Là, dove nascono i limoni

di Flying_lotus95
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - Quello che mi nascondono i tuoi (occhi) ***
Capitolo 2: *** 2 - Una (montagna) tra noi ***
Capitolo 3: *** 3- (Corsa) ad ostacoli ***
Capitolo 4: *** 4- (Vergogna) e silenzio ***
Capitolo 5: *** 5- A (caccia) di morte ***
Capitolo 6: *** 6- Nella cornice del (quadro) ***
Capitolo 7: *** 7- Petalo (delicato) ***
Capitolo 8: *** 8- Le conseguenze di un (tradimento) ***
Capitolo 9: *** 9- come una (sigaretta) spenta e ammaccata ***
Capitolo 10: *** 10- (pettegolezzo) indiscreto ***
Capitolo 11: *** 11- A te, (fratello) mio ***
Capitolo 12: *** 12- Qualcosa da (nascondere) ***
Capitolo 13: *** 13 - (Argilla) tra le mani ***



Capitolo 1
*** 1 - Quello che mi nascondono i tuoi (occhi) ***


𝘘𝘶𝘦𝘴𝘵𝘢 𝘴𝘵𝘰𝘳𝘪𝘢 𝘱𝘢𝘳𝘵𝘦𝘤𝘪𝘱𝘢 𝘢𝘭 𝘞𝘳𝘪𝘵𝘰𝘣𝘦𝘳 𝘥𝘪 𝘍𝘢𝘯𝘸𝘳𝘪𝘵𝘦𝘳.𝘪𝘵
Prompt: Occhi

 
 

Là, dove nascono i limoni


Capitolo 1:
Quello che mi nascondono i tuoi (occhi)
 
 
Campagne nei dintorni di Torino, settembre 1944
 
«Corri, Maxime, muoviti!»
Il latrato dei cani in lontananza aveva dato loro la parvenza di essere scampati al pericolo. Maxime aveva chiuso forte gli occhi, se avesse avuto il potere di teletrasportarsi, si sarebbe trasmutato volentieri via da quel bosco, da quegli uomini che lo stavano inseguendo, probabilmente per arrestarlo. O per fargli fare la stessa fine che aveva provocato al suo tenente.
Aveva ancora le mani lorde del suo sangue, quel sangue che avrebbe faticato a togliere, nonostante i continui lavaggi. 
«Maxime, cazzo! Non ti puoi fermare proprio adesso!».
Romeo lo stava incitando a correre, ma Maxime non riusciva a sentirlo. Le orecchie fischiavano troppo, quel lungo suono sibilante gli aveva posseduto la testa, avviluppandogliela come un panno bagnato che strizzava forte e faceva male, molto male. 
Provò a ritrovare il ritmo del proprio respiro, ma fu tutto inutile. Nessun organo del corpo ormai gli prestava ascolto.
«Dobbiamo raggiungere la chiesa sulla collina! Agnese ci aiuterà, vedrai».
Agnese. Quel nome fu come un balsamo rinfrescante spalmato su una puntura di zanzara. Maxime provò ad immaginare i suoi occhi grandi, castani, sempre dolci nonostante il suo carattere freddo e diffidente… Ma poi ad essi cominciarono a sovrapporsi a quelli del suo superiore ucciso. Avevano lo stesso colore, soltanto più freddi e spietati. Privi di pietà ed empatia.
«Maxime, per favore! Dobbiamo darci una mossa!». Romeo stava cominciando a spazientirsi. Non aveva paura dei tedeschi o di venire arrestato, la sua paura era di non riuscire a mantenere la promessa fatta ad Agnese: di riportargli indietro Maxime, a qualunque costo. Lo aiutò così a rialzarsi, e gli prese un braccio per circondarselo sulle spalle.
«Se ci raggiungono siamo morti! E io non voglio correre il rischio di non rivedere Anna per colpa tua!». Romeo voleva fargli una battuta, ma la voce gli uscì roca e greve, stanca e provata da quella lunga fuga dalla città. 
 
L'omicidio di Gabriel von Kusserl, tenente maggiore delle SS, non era stato intenzionale. Era stato un incidente, ma i soldati tedeschi non l'avrebbero certamente vista in quel modo. L'assassino avrebbe dovuto pagarla, italiano o tedesco che fosse, non avrebbe avuto importanza. L'importante era avere un capro espiatorio su cui sfogare tutta la loro rabbia e cattiveria.
 
Maxime si mosse a fatica, l'aria nei polmoni graffiava ad ogni respiro. Era stanco, e avrebbe voluto crollare a terra inerme. Ma doveva farcela per Agnese, soltanto per lei. 
Per quell'amicizia forte e solida che si era creata tra loro, per quella magia che avrebbe difeso anche con la sua stessa vita.
 
◇ ♧ ◇ 
 
Le camionette erano giunte fin sulla collina, il rumore dei loro motori sembrava devastare qualsiasi altro suono, come il cinguettio degli uccellini o il frinire delle cicale. Si fermarono tutte sul piazzale della chiesa, circondando l'edificio con prepotenza. I primi a scendere furono i pastori tedeschi, seguiti dai loro padroni, che gridavano incitazioni in tedesco che non avevano nulla di rassicurante.
Il curato della chiesa, don Pierino, uscì di soprassalto, rischiando di inciampare nella tonaca.
Dietro di lui, spuntò una ragazza, che osservò la scena con sguardo critico, attento.
«Entra dentro, Agnese, me la vedo io qui!» la reguardì don Pierino, preoccupato dal fatto che quei soldati potessero farle del male, essendo una ragazza sola.
Ma Agnese non si lasciò vincere dalla paura.
«Non si preoccupi per me, don Pierino. Li conosco» rispose, lapidaria.
Superò il prete e scese le scale con arroganza, sfidando con lo sguardo il capitano che la stava aspettando per fronteggiarla con le braccia dietro la schiena e il mento alto. Sembrava un vero e proprio emissario di morte, mentre intorno a lui si stava scatenando il caos.
«Capitano Schlütz» esordì Agnese, con confidenza. Purtroppo conosceva anche fin troppo bene l'uomo che aveva davanti.
«A cosa devo la vostra visita qui?» chiese con apparente ingenuità.
Il capitano delle SS distese le labbra in un ghigno malefico.
«Lui dov'è?». Schlütz andò subito al dunque, lapidario. I suoi occhi di ghiaccio inchiodarono Agnese sul posto, con l'intento di intimorirla e costringerla a vuotare il sacco.
Ma lei sapeva essere di gran lunga più guardinga e fiera di quell'ufficiale, che di fiero aveva solo il portamento e le arie con cui sfoggiava la propria divisa da mietitore di libertà.
«Lui chi? Se non mi chiarisce il soggetto…»
«Maxime Brünner, so che si nasconde qui! I miei segugi hanno fiutato la puzza…»
«Di cosa è stato accusato, se posso sapere?».
Agnese lo sapeva benissimo, ma voleva ottenere una conferma definitiva, una pietra miliare da mettere su quella vicenda dolorosa, una volta per tutte.
«Omicidio» dichiarò il capitano delle SS, fronteggiando la più giovane come se fosse stata un cumulo di letame, anziché una persona.
«Il tenente von Kusserl è stato trovato morto nel suo studio poche ore fa. Il soldato Brünner è stato visto scappare assieme ad un complice fuori dalla caserma». Agnese ascoltò tutto in religioso silenzio, non lasciando trasparire neanche una sola emozione. 
Gabriel era morto, ed era stata l'unica cosa che continuava a fare eco nella sua anima, l'unica notizia contro cui il suo orgoglio doveva combattere senza cadere a terra in mille pezzi.
«Converrà con me che non posso lasciare tale azione impunita!».
«Di qui non è passato nessuno. Don Pierino non si metterebbe mai a nascondere un assassino nella sua chiesa!».
La guerra di sguardi che intercorse tra i due in quel momento poteva tagliare l'aria con un solo battito di ciglia. Nessuno dei due sarebbe indietreggiato per darla vinta all'altro.
«Fraulein Martini, non vi conviene mettervi contro un ufficiale del Terzo Reich» avanzò il tedesco, lo sguardo di ghiaccio puntato dritto in quello castano di Agnese, altrettanto fiero. 
«Le sto dicendo la verità, capitano… è tutta la mattina che sto ad aiutare don Pierino, e non si è vista anima viva nei paraggi» si difese la ragazza, mantenendo stoicamente la calma, senza tradirsi. 
Don Pierino, dopo essere stato occupato a cacciar via i soldati dalla chiesa, si precipitò alla volta di Agnese e dell'ufficiale Schlütz, l'ansia dipinta in volto. 
«Capitano, la scongiuro! La mia perpetua è malata, e Agnese è venuta a darmi una mano. Non abbiamo visto nessuno, vi dò la mia parola!» dichiarò don Pierino, con meno calma e compostezza di Agnese, che intanto continuava a puntare il suo sguardo rabbioso verso quello minaccioso del capitano delle SS.
Un soldato uscito dalla chiesa raggiunse Schlütz, comunicandogli qualcosa in tedesco. Il prete lo guardò spaventato, invece Agnese rilassò di poco il viso: quel soldato aveva appena comunicato di non aver trovato nessuno all'interno dell’edificio.
Sebbene non ne fosse molto convinto, Schlütz fronteggiò un'ultima volta Agnese e il curato, sorridendo scaltro.
«Mi affido al vostro buon senso… se Brünner dovesse farsi vivo, comunicatecelo tempestivamente» dichiarò il tedesco, nessun guizzo di umanità trasparve da quelle iridi di vetro.
«Dopotutto, ha ucciso un vostro caro amico, Fraulein Martini. È vostro dovere consegnarlo alla giustizia» la intimò ancora l'ufficiale, come se le sue parole avessero voluto insinuare molto altro.
Ma Agnese non si scompose a quella velata provocazione.
«Non intralceremo i vostri propositi, capitano» replicò piccata, una maschera di cera che celava tutto il disgusto che stava iniziando a provare. 
«Ah, dimenticavo» fece poi Schlütz, prima di dirigersi verso la camionetta «Le mie più sentite condoglianze». 
Il respiro nel petto di Agnese si fece più rapido, voleva vomitare, cacciare la bile che le si era depositata nello stomaco. Ma rimase lì, ferma, ad aspettare che quegli uomini lasciassero quel luogo sacro definitivamente. E che quell'uomo immondo smettesse di ridere come se avesse pronunciato la più ilare tra le battute.
Una volta che il plotone si allontanò dal piazzale, Agnese si precipitò verso le scale, colta da un improvviso attacco di bile. Vomitò la poca colazione che aveva mangiato, mentre il cuore le batteva in petto, forsennato.
Don Pierino la raggiunse subito, con l'intenzione di sorreggerla, ma Agnese lo scostò da sè, infuriata.
«Idiota! Stupido idiota!» mormorò, salendo le scale mentre si ripuliva la bocca dalla bile e la saliva. Don Pierino la seguì ansioso, chiamandola più volte invano. Ma Agnese aveva la testa e il cuore dentro a quella chiesa, in guerra tra loro.
 
«Questa merda non si toglie!» imprecò Romeo, intento a pulire la camicia di Maxime da quelle chiazze di sangue. 
«Come cazzo ti è venuto in mente di pulirti le mani sulla camicia, eh?». Le parole di Romeo però non arrivarono mai alle orecchie del giovane tedesco. Da quando erano entrati in sagrestia, non faceva che fissare un punto impreciso della stanza, con sguardo vuoto. Non era più terrorizzato, e nemmeno spaventato. Non provava più nulla, neanche la minima sensazione. Lo shock lo aveva totalmente irrigidito e privato di qualsiasi gesto vitale. Aveva ucciso il suo tenente, con le sue stesse mani. Aveva fissato a lungo quegli occhi verdi perdere vita pian piano, mentre gli ultimi boccheggi d'aria si diradavano nei suoi polmoni. Maxime in quel momento non aveva pensato a niente, non si era preoccupato di niente. Quello era stato l'ultimo scherzo fatale inflittogli da quel demonio di Gabriel. Porre fine alla sua vita era stato un attimo, un colpo di pistola poco sopra il cuore. A nulla era valso rianimarlo, Romeo lo aveva obbligato a scappare, trascinandolo via dal corpo, onde evitare un destino peggiore di quello toccato al tenente von Kusserl. 
La morte in confronto sarebbe stata un sollievo. 
«Brutto idiota incosciente!».
Nel sentire la voce iraconda e febbrile di Agnese, gli occhi di Maxime si accesero senza volere. Si girò di scatto, malcelando il sorriso che gli si stava stampando in viso. Ma la ragazza non stava sorridendo, nè avrebbe ricambiato quel suo sorriso.
Lo schiaffo che gli mollò in pieno viso ne fu la conferma evidente della sua rabbia e la sua frustrazione.
«Come ti è saltato in mente? Come hai potuto uccidere Gabriel?? Perchè? Perchè lo hai fatto, perchè?».
Agnese era furiosa, aveva iniziato ad inveire contro il ragazzo lanciando pugni sul suo petto sporco di sangue, solo l'intervento di don Pierino aveva evitato il peggio. Romeo intanto si era frapposto tra i due, prendendosi anche lui qualche colpo sul braccio.
«Lo sai cosa ti faranno se ti trovano? Lo sai, sì? Ti prenderanno e ti tortureranno fino a farti invocare la morte, ti faranno pentire di essere venuto al mondo!»
«Adesso basta figliola, basta!»
«Agnese, per favore, devi stare calma!». Romeo e il curato cercarono in ogni modo di placare la belva che voleva fuoriuscire dal corpo della ragazza. Maxime non l'aveva mai vista urlare in quel modo contro qualcuno, nemmeno contro chi se lo sarebbe meritato sul serio. Sentiva il suo odio, la sua rabbia, e si sentiva ancora più impotente, ancora più marcio.
«Es… es tu-»
«Sprich du nicht! Non parlare!» lo zittì Agnese, con decisione.
«Non voglio sentire una sola parola!».
Maxime ingoiò il rospo senza ribattere, abbassò il capo, fissando insistentemente le mattonelle del pavimento. 
Lo sapeva che ormai per lui non ci sarebbe stata alcuna via di fuga, alcuna redenzione.
Poco prima di lasciare la sagrestia, Agnese rivolse un ultimo sguardo fulmineo a don Pierino, che rimase quasi pietrificato sul posto.
«Deve lasciare Torino immediatamente!» ordinò, e seppe incutere così tanto timore nel curato, che non appena lei uscì fuori, si apprestò a farsi il segno della croce.
«Tutto bene, amico?» provò Romeo, mettendo una mano sulla spalla del giovane straniero. Maxime non gli diede alcun segno di aver capito, nè di conferma alla sua domanda. Don Pierino si avvicinò così ai due ragazzi, recuperando un po' della compostezza che durante il trambusto della mattinata era andata perduta. 
«Lo dobbiamo nascondere, Romeo» propose gentile, ma con malcelata apprensione. Romeo annuì, dando poi una pacca d'incoraggiamento a quel tedesco che mai nella vita si sarebbe aspettato che sarebbe diventato suo grande amico.
«Andrà tutto bene» cercò di incoraggiarlo, non mollando la presa. Maxime allora gli poggiò su il palmo tremante, stringendogli la mano con riconoscenza. Gli occhi, però, erano puntati altrove. 
Dopo essere rimasto solo, il ragazzo crollò a terra in ginocchio, e solo allora, lontano da sguardi indiscreti, si lasciò andare ad un pianto sconsolato e liberatorio.
«Mein Gott, was habe ich getan?!»
Mio Dio, che cosa ho fatto?
Si strinse le braccia al petto, sperando di soffocare quella sensazione spiacevole che gli stava fiorendo nel petto e nello stomaco, e chiuse le palpebre, strizzandole con forza.
Gli occhi sempre più vitrei di Kusserl, gli occhi fieri e arrabbiati di Agnese, gli occhi imploranti e preoccupati di Romeo… tutti quegli sguardi vorticavano nei suoi ricordi senza concedergli tregua. Alzò poi lo sguardo verso l'alto, e notò il crocifisso di legno, non molto grande, appoggiato sul mobiletto di mogano. Anche Gesù Cristo lo stava giudicando, dall'alto della croce, con quegli occhi vitrei e colmi di pietà. Pietà che Gabriel von Kusserl non aveva mai avuto verso niente e nessuno.
L'ennesimo singulto, e Maxime tornò ad abbassare il capo, abbandonandosi totalmente alla disperazione.

 
 
 
Buongiorno, e buon inizio di Ottobre a tutti!
È la prima originale che scrivo di mio pugno, non ho mai avuto problemi a descrivere personaggi di mia fantasia, ma finora li ho sempre fatti agire assieme a personaggi di opere già esistenti… qui sono totalmente allo sbaraglio, e non so cosa ne uscirà fuori.
Ma la parola d’ordine di questo Writober sarà “istinto”: chiedo scusa se i personaggi non saranno descritti perfettamente, chiedo scusa se dovessi sbagliare qualche nomenclatura o qualche dettaglio, diciamo che il contesto storico starà molto sullo sfondo, e cercherò di approfondirlo il meno possibile dove non sarà necessario. È una prova, un esercizio per me necessario, e lo prenderò per quello che è. Spero almeno che la lettura e la storia che vi porterò sia godibile e v’intrighi.
Buon inizio di Writober a tutti e buon divertimento!

 

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Capitolo 2
*** 2 - Una (montagna) tra noi ***


Prompt: Montagna
 

Capitolo 2:
 
Una (montagna) tra noi

 

«No, non sono d'accordo Romeo, è fuori discussione!».
Il brusio che si elevò alla dichiarazione di Alfredo, capo del gruppo di partigiani, raccolse pareri discordanti tra loro. Romeo li studiò uno per uno, sperando di trovare almeno un parere positivo, o una concessione da parte dei compagni.
Seduto poco lontano da quella riunione improvvisata, Maxime ascoltò tutto con distacco, non gli interessava davvero che i partigiani scegliessero per il suo destino. D'altronde, si considerava già un uomo perduto. Aveva trascorso la notte in bianco sulla branda che gli aveva offerto don Pierino e non aveva fatto altro che sognare sangue, morte, mani insanguinate, urla… 
Non era riuscito a spiccicare una parola in italiano, nemmeno con Romeo, che da quando era venuto a prenderlo, di primo mattino, non aveva fatto altro che illustrargli ciò che avrebbero fatto di lì in poi, tra cui andare a parlare con Alfredo e chiedergli il permesso per tenerlo nascosto per un po' tra i suoi uomini. Ma Maxime non gli aveva dato alcun accenno di aver capito cosa Romeo gli stesse comunicando. I suoi pensieri erano occupati da altre cose.
«Ti rendi conto di cosa mi stai chiedendo?? Accettare un nazista tra i miei uomini, ma neanche per sogno!»
«Max non è come loro, Alfredo! Te lo ha dimostrato più volte…»
«È ricercato per omicidio, questo non può cambiare le cose!»
«Quel figlio di puttana ha avuto ciò che si meritava!»
«Non ho dubbi a riguardo, ma accettarlo significa esporsi troppo ai tedeschi…»
«Se non lo avesse fatto lui, uno di noi l'avrebbe fatto al suo posto prima o poi!».
Tra i compagni il vociare aumentò, assieme alla perplessità e ai dubbi.
«E se gli dessimo una possibilità, capo? Dopotutto, ormai è chiaro da che parte stia quel soldato… non certo dalla loro» provò ad intervenire Dante, uno del gruppo e amico di Alfredo. «Romeo ha anche detto che non starà con noi per molto tempo… quando riusciranno a dargli i documenti per farlo fuggire, ce ne libereremo!» Dante aveva provato ad essere positivo in quella faccenda, ma nè Alfredo e nè lo stesso Maxime parvero della stessa opinione.
«Io non voglio grane» dichiarò Alfredo con tono di chi non ammetteva repliche a riguardo. «Che se ne occupi Agnese… qui siamo impegnati a liberare la zona da quei miserabili, non a fare da balia ad un moccioso straniero!».
Romeo allora lo afferrò per la collottola, non con l'intenzione di aggredirlo, tutt'al più per ricevere la sua totale attenzione. Gli uomini furono sul punto di intervenire, ma le due donne del gruppo, Alisea ed Angioletta, li bloccarono con un solo cenno della mano.
«Io non abbandono Maxime nella merda! Ho le mie buone ragioni per proteggerlo da quella gentaglia, e se solo avessi un briciolo di riconoscenza, sapresti che-»
L'invettiva d Romeo venne inaspettatamente interrotta dalla mano di Maxime, stretta sulla sua spalla, senza il bisogno di strattonarlo. Si zittirono tutti quanti nell'assistere alla sua entrata in scena. Maxime non aveva proferito parola, aveva solo cercato lo sguardo di Romeo. Gli rivolse un’occhiata languida, mesta. Si era alzato silenziosamente dal tronco su cui era seduto, appositamente per fermare Romeo e l’accusa che stava rivolgendo al suo capo e amico.
Romeo non poté non assecondare quella richiesta silenziosa che il giovane soldato gli stava comunicando. Lasciò così la collottola di Alfredo, permettendo al tedesco di farsi avanti, seppur con titubanza. 
Sentirsi tutti quegli occhi addosso non aiutò Maxime ad aprirsi come avrebbe voluto: non parlava perfettamente italiano, aveva iniziato a capirlo grazie ad Agnese, e alla pazienza infinita che Anna, la sorella minore di lei, aveva riservato nei suoi confronti, grazie a qualche rapida lezione.
Provò ugualmente a parlare, nonostante avesse il cuore in gola.
«Io, ehm… non voglio essere un peso per voi. Voglio aiutare». Per la prima volta, quel suo accento tedesco così marcato lo fece sentire a disagio in mezzo a tutti loro, come un pulcino abbandonato in mezzo ad un gruppo di faine fameliche.
Cercò di fissare dritto gli occhi duri e scrupolosi di Alfredo, e di non dare importanza ad altro.
«Vi guarderò le spalle, se necessario. Sono un soldato, so sparare…» Maxime aveva il fiatone quando terminò la frase.
Alfredo alzò un sopracciglio, con sarcasmo.
«Ne siamo a conoscenza, sì» rispose il partigiano, accompagnato dal risolino dei compagni. Solo Romeo restò serio a fissare la scena, impassibile.
Maxime inspirò profondamente, ponderando le parole da dire.
«So bene di essere un traditore» disse con voce tremante e la pronuncia sbagliata «E so che state già correndo pericoli. Ma se mi darete asilo, io contraccambierò il favore, aiutandovi come e dove posso».
Romeo cercò di intervenire, voleva convincere Maxime a non strisciare troppo ai loro piedi, a non umiliarsi, ma la reazione di Alfredo lo bloccò nel suo intento.
«Alisea! Portalo nel nostro rifugio, ai piedi della montagna. Fallo mangiare, preferibilmente non patate!» e nel dire ciò, diede una pacca talmente forte dietro la schiena del tedesco, da suscitare l'ilarità di tutti, fuorché quella di Romeo, che rimase di stucco. Quando poi si avvicinò ai due, sentì Alfredo sussurrare qualcosa all'orecchio di Maxime, con confidenza.
«Una settimana. Possiamo nasconderti per una settimana. Dopodiché ti sloggio io a suon di calci!» e nel dire ciò, lo spinse in direzione di Alisea, una donna di corporatura imponente, ma non massiccia. Era una ex mondina e si era unita ai partigiani dopo l'arresto di suo marito. 
Romeo fece per seguirli, ma venne trattenuto da Alfredo, mentre il gruppo seguiva lentamente Maxime ed Alisea dirigersi verso la montagna.
«Se dovesse accadere qualcosa, la responsabilità sarà solo tua» lo avvertì il compagno, con un dito puntato in viso. Dopodiché lo lasciò indietro, volutamente. Perché Romeo non li avrebbe seguiti per il momento.
 
● ● ●
 
«Quindi Alfredo non ha fatto storie?». Agnese era seduta alla finestra della sua stanza quando rivolse la parola a Romeo, dandogli le spalle. 
«Gli ha concesso una settimana di tempo. Entro quei giorni dovrà già essere su di una nave o un treno diretto chissà dove» rispose Romeo, a testa bassa e le mani che stringevano la propria coppola convulsamente. 
Agnese annuì, apparentemente distaccata. 
«Bene» sentenziò fredda.
«Sarà andato via ancor prima dello scadere della settimana» dichiarò poi, come se avesse la situazione in pugno. Romeo fece per uscire dalla stanza, quando poi notò che da una porta socchiusa fuoriuscì il viso triste e dispiaciuto di Anna. Aveva gli occhi rossi, segno che aveva pianto tutto il giorno, sconsolata.
Fu la visione di quel viso a farlo tornare sui suoi passi, con decisione.
«Ogni tanto potresti farlo anche tu» si limitò a dire, incerto.
Fu solo in quel momento che Agnese girò il viso e lo fissò, contrita.
«Fare cosa?». Non era riuscita a cogliere il messaggio che Romeo le stava lanciando. O forse, non voleva coglierlo.
«Mostrarti debole. So che la morte di quel farabutto di von Kusserl non ti è indifferente. Nessuno ti recriminerà nulla se piangerai per lui». Non vi era accusa nelle parole di Romeo, nè giudizio. Era solo sinceramente preoccupato per lei.
Ma Agnese quel suo dolore non lo avrebbe condiviso con nessuno, era troppo intimo e personale anche solo per lasciarlo sfogare come un fiume in piena. 
«Buonanotte, Romeo» lo liquidò infatti, asciutta. Romeo, da parte sua, non ne restò troppo colpito, conosceva bene Agnese e sapeva che sbatterci la testa contro era inutile. Lasciò così la stanza, e con un sorriso mesto salutò Anna, che ricambiò grossolanamente il suo gesto.
Una volta andato via, fu il turno di Anna di dirigersi dalla sorella maggiore, ancora tremante e la voce rotta dal pianto recente.
«Agnese?» la chiamò, e per poco il cuore della ragazza non s'incrinò a quel richiamo tanto triste e dolce al contempo. Anna era sempre stata l'unica sua vera debolezza, dopo Gabriel.
«Posso dormire con te stanotte?» chiese la più piccola, tirando su col naso. Agnese dovette appellarsi a tutte le sue forze per non crollare a terra, e piangere a dirotto peggio di sua sorella. 
«Certo, piccola» le disse e si avvicinò al letto, invitando la sorella a venire con lei sotto le coperte. Anna le si strinse addosso, come faceva quando era bambina e la notte si svegliava in preda agli incubi.
«Non posso crederci che Gabriel sia morto. Mi manca così tanto…».
Agnese fu grata a Dio internamente per aver fatto sì che Anna avesse conosciuto soltanto quel lato di quel demonio travestito da angelo. E che se avesse potuto assicurarsi un posto in paradiso lo doveva al dolce cuore di quella ragazzina innocente, che lo aveva adorato da sempre, ignara di ciò che era diventato, di ciò che aveva fatto. Agnese stessa aveva cercato di redimerlo, di "salvarlo" in qualche modo: ma avrebbe dovuto capirlo subito che Gabriel non era destinato alla salvezza. In quella discesa aveva trascinato anche lei, inesorabilmente, senza darle modo di salvarsi, ed invocare aiuto. Si era erta una montagna tra loro, una montagna fatta di pietre, lacrime, ideologia e potere. E fango. Fango nero e sporco di sangue. Del suo sangue violato.
«So che manca tanto anche a te, anche se non lo dici» continuò Anna, completamente all'oscuro dei pensieri della sorella maggiore.
Ho già detto addio al Gabriel che conoscevo un tempo. A quel Gabriel che era diventato ora io non devo niente. Non devo più niente, neanche una lacrima.
«Pensa a dormire adesso, Anna» le disse Agnese, baciandole la testa con amore. Se la strinse così forte contro, da sperare che gli incubi di quei giorni passassero in fretta, senza lasciarle alcun segno addosso.
Più di quanti Gabriel ormai gliene avesse già lasciati, indelebili.

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Capitolo 3
*** 3- (Corsa) ad ostacoli ***


Prompt: Corsa
 

Capitolo 3
(Corsa) ad ostacoli

 
El amor no es un papel con nuestro nombre
Lo nuestro no entiende de ningunas condiciones
Un camino tiene siempre dos direcciones
Y vivimos en medio, amando a tirones
 
(Pablo Alborán - Castillos de arena)
 
Dresda, Germania, otto anni prima…
 
Gabriel von Kusserl era sempre stato il più bravo in tutto a scuola. In algebra, letteratura tedesca, latino, e in più, era bravo anche in educazione fisica. 
Era stato scelto, assieme ad altri coetanei, per rappresentare la gioventù hitleriana durante la gara di staffette tra scuole. Aveva sempre dato il meglio di sé, e in famiglia era sempre stato elogiato per questo, assecondato in tutto, viziato.
Sapeva inoltre di poter contare sull'appoggio di una persona in particolare, una ragazza di tre anni più piccola di lui, sua vicina di casa e amica di infanzia. Questa ragazza era Agnese Martini.
Figlia maggiore di un professore italiano trasferitosi in Germania in giovane età, si era sposato con una donna tedesca di famiglia benestante, anche lei professoressa di professione. 
Agnese era nata lì, a Dresda, ma conosceva l'italiano perfettamente, poiché suo padre aveva desiderato ardentemente che le sue figlie un giorno potessero visitare l'Italia, la patria che il sommo Goethe aveva tanto decantato nelle sue opere. 
Agnese aveva assistito a tutte le gare di Gabriel, sostenendolo ardentemente e con forte interesse. Non c'erano stati giorni che non avevano trascorso insieme, scorrazzando in bici per le campagne, nuotando al lago, organizzando gite fuori porta anche in compagnia di Anna…
Agnese si era sempre sentita al sicuro al fianco di Gabriel. Per lei, era stato come quel fratello maggiore che non aveva avuto, l'unico che era riuscito a scalfire quel suo carattere spigoloso e un po' duro con la sua ironia e i suoi modi di fare giocosi e sbruffoni. 
All'alba dei suoi quattordici anni, seduta sugli spalti dell'arena, Agnese aveva realizzato quanto fosse importante la presenza di Gabriel nella sua vita, quanto avesse voluto averlo nella sua vita non solo come amico, ma come qualcosa di più: un compagno da affiancare, proteggere, amare.
Gabriel, dal canto suo, non aveva mai fatto nulla per smorzare questo suo sentimento, anzi: lo alimentava ogni giorno di più con i suoi atteggiamenti e apparenti provocazioni: abbracci improvvisi, carinerie fuori contesto, gesti galanti oltre ogni dire.
Agnese si era sempre sentita lusingata nel ricevere tutte quelle attenzioni, si era sentita compresa, sulla stessa lunghezza d'onda di qualcun altro. Lei, che da sempre si era sentita un pesce fuor d'acqua, distante dalle sue coetanee, che pensavano solo a sposarsi e a formare una famiglia. Lei invece desiderava studiare, girare il mondo, conoscere la terra "dove fioriscono i limoni" - l'espressione che aveva usato suo padre più volte per descrivere l'Italia -, era ambiziosa e puntava a qualcosa di molto più grande. Di tutte queste cose aveva reso partecipe un interessato Gabriel, che l'ascoltava attento ogni volta, che fossero seduti su dei massi in riva al fiume dopo una nuotata, o seduti sulla veranda di legno della grande villa di casa von Kusserl, non era davvero importante. Agnese con lui si sentiva sempre al sicuro, apprezzata, capita, qualunque sarebbe stata l’occasione in cui s’incontravano. 
Presto, però, avrebbe dovuto ricredersi, anche se a malincuore.
 
Qualcosa era iniziato a cambiare, la strada che avevano percorso insieme mano nella mano fino a quel momento, accompagnati dalll'innocenza della loro età, deviò verso un declino inatteso.
 
Iniziò tutto con una divisa.
Era la stagione dei loro quindici e diciotto anni.
Quando Agnese gliela vide addosso per la prima volta, ebbe un brivido che non aveva nulla a che vedere con l'eccitazione del primo amore. Al contrario.
Sentì lo stomaco sottosopra, spaventata. Gabriel, invece, si sentiva tronfio di indossarla, sicuro di sè e spavaldo.
«Come mi sta? Ti piace?». Gabriel tirò fuori il petto, incrociando le braccia dietro la schiena. Agnese fece un passo indietro, per riflesso. Quello che aveva davanti agli occhi non era il suo Gabriel, ma un soldato fatto e finito. Un burattino comandato a distanza da un Mangiafuoco cinico e privo di coscienza. 
«Sembri uno di quegli uomini che girano per la città, aggredendo i più deboli». A Gabriel quella risposta non piacque per niente.
«I più deboli? Vuoi dire quella gentaglia che porta cucita addosso quello schifo di stella gialla?». Gabriel parve divertirsi nel proferire quella frase, ormai tra i suoi amici era normale fare battute di dubbio gusto sulla comunità ebraica. La legge, d'altronde, legittimava tali abusi, erano la regola di un mondo che stava lentamente perdendo la sua dignità umana.
Lo schiaffo che, però, Agnese gli mollò in pieno viso non aveva nulla di ameno. 
«S-scusami» biascicò dopo, portandosi la stessa mano sulla bocca. Sentiva un forte bisogno di vomitare.
«E che tu… tu sei migliore di loro, Gabriel. Non sei un razzista ignorante come quelle persone. Io ti conosco».
Credeva davvero a quelle parole Agnese.
Credeva davvero che Gabriel potesse essere molto di più della divisa che indossava e delle parole immonde che ormai ripeteva a macchinetta perché pullulavano ovunque, per le strade, nei salotti da thè, alle feste…
Gabriel non la fissò subito negli occhi, ma quando lo fece, Agnese percepì un'energia strana, oscura. Gli occhi di Gabriel, i suoi begli occhi cinerei, per un attimo furono attraversati da un'onda nera, come petrolio. Petrolio nero ed oleoso che si sarebbe abbattuto senza pietà verso colei che considerava amica da anni. Ad Agnese le parve persino di sentirne l'odore. 
Tuttavia, non sembrò essersela presa più di tanto. Non diede neanche a vedere di esserci rimasto male per quello schiaffo.
Tornò così a sorridere come sempre, beffardo.
«Suvvia, Anja, sono sempre io» e per sottolineare il concetto, allargò le braccia, come se volesse abbracciarla.
«Non sarà una divisa a decretare ciò che sono, no?». Un piccolo raggio di luce riscaldò il cuore di Agnese, ritrovando repentinamente speranza.
«Però tu prima hai detto-»
«Era una battuta, sciocca. Adesso non si può neanche scherzare?»
«No, non mi piace scherzare così. Non farlo mai più».
Gabriel allora si arrese davanti alla determinazione dell'amica, tirandosela leggermente contro per accoglierla in un abbraccio di scuse.
«E allora non lo faccio più. Non con te» dichiarò, lasciandole un bacio sui capelli castani.
Stretta in quell'abbraccio, e con la testa appoggiata all'altezza del cuore dell'altro, Agnese pensò che non avrebbe più dovuto scherzare così con nessun altro, ma non lo disse ad alta voce. Si volle godere quell'abbraccio, e quel profumo di gelsomino notturno che le aveva inebriato l'olfatto.
 
La divisa fu solo il primo di tanti episodi che portarono Agnese e Gabriel ad allontanarsi sempre di più. 
Lui iniziò ad uscire a gruppo con i ragazzi della gioventù hitleriana, iniziò perfino a partecipare a qualche pestaggio che ogni tanto si verificavano nel cuore della città, a danno di persone di fede ebraica o di qualsiasi altro ceto considerato indegno, inferiore.
Agnese soffriva nel vederlo seguire ciecamente la massa, soffriva nel sentirlo elogiare sempre più spesso Hitler e la sua idea di razza pura e tante altre sciocchezze senza senso. 
Soffriva persino nel sentirlo dire che entrava nei bordelli con quelli che ormai considerava amici e famiglia. 
Gabriel ormai gli stava sfuggendo dalle dita, e Agnese non riusciva più ad avere presa su di lui. Ne aveva paura, ma allo stesso tempo continuava a sentirsi attratta da quell'aura sinistra che ormai il suo migliore amico di sempre emanava. 
 
L'ultimo avvenimento, il più devastante, colse Agnese di sorpresa, decretando così la frattura definitiva di quella loro amicizia che, da sentiero calmo di montagna, si era trasformato in una corsa ad ostacoli mortalmente pericolosa.
 
Agnese aveva dato appuntamento a Gabriel alla cascata, di tutta fretta.
Aveva il cuore in gola e le lacrime che pungevano ai bordi delle palpebre.
Gabriel l'aveva raggiunta, torvo in viso. Sospettava quale fosse il motivo per il quale l'avesse mandato a chiamare, ma sperò fino all'ultimo di sbagliarsi. Lo schiaffo che gli lanciò Agnese nel vederlo decretò la fine delle sue vane speranze.
«E così ti sposi?! Bravo, complimenti!». Agnese era talmente risentita, che si strinse nel suo cappotto rosso, come a volerci sparire dentro. 
Gabriel socchiuse gli occhi a quell'affermazione, sospirando piano.
«Non per mia volontà» mormorò, mal celando una punta di fastidio nella voce e nel viso corrucciato. Agnese non ricordava più quando fosse stata l'ultima volta che le aveva sorriso, senza ombre nascoste dietro ogni rughetta espressiva.
Agnese faticò a contenere la rabbia e il disprezzo.
«Aspetta tuo figlio… è il minimo che tu possa fare!». Cercò di restare composta, ma le pupille saettavano nervose, brillanti di lacrime mai scese. 
«Come hai potuto cadere così in basso, Gabriel? Come?» disse ancora, spingendolo lontano da sé con rabbia. Anche il solo sfiorare quella divisa immonda le fece sentire i palmi sudici.
«E io che pensavo che-»
«Che pensavi cosa? Che saresti stata la prima a venire nel mio letto? Tzè, quanto sei ingenua Anja!» la interruppe Gabriel, sprezzante. Rise arrogante, leccandosi il canino superiore. Lo schiaffo di poco prima lo aveva soltanto rinvigorito, anziché intimorito.
A quel punto Agnese giocò a carte scoperte, ferita nel suo orgoglio.
«Ti credevo una persona migliore… invece mi sbagliavo. Sei un porco nazista come quella banda di screanzati che segui a destra e a manca senza rite-».
Agnese quella frase non la finì mai, perché Gabriel le afferrò il viso con forza, stringendo le dita sulle guance in modo anomalo, violento. Non l'aveva mai toccata a quel modo prima di allora.
«Però questo porco nazista ti piaceva, eh? Anzi, probabilmente ti piaccio ancora…». Gabriel avvicinò pericolosamente il viso a quello di Agnese, che nel frattempo era diventata paonazza, spaventata da quella vicinanza inaspettata. Con la mano libera le cinse la vita, stringendosela contro, possessivo. «Te la vuoi fare una scopata qui, in mezzo al nulla, eh Anja?? Lo so che lo desideri… lo desideravi ogni volta che uscivamo nudi da quel fiume e desideravi che ti prendessi lì, su quelle rocce!».
Agnese lo fissò terrorizzata, la mano attorno alla sua mandibola stringeva e faceva male, e respirava a fatica. Avrebbe voluto urlare, chiedere aiuto… mai nella vita si sarebbe aspettata un risvolto simile. 
Agnese si era sempre aspettata che Gabriel sarebbe stato colui che l'avrebbe salvata e protetta dai malfattori, non il malfattore stesso che non la stava solo spaventando, in quel momento la stava umiliando. 
«Beatriz è stata solo più furba di te, più intraprendente! Mi voleva e me lo ha dimostrato… tu invece sei ancora una mocciosa che crede nel principe azzurro!».
Agnese provò a divincolarsi, disgustata. 
«Questo volevi da me? Che ti seducessi? Peccato che io sia una persona per bene!»
«Ah! Tu, una persona per bene? Tu, che mi seguivi ovunque come un cagnolino che elemosinava briciole? Ci mancava poco che non ti alzassi la gonna per lasciarti fare quello che volevo! Ti si leggeva in faccia la tua frivolezza! Ammettilo che ti sarebbe piaciuto fare la poco di buono con me, dillo Anja, dillo!»
«Io non dico proprio niente! Mi fai schifo!» gridò Agnese, colpendolo in viso, sul petto, sul collo, ovunque. Voleva che la lasciasse in pace, si pentì di averlo fatto venire lì, in quel posto che solo loro due conoscevano.
«Andiamo su, fai la brava!» sibilò Gabriel, con evidente difficoltà. Agnese si stava agitando troppo per i suoi gusti. La colpì così in pieno viso, facendola cadere a terra, sull'erba. 
Agnese pensò erroneamente che fosse finita, pronta a fuggire via da lì, ma l'altro fu più veloce. Le si mise addosso, costringendola a girarla verso di sé, senza mostrarle alcun tatto. Agnese cominciò ad urlare di lasciarla andare, che aveva paura, che non voleva che le facesse questo. Istintivamente, serrò le cosce, come se il corpo avesse intuito cosa sarebbe potuto succedere tra non molto.
Gabriel infatti le infilò una mano tra le gambe, obbligandola ad aprirle. Ma Agnese tenne duro, non volle cedere, non così.
Io ti amo, Gabriel, ti ho sempre amato. Ma non così, non voglio essere presa come una bestia, non voglio essere mancata di rispetto in questo modo. Non me lo merito.
Mentre pensava quelle cose, Agnese iniziò a piangere, singhiozzando come una disperata. Quel pianto disperato, però, servì a placare la bestia che stava prendendo il sopravvento su Gabriel. Come rinsavito, il soldato si alzò, sedendosi sulle proprie ginocchia. Aveva il fiatone, e fissava la ragazza con sguardo incerto, scioccato. Per un solo, brevissimo istante, aveva capito di star commettendo una sciocchezza ai danni della sua migliore amica, della ragazza che lo aveva sempre supportato, appoggiato, anche quando le loro strade avevano iniziato inevitabilmente a separarsi.
Tuttavia, si alzò da terra senza tradire alcun cedimento, spolverandosi da dosso il terriccio che nella colluttazione gli si era appiccicato addosso.
Guardò Agnese un'ultima volta, con disprezzo. 
Le diede un leggero calcio dietro la schiena, siccome si era raggomitolata su sé stessa come un gatto impaurito. 
«Guarda cosa mi hai fatto fare…» mormorò asciutto, senza alcuna emozione nella voce.
«Rialzati, va', smettila di fare la commedia. Non ti ho fatto niente».
Nell'udire quelle parole, Agnese si strinse il cappotto rosso sul petto, spaventata a morte.
Non mi hai fatto niente? Mi hai quasi violentata! 
Quella frase, però, Agnese non riuscì a dirla, la voce non le usciva, sentiva il corpo irrigidito. Avvertì un altro calcio dietro la schiena, non troppo forte ma neanche troppo delicato rispetto al precedente.
«Muoviti, o ti lascio qui a frignare».
Agnese si morse le labbra, ormai sul punto del collasso emotivo.
«Hau ab. Lass mich allein…» sussurrò affranta, cercando invano di darsi calore stringendosi nel cappotto sporco di rugiada e terra.
Vattene. Lasciami sola.
Gabriel continuò a fissarla per alcuni minuti, poi, come se nulla fosse, prese la strada del ritorno senza minimamente badare a lei, rannicchiata a terra, morta di paura per colpa del suo gesto orribile.
Agnese fu quasi sicura di sentirlo fischiettare la melodia di Lili Marleen in lontananza.
Dopo essersi accertata della sua assenza, Agnese si rialzò a fatica, continuando a tremare come una foglia mossa dal vento. Quando giunse a casa, corse in camera sua, incurante del richiamo di sua madre, che sembrava aver intuito qualcosa.
 
Qualche tempo dopo, le voci sulle nozze di Gabriel fecero il giro dell'intero vicinato, ma Agnese non tradì alcuna emozione, neppure con sua sorella Anna, che aveva tentato di estrapolare qualche informazione a riguardo.
 
Agnese si sarebbe portata il segreto di quel giorno da sola, senza condividerlo con anima viva. Fino a quando, un paio di occhi dolci e attenti appartenenti ad una giovane recluta non le accarezzarono il cuore così tanto da farle confessare tutto quello che aveva provato quel giorno funesto.
Orrore, paura, vergogna. E un forte senso di colpa, per non essere riuscita ad arrestare l'infausta corsa di Gabriel verso gli inferi.

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Capitolo 4
*** 4- (Vergogna) e silenzio ***


Prompt: Vergogna
 

Capitolo 4
(Vergogna) e silenzio

 
"Hemos hecho por cada huracán una vela"
 
Presente, 1944
Maxime non aveva socializzato molto con i compagni di Alfredo. 
Durante i pasti, le riunioni, anche chiacchierate formali, il giovane soldato si manteneva in disparte, un po' perché capiva poco alcune espressioni del dialetto piemontese, e faticava di conseguenza a rispondere, e un po' perché percepiva troppo vividamente la mancanza di Agnese. Senza la sua aura protettiva, si sentiva talmente scoperto, da arrivare ad intravedere minacce ovunque. Perfino il fantasma di Gabriel tornava costantemente a tormentarlo, non lasciandogli scampo. 
Infatti, trascorreva quasi tutta la notte in riva al fiume, a piangere in silenzio, a tenersi la testa tra le mani perchè aveva come l'impressione che gli sarebbe scoppiata nel giro di pochi minuti. 
Soltanto Romeo provava a parlargli, a portargli notizie del casale, delle sorelle Martini, e di quello che stava succedendo in città. 
I tedeschi avevano messo a ferro e fuoco le case, avevano chiesto di Maxime a chiunque, ma nessuno sapeva niente. E chi sapeva, aveva taciuto volutamente, per proteggerlo. 
Maxime ascoltava in silenzio, comunicava soltanto con gli occhi, non proferiva verbo neanche sotto tortura. Voleva solo rifugiarsi tra le braccia di Agnese, inginocchiarsi ai suoi piedi e chiederle scusa per quel gesto scellerato.
Lo aveva fatto per lei, per liberarla da quella schiavitù in cui quel mostro l'aveva costretta. 
Ma tutte queste cose, in quel momento, non sarebbe riuscito a dirgliele. Avrebbe continuato a fare scena muta, sperando che attraverso lo sguardo riuscisse almeno a comunicare come si sentisse, che quel suo mutismo non rappresentasse un vero e proprio ostacolo.
Il silenzio era sempre stata un'arma a doppio taglio per lui, fin da bambino: stare in silenzio lo aveva protetto, come anche condannato. Probabilmente anche in quella circostanza avrebbe virato in direzione del secondo caso.
«Giovanni mi ha detto che i tuoi documenti saranno pronti fra qualche giorno» gli comunicò una sera Romeo, mentre si puliva le mani e gli avambracci in un secchio d'acqua.
«A Marsiglia c'è una nave che partirà per Montevideo, in Uruguay» continuò, sperando di coinvolgere Maxime nella conversazione. Peccato che il tedesco lo fissasse abbozzando un sorriso che poteva assumere qualsiasi sfumatura o significato. Romeo sbuffò scocciato, ad un certo punto.
«Senti Max» cominciò, «Capisco come tu ti stia sentendo in questi giorni. Certo, non ho mai ucciso nessuno, almeno fino ad ora, ma non pensi che anche solo parlarne ti aiuterebbe?». Romeo fu brusco e anche poco delicato, ma non parlò con cattiveria. Era seriamente preoccupato per lui, e iniziava addirittura a temere per la sua salute fisica e mentale.
«Tanto per la cronaca, se non gli avessi sparato tu, lo avrei fatto io, prima o poi. Non sopportavo come trattava Agnese, anche se non ho mai compreso la sua ostinazione a voler mantenere Anna all'oscuro di tutto… direi che in questo vi somigliate parecchio! Preferite struggervi dentro, piuttosto che chiedere aiuto!» chiosò Romeo, mentre si sistemava le maniche, risentito.
Maxime continuò ad ascoltarlo in silenzio, senza intervenire. Nel sentir pronunciare il nome di Agnese, però, un guizzo di luce spuntò dalle sue iridi grandi e tormentate. 
«Va bene, ho capito che parlo ai muri, come sempre!» esclamò ancora l'italiano, afferrando la sacca di vettovaglie che avrebbe dovuto riportare indietro al casale.
«Hai un messaggio per Agnese? Anche in tedesco, basta che sia facile?» provò poi, fissando insistentemente l'altro, sperando di scucirgli una sillaba, una vocale, qualsiasi cosa.
Per tutta risposta, Maxime si spostò dalla colonna di legno dove era stato appoggiato tutto il tempo e si sedette su di un gradino, voltando le spalle a Romeo.
Quest'ultimo faticò a trattenere la sua indignazione, a quel punto.
«Fai un po' come cazzo ti pare» sbottò, mettendosi la sacca in spalla e lasciando la stanza con la porta spalancata.
Nel frattempo, Maxime iniziò a sfregarsi le mani sempre più velocemente, curvo su sé stesso, affamato d'aria. Se avesse potuto, si sarebbe staccato quelle stesse mani, per poi schiacciarle ripetutamente sotto la suola delle scarpe. Da quel giorno maledetto, l'odore pestilente di sangue lo perseguitata ovunque, persino quando veniva portata della carne dal casale dava di stomaco. La testa continuava a vorticare, a fare dannatamente male, mentre un solo nome oscillava da un orecchio all'altro, costantemente, come una litania.
Agnese.
Agnese.
AGNESE.
«Vergib mir… vergib mir…» iniziò a mormorare, a dondolare su sé stesso, con la testa tra le mani.
Perdonami Agnese.
Perdonami.
 
