgerà di
noi.»
Alexander fissò il punto
indicato
da Ellen. «Rimarrà in strada?»
«Sì, passeremo
dall’esterno. Il
Timbleton Arms normalmente ha un solo portiere, ma immagino che quella
sera ci
saranno anche un paio di uomini fidati. A noi interessa invece il
palazzo
adiacente: sono quattro piani, uno meno del Timbleton, ma ho chiesto a
Logan di
preparare delle assi per permetterci di attraversare. Il
cornicione…» Ellen
esitò. «A quello dovremo stare attenti. La nostra
fortuna però è che il palazzo
dà sull’interno dell’appartamento di
O’Bannion e su due brevi tratti di
corridoio, dunque potremo sapere in anticipo cosa o chi ci
aspetterà. Una volta
dentro, cercheremo di capire quale sarà la prossima mossa di
Sills. Di Darcus.»
Era un piano ben congegnato, con
una marea di momenti che potevano andare storti, molti dei quali
però
riguardavano lei, Logan e Alexander. Gli altri sarebbero stati al
sicuro…
probabilmente.
«Sai come forzare una
finestra, o
una serratura?» domandò all’improvviso
Alexander, guardando Ellen con un’espressione
indecifrabile.
«Sì.»
«Perché?»
Lei rimase in silenzio. Prima o
poi quel discorso sarebbe saltato fuori, così come era suo
dovere informarli
sul modo in cui aveva conosciuto i due bambini che ora erano nella
stanza
accanto, viziati di Lilyan e Janet. Temette che sarebbe stato Michael a
rispondere per lei, ma l’uomo rimase zitto.
«Ho vissuto con loro. Con
quei
ragazzini, e altri» confessò Ellen.
«Janet non lo sa. Puoi anche dirglielo
adesso, ma sappi che non ti ha nascosto niente.»
«Ti fidi di loro?»
Fece una smorfia amara. «Mi
fido
dei soldi che prometteremo a lavoro concluso.»
Non era del tutto vero, ma quelli
erano affari suoi e basta.
Alexander annuì piano, poi
rifletté per qualche secondo. «Ci mancano gli
inviti. Immagino che un ricevimento
di questo tipo sarà per ospiti selezionati.»
«Posso pensarci
io» disse Ellen.
«Un giorno e saranno nostri, giusto in tempo per prepararci
alla serata.»
Era vero: Ellen conosceva dei
falsari di cui andare fiera. Nessuno di quegli inviti avrebbe destato
sospetti;
dopotutto, Omar era riuscito a creare per lei i documenti di
identità e il
diploma per farla accedere all’università. Ellen
ricordava ancora il sorriso
congelato sul volto di Marco, certo che quell’inganno sarebbe
stato svelato nel
giro di un’ora, e invece anni dopo lei era ancora Ellen
Lawlier, studentessa di
Biologia alla Miskatonic University. Per il giusto compenso, Omar
avrebbe
svolto il lavoro in fretta.
***
Il piano era stato esposto anche a
Janet e a Lilyan, che avevano accettato senza fare alcuna obbiezione.
Come
avrebbe potuto essere altrimenti? Ancora una volta, era giusto parlare
di utile
e dilettevole. Utile: spiare O’Bannion e i suoi, in
particolar modo Sills, era
più facile in tre che in uno. Dilettevole: non lacerarsi
l’anima nell’attesa di
sapere se i loro compagni fossero vivi o morti. Forse non era esatto
metterlo
sotto l’etichetta di “dilettevole”, ma
Ellen era piuttosto certa che la
velocità con cui le due donne avevano aderito al piano fosse
dovuta proprio a
quel punto.
Tutto il resto era avvenuto con eguale
successo, perlomeno per quanto riguardava la preparazione.
Logan e Nanny erano stati
congedati con il compito per Omar e la richiesta di farsi vedere ai
margini
orientali del Campus la sera successiva alle sette e mezzo, dopo avere
consegnato gli inviti contraffatti nella cassetta delle lettere di
Chateaubriand Manor. Era essenziale che i tre
“ospiti” ne entrassero in
possesso in anticipo.
Lilyan aveva trascinato Janet a
fare compere, asserendo che la sua amica non avesse abiti da sera
adatti all’occasione,
e che lei non poteva certo riciclarne uno già usato per una
festa di gran
lusso. Dopodiché, al loro rientro, cariche di scatole e
cappelliere trasportate
da Jeremy, Lilyan si era chiusa in salotto chiedendo di rimanere sola
fino all’ora
di cena.
Michael non si era fatto tanti
problemi,
scegliendo uno smoking e un panciotto entrambi neri. Mentre si
aggiustava il
farfallino di raso, Ellen uscì dal bagno con un
travestimento a regola d’arte:
in altre parole, aveva adattato un paio di pantaloni e una camicia che
Logan
aveva lasciato vicino alla cassetta delle lettere insieme agli inviti.
Sulla
testa si era già calata una coppola di lana grigia in grado
di nasconderle i
capelli rossi. Erano un retaggio irlandese, perciò avrebbe
potuto concedere a
qualche ciocca di fuggire, ma voleva celare il più possibile
la propria
identità.
Non appena la vide, Michael ebbe
un sussulto. «Bene, ora ho la conferma che non avremmo potuto
portarti sulle
barche: non passeresti mai per un uomo adulto.»
«Fottiti.»
«Mi sento anche in dovere di
aggiungere che, per la prima volta, non provo l’impellente
bisogno di saltarti
addosso.»
Ellen sentì le guance
avvampare e
ripeté un «Fottiti» poco convinto.
«Ti senti pronta?»
Il tono di Michael era cambiato.
Si avvicinò a lei mentre si spargeva il lucido per le scarpe
sui vestiti e su
parte delle zone scoperte della pelle: doveva sembrare un orfanello
debole e
inoffensivo.
«Sì.»
Era sincera, si sentiva davvero
pronta. Stava tornando nel suo ambiente naturale, dove le era richiesto
di
applicare le doti apprese nel corso dell’adolescenza, tra
acrobazie sui
cornicioni del quinto piano e serrature scassinate in fretta e furia,
prima di
essere avvistati dai proprietari delle abitazioni prese di mira. Doveva
solo
ritrovare le capacità di un tempo, ma già si
sentiva grata a Logan per quei
pantaloni che le permettevano di muoversi agilmente. Per fortuna
ciascuno di
loro indossava abiti di seconda mano e quelli erano appartenuti a Marco
prima
che al ragazzino, perché altrimenti sarebbe stato
complicato, pur con il
proprio corpo da “Scricciolo”, entrare nei
pantaloni di un dodicenne.
«Vieni qui.»
Le voltò la testa e la
baciò
fugacemente sulle labbra.
«È vero, sembri
un bambino, ma uno
dei due potrebbe morire stanotte e non voglio avere
rimpianti.»
Lei si divincolò, sebbene
grata di
quel gesto, e commentò: «E tutte le belle parole
di ieri?»
«Erano per tranquillizzare
il
nostro detective. Potrebbe davvero finire
male, stavolta, ma voglio
essere ottimista.»
«Se questo è
essere ottimisti…»
Diede un’ultima passata di
lucido
sul bavero, poi si diresse verso la porta e scese
nell’ingresso, seguita da
Michael. Le altre due donne comparvero poco dopo. Janet era incantevole
nel
lungo abito rosa antico con le frange che le celavano le ginocchia, i
capelli
biondi raccolti in un elegante caschetto; non era riuscita a fare a
meno degli occhiali,
che erano il solo accessorio che si fosse concessa. Lilyan, invece, era
bella
da mozzare il fiato: aveva cinto i riccioli neri con un cerchietto dal
quale
spuntava una piuma bianca. Il vestito verde smeraldo si abbinava ai
suoi occhi
e la trama intricata era messa ulteriormente in risalto da una collana
di
perle.
Sì, con quella roba addosso
io
avrei fatto pena,
rifletté Ellen, felice di non doversi unire alla festa.
Alexander comparve dal salotto e
rimase a bocca aperta di fronte a quella visione, mentre Michael si era
già
profuso in complimenti e lusinghe verso le due donne. Ellen
notò che il
detective indossava un Fedora che poteva essere rapidamente calato sul
viso per
impedirne il riconoscimento, e abiti simili, ma meno sporchi, a quelli
che
aveva utilizzato per passare come un indigente qualche sera prima al
molo.
«Possiamo andare»
comunicò infine
Michael, una volta che anche Jeremy fu comparso in divisa da autista.
Poggiò
una mano sulla coppola di Ellen. «Fa’ attenzione,
ragazzina.»
Lei e Alexander si ritirarono nel
salotto, in attesa del ritorno di Jeremy. Avevano concordato di
aspettare il
tempo necessario per permettere ai tre compagni di introdursi al
ricevimento,
per poi incontrarsi con Logan e Nanny. In passato, era già
stata sola con il
detective in quella stessa stanza, ma non c’era stata quella
trepidazione, né
il maestoso ritratto dell’Arcivescovo appeso alle spalle di
Alexander. Ellen si
chiese se lui avesse scelto quella posizione per evitare di incontrare
lo
sguardo vuoto dell’uomo che era morto di fronte ai suoi occhi.
L’ansia di Alexander crebbe
tanto
da diventare insopportabile per Ellen rimanere in silenzio.
«Andrà bene. Non è
come l’altra volta.»
«Non possiamo
saperlo.»
«Dico sul serio: Sills, o
Darcus,
vi ha ingaggiati soltanto per sacrificarvi a…»
«Appunto, credo che potrebbe
fare
lo stesso.» Alexander alzò il capo e la
fissò intensamente, sperando forse di
essere contraddetto con una logica inattaccabile. «Tutte
quelle persone riunite
in un unico posto, tutti possibili collaboratori di
O’Bannion, ma anche rivali.
Un presunto incidente, a cui si salverebbe per miracolo, e
l’intera Miskatonic
Valley sarebbe sua.»
Il rientro di Jeremy fu
provvidenziale.
***
Si incontrarono sulla South
Garrison Street, un paio di isolati prima del Timbleton Arms. Ellen
ringraziò
Logan degli abiti e lui la rassicurò che, ancora una volta,
Marco non sapeva
dove i due fratelli fossero andati. Quando il ragazzino
accennò a Nanny
chiamandola «Mia sorella», Ellen dovette sforzarsi
per ricordare che quei due
erano in effetti gemelli, nonostante Logan avesse preso i tratti e i
colori
della madre e Nanny, probabilmente, quelli del padre –
nemmeno Marco sapeva chi
fosse. Erano diversi come il giorno e la notte, sia dal punto di vista
fisico
che da quello caratteriale, tuttavia condividevano la sciocca
attrazione per il
pericolo.
Fossero state altre persone, Ellen
avrebbe avuto un briciolo di rimorso nel rischiare di metterli di nuovo
nei
guai, ma erano cresciuti per strada e avevano sviluppato
abilità perfino
maggiori delle sue, la quale aveva fatto l’impossibile per
riuscire a cavarsela
da sola. C’era stato sempre Marco a correggere i suoi casini,
però.
Giunsero in vista del Timbleton
Arms nel giro di pochi minuti, procedendo attraverso la South Garrison
perché
la West Pickman, che si affacciava sul lato nord del complesso di
appartamenti,
era più larga e trafficata, nonostante fosse
un’ora tarda. Sembrava, infatti,
che numerosi invitati stessero giungendo per il ricevimento di
O’Bannion, e
questo permise loro di intrufolarsi nel vicolo tra gli edifici che
interessavano a Ellen. Fece il giro del palazzo, evitando
l’ingresso, sicura
che sarebbe parsa soltanto l’ennesima mendicante che sognava
la vita dei
ricchi; forse un cameriere mosso a pietà le avrebbe perfino
lanciato un tozzo
di pane raffermo.
All’interno si erano aperte
le
danze. Ellen individuò subito Lilyan, che rideva a una
battuta del damerino
brufoloso con cui stava conversando; Michael la teneva sottobraccio, lo
sguardo
fisso davanti a sé: puntava Sills, che quando si mosse verso
di loro costrinse
Janet a dargli in fretta le spalle. Accanto a lei, Ellen
avvertì Alexander
fremere.
«Procediamo»
decise, per non
permettergli di compiere gesti avventati. Aveva notato anche lei, con
un
brivido lungo la schiena, l’aura di minaccia che circondava
Sills.
L’edificio alla loro destra
ospitava il salone di bellezza May
Ladies, che doveva avere fatto gli straordinari quella sera,
perché le luci
si erano spente mentre Ellen girava intorno al Timbleton Arms.
C’erano delle
scale esterne, utili per raggiungere il tetto, ma per salirci Alexander
dovette
spiccare un salto e afferrare la griglia con gli ultimi gradini, che
scese fino
a tre piedi dalla strada. Dopo un cenno d’intesa a Nanny, che
si nascose nell’ombra,
Ellen precedette Logan e Alexander lungo le rampe e si
intrufolò nella finestra
dell’ultimo piano. Si era informata sul palazzo e sapeva che
era composto
principalmente da uffici, dunque non ebbe remore nel rompere il vetro
ed
entrare nel corridoio deserto; da lì, fu un gioco da ragazzi
trovare le scale
per il tetto e uscire di nuovo nell’aria fredda di novembre.
«Avresti potuto lasciare la
finestra aperta» redarguì Logan, che assunse
un’espressione contrariata.
«Ehi, mi hanno beccato che
gironzolavo qua dentro, non ho fatto in tempo a occuparmi dalla
finestra mentre
mi lanciavano in strada!»
«Quindi le assi sono al loro
posto?»
«Ehm…
l’asse. Non ho fatto in
tempo a…»
«Sì,
d’accordo, una basterà.»
Facendosi aiutare dai due
compagni, Ellen sistemò l’asse di legno in modo da
poggiare sul cornicione del
quinto piano, pregando che una folata di vento non la spostasse. Era
un’asse
troppo leggera, maledizione.
«Vado avanti io»
decretò prima che
Logan potesse fare un passo. «Ho bisogno che voi la reggiate,
poi Alexander mi
seguirà.»
Si mise carponi per muoversi
meglio. Un senso di vertigine la colse e si obbligò a
guardare dritto davanti a
sé, ignorando la città che si stagliava quattro
piani sotto di lei; il tragitto
era breve, ma il vento stava aumentando. Quando finalmente raggiunse il
cornicione del palazzo di fronte, non fece in tempo a tirare un sospiro
di
sollievo, troppo concentrata sulla misura del cornicione.
Cazzo, è strettissimo.
Doveva fare attenzione a non
cadere e a evitare di venire intercettata da eventuali uomini posti a
guardia
dell’appartamento. Per fortuna, avevano posizionato
l’asse in modo da non
essere intravisti dagli irlandesi che sostavano nel corridoio, proprio
davanti
alla porta che indicava la residenza di O’Bannion. Fu
più forte di lei: si
sporse appena per controllarli, e notò i loro sguardi vacui.
Venne invasa dall’euforia:
se
fossero stati uomini del boss, sarebbero stati ben vispi; quegli occhi
significavano che Sills nascondeva qualcosa nell’appartamento
di O’Bannion.
Nell’ufficio, magari. Se fossero stati davvero fortunati,
avrebbero
rintracciato perfino i libri che volevano recuperare.
Riuscì a penetrare nella
finestra
della stanza da bagno, piccola, ma adatta a un corpicino esile come il
suo.
Alexander non ci sarebbe mai passato, ed era meglio così:
con quel vento, era
opportuno che fossero in due a reggere l’asse. Gli fece un
cenno e lui comprese
subito, annuendo pur con riserva.
Quando scivolò
all’interno del
bagno, avvertì la testa smettere di girare. Il cuore le
batteva all’impazzata,
eppure la prospettiva che un gangster, scoprendola lì, le
sparasse addosso la
entusiasmava più di cadere nel vuoto. Guardò di
nuovo verso il palazzo di
fronte e capì ciò che le stavano dicendo: la
stanza successiva doveva essere la
camera da letto; quella dopo ancora lo studio. La porta del bagno non
era
inchiavata, mentre dovette lavorare per un po’ a quella dello
studio. Notò che
una seconda porta avrebbe permesso l’ingresso di terze
persone, e si morse le
labbra al pensiero che la stanza da cui potevano entrare non aveva una
finestra
che Alexander e Logan avrebbero potuto controllare. Accese la lampada
ministeriale sulla scrivania e diede un’occhiata in giro,
cercando di cogliere
più indizi possibili nel minor tempo a disposizione: non
sapeva se e quando
qualcuno l’avrebbe interrotta.
C’erano dei documenti sulla
scrivania, una serie di edifici intestati a O’Bannion. Ellen
riconobbe il The
Club, fino a pochissimo
tempo prima ritrovo di Potrello e dei suoi, e l’Anton’s
Restaurant,
entrambi siti nel Southside. Lo sguardo le cadde sulla fotografia di
una
chiesa. Lesse il documento a cui era allegata: si trattava della Chiesa
Occidentale, un edificio abbandonato e sconsacrato, che niente avere a
che fare
con gli ultimi mirati acquisti di O’Bannion. Stava per
indagare oltre quando
udì dei passi provenire da dietro la seconda porta e corse a
nascondersi nella
camera da letto, pregando che nessuno vi entrasse.
«…solo fortuna,
dice lui. Ah! Se
questa fortuna si estende anche a noi, ben venga. Ma
c’è qualcosa di strano in Bobby,
ti dico.»
Riconobbe la voce del boss
irlandese. Scrutò attraverso il buco della serratura, ma la
larga schiena di O’Bannion
le impediva di vedere la persona con cui stava parlando.
«Quindi cosa facciamo,
capo?»
«Eh, cosa facciamo, Eddie?
Aspettiamo. Mica posso liberarmi di Sills da un giorno
all’altro.»
«Trama qualcosa.»
«Certo che trama qualcosa,
ed è
esattamente il motivo per cui dobbiamo tenerlo d’occhio.
Vedi, Bobby è un caro
amico e non voglio darlo in pasto ai pesci, o qualunque cosa abbia
fatto a Joe
e a quella manica di poveracci del porto, ma sembra intenzionato a
tenermi
fuori dai suoi affari. E non si fa così con me,
giusto?»
«Giusto, capo.»
«Guarda qua, per esempio: ha
insistito perché comprassi questa catapecchia. Che deve fare
con una chiesa che
cade a pezzi? Distruggerla una volta per tutte e costruirci qualcosa di
utile
per noi, no? E invece mi sbagliavo: ha messo degli uomini a guardia
della
chiesa. I miei uomini!
Se sta preparando qualche
losco piano per farmi le scarpe, devo tenermi pronto. E tu con
me.»
«D’accordo,
capo.»
«Ora torniamo di sotto, non
voglio
che gli ospiti ci aspettino. Dov’è il mio
accendino? Eccolo, ottimo. Prendo
anche qualche liquido, ci può servire per oliare i nostri
invitati. Capito,
Eddie? Liquido, oliare.»
«Capito, capo.»
«E non fare il leccaculo. Ti
conosco da…»
Le voci si abbassarono fino a
spegnersi, lasciando Ellen sola con il battito del proprio cuore.
Avevano un
indizio bello grosso, ed era giunto il momento di tornare indietro.
Stava per
allontanarsi dalla serratura quando vide qualcosa – qualcuno –
che le fece rizzare i peli del
corpo.
Sills era appena entrato nello
studio passando attraverso il muro.
Ellen si pietrificò,
pregando di
nuovo, e con maggiore intensità, perché
l’uomo non facesse lo stesso per
raggiungere la camera da letto. Sarebbe potuta correre via, ma temeva
che lui
la udisse.
Sills, tuttavia, non fece niente
di allarmante. Osservò i fogli sulla scrivania e spense lui
la luce che Ellen
aveva lasciata accesa, e di cui O’Bannion per fortuna non si
era accorto. Parve
riflettere, poi se ne andò attraversando di nuovo la parete.
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Capitolo 19 *** Capitolo XIX ***
Capitolo
XIX
«Com’è
andata?»
Nonostante ostentasse
indifferenza, il nervosismo di Michael fu evidente non appena ebbe
messo un
piede dentro casa: aveva preceduto le due donne, mentre di solito si
schierava
dietro di loro, in un atteggiamento protettivo, e soltanto quando aveva
intravisto Ellen nel salotto si era deciso a togliersi sciarpa e
cappello.
«Bene»
mentì Ellen. In realtà, non
era del tutto una menzogna, perché avevano ottenuto
informazioni che potevano
rivelarsi chiave nelle loro indagini, ma Alexander non parlava da
quando si
erano ricongiunti sul tetto del palazzo più basso; sembrava
che il detective
avesse intuito un dettaglio negativo che a lei ancora sfuggiva.
Udendo la sua risposta, infatti,
si alzò e si diresse verso Lilyan e Janet, che erano appena
entrate nel
salotto, le guance rosse per il freddo. C’era una strana luce
negli occhi della
più giovane, che si spense non appena ebbe incontrato il
dipinto alla parete.
Lui è morto, e lei si sente
in
colpa perché si è divertita a una festa, ipotizzò Ellen. Solo
allora ripensò a ciò che
Michael aveva insinuato qualche sera prima, e al tempo che Lilyan aveva
passato
in salotto il pomeriggio precedente, pretendendo di essere lasciata
sola. Se
Michael aveva ragione, era un sentimento strano, ma qualcosa la spinse
a
pensare che non fosse ricambiato. Non nello stesso modo.
«È stata una
festa piacevole?»
provò a domandare a Janet, che si stava sfregando le mani
davanti al camino.
«Sì, credo di
sì. Ci siamo tenuti
piuttosto in disparte. Niente balli, qualche chiacchiera necessaria,
buon cibo…
ma siamo sopravvissuti.»
Niente sacrifici all’ordine
del
giorno,
pensò
Ellen, ma lo tenne per sé. Era meglio che non conoscessero
il timore di
Alexander, che per fortuna si era rivelato infondato.
«Sills è stato
nella sala per la
maggior parte del tempo» continuò Michael.
«È scomparso verso le otto e mezza,
ma è tornato praticamente subito.»
«Era
nell’appartamento di
O’Bannion.»
Udendo l’affermazione di
Alexander, tutti coloro che non avevano assistito alla scena
sussultarono.
«Vi ha visti?»
chiese Lilyan
spaventata.
«No, non si è
accorto di me.» Era
la sola cosa che Alexander avesse detto quando era tornata sul tetto:
Sills era
apparso nel corridoio attiguo allo studio un attimo dopo
l’ingresso di
O’Bannion, non prima. Molto probabilmente ignorava che ci
fosse un’intrusa.
Ellen spiegò a grandi linee
come
si erano divisi i compiti, poi Alexander proseguì:
«Ho avvertito che stava
arrivando con le solite fitte alla testa, ma Ellen si era
già nascosta nella
camera da letto. Sills era lì per il suo capo. Lo ha sentito
parlare con un
uomo…»
«Leary»
precisò Ellen, ricordando
che O’Bannion l'aveva chiamato “Eddie”.
«Leary, sì.
È un omone, può darsi
che si occupi di far sparire i loro rivali. Sembrava che Sills sapesse
che si
erano allontanati da lui e volesse spiarli.»
«Cos’hanno
detto?» domandò
Michael. Si era seduto sul bracciolo accanto a Ellen quando aveva
sentito
dell’apparizione di Sills.
«Hanno capito che
c’è sotto
qualcosa.»
«Ahia…»
Ellen non capiva. Qual era il
problema?
Anche Janet ignorava il
significato di quelle parole. «Che significa,
Alexander?»
«Adesso Sills ha la certezza
che
O’Bannion sospetti qualcosa. Non conosciamo ancora le
intenzioni di Sills… di
Darcus… però qualunque idea abbia in mente ora ha
tre alternative: sbarazzarsi
del boss, soggiogarlo o affrettare le cose.» Contò
sulla punta delle dita.
«Sbarazzarsi di O’Bannion potrebbe originare nuovi
sospetti, quindi sarebbe più
logico soggiogare la sua mente, ma non sappiamo quanto duri il suo
incantesimo.
Resta quindi l’ultima opzione.»
«Affrettare le
cose…
significherebbe un nuovo sacrificio? Altre persone…
morte?» tentennò Janet.
«Non lo sappiamo, ma di
sicuro
comporterebbe vederlo sparire di nuovo. E noi abbiamo bisogno di
fermarlo.»
Rimasero in silenzio, persi nei
propri funesti pensieri, finché Ellen non trasse un profondo
respiro e parlò:
«Quindi dobbiamo affrettare i tempi anche noi.»
«Che intendi?»
chiese Michael.
«Hai una pista?»
Lei annuì.
«O’Bannion ha
acquistato diversi locali su consiglio di Sills, e pare che lui abbia
insistito
perché prendesse anche la vecchia Chiesa Occidentale.
È un edificio
abbandonato, ma sembra che Sills voglia tenerlo così
com’è.»
«Cosa sappiamo di quel
posto?»
«Poco e niente. Si trova nel
Merchant District, a un isolato dall’Old Wooded Graveyard, il
cimitero più
vasto di Arkham. La conosco solo perché ne ho sentito
parlare da alcuni
compagni di corso. È stata edificata agli inizi del secolo
scorso, ma l’hanno abbandonata
nel giro di ottant’anni perché circolavano strane
voci.»
«Del tipo?»
«Le solite storie sulle
chiese
sconsacrate: fantasmi, spiriti, maledizioni… La
verità è che è stata costruita
interamente in legno, e non era sicura.»
«Smetterei di denigrare chi
sostiene certe voci…» borbottò Michael,
facendo in modo che solo Ellen potesse
sentirlo.
«Perché
è rimasta in piedi,
allora?» si interrogò Alexander.
«Tu butteresti
giù una chiesa?
Davvero?» esclamò Lilyan. Chissà se
quel fervore religioso derivava dall’uomo
che li scrutava dall’alto, incombendo come uno di quei
fantasmi.
«Dubito però che
Darcus voglia
tenerla così com’è per spirito
cristiano…» rifletté Michael.
«Invece
sì!» saltò su Janet,
battendo un pugno contro il palmo aperto. «Pensateci: la
polizia indagherebbe
ovunque se ricevesse una soffiata. Fingiamo per il momento che non ci
siano
agenti corrotti, o… o che gli italiani cerchino vendetta.
Basta anche solo
pensare ai curiosi. Arriva una soffiata su una merce nascosta in una
chiesa,
consacrata o sconsacrata, non importa. Chi ci metterebbe
piede?»
«Janet ha ragione»
concordò Ellen.
«Da una parte, i religiosi si tengono lontani per timore di
offendere il
Signore, dall’altra i superstiziosi hanno paura dei fantasmi.
E quelli nel
mezzo sono davvero pochi.»
Michael si alzò, sul viso
un’espressione concentrata. «Dunque siamo
d’accordo?»
Alexander annuì
«Dobbiamo entrare
nella chiesa.»
***
«Due uomini su ciascun
lato»
sospirò Ellen lasciandosi cadere sul divano.
«Argomenta.»
Lanciò
un’occhiataccia a Michael.
«La chiesa. È tenuta sotto stretto controllo dagli
scagnozzi di Sills, non c’è
un punto libero. E – senti questa – Leary
è tra loro.»
«Che il boss
l’abbia mandato a
sorvegliare Sills?»
«No, ha perso anche
lui.»
«Cosa te lo fa
dire?»
«Tu cos’hai per
me?»
Sospirando, ma con un sorriso
sghembo sul volto, Michael cercò nella giacca e le
lanciò una tavoletta di
cioccolato che lei afferrò al volo. Aveva preso
l’abitudine di tenerne sempre
una con sé quando Ellen era nelle vicinanze, e lei se
n’era accorta; dopotutto,
se Michael pagava Logan e Nanny per le informazioni, perché
non poteva
ricompensare anche Ellen?»
«Logan dice che hanno gli
occhi
vitrei, privi di vitalità. Anche se in realtà ha
detto qualcosa come “Sembrano
morti che camminano”.»
«Hai di nuovo usato i
bambini?
Credevo avessimo deciso che era troppo pericoloso.»
«Mi stava seguendo,
così l’ho
mandato avanti. Non dubito della vista o delle sensazioni
“alla McCrindle”, ma
non sono ancora sicura che Sills ignori la mia identità. Ho
detto a Logan che
era l’ultima volta, e che se lo avrei trovato di nuovo tra i
piedi lo avrei
preso a calci, e poi sarei andata dritta da Marco a
riferirglielo.»
«E basta?»
«E che, a prescindere da
qualunque
informazioni lui abbia, non lo pagherai più.»
Michael rise. «Questa mi
sembra la
minaccia perfetta.» Si fece serio, ripensando alle
dichiarazioni di Ellen.
«Quindi non sappiamo come entrare nella chiesa?»
«Dobbiamo solo sperare
che… beh,
Alexander abbia avuto fortuna.»
Dieci minuti dopo, scoprirono che
era stato così. Il detective Blake si era recato al
municipio per chiedere le
planimetrie della chiesa, fingendo di fare parte della banda di Sills.
Aveva
sborsato una banconota da cinquanta per convincere l’addetto
comunale di non
averlo visto, in modo da passare inosservato: l’impiegato
avrebbe pensato di
avere avuto a che fare con un gangster, eseguendo i suoi ordini e
tenendo la
bocca chiusa, e non avrebbe mai e poi mai provato a parlare di lui con
gli
irlandesi, poiché avrebbe significato essere in contatto con
la malavita.
Il piano poteva funzionare,
soprattutto se avessero agito quella sera stessa.
«Non so perché,
ma ho avuto una
strana sensazione» spiegò Alexander appiattendo
due planimetrie sul tavolo da
pranzo. «Avevo pensato a un condotto fognario, a dire la
verità, ma se l’ingresso
sarebbe stato facile…»
«…non
è detto che le fogne abbiano
un’uscita nella chiesa» concluse Ellen.
«Esatto. Ho comunque voluto
provare ed è venuto fuori questo. Guardate.»
Alexander posò il dito sulla mappa
fognaria, in corrispondenza della chiesa.
«C’è un passaggio, ma è
parallelo
alle fogne, non ci passa attraverso.»
«Grazie a Dio»
esalò Lilyan.
«Sbuca nel cimitero,
all’altezza
della cripta di Trisham Goddard.»
«Chi?»
«Ho indagato, ed era uno dei
fondatori della Chiesa Occidentale. È morto nel
1810.»
«Perché dovrebbe
esserci un
passaggio che porta alla sua tomba?»
«Non è chiaro, ma
potrebbe essere
ancora aperto. Potremmo controllare.»
«No» disse
risoluta Janet.
«Desteremmo troppo l’attenzione. Nel caso in cui
Darcus conosca davvero questo
secondo ingresso…» Sospirò.
«Potrebbe riconoscerci. Ha visto tre di noi ieri
sera, e non sappiamo se sia in grado di avvertire Alexander. Rimane
solo Ellen,
e io non la mando da sola.»
Ellen avrebbe voluto ribattere, ma
la decisione con cui Janet aveva parlato la stupì. Si chiese
se, in effetti,
pur a quattro piani di distanza, lei e Lilyan non avessero provato lo
stesso
terrore della notte al molo.
«Ci affidiamo alla fortuna,
allora» decretò Michael. «Bene,
prepariamoci.»
La sera era il momento migliore,
questo era il solo punto su cui concordassero
all’unanimità: se il passaggio
fosse stato chiuso, sarebbero potuti tornare indietro e riprovare la
notte
successiva, ma almeno nessuno li avrebbe notati – tranne per
il fatto di
intrufolarsi in un cimitero dopo l’orario di chiusura. Per
l’occasione, Ellen
indossò di nuovo i pantaloni di Logan, mentre Janet
prestò a Lilyan un paio dei
suoi, perché era necessario muoversi agilmente. Sebbene le
fogne fossero state
escluse, sembrava che Lilyan fosse riluttante a impregnare i suoi
preziosi abiti
alla moda.
Devo fare un’ultima cosa.
Un pensiero l’aveva
tormentata
dalla sera precedente, da quando aveva visto Sills – Darcus
– passare
attraverso le pareti. Finora avevano avanzato solo delle ipotesi, e lei
non
aveva mai presenziato a un’evocazione da parte dello
stregone, ma adesso era
cambiato qualcosa. E se invece avesse scoperto l’intrusione
di Ellen e li
stesse aspettando nella chiesa? Darcus non sarebbe stato fermato da un
semplice
colpo di pistola.
