le vie dell'eroe

di Mikirise
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** #1 ***
Capitolo 3: *** #2 ***
Capitolo 4: *** #3 ***
Capitolo 5: *** epilogo ***



Capitolo 1
*** prologo ***


 
La storia per mughetto, pubblicata il 29 febbraio di un anno bisestile


[0]
«Non è una leggenda» ribatte Katsuki. Ha le guance rosse e gli occhi chiusi a metà, un leggero strato di sudore sulla pelle che si crea quando hai troppo alcol tra le vene e comunque una bottiglia in mano mentre si difende dalle risate della sua ex-compagna di classe in una di quelle riunioni che non ha capito bene quale scopo abbia ma a cui è stato trascinato. Lancia uno sguardo a Faccia Tonda, poi fa una smorfia. Alla fine cosa può saperne lei di quello che è una leggenda oppure no nella sua vita? Alla fine lei non è sempre stata lì a vedere quello che succedeva, non può ricordare eventi a cui non è mai stata. «Deku è uno troppo importante per venire a cene del genere.» Si versa la birra nel bicchiere di plastica. Rimane a guardare le bollicine con la testa inclinata prima di allungare il braccio e prendere del sakè e versarlo nello stesso bicchiere.
Nessuno lo ferma. 
Faccia Tonda è divertita dal comportamento di Katsuki e incuriosita dalla sua storia e Capelli a Punta è preso a grigliare la carne e servirla tutti sul tavolo, come se fosse un maledetto cameriere. Katsuki continua a bere e l’unica ad ascoltarlo è Faccia Tonda che posa la guancia sul pugno chiuso della mano e lo guarda bere tutto d’un fiato il mix tra sakè e birra che è disgustoso, troppo amaro e troppo piccante e troppo alcolico, gli fa quasi venire voglia di vomitare sul tavolo, ma riesce a trattenersi. Il samaek si compone di soju e birra, aveva pensato che usare il sakè non avrebbe cambiato molto, ma sembra che si fosse sbagliato. Katsuki chiude gli occhi per cercare di riprendere l’equilibrio che sembra volersene andare nonostante sia rimasto seduto, con le gambe incrociate. Dietro le palpebre non vede nulla. Il buio dietro le palpebre gli ricorda qualcosa. Un momento lontano. qualcosa che ai tempi trovava odioso e che ora trova quasi nostalgico. «Quando eravamo piccoli, Deku ha rubato le stelle perché era troppo triste per guardarle.» Apre gli occhi e il mondo gira.
Faccia Tonda non riesce a sopprimere quella risata sbuffata che sa un po’ di scherno e un po’ di pietà. 
«Che cosa ne puoi sapere tu?» sbuffa lui in risposta con una smorfia sulle labbra. Giocherella con la bottiglie mezza vuota di birra che tiene tra le mani. Si chiede se buttare quel misto di sakè e birra e riempirsi un nuovo bicchiere da qualche altra parte. Cerca sul tavolo con gli occhi che sente un po’ troppo pesanti. «Mia mamma mi ha detto: avrei voluto io un bambino che quando è triste viene consolato da tutte le stelle dell'universo. Cazzo ne sai tu?» sbotta di nuovo alzando lo sguardo verso Faccia Tonda. «Siamo stati al buio per due settimane, mentre lui non faceva che piangere.» 
Katsuki chiude di nuovo gli occhi, grattandosi dietro l’orecchio con il dito indice. La terra gira e lui sembra sentirla girare sotto il sedere su cui è seduto. E gli viene la nausea a pensarci. 
Faccia Tonda prende in mano le bacchette e afferra un pezzo di carne, posandolo sul riso bianco di Katsuki. Poi posa una mano, fresca per qualche motivo, sulla spalla di Katsuki. Non dice una parola. Non fa più nessuna domanda.
 

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Capitolo 2
*** #1 ***


[1]

Katsuki sbatte le palpebre un paio di volte prima di alzare lo sguardo verso sua mamma che legge le notizie sul cellulare come se non fosse stata lei a lasciargli un cazzo di dossier davanti. «Che cazzo è?» chiede, spingendo il dossier verso sua madre con la punta delle dita. Si stropiccia gli occhi, è appena tornato a casa dopo un turno di diciotto ore, è stanco e anche irritato, assonnato al meglio e distrutto al peggio, ma il suo istinto non sbaglia e appena escono queste parole dalla sua bocca e vede il dito di sua madre scattare accanto all’avambraccio, pronta ad aprire la mano e alzarla contro Katsuki, lui è pronto a scattare un po’ indietro con la sedia. Ma la mano della mamma non si alza e lui non si tira indietro. «Cos’è?» ripete, ruotando gli occhi.

La mamma, Mitsuki, mantiene le braccia incrociate. Lascia il cellulare sul tavolo, con calma, con tanta lentezza che fa quasi paura. Non spinge il dossier verso Katsuki, appoggia le spalle alla sedia e sospira, piuttosto. «Appuntamenti al buio» spiega. «Sono profili di ragazze che si sono iscritte al programma di appuntamenti al buio.»

Katsuki aggrotta le sopracciglia, tirando verso di sé il dossier con un’aria confusa. Forse il troppo sonno gli sta dando alla testa e adesso sente cose che non sono reali. Forse sta sognando, o sta avendo qualche incubo e si deve pizzicare e si risveglierà nel bel mezzo della strada, tra dei rifiuti mentre lo guardano dei ragazzini che si chiedono che tipo di eroe lui sia. Non sarebbe nemmeno la prima volta. Gli formicolio le braccia e sente quel fantasma di dolore alla schiena che gli rende difficile pensare con lucidità. «E cosa c’entra questo con me?» chiede, accarezzandosi il ponte del naso. Appena chiude gli occhi sente un po’ di sollievo e la voglia di abbandonare la testa sul tavolo e dormire, senza sentire troppe stupidaggini. Doveva tornare al dormitorio. Lui lo sapeva che sarebbe dovuto tornare al dormitorio. Non succede mai niente di buono quando decide di tornare a casa.

«Con te?» la mamma sbuffa una risata, scuotendo la testa. «Ti potessi mandare a degli appuntamenti al buio lo avrei già fatto, non pensi? Ma hai ventinove anni, sei ancora una spalla, non hai una casa, vivi coi tuoi genitori, e guadagni una miseria. Quale donna sana di mente ti sposerebbe? Sarebbe troppo umiliante mandare mio figlio incapace e buono a nulla a questi incontri.»

Katsuki sbatte piano le palpebre. «Non guadagno poi così male» è l’unica obiezione che riesce a tirare fuori dalle labbra. Si gratta sotto l’occhio e alza un po’ il mento. Non ha intenzione di convincere sua mamma che è un buon partito, sarebbero solo più grattacapi. Il motivo per cui ancora non ha aperto una sua agenzia, il motivo per cui ancora non è del tutto un eroe e per cui non è ancora andato via di casa sono un misto di decisioni prese da lui e sfortuna che non è facile spiegare e che non vuole certo rendere noti a sua mamma. Nemmeno gli importa più. Vorrebbe solo andare in camera sua e dormire. «E quindi. Perché mi stai dando questo?»

«Devi darlo a Inko-chan.» Mitsuki scuote un po’ la testa e sul suo viso sembra essere nata un’espressione di rara compassione. Cerca tra le tasche del pantalone, abbassando lo sguardo per controllare meglio dove vanno a finire le sue mani. Tira fuori delle sigarette che rigira tra le dita con aria assorta, la apre con aria pensierosa e si porta una sigaretta alle labbra con una punta di sollievo sulla sua espressione piena di compassione. «La poverina ha un figlio che può mandare agli appuntamenti al buio. Ventinove anni, alto nella classifica degli eroi, economicamente indipendente e nemmeno una ragazza al suo fianco. Inko-chan vorrebbe dei nipotini.» Accende la sigaretta, coprendo una risata sarcastica. «Poverina.»

«Che vuoi dire?» Doveva tornarsene al dormitorio.

Mitsuki, la mamma, posa il suo sguardo su suo figlio. Fuma. Ispira, con due dita allontana la sigaretta dalle labbra, espira e crea una nuvoletta di fumo tra lei e suo figlio. Nonostante il fumo tra loro, Mitsuki riesce a vedere Katsuki e Katsuki riesce a vedere sua mamma. «Tu sei un figlio con molti difetti» gli dice. «Rispondi male, sei incompetente, mangi troppo e sei troppo rumoroso. Magari non sei ancora un vero adulto e non ti sai tenere sulle tue gambe da solo, ma non sei comunque difettoso come lo è Izuku-kun. Ho sempre pensato che fosse un bravo bambino, fin da quando era piccolo, intelligente, obbediente, diligente, mi è sempre sembrato che dovesse rimediare a un difetto più grande di tutti i tuoi difetti.» Giocherella con la sigaretta tra le dita, con lo sguardo basso. «Tu sai che anche io voglio dei nipotini.»

Katsuki chiude gli occhi. Si passa entrambe le mani sul viso e sospira. Mitsuki non deve dire le cose che non è giusto che siano dette ad alta voce. Ha capito. Ha troppo sonno per poter affrontare tutto questo in questo momento. «Mi hai rotto il cazzo» borbotta.

«Ricordati di consegnare il dossier.» La mamma nemmeno lo guarda. Continua a fumare, alzando un po’ il mento per soffiare sul fumo e sostituirlo con altro fumo. «Sono gesti inutili, è vero, ma Inko-chan è una mia amica. Le voglio bene.»

Katsuki si trascina in camera.

È stanco, gli fa male la schiena.

 

 


 

 

Katsuki arriva in ufficio e sente il dossier pesare nel suo zaino più di quanto pesino le bottiglie d’acqua. Posa lo zaino sulla scrivania che Best Jeanist gli ha consegnato qualche anno fa e si guarda intorno, la stanza vuota con le luci spente e sempre meno persone che conosce. 

A volte ha la sensazione che siano solo lui e Best Jeanist a rimanere in quest’ufficio, mentre tutto intorno a loro cambia e tutto intorno a loro passa. Le classifiche degli eroi cambiano, gli eroi che prima erano in alto alla classifica scivolano verso il basso ed eroi più giovani guadagnano posizioni, le persone si ammalano e poi guariscono, ragazzini guadagnano la loro licenza e vigilanti vengono arrestati ed eppure Best Jeanist rimane lì, seduto alla sua scrivania, con un pettine in mano e un’espressione serena e ogni mattina, quando lo vede entrare in ufficio gli chiede: «Quanti bambini hai salvato venendo qui?» e Katsuki, nonostante siano passati anni da quando hanno iniziato a lavorare insieme, ancora non ha capito se è una frase ironica o una domanda genuina.

Katsuki guarda Best Jeanist. Aggrotta le sopracciglia. «Che domanda del cazzo» borbotta, come ogni mattina prima di camminare verso la scrivania di Best Jeaninst e lasciargli un bicchiere di carta alto e pieno di latte e caffè, uguale al suo che tiene nell’altra mano. «Sbaglio o qua siamo sempre meno? Non dovresti fare qualcosa per tenere alto il tuo nome in classifica, piuttosto che stare qui a farmi domande di merda?»

«Stanno lavorando al caso del cimitero al centro. Cercano di aiutare i guardiani e tranquillizzare i parenti dei morti finché il guasto non sarà riparato.»

Katsuki sbuffa una risata sarcastica. «Chissà se compiti così sveglieranno quei buoni a nulla» borbotta, togliendosi la giacca e buttandola sulla sedia. «Beh, almeno non sono dovuto andarci io.»

«È normale che gli eroi finiscano in fondo alla classifica dopo una certa età» riprende il discorso con calma Best Jeanist. Si riscalda le mani posandole sul bicchiere di carta pieno di caffè. Non sorride e nemmeno sembra triste. È solo lì, con il suo ciuffo di capelli sulla fronte e un colletto fatto di denim che quasi gli copre le labbra. Beve il suo caffè come se stessero discutendo del tempo. «Se anche ci impegnassimo di più, sarebbe impossibile lavorare come lavorano gli eroi più giovani, alcune missioni richiedono delle capacità fisiche che non possono essere mantenute per tutta la vita ed è più facile, con l’età, rimanere indietro piuttosto che tirarsi avanti.»

Best Jeanist non ha nemmeno quarant'anni.

Katsuki si siede davanti alla scrivania del suo capo, accavalla le gambe e si lascia scivolare verso il basso in una posizione scorretta per sedersi. Guarda Best Jeanist bere il suo caffè con calma e pensa che quando lo ha incontrato credeva fosse un vecchio decrepito a un passo dalla tomba. Best Jeanist aveva meno della sua età quando lo ha preso sotto la sua ala, gli ha piastrato i capelli e gli ha cercato di insegnare un po’ di buone maniere, fallendo miseramente. 

Con l’età che avanza, le persone adulte ti sembrano bambini, e Katsuki non può non pensare che Best Jeanist era un ragazzino mentre raccoglieva cani randagi in giro per le scuole di eroi, così come era un ragazzino quando ha ricevuto la sua licenza da eroe. C’è sempre un pericolo, un’emergenza, una catastrofe che spinge le scuole di eroi a mandare in campo i suoi studenti con licenze provvisorie. 

Katsuki ha iniziato il suo lavoro da eroe a quindici anni, ed era un ragazzino, Best Jeanist ha iniziato a tredici ed era un ragazzino ancora più piccolo. Per tutta la sua vita è stato un eroe, non conosce altro se non essere un eroe, la voce gli è cambiata mentre stava sul campo di battaglia, è diventato più alto mentre combatteva e il suo cervello è maturato mentre raccoglieva spalle perché non finissero nella parte sbagliata della storia. Quando si è ammalato ha continuato a essere un eroe, quando era a un passo dalla morte ha continuato a essere un eroe, nessuno ricorda nemmeno il suo vero nome prima di diventare Best Jeanist, e tutti lo hanno acclamato, la gente comprava le sue figurine e le attaccava dietro al telefono, i suoi poster da tenere in camera e i giornali che pubblicavano le sue interviste per tenere le sue parole sempre con loro. E adesso di tutto questo sono rimaste qualche spalla, Katsuki e dei coglioni buoni a nulla che non fanno che piangere, un ufficio e delle figurine che sono preziose non perché ritraggono Best Jeanist ma perché sono vintage.

Best Jeanist non ha nemmeno quarant’anni.

«La maggior parte del lavoro lo fai comunque tu, qui» continua Best Jeanist, posando la tazza sulla scrivania. «E ho intenzione di ritirarmi. Volevo aspettare che anche l’ultima spalla se ne andasse, prima di parlartene, ma ho intenzione di ritirarmi e non ho mai avuto il coraggio di prepararti all’eventualità. Tu fai la maggior parte del lavoro, ti occupi della pattuglia e delle missioni, hanno iniziato a chiamarti Best Jeanist Jr…»

Katsuki ruota gli occhi. «Che cagata» borbotta, portandosi il caffè alle labbra.

«Vorrei che tu prendessi l’agenzia in mano e anche il mio nome» continua Best Jeanist, ignorandolo.

Nell’ufficio cala il silenzio. Katsuki ha quasi sempre le sopracciglia aggrottate e questa volta le aggrotta ancora di più, lasciando a mezz’aria il caffè mentre cerca di capire le parole che sono state appena pronunciate. Guarda Best Jeanist, Hakamada Tsunagu, si tira a sedere con la schiena dritta, composto per una volta per lo spavento che sta provando. Sente che la maggior parte del sangue che stava fluendo sul suo viso è sceso alle sue gambe, per lo spavento che sta provando.

«La tua decisione non influenzerà la mia.» Best Jeanist ha ancora cose da dire, a quanto pare. «Che tu prenda o non prenda in mano quest’agenzia, ho intenzione di ritirarmi. La mia salute si è deteriorata col tempo e non sono più utile come eroe, i ragazzi non vengono più da me per sentirsi al sicuro e non ho più molti sponsor per mantenere l’attività. Ho risparmiato, come facciamo tutti, per poterci permettere una vita umile dopo l’eroismo, nel caso ci fosse una vita dopo l’eroismo, e non ho rimpianti. Solo, volevo che tu sapessi che l’unica persona che può ereditare il mio nome da eroe, l’unica persona di cui mi fido perché non porti disonore a Best Jeanist, quello sei tu. Puoi rifiutare. Il nome rimarrebbe privatamente tuo dopo il mio ritiro.» 

