Unbeautiful: quando la realtà supera la soap opera

di Clay92
(/viewuser.php?uid=1153241)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo ricordo: Psyco da sconfiggere ***
Capitolo 2: *** arriva il patrigno ***
Capitolo 3: *** la mia ragione di vita ***
Capitolo 4: *** un anno dopo... l'arresto ***
Capitolo 5: *** il primo lutto ***
Capitolo 6: *** il primo tradimento ***
Capitolo 7: *** il buco nero ***
Capitolo 8: *** si inizia a crescere ***
Capitolo 9: *** la differenza tra albero genealogico e famiglia ***
Capitolo 10: *** l'anno delle perdite ***



Capitolo 1
*** Primo ricordo: Psyco da sconfiggere ***


Il primo ricordo che ho è mia nonna Matilde che mi dice che da lì a breve sarei andata all’asilo. Mi racconta che è un bel posto, che avrei conosciuto tanti bambini, avrei fatto nuove amicizie e imparato tante cose.
Io all’asilo non ci volevo andare, volevo restare a casa con lei. Non volevo fare nuove amicizie, mi bastava la sua di amicizia ma dovevo arrendermi, mia madre aveva deciso che sarei dovuta andare all’asilo e il mio parere non contava niente.
Il secondo ricordo è sempre di nonna Matilde che mi fa sedere sulle sue gambe mentre mi spiega che quando andrò all’asilo non dovrò sentirmi diversa dagli altri bambini, che non mi manca niente e che non dovrò rimanerci male quando faremo dei lavoretti per la Festa del Papà.
Io un papà non ce l’ho, non l’ho mai avuto. Quel giorno la nonna mi spiegò che il mio papà era volato in cielo prima che io nascessi, un incidente sul lavoro per colpa di una macchina impazzita e che lui ora era un angelo. Mi disse che ovunque io andassi e qualunque cosa facessi lui sarebbe stato sempre con me, non l’avrei visto ma l’avrei sentito. Non avrei potuto chiamarlo ma se fossi andata fuori al balcone a guardare le stelle avrei potuto trovare il mio papà perché per mia nonna, suo figlio, ovvero mio padre, era la stella più luminosa che ci fosse.
A quel tempo ero troppo piccola per capire fino in fondo cosa volessero dire le parole di mia nonna, così come ero troppo piccola per sapere che mio padre fu ucciso si dà una macchina impazzita ma non era un’automobile ma bensì un macchinario che lo prese dal colletto e lo soffocò in una busta di plastica. Il collega che era insieme a lui non riuscì a bloccare il macchinario e mentre chiamava aiuto, mio padre smise di respirare, aveva solo diciannove anni. Nonostante fossi troppo piccola per capire appieno quel discorso una cosa la capii, mio padre sarebbe stato sempre con me. Ogni sera andavo fuori al balcone, non cercavo la stella più luminosa, chiudevo gli occhi e come se qualcuno mi chiamasse riaprivo gli occhi puntando su un determinato punto e iniziavo a parlare.
Parlavo tanto con il mio papà e sapevo che anche se non mi poteva rispondere lui mi stava ascoltando. La sensazione di non essere mai da sola, la consapevolezza di avere un angelo custode tutto mio, la felicità di sapere che anche se gli altri non potevano capire io un padre ce l’avevo era ciò che mi faceva andare avanti.
Se da una parte questo è il mio primo e secondo ricordo e sono estremamente dolci e belli, ricordi indelebili nel mio cuore in contemporanea ho anche un altro ricordo. Quello meno piacevole.
Ho tre anni, l’asilo non mi piace, preferisco rimanere a casa a vedere i cartoni animati, la mattina faccio i capricci e mia nonna Genoveffa, nonna materna, deve sempre prendermi sulla spalla e urlare come se fosse al mercato che sta trasportando un sacco di patate. Io rido e mi lascio vestire, per pettinare i miei lunghissimi capelli mi mette davanti allo specchio e poi inizia ad imitare la voce della strega di Biancaneve, dice la filastrocca mentre mi pettina e io non sento dolore dovuto ai nodi nei capelli, sono troppo su di giri aspettando la risposta dello specchio anche se ogni mattina, per lo specchio, la più bella del reame è sempre la nonna Genoveffa. Ci sono mattine in cui a furia di piangere mi viene il vomito ma le nonne non si impietosiscono e mi portano lo stesso all’asilo. Quando torno a casa ho sempre paura. Preferisco quando vado a dormire e a mangiare da nonna Matilde e nonno Marco, con loro mi diverto sempre, non mi sgridano mai e non mi picchiano. Quando invece sono a casa di nonna Genoveffa e nonno Armando ho paura e piango sempre.
Mia madre ed io viviamo con loro e i miei due zii, zia Angela e zio Simone. Loro mi proteggono sempre. A volte vengono a mangiare a casa nostra anche i loro compagni, Zio Matteo, il fidanzato di zia Angela, super divertente con una certa somiglianza ad Alex Del Piero, zia Giselle invece è una tosta, che tiene testa a zio Simone e il modo in cui si prende cura di me, come se fossi sua nipote di sangue me l’hanno fatta amare fin dal primo giorno in cui l’ho conosciuta.

La sera è il momento in cui ho più paura. Psyco torna sempre la sera, stanca da lavoro, ho perso il conto di tutte le volte che mi urla contro, di tutte le volte che mi picchia, di tutte le volte che scappo e mi nascondo dietro le gambe dei miei zii. Ogni volta dicono a Psyco di lasciarmi stare, che sono solo una bambina, che è normale fare i capricci alla mia età ma che non è normale essere picchiata come vengo picchiata io. Psyco si arrabbia anche con loro ma a loro non li picchia, a volte sbraita e urla ma sono solo io quella che viene picchiata.
Questa routine va avanti per tre anni, ora ho sei anni, ogni sera dopo le urla, le sgridate e i vari schiaffi che prendo da Psyco mi chiudo in bagno. Mio nonno non è molto contento, dice che se mi succede qualcosa poi non possono entrare ma io continuo a chiudermi. Passo tutte le sere dopo mangiato, quando i miei zii non mi portano fuori con loro, a piangere raggomitolata per terra in bagno.
Ho sei anni e negli ultimi tre anni non ho fatto altro che chiedere a Dio perché mi ha portato via mio papà, perché al posto suo non si è preso Psyco. Mi sento in colpa, sono una bambina e ho questi pensieri bruttissimi. Nonna Matilde mi ha insegnato la differenza tra bene e male e desiderare queste cose non è un bene. Lo so sono una bambina cattiva, io mi impegno ad essere brava ma sembra che qualsiasi cosa faccia sia sempre sbagliata.
Sono stanca, sono arrabbiata con Dio, sono arrabbiata con Psyco e vorrei arrabbiarmi anche con il mio papà perché mi ha lasciato da sola, lui avrebbe dovuto proteggermi e invece non c’è. Quando penso questo di mio padre mi sento ancora di più in colpa e piango fino a stare male eppure io lo sento, sento quella carezza sulla testa, la stessa delicatezza che usa nonna Matilde quando dormo da lei e mi racconta le favole.
Mio padre è sempre con me e allora mi ricordo di non essere sola, prometto che quando sarò grande farò le valigie e me ne andrò via.
Quando sarò grande Psyco non potrà più picchiarmi, non avrò più lividi, non avrò più paura. Sarò così forte che sconfiggerò Psyco, sarò libera e felice. Mi asciugo le lacrime ed esco dal bagno. I miei nonni dormono, i miei zii sono usciti e Psyco come ogni sera mi dice: - vieni a letto amore.   Mi accarezza la testa, vorrei spostarmi ma non lo faccio, so che la farei arrabbiare ancora, infine mi stampa un bacio in fronte e si addormenta tranquilla, io controllo un’ultima volta il livido sul braccio, domani all’ asilo dovrò inventarmi una buona scusa con le mie amiche.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** arriva il patrigno ***


A sette anni Psyco mi dice che mi vuole presentare una persona, sembra felice e io sono felice per lei.
Le cose a casa non sono cambiate, la sera ho sempre paura e finisco sempre in bagno a piangere. Ora non chiedo più a Dio perché si è preso mio padre e mi ha lasciato con Psyco, non dico più a Dio che mi odia però ogni sera gli chiedo di portarmi via, di portarmi da mio papà.
Gli anni passano ma io sono sempre la solita bambina debole che piange e non sa come difendersi.
Psyco ora sembra felice, non si è nemmeno arrabbiata quando le ho detto che non volevo andare più a danza e nuoto. Amavo ballare e quando ho visto nonno Armando con gli occhi lucidi al mio saggio al teatro mi sono sentita molto orgogliosa e fiera di me. Ma sono sempre la solita bambina paurosa e quando l’insegnante mi ha detto che sarei passata a ballare con le persone più grandi di me ho voluto smettere. Ho avuto paura, paura di non essere abbastanza brava, paura di quei ragazzi che avevano quattro o cinque anni in più di me. Ho continuato a ballare a casa, a scuola con le mie compagne, per la strada. Ballare mi rendeva felice, quando partiva la musica esistevo solo io. Nonostante la timidezza quando ballavo esisteva solo la coreografia e la musica, non importava se c’era un pubblico, io non li vedevo.
Il fatto di aver visto Psyco così contenta mi aveva messo di buon umore, speravo che le cose potessero cambiare ma infondo stiamo parlando di Psyco e lei non si smentisce mai. Quando mi disse che la persona che dovevo conoscere era il suo fidanzato ero confusa. Sapevo che aveva tutto il diritto di innamorarsi ancora, di costruire una famiglia ma allo stesso tempo lo vedevo come un tradimento nei confronti di mio papà. Io non volevo un altro papà, mi piaceva il mio anche se non l’avevo mai conosciuto. Nonna Matilde mi ha sempre parlato di lui, rispondendo a tutte le mie domande. Psyco invece no. Molte di quelle sere chiusa in bagno mi chiedevo se Psyco mi odiasse perché assomigliavo tanto al mio papà, all’uomo che in qualche modo l’aveva abbandonata lasciandola sola con una bambina da crescere. Non ho mai avuto il coraggio di chiedere a Psyco perché mi odiasse tanto, perché si arrabbiasse tanto nei miei confronti.
Il giorno che conobbi il fidanzato di Psyco mi sentivo a disagio, eravamo in prigione e avevamo dovuto superare dei controlli. La gente che era in quella stanza non mi piaceva, non mi piaceva l’aria che si respirava e non mi piaceva quella sensazione. Mi sentivo osservata. Nonna Matilde mi aveva spiegato che solo le persone cattive finiscono in prigione e io non capivo perché Psyco volesse stare insieme a una persona cattiva. Avevo paura che fosse solo una finta il fidanzato e che in realtà mi aveva portato lì per abbandonarmi, perché io ero una bambina cattiva, ed essendo una bambina cattiva forse era per quello che venivo sempre picchiata.
Invece quel fidanzato esisteva davvero e Psyco era tutta felice di vederlo. Io sarei voluta scappare, non volevo andare in prigione, non volevo conoscere quell’uomo e per di più ora che lo vedevo quell’uomo mi faceva paura. Era brutto e molto alto. Io avevo visto le foto del mio papà e non capivo come un tipo così differente dal mio papà potesse piacere a Psyco. Oltre a perdere mio padre Psyco doveva aver perso buona dose della sua vista, altrimenti non si spiegava.
L’uomo cercò di essere gentile con me ma continuava a non piacermi. Non mi piaceva come guardava Psyco, non so perché sentivo di dover proteggerla quando per tutta la vita avevo cercato di proteggere me stessa da lei. Non ricordo di cosa parlarono né cosa mi chiesero ma quella sensazione che qualcosa di brutto stava per accadere me la ricordo ancora.
Nonna Matilde mi ha sempre detto che noi discendiamo dalle streghe bianche e che il nostro sesto senso è più sviluppato e che dovevo sempre affidarmi a lui e non avrei mai sbagliato o quasi.
Uscimmo da quel posto e tornai a respirare.
Nei giorni e mesi seguenti arrivarono lettere da parte di quell’uomo, Golfredo. A volte mandava delle cartoline fatte con del filo che rappresentavano farfalle, erano davvero carine ma a ogni cartolina la sensazione che qualcosa di brutto stava per accadere non mi lasciava. Psyco era sempre felice quando arrivavano queste lettere e quelle erano delle buone giornate per me perché non venivo picchiata né sgridata. Psyco però a un certo punto iniziò sempre più spesso a chiedermi cosa ne pensavo di Golfredo, cosa ne pensavo se fossimo andati ad abitare insieme. All’inizio erano domande generiche, ipotetiche, fatte di tanti se e poche certezze.
Poi successe.
Un giorno Golfredo era a casa nostra e ci sarebbe rimasto. Io non lo volevo. Continuavo a chiedermi quando nonno Armando lo avrebbe sbattuto fuori casa. Quel giorno non avvenne mai, in compenso però ce ne andammo via tutte e tre il giorno che Psyco e Golfredo decisero di sposarsi. Non ricordo nemmeno se Psyco mi chiese qualcosa al riguardo, di certo anche se l’ha fatto non mi ha dato retta. Non volevo quell’uomo nella nostra vita, avevamo già così tanti problemi. Avevo ancora paura di Psyco e il suo futuro marito era un bestione di quasi due metri con mani grandi quanto la mia faccia, se anche lui fosse stato come lei e avesse iniziato a picchiarmi? Non ne sarei uscita viva.
Il giorno del matrimonio si dimenticarono di me, passai la maggior parte del tempo con la sorella di zia Giselle, fidanzata di zio Simone, nelle poche foto che feci con Psyco e consorte avevo sempre il muso. La settimana prima del matrimonio mi obbligarono a tagliarmi i miei splendidi capelli, dal sedere finirono corti fino alle spalle, entrai in lutto per una settimana senza uscire dalla mia cameretta. L’unica cosa positiva di quella convivenza e matrimonio fù la casa in cui ci trasferimmo.
Mi mancavano i miei nonni e i miei zii. Zia Angela per me è sempre stata una sorella e l’ammiravo tanto. Zio Simone è sempre stato come un papà, la mia figura maschile di riferimento.


