Il Richiamo di Cthulhu: Il Guardiano

di MedusaNoir
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 20: *** Capitolo XX ***
Capitolo 21: *** Capitolo XXI ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXII ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXIII ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIV ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXV ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXVI ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXVII ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Il Richiamo di Cthulhu: Il Guardiano

 

Capitolo I

 

Campus universitario, Arkham, 23 ottobre 1928

 

Erano diversi gli aggettivi con cui Ellen Lawlier era solita descrivere se stessa: solitaria, intelligente, curiosa. Molti di più erano quelli utilizzati dalle persone che, nel corso dei suoi ultimi anni di vita, avevano avuto la sfortuna di incontrarla: fastidiosa, supponente, arrogante, testarda, antipatica erano solo alcuni di essi. Eppure, quella mattina di un consueto ottobre dal cielo coperto da fitte nubi nerastre, Ellen aveva appena scoperto un nuovo termine per definire se stessa: entusiasta.

Soltanto un’ora prima credeva di dovere affrontare l’ennesimo, tedioso lunedì sprecato dietro le fandonie di Peabody, che in aula si comportava come fosse il migliore insegnante sulla faccia della Terra, quando a sentirlo parlare diveniva evidente che non lo fosse nemmeno comparato al proprio riflesso nello specchio. Quasi settanta anni dopo la pubblicazione delle teorie di Charles Darwin che avevano rivoluzionato il mondo delle scienze, il “professor” Peabody si ostinava a negarle; non le confutava, le negava e basta. Se fosse stato un docente di Teologia, Ellen se ne sarebbe infischiata, ma lavorava all’interno della facoltà di Biologia, tenendo uno dei corsi obbligatori, e le innumerevoli lamentele che lei aveva posto al decano Miller non erano riuscite a mettere quantomeno in discussione il suo incarico: i Peabody erano una famiglia influente di Arkham, e a quanto pare ciò bastava per permettere loro di sparare stronzate a destra e a manca.

Quel lunedì, però, Ellen non avrebbe dovuto seguire il corso di Peabody, perché la sua presenza era stata richiesta altrove. Aveva ricevuto una convocazione nell’ufficio del decano, il quale la invitava a presentarsi alle nove nella Science Hall. Ellen ne aveva approfittato per fare una sostanziosa colazione in sala mensa, stirare in lavanderia la sua divisa migliore e sistemare meglio che poteva i corti capelli ramati. Alle otto e cinquanta minuti era fuori dall’Upman Hall, il dormitorio femminile, e si trovava di fronte alla statua del decano Hasley quando una voce richiamò la sua attenzione.

Non si era rivolta a lei, ma ne aveva riconosciuto il timbro. Pensando che quella giornata stesse andando di bene in meglio, si voltò e si affrettò a raggiungere la sua sola amica al mondo. Il volto di Janet Holmes era nascosto dietro la sciarpa di lana, tirata su fino al naso, e una sola ciocca bionda le scappava ribelle dal cappello; l’archeologa era immersa in una fitta conversazione con il professor Wingate Peaslee, docente di Psicologia, e quando sollevò lo sguardo e incontrò quello di Ellen le rivolse un sorriso carico d’affetto.

«Ellie!»

Nonostante non si vedessero da appena qualche giorno, Ellen era convinta che avrebbe cercato di abbracciarla se solo non avesse trasportato dei libri tra le mani, e fu grata a suddetti volumi per averla preventivamente tratta d’impaccio.

«Ciao, Janet. Come mai sei da queste parti?» Si voltò poi verso il professor Peaslee, aggrottando la fronte per la sorpresa. «Buongiorno, professore.»

«Buongiorno, signorina…?»

«Lawlier» intervenne Janet. «Lei è la signorina Ellen Lawlier, studia nella facoltà di Biologia. Te ne avevo parlato» aggiunse con colloquialità, e questo confuse Ellen ancora di più.

Da quanto tempo la sua amica conosceva il professor Peaslee? Perché erano entrambi vicini allo Science Hall? E per quale motivo Janet gli aveva parlato di lei?

«Perdonami, ma sono di fretta» disse, ricordando l’appuntamento con il decano. «Ci vediamo a pranzo?»

«Stiamo andando nella stessa direzione.» Janet sorrise, ma era un sorriso teso, nervoso. «Il decano Miller ha convocato anche il professor Peaslee e me.» Esitò. «In realtà… Sai di cosa si tratta?»

Certo che lo sapeva. La richiesta di Miller non era stata accompagnata da delucidazioni, ma al Campus non si parlava d’altro dalla sera prima. La mattina precedente, infatti, qualcuno aveva rivenuto una carcassa sulle sponde del Miskatonic River; a una rapida analisi, era stato chiaro che appartenesse a una creatura ignota, o probabilmente non identificabile nell’immediato, forse proprio per via delle ferite che l’avevano condotta alla morte. Sulle dimensioni c’erano pareri discordanti: alcuni sostenevano che fosse lunga quindici piedi e robusta quanto un orso bruno, altri che superasse di poco la stazza di un cane di medie dimensioni e che fosse in gran parte scheletrica. Ellen non si era interessata alla notizia, certa che si trattasse di un animale deturpato dal suo predatore e dal tempo trascorso in acqua, fino a quando non era stata chiamata in causa. Una convocazione ufficiale aveva risvegliato completamente il suo interesse accademico, facendole intuire che, sotto lo strato della bizzarra diceria, ci fosse qualcosa di vero.

«Girano delle voci su una carcassa» rispose infine. «Un animale ritrovato sul Miskatonic River.»

«Esattamente.»

«Quindi sono vere?» Le sfuggiva ancora la presenza di Janet e del docente di Psicologia. «Tu l’hai vista?»

Janet esitò, poi rispose: «Io l’ho trovata, Ellen.»

«Dovremmo andare.» La voce del professor Peaslee si stagliò nel silenzio appena sceso fra loro. «Il decano Miller non ama i ritardatari.»

 

***

 

Quando il trio giunse nell’ufficio del decano Miller, lo trovò affollato. Oltre al cinquantottenne, che sedeva con gli occhiali sul naso dietro l’imponente scrivania, c’era un altro membro del corpo docenti. Riconoscere la professoressa Mary Baker, insegnante di Biologia Animale, le fece storcere il naso – esattamente lo stesso gesto eseguito dalla donna non appena la vide. Si scrutarono a fondo prima di distogliere entrambe lo sguardo. Ellen non provava simpatia per la professoressa, ed era reciproco: la Baker mal sopportava i suoi interventi durante le lezioni, nonché il tono supponente che la ragazza non si curava di mascherare. Si erano riprese a vicenda più di una volta, confutando quanto appena detto dall’altra, e, sebbene fossero consapevoli di rappresentare uno spettacolo divertente per il resto della classe, non si sentivano per nulla divertite a loro volta. Ellen lo era stata, la prima volta in cui aveva interrotto una lezione della Baker per farle notare un errore grossolano durante la spiegazione, ma ben presto la professoressa aveva avuto la sua rivincita, e allora ogni lezione ed esame di Biologia Animale era divenuto terreno di scontro.

Girandosi, Ellen riconobbe anche il dottor Crown, anatomopatologo del St Mary che per decenni aveva insegnato Anatomia Patologica alla Miskatonic University; giunto alla veneranda età di sessant’anni l’uomo aveva deciso di operare per via esclusiva all’interno dell’ospedale, con grande sollievo delle studentesse di Medicina, che da oltre un lustro avevano quindi smesso di sentirsi molestate dai suoi occhi indagatori, fin troppo spesso fissi all’altezza del seno, e dalle sue richieste di dare gli esami in sede privata. Per fortuna, il lavoro che svolgeva in quel momento gli impediva di importunare le tirocinanti: ormai poteva molestare soltanto i cadaveri.

C’era una quarta persona nell’ufficio, un uomo alto che dava loro le spalle, intento a fumare accanto a una delle due finestre della stanza. A Ellen non parve di conoscerlo.

«Signorine, benvenute» le salutò il decano non appena furono entrate. I suoi occhiali però erano puntati sul solo uomo che era con loro. «Professor Peaslee, a cosa devo la vostra presenza?»

«Ho pensato di accompagnare la signorina Holmes. Spero non sia un problema.»

«No, affatto.»

L’espressione di Miller pareva suggerire il contrario; tuttavia, il decano si limitò a inspirare profondamente e a fare alle donne cenno di accomodarsi – non c’era spazio per il professor Peaslee, ma ciò non lo dissuase dal sedersi nella poltrona riservata all’uomo in piedi, il quale dal canto suo non diede alcun segno di fastidio. Ellen si ritrovò a fissarlo intensamente, cercando di riconoscerne i lunghi capelli neri o la figura slanciata, ma era sempre più certa di non averlo mai visto prima.

«Come ben sapete» proseguì Miller «ci sono delle voci nel Campus riguardo il motivo per cui vi ho chiesto di essere qui, questa mattina.»

Crown ne approfittò per interromperlo subito. «Abbiamo sentito… parlo per me, certo, ma credo che le voci siano le stesse. Abbiamo sentito di un… ritrovamento, mi sbaglio?»

«Non sbagliate» rispose Miller, assottigliando le labbra. «La scorsa mattina la signorina Holmes, che alcuni di voi conoscono in quanto collaboratrice presso la nostra facoltà di Archeologia, ha scovato presso le rive del Miskatonic la carcassa di un animale che non ha ancora potuto identificare…»

«Sfido» lo interruppe stavolta la professoressa Baker, rivolgendosi a Janet. «Voi siete un’archeologa, no? Che cosa pensavate di capirci?»

«Certo molto più di quello che potete capire voi senza neanche avere visto la carcassa.»

La voce di Ellen fece calare il gelo nell’ufficio. Miller e Crown erano chiaramente a disagio, Peaslee si era lasciato sfuggire una smorfia divertita, e perfino l’uomo alla finestra le aveva lanciato uno sguardo incuriosito. La Baker sembrava furiosa.

«Come mai questa ragazzina è qui? Credevo si trattasse di un consulto serio

«E lo è, signorina Baker.»

«Professoressa» ringhiò lei, mentre Ellen sorrideva intimamente.

Miller la ignorò. «La signorina Lawlier è qui su richiesta della signorina Holmes» proseguì, e ciò inferse un colpo all’orgoglio di Ellen. Fino a quel momento, era stata certa che la sua presenza fosse dovuta alle doti scolastiche, alla media che la rendeva la migliore studentessa di Biologia, a…

A niente, rifletté. Sono qui solo perché lo ha voluto Janet.

«Credo sia il momento opportuno per fare le presentazioni» parlò finalmente l’uomo alla finestra, spegnendo la sigaretta e girandosi verso di loro.

Ellen si era aspettava un volto misterioso, occhi color ghiaccio, un qualunque tratto distintivo, e invece si ritrovò di fronte una persona comune. Aveva bei tratti, un viso pulito, rasato di fresco. La sola cosa che destò di nuovo la sua curiosità fu il suo accento. Non lo riconobbe: non era inglese, né italiano, e neanche latino. Da dove poteva venire?

La risposta giunse inaspettatamente da Miller.

«Avete ragione, dottor Fauerbach. Tra di noi ci conosciamo tutti… più o meno… ma è necessario fare delle presentazioni prima di continuare. Conoscete già Mary Baker.» Miller evitò di aggiungere “signorina” o “professoressa”. «Il dottor Robert Crown, un tempo docente di Anatomia Patologica e attualmente il nostro migliore anatomopatologo. Il professor Wingate Peaslee, insegnante di Psicologia. La signorina Janet Holmes, un’archeologa che ha spesso partecipato alle spedizioni compiute insieme all’università di Harvard, e la signorina Lawlier, nostra allieva. Signori, lui è il dottor Michael Fauerbach, altro collaboratore della nostra illustre università. Trovandosi ad Arkham, ha acconsentito volentieri a unirsi all’equipe.»

Il dottor Fauerbach fece un cenno con il capo per ringraziare Miller, poi sorrise in direzione di Janet. «Vi prego, signorina Holmes, potete dirci del vostro ritrovamento?»

Ora che la tensione pareva essersi dissipata, Janet sorrise a sua volta. «Grazie, dottore. Come il decano Miller stava illustrando, domenica mattina durante una passeggiata nella Downtown con un’amica ho notato uno strano esemplare sulle rive del fiume. Siamo scese a controllare e infine, di comune accordo, abbiamo allertato la vicina stazione di polizia.»

«L’esemplare era ancora in vita?» domandò la Baker.

«No. Al momento però non ne eravamo certe, e date le sue dimensioni temevamo potesse rappresentare un pericolo. Per fortuna, gli agenti sono accorsi a controllare e io stessa sono riuscita a mettermi in contatto con l’università, certa che la scoperta potesse essere di vostro interesse.»

«Possiamo vederlo? È qui nel Campus?»

«Un momento, signorina Baker» si intromise Miller.

«Professoressa Baker.»

Per la seconda volta, il decano la ignorò. «Preferisco che veniate prima messi a parte dell’aspetto della creatura. Vederla potrebbe… destabilizzarvi.» Ellen si accorse che lo sguardo dell’uomo si puntò in particolare modo su di lei e sulla Baker.

Siamo biologhe, pezzo di merda, avrebbe voluto rispondergli. Abbiamo visto più cadaveri animali di te, che sei solo un patetico esempio di nepotismo.

Janet però annuì. «Sono d’accordo. La carcassa che abbiamo rinvenuto ha un aspetto inusuale. Assomiglia a un anfibio, possiede arti palmati e branchie ai lati del collo tozzo, ma è incredibilmente grande, di dimensioni più che umane. Non abbiamo neanche compreso il motivo della sua morte, e questo forse è il particolare più inquietante.» Deglutì. «Dobbiamo fare attenzione, perché accanto a lui abbiamo trovato anche un banco di pesci. Morti. Non perché fossero fuori dall’acqua… no, tutti loro manifestano segni di avvelenamento. Potrebbe essere stato lo stesso veleno che ha ucciso la creatura, o al contrario averlo generato lei stessa morendo. Non sono che un’archeologa» proseguì, ma non lanciò sguardi significativi alla Baker «però so che bisogna fare attenzione a specie a noi ignote.»

Dopo un minuto di silenzio, il dottor Fauerbach parlò. «Dove si trova adesso?»

«L’abbiamo fatta trasportare nel laboratorio A» rispose Miller, alzandosi. «Albert Proctor, un nostro ricercatore, ci sta lavorando in questo momento.» Lanciò un’occhiata a Janet. «Provvisto di strumentazione e maschera adeguate, ovviamente.»

 

***

 

Il Charles Tyner Science Lab si ergeva adiacente lo Science Hall, di fronte al campanile neogotico e accanto all’edificio preposto all’insegnamento di lingue, letterature e arti. Era relativamente giovane, inaugurato solo otto anni prima in onore del dottor Tyner, insigne ricercatore della Miskatonic University; al momento rappresentava anche la struttura più all’avanguardia del Campus, con i suoi laboratori dedicati alla fisica e alla chimica, e ovviamente alla biologia. A eccezione dello Science Hall e del dormitorio femminile, era insieme alla Miskatonic Library il luogo del Campus maggiormente frequentato da Ellen.

Non appena ebbero superato il portone di ingresso, svoltarono a destra per salire al piano superiore e poi a sinistra verso il magazzino in cui erano riposte tutte le attrezzature necessarie per le analisi, suddivise per campo e utilizzo. Un incaricato procurò loro una mascherina e un paio di guanti ciascuno, e Miller li rassicurò che sarebbero bastati per il solo esame visivo della carcassa.

Ellen però non ne fu certa finché Janet non glielo ebbe confermato. «All’esterno non ci sono stati problemi, ma all’interno… non posso esserne sicura, ecco. Però la analizzeremo a distanza, solo per darvi un’idea del suo aspetto. Forse non dovremo neppure entrare nel laboratorio.»

La fai facile tu, pensò Ellen, che con i suoi scarsi cinque piedi di altezza stentava a raggiungere le finestrelle montate sulla doppia porta dei laboratori.

Infilò i guanti e fece aderire con cura la mascherina al volto. Tutto procedette nel massimo silenzio, come se i pensieri di ciascuno fossero concentrati sulla misteriosa creatura che di lì a poco avrebbero visionato. A parlare, infine, fu Miller.

«Professor Peaslee» esordì. «Se preferite voi potete attenderci fuori…»

«Nessun disturbo, decano Miller. È un onore per me poter assistere alla vostra indagine.»

Un onore che, rifletté Ellen, Miller gli avrebbe volentieri negato.

«Procediamo, allora.»

Scesero di nuovo al piano inferiore e procedettero verso il fondo del corridoio, diretti al laboratorio A. Superarono diverse svolte e, a un certo punto, Ellen avvertì chiaramente un pizzicore sulla nuca. Si voltò di scatto, pronta a fronteggiare l’ennesima occhiataccia della professoressa Baker, ma incontrò il volto del dottor Fauerbach. Il tedesco – o austriaco, quel che è – le sorrise affabile, ma lei non ricambiò: quell’uomo la inquietava. Non l’aveva mai incontrato al Campus, né ne aveva sentito parlare, e a quanto sembrava conosceva la Baker. Tutti ottimi motivi per tenersene alla larga.

Era ancora sovrappensiero quando raggiunsero la doppia porta del laboratorio A, così andò a cozzare contro la schiena di Miller, che si era fermato di colpo.

«Cosa succede, decano?» domandò Crown facendosi avanti. «Non trovate le chiavi…?» Si bloccò anche lui, guardando attraverso la finestra rettangolare in alto.

Si erano ammutoliti entrambi. Ellen dovette alzarsi in punta di piedi per scoprire cosa avevano visto i professori, ma non appena il suo sguardo vagò oltre il vetro si sentì pietrificare.

La prima cosa che aveva notato era la viscida carcassa verdastra, stesa sul primo tavolo da lavoro e aperta in due.

La seconda era il corpo che dondolava sopra la creatura.

Guardando meglio, Ellen riconobbe Proctor.

Una fune robusta cingeva il suo collo spezzato.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Capitolo II

 

«Passatemi il bisturi.»

«Signorina Baker, sono io l’anatomopatologo, forse dovrei…»

«Professoressa Baker. Voi pensate agli umani e passatemi il bisturi.»

Le voci continuavano a inseguirsi alle sue spalle; le era balenata l’idea di mettersi di fronte alla scena, ma poi aveva optato per sedersi dall’altro lato del secondo tavolo, in modo da tenere a bada la curiosità. Aveva del lavoro da fare sull’epidermide della carcassa, e solo dopo avrebbe osservato lo scempio che i due dottori e la docente di Biologia Animale stavano facendo sul resto del corpo. Erano già in ritardo, era il momento di dire basta alle distrazioni.

Quella mattina, dopo il ritrovamento del dottor Proctor, il decano aveva quasi avuto un mancamento; per fortuna, aveva pensato Ellen, Crown era già lì per un’eventuale autopsia su Miller. Non si erano trovati davanti un bello spettacolo, ma nemmeno uno dei peggiori: a eccezione della carcassa viscida e integra sul tavolo e del ricercatore impiccato appena sopra, il laboratorio appariva in ordine. Ellen si era appuntata mentalmente anche un dettaglio che era certa le sarebbe tornato utile in una discussione futura.

La sicurezza del Campus era stata allertata e il dottor Proctor era stato sciolto dalla fune, calato sul pavimento e, accertata da Crown e Fauerbach la sua effettiva dipartita, spostato infine nell’obitorio del St Mary, a pochi isolati del Tyner Science Lab. Sfortunatamente, la barella era passata davanti al dipartimento di Educazione Fisica, i cui studenti si stavano per gran parte esercitando nel campo esterno, e a quello di Medicina, adiacente uno dei dormitori; nel giro di un quarto d’ora, l’intero Campus era stato messo al corrente di ciò che era accaduto, più o meno. Erano cominciate a circolare voci sull’identità della vittima e l’ingresso al laboratorio A era stato vietato in quanto scena del crimine, ma la Baker si era impuntata, e per la prima volta Ellen si era trovata d’accordo con lei: il loro lavoro doveva proseguire, molto tempo era già stato perso, quindi che la carcassa venisse spostata nel laboratorio B. E così era stato fatto.

Un altro particolare che a Ellen non era sfuggito era stato il sollievo dei due uomini di guardia. Non avevano assecondato la Baker per galanteria o per togliersela dalle palle come avrebbero fatto in qualunque altro contesto, bensì perché si sentivano a disagio in presenza della creatura. Ellen aveva notato il sudore imperlare il volto di uno di loro mentre la Baker aveva avanzato le sue pretese.

L’indagine aveva potuto riprendere a distanza di qualche ora, dopo che Crown e il suo assistente ebbero effettuato l’autopsia su Proctor, dichiarando che, nonostante la giovane età e una brillante carriera davanti a sé, la causa della morte era stato effettivamente un suicidio. Una volta entrati nel laboratorio B, sempre forniti di mascherina e guanti protettivi, si erano divisi il lavoro: la Baker, Crown e Fauerbach avevano deciso di analizzare la carcassa da vicino, operando anche su di essa un’autopsia, mentre Janet ed Ellen avevano preso posto al tavolo accanto, preferendo concentrarsi su alcune parti asportate alla creatura: un lembo di pelle coriacea, un’unghia e una delle branchie. Ellen era curiosa, ma intenzionata a non rivolgere alla “star” di quella giornata più dell’attenzione necessaria: anche lei si sentiva a disagio guardandola.

Le aveva scoccato qualche occhiata da quando erano a lavoro, per cui si era fatta un’idea della creatura con cui stavano avendo a che fare. Corrispondeva ovviamente alla descrizione di Janet, ma c’erano altri particolari che la caratterizzavano: aveva le sembianze di un enorme anfibio, tutte e quattro le zampe palmate e branchie tra la testa e le spalle; l’addome era bianco, a differenza del resto del corpo, che variava tra il verde spento e il grigio; infine – ed era ciò che la spronava a smettere di guardarla – aveva dei tratti tanto somiglianti a quelli umani da farle drizzare i capelli. Ellen si era aspettata una sorta di pesce gigante, o un anfibio come una rana parecchio cresciuta, non una creatura umanoide. Adesso comprendeva l’urgenza di Janet di farlo esaminare dall’università: avrebbe portato alla Miskatonic parecchio prestigio scoprire cosa fosse.

Le tornò in mente un particolare. «Janet…» esordì, rivolta all’amica che era china sull’unghia da cui stava delicatamente asportando il terriccio. Da archeologa, sapeva agire delicatamente e teneva in considerazione fattori esterni come l’ambiente; infatti, era stata la prima a ipotizzare che la creatura non fosse morta nel fiume, ma che vi fosse stata trasportata. D’altronde, come mai un essere simile era stato avvistato soltanto adesso? Il Miskatonic River divideva in due la città, ma non era un bacino abbastanza ampio da nascondere l’esistenza di anfibi del genere.

«Mh?» fece lei in risposta.

«Con chi stavi passeggiando ieri mattina?»

Sarebbe parsa la domanda di un’amica gelosa in altri contesti, se ad esempio fossero state a Boston, luogo in cui l’archeologa risiedeva tra un viaggio e l’altro; ad Arkham, però, Janet aveva solo un’amica e una manciata di conoscenti, che per quanto ne sapeva Ellen erano tutti di sesso maschile.

Janet esitò. «Ah… sì. Ecco, si trattava di un’amica di Boston. Sto dormendo a casa sua, te lo avevo accennato.»

No, mi avevi solo accennato che non dormivi nel Campus.

«È una storia complicata, ma… ci trovavamo in zona di notte. Eravamo con un nostro comune amico e con un maggiordomo…»

«Janet, ti sto perdendo. Di che cazzo parli?»

La sua schiettezza fece emettere a Janet una risatina nervosa. «Te l’ho detto, è una storia complicata, te la racconterò in un altro momento.»

Ellen interpretò il breve lasso di silenzio che seguì come un «Forse».

«Eravamo là per un altro motivo, diretti all’Ye Olde Booke Shoppe, hai presente?»

Ellen annuì. Un po’ tardi per una scappata in libreria, pensò.

«Non dovevamo esattamente… essere visti.» Janet aveva cominciato a parlare a voce bassa e in maniera concitata. «Comunque, tornando in auto il maggiordomo di Giraud…»

«Giraud?»

«Giraud Des Chateaubriand, l’Arcivescovo» Janet fece un cenno con la mano per minimizzare e andare avanti, ma ora Ellen la fissava a occhi spalancati. «Comunque sia, Jeremy – il maggiordomo – si era allontanato dall’auto in nostra assenza e aveva notato questa grossa creatura sulla riva del fiume. Era proprio sotto la luce di un lampione…»

«Un lampione?»

«Sulla strada sopra, ovviamente. Siamo scesi a controllare perché Alexander si sentiva scosso…»

«Alexander?»

«Ellen, lascia stare e ascoltami! Comunque, quando ci siamo trovati davanti la carcassa abbiamo deciso di chiamare la polizia. Chi poteva avere ammazzato una creatura così grande? E se ce ne fossero state altre in giro?»

«Ma Miller ha detto che il ritrovamento è stato fatto di prima mattina…»

Janet avvampò. «Beh…» tentennò. «Non saremmo dovuti essere là, ecco. Quindi ho aspettato l’alba, sperando che nessun altro si imbattesse nella carcassa, e poi sono tornata lì con Lilyan.»

«Che è la tua amica.»

«Sì» confermò, prima di rimanere un attimo in silenzio. Sapeva quale domanda stava per porre Ellen.

«Miller non avrebbe mai accettato di farla esaminare, non è vero?»

«Ho dovuto smuovere le acque rivolgendomi a Wingate. Suo padre, Nathaniel Peaslee, ha un’onorata carriera alle spalle, e la parola del figlio viene tutt’ora presa in considerazione. Perciò…»

“Onorata carriera” era un modo carino per dire “il vecchio pazzo che vive nel Campus”, ma Ellen non la corresse e trasse invece le conclusioni.

«Peaslee Jr ha fatto girare la voce della scoperta e poi l’ha riferito anche a Miller, che non avrebbe più potuto tirarsi indietro.»

Janet sorrise dietro la mascherina, ma Ellen riuscì a capirlo dagli occhi azzurri che le brillarono.

«Però non mi hai ancora spiegato chi siano i tuoi amici e cosa ci facevate…»

«Cazzo!»

L’esclamazione della Baker, poco adatta al suo repertorio di imprecazioni, le fece sussultare entrambe. Avevano tranciato la carotide della creatura? Per la sua conformazione fisica, Ellen non poteva dare per scontato che il sangue non scorresse ancora denso e liquido.

Tuttavia, si trovò davanti solo il ventre aperto della creatura. Janet si portò le mani alla bocca, ma Ellen dovette avvicinarsi per vedere meglio.

Nel ventre ormai privo di vita, giacevano due uova.

 

***

 

Ellen voleva quelle uova. Analizzare dei gusci non comportava osservare anche la loro madre., prospettiva che non la entusiasmava; inoltre, era certa di ottenere maggiore prestigio da un simile esame, piuttosto che da un lembo di pelle.

La Baker, ovviamente, glielo impedì.

«No» esclamò ferma, mettendosi tra Ellen e la carcassa. «Non permetterò che una studentessa faccia danni.»

«Mi hanno chiamata a partecipare, non sono una sprovveduta.»

«Sì, vi ha invitata un’archeologa» sibilò la professoressa. Si voltò verso Janet. «Perdonatemi, dottoressa Holmes, ma è la pura verità: voi non sareste qui se non aveste ritrovato la carcassa. Immagino che nel suo campo siate un’eccellenza, tuttavia anche il professor Peaslee ha compreso che i suoi studi da psicologo sarebbero stati inutili in…»

«Credo nelle doti di Ellen» la interruppe Janet, e un calore scaldò il cuore dell’amica. Adesso l’archeologa fronteggiava la Baker, gli occhi fissi nei suoi. «È vero, è solo una studentessa, ma non imparerà niente se verrà ostacolata dai suoi stessi insegnanti.»

«In effetti, mi ricorda un po’ come eravate voi dieci anni fa…» provò a inserirsi Crown, ricevendo uno sguardo rabbioso dalla professoressa.

La Baker non voleva cedere. Incrociò le braccia al petto, poi proseguì: «La signorina Lawlier non ha mai guidato una spedizione, né un’equipe, compito che all’inizio del pomeriggio avete affidato a me, se non erro.»

«Perché vi siete imposta» ribatté Ellen.

«Perché sono la più qualificata, e il dottor Fauerbach può confermarvelo.»

Il medico, chiamato in causa, lasciò perdere l’esame visivo delle uova e sollevò il capo. Si schiarì la voce, ma nei suoi occhi apparve una scintilla che svelò a Ellen come non si sentisse a disagio. Si stava divertendo, proprio come tutti i suoi colleghi durante le lezioni della Baker. Avvertì montare la rabbia.

«La professoressa Baker ha ragione, dottoressa Holmes. La vostra amica potrà anche essere una valida studentessa, e non dubito delle motivazioni che, oltre alla vostra insistenza, hanno convinto il decano ad annetterla all’equipe… Tuttavia, ho avuto modo di lavorare con la professoressa Baker in passato, e so che il suo approccio, seppure rude, è appropriato per il tipo di ricerca che stiamo svolgendo.»

Quanti paroloni per leccarle il culo, pensò Ellen.

Stava per ribattere, quando tutti furono attratti da un rumore alle loro spalle. Nel corso della discussione, si erano allontanati dal primo tavolo da lavoro, quello su cui giaceva la carcassa, ma pur senza vederlo ciascuno di loro riconobbe il crepitio di un guscio rotto.

Cinque paia di occhi si concentrarono sulla creaturina che stava nascendo. Una zampa palmata si fece largo tra le crepe del guscio, riversando fuori un liquido amniotico denso e giallastro. Ellen sporse il collo per avvicinarsi all’essere, ma la mano di Fauerbach si posò sulla sua spalla per impedirglielo. Subito dopo, capì che qualcosa non andava.

L’uovo misurava venti pollici, ma la zampa che si era guadagnata l’uscita ne era lunga quindici, e continuava a crescere; quando finalmente si posò sul ventre della madre, era abbastanza grande da circondare l’altro uovo. Ellen mosse d’istinto un piede indietro, calpestando quello di Crown, che lasciò andare un gemito. A quel rumore, gli occhi della creatura neonata, ormai del tutto fuori dal guscio, scattarono su di loro.

Poi fu il turno del suo intero corpo.

Si lanciò su Fauerbach, il più vicino, ma il medico lo respinse con la lente di ingrandimento che teneva ancora in mano.

Nel laboratorio si scatenò il panico, perché la creatura non smetteva di aumentare di stazza.

Ellen si lanciò nel corridoio, seguita da Janet, che nella corsa sbatté contro un becher e si tagliò con il vetro. L’odore del sangue parve benefico per la rabbia della creatura, che si mosse ancora verso di loro. Ripresero a fuggire e, quando Ellen lanciò uno sguardo dietro di sé, notò che quell’idiota di Crown aveva lasciato la doppia porta spalancata. Imprecando si strappò via la mascherina, che le impediva di respirare regolarmente, e corse verso l’uscita.

Quando mancavano solo due svolte, una mano la afferrò e la spinse indietro, all’interno di una nicchia. Sentì il guanto rotto premerle contro il viso, e a malapena riconobbe Fauerbach. La testa era andata a sbattere contro il suo torace, ma Ellen non si lamentò del colpo: il cuore le martellava rapidissimo, trattenne perfino il respiro per evitare di essere udita. Dall’altro lato, nascosti in altre rientranze dei muri in corrispondenza delle porte, Ellen riconobbe Janet, Crown e la Baker.

Era così vicina a Fauerbach che avrebbe potuto sentire l’odore del suo dopobarba. Immaginò che fosse così, perché il tanfo che le arrivava alle narici nascondeva ogni altro olezzo. Avvertì il suono strascicato dei passi lungo il pavimento per un tempo che le parve infinito, prima di notare le quattro zampe della creatura che si muovevano lente, sollevandosi appena, ancora bagnate dal liquido amniotico. Chiuse gli occhi in preda al terrore, il tanfo mefitico sempre più vicino…

Poi passò. Non seppe come, né quanto ci mise, ma la prima cosa che avvertì fu la fine della presa di Fauerbach. La sua bocca ora era libera e lei espirò profondamente, tossendo perfino, e dal rumore proveniente dall’altro lato del corridoio comprese che anche altri avevano avuto la sua stessa reazione.

«È entrato in un laboratorio» mormorò Fauerbach. «Corriamo fuori.»

 

***

 

Ancora una volta, la sicurezza del Campus era stata allertata con solerzia. Per fortuna, a causa del suicidio di Proctor, nel Tyner Science Lab erano rimasti soltanto loro cinque, e questo aveva permesso alla professoressa Baker e al dottor Fauerbach di serrare la porta principale dell’edificio senza alcun tipo di rimorso; provvidenzialmente, i due uomini preposti al sorvegliamento del laboratorio A erano in cortile a fumare, e l’equipe aveva impiegato diversi minuti per convincerli che non stavano mentendo sulla bestia che li aveva aggrediti. Il gruppo aveva poi spiegato la situazione al resto delle guardie e al decano Miller, e insieme avevano deciso di imbastire una storia per gli altri residenti nel Campus, in modo da evitare scandali o richieste di spiegazioni. Che genere di spiegazioni avrebbero potuto dare, in fondo? Non avevano una risposta neanche per se stessi.

Nel giro di un paio d’ore, l’intero Tyner Science Lab era stato messo sotto osservazione e loro erano stati mandati a fare i bagagli per una nottata fuori dall’ordinario. Il decano, infatti, aveva insistito che fossero tutti riuniti nel Faculty & Graduated Residence, dove già dormiva Fauerbach; secondo Miller, sarebbero stati più al sicuro se fossero rimasti uniti. Un grande atto di empatia che nascondeva un misero piano: Miller voleva evitare che diffondessero informazioni, e il modo migliore e più rapido per farlo era rinchiuderli in un edificio mezzo vuoto, confinati su due piani e con un portiere pronto ad avvertirlo nel caso in cui uno di loro avesse tentato di uscire o di ricevere visite.

C’erano state delle lamentele da parte dei membri dell’equipe, ma tutte poco convinte; avevano ben altro nella testa. Ellen aveva dovuto attendere l’assegnazione della stanza prima di aprire di nuovo bocca, e l’aveva fatto solo per vomitare. Poco dopo, seduta sul pavimento dalla propria stanza e con una mano premuta contro la fronte, Ellen cercava di razionalizzare quanto accaduto.

La risposta data agli studenti, ai professori e a tutti gli altri lavoratori o abitanti del Campus era stata semplice, lineare e sotto ogni aspetto credibile: dei vandali erano entrati nel Tyner Science Lab, violando le misure di sicurezza, e questo aveva fatto imporre al decano Miller una chiusura completa dell’area. La carcassa era quella di un animale marino, niente di particolare, e il suicidio di Proctor era del tutto scollegato dal suo ritrovamento. In effetti, Albert Proctor stava passando un brutto periodo, aveva problemi sia in ambito accademico che personale, e questa era forse la sola verità in quell’ammasso di bugie: chi lo conosceva aveva affermato che Proctor fosse davvero sul punto di mollare il lavoro, dopo che il suo fidanzamento era stato sciolto proprio per via del suo grosso impegno all’università e di una spedizione in partenza della quale non aveva intenzione di fare parte.

Il suicidio del ricercatore era dunque archiviabile per Ellen, e d’altronde l’autopsia effettuata sul corpo non aveva dato indizi discordanti. Poteva inoltre togliere di mezzo l’idea dell’avvelenamento, poiché Proctor indossava guanti e mascherina mentre si toglieva la vita. Questo, tuttavia, poneva un altro quesito: perché?

No, si disse, doveva pensare ad altro, per esempio a come giustificare l’esistenza di quelle creature. Sperava che fossero state annientate dalle guardie, che perlomeno disponevano di armi. Ciò fece nascere un’ulteriore domanda in lei: se avesse avuto una pistola con sé, avrebbe sparato?

Neanche so come cazzo si usi una pistola, si rispose subito.

D’accordo, via il pensiero sulle armi e pure sul suicidio di Proctor. Cos’erano quelle creature e come erano finite nel Miskatonic River? Qualcosa le solleticò la mente, un ricordo che non riuscì ad acchiappare, ed era la seconda volta che accadeva dopo la loro fuga. Sospirò e si rimise in piedi, diretta verso il proprio letto.

A differenza dei suoi nuovi “compagni di dormitorio”, Ellen era potuta rientrare in fretta all’Upman Hall e prendere una camicia da notte e un cambio per il giorno dopo. A Janet e alla professoressa Baker, che dormivano sul suo stesso piano, erano state fornite delle vesti nuove dalla lavanderia dell’università, e così era stato per Crown, che ora alloggiava al secondo piano – gli uomini e le donne non potevano dormire in camere adiacenti nemmeno quando ne andava della loro sicurezza, constatò.

Si era addormentata da poco quando udì un tonfo sordo all’esterno. Scattò a sedere e accese l’abat-jour. Altri rumori si inseguirono nel corridoio.

Rumori di lotta, comprese.

Si alzò stando attenta a non produrre alcun suono, poi appoggiò l’orecchio alla porta. Sì, aveva ragione: qualcuno stava combattendo là fuori. Com’era possibile? C’erano solo Janet e la Baker sul suo piano, eppure…

Un urlo le fermò il cuore per un attimo.

Janet!

Fu sul punto di spalancare la porta e correre da lei, poi una sensazione di déjà-vu si impossessò del suo corpo. Arretrò tremando, continuando a sentire le urla disperate di Janet provenire dal corridoio, e avrebbe davvero voluto uscire ad aiutare l’amica – ma come? – e avrebbe davvero desiderato mettersi tra lei e ciò che minacciava di farle del male, una bestia i cui suoni rauchi si facevano spazio nella sua testa, riecheggiando furiosi.

Invece continuò ad arretrare fino al muro, gli occhi fissi sulla porta, e scivolò lungo la parete con le mani premute contro le orecchie.

Un urlo, ancora una volta di Janet.

Un urlo più disperato che mai.

Un urlo spezzato a metà.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Capitolo III

 

Ellen aveva conosciuto Janet un freddo marzo di tre anni prima. Era in mensa, seduta a un tavolo vuoto per suo stesso desiderio, e giocherellava con il purè di patate rimasto: troppi grumi e un’acidità che non prometteva nulla di buono. Dopo un fugace sguardo alla finestra di fronte, aveva deciso di rimanere lì per studiare, invece di avventurarsi sotto la pioggia ed essere costretta all’ennesimo viaggio nella lavanderia dell’università.

Aveva appena estratto un voluminoso tomo quando una voce femminile si era rivolta a lei.

«Posso sedermi?»

Di solito, nessuno si rivolgeva a lei. Quando si era immatricolata alla facoltà di Biologia, il suo aspetto aveva tenuto i colleghi alla larga: non solo era una donna, ma neanche si curava del proprio corpo. Era stato in quell’occasione che aveva tagliato i lunghi capelli color rame, decidendo che fosse molto più comoda un’acconciatura veloce da lavare e sistemare.

Con il tempo, i colleghi avevano mantenuto le distanze a causa del suo atteggiamento rude, e di questo non le interessava granché: l’aspetto poco curato rischiava di far saltare il suo camuffamento, un carattere da stronza no.

Perciò, quando Janet le aveva parlato per la prima volta, era stata costretta a ripetere la domanda ad alta voce, perché Ellen era stata certa che non parlasse con lei.

«Posso sedermi?»

Il suo tono non si era fatto infastidito. Ellen aveva alzato la testa, stupita, e le aveva istintivamente fatto cenno di sì, per poi pentirsene subito dopo: era stata presa alla sprovvista.

Per fortuna la sconosciuta pareva essere solo intenzionata a mangiare, perché per diversi minuti era rimasta in silenzio. Passati quei minuti, Ellen si era tuttavia sentita osservata. Aveva alzato di nuovo la testa, incrociando il suo sguardo, e allora la ragazza le aveva sorriso. Una bella ragazza, rifletté, e subito dopo comprese cosa stonasse nel suo aspetto: non la chioma bionda, non gli occhiali, nemmeno lo strano sorriso; la sconosciuta non indossava una divisa.

La squadrò meglio e si soffermò sui pantaloni che le scivolavano lungo le gambe. I suoi occhi si spalancarono.

La ragazza rise. «Ti piacciono?»

Sì, le piacevano. Prima di immatricolarsi alla Miskatonic University, Ellen si era sempre messa dei pantaloni per muoversi lungo le vie della città; pantaloni da uomo, logori e di terza mano, non eleganti e raffinati come quelli che aveva di fronte. Provò un pizzico di invidia per il coraggio della sconosciuta.

«Sono comodi per il lavoro» continuò lei. «Mi chiamo Janet. Cosa stai leggendo?»

Era cominciata così la loro amicizia, tra un purè avariato e un paio di pantaloni avana. Ellen aveva messo da parte lo studio per ascoltare resoconti di viaggi lontani, tra l’Inghilterra e l’Argentina. Janet era un’archeologa che portava avanti il mestiere di famiglia, e poteva perfino vantare di essere nata a Il Cairo. Prima di iscriversi ad Harvard, aveva viaggiato parecchio con i genitori, imparando tedesco, francese, hindi e arabo; quando le loro trasferte di lavoro erano brevi la lasciavano dai nonni materni a Boston, e quando duravano dalle tre settimane ai sei mesi la portavano con sé; al momento risiedevano nelle Indie, il luogo da loro più amato.

Janet, invece, per quanto adorasse la giungla e la vita nella remota colonia britannica, si era sempre sentita legata alle proprie radici nordafricane. A Harvard aveva studiato l’Antico Egitto, e dal momento della sua laurea aveva passato nell’appartamento acquistato a Boston solo lo stretto necessario: era sempre in viaggio, spesso in Europa o in Africa, e aveva cominciato presto a collaborare con la Miskatonic University per le spedizioni in terre lontane.

Quando aveva incontrato Ellen, quel marzo del 1925, era di ritorno da una delle prime spedizioni compiute insieme al dipartimento di Archeologia di Arkham. Da lei una Ellen sempre avida di conoscenza aveva appreso delle tribù Ashanti, dei manufatti Chimú e delle tigri del Bengala; Janet si era perfino dichiarata agnostica, ridendo dell’espressione sconvolta della studentessa di Biologia. Ciò che era nata nel tempo tra le due era una profonda amicizia, un legame che Ellen non aveva mai sviluppato prima per sua stessa volontà, ma del quale non poteva fare a meno. Rivedere Janet ogni tre o quattro mesi, scambiarsi pareri e informazioni su quanto appreso nel tempo restante, tutto ciò era diventato una boccata d’aria fresca per lei.

Janet era l’unico legame umano che avesse, l’unico che realmente significasse qualcosa.

Quella notte, per poco non l’aveva persa per sempre.

 

***

 

Oltre la porta i rumori erano cessati. Forse, avvicinandosi alla soglia, Ellen avrebbe potuto udirne qualcuno, come un respiro affannato, un gemito di dolore, piedi che strisciavano lungo il corridoio; eppure era certa che non ci sarebbe riuscita, poiché il suo cuore batteva troppo forte, più forte ancora di una manciata di ore prima, quando era fuggita dal laboratorio B.

Inspirò, espirò e ripeté il gesto almeno una decina di volte, prima di decidersi ad alzarsi in piedi. Era spaventata, ma voleva – doveva sapere.

«La curiosità uccise il gatto.»

Il ricordo le fece tremare le gambe. Si appoggiò alla parete, procedendo lentamente fino al comodino. Staccò l’abat-jour e arrotolò il filo intorno al manico, stringendolo meglio che poteva. A passi incerti si diresse verso la porta e, dopo un giro di chiave e l’ennesima inspirazione, piegò la maniglia.

Si era aspettata… di tutto, in effetti, e prima di ogni cosa il cadavere dilaniato della sua unica amica. Quello che vide riuscì comunque a sorprenderla.

Per terra, a tre porte di distanza, giacevano due versioni ridotte della carcassa chiusa nel laboratorio B. Le soppesò attentamente, reprimendo un conato di vomito, e si accorse che questa volta la causa della loro morte era evidente: fori di proiettile lungo il corpo per la prima creatura, un solo colpo in testa per l’altra. Ora che li aveva notati, altri rumori esplosero nella sua testa, spari che prima erano stati sovrastati dalle urla di Janet, le uniche sulle quali il suo udito si fosse soffermato.

Gli occhi vitrei delle creature la fissavano, costringendola a distogliere lo sguardo, a portarlo altrove, verso la fine del corridoio.

Una risata amara scoppiò nel silenzio. «La nostra promessa accademica si è svegliata!» Era stata Mary Baker a parlare con voce rauca. La schiena contro il muro, si teneva il braccio destro.

Ellen non si soffermò sulla manica della camicia da notte strappata, né sul sangue che ne usciva. Vide Janet a terra e corse in avanti, il cuore a mille.

Sempre tardi sempre tardi sempre tardi…

C’era del sangue anche sulle sue mani. Ellen l’afferrò per le spalle, la guardò in viso, osservò il petto e l’addome, ma stava bene. Stava… bene.

E allora quel sangue?

Steso accanto a lei c’era il professor Fauerbach, con una mano premuta sul fianco. Cinque artigli si erano fatti strada nella sua carne, segni decisi e profondi, e ora un liquido scuro colava sul pavimento, sulle mani di Janet, ovunque.

«La… la mia…»

«Fatti bastare questa, Michael.» La Baker era tornata in piedi e si era strappata la manica ancora intatta. «Ti portiamo subito in ospedale.»

«Dovremmo…» tentennò Janet. «Dovremmo chiamare Crown…?»

Anche Fauerbach rise privo di gioia. «Non è… ancora… così tardi…»

Non lo era.

Ellen corse verso l’altra estremità del corridoio, dove come in ogni dormitorio dimoravano i bagni comuni. Aprì l’armadietto che conteneva l’attrezzatura necessaria per il primo soccorso e prese ciò di cui aveva bisogno.

Non so combattere, ma so curare.

Tornò in fretta da Fauerbach, che non riusciva a essere sollevato da terra in quelle condizioni, e con una delle braccia della Baker fuori uso. Si chinò sulla ferita e cominciò a disinfettarla, e per una volta la professoressa la lasciò fare senza interferire; Fauerbach stesso guidò Ellen con la bocca impastata dalla saliva.

«Garza… ah… ci sono residui?... ahi…»

Ellen non aveva un tocco delicato, lo sapeva, ma sapeva anche di dovere agire alla svelta.

Mentre terminava la fasciatura, un volto noto si affacciò dalle scale.

«Chiami qualcuno!» ringhiò la Baker a Crown, che sussultò e tornò indietro. «Almeno sarà utile in qualche modo… Tieni, Michael, questa è tua.» La mano destra della professoressa si aprì per consegnare al medico un revolver. L’uomo lo nascose nei pantaloni, l’unico abito che indossava. Non fu un gesto anomalo per Ellen: era vietato portare armi all’interno del Campus, meglio farle sparire in fretta.

Quando fu certa che il medico fosse fuori pericolo ed ebbe udito i passi veloci e le voci di alcuni uomini provenire dai piani inferiori, Ellen si rivolse finalmente a Janet. Era intonsa, a eccezione del taglio che si era procurata con il becher nel pomeriggio.

La sua amica rispose alla muta domanda di Ellen.

«Ero… ero andata in bagno» esordì. Tossì e poi continuò: «Avevo fatto un incubo, la stanza allagata… Volevo sciacquarmi il viso e… e solo allora ho sentito quel rumore.»

“Quel” rumore. Ellen non aveva bisogno di chiederle quale, ricordava ancora i passi strascicati e umidi delle quattro zampe sul pavimento del laboratorio.

«Non so come abbia fatto a liberarsi… e a trovare proprio noi… però mi è venuto addosso… Ho urlato, e per fortuna la professoressa Baker e il dottor Fauerbach sono accorsi… Hanno tirato fuori una pistola, il dottore ha ucciso la prima creatura, ma ne è arrivata un’altra…» Deglutì. «Ce l’avevano con me, Ellie. Hanno ferito la professoressa solo per raggiungermi e se non fosse stato per Fauerbach… si è gettato fra me e il mostro…»

Ellen lanciò uno sguardo al medico, con cui la Baker stava parlando a bassa voce. Altri volti comparvero sulle scale alle loro spalle.

«Mi dispiace…» mormorò Ellen continuando a osservare Fauerbach, senza il coraggio di spostare gli occhi sulla sua amica.

«No, no, Ellie, per fortuna non c’eri… Hai fatto bene a rimanere in camera, non so cosa avrebbe potuto farti…»

«Nasconditi, Ellie. Qui non ti troverà. Resta zitta e aspettami.»

«Mi dispiace» disse ancora, la voce inudibile sotto il chiasso degli uomini appena arrivati.

 

***

 

Quel pomeriggio cambiarono nuovamente residenza. Il decano Miller aveva provato a imporsi, spiegando loro l’importanza di rimanere nel Campus, magari adibendo a dormitorio un’ala dismessa del St Mary, ma poi Fauerbach aveva parlato, con voce calma e allusiva.

«Sarebbe una pessima pubblicità per la Miskatonic University se si venisse a sapere cos’è successo questa notte.»

I pettegolezzi erano ciò che preoccupavano Miller, e i reali resoconti lo spaventavano ancora di più. Fauerbach aveva sollevato le labbra in un sorriso cordiale, eppure la sua velata minaccia era stata recepita: il decano aveva fatto le sue scuse, permettendo loro di tornare nelle proprie abitazioni mentre il Faculty & Graduated Residence veniva sottoposto al controllo della polizia. Potevano tornare nel Campus il giorno seguente, senza fretta, o decidere di abbandonare la ricerca. Crown non se l’era fatto dire due volte.

Ellen non si sentiva al sicuro nel proprio dormitorio, dopo ciò che era accaduto ai due guardiani del Tyner Science Lab e al portiere dell’edificio in cui avevano passato parte della notte: uccisi e smembrati, si diceva, ma non aveva voluto accertarsi della veridicità di tali affermazioni; così, quando Janet aveva proposto di spostarsi a French Hill, nella villa in cui dimorava da circa una settimana, aveva accettato di buon grado. Anche Fauerbach e la Baker erano andati con loro. Tutto sommato, i due erano messi bene: la ferita della Baker era solo un graffio, medicabile con una fasciatura al St Mary, mentre Fauerbach era stato rilasciato dall’ospedale su sua stessa richiesta. Non era pericoloso per lui alzarsi dal letto, aveva detto, e in quanto medico nessuno aveva osato contraddirlo.

Chateaubriand Manor era una villa georgiana su tre piani, di cui uno interrato. Sorgeva al centro del quartiere perbene della città, frequentato da persone perbene con lavori perbene e una vita… forse non del tutto perbene, ma di certo alquanto diversa da ciò che era accaduto loro quella notte. Janet aveva detto che apparteneva a un uomo di Chiesa, un Vescovo o qualcosa del genere, tuttavia il loro ospite non era in casa al momento; la sua amica ne giustificò l’assenza imputandola a un’improvvisa partenza per Salem, viaggio eseguito in compagnia delle altre due persone da lei nominate il pomeriggio precedente.

Sentir citare Salem la fece rabbrividire di nuovo, ma per fortuna avrebbe potuto imputarlo al ricordo della nottata o al freddo pungente di fine ottobre. Cercò di concentrarsi sulla delusione di non potere conoscere i misteriosi amici di Janet.

Almeno aveva incontrato il maggiordomo. Era un uomo sui quarantacinque, cinquant’anni, ed Ellen non aveva mai visto una persona più inglese di lui. Jeremy – così si chiamava – indossava la livrea e serviva il tè con le mani guantate di bianco, eseguendo manovre studiate per versare la bevanda e trasportare il vassoio d’argento. Non parlava, si limitava a poche parole di circostanza, ed Ellen pensò che sarebbero potuti andare d’accordo.

Da quando erano lì, circa mezz’ora, Ellen si era guardata parecchio attorno, studiando ogni angolo raggiungibile con la vista. Non c’erano indizi sul mestiere del padrone di casa, a eccezione di alcuni crocifissi di ottima fattura esposti nell’ingresso e nel salotto, dove si trovavano in quel momento. Le credenze e le librerie sembravano antiche, almeno di un secolo prima, ma erano ben tenute e spolverate. Sopra al camino c’era un’unica stonatura, uno spazio troppo vuoto. Janet aveva solo accennato a un dipinto che vi sarebbe stato collocato di lì a poco.

Era nervosa, non serviva conoscerla per capirlo. A un certo punto si alzò di scatto e si mosse rapida verso la finestra, scrutando all’esterno.

«Mi era sembrato… Niente, mi sono sbagliata.»

«Non credo ci abbiano seguiti.»

«No, Ellie, mi riferivo a qualcosa di umano.»

Che strana parola. Fino a quel momento Ellen l’aveva utilizzata per distinguere la razza umana dal mondo animale e da quello vegetale; in un contesto simile, tuttavia, il suo significato assumeva diverse sfumature.

Era così assorta da non accorgersi che la Baker stava parlando con lei.

«Signorina Lawlier?» ripeté.

«Scusi?»

«Vi ricordate delle storie che circolavano quest’estate sul cane di Armitage?»

Un formicolio alle tempie la fece tornare alla notte prima, al pensiero che non era riuscita a cogliere. «Sì… il tentato furto» ricordò finalmente.

La Baker annuì. «Ho sempre pensato si trattasse di fandonie, ma ora comincio a nutrire dei seri dubbi.»

Lo sguardo interrogativo di Janet vagò da lei a Ellen. «Di cosa parlate?»

«Ad agosto» riprese la Baker, allontanando dalle labbra la tazza di tè bollente che continuò a tenere tra le mani per scaldarsi «è accaduta una circostanza particolare nel Campus. Il dottor Armitage, responsabile della biblioteca, aveva avvertito la sicurezza a seguito di un’effrazione all’ultimo piano della Miskatonic Library. Non so se voi vi siate mai recata lì, dottoressa, ma è su quel piano che il dottor Armitage custodisce i volumi rari e antichi, libri dal valore troppo alto per potere essere maneggiati dagli studenti senza previa autorizzazione. Era dunque credibile la presenza di un ladro all’interno dell’ultimo piano della biblioteca.»

«Lo era meno quella del cane» rifletté Ellen ad alta voce, e la Baker annuì concorde.

«In molti ci ponemmo quella domanda. Se i volumi lì riposti sono così importanti, per qualche motivo al suo mastino era consentito rimanere da solo a farne la guardia? Un cane non è una persona: ha dei bisogni fisiologici, per non parlare di ciò che potrebbe fare ai libri solo per gioco.»

«Forse quei volumi erano custoditi in teche chiuse a chiave?» tentennò Janet.

«Fu questa la risposta di Armitage secondo le dicerie, ma non la stessa che diede a me quando gli chiesi delucidazioni in maniera informale, da amica e collega.» La Baker esitò, mandò giù un sorso di tè e poi posò la tazza sul piattino. «La verità è che non c’era alcun cane, perché non c’era stato alcun ladro.»

Il silenzio sceso fu interrotto solo da Janet. «Non capisco… perché allora erano circolate quelle voci?»

«Da qualche tempo, il dottor Armitage riceveva lettere e visite di un uomo di cui non aveva stima. Qualcuno se ne accorse, e decise di mettere in piedi un teatrino per raccontare l’incredibile tentativo di furto nella Miskatonic Library. Secondo Armitage, niente di simile era mai accaduto. E fino a questa notte credevo fosse la verità.»

«Perdonami, Mary» si inserì Fauerbach, seduto sulla poltrona di fronte alla sua, mentre Ellen e Janet si dividevano il divano. Teneva un braccio poggiato sul fianco destro, come per schermire la ferita. «Questo cosa ha a che fare con le creature che ci hanno attaccato? E perché, se un tentativo di furto era effettivamente avvenuto, il dottor Armitage avrebbe preferito fingere che fosse uno scherzo di cattivo gusto?»

«Per via di quello che il cane uccise.»

Era stata Ellen a rispondere, sovrappensiero. Gli sguardi dei presenti vagarono su di lei, ma la Baker non diede segno di volere proseguire, preferendo invece riprendere a sorseggiare il suo tè, così la ragazza comprese che era arrivato il suo turno.

«Quando la sicurezza giunse sul posto, trovò qualcosa di terribile. Non… umano. Non del tutto, perlomeno. Sono talmente numerose le storie che ne parlano che non si sa quale si avvicini più alla verità. Forse aveva delle menomazioni, forse era un soldato che aveva perso le gambe in guerra, e questo spiegherebbe perché si parli del visitatore di Armitage come di una persona che faticava a reggersi in piedi. In tutta onestà, io non l’ho mai visto.» Prese fiato: non era abituata a parlare tanto a lungo. «Per questo motivo, però, pare che abbiano descritto il ladro come un essere in parte umano – la parte superiore del corpo, dal busto alla testa – e in parte… animale. C’è chi parla di tentacoli, chi di zampe caprine, chi ancora di zoccoli da cavallo.»

«Per mettere a tacere le voci» proseguì per lei la Baker «dovettero fingere che il tentato furto non fosse mai avvenuto. Era più semplice negare che dare spiegazioni, e ben presto si smisero di conoscere i nomi delle due guardie che avevano trovato il corpo, poi si mise in dubbio l’esistenza del mastino.»

«“Ciò che è noto racchiude in sé meno terrore di ciò che è soltanto sussurrato e fantasticato”» citò Ellen.

«Il segugio dei Baskerville» sottolineò Fauerbach.

«Mastino, segugio… fa lo stesso.»

«Dunque credete che a rubare i libri…?» cominciò Janet, ma la Baker la interruppe.

«No, non penso fosse la stessa creatura. Credo però che questo ci spinga a mettere in dubbio quanto appreso finora.»

«“Es gibt Dinge zwischen Himmel und Erde, Horatio, von denen sich eure Schulweisheit nichts träumen läßt”» disse Fauerbach, aprendo il suo portasigarette d’argento.

«“Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia”» tradusse Janet. Si scambiarono un sorriso. «Non vi ho ancora ringraziato per avermi salvato la vita, dottor Fauerbach.»

«Chiamatemi Michael, dottoressa Holmes. Non siate come la professoressa Baker, che ha impiegato dieci giorni per farlo.»

Sebbene la mente di Ellen fosse ormai persa nel ricordo di quell’agosto, pronta a esaminare ogni dettaglio che poteva esserle sfuggito al tempo, riuscì comunque a cogliere quel particolare. Fauerbach era il solo membro dell’equipe a chiamare le donne “dottoressa” e “professoressa”. Forse in Europa avevano una maggiore stima delle donne, o forse, semplicemente, lui non era un pezzo di merda come Miller e Crown.

L’ingresso di Jeremy la fece concentrare su tutt’altro: il maggiordomo posò sul tavolino una torta al cioccolato già divisa in fette grosse quanto le mani di Ellen, i cui occhi si illuminarono mentre fiondava le suddette mani sulla glassa perfetta e lucida. Un formicolio diverso la distrasse per un momento, questa volta posizionato sulla zona della nuca, e voltandosi si accorse che Fauerbach la stava fissando divertito.

Ti risparmio solo perché hai salvato la vita a Janet.

Adesso però ogni suo pensiero era rivolto all’uomo che fumava alla sua sinistra, le gambe accavallate, la schiena ben dritta sulla poltrona.

Quella notte, il dottor Fauerbach era accorso insieme alla professoressa Baker per aiutare Janet. C’era un piano di distanza tra le loro stanze, eppure aveva sentito l’urlo di Janet e si era precipitato. Nonostante il freddo, inoltre, dormiva a petto nudo.

Lo sguardo le cadde sulla Baker, e ora alcuni elementi cominciarono a legarsi fra loro. I due si conoscevano già, lei aveva impiegato dieci giorni per chiamarlo per nome, e il modo in cui Miller aveva giustificato alla professoressa la presenza di Ellen… Non era certa se i due avessero una relazione, ma un dettaglio era chiaro: come Janet con lei, era stato Fauerbach a esigere la presenza della Baker nell’equipe.

Sentì torcersi lo stomaco. Detestava la Baker, ma non la disprezzava, a differenza dei suoi colleghi, perfino del suo stesso decano. Era una donna intelligente e testarda, che si era fatta strada probabilmente a fatica per diventare la prima docente di sesso femminile all’interno della Miskatonic University, e dopo tutto quel lavoro ancora stentavano a prenderla sul serio. La chiamavano “signorina”, denigrando tutto il suo impegno, e la tenevano in considerazione come ultima risorsa, seconda perfino a un vecchio viscido e rivoltante come Crown. C’erano uomini divenuti insegnanti per il buon nome della propria famiglia, e c’erano donne che dovevano studiare il triplo anche solo per sperare di avere una possibilità nella vita. Era quello ciò che la aspettava?

Persa in quelle deprimenti riflessioni, non si accorse del rumore di freni all’esterno. Janet saltò in piedi e corse alla finestra, sorridendo sollevata.

«Sono tornati.»

Si diresse verso la porta senza neanche procurarsi un cappotto, la spalancò e proseguì veloce lungo il vialetto. Ellen scrutò dal vetro della finestra, curiosa di scoprire chi fossero gli amici di Janet e quale aspetto avesse il loro venerabile ospite. Sussultò quando la portiera si aprì e una ragazza cadde tra le braccia di Janet, urlando di una disperazione che le tolse il fiato.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV

 

La pendola suonò le sei. Ellen teneva tra le mani la tazza di tè vuota da tempo solo per avere qualcosa da fare. Avvertiva il freddo della ceramica contro la pelle, e stava riflettendo se abbandonarla di nuovo per mettere l’ennesimo ciocco nel camino. In una situazione diversa, avrebbe approfittato dell’attesa per esplorare la libreria alla sua destra, scegliere un libro e sfogliare le sue pagine; in quel momento, tuttavia, le domande si rincorrevano nella sua testa, aggredendosi per essere le prime a sperare in una risposta. Ellen avrebbe voluto fare da paciere, ma era impossibile, perché non aveva idea di cosa stesse accadendo intorno a lei.

Fece il punto della situazione. Quando l’auto si era fermata di fronte al cancello, ne era uscita una ragazzina in lacrime, che si era subito gettata tra le braccia di Janet in cerca di conforto; pochi istanti dopo, a scendere dal lato passeggero era stato un uomo, poi la macchina era ripartita.

Uno.

Due.

I conti non tornavano, e a sostegno della tesi di Ellen – Due persone, una di loro piange – il secondo arrivato aveva guardato Janet e scosso mestamente il capo.

Janet e la ragazzina era salite al piano superiore, da dove per diverso tempo Ellen aveva udito pianti, grida, disperazione. Immaginava l’archeologa cullare l’amica, confortarla e ascoltare quanto era avvenuto a Salem.

Nel frattempo, l’uomo che era con lei e Jeremy si erano chiusi in cucina. Il maggiordomo le era parso profondamente turbato quando, come Ellen, aveva intuito il motivo delle lacrime della ragazzina; non si era più fatto vedere, e lei li immaginava davanti a una bottiglia di whiskey ben nascosta, forse messa da parte per le grandi occasioni.

Dal canto loro, Fauerbach e la Baker avevano compreso di essere di troppo e avevano lasciato la villa, diretti verso casa della professoressa. Ellen, invece, aveva preferito l’imbarazzo al pericolo: Janet si era offerta di ospitarli per la notte, e forse per gli altri due il programma era cambiato, probabilmente lei stessa sarebbe dovuta tornare all’Upman Hall e lasciare il gruppo al proprio dolore, ma finché non le sarebbe stato detto di andarsene lei sarebbe rimasta. Le dispiaceva essere di troppo, per questo rimaneva in disparte fingendo di non esistere, ma non aveva intenzione di tornare al Campus.

Quando il pendolo suonò le sei e un quarto, la ceramica della tazza era congelata. Ellen si chinò per riporla sul tavolino basso, e in quel momento la porta del salotto si aprì.

«Ah, sei ancora qui.»

Non c’era rimprovero nel tono di Janet. Si lasciò cadere sul divano, accanto a lei, e dietro le lenti Ellen notò gli occhi arrossati.

«Come sta?»

Non le interessava davvero, ma davanti alla disperazione evidente della ragazzina le sembra fuori luogo chiedere a Janet come stesse lei.

«Si è addormentata, credo. Era sfinita.» L’archeologa si massaggiò le tempie e sospirò. «Immagino… Avrai delle domande.»

Ellen annuì.

“Quando sei pronta”, avrebbe voluto aggiungere, ma la curiosità la stava divorando.

«Sì, penso sia arrivato il momento. Mi aiuterà a… a non pensare… A Salem, almeno.» Janet fece un profondo respiro, poi cominciò.

 

***

 

Tutto è iniziato il quindici ottobre a Boston. Ero stata invitata a una festa a casa del senatore Butler, con cui i miei genitori sono molto amici, nonostante le loro visioni differenti. Arthur è un brav’uomo, lo conosco da quando ero una bambina, e dopo la perdita della moglie si è impegnato per crescere da solo la figlia Lilyan. Con lei abbiamo sette anni di differenza, quindi la nostra amicizia è nata da poco, ma è un cara ragazza, tanto affezionata al padre. Stavo parlando con lei quando nella sala da ballo siamo state raggiunte dall’Arcivescovo Giraud Des Chateaubriand, di cui non avevo ancora avuto il piacere di fare la conoscenza. Lilyan era felicissima di vedere il suo padrino, siamo andati ad annunciare al padre il suo arrivo, e da lì ha avuto inizio tutto quanto.

Il senatore Butler era immerso in una conversazione privata con il detective Alexander Blake, che conoscevo soltanto di vista. Alexander era profondamente turbato, e Arthur ha pensato che la presenza del Monsignore potesse confortarlo, e dal momento che Lilyan insisteva per rimanere con loro abbiamo ascoltato tutto.

Quella mattina, Alexander aveva ricevuto una telefonata dal notaio Nichols, che rappresenta lo studio Hicksley, Forder & Williams di Arkham. Nichols gli aveva comunicato la morte di uno zio, con l’eredità che ne derivava in quanto nominato nel testamento stesso. Alexander aveva esitato, non conoscendo il Silas McCrindle di cui il notaio gli stava parlando, e solo confrontandosi con sua madre aveva scoperto la verità: era stato adottato.

Aveva poco più di quattro anni all’epoca, logicamente non ricordava della famiglia biologica, ma un giorno Silas si era presentato alla porta dei Blake, amici di lunga data, e aveva affidato loro il bambino. I suoi genitori erano morti, questo era tutto ciò che la signora Blake sapeva.

Lo stato di Alexander era pessimo quella sera. Non era solo un collaboratore di Arthur, erano diventati molto amici con il passare del tempo, e aveva pensato di confidarsi con lui su come agire. Se avesse seguito l’istinto, avrebbe voltato le spalle all’eredità, ma sua madre insisteva che si recasse ad Arkham per capire cosa fosse accaduto allo zio, e a quel punto l’Arcivescovo era intervenuto. Credeva che fosse opportuno per Alexander chiudere con il passato, se davvero lo desiderava, ma senza rimpianti, quindi si offrì di ospitarlo nella sua villa di Arkham. Lilyan insistette per andare con loro e dato che anche io dovevo recarmi alla Miskatonic University ho rassicurato Arthur, sostenendo che sarei stata una compagna di viaggio per la figlia. Era la prima volta che viaggiava senza il padre e soltanto questo lo convinse a lasciarla andare. Se avessi saputo cosa ci aspettava, avrei trovato una scusa per impedirle di seguirci.

Siamo partiti il giorno seguente, e nel giro di trentasei ore Alexander aveva parlato con il notaio, scoperto che lo zio era deceduto cadendo dalle scale e visionato la casa che, insieme a una cospicua somma di denaro, aveva ricevuto in eredità. Non era messa in buone condizioni. Silas McCrindle viveva in eremitaggio, senza ricevere ospiti e facendosi recapitare la spesa a domicilio, a eccezione di rare uscite in città. All’interno dell’abitazione abbiamo trovato di tutto, dal cibo ammuffito ai ratti morti… Alexander però era determinato: mentre l’Arcivescovo svolgeva le sue faccende, Lilyan girava i negozi e i teatri di Arkham e io facevo delle sortite in università, lui si è dedicato a sistemare la casa per rivenderla o farla buttare giù. Voleva vedere se ci fosse qualcosa di utile, e anche se non l’ha mai detto chiaramente pensavamo tutti che fosse alla ricerca di dettagli sulla famiglia biologica. Forse voleva capire suo zio, o cosa fosse accaduto ai genitori, o quale fosse la sua città di origine. Mi sono offerta io stessa di dargli una mano, e ha accettato volentieri. Dopo tre giorni di lavoro, abbiamo organizzato un mercatino in giardino, per dare via tutti gli oggetti in buono stato. Per fortuna, infatti, alcune stanze tra cui la camera da letto e lo studio erano intatte, soltanto molto impolverate e caotiche.

Un uomo, in particolare, si è mostrato interessato agli oggetti in vendita. Era una persona distinta, un librario, che mi ha detto di chiamarsi Jefferson Masters e di avere un negozio nella Downtown. Ha comprato parecchi volumi per rivenderli, e altri per collezionarli. Sosteneva di avere circa diecimila libri in casa, tra cui la copia originale di Ventimila leghe sotto i mari. Non la prima edizione: il manoscritto stesso di Verne. È per questo che mi sono ricordata di lui quando, il giorno successivo, il notaio Nichols si è precipitato alla vecchia casa di Silas.

Si è profuso in mille scuse con Alexander. A quanto pare, al testamento era allegata una lettera a cui nessuno nello studio aveva fatto caso. Alexander l’ha letta subito, pensando che ci fossero finalmente delucidazioni sul suo passato, ma alla fine della lettura era sconvolto. Ho provato a chiedergli il motivo, credevo avesse appreso qualcosa di terribile sulla morte dei genitori, invece mi ha risposto che suo zio era un vecchio pazzo con manie di persecuzione, e che gli aveva dato delle istruzioni da seguire. Ancora una volta, Alexander era combattuto tra lasciarsi tutto alle spalle oppure completare prima ogni incombenza.

Ho con me la lettera, ho chiesto ad Alexander di potertela mostrare. Te la leggo.

“Caro nipote,

da quando eri un ragazzino ti ho protetto dalla verità; tuttavia è arrivato il tempo in cui la tua sola protezione può essere la verità… Quindi senza procrastinare oltre giungo al punto.

Oltre venti anni fa una terribile tragedia ha colpito la tua famiglia naturale – i McCrindle di Greenville, nel Maine. Tuo padre, Owen, era una persona straordinaria, per questo era divenuto il Guardiano di alcuni libri, ma è stato sfidato da nostro fratello Darcus – un uomo malvagio, perfido – corrotto dalla brama incontenibile di ottenere quei libri per sé. Nella cieca ambizione di raggiungere il suo scopo ha tradito la fiducia di Owen e massacrato la tua famiglia. Avrebbe ucciso anche te, per questo ti ho mandato lontano – molto, molto lontano da lui, affidandoti a una famiglia che ti avrebbe cresciuto come se fossi stato il loro vero figlio. Ma non eri il solo che volessi proteggere… c’erano anche i libri. Li ho presi e sono scivolato nell’ombra qui ad Arkham divenendo un eremita. Un vecchio pazzo, secondo quel che ho sentito dire.

Per seicento anni la nostra famiglia è stata custode della tradizione: quattro libri di un’incredibile conoscenza arcana che possono portare al declino dell’umanità. Questi libri sono nell’attico.

Il primo libro è in pelle nera e ha uno stampo profondo. Il tomo contiene diverse centinaia di pagine spesse come un papiro.

Il secondo libro è verde e il suo titolo, Monstres and their Kynde, è scritto in lettere dorate. Alcune porzioni sono state significativamente rovinate dai topi.

Il terzo libro è marrone e privo di titolo, anche se secondo alcune pagine dovrebbe essere Cthaat Aqaudingen. È composto da duecento pagine ed è datato, ma mancano autore e tipografia.

Il quarto libro è il più misterioso poiché è scritto a mano in un linguaggio non appartenente a questo pianeta. I simboli non possono essere tradotti, ma tutto suggerisce che si tratti di un codice.

Inoltre, ho conosciuto un uomo di nome Jefferson Master in un pub e abbiamo iniziato a parlare – è stato un errore… mi sta tormentando da settimane, prima per consultare e poi per acquistare i libri. Sebbene lui non mi spaventi, temo che possa fare qualcosa nel tentativo di ottenere i quattro volumi. Per questo motivo ti sto scrivendo questa lettera, nel caso che i suoi tentativi si spingano troppo oltre.

Adesso che sei tu il guardiano non devi mai rivelare l’esistenza dei libri, al contrario di quanto sfortunatamente abbia fatto io. Il nostro nemico è potente. Non fermarti mai. Non cedere… Resta sempre in guardia. Per il bene dell’intero genere umano ti prego dalla tomba di proteggere questi libri e di non venderli mai.”

Alexander era arrabbiato, e potevo capire il suo stato d’animo: quello che c’era scritto nella lettera sembrava il delirio di un uomo preda della follia, rimasto solo troppo a lungo, ma verso la fine della lettura mi sono ricreduta. Silas parlava di Jefferson Masters, e questo non poteva essere un caso. Lo stesso Masters aveva acquistato dei libri, il suo mestiere ne giustificava l’interesse, ma glieli avevo venduti io stessa e ricordavo come fosse stato felice di ottenere proprio quattro tomi messi in pessime condizioni. Sul momento avevo creduto potessero avere un valore altissimo per un collezionista, ma dopo la lettera ho ricordato un particolare. I quattro libri, secondo Silas, erano nel solaio; non ricordo se li avessi trovati lì, ma soltanto che Alexander non era riuscito a salire. Diceva di sentirsi poco bene, la testa gli girava e non si sentiva sicuro sulla scala traballante. Anche durante il mercatino si è tenuto a distanza, chiuso in casa a sistemare le stanze rimanenti. In altre parole, era stato inconsapevolmente alla larga dai libri.

Esistono molti miti nelle culture di ogni civiltà, e alcuni riguardano proprio dei libri “maledetti”. Non credevo che i volumi custoditi prima dal padre e poi dallo zio di Alexander fossero pericolosi, e non sono ancora sicura di crederci, ma ricordavo le parole dell’Arcivescovo: Alexander doveva chiudere con il passato senza rimpianti. L’ho convinto allora a recarsi allo Ye Olde Booke Shoppe, la libreria di Masters, e anche il nostro ospite e Lilyan si sono detti d’accordo. Così, quello stesso pomeriggio ci siamo recati al negozio, ma l’assistente di Masters ci ha detto che il proprietario era fuori città, a Salem. Abbiamo chiesto informazioni sui libri acquistati da Masters, però lui non ne sapeva niente. Stavamo per andarcene quando Alexander è passato di fronte al retrobottega e ha avvertito una fitta alla testa.

Più tardi, qui nella villa, abbiamo provato a farlo ragionare. Saremmo partiti per Salem il giorno seguente e avremmo chiesto direttamente a Masters, ma Alexander era determinato ad arrivare in fondo alla faccenda. Era convinto, infatti, che i libri fossero nel retrobottega. Non siamo riusciti a fargli cambiare idea, quindi io, lui e Lilyan ci siamo fatti accompagnare da Jeremy nella Downtown, di nascosto dall’Arcivescovo, che di certo non avrebbe approvato ciò che Alexander aveva in mente. È riuscito a disattivare l’allarme appena in tempo e, utilizzando il dolore alle tempie come una sorta di mappa, ha recuperato due di quei libri. Stando a quanto scritto nella lettera di Silas, dovrebbero essere il secondo, Monstres and their Kynde, e il quarto, il volume scritto in un alfabeto sconosciuto.

È stato allora, mentre tornavamo all’auto, che Jeremy ci ha avvertiti della carcassa. Abbiamo atteso la mattina per avvertire la polizia, in modo da non essere ricollegati all’effrazione. A quel punto, consci che non servisse andare tutti a Salem, abbiamo deciso che io sarei rimasta ad Arkham a indagare sulla creatura, pur immaginando che non avesse a che fare con i quattro libri. Alexander, Lilyan e l’Arcivescovo Giraud sono invece partiti per Salem.

Il resto lo sai… fino a un certo punto.

 

***

 

«Fino a un certo punto?»

La domanda di Ellen giunse dopo il silenzio che era calato tra loro. Janet aveva raccontato quasi senza interrompersi, facendo solo un paio di pause per schiarire la gola, ma poi si era fermata e l’aveva soppesata con uno sguardo strano, indecifrabile. Sospirando, Janet mostrò la borsa che aveva con sé, e di cui Ellen fino a quel momento non si era accorta. La aprì e le porse il contenuto.

«Sono questi?» domandò incredula, passando le dita sulle fragili copertine dei due tomi misteriosi.

Janet non rispose, ma esitò ancora prima di aggiungere: «Credevo che Alexander si stesse autoconvincendo dei mal di testa. Credevo che io mi stessi autoconvincendo di vedere un uomo spiarci dalla strada. Credevo che Silas McCrindle fosse solo un invasato. Poi abbiamo trovato la carcassa, ci siamo divisi e… e non volevo lasciare i libri in casa. Da una parte temevo che la polizia avrebbe potuto ricondurre alla nostra presenza nella Downtown l’effrazione allo Ye Olde Booke Shoppe, e non volevo mettere l’Arcivescovo Giraud nei guai facendo rinvenire nella sua villa i volumi trafugati. Dall’altra parte… avevo un dubbio, e ce l’ho ancora.» Sollevò lo sguardo e lo puntò su quello di Ellen. Era risoluta, come se volesse che la sua amica le credesse. «La data riportata sulla lettera rivela che l’incidente in cui è morto Silas è avvenuto poco tempo dopo la sua stesura. Ho iniziato a credere che non sia stata una semplice caduta. La casa è vecchia, ma i gradini sono solidi e Silas non era così anziano, aveva meno di cinquant’anni. Forse… forse qualcuno ha tentato di irrompere nella sua abitazione per rubare i libri, e lui ci è andato di mezzo.»