♧▪︎♧
 
«Alfredo e i suoi hanno molto appetito, noto!».
Il commento bonario di Ismaele Chiodi, padrone del casale e proprietario del vigneto adiacente, colse di sorpresa un indaffarato Romeo mentre liberava la sacca dalle vettovaglie sporche. 
«Da quando si nascondono tra le montagne, non è che mangino chissà quanto… aspettano tutti i piatti di donna Blanca con grande entusiasmo!» rispose il ragazzo, dopo aver ricevuto una forte pacca sulla spalla da parte del signor Ismaele. 
«Ha mangiato anche Max?» chiese poi, poggiando i pugni sulla tavola, e fissando Romeo con i suoi occhi grigioverdi così duri ed espressivi.
Romeo rispose con una smorfia non molto accomodante. Ismaele si trovò a scuotere il capo, con disappunto.
«Come vorrà affrontare un viaggio così lungo se non mangia nulla?» obiettò, incurante del fatto che, proprio in quel momento, Agnese ed Anna stessero scendendo le scale per raggiungere la cucina. 
La prima colse al volo il discorso che i due uomini stavano per affrontare. Man mano che avanzava nel corridoio, si fece più attenta all'ascolto.
«Magari spera di morire prima» commentò Romeo, rimanendo sul vago, tradendo una punta di acidità nella voce.
Quando Agnese entrò nella stanza, guardò entrambi con occhi di fuoco, facendo immediatamente pentire Romeo di aver proferito con noncuranza quella frase.
«Romeo! Avete gradito il pasto?».
La voce allegra e delicata della diciottenne Anna investì la cucina è le orecchie dei due uomini, che le sorrisero di rimando. Romeo la fissò incantato, come se le fosse apparso davanti la Madonna in persona. Non appena Anna si avvicinò ad Ismaele, Romeo notò che aveva gli occhi leggermente gonfi. Probabilmente aveva speso altre lacrime per quella feccia immonda del tenente von Kusserl. S'indignò al solo immaginarla seduta sul letto, con le mani a coprirle il viso, scossa dai singhiozzi…
Almeno lei ha sfogato, pensò Romeo, deglutendo rassegnato.
«Chi è che ha voglia di morire?». Ci pensò Agnese a distoglierlo dagli occhi di Anna e da quei pensieri infelici.
Romeo increspò le labbra prima di risponderle. Non era sicuro che parlare apertamente di Maxime davanti ad Anna fosse la scelta migliore. Tuttavia, non si trattenne dal farlo troppo a lungo. 
«Quel testone del tuo amico» biascicò stizzito. Osservò di sottecchi la reazione della ragazza, ma non notò nulla di insolito. Agnese era una maschera di cera inscalfibile, come sempre. 
Ismaele, intuendo che di lì a poco si sarebbe affrontato un argomento scottante, pensò bene di allontanare la più piccola con una scusa.
«Anna, ascolta, potresti raggiungere tua zia Blanca in cantina? Il vino qui è finito, ne servirebbe ancora» le disse gentilmente, carezzandole una spalla.
La ragazza, sebbene avesse intuito le vere intenzioni dello zio, senza però capirne il motivo, acconsentì alla sua richiesta, lasciando la cucina con il suo passo danzante. Agnese le carezzò la schiena amorevolmente non appena le passò accanto. I suoi capelli biondo miele lasciarono dietro di sè una buona fragranza di sandalo e girasole.
«Penso che tu debba parlargli, Agnese» iniziò inaspettatamente Ismaele, fissando la nipote severamente. Dopotutto era figlia di suo fratello, aveva il diritto di dirle ciò che pensava, senza filtri.
Agnese lo fronteggiò, incrociando le braccia sotto al seno. 
«Non ho nulla da dirgli» dichiarò, torva. Romeo digrignò i denti di fronte a tanta testardaggine.
«Non hai idea di come sta… non parla con nessuno, non mangia, non dorme… Alfredo mi ha detto che lo ha visto per due notti di fila a piangere in riva al fiume. Se solo provassi a parlar-»
«Non spendo il mio tempo con un assassino» fu la risposta concisa di Agnese, mantenendo il mento alto con superbia. A quel punto Romeo faticò a mantenere la calma.
«Ma come puoi essere così dura con lui? Davvero vuoi farmi credere che lo odi per l'omicidio di Kusserl?» e nel nominare il cognome dello sfortunato tenente delle SS, Ismaele lo invitò ad abbassare la voce, zittendolo.
«Dovresti buttarti ai suoi piedi e fargli una statua, piuttosto! Dopo tutto quello che quell'abominio ti ha fatto… se solo penso che ad Anna non hai detto niente-»
«Mia sorella non deve sapere nulla. Gabriel con lei si è sempre comportato bene!»
«Certo! Bastava che tu gli facessi da zerbino ed era contento, quel gran pezzo di-»
«Volete piantarla di discutere?!».
Ismaele cercò di mettere un freno a quella discussione, che nel silenzio della sera, avrebbe sicuramente attirato attenzioni inopportune.
«È stato commesso un atto imperdonabile, e su questo non c'è nulla da ribattere» dichiarò l'uomo, mettendo in chiaro una volta per tutte come stessero realmente le cose.
«Tuttavia, Agnese… non sappiamo quali sono state le motivazioni che hanno spinto Maxime a compiere quel gesto. Magari con te-»
«Io non voglio averci nulla a che fare con quel disgraziato!».
Per la prima volta da quando era scoppiata in sagrestia contro Maxime, inveendogli addosso, Agnese aveva alzato la voce e mostrato turbamento in viso. Romeo ed Ismaele la fissarono come se non la riconoscessero. O forse, in realtà, l'avevano finalmente ritrovata fra tutta quella finta indifferenza che le era cresciuta intorno come edera.
«Se proprio il signorino vuole parlare con qualcuno, andasse a chiedere scusa alla vedova di Gabriel e ai suoi due figli! A quei bambini nessuno restituirà più il loro padre!».
Agnese era adirata oltre ogni dire. Ma Romeo volle giocarsi ugualmente quell'ultima carta, anche se sapeva che la sua sarebbe stata una mossa sleale, infida. Le chiese scusa internamente prima di sganciare quella potente granata.
«E a te chi te lo restituirà tuo figlio?».
Sia Agnese che Ismaele lo guardarono scioccati, senza parole.
Ad Agnese per poco non mancò l'aria dinnanzi a quella dichiarazione. Tornò con la mente a quel giorno terribile, all'ambulatorio, alle grida disperate… alla vergogna che aveva provato durante e dopo. 
«Io non ho mai avuto figli» dichiarò, per poi uscire dalla cucina quasi di corsa. Ismaele fece per seguirla, ma poi si arrestò. Non riusciva a credere alle sue orecchie.
Guardò Romeo con astio, cercando di carpire altre informazioni a riguardo. 
«Cos'è questa storia, Romeo? Di che figlio parli? Agnese è una brava ragazza, illibata! Come ti è venuto di-»
«Mi dispiace, signor Chiodi» dichiarò, ed era mortificato sul serio.
Si era ripromesso che non avrebbe parlato ad anima viva di quel giorno, di quello che aveva visto. Aveva tradito la fiducia di Agnese soltanto per smuoverla, soltanto per farle crollare quell'armatura che si trascinava addosso da troppo tempo, da sola. Gabriel von Kusserl l'aveva talmente caricata di terrore, che non le aveva concesso un solo momento per respirare, neanche uno spiraglio fugace.
Soltanto lui e Maxime erano a conoscenza del demonio che era, soprattutto nei confronti di Agnese. 
«Temo di aver parlato troppo» disse poi in conclusione Romeo, apprestandosi a lasciare a sua volta la cucina. Ma Ismaele lo bloccò per un braccio, con una forza tale che rischiò quasi di spezzarglielo.
«Qualcuno ha osato toccare mia nipote sotto il mio tetto e non ne ero a conoscenza? Chi è stato il bastardo?».
Romeo deglutì, ma non riuscì a dire altro. Non voleva creare ancora più danni di quanti ne avesse già creati con la sua stoltezza.
«State tranquillo, signor Chiodi. Lucifero è tornato negli Inferi». E con questa frase enigmatica, si scostò gentilmente dalla stretta ferrea dell'uomo, raccogliendo la sacca e uscendo dalla cucina con la stessa fretta che aveva avuto Agnese poco prima.
Ismaele si passò una mano sulla faccia, sospirando stanco. Poi alzò gli occhi verso il soffitto, in direzione del piano superiore. Avrebbe dovuto parlare con Agnese, e farsi dire tutto, dall'inizio alla fine. E se fosse stata tanto ostinata da non cedere, avrebbe saputo a chi rivolgersi.
 
Agnese non fece neanche in tempo a chiudersi la porta della stanza dietro le spalle, che un nuovo conato di vomito la colse di sorpresa.
Fece giusto in tempo a raggiungere la bacinella, dove vomitò quei pochi succhi gastrici che aveva prodotto il suo stomaco.
Si sentiva agitata e nervosa, diede la colpa del suo stato a quella situazione complessa in cui Maxime aveva buttato tutti quanti, senza volerlo.
Ripensò ancora una volta alla frase che Romeo le aveva lanciato contro pochi istanti prima.
A te chi ti restituirà tuo figlio?
Nessuno glielo avrebbe mai restituito. Come nessuno le avrebbe mai potuto restituire la sua virtù. Quella virtù che aveva concesso all'uomo di cui era stata innamorata da sempre, ottenendo in cambio solo fiele e sofferenza. 
 
Un giorno mi ringrazierai, Anja. Volevi che tutti sapessero che aspettavi un figlio da un uomo sconosciuto? Come avresti guardato in faccia i tuoi zii? E tuo padre, tua madre? La loro figlia prediletta, incinta e nubile… 
Tu che hai sempre tenuto all'orgoglio della tua famiglia, di te stessa… 
L'ho fatto per te.
 
Agnese si coprì le orecchie e soffocò un urlo nel ricordare il discorso che le fece Gabriel tempo addietro, mentre era ancora seduta su quel lettino in ambulatorio, e un dolore sempre più atroce al bassoventre.
Le perdite di sangue dei mesi successivi erano state un vero incubo da sopportare, senza richiamare l'attenzione di sua zia o sua sorella.
Agnese aveva pensato di essersi meritata quella punizione. Era stato il prezzo per aver desiderato che le cose tra lei e Gabriel tornassero a come erano prima di quel giorno nei boschi in Germania, di quel fatale giorno in cui aveva conosciuto un lato di Gabriel che mai si sarebbe aspettata di scorgere.
Singhiozzante e disperata, Agnese si coricò ancora vestita e con le scarpe ai piedi sul letto, invocando perdono a quel figlio mai nato, lasciandosi annegare in quel mare di vergogna e silenzio, finché il sonno non la colse a sfinimento. 

 
“Hemos visto quemarse los sueños
Y de pronto ver cómo renacen con solo un beso”
 
(Pablo Alborán - Castillos de arena)

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Capitolo 5
*** 5- A (caccia) di morte ***



Prompt: Caccia
 

Capitolo 5
A (caccia) di morte

 
"Hemos hecho con todas las piedras un imperio"
(Pablo Alborán - Castillos de arena)
 

Torino, 1944

«Brünner non può essersi volatilizzato nel nulla senza lasciare alcuna traccia!».
Il capitano Schlütz era su tutte le furie. Tre giorni di ricerca e di quel soldato non si era vista nemmeno l'ombra. Le campagne piemontesi erano riuscite ad essere molto più ostiche della loro tanto decantata Schwarzwald. 
Non era servito a niente corrompere, intimorire i contadini, minacciare di mettere a morte i loro familiari se non avessero collaborato: il tempo del silenzio e del dominio stava per raggiungere il suo culmine massimo, e Schlütz ormai ne era fin troppo consapevole.
Stavano perdendo sempre più potere, e l'omicidio di Gabriel von Kusserl era stata la goccia che fece traboccare il vaso. La sua perdita si era fatta sentire, e non sarebbe passata inosservata.
«Dev'esserci un posto, una buca, un masso, un ponte, dove quel disgraziato avrà trovato rifugio!». Schlütz battè così forte il pugno sulla scrivania, da far saltare i soldati in riga lì davanti a lui. 
«Abbiamo setacciato in lungo e in largo, capitano… Ma di Brünner… di Brünner non abbiamo-»
«Sciocchezze!» tuonò il soldato, zittendo la povera recluta che aveva tentato di spiegare le ragioni del loro fallimento.
«La verità è che vi fa paura affrontare quei quattro bifolchi che si nascondono sulle montagne! Perciò non osate addentrarvi! Temete per il vostro lurido culo!» e fece il giro della scrivania, fronteggiando uno di loro dritto in faccia, «Non siete degni di indossare questa divisa!». Il povero sventurato che si era preso il rimprovero dritto in faccia, chiuse gli occhi e deglutì, cercando di non darlo a vedere. 
«Adesso uscite da quella porta, e mi fate il favore di tornare con una pista in mano, delle informazioni, se proprio non sapete scovare quel traditore! Ma vi giuro sul Führer, che se tornate indietro a mani vuote, vi taglio le palle e le esibisco in pubblica piazza prima di darle in pasto ai porci! Mi sono spiegato?!». Il tono del capitano non ammise alcuna replica.
«Signorsì, capitano!»
«Agli ordini!»
«Jawohl!».
Dopo essersi messi in riga per il saluto militare, i soldati si precipitarono fuori la porta, tradendo una certa fretta.
Lo sguardo di Schlütz li accompagnò con freddezza fino all'uscita dell'ultima schiena.
Giurò a sé stesso che avrebbe trovato quell'omicida traditore, fosse stata l'ultima cosa che sarebbe stato in grado di fare.
Poi, come se un'entità superiore avesse accolto il suo giuramento, il caso volle che l'occhio gli cadde su di una cartina ingiallita, con varie X rosse segnate sopra. 
Si diede mentalmente dell'idiota.
Tra tutti i posti setacciati, ne mancava soltanto uno all'appello. 
Il più scontato.
 
◇ ☆ ◇
 
La visita di Ismaele al rifugio dei partigiani lasciò tutti i presenti di stucco, compreso Alfredo, che aveva fissato l'uomo interdetto. Ricordava ancora forte e chiaro la volontà ferrea del fratello maggiore di non volersi immischiare nella lotta contro la liberazione dell'occupazione nazista. 
Si era voluto mantenere basso per proteggere le figlie dell'altro fratello, quello di mezzo tra lui ed Alfredo, che aveva mandato in Germania per permettergli un futuro e farlo studiare, dopo la morte dei loro genitori. 
Aveva anche accettato la presenza degli uomini di Kusserl nelle sue terre, pur di non mettere a rischio la vita di sua moglie e delle sue nipoti.
«Oggi scenderà giù un fortunale!» dichiarò Alfredo, attirandosi le risate di Dante e gli altri compagni.
«Pensavo non avessi più l'età per venire a caccia nei boschi!».
Ismaele guardò il fratello minore alzando un sopracciglio, con aria divertita nonostante tutto.
Si tolse il cappello con la visiera ampia, sedendosi su di un tronco come se fosse stata una comoda poltrona.
«Non me lo offri un goccio di vino, scansafatiche?» lo beffeggiò l'uomo, piazzando le mani aperte sulle ginocchia, circondato dal gruppo capeggiato dal fratello minore.
«No anzi, aspetta!» fece Ismaele alzando una mano, e dalla bisaccia consunta estrasse una damigiana di vino rosso, di grandezza media. L'uomo stappò via il tappo di sughero senza ulteriori sforzi.
«Mi servo da solo!» dichiarò, e mandò giù un'abbondante sorsata, visibilmente soddisfatto.
Poi la passò ad Alfredo, che non esitò a berne anche lui, come un assetato perso in mezzo al deserto, passandola poi ai compagni, desiderosi di bere del buon vino dopo giorni di astinenza.
«Perchè ti sei scomodato dal tuo casale?» chiese poi Alfredo, sedendosi di fronte al fratello maggiore. Avevano lo stesso sguardo, sebbene quello di Ismaele fosse molto più maturo e forte dell'altro.
Quest'ultimo non tergiversò troppo intorno alla questione.
«Devo parlare con Maxime» disse, rigirandosi il cappello tra le mani. Alfredo sghignazzò divertito.
«Buona fortuna allora! Neanche il tuo sguattero è riuscito a farlo parlare… quello capisce solo Agnese» disse, fregandosi le mani per pulirle dalla terra e la fuliggine.
Ismaele si adombrò in viso nel sentire il nome della nipote più grande.
«È proprio di lei che gli devo parlare» confessò, fissando ancora una volta Alfredo negli occhi. Non sembrava stesse scherzando.
«Lui sa qualcosa che io non so… che Agnese mi ha volutamente tenuto nascosto» continuò Ismaele, cercando di contenere il suo disappunto «qualcosa che se dovesse arrivare alle orecchie di Furio non saprei come guardarlo in faccia».
Alfredo sollevò un sopracciglio nel sentire il nome dell'altro fratello. Non lo sentiva da anni, da quando si erano separati da bambini… aveva sempre detto di detestarlo, che da quando viveva a Dresda si era fatto molto "provinciale", ma nel vedere per la prima volta le figlie, una volta giunte a Torino, il richiamo del sangue lo aveva avvertito tutto, forte e chiaro. 
Quelle volte che aveva avuto a che fare con Agnese, gli era parso di discutere direttamente con Furio, azzerando tutta quella distanza durata anni. 
«E cosa c'entra il tedesco?» domandò Alfredo, sospettoso. Aveva intuito che tra i due ragazzi ci fosse qualcosa che andasse molto più in là di una semplice amicizia, ma l'istinto gli aveva suggerito che quel soldato silenzioso e riservato non fosse il tipo da andare ad importunare fanciulle senza alcun criterio. Al contrario del tenente, che non gli era piaciuto fin da subito…
«Questo me lo deve dire lui» esclamò Ismaele, alzandosi con fatica dal tronco, stirandosi la schiena. «Dove posso trovarlo?» aggiunse poi, fissando il fratello con severità. Alfredo si limitò ad indicare il capanno, contraccambiando il suo sguardo con la stessa intensità.
«Sarà tutto inutile comunque» si sentì in dovere di avvertirlo, serio «L'unica volta che l'ho sentito parlare è stato quando mi ha implorato di nasconderlo tra i miei uomini. Da allora non ha più aperto bocca».
Ismaele soppesò le parole di Alfredo per qualche minuto, ma non si diede per vinto in fretta.
«Magari con un aiutino diverrà più loquace» e tirò la cinta della bisaccia, indicandola col mento. Alfredo sbuffò una risata a labbra chiuse.
«Hai intenzione di farmelo ubriacare?» chiese, tra il serio e il faceto. Ismaele sogghignò tronfio.
«Non sarebbe una cattiva idea!».
 
○●○
 
Maxime era coricato sulla branda con le mani posate sopra all'addome, quando si vide apparire Ismaele Chiodi dal nulla. 
Si alzò di scatto, e il gesto gli fece girare la testa per qualche secondo.
«Stai comodo, figliolo» dichiarò l'uomo, avanzando nella stanza semivuota con innata confidenza. Si guardò velocemente intorno prima di tornare da lui con lo sguardo. 
«Vedo che Alfredo ti fa stare nel lusso!» commentò, sedendosi su di una sedia poco lontano dalla branda su cui Maxime era steso. 
Lo fissò dritto negli occhi per qualche secondo: voleva fargli capire che non veniva né per portare cattive notizie, e né per fargli una ramanzina. Anche se probabilmente se la sarebbe meritata.
Maxime si sistemò meglio sulla branda, portandosi le ginocchia al petto. Le labbra tremarono in un sorriso incerto.
«Hai combinato un bel guaio, eh moccioso?». Ismaele non riuscì ugualmente a tenere per sé quel pensiero, senza però risultare scorbutico o scostante. Maxime gliene fu grato per questo.
«Un'accusa di omicidio non si leva tanto facilmente dalla fedina penale di una persona» continuò Ismaele, incurvandosi in avanti e intrecciando le dita tra loro.
«Eppure sei consapevole del fatto che qui ognuno sta facendo la sua parte per aiutarti? Stiamo tutti ricambiando il favore. E non siamo tenuti a farlo, visto cosa e chi rappresenti». 
Ismaele aveva parlato lentamente, proprio perchè voleva che Maxime capisse e comprendesse il significato che si celava dietro al suo discorso. Poco gli importava, al momento, se lui gli avesse risposto o meno. 
Il ragazzo si limitò ad annuire, abbassando ad intermittenza lo sguardo.
«Come tu non eri tenuto a proteggere Agnese… eppure lo hai fatto. L'hai difesa da quel tenente, e sono venuto a chiederti il motivo». 
Ismaele notò come l'attenzione di Maxime si fosse accentuata nell'udire il nome della nipote dal nulla. Le iridi le si erano mosse, emozionate.
«Ho bisogno di sapere cosa è successo, Maxime. Se lo chiederò a mia nipote non me lo dirà mai, è testarda e caparbia come pochi» Ismaele cercò di mostrarsi calmo, pacifico. Aveva bisogno di togliersi quel tarlo dal cuore e l'unico che poteva aiutarlo ad estrarglielo era proprio quel giovane tedesco che si ostinava a restare zitto. 
«Cosa le ha fatto Kusserl? L'ha forzata a stare con lui?».
Maxime deglutì a quella domanda, improvvisamente timoroso. Gli si leggeva in faccia come un libro aperto. Ismaele avvicinò la propria sedia, accomodandosi più vicino al ragazzo. Adesso lo fissava dritto in faccia, senza filtri.
«Maxime… per favore…».
Una lacrima scese dall'occhio sinistro del giovane. Una lacrima solitaria che gli scese lentamente lungo la guancia sporca, la barba era giusto un po' annunciata. 
Iniziò a tremare, parlare dopo tanto tempo, e per di più in italiano, gli comportò una fatica enorme.
«Il- Il tenente…». Si bloccò.
Ismaele lo fissò torvo, carico di aspettativa.
«Cosa?»
«Il tenente von Kusserl…». Si bloccò nuovamente, avvertiva come granelli di sabbia sulla lingua che gliela faceva incespicare.
«Sì? Avanti figliolo, parla» lo incoraggiò Ismaele, con estrema delicatezza. Lo vedeva terrorizzato e non avrebbe avuto alcun senso inveire contro di lui.
Maxime ispirò profondamente dal naso, nel chiudere gli occhi altre lacrime scivolarono lungo le guance, per andarsi a schiantare contro lo sterno.
«Il tenente von Kusserl non ha fatto niente ad Agnese» dichiarò infine. E un pezzo di sé sprofondò nei meandri della sua anima, in un mare nero.
Ismaele aggrottò la fronte, interdetto. 
«Come?» insistette, facendosi più vicino e più minaccioso.
Maxime ispirò ancora, stavolta dalla bocca.
«Voleva denunciarmi perché aveva scoperto che - che avevo abusato di lei… mi sono sentito perso, e così ho impugnato la pistola-»
«Perchè stai mentendo?».
Se c'era una cosa su cui Ismaele non sbagliava mai era fare affidamento sul suo sesto senso. Quel ragazzo gli era sembrato troppo affranto ed amareggiato, non si stava liberando di alcun peso. Al contrario. Se ne stava caricando uno addosso ben peggiore, talmente opprimente da non lasciarlo respirare. 
«No, io-» provò a difendersi Maxime, ma Ismaele si alzò dalla sedia e lo afferrò per le spalle, scuotendolo con forza.
«Perche continui a difendere quel lurido lestofante? Ti fa così paura anche da morto, eh?».
No, a Maxime non faceva paura, sebbene si sentisse in colpa per quello che aveva fatto. Tutto quello che aveva fatto, tutto quello che aveva detto, lo aveva fatto e detto per Agnese. Solo e soltanto per lei. Perché non voleva che il suo odio verso di lui continuasse a crescere. Si sarebbe buttato addosso tutta quella merda solo per il suo amore e la sua riconoscenza. Non avrebbe rovinato tutto ancora una volta, non l'avrebbe permesso.
«Ti prego Max, ho bisogno di sapere! Perchè mai lo state-»
«Perchè Agnese gli voleva bene! Gli voleva bene e gli avrebbe perdonato qualsiasi cosa!».
Quella frase, urlata in tedesco, Ismaele la capì perfettamente. Fissò Maxime con occhi sgranati, senza agitarlo, ma con le mani ancora strette alle sue spalle.
«Io gliel'ho portato via… merito di finire i miei giorni in carcere! Sono un assassino, invidioso, inetto, traditore! Ogni giorno spero che una pallottola vagante mi prenda al cuore o alla testa, così finirò i miei giorni su questa terra! E voglio morire invocando il suo nome, affinché mi perdoni e preghi per la mia anima…».
Maxime non riuscì più a trattenere il pianto che esplose in tutta la sua vigorosità. Ismaele gli accarezzò il capo, come aveva fatto a suo figlio molti anni prima, quando era ancora un ragazzino. Caso aveva voluto che entrambi avessero un nome simile: Massimo e Maxime. E quest'ultimo glielo aveva ricordato in più occasioni. Persino sua moglie Blanca lo aveva trattato con dolcezza proprio come se fosse stato figlio loro, indipendentemente dalla divisa che indossava e la lingua che parlava.
Gli aveva pulito la divisa, preparato la colazione, incurante del fatto che lo stesse facendo per un nemico. 
Immagino le loro madreli, poverine, quanto stiano in pensiero a saperli in un posto straniero… magari chissà, allo stesso modo Massimino avrà trovato qualcuno laggiù che si prenda cura di lui…
Ismaele aveva ricordato le frasi che Blanca gli aveva riferito, poco dopo la partenza del loro unico figlio al fronte. Le aveva invidiato tutto quell'amore, quella dedizione, che lui aveva mostrato solo per paura di ritorsioni, per paura di rappresaglie e vendette. 
L'aveva invidiata ed ammirata quando l'aveva vista non cambiare atteggiamento verso quei soldati neppure dopo la notizia della morte di Massimo al fronte.
Lo piangeva ogni notte, in silenzio, chiusa nella sua stanza, mentre poi durante il giorno si dedicava alla casa, alla vigna, alle nipoti. La sua cara, dolce e tanto forte Blanca… 
«Tu non sei queste cose» dichiarò Ismaele, sull'orlo del pianto, in preda ai ricordi.
«Tu meriti di vivere, e proprio per questo ti faremo salire su quella nave!». Appoggiò la propria fronte a quella di Maxime, che non aveva smesso di piangere neanche un secondo, finalmente libero di sfogarsi.
«Ti ringrazio di averla difesa, Maxime. Te ne sarò grato finché vivrò». E lo strinse in un abbraccio forte, incoraggiante, caloroso. Maxime si lasciò andare, aumentando il pianto d'intensità, come un bimbo piccolo salvato in extremis dal proprio padre.
Lui, che un padre non lo aveva mai avuto.
E l'altro, che un figlio lo aveva perduto, ma lo aveva ritrovato inaspettatamente dall'altra parte della frontiera, negli occhi di un forestiero.
 
▪︎♤▪︎
 
Agnese stava finendo l'ultimo giro di maglie all'uncinetto, quando Romeo entrò nel salotto, bussando piano alla porta.
Agnese lo fissò con sufficienza, non dedicandogli troppa importanza.
«Se cerchi Anna sarà in camera sua» rispose vaga, continuando a lavorare a maglia. Romeo avanzò nella stanza, infilandosi le mani in tasca.
«Veramente stavo cercando te» dichiarò, con un piccolo colpo di tosse.
Agnese smise di smanettare, guardandolo seria.
«È successo qualcosa a-» si bloccò prima di proferire il nome di Maxime. Lo inghiottì, restando a testa alta.
Romeo trattenne la risata che gli sarebbe esplosa di lì a poco. L'espressione che mise su Agnese, sebbene fosse seria, le risultò buffa a causa delle guance imporporate di viola.
«Che io sappia no, a quanto pare sta sempre nel suo mutismo» commentò, grattandosi la nuca. Agnese poggiò l'uncinetto sul tavolino da tè e si mise seduta meglio tra i cuscini del divano.
«E allora cosa c'è?» chiese, sbrigativa.
Romeo stralunò gli occhi a metà, reprimendo la sua voglia di litigare. 
«Volevo chiederti scusa… per ieri sera» esclamò, e guardò ovunque nella stanza, fuorché la diretta interessata. 
«Non avrei dovuto dire… insomma, non davanti al signor Chiodi! Io, ecco… è che il tuo comportamento mi fa rabbia, ecco!».
Agnese lo fissò corrucciata, come se non avesse colto con chiarezza cosa gli avesse detto, quando in realtà aveva colto benissimo.
«Maxime ha sbagliato, ne siamo tutti consapevoli… però… se penso a quello che ti ha fatto, a come ti ha trattata… Capisco anche che tu abbia voluto tenere Anna lontana da tutto questo, perché quello lì ha avuto almeno la decenza di non commettere schifezze in sua presenza… Ma tu come hai fatto a sopportare tutto da sola, in silenzio? Non so se ammirarti o rimproverarti per questo». Romeo aveva parlato come un fiume in piena, mordendosi le labbra e sfregandosi le mani tra loro con un certo nervosismo. 
Smise soltanto perché Agnese lo stupì con le sue parole, prendendolo in contropiede.
«Sono io che devo chiederti scusa».
Romeo alzò lo sguardo, perplesso. Faticò a credere cosa l'amica gli avesse appena detto.
«In questi giorni ho davvero esagerato… ma quando vi ho visti arrivare in chiesa quel giorno, dopo averlo visto tutto sporco di sangue… sulle prime avevo pensato che lo avessero ferito…». Ad Agnese mancò l'aria nel ricordare la camicia di Maxime sporca del sangue di Gabriel. Quelle camicie che profumavano sempre vagamente di pino selvatico… Maxime le aveva sempre dato l'idea di un sole tiepido d'inverno, che nonostante il gelo intorno, riuscisse ad emanare ugualmente calore. E in più di un'occasione, Agnese quel calore lo aveva percepito, in ogni sorriso che le aveva rivolto, in ogni saluto… Un calore che con Gabriel non aveva mai più ritrovato, neanche andandoci a letto. Di quel calore, ne era rimasta soltanto una lieve eco dell'infanzia.
«Insomma, mi avete fatta preoccupare più del necessario. E ciò non toglie che Maxime ha commesso un omicidio».
Un omicidio che avrei dovuto consumare con le mie stesse mani, ma Agnese quel pensiero preferì non esternarlo. 
«Non so come aiutarlo, Romeo. Ho paura di guardarlo negli occhi e capire che non posso fare niente per lui… perché mi sento piccola ed impotente. Farlo fuggire in Uruguay è l'unica alternativa che abbiamo, e alla stesso tempo… allo stesso tempo non vorrei allontanarmi da lui».
Agnese abbozzò un sorriso, portandosi entrambe le mani all'altezza del ventre, incerta se toccarselo o meno.
Romeo sorrise a sua volta, intenerito. Erano rare le volte in cui Agnese si apriva così a qualcuno senza innalzare mura di cinta attorno a sé. E un po' ci aveva sperato che con Maxime avesse abbassato quelle mura. Internamente, aveva sempre tifato per l'amico tedesco al posto di Gabriel.
«Per cui… puoi perdonarmi se sono stata così acida?» mormorò Agnese, a capo chino, dritta a fissare il bel tappeto persiano che copriva parte del pavimento.
«Uhm, non so… ci devo pensare, guarda!» scherzò Romeo, facendole l'occhiolino.
Agnese incrociò le braccia sotto al petto, fintamente risentita.
«Ah sì? Bene, allora vorrà dire che non approverò il tuo fidanzamento con Anna!» lo minacciò, schernendolo. Romeo divampò nel sentirla parlare a quel modo.
«Ma, ma… Ma per chi mi hai preso?» si difese, cercando di non dare a vedere di essere stato colto in flagrante sui propri sentimenti.
«Non ho mai detto di amarla! Non inventare fesserie!». Il viso di Romeo aveva cambiato diverse tonalità di rosso nel giro di due secondi.
Agnese a quel punto scoppiò a ridere di gusto, scuotendo le spalle e portandosi una mano in viso, coprendosi la bocca.
«Beh, tanto meglio… non avrei mai lasciato la mia sorellina nelle tue mani, sei poco affidabile!» e concluse con una bella linguaccia alla volta del povero Romeo.
«Ha parlato la regina dei simpaticoni!» borbottò, incassando il collo nelle spalle.
Agnese gli si avvicinò e gli allargò le braccia, un muto invitò. Romeo dimenticò presto la presa in giro e abbracciò l'amica con trasporto. L'ultima volta che si erano abbracciati era stato un lontano pomeriggio, poco dopo gli eventi di quel giorno nefasto, in cui Gabriel aveva deciso della sua vita senza neanche farle avere voce in capitolo sulla questione. Agnese, a differenza di Anna, era sempre stata più ritrosa al contatto fisico.
Ma quell'abbraccio venne interrotto bruscamente da un rumore sordo, ripetuto. Un rumore simile a spari in lontananza.
Ad Agnese le mancò un battito. Suo zio non era ancora tornato, e se fosse stata l'ennesima sparatoria che avveniva tra tedeschi e partigiani, non poté fare a meno di pensare a Maxime. 
Si diresse così nell'armeria di Ismaele, dove teneva conservati i fucili per la caccia.
Agnese ne prese uno e un altro lo diede a Romeo.
«Agnese, cosa vuoi-»
«Non dobbiamo permettergli di raggiungere il casale!» decretò, pratica. Romeo la fissò, incredulo.
È proprio nipote di quel pazzo di Alfredo, pensò, ma non lo esternò.
Impugnati i fucili, uscirono dal portone, ben attenti a non farsi scorgere dalla scalinata esterna.
Ad ogni sparo, Agnese pregò per la sorte dei suoi zii e di Maxime. 
Pregò affinché non dovesse piangere nuovamente su di un'altra tomba.

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Capitolo 6
*** 6- Nella cornice del (quadro) ***


Prompt: Quadro
 

Capitolo 6
Nella cornice del (quadro)

 

Il capitano Schlütz e i suoi uomini avevano fatto irruzione al campo dei partigiani, iniziando a sparare in aria con i loro fucili, come avvertimento della loro imminente presenza. 
Fu lo stesso Alfredo ad accoglierli, con una freddezza tale che quando si ritrovò il capitano tedesco davanti, quest'ultimo non fece in tempo a nascondere una leggera sorpresa in volto.
«Siete venuti per arrestarci tutti, capitano?» lo sfidò Alfredo, fissandolo sarcastico. Non aveva impugnato nessun'arma, eppure il timore che il partigiano seppe incutere nel tedesco fu piuttosto eloquente.
Tuttavia, Schlütz sogghignò, cercando di non farsi cogliere impreparato.
«Siete in troppi e le nostre celle pullulano di traditori come voi» dichiarò il capitano delle SS, le mani guantate strette dietro la schiena.
«Sono venuto a proporvi un patto» iniziò poi, iniziando a girare intorno alla figura di Alfredo, ben inchiodato al suolo.
«Consegnatemi il giovane Brünner e non vi sarà torto un capello. Sarà come se questo incontro non fosse mai avvenuto» propose placido il tedesco, era di nuovo davanti al partigiano, sfidandolo con i suoi occhi affilati e minacciosi.
Alfredo resse quello sguardo con un leggero sorrisetto malizioso sulle labbra.
«Mi spiace deluderla, capitano, ma tra le mie fila non accetto i vostri mangiapatate slavati!» rispose, guadagnandosi le risate d'incoraggiamento dei suoi uomini, pronti a sparare se fosse stato necessario.
«State cercando nel posto sbagliato».
A Schlütz quell'ultima frase non andò proprio a genio.
«Il nostro superiore è stato ucciso brutalmente. Devo avere la testa di Brünner servita su di un piatto d'argento. O preferisci che prenda uno a caso dei tuoi uomini e lo giustizi in pubblica piazza, come monito alla città per aver disobbedito ad un ordine?».
Alfredo lo fronteggiò spavaldo, imitando la sua stessa posizione, braccia incrociate dietro la schiena e gambe leggermente divaricate. 
«È finita l'era delle vostre prepotenze. Il vostro potere si sta affievolendo sempre di più. Gli Alleati stanno arrivando, e ben presto vi cacceranno a calci in culo dalla nostra terra!». Schlütz perse per pochi secondi la baldanza che lo aveva accompagnato fino ai piedi di quella montagna, dove il gruppo partigiano di Alfredo si era rifugiato. 
Tuttavia, il suo contegno di soldato gli impedì di lasciarsi sopraffare dal panico. Le voci dell'arrivo degli Americani si stavano facendo sempre più insistenti, e dalla Germania le notizie non erano chissà quanto rassicuranti. 
«Non farmelo richiedere con le cattive, Alfredo Chiodi» esclamò il capitano tedesco, avvicinandosi pericolosamente al partigiano «consegnami quel soldato, o dei tuoi uomini non rimarrà in piedi neanche la loro casa» minacciò, fronteggiandolo con crudeltà.
«I miei soldati sono un po' nervosi ultimamente, magari le loro mogli, figlie o sorelle sapranno come calmarli».
Alfredo strinse convulsamente le mani dietro la schiena, soffocando a stento il desiderio di spaccare il naso a quel verme e ai suoi sottoposti nell'udire quella non proprio velata minaccia.
Di consegnargli o meno Maxime, in verità gliene importava poco o nulla. Aveva saputo sin dall'inizio che quel moccioso gli avrebbe arrecato solo guai. 
Ma sapeva perfettamente che Ismaele non lo avrebbe mai permesso, e di andare contro la sua autorità era fuori discussione.
Sapeva inoltre che chiunque in città avrebbe protetto quel ragazzo volentieri, nonostante fosse uno straniero, per giunta invischiato tra le fila nemiche. 
«Suvvia, Schlütz, non c'è bisogno di spingersi a tanto» le iridi verde oliva del partigiano non lasciarono trapelare alcuna emozione, parve addirittura divertito da quello scambio di battute.
«Davvero pensa che se quel Brünner si fosse anche solo azzardato ad avvicinarsi, lo avremmo accolto a braccia aperte?» e indicò col capo uno dei suoi, che stava impugnando un fucile contro di loro. «Da un anno a questa parte è questa l'accoglienza che vi dedichiamo, e non facciamo eccezione per nessuno».
Schlütz sollevò un sopracciglio, guardandosi intorno, il buio della notte ormai aveva coperto qualsiasi cosa col suo manto bluastro.
«Setacciate ogni cespuglio, il bosco, il fiume… trovate quel traditore ad ogni costo!» urlò improvvisamente in tedesco il capitano, spingendo i suoi uomini ad avanzare, appropriandosi di un permesso che né Alfredo e né gli altri presenti gli avevano concesso. 
Con la coda dell'occhio, Alfredo vide due soldati giungere quasi in prossimità del capanno. Il cuore gli saltò in petto per l'apprensione. 
«Fossi in te, pregherei che non trovino nessuno. Altrimenti non ci sarà santo a cui potrete rivolgervi».
L'ennesima minaccia di Schlütz giunse ai timpani di Alfredo come un anatema.
Dopodiché lo vide dirigersi verso il capanno, con passo sicuro. Dopo qualche minuto di immobilità, anche lui prese a seguirlo, cercando di nascondere la preoccupazione mantenendo il volto basso e schiarendosi più volte la gola con qualche colpo di tosse randomico.
 
Quando Schlütz giunse all'interno del capanno, vi trovò soltanto Ismaele Chiodi, il padrone del casale e del vigneto lì vicino.
Si guardò intorno circospetto, come a volersi accertare che non vi fosse qualcun altro pronto a sbucare fuori per aggredire lui e i suoi uomini.
«Capitano Schlütz» dichiarò l'ovvio Ismaele, sistemandosi il cappello sulla testa con fare lento e ponderato. Non sembrava preoccupato, né ansioso.
«Spero che l'accoglienza di mio fratello non sia stata troppo sfacciata» lo provocò lui bonario, con la sicurezza tipica di avere tutto sotto controllo. Quell'atteggiamento infastidì maggiormente il capitano delle SS.
«È da solo?». Non finì neanche di dirlo, che con un semplice gesto delle dita, ordinò ai suoi uomini di mettere a soqquadro l'abitacolo. Ismaele li lasciò fare, la cosa parve non recargli fastidio.
«Le sembro in compagnia di qualcuno?» dichiarò sarcastico, girandosi con espressione ovvia. Irritare quell'uomo lo divertiva più del dovuto. 
«Dov'è Brünner?» chiese Schlütz tra i denti, proprio nell'istante esatto in cui Alfredo e Dante raggiunsero la porta del capanno. Il capitano dava loro le spalle, lasciandoli liberi di esprimere il proprio terrore muto agli occhi di Ismaele, che lo tenevano proprio di faccia.
«Non ne ho idea» si limitò a commentare Ismaele, guardando con distacco l'operato dei soldati. Ribaltarono il materasso e i pochi mobili presenti, senza mostrare rispetto o cura.
Ismaele non seppe spiegarsi se lo stessero facendo per sfregio o perché costretti ad eseguire gli ordini. La ferocia dei loro gesti tradiva una certa disperazione mista a prepotenza.
Il capitano tedesco continuò a guardarsi intorno, passando in rassegna qualsiasi dettaglio che avrebbe potuto aprirgli una pista, che lo avrebbe condotto a quella recluta assassina.
Improvvisamente, dall'uscita secondaria del capanno, un soldato entrò a perdifiato, reggendo il fucile tra le mani, tremando vistosamente.
«Was ist passiert, Gustaf?» esclamò Schlütz, sorpreso nel vederselo spuntare davanti così all'improvviso.
«Ich hab' ihn gesehen!».
L'ho visto.
Alfredo tremò nel comprendere al volo cosa quel soldato avesse appena rivelato. Ismaele invece rimase impassibile, e non perché non avesse capito quella frase.
«Stava andando verso il bosco, signore!» dichiarò Gustaf, cercando di riprendere fiato dalla corsa fatta.
La reazione stizzita del capitano immobilizzò ancor di più i presenti sul posto.
«E perché sei tornato indietro per dirmelo, idiota?!» sbottò, avanzando due passi verso il povero malcapitato. Gustaf deglutì, e il suo sguardo incrociò brevemente quello fiero di Ismaele.
«Ho- ho fatto più in fretta che ho potuto… per richiamare gli uomini… da solo lo avrei comunque seminato!» balbettò il soldato, intimorito dinnanzi alla furia cieca dipinta sul volto del suo superiore.
Quando lo vide voltarsi in direzione di Alfredo e Dante, si sentì in dovere di aggiungere dell'altro.
«Non veniva da qui, signore. Probabilmente si sarà nascosto tra le montagne da giorni, anche da loro» specificò, sperando che la voce non gli tremasse troppo.
«Sì trovava dall'altra parte del fiume».
Il silenzio regnò per qualche minuto nel capanno. Schlütz fu il primo a ravvedersi.
«Avete sentito? Muovetevi a stargli dietro! Non c'è un minuto da perdere!» ordinò poi, richiamando i soldati rimasti ad ispezionare.
«Ma signore, è notte, come facciamo a…» provò a ribattere uno dei soldati, che si guadagnò immediatamente l'occhiata glaciale di Schlütz.
«Attaccatevi al culo di quel bastardo e portatelo in caserma! Ricordate che siete soldati! Eseguite ordini, non frignate come donnicciole!» gridò il tedesco, così forte da far saltare i timpani a tutti i presenti.
«Jawohl!» dissero infine all'unisono i soldati, e uscirono da dove Gustaf era appena entrato. Quest'ultimo li seguì non appena scambiò un fugace sguardo d'intesa con Ismaele. Aveva assistito alla scena con un'impassibilità invidiabile. 
«Vi è andata bene stavolta» sibilò Schlütz, con un ghigno malefico in viso.
«Ma non pensate che finirà così» minacciò poi, prima di seguire i suoi uomini fuori e richiamando a gran voce coloro che erano rimasti nelle camionette.
Una volta che i tedeschi lasciarono l'accampamento, Ismaele tirò un sospiro di sollievo, sedendosi sulla branda priva di materasso.
Alfredo gli si avvicinò sorpreso, a pugni chiusi.
«Cosa cazzo è successo qui, me lo spieghi?» chiese Alfredo, Dante gli stava dietro di un paio di passi, sorpreso e interdetto quanto lui.
Ismaele lo fissò truce, serio in volto. Strinse il cappello nella mano destra, sospirando.
«Quel ragazzo deve andare via da qui, il più in fretta possibile».
 
°°°
 

«Via libera!» sussurrò Romeo, con tanto di gesto energico della mano.
Agnese e Maxime erano poco più indietro di lui. Da quando erano usciti insieme da quel capanno, Maxime non aveva lasciato la mano di Agnese neanche per un secondo. Non la stringeva troppo, si era sentito tranquillo con lei, nonostante la fuga rocambolesca che avevano dovuto intraprendere una volta preso il sentiero oltre il fiume.
Per fortuna al casale non era arrivato nessuno. Agnese e Romeo si erano accertati che, andando per il vigneto, non vi fossero camionette parcheggiate o soldati appostati. La situazione al ritorno non risultò variata.
Corsero così tutti e tre tra i tralci del vigneto, se non fosse stato di notte e con la paura addosso di poter essere scoperti da un momento all'altro, avrebbero potuto dare benissimo l'impressione di essere tre ragazzini intenti a rincorrersi tra loro con aria spensierata.
Raggiunsero il cortile cercando di non svegliare nessuno. Romeo fece da apripista, guidandoli sotto al porticato.
«Cazzo! Ce la siamo vista proprio brutta ragazzi!» sospirò Romeo, appoggiandosi sulle ginocchia e lasciando che il fucile gli scivolasse lasco sulle spalle. 
Agnese si portò una mano sul petto, cercando di riprendere fiato. Maxime si era appoggiato al muro, non lasciando la mano di Agnese neanche in quell'istante. Socchiuse solo gli occhi, cercando di ritrovare la calma. 
«Spero che zio Ismaele ed Alfredo se la siano cavata con Schlütz» si augurò la ragazza, mentre cercò di dare qualche colpetto gentile al petto del tedesco, come a ridestarlo da un sonno profondo.
«Sei stato bravo» si lasciò scappare, non guardandolo però negli occhi. Glielo avrebbe baciato quel petto, come a volergli calmare il cuore che gli batteva troppo forte al suo interno, ma si trattenne dal farlo. Maxime accennò un sorriso, in un'altra circostanza le avrebbe rubato un bacio, ma sentiva di non averne più il diritto, che non avrebbe mai più potuto fare qualcosa di così ingenuo con nessuno al mondo. Perché anche le sue labbra ormai avevano preso il sapore del sangue.
Un rumore di passi li fece scattare tutti sull'attenti. Agnese massaggiò velocemente il petto di Maxime, una scusa e una richiesta silenziosa, quella di lasciarle la mano. Il tedesco obbedì senza protestare.
La vide impugnare nuovamente il fucile, allontanandosi di qualche passo da lui e Romeo.
«Agnese, che fai? Vieni qui!» mormorò quest'ultimo, sbiancato in volto. Vide la ragazza avanzare verso il buio ed ebbe l'impulso violento di afferrarla per la vita e non farle compiere un altro passo verso morte certa. 
Lo avrebbe fatto se improvvisamente, davanti a loro, non fosse apparsa Blanca Chiodi, che per la sorpresa di trovarsi un fucile puntato contro, si portò le mani sul viso, soffocando un grido di spavento.
«Zia!» esclamò Agnese, abbassando il fucile. 
«Ma… benedetta figliola! Volevi farmi prendere un infarto?!» sbottò piano Blanca, portandosi una mano sul petto abbondante. 
Agnese le dedicò un sacco di scuse, rassicurandola che non le avrebbe fatto alcun male.
Nel mentre, dietro di lei, Blanca scorse il volto familiare di Maxime, e si avvicinò al ragazzo con aria preoccupata, affranta.
Gli prese il viso tra le mani, esaminandolo nel caso vi fosse stato qualche graffio da curare e disinfettare.
Maxime le avrebbe voluto dire di non toccarlo, che era sporco, e l'ultima cosa che avrebbe voluto in quel momento era di insozzare le mani gentili di quella povera donna con il suo lerciume e le sue colpe, ma a Blanca questo parve non importare.
«Ma povero ragazzo… tu stai tremando… che ti è successo, Maxime? Non avrai mica la febbre? Devi mantenerti in salute, qui le medicine scarseggiano…».
Blanca lo riempì di così tante premure, che Maxime per poco non si sentì male davanti a lei. 
Gli girava la testa e avrebbe voluto piangere abbracciato a lei, come un bambino che voleva lasciarsi coccolare dalla propria madre. 
«Venite con me, tutti e tre!» decise infine la donna, cingendo con un braccio le spalle del giovane tedesco. Era leggermente più alto di lei, ma non fu un problema camminare leggermente piegato. Il tragitto da fare non era poi tanto lungo.
Agnese e Romeo li seguirono in silenzio. Lei non tolse di dosso neanche per un momento lo sguardo dalle spalle piegate di Maxime. Allungò una mano, toccandogli lievemente la schiena. Non ricevette nessuna reazione dall'altro. Lo fece di nuovo, stavolta trovando il coraggio necessario per dargli una carezza come si deve. Osò alzare lo sguardo verso il suo viso, ma Maxime fissava il suolo con occhi spenti, stanchi. 
Agnese abbassò anche il suo, continuando ad accarezzarlo con dolcezza.
 
Blanca li condusse in cantina, attraverso un lungo corridoio pieno di botti enormi contenenti vino sia novello che datato.
Dietro una delle più grandi, si nascondeva una porticina minuscola, che aprì con l'ausilio di una chiave, tirata fuori dalla tasca del grembiule.
«Entrate, forza!» l'incoraggiò, chiudendosi la porta alle spalle una volta che il gruppo la varcò.
Era una stanzetta spoglia, usata come deposito, vi erano dei sacchi e delle cassette di legno che venivano usate per la raccolta dell'uva. Un piccolo divanetto era coperto da un lenzuolo bianco, a cui Blanca diede una veloce ravvivata con le mani.
«Vieni, Maxime, vieni!» lo chiamò la donna, invitandolo a sedersi. Agnese lo seguì come una madre preoccupata che il proprio figlioletto, incerto sulle gambe, potesse rovesciare col sedere a terra.
«Gli devo preparare qualcosa! Ha gli occhi scavati! Ma Alfredo non gli faceva mangiare niente?» chiese Blanca alla volta di Romeo, che rispose con una scrollata di spalle. 
«Ci ho provato…» si difese debolmente il ragazzo, ma Agnese gli carezzò il braccio con premura, voleva che non si prendesse troppa responsabilità in questa storia.
«Dev'esserci ancora un po' di zuppa di verdure e brodo di pollo su in cucina… l'avevo messa da parte per Ismaele, ma questo povero figliolo ne ha più bisogno» commentò Blanca, facendo per dirigersi verso la porta.
«Romeo, vieni con me!» disse poi, dando un leggero colpetto alla spalla del giovane italiano.
Agnese guardò sua zia uscire dalla stanza con Romeo al seguito, ed improvvisamente si sentì persa, esposta a qualsiasi tipo di pericolo. Le girò la testa.
«Agnese, sitz hier!» mormorò Maxime, vedendola di colpo sbiancata. Le riprese la mano dolcemente e la invitò a sedersi lì, accanto a lui. La ragazza inspirò lentamente dal naso, voleva recuperare lucidità il più in fretta possibile.
«Geht's gut» biascicò Agnese, coprendo con l'altra mano le loro mani strette tra loro. Era un contatto che non si verificava da diverso tempo.
«Troppe emozioni mi stanno facendo perdere il controllo» spiegò, tirando le labbra in un sorriso stanco. Maxime rimase semplicemente a fissarla, negli occhi vi era sorto un improvviso raggio di luce.
«Immagino che sia anche un po' per colpa mia…».
La voce del soldato era rauca, incerta. L'accento tedesco faceva facilmente capolino nella frase pronunciata in italiano.
Agnese abbassò il capo, trattenendo a stento un sorriso.
«Soprattutto per colpa tua» rincarò la dose, senza risultare eccessivamente arrabbiata. Anche se avrebbe avuto tutte le ragioni per esserlo.
Maxime si morse un labbro prima di risponderle.
«Es tut mir leid, Agnese. Mi dispiace, io non-»
«Sei stanco. Siamo tutti stanchi» lo interruppe Agnese, con voce spezzata. 
«Cerca di riposare adesso» gli disse poi, alzandosi dal divano, faticando a sciogliere le proprie mani da quelle del ragazzo. Non voleva davvero lasciarlo solo, ma aveva bisogno di avere un momento per sé stessa. La corsa all'accampamento, il loro incontro dopo l'omicidio di Gabriel, la fuga dagli uomini di Schlütz… era stato tutto troppo veloce, tutto troppo in fretta. E si era sentita sopraffatta da tutta quella situazione. 
«No andare via». Maxime raccolse tutto quel poco coraggio che gli era rimasto, non appena Agnese raggiunse la porta dello stanzino, decisa a varcarla. 
«Devo dire tante cose… du musst mir hören, bitte» la pregò il ragazzo, alzandosi di scatto dalla poltrona. Aveva il fiatone e guardava Agnese supplicante. 
Lei ricambiò, affranta e stanca, tanto stanca. Nonostante tutto, quel ragazzo le faceva tenerezza, e non riusciva ad essere forte e dura come avrebbe voluto e dovuto. 
Sapeva perfettamente che Maxime non era neanche lontanamente simile a Gabriel, né nell'aspetto né nei modi, ma mostrarsi accondiscendente verso un altro uomo le avrebbe fatto ribollire il sangue, la faceva sentire irrequieta. 
«Morgen» disse lei, con un filo di voce.
«Domani ne parliamo con calma».
Uscì piano, richiudendosi la porta dietro le spalle, per poi lasciarsi scivolare a terra, stringendosi le ginocchia al petto. Più lontano di così da Maxime non sarebbe riuscita ad andare. Senza sapere che dall'altro lato, il giovane tedesco aveva fatto esattamente la stessa cosa, appoggiandosi con la schiena verso la porta e portandosi le ginocchia al petto, nascondendo il volto tra le braccia, esausto.
 
Se qualcuno li avesse visti, li avrebbe ritratti a loro insaputa, dando vita ad un quadro che con la sola forza della rappresentazione avrebbe potuto dire molto più di un misero testo scritto, abbellito con parole e frasi d'effetto che mai sarebbero arrivate davvero a descrivere cosa esattamente si celasse dietro quei colori, dietro quella postura, dietro quel silenzio. 
Un quadro chiuso nella cornice del tempo.
 