Cautamente, senza farsi vedere dal
resto del gruppo impegnato a finire di vestirsi, scivolò
fuori dalla camera da
letto e raggiunse la sala grande. Era una stanza particolare, che
doveva essere
destinata a ospitare dei ricevimenti, ma che al momento non aveva una
funzione
precisa – se non quella di celare i libri di Alexander. Forse
Lilyan lo sapeva,
ed era per questo che teneva la porta perennemente inchiavata, tuttavia
ormai
Ellen aveva imparato a menadito a scassinarla. Entrò e
tastò la parete in cerca
del cassetto nascosto, domandandosi per l’ennesima volta a
cosa servisse un
quadrato vuoto nel muro a un Arcivescovo, e lo trovò quasi
subito. All’interno
c’erano i tre libri recuperati e impilati uno sopra
l’altro, e accanto le
lettere prelevate dalla casa dei McCrindle, nel Maine. Era rischioso, e
sudava
freddo mentre lo faceva, ma Ellen prese i tre libri e li
infilò nella borsa,
ringraziando che non fossero troppo pesanti. Avrebbe detto che stava
portando
qualche coltello da cucina per sicurezza, o roba del genere.
Era appena uscita in corridoio
quando incrociò Janet e si sentì mancare un
battito.
«Dov’eri?»
le chiese l'amica.
«Io… ero andata
in cucina» mentì
Ellen, cercando di ritrovare un respiro regolare. Un’immagine
le attraversò la
mente: la scritta sulla busta in cima alle lettere, nel nascondiglio
segreto di
Alexander. «Janet, ho dimenticato di chiedertelo
perché… beh, è successo di
tutto in questi giorni. Tu hai studiato diverse civiltà
mediterranee, giusto?»
«Oh, sì,
ma… a grandi linee. Se ti
riferisci agli egiziani, posso definirmi
un’esperta.»
«No, purtroppo non si tratta
di
loro. Pensavo a popoli come i fenici.»
«Allora confermo: solo a
grandi
linee. Cosa ti serve?»
«Ricordi le lettere di
Darcus?
Dietro una busta, c’era un nome che ho tradotto come Dāgān.»
«Quindi… Dagon?
Credi possa avere
a che fare con Darcus?»
«Non ne sono certa. Sai
dirmi
qualcosa di più su di lui? So solo che fa parte della
mitologia.»
«Mitologia o religione,
dipende
che da punto la guardi.» Janet si sistemò gli
occhiali sul naso, come faceva
sempre prima di raccontare a Ellen delle civiltà studiate
nel corso dei suoi
viaggi. «Era una divinità
dell’agricoltura. Nella lingua ugaritica il suo nome
significa “grano”, dunque possiamo dire che sia
legato alla fertilità.»
Questo non li portava da nessuna
parte, né consolidava l’intuizione di Ellen, ma
poi Janet riprese.
«Hai parlato di fenici, e in
effetti i popoli di navigatori hanno molto a che fare con Dagon. Se da
una
parte è legato all’agricoltura,
dall’altra dāg rimanda
al mare. Il suo aspetto e
i suoi ruoli sono cambiati nel corso delle ere e delle religioni, tanto
da
essere rappresentato come un uomo dal busto e la coda di pesce. Nel
cristianesimo viene perfino inserito fra i demoni, ma era una prassi
comune con
le divinità politeistiche e…
e…»
C’era arrivata anche lei.
Dagon, il mare, il corpo
metà
pesce.
Ellen tirò la cinghia della
borsa
sulla spalla e riprese a camminare. «Andiamo, ci penseremo al
ritorno.»
Semmai un ritorno ci sarebbe
stato.
***
Penetrare nel cimitero non fu
difficile, e neppure dovettero scassinare i lucchetti che chiudevano i
vari cancelli:
si sollevarono a vicenda oltre le mura di pietra che delimitavano
l’area,
sperando che non ci fossero persone di guardia. Agenti o irlandesi.
Atterrarono sull’erba
soffice,
sulla quale era caduta pioggia per l’intero pomeriggio, e
cercarono di tenersi
il più possibile vicini fra loro. Per fortuna si erano
portati dietro un paio
di lanterne a olio: i lampioni lungo i sentieri erano spenti, ed Ellen
ricordò
come quel luogo facesse parte di un parco più grande, che
culminava con la
contemplazione della morte.
Che stronzata.
Alexander teneva la mappa e li
guidava attraverso le tombe, a passo svelto in direzione della cripta
della
famiglia Goddard. Era un edificio piccolo, ma imponente rispetto a
quelli
vicini, proprio come si aspettava dal luogo di eterno riposo di un uomo
di
chiesa; non servì girarci intorno per trovare un secondo
ingresso, perché la
doppia porta della cripta si aprì senza problemi. Ellen
sussultò: forse quella
era davvero una trappola di Darcus.
O forse nessuno chiude a chiave
una dannata cripta,
si impose di ragionare.
«Hai sentito?»
esclamò Janet di
colpo. La lanterna nella sua mano sussultò al suo movimento
brusco, e la fiamma
all’interno vacillò.
«Sono rumori immaginari,
sta’
tranquilla» cercò di calmarla Ellen, molto
più preoccupata per la lanterna.
Stavano per calarsi sottoterra, e dubitava che ci sarebbero state altre
fonti
di luce.
La cripta era strutturata in
maniera semplice, con tre file di tombe orizzontali sulle pareti
laterali e una
bara, scolpita nella pietra, al centro. Sulla parete di fondo
c’erano le
generalità della persona che giaceva in quella bara, nome,
cognome, data di
nascita e di morte.
REVERENDO TRISHAM GODDARD
ARKHAM, 12 - 21 - 1763
ARKHAM, 10 - 15 - 1810
AMATO
NELLA VITA COME NELLA MORTE
«Non era tanto
vecchio» rifletté
Ellen, per poi maledirsi. Stando a ciò che aveva appreso,
l’Arcivescovo Giraud
Des Chateaubriand aveva avuto circa la stessa età del
reverendo quando era
stato ucciso.
Lilyan, però, sembrava
troppo
concentrata sulla bara, e in particolar modo sul coperchio, per notare
la sua
affermazione. Il resto del gruppo stava tastando la parete di fondo e
il
pavimento in cerca di un passaggio nascosto, ma Ellen si
concentrò sul punto
che anche gli occhi sgranati di Lilyan stavano fissando. La ragazza se
ne
accorse e la guardò, a disagio.
«I-il co-coper…
coperchio…»
Gli angoli del coperchio non
aderivano alla bara. Ellen si chinò per osservare da vicino,
mentre Lilyan
trasaliva spaventata, e provò a spostare la lastra di
pietra. Era troppo
pesante per lei, così fece un cenno a Janet, che
posò la lanterna e corse ad aiutarla.
Entrambe avevano meno paura di Lilyan, e per motivi logici, seppur
differenti:
Janet era abituata a disseppellire sarcofagi e mummie, mentre Ellen era
certa che
non avrebbe trovato un cadavere all’interno della bara.
Aveva ragione.
«Ecco
l’ingresso» annunciò.
Scavalcò le basse pareti e diede un calcio sul doppio fondo,
che si spostò,
rivelando gradini di pietra che conducevano in basso.
Si fece dare la lanterna di Janet
e li precedette all’interno, scivolando nei cunicoli umidi e
bui, rischiarati
appena dalla flebile fiammella. Camminarono in silenzio per diversi
minuti,
seguendo l’unica strada che si stagliava di fronte a loro, e
rischiarono di
inciampare soltanto un paio di volte; purtroppo, sebbene non si
trattasse di
fogne vere e proprie, l’acqua trapelava dal soffitto e dalle
pareti, e ogni
singola goccia riecheggiava nelle loro orecchie. La sola consolazione
fu che
sarebbero riusciti facilmente a udire qualsiasi rumore sospetto.
Un passo, un altro, e la loro meta
si avvicinava. Un gran sonno colse Ellen, che vacillò,
rischiando di fare
cadere la preziosa lanterna; Michael le posò una mano sulla
spalla per
sorreggerla, e lei adagiò l’oggetto a terra per
tenerlo al sicuro.
Poi tutto si oscurò.
***
Lilyan odiava quella
situazione. I suoi stivaletti
si erano infangati, un’eventualità che avrebbe
considerato se solo Alexander
non le avesse assicurato che “non sarebbero passati per le
fogne”. E quelle cos’erano
allora? Le parve di avvertire l’acqua penetrarle fino alle
calze, inzupparle i
piedi, risalire lungo quei pantaloni così scomodi che non
capiva come facesse
Janet a indossarli abitualmente.
Oh, era perfino certa di avere
udito il suono di un ratto. Non sapeva con esattezza quale verso
facessero, o
se ne avessero uno in particolare, ma sentiva che
c’era un ratto nelle vicinanze.
Perché si era cacciata in
quella
storia? Se lo domandava in continuazione, e la risposta mutava ogni
giorno; lo
aveva chiesto anche a Giraud, alla sua copia dipinta a olio, la sola a
cui
ormai potesse appellarsi.
La risposta era davanti ai suoi
occhi: lo stava facendo per lui.
Aveva abbandonato gli agi e la
comodità della propria casa per seguirlo, un capriccio che
aveva sperato
durasse il più a lungo possibile, ma certamente non in
quella maniera. Voleva
solo passare del tempo con Giraud… lontano da suo padre,
dalla sua amata
Boston, da tutto ciò che aveva contornato i loro incontri.
Volevo soltanto
stare con lui. Che sciocca era stata…
Non poteva vanificare la sua
morte, tornando a Boston come se nulla fosse accaduto, piangendo la sua
perdita
sopra un letto comodo e caldo, mentre i suoi amici continuavano a
combattere.
Perciò era rimasta, e aveva anche acconsentito a recarsi a
un ricevimento in
piena regola, con balli e conversazioni brillanti, ma di certo non si
aspettava
che l’avventura successiva si sarebbe svolta in una fogna.
Cos’avrebbe pensato di
lei la Lilyan di un mese prima, che scalpitava per il sogno di
diventare
attrice e calcare i teatri della Broadway Avenue? No, non avrebbe
permesso a
Darcus o a chicchessia di mettersi fra lei e il suo promettente e
agognato
futuro. Lo avrebbero fermato, e forse quella sera stessa, e
poi…
Si bloccò quando la
lanterna di
Alexander si sollevò, illuminando le due persone che li
precedevano. Scorse
Michael chino su Ellen, che a sua volta si era appoggiata al muro.
Sospirò:
quei due avrebbero dovuto essere più discreti se volevano
tenere nascosta la loro
storia; lei aveva ascoltato anche
troppo quella
famosa sera
dopo l’attacco a Chateaubriand Manor, ma si era stupita di
apprendere che
Alexander lo sapesse da un po’. In effetti, era un
investigatore privato.
Al momento, tuttavia, non sembrava
che si stessero scambiando effusioni, ma che Ellen si fosse sentita
male.
Lilyan fece un passo in avanti per controllare e le poggiò
una mano sulla
spalla libera.
«Ellen,
stai…?»
Lei si voltò di colpo, la
pistola
stretta nella mano. Senza dire una parola, le sparò in
faccia.
***
Alexander si era reso conto che
qualcosa non andava, e una parte di lui avrebbe voluto impedire a
Lilyan di
avvicinarsi, quella parte che ora lo avrebbe rimpianto per sempre. Un
proiettile era partito dalla canna della Colt di Ellen: come se il
tempo si
fosse rallentato, lo vide sfiorare il viso di Lilyan, colpire il suo
orecchio,
e alla fine osservò la ragazza crollare a terra in un lago
di sangue.
D’istinto sollevò
il revolver, ma
Michael aveva appena fatto lo stesso. Mirò, premette il
grilletto, sparò.
***
L’urlo di Janet non
riuscì nemmeno
a uscire dalla gola. Si bloccò, paralizzato come lei, mentre
un secondo
proiettile colpiva Alexander in mezzo alla fronte.
Dritto, preciso, mortale.
Le gambe cominciarono a tremarle.
Voleva cedere, crollare a terra come i suoi amici, far ragionare Ellen
e
Michael… ma i loro occhi erano vuoti.
Darcus li aveva posseduti.
L’istinto di sopravvivenza
agì in
maniera avventata, stupida, eppure la sola che le fu concessa. Diede le
spalle
ai due assassini – a
Ellie, la
sua Ellie –
e tentò di
correre via, prima che un terzo proiettile la colpisse in mezzo alla
schiena.
***
Quando Michael sbatté le
palpebre,
si sentì come se avesse dormito per ore, eppure erano ancora
sottoterra,
diretti alla Chiesa Occidentale, e una flebile luce proveniva dalla sua
sinistra – dove si trovava Ellen, ma quando si erano voltati?
Mancava la fiamma
della lanterna di Alexander, e si stava chiedendo perché o
chi l’avesse spenta,
quando sbatté le palpebre un’altra volta e vide.
C’erano tre corpi davanti a
lui.
C’era Lilyan, supina e con
gli
occhi chiusi, il lato sinistro del volto ricoperto di sangue.
C’era Janet, la sua schiena
una
macchia rossa che si allungava sul pavimento umido.
C’era Alexander, che lo
guardava,
e un buco gli spuntava dalla fronte.
Nella propria mano, Michael scorse
la pistola ancora fumante.
Si impedì di crollare
finché non
avesse controllato Ellen. Si girò piano, lentamente, temendo
ciò che avrebbe
trovato, ma lei stava bene.
No, non era vero: era viva, ma non
stava bene. Anche la sua mano era stretta intorno alla pistola, che
ancora
puntava in direzione di Janet; lo sguardo della ragazza era vacuo,
spento, e
nei suoi occhi grigi Michael non scorse ciò che si era
abituato a vedere:
arroganza, dolore, vita. Non c’era niente
di Ellen di fronte a lui.
I ricordi lo assalirono
prepotenti, sadici. Comprese tutto ciò che era avvenuto,
ogni singolo colpo
partito dalle loro armi, tutto nel giro di una manciata di secondi.
Rivide se
stesso sparare ad Alexander in pieno volto, eppure faceva
più male l’immagine
di Ellen che puntava alla sua amica, che premeva il grilletto senza la
minima
esitazione.
Non potevano rimanere così,
Michael doveva fare qualcosa. Cercò di prenderla alla
sprovvista e disarmarla,
ma Ellen se ne accorse e si rivoltò contro di lui, e in quel
brevissimo lasso
di tempo la consapevolezza attraversò la sua mente.
Se Ellen lo avesse ucciso e poi
fosse rinvenuta, avrebbe capito cos’aveva fatto. Avrebbe
capito di avere ucciso
lui e Janet, di essere stata colei che aveva strappato la vita alle
uniche due
persone di cui le importasse qualcosa. Michael ignorava quando tempo le
ci
sarebbe voluto per rinsavire, e se Darcus, che era riuscito a
soggiogarli,
sarebbe arrivato al termine degli spari per disfarsi anche di lei.
Se fosse stato Michael a sparare,
però, le avrebbe risparmiato tutto quello. Una morte certa,
e il dolore immane
che l’avrebbe preceduta. E forse Janet e Lilyan erano ancora
vive, e lui
avrebbe potuto afferrarle e portarle al sicuro, salvarle.
Si sarebbe fatto carico lui stesso
del dolore di Ellen, non le avrebbe permesso di provare altra
sofferenza.
Sollevò la pistola e le
sparò all’addome.
***
Di nuovo l’aria, di nuovo la
sua
mente. Michael sbatté le palpebre e nel farlo
ricordò ogni cosa. Alzò lo
sguardo e vide Alexander, Lilyan e Janet: tutti loro stavano puntando
le armi
contro di lui, un’espressione spaventata su tutti i loro
volti.
Provò un senso di sollievo
mai
conosciuto, neanche quando la sera prima aveva scoperto che Ellen era
uscita
indenne dall’avventura a casa di O’Bannion, o
quando suo zio Jan aveva
acconsentito a crescerlo tenendo nascosta alla sorella
l’amara verità. Sorrise
appena, voltandosi verso di Ellen, e allora un macigno gli
crollò sul petto.
Lei non c’era ancora.
Fissava
Lilyan, pronta a sparare al minimo movimento della ragazza, lo sguardo
vuoto
rivolto a lei e lei soltanto.
Michael respirò piano. Un
respiro,
poi un altro. Ellen non si stava curando di lui. Questa volta
l’avrebbe
salvata, questa volta avrebbe fatto in modo che rimanesse in quel mondo
duro e
crudele e amaro, a rimpiangere ogni scelta fatta nella sua fottuta
vita, a
combattere accanto a lui per un briciolo di felicità.
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Capitolo 20 *** Capitolo XX ***
Capitolo XX
Uno sparo partì nel
silenzio
calato fra loro; il proiettile forò il muro, appena rasente
al braccio di
Lilyan: se Michael non avesse spostato Ellen di peso, costringendo la
Colt a
modificare la traiettoria, dell’ereditiera sarebbe rimasto
solo un guscio
vuoto.
Ellen fu buttata a terra con tale
forza da perdere conoscenza, e soltanto grazie a uno schiaffo ben
assestato al
viso da parte della stessa Lilyan, che probabilmente nutriva anche del
risentimento per essere quasi stata uccisa ben due volte, Ellen
riuscì a
rinvenire completamente, uscendo dallo stato di torpore che
l’aveva avvolta.
«Che… che
cosa…?»
Sgranò gli occhi, iniziando
a
ricordare, e subito la sua mano raggiunse l’addome. Era
pulita. Incrociò lo
sguardo di Michael, e per la prima volta vide qualcosa che aveva sempre
collegato al proprio riflesso nello specchio: biasimo, puro e assoluto
biasimo.
Si voltò e cercò di rimettersi in piedi,
avvertendo il fianco sinistro dolorare
per la contusione; imprecando, e afferrando la mano che Janet le
tendeva, si
rimise in piedi.
«Stai bene?»
«S-sì…
Voi?»
«Non preoccuparti, siamo
illesi.
Michael è tornato in sé prima che uno di voi due
potesse agire.»
Fissò intensamente la sua
amica,
cercando di reprimere l’orrore per ciò che era
avvenuto nella visione. Come
aveva potuto spararle? Come poteva essere lei a confortarla, dopo
ciò che era
successo? Come…?
«Che cazzo ci fanno
qua?»
Ellen seguì lo sguardo di
Alexander, ritto dietro Janet: stava osservando qualcosa al livello del
pavimento, e lei rabbrividì quando si rese conto che non
reggeva più la cinghia
della propria borsa.
«Merda»
biascicò.
Per terra c’era la sua
borsa, ora
aperta a rivelarne il contenuto. Aveva cercato di tenersi il
più possibile
distante da Alexander, suggerendogli perfino di chiudere la fila con la
seconda
lanterna, perché temeva che il suo “potere
mentale” fosse in grado di avvertire
la presenza dei tre libri che lei aveva trafugato; eppure ora quegli
stessi
libri erano scivolati fuori dalla borsa, e il fatto che Ellen li avesse
portati
con sé era ormai noto a tutti.
«Come ti è venuto
in mente?»
sbottò Lilyan, il viso cereo. «Darcus potrebbe
essere qui. Probabilmente è già
qui, e sta venendo a prenderci!»
«No» la
contraddisse Michael.
Teneva il braccio con la pistola teso all’altezza della
spalla, fissando
qualcosa davanti a tutti loro.
«Michael,
non…»
«Non la sto difendendo. Vi
sto
solo informando che Darcus non è qua.»
Indicò con un cenno del
capo l’angolo
in fondo a destra. Ellen sollevò la lanterna e
allungò il collo: c’era una
scala a chiocciola, i cui scalini erano messi tanto male da sembrare
marci, e
in cima una botola.
«Siamo arrivati alla
chiesa»
riprese Michael. «Deve esserci una sorta di protezione
magica. Se Darcus fosse
stato qua, sarebbe sceso allo sparo e ci avrebbe eliminati senza
attendere
oltre.» Si girò appena verso di Ellen, ma ancora
una volta sembrava non
sopportare l’idea di guardarla. «Sono passati
almeno cinque minuti, e
sentendoci litigare avrebbe scoperto che non ci siamo uccisi a vicenda,
ma
nessuno è ancora passato da quella botola.»
Prima che Michael finisse di
enunciare la sua teoria, Alexander proruppe in un grido. Con orrore
Ellen notò
che era caduto in ginocchio, i palmi delle mani premuti contro le
tempie, la
mascella serrata nel tentativo di reprimere un altro urlo: forse
Michael aveva
ragione, ma non potevano rischiare. Janet si chinò per
aiutarlo, scuotendo la
testa perché era chiaro che nessuno di loro sapesse cosa
fare, ma poi Alexander
la scostò con un spinta e corse verso la borsa di Ellen.
Nessuno fu abbastanza
svelto da fermarlo quando afferrò uno dei libri e lo
spalancò.
Rimasero interdetti, confusi e
terrorizzati mentre Alexander cominciava a recitare le parole che stava
leggendo, e le pagine si voltavano rapidamente, consentendogli di
trovare il
contenuto a lui necessario. Ellen strinse la pistola con dita tremanti,
preparando
ad affrontare una nuova creatura sorta dal nulla, tuttavia
l’aria pesante
divenne di colpo leggera, e le scariche di elettricità che
si stavano dipanando
dal libro verso la figura di Alexander, pallido e con le orbite vuote,
cessarono.
Quello che per lunghi istanti era
parso come lo scheletro del detective tornò ad avere una
forma reale, umana, e
il libro si chiuse mentre Alexander riprendeva a respirare con
regolarità.
Sembrava che stesse finalmente bene, e che al contempo fosse
disorientato
quanto loro.
«Sopra. Ci siamo»
si limitò a
dire, indicando la scala a chiocciola. Tra le mani stringeva ancora il
volume
nero, le pagine spesse come quelle di un papiro.
***
Quando la botola si aprì,
fu il
turno di Lilyan di reprimere un urlo.
«Cazzo»
mormorò Ellen, che
procedeva nel mezzo, tra lei e Janet. Alexander era avanti, mentre
Michael
chiudeva la fila.
Ellen si spostò appena in
tempo
per evitare il conato di Lilyan. Aveva ipotizzato che
l’uscita del cunicolo
segreto fosse simile al suo ingresso, ma non le era balzato in mente
– ed
evidentemente non solo a lei – che potesse ospitare la vera tomba
di Trisham Goddard. A quel
punto, era stato troppo tardi per distrarre Lilyan, e anche per tenere
la bocca
chiusa: come la ragazza, Ellen aveva inghiottito quel che rimaneva del
reverendo, e ora si costringeva a trattenere il respiro
finché non fosse uscita
dalla bara; a quel punto, sputò a terra. Dopo un secolo, di
Goddard erano
rimaste solo le ceneri e presumibilmente i denti – Ellen non
si era data il
disturbo di guardarsi intorno. Perlomeno, avevano evitato il contatto
con il
suo corpo decomposto.
Adesso abbiamo la conferma che
Darcus ignorasse questo passaggio.
Il coperchio della bara si era
sollevato senza problemi sotto la spinta di Alexander, rivelando il
reale scopo
di quella tomba, eppure a Ellen continuava a sfuggire perché
qualcuno avesse
scelto proprio quel punto preciso, e non qualche passo più
in là. Erano all’interno
di una seconda cripta, polverosa e puntellata da ragnatele, e
bastò una rapida
indagine per capire che si trattava di una stanza segreta.
«A qualunque uso fosse
destinato
questo posto, Darcus non lo ha trovato» rifletté
Michael ad alta voce,
parafrasando senza saperlo i pensieri di Ellen. Le uniche tracce sul
pavimento
erano le impronte dei loro piedi.
Rimpiangendo ancora la spietatezza
con cui, nella visione, aveva sparato a Lilyan in pieno volto,
maciullandole l’orecchio
destro, Ellen si chinò accanto a lei e le offrì
un fazzoletto appena preso
dalla propria borsa; le dita incontrarono gli altri due libri e si
ritrassero
con una scossa. Sapeva di non essere lei la persona che avrebbe dovuto
trasportarli, né quella alla quale erano destinati,
però Alexander pareva avere
occhi soltanto per il volume nero che stringeva in una mano.
Non ha più bisogno della
pistola,
notò Ellen.
Qualunque fosse il felice
presentimento di Alexander, a lei non importava: un’arma
reale era utile,
sebbene rischiasse di mettere di nuovo in pericolo tutti loro.
Andò verso di
lui a passo deciso.
«Lascia la
lanterna» gli suggerì.
Puntò l’indice verso una parete, facendogli notare
il passaggio segreto e le
sottili strisce di luce proveniente dalla sala attigua che lo
circondavano.
Alexander esitò, e lei ebbe
l’impressione
che stesse per dirle che non aveva bisogno di altro, ora che aveva
appreso come
usare il libro, ma non trovò repliche a quel suggerimento.
Posò la lanterna a
terra proprio come aveva appena fatto Ellen. Prima che proseguissero,
però, la
ragazza avvertì una mano posarsi sul suo braccio.
«Niente
distrazioni» le ricordò la
voce calda di Michael.
La stava guardando con una
tensione che si sarebbe potuta tagliare con un coltello da burro, e
teneva il
palmo della mano libera dalla pistola aperto davanti a lei. Con un
sospiro,
Ellen si tolse la borsa e lasciò che Michael la infilasse a
tracolla al posto
suo. Finalmente si sentiva libera di muoversi: non era troppo minuta
per
trasportare libri così pesanti dall’Upton Hall
alle aule universitarie,
tuttavia lo diventava quando doveva contare su ogni parte del proprio
corpo.
La mano di Michael, però,
era
tornata a tendersi verso di lei. Alzò lo sguardo e
scoprì che la stava
osservando con un’espressione al contempo cupa e decisa.
«Niente
distrazioni» ripeté.
Ripenseremo dopo a quello che
è
successo durante la visione, comprese Ellen. Avremo
tempo per mettere in discussione le nostre scelte. Adesso dobbiamo
fidarci l’una
dell’altro.
Gli strinse velocemente la mano,
annuendo in silenzio.
Sebbene fosse stata Ellen a
trovare la parete mobile, Alexander si muoveva come se avesse la totale
certezza della loro meta, anzi di ogni singola azione da compiere.
Tenendo il
libro aperto su una mano, spinse con l’altra un preciso punto
del passaggio
segreto, aprendolo con un solo tocco, e procedette attraverso una
cripta più grande,
quella che con la sua esistenza doveva prevenire la ricerca di una
seconda
cripta nascosta; salì i gradini di legno fino al piano
superiore e sbucò nel
luogo che intendevano raggiungere.
C’erano dei ceri accesi
lungo la
larga navata, gli stessi che li avevano accolti al piano inferiore e
lungo la
breve scalinata, ma l’interno della Chiesa Occidentale era
vuoto. Non si
arrischiarono comunque ad alzare il tono della voce, temendo che gli
irlandesi
di guardia all’esterno potessero sentirli.
«Guardiamoci in
giro» suggerì
Janet.
La conformazione della chiesa,
semplice ed essenziale a parte le stanze nel seminterrato, precludeva
la
presenza celata degli uomini di Darcus, poiché non avrebbero
avuto una nicchia
o una colonna dietro la quale nascondersi. La navata era comunque
lunga, e fu
solo dopo averne percorsa metà che Alexander
indicò l’altare.
«Là!»
esclamò senza reprimere la
sorpresa.
Aveva visto bene, constatò
Ellen
avvicinandosi in fretta: sull’altare c’era un
libro. Difficile sapere se fosse
quello trafugato alla Miskatonic o il quarto tomo dei McCrindle. Stava
per
scattare in avanti per appurarlo, ma Alexander la fermò.
«Non siamo soli.»
Ci volle qualche momento
perché
tutti si rendessero conto del rumore. Gli unici punti dove sarebbe
stato
possibile occultare la propria presenza erano la cripta, dalla quale
provenivano, e l’altare, che tuttavia era vuoto al centro, e
permetteva perfino
a uno sguardo disattento di notare cosa vi si celasse dietro. Eppure il
rumore
era chiaro, perfino conosciuto.
Il rumore di una mascella al
lavoro.
La consapevolezza raggiunge la
mente di Ellen ancor priva che lei vedesse un piede cadere
dall’alto, di fronte
all'altare, e una forma tentacolare diventasse visibile.
Non era più il momento di
fare
silenzio.
«Sparate!»
esclamò Michael,
esplodendo il primo colpo verso la creatura, che si accorse di loro
soltanto in
quel momento.
Mentre il sangue si espandeva sul
suo corpo mostruoso, da una delle fessure poste lungo i tentacoli
scivolò una
testa umana, che rotolò fino ai piedi di Ellen.
Eddie Leary.
I suoi animaletti vanno sfamati, realizzò lei.
Reprimendo l’orrore e
imprecando
adesso contro l’assenza di nicchie dove nascondersi, si
piegò per prendere
meglio la mira e rilasciò il grilletto. Ciascuno dei
proiettili sparati colpì l’obiettivo,
ma sembrò non scalfirlo. Se a Boston il mostro era stato
debole, perfino
impreparato, ora appariva più grosso e potente, e lo apparve
ancora di più
quando si lanciò verso Ellen. La ragazza lo
schivò all’ultimo momento, quasi
per miracolo, ma per farlo sbatté la spalla contro il
pavimento. La spalla
della mano che reggeva la pistola.
Merda!
Poteva solo correre adesso, a meno
di non imparare all’improvviso a sparare con la sinistra.
Sebbene l’altare non
fornisse granché riparo, fu l’unico punto che le
venne in mente di raggiungere.
Era necessario recuperare il libro, poi potevano andarsene anche senza
liberarsi della creatura.
Eccolo: di forma rettangolare,
spesso e con i bordi della pagine ingiallite. Le mancò un
battito quando
riconobbe le stesse caratteristiche del libro in possesso di Alexander.
Cambiava soltanto la copertina, sulla quale era inciso un titolo da
lì
illeggibile.
Era questo che Darcus voleva a
tutti i costi. E ora potrebbe ottenerne due.
Con un altro sussulto del cuore,
Ellen si rese conto che, sotto il libro, ce n’era un altro.
Li avevano trovati
entrambi.
Allungò il braccio illeso
per
afferrarli, ma una scossa la cacciò via. Questa volta fece
male.
La testa, ora era anche la testa a
tormentarla. Il sonno stava per impadronirsi di lei…
No, non di nuovo.
Si alzò in piedi e corse
lontano
dall’abside, sollevando la pistola in un goffo tentativo di
colpire il mostro,
ma non ci riuscì. Adesso era a Lilyan che puntava, e stava
per calare su di
lei, quando, per la seconda volta nel giro di mezz’ora,
Alexander abbandonò il
proprio corpo.
Non era esatto definire
così ciò
che accadde. Il libro tra le sue mani si aprì da solo, le
pagine vorticarono,
parole in una lingua sconosciuta fluirono dalle labbra
dell’uomo mentre i suoi
contorni sfumavano. Il viso non assunse di nuovo l’aspetto di
un teschio, ma a
Ellen parve di vederlo mutare, trasformarsi in volti diversi, eppure
tanto
simili, come se appartenessero alla stessa famiglia.
I Guardiani.
Al suono della sua voce, le esili
fiamme dei ceri si espansero e si attorcigliarono in aria, avvolgendo
il mostro
che proruppe in uno strillo terribile, angosciante e stridulo, mentre i
suoi
tentacoli si contorcevano e sparivano nel nulla. Per un folle attimo,
Ellen
temette che fosse tornato invisibile; invece era scomparso.
Riprese a respirare, tenendosi la
spalla dolorante, ma non era il momento di rimanere immobili: il fuoco
non
accennava a spegnersi.
«Alexander, fa’
qualcosa!» urlò
Janet.
