La Morte Del Pettirosso

di Guntxr
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0 ***
Capitolo 2: *** 1 ***
Capitolo 3: *** 2 ***
Capitolo 4: *** 3 ***
Capitolo 5: *** 4 ***
Capitolo 6: *** 5 ***
Capitolo 7: *** 6 ***
Capitolo 8: *** 7 ***
Capitolo 9: *** 8 ***
Capitolo 10: *** 9 ***
Capitolo 11: *** 10 ***
Capitolo 12: *** 11 ***
Capitolo 13: *** 12 ***
Capitolo 14: *** 13 ***



Capitolo 1
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«Sono davvero cambiata?»
 

 
 
Un inverno più freddo mai s’era fatto sentire in quegli ultimi anni. Le foglie volavano e continuavano a muoversi all’unisono e danzare nelle onde del vento gelido. Nulla faceva rumore, si poteva udire solo il massaggiare dell’aria sulla strada e sulle chiome degli alberi.
 
Una cittadina silenziosa e vuota e anche se molto piccola mostrava le sue bellezze, come monumenti, grandi fontane, spaziose piazze e una vera e propria cattedrale che immensa mostrava la sua maestosità nel centro del paese.
 
In giro vi erano solo degli animali randagi, le pattuglie della polizia che continuavano a girare annoiate senza sosta e un gruppo di persone sedute sulla scalinata di una banca. Erano tutti e tre uomini, ragazzini, avevano i capelli uno più lunghi dell’altro e ognuno di essi faceva una cosa diversa.
 
Il primo, il più in alto era intento a sistemare quelle che sembravano essere delle maschere antigas un po’ malandate. Le teneva messe insieme con il nastro adesivo nero, quello isolante. Non aveva la minima idea di cosa stesse facendo, ma dava agli altri l’impressione di avere tutto sotto controllo.
 
Il secondo, invece, era intento a selezionare tra le bombolette spray di vernice quelle che più sarebbero servite e le iniziò a spostare. Prima ne mise una nel lato destro dello zaino, poi un’altra sul lato sinistro e mentre faceva tutto questo gioco di spostamenti pareva essere parecchio impacciato e insicuro, nonostante sapesse benissimo quello che stava facendo.
 
Il terzo, infine, stava a guardare gli altri due e nel frattempo era intento a fumarsi una lunga e stretta sigaretta che sembrava non finire mai. Non aveva nulla da fare, perciò si sentì quasi il membro di troppo. Il suo compito era quello di accompagnare i due, nulla di più, nulla di meno. Passò davanti a loro un’alta ragazza, osservata dai loro occhi seri e che davano l’aria di qualcuno che è sulla difensiva. Lei li ignorò e continuò a camminare dritto.
 
Aveva un cappello morbido giallo che le copriva una chioma di capelli neri legati in due trecce e che sulla fronte si affacciavano in una frangetta. Si stropicciò i due occhi color castagna, li tenne chiusi per una frazione di secondi a causa del vento che le aveva soffiato oltre i suoi rotondi e larghi occhiali da vista. Sulle sue asciutte, ma morbide guance si poteva notare un po’ di trucco che a suo parere non guasta mai.
 
Non era tanto il tragitto che le interessava, in fondo, la strada era sempre quella e non sarebbe di sicuro cambiata. La destinazione, invece, la intimoriva e non poco. Aveva le mani che le tremavano all’unisono.
 
Continuava a camminare e dopo qualche minuto notò che dal cielo iniziarono a piangere gocce di pioggia fredda. «Dannazione.», osservò lei sbuffando. «Come al solito ho dimenticato l’ombrello a casa.»
 
Aveva una bellissima voce che risuonava dolce in quell’insieme di rumori della pioggia che le cadevano sulle orecchie e che non le permettevano di sentire le proprie stesse parole. In un certo senso, questa condizione era per una cosa bella, perché in quel modo non sarebbe riuscita a sentire per bene i propri pensieri. Gli stessi pensieri che le rovinavano le giornate e la facevano stare in pensiero tutto il tempo.
 
Non era una novità il suo essere anche troppo pensierosa riguardo ogni minima cosa. Quella mattina era andata più o meno come tutte le altre, con una particolarità, l’alto specchio appoggiato alla parete della sua camera da letto era scoperto. Di solito, infatti, su di esso la ragazza era abituata a mettere un lenzuolo che lo nascondesse; per qualche misterioso motivo, però, non c’era più e lo specchio era difatti nudo e pronto all’uso.
 
Erano le sette del mattino quando la sveglia impostata sul cellulare della ragazza iniziò a fare la sua comparsa, squillando all’impazzata. Una suoneria dolce e delicata ma abbastanza noiosa e ripetitiva continuava a risuonare in tutta la stanza. L’aveva personalmente impostata lei, pensando che sarebbe stata sicuramente perfetta come sveglia, una canzone che ti mette di buon umore ma che non vuoi riascoltare più di una volta.
 
«Va bene! Va bene!», disse lei dopo essersi destata. «Mi alzo dal letto!», si sollevò poi con la schiena, mettendosi seduta sul proprio materasso e guardandosi attorno. Era seminuda, aveva addosso soltanto il reggiseno e le mutande. Un’altra delle sue abitudini era, infatti, esagerare con il numero delle coperte e indossare il minimo indispensabile sotto di esse, così da potersi sentire più libera nei movimenti e non sentirsi incollata ai vestiti.
 
Il problema era però uscire da queste ultime, le comode trapunte che la riscaldavano tanto. All’inizio era difficile, ma una volta che ci fece l’abitudine la cosa non le pesava più come prima.
 
«Ci sei anche tu.» Osservò guardando il gatto nero che si stiracchiava ai piedi del letto guardandola. «Hai dormito bene, Corvino?», era il suo nome.
 
La ragazza si mise quindi fuori dal letto e iniziò a vagare per tutta la casa godendosi la solitudine e quindi anche la possibilità di girare seminuda senza problemi di imbarazzo. Lei ripeteva che poteva risultare noioso all’inizio, ma una volta fatta l’abitudine si iniziano a vedere i lati positivi, tornò poi in camera da letto, dove la aspettava la solita riflessione del mattino.
 
Quando ancora abitava a casa dei genitori, infatti, le erano vietate alcune cose, come ad esempio girare nuda per le stanze senza pudore. “Inaccettabile” lo definivano loro, lei la chiamava semplicemente normalità delle cose.
 
Una volta in piedi iniziò a guardarsi allo specchio, non diede attenzione al resto del proprio corpo, si concentrò, invece, sul proprio volto.
 
«Che io abbia le orecchie troppo grandi?», la domanda fu la scintilla che accese la miccia di mille altri dubbi. «Le persone sicuramente lo noteranno, lo notano e ne sono certa. Non puoi ignorare delle orecchie così grandi.», spostò lo sguardo poi verso il letto disfatto. «Beh,», cominciò lei cercando di consolarsi, «almeno non sono un insetto enorme. Avrei potuto svegliarmi e ritrovarmi senza alcuna spiegazione nel corpo di una gigante formica nera e socializzare, continuare la mia vita sarebbe stato impossibile.»
 
Tornò poi con lo sguardo sullo specchio, mirando al proprio volto con una certa asprezza. «Ma cosa sarebbe peggio? Avere le orecchie troppo grandi? O forse risvegliarsi nel corpo di una formica? Voglio dire…», rifletté lei tra sé e sé, «io le orecchie grandi già ce le ho e a parte qualche scherno durante l’infanzia da parte dei miei compagni di classe non mi ha mai causato alcun problema. Ma è questa la verità? O sono solo io che da protagonista non vedo quello che mi circonda? La gente nota davvero le mie orecchie così grandi? E poi, sono davvero così grandi? Loro le notano sicuramente, sì, ne sono più che certa.»
 
Si sedette poi ai piedi del materasso, continuando a guardare il proprio riflesso impresso nello specchio che sembrava giudicarla più di quanto lei stesse giudicando sé stessa. «Se diventassi un insetto enorme sarebbe anche più difficile, a dirla tutta, nessuno si avvicinerebbe a me e soprattutto io non sarei capace nemmeno di uscire di casa. Morirei di fame, qui, da sola e senza nessuno che si possa prendere cura di me. Voglio dire, c’è Giulia,» (migliore amica della ragazza) «ma le verrebbe di certo un infarto a vedermi in quel corpo. E se anche lei nota le mie orecchie a sventola? Troppo grandi dico io. Magari non dice nulla per non ferirmi, magari nemmeno a lei piacciono. No, non è quel tipo di persona che giudica le persone dal proprio aspetto. Ma di tipi così ce ne sono a bizzeffe, che non sarebbero tue amiche solo perché sei brutto nei loro canoni di bellezza.»
 
Sospirò poi stese la propria schiena sul comodo letto.
 
«Non capisco questa smania di dover essere per forza i più belli. La bellezza esiste soltanto nella bruttezza di qualcun altro, per questa società. Per me, invece, la bellezza sta negli occhi di chi se ne innamora. Non devi per forza essere nei loro standard. Inoltre, a mio parere, non esiste la bellezza fissa e generale, ma il fascino e la cura di sé stessi. E poi avrei una domanda che mi balza in testa, se tutti fossimo delle giganti e orripilanti formiche, allora conterebbe ancora la bellezza? Conterebbero ancora gli standard sociali? O sarebbe strano? Perché se io, con le orecchie troppo grandi fossi l’unica ad averle, allora sarebbe strano, ma se fosse un dato comune, un fattore di tutti, allora sì che sarebbe nella norma.»
 
Nel mentre continuava a fissare il soffitto, riflettendo ad alta voce su un tema che aveva a cuore in quel momento. Quella era inoltre una delle tante libertà che poteva prendersi non avendo coinquilinз. Poteva parlare sola senza essere giudicata come pazza o persona triste.
 
«Te lo immagini, Corvino?», «Se fossimo tutti delle formiche giganti sarebbe tutto normale, certo, i primi giorni, forse anni, sarebbe molto disagiante come cosa, nessuno capirebbe l’altro e ci saranno molti problemi che piano piano aumenterebbero. Ma dopo un po’ sarebbe tutto nella norma. Cos’è la normalità, in fondo, se non la quotidianità della stranezza?»
 
S’alzò poi in piedi e seguita dal gatto nero se ne andò verso la piccola e modesta cucina. Dove la attendeva un tavolo vuoto e due sedie messe ai lati di quest’ultimo, lei si sedette su una di queste e l’animale la copiò, facendo la stessa cosa sull’altra sedia vuota. Si guardarono per un paio di secondi in silenzio, poi la ragazza si sciolse in una piccola risata. «Non sarà mai strano come il parlare con un gatto. Ma per me è normale, non lo trovi anche tu?», il piccolo amico si limitò soltanto a battere le palpebre un paio di volte e leccarsi le zampe per pulirsi.
 
Lei s’alzò quindi in piedi, dirigendosi verso i fornelli, prese il giusto necessario per potersi preparare la colazione e guardandosi attorno iniziò a sentire il peso del silenzio della propria casa vuota. Quasi si sentiva sola, senza nessunǝ che potesse abbracciarla mentre si riscaldava il latte, nessunǝ che potesse baciarla e ringraziarla per aver preparato la colazione. Lei amava cucinare, infatti, ogni volta che sognava a occhi aperti, immaginava tutto ciò che ne sarebbe derivato e insieme a questo, riusciva a fantasticare appunto su una dolce colazione fatta da lei con amore.
 
Secondo lei, cucinare per una persona amata non era un dovere innato, anzi, odiava del tutto lo stereotipo sociale per il quale la donna avrebbe dovuto cucinare. Per lei cucinare per una persona era come dimostrare il proprio amore in un modo né verbale né fisico. «Come quando mi prendo cura di te.», disse ridacchiando al gatto. «Ma è un discorso ben diverso.»
 
Una volta finito ciò che stava facendo si rimise al tavolo, dopo aver avvicinato la ciotola del gatto al tavolo e averla riempita.
 
«Così facciamo colazione insieme, no?»
 
E mentre camminava continuava a ripensare alla mattinata trascorsa, quel pensiero della formica e delle orecchie continuava a tornarle in mente e non capiva per qualche motivo gli stesse dando così tanto peso. In fondo era una semplice riflessione sull’essere, una delle tante che faceva di solito, quindi nulla di nuovo. Anche in strada era seguita da Corvino e quest’ultimo sembrava non volerla lasciare mai un minuto da sola.
 
Il freddo iniziò a farsi sentire sempre di più, tanto che la ragazza si sfregò le mani davanti alla bocca, per poterle riscaldare con il proprio alito fragrante di fragola, causa il suo dentifricio preferito.
 
Usava quello per i più piccoli, questo perché per lei la cura dell’igiene personale è importante che sia un piacere; perciò, aveva sostituito il classico alla menta con uno più fruttato. “Una saggia scelta”, diceva sempre la sua amica quando se ne parlava.
 
Dopo aver finito la colazione, tirò fuori dal pacchetto di sigarette che era al suo fianco una di quelle che lei chiamava “caramelle della morte”, la fece ondeggiare tra le proprie dita e dopo averla riposta tra le proprie labbra l’accese. Iniziò così a fumare la prima del giorno e quella che non era certamente l’ultima. Lei aveva, infatti, una forte dipendenza da tabacco e nicotina, tanto che in media in un giorno arrivava a fumarne almeno dalle otto alle dieci. Aveva appena finito di mangiare, eppure, aveva come l’impressione di avere ancora un po’ di fame. L’orario però non giocava a suo favore.
 
Decise quindi di mangiare due biscotti velocemente e poi andare a passo svelto verso il bagno. Fece uscire il gatto e senza pensarci oltre iniziò a fare una doccia calda che l’avrebbe aiutata a togliersi lo sporco e il sudore nauseabondo di dosso. Ne riscontrò dei benefici anche a livello mentale, si sentiva, infatti, più rilassata e più invogliata ad uscire di casa.
 
Una volta finita tutta la preparazione, vestita nel modo più comodo possibile, un po’ truccata e con le chiavi in mano era pronta per uscire e incamminarsi per la sua destinazione.
 