«Se pensi a Masters, perché sarebbe dovuto tornare solo giorni dopo? E per quale motivo vi avrebbe detto il suo nome?»

Si strinse nelle spalle e scrollò la testa. «Forse al momento non li aveva trovati, o era andato nel panico, e quando ha visto il mercatino ha pensato che fossimo… non so… volontari del comune o della chiesa, e che stessimo sgombrando l’area. Forse non credeva che Silas avesse dei parenti, visto lo stato in cui viveva.»

La tesi di Janet aveva un senso, pensò Ellen, che se non avesse visto lei stessa dei mostri girare per il Campus avrebbe pensato che la sua amica stesse impazzendo come Silas McCrindle. Quel ricordo le accese un campanello nella testa.

«Vuoi dirmi che… i libri sono stati sempre con te?»

Janet annuì piano.

«Anche ieri, nel laboratorio? Anche stanotte?»

«Anche ieri e anche stanotte» confermò. «Potrebbero essere coincidenze – la morte del Guardiano dei libri e l’avvistamento della carcassa – però… Quando stanotte le due creature sono entrate nel dormitorio, credevo avessero seguito l’odore del mio sangue. Sai, il taglio che mi ero fatta con il becher. Tuttavia…»

«Potrebbero avere seguito i libri» concluse Ellen. «Proprio come il mostro dilaniato nella Miskatonic Library.»

«Non so se Armitage tenga volumi simili in biblioteca, non so nemmeno se le zampe di quei… cosi… avrebbero potuto trasportare un libro, in realtà ne dubito… però questa è l’unica spiegazione che mi viene in mente. Non è possibile che si tratti soltanto di coincidenze o di autosuggestione.»

C’era un particolare che a Ellen premeva chiarire. «Ma… domenica avete tenuto i libri qui? E nessuno li ha toccati?»

«Ellie, sarò sincera: la mia è solo un’ipotesi, forse quelle creature non c’entravano niente con Silas e con i libri, altrimenti avrebbero attaccato la libreria. Masters li ha tenuti per almeno due giorni.»

Si rigirò i volumi fra le mani, ma Janet non sembrava interessata ad averli indietro. Per quanto la prospettiva di attirare altri esseri mostruosi la spaventasse, la curiosità di sapere più di quei libri la stava divorando.

«Posso rimanere qui stanotte? So che la situazione è tesa, ma…»

«Certo, rimani pure. Ti lascio la mia stanza, dormirò con Lilyan, ha bisogno di compagnia. Ora scusami, vado a cercare Jeremy, credo che qualcosa di caldo sia ciò che serve a tutti quanti…»

Mentre si alzava, Ellen le pose la domanda fatidica: «Janet… cos’è successo a Salem?»

Vide la sua schiena irrigidirsi. Le rispose senza voltarsi. «Non lo so. Lilyan mi ha detto soltanto che… l’Arcivescovo è morto.» Esitò. «Aspetterò che siano pronti a parlarne.»

«Lo capisco. Grazie e… grazie, davvero.»

Janet era uscita da pochi secondi quando un’altra persona fece il suo ingresso nel salotto. Ellen alzò lo sguardo, credendo che fosse Jeremy, ma riconobbe Fauerbach. Non credeva sarebbe tornato.

«È una storia interessante» esordì l’uomo, rimanendo in piedi.

Ellen si accigliò. «Avete origliato?»

«Sì.» Non c’era imbarazzo nella sua risposta. «Sono arrivato qui nel bel mezzo della vostra chiacchierata, e non ho avuto cuore di interrompervi. Sono quelli i libri?»

Con un cenno del capo, Fauerbach indicò i due volumi che Ellen teneva in grembo; lei aggrottò ancora di più la fronte.

«Non voglio leggerli, era solo curiosità. A quanto pare non si limita tutto alla carcassa…» Sospirò, lo sguardo perso nel vuoto. «Ho sentito che voi rimarrete qui questa notte.»

Ellen annuì piano.

«Chiederò alla dottoressa Holmes di potere fare altrettanto. Mary si è offerta di ospitarmi, dato che non posso andare al dormitorio, ma il mio istinto mi ha suggerito di tornare indietro. Se quei mostri sono alla ricerca dei libri, Mary è al sicuro. Voi no.»

«Siete quasi morto, stanotte. Come potreste esserci utile?»

Fauerbach sorrise. «Un medico è sempre utile, ragazzina.»

Infastidita, Ellen si alzò e lasciò la stanza, portandosi dietro i due libri. Per l’ennesima volta, avvertì lo sguardo di Fauerbach su di sé.

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Capitolo V

 

Ellen trascorse i due giorni seguenti facendo la spola tra il Tyner Science Lab, riaperto su insistenza dell’equipe, e Chateaubriand Manor – che presto, pensava, avrebbe dovuto scegliere un altro nome. Fauerbach era sempre con lei, mentre Janet si divideva tra le ricerche sulle ormai tre carcasse e la cura di Lilyan Butler, la ragazzina che si disperava ancora per la morte dell’Arcivescovo Giraud. Era stato durante le loro passeggiate mattutine tra French Hill e il campus, quando erano in tre, che Janet aveva descritto meglio i suoi amici, narrandone in parte la storia personale.

Lilyan era una ventenne di Boston, figlia del senatore repubblicano Arthur W. Butler. Sua madre era deceduta durante l’infanzia della figlia, e il padre si era fatto in quattro per consentirle di soffrire quel dolore il meno possibile. Janet la conosceva da quando Lilyan gattonava sul portico della loro villa coloniale di due piani, ma quei sette anni di differenza tra loro erano sempre pesati parecchio; la futura archeologa l’aveva tenuta in braccio, ci aveva giocato pazientemente quando Lilyan le aveva mostrato le prime bambole, ne aveva ammirato la bellezza quando era entrata nell’adolescenza, ma non erano mai state amiche prima di allora; Janet le aveva portato souvenir dai suoi viaggi, senza discutere del lavoro compiuto durante le spedizioni come invece faceva con Ellen, conosciuta già adulta, tuttavia la solare e vivace Lilyan le aveva detto tutto sul suo sogno di diventare un’attrice teatrale. La piccola ereditiera sapeva cantare, recitare e suonare il piano a tredici anni, ma non le bastava trovare un marito ricco e bello come aveva fatto sua madre: lei desiderava emergere e brillare, anche se Ellen, a differenza probabilmente della sempre ottimista Janet, credeva che lo avrebbe fatto solo per il buon nome del padre.

L’Arcivescovo Giraud Des Chateaubriand era stato il suo padrino. Amico del padre dal tempo del collegio in Francia, il loro legame si era rinsaldato quando i voti lo avevano portato negli Stati Uniti. Da quel che Janet aveva potuto vedere in quella settimana insieme, Lilyan stravedeva per il padrino, tanto che l’archeologa si era chiesta chi tra lui e suo padre sarebbe prevalso nel suo cuore.

Ormai non avrebbe più dovuto scegliere.

Lilyan passava le mattine nel proprio letto, e questo non aveva permesso a Ellen di scoprire come fosse effettivamente fatta. L’aveva osservata solo durante il suo ritorno da Salem, intravedendo occhi verdi e arrossati in un volto delicato, incorniciato da lunghi riccioli neri, ma niente di più. La ricordava esile, però non era certa che ciò fosse dovuto alla sua corporatura o al dolore che la rendeva minuta, impotente. Sapeva bene che il senso di vuoto e perdita poteva avere quell’effetto.

Janet non le aveva accennato della loro permanenza, perlomeno non in presenza degli ospiti; l’aveva fatto invece con Alexander, e lui aveva annuito mestamente. D’altronde, chi poteva ormai dirsi proprietario di quella casa? Forse avrebbero dovuto chiedere al maggiordomo di poter restare per i giorni seguenti?

Jeremy si era ripreso in fretta, indossando la maschera di efficiente maggiordomo inglese già dal giorno successivo alla morte del suo padrone. Probabilmente si proteggeva così, concentrandosi sui propri compiti di domestico tuttofare e rimandando alla notte i pensieri funesti. Era assurdo: non aveva più un datore di lavoro, eppure continuava a prendersi cura dei suoi ospiti.

Il detective Alexander Blake, o McCrindle, al contrario appariva parecchio turbato. Ellen aveva appreso da Janet altri particolari circa la sua indesiderata eredità, tuttavia il suo sguardo aveva una miriade di significati, tra i quali predominavano ostinazione, stanchezza e senso di colpa. Janet non sapeva ancora cosa fosse accaduto all’Arcivescovo, ma nessuno di loro sarebbe andato a Salem se non fosse stato per l’eredità di Silas McCrindle, e questo doveva pesare sulle spalle del detective. Lo aveva visto muoversi costantemente, uscendo di giorno e di notte per cercare di capire dove si trovasse Jefferson Masters, il possessore degli ultimi due libri, e il primo pomeriggio si era addirittura recato in università con loro, per prendere in prestito dei volumi alla Miskatonic Library. Ellen aveva però fatto caso a un particolare: non lasciava mai sola Lilyan, e anche nel caso di quella singola uscita si era mosso in fretta. Con lei c’erano Janet e Jeremy, ma se ciò che leggeva Ellen nei suoi occhi erano davvero rammarico e rimpianto comprendeva perché volesse essere lui a starle accanto. Si era tuttavia accorta che il detective non aveva mai provato, almeno in sua presenza, a bussare alla camera che Lilyan divideva con Janet. Al momento, pur conoscendolo appena e non sapendo cosa fosse accaduto al Monsignore, Ellen percepiva Alexander Blake come la persona più simile a lei, perlomeno nelle emozioni che sembrava provare.

Durante il tragitto verso il campus, Fauerbach aveva tentato di porgli qualche domanda. Il detective aveva risposto a malapena, ma l’aveva fatto. Con Janet era stato più facile parlare: a ogni domanda di Fauerbach seguiva un lungo resoconto sulla sua vita e sul suo passato, e anche il medico era stato ampio di parole. Ellen ascoltava in silenzio, apprendendo tutto ciò che udiva, come il fatto che Fauerbach fosse austriaco e che esercitasse a Salisburgo presso lo studio di suo zio, oppure che aveva spesso collaborato con la Miskatonic University sia per il St Mary che per le spedizioni all’estero. Si teneva comunque sul pubblico, non accennando al proprio passato e alla famiglia di origine, però Ellen sapeva che era lei a cercare il marcio in quell’uomo; infatti, lui stesso aveva chiesto a Janet del suo lavoro e del lavoro soltanto, ed era stata lei ad ampliare il discorso descrivendo le persone che aveva accanto da oltre dieci giorni a quella parte.

Con suo enorme sollievo, ogni volta che dal pranzo a Chateaubriand Manor rientravano in due al campus, Fauerbach rimaneva in silenzio. Ogni tanto accennava agli esami da effettuare nel pomeriggio insieme alla professoressa Baker, che li attendeva nel laboratorio, ma nulla di più. La sua compagnia non era detestabile quanto Ellen aveva immaginato e temuto.

 

***

 

Quel pomeriggio, quando rientrarono nel Tyner Science Lab, la scena che si palesò di fronte ai loro occhi sconvolse Ellen più di tutto quello che era accaduto nell’edificio negli ultimi giorni. C’era un via vai di gente che non conosceva e che trasportava scatoloni, risme di fogli compilati, materiale in provette; per un folle attimo Ellen credette che Miller si fosse deciso ad affidare il caso ad altri ricercatori oltre a loro, in modo da giungere il prima possibile alla scoperta del secolo, ma si dovette ricredere ben presto: le bastò un cenno di Fauerbach in direzione dell’uomo in fondo al corridoio.

Non serviva la divisa per riconoscere chi rappresentava: era in piedi, spalle dritte, mani intrecciate dietro la schiena, lo sguardo che guizzava da un uomo all’altro, da chi usciva a chi rientrava.

L’esercito.

Avrebbe voluto chiedere a Fauerbach cosa pensava potesse farci l’esercito nella Miskatonic University, ma prima che aprisse bocca un voce indignata si fece largo tra la folla.

«…non è possibile, mi oppongo! State portando via il mio lavoro, chi vi ha autorizzati?!»

Ellen riconobbe la donna che ora si stagliava di fronte al soldato, il quale teneva il mento dritto, gli occhi ostinatamente lontani da quelli della professoressa Baker. Quando lei notò Ellen e Fauerbach, lanciò un’imprecazione e si diresse in fretta verso di loro, trascinandoli in un laboratorio vuoto.

«È inconcepibile!»

«Com’è successo?» chiese Fauerbach.

Ellen non aveva ancora chiaro ciò che stava accadendo, mentre l’espressione cupa del medico dimostrava che lui aveva capito benissimo e che ciò non gli piaceva per niente.

Dovette poggiare entrambe la mani sulle spalle della Baker per convincerla a calmarsi: la professoressa si muoveva avanti e indietro per la stanza, sbuffando e lanciando maledizioni al soldato che aveva finto di non vederla.

«Mary.»

La Baker trasse un profondo respiro, poi guardò prima Fauerbach e poi Ellen. «Ci hanno tolto il caso.»

Ellen sussultò. «Com’è possibile? Chi…? L’hanno dato a un altro docente?»

La risata della Baker fu tanto amara da ricordarle la notte nel dormitorio, quando Ellen era uscita allo scoperto al termine del combattimento; rispetto ad allora, quella risata pareva perfino più acre.

«Ha fatto la stessa fine del cane di Armitage.»

«Cosa…?» Un lampo di consapevolezza attraversò gli occhi di Ellen. «Stanno insabbiando tutto?»

«“Il caso è di proprietà del governo degli Stati Uniti d’America”» recitò la Baker, la rabbia che le grattava la gola. «Stando a loro, i civili non sono autorizzati a effettuare ricerche di questo tipo. Ma allora chi dovrebbe farlo, un coglione in mimetica?»

«Mary, abbassa la voce» la ammonì Fauerbach.

«Perché? Ha ragione!» ribatté Ellen, ma il medico scosse la testa.

«Quello è un generale dell’esercito, non un soldato qualunque. Forse non ha conoscenze in campo scientifico… ma per essere qui ne ha ben altre.»

«Non mi importa un cazzo, Michael!» sbottò la Baker. Sembrava sconvolta. «Non… non stanno portando via solo le nostre ricerche sulle carcasse.» Deglutì. «Hanno svuotato il mio studio.»

Calò un silenzio carico di significato. Ellen non era mai stata testimone di un torto simile, non aveva mai assistito a una riassegnazione di lavoro che non fosse all’interno dell’ambito universitario, per questo aveva tardato a comprendere la situazione. Le era però chiaro il brivido che per un attimo le era sceso lungo la nuca.

La Baker aveva lavorato sodo per ottenere una cattedra e i riconoscimenti dovuti; veniva mandata spesso fuori Arkham per una serie di spedizioni che potessero tenerla lontano dall’università, ed era stata ammessa nell’equipe di Miller solo per intercessione di un conoscente esterno alla Miskatonic. Tutto passava in secondo piano perché era una donna, ma in quel momento non si trattava di una questione di genere. Lo capì dallo sguardo che intercorse tra lei e Fauerbach.

«Il lavoro di una vita…» esalò la Baker lasciandosi cadere su una sedia, le mani davanti al viso. «Dopo essere stata in mensa sono passata nel mio ufficio, e lì ho trovato… Era tutto vuoto: cassetti aperti, schedario all'aria, tutti i miei appunti erano scomparsi. Ho avuto un presentimento e sono venuta qui… e li ho visti.»

Adesso Ellen capiva perché i militari stessero portando via intere risme di fogli, sebbene ne avessero compilati ben meno: provenivano dall’ufficio della Baker, e forse se li erano portati dietro per unirli ai loro appunti.

«Sono stati anche nella vostra stanza» disse d’un tratto la Baker, rivolta a Ellen.

«Cosa?»

«Me lo ha detto Peaslee. Cercava la dottoressa Holmes, voleva sapere dove fosse… Sapeva che vi è vietato portare documenti riservati fuori dal Campus, e non sa dove state abitando al momento, così ha ipotizzato che ci fosse qualcosa nelle camere in cui avete dormito. Il Faculty & Graduated era già stato scandagliato con la scusa dell’attacco di qualche notte fa, non potevamo sapere cosa stessero davvero cercando, ma Peaslee ha fatto due più due e ha chiesto ad alcune studentesse. Sono state ben lieti di raccontare che la stanza di una collega era stata messa sottosopra durante il pranzo.»

«Non avevo niente…» mormorò Ellen.

«Già, perché ci siamo fidati di loro. Abbiamo lasciato davvero tutto nel laboratorio, e loro ce lo hanno requisito.» Sospirò. «Temo che non troverà nemmeno il suo materiale di studio.»

«No, quello me lo sono portato dietro» minimizzò Ellen. Era sinceramente abbattuta per ciò che era accaduto alla Baker: se qualcuno le avesse tolto gli appunti presi durante le lezioni si sarebbe infuriata, ma confiscare anni di ricerche e studi?

La rabbia stava montando anche dentro di lei quando Fauerbach parlò: «Nel giro di due ore sono stati nel tuo ufficio, nella camera del dormitorio e qui nel Tyner. Hanno scandagliato tutto.»

«È come pensi: sono troppi.»

Troppi per cosa, si chiese Ellen? Credevano forse di attaccarli e fuggire via con le loro ricerche? Poi capì.

«Sono troppi per un semplice insabbiamento» rifletté ad alta voce.

«E… e non vi ho detto tutto» riprese la Baker. La furia era svanita dalla sua voce e dal suo viso, lasciando posto a una triste rassegnazione. «Mi mandano via. Una spedizione in Polinesia. Niente di strano, ci sono abituata… ma di solito me lo comunicano con settimane di anticipo.»

«Quando parti?» le domandò Fauerbach.

«Domani mattina. E ti suggerisco di fare lo stesso.»

Si guardarono negli occhi per un intero minuto, comunicando in silenzio tutto ciò che implicava il suggerimento della Baker.

«Ci penserò» disse infine Fauerbach. «Ora lascia che ti accompagni a casa…»

«No, voglio parlare con Miller. Se me ne vado senza alzare un polverone, capirà che… Capirà.»

Capirà che ha paura, concluse Ellen.

La professoressa Baker si alzò e si lisciò la gonna, per poi ricomporsi completamente. «Michael, è stato un onore lavorare insieme, spero accadrà di nuovo. E… Lawlier.» La fissò negli occhi. Ellen era pronta: si aspettava parole di circostanza, il consiglio di essere meno presuntuosa con gli insegnanti, magari perfino un riconoscimento da pari a pari. Ciò che la professoressa disse la sorprese. «Qui non troverete futuro. Andatevene il prima possibile.»

 

***

 

«Vi va una cioccolata calda?»

Ellen corrugò la fronte, osservando stupita il volto gentile di Fauerbach. Aveva due domande in testa.

La prima riguardava la deprimente conversazione che avevano appena avuto con la professoressa Baker, la quale non solo aveva detto che tutto il loro lavoro era stato sequestrato dall’esercito degli Stati Uniti, ma aveva anche suggerito di cambiare città, contea, nazione. Come gli veniva in mente di pensare ad altro?

La seconda era: come diavolo faceva Fauerbach a sapere che Ellen stava ardendo dal desiderio di una cioccolata calda?

«Dopotutto, siamo già in giro» continuò il medico di fronte al suo silenzio. «E sta per mettersi a piovere…»

«Va bene» mugugnò Ellen.

Alle motivazioni di Fauerbach, aggiunse mentalmente il suo terrore di rientrare a Chateaubriand Manor prima del dovuto. Temeva le domande di Janet, perché sapeva che fornirle spiegazioni l’avrebbe fatta inalberare, ma ancor più temeva di incontrare la ragazzina. Non sapeva se durante la loro assenza uscisse dalla propria camera e non le interessava scoprirlo. Adesso che aveva avuto la conferma di potere dormire nella villa, si sentiva a disagio al pensiero di incontrarla; inoltre, temeva che la piccola ereditiera l’avrebbe cacciata via, e ora dove sarebbe andata a dormire?

Al porto, magari?

Si fermò davanti all'ingresso del Bell Cafe. Sollevando il capo, fisso come sempre sulle proprie scarpe, si accorse che Fauerbach le stava tenendo la porta aperta. Gli rivolse uno sguardo interrogativo, poi entrò nella caffetteria e si sedette nel tavolino più lontano dal resto dei clienti. Era stata lei a condurre Fauerbach in quel posto: si era detta che era meglio allontanarsi dal Campus, e la caffetteria più vicina era nel Merchant District; prima di entrare, però, il medico l’aveva superata, e lei credeva lo avesse fatto per ripararsi prima dalla pioggia che aveva cominciato a scendere, e invece le aveva aperto la porta. Per chi l’aveva presa, per la regina Maria?

Lo soppesò mentre si sedeva al posto libero davanti al suo. Una cameriera arrivò subito per prendere il loro ordine e le sue gote pallide arrossirono di fronte al sorriso dell’uomo.

Perfetto, meno male che non volevo dare nell’occhio.

Attesero in silenzio il ritorno della cameriera, la cui espressione fece roteare al soffitto gli occhi di Ellen. Sì, Fauerbach era un bell’uomo, e allora? Che si decidesse a darle quella cazzo di cioccolata calda, maledizione!

Di qualcosa le fu grata, però: di non fissarla con astio. Aveva ormai imparato, osservando le sue coetanee, che, quando un uomo di aspetto piacevole si faceva vedere in compagnia di una ragazza, le altre donne le rivolgevano sguardi di fuoco. La cameriera, invece, sembrava non notarla, e questo significava che Ellen non aveva l’aspetto di una ragazza disperata in cerca dell’amore eterno.

Prima non aveva udito l’ordine, così fu sorpresa quando la donna lasciò sul tavolo anche due fette di torta al cioccolato. Afferrò la propria tazza mentre Fauerbach sorseggiava il caffè.

«Sono entrambe per voi» disse d’un tratto il medico, indicando le fette di torta con un cenno del capo.

«Grazie» mormorò Ellen, stupita.

Fauerbach attese qualche altro secondo, poi si decise ad affrontare il discorso su cui – Ellen ne era certa – si stavano lambiccando entrambi.

«Tornerete al Campus?»

«No. Penso sia meglio starne alla larga, per il momento.»

«Saggia decisione, ma non dovete seguire le lezioni?»

«Ho finito, mi mancano un paio di esami, e le “lezioni” rimaste sono insulse.»

Pensò a Peabody, e al fatto che saltare le sei ore settimanali con lui fosse il solo risvolto positivo della vicenda.

Fauerbach giocherellava con il manico della tazza. «Credo che dovrei lasciare anche io la città. A meno che lo spirito dell’Arcivescovo non sia disposto a ospitarci ancora.»

Ellen sollevò un sopracciglio di fronte alla smorfia divertita dell’uomo.

«Voi non ridete mai, signorina Lawlier?»

«No, se posso farne a meno.»

Si costrinse a ritrarre la naturale scontrosità per un solo momento.

«Dottor Fauerbach…»

«Michael.»

«Dottor Fauerbach» ripeté Ellen. «Grazie per avere salvato Janet.»

«Grazie a voi per avermi medicato.»

Ellen pensava che quel discorso potesse essere ormai chiuso: si era sentita in colpa per non avere aiutato Janet durante l’attacco delle creature e aveva bisogno di ringraziare il medico che le aveva fatto da scudo con il proprio corpo, pur non conoscendola nemmeno. Adesso poteva addentare la prima fetta di torta senza quel groppo sullo stomaco – al quale si erano tuttavia sostituite le notizie dell’ultima ora.

«Dove avete imparato a farlo?»

«Sono le basi del primo soccorso» rispose secca.

Voleva mangiare, non dialogare amabilmente con quel bellimbusto che non cessava di lanciare sorrisetti alla cameriera.

«Da dove venite?» insistette Fauerbach.

«Da Arkham» mentì lei.

«Dunque potreste appoggiarvi a casa dei vostri genitori?»

«No.»

Fu il turno di Fauerbach di alzare un sopracciglio. «Conoscete la signorina Holmes da tanto?»

«È un interrogatorio?»

Lui rise. «Vi prego, non volevo mettervi sulla difensiva. Mi limitavo a conversare.»

La cameriera si fermò per chiedere come andasse, e non appena si fu allontanata Ellen sbottò: «Vi scopate la Baker?»

Non sapeva da dove fosse nata quell’insofferenza. Aveva sempre detestato la professoressa Baker, ma negli ultimi giorni aveva iniziato a rivalutarla, e ora si chiedeva se fosse giusto vedere il suo presunto fidanzato rivolgere sguardi languidi a un’altra donna.

Per tutta risposta, Fauerbach scoppiò a ridere. Sembrava sinceramente stupito. «Siete molto diretta, signorina Lawlier. Se volete saperlo, conosco Mary Baker da alcuni anni. Abbiamo lavorato insieme durante uno scavo in Egitto e siamo rimasti in contatto.» Esitò. «Siamo amici di vecchia data, ma ciò non esclude che occasionalmente ci piaccia passare del tempo assieme.»

Quindi era vero, il mondo stava cambiando. Ellen aveva sentito parlare di donne emancipate che avevano smesso di mettere un buon matrimonio al primo posto; di solito coniugavano successo lavorativo e nozze, come nel caso di Marie Curie, ma avere rapporti occasionali era un discorso a parte, che perfino molte suffragette non avevano condiviso.

«Posso chiamarvi Ellen?»

«Perché?» replicò infastidita.

«Perché chiamarvi “signorina Lawlier” mi sembra terribilmente formale se intendo chiedervi di venire a letto con me.»

Per poco Ellen non si strozzò con la seconda fetta di torta. Tossì dandosi pugni sul petto, mentre attirava lo sguardo di alcuni presenti.

«Io…» cominciò una volta che ebbe ripreso a respirare. «Ma che cazzo vi viene in mente?!»

«Scusatemi, pensavo foste interessata, data la sua domanda. Non credevo certo che foste una pettegola come le vostre coetanee.»

Ellen avvampò per un misto di imbarazzo e rabbia. «Non sono pettegola, volevo solo sapere una cosa!»

«Una cosa su cui spettegolare.»

«E certo, e con chi?!»

«Non ne ho idea. Allora, volete venire a letto con me?»

Insisteva! Ellen non sapeva più da che parte guardare: davanti a sé aveva il volto tronfio e fastidioso di Fauerbach, sul tavolo giacevano la tazza e i piatti vuoti dell’ordinazione che lui aveva fatto senza interpellarla, e con la coda dell’occhio intravedeva la giovane cameriera che ora l’uomo evitava accuratamente. Pensò di concentrarsi sul proprio grembo, ma lo ritenne subito un gesto non conforme al suo carattere schietto, come se la vergogna e la timidezza si fossero impadronite di lei. Allora, d’improvviso, scelse di sollevare la testa e fissare Fauerbach negli occhi.

Sentì la sua voce uscire prima ancora di riflettere.

«Va bene.»

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Capitolo VI

 

Il mattino successivo alla confisca del proprio lavoro da parte dell’esercito americano, Ellen era ancora incerta su come agire. Aveva detto la verità soltanto a Janet, generando in lei l’indignazione che si era aspettata. Le parole dell’archeologa erano state una sequela di: «Come si sono permessi? Il decano Miller ne è al corrente? Dovrei assolutamente parlarci! Cosa ne pensa la professoressa Baker? Qualcuno deve avere fatto una soffiata…». Ellen aveva sorvolato sulle informazioni più allarmanti, come il fatto che la sua camera e lo studio della Baker fossero stati scandagliati da cima a fondo, o che la professoressa di Biologia Animale fosse in partenza per qualche angolo remoto della Polinesia. Con tutto ciò che stava accadendo ai residenti di quella villa nel quartiere di French Hill, credeva fosse meglio farle ignorare ulteriori notizie che potessero gettarla nel panico.

Da parte sua, il collegamento tra l’esercito e i libri di Silas McCrindle era palese, doveva solo comprendere di quale natura fosse. Da quando Janet le aveva rivelato di essersi portata dietro, la notte dell’attacco, i due tomi trafugati allo Ye Olde Booke Shoppe, Ellen aveva scorso il legame tra il desiderio dell’eremita di lasciarli celati e l’improvvisa apparizione di quelle creature, tuttavia era ancora incapace di spiegarlo anche a se stessa. In realtà, la tesi di Janet doveva essere ormai confutata dall’assenza di ulteriori attacchi da quando i libri erano tornati a Chateaubriand Manor, e forse davvero la prima ipotesi – secondo cui le creature erano state attratte dal sangue dell’archeologa – era stata quella esatta. Nonostante tutto, i dubbi si susseguivano nella sua testa, uno dietro l’altro, ed essere rimasta senza materiale da analizzare sul campo la rendeva maggiormente irrequieta.

Aveva chiesto a Janet di tenere il segreto con i suoi amici di Boston, spiegando che era troppo stanca per tornare al Campus quella sera, per cui avrebbe continuato ad approfittare per una notte ancora della sua stanza nella villa, ma ora doveva trovare un’altra scusa o dirle la verità: «Janet, io in quel cazzo di dormitorio non ci voglio tornare.»

Sospirò, riflettendo che ormai erano due i dormitori da cui intendeva stare alla larga: non si sentiva sicura nella stanza che le era appartenuta per anni, non dopo che dei militari avevano toccato i suoi oggetti personali. Per fortuna, al momento di trasferirsi nella camera di Janet si era portata dietro i libri e gli appunti sugli esami da dare e i pochi vestiti che possedeva, e perfino la divisa della Miskatonic University. Del resto, non le importava alcunché.

Doveva dire la verità a Janet o avrebbe dovuto inventare una scusa? Oppure doveva limitarsi a trovare un altro posto in cui dormire?

Sospirò e riportò l’attenzione sul libro di Fisiologia che teneva in grembo, scaldata dal fuoco che scoppiettava nel camino del salotto. Non era sola: sulla poltrona di fronte sedeva il detective Blake. Anche lui era concentrato su un mucchietto di fogli, che esaminava con attenzione tale da lasciare il caffè preparato da Jeremy a raffreddare, intonso, sul tavolinetto che li separava. Aveva fatto appena un cenno quando lei era entrata nel salotto e da allora non le aveva rivolto parola. Considerando il suo consueto silenzio nelle poche occasioni insieme, come durante i pasti, Ellen si era sentita a proprio agio e aveva deciso di smettere di cercare un posto in cui studiare. Le piaceva la stanza di Janet, ma la sua amica aveva lasciato lì tutti i suoi abiti, e il suo muoversi avanti e indietro, oltre a disturbarla, la faceva sentire tesa, con il timore che l’archeologa potesse chiederle quando intendesse restituirle la camera e tornare al Campus. In cucina si affaccendava Jeremy, il maggiordomo, e nelle altre stanze poteva apparire da un momento all’altro la persona da cui le premeva di più stare alla larga.

Condividere il salotto con un silenzioso detective le era sembrata la scelta migliore.

Di certo, però, non si stava dimostrando la più adatta a farla concentrare su Fisiologia. Adesso che si era ricordata della sua presenza, Ellen cominciava a porsi diverse domande su Blake. Non si era rasato e i suoi occhi erano rossi, sintomi che indicavano la preoccupazione lacerante e la notte insonne. Sfogliava i documenti e gli articoli di giornale con estrema cura, cercando di non tralasciare indizi, ed Ellen voleva davvero chiedergli se avesse bisogno di una mano. Non le interessava essere di aiuto, ma spostare i propri pensieri su qualcosa di fruttuoso, visto che Fisiologia non andava giù – no, in realtà sapeva ogni manuale a memoria ed era sciocco insistere in un inutile ripasso.

Si era quasi convinta a schiarirsi la voce per parlare, quando il suono del campanello aveva attraversato l’ingresso, giungendo fino al salotto. Ellen aveva notato le spalle del detective che si irrigidivano, comprendendo subito che era in attesa di quella visita, ma anche che non ne era propriamente felice.

«Scusatemi» mormorò come se si stessero tendendo compagnia a vicenda, e si alzò dalla poltrona per accogliere il visitatore.

Oltre la porta che aveva lasciato aperta, Ellen notò un uomo con il volto da furetto e un lungo naso appuntito, che doveva avere sui quaranta anni.

Capì chi era quando Jeremy lo annunciò: «Il notaio Nichols, signore».

 

***

 

Durante il pranzo i vari residenti di Chateaubriand Manor si erano riuniti, come di consueto, nella sala rettangolare sul lato ovest della villa – tutti a eccezione della ragazzina, a cui Jeremy portava sempre un vassoio in camera. Ellen leggeva sul volto di Janet la necessità di interrompere il silenzio imbarazzato in qualche modo: solitamente comunicava ad Alexander le svolte sul loro lavoro al Campus, o discuteva le sue teorie con Fauerbach; quel giorno, tuttavia, nemmeno il medico aveva aperto bocca, sovrappensiero come il resto dei presenti. Il detective Blake era quello più taciturno e concentrato sulle proprie riflessioni: aveva toccato cibo a malapena ed Ellen era piuttosto sicura che non si fosse realmente accorto che, quella mattina, avevano passato tutti del tempo nella villa, invece di recarsi all’università come di consueto.

Quando Jeremy ebbe sparecchiato la tavola, ignorando educatamente che il detective non aveva toccato il suo arrosto, Ellen fece per ritirarsi di nuovo nello studio per rimandare ancora una volta le spiegazioni – ogni tipo di spiegazione – ma poi Blake si schiarì la gola.

«Vorrei chiedervi di rimanere qualche minuto mentre Jeremy ci servirà il caffè.»

Era una richiesta inusuale, ma Ellen ne comprese immediatamente il significato: l’uomo stava per cacciarli.

Peggio di così non può andare, pensò, e allora si concesse di fermare Jeremy per chiederle di portarle una cioccolata calda al posto del caffè, che mai aveva sopportato. Tornò a sedere e si preparò alla formalità con cui il detective stava per dire a due di loro che dovevano tornare nei propri alloggi.

«Presumo che Janet vi abbia ormai spiegato nei dettagli il motivo per cui ci troviamo ad Arkham» cominciò. «So che qualche notte fa avete passato qualcosa di simile… a ciò che è accaduto a noi a Salem.»

Udire il nome della città la fece rabbrividire per i ricordi e fremere per la curiosità. Dunque erano stati attaccati anche loro da strane creature? Era così che l’Arcivescovo Giraud aveva perso la vita?

Purtroppo il detective sorvolò sull’avvenimento e riprese: «Per questi motivi, credo sia opportuno rendervi partecipe del risultato delle mie ricerche. Solo un paio di ore fa ho appreso che Jefferson Masters si trova a Boston, e intendo andare a trovarlo.»

Janet sussultò sorpresa. «Ne sei certo, Alexander?»

Lui annuì con decisione. «Al cento per cento. Ha lasciato la villa di Arkham, ma ho saputo che possiede un’altra abitazione, ed è lì che dovremmo cercarlo.»

Ecco perché il notaio era qui, comprese Ellen.

Il detective doveva averlo pagato per scoprire se Masters possedesse altre case nel Massachusetts, e facendo parte di uno studio legale con diverse funzioni – stando alle parole di Janet – il notaio doveva avere chiuso un occhio sul segreto professionale e avergli comunicato dove trovarlo.

Si mosse sulla sedia mentre Jeremy le serviva la tazza di cioccolata richiesta. Era curiosa, ma allo stesso tempo temeva ancora che il detective fosse sul punto di mandarli via: sarebbero tornati tutti a Boston, dunque la villa sarebbe rimasta vuota. Chi avrebbe garantito per la loro presenza lì?

Avvertì su di sé lo sguardo di Fauerbach, che probabilmente si poneva lo stesso quesito, ma evitò accuratamente di incontrarlo. Fu proprio il medico a chiedere delucidazioni.

«Immagino che la vostra partenza significhi che dovrò togliere il disturbo.»

Aveva parlato solo per se stesso, forse immaginando che l’amicizia tra lei e Janet l’avrebbe portata a trasferirsi nella sua casa di Boston. Pensandoci, non era una cattiva idea. Doveva ancora dirle la verità, però.

«Tuttavia» continuò Fauerbach, spegnendo la sigaretta che teneva tra le mani «per ringraziarvi dell’ospitalità ricevuta, credo che dovrei fornire io stesso alcune spiegazioni. Il caso che stavamo esaminando con la dottoressa Holmes e la signorina Lawlier ci è stato revocato. È finito in mani altrui.»

Blake parve sorpreso, ed Ellen ebbe la conferma che non si fosse proprio accorto della loro inconsueta presenza mattutina.

«Stavo soppesando se tornare in Europa anticipatamente, ma se siete d’accordo, detective Blake, mi piacerebbe aiutarvi nella vostra indagine.»

«Sarebbe molto utile» si intromise immediatamente Janet. «Alexander, potremmo trovarci ancora di fronte quegli… esseri

Dunque Ellen non era la sola a continuare a credere in un collegamento tra libri e creature.

«Il dottor Fauerbach ha dimostrato di poterli affrontare, e io mi fido di lui. E tu, Ellen?»

La domanda giunse tanto inaspettata da farla sobbalzare sulla sedia. Perché le chiedeva se anche lei si fidasse di Fauerbach? Possibile che avesse scoperto…?

«Sarai dei nostri?» insisté Janet, ed Ellen si rilassò. Con la coda dell’occhio, notò una smorfia divertita sul volto di Fauerbach ed ebbe il forte istinto di fracassargli il naso con un pugno.

«Non… non ho niente da fare qui.» E non voglio tornare al Campus. «Sì, potrei accompagnarvi, se il detective è d’accordo.»

«In un modo o nell’altro, ci siamo dentro tutti» rispose lui stringendosi nelle spalle. La scoperta dell’ubicazione di Masters pareva averlo rinvigorito, perché bevve il suo caffè senza farlo raffreddare, a differenza della mattina.

«Possiamo quindi chiedervi di abusare della vostra ospitalità per un’altra notte?» domandò Fauerbach.

«Oh…» Di colpo lo sguardo del detective tornò a oscurarsi. «Non sono io… a poter decidere.»

Ellen notò che Janet si stava torcendo le mani, per niente stupita da quella risposta; al contrario, lei si chiedeva il perché di quell’improvviso cambio di registro. Non era stato lui a dare il suo benestare quando erano tornati da Salem?

Fu Janet a rispondere dopo un profondo sospiro. «Questa mattina il notaio Nichols è stato qui. Sapeva che eravamo in città con… con l’Arcivescovo, e quindi ha immaginato dove trovarci… dove trovare Lilyan.»

Ellen corrugò la fronte, perplessa, ma Janet proseguì svelando il mistero.

«Ci ha comunicato che l’Arcivescovo Giraud Des Chateaubriand è deceduto a Salem lo scorso lunedì, a seguito di un’emorragia cerebrale.»

Il suo sguardo saettò su Blake, ed Ellen comprese che l’uomo non poteva essere stato ucciso dalle stesse creature del laboratorio. Possibile che fosse davvero morto per cause naturali? Dall’espressione colpevole del detective, intuì che quella non era la risposta esatta.

Janet deglutì. «Abbiamo finto di essere… scioccati dalla notizia. Non vedevamo il Monsignore da alcuni giorni, ma sapevamo che doveva sbrigare degli affari lavorativi nella chiesa di Salem e per questo non ci eravamo preoccupati. Il notaio Nichols, ritenendo che potessimo essere ancora ad Arkham, ha pensato di informare personalmente la sua erede, invece che comunicarlo per via telefonica.»

La sua erede?

«Giraud ha lasciato tutto ad associazioni umanitarie cattoliche, a eccezione della casa» concluse Blake. «La villa ora appartiene a Lilyan.»

Ellen si sentiva a disagio: era ovvio, la ragazzina era la sua figlioccia, era stato un bel pensiero lasciarle qualcosa. La sorprendeva maggiormente sapere che un uomo non proprio anziano avesse deciso di fare testamento. Quante altre proprietà aveva posseduto l’Arcivescovo? Aveva intuito che ogni dipinto o pezzo di arredamento nella villa fosse appartenuto ai suoi antenati, così come il nome di Chateaubriand Manor, ma fare testamento a nemmeno cinquanta anni presupponeva che o fosse esageratamente ricco o si sentisse davvero in pericolo.

«Dobbiamo inoltre trovare un posto per domani notte» proseguì il detective. «Vorrei evitare di far sapere a mia madre che sono a Boston, non prima di concludere la storia dell’eredità di zio Silas.»

«Il mio appartamento è molto piccolo, posso ospitare solo una seconda persona» si scusò Janet. «Gli altri potrebbero dormire in un albergo, o…»

«Chiederò a mio padre di ospitarci tutti quanti.»

Una voce nuova si fece largo nella stanza. Guardando alle proprie spalle, Ellen riconobbe la figura esile che aveva visto giorni prima. I capelli ricci erano tenuti legati da un fiocco rosa, poco adatto all’abito nero che indossava, e non c’erano segni di pianto sul volto; gli occhi, però, erano carichi di determinazione.

«Lilyan, sei…»

La ragazzina interruppe Janet e spostò lo sguardo prima su Fauerbach e poi su Ellen. «Mi spiace non esserci presentati in maniera opportuna. Sono Lilyan Butler, e per me non c’è alcun problema nel continuare a ospitarvi fra queste mura. Adesso perdonatemi, ma devo discutere con Jeremy di alcune questioni.»

Li superò senza degnare di attenzione Blake, che fissava il tavolo a occhi sgranati.

Dio, che cavolo era successo a Salem?

 

***

 

Gli undici rintocchi della pendola rimbombarono per i tre piani di Chateaubriand Manor, ma non destarono Ellen: era ancora china sulla scrivania, sepolta dietro decine di libri accatastati uno sopra l’altro. Gli occhi scorrevano febbrilmente tra due dizionari e il tomo che occupava lo spazio centrale del piano di lavoro. Ellen sfogliò una pagina del dizionario a destra, poi si rivolse al tomo in cima alla pila di sinistra. Stava per prenderlo quando udì bussare alla porta.

Blake mi ha scoperta, pensò demoralizzata.

Si alzò, chiudendo la vestaglia con la cintura per tenere un briciolo di dignità mentre gli avrebbe confessato il suo furto, e raggiunse la porta a piedi nudi. Quando la aprì, comprese di essersi sbagliata. Si pentì subito di non avere finto di dormire.

«Buonasera» la salutò Fauerbach con un ghigno sul volto. A differenza sua, indossava ancora gli abiti con cui era uscito a cena. Doveva essere appena tornato dalla sua serata solitaria.

«Cosa volete?»

«Posso entrare?»

Ellen sapeva che non se ne sarebbe andato facilmente, e non voleva rischiare che qualcuno degli altri ospiti, affacciandosi in corridoio, si accorgesse di lui. Si scostò e chiuse la porta, poi tornò alla scrivania per mostrargli che era impegnata.

«Cosa state leggendo?» chiese lui interessato. Si avvicinò e posò lo sguardo su ogni singolo titolo che circondava Ellen. «Manuale di FisiologiaStoria e leggende americane Dizionario di yiddish?» Aggrottò le sopracciglia. «Conoscete l’ebraico?»

«Sto imparando.»

Prima che potesse nascondere il testo su cui stava realmente lavorando, Fauerbach lo notò e l’espressione sul suo volto si fece chiara. «Oh. È uno dei libri.»

Ellen sospirò e si scostò appena, permettendogli di dare un’occhiata. Dopotutto, nel corso dei giorni trascorsi insieme nel laboratorio B, aveva appreso che il medico possedeva uno straordinario intuito, oltre che un’ampia conoscenza e una presunzione che sembrava nascondere meglio di lei e della Baker.

«Non dovrebbe essere sottochiave?»

«Blake non è bravo a nascondere le sue cose. Ho trovato anche l’altro, ma questo mi incuriosiva di più.»

«Cos’avete scoperto?»

«Poco e niente. Non è scritto in alfabeto latino, greco o cirillico, ma questo mi è stato subito chiaro. I segni sono diversi anche dall’arabo, vedete?»

Fauerbach annuì concentrato. «Di certo non è scrittura cuneiforme.»

«Già. Sembrano solo simboli, ma si ripetono in maniera tale da rappresentare un alfabeto.»

«Abugida?»

«Ho pensato fosse partito dal ge’ez o dal devanàgari. Vedete queste curve?»

«La dottoressa Holmes ha vissuto in India, non è vero? Forse potrebbe saperne qualcosa.»

«Sì, avevo pensato di parlargliene domani, ma…»

«Ma potrebbe dirlo al detective.»

Fu il suo turno di annuire. «Penso sia meglio pensarci da sola, ma la biblioteca in questa casa è carente.»

«Tornare alla Miskatonic Library potrebbe essere rischioso. Non credo che possiamo dirci in pericolo, ma Mary ha consigliato a entrambi di starne alla larga.»

Ellen si infervorò: era certa che avrebbe trovato ciò che le serviva nella collezione privata di Armitage.

«Ma la biblioteca di Arkham racchiude alcuni dei tomi più rari dell’intero pianeta!»

«Potrebbero insospettirsi vedendoci tornare, e non credo proprio che vogliate mandare un altro al posto nostro.»

«No, devo vederli io stessa. Potrei fingere di essere lì per motivi di studio, dopotutto sono ancora una studentessa…»

«Una studentessa la cui camera è stata perquisita. Come Mary, voi alzereste un polverone in merito, ne sono certo.»

«Non c’era niente di importante là dentro, ma… sì, è vero.»

«Potremmo pensarci al ritorno da Boston. Forse sarà Masters stesso a darci delle risposte.»

«Improbabile, ma è una possibilità.»

Quando smisero di parlare, Ellen si rese conto della situazione. Fauerbach era seduto a un’estremità del suo letto, in modo da starle di fronte, e sembrava pensieroso quanto lei. Aveva però anche uno strano modo di guardarla.

Avvampò e si girò verso il muro. Come era finita di nuovo in quella situazione? Credeva che il giorno prima fosse stata una circostanza eccezionale, da vivere e poi dimenticare. Le era successo tante volte, durante l’adolescenza, di approfittare di un momento di felicità per poi costringersi a scordarlo, conscia di non poterlo ripetere: un pasto caldo, un letto morbido, un vestito di prima mano… Tutti sogni che non le appartenevano e che dovevano rimanere tali. Solo addentare una fetta di torta al cioccolato l’aveva segnata per sempre, accendendo la sua gola dal desiderio di ripetere ancora quell’esperienza, e così era stato. Ciò che era accaduto il pomeriggio del giorno prima con Fauerbach era un episodio che, al contrario, non intendeva ripetere.

Ricordava chiaramente l’espressione disorientata quando aveva mormorato il suo assenso. Era quasi convinta di guardare in uno specchio, certa com’era di avere avuto la stessa, identica confusione dipinta sul volto. Avrebbe potuto finire tutto in quel momento, dopo una risata di Fauerbach nel quale le annunciava che stava scherzando, invece il medico aveva estratto il portafoglio, aveva pagato e poi in silenzio l’aveva condotta verso l’hotel più lussuoso della città. Ripensandosi, Ellen avvertiva lo stomaco sottosopra.

«Mi state evitando» disse infine Fauerbach. Non era una domanda.

«Abbiamo ben poco da dirci.»

«Non direi: abbiamo appena avuto una stimolante conversazione accademica.»

Ellen si voltò verso di lui, vergognandosi dell’imbarazzo che l’aveva spinta a dargli le spalle. Si alzò e incrociò le braccia al petto.

«Una conversazione che sarebbe potuta avvenire fuori dalla mia stanza.»

«Ne dubito, visto che avete rubato il libro che state esaminando.»

«Un libro rubato a sua volta.»

«E comprato legalmente dalla persona che, con tutta probabilità, ne ha ucciso il precedente proprietario.»

Ellen trasse un lungo respiro infastidito.

«Mi state evitando» continuò Fauerbach, di nuovo il sorriso sghembo sulle labbra. «Sarò in vostra compagnia almeno per un altro paio di giorni, mi dispiace turbarvi tanto. Cosa posso fare per rimediare?»

«Uscire da questa stanza e non parlarne più.»

«Di cosa?»

«Lo sapete, di cosa.»

«E se ne avessi ancora voglia?»

Ellen deglutì e lo fissò. Fauerbach non smetteva di sorridere, ma sembrava sincero. Di fronte al suo silenzio, l’uomo sollevò le braccia e le portò sui suoi fianchi, avvicinandola lentamente. Lei non si ritrasse.

«Non voglio… non voglio…»

Non riusciva a concludere la frase. Avrebbe potuto cacciarlo e basta, ma voleva mettere in chiaro un punto per lei fondamentale. Lasciò che le proprie braccia si sciogliessero, ricadendo lungo il busto tanto vicine a quelle di Fauerbach da poterle toccare, se avesse voluto.

Prese fiato e concluse: «Non voglio una relazione sentimentale.»

«Vi sembro il tipo?»

Fauerbach aveva parlato a voce bassa, senza derisione nella voce. Era una domanda sincera.

«Non è questo che insinuavo. Non voglio relazioni di alcun tipo con nessuno. Quello che è successo ieri… non mi stavo illudendo o roba simile.»

«Ellen.»

La fissò negli occhi, ora così vicini ai suoi. Lei non lo corresse imponendogli di chiamarla con il suo cognome, non aveva più alcun senso.

«Non ho mai pensato questo di te.»

La strinse più forte e la baciò, lasciando che lei si lasciasse trasportare. Ci volle poco.

Quando la pendola suonò l’una del mattino, Ellen udì Fauerbach muoversi alle sue spalle. L’uomo si alzò e si rivestì; si chinò solo per darle un bacio sulla testa, poi uscì dalla sua stanza.

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


Capitolo VII

 

Salirono sul primo treno per Boston, dopo un breve viaggio nel Northside per raggiungere la stazione sita nella West High Lane. Per ringraziare la giovane doppiamente ereditiera dell’ospitalità, Fauerbach si offrì di pagare il viaggio per tutti, elargendo alla donna nella biglietteria una banconota da dieci e una da un dollaro. Ellen stava attenta a ogni dettaglio, soppesava i gesti del medico, cercava di analizzare i modi che reputava fin troppo gentili; quando infine prese posto accanto a lei e iniziò a sfogliare l’Arkham Gazette del ventinove ottobre, Ellen scosse la testa ed estrasse un taccuino, sul quale segnò quanto appreso fino a quel momento, e non in relazione a Michael Fauerbach.

La sua mente sempre in moto la costringeva a prendere nota di tutto ciò che le accadeva intorno, analizzando le persone che stava accompagnando a Boston e delle quali, fino a una settimana prima, ignorava ancora l’esistenza.

La ragazzina dalla chioma riccia sedeva con le spalle tanto aderenti alla poltrona da sembrare parte dell’arredamento della carrozza. Teneva lo sguardo ancorato al finestrino, alla nebbia che celava la campagna attorno ad Arkham, e non sembrava disposta a scambiare alcuna chiacchiera con i compagni di viaggio. Ellen la osservò attentamente, sorpresa dell’espressione stoica e di quel fiocco rosa che continuava a indossare con cura sopra gli abiti del lutto. Si chiese se suo padre avesse già saputo della morte del padrino, o se fosse quello il vero motivo per cui si era decisa a lasciare la propria camera per ospitarli a Boston.

Blake sedeva al posto più vicino al corridoio, e per una volta i suoi pensieri non erano concentrati sulla scottante eredità lasciatagli dallo zio: rivolgeva sguardi fugaci alla giovane, e lo faceva tanto spesso da portare Ellen a chiedersi se la ragazzina non se ne fosse accorta. Profonde occhiaie solcavano ancora il volto del detective, che alla fine aveva deciso di passare il resto del viaggio provando a dormire.

A dividerli c’era Janet, la sola persona che non stonasse in quel contesto, poiché la sola che Ellen conoscesse da più di una manciata di giorni. Si dedicava come Fauerbach alla lettura, ma di un saggio dal titolo in devanàgari che fece ricordare a Ellen la conversazione di quella notte: forse avrebbe dovuto chiederle di analizzare il volume misterioso, ma temeva la sua risposta. Janet era stata a contatto con il libro e aveva parlato di una lingua indecifrabile, per cui doveva avere poco in comune con l’hindi o con il sanscrito.

Sospirò e si lasciò cadere contro il sedile, cercando altro su cui rimuginare, quando alla sua destra Fauerbach le porse il quotidiano.

«Tieni» disse soltanto, ed Ellen annuì per ringraziarlo.

Era certa che il medico avesse notato il suo sguardo, perché ora anche i suoi occhi si erano posati sulla borsa di Janet, che celava due dei libri custoditi dalla famiglia McCrindle.

Meglio concentrarsi sulle notizie del giorno, pensò, conscia che il detective non avrebbe approvato l’interesse di una semisconosciuta per dei tomi maledetti, o quel che erano.

Raggiunsero Boston in poco tempo, e mentre scendevano dal treno la ragazzina esordì: «Prendiamo due carrozze, casa mia è lontana.»

Nessuno replicò che forse dovevano andare subito in cerca di Masters, nemmeno il detective, che sembrava tanto determinato a gettarsi tutta quella storia alle spalle; al contrario, Blake e Janet annuirono e cercarono due carrozze libere. Ellen avrebbe preferito salire con l’archeologa, ma Fauerbach la sospinse verso la seconda carrozza, alla quale si stava avvicinando anche Blake.

«Non ci pensare nemmeno» le sussurrò prima di raggiungere il detective.

«Non intendevo rubare i libri» soffiò lei per non essere udita da altri.

«Meglio prevenire che curare.»

Impiegarono altri quaranta minuti tra le strade della città. Ellen si chiedeva quanto fosse valsa la pena prendere due carrozze, se il ritmo dei cavalli era uguale a quello dei suoi piedi, ma poi si rispose che la ragazzina dovesse essere poco a proprio agio nel camminare, dal momento che anche per muoversi da French Hill al Northside di Arkham aveva preteso che Jeremy li portasse in auto.

Forse era troppo critica nei suoi confronti, e dopotutto la ragazzina la stava ospitando in ben due ville di lusso, dunque perché tanto astio?

Per ciò che rappresenta.

Sospirò di nuovo mentre giungevano finalmente in prossimità della villa del senatore Butler. Fauerbach scese dopo di Blake, pretese di pagare anche quel viaggio e tentò di allungare un braccio per aiutare Ellen a uscire, ma lei lo ignorò deliberatamente. Lo avrebbe fatto comunque, troppo concentrata sulla villetta coloniale che li si era parata davanti. Uno stuolo di domestici in divisa era già sul portico, ed Ellen si chiese se l’ereditiera fosse riuscita a chiamare il padre per avvisarlo dell’imminente arrivo o se quei poveracci fossero costretti a passare la mattina al freddo in attesa di eventuali ospiti.

Mentre rifletteva, un uomo dalla pancia prominente uscì dalla porta principale, le braccia allargate verso la figlia e un sorriso splendente stampato sul volto. Un attimo dopo, la ragazzina era contro il suo petto, in lacrime e singhiozzante, libera dallo stoicismo che aveva invano tenuto in presenza dei suoi ospiti. Dall’espressione confusa del senatore, che si spostava tra i presenti, Ellen comprese che era ancora all’oscuro di tutto.

 

***

 

La cuoca del senatore Butler era brava, ma non all’altezza di Jeremy, il quale possedeva la straordinaria abilità di tirare fuori un pasto completo per tutte le persone presenti, non importa se fossero state annunciate soltanto cinque minuti prima. La “Mrs Qualcosa” tanto decantata dal padrone di casa e da sua figlia cucinava in maniera raffinata, probabilmente aiutata da altri cuochi o da servette, ed Ellen sperava vivamente che le porzioni esigue fosse dovuto al loro arrivo improvviso. Scansò un asparago con la punta della forchetta, chiedendosi quando fosse diventata così pretenziosa, e se lo portò alla bocca.

Per fortuna, non era la sola ad avere ancora qualcosa nel piatto. Il senatore sembrava una persona avvezza al buon cibo, poiché aveva esaltato tutto ciò che veniva portato sulla tavola, ma aveva mangiato poco, così come la figlia e il detective Blake. Janet e Fauerbach, dal canto loro, mantenevano un’amabile conversazione con il padrone di casa, il quale cercava in maniera alquanto evidente di non sembrare in apprensione per la figlia.

«Lily, tesoro, Mrs Graham ha preparato il tuo dolce preferito, ve lo faccio portare subito?» chiese di fronte al piatto che la ragazza aveva lasciato intonso e che un cameriere in livrea stava togliendo dal tavolo.

«Purtroppo siamo di fretta» rispose lei, azzardando un sorriso che si spense immediatamente. «Abbiamo delle commissioni da fare in città ed è già trascorsa tutta la mattinata…»

«Lo mangeremo questa sera, allora.»

«Grazie ancora per l’ospitalità.»

«Questa è casa tua, Lily, non devi ringraziarmi. Ed è un piacere conoscere i tuoi amici.»

Ellen non ne era tanto certa: il senatore aveva comprensibilmente rivolto a lei e a Fauerbach poche occhiate e giusto paio di domande. Era preoccupato per sua figlia, fremeva dal desiderio di sapere cosa fosse accaduto all’Arcivescovo e al contempo avrebbe voluto stare con la ragazza il più possibile. Cosa le aveva detto Janet? Che quello era il primo viaggio che l’ereditiera aveva fatto senza il padre? Un inizio davvero pessimo.

Lilyan non provò a sorridere una seconda volta, ma si avvicinò al padre e lo baciò sulla guancia irsuta.

«Vado un attimo in camera, Mary mi aiuterà a scegliere gli abiti da portare ad Arkham…»

«E se rimanessi a Boston, invece?»

La ragazza esitò. La domanda, in effetti, era del tutto sensata. Non si trattava solo dell’apprensione di un padre: se tutto fosse andato come speravano, quel pomeriggio stesso il detective sarebbe rientrato in possesso di tutti e quattro i libri. La storia sarebbe finita là, e probabilmente ognuno sarebbe tornato alla propria vita a Boston. Blake avrebbe avuto il coraggio di rivedere la madre adottiva senza più pesi sulle spalle, Lilyan avrebbe venduto Chateaubriand Manor portando Jeremy a vivere con loro oppure cedendolo con tutta la proprietà, Janet avrebbe ripreso a lavorare per Harvard ed Ellen le avrebbe chiesto di rimanere per un po’ nel suo appartamento. E Fauerbach…

Beh, affari suoi.

Ellen comprese e condivise quindi la risposta che Lilyan diede al padre: «Ne parleremo questa sera.»

Quando fu uscita dalla sala da pranzo, il senatore Butler soppesò per la prima volta le occhiaie scavate di Blake.

«Quando?»

Fu Janet a rispondere. «Non lo sappiamo con esattezza… Lunedì sera, credo. Lilyan e Alexander erano appena tornati ad Arkham.»

«Per fortuna non eravate… lì.»

Ellen vide chiaramente il dolore farsi largo sul suo viso: ora che la figlia era lontana, il senatore poteva lasciarsi andare. Da quello che le aveva detto Janet, l’Arcivescovo era stato un grande amico del padrone di casa, e la sua morte doveva addolorarlo almeno la metà di quanto aveva devastato Lilyan.

Janet allungò una mano per stringere quella del senatore Butler. «Non ha sofferto.»

Le sue parole furono seguite dal raschiare di una sedia contro il pavimento. Il detective si era mosso di scatto e ora anche sul suo viso era dipinta un’espressione contrita. Sembrava essere stato sul punto di dire qualcosa, per poi decidere di tenerla per sé.

Di fronte a quel gesto, che attrasse l’attenzione di tutti i presenti, il senatore si asciugò gli occhi con il tovagliolo, si alzò e girò intorno al tavolo fino a raggiungere lo schienale della sedia di Blake.

«Non è colpa tua.»

Le spalle del detective si rilassarono di colpo. Ellen non sapeva ancora cosa fosse accaduto a Salem, né Blake o la piccola Butler lo avevano detto a qualcuno, ma in quel momento realizzò che, ancor di più dell'evento in sé, a far nascere nel detective il lacerante senso di colpa era stato tutto ciò che aveva portato alla morte dell’Arcivescovo, a partire dalla festa che si era tenuta proprio in quella casa soltanto due settimane prima.

Ellen distolse lo sguardo, a disagio, mentre il senatore continuava ad assolvere Blake.

«Sarebbe potuto accadere in qualunque luogo e in qualunque momento, e se tu fossi stato presente non avresti potuto salvarlo. Se quello che vi ha detto il notaio Nichols è vero, e non ho motivo di dubitarne, Giraud è morto sul colpo.» Tentennò facendo il nome dell’amico, ma poi riprese a parlare, la voce ora tremante. «Poteva succedere durante il sonno. C’era qualcosa che non andava nel suo corpo e… mio Dio, lo avevo pregato così spesso di farsi visitare da un medico. Le sue frequenti emicranie, l’incapacità di prendersi un giorno di pausa… Se c’è qualcuno da biasimare, quello sono io. Ma» proseguì prima che Blake o Janet potessero interromperlo, le mani ferme sulle spalle del detective «non provo rimpianti, perché ho imparato ad accettare tanto tempo fa che, quando il Signore chiama un’anima a sé, noi non possiamo impedirglielo. Avrei potuto insistere… come avrei potuto vietare alla mia Lily di partire. Non possiamo vivere nella paura e nel rimorso, Alexander. Ora lui è in pace.»

In altri momenti, Ellen avrebbe provato disgusto per quella sequela di parole vuote; tuttavia, ora non sembravano tali. Pur non conoscendo bene il senatore Butler o sua figlia, pur non sapendo cosa avessero passato alla morte della signora Butler o quanto fossero effettivamente legati all’Arcivescovo Giraud, comprese il dolore e la verità di ciò che aveva appena udito.

Serrando la mascella, si domandò perché quelle parole non potessero essere valide per confortare ogni uomo che calpestava questa Terra.

Chi assolverebbe me?

 

***

 

«Dove si trova la casa?»

«Zona sud di Boston, non lontano dal centro. Manca poco. Il mio informatore mi ha comunicato soltanto l’indirizzo, ma se ricordo bene non ci sono condomini da quelle parti. Credo che viva in una villetta autonoma, proprio come ad Arkham.»

Si erano incamminati subito dopo pranzo. Niente auto o carrozze: volevano godere del tepore del sole autunnale sul viso, gioia preclusa dal perenne maltempo di Arkham. Per fortuna, solo una decina di isolati li dividevano dalla loro meta, che raggiunsero prima che la lancetta corta dell’orologio da taschino di Fauerbach avesse raggiunto le due.

«Potremmo avere dei problemi con il signor Masters?»

Alla seconda domanda del medico, Blake annuì mestamente. «Non voleva essere rintracciato. Sono certo che il suo assistente lo abbia avvertito quando abbiamo recuperato i primi due libri… per questo non lo abbiamo trovato a Salem.»

«Se n’era già andato, comprensibile.»

«E si è nascosto qui a Boston. Almeno spero.»

«Che possibilità ci sono di trovare soltanto i libri, come allo Ye Olde?» domandò Ellen, gli occhi grigi fissi sulla borsa che tamburellava ritmica sul fianco di Janet.

«Zero, temo. Dopo l’effrazione, avrà capito che fosse meglio portarseli dietro. Dobbiamo sperare che Masters sia ancora qui.»

Blake concluse la frase proprio mentre, svoltato l’angolo, si trovarono davanti una villa di due piani, di costruzione non troppo recente, ma ben tenuta.

«Quando ha acquistato i libri, Jefferson ha parlato di una casa di famiglia, però credevo fosse quella di Arkham» disse Janet. «Forse non dovrei farmi vedere… mi conosce già, e cercherà di evitarmi.»

«Buona idea. Resterò qui con voi, dottoressa Holmes» propose Fauerbach estraendo il portasigarette.

Ellen strinse le palpebre: ancora una volta, il medico aveva anticipato le sue azioni. Quel comportamento iniziava a parerle sospetto.

«L’avete visto anche voi?» chiese invece Blake, avvicinandosi ai due.

«Sì. È solo una sensazione, ma…»

«Di che parlate?» si intromise Janet.

Blake esitò, controllando rapidamente che l’ereditiera non potesse udirlo; lei però era persa nei propri pensieri, a qualche passo da loro, ed era semplice intuire quali fossero.

«Ti eri sentita osservata ad Arkham, non è vero? Io ho l’impressione di essere seguito da quando abbiamo lasciato la villa di Arthur.»

«Com’è fatto?» si infervorò Janet, le vene sul collo tese nello sforzo di tenere lo sguardo sul suo interlocutore.

«Un uomo di mezz’età in un pastrano scuro. Aveva il cappello calato sul volto. Potrebbe essere lui?»

«Sì… credo.»

«Di chi parlate?» Ellen ripeté la domanda di Janet.

«Ricordi il pomeriggio dopo l’attacco nel dormitorio, quando siete venuti a Chateaubriand Manor con la professoressa Baker? Mi era sembrato di vedere un uomo dalla finestra del salotto, ma ho pensato di avere i nervi tesi.»

«Potrebbero esserlo ancora adesso» sottolineò Fauerbach, facendo un cenno con il mento alla piccola Butler, che si era accorta del loro confabulare. «Andate avanti, resto io con la dottoressa.»

Ellen si ricordò solo in quel momento della pistola in possesso di Fauerbach e tirò un sospiro di sollievo. Doveva smettere di dubitare di chiunque: l’austriaco aveva già salvato Janet una volta, e se avesse voluto rubarle i libri avrebbe potuto farlo in qualsiasi momento. Persino la notte prima, quando era andato da lei.

«Provo a suonare» annunciò Blake mentre si avvicinava al cancello socchiuso. Lo superò e proseguì fino alla porta, accanto alla quale svettava una vecchia campana d’ottone. Tirò la cordicella una, due, tre volte, e fece lo stesso con i due pesanti batacchi, fino a quando un fischio li fece voltare.

Fauerbach stava indicando il piano superiore. Ellen, Blake e Lilyan arretrarono, scoprendo che dalla finestra sopra l’ingresso era ben visibile il profilo di un uomo chino su una scrivania. Da lì poteva vederli anche lui, ma stava deliberatamente evitando di alzare lo sguardo.

Janet e Fauerbach si avvicinarono. «Vi ha visti» disse l’archeologa. «Ha sussultato e… si è messo qualcosa nelle orecchie. Cotone, forse.»

Ellen imprecò sottovoce. «Cerchiamo un altro ingresso.»

«Ma…» tentennò Janet.

«Oh, andiamo, non è la prima volta» la interruppe Lilyan con una maleducazione che poco si confaceva a una bella e giovane fanciulla del suo rango. Parve rendersene conto anche lei. «Io… Scusa, Janet, voglio solo chiudere questa storia.»

Quando il resto del gruppo la raggiunse sul lato est della casa, Ellen aveva già aperto la porta della cucina. «Non era chiusa» mentì.

Fauerbach sollevò un sopracciglio, ma non disse nulla.

La stanza era piccola e sporca – non al livello in cui era stata trovata la cucina di Silas McCrindle, probabilmente, tuttavia dava l’impressione di non venire pulita da giorni. Anche la sala da pranzo, che si affacciava alla loro destra, ospitava una pila di piatti usati. Proseguirono oltre, spuntando in un ampio ingresso con doppia scalinata, e prima di potere raggiungere il primo gradino Ellen sentì una voce fermarla.

«Aspettate!» sibilò Janet, in un tono abbastanza alto da essere udito soltanto da loro. Era entrata nella sala di fronte alla cucina. «Qui c’è una libreria… è immensa

«Pensi che potrebbe tenere qui gli ultimi due libri?»

Ellen trovò una risposta alla propria domanda quando superò anche lei la soglia.

«D’accordo… d’accordo, questo è inquietante.»

C’erano centinaia, migliaia di volumi sistemati con cura sulle numerose mensole che li circondavano, ma non serviva esaminarli tutti per capire che si trattava soltanto di Ventimila leghe sotto i mari.

«Mi aveva detto di avere una passione per Jules Verne» rifletté Janet «ma non credevo fino a questo punto.»

«O a questo.»

Fauerbach portò la loro attenzione sulla teca che stazionava al centro della biblioteca. Oltre i vetri lucidi, si intravedeva chiaramente un manoscritto redatto a mano.

«La versione originale… allora era vero. Non ci avevo realmente creduto.»

«Dubito che i nostri libri siano qui»  mise loro fretta Blake, che come Lilyan doveva morire dalla voglia di chiudere quel capitolo della loro vita il prima possibile. «Saliamo e chiediamoglielo direttamente.»

Procedettero con passi lievi fino al piano superiore, immaginando che Masters fosse ancora dove lo avevano intravisto prima di entrare nella villa. Quando bussarono alla porta aperta di quello che poteva essere il suo studio, l’uomo sobbalzò, decidendosi infine di degnarli di attenzione.

«Cosa fate qui? Che volete? Andate via!» sbottò saltando in piedi. Parve riconoscere Janet, perché le sue mani afferrarono il libro che stava leggendo, un volume dalla copertina marrone e priva di titolo, e la pelle del volto divenne pallida, quasi perlacea. Janet gliene aveva parlato come di un uomo sui cinquanta o sessant’anni, ma sembrava molto più anziano: le dita tremavano, le guance erano smunte, gli occhi incavati. «Ora chiamo la polizia!»

«Non lo farete, signor Masters» cominciò Blake mettendosi alla testa del gruppo. Ellen notò che si era portato una mano alla tempia destra, come se fosse appena stato attraversato da una fitta di dolore. «Vogliamo parlare con voi di Silas McCrindle.»

«È morto! Che altro c’è da sapere?»

«L’avete ucciso voi?»

«Chi vi autorizza a fare queste domande e… e a essere dentro casa mia?»

Masters sembrava una preda messa alle strette da un grosso felino affamato. Indietreggiò fino alla finestra, stringendo il libro marrone al petto, mentre lo sguardo saettava sui loro visi, come in attesa di scoprire chi avrebbe fatto la prima mossa.

«Avete ucciso voi Silas McCrindle?» ripeté Blake con una punta di rabbia nella voce.

«No… no, io non c’entro niente!»

«Ne siete sicuro?»

«Dovevano solo derubarlo, non certo ucciderlo!»

La confessione parziale non sembrò liberarlo dalla paura. Masters non temeva di essere ricondotto alla morte di Silas: era terrorizzato all’idea di perdere un altro dei suoi fottuti libri.

Blake fece istintivamente un passo avanti e altrettanto d’istinto Masters arretrò, finendo con la schiena contro la vetrata.

Che si infranse verso l’interno.

Ellen si chinò per schivare le schegge di vetro che volarono attraverso la stanza, e la sua mente non fece in tempo a chiedersi cosa fosse accaduto: vide Masters librarsi in aria come se qualcosa di invisibile lo avesse afferrato, poi notò il sangue schizzare ovunque, lembi di pelle strapparsi dal corpo e cadere a terra, fino a quando il restante cadavere dell’uomo non venne lanciato oltre la finestra rotta.

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


Capitolo VIII

 

Blake era stato il più vicino a Masters. Socchiudendo le palpebre, mentre si teneva la testa tra le mani nel caso in cui altri frammenti di vetro si fossero sollevati contro di loro, Ellen lo vide correre alla finestra ormai distrutta, appoggiarsi all’intelaiatura e guardare fuori. Si teneva ancora la tempia destra, forse per l’emicrania o per un taglio, ma a colpire Ellen furono i suoi occhi, che si spalancarono per lo stupore, Quando si voltò per comunicare agli altri lo stato in cui doveva essere Masters, però, l’espressione di stupore si tramutò e congelò in terrore puro.

Ellen seguì il suo sguardo – piano, lentamente, come se il tempo si fosse fermato e lei non volesse scoprire cosa lo spaventasse a tal punto da portare la mano alla fondina. Nel breve tragitto tra Blake e l’altro lato dello studio, i suoi occhi incontrarono vetri, sangue e… carne. Con un conato di vomito ricordò il roastbeef del pranzo, il colore rosato, la consistenza morbida, ma fu solo quando distolse l’attenzione dai resti di Masters che comprese la paura di Blake.

Ciò che aveva attaccato il bibliofilo non era più invisibile. Masticava piano, un suono disgustoso e rivoltante, ma mai quanto il suo aspetto: il panico si impadronì di Ellen quando si accorse della sagoma gocciolante liquido scuro, percorsa per tutto il corpo da lunghi tentacoli; non aveva un volto, né occhi né bocca, era solo una massa informe che si librava nell’aria proprio sopra di loro. Era grande abbastanza da riempire metà della stanza. Ellen avvertì le gambe tremare nel momento in cui si rese conto di un altro, terribile particolare: le sole parti visibili della creatura erano quella bagnate dal sangue di Masters.

Indietreggiò e quasi cadde, incapace di reagire, e subito sentì un braccio afferrarla e  trascinarla dietro la scrivania ribaltata.

«Sta’ qui» le ordinò la voce ferma di Fauerbach. Come poteva essere così calmo? Come riusciva a…?

Non c’era il tempo di riflettere. Si nascose meglio, mentre Fauerbach estraeva la pistola nello stesso momento in cui Blake faceva partire il primo sparo.

«Sta scomparendo di nuovo!» gridò uno di loro – ma chi?

«Sopra di te!»

«No, giù, vattene via!»

Ogni formalità era cessata. Ora erano solo due uomini che lottavano contro un mostro, proprio come nel dormitorio, proprio come…

Si paralizzò di nuovo quando vide Janet. Era al riparo come lei, celata dietro una libreria che era stata ribaltata nella furia del combattimento, e teneva in mano un candelabro. Si stava alzando.

Avrebbe voluto gridare «Janet, no!» ma le parole le morirono in gola. Mentre il mostro veniva distratto dagli spari dei due uomini, Janet lo colpì in un punto a caso, non visibile ad occhio nudo, e saltò indietro per tornare a nascondersi. Questo diede il tempo a Blake di ricaricare la pistola, e gli occhi di Ellen non riuscivano a distogliersi dalle sue mani: apriva, caricava, chiudeva. Le dita erano ferme, proprio come quelle di Fauerbach che ora stavano eseguendo lo steso rituale: aprire, caricare, chiudere. Come potevano restare così calmi?

Un libro attraversò in volo la stanza, schivando la creatura.

La ragazzina.

Dal suo nascondiglio, Lilyan stava lanciando un oggetto dietro l’altro: libri, calamai, un secondo candelabro. Cercava di colpire il mostro che, poco alla volta, perdeva consistenza, rischiando di tornare invisibile e ancor più pericoloso. Ellen si guardò intorno, notò alcuni oggetti e si soffermò sul tagliacarte affilato che era caduto proprio ai suoi piedi. Lo osservò, vide la lama scintillare, mandarle riflessi per incitarla a prenderlo, ma rimase immobile. Si portò le mani alla testa e si costrinse a isolarsi.

Ci penserà qualcun altro, ci penserà qualcun altro…, ripeteva come un mantra.

«Resta qui, Ellie, non farti vedere…»

Aprì gli occhi. No, ora non doveva isolarsi, ora rischiava di uccisa da un momento all’altro. La creatura poteva interessarsi a lei, poteva volerla attaccare e cibarsi di nuovo, ed Ellen era la sola a non avere qualcosa con cui difendersi; scivolò lungo il pavimento viscido, le mani a contatto con il sangue di Masters, fino a raggiungere il tagliacarte. Non appena lo ebbe preso, lo strinse tra le mani e si riparò meglio dietro la scrivania, piegandosi per farsi più piccola possibile – come aveva imparato tanto tempo prima – con l’intenzione di difendersi se fosse stata costretta a farlo.

Non voleva attaccare, non si sarebbe mossa. Quando il mostro avrebbe ucciso tutti sarebbe venuto da lei, e allora…

No, Janet…

Lo pensò, ma non fece niente. Non voleva nemmeno guardare, tuttavia si costrinse a farlo per poter tenere d’occhio la situazione. Sollevò appena la testa, chiedendosi quanto tempo fosse passato, e si rese allora conto di non udire più spari. Lilyan continuava a lanciare libri e soprammobili, ma le pistole erano ferme. Scariche o…

«Lilyan, basta!» gridò una voce – Blake.

Solo allora Ellen guardò oltre il proprio riparo. La creatura era scomparsa – non invisibile, se ne era andata. C’era sangue ovunque, impossibile comprendere a chi appartenesse. Blake si teneva ancora la testa e Fauerbach si lanciò verso di lui, zoppicando, ma il detective lo tranquillizzò. Il medico si voltò verso Ellen e la vide, e lei avvertì il bruciore della vergogna attraversarle tutto il corpo. Un solo sguardo, poi Fauerbach zoppicò verso le altre due donne, assicurandosi che stessero bene.

«Il libro…» mugugnò Blake, che ora premeva una mano contro la spalla sinistra.

Ellen seguì la direzione indicata e vide un volume in pelle nera con una grossa incisione al centro. Senza attendere altre istruzioni, si allungò per afferrarlo. Fu come se le sue mani ardessero per un’ustione: le ritrasse, guardando Blake, che ora aveva appoggiato la testa alla parete, le mascelle serrate per il dolore.

 

***

 

Le tremavano ancora le dita mentre si portava alle labbra la tazza calda. Fuori dalla caffetteria, i pendolari camminavano avanti e indietro lungo le banchine, in attesa che giungesse il loro treno; le locomotive fischiavano annunciando l’ingresso in stazione, ed Ellen poteva udire la voce di Lilyan solo perché il suo tavolino si trovava proprio accanto al telefono del locale.

«Papà… sono ad Arkham.»

La bugia venne enunciata senza difficoltà: era più complicato reprimere la paura e l’affanno.