Era chiaro che non sapesse cosa
fosse accaduto né come fermarlo. Sarebbero potuti fuggire,
ma dovevano prima
recuperare i libri, e forse Alexander era l’unico in grado di
toccarli. Mentre
le travi crollavano, Ellen corse verso di lui, ma fu distratta dalla
porta
d’ingresso a doppio battente che si era appena spalancata. Un
paio di uomini
apparvero dalla soglia, e lei si stava chiedendo cosa avrebbero potuto
fare con
le loro pistole dopo che il Guardiano corrente era riuscito a bandire
un mostro
molto più pericoloso, ma poi i loro visi si contrassero, e
forme squamose
presero il loro posto.
«Non è
possibile» mormorò.
Gli uomini si piegarono, lasciando
che le pinne sulle loro schiene inarcate strappassero i vestiti; ancora
tenevano le pistole, come se dovessero soltanto scegliere come
ucciderli. In
quel momento, però, sembrava che fossero loro, Ellen e i
suoi compagni, a
dovere decidere come morire.
La chiesa stava bruciando, il
tetto crollava e rischiava di intrappolarli prima che riuscissero a
raggiungere
le scale per la cripta, ma quella era la sola via d’uscita
possibile. Però i due
libri da recuperare sarebbero rimasti lì, e allora tutto
quello a cosa sarebbe
servito? Ellen aveva quasi ucciso Janet e Lilyan, si era preparata a
colpire
Michael, e sebbene alla fine si fosse trattato soltanto di una visione
lei
aveva provato quelle sensazioni, le pareva di averlo fatto sul serio,
realmente. Non era solo la considerazione di ciò con cui
avrebbe dovuto fare i
conti d’ora in poi, se fosse sopravvissuta: Darcus ora sapeva
che avevano
scoperto il suo nascondiglio, e che potevano rappresentare davvero un
problema;
avrebbe capito che Alexander era in grado di mettere in pratica gli
incantesimi
dei libri, e…
L’altare.
L’altare stava bruciando, e
così
anche i libri.
«Michael, i
libri!» gridò con
tutta la voce che aveva in gola, cercando di sovrastare i rumori
circostanti.
Lui si voltò e
guardò prima Ellen,
poi l’abside. Fortunatamente, comprese: aprì la
borsa e lanciò i due volumi nel
fuoco.
Meglio perderli per sempre che
permettere a Darcus di metterci le mani sopra.
«Alexander, gettalo nelle
fiamme!»
urlò a sua volta Michael, ma il detective sembrava confuso.
No, non confuso: orripilato
da quella prospettiva.
«È il tuo
compito, Alexander, devi
distruggerlo!»
«No!»
strillò lui in risposta, e
parve non accorgersi della trave che lo aveva appena sfiorato. Non si
accorse
neanche della cenere che gli bruciava i pantaloni. «Devo
tenerlo al sicuro!»
C’era poco tempo per
discutere: la
chiesa non avrebbe retto ancora a lungo e i due mostri, che per fortuna
sembravano detestare le fiamme almeno quanto loro, si stavano
avvicinando cautamente
tra i detriti. Ellen si guardò intorno, avvertendo il tempo
che si muoveva
velocemente, troppo velocemente, e vide Janet raggiungere Alexander e
colpirlo
sulla nuca con il calcio della pistola. Michael si lanciò
per afferrarlo e
trasportarlo via; il libro scivolò dalle mani del Guardiano
e si perse nel
fuoco che esso stesso aveva evocato.
Mentre una terza trave affondava
su uno dei due mostri, una nuova faccia apparve dall’ingresso
della chiesa, una
faccia deformata dall’odio e dal rancore.
Darcus era lì.
***
Non rimasero ad attendere che
facesse la sua mossa.
Ringraziando il tetto che stava
collassando su se stesso, frapponendosi fra loro e Darcus, Ellen e i
suoi
compagni si precipitarono verso le scale, correndo a perdifiato fino
alla
stanza segreta e alla tomba di Goddard. Lilyan non pareva
più terrificata dall’ingresso
al cunicolo: afferrò come Ellen una delle lanterne e si
calò all’interno,
mentre Janet aiutava Michael a sostenere Alexander. La botta che
l’archeologa
gli aveva inferto era stata abbastanza forte da stordirlo, ma
fortunatamente l’uomo
stava già riprendendo i sensi, il che fu di grande aiuto per
scendere lungo le
scale a chiocciola.
Come temendo che l’incendio
potesse propagarsi sottoterra e che il fumo bloccasse i loro polmoni
ancora
prima che le fiamme avvolgessero i corpi, ripresero a correre facendo
attenzione a non sbattere le lanterne a olio contro le strette pareti
di
pietra, esalando in coro un sospiro di sollievo quando arrivarono in
vista dell’uscita;
tuttavia, fu soltanto quando ebbero risistemato la pietra tombale sulla
finta
bara del reverendo Goddard che si permisero di cadere a terra e
respirare di
nuovo. Accanto a lei, Ellen avvertì Lilyan fremere e
piangere in silenzio,
mentre rivolgeva un sorriso appena accennato a Janet, che subito la
cinse in
una stretta traboccante di affetto. Michael e Alexander erano davanti a
loro,
la schiena contro la lapide di una certa Theresa Goddard, nata nel 1756
e morta
chissà quando. Il detective sembrava a disagio,
profondamente perso nei meandri
della sua mente.
Ellen guardò Michael e lui
ricambiò. Si fissarono a lungo, adeguando i propri respiri.
Le punte delle loro
scarpe si toccarono.
«Mi serve una borsa
nuova» disse
infine lei.
Fu la miccia che li fece
scoppiare: il petto di Michael iniziò a sobbalzare, poi una
risata sincera si
fece largo nella cripta, contagiando il resto del gruppo. Lilyan e
Janet ora
piangevano e ridevano insieme, e la stessa Ellen non riuscì
a trattenersi a
lungo; l’allegria parve trasmettersi anche ad Alexander,
finalmente consapevole
che quella era stata la scelta giusta.
Era finita. Più o meno, ma
c’erano
vicini. I quattro libri dei McCrindle, oltre a quello della Miskatonic,
avevano
fatto la stessa fine che il dottor Armitage avrebbe voluto riservare
loro;
forse non era lo scopo dei “Guardiani”, ma che
importava? Darcus non avrebbe
più potuto usarli, e al diavolo la loro tradizione secolare.
Darcus poteva essere ancora vivo,
ma da come Alexander aveva utilizzato una delle copie del libro nero
era chiaro
che fosse quello a donare allo stregone i poteri maggiori: se uno che
aveva
appena scoperto l’esistenza della magia era improvvisamente
in grado di
enunciare la formula di un incantesimo solo perché era di
sangue McCrindle,
cosa poteva fare chi studiava l’occulto da un paio di
decenni? Ellen aveva la
netta sensazione che O’Bannion si sarebbe trovato ben presto
privo non solo dei
suoi bracci destri, ma anche della fortuna che aveva caratterizzato gli
ultimi
giorni, e che Darcus avrebbe atteso prima di attaccarli di nuovo.
Ne ha un altro. Ripensò a Boston, e al
libro che Alexander diceva di
avergli visto consultare mentre evocava il mostro invisibile, e il suo
sorriso
svanì. Ne
ha un altro, ma ci
penseremo domani.
Afferrò la mano che Michael
le
porgeva e si lasciò tirare in piedi. «Andiamo,
meglio tornare a casa.»
Annuì, sentendo le gambe e
la
spalla dolerle, come se la scarica di adrenalina fosse passata e la
realtà
fosse calata su loro con tutti gli acciacchi che avevano riportato, ed
era
appena uscita dalla cripta quando udì un rumore nelle
vicinanze. Si tastò il
fianco in cerca della Colt, che trovò ancora prima di
ricordare che era
incapace di sparare in quelle condizioni, ma i suoi compagni avevano
fatto lo
stesso. Michael si avvicinò.
«Sembra che qualcuno stia
ringhiando» ipotizzò, e aveva ragione: quel rumore
non aveva alcunché in comune
con l’orribile verso prodotto dal mostro invisibile,
né con i suoni degli
anfibi del laboratorio.
«È…
è lo stesso che ho sentito
quando siamo arrivati» mormorò Janet.
Ellen sollevò la lanterna e
intravide delle figure umanoidi muoversi nella loro direzione. Erano
strani,
lenti, ma d’un tratto cominciarono a correre; prima di
lasciar cadere la
lanterna, che si infranse sul terreno bagnato, Ellen notò
soltanto le loro
orribili fauci spalancate.
«Scappate!»
gridò come se ce ne
fosse il bisogno.
Si voltò troppo in fretta e
rischiò di inciampare su una radice sporgente, ma la mano di
Michael la
raggiunse in tempo, strinse la sua e la trascinò il
più lontano possibile,
ripercorrendo la strada dell’andata.
«Se ne usciamo
vivi…» cominciò
Michael, ansimando «…ti compro un
anello.»
Gli rivolse un’occhiata
interrogativa, e non seppe se ringraziarlo per averla spaventata ancora
più
delle creature da cui stavano scappando.
«Un anello
costoso… il più costoso
possibile…»
Arrivarono al muro del cimitero.
La prese tra le braccia e la sollevò in alto, e allora le
dedicò un sorriso
sghembo.
«Non voglio ingabbiarti.
Voglio
solo che tu possa vantarti di avere l’anello più
costoso di tutta Arkham.»
Si arrampicò un attimo
prima che
gli artigli di uno di quegli esseri si chiudessero intorno al suo
polpaccio.
Ellen si guardò intorno:
erano gli
ultimi, ed erano al sicuro. Fissò Michael negli occhi prima
di calarsi entrambi
dal lato esterno del cimitero. «Voglio un diamante da almeno
un cazzo di
carato.»
Michael sorrise, mentre si
riunivano ai compagni e correvano verso French Hill, determinati a
raggiungere
al più presto il riparo di Chateaubriand Manor.
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Capitolo 21 *** Capitolo XXI ***
Capitolo
XXI
Corsero lungo le strade di Arkham
senza curarsi di scegliere vicoli secondari o depistare eventuali
inseguitori:
se Darcus fosse sopravvissuto all’incendio, avrebbe saputo
dove trovarli. Il
loro unico obiettivo, al momento, era rifugiarsi al più
presto tra le mura di
Chateaubriand Manor, dove avrebbero potuto ricaricare le armi e curare
le
ferite, e dove forse – era ancora soltanto
un’ipotesi – Darcus non sarebbe
riuscito a entrare. Grazie all’adrenalina che le scorreva in
corpo, Ellen aveva
dimenticato il dolore alla spalla contusa, ma ormai cominciava a
sentirla di
nuovo. Erano fortunati ad avere un medico tra loro.
Il sudore fece scivolare via la
mano di Michael, eppure continuarono a correre alla stessa
velocità, con il
cuore che rischiava di scoppiare nel petto e il fiato corto,
finché non
arrivarono nel quartiere di French Hill, tra quelle ville che settimane
prima –
le parevano passati anni – aveva reputato di un lusso
ostentato, fredde e
inospitali, e che avevano assunto il significato di sicurezza, calore,
pace.
Quando giunsero alla confortante vista di Chateaubriand Manor, Ellen
tirò un
profondo sospiro di sollievo.
Ce l’avevano fatta.
Quasi non si accorse che Jeremy li
stava attendendo pronto a combattere, il fucile imbracciato che stonava
sulla
livrea stirata a dovere; richiuse la porta non appena furono tutti al
sicuro e
si appostò nuovamente alla finestra. Non disse una parola.
Ellen sentiva i polmoni scoppiare.
Adagiò la schiena contro il muro, ma prima di crollare a
terra ricordò cos’era
avvenuto nel cimitero, fuori dalla cripta, e una scossa di terrore la
costrinse
a rimanere in piedi. Osservò i suoi compagni, ciascuno
provato dalla notte in
maniera differente, con i segni della passeggiata nel cunicolo, del
combattimento nella chiesa, dell’incendio e delle successive
fughe. I pantaloni
di Michael erano lacerati dove gli artigli avevano cercato di
afferrarlo, i
capelli di Janet erano sporchi e appiccicati al volto, Lilyan aveva
rotto uno
stivaletto e zoppicava appena, Alexander aveva una strana luce negli
occhi
cerchiati dalla mancanza di sonno.
Erano vivi.
Michael si mosse verso Lilyan, che
con un cenno del capo gli comunicò che stava bene;
spostò lo sguardo anche su
Alexander e Janet, e solo lei annuì appena. Alexander
permise a Michael di
esaminare la caviglia ustionata, mentre Janet gli procurava degli
stracci
imbevuti nell’acqua fredda ed Ellen saliva in camera a
recuperare la borsa
medica. Passarono circa dieci minuti, durante i quali neppure un gatto
attraversò la strada deserta; un lampione illuminava
direttamente il cancello
di Chateaubriand Manor, attraverso il quale giorni prima una coppia di
genitori
affranti aveva sparato contro di loro. C’era qualcosa di
strano: i due che li
avevano accompagnati erano riusciti a penetrare nel giardino, a
differenza di
Darcus, e perfino a distruggere la vetrata della sala da pranzo; forse
la villa
teneva lontano soltanto coloro che erano dotati di poteri magici. Ma
allora
Alexander…?
Fu distratta dalle dita di Michael
che cercarono le sue. Si indicò la spalla, come se parlare
fosse un’offesa per
il silenzio che era calato dopo le avventure di quella interminabile
notte.
Michael diede una fugace occhiata al livido, ma non parve preoccupato;
senza
lasciarle la mano, la condusse al piano superiore, oltre le scale,
oltre la
porta della stanza, del loro micromondo. Poi si lasciarono andare.
Non si erano spogliati da quando
Michael le aveva confessato la verità sul suo passato,
consapevoli entrambi di
dovere elaborare sia quella storia, che quanto accaduto tra loro e
Janet. Al
momento però un fuoco stava divampando nei loro corpi,
devastante quanto le
fiamme nella Chiesa Occidentale: era passione, sollievo, adrenalina,
era il
sangue che di nuovo sentivano scorrere nelle vene; era il pensiero di
ciò che
avevano subìto, la morte che avevano scampato ripetutamente
nel giro di poche
ore. Avevano bisogno di sentire la pelle l’una
dell’altro, accertarsi che
fossero vivi e respirassero ancora. Conoscevano un solo modo per
comunicarsi
l’euforia che stavano provando, e lo fecero senza
più preoccuparsi di fare
rumore.
Quando infine Michael la fece
stendere sul letto, Ellen incontrò i suoi occhi e vi lesse
di nuovo quel
rancore verso se stesso.
«Ellen…»
«No» lo
interruppe. Avrebbe voluto
chiudere lì il discorso, ma temeva che avrebbe frainteso.
«Te lo dirò soltanto
una volta: hai… avresti fatto
ciò che andava fatto. Non
provare rimorso.»
«Il mio compito è
proteggerti.»
Ci sei riuscito, e neanche te ne
sei accorto.
«Se dovesse accadere di
nuovo,
agisci nello stesso modo. Lo farò
anch’io» concluse. Sospirò in maniera
plateale, in modo da allentare la tensione. «Però,
maledizione… due proiettili
su due andati a segno. Capisco te, sei stato in guerra, ma io? Questa
è sfiga.»
Michael scoppiò a ridere e
si
sdraiò su di lei. Si attorcigliò una ciocca rossa
fra le dita, prima di
baciarla ancora, e ancora. Quando infine, per la seconda volta, si
furono
lasciati andare, Michael posò le labbra
sull’addome di Ellen, nel punto in cui
il proiettile avrebbe dovuto colpirla. Allora Ellen ignorava che quel
gesto
sarebbe stato destinato a ripetersi, ogni notte, ogni volta che Michael
avesse
giaciuto in lei.
***
«Buongiorno.»
Il tono piccato di Lilyan li
accolse nella sala da pranzo dove stavano facendo colazione. Ellen era
ancora
intontita dal sonno, dal momento che lei e Michael avevano passato
svegli la
maggior parte della notte – perlomeno quella che non si era
svolta fra cripte
di famiglia e chiese sconsacrate. Dall’occhiata gelida che
Lilyan rivolse loro,
Ellen ebbe la conferma che si erano fatti udire. Si strinse nelle
spalle,
fingendo noncuranza, mentre Alexander nascondeva un volto imbarazzato
dietro l’Arkham
Gazette del dieci novembre.
Neanche fosse stato lui a farmi
urlare.
Prese posto accanto a Janet e
afferrò senza tante cerimonie un paio di fette di torta al
cioccolato,
ammiccando a Jeremy: ormai il maggiordomo conosceva a memoria i gusti
dei suoi
ospiti. Lilyan sedeva a capotavola, di fronte a un semplice croissant e
a un
bicchiere di latte freddo, perché la mattina faticava a
mettere in moto il
metabolismo. L’uno di fronte all’altra, Michael e
Janet si dividevano invece
una colazione salata, riempiendo i propri piatti con uova strapazzate,
bacon e
pane bianco. Cambiavano soltanto le bevande che si portavano alle
labbra:
Michael una tazza di caffè amaro e Janet un tè
nero macchiato con un goccio di
latte. Alexander aveva già mangiato, ma si stava concedendo
un secondo caffè.
Davanti a lui, il posto di Ellen traboccava di leccornie, come se non
fosse mai
sazia; erano tutti dolci, e tutti rigorosamente al cioccolato. Come
ogni
mattina, osservandola assalire la torta, Michael sbuffò e
scosse la testa.
«Parlano
dell’incendio?» chiese
poi ad Alexander.
Era una domanda retorica: la prima
pagina del quotidiano era dominata dalla fotografia dei resti della
Chiesa
Occidentale. Rimaneva ben poco della struttura originale, tuttavia
Ellen
credeva che avrebbe avuto lo stesso aspetto seppure il fuoco divampato
non
fosse stato magico.
“Magico”: ecco
come ragione
adesso. Fottuti McCrindle e i loro libri del cazzo.
«Cosa dicono?»
insistette Michael.
«Vandali»
ipotizzò Ellen,
ripensando alla scusa preferita del decano Miller.
Alexander mise il giornale al
centro del tavolo. «Fingono di ignorare a chi appartenesse la
chiesa. Parlando
di “edificio storico”, “grossa perdita
per il quartiere”… ma per cosa è famosa
Arkham?»
«Anfibi giganti?»
ipotizzò Ellen.
«Gangster con pessime scelte
edilizie?» rincarò la dose Lilyan. Si guardarono,
scambiandosi un fugace
sorriso – se la smorfia di Ellen poteva essere definita tale.
Alexander sospirò, ma
sembrava
divertito. «La Miskatonic Library. Quando è stata
depredata, l’articolo non è
finito in prima pagina, eppure l’incendio doloso di una
chiesa abbandonata sì.
La Gazette sa chi
la possedeva e forse O’Bannion
vuole mandare un messaggio.»
«Quanti morti?»
Janet aveva posto la domanda
cruciale. Fissò Alexander, che alla fine rispose:
«Quattro.»
Ellen non si era resa conto di
trattenere il fiato. Inghiottì il boccone e riprese a
respirare.
«Quindi…
è morto.»
«Non lo so. Spero di
sì, ma è
presto per cantare vittoria.»
«Presto?»
esclamò Lilyan, saltando
in piedi. Sprizzava felicità da tutti i pori.
«Abbiamo distrutto tutti i libri,
e Darcus è
morto. Siamo
salvi.»
«Ne manca uno. Il libro che
Darcus
ha usato per invocare il mostro a Boston… Deve avercelo
ancora. Ellen ha detto
di averne visti due sull’altare.»
«Ed è difficile
che si sia
separato da tutti e tre i volumi in suo possesso» aggiunse
lei masticando
avidamente.
«Ma è
morto» ripeté Lilyan.
«Abbiamo visto quattro
persone…
beh, quattro possibili cadaveri nella chiesa»
cercò di farla ragionare
Alexander, sebbene apparisse terrorizzato all’idea di
deluderla un’altra volta.
«Poteva esserci un irlandese che non avevamo
visto… No, ti prego, lasciami
finire: voglio solo dire che dobbiamo fare attenzione. Aspettiamo un
giorno o
due. Facciamo dei turni, diamo il cambio a Jeremy, cerchiamo di essere
prudenti. E, soprattutto, non usciamo di casa. Due giorni, e poi
riesamineremo
la situazione.»
***
Ellen mosse la mano, rimirando la
novità che aveva infilato all’indice destro. Non
sapeva se la posizione avesse
un qualche significato, ma lo aveva ritenuto il dito più
comodo per il suo
sfavillante anello di diamanti.
«Ti piace?»
«Che razza di domanda.
L’ho scelto
io.»
«Volevo solo sapere se ti
sentissi
soddisfatta.»
«Mh-mh. Un giorno
potrò venderlo e
farci un mucchio di soldi.»
Michael le scompigliò i
capelli.
«Forza, torniamo a casa prima che diano di matto.»
Nonostante il discorso di
Alexander, erano sgattaiolati fuori nemmeno un’ora dopo,
perché Michael
ripeteva di “volere adempiere al proprio dovere”,
che una promessa era una
promessa e tutto il resto; Ellen era abbastanza certa che avrebbero
potuto
chiamare un gioielliere per chiedergli di recarsi a Chateaubriand
Manor, portando
con sé un campionario, però Michael aveva
insistito. Sembrava incapace di
starsene buono ad aspettare che passassero quei due giorni, e aveva
approfittato del turno di Janet e Alexander per uscire
all’aperto, conscio che,
secondo i loro compagni, dovevano essersi chiusi di nuovo in camera da
letto.
Era una prospettiva allettante, soprattutto perché Ellen non
smetteva di
sbadigliare, ma era curiosa di scoprire se Michael le avrebbe davvero
comprato
un anello di diamanti.
L’aveva fatto eccome.
Che strano: dormiva con un uomo
più grande di lei, abitava in una magione con mobili di gran
pregio e ora
poteva perfino sfoggiare un gioiello completamente inutile. Si sentiva
diversa,
e non era certa che le dispiacesse. Si accarezzò
sovrappensiero la spalla
destra, reprimendo un gemito, e di colpo le parve di tornare alla
realtà.
Lusso, comodità, compagnia… faceva tutto parte di
un unico pacchetto che
comprendeva anche incantesimi oscuri e rischi mortali.
«Ti fa ancora
male?»
«No, solo se la tocco.
Riesco a
muovere il braccio meglio di stanotte.»
«Bene.»
Ellen guardò Michael e lo
vide
teso; la mano era all’altezza della cintura, dove nascondeva
la pistola, e d’istinto
lei stessa cercò la sua. Intorno a loro, tutto scorreva
tranquillo, ma la
prudenza non era mai troppa.
«Hai sentito
Logan?» Il tono di
Michael era cambiato; si era fatto serio, circospetto.
«Notizie degli
irlandesi?»
«No, ma è il
momento migliore per
starsene buoni. Qualcuno ha fatto saltare una proprietà di
O’Bannion e
ammazzato Leary, e forse anche il finto Sills, dunque lui
sarà sul piede di
guerra, pronto ad azzannare i primi sospetti. Se la prenderà
con i Rocks, nel
Southside, ed è meglio per Marco tenere i suoi ragazzi fuori
dal mirino. Sono
pur sempre italiani, e uno dei Rocks è suo
fratello.»
«O’Bannion
però non sa perché
Sills volesse la chiesa.»
«Non cambia niente,
è comunque
sull’attenti. E poi se Sills… se Darcus fosse
ancora vivo, è ugualmente meglio
per Logan e Nanny tenersi alla larga da noi. Darcus potrebbe usarli per
farci
uscire allo scoperto. In entrambi i casi, avranno intuito che
c’entriamo
qualcosa con l’incendio, e se ne staranno buoni.»
«Il tuo amico mi sembra un
tipo
prudente.»
«Marco? Sì, lo
è. Quando facevo
parte del loro gruppo, Marco era uno dei “grandi”,
se così si può dire, e
avevamo dei coetanei. Crescendo però hanno scelto altre
strade, mentre i
bambini sono aumentati.» Ellen sospirò.
«Quelli non diminuiscono mai.»
«Soprattutto se le altre
strade…»
«Già. Sospetto
che anche la madre
di Logan e Nanny si prostituisse, ma non ho mai voluto chiederlo a
Marco. Ogni
persona che lascia il gruppo è un tasto dolente. Credo di
essere stata la prima
ad avere migliorato la propria situazione.»
«Perché hai
scelto Biologia?»
«Curiosità. Mi
piace sapere come
funziona la natura, e anche il corpo umano non è male. Ho
dato un paio di esami
di Medicina.»
«La mente non ti
interessa?»
«Il corpo va in un unico
modo,
quando è sano. La mente è
imperscrutabile.»
«Sono d’accordo,
ma trovo
stimolante studiarla. Sai, a Salisburgo ho conosciuto questo
medico…»
«Dove diavolo siete
stati?!»
Erano talmente persi nella
conversazione da ignorare di avere raggiunto Chateaubriand Manor, e
anche di
avere attraversato il giardino della villa sotto gli occhi sbigottiti
di Janet.
Sul dondolo, Alexander fumava, indifferente, come se si fosse aspettato
che ne
avrebbero combinata una delle loro, mentre Janet stava dando di matto,
le
guance paonazze e la voce più acuta del normale. Ellen stava
per scusarsi di
averla allarmata, ma Michael fu più rapido:
afferrò la sua mano destra e la
portò davanti al viso di Janet.
«Le ho fatto un regalo. Se
lo
meritava, non trovi?»
Tutta la situazione era
paradossale; Ellen tirò via il braccio e superò
la soglia sotto lo sguardo
sbigottito di Janet. Lilyan era all’interno, nel salotto, e
si affacciò quando
udì le loro voci.
«Che succe…?
Eravate usciti?»
Si era liberata del fiocco rosa
dopo che la notte precedente aveva rischiato di bruciarlo; ora il suo
nuovo
portafortuna era diventato un ciondolo a forma di croce, che spiccava
sul suo
abito da casa.
«Ora sono ricca
anch’io» si limitò
a spiegare Ellen. Voleva cercare se in cucina fosse avanzata una fetta
di torta.
Aveva appena superato l’ingresso, quando
un’esplosione la gettò a terra.
Un fischio lungo e monotono
penetrò nei suoi timpani, mentre le palpebre cercavano di
rimanere aperte. C’era
polvere ovunque, e dove fino a un attimo prima si era eretta una parete
Ellen vide
solo macerie. Qualunque cosa fosse esplosa, l’aveva fatto a
pochi passi da lei.
Tentò di mettersi in piedi per controllare la situazione, e
la mano destra già
si stava muovendo verso la pistola, ma uno stivale le bloccò
il polso. L’urlo
uscì muto dalla sua bocca; qualcuno le cinse le braccia
dietro la schiena, stringendo
il polso dolorante all’altro in un nodo stretto.
Fu il suo assalitore a farla
rialzare, spingendola contro la parete della cucina per evitare che
cadesse.
Ellen ne approfittò per guardarsi intorno: la parete ovest
dell’ingresso era
scomparsa e una nube di polvere si stava finalmente abbassando,
permettendole
di vedere meglio. Uomini coperti da capo a piedi li stavano radunando
in
giardino, le mani strette attorno a fucili più elaborati di
quello a due canne
di Jeremy.
Jeremy…
Per fortuna il maggiordomo era
uscito prima di loro, e avrebbe potuto chiamare aiuto. La polizia
sarebbe
intervenuta, e loro sarebbero… sarebbero…
Perché non li avevano
ancora
uccisi?
Vide Alexander, privo di sensi,
scagliato nei sedili posteriori di un’auto, mentre
dall’altro lato Michael veniva
costretto a salire. Stava aprendo la bocca, urlava qualcosa, ma il
fischio le
impediva di udirlo. Anche lei fu spinta all’interno di una
seconda automobile,
accanto a Janet e Lilyan. Non erano ferite, sembrava che fosse stata
Ellen
quella più vicina all’esplosione, ma erano turbate
e spaventate. Solo quando le
portiere si richiusero i rumori cominciarono a tornare.
«Mandatela
giù.»
Aveva parlato l’uomo al
volante.
Teneva sul palmo aperto tre pasticche, che nessuna di loro avrebbe
ingerito se
il compagno sul sedile del passeggero non le stesse tenendo sotto tiro
con una
pistola. Titubante, Ellen ne prese una e cercò di
nasconderla sotto la lingua.
Il suo imbrogliò durò poco: il rapitore al
volante le coprì bocca e naso,
costringendola a inghiottire.
Poi il mondo sparì.
***
Il polso le faceva dannatamente
male, ma non era stato quello a svegliarla. Qualcuno la stava scuotendo.
«Ellie! Ellie!»
Dischiuse piano le palpebre. La
luce fioca non le dava fastidio, tuttavia gli occhi stentavano ad
aprirsi.
Quando infine riuscirono a mettere a fuoco l’ambiente
circostante, riconobbero
l’espressione angosciata di Janet. Alle sue spalle, Alexander
stava facendo
delicatamente rinvenire Lilyan, mentre Michael premeva una mano contro
la
fronte. Si trovavano in un luogo a lei ignoto, ma non serviva esserci
stati in
passato per comprendere cosa fosse: una cella.
Era più larga della stanza
di
Darcus, eppure allo stesso modo priva di fonti di luci diverse dalla
lampada
sul soffitto; la porta di ferro era serrata e con tutta
probabilità chiusa a
chiave, perché i loro polsi non erano più legati.
C’erano solo due panche di
legno su cui sdraiarsi, ma i loro carcerieri non si erano dati disturbo
e li
avevano mollati sul pavimento. Ciò che colpì di
più Ellen, però, fu constatare
che ogni singola parte di quella cella pareva nuova di zecca, ben
tenuta e
pulita. Gli irlandesi non disponevano di luoghi simili ad Arkham. Che
li
avessero portati in una proprietà fuori città, in
una qualche parte sperduta
della Miskatonic Valley? Forse Sills aveva acquistato un edificio
appena
costruito e aveva mandato gli scagnozzi di O’Bannion a
occuparsi di loro…
Tossì e si accorse di avere
la
gola secca. Da quanto tempo erano rinchiusi lì dentro?
Quanto lontano li
avevano condotti fuori da Arkham?
Alla sua desta, udì lo
stridore
del metallo contro il pavimento di pietra. Janet si strinse a lei, ma
Ellen non
le prese la mano: chiunque si fossero trovati davanti –
perfino lo stesso
Darcus – non si sarebbero mostrate deboli. Sollevò
il mento e puntò gli occhi
sulla soglia, aspettando di vedere la figura slanciata di Bobby Sills,
gli
abiti di alta sartoria e la fila di lentiggini che percorreva il suo
naso a
punta.
Quella, però, era una
giornata
carica di sorprese.
L’uomo non era Sills
– non poteva
esserlo in alcun modo, a meno che Darcus non avesse cambiato
travestimento. Era
alto sei piedi, massiccio, con spalle tanto larghe che avrebbe avuto
difficoltà
a passare dalla porta. La luce della lampada le permise di scorgere le
tre
profonde cicatrici che gli attraversavano il volto di roccia. Era una
figura
minacciosa, ma non fu il suo aspetto fisico a spaventarla,
bensì la divisa.
Era un generale
dell’esercito statunitense.
Settimane prima, allo Science Lab,
Michael le aveva insegnato a riconoscere i gradi di un generale;
l’uomo che li
stava fissando dall’alto in basso era un’altra
persona, ma i gradi
coincidevano. La mimetica gli fasciava il corpo mettendo in risalto il
petto e
le gambe compatte, e nonostante il taglio militare e la barba rasata
nascondessero la sua età, era possibile immaginarla intorno
ai quaranta anni,
grazie alle rughe che solcavano la sua fronte. Quando infine
parlò, Ellen capì
che lo sconosciuto non avrebbe mai accettato compromessi.
«Lui.»
Al suo ordine, due soldati lo
superarono per afferrare le braccia di Alexander e trascinarlo in
piedi. In un
altro contesto, circondati dai gangster di O’Bannion o dai
mostri di Darcus,
tutti loro avrebbero agito, ma la situazione era talmente imprevista da
costringerli a rimanere a terra, osservando Alexander che veniva
portato via
senza opporre resistenza, e la porta richiusa con lo stridore metallico
che
echeggiò nelle loro orecchie.
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Capitolo 22 *** Capitolo XXII ***
Capitolo
XXII
Lo stupore lasciò il posto
alla
rabbia quando Alexander tornò in cella.