«Secondo te se la prenderà?» Disse al gatto durante il tragitto, riferendosi alla persona che stava andando ad incontrare. «Voglio dire, è passato molto tempo da quando non ci vediamo, non le ho lasciato nemmeno un messaggio.», l’animale non rispose nulla. Non che potesse fare altro, ma anche avesse potuto non l’avrebbe sicuramente fatto.
 
Arrivò dopo una decina di minuti davanti a un edificio tutto grigio, la quale porta d’ingresso si aprì e dalla quale uscì una donna abbastanza giovane, più grande della ragazza di una ventina d’anni. Le due si scambiarono una stretta di mano imbarazzata da parte della più giovane. Poi entrarono e la porta si chiuse alle spalle di Corvino che entrò dopo di loro.
 
 
Quello che accadde lì non ve lo posso narrare per filo e per segno, rovinerei il senso di questa storia, ma posso raccontarvi chi era quella donna e chi sono io. Lei era la mia psicologa e psichiatra e una volta entrate abbiamo parlato di quello che mi è successo nell’arco di tempo in cui non ci siamo viste. Io, come penso abbiate intuito, sono la ragazza che è andata a farle visita. Lei, dopo il mio racconto e dopo averle detto quanto la cosa mi abbia segnata, mi ha consigliato di scriverci un libro. Ho deciso però di farlo come se questa storia non mi appartiene, la scriverò in terza persona, io sarò per voi da ora soltanto una mera narratrice.
 
 
P.S. Non prometto che non scenderò nell’essere soggettiva e/o commentare alcune delle cose che mi sono successe.
 
 
 Questa è la storia di come ho visto morire un pettirosso.  
 
Buona lettura.

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Capitolo 2
*** 1 ***


1
Il tutto ebbe inizio a gennaio, nell’anno 2024.
 
La ragazza s’era appena destata da un lungo sonno, il giorno prima aveva avuto la notizia che non avrebbe più dovuto lavorare nel posto in cui era stata da poco assunta. La cosa l’aveva alquanto scossa, tanto che aveva cominciato a chiudersi a riccio e accumulare parecchia ansia e malumore.
 
A rassicurarla, però, c’era il fatto che qualche giorno dopo avrebbe avuto un appuntamento con la propria terapista di fiducia; perciò, avrebbe sfogato con lei tutte quelle emozioni negative che la stavano tenendo bloccata a letto. Corvino, che s’era appisolato sulle sue gambe durante la notte, alzò il capo e la guardò con occhio serio, quasi come se volesse dire che da lì non si sarebbe mosso per nessun motivo al mondo. «Mi spiace piccolo, ma ho promesso a Giulia che sarei andata a lezione oggi. Non puoi tenermi anche questa volta in ostaggio.», lo disse ridacchiando e accarezzando il gatto che nel mentre continuava a fissarla in silenzio. Lo prese poi di peso e lo spostò sull’altro lato del letto, il tutto mentre lui la giudicava con lo sguardo.
 
Uscì dalle coperte con uno scatto energico e dopo essersi resa conto di essere in ritardo, iniziò a correre da tutte le parti. Andò in bagno a lavarsi i denti, il viso e truccarsi. Mise il suo solito maglioncino grigiastro, dei pantaloni larghi color terra e delle scarpe nere da ginnastica. Si pettinò i capelli, ma non avendo il tempo di sistemarsi le trecce decise di andare a scuola con i capelli sciolti. Raccolse da terra la propria ventiquattrore e dopo aver controllato che Corvino non la stesse seguendo sgattaiolò fuori casa.
 
Finì di mettersi addosso il proprio cappotto invernale e caldo, poi iniziò a camminare verso l’auto, non accorgendosi di essere seguita dal suo piccolo amico peloso. Ignara della cosa mise le chiavi nel quadrante e partì verso casa dell’amica. Una volta arrivata di fronte alle porte del giardino, parcheggiò e con un movimento svelto prese il proprio cellulare in mano. Digitò il numero di telefono che ormai aveva imparato a memoria e dopo una serie di squilli continui e varie chiamate andate non a buon fine, Giulia rispose. «Sono qui, dammi un secondo! Sempre così di fretta!», la telefonata durò poco, subito dopo, infatti, venne chiusa dalla ragazza stessa.
 
«E poi sarei io quella sempre in ritardo. Tu che dici Corvino?», si voltò parlando al gatto, quasi come se fosse consapevole che lui si trovava lì nonostante i suoi tentativi di non farlo uscire di casa. «Aspetta un attimo! Tu che ci fai qui?», passò la sua mano fredda, dalle dita affusolate e lunghe sul pelo morbido e caldo dell’animale. «Non riesco a prendermela con te, non riesco proprio. Sei troppo adorabile.», sospirò accendendosi l’ennesima sigaretta e guardandolo con la coda dell’occhio mentre abbassava il finestrino alla sua sinistra. «Ormai dovrei rinunciare nel tentare e ritentare di tenerti in casa. Tu ormai sei la mia ombra, il mio angelo custode, la mia spalla.»
 
«E io cosa sarei, scusa?», disse Giulia, la migliore amica della ragazza che s’era affacciata al finestrino che la stessa aveva appena abbassato per poter fumare e non far rimanere la nebbia nell’auto. «Buongiorno, comunque.», lo disse sorridendo, ma si vedeva benissimo ch’era stanca e provata. Le due, infatti, erano rimaste quasi tutta la notte sveglie a studiare per uno dei tanti esami che avrebbero poi svolto in quel periodo di sessione.
 
La ragazza ridacchiò ricambiando il saluto e il sorriso, poi continuò. «Tu sei…diciamo che sei la mia spalla umana, lui è la mia spalla felina. Siamo un perfetto trio, non trovi?», l’amica annuì non aggiungendo altro. «Oggi, comunque…», esordì la stessa, «…dovrebbe esserci il nuovo professore di pittura, finalmente quella mummia di Roselli –non era questo il suo vero cognome, lo storpiavo ogni volta per errore– se ne va in pensione. Non che le sue lezioni mi dispiacciano, anzi, è anche bravo a spiegare e insegnare, ma i suoi modi di fare con noi sono rimasti a quando c’era il duce. È anche un po’ nostalgico, sai che l’hanno beccato con il busto di tu sai chi in casa? Non dico che non me l’aspettavo, ma a dir la verità mi ha stupita come cosa.» Nel mentre continuava a guidare, pensando e ripensando a quanto le persone possano sempre sorprendere, che sia in bene o in male.
 
Giulia guardò l’amica che guidava con una mano e finiva la propria sigaretta con l’altra. «Ce lo aspettavamo tutti, ma in fondo le persone non finiscono mai di deludere. Con quel signore ci ho avuto a che fare nei laboratori di arte nel primo anno, mi ha fermata e mi ha trattenuta parlandomi di come la nostra generazione sia allo sbaraglio e di come il mondo stia andando alla rovina. Tu che ne pensi?»
 
L’amica lasciò cadere il mozzicone in un bicchiere di plastica dura che usava come posacenere, ormai stracolmo di sigarette morte. «Io penso che non sia la nostra generazione il problema e nemmeno la loro, siamo tutti un po’ parte del problema; semplicemente a tutti piace puntare il dito a quelli nati prima o nati dopo, perché è più facile avere un nemico comune da odiare, piuttosto che puntare il dito verso il pulpito e capire di essere parte del marasma in cui viviamo. Quelli che noi chiamiamo vecchiacci sono una generazione che ha vissuto la guerra e la fame, indottrinati da comportamenti tossici. Gli stessi a loro volta hanno indottrinato la generazione dopo, riversando tutto il loro dolore, rabbie represse e problemi come se quelli dopo fossero soltanto bambole di pezza. Quella generazione, cresciuta in una società che non si cura della propria igiene mentale ha riversato tutto il proprio male verso quella dopo. Qui entriamo in azione noi, figli incompresi e cresciuti da genitori che non hanno mai avuto a che fare con genitori davvero amorevoli. Sono tutti cresciuti a pane e mazzate e credono sia la cosa giusta da fare. Noi siamo il punto delle generazioni dove la linea di repressione si spezza, perché abbiamo sulle spalle il peso di tre generazioni e anche quella dopo la nostra. Il mondo non è in mano a noi, il mondo è sotto i piedi di tutti e se non ci spostiamo tutti insieme continuerà a essere lì sotto a lungo.»
 
Nel mentre la ragazza aveva trovato il parcheggio perfetto e dopo aver accostato la propria auto e averla spenta le due si guardarono negli occhi. Ci fu un attimo di silenzio, poi la stessa riprese a parlare, concludendo la cosa. «Non è colpa nostra se il mondo va a puttane, è colpa di tutti, sarà colpa nostra se non lo rimettiamo in sesto e continuiamo ad accettare questa società con tutti i suoi problemi. Siamo noi il futuro, no? Lo dicono anche loro, ascoltiamoli una buona volta, magari dicono il vero.», scesero entrambe dall’auto. «Comunque siamo in ritardo per la lezione di pittura con Fersini. Dato che è la sua ultima lezione non vedo l’ora di perdermela. Vieni con me al bar?», nel mentre sfilò l’ennesima sigaretta dal pacchetto.
 
Giulia andò di fronte a lei e gliela strappò via dalle labbra guardandola negli occhi. «Questa roba ti ammazza, lo sai vero?», lei rispose sarcasticamente, dicendo che non aspettava altro. Riprese poi la sigaretta e dopo essersela accesa si incamminò verso il bar, seguita da Corvino e Giulia. «In ogni caso, anche io la penso più o meno come te. Molte volte mi metto a pensare a tutte le cose che stanno succedendo nel mondo, hai visto la situazione in Palestina? Oppure in Ucraina? Per non parlare poi di tutti casi di femminicidio in solo pochissimi mesi in Italia e non solo. Io sono stanca di questo mondo, voglio soltanto che tutto possa andare meglio. Le persone muoiono e l’intero pianeta si comporta come si stessero spezzando dei semplici fasci di erba.»
 
Ci fu una pausa in cui entrambe si mutarono, stavano aspettando che il semaforo dall’altro lato della strada cambiasse in verde. Regnava il silenzio.
 
 
«Piume d’oca.» disse la ragazza rispondendo a Giulia.
 
«Come scusa?»
 
«Piume d’oca. Sai, le oche perdono gran parte del loro piumaggio ogni due settimane circa, potrei sbagliarmi sulla precisione della cosa, ma il punto è un altro. Noi siamo come delle piume d’oca, abbiamo un peso unico, comparato al resto delle cose non è niente, ma ogni piuma ha il suo peso e la sua importanza.», nel frattempo un signore anziano sulla settantina si avvicinò a loro, che intanto s’erano sedute al tavolo di un bar.
 
Quest’ultimo si sistemò i pochi bianchi capelli che aveva dietro la testa, raddrizzò gli spessi occhiali da vista e dopo aver preso un taccuino dal proprio grembiule nero si rivolse alle ragazze con tono gentile. «Buongiorno a voi.», riconobbe poi la ragazza, le sorrise e continuò. «Mi chiedevo dove fossi finita, lei e la signorina…Giulia, giusto? Non stavate venendo e quindi mi son quasi preoccupato. Cosa vi posso portare? Un caffè corto e un cappuccino, giusto?», le due annuirono, poi quando l’uomo si allontanò continuarono la loro conversazione.
 
La ragazza sospirò guardando l’amica. «Spero vivamente che le cose migliorino, sai cosa diceva mia nonna? Quando le cose peggiorano in realtà ti stanno dando solo il pretesto per migliorare. Tu sei una persona molto empatica e questo si vede, stai male per i problemi che succedono ad altri, ma ti ricordo di non ignorare i tuoi. Non accumularli e sfogati quando puoi.»
 
Giulia sorrise, accarezzò la mano dell’altra e in un sorriso la conversazione si chiuse in un bocciolo di rosa. «Al momento sto bene, a dir la verità, ma forse ancora non hai capito il perché.», l’altra chiese quindi quale fosse il motivo del suo buon umore che lei non riusciva a comprendere, lei subito rispose. «Sei tu. Io sto bene quando sto con te, ma tu ancora non ci arrivi da sola, hai sempre bisogno che io te lo ricordi. Credi di essere sempre inferiore a ciò che sei, ma per me, e lo dico genuinamente senza secondi fini, sei la migliore amica che io potessi mai incontrare.»
 
Dopo qualche secondo, le raggiunse lo stesso uomo anziano che prima aveva preso le ordinazioni. «Scusate per l’attesa signorine, ma sono solo qui.», da non molto, infatti, l’uomo aveva perduto la moglie che s’era fatta parecchio anziana e che aveva contratto una brutta malattia.
 
 
 
La primavera era ormai lì e il dolce suono degli uccelli accompagnava le persone in ogni dove e in ogni come. La storia che vi sto per raccontare non mi riguarda, non l’ho vissuta, ma mi è stata raccontata con tale passione che mi son sentita innamorata anche io stessa. Spero anche voi possiate vivere le belle emozioni che ho provato nel sentirla.
 
Un ragazzo dai lunghi capelli ricci e biondi si avvicinò a quello che era il suo bar preferito, era accolto non solo dal giovane cameriere poco più grande di lui, ma anche dalla musica celestiale che il grammofono all’entrata stava cantando. Si sedette a uno dei tavoli liberi dopo aver chiesto il suo solito caffè corretto con un po’ di sambuca all’interno. Tutto filava liscio, molte persone lo salutavano passando al suo fianco, altre si limitavano a sorridergli, ma una cosa era certa: era ben conosciuto e sprigionava simpatia in ogni mossa che faceva. Era il 1963 e mentre continuava a godersi le dolci note di una sinfonia a lui sconosciuta una ragazza poco più grande di lui gli passò di fianco. Non lo salutò e non gli sorrise, ma lui rimase inebriato dalla sua grazia, sembrava essere accompagnata da una nuvola di dolcezza e di eleganza.
 
Aveva dei lunghi capelli neri raccolti in uno chignon, degli occhi verdi che avevano lo stesso sentimento di un caldo bacio e mentre il cameriere cercava di chiamare l’attenzione del ragazzo, quest’ultimo era distratto dalla magnificenza di quella sconosciuta così tanto bella.
 