«Lo so, papà… ma ho pensato fosse meglio sistemare le cose qui. Sai, devo organizzarmi con il maggiordomo, con la villa… Certo, posso farlo anche in un altro momento, ma sento che mi aiuterà a tenere lontani i pensieri.»

Forse l’ultima non era una bugia. Davanti a lei, Janet finiva il suo caffè, sospirando per l’ennesima volta da quando si erano allontanati dalla casa di Masters.

«Ti prego di capirmi, devo trovare la mia strada, e non posso farlo rimanendo qui…  con te.»

Un’altra bugia o una seconda verità? Janet non la aiutava a capire, il capo chino sul tavolo.

«Sì… sì, hai ragione. Sarei dovuta passare. La valigia? Sì, fammela portare da Devon, ma non servirà che resti. Il maggiordomo di… di… Il maggiordomo mi basterà.»

Ancora un sospiro. D’istinto, Ellen allontanò il palmo dalla ceramica e lo portò sulle dita di Janet. Erano fredde. Lei non parlò, ma ricambiò la stretta.

«Ti chiamo domani, va bene? Ora devo proprio andare…»

Alzarono entrambe lo sguardo: dal vetro, Fauerbach faceva loro segno di sbrigarsi. Il treno era arrivato.

Non appena Lilyan ebbe appeso la cornetta, le sue due compagne si alzarono e la seguirono fuori dalla caffetteria, nella stazione rumorosa. Ellen stringeva ancora la mano di Janet, che lasciò andare non appena un ricordo spuntò nella sua mente; l’amica non parve accorgersene. Camminarono spedite verso il treno che sarebbe ripartito entro qualche minuto, aiutate a salire da Fauerbach. Blake era già all’interno e si teneva ancora la spalla, mentre il medico aveva smesso di zoppicare.

«Ho solo urtato contro un mobile» aveva spiegato in fretta, concentrato come loro sulle prossime azioni.

Sul momento l’istinto aveva preso il sopravvento: Ellen aveva provato di nuovo ad afferrare il libro in pelle nera, riuscendoci finalmente, e lo aveva riposto nella propria borsa; se ne erano andati senza controllare di non essere seguiti, e le sole parole pronunciate erano state quelle di Lilyan: «Non metteremo mio padre in pericolo.»

Erano stati tutti implicitamente d’accordo. Il treno per Arkham sarebbe partito entro un’ora e Lilyan aveva rimandato la telefonata fino all’ultimo momento, fingendo di avere già lasciato Boston per impedire che il padre potesse fermarla. Forse il senatore avrebbe controllato l’orario delle corse tra le due città, ma a Ellen sembrava che l’uomo si fidasse ciecamente delle parole della figlia.

Quando infine il treno partì, soli nella carrozza da sei posti che occupavano in cinque, Blake aprì la bocca.

«Tenetelo lontano da me» biascicò.

Ellen, che era seduta di fronte a lui, capì che parlava del libro che teneva nella propria borsa. La diede a Janet, che la lasciò nel posto libero davanti alla porta, il più distante possibile in quello spazio ristretto.

«Devo dirvi una cosa.»

«Cos’hai visto fuori dalla finestra?» tagliò corto Fauerbach, che si era chinato per esaminare la spalla ferita del detective. «Non era solo… il resto del cadavere di Jefferson Masters.»

Blake scosse la testa. «C’era qualcuno.»

«Il nostro inseguitore?»

«Sì, ne sono certo. Ci guardava… e non pareva sconvolto dal cadavere dilaniato ai suoi pedi.»

Rimasero in silenzio, in attesa, ma lui non continuò.

«C’è altro?» chiese infine Fauerbach.

«Ha preso il libro.»

Ellen sobbalzò. Era certa che anche il libro mancante fosse stato divorato dal mostro.

«Intendi dire…?»

«Non lo so, ma con tutto quello che abbiamo scoperto negli ultimi giorni, non escluderei che la creatura sia stata mandata da quell’uomo.»

«Come all’università…» mormorò Janet.

«Non ha senso» esclamò Ellen. «Perché farlo in quel momento? Voleva prendere due piccioni con una fava? Sarebbe stato meglio attaccarci prima e toglierci intanto gli altri due libri.»

«Invece ha senso» proseguì Janet, che finalmente parve riscuotersi dallo shock. Si tirò in grembo la borsa e la aprì.

Era vuota.

«Li ha già…?»

«No, sono ad Arkham. Scusatemi, avrei dovuto dirvelo, è solo che… che ho avuto un’intuizione.»

«Di che tipo?» domandò Fauerbach finendo di fasciare la spalla di Blake.

«È… è assurdo che a dirlo sia io. Chi mi conosce sa che non sono credente…»

Ellen parve comprendere. «Le uniche volte in cui siamo stati al sicuro, tenendo i libri con noi, è stato a Chateaubriand Manor.»

Janet annuì. «Esatto. Credo di avere avuto ragione: non ci hanno attaccati finché non abbiamo trovato gli altri due.»

«Siamo stati noi a condurlo da Masters…»

Blake pareva addolorato da quella scoperta, ma Lilyan lo fulminò con lo sguardo.

«Ha ucciso tuo zio, o lo hanno fatto i suoi sicari. Non perdere tempo a piangere per lui.»

Aveva ragione, così come aveva avuto ragione Janet. La sua amica li aveva raggirati tutti…

«La domanda rimasta è una sola» disse infine Fauerbach, socchiudendo le palpebre per riflettere. «Chi vuole i libri? Chi ne è a conoscenza?»

«Sono tutti morti» cercò di ricordare Ellen, e in parte si biasimò per avere liquidato in poche parole la famiglia di Blake. «Solo Silas McCrindle sapeva dei libri, e Masters, ma…»

«Non sono tutti morti.»

Blake aveva parlato con decisione: era chiaro che avesse un sospetto ben preciso.

«Mio zio Darcus è ancora vivo.»

 

***

 

«Posso entrare?»

Ellen rispose con un grugnito, che Fauerbach dovette recepire come un “sì”. Camminava incessantemente lungo la camera da letto, e si chiese se l’uomo fosse lì per gli stessi motivi della sera precedente o se volesse pregarla di fermarsi, fare un respiro profondo e poi andare al diavolo, permettendo finalmente a lui e al resto della casa di addormentarsi.

«Ellen.»

Non le piaceva essere chiamata per nome: Janet usava un nomignolo e i pochi che le rivolgevano parola all’università, perlopiù professori, si limitavano a uno scocciato “signorina Lawlier”.

«Adesso vado a dormire, va bene?» sbottò mentre Fauerbach si richiudeva la porta alle spalle. Aveva un sorriso divertito.

«Sai che anche il detective Blake si sta dedicando a passeggiate notturne?» la informò. «Non sapevo a chi portare una camomilla.»

«A me non l’hai portata» bofonchiò lei.

Fauerbach si stava frugando nella tasca interna della giacca, dove difficilmente avrebbe potuto tenere una bevanda bollente.

«No, alla fine per te ho pensato ad altro.»

Estrasse una tavoletta rettangolare che posò sulla scrivania, come se temesse che avvicinandosi troppo Ellen gli avrebbe staccato le mani.

«Cos’è?»

«Cioccolato.»

Lei non disse niente. Smise di camminare con passo nervoso e si diresse piano verso la scrivania. Fauerbach aveva detto la verità, e lei non sapeva se ciò le facesse piacere o meno. Avrebbe volentieri gettato il medico fuori dalla sua stanza, se si fosse presentato a mani vuote e solo per farle una ramanzina. Non le aveva rivolto un singolo sguardo da quando erano usciti dalla casa di Masters, correndo via come indemoniati per non farsi trovare dalle pattuglie di polizia che, a giudicare dalle sirene, si stavano già appropinquando al luogo del delitto. Avevano fatto un bel fracasso, in effetti.

«Ti va di parlare?»

«Per niente.»

«Allora mangia, parlerò io.»

Si lasciò cadere sul letto mentre Fauerbach appoggiava la schiena alla parete, accanto alla porta che dava sul bagno condiviso con la stanza di Janet e Lilyan.

«Non ho voglia di sorbirmi una ramanzina.»

«Una ramanzina? Per cosa?»

Ellen lo guardò. Era sinceramente stupito.

«Per… per essermi nascosta.»

«Stai scherzando? Ti ho messa io al sicuro.»

«E io ci sono rimasta.»

Improvvisamente, Fauerbach scoppiò a ridere. «Ed era proprio quello che dovevi fare. Zum Teufel, mi sembravi intelligente.»

«Lo sono!»

«No, non lo sei, perché altrimenti saresti rimasta nascosta e senza pensarci troppo.»

«È che… che…»

Anche la ragazzina si è data da fare.

Prima di potere formulare quella frase in modo da non risultare più codarda di quanto non si sentisse, Fauerbach percorse la distanza fra loro e le prese il mento tra le dita.

«Se non hai un’arma, è meglio non fare un cazzo.»

Rimase immobile a fissarlo. Era serio adesso, e qualcosa le suggeriva che, se avesse provato anche lei a lanciare un libro contro il mostro, sarebbe stato diverso il discorso che avrebbero fatto. Forse in quel caso sarebbe stata davvero una ramanzina.

Fauerbach la lasciò andare e si frugò di nuovo nelle tasche. Questa volta estrasse qualcosa di più voluminoso e che aveva perfino meno senso di essere lì rispetto alla cioccolata.

«Sai usarla?»

Le porse un revolver per la canna. Ellen non capiva granché di armi, ma non riconobbe la pistola da lui impugnata quel pomeriggio, e nemmeno quella di Blake.

«È una Colt. Sai usarla?» ripeté.

Ellen non rispose, incerta su cosa fare.

«Non è carica, sta’ tranquilla.»

Alla fine la prese e ne esaminò il peso. Riusciva a tenerla agilmente in mano, ma le dava una strana sensazione.

«È un Colt M1917, simile al modello Smith & Wesson del detective» le spiegò Fauerbach riprendendola per un momento e accompagnando le parole con una dimostrazione visiva. «Il tamburo ha sei colpi, si estrae in questo modo, si carica e si inserisce di nuovo. Puoi anche dimezzare i tempi di ricarica estraendone metà, così da inserire solo tre proiettili. Ruoti, ne metti altri tre e hai fatto. Non è la migliore sul mercato… ma lo è su quello americano.» Gliela restituì, sempre evitando di mettere realmente dei proiettili. «La mia è un’Astra, una semiautomatica spagnola. Alla fine comunque si usano nello stesso modo. E tu sai usarla?» Questa volta la domanda uscì infastidita.

«No, cazzo, non so neanche come si regge!» sbottò Ellen, che avrebbe volentieri fatto a meno di altre dimostrazioni simili.

«La tua mira com’è?»

«Buona.»

Era vero: se si fosse decisa a lanciare almeno il tagliacarte, avrebbe di sicuro colpito il mostro. Aveva affinato la propria mira durante l’adolescenza, tirando pietre a barattoli vuoti che sistemava sempre più lontano.

«È un passo avanti. Bene, ora tienila in questo modo…»

La spiegazione durò poco. Le fece mettere una mano sul grilletto e le chiese di puntate alla porta, poi al terzo cassetto del comodino e infine alla sua testa; le venne automatico posizionare la canna all’altezza giusta, e lo fu ancor di più quando la mirò alla fronte di Fauerbach. Per tutta risposta, lui sogghignò.

«L’importante è avere la giusta motivazione…» sospirò divertito, avvicinandosi per toglierle il revolver. «Adesso devi solo trovare il sangue freddo per sparare.»

«Chi dice che lo farò?»

«Io, perché un giorno ti stancherai di nasconderti e vorrei lo facessi sapendo usare una pistola, stupida ragazzina.» Le afferrò il polso e la tirò a sé. «Adesso concentriamoci su qualcosa di più produttivo.»

Quando quella notte Fauerbach lasciò la sua camera, Ellen si girò nel letto per spegnere l’abat-jour e vide qualcosa sul comodino. L’uomo aveva lasciato la Colt con sei proiettili estratti.

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


TW: morte di bambini

 

Capitolo IX

 

La fine di ottobre del 1928 si presentò come una mattina uggiosa, tipica dell’autunno di Arkham. Si svegliarono dopo avere dormito tutti a malapena, carichi di domande a cui non sapevano dare una risposta, oltre che pervasi da un senso di pericolo imminente. Janet poteva avere avuto ragione ipotizzando che i libri fossero al sicuro all’interno di Chateaubriand Manor, oppure poteva essere stato soltanto un caso; questa incertezza li rendeva tesi, incapaci di prendere sonno e gustarsi la calma che li aveva circondati il giorno dopo il loro rientro da Boston. Si erano lambiccati il cervello in cerca di soluzioni, e non erano riusciti a ottenere uno straccio di indizio.

Dopo avere ricordato al resto del gruppo che Darcus McCrindle, lo sterminatore della sua stessa famiglia, era ancora vivo, Blake aveva precisato che lo sapeva rinchiuso nel manicomio di Greenville, nel Maine, parecchio lontano da Arkham e soprattutto circondato da solide mura di cemento. Aveva provato a chiamare per chiedere informazioni, ma gli erano state negate, in quanto non risultava che McCrindle avesse dei parenti ancora in vita a eccezione del fratello; forse non tutti erano a conoscenza del doppio fallimento di Darcus, oppure nel corso degli anni di detenzione erano stati molti i ficcanaso che si erano interessati alla macabra vicenda.

Blake sapeva poco dello zio sopravvissuto, solo ciò che Silas aveva lasciato scritto nella lettera di commiato al nipote, unito alle informazioni ottenute chiamando la centrale di polizia di Greenville, che lo aveva tranquillizzato sulla cattura di Darcus, avvenuta il giorno successivo alla strage. La sua teoria prevedeva la presenza di una seconda persona, un complice acquisito negli anni, come un paziente rilasciato – sebbene ciò avvenisse molto di rado nei manicomi criminali – o peggio l’uomo che lo aveva aiutato a disfarsi dei McCrindle. Secondo Blake, era stato lui a seguirli e a evocare i mostri.

“Evocare”: quella parola suonava così strana, eppure al contempo appropriata. I ricordi del detective potevano essere stati falsati dagli eventi avvenuti a casa di Jefferson Masters, ma Blake insisteva di avere visto due libri accanto al cadavere del bibliofilo. Erano entrambi aperti, uno per la caduta, ma l’altro? Possibile che il presunto complice di Darcus lo stesse consultando in quel momento? E per fare cosa, se non evocare un demone o roba simile? Ellen non avrebbe mai creduto a questa teoria, se nel giro di una settimana non avesse visto ben due creature inimmaginabili tentare di staccarle la testa.

Mentre il detective si dedicava a cercare informazioni sullo zio in cella, dunque, il resto del gruppo si era concentrato sullo studio dei mostri, in base alle informazioni che ricordavano su di loro. Ogni volta che Ellen ripensava alla creatura di Boston si sentiva torcere le budella, quindi aveva scelto di prendere in considerazione, per il momento, solo le carcasse su cui aveva già lavorato. Era stata una giornata piena di indagini, effettuata suo malgrado nella poco fornita biblioteca dell’Arcivescovo Giraud, per niente avvezza ad accogliere volumi su magia e stregoneria; l’alternativa sarebbe stata  la Miskatonic Library, ma Ellen era restia a uscire di casa, ormai non soltanto per tenere un basso profilo all’università. Janet le aveva dato una mano a scandagliare ogni libro presente a Chateaubriand Manor, e Fauerbach le aveva dato il cambio quando l’archeologa si era addormentata sul tavolo della sala da pranzo, e fu una fortuna: le ricerche continuarono a rivelarsi infruttuose, ma perlomeno chiudersi in camera con il medico austriaco le aveva alleviato la tensione per un paio d’ore; al suo risveglio – avvenuto in assenza di Fauerbach – i dubbi erano ricominciati insieme a un forte odore di bruciato.

Si era vestita in fretta e furia, pervasa da una strana sensazione che le aveva attanagliato lo stomaco, ed entrando in salotto aveva osservato Blake estrarre dal camino il volume nero recuperato da Boston. Era incredula: non perché il libro sembrava intonso, ma perché non riusciva a comprendere come Blake fosse passato da “Guardiano” a “Distruttore di questi libri del cazzo”. Si era bloccata prima di prenderlo a pugni; dopotutto, il suo tentativo di bruciare il tomo non era riuscito, quindi niente di inestimabile era stato distrutto, per il momento. Avvertiva ancora l’attrazione e la contemporanea repulsione verso quei tre volumi, e cercava di combattere il desiderio di metterci le mani sopra per studiarli accuratamente.

Era rimasta nella sala da pranzo, incapace di riprendere sonno, fino all’alba, quando anche il resto della casa si era destato. Jeremy aveva preparato una sostanziosa colazione che, per un momento, li aveva fatti sentire in pace con loro stessi, poi Lilyan lo aveva requisito per parlare di alcune migliorie da apportare alla villa. Fu chiaro a tutti che la sua fosse solo una scusa per restare del tempo con il maggiordomo di Giraud Des Chateaubriand, forse per conoscere aneddoti su di lui che ancora ignorava, o perfino per tenere il naso fuori dagli affari di Blake, verso il quale sembrava provare un forte astio che Ellen aveva cominciato a imputare ai misteriosi “fatti di Salem”.

Quando si spostarono in salotto per fumare, il detective afferrò la copia dell’Arkham Advertiser che era stata consegnata mentre ancora tentava di bruciare i libri che avrebbe dovuto custodire, e nel giro di un paio di minuti sbiancò, accartocciò il quotidiano e lo gettò nel camino. Questa volta, le pagine arsero di fronte ai suoi occhi.

Ellen aggrottò la fronte e non fu la sola: ora tutti guardavano Blake, domandandosi cosa ci fosse mai scritto di tanto sconvolgente.

«Alexander?» esordì infine Janet, avvicinandosi all’amico.

Lui rimase in silenzio ancora per qualche secondo. «Lilyan non doveva vederlo» esalò infine, una risposta per nulla esaustiva.

«Vedere cosa?»

Blake alzò lo sguardo su Janet, poi lo portò su Ellen e su Fauerbach. Con un sospiro, si lasciò ricadere sulla poltrona e accettò la sigaretta che gli porgeva l’austriaco.

«Salem» mormorò, ed Ellen avvertì un brivido lungo la schiena.

«Ha a che fare con… con quello è vi è successo laggiù?»

Blake annuì alla domanda di Janet, espirò il fumo e si schiarì la gola, e ora Ellen seppe che era giunto il momento.

«Devo raccontarvi la verità.»

 

***

 

Siamo partiti per Salem la mattina dopo il rinvenimento della carcassa sulle sponde del Miskatonic River. L’assistente di Jefferson Masters non dubitava delle nostre intenzioni, e credo che tuttora ci ritenga all'oscuro di quanto accaduto quella notte, quindi l’indirizzo che ci aveva consegnato corrispondeva, in effetti, all’albergo dove aveva alloggiato Masters. Non sappiamo se lui ci abbia visto arrivare o se la sua partenza fosse dovuta all’effrazione allo Ye Olde Booke Shoppe; la nostra sola certezza è stata la sua camera vuota. Saremmo prontamente rientrati ad Arkham, se la vista dall’Arcivescovo Giraud Des Chateaubriand non avesse spinto alcune donne a richiedere il suo aiuto.

Ricordo di avere pensato che le poverette fossero delle esagitate, ma Giraud ha voluto ascoltare le loro parole, perciò una di loro ci ha invitato a casa sua per parlarne davanti a una tavola imbandita. Samantha Brown, si chiamava, e la donna con lei era Madeleine Dupont. Abbiamo intuito subito che il motivo del suo invito non fosse ingraziarsi l’Arcivescovo, bensì mostrarci lo stato delle loro figlie. La più grande, Cecilie Brown, stava bene: ci ha riempiti di attenzioni, ha giocato con Lilyan e le ha mostrato le sue bambole preferite, ma la sorellina, Lynda, presentava lo stesso comportamento della piccola Judie Dupont, caratterizzato in primo luogo da un inconsueto mutismo. Ricordo che Giraud le osservò per tutta la durata del pranzo, e io non potei che fare lo stesso: Lynda e Judie mangiavano portandosi il cucchiaio alla bocca nello stesso momento, sorseggiavano l’acqua nella stessa maniera e, allo stesso modo, tenevano lo sguardo chino sul piatto. Ho chiesto alle loro madri se fossero cresciute insieme, perché sapevo di bambine che sviluppavano atteggiamenti simili per “preservare” la loro amicizia, ma la risposta mi ha fatto ricredere. Non solo Lynda e Judie si conoscevano da poco più di un anno; il loro strano carattere, il silenzio e la timidezza erano tutti condivisi dalle bambine della loro classe.

Quando le due donne hanno pregato Giraud di indagare in merito a una presunta possessione demoniaca, l’Arcivescovo le ha tranquillizzate, spiegando che doveva trattarsi di tutt’altro, ma ci ha anche chiesto di rimandare il rientro ad Arkham. Entrambi abbiamo accettato: non c’era fretta nel rincorrere Masters, e fino a due giorni fa credevo che le storie sui libri maledetti dei McCrindle fossero fandonie, senza contare che Giraud era stato ospitale con me.

Se me ne sono pentito? Sì, completamente.

Se le donne pensavano che il diavolo avesse preso possesso delle bambine della seconda classe, Giraud aveva un’altra teoria. Ricordo ancora che lo tenemmo nascosto a Lilyan per non turbarla. Abbiamo atteso il mattino successivo, poi ci siamo recati alla scuola inferiore di Salem per conoscere la loro maestra, con la scusa di una visita ufficiale dell’Arcivescovo Giraud. Se anche non avessimo conosciuto la classe frequentata da Lynda e Judie, l’avremmo capito subito: mi sono pietrificato alla vista delle dieci bambine che ci guardavano con espressione apatica, mute e bianche come cadaveri. Tra di loro non c’erano le figlie di Samantha e Madeleine, perché Giraud aveva consigliato di tenerle in casa per un paio di giorni, ma la somiglianza con il loro atteggiamento era evidente. Tanto per scacciare ogni dubbio, Giraud ha benedetto l’aula con acqua santa, soffermandosi sulla cattedra della maestra, ma la signorina Smith non ha avuto alcuna reazione. Ha ringraziato l’Arcivescovo e gli ha chiesto di uscire per proseguire la lezione.

Ero intenzionato a chiedere a Giraud se condividesse ancora i miei timori in merito alla maestra, ma prima di lasciare la scuola abbiamo notato del terriccio sul pavimento, e poi ancora impronte di scarpe infangate. Portavano tutte alla classe della signorina Smith. Le abbiamo seguite in senso contrario, fino a raggiungere una scala che puntava verso il basso, finendo contro una porta chiusa in modo da non poter essere forzata facilmente, nonostante io stesso ci abbia provato mentre Giraud e Lilyan facevano la guardia.

Nel pomeriggio siamo tornati a casa dei Brown, dove abbiamo visto le tre bambine giocare tutte insieme: si rincorrevano in cortile, ridevano e sembravano piene di gioia. La stessa Cecilie, la più grande, ci ha ringraziato per “averle restituito la sorellina”. Qualcosa non andava, e aveva a che fare con ciò che accadeva nei sotterranei della scuola. Volevo dedicarmi al pedinamento della signorina Smith, ma pur attendendo fuori dalla scuola non l’ho mai vista lasciare l’edificio. Nel frattempo, Giraud ha cercato informazioni sul luogo di costruzione della scuola, e questo mi ha insospettito: sembrava che non pensasse più a molestie da parte dell’insegnante, a una verga usata un po’ troppo spesso, bensì che avesse un’idea… diversa. La sera stessa, infatti, si è presentato con un documento che attestava la presenza, nel luogo in cui ora sorge la scuola, della casa di una certa Goody Fowler.

Pronunciando il suo nome ha incontrato lo sguardo di Lilyan, che è apparsa profondamente colpita, e insieme mi hanno narrato un racconto su una presunta strega che aveva abitato ad Arkham, e che lì era stata uccisa agli inizi del diciottesimo secolo. Nessuno dei tre credeva a quella storia, forse solo un pochino Lilyan, che era la più giovane e suscettibile fra noi, però abbiamo temuto che la signorina Smith, giunta a Salem proprio un mese prima per sostituire la signorina Spire, scomparsa all’improvviso, potesse avere cattive intenzioni.

Ne abbiamo avuto la certezza quando Samantha, disperata, si è presentata al nostro albergo mentre facevamo colazione, affermando che la signorina Smith aveva preteso di portare la bambina a scuola. Il signor Brown non era presente, e la piccola Lynda era apparsa così spaventata da annuire e seguire la sua maestra senza fare storie. Ci siamo recati a scuola, destando di certo dei sospetti nella maestra, ma siamo riusciti a portare via Lynda e Judie, che come l’amica era stata trascinata a scuola contro il volere di Madeleine.

Non è stato, però, il solo evento sospetto tra il lunedì e il martedì passati a Salem. Quella notte, vicino al nostro albergo, un edificio era andato in fiamme. Soltanto al mattino abbiamo saputo che si trattava del Palazzo di Giustizia, il luogo dove un tempo venivano giudicate le presunte streghe.

Era ormai chiaro che dovessimo agire. Giraud, in veste di rispettato Arcivescovo, ha deciso di andare al consiglio della città, che si stava svolgendo proprio in quelle ore, per convincere il sindaco a indagare sulla signorina Smith, mentre io e, mio malgrado, Lilyan e Samantha siamo tornati a scuola riuscendo finalmente a forzare la porta chiusa. Samantha è rimasta fuori a fare la guardia, mentre io e Lilyan siamo scesi e i miei timori si sono rivelati fondati… o quasi: dietro ogni cosa doveva esserci la signorina Smith, ma le bambine erano più in pericolo di quanto avessi creduto.

La porta affacciava su un magazzino, dietro il quale il muro era stato buttato giù. Proseguendo, Lilyan e io siamo finiti in un corridoio buio, che sembrava sorretto soltanto da travi malmesse e da cui proveniva senza dubbio il fango e il terriccio che avevamo rinvenuto al piano superiore. Ben presto abbiamo raggiunto una stanza ubicata esattamente sotto l’aula della signorina Smith, e lì c’era… un calderone. Come nelle storie sulle streghe, nel calderone bolliva una sostanza nerastra, e Lilyan ha fatto l’errore di sporgersi… È stata colpita al viso da uno schizzo del liquido ed è quasi svenuta tra le mie braccia. Delirava, affermava di avere visto qualcosa… qualcuno… una vecchia donna. Sarei volentieri tornato in superficie per aiutarla, ma in quel momento sono giunte tre persone. Una era la signorina Smith, e le altre… due bambine di sei, sette anni. Nonostante la maestra apparisse giovane, per un attimo mi è sembrato di vedere una vecchia di fronte a me, e sono stato assalito dal terrore. Sarei rimasto paralizzato se proprio allora non fosse arrivato Giraud. La sorpresa suscitata nella donna dalla sua presenza mi ha dato l’opportunità di estrarre la pistola e puntarla alla maestra.

È stato allora che mi sono accorto di non avere più la sua attenzione: la donna fissava Giraud, e così le bambine. Avevano occhi soltanto per lui. Se non avessero chiuso il passaggio, sarei potuto scappare con Lilyan, e Giraud deve avere pensato lo stesso, perché ha dato loro le spalle e ha cominciato a correre. Le nostre avversarie lo hanno inseguito mentre io facevo la sola cosa che in quel momento mi era parsa utile: far crollare le travi marce che già reggevano a malapena il peso dell’aula sovrastante. È avvenuto tutto troppo velocemente… Il calderone è rimasto sepolto e così… così anche una bambina, colpita dalle macerie che si sono subito sviluppate nel corridoio fino al magazzino. Non ho potuto fare niente per lei, ho provato ad allungare un braccio per afferrarla, ma è stato inutile. Quando la maestra ha tentato di lanciarsi su Giraud, però, ho sparato due colpi, forse anche tre o quattro: volevo solo che morisse. Non è… non ne vado fiero, ma ero spaventato e per un momento ho creduto alle leggende, alle storie… e adesso comprendo come fossero vere.

Lilyan si stava riprendendo velocemente, ma non riusciva a reggersi in piedi, così Giraud ci ha ordinato di uscire. Voleva far ragionare la bambina, che ormai sembrava innocua senza l’influenza della maestra. Era immobile, bianca come un cencio, ma stava bene. Lo… lo sembrava davvero. Mi sono rifiutato: sentivo che c’era qualcosa di sbagliato e che non potevo lasciarlo da solo. Lilyan era disarmata, certo, ma era una bambina… una bambina, dannazione, cosa poteva farci? Così non ho ascoltato il suo…

Ho sbagliato. All’improvviso la bambina si è messa a gridare. Un grido lacerante. Avrei potuto sparare… potevo farlo… ma ho scelto di aspettare. Mi sono coperto le orecchie come ha fatto Lilyan, e solo allora ho visto del sangue uscire da… dalle orecchie di Giraud… e lui crollare a terra. Mi fissava… mi fissava con occhi spenti. Nichols ha ragione: ha avuto un’emorragia cerebrale, ma non sa cosa sia realmente accaduto. E non sa che, alla fine, ho sparato alla bambina. Che ho ucciso volontariamente una bambina.

Ho trascinato il corpo di Giraud all’esterno, dove ci aspettava Samantha, e non ho permesso a Lilyan di… di restare con lui. Ho dovuto afferrarla e portarla via con me, il più lontano possibile, in cerca di una corriera per Arkham, lasciando che Samantha spostasse il corpo di Giraud. Io… ho dovuto.

 

***

 

«Non hai dovuto.»

Ellen si girò verso la soglia, scoprendo l’esile figura di Lilyan che a braccia conserte li osservava forse da parecchio tempo, forse perfino dall’inizio del racconto. Blake, che già aveva un’espressione colpevole sul volto, ora appariva profondamente addolorato.

«Lilyan…»

«Non hai dovuto. Hai voluto. Tutto ciò che sta succedendo da quando siamo giunti ad Arkham è un tuo volere: il testamento di Silas, la casa da sistemare, la ricerca dei libri… Non dovevi fare niente. Se volevi, avresti potuto accettare i soldi del testamento, ignorare la casa e farci tornare a Boston, invece ci hai messo nei casini. Siamo stati attaccati alla villa di Masters, siamo andati a Salem, siamo ancora in pericolo. È vero, a quel punto era troppo tardi per Giraud, ma sii consapevole che la sua morte è tutta colpa tua.»

Nessuno osò replicare. Nemmeno Janet, che conosceva Lilyan da quando era stata una bambina, provò a difendere Blake; era ancora turbata dal racconto e fissava il pavimento con occhi lucidi. Ellen ignorava cosa le facesse più male, sapere il modo in cui l’Arcivescovo era morto, udire le parole dure di Lilyan – eppure così sincere – o la confessione di un omicidio che lo stesso Blake dubitava fosse indispensabile. L’omicidio di una bambina.

Ellen rabbrividì e ne approfittò per mettere altra legna nel camino, fra la cui cenere si notavano ancora piccoli brandelli bruciati dell’Arkham Advertiser.

«Perché ne stiamo parlando?» insistette Lilyan.

«Volevo… che sapessero.»

«Stronzate. Dimmelo, lo scoprirei comunque. Non sono una ragazzina da proteggere.»

La sua voce lieve, l’aspetto fanciullesco, il fiocco rosa fra i capelli, tutto suggeriva il contrario, ma la determinazione che si leggeva nei suoi occhi confermava le parole di Lilyan. Blake sospirò come se si preparasse alla parte peggiore della storia. Cosa c’era ancora?

«L’Arkham Advertiser riporta dei fatti successi a Salem.»

«Quei fatti?»

«No. Finora nessuno ha unito gli omicidi, e Gi… l’Arcivescovo è stato trovato lontano dalla scuola… ma forse ora hanno un indizio.» Blake sollevò lo sguardo su Lilyan, e apparve ancora più dispiaciuto. «Hanno trovato due famiglie assassinate. Mi spiace, Lilyan, io…»

«No, no, no…» La ragazza indietreggiò verso la parete, le mani che salivano alle orecchie, come per impedirsi di ascoltare. «Non può… non loro…»

Solo a quel punto Janet si alzò e corse ad abbracciarla, intuendo come tutti loro chi fossero le due famiglie, forse ripercorrendo mentalmente i loro nomi allo stesso modo in cui lo stava facendo Ellen.

Samantha, Madeleine. E Lynda, Judie, e Cecilie che non c’entrava niente.

Lynda…

Si alzò bruscamente e uscì dalla stanza, turbata e assillata dal proprio passato. Niente di buono accadeva a Salem, e Lilyan aveva ragione: tutto quello che era capitato a lei e prima ancora a loro era da imputare a Blake; tuttavia Ellen non riusciva a biasimarlo, perché la sofferenza e il rimorso erano tanto forti che non poteva accusarlo di avere agito senza pensare. Quel poveraccio era stato strappato alla sua tranquilla vita familiare per finire in un incubo, dal quale nessuno di loro, ormai, sarebbe riuscito a svegliarsi.

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***


Capitolo X

 

«Queste possono andare bene?»

Janet sollevò lo sguardo sulle mele che Ellen teneva in mano e annuì. «Sì, sono perfette per la torta. Hanno la consistenza giusta per…»

«Prendiamole e basta» tagliò corto Lilyan.

Dopo ciò che era avvenuto quella mattina nel salotto di Chateaubriand Manor, la giovane ereditiera aveva dato sfogo a una serie di comportamenti contraddittori; in quell’istante, era di nuovo passata a detestare l’idea di festeggiare il compleanno di Blake. Janet lo aveva annunciato durante il pranzo, allo scopo di sollevare gli animi dei presenti, ma il detective non era parso contento della sua proposta; a sua volta, Lilyan aveva bofonchiato un «Non sappiamo nemmeno quando sia il suo vero compleanno», ma a sostegno di Janet si era lanciato Fauerbach, il quale aveva passato intere ore in silenzio, riflettendo probabilmente sul racconto di Blake.

Secondo il medico austriaco, fingere di essere un normale gruppo di amici o conoscenti riunitasi per una gioiosa occasione li avrebbe aiutati a dimenticare, per almeno una serata, l’orrore che si stavano portando dietro da settimane. Ellen stentava a credere che appena sette giorni prima si era svegliata entusiasta per dovere saltare la lezione di Peabody e partecipare a una ricerca scientifica.

No, lunedì scorso, a quest’ora, avevamo già trovato il cadavere di Proctor.

Su un punto, Janet e Fauerbach avevano ragione: le indagini stavano andando a rilento, il manicomio di Greenville non sarebbe stato reperibile fino al mattino successivo, dunque meglio divagare. Lo stesso Fauerbach aveva convinto Blake a uscire per una passeggiata mentre le tre donne si occupavano della spesa.

Ecco, quello era stato il primo segnale ambiguo da parte di Lilyan. Janet avrebbe voluto organizzare la serata e aveva già preparato un elenco di acquisti da affidare a Jeremy, quando Lilyan aveva asserito che il maggiordomo fosse fin troppo carico di impegni, quindi sarebbero andate loro tre al suo posto. Era stata una strana proposta da parte di una persona che, appena qualche minuto prima, si era detta contraria a festeggiare il compleanno dell’uomo con cui ce l’aveva a morte – compleanno reale o inventato che fosse – tuttavia Janet aveva sorriso e si era dichiarata bendisposta a dedicarsi alle compere. Ellen sarebbe andata comunque con loro, anche se Lilyan non l’avesse invitata, perché conscia di avere bisogno di una pausa.

Si erano inoltrate nel Merchant District, il quartiere che divideva French Hill e il Campus dal Miskatonic River, ed erano state liete di trovare un mercato a cielo aperto nonostante il tempo perfino più ostile di Lilyan. L’intenzione di Janet era di acquistare il necessario per un pasto che restituisse loro il calore familiare, e qualcosa suggeriva a Ellen che avrebbe insistito per apparecchiare il tavolo della cucina, con grande disappunto di Jeremy e Lilyan, ma poco importava: le interessava soltanto dedicarsi alla scelta delle mele perfette per la loro torta, perché per un pomeriggio voleva sentirsi frivola. No, non era vero: voleva provare cosa significasse avere come unico problema il dilemma fra mele rosse e mele gialle – avevano dei nomi, ma lei non si era mai degnata di impararli.

«Grazie» sussurrò improvvisamente Janet alle sue orecchie. Ellen la guardò, scoprendo un’espressione contrita dietro gli occhiali spessi. «Di essere ancora qui, intendo. Non avrei dovuto trascinarti in questa storia… La colpa è di Alexander quanto mia.»

Ellen non sapeva come reagire, perché le parole di Janet non avevano senso: era stata lei a voler rimanere a Chateaubriand Manor, e sempre lei a essersi dimostrata entusiasta per essere stata inserita nell’equipe di Miller. A sollevarla dalla risposta fu Lilyan, che si era avvicinata in fretta.

«Penso che ci stiano seguendo» annunciò a bassa voce.

Janet sollevò d’istinto il capo, mentre Ellen rimase concentrata sulle mele che stava imbustando. «Non guardare» la ammonì.

Consegnò la spesa al venditore, conscia che dietro ogni banco del mercato ci fossero le vetrine dei negozi, chiusi per il giorno di riposo settimanale. La superficie lucida le restituì il riflesso di due persone che sembravano osservarle dall’altro lato della strada. Si voltò di colpo come se volesse soltanto consegnare le buste alle due ragazze per alleggerire il peso sulle braccia, e il suo sguardo indifferente vagò sulla coppia che le stava fissando.

Rilassò le spalle, sollevata. «Vi guardavano solo perché, a differenza nostra, non avete certo l’aspetto di una servetta o di chi deve mandare avanti da sola una famiglia» spiegò a Lilyan, la quale era uscita in abiti eleganti che si confacevano più alle strade di French Hill che a un mercato contadino.

La coppia che ora dava loro le spalle, infatti, era composta da un uomo e una donna che si tenevano a braccetto e confabulavano tra loro.

Janet sospirò e rivolse un gran sorriso a Lilyan. «È tutto a posto, siamo solo un po’ nervose. Adesso rientriamo e prepariamo questa torta!»

 

***

 

«Una cena ottima, i miei complimenti agli chef.» Fauerbach portò il tovagliolo alle labbra e si pulì educatamente, gli occhi puntati prima su Janet e poi su Jeremy, che era appena entrato nella sala da pranzo.

Come Ellen aveva intuito, Janet aveva proposto di spostare la cena in cucina, ma la consueta espressione impassibile del maggiordomo si era tramutata in qualcosa di simile al panico – in altre parole, aveva sussultato impercettibilmente e sollevato un sopracciglio. La tavola della sala da pranzo era stata quindi imbandita a festa, e in quel momento Jeremy era tornato per sparecchiare e servire loro la torta di mele cucinata insieme a Janet.

«Oh, Michael, ancora non hai assaggiato ciò che ho preparato!» rise l’archeologa. «Propongo un brindisi per il nostro Jeremy, che ci regala sempre pasti eccezionali.»

Fauerbach sospirò. «Se solo potessimo brindare come si deve…» Cercò di incontrare lo sguardo del maggiordomo, ma non ebbe successo, e la stessa padrona di casa scelse di ignorarlo, o non comprese la sua allusione.

Se fosse stato per Ellen, il proibizionismo sarebbe potuto durare in eterno, però solo in quel momento si chiese come fossero le cose in Europa. Era concesso bere alcolici? Forse i soldati schierati in trincea durante la Grande Guerra si erano scaldati con una fiaschetta di whiskey? Sperava non fosse stato così, perché l’alcol offuscava le menti, e loro avevano bisogno di essere lucidi, non di morire senza neanche rendersene conto.

Tornò alla realtà quando Jeremy entrò trasportando la torta per Blake, che aveva partecipato ai festeggiamenti tanto quanto Lilyan. Ellen stava ancora pregustando il sapore del dolce quando un botto echeggiò nella stanza.

D’istinto, Ellen si buttò sotto il tavolo. Non aveva capito subito che tipo di esplosione fosse, tuttavia guardando il vetro della finestra infranto riconobbe le crepe lasciate da un proiettile. Si alzò e si guardò intorno: la sua bramata torta era finita a terra, ma per fortuna sembrava che nessuno si fosse fatto male. Vide Fauerbach estrarre la propria pistola e Blake fare lo stesso.

Il mio revolver, ricordò.

Non aveva ancora provato a usarlo, ma altri colpi esplosero dall’esterno verso la sala da pranzo, e l’idea più saggia che le venne in mente fu di correre nella propria camera per prendere il revolver nascosto nel baule. Si ritrovò ad agire a mente lucida, forse perché in quel momento non rischiava la vita per un mostro ricoperto da tentacoli o un anfibio troppo cresciuto: Ellen conosceva le pistole, era già scappata a una raffica di proiettili in passato e, dopo gli avvenimenti degli ultimi giorni, trovava quasi facile fronteggiare dei semplici umani.

Mentre si lanciava giù per le scale, notò qualcosa di inaspettato: Jeremy, che era scomparso insieme a lei, stava tornando con più di un’arma in mano. Consegnò una pistola a Lilyan e un’altra a Janet; solo l’archeologa sembrava sorpresa da quel gesto. Non ebbero tempo di fare domande, perché altri colpi furono sparati alle loro spalle, da una direzione diversa, come se i loro assalitori avessero deciso di accerchiarli. Ellen corse alla finestra più vicina per vedere meglio, riparandosi dietro il muro, e il suo cuore mancò un battito quando si accorse che Fauerbach e Blake erano usciti; Jeremy li stava seguendo in quel momento.

Che cazzo fanno?!

Alla sua destra, Lilyan stava provando a sparare attraverso la portafinestra aperta, ma era chiaro che fosse la prima volta che lo faceva. Il contraccolpo, seppur lieve, la spinse indietro. Dal canto suo Janet non sapeva come agire, e invece di usare l’arma afferrò il telefono per chiamare la centrale di polizia. Era un’ottima idea, tuttavia Ellen sperava che i vicini ci avessero già pensato: non sapeva quanto avrebbero resistito all’assedio, non riusciva neanche a capire in quanti fossero a sparare.

A quel punto si rese conto che il rumore di vetri rotti era cessato, e capì che la sparatoria stava continuando contro gli uomini all’esterno della casa. Si azzardò quindi ad affacciarsi meglio, approfittando del buco nella finestra più vicina per puntare l’arma, nel caso ce ne fosse stata la necessità, e diede un rapido controllo alla situazione.

Fauerbach era riparato dietro una siepe, Blake e Jeremy si trovavano nel portico, all’altro lato del giardino anteriore. Gli assalitori si nascondevano oltre il cancello serrato, non avevano provato a forzarlo, ma avevano sparato direttamente attraverso le grate. Quasi le cadde l’arma di mano quando si accorse che i loro avversari erano più impacciati di lei. Riconobbe i profili di un uomo e di una donna, per quel poco che riusciva a vedere sotto la luce fioca dei lampioni, poi notò una seconda figura femminile arrampicarsi sulla recinzione di ottone che correva intorno alla villa. Voleva tenerla sotto tiro, nel caso si fosse avvicinata a Blake e Jeremy che, al contrario, tenevano d’occhio gli aggressori ancora all’esterno del giardino, quando un movimento più vicino la colpì.

Fauerbach, come lei, stava puntando alla donna che aveva scavalcato la ringhiera, e non si era accorto dell’uomo che invece correva silenziosamente verso di lui, la pistola stretta, le braccia tese, pronto a sparare. Ellen fu presa dal panico: alzò anche lei il revolver, lo puntò all’uomo e fece esplodere un colpo, che lo raggiunse alla spalla. Fauerbach si voltò udendo lo sparo e l’uomo che imprecava; mentre lo sconosciuto cadeva a terra, l’austriaco rivolse uno sguardo stupito a Ellen, e ancora una volta alle sue spalle un grilletto venne rilasciato.

 

***

 

«Ellen!»

Fauerbach corse verso di lei mentre Ellen teneva ancora la pistola in mano, ora puntata verso il pavimento. Quando appurò che la ragazza era indenne, Fauerbach le tolse delicatamente il revolver dalle mani e lo poggiò sulla superficie più vicina.

«Stai bene?»

Lei esitò, deglutì e infine annuì, esalando un profondo respiro. All’esterno le voci erano aumentate, confermando ciò che Ellen aveva creduto di vedere: la polizia era finalmente arrivata. Concesse a Fauerbach di premerle una mano contro la schiena, come se temesse che lei potesse svenire in quell’esatto istante, e si lasciò trasportare verso il divano.

«Mettila con le altre» udì dire dalla voce di Fauerbach. L’austriaco si era rivolto a Jeremy, che afferrò il revolver di Ellen mentre il suo interlocutore riponeva il proprio sotto la giacca, all’altezza della cintura. «Teniamo solo la mia pistola e quella di Blake, siamo gli unici autorizzati ad averle.»

Era sensato, perfettamente sensato, come lo era il fatto che i due uomini sembrassero a posto dopo avere rischiato la vita in prima linea. Dopotutto, per quanto ne sapeva avevano fatto entrambi la guerra, e lo stesso doveva valere per il detective, quindi era normale che solo lei si sentisse priva di forze.

Sollevò il capo verso Fauerbach, che si era rapidamente assicurato che stesse realmente bene.

«Sono al sicuro» rispose lui alla sua muta domanda. «Janet è un po’ scossa, ma la sua pistola non ha mai sparato, mentre Lilyan…» Il suo sguardo vagò alla finestra rotta, e solo allora le orecchie di Ellen smisero di fischiare e colsero l’urlo disperato che proveniva dall’esterno. «Ha colpito la donna che aveva scavalcato. La nostra ospite sta bene, ma ha bisogno di una tisana, e vorrei chiedere a te di pensarci. Jeremy è… impegnato con altro, come avrai capito.»

Ellen annuì ancora e si alzò, le gambe di nuovo funzionanti e rigide; coprì in pochi passi la distanza che la separava da Lilyan, che osservava la scena in giardino con occhi sgranati. Come aveva fatto Fauerbach, le poggiò una mano dietro la schiena e la sospinse nella cucina, dove trovarono anche Janet. Fu lei a preparare il tè per Lilyan, sconvolta per avere colpito un essere umano, e questo permise a Ellen di recarsi all’esterno per controllare di persona la situazione.

C’era una piccola folla oltre il cancello ora aperto, curiosi che si mescolavano ad agenti già stufi di mandarli via. Tra loro si stavano facendo largo due barellieri, chiamati forse da Janet insieme alla polizia. Per fortuna, il loro gruppo era illeso, ma ciò non si poteva dire degli assalitori. Erano due uomini e due donne; la coppia che era rimasta fuori dal cancello era stava ammanettata e, a parte i vestiti sgualciti e i capelli arruffati, era sostanzialmente a posto, mentre l’uomo colpito da Ellen si lamentava per la ferita alla spalla. Non aveva preso un punto vitale, ma l’impatto ravvicinato del proiettile contro il muscolo lo aveva buttato a terra per il dolore. La barella, però, era per la quarta persona, la donna che Lilyan aveva in qualche modo preso alla gamba: perdeva parecchio sangue e urlava disperata.

Con un lampo di consapevolezza, l’attenzione di Ellen tornò alla coppia illesa. Riconobbe i due che le stavano spiando al mercato, e si diede dell’idiota per avere minimizzato l’accaduto. Forse Lilyan aveva avuto ragione: le stavano seguendo, e alla fine avevano scoperto dove vivevano. La vera domanda era chi cazzo fossero.

Raggiunse Fauerbach e Blake, che stavano discutendo con un agente. No, Fauerbach parlava: Blake fissava il vuoto.

«…mi rincresce, avrei dovuto capire che potevate essere in pericolo.»

«Come avreste potuto? Non c’erano indizi, hanno soltanto chiesto dove fosse la villa dell’Arcivescovo.»

«Lo so, ma è stato inusuale. Capita raramente che delle persone si rechino in centrale per domandare l’ubicazione di una casa, e…»

«…e questo li rendeva ancor meno sospetti. Soltanto dei pazzi potrebbero rivolgersi alla polizia per sapere dove abitano coloro che intendono uccidere. Pazzi o disperati.»

«Propenderei per la seconda ipotesi.» L’agente guardò Ellen, esitando, ma Fauerbach gli fece cenno di andare avanti. «Stando alla dichiarazione di una degli arrestati… volevano giustizia.»

Ellen stentava a comprendere di cosa stesse parlando il poliziotto. La sua mente cercava un nesso tra quelle persone che, come lei, dovevano avere impugnato un’arma per la prima volta solo quella sera e tutto ciò che era accaduto dall’arrivo del gruppo ad Arkham. Possibile che fossero loro i complici di Darcus? Non reggeva l’ipotesi di una giustizia personale, come stava invece spiegando l’agente. Si concentrò allora su Blake. Si era sbagliata: il detective non stava fissando il vuoto, bensì la donna in manette che urlava e urlava.

«…mia figlia! Avete ucciso mia figlia!»

«Queste persone vengono da Salem» continuò il poliziotto quando ormai ciò era diventato chiaro anche a Ellen. «Seconda la loro dichiarazione, imputano a voi la morte delle loro due figlie. Avete idea di che cosa stiano parlando?»

Finalmente Blake annuì. «Sì.»

«Ma si sbagliano» intervenne Fauerbach prima che il detective potesse confessare altro.

«Ho bisogno che mi seguiate in centrale.»

«Verremo volentieri, ma potremmo lasciare fuori le signore?»

«Sono ferite?»

«No, sono un medico, mi sono già assicurato della loro salute fisica. Tuttavia sono molto provate dall’attacco e non vorremmo turbarle altrimenti.»

Ellen sapeva di avere un aspetto più pallido del solito, dunque fu facile sostenere le parole di Fauerbach. «Mi… mi occuperò delle altre.»

Entrò in casa seguita dalle urla delle donne, entrambe ululanti di dolore e disperazione. Ora anche i loro mariti si erano aggiunti e, a giudicare dall’espressione dura di Lilyan, lei stessa doveva avere capito con chi avevano avuto a che fare.

«Che muoiano tutti» ringhiò la ragazzina.

 

***

 

Finalmente.

Ellen corse alla porta sentendo le nocche di Fauerbach bussare sul legno: lo aveva aspettato in piedi, certa che non sarebbe riuscita a dormire senza sapere come fosse andata alla centrale di polizia, se qualcuno di loro fosse nei guai per essersi difeso o se, peggio, fosse stato scoperto un reale collegamento tra Blake, Lilyan e la morte delle due bambine.

«Allora, cosa…?»

Fu interrotta dalle labbra di Fauerbach che la baciarono voracemente, mentre il suo corpo la spingeva contro lo stipite. L’uomo la sollevò e la trasportò dentro, chiudendo la porta con un calcio, e continuò a baciarla contro la parete. Quando si allontanò, le sembrava di non respirare da secoli.

«Mi hai salvato la vita» spiegò Fauerbach – Michael, Michael, era stupido continuare a pensare a lui come a uno sconosciuto. Non lo contraddisse, sebbene non le sembrasse di avere compiuto chissà quale impresa, sparando quasi a caso e rischiando perfino di colpire lui; non lo contraddisse perché le piaceva il modo in cui la faceva sentire in quel momento, così diverso dalle occasioni precedenti: sembrava che fossero stati entrambi a un passo dall’essere uccisi, ancora di più che a Boston, e i corpi di entrambi fremevano.

Rimandarono le chiacchiere a dopo.

«La situazione è risolta» spiegò alla fine Fauerbach nell’oscurità della camera da letto.

«Risolta?»

«Nel senso che non dobbiamo più preoccuparci di Salem. Ho spiegato che siamo stati assediati durante la cena, e che io e il detective Blake, gli unici a possedere un porto d’armi, ci siamo solamente difesi. Ci hanno chiesto anche delle accuse a nostro carico, ma Blake non si è fatto venire inutili scrupoli.»

«Lilyan ci sarebbe andata di mezzo.»

«Brava. Blake non poteva lavarsi la coscienza in questo modo.»

«Cosa sapevano?»

«Le due donne, la Brown e la Dupont, avevano cominciato a parlare di possessioni ben prima dell’arrivo dei nostri a Salem, e quando l’Arcivescovo è stato trovato morto… hanno agito nella maniera peggiore possibile.»

«Che intendi?»

«La Brown aveva trascinato il cadavere su una stradina secondaria che collega il municipio alla scuola, in modo che sembrasse che l’Arcivescovo avesse avuto un malore mentre precedeva il consiglio cittadino dalla signorina Smith. La polizia di Arkham non dubita del tipo di morte: verso le undici ha svegliato il medico legale di Salem e si è fatta dettare il referto. C’era sangue nelle orecchie dell’uomo, non poteva trattarsi di omicidio.»

«Veleno?»

«Perché controllare? L’unica erede dell’Arcivescovo non l’ha richiesto, quindi un’emorragia è parsa la soluzione più semplice. Poi però… la Brown ha voluto fare di testa sua. Si è messa a raccontare che la maestra era una strega e che le bambine erano sotto il suo controllo. Mettiti nei panni dei genitori che hanno perso le figlie a causa di Blake: due bambine sono morte per il crollo di parte dell’edificio scolastico, e invece di fare le condoglianze Samantha e Madeleine hanno pensato bene di sottolineare quanto bene stessero ora le loro figliolette.»

«Cazzo…»

«Hanno fatto fuori entrambe le famiglie un giorno fa, incolpandole di essere in combutta con un falso prete e con dei forestieri, poi hanno capito che si erano spinti troppo oltre per fermarsi, e hanno puntato a Lilyan e Blake.»

«Come li hanno uccisi?»

«Non lo vuoi sapere. Sul serio, Ellen, non voglio dirtelo.»

«Va bene. Mi sfugge però perché… perché sia stato tutto così semplice.»

«Per i presunti colpevoli, intendi? Prova pensarci. Uno era un rispettabilissimo uomo di Chiesa, mentre l’altra…»

«…è la figlia di un senatore. Con il quale Blake ha una forte amicizia.»

«Dubito che il nostro caro senatore Butler sappia qualcosa di queste accuse, altrimenti avrebbe già mandato un paio di auto a prelevare Lilyan. Il suo nome è bastato per far ipotizzare alla polizia di Arkham e di Salem che alcuni genitori in lutto hanno deciso di trasformare il dolore in vendetta, o in giustizia, come la vogliono chiamare.»

«Avevano ragione… in parte. Blake…»

«Non parliamone più. Adesso quei tre sono in cella e ci resteranno per parecchio.»

«Tre?»

Michael esitò. Ci mise qualche secondo per rispondere alla domanda di Ellen. «La quarta è morta in ospedale. Quella che Lilyan ha colpito.»

Calò il silenzio, un silenzio grave e pieno di significato, che alla fine fu interrotto da una risatina inaspettata e fuori luogo da parte dell’uomo. Era una risata amara, tuttavia, ed Ellen ipotizzò che Michael volesse solo stemperare la gravità della situazione.

«Scusa, non è il momento, è solo che… Altro che “nuova gestione della casa” e “troppi compiti per occuparsi anche della spesa”: il motivo per cui Lilyan e Jeremy discutevano di nascosto e non ci volevano in giro era l’acquisto delle armi.»

«Cosa?!»

«Già, me l’ha rivelato lui quando gli ho chiesto da dove fossero uscite quelle pistole in più. Stando alla sua nuova padrona, dovevate imparare a difendervi. Il fatto che sia riuscito a procurarsele addirittura oggi rivela due cose. La prima è la nostra colossale fortuna nella merda in cui navighiamo.»

«E la seconda?»

«Che nessuno può ottenere delle armi nel giro di una giornata. Il maggiordomo nasconde qualcosa, ragazzina.»

Scivolò fuori dalle coperte e si rivestì in fretta, lasciandola riflettere sulle ultime informazioni ricevute. Quando si chinò per baciarle la fronte, però, riuscì a lasciarla con un ulteriore quesito.

«Cerca di dormire: domani partiamo.»

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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***


[TW: morte di bambini]

 

Capitolo XI

 

La speranza di recuperare in treno il sonno perduto era condivisa da ogni membro del gruppo, e ugualmente vana. Il viaggio sarebbe durato diverse ore, poiché la loro meta era ben più distante di Boston, e forse a un certo punto sarebbero crollati, ma ad appena due stazioni dalla partenza le loro menti sembravano più sveglie che mai, in aperto contrasto con gli sbadigli e gli occhi arrossati. Michael aveva abbassato le palpebre e, come Lilyan, aveva appoggiato la testa al finestrino, mentre Ellen e Blake sfogliavano le pagine dei loro rispettivi taccuini; la ragazza avvertiva su di sé lo sguardo di Janet, come se l’archeologa fosse spesso sul punto di dire qualcosa, ma il sonno glielo stesse impedendo.

Nessuno di loro aveva provato a dormire durante la notte appena passata. Michael e Blake erano rientrati tardi dalla centrale, intorno alle due del mattino, e nel bagno che Lilyan e Janet condividevano con lei Ellen aveva udito numerosi e ripetuti passi, segno che avevano fatto avanti e indietro almeno fino all’una, quando i rumori erano cessati; tuttavia, i loro volti stanchi rivelavano che avevano passato entrambe una notte insonne. Dal canto suo, Ellen già era rimasta sveglia per l’ansia di sapere i due uomini a colloquio con la polizia, e una volta udito il resoconto di Michael i pensieri si erano fatti più fitti e ingarbugliati.

«Cosa hai scritto?» si decise infine a chiederle Janet, scrutando il taccuino da sopra la sua spalla.

«Solo qualche ipotesi che ho buttato giù da quando abbiamo cominciato a indagare.» Ellen tornò indietro alle prime pagine e prese a girarle in modo da farle vedere meglio i suoi appunti. «Ho cominciato il lunedì nel Tyner Science Lab con le osservazioni sulla carcassa, poi ho aggiunto le analisi dei giorni successivi e infine… ecco… mi sono soffermata anche su Masters e i libri. A grandi linee, intendo.»

Si era fermata prima di rivelare gli studi fatti sul volume impossibile da decifrare, in modo da non destarle sospetti.

Janet sospirò e lasciò ricadere la testa contro il sedile. «Capisco. Su Darcus invece cosa abbiamo?» domandò poi a Blake.

«Proprio niente… a parte quello che Silas ha scritto nella sua lettera.» Il detective estrasse un foglio e lesse: «“…è stato sfidato da nostro fratello Darcus – un uomo malvagio, perfido – corrotto dalla brama incontenibile di ottenere quei libri per sé… Nella cieca ambizione di raggiungere il suo scopo ha tradito la fiducia di Owen e massacrato la tua famiglia… Avrebbe ucciso anche te, per questo ti ho mandato lontano – molto, molto lontano da lui…”» Pronunciò quelle frasi come se fossero passi di un romanzo, non parti del suo passato. Probabilmente desiderava tenere a distanza da sé la sua famiglia naturale e tutto ciò che a essa ancora lo legava, e Darcus di certo non faceva parte degli affetti da ricordare.

Stavano andando da lui. Quel pensiero rendeva Ellen allo stesso modo in cui la rendeva la vicinanza di uno qualsiasi dei tre libri maledetti in loro possesso: elettrizzata e nauseata. Vedere un vecchio pazzo chiuso in manicomio non la entusiasmava, ma era stanca di formulare ipotesi con le sole informazioni tuttora in loro possesso. Di Darcus McCrindle sapevano solo quel che ne aveva scritto il fratello minore: era malvagio, ambizioso e pronto a uccidere per ottenere la custodia dei libri. Per loro fortuna, avevano deciso di comune accordo di lasciarli a Chateaubriand Manor, visto che il nascondiglio si stava rivelando sicuro.

Quel viaggio non stava avvenendo solo per comunicare direttamente con il direttore del Greenville Asylum, che avrebbe potuto continuare a eludere le richieste di Blake: la villa dell’Arcivescovo aveva bisogno di essere sistemata, soprattutto per quanto riguardava vetrate e finestre, e allontanarsi da Arkham poteva fare bene alla loro sanità mentale. Pur essendo partiti di prima mattina, infatti, si erano trovati assediati da vicini curiosi che mai in precedenza avevano rivolto la parola a Lilyan o probabilmente allo stesso Arcivescovo, e la nuova proprietaria di Chateaubriand Manor pareva pronta a scattare in qualsiasi momento. Lo shock era solo in parte passato quando aveva compreso chi fossero coloro che avevano provato a ucciderli, e soprattutto perché lo avessero fatto, ma Ellen sapeva che né Michael né Blake erano propensi a informarla della sorte della donna che aveva, suo malgrado, ucciso.

Con le dita tremanti, Ellen riprese a sfogliare il taccuino, sperando che il sonno si muovesse a raggiungerla: non aveva alcuna voglia di ripensare alla sera precedente.

 

***

 

Il Greenville Asylum aveva poco da invidiare all’Arkham Sanitarium, in termini di tetraggine e brutti presentimenti. Era meno imponente dell’edificio a cinque piani che sorgeva nella Downtown, eppure era ammantato come esso di un’ombra impenetrabile. Ellen aveva sentito parlare dei manicomi e, sebbene non ne avesse mai visitato uno prima di allora, ne conosceva la reputazione per nulla candida.

L’edificio che si stagliava davanti a loro, in quel primo novembre, era di soli due piani e non faceva angolo come il manicomio di Arkham, mostrando due ali ben distinte – la prima riservata ai pazienti fissi, l’altra per coloro che, pagando una cifra astronomica, potevano essere trattati in tempi brevi e ricevere le cure di un normale ospedale. Il Greenville Asylum era isolato dalla città e, per quel che aveva capito Ellen dalle sue ricerche, era considerato perlopiù un manicomio criminale.

Il luogo perfetto per un’ammazzafamiglie.

Il direttore Abner non li fece attendere troppo. Una volta estratto il tesserino da detective di Blake e annunciato che, tra gli stimati visitatori, c’erano anche un giovane dottore di fama mondiale e la figlia di un importante senatore repubblicano, Abner riuscì incredibilmente a liberarsi degli appuntamenti successivi. Era un uomo sui settanta anni che si muoveva ancora con sorprendente agilità, ma i cui occhi vedevano ormai poco; le orecchie per fortuna sentivano bene, eppure tutti loro ne ebbero il dubbio quando, dopo essersi seduti nello studio di Abner, non ricevettero risposte alla loro richiesta di vedere Darcus McCrindle.

«Ah… voi siete il signor Alexander McCrindle» disse infine Abner. Diede un colpo di tosse e si sedette dietro la scrivania.

«Preferisco Alexander Blake, se non vi dispiace.»

«Come potrebbe? Prego, accomodatevi. Il caso di vostro zio richiede tempo, e dubito vogliate restare in piedi per la durata del racconto.»

Mentre il gruppo “più prestigioso” prendeva posto sulle tre sedie di fronte alla scrivania, Ellen e Janet si accomodarono sul divanetto alla sinistra della porta.

«Per prima cosa» esordì Abner dopo un secondo colpo di tosse «voglio scusarmi per non avere permesso alla mia segretaria di darvi informazioni sul signor McCrindle per via telefonica. Nel corso degli anni ci sono stati diversi… ficcanaso… che hanno tentato di scoprire qualcosa sui nostri pazienti, senza contare che ieri è stata la prima volta in cui ho sentito parlare di un secondo sopravvissuto alla strage del 1904. Oltre a Silas McCrindle, ovviamente. A proposito, come sta vostro zio?»

«È deceduto da qualche tempo» tagliò corto Blake.

«Mi rincresce saperlo. Se può esservi di consolazione, non abbiamo mai parlato al nostro paziente della fuga del fratello, lasciandogli credere che fosse morto nella strage. Abbiamo creduto che Silas fosse più al sicuro in questo modo.»

«Quindi sapevate di Silas… ma non di me?»

«La vostra famiglia era conosciuta, detective Blake, e sapevamo che il caro Owen aveva avuto due bambini, tuttavia ignoravamo che il maggiore dei figli fosse scampato alla strage. E… e ora capirete perché.»

Blake si mosse sulla sedia, a disagio. Ellen immaginò il suo pensiero: due bambini. Il detective si era preparato ad ascoltare la storia della morte di suo padre, forse anche di sua madre e di altri membri della famiglia, ma non aveva idea di avere avuto un fratello più piccolo.

«Darcus McCrindle è sempre stato un ragazzo problematico, che dava tanti problemi ai poveri Joe ed Emily. Era considerato la pecora nera della famiglia perché si metteva spesso nei guai. Nonostante il suo costante atteggiamento di ribellione, aveva un gran cervello, e lo usò per prendere l’abilitazione in Medicina. Questo parve tranquillizzare Joe, che lo avrebbe saputo realizzato e con la testa a posto, seppure lontano dall’azienda di famiglia.» Abner tossì ancora. «Non fu così. A ventidue anni Darcus si trasferì a Boston, dove aprì una sede medica… che chiuse sei mesi dopo.»

«Aveva poco successo?» domandò Michael. Blake sembrava incapace di proferire parola, ma il direttore si era fermato di nuovo, forse per prendere fiato, e serviva riportarlo sul suo racconto prima che morisse di vecchiaia.

«No, non fu quello il motivo. Darcus venne espulso dall’albo per i metodi… poco ortodossi. Praticava aborti e quelli che posso solo definire come “esperimenti chirurgici” sulle sue pazienti. Dubito che loro fossero consenzienti. Ha continuato a lavorare di nascosto, poi un giorno, durante l’estate del 1904, è tornato a Greenville e ha massacrato la sua famiglia.»

Ellen era perplessa. «Perdonatemi, ma… perché?» Lei sapeva dei libri, ma dalla storia non traspariva alcun indizio che collegasse la strage al loro possesso. Era probabile che i McCrindle avessero tenuto nascosto il loro compito di Guardiani, ma in quanto medico curante Abner doveva avere un’ipotesi, per quanto sciocca, sulla repentina pazzia di Darcus.

«Litigi familiari. Darcus non ha mai confessato il movente dell’omicidio, ma conoscevo Joe, suo padre, e sapevo che non era intenzionato a finanziare il lavoro folle del figlio. La lite si è scatenata il giorno stesso del suo rientro e ha coinvolto l’intera famiglia.» Abner guardò Blake. «O quasi.»

«Prima avete detto che avremmo capito perché avevate dato per scontato che fossi morto» disse infine Blake, prima che il direttore potesse esitare di nuovo.

Il vecchio deglutì e si sistemò gli occhiali sul naso adunco prima di rispondere. «Darcus McCrindle ha fatto a pezzi la sua stessa famiglia con una scure.»

Ellen sarebbe rabbrividita se il suo sguardo non avesse intercettato la visione di Lilyan che, per poco, non scivolava dalla sedia; Michael, accanto alla ragazza, le poggiò una mano sulla spalla per sorreggerla. Alla sua sinistra, invece, Janet era sul punto di vomitare, mentre il volto di Blake era fuori dalla sua visuale.

Non sapeva cosa stesse pensando, ma Ellen comprendeva la risposta implicita nell’ultima dichiarazione di Abner: i corpi erano talmente maciullati e sparsi da essere irriconoscibili. E poi… se l’anno di nascita di Blake era esatto e nel 1904 lui aveva quattro o cinque anni, quanto doveva essere piccolo suo fratello minore? Come avevano trovato il suo corpicino?

D’un tratto, Blake si alzò. «Vogliamo vedere Darcus.»

Se possibile, Abner parve ancora più in imbarazzo. Tentennava. «Vedete, signor Blake… detective… Eravamo certi che solo suo fratello Silas fosse ancora in vita… e non sapevamo come contattarlo… quindi abbiamo deciso di… di tenerlo nascosto… di informare solo le autorità delle città più vicine a Greenville…»

Un cupo presentimento attraversò l’intero gruppo.

«Cosa volete dire?» chiese lentamente Blake.

«Darcus McCrindle è evaso sei mesi fa.»

 

***

 

Vollero comunque visitare la cella in cui Darcus era stato rinchiuso per quasi ventiquattro anni e Abner non poté negarglielo. Durante il tragitto, spiegò meglio la situazione dell’evaso: Darcus McCrindle era un detenuto esemplare e, sebbene non fosse possibile né saggio rimetterlo in libertà, la sua guardia era stata allentata.

«Gli è stato permesso comunicare con l’esterno, attraverso lettere che passavano prima a noi. Dopo avere appurato che non contenevano niente di pericoloso, ho lasciato che negli ultimi tre anni fossero gli infermieri a leggerle, e nessuno ha mai trovato qualcosa di sospetto. Era in contatto con diversi luminari della medicina, e molto spesso le sue missive non ricevevano risposta. Altri però… continuavano a scrivergli, e presto gli permettemmo di richiedere anche dei libri.»

«Che tipo di libri?» si insospettì Blake.

«Romanzi, soprattutto. Non stupitevi: sono gli unici libri che possediamo. Abbiamo anche manuali di medicina e saggi, in realtà… ma non abbiamo ritenuto opportuno lasciarglieli avere. Potevano ricordargli il passato e scatenare una nuova crisi.»

«Ne ha mai fatto richiesta?»

«Certo, ma senza successo.»

«E con le lettere avete mai avuto problemi?»

«Solo una volta. Darcus… il signor McCrindle sapeva che il giovedì era il giorno delle lettere e lo attendeva pazientemente, a parte in un’occasione. Due anni fa, in ottobre, l’infermiere Erikson si è lasciato sfuggire che una certa lettera era già giunta. Forse lo fece perché il signor McCrindle non smetteva di fare domande in merito, trepidante per quella missiva in particolare, ma il paziente ebbe una reazione inusuale: attaccò Erikson e tentò di sopraffarlo. Lui è… ancora molto forte, ma per fortuna tutti i nostri infermieri ricoprono anche il ruolo di guardie, in quanto i nostri pazienti sono difficoltosi, ed Erikson non ha riportato ferite gravi. McCrindle è stato messo in isolamento e curato finché non ha riacquistato la lucidità necessaria per un reintegro.»

«Se i vostri infermieri sono così esperti, come ha fatto a fuggire?»

«È… una domanda alla quale non so dare una risposta. Ritengo che uno di loro sia stato corrotto. Non so cosa abbia potuto promettere McCrindle, ma ho fatto in modo che Erikson e gli altri due con cui il paziente era entrato in contatto fossero trasferiti in un altro posto. Non posso rischiare che accada di nuovo.»

«Avete eluso la mia domanda. Volevo sapere come abbia fatto, non se abbia avuto un aiuto.»

Abner si fermò e fronteggiò Blake, che pareva avere un’idea in mente, e il direttore doveva avere immaginato che il detective intuisse la verità, almeno in parte.

«È scomparso nel nulla» rivelò infine. «Niente porte forzate, niente infermieri coinvolti… per quanto ne sappiamo… e niente segni nel fango intorno all’ospedale.» Attesero che riprendesse a camminare, ma Abner indicò la porta alla loro destra. «Prego, siamo arrivati.»

Era una pesante porta di metallo che dovettero spingere per riuscire a entrare; non c’erano finestre. Un odore arduo da riconoscere, vagamente metallico, si fece largo nelle narici di Ellen.

«L’illuminazione non funziona bene… aspettate, accendo subito…»

Una luce intermittente apparve sopra di loro, che sussultarono quasi all’unisono: rimasero interdetti osservando i disegni e le scritte che attraversavano le pareti, il pavimento, il soffitto. Non c’era un angolo vuoto, nemmeno la panca di legno su cui Darcus aveva dormito. Ogni linea era di un marrone malsano.

«È…» iniziò Ellen, incapace di finire la frase.

«Sangue, sì.»

«Come avete potuto lasciare che un uomo così disturbato potesse avere dei privilegi?» sbottò finalmente Blake. «Di chi è questo sangue? È suo? Di altri pazienti?»

«Non posso rispondere con certezza alla seconda domanda, sebbene ipotizzi che sì, sia il suo sangue, ma posso spiegarvi perché gli siano stati concessi quei privilegi: tutto ciò che vedete ora… sulle pareti, sul suo letto… dalle scritte ai simboli… non c’era prima della sua fuga.»

Di nuovo lo stupore zittì ogni protesta. Se quello era il sangue di Darcus, e lo aveva perso in una sola volta, come poteva essere ancora vivo?

 

***

 

Per fortuna, Ellen possedeva buona memoria. Aveva segnato tutte le scritte rinvenute nella sudicia cella di Darcus e parte dei simboli, ma aveva intuito che ripetere ciascuno di quei segni, peraltro nello stesso ordine, poteva essere rischioso, così li aveva osservati per imprimerli a fondo nella memoria. Qualcosa le era subito balenato nella mente: la somiglianza tra alcuni segni e il contenuto del libro indecifrabile. Significava che Darcus l’aveva letto o…?

Non sapeva trovare una risposta, ne avrebbe parlato con Michael se, quella notte, fosse passato da lei come al solito. Greenville non disponeva di un albergo di lusso e nemmeno di qualcosa di decente: era di infima categoria, ma per fortuna vuoto. Janet e Lilyan avevano condiviso di nuovo una stanza, gli altri si erano potuti sistemare in tre camere singole. Alla fine, avevano dormito poco durante il viaggio tra Arkham e Greenville, quindi a seguito della visita al manicomio erano stati tutti d’accordo sul cercare subito un posto dove riposare. Quello non era il solo motivo per cui non erano già ripartiti: alla stanchezza si sommava la necessità di Blake di scoprire altro sulla sua famiglia di origine. Il detective li aveva messi in quei casini e ora bisognava uscirne tutti insieme. Dal canto suo, Ellen voleva soltanto indagare.

In attesa dell’arrivo di Michael, si dedicò a ripercorrere con un dito le scritte: “Liberazione”, “Sacrificio”, “Culto”… e poi quella parola che non riusciva a decifrare perché composta non in alfabeto latino, ma in… Greco? Fenicio? Tre lettere e basta.

Le altre parole si ripetevano, quasi fossero un mantra o…

Un incantesimo, pensò.

Le scappò uno sbuffo divertito. Quando aveva cominciato a credere a certe storie? Quando aveva pensato che incantesimi e magia facessero parte della vita reale?

Quando un mostro ha cercato di ammazzarmi nel Campus.

Era una risposta accettabile.

Passò le dita su uno dei pochi simboli che aveva avuto il coraggio – o la sventatezza – di appuntare sul taccuino. C’era un punto al centro, dal quale partivano tre linee, una più corta e le altre ricurve, somiglianti a punti interrogativi. Alcuni simboli erano più complessi, come quello che si trovava sull’ultimo libro recuperato e che le era parso di vedere anche sul pavimento della cella, o forse erano soltanto altre stelle in altri cerchi, e ce ne era perfino uno che avrebbe potuto descrivere solo come onde del mare, ma era quello che aveva segnato a rischiare di farla impazzire.

Non solo lo fissava, si era ritrovata anche a ripeterlo con la punta delle dita sulla polvere del comodino. Per fortuna l’arrivo di Michael la riscosse. Con un gesto della mano cancellò tutto e andò ad aprirgli.

«Finalmente! Dove eri finito?»

«Non credevo bramassi la mia compagnia tanto da non poterne fare a meno per una notte…»

«Non dire stronzate, dobbiamo parlare.»

«Hai ragione. Come stai?»

Ellen si fermò mentre raggiungeva il comodino sul quale stava sfogliando il taccuino e si voltò a fronteggiare Michael, sorpresa. «Come sto?» ripeté.

Michael non rispose subito. Chiuse la porta e si sedette sul letto, estraendo il portasigarette.

«Le tue mani.»

Per un attimo Ellen credette che, in qualche modo, il simbolo si fosse impresso sulla sua pelle mentre lo cancellava e si guardò il palmo. Non notò alcunché di strano, se non…

Oh, merda.

Le dita tremavano.

«Sei tesa da ieri sera.»

«Sono sempre tesa.»

«Ma non così tanto. Dimmi la verità: era la prima volta che ferivi una persona?»

«No… no, beh, non proprio. È una storia lunga.»

Michael annuì. «Ieri come ti ha fatta sentire?»

Lei aveva una risposta, ma non sapeva esprimerla a voce alta; nemmeno credeva che fosse furbo condividerla. Alla fine disse soltanto: «Strana.»

«Hai voglia di sparare ancora.»

«No! No, io non voglio… Cioè, se dovessi difendermi…»

«Esatto.» Michael le sorrise. «Hai sparato. Ti sei difesa. In realtà hai difeso me, ma il succo è lo stesso: hai provato la sensazione di poterti difendere

Ellen sospirò, incerta, però credeva che Michael fosse nel giusto. Sul momento si era sentita colpevole, e nonostante avesse preso un punto non vitale aveva temuto per un attimo di avere ucciso qualcuno, ma quando poi ci aveva riflettuto… aveva provato il desiderio di impugnare di nuovo un’arma. Aveva temuto che ciò significasse qualcosa di negativo, ma la spiegazione di Michael aveva più senso; perlomeno, la faceva sentire meno sadica e pericolosa.

«Tieni.» Michael portò un braccio dietro la schiena, sotto la giacca, e le porse il revolver che la sera prima aveva affidato a Jeremy. «Devi esercitarti, non puoi contare solo sui colpi di fortuna.»

«Tu non contare solo sulla fortuna» lo rimbeccò Ellen. «Ti lanci sempre in mezzo, ti poni tra Janet e un mostro marino… Come mai non hai paura di morire?»

«Perché mi piace vivere, e il brivido è di aiuto.»

«Sei un coglione.»

Per tutta risposta, Michael rise. «Su, ora fammi vedere cosa hai scritto. E, ti prego, dimmi che non hai evocato un demone per sbaglio.»

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Capitolo 12
*** Capitolo XII ***


TW: morte di bambini

 

Capitolo XII

 

Il Greenville Asylum ospitava i detenuti della contea, ma il paese da cui prendeva il nome contava solo qualche centinaio di abitanti; fortunatamente, una centrale di polizia era sempre presente, e fu lì che Blake propose di recarsi il mattino successivo. Nonostante avessero dormito nell’equivalente a pagamento di una topaia, si sentivano riposati dopo trentasei ore di veglia continua, ma il desiderio condiviso era tanto evidente da non avere bisogno di essere espresso ad alta voce: volevano i letti di Chateaubriand Manor, quindi dovevano fare in modo di ultimare al più presto le indagini nel Maine. L’ultimo treno sarebbe partito alle quattro del pomeriggio.