Difficile dire quanto tempo fosse
passato, senza un orologio o la luce del sole a fornire indicazioni; la
compagnia dell’ansia rallentava lo scorrere dei minuti.
Avevano scambiato poche
parole, per lo più sussurrate, e a parlare erano state
soltanto Ellen e Janet:
avevano cercato di analizzare la situazione ricordando quanto accaduto
a
ottobre alla Miskatonic University, il giorno in cui
l’esercito si era
presentato al Campus per togliere loro la ricerca sulla carcassa. Ellen
le
aveva raccontato ancora una volta dei militari incaricati di setacciare
l’ufficio
della Baker e la sua camera nell’Upton Hall; quanto accaduto
in seguito con
Masters e Darcus le aveva fatto scordare l’inquietudine della
professoressa di
Biologia Animale, che era stata depredata di tutto il proprio lavoro e
inviata
in fretta e furia a partecipare a una spedizione fuori dal continente.
Gli
indizi raccolti nel corso delle loro indagini li avevano persuasi che
la
carcassa e le sue uova fossero state in qualche modo evocate da Darcus,
dunque
era sullo stregone che avrebbero dovuto concentrarsi, ma in tal modo
avevano
del tutto ignorato la presenza dell’esercito.
Mentre Ellen e Janet avevano
cercato di mettere insieme i pezzi, Lilyan era rimasta immobile,
pallida e
confusa, con lo sguardo rivolto alla porta in attesa del ritorno di
Alexander,
ma era stato il comportamento di Michael a dare a Ellen un cattivo
presagio: le
aveva ascoltate in silenzio, senza annuire o fornire la propria
opinione,
limitandosi a fissarle con espressione cupa e assorta.
Quando Alexander fu gettato
nuovamente nella cella, Ellen comprese che Michael era stato il solo a
intuire
in che guaio fossero.
Lo lanciarono a terra senza
curarsi del suo stato, e Alexander era tanto intontito che fu solo il
rapido
intervento di Michael a impedire che sbattesse il naso contro il
pavimento.
Prima che potessero controllare il suo stato fisico, il generale aveva
parlato
di nuovo, indicando Janet.
«Ora è il suo
turno.»
Ellen scattò in piedi, ma
fu
raggelata dagli occhi scuri di Michael. Rimase immobile mentre Janet
veniva
trasportata via con maggiore cura da parte dei soldati; si
girò verso Ellen e
lei la vide pallida, confusa, spaventata.
La porta si richiuse ed entrambe
le donne si mossero verso Alexander. Aveva un livido
all’altezza dello zigomo
sinistro e molti altri dovevano esserci lungo il corpo,
perché si lamentava a
ogni tocco leggero di Michael. Non c’era niente di rotto, ma
era stato
picchiato mentre il sonnifero scorreva ancora nel suo sangue,
impedendogli di
agire. O forse gli era stato impossibile difendersi?
Per fortuna, era in grado di
parlare.
«Vogliono…
vogliono sapere… dei
libri…» mugugnò, asciugandosi il sangue
che sgorgava dal taglio sul labbro.
«Quindi sono gli stessi del
Campus» rifletté Ellen. «Se cercano i
libri, significa che sanno di Darcus, e
che sono collegati ai mostri del fiume.»
«Non… non ne ho
idea… Ma non vanno
per il sottile…»
«Cosa gli hai
detto?»
Alexander guardò prima lei,
poi il
punto in cui fino a poco prima si trovava Janet, e la risposta le fu
chiara.
Nei minuti successivi, il terrore
per ciò che in quel momento stava subendo Janet le
impedì di capire cosa stesse
accadendo, chi fossero quei soldati e cosa li avesse condotti a loro,
perfino
in che modo fossero riusciti a irrompere dentro Chateaubriand Manor.
Ancora una
volta non seppe quanto tempo fosse passato dal rientro di Alexander a
quello di
Janet, ma le sembrò meno del precedente.
L’archeologa era scossa, eppure era in
buone condizioni: non l’avevano toccata.
«Lei.»
I due militari si avvicinarono a
Ellen, e Michael fece appena in tempo a stringerle la mano. Non la
stava
rassicurando, ma le ripeteva il significato dello sguardo che le aveva
rivolto
quando avevano prelevato Janet: non
fare cazzate.
La condussero lungo un corridoio
appena più luminoso, e dalle finestre Ellen vide che si
trovavano in aperta
campagna. I soldati la scortarono senza toccarla, probabilmente
perché lei si
stava mostrando collaborativa, ma la sua testa stava cercando un modo
per
pugnalare la schiena del generale che li precedeva. Le avevano tolto la
pistola, lasciandole soltanto gli abiti che indossava e il nuovo anello
di
diamanti, che in quel contesto stonava molto più del fiocco
rosa di Lilyan nelle
fogne. Svoltarono solo un paio di angoli prima di raggiungere una
stanza poco
più grande della cella, un tavolo al centro e due sedie di
fronte a ciascuno
dei lati più lunghi. Era scarna, ma con breve spazio di
manovra: perfetta per
farla sentire in trappola. I soldati attesero che si sedette, poi
uscirono,
lasciandola sola con il generale. Lui rimase in piedi.
«Dove sono i
libri?» esordì senza
tante cerimonie.
Ellen si morse la lingua: avrebbe
voluto rispondergli con una frase tagliente, o fingendo di non capire,
ma non
serviva il tacito avvertimento di Michael per comprendere che doveva
fare
attenzione.
«Quanti ne
possedete?» proseguì il
generale. La fissava negli occhi, ed Ellen non riusciva a distogliere i
propri
dalle tre cicatrici: che fosse stato un mostro a infliggergliele?
Silenzio.
«Avete dato fuoco alla
Chiesa
Occidentale?»
La terza domanda la sorprese:
dunque l’esercito lo sapeva già. Se erano in
possesso di quelle informazioni,
perché se le stavano prendendo con loro invece di occuparsi
di Darcus?
Quando Ellen si rifiutò
ancora di
rispondere, il generale si sedette e avvicinò la pila di
fascicoli sul tavolo;
la scrutò per un secondo prima di sceglierne uno, aprirlo e
sfogliarlo
lentamente.
«Signorina Lawlier, Ellen.
Non
siete sposata.» Era un’affermazione più
che una domanda. «Quattro anni fa,
siete entrata alla facoltà di Biologia della Miskatonic
University di Arkham.
Qui c’è il vostro certificato di nascita, oltre
agli attestati degli studi
pregressi.»
Stava per dirle che non credeva
nemmeno a uno di quei documenti, ne era certa; eppure la sorprese di
nuovo.
«Perché una
studentessa
universitaria abita a casa del defunto Arcivescovo Giraud Des
Chateaubriand?»
«Perché mi avete
fottuto la
stanza.»
Ecco fatto, alla fine si era
lasciata provocare. Non erano state le parole del generale a
infastidirla, ma
quello che aveva fatto ad Alexander; era inutile fingersi una brava
persona se
si era disposti a torturare qualcuno per ottenere risposte.
Il generale alzò lo sguardo
su di
lei e la osservò in silenzio, poi riprese a leggere.
«Voi, la dottoressa Holmes e
il
dottor Fauerbach facevate parte del gruppo incaricato di indagare sulla
creatura del Miskatonic River.» Non aveva provato a negare la
sua connessione
con i soldati che le avevano scandagliato la camera del dormitorio.
«Cosa avete
scoperto?»
«Lo sapete
già.»
«Non avete investigato oltre
dopo
che il vostro gruppo è stato sciolto?»
«Non avevamo i mezzi per
farlo.»
«Capisco.» Tacque
in momento,
chiuse il fascicolo e la fissò di nuovo. «Dove
sono i libri?»
«Cazzi nostri.»
Il pugno le raggiunse lo zigomo
prima che potesse accorgersi che il generale si era mosso. Sapeva che
avrebbe
usato le maniere forti, ma non all’improvviso. Gli occhi si
offuscarono; mentre
cercava di mettere a fuoco il tavolo, il militare si alzò e
la raggiunse,
sollevandola per il bavero. Non disse nulla, la osservò e
basta, e lei si sentì
piccola e indifesa.
Poteva combattere le creature
mostruose, ma non i veri mostri.
No, basta, non sono più una
bambina.
Gli sputò in faccia. Il
generale
strizzò gli occhi, poi le sue iridi divennero infuocate. La
spinse a terra e le
tirò un calcio al ventre, poi sul fianco, poi alla schiena;
lei si rotolava
cercando di evitarli, ma senza successo. Quando lo stivale rinforzato
calò per
la quarta volta sul suo busto, avvertì qualcosa incrinarsi e
rimase senza
fiato.
«Qui ho fatto.»
Il militare aveva parlato rivolto
agli uomini che attendevano nel corridoio, e che la afferrarono sotto
le
ascelle per riportarla in cella. Si sentiva stordita, era sul punto di
svenire,
eppure si costrinse a resistere. Fu inutile, perché quando
Michael vide le sue
condizioni serrò la mascella e i pugni, ed Ellen seppe che
il suo sguardo di
ammonimento non sarebbe servito a niente.
«Tocca a lui.»
Lo osservò uscire prima di
perdere
i sensi.
***
«Ahi…»
«Scusa, faccio
più piano…»
Era stata Janet a farla rinvenire.
Ellen era rimasta svenuta solo qualche secondo, si sentiva ancora
stordita. La
sua amica si stava dedicando ad asciugarle il sangue che sgorgava dallo
zigomo
quando la porta della cella si aprì per l’ennesima
volta: Michael fu gettato
all’interno proprio come Alexander, ma sembrava messo molto
peggio di lui.
«Lei.»
Il generale era sulla soglia, come
sempre, e il fuoco nei suoi occhi era addirittura cresciuto durante
l’interrogatorio
di Michael, perché fissava Lilyan con
un’ostilità tale che Ellen ebbe timore per
lei. La ragazza però non si fece spaventare: pur pallida in
viso, si mosse
verso il militare con la schiena dritta e l’espressione
risoluta.
Soltanto quando fu uscita Ellen si
riscosse e si portò verso Michael, che si mordeva la lingua
per reprimere il
dolore; lei stessa soffriva ancora, ma aveva bisogno di controllare il
suo
stato. Non c’era sangue, e questo fu un sollievo, eppure la
manica sinistra
della sua giacca era lacerata e tutti gli abiti erano stropicciati,
sporchi e
ormai da buttare. I lividi sulla pelle esposta erano così
tanti che Ellen si
rifiutò di contarli.
«Michael…»
«Sto alla grande,
ragazzina…» mormorò
lui, ma stentava a pronunciare bene le parole. Tossì.
«Qualche calcio, un paio
di schiaffi… Ho subìto torture
peggiori…»
«Fammi
controllare.»
«No… non serve.
Sono solo lividi,
passeranno. Non sono un bel vedere, ma…»
azzardò una risata che si spense in un
attimo. «Tu come ti senti?»
La pelle di Ellen era sempre stata
molto chiara, tuttavia in quel momento era certa che fosse addirittura
cerea;
si stava costringendo a restare lucida. «Sto… sto
bene.» Era meno convincente
di Michael.
Lui la osservò con cura,
soppesando il taglio sullo zigomo: il generale aveva colpito con tanta
forza da
farla sanguinare. Le doleva, ma era stato il suo ultimo calcio a farla
svenire
e a darle ancora noie. Michael si mise dritto con la schiena al muro,
senza rialzarsi,
e le passò le dita sul corpo come aveva fatto prima con
Alexander.
«No…
no» tentò di fermarlo Ellen.
«Devi pensare alle tue…»
«Sono lividi, ho
detto… Fammi dare
un’occhiata…»
Fece scivolare le mani sotto i
suoi abiti con estrema delicatezza, e a Ellen venne il dubbio che
avesse
passato l’interrogatorio a fremere per quel momento.
Michael si stupì dei segni
sul suo
corpo e ancora di più dell’ematoma che correva sul
fianco destro, dove lo
stivale le aveva procurare il maggiore dolore; quando Michael lo
toccò, una
fitta la percorse facendola gemere. Si era accorta di avere
difficoltà
respiratorie e ora, osservando la fronte corrucciata di Michael, ebbe
la
certezza della diagnosi che si era fatta.
«Potresti avere un paio di
costole
incrinate» disse infatti il medico. «Non riesco a
capire quante, ma non
sembrano essere fratturate… Hai mal di testa?
Vertigini?» Stentava ancora a
parlare normalmente, tuttavia la preoccupazione per lei lo stava
tenendo
impegnato.
Ellen scosse la testa.
«Come te le ha
fatte?»
«Secondo te?»
Michael fece una smorfia priva di
gioia. «Almeno hai ancora la tua grinta.»
In quel momento la porta si
aprì
di nuovo e, finalmente, si richiuse senza che uno di loro venisse
portato via.
Lilyan rientrò illesa, a eccezione della chioma disordinata,
ma il volto era rosso
di rabbia.
«Cos’è
successo?» le chiese
Alexander, rintanato in un angolo con Janet. L’archeologa si
stava dedicando
alle sue ferite, conscia che ormai Michael avrebbe prestato attenzioni
soltanto
a Ellen.
«Non ho detto
niente» replicò
infastidita Lilyan, incrociando le braccia al petto e sedendosi su una
delle
panche di legno; gli altri erano troppo doloranti per riuscire a
spostarsi da
terra, e Janet troppo empatica nei loro confronti. Lilyan parve
accorgersi del
tono brusco con cui aveva risposto ad Alexander, e di non essere
più nella
stanza degli interrogatori. «Mi ha… mi ha chiesto
dei libri. Sapeva della
chiesa, delle creature che abbiamo trovato sul fiume, di… di
Giraud…» Si
interruppe, voltandosi di scatto per nascondere gli occhi lucidi.
«Ha alzato le mani su di
te?»
«No. Non… non
proprio. Mi ha preso
per i capelli, ma non mi ha picchiata.»
Era la risposta che Alexander non
avrebbe voluto ricevere, ed Ellen avvertì la nausea udendo
quelle parole.
«Mi ha solo afferrato la
testa,
non mi ha fatto del male» le ricordò una voce
femminile.
Sapeva che Lilyan voleva minimizzare l’accaduto dopo che lei,
Michael e
Alexander erano rientrati coperti da sangue e contusioni, ma avrebbe
tanto
desiderato che non scegliesse quelle parole.
«Nessuno di noi ha
parlato» disse
Michael. Come le parole del generale, più che una domanda
era un’affermazione:
Janet era l’unica davvero illesa, ma era anche la
più leale. «Qualcosa però gli
abbiamo detto. Dobbiamo uniformare le nostre risposte.»
«Mi ha chiesto se fossi
Alexander
McCrindle e se facessi l’investigatore privato, ma mi sono
rifiutato di dire
altro.»
«Anche a me hanno chiesto
conferma
del nome e del mestiere, ma non hanno granché qui negli
Stati Uniti.»
«Io ho parlato…
per un po’. Ho
confermato che noi tre facevamo parte dell’equipe del decano
Miller, ma che abbiamo
smesso di indagare quando il lavoro ci è stato
revocato.»
«Ellen qualcosa ha
detto» esclamò
d’un tratto Lilyan. Non era un’accusa; nella sua
voce Ellen colse qualcosa di
simile all’ammirazione. «Io mi sono rifiutata di
rispondere, e mi ha tirato i
capelli. Quindi tu devi averlo insultato.»
«Gli ho sputato in
faccia» rispose
lei con orgoglio. Per la seconda volta in quella lunghissima giornata,
le due
donne si scambiarono un sorriso.
A differenza di Lilyan, Michael
non parve approvare il suo comportamento. Il suo tono era duro mentre
chiedeva:
«Qualcuno ha parlato dei libri?»
Scossero tutti la testa.
«Avete finto di non sapere
della
loro esistenza?»
Un attimo di esitazione, poi il
movimento si ripeté.
«Bene, almeno non sembriamo
degli
sprovveduti. E adesso scusatemi, ma… credo dovremmo
riposare. Ne riparleremo
più tardi.»
Ellen era felice che lo avesse
detto: stentava a rimanere concentrata sulla discussione, con quel
dolore
martellante al fianco. Michael le passò una mano dietro la
schiena e la attirò
sul proprio petto.
«Dormi» le
sussurrò.
Lei si lasciò cullare dal
suo
respiro, fino a perdere conoscenza. Le voci nella cella continuarono a
rincorrersi, senza che Ellen si rendesse conto di udirle sul serio o di
immaginarle soltanto.
«Janet… puoi
venire un momento?»
«Sì, cosa ti
serve?»
«Puoi… puoi
strapparmi la manica?
Ecco… questa, sì… Fa’
piano…»
«Michael, ma stai
sanguinando!»
«Sh, non
svegliarla… Ha delle
costole incrinate, deve… deve riposare… Per
favore, puoi… puoi farmi una
fasciatura?»
«Cosa… cosa ti ha
fatto?»
«Il bastardo…
aveva un coltello da
caccia… L’ho fatto incazzare…»
«Non devi rischiare,
Michael…»
«Gli serviamo, non mi
avrebbe… ahi…
ucciso…»
«Così va bene?
Vorrei
disinfettarla, ma…»
«È
l’ultimo dei nostri problemi… e
te lo dice un medico…»
«Perché non ti
sdrai? C’è l’altra
panca, hai bisogno di riposare.»
«Questa è la
prima volta… che
Ellen mi si addormenta addosso… Non farmi perdere
l’occasione di rinfacciarglielo…»
La risata di Michael fu
l’ultimo
suono. Quando il rumore metallico li destò, Ellen non seppe
di nuovo dire
quanto tempo fosse passato.
***
L’interrogatorio riprese al
loro
risveglio, e si stava dimostrando più complicato del
precedente. Venivano
prelevati a rotazione, senza pause, e potevano stare via una manciata
di minuti
oppure un’intera ora; Michael, già debilitato
dalle precedenti torture, aveva
perso i sensi ed era stato spostato in un’altra stanza, sotto
la sorveglianza
di un quarto soldato, e quando Lilyan era stata portata via prima del
suo
rientro Ellen aveva rischiato di peggiorare le situazione delle sue
costole,
gridando insulti e vane minacce finché Michael non era
tornato in cella. Erano
ormai al quinto giro, Janet era rientrata più scossa degli
interrogatori
precedenti ed era sul punto di piangere, quando era toccata di nuovo a
Ellen.
Voleva mostrarsi forte e
coraggiosa, ma il dolore al fianco la costringeva a ondeggiare. Si
morse le
labbra a ogni singolo passo, avvertendo i fucili dei due soldati
puntati alla
schiena: il generale non si era più mosso dalla sua stanza
preferita, preferiva
attenderli come un boia. Mentre si sedeva, Ellen lo vide passarsi un
panno
bagnato sulle nocche. Dalla sua prima visita, la sala interrogatori
aveva
subìto un profondo cambiamento, a partire dalle chiazze di
sangue sparse sul
tavolo, sul pavimento e sulle pareti, che i militari si erano ben
guardati dal
pulire, consci che rendesse le loro vittime ancora più
inquiete.
Osservandola, il generale
notò il
suo stato sofferente.
«Vi chiedo ancora scusa per
avere
alzato le mani su di voi.»
Iniziava sempre così. Era
la
quarta volta che Ellen udiva quelle parole, e non sapeva più
cosa farsene; era
però consapevole che il militare stesse adottando tecniche
diverse per ciascuno
di loro, sebbene non si fosse confrontata con i suoi compagni per
evitare loro
di rivivere ciò che avevano passato. Era certa che il
generale confidasse sul
buon cuore di Janet, cercando di convincerla che i suoi amici sarebbero
stati
liberati e curati se solo lei avesse parlato; forse, vedendo la croce
al collo
di Lilyan, aveva puntato sulla sua carità cristiana, o aveva
messo in mezzo la
reputazione del padre, mentre con Alexander e Michael non usava
psicologia
spicciola: andava al sodo, torturandoli fino a che non si annoiava, e
cercava
di farli tornare in cella nelle peggiori condizioni possibili. Ellen
sapeva che
Michael lo aveva provocato durante il primo
“interrogatorio”, eppure era
Alexander quello che ora presentava le ferite maggiori, e non era un
caso che
fosse la persona direttamente collegata ai libri.
Con Ellen, il comportamento del
generale cambiava in continuazione. Cominciava scusandosi per averla
picchiata,
poiché era una donna, poi insinuava che lei non fosse nuova
alla criminalità,
smetteva di chiamarla “signorina” e si limitava a
“Lawlier”. Dovevano avergli
riferito che aveva dato di matto quando Michael non era tornato in
cella,
perché nell’ultimo interrogatorio lo aveva tirato
in ballo più di una volta, ma
le sue parole non la intimorivano: era cresciuta nella diretta
violenza, non
conosceva le minacce che la precedevano. L’assenza di Michael
l’aveva fatta
impazzire, eppure era ormai chiaro che il generale non era intenzionato
a
ucciderli.
«Non dirò
niente» esordì Ellen.
«Avete bisogno di un
medico?»
«Ce l’ho
già, un medico.»
«Non è nelle
condizioni di
aiutarvi… o non lo sarà presto.»
Ellen sbuffò e
portò gli occhi al
soffitto: là almeno non c’erano tracce di sangue.
«Smettiamo di perdere tempo.
Non
parlerò.»
«Avete ragione, ora tocca a
me
farlo.»
Lo guardò, curiosa della
nuova
tecnica che intendeva usare.
«Siete una studentessa. Vi
piace
studiare, perché vi piace apprendere nuove informazioni.
Forse è arrivato il
momento che ve ne fornisca qualcuna, per stimolarvi a darmi la vostra
versione.»
La mia versione?
«Ci sono quattro libri.
C’è chi
dice che siano… magici.» Il
generale sputò a terra. «Io invece credo che
contengano il necessario per distruggere il mio amato Paese. Codici,
parole d’ordine…
planimetrie.» Fece una pausa e la fissò dritto
negli occhi. «So che il
detective McCrindle ha richiesto le planimetrie della Chiesa
Occidentale di
Arkham poche ore prima del suo incendio. Devo credere che sia stato un
caso?»
Ellen rimase in silenzio. Stava
processando la teoria del militare, eppure lui parve prendere la sua
esitazione
per una conferma.
«Il ventinove ottobre, a
Boston,
un altro edificio è andato distrutto. Era la casa del
libraio e collezionista
Jefferson Masters, che curiosamente possedeva
un’attività ad Arkham. Ancor più
curiosamente, quell’attività è stata
scassinata la notte precedente al
rinvenimento, da parte della dottoressa Holmes, di una strana carcassa
a breve
distanza dal negozio. Abbiamo anche la testimonianza
dell’assistente di
Masters, che parla di quattro persone, tra le quali ha riconosciuto
l’Arcivescovo
Giraud Des Chateaubriand, che si sono recate il pomeriggio precedente
in
libreria per chiedere del proprietario. Un proprietario che ha cercato
di
fuggire, ma senza successo.» Il suo tono si era fatto sempre
più insofferente
nel corso del resoconto. «Devo proseguire?»
«Sì, la storia mi
sta
appassionando.»
Come Ellen pensava, quel fottuto
generale era un sadico, un uomo completamente devoto alla violenza, e
tale
sarebbe rimasto. Lo schiaffo la colpì sul viso nello stesso
punto in cui ore
prima era atterrato il suo pugno. Si era alzato, pronto a prenderla di
nuovo a
calci, e fu solo l’improvvisa apertura della porta a
trattenerlo.
«Generale Pain»
chiamò una voce
che lei non conosceva «lasci andare questa ragazza.»
Una mano si tese verso la sua, ed
Ellen era tanto sorpresa da afferrarla. Alzò lo sguardo: a
intervenire era
stato un uomo anziano, le cui fitte rughe suggerivano che avesse sui
settanta
anni; era alto quanto il militare, ma più snello e calvo. Un
paio di lenti
filtravano i suoi occhi chiari e un amabile sorriso la convinse che,
per il
momento, era lui la sua opzione migliore.
«Prego, signorina, torniamo
dai
suoi amici.»
Il generale Pain rimase immobile
mentre Ellen e lo sconosciuto si allontanavano. Non indossava una
divisa, bensì
un camice, e lei ipotizzò che fosse un medico o uno
scienziato. Cosa ci faceva
un professionista in una base militare? E perché era in
grado di dare ordini a
un generale?
La guidò verso la cella,
scortato
da quattro soldati, e quando la porta venne spalancata l’uomo
diresse un nuovo,
largo sorriso verso i prigionieri.
«Vi porgo le mie
più profonde e
sincere scuse per come siete stati trattati durante la mia assenza.
Sono il
professor Artemius Cutty. Per favore, vogliate seguirmi ai vostri nuovi
e più
rispettabili alloggi.»
|
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Capitolo 23 *** Capitolo XXIII ***
Capitolo
XXIII
Prima di assegnarli ai loro nuovi
alloggi, il professor Cutty li accompagnò in infermeria. Fu
un bene: Alexander
si reggeva in piedi a malapena, e per una volta non poteva incolpare il
soprannaturale per le continue fitte alle tempie – i pugni di
Pain si erano
abbattuti anche lì. Michael aveva fatto il possibile per
nascondere la
profondità del taglio sul braccio a Ellen, ma fu presto
chiaro che era stata tale
ferita a fargli perdere i sensi durante l’ennesima tortura,
quando il generale
aveva infierito su quello stesso punto. Il medico
dell’esercito, abituato a
ricucire lesioni ben peggiori, si era occupato prima di loro e poi di
Ellen, a
cui aveva dato un paio di analgesici per sopportare il dolore
intercostale.
Ciascuno di loro sarebbe dovuto rimanere a riposo per qualche giorno,
ma dubitavano
sarebbe stato tanto semplice.
«Come ti senti?»
«Chiedimelo quando
l’analgesico avrà
fatto effetto.»
Michael rise, poi osservò
Ellen con
una punta di apprensione. «Non è il tuo primo
antidolorifico, vero?»
«Non il primo che vedo,
ma… non ne
ho presi spesso.»
«Sei fortunata.»
«Ti sembra il caso di
dirlo?»
Lilyan e Janet erano rimaste con
loro, e sebbene non presentassero segni di lotta Cutty aveva insistito
affinché
fossero visitate. Quando Janet vide la confezione delle pasticche in
mano a
Ellen, però, allungò il palmo, e lei comprese.
Sentì su di sé lo sguardo di
Michael mentre si intascava l’intero barattolino,
approfittando della
distrazione del medico militare, ma quando si voltò lui era
tornato a
concentrarsi sulla propria fasciatura.
«Meglio di quella
improvvisata?»
«Molto meglio. Non so in
quali
condizioni quel bastardo tenga le proprie armi, e temevo che il braccio
mi
sarebbe andato in cancrena prima del decimo ciclo di torture.»
«Oh, no, non sarebbe
accaduto.» Cutty
era apparso alle loro spalle. Il camice bianco, la gracilità
e la capacità di
apparire all’improvviso lo facevano assomigliare a un
fantasma, ma per fortuna
era davvero lì, e li aveva tolti dalle grinfie di Pain. Di
sicuro nascondeva
qualcosa, tuttavia per un po’ Ellen lo avrebbe considerato
come il loro
salvatore. «Se il dottor Hubert ha terminato con voi,
desidererei farvi fare un
giro della base.»
Acconsentirono volentieri,
seguendo Cutty attraverso i locali situati lungo il primo e unico
piano. L’odore
di intonaco fresco che proveniva da un’ala ancora chiusa
diede a Ellen la
conferma della sua recente costruzione. Fu lieta di giungere in
prossimità
della mensa, così il naso poté cogliere profumi
migliori: zuppa di legumi,
cipolle stufate, tacchino arrosto.
Si avvicina il Ringraziamento.
Era uno strano pensiero: si
trovavano all’interno di una base militare, circondati da
soldati in divisa e
distanti dall’atmosfera familiare di Chateaubriand Manor,
eppure quell’ambiente
era tanto diverso dalla cella e dalla stanzetta degli interrogatori da
sembrare
che appartenesse a un altro mondo. Solo in quel momento tutti si
accorsero di
non mangiare dalla mattina precedente; si sentivano deboli, ma lo
stomaco si
era chiuso nelle ore passate in prigione.
Cutty attese che si nutrissero
prima di proseguire con l’esplorazione, e a stomaco pieno a
Ellen fu chiaro il
motivo di quella farsa. La base pullulava di soldati, un dettaglio che
il loro “salvatore”
si stava preoccupando di ribadire senza farne parola. Potevano essere
stati
liberati dalla cella, potevano mangiare e muoversi senza un fucile
puntato
addosso, ma rimanevano prigionieri. Pain era il bastone e Cutty la
carota,
niente di più e niente di meno. Dovevano essere cauti.
«Sappiate che il generale
Pain
riceverà una severa ammonizione per il modo in cui siete
stati trattati» promise
Cutty mentre Ellen ripuliva il piatto dai residui di zuppa,
raccogliendo ogni
fagiolo e rondella di carote. «I miei ordini erano di
portarvi qui, ma non
aveva accennato a un trattamento del genere. Mi rincresce davvero
sapere cos’abbiate
dovuto passare.»
«Dove ci
troviamo?» tagliò corto
Alexander. Se il vecchio era dalla loro parte, che lo dimostrasse.
«Sulla costa, vicino
Ipswich, non
troppo distanti da Arkham.»
«Cos’è
questo posto?»
«Suppongo che ormai ve ne
siate
fatti un’idea.»
«Cos’è di
preciso?»
«Una base militare
provvisoria. È
stata montata lo scorso inverno, per via di una missione particolare
che ha
richiesto un intervento tempestivo. Siamo stati costretti a dispiegare
numerose
forze armate, dunque è stato necessario predisporre un punto
di riposo.»
«La missione è
terminata?»
Cutty tacque. Si tolse gli
occhiali, pulì ogni angolo della montatura quadrata e infine
riprese: «Quella
singola missione, sì. Ma in seguito il governo ha scelto di
stanziare fondi per
una sezione specializzata all’interno
dell’esercito.» Esitò. «Sono
stato
nominato consulente e primo ricercatore dell’unità
paranormale governativa.»
Rimase in silenzio, attendendo le
loro domande. La prima a porgerle fu Janet: «Siete stati voi
a intervenire
sulla nostra ricerca?»
«Sì.»
«E il generale
Pain…?»
«No, non era ad Arkham. Se
ne era
occupato il generale Daniels, un aiuto occasionale fornitoci dallo
Stato. Per
vostra sfortuna, è stato il generale Pain a dovervi
recuperare tempestivamente.
Mi trovavo a Boston, alla base principale, e dopo avere appresso
dell’incendio
ho preferito delegare il vostro… invito a unirvi a noi. Il
generale Pain si è
fatto prendere la mano, e non cesserò mai di porvi le mie
scuse perché non ha
fatto quanto gli era stato ordinato. Dovevate essere nostri
ospiti.»
«Ma il vostro uomo ci crede
dei
pericolosi criminali» intervenne Ellen, ricordando
l’ultimo discorso di Pain.
«Pensa di essere in possesso di prove che ci mettono in
cattiva luce.»
«Quelle prove esistono, ma
le
abbiamo interpretate in maniera diversa.»
«Che intendete
dire?»
«Avete terminato di
cenare?» Cutty
si alzò in piedi e fece un cenno a un soldato,
affinché si occupasse dei loro
vassoi vuoti. «Perfetto, ora possiamo andare nel mio ufficio.
Ho bisogno di
parlarvi di una questione delicata, ossia il motivo per cui ho
richiesto la
vostra presenza. Come vi ho preannunciato, siamo
un’unità con uno scopo ben
preciso, e per ovvi motivi la nostra esistenza è nota solo
agli alti ranghi
dell’esercito e del governo. Ciò implica che
dobbiamo utilizzare al meglio i
pochi mezzi di cui disponiamo. E in questo caso il mezzo in questione
è la
conoscenza.»
«La…
conoscenza?»
Aveva parlato mentre li conduceva
al suo ufficio. Si fermò di fronte all’ingresso e
posò lo sguardo su Alexander.
«La vostra conoscenza di Darcus McCrindle.»
***
«Prego,
accomodatevi.»