▪︎♡▪︎
 

«Mi sono visto spuntare Agnese e Romeo dal nulla» raccontò Ismaele a Blanca, una volta rientrato a casa. La moglie gli aveva riferito che Maxime si nascondeva in casa loro. 
«Era arrivato anche Gustaf, per fortuna è stato al gioco» continuò l'uomo, trangugiando un bicchiere d'acqua tutto d'un fiato. 
«Presto arriveranno a controllare anche qui. Non può restare a lungo» dichiarò mesto, posando il bicchiere sul tavolo, rigirandoselo tra le dita.
«Io non lo faccio andare di nuovo da tuo fratello se non torna a mangiare come si deve!» esclamò Blanca, sciacquando le ultime vettovaglie nel lavabo. Ismaele le rivolse un'occhiata storta.
«Come speri di convincerlo a nutrirsi se non vuole?» chiese l'uomo, piuttosto seccato. 
Blanca lo fissò dura, portandosi le mani bagnate all'altezza dei fianchi.
«Qui c'è Agnese. Si sentirà al sicuro con lei vicino» dichiarò placida, tornando alle sue faccende come se nulla fosse. Ismaele stralunò gli occhi, sospirando.
«Quando avrà recuperato le forze poi potrà andare dove vuole… Ma in quelle condizioni non lo mando da nessuna parte!».
Ismaele sapeva che sua moglie sapeva essere molto testarda e caparbia quando voleva, peggio di lui a volte.
«Tu lo sapevi?» chiese poi, lasciando ogni dubbio al caso. 
Blanca si fermò, fissando il marito interdetta.
«Sapevo cosa?» chiese, sedendosi al tavolo, di fianco al marito.
«Di Agnese e von Kusserl».
Blanca aggrottò maggiormente la fronte, continuando a non cogliere a cosa il marito stesse alludendo. 
«Non ti seguo» replicò infatti.
Ismaele inspirò profondamente.
«Non dirmi che ero l'unico a non sapere niente di ciò che accadeva in casa mia, Blanca!».
Ismaele non alzò la voce, ma Blanca sussultò ugualmente, incrociando le dita sul tavolo, in evidente difficoltà.
«Tua nipote è una brava ragazza» rispose poi la donna, mantenendosi ferma nella propria convinzione.
Ismaele la fissò accigliato.
«Non lo metto in dubbio» dichiarò con durezza.
«Romeo ha nominato un figlio…»
«Romeo non sa quello che dice!»
«Blanca!».
La moglie lo fissò stranita. Poche volte in vita sua Ismaele si era permesso di alzare la voce, battendo per giunta la mano sul tavolo a quel modo.
Tuttavia cercò di restare calma, di non lasciarsi trasportare dalla rabbia del marito.
«Ne so quanto te, Ismaele!» mentì Blanca, alzandosi dal tavolo e dando le spalle al marito. Quest'ultimo la vide portarsi una mano sulla bocca, preoccupata.
Decise che per quella sera sarebbe anche potuto bastare… erano accadute troppe cose tutte insieme, litigare anche fra loro non sarebbe stato l'ideale.
«Va bene, lasciamo stare» dichiarò infatti, alzandosi anche lui di rimando dal tavolo.
«Domani andrò da Giovanni e gli chiederò di sbrigarsi con i documenti… se Schlütz arriva a noi, siamo perduti».
Detto ciò, superò la moglie, andando dritto verso le scale. Blanca rimase a sospirare in cucina, rattristata.
Non aveva mai davvero sospettato che tra Agnese e Gabriel sarebbe potuto esserci qualcosa, ma quando Agnese, a causa di un malore, non era più riuscita a nasconderle la verità, la sua prima reazione era stata di sdegno e rabbia. Aveva accusato la nipote di essere stata una donnaccia, pentendosene subito dopo. Erano state parole dettate dalla paura e dalla rabbia, Blanca aveva immaginato Ismaele afferrare la nipote per i capelli e costringerla a farsi dire cosa fosse accaduto. Il suo istinto materno aveva ugualmente prevalso, e aveva promesso ad Agnese che avrebbe taciuto a riguardo, cominciando però a nutrire del forte risentimento nei confronti del tenente von Kusserl. 
Blanca non aveva mai nascosto nulla ad Ismaele, ma in quel frangente si era sentita costretta a tacere, a nascondere tutto, anche ad Anna, verso cui Agnese si era tanto raccomandata.
Non riusciva a capire per quale motivo Agnese si ostinasse a tenere la sorella minore all'oscuro di tutta quella vicenda, ma da un lato aveva compreso che era il solo modo che Agnese aveva per proteggerla da un mondo che aveva perso umanità e ragione. 
Blanca giunse le mani e invocò una preghiera rivolta alla Vergine.
Pregò per suo marito, per suo cognato, per le sue nipoti, per Maxime, e per sé stessa.
Sperò che tutta quell'indulgenza, prima o poi, non le si sarebbe ritorta contro.

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Capitolo 7
*** 7- Petalo (delicato) ***


Prompt: Delicato
 

Capitolo 7
Petalo (delicato) 

 

«Hai lo strabismo di Venere». 
Agnese glielo aveva detto un giorno qualunque, trovatisi faccia a faccia a causa del posto angusto in cui si erano nascosti da suo zio Ismaele, sceso in cantina con Romeo per prendere una damigiana di vino.
«Was?!»
Maxime era rimasto interdetto un po' per quella frase buttata lì dal nulla, e un po' per la troppa vicinanza fisica creatasi tra lui ed Agnese. Si sentiva in evidente imbarazzo.
«il tuo sguardo non è simmetrico. La tua pupilla sinistra vira leggermente verso sinistra» aveva continuato lei, appoggiata di schiena al muro, attenta a non muovere le ginocchia e a non spostare le mani dal petto del tedesco. Il cuore gli batteva talmente forte nel petto, che Agnese aveva temuto gli stesse saltando qualche coronaria.
«Ed è una cosa brutta?» chiese Maxime, con occhi sbarrati. Si sentiva emozionato ed inspiegabilmente felice, ma allo stesso tempo provava una forte agitazione, la stessa di quando da bambino si svegliava nel cuore della notte e scopriva di aver bagnato il letto di urina.
Agnese soffocò una risata, portandosi una mano sulle labbra.
«Assolutamente no, non è niente di grave» spiegò la ragazza, divertita dall'espressione confusa e smarrita che aveva messo su Maxime. 
«È un difetto estetico, ma ti dona» continuò, rassicurandolo. Gli prese una spalla e gliela massaggiò con tenerezza. Quel contatto così inaspettato aveva fatto nascere nel giovane tedesco diverse sensazioni, tutte diverse e dissonanti tra loro. 
Un sorriso mite gli era spuntato sulle labbra screpolate e sottili, ricambiando debolmente quello di Agnese, decisamente più coraggioso del suo.
 
Quella era stata la prima volta che Maxime aveva provato l'impulso di baciarla, sfiorarle appena le labbra per scoprire di che sapore fossero, se di dolce e pizzicante cannella o di fresca e profumata fragola.
Probabilmente di entrambe le fragranze, così mischiate tra loro da non riuscire a distinguere l'una dall'altra. 
 
Più Maxime immaginava la forma e la consistenza di quelle labbra sulle proprie, immaginandosele di conseguenza che scivolassero lungo la pelle, le dita, il basso, più un fuoco caldo gli bruciava le viscere, le gambe, la gola…
 
Con la scusa di aver sentito un rumore molesto, prese Agnese e l'abbracciò forte a sé, con un trasporto che neanche verso sua madre aveva mai avuto. 
Agnese sulle prime era rimasta immobile, indecisa se ricambiare quell'abbraccio o meno. Aveva fatto giusto in tempo a sfiorare con le dita la sua nuca accaldata, ad avvertire la consistenza morbida dei suoi capelli biondi sotto le dita, che Romeo era spuntato alle loro spalle, sgranando gli occhi.
Agnese lo aveva fissato alzando le sopracciglia, e con un verso sibilato tra i denti, aveva cercato di fargli capire di non dire niente ad Ismaele. 
Confuso e sconcertato, Romeo aveva eseguito ciò che la ragazza gli aveva cercato di comunicare, senza però andare in panico come al suo solito. Non aveva avvertito pericolo o minaccia come quando era invece in presenza del tenente von Kusserl. Romeo aveva percepito vibrazioni differenti da quella situazione, positive.
Una volta che la cantina fu di nuovo libera - Romeo era riuscito a mandare fuori Ismaele con una scusa arguta - i due erano usciti dal nascondiglio improvvisato, facendo bene attenzione a dove mettessero i piedi per non inciampare.
«Se vuoi qualcosa, la prossima volta vieni a chiederla in cucina come fanno i tuoi compagni» lo aveva rimproverato poi Agnese, per rompere l'impasse che si era creata dopo che si erano fissati a lungo, senza dire una parola. 
Dopodiché aveva smesso di stringergli le mani, non le aveva lasciate un secondo da quando erano usciti dal retro, e si avviò verso l'uscita con una certa fretta.
Maxime si limitò a seguirla con lo sguardo, spostandolo poi successivamente sulle proprie mani. Se le era portate lentamente al naso, aspirando il profumo che Agnese vi aveva lasciato sopra.
Boccioli profumati di betulla e giada gli spuntarono nelle narici. Un profumo delicato, come il tocco della sua pelle e il suono della sua voce. 
Talmente delicato da assomigliare ad una carezza…
 
Maxime aveva riaperto gli occhi, interrompendo quel ricordo che aveva ripreso vita nella sua mente come un carosello, ed una lacrima gli scese lungo la tempia, rigirandosi su di un fianco e stringendosi le braccia e le ginocchia al petto. E nel chiudere nuovamente le palpebre, un nuovo sogno si fece largo, riportandolo indietro, alla sua infanzia, alla sua Germania prima che la scure nazista la tranciasse in pieno…
 

 
▪︎◇▪︎
 

La vita di Maxime in Germania non era mai stata semplice, ma non per questo era stata triste.
Sua madre, Edina, lo aveva cresciuto da sola. Lo aveva messo al mondo intorno ai vent'anni, e di suo padre non ne aveva mai saputo niente. 
Né nel bene, né nel male.
Semplicemente, un padre Maxime non lo aveva mai avuto, né ne aveva sentito la mancanza o il bisogno in tutto quel tempo.
Edina cantava nei locali bene di Stoccarda, era una cantante piuttosto brava e famosa. Maxime si era trovato a guardarla di nascosto tante volte, dietro le tende del palcoscenico, mentre in lui cresceva la voglia di accompagnarla al pianoforte, violoncello o qualsiasi altro strumento utile per seguire al meglio le sue esibizioni.
Aveva un rapporto bellissimo con sua madre, complice, sincero.
Edina aveva fatto di tutto per permettere a suo figlio di vivere bene, studiare, nonostante la disastrosa situazione economica in cui la Germania era sprofondata dopo la Prima Guerra Mondiale.
Per una donna nubile e con un figlio a carico, qualsiasi porta le veniva sbarrata a prescindere, e avere un carattere remissivo e docile era di per sé una condanna a morte. La sua fortuna, e allo stesso tempo condanna, era stata l'essere figlia di una famiglia molto influente, vicina alle conoscenze del Führer. Questo in parte aveva permesso alla donna di poter avere un'entrata economica sicura, a discapito comunque delle maldicenze nate intorno alla sua condizione.
Edina aveva riposto tutta la poca forza che aveva in suo figlio, sua unica ragione di vita. 
Maxime l'aveva sempre paragonata ad un petalo delicato, leggiadro ma inspiegabilmente resistente alle raffiche di vento e agli scossoni duri della vita. 
O almeno, questo era il punto di vista di un figlio verso l'unica figura genitoriale che possedeva.
Maxime era cresciuto circondato dalla musica, era stata come una seconda madre per lui, una sorta di Heimat a cui sentiva irrimediabilmente di appartenere, in tutte le sue sfaccettature.
Aveva accompagnato i suoi passi fin dalla più tenera età, fino a condurlo davanti alla porta del conservatorio, che Maxime aveva varcato senza alcuna esitazione, come benedetto da quella vocazione che Edina gli aveva trasmesso con ogni carezza e premura.
Col pianoforte era stato subito amore a prima vista, il sax il secondo, seguito dal contrabbasso e il clarinetto. Maxime era stato così affamato di arte e di bellezza che qualsiasi cosa apprendesse, la riproduceva poi con entusiasmo e ardore.
La bellezza e la vitalità di quegli anni, però, vennero spazzati via con l'avvento del potere nazionalsocialista.
Maxime vide il suo mondo cambiare poco a poco, ma drasticamente.
La musica che tanto aveva amato suonare, ascoltare e ballare era diventata improvvisamente minaccia, strumento da accantonare per non deviare le menti ad abbracciare culture che non fossero neanche lontanamente compatibili a quella ariana. 
Libertà, amore, sogni: dall'ascesa del Führer al potere tutto doveva passare sotto la censura del partito. 
La cosiddetta "musica dei neri", lo swing, il blues e il jazz, fu bandita da qualsiasi locale, assieme alle opere d'arte e ai libri che secondo il regime avrebbero indottrinato negativamente la gioventù, che doveva essere votata alla grandezza della Nazione, e non a tali frivolezze e ad esaltare civiltà considerate “inferiori”.
Maxime aveva assistito a quel lento sfacelo in silenzio, senza avere alcun mezzo per opporsi.
Nemmeno quando suo zio lo aveva iscritto alla Hitlerjugend senza il suo consenso, un uomo che Maxime detestava con tutto il suo cuore.
Edina era sempre stata messa in cattiva luce dal fratello più grande, umiliata per le sue scelte personali e di vita, dandole spesso della poco di buono, della svampita, degenerata…
Le umiliazioni erano state così invadenti e costanti, da minare a tal punto la psiche già fragile di quella povera donna.
Maxime non avrebbe mai dimenticato il giorno che avrebbe cambiato per sempre la primavera dei suoi quindici anni.
Era il 1940. Maxime avrebbe ricordato quel giorno nefasto come un sogno sbiadito, annacquato, privo di colore e rumori. Ma ugualmente assordante e opprimente.
Il bacio che sua madre gli aveva lasciato come sempre sulla guancia prima di andare in conservatorio, la chiamata a lezione, la corsa disperata a casa, l'acqua rosata della vasca che cadeva a cascate oltre i bordi, il tentativo di Maxime di afferrare il corpo nudo ormai senza vita di Edina, incurante di sporcarsi di sangue la camicia e i calzoni, le lacrime e le urla…
E la lettera che Edina gli aveva scritto prima di immergersi in quel bagno di morte.
 
Maxime, amore mio.
Sei l'unica cosa giusta che ho fatto nella mia disgraziata vita.
Ogni mio canto, ogni mio gesto, era votato a te, solo a te.
Non pensare neanche per un secondo che tu sia stato un peso per me.
Sii sempre dalla parte giusta. Ti lascio in un mondo di lupi, ma con la consapevolezza di averti trasmesso la forza e il cuore di un leone. 
Sarò sempre con te, bambino mio.
Perdonami, se potrai.
 
Mamma
 
Dopo quel tragico evento, Maxime era stato preso in casa da suo zio, ma fu peggio del ritrovarsi improvvisamente in un carcere spoglio e umido.
Tutto l'amore a cui era stato abituato, le chiacchiere, le risate, gli abbracci, vennero sostituiti dall'indifferenza, le offese, le umiliazioni.
Non vi era giorno in cui suo zio materno, sua moglie o coloro che avrebbe dovuto riconoscere come suoi cugini, non lo etichettassero come un figlio di nessuno, un povero idiota che trascorreva in solitudine la maggior parte delle sue giornate, ritrovandosi addosso una divisa che repelleva con tutto sé stesso, la quale, una volta tolta, gli ridava per poco la facoltà - o l'illusione - di poter respirare nuovamente. 
Fu un anno di sacrifici, angosce, pianti silenti e maschere sempre più dure da scalfire. 
Finché non giunse la chiamata alle armi, nel 1942, e per quanto controverso potesse risultare, per Maxime quella fu una benedizione.
Lasciare quella casa e quell'ambiente lo aveva considerato un miracolo di per sé.
 
Quando lesse la destinazione, per poco non gli sfuggì un sorriso: avrebbe dovuto recarsi in Piemonte, in Italia.
Maxime aveva accettato quel destino con una strana serenità, come se non stesse aspettando altro da sempre. 
 
Lì, nella terra dove fioriscono i limoni, come decantava il sommo Goethe, non aveva fatto i conti con l'imprevedibilità del caso.
 

 
▪︎♤•

 
Quando quel mattino si risvegliò nel retro della cantina, Maxime ci mise un po' per realizzare di non trovarsi più al capanno, sperso tra le montagne.
Uno strano senso di vuoto gli compresse il petto e il cuore. 
Aveva sognato Agnese, e poi la Germania, Edina…
Erano stati sogni dolci amari, nostalgici, eppure, una volta sveglio, tutte quelle sensazioni positive che aveva provato erano svanite seguendo il sonno in un angolo recondito del cuore.
Nel sentire poi la porta aprirsi, si tirò su di scatto, sperando inconsciamente che Agnese avrebbe varcato presto quella porta. 
Guardò infatti la maniglia della porta scattare, aumentando esponenzialmente le sue aspettative.
Il suo entusiasmo diminuì di poco nel ritrovarsi invece Anna, con un vassoio in mano, pieno di cibo e una piccola caraffa di latte.
Doveva essere stata sicuramente opera di Blanca. Aveva preso a cuore la sua nutrizione, e pur di togliersi il cibo di bocca, gli avrebbe fatto venire appetito, prendendolo direttamente per la gola.
«Guten Morgen» fece la fanciulla, un po' in difficoltà. Maxime si apprestò ad alzarsi per prenderle il vassoio dalle mani, e poggiarlo su di una sedia vicina. Anna glielo lasciò fare, sfregandosi le mani tra loro.
«Come sono contenta di rivederti, Max!» esclamò Anna in tedesco, facendolo sentire subito a suo agio.
Maxime le rivolse un sorriso sentito, riconoscente. Adorava quella ragazzina, la sua presenza sapeva sempre metterlo di buon umore e in pace con il mondo.
Pensò fugacemente a Romeo, e a quanto dovesse ritenersi fortunato di provare qualcosa per quell'angelo delicato.
«Sono contento anch'io, Anna. Mi sei mancata molto» dichiarò Maxime in tedesco, impacciato ma sollevato. Anna non ci pensò due volte ad avvicinarsi per abbracciarlo.
Ma Maxime sentì il dovere di non farsi toccare da lei. Anche se ormai non vi era più rimasta alcuna traccia, quel tanfo di sangue lo percepiva ancora forte e chiaro nell'aria. Ed essendo stata Anna molto legata a Gabriel, non gli avrebbe permesso di abbracciare a cuor leggero il suo assassino. 
«Ehm… nein» tentò dunque Maxime, mettendogli le mani sulle spalle.
Anna lo fissò interdetta, scuotendo lievemente la testa.
«Io… non faccio un bagno da settimane» si giustificò, prorompendo in una risata nervosa. Ma Anna colse molto più di quanto il giovane soldato gli volesse dire in quel momento. Gli poggiò delicatamente una mano sulla guancia.
«Non so cosa sia successo in questi giorni, Agnese e Romeo non hanno voluto dirmi niente… pensano sempre che sia troppo piccola per capire certe cose» spiegò, con sguardo basso, misurando le parole. Maxime aspettò il continuo in religioso silenzio. 
«So solo che Gabriel è morto, e non faccio che piangere da allora. Gli volevo bene, era come un fratello maggiore per me ed Agnese…».
Maxime si morse un labbro a quelle parole. 
Anna era l'unica persona che ormai trovava ancora un briciolo di umanità in quel mostro, lo vedeva ancora con gli occhi dell'infanzia, e lo stesso Gabriel in sua presenza si era trattenuto spesso, soprattutto sotto intercessione di Agnese. 
Se solo Anna avesse visto anche quell'altro lato, quel lato per cui si era fatto tristemente conoscere e disprezzare da tutti…
«Anche se negli ultimi tempi, aveva iniziato a farmi un po' paura» continuò Anna, giocherellando con le dita tra loro.
«Forse era a causa della divisa che indossava, o del ruolo che ricopriva… probabilmente si era fatto dei nemici. A volte penso sia stato stesso lo zio Alfredo ad ordinarne l'esecuzione» Anna parlava pacato, senza tradire nessuna emozione. Non ce l'aveva con nessuno, era solo particolarmente amareggiata per tutto quel sangue versato, per quella situazione intorno che non voleva cessare di divulgare male e morte attorno a sé. 
Era spaventata, tanto. 
Maxime avrebbe voluto abbracciarla e farla sedere sulle sue gambe, come un padre avrebbe fatto con la propria figlia.
Ma non ne aveva alcun diritto, non dopo avergli strappato brutalmente una persona per lei tanto importante. In quella storia il ruolo del carnefice era spettato a lui. Era stato lui a decidere per la vita o la morte di qualcun altro. 
Si limitò soltanto a scostarle una ciocca biondiccia dalla fronte, con la punta delle dita che tremavano. Il solo toccarla lo rendeva inquieto, indegno di tale gesto.
«Tuo zio non c'entra». Nell'affermarlo, Maxime provò uno strano tepore che gli avvolse lo stomaco. 
Si sentiva stranamente calmo rispetto a pochi minuti prima.
Si portò le mani in tasca, e fece un bel respiro. Serrò gli occhi con forza.
«Sono stato io».
Maxime si aspettò uno schiaffo, un urlo, pugni sul petto, il contenuto della caraffa riverso addosso. Ma non giunse nulla di tutto questo. 
Quando riaprì gli occhi, Anna fissò ovunque, fuorché lui. Le lacrime pronte a scendere.
Le aveva spezzato il cuore, era palese.
«Sono un assassino, Anna. Non mi aspetto il tuo perdono, né quello di tua sorella, ma credimi se ti dico che se tornassi indietro, non lo rifarei. Non avrei voluto farlo».
Avrebbe voluto dirgli altro, ma Agnese non avrebbe voluto che la memoria di Gabriel venisse infangata alle orecchie di Anna. 
«Es tut mir leid» riuscì solo a chiosare, abbassando nuovamente il capo, colpevole.
Anna deglutì a quella confessione, portandosi le mani chiuse a pugno all'altezza delle labbra. Qualche lacrima le solcò il viso, e Maxime non riuscì a fissarla oltre. 
«Mi sento a disagio» confessò inaspettatamente Anna, asciugandosi velocemente le guance. Maxime corrucciò la fronte nel sentirle dire tale affermazione.
«Ho pianto tanto per lui in questi giorni, ho sentito come un vuoto inspiegabile al petto… eppure… eppure sentivo qualcosa… Sentivo che, per lui, era diventato l'unico destino possibile. Non so se mi sono spiegata».
Anna si abbracciò accarezzando gli avambracci coperti a metà dal vestito rosa antico, mordendosi il labbro inferiore con foga.
«Sebbene ci tenessi molto a lui, in realtà in questi giorni ho pensato che, chiunque fosse stato, gli avesse fatto un piacere ad ammazzarlo. Come se non si aspettasse più alcuna redenzione, alcuna via di fuga».
Come se qualcuno gli avesse solo di poco tolto un mattoncino minuscolo dal sacco che da giorni gli opprimeva il respiro, Maxime avvertì un leggerissimo sollievo nell'animo. 
Non era stato epurato dal gesto che aveva compiuto, ma le parole di Anna lo avevano fatto sentire di nuovo umano, di nuovo degno di misericordia. 
«Sai» continuò ancora Anna, occhi brillanti di lacrime ferme alle ciglia «Non sono così ingenua. Sapevo che i rapporti tra lui ed Agnese si erano deteriorati, soprattutto…» e si fermò, perché il magone le stava salendo in gola, «soprattutto dopo che l'aveva costretta a togliere di mezzo il bambino che aspettava da lui. Avevo sentito parlare te e Romeo a riguardo qualche giorno dopo, e non volevo credere che Gabriel… che Gabriel fosse arrivato a farle questo». Anna era un fiume di lacrime, a Maxime parve che non avesse visto l'ora di buttare fuori quelle parole, di sfogarsi con qualcuno delle cose che le covavano dentro chissà da quanto tempo.
«Io non ce l'ho con te, Maxime, sia chiaro. Sono arrabbiata, stanca di tutto questo sangue, di questa prepotenza… Ma non ti odio. Non riesco ad odiarti. Non riesco a provare odio verso nessuno. Agnese ha ragione a reputarmi una stupida, per questo mi tiene all'oscuro di tutto, perché non ho carattere e piango facilmente come una bambina per tutto e tutti! Sono inutile!».
Maxime si sentì in dovere, a quel punto, di prenderle le mani e stringergliele forte, combattendo contro la nausea del contatto fisico che in quei giorni non era riuscito a debellare.
Le sembrò di riavere davanti per un momento sua madre, quelle parole sarebbero potute uscire dalla sua bocca senza alcun problema.
«Non sei inutile, Anna» cominciò Maxime, cercando di mostrarsi quanto più incoraggiante possibile.
«Agnese e Blanca si sentirebbero perse senza di te. Sei il loro raggio di sole, la dimostrazione che in questo mondo un briciolo di umanità e compassione ancora esiste. Se sono così forti e non si abbattono, lo devono a te. Sei la luce di questa casa, Anna, e tutti nel vederti potrebbero affermarlo senza alcun dubbio».
Chissà se il tenente quella luce in te l'aveva anche solo intravista…
Maxime non osò tramutare quel pensiero in parole. Non se ne sentiva degno.
Se solo avesse avuto modo di dire le stesse cose a sua madre anni prima, probabilmente non si sarebbe sentita così sola da terminare i suoi giorni in una vasca piena d'acqua e i polsi lacerati con un tagliacarte.
Sii sempre dalla parte giusta.
Ironico che quelle parole di una potenza disarmante fossero state scritte da Edina poco prima di compiere quel gesto fatale.
«Confesso che dopo quello che ho fatto, avrei voluto farla finita… sentivo di non meritare più la vita, le gioie…»
L'amore. 
Neanche questo lo esternò.
«Non meritavo speranza, soprattutto. Ma tu…» e le strinse le mani con più forza «tu mi hai concesso un po' di respiro da tutto questo marasma che mi ha travolto. Sei speciale, piccolina, non dimenticarlo mai!».
Anche Maxime non riuscì più a trattenere le lacrime, continuando a stringere forte le mani della fanciulla. 
Sul volto di Anna esplose un sorriso leggiadro, bagnato di lacrime agrodolci.
Maxime le baciò le mani con trasporto, poggiandovi sopra poi la propria fronte, inchinandosi davanti a lei, scosso dai singhiozzi. 
«Maxime, non fare così, non ce n'è alcun bisogno…» fece Anna, anche lei in preda ai singhiozzi.
Non sentiva di meritare la riverenza che quel ragazzo, più grande di lei di un anno, le stava rivolgendo.
S'inchinò così a sua volta, liberando delicatamente le mani da quelle di Maxime.
Si avvicinò piano al giovane e con dolcezza tentò di abbracciarlo, poggiando la guancia sulla sua spalla.
«Danke, Maxime. Grazie per le tue parole» mormorò tra le lacrime. 
Maxime poggiò la guancia sui suoi capelli, erano morbidi e lucenti, profumavano di mandarino.
«Grazie a te, Anna. Grazie di avermi ascoltato».
L'abbraccio che ne conseguì fu talmente naturale che non sorprese nessuno dei due.
 
Ti lascio in un mondo di lupi, ma con la consapevolezza di averti trasmesso la forza e il cuore di un leone.
 
E per un solo istante, Edina prese il posto di Anna tra le braccia di Maxime.
 
Sarò sempre con te, bambino mio.
Perdonami, se potrai.
 
Ti perdono, mamma.
«Ich vergebe dich».
Anna non commentò ciò che aveva udito. Lasciò che Maxime si sfogasse, che parlasse con i suoi demoni con calma, senza fretta. 
Lei sarebbe stata lì a sorreggerlo, con delicatezza. 

 
 

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Capitolo 8
*** 8- Le conseguenze di un (tradimento) ***


Prompt: Tradimento
TW: violenza fisica di un uomo su una donna. Non si tratta di stupro, però potrebbe disturbare ugualmente. Pensieri riguardo al suicidio.

 
 

Capitolo 8
Le conseguenze di un (tradimento)




Torino, 1944

Le pareti della caserma sembrarono talmente opprimenti che ad Agnese vorticò leggermente la testa mentre avanzava nel corridoio a passo svelto, con suo zio alla sua sinistra. 
Erano stati convocati durante la mattinata, Schlütz aveva richiesto la presenza di Ismaele nel suo ufficio. Agnese aveva voluto accompagnarlo, nonostante le proteste di Blanca e dello stesso Ismaele, poco propenso a farla entrare in quel posto lugubre. Ma Agnese era stata irremovibile: avrebbe accompagnato suo zio, e nessuno glielo avrebbe impedito. Avrebbero dovuto legarla alla testiera del letto in caso estremo.
Ismaele non lo aveva ammesso ad alta voce, ma avere qualcuno vicino in quel frangente, anche se si trattava di sua nipote, lo faceva sentire più tranquillo e con l'animo in pace.
Il giovane soldato che li stava precedendo, Gustaf, li invitò ad entrare nello studio del capitano delle SS. 
La stanza era ancora vuota, e per tutti e tre si rivelò un sollievo.
Agnese si scrutò intorno, guardinga, temendo che da un momento all'altro potessero essere vittime di un agguato imminente. 
Sussultò, infatti, non appena il giovane Gustaf proferì parola.
«Maxime geht's gut, ja?» mormorò il giovane soldato, guardandosi attorno, non appena avvertiva rumori molesti o passi in avvicinamento.
«Ja, er geht's gut» confermò Agnese, anche lei a bassa voce. 
Gustaf sembrò piacevolmente sorpreso di esserne stato a conoscenza.
«Es tut mir leid» continuò il giovane soldato, a testa bassa.
«Ich wollte ihm nicht verraten».
Non avrei voluto tradirlo.
«Ich hatte keine Wahl».
Agnese annuì, dispiaciuta. Sapeva perfettamente che non aveva potuto avere scelta. Gabriel a suo tempo lo aveva messo con le spalle al muro, se non avesse ubbidito agli ordini avrebbe pagato con la sua stessa vita. E per quanto l'indottrinamento era stato forte, molte di quelle giovani reclute continuavano a tenersi stretta la vita come fosse stato il bene più prezioso del mondo. E se questo significava vendere anche i propri amici, quel modo di agire non poteva essere giudicato o sminuito. Non in quel periodo.
«Ah! Che gradita sorpresa!».
Il capitano Schlütz irruppe nella stanza a passo di marcia, senza bussare o avvertire della propria presenza imminente.
Fissò per un attimo Gustaf con sguardo glaciale, e dopo essere scattato nel saluto militare, uscì dalla stanza con una certa fretta, non prima di essersi richiuso la porta alle spalle. 
Schlütz fece segno ad Agnese e suo zio di accomodarsi sulle sedie accanto alla scrivania, cosa che eseguirono senza replicare.
Agnese aveva la nausea da quando si era svegliata, quel posto le metteva agitazione. 
«Va tutto bene?» sussurrò Ismaele, stringendole una mano, preoccupato. Agnese si limitò ad annuire, portandosi una mano tremante alla fronte. Tutta quell'agitazione accumulata le si stava riversando nel fisico, e l'ultima cosa che avrebbe desiderato era di cadere malata proprio nel momento peggiore della sua esistenza. 
«Gradisce un bicchiere d'acqua, Fraulein Martini? La vedo piuttosto pallida…» sottolineò Schlütz, fintamente preoccupato.
«Sto bene, capitano» sentenziò Agnese, con la sua solita faccia tosta «e starei ancora meglio se ci spiegaste il motivo della vostra convocazione» parlò, senza peli sulla lingua.
«Devo dare man forte a mia nipote, sa com'è, ho una tenuta da mandare avanti…».
Ismaele decise di appoggiare Agnese, preoccupato di vederla tanto stravolta, nonostante cercasse di nasconderlo alla bene e meglio.
Schlütz li accontentò subito, senza girare troppo intorno alla questione.
«Bene, signori, in parte già sapete il motivo della vostra convocazione» il capitano incrociò le dita delle mani sullo stomaco, distendendosi sullo schienale della poltroncina. 
«Smettiamola con i trucchetti e i sotterfugi, e consegnatemi quel sovversivo».
Ismaele stralunò gli occhi, sbuffando impercettibilmente dal naso.
«Non vi basta aver messo a soqquadro il casale, la chiesa sulla collina, il paese… continuate a pensare che lo nascondiamo in casa nostra, è incredibile! Il Führer sarebbe orgoglioso della vostra perseveranza!».
Schlütz scattò in avanti nel sentire quell'alta carica pronunciata con un certo sprezzo da parte di quella mocciosa irriverente.
Le puntò un dito contro, minaccioso.
«Ringraziate di essere cittadina del Terzo Reich, altrimenti vi avrei già arrestata per molto meno» sibilò Schlütz, con occhi spiritati. 
Mentre Agnese continuava a sfidarlo, a muso duro, Ismaele si mise dritto sulla sedia, in allerta.
«La perdoni capitano, mia nipote ha la lingua lunga» intervenne l'uomo, fulminandola con lo sguardo. Avrebbe preferito di gran lunga vederla come un attimo prima, provata e bianca in volto. Agnese aveva una capacità di ripresa alquanto fenomenale.
«Ad ogni modo» tornò sui suoi passi Schlütz «sapete cosa vi aspetta se verrete denunciati per alto tradimento?». Un sorriso inquietante prese vita sul volto del tedesco. 
«La pena capitale». Pausa d'effetto.
«Ho già chiuso un occhio riguardo alla situazione di Alfredo e compagni» e Schlütz fissò minaccioso Ismaele, tentando di trarlo in trappola, incutendogli terrore.
«Poi ne ho chiuso un altro, per intercessione del tenente von Kusserl» e stavolta fissò Agnese con insistenza, sorridendole mellifluo.
Sebbene la nausea montasse, Agnese non gli diede soddisfazione, sfidandolo senza timore.
«Come potete notare voi stessi, non ho un terzo occhio da chiudere» e rise della sua stessa battuta, che non arrivò a coinvolgere Ismaele ed Agnese, che lo guardarono esterrefatti.
«Ragion per cui» e il tono cambiò, tornando minaccioso «sarebbe opportuno che collaboraste, e mi consegnaste Brünner in tempi celeri».
Agnese si morse il labbro inferiore nervosamente, le mani stringevano i manici della sedia convulsamente. 
«Per l'ennesima volta, capitano, noi non sappiamo dove si sia cacciato quel ragazzo, e nemmeno c'interessa».
Ismaele ringhiò quasi alla volta del tedesco, che non sembrò preoccuparsi minimamente della sua reazione.
«Molto bene» si limitò a rispondere il capitano Schlütz, alzandosi dalla scrivania, poggiando le mani guantate su di essa.
«Voi davvero pensate di avere a che fare con degli idioti?». Schlütz si era pericolosamente avvicinato ad Ismaele, lo sguardo di ghiaccio lo inchiodò alla sedia, accigliato.
Ismaele fece per replicare, ma Agnese lo precedette.
«Volete che vi ripeta le parole di mio zio in tedesco, capitano? Magari capite meglio ciò che vi ha detto!»
«Basta con questa insolenza!» gridò l'uomo, battendo il pugno sulla scrivania, che nell'urto rovesciò le penne sulla superficie, alcune caddero al suolo, tentennando come pioggerella leggera. 
«Forse vi sta sfuggendo il punto della situazione» Schlütz aveva gli occhi fuori dalle orbite. Sia Ismaele che Agnese lo fissarono allibiti. 
«State dando asilo ad un omicida, all'uomo che ha ucciso il suo stesso superiore, un traditore. Meriterebbe la fucilazione seduta stante, e voi invece di consegnarlo, lo proteggete senza alcuna remora!».
Agnese si alzò di scatto a quelle accuse, guadagnandosi l'occhiata sorpresa di suo zio e del capitano delle SS.
«Non avete alcun diritto di trattarci come degli emeriti imbecilli! La mia famiglia non ha nulla a che vedere con quest'uomo, non proteggiamo nessun assassino, traditore o chi per esso!» anche Agnese alzò la voce, il petto che le si alzava ed abbassava da sotto al cappotto color crema in feltro. Tremava vistosamente, e Ismaele temette il peggio.
«Vi ricordo che ce lo avete messo voi in casa nostra, assieme ad altri soldati, e nessuno si è potuto opporre… pensate davvero che lo avremmo protetto fino a tal punto?».
Schlütz fissò per qualche secondo la ragazza, e decise di giocarsi un'altra carta, la più subdola e meschina.
«Sa cosa stavo pensando, Fraulein Martini?» e un sorrisetto sghembo gli apparve in volto, nefasto.
«No, cosa?». Agnese senti il cuore in gola, senza apparente motivo.
«Che dietro l'omicidio di von Kusserl potrebbe nascondersi un movente… passionale».
Anche Ismaele si alzò dalla sedia, con meno veemenza rispetto alla nipote, fronteggiando l'ufficiale.
«Il giovane Brünner si sarà lasciato ammaliare dalle grazie di una donna per compiere un gesto così avventato…».
Agnese scosse il capo, al limite della sopportazione.
«Lei davvero non ha un briciolo di-»
«Si era stufata di essere l'amante di von Kusserl? Avrete avuto voglia di cambiare aria, o semplicemente di testare un letto diverso-»
«Ma come osate?!» Ismaele dovette contenersi, per non afferrare il bavero di quel tedesco così manchevole di rispetto e di umanità.
«State forse accusando mia nipote di essere la mandante dell'omicidio? Non vi permetto di avanzare tali insinuazioni a cuor leggero!». La stretta al braccio che Agnese gli diede lo aiutò a contenersi, Ismaele era già sul punto di arrivare alle mani.
«Agnese è una ragazza per bene, non una donnaccia di strada! Non vi permetto di offenderla in questi termini!».
Schlütz proruppe in una risata fragorosa, talmente forte da disorientare zio e nipote in un solo secondo. 
«Suvvia, signor Chiodi… qui lo sapevano tutti che sua nipote era l'amante ufficiale del tenente!». Agnese lo guardò con occhi infuocati, la nausea che montava in gola con insistenza. 
«Mi fate pena, herr Chiodi. Eravate l'unico a non sapere di avere in casa una puttana!».
Ismaele fece per replicare, ma il gesto che compì Agnese sbalordì sia lui che Schlütz, realizzando con fatica ciò che stava per succedere.
Agnese aveva afferrato un tagliacarte, e lo aveva puntato dritto alla gola del tedesco, che con la lama tanto vicina, perse molta della sua baldanza. Nell'impeto, gli cadde perfino il cappello dalla testa.
«Ve la dico io una cosa, capitano» Agnese era sconvolta, ma la voce le uscì così profonda, che ai due uomini presenti sembrò quasi di assistere ad una scena irreale, onirica.
«Gabriel von Kusserl lo avrei ammazzato volentieri io stessa con le mie mani, senza intermediari tra i piedi! Il coraggio non mi sarebbe mancato, il movente neppure!». Dovette lottare con i conati di vomito che le stavano scuotendo lo stomaco. I ricordi di tutto quello che era successo in quegli anni, dal suo rincontro con Gabriel fino al suo assassinio, gli passarono davanti agli occhi velocemente, ferendola inesorabilmente.
«Non avrei avuto bisogno di sedurre nessuno, né tantomeno un tizio a caso come Brünner… mi ha soltanto preceduta, ma vi assicuro, capitano Schlütz, che il vostro tenente non sarebbe campato ancora a lungo, perché prima o poi, lo avrei ucciso io con le mie stesse mani, e non sarei scappata! Mi sarei consegnata a voi con il sorriso sulle labbra!». 
Buttò a terra il tagliacarte, col fiatone. Quelle ultime parole, Agnese le aveva urlate con profonda indignazione, mortificata dalle parole che, purtroppo, non avrebbe potuto smentire. Perché era tutto terribilmente vero.
«Credo sia il momento di andare… Capitano, le diamo la nostra parola» ed Ismaele fissò Agnese con eloquenza, sperando che gli reggesse il gioco «che se dovessimo avere notizie del ragazzo, ve lo faremo sapere».
Ancora impietrito dall'aggressione di Agnese, Schlütz deglutì attonito, portandosi una mano sul collo, nel punto esatto dove la lama aveva toccato la pelle.
«Sparite dalla mia vista, per ora» dichiarò, e fissò Agnese con aria di sfida, tagliente.
Agnese non aspettò il suo permesso, si precipitò verso la porta come una furia, arrabbiata con sè stessa e tutto ciò che la circondava. Sentì un forte bisogno di vomitare, di rigettare la bile che le si era depositata nello stomaco.
Giunta alle scale, però, si bloccò improvvisamente, con sguardo vuoto. Le scale aumentarono di numero, di volume, occuparono tutto il suo spazio visivo. 
La voce lontana di Ismaele stava chiamando il suo nome, ma lei non ebbe la forza di voltarsi. Si portò una mano sul ventre, istintivamente.
Poi il buio coprì ogni cosa.

 
 
》◇《
 
 
Tre mesi prima…

«Non l'hai fatto davvero!».
Agnese aveva raggiunto l'ufficio di Gabriel stravolta, stringendo una cartellina gialla, sembrava che le scottasse tra le mani.
«Dimmi che non l'hai fatto davvero, Gabriel!».
Il tenente la fissò interdetto, togliendo l'attenzione alle carte che stava consultando assieme al capitano Schlütz.
«Capitano, può darmi un momento?». La voce di Gabriel suonò distratta, mentre lo sguardo era puntato dritto in quello focoso dell'italiana, pronta ad uno scontro imminente.
Il capitano si congedò chinando il capo, uscendo dalla stanza con le mani incrociate dietro la schiena.
Una volta soli, Gabriel si avvicinò ad Agnese, afferrandola poco gentilmente per un braccio.
«Che diavolo ti sei messa in testa eh, Anja? Come ti viene in mente di venire qui come una furia e trattarmi come un tuo lacchè? Vuoi farti deridere da tutta la caserma?».
Agnese lo fissò sprezzante, le labbra accartocciate dal disgusto, i loro visi pericolosamente vicini.
«Spiegami questo» e gli sbatté in faccia la cartellina gialla, con disprezzo.
Gabriel la afferrò e nel rigirarsela tra le mani, la riconobbe subito.
«Scheiße…» mormorò, mollando il braccio di Agnese e dandole successivamente le spalle, concentrato a guardare i fogli all'interno della cartellina.
«Li riconosci quei nomi, vero? O hai la memoria corta, tenente?». Agnese era sul punto di piangere, ma si trattenne dal farlo.
In quella lista quei due nomi erano scritti nero su bianco, neanche fossero stati marchiati a fuoco.
Furio e Levda Martini.
Gabriel inspirò socchiudendo gli occhi.
«Dove l'hai trovata?» ringhiò a bassa voce, stringendo sempre più i fogli tra le dita.
«Per puro caso, nel cassetto della scrivania in camera tua». Agnese si era leggermente placata, ma la voce e la postura non promettevano nulla di pacifico.
Si sentiva tradita, offesa oltre ogni limite.
«L'ha visto qualcun altro oltre te?» le chiese il tedesco, non cambiando espressione. Come se non volesse dare adito alla rabbia che Agnese stava provando. O ne fosse addirittura disinteressato.
«No, sono uscita appena ho letto il nome dei miei genitori su quella lista!» dichiarò Agnese, gli occhi accecati dalla delusione e dal dolore.
«Mi avevi promesso che avresti fatto di tutto per proteggerli…»
«Non ho potuto fare nulla» si giustificò placido Gabriel, impassibile. Quella freddezza urtò maggiormente il già precario autocontrollo della ragazza.
«Potevi cancellare i loro nomi! Potevi evitare loro l'arresto! Me lo avevi promesso!»
«Sie sind Jüden, Anja!» alzò la voce, usando lo stesso tono che rivolgeva ai suoi sottoposti, con astio e disprezzo. Agnese sgranò gli occhi, atterrita.
La famiglia Chiodi non era di religione ebraica praticante, solo di origine. Quando Furio giunse ragazzino a Dresda, fu adottato da una famiglia di italiani emigrati, acquisendo il loro cognome, Martini. Di tutto questo Agnese ed Anna ne erano sempre state a conoscenza, e la stessa Agnese lo aveva confidato a Gabriel in quei mesi in cui si erano riavvicinati, in preda alla passione che li aveva travolti. Avrebbe capito solo successivamente che, in realtà, l’unica davvero coinvolta in quella relazione era solo lei.
Quella fu una delle prove evidenti di quel suo tradimento.
«Già ho evitato che Ismaele e sua moglie venissero inseriti nella lista qui… in Germania è diverso, non ho avuto scelta!»
«Certo che ce l'avevi una scelta! Tu sì!».
Agnese non aveva avuto nessuna intenzione di dargliela vinta. Gabriel l’aveva giocata con la sua solita dialettica, con i suoi soliti modi di fare melliflui, girandosela a suo piacimento come una bambola senza vita a cui avrebbe potuto far fare tutto ciò che voleva.
«Avrei dovuto immaginarlo… l'ennesima promessa infranta… io stupida che ho pensato-»
«Tu forse non ti rendi conto della carica che ho, Anja» la interruppe con veemenza Gabriel, strattonandola. Ad Agnese scappò un verso di dolore, tra i denti.
«Sono un tenente della Schutz-Staffel, è il mio Paese a chiedermi la testa di-»
«La testa di chi? Di gente innocente a cui il vostro amato Führer ha dato la colpa del tracollo economico? E cosa avete risolto, togliendogli la casa, la dignità? Cosa, Gabriel, cosa?»
«Abbiamo ripulito il nostro Paese dalla melma che si era sedimentata dopo la guerra! Ti sembra poco?».
Agnese tutta questa gloria non l'aveva vista neanche di sfuggita. Fino all'istante prima di lasciare la sua amata Dresda, si era vista circondata soltanto di odio insulso e violenza gratuita.
«Oltre al fatto che tuo padre fosse ebreo, si è unito il fatto che fosse un sovversivo. Hanno trovato nel suo ufficio le prove degli articoli scritti da un giornale che andava contro il regime, contro il Führer… non sai il sollievo che ho avuto quando non ti ho trovata in casa il giorno in cui-»
«Li hai arrestati tu?».
Per tutto il tempo che Gabriel aveva inveito contro di lei, Agnese era rimasta a capo chino, sorbendosi tutto serrando le palpebre. Ma quando aveva realizzato quel particolare angosciante, aveva alzato la testa di scatto, fronteggiando l'amico d'infanzia che si era illusa di conoscere, e di avergli perdonato qualsiasi mancanza, anche quell'atto orribile compiuto nel bosco in Germania. Agnese aveva creduto ingenuamente che l'amore avrebbe potuto sanare tutto, avrebbe potuto sanare anche Gabriel, e farlo tornare il ragazzino che conosceva da sempre, l'amico d'infanzia con cui aveva condiviso tutto, persino sé stessa, per la prima volta.
«Se potevo passare sopra al fatto che fosse di razza inferiore, non ho potuto farlo sulla sua posizione politica. Se l'è cercata, mettendosi contro il Führer, contro la Germania».
Ma da quelle parole, Agnese comprese amaramente che non ci sarebbe stato più nulla da salvare. Gabriel ormai era marcio anche dentro, nel cuore, nelle viscere, nell'anima.
Si pentì amaramente di avergli dato una seconda possibilità, sebbene fosse sposato, sebbene ormai si fosse fuso addosso quella divisa come una seconda pelle.
«Se l'è cercata…» ripeté Agnese, in trance. La coltellata l'aveva sentita ovunque, al cuore, alla pancia, alla testa.
Si passò una mano sul ventre, e per la prima volta si sentì sollevata di non aver portato fino in fondo quella gravidanza. Non fu più così sicura che sarebbe riuscita ad amare il figlio del carnefice della sua famiglia.
«Dove sono adesso?» ebbe solo la forza di chiedere, devastata.
Gabriel sollevò il mento, non troppo propenso a continuare quel discorso.
«Dove sono, Gabriel, dove sono?!» si agitò la ragazza, colpendo il petto del tenente, a pugni chiusi e con una certa violenza.
Gabriel cercò di bloccarla, ma Agnese era una furia, era diventata ingestibile.
La spinse così al muro, dandole due pugni fortissimi all'altezza del ventre, togliendole il respiro.
Non contento, poi, seguì uno schiaffo in pieno viso, afferrandole successivamente il mento con forza, sbattendole il capo contro il muro senza troppi complimenti.
«Se non vuoi fare la loro stessa fine» sibilò al suo orecchio, bloccandola con la sua mole «ti conviene darti una regolata e finirla con queste scenate. Dio non voglia che succeda qualcosa alla piccola Anna…»
Agnese sgranò gli occhi nel sentire pronunciare così impunemente il nome di sua sorella. Un moto di paura le si propagò nel petto, soffocandola.
«Continua a fare la brava, come hai fatto finora…» e una mano scivolò lungo i fianchi, afferrandole la gonna di satin verde «tanto non corri più il rischio di incidenti indesiderati. Continua a scaldarmi il letto come hai fatto fino ad adesso, e Ismaele e la sua famiglia non finiranno su nessuna lista».
Le si avvinghiò al collo, e Agnese provò un male indicibile. Sentì i denti affondare nella pelle del collo, un risucchio che le tirò talmente la pelle da lasciarla priva d'aria.
«Vai via, lasciami!» implorò tra le lacrime. Il sapore ferroso del sangue le arrivò alla lingua, provocato dal taglio al labbro.
Gabriel la spinse a terra, lasciandola in ginocchio a piangere. Aprì la porta e chiamò uno dei suoi commilitoni.
«Accompagnate la signorina Martini al casale dei Chiodi» ordinò, serafico, incurante del pianto sommesso di Agnese, in ginocchio ai suoi piedi, stremata.
Le dedicò solo uno sguardo, glaciale.
«Appena si sarà calmata» sentenziò, e si avvicinò a lei soltanto per prenderla per un braccio, alzandola da terra senza alcuna gentilezza nei modi.
La spinse fuori dalla stanza e intimò il soldato di scortarla, senza fare domande inutili.
Agnese attraversò quel corridoio come se fosse stata diretta al patibolo. Qualcosa dentro di lei morì per sempre quel giorno.
Se l'è cercata.
Furio Martini se l'era cercata di mettere a repentaglio la propria famiglia e la propria vita.
Se l'era cercata di aver osato sperare in un cambiamento, in un domani diverso.
Se l'era cercata di aver creduto che una parte di mondo avesse ancora la bellezza intrinseca nelle cose, nelle persone, nella natura.
Così come Goethe aveva decantato quei limoni gialli e ricchi di succo, pensando di essere approdato in paradiso.
Invece era solo la Sicilia. Era solo un miraggio.
Lo stesso miraggio che aveva accecato Agnese su Gabriel per tantissimo tempo, non mostrandole il vero volto di quel paradiso artificiale.
Affaticata e in lacrime, la ragazza uscì dalla caserma, con la vergogna in mano e gli occhi bassi, rassegnati.
 
Quando Maxime si vide arrivare Anna trafelata, in cuor suo aveva sentito che c'era stato qualcosa che non andava. L'aria era elettrica da quella mattina, da quando aveva intravisto Agnese uscire di casa e mettersi in sella alla sua bicicletta, in lacrime. 
Non l'aveva sentita rientrare, perché il suo turno in caserma era cominciato subito dopo pranzo, ma aveva sentito i mormorii riguardo una lite che aveva coinvolto il tenente von Kusserl e la sua amante italiana.
Amante… quella parola Maxime la odiava con tutto sé stesso. Gli riaffiorava in mente sua madre e il suo sorriso dolce e triste, rigato di lacrime. 
Agnese gli aveva sempre dato l'aria di una ragazza forte, determinata… non capiva perché si lasciasse manipolare da quel demonio, si lasciasse calpestare a tal punto da annientarsi in quanto persona capace di intendere e di volere.
Era sera inoltrata, e Anna lo aveva raggiunto nel capannone dove lui e altri commilitoni dormivano o si rilassavano dopo cena.
«Non riusciamo a trovare Agnese da nessuna parte» dichiarò Anna, le mani strette al petto e il bel viso infantile provato.
«Tu l'hai vista Maxime? Qualcuno l'ha vista? Ti prego, io e la zia siamo molto preoccupate… Zio Ismaele e Romeo sono ancora fuori città, non sappiamo a chi chiedere aiuto…».
Maxime non se lo fece ripetere due volte.
Salì di sopra al casale, aveva ancora i pantaloni della divisa addosso e la camicia bianca sbottonata sulla canottiera giallina. Entrò nella stanza di Agnese, ma non trovò nulla fuori posto. Il letto era integro, i libri che solitamente leggeva erano tutti riposti sul comodino. Controllò per scrupolo l'armadio, chiedendo ovviamente il permesso ad Anna prima di aprire le ante.
I vestiti erano tutti al loro posto, non mancava nulla. 
«Non ti ha detto nulla su dove andava, se aveva qualche commissione da sbrigare…» provò ad indagare Maxime, cercando di tenere a bada l'ansia crescente.
Anna scosse il capo frettolosamente.
«No, e questo mi preoccupa… non si allontana mai senza motivo. Ho paura che le sia successo qualcosa. Se qualcuno le ha fatto del male…» e si portò le mani giunte sul viso, scacciando via quel pensiero orribile che le si stava formulando in testa.
«Credi che dovremmo avvisare Gabriel? Magari lui saprà cosa fare…» provò a proporre la ragazzina, in procinto di sfociare in un attacco d'ansia piuttosto potente.
Maxime le strinse le spalle caloroso, invitandola a calmarsi e a non pensare al peggio.
«Provo a cercarla qui in giro, non sarà andata troppo lontano. Tu e frau Blanca restate qui, magari nel frattempo ritorna a casa prima di me. Su, non scoraggiarti!».
Quelle ultime parole, in realtà, Maxime le pronunciò più a sé stesso che rivolto ad Anna.
Col cuore in mano, uscì dal casale, cercando di non pensare al più tragico degli scenari che stava prendendo vita nella sua testa.
 