Ad accoglierli in centrale fu un giovane agente, che presto scoprirono essere il solo poliziotto in servizio; allertato della loro presenza, tuttavia, l’ispettore Gerber si precipitò sul posto per parlare di persona con “l’ultimo discendente di quei maledetti McCrindle”. Era un tipo basso e tarchiato, con folti baffi neri e una voglia rossa sul lato destro del volto. Li accolse con un sorriso, mandò via l’agente ed estrasse dalla scrivania una bottiglia di cognac. Lilyan e Janet si guardarono, probabilmente chiedendosi se non fosse una trappola, ma Michael e Blake avevano già afferrato il bicchiere porto dall’ispettore; alla fine le due ragazze fecero altrettanto, a differenza di Ellen, che rifiutò in maniera brusca.

Gerber sollevò il bicchiere ed esclamò: «Ai fottuti McCrindle!» Nel suo tono, però, non c’era ostilità verso quella famiglia che stava riempiendo di epiteti poco affettuosi. «Così tu sei il piccolo Xander, non è vero? Diamine, sei identico a tuo padre.»

«Lo conoscevate bene?»

«Se lo conoscevo? Ah! Sono stato il suo testimone di nozze!» Scoppiò in una risata, poi si versò un altro sorso di cognac, diventando d’improvviso silenzioso. Fissò il liquido con espressione nostalgica. «Eh, il caro Owen… Ero un agente quando avvenne il fattaccio. Più grande di quel succhiatette là fuori, ma sempre con poco sale in zucca. Meglio di tuo zio, però.»

Non serviva chiedere a quale dei fratelli di Owen si stesse riferendo.

«L’ho trovato io, sai? Era nascosto in un canale di scolo, fradicio e sotto shock… Per un po’ pensai perfino che fosse una vittima.»

«Ispettore Gerber…»

«Luke, ragazzo mio.»

«Luke, puoi dirci con esattezza cosa accadde quella notte?»

«Aaah, è una storia lunga…»

«Abbiamo tempo.»

«E soprattutto hai il diritto di ascoltarla. Se fossi venuto da me qualche anno fa, forse ti avrei mandato via, ma sei grande abbastanza per sapere la verità, e cioè che tuo zio è un fottuto mostro e meritava di finire impiccato.» Bevve d’un fiato il secondo bicchiere, si pulì la bocca con l’avambraccio e poi si raddrizzò sulla sedia. «D’accordo, andiamo con ordine. Suppongo che tu non sappia niente della tua famiglia, a parte quel che deve averti detto Silas, giusto? Quel cervellone… Mi mancano i suoi enigmi, era bravo a organizzare le cacce al tesoro, ma Dio mi fulmini se quel bastardo pronunciava più di cinque parole in una frase. Dicevo, probabilmente non sai niente dei McCrindle, quindi sappi che vieni dalla Scozia. I tuoi parenti provengono da Kilmarnock e sono arrivati qua con la Mayflower, nel milleseicento-qualcosa. Cent’anni dopo, si sono stabiliti nel Maine e hanno fatto fortuna vendendo liquore alle ciliegie. E sai perché so tutte queste cose? Perché il vecchio Joe non smetteva di vantarsene ogni singola volta che Owen mi invitava a cena – e, beh, passavo praticamente tutta la settimana a casa loro.» Sospirò malinconico. «Davvero, somigli un sacco a tuo padre, ragazzo mio. Lo conosco da quando eravamo entrambi in fasce, perché Emily, tua nonna, mi ha fatto da madre dopo che la mia è crepata di vaiolo. Il mio vecchio era sempre a lavoro, qui alla centrale, e io mi divertivo a scorrazzare con i tre fratelli McCrindle. Sguazzavano nei dollari, ma non mi facevano mai sentire un poveraccio. Passavamo il tempo a nuotare nel lago, a inventarci avventure assurde e pure a fare gli scherzi alla vedova Hopkins, che era un dito in culo… Scusate.»

Scoppiò a ridere e Blake ne approfittò per chiedere: «Tutti e tre, hai detto?»

Gerber annuì. «Owen, Silas e… Darcus. Si passavano tutti un paio d’anni fra loro, ma avevano una passione in comune: la lettura. Mi facevano impazzire quando decidevano di stare tutto il pomeriggio sui libri, e Owen non faceva che dire che era “il suo destino”, come se servisse chissà quale cervello per star dietro a un libro contabile! Oddio, probabilmente sì, ma le letture di Owen erano diverse. Era fissato con le leggende della zona, mentre Silas inventava indovinelli di continuo, ispirandosi a qualche romanzo letto che io ignoravo bellamente. Darcus invece… lui si chiudeva in camera, per cui non so esattamente quali fossero i suoi gusti. Quando siamo cresciuti, Owen si è diplomato a pieni voti, al contrario di me, e Silas l’ha seguito poco dopo. Darcus ce l’ha fatta per il rotto della cuffia – non perché fosse stupido, al contrario è stata la sua intelligenza a permettergli di finire la scuola. Mio padre, che faceva lo stesso lavoro che faccio io adesso, aveva provato a tirarlo fuori dai guai, ma erano troppi quelli in cui si ficcava. Dava fuoco ai raccolti, squartava i gatti randagi, si metteva pure a rubare, anche se la sua famiglia era impaccata di soldi. Quando se ne andò a Boston, per i suoi fu una vera liberazione.»

«Quello che si dice sui suoi esperimenti…»

«Ah, l’hai saputo?» Gerber tirò fuori una pipa e iniziò a caricarla. Solo quando fu pronto per fumare continuò: «Sì, roba pesante. Non so quanto ci fosse di vero… ma la sua clinica venne chiusa e lui fuggì con la coda fra le gambe. Passò diverso tempo prima che si rifacesse vedere qui in zona… Aveva ventisette anni, credo. Sì, era il 1904: Owen e io avevamo ventinove anni, Darcus ventisette e Silas venticinque. Darcus se n’era andato subito dopo il matrimonio di tuo padre, quando tu eri solo un cosino nella pancia di Alyson. Stewie non era ancora nei piani di…»

Gerber si interruppe e prese fiato. Dietro la nuvola di fumo, a Ellen parve di intravedere i suoi occhi farsi lucidi.

«Ho trovato anche Stewie, sai? Era ancora nella culla. Una… una parte.» Deglutì e versò altro cognac per Blake, che lo bevve in un unico sorso. «Scusa, non penso tu volessi saperlo. Tornando a Darcus, ricordo di averlo incrociato il giorno del suo rientro. Gli ho mostrato la mia nuova divisa appena ritirata, gli ho chiesto di Boston, cose così, però lui non mi sentiva. Era… turbato. Aveva qualcosa in mente e Dio mi fulmini avrei voluto intuirlo. L’ho lasciato tornare dai suoi e il giorno dopo… Beh, ecco qua.»

Aprì un cassetto ed estrasse una seconda bottiglia di cognac e un faldone. Glielo porse, in modo che potessero leggere. Fu Janet, con la voce spezzata, a descrivere il contenuto di un pezzo di giornale: «“Massacro nella proprietà colonica… La città di Greenville, oggi, è stata sconvolta dalla notizia di un orrendo massacro nella proprietà dei McCrindle. La polizia era stata chiamata per rumori molesti, ma è arrivata in tempo solo per scorgere i corpi mut… i corpi dei membri della famiglia. Più tardi, l’agente Luke Gerber ha arrestato Darcus McCrindle per i crudeli omicidi. La polizia non vuole rilasciare commenti…”»

«Più o meno è andata così. Non c’è scritto che fui io a ricevere la chiamata sui rumori molesti e a presentarmi dai McCrindle per dire loro di abbassare i toni, nel caso di un litigio, o di farmi partecipare alla festa. Non c’è scritto nemmeno che la prima persona che ho trovato è stata Emily, che mi aveva cresciuto come una madre.» Anche la sua voce aveva iniziato a tremare. «E soprattutto non c’è scritto che la mia divisa nuova di zecca era lercia quando ho accompagnato Darcus in centrale, perché non appena l’ho visto in quel canale di scolo l’ho abbracciato credendo che fosse sfuggito a un pazzo, e non che il pazzo fosse lui.»

 

***

 

Era stata una mattinata pesante per tutti, e senza dubbio Blake doveva sentirsi un vero schifo. L’ispettore Gerber lo aveva obbligato a farsi offrire il pranzo, requisendolo per almeno un’ora con la scusa di raccontargli aneddoti su suo padre, ma forse era lui a voler rievocare il fantasma di Owen McCrindle attraverso il figlio redivivo. Dopotutto, Blake aveva appena compiuto ventinove anni, la stessa età che aveva avuto Owen quando era morto, e stando alle parole di Gerber i due si somigliavano parecchio.

Approfittando della sua assenza, Michael aveva proposto un pranzo al “ristorante” del paese, una bettola che poteva benissimo ospitare il loro ultimo pasto, ed era immerso in una conversazione con Lilyan quando Janet afferrò la manica di Ellen per farla rallentare.

«Cosa c'è?» le chiese, guardandosi subito intorno. «Hai visto qualcosa?»

«No, Ellie… Volevo parlarti.»

«Delle indagini?»

«No. Di te.»

Ellen alzò gli occhi al cielo. Com’era possibile che, con quel che stava accadendo nelle loro vite, tutti sembravano più interessati a parlarle di lei?

«…e pare tu abbia capito dove voglia andare a parare.»

«No, Janet, non ne ho la minima idea. È solo che… non sei la prima a interessarti a me. Come mai? Fossi in te, sarei in pensiero per Blake…»

«Alexander. Non sappiamo ancora se, dopo questo viaggio nel passato, voglia essere chiamato “detective Blake”.»

«Alexander,  bene. O “Xander”, come dice Gerber. Va bene, dimmi. È per l’università? Non credo sia il caso di dividerci in questo momento. O per il tizio che ho colpito? Non volevo ferirlo, ho sparato a caso e…»

«Parlo di Fauerbach.»

Ellen, che aveva ripreso a camminare, si fermò di colpo. «Di Fauerbach?»

«E di te.»

«Ah.» Si passò una mano tra le ciocche rosse, a disagio. «Non… Che vuoi sapere?»

«Niente, Ellie. Voglio solo che tu stia attenta.»

Sollevò un sopracciglio. «Attenta?»

«Sì. Quella notte, al dormitorio, il dottor Fauerbach…»

«Michael» la rimbeccò a sua volta.

«…Michael è uscito dalla camera della professoressa Baker, ed è chiaro quel che stavano facendo.» Se Ellen provava imbarazzo ad ascoltare quel discorso, a giudicare dal rossore sulle guance di Janet l’archeologa ne stava provando parecchio di più. «Non ho detto niente perché non amo fare pettegolezzi, e poi è successo un guaio dietro l’altro. La scorsa notte, però, quando sono tornati dalla centrale, ho sentito Michael che bussava alla tua porta e… non ho origliato, te lo assicuro, ma quando sono tornata in bagno lui era ancora nella tua stanza. E anche stanotte l’ho visto venire da te e…»

«Non sono affari tuoi» tagliò corto Ellen.

Janet parve ferita nel profondo. «Ellie, mi sto solo preoccupando per te.»

«E non devi.»

«Ma…»

«So di che pasta è fatto Michael Fauerbach, e mi va bene così. E poi» continuò prima che potesse interromperla «quella famosa notte in cui l’hai visto uscire dalla camera della Baker è la stessa in cui ti ha fatto da scudo con il suo corpo. Non mi pare educato dubitare del suo buon cuore, adesso.» Lo aveva detto con una punta di divertimento, perché per quanto la infastidisse che qualcuno si facesse gli affari suoi era grata che Janet non ne stesse facendo una questione di stato davanti al resto del gruppo. Inoltre, ricordandole quell’episodio voleva scongiurare che la sua amica si rivolgesse anche a Michael.

«Ellie.» Janet però la afferrò di nuovo, costringendola a voltarsi. «Non c’ero solo io nel bagno l’altra notte.»

«E va bene, la ragazzina ha scoperto il mondo degli adulti…»

«No, non è questo. Siamo tornate dopo un po’, per capire se Michael ti stesse dicendo qualcosa sull’attacco alla villa. Ho detto che non abbiamo sentito bene… ma qualcosa sì.» Si fece cupa e lanciò un’occhiata a Lilyan, che ora li attendeva insieme a Michael di fronte all’entrata della trattoria. «Lilyan sa che ha ucciso una donna.»

Anche Ellen spostò lo sguardo verso l’ereditiera. Ricordava il suo nervosismo e lo imputava alla mancanza di sonno, e ricordava anche l’astio con cui aveva inveito contro gli assalitori; solo ora notava che lo stesso Michael teneva sotto controllo il comportamento di Lilyan, le mani che andavano spesso ai capelli, i sussulti improvvisi, la pallidezza dell’incarnato.

«Non volevamo che lo sapesse così… Non volevamo che lo sapesse e basta.»

«Lo so, e non è colpa vostra. Però forse dobbiamo smettere di trattarla come una bambina, e io per prima dovrei cambiare atteggiamento e capire che non è più quella che giocava con le bambole a casa del padre.»

Janet si costrinse a sorridere e corse avanti, verso Lilyan, verso una ventenne che troppo bruscamente aveva dovuto dire addio alla propria giovinezza.

 

***

 

Janet aveva ragione: dopo quel breve viaggio nel Maine, Alexander sarebbe potuto diventare a tutti gli effetti un McCrindle, e non per repulsione nei confronti della famiglia adottiva. Prima aveva saputo poco delle sue origini, un poco che era stato suddiviso in diverse occasioni, dalla notizia della morte di Silas alla lettera che il notaio aveva dimenticato di dargli insieme al testamento; nel giro di appena un giorno, invece, aveva accumulato tante di quelle informazioni da non potere recidere i conti con il passato come se niente fosse stato. Era tornato presto dal pranzo con l’ispettore Gerber, comunicando loro che avrebbero dovuto fare un’ultima tappa prima di recarsi alla stazione. Janet gli chiese, con tutto il tatto di cui era disponibile, se intendesse passare al cimitero, ma Alexander gli rispose che c’era appena stato.

«La villa dei miei genitori» rivelò. «È lì che voglio andare. Credo possa esserci un indizio su dove possa nascondersi Darcus in questo momento.»

«Hai pensato alla possibilità che…?»

«Sì, ma ho bisogno di conferme.»

La tenuta coloniale si trovava alla periferia della città, immersa in un ciliegeto spoglio, tuttavia ben tenuto. Gerber aveva detto ad Alexander che l’azienda di famiglia era passata a un sottoposto dei McCrindle, un’ottima notizia per i dipendenti che, alla morte del vecchio capo, non avrebbero perso il lavoro; l’uomo, che al tempo di Joe e Owen era stato vicedirettore, aveva preteso che la villa rimanesse intatta, al centro di quel ciliegeto che i McCrindle avevano piantato tre secoli prima, ma al contempo che nessuno vi bivaccasse intorno.

La casa era stata rispettata come a Greenville lo erano stati i suoi ultimi proprietari. Era tenuta sotto costanti manutenzione e pulizia, eppure al suo interno l’arredamento era rimasto lo stesso di ventiquattro anni prima, a eccezione dei segni del massacro avvenuto nell’estate del 1904. C’erano centrotavola d’argento e quadri alle pareti, librerie colme di volumi antichi e letti appena rifatti: la tenuta appariva vissuta e allo stesso tempo venerata con un luogo sacro, ed Ellen si chiese se i McCrindle avessero fatto del bene soltanto a un piccolo orfano di madre che invitavano sempre a cena.

Su ogni superficie c’erano cornici con foto di famiglia, ritratti e riconoscimenti del loro duro lavoro. Una fotografia spiccava su tutte, posta nella parete di fronte alla porta di ingresso: sei persone erano in posa davanti all’obiettivo, composte ed eleganti; sotto, una targa in oro presentava i soggetti.

Lilyan lesse a bassa voce: «Joseph, Emily, Silas, Owen, Alexander, Alyson e Stewart McCrindle, estate 1903.»

Sette persone: tra le braccia della donna più giovane c’era un fagottino che doveva essere nato da poco, la testa ancora calva appena visibile. Ellen analizzò la fotografia, incontrando finalmente il famoso Silas che li aveva cacciati in quella storia, gli occhiali tondi e i capelli ordinati con una riga centrale; i suoi genitori dovevano avere sui cinquanta o sessanta anni, mentre la cognata Alyson ne dimostrava poco più di venti. Se Ellen e il resto del gruppo non fossero stati avvertiti da Gerber, avrebbero appurato con i propri occhi la somiglianza tra Alexander e Owen McCrindle: erano alti, con spalle larghe e un cipiglio determinato, ed entrambi tenevano barba e capelli ricci tagliati corti – gli stessi capelli ricci del piccolo bambino in prima fila.

Estate 1903, un anno esatto prima del massacro.

«Salgo sopra, controllate il resto del piano.»

Annuirono all’ordine di Alexander. Immaginavano dove fosse diretto: nell’unica stanza in cui avrebbe potuto trovare delle risposte.

Beh, non l’unica.

Ellen cercò lo studio, certa che dei ricconi come i McCrindle non avrebbero mai tenuto i propri documenti in camera da letto. Lo trovò sul lato est della casa: la porta era inchiavata, ma la chiave era inserita nella toppa. Ciò la scoraggiò, facendole intuire che non avrebbe trovato niente relativo al vero lavoro della famiglia, e così fu. Dopo dieci minuti di infruttuosa ricerca, decise di ignorare l’implicita richiesta di Alexander di essere lasciato solo e si diresse verso le scale, davanti alle quali trovò Michael, un sorriso sornione sulle labbra.

«Ti sei decisa, ragazzina.»

Lo fulminò con lo sguardo e salì, precedendolo al piano superiore. Un lungo corridoio collegava tutte le camere, le cui porte si affacciavano sia sul lato sinistro che su quello destro. Trovarono Alexander nella terza stanza sulla sinistra, il luogo in cui un tempo era vissuto Darcus McCrindle. Fu subito chiaro come il detective fosse riuscito a riconoscerla, e non ci fossero volute le doti legate al suo lavoro: era l’unica stanza dell’intera casa a essere stata lasciata come un tempo. Era polverosa e disordinata, e dal letto sfatto proveniva un odore poco gradevole. Alexander aveva scelto di sedersi sul pavimento per analizzare quel poco che aveva trovato. Ellen e Michael lo imitarono.

«Lettere» spiegò Alexander porgendone un paio.

Ellen aprì la busta sgualcita e lesse attentamente, cercando di intuire il senso della manciata di parole che non erano state cancellate dal tempo e dalla cattiva conservazione.

«“Stimato amico… è con piacere che… accogliamo nel nostro modesto…” Non si legge più niente fino a “Saremmo felici di dialogare con lei… se vorrà raccontarci di…” E basta.»

Michael sospirò riponendo da un lato il foglio che stava analizzando lui. «Qui è lo stesso. Però… Aspetta, Alexander, lo hai notato?»

Il detective sollevò lo sguardo sul punto della busta che Michael gli stava indicando. «Sì» rispose mestamente, forse deluso che non si trattasse di qualcosa che aveva ignorato per errore. «Quel simbolo è su ogni lettera, nella stessa filigrana. Non ne conosco il significato.»

Ellen guardò meglio: si trattava di una croce greca con tre frecce al centro; partivano tutte dallo stesso punto in basso. Prese in mano un’altra busta, trovò il simbolo e stirò la lettera all’interno, osservando controluce la filigrana. Alexander aveva ragione. Stava per metterla via quando si accorse che era tenuta in condizioni migliori delle precedenti.

«Chi è Carl Standford?»

Alexander si avvicinò. «Dove lo hai letto?»

«Sopra la firma c’è scritto il suo nome. È come se… volesse autenticare il documento. Le altre firme mancano del tutto, non sono sbiadite come il resto del testo, mentre qui ci sono addirittura il nome scritto in chiaro e la firma. È strano.»

Lui prese il foglio e cercò di leggere, ma questa volta non fu difficile.

«“Stimato amico, ci fa un immenso piacere sapere che ti fidi di noi per parlarci del tesoro custodito dalla tua famiglia. Sarebbe un onore poter tenere in mano quei preziosi…”» Sollevò lo sguardo. «Darcus ha detto a Standford dei libri.»

«Va’ avanti» lo spronò Michael.

«“L’Ordine del Crepuscolo d’Argento potrebbe giungere all’estrema conoscenza se…”»

«Se ne entrasse in possesso» concluse Ellen per lui. «Quindi è vero: Darcus aveva dei complici. E forse uno di loro ci ha seguiti a Boston…»

«No, ti sbagli. Non era un complice.» Alexander afferrò la cornice appoggiata sul comodino, il vetro rotto e la foto segnata da crepe, ma il profilo del soggetto ancora riconoscibile. «Era Darcus.»

Il silenzio calò nella stanza, un silenzio carico di domande, risposte e troppe informazioni da digerire tutte insieme.

«Portiamo via tutto» propose infine Michael, alzandosi da terra. «Ellen, mettile in borsa.»

Lei annuì e fece per prendere le buste che Michael le stava porgendo, poi si interruppe. Aveva visto qualcosa dietro una di esse, un appunto che pareva essere fatto da una penna diversa rispetto all’indirizzo inciso sul dorso. Erano tre segni. La mise via in fretta, separandola dalle altre, e si preparò a raggiungere il resto del gruppo fuori dalla casa.

 

***

 

«Secondo te si tratta delle stesse persone che hanno scritto a Darcus in prigione?»

«Senza dubbio. Il loro piano è andato male, ma lui rimaneva l’unico collegamento con i libri.»

«Non torna. Perché farlo rimanere in prigione per ventiquattro anni?»

«Forse prima non potevano liberarlo.»

«Ma avrebbero potuto cercare da soli i libri…»

«O forse quei libri non sono così importanti per l’Ordine a differenza di quel che credeva Darcus. Si sarà sentito onorato di farne parte e altre stronzate simili e…»

«E ha trucidato la sua famiglia per questo?»

«Ascoltami bene: se vuoi delle risposte, devi darmi il tempo di leggere questa roba.»

«Perché…? Oh, non ha senso chiederti perché queste buste non siano in camera del detective.»

«Non le ho rubate, stavolta. Ha dimenticato che le avevo messe nella borsa. Domattina gliele restituirò.»

«E il libro?»

Ellen inspirò a fondo, spostando l’attenzione sul volume che giaceva al centro della scrivania.

«Senti, Michael, Alexander è un Guardiano del cazzo. È già la seconda volta che glielo porto via… al rientro da Greenville si è limitato a controllare che i libri ci fossero ancora ed è andato a dormire!»

«Quindi non li tiene in stanza?»

«Non ho alcuna intenzione di rivelare il suo presunto nascondiglio.»

Michael rise e le passò una mano sulla testa, arruffandole i capelli. «Mi fa male sapere che dubiti del mio buon cuore, ragazzina. Però ho una domanda più impellente da porti.» Si avvicinò alle sue orecchie. «Perché stiamo sussurrando?»

«Ieri ci hanno sentiti.»

L’uomo parve sorpreso. «Ah, sì? Pensavo lo avrebbero fatto prima, con le due camere comunicanti…» Fece un sospiro melodrammatico. «Non so come abbia reagito la tua cara Janet, ma spero di non avere scandalizzato la nostra padrona di casa…»

«E invece lo hai fatto» soffiò Ellen. «Ti ha sentito parlare del suo omicidio.»

Come lei quel pomeriggio, anche Michael parve costernato dalla scoperta. «Mi dispiace, non credevo ci stessero ascoltando.»

«Lascia stare, ormai il danno è fatto. Proviamo però a… a tenere i toni più bassi.»

«Soprattutto perché hai di nuovo rapinato il nostro detective…»

Ellen lo ignorò facendogli invece cenno di raggiungere la scrivania. «Guarda.» Aveva aperto il libro intraducibile, ponendoci sopra gli appunti presi nella cella del Greenville Asylum e la busta con i simboli. «L’alfabeto con cui Darcus ha scritto in manicomio è lo stesso presente in queste pagine.»

«Sì, era sembrato anche a me. Ma questo è diverso.» Michael indicò la busta.

«Questo possiamo tradurlo. E potrei averlo già fatto.» Ellen afferrò un vocabolario che aveva messo da parte e lo aprì dove aveva lasciato un segno. «Ricordi quando tentavo di capire che in che lingua fosse scritto il primo testo? Mi ero munita di tutti i vocabolari che avevo trovato qui nella villa e… e a quanto pare ho trovato una corrispondenza, ma con l’altra scritta.» Fece scorrere le dita lungo la pagina. «Questo sta per “dā”… e questo per…»

«Dāgān» lesse Michael, tenendo la busta davanti agli occhi.

«È il fenicio per Dagon. Ho letto di lui, è una divinità semitica, ma non ricordo altro. Dovremmo cercare…» Ellen sospirò. «Dovremmo cercare alla Miskatonic Library, basta rimandare ancora.»

Michael le sollevò il mento e sorrise. «Brava la mia cervellona» le diede un bacio. «Adesso, se non ti spiace, vorrei dormire. Sono parecchio stanco.»

«Va bene, a domani.»

Lui esitò. «E se restassi?»

Ellen fu presa in contropiede. Gli aveva già dato le spalle e si voltò di nuovo verso di lui. «Cosa?»

«Se restassi? Mi sono stufato di dormire negli alloggi della servitù. Giù è umido, non lo sai? Inoltre… la nostra padrona di casa sa di noi, quindi che senso ha fingere ancora?»

«Che cosa staremmo fingendo?»

«Di non essere intimi.»

«Noi non siamo intimi.»

«Mi spiace dissentire, ma in certo modo lo siamo. Ellen» proseguì tornando serio. «Voglio solo stare più comodo. E… e magari divertirmi più di una volta a notte, che ne pensi?»

«Fa’ come cazzo ti pare» sbottò lei, infilandosi sotto le coperte.

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII ***


Capitolo XIII

Alla fine, furono costretti ad arrangiare almeno un pasto in cucina. Il tavolo era capace di ospitarli tutti, ma le sedie erano meno e dovettero arrangiarsi prelevandone un paio dalla sala da pranzo ancora inagibile. Jeremy, il fedele maggiordomo dell’Arcivescovo Giraud e ora della signorina Butler, durante la loro assenza aveva infatti contattato una ditta per sistemare il disastro avvenuto la sera del trentuno ottobre; la situazione era migliorata rispetto a due mattine prima, quando avevano deciso di partire per il Maine, tuttavia in quel momento gli operai stavano finendo di montare le ultime finestre, e il gruppo aveva tacitamente concluso che fosse rischioso fare colazione in mezzo a dei perfetti sconosciuti: nel giro di quindici minuti, Janet aveva già rischiato per ben due volte di enunciare frasi poco comprensibili a orecchie diverse dalle loro, e che comunque avrebbero potuto farli finire nei pasticci.

La cucina presentava un’unica finestra che tennero ben chiusa, preoccupandosi inoltre di serrare le due porte in modo che nessuno potesse udirli. Jeremy si muoveva tra loro come una presenza eterea, preparando altro tè e un’intera caraffa di cioccolata calda per Ellen, e nessuno pareva intenzionato a chiedergli di lasciarli soli; dopotutto, era nei guai fino al collo proprio come loro.

«Ellen, non volevi andare in biblioteca oggi?»

Era alla seconda tazza di cioccolata quando Michael aveva parlato. Era seduto accanto a lei e teneva fra le mani l’Arkham Gazette.

«In biblioteca? La biblioteca?» cominciò ad allarmarsi Janet, che si sentiva sul filo del rasoio da quando si era alzata dal letto, quella mattina. Sembrava pronta a scoppiare da un momento all’altro. «Non credo sia prudente tornare al Campus al momento, ma in effetti servono informazioni, e non possiamo rimanere chiusi in casa a…»

«No, non è prudente andarci» ripeté Michael, poggiando sul tavolo la pagina che stava leggendo.

Ellen diede una rapida occhiata, poi alzò il giornale e annuncio: «Hanno scassinato la Miskatonic Library!»

Fino a quel momento il loro tono di voce si era tenuto basso, ma una tale notizia non poteva che sconvolgerli, senza però destare sospetti negli operai a lavoro dall’altra parte del muro. Solo Jeremy rimase impassibile: Lilyan e Alexander, al contrario, scattarono in piedi nello stesso momento, e Janet parve essere sul punto di avere un mancamento.

«Potrebbe non essere niente di che» precisò subito Ellen, ricomponendosi. «Qui dice che questa notte qualcuno si è introdotto nel Campus per… ah, ecco.»

«Cosa?» domandò inquieta Janet.

«“Per vandalizzare l’antica e rinomata struttura della Miskatonic Library, come qualche giorno fa era avvenuto per il Charles Tyner Science Lab”» lesse Ellen, poi sospirò. «Vandali.»

«Solo che l’altra volta non erano stati i vandali, giusto?» chiese Lilyan.

«Esatto, ma è stata la storia che Miller ha deciso di fornire alla stampa.»

«Quindi potrebbe essere colpa di…?»

«A questo punto non possiamo saperlo. Forse sono stati davvero dei vandali o forse…»

«…è il cane di Armitage» concluse Michael, guardando Ellen per un istante, prima di scuotere la testa. «Scusateci, storia lunga.»

Ellen credeva di trovare la stessa confusione di Lilyan anche sul volto di Alexander, e stava per narrare tutta la vicenda di cui avevano discusso con la professoressa Baker durante il loro primo pomeriggio nella villa dell’Arcivescovo, quando si accorse che il detective era sotto shock. Le nocche delle dita che stringevano il tavolo erano diventate bianche.

«Alexander?»

L’uomo parve udire solo la voce di Janet, che come Ellen si era resa conto che qualcosa non andava in lui. Seguirono entrambe il suo sguardo, fisso sulla pagina di giornale che la studentessa reggeva tra le mani.

«Darcus… quello è Darcus.»

Ellen capì subito. Voltò la pagina e la appiattì sul tavolo, tanto velocemente da rischiare di rovesciare la teiera bollente. Adesso tutti loro potevano osservare la foto rettangolare a cui si riferiva l’articolo sottostante, il cui titolo recitava: “O’Bannion acquista le proprietà del defunto Potrello”.

Si concentrarono sulla fotografia, osservando per primo l’uomo massiccio dai folti capelli ricci e il sigaro in bocca, che Ellen sapeva bene essere Danny O’Bannion; accanto a lui c’erano un paio dei suoi tirapiedi, entrambi alti e dinoccolati. Sebbene non potesse vederle, Ellen era certa che sotto le loro giacche si nascondessero altrettante pistole.

Dopo un minuto di silenzio, fu Janet a parlare: «Alexander… di chi parli?»

Forse, come Ellen, anche lei e il resto dei presenti avevano letto l’articolo per cercare di comprendere se il detective si riferisse al suo contenuto, a una frase poco chiara, magari riferita a un certo manicomio nel Maine, ma nulla. L’Arkham Gazette si limitava a leccare il culo a O’Bannion, boss della criminalità organizzata irlandese che il reporter descriveva come un “importante e astuto uomo d’affari”. A quanto sembrava, O’Bannion aveva ampliato i suoi possedimenti grazie alla inaspettata e per nulla sospetta morte di Giuseppe “Joe” Potrello e di suo figlio Frank; l’omicidio, che alla Gazette piaceva chiamare “tremendo incidente nautico”, era avvenuto appena due giorni prima, all’inizio di novembre, e O’Bannion non aveva atteso i funerali per impossessarsi dei più remunerativi possedimenti del rivale.

Si stava ancora chiedendo cosa intendesse Alexander, quando lui parlò di nuovo, l’indice puntato sulla foto. «Lui è Darcus!»

Stava indicando l’uomo più vicino al boss irlandese, che Ellen sapeva chiamarsi Sills; era il suo braccio destro, tutti in città ne conoscevano il nome e il volto, e soprattutto sapevano che solcava le scene di Arkham già da parecchio tempo.

«No, lui è Bobby Sills» precisò allora. Cercò di non trasmetterlo nella propria voce, ma temeva che il detective fosse sul punto di impazzire. I giorni precedenti, in effetti, non erano stati facili per lui.

Alexander però scosse la testa e continuò a premere il dito sul foglio. «Vi dico che questo è Darcus. Lo… lo so, e non so spiegarmi perché. Ha dei lineamenti che me lo ricordano, e poi il suo sguardo…»

Ellen non sapeva cosa ci fosse nello sguardo di Sills, ma era certa di ciò che leggeva in quello dei suoi compagni di sventura.

Alexander sospirò, ricadendo a sedere. «Forse mi sbaglio, forse sono solo… stanco, o ancora addormentato. Scusatemi.»

 

***

 

Biblioteca o meno, Ellen voleva uscire di casa. Prese il cappotto, aprì la porta e si addentrò nell’umido autunno di Arkham senza dire una parola. Non avrebbe saputo a chi rivolgersi, in verità: Janet e Lilyan si erano chiuse in camera, forse per discutere sulla probabile pazzia di Alexander, che dal canto suo era in salotto a fumare e a schiarirsi i pensieri; di Michael non c’era traccia, poiché l’aveva informata che intendeva uscire dopo la colazione, come se a lei fosse fregato qualcosa. Per scrupolo, aveva comunque controllato il nascondiglio del detective, appurando che i tre libri fossero ancora al loro posto, e ci aveva messo anche le lettere recuperate dalla casa dei McCrindle. Se a quel punto Alexander non capiva che tutti erano in grado di accedere al suo “posto segreto”, Ellen non sapeva che altro fare.

Faceva freddo, avrebbe preferito rimanere in casa, ma era conscia che non avrebbe concluso granché, per cui aveva scelto di seguire una pista. Dopotutto, erano anni che si teneva lontana da una certa zona del Merchant District.

Mentre svoltava l’ennesimo angolo lungo la ragnatela di strade secondarie che l’avrebbero condotta alla sua meta, si accorse di essere seguita. Mantenne la calma, ripetendosi per prima cosa che non aveva i libri con sé, dunque Darcus non avrebbe dovuto romperle le palle. Finse di essere sovrappensiero e si infilò in un vicolo dopo essersi accuratamente guardata a destra e a sinistra, e si nascose in una seconda stradina in attesa del suo pedinatore. Per fortuna, aveva deciso di portarsi la pistola dietro.

Attese solo qualche attimo, poi la puntò contro la figura appena apparsa.

«Perché cazzo mi stai seguendo?»

Michael rise e recuperò il portasigarette dal taschino, senza curarsi della canna premuta contro il suo fianco. «Ero curioso. Dove stai andando?»

«Non eri uscito?» chiese invece lei, riponendo l’arma al suo posto.

«Ti ho vista mentre stavo rientrando. Credevo volessi andare comunque al Campus, e invece eccoti qua.»

«Già, eccomi qua.»

Era scocciata: Michael dava l’impressione di non volerla mai lasciare agire da sola. La anticipava, sia nelle parole che nelle azioni, le stava sempre accanto nei momenti decisivi, come quando avevano raggiunto entrambi Alexander in camera di Darcus e scovato le sue lettere, e ora aveva perfino iniziato a pretendere di dormire con lei! Non lo trovava sospetto: lo trovava fastidioso.

«Vattene, ho da fare.»

«Ti accompagno.»

«No, grazie» replicò sottolineando la seconda parola con una punta di sarcasmo.

«Non ho niente da fare.»

«Dov’eri stamattina?»

«Da Mary.»

Ellen finalmente lo guardò. «La Baker? Non era…?»

«Sì, ma volevo averne la certezza. Sono passato a casa sua ed è chiusa, c’è anche un messaggio sulla porta per il lattaio e per il postino. Da una parte mi dispiace che sia stata allontanata così di fretta.» Michael fece una pausa per soffiare il fumo. «Dall’altra credo sia stato un bene.»

Ellen si strinse nelle spalle. «Non lo so. Questa storia mi fa incazzare comunque la guardi.»

«Credevo avessi una scarsa opinione di Mary.»

«Ti sbagli. È una persona detestabile, ma la stimo.»

«Come me?»

«Chi dice che io ti stimi?»

Michael sorrise e spense la sigaretta a terra. «Ora che mi sono accertato che hai qualcosa con cui difenderti, posso tornare a casa. Fa’ attenzione, ragazzina.»

Era stato facile liberarsi di lui, rifletté Ellen. Fin troppo: forse avrebbe dovuto attendere qualche minuto prima di riprendere il cammino, accertandosi che Michael se ne fosse davvero…

«Mani in alto!»

Oh, che palle, pensò con un sospiro.

Il rapinatore non ce l’aveva con lei, ma con quel damerino che sfoggiava un completo firmato vicino ai Docks. Nessuno andava in giro così da quelle parti, a meno di non far parte della criminalità organizzata, e il ladruncolo che puntava una lama alla schiena di Michael conosceva ogni singolo mafioso della zona, che fosse irlandese o italiano.

«Ehi!» esclamò per attirare l’attenzione del furfante. Lui sobbalzò e girò la testa verso di lei, ma senza staccare il coltello dalla sua preda. «Ha una pistola sotto la giacca, ti conviene togliergliela.»

Adesso anche Michael aveva voltato il capo in modo da guardarla. Era sorpreso, confuso, ed Ellen godette interiormente di essere riuscita a lasciarlo senza parole, una buona volta.

Storse le labbra in quello che riuscì a rendere più simile a un ghigno. «Ciao, Logan, è un piacere vederti.»

 

***

 

«Devo procedere così ancora per molto?»

«Sta’ zitto!»

Ellen sorrise intimamente all’ordine di Logan, il dodicenne tutt’ossa che stava spingendo Michael con la punta del coltello. L’austriaco avanzava con un’espressione sorniona sul volto, come se si divertisse un mondo, ma ogni volta che avvertiva la lama contro la schiena sussultava. Un gesto quasi impercettibile, e che tuttavia Ellen riconosceva con crescente soddisfazione.

Finalmente qualcuno riesce a metterti al tuo posto.

«Ci siamo quasi» avvertì il ragazzino, facendo un cenno verso destra.

Ellen annuì ed entrò nell’edificio diroccato, e fu costretta a fare un piccolo salto per raggiungere i pochi gradini rimasti che portavano al piano superiore. «Levagli la benda, non ho voglia di tirarlo su.»

Logan obbedì, ma non prima di avere ricordato a Michael: «Ho un coltello e la mia amica ha la tua pistola, non fare scherzi.»

«A essere precisi, la tua amica ha due pistole» sentenziò Michael sbattendo le palpebre. «Dove siamo?»

«A casa» si limitò a rispondere Logan. Aspettò che il suo ostaggio seguisse Ellen al secondo piano, poi si arrampicò per fare altrettanto; passò davanti a entrambi e scostò una logora tenda grigia, che un tempo doveva essere stata di un verde brillante.

Lo stomaco di Ellen si contorse. Il covo era cambiato, si era spostato in un’altra zona dei Docks, però era molto simile a quello che aveva lasciato anni prima: sporco, umido e maleodorante, con mobili marci da cui ricavare una pessima legna per l’inverno in arrivo. Si impose di non storcere il naso per evitare di offendere Logan.

«Dove sono gli altri?» chiese quasi con timore, sperando che il ragazzino non fosse rimasto a vivere da solo.

«Stanno lavorando. Quello che dovrebbe fare Logan.»

Una figura emerse dalla penombra ed Ellen si maledisse per essere stata colta alla sprovvista: non era il messaggio che voleva dare di sé.

«Io stavo lavorando, ma poi ho incontrato Ellen e…»

«…e hai pensato che fosse il caso di portartela dietro. Niente di male, Logan, ma quello chi cazzo è?» Le ultime frasi erano state scambiate in italiano, una lingua che Ellen conosceva bene, essendo cresciuta con colui che ora stava allargando le braccia nella sua direzione. «Bentornata.»

Ellen fece un cenno di saluto con il capo, rifiutando l’abbraccio, ma Marco non si offese: la conosceva bene, sapeva che mai si sarebbe sciolta in gesti d’affetto. Si limitò a far ricadere gli arti lungo il corpo e a girare intorno a Michael, che a sua volta lo soppesava con sospetto. Da un lato, Ellen comprendeva la preoccupazione di Marco, poco incline a ospitare sconosciuti nel suo covo; dall’altra non poteva biasimare la curiosità del medico austriaco verso quel ragazzetto allampanato dai capelli biondo cenere e lo sguardo vispo che aveva solo un paio di anni più di lei.

«Parla» ordinò Marco voltandosi verso Ellen. Non era un vero e proprio ordine: racchiudeva una serie di non detti, fra cui “Perché sei tornata qui?” e “Chi è il damerino che ti accompagna?”.

«In inglese» propose lei lasciandosi cadere su una vecchia poltrona con le molle a vista. «Non ho voglia di riassumergli tutta la conversazione, dopo.»

Marco annuì, mentre Logan prendeva posto insieme a lui sul tappeto muffo; Michael, dal canto suo, preferì restare in piedi, forse temendo di sciupare il suo bel completo su misura. Ellen guardò i presenti, soffermandosi sulle chiare differenze, e provò una seconda stretta allo stomaco di fronte alla miseria di coloro che, per anni, erano stati la sua famiglia. Soltanto allora si ricordò di avere qualcosa nella borsa; la aprì ed estrasse quel poco che era riuscita a prelevare dalla cucina di Chateaubriand Manor dopo la colazione, qualche fetta di pane morbido.

«Non abbiamo bisogno della tua carità» esclamò Marco, mentre la sua pancia mandava un gorgoglio contrastante.

Ellen gli mostrò un sogghigno. «Il pane era per nascondere questi.» Bene al sicuro all’interno della borsa, contro la mollica che aveva impedito di farli cozzare l’uno contro l’altro, c’erano alcuni pezzi di argenteria che all’Arcivescovo Giraud non sarebbero più serviti. Con la coda dell’occhio, Ellen notò Michael sollevare un sopracciglio, senza tuttavia dire niente. «Vendeteli e prendete ciò che riuscite a ricavarci.»

«Credevo stessi tenendo un basso profilo» mormorò Marco rigirandosi tra le mani callose una forchetta lucidata alla perfezione. «Se ti beccano…»

«Non mi beccheranno. Ci abito.» Quasi rise davanti all’espressione sconcertata di Logan, così riprese: «Stanno succedendo delle cose strane ad Arkham, e potrei esserci finita in mezzo.»

«Certo, se vivi in un posto con roba simile ci credo che stanno succedendo cose strane…»

«Mi sono immischiata in faccende che non mi riguardavano, mettiamola in questo modo. E lui» Ellen indicò Michael «mi sta dando una mano. Potete fidarvi.»

«Possiamo davvero?»

«Mi ha dato una pistola. O è stupido, o è affidabile.»

«E stupido» precisò Logan in italiano.

Ellen cercò le parole per raccontare soltanto ciò che serviva: voleva che Marco si fidasse, ma al contempo preferiva tenere lui e gli altri fuori dalla schifosa situazione in cui si era cacciata. Decise di andare subito al sodo. «Come vanno le cose con O’Bannion?»

«Ah, hai saputo che Potrello è schiattato.» Marco parve rilassarsi, come se si sentisse maggiormente a proprio agio in un terreno conosciuto. «Incidente in mare, dicono… e potrebbe anche essere vero.»

Fu a quel punto che Michael scelse di intervenire. «“Potrebbe anche essere vero”?» chiese meravigliato. «Credevo che fossero rivali.»

«Potrello non valeva un cazzo» spiegò Ellen. «Nemmeno i Rocks lo seguivano, figurarsi se poteva rappresentare un problema per O’Bannion.» Di fronte alla sua espressione interrogativa, continuò: «I Rocks sono i giovani criminali italiani del Southside, si contendono le zone d’azione con i ’Finns, ma a differenza loro non seguono un boss.»

«Potrello era un pesce piccolo. Figurati che quell’idiota non riusciva neanche a tenere O’Bannion lontano dal Southside!» rincarò Marco, rivolgendosi a Michael senza tanti fronzoli, poi tornò a guardare Ellen. «Alla morte di Potrello e del figlio, O’Bannion si è lanciato sul The Club, in modo da iniziare a controllare attivamente anche il sud della città, ma… È stato un incidente, ti dico. Leary avrebbe potuto ammazzarlo davanti al The Club, con un’esecuzione in piena regola. Dammi retta: O’Bannion non ha mandato avanti i suoi scagnozzi perché gli faceva comodo avere contro uno scarto come Potrello, e si è lanciato sul suo territorio proprio per evitare che i Rocks scegliessero qualcuno fra loro.»

«Il primo che rimane in piedi» sbuffò Logan, incrociando le braccia al petto. Ellen si accorse che stava cercando di apparire più adulto di quanto non fosse, e che per farlo aveva deciso di imitare ogni gesto di Marco.

Estrasse dalla borsa anche un frammento di giornale, la pagina con la foto di O’Bannion in compagnia dei suoi tirapiedi.

«Leary è questo, no?» chiese, indicando l’uomo sulla sinistra.

«Sì, proprio lui. Cazzo, dimenticavo che sono anni che sei fuori dal giro, ma qui tutti conoscono Leary.»

«L’altro invece è Bobby Sills.»

Era un’affermazione, ma sapeva di avere tentennato, come se stesse chiedendo una conferma e ne temesse la risposta.

«È Sills» annuì Marco. Ellen non fece in tempo a sospirare, maledicendo l’infondata teoria di Alexander, perché il ragazzo continuò: «Lui è un problema.»

«Che intendi?» chiese Michael con la fronte aggrottata.

«Bobby Sills è il braccio destro di O’Bannion. Visto che il boss fa affari per tutta l’area intorno a Boston, è spesso lontano di Arkham, quindi è Sills a occuparsi davvero della banda. Lo ha sempre fatto con prudenza esagerata: per ogni colpo, aspettava il via libera del capo, e spesso hanno perso l’occasione. Da un po’ però le cose sono cambiate. Qualsiasi cosa pensi Sills… la mette in atto nel giro di un’ora. Nessuno riesce a stargli appresso: decide e agisce. Strano per lui.»

«Forse ha paura che O’Bannion lo faccia fuori?»

«No, non è così. In tal caso, potrebbe fare errori. Un casino di errori, direi. E invece ne azzecca una dopo l’altra.»

«Da quanto tempo?»

«Questo è il vero problema. Da… una settimana. Anche meno.»

Ellen scambiò un’occhiata allarmata con Michael. «Racconta.»

«Ne so ancora poco, però non c’è solo Potrello. Hanno acquistato delle azioni che li hanno arricchiti ancora di più, questo è quel che si dice in giro. Nanny li ha visti aggirarsi qui intorno, comprare… barche, dice. In contanti. Non può venire tutto dai guadagni del Lucky, no? Quanto cazzo ci guadagnano a vendere alcol?»

«E Sills era presente» ipotizzò Ellen, cauta.

«Sills è sempre presente. Prima non lo si vedeva mai girare a piedi, sempre su quell’auto da riccone, e adesso dovunque vai te lo trovi davanti, imbottito di uomini e armi. Logan e Nanny hanno paura a lavorare con lui nei paraggi, così ci stiamo spostando.»

«Non potete andare nel Southside!»

Marco scoppiò a ridere. «Non così tanto. Cambiamo aria, ci dedichiamo alle zone meno frequentate dagli irlandesi, cose del genere.» Tornò di colpo serio. «Ne ho tanti da sfamare, Scricciolo, ma non posso rischiare le nostre vite.»

Ellen lo sapeva bene: Marco aveva sempre agito per interesse dei più piccoli, fin da quando lei aveva poco più dell’età di Logan e l’aveva presa sotto le sue ali, però adesso il favore che voleva chiedergli rischiava di essere troppo, e sapeva che quella manciata di posate d’argento non sarebbe bastata.

Ci provò, pronta a ricevere un secco rifiuto. «Marco…»

A interromperla fu il rumore metallico di un sacchetto lanciato a terra, tra le gambe dei due italo-americani. Logan corse ad aprirlo e rivolse all’uomo che aveva tentato di rapinare uno sguardo carico di domande.

«È un anticipo» spiegò Michael con noncuranza. «Per scoprire qualcosa di interessante su Sills. Ci trovate a French Hill, nella villa del defunto Arcivescovo Giraud Des Chateaubriand: tornate con delle informazioni utili e vi daremo altro denaro.»

Ellen fremette. Era evidente che Michael non si fosse reso conto di essersi appena comportato come un fumante e molle pezzo di merda. Si fece avanti prima che Marco potesse scattare in piedi per affrontarlo.

«Ti prego, Marco, non te lo chiederei se non fosse davvero importante. Per favore, accettali.»

Marco avrebbe volentieri preso a schiaffi quel damerino da quattro soldi, tuttavia i suoi occhi caddero su Logan, che osservava a bocca spalancata il contenuto del sacchetto, ora riverso sulle sue mani. Non c’erano solo monete, ma anche biglietti da venti.

«Va bene» decise infine, serrando i pugni. «Ti manderò Logan.»

«Grazie.» Ellen stava per uscire quando si voltò verso Marco. «Fate attenzione. Se è… se è come penso, dovrete fare molta più attenzione di prima.»

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV ***


Capitolo XIV

 

«Vai ancora a scuola?»

«Più o meno.»

«Che rottura di palle.»

«Non ti farebbe male imparare almeno a leggere, Logan.»

«E a che serve? Legge Nanny per me.»

Ellen sospirò, tornando con la mente a quando al posto di “Nanny” c’era il suo nome; le vanne quasi di ridere al pensiero che la stessa Nanny aveva pronunciato quella frase, prima di scivolare nel suo angolo buio, una notte, per pregarla di insegnarle a farlo. «Così sarò più brava di loro» era stata la sua scusa. La bambina aveva appena sette anni ed Ellen avrebbe cominciato una nuova vita di lì a qualche mese, per cui la sua richiesta era giunta al momento opportuno. Da quel che ricordava, lo stesso Marco era analfabeta, e c’era bisogno di almeno una persona in grado di interpretare un volantino affisso al muro, così da distinguere la pubblicità di un nuovo locale da un avviso di demolizione.

Erano tornati tra le strade del Merchant District, con Michael ormai sbendato perché non rappresentava più un pericolo per Logan, e il ragazzino li stava accompagnando ufficialmente per tornare a “lavoro”, ma Ellen sospettava che volesse sapere il più possibile da quella donna che non vedeva da quattro anni.

«Quindi che combini?»

«Niente di emozionante, a dirla tutta.»

«Scricciolo, ci hai appena chiesto di spiare quei fottuti irlandesi. Qualcosa di emozionante c’è, sotto.»

Stupì anche se stessa quando afferrò Logan e lo trascinò in un vicolo, tenendolo per il bavero unto e macchiato. «Primo» sussurrò contrò il volto del dodicenne «non puoi chiamarmi “Scricciolo” se sei messo peggio di me. E secondo…» Fino a quel momento aveva scherzato, ma adesso era importante mettergli quel concetto bene in testa. «Non insultare più gli irlandesi nella loro zona.»

Logan provò a lamentarsi, dandosi ancora una volta le arie di un adulto. «Ma non mi fanno…»

«Le cose stanno cambiando, Logan, lo ha detto anche Marco. Fa’ un favore a entrambi e tieni la bocca chiusa.»

Aveva parlato con tale veemenza che il suo interlocutore capì che era meglio non replicare. Si sistemò il colletto e il cappello, poi rivolse un ultimo sguardo a Ellen e Michael. «Cercherò Nanny e vedremo di scoprire qualcosa. Avrai nostre notizie.» Senza aggiungere altro, si voltò e corse via, diretto forse alla zona in cui stava operando sua sorella.

«Speriamo che non si cacci nei guai» sospirò Michael. «È un bel tipetto.»

Ellen non gli rispose, riprendendo a camminare in silenzio. L’uomo attese ancora qualche minuto prima di provare di nuovo a rivolgerle la parola.

«Ho l’impressione che tu ce l’abbia con me.»

Gli occhi grigi di Ellen dardeggiarono su Michael, sul suo viso pulito, le mani curate, l’abito di sartoria. «Come ti è venuto in mente di parlargli in quel modo?» ringhiò furente.

Michael parve preso in contropiede. «A chi? Al capetto?»

«Tu non hai proprio idea che esiste un mondo oltre il tuo fottutamente privilegiato? Credi che tutti agiscano per soldi e potere? Che ogni persona possa essere comprata?»

«Ellen, avevamo bisogno del loro aiuto. Li ho solo pagati.»

«Li hai umiliati! Non hai fatto una richiesta, non hai atteso che parlassi io, ma hai deciso a nome di tutti che avrebbero lavorato per te. Li hai pagati presupponendo che avrebbero accettato qualunque lavoro in cambio di denaro.»

Stava ansimando per la rabbia. «Non abbiamo bisogno della tua carità» aveva detto Marco, e l’aveva detto a lei, che conosceva da tredici anni, per poi ritrovarsi ad accettarla da uno sconosciuto che si credeva Dio sceso in Terra – perché Logan aveva fame, e anche Nanny, e anche gli altri bambini che dipendevano da lui, ma in cambio chiedeva solo di non essere considerato un poveraccio disposto a vendersi per un tozzo di pane.

Davanti a lei, Michael chinò il capo. «Hai ragione» mormorò. «Mi dispiace.»

Non se lo aspettava: era pronta a una discussione che l’avrebbe fatta soltanto infuriare di più, invece l’uomo aveva compreso il proprio sbaglio. E si stava scusando.

«Beh, evita di rifarlo» concluse lei dandogli le spalle e riprendendo a camminare in direzione di French Hill. «Quando torneranno, aspetteremo di sentire cosa avranno raccolto. E li pagheremo solo se avranno informazioni utili.»

Il silenzio scivolò di nuovo fra loro come la pioggia che aveva iniziato a cadere; Ellen non aveva un ombrello con sé, a differenza di Michael, che le fece un muto cenno di ripararsi sotto, accanto a lui. Proseguirono ancora per diversi isolati ed erano quasi fuori dal Merchant District quando Michael parlò di nuovo.

«Hai un passato interessante. Janet ne è al corrente?»

«In parte.» Per quanto fosse arrabbiata con lui, sapeva di dovere chiarire subito un punto fondamentale: questa volta, sarebbe stata lei a parlare con il gruppo di Chateaubriand Manor, fornendo solo le informazioni necessarie. «Sa che sono cresciuta con altri bambini, ma non le ho mai specificato nulla, né me lo ha chiesto. Credo pensi che abbia vissuto in orfanotrofio fino alla maggiore età.»

«Sei alfabetizzata: è logico che non ti abbia preso per qualcuno proveniente dalla strada.»

Non rispose alla sua domanda implicita. Continuò a camminare, gli stivaletti che si riempivano di fango scuro come il suo umore.

«Esistono criminali alfabetizzati» insistette Michael, facendole chiedere dove volesse andare a parare. «Io, per esempio.»

Ora Ellen sbuffò. «Tu?»

«Ho un… secondo lavoro.»

«Del tipo?»

«Contrabbandiere.»

«Andresti d’accordo con O’Bannion.»

«Non contrabbando alcolici, ma tabacco francese.»

«Wow, non mi aspettavo niente di così sensazionale…»

«E organi.»

Ellen si zittì, i piedi che continuavano a seguire la strada ormai familiare. Un passo e un altro, sotto la pioggia che scrosciava sempre più forte.

«Viaggio molto per il tabacco, perché per la seconda… “merce”… ritengo sia meglio operare in patria, e alla svelta. Ma ho svolto qualche lavoro del genere anche qui ad Arkham.»

Un passo e un altro, la pioggia intorno a loro.

«Non lavoro solo per chi può pagarmi. Ci tenevo a precisarlo.»

Gocce, passi, un tuono.

«Molti cadaveri sono in buone condizioni: vittime di un omicidio, uomini depressi che mettono fine alla propria vita, pazienti ricoverati per un secondo infarto… Controllo che non abbiano malattie tenute nascoste ai parenti e asporto gli organi che possono ancora essere utili. Alcuni cadaveri non vengono neppure reclamati, e posso evitare di ricucirli prima che vengano gettati in una fossa comune.»

Un secondo tuono, altra pioggia.

«Proctor si è suicidato.»

Ellen si fermò e alzò lo sguardo su Michael. L’uomo fissava la strada davanti a sé.

«Il suo corpo è rimasto nell’obitorio più del previsto. Ne ho approfittato per visitarlo e… asportare gli organi che mi servivano. Questa mattina, prima di passare a casa di Mary, ero andato a controllare che il paziente stesse reagendo bene al nuovo fegato.» Spostò gli occhi su Ellen. «Ti sei fidata di me, ora faccio lo stesso.»

Non era vero: la fiducia aveva poco a che fare con la situazione che si era creata qualche ora prima. Ellen stava andando ai Docks per cercare i suoi vecchi compagni, Logan aveva tentato di rapinare Michael e lui avrebbe potuto consegnarlo alla polizia; era necessario che vedesse di persona le condizioni del ragazzino. Inoltre, difficilmente avrebbe potuto liberarsi di Michael, a quel punto.

Inspirò profondamente. «Marco mi ha raccolta a undici anni. Prima… mi arrangiavo. Era appena più grande di me, ma ha convinto il resto del gruppo ad accogliermi. A nutrirmi. Ci ho messo settimane prima di pronunciare una frase completa.»

Ricordava ancora le espressioni dei ragazzi più grandi: avevano detto a Marco che, se voleva portarsi dietro una randagia, avrebbe dovuto dividere i pasti con lei; mesi dopo, quegli stessi ragazzi la trattavano come se fosse sempre stata una di loro.

«Lui e i suoi amici mi hanno insegnato a rubare senza essere vista, a scivolare nelle ombre come una creatura notturna, a penetrare nelle case più promettenti. Mi chiamarono “Scricciolo” perché riuscivo a infilarmi ovunque… anche nei camini.» Esitò. «Quello è accaduto una volta soltanto, e Marco mi ha fatto promettere di non farlo mai più.»

Era stata male per giorni, e si era dovuta sorbire i rimproveri di Marco e una tosse che per poco non l’aveva uccisa. Con il ricavato di quella rapina, però, aveva potuto sfamare Logan e Nanny, che una “sorella” di Marco aveva abbandonato ai Docks, e per questo non si era pentita di avere rischiato la vita.

«Non facciamo parte della criminalità organizzata, nemmeno dei gruppi che coinvolgono i giovani. Da una parte ci sono gli irlandesi, nel Merchant, con i ’Finns che lavorano a French Hills, dall’altra gli italiani guidati da Potrello e i Rocks, che si sono instaurati nel Southside. Non abbiamo niente a che fare con loro, ci limitiamo a sopravvivere.»

Stava parlando al plurale, annettendo se stessa a quel gruppo che aveva lasciato anni prima, ma le veniva naturale ogni volta che venivano nominati i Rocks; lo era da quando Giovanni li aveva mollati per unirsi a loro, perché voleva il potere, e non più occuparsi di una manciata di mocciosi. Marco aveva preso il suo posto quando aveva solo sedici anni, promettendo che nessuno dei piccoli sarebbe rimasto indietro, non importava cosa sostenesse il fratello – un fratello di sangue, il solo che Marco avesse mai avuto.

Quel ricordo fu troppo forte per lei, che si era gettata nel passato da un giorno all’altro, senza fare una prima immersione vicino alla riva, come invece le avevano insegnato Marco e Giovanni.

«Torniamo a casa, dobbiamo parlare con gli altri» concluse.

Riprese a camminare e Michael fece lo stesso.

 

***

 

Quando arrivarono a Chateaubriand Manor, Ellen si sentiva sfinita. Al contrario di quanto progettato non raggiunse il gruppo in cucina, dove stavano mangiando, né lo mise al corrente di quanto accaduto quella mattina; afferrò invece la mano che Michael le porgeva e lo seguì in camera, lasciando che ogni traccia del suo passato – quel passato che faceva meno male, quello di cui poteva parlare – venisse lavata via dalle sue carezze.

Neanche dopo comunicò a Janet, Lilyan o Alexander della visita ai Docks. A quel punto fu una scelta ponderata: di fatto, avevano solo aperto un canale di comunicazione con possibili informatori, e le dicerie su Sills potevano essere solo questo – dicerie. Potrello era morto sulla sua barca per un incidente, e O’Bannion si era fatto avanti per evitare che i Rocks si impadronissero del Southside, mettendo subito in chiaro che ora possedeva anche quell’area della città; sarebbe giunto un altro rivale, ma per il momento la dipartita di Potrello non aveva causato incredibili svolte nella sua organizzazione.

Sills aveva acquistato delle barche a nome del boss irlandese, e quando Ellen aveva chiesto a Logan di dirle con precisione il giorno in cui Nanny lo avrebbe visto saldare tutto in contanti lui le aveva risposto che era avvenuto dopo la morte di Potrello, e non prima; inoltre, O’Bannion era noto per le esecuzioni pubbliche, per le quali non avrebbe dovuto scucire un centesimo. Le barche forse avevano lo stesso scopo della Lucky Clover Cartage: spostare gli alcolici da una zona all’altra della Miskatonic Valley, forse nascondendola addirittura sull’isoletta al centro del fiume che divideva in due Arkham. La ditta di autotrasporti di O’Bannion arrivava fino a Boston, ma serviva un posto in cui tenere la merce da contrabbandare.

Sills si muoveva sempre in compagnia di altri scagnozzi di O’Bannion, e anche in questo caso c’erano poche teorie da formulare. Si stavano arricchendo, portavano perfino in giro borse colme di contanti, dunque era logico pretendere maggiori difese. Un’ipotesi ancora più assurda vedeva Sills temere di fare la stessa fine di Potrello.

Era sensato. Tutto completamente sensato. Ciò che però faceva rodere il fegato di Ellen era la data: fine ottobre 1928. Lo stesso periodo in cui Darcus aveva rubato uno dei libri dal cadavere di Masters. Presupponendo che anche la creatura invisibile fosse stata evocata da un libro proibito, lo zio meno amato di Alexander ora era in possesso di ben due volumi che potevano celare altri modi per ottenere il potere e disfarsi degli avversari. Darcus avrebbe potuto prendere le sembianze di Sills e scalare la criminalità organizzata di Arkham dall’interno, e c’era un che di grottescamente poetico nello scegliere un uomo con un cognome che ricordava il fratello minore da poco deceduto.

Mancava lo scopo. Teoricamente, Darcus voleva entrare in possesso di tutti e quattro i libri, forse per ingraziarsi quel famoso Ordine con cui aveva scambiato una fitta corrispondenza, quindi perché concentrarsi sulla mafia irlandese? Aveva poco – nulla a che vedere con il Darcus che faceva esperimenti sulle pazienti, massacrava la propria famiglia e cercava il favore di altri esaltati.

A seguito di quella riflessione, che Ellen ripeteva a cadenza costante, aveva deciso di tacere con il resto del gruppo; semmai Logan o Nanny si fossero presentati con informazioni utili ad avvalorare o confutare una determinata tesi, gliene avrebbe parlato. Per il momento, meglio concentrarsi sull’idea di Alexander.

Erano passati un paio di giorni dalla visita di Ellen e Michael ai Docks, e già dal mattino precedente il detective li aveva condotti in una zona periferica dove potersi esercitare con il tiro al bersaglio. Ellen aveva una buona mira, ma aveva sparato solo una volta in vita sua, contando su un colpo di fortuna che doveva tenere bene a mente prima di provare a colpire di nuovo un bersaglio tanto vicino a un alleato; Janet aveva sempre detestato le armi da fuoco, tuttavia ora era giunto il momento di sapere come tenerle in mano; Lilyan, infine, se la stava facendo sotto. La prima mattina era rimasta seduta, incapace di reggere la stessa pistola con cui aveva ucciso una donna, e per una volta non poteva biasimare Alexander: sembrava che nessuno avesse avuto il coraggio di dirgli che Lilyan era venuta a conoscenza del decesso della sua vittima, perciò non si era posto troppi problemi a includerla nell’allenamento. Quella seconda mattina, tuttavia, era finalmente riuscita a premere il grilletto, sebbene con scarsi risultati. Ellen si chiedeva se non fosse lei stessa a trattenersi.

L’auto di Jeremy li aveva appena riportati a French Hill quando una mano prese ad agitarsi in lontananza, facendo segno a Ellen di avvicinarsi.

«Chi è quello?» chiese Janet, che come lei si era accorta del bambino che stava cercando di attirare l’attenzione di Ellen.

«Ve lo diremo fra poco» si limitò a rispondere Michael mentre la ragazza si dirigeva in fretta verso Logan, il cappello tenuto basso per occultare il viso.

«Devi lavorare sulle tue doti di occultamento» lo avvertì Ellen.

«Di che?»

«Non sai nasconderti. Di’, hai qualcosa di utile per me?»

Logan però fissava un punto alle sue spalle, ed Ellen credette che stesse cercando il suo “benefattore”, forse temendo che lei non sarebbe stata tanto generosa con il pagamento; seguendo il suo sguardo, però, si rese conto che stava osservando con curiosità e stupore le persone che erano scese dall’auto, l’auto stessa e il cortile dentro cui la suddetta auto stava parcheggiando.

«È  che abiti?»

«Solo per il momento» tagliò corto lei. «Potrei anche fartici fare un giro, ma prima dimmi perché sei qui.»

Quella prospettiva parve recuperare l’attenzione di Logan. «Ho qualcosa, ma non so se è utile. Tu vai a scuola, no?»

«È un’università, ma sì, perché?»

«L’hanno rapinata. L’edificio con i libri… l’hanno scassinato l’altra sera.»

«Sì» confermò Ellen, cercando di capire dove volesse andare a parare, ma sembrava che Logan avesse finito.

«No, intendo… sono stati loro. Gli irlandesi hanno rubato qualcosa.»

 

***

 

«Ellie… chi è quel ragazzino seduto in cucina?»

Le rivelazioni di Logan erano state tanto grosse da dovere mantenere quell’accenno di promessa che gli aveva fatto, così se lo era portato in casa, la mente troppo carica per pensare che forse avrebbe dovuto chiedere il permesso di Lilyan. Lo aveva condotto in cucina mentre lui si guardava intorno del tutto rapito dal lusso che lo circondava, e che per una volta poteva gustare senza fretta, privo di un bottino con cui scappare; lo aveva poi lasciato a Jeremy con la richiesta di preparargli una cioccolata calda, aveva chiuso la porta ed era rimasta immobile, sovrappensiero, finché la voce di Janet non l’aveva riscossa. Solo allora si accorse di avere davanti le espressioni confuse di Janet, Alexander e Lilyan – quest’ultima anche abbastanza contrariata.

Fu Michael a rispondere al posto suo. «Non conoscete i ragazzini di Sherlock Holmes? Una cosa simile.»

Ecco, ora Lilyan era soltanto confusa. «I… ragazzini?»

«Lo abbiamo pagato per tenere d’occhio gli irlandesi» tagliò corto Ellen. «Possiamo lasciarlo solo con Jeremy, è innocuo.»

«Uno dei due lo è» sussurrò Michael, che non era il solo a non essere riuscito completamente a inquadrare il maggiordomo. In quel contesto, tuttavia, Ellen credeva di potere considerare Logan al sicuro.

«Andiamo nel salotto» disse precedendoli. Come due mattine prima, quando si era recata con Michael nel covo di Marco, si trovava a doversi spiegare senza dire troppo, ma ora il carico di informazioni era maggiore. «Lui… vive nel Merchant District, la zona degli irlandesi, ma non fa parte di loro. In alcun modo.»

«Perché volevi tenere d’occhio gli…? Oh.» Lilyan realizzò. «Non vorrai credere alle parole di Alexander.» Non sembrò curarsi del fatto che il detective fosse seduto proprio di fronte a lei.

«Ero incerta, così ho fatto qualche indagine. È venuto fuori che l’uomo che Alexander crede sia Darcus è, in effetti, Bobby Sills, braccio destro di O’Bannion. Non so quanto sappiate della malavita di Arkham, ma si tratta di criminalità organizzata.»

«Ma questo è Sills, no? Cosa c’entra con Darcus?»

«Quando O’Bannion è fuori città, cioè quasi sempre, Sills si occupa della banda. Pare che nel giro di una settimana gli irlandesi si siano arricchiti all’improvviso. Controllano gli ex possedimenti di Potrello, il boss italiano morto qualche giorno fa, girano pesantemente armati e fanno costosi acquisti in contanti. Tanti contanti» specificò. «Così ho chiesto al ragazzino di guardarsi intorno e… sono venute fuori alcune novità.»

Sollevò lo sguardo e lo puntò su tutti loro, che la fissavano in attesa.

«La Miskatonic Library è stata scassinata da loro.»

«Che cosa?!» Janet scattò in piedi.

«Hanno preso dei libri. Non so quanti, ma… Alexander, potrebbero esserci altre copie dei tuoi?»

«N-no… non credo» tentennò il detective, stringendosi la testa fra le mani. «Però potrebbero non essere gli unici… a contenere qualcosa di strano, intendo.»

«Ellie, potrebbe non c’entrare niente.»

«Conosci dei mafiosi interessati alla lettura?»

«Non è questo, è…»

«Tutto ciò gioca a nostro favore» intervenne Michael, e ora tutti erano concentrati su di lui, in attesa di sapere il lato positivo di quella situazione. «Adesso sappiamo dove si nasconde Darcus. Alexander lo conosce poco quanto noi, ma ha notato qualcosa nella fisionomia di Sills che glielo ha ricordato. Sono parenti, chi può dire se non abbia avuto ragione?»

«Considerate anche che la fortuna degli irlandesi è scappata fuori proprio quando Darcus ha rubato uno dei libri, a Boston.»

«È poco» decretò Lilyan. A giudicare dal pallore sul suo volto, stava cercando di convincersi. «Possono essere solo coincidenze.»

«Possiamo scoprirlo stasera stessa.» Ellen inspirò profondamente, sapendo che era giunto il momento di comunicare loro l’ultima informazione ottenuta da Logan. «Sills ha fatto spargere la voce di un incarico urgente, per il quale è disposto a pagare una bella somma. Gli servono dei marinai, qualcuno che si presenti alle dieci al molo e che non faccia troppe domande. Pagamento anticipato.»

«Suona male…» rifletté Michael, esprimendo ad alta voce ciò che tutti stavano pensando.

«C’è una fregatura, è vero, ma… possiamo provare.»

«No, ragazzina, noi possiamo provare. Alexander ed io.»

Aveva ragione. Loro potevano passare per due marinai, accuratamente camuffati, ma le tre donne no, né Sills le avrebbe volute sulle loro barche per un incarico delicato. Era l’unica soluzione, per quanto sgradita.

Nel corso degli ultimi due giorni, avevano provato a recarsi da Armitage, che non aveva esitato a darsi malato e a pregare il rettore e i decani di tenere i curiosi lontani dalla biblioteca per qualche tempo. I danni erano incalcolabili, si diceva, e chi aveva visto Armitage sosteneva che fosse perfino più turbato di quell’estate, segno che il colpo era riuscito. Se la Baker fosse stata ancora ad Arkham, forse avrebbe potuto convincerlo a parlare, ma tra i presenti nessuno aveva confidenza con il bibliotecario, dunque nessuno avrebbe ottenuto risposte.

La sola altra pista da seguire riguardava le barche acquistate da Sills. Avrebbero potuto attendere per capire se davvero Alexander avesse preso un abbaglio, ma la criminalità irlandese si stava muovendo troppo in fretta e non potevano sapere quando li avrebbero attaccati; forse, una volta sistemati gli affari della banda, Sills – o Darcus – li avrebbe fatti seguire e rapire per scoprire il nascondiglio dei tre libri rimasti.

Rimasero in silenzio per un po’, rimuginando sulla decisione da prendere. A un certo punto Ellen uscì dal salotto, ricordandosi della presenza di Logan in casa, e lo congedò dopo avergli dato un paio di banconote prelevate dal portafoglio di Michael; notando quanto fosse gonfio, ne sfilò una terza e la consegnò al ragazzino.

«Va’ dritto da Marco. Prendi Nanny e gli altri. Di’ loro di non azzardarsi ad accettare l’incarico di Sills: stanotte dovete stare lontano da quelle barche, intesi?»

Logan annuì e se ne andò con la bocca ancora sporca di cioccolato, lasciando Ellen sola con le proprie paure. Tornò in camera e provò a concentrarsi sui simboli che aveva ricopiato al Greenville Asylum, confrontandoli con quelli presenti in uno dei libri dei McCrindle; rimase assorta in quel compito fino a tarda sera, saltando perfino la cena, e si riscosse soltanto quando Michael uscì dal bagno.

«Vado, allora.»

Sussultò e lo guardò: si era cambiato, sporcandosi il viso e le mani per sembrare un senzatetto del porto, e a quello scopo aveva sostituito il bel completo con alcuni abiti di terza mano che Jeremy aveva procurato a lui e ad Alexander. Emanava un odore di pesce avariato.

Eppure, stava per chiedergli di restare.

Parve leggerle nella mente. «Se ci sbagliamo, saranno solo dei soldi in più» provò a scherzare, ma la sua voce era tesa. «Altrimenti avremo trovato il nostro uomo.»

Ellen annuì mestamente e si costrinse a mettere da parte il nervosismo. «Torna in fretta.»

Michael sorrise. «Te lo prometto.» Le arruffò i capelli rossi e si allontanò deciso.

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Capitolo 15
*** Capitolo XV ***


Capitolo XV

 

Dieci. Undici. Dodici.

L’ultimo rintocco echeggiò nella villa silenziosa, rimbombando dall’ingresso al salotto dove le tre donne sedevano in attesa.

Dio, ora spacco quella cazzo di pendola.

Ellen non si era mai accorta di quanto fosse fastidiosa: suonava ogni quarto d’ora, ricordando loro l’incessante scorrere del tempo; era un rumore tanto contenuto da non svegliare alcun abitante della casa durante la notte, ma in quella interminabile notte Ellen riusciva a udire perfino ogni singolo crepitio del fuoco.

Michael e Alexander erano usciti intorno alle nove, in modo da avere maggiori possibilità di essere reclutati per l’incarico delle dieci; una parte di Ellen aveva sperato che rientrassero nel giro di un’ora, spiegando che gli irlandesi non avevano più posto per altri marinai.

A mezzanotte, ancora nessuna notizia.

Ogni tanto Jeremy si affacciava in salotto con la scusa di non potersi ritirare finché la padrona di casa non fosse andata a dormire, e alla fine Lilyan aveva ceduto, permettendogli di controllare il camino, servire dei dolci, sostituire le tazze vuote con tazze calde e fumanti. Janet stava bevendo parecchio tè e ogni volta che lo avvicinava alle labbra le dita strette intorno alla ceramica tremavano; Lilyan, che appariva più tranquilla dell’amica, era ugualmente tesa, e a rivelarlo era il pallore innaturale del suo volto. Entrambe stavano provando a leggere, ed entrambe erano ferme sulla stessa pagina da venti minuti.

Ellen da quaranta.

Conosceva e condivideva il motivo del loro nervosismo. Un conto era sentire il sudore freddo sulla nuca, la visione spaventosa del proprio avversario, la sensazione di essere sul punto di morire, un altro era attendere, e senza sapere cosa. Per quanto potevano immaginare, i due uomini erano al sicuro, e si erano anche guadagnati un discreto gruzzolo per un lavoro da fare in fretta e furia, aiutando la criminalità organizzata di Arkham a crescere prosperosa; oppure – e questo contorceva lo stomaco di tutte le presenti – potevano essere già morti. Forse fin dalle dieci, o anche dalle nove e cinque minuti, una volta giunti fuori di casa. Forse erano già cibo per i pesci, e forse…

Smettila.

Era sciocco pensare alle ipotesi peggiori, lo stavano già facendo Janet e Lilyan. Nessuna di loro parlava, nessuna guardava l’altra, ciascuna concentrata sul proprio libro e sulle proprie preoccupazioni. Era insopportabile aspettare, e per la prima volta Ellen sperò che, la prossima volta che il gruppo avrebbe corso un pericolo mortale, questo avvenisse davanti ai suoi occhi, in sua presenza, anche nel caso che la sua vita venisse messa a rischio. Voleva vedere, ed era frustrante che quella serata fosse giunta proprio adesso che lei aveva cominciato a tirare fuori un briciolo di coraggio.

Mezzanotte e un quarto.

Jeremy entrò, mise altra legna, portò l’ennesima torta già divisa in fette. Con estrema e incredibile calma ne servì un pezzo su un piattino e la porse a Ellen, che fece un vago segno del capo per ringraziarlo; a Janet tolse la tazza ormai vuota, restituendola piena di liquido ambrato che corresse con un goccio di latte, mentre per Lilyan portò una seconda coperta, che le adagiò sulla schiena. Ellen guardò sul tavolino e scoprì che quella era la terza fetta di torta che Jeremy le aveva servito. Erano tutti dolci differenti, tutti al cioccolato. Probabilmente li aveva preparati per tenersi occupato, oppure stava cercando quello che Ellen avrebbe finalmente mangiato. Lei però aveva lo stomaco chiuso, nelle narici ancora il tanfo di pesce andato a male con cui Michael l’aveva lasciata.

Si alzò, un movimento brusco che attrasse l’attenzione delle due donne, il cui sguardo corse subito alla finestra.

«Vado in bagno» annunciò. Non era vero, ma doveva fare qualcosa.

Si diresse al nascondiglio in cui Alexander teneva i libri e ricontrollò una delle lettere, quella su cui qualcuno aveva segnato il nome fenicio di Dagon.

Mezzanotte e mezza.

Dagon… La puzza di pesce… Le barche appena acquistate…

La pendola suonava.

La carcassa sul fiume… Il sogno di Janet nel dormitorio…

L’ennesimo rintocco.