Quello che Cutty chiamava
“ufficio”
era in realtà una sala riunioni. Ellen gliene fu grata: era
stanca degli spazi
angusti, soprattutto dovendo dividerli con altre persone.
Seguirono il consiglio di Cutty e
presero posto sulle sedie sistemate in ordinate file da cinque,
attendendo che
il professore desse loro delucidazioni. Lo osservarono raccogliere una
risma di
fogli e sistemarli sulla scrivania, prendendo tempo. Alla fine, quando
la porta
venne chiusa e tutti si furono accomodati, si decise a iniziare.
«Il sedici luglio dello
scorso
anno, un giovane di nome Robert Olmstead si è presentato
alla stazione di
polizia di Arkham asserendo di avere assistito a fatti insoliti. Di
più: tanto
strabilianti da costringerlo a fuggire dal luogo che stava visitando
per
allertare ogni forma di autorità. E così fece,
non limitandosi agli agenti di
Arkham. Le voci circa ciò di cui era stato suo malgrado
testimone giunsero fino
al governo federale, che richiese un’indagine accurata sul
campo. Fu allora che
questo terreno venne scelto come punto di appoggio: furono piantate
alcune
tende e stanziata una truppa ridotta, poiché quelli che
sembravano i deliri di
un pazzo non erano le prime avvisaglie ricevute dagli abitanti delle
zone
circostanti. Dopo una breve analisi, venne richiesta la presenza di uno
scienziato, ed è allora che sono entrato in scena io. Il
luogo di interesse
sorgeva a poche miglia da Ipswich e non appariva nelle mappe. Il suo
nome era
Innsmouth.»
«Innsmouth?»
ripeté Ellen. Pur
vivendo ad Arkham da anni, non ne aveva mai sentito parlare, e
ciò confermava
le parole di Cutty. «Cosa significa
“era”?»
«Ci arriveremo. Quando fui
chiamato qui a Ipswich, ero un luminare nel mio campo, ma nel privato
svolgevo
ricerche che non seppi mai nascondere bene. Ero convinto che potessero
esistere
creature ancora sconosciute al genere umano. La mia convinzione era
dettata
dalla logica: qualunque civiltà, antica o contemporanea,
possiede una
mitologia, divinità perlopiù create per
rispondere alle esigenze della
comunità, per spiegare i fenomeni atmosferici e
così via. Come giustificare,
però, la presenza di creature simili nei miti di
civiltà che non sono mai
entrate in contatto fra loro? La logica mi ha imposto, e mi impone
tuttora, di
credere nell’esistenza di bestie avvistate in tempi remoti e
in quei tempi
soltanto, scomparse da secoli e secoli. Come potete immaginare,
è una teoria
che ho sempre preferito indagare in solitudine, per evitare le facili
battute
dei miei colleghi.
«Questa lunga premessa ci
porta
alla mia collaborazione con le forze armate. Non mi è
concesso descrivervi cosa
trovammo a Innsmouth, ma soltanto informarvi che è stato a
seguito della sua
distruzione che il governo ha constatato la necessità di
istituire un nucleo
destinato a occuparsi del cosiddetto “paranormale”.
Io preferisco definirlo “ciò
che ancora non conosciamo”. Le tende si sono trasformate in
pareti, mi è stato
fornito un laboratorio all’avanguardia e il generale Pain
è stato incaricato di
guidare gli uomini del suddetto nucleo. Come avrete intuito, non
è una persona
aperta a nuove realtà, ma segue gli ordini, e credo abbia
temuto che, tra voi,
si nascondesse il terrorista che stiamo cercando.»
«Darcus»
mormorò Alexander.
Cutty
annuì. «Non
conosceremmo il nome di Darcus McCrindle se non fosse, in parte, legato
agli
eventi di Innsmouth. Vedete, ciò che posso dirvi senza
violare il regolamento è
che il suo interesse riguarda la creazione di ibridi.»
Ellen fu scossa da un tremito.
Ricordò i due irlandesi che, nella chiesa, si erano
trasformati in mostri
marini, e con maggiore terrore ricordò gli esperimenti che
Darcus aveva
compiuto sulle sue pazienti di Boston.
«Sappiamo che si
è aggirato da
queste parti» proseguì Cutty «e che ha
avuto a che fare con le creature che
avete rinvenuto sul Miskatonic River, e che al momento si trovano nel
nostro
laboratorio.»
«Sono qui,
allora?» chiese Janet
con un fil di voce.
«Sì. I soldati,
ahimè, non
rispettano il lavoro teorico, perciò mi scuso per la perdita
delle vostre
ricerche: è stato ordinato loro di portarmi tutto quello che
poteva riguardare
le tre carcasse.»
«Che ne è stato
della
professoressa Baker?» Ellen cominciava a temere per la sua
sorte. «È in una
cella anche lei?»
Cutty parve sorpreso.
«No… La
professoressa Baker è partita per la Polinesia Francese.
Abbiamo ritenuto
necessario allontanarla da Arkham per la sua
incolumità.»
«Perché noi
no?»
«Speravamo che ci portaste
da
Darcus. Avevamo perso le sue tracce, ma a distanza di pochi giorni
abbiamo
appreso che aveva dei parenti in città, e allora abbiamo
anche saputo che tali –
perdonate, tale parente
sembrava disposto a tutto per rientrare
in possesso di alcuni libri di famiglia. Tra la strage compiuta da
Darcus e la
vostra necessità di procurarvi quei tomi, abbiamo ipotizzato
di avere a che
fare con un uomo pericoloso.»
Ellen non se la beveva.
«Cosa ci
dite dell’Ordine del Crepuscolo
d’Argento?»
Lo prese alla sprovvista. Cutty si
tolse gli occhiali e tornò a pulirli con accuratezza come
aveva fatto in mensa,
un chiaro stratagemma per raccogliere le idee.
«Sono sulle loro tracce da
anni.
Da trenta, lunghissimi anni.»
«È lì
che ha conosciuto il nome di
Darcus, non è vero?» intervenne Alexander.
«Un uomo curiosa fra le rovine di
una città fantasma e l’unità
paranormale si mette a indagare su di lui?»
«Vi ho detto la
verità, in parte.
Abbiamo svolto delle ricerche su Darcus, ma avremmo smesso se non
avessi
scoperto il suo collegamento con l’Ordine. Era una
coincidenza troppo insolita,
un’opportunità rara che non potevo lasciarmi
sfuggire.»
«Cosa sapete su di
loro?»
«L’Ordine del
Crepuscolo d’Argento
vanta numerose sedi, non solo negli Stati Uniti. La più
vicina è a Boston. Presumo
che Darcus McCrindle ne sia entrato a fare parte mentre lavorava come
medico in
città. Apparentemente, non nasconde fini preoccupanti:
è un’associazione
elitaria che raccoglie amanti della cultura, dalla scienza alla
medicina, dalla
filosofia alle arti visive, fino ad argomenti meno ordinari come la
magia e l’alchimia.
Ammetto di essermene interessato io stesso, fino a quando non ho temuto
che i
loro interessi si spingessero troppo oltre. Stando a quanto mi
è stato
raccontato, le loro chiacchierate si svolgevano in una cosiddetta
“Loggia”, nel
corso di serate dove gli accoliti dovevano indossare tuniche del colore
del
loro grado. Non coincideva con i miei studi, dunque me ne sono tenuto
alla
larga. Finché» sospirò «non
sono cominciate le sparizioni. Una al mese, sempre
in concomitanza delle loro riunioni. Nessuno parla di tali sparizioni,
e sapete
perché?»
Ellen e Alexander risposero
all’unisono:
«Mendicanti.»
«Esatto, ma non solo:
potrebbero
essere raccolti sotto l’ingiusta definizione di
“scarti della società”.
Senzatetto, prostitute, orfani. Ne scompariva uno al mese. Allora ho
svolto le
mie indagini, senza tuttavia riuscire a scoprire il loro gioco. Pensavo
di
essermi lasciato questa storia alle spalle, fino a quando non ho letto
il
fascicolo di Darcus McCrindle. Presumo che siate stati nella vecchia
villa dei
suoi genitori…»
«Non lo presumete: ne avete
le
prove.»
Cutty non poté negare le
parole di
Alexander. «È stata una mia idea isolata. Sono
andato a Greenville e ho trovato
le stesse lettere che vi hanno messo a conoscenza dell’Ordine
del Crepuscolo d’Argento.
Le ho lasciate lì per non contaminare la scena e
perché… lo ammetto, speravo
che mi portaste da lui. Ho tenuto soltanto una delle lettere, che ho
messo
sottochiave, ma che vi permetterò di leggere al termine di
questa serata.»
«Potete dirci intanto cosa
c’è
scritto?»
«Certamente. La lettera
testimonia
come la morte della vostra famiglia, detective, sia dovuta al tentativo
di
ottenere i quattro libri di cui vostro padre era custode. Il Maestro a
capo
dell’Ordine, come si definisce lui stesso, si diceva disposto
a fargli ottenere
un grosso riconoscimento in cambio di quei libri, e suggeriva a Darcus
un modo
per appropriarsene. È stato lui a spingerlo a compiere la
strage.»
«Il Maestro… era
Carl Standford?»
«Esatto.»
La mole di informazione
necessitava di essere digerita ed elaborata. Fu Alexander il primo ad
alzarsi.
«Posso vedere la lettera? Dopodiché, potremo
discutere una collaborazione.»
«Fra dieci minuti. Fuori,
c’è un
ospite che attende di essere ricevuto, e per quanto mi piaccia farlo
aspettare
non vedo l’ora di dirgli cosa penso realmente di
lui.»
***
Quando uscirono dalla sala
riunioni, scorsero la massiccia figura del loro torturatore nel
corridoio. Lo
superarono trattenendo il respiro, ma non per paura: Cutty era pronto a
fargli
una grossa lavata di capo, dunque avrebbero potuto insultarlo senza
temere
ripercussioni; tuttavia nessuno di loro era intenzionato a perdere
tempo con un
essere tanto abietto. Di contro, lui li soppesò uno a uno
prima di entrare al
loro posto.
«Io aspetto»
dichiarò Alexander
una volta che Pain fu uscito dalla loro visuale. «Se il
professor Cutty è
sincero… mi consegnerà subito la
lettera.»
«Temi che possa
contraffarla?»
«È una
possibilità. Vuole che ci
fidiamo di lui, e io ho
bisogno di una prova tangibile.»
Lo lasciarono lì, mentre un
soldato li accompagnava al loro alloggio: una stanza con quattro letti
a
castello addossati alle pareti. Si trovavano in una base militare,
dunque non
si stupirono di doversi preparare da soli i letti, né
dell’assenza delle loro
armi, per la cui riconsegna si sarebbero dovuti rivolgere a Cutty.
Sapevano che
non le avrebbero riviste in tempi brevi, perché prima era
necessario fidarsi l’uno
degli altri, ed era troppo presto per dirlo.
Alexander li raggiunse entro poco,
tenendo in mano un foglio stropicciato che continuò a
rileggere a lungo.
Nessuno di loro pronunciò una parola, consci che la prova di
cui aveva bisogno
il detective, e che ora stava esaminando, non serviva ad appurare la
sincerità
di Cutty, bensì il motivo della strage dei McCrindle. Fino a
quel momento, lo
avevano solo ipotizzato, ma scoprire che Darcus aveva sterminato la
propria
famiglia solo per essere accettato da un gruppo di esaltati…
Tutto ciò doveva
essere tremendo per Alexander, e per quanto dotata di scarsa empatia
Ellen
sapeva che era meglio rimandare le discussioni all’indomani.
Michael non si curò del
materasso
troppo stretto per ospitarli entrambi, e rimase con Ellen fino a quando
lei non
si fu addormentata; nel dormiveglia, lo avvertì sgusciare
via e raggiungere il
letto di fronte, chiedendosi se sarebbe rimasto vigile per accertarsi
che non
accadesse loro niente di male. A giudicare dalle occhiaie che in
seguito Ellen
trovò sui loro volti, anche Lilyan e Alexander avevano
scelto di restare
svegli, o forse le preoccupazioni avevano tenuto il sonno alla larga.
Cutty li lasciò in pace
fino al
mattino, senza chiudere a chiave il loro dormitorio o inviare un
soldato a
prelevarli; fu lui ad affacciarsi sulla soglia e ad accompagnarli nella
sala
mensa per la colazione, e fu sempre lui ad assicurare loro che avrebbe
atteso
che fossero pronti per fornire le indicazioni necessarie a rintracciare
Darcus,
o assicurargli che i libri fossero al sicuro. Si premurò,
tuttavia, di
ricordare che non potevano tergiversare all’infinito.
Per l’intero corso della
giornata,
Pain si tenne lontano dal gruppo. Era ancora in servizio, e sul suo
volto di
pietra non c’era segno di rimorso.
Nel pomeriggio concordarono che
era giunto il momento di discutere della collaborazione con Cutty; si
ritrovarono nel dormitorio e, nonostante si fossero assicurati di
essere soli,
scelsero di tenere un tono di voce basso per evitare che potessero
udirli prima
che avessero preso una decisione.
«Cosa dovremmo
dirgli?» esordì
Janet.
«La domanda giusta
è: dovremmo
dirgli qualcosa?»
«Suvvia, Ellie, sembra
essere
dalla nostra parte.»
«Possiamo credergli?
Dopotutto,
per quanto ne sappiamo, potrebbe avere ordinato a Pain di pestarci a
sangue,
per poi fingersi un angelo caduto dal Cielo.»
«Non saprei…
Perché mentirci? Sta
cercando Darcus.»
«No, Janet, sta cercando i
libri.»
«Che noi
non…»
«Non vogliamo dire dove si
trovano» la interruppe Michael, rivolgendo alla porta uno
sguardo allusivo. «O
forse non lo sappiamo.»
«Possiamo tenercelo per noi,
e
magari ci lascerà andare» riprese Janet
«ma siamo sinceri: se Darcus è ancora
vivo, e comincio a crederlo veramente, come possiamo liberarci di lui
con le
nostre sole forze? Non abbiamo più neanche le
armi.»
«Il nostro fidato amico ad
Arkham potrebbe
procurarcene altre.»
«Ma non è quello
il punto:
Alexander ha potuto sconfiggere… quella cosa…
solo grazie ai libri.
Forse Darcus è immune alle pallottole, ma
l’esercito potrebbe aiutarci…»
«Con proiettili
d’argento?»
«Ellie, pensavo ai fucili. E
al
numero dei soldati.»
«Arrendiamoci»
disse d’un tratto
Alexander, e tutti si voltarono verso di lui, allarmati dalle sue
parole.
«Voglio dire… diciamogli tutto. Ci penseranno
loro. Sono stanco, voi no?»
Sei tu che dovresti vendicare la
tua famiglia, non noi.
«Sì»
sospirò Michael. «Però dovremmo
evitare di agire in maniera avventata. Prima di tutto, decidiamo cosa
dirgli.
Cosa sanno?»
«Sanno dei libri»
rispose Ellen,
contando sulle dita quello che Pain le aveva rivelato nel tentativo di
farla
parlare. «Sanno di Masters, dell’effrazione in
libreria e della sua morte a
Boston. Sanno dell’incendio nella chiesa, e che Alexander
aveva richiesto le
planimetrie al comune. Sanno che alcuni di noi hanno rinvenuto la
carcassa e
che gli altri hanno provato a studiarla. Sanno, infine, che Darcus era
interessato ai fatti di Innsmouth.»
«Una città in
riva al mare… Che c’entri
qualcosa con gli ibridi che erano alla chiesa?»
«Tutto ci rimanda
all’acqua.»
«Quindi cosa dovremmo
dirgli?»
«Niente.»
Era stata Lilyan a parlare, Lilyan
che fino a quell’istante era rimasta in silenzio,
accovacciata sul suo materasso
con le gambe strette al petto. Ellen credeva che avesse ceduto al
sonno, invece
era rimasta ad ascoltarli.
«Non diremo niente. Non mi
fido di
loro, e neanche voi dovreste.»
«È per via del
generale?» domandò
cautamente Janet.
«Certo che è per
via del generale!
Come possiamo fidarci di un uomo simile? Appena saprà che
fine hanno… dove abbiamo
nascosto i libri, non ci penserà due volte prima di
liberarsi di noi.»
«Rischiamo di passare la
vita qua
dentro» le fece notare Michael.
«Quindi dovremmo collaborare
con
loro? Mi dispiace, ma se vi aspettate che vi dia il mio voto no, non lo
farò.
Non sono disposta a fare compromessi, non con loro.»
«Lilyan…»
Alexander si avvicinò al
suo letto e le prese le mani. «Basta.»
Basta: non avrebbe saputo esprimere i
loro sentimenti in maniera migliore. Erano tutti dannatamente stanchi
di quella
storia, ed era ancora peggio dopo avere festeggiato perché
la credevano
conclusa una volta per tutte.
Lilyan affondò il volto
nelle
ginocchia, ma non provò a ribattere. La decisione ormai era
presa e lei non
poteva fare alcunché per fermarli.
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Capitolo 24 *** Capitolo XXIV ***
Capitolo
XXIV
Non attesero oltre.
Quando Lilyan ebbe smesso di
piangere in silenzio, Janet le strinse una mano per darle conforto e
procedettero dietro Ellen, Michael e Alexander. Quella formazione era
una
novità per tutti loro: non c’era una persona
armata a chiudere la fila, né un
solo uomo ad aprirla, lungo strada per l’ufficio del
professor Cutty; erano
compatti, si preparavano a lasciarsi tutto alle spalle. Ignoravano cosa
sarebbe
accaduto quando avrebbero detto allo scienziato la verità
sui libri, ma era
sciocco attendere ancora. No, non sciocco: inutile. Cutty avrebbe
potuto
stancarsi di mostrarsi bendisposto nei loro confronti e ordinare a Pain
di
ricominciare con le torture, oppure era sincero e voleva solo aiutarli,
perché
in fondo ciascuno di quello strano gruppetto si era ritrovato immerso
in una
situazione impraticabile senza nemmeno averlo voluto.
Erano determinati, eppure
esitarono quando, di fronte alla porta di Cutty, trovarono il generale
accompagnato da due soldati, gli stessi che si erano occupati di loro
in cella.
Ellen stava per fare marcia indietro quando Pain parlò.
«Vi sta
aspettando.»
Dovevano averli uditi parlare, o
forse nei loro occhi era possibile leggere lo sfinimento delle ultime
settimane, e Cutty ne era stato messo al corrente. Dietro di
sé, Ellen avvertì
Lilyan rintanarsi tra le braccia di Janet, e si domandò cosa
diamine le avesse
fatto quel bastardo per spaventarla a tal punto. Mosse un piede in
avanti, ma
Alexander fu più svelto e si parò di fronte a
Pain, dimostrandogli di non
essere spaventato; il generale non parve curarsene.
«Gli parleremo da
soli.»
Lentamente, ma con decisione, Pain
scosse la testa. «Non posso permettervelo. Non sono
armato» precisò «però i
miei uomini sì, e agiranno se proverete a fare un passo
falso.»
«Credete che vogliamo
ucciderlo?»
«Sto solo eseguendo gli
ordini.»
Li soppesò con lo sguardo, indugiando sulle due donne in
fondo al gruppo, prima
di riportarlo su Alexander. «Ho sempre eseguito
gli ordini.»
Pain era un pezzo di merda, non
c’erano
dubbi, ma dalle sue parole trapelava la realtà che Cutty si
ostinava a celare: lo
scienziato non aveva mai voluto che fossero trattati come ospiti.
Togliamoci questa storia dalle
palle.
Alexander proseguì, e i tre
soldati si spostarono per permettergli di precederli
all’interno del suo “ufficio”.
Trovarono Cutty seduto dietro la scrivania, e nonostante
l’ampiezza della sala
riunioni questa volta Ellen si sentì soffocare, consapevole
di essere sotto il
tiro di due fucili: le canne in verità puntavano a terra, ma
avrebbero potuto
alzarsi in qualsiasi momento. Volevano che confessassero?
L’avrebbero fatto,
perché erano stufi di Darcus e delle sue stronzate. Tutti
loro desideravano
tornare alle proprie vite, ed Ellen non aveva mai bramato tanto la
compagnia
dei libri di Fisiologia, le sterili lezioni di Peabody, il freddo di
una camera
dell’Upton Hall che non si scaldava mai a dovere; avrebbe
addirittura accettato
di tenere un profilo basso fino al termine degli studi, per poi seguire
il
consiglio della Baker e fuggire via da Arkham. Sarebbe andata a Boston,
oppure
sulla costa occidentale, ancora meglio. Niente più mostri,
niente più stregoni,
niente più militari. Una terza nuova vita era tutto
ciò a cui anelava.
«Buonasera» li
accolse Cutty,
aspettando che si accomodassero. Alexander fu il solo a spostare una
sedia
davanti alla scrivania, perché era stato implicito che fosse
lui – l’ultimo
Guardiano – a raccontare la storia dei libri. Perlomeno la
loro fine.
«Siamo pronti a
collaborare.»
Nuove rughe comparvero sul volto
di Cutty intorno al sorriso che si allargava. Mise da parte i fogli che
stava
esaminando e congiunse le mani, in attesa.
«Prima di tutto, vogliamo la
vostra parola» proseguì Alexander. Fissava lo
scienziato, non degnando d’attenzione
i tre soldati. «Una volta che avremo risposto alle vostre
domande, ci lascerete
andare, e il generale Pain non ci ostacolerà.»
«Una richiesta
ragionevole.»
«Lo prometta.»
Si scrutarono in silenzio,
finché
Cutty non rispose con assoluta serietà: «Vi do la
mia parola. Il generale Pain,
il tenente Kurtz e il tenente Setter non opporranno resistenza al mio
volere,
che sarà quello di liberarvi non appena entreremo in
possesso dei libri.»
«Non appena avrete le
risposte»
precisò Alexander. Era essenziale che quel punto venisse
compreso.
«Non appena avremo le
risposte»
accettò Cutty.
«Cosa sapete già
in merito?»
«Volete mettervi alla prova,
detective McCrindle?»
«Blake. Sono il detective
Blake.
Voglio soltanto sapere da dove cominciare.»
«Sappiamo che la vostra
famiglia
possedeva quattro tomi. Nelle missive che Darcus ha scambiato con i
membri dell’Ordine,
non si accenna ai loro titoli, dunque presumo che ne abbiano parlato di
persona. Siamo tuttavia a conoscenza del contenuto pericoloso di tali
pagine, e
crediamo possa essere legato agli studi paranormali di Carl Standford.
Temiamo
che lui o Darcus rischino di utilizzare uno dei libri, o addirittura
tutti, per
le proprie oscure ambizioni. Sappiamo infine che, sebbene siano stati
ereditati
da vostro zio Silas, e alla sua morte da voi, essi siano stati
incautamente ceduti
al signor Masters.»
Alexander annuì.
«È esatto. Quando
sono entrato in possesso della casa di Silas, ignoravo il suo desiderio
di
tenere custoditi i libri. Li ho venduti a Jefferson Masters, e ne ho
recuperati
due proprio dal suo negozio ad Arkham. Un altro paio era nella sua casa
di
Boston, ma Darcus è riuscito a impossessarsi di uno, per poi
rubare un secondo
tomo alla Miskatonic University. Così, i libri in suo
possesso erano tre.»
«Tre?»
«Ne ha usato un terzo per
evocare
la creatura che ha ucciso Masters, e temiamo che questo libro possa
essere
ancora in circolazione, perché l’incendio della
Chiesa Occidentale ne ha
distrutti due.»
«Se non ho fatto male i
conti,
detective Blake, rimangono tre libri, quelli da voi strappati a
Masters. Darcus
ne possiede ancora uno, ed è una grossa informazione per
l’esercito, sebbene
vada a nostro svantaggio. Cosa mi dite invece dei tre che avete
nascosto?
Perché li avete nascosti, posso presumere.»
«Lo avevamo fatto.»
Eccolo, il momento decisivo. Prima
di recarsi da Cutty, Ellen e Michael avevano provato a insistere sulla
possibilità di dirgli una menzogna: era meglio che lo
scienziato credesse che i
libri fossero ancora intatti e li lasciasse tornare in città
per condurlo al
loro nascondiglio; una volta a Chateaubriand Manor avrebbero
improvvisato, ma l’avrebbero
fatto lontano da decine di soldati armati. Temevano però che
Alexander volesse
dire la verità, e non avrebbero potuto parlare al posto suo.
Le torture
maggiori inferte da Pain e l’attenzione che dal giorno prima
gli rivolgeva
Cutty chiarivano che fossero le sue le sole parole che avrebbero
ascoltato.
«I libri sono bruciati
nell’incendio»
rivelò infine il detective. «Tutti
quanti.»
Ellen strizzò le palpebre,
maledicendo la stupidità di Alexander. Fu per quel motivo
che non si accorse
subito che le guance di Cutty erano diventate paonazze.
«So cosa state
pensando» riprese
Alexander. «Darcus ha ancora un libro, noi non ne abbiamo
nessuno per
ostacolarlo. Sappiamo però come liberarci di quello
rimanente, e…»
«Ho capito benissimo,
detective
Blake» lo interruppe Cutty. Cercò di riacquistare
un aspetto dignitoso, si
tolse gli occhiali e pulì le lenti con una pezza grigia.
Quando li rimise sul
naso, parlò direttamente a Pain. «Non ci servono
più. Uccideteli.»
***
Ellen era certa che
sarebbe andato tutto a rotoli, ma
non in maniera così definitiva. Era pronta a tentare il
tutto per tutto,
lanciare una sedia contro i tre soldati, che si sarebbero di sicuro
concentrati
sui due uomini del gruppo, oppure urlare che sapevano dove potesse
trovarsi
Darcus, ma passarono alcuni secondi dopo l’ordine di Cutty, e
i fucili rimasero
puntati al pavimento.
«No.»
La risposta di Pain era stata
secca, e lasciò di stucco loro come lo scienziato.
«Che significa, generale? Vi
ho ordinato
di ucciderli.»
«Non lo
farò.»
«Avete paura di sporcare la
stanza?» La risata di Cutty era rauca, seccata.
«Eseguite il mio ordine.»
Pain fece un passo avanti, e Cutty
scattò in piedi, cercando di mettere tra loro il maggiore
spazio possibile.
«Sono stufo di eseguire ordini senza senso. State cercando
dei libri
pericolosi, a vostro dire. Blake vi ha detto che li hanno distrutti,
no? Allora
torchiateli, o mantenete la promessa e lasciateli andare, se gli
credete.
Ucciderli non ci sarà di alcuna
utilità.»
«Ma vi divertivate quando vi
era
stato chiesto di torturarli, generale Pain» lo
sfotté Cutty, che nonostante la
minacciosa incombenza del militare sembrava sicuro di sé,
probabilmente conscio
che il suo sottoposto non avrebbe alzato un dito su un superiore.
«Avete
accettato di buon grado di interrogarli alla vostra maniera, ne eravate
perfino
felice, cosa cambia adesso?»
«Cambia che ce li avevate
descritti come terroristi!» Il pugno calò sulla
scrivania, e lo scienziato
sobbalzò. «Ci avete detto che collaboravano con
gli assassini di Innsmouth, e
che le creature del Miskatonic River erano colpa loro! Volevate i loro
piani,
poi un altro uomo di cui nemmeno conoscevo l’esistenza, e
adesso cosa volete?
Liberarvi di testimoni scomodi?»
La mano di Michael scivolò
su
quella di Ellen.
Dove cazzo ha preso un coltello?!
No, si rese conto saggiandone la
struttura, era un bisturi. Doveva averlo rubato in infermeria, e lo
aveva
tenuto nascosto fino a quel momento. Dopotutto, se era arrivata
l’ora di
combattere, Ellen non avrebbe avuto a disposizione un briciolo della
forza
fisica di Michael.
Il silenzio calò dopo le
parole di
Pain, e lei ebbe tutto il tempo di riflettere sul perché
Michael non le avesse
dato prima il bisturi: i militari avrebbero potuto sparare, e
allora…?
Sapeva di Pain, o lo ha
immaginato.
Dopo quella che parve
un’eternità,
Cutty si lasciò ricadere sulla sedia e sospirò.
«Mi aspettavo che sareste
diventato un problema.»
La porta alle spalle dei due
soldati si spalancò, rivelando la presenza di altri
militari. Quattro, cinque,
sei… erano molti più di Pain e dei suoi. E le
loro pistole erano spianate.
Kurtz e Setter furono costretti a
consegnare i fucili, mentre le vene sul collo di Pain pulsavano dalla
rabbia;
saggiamente, decise di lasciarsi legare i polsi dai soldati di Cutty,
perché
due pistole erano state puntate alle tempie dei suoi uomini.
«Vedo che cominciamo a
intenderci.»
«Loro cinque non sono un
pericolo
per la comunità, non è vero,
professore?»
Cutty si strinse nelle spalle alla
domanda pacata del generale. «Dipende per quale
comunità. Per quella che
intende riportare i nostri Signori al loro antico splendore,
sì, sono un
pericolo. O quantomeno lo erano.»
«L’Ordine del
Crepuscolo d'Argento…»
ringhiò Alexander, interrotto dalla risata priva di gioia di
Cutty.
«Vi ho osservati durante il
nostro
colloquio, ieri sera. Eravate concentrati su ogni mia parola, pronti a
scoprire
che cosa vi stessi tenendo nascosto, ma non vi ha sfiorato la
possibilità che
un uomo di quel governo che ha sguinzagliato truppe armate su Innsmouth
potesse
essere interessato all’occulto… tanto da
convincere Darcus a disfarsi della sua
stessa famiglia.» Sorrise freddamente in direzione di
Alexander. «Sì, detective McCrindle,
è stata una mia
idea. Vedevo del potenziale nel nuovo accolito… un
potenziale che gli ho
suggerito di mettere in mostra. Con i suoi esperimenti, il mio amico ha
indossato ben presto la tunica bianca della Loggia, ma era convinto che
ci
fossero altri gradini da scalare. Dopotutto, io stesso ne ero a
conoscenza, e
immagino quanto fosse frustrante per lui vedere una cinquantina di
adepti
vestiti di bianco, e credere che fosse quello il
punto più alto da raggiungere.»
«Standford…»
«Standford lavora
nell’ombra. È il
suo prediletto, Scott, a farne le veci da quasi due decenni, Il
“Nobile
Filosofo”, come recita l’appellativo che si
è scelto, è il leader formale della
Loggia, il nostro capo, ed è stato lui a istruirmi
perché divenissi un Custode
della Porta d’Argento. La prima delle cariche nascoste, se
vogliamo chiamarla
così. Un dono,
è questa la
verità. Se Darcus avesse avuto dei poteri quando era tornato
nel Maine, non
avrebbe usato una scure. Non avrebbe sventrato il tuo tenero fratellino
mentre
tua madre gridava pietà, ma l’avrebbe lasciato
fare ad altri.» Sospirò. «E
questo non avrebbe gravato sulla sua grandiosa mente…
ahimè, ognuno di noi ha
dovuto compiere importanti sacrifici.»
«Come rapire degli innocenti
dalla
strada» sibilò Ellen.
«No, no, quelli non sono
sacrifici. Lo sono a livello pratico, perché il sangue ci
dona forza, ma a
sancire il legame è altro. È ciò che noi siamo
disposti a sacrificare. Credete
che l’Ordine possa accettare qualunque ragazzino assetato di
gloria e
conoscenza? Bisogna testare noi stessi e appurare fin dove possiamo
spingerci.
Penserete che siamo pochi, eppure è proprio il contrario:
solo la Loggia di
Boston ospita duecento adepti. Siamo ovunque.»
Cutty allargò le braccia. «Siamo anche
qui.»
«Stronzate. Sono solo un
mucchio
di merdose stronzate» esclamò Pain.
«Logge, magia… siete un gruppo di invasati.
L’avete detto voi stesso, che se Darcus McCrindle avesse
avuto dei poteri non
avrebbe usato le armi.»