La casa in cui eravamo andati a vivere era bella grande e avevo una cameretta tutta per me, con un bellissimo letto a castello. La stanza l’aveva imbiancata nonno Armando, e non perché sia mio nonno ma di certo era il miglior imbianchino della Lombardia, che seguendo le mie indicazioni aveva dato vita alla cameretta dei miei sogni. Le pareti erano azzurro cielo e mi aveva disegnato a mano le nuvole, sul soffitto Psyco mi aveva comprato le stelle fluorescenti che si illuminavano al buio. In quella cameretta non avevo mai avuto paura del buio e soprattutto di notte mi sentivo ancora più vicino al mio papà. Non avevo bisogno di andare fuori al balcone per cercarlo, le stelle le avevo nella stanza e mio padre nel cuore, era la stanza perfetta, doveva essere il mio rifugio invece divenne invece la mia gabbia.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** la mia ragione di vita ***


 
Quasi subito dopo la convivenza e il matrimonio il presagio che qualcosa di brutto stesse per accadere si concretizzò. Avevo avuto paura che quell’uomo potesse picchiarmi e non avevo poi sbagliato di tanto. Golfredo e Psyco litigavano spesso e molte volte finivano anche alle mani. All’inizio si trattava di qualche spintone e tante urla e offese. Dopo il matrimonio e la loro luna di miele le cose non erano cambiate se non per il fatto che erano partiti in due e tornarono in tre. Una mattina Psyco entrò nella mia stanza e si sedette sul mio letto, mi prese la mano e mi disse che riguardo al mio desiderio tra avere un cane o un fratellino, al quale io avevo risposto che desideravo un fratellino, si era avverato. Psyco era incinta e io verso giugno sarei diventata la sorella maggiore di un fratellino o sorellina. Ero contenta, euforica, emozionata, felice. Un fratellino era un desiderio che si avverava. Quando il ginecologo ci diede conferma in una delle ecografie che si trattava davvero di un maschietto mi sentivo al settimo cielo. La notizia di avere un fratellino è stata la luce in quel buio che da sempre mi aveva perseguitato. L’avrei amato, l’avrei protetto, avrei dato la mia vita per lui, avrei combattuto per lui. Quell’esserino che ora stava crescendo dentro alla pancia di Psyco era diventata la mia ragione di vita. Avevo fallito come figlia ma potevo riscattarmi come sorella. Sarei stata la sorella migliore del mondo, non gli avrei mai fatto mancare niente, gli avrei insegnato il rispetto, la sincerità e i valori che nonna Matilde mi aveva insegnato, l’avrei fatto sentire amato e mai si sarebbe ritrovato a piangere in un bagno chiedendosi perché era venuto al mondo, non si sarebbe mai sentito solo, perché lui avrebbe avuto me al suo fianco.
Il giorno in cui mio fratello Jonathan venne al mondo me lo ricordo come se fosse ieri. La sera avevo dormito da nonna Genoveffa e nonno Armando e la mattina presto Golfredo era venuto a prendermi per portarmi all’ospedale da Psyco e dal mio fratellino. Quando entrai in stanza quel batuffolo del mio fratellino era in braccio a Psyco che appena mi vide mi chiese se volessi tenerlo in braccio. Non me lo feci ripetere due volte. Appena lo presi in braccio pensai che fosse il bambino più bello al mondo, lo volevo strapazzare di coccole e baci. Mi sentivo così bene quando lo tenevo tra le mie braccia. Il primo giorno che rientrarono dall’ospedale ero su di giri, finalmente potevo stare tutto il tempo con Jonathan, beh a parte quando andavo a scuola. Dopo neanche una settimana che era nato Jonathan le cose a casa precipitarono. Avevo otto anni, ero ancora spaventata e per di più ora dovevo proteggere un’altra persona oltre me. Almeno una volta a settimana Psyco e Golfredo litigavano, non gli interessava che Jonathan piangesse, non lo sentivano nemmeno. Io mi chiudevo in cameretta, prendevo in braccio il mio fratellino canticchiando una melodia che mi risuonava sempre in testa mentre cercavo di cullarlo. Gli sussurravo all’orecchio che c’ero io con lui, che non doveva avere paura, che non era solo e che ora le urla sarebbero cessate, sarebbe tornato il silenzio e che finché saremmo rimasti insieme sarebbe andato tutto bene. Dall’altro lato della porta si sentivano i passi pesanti, le urla, i pianti di Psyco e infine le botte. Quando calava il silenzio mettevo Jonathan nella sua culla e uscivo dalla stanza, andavo a raccogliere alcune ciocche di capelli di Psyco dal corridoio e poi mi facevo forza e andavo da lei in cucina. Stava sempre seduta lì a piangere dopo ogni litigio. Io mi avvicinavo piano con l’intento di abbracciarla e dirle che sarebbe andato tutto bene, che potevamo tornare dai nonni e dagli zii, che non era giusto che Jonathan così piccolo dovesse assistere a tutto questo. Come ogni volta però lei non si faceva avvicinare, mi urlava di andarmene via e di nuovo ferita e rifiutata tornavo in camera mia, con la coda fra le gambe e il cuore ferito ma appena mi affacciavo dalla culla Jonathan mi sorrideva o allungava la sua piccola mano per cercare il mio dito e il cuore mi faceva meno male. Quel batuffolo, di cui ero tremendamente gelosa, tanto da mettere sulla carrozzina un cartello con su scritto “attenzione fragile”, per fare in modo che nessuno lo prendesse in braccio, era come sempre il mio spiraglio di luce. Jonathan è sempre stato la mia ragione di vita.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** un anno dopo... l'arresto ***


Il primo anno di vita di Jonathan volò, tra le solite urla e le botte. Mia zia Angela e nonna Matilde ogni giorno mi chiedono sempre cosa succedesse in casa. Molte volte Psyco non riesce a nascondere i lividi, soprattutto quelli che escono intorno agli occhi trasformandola in un panda. Nonostante nonna Matilde mi abbia insegnato che non si dicono le bugie, Psyco al contrario mi dice che se non voglio essere separata da Jonathan è necessario che menta. A ogni domanda della zia e della nonna allora racconto la bugia che avevo studiato la sera prima con Psyco. Una volta è andata a sbattere contro l’anta della cucina, un’altra volta è caduta dalle scale e un’altra ancora è scivolata mentre andava al lavoro. Verso metà anno però, sempre la zia e la nonna, iniziano a farmi domande strane riguardo a Golfredo. Ero troppo piccola per capire dove volessero andare a parare ed essendo domande a cui Psyco non mi aveva messo in guardia rispondevo sempre sinceramente. Appena ne avevano occasione mi chiedevano se il marito di mamma mi toccasse in modo strano o seppure mi facesse male in qualche modo ma la verità era che nonostante Golfredo picchiasse Psyco quasi sempre, con me e mio fratello si comportava bene. Non ci toccava con un dito, non ci minacciava e anzi ogni volta che avevo discussione con Psyco lui era sempre dalla mia parte. In un certo senso si può dire che mi fidassi più di lui che di lei. Nonna Matilde mi aveva detto che non si giudicano le persone ma che si valutano in base a come si comportano con noi. Se Golfredo era un pessimo marito non si poteva dire lo stesso in quanto patrigno. Non mi aveva mai obbligato a chiamarlo papà, né a volergli bene per forza, non mi costringeva mai ad andare con loro in qualche posto che non mi piaceva, anzi cercava di convincere la moglie a lasciarmi da mia nonna o a casa di mia zia. Il 25 giugno 2001, il giorno dopo il primo compleanno di Jonathan, però successe una cosa che ci riportò a vivere a casa di nonna Genoveffa e nonno Armando. Da quello che ero riuscita a captare nelle varie discussioni tra i grandi ero venuta a conoscenza che Golfredo quella mattina aveva rapinato una signora e che l’aveva fatto perché Psyco si lamentava sempre che c’erano pochi soldi. Anche se, nonostante tutto, mi ero affezionata a Golfredo ero sollevata di essermelo levato di torno. Psyco non avrebbe più pianto, Jonathan non avrebbe più pianto, saremmo tornati a vivere dai nonni e potevamo iniziare una nuova vita, solo noi tre. Ma come ho detto all’inizio le cose non sono mai andate come desideravo.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** il primo lutto ***


Tornare dai nonni era stato positivo. Non avevo più la mia cameretta ma i nonni e gli zii mi viziano tanto. Mi sentivo protetta e soprattutto il fatto di non dover più mentire, non avere più paura dei ricatti di Psyco che mi diceva che se avessi detto la verità su quello che succedeva in casa mi avrebbe separato da mio fratello mi rendevano libera. Ho pensato finalmente che potessi comportarmi come una bambina di nove anni qualunque. Psyco mi sgridava ancora certo e molte volte la gente le dava pure ragione, perché secondo loro facevo troppi capricci a causa di mia nonna Matilde che me le dava tutte vinte. Eppure, nessuno sapeva oppure faceva finta di non sapere di tutte le botte che mi ero sempre presa, esattamente come facevano finta quando vedevano i lividi sul volto di Psyco. Nessuno però sapeva che la nonna mi aveva insegnato che non sono le cose materiali che ti rendono felici, che oggi si poteva spendere 1000 lire ma che domani non dovevo fare i capricci se non poteva, che anche quando poteva comprarmi un intero reparto giochi mi faceva sempre sceglierne solo uno, chiedendomi se fossi convinta perché da grande avrei dovuto prendere decisioni difficili ed era giusto che imparassi a scegliere con la mia testa e soprattutto a non avere rimpianti. Ero viziata certo, non l’ho mai negato ma allo stesso tempo ho sempre saputo quando era il caso di fare i capricci e quando no.
In quell’anno venne a mancare nonno Marco, fu un duro colpo. Quando andai a trovarlo in ospedale mi scambiò per mio padre. Vedere nonna Matilde piangere fu una accoltellata al cuore. Lei ai miei occhi era una donna forte, fortissima, la migliore al mondo e vederla piangere mi destabilizzò. Se c’era una persona che non meritava di piangere, che non meritava di soffrire ancora era proprio lei. Le restai vicino insieme a mia cugina Susanna, che ha sempre considerato la nonna più una seconda mamma che una zia. Noi tre, seppur appartenenti a tre generazioni differenti, siamo sempre state molto unite. Quando ero piccola Susanna mi prendeva in giro dicendomi che era la nipote preferita di nonna Matilde e io le rispondevo che era bugiarda perché invece lo ero io. Ancora oggi quando ci facciamo gli auguri di compleanno ci prendiamo in giro su questo fatto con io che le faccio gli auguri chiamandola nipote n 2 e lei che mi risponde che in realtà è la n1.
Volevo un gran bene a nonno Marco e se dico sempre che la mia infanzia è divisa in due, una felice e una triste, come se l’avessero vissuta due persone distinte è anche grazie a lui e non solo a nonna Matilde. Io e nonno Marco condividevamo tante passioni. La prima su tutte era Robocopt di cui avevamo anche la cassetta, non ci perdevamo una sola puntata di “più forte ragazzi”, walker texas ranger o il tenente Colombo. Amavamo il wrestling e tante sono state le sgridate di nonna Matilde che ci intimava a non giocare alla lotta sopra il letto con il rischio di farci male, ma noi aspettavamo che lei se ne andasse, di sentire l’ascensore e poi ci trasformavamo nei wrestler Hulk Hogan e Andrè The Giant. Il sabato e la domenica mattina invece guardavamo i cartoni animati insieme e ActionMan era il nostro preferito. La sera, dopo Walker Texas Ranger, guardavamo Kenshiro, l’uomo Tigre e City Hunter, con nonna Matilde che si lamentava sempre di Ken perché nel frattempo mangiavamo e vedere cervelli spappolati non era il massimo. Perdere nonno Marco mi ha anche aperto gli occhi. Non ero mai stata una bambina affettuosa e lui se n’era andato senza che io potessi dirgli che gli volevo bene. Non gli ho nemmeno chiesto scusa quando quella mattina registrò una puntata di un film sul nastro in cui c’era la puntata dei Digimon, mio cartone preferito da sempre. Avevo fatto la pazza tanto che quella fu una delle poche occasioni in cui nonna Matilde si arrabbiò con me e mi fece la ramanzina perché stavo sbagliando. Alla faccia di chi credeva che la nonna me le facesse passare tutte lisce. Ricordo ancora che con me tenevo sempre il pupazzo di un Digimon a forma di gatto che quando si evolveva diventava un angelo donna. Non ci pensai due volte e glielo misi nel taschino della giacca con cui sarebbe stato vestito per il funerale e seppellito. Nonna mi chiese più volte se fossi sicura, era il mio pupazzo preferito e temeva che poi avrei pianto nel rivolerlo indietro. Io invece volevo che quel pupazzo andasse con il nonno, lui stava andando in cielo dal mio papà, ed era giusto che fosse accompagnato da un angelo. Lo so era una stupidata ma avevo otto anni e credevo ancora che prima o poi sarei entrata anch’io a Digiworld e sarei diventata una Digiprescelta. In realtà ci credo ancora. Credere che i Digimon esistessero e che anch’io ne avrei trovato uno mi rendeva felice e Angewomon (nome del Digimon angelo) era l’accompagnatrice perfetta per il viaggio che attendeva mio nonno. Non ricordo il funerale né i giorni dopo però ricordo la lezione che imparai, avrei dimostrato a tutti quelli che volevo bene che erano importanti per me, sarei diventata un pochino più affettuosa e soprattutto avrei imparato a dire ti voglio bene. Ricordo che la notizia della morte di mio nonno me la diede un’altra mia cugina fuori dalla scuola e nonostante tutto andai comunque a ritirare la pagella, ricordo ancora l’abbraccio con la maestra Maria. Era la maestra più severa; eppure, quella che devo ringraziare di più, senza di lei non avrei imparato a scrivere e a leggere e non avrei mai scoperto la mia più grande passione: i libri. Fu una sorpresa quando mi strinse tra le sue braccia e il calore che sentii. Avevo appena ricevuto una notizia brutta, sembravo inconsolabile eppure quell’abbraccio mi fece stare meglio. La rivalutai tantissimo, la vedevo più umana e meno severa. Non la ringraziai mai per quel gesto che mi aveva riscaldato il cuore.
Ma i ricordi più belli che ho con nonno Marco sono specialmente due. Il primo mi porta sempre tanta gioia e risate. Una mattina la nonna era uscita e il nonno mi chiese di apparecchiare la tavola. Non ricordo perché mi ribellai ma il nonno si arrabbiò. Iniziammo a rincorrerci per casa fino a quando non corsi fuori al balcone. La tapparella era abbassata e il nonno per rincorrermi fuori non se ne accorse e finì col tirare una capocciata contro la tapparella e cadde a terra. Nonostante facesse fatica ad alzarsi io lo lasciai lì steso. Nonna tornò e lo trovò ancora lì a terra, dopo averlo aiutato a rialzarsi gli scoppiò a ridere in faccia. È un ricordo forse stupido ma che a me fa davvero troppo ridere. Il secondo ricordo invece è uno di quelli che sono incinsi nel mio cuore. Un mercoledì la nonna andò al lavoro e mio nonno mi chiese se volessi andare con lui al mercato e visto che i cartoni erano tutti finiti accettai. Mentre eravamo in macchina e stavamo salendo la rampa dal box iniziai a dubitare che fosse una buona idea. Mi ero sempre divertita in macchina con il nonno, soprattutto quando tornavamo dalle vacanze in Calabria e il nonno mi chiedeva se volessi fare le gare e al mio si iniziava a superare le altre macchine con nonna che gli urlava di non fare stupidate, mentre io ridevo come una matta e mi sentivo come se fossi in macchina con Michael Schumacher. Arrivammo al mercato sani e salvi nonostante la mia titubanza iniziale. Girammo tutto il mercato e incontrammo anche le mie zie. Verso la fine del marcato però mi incantai davanti a un maglioncino bianco. Fossi stata con la nonna mi sarebbe bastato dire: nonna mi compri, ma con il nonno era diverso. Qualche volte aveva bisticciato con nonna proprio perché lei mi comprava di tutto e allora non me la sentivo di chiedergli niente. Lui però mi sorprese chiedendomi se volessi il maglioncino bianco. Tergiversai dicendogli che non c’era bisogno e che la nonna mi aveva detto che non c’erano tanto soldi e che quindi non serviva. Non so se lo ferii nell’orgoglio ma prese il portafoglio e mi mostrò tutti i soldi che c’erano dentro alche io esclamai: caspita nonno siamo ricchi! Mi rimproverò con il sorriso sulle labbra e mi chiese la mia taglia, appena gliela dissi lui mi sorprese ancora. Prese il maglioncino che avevo guardato per tutto il tempo ma anziché farselo dare bianco me lo prese azzurro, quando gli chiesi come mai mi rispose che sapeva che l’azzurro era il mio colore preferito. Quel maglioncino, a distanza di venti anni, è ancora dentro al mio armadio. Ogni tanto lo tiro fuori e fino a qualche anno fa riuscivo ancora ad entrarci anche se mi stava come un mini top.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** il primo tradimento ***