Aveva gridato il suo nome con tanta grinta che i polmoni e la gola gli sarebbero collassati di lì a poco. Si era addentrato nel bosco, oltre il vigneto, faceva freddo ma Maxime era talmente accaldato che non percepì neanche un solo brivido addosso.
Senza accorgersene, si avvicinò alle rive del fiume, cercando di stare attento a non inciampare sui ciottoli e a non incappare in tagliole lasciate lì dai cacciatori.
Chiamò ancora una volta il nome di Agnese, ma senza successo. Si era fermato solo un attimo per riprendere fiato, quando, piegato in avanti con le mani poggiate sulle ginocchia, notò un paio di scarpe da donna abbandonate sui ciottoli della piccola spiaggia.
Si avvicinò con cautela, studiando attentamente quelle scarpe con sguardo torvo. Vi erano appallottolate al suo interno delle calze di nylon. 
A qualche centimetro di distanza, trovò anche degli indumenti, una camicetta bianca e una gonna di satin verde, abbandonate lì senza la minima cura. Maxime li toccò con mani tremanti, ipotizzando il peggio. Fortunatamente non erano strappati o sporchi di sangue, ma questo dettaglio non servì a tranquillizzare l'agitazione del giovane soldato. Il cuore gli balzò in gola, guardandosi convulsamente intorno. La luna quella sera rischiava tutto il circondario, permettendo a Maxime di osservare tutto senza l'ausilio di lumi o torce. 
Nella sua ricerca disperata, poggiò lo sguardo su una figura esile, accovacciata su di uno scoglio. Era in sottoveste, di spalle, e i capelli castani le ricadevano lunghi e ribelli lungo le spalle sottili.
Maxime ebbe un terribile deja vu.
La vasca da bagno che sgorgava acqua rosata dalle piastrelle bianche, il corpo di Edina privo di vita che vi galleggiava al suo interno…
Qualche lacrima non riuscì a bloccarla, gli fuoriuscì dalle palpebre senza permesso.
Si avvicinò piano, cercando di non fare rumore. Man mano che raggiungeva quella ragazza, notò che era scossa dai singhiozzi, sebbene silenziosi e moderati. 
Maxime le si accovacciò dietro le spalle, non osò toccarla, non se ne sentì degno.
«Agnese?» chiese, la voce gli tremava per il freddo e la paura.
La ragazza si voltò e due occhi grandi e spaventati lo fissarono attoniti, pregni di paura e vergogna. Aveva la pelle d'oca e tremava vistosamente. Maxime notò il labbro spaccato e s'irrigidì all'istante.
«Cosa ti hanno fatto? È successo qualcosa? Qualcuno ti ha-» Maxime prese a parlare in tedesco, come un fiume in piena. Gli si bloccarono le parole in gola, le lacrime pungevano come spine tra le palpebre.
Agnese lo fissò dritto negli occhi, perdendo lentamente espressione.
«Volevo farla finita» confessò in tedesco, con voce rotta, affranta.
Maxime rimase di ghiaccio nel sentirla dire quelle parole.
«Ma non ce l'ho fatta… non sono buona neanche a prendere coraggio per buttarmi nel fiume!». Il bel viso, sempre elegante anche senza trucco - eredità di Levda - serio e altezzoso, in quel momento si accartocciò fino a diventare miseramente triste e sconsolato. Maxime non l'aveva mai vista così, e qualcosa nel cuore gli si torse fino a fargli un male assurdo.
«Magari muoio assiderata… è la punizione che merito» Agnese non voleva scoppiare a piangere, voleva finire quell'agonia nella sua dignità, restando impassibile e sfrontata anche in faccia alla morte. Ma dopo aver appreso dell'arresto dei suoi genitori e del tradimento di Gabriel, si era sentita improvvisamente fragile, inutile. Si era ritrovata bambina, e sola, tanto sola.
Maxime provò ad allungarle una mano, non aveva niente con sé per scaldarla, nella fretta aveva lasciato la giacca della divisa nella sua stanza.
«Vieni con me» le disse con dolcezza, cercando di non spaventarla. Agnese però la sua mano non la prese, anzi si ritrasse maggiormente, portandosi le ginocchia al petto. Voltò il viso dall'altra parte, stanca, rivolto verso lo scrosciare insistente dell'acqua.
«Mi ha chiesto Anna di venirti a cercare. Era preoccupata per te».
Nel sentire il nome della sorella minore, Agnese non riuscì più a trattenersi. Scoppiò a piangere definitivamente, distrutta dal dolore. Non avrebbe mai avuto cuore di confessarle della sorte dei loro genitori. Le gravava addosso una responsabilità enorme, asfissiante. Farla finita era stata decisamente la scelta più facile, ma non la più giusta. Non per Anna, che adesso era diventata il suo tutto, la sua ragione di vita.
«Non voglio che mi vedano così… non voglio far preoccupare nessuno» dichiarò singhiozzando, ormai senza più argini.
Maxime avanzò lentamente, in ginocchio, provò a poggiarle una mano sulla spalla, Agnese sussultò al tocco.
«Ti aiuto a rivestirti, ci inventeremo qualcosa» propose, e quel ci sorprese anche lui nel momento esatto in cui lo pronunciò.
Aveva incluso un noi che non sapeva con certezza se Agnese avesse gradito o meno.
La ragazza nel frattempo si asciugò le guance bagnate e provò ad alzarsi, a fatica, sia per i brividi di freddo, che per il dolore all'addome dovuto ai pugni di Gabriel.
«Potresti, ecco..?» chiese, allungando un braccio verso le spalle del giovane tedesco.
Maxime accolse la sua tiepida richiesta, lasciandosi cingere il collo dal braccio infreddolito della ragazza.
Agnese si mise in piedi a fatica, stava da ore accovacciata lì su quello scoglio, indecisa su cosa sarebbe stato meglio se gettarsi tra i flutti e sparire, oppure lasciare che il freddo le fermasse il cuore, rendendola un pezzo di ghiaccio.
Non riuscì a muovere un passo, si teneva la pancia, poco sotto le costole.
«Riesci a camminare?» chiese Maxime, accortosi dell'evidente difficoltà che stava provando la giovane.
Agnese si scostò delicatamente da lui, camminando a scatti, diretta verso i suoi vestiti. Una volta presi, se li strinse al petto, sperando di potersi riscaldare, almeno con quelli. Ma la stoffa era gelata, bagnata di brina.
Si sentì qualcosa sulle spalle, un panno leggero coprirle le spalle nude. Qualcosa di bianco che le ricadde addosso come una carezza. Non fece in tempo a voltarsi, che due braccia l'avvolsero in un caldo abbraccio, prendendole le mani e facendole strofinare tra loro.
«È tutto quello che ho… es tut mir leid» disse sommessamente Maxime, poggiandole la guancia sulla spalla. Si sentiva fortemente in imbarazzo, ma avrebbe preferito quello al doverla riaccompagnare a casa senza neanche un indumento addosso.
In un altro momento, Agnese se lo sarebbe scrollato di dosso, regalandogli una delle migliori occhiatacce del suo repertorio, ma quella sera non aveva forze a sufficienza per combattere contro il mondo, come faceva sempre. Crollò svenuta tra le braccia di Maxime, reclinando il capo all'indietro.
Seppur infreddolito, Maxime continuò a farle calore per qualche altro minuto, per poi caricarsela in braccio, e portarla via da lì, da quel luogo ostile.
Avrebbe pensato in seguito a cosa dire ai Chiodi, una volta che avrebbero visto la nipote in quelle condizioni.
 
Agnese si era ripresa sul divano, vicino al camino acceso. Il viso di sua zia fu la prima cosa che vide aprendo gli occhi. Aveva le lacrime incastrate tra le ciglia, ma non le chiese nulla, le diede solo una carezza sulla guancia gelata.
Anna poi l'aveva aiutata a farsi un bagno caldo, non lasciandola sola neanche un minuto. Restò in silenzio, con lo sguardo basso, e Agnese provò vergogna di averle fatto questo, di averla fatta soffrire così tanto in quelle ore.
Una volta a letto, Agnese si nascose sotto le coperte, incapace di prendere sonno. Si ritenne fortunata che suo zio e Romeo non fossero in casa quella notte, che si trovassero a Torino per affari. Il freddo fisico era passato, ma non quello che, da lì in poi, si sarebbe portata dentro. Per sempre.
 

 
~☆~
 
 
Presente
 
«Cos'ha avuto Agnese?» chiese Maxime a Romeo, con aria concitata. Il vassoio che gli aveva preparato Blanca era rimasto intoccato, appoggiato lì sulla botte più piccola.
«Vedo che ti è tornata la voglia di parlare!» sottolineò Romeo, sistemando una delle corde che servivano per legare le botti tra loro.
«Cosa le è successo?» domandò di nuovo Maxime, e non vi era traccia di gentilezza nella voce, era nervoso all'idea che Schlütz avesse potuto farle qualcosa.
«Non lo so, Max. Avevano appena chiamato il medico quando sono sceso per portarti il pranzo. Sicuramente sarà stata stanchezza o tensione accumulata» chiosò Romeo, spiccio.
Maxime non insistette oltre, ma si alzò dal divanetto, diretto verso la porta.
«Ma cosa fai?» lo bloccò Romeo per un braccio, prima che potesse uscire fuori dal retro della cantina, attirando così l'attenzione indesiderata di mezzo mondo.
«Voglio salire di sopra per vederla!» decretò il tedesco, deciso.
«No, tu non fai un bel niente! Stiamo parlando di Agnese, quella ha la pellaccia più resistente della tua!» lo rimproverò l'italiano, guardandolo storto.
«Inoltre… devo darti una cosa» aggiunse poi Romeo, rovistando nelle tasche del marsupio di cuoio che si portava sempre legato alla cintura.
Cacciò fuori delle carte, un documento d'identità, biglietto del treno e della nave e in più un passaporto con un timbro americano, fasullo ovviamente.
«Me li ha dati Giovanni stamattina. Lunedì prenderai il treno per Genova, e da lì t'imbarcherai per una nave che ti porterà a Barcellona. Da lì, partirà il transatlantico che ti porterà a Montevideo. È tutto pronto» gli comunicò, consegnandoglieli soddisfatto.
Maxime prese quei documenti con titubanza, non li controllò neppure al suo interno, la testa era da tutt'altra parte, al piano di sopra per la precisione.
«Ti lascio mangiare adesso. Mi raccomando, cerca di tenerti pronto per lunedì. Di sopra stiamo tutti preparando il viaggio» spiegò Romeo, congelando con una sonora pacca sulla spalla.
Rimasto solo, Maxime si sedette nuovamente sul divanetto, come intontito.
Quei documenti li sentiva scottare sotto le dita, erano il lasciapassare per la sua libertà, eppure non gli diedero chissà quanto sollievo o felicità. 
Non aveva deciso lui di scappare, in tutta quella faccenda, nessuno gli aveva chiesto cosa davvero volesse fare e come avesse intenzione di porsi a riguardo.
Non aveva avuto il tempo di reagire, pensare al dopo. La soluzione, adesso, era nelle sue mani, eppure…
Eppure c'era qualcosa che non gli permetteva di essere soddisfatto. 
Un qualcosa che somigliava sempre più a qualcuno.
E quel qualcuno aveva un nome che aveva messo radici tra le sue labbra, indissolubilmente.



 

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Capitolo 9
*** 9- come una (sigaretta) spenta e ammaccata ***


Prompt: Sigaretta
 

Capitolo 9

Come una (sigaretta) spenta e ammaccata

 


Erano passate ore da quando Agnese aveva iniziato a guardarsi allo specchio dell'armadio, con aria persa. 
Era in camicia da notte, i capelli sciolti e il viso imbronciato. Non sapeva esattamente cosa stesse guardando nello specifico.
Era sì, il suo riflesso, quello allo specchio, ma allo stesso tempo non si rivedeva affatto in esso. Si sentiva spaesata, la testa pesante e vuota allo stesso tempo.
Decise di allontanarsi da lì, continuare a riflettersi dentro non avrebbe allentato quella sensazione di estraniamento che stava provando. 
Si avvicinò al piccolo scrittoio dove di solito teneva i suoi trucchi, il suo diario e i suoi libri, e aprendo un cassetto, vi trovò un pacchetto di Imperium vuoto, consumato.
Erano le sigarette che Gabriel fumava spesso.
La prima volta che Agnese gliene aveva vista una in mano, era stato la notte in cui avevano fatto l'amore per la prima volta, quasi un anno prima.
A quel tempo, Agnese se lo era visto davanti soltanto pochi giorni prima, in veste ufficiale di tenente della Schutz-Staffel, con aria imponente e guardinga.
Quando si era sentita il suo sguardo penetrante addosso, intenta a scendere le scale, le era sembrato come se il tempo si fosse fermato, come se non ci fossero stati i suoi zii intenti a fare gli onori di casa - Ismaele con molta poca voglia della moglie -, Romeo a fissare quei soldati uno per uno, in allerta, e Anna dietro di lei, che nel riconoscere in quel tenente il vecchio amico d'infanzia della sorella maggiore, aveva saltato a due a due le scale, buttandosi addosso a Gabriel, colto di sorpresa.
Uno dei soldati si era avvicinato per reguardirla, ma il tedesco lo aveva intimato di non procedere oltre. Era bastato un cenno della mano per convincerlo.
Era stato in quel momento che Agnese aveva iniziato a vacillare, a pensare che, nonostante tutto, in Gabriel vi fosse stata ancora una traccia di bontà umana, di considerazione per tutti loro.
Ci aveva creduto quando si era avvicinato piano, nei giorni successivi, cercando di richiamare la sua attenzione, per ristabilire un rapporto deterioratosi a causa dell'ideologia che aveva proliferato come gramigna intorno a loro.
Nonostante l'ombra di quel matrimonio che pesava sulle loro teste, Agnese aveva voluto dargliela una seconda possibilità, aveva voluto credere che Gabriel volesse recuperare qualcosa del loro rapporto, fossero state anche briciole, poco importava.
Ci aveva creduto anche quando l'aveva portata in quell'albergo dove le prostitute ufficiali dei soldati andavano a trovarli, per soddisfare i loro bisogni.
All'inizio Agnese non si era sentita usata, o raggirata. Si era lasciata travolgere da quel sogno di gioventù che non l'aveva mai davvero abbandonata, quando, in bilico tra il desiderio e il ribrezzo, aveva iniziato a fantasticare su Gabriel pensieri osceni, toccandosi nel letto mentre lo immaginava sopra di sè, a possederla con quella divisa addosso che odiava, ma che una parte inconscia del suo essere aveva trovato intrigante, pericolosamente attraente.
Tra quelle pareti sconosciute, fredde, Agnese era diventata donna con Gabriel, e aveva pensato di essere felice, anche se era consapevole del fatto che quella felicità l'avrebbe pagata a caro prezzo, unendosi ad un uomo sposato, oltre che un soldato.
Quando sta con me, sta solo con me, sua moglie non esiste fra noi, era stato il pensiero che Agnese aveva rimuginato in quel periodo, in preda alla febbrile sensazione di gioia che la sua relazione con Gabriel le aveva portato.
Quando aveva scoperto di essere rimasta incinta, poi, era stato il culmine della gioia. 
Lo aveva scoperto per caso, mentre si vestiva.
Aveva notato di avere la pancia un po’ tesa, e i seni più gonfi. I capezzoli poi le tiravano così forte che l'attrito con la stoffa di pizzo del reggiseno le provocavano un fastidio indicibile.
Nonostante la felicità, però, non aveva voluto dirlo a nessuno, forse per un principio di pudore che le stava sbocciando dentro.
L'unico a cui ne aveva parlato, successivamente, era stato Romeo, ma solo perché quel ragazzo era sempre stato troppo acuto su tutto, non gli era mai sfuggito nulla di ciò che accadeva al casale. Aveva intuito anche la natura della vicinanza tra lei e quel tenente, che a pelle gli stava profondamente antipatico.
Era stato davvero difficile nasconderlo, soprattutto a Gabriel, che all'oscuro della cosa continuava a fumare in sua presenza le sue Imperium, e per Agnese era stata una vera sofferenza sopportare quel tanfo, poiché l'olfatto le era diventato piuttosto sensibile.
Quando poi la sua gravidanza è saltata fuori, la reazione di Gabriel non fu per niente quella che Agnese si era aspettata di vedere.
Senza chiederle alcun parere, senza darle facoltà di decidere, l'aveva trascinata in ambulatorio, decidendo per lei il destino di quel figlio che non avrebbe mai visto la luce del sole. 
Agnese ne era rimasta incredula, esterrefatta. Non aveva potuto opporsi, non aveva potuto affermare ciò che realmente avrebbe voluto. Ci aveva provato, ma in risposta Gabriel le aveva afferrato il mento con forza e le aveva alitato in faccia che non avrebbe avuto intenzione di pagare per una sua mancanza. Come se quel figlio Agnese l'avesse procreato da sola, senza il suo intervento, solo per fargli dispetto.
Era stato allora che lo aveva realizzato, con la morte nel cuore: Gabriel non l'aveva mai vista davvero come una donna da amare. Era stata solo il suo passatempo, il suo giocattolo da usare quando si annoiava troppo. E la conferma l'aveva ottenuta perfino attraverso le chiacchiere dei suoi commilitoni, alludendo a varie avventure che il tenente von Kusserl aveva intrattenuto in Germania, nonostante sua moglie e i loro due figli.
Un'altra, terribile conferma, l'aveva ricevuta con la visita di una giovane ragazza al casale. Ad Agnese era rimasta impressa perché era bionda, bellissima e un fisico slanciato, giunonico.
Si chiamava Teresa, e a Torino la conoscevano tutti. Si diceva che era diventata l'amante di un nazista, che si manteneva grazie ai suoi soldi, visto che fino a qualche anno prima era solo una semplice lavandaia che aspirava a diventare attrice di teatro.
Aveva chiesto di parlare con il tenente von Kusserl, e Agnese l'aveva lasciata entrare, indispettita.
Gabriel l'aveva ricevuta nella sua stanza al casale, senza premurarsi di Agnese o di chiunque altro.
Vi era stata una litigata furibonda, erano volate parole grosse, Agnese le aveva sentite persino dalla cucina. Teresa era uscita dalla stanza inviperita, stravolta. Agnese non aveva fatto neanche in tempo a raggiungerla, che aveva già sbattuto dietro di sè il portone di casa.
Qualche giorno dopo, nel canale, venne rinvenuto il suo cadavere, gonfio d'acqua.
Ad un primo accertamento era stata strangolata, e si era scoperto anche che si trovava in stato interessante.
Nell'apprendere ciò, Agnese aveva trovato il coraggio di affrontarlo, mettendolo con le spalle al muro. E Gabriel dovette arrendersi e confessare che Teresa aspettava suo figlio, che aveva mandato i suoi uomini a spaventarla, per costringerla a non rivelare a nessuno la paternità del bambino. Non avevano avuto altra scelta, era stata la sua grama difesa. Ma Agnese ormai non era più succube dei suoi trucchetti: tra loro il muro si era elevato così tanto, da risultare ormai invalicabile.
Di tutta quella situazione, Agnese era rimasta pentita solo di una cosa: di non essere riuscita, neanche una volta, a farsi valere, a fargliela pagare come avrebbe voluto.
Intenta a rigirarsi quel pacchetto vuoto e consumato tra le dita, Agnese sorrise amara nel realizzare che Gabriel aveva usato le persone intorno a sé proprio come le sue sigarette: le accendeva, si gustava la nicotina che gli inebriava il palato, e man mano che il tabacco bruciava raggiungendo il mozzicone, perdeva interesse fino ad ammaccarle nel posacenere senza cura e riguardo.
Agnese era stata una delle sue sigarette, e adesso si sentiva spenta e ammaccata, priva di importanza e valore.
Quei pensieri lugubri le continuarono a vorticare in testa, finché Blanca non entrò in stanza con accortezza, affacciandosi alla porta con cautela.
«Sei ancora in camicia da notte, tesoro?».
Sua zia non smetteva mai di elargirle premure. Quando faceva così, Agnese provava una profonda nostalgia verso Levda che a volte le mancava il fiato.
«Mmh sì» tagliò corto Agnese, nascondendo nel cassetto il pacchetto vuoto delle Imperium con una certa fretta. Quella carrellata di ricordi che aveva provocato quel minuscolo oggetto l'aveva inaspettatamente sfiancata.
«Vuoi che ti aiuti a vestirti? Sei ancora un po’ pallida…» fece Blanca, entrando nella stanza con passo felpato. Agnese diniegò il capo, stringendo le palpebre per trattenere le lacrime che la colsero di sorpresa. Avrebbe preferito di gran lunga rimettersi sotto le coperte, ma non poteva permettersi quel lusso. C'erano molte faccende da sbrigare, e in più doveva recarsi da don Pierino per ultimare i preparativi del viaggio di Maxime per l'Uruguay. Sapere di potersi rendere utile a quella causa, per Agnese era un toccasana immediato.
«Ce la faccio anche da sola, zia, non temere» la rassicurò la ragazza, imbronciata.
Blanca annuì alle sue parole, si avvicinò al suo armadio e le scelse un vestito, era di un blu molto scuro con piccole margherite disegnate sopra.
«Questo almeno non stringerà in vita» le disse la zia, guardandola con occhi lucidi. A quella premura, Agnese non riuscì a trattenersi oltre. Le lacrime le scesero copiose lungo il viso, accartocciato dalla sofferenza.
Blanca la invitò in un abbraccio, lasciando che la nipote sfogasse tutte le sue lacrime in totale libertà, senza giudizio e senza rimprovero.
«La prima volta ho reagito male… ancora me ne pento al solo ricordo» si ritrovò a dirle, massaggiandole la schiena scossa dai singulti. 
«Sei dovuta crescere così in fretta, bambina mia… se hai perso il tuo bimbo, è stato anche per colpa mia, che non ti ho saputo proteggere». Anche Blanca aveva il volto provato e rigato di lacrime. La voce le si accartocciava in gola come una palla di carta.
«È stato Gabriel a volerlo eliminare, tu non hai nessuna colpa» le rispose Agnese, spostandosi dall'abbraccio a testa china.
«Ed è stata colpa mia perché ho creduto… pensavo che mi sarei potuta fidare di lui, proprio come da bambini».
Dirlo ad alta voce per Agnese non fu solo liberatorio, ma anche salvifico, guaribile.
Blanca le carezzò una guancia affettuosamente, avvicinando le loro fronti con delicatezza.
«Stavolta è diverso» la rassicurò sua zia, e un sorriso dolce le si propagò in viso.
«Maxime ti ama. Non gliel'ho mai sentito dire, ma gli sguardi che ti ha sempre dedicato, i sorrisi, le gentilezze…»
«Anche Gabriel era stato gentile con me. Quando voleva lui».
Agnese non avrebbe voluto mettere Maxime sullo stesso piano di Gabriel. Si obbligò a farlo, perché troppo scottata per aspettarsi qualcosa di diverso dagli uomini ormai.
Blanca corrucciò la fronte, in disaccordo.
«Gabriel era gentile per un suo tornaconto personale. Maxime lo è per natura. E credimi, la differenza l'ho notata, da persona esterna».
Se sua zia avesse detto quelle cose solo per convincerla o convinta lei stessa della verità dei fatti, Agnese non riuscì a capirlo fino in fondo.
«Non lo so, zia. Non so se mi conviene crederci».
Blanca comprese il sottotesto delle sue parole. D'altronde, la ferita inflittale da Gabriel era stata troppo ostica da sanare in così breve tempo.
«Per questo lo lascerai andare via così, senza dirgli niente?». Tuttavia, Blanca voleva crederci in quel lieto fine diverso, in quel miracolo, sempre se Dio avesse acconsentito ad avere pietà per entrambi.
Agnese lasciò le calde braccia di Blanca, per dirigersi verso il letto. Prese il vestito appeso alla gruccia e cominciò a sbottonarlo. 
«Lì a Montevideo si rifarà una vita lontano da qui. Penso che se lo meriti, dopotutto». La sua voce non tradì alcun sentimento, né di nostalgia e né di sarcasmo. Blanca la osservò per qualche minuto, dubbiosa ma comprensiva.
«Potresti andare con lui» azzardò, non lo stava dicendo sul serio, ma una piccola parte di lei quasi avrebbe sperato in una pazzia dell'ultimo minuto. Agnese si voltò poco prima di abbassarsi la spallina della camicia.
«Lui non ha più nessuno qui. Io ho voi» chiosò, asciutta. Blanca annuì vagamente, aggrottando la fronte.
Anche lui qui ha te, avrebbe voluto dire, ma lasciò correre. Aiutò Agnese a vestirsi, e il resto del tempo lo trascorsero in silenzio, senza proferire troppe parole inutili.
 

 
□♧□
 

Maxime non amava fumare.
Aveva imparato a farlo durante i raduni della gioventù hitleriana, per non dimostrarsi un codardo o giudicato poco uomo in confronto agli altri compagni.
Eppure, seduto su quel tronco in quel preciso istante, sentì il forte impulso di fumare una sigaretta per stemperare l'ansia e l'agitazione che lo stavano divorando vivo.
Ringraziò il cielo che i vestiti di Romeo gli calzassero a pennello. La giacca invece l'aveva trafugata ad Ismaele, aveva due taglie in più e gli sembrò di navigarci dentro.
Sapeva che quello che stava per fare sarebbe andato contro ogni principio, e soprattutto sarebbe stata una bella mancanza di rispetto contro quella famiglia che aveva fatto di tutto per procurargli i documenti per fuggire, ma sentiva che non poteva limitarsi a scappare senza fare qualcosa di concreto. E soprattutto, doveva assicurarsi che ciò che aveva cominciato con Gustaf non finisse nel dimenticatoio.
Alfredo e Dante giunsero con i fucili in spalla, guardinghi. Maxime si alzò di scatto, cercò di darsi un tono, nonostante la giacca troppo grande gli desse un'aria buffa.
«Non abbiamo tutto il pomeriggio, giovanotto, perciò datti una mossa» brontolò Alfredo, già scocciato.
Dante si accese una sigaretta rudimentale, nonostante il vento gli spegnesse la fiamma in continuazione. Maxime lo fissò con un certo interesse.
«Könnte ich… ehm… posso averne una anch'io?» chiese timidamente, cercando di imitare il gesto da fumatore per sottolineare il concetto. 
Dante e Alfredo si fissarono per qualche minuto, poi il primo gli aprì davanti una scatoletta di latta sporca, al cui interno vi erano delle sigarette rullate, di diversa dimensione.
Maxime prese la più piccola, ringraziando sommesso. Dante lo aiutò persino ad accendergliela, guadagnandosi l'occhiata in tralice dell'altro al suo fianco.
«Fammi indovinare» intervenne così Alfredo, con le mani in tasca. Maxime gli dedicò tutta la sua attenzione, tirando una boccata che lo disgustò. Quell'aroma artigianale era decisamente troppo forte per il suo palato.
«Hai deciso di mandare all'aria la tua vacanza in Sudamerica, giusto?».
Maxime lo fissò, cercando di non far trasparire troppo i suoi pensieri prima del tempo. 
«Non posso andarmene adesso. Non prima di essermi accertato che sia andato tutto bene» rispose, ponderando ogni parola detta con estrema attenzione. 
Alfredo lo squadrò, in dubbio. 
«Tu rischi grosso, Maxime» si limitò a dirgli, freddo e senza un briciolo di empatia.
«Dammi retta, parti per l'Uruguay, che ce la vediamo noi qui. Nessuno sa di Gustaf, morto il tenente non c'è pericolo che qualcuno spifferi tutto a Schlütz». 
Maxime aspirò lentamente dalla sigaretta, leccandosi le labbra nel processo.
«Non posso» si limitò a rispondere, a capo chino.
«Cos'è, non ti fidi?» chiese Dante, osservandolo di sottecchi, un po’ preoccupato.
«Non ho detto questo» chiarì il giovane, digrignando i denti.
«Ci sarà bisogno di aiuto, e io voglio esserci. In prima fila, stavolta».
Alfredo spostò il peso da una gamba all'altra, interdetto. A Dante cadde la cenere sul prato senza ciccarla, tanto aveva bruciato la cartuccia esterna.
«Vedo che ci siamo ripresi dallo shock di qualche giorno fa. Ottimo, me ne compiaccio!».
No, Maxime non si era ripreso davvero da ciò che aveva fatto. Aveva ucciso un uomo, e questo nessuno avrebbe potuto cambiarlo, anche se si trattava di aver tolto la vita ad un essere spregevole e meschino. Quel poco di forza che aveva racimolato in quei giorni era servita per riuscire a portare a termine ciò che aveva iniziato. Ciò che in silenzio era riuscito a fare, e che se non fosse stato per le minacce che Gabriel, facendo cantare Gustaf sul loro piano, aveva dichiarato, si sarebbe risparmiato volentieri il suo omicidio. Non che fosse stato pianificato prima, ma avrebbe preferito di gran lunga un finale migliore di quello che si era realizzato. Avrebbe di gran lunga preferito sopportare il carcere per alto tradimento, piuttosto che portarsi sulla coscienza la vita di Gabriel von Kusserl.
«Per favore, Alfredo. Posso fare da staffetta. Nessuno penserebbe che-»
«Ti devo ricordare che l'ultima volta c'è mancato poco che Schlütz ci sbattesse tutti in galera?? Se ci scopre stavolta, non ci salva neanche nostro Signore!» lo interruppe Alfredo, senza mezzi termini.
Maxime lo fissò interdetto, come se non avesse capito bene tutto il discorso.
«Quelli ci tengono gli occhi addosso, Maxime. Non è sicuro che tu rimanga qui, né per noi né per te» diede man forte Dante, con meno veemenza del suo capo.
«Allora resto nelle retrovie. Non mi unisco a voi, ma agirò per conto mio». Dopo qualche secondo di esitazione, Maxime diede il suo verdetto. Alfredo scosse il capo, contrario alle sue parole.
«Non intendo prendermi questa responsabilità, ragazzo! Ismaele non sarà d'accordo! Quindi stammi a sentire, accetta quei cazzo di documenti e prendi quella cazzo di nave per Montevideo, per favore!». Alfredo aveva gli occhi fuori dalle orbite per il nervoso, ma dovette ugualmente contenersi. Erano troppo vicini al casale, e l'idea che qualcuno potesse sentirli non lo faceva stare per nulla tranquillo.
Ma dallo sguardo risoluto di Maxime, dovette constatare che non l'avrebbe avuta vinta così facilmente.
«Nessuno mi ha chiesto cosa volessi davvero fare… avete deciso voi per me» azzardò Maxime, negli occhi gli ardeva una fiamma che Alfredo non gli aveva mai scorto con tanta evidenza.
«Tu non eri in grado di decidere per te stesso. Stavi in piedi per miracolo» lo rimbeccò Alfredo, piccato. Stava iniziando ad infastidirsi sul serio. 
«Datemi tempo! Giusto il tempo del loro arrivo e potrò-»
«Moccioso, ascoltami bene prima che tu mi costringa ad arrivare alle mani» tuonò allora Alfredo, avanzando pericolosamente alla volta del tedesco, impavido.
«Si tratta di mio fratello, e della mia famiglia! Ti sono grato per l'aiuto, ma hai già fatto abbastanza. E se non vuoi ritrovarti una scarica di piombo addosso, ti conviene alzare i tacchi e prendere quella nave! Altrimenti, giuro sull'anima dei miei, ti ci butto come un sacco di patate sul ponte, e mi assicurerò che tu non metta più piede nè in Italia, nè in Germania, e nè in Europa! Ci siamo intesi, ragazzino?» e rafforzò il concetto afferrando Maxime per il bavero, per niente gentile. Dante fu sul punto di scattare, nel caso Alfredo avesse perso davvero le staffe. Maxime non gli diede una risposta, si limitò a fissarlo, senza paura.
Allora Alfredo si giocò quell'ultima carta. Infame, ma necessaria per farlo vacillare.
«Pensavo ci tenessi ad Agnese» soffiò, sfidando Maxime con lo sguardo. Le pupille tremarono impercettibilmente al suono di quel nome, ambrosia pura per le labbra e le orecchie.
«Pensavo le volessi bene… a quanto pare mi sbagliavo» e gli lasciò il bavero, con più delicatezza. Dante studiò entrambi col fiato fermo in gola. 
«Hai ragione, io non le voglio bene» dichiarò infatti Maxime, deciso. Serrò la mascella così forte da provare male.
«Io la amo».
E Alfredo capì di aver perso su ogni fronte. Ne era uscito lui sconfitto e la cosa gli risultò davvero strana. 
«Fa’ come credi. Ma sarai tu stesso a comunicare questa decisione ad Ismaele e famiglia. Non voglio essere tirato in ballo più del dovuto» alzò le mani Alfredo, risentito. Diede una pacca alla spalla di Dante, per incitare a seguirlo. 
Quest'ultimo fissò Maxime interdetto, ma con meno rabbia di Alfredo. Se ne andarono lasciandolo lì solo, all'entrata del bosco, una sigaretta consumata tra le dita e il cuore che gli galoppava frenetico in petto.
Aveva detto ad alta voce che la amava, e fu come provare una nuova sensazione di libertà.
La stessa che aveva provato la prima volta che era morto dentro di lei, sazio di piacere e peccato.



Tre mesi prima…

L'odore delle Imperium giunse alle narici di Agnese ancor prima che il suo padrone mettesse piede in salotto.
Era rimasta lì seduta, a fissare lo scoppiettare del fuoco nel camino enorme, con aria attonita.
Teneva entrambe le braccia poggiate sul grembo con una certa accortezza. Le aveva strette per riflesso non appena si era accorta della presenza di Gabriel accanto.
Il tedesco le si avvicinò per darle un bacio sulla guancia, ma lei si scostò, girando il capo dall'altra parte, arricciando il naso.
Gabriel sghignazzò a quel gesto puerile.
«Ho sempre trovato questo tuo modo di negarti alquanto seducente» dichiarò in tedesco il tenente, mordendosi il labbro inferiore per trattenere una risata spontanea.
Peccato che Agnese non condividesse il suo stesso stato d'animo.
«Facciamo la pace, Anja. Siamo più forti di questo». Gabriel le soffiò quelle parole all'orecchio con una sicurezza tale da recarle quasi spavento misto a stupore.
Le lasciò un bacio sul padiglione dell'orecchio, e per poco Agnese non dovette trattenersi le labbra per non sboccare.
«Ho male allo stomaco» dichiarò laconica, stringendosi le braccia attorno alla pancia, infastidita.
«Mi è uscito un livido enorme» continuò mentre i baci pregni di fumo di Gabriel le giunsero fin sotto alla mandibola.
Quest'ultimo rimase totalmente sordo alle sue parole, sedendosi addirittura di fianco a lei.
«I miei baci guariranno tutto, vedrai». Le raggiunse quasi le labbra, baciandole l'angolo con insistenza crescente. Agnese cercò di spingerlo via, debolmente.
«Hai proprio una bella faccia tosta, tenente!» e gli si divincolò, alzandosi dal divano con una certa fretta. Raggiunse il camino, restando a fissare le fiamme accese che sfavillavano energiche.
«Passi sul fatto che non volevi che ti dessi un figlio» cominciò, e il tacco delle Peep Toe s'impiantò sul tappeto, creando un piccolo solco nella stoffa «passi anche sul fatto che la nostra sia solo una storiella senza importanza… ma i miei genitori… non posso far finta di niente. Non posso continuare ad entrare nel letto del loro carnefice come se niente fosse».
Agnese non parlò con rabbia o risentimento, il suo tono di voce era rimasto vacuo, privo di tonalità.
«Ne parli come se te li avessi ammazzati» commentò Gabriel, altamente risentito da quel discorso. Ma Agnese non se ne curò più di tanto. Aveva deciso che non se ne sarebbe curata più dei suoi umori, delle sue voglie e dei suoi capricci. Avrebbe messo un punto a quella storia nefasta, che le aveva procurato soltanto dolore in quegli anni.
«Davvero non capisci la gravità della situazione?». Agnese si voltò a fronteggiarlo, sentendosi in netto vantaggio in confronto all'altro.
«Hai fatto arrestare la mia famiglia, per le sue origini ebree e per i dissidi politici a cui mio padre aveva preso parte, mentre dormivamo nello stesso letto, e non mi hai mai fatto menzione a riguardo»
«È accaduto prima che ci rincontrassimo» si difese asciutto Gabriel, trattenendo a stento il nervoso.
«Peggio mi sento» fu il rimbecco di Agnese, risentito e duro.
«Cosa ti costava tenermi al corrente di tutto? Avvisarmi di quello che stava succedendo…» Agnese si portò le mani all'altezza dello stomaco, dove le doleva maggiormente, a causa dei pugni che Gabriel le aveva sferrato in caserma.
«Anja, per favore, ormai è andata così…»
«Sì. Sì, è andata così, Gabriel» una strana luce le ravvivò le pupille, avvalorata dalla vicinanza delle fiamme del camino.
«Ma da adesso in poi, non andrà più come vorrai tu».
Gabriel assottigliò lo sguardo a quelle parole enigmatiche. 
«Che cosa-»
«A partire da ora non mi dovrai sfiorare mai più. Non voglio più essere toccata da te neanche per sbaglio» lo interruppe Agnese, ferma e decisa nella voce e nella postura.
Quando il tenente si alzò dal divano, la sua mole la sovrastò, facendola sentire piccola ed indifesa. Ma Agnese non vacillò, sebbene indietreggiò di un passo verso il camino.
«Non credo che tu sia in condizione di poter dettare leggi, Anja. Ti ricordo che è grazie a me se i tuoi zii non sono finiti su di un treno diretto in Germania. Dovresti essere un po’ più riconoscente» e le scostò una ciocca di capelli dal volto, lascivo.
Agnese rimase impassibile, nonostante il respiro le si facesse più pesante in gola e nel petto.
«Allora te lo chiedo con cortesia, Gabriel» e lo fissò dritto negli occhi, a pugni chiusi.
«Lasciami in pace. Hai questa casa, puoi muoverti come più ti pare, ma non venire più a trovarmi. Perché non sono sicura che riuscirò a darti quello che vuoi a cuor leggero».
Agnese era stata pacata, nonostante il cuore le bruciasse dentro la cassa toracica. 
«Mi appello in nome della nostra vecchia amicizia, Gabriel. Ti prego, abbi pietà».
Le era costato molto dirgli quelle parole, fosse dipeso da lei non lo avrebbe mai fatto, ma aveva raggiunto un punto di non ritorno, un punto dal quale sarebbe stato difficile ripartire come se niente fosse.
Agnese gli aveva perdonato troppe cose, aveva soprasseduto a troppe sue mancanze. 
Adesso ne aveva semplicemente abbastanza, era stanca. Stanca di lui, della guerra, della violenza che regnava intorno a loro. 
Gabriel la fissò a lungo negli occhi, a distanza ravvicinata. Agnese non si aspettò nulla di buono da quello sguardo.
«Siete tutti nelle mie mani, Anja, te compresa» la minaccia nella voce fu talmente pesante, che ad Agnese mancò l'aria.
«Te l'ho già detto, non ti è concesso scegliere. Sei mia, e mia resterai fino alla fine. Tra l'altro, chi vuoi che si prenda una donna sterile come te? Nessuno vorrà sposarti, vivrai il resto della tua vita da sola, e tutti penseranno che sei pazza e isterica. Perciò, resta sotto la mia ala, e resterete tutti al sicuro».
Nel pronunciare l'ultima frase, Gabriel se la tirò a sè, stringendola talmente forte in vita da farle accrescere il dolore fisico all'altezza dello stomaco.
L'odore forte di sigaretta le entrò nelle narici, insidiandosi dentro come un serpente viscido e velenoso. 
Gabriel le morse nuovamente il collo, con intenzioni sinistre.
In lacrime, Agnese cercò di divincolarsi, prima cautamente, poi sempre più con insistenza: si sentì sporca, stupida e debole.
Per sua fortuna, sua sorella, Romeo e Maxime entrarono nella stanza, inizialmente ignari di trovarla occupata da qualcuno.
«Ehm, a-abbiamo interrotto qualcosa?» chiese Anna, presa in contropiede nel vedere Agnese e Gabriel avvinghiati l'uno all'altra.
Romeo e Maxime fissarono la scena con un certo disappunto, quasi infastiditi da quella visione.
Gli occhi del secondo individuarono immediatamente quelli di Agnese, lucidi e spaventati. Avrebbe voluto strappargliela dalle mani, e farle da scudo col suo stesso corpo.
Percepiva aria di paura e pericolo da parte di entrambi.
«Nulla, cara Anna» comunicò Gabriel con fare allegro, talmente allegro da risultare artificioso. Dietro di lui, Agnese ritrovò il modo per tornare a respirare, sebbene con difficoltà.
«Stavo appunto proponendo ad Agnese di farmi da interprete per una cena che si terrà stasera in città» e nel voltarsi, le rivolse uno sguardo di fuoco, camuffato magistralmente da un sorriso compiaciuto.
«E ovviamente non accetto un no come risposta».
Prova a fare di testa tua e vedrai tu stessa le conseguenze che ne deriveranno.
Agnese quel sottotesto lo percepì talmente forte da digrignare i denti così forte col rischio di romperseli.
«Ma ti stavo appunto dicendo che non mi sento bene, e che non so se-»
«Tu verrai stasera. Ti ho già fatto mettere il vestito in stanza. Va’ a vederlo, magari mostralo anche ad Anna».
Se avesse potuto, Agnese lo avrebbe aggredito seduta stante, fregandosene di farsi passare per pazza isterica. In quel momento stava provando solo odio puro verso quell'essere.
«Uh sì, sono curiosa Agnese! Me lo fai vedere? Magari posso aiutarti a vesti-»
«Ti chiamo dopo, va bene? Dammi solo qualche minuto». Agnese la interruppe bruscamente, passandole accanto. Le carezzò una guancia, ma non si soffermò a guardarla. Se lo avesse fatto, Agnese sarebbe scoppiata in lacrime con indecenza davanti a tutti loro, e per decenza non poteva permetterselo.
Non salutò nessun altro mentre lasciava la stanza.
Tutti e tre la guardarono salire le scale, apprensivi e preoccupati.
«Preparati anche tu, Brünner» incalzò il tenente, accingendosi ad uscire dalla stanza, diretto verso la cucina «Sarà presente il sergente Hölm, e non accetterò brutte figure». Lo sguardo glaciale che gli dedicò fece venire i brividi alla povera recluta, che deglutì prima di scattare nel saluto militare.
«Jawohl» mormorò, con voce flebile.
Una volta che Gabriel lo sorpassò per uscire dalla stanza, Romeo fece per sputare a terra, prontamente fermato da Anna, richiamandolo all'ordine.
Un urlo disperato giunse dal piano di sopra, dalle stanze da letto. Anna si precipitò verso le scale, temendo fosse successo qualcosa alla zia. Anche Maxime fece per seguirla, ma Romeo lo afferrò per un braccio, diniegando il capo.
Maxime lo fissò confuso per qualche minuto, per poi capire il motivo di quel gesto. 
Lasciò l'incombenza ad Anna, anche se a malicuore. Non smise di fissare le scale neanche mentre Romeo cercava di trascinarlo via da lì, senza dare troppo nell'occhio.
Anima e cuore erano di sopra, nella stanza da cui era partito quell'urlo straziato, angosciante.
 

 
○●○●
 

Quella cena tra ufficiali era stata talmente noiosa che Agnese si era dovuta inventare una scusa per allontanarsi qualche secondo da quel tavolo, stufa di aver fatto da interprete dall'italiano al tedesco per Gabriel e i suoi uomini.
Solo fuori in terrazza le sembrò di respirare aria pulita, quella cappa di fumo generata da quelle maledette sigarette le stavano rendendo difficile persino il proferire parola, e dover ragionare in due lingue non era impresa facile già di consuetudine, figurarsi sotto costrizione.
Agnese si appoggiò mollemente con le braccia sulla ringhiera del resort, luogo in cui si era tenuta la cena, sbuffando ad occhi chiusi.
Blanca le aveva acconciato i capelli in una crocchia elegante, da diva del cinema.
Anna le aveva detto che somigliava alla Petacci tanto che era bella e ammaliante quella sera, con quel vestito rosso bordeaux di velluto indosso senza maniche, i guanti lunghi neri e il filo di perle che le aveva regalato Gabriel. 
Quelle perle per Agnese, più che un adorno, sembravano un guinzaglio, un triste promemoria della sua condizione da cui non sarebbe mai potuta fuggire. Si era costruita la propria gabbia da sola, pensando di rincorrere un sogno. Ma quando aveva aperto gli occhi, il Mefistofele del Faust stava là ad aspettarla, pronto a vendersi la sua anima per scambiarla con un ricordo di gioventù, sperando che sarebbe stato eterno.
Ma i patti con i diavoli, si sa, non portano mai al lieto fine, o perlomeno, non danno mai niente in cambio di niente.
Agnese, purtroppo, lo aveva capito nel modo peggiore, sbattendoci non solo la testa, ma perdendoci anche l'integrità.
Persa nei suoi pensieri, allungò il collo verso il vuoto, ipotizzando per un solo istante come sarebbe stato prendere il volo, scavalcare la ringhiera e saltare… chissà se un angelo o un demone sarebbe accorso a salvarla. O se ad aspettarla vi sarebbe stato solo il suolo, freddo e duro. Se fosse stata fortunata, l'ultimo sguardo sarebbe stato rivolto al cielo, alle stelle, mentre la vita le sarebbe scivolata via dalle membra con estenuante lentezza…
«Agnese?».
La ragazza ringraziò silenziosamente Dio, il cielo o chi per esso che quella non fosse la voce dell'uomo che si era fatto odiare con tutte le sue forze da lei, senza alcuna possibilità di potersi redimere.
Agnese si voltò verso Maxime, sussultò senza volerlo nel vederlo con quella divisa addosso. Avrebbe dovuto farci l'abitudine, ma circondata da tutta quella gente con la stessa divisa, ne aveva sviluppato una sorta di rigetto per quella sera.
«Non hai freddo qui fuori, tutta sola?» chiese Maxime, avanzando piano con le braccia dietro la schiena. Agnese continuò a fissarlo, con sguardo assente. 
Maxime guardava altrove, pur di non vederle gli occhi. Il cuore non avrebbe retto a tutta quella meraviglia, se lo sentiva a pelle.
«Meglio il freddo che quella puzza» rispose laconica Agnese, inespressiva.
I pendenti di perla le oscillarono lentamente lungo le guance imbellettate di cipria.
Agnese appariva come una dea triste quella sera, e Maxime ne era vergognosamente attratto, più che in altri momenti.
Le si avvicinò, mettendosi al suo fianco, ad una certa distanza. Guardava dritto davanti a sé, su una Torino semi addormentata.
«Come stai?» si limitò a chiederle, puntando gli occhi verso la Mole antonelliana, che spiccava austera tra quell'ammasso di palazzi, mentre le Alpi proteggevano la città, illuminate dal bagliore languido della luna.
«Hai una domanda di riserva per caso?» ribatté Agnese, sogghignando ferita.
Maxime sospirò leggermente, socchiudendo le palpebre. 
«Ti sei ripresa da quel giorno?» domandò ancora, mordendosi le labbra poiché non sicuro di aver formulato la domanda corretta.
Anche Agnese socchiuse gli occhi, rassegnata.
«Tu che dici?».
Si girò su sé stessa, dando le spalle alla Mole, alle Alpi e alla città.
«Sono costretta ad assecondare ogni capriccio di quel bastardo. Ha arrestato la mia famiglia, e si è ugualmente coricato nel mio letto come se niente fosse».
La voce era rotta, ma lacrime non ne aveva in quel momento da versare.
Maxime si decise a darle attenzione, a suo rischio e pericolo. 
«E adesso se non sto attenta, potrebbe far deportare i miei zii e fare chissà cosa a mia sorella…»
«Deportare?». Maxime chiese più per capire il significato di quella parola in tedesco che per rimarcare il concetto. 
Agnese spostò il peso del corpo da una gamba all'altra. Il tacco nero elegante le rendeva il collo del piede talmente sinuoso, da sembrare simile al collo di un cigno.
«Sì, deportare, Maxime, hai capito benissimo».
«Non conosco questa parola» spiegò il tedesco, fattosi più attento nel recepire l'eventuale risposta.
Agnese si portò due dita sulla radice del naso, premendo piano.
«Trasferire i miei zii da qualche parte in Germania o in Polonia. Ho sentito parlare di treni merci che hanno trasportato centinaia di persone oltre confine…»
«Perché dovrebbe farlo? Voi non siete-»
«C'è proprio bisogno di un motivo per farlo?».
Agnese parlava in modo talmente pacato che quasi non si riconosceva. Solitamente la sua pazienza durava poco con chiunque, solo con Gabriel era sempre stata mansueta e tranquilla. Con Maxime aveva scoperto un nuovo tipo di calma e pace interiore, come se avesse raggiunto una nuova consapevolezza, un nuovo stadio sbloccato.
«E poi sì, lo siamo. Di terza generazione, ma lo siamo. Lo erano i miei nonni, sia materni che paterni. Solo che mio padre cambiò cognome in Germania, perché adottato da una famiglia italiana a Dresda. Mentre mia madre… lei lo è e basta, senza occultamenti vari».
Maxime ascoltò in silenzio le parole di Agnese, pronunciate con una musicalità tale da sembrare un racconto della buonanotte. Se ne sentì coinvolto, come se l'assenza di emozioni di lei fosse diventata un po’ anche sua.
«Quando mio padre ci spinse a mandarci via, lo fece proprio perché lì le cose stavano diventando insostenibili. Non abbiamo mai dovuto cucire le stelle sui vestiti, proprio perché nei registri del censimento il cognome di mio padre non era apparso» spiegò ancora Agnese, giocando nervosamente con le dita. Maxime avrebbe voluto bloccargliele in qualche modo.
«Non sapevo nulla però sul fatto che fossero sovversivi e scrivessero articoli contro il regime. Anche se avrei dovuto sospettarlo. Mio padre era sempre stato contrario a ciò che stava accadendo in Germania». Sospirò, guardando dritta di fronte a sè.
«Se lo avessi saputo, gli avrei dato volentieri una mano».
Realizzò in quel momento che si sarebbe portata quel rammarico dietro per tutta la vita.
«Neanch'io sono mai stato d'accordo con quello che vedevo in giro» confessò Maxime, intimorito. La fioca luce delle lampade esterne, appese alla veranda, tradirono il lieve rossore apparso sulle gote.
«Volevo vivere di musica, accompagnare mia madre ai suoi concerti, formarmi una famiglia… mai avrei pensato di dover indossare una divisa e seguire un uomo che inneggia alla violenza e che legittima i soprusi verso i più deboli».
Agnese si accorse che Maxime aveva l'aria triste nel proferire quelle parole.
Pensò a quanti ragazzi come lui fossero stati costretti ad arruolarsi per quella guerra assurda, costretti a seguire dei principi che il più delle volte non sapevano neanche da dove realmente nascessero. 
Quante volte in cuor suo aveva sperato che tra quei ragazzi potesse esserci anche Gabriel, ma gli ultimi avvenimenti avevano definitivamente, e amaramente, allontanato ogni possibilità e speranza a riguardo.
«È tutto così ingiusto… tutto così… verrückt, così-»
«Portami via».
La richiesta repentina di Agnese lo colse all'improvviso, facendolo sobbalzare.
«Eh, was?» esclamò Maxime, fissandola interdetto.
Agnese ricambiò il suo sguardo con una strana luce nei suoi begli occhi truccati. Erano tristi, ma lo guardavano con enorme aspettativa.
«Invece di stare qua a piangerci addosso, lasciamo perdere tutto questo e andiamo via, solo per stasera. Ti va?».
Maxime non seppe capire sul momento se stesse sognando ad occhi aperti, se Agnese fosse impazzita o se qualcuno gli stesse giocando qualche strano scherzo.
«Ma c'è il coprifuoco, e poi sono in servizio, se mi allontano-»
«Aspettami qui, ci penso io» e senza lasciare a Maxime possibilità di replica, Agnese si allontanò quasi correndo, con l'euforia che le brulicava nelle vene, rendendola sovreccitata.
Il tedesco non le tolse gli occhi di dosso finché non la vide sparire all'interno della stanza. 
Si aggrappò alla ringhiera, cercando di regolare il respiro.
Qualsiasi cosa stava per accadere, a lui stava già piacendo tantissimo, più del dovuto, più di quanto si sarebbe aspettato.
Per una volta, non gliene fregò nulla di andare contro quelle stupide regole.
Se le doveva infrangere insieme a lei, allora si sarebbe lasciato corrompere volentieri, anche se poi, per punizione, si sarebbe dovuto calare giù fino a raggiungere le viscere della Terra. 
Un sorriso strafottente gli si disegnò in viso, e un Fick dich, mein Führer gli rimbombò in testa, come un canto di giubilo e vittoria.
Vittoria sulla prepotenza, sull'imposizione, sulla malvagità. Anche se sarebbe durata soltanto fino al sorgere del sole, per Maxime non fu affatto rilevante. 
Aveva deciso che avrebbe vissuto quel sogno ad occhi aperti, o follia, fino in fondo, senza rimpianti e paure.
 
Era bastata una scusa abbastanza credibile da parte di Agnese, per lasciare che Gabriel le concedesse il permesso di tornare a casa, accompagnata da Maxime.
Un alibi perfetto per il crimine che entrambi avrebbero commesso di lì a poco. 
Un crimine che aveva tutte le fattezze di un sogno meraviglioso, talmente bello da risultare irreale.