Katsuki lascia il bicchiere di carta sulla scrivania di Best Jeanist. Si alza in piedi e torna alla sua scrivania per prendere lo zaino in cui tiene il dossier degli appuntamenti al buio di Deku. Quando ha conosciuto Best Jeanist pensava che fosse un vecchio decrepito a un passo dalla tomba e adesso Best Jeanist gli ha detto che anche lui la pensa in questo modo. Gli eroi diventano eroi a quindici anni, più o meno e si ritirano, quelli che riescono a sopravvivere, intorno ai trentacinque anni, pochi arrivano ai quaranta. Prima di quel momento, sono solo eroi, non c’è altro nella loro vita che non sia essere eroi e la gente li ama, li adora tanto quanto i cattolici adorano i loro santi. Solo che i santi non invecchiano e non muoiono più, mentre gli eroi invecchiano e passano di moda e muoiono e tutti li dimenticano. Katsuki sbatte le palpebre. Si gira verso la scrivania di Best Jeanist, lo indica con un dito. «Vaffanculo» dice trai denti. Si infila lo zaino sulle spalle ed esce dall’ufficio sbattendo la porta.

Non è vero che la maggior parte degli eroi risparmia per una vita dopo l’eroismo. 

Gli eroi muoiono essendo eroi, alcuni sul campo di battaglia, alcuni in ospedale tra sangue e così tanto dolore che la morte sembra essere un’amica, ma muoiono indossando il proprio mantello. Ritirarsi, andare in pensione, non è possibile.

Non c’è vita né prima né dopo l’eroismo.

 

 


 

 

«Fare la raccolta differenziata è un po’ un gioco» spiega Deku con un sorriso tra le labbra. Ha una bambina seduta sul ginocchio e un bambino seduto accanto a lui e, intorno a loro, ci sono tanti altri bambini con un cappellino giallo e il grembiule blu, che provano ad avvicinarsi al grande eroe Deku, che ormai tutti chiamano All Might. Deku ha i capelli scompigliati e la vecchia tuta che gli ha cucito la mamma, indossa la sua pazienza sul viso ed è così tanto tempo che Katsuki non lo vede che quasi fa un passo indietro al vedere il suo viso meno tondo, le sue spalle un po’ più larghe e sentire la sua voce un po’ più profonda. È dal giorno del diploma che non lo vede. «Ogni cosa ha il suo posto. Come mangiate il pranzo? Lo usate il sistema triangolare?»

I bambini iniziano a parlare. Sì, sì. Sì! Sì, certo, non esiste un altro modo. Il sorriso di Deku si scioglie un po’ di più e annuisce. Alza lo sguardo per vedere i bambini più lontani. Non vede le maestre dell’asilo, con le orecchie rosse e le mani davanti alle labbra per nascondere il loro sorriso, non vede la sua figurina attaccata sul telefono di una delle maestre, non vede nemmeno quel maestro che ha smesso di respirare nella speranza che nessuno si renda conto che si trova qui. Lo sguardo di Deku incontra gli occhi di Katsuki e di nuovo il suo sorriso si congela, prima di tornare a guardare i bambini. Nessuno si rende conto di niente. Tutti continuano a pendere dalle sue labbra.

«Come per il sistema triangolare per mangiare a pranzo, le cose da buttare hanno un loro ordine e un loro posto. Ad esempio, dove mettiamo questa bottiglia? Nel recipiente blu? In quello giallo? In quello verde? Oppure lo mettiamo in quello marrone?» Deku prende in mano una bottiglia di plastica. Sorride ai bambini, indossa la sua pazienza sulle guance. «Per rispondere, dobbiamo sapere che ogni colore rappresenta un certo tipo di spazzatura…»

A Katsuki non importa molto seguire una lezione di riciclaggio. Si siede su una panchina del parco e prende in mano il cellulare, controllando la sua agenda per capire più o meno quanto tempo ha prima di dover tornare in ufficio a ignorare qualsiasi cosa Best Jeanist abbia da dire. Lancia uno sguardo a Deku, che ha preso a ignorarlo, e pensa che anche lui ogni tanto deve andare nelle scuole materne a fare stupide lezioni di riciclaggio a dei bambini che fanno troppe domande e che non sono per niente carini. È uno dei lavori che di solito gli eroi lasciano alle spalle della propria agenzia, Best Jeanist amava farlo di persona, forse perché gli piacciono i bambini, ma col tempo ha dovuto rinunciare a molti lavori e Katsuki è dovuto subentrare come se fosse il principe ereditario dell’agenzia. A volte lo chiamavano così, le altre spalle. Il principe ereditario. Il figlio preferito, l’erede, il capetto, lo dicevano con così tanto affetto e sollievo che Katsuki li ha sempre ignorati senza litigare nemmeno una volta per difendere la sua individualità o negare il suo legame con Best Jeanist. Il vero principe ereditario, però, la persona che ha ricevuto il primo posto da eroe e che ha saputo tenerselo e che ama aver ricevuto il nome del suo eroe, è Deku.

È uno importante Deku, cazzo.

Katsuki blocca il cellulare. Sospira. Non si vedono dal giorno del diploma, lui e Deku. Vuol dire che non si vedono da più di dieci anni e sono successe così tante cose tra di loro, sono successe così tante cose a loro, che Katsuki aveva pensato sarebbe stato meglio continuare a non vedersi. Il giorno del diploma, Deku gli ha detto con quel suo sorriso di circostanza che gli augurava ogni bene ma che forse sarebbe stato meglio dividersi per un po’. Sono amici, Deku per qualche motivo considerava Katsuki il suo amico d’infanzia quindi quello rimarranno, certo, ma…

Quando Deku era piccolo era un bersaglio facile, perché indossava le sue emozioni sul viso tutto il tempo. Piangeva, piangeva sempre, aveva gli occhi grandi e pieni di lacrime in continuazione, quando aveva paura i suoi occhi erano pieni di paura e lacrime e quando veniva spinto per terra i suoi occhi erano pieni di confusione e lacrime. Era facile farlo piangere. Katsuki sa quanto fosse facile farlo piangere. Ma era così facile anche farlo ridere! Quando era felice, il suo viso brillava, quando era incuriosito sembrava che una scossa di elettricità salisse sulla punta dei suoi piedi fino alla punta dei suoi capelli e quando rideva, rideva a voce così alta che chiunque sentiva la sua risata e aveva voglia di ridere. Era onesto, quando erano piccoli. C’erano cose strane nel suo modo di esprimersi, questo sì. Katsuki non capisce perché piangesse sempre in silenzio e perché ridesse sempre rumorosamente, ma perché sono cresciuti insieme, riconosce i sorrisi di Deku da prima di riconoscere i kanji. 

Al liceo, Deku piangeva ancora. Era un po’ più raro, è vero, e i suoi occhi erano un po’ meno grandi, quindi era più difficile vedere le sue lacrime raggrupparsi davanti all’iride, ma era comunque facile farlo piangere. Vista l’influenza diretta di All Might, era facile vederlo con gli occhi pieni di lacrime e una smorfia sulle labbra che doveva essere un sorriso ma sembrava essere un ringhio. Mostrava i denti quando aveva paura e cercava di sorridere come rideva quando era piccolo, ma per quanto fosse facile farlo piangere, quando è entrato al liceo era più difficile farlo ridere. Non ci riusciva Faccia Tonda, non ci riusciva Sonic e di sicuro non ci riusciva Metà e Metà. Ottenevano un sorriso, a volte, una risata premeditata, una pacca sulla spalla. Non conoscendo Deku prima del liceo, nessuno di loro si è reso conto che stava fingendo. Non che importasse.

Dicono che dopo il diploma il sorriso di Deku sia molto migliorato. Dicono anche che nessuno lo ha più visto piangere. Non ha pianto al funerale di All Might, ad esempio, nonostante le telecamere fossero puntate su di lui nella speranza di vederlo spezzarsi davanti a loro. Adesso è rimasto solo il sorriso plastico di Deku l’eroe, l’erede di All Might.

Katsuki si morde l’interno delle guance.

«Se hanno mandato te, devono essere disperati.»

Katsuki alza lo sguardo verso Deku, che tiene in braccio due bambini delle materne. I due bambini, un maschietto e una femminuccia, hanno il moccio al naso e gli occhi lacrimosi. Abbracciano Deku, il bambino gli abbraccia il collo e la bambina gli abbraccia le mani, pulendosi lacrime e moccio sulla cintura di Deku. E Deku, un Deku più alto di quando si sono incontrati l’ultima volta, un Deku con gli occhi un po’ più piccoli e meno lacrimosi, con le lentiggini che iniziano a sembrare delle macchie più profonde dopo tutto il tempo che ha passato sotto il sole, e che sembra essere cresciuto e aver finalmente riempito lo spazio sotto il suo mantello, lancia loro un’occhiata, tira fuori un fazzoletto dalla cintura e si abbassa per posarlo sul naso della bambina e mimarle di soffiare.

«Mi manda mia madre. Per gli appuntamenti al buio.» Katsuki non pensa che Deku abbia capito perché è qui. Non pensa nemmeno di voler sapere chi pensava che lo avesse mandato. Apre il suo zaino e muove da parte lettere e documenti per prendere il dossier di un bianco immacolato con sopra il nome Midoriya Izuku. Glielo passa con una mano e guarda Deku mettere giù il bambino che non vuole lasciargli andare il collo. Gli sorride, lo mette per terra, gli dice che non andrà da nessuna parte e che può aspettare seduto sulla panchina o giocare con gli altri bambini ma che promette, lo promette con giurin giurello, non se ne andrà senza salutare. Katsuki rimane con il dossier a mezz’aria, in attesa di consegnare una cartella troppo pesante per lui. Torna a parlare soltanto quando Deku prende il dossier in mano e lo gira tra le mani, con un sorriso plastico. «Me ne vado» lo informa, chiudendo lo zaino e alzandosi in piedi.

Deku annuisce e china leggermente la testa per salutarlo e Katsuki fa lo stesso, ma, una volta in piedi, rimane pietrificato sul posto. Sente come se qualcosa lo tirasse indietro e si morde l’interno delle guance. Sente di non doversene andare. Come se, se andasse via adesso, senza dire niente, nonostante avesse accettato di non parlare più con Deku, nonostante fosse stato così bravo a stare lontano dalla sua vita per più di dieci anni, sarebbe successo qualcosa di terribile.

Katsuki continua a mordersi l’interno delle guance. Cerca di pensare a un argomento di conversazione, un qualsiasi argomento o frase di circostanza. Si sono mai fermati a parlare loro due? Di cosa? Parlavano di voti a scuola? No. No, non erano mai abbastanza calmi per parlare di voti o di scuola. Parlavano di All Might? Hanno mai parlato di All Might? Katsuki aggrotta le sopracciglia, si gratta dietro l’orecchio con un dito e sospira. Non hanno mai parlato, loro due? Si sono mai detti qualcosa di mondano, qualcosa di personale? «Ci andrai?» chiede alla fine. Indica il dossier con il mento. Appena fa la domanda si rende conto di aver toccato l’unico argomento che sia lui che Deku avevano concordato a non toccare mai. 

Deku sbatte le palpebre. Lo fa una volta. Lentamente. Poi sbatte le palpebre più velocemente, come se fosse stato colpito da uno schizzo d’acqua. Le sue labbra piegate in un sorriso di circostanza, per una frazione di secondo, si piega verso il basso. Torna, sul suo viso, un sorriso plastico. «Non penso che siano affari tuoi» risponde.

Katsuki ruota gli occhi perché non è abituato a chiedere scusa. Alza la mano per salutarlo e fermarlo dal parlare. Sa già di aver fatto un errore, non vuol dire che vuole sentire qualcuno essere arrabbiato con lui. Non è il periodo giusto, non ne ha voglia. «Ho da fare» borbotta. Scuote la testa, si chiede perché avrebbe voluto parlare con lui, perché rimanere qui più tempo del necessario. «Lascia perdere.» Sistema lo zaino sulle spalle e va via quasi marciando. Ha le orecchie rosse di rabbia e imbarazzo e aveva giurato che non si sarebbe più avvicinato a Deku per un motivo.

Non si gira per guardare indietro.

Non vede cosa fa Deku quando lui decide di andare via.

 

 


 

 

«Ci sono diversi motivi per cui non puoi lasciarmi il nome» inizia Katsuki con le sopracciglia aggrottate e lo sguardo basso su Best Jeanist che sistema dei cerotti intorno alle unghie delle dita.  

Katsuki ha la brutta abitudine di mangiarsi le unghie. Non lo fa spesso, non lo fa davanti a nessuno. Morde le unghie e si mette a pensare alle cose che sono andate male e sono fuori dal suo controllo. Sua madre che vuole nipoti, Inko-chan che vuole che Deku si sposi e Deku che non ha risposto alla sua domanda e ancora non ha intenzione nemmeno di conversare con lui. Pensa a Best Jeanist che non ha trentotto anni e l’intenzione di morire, o abbandonare il mantello, che è più o meno la stessa cosa. Si stava grattando le pellicine accanto alle unghie quando Best Jeanist lo ha trovato, stava pensando, cercando di capire che cosa sta succedendo nella sua vita. Stava contando su quante persone può appoggiarsi e con chi si può confidare per togliersi questo peso di dosso. Il conto è arrivato a 0. Non gli è venuto in mente nessuno con cui parlare.

Best Jeanist ha acceso la luce dell’ufficio ed è entrato da quella porta quando Katsuki è arrivato a questa conclusione. Non può parlare con nessuno. Bam. Best Jeanist appare.

Le spalle fanno il turno di guardia al cimitero, non c’è nessuno al di fuori di Katsuki e Best Jeanist. Se la situazione persiste, Katsuki dovrà chiamare Scintilla e chiedergli se è già a lavoro sul caso o se può andare a controllare quei buoni a nulla delle spalle di Best Jeanist. Magari vedere le sue spalle lavorare nell’ufficio può far rinsavire Best Jeanist. Magari la soluzione a questo problema sono quegli inutili, maleducati, imbranati ragazzini.

«Per prima cosa, hai sempre detto che non avresti lasciato che un moccioso maleducato diventasse Best Jeanist. Dov’è finita questa determinazione, uh?»

Best Jeanist gli sistema un cerotto sul mignolo, un gesto che è un po’ una punizione e un po’ un modo per prendersi cura di Katsuki. Alza lo sguardo, Best Jeanist, e posa il dito indice tra le sopracciglia di Katsuki per sciogliere il nodo di rughe di confusione sul viso della sua spalla. «Falla finita» lo rimprovera. «Sei un adulto.»

Katsuki abbassa la testa.

«Non ti ho detto che mi sarei ritirato per tirare fuori la parte immatura di te» dice, ed eppure sembra divertito dall'immaturità di Katsuki, cosa che lo incazzare, gli fa salire il sangue alle orecchie e gli fa pizzicare il naso. Best Jeanist abbassa il dito e tiene tra le mani una mano di Katsuki. Osserva la sua spalla, nasconde le sue espressioni dietro il colletto denim, ma i suoi occhi sono un po’ curvato con affetto. Gli posa una mano sulla spalla e gli dà una pacca che sta tra il forte e il gentile. Una via di mezzo tra un incoraggiamento e un gesto di conforto. «Te l'ho detto solo perché voglio che tu lo sappia.»

Katsuki serra la mascella e vorrebbe potersi grattare via le pellicine intorno alle unghie dal nervosismo. «Perché?»

Il pomo di Adamo di Best Jeanist sale e poi scende. Abbassa lo sguardo, sembra star pensando. Scuote la testa. «Ci arriverai» risponde. Scuote un po’ la testa e non sembra sperare che succeda così presto. «Sei un adulto. Non ti devo dare tutte le risposte.»

«Vaffanculo.»

 

 


 

 

«Mitsucchi!»

«Inko-chan!»

Una volta, sua madre gli ha tirato il braccio così forte da dislocarglielo. 