L’indagine insabbiata… L’incidente di Potrello in mare…

Un rumore nell’ingresso. Ellen abbandonò la lettera e richiuse in fretta il nascondiglio, la mano destra già all’altezza della gonna, dove aveva riposto la pistola. Si mosse velocemente e con prudenza, pronta a scontrarsi contro qualunque creatura si stesse…

Due figure entrarono in casa, gli abiti fradici, gocciolando acqua sul pavimento lucido.

Un gridolino attraversò il silenzio, e subito Lilyan, noncurante della sua condizione, dell’abito da sera appena acquistato, del rancore che aveva provato per giorni, si lanciò tra le braccia di Alexander, ringraziando ad alta voce il Cielo per averlo riportato da lei sano e salvo. Al suo fianco, l’altra figura alzò lo sguardo e incontrò quello di Ellen. Come Alexander era bagnato dalla testa ai piedi, stanco e maleodorante, e un sorriso sincero si stava facendo largo sul suo volto.

Ellen si pietrificò. Rimase zitta per un paio di secondi, solo il proprio respiro nelle orecchie, poi la sua espressione si indurì mentre incrociava le braccia davanti al petto.

«Ci avete messo tanto.»

Stavolta, a pietrificarsi fu il sorriso di Michael. Il suo viso si oscurò, le labbra presero un’altra forma, gli occhi…

Per fortuna in quel momento Janet lo abbracciò, evitando a Ellen di soccombere sotto la delusione di quello sguardo.

 

***

 

Nonostante l’ora tarda, nessuno aveva voglia di dormire. Michael e Alexander furono mandati a godersi un bagno ristoratore e a indossare abiti asciutti, mentre Lilyan e Janet organizzavano in salotto un piccolo buffet per festeggiare il loro ritorno, aiutate da Jeremy, il quale sembrava davvero in grado di sfornare una leccornia dietro l’altra. All’una e un quarto del mattino, erano ormai tutti riuniti nel salotto, pronti a gustare una cena che quella sera nessuno aveva consumato, e Lilyan aveva perfino chiesto un favore al maggiordomo. Dieci minuti dopo, Jeremy era tornato nella stanza con una bottiglia di vino pregiato che teneva nascosto chissà dove.

Le emozioni che attraversavano il gruppo erano contrastanti e mutavano nel corso della festicciola improvvisata. Lilyan e Janet erano euforiche, e sul loro volto era possibile leggere qualcosa di inedito fino a quella notte, un sollievo che sarebbe scemato il mattino seguente, quando sarebbe rimasto solo il senso di urgenza e pericolo incombente, ma che l’alcol poteva serbare ancora per qualche ora. Janet sorrideva e rideva, non faceva altro, e ancora prima di bere un goccio di vino rosso; i suoi occhi erano lucidi, e quando si allontanò per andare in bagno tutti seppero che si stava lasciando andare a un pianto liberatorio.

Lilyan sembrava una persona diversa. Continuava a portare il lutto, sia negli abiti che nello sguardo, ma aveva finalmente iniziato a rivolgere dei sorrisi ad Alexander, e ora appariva più giovane, lontana dalla sofferenza degli ultimi giorni; per tutto il tempo che trascorsero in salotto si concesse solo un bicchiere di vino, che toccò a malapena. Accanto a lei sedeva un Alexander confuso e felice – di quella felicità che, come il sollievo, lo avrebbe abbandonato il mattino dopo. Non era chiaro quanto fosse forte l’amicizia tra i due, che si passavano ancor più anni che Lilyan e Janet, ma il senso di colpa doveva averla divorata sapendo che, dopo quel lavoro al molo, avrebbe potuto non rivederlo mai più, senza averlo perdonato per la morte dell’Arcivescovo.

Michael era accanto al fuoco, e sembrava non essere stato contagiato dalla gioia del momento. Fissava le fiamme nel camino e appariva pensieroso, ma quando finalmente rivolse un’occhiata ai tre compagni sorrise e si alzò in piedi, come se non volesse guastare il clima allegro deprimendosi per quello che doveva essere accaduto al molo.

Poi c’era Ellen, che sedeva in disparte, nell’angolo più in ombra del salotto. Li fissava tutti e aspettava, e il suo sguardo saettava sempre più spesso verso di Michael, ma nessuna parola uscì dalla sua bocca. La gola era completamente arida.

«Alexander… credo dovremmo mettere le nostre signore a conoscenza degli eventi di questa sera» disse infine Michael, sebbene apparisse sinceramente dispiaciuto di interrompere quell’esplosione di positività tanto inattesa.

Alexander annuì. Tossì, ma non lasciò andare la mano di Lilyan, che continuava a stringere le sue dita come se temesse che potesse svanire da un momento all’altro, costringendola a svegliarsi conscia di dover portare due lutti.

«Stasera, sì» esordì con un secondo colpo di tosse. «Scusami, Michael, ma… credo sarebbe meglio se lo facessi tu.»

Ellen aggrottò la fronte, tuttavia Michael sembrava comprendere benissimo il motivo di quella richiesta. Si mise comodo, in piedi con le spalle al camino, e sorseggiò dal calice riempito per la seconda volta.

«Il nostro informatore ci ha dato la pista giusta. Gli uomini di O’Bannion erano alla ricerca di marinai per un incarico insolito, e non pretendevano esperienza o altro. Quando Alexander e io siamo arrivati al molo, c’era una dozzina di persone in fila, e altri ancora si sono uniti entro le dieci. Non ci hanno chiesto se fossimo effettivamente dei marinai, o se sapessimo nuotare… niente del genere. Alla fine ci è stato chiaro il perché: dovevamo solo remare. Quattro per ogni barca.»

Sapevano tutti che qualcosa era andato storto; lo sapevano anche le tre donne, che non erano state con loro, ma che li avevano visti rientrare completamente bagnati in una notte priva di pioggia.

«Ufficialmente, dovevamo accompagnare un’imbarcazione più grande. Fare da… deterrente per eventuali curiosi, o per le forze dell’ordine. Non ci serviva mostrare le pistole, perché qualunque poliziotto avrebbe desistito all’idea di affrontare tanti uomini. In ogni caso, noi le avevamo portate dietro.» Esitò. «Ma non ci sono state utili.»

“Non ci sono servite”: questo avrebbe significato che il lavoro si era svolto nel migliore dei modi, perlomeno per i due marinai occasionali, eppure Michael aveva scelto altre parole. Parlava un inglese perfetto, dunque era stata una consapevole selezione di vocaboli.

«La destinazione era l’isola nel Miskatonic River. Piccola, ma perfetta per nascondere merce di contrabbando» proseguì Michael. «Abbiamo presunto che la merce fosse davvero tanta, per via della fretta che avevano di spostarla, e avevamo ragione. Ci hanno fatto remare fino alla riva e poi scaricare l’imbarcazione di Sills.»

Lilyan sobbalzò. «Darcus era lì?»

«Sì» confermò Alexander. «E io… l’ho sentito. Ha davvero preso le sembianze di Sills.»

«Come fai a esserne certo?» chiese ora Janet.

Il detective non rispose, per cui fu Michael a spiegare al posto suo: «Alexander soffre in presenza dell’occulto. Non l’abbiamo mai detto apertamente, ma l’abbiamo pensato tutti. Io sicuramente. Janet ha raccontato dei problemi nel salire nella soffitta di Silas McCrindle, dove si trovavano i libri – libri da cui Alexander si tiene bene alla larga. Anche quando eravamo da Masters mi è sembrato distratto, e nella cella di Darcus si teneva le tempie.» Bevve un altro sorso. «Perciò, quando stasera Sills si è affacciato sul ponte e Alexander ha rischiato di svenire davanti ai miei occhi, ne abbiamo avuto la conferma: Sills è Darcus.»

«E il vero Sills? Come hanno fatto a liberarsene senza destare sospetti?»

Era una domanda semplice. Bastava rispondere che Darcus l’aveva nascosto da qualche parte, o ucciso, e che si era presentato il giorno successivo nei suoi panni fingendo che nulla fosse accaduto; eppure alle parole di Janet seguirono solo un lungo silenzio e uno sguardo d’intesa tra i due uomini.

«Crediamo… di sapere che fine abbia fatto» tentennò Alexander.

«Una cosa alla volta» lo interruppe Michael. «Come vi dicevo, il nostro caro detective si è sentito male, così siamo tornati in fretta alla nostra barca: avremmo destato molti più sospetti rimanendo lì, e ci siamo beccati solo qualche derisione da parte di uno dei marinai con noi, sicuro di aver fatto una buona impressione ai capi a differenza nostra. Allontanandoci, Alexander si è finalmente ripreso.»

«Non ricordo bene ciò che è successo da quando abbiamo lasciato il molo» spiegò il detective. «È come se… se avessi dimenticato tutto. Michael dice che abbiamo scaricato delle casse, ma non lo ricordo. So solo che, a un certo punto, abbiamo ricominciato a remare, allontanandoci dall’isola quanto bastava ad attendere gli ordini di Sills. Pensavamo che fosse ormai finita, e che se anche Darcus si celava sotto la sua identità il vero compito era effettivamente trasportare montagne di alcolici. Ne ero sicuro perché… perché Sills era scomparso dal ponte, e io cominciavo a sentirmi meglio.»

Nessuno dei due proseguì il racconto: prima, Michael si versò altro vino e fece lo stesso con Alexander e Janet, mentre Lilyan rifiutò. Ellen nemmeno aveva preso un calice per sé, e lui non le rivolse la minima attenzione.

«Eravamo a venti piedi dall’isola. Tutte le barche in semicerchio, pronte per scortare Sills e i suoi. È stato allora che Sills… Darcus è ricomparso, e in mano aveva qualcosa.»

Janet tremò. «Un libro…»

Michael non perse tempo ad annuire. «Stava recitando una formula. Per fortuna, eravamo abbastanza distanti da lui perché potesse provocare dolore ad Alexander, altrimenti non so se saremmo tornati entrambi.»

«Ha evocato… qualcosa» proseguì il detective. «Presto le barche hanno iniziato a oscillare, e qualcosa è emerso dalle acque.»

Michael fissò Janet negli occhi. «Sì, quel qualcosa.»

«La creatura del laboratorio…»

«Ne ho contate cinque.»

«Come… come avete fatto a…?»

«Un colpo di fortuna.»

A quelle parole, Alexander gli rivolse un’occhiata di biasimo. «Non la sua.»

L’altro si limitò a stringersi nelle spalle. «Mi interessa la nostra. Uno dei marinai sulla nostra barca si è alzato in piedi per capire cosa stesse succedendo, ma è caduto in acqua. E un paio di quei mostri si sono lanciati su di lui.»

Ellen avvertì un senso di nausea, e fu lieta di non avere mangiato niente da quella mattina.

«Ne abbiamo approfittato per scappare. Non potevamo sparare, altrimenti…»

«…gli irlandesi se ne sarebbero accorti» concluse Alexander. «E Darcus anche.»

«Abbiamo preferito fuggire, e non ce l’avremmo fatta se le due creature più vicine non si fossero avventate sul nostro compagno. Mi spiace per Willie, ma sono felice che le nostre pellacce siano salve.»

 

***

 

Quando Jeremy tornò con una bottiglia di scotch, Ellen capì che era il momento di congedarsi. Non disse niente, si allontanò nello stesso silenzio in cui si era chiusa da ore; li lasciò mentre il maggiordomo cambiava i bicchieri e versava un dito di whiskey a testa, esclusa Lilyan, che rifiutò educatamente e represse uno sbadiglio. Stavano tutti crollando dal sonno, perfino l’efficientissimo Jeremy, ma ritirarsi nelle proprie stanze e dormire significava mettere un punto a quell’unica parentesi di illusoria gioia, e prepararsi ad affrontare un nemico più pericoloso che mai.

La pendola suonò due volte mentre Ellen le passava accanto e saliva le scale verso la camera in cui soggiornava da quasi un paio di settimane. Si sfregò le palpebre, ma non era ancora pronta a cedere al sonno; prima, si concesse anche lei un bagno per schiarirsi le idee.

Le creature studiate nel laboratorio era collegate a Darcus, ormai ne avevano le prove. Era dunque più probabile l’ipotesi che fossero state mandate da lui nel Campus per recuperare i libri che Janet si era portata dietro.

Darcus era in grado di richiamarle. Il mostro capace di diventare invisibile che li aveva attaccati a casa di Masters era la sua seconda evocazione, ed era servito al medesimo scopo.

Le uniche occasioni in cui erano stati presi di mira da Darcus erano avvenute fuori da Chateaubriand Manor, e con i libri presenti. Quella sera Darcus, o Sills, non aveva riconosciuto Alexander, o era stato troppo concentrato sui sacrifici, che dovevano avere avuto un ruolo propiziatorio.

Darcus aveva scalato le vette della criminalità organizzata per avere a disposizione più vittime possibili. No, questo non quadrava, doveva esserci anche altro sotto: O’Bannion era ancora vivo, perciò gli serviva.

Potrello però era morto, ucciso con molta probabilità, come il vero Sills, dalle stesse creature che quella notte si erano cibate di una ventina di uomini alla disperata ricerca di un lavoro, uomini per la cui morte nessuno capace di fare scalpore avrebbe pianto. Anche la morte di Potrello era necessaria, dunque.

Dagon.

Avevano bisogno di consultare una biblioteca o una libreria qualsiasi, sperando di ricavare altre informazioni oltre quelle possedute da Ellen. Ricordava che Dagon era una divinità cananaica, ma ignorava perché lo conoscesse. Forse era stata Janet a parlargliene a seguito di un viaggio o uno scavo, era la sola spiegazione che le venisse in mente. Allora perché non gliene aveva ancora parlato?

Stiamo facendo tutto da soli.

Non stava incolpando nessuno se non se stessa. Aveva condiviso le sue teorie solo con Michael, e solo in quella stanza, come se le quattro mura contenessero un microcosmo che non poteva esistere oltre la porta. Esattamente come lei e Michael.

Uscì dalla vasca mentre nuovi pensieri la aggredivano, pensieri che aveva tenuto separati dal resto per permettersi di riflettere in maniera lucida; ora, tuttavia, varcando di nuovo la soglia che dal bagno la riconduceva in camera da letto, stava tornando nel microcosmo in cui quegli stessi pensieri potevano proliferare, sebbene malvolentieri.

L’espressione sul viso di Michael le sarebbe rimasta impressa nella mente per sempre, anche una volta cessato di vivere a contatto con lui, anche giunta alla vecchiaia – se Darcus non li avesse uccisi prima. Ricordava il sorriso che si spegneva, un’ombra che calava sul suo volto.

Non è colpa mia.

Avrebbe potuto essere più gentile con lui, sarebbe bastato rimanere zitta, dirgli «Bentornato» o chiedergli come stesse; poteva fare tutte quelle cose senza sorridere, mantenendo il solito distacco emotivo e rimanendo, a conti fatti, fedele a se stessa.

Non l’aveva fatto, e forse sì, quella era colpa sua, perché dopo avere rischiato la vita per delle persone che non avevano niente a che fare con lui si era aspettato solo un grazie. Ricordava male, o era stata proprio lei a sentirsi obbligata a ringraziarlo quando aveva evitato che Janet venisse uccisa da un mostro marino? Cosa era cambiato da allora?

Era certa di non provare sentimenti per Michael – non quel tipo di sentimenti. Se durante la visita ai Docks fosse scoppiata una violenta lite fra lui e Marco, Ellen non nutriva dubbi verso chi lei avrebbe puntato la pistola per fermarli; eppure neanche per Marco nutriva affetto, solo riconoscenza.

Michael aveva salvato la vita di Janet, quindi Ellen aveva acconsentito ad andare a letto con lui. Aveva salvato la sua, a Boston, e lei aveva sparato all’uomo che stava per ammazzarlo. Semplice, lineare.

Oh, non dire stronzate!

Perché avrebbe continuato ad andarci a letto, se fosse stato solo quello il motivo? Si sentiva bene a fare quel che facevano, tutto lì. Ciò non cambiava il fatto che avrebbe potuto mostrarsi riconoscente anche nei suoi confronti, visto che lui e Alexander avevano rischiato di morire pur di raccogliere informazioni.

Forse meritava di sapere perché lei era incapace di dare fiducia ad altri esseri umani. Non tutto, ma qualcosa. Un centesimo di quello che Ellen aveva passato prima di compiere undici anni. Le avrebbe fatto male, e ci stava già ripensando, quando il sonno la avvolse.

 

Si svegliò di colpo. Era mattino inoltrato e un sole autunnale splendeva oltre la finestra, dimostrando di essere finalmente riuscito a farsi strada tra le nubi dei giorni precedenti. Si sentiva raffreddata perché non si era completamente asciugata prima di mettersi a letto, e si girò per controllare se Michael fosse ancora addormentato.

Non c’era.

Qualcuno bussò alla porta, e allora Ellen si ricordò che era stato un suono identico a destarla. Si alzò e andò ad aprire, mentre nascondeva la camicia da notte sotto la vestaglia.

Davanti a lei c’era Janet, il volto grondante di lacrime.

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Capitolo 16
*** Capitolo XVI ***


Attenzione: le idee espresse dalla protagonista non sono condivise dall’autrice.

 

Capitolo XVI

 

«Janet! Che cosa…?»

Nel tempo occorso a pronunciare quelle tre parole, mille immagini catastrofiche si erano affacciata nella sua mente: un incantesimo narcotizzante che Darcus aveva lanciato su loro per potersi appropriare di Alexander e dei libri; un’aggressione da parte degli irlandesi mentre la sua amica stava passeggiando lontano dall’incomprensibile protezione fornita dalla casa; una richiesta di riscatto per il padre di Lilyan mandata da O’Bannion, che al momento si trovava a Boston…

Ogni parola, un’ipotesi, ma poi Janet tirò su con il naso e balbettò qualcosa sottovoce. «Po-posso e-entrare?»

Non c’era urgenza, quindi ciò che la stava facendo piangere era già avvenuto. Ellen annuì e si scostò per farle spazio, approfittando del suo ingresso per scrutare quante più zone del suo corpo possibili, in modo da rassicurarsi che, almeno fisicamente, lei stesse bene. Janet entrò, tentennò, si sedette sul letto e chinò il capo.

«Mi stai spaventando» la avvertì Ellen. Non era una persona empatica, ma la situazione le suggerì di accomodarsi accanto a lei. «È successo qualcosa agli altri?»

«No, no, stanno bene!» si affrettò a rispondere Janet, che ora la guardava di nuovo.

«E a te?»

Quell’esitazione le fece mancare un battito.

«Janet, cosa cazzo ti hanno fatto?»

La ragazza scattò in piedi, d’un tratto incapace di sopportare la vicinanza di Ellen. «Sto bene» puntualizzò.

«Non sembra.»

«È successa una cosa.»

«Parla. Janet, sul serio, mi stai spaventando.»

Lei trasse un profondo respiro prima di decidersi a dare una spiegazione. «Stanotte, quando sei andata a dormire… Alexander e Lilyan ti hanno raggiunta poco dopo. Credo. Non… non mi sono accorta che te ne eri…» Sembrò assalita da un pizzico di vergogna.

«Ero stanca, e… onestamente, non riuscivo a sentirmi come voi» Ellen mentì in parte. «Vi conoscete da tanto, ne avete passate più di me, e ho preferito non guastare il vostro umore ricordandovi che siamo ancora nella merda.»

Le era parso di dovere giustificare la propria assenza perché ciò che leggeva negli occhi lucidi e arrossati di Janet era davvero vergogna.

«Quindi? Cos’è accaduto dopo?» la esortò.

«Sono… rimasta sola con Michael» rivelò Janet a voce tanto bassa che Ellen rischiò di non udirla. Rimase in silenzio.

Ellen stava per urlarle contro di dire quel che diamine era accaduto senza tanti giri di parole: Janet stava male e lei voleva conoscerne il motivo, e non sapeva se quell’idiota di Michael le avesse rivelato qualcosa di spaventoso, qualcosa che l’aveva turbata, o se…

Ah.

Ellen sbatté le palpebre. Che mondo era il loro, se il primo pensiero nel vedere un’amica piangere riguardava delle evocazioni demoniache e una banda di gangster irlandesi in agguato? Dopodiché, le montò dentro la rabbia.

«Che cazzo ha fatto?»

L’immagine dei due bicchieri di vino bevuti dall’uomo, poi il whiskey e chissà che altro…

«Ci siamo baciati.» Janet aveva parlato ancora con un filo di voce. «Tutto qui, Ellie, io…»

«Che cazzo ha fatto?» ripeté però l’altra, in un ringhio che fece sussultare l’amica.

Michael aveva bevuto. Michael era rimasto solo con Janet. Michael…

Michael non è lui, si disse, cercando di recuperare la calma.

«Niente che io non volessi!»

Le parole di Janet la spinsero a respirare di nuovo: non si era accorta di trattenere l’aria nei polmoni, ma avvertiva chiaramente le guance dolere per il calore. No, Michael non aveva fatto del male a Janet, non era quel tipo di persona; era un donnaiolo, certo, ed Ellen credeva che fosse andato a letto con altre donne oltre a lei da quando avevano cominciato ad avvicinarsi, però questo non significava che esigesse la loro compagnia.

Non con la forza, realizzò.

Guardò Janet, che aveva continuato a parlare senza che lei se ne rendesse conto.

«…sono stata in piedi tutta la notte, aspettavo che ti svegliassi, avevo bisogno dirtelo… Non avrei dovuto farlo, so che tra voi due c’è qualcosa, e ho agito da sciocca, e…»

«Tra noi due non c’è niente» la tranquillizzò Ellen, ma il suo stomaco si stava contorcendo come la sera prima, quando aveva temuto per la sorte di Michael. «Ci limitiamo a fare qualcosa che piace a entrambi.»

Janet ora appariva davvero sorpresa. E confusa. E forse in parte sollevata, e questo le diede fastidio.

«Ci ha provato lui?»

«Non… non lo so» rivelò l’amica. «Avevamo bevuto entrambi e ricordo poco, solo che… l’ho incoraggiato. Mi dispiace, non ho pensato a te. Ho bevuto e…»

«Allora te la sei cercata.»

Calò il gelo. Janet tacque, smettendo di giustificarsi; nei suoi occhi riapparvero calde lacrime per le quali Ellen non si sentì per niente in colpa.

«Hai ragione, è colpa mia.» La sua voce era rotta, mentre si sforzava di pronunciare quelle ultime parole. «Volevo soltanto chiederti scusa. Non importa se voi due non avete una relazione, avrei dovuto pensarci meglio.»

Si girò e lasciò la camera, chiudendosi piano la porta alle spalle e permettendo a Ellen di affondare in un vortice di sensazioni atroci.

 

***

 

Il resto della giornata passò nell’apatia generale.

Janet si era chiusa in camera, lamentando di avere dolore alla testa per il vino bevuto la notte precedente, mentre Alexander dovette realmente recuperare il sonno perduto e uscì dalla propria stanza solo a pomeriggio inoltrato; Lilyan invece era pensierosa, e il suo unico tragitto fu dalla cucina, dove aveva confabulato con Jeremy, al salotto, dove si era rintanata per un motivo a tutti ignoto. Dal canto suo, Ellen aveva avuto modo di incontrare quasi ogni singolo abitante della casa, cercando in modo maldestro di evitarli tutti, e stava pensando di avventurarsi alla ricerca di Logan quando la porta della camera da letto si aprì ed entrò Michael.

Dopo la confusione del risveglio e il dialogo con Janet, Ellen aveva capito che non aveva dormito nel suo letto, e fu ben presto chiaro che era uscito da Chateaubriand Manor quella stessa notte, per tornare solo ora, dopo il tramonto del sole. Non lo degnò di uno sguardo e continuò a preparare la borsa, premurandosi di prendere la pistola.

«Stai uscendo?»

Era sorpreso, e non poteva biasimarlo – non per quel motivo. Era poco saggio avventurarsi nei Docks con il buio, alla completa mercé degli irlandesi; una parte di Ellen sperava che Marco fosse disposto a ospitarla per la notte, anche a costo di tornare a dormire su travi di legno mezze marcite.

«È pericoloso» aggiunse Michael davanti alla sua muta risposta. «Vengo con te.»

«No.»

Stare con lui era l’ultima cosa che Ellen desiderava: c’era troppa confusione nella sua testa, da tempo immemore abituata a pensare in maniera logica e lineare, senza interferenze emotive o soprannaturali.

«Se stai andando da sola nella tana del lupo, non posso lasciartelo fare.»

Nella voce di Michael non c’era il tono canzonatorio che usava quando lei si metteva in testa di fare una qualche azione avventata; era serio, fermo e sicuro, ed Ellen capì che non avrebbe cercato di farla ragionare, bensì si sarebbe frapposto fisicamente fra lei e il proposito di lasciare la villa.

«Fammi uscire.»

Per tutta risposta, Michael chiuse la porta. «Dobbiamo parlare.»

«Non voglio stare con te, Michael» replicò in tono fermo. Si sentì in dovere di precisare: «Voglio che tu mi stia lontano.»

«Ho fatto una stronzata, ma credo tu lo sappia già. Ci tengo però a puntualizzare che se non mi sono spinto oltre è stato per non farle del male.»

La rabbia ribollì nel petto di Ellen. «L’hai baciata» gli ricordò. «E non crederò neanche per un istante che sia stato tu a ferm…»

«Sì, sono stato io. Lei… non era in sé, e io ne ho approfittato. Domani le farò le mie scuse, ma oggi ho bisogno che tu lo sappia: ho sbagliato. Mi sono fermato per evitare di rovinarla.»

Le scappò una risata amara. «“Rovinarla”? Ma come cazzo parli? È una donna adulta, sa prendere le proprie decisioni.»

«Posso solo immaginare il suo sistema di valori, non la conosco tanto quanto te, ma so per certo che in quel contesto non era in grado di prenderle.»

«E tu ne hai approfittato!»

Era scoppiata. Nonostante avesse biasimato Janet per essersi messa volontariamente in quella situazione, detestava ancor di più Michael per averla provocata, perché di una cosa era certa: Janet non avrebbe mai tradito la sua amicizia, e poco importava se tra Ellen e Michael non c’era niente, perché lei credeva che fossero una coppia, e – chissà – forse perfino il primo amore della sua “Ellie”, e non aveva motivi per farla soffrire. Per Michael, invece, Ellen non era che un passatempo, dunque doveva essere stato lui a sedurre la sua amica.

«Potevi corteggiarla, o come cazzo si dice» riprese, dando sfogo alla collera. «Potevi chiederle chiaramente di venire a letto con te, lo hai già fatto con me, no? Bastava che aspettassi stamattina, che lei fosse lucida e…»

«Volevo ferirti!»

Era la prima volta che Michael alzava la voce. Aveva sempre tenuto un tono moderato, e perfino durante gli scontri aveva gridato soltanto per farsi udire sopra il rumore e gli spari; adesso era diverso, però, e fu chiaro dal resto della sua frase.

«Non pensare neanche per un momento che volessi approfittarmi di lei.»

Aveva ragione. Si conoscevano da appena due settimane, ma Ellen dubitava delle accuse che gli aveva rivolto, che fossero esplicite o implicite. Lo stomaco si strinse ancora di più quando rifletté sulle sue prime parole.

«Volevi ferirmi?»

«Ho sbagliato, è stato un comportamento infantile» cercò di tagliare corto lui, ma capì presto che Ellen non glielo avrebbe concesso. Sorrise beffardo e aggiunse: «Per un attimo ho dimenticato che qualche parola seccata è l’unica cosa che posso aspettarmi da te.»

Quello non era stato un tentativo di ferirla, significava soltanto che conosceva il suo carattere; eppure le fece parecchio male.

Il suo silenzio non era incoraggiante per Michael, che tentò di poggiarla una mano sulla spalla. «È tutto a posto?»

Ellen però lo scostò. No, non era tutto a posto, e la colpa era sua. Era inutile che gli rivolgesse ignobili accuse, la verità è che un solo pensiero l’aveva assillata da quando Janet si era presentata nella loro stanza, ed era stato così pressante da mettere in secondo luogo il rimorso per come l’aveva trattata e il terrore che Michael avesse voluto approfittare di lei, dimostrandosi così diverso dalla persona con cui giaceva sotto le coperte. Era un pensiero talmente spregevole da impedirle di guardare Michael negli occhi, e probabilmente anche Janet.

«Vuoi la verità?»

La voce dell’uomo le impedì di annegare nel disgusto per se stessa. Di colpo, Michael sembrava tornato quello di sempre, pronto a schernirla per il divertimento di vederla in difficoltà; le prese il mento tra le dita e la costrinse a guardare il suo sorriso sornione.

«Mi intrigavi. Mi intrigava il tuo rapporto con Mary, e quel viscido di Crown ha detto forse la sola cosa giusta nella sua vita: siete fottutamente simili.» Si strinse nelle spalle. «Volevo vedere se lo fossi anche a letto. C’è una mente però là dentro che continua a stuzzicare il mio interesse, ed è per questo che ho continuato a scegliere te. Avrei potuto sedurre Janet in ogni momento, come era mia intenzione quando le ho salvato la vita al Campus, ed è stato soddisfacente sentire il suo odore addosso, sapere che avrei potuto averla se fosse stata sobria e non avesse scoperto di noi due. E avrei anche voluto fottermi quella signorina di buona famiglia, se il suo cuore non fosse legato a un cadavere. Ma ho scelto…»

«Aspetta, che hai detto?»

Michael si era lanciato in un monologo che, pensò Ellen, avrebbe dovuto farla sentire desiderata o cazzate del genere, e che sicuramente avrebbe allentato per un po’ la tensione e il suo odio verso se stessa, ma poi aveva pronunciato una frase che l’aveva presa in contropiede. Lo vide aggrottare la fronte.

«Lilyan» precisò lei. «Hai detto…»

La risata di Michael fu sincera e spontanea. La lasciò andare e si portò un braccio davanti alla bocca.

«Per essere… com’era?… “la studentessa migliore del suo corso”, sei davvero un’ingenua.»

«Non può essere vero! Era il suo padrino!»

«E allora?»

«Un… un Arcivescovo, cazzo!»

«E quindi?»

«Aveva l’età di suo padre!»

«Continuo a non vedere il problema. Ellen, non soffrirebbe così tanto se non fosse stata invaghita di lui. Oserei dire perfino innamorata.»

Non riusciva a crederci, eppure adesso era talmente evidente… Il rancore nei confronti di Alexander, che non aveva sparato a una bambina senza sapere cosa quella avrebbe fatto; il desiderio di lasciare la tranquillità e gli agi di Boston per seguire il padrino in una città deprimente come Arkham; il lutto che ancora portava e avrebbe portato a lungo…

Con la coda dell’occhio, notò Michael togliersi la giacca e appenderla nell’armadio, e ritornò alla realtà. Si rialzò dal materasso su cui si era seduta e afferrò di nuovo la borsa.

«Ellen, no» ripeté Michael, ma lei era decisa.

«Non voglio dormire con te. Chiederò… chiederò a Jeremy di sistemarmi nella stanza che occupavi prima, so che se ti ordinassi di andartene non lo faresti. Mi sposterò io.»

«Ellen, non devi.» Le mise di nuovo una mano sulla spalla, e questa volta lei non glielo impedì.

Doveva, invece, perché dopo quella parentesi i pensieri miserabili erano tornati, ed Ellen non poteva accettarli; il solo modo per combatterli era, paradossalmente, assecondare la loro probabilità di avverarsi. Avrebbe lasciato la camera di Michael, si sarebbe allontanata da lui e forse Janet avrebbe preso il suo posto, o forse no. Si accorse di tremare e si vergognò sapendo che anche Michael doveva averlo avvertito.

Non posso dirti che ho paura che tu e Janet vi proteggerete a vicenda, dimenticandovi di me. Non posso dirti che mi faccio schifo perché metto la mia vita prima della vostra.

«Mi dispiace, Michael, ma non mi fido più di te» disse con voce ferma, e ancora una volta era una mezza verità. «L’ho dimostrato accusandoti di volerti approfittare di Janet. Preferirei che le cose tra noi finissero qui.»

Era una richiesta sensata e convalidata da quanto accaduto nelle ultime ventiquattro ore: Michael doveva accettare la sua decisione.

Le afferrò la mano libera. «Va bene, puoi andare via, o se preferisci me ne vado io, ma devi avere un punto ben chiaro in mente» disse, fissandola negli occhi grigi. Era tornato serio, di nuovo l’espressione di chi doveva far comprendere un messaggio a tutti i costi. «Puoi non fidarti di me quando si parla di noi due, è un tuo diritto e non mi opporrò. Però ho bisogno di avere la tua fiducia in combattimento. Devo sapere che avrai la certezza che ti sto guardando le spalle, perché l’ultima cosa che ti serve è dubitare di me in un frangente simile.»

Si fermò e rifletté a lungo prima di continuare, e quando lo fece qualcosa cambiò nella sua voce. No, non nella voce.

«Se per avere quella fiducia devo guadagnarmela una volta per tutte, sono pronto a dirti la verità. Ogni cosa.»

Il suo accento austriaco era sparito.

 

***

 

Il mio nome è Stephen Crawl. Sono nato a Londra il cinque novembre del 1896, quindi il mio vero compleanno è appena passato: come Alexander, non amo festeggiare. So che stai pensando che abbia assunto una doppia identità per il mio “secondo lavoro”, ma non è così. È iniziato molto tempo prima, quando ero un ragazzino. Ho detto però che ti avrei raccontato ogni cosa, quindi partiamo dalla mia famiglia.

William Crawl era un medico illustre, molto più di quanto lo sia io al momento – e al contempo molto meno informato. Sapeva imbonire i colleghi e i mecenati, e ogni sua operazione andava a buon fine. Aveva un grande cervello, non lo nego, però era convinto che la scienza non potesse progredire più rapidamente di come aveva fatto fino a quel momento, e commise degli errori. Uno dei quali non fu costringermi a intraprendere la sua stessa carriera.

Con lui avevo un rapporto freddo, che all’epoca credevo naturale, perfino encomiabile: poneva la salute dei pazienti davanti alla famiglia, un dottore a cui dare piena fiducia. Con mia madre andava meglio, perché sebbene lei stessa fosse stata cresciuta con distacco emotivo ero il suo unico figlio, e mi ha amato sopra ogni cosa. Si chiamava Gertrude Crawl, nata Bergen, ed entrambi sono morti credendo che io avessi raggiunto la tomba prima di loro.

Non occorre dire come mi senta in proposito, credo che potrai dedurlo tu stessa dal resto del racconto. Quando vivevo a Londra, il mio unico scopo era divenire un dottore al pari di mio padre, se non addirittura migliore, sia per fare su di lui una buona impressione, che per alimentare il mio ego. La sera, però, mi divertivo come i miei coetanei, per tornare il figlio devoto e perfetto il mattino seguente. Già allora avevo cominciato a condurre due vite differenti.

Il tempo speso con i miei amici non era di soli bagordi. Discutevamo di quello che credevamo più importante all’epoca: politica e guerra. Sentivamo che ne stava per scoppiare una, la situazione in Europa era troppo tesa per rimanere ancora in stasi, e noi non eravamo certo i soli che speravano di distinguersi e portare gloria alla propria nazione. Così, quando l’estate del 1914 la guerra effettivamente scoppiò, ci facemmo trovare pronti. Ero ancora diciassettenne, ma mi sentivo adulto, in grado di reggere uno sforzo bellico, e così ho falsificato la mia identità per la prima volta, aumentando la mia età. All’esercito regio poco interessava di chi fossi il promettente erede o quanti anni avessi davvero: mi presero, e lo comunicai ai miei genitori. Mia madre si indignò, ma non poté fare nulla davanti all’espressione orgogliosa di mio padre. Aveva combattuto in passato, e reputava un onore che suo figlio stesse seguendo le sue orme anche in quella seconda direzione.

La mia carriera militare fu parecchio breve. L’esercito inglese si unì a quello francese dopo l’invasione del Lussemburgo e del Belgio da parte dei tedeschi, quindi ad agosto avevamo già attraversato la Manica. Ero un soldato comune, carne da macello, ma avevo velleità giovanili e trovavo il conflitto armato stimolante.

Almeno fino a quando non mi ci sono trovato in mezzo.

Non ho ricordi di allora. No, sto sbagliando: non ho ricordi di un singolo giorno, perché adesso mi sembra che tutto si sia svolto senza tregua, un minuto dopo l’altro. Ignoro in quale ordine combattei le varie battaglie, o se partecipai a più di una, o quale fu il primo uomo che uccisi; è una massa confusa nella mia testa, e la tengo lì, per non sbrogliarla mai, nel caso minacciasse di inglobare anche il resto dei miei ricordi.

Poi avvenne qualcosa, la fine della guerra. La fine della mia guerra. Scoprii in seguito che il mio ultimo combattimento sul campo fu al termine di agosto del 1914, vicino a Saint-Quentin. C’è ancora chi sostiene che i francesi vinsero e chi la celebra come una vittoria conclamata dei tedeschi, ma per me cambia poco: quel giorno morii.

Mi risvegliai quando le truppe inglesi avevano già arretrato. Ero rimasto incastrato durante una ritirata o uno scontro, non ricordo niente. La gamba mi faceva un male terribile e impiegai del tempo per ricominciare a muoverla, il tempo che bastò per accorgermi che il cadavere in uniforme tedesca che giaceva al mio fianco respirava ancora. Era il solo uomo rimasto, ed era finito come me in una buca forse scavata come trappola, una buca così profonda da impedirci di uscire.

Mia madre era austriaca, mio padre era un medico, perciò unii le due conoscenze che mi avevano impartito per occuparmi del ferito. Divenimmo amici, più amici di quanto non furono mai stati quelli che avevo lasciato a Londra o nelle truppe che mi avevano inconsapevolmente abbandonato. Sai cosa si prova perché lo stai passando tu in questo momento: il pericolo incombente, la vicinanza della morte, tutto ciò cementifica i legami fra persone che nulla hanno in comune. Cosa condivido io con Alexander McCrindle? Cosa condividi tu con Lilyan Butler? È l’urgenza che ci avvicina, e perfino io e te non dormiremmo nello stesso letto se un maledetto stregone non stesse cercando di farci fuori.

Sì, quel tedesco a cui avrò ammazzato almeno un compagno era diventato il mio migliore amico. Ci scambiammo storie sulle nostre patrie, aneddoti di scuola e segreti inconfessabili, perché era chiaro che nessuno dei due avrebbe potuto raccontarli in giro. Saremmo morti là dentro.

La voglia di vivere, tuttavia, era grande, e non serve spiegarti cosa dovemmo fare per procurarci i liquidi necessari al nostro sostentamento. La mia gamba era ancora dolorante e avevo troppa poca energia per aggrapparmi alla manciata di radici sporgenti. Lui era messo peggio di me, e nel giro di qualche tempo morì.

A quel punto, ho fatto qualcosa di inesprimibile. Mi professo ateo perché non posso spiegare il motivo per cui i cancelli del Paradiso rimarranno sempre chiusi per me. Fu poco, veramente poco a pensarci adesso, ma non cambia molto.

Mi servì a trovare la forza di volontà, oltre che fisica, per provare a salvarmi. Ci provai e riprovai infinite volte, e alla fine riuscii a rivedere il cielo, a stendermi sull’erba bagnata da una pioggia che mi stava deridendo, decidendosi a scendere solo allora. I tedeschi erano avanzati, e quando mi trovarono non mi riconobbero: dovettero dare per vero quello che era inciso sulla piastrina che stringevo nella mano, in modo da non dimenticare. Non la mia, che era andata perduta da tempo, ma quella del cadetto Michael Fauerbach.

Fui congedato per una serie di motivi che ora non riesco a ricordare, ma non andai in Germania dalla mia presunta famiglia, né ebbi il coraggio di tornare a casa, a Londra, non dopo quello che avevo fatto. Tenni quell’identità e mi spinsi fino in Austria, fino a un appartamento al centro di Salisburgo, dove sapevo che viveva il fratello di mia madre.

Non mi ha mai chiesto spiegazioni e credo che continuerà a non farlo. Mi ha visto arrivare con una divisa tedesca e un accento inglese che avevo mascherato solo fingendo di essere rimasto muto per lo shock; sapevo troppe informazioni su Jan Bergen e sua sorella perché non credesse alle mie parole. Lo supplicai soltanto di tenerlo per sé, poiché da quel momento io sarei stato Michael Fauerbach, un giovane studente preso sotto la sua ala, e solo quando mi spingo oltre il confine posso arrischiarmi a chiamarlo “zio Jan”, certo che nessuno potrà mai trovare un collegamento.

 

***

 

Quando finì il racconto, era interamente calata la notte, e loro non avevano acceso alcuna luce. Ellen aveva lasciato che gli occhi si abituassero al buio, e ora fissava il punto in cui sedeva Michael, o Stephen, e aspettava che aggiungesse altro.

«Nessuno conosce la mia storia, e forse te l’ho raccontata per lo stesso motivo per cui parlai dei miei piccoli segreti con il soldato Fauerbach: chissà se uno di noi vivrà abbastanza a lungo da riferirla ad anima viva. Forse, però, l’ho fatto perché so che vivremo entrambi, e che posso fidarmi di te, perché non sei ancora scappata via. Non mi hai gridato che sono un mostro, come nella mia testa è successo tutte le volte in cui ho immaginato di rivelarlo a mio zio. So che nascondi qualcosa oltre alla tua infanzia da ladruncola, Ellen, ma va bene così. Io mi fido già.»

Sbuffò e si alzò in piedi, decretando di avere concluso e che ora Ellen poteva trarne le opportune conseguenze.

«Vado io, ti lascio la stanza. Alla fine, era la tua.»

«No.» Ellen lasciò scivolare la borsa a terra. «Resta.»

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Capitolo 17
*** Capitolo XVII ***


Capitolo XVII

 

Quella mattina il cielo era stato clemente, permettendo al sole di farsi largo tra le nubi giusto il tempo di una passeggiata fra le vie della zona settentrionale di Arkham. Erano giunti fin là in quattro, trasportati da un taxi da un lato all’altro del Miskatonic River, che di giorno appariva meno spettrale di quello che – immaginava Ellen – era stato la notte del sacrificio; avevano preferito lasciare Jeremy a casa, in modo che potesse vegliare sui libri, come se ce ne fosse stato il bisogno: sembrava che Chateaubriand Manor stessa tenesse lontani curiosi e ladri. Jeremy era rimasto anche per un secondo motivo, attendere Janet, la quale era già uscita quando Ellen aveva provato ad avere un colloquio con lei. Neanche Lilyan si era accorta della sua fuga, se tale poteva essere chiamata; in realtà, Janet aveva portato con sé solo il cappotto e la borsa, dunque erano certi che sarebbe tornata. Forse aveva deciso di schiarirsi le idee fuori da quelle quattro mura.

Ellen la capiva, eppure avrebbe preferito parlarle subito al suo risveglio. Era stata una notte intensa, ma non come quella passata dalla sua amica in piedi nell’attesa di potersi scusare con lei; la confessione di Michael – Michael? – l’aveva provata, e il sonno era calato su di lei prima che la sua mente potesse elaborare del tutto quelle informazioni. Quando si era svegliata erano ormai le nove passate, e di Janet non c’era più traccia.

Scesa per fare colazione, aveva trovato il resto del gruppo riunito attorno al tavolo della sala da pranzo, tutti loro così intenti a fare congetture da non accorgersi quasi del suo arrivo. La priorità, concordavano all’unanimità, era togliere a Darcus l’ultimo dei quattro tomi che il Guardiano, Alexander, avrebbe dovuto custodire, ed eventualmente quello o quelli prelevati dalla Miskatonic Library. Avevano fatto uno schema dei poteri di cui Darcus sembrava dotato: evocazione di creature soprannaturali, trasfigurazione del proprio aspetto e un terzo punto di cui, a mente fredda, Michael e Alexander si erano ricordati riguardo la fatidica notte sul fiume: gli uomini che accompagnavano Sills sulla sua imbarcazione personale erano parsi non agire di volontà propria. Michael raccontò dei loro sguardi vacui, degli occhi vitrei, e l’attenzione di Ellen si era subito concentrata su Lilyan, al ricordo di ciò che Alexander aveva detto in merito alle bambine di Salem. Che anche Darcus, come la signorina Smith, fosse uno stregone? Michael lo aveva chiamato così scherzosamente, ma adesso quella definizione sembrava calzargli a pennello.

Lilyan però era stata forte, mantenendo un’espressione risoluta e concentrata, e alla fine aveva proposto di uscire di casa per indagare. Peccato che non sapessero dove andare, se non in mezzo ai criminali di O’Bannion, finché Ellen non aveva dato loro un’idea.

E così, quell’insolitamente calda mattina di novembre, si erano diretti nella parte alta di Arkham, nei distretti riservati al municipio e alla principale centrale di polizia, agli uffici dei quotidiani e al cupo Arkham Sanitarium. Con la Miskatonic Library fuori uso, avevano dovuto accontentarsi di altre due mete: Rare Books and Maps, il negozio dedicato alle rarità sito nel Northside all’incrocio tra Gedney Street e West Hyde Street, e l’Arkham Public Library nella Downtown. Alexander e Lilyan erano stati destinati al costoso esercizio che confinava con la Camera di Commercio presentandosi con le generalità della signorina Butler, in modo che lei fosse immediatamente considerata una cliente che poteva permettersi di acquistare al suo interno; Michael avrebbe voluto accompagnarla, forse perché entusiasta alla prospettiva di estrarre a sua volta un portafoglio colmo di pezzi da venti, ma lei aveva declinato chiedendo invece ad Alexander di farle compagnia. Non si trattava di sfiducia nei confronti di Michael, credeva Ellen, bensì dell’appena riallacciata amicizia tra Lilyan e il detective di Boston.

Oppure sa cos’è accaduto tra Michael e Janet e vuole evitare di fare la stessa fine.

Ellen e Michael avevano quindi preso la direzione opposta, inoltrandosi nella Downtown chiassosa di metà settimana, e tra il Tribunale e la Banca Nazionale si trovavano ora a pochi passi dalla biblioteca pubblica della città. Lo scopo era lo stesso: cercare informazioni utili sui pochi dettagli in loro possesso, da Dagon all’Ordine del Crepuscolo d’Argento, da rari libri proibiti a eventuali avvistamenti di altre creature mostruose tra le strade di Arkham. Quest’ultima era un’idea che Ellen non aveva ancora condiviso con il resto del gruppo, nemmeno con Michael, e che le suggeriva piuttosto di cercare negli archivi storici o dei quotidiani locali.

Lo farò domani, ora pensiamo allo scopo di oggi.

C’era poi un pensiero che le ronzava in testa e che non riusciva a cogliere. Le sembrava che stessero dimenticando qualcosa di essenziale.

«Dove pensi che sarà andata?»

Da quando erano rimasti soli, Michael aveva eliminato il falso accento teutonico, ma Ellen ancora doveva abituarcisi.

«Janet, intendi?»

«Mh-mh. Volevo scusarmi per l’altra sera, ma… Pensi che ci stia evitando?»

«È possibile. Aspetta, ci siamo.»

Si fermò di fronte all’ingresso dell’Arkham Public Library, ringraziando la biblioteca per avere interrotto quella conversazione imbarazzante: non voleva parlare di Janet perché non voleva ricordare quanto si sentisse miserabile nei suoi confronti, e neanche voleva ripensare al discorso di Michael, che le tornava alla mente ogni volta che lui apriva bocca. Era troppo per lei in quel momento, che doveva trascorrere indagando su un nemico che si faceva sempre più determinato e insidioso.

L’edificio era stato costruito nella prima metà del XIX secolo, decenni prima della Miskatonic Library, eppure il suo splendore e la sua fama erano stati presto soppiantati dalla biblioteca universitaria, nota in tutto il Massachusetts. Si diceva che avesse circa diciottomila volumi, suddivisi nei due piani in cui si articolava la biblioteca, e che essi provenissero principalmente da donazioni di privati cittadini. Ellen si chiese se lì ci fosse una copia di Ventimila leghe sotto i mari, o se Masters si fosse appropriato anche di quella.

C’era un discreto viavai quel giorno, perlopiù composto da studenti che si erano ritrovati privi di un luogo dove studiare o preparare le tesi di laurea; con un groppo allo stomaco, Ellen provò una sorta di nostalgia e ulteriore senso di colpa che si sbrigò ad allontanare.

«Sarà impossibile cercare qualcosa qui in mezzo…» mormorò Michael, che tuttavia si diresse subito in direzione della zona Enciclopedie. Tornò dopo tre minuti esatti.

«Gli studenti non ti lasciano passare?»

«Non solo: un paio di loro si sta litigando un libro e non voglio finirci in mezzo.»

Ellen sospirò. «Come diavolo facciamo a trovare informazioni in questo caos?»

«Ti stai già demoralizzando?»

«Se fossi alla Miskatonic, saprei dove cercare. Terzo piano, a destra, terzo scaffale dal fondo: Religione» ripeté, visualizzando la mappa dell’amata biblioteca nella propria testa.

Michael rise. «E il quarto?»

«Antropologia, come il quinto. Il secondo invece è Mitologia, e anche quello potrebbe esserci utile, mentre il primo è…» Ellen rimase a bocca aperta, riflettendo sul ricordo. «Vuoto.»

«Vuoto? Credevo stessero prendendo in considerazione di aprire una nuova ala per via di tutti…»

«No, non era vuoto, un tempo. È stato da… da agosto. Me ne sono ricordata solo ora.»

«Dopo la prima tentata rapina?»

«La presunta prima tentata rapina.»

Michael sollevò un sopracciglio, scettico.

«D’accordo, la rapina è avvenuta. Ci hanno provato, non ci sono riusciti, e Armitage ha fatto sparire tutto ciò che poteva essere di interesse per il ladro.»

«Quindi… rarità?»

Ellen scosse la testa. «No, li tiene in una stanza chiusa e accessibile solo a lui e a professori con permessi firmati e controfirmati. Là invece c’erano… libri di mitologia, se non erro. Anche se…» Rifletté per qualche secondo prima di guardare di nuovo Michael. «Nella stessa zona ci sono i libri di Archeologia, me lo ricordo perché spesso Janet studiava nei tavoli adiacenti. Ed è stata lei a dirmi che… che… No, troppe coincidenze.»

«A dirti cosa?»

«Che secondo lei i tomi lì presenti potevano essere raccolti sotto la targhetta Occultismo

 

***

 

La ricerca era stata infruttuosa per entrambi i gruppi. Lilyan si era fatta passare per una se stessa curiosa e vivace, accompagnata da un cavaliere di cui non aveva voluto rivelare il nome, ma non avevano trovato alcunché di utile tra le merci che Edwin Tillinghast continuava a proporre loro, e alla fine avevano ceduto proprio come avevano fatto Ellen e Michael. A differenza dei loro compagni, i due erano rimasti più a lungo nella biblioteca e avevano anche chiesto aiuto alla signorina Whitmarsh, la quale apparve però profondamente infastidita dalle loro domande. Ellen si era domandata se il motivo fosse l’argomento delle sue ricerche, la religione cananea, ma poi aveva visto rivolgere la stessa espressione scocciata a una matricola che desiderava solo un dizionario di latino.

L’appuntamento con il resto del gruppo era a Chateaubriand Manor, e fu solo mentre stavano rientrando che Michael, ritrovando l’accento austriaco, aveva suggerito: «Potremmo tornarci con Alexander. Stando al racconto di Janet, ha “sentito” la presenza dei libri nell’ufficio di Masters, allo Ye Olde Booke Shoppe, quindi se siamo fortunati…»

«Michael, ci serve un libro di mitologia o religione, non uno maledetto.»

«Proviamo lo ste…»

Si interruppe quando, attraversando l’ingresso, si accorse del ritorno di Janet. Prima che Ellen potesse fare altro, Michael la precedette e prese da parte la sua amica. Ellen sospirò: avrebbe aspettato ancora, ma era giusto che lui le parlasse. Rimase lontana, gli occhi puntati su di loro, ripetendo le parole che lei stessa avrebbe rivolto a Janet, e fu così che si accorse che la donna era assente. Un brivido la colse, ma ci volle solo un attimo perché capisse che non era sotto l’influsso di una seconda mente: era soltanto pensierosa. Fece un cenno con il capo a Michael e gli sorrise, poi esitò di fronte a Ellen.

Per tutta risposta, lei la trascinò in salotto. Era pronta ad affrontarla, ad affrontare parte dei propri demoni, eppure dovette fermarsi notando l’improvviso cambio di arredamento.

Ecco cosa stava facendo Lilyan ieri.

Sopra il camino, sulla parete che fino a quel momento Ellen aveva visto vuota, spiccava il maestoso ritratto di un uomo sulla cinquantina, coperto da un elegante abito nero, un altrettanto signorile mantello che gli adornava le spalle e, stretto dal pugno sinistro, un lungo bastone dalla punta tonda.

Per la prima volta, Ellen aveva davanti l’Arcivescovo Giraud Des Chateaubriand.

«È un ottimo lavoro, non trovi?»

La voce di Janet era dolce e melodiosa come al solito, ma attraversata da un tremore che ne rivelava il nervosismo. Non era giusto che soffrisse ancora.

«Sono stata troppo dura con te, Janet, e voglio che tu sappia che non ho nulla da rimproverarti. Spero che Michael ti abbia dato la sua versione e si sia scusato adeguatamente, sennò stanotte lo sgozzo in un…»

Per tutta risposta, Janet allargò le braccia e corse ad abbracciarla, mentre un sorriso sollevato si faceva largo sul suo volto.

«È tutto come prima?»

«Come prima e ancora meglio.»

L’accenno di un sorriso apparve anche sulle labbra di Ellen, ma non durò a lungo. C’era altro che turbava Janet, e al contempo la rendeva euforica.

«Vieni, siediti» le fece segno di accomodarsi sul divano accanto a lei. «Questa mattina sono stata al Campus.»

Ellen sgranò gli occhi. «Alla Miskatonic Library?»

«No, non è ancora accessibile. Però ho parlato con Wingate… con il professor Peaslee, te lo ricordi? Bene, suo padre era molto amico del dottor Armitage prima di… di invecchiare.»

Di perdere tutte le rotelle, la corresse mentalmente Ellen. Era vero: Peaslee Sr non soffriva di demenza senile, ma era impazzito da un giorno all’altro, e non c’era ancora modo di capirne il motivo.

«Speravo che potesse intercedere per me, domandargli cosa fosse successo nella biblioteca, e alla fine abbiamo deciso di passare a casa sua.»

«E?»

«Lui e sua moglie vivono nell’Uptown, non troppo distanti dal Campus.» Janet sospirò. «Purtroppo non ha voluto riceverci.»

C’era altro, Ellen lo capì immediatamente. «Cos’hai scoperto?»

«Ho parlato con Eleanor, sua moglie. È una signora tanto a modo, ed era davvero preoccupata per suo marito… Ci ha fatto stare nel portico, non ha osato imporci di andarcene come aveva fatto con altri curiosi. Dice di ricordare Wingate quando era un bambino e scorrazzava sul loro prato… e ammetto che abbiamo fatto leva su quell’affetto.» Janet si adombrò per un istante, come vergognandosi di se stessa. «Suo marito non lascia l’abitazione da quando è avvenuto lo scasso, e ha concesso solo al suo psichiatra di vederlo. Nonostante il segreto professionale, il medico ha rincuorato Eleanor spiegandole che Henry era soltanto scosso, che certe avventure non andavano bene alla sua età e che aveva solo bisogno di riposo. Però lei è preoccupata perché… ecco… Henry ha dato fuoco ai suoi libri.»

Ellen sussultò, e dallo sguardo di Janet comprese che entrambe stavano immaginando la grave perdita che poteva avere apportato quel gesto. «I… i suoi libri? Tutti quelli che aveva in casa?»

«No, Eleanor è stata precisa: la scorsa estate, dopo il primo tentativo di furto, Henry si era portato dietro una pila di volumi che si era rifiutato di farle vedere, e che teneva chiusi in una cassaforte nel proprio studio. Quando un paio di giorni fa ha visto che il marito era finalmente uscito dallo studio per accendere il camino, ha notato che stava bruciando quegli stessi libri. Li ha riconosciuti, dice che… le davano una strana sensazione.»

Oh no.

«E… e non è solo questo, Ellie. A quanto pare, il secondo furto ha avuto successo ed è stato rubato lo stesso libro che interessava al primo ladro. È solo un’ipotesi di Eleanor, ma ha senso, perché ha sentito il marito dire che rimpiangeva di non averlo dato alle fiamme quando avrebbe potuto farlo.»

 

***

 

«Quindi l’uomo che ha tentato di rubare il libro quest’estate…?»

«No, non può essere Darcus.»

«Ma era già evaso.»

«Lo scasso è avvenuto ad agosto, Darcus è evaso nello stesso periodo.»

«Il cane, dimenticate il cane!»

«Specifica, Ellen: dimentichiamo l’uomo sbranato dal cane.»

«Che potrebbe essere stato… come si chiamava?»

«Carl Sanford.»

«Quello delle lettere?»

«Quello delle lettere.»

«Quindi dovremmo cercare un cadavere. Forse è passato per l’obitorio, forse è stato proprio Crown a esaminarlo…»

«Chi è Crown?»

«No, lo hanno fatto sparire. Forse invece c’entrano i militari…»

«Ho mal di testa.» Lilyan si lasciò cadere sulla sedia, strofinandosi le tempie. «E non del tipo… McCrindle.»

«Non è una bella definizione.» Alexander storse il naso.

«Hai capito cosa intendevo.»

«Per fortuna non è del tipo McCrindle» precisò Ellen, e allora si ricordo dell’intuizione di Michael. «Alexander, forse potremmo tornare con te alla libreria pubblica.»

«Perché? Non avevate trovato niente.»

«Ma non avevamo te come… bussola.»

Ora gli sguardi di tutti erano puntati su di lei.

«Oh, andiamo, ho ragione! Potrebbe essere utile! Forse esistono dei volumi con… incantesimi, maledizioni, roba simile. Se ipotizziamo che siano quelli i libri che Armitage ha distrutto, forse ne hanno altri…»

«…alla biblioteca pubblica?»

«Sì, beh, tu li hai venduti a un mercatino!»

«Touché» fece Michael, avvicinandosi all’attaccapanni per recuperare cappotto e guanti. Il clima esterno si stava nuovamente guastando. «Chi vuole venire con noi?» Senza aspettare una risposta, si mosse per precederli fuori, ma quando ebbe aperto la porta si immobilizzò. «Ah. Buonasera.»

Ellen si affacciò e notò che stava guardando in basso. Questo poteva solo significare che Logan era tornato; eppure un istante dopo a correre in casa fu una ragazzina gracile da capelli stopposi. Si fermò di fronte a lei e la soppesò con occhi spalancati.

«Wooow» esalò infine, e mosse il naso per cercare di catturare un profumo. «Cos’è questo odore?»

«Pulito» mormorò Michael richiudendo la porta e preparandosi a disfarsi del cappotto.

Ellen gli scoccò uno sguardo ostile. «Nanny, è bello vederti.»

Se Logan aveva preso l’abitudine di imitare Marco, in quegli anni di lontananza Nanny non aveva perso quella di atteggiarsi come Ellen: le si leggeva in faccia che avrebbe voluto saltarle in braccio, ma si trattenne e mise su un’espressione indifferente.

«Anche per me, Ellen.»

Questa volta, Lilyan era preparata e per niente disposta a lasciar passare. «Ellen, mi spieghi?»

«Conosci già Logan» rispose lei, indicando il ragazzino che era entrato dietro di Nanny. «Lei invece è Anna… Nanny. Sono i nostri informatori.»

«Che è successo al fiume? Marco è talmente furioso che non voleva lasciarci venire» chiese Logan ignorando completamente Lilyan. Parlava solo con Ellen, come se fosse lei la proprietaria di casa.

Di nuovo Lilyan si portò le mani alle tempie. «Vado in salotto. Voi non fate danni.»

Alexander e Janet esitarono, si guardarono, poi decisero di seguire Lilyan. Molto bene, pensò Ellen: i due ragazzini avrebbero parlato più chiaramente senza sconosciuti fra i piedi.

«Spostiamoci in cucina, Jeremy vi preparerà qualcosa di caldo.»

Loro avevano appena pranzato, ma Ellen immaginava che Logan e Nanny seguissero la ferrea dieta della strada, che imponeva loro di mangiare solo una volta al giorno, due in quelli di festa. Per forza erano ancora gracilini. Prese quindi gli avanzi dei giorni precedenti – roastbeef, patate, formaggio fuso, pane morbido, torte al cioccolato, biscotti sfornati durante la loro escursione mattiniera – e li distribuì sul tavolo, davanti alle tazze di tè che Jeremy stava servendo, mentre fingeva di non vedere Nanny che nascondeva dei biscotti nel cappotto sformato. Il fatto che stessero sporcando il pavimento che lucidava con accuratezza ogni giorno non sembrava disturbarlo.

«Cosa stavi dicendo sul fiume?»

Jeremy era uscito, lasciando Ellen e Michael con i due piccoli ospiti. Nanny scrutò sospettosa Michael, ma Logan le diede una gomitata. «Lui è quello con i soldi» spiegò.

«Quello con i soldi… Ottima definizione» rifletté Michael reprimendo una risata. Si sedette davanti a loro, nel posto accanto a Ellen. «Il fiume» ricordò a Logan.

«Abbiamo visto i rottami di un paio di barche» iniziò lui con la bocca piena di roastbeef. «E ci sono uomini che non si trovano. Torzi, Rossetti, il Guercio… questi qua.»

«Gente che bazzica il porto» precisò Nanny. Stava masticando in fretta quanto Logan, ma aveva avuto il buon senso di inghiottire prima di parlare.

«Marco gli aveva detto di non impicciarsi con gli affari degli irlandesi, ma l’hanno ascoltato? No, e ora sono spariti.»

«E voi?» Nella voce di Ellen c’era l’urgenza di una risposta. Michael non poteva conoscere tutti i membri del gruppo di Marco, dunque non avrebbe potuto allentare quella morsa sul suo petto descrivendole i marinai sacrificati da Darcus.

«Noi siamo rimasti nel covo, come ci hai consigliato. E adesso Marco è convinto che porti rogne.»

«Vuole che ti stiamo lontani» proseguì Nanny. «Dice che tanto ora abbiamo di che mangiare e che non serve mettersi ancora nei guai.»

«E ha ragione» intervenne Michael. Ellen lo fissò sbalordita. «È vero, Ellen: non ci servono altre informazioni sugli irlandesi, sappiamo già chi c’è dietro tutta questa storia.»

«Però…»

«Non mettiamoli in pericolo» aggiunse a voce più bassa, stringendole una mano.

Ellen esitava. Se sia Marco che Michael pensavano che fosse meglio tenere i due bambini lontano da quella storia, come poteva contraddirli rischiando di farli uccidere? Era un tarlo che non avrebbe potuto aggiungere alla pila che già serbava nel cuore.

Michael la lasciò andare e tastò la giacca in cerca del portafoglio, disposto a ricompensarli sebbene non avessero niente per loro, ma poi si fermò e guardò Logan. «Non siete venuti qui per salutare Ellen.»

«Abbiamo saputo una cosa» disse il ragazzino con un sorriso sporco di senape.

«Non “abbiamo saputo”, l’ho letto io» replicò orgogliosamente Nanny. «O’Bannion dà una festa a casa sua, al Timbleton Arms. Ci sarà un mucchio di gente di quella che conta, ricconi e truffatori. Pure Sills e Leary ci saranno, i ’Finns si stanno rodendo il fegato perché non li hanno invitati.»

«Cosa festeggia?»

«L’acquisizione delle proprietà di Potrello, oltre a un nuovo incarico che pare gli abbiano dato fuori da Arkham.»

«“L’acquisizione”?»

«Boh, il fatto che ora siano sue. Dicono tutti questa parola, giù ai…»

«Dobbiamo andarci» la interruppe Ellen, gli occhi grigi puntati su quelli neri di Michael. «O’Bannion abita all’ultimo piano del Timbleton Arms. C’è un solo spazio là per ospitare una festa, ed è al primo piano.»

«L’appartamento rimarrà scoperto.»

Era la loro migliore occasione per scoprire la prossima mossa di Darcus.

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Capitolo 18
*** Capitolo XVIII ***


Capitolo XVIII

 

«Assolutamente no

La voce di Alexander si era alzata di un’ottava, mentre il suo pugno batteva sul legno massiccio del tavolo da pranzo. Ellen roteò gli occhi: possibile che gli uomini in quella casa dovessero fornire il proprio virile punto di vista per ciò che concerneva le donne a loro vicine? Dopotutto, la proposta di Michael era sensata, e avrebbe messo Lilyan e Janet in molti meno guai di quelli in cui si sarebbe cacciata lei.

«Mio caro Alexander» esordì Michael con un tono calmo, nel tentativo di farlo ragionare «ci si presenta un’occasione dal valore inestimabile. Con tutta probabilità la migliore per indagare…»

«Dicevate lo stesso sul contrabbando notturno» lo interruppe Alexander, spostando un indice accusatorio dal suo interlocutore a Ellen, che non si sentì completamente di dargli torto. Incrociò invece le braccia al petto e attese che Michael se la sbrogliasse da solo, per una volta.

«Contrabbando notturno: hai detto bene. Nessuno doveva vedere ciò che stava accadendo sull’isola, e di conseguenza sul fiume, fornendo un’ottima opportunità al nostro nemico di unire l’utile al dilettevole.»

Utile: contrabbandare alcolici. Dilettevole: sacrificare dei poveri innocenti. O era il contrario?

«Non puoi negare che abbiamo appreso dettagli interessanti da quella sortita.»

«La loro sortita.»

Michael arricciò il naso. «Il risultato è lo stesso. Questa volta gli eventi si svolgeranno in maniera differente, e senza pericolo per le nostre amiche.»

Ellen si ritrovò a osservare il metodo dell’uomo: parlava al plurale, facendo in modo da coinvolgere sia Alexander che il resto del gruppo nelle decisioni già prese e nelle vicende passate, e tenendo un tono di voce appena più basso di quello del detective; se Alexander lo alzava, lui faceva lo stesso, e viceversa, guardandosi dal tenerlo troppo vicino o lontano dal suo. Doveva averlo appreso comunicando le cattive notizie ai pazienti, o nel corso del suo “lavoro occasionale”.

«Non andranno da sole.» Adesso Alexander sembrava disposto a ragionare. Rimase in piedi, ma le spalle si rilassarono.

«Mai. Ci sarò io con loro.»

Sia Ellen che il detective aggrottarono la fronte confusi, ma lei rimase in silenzio, cercando di capire dove volesse arrivare.

Michael si sbrigò ad aggiungere: «Tu andrai con Ellen.» “Andrai”, non “andresti”: decisione presa nella sua mente, che loro lo volessero o meno. Rendeva tutto più reale. «Qualunque travestimento potresti scegliere per infiltrarti insieme a noi, Darcus ti riconoscerebbe di sicuro. Saresti più vicino, a portata di sguardo, e passeresti il tempo a nasconderti da lui. Ma fuori» portò una mano sulla mappa dettagliata della città che Jeremy gli aveva fornito «potresti aiutare Ellen e i suoi amici.»

«È pericoloso per lei» disse a quel punto Alexander, spostando l’attenzione sulla terza persona presente nella stanza.

«Mi ci vedi in abito da sera?» domandò Ellen, decidendosi a intervenire.

«Desterebbe sospetti» concordò Michael.

Alexander sospirò profondamente, poi fissò la mappa e si arrese: «D’accordo, rispiegami il piano.»

«La signorina Butler, la dottoressa Holmes e io ci recheremo alla festa. Sono certo che faremo tutti un’ottima impressione in abiti eleganti. Forse dovremmo lavorare sulla postura della nostra bella archeologa, ma è un dettaglio da poco. Mi interessa soprattutto che la piccola Lilyan sia avvezza ai ricevimenti e sappia perfettamente come comportarsi. Mi presenterò come un importante medico di Boston con le mani in… affari loschi.»

Ellen sbuffò. In pratica sarai te stesso.

«Le signorine saranno le mie accompagnatrici. Potrei anche far passare Lilyan come la sorellina a cui presentare la crème de la crème del Massachusetts, e nel frattempo informarmi sui carichi speciali della Lucky Clover Cartage. In tal modo, terremo sotto controllo il padrone di casa e gli ospiti, tra cui secondo le indiscrezioni ci saranno anche Sills e Leary, i due bracci destri di O’Bannion, mentre voi vi dedicherete alla parte più importante del piano.»

Michael tacque, ed Ellen si chinò sulla mappa per illustrare ad Alexander le sue intenzioni.

«La festa si svolgerà al primo piano, nella sala da ballo del Timbleton Arms. È un complesso di appartamenti di lusso, dunque possiede una zona in cui organizzare feste di ogni genere. Le finestre corrono lungo tutto il perimetro, permettendo a noi, che saremo all’esterno, di tenere sott’occhio la situazione. Saremo io, te, Logan e Nanny. Nanny farà da palo» aggiunse subito «perché conosce gli irlandesi di O’Bannion e può comunicarci in anticipo se qualcuno si accorgerà di noi.»

Alexander fissò il punto indicato da Ellen. «Rimarrà in strada?»

«Sì, passeremo dall’esterno. Il Timbleton Arms normalmente ha un solo portiere, ma immagino che quella sera ci saranno anche un paio di uomini fidati. A noi interessa invece il palazzo adiacente: sono quattro piani, uno meno del Timbleton, ma ho chiesto a Logan di preparare delle assi per permetterci di attraversare. Il cornicione…» Ellen esitò. «A quello dovremo stare attenti. La nostra fortuna però è che il palazzo dà sull’interno dell’appartamento di O’Bannion e su due brevi tratti di corridoio, dunque potremo sapere in anticipo cosa o chi ci aspetterà. Una volta dentro, cercheremo di capire quale sarà la prossima mossa di Sills. Di Darcus.»

Era un piano ben congegnato, con una marea di momenti che potevano andare storti, molti dei quali però riguardavano lei, Logan e Alexander. Gli altri sarebbero stati al sicuro… probabilmente.

«Sai come forzare una finestra, o una serratura?» domandò all’improvviso Alexander, guardando Ellen con un’espressione indecifrabile.

«Sì.»

«Perché?»

Lei rimase in silenzio. Prima o poi quel discorso sarebbe saltato fuori, così come era suo dovere informarli sul modo in cui aveva conosciuto i due bambini che ora erano nella stanza accanto, viziati di Lilyan e Janet. Temette che sarebbe stato Michael a rispondere per lei, ma l’uomo rimase zitto.

«Ho vissuto con loro. Con quei ragazzini, e altri» confessò Ellen. «Janet non lo sa. Puoi anche dirglielo adesso, ma sappi che non ti ha nascosto niente.»

«Ti fidi di loro?»

Fece una smorfia amara. «Mi fido dei soldi che prometteremo a lavoro concluso.»

Non era del tutto vero, ma quelli erano affari suoi e basta.

Alexander annuì piano, poi rifletté per qualche secondo. «Ci mancano gli inviti. Immagino che un ricevimento di questo tipo sarà per ospiti selezionati.»

«Posso pensarci io» disse Ellen. «Un giorno e saranno nostri, giusto in tempo per prepararci alla serata.»

Era vero: Ellen conosceva dei falsari di cui andare fiera. Nessuno di quegli inviti avrebbe destato sospetti; dopotutto, Omar era riuscito a creare per lei i documenti di identità e il diploma per farla accedere all’università. Ellen ricordava ancora il sorriso congelato sul volto di Marco, certo che quell’inganno sarebbe stato svelato nel giro di un’ora, e invece anni dopo lei era ancora Ellen Lawlier, studentessa di Biologia alla Miskatonic University. Per il giusto compenso, Omar avrebbe svolto il lavoro in fretta.

 

***

 

Il piano era stato esposto anche a Janet e a Lilyan, che avevano accettato senza fare alcuna obbiezione. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Ancora una volta, era giusto parlare di utile e dilettevole. Utile: spiare O’Bannion e i suoi, in particolar modo Sills, era più facile in tre che in uno. Dilettevole: non lacerarsi l’anima nell’attesa di sapere se i loro compagni fossero vivi o morti. Forse non era esatto metterlo sotto l’etichetta di “dilettevole”, ma Ellen era piuttosto certa che la velocità con cui le due donne avevano aderito al piano fosse dovuta proprio a quel punto.

Tutto il resto era avvenuto con eguale successo, perlomeno per quanto riguardava la preparazione.

Logan e Nanny erano stati congedati con il compito per Omar e la richiesta di farsi vedere ai margini orientali del Campus la sera successiva alle sette e mezzo, dopo avere consegnato gli inviti contraffatti nella cassetta delle lettere di Chateaubriand Manor. Era essenziale che i tre “ospiti” ne entrassero in possesso in anticipo.

Lilyan aveva trascinato Janet a fare compere, asserendo che la sua amica non avesse abiti da sera adatti all’occasione, e che lei non poteva certo riciclarne uno già usato per una festa di gran lusso. Dopodiché, al loro rientro, cariche di scatole e cappelliere trasportate da Jeremy, Lilyan si era chiusa in salotto chiedendo di rimanere sola fino all’ora di cena.

Michael non si era fatto tanti problemi, scegliendo uno smoking e un panciotto entrambi neri. Mentre si aggiustava il farfallino di raso, Ellen uscì dal bagno con un travestimento a regola d’arte: in altre parole, aveva adattato un paio di pantaloni e una camicia che Logan aveva lasciato vicino alla cassetta delle lettere insieme agli inviti. Sulla testa si era già calata una coppola di lana grigia in grado di nasconderle i capelli rossi. Erano un retaggio irlandese, perciò avrebbe potuto concedere a qualche ciocca di fuggire, ma voleva celare il più possibile la propria identità.

Non appena la vide, Michael ebbe un sussulto. «Bene, ora ho la conferma che non avremmo potuto portarti sulle barche: non passeresti mai per un uomo adulto.»

«Fottiti.»

«Mi sento anche in dovere di aggiungere che, per la prima volta, non provo l’impellente bisogno di saltarti addosso.»

Ellen sentì le guance avvampare e ripeté un «Fottiti» poco convinto.

«Ti senti pronta?»

Il tono di Michael era cambiato. Si avvicinò a lei mentre si spargeva il lucido per le scarpe sui vestiti e su parte delle zone scoperte della pelle: doveva sembrare un orfanello debole e inoffensivo.

«Sì.»

Era sincera, si sentiva davvero pronta. Stava tornando nel suo ambiente naturale, dove le era richiesto di applicare le doti apprese nel corso dell’adolescenza, tra acrobazie sui cornicioni del quinto piano e serrature scassinate in fretta e furia, prima di essere avvistati dai proprietari delle abitazioni prese di mira. Doveva solo ritrovare le capacità di un tempo, ma già si sentiva grata a Logan per quei pantaloni che le permettevano di muoversi agilmente. Per fortuna ciascuno di loro indossava abiti di seconda mano e quelli erano appartenuti a Marco prima che al ragazzino, perché altrimenti sarebbe stato complicato, pur con il proprio corpo da “Scricciolo”, entrare nei pantaloni di un dodicenne.

«Vieni qui.»

Le voltò la testa e la baciò fugacemente sulle labbra.

«È vero, sembri un bambino, ma uno dei due potrebbe morire stanotte e non voglio avere rimpianti.»

Lei si divincolò, sebbene grata di quel gesto, e commentò: «E tutte le belle parole di ieri?»

«Erano per tranquillizzare il nostro detective. Potrebbe davvero finire male, stavolta, ma voglio essere ottimista.»

«Se questo è essere ottimisti…»

Diede un’ultima passata di lucido sul bavero, poi si diresse verso la porta e scese nell’ingresso, seguita da Michael. Le altre due donne comparvero poco dopo. Janet era incantevole nel lungo abito rosa antico con le frange che le celavano le ginocchia, i capelli biondi raccolti in un elegante caschetto; non era riuscita a fare a meno degli occhiali, che erano il solo accessorio che si fosse concessa. Lilyan, invece, era bella da mozzare il fiato: aveva cinto i riccioli neri con un cerchietto dal quale spuntava una piuma bianca. Il vestito verde smeraldo si abbinava ai suoi occhi e la trama intricata era messa ulteriormente in risalto da una collana di perle.

Sì, con quella roba addosso io avrei fatto pena, rifletté Ellen, felice di non doversi unire alla festa.

Alexander comparve dal salotto e rimase a bocca aperta di fronte a quella visione, mentre Michael si era già profuso in complimenti e lusinghe verso le due donne. Ellen notò che il detective indossava un Fedora che poteva essere rapidamente calato sul viso per impedirne il riconoscimento, e abiti simili, ma meno sporchi, a quelli che aveva utilizzato per passare come un indigente qualche sera prima al molo.

«Possiamo andare» comunicò infine Michael, una volta che anche Jeremy fu comparso in divisa da autista. Poggiò una mano sulla coppola di Ellen. «Fa’ attenzione, ragazzina.»

Lei e Alexander si ritirarono nel salotto, in attesa del ritorno di Jeremy. Avevano concordato di aspettare il tempo necessario per permettere ai tre compagni di introdursi al ricevimento, per poi incontrarsi con Logan e Nanny. In passato, era già stata sola con il detective in quella stessa stanza, ma non c’era stata quella trepidazione, né il maestoso ritratto dell’Arcivescovo appeso alle spalle di Alexander. Ellen si chiese se lui avesse scelto quella posizione per evitare di incontrare lo sguardo vuoto dell’uomo che era morto di fronte ai suoi occhi.

L’ansia di Alexander crebbe tanto da diventare insopportabile per Ellen rimanere in silenzio. «Andrà bene. Non è come l’altra volta.»

«Non possiamo saperlo.»