 
■□■□■



«Brünner! Brünner, wo bist du?».
Gabriel irruppe nel capannone dove erano situati gli alloggi dei suoi uomini. Voleva accertarsi che Maxime avesse adempiuto ai suoi doveri e avesse portato Agnese a casa, senza deviazioni lungo la strada. Continuò a chiamarlo, senza curarsi troppo del fatto che avrebbe potuto svegliare qualcuno nel mentre. 
«Mi ha chiamato, signor tenente?».
Gabriel si voltò inaspettatamente, trovandosi il giovane dietro le spalle, sull'attenti, ancora in divisa.
Lo squadrò attentamente dalla testa ai piedi, percependo ci fosse qualcosa di strano nell'aria.
«Sei ancora in divisa?» chiese, apparentemente tranquillo.
Maxime non si scompose più di tanto.
«Dopo aver accompagnato fraulein Martini a casa, mi sono trattenuto a parlare con Romeo» fece, con aria seria, impostato graniticamente sull'attenti. 
Gabriel gli si avvicinò con le braccia dietro la schiena, avvertendo un lieve odore di alcool verso il ragazzo.
«Hai bevuto?» esclamò, assottigliando lo sguardo. Maxime non cambiò espressione, né postura o altro.
«A cena, signore» rispose asciutto, con lo sguardo rivolto in avanti, risoluto.
Gabriel continuò a guardarlo insistente. C'era qualcosa che in quel soldato non lo stava convincendo del tutto, qualcosa che gli stava sfuggendo…
«Va’ a dormire adesso. C'è da fare in caserma domani» sentenziò con fare glaciale.
Maxime si limitò a piegare il capo, dandogli adito di aver capito. 
Lo sorpassò svelto, nascondendogli magistralmente il sorriso che gli era spuntato a tradimento sulle labbra sottili.
Gabriel gli fissò a lungo la schiena mentre si allontanava, mentre un tarlo iniziò a rodergli dentro, molesto.
Con un ghigno sprezzante, lo silenziò momentaneamente, dirigendosi fuori dal capannone, a passo svelto e senza voltarsi indietro.

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Capitolo 10
*** 10- (pettegolezzo) indiscreto ***


Prompt: Pettegolezzo
 
 

Capitolo 10

(Pettegolezzo) indiscreto

 


Presente,1944
 
L'acqua calda scivolava lungo il corpo nudo di Maxime, lambendogli la pelle con infinite carezze, anche se un po’ rudi e veloci.
Fare quelle manovre da solo - prendere la brocca, immergerla nel pentolone pieno d'acqua che Romeo gli aveva portato per darsi una lavata, riempirla fino all'orlo e lasciarsi scorrere l'acqua addosso - lo facevano sembrare in tutto e per tutto ad un contorsionista esperto, uno di quelli che al circo avrebbe attirato il clamore del pubblico con pochi e semplici gesti.
La cantina era chiusa, e la condensa si era raccolta sul vetro della piccola finestrella in alto e sul piccolo specchio che Anna gli aveva portato per sistemarsi i capelli e il principio di barba che gli stava iniziando a crescere. Anche se era chiara, a Maxime dava ugualmente fastidio averla in faccia. Aveva un viso infantile, sebbene avesse i lineamenti marcati. Non era mai stato un tipo vanitoso, ma ci teneva ad avere un bell'aspetto e ad essere presentabile.
Si chinò giusto in tempo per afferrare la saponetta dal recipiente di legno dove era adagiata, ai piedi della tinozza, che qualcuno entrò in cantina, totalmente in sovrappensiero.
Quando Maxime fece per alzarsi con la saponetta tra le mani, si trovò faccia a faccia con Agnese, rimanendo immobile per qualche secondo di troppo, senza premurarsi di coprirsi o nascondersi.
Anche Agnese rimase ghiacciata sul posto, con ancora le asciugamani pulite in mano. Era stata talmente intenta ad inebriarsi con l'odore di pulito - era un vizio che aveva fin da bambina, annusare i panni appena lavati e asciugati - che sulle prime non si era minimamente immaginata di trovarsi Maxime completamente nudo davanti agli occhi.
Appena realizzò la situazione, si voltò di scatto, paonazza, mordendosi le nocche delle dita per la sua sfacciataggine.
Maxime invece, si accovacciò intimidito, pensando di potersi coprire le parti intime chiudendosi come un riccio. 
«Ti- ti chiedo scusa, non pensavo avessi già cominciato a farti il bagno!» si giustificò la ragazza, grattandosi la tempia nervosamente. La voce le uscì un po’ incrinata, non poté evitarlo.
Con il mento poggiato sulle ginocchia, Maxime deglutì, senza riuscire a guardarla in faccia. La stanza era già accaldata a causa dei vapori dell'acqua, ma la vergogna e la timidezza lo fecero avvampare molto più di quanto già non fosse. Un leggero capogiro lo colse all'improvviso.
«K-Keine Sorgen» balbettò.
«Non ho voluto perdere tempo… non volevo disturbare nessuno» provò a spiegare, e intanto il lieve torpore che l'acqua bollente gli aveva lasciato sulla pelle si stava rapidamente asciugando, iniziando ad avvertire i primi brividi di freddo. 
Agnese sospirò, tra l'intenerito e l'esasperato. Si voltò con cautela, e nel vederlo accovacciato a quel modo, le venne un moto di tenerezza al cuore improvviso.
«Vuoi che ti dia una mano, almeno dietro la schiena?» chiese, appellandosi a tutte le forze rimastele. Voleva in qualche modo ripristinare un minimo di lucidità. Dopotutto, non gli restava molto tempo da condividere con lui, ormai… 
La partenza era prevista tra due giorni, e non ci sarebbe stato altro momento in cui sarebbero potuti rimanere da soli, senza altri problemi di mezzo.
Rialzatosi lentamente e con in mano la saponetta incriminata, Maxime annuì, cercando di regolare il fiato che gli aveva gonfiato i polmoni e la gola per l'agitazione. 
Agnese allora gli si avvicinò, prendendo la brocca tra le mani, pronta per usarla.
«Ti sei già insaponato?» chiese, cercando di non far scivolare lo sguardo in posti scomodi. Non poté, però, non regalare una rapida occhiata alle natiche sode che il tedesco si ritrovava per natura. Rilucevano alla luce della finestra, sembravano fatte di marmo bianco, purissimo. 
«No, non ancora». La risposta di Maxime la fece tornare con i piedi per terra, provocandole ancora più imbarazzo per quei pensieri formulati in preda all'ormone partito verso chissà che pianeta.
«Allora da’ a me, faccio io» propose Agnese, allungando la mano per ottenere la saponetta che Maxime stringeva convulsamente tra le mani.
Una volta ottenuta, Agnese iniziò a frizionare le spalle del ragazzo con energia, prima di versargli sopra altra acqua per sciacquare via i residui di sapone.
Dopo qualche minuto, mentre era intenta a massaggiare con la saponetta la pelle, Agnese si sentì afferrare la coscia, poco sopra il ginocchio. Era una stretta gentile, celava un certo timore e smarrimento, tant'è che la presa, inizialmente ferrea, perse d'intensità poco a poco. 
Maxime le dava le spalle, non si era voltato verso di lei. Aveva solo abbassato il capo, sospirando dal naso.
Agnese rimase di stucco a quel gesto.
Era da tanto tempo che tra di loro non vi era più una vicinanza fisica, se non in sporadici momenti, dove Agnese lo aveva prima aggredito, poche ore dopo l'uccisione di Gabriel, e poi, quando lo aveva nascosto nelle cantine del casale, si era riavvicinata in modo più gentile, cercando di essere persino comprensiva.
Non aveva avuto il coraggio di chiedergli come fosse realmente andata con Gabriel, non sapeva neanche se le fosse davvero interessato saperlo. Da quando Gabriel era morto, Agnese aveva ripreso a respirare di nuovo a pieni polmoni, come se nessun macigno le avesse mai oppresso il diaframma a tal punto da soffocarla.
«Maxime, alles gut?». Agnese glielo chiese in tedesco, per metterlo a suo agio.
Maxime si prese il suo tempo, prima di risponderle.
«Ja… Entchuldigung». La voce le uscì affannata, monocorde. 
Agnese provò a prendergli il mento con la mano, per voltarlo delicatamente verso di lei, ma il tedesco continuò a parlare, senza aspettarselo.
«È… è diverso tempo che… ecco…» Maxime deglutiva ad ogni parola pronunciata, mentre manteneva lo sguardo basso, a fissare le mattonelle rotte del pavimento.
«Voltati un po’» lo invitò Agnese, con pratica dolcezza.
«No!» si oppose però Maxime, improvvisamente allarmato. 
Intuendo qualcosa, Agnese decise di prendere tempo, afferrando una delle asciugamani pulite portate da sopra.
Lo invitò ad uscire dalla tinozza, senza forzarlo a voltarsi verso di lei. 
Gli cinse la vita con un asciugamano, che gli legò alla bene e meglio, e poi passò ad asciugargli il petto, le spalle, le braccia e la base del collo.
Maxime si voltò solo per lasciarsi asciugare, restando sul vago e non proferendo parola. 
Agnese lo stava asciugando con energia, assicurandosi che non gli rimanesse neanche una traccia d'acqua o di sapone in eccesso addosso.
«Hai intenzione di fare qualcosa per quello?» e la ragazza indicò con lo sguardo il bassoventre di Maxime, mentre era ancora intenta a frizionargli i capelli con una delle asciugamani.
Il ragazzo prima sgranò gli occhi, colto in flagrante, poi li strizzò, scuotendo il capo con nervosismo, come un moccioso sgamato a far qualcosa di illecito.
Lo avvertiva così duro che sentiva tirarsi tutto in quella zona, perfino la pelle circostante.
In quei giorni avevo persino dimenticato di avere un qualcosa di vivo tra le gambe, qualcosa che al minimo stimolo visivo e sensoriale avrebbe avuto capacità di reagire.
«Tanto passa da solo…» si ritrovò a mormorare, anche se con poca convinzione. 
Agnese storse un po’ le labbra a quell'affermazione. Le piaceva tanto quel modo di fare così ingenuo di Maxime.
Non era mai stato prepotente o prevaricatore, la sua dolcezza d'animo l'aveva colpita fin da subito.
Gabriel gliel'aveva affibbiato come cane da guardia, quando doveva uscire per recarsi a Torino per delle commissioni o semplicemente per tenerla d'occhio quando lui non c'era.
All'inizio, Agnese aveva provato un forte fastidio a doverselo portare dietro come un'ombra, imbacuccato in quella divisa che odiava al solo vedersela davanti agli occhi.
Ma col passare del tempo, Agnese si era resa conto che sotto quella divisa si nascondeva un cuore gentile, un animo premuroso e uno sguardo del mondo totalmente diverso rispetto al resto dei suoi compagni, e di Gabriel stesso.
C'erano stati momenti in cui Agnese aveva dubitato fortemente di tutta quella dolcezza, momenti in cui aveva temuto di rivivere un copione già scritto, come quello già recitato con Gabriel, e che si era consumato in un epilogo triste e misero.
Era bastato ritrovarsi tra le sue braccia, durante una notte di fuga da quella situazione divenuta insostenibile, e lasciarsi andare ancora una volta, sebbene avesse il cuore ancora ferito e l'anima sensibilissima al tocco, a causa delle cattiverie che Gabriel le aveva inferto.
Si ritrovò così a stringere le mani di Maxime, accomodante. Lo guidò fino al divano, dietro di lei, e lo lasciò sedere.
«Posso?» ma non aspettò realmente il permesso esplicito di Maxime.
Gli si sedette sulle ginocchia, stando attenta a non scivolare a terra.
Maxime cercò di farla stare comoda, ma l'erezione che aveva tra le gambe gli rendeva tutto alquanto complicato da gestire.
Agnese gli cinse le spalle con un braccio, avvicinando così le loro fronti.
«Tranquillo, tranquillo…» gli sussurrò dolce, avvicinando la mano al suo bassoventre.
Non era certamente la prima volta che accadeva un episodio simile tra loro. 
Ormai Agnese conosceva a memoria ogni punto, ogni solco della pelle e del corpo di Maxime. 
Lo aveva accolto dentro di sé con una confidenza e una delicatezza tale da lasciarsi lei stessa interdetta, all'epoca.
Con Gabriel si era lasciata condurre verso le mistiche vie del piacere, con Maxime era stato il contrario. Era stata lei a condurlo verso quel labirinto di perdizione e rinascita.
Un putto alato che aveva seguito alla cieca la dea dell'amore, restandone scottato e frastornato più del necessario.
Agnese sollevò di poco l'asciugamano e infilò la mano lì sotto, studiando con delicatezza, e alla cieca, l'anatomia dell'erezione.
Maxime riversò il capo all'indietro, soffocando un gemito in gola. 
Agnese lo fissò in estasi. Maxime era bello, di una bellezza diafana, angelica. 
Vederlo assumere tali sfumature di piacere e lussuria sul viso la faceva sentire vergognosamente appagata, soddisfatta.
Lui poggiò il viso sfatto sul suo petto, continuando a sospirare.
Agnese lo strinse forte a sè, assecondando quel suo moto di smarrimento e goduria.
Maxime le afferrò il braccio, aggrappandovisi come ad un salvagente. Agnese aveva iniziato a muovere la mano, e Maxime aveva chiuso gli occhi, per non vedere. Non voleva vedere niente, soltanto perdersi nella sua immaginazione.
Ansimò sul petto di Agnese, strofinando naso e guancia convulsamente sulla porzione di pelle che le fuoriusciva dallo scollo del vestito. 
La mano si aggrappò poi alla spalla di lei, stringendo talmente forte che ad Agnese scappò una smorfia di dolore. Ma lei non arrestò il ritmo, anzi. Massaggiò più veloce, stringendo le dita attorno al membro con forza, era caldo e pulsava, sentirlo così vivo al tocco le donava una strana onnipotenza, come se avesse avuto il potere di decidere della vita di Maxime, di condannarlo oppure salvarlo.
Coprì giusto in tempo la bocca di Maxime prima che cacciasse la voce a causa dell'orgasmo appena raggiunto. 
Agnese non si era persa neanche un istante dei cambiamenti che il suo volto aveva attraversato nell'arco di quei pochi minuti: incertezza, paura, sollievo, appagamento, aspettativa, confusione e soddisfazione.
Agnese gli lasciò un bacio sulla fronte sudata, dandogli il tempo di recuperare lucidità. Lo sentiva ancora tremare, l'eccitazione ancora in circolo nelle vene.
Dopo qualche minuto, Agnese si accorse che, timidamente, Maxime aveva lasciato scivolare la mano inerme lungo il fianco, raggiungendo con le dita il suo ombelico coperto dal vestito. Agnese sudò freddo a quel gesto, ricacciando indietro la pancia per riflesso, per quel che poteva.
Ma la mano non smise di scivolare, raggiungendo l'inguine e la coscia… ad Agnese fu più che chiaro il suo intento.
«No, Maxime, no…» lo bloccò, con voce sussurrata e poco convinta.
Era eccitata anche lei, vederlo in quello stato le aveva fatto ribollire le viscere, ma non poteva. Non sapeva se sarebbe stata la cosa giusta da fare. Anche se…
«Voglio solo ricambiare-»
«Non ce n'è bisogno, davvero» Agnese cercò di risultare convincente alla voce ancora impastata di Maxime, che confondeva il tedesco con l'italiano, incapace ancora di ragionare con lucidità. 
Ansimava ancora, e quel respiro alle orecchie di Agnese risultò un invito seducente alla resa, una musica incantatrice.
«Ma adesso vai via?» Maxime non aveva ancora recuperato fiato, eppure pose ugualmente quella domanda ad Agnese, col timore grande di essere lasciato lì da solo, ancora una volta.
Agnese restò per qualche minuto in silenzio, a testa bassa. 
Aveva scoperchiato il vaso di Pandora toccandolo, e adesso era intrappolata anche lei in quell'incantesimo di cui lei stessa era stata artefice.
Si alzò così dalle sue gambe, con fare leggiadro ma un po’ impacciato.
Maxime la guardò allontanarsi, raggiungere la porta, ma invece di uscire, Agnese la chiuse a chiave, a doppia mandata.
Maxime non aveva smesso di fissarla neanche un solo secondo.
La vide poi tornare da lui, e sedersi al suo fianco, senza degnarlo di uno sguardo.
Il gesto che le vide compiere gli provocò un capogiro talmente forte che se non fosse stato semi sdraiato, probabilmente sarebbe caduto a terra privo di sensi.
Agnese si era abbassata l'intimo, sfilandoselo con estrema lentezza. Voleva che Maxime la guardasse, voleva creare in lui una certa aspettativa.
Non era nella sua natura essere così lasciva, ma con Maxime le veniva naturale. 
Con lui le venivano naturali dei gesti che neanche con Gabriel le erano venuti così spontanei.
Gli si sdraiò poi di fianco, divaricando le gambe coperte dalla gonna del vestito scuro. 
Agnese non disse una parola, lo fissò soltanto, mentre tirava la gonna lungo la coscia, verso il basso.
Dopo un sospiro profondo e un deglutire costante, Maxime scivolò col viso verso il basso, all'altezza del ventre di lei.
Le sfiorò le mani che stringevano la gonna, bloccandogliele tra le sue. Affondò il viso tra le sue gambe, e non appena Agnese avvertì la consistenza morbida e ruvida della sua lingua sulla parte esterna e sensibile, reclinò il capo all'indietro, stralunando gli occhi.
Non sapeva quanto sarebbe durata, non sapeva quanto avrebbe resistito, sapeva soltanto che voleva, per qualche secondo, dimenticare il mondo fuori da quella cantina. Dimenticare la guerra, Gabriel, la paura e la vergogna.
In quella stanza ancora pregna di vapore, su quel divano, Agnese si era voluta concedere una pausa dal mondo, una pausa dagli orrori e dalle responsabilità.
Un momento di fuga dalla realtà, trascinando con sè anche Maxime.
Di nuovo, come se fosse stata l'ultima volta.

 


Tre mesi prima…
 
Gabriel aveva subodorato qualcosa nell'aria.
Erano giorni che sentiva voci in caserma, voci che lo riguardavano.
Ma non appena appariva nello spettro visivo dei suoi subordinati, tutti ammutolivano, senza riuscire a cogliere indizi.
Aleggiavano indiscrezioni sul suo conto, pettegolezzi, non era nuovo a quelle cose. 
Eppure, senza saperselo spiegare, questo pettegolezzo in particolare lo irritava altamente.
Da quella sera in cui Agnese aveva chiesto di essere riaccompagnata a casa, si erano susseguiti vari episodi strani, inspiegabili.
Era da due settimane che Agnese sorrideva di più quando nessuno la vedeva, e agli occhi di Gabriel era apparsa più leggera, come se avesse trovato una ricetta segreta contro il malumore e l'avesse messa in pratica egregiamente, senza sbavature.
Era stato piuttosto impegnato in caserma in quei giorni, e in più avrebbe dovuto lasciare Torino per qualche giorno.
Quando aveva comunicato la notizia al casale, non si era stupito di nessuna delle loro reazioni, tutte prevedibili, tranne una.
Agnese aveva annuito, e sospirato. Di sollievo.
Quel gesto aveva indisposto a tal punto il tenente delle SS, che se non fosse stato attento e non si fosse appellato alla sua compostezza, l'avrebbe presa per i capelli e colpita fino a quando non si sarebbe fatto dire i motivi di quel sollievo, uno per uno, senza saltarne neanche uno.
Era stato per quel motivo che quella sera, dopo la cena, Gabriel aveva deciso di parlare con Agnese, raggiungendola in stanza e mettendosi a fumare una Imperium nell'attesa.
Agnese per poco non saltò nel ritrovarselo così in camera, all'improvviso.
«Gabriel, che ci fai qui?» chiese la ragazza, portandosi una mano sul cuore.
Gabriel la fissò distratto, la sigaretta che perdeva cenere sul davanzale della finestra, incurante che avrebbe sporcato e lasciato residui.
«Niente, Anja, mi mancavi».
Gabriel dichiarò quell'affermazione con una voce così delicata, che Agnese alzò un sopracciglio dal disappunto.
«Sì?» fu il solo commento che riuscì a fargli.
Gabriel spense la cicca sul davanzale, insistendo su di un punto in particolare, schiacciando con lentezza.
Ad Agnese quella lentezza generò un fastidio atavico. La bruciatura sul davanzale se la sentiva addosso, senza spiegarsi bene il motivo. Come se avesse percepito quale fosse la vera intenzione del suo amico d’infanzia, ossia di spegnerle la sigaretta sulla pelle, non perdendosi neanche una sfumatura di dolore che Agnese avrebbe inevitabilmente provato.
«Ti sembra così strano? Eppure, per qualche giorno sarò lontano, ed è inevitabile che avverta già la tua mancanza, no?».
Agnese lo squadrò stranita, aggrottando sempre più la fronte alle sue parole. 
«Beh, certo» gli diede man forte, sebbene fosse molto scettica a riguardo.
«Ma tanto poi torni…» osservò poi, pensando di dire una cosa abbastanza ovvia.
Quella risposta però non sembrò piacere chissà quanto a Gabriel, che fissò la ragazza con cipiglio indagatore.
«Sembra che tu non veda l'ora di non avermi fra i piedi, o mi sbaglio?».
Agnese venne colpita da quella velata provocazione all'improvviso, sentendosene totalmente investita. Si strinse nelle braccia, ma decise ugualmente di essere sincera con lui, cristallina. Non era nel suo carattere mentire o occultare malesseri dove ne vedeva, e con Gabriel era sempre stata sé stessa, nel bene e nel male.
Se solo gli avesse nascosto qualcosa, lo avrebbe fatto per il bene di qualcun altro, non certo per il suo.
«Sì è così» decise così di proferire, asciutta, sebbene un principio di tremore iniziò ad avvertirlo.
«Magari questa lontananza potrebbe farci solo bene… abbiamo bisogno di stare un po’ lontani Gabriel, le circostanze sembrano imporcelo». E detto questo, gli si avvicinò lentamente, cercando di recuperare quella confidenza che fino a poco tempo prima esercitava con lui senza remore.
Gli lasciò un bacio a fior di labbra leggermente titubante, appoggiando le mani alla sua divisa.
«Non lo pensi anche tu?». Agnese avrebbe voluto tagliare corto quanto prima quella conversazione, l'imbarazzo le stava crescendo in petto a poco a poco.
Gabriel le carezzò ruvidamente una guancia, non vi era carineria in quel gesto, ma voleva costringerla a guardarlo negli occhi, insistendo col pollice sul suo zigomo leggermente imporporato.
«Penso che tu abbia ragione». Il pollice strinse ancora su quel punto dello zigomo, mentre le altre dita della mano stringevano possessive la base della nuca di Agnese, con forza crescente.
La ragazza deglutì e socchiuse gli occhi.
«Anche perché, se ci fosse altro, tu me ne parleresti, non è così?».
Agnese non seppe subito a cosa si stesse riferendo, ma il cuore le tremò ugualmente dalla paura.
«Ti ho sempre detto quello che pensavo, non vedo perché farmi problemi adesso».
L'ombra di quel pettegolezzo indiscreto continuava ad avere un riverbero nella testa del tedesco, e un lato di lui non si fidava ciecamente delle parole di Agnese. Ma Gabriel decise di dare adito a quella parte di sé che voleva, tuttavia, concedersi il beneficio del dubbio. 
«Ricordati quello che ci siamo detti Anja… un passo falso e di questo casale non rimarrà in piedi neanche un mattone».
Agnese lo sapeva bene, fin troppo bene. 
«Non sono così sciocca da dimenticarmene, Gabriel».
Sorrideva nervosamente mentre rilasciava una carezza sul viso del tedesco, sperando che quella velata incertezza non arrivasse al suo sguardo fin troppo scrutatore. 
«Lo so, per questo voglio accertarmene» e le baciò la mano, con artificiosa eleganza.
Agnese avrebbe voluto ritrargliela, ma se non voleva destare sospetti, tanto valeva essere accondiscendente e sopportare, non sarebbe durata a lungo quella pantomima.
Lo sguardo che Gabriel le rivolse una volta uscito dalla stanza, dopo averle anche augurato la buonanotte, per Agnese fu simile ad una raffica di proiettili diretta ad ogni centimetro del corpo. 
Provò paura, una paura terribile, ma non per sé stessa.
Tutto ciò che riguardava la sua sfera personale non le provocava timore.
Glielo provocava nel momento in cui persone a lei vicine avrebbero potuto patire e subire le ire di una cieca vendetta.
Come i suoi genitori, sua sorella, i suoi zii.
E un dolce amore, che mai si sarebbe aspettata di vivere, così dal nulla.


 
◇♤◇


Agnese aveva aspettato che l'auto di Gabriel si allontanasse, prima di lasciare la propria stanza.
Seguì l'automobile affacciata alla finestra, con apprensione crescente.
Sperò con tutta sé stessa che non si fosse accorto di nessun movimento sospetto lì attorno.
Il cuore le galoppò frenetico, sia per l'eccitazione imminente, che per la paura costante che da un paio di settimane le stava accanto come una compagna indesiderata.
Per la precisione, da quella fuga notturna che si era concessa con Maxime, conclusasi nella stalla del casale, abbracciati tra le balle di fieno e i sacchi di mangime e sementi.
Non era stato certamente l'alloggio più adatto per una notte d'amore, ma Agnese lo aveva trovato di gran lunga più entusiasmante di una stanza finemente arredata, degna di un qualunque albergo stellato della zona.
Dopo essersi messa lo scialle pesante addosso, uscì dalla camera in punta di piedi, tutta eccitata e con la frenesia in circolo sotto pelle.
Era riuscita a non attirare l'attenzione di nessuno in casa, sentiva il ronfare profondo di Ismaele persino dal piano di sotto.
Una volta uscita dal portone, il freddo pungente notturno le pizzicò la pelle e il viso, ma Agnese non se ne curò più di tanto. 
Raggiungere Maxime, in quel momento, era la priorità. 
Lo chiamò a bassa voce, incapace di scrutare nel buio il suo profilo.
Non appena si avvicinò al tronco di una delle roverelle che facevano da barriere alla tenuta, qualcuno l'afferrò per un polso, tirandosela addosso. 
Fu lesto ad attutire l'urlo che scappò inevitabilmente alla ragazza.
Quel profumo di pino selvatico la fece, però, tranquillizzare all'istante.
Morse scherzosamente le dita della mano che le stava occludendo la bocca, colpendo amichevolmente il viso di Maxime, che a stento tratteneva le risate.
«Di un po’, ma sei impazzito? Se mi mettevo ad urlare ci avrebbero scoperti!» lo rimproverò sottovoce Agnese, rigirandosi nell'abbraccio del tedesco come una gattina in procinto di fare le fusa.
Maxime le lasciò un bacio veloce sulla punta del naso, ridendo sfrontato.
«Ma non è successo, no?». La faccia di bronzo che in quel momento Maxime mise su non poté essere ammirata in tutto il suo splendore da Agnese, a causa dell'oscurità notturna.
Ma lei gli colpì le labbra con un buffetto, come se quell'espressione strafottente l'avesse captata ugualmente.
«Sei un caso perso, Maxime Brünner» e lo baciò, inizialmente con dolcezza, poi con più decisione e voglia crescente.
«Morivo dalla voglia di rivederti» annaspò Maxime, tra una pausa e l'altra dalle labbra di lei.
Seguirono a baciarsi ancora, come se non ne avessero abbastanza, come se le loro lingue non avessero desiderato di fare altro da giorni, se non unirsi e arrovellarsi tra di loro, formando un nodo perverso e languido.
«Temo che Gabriel stia iniziando a sospettare» proferì Agnese, prendendo respiro da quel bacio appassionato. 
Cambiarono posizione, Agnese poggiò la schiena sul tronco ruvido, e Maxime le si trovò di fronte, mentre le mani fredde le prendevano la base della nuca e dei capelli. Un brivido percorse la pelle di Agnese, eccitandola.
«Lo so» dichiarò Maxime, intento a slacciarsi la cintura, aiutato prontamente da Agnese, che si rivelò molto più svelta di lui.
«In caserma circolano voci, ma nessuno sembra sospettare di me» e Maxime baciò ancora Agnese, voglioso. La mano di lei gli era entrata nei boxer, e da sopra la stoffa, il ragazzo seguiva i suoi movimenti, stringendo dove Agnese tendeva ad indugiare, invitandola a fare altrettanto.
«Devi stare molto attento, se Gabriel venisse a sapere qualcosa-»
«Tranquilla, non verrà a sapere nu- ah!» un gemito traditore fuoriuscì tra i denti del tedesco, lasciando andare il capo all'indietro. 
Agnese gli lappò il collo, con discreta indecenza.
Era curioso come cercassero di contenersi con le parole, mentre gli istinti del corpo spingevano verso tutt'altra direzione.
«Non me lo perdonerei mai se ti facesse del male. Ne sarebbe capace». Agnese divaricò le gambe, non appena la mano di Maxime si spostò sul suo bassoventre.
«Non ho paura di morire» esclamò Maxime, ormai intontito dai fumi della passione. Il suo sesso pulsava, pretendeva attenzione, e non appena le sue dita toccarono la zona sensibile di Agnese, dovette spostare lo sguardo per non vedere la lascività che Agnese aveva dipinta in volto a causa sua. 
«Ma come siamo coraggiosi!» lo provocò Agnese con voce suadente. 
«E quante volte sei disposto a morire, stanotte?». Agnese se lo tirò contro, pelle contro pelle, giocando con la sua vulnerabilità. 
Maxime le alzò una coscia, seguendo i gesti che l'istinto gli stava dettando.
«Tutte le volte che desideri, meine Frau!».
Agnese lo accolse dentro di sè con un sospiro soddisfatto, mordendosi la lingua per non lasciarla libera di emettere alcun suono peccaminoso.


Dopo aver lasciato che la quercia assistesse al loro amplesso appassionato, continuarono nelle stalle, ormai diventato il loro luogo segreto. 
Erano particolarmente vogliosi e incontenibili, niente a che vedere con la loro prima volta, dove entrambi erano stati cauti e delicati, misurati nella loro sete di desiderio sempre più crescente.
Ma poco a poco, i loro corpi si erano conosciuti, si erano esplorati, e adesso la curiosità aveva lasciato il posto alla bramosia, alla passione incontenibile che li aveva intrappolati nel loro vortice.
Neanche con Gabriel Agnese era riuscita a toccare vette di piacere così alte.
Era stato bello, intenso, un sogno ad occhi aperti. Ma con Maxime vi era stato quel tocco in più di frenesia e disobbedienza che tanto le faceva contorcere le viscere animatamente, senza alcun pudore.
 

«Ho dimenticato la protezione» constatò Maxime, una volta ripresosi dall'ebbrezza del piacere. Aveva ancora il fiato corto mentre era steso su quel lenzuolo bianco assieme ad Agnese, stesa anche lei di fianco a lui, con la testa poggiata sul suo petto.
Quest'ultima sbuffò una risata amara, fissando il vuoto.
«Tanto non ce n'è alcun bisogno» e non ci fu bisogno di spiegare altro.
Maxime le strinse la spalla, mordendosi le labbra per essere stato tanto sconsiderato.
Ricordava ancora le lacrime di Agnese, tempo prima, a causa di quel dolore che Gabriel le aveva provocato premeditatamente, nascondendosi dietro la sua apparente premura e apprensione.
«Ma non intendevo per-»
«Ti ringrazio per le premure, ma davvero non serve» e si alzò lentamente da lui, coprendosi il seno col lenzuolo, alla ricerca dei suoi vestiti.
Maxime la seguì, mettendosi seduto. Le baciò una spalla, per poi strofinarci il naso sopra.
«Vorrei poter essere libero di amarti, alla luce del sole» sussurrò, appoggiando la fronte dietro la sua schiena nuda.
Agnese non si voltò a guardarlo, ma sorrise a fior di labbra.
«Io avrei voluto non darla mai una seconda possibilità a Gabriel» confessò, in un sussurro a mezza voce. 
«Avrei dovuto saperlo che del mio amico d'infanzia a cui ero stata tanto legata, ormai non era rimasto più niente» constatò amara, delusa.
Maxime sollevò il capo, poggiando il mento sulla sua spalla, le loro guance non si sfiorarono per un soffio.
«In cuor tuo volevi salvarlo. Non recriminarti per questo» le disse dolcemente. Quell'accento tedesco così marcato mosse qualcosa nell'animo tormentato di Agnese, sorridendo con molta più convinzione di prima.
«Quando mia madre morì, mi sono chiesto per giorni se avessi potuto far qualcosa per evitarle quel destino».
Agnese si decise a rivolgergli lo sguardo non appena lo sentì parlare di sua madre.
Aveva saputo solo notizie sporadiche sul suo conto, non aveva mai chiesto oltre, per pudore. Aveva avvertito che per Maxime, toccare quell'argomento, era doloroso e straziante.
«Sono arrivato perfino a pensare che fossi stato io stesso a spingerla a tagliarsi le vene e farla finita. Ma la verità è che non possiamo cambiare il destino delle persone, né salvarle da qualcosa di molto più grande di noi. Non ho potuto tirare fuori mia madre da quella spirale autodistruttiva, come tu non hai potuto evitare che il tenente imboccasse quella strada disgraziata. Non siamo responsabili delle scelte degli altri, né possiamo imporle come se le nostre fossero verità assolute».
Agnese si ritrovò ad annuire a quelle frasi ricche di saggezza innocente.
Aveva più volte peccato di onnipotenza, pensando di poter vedere in Gabriel quel buono che le aveva mostrato anni prima, quando entrambi erano ancora piccoli e ingenui. Ma poi si era dovuta scontrare con la realtà dei fatti e la crudeltà della vita.
Si era fatta molto male nel processo, e la cosa peggiore era stato constatare se tutto quel dolore sarebbe potuto essere stato evitabile, o almeno in parte.
«Abbracciami, ti prego» gli chiese soltanto, poggiando la testa sulla sua spalla, nascondendo gli occhi intristiti.
Maxime l'assecondò in silenzio, e se la tirò giù, tra quelle lenzuola che avevano accolto il loro fugace amore.




Tre mesi dopo, presente
 
Agnese non aveva smesso di fissare Maxime neanche per un solo secondo.
Dormiva beato, con la testa accucciata sulla sua spalla, il respiro pesante e cadenzato le solleticava il collo come una leggera carezza.
Non poté fare a meno di sorridere.
«Sembri un bambino» mormorò, carezzandogli con i polpastrelli la guancia fresca di rasatura. 
Si alzò poi lentamente, rialzandosi le mutandine che qualche ora prima aveva provveduto ad abbassare per concedersi a lui, ancora una volta. 
Non aveva realizzato quanto quel desiderio fosse cresciuto nell'arco di quelle settimane. Quando Gabriel aveva iniziato a sospettare sul serio, di ritorno dal suo viaggio, Agnese aveva dovuto staccarsi a malincuore da Maxime, addirittura usando la classica menzogna di averlo usato solo per noia e gioco.
Ne era seguita l'ennesima voglia di amarsi, incontenibile, che sembrava non volerli mollare, ma stritolarli ancor di più tra le sue spire invitanti.
Agnese aveva perso totalmente la sua razionalità davanti a quel ragazzo, mostrandosi ribelle, disordinata, irresistibile. 
Ma aveva deciso di metterci un freno, almeno fino a quando non sarebbe stata in grado di potersi liberare davvero dal giogo di Gabriel, una volta per tutte.
La situazione era rimasta stabile fino all'omicidio improvviso di Gabriel, e tutto era precipitato al suolo, senza possibilità di poter rimediare o aggiustare qualcosa.
Per Maxime adesso restava soltanto la fuga, se voleva avere salva la vita.
Alzatasi con cautela dal divano, e rimettendosi gli zoccoli di legno ai piedi, Agnese uscì dalla stanza di soppiatto, facendo bene attenzione a non svegliarlo.
Lo guardò un ultima volta, mesta, prima di rinchiudersi la porta dietro alle spalle.
 

Quando Maxime riaprì gli occhi, un senso di vuoto lo avvolse come un manto nero, stritolandolo senza tregua. 
Sulla lingua e le labbra aveva ancora il sapore dell'intimità di Agnese, e il ricordo di quanto successo qualche ora prima tornò a tormentarlo.
Guardò così il soffitto e, riacquistato lentamente lucidità, ripassò a mente le parole da usare in presenza di Ismaele e Blanca, cercando di non far trasparire mancata riconoscenza o maleducazione.
Avrebbe dovuto rifiutare il loro aiuto, e spiegare le sue motivazioni con chiarezza.
Maxime non temeva troppo la loro reazione, giustificata d'altronde.
Temeva quella di Agnese oltre ogni dire.
Temeva che quella breve riavvicinanza non sarebbe bastata a farle comprendere il vero motivo per il quale era tenuto ad agire a quel modo.
Probabilmente l'avrebbe persa per sempre e non avrebbe potuto fare niente per riportarla a sè. Sarebbe soltanto rimasto il profumo della sua pelle e il sapore dei suoi umori come prova tangibile del legame breve ma intenso che li aveva avviluppati l'uno all'altro senza tregua.
Socchiuse gli occhi, poggiandovi sopra il braccio nudo.
Era giunto il momento dell'azione, quella vera.

 
~■~□~

 
Romeo si sentiva irrequieto, e non sapeva neanche bene perché.
O in realtà, un motivo per esserlo esisteva eccome.
Da quando aveva consegnato quei documenti a Maxime, aveva letto nel suo sguardo un qualcosa che, ne era certo, lo avrebbe di lì a poco contrariato.
Per quel poco che lo aveva conosciuto, sapeva che da uno come lui si sarebbe potuto aspettare di tutto.
Nonostante l'apparenza da ragazzo mite e tranquillo, Romeo aveva scorto in lui un fuoco, un fuoco talmente avvampante, che domarlo sarebbe stato un'impresa a dir poco eroica.
Quel ragazzo era vivo, più vivo dei suoi compagni e dei suoi connazionali messi insieme.
Era vivo quando lo vedeva arrossire nel seguire a testa bassa Agnese, anche se sotto ordine del suo tenente; vivo quando decideva di compiere un atto di cui, era consapevole, avrebbe rischiato la pelle; vivo quando all'unica fiera del paese dove lo aveva visto partecipare, aveva ballato con due bambine e regalato ad una di loro una margherita di campo, sotto lo sguardo già interessato di Agnese.
Di tutta quella vita magistralmente tenuta a bada, Romeo si era scoperto leggermente geloso: caratterialmente era sempre stato spontaneo e allegro, forse troppo.
Aveva cercato di ridimensionarsi dopo aver conosciuto Anna, cercando di apparire interessante senza sembrarle grossolano.
Si era innamorato di lei dal primo momento, non appena l'aveva vista scendere dalla portiera della Lancia Ardea del cugino Massimo, quattro anni prima, con un cappello dalla visiera larghissima e i capelli castano chiaro sciolti al vento.
Più che una ragazza in fuga dalla propria terra, sembrava una turista affascinata dal verde che la stava accogliendo amorevolmente.
Anna le era sembrata una creatura irreale, fatata.
E più era stato il tempo trascorso con lei, e più Romeo aveva avuto conferma delle sue impressioni, innamorandosene ogni giorno di più, perdutamente.
Non si era, però, mai dichiarato: non se ne sentiva all'altezza, né tanto meno in grado di farsi notare nel giusto modo.
Agnese l'aveva spinto più volte a fare quel passo, a non temere le conseguenze, ma c'era sempre stato un qualcosa che lo aveva bloccato, qualcosa che, ad un solo passo dal conquistarsi la felicità, gli aveva fatto cambiare idea. 
Aveva sperato così che quel sentimento passasse via da solo, che si assopisse nel cuore e trovasse pace nei meandri del cuore, quelli inesplorati e misteriosi.
Stava pulendo uno sgabello dai rimasugli di rosume, quando avvertì la presenza discreta di qualcuno alle sue spalle.
Romeo si voltò lentamente, guardingo, e per poco non gli saltò un battito per la sorpresa.
Anna era entrata nel magazzino in silenzio, facendosi largo tra le botti e le sedie mezze rotte che intralciavano il suo cammino. 
«Anna? Che ci fai tu qui?» chiese, la voce risucchiata in gola dall'emozione.
Carezzando la superficie di una botte, Anna alzò lo sguardo, sorridendogli delicatamente, eterea.
Romeo nel vederle quei bellissimi occhi chiari arrossati, a causa di quegli infiniti pianti degli ultimi giorni, abbassò lo sguardo, fingendo di guardare il cacciavite che si ritrovava tra le mani.
«Per un attimo ho pensato che avrei trovato Massimo qui. Questo posto era il suo rifugio».
Nel sentir menzionare, dopo tanto tempo, il nome del figlio dei Chiodi, che per Romeo era stato come un fratello maggiore, qualcosa di caldo gli avviluppò il cuore, qualcosa che rassomigliava vagamente alla nostalgia.
«Ogni tanto scendo qua per mettere un po’ a posto» si giustificò, grattandosi la nuca imbarazzato.
«Come se poi dovesse tornare, prima o poi».
Si umettò le labbra nel rivelare quella verità scomoda e fastidiosa.
Il giorno che comunicarono al casale che Massimo era morto durante la campagna in Russia, sulle prime Romeo non ci aveva creduto. Gli era sembrato un incubo ad occhi aperti, non poteva essere vero che l'amico di sempre, colui che lo aveva fatto sentire come un fratello in quell'enorme tenuta, non sarebbe tornato a casa mai più.
Aveva soffocato il dolore, aveva lasciato che gli scorresse addosso come acqua fresca, Ismaele e Blanca avrebbero avuto bisogno di andare avanti, di metabolizzare quella perdita ingiusta senza impazzire.
Lui non era nessuno, quel male non gli doveva appartenere neanche lontanamente, e non lo avrebbe addossato ad altri.
E così, tra un sorriso e una battuta di spirito, era andato avanti, passo dopo passo, risolvendo i problemi della tenuta e distraendosi con quelli degli altri.
«Vieni qui per sentirlo ancora vicino, non è così?».
E poi c'era Anna. Quella fanciulla mingherlina venuta da un'altra terra, che leggeva nel cuore di chiunque con una facilità tale che né Romeo né Agnese avevano saputo spiegare come facesse, quali armi avesse a suo favore.
Ma la verità era che Anna non aveva poteri magici, né segreti. Era un'anima pura, innocente. Un'anima candida che Gabriel, pur di farla pagare ad Agnese, era stato sul punto di vendere al miglior offerente.
Romeo lo aveva scoperto con Maxime, e ne era rimasto inorridito, pochi giorni prima che tutto crollasse come una palazzina traballante.
«Ogni tanto ho bisogno di silenzio anch'io, sì» si ritrovò a mormorare Romeo, mordendosi il labbro inferiore.
Anna contenne il sorriso, avvicinandosi con la grazia dei suoi diciotto anni. Si rigirava le dita con un principio di nervosismo. 
«In realtà speravo di incontrarti, Romeo» confessò poi la giovane, sollevando con imbarazzo lo sguardo dolce.
«Ma se disturbo, vado vi-»
«Tu non disturbi mai, Anna». 
Senza volerlo, Romeo le prese le mani, lasciando cadere il cacciavite rumorosamente a terra. Anna sussultò al rumore, sgranando gli occhi, atterrita.
Per riflesso, fece per ritirarsi, ma Romeo non lasciò la presa.
«Non sai che gioia vederti qui. In realtà è sempre una gioia averti davanti agli occhi… sei- sei come un raggio di sole… ehm, volevo dire-»
«Va bene così, Romeo!» Anna cercò di calmare quel fiume in piena che erano diventate le sue parole, con cautela. Vederlo così impacciato le provocava inevitabilmente tenerezza.
«Sono capitate tante cose tutte insieme, ultimamente… mi sento tanto confusa e disorientata».
Romeo drizzò le spalle, recuperando presenza a sé stesso.
«Invidio così tanto la tua capacità di restare così fermo e positivo… avevo bisogno di farne scorta» confessò timidamente Anna, arrossendo.
Le sue mani erano così calde e confortevoli che Romeo non avrebbe voluto lasciarle mai.
«Fermo e positivo? Io?» chiese, incredulo. Erano aggettivi che non si sarebbe mai auto attribuito. 
«Ma se sono più le volte che perdo le staffe che quelle in cui mantengo la calma» constatò, imbarazzato. 
Staccò la mano da quelle di Anna soltanto per portarsela dietro la nuca.
Anna non aveva smesso di sorridere neanche per un istante a quelle sue precisazioni tanto sconclusionate e disordinate, ma così spontanee e sincere da accrescere inevitabilmente il buon umore.
«Ecco perché vai tanto d'accordo con mia sorella, v'intendete» lo pungolò, divertita.
Romeo avrebbe voluto ribattere che con Agnese era più una guerra continua che una vera e propria intesa, dettata da un carattere abbastanza simile, non tanto nei tratti ma nella fermezza delle proprie idee. Lo scontro tra loro non era mai stata una semplice opzione, ma un'inevitabile conseguenza.
Lasciò correre soltanto perché era da tempo che non vedeva Anna sorridere, e sapere che fosse lui in parte l'artefice di tanta leggerezza, lo aveva reso piuttosto fiero di sé.
«Finalmente ti vedo ridere».
Romeo se lo lasciò scappare ingenuamente, pentendosene nel giro di pochi secondi.
Come se avesse ricevuto un rimprovero dal nulla, Anna attenuò il suo sorriso, contenendosi.
Romeo se ne pentì amaramente di averglielo detto.
«Non volevo… cioè, è che in questi giorni eri sempre triste per…»
… per la morte di quel demonio.
Che Romeo non avesse mai provato simpatia per Gabriel von Kusserl era risaputo. Ma aveva già parlato troppo a sproposito, non voleva esagerare e rompere l'atmosfera allegra che si era creata tra loro con quell'ovvietà.
«Lo so».
Come se gli avesse letto in mente, Anna rispose ugualmente alle parole sospese di Romeo, anche se con una certa titubanza.
«Anche se era quello che era, volevo bene a Gabriel, era nostro amico».
Erano ormai parole vuote, senza più alcun significato. Eppure, alle orecchie di Romeo, pronunciate a quel modo da Anna, con mestizia e dispiacere, parvero acquistare un valore enorme, tale da poter ribaltare il giudizio che chiunque si sarebbe potuto fare su di lui, dandole ragione a prescindere.
Ma Romeo aveva le sue remore e i suoi buoni motivi per mantenere vivo l'odio nei confronti del tedesco.
«Anche dopo quello che ha fatto passare ad Agnese?».
Anche dopo quello che avrebbe fatto passare a te?
Troppe frasi taciute aveva dovuto sopprimere quella sera, e a Romeo la cosa iniziava a gravare come un pesante macigno sul cuore.
«È che… non mi levo dalla testa che se avessi avuto modo di parlargli-»
«Te lo dico io, Anna, non ti avrebbe ascoltato!» la interruppe Romeo, inaspettatamente duro.
«Se non ha potuto Agnese, che lo conosceva meglio di chiunque altro… dubito che qualcun altro ci sarebbe riuscito, anche se avesse avuto il tuo buon cuore… per lui ormai era troppo tardi, e forse gli è andata anche bene così».
A Romeo non piacque parlare di queste cose proprio con Anna, gli bastavano le discussioni con Agnese e Maxime a riguardo. Ma con lei avrebbe voluto dire altro, confessare altro.
«Vorrei poterti dire che ti sbagli, ma è lo stesso pensiero a cui sono giunta, anche se a malincuore».
Anna non versò una lacrima, ne aveva versate tante nei giorni precedenti. Era arrivata anche lei alle sue consapevolezze, ferendosi inesorabilmente e mettendo una pietra sopra alla sua lontana infanzia. 
Un'infanzia dove un Gabriel ragazzino veniva a trovare un Agnese altrettanto ragazzina nella loro casa a Dresda, quando ancora il mondo girava nel verso giusto, senza deviazioni o incidenti di percorso…
«Ma non voglio più parlare di questo, mi fa troppo male…» e per poco Romeo non perse un battito quando Anna gli si avvinghiò addosso, stringendolo in un abbraccio disperato.
Dopo qualche minuto di esitazione, Romeo ricambiò l'abbraccio, annusandole i capelli e lasciandovi sopra un bacio delicato.
«Ich liebe dich».
Romeo lo pronunciò male, non fu neanche così sicuro che avesse usato le parole giuste. Lo fece di getto, senza pensare. 
Lo sussurrò, pregando in cuor suo che Anna non ci avesse fatto caso o non avesse sentito.
«Che cos-» 
«No no no, resta così, ti prego!».
Romeo le bloccò la testa sulla spalla, senza darle modo di muoversi. Se l'avesse guardata dritta negli occhi, avrebbe perso quel poco coraggio che gli era inaspettatamente spuntato dal nulla.
«Mi ero ripromesso che non ti avrei mai detto nulla, o almeno avrei aspettato la fine di questo incubo. Ma per come si stanno mettendo le cose, potremmo morire anche domani, perciò… non voglio avere rimpianti, non con te».
Anna ascoltò quelle parole con occhi sgranati, la bocca schiusa e la guancia schiacciata sulla spalla di Romeo, con la mano di lui che premeva sui suoi capelli chiari e voluminosi.
«Ti amo da sempre, dalla prima volta che ti ho vista. Vorrei portarti via da tutto questo, proteggerti da tutto il male del mondo… vorrei… vorrei essere la persona giusta per te».
Anna lo sentiva forte e chiaro, il cuore di Romeo rimbombarle nel petto, velocissimo.
Non aveva mai pensato di poter essere oggetto d'interesse per qualcuno, di essere addirittura l'amore di qualcuno, di un ragazzo come Romeo, coetaneo a sua sorella.
«Non sei costretta a darmi una risposta, avevo solo bisogno di-»
La frase restò così, spezzata.
Il bacio che Anna gli diede sulle labbra lasciò Romeo frastornato, ammutolito.
Anna era inesperta in quel campo, non che l'altro fosse navigato a riguardo.
Fu un bacio dolce, ma travolgente.
Si guardarono negli occhi, non appena si staccarono l'uno dall'altra. 
«Ich liebe dich auch, Romeo!» disse Anna, con il fiatone. 
Romeo la fissò stranito, come se non avesse capito nulla e al tempo stesso gli si fosse rivelata davanti agli occhi una delle sette meraviglie del mondo, lasciandolo di stucco e senza parole.
«Ich liibe dic auc!» ripeté a pappagallo, sbagliando la pronuncia della frase, perché troppo intento a baciare le labbra di Anna, come a non volersene staccare.
Ne seguì un bacio, e un altro ancora, finché non si diedero una tregua, entrambi a corto di fiato, ma al settimo cielo.
«Ora mi devi insegnare come si dice “sposami!” in tedesco!» fece Romeo, intento a stritolare la povera Anna a sé, che rideva sotto i suoi baci infantili.
«Adesso però non correre! Un passo alla volta…» lo rabbonì Anna, picchiettandogli con una mano la punta del naso, facendolo scoppiare a ridere.
In mezzo a tutto quel caos, a tutta quella morte e desolazione che da cinque anni a quella parte albergava intorno a loro, un piccolo fiore germogliò tra le macerie quella sera.
Una piccola ginestra che sboccia ai piedi del Vesuvio, incurante del fatto che la lava avrebbe potuto distruggerla, se il vulcano avesse eruttato.
Quella sera, il germoglio più bello e meraviglioso sbocciò proprio tra le rovine di un suolo martoriato, per ridonare speranza, sogni e amore.
Speranza di un futuro diverso, di sogni da realizzare e amore da dare, e vivere.
 

 
~○~●~
 

 
Gustaf ebbe conferma proprio quella sera che sarebbe andato tutto inesorabilmente a rotoli.
Convocato nell'ufficio di Schlütz di tutta fretta, il tedesco rimase rigido nella sua postazione, aspettando stoicamente il momento esatto in cui il suo doppio gioco sarebbe stato svelato, senza dargli alcuno scampo.
Il capitano delle SS lo fissava in silenzio, con sguardo truce, in attesa anche lui della conferma suprema.
Quando un altro dei suoi uomini entrò scattando nel saluto militare, confermando finalmente i suoi sospetti, Schlütz si alzò dalla scrivania, tronfio.
Si avvicinò a Gustaf, che nel frattempo aveva iniziato a tremare come una foglia, cercando di mascherare la cosa come meglio poté.
«La caccia alla volpe è finalmente terminata» dichiarò sibillino, ad un centimetro di distanza dal suo viso sbiancato di terrore.
Don Pierino era stato arrestato quella mattina assieme ad alcuni partigiani, e costretti ad un lungo ed estenuante interrogatorio.
Il prete aveva cercato di restare quanto più fedele alla causa, nonostante le torture e le minacce. Ma tra gli arrestati, due di loro non avevano retto a lungo psicologicamente, ed erano stati costretti a svuotare il sacco, confessando tutto ciò che sapevano su Alfredo e la fuga di Maxime.
Nel cuore di Gustaf le emozioni tra loro iniziarono a fare a botte tra loro, tra l'accettazione definitiva del proprio destino e la voglia crescente di mettersi al riparo, nonostante la consapevolezza che ormai, un riparo, non esistesse più da nessuna parte, per nessuno di loro.
«Jürgens!» tuonò poi il capitano Schlütz, richiamando Gustaf ad un presente da cui avrebbe preferito fuggire a gambe levate. 
Un altro soldato entrò, irrigidendosi sul posto.
Gustaf socchiuse gli occhi, rassegnato.
«Arrestate questo traditore» ordinò il capitano, compiaciuto di sè.
Gustaf si lasciò arrestare senza opporre resistenza, sarebbe stato inutile d'altronde.
«Tu e Brünner non mi siete mai piaciuti… troppi grilli per la testa. Siete la vergogna del Terzo Reich!» e concluse quell'affermazione sputando in faccia al giovane soldato. Dopodiché fece cenno col capo di levarglielo davanti agli occhi, tornando lentamente alla sua postazione dietro la scrivania.
Una volta usciti dalla porta, il terzo soldato che era fuori in attesa scattò nel saluto militare, dritto come una pertica. 
«Come si procede adesso, signore?» chiese con voce atona, priva di inflessione emotiva.
Schlütz sogghignò. Aveva atteso quel momento da settimane, e adesso non vedeva l'ora di far scatenare la sua furia vendicativa su coloro che lo avevano preso in giro e raggirato con i loro stolti trucchetti.
«Andiamo a fare di nuovo visita al casale della famiglia Chiodi».
 