«Massimo, mi stai ascoltando?»
 
«Ignazio.», esordì lui, «Tu conosci quella tanto graziosa fanciulla?» Il cameriere però era già andato via e non era più lì per rispondere alle sue domande. «Fa niente.», commentò lui sottovoce, «Vediamo un po’ come si chiama colei che pare essere l’unica persona qui a non conoscermi.», s’alzò spostando la sedia sul quale era seduto e portando con sé la propria tazzina di caffè si avvicinò al bancone. Lui e la dolce ragazza si scambiarono un paio di occhiate e un sorriso sconosciuto. «Posso chiedere il nome a questa madreperla fuori mare?»
 
Lei ridacchiò imbarazzata. «Lucia, Lucia Vosai. Da chi ho il piacere d’esser corteggiata?», chiese lei in modo diretto, cercando di spezzare il ghiaccio. Il ragazzo rimase basito, non s’aspettava che il suo tentativo di conoscere una così bella dolcezza fosse scoperto e inteso come corteggiamento.
 
«Corteggiarla? Io?», fece un sorriso ch’era più un ghigno, «Signorina lei mi ha quasi scoperto, ma non del tutto a dir la verità, la mia era della genuina bontà verso una dolce e bellissima fanciulla. Io, in ogni caso, mi chiamo Massimo. Solo Massimo, per il momento. Posso offrirle un caffè?»
 
Lei ridacchiò ringraziandolo per le dolci parole che lui le aveva dedicato, poi lo guardò con il sorriso stampato in volto. «Non bevo caffè, mi spiace, sono qui per delle questioni di famiglia, non le interesserebbe quindi le evito la noia di starmi ad ascoltare. Ora, però, debbo andar via, è stato un piacere incontrarla, Massimo, sembra lei sia molto conosciuto da queste parti.»
 
Lui annuì e con malincuore salutò e vide allontanarsi quell’angelo che aveva scosso qualcosa in lui. Lasciò la tazzina bianca sul bancone del bar, nonostante non ne avesse ancora bevuto nemmeno un sorso e raggiunse la bella ragazza che era appena oltre l’uscio del portone. «Lucia.», iniziò lui richiamando la sua attenzione e il suo nome, «Posso invitarla a degustare un bel calice con un po’ di Chopin alla cantina di mio padre? Abbiamo degli ottimi vini e per lei offre la casa, ovviamente.», lei ci pensò su un attimo, poi disse che la cosa le interessava e non poco. Accettò l’invito e di rimando invitò lui ad accompagnarla sulla strada di casa in quel momento.
 
Massimo alzò quindi il gomito e invitò la ragazza a mettere il suo braccio sotto di esso. Insieme iniziarono quindi a camminare verso la strada sottobraccio. «Mi parli un po’ di lei.», disse Lucia, per poi continuare. «Ha detto che suo padre possiede una cantina, se non vado errando, lei, invece, di cosa si occupa? Se posso domandarlo, è ovvio.»
 
«Il mio lavoro non le interesserebbe, in tutta onestà, faccio l’architetto, ma da un po’ di tempo desidererei aprire un bar tutto mio, progettato e creato da me chiaramente. Molti dicono che erro, che dovrei continuare la mia vita da architetto, ma questi sono i progetti che i miei genitori avevano per me e non che io avevo per il mio futuro. Lei, invece, di cosa si occupa?»
 
La ragazza ridacchiò guardandolo e gli rispose continuando a ridere con leggerezza. «Non mi crederà se glielo dico, ma anche io avevo intenzione di aprire un bar tutto mio. Al momento non ho un’occupazione, sbrigo le faccende di casa insieme alle mie due sorelle, mia madre è molto malata e ho poco tempo, ma vorrei così tanto essere libera anche io di poter fare ciò che vorrei. Loro non si aspettano molto da me, come può immaginare, noi donne non abbiamo così tante aspettative in questo mondo fatto a misura d’uomo.»
 
Massimo si fermò di colpo, poi rispose. «Non sono d’accordo. Voi donne potete dare al mondo cose che noi uomini non possiamo nemmeno immaginare. Un mondo a misura d’uomo è possibile solo grazie a voi donne. Desidererei che voi veniate più ascoltate e apprezzate. Lei crede in dio?»
 
«Certo!», esclamò lei con gran gioia, «E gli sono tanto grato della vita che mi ha donato. Non sono molto praticante, ma ammetto di essere tanto devota e che punto a essere una brava cristiana, di amare Dio e di metterlo a primo posto tra tutti.», poi lo guardò con occhio dubbioso, «Ma perché me lo chiede? Lei non crede nel santo padre?»
 
Lui scosse il capo dicendo di non crederci affatto. «Ma non è questo il punto. L’importante è che ci creda tu. Vedi, nei sacri testi viene detto che la donna è stata creata dalla costola dell’uomo e io non ci credo, ma non perché io non creda in ciò che dice la Bibbia. Piuttosto, dico io, è stata la donna a creare l’uomo, dio a mio parere, se proprio dovesse esistere sarebbe una donna. L’uomo è stato l’atto di amore di una grande donna, poi quel che viene dopo è tutto fuffa. L’uomo non ha mai apprezzato di sentirsi inferiore alla donna, quando in realtà era al pari merito. L’uomo, quindi, invidioso della donna, l’ha zittita, messa in gabbia, come un uccellino che canta troppo. Perché ha paura dell’uguaglianza di cui nemmeno si accorge.»
 
Lucia sorrise. «Lei è un uomo saggio. Ma quanti anni ha? Se posso chiederglielo? Io…e ora te lo dico…anche se non si chiede l’età a una signora e anche se non me l’hai chiesto…ho ventisette anni.», lui rispose di averne solo uno in meno, dicendo fieramente di essere figlio di un grande partigiano. «Ma guardi un po’, anche mio padre è partigiano, anzi…», in questo punto della frase sembrò rallentare tutto, il modo in cui parlava, in cui si muoveva e respirava. Non sorrideva nemmeno più come prima. «…lo era. È stato ucciso con la faccia contro il muro, davanti agli occhi miei e della mamma.
 
 
 
 
Era l’inverno del lontano 1944. La storia che le sto per raccontare mi riguarda, io c’ero e la ricordo così bene che tutt’ora sento le voci.
 
Bussarono quattro volte alla porta di casa nostra, lo fecero con forza, un rumore tanto detestabile quanto temibile. Quando mia madre la aprì, si fece spazio un soldato tedesco che irruppe in casa senza nemmeno salutare, non chiese permesso e nemmeno buongiorno. Arrivò nell’ufficio di mio padre, lui fumava il suo sigaro mentre mi disegnava il ritratto dell’uccellino che mi aveva regalato e che tenevamo in una gabbietta in soggiorno. I due si guardarono negli occhi, lui gli parlò in tedesco e l’altro gli rispose allo stesso modo. Il grande uomo ch’era mio padre poi s’alzò, diede un bacio a me e uno a mia madre e mentre l’altro lo ammanettava mia madre gli corse contro piangendo. Io non capivo, ero piccola e non capii nemmeno il perché quello stesso soldato stesse ammanettando anche mia madre, che scoprii essere complice di mio padre, anche lei partigiana. Ci portarono in una piazza dove mi lanciarono nella folla di spettatori, dove una donna mi coprì gli occhi e mi tenne il viso coperto per tutto l’atto. Mia madre venne liberata non so per quale motivo, ma mio padre no. Lui venne fucilato e io riuscì a riconoscere lo sparo preciso che lo uccise. Morì d’inverno, al freddo e non aveva nemmeno una coperta. Te ne rendi conto? Era solo e al gelo.»
 
Si asciugò poi le lacrime che erano cadute coraggiose sul suo dolce viso e sforzandosi di sorridere cercò di ricomporsi. «Mi perdoni, sono molto legata a mio padre e mi manca ogni giorno di più. Spero lei riesca a capirmi.»
 
Continuarono poi la loro passeggiata e una volta arrivatз davanti alla casa di lei si separarono, per poi però reincontrarsi qualche ora dopo alla cantina del padre di Massimo. Entrambз erano sedutз ad un tavolo di legno dal colore chiaro e sorseggiavano insieme lo stesso vino bianco. Cominciarono a parlare di musica e l’argomento era entrato in gioco proprio perché prima che lei arrivasse il ragazzo aveva preparato dei vinili di musica classica che poi ascoltarono insieme. Lucia diceva di preferire Wagner, Massimo, invece, Vivaldi e tutta la musica nostrana.
 
Le loro vite così iniziarono a congiungersi, unirsi all’unisono in una passeggiata che durò un’intera esistenza. L’anno dopo, fecero insieme il loro viaggio dei sogni, volando verso il Giappone durante il periodo dei ciliegi in fiore e proprio sotto l’ombra di uno di essi lui si inginocchiò davanti a lei e con un piccolissimo cofanetto rosso in mano, dentro al quale si nascondeva un anello, le chiese di sposarlo. Rispose di sì. Il resto è storia.
 
«Quando morì.», disse lui alle ragazze che lo stavano ascoltando parlare, «Era inverno e fuori c’era la neve. Mi guardò negli occhi e mi disse “Grazie, con te la mia vita ha avuto più senso di quella che avrebbe avuto normalmente.” Poi chiuse gli occhi, dicendo che finalmente si sarebbe riunita al padre e la madre e concluse la sua vita donandomi un ultimo “Ti amo”. Non ci baciammo come nei film, non ci baciavamo da un po’ di anni, a dir la verità, ma a mio parere quando raggiungi una certa età d’amore, le manifestazioni d’amore diventano così scontate che l’unica cosa che rimane è l’amore stesso.», s’asciugò la lacrima che era caduta dal suo unico occhio buono, (l’altro era di vetro), poi si voltò e tornò al bancone.
 
Prima che ci arrivasse, però, la ragazza lo fermò. «Signor Massimo, se ha bisogno di una mano con il bar io sono disoccupata al momento, potrei provare a lavorare con lei. Ho anche una certa esperienza in merito.», lui rispose che gli avrebbe fatto tanto piacere, dopo di che si sedette al tavolo con loro e insieme cominciarono a parlare di lavoro, di stipendio e quant’altro. La conversazione non durò molto, perché subito dopo entrarono un bel po’ di clienti e l’uomo dovette alzarsi per andare a servirli. «Domani si inizia.», concluse lei guardando l’amica e sorseggiando il proprio caffè.
 
 

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Capitolo 3
*** 2 ***


2
Le due avevano finito il loro corrispettivi caffè e cappuccino. Il gatto che era rimasto sulle gambe della propria padrona si alzò sbadigliando, il tutto sotto gli occhi delle due ragazze che lo guardavano intenerite dalla sua dolcezza e dalla sua grazia. «Cosa facciamo?», chiese Giulia guardando l’amica. «Iniziamo ad andare? Tra poco inizierà la seconda ora e io non voglio perdermela. Piuttosto, hai portato il libro di filosofia? Io l’ho dimenticato nella mia tote bag di Caravaggio a casa. Con me in questa…», prese poi la propria borsa, che era dello stesso tipo di quella lasciata a casa, ma con una decorazione diversa, ossia l’immagine di un piccolo pettirosso in mezzo ad essa.

«…ho soltanto i libri di storia dell’arte. Filosofia l’ho proprio rimosso dal cervello mentre la sistemavo. Me ne sono ricordata solo ora.»

L’altra sghignazzò, poi la guardò sorridendo e rispose. «Divertente da parte tua pensare che io abbia portato anche solo il minimo materiale scolastico. Ho portato un quaderno che uso per tutte le materie, un po’ di matite, penne e uno sketchbook per disegnare quando non so che cosa fare. In ogni caso…», esordì la stessa, cambiando discorso, «…strano tu non mi abbia ancora chiesto nulla.», l’amica chiese a cosa si stesse riferendo, lei quindi le lasciò qualche secondo per rifletterci. Quest’ultima capì poi che parlava della festa che la loro accademia aveva organizzato per quella sera. «Puoi già immaginare la mia risposta ed è un no. Ma prima che tu inizi a fare storie ti voglio avvisare, verrò, ma a patto che poi tu mi porti a quel concerto l’estate prossima a Venezia. Ci ricambiamo il favore, no?»

Giulia era rimasta quasi impressionata dalla cosa. «Mi sarei aspettata un’odissea solo per convincerti a venire, e invece, è stato più semplice del previsto. Come mai questa sorpresa?», lei spiegò quindi che non aveva voglia di stare tutto il giorno a sentire i suoi tentativi di convincerla ad andare, quando alla fine della storia ci sarebbe comunque andata. “In più”, aggiunse “la stessa, sarà magari l’occasione buona per farmi dei nuovi amici”. «In effetti sono la tua unica amica nel raggio di centocinquanta chilometri. E scusa, con Raff? Avevi detto che avevate cominciato a uscire insieme e che forse sarebbe anche sbocciato il fiore. Non mi hai più detto nulla.»

La ragazza sospirò, poi guardò Giulia e le rispose. «Si è trasferita a Milano, per noi povere terrone non c’è mai pace purtroppo. Tutti si trasferiscono al nord e noi rimaniamo qui, sole, come due babbee.», seguì una risatina sforzata da parte dell’altra. «Comunque verrò, ma non so proprio cosa indossare. Io proprio non li capisco questi balli scolastici e tutta questa voglia di copiare gli americani. Non possiamo fare delle feste “ognuno a casa propria”? Sarebbe molto più comodo per noi introversi che non sappiamo cosa fare della nostra vita. Capisci che intendo?», Giulia annuì, anche lei, in realtà non era molto brava a socializzare e anche lei come la migliore amica era vittima del proprio cervello e di quella tanto temuta bestia chiamata “ansia sociale”. Entrambe, infatti, andavano dalla stessa psicologa e parlavano anche quasi delle stesse cose. Le loro anime erano da tempo legate e non ricordavano nemmeno loro quando s’erano conosciute, sapevano soltanto che una delle due era entrata nella vita dell’altra ad un certo punto della loro storia.