Negli anni seguente all’arresto di Golfredo mi avvicinai di più a Psyco. La notte lei ci stringeva e mi ripeteva che saremmo stati sempre insieme noi tre, io, lei e Jonathan. Ne ero felice. Facemmo anche una vacanza tutte e tre a Igea Marina, ci divertimmo tanto. Certo molte volte mi urlava ancora contro e qualche schiaffo partiva sempre ma dopo quello che aveva passato cercavo di capirla di più. Ero felice di essere solo noi tre anche se continuavamo a vivere ancora con gli zii e i nonni. Una sera però entrai in cucina mentre Psyco parlava con zia Giselle, sentii chiaramente che stavano parlando di avvocati. Ero piccola ma mica stupida, avevo visto abbastanza film polizieschi da sapere a cosa servisse un avvocato. Presi coraggio e chiesi a Psyco perché le servisse un avvocato. Mi disse con una voce dolce che stava chiedendo il divorzio a Golfredo. Non avrei dovuto essere così contenta di quella notizia ma non nascondo che invece lo fossi davvero. Psyco stava facendo davvero ciò che mi aveva promesso. Avremmo ricominciato solo noi tre. Potevo sopportare altre urla e sgridate se lei si stava davvero impegnando a mantenere fede alle sue promesse. Dopo qualche mese da quella sera Psyco mi presentò il suo nuovo fidanzato. Tonino era simpatico, aveva un figlio che era poco più piccolo di me con cui andavo tanto d’accordo, facendo scaturire la gelosia del mio fratellino. Mi divertivo un sacco quando andavamo a mangiare a casa sua. Non avrei mai chiamato Tonino papà però non mi sarebbe dispiaciuto se lo fosse diventato. Trattava bene Psyco e trattava bene sia me che Jonathan, cosa che per me era la più importante. Ogni sera aspettavo con ansia che Psyco iniziasse i discorsi come aveva fatto in precedenza con Golfredo. Ma lei non mi chiedeva mai se volessi andare a vivere con Tonino, non mi chiedeva mai se fossi felice che un giorno lui sarebbe diventato il mio nuovo papà e quello di Jonathan. Una notte pensai: ecco ci siamo ora me lo chiede, ma la notizia che ricevetti mi fece solo piangere. Psyco aveva lasciato Tonino, non mi disse mai il perché. Nemmeno sei o sette mesi dopo la sera in cui beccai Psyco a parlare di avvocati con zia Giselle ricevetti un’altra doccia ghiacciata. Golfredo era tornato a casa. Psyco mi aveva mentito, non aveva mai chiesto il divorzio, aveva preso in giro anche la zia. Mi sentii tradita. La donna che mi aveva messo al mondo, la persona che avrebbe dovuto proteggermi e amarmi più di tutti aveva preferito un uomo che la faceva piangere e la picchiava. Non ero la figlia perfetta è vero ma io non l’avevo mai ferita, non l’avevo mai fatta piangere e nonostante questo lei continuava a preferire quell’uomo a me. Giurai a me stessa che non mi sarei mai fidata di nessuno. Se la donna che ti mette al mondo è la prima che ti mente guardandoti negli occhi figuriamoci cosa possono farti gli sconosciuti.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** il buco nero ***


Passammo un po' di tempo a casa dei nonni finché Golfredo non trovò lavoro grazie all’aiuto di zio Simone. Ci trasferimmo in un’altra casa. Anche in questa avevo la mia cameretta che condividevo con Jonathan. Furono gli anni più brutti.
Jonathan cresceva e io insieme a lui. Non ero più una bambina, ora ero un adolescente. Ero ingrassata tanto e a scuola venivo presa in giro. Restavo sempre in silenzio.
Avevo imparato negli anni precedenti da Psyco la paura. Se avessi detto la mia e ai miei compagni non fosse piaciuto il mio pensiero? Se dopo le prese in giro mi avrebbero picchiato anche loro? Allora me ne rimanevo in silenzio, in disparte, la sfigata della classe, quella con le tette troppe grosse, la vegetale che non parla mai, che non ride, che parla a bassa voce e che odia educazione fisica. Parlavo solo con altre quattro ragazze. C’era una ragazza con cui ero cresciuta insieme. Avevamo frequentato la stessa classe fin dall’asilo ed eravamo capitate insieme anche a catechismo. Grazie a lei avevo fatto amicizia anche con le altre tre. Avevamo messo su un gruppo e cantavamo e scrivevamo le nostre canzoni. Una in particolare era dedicata alla nostra boy band preferita, i BLUE. Ma anche loro in qualche modo mi tradirono. 

Un pomeriggio stanca delle urla di Psyco, grazie anche all’assenza di Jonathan che era a casa di un amichetto, decisi di andarmene da casa. Mi rifugiai in palestra della mia scuola e li conobbi il mio primo fidanzatino. Era talmente perfetto che a volte mi chiedo se sia esisto davvero e non me lo sia immaginato. Ero tranquilla sui gradoni a scrivere pensieri a caso quando lui, che stava facendo gli allenamenti di basket, si mise seduto vicino a me. Parlammo per un po' poi riprese gli allenamenti. Rimasi lì a guardarlo, era davvero bello. Più grande di me, con gli occhi azzurri e i capelli castano chiaro sul biondo. Un vero e proprio principe azzurro. Di solito non parlavo mai, tanto meno con gli sconosciuti ma con lui fu diverso. Andai altre volte finché non iniziammo ad uscire insieme. Non dissi a nessuno di Dennis. Era il mio piccolo segreto. Quando tornavo a casa da scuola andavo da nonna Matilde, visto che lei lavorava potevo avere la scusa perfetta perché nessuno mi scoprisse. Staccavo il telefono di casa, uscivo con Dennis per poche ore e tornavo a casa prima del rientro di nonna. Quando lei o Psyco mi chiedevano perché non rispondevo al telefono di casa dicevo che lo staccavo perché mi mettevo a dormire e non volevo essere disturbata.
Avevo quattordici, casa mia era un incubo, Golfredo picchiava Psyco, Psyco picchiava me e io difendevo in tutti modi Jonathan. Ci chiudevo sempre in cameretta a giocare alla playstation, alzavo l’audio della tv per non fargli sentire il bordello.
Dennis era la mia fuga da questo incubo. Stavo bene con lui, era davvero un principe ma lui era comunque più grande e quando un giorno si spinse un po' oltre mi misi paura, non tanto per quello che sarebbe potuto succedere ma perché se mi fossi spogliata lui avrebbe visto i lividi, avrebbe fatto domande e io non volevo che lui sapesse. Era da quando avevo otto anni che nascondevo la verità a tutti.
Sapevo che nonna e i miei zii sapevano ciò che accadeva in casa mia ma speravo che finché io avessi rispettato la mia parte dell’accordo Psyco non avrebbe mai portato via Jonathan da me. Quindi mentivo e mentivo e mentivo ancora. Dennis però non si meritava le mie bugie, lui era l’unico che era andato oltre i miei silenzi, al mio peso in eccesso, lui era andato al di là della superficie, della maschera che facevo vedere a tutti, lui aveva voluto conoscermi davvero. Lo lasciai nemmeno una settimana dopo quel pomeriggio e ancora mi dispiace a ripensare allo sguardo triste che gli vidi fare quella volta. L’avevo ferito ma non potevo dirgli la verità, se lui poi avesse spifferato a qualcuno quello che succedeva in casa mia e mi avessero tolto Jonathan per sempre? Non potevo sopportarlo.
Ed ecco come scoprii che le mie amiche non erano poi tali. A loro, un giorno stanca delle solite prese in giro, raccontai di Dennis. Sembravano felici e mi fecero tante domande. Ero felice di condividere questa felicità con loro ma poco dopo lessi le loro dediche sui diari in cui dicevano che nessuno delle quattro credeva a Dennis, dicevano che me l’ero inventata, che era troppo assurdo che fosse spuntato dal nulla e che fosse finita dopo nemmeno pochi mesi. Certo, forse, in parte è anche colpa mia. Se avessi raccontato cosa succedeva in casa mia e che per paura di essere giudicata e picchiata anche scuola rimanevo sempre in silenzio, che avevo conosciuto Dennis dopo essere scappata di casa dopo l’ennesima litigata con Psyco forse mi avrebbero anche potuto credere. Fece male ma rimasi di nuovo in silenzio. Io ero quella che cercava di mettere pace. Poi un giorno scoppiai e le smascherai. Si sentirono un po' in colpa ma passò subito in secondo piano perché tanto non valeva poi così tanta pena darmi retta se altre due del gruppo stavano litigando. Ci sciogliemmo prima della fine della terza media. Ma ancora oggi quando penso a quei tempi ricordo solo i momenti divertenti e comunque sia erano le uniche amiche che ho avuto in quegli anni e di questo gli sarò sempre grata. 

Le cose a casa come detto non miglioravano. Ogni giorno era sempre peggio. A volte le liti erano così brutali che ero costretta a chiamare i miei nonni. A volte veniva zia Angela che ci portava a casa sua, altre veniva nonna Genoveffa e altre zio Simone. Nessuno riusciva però a convincere Psyco a lasciare quell’uomo. Odiavo quando ci ritrovavamo tutti a mangiare a casa dei nonni a far finta di essere la famiglia felice che non eravamo. Ero costretta a recitare soprattutto quando andavamo ai compleanni o a cena dai vari prozii. Tutti si lamentavano che ero troppo silenziosa. Io volevo solo stare da nonna Matilde. Li nessuno mi giudicava, nessuno mi diceva dove ero sbagliata. Parlo troppo poco, guardo troppi cartoni animati, sono troppo viziata, devo uscire di più, e io dico ma una pentolaccia di fatti vostri no? E poi quando hai quattordici o quindici anni non sei più una bambina.
Quelle persone, miei famigliari, erano delle vere e proprie vipere. Il ritrovo dell’ipocrisia. Tutti sapevano cosa succedeva in casa mia, tutti però a fare bella faccia a cattivo gioco. Nessuno che si alzasse in piedi e mettesse Golfredo alla porta, nessuno che minacciasse Psyco che al prossimo livido che vedevano sui suoi figli glieli avrebbero portati via. Due secondi prima tanti complimenti e poi appena uscivi da casa loro ti buttavano vagonate di fango. E poi ovvio loro potevano farlo con te ma tu con loro? MAI.
Loro sono perfetti in tutto per tutto, certo perfetti per sparare a zero sulla vita degli altri perché loro sono talmente poveri di valori e rispetto che altrimenti non avrebbero niente di cui parlare. Troppo impegnati a giudicare la vita e gli sbagli degli altri piuttosto che farsi un esame di coscienza e guardare la merda in casa loro.

Quegli anni li chiamo buco nero perché dopo Dennis successe che un pomeriggio mio fratello tornò a casa con un occhio nero. Mi disse che era stato nostro cugino Steven, si passa sei mesi con Jonathan, dopo che avevano litigato. Gli credetti fino a quando sentii una chiamata di Psyco con una delle nostre tante zie in cui scoprii che l’occhio nero era stata lei a farglielo. Non potevo permetterle anche questo. Mi ero lasciata picchiare per tutti quegli anni, prendendo anche quelle che erano per Jonathan, avevo sopportato di mentire, avevo sopportato il dolore, mi chiudevo in bagno per non farle sentire le mie lacrime, avevo sopportato le sue urla, avevo sopportato di pagare le conseguenze delle sue scelte sbagliate, ma mio fratello? No, lui non doveva imparare a mentire, non doveva subire ciò che avevo subito io e soprattutto non doveva mettere mio fratello contro di me. Aspettai che finisse di parlare al telefono e l’affrontai. Fortuna Golfredo era ancora a lavoro ma mio fratello era in casa. Dopo le ennesime urla si precipitò in cucina mettendosi in mezzo a me e Psyco. Piangeva e Psyco non perse tempo a colpirmi dove faceva più male. Iniziò a dirmi: - guarda! Guarda cosa gli stai facendo è colpa tua se lui piange. È colpa tua se lui sta male!
Incassai il colpo. Abbracciai mio fratello, lo tranquillizzai. Lasciai perdere Psyco, non si meritava nessuna considerazione. Non l’avrei dimenticato ciò che aveva fatto quel giorno ma ora mio fratello era più importante. Ci misi più del solito a calmarlo. Si sentiva in colpa, diceva che era colpa sua se io e Psyco avevamo litigato e impiegai davvero troppo tempo a fargli capire che lui non aveva fatto niente di male, non era colpa sua. Guardare ogni giorno quell’occhio nero di mio fratello era come guardare il mio personale fallimento. Avevo giurato di proteggerlo e invece si ritrovava a dover mentire alle maestre e ai suoi compagni, aveva un occhio nero ed era colpa mia perché quando lui aveva avuto bisogno di me io non ero lì con lui a proteggerlo. Avevo fallito come figlia e ora anche come sorella. Non potevo parlarne con nessuno. Molti pomeriggi andavo al cimitero da mio papà a parlare con lui. Gli scrivevo tantissime lettere che poi lasciavo sulla sua tomba. A volte quando invece a casa c’era Jonathan lo portavo con me in biblioteca. Capitava qualche volta che quando quei due litigavano non si rendevano conto che uscivo con mio fratello. Molte volte ho provato a scappare di casa ma non sapevo dove andare e non avevo i soldi necessari.
Jonathan era ancora piccolo e anche se mi avesse seguito in capo al mondo non ne aveva comunque la forza e ci avrebbero scoperto subito. Potevo parlarne con nonna Matilde ma dopo la morte del nonno si era ritrovata con i debiti e non volevo darle altre preoccupazioni. Sarei potuta andare dalle mie zie ma non volevo che litigassero con Psyco a causa mia.
Ero sola.
Di nuovo.
Il pensiero di andare a dormire e non svegliarmi più diventava sempre più forte. Ero stanca di combattere. Mi sembrava di combattere contro i mulini a vento. Sapevo chi era il mio nemico ma nonostante fossero passati anni, nonostante non fossi più una bambina continuavo a non essere abbastanza forte da riuscire a sconfiggere Psyco. Una sera andammo a mangiare dai nonni e Psyco e Golfredo litigarono tanto che lui prese e se ne andò. Io tenevo Jonathan in braccio, guardai Golfredo andarsene e uscire dal portone poi guardai Psyco con occhi supplicanti e le dissi: - ti prego rimani con noi. Scegli noi. Non inseguirlo, lascialo andare. Ti prego, mamma noi abbiamo bisogno di te. Ti prego scegli me, scegli noi. 
Lei mi rispose di prendere l’ascensore e dire ai nonni che loro sarebbero arrivati dopo e se ne andò dietro a lui. Era la seconda volta che sceglieva lui a noi, a me. Ancora non ero abbastanza per lei. Mi resi conto che non lo sarei mai stata. Speravo però che almeno per Jonathan sarebbe stato diverso. Presi quell’ascensore e per la prima volta quando zia Angela mi chiese perché loro non ci fossero dissi la verità, avevano litigato. 
Anche se dissi la verità purtroppo i miei zii avevano le mani legate e Psyco continuava con la sua violenza psicologica su di me. A quattordici anni mi venne regalato un computer, conobbi tanta gente on line, tra cui anche due mie fidanzatini, se così si possono chiamare. Se andavo male a scuola o non facevo ciò che diceva lei mi veniva tolto il cellulare, poi sky, poi il computer il che comprendeva non sentire il fidanzato e quando ormai a furia di minacce e ricatti iniziavo a perdere interesse per ogni cosa lei colpì più in alto. Se non andavo a recitare la parte della famiglia felice a quella cena con parenti, se non dicevo che quel livido sul braccio me l’ero fatta giocando a palla avvelenata allora non mi avrebbe più mandato a casa di nonna Matilde. Poteva togliermi tutto ma no la mia nonnina.
Ho sempre saputo che Psyco soffrisse perché io ero più affezionata a nonna che a lei, ma Psyco non ha mai provato a fare la madre. La differenza tra Psyco e nonna Matilde è che Psyco ha sempre scelto altro mentre nonna Matilde ha sempre scelto me, ha sempre vissuto per me. Nonna Matilde è la donna che mi ha cresciuta insegandomi valori come rispetto, onestà, che mi ha insegnato a non mentire e ad avere una conoscenza. Ma soprattutto mi ha insegnato a non vergognarmi mai di me stessa e di ascoltare sempre il mio cuore senza pensare al giudizio degli altri. È grazie a lei che ogni mattina posso lavarmi una faccia sola. 