Katsuki sta in piedi dietro sua mamma, con le buste della spesa in mano, e guarda le due donne abbracciarsi con affetto mentre un ricordo del genere gli riaffiora da uno dei posti più nascosti della sua memoria e si dice a mente: uau, una volta sua mamma lo ha tirato così forte dal braccio che gli ha dislocato una spalla. Non è stato un atto di cattiveria, cerca di ricordare, sua mamma non è mai stata delicata con lui. Erano appena tornati dal supermercato, Katsuki aveva quattro o cinque anni e non voleva portare la spesa a casa, voleva tornare a giocare al parco. Aveva iniziato a fare i capricci. Voleva andare a giocare coi suoi amici, non voleva tornare dentro quell'appartamento, e la mamma, con poca pazienza e ancora meno voglia di sopportarlo, lo aveva preso dal braccio e lo aveva trascinato con lei. Katsuki non sa in quale momento di preciso sotto quella presa qualche cosa è sembrata scivolare via dentro le sue ossa, non ricorda nessun rumore e niente che non sia il viso di sua mamma, mentre il dolore iniziava a spargersi per tutto il braccio e intorno a tutta la spalla. Non ha pianto. O forse ha pianto. Non ricorda come sono finiti in ospedale, ma hanno visto un medico e Katsuki ricorda vagamente un gesso al braccio. Ricorda con lucidità solo il dolore e il viso di sua mamma, che non è cambiato in nessun momento, lasciando quell'ombra di fastidio e rabbia che era presente dal momento in cui Katsuki ha iniziato a fare i capricci.

Non è strano che un bambino si dislochi la spalla se tirato da un adulto, ha detto il medico mentre controllava il braccio di Katsuki. Le ossa dei bambini sono elastiche e più mobili di quelle di un adulto sano, sotto pressione le ossa si muovono con facilità e si spezzano con più facilità. È vero che si curano più in fretta ed è vero che con un giusto trattamento tutto tornerà come prima. Si deve fare attenzione, però, perché la velocità di ricovero non è collegata a una mancanza di dolore. Un bambino che si spezza un osso soffre nello stesso modo in cui soffre un adulto quando si spezza un osso. Bakugo Mitsuki ha riso davanti alle parole del medico con una punta di sarcasmo. Non mi dica come crescere mio figlio, ha detto. Ha riportato a casa Katsuki. Ha preparato omurice per cena. Entrambi hanno dimenticato l’accaduto. Fino ad adesso.

Katsuki passa il peso del corpo da una gamba all'altra. Si chiede se può tornare a casa prima, senza dover rimanere tra le scale ad ascoltare sua madre parlare con una sua amica. Non ha voglia di passare le sue poche ore libere a sentire due donne parlare di cose che non lo riguardano e si sente un po’ a disagio a guardare Inko-chan, adesso, dopo aver visto il dossier degli appuntamenti al buio e aver sentito le parole di sua mamma. Pensava che le cose fossero diverse tra Inko-chan e Deku. Non sa perché sente un peso sulla bocca dello stomaco, qualcosa che vuole dire ma non può dire. E Inko-chan era lì il giorno in cui sua mamma gli ha dislocato la spalla, Katsuki non sa perché questo è diventato un dettaglio importante.

«Sei cresciuto tantissimo!» lo saluta Inko-chan. Ha in mano una borsa e nient’altro. Ha un sorriso genuino che una volta era uguale a quello di Deku. E Katsuki abbassa lo sguardo, si morde l’interno delle guance per non farsi scappare nemmeno una parola fuori luogo. «Ti ricordi quando pensavi che avrebbe preso dalla famiglia di tuo marito e non avrebbe superato il metro e sessanta?» Inko-chan si porta una mano sulle labbra per nascondere con gentilezza una risata e i denti bianchi scoperti da questa. «Io sono sempre sorpresa quando ricordo che potevamo tenerli in braccio a lui e a Izuku. Adoravano stare in braccio e io mi sentivo stanca, con le braccia doloranti, e adesso non posso che pensare che mi piacerebbe riprendere in braccio Izuku come quando era piccolo.» Inko-chan ha gli occhi lacrimosi di Deku anche quando ride di se stessa. «Che sciocca, vero?»

«Io non vedo l’ora che questo parassita se ne vada da casa mia» risponde la mamma. Prende le mani di Inko-chan e lascia passare qualche momento prima che entrambe scoppino a ridere come se avesse detto la cosa più stupida in questo mondo. «Dopo l'incidente ho perso le speranze.»

«Se volete parlare male di me con calma, posso anche andarmene» borbotta Katsuki, indicando con la testa il corridoio del condominio. Ha le mani rosse a causa del peso delle buste della spesa e Best Jeanist gli ha detto di riposare in caso dovesse succedere qualcosa e dovesse prendere il turno di notte. Non ha voglia di rimanere qui, anche questo è da aggiungere. Gli è iniziata a far male la schiena, gli sembra difficile rimanere in piedi e non ha voglia di mostrare un lato debole di lui fuori dalla sua camera da letto.

Sua mamma gli lancia uno sguardo così pieno di rimprovero da far scattare indietro Katsuki, mentre le guance di Inko-chan diventano rosse, come se avesse bevuto troppo. «No, no. Mitucchi non ha mai parlato male di te.»

«Tutte le madri hanno il diritto di parlare male dei propri figli» ribatte la mamma, facendo un gesto vago con la mano verso Katsuki. «È uno dei modi in cui dimostriamo la nostra preoccupazione. E, a proposito. Come sta Izuku-kun? Avete iniziato a organizzarvi con le ragazze per gli appuntamenti al buio? Ti è sembrato entusiasta all’idea? Oppure fa i capricci e finalmente ha parlato di qualcuno che voleva già portare a casa? Non lo vedo molto spesso nel quartiere nelle ultime settimane.»

Inko-chan abbassa lo sguardo e sembra sentirsi in colpa. Lascia andare le mani della mamma e inizia a giocare con le dita con fare nervoso, un pochino agitato. «Izuku fa tutto quello che gli chiedo» inizia a dire con una voce bassa, come se stesse confidando un segreto. «Mi ha detto che sarebbe andato agli appuntamenti, che avrebbe conosciuto le ragazze se questo era quello che io volevo e che prima o poi si sposerà e che non mi devo preoccupare. Ma la verità è che non era questa la risposta che volevo da lui. Avrei voluto che si arrabbiasse, che mi dicesse che non sarebbe andato agli appuntamenti al buio. O che andasse agli appuntamenti per sua volontà, per conoscere qualcuno di nuovo e per non annegare in questo mondo da… io non ho mai voluto che lui fosse un eroe, è l’unica volta che non ha ascoltato quello che gli ho detto. E quando mi ha chiesto di sostenerlo nel suo sogno, mi era sembrato di nuovo felice. Ma gli eroi hanno portato via così tante cose da Izuku e da me.» Le sue labbra diventano una linea sottile. È composta anche in questo momento, la mamma di Deku. Si assomigliano molto nei modi più strani, Inko-chan e Deku. «All Might mi ha portato via mio figlio, prima di morire.»

La mamma sospira e posa una mano sulla spalla di Inko-chan, che comunque le dedica un sorriso. Sorride anche se è un po’ triste. Scuote la testa e scrolla le spalle, mentre la mamma la guarda con occhi vuoti, pensando chissà a che cosa.

«Vorrei un po’ di normalità nella sua vita. Un motivo per tornare a casa, o per tornare a vivere. Fare qualcosa oltre a essere un eroe. Vorrei che vedesse la bellezza delle piccole cose, la bellezza in dormire in un letto caldo e non in un letto a castello tra un turno e l’altro, mangiare con gusto, riprendersi quelle piccolezze che fanno parte della gioia della vita.» Scuote la testa. «Non sono ingenua. So che il matrimonio non porta alla felicità, ma ho paura che a un certo punto Izuku si renda conto di essere solo. Se si fosse arrabbiato all’idea degli appuntamenti al buio, mi sarei sentita più tranquilla, ma adesso sono terrorizzata al pensiero di morire prima di lui e lasciarlo da solo.»

Katsuki stringe le mani in due pugni intorno alle buste della spesa. Sua mamma consola Inko-chan dicendo che Deku è un ragazzo intelligente e che non rimarrà mai solo.

Quando Inko-chan va via, dicendo che deve andare da qualche parte, la mamma rimane a guardarla scendere le scale con degli occhi pieni di compassione, mentre scuote un pochino la testa e incrocia le braccia. «Suo figlio è tutto al di fuori di normale» borbotta. «Se Hisashi non l’avesse lasciata a crescere quel ragazzino da sola, le avrei suggerito di fare un altro bambino perché avesse almeno un figlio normale. Fortunatamente, almeno in questo, non mi hai mai dato problemi.»

Katsuki serra la mascella. 

Non risponde. Lascia le buste della spesa sul tavolo della cucina, piuttosto, e cerca di massaggiarsi le spalle nella speranza di darsi un po’ di sollievo dal dolore.

 

 


 

 

Katsuki chiude gli occhi per abituare gli occhi all'oscurità intorno a lui. 

Fuori dal cimitero, proprio fuori dalle mura, non sembra esserci nessun guasto e i lampioni brillano come hanno sempre fatto nei giorni precedenti. Non è un problema che ha che fare con l’elettricità, gli ha spiegato Scintilla, controllando i monitor e muovendo i mouse come un idiota che non sa quello che sta facendo. Il problema è che qualsiasi cosa si trovi all’interno del cimitero assorbe ogni tipo di luce, rendendo impossibile usare l’elettricità che forma energia luminosa. Per questo i lampioni dentro il cimitero sono spenti, per questo è impossibile usare i cellulari ma per questo è possibile usare walkie-talkie e rimanere in contatto con chiunque sia dall’altra parte dell’apparecchio.

Katsuki cammina nel buio, il walkie-talkie in mano e gli occhi che sono ancora un po’ ciechi nel bel mezzo di quello che doveva essere un cimitero sempre pieno di persone, di fiori e di sassi. Katsuki, quando cammina, tiene le ginocchia alte e gli occhi ben aperti. Sta attento a non finire contro i monumenti e le lapidi e allunga la mano per essere sicuro di non sbattere il naso contro nulla.

Il Cimitero degli Eroi, costruito nel bel mezzo della città per seppellire e commemorare gli eroi giapponesi più importanti, più che un cimitero viene utilizzato come un parco in cui passeggiare mano nella mano e ignorare le lapidi e mangiare sulle panchine, mentre ti lamenti perché non vuoi fare i compiti di matematica, dimenticando di star sbriciolando il panino sulla tomba di una persona.

Il Cimitero degli Eroi è uno dei simboli più importanti della potenza della città e del paese. In tempi di pace, la potenza di un paese non viene dimostrato dal suo esercito ma dagli atleti mandati a competere in eventi come le Olimpiadi, dalle agenzie che diventano multinazionali e portano con loro il nome del proprio paese e dalla forza dei propri eroi. Che il Cimitero degli Eroi, parco simbolo della potenza degli eroi giapponesi negli ultimi cento anni, rimanga senza luce la notte, che non sia possibile entrarci, che chiunque ci entri la notte viene del tutto isolato dal mondo, potrebbe essere un attacco alle fondamenta del paese stesso, per questo una squadra di eroi si è dovuta fare avanti per capire cosa sta succedendo e per questo Katsuki ha passato più di mezz’ora a convincere Scintilla e altri eroi professionisti a far entrare lui nel cimitero e lasciare che siano le spalle di Best Jeanist a fare da guardia alle mura del cimitero. 

Le spalle di Best Jeanist stanno lavorando sul caso dalla primissima segnalazione di guasto, due settimane fa. Hanno pattugliato il cimitero notte e giorno, controllato i sistemi di comunicazione e gli impianti elettrici ogni giorno e scritto rapporti dettagliati su ogni giornata passata al cimitero. Sono dei buoni a nulla diligenti e Katsuki si fida abbastanza di loro da lasciarli fare la guardia mentre il resto degli eroi professionisti legge i loro rapporti e cerca di formulare ipotesi sull’origine del malfunzionamento, sperando che non sia un attacco da parte di liberazionisti.

Katsuki, mentre cammina con le ginocchia alte nel bel mezzo di cespugli che non aveva notato, con gli occhi che iniziano a riconoscere qualche forma intorno a lui, sa che dietro questo buio non ci sono liberazionisti, non ci sono ribelli e non ci sono hacker. Dietro quest’oscurità, Katsuki ha la certezza, non c’è qualcuno che odia gli eroi e non c’è qualcuno che vuole distruggere la loro difettosa società.

Ha già visto questo tipo di buio, quando era piccolo.

Cercando di orientarsi, cammina per i sentieri del cimitero e cerca uno spazio senza monumento, un prato che sarebbe vuoto se non fosse per un’umile lapide, situata al lato, sotto un albero che deve ancora diventare alto e imponente, ma che è forte e giovane e pieno di vita. Katsuki ha le sopracciglia aggrottate, cercando di guardarsi intorno, cammina con calma e stringe il walkie talkie in mano e sa di non starsi sbagliando, sa che cosa deve trovare e inizia a pensare a un motivo per non far entrare eroi professionisti, giornalisti o ficcanaso nel cimitero fino a quando non troverà una soluzione a un problema in cui forse lui non dovrebbe ficcare il naso.

Sotto i suoi piedi, i sassolini bianchi del sentiero scrocchiano, cercando di contrastare il silenzio che sarebbe altrimenti assoluto del parco. Katsuki cammina con calma, non sente il silenzio intorno a lui e nemmeno il rumore sotto i suoi piedi. La sua mente gira e rigira, i suoi pensieri sono così tanti da riempire il cimitero senza che lui debba prestare attenzione ad altro. Si ferma davanti all’unica parte del cimitero in cui è possibile vedere il cielo senza posare lo sguardo su un monumento. Stringe le mani in due pugni e cerca di mantenere un respiro regolare.

Katsuki si inumidisce le labbra e pensa a quanto era grande All Might quando era in vita. Era alto più di due metri, riusciva a sollevare decine di persone con la sola forza delle braccia, sembrava poter volare per quanto saltava in alto e, ogni volta che qualcuno era nei guai, arrivava con un sorriso che faceva dimenticare il pericolo istantaneamente. Era grande come una montagna, All Might, quando era vivo. A Katsuki sembrava immenso, All Might quando era vivo. L’eroe di tutti, l’eroe che salva tutti. Quando si è ritirato, dedicandosi all’educazione dei suoi studenti e a Deku in particolare, sembrava piccolo come una formica, fragile come un ramoscello secco, ed è stato facile per la vecchia e nuova generazione dimenticare quanto immenso fosse stato. Hanno dimenticato quanto quel sorriso li aveva fatti sentire al sicuro, quanto la sua risata faceva tremare chiunque avesse cattive intenzione e quanto calorose e tenere fossero quelle braccia che portavano le persone al sicuro.

Quando Deku ha ricevuto il nome di All Might, ha ereditato un nome vuoto, dimenticato, e una posizione che poteva pesare soltanto sulle sue spalle. Quando Deku ha scelto di usare il nome di All Might, lo ha fatto perché non voleva che All Might venisse del tutto dimenticato e ha fatto di tutto per ricordare il suo mentore, qualsiasi fosse la sua posizione o situazione.

Quando All Might è morto, le telecamere erano presenti al suo funerale non per rendere omaggio a un eroe caduto che aveva fatto così tanto per le persone ma per vedere Deku, come si sarebbe comportato e se avrebbe mantenuto un comportamento eroico anche in un momento così delicato della sua vita. Deku quel giorno ha portato la bara su una spalla e mantenuto uno sguardo vuoto. I suoi occhi erano annebbiati mentre salutava All Might e non ha versato nemmeno una lacrima davanti a nessuno. Si è inchinato davanti alla foto del suo mentore, è rimasto seduto composto accanto a Gran Torino, ricevendo le condoglianze di amici e sconosciuti, e non un comportamento era stato fuori luogo, non una parola di disperazione era uscita dalle sue labbra. L’unica particolarità nel suo comportamento era il suo abito. Tutti si sono presentati in nero, come da tradizione, mentre Deku si era vestito di bianco. Ha vegliato sul corpo di All Might giorno e notte, scelto la lapide e pagato per i servizi funebri. Ha accompagnato All Might nel Cimitero degli Eroi, è rimasto con lui, dicono, nel suo abito bianco, coi capelli scompigliati e gli occhi vuoti, inginocchiato, per un’altra settimana. Chiunque entrasse nel Cimitero degli Eroi lo poteva vedere accompagnare All Might perché la sua anima andasse nell’Aldilà in pace, ci sono foto e video dell’eroe Deku in lutto. In nessuna di queste foto Deku piange e in nessuno di quei video sembra essere disperato. Sotto l’occhio del pubblico, Deku è rimasto silenzioso, rispettoso e obbediente, come un eroe giapponese deve essere.