 

Io, me del futuro, invece, lo rammento perfettamente.

Lo so benissimo cosa state pensando.

Voi volete l’amore, l’azione, il sangue e il caos.

Ma dovete pazientare.

Vi state chiedendo da già tre capitoli cosa c’entra questo dannato pettirosso e io sono qui per dirvi una cosa sola: per capire al meglio le mie vicende, dovete capire al meglio prima la mia storia. Dovete capire quello che mi ha portata a fare determinate cose, le scelte che mi hanno portata a innamorarmi del tempo giusto in una persona sbagliata. Dov’ero rimasta?

Il tutto iniziò una decina di anni prima. Giulia ne aveva dodici e l’amica lo stesso, la differenza di età era di qualche mese.

Le due non erano ancora amiche, anzi, non si conoscevano nemmeno, ma quel giorno di autunno le loro strade si incontrarono. Era il quattordicesimo giorno di scuola, andavano entrambe alle medie, ma in scuole diverse. O meglio, andavano in scuole diverse fino a quel giorno, perché la ragazza si trasferì dalla Sicilia alla Puglia e dovette cambiare anche istituto, entrando per la prima volta nella stessa classe di Giulia. Lei era una dolce bambina dai capelli riccioluti, castani, ai tempi portava ancora gli occhiali da vista.

Una delle professoresse la presentò alla classe, dicendo i suoi due nomi e il suo cognome.

Ai tempi era ancora più timida e il non avere alcun viso conosciuto all’interno della stanza non aiutava per niente, anzi, la peggiorava e basta. Tuttз lз ragazzinз fecero a gara su chi avrebbe avuto di fianco la nuova arrivata, lei si trovò davanti a due prime scelte. Un ragazzo dai capelli lunghi neri, un orecchino per lobo e due occhi dello tesso colore della folta chioma, freddi come il ghiaccio.

L’altra opzione era Giulia, che, invece, aveva degli occhi nel quale ci si poteva tuffare e nuotare liberamente. Questa bellezza sarebbe poi rimasta negli anni e sarebbe persino diventata qualcosa di più grande: un vero e proprio fascino che le stava da dio quando sorrideva.

«Posso sedermi qui?», lo chiese perché tra almeno ventidue alunnз lei era stata l’unica a non fare le feste per averla di fianco. Segno della sua già allora presente timidezza e introversione. La ragazzina annuì cercando di forzare un sorriso, non rendendosi conto di che grande cosa aveva appena fatto. Lo stesso giorno si reincontrarono, durante la ricreazione prolungata, la quale era un’idea della scuola in cui andavano, ossia di dare un’ora di ricreazione prolungata a settimana dove lз ragazzinз potevano divertirsi nei giardini della scuola e praticare anche del sano sport.

Tuttз erano mischiati e divisi in gruppi diversi. L’unica a rimanere da sola era la nuova arrivata, del quale nessuno si ricordava il nome. Infatti, ogni volta che qualcunǝ cercava di riferirsi a lei passava dei secondi a riflettere su quale fosse il suo nome. Quest’ultima però non se la prese affatto, comprendendo che imparare il nome di una persona in poche ore poteva risultare difficile, nonostante lei avesse imparato a memoria i nomi di tuttз lз suз compagnз. Un insegnante, accompagnato da una piccola fanciulla, si avvicinò a lei.

«Giulia perché non giochi con…Mi ricordi come ti chiami?»

«Alice Agata Amur!.», rispose Giulia all’insegnante che non riusciva a rammentare il nome della piccoletta. «Si chiama Alice. Perché lo dimenticate tutti?! È così semplice!»

Si sedette poi vicino alla ragazzina e dopo che le due si guardarono negli occhi scattò la scintilla che le fece innamorare l’una dell’altra di un’amicizia che per loro sarebbe stata storia. «Ehi, Alice. Se vuoi mi è rimasta una brioche, ho visto che non hai portato la merenda, posso offrirti la mia per oggi. I miei genitori me ne danno sempre troppa e io non riesco mai a finirla.», le porse poi la brioche sorridendo, lei accettò.

«I miei genitori non possono permettersi grandi spese, perciò ho chiesto loro di non prendermi più la merenda. Ma grazie!»

 

Se ora mi chiedessero a quale banco mi sarei seduta se avessi la possibilità di cambiare l’idea del mio passato, io risponderei che cambierei soltanto il momento in cui è successo. Avrei scelto di incontrare Giulia molto prima, così da non farle aspettare il mio arrivo tutta da sola.

 

La più piccola delle due si voltò verso l’altra. «Oggi pomeriggio ti va di venire a casa mia? Magari potremmo giocare insieme ai videogames di mio fratello. Lo sai che lui sa suonare la batteria? È più grande di me. Lui va già all’università!», Alice annuì sorridendo, capendo che quel giorno non lo avrebbe passato ad annoiarsi da sola come al solito.

Finalmente aveva trovato un’amica.

Finalmente avevo trovato la mia piuma d’oca.

E se ancora non avete capito cos’è una piuma d’oca, beh, la piuma d’oca è quella persona che anche se nell’ordine generale e mondiale delle cose non fa rumore, per voi è speciale e unica. Se una piuma d’oca cade non fa rumore attorno, ma per altri quella stessa ha un valore inestimabile e si sente quando cade per terra. Lei era ed è la mia piuma d’oca.

 

Le ragazze si alzarono quindi dal tavolo e dopo aver pagato e aver salutato il signor Massimo si diressero verso l’accademia, seguite come sempre da Corvino, che con eleganza zampettava dietro di loro.

Notandolo, Giulia commentò ridendo. «Ma siamo noi che portiamo a spasso lui o è lui che porta a spasso noi due?», l’amica rispose che anche lei si domandava la stessa identica cosa. «Queste sono le ultime lezioni per ora, poi abbiamo solo da studiare, consolati così. Magari potresti evitare di farti bocciare nuovamente in pittura, ora che c’è il nuovo insegnante c’è la possibilità che ti troverai meglio con la sua materia. Non trovi? Dicono sia giovane e sia single, sai? Potresti provare a fargli la sviolinata.»

«Il mio cuore è già impegnato per qualcuno, lo sai. E quel qualcuno è l’arte.», le due si guardarono per qualche secondo in silenzio, poi scoppiarono a ridere all’unisono. «In ogni caso no, non è il mio tipo. Già lo conosco, in realtà, i suoi genitori erano amici dei miei genitori e veniva spesso a casa mia perché sua madre e suo padre andavano più e più volte fuori città per lavoro. La differenza di età è di dieci anni, forse quindici, al momento credo abbia dai trenta ai quarant’anni. Ho grandi aspettative in lui, ma non ci vediamo da parecchio tempo, potrebbe essere anche diventato un mezzo nazi. Mi sorprenderebbe visto che lo ricordo essere molto di sinistra ai tempi del liceo. Chissà, vedremo.», nel frattempo Alice prese una delle sue solite lunghe sigarette e dopo averla accesa si poggiò con la schiena alla parete della scuola, guardando Giulia con sguardo tranquillo.

Quest’ultima dopo essersi sistemata a dovere si voltò verso Alice. «Ti dispiace se io entro ora? Non voglio arrivare tardi a filosofia.», lei scosse il capo dicendo che non era un problema e che anche lei, finita la sigaretta, l’avrebbe seguita. «Perfetto. Ci vediamo in classe allora. A dopo Corvino.», si piegò poi per accarezzare il dolce animaletto che era dietro di loro.

 

Alice era rimasta sola e questo non le dispiaceva affatto, anche se in realtà per lei la solitudine andava a scatenare quello che più comunemente viene definito uno stato di sovrappensiero. Tutto ciò che lei aveva nella testa si accendeva come un fuoco e non le dava possibilità di fuga se non tornare a distrarsi. Fece cadere la cenere dalla sigaretta che era già quasi a metà della sua vita. Guardò il gatto e capì di non essere del tutto da sola. «Fortuna che ci sei tu, Corvino. Quando mai mi capiterà di incontrare un’altra persona come Giulia? Voglio dire, ho bisogno di farmi nuovi amici, non posso dipendere da lei.», dall’altra parte della sua mente si materializzò come un’altra sé stessa, con un aspetto e fattezze identiche, anche la voce era la sua stessa. In realtà quest’ultima figura non disse niente, si limitava solo ad ascoltare i monologhi di sé stessa e a volte li giudicava. «Non ho intenzione di sostituirla. Che poi. Sostituirla? Giulia? Impossibile, lei è la mia piuma d’oca, lei è tutto ciò che mi mantiene legata a questa terra, lei è quello che io definirei un legame indissolubile che può essere spiegato solo in un’esplosione di emozioni. Con lei sono viva, mi fa sentire tutte le emozioni: a volte sono triste, il più delle volte sono felice, alcune volte ci arrabbiamo l’una con l’altra, poi facciamo pace e ci divertiamo insieme. Stare con lei è come…»

«esplorare un mondo tutto nuovo.»

Era giunto il momento, però, di entrare e partecipare alla lezione. Perciò, a passo deciso e come al solito seguita dal piccolo gatto dall’aria altezzosa, si addentrò nell’accademia. Pensava tra sé e sé che forse sarebbe stato meglio rimanere a casa quella mattina, per poi avere le energie giuste per poter affrontare al meglio la festa che la aspettava quella stessa sera.

Arrivò davanti alla porta dell’aula, bussò quattro volte e dopo un paio di secondi ad aprire vi era un giovane uomo dai capelli lunghi e castani, raccolti in uno chignon, una folta barba dello stesso colore e due labbra che erano perfette nella loro sottigliezza. Esse erano piccole e strette, ma davano spazio a una bellezza di cui poteva godere soltanto chi la riusciva a trovare. La bellezza, secondo Alice, era un tratto che non era esposto nelle persone, ma era nascosto nei dettagli del loro corpo, aggiungendo che andava cercato, per poi essere soprattutto trovato e apprezzato.

Il dilemma delle orecchie troppo grandi era una cosa che andava avanti dalle scuole elementari, dati gli anni di bullismo subito per via di esse. Veniva persino chiamata “elefante” o addirittura “Dumbo”, riferimento al famoso elefantino del vecchio omonimo film d’animazione.

Era diventato perciò un punto di insicurezza del suo corpo, tanto che per molto tempo tendeva addirittura a nasconderlo.

Aveva però imparato che le sue imperfezioni non erano altro che apostrofi sul bellissimo testo che era il suo corpo.

L’uomo era alto e ben piazzato, tanto che guardò verso il basso per poter avere un contatto visivo con la ragazza. «Buongiorno professore.» Lui le sorrise, ricambiò il saluto e la invitò a sedersi al suo banco, che era ovviamente attaccato a quello di Giulia, un’abitudine di cui mai si sarebbero stancate.

«Bene, dov’eravamo rimasti? Ah sì, il pensiero di Platone.»

E così iniziarono a passare dapprima i secondi, poi i minuti e in quello scorrere così lento del tempo, stando seduta a cercare di ascoltare attentamente la lezione, Alice stava venendo meno alla sua stanchezza. Iniziò a sentire il peso delle poche ore di sonno che aveva con sé, sentiva come se qualcosa sulla sua testa la stesse spingendo verso il basso, come se la pressione nella stanza fosse differente, percepiva il proprio capo più pesante. Voleva dormire, ma non aveva le forze per giustificarsi, sentì soltanto un grande senso di colpa, le luci si spensero e calò il sipario, era ufficialmente addormentata.

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Capitolo 4
*** 3 ***


3
Aprì gli occhi e tutto ciò che vide era un immenso e disteso deserto. «Dove sono?», si chiese lei sottovoce.
 
Si guardò attorno mentre s’alzava in piedi e dopo essersi tolta la sabbia dal lungo vestito che aveva addosso iniziò a incamminarsi verso una meta non fissata. Vagò a lungo senza sapere dove stesse andando e la prima cosa che riuscì a vedere fu un piccolo aereo dal quale usciva fumo, quest’ultima però non era capace di definirlo con un nome. Lei si trovava, infatti, in un mondo dove nulla e nessunǝ aveva un nome. Anche le più importanti delle cose, anche i più conosciuti dei concetti non avevano una parola che li potesse definire.
 
S’avvicinò sempre di più a quel mezzo senza nome di modeste dimensioni e quello che incontrò fu proprio un coniglio che addosso aveva un panciotto rosso e in mano un orologio da taschino che non si muoveva più. Riuscì a sentire anche da lontano il suo borbottare, si lamentava di qualcosa, ma lei non riusciva a capire di cosa. Si fece sempre più vicina a lui e quando furono a un paio di metri di distanza lз due si guardarono con occhio serio. «Cosa c’è? Se sei qui per guidare devi prima rispondere al mio quesito, altrimenti non ti muovi.», Alice rimase di stucco, “quel coniglio parla?”, pensò lei a bocca aperta. «Cos’è, il gatto volante ti ha mangiato la lingua?»
 
«No, no. Non sono qui per guidare, in realtà.»
 
Lui ridacchiò per poi tornare a picchiettare con le zampette grigiastre sul proprio orologio da taschino. «Oh, tu guiderai. E come se guiderai. Fidati, nessuno resiste alla bellezza di questo…questo…», non riusciva a rammentare il nome del grande mezzo- lungo almeno quattro metri- «…sì, insomma, questo coso. Com’è che ti chiami, giovane fanciulla? Mi sembri persa.»
 
Lei nel mentre continuava a pulire la sabbia dal lungo vestito viola che indossava, non ne voleva sapere di andare via. «Io? Mi chiamo…Diamine! Non lo ricordo più! Per caso lei lo sa?»
 
Il coniglio ridacchiò un’ennesima volta. «E come potrei saperlo? Ti ho appena conosciuta!», si fece una grassa risata guardandola. «Come si fa a dimenticare il proprio nome? È una cosa che non puoi scordare. Io, ad esempio, mi chiamo…», seguì il silenzio imbarazzato da parte sua.
 
«Non lo ricordo. Ma questo non conta, sono solo concentrato a riparare questo mio…affare. Dalle tue parti come lo chiami un aggeggio così?»
 