Nonostante Jonathan sia la mia ragione di vita in alcuni giorni non è abbastanza. Quando incontro la signora del terzo piano che abita sotto di noi, vorrei scomparire. Anche lei sente sempre le urla e anche le botte. Penso sempre che prima o poi chiamerà i carabinieri e ho paura. Paura che ciò che dice Psyco si avveri, se arrivano i carabinieri poi arriveranno anche gli assistenti sociali e infine mi porteranno via da Jonathan. Noi gli assistenti sociali l’abbiamo già avuti, quando Golfredo venne arrestato Psyco ci portò da queste persone. Ci separavano e mi facevano disegnare e mi ponevano tante domande. Ma io ormai ero esperta a mentire e riuscivo a deviare tutte le loro domande, nessuno mi avrebbe portato via mio fratello. Disegnando però mi tradii. Feci quel disegno soprappensiero e disegnai la mia famiglia con la differenza che Golfredo lo disegnai come un serpente. Quando mi chiesero il perché risposi troppo sinceramente: ho sempre avuto la fobia dei serpenti. Venni picchiata quel giorno per quel disegno da Psyco e la frase che mi disse mi ghiacciò il sangue nelle vene, per colpa mia avrebbero potuto portarmi via da Jonathan. Per fortuna non dovemmo andare più e gli assistenti sociali divennero solo un brutto ricordo che non avevo voglia di rivivere. 
Nei miei quindici anni successe che Psyco venne a scoprire che molte volte mi ero sentita male a scuola ma che invece di chiamare lei chiamavo nonna Matilde che veniva a prendermi. Si arrabbiò tanto e se la prese anche con la nonna. Alla fine dopo una lunga litigata mi disse che se il giorno dopo non fossi voluta andare a scuola sarei potuta restare a casa. Non misi la sveglia quella sera e mi addormentai tranquilla. La mattina dopo, verso le sei, venni svegliata da Psyco che pensò bene di tirarmi giù dal letto a castello prendendomi dai capelli. Iniziai a urlare che mi stava facendo male ma a lei non importava e riuscì a buttarmi giù dal letto. Sbattei con le ginocchia. Continuavo a dirle che mi stava facendo male e di lasciarmi andare. Mi trascinava dai capelli, dalla camera al bagno. Gli dissi che lei mi aveva detto che potevo stare a casa e non andare a scuola ma si arrabbiò ancora di più e partì il primo schiaffo. Lo sapevo che sarei dovuta stare zitta ma a questo giro era più forte di me. Era un fatto di principio. Non avevo sbagliato niente, lei mi aveva detto che potevo restare a casa mica l’avevo deciso io di mia iniziativa. Più le rispondevo cercando di farle capire che era stata lei a dirmi di non andare a scuola e più mi picchiava. Golfredo era a lavoro e come sempre in casa invece c’era Jonathan. Stava dormendo nel lettone in camera da letto e quando si svegliò iniziò ad urlare anche lui. Psyco aveva continuato a picchiarmi in faccia e io come sempre non provai nemmeno a difendermi. Mio fratello urlava di lasciarmi stare, che mi stava facendo male, che mi stava uscendo sangue. Ma Psyco non lo sentiva e io continuavo a dire a Jonathan che stavo bene e che non si doveva preoccupare, di tornare a letto che non stava succedendo niente. Lui però non andava a dormire e continuava a piangere e a urlare. Psyco continuava a colpirmi come se non ci fosse un domani. Poi mi lasciò per terra mezza scassata, Jonathan si stava buttando tra le mie braccia ma lei lo prese da un braccio e me lo portò via, in sala. Continuava a dirgli che io non mi meritavo niente, che stavo bene, che ero una stronza, che stavo fingendo e che lui non si doveva preoccupare. Jonathan però le disse che non era vero, che perdevo sangue, che mi aveva fatto male. Mi alzai a fatica e solo perché dovevo andare da Jonathan, il suo pianto non era regolare, stava avendo un attacco di panico. Era seduto sul divano, il respiro spezzato dal pianto mentre continuava a chiamarmi con il mio soprannome: TATA.
Psyco però mi intercettò e tornò a picchiarmi. Ogni schiaffo veniva accompagnato da un’offesa o peggio da accuse. Uno schiaffo ed ero una stronza. Un pugno ed era colpa mia che mio fratello piangeva. Cercavo di liberarmi, di andare da Jonathan, la supplicai di lasciarmi andare da lui, cazzo stava avendo un attacco di panico. Ma lei continuava a picchiarmi e a bloccarmi e poi indicava mio fratello con un dito dicendomi come sempre: - guarda! Guarda cos’hai fatto! Sei una stronza! Non dovevo metterti al mondo, dovevo abortire! Guarda cosa stai facendo a tuo fratello, è colpa tua se lui sta male!

E tornava a prendermi a pugni. Jonathan sul divano continuava a stare male mentre cercava di dire a Psyco che non era colpa mia. Guardavo mio fratello con occhi supplicanti cercando di fargli capire che doveva stare zitto, che non era necessario prendere le mie difese. Poi qualcosa in me si ruppe definitivamente, Jonathan era diventato color pomodoro mi sembrava che da un momento all’altro potesse smettere di respirare e allora a ogni colpo che mi dava Psyco anziché piangere o imprecare dal dolore iniziai a ridere. Se Jonathan mi avesse visto ridere forse si sarebbe calmato, forse avrebbe pensato che non mi stesse facendo male. Sembrò funzionare, Jonathan riprese a respirare anche se continuava a piangere ma il fatto di ridere mandò ancora di più su tutte le furie Psyco che prese la rincorsa e mi trascinò fino alla lavanderia. Andai a sbattere contro la lavatrice, sentii un dolore acuto alla schiena e caddi di schiena per terra. Psyco era sopra di me e continuava a riempirmi di pugni ma io non facevo altro che ridere. Sicuramente avevo anche sbattuto la testa senza rendermene conto perché quando Psyco fece quella corsa per buttarmi a terra io immaginai un wrestler di nome Edge, di cui la mossa finale si chiamava spear ed era appunto una rincorsa con spallata che buttava giù l’avversario. Mentre Psyco mi picchiava io  stavo immaginando un incontro di wrestling e la cosa mi faceva ridere. Ridevo e ridevo mentre Psyco continuava a colpirmi. Però poi lo sentii, Jonathan si era alzato dal divano e continuava ad urlare a Psyco che si doveva fermare che mi stava uccidendo. E quando vidi che lui si stava avventando contro di lei allora trovai la forza di alzarmi e respingerla. Lui non doveva finire in mezzo a questo massacro. Non era lui che doveva proteggere me ma io lui. Riuscii a prendere Psyco in contro piede e mi catapultai da Jonathan. Lo portai con me sul divano e pian piano riprese a respirare bene, le lacrime iniziarono a fermarsi. Ci guardavamo occhi negli occhi mentre entrambi ci accarezzavamo il viso. Era un bambino; eppure, faceva molto attenzione a non farmi male. Psyco tornò poco dopo da chissà dove, ero così presa a calmare mio fratello che mi ero dimenticata persino della sua esistenza e del fatto che si trovasse ancora in casa. Aveva una valigia con sé, sperare che se ne andasse era davvero troppo e infatti mi disse che quella valigia era per me, che se avessi voluto avrei potuto andarmene a vivere a casa di mia nonna Matilde. Ero felice, finalmente una bella notizia ma Jonathan riprese a piangere e ad attaccarsi al mio braccio come un koala. Mentre gli spiegavo il fatto che anche se andavo a vivere in un’altra casa non sarebbe cambiato niente tra noi, che ci sarei sempre stata per lui, che avrei continuato ad andare a prenderlo a scuola, ad aiutarlo con i compiti, mi avrebbe sempre trovato al suo fianco ma Psyco pensò bene di mettere il carico. Iniziò a dirgli che tanto ero una stronza e che non gli volevo bene, che per me esisteva solo mia nonna. Dicevo a mio fratello di non ascoltarla che sapeva benissimo che per me lui era la persona più importante e di fidarsi di me. Guardai Psyco con cattiveria, questa esattamente come l’occhio nero non gliel’avrei  fatta passare liscia. La sfidai apertamente dicendole che era a lei che non volevo bene e non a mio fratello, che era da lei che volevo scappare non da Jonathan. Lei mi mise la valigia in mano e mi aprì la porta di casa, mentre stavo varcando la soglia mi disse: - sappi che da oggi non hai più una madre e se esci da questa porta scordati anche di avere un fratello perché non te lo faccio vedere più!

Avrei voluto picchiarla. Avrei voluto restituirle tutti i pugni e gli schiaffi che non solo mi ero presa quel giorno ma anche tutti quelli passati. Posai la valigia e tornai dentro sconfitta. Mi misi a sedere sul divano con mio fratello e accesi la tv su la casa di topolino, ai quei tempi era uno dei programmi preferiti di mio fratello. Mentre noi rimanemmo abbracciati stretti a coccolarci Psyco come sempre andò in cucina a sedersi e a piangere. Questa volta non mi alzai, non l’avrei più fatto. Quel giorno mi disse che non avevo più una madre ma non si era mai resa conto che lei una figlia l’aveva perduta anni prima. 
Quello stesso giorno, poche ore dopo nonna Genoveffa chiamò Psyco per dirle che era arrivato del lavoro da fare in casa e se poteva scendere a prenderlo che lei non poteva salire. Con aria bastonata chiese a me di andarlo a prendere. In macchina con nonna Genoveffa c’era zia Giselle che appena vide la mia faccia tumefatta dai lividi e gli occhi gonfi dal pianto stava salendo su per andare a pestare Psyco. Non c’era bisogno di chiedere niente, bastava guardarmi in faccia per capire cosa fosse successo. Lei me lo chiese lo stesso e io le raccontai tutto. Era davvero arrabbiata e nonostante non avessimo nessun legame di sangue sapevo che ci voleva bene, infondo era anche la madrina di mio fratello insieme a zio Simone. La dovetti fermare buttandomi sulle sue gambe. La implorai di non salire, vidi la sua indecisione negli occhi ma alla fine acconsentì e se ne andò via con nonna Genoveffa.
Zia Giselle è sempre stata una tra le mie zie preferite. Non abbiamo legami di sangue ma l’ho trovata sempre dalla mia parte. Per colpa della mia famiglia ne ha passate tante e solo perché innamorata di zio Simone. Certo non è che sia perfetta, diciamo pure che quando ci si mette le sa rompere bene le scatole ma è una di quelle poche persone di cui mi fido e che mi ha dato speranza che non tutti ti stanno vicino per doppi fini ma solo perché a te ci tengono davvero. Fui molto grata che quella mattina non salì. In passato la zia e Psyco avevano già litigato. Be’ la zia aveva litigato un po' con tutti proprio perché nella sua famiglia, a differenza della nostra, non sanno cosa sia l’ipocrisia e quindi diciamo che si era fatta riconoscere subito. Quando si era lasciata con zio Simone mia madre mi aveva addirittura vietato di non salutarla e di smetterla di chiamarla zia. Figuriamoci se le avevo dato retta. Se dovevo valutare zia Giselle per come si era comportata con me in quegli anni che era stata la fidanzata di zio Simone dovevo farle solo un monumento affianco alla statua che avrei fatto anche per zia Angela. Quindi dovunque la vedessi continuavo a salutarla e a chiamarla zia e d’altronde avevo ragione io. Del resto, poi è tornata con lo zio, si è sposata e hanno avuto due bambine, la quale una è anche la mia figlioccia, ma di quella scassa palle della mia figlioccia ne parleremo sicuramente più avanti.
 
Quando rientrai in casa Psyco si era data una calmata e mi chiese tutta preoccupata se qualcuno mi avesse chiesto qualcosa. Mentii, infondo me l’aveva insegnato lei. 
Dopo quel giorno, non potei andare a scuola per due settimane, Psyco aveva il terrore di quello che avrebbero pensato le prof. La scuola non mi piaceva, avevo sbagliato a sceglierla e per di più facevo molto fatica a reggerne il ritmo. In quel primo anno di superiori non feci amicizia con nessuno. Molte volte venni anche umiliata dalla prof d’italiano alla quale mi ribellai dopo aver fatto un tema dedicato a nonna Matilde e presi un misero quattro. Andai dal preside che mi cambiò il voto in un bel dieci dicendomi che l’avevo fatto anche emozionare. Non fu facile gestire la prof che cercava in tutti modi di mettermi in difficoltà e quando chiamò Psyco per dirle a marzo che ormai la mia bocciatura era già decisa e che non sarei riuscita a recuperare prima di giugno, per la prima volta Psyco prese le mie difese dicendo che non mi stava dando nemmeno l’occasione per recuperare e che per quanto la riguardava poteva già bocciarmi adesso perché mi avrebbe ritirato quello stesso giorno da scuola. Ci avvicinammo un po' in quel periodo con Psyco. Aveva preso le mie difese per la prima volta, mi ero sentita importante, forse Psyco aveva solo un problema a dimostrare che in realtà mi volesse bene e dovevo solo cercare di capirla di più. Ma figuriamoci se con lei poteva essere davvero così facile. Nemmeno dopo un mese litigammo per telefono. Voleva che andassi con lei a prendere Jonathan ma io quella volta non mi sentivo benissimo e non ne avevo voglia. Venne da nonna Matilde a fare casino. Iniziò come sempre ad urlarmi contro ed a offendermi. A questo giro oltre che stronza ero anche puttana. Mi scappò una risata, non era per farla arrabbiare o prenderla in giro, ma insomma quale persona sana di mente da a una vergine della puttana? Mi venne da ridere al solo pensiero che lei potesse pensare una cosa del genere di me. Non la prese bene e arrivò il primo schiaffo. Ma adesso ero stufa di continuarle a prendere senza mai reagire. Ero stufa di dover essere io a voler desiderare di raggiungere mio padre fin da quando ho memoria. Iniziai a risponderle che se ne doveva andare, che non era a casa sua, che avrebbe messo in imbarazzo nonna con tutte queste urla. Non poteva presentarsi a casa della gente per bene, che tra l’altro si trovava a lavoro, e urlare e fare la pazza. Ma quando difendevo mia nonna o la nominavo era come gettare benzina sul fuoco con Psyco e mi arrivò il secondo schiaffo. Seguirono i vari sei una stronza, ho sbagliato a metterti al mondo e poi fece l’unica cosa che non avrebbe mai dovuto fare. Non so se quel giorno Psyco avesse deciso di morire ma alla fine mi sorprendo ancora che ne siamo uscite vive tutte e due.
Quando iniziò a dirmi che ero una stronza di sorella, che non volevo bene a mio fratello, che non me ne fregava niente di lui che lei glielo avrebbe detto la minacciai. Ebbene sì dopo quindici anni passati a subire e ad avere paura presi coraggio e la minacciai. Le dissi guardandola negli occhi che su di me poteva dirne di ogni, che la sua opinione aveva smesso di contare già tempo prima ma che mai e poi mai si sarebbe dovuta permettere di giudicarmi come sorella o di intromettersi nel mio rapporto con mio fratello. Mi prese in giro sbeffeggiandomi, dicendomi ancora e ancora che ero una sorella di merda e che Jonathan me lo poteva portare via quando voleva e quando iniziò ad avvicinarsi con fare minaccioso la intimai di non avvicinarsi di più ma non mi diede retta. La mia cinquina le finì dritta sulla guancia destra, fu la soddisfazione più grande della mia vita. Tirandole quello schiaffo era come se avessi spezzato le catene, ora non avrebbe più potuto farmi niente. Se mi avesse toccato con un altro dito le avrei fatto passare le pene dell’inferno, lo stesso inferno che lei aveva fatto patire a me. Rimase scioccata solo per una frazione di secondo e poi riscoppiò ad urlare dicendo la solita solfa con l’aggiunta che non avevo rispetto, che non dovevo osare colpirla, che ero una figlia di merda, che lei mai si era permessa di colpire i suoi genitori e che me l’avrebbe fatta pagare. Ero pronta ad accompagnarla alla porta quando lei si girò di scatto e riuscì a portarmi dal corridoio fino a sbattermi contro l’angolo del bagno. Mi mise le mani al collo inchiodandomi contro il muro. Mi offendeva e continuava a stringere. La guardai negli occhi e le sorrisi. Finalmente eravamo arrivate al momento cruciale, quello finale.
Negli anni era andata vicina molte volte a farmi così male che avevo desiderato morire e ora stava accadendo. Diceva sempre che come mi aveva fatto così mi avrebbe disfatto. Erano anni che aspettavo quel giorno. Il giorno in cui avrei smesso di respirare, il giorno in cui Psyco avrebbe portato a termine quello che ogni volta iniziava per non finire. Non pensai a niente, nemmeno a Jonathan anche perchè sapevo che zia Angela e zia Giselle si sarebbero prese cura di lui. Non pensai nemmeno al dolore che poteva provare mia nonna Matilde quando avrebbe trovato il mio corpo senza vita nel suo bagno. Stavo per morire per mano di chi mi aveva messo al mondo, dalla persona che avrebbe dovuto proteggermi. Stavo per morire a quindici anni, avevo ancora tutta la vita davanti eppure ero felice. Ero lì che aspettavo di vedere mio padre che mi porgeva la sua mano e mi portava via da quest’inferno quando Psyco si fermò e se ne andò. Mi accasciai a terra e proprio come quando avevo tre anni mi raggomitolai su me stessa, in un altro bagno, e iniziai a piangere. Nonna Matilde mi ritrovò ancora lì quando tornò a casa da lavoro. Le raccontai cosa fosse successo ma non le dissi mai che l’unica cosa che pensavo in quel momento era la voglia di raggiungere mio padre. L’avrei ferita se non uccisa. Lei viveva per me e io non dovevo avere quei pensieri. Lei e Jonathan contavano su di me, dovevo essere forte per me ma anche per loro. 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** si inizia a crescere ***