«Dico sul serio: Sills, o Darcus, vi ha ingaggiati soltanto per sacrificarvi a…»

«Appunto, credo che potrebbe fare lo stesso.» Alexander alzò il capo e la fissò intensamente, sperando forse di essere contraddetto con una logica inattaccabile. «Tutte quelle persone riunite in un unico posto, tutti possibili collaboratori di O’Bannion, ma anche rivali. Un presunto incidente, a cui si salverebbe per miracolo, e l’intera Miskatonic Valley sarebbe sua.»

Il rientro di Jeremy fu provvidenziale.

 

***

 

Si incontrarono sulla South Garrison Street, un paio di isolati prima del Timbleton Arms. Ellen ringraziò Logan degli abiti e lui la rassicurò che, ancora una volta, Marco non sapeva dove i due fratelli fossero andati. Quando il ragazzino accennò a Nanny chiamandola «Mia sorella», Ellen dovette sforzarsi per ricordare che quei due erano in effetti gemelli, nonostante Logan avesse preso i tratti e i colori della madre e Nanny, probabilmente, quelli del padre – nemmeno Marco sapeva chi fosse. Erano diversi come il giorno e la notte, sia dal punto di vista fisico che da quello caratteriale, tuttavia condividevano la sciocca attrazione per il pericolo.

Fossero state altre persone, Ellen avrebbe avuto un briciolo di rimorso nel rischiare di metterli di nuovo nei guai, ma erano cresciuti per strada e avevano sviluppato abilità perfino maggiori delle sue, la quale aveva fatto l’impossibile per riuscire a cavarsela da sola. C’era stato sempre Marco a correggere i suoi casini, però.

Giunsero in vista del Timbleton Arms nel giro di pochi minuti, procedendo attraverso la South Garrison perché la West Pickman, che si affacciava sul lato nord del complesso di appartamenti, era più larga e trafficata, nonostante fosse un’ora tarda. Sembrava, infatti, che numerosi invitati stessero giungendo per il ricevimento di O’Bannion, e questo permise loro di intrufolarsi nel vicolo tra gli edifici che interessavano a Ellen. Fece il giro del palazzo, evitando l’ingresso, sicura che sarebbe parsa soltanto l’ennesima mendicante che sognava la vita dei ricchi; forse un cameriere mosso a pietà le avrebbe perfino lanciato un tozzo di pane raffermo.

All’interno si erano aperte le danze. Ellen individuò subito Lilyan, che rideva a una battuta del damerino brufoloso con cui stava conversando; Michael la teneva sottobraccio, lo sguardo fisso davanti a sé: puntava Sills, che quando si mosse verso di loro costrinse Janet a dargli in fretta le spalle. Accanto a lei, Ellen avvertì Alexander fremere.

«Procediamo» decise, per non permettergli di compiere gesti avventati. Aveva notato anche lei, con un brivido lungo la schiena, l’aura di minaccia che circondava Sills.

L’edificio alla loro destra ospitava il salone di bellezza May Ladies, che doveva avere fatto gli straordinari quella sera, perché le luci si erano spente mentre Ellen girava intorno al Timbleton Arms. C’erano delle scale esterne, utili per raggiungere il tetto, ma per salirci Alexander dovette spiccare un salto e afferrare la griglia con gli ultimi gradini, che scese fino a tre piedi dalla strada. Dopo un cenno d’intesa a Nanny, che si nascose nell’ombra, Ellen precedette Logan e Alexander lungo le rampe e si intrufolò nella finestra dell’ultimo piano. Si era informata sul palazzo e sapeva che era composto principalmente da uffici, dunque non ebbe remore nel rompere il vetro ed entrare nel corridoio deserto; da lì, fu un gioco da ragazzi trovare le scale per il tetto e uscire di nuovo nell’aria fredda di novembre.

«Avresti potuto lasciare la finestra aperta» redarguì Logan, che assunse un’espressione contrariata.

«Ehi, mi hanno beccato che gironzolavo qua dentro, non ho fatto in tempo a occuparmi dalla finestra mentre mi lanciavano in strada!»

«Quindi le assi sono al loro posto?»

«Ehm… l’asse. Non ho fatto in tempo a…»

«Sì, d’accordo, una basterà.»

Facendosi aiutare dai due compagni, Ellen sistemò l’asse di legno in modo da poggiare sul cornicione del quinto piano, pregando che una folata di vento non la spostasse. Era un’asse troppo leggera, maledizione.

«Vado avanti io» decretò prima che Logan potesse fare un passo. «Ho bisogno che voi la reggiate, poi Alexander mi seguirà.»

Si mise carponi per muoversi meglio. Un senso di vertigine la colse e si obbligò a guardare dritto davanti a sé, ignorando la città che si stagliava quattro piani sotto di lei; il tragitto era breve, ma il vento stava aumentando. Quando finalmente raggiunse il cornicione del palazzo di fronte, non fece in tempo a tirare un sospiro di sollievo, troppo concentrata sulla misura del cornicione.

Cazzo, è strettissimo.

Doveva fare attenzione a non cadere e a evitare di venire intercettata da eventuali uomini posti a guardia dell’appartamento. Per fortuna, avevano posizionato l’asse in modo da non essere intravisti dagli irlandesi che sostavano nel corridoio, proprio davanti alla porta che indicava la residenza di O’Bannion. Fu più forte di lei: si sporse appena per controllarli, e notò i loro sguardi vacui.

Venne invasa dall’euforia: se fossero stati uomini del boss, sarebbero stati ben vispi; quegli occhi significavano che Sills nascondeva qualcosa nell’appartamento di O’Bannion. Nell’ufficio, magari. Se fossero stati davvero fortunati, avrebbero rintracciato perfino i libri che volevano recuperare.

Riuscì a penetrare nella finestra della stanza da bagno, piccola, ma adatta a un corpicino esile come il suo. Alexander non ci sarebbe mai passato, ed era meglio così: con quel vento, era opportuno che fossero in due a reggere l’asse. Gli fece un cenno e lui comprese subito, annuendo pur con riserva.

Quando scivolò all’interno del bagno, avvertì la testa smettere di girare. Il cuore le batteva all’impazzata, eppure la prospettiva che un gangster, scoprendola lì, le sparasse addosso la entusiasmava più di cadere nel vuoto. Guardò di nuovo verso il palazzo di fronte e capì ciò che le stavano dicendo: la stanza successiva doveva essere la camera da letto; quella dopo ancora lo studio. La porta del bagno non era inchiavata, mentre dovette lavorare per un po’ a quella dello studio. Notò che una seconda porta avrebbe permesso l’ingresso di terze persone, e si morse le labbra al pensiero che la stanza da cui potevano entrare non aveva una finestra che Alexander e Logan avrebbero potuto controllare. Accese la lampada ministeriale sulla scrivania e diede un’occhiata in giro, cercando di cogliere più indizi possibili nel minor tempo a disposizione: non sapeva se e quando qualcuno l’avrebbe interrotta.

C’erano dei documenti sulla scrivania, una serie di edifici intestati a O’Bannion. Ellen riconobbe il The Club, fino a pochissimo tempo prima ritrovo di Potrello e dei suoi, e l’Anton’s Restaurant, entrambi siti nel Southside. Lo sguardo le cadde sulla fotografia di una chiesa. Lesse il documento a cui era allegata: si trattava della Chiesa Occidentale, un edificio abbandonato e sconsacrato, che niente avere a che fare con gli ultimi mirati acquisti di O’Bannion. Stava per indagare oltre quando udì dei passi provenire da dietro la seconda porta e corse a nascondersi nella camera da letto, pregando che nessuno vi entrasse.

«…solo fortuna, dice lui. Ah! Se questa fortuna si estende anche a noi, ben venga. Ma c’è qualcosa di strano in Bobby, ti dico.»

Riconobbe la voce del boss irlandese. Scrutò attraverso il buco della serratura, ma la larga schiena di O’Bannion le impediva di vedere la persona con cui stava parlando.

«Quindi cosa facciamo, capo?»

«Eh, cosa facciamo, Eddie? Aspettiamo. Mica posso liberarmi di Sills da un giorno all’altro.»

«Trama qualcosa.»

«Certo che trama qualcosa, ed è esattamente il motivo per cui dobbiamo tenerlo d’occhio. Vedi, Bobby è un caro amico e non voglio darlo in pasto ai pesci, o qualunque cosa abbia fatto a Joe e a quella manica di poveracci del porto, ma sembra intenzionato a tenermi fuori dai suoi affari. E non si fa così con me, giusto?»

«Giusto, capo.»

«Guarda qua, per esempio: ha insistito perché comprassi questa catapecchia. Che deve fare con una chiesa che cade a pezzi? Distruggerla una volta per tutte e costruirci qualcosa di utile per noi, no? E invece mi sbagliavo: ha messo degli uomini a guardia della chiesa. I miei uomini! Se sta preparando qualche losco piano per farmi le scarpe, devo tenermi pronto. E tu con me.»

«D’accordo, capo.»

«Ora torniamo di sotto, non voglio che gli ospiti ci aspettino. Dov’è il mio accendino? Eccolo, ottimo. Prendo anche qualche liquido, ci può servire per oliare i nostri invitati. Capito, Eddie? Liquido, oliare.»

«Capito, capo.»

«E non fare il leccaculo. Ti conosco da…»

Le voci si abbassarono fino a spegnersi, lasciando Ellen sola con il battito del proprio cuore. Avevano un indizio bello grosso, ed era giunto il momento di tornare indietro. Stava per allontanarsi dalla serratura quando vide qualcosa – qualcuno – che le fece rizzare i peli del corpo.

Sills era appena entrato nello studio passando attraverso il muro.

Ellen si pietrificò, pregando di nuovo, e con maggiore intensità, perché l’uomo non facesse lo stesso per raggiungere la camera da letto. Sarebbe potuta correre via, ma temeva che lui la udisse.

Sills, tuttavia, non fece niente di allarmante. Osservò i fogli sulla scrivania e spense lui la luce che Ellen aveva lasciata accesa, e di cui O’Bannion per fortuna non si era accorto. Parve riflettere, poi se ne andò attraversando di nuovo la parete.

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Capitolo 19
*** Capitolo XIX ***


Capitolo XIX

 

«Com’è andata?»

Nonostante ostentasse indifferenza, il nervosismo di Michael fu evidente non appena ebbe messo un piede dentro casa: aveva preceduto le due donne, mentre di solito si schierava dietro di loro, in un atteggiamento protettivo, e soltanto quando aveva intravisto Ellen nel salotto si era deciso a togliersi sciarpa e cappello.

«Bene» mentì Ellen. In realtà, non era del tutto una menzogna, perché avevano ottenuto informazioni che potevano rivelarsi chiave nelle loro indagini, ma Alexander non parlava da quando si erano ricongiunti sul tetto del palazzo più basso; sembrava che il detective avesse intuito un dettaglio negativo che a lei ancora sfuggiva.

Udendo la sua risposta, infatti, si alzò e si diresse verso Lilyan e Janet, che erano appena entrate nel salotto, le guance rosse per il freddo. C’era una strana luce negli occhi della più giovane, che si spense non appena ebbe incontrato il dipinto alla parete.

Lui è morto, e lei si sente in colpa perché si è divertita a una festa, ipotizzò Ellen. Solo allora ripensò a ciò che Michael aveva insinuato qualche sera prima, e al tempo che Lilyan aveva passato in salotto il pomeriggio precedente, pretendendo di essere lasciata sola. Se Michael aveva ragione, era un sentimento strano, ma qualcosa la spinse a pensare che non fosse ricambiato. Non nello stesso modo.

«È stata una festa piacevole?» provò a domandare a Janet, che si stava sfregando le mani davanti al camino.

«Sì, credo di sì. Ci siamo tenuti piuttosto in disparte. Niente balli, qualche chiacchiera necessaria, buon cibo… ma siamo sopravvissuti.»

Niente sacrifici all’ordine del giorno, pensò Ellen, ma lo tenne per sé. Era meglio che non conoscessero il timore di Alexander, che per fortuna si era rivelato infondato.

«Sills è stato nella sala per la maggior parte del tempo» continuò Michael. «È scomparso verso le otto e mezza, ma è tornato praticamente subito.»

«Era nell’appartamento di O’Bannion.»

Udendo l’affermazione di Alexander, tutti coloro che non avevano assistito alla scena sussultarono.

«Vi ha visti?» chiese Lilyan spaventata.

«No, non si è accorto di me.» Era la sola cosa che Alexander avesse detto quando era tornata sul tetto: Sills era apparso nel corridoio attiguo allo studio un attimo dopo l’ingresso di O’Bannion, non prima. Molto probabilmente ignorava che ci fosse un’intrusa.

Ellen spiegò a grandi linee come si erano divisi i compiti, poi Alexander proseguì: «Ho avvertito che stava arrivando con le solite fitte alla testa, ma Ellen si era già nascosta nella camera da letto. Sills era lì per il suo capo. Lo ha sentito parlare con un uomo…»

«Leary» precisò Ellen, ricordando che O’Bannion l'aveva chiamato “Eddie”.

«Leary, sì. È un omone, può darsi che si occupi di far sparire i loro rivali. Sembrava che Sills sapesse che si erano allontanati da lui e volesse spiarli.»

«Cos’hanno detto?» domandò Michael. Si era seduto sul bracciolo accanto a Ellen quando aveva sentito dell’apparizione di Sills.

«Hanno capito che c’è sotto qualcosa.»

«Ahia…»

Ellen non capiva. Qual era il problema?

Anche Janet ignorava il significato di quelle parole. «Che significa, Alexander?»

«Adesso Sills ha la certezza che O’Bannion sospetti qualcosa. Non conosciamo ancora le intenzioni di Sills… di Darcus… però qualunque idea abbia in mente ora ha tre alternative: sbarazzarsi del boss, soggiogarlo o affrettare le cose.» Contò sulla punta delle dita. «Sbarazzarsi di O’Bannion potrebbe originare nuovi sospetti, quindi sarebbe più logico soggiogare la sua mente, ma non sappiamo quanto duri il suo incantesimo. Resta quindi l’ultima opzione.»

«Affrettare le cose… significherebbe un nuovo sacrificio? Altre persone… morte?» tentennò Janet.

«Non lo sappiamo, ma di sicuro comporterebbe vederlo sparire di nuovo. E noi abbiamo bisogno di fermarlo.»

Rimasero in silenzio, persi nei propri funesti pensieri, finché Ellen non trasse un profondo respiro e parlò: «Quindi dobbiamo affrettare i tempi anche noi.»

«Che intendi?» chiese Michael. «Hai una pista?»

Lei annuì. «O’Bannion ha acquistato diversi locali su consiglio di Sills, e pare che lui abbia insistito perché prendesse anche la vecchia Chiesa Occidentale. È un edificio abbandonato, ma sembra che Sills voglia tenerlo così com’è.»

«Cosa sappiamo di quel posto?»

«Poco e niente. Si trova nel Merchant District, a un isolato dall’Old Wooded Graveyard, il cimitero più vasto di Arkham. La conosco solo perché ne ho sentito parlare da alcuni compagni di corso. È stata edificata agli inizi del secolo scorso, ma l’hanno abbandonata nel giro di ottant’anni perché circolavano strane voci.»

«Del tipo?»

«Le solite storie sulle chiese sconsacrate: fantasmi, spiriti, maledizioni… La verità è che è stata costruita interamente in legno, e non era sicura.»

«Smetterei di denigrare chi sostiene certe voci…» borbottò Michael, facendo in modo che solo Ellen potesse sentirlo.

«Perché è rimasta in piedi, allora?» si interrogò Alexander.

«Tu butteresti giù una chiesa? Davvero?» esclamò Lilyan. Chissà se quel fervore religioso derivava dall’uomo che li scrutava dall’alto, incombendo come uno di quei fantasmi.

«Dubito però che Darcus voglia tenerla così com’è per spirito cristiano…» rifletté Michael.

«Invece sì!» saltò su Janet, battendo un pugno contro il palmo aperto. «Pensateci: la polizia indagherebbe ovunque se ricevesse una soffiata. Fingiamo per il momento che non ci siano agenti corrotti, o… o che gli italiani cerchino vendetta. Basta anche solo pensare ai curiosi. Arriva una soffiata su una merce nascosta in una chiesa, consacrata o sconsacrata, non importa. Chi ci metterebbe piede?»

«Janet ha ragione» concordò Ellen. «Da una parte, i religiosi si tengono lontani per timore di offendere il Signore, dall’altra i superstiziosi hanno paura dei fantasmi. E quelli nel mezzo sono davvero pochi.»

Michael si alzò, sul viso un’espressione concentrata. «Dunque siamo d’accordo?»

Alexander annuì «Dobbiamo entrare nella chiesa.»

 

***

 

«Due uomini su ciascun lato» sospirò Ellen lasciandosi cadere sul divano.

«Argomenta.»

Lanciò un’occhiataccia a Michael. «La chiesa. È tenuta sotto stretto controllo dagli scagnozzi di Sills, non c’è un punto libero. E – senti questa – Leary è tra loro.»

«Che il boss l’abbia mandato a sorvegliare Sills?»

«No, ha perso anche lui.»

«Cosa te lo fa dire?»

«Tu cos’hai per me?»

Sospirando, ma con un sorriso sghembo sul volto, Michael cercò nella giacca e le lanciò una tavoletta di cioccolato che lei afferrò al volo. Aveva preso l’abitudine di tenerne sempre una con sé quando Ellen era nelle vicinanze, e lei se n’era accorta; dopotutto, se Michael pagava Logan e Nanny per le informazioni, perché non poteva ricompensare anche Ellen?»

«Logan dice che hanno gli occhi vitrei, privi di vitalità. Anche se in realtà ha detto qualcosa come “Sembrano morti che camminano”.»

«Hai di nuovo usato i bambini? Credevo avessimo deciso che era troppo pericoloso.»

«Mi stava seguendo, così l’ho mandato avanti. Non dubito della vista o delle sensazioni “alla McCrindle”, ma non sono ancora sicura che Sills ignori la mia identità. Ho detto a Logan che era l’ultima volta, e che se lo avrei trovato di nuovo tra i piedi lo avrei preso a calci, e poi sarei andata dritta da Marco a riferirglielo.»

«E basta?»

«E che, a prescindere da qualunque informazioni lui abbia, non lo pagherai più.»

Michael rise. «Questa mi sembra la minaccia perfetta.» Si fece serio, ripensando alle dichiarazioni di Ellen. «Quindi non sappiamo come entrare nella chiesa?»

«Dobbiamo solo sperare che… beh, Alexander abbia avuto fortuna.»

Dieci minuti dopo, scoprirono che era stato così. Il detective Blake si era recato al municipio per chiedere le planimetrie della chiesa, fingendo di fare parte della banda di Sills. Aveva sborsato una banconota da cinquanta per convincere l’addetto comunale di non averlo visto, in modo da passare inosservato: l’impiegato avrebbe pensato di avere avuto a che fare con un gangster, eseguendo i suoi ordini e tenendo la bocca chiusa, e non avrebbe mai e poi mai provato a parlare di lui con gli irlandesi, poiché avrebbe significato essere in contatto con la malavita.

Il piano poteva funzionare, soprattutto se avessero agito quella sera stessa.

«Non so perché, ma ho avuto una strana sensazione» spiegò Alexander appiattendo due planimetrie sul tavolo da pranzo. «Avevo pensato a un condotto fognario, a dire la verità, ma se l’ingresso sarebbe stato facile…»

«…non è detto che le fogne abbiano un’uscita nella chiesa» concluse Ellen.

«Esatto. Ho comunque voluto provare ed è venuto fuori questo. Guardate.» Alexander posò il dito sulla mappa fognaria, in corrispondenza della chiesa. «C’è un passaggio, ma è parallelo alle fogne, non ci passa attraverso.»

«Grazie a Dio» esalò Lilyan.

«Sbuca nel cimitero, all’altezza della cripta di Trisham Goddard.»

«Chi?»

«Ho indagato, ed era uno dei fondatori della Chiesa Occidentale. È morto nel 1810.»

«Perché dovrebbe esserci un passaggio che porta alla sua tomba?»

«Non è chiaro, ma potrebbe essere ancora aperto. Potremmo controllare.»

«No» disse risoluta Janet. «Desteremmo troppo l’attenzione. Nel caso in cui Darcus conosca davvero questo secondo ingresso…» Sospirò. «Potrebbe riconoscerci. Ha visto tre di noi ieri sera, e non sappiamo se sia in grado di avvertire Alexander. Rimane solo Ellen, e io non la mando da sola.»

Ellen avrebbe voluto ribattere, ma la decisione con cui Janet aveva parlato la stupì. Si chiese se, in effetti, pur a quattro piani di distanza, lei e Lilyan non avessero provato lo stesso terrore della notte al molo.

«Ci affidiamo alla fortuna, allora» decretò Michael. «Bene, prepariamoci.»

La sera era il momento migliore, questo era il solo punto su cui concordassero all’unanimità: se il passaggio fosse stato chiuso, sarebbero potuti tornare indietro e riprovare la notte successiva, ma almeno nessuno li avrebbe notati – tranne per il fatto di intrufolarsi in un cimitero dopo l’orario di chiusura. Per l’occasione, Ellen indossò di nuovo i pantaloni di Logan, mentre Janet prestò a Lilyan un paio dei suoi, perché era necessario muoversi agilmente. Sebbene le fogne fossero state escluse, sembrava che Lilyan fosse riluttante a impregnare i suoi preziosi abiti alla moda.

Devo fare un’ultima cosa.

Un pensiero l’aveva tormentata dalla sera precedente, da quando aveva visto Sills – Darcus – passare attraverso le pareti. Finora avevano avanzato solo delle ipotesi, e lei non aveva mai presenziato a un’evocazione da parte dello stregone, ma adesso era cambiato qualcosa. E se invece avesse scoperto l’intrusione di Ellen e li stesse aspettando nella chiesa? Darcus non sarebbe stato fermato da un semplice colpo di pistola.

Cautamente, senza farsi vedere dal resto del gruppo impegnato a finire di vestirsi, scivolò fuori dalla camera da letto e raggiunse la sala grande. Era una stanza particolare, che doveva essere destinata a ospitare dei ricevimenti, ma che al momento non aveva una funzione precisa – se non quella di celare i libri di Alexander. Forse Lilyan lo sapeva, ed era per questo che teneva la porta perennemente inchiavata, tuttavia ormai Ellen aveva imparato a menadito a scassinarla. Entrò e tastò la parete in cerca del cassetto nascosto, domandandosi per l’ennesima volta a cosa servisse un quadrato vuoto nel muro a un Arcivescovo, e lo trovò quasi subito. All’interno c’erano i tre libri recuperati e impilati uno sopra l’altro, e accanto le lettere prelevate dalla casa dei McCrindle, nel Maine. Era rischioso, e sudava freddo mentre lo faceva, ma Ellen prese i tre libri e li infilò nella borsa, ringraziando che non fossero troppo pesanti. Avrebbe detto che stava portando qualche coltello da cucina per sicurezza, o roba del genere.

Era appena uscita in corridoio quando incrociò Janet e si sentì mancare un battito.

«Dov’eri?» le chiese l'amica.

«Io… ero andata in cucina» mentì Ellen, cercando di ritrovare un respiro regolare. Un’immagine le attraversò la mente: la scritta sulla busta in cima alle lettere, nel nascondiglio segreto di Alexander. «Janet, ho dimenticato di chiedertelo perché… beh, è successo di tutto in questi giorni. Tu hai studiato diverse civiltà mediterranee, giusto?»

«Oh, sì, ma… a grandi linee. Se ti riferisci agli egiziani, posso definirmi un’esperta.»

«No, purtroppo non si tratta di loro. Pensavo a popoli come i fenici.»

«Allora confermo: solo a grandi linee. Cosa ti serve?»

«Ricordi le lettere di Darcus? Dietro una busta, c’era un nome che ho tradotto come Dāgān

«Quindi… Dagon? Credi possa avere a che fare con Darcus?»

«Non ne sono certa. Sai dirmi qualcosa di più su di lui? So solo che fa parte della mitologia.»

«Mitologia o religione, dipende che da punto la guardi.» Janet si sistemò gli occhiali sul naso, come faceva sempre prima di raccontare a Ellen delle civiltà studiate nel corso dei suoi viaggi. «Era una divinità dell’agricoltura. Nella lingua ugaritica il suo nome significa “grano”, dunque possiamo dire che sia legato alla fertilità.»

Questo non li portava da nessuna parte, né consolidava l’intuizione di Ellen, ma poi Janet riprese.

«Hai parlato di fenici, e in effetti i popoli di navigatori hanno molto a che fare con Dagon. Se da una parte è legato all’agricoltura, dall’altra dāg rimanda al mare. Il suo aspetto e i suoi ruoli sono cambiati nel corso delle ere e delle religioni, tanto da essere rappresentato come un uomo dal busto e la coda di pesce. Nel cristianesimo viene perfino inserito fra i demoni, ma era una prassi comune con le divinità politeistiche e… e…»

C’era arrivata anche lei.

Dagon, il mare, il corpo metà pesce.

Ellen tirò la cinghia della borsa sulla spalla e riprese a camminare. «Andiamo, ci penseremo al ritorno.»

Semmai un ritorno ci sarebbe stato.

 

***

 

Penetrare nel cimitero non fu difficile, e neppure dovettero scassinare i lucchetti che chiudevano i vari cancelli: si sollevarono a vicenda oltre le mura di pietra che delimitavano l’area, sperando che non ci fossero persone di guardia. Agenti o irlandesi.

Atterrarono sull’erba soffice, sulla quale era caduta pioggia per l’intero pomeriggio, e cercarono di tenersi il più possibile vicini fra loro. Per fortuna si erano portati dietro un paio di lanterne a olio: i lampioni lungo i sentieri erano spenti, ed Ellen ricordò come quel luogo facesse parte di un parco più grande, che culminava con la contemplazione della morte.

Che stronzata.

Alexander teneva la mappa e li guidava attraverso le tombe, a passo svelto in direzione della cripta della famiglia Goddard. Era un edificio piccolo, ma imponente rispetto a quelli vicini, proprio come si aspettava dal luogo di eterno riposo di un uomo di chiesa; non servì girarci intorno per trovare un secondo ingresso, perché la doppia porta della cripta si aprì senza problemi. Ellen sussultò: forse quella era davvero una trappola di Darcus.

O forse nessuno chiude a chiave una dannata cripta, si impose di ragionare.

«Hai sentito?» esclamò Janet di colpo. La lanterna nella sua mano sussultò al suo movimento brusco, e la fiamma all’interno vacillò.

«Sono rumori immaginari, sta’ tranquilla» cercò di calmarla Ellen, molto più preoccupata per la lanterna. Stavano per calarsi sottoterra, e dubitava che ci sarebbero state altre fonti di luce.

La cripta era strutturata in maniera semplice, con tre file di tombe orizzontali sulle pareti laterali e una bara, scolpita nella pietra, al centro. Sulla parete di fondo c’erano le generalità della persona che giaceva in quella bara, nome, cognome, data di nascita e di morte.

 

REVERENDO TRISHAM GODDARD

ARKHAM, 12 - 21 - 1763

ARKHAM, 10 - 15 - 1810

AMATO NELLA VITA COME NELLA MORTE

 

«Non era tanto vecchio» rifletté Ellen, per poi maledirsi. Stando a ciò che aveva appreso, l’Arcivescovo Giraud Des Chateaubriand aveva avuto circa la stessa età del reverendo quando era stato ucciso.

Lilyan, però, sembrava troppo concentrata sulla bara, e in particolar modo sul coperchio, per notare la sua affermazione. Il resto del gruppo stava tastando la parete di fondo e il pavimento in cerca di un passaggio nascosto, ma Ellen si concentrò sul punto che anche gli occhi sgranati di Lilyan stavano fissando. La ragazza se ne accorse e la guardò, a disagio.

«I-il co-coper… coperchio…»

Gli angoli del coperchio non aderivano alla bara. Ellen si chinò per osservare da vicino, mentre Lilyan trasaliva spaventata, e provò a spostare la lastra di pietra. Era troppo pesante per lei, così fece un cenno a Janet, che posò la lanterna e corse ad aiutarla. Entrambe avevano meno paura di Lilyan, e per motivi logici, seppur differenti: Janet era abituata a disseppellire sarcofagi e mummie, mentre Ellen era certa che non avrebbe trovato un cadavere all’interno della bara.

Aveva ragione.

«Ecco l’ingresso» annunciò. Scavalcò le basse pareti e diede un calcio sul doppio fondo, che si spostò, rivelando gradini di pietra che conducevano in basso.

Si fece dare la lanterna di Janet e li precedette all’interno, scivolando nei cunicoli umidi e bui, rischiarati appena dalla flebile fiammella. Camminarono in silenzio per diversi minuti, seguendo l’unica strada che si stagliava di fronte a loro, e rischiarono di inciampare soltanto un paio di volte; purtroppo, sebbene non si trattasse di fogne vere e proprie, l’acqua trapelava dal soffitto e dalle pareti, e ogni singola goccia riecheggiava nelle loro orecchie. La sola consolazione fu che sarebbero riusciti facilmente a udire qualsiasi rumore sospetto.

Un passo, un altro, e la loro meta si avvicinava. Un gran sonno colse Ellen, che vacillò, rischiando di fare cadere la preziosa lanterna; Michael le posò una mano sulla spalla per sorreggerla, e lei adagiò l’oggetto a terra per tenerlo al sicuro.

Poi tutto si oscurò.

 

***

 

Lilyan odiava quella situazione. I suoi stivaletti si erano infangati, un’eventualità che avrebbe considerato se solo Alexander non le avesse assicurato che “non sarebbero passati per le fogne”. E quelle cos’erano allora? Le parve di avvertire l’acqua penetrarle fino alle calze, inzupparle i piedi, risalire lungo quei pantaloni così scomodi che non capiva come facesse Janet a indossarli abitualmente.

Oh, era perfino certa di avere udito il suono di un ratto. Non sapeva con esattezza quale verso facessero, o se ne avessero uno in particolare, ma sentiva che c’era un ratto nelle vicinanze.

Perché si era cacciata in quella storia? Se lo domandava in continuazione, e la risposta mutava ogni giorno; lo aveva chiesto anche a Giraud, alla sua copia dipinta a olio, la sola a cui ormai potesse appellarsi.

La risposta era davanti ai suoi occhi: lo stava facendo per lui.

Aveva abbandonato gli agi e la comodità della propria casa per seguirlo, un capriccio che aveva sperato durasse il più a lungo possibile, ma certamente non in quella maniera. Voleva solo passare del tempo con Giraud… lontano da suo padre, dalla sua amata Boston, da tutto ciò che aveva contornato i loro incontri. Volevo soltanto stare con lui. Che sciocca era stata…

Non poteva vanificare la sua morte, tornando a Boston come se nulla fosse accaduto, piangendo la sua perdita sopra un letto comodo e caldo, mentre i suoi amici continuavano a combattere. Perciò era rimasta, e aveva anche acconsentito a recarsi a un ricevimento in piena regola, con balli e conversazioni brillanti, ma di certo non si aspettava che l’avventura successiva si sarebbe svolta in una fogna. Cos’avrebbe pensato di lei la Lilyan di un mese prima, che scalpitava per il sogno di diventare attrice e calcare i teatri della Broadway Avenue? No, non avrebbe permesso a Darcus o a chicchessia di mettersi fra lei e il suo promettente e agognato futuro. Lo avrebbero fermato, e forse quella sera stessa, e poi…

Si bloccò quando la lanterna di Alexander si sollevò, illuminando le due persone che li precedevano. Scorse Michael chino su Ellen, che a sua volta si era appoggiata al muro. Sospirò: quei due avrebbero dovuto essere più discreti se volevano tenere nascosta la loro storia; lei aveva ascoltato anche troppo quella famosa sera dopo l’attacco a Chateaubriand Manor, ma si era stupita di apprendere che Alexander lo sapesse da un po’. In effetti, era un investigatore privato.

Al momento, tuttavia, non sembrava che si stessero scambiando effusioni, ma che Ellen si fosse sentita male. Lilyan fece un passo in avanti per controllare e le poggiò una mano sulla spalla libera.

«Ellen, stai…?»

Lei si voltò di colpo, la pistola stretta nella mano. Senza dire una parola, le sparò in faccia.

 

***

 

Alexander si era reso conto che qualcosa non andava, e una parte di lui avrebbe voluto impedire a Lilyan di avvicinarsi, quella parte che ora lo avrebbe rimpianto per sempre. Un proiettile era partito dalla canna della Colt di Ellen: come se il tempo si fosse rallentato, lo vide sfiorare il viso di Lilyan, colpire il suo orecchio, e alla fine osservò la ragazza crollare a terra in un lago di sangue.

D’istinto sollevò il revolver, ma Michael aveva appena fatto lo stesso. Mirò, premette il grilletto, sparò.

 

***

 

L’urlo di Janet non riuscì nemmeno a uscire dalla gola. Si bloccò, paralizzato come lei, mentre un secondo proiettile colpiva Alexander in mezzo alla fronte.

Dritto, preciso, mortale.

Le gambe cominciarono a tremarle. Voleva cedere, crollare a terra come i suoi amici, far ragionare Ellen e Michael… ma i loro occhi erano vuoti.

Darcus li aveva posseduti.

L’istinto di sopravvivenza agì in maniera avventata, stupida, eppure la sola che le fu concessa. Diede le spalle ai due assassini – a Ellie, la sua Ellie – e tentò di correre via, prima che un terzo proiettile la colpisse in mezzo alla schiena.

 

***

 

Quando Michael sbatté le palpebre, si sentì come se avesse dormito per ore, eppure erano ancora sottoterra, diretti alla Chiesa Occidentale, e una flebile luce proveniva dalla sua sinistra – dove si trovava Ellen, ma quando si erano voltati? Mancava la fiamma della lanterna di Alexander, e si stava chiedendo perché o chi l’avesse spenta, quando sbatté le palpebre un’altra volta e vide.

C’erano tre corpi davanti a lui.

C’era Lilyan, supina e con gli occhi chiusi, il lato sinistro del volto ricoperto di sangue.

C’era Janet, la sua schiena una macchia rossa che si allungava sul pavimento umido.

C’era Alexander, che lo guardava, e un buco gli spuntava dalla fronte.

Nella propria mano, Michael scorse la pistola ancora fumante.

Si impedì di crollare finché non avesse controllato Ellen. Si girò piano, lentamente, temendo ciò che avrebbe trovato, ma lei stava bene.

No, non era vero: era viva, ma non stava bene. Anche la sua mano era stretta intorno alla pistola, che ancora puntava in direzione di Janet; lo sguardo della ragazza era vacuo, spento, e nei suoi occhi grigi Michael non scorse ciò che si era abituato a vedere: arroganza, dolore, vita. Non c’era niente di Ellen di fronte a lui.

I ricordi lo assalirono prepotenti, sadici. Comprese tutto ciò che era avvenuto, ogni singolo colpo partito dalle loro armi, tutto nel giro di una manciata di secondi. Rivide se stesso sparare ad Alexander in pieno volto, eppure faceva più male l’immagine di Ellen che puntava alla sua amica, che premeva il grilletto senza la minima esitazione.

Non potevano rimanere così, Michael doveva fare qualcosa. Cercò di prenderla alla sprovvista e disarmarla, ma Ellen se ne accorse e si rivoltò contro di lui, e in quel brevissimo lasso di tempo la consapevolezza attraversò la sua mente.

Se Ellen lo avesse ucciso e poi fosse rinvenuta, avrebbe capito cos’aveva fatto. Avrebbe capito di avere ucciso lui e Janet, di essere stata colei che aveva strappato la vita alle uniche due persone di cui le importasse qualcosa. Michael ignorava quando tempo le ci sarebbe voluto per rinsavire, e se Darcus, che era riuscito a soggiogarli, sarebbe arrivato al termine degli spari per disfarsi anche di lei.

Se fosse stato Michael a sparare, però, le avrebbe risparmiato tutto quello. Una morte certa, e il dolore immane che l’avrebbe preceduta. E forse Janet e Lilyan erano ancora vive, e lui avrebbe potuto afferrarle e portarle al sicuro, salvarle.

Si sarebbe fatto carico lui stesso del dolore di Ellen, non le avrebbe permesso di provare altra sofferenza.

Sollevò la pistola e le sparò all’addome.

 

***

 

Di nuovo l’aria, di nuovo la sua mente. Michael sbatté le palpebre e nel farlo ricordò ogni cosa. Alzò lo sguardo e vide Alexander, Lilyan e Janet: tutti loro stavano puntando le armi contro di lui, un’espressione spaventata su tutti i loro volti.

Provò un senso di sollievo mai conosciuto, neanche quando la sera prima aveva scoperto che Ellen era uscita indenne dall’avventura a casa di O’Bannion, o quando suo zio Jan aveva acconsentito a crescerlo tenendo nascosta alla sorella l’amara verità. Sorrise appena, voltandosi verso di Ellen, e allora un macigno gli crollò sul petto.

Lei non c’era ancora. Fissava Lilyan, pronta a sparare al minimo movimento della ragazza, lo sguardo vuoto rivolto a lei e lei soltanto.

Michael respirò piano. Un respiro, poi un altro. Ellen non si stava curando di lui. Questa volta l’avrebbe salvata, questa volta avrebbe fatto in modo che rimanesse in quel mondo duro e crudele e amaro, a rimpiangere ogni scelta fatta nella sua fottuta vita, a combattere accanto a lui per un briciolo di felicità.

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Capitolo 20
*** Capitolo XX ***


Capitolo XX

 

Uno sparo partì nel silenzio calato fra loro; il proiettile forò il muro, appena rasente al braccio di Lilyan: se Michael non avesse spostato Ellen di peso, costringendo la Colt a modificare la traiettoria, dell’ereditiera sarebbe rimasto solo un guscio vuoto.

Ellen fu buttata a terra con tale forza da perdere conoscenza, e soltanto grazie a uno schiaffo ben assestato al viso da parte della stessa Lilyan, che probabilmente nutriva anche del risentimento per essere quasi stata uccisa ben due volte, Ellen riuscì a rinvenire completamente, uscendo dallo stato di torpore che l’aveva avvolta.

«Che… che cosa…?»

Sgranò gli occhi, iniziando a ricordare, e subito la sua mano raggiunse l’addome. Era pulita. Incrociò lo sguardo di Michael, e per la prima volta vide qualcosa che aveva sempre collegato al proprio riflesso nello specchio: biasimo, puro e assoluto biasimo. Si voltò e cercò di rimettersi in piedi, avvertendo il fianco sinistro dolorare per la contusione; imprecando, e afferrando la mano che Janet le tendeva, si rimise in piedi.

«Stai bene?»

«S-sì… Voi?»

«Non preoccuparti, siamo illesi. Michael è tornato in sé prima che uno di voi due potesse agire.»

Fissò intensamente la sua amica, cercando di reprimere l’orrore per ciò che era avvenuto nella visione. Come aveva potuto spararle? Come poteva essere lei a confortarla, dopo ciò che era successo? Come…?

«Che cazzo ci fanno qua?»

Ellen seguì lo sguardo di Alexander, ritto dietro Janet: stava osservando qualcosa al livello del pavimento, e lei rabbrividì quando si rese conto che non reggeva più la cinghia della propria borsa.

«Merda» biascicò.

Per terra c’era la sua borsa, ora aperta a rivelarne il contenuto. Aveva cercato di tenersi il più possibile distante da Alexander, suggerendogli perfino di chiudere la fila con la seconda lanterna, perché temeva che il suo “potere mentale” fosse in grado di avvertire la presenza dei tre libri che lei aveva trafugato; eppure ora quegli stessi libri erano scivolati fuori dalla borsa, e il fatto che Ellen li avesse portati con sé era ormai noto a tutti.

«Come ti è venuto in mente?» sbottò Lilyan, il viso cereo. «Darcus potrebbe essere qui. Probabilmente è già qui, e sta venendo a prenderci!»

«No» la contraddisse Michael. Teneva il braccio con la pistola teso all’altezza della spalla, fissando qualcosa davanti a tutti loro.

«Michael, non…»

«Non la sto difendendo. Vi sto solo informando che Darcus non è qua.»

Indicò con un cenno del capo l’angolo in fondo a destra. Ellen sollevò la lanterna e allungò il collo: c’era una scala a chiocciola, i cui scalini erano messi tanto male da sembrare marci, e in cima una botola.

«Siamo arrivati alla chiesa» riprese Michael. «Deve esserci una sorta di protezione magica. Se Darcus fosse stato qua, sarebbe sceso allo sparo e ci avrebbe eliminati senza attendere oltre.» Si girò appena verso di Ellen, ma ancora una volta sembrava non sopportare l’idea di guardarla. «Sono passati almeno cinque minuti, e sentendoci litigare avrebbe scoperto che non ci siamo uccisi a vicenda, ma nessuno è ancora passato da quella botola.»

Prima che Michael finisse di enunciare la sua teoria, Alexander proruppe in un grido. Con orrore Ellen notò che era caduto in ginocchio, i palmi delle mani premuti contro le tempie, la mascella serrata nel tentativo di reprimere un altro urlo: forse Michael aveva ragione, ma non potevano rischiare. Janet si chinò per aiutarlo, scuotendo la testa perché era chiaro che nessuno di loro sapesse cosa fare, ma poi Alexander la scostò con un spinta e corse verso la borsa di Ellen. Nessuno fu abbastanza svelto da fermarlo quando afferrò uno dei libri e lo spalancò.

Rimasero interdetti, confusi e terrorizzati mentre Alexander cominciava a recitare le parole che stava leggendo, e le pagine si voltavano rapidamente, consentendogli di trovare il contenuto a lui necessario. Ellen strinse la pistola con dita tremanti, preparando ad affrontare una nuova creatura sorta dal nulla, tuttavia l’aria pesante divenne di colpo leggera, e le scariche di elettricità che si stavano dipanando dal libro verso la figura di Alexander, pallido e con le orbite vuote, cessarono.

Quello che per lunghi istanti era parso come lo scheletro del detective tornò ad avere una forma reale, umana, e il libro si chiuse mentre Alexander riprendeva a respirare con regolarità. Sembrava che stesse finalmente bene, e che al contempo fosse disorientato quanto loro.

«Sopra. Ci siamo» si limitò a dire, indicando la scala a chiocciola. Tra le mani stringeva ancora il volume nero, le pagine spesse come quelle di un papiro.

 

***

 

Quando la botola si aprì, fu il turno di Lilyan di reprimere un urlo.

«Cazzo» mormorò Ellen, che procedeva nel mezzo, tra lei e Janet. Alexander era avanti, mentre Michael chiudeva la fila.

Ellen si spostò appena in tempo per evitare il conato di Lilyan. Aveva ipotizzato che l’uscita del cunicolo segreto fosse simile al suo ingresso, ma non le era balzato in mente – ed evidentemente non solo a lei – che potesse ospitare la vera tomba di Trisham Goddard. A quel punto, era stato troppo tardi per distrarre Lilyan, e anche per tenere la bocca chiusa: come la ragazza, Ellen aveva inghiottito quel che rimaneva del reverendo, e ora si costringeva a trattenere il respiro finché non fosse uscita dalla bara; a quel punto, sputò a terra. Dopo un secolo, di Goddard erano rimaste solo le ceneri e presumibilmente i denti – Ellen non si era data il disturbo di guardarsi intorno. Perlomeno, avevano evitato il contatto con il suo corpo decomposto.

Adesso abbiamo la conferma che Darcus ignorasse questo passaggio.

Il coperchio della bara si era sollevato senza problemi sotto la spinta di Alexander, rivelando il reale scopo di quella tomba, eppure a Ellen continuava a sfuggire perché qualcuno avesse scelto proprio quel punto preciso, e non qualche passo più in là. Erano all’interno di una seconda cripta, polverosa e puntellata da ragnatele, e bastò una rapida indagine per capire che si trattava di una stanza segreta.

«A qualunque uso fosse destinato questo posto, Darcus non lo ha trovato» rifletté Michael ad alta voce, parafrasando senza saperlo i pensieri di Ellen. Le uniche tracce sul pavimento erano le impronte dei loro piedi.

Rimpiangendo ancora la spietatezza con cui, nella visione, aveva sparato a Lilyan in pieno volto, maciullandole l’orecchio destro, Ellen si chinò accanto a lei e le offrì un fazzoletto appena preso dalla propria borsa; le dita incontrarono gli altri due libri e si ritrassero con una scossa. Sapeva di non essere lei la persona che avrebbe dovuto trasportarli, né quella alla quale erano destinati, però Alexander pareva avere occhi soltanto per il volume nero che stringeva in una mano.

Non ha più bisogno della pistola, notò Ellen.

Qualunque fosse il felice presentimento di Alexander, a lei non importava: un’arma reale era utile, sebbene rischiasse di mettere di nuovo in pericolo tutti loro. Andò verso di lui a passo deciso.

«Lascia la lanterna» gli suggerì. Puntò l’indice verso una parete, facendogli notare il passaggio segreto e le sottili strisce di luce proveniente dalla sala attigua che lo circondavano.

Alexander esitò, e lei ebbe l’impressione che stesse per dirle che non aveva bisogno di altro, ora che aveva appreso come usare il libro, ma non trovò repliche a quel suggerimento. Posò la lanterna a terra proprio come aveva appena fatto Ellen. Prima che proseguissero, però, la ragazza avvertì una mano posarsi sul suo braccio.

«Niente distrazioni» le ricordò la voce calda di Michael.

La stava guardando con una tensione che si sarebbe potuta tagliare con un coltello da burro, e teneva il palmo della mano libera dalla pistola aperto davanti a lei. Con un sospiro, Ellen si tolse la borsa e lasciò che Michael la infilasse a tracolla al posto suo. Finalmente si sentiva libera di muoversi: non era troppo minuta per trasportare libri così pesanti dall’Upton Hall alle aule universitarie, tuttavia lo diventava quando doveva contare su ogni parte del proprio corpo.

La mano di Michael, però, era tornata a tendersi verso di lei. Alzò lo sguardo e scoprì che la stava osservando con un’espressione al contempo cupa e decisa.

«Niente distrazioni» ripeté.

Ripenseremo dopo a quello che è successo durante la visione, comprese Ellen. Avremo tempo per mettere in discussione le nostre scelte. Adesso dobbiamo fidarci l’una dell’altro.

Gli strinse velocemente la mano, annuendo in silenzio.

Sebbene fosse stata Ellen a trovare la parete mobile, Alexander si muoveva come se avesse la totale certezza della loro meta, anzi di ogni singola azione da compiere. Tenendo il libro aperto su una mano, spinse con l’altra un preciso punto del passaggio segreto, aprendolo con un solo tocco, e procedette attraverso una cripta più grande, quella che con la sua esistenza doveva prevenire la ricerca di una seconda cripta nascosta; salì i gradini di legno fino al piano superiore e sbucò nel luogo che intendevano raggiungere.

C’erano dei ceri accesi lungo la larga navata, gli stessi che li avevano accolti al piano inferiore e lungo la breve scalinata, ma l’interno della Chiesa Occidentale era vuoto. Non si arrischiarono comunque ad alzare il tono della voce, temendo che gli irlandesi di guardia all’esterno potessero sentirli.

«Guardiamoci in giro» suggerì Janet.

La conformazione della chiesa, semplice ed essenziale a parte le stanze nel seminterrato, precludeva la presenza celata degli uomini di Darcus, poiché non avrebbero avuto una nicchia o una colonna dietro la quale nascondersi. La navata era comunque lunga, e fu solo dopo averne percorsa metà che Alexander indicò l’altare.

«Là!» esclamò senza reprimere la sorpresa.

Aveva visto bene, constatò Ellen avvicinandosi in fretta: sull’altare c’era un libro. Difficile sapere se fosse quello trafugato alla Miskatonic o il quarto tomo dei McCrindle. Stava per scattare in avanti per appurarlo, ma Alexander la fermò.

«Non siamo soli.»

Ci volle qualche momento perché tutti si rendessero conto del rumore. Gli unici punti dove sarebbe stato possibile occultare la propria presenza erano la cripta, dalla quale provenivano, e l’altare, che tuttavia era vuoto al centro, e permetteva perfino a uno sguardo disattento di notare cosa vi si celasse dietro. Eppure il rumore era chiaro, perfino conosciuto.

Il rumore di una mascella al lavoro.

La consapevolezza raggiunge la mente di Ellen ancor priva che lei vedesse un piede cadere dall’alto, di fronte all'altare, e una forma tentacolare diventasse visibile.

Non era più il momento di fare silenzio.

«Sparate!» esclamò Michael, esplodendo il primo colpo verso la creatura, che si accorse di loro soltanto in quel momento.

Mentre il sangue si espandeva sul suo corpo mostruoso, da una delle fessure poste lungo i tentacoli scivolò una testa umana, che rotolò fino ai piedi di Ellen.

Eddie Leary.

I suoi animaletti vanno sfamati, realizzò lei.

Reprimendo l’orrore e imprecando adesso contro l’assenza di nicchie dove nascondersi, si piegò per prendere meglio la mira e rilasciò il grilletto. Ciascuno dei proiettili sparati colpì l’obiettivo, ma sembrò non scalfirlo. Se a Boston il mostro era stato debole, perfino impreparato, ora appariva più grosso e potente, e lo apparve ancora di più quando si lanciò verso Ellen. La ragazza lo schivò all’ultimo momento, quasi per miracolo, ma per farlo sbatté la spalla contro il pavimento. La spalla della mano che reggeva la pistola.

Merda!

Poteva solo correre adesso, a meno di non imparare all’improvviso a sparare con la sinistra. Sebbene l’altare non fornisse granché riparo, fu l’unico punto che le venne in mente di raggiungere. Era necessario recuperare il libro, poi potevano andarsene anche senza liberarsi della creatura.

Eccolo: di forma rettangolare, spesso e con i bordi della pagine ingiallite. Le mancò un battito quando riconobbe le stesse caratteristiche del libro in possesso di Alexander. Cambiava soltanto la copertina, sulla quale era inciso un titolo da lì illeggibile.

Era questo che Darcus voleva a tutti i costi. E ora potrebbe ottenerne due.

Con un altro sussulto del cuore, Ellen si rese conto che, sotto il libro, ce n’era un altro. Li avevano trovati entrambi.

Allungò il braccio illeso per afferrarli, ma una scossa la cacciò via. Questa volta fece male.

La testa, ora era anche la testa a tormentarla. Il sonno stava per impadronirsi di lei…

No, non di nuovo.

Si alzò in piedi e corse lontano dall’abside, sollevando la pistola in un goffo tentativo di colpire il mostro, ma non ci riuscì. Adesso era a Lilyan che puntava, e stava per calare su di lei, quando, per la seconda volta nel giro di mezz’ora, Alexander abbandonò il proprio corpo.

Non era esatto definire così ciò che accadde. Il libro tra le sue mani si aprì da solo, le pagine vorticarono, parole in una lingua sconosciuta fluirono dalle labbra dell’uomo mentre i suoi contorni sfumavano. Il viso non assunse di nuovo l’aspetto di un teschio, ma a Ellen parve di vederlo mutare, trasformarsi in volti diversi, eppure tanto simili, come se appartenessero alla stessa famiglia.

I Guardiani.

Al suono della sua voce, le esili fiamme dei ceri si espansero e si attorcigliarono in aria, avvolgendo il mostro che proruppe in uno strillo terribile, angosciante e stridulo, mentre i suoi tentacoli si contorcevano e sparivano nel nulla. Per un folle attimo, Ellen temette che fosse tornato invisibile; invece era scomparso.

Riprese a respirare, tenendosi la spalla dolorante, ma non era il momento di rimanere immobili: il fuoco non accennava a spegnersi.

«Alexander, fa’ qualcosa!» urlò Janet.

Era chiaro che non sapesse cosa fosse accaduto né come fermarlo. Sarebbero potuti fuggire, ma dovevano prima recuperare i libri, e forse Alexander era l’unico in grado di toccarli. Mentre le travi crollavano, Ellen corse verso di lui, ma fu distratta dalla porta d’ingresso a doppio battente che si era appena spalancata. Un paio di uomini apparvero dalla soglia, e lei si stava chiedendo cosa avrebbero potuto fare con le loro pistole dopo che il Guardiano corrente era riuscito a bandire un mostro molto più pericoloso, ma poi i loro visi si contrassero, e forme squamose presero il loro posto.

«Non è possibile» mormorò.

Gli uomini si piegarono, lasciando che le pinne sulle loro schiene inarcate strappassero i vestiti; ancora tenevano le pistole, come se dovessero soltanto scegliere come ucciderli. In quel momento, però, sembrava che fossero loro, Ellen e i suoi compagni, a dovere decidere come morire.

La chiesa stava bruciando, il tetto crollava e rischiava di intrappolarli prima che riuscissero a raggiungere le scale per la cripta, ma quella era la sola via d’uscita possibile. Però i due libri da recuperare sarebbero rimasti lì, e allora tutto quello a cosa sarebbe servito? Ellen aveva quasi ucciso Janet e Lilyan, si era preparata a colpire Michael, e sebbene alla fine si fosse trattato soltanto di una visione lei aveva provato quelle sensazioni, le pareva di averlo fatto sul serio, realmente. Non era solo la considerazione di ciò con cui avrebbe dovuto fare i conti d’ora in poi, se fosse sopravvissuta: Darcus ora sapeva che avevano scoperto il suo nascondiglio, e che potevano rappresentare davvero un problema; avrebbe capito che Alexander era in grado di mettere in pratica gli incantesimi dei libri, e…

L’altare.

L’altare stava bruciando, e così anche i libri.

«Michael, i libri!» gridò con tutta la voce che aveva in gola, cercando di sovrastare i rumori circostanti.

Lui si voltò e guardò prima Ellen, poi l’abside. Fortunatamente, comprese: aprì la borsa e lanciò i due volumi nel fuoco.

Meglio perderli per sempre che permettere a Darcus di metterci le mani sopra.

«Alexander, gettalo nelle fiamme!» urlò a sua volta Michael, ma il detective sembrava confuso. No, non confuso: orripilato da quella prospettiva.

«È il tuo compito, Alexander, devi distruggerlo!»

«No!» strillò lui in risposta, e parve non accorgersi della trave che lo aveva appena sfiorato. Non si accorse neanche della cenere che gli bruciava i pantaloni. «Devo tenerlo al sicuro!»

C’era poco tempo per discutere: la chiesa non avrebbe retto ancora a lungo e i due mostri, che per fortuna sembravano detestare le fiamme almeno quanto loro, si stavano avvicinando cautamente tra i detriti. Ellen si guardò intorno, avvertendo il tempo che si muoveva velocemente, troppo velocemente, e vide Janet raggiungere Alexander e colpirlo sulla nuca con il calcio della pistola. Michael si lanciò per afferrarlo e trasportarlo via; il libro scivolò dalle mani del Guardiano e si perse nel fuoco che esso stesso aveva evocato.

Mentre una terza trave affondava su uno dei due mostri, una nuova faccia apparve dall’ingresso della chiesa, una faccia deformata dall’odio e dal rancore.

Darcus era lì.

 

***

 

Non rimasero ad attendere che facesse la sua mossa.

Ringraziando il tetto che stava collassando su se stesso, frapponendosi fra loro e Darcus, Ellen e i suoi compagni si precipitarono verso le scale, correndo a perdifiato fino alla stanza segreta e alla tomba di Goddard. Lilyan non pareva più terrificata dall’ingresso al cunicolo: afferrò come Ellen una delle lanterne e si calò all’interno, mentre Janet aiutava Michael a sostenere Alexander. La botta che l’archeologa gli aveva inferto era stata abbastanza forte da stordirlo, ma fortunatamente l’uomo stava già riprendendo i sensi, il che fu di grande aiuto per scendere lungo le scale a chiocciola.

Come temendo che l’incendio potesse propagarsi sottoterra e che il fumo bloccasse i loro polmoni ancora prima che le fiamme avvolgessero i corpi, ripresero a correre facendo attenzione a non sbattere le lanterne a olio contro le strette pareti di pietra, esalando in coro un sospiro di sollievo quando arrivarono in vista dell’uscita; tuttavia, fu soltanto quando ebbero risistemato la pietra tombale sulla finta bara del reverendo Goddard che si permisero di cadere a terra e respirare di nuovo. Accanto a lei, Ellen avvertì Lilyan fremere e piangere in silenzio, mentre rivolgeva un sorriso appena accennato a Janet, che subito la cinse in una stretta traboccante di affetto. Michael e Alexander erano davanti a loro, la schiena contro la lapide di una certa Theresa Goddard, nata nel 1756 e morta chissà quando. Il detective sembrava a disagio, profondamente perso nei meandri della sua mente.

Ellen guardò Michael e lui ricambiò. Si fissarono a lungo, adeguando i propri respiri. Le punte delle loro scarpe si toccarono.

«Mi serve una borsa nuova» disse infine lei.

Fu la miccia che li fece scoppiare: il petto di Michael iniziò a sobbalzare, poi una risata sincera si fece largo nella cripta, contagiando il resto del gruppo. Lilyan e Janet ora piangevano e ridevano insieme, e la stessa Ellen non riuscì a trattenersi a lungo; l’allegria parve trasmettersi anche ad Alexander, finalmente consapevole che quella era stata la scelta giusta.

Era finita. Più o meno, ma c’erano vicini. I quattro libri dei McCrindle, oltre a quello della Miskatonic, avevano fatto la stessa fine che il dottor Armitage avrebbe voluto riservare loro; forse non era lo scopo dei “Guardiani”, ma che importava? Darcus non avrebbe più potuto usarli, e al diavolo la loro tradizione secolare.

Darcus poteva essere ancora vivo, ma da come Alexander aveva utilizzato una delle copie del libro nero era chiaro che fosse quello a donare allo stregone i poteri maggiori: se uno che aveva appena scoperto l’esistenza della magia era improvvisamente in grado di enunciare la formula di un incantesimo solo perché era di sangue McCrindle, cosa poteva fare chi studiava l’occulto da un paio di decenni? Ellen aveva la netta sensazione che O’Bannion si sarebbe trovato ben presto privo non solo dei suoi bracci destri, ma anche della fortuna che aveva caratterizzato gli ultimi giorni, e che Darcus avrebbe atteso prima di attaccarli di nuovo.

Ne ha un altro. Ripensò a Boston, e al libro che Alexander diceva di avergli visto consultare mentre evocava il mostro invisibile, e il suo sorriso svanì. Ne ha un altro, ma ci penseremo domani.

Afferrò la mano che Michael le porgeva e si lasciò tirare in piedi. «Andiamo, meglio tornare a casa.»

Annuì, sentendo le gambe e la spalla dolerle, come se la scarica di adrenalina fosse passata e la realtà fosse calata su loro con tutti gli acciacchi che avevano riportato, ed era appena uscita dalla cripta quando udì un rumore nelle vicinanze. Si tastò il fianco in cerca della Colt, che trovò ancora prima di ricordare che era incapace di sparare in quelle condizioni, ma i suoi compagni avevano fatto lo stesso. Michael si avvicinò.

«Sembra che qualcuno stia ringhiando» ipotizzò, e aveva ragione: quel rumore non aveva alcunché in comune con l’orribile verso prodotto dal mostro invisibile, né con i suoni degli anfibi del laboratorio.

«È… è lo stesso che ho sentito quando siamo arrivati» mormorò Janet.

Ellen sollevò la lanterna e intravide delle figure umanoidi muoversi nella loro direzione. Erano strani, lenti, ma d’un tratto cominciarono a correre; prima di lasciar cadere la lanterna, che si infranse sul terreno bagnato, Ellen notò soltanto le loro orribili fauci spalancate.

«Scappate!» gridò come se ce ne fosse il bisogno.

Si voltò troppo in fretta e rischiò di inciampare su una radice sporgente, ma la mano di Michael la raggiunse in tempo, strinse la sua e la trascinò il più lontano possibile, ripercorrendo la strada dell’andata.

«Se ne usciamo vivi…» cominciò Michael, ansimando «…ti compro un anello.»

Gli rivolse un’occhiata interrogativa, e non seppe se ringraziarlo per averla spaventata ancora più delle creature da cui stavano scappando.

«Un anello costoso… il più costoso possibile…»

Arrivarono al muro del cimitero. La prese tra le braccia e la sollevò in alto, e allora le dedicò un sorriso sghembo.

«Non voglio ingabbiarti. Voglio solo che tu possa vantarti di avere l’anello più costoso di tutta Arkham.»

Si arrampicò un attimo prima che gli artigli di uno di quegli esseri si chiudessero intorno al suo polpaccio.

Ellen si guardò intorno: erano gli ultimi, ed erano al sicuro. Fissò Michael negli occhi prima di calarsi entrambi dal lato esterno del cimitero. «Voglio un diamante da almeno un cazzo di carato.»

Michael sorrise, mentre si riunivano ai compagni e correvano verso French Hill, determinati a raggiungere al più presto il riparo di Chateaubriand Manor.

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Capitolo 21
*** Capitolo XXI ***


Capitolo XXI

 

Corsero lungo le strade di Arkham senza curarsi di scegliere vicoli secondari o depistare eventuali inseguitori: se Darcus fosse sopravvissuto all’incendio, avrebbe saputo dove trovarli. Il loro unico obiettivo, al momento, era rifugiarsi al più presto tra le mura di Chateaubriand Manor, dove avrebbero potuto ricaricare le armi e curare le ferite, e dove forse – era ancora soltanto un’ipotesi – Darcus non sarebbe riuscito a entrare. Grazie all’adrenalina che le scorreva in corpo, Ellen aveva dimenticato il dolore alla spalla contusa, ma ormai cominciava a sentirla di nuovo. Erano fortunati ad avere un medico tra loro.

Il sudore fece scivolare via la mano di Michael, eppure continuarono a correre alla stessa velocità, con il cuore che rischiava di scoppiare nel petto e il fiato corto, finché non arrivarono nel quartiere di French Hill, tra quelle ville che settimane prima – le parevano passati anni – aveva reputato di un lusso ostentato, fredde e inospitali, e che avevano assunto il significato di sicurezza, calore, pace. Quando giunsero alla confortante vista di Chateaubriand Manor, Ellen tirò un profondo sospiro di sollievo.

Ce l’avevano fatta.

Quasi non si accorse che Jeremy li stava attendendo pronto a combattere, il fucile imbracciato che stonava sulla livrea stirata a dovere; richiuse la porta non appena furono tutti al sicuro e si appostò nuovamente alla finestra. Non disse una parola.

Ellen sentiva i polmoni scoppiare. Adagiò la schiena contro il muro, ma prima di crollare a terra ricordò cos’era avvenuto nel cimitero, fuori dalla cripta, e una scossa di terrore la costrinse a rimanere in piedi. Osservò i suoi compagni, ciascuno provato dalla notte in maniera differente, con i segni della passeggiata nel cunicolo, del combattimento nella chiesa, dell’incendio e delle successive fughe. I pantaloni di Michael erano lacerati dove gli artigli avevano cercato di afferrarlo, i capelli di Janet erano sporchi e appiccicati al volto, Lilyan aveva rotto uno stivaletto e zoppicava appena, Alexander aveva una strana luce negli occhi cerchiati dalla mancanza di sonno.

Erano vivi.

Michael si mosse verso Lilyan, che con un cenno del capo gli comunicò che stava bene; spostò lo sguardo anche su Alexander e Janet, e solo lei annuì appena. Alexander permise a Michael di esaminare la caviglia ustionata, mentre Janet gli procurava degli stracci imbevuti nell’acqua fredda ed Ellen saliva in camera a recuperare la borsa medica. Passarono circa dieci minuti, durante i quali neppure un gatto attraversò la strada deserta; un lampione illuminava direttamente il cancello di Chateaubriand Manor, attraverso il quale giorni prima una coppia di genitori affranti aveva sparato contro di loro. C’era qualcosa di strano: i due che li avevano accompagnati erano riusciti a penetrare nel giardino, a differenza di Darcus, e perfino a distruggere la vetrata della sala da pranzo; forse la villa teneva lontano soltanto coloro che erano dotati di poteri magici. Ma allora Alexander…?

Fu distratta dalle dita di Michael che cercarono le sue. Si indicò la spalla, come se parlare fosse un’offesa per il silenzio che era calato dopo le avventure di quella interminabile notte. Michael diede una fugace occhiata al livido, ma non parve preoccupato; senza lasciarle la mano, la condusse al piano superiore, oltre le scale, oltre la porta della stanza, del loro micromondo. Poi si lasciarono andare.

Non si erano spogliati da quando Michael le aveva confessato la verità sul suo passato, consapevoli entrambi di dovere elaborare sia quella storia, che quanto accaduto tra loro e Janet. Al momento però un fuoco stava divampando nei loro corpi, devastante quanto le fiamme nella Chiesa Occidentale: era passione, sollievo, adrenalina, era il sangue che di nuovo sentivano scorrere nelle vene; era il pensiero di ciò che avevano subìto, la morte che avevano scampato ripetutamente nel giro di poche ore. Avevano bisogno di sentire la pelle l’una dell’altro, accertarsi che fossero vivi e respirassero ancora. Conoscevano un solo modo per comunicarsi l’euforia che stavano provando, e lo fecero senza più preoccuparsi di fare rumore.

Quando infine Michael la fece stendere sul letto, Ellen incontrò i suoi occhi e vi lesse di nuovo quel rancore verso se stesso.

«Ellen…»

«No» lo interruppe. Avrebbe voluto chiudere lì il discorso, ma temeva che avrebbe frainteso. «Te lo dirò soltanto una volta: hai… avresti fatto ciò che andava fatto. Non provare rimorso.»

«Il mio compito è proteggerti.»

Ci sei riuscito, e neanche te ne sei accorto.

«Se dovesse accadere di nuovo, agisci nello stesso modo. Lo farò anch’io» concluse. Sospirò in maniera plateale, in modo da allentare la tensione. «Però, maledizione… due proiettili su due andati a segno. Capisco te, sei stato in guerra, ma io? Questa è sfiga.»

Michael scoppiò a ridere e si sdraiò su di lei. Si attorcigliò una ciocca rossa fra le dita, prima di baciarla ancora, e ancora. Quando infine, per la seconda volta, si furono lasciati andare, Michael posò le labbra sull’addome di Ellen, nel punto in cui il proiettile avrebbe dovuto colpirla. Allora Ellen ignorava che quel gesto sarebbe stato destinato a ripetersi, ogni notte, ogni volta che Michael avesse giaciuto in lei.

 

***

 

«Buongiorno.»

Il tono piccato di Lilyan li accolse nella sala da pranzo dove stavano facendo colazione. Ellen era ancora intontita dal sonno, dal momento che lei e Michael avevano passato svegli la maggior parte della notte – perlomeno quella che non si era svolta fra cripte di famiglia e chiese sconsacrate. Dall’occhiata gelida che Lilyan rivolse loro, Ellen ebbe la conferma che si erano fatti udire. Si strinse nelle spalle, fingendo noncuranza, mentre Alexander nascondeva un volto imbarazzato dietro l’Arkham Gazette del dieci novembre.

Neanche fosse stato lui a farmi urlare.

Prese posto accanto a Janet e afferrò senza tante cerimonie un paio di fette di torta al cioccolato, ammiccando a Jeremy: ormai il maggiordomo conosceva a memoria i gusti dei suoi ospiti. Lilyan sedeva a capotavola, di fronte a un semplice croissant e a un bicchiere di latte freddo, perché la mattina faticava a mettere in moto il metabolismo. L’uno di fronte all’altra, Michael e Janet si dividevano invece una colazione salata, riempiendo i propri piatti con uova strapazzate, bacon e pane bianco. Cambiavano soltanto le bevande che si portavano alle labbra: Michael una tazza di caffè amaro e Janet un tè nero macchiato con un goccio di latte. Alexander aveva già mangiato, ma si stava concedendo un secondo caffè. Davanti a lui, il posto di Ellen traboccava di leccornie, come se non fosse mai sazia; erano tutti dolci, e tutti rigorosamente al cioccolato. Come ogni mattina, osservandola assalire la torta, Michael sbuffò e scosse la testa.

«Parlano dell’incendio?» chiese poi ad Alexander.

Era una domanda retorica: la prima pagina del quotidiano era dominata dalla fotografia dei resti della Chiesa Occidentale. Rimaneva ben poco della struttura originale, tuttavia Ellen credeva che avrebbe avuto lo stesso aspetto seppure il fuoco divampato non fosse stato magico.

“Magico”: ecco come ragione adesso. Fottuti McCrindle e i loro libri del cazzo.

«Cosa dicono?» insistette Michael.

«Vandali» ipotizzò Ellen, ripensando alla scusa preferita del decano Miller.

Alexander mise il giornale al centro del tavolo. «Fingono di ignorare a chi appartenesse la chiesa. Parlando di “edificio storico”, “grossa perdita per il quartiere”… ma per cosa è famosa Arkham?»

«Anfibi giganti?» ipotizzò Ellen.

«Gangster con pessime scelte edilizie?» rincarò la dose Lilyan. Si guardarono, scambiandosi un fugace sorriso – se la smorfia di Ellen poteva essere definita tale.

Alexander sospirò, ma sembrava divertito. «La Miskatonic Library. Quando è stata depredata, l’articolo non è finito in prima pagina, eppure l’incendio doloso di una chiesa abbandonata sì. La Gazette sa chi la possedeva e forse O’Bannion vuole mandare un messaggio.»

«Quanti morti?»

Janet aveva posto la domanda cruciale. Fissò Alexander, che alla fine rispose: «Quattro.»

Ellen non si era resa conto di trattenere il fiato. Inghiottì il boccone e riprese a respirare.

«Quindi… è morto.»

«Non lo so. Spero di sì, ma è presto per cantare vittoria.»

«Presto?» esclamò Lilyan, saltando in piedi. Sprizzava felicità da tutti i pori. «Abbiamo distrutto tutti i libri, e Darcus è morto. Siamo salvi.»

«Ne manca uno. Il libro che Darcus ha usato per invocare il mostro a Boston… Deve avercelo ancora. Ellen ha detto di averne visti due sull’altare.»

«Ed è difficile che si sia separato da tutti e tre i volumi in suo possesso» aggiunse lei masticando avidamente.

«Ma è morto» ripeté Lilyan.

«Abbiamo visto quattro persone… beh, quattro possibili cadaveri nella chiesa» cercò di farla ragionare Alexander, sebbene apparisse terrorizzato all’idea di deluderla un’altra volta. «Poteva esserci un irlandese che non avevamo visto… No, ti prego, lasciami finire: voglio solo dire che dobbiamo fare attenzione. Aspettiamo un giorno o due. Facciamo dei turni, diamo il cambio a Jeremy, cerchiamo di essere prudenti. E, soprattutto, non usciamo di casa. Due giorni, e poi riesamineremo la situazione.»

 

***

 

Ellen mosse la mano, rimirando la novità che aveva infilato all’indice destro. Non sapeva se la posizione avesse un qualche significato, ma lo aveva ritenuto il dito più comodo per il suo sfavillante anello di diamanti.

«Ti piace?»

«Che razza di domanda. L’ho scelto io.»

«Volevo solo sapere se ti sentissi soddisfatta.»

«Mh-mh. Un giorno potrò venderlo e farci un mucchio di soldi.»

Michael le scompigliò i capelli. «Forza, torniamo a casa prima che diano di matto.»

Nonostante il discorso di Alexander, erano sgattaiolati fuori nemmeno un’ora dopo, perché Michael ripeteva di “volere adempiere al proprio dovere”, che una promessa era una promessa e tutto il resto; Ellen era abbastanza certa che avrebbero potuto chiamare un gioielliere per chiedergli di recarsi a Chateaubriand Manor, portando con sé un campionario, però Michael aveva insistito. Sembrava incapace di starsene buono ad aspettare che passassero quei due giorni, e aveva approfittato del turno di Janet e Alexander per uscire all’aperto, conscio che, secondo i loro compagni, dovevano essersi chiusi di nuovo in camera da letto. Era una prospettiva allettante, soprattutto perché Ellen non smetteva di sbadigliare, ma era curiosa di scoprire se Michael le avrebbe davvero comprato un anello di diamanti.

L’aveva fatto eccome.

Che strano: dormiva con un uomo più grande di lei, abitava in una magione con mobili di gran pregio e ora poteva perfino sfoggiare un gioiello completamente inutile. Si sentiva diversa, e non era certa che le dispiacesse. Si accarezzò sovrappensiero la spalla destra, reprimendo un gemito, e di colpo le parve di tornare alla realtà. Lusso, comodità, compagnia… faceva tutto parte di un unico pacchetto che comprendeva anche incantesimi oscuri e rischi mortali.

«Ti fa ancora male?»

«No, solo se la tocco. Riesco a muovere il braccio meglio di stanotte.»

«Bene.»

Ellen guardò Michael e lo vide teso; la mano era all’altezza della cintura, dove nascondeva la pistola, e d’istinto lei stessa cercò la sua. Intorno a loro, tutto scorreva tranquillo, ma la prudenza non era mai troppa.

«Hai sentito Logan?» Il tono di Michael era cambiato; si era fatto serio, circospetto. «Notizie degli irlandesi?»

«No, ma è il momento migliore per starsene buoni. Qualcuno ha fatto saltare una proprietà di O’Bannion e ammazzato Leary, e forse anche il finto Sills, dunque lui sarà sul piede di guerra, pronto ad azzannare i primi sospetti. Se la prenderà con i Rocks, nel Southside, ed è meglio per Marco tenere i suoi ragazzi fuori dal mirino. Sono pur sempre italiani, e uno dei Rocks è suo fratello.»

«O’Bannion però non sa perché Sills volesse la chiesa.»

«Non cambia niente, è comunque sull’attenti. E poi se Sills… se Darcus fosse ancora vivo, è ugualmente meglio per Logan e Nanny tenersi alla larga da noi. Darcus potrebbe usarli per farci uscire allo scoperto. In entrambi i casi, avranno intuito che c’entriamo qualcosa con l’incendio, e se ne staranno buoni.»

«Il tuo amico mi sembra un tipo prudente.»

«Marco? Sì, lo è. Quando facevo parte del loro gruppo, Marco era uno dei “grandi”, se così si può dire, e avevamo dei coetanei. Crescendo però hanno scelto altre strade, mentre i bambini sono aumentati.» Ellen sospirò. «Quelli non diminuiscono mai.»

«Soprattutto se le altre strade…»

«Già. Sospetto che anche la madre di Logan e Nanny si prostituisse, ma non ho mai voluto chiederlo a Marco. Ogni persona che lascia il gruppo è un tasto dolente. Credo di essere stata la prima ad avere migliorato la propria situazione.»

«Perché hai scelto Biologia?»

«Curiosità. Mi piace sapere come funziona la natura, e anche il corpo umano non è male. Ho dato un paio di esami di Medicina.»

«La mente non ti interessa?»

«Il corpo va in un unico modo, quando è sano. La mente è imperscrutabile.»

«Sono d’accordo, ma trovo stimolante studiarla. Sai, a Salisburgo ho conosciuto questo medico…»

«Dove diavolo siete stati?!»

Erano talmente persi nella conversazione da ignorare di avere raggiunto Chateaubriand Manor, e anche di avere attraversato il giardino della villa sotto gli occhi sbigottiti di Janet. Sul dondolo, Alexander fumava, indifferente, come se si fosse aspettato che ne avrebbero combinata una delle loro, mentre Janet stava dando di matto, le guance paonazze e la voce più acuta del normale. Ellen stava per scusarsi di averla allarmata, ma Michael fu più rapido: afferrò la sua mano destra e la portò davanti al viso di Janet.

«Le ho fatto un regalo. Se lo meritava, non trovi?»

Tutta la situazione era paradossale; Ellen tirò via il braccio e superò la soglia sotto lo sguardo sbigottito di Janet. Lilyan era all’interno, nel salotto, e si affacciò quando udì le loro voci.

«Che succe…? Eravate usciti?»

Si era liberata del fiocco rosa dopo che la notte precedente aveva rischiato di bruciarlo; ora il suo nuovo portafortuna era diventato un ciondolo a forma di croce, che spiccava sul suo abito da casa.

«Ora sono ricca anch’io» si limitò a spiegare Ellen. Voleva cercare se in cucina fosse avanzata una fetta di torta. Aveva appena superato l’ingresso, quando un’esplosione la gettò a terra.

Un fischio lungo e monotono penetrò nei suoi timpani, mentre le palpebre cercavano di rimanere aperte. C’era polvere ovunque, e dove fino a un attimo prima si era eretta una parete Ellen vide solo macerie. Qualunque cosa fosse esplosa, l’aveva fatto a pochi passi da lei. Tentò di mettersi in piedi per controllare la situazione, e la mano destra già si stava muovendo verso la pistola, ma uno stivale le bloccò il polso. L’urlo uscì muto dalla sua bocca; qualcuno le cinse le braccia dietro la schiena, stringendo il polso dolorante all’altro in un nodo stretto.

Fu il suo assalitore a farla rialzare, spingendola contro la parete della cucina per evitare che cadesse. Ellen ne approfittò per guardarsi intorno: la parete ovest dell’ingresso era scomparsa e una nube di polvere si stava finalmente abbassando, permettendole di vedere meglio. Uomini coperti da capo a piedi li stavano radunando in giardino, le mani strette attorno a fucili più elaborati di quello a due canne di Jeremy.

Jeremy…

Per fortuna il maggiordomo era uscito prima di loro, e avrebbe potuto chiamare aiuto. La polizia sarebbe intervenuta, e loro sarebbero… sarebbero…

Perché non li avevano ancora uccisi?

Vide Alexander, privo di sensi, scagliato nei sedili posteriori di un’auto, mentre dall’altro lato Michael veniva costretto a salire. Stava aprendo la bocca, urlava qualcosa, ma il fischio le impediva di udirlo. Anche lei fu spinta all’interno di una seconda automobile, accanto a Janet e Lilyan. Non erano ferite, sembrava che fosse stata Ellen quella più vicina all’esplosione, ma erano turbate e spaventate. Solo quando le portiere si richiusero i rumori cominciarono a tornare.