Finito il periodo di lutto, Deku si è presentato tra le strade come eroe e da quel giorno non si è mai fermato. Sorride come un eroe e ride come un eroe e non ha pace, come un eroe giapponese deve essere.

Sulla lapide di All Might c’è scritto Toshinori Yagi - Eroe e mentore. Non hanno voluto che su quella lapide ci fosse il suo nome da eroe, ed è così strano, perché in vita nessuno ricordava il suo nome da civile, nessuno era interessato nemmeno a sapere che tipo di persona fosse. Ci sono fiori, intorno alla lapide, ci sono i sassi più lisci e belli posati sulla lapide, e, vicino alla tomba, sdraiato come se fosse l’unico posto che gli appartiene in questo mondo, come se si trovasse nel letto dei suoi genitori, Deku, di fianco, coperto da un lenzuolo leggero, dorme vicino al suo eroe.

Katsuki sospira, lasciandosi cadere seduto vicino alla tomba di All Might. Si porta il walkie-talkie davanti alle labbra e preme il bottone per iniziare la comunicazione con gli eroi professionisti fuori dalle mura del cimitero. «Ho trovato l’origine del guasto» informa. Usa la formula che gli ha insegnato Best Jeanist, delle frasi già dette e ripetute che dal tanto doverle dire ad alta voce escono quasi in automatico dalle labbra di Katsuki. «È l’unicità fuori controllo di un bambino spaventato. Viene qui per non creare problemi al resto della città. Per non creare ulteriori complicazioni, chiedo che lasciate che l’agenzia di Best Jeanist si occupi del caso. Vi prego di fidarvi del mio giudizio.» Senza pensarci, china leggermente in avanti la testa, come se avesse davanti a lui gli eroi a cui ha fatto la richiesta.

«Ricevuto. Lascia fare a me» risponde Scintilla.

Katsuki spegne il walkie-talkie e lo lascia cadere sul prato. Ha le spalle rigide, si sente un po’ stanco e lascia che la testa gli cada indietro. Deve controllare la respirazione per non causare fitte di dolore lungo la schiena.

Deku non sembra sereno, mentre dorme. Stringe una mano intorno all’erba e ha le sopracciglia aggrottate, a volte si muove come se stesse cercando una posizione migliore per dormire. Se fosse rimasto il bambino di tanto tempo fa, avrebbe pianto e tutto si sarebbe risolto. Ora che sono adulti le cose sembrano essersi complicate un pochino.

 

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Capitolo 3
*** #2 ***


[2]

«Spalla 3, Spalla 7 e Spalla 10 staranno con me al cimitero questa notte. Non dovete fare un cazzo, solo la guardia, non far entrare nessuno dopo che sono entrato, non fare uscire nessuno mentre siamo lì. Non fate cazzate» annuncia Katsuki senza distogliere lo sguardo dal tablet e le informazioni che Spalla 8 gli ha mandato per email. «Spalla 2, Spalla 5 e Spalla 8 andranno in pattuglia con Best Jeanist.» Alza lo sguardo per fare contatto visivo coi ragazzini di fronte a lui. «Non fate cazzate» scandisce bene le parole perché non ha un’alta considerazione delle spalle di Best Jeanist e non vorrebbe che siano così scemi da pensare di poter fare cazzate solo perchè lui non lo ha voluto sottolineare. Katsuki torna a guardare lo schermo del tablet. «Il resto delle spalle: finite i vostri lavori in fretta, abbiamo bisogno di mano d’opera e siete troppo lenti. Sapete come organizzarvi. Toglietevi dai piedi adesso.» Fa un gesto con la mano per farli andare via.

Sono le cinque del mattino, la schiena gli sta facendo qualche scherzo di troppo, non è tornato a casa e gli eroi professionisti gli hanno dato tre giorni per risolvere il problema del Cimitero degli Eroi prima di entrare con la forza e portare chiunque stia facendo questo scherzo alla città in galera, sia questo un ragazzino spaventato e senza il controllo della sua Unicità o un terrorista. Katsuki ha tre giorni per raccogliere informazioni e convincere Deku che dormire vicino alla tomba di All Might non è proprio la scelta più saggia da fare, non importa che sia in lutto.

Le informazioni arrivate da Spalla 8, sono un agglomerato di articoli di riviste di gossip, articoli di politica e fansite, che, per qualche motivo, sanno più della vita degli eroi di quanto gli eroi stessi sappiano della loro vita. Katsuki deve scorrere col dito sullo schermo del tablet per qualche secondo prima di trovare delle foto o articoli che non siano sul grande scalpore del primo appuntamento di Deku con una donna sconosciuta in un ristorante di lusso. Non sono foto compromettenti, se non fosse che Deku non si è mai fatto vedere al di fuori del suo lavoro. Vederlo mangiare obbedientemente, sorridere obbedientemente e aiutare una donna a scendere le scale obbedientemente, è motivo di eccitazione generale. Finalmente l’eroe che si è dimostrato riservato e molto attento alla sua privacy ha fatto un errore e ha lasciato che lo vedessero in uno spezzone di vita mondana. Il suo brand reputation è salito alle stelle e sembra che ogni tipo di agenzia stia cercando di chiamarlo per proporre una collaborazione o, con un po’ più di sfacciataggine, di diventare suo sponsor.

Non sono queste le informazioni di cui Katsuki ha bisogno, ma sembrano essere le uniche informazioni disponibili su Deku. Le sue collaborazioni con scarpe da ginnastica, la sua pubblicità per il pollo fritto che ha fatto ridere tutti i loro compagni di scuola, le interviste e i conseguenti servizi fotografici. Deku è un prodotto in tutto e per tutto, pensa Katsuki sfogliando le pagine, per questo riesce a rimanere in alto nella classifica degli eroi. Ha perso il suo status di persona appena ha compiuto i diciotto anni. Ci sono video di persone salvate da Deku, tra le informazioni che Spalla 8 ha raccolto, video in cui è possibile vedere il sorriso di Deku quando salva le persone, video di lui che insegna come fare la raccolta differenziata e anche video dei dietro le quinte della pubblicità progresso contro il bullismo che Deku ha girato agli inizi della sua carriera.

I video che più si avvicinano alla parte umana di Deku sono quelli girati durante il funerale di All Might. Se Deku si fosse trovato o avesse avuto un’agenzia normale alle sue spalle, quei video sarebbero stati cancellati dalla faccia della terra e molte persone sarebbero state denunciate per un comportamento così cattivo nei suoi confronti, ma Deku è l’agenzia di eroi All Might, una one-man agency in cui non solo non ci sono spalle, non ci sono nemmeno avvocati, non ci sono curatori dell’immagine personale online e nella vita reale o consulenti esterni. Perché l’agenzia è soltanto Deku e perché per lui è inutile danneggiare il rapporto con le persone per piccolezze come lo stalking, quei video sono così facili da trovare da far salire il sangue al cervello per la rabbia.

In effetti, era solo questione di tempo prima che Deku perdesse la testa, in una situazione del genere.

«Come faccio a tirarti fuori da lì?» borbotta Katsuki, accarezzandosi la fronte con le dita.

«Senpai.»

Katsuki non ha molta pazienza. Alza lo sguardo con un grugnito per guardare negli occhi Spalla 2 che si inumidisce le labbra e non sembra essere felice della situazione. «Che.» Muove la mano nervoso. Ha poco tempo per arrivare a una soluzione a questo problema e le spalle di Best Jeanist devono anche dargli fastidio e interromperlo ogni volta che possono.

«Penso abbia dimenticato che ieri è stato il mio ultimo giorno da spalla di Best Jeanist» comincia Spalla 2 con mezzo sorriso. «Non posso pattugliare insieme a lui oggi, quindi. Sono un eroe a sé stante adesso. Ero passata per salutare.»

Katsuki annuisce piano. Giusto, giusto. «Congratulazioni» gli dice. «Ti conviene andartene prima che me lo dimentichi e ricominci a darti ordini.»

Spalla 2 ride e china la testa per salutare Katsuki. 

«Non ho la pazienza per ridarvi un numero, quindi anche se Spalla 2 non c’è più, tutti voi rimarrete Spalle dalla 3 in poi in ordine di arrivo» annuncia al resto delle spalle, prima di tornare a studiare il suo caso.

 

 


 

 

«Ah! Riuscissi io a trovarmi una ragazza carina come questa della foto!»

Scintilla, seduto alla scrivania di Katsuki, sfoglia svogliato la rivista di gossip che ha pubblicato le fotografie di Deku al suo appuntamento al buio. Muove la pagina avanti e poi indietro, poi di nuovo avanti e indietro. Sospira, posando la mano sulla guancia e guarda verso l’alto, forse immaginando cose che non dovrebbero venire descritte soprattutto quando si parla di una sconosciuta.

Katsuki sta provando a risolvere il problema che ha davanti, vorrebbe davvero tanto capire come fare a tirare fuori Deku da quel cimitero e proteggerlo da paparazzi e riviste di gossip durante un periodo di lutto prolungato dovuto a quella testa bacata di Deku che si vuole ostinare a fare tutto da solo. Ma il cervello di Katsuki si distrae un po’, ascoltando Scintilla. Non dovrebbe distrarsi. Ma Scintilla ha questo strano potere di rendere tutto intorno a lui così stupido e così insensato che a volte è inutile pensare o cercare di concentrarsi intorno a lui. Katsuki non riesce a non chiedersi, ad esempio, perché questo coglione si è comprato una rivista cartacea quando le foto dell’appuntamento al buio di Deku stanno ovunque online. Aggrotta le sopracciglia. «Tu sei un testa di cazzo.»

Si dice che, quando ti trovi con persone della tua stessa età, diventi un po’ più scemo. Le decisioni prese quando sei con qualcuno della tua età, le idee che ti vengono in mente e anche le cose che fai, sono di persone con almeno una ventina di punti in meno di quoziente intellettivo farebbe.

Kirishima, corso fino all’agenzia di Best Jeanist alle sette del mattino, per la prima volta nella giornata fa qualcosa che non sia fissare Katsuki con le sopracciglia aggrottate: prende tra le mani il viso di Katsuki, schiacciando le sue guance e annuisce piano con degli occhi lacrimosi. Katsuki cerca di liberarsi dalla stretta, ma Kirishima lo abbraccia come se stesse abbracciando un malato terminale e sospira sulla sua spalla: «Sono corso appena ho saputo perché so che il tuo è un amore alla Bambi.» Fulmina con lo sguardo Scintilla, rimproverandolo e buttando la rivista di gossip nella spazzatura con un tonfo secco. «Non mi piace il linguaggio, ma è vero che sei proprio un coglione» quasi ringhia contro Scintilla.

Katsuki si libera dall’abbraccio di Kirishima, ma Kirishima continua a tirarsi in avanti con le braccia aperte e del chiaro dolore nell’espressione del suo volto. Più Katsuki prova a spingerlo via, più Kirishima si getta tra le sue braccia nella speranza di consolarlo. 

Scintilla alza entrambe le sopracciglia, sorpreso. Si alza in piedi. Poi si siede a sedere. Apre la bocca per dire qualcosa, poi si porta entrambe le mani davanti alle labbra per non dire niente. Si comporta come un deficiente e Katsuki vorrebbe colpire sia lui che Kirishima in testa e lasciarli svenuti sul pavimento per continuare a lavorare in pace. Sente una vena pulsargli contro la pelle e inizia a contare a mente per mantenere la calma. Uno, due, tre, quattro… «Avevi una cotta per Midoriya?» chiede Scintilla a bassa voce. Tiene una mano accanto alle labbra per direzionare la voce e Katsuki sente la sua mano chiudersi in un pugno e cercare il tragitto più veloce per arrivare alla faccia di Scintilla. Ha abbandonato l'idea di rimanere calmo. Ora il piano è di uccidere tutti.

«Non era una cotta!» esclama Kirishima. Approfitta dell’apertura di Katsuki per tornare ad abbracciarlo come una mamma abbraccerebbe il proprio figlio indifeso. «Era amore vero. Amore puro, quel tipo di amore che si vede solo nei film, un amore alla Cyrano e Rossana e Cristiano, un amore alla Aquaman e Mera, un amore che non si rompe, che non poteva finire da quando erano piccoli. Oh, il nostro Kacchan! Sono corso qui appena ho saputo! Devi avere il cuore a pezzi!»

Katsuki lo spinge via. Kirishima posa la guancia sulla sua testa, continuando a mormorare che non si deve vergognare, che va tutto bene, che di sicuro non è niente di importante, conoscendo Midoriya, che forse era solo un modo per ripagare un debito o forse c’è una storia che loro ancora non sanno. 

«E glielo hai mai detto?» chiede Scintilla con le sopracciglia aggrottate. Si piega a prendere la rivista che Kirishima ha buttato nella spazzatura e la apre, sfogliandola questa volta con un po’ più di attenzione. Per la prima volta, sembra che si stia concentrando sullo sguardo vuoto di Deku e le sue sopracciglia si aggrottano ancora di più. «A essere sincero, all’inizio io pensavo che lo detestassi, Midoriya. Poi col tempo ho capito che lo vedevi come rivale, ma amore?»

«Il suo è sempre stato vero amore!» ribatte Kirishima.

Scintilla abbassa lo sguardo. I suoi due neuroni si stanno attivando e sembra che un pensiero si stia formando nella sua testa. Visto che Scintilla è normalmente l’essere più stupido che Katsuki abbia mai conosciuto, quindi non è interessato a sapere a quale risultato arriverà appena avrà finito di mettere insieme le tre informazioni che ha ottenuto.

Katsuki spinge via Kirishima, che torna da lui senza scoraggiarsi per nemmeno mezzo secondo. 

«Dovresti dirglielo» esclama Scintilla. Sbatte le palpebre velocemente e uno stupidissimo sorriso si crea sul suo viso. «Così le belle ragazze che vogliono uscire con lui mi daranno un’opportunità. Midoriya rimarrebbe molto confuso da un’improvvisa confessione di Bakugo!» Alza le braccia al cielo, esultando all’idea di cose che non succederanno mai.

«Glielo ha già detto» sospira Kirishima. Posa una testa sulla spalla di Katsuki con tutta la compassione che ha in corpo. «Midoriya lo ha rifiutato il giorno del diploma.»

Scintilla abbassa di nuovo lo sguardo e questa volta c’è così tanta pena sulla sua espressione che Katsuki ha voglia di prenderlo a pugni in faccia e vedere quanto dolore e pena può sentire con abbastanza dolore fisico. «Almeno adesso puoi andare avanti» gli dice, posando una mano sulla sua spalla. «Sono sicuro che sarai abbastanza forte da riuscire ad andare al suo matrimonio e augurargli comunque tutto il meglio della vita, così come devo fare io, anche se si sposerà una bellissima ragazza e io non posso perdonare chi sposa belle ragazze. Hai un cuore grande così, io lo so.»

Katsuki li colpisce entrambi nello stesso momento. «Coglioni» li rimprovera trai denti, e non ha nemmeno voglia di continuare a capire come tirare fuori Deku dal cimitero. Si alza in piedi e decide che ha voglia di fare una passeggiata.

 

 


 

 

«Ah, Kacchan» lo chiama Deku. Allunga il braccio per afferrare la tuta da eroe di Katsuki e tirarlo in ginocchio davanti alla tomba. I suoi occhi sono circondati da ombre nere e sembra essere più addormentato che sveglio, con le palpebre a mezz'asta e le guance pallide. «Sei venuto a salutare All Might. Ti stava aspettando. È stato molto triste quando non sei andato a salutarlo al funerale.» Non sembra essere molto lucido. Ha gli occhi lacrimosi e la voce che gli trema un po’. È diverso dalle foto di All Might che girano online. È più vicino al bambino che una volta Katsuki conosceva.