A sedici anni cambiai scuola e feci amicizia con una ragazza che non smetterò mai di ringraziare. Lei era la figlia di un’amica di Psyco e anche la sorella di un compagno di squadra di calcio di Jonathan. La nostra amicizia iniziò come ogni cliché. Lei super carina e alla moda, sempre truccata e perfetta e io la tipica ragazza acqua sapone che se ne rimaneva in silenzio. Io la consideravo una stronzetta lei mi considerava una sfigata. Cambiammo entrambe scuola e caso del destino scegliemmo la stessa e fortuna volle che capitassimo nella stessa classe e diventammo compagne di banco. All’inizio non fu facile instaurare un rapporto, alla fine però diventammo buone amiche. Lei mi dava la grinta e lo sprint giusto, mi faceva vivere esperienze della mia età e io invece la tenevo un po' con i piedi per terra, ero la sua confidente e la sua consigliera. Anche lei litigava spesso con sua madre e ogni mattina ci aggiornavamo su quella litigata piuttosto che quell’altra. Grazie a lei iniziai a curarmi di più, a vivere di più. Iniziai anche a fumare con grande stupore dei miei famigliari che non lo credevano possibile. Instaurai anche un bel rapporto con altri miei compagni di classe e poi ci fu l’anno in cui venne inventato MSN. Anche grazie a quel social, se così si può chiamare, iniziai ad avere sempre più fiducia in me stessa. Molte volte messaggiavo con i miei compagni di classe anche per ore, però poi quando li vedevo a scuola dubitavo ancora di me e del mio modo di pensare o di poter essere giudicata. Jessica era però il mio sostegno, con lei vicina, pronta a difendermi come una buona amica mi lasciai andare sempre di più. Iniziai a trovare il mio vero carattere, il mio vero io. Non avevo più bisogno di nascondermi, non dovevo avere paura di essere me stessa. Su MSN non avevo mai paura del giudizio degli altri, cosa che era veramente stupida considerando che poi quelle persone le avrei incontrate il giorno dopo a scuola, faccia a faccia. I primi tre anni di superiori passarono in fretta. Avevo degli amici a cui volevo bene e che mi volevano bene a loro volta. Le loro dediche sul diario erano motivo di orgoglio e felicità per me. Tutti quanti mi dicevano di come fosse bello poter parlare con me e di come fosse stata una sorpresa scoprire che sotto quell’apparenza timida si nascondesse invece una persona simpatica e pronta ad aiutare. In prima superiore, a sedici anni, perdo anche la verginità. Qualcosa che nemmeno ricordo a parte lo sguardo di nonna Matilde che mi disse che l’avevo delusa. Non ero innamorata di quel ragazzo, in realtà non lo conoscevo nemmeno bene, era un amico di un mio amico. Se ho un rimpianto? Si sicuramente è questo, non aver aspettato la persona giusta, una persona che amavo, che rispettavo e che a sua volta mi amava e rispettava.




A casa le cose vanno meglio. Litigare con Psyco è all’ordine del giorno, ma sono finite le minacce di separarmi da Jonathan, anche le botte, da quel giorno in cui mi ribellai, finirono. Le litigate erano le tipiche litigate tra madre e figlia. Anche Golfredo era cambiato. Litigavano ancora, a volte soprattutto durante il week end e di prima mattina, tanto che io iniziai ad andare a dormire con le cuffie e la musica ad alto volume, vizio che ho conservato anche adesso a ventotto anni. Psyco però non si smentisce nemmeno in questo periodo di calma apparente. Quando litiga la sera con Golfredo, vari sono i motivi e tante volte nemmeno li ascolto, e arriva al culmine inizia a piangere e prima di sbattere la porta di casa per andarsene minaccia Golfredo dicendogli: - ora prendo la macchina e mi vado a schiantare contro un palo o un muro, se muoio è tutta colpa tua!




Io e Golfredo, che negli anni abbiamo instaurato un bel rapporto, pur non chiamandolo mai papà, ci guardiamo con fare complice ed esasperato. Le prime volte eravamo preoccupati e cercavamo la mamma che puntualmente andava a prendersi il caffè da zia Angela, che nel frattempo si era sposata con zio Matteo e aveva avuto due figli, Andrew e Alexia, rispettivamente il mio Nano e la mia Scimmietta.


Jonathan era l’unico che si spaventava. Quando Psyco faceva queste sceneggiate mi tornava la voglia di prenderla a schiaffi. Per ferire Golfredo non pensava minimamente a suo figlio. Jonathan passata la prima mezz’ora in cui Psyco non tornava a casa iniziava a piangere e a tremare. Ogni volta veniva da me a dirmi: - la mamma si è andata uccidere. È tutta colpa papà, lui è cattivo e non va la nemmeno a cercare.


Io gli dicevo che sua mamma aveva detto una bugia, che tanto dopo qualche ora sarebbe tornata a casa come sempre, che era inutile preoccuparsi e che non avrebbe mai avuto il coraggio di distruggere la macchina. Ma lui non mi credeva mai e continuava a piangere finché Psyco non rientrava come se non fosse successo niente. In quei momenti non sapevo se odiare più lei o se prendere a testate mio fratello. Insomma, era una cosa di ogni giorno che quei due litigassero e poi lei se ne andasse minacciando di andarsi a uccidere per poi tornare a casa come se niente fosse e tornare tra le braccia di Golfredo. Ma mio fratello non riusciva a capirlo e continuava, giorno dopo giorno, a vedere suo padre come nemico e sua madre come la vittima. Io da parte mia, ormai grande, capivo quando sbagliava uno e quando sbagliava l’altro, ma Psyco con il suo comportamento, mettendo paura a Jonathan facendolo tremare e piangere per ore, mentre lei beveva tranquillamente caffè a casa della sorella mi mandava in bestia. In casa era come se si fossero formate due fazioni. Io e Golfredo, vittime a giorni alterni della pazzia di Psyco e Psyco e Jonathan che qualunque cosa facessero avevano sempre ragione e se le cose non andavano come dicevano loro iniziavano a piangere a sbraitare e dire bugie. Cercavo di spiegare a Jonathan che doveva essere imparziale e che essendo ancora piccolo non riusciva a capire bene le discussioni. A lui non interessava, mamma aveva ragione papà era il cattivo. Non capivo nemmeno Psyco. Aveva sempre detto che con Jonathan si sarebbe comportata meglio, che siccome aveva già perso una figlia non avrebbe sbagliato anche con suo figlio. E invece suo figlio stava crescendo odiando suo padre e lei anziché mettere pace sembrava che glielo mettesse sempre più contro. Non l’ho mai capita, mi diceva sempre che se stava con Golfredo era perché io ero già cresciuta senza padre e che non era giusto che anche Jonathan subisse la stessa cosa, eppure non faceva niente per aiutare Golfredo a instaurare un rapporto, seppur minimo con suo figlio.


Le figuracce che Psyco e Golfredo ci facevano fare ogni giorno, a ogni festa o ricorrenza erano davvero troppe. La storia è sempre la stessa, litigano, lei urla, prende la porta la sbatte e ciao ciao. Ormai io ne ero talmente abituata che nemmeno li sentivo più ma come sempre per Jonathan e diverso.


In questi anni vado spesso a dormire a casa di nonna Matilde e per lunghi periodi mi trasferisco anche da lei. Esattamente come quando ero piccola, casa di nonna Matilde è il mio posto sicuro, il mio rifugio. Mi diverto quando sto con lei e anche se ho imparato a vivere di più, ad uscire di più i sabati sera passati a giocare a carte con lei e a cantare a squarciagola le canzoni di Eros Ramazzoti rimangono sempre i miei preferiti. Non c’è niente che io non racconti alla nonna e lei dal canto suo è sempre pronta a spronarmi, incoraggiarmi, guidarmi e anche a cazziarmi quando sbaglio. Soprattutto però lei è sempre pronta a proteggermi e mi sarei risparmiata un sacco di delusioni e pugnalate al cuore e alla schiena se solo le avessi dato retta.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** la differenza tra albero genealogico e famiglia ***


Negli anni dopo la mia nascita i miei zii si sono sposati e hanno avuto a loro volta dei figli. In totale siamo novi nipoti. Io sono la prima, la Falsona è la seconda, Jonathan e Steven, Andrew, Jolie, Alexia, Grace e infine Alexander.
Mia madre ha due sorelle e un fratello. Di zio Simone e zia Angela ne ho già parlato, se fino ad ora non ho mai menzionato Gertrude non l’ho fatto per dimenticanza ma proprio perché se fosse stato possibile non l’avrei nemmeno nominata, così come sua figlia, a cui non darò nemmeno un nome ma solo il suo soprannome, Falsona. Quest’ultima e suo fratello Steven sono appunto figli di Gertrude, Andrew, Alexia e Alexander sono figli di zia Angela e infine Jolie e Grace sono le figlie di zio Simone.
Amo tutti i miei cugini, l’ho sempre amati. Mi sono sempre divertita a fargli da baby-sitter. Mi butterei nel fuoco per loro. Come gli dico sempre, a parte i soldi, possono sempre contare su di me. Li difenderò sempre e cerco almeno in parte di guidarli. Quando erano più piccoli spesso li passavo a prendere e li portavo al parco. Ho degli splendidi ricordi con ognuno di loro. Steven era il cuginetto con cui giocavo alla playstation e andavo al Game stop, Andrew era un casinista ed è inutile negare che io abbia sempre avuto un debole per lui. Nonostante nonna mettesse i lacci per bloccare i mobili lui riusciva sempre ad aprirli e tirare fuori le pentole e poi ricordo che si incantava a guardare le pubblicità e non i cartoni. Jolie ha sempre avuto la passione per il pallone. È sempre stata timida e non la sentivi mai parlare a parte quando si trattava della sua squadra di calcio del cuore; il Napoli. Quando si trattava del Napoli era una radiolina. Alexia invece era una scimmietta. Quando si impuntava che dovevo prenderla in braccio e io mi rifiutavo lei si arrampicava sulle mie gambe finché alla fine non vinceva lei, esattamente come quando si buttava a terra piangendo nei supermercati. Grace è la mia figlioccia, amava i peluche enormi quando la portavo in giro all’Auchan e crescendo ha sviluppato una lingua che a volte mi chiedo da chi abbia preso. Tranquilli lei la risposta ce l’ha, d’altronde ogni volta che le dico qualcosa di negativo mi risponde che essendo io la sua madrina lei ha preso da me. Alexander invece è il più piccolo, il mio Fufi, quando era piccolo me lo portavo sempre dietro e quando le signore mi fermavano per farmi i complimenti per lo splendido bambino io ringraziavo, d’altronde era bello sentirsi dire: ma che bella mamma giovane, ma guarda come si è rimessa in forma, complimenti a lei e al bambino. E poi il soprannome è derivato dal fatto che quando rientravo a casa Alexander appena mi vedeva mi seguiva per tutte le stanze gattonando.
Io e la Falsona ci passiamo tre anni, quando ero piccola l’adoravo. Quando però lei aveva tre anni e io sei iniziammo a litigare, lei a volte mi dava dei forti morsi e io non potevo mai reagire altrimenti Psyco si arrabbiava e mio nonno Armando mi diceva sempre di portare pazienza perché lei era la più piccola. Io lo facevo e poi tornavamo a fare pace. A Natale ci chiudevamo in bagno per non essere scoperte e ci spoileravamo tutti i regali che eravamo riuscite a scoprire. Siamo cresciute così, insieme. Lei esattamente come me non aveva tante amiche e non usciva mai di casa. La sola differenza tra me e lei è che io avevo paura di espormi per quello che succedeva in casa lei invece aveva il vizio di guardare tutti male e sparare a zero su tutti. A volte la rimproveravo altre le davo ragione. Quando io iniziai ad uscire con Jessica o con Elena, un’altra mia amica che aveva il fratello che giocava a calcio con Jonathan, la Falsona iniziò a mostrarsi per quello che era. Sparava sempre veleno sulle mie amiche, mi metteva in guardia da chi sa che cosa e cercava in tutti i modi di passare più tempo insieme a me. All’età di quattordici anni io conobbi tramite un sito dedicato al wrestling un ragazzo che divenne poi il mio fidanzato. La nostra storia era platonica e a distanza, lui giù in Puglia io in Lombardia. In quei due anni facemmo un sacco di tira e molla e nei periodi in cui non stavamo insieme rimanevamo sempre amici. Proprio in uno di questi vari tira e molla la Falsona se ne uscì dicendo che in estate aveva rincontrato Federico.
Questo ragazzo era un pizzaiolo che un’estate aveva lavorato nella pizzeria della cognata di Gertrude e la Falsona si era presa una cotta, fecero una foto insieme che mi mostrò al suo ritorno da Napoli. Io lo trovai davvero bruttino ma insomma doveva piacere a lei. L’anno dopo che riscese a Napoli e poi tornò su mi disse che l’aveva rivisto, che si erano scambiati i numeri e i contatti messanger. Ero felice per lei anche se in realtà non è che fosse una notizia che mi entusiasmava tantissimo. Lei però si fidanzò con un altro ragazzo, uno del Lazio e con questo Federico ci rimase amica. Lui, a detta di lei, la considerava come una sorellina e lei il suo migliore amico o fratellone. Lei iniziò, in uno dei periodi in cui ero tornata single, a parlare sempre di più di questo Federico e da come lo descriveva sembrava proprio il mio tipo ideale. Un giorno mi diede il suo indirizzo messanger perché lui voleva conoscermi, visto che lei parlava spesso e volentieri di TATA, ovvero di me. Iniziammo a messaggiare e non nascondo che dopo poco tempo sentivo che questo ragazzo iniziasse a piacermi sempre di più. Di campanelli di allarme ce ne furono molti ma io continuavo a fidarmi della Falsona e non prestai troppo attenzione. Solo ora mi rendo conto della mia stupidità e scemenza. Federico stranamente con me non poteva mai fare videochiamate, seppur più grande di me, e quindi intorno ai diciannove anni, sua mamma gli ritirava il cellulare e quindi non poteva chiamarmi o scrivermi. Quando mi mandò delle foto la prima volta notai subito che non c’entrava niente con il ragazzo della foto dell’anno prima che mi mostrò la Falsona. Lei si inventò mille scuse, appoggiata anche da sua madre, in cui è normale che la gente cambi in un anno. Dopo varie foto però il dubbio mi prese sempre di più, era evidente che non era sempre lo stesso ragazzo ma la Falsona continuava a trovare scuse. Aveva tredici anni che motivo poteva avere per mentirmi? Mi sono voluta fidare nonostante il mio sesto senso mi gridasse che era una grandissima presa in giro. In più ogni volta che sentivo Federico su messanger mi sembrava di parlare davvero con il ragazzo perfetto, a volte mi capiva senza bisogno che gli spiegassi niente. E questo suo modo di fare fu per me il classico salame negli occhi. Avevo tutti gli indizi per capire che c’era qualcosa di poco chiaro; eppure, continuavo a fidarmi e a far finta di niente. Le foto erano sempre diverse ma ormai mi ero innamorata di quel ragazzo su messanger che sapeva sempre cosa dirmi per farmi tornare il sorriso. Michael, il mio ex, cercò di mettermi in guardia così come fece mia nonna Matilde ma come sempre io feci di testa mia. Quando la sorella di Federico rimase incinta di due gemelli anche a zia Angela, incinta di Alexander, iniziò a sentire puzza di bruciato. Ovviamente sospettava di Federico e non della Falsona. Le foto dei bambini erano sempre diverse, a volte erano più piccoli e a volte sembravano avessero già compiuto tre anni. Fece anche lei delle domande ma idem come me venne presa in giro. Quando io iniziai a intuire qualcosa Gertrude disse che lei però una sera aveva parlato con Federico al telefono facendosi spiegare la ricetta per la pizza.
Alla fine, Federico mi disse che si era innamorato di me e io ne fui felice perché provavo lo stesso per lui. In estate sarei scesa con i miei prima a Roma e poi a Roma. La Falsona sarebbe scesa con noi, così avrebbe potuto incontrare il suo fidanzato Laziale.