«Mandatela giù.»

Aveva parlato l’uomo al volante. Teneva sul palmo aperto tre pasticche, che nessuna di loro avrebbe ingerito se il compagno sul sedile del passeggero non le stesse tenendo sotto tiro con una pistola. Titubante, Ellen ne prese una e cercò di nasconderla sotto la lingua. Il suo imbrogliò durò poco: il rapitore al volante le coprì bocca e naso, costringendola a inghiottire.

Poi il mondo sparì.

 

***

 

Il polso le faceva dannatamente male, ma non era stato quello a svegliarla. Qualcuno la stava scuotendo.

«Ellie! Ellie!»

Dischiuse piano le palpebre. La luce fioca non le dava fastidio, tuttavia gli occhi stentavano ad aprirsi. Quando infine riuscirono a mettere a fuoco l’ambiente circostante, riconobbero l’espressione angosciata di Janet. Alle sue spalle, Alexander stava facendo delicatamente rinvenire Lilyan, mentre Michael premeva una mano contro la fronte. Si trovavano in un luogo a lei ignoto, ma non serviva esserci stati in passato per comprendere cosa fosse: una cella.

Era più larga della stanza di Darcus, eppure allo stesso modo priva di fonti di luci diverse dalla lampada sul soffitto; la porta di ferro era serrata e con tutta probabilità chiusa a chiave, perché i loro polsi non erano più legati. C’erano solo due panche di legno su cui sdraiarsi, ma i loro carcerieri non si erano dati disturbo e li avevano mollati sul pavimento. Ciò che colpì di più Ellen, però, fu constatare che ogni singola parte di quella cella pareva nuova di zecca, ben tenuta e pulita. Gli irlandesi non disponevano di luoghi simili ad Arkham. Che li avessero portati in una proprietà fuori città, in una qualche parte sperduta della Miskatonic Valley? Forse Sills aveva acquistato un edificio appena costruito e aveva mandato gli scagnozzi di O’Bannion a occuparsi di loro…

Tossì e si accorse di avere la gola secca. Da quanto tempo erano rinchiusi lì dentro? Quanto lontano li avevano condotti fuori da Arkham?

Alla sua desta, udì lo stridore del metallo contro il pavimento di pietra. Janet si strinse a lei, ma Ellen non le prese la mano: chiunque si fossero trovati davanti – perfino lo stesso Darcus – non si sarebbero mostrate deboli. Sollevò il mento e puntò gli occhi sulla soglia, aspettando di vedere la figura slanciata di Bobby Sills, gli abiti di alta sartoria e la fila di lentiggini che percorreva il suo naso a punta.

Quella, però, era una giornata carica di sorprese.

L’uomo non era Sills – non poteva esserlo in alcun modo, a meno che Darcus non avesse cambiato travestimento. Era alto sei piedi, massiccio, con spalle tanto larghe che avrebbe avuto difficoltà a passare dalla porta. La luce della lampada le permise di scorgere le tre profonde cicatrici che gli attraversavano il volto di roccia. Era una figura minacciosa, ma non fu il suo aspetto fisico a spaventarla, bensì la divisa.

Era un generale dell’esercito statunitense.

Settimane prima, allo Science Lab, Michael le aveva insegnato a riconoscere i gradi di un generale; l’uomo che li stava fissando dall’alto in basso era un’altra persona, ma i gradi coincidevano. La mimetica gli fasciava il corpo mettendo in risalto il petto e le gambe compatte, e nonostante il taglio militare e la barba rasata nascondessero la sua età, era possibile immaginarla intorno ai quaranta anni, grazie alle rughe che solcavano la sua fronte. Quando infine parlò, Ellen capì che lo sconosciuto non avrebbe mai accettato compromessi.

«Lui.»

Al suo ordine, due soldati lo superarono per afferrare le braccia di Alexander e trascinarlo in piedi. In un altro contesto, circondati dai gangster di O’Bannion o dai mostri di Darcus, tutti loro avrebbero agito, ma la situazione era talmente imprevista da costringerli a rimanere a terra, osservando Alexander che veniva portato via senza opporre resistenza, e la porta richiusa con lo stridore metallico che echeggiò nelle loro orecchie.

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Capitolo 22
*** Capitolo XXII ***


Capitolo XXII

 

Lo stupore lasciò il posto alla rabbia quando Alexander tornò in cella.

Difficile dire quanto tempo fosse passato, senza un orologio o la luce del sole a fornire indicazioni; la compagnia dell’ansia rallentava lo scorrere dei minuti. Avevano scambiato poche parole, per lo più sussurrate, e a parlare erano state soltanto Ellen e Janet: avevano cercato di analizzare la situazione ricordando quanto accaduto a ottobre alla Miskatonic University, il giorno in cui l’esercito si era presentato al Campus per togliere loro la ricerca sulla carcassa. Ellen le aveva raccontato ancora una volta dei militari incaricati di setacciare l’ufficio della Baker e la sua camera nell’Upton Hall; quanto accaduto in seguito con Masters e Darcus le aveva fatto scordare l’inquietudine della professoressa di Biologia Animale, che era stata depredata di tutto il proprio lavoro e inviata in fretta e furia a partecipare a una spedizione fuori dal continente. Gli indizi raccolti nel corso delle loro indagini li avevano persuasi che la carcassa e le sue uova fossero state in qualche modo evocate da Darcus, dunque era sullo stregone che avrebbero dovuto concentrarsi, ma in tal modo avevano del tutto ignorato la presenza dell’esercito.

Mentre Ellen e Janet avevano cercato di mettere insieme i pezzi, Lilyan era rimasta immobile, pallida e confusa, con lo sguardo rivolto alla porta in attesa del ritorno di Alexander, ma era stato il comportamento di Michael a dare a Ellen un cattivo presagio: le aveva ascoltate in silenzio, senza annuire o fornire la propria opinione, limitandosi a fissarle con espressione cupa e assorta.

Quando Alexander fu gettato nuovamente nella cella, Ellen comprese che Michael era stato il solo a intuire in che guaio fossero.

Lo lanciarono a terra senza curarsi del suo stato, e Alexander era tanto intontito che fu solo il rapido intervento di Michael a impedire che sbattesse il naso contro il pavimento. Prima che potessero controllare il suo stato fisico, il generale aveva parlato di nuovo, indicando Janet.

«Ora è il suo turno.»

Ellen scattò in piedi, ma fu raggelata dagli occhi scuri di Michael. Rimase immobile mentre Janet veniva trasportata via con maggiore cura da parte dei soldati; si girò verso Ellen e lei la vide pallida, confusa, spaventata.

La porta si richiuse ed entrambe le donne si mossero verso Alexander. Aveva un livido all’altezza dello zigomo sinistro e molti altri dovevano esserci lungo il corpo, perché si lamentava a ogni tocco leggero di Michael. Non c’era niente di rotto, ma era stato picchiato mentre il sonnifero scorreva ancora nel suo sangue, impedendogli di agire. O forse gli era stato impossibile difendersi?

Per fortuna, era in grado di parlare.

«Vogliono… vogliono sapere… dei libri…» mugugnò, asciugandosi il sangue che sgorgava dal taglio sul labbro.

«Quindi sono gli stessi del Campus» rifletté Ellen. «Se cercano i libri, significa che sanno di Darcus, e che sono collegati ai mostri del fiume.»

«Non… non ne ho idea… Ma non vanno per il sottile…»

«Cosa gli hai detto?»

Alexander guardò prima lei, poi il punto in cui fino a poco prima si trovava Janet, e la risposta le fu chiara.

Nei minuti successivi, il terrore per ciò che in quel momento stava subendo Janet le impedì di capire cosa stesse accadendo, chi fossero quei soldati e cosa li avesse condotti a loro, perfino in che modo fossero riusciti a irrompere dentro Chateaubriand Manor. Ancora una volta non seppe quanto tempo fosse passato dal rientro di Alexander a quello di Janet, ma le sembrò meno del precedente. L’archeologa era scossa, eppure era in buone condizioni: non l’avevano toccata.

«Lei.»

I due militari si avvicinarono a Ellen, e Michael fece appena in tempo a stringerle la mano. Non la stava rassicurando, ma le ripeteva il significato dello sguardo che le aveva rivolto quando avevano prelevato Janet: non fare cazzate.

La condussero lungo un corridoio appena più luminoso, e dalle finestre Ellen vide che si trovavano in aperta campagna. I soldati la scortarono senza toccarla, probabilmente perché lei si stava mostrando collaborativa, ma la sua testa stava cercando un modo per pugnalare la schiena del generale che li precedeva. Le avevano tolto la pistola, lasciandole soltanto gli abiti che indossava e il nuovo anello di diamanti, che in quel contesto stonava molto più del fiocco rosa di Lilyan nelle fogne. Svoltarono solo un paio di angoli prima di raggiungere una stanza poco più grande della cella, un tavolo al centro e due sedie di fronte a ciascuno dei lati più lunghi. Era scarna, ma con breve spazio di manovra: perfetta per farla sentire in trappola. I soldati attesero che si sedette, poi uscirono, lasciandola sola con il generale. Lui rimase in piedi.

«Dove sono i libri?» esordì senza tante cerimonie.

Ellen si morse la lingua: avrebbe voluto rispondergli con una frase tagliente, o fingendo di non capire, ma non serviva il tacito avvertimento di Michael per comprendere che doveva fare attenzione.

«Quanti ne possedete?» proseguì il generale. La fissava negli occhi, ed Ellen non riusciva a distogliere i propri dalle tre cicatrici: che fosse stato un mostro a infliggergliele?

Silenzio.

«Avete dato fuoco alla Chiesa Occidentale?»

La terza domanda la sorprese: dunque l’esercito lo sapeva già. Se erano in possesso di quelle informazioni, perché se le stavano prendendo con loro invece di occuparsi di Darcus?

Quando Ellen si rifiutò ancora di rispondere, il generale si sedette e avvicinò la pila di fascicoli sul tavolo; la scrutò per un secondo prima di sceglierne uno, aprirlo e sfogliarlo lentamente.

«Signorina Lawlier, Ellen. Non siete sposata.» Era un’affermazione più che una domanda. «Quattro anni fa, siete entrata alla facoltà di Biologia della Miskatonic University di Arkham. Qui c’è il vostro certificato di nascita, oltre agli attestati degli studi pregressi.»

Stava per dirle che non credeva nemmeno a uno di quei documenti, ne era certa; eppure la sorprese di nuovo.

«Perché una studentessa universitaria abita a casa del defunto Arcivescovo Giraud Des Chateaubriand?»

«Perché mi avete fottuto la stanza.»

Ecco fatto, alla fine si era lasciata provocare. Non erano state le parole del generale a infastidirla, ma quello che aveva fatto ad Alexander; era inutile fingersi una brava persona se si era disposti a torturare qualcuno per ottenere risposte.

Il generale alzò lo sguardo su di lei e la osservò in silenzio, poi riprese a leggere.

«Voi, la dottoressa Holmes e il dottor Fauerbach facevate parte del gruppo incaricato di indagare sulla creatura del Miskatonic River.» Non aveva provato a negare la sua connessione con i soldati che le avevano scandagliato la camera del dormitorio. «Cosa avete scoperto?»

 «Lo sapete già.»

«Non avete investigato oltre dopo che il vostro gruppo è stato sciolto?»

«Non avevamo i mezzi per farlo.»

«Capisco.» Tacque in momento, chiuse il fascicolo e la fissò di nuovo. «Dove sono i libri?»

«Cazzi nostri.»

Il pugno le raggiunse lo zigomo prima che potesse accorgersi che il generale si era mosso. Sapeva che avrebbe usato le maniere forti, ma non all’improvviso. Gli occhi si offuscarono; mentre cercava di mettere a fuoco il tavolo, il militare si alzò e la raggiunse, sollevandola per il bavero. Non disse nulla, la osservò e basta, e lei si sentì piccola e indifesa.

Poteva combattere le creature mostruose, ma non i veri mostri.

No, basta, non sono più una bambina.

Gli sputò in faccia. Il generale strizzò gli occhi, poi le sue iridi divennero infuocate. La spinse a terra e le tirò un calcio al ventre, poi sul fianco, poi alla schiena; lei si rotolava cercando di evitarli, ma senza successo. Quando lo stivale rinforzato calò per la quarta volta sul suo busto, avvertì qualcosa incrinarsi e rimase senza fiato.

«Qui ho fatto.»

Il militare aveva parlato rivolto agli uomini che attendevano nel corridoio, e che la afferrarono sotto le ascelle per riportarla in cella. Si sentiva stordita, era sul punto di svenire, eppure si costrinse a resistere. Fu inutile, perché quando Michael vide le sue condizioni serrò la mascella e i pugni, ed Ellen seppe che il suo sguardo di ammonimento non sarebbe servito a niente.

«Tocca a lui.»

Lo osservò uscire prima di perdere i sensi.

 

***

 

«Ahi…»

«Scusa, faccio più piano…»

Era stata Janet a farla rinvenire. Ellen era rimasta svenuta solo qualche secondo, si sentiva ancora stordita. La sua amica si stava dedicando ad asciugarle il sangue che sgorgava dallo zigomo quando la porta della cella si aprì per l’ennesima volta: Michael fu gettato all’interno proprio come Alexander, ma sembrava messo molto peggio di lui.

«Lei

Il generale era sulla soglia, come sempre, e il fuoco nei suoi occhi era addirittura cresciuto durante l’interrogatorio di Michael, perché fissava Lilyan con un’ostilità tale che Ellen ebbe timore per lei. La ragazza però non si fece spaventare: pur pallida in viso, si mosse verso il militare con la schiena dritta e l’espressione risoluta.

Soltanto quando fu uscita Ellen si riscosse e si portò verso Michael, che si mordeva la lingua per reprimere il dolore; lei stessa soffriva ancora, ma aveva bisogno di controllare il suo stato. Non c’era sangue, e questo fu un sollievo, eppure la manica sinistra della sua giacca era lacerata e tutti gli abiti erano stropicciati, sporchi e ormai da buttare. I lividi sulla pelle esposta erano così tanti che Ellen si rifiutò di contarli.

«Michael…»

«Sto alla grande, ragazzina…» mormorò lui, ma stentava a pronunciare bene le parole. Tossì. «Qualche calcio, un paio di schiaffi… Ho subìto torture peggiori…»

«Fammi controllare.»

«No… non serve. Sono solo lividi, passeranno. Non sono un bel vedere, ma…» azzardò una risata che si spense in un attimo. «Tu come ti senti?»

La pelle di Ellen era sempre stata molto chiara, tuttavia in quel momento era certa che fosse addirittura cerea; si stava costringendo a restare lucida. «Sto… sto bene.» Era meno convincente di Michael.

Lui la osservò con cura, soppesando il taglio sullo zigomo: il generale aveva colpito con tanta forza da farla sanguinare. Le doleva, ma era stato il suo ultimo calcio a farla svenire e a darle ancora noie. Michael si mise dritto con la schiena al muro, senza rialzarsi, e le passò le dita sul corpo come aveva fatto prima con Alexander.

«No… no» tentò di fermarlo Ellen. «Devi pensare alle tue…»

«Sono lividi, ho detto… Fammi dare un’occhiata…»

Fece scivolare le mani sotto i suoi abiti con estrema delicatezza, e a Ellen venne il dubbio che avesse passato l’interrogatorio a fremere per quel momento.

Michael si stupì dei segni sul suo corpo e ancora di più dell’ematoma che correva sul fianco destro, dove lo stivale le aveva procurare il maggiore dolore; quando Michael lo toccò, una fitta la percorse facendola gemere. Si era accorta di avere difficoltà respiratorie e ora, osservando la fronte corrucciata di Michael, ebbe la certezza della diagnosi che si era fatta.

«Potresti avere un paio di costole incrinate» disse infatti il medico. «Non riesco a capire quante, ma non sembrano essere fratturate… Hai mal di testa? Vertigini?» Stentava ancora a parlare normalmente, tuttavia la preoccupazione per lei lo stava tenendo impegnato.

Ellen scosse la testa.

«Come te le ha fatte?»

«Secondo te?»

Michael fece una smorfia priva di gioia. «Almeno hai ancora la tua grinta.»

In quel momento la porta si aprì di nuovo e, finalmente, si richiuse senza che uno di loro venisse portato via. Lilyan rientrò illesa, a eccezione della chioma disordinata, ma il volto era rosso di rabbia.

«Cos’è successo?» le chiese Alexander, rintanato in un angolo con Janet. L’archeologa si stava dedicando alle sue ferite, conscia che ormai Michael avrebbe prestato attenzioni soltanto a Ellen.

«Non ho detto niente» replicò infastidita Lilyan, incrociando le braccia al petto e sedendosi su una delle panche di legno; gli altri erano troppo doloranti per riuscire a spostarsi da terra, e Janet troppo empatica nei loro confronti. Lilyan parve accorgersi del tono brusco con cui aveva risposto ad Alexander, e di non essere più nella stanza degli interrogatori. «Mi ha… mi ha chiesto dei libri. Sapeva della chiesa, delle creature che abbiamo trovato sul fiume, di… di Giraud…» Si interruppe, voltandosi di scatto per nascondere gli occhi lucidi.

«Ha alzato le mani su di te?»

«No. Non… non proprio. Mi ha preso per i capelli, ma non mi ha picchiata.»

Era la risposta che Alexander non avrebbe voluto ricevere, ed Ellen avvertì la nausea udendo quelle parole.

«Mi ha solo afferrato la testa, non mi ha fatto del male» le ricordò una voce femminile. Sapeva che Lilyan voleva minimizzare l’accaduto dopo che lei, Michael e Alexander erano rientrati coperti da sangue e contusioni, ma avrebbe tanto desiderato che non scegliesse quelle parole.

«Nessuno di noi ha parlato» disse Michael. Come le parole del generale, più che una domanda era un’affermazione: Janet era l’unica davvero illesa, ma era anche la più leale. «Qualcosa però gli abbiamo detto. Dobbiamo uniformare le nostre risposte.»

«Mi ha chiesto se fossi Alexander McCrindle e se facessi l’investigatore privato, ma mi sono rifiutato di dire altro.»

«Anche a me hanno chiesto conferma del nome e del mestiere, ma non hanno granché qui negli Stati Uniti.»

«Io ho parlato… per un po’. Ho confermato che noi tre facevamo parte dell’equipe del decano Miller, ma che abbiamo smesso di indagare quando il lavoro ci è stato revocato.»

«Ellen qualcosa ha detto» esclamò d’un tratto Lilyan. Non era un’accusa; nella sua voce Ellen colse qualcosa di simile all’ammirazione. «Io mi sono rifiutata di rispondere, e mi ha tirato i capelli. Quindi tu devi averlo insultato.»

«Gli ho sputato in faccia» rispose lei con orgoglio. Per la seconda volta in quella lunghissima giornata, le due donne si scambiarono un sorriso.

A differenza di Lilyan, Michael non parve approvare il suo comportamento. Il suo tono era duro mentre chiedeva: «Qualcuno ha parlato dei libri?»

Scossero tutti la testa.

«Avete finto di non sapere della loro esistenza?»

Un attimo di esitazione, poi il movimento si ripeté.

«Bene, almeno non sembriamo degli sprovveduti. E adesso scusatemi, ma… credo dovremmo riposare. Ne riparleremo più tardi.»

Ellen era felice che lo avesse detto: stentava a rimanere concentrata sulla discussione, con quel dolore martellante al fianco. Michael le passò una mano dietro la schiena e la attirò sul proprio petto.

«Dormi» le sussurrò.

Lei si lasciò cullare dal suo respiro, fino a perdere conoscenza. Le voci nella cella continuarono a rincorrersi, senza che Ellen si rendesse conto di udirle sul serio o di immaginarle soltanto.

«Janet… puoi venire un momento?»

«Sì, cosa ti serve?»

«Puoi… puoi strapparmi la manica? Ecco… questa, sì… Fa’ piano…»

«Michael, ma stai sanguinando!»

«Sh, non svegliarla… Ha delle costole incrinate, deve… deve riposare… Per favore, puoi… puoi farmi una fasciatura?»

«Cosa… cosa ti ha fatto?»

«Il bastardo… aveva un coltello da caccia… L’ho fatto incazzare…»

«Non devi rischiare, Michael…»

«Gli serviamo, non mi avrebbe… ahi… ucciso…»

«Così va bene? Vorrei disinfettarla, ma…»

«È l’ultimo dei nostri problemi… e te lo dice un medico…»

«Perché non ti sdrai? C’è l’altra panca, hai bisogno di riposare.»

«Questa è la prima volta… che Ellen mi si addormenta addosso… Non farmi perdere l’occasione di rinfacciarglielo…»

La risata di Michael fu l’ultimo suono. Quando il rumore metallico li destò, Ellen non seppe di nuovo dire quanto tempo fosse passato.

 

***

 

L’interrogatorio riprese al loro risveglio, e si stava dimostrando più complicato del precedente. Venivano prelevati a rotazione, senza pause, e potevano stare via una manciata di minuti oppure un’intera ora; Michael, già debilitato dalle precedenti torture, aveva perso i sensi ed era stato spostato in un’altra stanza, sotto la sorveglianza di un quarto soldato, e quando Lilyan era stata portata via prima del suo rientro Ellen aveva rischiato di peggiorare le situazione delle sue costole, gridando insulti e vane minacce finché Michael non era tornato in cella. Erano ormai al quinto giro, Janet era rientrata più scossa degli interrogatori precedenti ed era sul punto di piangere, quando era toccata di nuovo a Ellen.

Voleva mostrarsi forte e coraggiosa, ma il dolore al fianco la costringeva a ondeggiare. Si morse le labbra a ogni singolo passo, avvertendo i fucili dei due soldati puntati alla schiena: il generale non si era più mosso dalla sua stanza preferita, preferiva attenderli come un boia. Mentre si sedeva, Ellen lo vide passarsi un panno bagnato sulle nocche. Dalla sua prima visita, la sala interrogatori aveva subìto un profondo cambiamento, a partire dalle chiazze di sangue sparse sul tavolo, sul pavimento e sulle pareti, che i militari si erano ben guardati dal pulire, consci che rendesse le loro vittime ancora più inquiete.

Osservandola, il generale notò il suo stato sofferente.

«Vi chiedo ancora scusa per avere alzato le mani su di voi.»

Iniziava sempre così. Era la quarta volta che Ellen udiva quelle parole, e non sapeva più cosa farsene; era però consapevole che il militare stesse adottando tecniche diverse per ciascuno di loro, sebbene non si fosse confrontata con i suoi compagni per evitare loro di rivivere ciò che avevano passato. Era certa che il generale confidasse sul buon cuore di Janet, cercando di convincerla che i suoi amici sarebbero stati liberati e curati se solo lei avesse parlato; forse, vedendo la croce al collo di Lilyan, aveva puntato sulla sua carità cristiana, o aveva messo in mezzo la reputazione del padre, mentre con Alexander e Michael non usava psicologia spicciola: andava al sodo, torturandoli fino a che non si annoiava, e cercava di farli tornare in cella nelle peggiori condizioni possibili. Ellen sapeva che Michael lo aveva provocato durante il primo “interrogatorio”, eppure era Alexander quello che ora presentava le ferite maggiori, e non era un caso che fosse la persona direttamente collegata ai libri.

Con Ellen, il comportamento del generale cambiava in continuazione. Cominciava scusandosi per averla picchiata, poiché era una donna, poi insinuava che lei non fosse nuova alla criminalità, smetteva di chiamarla “signorina” e si limitava a “Lawlier”. Dovevano avergli riferito che aveva dato di matto quando Michael non era tornato in cella, perché nell’ultimo interrogatorio lo aveva tirato in ballo più di una volta, ma le sue parole non la intimorivano: era cresciuta nella diretta violenza, non conosceva le minacce che la precedevano. L’assenza di Michael l’aveva fatta impazzire, eppure era ormai chiaro che il generale non era intenzionato a ucciderli.

«Non dirò niente» esordì Ellen.

«Avete bisogno di un medico?»

«Ce l’ho già, un medico.»

«Non è nelle condizioni di aiutarvi… o non lo sarà presto.»

Ellen sbuffò e portò gli occhi al soffitto: là almeno non c’erano tracce di sangue.

«Smettiamo di perdere tempo. Non parlerò.»

«Avete ragione, ora tocca a me farlo.»

Lo guardò, curiosa della nuova tecnica che intendeva usare.

«Siete una studentessa. Vi piace studiare, perché vi piace apprendere nuove informazioni. Forse è arrivato il momento che ve ne fornisca qualcuna, per stimolarvi a darmi la vostra versione.»

La mia versione?

«Ci sono quattro libri. C’è chi dice che siano… magici.» Il generale sputò a terra. «Io invece credo che contengano il necessario per distruggere il mio amato Paese. Codici, parole d’ordine… planimetrie.» Fece una pausa e la fissò dritto negli occhi. «So che il detective McCrindle ha richiesto le planimetrie della Chiesa Occidentale di Arkham poche ore prima del suo incendio. Devo credere che sia stato un caso?»

Ellen rimase in silenzio. Stava processando la teoria del militare, eppure lui parve prendere la sua esitazione per una conferma.

«Il ventinove ottobre, a Boston, un altro edificio è andato distrutto. Era la casa del libraio e collezionista Jefferson Masters, che curiosamente possedeva un’attività ad Arkham. Ancor più curiosamente, quell’attività è stata scassinata la notte precedente al rinvenimento, da parte della dottoressa Holmes, di una strana carcassa a breve distanza dal negozio. Abbiamo anche la testimonianza dell’assistente di Masters, che parla di quattro persone, tra le quali ha riconosciuto l’Arcivescovo Giraud Des Chateaubriand, che si sono recate il pomeriggio precedente in libreria per chiedere del proprietario. Un proprietario che ha cercato di fuggire, ma senza successo.» Il suo tono si era fatto sempre più insofferente nel corso del resoconto. «Devo proseguire?»

«Sì, la storia mi sta appassionando.»

Come Ellen pensava, quel fottuto generale era un sadico, un uomo completamente devoto alla violenza, e tale sarebbe rimasto. Lo schiaffo la colpì sul viso nello stesso punto in cui ore prima era atterrato il suo pugno. Si era alzato, pronto a prenderla di nuovo a calci, e fu solo l’improvvisa apertura della porta a trattenerlo.

«Generale Pain» chiamò una voce che lei non conosceva «lasci andare questa ragazza.»

Una mano si tese verso la sua, ed Ellen era tanto sorpresa da afferrarla. Alzò lo sguardo: a intervenire era stato un uomo anziano, le cui fitte rughe suggerivano che avesse sui settanta anni; era alto quanto il militare, ma più snello e calvo. Un paio di lenti filtravano i suoi occhi chiari e un amabile sorriso la convinse che, per il momento, era lui la sua opzione migliore.

«Prego, signorina, torniamo dai suoi amici.»

Il generale Pain rimase immobile mentre Ellen e lo sconosciuto si allontanavano. Non indossava una divisa, bensì un camice, e lei ipotizzò che fosse un medico o uno scienziato. Cosa ci faceva un professionista in una base militare? E perché era in grado di dare ordini a un generale?

La guidò verso la cella, scortato da quattro soldati, e quando la porta venne spalancata l’uomo diresse un nuovo, largo sorriso verso i prigionieri.

«Vi porgo le mie più profonde e sincere scuse per come siete stati trattati durante la mia assenza. Sono il professor Artemius Cutty. Per favore, vogliate seguirmi ai vostri nuovi e più rispettabili alloggi.»

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Capitolo 23
*** Capitolo XXIII ***


Capitolo XXIII

 

Prima di assegnarli ai loro nuovi alloggi, il professor Cutty li accompagnò in infermeria. Fu un bene: Alexander si reggeva in piedi a malapena, e per una volta non poteva incolpare il soprannaturale per le continue fitte alle tempie – i pugni di Pain si erano abbattuti anche lì. Michael aveva fatto il possibile per nascondere la profondità del taglio sul braccio a Ellen, ma fu presto chiaro che era stata tale ferita a fargli perdere i sensi durante l’ennesima tortura, quando il generale aveva infierito su quello stesso punto. Il medico dell’esercito, abituato a ricucire lesioni ben peggiori, si era occupato prima di loro e poi di Ellen, a cui aveva dato un paio di analgesici per sopportare il dolore intercostale. Ciascuno di loro sarebbe dovuto rimanere a riposo per qualche giorno, ma dubitavano sarebbe stato tanto semplice.

«Come ti senti?»

«Chiedimelo quando l’analgesico avrà fatto effetto.»

Michael rise, poi osservò Ellen con una punta di apprensione. «Non è il tuo primo antidolorifico, vero?»

«Non il primo che vedo, ma… non ne ho presi spesso.»

«Sei fortunata.»

«Ti sembra il caso di dirlo?»

Lilyan e Janet erano rimaste con loro, e sebbene non presentassero segni di lotta Cutty aveva insistito affinché fossero visitate. Quando Janet vide la confezione delle pasticche in mano a Ellen, però, allungò il palmo, e lei comprese. Sentì su di sé lo sguardo di Michael mentre si intascava l’intero barattolino, approfittando della distrazione del medico militare, ma quando si voltò lui era tornato a concentrarsi sulla propria fasciatura.

«Meglio di quella improvvisata?»

«Molto meglio. Non so in quali condizioni quel bastardo tenga le proprie armi, e temevo che il braccio mi sarebbe andato in cancrena prima del decimo ciclo di torture.»

«Oh, no, non sarebbe accaduto.» Cutty era apparso alle loro spalle. Il camice bianco, la gracilità e la capacità di apparire all’improvviso lo facevano assomigliare a un fantasma, ma per fortuna era davvero lì, e li aveva tolti dalle grinfie di Pain. Di sicuro nascondeva qualcosa, tuttavia per un po’ Ellen lo avrebbe considerato come il loro salvatore. «Se il dottor Hubert ha terminato con voi, desidererei farvi fare un giro della base.»

Acconsentirono volentieri, seguendo Cutty attraverso i locali situati lungo il primo e unico piano. L’odore di intonaco fresco che proveniva da un’ala ancora chiusa diede a Ellen la conferma della sua recente costruzione. Fu lieta di giungere in prossimità della mensa, così il naso poté cogliere profumi migliori: zuppa di legumi, cipolle stufate, tacchino arrosto.

Si avvicina il Ringraziamento.

Era uno strano pensiero: si trovavano all’interno di una base militare, circondati da soldati in divisa e distanti dall’atmosfera familiare di Chateaubriand Manor, eppure quell’ambiente era tanto diverso dalla cella e dalla stanzetta degli interrogatori da sembrare che appartenesse a un altro mondo. Solo in quel momento tutti si accorsero di non mangiare dalla mattina precedente; si sentivano deboli, ma lo stomaco si era chiuso nelle ore passate in prigione.

Cutty attese che si nutrissero prima di proseguire con l’esplorazione, e a stomaco pieno a Ellen fu chiaro il motivo di quella farsa. La base pullulava di soldati, un dettaglio che il loro “salvatore” si stava preoccupando di ribadire senza farne parola. Potevano essere stati liberati dalla cella, potevano mangiare e muoversi senza un fucile puntato addosso, ma rimanevano prigionieri. Pain era il bastone e Cutty la carota, niente di più e niente di meno. Dovevano essere cauti.

«Sappiate che il generale Pain riceverà una severa ammonizione per il modo in cui siete stati trattati» promise Cutty mentre Ellen ripuliva il piatto dai residui di zuppa, raccogliendo ogni fagiolo e rondella di carote. «I miei ordini erano di portarvi qui, ma non aveva accennato a un trattamento del genere. Mi rincresce davvero sapere cos’abbiate dovuto passare.»

«Dove ci troviamo?» tagliò corto Alexander. Se il vecchio era dalla loro parte, che lo dimostrasse.

«Sulla costa, vicino Ipswich, non troppo distanti da Arkham.»

«Cos’è questo posto?»

«Suppongo che ormai ve ne siate fatti un’idea.»

«Cos’è di preciso

«Una base militare provvisoria. È stata montata lo scorso inverno, per via di una missione particolare che ha richiesto un intervento tempestivo. Siamo stati costretti a dispiegare numerose forze armate, dunque è stato necessario predisporre un punto di riposo.»

«La missione è terminata?»

Cutty tacque. Si tolse gli occhiali, pulì ogni angolo della montatura quadrata e infine riprese: «Quella singola missione, sì. Ma in seguito il governo ha scelto di stanziare fondi per una sezione specializzata all’interno dell’esercito.» Esitò. «Sono stato nominato consulente e primo ricercatore dell’unità paranormale governativa.»

Rimase in silenzio, attendendo le loro domande. La prima a porgerle fu Janet: «Siete stati voi a intervenire sulla nostra ricerca?»

«Sì.»

«E il generale Pain…?»

«No, non era ad Arkham. Se ne era occupato il generale Daniels, un aiuto occasionale fornitoci dallo Stato. Per vostra sfortuna, è stato il generale Pain a dovervi recuperare tempestivamente. Mi trovavo a Boston, alla base principale, e dopo avere appresso dell’incendio ho preferito delegare il vostro… invito a unirvi a noi. Il generale Pain si è fatto prendere la mano, e non cesserò mai di porvi le mie scuse perché non ha fatto quanto gli era stato ordinato. Dovevate essere nostri ospiti.»

«Ma il vostro uomo ci crede dei pericolosi criminali» intervenne Ellen, ricordando l’ultimo discorso di Pain. «Pensa di essere in possesso di prove che ci mettono in cattiva luce.»

«Quelle prove esistono, ma le abbiamo interpretate in maniera diversa.»

«Che intendete dire?»

«Avete terminato di cenare?» Cutty si alzò in piedi e fece un cenno a un soldato, affinché si occupasse dei loro vassoi vuoti. «Perfetto, ora possiamo andare nel mio ufficio. Ho bisogno di parlarvi di una questione delicata, ossia il motivo per cui ho richiesto la vostra presenza. Come vi ho preannunciato, siamo un’unità con uno scopo ben preciso, e per ovvi motivi la nostra esistenza è nota solo agli alti ranghi dell’esercito e del governo. Ciò implica che dobbiamo utilizzare al meglio i pochi mezzi di cui disponiamo. E in questo caso il mezzo in questione è la conoscenza.»

«La… conoscenza?»

Aveva parlato mentre li conduceva al suo ufficio. Si fermò di fronte all’ingresso e posò lo sguardo su Alexander. «La vostra conoscenza di Darcus McCrindle.»

 

***

 

«Prego, accomodatevi.»

Quello che Cutty chiamava “ufficio” era in realtà una sala riunioni. Ellen gliene fu grata: era stanca degli spazi angusti, soprattutto dovendo dividerli con altre persone.

Seguirono il consiglio di Cutty e presero posto sulle sedie sistemate in ordinate file da cinque, attendendo che il professore desse loro delucidazioni. Lo osservarono raccogliere una risma di fogli e sistemarli sulla scrivania, prendendo tempo. Alla fine, quando la porta venne chiusa e tutti si furono accomodati, si decise a iniziare.

«Il sedici luglio dello scorso anno, un giovane di nome Robert Olmstead si è presentato alla stazione di polizia di Arkham asserendo di avere assistito a fatti insoliti. Di più: tanto strabilianti da costringerlo a fuggire dal luogo che stava visitando per allertare ogni forma di autorità. E così fece, non limitandosi agli agenti di Arkham. Le voci circa ciò di cui era stato suo malgrado testimone giunsero fino al governo federale, che richiese un’indagine accurata sul campo. Fu allora che questo terreno venne scelto come punto di appoggio: furono piantate alcune tende e stanziata una truppa ridotta, poiché quelli che sembravano i deliri di un pazzo non erano le prime avvisaglie ricevute dagli abitanti delle zone circostanti. Dopo una breve analisi, venne richiesta la presenza di uno scienziato, ed è allora che sono entrato in scena io. Il luogo di interesse sorgeva a poche miglia da Ipswich e non appariva nelle mappe. Il suo nome era Innsmouth.»

«Innsmouth?» ripeté Ellen. Pur vivendo ad Arkham da anni, non ne aveva mai sentito parlare, e ciò confermava le parole di Cutty. «Cosa significa “era”?»

«Ci arriveremo. Quando fui chiamato qui a Ipswich, ero un luminare nel mio campo, ma nel privato svolgevo ricerche che non seppi mai nascondere bene. Ero convinto che potessero esistere creature ancora sconosciute al genere umano. La mia convinzione era dettata dalla logica: qualunque civiltà, antica o contemporanea, possiede una mitologia, divinità perlopiù create per rispondere alle esigenze della comunità, per spiegare i fenomeni atmosferici e così via. Come giustificare, però, la presenza di creature simili nei miti di civiltà che non sono mai entrate in contatto fra loro? La logica mi ha imposto, e mi impone tuttora, di credere nell’esistenza di bestie avvistate in tempi remoti e in quei tempi soltanto, scomparse da secoli e secoli. Come potete immaginare, è una teoria che ho sempre preferito indagare in solitudine, per evitare le facili battute dei miei colleghi.

«Questa lunga premessa ci porta alla mia collaborazione con le forze armate. Non mi è concesso descrivervi cosa trovammo a Innsmouth, ma soltanto informarvi che è stato a seguito della sua distruzione che il governo ha constatato la necessità di istituire un nucleo destinato a occuparsi del cosiddetto “paranormale”. Io preferisco definirlo “ciò che ancora non conosciamo”. Le tende si sono trasformate in pareti, mi è stato fornito un laboratorio all’avanguardia e il generale Pain è stato incaricato di guidare gli uomini del suddetto nucleo. Come avrete intuito, non è una persona aperta a nuove realtà, ma segue gli ordini, e credo abbia temuto che, tra voi, si nascondesse il terrorista che stiamo cercando.»

«Darcus» mormorò Alexander.

Cutty annuì. «Non conosceremmo il nome di Darcus McCrindle se non fosse, in parte, legato agli eventi di Innsmouth. Vedete, ciò che posso dirvi senza violare il regolamento è che il suo interesse riguarda la creazione di ibridi.»

Ellen fu scossa da un tremito. Ricordò i due irlandesi che, nella chiesa, si erano trasformati in mostri marini, e con maggiore terrore ricordò gli esperimenti che Darcus aveva compiuto sulle sue pazienti di Boston.

«Sappiamo che si è aggirato da queste parti» proseguì Cutty «e che ha avuto a che fare con le creature che avete rinvenuto sul Miskatonic River, e che al momento si trovano nel nostro laboratorio.»

«Sono qui, allora?» chiese Janet con un fil di voce.

«Sì. I soldati, ahimè, non rispettano il lavoro teorico, perciò mi scuso per la perdita delle vostre ricerche: è stato ordinato loro di portarmi tutto quello che poteva riguardare le tre carcasse.»

«Che ne è stato della professoressa Baker?» Ellen cominciava a temere per la sua sorte. «È in una cella anche lei?»

Cutty parve sorpreso. «No… La professoressa Baker è partita per la Polinesia Francese. Abbiamo ritenuto necessario allontanarla da Arkham per la sua incolumità.»

«Perché noi no?»

«Speravamo che ci portaste da Darcus. Avevamo perso le sue tracce, ma a distanza di pochi giorni abbiamo appreso che aveva dei parenti in città, e allora abbiamo anche saputo che tali – perdonate, tale parente sembrava disposto a tutto per rientrare in possesso di alcuni libri di famiglia. Tra la strage compiuta da Darcus e la vostra necessità di procurarvi quei tomi, abbiamo ipotizzato di avere a che fare con un uomo pericoloso.»

Ellen non se la beveva. «Cosa ci dite dell’Ordine del Crepuscolo d’Argento?»

Lo prese alla sprovvista. Cutty si tolse gli occhiali e tornò a pulirli con accuratezza come aveva fatto in mensa, un chiaro stratagemma per raccogliere le idee.

«Sono sulle loro tracce da anni. Da trenta, lunghissimi anni.»

«È lì che ha conosciuto il nome di Darcus, non è vero?» intervenne Alexander. «Un uomo curiosa fra le rovine di una città fantasma e l’unità paranormale si mette a indagare su di lui?»

«Vi ho detto la verità, in parte. Abbiamo svolto delle ricerche su Darcus, ma avremmo smesso se non avessi scoperto il suo collegamento con l’Ordine. Era una coincidenza troppo insolita, un’opportunità rara che non potevo lasciarmi sfuggire.»

«Cosa sapete su di loro?»

«L’Ordine del Crepuscolo d’Argento vanta numerose sedi, non solo negli Stati Uniti. La più vicina è a Boston. Presumo che Darcus McCrindle ne sia entrato a fare parte mentre lavorava come medico in città. Apparentemente, non nasconde fini preoccupanti: è un’associazione elitaria che raccoglie amanti della cultura, dalla scienza alla medicina, dalla filosofia alle arti visive, fino ad argomenti meno ordinari come la magia e l’alchimia. Ammetto di essermene interessato io stesso, fino a quando non ho temuto che i loro interessi si spingessero troppo oltre. Stando a quanto mi è stato raccontato, le loro chiacchierate si svolgevano in una cosiddetta “Loggia”, nel corso di serate dove gli accoliti dovevano indossare tuniche del colore del loro grado. Non coincideva con i miei studi, dunque me ne sono tenuto alla larga. Finché» sospirò «non sono cominciate le sparizioni. Una al mese, sempre in concomitanza delle loro riunioni. Nessuno parla di tali sparizioni, e sapete perché?»

Ellen e Alexander risposero all’unisono: «Mendicanti.»

«Esatto, ma non solo: potrebbero essere raccolti sotto l’ingiusta definizione di “scarti della società”. Senzatetto, prostitute, orfani. Ne scompariva uno al mese. Allora ho svolto le mie indagini, senza tuttavia riuscire a scoprire il loro gioco. Pensavo di essermi lasciato questa storia alle spalle, fino a quando non ho letto il fascicolo di Darcus McCrindle. Presumo che siate stati nella vecchia villa dei suoi genitori…»

«Non lo presumete: ne avete le prove.»

Cutty non poté negare le parole di Alexander. «È stata una mia idea isolata. Sono andato a Greenville e ho trovato le stesse lettere che vi hanno messo a conoscenza dell’Ordine del Crepuscolo d’Argento. Le ho lasciate lì per non contaminare la scena e perché… lo ammetto, speravo che mi portaste da lui. Ho tenuto soltanto una delle lettere, che ho messo sottochiave, ma che vi permetterò di leggere al termine di questa serata.»

«Potete dirci intanto cosa c’è scritto?»

«Certamente. La lettera testimonia come la morte della vostra famiglia, detective, sia dovuta al tentativo di ottenere i quattro libri di cui vostro padre era custode. Il Maestro a capo dell’Ordine, come si definisce lui stesso, si diceva disposto a fargli ottenere un grosso riconoscimento in cambio di quei libri, e suggeriva a Darcus un modo per appropriarsene. È stato lui a spingerlo a compiere la strage.»

«Il Maestro… era Carl Standford?»

«Esatto.»

La mole di informazione necessitava di essere digerita ed elaborata. Fu Alexander il primo ad alzarsi. «Posso vedere la lettera? Dopodiché, potremo discutere una collaborazione.»

«Fra dieci minuti. Fuori, c’è un ospite che attende di essere ricevuto, e per quanto mi piaccia farlo aspettare non vedo l’ora di dirgli cosa penso realmente di lui.»

 

***

 

Quando uscirono dalla sala riunioni, scorsero la massiccia figura del loro torturatore nel corridoio. Lo superarono trattenendo il respiro, ma non per paura: Cutty era pronto a fargli una grossa lavata di capo, dunque avrebbero potuto insultarlo senza temere ripercussioni; tuttavia nessuno di loro era intenzionato a perdere tempo con un essere tanto abietto. Di contro, lui li soppesò uno a uno prima di entrare al loro posto.

«Io aspetto» dichiarò Alexander una volta che Pain fu uscito dalla loro visuale. «Se il professor Cutty è sincero… mi consegnerà subito la lettera.»

«Temi che possa contraffarla?»

«È una possibilità. Vuole che ci fidiamo di lui, e io ho bisogno di una prova tangibile.»

Lo lasciarono lì, mentre un soldato li accompagnava al loro alloggio: una stanza con quattro letti a castello addossati alle pareti. Si trovavano in una base militare, dunque non si stupirono di doversi preparare da soli i letti, né dell’assenza delle loro armi, per la cui riconsegna si sarebbero dovuti rivolgere a Cutty. Sapevano che non le avrebbero riviste in tempi brevi, perché prima era necessario fidarsi l’uno degli altri, ed era troppo presto per dirlo.

Alexander li raggiunse entro poco, tenendo in mano un foglio stropicciato che continuò a rileggere a lungo. Nessuno di loro pronunciò una parola, consci che la prova di cui aveva bisogno il detective, e che ora stava esaminando, non serviva ad appurare la sincerità di Cutty, bensì il motivo della strage dei McCrindle. Fino a quel momento, lo avevano solo ipotizzato, ma scoprire che Darcus aveva sterminato la propria famiglia solo per essere accettato da un gruppo di esaltati… Tutto ciò doveva essere tremendo per Alexander, e per quanto dotata di scarsa empatia Ellen sapeva che era meglio rimandare le discussioni all’indomani.

Michael non si curò del materasso troppo stretto per ospitarli entrambi, e rimase con Ellen fino a quando lei non si fu addormentata; nel dormiveglia, lo avvertì sgusciare via e raggiungere il letto di fronte, chiedendosi se sarebbe rimasto vigile per accertarsi che non accadesse loro niente di male. A giudicare dalle occhiaie che in seguito Ellen trovò sui loro volti, anche Lilyan e Alexander avevano scelto di restare svegli, o forse le preoccupazioni avevano tenuto il sonno alla larga.

Cutty li lasciò in pace fino al mattino, senza chiudere a chiave il loro dormitorio o inviare un soldato a prelevarli; fu lui ad affacciarsi sulla soglia e ad accompagnarli nella sala mensa per la colazione, e fu sempre lui ad assicurare loro che avrebbe atteso che fossero pronti per fornire le indicazioni necessarie a rintracciare Darcus, o assicurargli che i libri fossero al sicuro. Si premurò, tuttavia, di ricordare che non potevano tergiversare all’infinito.

Per l’intero corso della giornata, Pain si tenne lontano dal gruppo. Era ancora in servizio, e sul suo volto di pietra non c’era segno di rimorso.

Nel pomeriggio concordarono che era giunto il momento di discutere della collaborazione con Cutty; si ritrovarono nel dormitorio e, nonostante si fossero assicurati di essere soli, scelsero di tenere un tono di voce basso per evitare che potessero udirli prima che avessero preso una decisione.

«Cosa dovremmo dirgli?» esordì Janet.

«La domanda giusta è: dovremmo dirgli qualcosa?»

«Suvvia, Ellie, sembra essere dalla nostra parte.»

«Possiamo credergli? Dopotutto, per quanto ne sappiamo, potrebbe avere ordinato a Pain di pestarci a sangue, per poi fingersi un angelo caduto dal Cielo.»

«Non saprei… Perché mentirci? Sta cercando Darcus.»

«No, Janet, sta cercando i libri

«Che noi non…»

«Non vogliamo dire dove si trovano» la interruppe Michael, rivolgendo alla porta uno sguardo allusivo. «O forse non lo sappiamo.»

«Possiamo tenercelo per noi, e magari ci lascerà andare» riprese Janet «ma siamo sinceri: se Darcus è ancora vivo, e comincio a crederlo veramente, come possiamo liberarci di lui con le nostre sole forze? Non abbiamo più neanche le armi.»

«Il nostro fidato amico ad Arkham potrebbe procurarcene altre.»

«Ma non è quello il punto: Alexander ha potuto sconfiggere… quella cosa… solo grazie ai libri. Forse Darcus è immune alle pallottole, ma l’esercito potrebbe aiutarci…»

«Con proiettili d’argento?»

«Ellie, pensavo ai fucili. E al numero dei soldati.»

«Arrendiamoci» disse d’un tratto Alexander, e tutti si voltarono verso di lui, allarmati dalle sue parole. «Voglio dire… diciamogli tutto. Ci penseranno loro. Sono stanco, voi no?»

Sei tu che dovresti vendicare la tua famiglia, non noi.

«Sì» sospirò Michael. «Però dovremmo evitare di agire in maniera avventata. Prima di tutto, decidiamo cosa dirgli. Cosa sanno?»

«Sanno dei libri» rispose Ellen, contando sulle dita quello che Pain le aveva rivelato nel tentativo di farla parlare. «Sanno di Masters, dell’effrazione in libreria e della sua morte a Boston. Sanno dell’incendio nella chiesa, e che Alexander aveva richiesto le planimetrie al comune. Sanno che alcuni di noi hanno rinvenuto la carcassa e che gli altri hanno provato a studiarla. Sanno, infine, che Darcus era interessato ai fatti di Innsmouth.»

«Una città in riva al mare… Che c’entri qualcosa con gli ibridi che erano alla chiesa?»

«Tutto ci rimanda all’acqua.»

«Quindi cosa dovremmo dirgli?»

«Niente.»

Era stata Lilyan a parlare, Lilyan che fino a quell’istante era rimasta in silenzio, accovacciata sul suo materasso con le gambe strette al petto. Ellen credeva che avesse ceduto al sonno, invece era rimasta ad ascoltarli.

«Non diremo niente. Non mi fido di loro, e neanche voi dovreste.»

«È per via del generale?» domandò cautamente Janet.

«Certo che è per via del generale! Come possiamo fidarci di un uomo simile? Appena saprà che fine hanno… dove abbiamo nascosto i libri, non ci penserà due volte prima di liberarsi di noi.»

«Rischiamo di passare la vita qua dentro» le fece notare Michael.

«Quindi dovremmo collaborare con loro? Mi dispiace, ma se vi aspettate che vi dia il mio voto no, non lo farò. Non sono disposta a fare compromessi, non con loro.»

«Lilyan…» Alexander si avvicinò al suo letto e le prese le mani. «Basta.»

Basta: non avrebbe saputo esprimere i loro sentimenti in maniera migliore. Erano tutti dannatamente stanchi di quella storia, ed era ancora peggio dopo avere festeggiato perché la credevano conclusa una volta per tutte.

Lilyan affondò il volto nelle ginocchia, ma non provò a ribattere. La decisione ormai era presa e lei non poteva fare alcunché per fermarli.

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Capitolo 24
*** Capitolo XXIV ***


Capitolo XXIV

 

Non attesero oltre.

Quando Lilyan ebbe smesso di piangere in silenzio, Janet le strinse una mano per darle conforto e procedettero dietro Ellen, Michael e Alexander. Quella formazione era una novità per tutti loro: non c’era una persona armata a chiudere la fila, né un solo uomo ad aprirla, lungo strada per l’ufficio del professor Cutty; erano compatti, si preparavano a lasciarsi tutto alle spalle. Ignoravano cosa sarebbe accaduto quando avrebbero detto allo scienziato la verità sui libri, ma era sciocco attendere ancora. No, non sciocco: inutile. Cutty avrebbe potuto stancarsi di mostrarsi bendisposto nei loro confronti e ordinare a Pain di ricominciare con le torture, oppure era sincero e voleva solo aiutarli, perché in fondo ciascuno di quello strano gruppetto si era ritrovato immerso in una situazione impraticabile senza nemmeno averlo voluto.

Erano determinati, eppure esitarono quando, di fronte alla porta di Cutty, trovarono il generale accompagnato da due soldati, gli stessi che si erano occupati di loro in cella. Ellen stava per fare marcia indietro quando Pain parlò.

«Vi sta aspettando.»

Dovevano averli uditi parlare, o forse nei loro occhi era possibile leggere lo sfinimento delle ultime settimane, e Cutty ne era stato messo al corrente. Dietro di sé, Ellen avvertì Lilyan rintanarsi tra le braccia di Janet, e si domandò cosa diamine le avesse fatto quel bastardo per spaventarla a tal punto. Mosse un piede in avanti, ma Alexander fu più svelto e si parò di fronte a Pain, dimostrandogli di non essere spaventato; il generale non parve curarsene.

«Gli parleremo da soli.»

Lentamente, ma con decisione, Pain scosse la testa. «Non posso permettervelo. Non sono armato» precisò «però i miei uomini sì, e agiranno se proverete a fare un passo falso.»

«Credete che vogliamo ucciderlo?»

«Sto solo eseguendo gli ordini.» Li soppesò con lo sguardo, indugiando sulle due donne in fondo al gruppo, prima di riportarlo su Alexander. «Ho sempre eseguito gli ordini.»

Pain era un pezzo di merda, non c’erano dubbi, ma dalle sue parole trapelava la realtà che Cutty si ostinava a celare: lo scienziato non aveva mai voluto che fossero trattati come ospiti.

Togliamoci questa storia dalle palle.

Alexander proseguì, e i tre soldati si spostarono per permettergli di precederli all’interno del suo “ufficio”. Trovarono Cutty seduto dietro la scrivania, e nonostante l’ampiezza della sala riunioni questa volta Ellen si sentì soffocare, consapevole di essere sotto il tiro di due fucili: le canne in verità puntavano a terra, ma avrebbero potuto alzarsi in qualsiasi momento. Volevano che confessassero? L’avrebbero fatto, perché erano stufi di Darcus e delle sue stronzate. Tutti loro desideravano tornare alle proprie vite, ed Ellen non aveva mai bramato tanto la compagnia dei libri di Fisiologia, le sterili lezioni di Peabody, il freddo di una camera dell’Upton Hall che non si scaldava mai a dovere; avrebbe addirittura accettato di tenere un profilo basso fino al termine degli studi, per poi seguire il consiglio della Baker e fuggire via da Arkham. Sarebbe andata a Boston, oppure sulla costa occidentale, ancora meglio. Niente più mostri, niente più stregoni, niente più militari. Una terza nuova vita era tutto ciò a cui anelava.

«Buonasera» li accolse Cutty, aspettando che si accomodassero. Alexander fu il solo a spostare una sedia davanti alla scrivania, perché era stato implicito che fosse lui – l’ultimo Guardiano – a raccontare la storia dei libri. Perlomeno la loro fine.

«Siamo pronti a collaborare.»

Nuove rughe comparvero sul volto di Cutty intorno al sorriso che si allargava. Mise da parte i fogli che stava esaminando e congiunse le mani, in attesa.

«Prima di tutto, vogliamo la vostra parola» proseguì Alexander. Fissava lo scienziato, non degnando d’attenzione i tre soldati. «Una volta che avremo risposto alle vostre domande, ci lascerete andare, e il generale Pain non ci ostacolerà.»

«Una richiesta ragionevole.»

«Lo prometta.»

Si scrutarono in silenzio, finché Cutty non rispose con assoluta serietà: «Vi do la mia parola. Il generale Pain, il tenente Kurtz e il tenente Setter non opporranno resistenza al mio volere, che sarà quello di liberarvi non appena entreremo in possesso dei libri.»

«Non appena avrete le risposte» precisò Alexander. Era essenziale che quel punto venisse compreso.

«Non appena avremo le risposte» accettò Cutty.

«Cosa sapete già in merito?»

«Volete mettervi alla prova, detective McCrindle?»

«Blake. Sono il detective Blake. Voglio soltanto sapere da dove cominciare.»

«Sappiamo che la vostra famiglia possedeva quattro tomi. Nelle missive che Darcus ha scambiato con i membri dell’Ordine, non si accenna ai loro titoli, dunque presumo che ne abbiano parlato di persona. Siamo tuttavia a conoscenza del contenuto pericoloso di tali pagine, e crediamo possa essere legato agli studi paranormali di Carl Standford. Temiamo che lui o Darcus rischino di utilizzare uno dei libri, o addirittura tutti, per le proprie oscure ambizioni. Sappiamo infine che, sebbene siano stati ereditati da vostro zio Silas, e alla sua morte da voi, essi siano stati incautamente ceduti al signor Masters.»

Alexander annuì. «È esatto. Quando sono entrato in possesso della casa di Silas, ignoravo il suo desiderio di tenere custoditi i libri. Li ho venduti a Jefferson Masters, e ne ho recuperati due proprio dal suo negozio ad Arkham. Un altro paio era nella sua casa di Boston, ma Darcus è riuscito a impossessarsi di uno, per poi rubare un secondo tomo alla Miskatonic University. Così, i libri in suo possesso erano tre.»

«Tre?»

«Ne ha usato un terzo per evocare la creatura che ha ucciso Masters, e temiamo che questo libro possa essere ancora in circolazione, perché l’incendio della Chiesa Occidentale ne ha distrutti due.»

«Se non ho fatto male i conti, detective Blake, rimangono tre libri, quelli da voi strappati a Masters. Darcus ne possiede ancora uno, ed è una grossa informazione per l’esercito, sebbene vada a nostro svantaggio. Cosa mi dite invece dei tre che avete nascosto? Perché li avete nascosti, posso presumere.»

«Lo avevamo fatto.»

Eccolo, il momento decisivo. Prima di recarsi da Cutty, Ellen e Michael avevano provato a insistere sulla possibilità di dirgli una menzogna: era meglio che lo scienziato credesse che i libri fossero ancora intatti e li lasciasse tornare in città per condurlo al loro nascondiglio; una volta a Chateaubriand Manor avrebbero improvvisato, ma l’avrebbero fatto lontano da decine di soldati armati. Temevano però che Alexander volesse dire la verità, e non avrebbero potuto parlare al posto suo. Le torture maggiori inferte da Pain e l’attenzione che dal giorno prima gli rivolgeva Cutty chiarivano che fossero le sue le sole parole che avrebbero ascoltato.

«I libri sono bruciati nell’incendio» rivelò infine il detective. «Tutti quanti.»

Ellen strizzò le palpebre, maledicendo la stupidità di Alexander. Fu per quel motivo che non si accorse subito che le guance di Cutty erano diventate paonazze.

«So cosa state pensando» riprese Alexander. «Darcus ha ancora un libro, noi non ne abbiamo nessuno per ostacolarlo. Sappiamo però come liberarci di quello rimanente, e…»

«Ho capito benissimo, detective Blake» lo interruppe Cutty. Cercò di riacquistare un aspetto dignitoso, si tolse gli occhiali e pulì le lenti con una pezza grigia. Quando li rimise sul naso, parlò direttamente a Pain. «Non ci servono più. Uccideteli.»

 

***

 

Ellen era certa che sarebbe andato tutto a rotoli, ma non in maniera così definitiva. Era pronta a tentare il tutto per tutto, lanciare una sedia contro i tre soldati, che si sarebbero di sicuro concentrati sui due uomini del gruppo, oppure urlare che sapevano dove potesse trovarsi Darcus, ma passarono alcuni secondi dopo l’ordine di Cutty, e i fucili rimasero puntati al pavimento.

«No.»

La risposta di Pain era stata secca, e lasciò di stucco loro come lo scienziato.

«Che significa, generale? Vi ho ordinato di ucciderli.»

«Non lo farò.»

«Avete paura di sporcare la stanza?» La risata di Cutty era rauca, seccata. «Eseguite il mio ordine.»

Pain fece un passo avanti, e Cutty scattò in piedi, cercando di mettere tra loro il maggiore spazio possibile. «Sono stufo di eseguire ordini senza senso. State cercando dei libri pericolosi, a vostro dire. Blake vi ha detto che li hanno distrutti, no? Allora torchiateli, o mantenete la promessa e lasciateli andare, se gli credete. Ucciderli non ci sarà di alcuna utilità.»

«Ma vi divertivate quando vi era stato chiesto di torturarli, generale Pain» lo sfotté Cutty, che nonostante la minacciosa incombenza del militare sembrava sicuro di sé, probabilmente conscio che il suo sottoposto non avrebbe alzato un dito su un superiore. «Avete accettato di buon grado di interrogarli alla vostra maniera, ne eravate perfino felice, cosa cambia adesso?»

«Cambia che ce li avevate descritti come terroristi!» Il pugno calò sulla scrivania, e lo scienziato sobbalzò. «Ci avete detto che collaboravano con gli assassini di Innsmouth, e che le creature del Miskatonic River erano colpa loro! Volevate i loro piani, poi un altro uomo di cui nemmeno conoscevo l’esistenza, e adesso cosa volete? Liberarvi di testimoni scomodi?»

La mano di Michael scivolò su quella di Ellen.

Dove cazzo ha preso un coltello?!

No, si rese conto saggiandone la struttura, era un bisturi. Doveva averlo rubato in infermeria, e lo aveva tenuto nascosto fino a quel momento. Dopotutto, se era arrivata l’ora di combattere, Ellen non avrebbe avuto a disposizione un briciolo della forza fisica di Michael.

Il silenzio calò dopo le parole di Pain, e lei ebbe tutto il tempo di riflettere sul perché Michael non le avesse dato prima il bisturi: i militari avrebbero potuto sparare, e allora…?

Sapeva di Pain, o lo ha immaginato.

Dopo quella che parve un’eternità, Cutty si lasciò ricadere sulla sedia e sospirò. «Mi aspettavo che sareste diventato un problema.»

La porta alle spalle dei due soldati si spalancò, rivelando la presenza di altri militari. Quattro, cinque, sei… erano molti più di Pain e dei suoi. E le loro pistole erano spianate.

Kurtz e Setter furono costretti a consegnare i fucili, mentre le vene sul collo di Pain pulsavano dalla rabbia; saggiamente, decise di lasciarsi legare i polsi dai soldati di Cutty, perché due pistole erano state puntate alle tempie dei suoi uomini.

«Vedo che cominciamo a intenderci.»

«Loro cinque non sono un pericolo per la comunità, non è vero, professore?»

Cutty si strinse nelle spalle alla domanda pacata del generale. «Dipende per quale comunità. Per quella che intende riportare i nostri Signori al loro antico splendore, sì, sono un pericolo. O quantomeno lo erano.»

«L’Ordine del Crepuscolo d'Argento…» ringhiò Alexander, interrotto dalla risata priva di gioia di Cutty.

«Vi ho osservati durante il nostro colloquio, ieri sera. Eravate concentrati su ogni mia parola, pronti a scoprire che cosa vi stessi tenendo nascosto, ma non vi ha sfiorato la possibilità che un uomo di quel governo che ha sguinzagliato truppe armate su Innsmouth potesse essere interessato all’occulto… tanto da convincere Darcus a disfarsi della sua stessa famiglia.» Sorrise freddamente in direzione di Alexander. «Sì, detective McCrindle, è stata una mia idea. Vedevo del potenziale nel nuovo accolito… un potenziale che gli ho suggerito di mettere in mostra. Con i suoi esperimenti, il mio amico ha indossato ben presto la tunica bianca della Loggia, ma era convinto che ci fossero altri gradini da scalare. Dopotutto, io stesso ne ero a conoscenza, e immagino quanto fosse frustrante per lui vedere una cinquantina di adepti vestiti di bianco, e credere che fosse quello il punto più alto da raggiungere.»

«Standford…»

«Standford lavora nell’ombra. È il suo prediletto, Scott, a farne le veci da quasi due decenni, Il “Nobile Filosofo”, come recita l’appellativo che si è scelto, è il leader formale della Loggia, il nostro capo, ed è stato lui a istruirmi perché divenissi un Custode della Porta d’Argento. La prima delle cariche nascoste, se vogliamo chiamarla così. Un dono, è questa la verità. Se Darcus avesse avuto dei poteri quando era tornato nel Maine, non avrebbe usato una scure. Non avrebbe sventrato il tuo tenero fratellino mentre tua madre gridava pietà, ma l’avrebbe lasciato fare ad altri.» Sospirò. «E questo non avrebbe gravato sulla sua grandiosa mente… ahimè, ognuno di noi ha dovuto compiere importanti sacrifici.»

«Come rapire degli innocenti dalla strada» sibilò Ellen.

«No, no, quelli non sono sacrifici. Lo sono a livello pratico, perché il sangue ci dona forza, ma a sancire il legame è altro. È ciò che noi siamo disposti a sacrificare. Credete che l’Ordine possa accettare qualunque ragazzino assetato di gloria e conoscenza? Bisogna testare noi stessi e appurare fin dove possiamo spingerci. Penserete che siamo pochi, eppure è proprio il contrario: solo la Loggia di Boston ospita duecento adepti. Siamo ovunque.» Cutty allargò le braccia. «Siamo anche qui.»

«Stronzate. Sono solo un mucchio di merdose stronzate» esclamò Pain. «Logge, magia… siete un gruppo di invasati. L’avete detto voi stesso, che se Darcus McCrindle avesse avuto dei poteri non avrebbe usato le armi.»

«Allora non ne aveva, e fu per questo che venne internato. Povero Darcus… sono state le mie lettere a dargli speranza. Ho dovuto insistere, ma alla fine Scott e Standford mi hanno concesso di iniziarlo al rango di Custode. Per farlo bisogna sostenere un rito, ma Darcus era in manicomio, non avrebbe potuto seguire le indicazioni… a meno di non disseminare le mie lettere di indizi, formule e incantesimi. Solo così ha potuto apprendere il Segno degli Antichi, che ha permesso al suo corpo di trasmutare.»

Signori, incantesimi, Antichi… Ellen si stava perdendo nelle parole di quel folle, che ormai aveva assunto anche l’aspetto di uno scienziato pazzo, ma era necessario che parlasse ancora.

«Perché il vostro capo avrebbe dovuto accettare? Darcus era un uomo qualunque.»

«Non lo è mai stato, ma ciò che senza alcun ombra di dubbio si è dimostrato è un compagno fedele. Ha mantenuto il riserbo sulla Loggia e sulla sua ubicazione, e si è detto profondamente dispiaciuto per non essere riuscito a recuperare quei libri a cui al Nobile Filosofo e al Maestro, in realtà, importava meno di niente. Ma io… io conoscevo il suo e il loro potenziale. Li aveva visti, sapete? Il fratello maggiore se n’era vantato, e lui ha potuto descrivermeli. È stata su mia indicazione che ne ha trovato una copia anche alla Miskatonic.»

«A che vi sarebbero serviti?»

«Non ve l’ho già spiegato? A evocare i nostri antichi Signori, a farli tornare nel loro mondo.»

«Dagon» soffiò Ellen.

«Avete fatto i compiti, vedo. Vi credevo più stupidi. Pensavamo che fosse solo la casa a proteggervi… Quando Darcus ha compreso che non poteva penetrare tra quelle mura, ha chiesto il mio aiuto.»

«Perché la casa ci proteggeva?»

«Ah, non lo sapete? Eppure l’Arcivescovo…»

«Basta così» ordinò Pain, ed Ellen comprese che era riuscito nell’intento. Si voltò appena in tempo per intravedere a terra la fune che gli aveva legato i polsi, poi il generale disarmò il primo soldato, e la ribellione ebbe inizio.

 

***

 

Avvenne tutto nel giro di una manciata di secondi: Ellen si era già accorta del tentativo di liberazione di Pain, e scattò in avanti non appena il generale si mosse per disarmare i due uomini più vicini; approfittando della confusione e degli occhi puntati sul loro comandante, Ellen sgusciò verso la porta e saltò su un terzo soldato, puntandogli il bisturi alla gola, mentre Michael con un pugno ne attaccava un quarto. Cominciarono a volare i proiettili, ma Lilyan e Janet erano preparate e si rifugiarono in fondo alla sala, al riparo dietro un tavolo che ribaltarono in fretta. Erano rimasti solo due soldati, tuttavia sembrava che Kurtz e Setter avessero imparato molto dal generale, perché prima che Ellen se ne rendesse conto avevano già cambiato posizione, e adesso erano loro a puntare la pistola alle tempie degli avversari.

Nessuno si era curato di Cutty, perché tutti sapevano che apparteneva ad Alexander.

Si era fiondato sotto la scrivania, afferrandogli le gambe e trascinandolo a terra, e lo stava riempiendo di pugni. Un pugno, un altro, le nocche che calavano sul suo volto e un rumore di ossa rotte. Ellen era troppo occupata per gridargli di lasciarlo in vita, e in fondo neanche le interessava, ma poi, all’improvviso, Alexander si fermò.

E iniziò a urlare.

No, no, no…

Prima giunse il tanfo. Pesce putrido, acqua salata mista a morte, un fetore che riportò Ellen alla notte nel dormitorio, quando aveva scoperto che l’oscurità possedeva altre forme, oltre a quella umana.

Seguì il suono cadenzato di passi. Lenti, calmi, come se avessero atteso a lungo quel momento e volessero gustarlo appieno.

Infine, comparve la sua figura.

Non aveva più l’aspetto di Bobby Sills, il gangster sacrificato alle creature del Miskatonic River, e la sua somiglianza con Alexander si tramutò in nausea nella gola e nella mente di Ellen. Stessi capelli neri, stessi occhi scuri, stessi lineamenti. Erano zio e nipote, e chiunque lo avrebbe capito. Alexander, però, non aveva pinne sulle braccia, né una mano palmata reggeva un libro aperto al centro mentre l’altra, umana, tracciava segni in aria; neppure possedeva quel ghigno insano, o lo sguardo reso delirante dagli anni passati in una cella. Tre notti prima, quando erano sfuggiti a lui nella chiesa che ardeva, le fiamme e le sembianze di Sills le avevano nascosto la follia racchiusa nella sua espressione. Era il turno della paura, del terrore inconfessabile, perché di fronte non avevano soltanto un assassino.

Era un patricida, un matricida, un fratricida. Aveva sollevato la scure contro la donna che lo aveva messo al mondo, nonostante la sua morte non servisse. Aveva infierito sul nipote che dormiva nella culla, tranciandogli di netto ogni arto, nonostante la sua morte non avesse uno scopo. Aveva colpito e colpito decine di volte, allo scopo di ottenere un riconoscimento, di entrare in possesso di oggetti che non avrebbe tenuto per sé, ma avrebbe affidato ad altri solo per sentirsi dire che aveva fatto un ottimo lavoro.

Darcus McCrindle sarebbe stato un avversario spaventoso anche senza possedere poteri magici.

Ci volle qualche secondo perché Ellen capisse che non era l’orrore a immobilizzarla. Come il resto dei presenti, si era pietrificata nel momento in cui Darcus aveva pronunciato una formula, ma quello che teneva in mano non era il libro degli incantesimi di cui aveva parlato Cutty, e che Alexander aveva intravisto a Boston. Era un volume dalla spessa copertina marrone, le pagine ingiallite dallo scorrere del tempo. Ellen non lo aveva mai toccato, eppure sapeva che era uno dei libri dei McCrindle. Non era stato quello a bruciare nella chiesa.

La paura che la attanagliava aveva un significato: a Darcus interessava ottenere tutti i volumi per mostrarli alla Loggia, ma intendeva tenere per sé quel tomo. Era scomparso non appena lo aveva recuperato, e aveva preferito introdursi al Campus piuttosto che rubare loro il libro di cui aveva trafugato una copia; era il solo che non aveva lasciato nella Chiesa Occidentale, perché non se ne sarebbe mai separato.

Alexander avrebbe potuto ostacolarlo, ma non aveva più niente per farlo. Darcus sì.

«È un piacere fare la vostra conoscenza.» La sua voce penetrava nella mente senza passare dalle orecchie, stridente come gesso sulla lavagna. Li soppesò uno a uno, controllando che l’incantesimo stesse facendo effetto, e fu solo quando incontrò lo sguardo di Alexander che riprese a camminare. Il detective era ancora sul pavimento, e si teneva la testa come se Darcus avesse scelto di escluderlo dal raggio della magia; accanto a lui, steso supino, Cutty ansimava debolmente. «Sono felice di rivederti, nipotino.»

Pur soffrendo, Alexander tentò di scattare in avanti per attaccarlo, ma invano. Darcus rise, rise, una risata che offuscò gli occhi di Ellen.

«Oh, Xander, Xander… come hai conciato il mio amico? Non si fa, è sbagliato, tuo padre non te l’ha insegnato?»

Ancora la sua risata diabolica, ancora il senno che minacciava di abbandonare la mente di Ellen.

«Ma ora basta.»

Darcus chiuse con un singolo scatto il libro. L’aria tornò a pesare attorno a loro, ma si sentivano troppo deboli per muoversi. Alla sua sinistra, Ellen ebbe appena il tempo di vedere la schiena di Michael scivolare contro il muro, prima che il soldato che aveva picchiato decidesse di vendicarsi, con un pugno, un calcio, un pugno ancora.

Avrebbe voluto implorarlo, ma le mancava il fiato; fu Darcus ad alzare una mano per intimargli di smettere.

«Veniamo a noi, finalmente.» Non c’era più traccia di esultanza nella sua voce, che era tornata a passare dalle loro orecchie. «Ti sei spinto troppo oltre, Xander. Ti avevo concesso di vivere… non allora, avrei potuto uccidervi tutti, compreso te e quel piantagrane di Silas. Te l’ho concesso quando ho scoperto che eri vivo, e che stavi cercando i miei libri. Te lo avrei concesso anche oggi, se me li avessi consegnati. Ma tu…» Scosse la testa con disappunto. «Mi hai deluso. Dovevi starne fuori, e avresti continuato la tua insulsa esistenza. Invece hai trascinato tutti a fondo con te.»

La mano palmata si mosse per indicare coloro che occupavano la stanza, da Michael, a terra con il volto lordo di sangue, a Ellen, che si accorse solo allora di avere la canna di una pistola puntata alla fronte; si spostò verso le due donne che avevano provato a nascondersi, e che ora erano tenute sotto tiro come Pain e i due soldati dalla sua parte.

«Ho riflettuto, mentre mettevate in scena questa pantomima, e ho deciso cosa fare con voi, perché vi siete dimostrati avversari capaci. Nessuno di voi aveva la formazione per combattermi, eppure ci avete provato, e io vi stimo per questo. Perciò, il vostro sangue servirà al più alto degli scopi: riportare il popolo di Innsmouth agli antichi splendori.» Inspirò profondamente un’ultima volta, prima che un sonno soprannaturale si impadronisse di loro. «Tornerà il Signore dei Mari, il padre della civiltà che vive sotto le acque di Innsmouth. Tornerà agli antichi fasti, e tutto grazie a voi.»

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Capitolo 25
*** Capitolo XXV ***


TW: violenza domestica, aborto spontaneo

 

Capitolo XXV

 

Riemersero dal profondo sonno magico nel medesimo istante.

L’odore salmastro alle sue spalle obbligò Ellen a voltare la testa quel poco che riusciva, e con un pizzico di sollievo osservò il mare che si stendeva sotto di loro; un attimo dopo avere appurato che non erano circondati da creature ittiformi, comprese la pericolosità della situazione.

Da un lato il mare – l’oceano – a decine di piedi di distanza; dall’altra il fondo di una caverna, e Darcus.

Si costrinse a restare lucida per contare i presenti. A terra, spalle contro il muro accanto a lei, c’erano Michael, Janet e Lilyan, e dall’altro lato Alexander, Kurtz, Setter e Pain. Darcus era in piedi, coperto su entrambi i lati da un paio di quei soldati che li avevano catturati nell’ufficio di Cutty. Lo scienziato non era là.

«Lo Scoglio del Diavolo.»

Darcus non dovette chiedere se fossero tutti svegli: lo sapeva benissimo, e sapeva di avere la loro completa attenzione. Camminò tra le due file di prigionieri fino al bordo della caverna, contemplando l’oceano, una pozza nera in quella notte quasi priva di luna. Le braccia intrecciate dietro la schiena ricordarono a Ellen che non era stato solo un sogno: la mano destra era umana, unghie curate sulle dita affusolate, mentre la destra era una zampa palmata, verdognola, umida e appiccicosa.

«Siete fortunati: da qui si gode la vista migliore. Purtroppo, le vostre vane preoccupazioni vi hanno impedito di godere dell’eclissi solare. È stata un’esperienza spirituale: per un attimo, il mondo si è oscurato e ho potuto ascoltare i miei pensieri, la compagnia che preferisco. Voi, invece, persi nei vostri problemi, non ve ne siete neanche accorti. Avete proseguito come se nulla fosse, mancando di rispetto alla sublime magnificenza del cosmo.» Sospirando, si girò verso l’interno, e per un attimo anche metà del suo volto parve assumere un altro aspetto. «Per vostra fortuna, potete approfittare di questa notte di luna nuova. Ne vedrete altre due, e durante la terza vi unirete al Popolo del Mare.» Si portò la zampa alla fronte. «Perdonatemi, mi sono espresso male: il vostro sangue servirà a richiamarlo, ma voi morirete.»

Ellen non riusciva a pronunciare un singolo suono, eppure si rendeva conto che non si trattava di un altro incantesimo. Era la paura ad attanagliarla, perché l’aura che circondava Darcus lo rendeva più spaventoso di tutti gli incubi, anche di quelli reali che aveva conosciuto. Lo temeva più del mostro invisibile della Chiesa Occidentale, sia perché quel mostro era stato sconfitto, sia perché Darcus avrebbe potuto evocarne altri. Ellen ignorava ancora cosa fosse il Simbolo degli Antichi, ma era bastato tracciarlo per permettergli di evadere dal manicomio, e ciò significava che non aveva bisogno dei libri. Eppure era stato disposto a tutto pur di entrarne in possesso.