 
Un'ombra più scura della notte stava per abbattersi su tutti loro, un'onda nera che avrebbe investito ogni cosa, anche il più piccolo germoglio di speranza appena sbocciato.

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Capitolo 11
*** 11- A te, (fratello) mio ***


Prompt: Fratello
 
 

Capitolo 11
A te, (fratello) mio

 
 

Torino, 1970
 
«Guardalo quant'è bello mamma, sembra un modello!».
Magda aveva proferito quelle parole con ingenuità, nel vedere lo smoking del fratello maggiore stargli così bene addosso da farlo risultare quasi irrealistico.
«Vorrei ben dire, Gabriele ha un portamento elegante da sempre!» dichiarò soddisfatta Anna, ammirando il suo operato con occhi lucidi di commozione.
«Mamma dai, se inizi a piangere di nuovo qui non la smettiamo più! Sto per sposarmi, non per partire al fronte!» la canzonò Gabriele, pizzicandole una guancia. Anna gli prese la mano e se la portò alle labbra, baciandole il dorso.
«Tua zia Agnese sarebbe stata contenta di vederti sistemato e felice» e lì le lacrime non poterono non scendere. Il ricordo della sorella scomparsa era ancora tangibile, evidente.
«Già» diede man forte Magda, fissando la foto della zia sul comodino di fianco a letto.
Era stata una donna bellissima, altera, eppure, da che la ragazza ricordava, l'aveva vista sorridere davvero poco in vita.
«Zia Agnese poi a te ci ha sempre tenuto in modo particolare…».
Anche Gabriele portò lo sguardo verso quella foto, fissandola con nostalgia.
Era stata una donna scontrosa, di poche parole. Aveva amato la solitudine e l'indipendenza, anche quando aveva iniziato a stare male non aveva voluto ricevere aiuti esterni. Se la sarebbe vista da sola, aveva detto.
Ma, nonostante il carattere irruento e forte, Agnese era sempre stata un punto fermo per i figli di sua sorella Anna.
Li aveva amati, a modo suo. 
Aveva lasciato un segno in ognuno di loro, e con Gabriele in particolare era stata particolarmente legata, nonostante fosse quello con cui si era scontrata di più.
Sei il più grande, sei il primogenito! Devi essere un esempio per tuo fratello e le tue sorelle!
Quelle parole Gabriele continuava a sentirle in testa, sebbene in un primo momento le aveva profondamente detestate, in seguito le aveva conservate come monito, come un'eredità preziosa che quella zia brusca ma affascinante gli aveva lasciato.
«Quando ti sei laureato al conservatorio era lì, in prima fila, nonostante fosse debilitata dalla malattia… la mia povera sorella!» commentò Anna, tirando su col naso.
Gabriele le prese le mani con fare rassicurante.
«Ricordi cosa ti ha detto prima di andarsene? Che ti avrebbe tenuta d'occhio, e ad ogni lacrima spesa al posto di un sorriso si sarebbe palesata sotto forma di vento o soffio per farti prendere un bello spavento!».
Era vero, Agnese le aveva proprio detto quelle parole, qualche giorno prima che si spegnesse per sempre, a soli quarantaquattro anni. 
Nonostante da allora fossero passati due anni, Anna non si era ancora abituata all'idea di non avere intorno quella sorella maggiore tanto scontrosa quanto sensibile.
«Hai perfettamente ragione, tesoro!» ammise Anna, asciugandosi rapidamente le guance con un gesto elegante delle dita.
«Adesso voglio piangere di gioia nel vedere il mio bambino unirsi in matrimonio col suo grande amore!».
Magda e Gabriele si guardarono complici per qualche minuto.
«Mamma, se non piangi affatto, guarda che nessuno se la prende, eh!» dichiarò scherzoso Gabriele, afferrando la guancia della madre per strizzargliela come ad un bambino. Anna gli picchiò la mano, tra le risate allegre della figlia minore.
«A furia di stare con tua zia, hai ereditato il suo stesso sarcasmo!».
E non solo quello, avrebbe voluto aggiungere Anna, ma tacque. 
Tacque perché di quel segreto non se ne sarebbe dovuta mai fare menzione, proprio come Agnese stessa aveva stabilito.
«Allora, il vestito gli sta bene o no? Che devo avvisare Costantina per le ultime rifiniture!».
La figlia maggiore di Anna e Romeo, Allegra, entrò nella stanza senza chiedere il permesso di nessuno. Aveva ereditato di sana pianta il carattere allegro e spensierato del padre, ma la praticità era quella di Anna, in tutto e per tutto.
«No, non mi dire che stava frignando ancora!» si rivolse poi scocciata a Magda, che in tutta risposta, abbassò il bel viso tondo contornato dai riccioli biondi per nascondere il riso appena spuntato sulle labbra. 
«Mamma, tuo figlio Gabriele sta per sposarsi, non per essere giustiziato! Tutte le domeniche lo potrai rivedere, e magari, se gli lasci un po’ d'aria, lui e Silvana potrebbero pure darti un nipote, pensa!» la prese in giro Allegra, attirandosi le risate dei fratelli. Anna incrociò le braccia sotto al seno, interdetta.
«Come ne parli, sembra che non lo lasci respirare!» commentò piccata, spolverando dal colletto di Gabriele un po’ di polvere.
«Sempre meglio di tua sorella, che ne sembrava ossessionata...».
A differenza degli altri figli di Anna, Allegra era quella con cui Agnese aveva avuto più problemi a rapportarsi.
Incomprensioni caratteriali, aveva giustificato Agnese a suo tempo, asciutta.
Ma in realtà, entrambe avevano un carattere molto simile, anche troppo, e ciò le aveva portate a scontrarsi senza remore più e più volte.
Agnese non l'aveva mai rivelato, ma Allegra le ricordava Romeo quando puntualmente si scannavano per ogni piccola cosa. 
Discutere con lei la divertiva, le migliorava quasi la giornata. Per lei era stato come rivedersi in un nuovo corpo e in un nuovo spazio, in un'epoca diversa dalla sua, più libera e più permissiva sotto tanti punti di vista.
Dopotutto, Allegra era pur sempre figlia della sua amata sorella minore.
«Comunque, bando alle ciance! Il vestito ti sta bene, devo solo dire a Costantina di aggiustare gli ultimi ritocchi, e in chiesa ti guarderanno pure le vecchie zitelle di Torino!» commentò Allegra, dando una pacca energica alle spalle del fratello maggiore, che per poco non si sbilanciò.
Allegra era minuta, ma aveva una forza in quelle mani da sarta che ogni volta lasciava interdetto Gabriele e il resto della famiglia.
«A parte che non si dice più “zitella” ma si dice “single”!» puntualizzò Magda, accavallando le gambe coperte dalla gonna di jeans, che Allegra aveva provveduto ad accorciare sotto sua esplicita richiesta.
«Ha parlato la linguista!» le fece il verso la sorella più grande, guadagnandosi il sostegno della madre, sorridente e fiera dei suoi bambini, che ormai bambini non lo erano più da un pezzo.
«Vado a vedere papà cosa sta facendo» dichiarò poi Anna, lasciando tutto nelle mani della figlia maggiore.
«Tu resti qui, Magda?» chiese poi alla più piccola, sfiorandole il mento con le dita.
Magda si limitò ad annuire, con un bel sorriso stampato in volto uguale al suo.
Aveva ereditato i suoi stessi tratti chiari e il suo stesso cuore buono e mite.
Era l'unica in famiglia che aveva deciso di studiare tedesco e inglese, sebbene quella prima lingua non fosse per niente ben vista e considerata inutile. Ma Magda aveva sempre espresso il desiderio di conoscere le radici di sua madre e sua zia, e l'estate prossima sarebbe partita per un viaggio studio a Monaco di Baviera.
Anna ne era stata contenta, Romeo un po’ meno, ma solo perché di sapere la figlia più piccola lontana lo intristiva.
Ma d'altronde, non gli avrebbe mai impedito di spiccare il volo.
Non lui che aveva conosciuto sulla propria pelle cosa voleva dire vedersi la libertà sfuggire dalle mani per la prepotenza di persone influenti che agivano solo per vanagloria personale, anziché per il bene collettivo della comunità.
Prima di rinchiudersi la porta alle spalle, Anna volse un ultimo sguardo amorevole a Gabriele e le figlie, indugiando qualche istante prima di andarsene.
 
 
Romeo era seduto al tavolo del salone con aria malinconica. Quando Anna lo vide, si preoccupò all'istante.
«Che succede, amore? Notizie da Massimiliano?» chiese incerta, avvicinandosi al marito con una certa fretta. 
Romeo scosse il capo, aggrottando la fronte.
«No, ieri mi ha detto che sarei dovuto andarlo a prendere in stazione, arriverà col treno del primo pomeriggio. Figurati se si perde il matrimonio del fratello, quel fetente!» commentò Romeo con una punta di allegria.
Anna sorrise a quella battuta.
Massimiliano era stato chiamato per la leva militare da qualche mese, dopo essersi preso un anno sabbatico dagli studi.
Aveva studiato economia e commercio per superare il test di guardia di finanza, ma solo per poter accedere alle selezioni ed entrare nell'Arma, suo sogno da sempre.
«E allora perché hai quella faccia?» domandò ancora Anna, cercando di restare il più discreta possibile, anche se con Romeo non ce n'era davvero bisogno.
«È per questa» confessò, e cacciò una busta bianca perfettamente sigillata, che stringeva tra le mani come un carbone ardente. 
«Viene dalla Svizzera, è per Gabo». Era con quel nomignolo che Romeo aveva sempre chiamato Gabriele. Un nomignolo che gli aveva, tra l'altro, affibbiato Agnese, fin da bambino.
Anna gli tolse delicatamente la busta dalle mani, studiandosela per qualche secondo.
«Prima queste lettere le leggeva sempre Agnese… era da tempo che non ne arrivavano…»
«Max sa che Gabo sta per sposarsi?».
Anna restò di sasso per qualche secondo, presa in contropiede.
«No, io non ho… avuto modo…».
Romeo sbuffò, lasciandosi scivolare una mano tra i capelli sempre più radi.
«Non me la sento di occultargliela, Anna… ma non voglio neanche che scopra qualcosa così, senza averlo prima preparato…»
«Gabriele è nostro figlio, così come lo sono Massimiliano, Allegra e Magda. Lo sarà sempre, anche se non l'abbiamo concepito noi». Ad Anna quella realtà non aveva mai fatto male, anzi. Gabriele era stata l'ultima traccia lasciata ad Agnese nella sua vita, oltre alle lettere e alla sua amata libreria, dove ogni giorno andava a pulire e mettere in ordine, per mantenere vivo il suo ricordo.
«Questo lo so, Agnese fu chiara anni fa. Ma non credi che sia giusto far conoscere finalmente questa verità a nostro figlio? In fondo, suo padre lo ha visto solo nelle foto che Agnese gli mandava in ogni lettera… credo sia giunto il momento che scelga lui di volerlo incontrare, oppure no» sottolineò Romeo greve, poggiando lentamente le mani sull'incerata del tavolo.
Anna lo abbracciò da dietro, poggiando la sua guancia sulla tempia del marito.
«Agnese però non avrebbe voluto che sapesse…»
«Agnese non c'è più. E Gabriele ormai è un uomo, che sta per formarsi una famiglia. È un pezzo del suo passato che ha tutto il diritto di conoscere». Fu perentorio e allo stesso tempo delicato Romeo nell'esprimere la propria opinione. Anna non poté non essergli riconoscente per quello.
«Gli mostreremo la lettera, allora?» chiese, con voce tremula, ancora aggrappata al marito.
Romeo annuì col capo, convinto.
«Gliene parleremo con calma, senza metterlo a disagio» fu la sua sentenza bonaria.
Anna baciò la tempia del marito con mestizia, sentendo che se da un lato sapeva di agire per il bene del figlio, dall'altro era consapevole di andar contro alla volontà della sorella che non si era mai permessa di discutere.
Mi dispiace Agnese, ma è per il suo bene. 
Veglialo tu, da lassù.



 
Torino, 1944
 
Maxime andava avanti e indietro per il salone, cercando di mascherare il più possibile l'agitazione che lo stava divorando per intero.
Romeo non si era perso neanche un passo da quando lo aveva visto cominciare quel passeggio nervoso, perso in chissà quale nefasto pensiero.
«Mi stai facendo venire il mal di mare a forza di vederti andare a vuoto per il salone!» commentò piccato Romeo, strofinandosi una mano sugli occhi stanchi. 
Era da troppe notti che non si concedeva una bella dormita, tra le sirene antiaereo e i vari casini da risolvere al casale - tra cui uno di questi era il tenere nascosto un soldato tedesco accusato di omicidio -, Romeo non aveva avuto modo di rilassarsi né di pensare di poterlo fare. 
Maxime fermò i suoi giri non appena Ismaele, Blanca, Anna e Agnese entrarono nella stanza, con trepidazione.
Anna raggiunse Romeo, sorridendogli. Automaticamente il ragazzo allargò il braccio per cingerle le spalle e accoglierla a sè, lasciandole un bacino sulla tempia.
Averla vicino regalò a Romeo un sollievo istantaneo, benefico. 
Agnese invece rimase vicino alla zia, a braccia conserte, sedendosi sul bracciolo del divano del salone, con aria distaccata.
Fissava Maxime con aria strana, quasi si stesse aspettando qualche colpo basso da parte sua, come se avesse intuito quali sarebbero state le sue prossime mosse, anticipandone l'indignazione e la contrarietà.
«Bene, siamo tutti qui, ragazzo. Cosa ci devi dire?».
Anche dalla voce di Ismaele uscì fuori una sensazione simile a quella che lo sguardo di Agnese stava trasmettendo in silenzio.
Maxime deglutì, chiudendo gli occhi nel processo.
«Non vi piacerà» mormorò Romeo all'orecchio di Anna, che lo guardò interdetta, come se non avesse colto il messaggio.
Strofinando nervosamente le mani tra loro, impacciato, Maxime fece un passo in avanti, attento.
«Io… ci tenevo a ringraziarvi».
Si stava riferendo a tutti, ma i suoi occhi erano puntati verso quelli duri di Agnese. 
«Avete rischiato tanto per me, e ve ne sarò grato sempre, lo giuro su mia madre, non trovo le parole giuste per spiegarvi la mia riconoscenza». Maxime aveva inciampato più volte nel tedesco mentre parlava, e la voce gli traballava troppo, tanto che Blanca credette fosse dovuto all'emozione dei saluti in cui si sarebbe ovviamente profuso.
Si sarebbe sicuramente alzata ad abbracciarlo, e rassicurarlo con tante benedizioni e augurandogli buona fortuna per il viaggio, se Agnese non si fosse intromessa.
«Ma…?» esclamò infatti, sollevando un sopracciglio, in attesa della parte che, sicuramente, l'avrebbe fatta arrabbiare oltre ogni dire.
Perché anche se Maxime non lo aveva detto, quel “ma” Agnese lo aveva avvertito comunque nell'aria. 
Seguì un breve silenzio imbarazzato da parte dei presenti.
Maxime la osservò di sfuggita, avvertendo in lontananza il rumore dei fulmini che gli si sarebbero abbattuti addosso, probabilmente invocati da Agnese stessa.
Inspirò e prese coraggio.
«Ma non posso prendere quella nave.».
Chiuse immediatamente gli occhi a quella rivelazione, aspettando a testa china la reazione dei quattro presenti nel salone.
«Ecco qua, ne ero sicuro!» commentò Romeo, affondando il viso esausto tra i capelli morbidi di Anna, rimasta impietrita a quella dichiarazione.
Blanca, da madre affettuosa e comprensiva, cambiò volto in una maschera aggrottata e stupefatta. Si portò una mano sul cuore, sorpresa. 
Ismaele affilò maggiormente lo sguardo, convinto di aver capito male le parole di Maxime, sperandolo quasi.
Agnese invece scostò lo sguardo, portandosi le dita sul ponte del naso, premendo forte. Si appellò a quel briciolo di calma che le era rimasto, inspirando ed espirando.
«Perdonami Maxime, con l'età l'udito sta perdendo colpi… potresti ripetere, per favore?» esclamò Ismaele, con voce calma, ma uno sguardo così minaccioso che Maxime per poco non se la fece sotto dal terrore. 
«Te lo ripeto io, zio, che con quel miscuglio di lingue che ha fatto faresti ugualmente fatica a capire» intervenne Agnese, saettando lo sguardo indignato prima su Maxime poi verso Romeo, credendo erroneamente che fosse al corrente di tutta quella follia. 
«Ha semplicemente detto che ci ringrazia per tutto, e che domani come pattuito prenderà quella nave, senza nessun ripensamento». 
Se c'era una cosa che doveva a Gabriel, era l'essere riuscita a fare sua la sua arroganza e prepotenza, per sfruttarle dove sarebbe stato necessario. E in quel caso, oltre che necessario, sarebbe stato di vitale importanza agire a quel modo, sperando di riuscire ad essere incisiva senza ottenere repliche in risposta.
Ma Maxime, per quanto fosse accondiscendente e tranquillo per natura, quando voleva, sapeva essere più testardo e cocciuto di un mulo, e non si sarebbe tirato indietro per così poco, non in quel frangente, anche se era la stessa Agnese a chiederglielo, la donna che aveva amato e che avrebbe amato per sempre.
«Non è solo un mio capriccio, Agnese. Non posso proprio farlo» cercò di giustificarsi il tedesco, incerto nella voce, ma non nello sguardo. Quello trasudava tenacia da vendere.
«Devo solo aspettare che Gustaf mi dia-»
«Adesso smettila Maxime, prima che mi arrabbi sul serio!» lo interruppe Agnese, alzandosi dal bracciolo rapidamente.
«Tu prenderai quella nave, il discorso è chiuso!». Lo disse con un tono che non avrebbe ammesso alcuna replica. Ma Maxime non si lasciò scalfire da quella presa di posizione.
«Non prenderò nessuna nave, io resto qui!».
Fu talmente perentorio nel dirlo, che tutti gli altri presenti nel salone lo fissarono increduli, come se quel Maxime fosse sconosciuto a tutti quanti loro.
Di conseguenza, si aspettarono la prorompente invettiva di Agnese che sarebbe giunta inevitabile in risposta, ma la ragazza spiazzò tutti con il suo gesto.
Indietreggiò di qualche passo verso la porta, con le braccia conserte, e la delusione dipinta in volto.
«Fa’ come credi, allora. Ma io ne resto fuori».
Agnese lasciò la stanza subito dopo, correndo quasi.
Come attratto da una calamita, Maxime la seguì, ignorando i richiami di Ismaele e Romeo, ancora increduli al fronte di quanto accaduto. 
«Perché ha cambiato idea? Vuole farsi ammazzare?».
Le domande di Anna erano destinate a restare senza una risposta, senza alcun chiarimento, perché lo stesso Romeo non sapeva esattamente come replicare a riguardo. Poté soltanto limitarsi a guardare i coniugi Chiodi scambiarsi sguardi confusi e preoccupati, come due genitori che stavano per dire addio ad un altro figlio, un figlio che avevano cercato in ogni modo di risparmiare alla brutalità della guerra, ma senza successo.



 
Agnese era appena entrata in camera quando si accorse di avere Maxime alle calcagna.
«Agnese, bitte! Ti prego!»
«Vattene via! Lasciami sola!».
Agnese era inaspettatamente ferma, nonostante il viso fosse di un rosso sempre più accentuato.
Aveva provato a chiudere la porta, ma Maxime era molto più forte di lei, nonostante la mole non eccessivamente massiccia.
«Voglio solo che tu mi ascolti-»
«Cosa c'è da ascoltare? Che preferisci morire piuttosto che salvarti? Beh, fai come ti pare, ma non voglio più saperne niente, sono stanca di te, della guerra, di tutto!».
A quelle parole, Agnese si allontanò dalla presa della porta, ignorando completamente l'eventualità che Maxime sarebbe potuto entrare, fregandosene delle sue richieste.
Raggiunse appena in tempo il letto, l'ennesimo capogiro la colse all'improvviso.
«Ecco, lo sapevo» mormorò stanca, portandosi una mano alla fronte, mentre con l'altro braccio si cinse il ventre.
Maxime, lasciata la maniglia della porta, si precipitò verso la ragazza, dandole il suo supporto.
«Agnese, alles gut?» chiese, allarmato, afferrandole le spalle e stringendole con forza. Agnese provò a divincolarsi, ma il capogiro aumentò, e di conseguenza anche la nausea.
«Nein, nein! Nicht geht's hier gut!» proruppe in tedesco lei. Sentì che in quel momento, esprimersi in quella lingua l'avrebbe in qualche modo liberata dal peso che le gravava sul cuore da troppi giorni.
«Ich bin müde, aber niemand versteht mich…». La voce di Agnese si ridusse ad un pigolio accennato. Il viso le si accartocciò in una smorfia di tristezza e dolore, prossima al pianto. I bei capelli lunghi e castani le ricadevano dolcemente sullo sterno, dandole l'impressione di essere una bambina triste e sconsolata. 
«Es tut mir leid, Agnese, aber… es ist für eine wichtige Ursache. Du musst mir vertrauen!».
Maxime la stava incoraggiando a fidarsi, ad ascoltare ciò che avrebbe voluto rivelare da tempo, ancor prima che Gabriel morisse per mano sua…
«Per favore, risparmiami scuse e giustificazioni! Adesso non servono più a niente!». Agnese scoppiò definitivamente a piangere, accasciandosi sul letto con una mano premuta sulla bocca e l'altra stretta al vestito rosso, all'altezza del ventre.
«Se solo non lo avessi ucciso… se solo mi avessi dimenticato… adesso non dovrei stare qui a impazzire per trovare un modo per salvarti la vita» singhiozzò Agnese, gli occhi velati da gocce di lacrime che, neanche il tempo di scorrerle lungo le guance, ne nascevano di altre tra le palpebre gonfie.
«Sei un ingrato, Maxime! Uno stupido ingrato!».
Maxime dovette spostare lo sguardo altrove, vedere Agnese in quelle condizioni faceva troppo male, la reputava una visione insostenibile. E sapere che fino a quel momento, Agnese non era mai riuscita a spendere neanche una lacrima in quei giorni infernali, a differenza di Anna, a Maxime provocava un'angoscia immane che gli nasceva dal luogo più remoto delle viscere.
«È vero, hai ragione tu» ammise infine, sollevandosi sulle braccia per salire sul materasso. 
«Sono un ingrato e un perfetto stupido. Ho rovinato tutto. Mi dispiace».
Si stese dietro di lei, stringendola in un abbraccio timido, ma inaspettatamente forte.
Agnese provò a divincolarsi, ma non appena il braccio di Maxime le cinse la vita, sfiorandole il ventre, si bloccò di colpo, lasciandosi stringere.
Tirò su le ginocchia, come a volergli fare spazio. Maxime era alto, aveva le gambe lunghe e sode. Ad Agnese era sempre piaciuto sentire le proprie gambe intrappolate tra le sue, era una cosa che avveniva tra loro senza dirselo o pretenderlo.
Agnese aveva capito troppo tardi che l'amore della sua vita non era Gabriel, che la confidenza e la vicinanza sperimentata con Maxime non l'avrebbe ottenuta con nessun altro uomo, perché Maxime era l'unico e il solo, arrivato un po’ troppo tardi nella sua vita, ma che le aveva lasciato ugualmente un segno indelebile del suo passaggio. E quel segno, di lì a poco, sarebbe stato visibile sotto gli occhi di tutti, ma non di colui che glielo aveva lasciato. Ed era questa l'eventualità che feriva Agnese oltre ogni dire.
«Non avrei voluto farlo… non era nelle mie intenzioni…» provò a spiegare il giovane tedesco, e nel constatare che Agnese non stava proferendo parola, lasciando a lui la possibilità di sfogarsi, decise che avrebbe detto tutto, senza tralasciare neanche un dettaglio.
«Pochi giorni prima che accadesse, Gustaf mi aveva informato di una cosa, una cosa che riguardava te ed Anna».
Agnese restò in silenzio, le palpebre e le labbra strette per cercare di trattenersi.
«Non pensavo che davvero ci avesse scoperti, credevo che Gustaf avesse esagerato e riportato voci infondate… ma quando ho visto i documenti firmati dal tenente, mi è crollato il mondo addosso».
Maxime continuò a parlare, affondando il viso nei capelli di Agnese, come a volersi nascondere dal mondo intero, da chiunque altro non fosse lei.
«Che documenti firmati?» chiese Agnese, senza voltarsi.
Maxime deglutì, inspirando il buon profumo di betulla che emanava la chioma di Agnese.
«Aveva preparato le carte per il tuo internamento. Lì sopra vi era scritta una diagnosi di isteria, dovuta ad un aborto spontaneo, e che non eri più capace di intendere e di volere. Se me lo fossi trovato davanti in quel momento gli avrei spaccato la faccia».
Ad Agnese mancò il respiro per qualche secondo. Era certa che ormai da Gabriel si sarebbe potuta aspettare qualsiasi cosa, ma addirittura questo…
«E non è tutto. Aveva preso accordi con il sergente Hölm, voleva avere tua sorella, non ti so dire in che modo, ma ti lascio immaginare». 
Agnese scosse il capo impercettibilmente a quelle parole, aumentandole ancora di più la convinzione che a premere quel grilletto non avrebbe dovuto farlo Maxime, bensì lei stessa. Aveva tutti i motivi e il movente per farlo.
«Quella mattina ero andato lì a supplicarlo di lasciarti in pace, che mi sarei preso tutta la responsabilità del caso, che mi sarei lasciato imprigionare per alto tradimento…» confessò Maxime, ormai in lacrime anche lui.
«E lui cosa ha fatto?» chiese Agnese, anche se non era davvero sicura di volerlo sapere, ma si sforzò.
«Di te mi occuperò dopo che avrò sistemato anche loro. Sono state queste le sue parole». 
Agnese sentì qualcosa muoversi dentro, qualcosa di molto simile ad una fiammella accesa mossa dal vento. Ormai sapeva, sapeva ogni cosa. Lo aveva saputo da molto prima che Gabriel le combinasse quella grande infamata.
Il vero lutto da realizzare, per la ragazza, non era in fondo la perdita terrena della sua presenza, ma la rottura di un legame in cui aveva continuato a sperarci da sola.
Era un altro tipo di dolore, un altro tipo di lutto, molto più forte e sentito di un lutto normale.
Anna aveva pianto per la sua anima, Agnese avrebbe dovuto fare i conti con quell'assenza che già in vita Gabriel le aveva arrecato.
«A quel punto Romeo gli si era scaraventato addosso, afferrandogli il collo come un pazzo. Ma il tenente era riuscito a toglierselo di dosso, aveva cacciato la pistola e-».
Maxime affondò maggiormente il viso nella nuca di Agnese, sopraffatto da quei lugubri ricordi.
Agnese si aggrappò alle sue braccia che la mantenevano stretta, al caldo. 
Avrebbe voluto dirgli di smetterla di raccontare, di non rivangare più quei momenti dolorosi.
Ma sapeva anche che soltanto così, soltanto parlando e buttando fuori tutto Maxime sarebbe riuscito ad esorcizzare i demoni che lo tormentavano da quel giorno. E assieme a lui, ci sarebbe riuscita anche lei.
«Volevo togliergliela di mano, e quando ho sentito lo sparo, ho pensato di aver ricevuto io il proiettile. E invece…».
Maxime provò a soffocare un singulto, stringendosi ancora più forte ad Agnese.
«Ho cercato di soccorrerlo, ma Romeo mi ha tirato via da lì, era morto sul colpo. Del resto… ricordo solo che venivo trascinato via da Romeo. Una parte di me era rimasta in quella stanza, tutta la mia innocenza, la mia dignità… sono morto con il tenente quello stesso giorno».
Solo a quel punto, Agnese si sollevò dal cuscino, rigirandosi nell'abbraccio di Maxime e fissandolo dritto negli occhi chiari e infantili che si ritrovava. 
«Ho già permesso a Gabriel di rovinarmi la vita» e prese la mano di Maxime per portarsela sul ventre, stringendosela tra le dita come se fosse stata d'oro «Ma non lascerò che rovini anche la tua». 
Le loro fronti si toccarono, Agnese socchiuse gli occhi, le labbra protese verso quelle di Maxime.
«Fai ciò che reputi più giusto, io farò altrettanto».
Il bacio che seguì fu lungo e languido, un intenso incontro di lingue e labbra che di staccarsi non ne avevano la ben che minima intenzione.
La mano di Maxime rimase appoggiata al grembo di Agnese, stringendo la stoffa tra le dita quasi a strapparla. 
 
 
<♤><♧>
 

 
Un rumore molesto destò Ismaele, che si mise sull'attenti in pochi secondi.
Era seduto al tavolo della cucina, Blanca stava finendo di sistemare le ultime stoviglie, e Anna e Romeo erano seduti vicini, le mani strette tra loro.
«Chi sarà, zio?» chiese Anna, con una punta di allarme nella voce.
«Che sia Alfredo?» provò ad indovinare Romeo, cercando di nascondere la paura dietro la sua domanda innocua. Sentì lo sguardo di Anna addosso, ma non lo contraccambiò: se lo avesse fatto, non avrebbe saputo mantenere troppo a lungo il suo sangue freddo.
Ismaele si alzò dal tavolo, seguito da Blanca, spaventata all'idea di qualche visita indesiderata.
Ebbe conferma dei suoi timori quando vide il marito afferrare uno dei suoi fucili dall'armeria dell'ingresso.
«Ma Ismaele-»
«Fa’ silenzio!» la zittì il marito, con poca gentilezza.
Per riflesso, Blanca si portò le mani alla bocca, coprendosela impaurita.
Ismaele puntò il fucile verso la porta d'ingresso, minaccioso.
Anna per poco non gettò un urlo nel vedere lo zio armato, ma Romeo fu lesto ad intimarla al silenzio.
Un altro rumore, un bussare sommesso arrivò alle orecchie di tutti loro.
«Romeo, apri la porta, lentamente!» ordinò a mezza voce Ismaele, non staccando gli occhi e il fucile dalla porta, irremovibile.
Romeo lasciò lentamente Anna, avvicinandosi cauto alla porta.
«Zia, ho paura!» pigolò Anna, correndo ad abbracciare la zia, che l'accolse prontamente.
Romeo nel frattempo aprì il chiavistello, anche se con delicatezza, il ferro cigolò ugualmente.
Aspettò il cenno di Ismaele per compiere il passo successivo.
Una volta ottenuto, Romeo aprì l'uscio, tremando vistosamente e serrando le palpebre, mentre il cuore gli schizzava in gola senza alcun riguardo.
Ismaele caricò il fucile, pronto a sparare se fosse stato necessario.
Anna e Blanca si strinsero in un abbraccio nervoso, la preoccupazione alle stelle.
Il dito sul grilletto pronto a scattare.
Tutta la vita era iniziata a scorrere davanti agli occhi di Romeo, eventi belli e brutti si susseguirono uno dietro l'altro. Si rimproverò mentalmente di non aver detto abbastanza spesso ad Anna quanto l'amasse e quanto avesse voluto averla accanto sempre, ogni secondo, ogni momento della sua esistenza.
Qualcuno entrò, e nel vedersi il fucile piantato in faccia, alzò le mani in segno di resa.
«Ismaele, no, non sparare!» esclamò una voce familiare.
Romeo spalancò gli occhi, disorientato.
Anche Anna e Blanca sussultarono nel riconoscerlo.
Ismaele abbassò repentinamente il fucile, esterrefatto. 
«Tu…».
Un moto di commozione misto ad incredulità lo colse improvviso, lasciandolo senza parole.
Se per la gioia o la paura, non seppe spiegarselo.



 
 
Torino, 1970
 
Massimiliano arrivò al casale come un uragano, ancora in divisa e il borsone in spalla. Era stato di stanza a Napoli, alla Nunziatella.
Era tornato abbronzato e aveva messo su anche qualche muscolo. 
Era su di giri per l'imminente matrimonio del fratello maggiore, ancor di più per il fatto di essere il suo testimone di nozze.
«Gente, sono tornato!» annunciò allegro, spalancando le braccia come a voler accogliere eventuali abbracci in arrivo.
Il primo fu proprio quello di Magda, che gli corse incontro, euforica.
«Fratellone, sei tornato!» esclamò saltandogli al collo emozionata. Massimiliano la sollevò da terra facendola girare.
Romeo apparve alle loro spalle, guardandoli tra il divertito e l'esasperato.
«Dove sta il condannato a morte che devo accompagnare al patibolo?» scherzò il ragazzo, rivolto al padre che fissava sornione lui e Magda.
«Di sopra, in camera sua» rispose Anna, spuntata dalla cucina, con ancora lo strofinaccio con cui si stava asciugando le mani. Era felice di rivedere il figlio dopo mesi di lontananza. Saperlo a casa la faceva sentire rincuorata e serena, tranquilla.
«Vieni qua, fatti abbracciare» disse poi, sull'orlo della commozione. Massimiliano non se lo lasciò ripetere due volte.
«Aiuto, le guardie! Si salvi chi può!» fu l'urlo divertito che Gabriele lanciò dalle scale, mentre le scendeva correndo.
Massimiliano rivolse lo sguardo in alto, portandosi la mano alla bocca, mordendosela.
«Ho già pronte le manette, criminale!» e corse verso il fratello maggiore, accogliendolo in un caldo abbraccio sentito. Le loro risate riempirono il salone di gioia e vitalità.
«Mi hai fatto lasciare la città più bella del mondo per assistere alla tua rovina! Vergognati Gabo!» si lagnò per finta Massimiliano, dando innumerevoli pacche affettuose alla schiena del fratello maggiore. Anche se, data la stazza e l'altezza, era proprio il primo a sembrare il più grande tra i due.
«Adesso però vatti a dare una sistemata, che il viaggio sarà stato lungo e stancante» s'intromise Romeo, poggiando entrambe le mani sulle spalle dei ragazzi, contento di vederli tanto affiatati. Rivolse uno sguardo veloce alla moglie, che gli sorrise comprensiva. L'ombra di quella lettera pesava su di loro come un macigno, ma non lo avrebbero lasciato troppo a vedere.
La loro famiglia era forte, si basava su legami solidissimi. Non si sarebbe sfasciata per così poco, nonostante la paura che le cose sarebbero potute drasticamente cambiare incombeva presente, creando tumulti interiori negli animi della coppia.
«Sì, papà, hai ragione» diede man forte Massimiliano, dando una pacca anche a Romeo.
Gabriele gli fece strada di sopra, spintonandolo divertito ad ogni gradino.
Magda li seguì subito dopo, curiosa di fare tante domande al fratello su Napoli, il sud, la caserma, le persone che aveva incontrato e i posti che aveva visitato…
Nel frattempo, Romeo si avvicinò ad Anna, lasciando che lei si appoggiasse a lui.
Avrebbero dovuto prendere presto una decisione sul da farsi.
Il tempo stava per scadere.
 
§§§
 

«Ma tu sei proprio sicuro di volerti sposare, sì?».
La domanda di Massimiliano arrivò alle orecchie di Gabriele con aria ironica, scherzosa.
Era sera, ed entrambi erano seduti sul dondolo da giardino, a fissare il chiarore delle stelle con aria da sogno.
«Certo che sono sicuro!» rispose divertito Gabriele, sicuro della sua scelta fin dal primo giorno che aveva chiesto la mano di Silvana. 
«Mbah, beato te fratello! Io per ora voglio godermi la libertà a pieni polmoni! Non vi è nulla di più meraviglioso di questo!» commentò Massimiliano, muovendo il dondolo con un piede, quasi volesse prendere il volo con esso verso il cielo.
Gabriele lo fissò attento, con un leggero sorriso complice in volto.
«Napoli ti piace come città?» chiese, sinceramente incuriosito.
Massimiliano annuì con fermezza.
«È una città mozzafiato! Mi sa che dopo il militare mi trasferisco lì! Mi trovo una bella ragazza napoletana e mi creerò una famiglia tutta mia… ma questo in un lontanissimo futuro, ovviamente! Per ora, mi accontento di saggiare la bellezza partenopea a piccoli sorsi, godendomela fino in fondo» delucidò Massimiliano, soddisfatto delle sue decisioni.
A Gabriele tutta quell'euforia non poteva fare altro che piacere.
Conosceva suo fratello, più piccolo di lui di tre anni, e prima che si arruolasse era sempre stato timido e riservato… si vedeva che Napoli in qualche modo lo aveva aiutato a crescere, e a sanare le proprie ferite interiori.
«Quindi non pensi più a Grecia?».
Gabriele si pentì qualche istante più tardi di aver pronunciato quel nome, temendo di aver incrinato il buon umore di Massimiliano, ma non poté farne a meno.
Tuttavia, al ragazzo la cosa non sembrò tangere più di tanto.
«No… Grecia è una storia chiusa, ormai. Ormai sono tutto devoto alla causa napoletana e alle sue belle donne!» fu la sua risposta, così istrionica che a Gabriele, per un attimo, sembrò una recita, ma decise di non indagare oltre. 
«Se non mi avesse mollato da un giorno all'altro, ora non sarei diventato il sogno erotico di tutte quelle belle femmine!».
Gabriele scoppiò a ridere nel sentire Massimiliano parlare a quel modo.
«Ma come ti viene! Sogno erotico!» lo canzonò, portandosi una mano in faccia, imbarazzato.
Massimiliano gli diede una pacca sulla spalla, a mo’ di scherno.
«C'è chi si ferma prima e chi deve ancora esplorare territori… a quanto pare, devo ancora trovare la terra dove fioriscono i limoni, come raccontava zia Agnese!».
Gabriele smorzò il sorriso nel sentir spuntare dal nulla sua zia nel discorso.
«Già… anche se, a sentirti dire certe cose, ti avrebbe mollato una ciabatta di faccia!» esclamò, tra il divertito e il nostalgico.
Massimiliano gli mollò un'altra pacca, più incoraggiante stavolta.
«Però, detto tra noi… sono contento che tu, la tua terra dei limoni, l'hai trovata, Gabo. Sono fiero di spalleggiarti in questo nuovo inizio».
Gabriele fu grato alle parole del fratello, fu grato per tutto quello che aveva ricevuto da quella famiglia. Tutto l'amore, l'appoggio, l'affetto, anche i rimproveri…
Gli sarebbe mancato tutto, ma avrebbe fatto in modo che tutto venisse ripristinato nella famiglia che stava per creare con la donna che amava. 
Non seppe spiegarsi il perché, ma Gabriele aveva avvertito questa cosa come una sorta di missione personale, affidatagli all'alba dei tempi, attraverso vie misteriose.
 
 

Era notte fonda, eppure Gabriele non riusciva a prendere sonno. 
Ogni volta che chiudeva gli occhi, si trovava davanti agli occhi la zia e un uomo il cui volto era talmente annebbiato da risultare irriconoscibile.
Decise così di alzarsi dal letto, per dirigersi in cucina a bere un bicchiere d'acqua.
Non amava trascorrere la notte in bianco, il giorno dopo sarebbe dovuto andare a lavorare e di sentirsi teso come una corda di violino proprio non gli andava per niente.
Scese le scale lentamente e un ricordo fugace lo assalì di soprassalto.
Era piccolo, avrà avuto cinque anni.
Gabriele si era svegliato in preda ad un brutto sogno, e gli girava la testa. Era uscito dalla stanza ed era tutto buio…
Non aveva visto il gradino, era ruzzolato giù per le scale. Ricordò soltanto di essere stato soccorso da sua zia Agnese, che se lo era stretto al petto disperata.
Amore di mamma, sono qui. Apri gli occhi, ti prego!
Quelle parole Gabriele, per anni, le aveva tenute chiuse nel cuore. Si era anche chiesto se, nell'agitazione del momento, non avesse scambiato sua madre Anna per sua zia. Aveva rimuginato tanto su quelle parole, arrivando quasi a chiedersi se non fosse stata la stessa Agnese a sbagliarsi, a scambiarlo per qualcun altro, mentre era in preda all'ansia e all'agitazione.
Arrivato in salotto, sentì un mormorio provenire dalla cucina. S'insospettì, si avvicinò alla porta socchiusa e gettò uno sguardo fugace all'interno della stanza.
I suoi genitori erano lì, seduti al tavolo. Avevano tra le mani una busta bianca, sigillata.
«Gliela dobbiamo dare, Romeo? Vogliamo proprio farlo?» fece Anna, singhiozzava così disperatamente che per un istante a Gabriele salì il panico.
«Gliela daremo con calma, Anna. Non possiamo continuare a tenerglielo nascosto. Maxime vuole vederlo».
Maxime… quel nome a Gabriele non suonava del tutto estraneo. Ricordò che sua zia aveva un amico di penna svizzero che si chiamava Maxime. Allegra aveva addirittura insinuato che fossero amanti e che la zia, integerrima e impeccabile, avesse intrattenuto una relazione illecita con un uomo sposato. 
Ma Gabriele a quella teoria non ci aveva dato poi così tanto peso, a suo tempo.
«Ma io… ma se poi ci odierà? Se penserà che-»
«Non penserà niente, Anna, sta’ tranquilla! Restiamo la sua famiglia, nel bene e nel male!».
Gabriele non riuscì a trattenersi oltre.
Entrò in cucina aprendo piano la porta, la luce gli ferì le iridi abituate all'oscurità.
«Gabo!» esclamò Anna, asciugandosi di fretta e furia le lacrime sgorgare dagli occhi come fiumiciattoli.
«Che ci fai sveglio a papà?» fece Romeo, nascondendo per riflesso la lettera sotto la manica del pigiama.
Gabriele avanzò in cucina con le sopracciglia aggrottate, sospettoso.
«Che succede?» chiese, la voce impastata di sonno.
Anna e Romeo lo fissarono stralunati, presi in contropiede.
«Ma niente, che vuole succedere…» prese la parola Romeo, non riuscendo a mascherare del tutto la tensione.
Anna gli poggiò una mano sul braccio, lo stesso sotto cui aveva nascosto la lettera.
Guardò suo marito con i suoi occhi chiari intensi, dolci proprio come la prima volta che Romeo li aveva incrociati per sbaglio, tanti anni prima.
Gabriele capì che Anna lo stava implorando silenziosamente, di fare cosa, però, non gli era dato saperlo. Ancora.
Romeo sospirò, rassegnato. Poi annuì impercettibilmente, togliendo il braccio dalla lettera nascosta.
«Siediti Gabo. Io e la mamma ti dobbiamo parlare» disse infine, indicando il posto a sedere con un cenno del capo.
Gabriele obbedì, scostando la sedia. Avvertì il cuore in gola, sembrava fosse ancora intrappolato in uno di quei sogni assurdi di poco prima.
Guardò apprensivo i suoi genitori, un lieve tremore cominciò a scuoterlo.
Mai avrebbe immaginato che di lì a qualche minuto, Gabriele avrebbe dato finalmente un volto reale all'uomo che sognava costantemente di fianco a sua zia, stravolgendogli la vita, per poi ridargli un senso subito dopo, e non solo a quel sogno. Ma a tutto il resto.

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Capitolo 12
*** 12- Qualcosa da (nascondere) ***


Prompt: Nascondere


 
Capitolo 12
Qualcosa da (nascondere)


Sei il mio volo a metà, 
sei il mio passo nel vuoto
 


Torino, 1944
 
La camionetta avanzava per le strade sterrate di campagna, ogni tanto incappando in qualche buca occasionale.
Gustaf sopportava gli scossoni in silenzio, rassegnato ormai al suo destino. 
Sapeva che era tutto perduto, e che di lì a poco si sarebbe consumata una strage.
Aveva cercato con ogni mezzo di non giungere a quell'epilogo, in fondo lo aveva sempre saputo che non ci sarebbe stata possibilità di cambiamento, che avrebbero fatto meglio a seguire il flusso degli eventi senza tentare di osteggiarlo.
Sia lui che Maxime si erano avvicinati troppo al sole con le loro misere ali di cera, la caduta in mare aperto era inevitabile, oltre che prevedibile.
Con la testa occupata da quei pensieri ingombranti, si accorse con qualche secondo di ritardo che la camionetta si era fermata, a causa di una ruota bucata.
Prevedibile, vista la strada percorsa.
Ma ciò che successe qualche secondo dopo non fu poi così prevedibile.
A distanza di tempo, Gustaf non avrebbe mai saputo affermare se ciò che accadde fu un mero miracolo o una scelleratezza fortunata. 
Avvertì voci concitate, urla, spari…
Gustaf temette per sé stesso per qualche secondo.
Poi qualcuno entrò nel retro della camionetta, dove era ammanettato, e per riflesso alzò le mani, tremando come una foglia.
«Meno male, abbiamo assaltato la camionetta giusta!».
Una voce familiare fece sussultare il tedesco, che in quel buio non riconobbe immediatamente chi avesse fatto irruzione lì dentro.
«Tu sei Gustaf, la nostra staffetta, sì?» chiese il partigiano, poggiandogli bruscamente una mano sulla spalla. 
Gustaf guardò il profilo scuro dello sconosciuto con aria stranita.
«Tuuu essere Gustaaaaf?!?» ripeté quasi urlando, pensando che il prigioniero non avesse colto perché aveva scandito male la frase precedente.
«Non urlare Beppetondo! È lui, è il nostro uomo!» intervenne poi un secondo partigiano, che entrò con una torcia accesa, puntata dritta sul viso del povero Gustaf.
Grazie al fascio di luce, quest'ultimo riconobbe il padrone di quella voce dall'aria burbera e scostante.
«Alfredo! Li abbiamo tramortiti e legati vicino alla quercia!».
La voce accorta e più amichevole di Dante giunse alle orecchie dei tre, invitandoli a scattare al passo successivo.
Beppetondo provvide a togliere le manette a Gustaf, mentre Alfredo scese dalla camionetta, osservando l'operato dei suoi uomini.
«A quest'ora saranno già arrivati al casale…» constatò ad alta voce, guardando il sentiero illuminato soltanto dalla luce fioca della luna.
«Che si fa adesso, Alfredo?» sussurrò di soppiatto Dante, aveva i nervi a fior di pelle per l'adrenalina.
Alfredo ci pensò su per qualche istante, dopodiché, dopo aver assestato qualche colpo a mano aperta al veicolo, si avviò verso il posto di guida.
«Prendiamo la divisa dei crucchi e i loro documenti!» ordinò poi, perentorio.
«Dobbiamo arrivare al casale prima di Schlütz!».



 
》◇《


Agnese li vide arrivare dalla finestra della sua stanza.
I soldati tedeschi uscirono dalle loro camionette circondando il casale e la zona limitrofa.
Si portò una mano alla bocca, gli occhi di un castano intenso sgranati e spauriti.
«Devi andare via di qui!» mormorò, voltandosi verso Maxime, che si era alzato dal letto qualche secondo dopo di lei.
Il ragazzo la guardò stralunato, non riuscendo a capire cosa stesse per accadere.
«Was ist passiert, Agnese?» provò a domandare, un principio di fiatone cominciò a farsi largo nel petto.
La vide aprire l'armadio, alla ricerca di chissà cosa, forse un indumento, uno scialle, un cappotto.
Poi il rumore di un calcio e urla di soldati che gridavano la loro presenza. 
Ad Agnese tremò il cuore nel percepire che ormai non vi era più alcuna via di fuga, per nessuno.
Poi un'idea le balenò in mente, osservando l'anta aperta dell'armadio.
«Nasconditi qua!» e afferrò Maxime per un braccio, costringendolo ad entrare nell'armadio, nascondendolo tra i vari vestiti e coperte. 
Maxime provò a protestare, a tirarsela dentro, ma Agnese fu irremovibile.
«Cercano te, io me la caverò» dichiarò decisa, spingendo Maxime all'interno dell'armadio.
Il giovane, mosso da un impeto di coraggio, afferrò Agnese per le braccia e la baciò con passione, presagendo che sarebbe potuto essere l'ultimo che le avrebbe dato.
Dopo aver risposto a quell'ultimo tentativo disperato di farle cambiare idea, Agnese spinse definitivamente Maxime nella parte più profonda dell'armadio, coprendolo con le trapunte e i vestiti appesi alle grucce.
Aveva appena chiuso le ante dell'armadio, quando Schlütz fece irruzione nella sua stanza, assieme ad altri due tedeschi al seguito.
«Fraulein Martini! Che piacere rivederla!».
Agnese lo fissò disgustata, indietreggiando nella stanza, verso lo scrittoio.
Conservava uno stiletto nel cassetto, lo usava per lo più per tagliare la carta, ma non si sarebbe posta alcun problema ad usarlo per difesa personale.
«Mi sorprende che l'abbiano lasciata qui da sola…» commentò, guardandosi attorno, sospettoso.
Agnese toccò con le dita il legno dello scrittoio, cercando di apparire quanto più indefessa possibile.
«Controllate ovunque!» ordinò poi il capitano delle SS, perentorio.
I due soldati eseguirono il comando, iniziando ad ispezionare l'abitacolo.
Agnese avvertì che altri soldati erano entrati nelle altre stanze del casale, li aveva intravisti correre sul pianerottolo dalla porta lasciata aperta dai soldati.
«Dove si sono nascosti tutti?» chiese minaccioso Schlütz alla ragazza, sgomenta.
Agnese avrebbe voluto rispondergli con la sua solita verve, mostrandosi impavida e sarcastica come sempre, ma un moto di paura le aveva inchiodato i piedi a terra.
Si sentiva come se l'avessero imbavagliata da cima a fondo, non dandole modo di scappare o reagire.
Si abbracciò il ventre con aria tremante, limitandosi a fissare con aria di sfida il tedesco che le bloccava ogni via d'uscita.
«È tutto finito, Fraulein Martini» dichiarò poi Schlütz, compiaciuto.
«Brünner è qui, e all'indomani verrà fucilato in pubblica piazza assieme ai disertori arrestati» annunciò con aria tronfia, gonfiandosi il petto come un pavone.
«Che dite?» esclamò sprezzante Agnese, ridendogli quasi in faccia. Schlütz non smise di fissarla tra il minaccioso e il soddisfatto.
«Suvvia, signorina, la smetta di fingere» e le afferrò un braccio con violenza, obbligandola a fare un passo in avanti.
«Avrei dovuto arrestarla quella mattina, fuori dalla chiesa… magari avrei evitato rogne e sotterfugi inutili!» sibilò tra i denti, il puzzo di sigaretta colpì le narici di Agnese con una tale veemenza da darle il capogiro.
«E con lei, la sua intera famiglia al seguito!».
Ad Agnese scappò un lamento di dolore alla stretta troppo forte che il tedesco esercitò sul suo braccio.
Una botta improvvisa colpì il soldato che si era avvicinato all'armadio, facendolo rovinare all'indietro. Agnese urlò con lui, presa alla sprovvista.
Nel voltarsi, Schlütz si trovò faccia a faccia proprio con l'uomo che da giorni non gli aveva dato respiro né pause.
Maxime troneggiava sul soldato tramortito, mentre il secondo soldato gli puntò un'arma contro, intimandolo ad arrendersi.
«Maxime, no!» urlò Agnese, cercò di raggiungerlo, ma venne prontamente bloccata da Schlütz.
La situazione sarebbe degenerata inesorabilmente, se non fosse stato per un intervento a dir poco inaspettato.
Un uomo sbucò alle spalle del tedesco che teneva puntata la pistola contro Maxime, colpendolo violentemente alla nuca con un bastone. 
Approfittatosi della distrazione, Maxime inveì su Schlütz, bloccandolo per le braccia. Agnese dovette appoggiarsi al davanzale per non perdere l'equilibrio.
Non riuscì a credere ai propri occhi, l'emozione le offuscò il cervello a tal punto da dimenticarsi ogni cosa, persino del pericolo appena corso.
Si portò una mano sul cuore, batteva velocissimo, non seppe dire se per la felicità o per quel miscuglio di eventi susseguitisi uno dietro l'altro.
«Agnese…» la chiamò l'uomo, con le lacrime agli occhi.
Era da quel giorno in stazione che non si erano più visti. Erano passati quattro anni da allora, quattro lunghi anni.
Ma per Agnese tutta quella distanza svanì con un colpo d'occhio, cancellando ogni timore, ogni delusione, ogni sciagura.
«P-Papà?!».
Si portò le mani tremanti alla bocca, era in procinto di scoppiare.
Poco dopo in stanza irruppero altri soldati, che parvero puntare il fucile contro Maxime, che ancora teneva Schlütz bloccato, con un braccio intorno alla gola.
«Gut, endlich!» starnazzò il capitano, rischiando di soffocare ad un solo movimento storto.
«Arrestateli tutti! Verranno fucilati all'alba!» continuò, tentando di divincolarsi dalla presa del più giovane, che si dimostrò inaspettatamente forte.
Ma quei soldati rimasero immobili, i fucili puntati ancora verso Maxime ed Agnese.
Quest'ultima, però, notò un particolare che la lasciò basita per qualche minuto: nessuno di quei soldati si era accorto della presenza di suo padre. Quel dettaglio le stonò in tutto quel marasma.
«Worauf wartet hier? Arrestateli, ho detto! Branco di incapaci!».
Ma nessuno mosse un dito.
Uno dei soldati si levò l'elmo, scoprendo i suoi capelli chiari ai presenti e la sua faccia da schiaffi che era solito metter su in ogni situazione di sfida.
Mise una mano sulla spalla di Furio, stringendogliela forte, mentre avanzava nella stanza.
«Ha proprio ragione, Schlütz! I vostri uomini sono un branco d'incapaci! Si sono lasciati sconfiggere da un semplice gruppo di campagnoli, mi viene quasi da ridere!».
E Alfredo esplose ugualmente nella sua risata rauca, attirandosi qualche d'un altro al seguito.
Furio si limitò ad abbozzare un sorriso, fissando il pavimento, mentre Agnese si portò le mani giunte tra naso e bocca, ringraziando il Signore e la Madonna per quel miracolo inatteso.
«Mentre voi non c'eravate, i miei compagni hanno preso d'assalto il vostro quartier generale. La parola fine» e alzò il fucile in aria «l'abbiamo decretata noi!».
Alfredo urlò quella frase con un'enfasi tale, che tutti i presenti esultarono all'unisono, alzando a loro volta le armi al cielo.
Maxime realizzò in quel momento che tutti quei soldati non erano altro che partigiani travestiti. Non seppe se gioire della cosa o restare ugualmente in allerta.
Non appena, però, tornò a fissare Agnese, la vide perdere lentamente le forze, e per raggiungerla, Maxime lasciò andare Schlütz, di tutta fretta, lasciandolo rovinare in ginocchio sul pavimento.
«Agnese, ich bin da!» esclamò il ragazzo, accogliendo un'Agnese bianca come un lenzuolo tra le sue braccia.
«Es ist vorbei, meine Liebe, es ist vorbei
«Ich weiß, Maxi, ich weiß!» biascicò Agnese in risposta, sul punto di svenire. Troppe sorprese tutte insieme l'avevano provata fino a tal punto da portarla allo sfinimento.
Mentre i partigiani travestiti da soldati portarono via i veri tedeschi, così come gli altri fecero nelle altre stanze - avevano teso loro un'imboscata - Furio raggiunse la figlia maggiore, prendendole il volto tra le mani, sollevato.
«Agnese, bambina mia!» esclamò, unendo le loro fronti, con aria commossa.
«Papà! Papà, du bist da!».
Per l'emozione e le lacrime, Agnese non riuscì più a parlare in italiano per qualche secondo. Allargò le braccia verso il genitore, come faceva da bambina tutte le volte che l'uomo le si avvicinava per prenderla in braccio e farla volteggiare, e si strinsero entrambi in un abbraccio sentito, emozionato.
Maxime si fece in disparte, assistendo alla scena in silenzio, anche lui in procinto di commuoversi.
Ben presto, in stanza, rimasero soltanto loro tre, mentre il chiasso e il disordine regnava per tutto il resto della casa.