Il sole è tramontato da molto, Katsuki ha lasciato le spalle a fare da guardia fuori dai cancelli del cimitero e tutto tace intorno a loro due. La tomba di All Might è così piccola da essere facilmente dimenticabile e Katsuki ha un groppo alla gola guardando quel che rimane del profilo di Deku nascosto nel buio. 

Se il rapporto tra Katsuki e Deku fosse semplice come Kirishima e Scintilla pensano, forse sarebbe anche più facile sapere come comportarsi in una situazione del genere, ma perché la loro storia è iniziata molto prima del giorno del loro diploma, perché è iniziata prima dell'esame di ammissione alla UA, perché è iniziata prima delle medie, prima della presentazione delle Unicità e prima ancora che Deku o Katsuki potessero avere la parola per poter etichettare il loro rapporto, tutto è così complicato che Katsuki non poteva che essere sollevato davanti al rifiuto di Deku di più di dieci anni prima. È stato sollevato all'idea che Deku non lo volesse più vedere, non ha sentito un briciolo di tristezza quel giorno e forse leggendo questo sollievo nel suo sguardo Deku non ha voluto nemmeno provare a incontrarlo dopo il diploma. Forse è stato Katsuki a rifiutare Deku.

«Dovresti chiedere scusa a All Might» lo rimprovera Deku, iniziando a sdraiarsi sul prato accanto alla tomba. «Ti stava aspettando e non ti sei fatto vedere.»

«Dovresti chiedermi scusa tu» ribatte Katsuki con una risata sarcastica. Rimane in ginocchio davanti alla lapide, le caviglie unite e la schiena dritta come gli hanno insegnato a fare molto tempo prima per non mancare di rispetto al morto, a cui vorrebbe comunque porgere omaggi. «Dovresti chiedermi scusa per non essere venuto da me dopo l’incidente. Ti stavo aspettando ma tu non sei venuto.»

Deku apre gli occhi e sembra che quella nebbia davanti al suo viso si sia dissipata un pochino. Anche nel buio completo del cimitero, il suo sguardo sembra arrivare a Katsuki con intensità, come se fosse un coltello lanciato per uccidere. «Mai» quasi ringhia Deku. È sveglio e cosciente, irritato e pronto a combattere, come lo era dieci anni fa. Katsuki riesce a sentire il suo sguardo cadere verso il basso prima di tornare a cercare di fulminare il suo viso. «Non lo faccio. Non lo farò mai.»

Katsuki scuote la testa e inizia a giocherellare con le dita. È nervoso. Ha solo due giorni per convincere Deku che dormire accanto alla lapide di All Might non è una buona idea, soprattutto quando sei così triste da assorbire tutta la luce intorno a te, ma non sa come dirglielo, non sa come spiegare a questo deficiente che quando ha voglia di chiamare All Might può chiamare Katsuki, invece, che può premere sullo schermo del cellulare e invece di sentire la voce di All Might sentirà quella di Katsuki che è meglio di non ricevere risposta, non sa come dirgli che se non riesce a dormire possono andare entrambi al dormitorio più nascosto di Katsuki, che potrà dormire lì fino a quando il suo corpo non inizierà a russare dal tanto rilassato che è, non sa come dirgli che vederlo dormire qui, in questa completa oscurità, con questo freddo, da solo, gli spezza il cuore.

Deku non sembra più essere interessato a Katsuki o al suo monologo interiore. Sistema la testa sul braccio che gli fa da cuscino, chiude gli occhi e sembra essere più rilassato di quanto fosse ieri, quando Katsuki lo ha trovato. «Fa compagnia a All Might» sussurra. «Sono un po’ stanco.»

Katsuki perde la pazienza tutto d’un tratto. Non saprebbe spiegare il motivo e non saprebbe spiegare quale sia stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, ha soltanto perso la pazienza e, come Deku prima lo ha trascinato in basso, in ginocchio, per salutare All Might, adesso Katsuki afferra il braccio di Deku e lo tira a sedere, con poca delicatezza e poca grazia. In un lampo improvviso che colpisce la sua mente, pensa a sua madre, alle buste della spesa e a quanto ha fatto male quando si è slogato la spalla e il suo primo istinto è di lasciare andare Deku, chiedergli se gli ha fatto male e forse chiedere scusa, ma c’è una parte di lui che pensa che se lasciasse andare il braccio di Deku, quel coglione si sdraierebbe di nuovo, perderebbe la lucidità, direbbe cose come All Might si sente facilmente solo quando vado via. Una parte di Katsuki vuole lasciare andare Deku per paura di fargli male, una parte di Katsuki vuole tenerlo ben stretto per paura che Deku faccia male a se stesso e tutto Katsuki, tutto il suo corpo, rimane immobile, paralizzato tra le due scelte.

Deku lo spinge via. «Mi fai male!» esclama. Si alza in piedi e questa volta sembra davvero pronto a litigare. Nel buio, dove è visibile solo il profilo sfocato di entrambi, Deku si alza in piedi e stringe i pugni, ma sembra stanco. Si vede dalla postura, si vede dal modo in cui le spalle sono curve. «Coglione.»

Katsuki è rimasto in ginocchio. Cerca il viso di Deku nel buio e tutte le belle parole, tutti i pensieri e le preoccupazioni che stava cercando di preparare per dirle a Deku escono fuori in un impacciato: «Puoi creare problemi soltanto a me.» Non si alza in piedi, ha la testa calda e fredda allo stesso tempo. Sa che non sta dicendo le parole giuste ma non ha intenzione di correggere parole sbagliate. «Vieni da me. All Might è morto, cazzo.»

Le parole sbagliate hanno un qualche prezzo da pagare.

Deku dà un pugno in faccia a Katsuki con una precisione spaventosa nonostante il buio. Non aspetta nemmeno che Katsuki risponda. Salta via. Va via. Lascia Katsuki in ginocchio con una guancia dolorante e gli occhi accecati, perché nello stesso momento in cui i piedi di Deku lasciano il terreno del cimitero, tutti i lampioni, luci e lucine che prima non funzionavano tornano a funzionare al loro meglio.

«Ottimo lavoro, Dynamight» esclama la voce di Spalla 5 al walkie-talkie. «Fortunatamente, tutto si è risolto per il meglio!»

 

 


 

 

Katsuki ha la guancia gonfia e Best Jeanist deve spiegare alla dottoressa che non è nulla di grave, soltanto un effetto collaterale dell’essere un eroe e andare in missione. Evita di spiegare che tutti gli eroi professionisti che erano coinvolti nel caso del Cimitero degli Eroi e che quindi hanno letto il rapporto della missione di Katsuki pensano che sia stato un bambino a colpirlo e lasciargli la faccia gonfia per lasciare un po’ di dignità a Katsuki, ma i suoi occhi si curvano un po’ troppo, mentre parla con la dottoressa, per non far capire a Katsuki che sta pensando a un bambino di forse cinque o sei anni riuscire a dare un pugno in faccia alla sua spalla. Non si trovano dalla dottoressa per la guancia, comunque, ma vista la natura della visita è sempre meglio essere chiari su quello che succede al corpo del paziente. 

Impatti del genere, ripete Best Jeanist, sono effetti collaterali del lavoro dell’eroe, niente di più e niente di meno.

«Sarebbe meglio smettere di essere un eroe, allora. Sono anche questi piccoli impatti a rendere difficile la sua completa guarigione» risponde con poca simpatia la dottoressa, aggiornando la cartella di Katsuki sul computer. Alza lo sguardo verso Best Jeanist poi guarda Katsuki e il suo sorriso sarcastico fiorisce tra le labbra come se fosse primavera. «Certo, parole al vento dette a degli eroi, giusto?» Fa un gesto a Katsuki per invitarlo a sdraiarsi sulla barella per iniziare la visita, poi un altro a Best Jeanist perché esca dalla stanza e non le stia intorno mentre fa il suo lavoro.

Katsuki ha la guancia gonfia e la schiena gli fa un po’ male, mentre si sdraia sulla pancia. Il dolore non gli ha mai fatto paura, ha sentito di peggio, non ha intenzione di tirarsi indietro per così poco.

Durante una missione, tre o quattro anni fa, un cattivo ha spezzato la schiena di Katsuki. L’accaduto non ha fatto scalpore, non ci sono state testate giornalistiche o persone che si sono preoccupate per lui, nessuno ha chiesto che fine avrebbe fatto Dynamight e nessuno ha ricordato il suo nome dopo quella missione, perché il suo nome in classifica era ancora troppo basso, i suoi sponsor erano piccole agenzie ed era appena diventato un eroe professionista, seguirlo sarebbe stato uno spreco di soldi e tempo. Ci sono migliaia di persone che diventano eroi professionisti ma poche di queste rimangono in classifica quel tanto che basta per pagarsi da vivere con il lavoro da eroi. Delle migliaia di persone che provano a diventare eroi, ne rimangono poche decine a combattere per davvero. Molti degli eroi falliti tornano a essere spalle, altri, quelli un po’ più codardi, tornano a essere dei civili. Katsuki, con la schiena rotta, in quei mesi in cui sembrava che non sarebbe riuscito a tornare a camminare, sembrava essere uno di quegli eroi falliti. I suoi medici spingevano affinché fosse uno di quegli eroi falliti, perché a volte è meglio mettere da parte un sogno ma essere comunque capace di continuare a vivere.

L’idea di non poter più combattere, l’idea di aver perso l’opportunità di salvare vite o di essere il più forte non faceva dormire la notte Katsuki. Se non poteva usare le gambe, avrebbe usato le braccia, recitava a se stesso ogni notte, se non poteva usare il corpo avrebbe usato la mente. E ogni giorno soffriva, va bene, ogni giorno il suo corpo soffriva mandandogli ondate di dolore pungente che gli toglieva il respiro, ma non era importante, perché Katsuki non ha mai avuto paura del dolore.

Dopo un anno e mezzo di fisioterapia, tra medici e medici con Unicità curative, Katsuki era di nuovo in grado di camminare, dopo due anni era in grado di correre, dopo due anni e mezzo era in grado di lottare. Le persone intorno a lui si erano già fatte un nome, avevano creato alleanze e avevano racimolato sponsor per aprire la propria agenzia, ma a Katsuki questo importava poco perché lui era in grado di combattere. Aveva stretto i pugni e si era sentito euforico perché anche se era in ritardo, anche se la schiena ancora gli faceva male, anche se non può andare in missioni lunghe e ogni tanto ha bisogno di prendere degli antidolorifici, lui può combattere. Può ancora essere un eroe.

«Mi chiedo perché non abbiate paura del dolore, voi» commenta la dottoressa, durante la visita. «Una persona normale, un civile, teme il dolore come se fosse la cosa più paurosa dopo la morte. Cerchiamo di non farci male, cerchiamo di essere il più civili possibile tra di noi e cerchiamo di proteggerci al meglio, fa parte del nostro istinto di sopravvivenza. Ma voi eroi… usate il dolore come una medaglia, lo cercate, vi fate male e poi sorridete. Preferite morire provando dolore, piuttosto che vivere una vita tranquilla. Non riesco a capirvi.»

Katsuki alza lo sguardo verso la dottoressa che studia le lastre e controlla che ogni vertebra nella schiena di Katsuki sia al posto giusto. «Forse è innato» risponde.

«No, non credo» risponde con freddezza la dottoressa. Muove la lastra, aggrotta un po’ le sopracciglia. «Cercare e accettare il dolore non è innato, altrimenti troveremmo un comportamento del genere anche negli animali. È un comportamento appreso, un’abitudine insana che vi siete portati dietro per morire prima di arrivare ai quarant’anni e rendere la mia vita un inferno.»

Katsuki si morde l’interno delle guance.

Quando chiude gli occhi, non riesce a non pensare a quando era piccolo e a Deku, davanti a lui, coi pugni alti e la faccia gonfia di schiaffi che tremava poco prima di venire colpito e a quanto era facile per lui rompersi dita, mani, piedi e gambe mentre lottava nella speranza di diventare un eroe.

«Se voi disimparaste questo comportamento, forse il mondo sarebbe un posto un po’ più sicuro.»

«Per come stanno andando le cose,» inizia a chiedere Katsuki, posando il mento sul dorso delle mani. «Posso tornare a vivere da solo?»

 

 


 

 

Quando Katsuki torna al suo dormitorio, con una borsa di vestiti, un paio di ramen istantanei e dell’acqua, è di buon umore. 

Ha le guance un po’ arrossate, forse perché ha bevuto, sente di star fluttuando mentre cammina e gli fa ridere il ricordo di Best Jeanist che prova a mangiare del maiale che Katsuki ha grigliato un po’ troppo fino a farlo quasi bruciare. Gli fa ridere ogni ricordo di questa serata. Gli fa ridere che Best Jeanist pensi che un bambino gli abbia dato un pugno, gli fa ridere che per consolarlo lo ha portato a mangiare fuori, gli fa ridere il ricordo un po’ più lontano della prima volta che ha mangiato in un ristorante con Best Jeanist e ha bevuto il sakè per la prima volta e Best Jeanist ha riso perché il sakè non si beve come se fosse birra, il sakè non si beve nemmeno come se fosse una tazzina di caffè espresso. Fa ridere, a Katsuki, l’idea di aver bevuto alcolici per la prima volta, tanto tempo fa, insieme a Best Jeanist e di non aver mai bevuto insieme a suo padre. Gli fa ridere l’idea di non dover vivere a casa dei suoi genitori e di poter finalmente tornare nei dormitori e non dover sopportare su madre fargli ramanzine e la totale mancanza di rilevanza di suo padre nella sua vita.

Tutto lo fa ridere, mentre barcolla verso il suo dormitorio, tutto lo mette di buon umore.

Deve essere l’euforia della libertà. Deve essere l’euforia di riuscire a tornare a vivere come stava vivendo prima della schiena spezzata, l’idea di poter finalmente ricominciare da dove aveva lasciato. Katsuki è entusiasta. Non si rende conto delle luci spente, forse perché a volte cammina con gli occhi chiusi, non si rende conto del silenzio del quartiere, forse perché i suoi pensieri sono molto rumorosi.

All’inizio, non si rende nemmeno conto di Deku, seduto davanti alla porta del dormitorio di Katsuki con le ginocchia unite e le mani sotto le cosce, che aspetta, guardando il buio intorno a lui.

Quando Katsuki nota Deku, il suo sorriso e il suo buon umore sfuma un pochino. Lascia cadere la borsa piena di vestiti e ramen istantaneo davanti al portone di casa e biascica: «Che ci fai qui?»

Deku fa un’espressione disgustata. Distoglie lo sguardo. «All Might è morto» gli dice. «Quindi sono venuto da te.»

Deku sa dove si trova il dormitorio di Katsuki, sembra sapere come arrivarci e non aveva nemmeno problemi ad aspettare fuori dalla porta nonostante il freddo intorno a lui. Katsuki ci mette un po’ a capire di cosa sta parlando Deku, non ricordava nemmeno di aver detto il giorno prima quelle stesse parole, ma apre la porta, gli fa cenno di entrare, riprende da terra la sua borsa e chiede: «Vuoi del ramen?»

«Santo cielo, no» risponde disgustato Deku. Si china per togliersi le scarpe. Prima le slaccia, poi inizia a cercare di tirare fuori il piede, ma non sembra riuscirci. Spinge la scarpa con una forza media, all’inizio. Spinge e la scarpa non sembra voler lasciare il suo piede e allora Deku perde la pazienza e inizia a spingere con un po’ più di forza. È frustrato, irritato, le sue dita sembrano intorpidite e sono di un rosso quasi innaturale, forse per colpa del freddo.

Katsuki ha la mente annebbiata dal sakè e il corpo un po’ troppo leggero. Si siede davanti al genkan, spalla contro spalla con Deku, e si allunga verso di lui, spingendo via le scarpe di Deku con così tanta facilità che la frustrazione di Deku di poco prima sembra una messa in scena. Katsuki ride. Non prova ad accendere la luce, ha come la sensazione che l’interruttore non funzionerebbe e comunque non ha voglia di tenere la luce accesa. «Non ti sai nemmeno togliere le scarpe da solo.» Sistema di nuovo la borsa sulla spalla ed entra in casa per gettarsi sul futon con le braccia aperte e trovare la posizione migliore per dormire.