«Allora non ne aveva, e fu
per
questo che venne internato. Povero Darcus… sono state le mie
lettere a dargli
speranza. Ho dovuto insistere, ma alla fine Scott e Standford mi hanno
concesso
di iniziarlo al rango di Custode. Per farlo bisogna sostenere un rito,
ma
Darcus era in manicomio, non avrebbe potuto seguire le
indicazioni… a meno di
non disseminare le mie lettere di indizi, formule e incantesimi. Solo
così ha
potuto apprendere il Segno degli Antichi, che ha permesso al suo corpo
di trasmutare.»
Signori, incantesimi,
Antichi…
Ellen si stava perdendo nelle parole di quel folle, che ormai aveva
assunto
anche l’aspetto di uno scienziato pazzo, ma era necessario
che parlasse ancora.
«Perché il vostro
capo avrebbe
dovuto accettare? Darcus era un uomo qualunque.»
«Non lo è mai
stato, ma ciò che
senza alcun ombra di dubbio si è dimostrato è un
compagno fedele. Ha mantenuto
il riserbo sulla Loggia e sulla sua ubicazione, e si è detto
profondamente
dispiaciuto per non essere riuscito a recuperare quei libri a cui al
Nobile
Filosofo e al Maestro, in realtà, importava meno di niente.
Ma io… io conoscevo
il suo e il loro potenziale. Li aveva visti, sapete? Il fratello
maggiore se n’era
vantato, e lui ha potuto descrivermeli. È stata su mia
indicazione che ne ha
trovato una copia anche alla Miskatonic.»
«A che vi sarebbero
serviti?»
«Non ve l’ho
già spiegato? A
evocare i nostri antichi Signori, a farli tornare nel loro
mondo.»
«Dagon»
soffiò Ellen.
«Avete fatto i compiti,
vedo. Vi
credevo più stupidi. Pensavamo che fosse solo la casa a
proteggervi… Quando
Darcus ha compreso che non poteva penetrare tra quelle mura, ha chiesto
il mio
aiuto.»
«Perché la casa
ci proteggeva?»
«Ah, non lo sapete? Eppure
l’Arcivescovo…»
«Basta
così» ordinò Pain, ed Ellen
comprese che era riuscito nell’intento. Si voltò
appena in tempo per
intravedere a terra la fune che gli aveva legato i polsi, poi il
generale
disarmò il primo soldato, e la ribellione ebbe inizio.
***
Avvenne tutto nel giro di una
manciata di secondi: Ellen si era già accorta del tentativo
di liberazione di
Pain, e scattò in avanti non appena il generale si mosse per
disarmare i due
uomini più vicini; approfittando della confusione e degli
occhi puntati sul
loro comandante, Ellen sgusciò verso la porta e
saltò su un terzo soldato,
puntandogli il bisturi alla gola, mentre Michael con un pugno ne
attaccava un
quarto. Cominciarono a volare i proiettili, ma Lilyan e Janet erano
preparate e
si rifugiarono in fondo alla sala, al riparo dietro un tavolo che
ribaltarono
in fretta. Erano rimasti solo due soldati, tuttavia sembrava che Kurtz
e Setter
avessero imparato molto dal generale, perché prima che Ellen
se ne rendesse
conto avevano già cambiato posizione, e adesso erano loro a
puntare la pistola
alle tempie degli avversari.
Nessuno si era curato di Cutty,
perché tutti sapevano che apparteneva ad Alexander.
Si era fiondato sotto la
scrivania, afferrandogli le gambe e trascinandolo a terra, e lo stava
riempiendo di pugni. Un pugno, un altro, le nocche che calavano sul suo
volto e
un rumore di ossa rotte. Ellen era troppo occupata per gridargli di
lasciarlo in
vita, e in fondo neanche le interessava, ma poi,
all’improvviso, Alexander si
fermò.
E iniziò a urlare.
No, no, no…
Prima giunse il tanfo. Pesce
putrido, acqua salata mista a morte, un fetore che riportò
Ellen alla notte nel
dormitorio, quando aveva scoperto che l’oscurità
possedeva altre forme, oltre a
quella umana.
Seguì il suono cadenzato di
passi.
Lenti, calmi, come se avessero atteso a lungo quel momento e volessero
gustarlo
appieno.
Infine, comparve la sua figura.
Non aveva più
l’aspetto di Bobby
Sills, il gangster sacrificato alle creature del Miskatonic River, e la
sua
somiglianza con Alexander si tramutò in nausea nella gola e
nella mente di
Ellen. Stessi capelli neri, stessi occhi scuri, stessi lineamenti.
Erano zio e
nipote, e chiunque lo avrebbe capito. Alexander, però, non
aveva pinne sulle
braccia, né una mano palmata reggeva un libro aperto al
centro mentre l’altra,
umana, tracciava segni in aria; neppure possedeva quel ghigno insano, o
lo
sguardo reso delirante dagli anni passati in una cella. Tre notti
prima, quando
erano sfuggiti a lui nella chiesa che ardeva, le fiamme e le sembianze
di Sills
le avevano nascosto la follia racchiusa nella sua espressione. Era il
turno
della paura, del terrore inconfessabile, perché di fronte
non avevano soltanto
un assassino.
Era un patricida, un matricida, un
fratricida. Aveva sollevato la scure contro la donna che lo aveva messo
al
mondo, nonostante la sua morte non servisse. Aveva infierito sul nipote
che
dormiva nella culla, tranciandogli di netto ogni arto, nonostante la
sua morte
non avesse uno scopo. Aveva colpito e colpito decine di volte, allo
scopo di
ottenere un riconoscimento, di entrare in possesso di oggetti che non
avrebbe
tenuto per sé, ma avrebbe affidato ad altri solo per
sentirsi dire che aveva
fatto un ottimo lavoro.
Darcus McCrindle sarebbe stato un
avversario spaventoso anche senza possedere poteri magici.
Ci volle qualche secondo
perché
Ellen capisse che non era l’orrore a immobilizzarla. Come il
resto dei
presenti, si era pietrificata nel momento in cui Darcus aveva
pronunciato una
formula, ma quello che teneva in mano non era il libro degli
incantesimi di cui
aveva parlato Cutty, e che Alexander aveva intravisto a Boston. Era un
volume
dalla spessa copertina marrone, le pagine ingiallite dallo scorrere del
tempo.
Ellen non lo aveva mai toccato, eppure sapeva che era uno dei libri dei
McCrindle. Non era stato quello a bruciare nella chiesa.
La paura che la attanagliava aveva
un significato: a Darcus interessava ottenere tutti i volumi per
mostrarli alla
Loggia, ma intendeva tenere per sé quel tomo. Era scomparso
non appena lo aveva
recuperato, e aveva preferito introdursi al Campus piuttosto che rubare
loro il
libro di cui aveva trafugato una copia; era il solo che non aveva
lasciato
nella Chiesa Occidentale, perché non se ne sarebbe mai
separato.
Alexander avrebbe potuto
ostacolarlo, ma non aveva più niente per farlo. Darcus
sì.
«È un piacere
fare la vostra
conoscenza.» La sua voce penetrava nella mente senza passare
dalle orecchie,
stridente come gesso sulla lavagna. Li soppesò uno a uno,
controllando che l’incantesimo
stesse facendo effetto, e fu solo quando incontrò lo sguardo
di Alexander che
riprese a camminare. Il detective era ancora sul pavimento, e si teneva
la
testa come se Darcus avesse scelto di escluderlo dal raggio della
magia;
accanto a lui, steso supino, Cutty ansimava debolmente. «Sono
felice di
rivederti, nipotino.»
Pur soffrendo, Alexander
tentò di
scattare in avanti per attaccarlo, ma invano. Darcus rise, rise, una
risata che
offuscò gli occhi di Ellen.
«Oh, Xander,
Xander… come hai
conciato il mio amico? Non si fa, è sbagliato, tuo padre non
te l’ha
insegnato?»
Ancora la sua risata diabolica,
ancora il senno che minacciava di abbandonare la mente di Ellen.
«Ma ora basta.»
Darcus chiuse con un singolo
scatto il libro. L’aria tornò a pesare attorno a
loro, ma si sentivano troppo
deboli per muoversi. Alla sua sinistra, Ellen ebbe appena il tempo di
vedere la
schiena di Michael scivolare contro il muro, prima che il soldato che
aveva
picchiato decidesse di vendicarsi, con un pugno, un calcio, un pugno
ancora.
Avrebbe voluto implorarlo, ma le
mancava il fiato; fu Darcus ad alzare una mano per intimargli di
smettere.
«Veniamo a noi,
finalmente.» Non c’era
più traccia di esultanza nella sua voce, che era tornata a
passare dalle loro
orecchie. «Ti sei spinto troppo oltre, Xander. Ti avevo
concesso di vivere… non
allora, avrei potuto uccidervi tutti, compreso te e quel piantagrane di
Silas.
Te l’ho concesso quando ho scoperto che eri vivo, e che stavi
cercando i miei libri.
Te lo avrei concesso anche
oggi, se me li avessi consegnati. Ma tu…» Scosse
la testa con disappunto. «Mi
hai deluso. Dovevi starne fuori, e avresti continuato la tua insulsa
esistenza.
Invece hai trascinato tutti a fondo con te.»
La mano palmata si mosse per
indicare coloro che occupavano la stanza, da Michael, a terra con il
volto
lordo di sangue, a Ellen, che si accorse solo allora di avere la canna
di una
pistola puntata alla fronte; si spostò verso le due donne
che avevano provato a
nascondersi, e che ora erano tenute sotto tiro come Pain e i due
soldati dalla
sua parte.
«Ho riflettuto, mentre
mettevate
in scena questa pantomima, e ho deciso cosa fare con voi,
perché vi siete
dimostrati avversari capaci. Nessuno di voi aveva la formazione per
combattermi, eppure ci avete provato, e io vi stimo per questo.
Perciò, il
vostro sangue servirà al più alto degli scopi:
riportare il popolo di Innsmouth
agli antichi splendori.» Inspirò profondamente
un’ultima volta, prima che un
sonno soprannaturale si impadronisse di loro.
«Tornerà il Signore dei Mari, il
padre della civiltà che vive sotto le acque di Innsmouth.
Tornerà agli antichi
fasti, e tutto grazie a voi.»
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Capitolo 25 *** Capitolo XXV ***
TW:
violenza domestica, aborto spontaneo
Capitolo
XXV
Riemersero dal profondo sonno
magico nel medesimo istante.
L’odore salmastro alle sue
spalle obbligò
Ellen a voltare la testa quel poco che riusciva, e con un pizzico di
sollievo
osservò il mare che si stendeva sotto di loro; un attimo
dopo avere appurato
che non erano circondati da creature ittiformi, comprese la
pericolosità della
situazione.
Da un lato il mare –
l’oceano – a
decine di piedi di distanza; dall’altra il fondo di una
caverna, e Darcus.
Si costrinse a restare lucida per
contare i presenti. A terra, spalle contro il muro accanto a lei,
c’erano
Michael, Janet e Lilyan, e dall’altro lato Alexander, Kurtz,
Setter e Pain.
Darcus era in piedi, coperto su entrambi i lati da un paio di quei
soldati che
li avevano catturati nell’ufficio di Cutty. Lo scienziato non
era là.
«Lo Scoglio del
Diavolo.»
Darcus non dovette chiedere se
fossero tutti svegli: lo sapeva benissimo, e sapeva di avere la loro
completa
attenzione. Camminò tra le due file di prigionieri fino al
bordo della caverna,
contemplando l’oceano, una pozza nera in quella notte quasi
priva di luna. Le
braccia intrecciate dietro la schiena ricordarono a Ellen che non era
stato
solo un sogno: la mano destra era umana, unghie curate sulle dita
affusolate,
mentre la destra era una zampa palmata, verdognola, umida e appiccicosa.
«Siete fortunati: da qui si
gode
la vista migliore. Purtroppo, le vostre vane preoccupazioni vi hanno
impedito
di godere dell’eclissi solare. È stata
un’esperienza spirituale: per un attimo,
il mondo si è oscurato e ho potuto ascoltare i miei
pensieri, la compagnia che
preferisco. Voi, invece, persi nei vostri problemi, non ve ne siete
neanche
accorti. Avete proseguito come se nulla fosse, mancando di rispetto
alla
sublime magnificenza del cosmo.» Sospirando, si
girò verso l’interno, e per un
attimo anche metà del suo volto parve assumere un altro
aspetto. «Per vostra
fortuna, potete approfittare di questa notte di luna nuova. Ne vedrete
altre
due, e durante la terza vi unirete al Popolo del Mare.» Si
portò la zampa alla
fronte. «Perdonatemi, mi sono espresso male: il vostro sangue
servirà a
richiamarlo, ma voi morirete.»
Ellen non riusciva a pronunciare
un singolo suono, eppure si rendeva conto che non si trattava di un
altro
incantesimo. Era la paura ad attanagliarla, perché
l’aura che circondava Darcus
lo rendeva più spaventoso di tutti gli incubi, anche di
quelli reali che aveva
conosciuto. Lo temeva più del mostro invisibile della Chiesa
Occidentale, sia
perché quel mostro era stato sconfitto, sia
perché Darcus avrebbe potuto
evocarne altri. Ellen ignorava ancora cosa fosse il Simbolo degli
Antichi, ma
era bastato tracciarlo per permettergli di evadere dal manicomio, e
ciò
significava che non aveva bisogno dei libri. Eppure era stato disposto
a tutto
pur di entrarne in possesso.
«Voglio raccontarvi una
storia. Vi
prometto che sarò breve, ma… mio caro Xander, sei
l’unico parente che mi è
rimasto. Desidero che tu sappia cosa vedo negli abitanti di Innsmouth,
che
attendono nascosti il ritorno del loro Signore. Ho sempre amato la
medicina, la
scienza, quelle arti che permettevano di studiare la
complessità del corpo
umano. Eravamo tre fratelli colti, ciascuno con la predilezione per una
singola
materia, e quando ho ottenuto la licenza di medico ho subito capito
come avrei
potuto sfruttarla: ampliando le mie conoscenze e abilità.
Owen, e mio padre e
mio nonno prima di lui, avevano il dono della magia, che tuttavia
scelsero di
non usare neanche una singola volta. Da parte mia, volevo dimostrare
che non c’era
bisogno della magia per creare qualcosa di perfetto, per migliorare
l’essere
umano. Purtroppo, non ho mai raggiunto il mio scopo, e solo di recente
ne ho
compreso il motivo: non dovevo ottenere i poteri per trovare nuove
cavie e
costringerle a collaborare, bensì dovevo guardare alle
creature che abitano l’universo.
Gli ibridi di Innsmouth sono la perfezione a cui miravo, e sapete
perché? Non
sono stati costruiti dall’uomo
mettendo insieme parti
di specie differenti, non è stata usata la magia per
tramutarli in una nuova
razza. Sono “generati, non creati”.»
Un brivido attraversò
l’intero
corpo di Ellen, soffermandosi sul petto, sulle costole incrinate, sul
suo
ventre. Avrebbe preferito ignorare il significato di quelle parole.
«Artemius non voleva che
fossero
distrutti. Quando comprese ciò che l’esercito
aveva intenzione di fare, li
avvisò, permettendo loro di fuggire. Alcuni
soccomberono… ma la stirpe vive
ancora, ed è in attesa di tornare sulla terraferma. Lo
faranno presto. E tu,
nipote mio, potrai scegliere. Artemius è convinto che
seguirai le orme di Owen,
e morirai pur di restare fedele ai tuoi cari, ma non è solo
il sangue di Owen a
scorrerti tra le vene: c’è anche il mio, e so che
posso ancora perdonarti.
Entrambi abbiamo agito per uno scopo, entrambi possiamo prendere una
decisione
finale. La mia è di lasciarti in vita fino al grande evento,
permettendoti di
schierarti con i vinti o con i vincitori. Vedi? So essere
magnanimo.»
«Perché…»
La voce di Alexander era
roca. «Perché… non hai
ucciso… Silas?»
Per la prima volta da quando erano
entrati a contatto con lui, Darcus parve riacquistare
l’umanità perduta.
Sbiancò e chinò il capo verso Alexander, prima di
rispondere. «Non dovevate
morire tutti. Non doveva morire nessuno. Quella notte, dopo che Owen ha
rifiutato di prestarmi i suoi preziosi libri, ho escogitato un piano e
Silas ha
finto di aiutarmi. Ha detto che era stufo di vivere
nell’ombra di nostro
fratello, e che era disposto a gettarsi il passato alle spalle, se lo
avessi
portato con me a Boston. Gli ho creduto.» Sospirò
di nuovo, questa volta non
per enfatizzare un concetto, ma per un peso che si portava dietro da
anni. «Mi
ha venduto a Owen. Silas ha preso i libri, gli ha assicurato che li
avrebbe
messi al sicuro da me, e quando ho confrontato nostro fratello ho
avvertito il
panico e il risentimento possedermi. Voglio essere sincero con te,
perciò te lo
sto dicendo. Silas e Owen intuivano che avessi amici potenti, ma non mi
credevano
capace di uccidere. Però… se questa fosse stata
davvero la convinzione di
Silas, perché ti avrebbe portato via?»
Indugiò prima di colpire Alexander con
la sferzata finale, decisiva. «Io li ho uccisi, ma Silas me
li ha offerti, e
non ha neanche provato a salvarli.»
Si riscosse e tornò
all’imbocco
della caverna a strapiombo sull’oceano, muovendo le mani per
evocare una magia.
«Due uomini resteranno con
voi,
nel caso tentiate la fuga. Ci rivedremo fra due notti, e io
avrò la tua
risposta, Xander.»
Subito dopo, Darcus svanì.
***
Erano prigionieri di un invasato
dotato di poteri magici, tenuti sotto controllo da due soldati armati
con
pistole semiautomatiche e coltelli da caccia, all’interno di
una grotta umida
in una gelida notte di novembre; l’unica via
d’uscita era rappresentata da un
salto nel vuoto di circa sessanta o settanta piedi, e da quella
angolazione e
sotto la luna nuova era impossibile sapere in anticipo quanto fosse
vicina la
prima spiaggia. Con la fortuna che avevano sempre avuto, le costa
frastagliata
poteva stendersi per miglia.
C’era un lato positivo:
Darcus era
stato talmente sicuro di sé da non controllare come i suoi
uomini avessero
legato loro polsi e caviglie; certamente con Pain si erano impegnati di
più,
visto quanto accaduto poche ore prima, però Ellen era
abituata a peggio, e
anche Alexander. La caverna era illuminata solo dalla flebile fiamma di
una
torcia, eppure loro evitarono di guardarsi per non destare sospetti.
Non che ce
ne fosse bisogno, perché i due carcerieri avevano occhi
unicamente per i loro
colleghi, come se i cinque civili non rappresentassero un pericolo.
Le pareti della caverna erano
lisce, ma Ellen era riuscita a trovare una sporgenza nella roccia che
le stava
permettendo di tagliare parte della fune, allentando la stretta, mentre
il
busto di Michael le faceva da riparo. Quando le sue mani si furono
liberate,
passò ai piedi. Alexander, di fronte a lei, andava a
rilento: stando ai suoi
movimenti, aveva trovato a sua volta un punto per tranciare le corde,
ma si
sbilanciò e rischiò di farsi notare. Ellen
impallidì; Pain, all’altro capo
della fila di Alexander, chiamò i soldati.
«Qual è stato il
vostro prezzo?»
Nessuno dei due rispose, ma
portarono l’attenzione sul generale.
«Che vi costa dirlo? Avete
voltato
le spalle all’America, e per cosa? Un salto di grado? Un
assegno con tre zeri?»
Pain fece un basso ringhio. «O vi siete solo cagati
addosso?»
Doveva avere colto nel segno,
perché assunsero una postura tesa.
Bene, che continui così.
A Ellen faceva comodo che Pain li
schernisse: finì di slegarsi i piedi e si
concentrò sui polsi di Michael, senza
distogliere lo sguardo da Alexander. Non dovevano fare passi falsi.
«Avete giurato di proteggere
gli
innocenti, codardi!»
«Zitto!»
gridò un soldato, tirando
un calcio al petto di Pain.
Lui non demorse. «Slegatemi
e
colpitemi di nuovo, se ne avete il coraggio. Siete bravi solo a
parole?»
«Ho detto
zit…»
Ma il soldato non concluse mai la
frase. Alzò una seconda volta la gamba per colpire il
generale, e fu allora che
Pain svelò le braccia libere e gli strattonò il
piede, trascinando l’uomo a
terra. L’altro soldato estrasse la pistola, ma Michael lo
calciò, facendogli
perdere l’equilibrio: Pain ne approfittò per
afferrargli la testa e sbatterla
contro il terreno roccioso. Una, due, tre volte. Prima che
l’uomo rimasto
potesse ritirarsi in piedi, con uno scatto Alexander gli aveva tolto il
coltello da caccia e, senza porsi dilemmi morali, gli aveva reciso di
netto la
carotide.
La prima parte era stata semplice;
inaspettatamente avevano potuto contare sull’aiuto di Pain,
ma questo non
faceva di lui un alleato. Se non si fosse liberato da solo, Ellen lo
avrebbe
lasciato là, insieme a Kurtz e Setter, e che Darcus facesse
di loro quel che
cazzo gli pareva.
Michael e Pain si scrutarono in
silenzio. Tenevano entrambi in mano un coltello trafugato dai loro
carcerieri e
sembrava che il medico fosse sul punto di saltare alla gola del
generale. Alla
fine, annuendo, stabilirono una muta tregua.
«Sapete nuotare?»
Ellen ringraziò le lezioni
di
Marco e Giovanni nelle fetide acque dei Docks, sperando che un fondale
più
profondo non avrebbe rappresentato un ostacolo insormontabile.
Sibilarono tutti
un «Sì», tranne Lilyan.
Cazzo.
«Ci penso io»
affermò Alexander.
«Vieni con me.»
Aveva tolto una delle pistole al
cadavere e la consegnò a Janet, che avrebbe avuto maggiore
libertà di
movimento. L’altra pistola era diventata di
proprietà di Setter, e per quanto
Ellen desiderasse protestare sapeva che era inutile. Due armi per
ciascuno dei
due gruppi, i civili e i militari, costretti a collaborare.
«C’è
un’insenatura sulla sinistra»
spiegò Pain, affacciandosi sull’unico ingresso
della caverna. «Quel coglione ci
ha detto esattamente dove siano.»
«Perché credeva
che non ne saremmo
mai usciti da soli» aggiunse Kurtz.
Ah, ma allora i due cani parlano.
Una parte di Ellen voleva essere
riconoscente ai tre soldati che si erano opposti agli ordini di Cutty,
mettendo
a repentaglio il lavoro e la vita, ma un’altra ricordava bene
gli stivali che
erano calati sul suo addome e le mani che l’avevano
trascinata in cella, avanti
e indietro, per ore che le erano sembrate interminabili. Comprendeva
benissimo
Michael e la sua smania di farli fuori tutti – o perlomeno
quel sadico bastardo
di Pain.
Non c’erano appigli sulla
roccia,
potevano solo saltare nel vuoto e pregare, se avevano un dio.
Per primo si tuffò Pain,
che
riemerse dopo cinque secondi esatti, dando loro una stima di
profondità e la
certezza che non dovevano per forza morire quella notte, nelle gelide e
scure
onde dell’oceano. Per fortuna, il vento soffiava appena e
l’acqua non li
avrebbe sospinti di nuovo verso la scogliera, spezzando la colonna
vertebrale o
annegando i polmoni.
«Vado prima io?»
le sussurrò
Michael, notando la sua reticenza. Kurtz e Alexander si erano tuffati,
poi
Setter e Janet, e infine anche Lilyan. Rimanevano soltanto loro due.
Ellen fece un cenno di diniego.
«Ci vediamo a riva» disse.
L’impatto le tolse il
respiro.
Tre, quattro, cinque, contò tornando a galla.
Guardò
in alto, verso Michael, e si spostò per fargli spazio.
Pain aveva ragione, la riva era
sulla sinistra e non distava più di mezzo miglio. Era
lontana, ma potevano
raggiungerla. Nuotò rapidamente per combattere il freddo,
detestando i vestiti
e i capelli incollati alla pelle, e le venne quasi da ridere
constatando che,
in quel momento, ciò che le premeva di più era
trovare un cambio di abiti
asciutto. Sarebbe stato difficile, ma meno complicato che sfuggire a
uno
scienziato pazzo e a uno stregone con manie di protagonismo. Si
concentrò su
quei pensieri, reprimendo la stanchezza, nascondendosi il dolore alla
gabbia
toracica, fino a quando non giunse sulla riva. Solo allora
crollò a terra,
ansimante.
I soldati erano già sulla
sabbia,
ma si sentiva troppo debole per scattare in piedi e mettersi sulla
difensiva.
Anche Janet era arrivata, e Alexander e Lilyan erano sempre
più vicini. Michael…
Michael non c’era.
Si rialzò e
guardò la distesa
oscura, agognando di scrutare un segno della sua presenza;
passò un’eternità
prima che una figura apparisse in lontananza. Represse il sospiro di
sollievo
quando si accorse che Michael non era solo.
Lo avevano circondato. Erano solo
in due, ma nuotavano più veloce, mentre lui…
lui…
Il braccio. Non riesce a muovere
il braccio,
realizzò osservandolo divincolarsi, tentare di scappare con
le poche forze che
gli rimanevano.
Ellen si gettò in acqua, ma
cadde;
ci riprovò e cadde ancora, la testa che scoppiava, le
costole che le toglievano
il fiato, le gambe che maledette,
muovetevi, muovetevi, vi prego!
Le lacrime le offuscavano la
vista, impedendole di vedere Michael che rallentava, si guardava alle
spalle,
si accorgeva che ormai erano arrivati a lui…
Gridò, gridò,
gridò, un urlo
infinito nella notte. Provò di nuovo a combattere le onde,
inciampò, gridò.
Alla sua destra un guizzo, e Pain l’aveva superata. Nuotava
veloce, dritto
verso Michael, verso le creature che lo stavano raggiungendo. Divennero
un
unico groviglio, strilli di dolore, acuti richiami che cessarono di
colpo.
L’acqua si muoveva.
Un’onda ne
seguì un’altra, e un’altra ancora, fino
a quando Pain non comparve alla fioca
luce delle stelle tenendo tra le braccia Michael. Crollarono entrambi a
terra
ed Ellen si lanciò su Michael, lo scosse, appurò
che respirava e continuò a
piangere sul suo petto, avvertendo a malapena le sue dita sulla
schiena. La
stava rassicurando, lui che per poco non aveva perso la vita.
A scuoterla da quelle sensazioni
vorticose fu il rumore di un colpo caricato. Alzò appena lo
sguardo da Michael,
portandolo in direzione della pistola. C’era Pain a terra,
accanto a loro,
ansimante e supino; sopra di lui, incombeva Lilyan.
La ragazza piangeva in silenzio,
proprio come aveva fatto quel pomeriggio, quando aveva dovuto accettare
le
decisioni del gruppo. Piangeva ancora, e il motivo era lo stesso, era
quell’uomo
che li aveva martoriati pretendendo sangue e sfinimento, era colui che
rappresentava tutto il dolore che le era stato inflitto: la perdita del
suo
primo amore, la fuga da Boston per tenere suo padre al sicuro, i suoi
sogni da
bambina infranti uno dopo l’altro. Con la tortura, Pain aveva
reso tangibile
ogni sofferenza. Lo fissava con astio e risentimento, il viso deformato
da un
odio che non aveva mai conosciuto prima.
Pain non disse niente. La
guardò
negli occhi, in silenzio, aspettando che fosse lei a prendere una
decisione.
Infine Lilyan, tremando,
lasciò
cadere la pistola sulla sabbia.
***
Rimanere all’aperto, preda
dei
mostri marini che avrebbero potuto sostituire quelli uccisi da Pain,
era
sconsigliabile, e lo era anche per il freddo che la notte di novembre e
gli
abiti fradici avevano appiccicato ai loro corpi. Senza domandare dove
li stesse
portando, seguirono Pain nel folto del bosco dopo la spiaggia,
inoltrandosi fra
gli alberi che con i fitti rami potevano celarli perfino a sentinelle
aeree.
Alexander ed Ellen sorreggevano Michael, e lei cercava di ignorare la
fitta al
fianco: si era imposta di accompagnarlo, niente l’avrebbe
fatta desistere, e
Michael era troppo dolorante per rimproverarla. Aveva avuto ragione: il
taglio
che Pain gli aveva inferto al braccio aveva ripreso a sanguinare e
nessuno di
loro se ne era accorto, né l’uomo ne aveva fatto
parola, cocciuto e presuntuoso
com’era. Non lo avrebbero curato nella caverna, ma Ellen lo
avrebbe aiutato a
nuotare; invece, ora dovevano la sua vita a Pain.
Il generale li condusse in una
radura dove sorgevano alcune abitazioni abbandonate da tempo, a
giudicare dal
silenzio che regnava e dalla sicurezza con cui Pain fece strada. Si
diresse
verso l’edificio più grande, un casa a due piani,
e attese che fossero entrati
tutti prima di sbarrare porte e finestre.
«È un posto
sicuro.»
A quel punto, anche la bocca
dell’Inferno
sarebbe andata bene. Ellen lanciò un’occhiata alla
camera adiacente l’ingresso
e constatò che ospitava un paio di materassi a diretto
contatto con il
pavimento sudicio; fece un cenno ad Alexander, che la seguì
all’interno per
adagiare Michael su quello che le sembrava messo meglio. Lo
lasciò lì,
eseguendo in silenzio ogni azione come fosse un rituale:
afferrò le camicie e i
due pantaloni che Kurtz le porgeva, rintracciò un paio di
stracci da strappare
in strisce, trovò perfino del disinfettante, come se non
fosse la prima volta
che Pain usava quel luogo per rintanarsi. Tornò in camera e
chiuse tutto fuori –
Darcus, Cutty, la grotta, i soldati, la magia. Si chinò e
aiutò Michael a
spogliarsi, si disfece a sua volta dei vestiti bagnati e infilarono
abiti
finalmente asciutti. Pulì la ferita e la bendò,
con calma e prudenza,
stringendola appena per impedirle di sciogliersi. Quando ebbe finito,
si stese
sul materasso vuoto e si concesse di osservare il volto di Michael.
Erano entrambi svegli, troppo
scossi per dormire nonostante la spossatezza, e si guardavano negli
occhi come
se temessero che fosse la loro ultima notte al mondo. Forse lo era, o
forse,
come aveva promesso Darcus, ne avrebbero avute ancora altre due.
Michael allungò il braccio
e le
afferrò la mano.
«Vieni»
sussurrò.
Lei provò a opporsi, ma
cedette
presto. Avvicinò il materasso e si appoggiò di
nuovo sul suo petto: non voleva
guardarlo in faccia, non con quello che stava per confessargli.
«Salem»
mormorò, e il solo
pronunciare il nome della città la fece fremere.
«Vengo da Salem.»
Cominciò e fu un fiume in
piena.
Raccontò di come fosse
iniziata la
sua vita, e di come a cinque anni si fosse conclusa.
Raccontò del sorriso che
aveva
visto lentamente, inesorabilmente spegnersi sul volto di sua madre, e
dei
fratelli che non aveva mai conosciuto.
Raccontò del suo dolore,
della
fugace felicità e della fuga ad Arkham, raccontò
ogni cosa, e lo fece riducendo
al minimo i particolari, stupendosi di quanto la sua intera infanzia
potesse
essere riassunta in pochi, precisi eventi. Era la prima volta che ne
parlava, e
fu come se quel passato non le fosse appartenuto, eppure ogni attimo
era inciso
nella sua pelle, aveva indurito il suo cuore, le aveva precluso ogni
futura
serenità.
«Per sei anni, sono stata
figlia
unica. Eravamo solo in tre. Per mia madre, ero la luce dei suoi occhi,
e non
era soltanto un modo di dire. Veniva da una buona famiglia,
è stata lei a
insegnarmi a leggere e a scrivere. Quando ha conosciuto lui, ha voltato
le
spalle ai genitori, alla ricchezza, a ogni comodità per
sposarsi in una topaia.
Era incinta ed era al settimo cielo. Lo amava, e ha amato me. Anche lui
mi ha
amata. Per cinque anni.»
Aveva pochi ricordi, ma erano
nitidi: giocava tra le braccia di suo padre, baciava le guance della
madre,
dormiva con loro e rideva, rideva, rideva. Quando adesso provava a
sorridere,
le faceva male il viso.