 
•°•°•
 
 
Raggiunsero l'accampamento partigiano qualche ora più tardi.
Agnese si era aggrappata al braccio del padre come una forsennata, temendo di star vivendo tutto un sogno, dal quale avrebbe preferito non svegliarsi, per timore che tutto svanisse all'improvviso.
Maxime era rimasto qualche passo indietro, con Alfredo, Beppetondo e Dante che non facevano che parlottare di festeggiamenti, libertà e vittoria.
Assorto nei suoi pensieri, Maxime non avvertì la mano che gli si posò sulla spalla, stringendogliela forte.
«Sei stato bravo, moccioso» si complimentò Alfredo, continuando a guardare la nipote e il fratello maggiore poco più avanti. Ancora non riusciva a crederci di aver salvato il fratello maggiore e la cognata, anche grazie all'intervento della fazione nemica.
«Il cielo ha voluto venirci incontro» ribatté Maxime, sollevato ma sempre in allerta. Temeva le imboscate dei soldati tedeschi, divenute sempre più frequenti negli ultimi tempi.
«Presto tutto questo finirà… il Duce ha le ore contate, e con lui questi invasori di merda!» decretò Alfredo, con sicurezza.
Quella guerra aveva strappato troppe libertà, troppo sangue era stato versato in nome di un'ideologia sbagliata e contorta, troppe alleanze sbagliate avevano decretato il destino di una Nazione, portandola alla deriva.
Tutto sarebbe finito, vero, ma ci sarebbe stato molto da ricostruire, da affrontare, da risanare.
Maxime si chiese fugacemente se gli spiriti dei partigiani avrebbero retto anche dopo la gloria, anche dopo la battaglia.
Ma preferì non soffermarsi troppo a riguardo. 
Qualsiasi conferma sarebbe giunta, a tempo debito.


Agnese, Maxime e i partigiani vennero accolti da una festante Anna, che corse felice ad abbracciare il padre, emozionata oltre ogni dire.
Seduta tra Alisea ed Angioletta, le due donne partigiane del gruppo, Agnese riconobbe la figura esile ma distintiva di sua madre Levda, intenta ad ascoltare le chiacchiere che le due donne stavano interloquendo chissà da quanto tempo.
Realizzò una forte nostalgia nel riconoscerla, e non le parve quasi vero. Le sembrò di assistere alla fine di un incubo durato troppo a lungo. 
Non appena Levda sollevò lo sguardo verso di lei, si alzò di scatto, arrancando verso la figlia maggiore.
Agnese notò che era stanca e affaticata, era dimagrita tanto. Non volle nemmeno immaginare per cosa lei e suo padre fossero passati nell'arco di quei mesi.
«Anja!» la chiamò Levda, con un filo di voce.
Agnese scoppiò in lacrime di nuovo, allargando le braccia emozionata verso la madre che credeva ormai perduta.
Si strinsero in un abbraccio forte, rassicurante.
«Visto bambina mia, stiamo tutti bene! Stiamo tutti insieme!».
Nonostante la voce stanca ed incerta, Levda rimase ferma e lucida come sempre.
Forse anche troppo.
Nel stringersi la figlia contro, percepì una presenza strana, toccandole il fianco.
Dai vestiti, attraverso il tocco, captò una spilla da balia, che teneva ferma una fascia attorno al ventre.
Levda la osservò attentamente, distaccandosi lentamente da Agnese.
«Ci sono tante cose di cui ti devo parlare… sono successe tante cose» comunicò la ragazza, umettandosi le labbra, imbarazzata.
La madre le scostò una ciocca di capelli dal volto, comprensiva.
«Avremo tutto il tempo per farlo» commentò dolce, mentre Anna e Furio le raggiunsero, la prima con entusiasmo, il secondo un po’ più lentamente, ma sereno in volto.
«Mi siete mancate così tanto!» esclamò Levda, accogliendo anche la figlia minore nel suo abbraccio, stringendole entrambe in contemporanea.
Furio abbassò lo sguardo, per non farsi beccare proprio mentre era stato colto da un moto di commozione improvviso.
Quel ricongiungimento fu un dono voluto da qualcuno che, lassù da qualche parte, aveva avuto pietà di loro.

 
 

Torino, 1970
 
Gabriele si strinse nel giubbino, affondando il mento nella corposa sciarpa grigia.
Quel pomeriggio non faceva poi così freddo, non vi era stata neanche nebbia durante la mattinata.
Eppure era da due giorni che Gabriele avvertiva un freddo strano che gli corrodeva le ossa, un gelo che nessuno era stato capace di alleviare in casa.
Successivamente a quanto gli era stato rivelato quella notte fatidica, Gabriele era andato a lavoro come sempre, non tradendo nessuna emozione.
Lavorava in un negozio di dischi, aveva trovato quell'impiego tramite un amico del conservatorio. Il proprietario ormai era anziano e non aveva figli, così quando Gabriele si era proposto per dargli una mano a mantenerlo, ne era stato davvero felice.
Quel giorno era filato tutto liscio finché non erano arrivati due turisti stranieri, tedeschi svizzeri per la precisione. Nel sentirli parlare con quell'accento tanto marcato, a Gabriele era mancato il respiro. 
Era tornato con la mente a quando, da bambino, lui e Massimiliano si rintanavano nella libreria di Agnese dopo la scuola, e ogni tanto la sentivano conversare con clienti stranieri che venivano a far visita. 
Ripensare a sua zia gli aveva montato un fastidio addosso insolito, pruriginoso.
Con una scusa, aveva lasciato tutto nelle mani del giovane cassiere e si era nascosto nel ripostiglio, intento ad attutire i succhi gastrici che gli erano saliti su e giù per lo stomaco.
Erano trascorsi due giorni di silenzio in casa, due giorni in cui Gabriele aveva evitato sistematicamente i genitori, facendo preoccupare Massimiliano e Magda, che avevano intuito qualcosa di diverso nell'aria, senza capire a cosa fosse dovuto quel cambio repentino di clima.
A breve avrebbero dovuto tutti festeggiare il suo matrimonio, eppure Gabriele non sembrava esserne così entusiasta.
La mente era altrove, il cuore in subbuglio.
Scoprire quella verità era stato come un fulmine a ciel sereno.
Passeggiando per il parco, Gabriele ripensò al momento in cui sua madre, in lacrime, gli aveva confessato tutta la verità sulle sue origini, su Agnese e su quello sconosciuto di nome Maxime Brünner.
Gabriele aveva ascoltato tutto senza fiatare, senza commentare niente. Ascoltava e un forte moto di rabbia nei confronti della donna che fino ad allora aveva creduto fosse sua zia materna gli montava dentro, come un cavallone che si abbatte imponente sulla battigia.
Romeo gli aveva stretto le spalle, ogni tanto gli aveva carezzato la guancia con quella sua mano ruvida, anche lui chiuso in un mesto silenzio. Aveva lasciato parlare solo Anna, tra un singhiozzo e l'altro.
Agnese ti ha amato tanto, tesoro mio.
Le parole di sua madre - o per meglio dire, della donna che lo aveva cresciuto, continuavano a vorticare nella testa di Gabriele, provocandogli le vertigini.
Voleva che tu crescessi in una famiglia normale, non avrebbe sopportato che ti additassero come figlio di nessuno… voleva la tua felicità, sopra ogni cosa.
Aveva avuto intenzione di passare alla boutique dove lavorava Silvana, prendersi un gelato con lei e dimenticare quella storia una volta per tutte. Ma gli era mancato il coraggio.
Agnese era morta portandosi quel segreto con sé, eppure in quel momento Gabriele stava avvertendo tutto il peso delle sue bugie addosso. Un peso che non avrebbe potuto sfogare su nessuno, se non con la diretta interessata, che a quel mondo non esisteva più.
Farlo con qualcun altro che non fosse lei lo trovò inutile e privo di senso logico.
Poco prima di raggiungere il parco, era passato dinnanzi alla libreria di Agnese. Ogni tanto Anna e Allegra andavano ad aprirla per farla arieggiare e sistemarla dalla polvere.
Anche suo nonno Furio ogni tanto andava a passarci le giornate, sedendosi sulla poltroncina in sala lettura, sfogliando l'album delle foto di famiglia.
Stava iniziando ad avere i primi segni di demenza senile, molto leggeri, ma che lo avevano già portato a darsi da fare per ricordare tutti i volti dei suoi cari, in particolare quello della sua amata moglie Levda, morta qualche mese prima della nascita di Allegra, nel luglio del 1950, e di sua figlia Agnese.
Di loro due, ormai, al vecchio Furio Martini restavano soltanto le fotografie e il libro de “Le affinità elettive” che Agnese non aveva mai concluso di leggere. 
Nel vedere le saracinesche abbassate, Gabriele evinse che quel giorno, alla libreria, non si era ancora recato nessuno.
Da quando Agnese era venuta a mancare, non ci aveva più messo piede lì dentro.
Aveva avuto l'impressione che il suo spirito fosse rimasto lì dentro, ad aleggiare tra quegli scaffali e quei libri, perfettamente a suo agio.
Da che Gabriele ricordava, Agnese trovava pace solo lì, tra quelle mura. Non era mai stata molto socievole, eppure in quella libreria, Gabriele aveva avuto la prova che quella donna era stata davvero capace di amare, forse in un modo diverso rispetto agli altri, in un modo più sottile ed impercettibile.
Si sedette su una panchina, sfinito.
Avrebbe ricominciato a piangere di nuovo, ne era certo.
Sospirò stanco, curvato in avanti.
Alzò di poco lo sguardo su un gruppo di bambini che giocavano in strada, assorto nei suoi pensieri.
«Gabriele?!».
Per un attimo, il ragazzo rimase sorpreso nel sentirsi chiamare. Pensò di esserselo immaginato e non gli diede troppo credito.
«Gabriele! Sei proprio tu?».
A quel punto si decise ad alzare la testa verso quella voce femminile che lo stava chiamando.
Era una ragazza snella, alta il giusto, capelli neri e mossi e un viso delicato e gentile. Indossava un maglione marrone su di una gonnellina a balze, le gambe avvolte da in paio di collant scuri e stivaletti bassi, che le arrivavano sotto al polpaccio.
Aveva una borsa ampia e una sciarpa a coprirle il collo e il mento.
Gabriele sorrise genuino nel riconoscerla.
«Ehi, Grecia! Quanto tempo!» esclamò sinceramente, contento di rivederla.
Era la ex di suo fratello, eppure continuava a farle una bella impressione. Era una ragazza affabile, gentile, anche molto laboriosa. 
Viveva a Moncalieri e si era stabilita a Torino per studiare quando conobbe Massimiliano.
Gabriele non era riuscito mai a capire quali fossero stati i reali motivi che l'avevano spinta a lasciarlo da un giorno all'altro, due anni prima. Stesso suo fratello non seppe spiegarselo, rimuginandoci sopra per mesi.
«Prego, siediti pure.»
«Davvero? Posso?»
«Certo, accomodati».
Grecia gli si accomodò di fianco, portandosi la borsa sulle gambe snelle. Non smise di sorridere nemmeno per un istante.
«Pensavo non fossi più a Torino» chiese poi Gabriele, per rompere il ghiaccio.
Grecia giocherellò con i bordi della gonna, prima di rispondergli.
«Infatti sì. Sono stata a Moncalieri fino al mese scorso. Ho trovato lavoro presso una rivista di moda, scrivo articoli sulle nuove tendenze e ogni tanto poso anche come modella, per arrotondare» raccontò poi, entusiasta e un po’ in imbarazzo.
Gabriele le sorrise incoraggiante, davvero felice per lei.
«Ne sono davvero contento» commentò infatti.
«E lo studio?».
Gabriele sapeva che Grecia studiava arte moderna all'Università, ma non appena gli fece quella domanda, notò un certo spaesamento in lei.
«Ho lasciato… ho avuto problemi a casa…».
I suoi tentativi di dissimulare non convinsero in tutto e per tutto Gabriele.
«Tu invece? Come te la passi?» chiese poi Grecia, sperando così di spostare l'interesse lontano da lei.
«Mi sono laureato al conservatorio e adesso lavoro in un negozio di dischi in centro. Ah, e tra qualche giorno mi sposo!».
Grecia lo guardò con occhi luminosi, felice di quelle novità così appetibili.
«Quindi tu e Silvana vi sposate finalmente! Era ora» esclamò giuliva, sorridendogli cortese.
Gabriele annuì in rimando, sorridente anche lui.
«Ti ricordi ancora di lei?» le chiese con sincerità, stupito.
«Certo che mi ricordo! Massimiliano mi parlava sempre di voi due come… la coppia… del secolo…».
Nel pronunciare quel nome, però, l'espressione felice di Grecia si smorzò appena, di nuovo. 
Cercò di dissimulare tornando a sorridere, in modo più esagerato rispetto a poco prima.
Gabriele si contenne dal ridere per le parole del fratello, preferendo concentrarsi su quanto avesse appena notato.
«È tornato, comunque. Per il mio matrimonio» la buttò lì, con finta innocenza. Studiò la reazione di Grecia, sperando di cogliere qualche gesto che potesse indurlo a sperare che un briciolo di sentimento per Massimiliano fosse ancora presente in lei.
«Ah. Bene, ne sono contenta» biascicò, persa in chissà quale pensiero.
«So che è di stanza a Napoli. Sarà una bellissima città» Grecia cercò di buttare sul vago quella conversazione, senza addentrarsi in territori troppo pericolosi.
«Già, mi ha detto che le piace molto infatti, ma…» e poggiò una mano sulla spalla di lei, accondiscendente.
«Ma tu gli manchi da morire».
Gabriele non aveva avuto conferme a riguardo, non sapeva davvero se stessero davvero così le cose, sapeva soltanto che quando Grecia lo aveva mollato all'improvviso, Massimiliano era stato diversi giorni chiuso in camera a piangere da solo, senza voler parlare con anima viva.
Poi si era rimesso in sesto, era uscito, si era divertito, finché non era arrivata la chiamata per la leva, che aveva accettato con grande felicità. Forse proprio per allontanarsi da quel posto che gli ricordava troppo Grecia e i momenti trascorsi insieme a lei.
Anche se non lo dava a vedere, Massimiliano era un romanticone, peggio di Gabriele, che era sempre stato più razionale e affidabile.
«Naah, non credo che in questi anni sia rimasto a pensare a me. Sarà andato avanti com'è giusto che sia» disse Grecia, più per convenienza che per vero interesse. Sul viso l'ombra dell'imbarazzo era ancora presente.
Gabriele però non volle lasciare la questione in sospeso.
«Sai, non ho mai veramente capito cosa ti abbia spinto a lasciarlo… insomma, si vedeva lontano un miglio che vi amavate-»
«Ho avuto i miei motivi, e poi l'amore va e viene» si giustificò Grecia, ma con poca convinzione.
A quel punto per Gabriele fu chiaro che c'era dell'altro in quella vicenda. 
Così decise di andare a fondo, sia per sperare che le cose per suo fratello migliorassero, e sia per togliersi dalla testa il tarlo fastidioso di Agnese che lo stava tormentando anche troppo ormai, concentrandosi su altro.
«Dovreste vedervi. Come amici, s'intende» provò così Gabriele, rivelando una certa caparbietà ed insistenza.
Grecia lo guardò come se non lo riconoscesse, sentendosi fin troppo spoglia davanti a lui.
«Ma tanto non avremo nulla da dirci» cercò poi di chiudere, deglutendo nervosa.
«Non penso lui voglia rivedermi.»
«E tu? Tu vuoi rivederlo?».
Grecia gli lanciò un'occhiata terrorizzata, presa in contropiede. Cercò di dissimulare tutto con un sorriso, ma ormai la sua maschera allegra stava traballando davanti alle richieste di Gabriele.
«Ehm, ti va un caffè, da qualche parte? Offro io» scattò poi, alzandosi dalla panchina come se fosse stata punta da una tarantola.
Gabriele la fissò sospettoso, ma accettò ugualmente l'offerta.
Raggiunsero un piccolo bar storico poco fuori il parco, non rimasero a chiacchierare chissà quanto, ma a Gabriele servì per distrarsi e non pensare ossessivamente alla faccenda che lo riguardava in prima persona.
Nonostante, ormai, avesse capito che Grecia avesse qualcosa da nascondere.
 

«Ecco, io vivo qui, a pensione» dichiarò la ragazza, indicando il balcone del terzo piano.
Gabriele annuì distrattamente.
Dopo che la vide inserire le chiavi nella toppa del portone, fece per salutarla e ringraziarla del caffè, ma Grecia lo bloccò per un braccio, prima di lasciarlo andare.
«Se vuoi dire a Massi che sono a Torino, per me non c'è alcun problema».
Grecia non lo guardò negli occhi nel dirglielo, ma l'imbarazzo misto alla vergogna Gabriele lo percepì ugualmente. Gli provocò un'immensa tenerezza.
«D'accordo. Ti auguro una buona serata» si congedò poi, scendendo gli scalini con una certa rapidità.
«Ancora auguri per il tuo matrimonio!» gli disse dopo qualche minuto Grecia, quando ormai Gabriele era già in strada, diretto verso casa.
Si limitò ad alzare una mano, senza voltarsi.
Una volta rimasto solo, il ricordo di Agnese tornò a fargli ancora visita, e per un breve attimo, sovrappose l'immagine di sua zia a quella di Grecia, senza spiegarsi bene il motivo.
Scosse il capo, deciso, e affrettò il passo.

 

 
1944, un mese dopo…
 
Dalla notte dell'assalto tutto era andato così rapido che non c'era stato neanche il tempo materiale di realizzare quanto fosse accaduto.
Agnese aveva riabbracciato i suoi cari, apprendendo da Alfredo che era stato tutto merito dell'intercessione di Gustaf e Maxime.
Il primo, in Germania, aveva preso parte alla Widerstand, la resistenza antifascista tedesca, ma era stato costretto ad arruolarsi nella Schutzstaffel per evitare l'arresto dell'intera famiglia, nonostante continuasse a seguire gli incontri in segreto. Se lui si era rivolto ai compagni del partito per trovare un modo per scagionare i coniugi Martini, Maxime si era rivolto all'unica persona che, dalla morte di Edina, gli aveva mostrato affetto e vicinanza: Feride Brünner, sua nonna materna.
Da che Maxime aveva avuto memoria, l'aveva sempre ricordata come una donna algida, impeccabile, inavvicinabile.
Eppure, dopo la perdita della figlia, era stata l'unica della famiglia a mostrare al nipote un briciolo di umanità.
Poco prima che Maxime raggiungesse Torino, Feride gli aveva fatto lasciare il suo recapito, nel caso avesse avuto bisogno di contattarla.
Maxime non aveva mai tenuto in conto l'eventualità di chiederle aiuto, aveva pensato addirittura che quel gesto di vicinanza fosse un modo come un altro per elargire la propria spocchia nobiliare, e che in un eventuale momento di bisogno, Feride gli avrebbe voltato le spalle senza ripensamenti.
Si stupì profondamente, invece, di constatare che sua nonna, appena fu messa al corrente della vicenda, avesse promesso di attivarsi riguardo all'arresto dei Martini.
Era una donna potente, intercedere per loro sarebbe stato un gioco da ragazzi.
Maxime si era rivolto a lei privo di speranza, ma nel vedere quanto la nonna si fosse impegnata per “accontentarlo”, se ne sentì sollevato e leggero.
Era stato contento di vedere Agnese così felice dopo tanto tempo, nonostante il mondo intorno a loro stesse andando in scatafascio, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto.
Gli scontri tra partigiani, tedeschi e fasci della RSI, istituita dopo l'armistizio del ‘43, erano all'ordine del giorno, giravano quotidianamente notizie di stragi nelle campagne, uccisioni, rastrellamenti…
Una battaglia fratricida che si consumava sotto gli occhi impotenti di tutti, un orrore senza fine.
Nonostante il clima non troppo a favore, Maxime aveva preso la sua decisione.
Il problema era doverlo riferire ad Agnese: non tanto per la paura di litigare ancora con lei, ma di farla agitare nel suo stato.
Ed era l'ultima cosa che avrebbe voluto far scatenare in quel momento.
Quell’ inaspettata verità era uscita fuori dal nulla, mentre Agnese era abbracciata a lui, il viso incassato sul suo petto e la voce spezzata. 
E tante emozioni erano venute a galla, investendolo senza pietà.
Decise, poi, che il momento giusto per affrontare la questione insieme sarebbe stata quella sera stessa, dopo cena.
Agnese si era seduta in veranda, all'aria fresca. Era stata stranamente taciturna per tutto il giorno, aveva sopportato le fantasticherie di Anna sul matrimonio che avrebbe voluto tanto celebrare, una volta che la guerra sarebbe finita.
Levda l'aveva guardata con aria sognante, unendosi al suo entusiasmo di bambina. 
Anche Agnese avrebbe desiderato esserne partecipe, ma la testa era altrove, verso lande sconosciute.
Mentre sua sorella era intenta a sognare un matrimonio che, se Dio avesse concesso, si sarebbe celebrato presto, invogliata ancor di più dalla presenza dei genitori, Agnese, invece, aveva la mente occupata da pensieri meno ameni, più oscuri.
Stava seriamente pensando di unirsi alla lotta partigiana, di combattere in prima fila proprio come Alisea ed Angioletta, donne di casa che si erano trovate ad impugnare un fucile per liberare la loro terra dagli usurpatori.
Voleva fare qualcosa di concreto con le sue mani, combattere e non subire il corso degli eventi restando immobile ad aspettare.
Lo avrebbe detto a Maxime, e in seguito al resto della famiglia.
Anche se non sarebbe stato facile convincerli a lasciarla andare, ormai la decisione era stata presa.
Persa nei suoi pensieri, sussultò nel sentirsi toccare la spalla dal nulla.
Si voltò e il sorriso timido di Maxime l'accolse, gentile.
«Maxime…» lo chiamò piano Agnese, abbozzando un sorriso. Saperlo accanto le rendeva l'animo più leggero. 
«Agnese…» disse lui di rimando, sedendole accanto sulla panca di legno.
Lasciò che si poggiasse sulla spalla, cingendo le sue con un braccio, stringendola appena a sè.
«Devo dirti una cosa» iniziò lui, un principio di paura tradì la sua voce.
Agnese si umettò le labbra, fissando il vuoto.
«Anch'io» rispose, ma con più decisione.
Maxime ondeggiò il capo, come a voler annuire.
«Dì prima tu» le concesse il giovane, fissando anche lui al di là delle roverelle, che recintavano naturalmente la tenuta.
Agnese deglutì, socchiudendo gli occhi, la tempia ancora appoggiata al suo omero.
«Mi unirò alla causa partigiana» dichiarò, senza ripensamenti.
Avvertì il petto di Maxime inglobare aria, per poi espellerla lentamente in un sospiro rassegnato.
«Ismaele e gli altri non la prenderanno bene…»
«Lo so. Ma non ho più intenzione di nascondermi. Dopotutto tante donne hanno preso in mano un fucile e sono scese in campo, al fianco degli uomini. Perché non potrei essere da meno?».
Maxime le rivolse uno sguardo triste.
«Perché tu…» e allungò una mano verso il suo ventre, leggermente lievitato e libero dalle fasciature «… non puoi permetterti di essere egoista».
Agnese sollevò lo sguardo, sfidandolo.
«Però tu sì invece, non è così?».
Improvvisamente Maxime si sentì nudo di qualsiasi barriera.
Agnese aveva già capito tutto, e sarebbe stato inutile, fuorché stupido, continuare a far finta di niente.
«Non devi seguirmi per forza, Agnese. Starò bene». Maxime cercò di risultare convincente, pensando erroneamente che Agnese avesse preso quella decisione perché lo reputava debole e malleabile.
«Io non voglio seguire te» lo smentí, però, prontamente Agnese, imbronciata.
«Voglio poter guardare in faccia mio figlio e dirgli un giorno che se è nato in un Paese libero, lo deve in parte a sua madre e a suo padre. Che mentre lo portavo in grembo, combattevo anche per lui, e per tanti altri bambini che in questo momento aspettano di nascere. E combatterò Maxime, non mi tirerò indietro».
Maxime non seppe controbattere a quelle parole. Esercitavano un fascino così particolare che, più che abbaglio, Maxime provò orgoglio puro nel vedere la donna che amava così combattiva e poco incline alla resa.
La guardava con ammirazione, ma allo stesso tempo non poté evitare lo stesso di preoccuparsi.
«Ma è rischioso, Agnese! Se ti succederà qualcosa-»
«Alisea è una levatrice, seguirà lei passo passo la mia gravidanza. Seguirò le sue indicazioni, e se mi dirà di dover recuperare le forze, lo farò. Ma voglio che tu sappia che non ti converrà lasciarmi indietro, perché ti raggiungerei fino in capo al mondo, anche con la pancia grossa quanto un'anguria!».
A Maxime sfuggì un sorriso, che non riuscì a camuffare. L'idea di vedere Agnese arrancare tra i sentieri di campagna, all'ottavo mese di gravidanza, con aria decisa e tronfia, gli suscitò ilarità.
Cercò comunque di ricomporsi, gli sembrò di prenderla in giro in modo cattivo.
Ma nel vedere che Agnese aveva sorriso alla sua stessa battuta, scoprì i denti definitivamente.
«Pensi che stia scherzando?» aggiunse la ragazza, cercando lo sguardo di Maxime, chiuso tra le palpebre strizzate per il riso.
«Guarda che ne sarei capace! Mi dovranno incatenare al letto, e neanche basterebbe! Troverei comunque un modo per raggiungerti e suonartele di santa ragione per non avermi permesso di partecipare!» e per rafforzare il concetto, Agnese picchiò leggermente il petto del tedesco, facendolo esplodere definitivamente dal ridere.
«E va bene, mi arrendo!» alzò le mani Maxime, ancora preso dal troppo ridere.
Si asciugò una lacrima scappata dalle ciglia, cercando di tornare serio.
«Ma ad una condizione».
Agnese si sollevò del tutto dalla sua spalla, fissandolo interdetta.
Maxime ricambiò lo sguardo, sollevando un angolo delle labbra in un sorriso malandrino.
«Heirate mich».
Agnese sgranò gli occhi, colta di sorpresa.
Sulle prime, pensò di aver avuto un'allucinazione uditiva.
Maxime iniziò a fissarla con aspettativa, sollevando le sopracciglia come un bambino in attesa del suo dolce preferito.
«Ehm, Max, perdonami, ma credo di non aver capito bene…» mentì Agnese, soltanto per indurlo a dirglielo ancora.
Maxime stralunò scherzosamente gli occhi, sbuffando aria dal naso.
«Sposami e ti lascerò fare quello che vuoi».
Agnese assottigliò lo sguardo, fintamente indispettita.
«Vuole essere un ricatto questo?» domandò, sospettosa. Maxime non riuscì a trattenere l'ennesima risatina.
«Proprio così» e si avvicinò al viso di Agnese, le punte dei loro nasi si sfiorarono «Frau Brünner».
Agnese indietreggiò di qualche millimetro, ancora più sorpresa di prima.
Ma la risposta, in cuor suo, la conosceva già da tempo.
Lo baciò sulle labbra, delicatamente.
«Non mi resta che cedere, allora».
E il bacio continuò, sotto una coltre di stelle luminose che formavano un sentiero di luce, diretto chissà dove nei meandri oscuri del cielo.
 

Come era ovvio, Blanca e Levda furono contrarie a mandare Agnese tra le montagne nel suo stato. Furio ed Ismaele avevano fermamente appoggiato le loro consorti, cercando di convincere la giovane a desistere.
Avevano perfino implorato Maxime di farle cambiare idea, ma il tedesco sapeva che sarebbe stato soltanto fiato sprecato.
Così, una settimana dopo, seduta su di un carretto, accomodata su delle coperte di lana, Agnese s'incamminò con Maxime e Gustaf presso il rifugio di Alfredo, non prima di aver ricevuto mille raccomandazioni da parte dei suoi genitori e dei suoi zii.
Abbracciò fortissimo sua sorella, promettendole che si sarebbe mossa cauta e che sarebbe tornata per il suo matrimonio, fosse venuto giù il mondo nel frattempo.
Con il cuore in mano e l'adrenalina sparata a mille, Agnese e Maxime intrapresero quel cammino insieme, con la speranza di ritrovare, una volta tornati, la loro terra dei limoni intatta, proprio come la stavano lasciando in quel momento, un passo alla volta.

 
 

1970
 
Massimiliano aveva finto indifferenza nell'apprendere dal fratello maggiore della presenza della sua ex fidanzata in città.
Aveva ribadito con perfetta nonchalance che ormai quella era storia vecchia, e che di rivedere la donna che le aveva spezzato il cuore non gliene importava assolutamente nulla.
A parole, Massimiliano aveva detto tante cose, troppe.
Ma la verità era stata che da quando Gabriele gli aveva riferito tutto, non aveva smesso di pensare a Grecia neanche per un solo istante.
Aveva rivisto gli amici di sempre durante quei giorni di licenza, aveva fatto come se niente fosse.
Era da due anni a quella parte che aveva cercato di dimenticarla, di odiarla addirittura. La pace interiore non l'aveva mai davvero raggiunta.
In parte, però, Napoli aveva provveduto ad alleviare i suoi tormenti, distraendolo dal dolore di quella rottura.
E nonostante avesse giurato a sé stesso che non sarebbe tornato da Grecia neanche strisciando, dopo una notte passata a rigirarsi tra le coperte, agitato, Massimiliano decise di togliersi quel dente una volta per tutte.
Gabriele gli aveva lasciato l'indirizzo della pensione sulla scrivania, anche se Massimiliano non glielo aveva chiesto esplicitamente.
Aveva ringraziato internamente il fratello per aver letto oltre, come sempre, nei suoi comportamenti, nonostante in quegli ultimi giorni gli fosse parso strano e assente.
Sperò non avesse problemi con Silvana, e che se anche fosse stato così, almeno si augurò si trattasse di quisquilie di poco conto.
Aveva raggiunto la pensione con il cuore in mano e passo nervoso.
Non sapeva come avrebbe davvero reagito nel trovarsela davanti, dopo tutto quel tempo di silenzio e lontananza.
Bussò incerto alla porta della sua stanza, e per un solo istante, si augurò di non incontrare nessuno.
Bussò di nuovo, un po’ più deciso.
Una voce ovattata dall'interno avvisò del suo imminente arrivo, e Massimiliano pregò che la terra gli si aprisse sotto i piedi per nascondersi.
La porta si aprì, e il ragazzo puntò lo sguardo verso la punta delle scarpe, irrequieto.
«Massi?!».
A quel punto, sollevò lo sguardo, ritrovandosi gli occhi castani e sorpresi di Grecia che lo fissavano sgomenti.
Si era fatta ancora più bella dall'ultima volta che si erano visti, aveva un'aria decisamente più… adulta.
Massimiliano dovette soffocare un'imprecazione tra i denti.
«Posso entrare?» fu la sua unica risposta piatta, un po’ dura.
Dopo una breve esitazione, Grecia lo invitò ad entrare, ancora frastornata per la sua visita improvvisa.
Era passato qualche giorno dall'incontro con Gabriele, ma non si era aspettata che fosse riuscito a convincere il fratello ad andarla a trovare.
Si sentiva in bilico tra la voglia di scappare e quella di saltargli al collo per la gioia.
Massimiliano si era fatto più muscoloso, piazzato. La giacca di pelle che indossava s'intonava molto con i suoi capelli neri e gli occhi grigioazzurri. 
«Quanto… tempo…» riuscì solo a mormorare Grecia, avvampata in viso. 
Massimiliano si guardò intorno, passando in rassegna ogni particolare della stanza: un letto matrimoniale, due comodini, un armadio di legno pregiato, tende color panna che nascondevano le finestre del balcone…
Gli sembrò tutto stranamente familiare e allo stesso tempo tutto estraneo.
«Somiglia molto alla tua vecchia stanza…» dichiarò Massimiliano, poggiando la sguardo ovunque, men che meno sulla diretta interessata.
Grecia si strinse nel maglione di lana beige, nascondendo le mani nelle ampie maniche.
«Mica è così simile alla prima» commentò, più per rompere il ghiaccio che per altro.
Massimiliano non la guardava, eppure lei non poteva fare a meno di fissargli la schiena, attratta da quella figura protettiva e familiare. 
«Ti offro qualcosa?» chiese poi, incolore, stretta nel suo maglione che le arrivava poco sopra le ginocchia nude.
Massimiliano si voltò verso di lei, con espressione dura. 
«No, grazie» buttò lì, ancora distratto.
Grecia avrebbe voluto prendergli il viso tra le mani e girarlo nella sua direzione, ma le braccia non volevano collaborare, tremavano al solo pensiero di poterlo sfiorare anche solo di sfuggita.
Giocherellò sul posto con i piedi nudi, soppesandosi prima sull'una e poi sull'altra gamba, agitata.
«Perché sei venuto qui?» si sforzò a chiedere ancora Grecia, la voce tradì il suo timore crescente.
Massimiliano si sedette sul letto lentamente, poggiando i palmi aperti sul materasso, sospirando.
«Ero curioso di vedere come te la passassi» rispose vago, illeggibile in viso.
«Ma se vuoi che me ne vada-»
«No! No, certo che non voglio!» mise le mani avanti Grecia, inquieta.
«È solo che… insomma… non mi aspettavo di vederti qui. Sai, sono un po’ emozionata…».
Si sistemò una ciocca nera dietro l'orecchio, ridendo nervosa.
A Massimiliano gli si addolcì leggermente lo sguardo nel vederle compiere quel gesto.
Grecia era sempre stata una ragazza molto timida con chiunque, e quando qualcosa le provocava nervosismo, se la prendeva spesso con i suoi capelli, giocherellandoci o attorcigliandoli tra le dita, dissimulando qualsiasi aspettativa stesse provando.
«Sì… in effetti forse ho fatto male a venire. Dopotutto io e te… ecco…».
Massimiliano non seppe come continuarla quella frase. Iniziò a pensare che, tutto sommato, non sarebbe dovuto andare lì seguendo l'istinto. 
Aveva rivisto Grecia dopo due anni, ma le cose non sarebbero di certo cambiate.
Era stata lei a lasciarlo, perché continuare a farsi del male inutilmente?
«Ma no, invece. Sono contenta di vedere che stai bene» prese la palla al balzo la ragazza, cercando di calmare il battito accelerato del cuore, temendo che potesse sentirsi per tutta la stanza, perché lei ne percepiva il rimbombo ovunque, sotto pelle e nei timpani delle orecchie.
Massimiliano tornò a guardarla, di nuovo duro.
«No, io non sto bene Grecia, non sto bene per niente» fu invece la sua risposta finalmente sincera.
Grecia spalancò gli occhi a quella rivelazione improvvisa.
«Se sono venuto qua era solo per mettere un punto a questa situazione. Sono due anni che non trovo pace, che non faccio che domandarmi cosa avessi sbagliato con te… ti giuro che ho cercato di andare avanti, ma tu eri sempre lì, nei miei pensieri, dannazione!».
Massimiliano vomitò quelle parole rapidamente, deglutendo e sospirando a fatica.
Grecia lo fissò dispiaciuta, la bocca e il naso nascosti dalla manica del maglione.
Avrebbe tanto voluto dirgli il motivo per il quale si era dovuta allontanare da lui, all'improvviso. Sapeva che lo aveva ferito indelebilmente con quel gesto, ma non aveva potuto fare altrimenti, non vi era stata altra miglior soluzione se non sparire dalla sua vita per sempre.
Ma adesso che se lo era ritrovato di nuovo davanti agli occhi, Grecia non seppe più affermare se la scelta intrapresa anni prima fosse stata davvero la migliore.
«Ti ho pensato tanto anch'io Massi, è la verità» riuscì solo a mormorare, fissando le mattonelle del pavimento con una certa insistenza. 
«Ma adesso abbiamo due vite diverse, tu sei a Napoli, io invece-»
«E se ricominciassimo?».
Grecia sussultò nel sentirlo parlare a quel modo. Sulle prime, le venne quasi da ridere.
«Cosa?» ripeté, interdetta.
«Ricominciamo da capo. Ricominciamo a conoscerci, anche da amici mi va bene. Sono disposto a concedermi una seconda possibilità con te, se tu vorrai. Ma ci andremo piano, se è questo che vuoi».
Grecia lo guardò stupefatta.
Massimiliano era convinto che in passato fossero andati troppo di fretta, e per questo poi avevano finito per allontanarsi, perché si erano riscoperti incompatibili.
Non poteva neanche lontanamente immaginare che non fosse quella la vera ragione per cui Grecia aveva interrotto la loro storia.
«No» fu la sua risposta, scuotendo il capo più volte.
«No, io non voglio questo!» dichiarò, incespicando nei propri passi.
«Hai ragione, hai fatto male a venire qui!».
Tuttavia, la paura di far venire a galla quella verità ebbe il sopravvento.
Prese Massimiliano per un braccio e lo condusse alla porta, le lacrime gli iniziarono a rigare il volto senza sosta.
«Non saresti dovuto venire qu-».
Grecia si trovò le labbra di Massimiliano attaccate alle sue, senza minimamente aspettarselo.
Inizialmente il bacio fu impacciato, ma con l'incalzare dell'insistenza, divenne più languido e passionale.
Ad un tratto, tutto svanì.
Svanì la paura, la vergogna, il passato.
Svanì la timidezza, il riserbo, la compostezza.
I loro corpi si volevano, si cercavano come calamite.
Grecia si lasciò prendere da Massimiliano e si lasciò stendere sul letto, intontita e languida. 
I baci che Massimiliano le lasciò sulla pelle bastarono a farle mollare ogni freno inibitorio che si era imposta, abbandonandosi completamente a quella confusione di baci, carezze e abbracci.
Magari affondandoci dentro e uscirne solo per respirare.
 

«C'è qualcuno nella mia vita».
La voce di Grecia uscì roca e stanca, mentre Massimiliano era intento a baciarle ripetutamente la fronte e ad accarezzarle la spalla nuda.
«Mm mm» mugugnò indifferente Massimiliano, come se la cosa non lo riguardasse più di tanto. Preferì continuare a vezzeggiarla piuttosto che darle retta.
«Si chiama Riccardo» Grecia lo sussurrò ad occhi chiusi, una lacrima le scivolò dalle ciglia, percorrendole la guancia.
Massimiliano si fermò, bloccando le labbra sulla sua tempia in un bacio lento, morbido.
Avvolta nel suo abbraccio, a Grecia cominciò a mancare l'aria. Temette di non trovare il coraggio di proseguire, che Massimiliano l'avrebbe odiata definitivamente.
Si aggrappò al suo braccio, sospirando.
«Tra due mesi compirà due anni».
Il viso le si stropicciò in una smorfia di dolore, trattenne a stento un singhiozzo.
Ogni volta, dopo l'amore, Grecia si sentiva sempre così fragile, non riusciva mai a controllare le proprie emozioni. Specialmente se era in procinto di rivelare qualcosa di importante.
Ma rimandare sarebbe stato inutile e insensato. Massimiliano doveva sapere, doveva conoscere, soprattutto dopo quanto successo in quella stanza quel pomeriggio.
«È nostro figlio».
Massimiliano si sollevò per guardarla in viso, attonito.
Grecia piangeva, coprendosi il viso con le mani, affranta.
Si sentì afferrare il polso con gentilezza, intrecciando in seguito le dita tra quelle dell'altro, con estrema lentezza.
«Mi hai lasciato perché eri rimasta incinta?» chiese Massimiliano, ma senza risultare arrogante o ferito.
Grecia annuì, voltando il viso verso la finestra, per non essere costretta a guardare negli occhi Massimiliano, ancora allibito dalla notizia.
«Avevi tanti sogni, tanti progetti… ti ho lasciato perché volevo sbarazzarmene… ma non ho avuto il coraggio».
Grecia era un fiume di lacrime mentre rivangava quegli eventi dolorosi del passato.
La paura di non essere all'altezza, di non riuscire ad essere una madre degna, di dover tenere testa alle chiacchiere e di non poter realizzarsi con serenità perché adesso aveva un bimbo a cui badare.
Tante volte aveva avuto la tentazione di rintracciarlo, di raggiungerlo a Napoli con Riccardo in braccio pur di mostrargli quel bambino che amava, perché era nato dal loro amore, ma che aveva preferito sacrificare per permettergli di inseguire i suoi progetti di vita senza intoppi e incidenti.
Grecia si era rassegnata a quella vita, ma il destino aveva deciso altro. Forse mosso da un Mangiafuoco invisibile, che aveva mosso le fila affinché entrambi si ritrovassero e si ricongiungessero.
«Adesso ce l'hai un motivo per odiarmi. Adesso sarai soddisfatto» mugugnò Grecia, asciugandosi le lacrime e alzandosi, scostandosi Massimiliano di dosso e coprendosi il seno con la coperta. Poggiò il viso tra le ginocchia coperte, nascondendolo in parte tra le braccia, evitando volutamente il contatto visivo con Massimiliano.
Ma non appena sentì una carezza tra i capelli, compì lo sbaglio di alzare il viso nella direzione opposta.
Il castano dei suoi occhi si confuse con il grigioazzurro del compagno, facendole mancare il respiro.
Grecia si aspettò una scenata, un rimprovero, non lo avrebbe di certo biasimato.
Ma Massimiliano non sembrò per nulla sul punto di esplodere o trattarla male.
«Tu sei tutta scema!» e sghignazzò, mostrando la dentatura bianca in un sorriso accomodante. Grecia rimase scioccata a quella reazione.
«Che vuoi-»
«Ti sei voluta accollare tutto da sola per farmi intraprendere la carriera che volevo? Ma che ci tieni inda ‘sta cap!» e le sbatté docilmente la fronte contro la sua, non smettendo di ridere.
Tra il confuso e il divertito, Grecia rispose di rimando alle sue risate, perplessa.
«Non ho capito le ultime parole!» esclamò, sfuggendo alle testate di Massimiliano, che non le davano tregua.
«È napoletano, picceré» continuò a prenderla in giro Massimiliano, euforico.
«Magari un giorno di questi, te lo insegno per bene. E anche a Riccardino.».
Nonostante il ragazzo lo avesse detto con aria sorniona, a Grecia non parve affatto una battuta detta tanto per dire.
Le sembrò invece il preludio di una dolce promessa, l'inizio di un nuovo cammino da intraprendere insieme.
«E allora, quando me lo presenti il mio rivale?» continuò, mordendo la punta del naso di Grecia, che lo colpì fintamente infastidita.
«Sei sicuro di volerlo conoscere? Guarda che in quanto a bellezza ti batte al cento per cento» lo provocò Grecia, tirando su col naso. Le lacrime avevano lasciato il posto ai sorrisi luminosi e carichi d'amore.
«E che problema c'è? Tanto c'ha i miei geni, di che mi preoccupo!» e se la strinse contro in un abbraccio caloroso, trascinandola giù tra i cuscini.
Rimasero in quella posizione per un bel po’ di tempo, beffandosi a vicenda e regalandosi baci e carezze ad intervalli alterni.
«Te ne sono grato, Grecia» disse poi ad un certo punto Massimiliano, sazio di amore e felicità.
«Per cosa?» chiese Grecia, sinceramente incuriosita.
«Per esserti presa cura della mia pianta di limoni…».
Grecia non riuscì a cogliere ciò che realmente avrebbe voluto dirle.
Lo guardò come se avesse voluto trovare la risposta nei suoi occhi, o da qualche parte scritta in volto.
«Poi te lo spiego» si limitò a dire Massimiliano, captando la curiosità silenziosa della compagna.
E mentre tornavano a rilassarsi, incuranti delle ore che passavano, un fugace pensiero corse a quella zia tanto misteriosa, che in tempi non sospetti, gli aveva augurato di trovare la sua terra dei limoni, come se fosse stato l'augurio e al contempo l'eredità più grande che gli avesse lasciato. A lui, come a Gabriele e alle loro sorelle.

 
 
Dove sei, unico amore che rivivrei?


 
Ho delle cose da dire riguardo a questo capitolo, sul risultato totale ne parlerò al prossimo, che è anche quello conclusivo.
Le vicende di Agnese, Maxime e tutti gli altri si concludono ufficialmente qui.
Non so se la scelta, ad un certo punto, di alternare la temporalità delle scene sia stata giusta o meno, sicuramente è stata quella meno faticosa per me.
Ho iniziato a scrivere questa storia inseguendo un'idea, che non era l'idea originale da cui era partita.
Ma mi ha stupito che, nonostante i giri immensi, Agnese sia giunta ugualmente al suo destino originale, ossia quello di diventare una partigiana.
Avrei voluto scrivere più nel dettaglio il periodo storico della Resistenza, dargli più voce e spessore, renderlo più presente… ma mi sono dovuta accontentare di quanto ho riportato.
Su Agnese vorrei dire tante cose, lei ed Anna hanno atteso con pazienza il loro momento di uscire fuori dai miei appunti, e lo stesso mi piacerebbe dire su Gabriel e Maxime, che sono più “giovani” rispetto alle loro controparti femminili.
Mi sono resa conto, scrivendo, che entrambi, pian piano, mancavano sempre più di spessore, diventando sempre più dei fantocci utili alla narrazione. 
Perché ovviamente Gabriel non potrà mai sostituire colui che era nel destino di Agnese, così come anche Maxime.
Diciamo che ci ho provato, ho provato a mescolare l'alchimia, ma il risultato non è stato dei migliori.
Avrei dovuto ascoltare di più Agnese, e credo di averla soltanto limitata nel suo essere.
Ovviamente queste sono mie considerazioni, se voi che leggete la pensate diversamente sono contenta, anzi meglio così, in fondo.
Ho buttato giù questa storia in un momento molto difficile per me, e il solo fatto di essere riuscita a scrivere è stato davvero confortante, e ne prendo il buono, come sempre.
L'ultimo capitolo vorrei farlo uscire prima di Pasqua, ma non so se riesco.
Mi dilungherei ancora, ma sarebbe inutile.
Alla prossima con il capitolo finale 👋👋👋
Flying_lotus95

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Capitolo 13
*** 13 - (Argilla) tra le mani ***


Prompt: Argilla

 

Capitolo 13
(Argilla) tra le mani



 
 
Quando un desiderio cade, 
allora tu esprimi nuove stelle.
 