Alice accennò un sorriso, anche lei era parecchio imbarazzata. «Non lo so, a dir la verità, non credo di averne mai visto uno. Ma poi a cosa serve?», il grigio coniglio rispose che la sua utilità era scandire il tempo, ma non sapendo nemmeno cosa fosse il tempo aveva smesso di funzionare. Disse poi che era colpa della sua specie se aveva problemi con il suo orologio, riferendosi nuovamente ad esso con la parola “aggeggio”. «In che senso è colpa nostra?», il buffo animaletto iniziò quindi a dire che se non fosse stato per l’uomo, inteso come umano, il tempo non sarebbe stato un problema da risolvere perché non ci si sarebbe mai chiesto “che ore sono” o “che ore saranno” o “che ore erano”. Il tempo non gli apparteneva, disse poi, concludendo con altre varie lamentele sulla cosa.
 
«Saprebbe dirmi dove posso trovare altri…come me?», aveva intenzione di dire “umani”, ma quella parola non voleva proprio saperne di uscire dalla sua bocca.
 
Il coniglio si voltò quindi verso di lei continuando a ridacchiare. «Quindi vuoi guidare. Ti assicuro che senza volare non incontrerai nessuno per giorni, forse settimane. Magari in un mese o due troverai qualcuno che possa rispondere ai tuoi dubbi, ma ne dubito fortemente.», fece quel gioco di parole volutamente, consapevole del fatto che l’avrebbe confusa ancor di più. «Lei crede nel pettirosso?», la ragazza, ch’era stata per un attimo distratta, non capì bene la domanda, chiese perciò che venisse rifatta, perché le era parso di sentire il nome di un volatile. «Ho detto, lei crede in Dio?», lei sorrise, poi ci rifletté su per un minuto, forse due e mentre lei era impegnata a pensare, il grigio coniglio continuava a zampettare sull’orologio, pareva essere alquanto seccato dal suo malfunzionamento. «Se non lo sa non fa niente, cara, l’importante è che lei prenda questo aggeggio prima che cali quella sfera di luce in cielo.»
 
«Quando nulla si vede è più difficile guidare e non c’è molto tempo, se questa macchina infernale funzionasse le avrei detto anche quanto manca, ma purtroppo non mi vuol dare questa soddisfazione.»
 
Alice dopo aver finito di riflettere, rispose con gentilezza, dicendo che dopo aver incontrato uno come lui, intendeva un animale, capace di parlare, forse era da prendere in considerazione qualcos’altro oltre il normale. «Comunque ho deciso, prenderò l’aereo. Magari troverò qualcuno come me, vuoi venire anche tu?»
 
Il piccolo animale si voltò stupito. Mai nessuno gli aveva chiesto una cosa del genere e lui ne aveva visti di viaggiatori nella sua vita, eccome se ne aveva visti. «Questo non era previsto. Non credo si possa, no, no. Non se ne parla proprio.», ci pensò su per qualche secondo. «Anzi, sai cosa ti dico? Va bene, verrò con te. A patto però che sia io a guidare.»
 
Lei sorrise, poi aiutò il suo nuovo piccolo amico a salire sull’aereo. «E come la mettiamo con il fumo che fino a poco fa usciva da qui?», lui rispose che non era stato quello a far fumo, ma il suo orologio, che ancora non sapeva come chiamare. «Va bene.», salì anche lei, mettendosi dietro di lui e dopo pochi minuti il modesto ma non troppo piccolo aereo si liberò in volo. Iniziò ad andare sempre più in alto, sempre più in alto, fino a toccare quasi il lenzuolo buio che era il cielo stellato. S’era fatto buio e più in alto andavano più sembrava di entrare nello spazio. Questo fino a quando non superarono l’atmosfera e lontani da quel deserto non si ritrovarono nello spazio profondo. Lз due si voltarono uno verso l’altra e all’unisono dissero i loro nomi.
 
 
«Alice!»
 
«Grigiglio!»
 
 
Li pronunciarono in perfetta sincronia, sembrava quasi si fossero messз d’accordo nel farlo.
 

 
 
«Orologio! Aereo! Sole! Ora rammento tutti i nomi di tutte queste cose!», anche il mezzo stesso aveva a sua volta due nomi, uno stava a indicare che tipo di aereo fosse (un monoplano) e l’altro era uno di quelli che si danno alle persone, datogli da Grigiglio in segno dell’affetto che provava per il suo mezzo preferito. «Si chiama Benny, come l’amico che incontrai tempo fa in quel deserto.»
 
Iniziò poi a raccontare di una delle sue avventure con il monoplano e uno dei tanti viaggiatori che aveva incontrato. Non ricordava se al momento del racconto fosse primavera o inverno, rammentava solo che nel deserto dove viveva faceva un gran caldo e la notte un gran freddo. Un giorno lontano di un periodo lontano era lì a cercare di riparare il proprio orologio, zampettando su di esso come gli era solito fare. Passò di lì poi un altro piccolo animale, una volpe tutta gialla, in lontananza sembrava essere un canarino, che piano piano cresceva e diventava sempre più grande, fino a quando non si trasformò in una vera e propria volpe.
 
 
Quest’ultima si avvicinò al coniglio e per catturare la sua attenzione iniziò a fischiettare. «Smettila! Mi distrai! Non vedi che sono impegnato con questo affare?»
 
«Mi perdoni. Volevo solo chiederle se fosse possibile usare quel…com’è che si chiama?», il coniglio rispose poi che non ricordava nemmeno lui il nome di quello che spesso e volentieri chiamava “aggeggio” o “quel coso”. Aggiunse poi che per usarlo era fondamentale che lui rispondesse al suo quesito. Quando però era sul punto di farglielo, gli disse che l’aveva dimenticato e che non avrebbe potuto quindi usarlo. «Bene, allora continuerò la mia avventura con le mie zampe. Buona giornata a lei.», i due non si incontrarono mai più.
 

 
 
Grigiglio, che nel mentre era concentrato a volare con il suo monoplano nello spazio continuò rivolgendosi ad Alice. «Non lo vidi mai più e tutti quelli prima e dopo di lui avevano fatto la stessa fine. Dapprima mi chiedevano se potevano usare il mio Benny, poi io mi dimenticavo il quesito da porre, che era a sua volta sempre lo stesso in realtà, e alla fine questi proseguivano a piedi. Questa volta però tu mi hai chiesto di portarmi con te; quindi, ho chiuso un occhio sul quesito e te l’ho fatto usare comunque. In ogni caso, ora siamo nello spazio e qui tutto ha un nome. Vedi? Lì c’è la serie di pianetini.», lei chiese quale fosse il loro nome, lui rispose, indicandoli uno ad uno. «Depressionio. Timoreo. Traumo. Ansio. Panicao. Disturbio. A volte i nomi fanno un po’ di paura, ma forse è quello il modo per far sì che ciò che ci spaventa diventi meno spaventoso, no?»
 
 
 
Alice non ebbe il tempo di rifletterci, un enorme botto la riportò nel mondo degli svegli. Era stato un libro che cadendo aveva fatto un gran baccano e l’aveva destata di colpo. Tra l’altro era proprio uno di quelli sul suo banco, messo probabilmente lì dall’amica. Lei lo riafferrò e lo rimise al suo posto, poi si guardò attorno come se avesse fatto chissà che cosa. Il professore si avvicinò a lei e dopo averle sorriso ed essersi assicurato che stesse bene tornò alla sua lezione. Lei si trovò davanti ad un quesito: “È meglio un mondo dove nulla ha un nome o uno dove ogni cosa, anche la più piccola, ha un nome?”, lo pensò tra sé e sé, ci rifletté su e dopo qualche secondo capì che forse era proprio questo il famoso quesito che il coniglio avrebbe potuto chiederle.
 
L’insegnante continuò con la sua spiegazione, tornò anche alla cattedra, dove si sedette guardando la classe mentre parlava e mentre gli studenti continuavano a prendere appunti. Ad un certo punto entrò in aula un ragazzo, che bussò dapprima quattro volte alla porta. Quando l’uomo l’aprì il giovane si fece spazio salutando lui e gli studenti. Entrambi andarono alla cattedra, il professore si sedette alla sedia e guardando l’altro gli chiese per quale motivo si trovava lì.
 
Lui rispose: «Scusi se l’ho disturbata, ma ho ripreso in considerazione l’idea di pubblicare i miei scritti, non mi dispiacerebbe, anche se sono cose molto personali. Qui…», posò poi n mano al professore una pila di fogli «…le lascio ciò che rimane della mia storia. L’ho conclusa e corretta, spero lei possa dargli un’occhiata prima e dirmi cosa ne pensa.»
 
Alice era rimasta incantata dalla bellezza di questo giovane, sembrava essere parecchio timido, tanto che continuava a toccarsi vari punti della testa per l’eventuale nervoso; dapprima cominciò con i propri capelli neri rasati, poi con i vari piercing che aveva, iniziando dai due lobi dilatati, per poi arrivare a quello al sopracciglio. Era alto e quello che saltava più all’occhio era il suo importante, ma meraviglioso naso. Difficile da nascondere, ma che secondo lei avrebbe fatto bene a tenere in vista, data la sua bellezza. «Senti…», esordì il professore. «Tra un quarto d’ora vieni nel laboratorio di pittura, dovrebbe essere vuoto. Lì parleremo meglio del tuo lavoro, insieme.», prima di concludere il discorso iniziò a cercare qualcosa tra le tasche, allungò poi delle monete al ragazzo. «Appena finisce l’ora prendi due caffè, uno per me e uno per te. Altrimenti ci addormentiamo sulle tue bellissime poesie. È mattina per tutti, in fondo, no?»
 
Il giovane ringraziò e dopo aver salutato la classe e il professore, si sistemò i larghi e bassi jeans azzurrastri, per poi uscire dalla stanza chiudendo la porta dietro di sé. A nessunǝ lì dentro importava più di tanto di quell’episodio tanto banale quanto importante, ma ad una persona specifica rimase impressa quella scena per un bel po’ e quella persona era Alice.
 
Alice cercò quindi di riprendere ad ascoltare la lezione, ma più ci provava più la cosa sembrava complicarsi. I suoi occhi si chiudevano lentamente ogni volta che lei cercava a concentrarsi, il sonno e la stanchezza inoltre sembravano farsi sempre più presenti. Riuscì a sentire il professore parlare ancora di Platone, facendo dei riferimenti al suo maestro qual era Socrate. Lei sottovoce commentò la cosa tra uno sbadiglio nascosto e l’altro.
 
«A parlar di filosofia, in realtà, io preferisco Nietzsche.», non stava parlando con nessunǝ, ma pronunciò la cosa in un momento di silenzio, in cui tutta l’intera classe udì quello che lei aveva detto. L’insegnante ne approfittò e lo usò come incipit, spostando l’attenzione su di sé.
 
«Ragazzi e ragazze, l’ora è finita, vi assegno come argomento per la prossima lezione un tema libero sul vostro filosofo preferito. Potete anche non farlo, non li valuterò, ma potrebbe darvi crediti in più per l’esame. È facoltativo, ma sarà un ottimo modo per confrontarci.», dopo qualche minuto l’aula si svuotò del tutto, rimasero solo Alice, il suo gatto addormentato sul cornicione della finestra e il professore che stava finendo di sistemare i suoi documenti e fogli nella propria valigia in cuoio. Quest’ultimo, una volta finito di sistemarsi, prima di andare via, s’avvicinò alla ragazza che intanto per distrarsi dalla stanchezza aveva cominciato a fare un piccolo ritratto dell’uomo sul suo “sketchbook”. Lui ridacchiò, poi commentò. «Mi stai disegnando più bello di quel che sono in realtà. Senti, Alice…», esordì lui prendendo una sedia e mettendosi al suo fianco. «Ho visto che le mie ultime lezioni le passi a dormire, normalmente un professore se ne fregherebbe o ti cazzierebbe, ma io ci tengo a sapere che tu stia bene. Voglio dire, sono forse troppo pesanti le mie lezioni? Mi dispiace molto vederti così, soprattutto perché avevi iniziato a partecipare attivamente ad esse.»
 
Alice iniziò a sistemare tutto nella propria borsa. «Mi perdoni, prof.», lui la invitò a chiamarlo per nome e di usare il tu. Lo faceva con tutti i suoi studenti, perché non voleva essere messo su un piedistallo e avere un rapporto diretto con essi. «Scusami, allora, Raffaele. È che passo tutta la notte a studiare e spesso studio anche quello che viene detto nelle lezioni del giorno dopo, perciò dato che voi professori dite cose che ho già sentito, per me è difficile mantenere la concentrazione. Mi scusi, non è nemmeno un bel periodo, ma quello glielo risparmio.», ridacchiò, poi s’alzò in piedi e raggiunse la porta. «Vedrò di rimediare a tutto. Buona giornata.»
 
Lui la salutò sorridendo. Spostò lo sguardo verso il resto della stanza e notò con piacere che il gatto era ancora appisolato sul cornicione della finestra. Lo raggiunse e con mano delicata lo accarezzò dolcemente. Quest’ultimo si destò e dopo aver percorso tutta la classe uscì fuori, seguendo la padrona che era a pochi metri da lì. Il professore, infine, raccolse tutta la sua roba e raggiunse lo studente che aveva interrotto la lezione nel laboratorio di pittura, dove aveva detto di aspettarlo.
 
 
 

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Capitolo 5
*** 4 ***


IV
Alice una volta uscita dalla classe raggiunse le grandi porte in fondo al corridoio, ritrovandosi dopo pochi passi all’esterno dell’enorme edificio. Sfilò una delle sue lunghe e mortali sigarette, la portò come al solito alla bocca e questa volta non ebbe nemmeno il tempo di accenderla; Giulia le corse incontro e gliela strappò dalle labbra. «Non pensarci nemmeno. Hai già fumato prima. Ti fai del male con questa roba, ti ucciderà un giorno.», lei se ne infischiò e dopo averle fatto un ghigno ne prese una seconda e la accese ancor prima di metterla in mezzo alle proprie labbra. «Allora la fai apposta, dì la verità!»
 