«Mia madre è
rimasta incinta di
nuovo. Erano stati attenti, perché erano giovani e non
avevano soldi, e lui non
riusciva a trovare lavoro. Questo lo rendeva furioso, e allora
cominciò a bere.
Quegli spiccioli che racimolava non erano per la sua famiglia, ma per
il suo
fegato. Doveva placare la rabbia, diceva. E poi iniziò a
tirarla fuori.»
Sua madre aveva perso il bambino.
Non sarebbe potuta andare altrimenti: gli schiaffi, i calci, la spinta
dalle
scale. Ellen ricordava la pozza di sangue, e a distanza di anni ancora
ignorava
se venisse da sua madre o dal fratellino mai nato.
Era rimasta incinta di nuovo, ed
era nata Lynda. E poi ancora, e ancora, e solo Peter e Colin si erano
salvati.
“Salvati”, che
definizione
impropria.
«Ogni volta che tornava a
casa,
lei lo accoglieva con il sorriso. E lui con un pugno. Mia madre sapeva
che cosa
la aspettava, perché mi diceva di nascondermi.
“Nasconditi, Ellie, è solo un
gioco”, ma non lo era. Crebbi, e non smisi di nascondermi.
Non provai mai a
fermarlo, e… e so che ero una bambina. Ma lui infieriva
anche sui miei
fratelli, e io non mossi un dito.»
“Nasconditi, Ellie, resta
nascosta”:
la madre ripeteva quelle parole mentre Ellen era già sotto
il tavolo, dentro l’armadio,
fuori al gelo. Era terrorizzata, e lasciava sempre indietro i fratelli.
Lynda
provava a seguirla, ma lui arrivava prima. E lei rimaneva a guardare.
«Saremmo potuti scappare,
però fu
mia madre a impedircelo. Non voleva lasciarlo. Lui tornava, la
picchiava, le
faceva perdere il bambino, e il giorno dopo si svegliava e la implorava
in
lacrime di perdonarlo, e lei non attendeva neanche un minuto.»
Ricordava l’ultima volta in
cui le
aveva chiesto perché non potevano andarsene,
perché rimanevano con quell’uomo
che li spaventava a morte, e sua madre, con l’occhio pesto e
senza un dente, le
rispondeva: «Perché io lo amo. E lui ci ama, a
modo suo.»
Se quello era amore, Ellen non
avrebbe voluto conoscerlo mai.
«Quando avevo undici anni,
lei
rimase incinta per l’ultima volta. Il suo corpo non poteva
sopportare oltre, e
morì dando alla luce una bambina. Lui era con noi, e aveva
bevuto, e urlava e
piangeva e voleva uccidere mia sorella… Non so dove trovai
la forza, ma lo
spinsi via, presi la bambina e corsi, corsi… La lasciai
sulla porta di una
casa, nel quartiere dove viveva la famiglia di mia madre, non sapevo
nemmeno se
fossero loro… Aspettai che la raccogliessero dalla neve e
poi fuggii… E non
tornai mai indietro. Non vidi mai… mai
più… E non so se siano sopravvissuti, o
se… se…»
Singhiozzava così forte che
le
parole morirono in gola. Michael la circondò, la strinse, la
baciò, la cullò
fino a quando fu troppo esausta per piangere.
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Capitolo 26 *** Capitolo XXVI ***
Capitolo
XXVI
L’indomani erano ancora
vivi, una
considerazione tutt’altro che banale dopo gli eventi delle
ultime ore.
Alexander e Pain li radunarono
nell’ingresso, una sala abbastanza ampia da consentire loro
di accomodarsi su
sedie incrinate, divani logori o i materassi su cui avevano dormito tre
dei
civili, mentre i soldati si erano impadroniti del secondo piano, dal
quale
potevano godere di una migliore visuale. Erano a corto di cibo, ma un
pozzo li
aveva riforniti di acqua pulita, e per il momento poteva bastare.
«Cos’è
questo posto?» domandò
Alexander a bruciapelo non appena ebbero dato inizio alla riunione
d’emergenza.
«Caverby, o quel che ne
resta» rispose
Pain. «In passato era un villaggio di esili dimensioni,
fondato da puritani
così radicali da essere scacciati dalla loro
comunità, ma negli ultimi sette
anni è stato utilizzato come deposito di alcolici. Me ne
aveva parlato il
collega che ha sventato l’operazione, e quando il governo mi
ha mandato a
collaborare con Cutty mi è tornato in mente. È un
porto sicuro, mettiamola
così.»
«Quindi non vi siete mai
fidato di
lui?»
«Non esattamente. Avrebbe
dovuto
collaborare con l’esercito, ma una volta smantellata
Innsmouth ha preso le
redini delle future operazioni, e qualcuno dall’alto glielo
ha lasciato fare.»
In un angolo, Lilyan tirò
su con
il naso. Si erano procurati la legna per accendere il camino, ma erano
ancora
provati dalla nuotata notturna; anche Ellen malediceva il raffreddore
che
prudeva nelle narici. Erano entrambe sedute sul lato meridionale
dell’edificio,
insieme ai loro compagni, in modo da avere i soldati di fronte:
potevano sia
osservare le loro mosse che tenerli a distanza. Avrebbero avuto bisogno
di
tempo per imparare a fidarsi di loro, ma non ne avevano.
Due notti.
Ellen andò dritta al sodo.
«Avete
un piano.»
«Solo un’idea, per
adesso. Conto
di perfezionare i dettagli entro domani. Per allora, voi ve ne sarete
già
andati.» Pain scoccò un’occhiata di
avvertimento ad Alexander. «A meno che voi,
detective, non vogliate accettare la sua offerta.»
Uscire da quella orribile
situazione era sembrato un sogno a lungo irrealizzabile: ci avevano
provato, ma
Darcus e i maledetti libri si erano ancorati alle loro vite.
D’altra parte, ora
potevano passare il testimone a qualcuno di cui, se le cose fossero
andate
storte, nessuno avrebbe sentito la mancanza.
Fu Michael a interrompere il
silenzio calato dopo l’infida insinuazione di Pain.
«Potremmo cambiare aria per
un po’.»
«Boston è troppo
vicina» disse
Janet, che tuttavia sembrò valutare la proposta.
«Non Boston. Verreste da me,
in
Europa. Ci sarebbe un oceano tra noi e Darcus.»
«C’è…
anche l’India» mormorò
Lilyan. «Janet, sono là i tuoi genitori
adesso?»
Lo sguardò
dell’archeologa
dardeggiò dall’amica ai soldati, come se temesse
che avrebbero potuto usare
quell’informazione per rivenderla al nemico o fare del male
alla sua famiglia.
«Non… non
so… Credo che l’Europa
sarebbe la scelta…»
«Non abbiamo
scelte» la interruppe
Alexander con una risolutezza inedita, la stessa con cui, la sera
prima, Ellen
gli aveva visto tagliare la gola a uno dei carcerieri.
«Detective, ha
forse…»
«…preso in
considerazione la
proposta di Darcus? No, niente affatto. Sono soltanto stufo di
aspettare il
momento in cui potrò gettarmi il passato alle spalle.
Abbiamo provato ad
affidare la nostra missione… la mia missione
a Cutty, e cosa ne abbiamo
guadagnato? Niente di buono.»
«Cutty è un
megalomane che
collabora con un pluriomicida, ma potete affidarvi a noi.»
«No, generale. Ho eluso il
mio
compito per fin troppo tempo, e so che devo essere io a portarlo a
termine.
Insieme a voi, perché al contrario di mio zio non sono un
pazzo, ma non posso
lasciare che altri svolgano il lavoro al mio posto.»
«Di quale lavoro state
parlando,
della vendetta? Volete farvi giustizia per la vostra
famiglia?»
Alexander esitò, ma non
c’erano
più motivi per mentire. «Mio padre era il
Guardiano dei libri, come suo padre e
suo nonno, e come tutti i primogeniti dei McCrindle. Doveva evitare che
qualcuno ci mettesse le mani sopra, eppure ha delegato il compito al
fratello
minore, e li ha persi. Sono l’ultimo McCrindle rimasto, ed
ero il primogenito
di Owen, dunque avrei ereditato il suo ruolo e ho fatto… con
l’aiuto dei miei
amici… ciò che avrebbero dovuto fare tutti i
Guardiani che mi hanno preceduto:
bruciare i libri. Ne è rimasto uno, e devo sbarazzarmene
prima che Darcus possa
attuare il suo piano finale.»
Pain annuì
impercettibilmente.
«Date le nostre esigue forze, non posso impedirvi di unirvi a
noi, se questo è
il vostro proposito. Ma gli altri?»
Rimasero zitti sotto lo sguardo
fermo di Alexander, ma il detective non chiese il loro aiuto. Disse
solo alcune
frasi che li colpirono come una scarica di corrente elettrica:
«Ricordate come
ci siamo sentiti dopo la chiesa? Se ora fuggirete, sarete al sicuro,
perché io
farò in modo che Darcus non possa nuocere più a
nessuno. Però non vi
sentirete mai al
sicuro.»
Combattere Darcus era diventata
una battaglia personale per ciascun membro del gruppo. Pain lesse il
muto
assenso sui loro volti.
«Otto. Tre soldati, due
uomini che
presumo siano andati in guerra, e tre civili. Ci servono
rinforzi.»
***
Avevano passato l’intera
giornata
all’aperto mentre Pain “pensava ai
rinforzi” rintanato in una rimessa per la
legna. Kurtz e Setter, che in sua assenza si erano dimostrati loquaci,
si erano
offerti di allenare le donne con le due armi da fuoco a disposizione,
mentre
Alexander e Michael si esercitavano nel corpo a corpo, facendo
attenzione a non
peggiorare la ferita del medico. Erano riusciti perfino a cacciare
qualche
scoiattolo, una misera cena, e temevano che il giorno seguente non
sarebbe
andata meglio: non potevano avvicinarsi alla costa per pescare
– Dio solo
sapeva se sarebbero diventate loro le prede – e recarsi nei
paesi vicini era
escluso.
Stanchi e indeboliti, erano andati
a dormire presto, spegnendo le candele che, nel bosco tenebroso,
avrebbero
potuto attirare l’attenzione.
«Ti fidi di lui?»
mormorò Michael,
che come Ellen faticava a prendere sonno al pensiero che quella potesse
essere
la loro ultima, intera notte.
«Di Pain? Neanche per
sogno.»
«Parlavo di
Alexander.»
Nell’oscurità
della loro stanza,
Ellen si rotolò sul materasso e cercò di mettere
a fuoco la figura di Michael.
«Alexander? Temi anche tu
che…?»
«Non si alleerebbe mai con
Darcus.
Mi riferivo alla sua determinazione. È reale o cercava di
convincere Pain a
portarci in battaglia?»
«La risposta è
piuttosto
semplice.»
«Tu dici?»
«Lilyan. E anche Janet.
Poteva
lasciare che scappassero con te in Europa, ma ha preferito salvare la
loro
sanità mentale. Metterà a repentaglio le loro
vite, ma… posso capire il suo
punto di vista.»
«“Con me in
Europa”? Tu non
saresti venuta?»
«Anche io sono stufa di
scappare.»
Aveva avuto tempo per riflettere,
dopo la confessione della notte precedente. Era stato difficile
valutare il suo
passato in maniera distaccata, fino a quando non aveva deciso di
parlarne, e
renderlo perfino più reale. Dannazione, aveva affrontato
mostri e stregoni,
come faceva a essere ancora terrorizzata dall’uomo che
l’aveva concepita?
«Pain mi
preoccupa» cambiò
argomento, consapevole che non aveva paura di una persona, ma di
ciò in cui l’aveva
trasformata. «Che faceva nella rimessa per la
legna?»
«Opto per un
telegrafo.»
«Fammi capire: ha materassi,
munizioni e un telegrafo, ma non cibo in scatola o armi. Mi sembra
piuttosto
disorganizzato.»
«Forse non voleva destare
sospetti, e ha portato qui una cosa alla volta.»
«Mi turba lo stesso. So che
si sta
comportando come se fosse dalla nostra parte,
però…»
«Ragazzina, è
talmente cristallino
da potergli guardare attraverso.»
«Che intendi?»
«È il tipico
soldato. Esegue gli
ordini, non fa domande. Rispetta le gerarchie, pretende disciplina e
gli piace
fare lo spaccone con i prigionieri. Se però nota che le cose
non vanno
esattamente come gli è stato detto, comincia a porsele da
solo, le domande. Si
crea un riparo, noto soltanto a un paio di uomini fidati, e si prepara
a
combattere un sistema in cui non si riconosce.»
«Lo hai imparato quando eri
sotto
le armi?»
«No, dai romanzi.»
Avrebbe voluto prenderlo a calci,
ma non ne aveva le forze. Sbuffò e ripensò al
comportamento di Pain, e quasi le
parve di rintracciare in lui le caratteristiche dell’antieroe
che aveva letto
nei libri di sua madre. Anche allora aveva detestato
quell’archetipo.
Paradossalmente, lo vedeva più adatto a Lilyan, che di certo
stravedeva per
personaggi del cazzo come Heathcliff, eppure il suo più
grande amore sembrava
essere stato un eroe positivo a tutti gli effetti.
«Lilyan, ieri
notte… L’avrebbe
ucciso. Stava davvero per farlo.»
«L’avrei fatto
anche io, se non mi
avesse salvato la vita.» Le dita di Michael scivolarono sul
suo ventre, fermandosi
appena prima dell’ematoma. «L’ha
esasperata. Dubito che abbia alzato le mani su
di lei…»
«L’ha presa per i
capelli.»
«…dopo quella
volta. Credo che
abbia puntato sul suo nervosismo. È fragile.»
Indugiò. «A proposito… Janet e io
crediamo che Lilyan non abbia capito.»
«Cosa non ha
capito?»
«La storia degli ibridi.
Cioè, ha
capito come nascono, ma non che Darcus vuole usarvi come
incubatrici.»
Ellen tremò: anche quella
prospettiva sembrava più reale pronunciata ad alta voce.
«Non glielo
dirò.»
«Ellen, dovremmo parlare di
questo. Se…»
«Non sappiamo come funzioni.
Perfino
io potrei rimanere incinta di… di quelle cose.»
Avvertì gli occhi di
Michael
allargarsi per lo stupore e sbuffò.
«Sei un medico, te ne eri
già
accorto. E poi basta pensarci: denutrizione, ambienti
malsani… Non mi serve una
conferma per sapere che sono sterile.»
Non le chiese se le andasse bene,
la conosceva abbastanza per evitare domande del genere.
Sì, sì che mi va
bene. È l’unica
cosa che funzioni in questa cazzo di vita.
La sua infanzia le aveva insegnato
molto, suo malgrado, e l’aveva spinta a prendere decisioni
drastiche per il
proprio futuro. Lei e Michael prendevano protezioni, ma era anche una
questione
di salute, e non aveva intenzione di legarsi a un uomo fino al punto di
sposarlo e avere dei figli. Avrebbe risparmiato quel mondo di merda ad
altri
bambini.
Tuttavia, in quel momento la
prospettiva di rimanere incinta di un essere umano non la disturbava
tanto
quanto l’alternativa proposta da Darcus. Rabbrividendo
ancora, si strinse a
Michael e cercò conforto nel calore del suo corpo.
***
Le foglie calpestate la misero in
guardia prima ancora di rendersi conto che era sveglia.
Portò la mano verso il
punto in
cui era solita tenere la pistola di Michael, imprecando mentalmente
quando si
ricordò che gliela avevano tolta nella base militare. Si
limitò a scuotere
piano il medico e a portarsi un dito davanti alle labbra, ma la sua
prudenza
era vana: la voce di Pain risuonò nel silenzio.
«Chi va
là?»
«Caporale Medina.»
Pain non avrebbe urlato se non
avesse atteso visite: i tre soldati si davano il cambio alla finestra e
fino a
quel momento Ellen aveva pensato che lo facessero per controllare
eventuali
nemici, invece stavano aspettando qualcuno.
Era l’alba. Attraverso il
vetro
impolverato, riuscì a scorgere il profilo di un uomo che,
con le braccia in
alto, segnalava di essere innocuo. Ellen entrò
nell’ingresso mentre Pain lo
tirava dentro.
«Ti hanno visto?»
«Nossignore, ho seguito le
vostre
istruzioni.»
Sotto quella divisa, i militari le
parevano tutti uguali, eppure Medina aveva lineamenti meno marcati dei
suoi
colleghi, era più giovane e di altezza media,
così che per guardare Pain doveva
tenere il mento alzato. Il generale attese che si radunassero tutti
nella
stanza, come la mattina precedente, prima di procedere con le
presentazioni.
«Il caporale Medina
è uno dei miei
uomini più fidati. Quando mi è stato ordinato di
collaborare con il professor
Cutty, ho formato l’unità antiterrorismo portando
con me alcuni soldati scelti.»
“Unità
antiterrorismo”, non “paranormale”:
le vedute di Pain e Cutty erano completamente differenti.
«Kurtz e Setter sono sempre
con
me, come avete potuto appurare. Medina e altri sette… mi
vorrebbero morto.
Questo è come deve apparire il nostro rapporto.»
«Il generale Pain ci ha
strappato
a incarichi più onorevoli per gettarci in un buco
dimenticato del mondo» spiegò
Medina con un sorriso che stonava con la divisa, la situazione, tutto.
Solo a
quel punto Ellen si accorse che ne avevano avuto bisogno.
«Medina è stato
felice di
raccontare alcuni dei miei squallidi segreti a Cutty, segreti
ovviamente falsi,
costruiti per l’occasione. Aveva l’incarico di
presentarsi qui qualora fossi
sparito dalla base per oltre trenta ore senza avvertirlo.»
«Sono il vostro migliore
informatore» gongolò il caporale, ma presto
tornò serio. «Sta accadendo
qualcosa di losco. Ero tentato di venire prima, ma ho atteso.»
«Hai fatto bene.
Racconta.»
«Due sere fa, il dottor
Hubert ha
svuotato l’infermeria per evitare testimoni, una precauzione
inutile: uno dei
nostri ha visto trasportare Cutty su una barella. Era messo male. Negli
alloggi
dei prigionieri non c’era nessuno, e la vostra assenza mi ha
dato la conferma
che cercavo.»
«Non sono stato io a
conciarlo in
quel modo.»
Pain indicò Alexander con
un cenno
del capo, e Medina lo fissò con ammirazione prima di
continuare. «Ha solo il
naso rotto e deve usare una stampella, ma è in grado di
muoversi. Ieri
pomeriggio ci ha ordinato di tenerci pronti: stasera torneremo a
Innsmouth.» L’assenza
di stupore sui volti dei presenti dovette svelargli che ne erano
già a
conoscenza.
«Quanti?»
«Quasi tutti. Io
rimarrò nella
base con la nostra unità fidata, oltre ad altri venti
soldati.»
«Quei venti da che parte
stanno?»
Medina esitò.
«Taylor, Thompson,
Ramirez…»
«Merda.»
«Cosa
c’è?» chiese Alexander.
«Dovremo combattere, se
vorremo
penetrare nell’armeria. Taylor è quello a cui il
caporale Setter ha puntato una
pistola alla testa.»
«È fedele a
Cutty» aggiunse
Medina. Solo un’ombra di curiosità
passò sul suo viso.
«Speravo in Carter o
Peterson. Mi
stimano, e avrebbero potuto aiutarci.»
«È proprio questo
il problema.» La
risposta di Medina confuse anche Pain. «Si sono opposti.
Hanno saputo che
eravate stato condotto fuori dalla base contro la vostra
volontà, e hanno fatto
irruzione nel laboratorio per avere un chiarimento. Ma Cutty li ha
fatti
catturare e… C’è qualcosa di strano in
loro, generale Pain.»
Michael fece un passo avanti.
«Hanno lo sguardo vacuo, non è vero?»
Medina annuì, e fu il turno
dei
cinque civili di informare Pain.
«Darcus li tiene sotto il
suo
controllo mentale.» Michael non si curò dello
sbigottimento di Medina. «Quando
eravamo ad Arkham, Darcus ha usato la criminalità
organizzata, ma alcuni dei
gangster erano incoscienti. È probabile che volesse essere
sicuro che non lo
avrebbero tradito.»
«È possibile
farli rinsavire?»
«Non ne abbiamo
idea.» Si voltò
verso l’infiltrato. «Cosa li sta costringendo a
fare?»
«Niente. Sono entrati nelle
celle
ieri sera e se ne restano lì senza muovere un
muscolo.»
«Merda,
merda…» sibilò Pain.
«Tutti quei discorsi sul sangue e i sacrifici…
Vogliono ammazzarli.»
Nessuno fiatò, confermando
i
timori del generale. Ellen non sapeva chi fossero, da dove
provenissero, se
avessero una madre o dei figli, ma provò pena per loro.
Forse sarebbero stati
in grado di salvarli, o forse sarebbe stato inutile. Provarci era la
sola
alternativa, perché se Darcus e Cutty non erano del tutto
invasati, allora
quella notte…
«Dobbiamo armarci. Quando
partiranno?»
«Due ore dopo il tramonto,
approfittando delle tenebre. È chiaro che non vogliano
essere scoperti.»
«Da dove puoi farci
entrare?»
«Le cucine della mensa non
saranno
sorvegliate.»
«Hanno uno sbocco
sull’esterno,
perché non sorvegliarle?»
«Vogliono che ci piazziamo
in
gruppi intorno al laboratorio, alla sala radio e all’armeria.
Credo si
aspettino che uno di noi tradisca.»
Pain ringhiò.
«Sono loro i
traditori, e la pagheranno cara.»
***
Entrare nell’edificio
militare
sarebbe potuto essere complicato, uscirne – scoprirono a loro
spese – si
sarebbe rivelato anche peggio.
Tutto si basava sul carisma di
Medina, il soldato belloccio e pettegolo, alla mano, con cui scambiare
confidenze e a cui permettere qualche cazzata; agli occhi dei suoi
colleghi,
era il buffone della base, ma in realtà aveva portato a
termine il doppio delle
loro missioni e non veniva promosso a un grado maggiore soltanto per
mantenere
la farsa. Quella sera, Medina si sarebbe allontanato durante il turno
di
guardia, lamentando di avere ancora fame e proponendosi di sgraffignare
qualcosa nelle cucine, perché “al suo sorriso non
si poteva dire di no” –
stando alle parole di Kurtz.
La prima parte del piano
andò come
progettato.
Medina aprì
l’ingresso secondario
all’ora concordata, attese che fossero entrati tutti, poi si
dedicò a fare
incetta di pane al formaggio. «Devo pur sostenere la mia
scusa.»
Pain non commentò.
«Situazione.»
«Ala nord,
telecomunicazioni: Thompson
e il solito gruppo. Ala ovest, laboratorio: Taylor. Ala sudovest,
armeria.»
Medina ammiccò a Lilyan e Janet. «Il mio
posto.»
«Non sospettano un bel
niente…»
«Ve l’ho detto,
Fauerbach, ho
scelto l’uomo giusto.»
Dovevano fidarsi delle sue parole,
perché Medina pareva tutto, fuorché
“l’uomo giusto”, ma stare in sua
compagnia
li rasserenava. Ne avevano bisogno, per una notte come quella che li
attendeva.
«Chi altro
c’è con voi?»
«Cinque dei nostri e tre dei
loro.»
«Gli altri?»
«Williams e Harding sono
alle
telecomunicazioni, come previsto. Hanno già pensato a
tutto.» Medina sorrise di
nuovo di fronte alla muta domanda di Janet. «Segnale
disturbato, in modo che
non possano captare il vostro.»
Quindi avevano ragione: Pain
teneva un telegrafo, o qualcosa di simile, nella rimessa del casolare.
«Non illudetevi»
precisò il
generale. «Fino a quando non arriveremo
all’armeria, non potremo dirci al
sicuro.»
Si mossero furtivamente, in
ordinata fila dietro Pain, mentre Medina, a una decina di piedi di
distanza, li
precedeva fischiettando per occultare eventuali rumori. Dopo avere
svoltato a
sinistra, al termine di un corridoio senza finestre, lo udirono parlare.
«Ehilà, ragazzi!
Come promesso,
sono tornato con… Ah, è tardi.»
Quelle parole misero in allarme
Pain, che con la pistola spianata affrettò il passo. Le sue
spalle si
rilassarono quando svoltò l’angolo dietro Medina.
La situazione era già
stata, in
parte, risolta. Medina, con i panini al formaggio tra le braccia,
osservava
dispiaciuto i tre soldati storditi e legati contro la parete, mentre
quelli che
dovevano essere gli uomini di Pain riponevano le armi.
«Sembra che mi sia perso
tutto il
divertimento.»
«Ci stavi mettendo una vita,
Diego.
Bentornato, generale Pain.»
La prima cosa che fece Pain fu
controllare le corde ai polsi dei soldati catturati. «Voi sapete
ancora fare nodi
resistenti.»
«Con tutto il rispetto,
generale,
questi mocciosi non saprebbero nemmeno fare un nodo piano.»
Non era un’esagerazione,
data la rapidità
con cui Pain si era liberato per ben due volte nel giro di qualche ora.
L’armeria si aprì
con tre giri di
chiave. A Ellen tornò in mente la collezione di Masters di Ventimila
leghe sotto i mari:
lo stesso romanzo in edizioni differenti. Per una profana con lei, le
armi
avevano esattamente lo stesso aspetto; distingueva soltanto fucili,
pistole e
pugnali, ma non sapeva andare oltre e nemmeno le interessava. Le
dessero un
revolver, lei l’avrebbe usato.
Non persero tempo a scegliere.
Pain afferrò una borsa di cuoio e mostrò il
contenuto ad Alexander. «Le armi
che vi abbiamo requisito. Se volete, prendete anche un pugnale da
combattimento, in caso di scontro ravvicinato, ma fate in fretta. Vi do
tre
minuti, poi passeremo alle uniformi. Kurtz, Setter, i proiettili.
Medina, va’ a
nord, avverti…»
«“Avverti”
chi?»
Ellen sentì il sangue
gelare. Si
girò con cautela, stringendo il calcio della pistola
finalmente tornata in suo
possesso, ma era certa che fosse scarica. Sulla soglia, un uomo
– Taylor,
ricordò – teneva la
canna contro la tempia di Medina, un braccio ad avvolgergli il collo
per
impedirgli di scappare; alle sue spalle, insieme ad altri, Ellen
riconobbe il
soldato che aveva infierito su Michael.
«Sergente Taylor, abbassa la
pistola.»
«Spiacente, generale,
abbiamo
ricevuto ordini differenti.»
Ellen, Michael, Janet,
Pain… tutti
erano armati, tutti avrebbero potuto rispondere al fuoco. Taylor
però premeva
la pistola contro Medina, immobilizzato, e i suoi compagni erano pronti
a
esplodere un colpo; i più fortunati di loro, invece,
potevano contare su un’arma
già carica, ma al sicuro nel fodero o puntata a terra. Ellen
li contò
rapidamente: ne riusciva a vedere undici, ma era convinta ce ne fossero
altri.
Avevano lasciato scoperta un’intera area? Questo significava
che…
«Sapevamo sareste tornato,
nel
caso foste riuscito a fuggire. Pensavamo vi sareste liberato dei
civili, ma non
ha importanza: ce ne occuperemo noi. Il nostro unico dubbio era su chi
potessimo fare affidamento… Peccato per Medina, mi
piaceva.»
Parlava già al passato, e
questo
contribuì ad accrescere le vene sul collo di Pain.
«Non ho intenzione di
negoziare.»
«Nemmeno noi. Adesso, se
volete
seguirci…»
La voce di Taylor si
strozzò
mentre una lama penetrava nella sua carne. Prima ancora che il sangue
sgorgasse
dalla coscia, Medina si era liberato e aveva estratto il pugnale per
affondarglielo nel petto. Taylor rantolò.
Quando avevano combattuto la
creatura invisibile, erano stati perlopiù tutti contro uno:
il mostro sapeva
celarsi, ma ogni umano sapeva quale fosse il suo nemico. In quel
momento,
invece, il caos generato dalla morte di Taylor li costrinse a farsi da
parte
per diversi secondi, cercando di capire chi dovessero colpire, da chi
dovessero
tenersi alla larga. Non ricordavano quali fossero i soldati fedeli a
Pain,
potevano soltanto seguire l’intuito, mirando a coloro contro
cui si scagliavano
il generale e Medina. Si spinsero fuori dall’armeria e verso
l’uscita della
base senza smettere di sparare e ripararsi contro i militari che, come
se Pain
glielo avesse mutamente ordinato, cercavano di fare da scudo. Se solo
avessero
avuto più tempo, solo altri cinque minuti, si sarebbero
infilati anche loro
delle tute antiproiettile, invece di costringere i loro alleati a
prendersi i
colpi per salvarli.
«Correte!»
gridò Pain, ed Ellen
non se lo fece ripetere.
Scattò in avanti e si
pietrificò
alla vista di altri due soldati, ma poi scorse la scia di sangue dietro
di loro
e comprese chi fossero.
Williams e Harding.
«Per di qua!» le
urlò uno dei due,
facendole strada verso l’uscita. «Presto,
presto!»
Le mancava il fiato, e quella
doveva essere la parte più semplice
dell’operazione. Si fermò nonostante gli
ordini del soldato per attendere Michael, e Janet, e Alexander e
Lilyan, e…
«NO!»
Pain urlò, ma i suoi amici
erano
salvi. Erano
salvi.
Scapparono nel bosco, seguendo Williams e Harding finché
entrambi non alzarono
una mano in segno di attesa. Scivolarono sul prato mentre i soldati
restanti li
raggiungevano.
Uno, due, tre…
Ellen smise di contare le forze e
cominciò a contare gli uomini quando vide Pain trascinare un
corpo. Ebbe un
sussulto allo stomaco.
Non c’era più
niente del sorriso
del caporale Medina. Solo un volto dilaniato, spaccato in due, e il
sangue che
colava sulle mani inermi di Pain.
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Capitolo 27 *** Capitolo XXVII ***
Capitolo XXVII
Non c’era tempo per dare una
degna
sepoltura a Medina, né per tornare a Caverby; furono
costretti a lasciare i
suoi resti ai piedi di un acero con la promessa che sarebbero tornati.
Per un
momento, la fretta di Pain era svanita: aveva adagiato la schiena di
Medina
contro il tronco dell’albero e si era inginocchiato di fronte
a lui, in
silenzio. Il generale si era concesso soltanto un minuto.
«Procediamo.»
Seguirono Pain al riparo sotto i
rami carichi di foglie rosso sangue, permettendosi di fare rumore fino
a quando
non furono in vista della costa. Solo allora il generale si
girò verso i suoi
uomini e prese parola. «Secondo le informazioni che aveva
raccolto Medina, i
nostri avversari si sono diretti alla zona del porto,
all’estremità
settentrionale di Innsmouth. Ci arriveremo a piedi, fiancheggiando la
città. Da
lì, c’è un ottimo punto di
osservazione.»
«Quanto tempo
abbiamo?» domandò
Alexander.
«È presto per
dirlo. Harding,
quando hanno lasciato la base?»
«Quaranta minuti prima del
vostro
arrivo.»
«Ciò significa
che hanno circa un’ora
di vantaggio, e hanno preso tutte le camionette.» Pain
imprecò sottovoce.
«Sapevano per certo che altri si sarebbero rivoltati contro
di loro e hanno
preferito impedire che potessero raggiungerli rapidamente.»
«Non c’era
alternativa. Era troppo
rischioso imbattersi in Darcus prima di essersi procurati le
armi.»
«Lo so, detective. Non mi
pento
della nostra decisione.»
Pain era distaccato. Era scomparsa
ogni traccia dell’emozione con cui aveva trasportato fra gli
alberi il cadavere
di Medina. Ellen lo invidiava: a lei quella morte aveva portato
soltanto
sconforto. Sorridendo, atteggiandosi da ragazzino immaturo e gioviale,
Medina
aveva alleviato la tensione, che era tornata insieme al terrore per
ciò che
stavano per affrontare.