«Voglio raccontarvi una storia. Vi prometto che sarò breve, ma… mio caro Xander, sei l’unico parente che mi è rimasto. Desidero che tu sappia cosa vedo negli abitanti di Innsmouth, che attendono nascosti il ritorno del loro Signore. Ho sempre amato la medicina, la scienza, quelle arti che permettevano di studiare la complessità del corpo umano. Eravamo tre fratelli colti, ciascuno con la predilezione per una singola materia, e quando ho ottenuto la licenza di medico ho subito capito come avrei potuto sfruttarla: ampliando le mie conoscenze e abilità. Owen, e mio padre e mio nonno prima di lui, avevano il dono della magia, che tuttavia scelsero di non usare neanche una singola volta. Da parte mia, volevo dimostrare che non c’era bisogno della magia per creare qualcosa di perfetto, per migliorare l’essere umano. Purtroppo, non ho mai raggiunto il mio scopo, e solo di recente ne ho compreso il motivo: non dovevo ottenere i poteri per trovare nuove cavie e costringerle a collaborare, bensì dovevo guardare alle creature che abitano l’universo. Gli ibridi di Innsmouth sono la perfezione a cui miravo, e sapete perché? Non sono stati costruiti dall’uomo mettendo insieme parti di specie differenti, non è stata usata la magia per tramutarli in una nuova razza. Sono “generati, non creati”.»

Un brivido attraversò l’intero corpo di Ellen, soffermandosi sul petto, sulle costole incrinate, sul suo ventre. Avrebbe preferito ignorare il significato di quelle parole.

«Artemius non voleva che fossero distrutti. Quando comprese ciò che l’esercito aveva intenzione di fare, li avvisò, permettendo loro di fuggire. Alcuni soccomberono… ma la stirpe vive ancora, ed è in attesa di tornare sulla terraferma. Lo faranno presto. E tu, nipote mio, potrai scegliere. Artemius è convinto che seguirai le orme di Owen, e morirai pur di restare fedele ai tuoi cari, ma non è solo il sangue di Owen a scorrerti tra le vene: c’è anche il mio, e so che posso ancora perdonarti. Entrambi abbiamo agito per uno scopo, entrambi possiamo prendere una decisione finale. La mia è di lasciarti in vita fino al grande evento, permettendoti di schierarti con i vinti o con i vincitori. Vedi? So essere magnanimo.»

«Perché…» La voce di Alexander era roca. «Perché… non hai ucciso… Silas?»

Per la prima volta da quando erano entrati a contatto con lui, Darcus parve riacquistare l’umanità perduta. Sbiancò e chinò il capo verso Alexander, prima di rispondere. «Non dovevate morire tutti. Non doveva morire nessuno. Quella notte, dopo che Owen ha rifiutato di prestarmi i suoi preziosi libri, ho escogitato un piano e Silas ha finto di aiutarmi. Ha detto che era stufo di vivere nell’ombra di nostro fratello, e che era disposto a gettarsi il passato alle spalle, se lo avessi portato con me a Boston. Gli ho creduto.» Sospirò di nuovo, questa volta non per enfatizzare un concetto, ma per un peso che si portava dietro da anni. «Mi ha venduto a Owen. Silas ha preso i libri, gli ha assicurato che li avrebbe messi al sicuro da me, e quando ho confrontato nostro fratello ho avvertito il panico e il risentimento possedermi. Voglio essere sincero con te, perciò te lo sto dicendo. Silas e Owen intuivano che avessi amici potenti, ma non mi credevano capace di uccidere. Però… se questa fosse stata davvero la convinzione di Silas, perché ti avrebbe portato via?» Indugiò prima di colpire Alexander con la sferzata finale, decisiva. «Io li ho uccisi, ma Silas me li ha offerti, e non ha neanche provato a salvarli.»

Si riscosse e tornò all’imbocco della caverna a strapiombo sull’oceano, muovendo le mani per evocare una magia.

«Due uomini resteranno con voi, nel caso tentiate la fuga. Ci rivedremo fra due notti, e io avrò la tua risposta, Xander.»

Subito dopo, Darcus svanì.

 

***

 

Erano prigionieri di un invasato dotato di poteri magici, tenuti sotto controllo da due soldati armati con pistole semiautomatiche e coltelli da caccia, all’interno di una grotta umida in una gelida notte di novembre; l’unica via d’uscita era rappresentata da un salto nel vuoto di circa sessanta o settanta piedi, e da quella angolazione e sotto la luna nuova era impossibile sapere in anticipo quanto fosse vicina la prima spiaggia. Con la fortuna che avevano sempre avuto, le costa frastagliata poteva stendersi per miglia.

C’era un lato positivo: Darcus era stato talmente sicuro di sé da non controllare come i suoi uomini avessero legato loro polsi e caviglie; certamente con Pain si erano impegnati di più, visto quanto accaduto poche ore prima, però Ellen era abituata a peggio, e anche Alexander. La caverna era illuminata solo dalla flebile fiamma di una torcia, eppure loro evitarono di guardarsi per non destare sospetti. Non che ce ne fosse bisogno, perché i due carcerieri avevano occhi unicamente per i loro colleghi, come se i cinque civili non rappresentassero un pericolo.

Le pareti della caverna erano lisce, ma Ellen era riuscita a trovare una sporgenza nella roccia che le stava permettendo di tagliare parte della fune, allentando la stretta, mentre il busto di Michael le faceva da riparo. Quando le sue mani si furono liberate, passò ai piedi. Alexander, di fronte a lei, andava a rilento: stando ai suoi movimenti, aveva trovato a sua volta un punto per tranciare le corde, ma si sbilanciò e rischiò di farsi notare. Ellen impallidì; Pain, all’altro capo della fila di Alexander, chiamò i soldati.

«Qual è stato il vostro prezzo?»

Nessuno dei due rispose, ma portarono l’attenzione sul generale.

«Che vi costa dirlo? Avete voltato le spalle all’America, e per cosa? Un salto di grado? Un assegno con tre zeri?» Pain fece un basso ringhio. «O vi siete solo cagati addosso?»

Doveva avere colto nel segno, perché assunsero una postura tesa.

Bene, che continui così.

A Ellen faceva comodo che Pain li schernisse: finì di slegarsi i piedi e si concentrò sui polsi di Michael, senza distogliere lo sguardo da Alexander. Non dovevano fare passi falsi.

«Avete giurato di proteggere gli innocenti, codardi!»

«Zitto!» gridò un soldato, tirando un calcio al petto di Pain.

Lui non demorse. «Slegatemi e colpitemi di nuovo, se ne avete il coraggio. Siete bravi solo a parole?»

«Ho detto zit…»

Ma il soldato non concluse mai la frase. Alzò una seconda volta la gamba per colpire il generale, e fu allora che Pain svelò le braccia libere e gli strattonò il piede, trascinando l’uomo a terra. L’altro soldato estrasse la pistola, ma Michael lo calciò, facendogli perdere l’equilibrio: Pain ne approfittò per afferrargli la testa e sbatterla contro il terreno roccioso. Una, due, tre volte. Prima che l’uomo rimasto potesse ritirarsi in piedi, con uno scatto Alexander gli aveva tolto il coltello da caccia e, senza porsi dilemmi morali, gli aveva reciso di netto la carotide.

La prima parte era stata semplice; inaspettatamente avevano potuto contare sull’aiuto di Pain, ma questo non faceva di lui un alleato. Se non si fosse liberato da solo, Ellen lo avrebbe lasciato là, insieme a Kurtz e Setter, e che Darcus facesse di loro quel che cazzo gli pareva.

Michael e Pain si scrutarono in silenzio. Tenevano entrambi in mano un coltello trafugato dai loro carcerieri e sembrava che il medico fosse sul punto di saltare alla gola del generale. Alla fine, annuendo, stabilirono una muta tregua.

«Sapete nuotare?»

Ellen ringraziò le lezioni di Marco e Giovanni nelle fetide acque dei Docks, sperando che un fondale più profondo non avrebbe rappresentato un ostacolo insormontabile. Sibilarono tutti un «Sì», tranne Lilyan.

Cazzo.

«Ci penso io» affermò Alexander. «Vieni con me.»

Aveva tolto una delle pistole al cadavere e la consegnò a Janet, che avrebbe avuto maggiore libertà di movimento. L’altra pistola era diventata di proprietà di Setter, e per quanto Ellen desiderasse protestare sapeva che era inutile. Due armi per ciascuno dei due gruppi, i civili e i militari, costretti a collaborare.

«C’è un’insenatura sulla sinistra» spiegò Pain, affacciandosi sull’unico ingresso della caverna. «Quel coglione ci ha detto esattamente dove siano.»

«Perché credeva che non ne saremmo mai usciti da soli» aggiunse Kurtz.

Ah, ma allora i due cani parlano.

Una parte di Ellen voleva essere riconoscente ai tre soldati che si erano opposti agli ordini di Cutty, mettendo a repentaglio il lavoro e la vita, ma un’altra ricordava bene gli stivali che erano calati sul suo addome e le mani che l’avevano trascinata in cella, avanti e indietro, per ore che le erano sembrate interminabili. Comprendeva benissimo Michael e la sua smania di farli fuori tutti – o perlomeno quel sadico bastardo di Pain.

Non c’erano appigli sulla roccia, potevano solo saltare nel vuoto e pregare, se avevano un dio.

Per primo si tuffò Pain, che riemerse dopo cinque secondi esatti, dando loro una stima di profondità e la certezza che non dovevano per forza morire quella notte, nelle gelide e scure onde dell’oceano. Per fortuna, il vento soffiava appena e l’acqua non li avrebbe sospinti di nuovo verso la scogliera, spezzando la colonna vertebrale o annegando i polmoni.

«Vado prima io?» le sussurrò Michael, notando la sua reticenza. Kurtz e Alexander si erano tuffati, poi Setter e Janet, e infine anche Lilyan. Rimanevano soltanto loro due.

Ellen fece un cenno di diniego. «Ci vediamo a riva» disse.

L’impatto le tolse il respiro.

Tre, quattro, cinque, contò tornando a galla. Guardò in alto, verso Michael, e si spostò per fargli spazio.

Pain aveva ragione, la riva era sulla sinistra e non distava più di mezzo miglio. Era lontana, ma potevano raggiungerla. Nuotò rapidamente per combattere il freddo, detestando i vestiti e i capelli incollati alla pelle, e le venne quasi da ridere constatando che, in quel momento, ciò che le premeva di più era trovare un cambio di abiti asciutto. Sarebbe stato difficile, ma meno complicato che sfuggire a uno scienziato pazzo e a uno stregone con manie di protagonismo. Si concentrò su quei pensieri, reprimendo la stanchezza, nascondendosi il dolore alla gabbia toracica, fino a quando non giunse sulla riva. Solo allora crollò a terra, ansimante.

I soldati erano già sulla sabbia, ma si sentiva troppo debole per scattare in piedi e mettersi sulla difensiva. Anche Janet era arrivata, e Alexander e Lilyan erano sempre più vicini. Michael…

Michael non c’era.

Si rialzò e guardò la distesa oscura, agognando di scrutare un segno della sua presenza; passò un’eternità prima che una figura apparisse in lontananza. Represse il sospiro di sollievo quando si accorse che Michael non era solo.

Lo avevano circondato. Erano solo in due, ma nuotavano più veloce, mentre lui… lui…

Il braccio. Non riesce a muovere il braccio, realizzò osservandolo divincolarsi, tentare di scappare con le poche forze che gli rimanevano.

Ellen si gettò in acqua, ma cadde; ci riprovò e cadde ancora, la testa che scoppiava, le costole che le toglievano il fiato, le gambe che maledette, muovetevi, muovetevi, vi prego!

Le lacrime le offuscavano la vista, impedendole di vedere Michael che rallentava, si guardava alle spalle, si accorgeva che ormai erano arrivati a lui…

Gridò, gridò, gridò, un urlo infinito nella notte. Provò di nuovo a combattere le onde, inciampò, gridò. Alla sua destra un guizzo, e Pain l’aveva superata. Nuotava veloce, dritto verso Michael, verso le creature che lo stavano raggiungendo. Divennero un unico groviglio, strilli di dolore, acuti richiami che cessarono di colpo.

L’acqua si muoveva. Un’onda ne seguì un’altra, e un’altra ancora, fino a quando Pain non comparve alla fioca luce delle stelle tenendo tra le braccia Michael. Crollarono entrambi a terra ed Ellen si lanciò su Michael, lo scosse, appurò che respirava e continuò a piangere sul suo petto, avvertendo a malapena le sue dita sulla schiena. La stava rassicurando, lui che per poco non aveva perso la vita.

A scuoterla da quelle sensazioni vorticose fu il rumore di un colpo caricato. Alzò appena lo sguardo da Michael, portandolo in direzione della pistola. C’era Pain a terra, accanto a loro, ansimante e supino; sopra di lui, incombeva Lilyan.

La ragazza piangeva in silenzio, proprio come aveva fatto quel pomeriggio, quando aveva dovuto accettare le decisioni del gruppo. Piangeva ancora, e il motivo era lo stesso, era quell’uomo che li aveva martoriati pretendendo sangue e sfinimento, era colui che rappresentava tutto il dolore che le era stato inflitto: la perdita del suo primo amore, la fuga da Boston per tenere suo padre al sicuro, i suoi sogni da bambina infranti uno dopo l’altro. Con la tortura, Pain aveva reso tangibile ogni sofferenza. Lo fissava con astio e risentimento, il viso deformato da un odio che non aveva mai conosciuto prima.

Pain non disse niente. La guardò negli occhi, in silenzio, aspettando che fosse lei a prendere una decisione.

Infine Lilyan, tremando, lasciò cadere la pistola sulla sabbia.

 

***

 

Rimanere all’aperto, preda dei mostri marini che avrebbero potuto sostituire quelli uccisi da Pain, era sconsigliabile, e lo era anche per il freddo che la notte di novembre e gli abiti fradici avevano appiccicato ai loro corpi. Senza domandare dove li stesse portando, seguirono Pain nel folto del bosco dopo la spiaggia, inoltrandosi fra gli alberi che con i fitti rami potevano celarli perfino a sentinelle aeree. Alexander ed Ellen sorreggevano Michael, e lei cercava di ignorare la fitta al fianco: si era imposta di accompagnarlo, niente l’avrebbe fatta desistere, e Michael era troppo dolorante per rimproverarla. Aveva avuto ragione: il taglio che Pain gli aveva inferto al braccio aveva ripreso a sanguinare e nessuno di loro se ne era accorto, né l’uomo ne aveva fatto parola, cocciuto e presuntuoso com’era. Non lo avrebbero curato nella caverna, ma Ellen lo avrebbe aiutato a nuotare; invece, ora dovevano la sua vita a Pain.

Il generale li condusse in una radura dove sorgevano alcune abitazioni abbandonate da tempo, a giudicare dal silenzio che regnava e dalla sicurezza con cui Pain fece strada. Si diresse verso l’edificio più grande, un casa a due piani, e attese che fossero entrati tutti prima di sbarrare porte e finestre.

«È un posto sicuro.»

A quel punto, anche la bocca dell’Inferno sarebbe andata bene. Ellen lanciò un’occhiata alla camera adiacente  l’ingresso e constatò che ospitava un paio di materassi a diretto contatto con il pavimento sudicio; fece un cenno ad Alexander, che la seguì all’interno per adagiare Michael su quello che le sembrava messo meglio. Lo lasciò lì, eseguendo in silenzio ogni azione come fosse un rituale: afferrò le camicie e i due pantaloni che Kurtz le porgeva, rintracciò un paio di stracci da strappare in strisce, trovò perfino del disinfettante, come se non fosse la prima volta che Pain usava quel luogo per rintanarsi. Tornò in camera e chiuse tutto fuori – Darcus, Cutty, la grotta, i soldati, la magia. Si chinò e aiutò Michael a spogliarsi, si disfece a sua volta dei vestiti bagnati e infilarono abiti finalmente asciutti. Pulì la ferita e la bendò, con calma e prudenza, stringendola appena per impedirle di sciogliersi. Quando ebbe finito, si stese sul materasso vuoto e si concesse di osservare il volto di Michael.

Erano entrambi svegli, troppo scossi per dormire nonostante la spossatezza, e si guardavano negli occhi come se temessero che fosse la loro ultima notte al mondo. Forse lo era, o forse, come aveva promesso Darcus, ne avrebbero avute ancora altre due.

Michael allungò il braccio e le afferrò la mano.

«Vieni» sussurrò.

Lei provò a opporsi, ma cedette presto. Avvicinò il materasso e si appoggiò di nuovo sul suo petto: non voleva guardarlo in faccia, non con quello che stava per confessargli.

«Salem» mormorò, e il solo pronunciare il nome della città la fece fremere. «Vengo da Salem.»

Cominciò e fu un fiume in piena.

Raccontò di come fosse iniziata la sua vita, e di come a cinque anni si fosse conclusa.

Raccontò del sorriso che aveva visto lentamente, inesorabilmente spegnersi sul volto di sua madre, e dei fratelli che non aveva mai conosciuto.

Raccontò del suo dolore, della fugace felicità e della fuga ad Arkham, raccontò ogni cosa, e lo fece riducendo al minimo i particolari, stupendosi di quanto la sua intera infanzia potesse essere riassunta in pochi, precisi eventi. Era la prima volta che ne parlava, e fu come se quel passato non le fosse appartenuto, eppure ogni attimo era inciso nella sua pelle, aveva indurito il suo cuore, le aveva precluso ogni futura serenità.

«Per sei anni, sono stata figlia unica. Eravamo solo in tre. Per mia madre, ero la luce dei suoi occhi, e non era soltanto un modo di dire. Veniva da una buona famiglia, è stata lei a insegnarmi a leggere e a scrivere. Quando ha conosciuto lui, ha voltato le spalle ai genitori, alla ricchezza, a ogni comodità per sposarsi in una topaia. Era incinta ed era al settimo cielo. Lo amava, e ha amato me. Anche lui mi ha amata. Per cinque anni.»

Aveva pochi ricordi, ma erano nitidi: giocava tra le braccia di suo padre, baciava le guance della madre, dormiva con loro e rideva, rideva, rideva. Quando adesso provava a sorridere, le faceva male il viso.

«Mia madre è rimasta incinta di nuovo. Erano stati attenti, perché erano giovani e non avevano soldi, e lui non riusciva a trovare lavoro. Questo lo rendeva furioso, e allora cominciò a bere. Quegli spiccioli che racimolava non erano per la sua famiglia, ma per il suo fegato. Doveva placare la rabbia, diceva. E poi iniziò a tirarla fuori.»

Sua madre aveva perso il bambino. Non sarebbe potuta andare altrimenti: gli schiaffi, i calci, la spinta dalle scale. Ellen ricordava la pozza di sangue, e a distanza di anni ancora ignorava se venisse da sua madre o dal fratellino mai nato.

Era rimasta incinta di nuovo, ed era nata Lynda. E poi ancora, e ancora, e solo Peter e Colin si erano salvati.

“Salvati”, che definizione impropria.

«Ogni volta che tornava a casa, lei lo accoglieva con il sorriso. E lui con un pugno. Mia madre sapeva che cosa la aspettava, perché mi diceva di nascondermi. “Nasconditi, Ellie, è solo un gioco”, ma non lo era. Crebbi, e non smisi di nascondermi. Non provai mai a fermarlo, e… e so che ero una bambina. Ma lui infieriva anche sui miei fratelli, e io non mossi un dito.»

“Nasconditi, Ellie, resta nascosta”: la madre ripeteva quelle parole mentre Ellen era già sotto il tavolo, dentro l’armadio, fuori al gelo. Era terrorizzata, e lasciava sempre indietro i fratelli. Lynda provava a seguirla, ma lui arrivava prima. E lei rimaneva a guardare.

«Saremmo potuti scappare, però fu mia madre a impedircelo. Non voleva lasciarlo. Lui tornava, la picchiava, le faceva perdere il bambino, e il giorno dopo si svegliava e la implorava in lacrime di perdonarlo, e lei non attendeva neanche un minuto.»

Ricordava l’ultima volta in cui le aveva chiesto perché non potevano andarsene, perché rimanevano con quell’uomo che li spaventava a morte, e sua madre, con l’occhio pesto e senza un dente, le rispondeva: «Perché io lo amo. E lui ci ama, a modo suo.»

Se quello era amore, Ellen non avrebbe voluto conoscerlo mai.

«Quando avevo undici anni, lei rimase incinta per l’ultima volta. Il suo corpo non poteva sopportare oltre, e morì dando alla luce una bambina. Lui era con noi, e aveva bevuto, e urlava e piangeva e voleva uccidere mia sorella… Non so dove trovai la forza, ma lo spinsi via, presi la bambina e corsi, corsi… La lasciai sulla porta di una casa, nel quartiere dove viveva la famiglia di mia madre, non sapevo nemmeno se fossero loro… Aspettai che la raccogliessero dalla neve e poi fuggii… E non tornai mai indietro. Non vidi mai… mai più… E non so se siano sopravvissuti, o se… se…»

Singhiozzava così forte che le parole morirono in gola. Michael la circondò, la strinse, la baciò, la cullò fino a quando fu troppo esausta per piangere.

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Capitolo 26
*** Capitolo XXVI ***


Capitolo XXVI

 

L’indomani erano ancora vivi, una considerazione tutt’altro che banale dopo gli eventi delle ultime ore.

Alexander e Pain li radunarono nell’ingresso, una sala abbastanza ampia da consentire loro di accomodarsi su sedie incrinate, divani logori o i materassi su cui avevano dormito tre dei civili, mentre i soldati si erano impadroniti del secondo piano, dal quale potevano godere di una migliore visuale. Erano a corto di cibo, ma un pozzo li aveva riforniti di acqua pulita, e per il momento poteva bastare.

«Cos’è questo posto?» domandò Alexander a bruciapelo non appena ebbero dato inizio alla riunione d’emergenza.

«Caverby, o quel che ne resta» rispose Pain. «In passato era un villaggio di esili dimensioni, fondato da puritani così radicali da essere scacciati dalla loro comunità, ma negli ultimi sette anni è stato utilizzato come deposito di alcolici. Me ne aveva parlato il collega che ha sventato l’operazione, e quando il governo mi ha mandato a collaborare con Cutty mi è tornato in mente. È un porto sicuro, mettiamola così.»

«Quindi non vi siete mai fidato di lui?»

«Non esattamente. Avrebbe dovuto collaborare con l’esercito, ma una volta smantellata Innsmouth ha preso le redini delle future operazioni, e qualcuno dall’alto glielo ha lasciato fare.»

In un angolo, Lilyan tirò su con il naso. Si erano procurati la legna per accendere il camino, ma erano ancora provati dalla nuotata notturna; anche Ellen malediceva il raffreddore che prudeva nelle narici. Erano entrambe sedute sul lato meridionale dell’edificio, insieme ai loro compagni, in modo da avere i soldati di fronte: potevano sia osservare le loro mosse che tenerli a distanza. Avrebbero avuto bisogno di tempo per imparare a fidarsi di loro, ma non ne avevano.

Due notti.

Ellen andò dritta al sodo. «Avete un piano.»

«Solo un’idea, per adesso. Conto di perfezionare i dettagli entro domani. Per allora, voi ve ne sarete già andati.» Pain scoccò un’occhiata di avvertimento ad Alexander. «A meno che voi, detective, non vogliate accettare la sua offerta.»

Uscire da quella orribile situazione era sembrato un sogno a lungo irrealizzabile: ci avevano provato, ma Darcus e i maledetti libri si erano ancorati alle loro vite. D’altra parte, ora potevano passare il testimone a qualcuno di cui, se le cose fossero andate storte, nessuno avrebbe sentito la mancanza.

Fu Michael a interrompere il silenzio calato dopo l’infida insinuazione di Pain. «Potremmo cambiare aria per un po’.»

«Boston è troppo vicina» disse Janet, che tuttavia sembrò valutare la proposta.

«Non Boston. Verreste da me, in Europa. Ci sarebbe un oceano tra noi e Darcus.»

«C’è… anche l’India» mormorò Lilyan. «Janet, sono là i tuoi genitori adesso?»

Lo sguardò dell’archeologa dardeggiò dall’amica ai soldati, come se temesse che avrebbero potuto usare quell’informazione per rivenderla al nemico o fare del male alla sua famiglia.

«Non… non so… Credo che l’Europa sarebbe la scelta…»

«Non abbiamo scelte» la interruppe Alexander con una risolutezza inedita, la stessa con cui, la sera prima, Ellen gli aveva visto tagliare la gola a uno dei carcerieri.

«Detective, ha forse…»

«…preso in considerazione la proposta di Darcus? No, niente affatto. Sono soltanto stufo di aspettare il momento in cui potrò gettarmi il passato alle spalle. Abbiamo provato ad affidare la nostra missione… la mia missione a Cutty, e cosa ne abbiamo guadagnato? Niente di buono.»

«Cutty è un megalomane che collabora con un pluriomicida, ma potete affidarvi a noi.»

«No, generale. Ho eluso il mio compito per fin troppo tempo, e so che devo essere io a portarlo a termine. Insieme a voi, perché al contrario di mio zio non sono un pazzo, ma non posso lasciare che altri svolgano il lavoro al mio posto.»

«Di quale lavoro state parlando, della vendetta? Volete farvi giustizia per la vostra famiglia?»

Alexander esitò, ma non c’erano più motivi per mentire. «Mio padre era il Guardiano dei libri, come suo padre e suo nonno, e come tutti i primogeniti dei McCrindle. Doveva evitare che qualcuno ci mettesse le mani sopra, eppure ha delegato il compito al fratello minore, e li ha persi. Sono l’ultimo McCrindle rimasto, ed ero il primogenito di Owen, dunque avrei ereditato il suo ruolo e ho fatto… con l’aiuto dei miei amici… ciò che avrebbero dovuto fare tutti i Guardiani che mi hanno preceduto: bruciare i libri. Ne è rimasto uno, e devo sbarazzarmene prima che Darcus possa attuare il suo piano finale.»

Pain annuì impercettibilmente. «Date le nostre esigue forze, non posso impedirvi di unirvi a noi, se questo è il vostro proposito. Ma gli altri?»

Rimasero zitti sotto lo sguardo fermo di Alexander, ma il detective non chiese il loro aiuto. Disse solo alcune frasi che li colpirono come una scarica di corrente elettrica: «Ricordate come ci siamo sentiti dopo la chiesa? Se ora fuggirete, sarete al sicuro, perché io farò in modo che Darcus non possa nuocere più a nessuno. Però non vi sentirete mai al sicuro.»

Combattere Darcus era diventata una battaglia personale per ciascun membro del gruppo. Pain lesse il muto assenso sui loro volti.

«Otto. Tre soldati, due uomini che presumo siano andati in guerra, e tre civili. Ci servono rinforzi.»

 

***

 

Avevano passato l’intera giornata all’aperto mentre Pain “pensava ai rinforzi” rintanato in una rimessa per la legna. Kurtz e Setter, che in sua assenza si erano dimostrati loquaci, si erano offerti di allenare le donne con le due armi da fuoco a disposizione, mentre Alexander e Michael si esercitavano nel corpo a corpo, facendo attenzione a non peggiorare la ferita del medico. Erano riusciti perfino a cacciare qualche scoiattolo, una misera cena, e temevano che il giorno seguente non sarebbe andata meglio: non potevano avvicinarsi alla costa per pescare – Dio solo sapeva se sarebbero diventate loro le prede – e recarsi nei paesi vicini era escluso.

Stanchi e indeboliti, erano andati a dormire presto, spegnendo le candele che, nel bosco tenebroso, avrebbero potuto attirare l’attenzione.

«Ti fidi di lui?» mormorò Michael, che come Ellen faticava a prendere sonno al pensiero che quella potesse essere la loro ultima, intera notte.

«Di Pain? Neanche per sogno.»

«Parlavo di Alexander.»

Nell’oscurità della loro stanza, Ellen si rotolò sul materasso e cercò di mettere a fuoco la figura di Michael.

«Alexander? Temi anche tu che…?»

«Non si alleerebbe mai con Darcus. Mi riferivo alla sua determinazione. È reale o cercava di convincere Pain a portarci in battaglia?»

«La risposta è piuttosto semplice.»

«Tu dici?»

«Lilyan. E anche Janet. Poteva lasciare che scappassero con te in Europa, ma ha preferito salvare la loro sanità mentale. Metterà a repentaglio le loro vite, ma… posso capire il suo punto di vista.»

«“Con me in Europa”? Tu non saresti venuta?»

«Anche io sono stufa di scappare.»

Aveva avuto tempo per riflettere, dopo la confessione della notte precedente. Era stato difficile valutare il suo passato in maniera distaccata, fino a quando non aveva deciso di parlarne, e renderlo perfino più reale. Dannazione, aveva affrontato mostri e stregoni, come faceva a essere ancora terrorizzata dall’uomo che l’aveva concepita?

«Pain mi preoccupa» cambiò argomento, consapevole che non aveva paura di una persona, ma di ciò in cui l’aveva trasformata. «Che faceva nella rimessa per la legna?»

«Opto per un telegrafo.»

«Fammi capire: ha materassi, munizioni e un telegrafo, ma non cibo in scatola o armi. Mi sembra piuttosto disorganizzato.»

«Forse non voleva destare sospetti, e ha portato qui una cosa alla volta.»

«Mi turba lo stesso. So che si sta comportando come se fosse dalla nostra parte, però…»

«Ragazzina, è talmente cristallino da potergli guardare attraverso.»

«Che intendi?»

«È il tipico soldato. Esegue gli ordini, non fa domande. Rispetta le gerarchie, pretende disciplina e gli piace fare lo spaccone con i prigionieri. Se però nota che le cose non vanno esattamente come gli è stato detto, comincia a porsele da solo, le domande. Si crea un riparo, noto soltanto a un paio di uomini fidati, e si prepara a combattere un sistema in cui non si riconosce.»

«Lo hai imparato quando eri sotto le armi?»

«No, dai romanzi.»

Avrebbe voluto prenderlo a calci, ma non ne aveva le forze. Sbuffò e ripensò al comportamento di Pain, e quasi le parve di rintracciare in lui le caratteristiche dell’antieroe che aveva letto nei libri di sua madre. Anche allora aveva detestato quell’archetipo. Paradossalmente, lo vedeva più adatto a Lilyan, che di certo stravedeva per personaggi del cazzo come Heathcliff, eppure il suo più grande amore sembrava essere stato un eroe positivo a tutti gli effetti.

«Lilyan, ieri notte… L’avrebbe ucciso. Stava davvero per farlo.»

«L’avrei fatto anche io, se non mi avesse salvato la vita.» Le dita di Michael scivolarono sul suo ventre, fermandosi appena prima dell’ematoma. «L’ha esasperata. Dubito che abbia alzato le mani su di lei…»

«L’ha presa per i capelli.»

«…dopo quella volta. Credo che abbia puntato sul suo nervosismo. È fragile.» Indugiò. «A proposito… Janet e io crediamo che Lilyan non abbia capito.»

«Cosa non ha capito?»

«La storia degli ibridi. Cioè, ha capito come nascono, ma non che Darcus vuole usarvi come incubatrici.»

Ellen tremò: anche quella prospettiva sembrava più reale pronunciata ad alta voce.

«Non glielo dirò.»

«Ellen, dovremmo parlare di questo. Se…»

«Non sappiamo come funzioni. Perfino io potrei rimanere incinta di… di quelle cose.»

Avvertì gli occhi di Michael allargarsi per lo stupore e sbuffò.

«Sei un medico, te ne eri già accorto. E poi basta pensarci: denutrizione, ambienti malsani… Non mi serve una conferma per sapere che sono sterile.»

Non le chiese se le andasse bene, la conosceva abbastanza per evitare domande del genere.

Sì, sì che mi va bene. È l’unica cosa che funzioni in questa cazzo di vita.

La sua infanzia le aveva insegnato molto, suo malgrado, e l’aveva spinta a prendere decisioni drastiche per il proprio futuro. Lei e Michael prendevano protezioni, ma era anche una questione di salute, e non aveva intenzione di legarsi a un uomo fino al punto di sposarlo e avere dei figli. Avrebbe risparmiato quel mondo di merda ad altri bambini.

Tuttavia, in quel momento la prospettiva di rimanere incinta di un essere umano non la disturbava tanto quanto l’alternativa proposta da Darcus. Rabbrividendo ancora, si strinse a Michael e cercò conforto nel calore del suo corpo.

 

***

 

Le foglie calpestate la misero in guardia prima ancora di rendersi conto che era sveglia.

Portò la mano verso il punto in cui era solita tenere la pistola di Michael, imprecando mentalmente quando si ricordò che gliela avevano tolta nella base militare. Si limitò a scuotere piano il medico e a portarsi un dito davanti alle labbra, ma la sua prudenza era vana: la voce di Pain risuonò nel silenzio.

«Chi va là?»

«Caporale Medina.»

Pain non avrebbe urlato se non avesse atteso visite: i tre soldati si davano il cambio alla finestra e fino a quel momento Ellen aveva pensato che lo facessero per controllare eventuali nemici, invece stavano aspettando qualcuno.

Era l’alba. Attraverso il vetro impolverato, riuscì a scorgere il profilo di un uomo che, con le braccia in alto, segnalava di essere innocuo. Ellen entrò nell’ingresso mentre Pain lo tirava dentro.

«Ti hanno visto?»

«Nossignore, ho seguito le vostre istruzioni.»

Sotto quella divisa, i militari le parevano tutti uguali, eppure Medina aveva lineamenti meno marcati dei suoi colleghi, era più giovane e di altezza media, così che per guardare Pain doveva tenere il mento alzato. Il generale attese che si radunassero tutti nella stanza, come la mattina precedente, prima di procedere con le presentazioni.

«Il caporale Medina è uno dei miei uomini più fidati. Quando mi è stato ordinato di collaborare con il professor Cutty, ho formato l’unità antiterrorismo portando con me alcuni soldati scelti.»

“Unità antiterrorismo”, non “paranormale”: le vedute di Pain e Cutty erano completamente differenti.

«Kurtz e Setter sono sempre con me, come avete potuto appurare. Medina e altri sette… mi vorrebbero morto. Questo è come deve apparire il nostro rapporto.»

«Il generale Pain ci ha strappato a incarichi più onorevoli per gettarci in un buco dimenticato del mondo» spiegò Medina con un sorriso che stonava con la divisa, la situazione, tutto. Solo a quel punto Ellen si accorse che ne avevano avuto bisogno.

«Medina è stato felice di raccontare alcuni dei miei squallidi segreti a Cutty, segreti ovviamente falsi, costruiti per l’occasione. Aveva l’incarico di presentarsi qui qualora fossi sparito dalla base per oltre trenta ore senza avvertirlo.»

«Sono il vostro migliore informatore» gongolò il caporale, ma presto tornò serio. «Sta accadendo qualcosa di losco. Ero tentato di venire prima, ma ho atteso.»

«Hai fatto bene. Racconta.»

«Due sere fa, il dottor Hubert ha svuotato l’infermeria per evitare testimoni, una precauzione inutile: uno dei nostri ha visto trasportare Cutty su una barella. Era messo male. Negli alloggi dei prigionieri non c’era nessuno, e la vostra assenza mi ha dato la conferma che cercavo.»

«Non sono stato io a conciarlo in quel modo.»

Pain indicò Alexander con un cenno del capo, e Medina lo fissò con ammirazione prima di continuare. «Ha solo il naso rotto e deve usare una stampella, ma è in grado di muoversi. Ieri pomeriggio ci ha ordinato di tenerci pronti: stasera torneremo a Innsmouth.» L’assenza di stupore sui volti dei presenti dovette svelargli che ne erano già a conoscenza.

«Quanti?»

«Quasi tutti. Io rimarrò nella base con la nostra unità fidata, oltre ad altri venti soldati.»

«Quei venti da che parte stanno?»

Medina esitò. «Taylor, Thompson, Ramirez…»

«Merda.»

«Cosa c’è?» chiese Alexander.

«Dovremo combattere, se vorremo penetrare nell’armeria. Taylor è quello a cui il caporale Setter ha puntato una pistola alla testa.»

«È fedele a Cutty» aggiunse Medina. Solo un’ombra di curiosità passò sul suo viso.

«Speravo in Carter o Peterson. Mi stimano, e avrebbero potuto aiutarci.»

«È proprio questo il problema.» La risposta di Medina confuse anche Pain. «Si sono opposti. Hanno saputo che eravate stato condotto fuori dalla base contro la vostra volontà, e hanno fatto irruzione nel laboratorio per avere un chiarimento. Ma Cutty li ha fatti catturare e… C’è qualcosa di strano in loro, generale Pain.»

Michael fece un passo avanti. «Hanno lo sguardo vacuo, non è vero?»

Medina annuì, e fu il turno dei cinque civili di informare Pain.

«Darcus li tiene sotto il suo controllo mentale.» Michael non si curò dello sbigottimento di Medina. «Quando eravamo ad Arkham, Darcus ha usato la criminalità organizzata, ma alcuni dei gangster erano incoscienti. È probabile che volesse essere sicuro che non lo avrebbero tradito.»

«È possibile farli rinsavire?»

«Non ne abbiamo idea.» Si voltò verso l’infiltrato. «Cosa li sta costringendo a fare?»

«Niente. Sono entrati nelle celle ieri sera e se ne restano lì senza muovere un muscolo.»

«Merda, merda…» sibilò Pain. «Tutti quei discorsi sul sangue e i sacrifici… Vogliono ammazzarli.»

Nessuno fiatò, confermando i timori del generale. Ellen non sapeva chi fossero, da dove provenissero, se avessero una madre o dei figli, ma provò pena per loro. Forse sarebbero stati in grado di salvarli, o forse sarebbe stato inutile. Provarci era la sola alternativa, perché se Darcus e Cutty non erano del tutto invasati, allora quella notte…

«Dobbiamo armarci. Quando partiranno?»

«Due ore dopo il tramonto, approfittando delle tenebre. È chiaro che non vogliano essere scoperti.»

«Da dove puoi farci entrare?»

«Le cucine della mensa non saranno sorvegliate.»

«Hanno uno sbocco sull’esterno, perché non sorvegliarle?»

«Vogliono che ci piazziamo in gruppi intorno al laboratorio, alla sala radio e all’armeria. Credo si aspettino che uno di noi tradisca.»

Pain ringhiò. «Sono loro i traditori, e la pagheranno cara.»

 

***

 

Entrare nell’edificio militare sarebbe potuto essere complicato, uscirne – scoprirono a loro spese – si sarebbe rivelato anche peggio.

Tutto si basava sul carisma di Medina, il soldato belloccio e pettegolo, alla mano, con cui scambiare confidenze e a cui permettere qualche cazzata; agli occhi dei suoi colleghi, era il buffone della base, ma in realtà aveva portato a termine il doppio delle loro missioni e non veniva promosso a un grado maggiore soltanto per mantenere la farsa. Quella sera, Medina si sarebbe allontanato durante il turno di guardia, lamentando di avere ancora fame e proponendosi di sgraffignare qualcosa nelle cucine, perché “al suo sorriso non si poteva dire di no” – stando alle parole di Kurtz.

La prima parte del piano andò come progettato.

Medina aprì l’ingresso secondario all’ora concordata, attese che fossero entrati tutti, poi si dedicò a fare incetta di pane al formaggio. «Devo pur sostenere la mia scusa.»

Pain non commentò. «Situazione.»

«Ala nord, telecomunicazioni: Thompson e il solito gruppo. Ala ovest, laboratorio: Taylor. Ala sudovest, armeria.» Medina ammiccò a Lilyan e Janet. «Il mio posto.»

«Non sospettano un bel niente…»

«Ve l’ho detto, Fauerbach, ho scelto l’uomo giusto.»

Dovevano fidarsi delle sue parole, perché Medina pareva tutto, fuorché “l’uomo giusto”, ma stare in sua compagnia li rasserenava. Ne avevano bisogno, per una notte come quella che li attendeva.

«Chi altro c’è con voi?»

«Cinque dei nostri e tre dei loro.»

«Gli altri?»

«Williams e Harding sono alle telecomunicazioni, come previsto. Hanno già pensato a tutto.» Medina sorrise di nuovo di fronte alla muta domanda di Janet. «Segnale disturbato, in modo che non possano captare il vostro.»

Quindi avevano ragione: Pain teneva un telegrafo, o qualcosa di simile, nella rimessa del casolare.

«Non illudetevi» precisò il generale. «Fino a quando non arriveremo all’armeria, non potremo dirci al sicuro.»

Si mossero furtivamente, in ordinata fila dietro Pain, mentre Medina, a una decina di piedi di distanza, li precedeva fischiettando per occultare eventuali rumori. Dopo avere svoltato a sinistra, al termine di un corridoio senza finestre, lo udirono parlare.

«Ehilà, ragazzi! Come promesso, sono tornato con… Ah, è tardi.»

Quelle parole misero in allarme Pain, che con la pistola spianata affrettò il passo. Le sue spalle si rilassarono quando svoltò l’angolo dietro Medina.

La situazione era già stata, in parte, risolta. Medina, con i panini al formaggio tra le braccia, osservava dispiaciuto i tre soldati storditi e legati contro la parete, mentre quelli che dovevano essere gli uomini di Pain riponevano le armi.

«Sembra che mi sia perso tutto il divertimento.»

«Ci stavi mettendo una vita, Diego. Bentornato, generale Pain.»

La prima cosa che fece Pain fu controllare le corde ai polsi dei soldati catturati. «Voi sapete ancora fare nodi resistenti.»

«Con tutto il rispetto, generale, questi mocciosi non saprebbero nemmeno fare un nodo piano.»

Non era un’esagerazione, data la rapidità con cui Pain si era liberato per ben due volte nel giro di qualche ora.

L’armeria si aprì con tre giri di chiave. A Ellen tornò in mente la collezione di Masters di Ventimila leghe sotto i mari: lo stesso romanzo in edizioni differenti. Per una profana con lei, le armi avevano esattamente lo stesso aspetto; distingueva soltanto fucili, pistole e pugnali, ma non sapeva andare oltre e nemmeno le interessava. Le dessero un revolver, lei l’avrebbe usato.

Non persero tempo a scegliere. Pain afferrò una borsa di cuoio e mostrò il contenuto ad Alexander. «Le armi che vi abbiamo requisito. Se volete, prendete anche un pugnale da combattimento, in caso di scontro ravvicinato, ma fate in fretta. Vi do tre minuti, poi passeremo alle uniformi. Kurtz, Setter, i proiettili. Medina, va’ a nord, avverti…»

«“Avverti” chi?»

Ellen sentì il sangue gelare. Si girò con cautela, stringendo il calcio della pistola finalmente tornata in suo possesso, ma era certa che fosse scarica. Sulla soglia, un uomo – Taylor, ricordò – teneva la canna contro la tempia di Medina, un braccio ad avvolgergli il collo per impedirgli di scappare; alle sue spalle, insieme ad altri, Ellen riconobbe il soldato che aveva infierito su Michael.

«Sergente Taylor, abbassa la pistola.»

«Spiacente, generale, abbiamo ricevuto ordini differenti.»

Ellen, Michael, Janet, Pain… tutti erano armati, tutti avrebbero potuto rispondere al fuoco. Taylor però premeva la pistola contro Medina, immobilizzato, e i suoi compagni erano pronti a esplodere un colpo; i più fortunati di loro, invece, potevano contare su un’arma già carica, ma al sicuro nel fodero o puntata a terra. Ellen li contò rapidamente: ne riusciva a vedere undici, ma era convinta ce ne fossero altri. Avevano lasciato scoperta un’intera area? Questo significava che…

«Sapevamo sareste tornato, nel caso foste riuscito a fuggire. Pensavamo vi sareste liberato dei civili, ma non ha importanza: ce ne occuperemo noi. Il nostro unico dubbio era su chi potessimo fare affidamento… Peccato per Medina, mi piaceva.»

Parlava già al passato, e questo contribuì ad accrescere le vene sul collo di Pain. «Non ho intenzione di negoziare.»

«Nemmeno noi. Adesso, se volete seguirci…»

La voce di Taylor si strozzò mentre una lama penetrava nella sua carne. Prima ancora che il sangue sgorgasse dalla coscia, Medina si era liberato e aveva estratto il pugnale per affondarglielo nel petto. Taylor rantolò.

Quando avevano combattuto la creatura invisibile, erano stati perlopiù tutti contro uno: il mostro sapeva celarsi, ma ogni umano sapeva quale fosse il suo nemico. In quel momento, invece, il caos generato dalla morte di Taylor li costrinse a farsi da parte per diversi secondi, cercando di capire chi dovessero colpire, da chi dovessero tenersi alla larga. Non ricordavano quali fossero i soldati fedeli a Pain, potevano soltanto seguire l’intuito, mirando a coloro contro cui si scagliavano il generale e Medina. Si spinsero fuori dall’armeria e verso l’uscita della base senza smettere di sparare e ripararsi contro i militari che, come se Pain glielo avesse mutamente ordinato, cercavano di fare da scudo. Se solo avessero avuto più tempo, solo altri cinque minuti, si sarebbero infilati anche loro delle tute antiproiettile, invece di costringere i loro alleati a prendersi i colpi per salvarli.

«Correte!» gridò Pain, ed Ellen non se lo fece ripetere.

Scattò in avanti e si pietrificò alla vista di altri due soldati, ma poi scorse la scia di sangue dietro di loro e comprese chi fossero.

Williams e Harding.

«Per di qua!» le urlò uno dei due, facendole strada verso l’uscita. «Presto, presto!»

Le mancava il fiato, e quella doveva essere la parte più semplice dell’operazione. Si fermò nonostante gli ordini del soldato per attendere Michael, e Janet, e Alexander e Lilyan, e…

«NO!»

Pain urlò, ma i suoi amici erano salvi. Erano salvi. Scapparono nel bosco, seguendo Williams e Harding finché entrambi non alzarono una mano in segno di attesa. Scivolarono sul prato mentre i soldati restanti li raggiungevano.

Uno, due, tre…

Ellen smise di contare le forze e cominciò a contare gli uomini quando vide Pain trascinare un corpo. Ebbe un sussulto allo stomaco.

Non c’era più niente del sorriso del caporale Medina. Solo un volto dilaniato, spaccato in due, e il sangue che colava sulle mani inermi di Pain.

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Capitolo 27
*** Capitolo XXVII ***


Capitolo XXVII

 

Non c’era tempo per dare una degna sepoltura a Medina, né per tornare a Caverby; furono costretti a lasciare i suoi resti ai piedi di un acero con la promessa che sarebbero tornati. Per un momento, la fretta di Pain era svanita: aveva adagiato la schiena di Medina contro il tronco dell’albero e si era inginocchiato di fronte a lui, in silenzio. Il generale si era concesso soltanto un minuto.

«Procediamo.»

Seguirono Pain al riparo sotto i rami carichi di foglie rosso sangue, permettendosi di fare rumore fino a quando non furono in vista della costa. Solo allora il generale si girò verso i suoi uomini e prese parola. «Secondo le informazioni che aveva raccolto Medina, i nostri avversari si sono diretti alla zona del porto, all’estremità settentrionale di Innsmouth. Ci arriveremo a piedi, fiancheggiando la città. Da lì, c’è un ottimo punto di osservazione.»

«Quanto tempo abbiamo?» domandò Alexander.

«È presto per dirlo. Harding, quando hanno lasciato la base?»

«Quaranta minuti prima del vostro arrivo.»

«Ciò significa che hanno circa un’ora di vantaggio, e hanno preso tutte le camionette.» Pain imprecò sottovoce. «Sapevano per certo che altri si sarebbero rivoltati contro di loro e hanno preferito impedire che potessero raggiungerli rapidamente.»

«Non c’era alternativa. Era troppo rischioso imbattersi in Darcus prima di essersi procurati le armi.»

«Lo so, detective. Non mi pento della nostra decisione.»

Pain era distaccato. Era scomparsa ogni traccia dell’emozione con cui aveva trasportato fra gli alberi il cadavere di Medina. Ellen lo invidiava: a lei quella morte aveva portato soltanto sconforto. Sorridendo, atteggiandosi da ragazzino immaturo e gioviale, Medina aveva alleviato la tensione, che era tornata insieme al terrore per ciò che stavano per affrontare.

Dovevano raggiungere un’altura: avrebbero potuto tagliare attraverso la città fantasma di Innsmouth, ma scelsero prudentemente di allungare la strada quando, all’imbocco di un vicolo, notarono una figura muoversi nell’ombra: difficile sapere se fosse armata, ancora più difficile scoprire se fosse in compagnia. Furono costretti a camminare rasente la spiaggia e fu allora che Ellen avvistò altri corpi: a differenza del precedente, non si muovevano.

Fece un cenno a Michael, che lo replicò a Pain. Si chinarono dietro gli arbusti e scrutarono con attenzione la spiaggia.

Erano dieci, ed erano cadaveri.

«Carter…» sibilò Kurtz alla destra di Ellen.

Dunque il molo e lo Scoglio del Diavolo non erano le uniche destinazioni di Darcus e Cutty, e i bastardi avevano già cominciato a macellare le loro vittime.

Dovettero abbandonare anche quei corpi riversi sulla sabbia, la gola tagliata e le mani libere. Darcus li aveva soggiogati, costringendoli a rimanere fermi mentre i suoi accoliti li sgozzavano; in qualche modo, li aveva convinti che quella fosse la loro volontà. Nauseata, si girò di scatto per evitare di vomitare su Kurtz, e notò qualcosa muoversi nelle acque. Diede una gomitata al soldato.

Adesso lo – li vedevano tutti. C’erano fiaccole accese lungo la riva, le stesse che avevano permesso a Kurtz di riconoscere il cadavere di Carter, e che ora illuminavano i profili delle creature in mare. Ellen si stupì: non erano i mostri che li avevano attaccati al Tyner Lab e sotto lo Scoglio del Diavolo. Erano umanoidi, con spalle e busto nudi fuori dall’acqua, ma sul volto sembravano indossare una maschera. Non li avevano visti né mostravano l’intenzione di raggiungere la terraferma. Erano in attesa.

«Andiamo» mormorò Pain.

Accovacciati, ripresero il loro cammino lungo gli arbusti, permettendosi di rialzarsi solo quando una nuova zona boschiva li occultò. Era davvero il punto ideale da cui guardare il molo, ma non avrebbero potuto fare granché da quella posizione. Scorsero i soldati in due semicerchi: in quello esterno, uomini in piedi stazionavano dietro i militari inginocchiati – le prede. Erano un numero esagerato, troppi per loro quindici, ma erano concentrati, le voci cantilenanti in una lingua sconosciuta. Altri profili erano sparsi per la spiaggia; tra loro dovevano esserci Darcus e Cutty.

Pain indicò i cinque della sua unità che imbracciavano un fucile. «Copriteci.»

Erano cecchini provetti, Ellen poté intuirlo osservandoli sparpagliarsi per l’altura in cerca della visuale migliore. Una volta che solo Williams fu rimasto nelle vicinanze, Pain cominciò a scendere da un sentiero scavato nella roccia in religioso silenzio; per fortuna, la nenia giocava a loro favore.

Quando furono più vicini, Ellen ebbe un brivido, e fu certa di non essere la sola. Gli occhi vitrei dei soldati inginocchiati confermarono la loro ipotesi; tenevano la bocca serrata mentre i loro aguzzini, alle spalle, cantavano tenendo stretto un pugnale ciascuno. Ellen scrutò quello più vicino: aveva il manico intarsiato e simboli argentei rilucevano sulla lama. Anche sopra le banchine del porto erano state posizionate delle fiaccole.

All’estremità della banchina centrale c’era Darcus. Era accompagnato da due uomini, un soldato e Cutty, che si reggeva malamente sulla stampella, ma aveva il volto deturpato da un ghigno sotto il naso rotto. Con orrore, Ellen notò lembi di pelle sul collo di Darcus alzarsi e abbassarsi mentre parlava, e riconobbe la forma delle branchie. Stava continuando a mutare.

Dovevano agire in fretta, prima che la cantilena finisse e gli accoliti dell’Ordine del Crepuscolo d’Argento sollevassero i pugnali sacrificali. Prima di tutto bisognava liberarsi dei soldati di guardia, e lo fecero in silenzio, consci che i tre sul pontile, gli unici con lo sguardo rivolto alla terraferma, erano troppo concentrati sul rituale per prestare loro interesse. I soldati di Pain usavano armi da taglio, silenziose e letali, ma Ellen non ne aveva una e attendeva di sparare, coperta di Michael, quando i cecchini aprirono il fuoco.

Non c’era pietà nei loro colpi, era scomparsa insieme al sorriso genuino e confortante di Medina. Quella notte, non avrebbero fatto prigionieri.

Cinque pallottole andarono a segno, colpendo simultaneamente le teste di altrettanti soldati. Darcus vacillò e per poco non perse il controllo mentale delle sue prede; sollevando la mano umana, tracciò un segno.

Dal libro aperto sul pontile non uscì niente. Furono le acque a muoversi.

Esseri come quelli avvistati nella spiaggia emersero dall’oceano, e insieme a loro c’erano le creature mostruose, gli anfibi giganti e ricurvi che avevano già combattuto. Non erano solo due come nel dormitorio del Campus, né una manciata di più: erano decine.

Ellen si era pietrificata senza accorgersene. Michael le afferrò la manica e la tirò giù, salvandola dal proiettile esploso da uno dei soldati di guardia. Le creature si muovevano in fretta, risalivano la riva e i pontili, e le loro unghie si occuparono personalmente di sgozzare le vittime sacrificali. Ellen non aveva idea che potessero essere così veloci: uno dei mostri corse e buttò giù Kurtz, tranciandogli di netto un braccio. A terra, Ellen incontrò gli occhi ormai vuoti del caporale, la bocca aperta in un grido inudibile.

«Vieni via!» gridò Michael, trascinandola indietro e sparando all’impazzata, cercando di farsi spazio. Ellen capiva il suo terrore: le creature avrebbero ucciso gli uomini, ma lei, Lilyan e Janet…

Oh, cazzo, cazzo, cazzo. Erano state così stupide ad andare là.

Scosse i piedi, incapace di rialzarsi, e prese la mira: abbatté il mostro più vicino, ma ce n’erano altri, e i cecchini avevano smesso di sparare.

«Ellen, scappa!» urlò di nuovo Michael, portandosi davanti a lei per difenderla.

Non scapperò non scapperò non scapperò…

Il terrore però si era impossessato di lei, le pupille dilatate mentre osservava altri mostri correre sul molo, e non aveva il coraggio di cercare Janet o Lilyan, o…

Alexander si stava muovendo a passo svelto lungo il pontile centrale, cercando di sparare con la pistola ormai scarica. Darcus sorrideva, aspettava a braccia aperte, e non smise di sorridere anche dopo avere ricevuto il pugno del nipote in pieno volto.

Lo fece quando luci esplosero verso il porto, illuminando ogni figura, ogni umano, ogni ibrido. Trovando il coraggio di girarsi, Ellen vide due biplani in aria e l’esercito riversarsi nelle strade di Innsmouth.

 

***

 

Da ragazzina, Ellen aveva detestato la matematica. Nessuno lo avrebbe intuito, data la sua mente analitica e la passione per ogni tipo di scienza, ma non le piacevano i calcoli; li trovava certi, lineari, e solo avanzando con lo studio il suo odio aveva iniziato a scemare. Probabilità, ipotesi, una soluzione da scoprire: pane per i suoi denti. Era per tale motivo che raramente contava, eppure quel giorno lo stava facendo. Contava ogni caduto, ogni soldato che veniva azzannato dai mostri o che veniva abbattuto dai colpi dei suoi alleati; contava ogni creatura che emergeva dall’oceano, ogni rinforzo che accorreva alle sue spalle.

Erano partiti dalla base militare in quindici. Cinque cecchini erano stata abbattuti, e anche Kurtz. Altri due uomini fedeli al generale caddero. Rimanevano Pain, Setter e i civili. Sette persone per combattere un numero talmente alto di nemici che le era stato impossibile tenere il conto.

Quando l’esercito – i rinforzi contattati da Pain – apparve tra le strade di Innsmouth e nel cielo, Ellen avrebbe voluto contarli tutti, divenire consapevole di ogni persona giunta in loro soccorso, e non poterlo fare la rese euforica.

Durò un attimo, prima di ricordarsi perché detestava i numeri.

La matematica sbagliava: cento non erano superiori a uno, se quell’uno era Darcus.

Si era liberato di Alexander, che stava lottando in acqua contro gli umanoidi con la faccia deformata, ed era rimasto solo sulla banchina, un soldato morto a terra e Cutty scomparso nel nulla. Teneva il libro spalancato sulle mani e recitava una nenia diversa dalla precedente, e che fece tremare il mondo: non fu solo la terra a muoversi, non furono soltanto le onde a infrangersi contro i pontili, spezzandone funi e ormeggi; il cielo stesso si mosse, vacillò davanti a Ellen. Non erano i suoi occhi a tradirla. Uno dei biplani precipitò in acqua, l’altro si sfranse contro una scogliera ed esplose in fiamme, mentre Darcus rideva, e rideva, e sembrava avere previsto ogni cosa.

Michael l’aveva portata al riparo, dietro il muro spezzato di un edificio, ma lei non voleva rimanere. Sapeva quanto le sarebbe potuto costare, tuttavia non poteva restare nascosta mentre i suoi amici rischiavano la vita – o peggio. Guardò Michael, che sospirò sconfitto ed estrasse un coltello dalla tasca.

«Usalo tu: sei piccola, puoi sgusciare fra di loro. Mira al cuore o alla gola. Se sono mostri… scappa. Li colpirò da lontano con il fucile.»

«Quando lo hai…?»

«Era di un soldato di Cutty. È stato generoso a lasciarmelo dopo che l’avevo strangolato.» Il suo tentativo di alleggerire il nervosismo comune fu vano. «Fa’ attenzione.»

«Dobbiamo… dobbiamo fermare Darcus.»

«Per quello abbiamo Alexander e Pain.»

Lo sguardo di entrambi vagò sulla riva, da cui stava emergendo Alexander, ferito, ma vivo, con quella determinazione negli occhi che non lo avrebbe abbandonato finché Darcus fosse stato un pericolo. Pain non era nei paraggi, eppure le doti di cui aveva dato sfoggio in quei giorni li convinsero che fosse ancora sul campo.

«Punta alle creature che stanno seguendo Alexander» riprese Michael. «Tu copri le spalle a lui, io copro le spalle a te.»

«E chi coprirà le tue?»

Le labbra si incresparono in una smorfia beffarda. «La mia fortuna sfacciata.»

Nel momento in cui si gettarono di nuovo nella mischia, il frastuono esplose intorno a loro, un caos generato dalle urla disperate dei morenti, dal crepitare delle fiamme, dalle armi in mano all’esercito alleato. Luce e lampi esplodevano nella notte mentre Ellen strisciava tra i cadaveri, attaccava un ibrido e un altro, si faceva strada verso Alexander udendo i colpi del fucile di Michael. Con un moto di sollievo individuò Janet e Lilyan, schiena contro schiena, intente a sparare in basso da un punto rialzato.

Ellen superò il corpo diviso a metà di Setter, ma Pain era ancora in piedi e aveva puntato Cutty. Gli sparava con calma, avvicinandosi un passo alla volta, mentre lo scienziato arrancava a quattro zampe. Come Darcus, Cutty muoveva le dita ed evocava uno scudo di energia che si indeboliva ogni secondo che passava, fino a quando Pain non giunse di fronte a lui e fece fuoco alla testa. Una pallottola, una seconda e una terza, fino a quando il viso di Cutty non divenne una maschera di sangue come quello di Medina.

Solo a quel punto Pain si accorse di Ellen e Michael, e capì quello che stavano facendo. Si gettò in avanti fino a raggiungerli, li superò, affiancò Alexander mentre si liberava delle creature. Darcus li notò quando furono a pochi piedi da lui ed Ellen avrebbe giurato di vederlo sbiancare. Con un incantesimo si librò in aria, sfuggendo ai pugni del nipote, che doveva avere perso il revolver in acqua; Pain cambiò il caricatore e riprese a sparare, ma una sferzata di energia rossa gli trafisse il petto. Era impossibile capire se fosse ancora vivo, ma aveva smesso di muoversi.

Ellen credeva che Alexander avrebbe preso la pistola del generale, invece rimase concentrato su Darcus, le braccia lungo il busto, impassibile. Un attimo dopo, ciò che era accaduto nella Chiesa Occidentale si ripeté, e fu grandioso.

Alexander non era più solo: gli spiriti – o ciò che era rimasto dei Guardiani del passato – si addensarono attorno a lui, visibili anche da lontano, anche agli occhi di Darcus, che si fermò in aria. Uomini con gli stessi lineamenti di Alexander, più giovani e più anziani, dai capelli scuri o dalla chioma ramata, nitidi come se fossero realmente lì. Guidarono le mani dell’ultimo Guardiano, mossero le sue dita in gesti rapidi, decisi e rabbiosi, disegnando simboli che rifulsero nella notte, accerchiando Darcus, riportandolo a terra. Lo stregone cercava invano di combattere le corde invisibili che lo legavano, gridando e imprecando, evocando aiuto, ma niente accadde.

Con grazia, Alexander lo calò sul molo mentre le immagini dei suoi antenati svanivano e restava soltanto lui, forte e determinato, per la prima volta davanti a uno zio che non poteva più nuocergli.

Il fracasso si placò, lo scontro si spense e le creature marine sopravvissute scapparono nelle acque profonde, comprendendo che per il popolo di Innsmouth non era ancora giunto il momento di tornare.

Ellen e Michael raggiunsero le loro amiche e le aiutarono a scendere dalle casse che avevano impilato e circondato di torce come un avamposto difensivo. Ellen le strinse entrambe, rincuorata che fossero vive e illese. Sulla banchina, un alto funzionario del governo – pulito come se non avesse partecipato alla battaglia, e forse era così – aveva raggiunto Alexander e Darcus, e si era chinato per controllare come stesse Pain. Avvicinandosi, videro il generale muovere una gamba.

«Non muore proprio mai» sibilò Lilyan, ed Ellen sbuffò divertita.

Erano salvi. Potevano fare battute, abbracciarsi, concedersi il lusso di riposare. Non avrebbero sprecato un altro momento a temere Darcus McCrindle.

«Cos’avete intenzione di fare con il libro?» stava chiedendo l’uomo brizzolato in divisa.

Alexander penetrò la prigione di simboli di Darcus e gli strappò il tomo che tentava di tenere fra le mani. «Questo» si limitò a rispondere, mentre evocava una fiamma ad altezza umana. Senza neanche guardare il libro, lo gettò nel fuoco.

«NO!»

La prigione era rimasta aperta. Darcus scivolò fuori e si lanciò dietro il libro, afferrandolo, cingendolo, mentre il fuoco bruciava entrambi.

Un attimo dopo, di loro non rimase che cenere.

 

***

 

Passò un’intera settimana senza che le loro vite fossero messe in pericolo. Una settimana di incertezze, recupero e timore di tornare nell’incubo, ma magnificamente priva di nota.

L’esercito americano aveva creduto al loro racconto. Li aveva scortati nella base militare di Boston, dal momento che quella di Ipswich era stata dichiarata “inagibile”, e li aveva tenuti in osservazione fino al giorno successivo. Tutti loro, dall’ottimista Janet alla disfattista Ellen, avevano temuto che la storia si potesse ripetere: non serviva uno stregone come Darcus per liberarsi di cinque civili che sapevano troppo.

Il comandante Keller li interrogò uno alla volta, in una maniera del tutto differente dalle torture di Pain. Li divise soltanto per sentirsi dare la loro personale versione della vicenda, una conferma delle parole del generale. Sembrava che, dopo i fatti che nell’inverno tra il 1927 e il 1928 avevano portato alle retate e all’evacuazione di Innsmouth, termini come “sovrannaturale” o “mostruosi ibridi marini” suonassero normali alle orecchie del comandante e dei suoi sottoposti.

Furono sfamati, lavati e accompagnati in un dormitorio riservato a loro, dove trovare abiti puliti e asciutti. Le ferite vennero disinfettate e ricucite, tra gemiti di dolore e lo svenimento di Alexander, il quale non si era accorto che più di una creatura era riuscita a raggiungere e mordere le sue gambe; forse era stata la magia a farlo camminare fino a quel momento, o forse l’adrenalina aveva funzionato su di lui come su Ellen, che si era accasciata a terra per la fitta insopportabile all’addome. Scoprirono che anche Pain era sopravvissuto e sarebbe tornato a combattere, nonostante le gravi condizioni in cui era stato riportato alla base. Dovettero essergli malvolentieri grati per avere contattato i rinforzi e avere interceduto per loro con il comandante, spiegando che non erano i pericolosi terroristi dipinti da Cutty. L’unico che rimase in contatto con lui fu Alexander, che volle tenersi aggiornato sulle decisioni governative.

Dopo una settimana di silenzio, erano sul punto di sentirsi al sicuro. Accadde precisamente un lunedì, quando Lilyan scoppiò in lacrime nella sala da pranzo perché il vestito nuovo di zecca si era macchiato prima ancora che potesse sfoggiarlo all’aperto. Il suo pianto fu seguito da una risata corale, e perfino lei si lasciò andare quando ne comprese il significato: era tornata la pace.

Ciascuno di loro trovò il coraggio di fare progetti a lungo termine, singolarmente, senza una pianificazione in salotto con schemi, ricerche e planimetrie. Alexander fu il primo ad affermare le sue intenzioni: sarebbe tornato dalla madre adottiva per confortarla, farle sapere che stava bene e che non aveva dimenticato ciò che lei e il signor Blake avevano fatto per il piccolo Xander; erano i suoi genitori, gli unici che ricordasse di avere conosciuto, ed era loro grato per l’uomo che era diventato. Avrebbe tuttavia fatto presto un viaggio nel Maine, nella Greenville dei McCrindle, per parlare con l’ispettore Gerber e gli abitanti della zona: voleva apprendere quanto possibile sulla sua famiglia d’origine, visitare ancora le loro tombe e assicurare alla lapide di Owen McCrindle che la sua eredità era finalmente al sicuro. Si era inoltre messo in contatto con il municipio di Arkham per spostare le spoglie di zio Silas a Greenville, accanto al fratello, nella cripta di famiglia che la città aveva costruito per i loro benefattori.

Lilyan prese parola dopo di lui. Amava la villa che l’Arcivescovo le aveva lasciato, ma aveva bisogno di tornare da suo padre, di una cameriera che l’aiutasse a cambiarsi e delle amiche che non sospettavano che fine avesse fatto nell’ultimo mese. Jeremy sarebbe rimasto a vegliare su Chateaubriand Manor mentre lei avrebbe brillato: per anni aveva preso lezioni private di canto, musica e recitazione, ed era determinata a rincorrere il suo sogno. Giraud, disse, l’aveva incoraggiata: era stato l’unico a vedere nella Lilyan di undici anni l’ardore di una donna risoluta e ambiziosa, convincendo il senatore Butler che i suoi non erano capricci infantili. Con il fiocco rosa nei capelli e la croce d’argento contro il collo, Lilyan si disse decisa anche a scoprire il segreto dietro Chateaubriand Manor, la villa degli antenati dell’Arcivescovo Giraud, ma avrebbe lasciato Jeremy a compiere le ricerche. Lei era pronta a splendere.

Janet era indecisa, ed Ellen si stupì quando ne comprese il motivo. Per l’intera durata del loro calvario, si era concentrata sul rapporto tra Alexander e Lilyan, sul desiderio di proteggerla dopo quanto accaduto a Salem, e la sua attenzione aveva sorvolato sui momenti in cui Janet e Alexander rimanevano in disparte, parlando a bassa voce, ridendo e stringendosi la mano. Con le gote imporporate, Janet le confessò che stavano cercando di capire se fosse scattato qualcosa fra loro; forse avrebbero rimandato la partenza per Greenville, o forse ne avrebbero parlato lì ad Arkham, ma presto avrebbero trovato una risposta.

Poco alla volta, Ellen cominciò a trasferirsi nella camera del dormitorio abbandonata a ottobre. Era messa davvero male, ma niente di irrisolvibile. Rimise in sesto mobili e carta da parati, quel tanto che le bastava per non passare da una villa di French Hill a una topaia, e riportò sulla fedele scrivania gli appunti e i manuali di studio. Si recò anche dal decano Miller, che fu sorpreso di vederla e provò a farla desistere dal proposito di riprendere l’università, invano. L’accenno agli strani eventi occorsi il mese prima e la nomina dell’Arkham Gazette lo convinsero a riprenderla in facoltà, e perfino a concederle di saltare il corso del professor Peabody.

Il Campus era tornato un luogo sicuro, e anche nel Merchant District le cose sembravano volgere per il meglio. Incontrò Marco, che le fece una scenata per avere portato i gemelli nella tana del lupo; una volta scaricata la frustrazione, Marco le raccontò che O’Bannion aveva abbassato le mire dopo l’incendio nella Chiesa Occidentale, dove avevano perso la vita i suoi scagnozzi migliori. Per la verità, uno dei corpi ritrovati non era stato identificato, tuttavia Sills era scomparso dalla città, e ciò poteva avere solo brutte implicazioni per O’Bannion: il suo tirapiedi preferito era morto oppure lo aveva preso per il culo. Si guardò dal domandarle se avesse qualcosa a che fare con l’incendio: temeva di conoscere la risposta.

C’era stato un discorso che Ellen non aveva voluto affrontare con Marco, né con il diretto interessato; aveva preferito aspettare che il momento avvenisse, e infine era successo.

Una notte di fine novembre, mentre dormiva tra le confortevoli lenzuola di Chateaubriand Manor, avvertì Michael muoversi nel letto e stuzzicarle la schiena.

«No… ho sonno» si lamentò mugugnando.

Michael non smise di baciarla. «Per l’ultima volta. Domani parto.»

Fu presa solo in parte alla sprovvista. Sapeva che quel giorno sarebbe arrivato, e il fatto che Michael non gliene avesse ancora parlato rivelava molto di entrambi. Allontanando il pensiero del futuro, si girò nel letto e lo baciò sulle labbra, lasciando che quella notte fosse completamente dedicata al loro addio.

Il mattino seguente, rimase sotto le coperte mentre Michael preparava i bagagli e scendeva a fare colazione, e a dare la notizia ai loro amici. Li raggiunse dopo un lungo bagno per schiarirsi le idee; quando entrò nella sala da pranzo, tutti gli occhi furono puntati su di lei, tranne quelli di Michael, ostinatamente fissi sull’Arkham Gazette. Ellen avrebbe preferito che Janet distogliesse lo sguardo come avevano fatto Lilyan e Alexander, invece continuò a scrutarla con una fastidiosa apprensione fino a che Jeremy non le posò davanti una cioccolata calda. Lilyan, da brava ospite, si mise a parlare delle novità apprese dal padre sulla scena sociale di Boston, e la tensione si rilassò.

Un’ora dopo, Jeremy era in auto e attendeva che Michael prendesse posto nei sedili anteriori per accompagnarlo al porto di Boston, dove una prima nave lo avrebbe condotto a New York prima di imbarcarsi sul transatlantico per Southampton.

«È stato un piacere e un onore fare la vostra conoscenza» li salutò Michael, stringendo la mano di Alexander e cingendo Lilyan e Janet in un caloroso abbraccio. «Alexander, tieniti lontano dalla lettura di tomi poco chiari. Consiglio vivamente ser Arthur Conan Doyle, credo possa essere di tuo gradimento. Lilyan, mi aspetto di vederti brillare come hai promesso: voglio che perfino in Europa si conosca il tuo nome. E Janet, cara… Ho conosciuto di rado archeologhe così belle e talentuose.» La fissò negli occhi, più a lungo degli altri, e lei annuì asciugandosi una lacrima. «Vi ringrazio di tutto, anche se avrei preferito incontrarvi in circostanze diverse. Su, ragazzina, andiamo.»

La testa di Ellen scattò in alto e Michael si mise a ridere.

«Non mi farai compagnia fino a Boston?»

Esitava. Alla fine si infilò nei sedili anteriori dell’auto senza dire una parola. Michael montò a sua volta, salutò ancora e Jeremy partì.

Ellen provava una sensazione di freddo lungo l’intero corpo, un freddo che non aveva a che fare con l’autunno inoltrato. Si sentiva a disagio, fuori luogo, e avrebbe voluto fare un passo indietro e restare ad Arkham: quel breve viaggio sarebbe durato sempre più di quanto lei avrebbe voluto.

«Sei silenziosa oggi» provò a farla parlare Michael.

«Perché hai voluto che venissi?»

Sollevò un sopracciglio, confuso, e si chinò per sussurrarle all’orecchio: «Non l’abbiamo mai fatto su un’auto.»

Ellen avvampò e lui rise ancora.

«Ti ho preso qualcosa.» Dal borsone che teneva accanto estrasse un involucro. Ellen lo scartò e riconobbe spesse tavolette di cioccolata; sotto di loro, c’erano due mazzi di banconote. «Quelle sono per Logan e gli altri. Decidi tu in che modo fargliele avere: ingaggia i ragazzini per pedinare Miller, di’ che li hai rubati a Lilyan, trasformali in carne e pesce, o in una pila di coperte. Non possono fare quella vita per sempre. Non senza un aiuto.» La guardò intensamente, ed Ellen seppe che l’aiuto non erano i soldi, che prima o poi sarebbero finiti, ma lei.

Lo ringraziò con un cenno del capo, dandogli le spalle per osservare il paesaggio che mutava intorno a loro. Solo quando furono in vista di Boston lasciò scivolare le dita fredde lungo il sedile e incontrò quelle calde di Michael. Le strinse appena, gli tenne la mano finché Jeremy non ebbe svoltato in direzione del porto.

Scrutò in silenzio il maggiordomo mentre portava i bagagli di Michael verso l’imbarcazione, e vedendolo tornare le uscì un soffio tremolante dalla bocca.

«Ci siamo» confermò Michael, in piedi su una banchina così diversa da quella di Innsmouth da sembrare che appartenesse a un’altra epoca. Si spostò di fronte a lei e le sorrise. «Credo sia superfluo ringraziarti per ciò che hai fatto per me.»

Ellen sussultò e lui rise. Solo in quel momento Ellen si accorse di quanto la sua allegria suonasse forzata.

«Ti darei il mio indirizzo di Salisburgo, ma lo getteresti in mare. Per fortuna, Janet lo ha e potrai chiederglielo quando vorrai. Se lo vorrai.»

La gola era riarsa. Non riusciva a parlare, ma si costrinse.

«Darcus… è finita, secondo te?»

Michael si fece serio. «Sì, altrimenti non me ne andrei. Se tuttavia dovesse tornare… hai imparato a difenderti, e questo è ciò che conta.» Le arruffò i capelli e la baciò sulla fronte, a lungo, senza che nessuno dei due trovasse il coraggio di muoversi. «Addio, ragazzina» sussurrò.

Non attese che lei rispondesse. Afferrò l’ultimo borsone e si allontanò verso la nave.

Per un istante – un folle, ridicolo istante – Ellen fu tentata di seguirlo: ce n’erano anche in Austria, di università, e forse perfino più prestigiose e sicure di Arkham. Avrebbe lasciato gli studi, ricominciato da capo, pubblicato ricerche sulle misteriose creature affrontate e sarebbe stata riconosciuta come una biologa di fama mondiale. Non aveva bisogno di rimanere negli Stati Uniti per realizzare i suoi sogni.

Non vide Michael scomparire nella nave, si voltò prima, dandogli le spalle per l’ultima volta.

Janet la attendeva a Chateaubriand Manor, torcendosi le mani sulla soglia di casa. Quando Jeremy accostò e la fece scendere, si mosse subito verso di lei, ma Ellen stava bene. Se non fosse stato così, non glielo avrebbe comunque detto, eppure Janet la conosceva abbastanza da capire che era la verità.

«Sai» le disse quella sera, mentre aiutavano Jeremy ad apparecchiare «ho ricevuto una lettera dai miei genitori. Sono rientrati ad Agra da qualche giorno, e stavo pensando di andare a trovarli.»

«È fantastico!» esclamò Ellen. «Da quanto non li vedi?»

«Quasi un anno, ormai. Mi manca fare il bagno nello Yamuna, e ho bisogno di… di sentirli vicini.»

«Va’. Harvard non ti ha ancora chiesta indietro, e Alexander potrà aspettare.» Si rese conto che aspettava una conferma, così gliela diede. «Tornerò al Campus dopo cena.»

«Cosa? Ma… non vuoi aspettare domani?»

«Quel letto è troppo grande per una persona sola, e già dovrò dire addio alle lenzuola di seta. Perlomeno tornerò nel mio rimpiangendo solo la comodità del materasso.»

Era vero, era tutto vero. Non stava soffrendo come immaginava Janet: voleva andare avanti e tornare alla sua vita, ricordando però coloro che le erano stati accanto quando era fuggita da Salem, sola e disperata, e un ragazzino di dodici anni le aveva teso una mano. Marco e la sua famiglia avevano fatto tanto per lei; era arrivato il momento di ricambiare il favore. Si passò una mano sull’indice, dove fino a poco prima c’era stato l’anello di diamanti: l’aveva riposto nella borsa, destinato a essere nascosto in un posto sicuro, in attesa del giorno in cui avrebbe dovuto rivenderlo.

Quella sera, mentre cenavano intorno al tavolo, due su un lato e due sull’altro per attenuare l’assenza di Michael, Ellen ricordò le parole che lui aveva usato per raccontare la fine di Stephen Crawl e la nascita del suo alter ego. Aveva fatto riferimento alla loro situazione, sostenendo che era stata l’urgenza a renderli vicini, a cementificare i legami tra gli abitanti di Chateaubriand Manor; aveva avuto ragione e torto allo stesso tempo. Il pericolo era cessato, eppure loro quattro – Ellen, Janet, Alexander e Lilyan – condividevano un pasto, chiacchieravano e ridevano, e lei non si era mai sentita tanto parte di qualcosa.

Le settimane, i mesi, gli anni li avrebbero allontanati, fino a quando Ellen non avrebbe visto il volto di Lilyan sulle locandine di un teatro, o Alexander non sarebbe diventato noto per avere indagato su un’operazione di interesse mondiale, e solo Janet avrebbe continuato a farle visita. Ellen avrebbe ripensato a quella sera, alla cena che stavano consumando nella villa di un Arcivescovo tra le belle abitazioni di French Hill, e avrebbe saputo che quei legami li avevano cambiati per sempre.

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