Lei si limitò a non rispondere. Abbassò poi lo sguardo e vide che Corvino le aveva raggiunte con un lieve ritardo rispetto al loro passo. «Ti sei goduto la passeggiata, eh?», dietro di lui si fece spazio un’anziana signora, che a sua volta pareva essere parecchio su di giri. «Buongiorno.», le disse Alice.
 
«Buongiorno un corno! Ora voi due verrete con me dal preside!», non si prospettava per le due ragazze una bella conversazione. A parlare era una vecchia professoressa, forse la più longeva all’interno dell’istituto, insieme all’insegnante di pittura che lavorava lì da meno di lei solo per una piccola differenza di mesi. «Gli animali non sono ammessi qui dentro! Vedrete! Vi ritroverete espulse ancor prima che voi possiate dire esame!» Si avvicinò poi alle due che sembrava non ne volessero sapere di seguirla, afferrò il braccio di Alice, ma non ebbe nemmeno il tempo di fare forza per trascinarla, Corvino iniziò a fare versi alquanto minacciosi. Il suo pelo s’era alzato tutto d’un tratto e i suoni che uscivano dalla sua bocca erano sempre più arrabbiati.
 
Subito la donna la lasciò andare e Alice, per far calmare l’animale, lo prese in braccio, cominciando ad accarezzarlo e tenerlo stretto a sé.  L’anziana professoressa iniziò a borbottare indispettita, dovette aspettare che la ragazza finisse di fumare la propria sigaretta per poterla condurre nell’ufficio del preside.
 
Attese fino all’ultima nuvola di fumo, non demorse nemmeno un attimo. Quando finalmente la buttò nel posacenere vicino a lei, a sua volta stracolmo di sigarette, la donna fece loro strada, continuando a lamentarsi del loro presunto comportamento sbagliato.
 
Arrivarono dopo qualche secondo, bussò una sola volta alla porta e non aspettando nemmeno una singola parola dall’altra parte, la aprì infuriata. «Signor preside!», esordì ad alta voce lei con il suo solito tono burbero, «Vorrei parlarle della palese cattiva condotta di queste studentesse!», le due avevano un’espressione contrariata, non volevano essere affatto lì, ma per Alice era un’ottima scusa per saltare la lezione del momento. Non aveva nemmeno idea di quale fosse, sapeva solo che non ci voleva andare. «Non solo saltano le lezioni per fumare e svagarsi, portano anche più e più volte un animale nella nostra prestigiosa Accademia.», diede molta importanza a quella parola, quasi come se il nome stesso fosse più importante del soggetto a cui si riferiva. «Pretendo che vengano presi dei provvedimenti.»
 
Il signore, che pareva essere un vero e proprio gentiluomo, ben vestito, ben curato e dai modi di porsi alquanto gentili, guardò la professoressa accennando un mezzo sorriso e le rispose con tono calmo. «Lei cosa avrebbe in mente per queste due giovani fanciulle? Che possiamo fare?»
 
La donna, che si sentiva quasi presa in giro, si stizzì ancora di più.
 
«Lei signore non prende sul serio la questione. Quest’Accademia, un tempo, risplendeva tra i nomi di tutte le altre. Ora cos’è diventato? Un mattatoio dove chiunque può entrare e uscire come meglio gli pare!» La situazione s’era fatta più seria. Il preside assunse quindi uno sguardo più freddo, osservò la signora e con voce altrettanto fredda le chiese se stesse insinuando che il suo lavoro fosse malfatto. «No, no. Sia mai, caro Preside. Vorrei solo che si torni alle vecchie pratiche, ai vecchi metodi e che questo istituto torni a splendere come una volta! Voglio solo il meglio per la nostra prestigiosa Accademia.»
 
Lз due si guardarono in silenzio per un paio di secondi, poi l’uomo tornò a parlare. «Mi dispiace lei la veda così. In ogni caso non ci sono problemi per quanto riguarda le ragazze, anzi, la cara Agata mi aveva già avvisato della sua difficoltà nel tenere il suo gatto chiuso in casa, e poi a dirla tutta, è più lei a far rumore di questa povera bestiola che si limita soltanto a dormire e ascoltare qualche lezione ogni tanto. Cosa dovrei fare, esaminare anche lui?», lei però non voleva saperne di ascoltarlo, infatti, non appena quest’ultimo finì di parlare, lei ne approfittò per andare via alzando i tacchi e sbuffando ancora più stizzita di prima. «Perdonatela, ragazze. Tra pochi mesi andrà in pensione e non sa come scacciare la noia. Se vi reca ancora fastidi venite pure da me. Non è la prima volta che abusa del suo potere. Ancora mi chiedo perché non l’ho mandata via prima. E poi, ho visto più attento alle lezioni questo dolce gatto che gli studenti stessi, magari fossero tutti come voi.»
 
Le due risero e dopo una piccola conversazione di qualche minuto furono libere di andare. Alice guardò Giulia con occhio pigro e annoiato, lei capì al volo. «Sì, andiamocene via. Ti va di venire a casa mia? Mangi qualcosa e poi torni pure alla tua nobile dimora.», lei disse che la cosa le andava più che a genio, perciò si incamminarono tutte e due verso l’auto, accompagnate come sempre da Corvino. Una volta entrate, la ragazza fece entrare l’animale nell’apposito trasportino che era nei sedili posteriori e dopo qualche secondo partirono, dirette a casa di Giulia.
 
«Passiamo prima al panificio? Ho dimenticato che non ho effettivamente ancora preso da mangiare. Ho solo ordinato, ma non sono passata a ritirare. Al massimo se c’è qualcosa che ti fa fame puoi prendere qualcosa anche tu. Che ne pensi?», Alice si limitò ad annuire con faccia compiaciuta. «Ho ordinato un po’ di crocchette di patate, che a te piacciono tanto e un po’ di parmigiana di melanzane. Ma ora che arriviamo vedremo cos’altro hanno da offrirci.»
 
Raggiunsero il panificio dopo solo pochi minuti. Scesero dall’auto e insieme entrarono nel modesto negozietto alimentare. Ci impiegarono almeno un quarto d’ora, al massimo venti minuti, dopo di che uscirono entrambe con delle buste piene di cibo e bevande per il pranzo che avrebbero fatto quello stesso giorno. Avevano preso tante cose, tra focacce, focaccine, rustici, polpette e ancora altro cibo. «Dici che avanzerà qualcosa? Non abbiamo preso niente per il povero micio.» Alice sembrava essere genuinamente preoccupata. L’amica quindi ci tenette a ricordarle che anche lei a casa sua aveva il cibo per gatti. «Giusto, avevo dimenticato di averne preso anche per te. Questo fa capire molto su quanto tempo il mio gatto spenda più tempo a casa tua, che a casa mia.»
 
Arrivarono poi a destinazione dopo relativamente poco tempo. Corvino venne liberato e insieme ad Alice iniziò a seguire Giulia che aprì la fila per entrare in casa. «Da quanto non venivi qui?», l’amica rispose che era passato forse più di un mese e che le due non s’incontravano da parecchio tempo ormai. «Spero tu riesca a riambientarti.», disse lei ridendo.
 
 
Passò qualche ora e dopo che le due ebbero finito di cenare si spostarono in salotto, in mano avevano entrambe un calice pieno di vino bianco dal sapore leggero e dal tasso alcolico non esagerato. Giulia era seduta sul divanetto posto al centro della stanza, Agata, invece, stava girovagando alla ricerca di qualcosa che le catturasse davvero l’attenzione. Si soffermò su un dipinto su tela che era appeso a fianco alla libreria. Rammentava esattamente il giorno in cui l’aveva fatto.
 
Era stato mesi prima, forse era appena passato un anno da quel momento. Stupita si rivolse all’amica, facendo notare la sua sorpresa nel trovare quel dipinto ancora lì. «Certo.», rispose Giulia cominciando a parlare. «Sei rimasta una settimana bloccata nel tuo studio a dipingerlo, non potrei non tenerlo esposto.»
 
Ricordo ancora come fosse oggi quel giorno.
 
 
Era una delle prime settimane di primavera, il gelo aveva cominciato a diventare un sopportabile freschetto e le persone in strada sembravano avere un aspetto meno rigido del solito. Io ero rinchiusa nel mio studio, un piccolo ufficio dove posso avere il mio spazio di quiete per poter dipingere. Non so bene cosa mi abbia dato l’ispirazione per quel quadro, ricordo soltanto che rimasi quattro giorni senza uscire di lì, concentrata come poche persone al mondo. Avevo anche fatto rifornimento di cibo per non rimanere senza e rimanere il più tempo possibile senza uscire di lì. Avevo anche un bagno personale. Ma quello che vi racconterò ora non è il procedimento che mi ha portato a realizzare l’opera, il quale può risultare noioso e monotono dopo un po’, anzi, voglio farvi entrare nella tela facendovi vivere la storia dei soggetti quasi come se anch’essa fosse parte del mio trascorso. Perché in un certo senso è proprio così.
 
 
Il luogo di inizio di questa storia non è ben definito, tutto ciò che si sa è che era una piccola stanza tutta bianca, illuminata dalla luce dell’alba che entrava dalle tapparelle per metà aperte, dentro al quale vi erano solo due cose che saltavano all’occhio: la statua di un uomo disteso sul pavimento, che portava alla bocca una mela dorata con ancora il picciolo attaccato e, a pochi metri di distanza, vi era un enorme blocco di marmo che era rimasto lì incustodito per anni. Non vi era stato dato nemmeno un colpo, era tutto intero e silenzioso continuava la sua non-vita all’interno di quello studio. La scultrice che avrebbe dovuto prendersene cura era passata a miglior vita da ormai tanto tempo, vittima della propria mente che partoriva le grandi idee, ma che al contempo procreava anche i grandi pensieri che la stessa non riusciva a sostenere e sopportare.
 
Il silenzio regnava sovrano nella stanza, fino a quando, in uno dei tanti giorni, qualcosa in quell’enorme blocco di marmo si mosse e fece rumore. Ebbe come un tremore, come se qualcosa al suo interno volesse venir fuori. Una mano poi sembrò crearsi dalla superfice rocciosa del grande cuboide, erano dei movimenti lenti e per ogni centimetro che la figura guadagnava, il blocco emetteva un suono di sofferenza, perdendo a sua volta pezzi di sé. La mano divenne poi un braccio e sempre più lentamente continuava ad allungarsi verso l’altra statua, quasi come se volesse raggiungerla.
 
Piano piano, con la pazienza che solo le statue sanno avere, un’intera figura umana fuoriuscì dal blocco di marmo, aveva le fattezze di un uomo e finalmente riusciva a muoversi liberamente. Del grande blocco non rimase nemmeno l’ombra, soltanto una piccolissima pietra dalla forma tondeggiante, che guardava la figura dal basso verso l’alto. Quest’ultimo, ch’aveva occhi ma non bocca, sentì il bisogno di dire qualcosa, raggiunse perciò la piccola roccia di marmo e avvicinandola a sé la ammirò nella sua cotanta bellezza.
 
La accarezzò e, dentro di sé, nella mente che non sapeva di avere, sorrise. La posò per terra, stregato dal fascino che la roccia mostrava nella sua mera semplicità, in fondo non era altro che un pezzo di marmo, nulla di più, nulla di meno. Eppure lui sembrava essere così incantato da tutto ciò che la riguardava, era amore a prima vista, quella, in fondo, fu la prima cosa che riuscì a vedere con i suoi rigidi occhi grigiastri. La posò quindi nuovamente per terra, voltandosi poi per mirare ciò che c’era alle sue spalle, fu lì che vide la statua, sua sorella, di quello che per l’appunto pareva essere un uomo intento a mangiare la sua mela dorata. La figura si guardò attorno, ammirando tutto lo spazio che lo circondava e il suo stupore non sembrò finire quando il suo occhio cadde sullo specchio poggiato sulla parete alla sua destra.
 
S’avvicinò ad esso, iniziò ad osservarsi da capo a piedi, capendo di essere lui stesso ritratto nel riflesso di quel grande pezzo di vetro. Spostò poi lo sguardo verso l’altra e unica statua, quest’ultima era più bella di lui e soprattutto…aveva una bocca. Iniziò a provare un forte disagio dentro di sé, che veniva alimentato in qualche modo dal suo essere imperfetto nel riflesso dello specchio. La sua attenzione si focalizzò su di un tavolo, dove vi erano riposti alcuni strumenti che la madre creatrice usava per scolpire. Ne afferrò alcuni, non sapendo bene quale usare e come mosso da un’innata conoscenza si diresse verso lo specchio con gli attrezzi in mano, sapendo già cosa sarebbe andato a fare.
 
Iniziò a guardarsi bene dapprima in tutto il corpo, concentrandosi poi sul proprio viso, secondo lui imperfetto e incompleto. Cominciò quindi a scolpire su di esso delle labbra, convinto che quest’ultime sarebbero state capaci di muoversi, quando però ebbe finito, almeno mezz’ora dopo, capì che quest’ultime sarebbero servite a ben poco. Esse riuscivano sì a muoversi e lui riusciva anche a padroneggiarle con maestria, ma nessuna voce usciva dalla sua bocca. Riusciva però a sentire il suono dei propri pensieri, perciò, dato che non aveva nessun’altrǝ con cui comunicare, decise di farlo con sé stesso.
 
«Qual male ho messo in atto io per meritarmi tale inferno?»
 
Il tipo linguaggio che usava non era per nulla casuale, la sua vecchia madre, infatti, era solita parlare in quel modo quando era nello studio. Lui, nella sua forma iniziale di blocco di marmo aveva come assorbito il tutto e reso suo. S’avvicinò nuovamente verso l’altra statua. Si chinò affianco ad essa e dopo che il suo viso fu all’altezza dell’altro uomo di marmo, gli accarezzò la guancia, si allungò con il capo verso di lui e chiudendo le rigide palpebre fece scontrare le proprie labbra grigiastre con quelle dell’altra figura.

 
 
Non sapeva perché lo stava facendo.
Non sapeva se quello fosse il modo giusto di farlo.
Sapeva soltanto che ne sentiva il bisogno.
Sapeva soltanto che era innamorato di quel suo simile.
 