Torino, 1970
 
Il primo ricordo che Gabriele aveva di Agnese risaliva ai suoi primi cinque anni di vita.
Si era arrampicato sulla quercia più alta del casale, Romeo lo prendeva sempre in giro, additandolo come una scimmietta dispettosa che amava nascondersi nei posti più disparati.
Gabriele l’aveva vista giungere da lontano, con una valigia enorme in mano, i capelli raccolti e lo sguardo torvo e concentrato.
Era una donna bellissima, la più bella che Gabriele avesse mai visto prima di allora. Forse addirittura più bella di sua madre Anna.
Agnese si era fermata alle radici della quercia, alzando lo sguardo verso il ramo dove il piccolo si era arrampicato.
Inizialmente gli era parso che quella sconosciuta volesse rimproverarlo attraverso i suoi occhi castani e alteri, ma poi l'aveva vista sciogliersi in un lento sorriso.
Aveva poggiato a terra la valigia, si era tirata su la gonna e tolta le scarpe, e si era arrampicata a sua volta, raggiungendo il ramo.
Lo aveva invitato a seguirla ed insieme erano scesi giù dall'albero.
Anna li aveva trovati stretti l'uno all'altra, la sorella maggiore che non vedeva da anni che cullava quel bambino con una dolcezza tale da toccarle il cuore.
Per tanto tempo, Gabriele aveva pensato di esserselo sognato quell'evento. Che quel profumo di betulla e altea fosse stato frutto della sua illusione infantile.
Pian piano si era abituato alla presenza discreta di quella zia misteriosa, venuta da chissà dove, portatrice di chissà quale segreto che non aveva mai condiviso con nessuno.
Erano passati gli anni, i momenti belli e quelli meno belli, e Gabriele adesso si trovava a pensare ancora a lei, davanti la porta di quella libreria che Agnese aveva curato e accudito neanche fosse stata per lei una persona, una pianta o un cucciolo a cui dedicare tutto il suo amore e il suo tempo.
Erano giorni che il ragazzo passava di lì, ma quel martedì, caso aveva voluto che avesse notato la saracinesca aperta a metà, fermandosi più del necessario lì davanti.
Indeciso se entrare o andarsene senza pensarci troppo.
Si lasciò convincere nel vedere dalle vetrate la figura di suo nonno Furio, intento a spolverare gli scaffali.
Come attratto da una forza mistica, Gabriele si decise a varcare la soglia, sussurrando un permesso che aveva tutto il sapore di uno scusa.
Oltrepassò il bancone, la cassa, il vaso con le maioliche greche e raggiunse il salone dove suo nonno si era messo a spolverare gli scaffali in alto.
Ultimamente non aveva molto equilibrio, e in più di un occasione Furio aveva rischiato di cadere a terra mentre puliva, se non fosse stato per l'intervento tempestivo di Anna e Allegra, che per un motivo o l'altro, erano sempre lì nei paraggi a far qualcosa.
Con cautela, Gabriele decise di richiamare l'attenzione su di sé.
«Nonno! Che stai facendo, scendi giù» lo chiamò con delicatezza, cercando di non spaventarlo.
Nel voltarsi, il vecchio Furio sulle prime lo fissò con sospetto, poi dopo qualche secondo, gli sorrise calorosamente.
«Gabriel! Was machst du hier?» esordì l'anziano, scendendo con cautela le scalette di legno non proprio resistenti. Gabriele osservò ogni passo con estrema apprensione, pronto a buttarsi in avanti per aiutarlo.
Per fortuna, Furio scese la scala senza intoppi, tranquillo.
«Sei venuto a vedere le foto di Agnese? Ti aspettavo, ragazzo mio! Vieni!».
Gabriele aveva capito che il nonno non lo aveva riconosciuto. Negli ultimi tempi lo chiamava spesso Gabriel e si rivolgeva a lui in tedesco.
Alla curiosità espressa da Anna a riguardo, una domenica a pranzo tutti insieme, Furio aveva semplicemente risposto che, essendo tedesco, quel ragazzo avrebbe avuto difficoltà a capirlo se si esprimeva in italiano.
Gabriele aveva visto il volto di sua madre cambiare a quelle parole, farsi ombroso e triste.
Non conosceva quel Gabriel di cui suo nonno parlava, eppure sentiva di appartenergli, in un certo senso.
Come se la sua storia e quella di quel suo quasi omonimo fossero indelebilmente intrecciate l'una all'altra.
Seguì suo nonno fino alla poltroncina rossa dove ormai sedeva tutte le volte che andava lì, a rintanarsi.
«Setz dich, bitte» lo invitò Furio, mostrandogli la sedia accanto.
Gabriele non se lo lasciò ripetere una seconda volta.
Non aveva capito esattamente cosa gli avesse detto, ma nell'indicargli la sedia, era andato per intuito.
«Puoi parlare italiano, capisco lo stesso» provò Gabriele, sperando che il nonno cogliesse l'antifona.
«Mmh… va bene, figliolo! Agnese è stata una brava maestra con te a riguardo!».
Quella risposta detta con una certa serenità lasciò Gabriele terribilmente spiazzato.
«Quando Agnese partì per l'Italia, volle portarsi con sé l'album di fotografie… diceva che sfogliandolo, avrebbe avuto meno nostalgia di casa».
Furio iniziò a sfogliare il vecchio album di foto dalle pagine ingiallite e rose dal tempo. Ad ogni pagina, Furio carezzava una per una le fotografie apposte, talvolta indicando i volti di persone che a Gabriele erano note e altre che non lo erano.
«Oh, guarda! Questi siamo io e i miei fratelli! Ismaele era il più grande, poi venivamo io e Alfredo… due scavezzacollo inseparabili» affermò Furio sorridendo, quasi commosso.
Gabriele sorrise a sua volta, intenerito.
«Un po’ come me e Massimiliano» mormorò, cercando di essere compartecipe dei ricordi del nonno.
Ma l'uomo lo fissò interdetto, come se avesse appena sentito qualcosa di buffo e inappropriato al contempo.
«Massimiliano? E chi è Massimiliano?».
Gabriele non si stupì affatto della sua reazione. Tra l'altro, in quel momento, Furio non stava neanche parlando con lui, ma con una persona che evidentemente gliela ricordava.
«Mio fratello Massimiliano, nonno!» provò ugualmente a dire, sperando che nella mente di Furio trasparisse un barlume di lucidità.
Ma Furio restò con quell'espressione inebetita sul viso, perso nei suoi pensieri.
«Ma tu non hai fratelli, Gabriel!».
In un altro momento, Gabriele avrebbe riso di quel commento. Ma alla luce di quanto aveva appreso, si limitò soltanto a stendere le labbra in un sorriso amaro.
Un'altra cosa in comune che ho con questo sconosciuto, oltre al nome, pensò.
«Comunque, dicevo: io e mio fratello Alfredo siamo stati tanto legati. Poi i nostri genitori sono morti, e Ismaele si era appena sposato… mi ha dovuto mandare in Germania per non farmi morire di fame. Sono stati tempi duri…».
Gabriele quella storia la conosceva ormai a memoria.
Suo nonno, da quando aveva iniziato a stare male, gliela ripeteva sempre, quasi si sentisse perseguitato inconsciamente dal timore di dimenticarsi per sempre i loro volti, i volti della sua famiglia.
«È stato un bene che Ismaele, molti anni dopo, si sia preso in casa le mie figlie… la situazione in Germania non era delle più floride, e io e Levda ci eravamo esposti troppo… a volte penso di essere stato un cattivo esempio per la mia Agnese…».
Gabriele assottigliò lo sguardo. Voleva saperne di più a riguardo.
«Cattivo esempio? Perché?» domandò, studiando l'espressione dispiaciuta del nonno.
Furio si sistemò meglio sul divano, mugolando ad un dolore improvviso alla schiena.
«Perché se non le avessi insegnato, e soprattutto inculcato, cosa significasse battersi per una giusta causa, a quest'ora avrebbe cresciuto suo figlio in totale serenità. Magari accanto a suo marito».
A Gabriele mancò un battito nel sentire quelle due parole che, associate ad Agnese, le trovò altamente fuori luogo: figlio e marito.
«Anna si è sistemata, ha avuto i suoi tre figli, ha un marito che le vuole bene… Agnese è rimasta sola, per colpa mia».
Gabriele non capiva affatto cosa c'entrasse Furio con le scelte di Agnese.
«Non capisco, nonno…»
«Ti ricordi il giorno che sei venuto in casa nostra, ad arrestarci?».
Gabriele sgranò gli occhi a quella rivelazione.
«Cosa?».
Ma Furio non ebbe tempo di rispondergli, preso com'era dal flusso dei ricordi.
«Mentre gli altri soldati buttavano giù tutto, tutti i nostri libri, i nostri articoli, buttavano per aria i nostri oggetti più cari, ti ho visto andare dritto verso la stanza di Agnese… ne sei uscito e ti ho visto sorridere, ma non dal disprezzo. Sembravi stessi sorridendo dal sollievo. Perché Agnese non era più lì…» e come in preda ad uno spasmo improvviso, afferrò la collottola di Gabriele, avvicinando i loro visi, come se Furio fosse stato sul punto di dichiarare qualcosa di importante.
«…e non poteva assistere al tuo ulteriore degrado».
Quelle parole, dette a voce strozzata, fecero rabbrividire Gabriele, sentendosi investito di una colpa che non era sua.
«Mi sono sempre chiesto come avessi potuto farle una cosa del genere… lei ti amava…». La stretta al colletto della camicia perse lentamente presa e intensità, dando modo a Gabriele di raddrizzarsi, scioccato da tutte quelle rivelazioni.
«Ti ha amato così tanto, che ha dato a suo figlio il tuo nome, pur di redimerti».
Gabriele a quel punto si sentì come se tutto intorno iniziasse a vorticare talmente veloce da lasciarlo senza fiato e senza appoggio.
Gli tremava il labbro, e il respiro gli stava iniziando a mancare in gola.
Voleva scappare, fuggire via dai ricordi confusi di Furio che lo associavano ad una persona che non era mai stata, ad uno sconosciuto che aveva fatto del male alla sua famiglia.
«Però… io non ti ho mai davvero odiato. Sei cresciuto in casa mia, hai mangiato alla mia tavola, hai giocato con le mie figlie… prima che quelle leggi assurde prendessero piede nella nostra società, e scegliessero chi fosse nemico di chi».
Furio tremava, aveva gli occhi lucidi. Gabriele si sentì investito di quel dolore che faticava ad uscire fuori. 
Un dolore che aveva devastato suo nonno per anni, e non aveva toccato solo lui, ma anche il resto della sua famiglia.
«Sono convinto che in un'altra epoca, in un altro momento, tu e Agnese sareste stati felici… e magari il piccolo Gabo sarebbe potuto essere tuo. O forse no… ma almeno avresti avuto un finale diverso».
Gabriele si era reso conto troppo tardi di aver scoperchiato il vaso di Pandora, senza volerlo.
Il suo cuore non stava reggendo a tutte quelle rivelazioni, una più gravosa dell'altra.
Poggiò una mano sulla spalla del nonno, mordendosi nervosamente il labbro inferiore. 
«Mi dispiace, herr Furio. Mi dispiace per tutto il dolore e il dispiacere che ti ho causato…».
Per un attimo, per un solo, breve, istante, Gabriele impersonificò quel Gabriel a cui, per tutto il tempo, Furio si era rivolto.
«E voglio chiedere scusa anche ad Agnese. Per tutto il male che le ho fatto…».
Le lacrime non smisero più di scendere lungo le guance, rinfrescandogli il rossore spuntato sulle gote.
Furio gli mise una mano sul viso, commosso anche lui.
«È tutto passato, figliolo. È tutto passato…».
Gabriele era ormai in un fiume di lacrime. Avrebbe tanto voluto sentire quelle cose in un altro modo, magari attraverso le parole della madre biologica, del perché non si era presa in carico la sua crescita, e del motivo per il quale gli avesse lasciato in eredità quel nome tanto scomodo e greve.
Erano domande destinate a non ricevere mai una vera e propria risposta.
Nel frattempo, Furio staccò una delle fotografie dalla pagina ingiallita, e la pose al giovane, con dita tremanti.
«Qui tu e Agnese eravate insieme, ricordi? Avevi vinto la maratona… quanto eravate giovani!».
Gabriele osservò la foto, singhiozzante.
La prese in mano e guardò il suo quasi omonimo sorridere verso l'obiettivo, mentre stringeva a sè una giovanissima Agnese, radiosa come non l'aveva mai vista prima.
La foto era datata 17 luglio 1936.
Realizzò in quel momento, dopo due anni dalla sua scomparsa, che Agnese le mancava terribilmente, come l'aria.
Avrebbe voluto correre da lei e abbracciarla fortissimo, chiederle davvero scusa per non aver mai capito, per non averla mai potuta chiamare, neanche una sola volta, mamma.
Gli fece male realizzare tutto ciò, così male che avrebbe voluto scappare via da quella libreria, a gambe levate.
Ma si costrinse a restare, ad asciugarsi le lacrime e capire dove i ricordi di suo nonno lo stessero dirigendo.
«Vediamo altre foto, nonno, eh?» chiese infine Gabriele, il sorriso bagnato di lacrime. 
Come se ad un tratto si fosse svegliato da un bel sogno, Furio lo guardò con occhi nuovi, di nuovo stupito.
«Gabo?! Ma… da quanto tempo sei qui?» chiese, guardandosi attorno come se fosse alla ricerca di qualcuno.
«Da un po’, solo che non volevo disturbarti…» mentì sorridendo, sistemandosi la foto di Agnese e Gabriel nella tasca interna del giubbotto.
«Stavo dormendo, vero? Credo di aver sognato qualcuno… ma non ricordo bene chi fosse» replicò Furio, con aria stordita.
Gabriele gli mise una mano sul ginocchio, stringendoglielo appena.
«Hai chiamato zia Agnese più volte…».
Glielo disse più per studiare la sua reazione che per presa in giro.
Furio annuì lentamente alle sue parole.
«Sì, tua zia, la sogno sempre…» commentò, coprendo con la sua mano rugosa quella più giovane del nipote.
Si sorrisero a vicenda, come se nessuno dei due stesse celando qualcosa all'altro.
«Vediamo le foto, su».
Mentre quella più importante, Gabriele l'aveva nascosta a pochi centimetri dal cuore.

 
 
♡◇♧
 


Steso sul dondolo in giardino, Gabriele continuava a fissare la foto di Agnese e Gabriel da ragazzini, rapito dai loro sorrisi innocenti.
In pochi giorni erano venute fuori così tante verità che ormai dubitava persino della sua stessa identità.
Cullato dai movimenti delicati del dondolo, stava quasi sul punto di addormentarsi, quando una voce femminile arrivò al suo udito, destandolo dal suo quasi dormiveglia.
«Siamo un po’ nervosi, sposino?».
Gabriele guardò sua sorella Allegra sollevando un sopracciglio, con aria di sfida.
Era arrivata con la sua solita leggiadria sbarazzina, uno scialle di lana le copriva le spalle, facendola sembrare una piccola fiammiferaia infreddolita.
«Perché dovrei esserlo?» chiese, cercando di nascondere i tumulti dell'animo dietro un sorriso tirato.
Allegra si avvicinò al dondolo, fissandolo dispettosa.
Si fece largo sul dondolo, senza chiedergli di spostare le gambe per sedersi.
Diede una spinta così forte che per poco non sbilanciò tutti e due.
Era un vizio che faceva spesso, fin da bambina: si buttava sul dondolo per dare fastidio ai fratelli maggiori, perché non la consideravano quasi mai per giocare insieme.
Poi, man mano che il tempo passava, aveva trovato altri hobby e passatempi, come la moda e il cucito.
Aveva iniziato proprio grazie ad Agnese, quando in quei lunghi pomeriggi estivi, dove non veniva mai anima viva in libreria, si sedevano entrambe in poltrona e si mettevano a lavorare a maglia, nonostante non parlassero chissà quanto, e in quei pochi momenti che lo facevano discutevano praticamente su qualsiasi argomento che capitava a tiro, e quasi mai toccavano il suddetto argomento con toni pacati.
«Beh, ad esempio, la cucina di Silvana non sarà come quella di mamma» lo prese in giro Allegra, dandogli un buffetto sulla gamba. Gabriele le regalò una ginocchiata leggera dietro al sedere in risposta.
«Silvana cucina bene, e anch'io me la cavo, scema!» rimbrottò, fintamente arrabbiato. Allegra si leccò le labbra per non scoppiare a ridere.
«Ma non è questo quello che mi preoccupa al momento».
Gabriele non era davvero sicuro di voler toccare nuovamente quell'argomento, e non sapeva neanche se sarebbe stato giusto farlo proprio con Allegra, con una persona totalmente estranea ai fatti.
Mentre il suo sguardo era perso da qualche parte, verso il cielo serale, non si accorse che la sorella minore gli aveva sfilato la fotografia dalle mani, guardandola con estrema attenzione, girandosela più volte, come a cercare un indizio nascosto sia sul fronte che sul retro.
«E così, questo qui sarebbe Maxime Brünner? Era proprio un bell'uomo, davvero!».
Gabriele trasalì nell'udire quel nome fuoriuscire dalla bocca della sorella come se nulla fosse.
Si tirò su con la schiena, fissandola stranito. Tutto si sarebbe aspettato, fuorché che Allegra ne sapesse a riguardo.
«No, non è lui. Ma tu come fai a sapere questo nome?» chiese, deglutendo.
Allegra lo guardò con ovvietà, non si era chissà quanto scomposta.
«È l'uomo a cui la zia scriveva sempre… lo so perché gliele spedivo io tutte le lettere».
Gabriele corrucciò la fronte, disorientato.
«Tu?? Tu che facevi qualcosa per zia Agnese?? Ma se eravate come cane e gatto!».
Nel recepire la reazione incredula del fratello, Allegra accartocciò le labbra in un sorrisetto agrodolce, consapevole.
«Vero, non la sopportavo affatto! Era una donna impossibile… eppure, a lei piacevo tanto, vai a capire perché. Negli ultimi tempi poi, voleva sempre avermi intorno: diceva che siccome non la soffrivo, ero l'unica che non la trattava come una povera donna malata, e la cosa le donava un certo sollievo» spiegò Allegra, guardando con sopracciglia inarcate il profilo sorridente di Agnese ritratto nella foto.
Gabriele ascoltò quelle parole con una punta di stupore nel viso.
Se Allegra conosceva quel Maxime Brünner, allora voleva anche dire che…
«Tu sai tutto, non è così?».
Lo disse titubante, sperando quasi di essersi sbagliato.
Allegra tornò a guardarlo indifferente, come se non stesse per rivelare il più scottante e purulento dei segreti.
«Che tu non sei mio fratello, bensì mio cugino? Sì, lo so eccome».
Allegra gli restituì la foto, unendo le labbra in un sorriso tirato, un po’ fittizio.
«La zia mi ha raccontato tutto. Forse aveva capito che le restava poco da vivere, e voleva condividere con qualcuno tutto quel peso che si è tenuta dentro per anni. Qualcuno che non la giudicasse, che non le facesse sentire quanto gravoso fosse il peso dei suoi sbagli». 
Per un breve attimo, Gabriele non riconobbe la persona con cui stava conversando. Non era abituato a sentir parlare la sorella con tono accondiscendente nei confronti di Agnese. Era un'altra di quelle novità contro cui avrebbe dovuto fare, presto o tardi, i conti.
«Ti confesso che mi ha fatto un po’ pena, perché si vedeva… sentivo che con te era sempre stato diverso. E il non poterti stare vicino come una madre fa con i propri figli… credo l'abbia provata molto».
Gabriele soppesò quelle parole una ad una, lasciando che gli facessero male e bene allo stesso tempo.
«E tu come hai reagito quando lo hai saputo?» chiese soltanto, osservandola in tralice.
Allegra alzò lo sguardo davanti a sè, stringendo le dita sul cuscino morbido del dondolo.
«Mi sono arrabbiata, tanto. Mi sono arrabbiata con mamma e papà, che avevano sempre saputo tutto, ma hanno sempre taciuto, con zia Agnese perché ha fatto tanto la forte per una vita intera, e poi ha lasciato andare la cosa più preziosa che aveva senza combattere… e con me stessa, perché se l'avessi saputo molto prima, avrei potuto cambiare le cose».
Gabriele si portò col busto in avanti, poggiando la mano sulla spalla della sorella minore, stringendogliela appena.
«Io invece sono del parere che ha continuato a lottare sempre, da sola. E siccome lei la guerra l'aveva vissuta, non coinvolgere nessun altro nei suoi tumulti lo avrà considerato un grande atto d'amore, l'unica scelta possibile» spiegò il ragazzo, con voce spezzata.
Diede un ultimo sguardo alla fotografia, con aria consapevole.
«L'amore l'aveva ferita troppe volte, e non voleva che quelle ferite arrivassero a noi… adesso l'ho capito» dichiarò, con una strana consapevolezza nella voce, rassegnato.
Allegra si girò verso di lui, condividendo a pieno il suo stato d'animo.
«Avresti voluto almeno sapere come fosse andata, no?» disse, con una dolcezza che Gabriele non le aveva mai visto usare.
«Sì» dichiarò prontamente «Sì, avrei avuto il diritto di sapere tutta la verità. Del perché lei e mio padre non sono potuti stare insieme, del perché porto il nome di un soldato delle SS, del perché-»
«Aspetta un secondo!» lo interruppe Allegra, e riprese la foto dalle mani del fratello-cugino, studiandosela con attenzione.
«Quindi è lui… quel figlio di-» ma si trattenne dal pronunciare quell'offesa, mordendosi la lingua per zittire il suo disappunto.
«Chi?» fece in rimando Gabriele, incuriosito.
Allegra tastò col pollice all'altezza del petto del giovane ritratto al fianco di Agnese.
«Gabriel von Kusserl…» sospirò, con l'aria di chi aveva appena dato un volto ad un mostro di cui aveva sentito tanto parlare, senza però avere alcun riferimento.
«È stato il primo amore della zia, in gioventù. Erano cresciuti insieme, mi aveva raccontato» iniziò a spiegare Allegra, lo sguardo fisso sulla foto, come a volerla incenerire.
«Poi lui aveva aderito alla gioventù hitleriana, facendo sempre più carriera in quell'ambito… e fu così che le loro strade si divisero per un certo periodo, fino a quando non si rincontrarono qui in Italia».
Gabriele non smise di darle la sua totale attenzione.
«Dimmi tutto quello che sai, Allegra» la implorò, sebbene non mostrasse alcuna pressa.
La ragazza appoggiò la schiena sullo schienale del dondolo, sospirando.
«Sarà un racconto molto lungo, Gabo» lo avvertì, pratica.
Gabriele si limitò a scuotere il capo, deciso.
«Non importa. Adesso voglio sapere ogni cosa» dichiarò, ostinato.
Allegra annuì sommessa, poggiando la mano su quella del fratello.
«Sarà una lunga notte. Meglio farlo davanti ad una bella tazza di latte caldo e miele».

 

 
°▪︎°•°▪︎°
 


«Mia madre e Gabriel von Kusserl avevano avuto una relazione, quando lui arrivò in Italia nel'41».
Aveva cominciato così il suo racconto Gabriele, passeggiando per la libreria a braccia conserte, mentre Silvana lo ascoltava seduta su una poltroncina di vimini, attenta.
Tra le mani, stringeva la lettera che era giunta pochi giorni prima al casale, come se al suo interno vi fosse racchiusa la mappa di un tesoro inestimabile.
«Era rimasta incinta, ma Gabriel la costrinse ad abortire, pagando addirittura il medico affinché facesse in modo che non potesse più capitare un incidente simile in futuro. In Germania lui era sposato, non poteva permettere che delle voci malevole arrivassero alla moglie».
Silvana rabbrividì a quelle parole.
«Che infame… aveva pagato il medico affinché rendesse Agnese sterile per sempre?» chiese, sbigottita.
Gabriele annuì, e lei scosse il capo, disgustata.
«Poverina… che bestia questo Gabriel!» commentò, tra sè e sè.
Gabriele avrebbe voluto darle man forte, ma continuò nel suo resoconto dei fatti.
Da quando Allegra gli aveva spiegato tutto quello che Anna, in lacrime, non era riuscita a confessargli, aveva sentito la necessità fisica di buttare fuori quelle parole, forse per dare un ordine al caos che ormai gli albergava dentro da giorni.
«Ma il medico, probabilmente mosso a pietà, non eseguì il misfatto. Praticò l'aborto, ma non la menomò fisicamente. Ovviamente non lo disse a nessuno, altrimenti avrebbe rischiato la vita».
Silvana lo fissò, annuendo più volte.
«E come fece Agnese a capire che il medico non le aveva tolto la capacità di concepire ancora?» domandò, presa da quel racconto che si dimostrò sempre più avvincente.
A Gabriele scappò un sorrisetto malizioso.
«Perché scoprì di aspettarmi, anche se inizialmente Agnese aveva pensato si trattasse dei postumi dell'intervento, o di mestruazioni irregolari… non era difficile da credere, viste le condizioni in cui vivevano in quegli anni» spiegò, camminando attorno al piccolo tavolino da caffè, con aria incantata, persa nei ricordi del tempo.
Silvana si scostò una ciocca riccia dietro l'orecchio.
«Rimase nuovamente incinta di Gabriel, quindi?» domandò poi.
«No» negò prontamente il suo fidanzato «restò incinta di mio padre, questo Maxime Brünner… era un sottoposto di von Kusserl, uno dei tanti soldati tedeschi che vennero qui durante l'Occupazione».
Silvana continuò ad annuire, sempre più interessata.
«L'aveva violentata?» chiese poi, preoccupata.
«Nono, nulla del genere. Lui si era innamorato di lei, ma sapeva della sua tresca con Gabriel… finché non fu stesso mia madre a compiere il primo passo. Ed hanno iniziato una storia clandestina» precisò il ragazzo, ormai preso dalla trama di quel racconto che lo faceva sentire sempre più coinvolto.
«Dovevano stare attenti, Gabriel aveva iniziato a fiutare qualcosa, e si erano allontanati… ma c'era la questione dei miei nonni da risolvere, e Maxime, aiutato da un suo compagno che aveva idee che andavano contro il regime nazista, si mise subito all'opera per salvarli, mettendosi in contatto con la cellula partigiana capitanata da Alfredo, il fratello di mio nonno Furio». 
Silvana seguì il discorso in religioso silenzio, annuendo in alcuni punti e diniegando il capo in altri.
«Poi le cose precipitarono: Maxime uccise accidentalmente von Kusserl per difendere Romeo, cioè mio padre… cioè-»
«Sì sì, ho capito tesoro, continua» lo incoraggiò Silvana, sempre più presa dal racconto.
Gabriele annuì e continuò. Gliene fu in parte grato.
«A quel punto dovette nascondersi, e i fratelli di mio nonno, Ismaele ed Alfredo, organizzarono la sua fuga, per evitargli l'arresto e l'inevitabile condanna a morte».
Seguì una pausa, aveva parlato così velocemente che gli mancò il respiro in petto.
«Ma Maxime non avrebbe lasciato incompiuta l'opera di salvataggio, così decise di restare, e di unirsi alla causa partigiana. Agnese decise di seguirlo, nonostante l'incombere della gravidanza».
Silvana buttò velocemente un occhio alla lettera che aveva tra le mani, soppesandola tra le dita.
«E da qui in poi succederà altro» commentò, cercando il volto del suo promesso sposo, che da quando aveva iniziato a raccontare, non si era fermato un attimo dal camminare per il salone della libreria, senza concedersi pause.
Dopo qualche minuto, Gabriele proseguì.
«Avevano preso accordi con un'altra cellula partigiana: da quel che mi ha spiegato Allegra, dovevano salvare alcuni uomini, arrestati per alto tradimento e che sarebbero stati trasferiti in Germania, per giustiziarli. Tra di loro vi era pure un gruppo di tedeschi, credo infiltrati come l'amico di Maxime, ma non ne sono sicuro». Altra pausa di respiro.
«Agnese non prese parte alla missione, era quasi all'ottavo mese e le sconsigliarono di fare sforzi e di affaticarsi. Così partirono Alfredo, Maxime, e altri tre uomini, lasciando le donne sole all'accampamento».
Silvana si portò le mani giunte al naso e alla bocca.
«Qualcosa mi suggerisce che, però, Agnese non restò a lungo con le mani in mano» ipotizzò, la lettera abbandonata sulle ginocchia coperte dalle calze di nylon.
«Perspicace» fu il commento di Gabriele, che si portò le mani sui fianchi, trattenendo a stento una risata amara.
«Infatti, qualche giorno dopo la loro partenza, Agnese scappò dall'accampamento. Voleva raggiungere Maxime, non ce la faceva a restare in attesa, con la paura di non rivederlo più. Il rischio, d'altronde, era piuttosto alto».
Gabriele raccontava quello spaccato di storia come se infondo non fosse realmente stato lui il bimbo nel grembo di quella ragazza testarda.
«Viaggiò per tre giorni e due notti, prima che le doglie cominciassero a farsi sentire e a bloccarle il cammino».
A Silvana le sembrò quasi di trovarsela davanti, quella ragazza sui ventuno, ventidue anni, affrontare quel cammino pieno di insidie da sola, in uno stato avanzato della gravidanza.
Non poté non provare una forte ammirazione mista a timore nei suoi confronti.
Provò ad immaginare la paura che le aveva attanagliato il cuore, nell'accorgersi che il suo bambino stava per nascere, disperso nel nulla, senza l'ausilio di anima viva.
«Fortuna volle che le sue grida attirarono l'attenzione di un fattore che abitava lì, nelle vicinanze. Non ci pensò due volte a portarla nella sua fattoria, dove intimò la moglie e la figlia di chiamare la levatrice, che era solo a qualche casa più avanti alla loro».
Silvana si trovò a rilasciare un sospiro di sollievo, felice che il suo amato fidanzato non fosse venuto al mondo tra le frasche e con la fauna più insolita a fare da pubblico inconsapevole, come in una delle fiabe dei Grimm o delle favole morali di Esopo.
«Non fu un parto semplice. Agnese era anche molto indebolita a causa del poco cibo che assumeva e della vita che in quei mesi aveva svolto, sballottata da un accampamento all'altro. Il travaglio durò molte ore». Poco dopo, un flebile sorriso illuminò il volto di Gabriele, trovandosi ad abbassarlo repentinamente.
Silvana gli allungò una mano, sorridente, che il ragazzo strinse tra le sue, inchinandosi alla sua altezza.
«E all'alba del giorno seguente, emettesti il tuo primo vagito» disse canzonatoria Silvana, scostandogli una ciocca castana dagli occhi chiari con la punta delle dita.
Gabriele annuì con aria infantile, un po’ rosso sulle gote.
«Potrebbe essere la trama avvincente di un film, non credi?» scherzò con imbarazzo, stringendo sempre più forte la mano di Silvana.
«Penso che a questo punto, tu debba leggere questa lettera».
Quest'ultima le porse la busta, consapevole.
«Credo che anche Maxime abbia il diritto di dire la sua a riguardo. E tu hai il diritto e il dovere di ascoltarlo».
Gabriele la guardò negli occhi, con aria estremamente dolce. Silvana lo faceva sempre sentire al sicuro, protetto da ogni male del mondo.
L'amava perché in lei vedeva una spalla, una sua degna pari. 
Per qualche istante, Gabriele tornò a chiedersi se anche Agnese avesse desiderato una compagnia simile al suo fianco: un uomo che la amasse, ma allo stesso tempo che la facesse sentire forte e capace di fare qualsiasi cosa.
Si chiese se Maxime fosse stato all'altezza delle sue aspettative, dopo che quel Gabriel l'aveva delusa e distrutta in tutte le sue certezze.
«Hai ragione amore mio, come sempre».
Gabriele le lasciò un bacio veloce sulla labbra, umettandosele subito dopo, sperando di aver catturato almeno un po’ del suo sapore di fresia.
Silvana gli lasciò un altro bacio, più dolce e più lento del precedente.

 

 
~♧~
 


Gabriele lesse quella lettera la sera stessa.
Appoggiato al davanzale della finestra di camera sua, gli occhi che diventavano sempre più lucidi all'avanzare di ogni riga, le dita che tremavano.
Arrivato alla firma del mittente, Gabriele si percepì come un blocco di argilla, in procinto di essere lavorato al tornio.
Fino a quel momento era stato convinto di sapere che forma avesse assunto col tempo, per che cosa fosse realmente destinato. E invece si ritrovava completamente sconosciuto a sé stesso, a venticinque anni, ad un passo dal matrimonio, ma privo di certezze e conferme. Davanti a lui, una strada sterrata da percorrere, che gli metteva addosso una paura enorme.
E, nonostante le persone che aveva intorno, la sua famiglia e la sua fidanzata, era consapevole che quel viaggio avrebbe dovuto affrontarlo da solo, lasciando che l'argilla del suo cuore venisse modellata da dita invisibili. Che appartenessero a Dio, al destino, non gli era dato saperlo. Non gli avrebbe cambiato molto la prospettiva, d'altronde.
Mentre stava per ripiegare la lettera, qualcuno aprì la porta della sua stanza senza bussare. Soltanto una persona era in grado di farlo senza che Gabriele s'infuriasse altamente.
«Pensavi di sfuggirmi, disgraziato?» esordì Massimiliano, la camicia bianca aperta sul petto e i jeans i cui bordi arrivavano a toccare l'impiantito, portandosi dietro i rivoli di polvere.
Gabriele abbozzò un sorrisetto complice, richiudendo alacremente la busta contenente quella famosa lettera.
«Su, fammi compagnia e fumati una sigaretta con me!» esclamò il più piccolo - anche se fisicamente non lo sembrava affatto - avanzando in stanza, con una sigaretta tra le labbra.
Gabriele continuò a fissarlo divertito.
«Da quando in qua tu fumi?» chiese, sinceramente sorpreso.
Massimiliano lo ignorò, accendendo la sigaretta con qualche colpo di troppo di accendino.
«In caserma, sai, tra compagni…» si giustificò laconico, senza dare troppa importanza alla cosa. Porse il pacchetto al fratello, muovendo la mano per incitarlo a prenderne una.
Gabriele sarebbe voluto partire col fargli un rimbrotto epocale, che fumare gli avrebbe danneggiato i polmoni a lungo andare, e che più che renderlo figo, gli avrebbe al massimo ingiallito i denti e rovinato la voce, ma lasciò perdere, troppo stanco anche solo per scherzare con naturalezza con chiunque su la qualunque.
Prese così anche lui la sigaretta, per fargli compagnia. Lasciò che Massimiliano gliel'accendesse, aspirò troppo velocemente e tossì così forte, che l'altro dovette dargli qualche pacca sulle spalle, trattenendosi dal ridere.
«Sei ancora vivo? Giuro che non era mia intenzione avvelenarti prima del tuo grande giorno!» esclamò Massimiliano, sogghignando con aria fintamente maligna.
Gabriele gli mollò una manata sul petto, fintamente risentito.
«Ho un fratello assassino, vedi tu cosa mi tocca sopportare!» esclamò, disgustato dal fumo che gli era rimasto intrappolato tra il palato e la lingua.
Dopo qualche boccata e qualche colpo di tosse, Massimiliano si fece un po’ più serio, fissando il pavimento imbarazzato.
«Senti, Gabo…» iniziò, portandosi una mano dietro la nuca rasata.
Gabriele gli prestò attenzione.
«Al tuo matrimonio, ecco… posso estendere l'invito ad altre due persone?».
Gabriele aggrottò la fronte, incuriosito.
«Amici tuoi?» chiese, in dubbio.
Massimiliano si umettò le labbra.
«Uhm, non proprio» delucidò, strizzando un occhio, mentre si massaggiava nervosamente la nuca.
«Volevo invitare Grecia alla cerimonia. Mi sembrava giusto chiedere il tuo parere, visto che è comunque la tua festa…».
Gabriele sgranò gli occhi nel sentire il nome di quella ragazza pronunciato proprio da Massimiliano, senza preavviso.
«Grecia?» ripeté, sollevando un angolo delle labbra, stranito.
«Quindi alla fine voi due vi siete… visti?» indagò, poggiando la busta sul cuscino del letto.
Massimiliano assottigliò le labbra, prima di portarsi la sigaretta alla bocca.
«Ci siamo dati una seconda possibilità» confessò con voce strozzata, rosso sulle gote.
Gabriele aprì il viso ad un sorriso spontaneo e sincero.
«Davvero?» esclamò, prendendo il viso del fratello tra le mani, unendo le loro fronti «Ma è stupendo, fratellino! Me lo sentivo che prima o poi…» ma lasciò appesa la frase, come se si fosse appena scottato.
«E chi sarebbe la seconda persona?».
Si era ricordato solo in quel momento che Massimiliano ne aveva menzionata un'altra, giusto poco prima.
Massimiliano poggiò la mano sul polso di Gabriele, abbassando lo sguardo.
«Ecco, io… non so come dirtelo, e come dirlo a mamma e papà, ad Allegra, Magda…»
«Dire cosa?» incalzò Gabriele, leggermente interdetto.
«Mica è qualcosa di grave?» proseguì, iniziando a preoccuparsi.
Massimiliano non cercò di diminuire la sua ansia, prolungando la pausa delle sue stesse parole.
«Gabo… sono diventato papà».
A Gabriele mancò l'aria per qualche secondo. Pensò di non aver capito bene, sulle prime.
«Ricordi quando Grecia mi ha lasciato di punto in bianco, due anni fa?».
Certo che Gabriele lo ricordava. Non aveva mai visto suo fratello così afflitto per una storia terminata. Ricordava persino i giorni che era rimasto chiuso in camera, facendo preoccupare Anna e Romeo più del dovuto.
Tra l'altro, Agnese era anche morta da qualche settimana, e in casa si respirava un'aria triste e sconsolata.
«Mi ha lasciato perché aveva scoperto di aspettare un bambino» dichiarò Massimiliano, la vergogna dipinta sul volto.
Gabriele gli lasciò la faccia, allontanandosi di qualche passo.
Una strana sensazione cominciò a formicolargli addosso.
«Aveva pensato di abortire, ma… evidentemente non ce l'ha fatta».
Massimiliano deglutì, spegnendo la sigaretta sul davanzale della finestra.
«È un bel bimbo, si chiama Riccardo. Ho visto una sua foto. Ti giuro, non ti so spiegare quello che ho provato nel vederlo, è stato… è stato come un-»
«Un deja-vu?» lo interruppe Gabriele, in trance.
Massimiliano annuì, soppesando quella parola con estrema attenzione.
«Non so perché, ma la prima persona a cui ho pensato è stata zia Agnese. Sai, ricordi tutte quelle voci che giravano sul suo conto, da quando era tornata a Torino? Tutti i pettegolezzi, le malelingue che la volevano sposata e adultera… poi tutti quei viaggi che faceva, di punto in bianco… a volte mi pento di non averle chiesto di più a riguardo».
Gabriele lo vide incrociare le braccia al petto, pensieroso.
«In quel momento, ho solo pensato che non avrei commesso lo stesso errore. Che Grecia l'avrei ascoltata, prima di continuare ad odiarla. E mi sento in colpa, perché a causa mia ha abbandonato l'università, si è dovuta difendere dalla cattiveria della gente da sola, rinunciando a tutti i suoi sacrifici. Per permettere a me di superare i miei».
Massimiliano si portò entrambe le mani intrecciate dietro il capo, inspirando ed espirando profondamente.
«Mi ero sempre detto che avrei fatto qualsiasi cosa per lei… ma sono un ipocrita. Le ho tolto due anni di vita e non posso restituirglieli».
Gabriele dovette sedersi sul letto, sopraffatto da tutte quelle notizie. Un nodo gli si strinse al petto, creandogli difficoltà a respirare.
Non era stata tanto la sorpresa della paternità di Massimiliano, ma il fatto che quella vicenda somigliava così maledettamente a quella di sua madre.
Grecia aveva perso solo due anni della sua vita, Agnese quanti ne aveva perduti nell'effettivo? Dieci? Venti?
Aveva visto suo figlio crescere senza mai rivelargli la sua vera identità.
Perché si era ridotta a tanto, per amore di chi? Di Maxime, di Gabriel, o vi era altro sotto?
Tutte quelle domande gli affollavano la mente a tal punto da fargli provocare un quasi attacco di panico.
Massimiliano se ne accorse, e raggiunse il fratello, inginocchiandosi davanti a lui.
 «Ehi, Gabo! Ehi!» lo scosse, dandogli qualche pacca sulla guancia.
«Ti ho sconvolto così tanto?» provò a sdrammatizzare, sperando che il fratello riacquistasse lucidità nel giro di poco.
Ma Gabriele era come assente, lontano da quelle quattro mura, da quel casale  da quella città.
Era tornato indietro nel tempo, a ventidue anni prima, a quell'incontro fortuito sotto la quercia, a quella donna dal viso triste e affranto che cercava ugualmente di sorridere mentre lo cullava, canticchiando una musichetta a labbra chiuse, ad un centimetro dal suo orecchio di bambino. 
«Se non vuoi che vengano, basta che-»
«Era mia madre». Gabriele lo disse incurante di aver interrotto il fratello, mentre cercava eventualmente di rassicurarlo.
Massimiliano acuì lo sguardo, sorpreso.
«Credo di non aver capito» spiegò infatti, non riuscendo a leggere l'espressione persa di Gabriele.
Quest'ultimo lo guardò con occhi pieni di lacrime non scese.
«Zia Agnese… era mia madre».
Nell'udire tale affermazione, Massimiliano si spostò da lui di qualche centimetro, come folgorato.
Lo guardò come se davanti si fosse ritrovato un folle.
«Cos'è, uno scherzo?» disse Massimiliano, sinceramente preoccupato che al fratello gli fosse venuto un colpo improvviso, o che avesse perso davvero la ragione.
Ma Gabriele ricambiò il suo sguardo pieno di interrogativi, quasi sfidandolo.
«Magari lo fosse» mormorò, serio.
Massimiliano si portò le mani giunte al viso, aveva gli occhi sbarrati.
«Ma com'è possibile…» si limitò a commentare, sbigottito.
Gabriele deglutì, riprendendo in mano la lettera.
«L'ho saputo da pochi giorni. Me lo hanno detto mamma e papà. Anche Allegra lo sapeva, zia le aveva raccontato tutto» confessò, continuando a fissare la lettera con insistenza.
«Questa lettera l'ha scritta mio padre… o dovrei dire, l'uomo che ha messo incinta la zia».
Gabriele non voleva essere duro con Maxime, ma non sapeva in che altro modo considerare quell'uomo. Sentiva che non era stato cattivo con lei , era stato sicuramente migliore di Gabriel, eppure continuava a risultargli estraneo, un fantasma sbiadito uscito da qualche baule dimenticato della memoria, rimasto sigillato per anni.
«Quando mi hai parlato di te e Grecia, ho pensato a quanto strana fosse la vita… come se la storia si fosse ripetuta senza accorgercene».
Massimiliano stava cercando di convincersi che quello non fosse un sogno.
Che non avesse scoperto all'improvviso che il suo adorato fratello maggiore in realtà era suo cugino.
Non che la scoperta in sé cambiasse di molto la situazione: con Gabriele continuava a condividere il sangue, anche se per vie traverse.
A Massimiliano quella non fu la cosa più scioccante da scoprire, ma il realizzare che quasi tutta la sua famiglia avesse aiutato Agnese ad occultare un segreto simile al suo stesso figlio, ad un pezzo della sua stessa carne.
«Tu come ti senti a riguardo?».
Al più piccolo sembrò logico porgli quella domanda, chiedendosi se qualcun altro prima di lui avesse avuto l'accortezza di accertarsene.
«Confuso… disorientato» rispose Gabriele, massaggiandosi le cosce da sopra i jeans «Ho così tante domande in testa che avrei preferito continuare ad essere all'oscuro di tutto».
Si abbandonò con la schiena e la testa sul muro dove il letto era poggiato, socchiudendo gli occhi.
Massimiliano lo imitò poco dopo, fissando il soffitto. 
Il mozzicone sulla finestra emanava ancora qualche filo di fumo biancastro.
«E in questa lettera cosa c'è scritto?» domandò successivamente, provando a far sfogare il più grande.
Gabriele sbirciò tra le palpebre socchiuse, rigirandosi nuovamente la lettera tra le dita.
«Che se volessi andare a trovarlo in Svizzera, la porta di casa sua sarà sempre aperta» dichiarò, umettandosi le labbra.
Massimiliano assimilò quelle informazioni con estrema attenzione.
«Non si è mai sposato?» chiese, fissando in tralice l'altro.
«No, a quanto sembra» riferì Gabriele, mantenendosi fermo nel tono.
«Pensi di andarlo a trovare quindi?» gli chiese in automatico Massimiliano, sollevandosi di poco con la schiena. 
Anche Gabriele fece altrettanto.
«Ti confesso che da un lato vorrei far finta di nulla e non saperne più nulla… ma arrivati a questo punto, sento che devo saperne di più» dichiarò, mettendosi curvo e intrecciando le dita tra loro.
«Non posso guardare al futuro se non ho nulla del mio passato in mano…» decretò, anche se visibilmente titubante.
Massimiliano gli strinse una spalla rassicurante, sorridendogli caloroso.
«Hai comunque una famiglia alle spalle. Siamo la tua famiglia, nel bene e nel male» e nel rafforzare il concetto, picchiettò la spalla di Gabriele per poi stringergliela nuovamente con fare incoraggiante.
Quest'ultimo sentì che avrebbe dovuto ricambiare il favore in qualche modo, dopotutto continuava ad essere il fratello maggiore, un pilastro per suo fratello e le sue sorelle minori.
«Comunque, sono davvero felice per te e Grecia. Riccardino riceverà tutto l'amore di cui avrà bisogno» esclamò Gabriele, rassicurante.
Sentir chiamare il nome di suo figlio a quel modo, rese Massimiliano più tranquillo e sereno. Se lo accettava Gabriele, non avrebbe dovuto avere timore del giudizio del resto della famiglia.
«Quindi è deciso?» chiese risoluto Massimiliano, porgendo la mano al fratello, con tutto l'intento di stringergliela.
«Deciso, deciso!» rafforzò il concetto Gabriele, dando il cinque al fratello per poi stringergli la mano.
«La mamma sarà entusiasta di festeggiare un altro matrimonio!» lo prese poi in giro Gabriele, dandogli un pacchero affettuoso dietro la nuca rasata. Massimiliano lo fissò come se avesse voluto azzannarlo.
«Ehi, piano! Una cosa alla volta!» Massimiliano bloccò il suo entusiasmo, cercando di fargli credere che quello non fosse stato tra i suoi pensieri ricorrenti di quella settimana, mettendo sempre in mostra il suo carattere sfrontato e accattivante.
Rimasero poi così, sul letto, come da bambini, a prendersi in giro e fantasticare su ciò che la vita avrebbe tenuto ancora in serbo per loro.
 


«Perché gli hai dato il suo nome, Agnese? Non ti rievoca brutti ricordi?»
«Tu perché hai voluto chiamare il tuo Massimiliano allora?»
«Beh… ero legata a nostro cugino Massimo, e poi… Maxime era il miglior amico di Romeo…»
«Lo é ancora.»
«E Gabriel?»
«Gabriel aveva un lato buono che la guerra gli ha tolto per sempre. Voglio che quel suo lato umano riviva in mio figlio. Glielo devo infondo un finale diverso.»
«Anch'io glielo devo un finale diverso a Massimo. E anche a Maxime».
 


Appoggiata dietro la porta della stanza di Gabriele, Anna aveva ascoltato tutto senza volere. Era passata di là per portare la cesta dei panni sporchi in lavanderia, ma poi la nostalgia di rivedere i suoi figli insieme l'aveva fatta restare a guardare, e ascoltare le loro confessioni.
Era stato automatico riportare alla memoria quel discorso fatto con Agnese, molti anni prima.
Avevano pensato di modellare il destino come l'argilla, lavorarlo sul tornio e dargli una forma nuova, in barba a quello che aveva fatto capitare loro.
Era stata una scommessa, che sembrava persa già in partenza.
Ma nel guardare adesso quei due ragazzi, adulti, andare così d'accordo, Anna aveva capito che quella scommessa contro il destino, invece, l'avevano vinta loro, e nel migliore dei modi.
«Ah, se potessi vederli ora, sorella mia…».
Anna sospirò quella frase, mentre una lacrima le scivolò lungo la guancia, coprendosi la bocca con la mano.
Dopotutto, era stato solo questione di tempo e pazienza, e tanto amore.
Una partita giocata e vinta in calcio d'angolo.

 
 
>~•~<
 


La cerimonia era stata meravigliosa.
Allegra, assieme alla sua amica sarta Costantina, aveva ricevuto tutti i meriti per i vestiti degli sposi, di cui si erano occupate personalmente.
Gabriele non aveva mai avuto tanti occhi puntati addosso, e girare per la tavolata e salutare ogni invitato e parente, alla lunga, aveva iniziato ad annoiarlo.
Se non avesse tenuto per mano Silvana tutto il tempo, probabilmente sarebbe scappato a gambe levate, mollando tutti lì e godersi poi la pace tanto agognata, magari tra le coperte, abbracciato stretto a sua moglie.
Anna e Romeo avevano fatto la conoscenza del piccolo Riccardo.
Grecia era sempre stata dietro a Massimiliano, rossa di vergogna, con il bambino tra le braccia. Temeva il giudizio dei suoceri, il terrore di subire accuse imminenti, che in parte sicuramente sentiva di meritare. Si dovette invece piacevolmente ricredere nel constatare che entrambi i genitori del suo fidanzato non la odiavano, né giudicavano con sguardi sprezzanti.
Anna era stata contenta di stringere tra le braccia il suo primo, inaspettato, nipotino, così come Magda e Romeo, innamorati seduta stante di quel piccolo bambolotto dalle guance piene e gli occhi grandi.
Massimiliano aveva dato un bacio rassicurante sulla fronte di Grecia, sussurrandole parole dolci e rincuoranti. Non lo avrebbe mai ammesso dinnanzi ad anima viva, ma sapeva essere molto più romantico e caloroso di Gabriele a volte. E Grecia aveva sempre adorato questo suo lato adorabile.
Era stata una giornata indimenticabile, ricca di emozioni e vissuta con tutte le persone a loro vicine. 
 
Da qualche parte, al confine tra l'aria e il tempo, Agnese sorrideva contenta, e grata.
 
Qualche settimana dopo, Gabriele partì per la Svizzera assieme a Silvana, per cercare Maxime e parlare anche con lui. 
Mentre era sul treno che lo avrebbe portato a Milano, per poi cambiare e proseguire fino a Zurigo, dove l'uomo attualmente risiedeva, Gabriele estrasse nuovamente dallo zaino la lettera che gli era stata recapitata, con tutta l'intenzione di rileggerla, ancora una volta. Silvana dormiva con la testa appoggiata sulla sua spalla, i ricci di lei ricadevano come una cascata sul suo montgomery nero. 
Gabriele le lasciò un bacio sulla fronte, talmente leggero che la sua neosposa neanche se ne accorse.
Da quando l'aveva messa al corrente di tutta quella faccenda, Silvana non si era tirata indietro neanche per un solo secondo: aveva voluto aiutarlo in tutti i modi, non lasciandolo solo in quel viaggio a ritroso nei ricordi.
Gabriele si era convinto ogni giorno di più di aver fatto la scelta giusta con lei, che si sarebbero resi felici a vicenda, nonostante gli ostacoli che si sarebbero presentati lungo il cammino.
Aprì la lettera con delicatezza, ormai la trattava alla stregua di una persona fisica e reale.
Era anche lei, dopotutto, una compagna di viaggio, sotto ogni punto di vista. 
Ormai conosceva il contenuto a memoria, anticipava le parole ancor prima di passarci l'occhio sopra.
Appoggiò comodamente la testa sullo schienale. Sarebbe stato un viaggio lungo e stancante.


 
Caro Gabriele,
o dovrei chiamarti Gabo, come Agnese faceva sempre quando mi parlava di te… 
Perdona in anticipo il mio italiano, nel parlato me la cavo di gran lunga meglio.
Nell'ultima lettera che mi sono scambiato con Agnese, mi aveva detto che non le era rimasto molto da vivere e mi aveva chiesto, qualora se ne sarebbe creata l'occasione, di parlarti apertamente di quanto accaduto venticinque anni fa, in quel periodo tumultuoso che era diventata la nostra vita.
Amavo moltissimo Agnese, l'ho amata oltre ogni misura. L'avrei protetta dal mondo intero, avevo giurato a me stesso di farlo, ma alla fine è stata sempre lei a proteggere me. Ha protetto me anche allontanandosi da te, pur di venirmi a salvare ancora una volta.
Ha sacrificato la sua maternità per salvarci dal nemico, erano passati pochi mesi dal parto eppure non si è fermata neanche un solo momento, non ha indugiato nemmeno un attimo sul da farsi.
La tua mamma era una donna forte, e spero che tu le somigli, anche solo di poco.
Vorrei vederti, Gabo. Lo so, non dovrei pretendere questo dal nulla, dopo tutti questi anni, ma per ragioni che non ti posso spiegare qui in questa lettera, non posso lasciare la Svizzera. Altrimenti, credimi, sarei già venuto a vederti, lo avrei già fatto altre volte.
Agnese mi ha tenuto al corrente di tutti i tuoi progressi, della scuola, la laurea, e perfino della tua fidanzata. 
Adesso che lei non c'è più, non ho più un ponte con la mia “terra dei limoni”. Io e tua madre chiamavamo così l'Italia, richiamando il passo celebre di Goethe “Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn”.
Ma in realtà la mia terra dei limoni, la nostra, la mia e di Agnese, sei tu, Gabo. Sei il nostro terreno fertile, il nostro futuro. 
Tua madre ti ha dovuto nascondere per proteggermi. Ero un ricercato, e ho dovuto scontare la mia pena in carcere. Ho pagato per il mio crimine, ed è stata la giusta punizione per aver tolto la vita ad un altro uomo, sebbene l'uomo in questione fosse diventato una bestia cieca e spietata. 
Mi hanno rilasciato l'anno scorso, non sono neanche potuto venire al funerale di Agnese, e di questo le chiedo perdono ad ogni singola ora del giorno, per non averla accompagnata nel suo ultimo viaggio. Adesso vivo in una piccola pensione, in un quartiere tranquillo di Zurigo. Nessuno sa niente di me, del mio passato. Nessuno chiede, nessuno domanda nulla, e a me sta bene così.
Mi manca il sole dell'Italia, mi manca la bellezza nostalgica di Torino, mi manca il sorriso di tua madre. 
Ti lascio qui il mio indirizzo, qualora tu volessi raggiungermi. Quando vorrai, non ho fretta.
Che il profumo dei limoni ti accompagni ovunque come una benedizione, ragazzo mio. Ti auguro ogni bene, e ogni gioia.
Con immenso affetto,
Maxime Brünner
 



Una lacrima riprese a rigare il viso di Gabriele, una lacrima che non bloccò né asciugò. La lasciò scorrere lungo i solchi del viso, guardando fuori dal finestrino il paesaggio che si muoveva così velocemente da far venire i capogiri. 
Quel viaggio stranamente non gli aveva messo addosso alcuna agitazione.
Stava andando incontro al suo destino, ma senza alcun timore o presagio malevolo. 
Un leggero alito di limone gli solleticò le narici, e la cosa lo stranì. Non vi era nessuno che stesse bevendo della limonata nel vagone, e nemmeno dal panorama fuori dal finestrino spiccavano piante di limoni.
Annusò così la busta aperta della lettera, socchiudendo gli occhi.
Immaginò una pianta di limoni fiorita, in estate. Agnese seduta su di una tovaglia da pic nic che lo fissava sorridente, con la schiena appoggiata al petto di Maxime. Erano giovani, innamorati e felici. E Gabriele, bambino, che giocava a pochi metri di distanza da loro e li guardava amarsi, con gli occhi, le dita, le parole.
Riaprì poi lentamente gli occhi, sorridendo.
Silvana si mosse al suo fianco, sistemandosi meglio sulla propria spalla. 
Una volta richiusa la busta, Gabriele appoggiò il capo su quello della moglie, provando a chiudere gli occhi per riposare.
Quell'aroma fresco di limone lo cullò durante tutto il viaggio verso Milano.



 
Piccola info veloce: il prossimo capitolo sarà l'epilogo di tutto. Tecnicamente tutta la storia si conclude qui, ma ho bisogno di spiegare alcune cose in un altro capitolo, che non sarà molto lungo, ma che almeno chiuderà al meglio questo racconto.
Non avrà prompt, sarà svincolato dal Writober.
Grazie per chi ha seguito fino a qui questa umilissima storia senza pretese.
Un bacio 💋💌

 

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