Ero in fibrillazione quell’estate. Era il primo anno a cui rinunciavo alle vacanze con nonna Matilde giù in Sardegna e sarei tornata dalla città che più amavo, la mia Napoli e finalmente avrei incontrato il ragazzo che mi aveva fatto perdere la testa per tutti quei mesi. Andammo prima a Roma dai parenti di Golfredo, incontrammo anche il fidanzato della Falsona. La sera prima di andare a Napoli la Falsona chiamò Federico, già si stava inventando scuse e poi attaccò, quando vide la mia faccia perplessa mi disse con tono da innocentina: scusa non ho pensato a passartelo.


Ora vi chiederete ma perché se lei poteva chiamarlo tu no? A beh bella domanda. A quanto pare se la memoria non mi inganna l’aveva sentito tramite il telefono della sorella e poi comunque sarebbe stata una doppia sorpresa.


Nei mesi prima della partenza a Napoli Federico era salito con la sorella su a Milano e a detta della Falsona lui era andato a prenderla a scuola e poi era passato anche da casa mia, ma siccome io ero al telefono con Jessica non avevo sentito il citofono e quindi non l’avevo potuto incontrare.
Il giorno che arrivammo a Napoli non stavo più nella pelle. La Falsona iniziò a chiamare Federico che sparì dalla circolazione. Iniziò con un sacco di scuse, le quali nemmeno me le ricordo. Ero delusa e amareggiata e i tutti i pezzi del puzzle si unirono, il salame cadde dagli occhi e capii di cosa fosse stata capace mia cugina, sangue del mio sangue. Quel giorno capii anche l’enorme differenza tra albero genealogico e famiglia. La famiglia ti protegge, ti guida, non servono legami di sangue, zia Giselle è una prova di ciò che sto dicendo, l’albero genealogico è solo chi condivide con te qualche parente e qualche gene. Far parte dello stesso albero genealogico non significa portarsi rispetto, volersi bene, proteggersi o amarsi. Essere una famiglia è guardarsi le spalle a vicende, è fiducia, è il posto che chiami casa.


Delusa e amareggiata lasciammo la Falsona a casa dei suoi parenti, suo cugino, che ho sempre considerato anche mio, e sua zia mi credettero subito. Antony mi disse pure che lui aveva cercato di mettermi in guardia, che dovevo saperlo che lei fosse bugiarda, che bastava vederla come si comportava con lui, che davanti faceva la bella faccia e poi dietro ne diceva un fracco e una sporta. Lui e sua zia mi portano dall’amica napoletana della Falsona che disse chiaramente che lei non ha mai visto questo ragazzo e non ne sapeva nemmeno l’esistenza e che non era vero che era stata a casa sua, né lei né la Falsona. Mia cugina mi aveva raccontato un sacco di bugie, decisi di cancellarla dalla mia vita nonostante mia madre cercava di mettere pace e cercare di capire chi fosse questo ragazzo, se anche la Falsona era stata presa in giro. Ma per favore una che ti ripete per un anno intero che aveva passato ogni giorno con questo ragazzo, che era andata a giocare a casa sua a carte molte sere, che lui era andato a prenderla fuori scuola poi arrivi a Napoli e ti dicono che non è vero. Ecco dove si manifesta l’ipocrisia della mia famiglia. Per mia madre e i miei nonni dovevo perdonarla, perché poverina lei non l’avrebbe mai fatto, sicuramente era stata presa in giro anche lei. Peccato che a me le stronzate le avesse dette proprio lei e non un’altra persona. Avete presente quando si dice “com’è piccolo il mondo”? be’ a Napoli è davvero piccolo. Dopo aver lasciato la Falsona dai suoi parenti, andammo a Pozzuoli dalla migliore amica di mia mamma e gli raccontammo subito l’accaduto. Anna, migliore amica di mamma, ha tre figli, due più grandi di me e uno più piccolo. Susy e Peppe sono i grandi e quest’ultimo è da sempre il mio migliore amico. Loro due mi accompagnarono di nuovo nel paese dove si trovava la Falsona e fermammo tutti i passanti chiedendo se conoscessero questo Federico, ma nessuno sapeva chi fosse. Susy, che di cazzimma ne ha da vendere, andò a citofonare mia cugina e le chiese di scendere. Ci facemmo portare dove, secondo la Falsona, abitava questo fantomatico Federico. Controllammo tutti i citofoni e infine chiedendo a qualcuno nel condominio entrammo e cercammo anche porta a porta. A sì perché non ve l’ho detto, la cara cuginetta aveva passato un mese e passa a casa di questo ragazzo, raccontandomi tutti i dettagli di casa, che magicamente l’anno dopo non si ricordava più il palazzo, il piano e la porta. Ad alcuni bussammo pure chiedendo sempre di questo Federico. Una vecchietta, di quelle sveglie e senza peli sulla lingua, ci disse chiaramente che lei erano anni che viveva là e non c’era nessuno Federico così come non aveva mai visto la Falsona. Susy e Peppe cercarono di estorcere altri dettagli da quella che sull’albero genealogico è considerata come mia cugina, ma lei si mise a piangere facendo la vittima, passando noi tre per dei bulli e se tornò a casa. Il giorno seguente venne il parrucchiere a casa di Anna e raccontammo anche a lui questa storia e il parrucchiere sbiancò. Il ragazzo della prima foto, quella della Falsona con il primo Federico, il pizzaiolo altro non era che il fidanzato attuale della nipote del parrucchiere. Lui la prese a ridere ma ci disse chiaramente che se sua nipote fosse venuta a conoscenza di quello che aveva fatto mia cugina sarebbe andata a pestarla, perché nessuno doveva permettersi, e giustamente direi io, di far passare il suo fidanzato per una persona che non è. Anche se non dovevo sentirmi in colpa era più forte di me. Se io cercando poi su facebook questo Federico l’avessi trovato e scritto? L’avrei fatto litigare inutilmente con la sua attuale fidanzata. Io avrei voluto che il parrucchiere dicesse la verità alla nipote, era giusto comunque che sapesse e due sberle a quella traditrice di mia cugina avrebbero fatto bene. Figuriamoci però se mia madre avrebbe permesso mai una cosa del genere, povera la sua nipotina e fanculo come sempre sua figlia, i suoi sentimenti e il fatto che aveva subito un torto e che era stata presa in giro e ferita.


Dopo una settimana, scesero i genitori della Falsona e stranamente ecco che si scopre che Federico non si chiama Federico, che non è di Napoli ma è pugliese e che anche la poveretta Falsona è stata presa in giro. Ora va bene che per sei mesi ho avuto il salame sugli occhi ma quanto pensavano che fossi diventata stupida? Davvero era stata presa in giro? Persino io che non l’avevo mai conosciuto a questo ragazzo avevo subito notato la differenza dalla prima foto alla seconda e sua maestà Falsità non si era accorta che erano due persone diverse? E questo ragazzo pugliese che aveva tanto l’accento napoletano e poco del pugliese l’aveva trovato proprio lei? E soprattutto era forse uno stalker? Come faceva lui a conoscere e a sapere soprattutto che l’anno prima la Falsona era stata in quella determinata pizzeria e che aveva conosciuto quel determinato pizzaiolo che aveva quel determinato nome? Vabbe mia madre e Golfredo fecero finta di crederci e mi spronarono in tutti i modi a far pace con la Falsona. Io ero irremovibile e per fortuna dalla mia parte avevo Susy e Peppe, che si comportarono come due fratelli maggiori molto protettivi. Mi divertii un sacco con loro a Napoli, girammo tanto e mi sentivo in famiglia. Peppe, che è un bravissimo cantante, ogni mattina mi svegliava cantando e dedicandomi la canzone Tu si una cosa grande. Andavamo al mare e mi presentò anche il suo ragazzo e un loro amico. Andammo anche in una delle cale più belle campane. Nonostante la batosta ero felice. Avevo degli amici splendidi, ero nella città che più amavo al mondo, mangiavo da Dio, Anna era come una seconda madre, il profumo del lungo mare, ero felice. Ero in pace. Decisi comunque di raggiungere nonna Matilde giù in Sardegna, avevo bisogno di qualcuno che mi capisse appieno però, che soprattutto non mi costringesse tutti i giorni a far pace con una persona che per me aveva smesso di esistere. Anche lì venni viziata a più non posso, i miei zii con cui mi passo non tanti anni di differenza mi portavano in giro e la mattina andavo al mare con nonna, sua sorella e suo cognato. Ripresi la calma e mi beai di quell’affetto famigliare che solo la famiglia di nonna è sempre riuscita a darmi.


Una volta tornata a Milano ripresi ad uscire con un’altra mia amica che in passato andava a scuola con la Falsona. Un giorno lei venne a casa mia e parlando del più e del meno le raccontai anche questa storia. Lei mi confermò che sua maestà Falsità non era mai stata presa a scuola da nessun ragazzo né tanto meno accompagnata. Le mostrai anche le foto del famosissimo Federico al quale lei sbiancò appena le vide. Praticamente grazie a Laura, la mia amica in questione non che ex compagna di classe della falsa, scoprii che in alcune foto questo benedetto Federico era l’ex di Laura. Lei gli scrissi subito davanti a me e venne fuori un altro casino perché anche questo ragazzo, che purtroppo mi sfugge il nome, era fidanzato e se la sua ragazza l’avesse saputo, oltre a litigare con lui, sarebbe andata a picchiare la falsa. Questo ragazzo voleva persino sporgere denuncia visto che erano state prese delle sue foto dal suo blog e spacciate per un altro ragazzo, violando non solo la sua privacy ma mettendolo anche in una condizione bruttissima con la sua ragazza. Alla fine, Laura gli disse che se ne sarebbe occupata lei e lui acconsentì a non denunciare la falsa. Se me ne sono pentita di questa scelta? Ogni giorno della mia vita. Questa era un’ulteriore prova che la mia carissima cuginetta tredicenne era non solo falsa ma davvero cattiva. Aveva pensato proprio a tutto. Peccato che non ha mai capito una cosa. Io non sono lei. È vero con Laura per un po' non ci siamo parlate ma non perché avessimo litigato o ci fossimo buttate merda, ma semplicemente perché avevamo fatte nuove amicizie e quindi c’eravamo perse un po' di vista. Lei questo però non l’aveva calcolato e rubare le foto del ex di Laura è stato uno dei tanti errori che ha commesso. Peccato che la mia famiglia è quella che è, e alla fine io ero la cattiva che aveva rinnegato la cugina e la falsa era la povera santa che era stata ingannata da un ragazzo brutto e cattivo. Mia madre e zia Angela cercavano di farmi far pace ma io ero irremovibile. L’unica che sembrava capirmi era zia Giselle. Nonna Genoveffa poi non ne parliamo proprio. Per lei dovevo avere come amica solo la sua nipotina. Tutte le altre mie amiche per lei non andavano bene, la prima era sicuramente una troietta, la seconda era falsa, la terza faceva il doppio gioco ma lo schifo che faceva sua nipote però andava bene, e certo era sangue del suo sangue, mia cugina, e le parentele valgono di più di affetti sinceri. Quello che il mio albero genealogico però non capiva era che io non ero più la bambina impaurita di un tempo e che il periodo in cui mi facevo mettere i piedi in testa era finito. Ai pranzi di famiglia io continuavo a ridere e scherzare con tutti i parenti, evitando la Falsona, mentre lei poverina si metteva con il muso e lo sguardo da cane bastonato seduta da qualche parte. State a vedere che dopo quello che mi aveva combinato dovevo pure muovermi a compassione? Figuriamoci! Se lei non si trovava bene con i suoi parenti era un problema suo, non c’era scritto da nessuna parte che dovesse per forza interagire con me, io la evitavo alla grande e mi divertivo lo stesso. Ma si sa che nella mia famiglia ciò che riesce meglio è sparare merda, fare torti e poi dimenticarseli. Hai subito un torto? È stato un tuo parente? E va be puoi anche perdonarlo, cosa vuoi che sia? Prendi un tappeto, prendi la merda che ti hanno lanciato e nascondila là sotto. Col piffero che io potessi fare una cosa del genere. Resistetti un po' di mesi finché mio nonno, stanco e abbattuto per questa situazione venne a parlare con me. Amai il modo in cui mi parlò come uno del suo livello e non come una bambina che stesse facendo i capricci e si stesse impuntando su una stupidata. All’inizio nemmeno lui riuscì a farmi cambiare idea ma un giorno mi prese da parte e me lo chiese con le lacrime agli occhi di perdonarla o comunque di tornarle a parlare per il bene della famiglia, ma soprattutto come favore personale nei suoi confronti. Quando un uomo come mio nonno, che ho visto piangere solo al matrimonio delle sue figlie, viene da te a piangere e a chiederti un favore non puoi dire di no. Molto contro voglia tornai a parlarle. Sembrò che tutto tornasse alla normalità ma il peggio e il declino doveva ancora arrivare.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** l'anno delle perdite ***


A diciassette anni nonno Armando scoprì di avere un tumore alla pelle. Per fortuna non fu niente di grave. Venne operato e filò tutto liscio e tirammo un sospiro di sollievo. Quell’anno zia Angela rimase incinta di due gemelli, purtroppo ne perde uno a inizio gravidanza e a dicembre nasce Alexander. La nascita di Fufi fu l’unica notizia positiva di quell’anno.


Qualche mese prima, mia madre mi venne a prendere alla metro, cosa non da lei, e nel parcheggio, una volta salite in macchine, iniziò a piangere a dirotto. Non ne capii il motivo finché non trovò il coraggio di darmi la notizia. Nonno Armando aveva un tumore alle ossa, era inguaribile, gli rimanevano dai quattro ai sei mesi di vita. Abbracciai mia madre, che nel corso degli anni avevo smesso di chiamare Psyco. Avrei voluto dirle che sarebbe andato tutto bene ma era una menzogna per cui le disse la cosa più logica: vedrai la supereremo insieme.