«Almeno lavati prima» borbotta Deku. Sistema le scarpe nel genkan, si trascina anche lui nel futon e si sdraia accanto a Katsuki come se fosse la cosa più naturale del mondo. Magari lo è. «Puzzi di sudore e alcol.»

Katsuki allunga il naso verso Deku e, forse perché è stata una bella giornata, forse perché non è interessato a litigare oggi, o forse perché anche questa situazione lo mette di buon umore, ride. «Tu puzzi di fango e sangue.» Deve essere appena tornato da una missione. Beh. L’odore non gli dà poi così fastidio. «Domani laverò il futon.»

Deku sistema il braccio sotto la testa. Non si toccano tra loro Deku e Katsuki. Il futon sembra essere abbastanza grande da dar loro lo spazio di dormire di lato, sul fianco, guardandosi in faccia senza che nemmeno il loro gomito si sfiori. Katsuki tiene gli occhi chiusi e anche questo lo fa ridere. Che strano, si ritrova a pensare che non avrebbe mai creduto di condividere il letto con Deku. Le ragazze degli appuntamenti al buio sarebbero molto tristi se lo scoprissero. «Sono stanco, Kacchan» sussurra Deku, studiando il profilo di Katsuki. 

Prenderò una grande casa in cui potrai dormire, vuole dire Katsuki, ma la sua lingua non è abituata a dire certe cose. Allunga la mano e la preme contro la faccia di Deku. «Allora dormi invece di rompermi le palle» risponde. 

Non sa perché, con Deku è così facile dire la cosa sbagliata.

 

 


 

 

Katsuki ha preso il giorno libero per sistemare il suo dormitorio, ma questo non vuol dire che, quando ha aperto gli occhi, Deku stesse dormendo accanto a lui. Non che importi. La cosa importante è averlo tirato fuori dal Cimitero degli Eroi, il resto dovrebbe venire col tempo. La voglia di vivere, il ricordo del perché è diventato un eroe, la motivazione per continuare a fare cose tanto inutili come fare pubblicità, far salire il suo brand reputation e essere gentile con persone che non sono gentili con lui. Essere un eroe, dice sempre Best Jeanist, per metà è reputazione e solo l’altra metà è forza. Questo Katsuki, portandosi un braccio davanti agli occhi per bloccare la luce del sole, lo sa.

Il futon è sporco di fango e sudore, odora di sangue e sudore e Katsuki si sente tutto appiccicoso per colpa del sakè di ieri, ha una gran sete e un po’ di mal di testa.

«Tieni.»

«Ah, grazie» borbotta Katsuki, alzandosi a sedere e afferrando il bicchiere di acqua che Deku gli ha offerto. Beve. Ci mette un po’ a capire cos’è successo. Beve. Ah. La testa gli fa un po’ male. Beve. Allarga gli occhi e si gira per trovare Deku, seduto composto che divide i vestiti colorati da quelli bianchi. «Che cazzo ci fai qui?»

Deku aggrotta le sopracciglia. Non guarda Katsuki negli occhi. «Non posso stare qui?» chiede dopo qualche secondo. Lancia uno sguardo alla finestra, osserva il cielo azzurro e dei passerotti alla ricerca di cibo sul davanzale della finestra, poi abbassa lo sguardo e mostra il cellulare privo di notifiche a Katsuki. «Non ho niente da fare.» Continua a dividere i panni sporchi. Intorno a lui, il dormitorio lasciato abbandonato da anni, è pieno di polvere e vuoto di ogni utensile utile per la casa. Deku fa una smorfia con le labbra, scuote un po’ la testa. «Non ho la più pallida idea di come si fanno i lavori di casa» ammette, girandosi verso Katsuki con gli occhi spalancati.

Katsuki ha un po’ di mal di testa, lo vuole ripetere, e il suo corpo è pesante come un mattone, ma l’immagine di Deku coi capelli bagnati e un asciugamano sulle spalle, i pantaloncini in pieno inverno, una scopa sottosopra, uno straccio sporco pronto a essere passato su un parquet e due montagne di vestiti sul pavimento lo fa ridere. «Lo so» esclama, togliendogli dalle mani i vestiti sporchi. «Fammi fare la doccia. Tanto oggi lo avevo pensato per rimettere in piedi l’appartamento.»

Deku non ha più gli occhi grandi di quando era bambino. Annuisce alle parole di Katsuki e lo segue con lo sguardo fino a che non scompare in bagno. Era più facile, quando era piccolo, capire quando stava mentendo, ma col passare del tempo ogni bambino impara a mentire meglio e per quanto Deku volesse sembrare un eroe senza macchia, non si è mai liberato della sua natura umana e di tutti i suoi difetti. Non ha più gli occhi grandi di quando era bambino e Katsuki ha troppo mal di testa per studiare le stranezze nei comportamenti di Deku. Non si rende conto che sta mentendo.

Quando Katsuki esce dalla doccia, con ancora l’asciugamano legato al fianco, Deku non è più lì.

 

 


 

 

Katsuki ha trascinato tre buste di panni sporchi da lavare in una lavanderia fai da te. Ha pagato con le monetine, occupato quattro lavatrici e si è seduto sulle panche a guardare i suoi panni girare e girare e girare e girare e girare. E così come le lavatrici girano e girano e girano, anche i suoi pensieri girano e girano e girano. È uno dei difetti di avere una buona memoria. Puoi mettere insieme tanti puntini dei tuoi ricordi e arrivare sempre a soluzioni diverse senza essere sicuro di arrivare alla soluzione giusta perché se si ha una buona memoria non vuol dire che si è emotivamente intelligenti. Quindi le lavatrici girano e girano e girano e i pensieri nella testa di Katsuki girano e girano e girano e cercano un senso, il loro posto nel puzzle del senso della vita in Katsuki.

C’è un odore pungente di detersivo, nella lavanderia fai da te. Katsuki è in pantaloncini nonostante fuori faccia così tanto freddo che minaccia di nevicare, e le luci artificiali calde sopra di lui danno l’impressione di un isolamento della lavanderia dal mondo. Non c’è motivo per sbrigarsi a tornare a casa. Katsuki ha passato l’intera giornata a lavare, spolverare, ordinare e organizzare per tornare in una casa linda e pinta e gettarsi nel futon pulito e dormire fino a domani. Le lavatrici girano. I pensieri girano.

Il primo pensiero nella testa di Katsuki è questo: lui è sempre stato sicuro di essere amato da sua mamma. È un pensiero particolare. Una volta, sua mamma lo ha fatto andare con la guancia gonfia a causa di uno schiaffo dato perché Katsuki aveva osato risponderle quando lei era arrabbiata. Katsuki è andato a scuola con la guancia rossa e gonfia e non ha mai dovuto dare spiegazioni a nessuno. La mamma è sempre stata incline alla violenza, forse perché era stata cresciuta così, forse perché lo ha imparato da qualche parte, forse per ragioni così astratte che la testa di Katsuki non riesce a spiegarselo. Questa violenza, tuttavia, non ha mai cancellato l’amore di Bakugo Mitsuki per suo figlio. Sì, lei si arrabbiava, ma perché ci teneva. Sì, lei perdeva la pazienza, ma perché è più facile perdere la pazienza con persone a cui tieni piuttosto che con persone che non conosci o con cui non hai un rapporto. Nella mente di Katsuki, la violenza di sua mamma non ha mai intaccato l’amore che lei provava per lui, anzi, a volte pensava che le due cose andassero di pari passo.

Il secondo pensiero nella testa di Katsuki, che gira e rigira insieme al primo, è questo: Katsuki non ha mai odiato Deku, piuttosto, c’è sempre stato uno strano affetto nei suoi confronti che Katsuki non ha mai saputo mettere a parole. C’è stato un momento in cui Katsuki pensava che Deku lo guardasse dall’alto in basso, c’è stato un momento in cui pensava che Deku avesse tenuto nascosto quello che era e sapeva per prendersi gioco di lui e quel senso di tradimento si era trasformato in rabbia e quella rabbia aveva allontanato e avvicinato e allontanato Deku da lui ancora e ancora. Quando era piccolo, quando Katsuki colpiva Deku, quando gli diceva che era meglio se non rialzava dopo il pugno che gli aveva dato, quando gli diceva di non combattere più contro di lui, ridendo, Katsuki provava un qualche tipo di affetto per Deku. Voleva che diventasse più forte, voleva che si rialzasse, che combattesse, che gli tenesse testa. Non ha una spiegazione logica per questo. Non voleva l’attenzione di Deku, quando era piccolo, voleva la sua forza. Voleva che Deku fosse forte quanto lui. Si arrabbiava con Deku, ma perché ci teneva, perdeva la pazienza, ma perché è più facile perdere la pazienza, arrabbiarsi e sentirsi traditi da una persona a cui vuoi bene, piuttosto che da uno sconosciuto.

Questi due pensieri, insieme, fanno quasi vomitare Katsuki, ma c’è un terzo pensiero che gira insieme a loro: Katsuki ha imparato a non aver paura del dolore a causa di sua madre e Deku ha imparato a non aver paura del dolore a causa di Katsuki.

C’è un ulteriore pensiero che gira insieme agli altri: il primo rapporto importante in cui l’affetto o l’amore non era mischiato con la violenza, la prima persona che ha voluto bene a Katsuki e non ha mai alzato un dito contro di lui per rabbia o frustrazione è stato Best Jeanist. All Might è sempre stato il suo eroe, il sogno da raggiungere e il suo obiettivo, Katsuki ne è consapevole, ma Best Jeanist è il suo eroe personale. È il tipo di eroe che si porta nelle presentazioni che si fanno alle elementari in cui ti chiedono di presentare il tuo eroe nella vita reale. Best Jeanist non è il più forte, non è l’eroe più famoso e ha la brutta abitudine di coccolare un po’ troppo le sue spalle buone a nulla, ma forse per questo è l’eroe perfetto per Katsuki. Forse perché Best Jeanist continuava a visitarlo, perché gli ha detto che sarebbe potuto tornare a essere una sua spalla quando ancora non poteva nemmeno camminare, Katsuki non ha perso la speranza di poter tornare a essere un eroe, un giorno.

L’ultimo pensiero è forse un po’ più complesso di quello che Katsuki vorrebbe, ma non riesce a non ricordare una cena, quando ancora andava al liceo, in cui sua mamma ha invitato Best Jeanist per ringraziarlo di essersi preso cura di Katsuki durante il suo primo praticantato, e qualcosa è andato storto. Katuki ha ricordi vaghi dei suoi errori, soprattutto quando sono errori secondo sua mamma, non ricorda cosa ha fatto di sbagliato perché anche respirare era un errore quando la mamma era di cattivo umore, quindi non ha idea di cosa avesse fatto quella volta. Forse aveva risposto con un po’ troppa arroganza o forse non aveva risposto, forse aveva riso nel momento sbagliato o forse si era distratto nel momento meno opportuno, ma ricorda uno schiaffo da parte di sua madre. Non era uno schiaffo particolarmente forte, non sarebbe stato nemmeno ricordato se Best Jeanist non avesse reagito sbattendo le palpebre  e rimproverando la mamma con delle parole che Katsuki ancora oggi gira e rigira tra le mani, cercando di capirne il senso: suo figlio è un po’ troppo grande perché qualcuno gli metta le mani addosso, non pensa? Best Jeanist era furioso.

La frase ancora perseguita Katsuki. 

Best Jeanist non intendeva dire che se Katsuki fosse stato più piccolo avrebbe accettato che sua mamma lo picchiasse davanti a lui, ma quella frase Katsuki l’aveva sentita dire da donne che parlavano dell’educazione da parte dei padri nei confronti delle figlie. Se le continua a picchiare, aveva detto una signora al mercato della frutta l’altro giorno, quando Katsuki e sua mamma hanno incontrato Inko-chan davanti alle scale del condominio, loro penseranno che sia normale che un uomo le picchi e che sia per amore. Sono troppo grandi, quelle ragazzine, perché loro padre metta loro le mani addosso.

Quest’ultimo pensiero, Best Jeanist che lo difende da sua madre, la gratitudine che Katsuki prova verso sua madre per averlo abituato al dolore, la sua incapacità di distinguere la violenza, anche leggera, dall’amore, fa venire voglia di vomitare a Katsuki, che si porta una mano davanti alle labbra. L’idea di aver portato questo comportamento nella sua relazione con Deku, di averlo costretto a dimostrargli il suo affetto e la sua rabbia attraverso la violenza, lo nausea ancora di più, e che questo comportamento fosse incoraggiato dal loro essere eroi gli pesa sul petto, mentre sta seduto su una panchina della lavanderia fai da te e le lavatrici girano e girano e girano davanti a lui e i suoi pensieri girano e girano e girano insieme ai panni sporchi.

 

 


 

 

Quella notte, Deku non si presenta al dormitorio, ma manda un messaggio a Katsuki. 

Sono stanco e forse abbastanza disperato da decidere di ricominciare a vederti come quando eravamo al liceo.

 

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Capitolo 4
*** #3 ***


[3]

Katsuki rimane sdraiato di fianco sul suo futon, guardando la parete di fronte a lui, quando sente qualcuno aprire la portafinestra del balconcino. Chiude gli occhi quando sente qualcuno sedersi sul terrazzino e litigare con le scarpe per sfilarsele e finge di dormire quando quel qualcuno entra in casa, chiude la porta finestra e va in cucina. 

Ha lasciato qualcosa da mangiare in cucina, Katsuki, così, nel caso Deku decidesse di venire a mangiare avrebbe trovato qualcosa, se invece non fosse venuto, si sarebbe portato il cibo a lavoro o lo avrebbe dato a qualcuno per la strada. Katsuki ha un leggero mal di schiena che non migliora quando dorme di lato, a volte il mal di schiena sale fino al collo, a volte il mal di schiena è così forte che gli fa venire male alla testa, ma Katsuki fa comunque finta di dormire di lato, con la fronte quasi appiccicata alla parete per fare spazio a Deku sul letto, quando deciderà di sdraiarsi sul futon.

Katsuki chiude gli occhi e quasi si addormenta per davvero. Il rumore di Deku nell’appartamento è minimo. Un paio di passi soffocati dai calzini, il rumore del riso quando viene spostato da una parte del piatto all’altra, il tavolo che scrocchia sotto il peso di un gomito. È quasi rassicurante avere dei suoi così soffici intorno a lui, sembra gli stiano chiedendo di dormire un po’, lui che è stanco, che deve coordinare missioni e pattugliare e litigare con eroi professionisti al posto di Best Jeanist. Il rumore delle lenzuola che si alzano, di piedi che strusciano contro le coperte e di una testa che si posa su un cuscino è accompagnato dal calore di Deku accanto a Katsuki, dal suo odore e dalle mani di Deku, che prima di coprire se stesso dal freddo, aggiusta la coperta di Katsuki perché non entri uno spiraglio di freddo su di lui, nemmeno per sbaglio.

Quando Deku è a letto, cala di nuovo il silenzio nell’appartamento. Non ci sono orologi che ticchettano e il motore del frigorifero rimane così tanto in sottofondo da non essere più nemmeno udibile. C’è silenzio e c’è buio e anche questo aiuta Katsuki a dormire fino a quando non sente un dito posarsi, leggero, sulla parte superiore della schiena, dove si trova la sua colonna vertebrale. È un dito leggero e un tocco pieno di dubbi. Deku deve star pensando e non si è nemmeno reso conto di quello che sta facendo. Il dito segue la colonna vertebrale di Katsuki. Delicatamente, sembra camminare sulle vertebre un tempo rotte di Katsuki e con delicatezza sembra volerle accarezzare e dire loro che tutto andrà bene.

Katsuki aggrotta le sopracciglia. Guarda la parete davanti a lui. È confuso dal gesto.

«Kacchan» chiama in un sussurro Deku. «Tu lo sapevi che la vita da eroe sarebbe stata così infelice?» Ritira il dito dalla schiena di Katsuki. Ci sono vari rumori causati dal pigiama di Deku che si sfrega contro il materasso, deve starsi sdraiando sull’altro fianco, dando le spalle a Katsuki.