S’alzò poi in piedi e tornò nuovamente dinanzi allo specchio, che tutto vede e alla quale tutto fa riflettere. «C’è qualcosa in me, qualcosa ch’io non riesco a mirare, che non va bene. Noto in me l’imperfezione del mio essere, i’ non dovrei essere senziente, i’ non dovrei avere un’anima in questo mio corpo, i’ dovrei essere più perfetto.», afferrò quindi ancora una volta gli strumenti e un colpo dopo l’altro cominciò a togliere pezzi di sé.
 
Diede però una scalpellata di troppo e si ritrovò con un nuovo difetto da correggere, fece lo stesso dalla parte opposta del viso, per poter controbilanciare l’errore che aveva commesso. Ogni volta, però, sbagliava, anche solo di qualche millimetro e questo non gli andava per nulla a genio, anzi, lo detestava a morte, nonostante lui non conoscesse nemmeno la parola “morte”. Continuò così, fino a quando non si ritrovò senza l’intero busto. Gli strumenti erano comunque all’opera, mossi dall’anima senza corpo che la figura aveva con sé. Fluttuavano nell’aria e colpivano sempre più decisi sulla pelle marmorea dell’uomo della quale non stava rimanendo più nulla.
 
Era ormai il tramonto e pezzo dopo pezzo, millimetro dopo millimetro, tutto ciò che restava di lui non era altro che un piccolo ciottolo, largo quanto il suo palmo della mano che non esisteva più. Fu lì, in quel preciso momento, che si sentì realizzato. Fu lì che finalmente si percepì perfetto. Nella sua forma umana non sarebbe mai stato contento, perché l’uomo non può e non potrà mai essere privo di errori, di imperfezioni. Capì quindi che la perfezione nasce nel momento in cui il pensiero sull’imperfezione svanisce.
 
«L’uomo va bene così com’è e mai sarà migliore, perché di meglio non esiste.» Queste furono le ultime parole della sua anima, poi si spense, perdendo anche l’ultima cosa, la più importante, che lo rendeva ancora umano:
il pensiero.
 

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Capitolo 6
*** 5 ***


Alice s’allontanò dal quadro, tornò quindi dall’amica e con ancora il calice di vino in mano le sorrise. «Credo che io ora tornerò a casa, ho bisogno di riposare prima di stasera.», l’amica concordò, dicendo che anche lei avrebbe dovuto riposare un po’. Le due perciò finirono il vino, Agata aiutò Giulia nel mettere in ordine la cucina e dopo aver raccolto le proprie cose, seguita come al solito da Corvino, si diresse fuori casa, raggiunse la propria auto e una volta pronta si avviò verso casa.

La strada non era lunga, ma più si avvicinava alla destinazione e più il punto di arrivo pareva allontanarsi. Con la mano scavò a fondo nella tasca, fino a quando non trovò il pacchetto di sigarette che la aspettava. Ne sfilò una che sembrava essere più lunga delle altre e dopo averla posizionata bene tra le proprie morbide labbra, con l’altra mano, la accese; le fiamme abbracciarono l’estremità di quell’oggetto mortale, tanto affascinante quanto distruttivo. «Non so come faccia Giulia. Voglio dire, anche lei ha l’ansia sociale come me, eppure, riesce ad andare senza problemi alle feste e a tutto il resto di quelle cagate utili a socializzare. Ammetto di avere terribilmente bisogno di nuovi amici e sono consapevole che sono sola come un cane, ma cosa ci posso fare io se le persone sono terribilmente noiose e uguali? Tu che ne pensi?», lo chiese al gatto che era appisolato sul sedile affianco al suo.

Commentò infine la cosa, scherzando sul fatto che forse parlare con il proprio animale in quel modo aiutava nel farla apparire ancor di più una vecchia pazza lontana dalla società.

Lei però non voleva esserne parte, in effetti. Quella che tuttз chiamano “società”, per Alice, non era altro che un ammasso di pecore non pensanti, che avevano bisogno soltanto di decidere cosa odiare o amare. «Troppo fissati con il nemico comune.», diceva lei. Secondo il suo pensiero, infatti, tuttз necessitavano di avere qualcunǝ con cui prendersela, il che era, è e sarà sempre la base di molte problematiche sociali, quale ad esempio il razzismo. «Io, ad esempio, sono antirazzista e di conseguenza odio i razzisti, ma non lo faccio perché devo avere qualcuno su cui sfogare i miei rimorsi. Lo faccio perché quella…chiamiamola cultura…si basa sull’odio ingiustificato verso qualcuno di diverso. Un modo di essere che ha come fondamento il non avere rispetto per altre persone che non hanno fatto nulla di male se non nascere.», era finalmente arrivata a casa e con ancora la sigaretta tra le dita – ne aveva accesa una seconda – si liberò di giacca e scarpe.

Raggiunse il divano e continuando a sputare nuvole di fumo si lasciò cadere su di esso, godendosi la sua comodità e svuotando la mente da ogni pensiero. Avrebbe voluto continuare il suo monologo sull’odio comune e i vari problemi della società, ma non avendo nessunǝ con cui confrontarsi percepiva la cosa come fine a sé stessa. «Inutile parlarne se ad ascoltare c’è un essere che non ha la capacità di pensier proprio.» Lo disse riferendosi al piccolo animale, rendendosi conto solo dopo che quella era una perfetta critica a tutte le persone con cui aveva avuto a che fare nella propria vita. «In effetti, questa cosa mi ricorda molto qualcuno.»,

si riferiva al padre, che il più delle volte parlava e si comportava soltanto come la massa gli ordinava di farlo. «Se una cosa non era abbastanza da uomini allora lui non la faceva, se i suoi amici uomini non accettavano un determinato concetto o anche solo una specifica idea, allora anche lui, in quanto uomo, doveva fare lo stesso. Però non lo colpevolizzo del tutto, perché in fondo è semplicemente schiavo di una società che ci vuole tutti così. Sono stata anche io in quel modo, quand’ero più piccola, ma io ero giustificata dall’età, lui è perfettamente capace di intendere e volere, è grande e vaccinato, come si suol dire. Io gli adulti non li capisco e capisco ancora meno perché tutti abbiano fretta di diventare tali. essere adulti fa schifo, è un inferno su ciel sereno.»

 
«Inizi ad aver paura di cose di cui da bambino non sapevi nemmeno il nome. Forse sono proprio gli adulti, nella loro interezza, ad essere più fragili dei bambini, perché conoscono più cose di quello che vorrebbero.»

Ridacchiò, poi si voltò verso il gatto e concluse dicendo il suo solito: «E tu che ne pensi?», pur sapendo che non avrebbe ricevuto risposta alcuna. «A volte vorrei così tanto che tu possa rispondermi. Risolverebbe il mio problema con l’eterna solitudine.», chiuse poi gli occhi e si lasciò cullare dai cuscini del divano, non rendendosi nemmeno conto di starsi lentamente addormentando.

 Quando si risvegliò, avvolta da un senso di stanchezza, si rese conto che avrebbe dovuto prepararsi per il ballo di quella sera. Si diresse quindi in bagno e, con tutta la calma che aveva in sé, iniziò a truccarsi, pettinarsi e fare il resto delle cose. Si svestì, notando di essere ancora in abiti comuni; la festa non aveva un dresscode, ma lei ci teneva a non apparire come un’intrusa. Odiava sentirsi fuori luogo. Perciò faceva di tutto perché questo sentimento non avesse modo di entrarle in testa, anche se in realtà odiava doversi comportare in un certo modo solo per delle persone che nemmeno conosceva.

Quella però era un’ottima scusa per sfoggiare il suo vestito preferito, uno smoking nero con annessa la solita camicia bianca. Ci impiegò almeno un’ora e mezza per prepararsi e una volta pronta, erano le otto meno dieci, si incamminò verso l’uscita.

Questa volta non tentò nemmeno di tenere Corvino in casa, anzi, gli tenne persino la porta di ingresso aperta perché potesse passare in tutta comodità.

Raggiunse la casa dell’amica in poco tempo e una volta che anche lei fu “a bordo” partirono in direzione dell’accademia. «Dì la verità, hai già qualcuno che ti aspetta lì.», lei annuì sorridendo, poi rispose che aveva parlato pochi giorni prima con una dolce ragazza della sua età, di un’altra classe, che si era proposta di farle compagnia durante la serata. «Immaginavo. Quanto vorrei avere il tuo carisma, davvero, fai invidia ai migliori protagonisti. Io purtroppo ho l’aspetto della fattona, quindi non faccio mai colpo su nessuno, ma, in realtà, non c’è mai qualcuno che riesca davvero a interessarmi, sai già come la vedo in merito.»

Arrivarono dopo un po’ e già da subito le loro strade erano destinate a dividersi. All’entrata, infatti, Alice si fermò ad accendersi un’ennesima sigaretta, invitando l’amica a entrare senza aspettarla. Lei rimase quindi sola davanti alle porte dell’accademia, sorvegliata dal suo piccolo amico a quattro zampe. Chiunque fosse di passaggio si fermava a salutare l’ormai famoso gatto, senza prestare però molta attenzione alla padrona e a lei, in tutta onestà, andava benissimo così. Nove compagni su dieci non le andavano a genio e preferiva non averci nulla a che fare; perciò, non sdegnava quando la ignoravano o non le davano attenzione.

Passarono almeno altri otto minuti, aveva appena finito la sigaretta e dopo aver dato un’occhiata alla situazione dentro, decise che accendersene un’altra e rimandare l’ingresso la attirava parecchio come idea.

Tutto procedeva liscio come l’olio per quei venti minuti passati fuori dall’accademia, senza dover socializzare per forza con altrз, in più le persone avevano anche smesso di passare dalla porta d’ingresso; quindi, non c’era più nessunǝ a fermarsi ad accarezzare Corvino. Un ragazzo uscì dall’accademia, aveva una sigaretta fatta a mano tra le labbra, si avvicinò a lei e con la sua voce bassa, ma dolce, le chiese se avesse un accendino da prestargli. «Certo.»

Il ragazzo accese di conseguenza la propria sigaretta e dopo averla guardata bene sembrò riconoscerla. «Aspetta. Ma io ti ho vista già. Sì. Oggi eri in classe del professore di filosofia. Voi cosa studiate, arte visiva, giusto?», lei annuì accendendo la terza macchina mortale, questa volta per far compagnia ad uno sconosciuto.

Rispose poi di sì, dicendo che anche lei si ricordava di lui e della sua entrata in scena quella stessa mattina nella lezione di filosofia. «Dai! Forse il caso voleva proprio che ci reincontrassimo.», calò il silenzio e entrambз si ammirarono negli occhi un secondo, distogliendo poi lo sguardo imbarazzatз. Ebbero inoltre la stessa idea allo stesso momento, infatti, qualche secondo dopo pronunciarono i loro nomi all’unisono.


«Alice.»
«Chrisha.»

«Abbiamo avuto la stessa trovata.», disse lei ridacchiando.

«A quanto pare sì. Io comunque faccio poesia, che è un po’ la pittura dei logorroici.»
«La pittura, invece…», continuò lei, «…è la poesia dei muti. Vedo che la pensiamo allo stesso modo. Io ho scelto pittura, proprio perché con le parole faccio pena. Non riesco a esprimermi se non con delle pennellate, tu, invece, hai tutta la tua essenza nella tua penna, proprio come io ho la mia anima nelle mie matite.» Entrambe le sigarette erano ormai terminate e quando lз due se ne accorsero ridacchiarono sull’ennesima coincidenza.

Chrisha guardò poi Alice e cominciò a parlare. «Io conosco un bar qui vicino che è aperto fino a tarda notte, ti va di andare a bere qualcosa insieme?», lei annuì dicendo che le andava bene, avrebbe dovuto soltanto avvisare Giulia. Prese quindi in mano il cellulare e digito il numero dell’amica, che però non rispose alla telefonata. Quest’ultima le inviò dei messaggi dove diceva che aveva trovato un altro passaggio per casa e che Alice era quindi libera di andare dove volesse. «Perfetto. Ti faccio strada allora.»

Insieme si incamminarono e mentre passeggiavano nei marciapiedi bui, dopo un lungo silenzio, Chrisha ruppe il ghiaccio iniziando a parlare. «Fai altro? Intendo oltre la pittura e lo studio di quest’ultima.»



 

Lei scosse il capo. «Ho provato a fare scultura ed è anche una delle materie in accademia, ma sono negata con l’argilla e con il marmo anche di più, per non parlare poi del legno, dove sono una frana fatta e finita. Tempo fa tentai anche di scrivere qualcosa, cercando di uscire dal mio mutismo, ma con le parole faccio pena, ancor più della scultura. Non so parlare e non so esprimermi con le parole, forse un giorno ci sarà qualcosa in me che cambierà e troverò le parole che mi mancano, ma per ora non s’ha da fare. Tu, invece? Fai altro oltre alla scrittura e lo studio di essa?»

Lui annuì accendendosi la sigaretta che aveva appena preparato. «Faccio volontariato in un ospedale psichiatrico. Insegno alle persone che soffrono di disturbi mentali a scrivere poesie. Non sono un maestro, ma almeno uso quello che ho in mio potere per aiutare il prossimo e poi, loro come me hanno bisogno di una valvola di sfogo. Comunque siamo arrivati…», indicò poi il bar che si trovava dall’altra parte della strada. «…è quello il locale di cui ti parlavo.» Lo raggiunsero in pochi secondi e dopo essersi sedutз ad un tavolo subito vennero raggiuntз da una giovane cameriera. «Posso offrirti un amaro?», lei rispose che le andava bene e che avrebbe potuto pagare benissimo da sola, Chrisha però insistette, guardando la cameriera andare via con il menù dei vini che aveva tolto dal tavolino. «Lascia che te lo offra io, davvero. In ogni caso, parlavamo di poesia, a te piace?»