Io non piansi. Lo so può sembrare strano. In quegli anni tornai a vivere con i miei nonni. Andavo nel week end a casa di mia madre e durante la settimana dormivo a casa dei nonni o da nonna Matilde. Mio nonno era diventato il mio migliore amico. Lui stava sempre al bar finito il lavoro e quando io passavo di lì mi offriva sempre l’Estathè e io non perdevo occasione per andarlo a salutare. Nonno era anche il mio pusher di sigarette. Prendendo tutte e due la mattina la stessa metro lo incontravo spesso e se non avevo soldi per le sigarette o mi facevano storie per l’età mandavo lui. Ogni volta gli davo due euro per il pacchetto da dieci che condividevo con Jessica ma lui me li restituiva e mi comprava quello da venti. Ovviamente era il nostro segreto. Anche quando avevo smesso di fumare e poi avevo ripreso lui era stato il primo, dopo nonna Matilde, a saperlo e come sempre mi copriva. A volte capiva anche quando fingevo il mal di pancia e mi faceva da spalla con nonna Genoveffa e mamma. Mio nonno era famoso per due cose: il russare e per il dormire in piedi in metro. Come riuscisse a stare in equilibrio in metro tra le varie frenate e poi svegliarsi alla fermata giusta rimane ancora un mistero. Ma soprattutto, esattamente come nonno Marco, ho un ricordo particolare nel cuore dedicato lui. Una sera dopo essere andata a vedere la partita di calcio allo stadio tornai a casa in lacrime. Avevo avuto una delusione d’amore e quando tornai a casa andai dritta a piangere fuori a balcone nonostante piovesse. Ero ancora tutta imbacuccata con sciarpa e cappello e cercavo disperatamente di accendere una sigaretta. Nonno si svegliò e senza fare domande prese una sedia e un ombrello. Venne fuori al balcone con me e mi si mise vicino. Si sedette sulla sedia e aprì l’ombrello riparandoci entrambi. Restammo fuori in silenzio per parecchio tempo. Non mi chiese niente, non volle sapere niente. Quando finii tutte le lacrime che avevo in corpo rientrammo e prima di andare a letto mi disse semplicemente: domani avrai sicuramente mal di pancia. Io penso alla nonna tu però poi chiami tua mamma e l’avvisi di non essere andata a scuola.


Nonostante ciò che dissero i medici mio nonno dopo quattro mesi era ancora con noi e riuscì a partecipare al mio diciottesimo. Fu un bellissimo compleanno. Ricordo le lacrime di quella sera. C’erano tutti i miei parenti, erano tutti lì per festeggiare me, mi sentii importante. Mio zio Matteo mi dedicò persino la canzone di Eros Ramazzotti “più bella cosa” .  Nonna Matilde mi regalò il mio primo pc portatile e le feci fare una figuraccia perché sorpresa da quel gesto esclamai: nonna non dovevi, ti sarà costato tantissimo e non navighiamo nell’oro. La quale mi rispose: Tata muccala, ti sembrano cose da dire!


I miei nonni invece mi regalarono dei soldi. Quando aprii la busta non riuscii a trattenere le lacrime. Andai subito ad abbracciarli e a dirgli che dopo tutto quello che stavano facendo per me, che già vivevo con loro, non avrebbero dovuto farmi niente. Fu la seconda volta che vidi mio nonno piangere per me. C’eravamo commossi.


Una settimana dopo il mio diciottesimo litigai con Michael, con il quale nel frattempo ero tornata insieme dopo la storia di Federico. Mi lasciò per uno sbaglio mio che feci tra l’altro in un periodo in cui non stavamo insieme. Ero troppo innamorata però per rendermi conto che avrei dovuto mandarlo solo a quel paese. Lui non si era nemmeno presentato al mio diciottesimo facendomi non solo restare male ma anche facendo una figuraccia con mia madre e le mie zie che non vedevano l’ora di conoscere il ragazzo con cui stavo ormai insieme da quattro anni. Nonostante questo e il fatto che mio nonno potesse andarsene via da un momento all’altro la mattina dopo il litigio mi svegliai alle sei, andai da nonna Matilde a prendere i soldi del compleanno e il libretto postale. Dissi a lei e ai nonni che sarei andata con la mia migliore amica Marta a un concerto a Como. Mi credettero subito, io e Marta eravamo famose per le ore di attesa agli instore dei vari artisti e gli inseguimenti al taxi di Marco Carta. Eravamo già state a Como per un concerto. Invece andai in centrale da sola e presi il treno che mi portò giù in Puglia. Ai tempi non esistevano power bank e non c’erano porte usb dove ricaricare il cellulare. La mattina mamma mi ordinò di andare a cena a casa di una zia perché era il suo compleanno e io le risposi di no. Partì come sempre un litigio e così spensi il telefono. Lo riaccesi solo più tardi, a metà del viaggio e mi chiamò la Falsona. Voleva uscire e quando gli dissi che non potevo e non potendo usare anche con lei la scusa di Marta, visto che era anche sua amica, le dissi la verità. Risultato? Poche ore dopo mia madre mi stava minacciando di mandarmi i carabinieri perché sapeva dove mi stavo dirigendo. A volte mi chiedo se mia madre usasse la bocca tanto per dare fiato. Avevo diciotto anni, mi ero allontanata liberamente da casa, avevo i soldi, lei sapeva dove mi trovavo i carabinieri non avrebbero potuto fare niente. Quando arrivai dopo otto ore di viaggio mi catapultai in braccio a Michael. Una volta che mi chiarii con lui feci la ricarica al cellulare e mandai un messaggio a mia madre. Giocai sporco, lo so, in quel messaggio gli spiegai il mio gesto e poi conclusi dicendole che anche mio padre per lei avrebbe fatto lo stesso, e infatti si addolcì e mi lasciò stare. Una volta fatto questo però i sensi di colpa iniziarono a divorarmi l’anima. Da quando avevo saputo della malattia del nonno non mi ero mai staccata da lui. Mi ero ritirata da scuola perché appena prendevo il pullman mi venivano attacchi di panico. Il giorno che mamma mi disse della malattia mi ero ripromessa solo una cosa, non avrei pianto ma avrei passato ogni giorno con mio nonno per costruirmi ricordi indimenticabili, per piangere avrei avuto tutto il tempo una volta che lui se ne fosse andato. Come se non bastassero i sensi di colpa il cellulare si scaricò e nessuno aveva un carica batterie e quindi non potevo sapere come stesse nonno. Michael mi regalò anche le fedine e un pupazzo di Hi-Ho. Erano i miei regali di compleanno. Il giorno dopo tornai a Milano pronta agli schiaffoni di mia madre che invece non arrivarono. Presa da quel buon umore raccontai tutto quello che avevo fatto sfoggiando la fedina, a quella vista mamma per poco non svenne, pensava che mi fossi sposata. Quando chiesi di mio nonno mamma disse che stava bene e tirai un sospiro di sollievo. La sua reazione, la paura di averlo deluso mi fecero tremare le gambe una volta arrivata fuori alla porta di casa. Venne nonna Genoveffa ad aprire che mi girò la faccia dicendomi che lei non mi avrebbe più rivolto la parola. Sai che peccato o che disgrazia. Manco avessi ucciso un uomo. Nonna Matilde mi guardò solamente, non era arrabbiata ma piuttosto confusa e forse un po' si sentiva tradita perché era la prima volta che le mentivo così. La verità è che non le dissi niente perché sapevo che mamma se la sarebbe presa con lei e in qualche modo volevo proteggerla. Sapevo che il primo posto in cui sarebbe andata a cercarmi e scoprire dove fossi era proprio da nonna Matilde. Quando entrai nella stanza del nonno avevo paura. Lui però appena mi vide si alzò dal letto mettendosi seduto e mi disse come se fosse del tutto normale: sei tornata? E io: si si nonno, ti sono mancata? E quando mi rispose di sì gli dissi: aspetta che ti racconto tutto. Mi misi seduta vicino a lui a raccontargli tutto nel dettaglio, con il cuore leggero e felice. Mio nonno mi amava ancora, gli ero mancata e non era arrabbiato. Nonno diceva sempre che parlavo tanto e a volte quando tornavo a casa per non sentirmi faceva finta di dormire ma lo sgamavo subito perché si dimenticava di fare finta di russare. Una volta andai a ballare con Jessica, dopo un anno che c’eravamo perse di vista. Mio nonno mi aspettò sveglio ma quando sentì l’ascensore si mise a letto, peccato che lo beccai dal fatto che aveva spento male la sigaretta e non stesse russando. La notte ci alzavamo per bere il latte e mangiare i bomboloni. L’ho detto e lo ripeto mio nonno negli ultimi anni della sua vita era diventato il mio migliore amico.
A giugno dell’anno dopo la scoperta della malattia del nonno, dopo una lunga battaglia contro il tumore al seno, venne a mancare Lucy, mamma di Antony. Era giovanissima e oltre a lasciare Antony diciassettenne lasciò anche Alex, il fratellino di Antony. Morì a Napoli e non potei andarla a salutare. Quando Antony tornò a Milano cercai nel limite del possibile di stargli vicino. Io non potevo capire il suo dolore e anche se eravamo cresciuti insieme e da piccoli avevamo avuto una sbandata l’una per l’altro, ma insomma si parla dell’asilo, avevamo preso strade diverse. Lo conoscevo ma allo stesso tempo non lo conoscevo. Volevo stargli vicino ma non sapevo come fare. Non volevo uscirmene con belle frasi fatte, uscite dai cioccolatini o essere presuntuosa, facendo finta di capire un dolore che non potevo nemmeno immaginare. Quindi quelle volte che lo vedevo per prima cosa lo abbracciavo e poi lo ascoltavo parlare.
Nonno peggiorava sempre di più. Doveva andare in giro con la bombola d’ossigeno e molte sere cadeva a terra. Io cercavo di tirarlo su mentre nonna urlava come una matta che avrebbe chiamato l’ambulanza, poi zio Simone, Golfredo e infine zio Matteo. Nonno si arrabbiava e la rimetteva in riga e così mi dava una mano a tirarlo su. Faceva male vedere nonno conciato così. Lui era sempre stato un uomo d’altri tempi. Aveva sempre mantenuto la famiglia, mai preso un giorno di malattia a lavoro, lavorava da mattina presto fino al pomeriggio e poi andava a farsi la passatella al bar. Era un bravissimo cuoco e adoravo quando cucinava il pesce. Molte volte andava lui a pescare e tornava sempre con un secchiello pieno di granchi che poi faceva sfilare sul tavolo prima di cucinarli.


Nonno e nonna non sapevano del male che aveva colpito la nostra famiglia, sapevano solo del tumore alla prostata, i medici avevano detto che nascondere la verità era la cosa migliore. A volte i pazienti si lasciano andare prima del tempo dopo queste notizie e riguardo a nonna Genoveffa lei non era abbastanza forte per sopportare una notizia del genere.


Venti giorni dopo la morte di Lucy scrissi ad Antony per sapere come gli andavano le cose. Mi disse che erano morti due suoi amici e che era un periodo di merda. Prima sua madre e ora loro. Io e lui non avevamo amici in comune e non potei far altro che dispiacermi per lui e per quei poveri ragazzi giovanissimi. La sera stessa però, ovvero il 24 giugno, compleanno di mio fratello, tutti a casa parlavano di questi due ragazzi giovani fratelli, che erano stati uccisi dal ex di lei.  Io l’unica cosa che potei dire fu che mi dispiacesse e che non se lo meritavano e che mi facesse ancora più male pensare ad Antony e al suo dolore. Era davvero una brutta storia la loro. L’ex della ragazza voleva tornare con lei e chiese aiuto al fratello che però si rifiutò di aiutarlo. L’ex allora lo pugnalò e infine scaricò il cadavere in un cassonetto della pattumiera in un paese vicino. Infine, era andato a casa della ex e dopo averla stuprata per ore le aveva messo un sacchetto in testa soffocandola. Già così è una storia terribile, peggio di ogni film dell’orrore ma quando venni a sapere chi fossero il mio mondo si capovolse. In serata qualcuno accese la tele e partì il tg e vedi l’unica cosa che non avrei mai voluto vedere. Alla tv passano le foto di Ilaria e suo fratello Gianluca. Non può essere, non possono essere loro. Non può essere lei. Tutti ma non lei. Mi sentii male, mi mancava l’aria, gettai chissà dove la sigaretta e corsi fuori al balcone. Mi mancava ancora l’aria e mi sporsi di più dal balcone e poi mi accasciai a terra. Ero un disco rotto, riuscivo solo a dire non può essere lei. Mio fratello cercò di tirarmi su mentre al tg andava ancora in onda il servizio sulla mia amica e suo fratello. Corsi a casa di nonna Matilde dove avevo il pc, entrai tremante su Facebook e mi fiondai sulla pagina social di Ilaria, tutti le scrivevano di riposare in pace e di quale meraviglioso angelo fosse.
Nonna pianse insieme a me. Anche lei aveva conosciuto Ilaria. Era una ragazza speciale, sapeva leggerti dentro e ti spronava sempre a dare il meglio di te stessa. Per un anno frequentammo la stessa scuola e la mattina che mi accompagnava nonna a scuola la passavamo a prendere. Era davvero eccezionale. Amava il fratello, erano molto uniti e l’unica cosa che mi ha dato un po' di conforto è stata sapere che se ne fossero andati via insieme, nessuno dei due sarebbe riuscito a superare la perdita dell’altro. I tg però dissero un sacco di fesserie su Ilaria, tanto che la mia prof d’italiano mandò una lettera al tg5 per parlare di chi fosse davvero Ilaria. Lei era una ragazza guerriera che faceva anche tre lavori per mantenere lei e suo fratello. Era l’amica di tutti e a differenza di molte persone, davvero su di lei si potevano dire solo cose belle. Era impossibile poter parlare male di lei.
Lei era poco più grande di me, con tanta voglia di vivere e di fare e per colpa di uno squilibrato mi è stata portata via. Ho un tatuaggio dedicato a lei, il soprannome che mi dava. Ila mi ha consolato in ogni litigata con Michael ed era sempre pronta ad ascoltarmi. I funerali furono strazianti, quando uscii dalla chiesa mi buttai subito in macchina di mamma e scoppiai di nuovo a piangere. Per tanto tempo non feci altro che pensare a loro, al fatto che non avessi mai pensato di farmi una foto con lei, di non averle chiesto qualcosa di lei, ero così presa a raccontarle dei miei problemi e lei così disponibile ad ascoltarmi, ma per davvero, e ad aiutarmi che mi sono ritrovata ad accorgermi che su di lei sapevo poco e niente. Perderla è stata un dolore che mi porto ancora dentro e spesso ancora piango quando il suo ricordo riaffiora nella mia mente. Il primo mese ero entrata in lutto, ci pensò la mia amica Elena a tirarmi fuori di casa e a farmi riprendere, ma soprattutto fu la stessa Ilaria a prendermi a calci nel didietro, come solo lei sapeva fare, e a dirmi di andare avanti. Una notte sognai di essere in un campeggio, ero seduta a un tavolo di legno insieme ad altre persone mai viste finché non la vidi. Era in mezzo a dei cespugli, vestita di bianco, sembrava davvero un angelo e io la segui. Ero così contenta, l’abbracciai, le dissi tremila cosa senza senso e poi tornai al tavolo chiamando mia madre, dicendole, o meglio urlando come una pazza che Ilaria era tornata. Mamma persino nel sogno mi guardò come se avessi due teste ma mi seguì. Ilaria era girata di spalle e quando la andai a chiamare e lei si girò mi prese un colpo. Non era Ilaria, ma solo una che le assomigliava. Mamma mi disse: amore mio Ila non tornerà più. Ma io continuavo a dirle che non ero pazza, che l’avevo vista e parlato. La cercai in quel bosco e quando la trovai lei mi disse che dovevo lasciarla andare, che dovevo andare avanti, che stava bene e che dovevo smettere di preoccuparmi. La vidi andare via, sparire in mezzo al bosco. Mi svegliai con le lacrime agli occhi e poi guardando in alto sorrisi e le mandai un bacio. Il bastardo che ha ucciso lei e Gianluca non pagherà mai abbastanza per il male che ha fatto, per ciò che si è preso, la vita di due ragazzi splendidi.