Nell’appartamento torna a regnare il silenzio.

 

 


 

 

«Quanti bambini hai salvato, venendo qui?»

Katsuki è appena entrato in ufficio. Lascia cadere la borsa sulla sua scrivania e, come tutte le mattine, controlla quante spalle si sono presentate in ufficio prima di lui. Nessuna. Non conta nessuna spalla, soltanto Best Jeanist alla sua scrivania, sistemando le questioni burocratiche perché nessuno li possa denunciare per danneggiamento alle automobili o bene pubblico. Quando era giovane lui, quando è stato una spalla di Best Jeanist per la prima volta, Katsuki si presentava ogni giorno alle cinque del mattino, ricontrollava il lavoro del giorno prima per essere sicuro che non ci fossero errori e vedeva Best Jeanist ridere e dirgli, prima di portarlo a fare colazione: sei il ragazzino problematico meno problematico che io abbia mai incontrato. Arrivando tardi a lavoro, le spalle si perdono il momento della giornata in cui Best Jeanist è ancora Hakamada Tsunagu.

«Non ho salvato nessun ragazzino» risponde Katsuki. Prende in mano i due enormi bicchieri di carta pieni di caffè e si avvicina a Best Jeanist per offrirgliene uno. «Ma c’erano due ragazzini un po’ scemi a cui il gatto ha rubato i compiti a casa. Pensavo lo facessero soltanto i cani. Che mangiano i compiti che devi portare a scuola, ma no, lo fanno anche i gatti. Solo che non li stava mangiando, ha portato i quaderni su un albero e poi ha dimenticato come scendere dall’albero e stava miagolando così forte da farmi male ai timpani e i ragazzini che piangevano perché non sapevano come salvavano stavano rompendo i timpani e i coglioni, quindi ho preso compiti e gatto e li ho messi giù.» Katsuki si siede davanti alla scrivania di Best Jeanist e afferra un paio di dolci dalla tasca per lasciarli sulla scrivania con uno sbuffo. «Mi hanno ripagato con dolcetti di merda che di sicuro nemmeno loro volevano.»

Best Jeanist non cerca nemmeno di coprire la sua risata. «Qualcuno deve aver insegnato ai bambini a ripagare sempre i propri debiti.»

Katsuki non trova la cosa divertente. Fa una smorfia e scuote la testa. Ci mette qualche secondo a ricordare che, dai tempi del suo primo praticantato, ogni volta che faceva qualcosa per dei bambini ripeteva loro di ripagare il debito in qualsiasi modo sia loro possibile. Se qualcuno ti fa un favore, non lasciare che poi un giorno quel favore venga chiesto indietro, ridà tutto quello che ti è stato dato subito, perché nessuno si possa approfittare di te. Katsuki fa una smorfia. «Ah, adesso è colpa mia!» esclama, appoggiando la schiena alla sedia. «È che c’è qualcosa che non va nella testa di quei bambini. Io non c’entro niente.»

«Te l'avevo detto che tutti i nodi vengono al pettine» continua a ridere Best Jeanist. Si porta alle labbra il caffè bollente. Beve con pacatezza. Prima di Katsuki, beveva soltanto camomilla, come se fosse caffè. Le spalle più grandi, i senpai di Katsuki, gli hanno detto che Best Jeanist preferiva gli infusi a qualsiasi tipo di bevanda eccitante. Katsuki ha iniziato a portargli caffè ogni mattina per dispetto, ma Best Jeanist non lo ha mai rifiutato e ora lo beve come se fosse una bibita calmante. Non si direbbe, ma Best Jeanist è un uomo dispettoso. «È successo anche a me che dei bambini per la gratitudine mi hanno dato dei dolci, ultimamente. Molte spalle in pattuglia che hanno ricevuto una caramella anche malandata da un bambino la tengono come un cimelio. È bello sentire di aver fatto qualcosa di buono agli occhi degli altri. Senza volere hai motivato molti dei tuoi kouhai, chi lo avrebbe detto, vero?»

«Beh, non l’ho fatto perché volevo» borbotta, incrociando le braccia. 

Best Jeanist lo osserva con un sorriso. 

Più invecchia e più sorride, il maledetto. Più invecchia e più sembra calmo, ma non calmo come era prima, con quella calma fredda che nasconde autocontrollo, come se fosse perennemente arrabbiato ma non potesse esprimerlo, come se ogni cosa potesse portarlo a esplodere mentre fulminava con lo sguardo chiunque facesse qualcosa di male. Il motivo per cui Katsuki ha imparato ad apprezzare Best Jeanist è che ha imparato a notare quella rabbia ed è stato al fianco dell’eroe per anni e anni, nell’attesa che qualcosa lo facesse scattare, che il vaso traboccasse, che qualcosa si rompesse. Nei suoi primi anni, prima di praticantato, poi da spalla, Katsuki ha fatto di tutto per far perdere la pazienza a Best Jeanist e Best Jeanist ha sempre risposto con freddezza e calma.

La calma di Best Jeanist di adesso è più calorosa, come se avesse fatto pace con la maggior parte dei demoni nella sua testa e come se adesso si divertisse di più a vedere ragazzi disobbedienti e pieni di rabbia, come se volesse dire che tutto passa, che da qualche parte deve pur esserci un lieto fine. Forse è a causa di quella calma che si vuole ritirare. Forse era la rabbia che gli permetteva di essere un eroe e adesso che quella rabbia è svanita, adesso che Hakamada Tsunagu non ha più bisogno di autocontrollo, non ha nemmeno più bisogno di Best Jeanist.

Che uomo egoista.

«Quando ho ricevuto quelle caramelle sono stato molto felice» continua a parlare Best Jeanist. «Più sali in classifica e meno tempo hai per la pattuglia e piccole missioni che sembrano senza senso. Salire in classifica o sforzarsi a tutti i costi per salire in classifica, ti porta a combattere mostri sempre più grandi e battaglie sempre più difficili e ti dimentichi perché vuoi diventare un eroe all’inizio. Ti dimentichi che il tuo lavoro non è lottare ogni volta contro un cattivo differente, non è fermare mostri o meteore, ma proteggere le persone. E ti dimentichi che vuoi proteggere le persone perché i bambini ti danno le caramelle quando ti sono molto grati e gli adulti ti ringraziano di cuore e ti regalano il sorriso più smagliante quando sono al sicuro. Niente batte la vicinanza alla comunità. È per questo che molti eroi spesso si danno anche al volontariato. Cucinare nelle mense pubbliche, costruire case, cose di questo genere.»

Insegnare ai bambini delle materne come fare la raccolta differenziata.

Katsuki non riesce a non pensare a Deku. Si gratta dietro l’orecchio con un po’ di imbarazzo. «Detesto il volontariato» sospira. L’ultima volta, lo hanno mandato a raccogliere e lasciare degli stupidi bambini da casa a scuola come un piedibus, i bambini cantavano canzoni demenziali, si volevano fermare ogni tre secondi per andare in bagno e un bimbo è scoppiato a piangere dopo aver chiesto a Katsuki di usare la sua Unicità perché le bombe fanno troppo rumore (e il bimbo sapeva che l’Unicità di Katsuki era far esplodere le cose, per la cronaca). Era stato un inferno. Grazie al cielo, dopo il praticantato del terzo anno di liceo, non è più obbligatorio fare volontariato e Katsuki ha archiviato la sua esperienza con dei poppanti come un problema del passato ormai risolto.

«Ma oggi hai aiutato due bambini e il loro gatto e loro per ringraziarti ti hanno dato delle caramelle» ribatte Best Jeanist. Accavalla le gambe e mantiene il suo sorriso pacato. «Non ti ha reso felice? Sapere che non c’è solo violenza nel nostro lavoro, non ti ha reso felice?»

Katsuki alza le sopracciglia e abbassa lo sguardo. 

Ah, giusto.

 

 


 

 

«… quindi Izuku ha detto a Inko-chan che non avrebbe continuato a presentarsi agli appuntamenti al buio» racconta la mamma con un filo di disprezzo. Aiuta Katsuki a sistemare gli scatoloni, ne ha preparati ben tre in vista del trasferimento ufficiale di suo figlio fuori dalla casa materna, uno da buttare, uno da riciclare e uno da portare nel dormitorio, che, si è raccomandata, non sia la sua casa definitiva, ma un luogo in cui stare mentre trova la sua vera casa. La mamma è pragmatica ed è veloce a piegare i vestiti, è ancora più veloce a buttare via le cose, siano queste utili o inutili. Si gira verso Katsuki e fa una smorfia. «Vuole essere onesto con se stesso. Forse ha trovato un ragazzo mentre si trovava dall’altra parte del mondo, in missione. Dicono che oltreoceano siano più aperti su queste cose, magari si può anche sposare se va in America. Grazie al cielo, qui non può.»

Katsuki si morde l’interno delle guance e non è sicuro di come dovrebbe rispondere a questo.

Potrebbe dire che non è che a Deku non piacciano le donne, tanto per cominciare. Le donne gli piacciono e gli piacciono anche gli uomini. È più facile incontrare donne attraverso le agenzie di matrimonio, forse per questo Inko-chan ha scelto di fargli incontrare solo donne, non perché non accetti suo figlio, come invece Katsuki aveva pensato in un primo momento, ma perché era più facile, vista la posizione pubblica di Deku, farlo muovere o vedere solo con donne. Le donne che Deku ha incontrato, potrebbe dire ancora Katsuki, sembrano non essere particolarmente interessate a lui, tanto che, nonostante lui sia il grande e potente All Might, non hanno chiesto di vederlo una seconda volta, forse perché Deku ha la brutta abitudine di parlare da solo, forse perché a volte viene chiamato per una missione importante anche nel bel mezzo della notte e lui risponde senza nemmeno chiedere scusa alla persona con cui si trova, o forse perché sembra essere troppo obbediente agli occhi di sconosciuti. Qualsiasi sia la ragione, beh, essere rifiutati richiede forza e pazienza che Deku non ha in questo momento, come lui stesso ha confessato a Katsuki. Smettere di andare agli appuntamenti al buio è stato solo logico.

L’unica risposta che Katsuki sa di non poter dare è che Deku non ha bisogno di andare ad appuntamenti al buio perché sembra contento di dormire nel futon di Katsuki. Insieme a Katsuki. Non può dirlo per vari motivi. Per prima cosa perché sarebbe facile malinterpretare le sue parole. L’unica cosa che Deku fa nel futon di Katsuki è dormire. Il tormento che Deku dà a Katsuki non è voluto da Deku, è nella testa di Katsuki. Per seconda cosa perché immagina quale sia la risposta della mamma a sapere che Katsuki e Deku dormono nella stessa stanza, figuriamoci se scoprisse che dormono nello stesso futon.

«Almeno non fa male a nessuno» borbotta, continuando a sistemare le sue cose.

A volte Katsuki ha pensato di dire a sua madre che è gay. Non è come Deku. Non è bisessuale. Non gli piacciono le donne, non gli sono mai piaciute e non pensa che gli piaceranno mai, non vuole sposare una donna, non vuole assolutamente avere un figlio con una donna e non vuole vivere con accanto una donna. Ci sono stati vari momenti, soprattutto dopo che Best Jeanist aveva detto di non alzare più una mano contro Katsuki, in cui avrebbe voluto dirlo ad alta voce. Mamma, sono gay. Mentre mangiavano insieme a tavola, mentre guardavano un drama in televisione, mentre andavano a fare la spesa, mentre la mamma borbottava cose poco piacevoli di Deku. Mamma, sono gay, il mio primo amore è stato il figlio che detesti della tua migliore amica, ho rovinato tutto ancora prima di sapere che era amore, è tutto così complicato, lo odi perché è gay?, lo odi perché il figlio della tua migliore amica?, lo odi perché sai che è stato il mio primo amore?

Katsuki non pensa che sua mamma sia un’idiota. Il motivo per cui non lasciava che Katsuki passasse troppo tempo con Deku sia quando erano piccoli sia quando erano al liceo deve avere a che fare con una qualche intuizione, ma non ha mai detto niente, ha sempre insultato Deku per indicare a Katsuki quale via non percorrere.

Katsuki ha sempre detto che Deku è un eroe obbediente. Almeno quando ha a che fare con la mamma, Deku è davvero un figlio obbediente, ma solo perché può essere onesto con Inko-chan. Possono parlare, loro due, e Inko-chan può spiegargli le sue paure e Deku può dissolvere quelle paure passo per passo e insieme possono arrivare a una regola che vada bene per entrambi. Deku non ha mai disobbedito a sua mamma, anche quando Inko-chan ha pensato di ritirare Deku dalla UA, Deku non ha pensato di disobbedirle, le ha chiesto di fidarsi di lui, le ha detto che qualsiasi altra scuola sarebbe andata bene se lei lo avesse appoggiato nel suo sogno di diventare eroe, come sempre ha fatto. Quindi, sì, Deku obbedisce a sua madre, ma non lo fa ciecamente, cosa che non lo rende obbediente nel suo significato più stretto. 

Un figlio obbediente, invece, che non prova a discutere le regole, che accetta orari, rimproveri e norme senza nemmeno protestare, è Katsuki che, capendo la norma non detta ad alta voce da parte di sua madre, non ha mai provato ad andare oltre, non l’ha mai messa in discussione, si è confessato il giorno del diploma nella speranza di venire respinto e poter tornare a casa da sua mamma, dimostrargli quanto suo figlio fosse ancora sulla retta via.

«Fa male a Inko-chan» lo rimprovera la mamma, scuotendo un po’ la testa. «Una madre deve amare il proprio figlio qualsiasi cosa lui sia o faccia. Ma, secondo te, quanto può essere facile amare un figlio come Izuku? Non pensi sia quasi impossibile?»

Katsuki sposta lo scatolone pieno accanto alla porta della sua vecchia camera da letto. Forse è stato un bene, pensa per la seconda volta nella sua vita, che ha rovinato tutto ancora prima di capire che quello che provava per Deku era amore.

 

 


 

 

«Dovresti mandarlo a fanculo» dice Deku con il suo solito tono gentile e composto. Dondola i piedi, dà un morso al suo onigiri e annuisce piano. «Sì, vadano tutti a fanculo, che t’importa?»

Deku ha saltato la fase da spalla nella sua carriera e, grazie al nome di All Might e a tutte le imprese che è riuscito a portare a termine durante il periodo scolastico, è diventato un eroe professionista subito dopo il liceo, col nome di All Might. Gli sponsor, soprattutto le grandi marche di scarpe e tute sportive, si sono accanite su di lui come se fosse l’ultimo bicchiere d’acqua nel deserto, e grazie ai soldi ricevuti e alla pubblicità, Deku ha iniziato a scalare le vette della classifica degli eroi ancora prima di incarcerare il suo primo cattivo. La sua faccina tonda, coi suoi occhi grandi e le guance un po’ paffute erano dappertutto. Era impossibile girare per la città senza aver visto almeno una volta la sua faccia, lui che faceva acrobazie per mostrare le scarpe o strane pose per mostrare l’elasticità di tute sportive. Faceva quasi rabbia, vederlo così spesso.

Dopo un anno o un anno e mezzo non solo era facile vedere Deku pubblicizzare scarpe, era facile anche vederlo sui telegiornali salvare persone e sorridere e rassicurare persone coinvolte in disastri naturali o incidenti che tutto sarebbe andato bene. Il sorriso impacciato di Deku stava facendo impazzire gli sponsor e le persone comuni e il suo aspetto ancora bambinesco (perché quello si è a diciotto o diciannove anni) per qualche motivo stava rubando il cuore delle persone.

A vent’anni, Deku, che come eroe si chiama All Might, l’eroe inutile (Deku, appunto), è stato soprannominato il fidanzatino del Giappone e insieme a questo soprannome si è iniziata a vendere una certa immagine di lui, un’immagine pulita, un’immagine cortese, un’immagine fresca. Il fidanzatino del Giappone non infrangerebbe mai le regole, il fidanzatino del Giappone non fumerebbe mai, il fidanzatino del Giappone non direbbe mai una parolaccia.

«’Fanculo Best Jeanist e ‘fanculo anche All Might» continua Deku.