Dovevano raggiungere
un’altura:
avrebbero potuto tagliare attraverso la città fantasma di
Innsmouth, ma
scelsero prudentemente di allungare la strada quando,
all’imbocco di un vicolo,
notarono una figura muoversi nell’ombra: difficile sapere se
fosse armata,
ancora più difficile scoprire se fosse in compagnia. Furono
costretti a
camminare rasente la spiaggia e fu allora che Ellen avvistò
altri corpi: a
differenza del precedente, non si muovevano.
Fece un cenno a Michael, che lo
replicò a Pain. Si chinarono dietro gli arbusti e scrutarono
con attenzione la
spiaggia.
Erano dieci, ed erano cadaveri.
«Carter…»
sibilò Kurtz alla destra
di Ellen.
Dunque il molo e lo Scoglio del
Diavolo non erano le uniche destinazioni di Darcus e Cutty, e i
bastardi avevano
già cominciato a macellare le loro vittime.
Dovettero abbandonare anche quei
corpi riversi sulla sabbia, la gola tagliata e le mani libere. Darcus
li aveva
soggiogati, costringendoli a rimanere fermi mentre i suoi accoliti li
sgozzavano; in qualche modo, li aveva convinti che quella fosse la loro
volontà.
Nauseata, si girò di scatto per evitare di vomitare su
Kurtz, e notò qualcosa
muoversi nelle acque. Diede una gomitata al soldato.
Adesso lo – li vedevano
tutti. C’erano fiaccole
accese lungo la riva, le stesse che avevano permesso a Kurtz di
riconoscere il
cadavere di Carter, e che ora illuminavano i profili delle creature in
mare.
Ellen si stupì: non erano i mostri che li avevano attaccati
al Tyner Lab e
sotto lo Scoglio del Diavolo. Erano umanoidi, con spalle e busto nudi
fuori
dall’acqua, ma sul volto sembravano indossare una maschera.
Non li avevano
visti né mostravano l’intenzione di raggiungere la
terraferma. Erano in attesa.
«Andiamo»
mormorò Pain.
Accovacciati, ripresero il loro
cammino lungo gli arbusti, permettendosi di rialzarsi solo quando una
nuova
zona boschiva li occultò. Era davvero il punto ideale da cui
guardare il molo,
ma non avrebbero potuto fare granché da quella posizione.
Scorsero i soldati in
due semicerchi: in quello esterno, uomini in piedi stazionavano dietro
i
militari inginocchiati – le
prede. Erano un numero esagerato, troppi per loro quindici,
ma erano
concentrati, le voci cantilenanti in una lingua sconosciuta. Altri
profili erano
sparsi per la spiaggia; tra loro dovevano esserci Darcus e Cutty.
Pain indicò i cinque della
sua
unità che imbracciavano un fucile.
«Copriteci.»
Erano cecchini provetti, Ellen
poté intuirlo osservandoli sparpagliarsi per
l’altura in cerca della visuale
migliore. Una volta che solo Williams fu rimasto nelle vicinanze, Pain
cominciò
a scendere da un sentiero scavato nella roccia in religioso silenzio;
per
fortuna, la nenia giocava a loro favore.
Quando furono più vicini,
Ellen
ebbe un brivido, e fu certa di non essere la sola. Gli occhi vitrei dei
soldati
inginocchiati confermarono la loro ipotesi; tenevano la bocca serrata
mentre i
loro aguzzini, alle spalle, cantavano tenendo stretto un pugnale
ciascuno.
Ellen scrutò quello più vicino: aveva il manico
intarsiato e simboli argentei
rilucevano sulla lama. Anche sopra le banchine del porto erano state
posizionate delle fiaccole.
All’estremità
della banchina
centrale c’era Darcus. Era accompagnato da due uomini, un
soldato e Cutty, che
si reggeva malamente sulla stampella, ma aveva il volto deturpato da un
ghigno
sotto il naso rotto. Con orrore, Ellen notò lembi di pelle
sul collo di Darcus
alzarsi e abbassarsi mentre parlava, e riconobbe la forma delle
branchie. Stava
continuando a mutare.
Dovevano agire in fretta, prima
che la cantilena finisse e gli accoliti dell’Ordine del
Crepuscolo d’Argento
sollevassero i pugnali sacrificali. Prima di tutto bisognava liberarsi
dei
soldati di guardia, e lo fecero in silenzio, consci che i tre sul
pontile, gli
unici con lo sguardo rivolto alla terraferma, erano troppo concentrati
sul
rituale per prestare loro interesse. I soldati di Pain usavano armi da
taglio,
silenziose e letali, ma Ellen non ne aveva una e attendeva di sparare,
coperta
di Michael, quando i cecchini aprirono il fuoco.
Non c’era pietà
nei loro colpi,
era scomparsa insieme al sorriso genuino e confortante di Medina.
Quella notte,
non avrebbero fatto prigionieri.
Cinque pallottole andarono a
segno, colpendo simultaneamente le teste di altrettanti soldati. Darcus
vacillò
e per poco non perse il controllo mentale delle sue prede; sollevando
la mano
umana, tracciò un segno.
Dal libro aperto sul pontile non
uscì niente. Furono le acque a muoversi.
Esseri come quelli avvistati nella
spiaggia emersero dall’oceano, e insieme a loro
c’erano le creature mostruose,
gli anfibi giganti e ricurvi che avevano già combattuto. Non
erano solo due
come nel dormitorio del Campus, né una manciata di
più: erano decine.
Ellen si era pietrificata senza
accorgersene. Michael le afferrò la manica e la
tirò giù, salvandola dal proiettile
esploso da uno dei soldati di guardia. Le creature si muovevano in
fretta,
risalivano la riva e i pontili, e le loro unghie si occuparono
personalmente di
sgozzare le vittime sacrificali. Ellen non aveva idea che potessero
essere così
veloci: uno dei mostri corse e buttò giù Kurtz,
tranciandogli di netto un
braccio. A terra, Ellen incontrò gli occhi ormai vuoti del
caporale, la bocca
aperta in un grido inudibile.
«Vieni via!»
gridò Michael,
trascinandola indietro e sparando all’impazzata, cercando di
farsi spazio.
Ellen capiva il suo terrore: le creature avrebbero ucciso gli uomini,
ma lei,
Lilyan e Janet…
Oh, cazzo, cazzo, cazzo. Erano state così stupide
ad
andare là.
Scosse i piedi, incapace di rialzarsi,
e prese la mira: abbatté il mostro più vicino, ma
ce n’erano altri, e i
cecchini avevano smesso di sparare.
«Ellen, scappa!»
urlò di nuovo
Michael, portandosi davanti a lei per difenderla.
Non scapperò non
scapperò non
scapperò…
Il terrore però si era
impossessato di lei, le pupille dilatate mentre osservava altri mostri
correre
sul molo, e non aveva il coraggio di cercare Janet o Lilyan,
o…
Alexander si stava muovendo a
passo svelto lungo il pontile centrale, cercando di sparare con la
pistola
ormai scarica. Darcus sorrideva, aspettava a braccia aperte, e non
smise di
sorridere anche dopo avere ricevuto il pugno del nipote in pieno volto.
Lo fece quando luci esplosero
verso il porto, illuminando ogni figura, ogni umano, ogni ibrido.
Trovando il
coraggio di girarsi, Ellen vide due biplani in aria e
l’esercito riversarsi
nelle strade di Innsmouth.
***
Da ragazzina, Ellen aveva
detestato la matematica. Nessuno lo avrebbe intuito, data la sua mente
analitica e la passione per ogni tipo di scienza, ma non le piacevano i
calcoli; li trovava certi, lineari, e solo avanzando con lo studio il
suo odio
aveva iniziato a scemare. Probabilità, ipotesi, una
soluzione da scoprire: pane
per i suoi denti. Era per tale motivo che raramente contava, eppure
quel giorno
lo stava facendo. Contava ogni caduto, ogni soldato che veniva
azzannato dai
mostri o che veniva abbattuto dai colpi dei suoi alleati; contava ogni
creatura
che emergeva dall’oceano, ogni rinforzo che accorreva alle
sue spalle.
Erano partiti dalla base militare
in quindici. Cinque cecchini erano stata abbattuti, e anche Kurtz.
Altri due
uomini fedeli al generale caddero. Rimanevano Pain, Setter e i civili.
Sette
persone per combattere un numero talmente alto di nemici che le era
stato
impossibile tenere il conto.
Quando l’esercito
– i rinforzi
contattati da Pain – apparve tra le strade di Innsmouth e nel
cielo, Ellen
avrebbe voluto contarli tutti, divenire consapevole di ogni persona
giunta in
loro soccorso, e non poterlo fare la rese euforica.
Durò un attimo, prima di
ricordarsi perché detestava i numeri.
La matematica sbagliava: cento non
erano superiori a uno, se quell’uno era Darcus.
Si era liberato di Alexander, che
stava lottando in acqua contro gli umanoidi con la faccia deformata, ed
era
rimasto solo sulla banchina, un soldato morto a terra e Cutty scomparso
nel
nulla. Teneva il libro spalancato sulle mani e recitava una nenia
diversa dalla
precedente, e che fece tremare il mondo: non fu solo la terra a
muoversi, non
furono soltanto le onde a infrangersi contro i pontili, spezzandone
funi e
ormeggi; il cielo stesso si mosse, vacillò davanti a Ellen.
Non erano i suoi
occhi a tradirla. Uno dei biplani precipitò in acqua,
l’altro si sfranse contro
una scogliera ed esplose in fiamme, mentre Darcus rideva, e rideva, e
sembrava
avere previsto ogni cosa.
Michael l’aveva portata al
riparo,
dietro il muro spezzato di un edificio, ma lei non voleva rimanere.
Sapeva
quanto le sarebbe potuto costare, tuttavia non poteva restare nascosta
mentre i
suoi amici rischiavano la vita – o peggio. Guardò
Michael, che sospirò
sconfitto ed estrasse un coltello dalla tasca.
«Usalo tu: sei piccola, puoi
sgusciare fra di loro. Mira al cuore o alla gola. Se sono
mostri… scappa. Li
colpirò da lontano con il fucile.»
«Quando lo
hai…?»
«Era di un soldato di Cutty.
È
stato generoso a lasciarmelo dopo che l’avevo
strangolato.» Il suo tentativo di
alleggerire il nervosismo comune fu vano. «Fa’
attenzione.»
«Dobbiamo…
dobbiamo fermare
Darcus.»
«Per quello abbiamo
Alexander e
Pain.»
Lo sguardo di entrambi vagò
sulla
riva, da cui stava emergendo Alexander, ferito, ma vivo, con quella
determinazione negli occhi che non lo avrebbe abbandonato
finché Darcus fosse
stato un pericolo. Pain non era nei paraggi, eppure le doti di cui
aveva dato
sfoggio in quei giorni li convinsero che fosse ancora sul campo.
«Punta alle creature che
stanno
seguendo Alexander» riprese Michael. «Tu copri le
spalle a lui, io copro le
spalle a te.»
«E chi coprirà le
tue?»
Le labbra si incresparono in una
smorfia beffarda. «La mia fortuna sfacciata.»
Nel momento in cui si gettarono di
nuovo nella mischia, il frastuono esplose intorno a loro, un caos
generato
dalle urla disperate dei morenti, dal crepitare delle fiamme, dalle
armi in
mano all’esercito alleato. Luce e lampi esplodevano nella
notte mentre Ellen
strisciava tra i cadaveri, attaccava un ibrido e un altro, si faceva
strada
verso Alexander udendo i colpi del fucile di Michael. Con un moto di
sollievo
individuò Janet e Lilyan, schiena contro schiena, intente a
sparare in basso da
un punto rialzato.
Ellen superò il corpo
diviso a
metà di Setter, ma Pain era ancora in piedi e aveva puntato
Cutty. Gli sparava
con calma, avvicinandosi un passo alla volta, mentre lo scienziato
arrancava a
quattro zampe. Come Darcus, Cutty muoveva le dita ed evocava uno scudo
di
energia che si indeboliva ogni secondo che passava, fino a quando Pain
non
giunse di fronte a lui e fece fuoco alla testa. Una pallottola, una
seconda e
una terza, fino a quando il viso di Cutty non divenne una maschera di
sangue
come quello di Medina.
Solo a quel punto Pain si accorse
di Ellen e Michael, e capì quello che stavano facendo. Si
gettò in avanti fino
a raggiungerli, li superò, affiancò Alexander
mentre si liberava delle
creature. Darcus li notò quando furono a pochi piedi da lui
ed Ellen avrebbe
giurato di vederlo sbiancare. Con un incantesimo si librò in
aria, sfuggendo ai
pugni del nipote, che doveva avere perso il revolver in acqua; Pain
cambiò il
caricatore e riprese a sparare, ma una sferzata di energia rossa gli
trafisse
il petto. Era impossibile capire se fosse ancora vivo, ma aveva smesso
di
muoversi.
Ellen credeva che Alexander
avrebbe preso la pistola del generale, invece rimase concentrato su
Darcus, le
braccia lungo il busto, impassibile. Un attimo dopo, ciò che
era accaduto nella
Chiesa Occidentale si ripeté, e fu grandioso.
Alexander non era più solo:
gli
spiriti – o ciò che era rimasto dei Guardiani del
passato – si addensarono
attorno a lui, visibili anche da lontano, anche agli occhi di Darcus,
che si
fermò in aria. Uomini con gli stessi lineamenti di
Alexander, più giovani e più
anziani, dai capelli scuri o dalla chioma ramata, nitidi come se
fossero
realmente lì. Guidarono le mani dell’ultimo
Guardiano, mossero le sue dita in
gesti rapidi, decisi e rabbiosi, disegnando simboli che rifulsero nella
notte,
accerchiando Darcus, riportandolo a terra. Lo stregone cercava invano
di
combattere le corde invisibili che lo legavano, gridando e imprecando,
evocando
aiuto, ma niente accadde.
Con grazia, Alexander lo
calò sul
molo mentre le immagini dei suoi antenati svanivano e restava soltanto
lui,
forte e determinato, per la prima volta davanti a uno zio che non
poteva più
nuocergli.
Il fracasso si placò, lo
scontro
si spense e le creature marine sopravvissute scapparono nelle acque
profonde,
comprendendo che per il popolo di Innsmouth non era ancora giunto il
momento di
tornare.
Ellen e Michael raggiunsero le
loro amiche e le aiutarono a scendere dalle casse che avevano impilato
e
circondato di torce come un avamposto difensivo. Ellen le strinse
entrambe,
rincuorata che fossero vive e illese. Sulla banchina, un alto
funzionario del
governo – pulito come se non avesse partecipato alla
battaglia, e forse era
così – aveva raggiunto Alexander e Darcus, e si
era chinato per controllare
come stesse Pain. Avvicinandosi, videro il generale muovere una gamba.
«Non muore proprio
mai» sibilò
Lilyan, ed Ellen sbuffò divertita.
Erano salvi. Potevano fare
battute, abbracciarsi, concedersi il lusso di riposare. Non avrebbero
sprecato
un altro momento a temere Darcus McCrindle.
«Cos’avete
intenzione di fare con
il libro?» stava chiedendo l’uomo brizzolato in
divisa.
Alexander penetrò la
prigione di
simboli di Darcus e gli strappò il tomo che tentava di
tenere fra le mani.
«Questo» si limitò a rispondere, mentre
evocava una fiamma ad altezza umana.
Senza neanche guardare il libro, lo gettò nel fuoco.
«NO!»
La prigione era rimasta aperta.
Darcus scivolò fuori e si lanciò dietro il libro,
afferrandolo, cingendolo,
mentre il fuoco bruciava entrambi.
Un attimo dopo, di loro non rimase
che cenere.
***
Passò un’intera
settimana senza
che le loro vite fossero messe in pericolo. Una settimana di
incertezze,
recupero e timore di tornare nell’incubo, ma magnificamente
priva di nota.
L’esercito americano aveva
creduto
al loro racconto. Li aveva scortati nella base militare di Boston, dal
momento
che quella di Ipswich era stata dichiarata
“inagibile”, e li aveva tenuti in
osservazione fino al giorno successivo. Tutti loro,
dall’ottimista Janet alla
disfattista Ellen, avevano temuto che la storia si potesse ripetere:
non
serviva uno stregone come Darcus per liberarsi di cinque civili che
sapevano
troppo.
Il comandante Keller li
interrogò
uno alla volta, in una maniera del tutto differente dalle torture di
Pain. Li
divise soltanto per sentirsi dare la loro personale versione della
vicenda, una
conferma delle parole del generale. Sembrava che, dopo i fatti che
nell’inverno
tra il 1927 e il 1928 avevano portato alle retate e
all’evacuazione di
Innsmouth, termini come “sovrannaturale” o
“mostruosi ibridi marini” suonassero
normali alle orecchie del comandante e dei suoi sottoposti.
Furono sfamati, lavati e
accompagnati in un dormitorio riservato a loro, dove trovare abiti
puliti e
asciutti. Le ferite vennero disinfettate e ricucite, tra gemiti di
dolore e lo
svenimento di Alexander, il quale non si era accorto che più
di una creatura
era riuscita a raggiungere e mordere le sue gambe; forse era stata la
magia a
farlo camminare fino a quel momento, o forse l’adrenalina
aveva funzionato su
di lui come su Ellen, che si era accasciata a terra per la fitta
insopportabile
all’addome. Scoprirono che anche Pain era sopravvissuto e
sarebbe tornato a
combattere, nonostante le gravi condizioni in cui era stato riportato
alla
base. Dovettero essergli malvolentieri grati per avere contattato i
rinforzi e
avere interceduto per loro con il comandante, spiegando che non erano i
pericolosi terroristi dipinti da Cutty. L’unico che rimase in
contatto con lui
fu Alexander, che volle tenersi aggiornato sulle decisioni governative.
Dopo una settimana di silenzio,
erano sul punto di sentirsi al sicuro. Accadde precisamente un
lunedì, quando
Lilyan scoppiò in lacrime nella sala da pranzo
perché il vestito nuovo di zecca
si era macchiato prima ancora che potesse sfoggiarlo
all’aperto. Il suo pianto
fu seguito da una risata corale, e perfino lei si lasciò
andare quando ne comprese
il significato: era tornata la pace.
Ciascuno di loro trovò il
coraggio
di fare progetti a lungo termine, singolarmente, senza una
pianificazione in
salotto con schemi, ricerche e planimetrie. Alexander fu il primo ad
affermare
le sue intenzioni: sarebbe tornato dalla madre adottiva per
confortarla, farle
sapere che stava bene e che non aveva dimenticato ciò che
lei e il signor Blake
avevano fatto per il piccolo Xander; erano i suoi genitori, gli unici
che
ricordasse di avere conosciuto, ed era loro grato per l’uomo
che era diventato.
Avrebbe tuttavia fatto presto un viaggio nel Maine, nella Greenville
dei
McCrindle, per parlare con l’ispettore Gerber e gli abitanti
della zona: voleva
apprendere quanto possibile sulla sua famiglia d’origine,
visitare ancora le
loro tombe e assicurare alla lapide di Owen McCrindle che la sua
eredità era
finalmente al sicuro. Si era inoltre messo in contatto con il municipio
di
Arkham per spostare le spoglie di zio Silas a Greenville, accanto al
fratello,
nella cripta di famiglia che la città aveva costruito per i
loro benefattori.
Lilyan prese parola dopo di lui.
Amava la villa che l’Arcivescovo le aveva lasciato, ma aveva
bisogno di tornare
da suo padre, di una cameriera che l’aiutasse a cambiarsi e
delle amiche che
non sospettavano che fine avesse fatto nell’ultimo mese.
Jeremy sarebbe rimasto
a vegliare su Chateaubriand Manor mentre lei avrebbe brillato: per anni
aveva
preso lezioni private di canto, musica e recitazione, ed era
determinata a
rincorrere il suo sogno. Giraud, disse, l’aveva incoraggiata:
era stato l’unico
a vedere nella Lilyan di undici anni l’ardore di una donna
risoluta e
ambiziosa, convincendo il senatore Butler che i suoi non erano capricci
infantili. Con il fiocco rosa nei capelli e la croce
d’argento contro il collo,
Lilyan si disse decisa anche a scoprire il segreto dietro Chateaubriand
Manor,
la villa degli antenati dell’Arcivescovo Giraud, ma avrebbe
lasciato Jeremy a
compiere le ricerche. Lei era pronta a splendere.
Janet era indecisa, ed Ellen si
stupì quando ne comprese il motivo. Per l’intera
durata del loro calvario, si
era concentrata sul rapporto tra Alexander e Lilyan, sul desiderio di
proteggerla dopo quanto accaduto a Salem, e la sua attenzione aveva
sorvolato
sui momenti in cui Janet e Alexander rimanevano in disparte, parlando a
bassa
voce, ridendo e stringendosi la mano. Con le gote imporporate, Janet le
confessò che stavano cercando di capire se fosse scattato
qualcosa fra loro;
forse avrebbero rimandato la partenza per Greenville, o forse ne
avrebbero
parlato lì ad Arkham, ma presto avrebbero trovato una
risposta.
Poco alla volta, Ellen
cominciò a
trasferirsi nella camera del dormitorio abbandonata a ottobre. Era
messa
davvero male, ma niente di irrisolvibile. Rimise in sesto mobili e
carta da
parati, quel tanto che le bastava per non passare da una villa di
French Hill a
una topaia, e riportò sulla fedele scrivania gli appunti e i
manuali di studio.
Si recò anche dal decano Miller, che fu sorpreso di vederla
e provò a farla
desistere dal proposito di riprendere
l’università, invano. L’accenno agli
strani eventi occorsi il mese prima e la nomina dell’Arkham
Gazette lo
convinsero a riprenderla in
facoltà, e perfino a concederle di saltare il corso del
professor Peabody.
Il Campus era tornato un luogo
sicuro, e anche nel Merchant District le cose sembravano volgere per il
meglio.
Incontrò Marco, che le fece una scenata per avere portato i
gemelli nella tana
del lupo; una volta scaricata la frustrazione, Marco le
raccontò che O’Bannion
aveva abbassato le mire dopo l’incendio nella Chiesa
Occidentale, dove avevano
perso la vita i suoi scagnozzi migliori. Per la verità, uno
dei corpi ritrovati
non era stato identificato, tuttavia Sills era scomparso dalla
città, e ciò
poteva avere solo brutte implicazioni per O’Bannion: il suo
tirapiedi preferito
era morto oppure lo aveva preso per il culo. Si guardò dal
domandarle se avesse
qualcosa a che fare con l’incendio: temeva di conoscere la
risposta.
C’era stato un discorso che
Ellen non
aveva voluto affrontare con Marco, né con il diretto
interessato; aveva
preferito aspettare che il momento avvenisse, e infine era successo.
Una notte di fine novembre, mentre
dormiva tra le confortevoli lenzuola di Chateaubriand Manor,
avvertì Michael
muoversi nel letto e stuzzicarle la schiena.
«No… ho
sonno» si lamentò
mugugnando.
Michael non smise di baciarla.
«Per l’ultima volta. Domani parto.»
Fu presa solo in parte alla
sprovvista. Sapeva che quel giorno sarebbe arrivato, e il fatto che
Michael non
gliene avesse ancora parlato rivelava molto di entrambi. Allontanando
il
pensiero del futuro, si girò nel letto e lo baciò
sulle labbra, lasciando che
quella notte fosse completamente dedicata al loro addio.
Il mattino seguente, rimase sotto
le coperte mentre Michael preparava i bagagli e scendeva a fare
colazione, e a
dare la notizia ai loro amici. Li raggiunse dopo un lungo bagno per
schiarirsi
le idee; quando entrò nella sala da pranzo, tutti gli occhi
furono puntati su
di lei, tranne quelli di Michael, ostinatamente fissi sull’Arkham
Gazette.
Ellen avrebbe preferito che Janet distogliesse lo sguardo come avevano
fatto
Lilyan e Alexander, invece continuò a scrutarla con una
fastidiosa apprensione
fino a che Jeremy non le posò davanti una cioccolata calda.
Lilyan, da brava
ospite, si mise a parlare delle novità apprese dal padre
sulla scena sociale di
Boston, e la tensione si rilassò.
Un’ora dopo, Jeremy era in
auto e
attendeva che Michael prendesse posto nei sedili anteriori per
accompagnarlo al
porto di Boston, dove una prima nave lo avrebbe condotto a New York
prima di
imbarcarsi sul transatlantico per Southampton.
«È stato un
piacere e un onore
fare la vostra conoscenza» li salutò Michael,
stringendo la mano di Alexander e
cingendo Lilyan e Janet in un caloroso abbraccio. «Alexander,
tieniti lontano
dalla lettura di tomi poco chiari. Consiglio vivamente ser Arthur Conan
Doyle,
credo possa essere di tuo gradimento. Lilyan, mi aspetto di vederti
brillare
come hai promesso: voglio che perfino in Europa si conosca il tuo nome.
E
Janet, cara… Ho conosciuto di rado archeologhe
così belle e talentuose.» La
fissò negli occhi, più a lungo degli altri, e lei
annuì asciugandosi una
lacrima. «Vi ringrazio di tutto, anche se avrei preferito
incontrarvi in
circostanze diverse. Su, ragazzina, andiamo.»
La testa di Ellen scattò in
alto e
Michael si mise a ridere.
«Non mi farai compagnia fino
a
Boston?»
Esitava. Alla fine si
infilò nei
sedili anteriori dell’auto senza dire una parola. Michael
montò a sua volta,
salutò ancora e Jeremy partì.
Ellen provava una sensazione di
freddo lungo l’intero corpo, un freddo che non aveva a che
fare con l’autunno
inoltrato. Si sentiva a disagio, fuori luogo, e avrebbe voluto fare un
passo
indietro e restare ad Arkham: quel breve viaggio sarebbe durato sempre
più di
quanto lei avrebbe voluto.
«Sei silenziosa
oggi» provò a
farla parlare Michael.
«Perché hai
voluto che venissi?»
Sollevò un sopracciglio,
confuso,
e si chinò per sussurrarle all’orecchio:
«Non l’abbiamo mai fatto su
un’auto.»
Ellen avvampò e lui rise
ancora.
«Ti ho preso
qualcosa.» Dal borsone
che teneva accanto estrasse un involucro. Ellen lo scartò e
riconobbe spesse
tavolette di cioccolata; sotto di loro, c’erano due mazzi di
banconote. «Quelle
sono per Logan e gli altri. Decidi tu in che modo fargliele avere:
ingaggia i
ragazzini per pedinare Miller, di’ che li hai rubati a
Lilyan, trasformali in
carne e pesce, o in una pila di coperte. Non possono fare quella vita
per
sempre. Non senza un aiuto.» La guardò
intensamente, ed Ellen seppe che l’aiuto
non erano i soldi, che prima o poi sarebbero finiti, ma lei.
Lo ringraziò con un cenno
del
capo, dandogli le spalle per osservare il paesaggio che mutava intorno
a loro.
Solo quando furono in vista di Boston lasciò scivolare le
dita fredde lungo il
sedile e incontrò quelle calde di Michael. Le strinse
appena, gli tenne la mano
finché Jeremy non ebbe svoltato in direzione del porto.
Scrutò in silenzio il
maggiordomo
mentre portava i bagagli di Michael verso l’imbarcazione, e
vedendolo tornare
le uscì un soffio tremolante dalla bocca.
«Ci siamo»
confermò Michael, in
piedi su una banchina così diversa da quella di Innsmouth da
sembrare che
appartenesse a un’altra epoca. Si spostò di fronte
a lei e le sorrise. «Credo
sia superfluo ringraziarti per ciò che hai fatto per
me.»
Ellen sussultò e lui rise.
Solo in
quel momento Ellen si accorse di quanto la sua allegria suonasse
forzata.
«Ti darei il mio indirizzo
di
Salisburgo, ma lo getteresti in mare. Per fortuna, Janet lo ha e potrai
chiederglielo quando vorrai. Se lo vorrai.»
La gola era riarsa. Non riusciva a
parlare, ma si costrinse.
«Darcus…
è finita, secondo te?»
Michael si fece serio.
«Sì,
altrimenti non me ne andrei. Se tuttavia dovesse tornare…
hai imparato a
difenderti, e questo è ciò che conta.»
Le arruffò i capelli e la baciò sulla
fronte, a lungo, senza che nessuno dei due trovasse il coraggio di
muoversi.
«Addio, ragazzina» sussurrò.
Non attese che lei rispondesse.
Afferrò l’ultimo borsone e si allontanò
verso la nave.
Per un istante – un
folle, ridicolo istante –
Ellen fu tentata di seguirlo: ce n’erano
anche in Austria, di università, e forse perfino
più prestigiose e sicure di
Arkham. Avrebbe lasciato gli studi, ricominciato da capo, pubblicato
ricerche
sulle misteriose creature affrontate e sarebbe stata riconosciuta come
una
biologa di fama mondiale. Non aveva bisogno di rimanere negli Stati
Uniti per
realizzare i suoi sogni.
Non vide Michael scomparire nella
nave, si voltò prima, dandogli le spalle per
l’ultima volta.
Janet la attendeva a Chateaubriand
Manor, torcendosi le mani sulla soglia di casa. Quando Jeremy
accostò e la fece
scendere, si mosse subito verso di lei, ma Ellen stava bene. Se non
fosse stato
così, non glielo avrebbe comunque detto, eppure Janet la
conosceva abbastanza
da capire che era la verità.
«Sai» le disse
quella sera, mentre
aiutavano Jeremy ad apparecchiare «ho ricevuto una lettera
dai miei genitori.
Sono rientrati ad Agra da qualche giorno, e stavo pensando di andare a
trovarli.»
«È
fantastico!» esclamò Ellen. «Da
quanto non li vedi?»
«Quasi un anno, ormai. Mi
manca
fare il bagno nello Yamuna, e ho bisogno di… di sentirli
vicini.»
«Va’. Harvard non
ti ha ancora
chiesta indietro, e Alexander potrà aspettare.» Si
rese conto che aspettava una
conferma, così gliela diede. «Tornerò
al Campus dopo cena.»
«Cosa? Ma… non
vuoi aspettare
domani?»
«Quel letto è
troppo grande per
una persona sola, e già dovrò dire addio alle
lenzuola di seta. Perlomeno
tornerò nel mio rimpiangendo solo la comodità del
materasso.»
Era vero, era tutto vero. Non
stava soffrendo come immaginava Janet: voleva andare avanti e tornare
alla sua
vita, ricordando però coloro che le erano stati accanto
quando era fuggita da
Salem, sola e disperata, e un ragazzino di dodici anni le aveva teso
una mano.
Marco e la sua famiglia avevano fatto tanto per lei; era arrivato il
momento di
ricambiare il favore. Si passò una mano
sull’indice, dove fino a poco prima c’era
stato l’anello di diamanti: l’aveva riposto nella
borsa, destinato a essere
nascosto in un posto sicuro, in attesa del giorno in cui avrebbe dovuto
rivenderlo.
Quella sera, mentre cenavano
intorno al tavolo, due su un lato e due sull’altro per
attenuare l’assenza di
Michael, Ellen ricordò le parole che lui aveva usato per
raccontare la fine di
Stephen Crawl e la nascita del suo alter ego. Aveva fatto riferimento
alla loro
situazione, sostenendo che era stata l’urgenza a renderli
vicini, a
cementificare i legami tra gli abitanti di Chateaubriand Manor; aveva
avuto
ragione e torto allo stesso tempo. Il pericolo era cessato, eppure loro
quattro
– Ellen, Janet, Alexander e Lilyan – condividevano
un pasto, chiacchieravano e
ridevano, e lei non si era mai sentita tanto parte di qualcosa.
Le settimane, i mesi, gli anni li
avrebbero allontanati, fino a quando Ellen non avrebbe visto il volto
di Lilyan
sulle locandine di un teatro, o Alexander non sarebbe diventato noto
per avere
indagato su un’operazione di interesse mondiale, e solo Janet
avrebbe
continuato a farle visita. Ellen avrebbe ripensato a quella sera, alla
cena che
stavano consumando nella villa di un Arcivescovo tra le belle
abitazioni di
French Hill, e avrebbe saputo che quei legami li avevano cambiati per
sempre.
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