Credete alle streghe bianche? Io sì. Anni prima di questo avvenimento straziante io feci un sogno. Ebbene sì, sogno molto spesso e me li ricordo quasi tutti.
Era un sogno strano, mi trovavo in una cucina che non avevo mai visto, alle finestre c’era una tenda legata con delle calamite a forma di farfalla. Davanti a me c’era un pc portatile aperto su youtube, guardai mamma per dirle di ascoltare questa canzone, la canzone che avevano scritto per i miei amici che erano morti. Quando mi svegliai il giorno dopo ricordavo la cucina e le tende ma non ricordavo i nomi degli amici, non ricordavo il nome del cantante e tanto meno il testo della canzone. Anni dopo mi ritrovai davvero in quella cucina, con quelle tende e quelle calamite, lo stesso pc e la pagina Youtube, la canzone era dedicata a Ilaria e Gianluca. Erano le loro foto quelle che passavano in quel video. In un certo senso mi sentii in colpa, mi chiesi se avessi potuto evitarlo. Certo quel sogno l’avevo fatto quando nemmeno sapevo dell’esistenza di questi meravigliosi guerrieri. Non potei far meno però di chiedermelo forse avrei potuto evitare tutto questo dolore.


Certo però sarebbe meglio sognare i numeri del lotto ma da quel giorno stavo molto attenta al risveglio cercando di ricordare nei minimi dettagli qualsiasi cosa sognassi.


In estate il nonno peggiorò. Ora doveva andare in giro sulla sedia a rotelle e non poteva mai essere lasciato solo. Io restavo con lui da metà pomeriggio fino alla mattina, poi venivano le sue figlie a darmi il cambio. Il pomeriggio veniva anche la cognata di nonno a giocare a carte con lui. Nonno però non era stupido. Cercava di farsi forza davanti agli altri, diceva a nonna Genoveffa di mettergli da parte il giaccone per l’inverno o cose così. Tutti erano convinti che lui non sapesse ma la realtà era diversa. Un giorno mamma e zie andarono all’ingrosso a prendere dei vestiti per poi rivenderli e lasciarono Alexander con me e il nonno. Mentre stavo cambiando il pannolino al bambino sul lettone nonno scoppiò a piangere. Finii di cambiare il bambino e lo presi in braccio avvicinandomi al nonno. Stava davvero piangendo e ancora prima che io potessi chiedergli perché mi sorprese dicendomi: - mi dispiace, non posso mantenere fede alla mia promessa. Io non ti vedrò mai sposata, non ti vedrò mai essere mamma, non ti vedrò con tuo figlio in braccio e non vedrò mai crescere Alexander.


Avevo capito che nonno aveva inquadrato la situazione, trattenni le lacrime e cercai di metterla sul ridere dicendogli: - figa nonno bella fiducia eh! Va bene che sono una rompi cazzo ma prima o poi lo troverò uno sfigato che mi sposerà. Non abbattiamoci prima del tempo.


Sorrise e mi disse che al massimo potevo sempre provare ad andare a Uomini e Donne Over. Si certo molto simpatico mio nonno.
Quando la sera ripensai a quelle parole non riuscii a trattenere le lacrime. La promessa che nonno sapeva di non poter mantenere risaliva a quando avevo sei anni. Ero magra e lui mi chiamava sempre Olivia, come la fidanzata di Braccio di Ferro, e un giorno gli chiesi se quando mi fossi sposata mi avrebbe potuto accompagnare lui all’altare perché io un papà non ce l’avevo. Mi disse: - certo Olivia, ti accompagnerà il nonno, promesso.


A otto anni quando nacque Jonathan tornai da nonno per cambiare la promessa, non doveva più accompagnarmi all’altare perché l’avrebbe fatto mio fratello, ma volevo che lui stesse lì in prima fila e che soprattutto avrebbe dovuto valutare il mio futuro marito, perché se non fosse piaciuto al mio nonnino non l’avrei sposato.
Già a diciotto anni mi ritrovavo a chiamare mio nonno nonnino. L’amavo tantissimo.


A fine settembre iniziò a peggiorare sempre più. Mamma e zie decisero che la notte era meglio che ci fosse un uomo con il nonno perché ormai non si reggeva più in piedi e allora mi spedirono a dormire a casa di nonna Matilde. Per questo fatto ce l’ho ancora con loro. Avevo tutto il diritto di restare lì, infondo era anche casa mia. La mattina del due ottobre la Falsona accompagnata da Golfredo vennero a prendermi a casa di nonna Matilde, il nonno era entrato in coma e a casa sua c’erano già tutti i parenti. Credo di non essermi mai imbestialita così tanto. Mi vestii in fretta e furia e arrivai come una iena a casa di nonno. Lui era nel letto che russava, sembrava che stesse dormendo ma nonostante zia Angela lo chiamasse a voce troppo alta lui non reagiva. Casa era piena di parenti, tutti lì pronti a far vedere che erano presenti. Molte di quelle persone in quei mesi di malattia di nonno non si erano mai visti, ora invece erano pronti a far vedere alla gente che loro erano lì a piangere il poveretto di turno. Pronti a prendersi le condoglianze e a recitare la parte di chi stava soffrendo. Ho sempre odiato i funerali e uno dei primi motivi è proprio la falsità e l’ipocrisia che alleggia a questi avvenimenti. Smerdano una persona per tutta la vita poi questa si ammala o muore e all’improvviso diventa la persona migliore del mondo. Tutti a ricordare i momenti belli e i pregi, ma per favore. Quando una persona muore non ha più occasione per migliorarsi, per rimediare ai propri errori e sbagli. Non si diventa santi magicamente morendo, così non si diventa santi o non ci si aggiudica un posto in paradiso solo per la messinscena e le lacrime di coccodrillo.


Avevo un nervoso addosso e volevo sbatterli tutti fuori casa, non avevano nessuno diritto di restare lì. Dov’erano quando nonno stava male? Quando lo seguivo da lontano i pomeriggi che andava al bar per paura che cadesse da un momento all’altro? Mi bastò però uno sguardo con nonna Matilde per capire che mi sarei dovuta tenere la boccaccia chiusa e andai in cameretta da zia Angela. Anche lei la pensava come me e poi era arrabbiata perché avevano chiamato il prete per l’estrema unzione quando nonno respirava ancora e stavano trattando suo padre come se fosse già morto. Quando venne il prete noi due rimanemmo in cameretta. Dalla camera del nonno c’era un via vai di gente, avevo la nausea. Ma dovevo essere forte, l’avevo promesso a me stessa. I medici così come la psicologa avevano sempre detto che la mia presenza era stata un bene per il nonno, ma non sapevano che la presenza di mio nonno era stata un bene per me. Ci facevamo forza a vicenda, ci prendevamo in giro ed eravamo alleati contro nonna. Eravamo una squadra. Due ingranaggi che si incastravano alla perfezione. Ci capivamo, ci confidavamo e soprattutto ci spalleggiavamo. È sempre bello sapere di avere qualcuno che è pronto a guardarti le spalle, mio nonno era diventato proprio questa persona per me, in quel periodo.


I miei erano preoccupati per me, pensavano che io non sarei riuscita a sopportare questo dolore e la malattia, mamma voleva pure portarmi via da casa di nonno appena saputo la malattia, per fortuna ci pensò la psicologa a dirle che fra tutte le persone con cui aveva parlato io ero quella che la stavo affrontando meglio, anche se all’inizio mi aveva scambiato per la figlia di zia Angela.


Quella mattina, dopo un tempo che mi parve infinito, mentre guardavo mio nonno sdraiato nel suo letto, con il suo intramontabile russare capii che il viaggio era finito. Mi dicevano che nonno non poteva sentirmi ma al diavolo ciò che dicevano gli altri. Guardai mio nonno e l’avvisai che stavo andando a casa da nonna Matilde a farmi una doccia e di aspettarmi che avrei impiegato poco tempo. La Falsona subito si propose di accompagnarmi ma io avevo bisogno di stare da sola, di prepararmi. Il viaggio era finito e io dovevo prendere le ultime cose. Arrivai da nonna e mi feci la doccia, tirai fuori un abito nero, quello che avrei usato per il funerale, poi andai al pc, misi a tutto volume la canzone di Grido “sei come me” e iniziai a scrivere le ultime parole che avrei dedicato a mio nonno, scrissi la lettera che avrebbero letto in chiesa per salutarlo. Dopo quindici minuti, finii, salvai e tornai da mio nonno. In stanza con lui si trovava solo mia madre, le chiesi gentilmente di uscire perché dovevo parlare con mio nonno e di farmi il favore di non far entrare nessuno. Lei lo fece. Mi sdraiai sul lettone vicino a mio nonno e gli presi la mano. Iniziai il mio discorso: - allora nonno ci siamo eh? Siamo alla fine del viaggio? be’ lo so che ti avevo promesso che se mi avessi permesso di seguirti, di tenerti per mano, fermata dopo fermata, ti avrei lasciato andare quando saresti arrivato alla tua destinazione finale. Ma vedi nonno c’è sempre un’altra scelta quindi ora tu puoi mantenere la tua promessa, lasciarmi la mano, scendere alla tua fermata e non voltarti indietro. Oppure sai nonno, puoi scegliere un’altra fermata, la mia. La vedi nonno? È la fermata più luminosa, quella con la scritta a caratteri cubitali al neon, c’è scritto DIVINA, è la mia fermata, perché lo sai molto bene quanto io sia modesta e soprattutto Divina, quindi nonno scegli. Prometto che se scegli la tua fermata io ti lascerò la mano, ti lascerò andare.


Appena finii il mio discorso nonno smise di russare, aveva fatto la sua scelta, aveva smesso di combattere, era arrivato alla sua fermata, era sceso e non si sarebbe più voltato indietro. Poco dopo entrò nonna Matilde con la puntura che doveva fare al nonno, si avvicinò a lui e poi mi disse sottovoce che il nonno se n’era andato. Io l’avevo già capito ma feci solo un cenno di assenso. Quando nonna diede la notizia agli altri partirono urla e pianti. Nonna Genoveffa per poco non si buttò giù dal balcone e ci pensò zio Matteo a fermarla e a buttarla a terra. Zia Angela urlava come una matta verso suo padre. Zio Simone venne vicino a me e mi disse di prendermi cura di nonna Genoveffa, di starle vicino perché loro ora stavano troppo male. Uno zio, cognato di nonno, e suo figlio iniziarono a dirmi che mio nonno mi aveva aspettato, che aveva aspettato me e il mio ritorno dalla doccia per andarsene. Sarà una stupidata ma l’ho sempre pensato anch’io che nonno avesse aspettato proprio me per andarsene. Era il nostro viaggio e l’avevamo affrontato giorno per giorno insieme.


Quando nonno aveva iniziato a peggiorare erano arrivate anche le allucinazioni. A volte vedeva un cane per casa e altre volte diceva che lui doveva prendere il treno e andare a Romano. Quando le zie gli chiedevano se potevano andare con lui rispondeva sempre di no, che doveva andarci da solo. Per me era stato diverso, eravamo una squadra, con gli anni avevamo fatto tante promesse e patti di cui solo noi sapevamo l’esistenza. Quando gli proposi di fare come qualche anno prima, ovvero di incontrarci in metro e fare per metà tragitto insieme e poi ognuno per la propria strada iniziò a cedere. Da lì fu facile persuaderlo e convincerlo ad accettare il mio patto. Io avrei viaggiato con lui, tenendolo per mano e quando sarebbe arrivato a destinazione l’avrei lasciato andare. Fu quello che feci. Gli tenni la mano dall’inizio di quel viaggio fino alla fine e quando lui scelse a quale fermata scendere lo lasciai andare.


Vedere piangere gente che con mio nonno non c’entrava niente mi aveva ridato la nausea e così presi Alexander e andai a casa di zia Giselle dove si trovavano gli altri bambini. Piangevano tutti quanti la perdita del loro nonnino, ricordo solo che gli dissi che dovunque fosse andato il nonno lui viveva nel loro cuore e che non dovevano piangere perché lui non l’avrebbe voluto. Smisero per un po' e poi ripresi Alexander e andai a farmi un giro. Quel bambino però a tratti mi spaventava. Il nonno gli aveva insegnato il gesto del “vai a quel paese” e ogni tanto Fufi guardava un punto e poi faceva quel gesto, come quando lo faceva insieme al nonno.


Il giorno del funerale mi permisi di cedere. Nonna Matilde mi teneva da una parte e mia cugina Susanna dall’altra. Le gambe non mi reggevano, volevo indietro il mio nonnino, avevo ancora bisogno di lui. In chiesa mi misi seduta vicino a nonna Genoveffa e quando un’amica di famiglia lesse la lettera che avevo scritto per nonno scoppiammo a piangere. Alla fine della lettera tutti applaudirono, mi voltai per ritrovarmi una chiesa gremita di gente. Mio nonno era davvero ben voluto da tutti. Al cimitero però, io che avevo sempre odiato le tarantelle, le urla e le sceneggiate napoletane, diedi il peggio di me. Mentre buttavano terra sulla bara di mio nonno volli raggiungerlo. Nonna e Susanna mi fermarono in tempo, volevo buttarmi nel buco insieme al mio nonnino, per fortuna loro mi riportarono a ragionare. Mi accasciai a terra, la testa fra le mani, il cuore rotto, un dolore insopportabile ma le loro mani ferme sulle mie spalle. Potevo contare su di loro, avevo perso mio nonno ma sicuramente nonna e Susanna non mi avrebbero abbandonato e mi avrebbero dato tutto il supporto necessario per superare questo periodo.


I giorni dopo furono confusi. Io e nonna Matilde stavamo sempre insieme a nonna Genoveffa. Grazie a noi la sera mangiava qualcosa, parlavamo e ridevamo. Quando nonna Matilde tornava a casa sua rimanevamo solo io e nonna Genoveffa, ci mettevamo in quel lettone in cui dormivamo con il nonno. Nonna piangeva tutte le sere e si addormentava piangendo, guardando la tv e con gli occhiali ancora sul naso. Io le tiravo via gli occhiali, le asciugavo le lacrime e le spegnevo la tele. Poi le baciavo dolcemente la fronte, come quando da piccola nonna Matilde lo faceva con me. Andavo nel letto con lei e l’abbracciavo, condividevamo lo stesso dolore.
Ogni giorno passavo a casa delle varie zie a prendermi un caffè e a monitorare la situazione. La perdita del nonno aveva distrutto tutti.


Poco dopo nonna Genoveffa iniziò a lamentarsi che da sola non riusciva a pagare l’affitto ma non voleva andare da zia Angela e Gertrude non la voleva in casa sua, tanto da dire che se fosse morta sua madre suo padre se lo sarebbe preso in casa, ma sua madre invece non la voleva. Eh già l’amore di una figlia senza eguali. Alla fine, decisero che mia madre e famiglia si sarebbero trasferiti a casa di nonna Genoveffa, ovvero in quella che era casa mia. Io non volevo. Avevo impiegato anni per andarmene via da loro e anche se ora i rapporti con mia madre erano buoni non avevo intenzione di tornare in quel loop di litigate e urla di prima mattina. Lo disse anche in faccia a mia madre, che come è normale che sia ci rimase male.


La convivenza forzata con loro non era poi così male all’inizio ma alla fine decisi di tornare a vivere da nonna Matilde e saltuariamente tornavo a casa di nonna Genoveffa. Vivevo in due case. Era bello stare da nonna Matilde, li stavo tranquilla e potevo fare quello che volevo, però era bello anche stare da nonna Genoveffa e dormire di nuovo insieme a mio fratello e farci le partite alla playstation o parlare fino a tardi di qualunque cosa.  Verso i primi di novembre, grazie alla cognata di zia Angela trovai lavoro come cameriera in un ristorante vicino ai navigli. Era la mia prima esperienza lavorativa ed era ciò che avevo bisogno per riprendermi dalla morte di mio nonno. Il due ottobre avevo perso una parte di me, avevo concluso un viaggio e il diciannove novembre di quello stesso anno ne avrei iniziato un altro, questa volta da sola. Un viaggio nel mondo del lavoro.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4077361