Nessuna persona che lo ha chiamato il fidanzatino del Giappone ha mai davvero parlato con Deku.

Katsuki mangia il suo onigiri in silenzio. Guarda la città davanti a lui, quell’ammasso di palazzi e strade e persone e macchine, e questa è la prima volta che lui e Deku lavorano alla stessa missione, la prima volta in assoluto in cui mandano qualcuno in prigione insieme e poi si siedono sul cornicione di un palazzo, dove non si dovrebbero sedere, e mangiano insieme il pranzo e parlano come se fossero due persone normali. Katsuki non è nemmeno sicuro se hanno mai parlato nei loro ventinove anni di vita, se Deku non ha mai fatto altro che balbettare davanti a lui e Katsuki non ha mai fatto altro se non spingerlo a terra e vedere se si rialzava, se tornava a stare in piedi davanti a lui. Ci sono voluti solo trent’anni perché Katsuki potesse sedersi e mangiare in silenzio mentre Deku blatera.

«Kacchan, vuoi sapere una cosa patetica?» chiede Deku, girandosi verso di lui. Le sue lentiggini sono più visibili adesso che non usa più il cappuccio per lavorare. Sotto il sole sono macchie nocciola che lo fanno ancora sembrare un ragazzino. «Ogni volta che le persone mi chiamano All Might, ogni volta che salvo qualcuno e loro ringraziano All Might, o, meglio, ogni volta che le persone sono in pericolo e mi vedono e gridano “All Might!” io mi giro, guardo dietro alle mie spalle e spero di vedere All Might. Il vero All Might, sai cosa voglio dire? Ogni volta penso: se All Might fosse qui, queste persone sarebbero già salve, se il vero All Might fosse qui tutto andrebbe bene, se il vero All Might fosse qui tutto sarebbe migliore. Ogni volta che salvo una persona e lei mi chiama All Might è come una pugnalata al cuore, come se mi strappassero qualcosa da dentro le budella. E comunque non riesco a non sorridere perché è l’unico modo che ho per fare in modo che qualcuno parli ancora di lui, come se fosse un’illusione, come se ci fosse davvero qualcuno che lo ricorda come lo ricordo io. All Might All Might All Might e comunque nessuno parla del mio All Might. Il mio eroe. Il nostro eroe. L'eroe di tutti. È rimasto solo il nome, dell’eroe di tutti.»

Katsuki vorrebbe dire che è rimasto lui, Deku. Morde l’onigiri, studia gli occhi verdi di Deku e lascia perdere. Non è una frase da dire ad alta voce. «Di tutti noi rimarrà solo il nome, è inutile che ci pensi troppo» risponde. «Di alcuni di noi, non rimane nemmeno quello.»

«Quindi vuoi prendere il nome di Best Jeanist?» chiede Deku, con un sopracciglio alzato. Sbuffa e tira su un ginocchio, premendolo contro il petto. «Non voglio criticare Best Jeanist o All Might per volerci lasciare il loro nome, penso sia un gesto d’affetto, alla fine, un atto di fiducia, ma quando ho accettato di diventare All Might, quando ho accettato il One for All, non pensavo che mi sarebbe pesato così tanto. Eroi come All Might o Best Jeanist, che hanno dato tutto quello che avevano alla vita da eroi, che non si sono mai sposati e non hanno mai stretto amicizie troppo profonde, quando muoiono e ti lasciano il nome e tu vai a cercare qualcuno per cui quel nome ha un qualche tipo di senso che ricordi loro una persona e non un simbolo, ti rendi conto che non erano niente e che ora quel niente sei tu. E che devi dare senso a quel niente, altrimenti tutto quello che loro erano sarà davvero niente di niente.»

Katsuki mangia il suo onigiri.

«Già è difficile essere lasciati da soli» continua Deku. «Perché aggiungere un ulteriore peso?»

«Se tornassi indietro, io so che anche sapendo di dover rimanere solo e del peso di essere All Might avresti accettato.» Katsuki distoglie lo sguardo. Non c’è nessuno al mondo che ama All Might quanto Deku, perché l’unico che All Might ha fatto avvicinare sul serio è lui. Katsuki può ammirare All Might, così come lo ammiravano tutti i loro compagni di classe e migliaia di altre persone in giro per il mondo, ma non può sapere cosa vuol dire essere Deku e amare All Might. «Quindi non dare consigli che tu stesso non seguiresti.»

Deku sbuffa una risata. Incrocia le gambe e guarda la città davanti a loro.

Katsuki si morde l’interno delle guance e dà una pacca leggera sulla spalla di Deku. «Stai facendo un buon lavoro, comunque» cerca di essere gentile con Deku, una volta ogni tanto.

Deku si gira verso di lui, si lascia sfuggire un sorriso.

Katsuki sente le orecchie diventargli calde e si sente un idiota, un ragazzino del liceo con una stupida cotta. Non c’è problema, si dice, perché tanto ha rovinato tutto prima ancora che qualcosa potesse iniziare.

Deku ha altri piani.

 

 


 

 

Katsuki torna nel dormitorio dopo una lunga giornata di lavoro e non ha nemmeno la pazienza di mettere al suo posto il suo zaino, lo lascia cadere nel genkan mentre si sfila le scarpe e sta solo pensando che vuole arrivare fino al suo futon e dormire, quando si rende conto che la luce del salotto è accesa e ci sono un paio di scarpe da ginnastica rosse.

Deku sta seduto davanti al tavolino del salotto, con le gambe incrociate e le mani occupate a sbucciare mandarini, per poi portarseli in bocca uno spicchio dopo l’altro, immerso nei suoi pensieri. Katsuki non trova niente di strano in questo. Deku è andato in missione per più di una settimana, dando la caccia a un cattivo con l’Unicità del Terremoto, appena finita la missione, aveva detto più volte, voleva soltanto riposare e dormire, e non ha nessun posto in cui riposare senza la paura di paparazzi o stalker pronti a fare le richieste più strane e pretendere parti della vita privata di Deku che nemmeno i suoi amici possono ottenere. Non torna al Cimitero degli Eroi da qualche settimana. Forse sta pensando a All Might. Katsuki si toglie la giacca, senza disturbarlo e se ne va in cucina, alla ricerca di un bicchiere d’acqua.

Sta bevendo dell’acqua, quando Deku, dal salotto chiede: «Perché ancora non ci hai provato con me?»

Katsuki quasi si strozza con l’acqua. Sbatte le palpebre un paio di volte e si guarda intorno. Forse ha lavorato così tanto che ha delle allucinazioni uditive. Si muove verso la porta della cucina e guarda Deku, ancora seduto con le gambe incrociate e le mani occupate a sbucciare mandarini. Guarda i mandarini come se gli avessero fatto un torto personale e li mangia come se si stesse vendicando. «Hai detto qualcosa?» chiede Katsuki e si sente stupido appena la domanda gli esce dalla bocca. «Lascia perdere.» Torna in cucina a prendere il suo bicchiere d’acqua e pensa che la cosa migliore adesso sarebbe prendere il futon, sistemarlo e mettersi a dormire.

«Ho detto: perché ancora non ci hai provato con me?» chiede di nuovo Deku, questa volta girandosi verso Katsuki e mantenendo un contatto visivo. «Sono abbastanza sicuro che ci sia qualcosa qui. Non so se sei nello stesso punto dei giorni del liceo o se siamo andati un po’ più avanti, ma io vengo qui quasi ogni giorno, facciamo missioni insieme e dormiamo nello stesso letto. Perché non ci hai ancora provato con me? Manca qualcosa? Hai bisogno di qualcosa per andare avanti?»

Katsuki è rimasto paralizzato sulla soglia della porta della cucina. Tiene in mano il suo bicchiere d’acqua e guarda Deku come se fosse impazzito tutto d’un tratto. 

Deku indica il posto vicino a lui e lo invita a sedersi. Ha delle occhiaie intorno agli occhi, è vero, ma sembra essere più riposato della prima volta che lo ha incontrato con quel branco di bambini. Sembra anche lucido e nei suoi occhi c’è una punta di genuina curiosità. Forse per questo, quasi in trance, Katsuki si siede vicino a lui, composto, con le ginocchia piegate e unite, guardandolo come se fosse uno degli indovinelli più difficili che sia mai stato fatto. 

«Insieme a Ida-kun, questa settimana durante le pause, ho pensato a una lista per capire perché non hai fatto una mossa verso di me. La prima ragione che ci è venuta in mente è che non ti piaccio più, ma, se devo essere sincero, non credo che sia questo il motivo. Detto tra te e me, sono abbastanza sicuro che sei fuori di testa per me. Lascerò la mia risposta a quando farai la tua mossa.» Incrocia le braccia. Poi punta i gomiti contro il tavolino e intreccia le dita davanti alle labbra. «È perché tua madre è omofoba?» chiede.

«Perché hai fatto una lista con Sonic?» Katsuki si sentirebbe in imbarazzo se la situazione non fosse così paradossale. «Perché con Sonic? Mi sarebbe andata bene Faccia Tonda, ma con Sonic?»

Deku si porta uno spicchio di mandarino in bocca e sospira. Mastica e guarda Katsuki dritto negli occhi mentre mangia. Mentre Deku mangia, le ruote nella testa di Katsuki iniziano a muoversi come se si trovasse in pericolo. Come davanti alle lavatrici, i pensieri di Katsuki iniziano a girare e girare e girare. Pensa a sua mamma e pensa ai giorni di scuola, pensa alle Unicità, agli eroi professionisti e alla sua schiena, pensa tutto quello che è successo negli ultimi anni e quello che è successo nei primi anni della sua vita e pensa a come Deku ha sorriso dopo che Katsuki gli ha detto che stava facendo un buon lavoro. Pensa che non c’è logica e pensa che è passato troppo tempo da quando ha voluto darsi il tempo di provare qualcosa e pensa anche a… le mani di Deku fermano i pensieri.

Ha le mani fredde, Deku, o forse Katsuki ha le guance calde. Le mani di Deku sono piene di calli, forse proprio come lo sono quelle di Katsuki. ha le dita ruvide e delicate e costringe Katsuki a guardarlo dritto negli occhi, seguendo il suo sguardo con movimenti lieve della testa. Si siede a cavalcioni su Katsuki, Deku. Ha le ginocchia puntate sul pavimento tenendo tra queste i fianchi di Katsuki e Katsuki non si era reso conto di niente. Deku calcola, studia l'espressione del viso di Katsuki e dopo qualche secondo sorride come quando ha trovato la soluzione giusta a un problema di geometria spaziale.

Allontana un po’ il viso, continua a sorridere. «Non ti devi più preoccupare di niente» inizia a dire. Il suo sorriso si allarga. «Sai perché? Perché io sono qui.» Inclina un po’ la testa di lato e il suo sorriso sembra ancora più genuino.

Katsuki ci mette qualche secondo prima di ricordare All Might. La frase con cui si presentava. La frase che diceva prima di salvare le persone. Deku gliel'ha detta dopo avergli chiesto perché non ha intenzione di confessarsi. L'assurdità della cosa gli fa venire da ridere, si sente quasi sollevato, per qualche motivo, come se davvero Deku lo stesse salvando in questo momento.

Deku lo bacia e anche le sue labbra sono un po’ ruvide. Katsuki non sa se c'è delicatezza nei suoi gesti, non ha la più pallida idea se di solito le persone si baciano in questo modo, ma, mentre si stanno baciando, mentre Katsuki si tira un po’ indietro perché non ha abbastanza forza sui gomiti per continuare ad allungarsi verso Deku e Deku lo spinge verso il basso, Deku muove una mano dalla guancia di Katsuki alla sua nuca. Gli tiene il retro della testa e lo accompagna verso il pavimento, facendo in modo che la testa di Katsuki non sbattere contro qualcosa di duro, proteggendolo da un possibile, leggerissimo e dimenticabile dolore. Un gesto stupido come questo fa perdere la forza nel corpo di Katsuki, che si ritrova tra le braccia di Deku senza nessuna protesta.

Sa di mandarini. Deku sa di mandarini. Le sue dita sanno di mandarini, le sue labbra sanno di mandarini, anche le sue lentiggini sembrano mandarini.

 

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Capitolo 5
*** epilogo ***


[3.5]

«Ti ho visto con la testa che continuava a macinare qualcosa, per questo ti ho dovuto fermare. Tra noi due, quello che pensa tanto sono io e tu sei quello che agisce d'impulso. Hai un buon intuito, perché non sfruttarlo?» Deku continua a mangiare mandarini, per qualche ragione. Sta seduto davanti al tavolino, tiene le gambe incrociate e spezza il mandarino in due. Metà degli spicchi li infila in bocca a Katsuki e metà li lascia su un piattino bianco. Prende una mela rossa fuji e inizia a tagliarla in vari spicchi. Ha le labbra arrossate e gli occhi sembrano essere un po' lucidi. «Per me era abbastanza chiaro. Prima mi chiedi se andrò agli appuntamenti al buio, poi mi dici nel modo più drammatico possibile di venire da te e scegliere te. Quando mi hai slacciato le scarpe pensavo avresti fatto qualcosa e quando non hai fatto niente mi sono sentito così stupido… Poi sì, certo, la questione del letto, ho accettato missioni insieme a te… che problemi hai? Sul tetto non era il momento giusto per fare qualcosa? Prendersi la mano, un bacio?»

Katsuki mastica a forza i mandarini. Si gratta dietro l'orecchio, distogliendo lo sguardo da Deku per qualche secondo, prima di trovare una risposta. «Tu mi hai detto che non volevi più vedermi.»

Deku fa una smorfia. Alza lo sguardo per fulminare Katsuki e taglia la mela con un po’ troppa forza. «L'ultima volta, non mi hai chiesto di stare con te. Al diploma mi hai solo chiesto scusa.» Schiocca la lingua contro il palato e alza un lato delle labbra. «Per le cose che ho fatto, per le volte che hai pianto… non facevi che ripetere che ti dispiaceva. Hai elencato i motivi per cui sarei dovuto essere arrabbiato con te, non stavi guardando me, in quel momento. Guardavi al bambino senza Unicità con cui litigavi al parco quando eri piccolo. Come altro ti avrei dovuto rispondere? Mi hai fatto incazzare, perché non solo non stavi aspettando una risposta, volevi solo toglierti un peso dal petto e io lì non c'entravo niente. Vuoi ancora parlare del giorno del diploma? Testa di cazzo.» Schiaffa in bocca a Katsuki uno spicchio di mela, quasi strozzandolo. «E non è nemmeno la cosa peggiore! Non è nemmeno il motivo per cui avrei voluto strozzarti con le mie stesse mani.»

Katsuki tossisce un po’, portandosi una mano sul petto. «Sei impazzito?» gli chiede, alzando un pugno in aria.

«Io non ho mai avuto paura di te, Kacchan» continua il suo discorso Deku, sbattendo il coltello sul tavolino. Si gira verso Katsuki, ma la sua espressione arrabbiata non dura nemmeno mezzo secondo. Scuote un po’ la testa e si lascia sfuggire una risata così leggera da sfuggire appena sbatti le palpebre. «Mi faceva paura il dolore, all'inizio. Non per molto. Ho avuto problemi nell'accettare che c'è qualcosa di masochista in me. Sono contento di sapere che c'è anche in te… o forse sei solo cattolico?»

Katsuki ruota gli occhi. Deku non è molto bravo a tagliare la frutta. La metà della polpa della mela è rimasta attaccata alla buccia e gli spicchi hanno tutti una grandezza diversa, uno spessore differente. Katsuki ride tra sé. Deku per qualche motivo non sa fare nemmeno un lavoro di casa, non importa quanto semplice questo sia. «Tra noi due, ero io quello terrorizzato da te, immagino.» prende tra le dita uno spicchio di mela e se lo porta alla bocca. 

«Esattamente.» Deku si allunga per lasciare un bacio sulla fronte di Katsuki, muovendo la frangia indietro con una mano. «E dovresti iniziare ad aver paura anche di mia mamma. Ha detto che appena saremmo arrivati a questo punto avrebbe parlato con te in privato.»

Katsuki aggrotta le sopracciglia e guarda Deku sorridere e alzarsi in piedi per andare a prendere dei fazzoletti di carta in cucina.

 

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