La ragazza gesticolò e nel mentre si spiegò anche a parole. «Non la disdegno, avrei voluto poterne coltivare una passione un po’ più approfondita, ma purtroppo, come ho già detto, la mia anima sta nel pennello. Però non rifiuterei se mi ritrovassi tra le mani un libro di quel tipo, anche se, onestamente, preferisco di gran lunga la narrativa. Tutte quelle storie, piene di emozioni, tensione. Sai quali amo di più? Quelli dove i capitoli non finiscono mai del tutto e tu devi leggere il capitolo dopo per…»


 

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Capitolo 7
*** 6 ***


«…non perdere l’emozione, lasciandoti così la suspence di ogni capitolo. Tu quali preferisci? Sempre rimanendo nel discorso di narrativa.»
Lз due si guardarono, poi lui rispose.
«Io preferisco quelli con i capitoli corti.»

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Capitolo 8
*** 7 ***


 

Il silenzio che seguì la risposta diede un accento comico al tutto, lз due iniziarono quindi a ridere. I loro amari arrivarono al tavolo dopo una manciata di secondi e subito loro, sorridendo, fecero scontrare i bicchierini ghiacciati tra di loro, poi iniziarono a bere in due modi diversi. Lei lo mandò giù in un sorso, lui, invece, lo stava gustando con calma e pazienza. Due modi di fare che erano l'opposto di ciò che erano loro nel proprio carattere e personalità:

Alice era, infatti, una alla quale piaceva prendere le cose con la giusta pazienza.

Chrisha, invece, era quel tipo di persona che si lanciava nelle situazioni senza pensarci. I loro modi riflettevano le loro essenze, seppur non in modi intuibili.

«Comunque, parlando di altro, non so che cosa tu abbia usato come profumo, mi piace molto, dolce e al contempo forte, ma non credo di essere l'unico ad apprezzarlo, perché c'è un gatto che ti sta seguendo da quando eri in accademia. Forse sarà per qualche regola biologica che noi umani non possiamo capire.»

Ridacchiò guardandola prendere il piccolo animale in braccio, non capendo perché lo facesse con tanta naturalezza.

Alice gli sorrise, poi spiegò: «Lui è Corvino. Il mio gatto. Mi segue ovunque io vada, non mi lascia un attimo sola. Ti avviso, è molto protettivo e anche parecchio intelligente. Una volta ha morso un mio vecchio amico che mi urlò contro. Non dimenticherò mai quel giorno. Lui mi protegge e sa quando agire. Anche stamani lo ha fatto, ora che ricordo, ha soffiato alla professoressa Cucca che mi aveva presa per il braccio infuriata come poche.», lui rise sentendo la cosa, poi chiese per quale motivo la vecchia donna s'era tanto arrabbiata con lei. «Per Corvino. Sosteneva che non può stare in accademia, poi mi ha portata dal preside, lui però ha detto che non c'erano problemi e lei se n'è andata con l'amaro in bocca. Lo sapevi che tra non molto andrà in pensione?»

Lui annuì, poi finito l'ultimo sorso di amaro dal suo bicchierino, si alzò in piedi. Sembrò guardarsi attorno, gli cadde un'occhiata su un grosso uomo seduto quattro tavoli più in là, Alice non disse niente, ma continuò a fissarlo curiosa per un po'. Ad un certo punto Chrisha raccolse la borsa della ragazza e dopo averla fatta alzare, iniziò a correre, invitandola a fare lo stesso. Alice sembrò non capire più niente, iniziò a seguirlo, alzando anche lei il passo e quando finalmente lui si fermò, lei lasciò andare Corvino per terra. «Ma sei pazzo? Prima mi offri da bere e poi te ne vai senza pagare? Io quelle persone le conosco! Ho una reputazione da mantenere!»

Quello però sembrava essere l'ultimo dei suoi problemi. Alice aveva il fiatone per la lunga corsa che avevano appena fatto, guardò poi Chrisha, che, invece, sembrava essere parecchio tranquillo. Quest'ultimo prese la sua mano e la portò con sé un po' più indietro, entrando in un vicolo buio e proprio quando lei stava per dire qualcosa, due uomini in divisa da poliziotto li fermarono, lui fece finta di ballare e prima che i due lo potessero sentire sussurrò di fare "come nella scena di quel film".

Non appena notarono lз ragazzз ballare, pensando fossero solo due alcolizzatз ubriaconз lз ignorarono e proseguirono a passo svelto sulla strada principale. Alice, giustamente, chiese spiegazioni, ma l'altro si limitò a dire soltanto che non l'avrebbe creduto. Aggiungendo che l'avrebbe ringraziato il giorno dopo per quello che aveva appena fatto e che avrebbe fatto. «No, Chrisha, io non ci sto.»

«Non ho idea di che gioco tu stia facendo, se questo è un modo di rimorchiare o qualcosa, ma mi hai persa. Non avrai perso chissà cosa, ma lo hai fatto. Addio, è stato un piacere conoscerti, per quanto poco questo piacere sia durato.»

Gli voltò poi le spalle e cominciò ad incamminarsi verso la propria auto, chiamando a sé il gatto che era rimasto al loro fianco, tranquillo per tutto il tempo. «Te ne vai senza la borsa?», lei si voltò verso di lui, tornò indietro e gliela strappò dalle mani. Solo qualche secondo dopo si rese conto di una cosa, lui riuscì a leggere tutto dal suo sguardo, assunse poi un sorriso fiero. «Tu non avevi la borsa quando ti ho incontrata in accademia stasera. Ascoltami bene, tu prima volevi parlarmi di un romanzo che hai letto, giusto? Ma hai cambiato subito idea, non conosci nemmeno tu il motivo di questa tua azione, lo hai fatto e basta.», lei disse che non bastavano delle parole per convincerla che lui stesse facendo qualcosa di giusto. «"I Pagliacci Che Uccisero Il Tempo", è il titolo del libro. Questa parte noi l'abbiamo già vissuta, è stata riscritta e ora tu non lo ricordi, ma io sì. Io ho un dono, Alice. O forse dovrei dire "tripla A"? Il tuo nome d'arte: Alice Agata Amur. Ora dimmi, veloce, non pensarci. Qual è la cosa che più ti colpisce dei libri di Gunter.»

La ragazza iniziò quasi a spaventarsi, era tremendamente tesa e si poteva vedere dalla sua mano tremolante. «Mi...mi piace il fatto che non si sia mai riusciti ad avere un contatto con questa persona. Perché me lo chiedi?»

Lui subito rispose. «Sai qual è la mia parte preferita di Gunter?», lei scosse il capo mentre continuava a tremare terrorizzata dalla situazione. «Il fatto che noi siamo in un suo libro e io riesco a vedere presente, passato e futuro. Ti darò la prova che non sono soltanto molto informato, ma che io vivo tra queste pagine.», prese in mano un foglio di carta che aveva in tasca e con una penna che portava sempre con sé scrisse una parola, senza fargliela vedere. «Tu, tra esattamente cinque secondi, dirai

4

5.»

«Basta!», esclamò lei, che sembrava star impazzendo nell'ascoltarlo. Lui voltò il foglio, facendole vedere che aveva scritto esattamente quella parola, punto esclamativo incluso. «Io...»

Chrisha sfilò dalla tasca due sigarette, una la diede ad Alice e una la mise tra le proprie labbra, le accese poi entrambe e quando la ragazza prese la sua lui ne approfittò per calmare le acque. «Ascoltami bene, non ho intenzione di spaventarti, ma cambiarti la vita. Noi due non ci conosciamo, ma nell'esatto momento in cui i nostri corpi si sono toccati, tramite l'accendino che mi hai prestato, io ho vissuto la tua intera vita in un secondo. Ti ho vista nascere, crescere, ho visto i tuoi primi amori, la tua vita in famiglia e tutto il resto, senza volerlo. Tanto che...mi sono affezionato a te, provo ammirazione per te e voglio a tutti i costi proteggerti. Alice, non c'è molto tempo, Gunter sta per cambiare idea, questa potrebbe essere l'ultima cosa che ci diciamo, io non riesco a vedere più tra le pagine del futuro, dal momento in cui ti ho incontrata tu hai cambiato ogni cosa, anche se il nostro incontro era stato già scritto. Alice, corri sulla collina alla fine della strada, io ti seguirò, tu non potrai vedermi, ma io ci sarò. Riuscirai a sentirmi a udire la mia voce e percepire la mia presenza, ma non potrai vedermi. Vacci, ora!»

Subito dopo, per misteriosi motivi, Chrisha sparì, come dissolto nel nulla. Alice iniziò quindi a correre, riusciva a sentire davvero la presenza e la voce del ragazzo.

Raggiunse la collina e dopo essersi seduta sull'unica panchina che si trovava lì. Prese un lungo respiro, cercando di metabolizzare quanto successo. Non sapeva più cos'era reale e cos'era follia, avrebbe presto capito che non c'è nulla di più folle della realtà. Le tremavano le mani all'impazzata, le posò sulle proprie ginocchia cercando di controllarsi, ma non appena lo fece, senza che lei se ne rendesse conto, un'altra mano tocco la sua, si posò sul suo dorso e riuscì a calmarla. Era Chrisha, era tornato. «Perché hai scelto proprio la poesia?»

«Essa è l'oppio della mia anima, che tal mi protegge dai pensieri che io stesso scrivo e poetizzo. Mi dispiace per tua sorella, sarà stata sicuramente importante per te e continuerà a esserlo, ma vedi, tu devi rialzarti. Non lo dici a nessuno, nemmeno a Giulia, che lei è morta. Ma io lo so, l'ho vista nei tuoi ricordi e in qualche modo mi ci sono legato anche io. Ora però tu devi continuare, ribaltare la tua vita e sai cosa? Da oggi ci sarò io con te, ti aiuterò io a cambiare la tua vita, perché voglio cambiare anche la mia. Per sempre.» Si alzò in piedi e le porse la mano, lei la afferrò e la strinse sorridendo. Aveva gli occhi lucidi. Subito dopo scoppiò a piangere, lui la portò a sé, accarezzandole la testa e stringendola tra le proprie braccia.

 

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Capitolo 9
*** 8 ***


VIII

Quello che vi sto per narrare è accaduto molto tempo prima del mio incontro con Chrisha, che a quanto pare, sapeva davvero tutto su di me. Prima però di raccontarvi della dipartita di mia sorella, ho intenzione di farvi godere dei momenti che io e lei abbiamo vissuto insieme, uno in particolare lo rammento tutt'ora. I ricordi sono la cosa più preziosa che l'uomo porta con sé, perché gli fa tornare in mente che è ancora vivo e che, creandone di nuovi, non sta affatto perdendo nessun'istante della propria esistenza.

Era il giorno precedente alla partenza di Alice, che insieme alla sorella si sarebbe trasferita dalla Sicilia alla Puglia. Lei aveva solo dodici anni, da poco compiuti, mentre la sorella ne aveva già venti, prossima ai ventuno. Si chiamava Astrid Amur ed era di una bellezza inimmaginabile. Aveva dei lunghi capelli biondi e riccioluti, mentre il suo sorriso, sempre presente, metteva in risalto i suoi stupendi occhi verdi, ereditati dal padre.

La più grande delle due aveva organizzato una festa con lз amicз più carз, quasi come una cerimonia di addio. Promettendo loro che quella non sarebbe stata in realtà l'ultima volta in cui si sarebbero vistз, infatti, negli anni a venire, la ragazza avrebbe più volte fatto dei viaggi per tornare nell'isola e riunirsi quindi, anche solo per un giorno, alle persone che amava.

La festa si tenne di sera e Astrid, per distrarre Agata dalla tristezza della partenza, l'aveva portata con sé, sapendo che quest'ultima era ormai ben conosciuta dalla maggior parte delle persone invitate. Non si presentarono tuttз, ma erano comunque un modesto gruppo di persone, in totale erano quattordici. Ci pensò Agata a contarle tutte.

Ella era, infatti, messa in un angolino, isolata dal resto della festa, un po' per timidezza, un po' perché non si sentiva parte dell'insieme. Venne raggiunta poi dalla sorella, che, con un calice di vino bianco in mano, si sedette al suo fianco. «Ehi Agata...», era l'unica a chiamarla con quel nome, «...tutto bene? Ti vedo giù di morale.», lei scosse il capo, mostrando un finto sorriso di cortesia, dicendo che non c'era nulla di cui preoccuparsi. «Lo sai che me ne accorgo quando menti, vero? Quando dici una bugia incroci sempre le gambe, ma questo lo sappiamo solo io e te. Dai, dimmi cosa succede.»

La ragazzina guardò poi Astrid e dopo aver fatto un lungo sospiro cominciò a parlare. «È solo che...tu hai tutti questi amici che ti vogliono bene. Sei sempre amata e ben voluta, in ogni occasione. Io, invece, non ho nemmeno qualcuno con cui parlare e poi, questa storia di dover cambiare regione non mi piace per niente. Io amo la nostra casa e non voglio lasciarla. E come se non fosse abbastanza, oggi ho anche avuto la conferma che i miei compagni di scuola non mi considerano nemmeno parte del loro gruppo. E infine...», esitò prima di concludere la frase, «...ho paura che anche tu, un giorno, ti stancherai di me. Proprio come hanno fatto mamma e papà.» Si riferiva a un vecchio episodio, che fu traumatico per la sua povera giovane anima. I suoi genitori, infatti, avevano usato il pretesto di una divertente uscita al parco, per poi lasciarla lì da sola e andare via. La abbandonarono e questo lei non l'avrebbe mai e poi mai perdonato.

A disapprovare ancora di più la loro scelta fu Astrid, che all'epoca aveva diciotto anni e che, correndo più forte che poteva, raggiunse la sorella e la riportò a casa prima che le potesse succedere qualcosa. Dopo quel giorno, tutto cambiò, le due andarono a vivere insieme, lontane dalla casa dei propri genitori e Astrid riuscì per vie legali ad ottenere la custodia della piccola Agata.

La più grande delle due si alzò quindi in piedi, si mise di fronte alla più piccola e tenendole entrambe le mani la guardò negli occhi sorridendo. «Io non ti abbandonerò mai e poi mai. Vedi tutte queste persone? Io voglio un bene dell'anima a ogni singolo invitato qui presente, ma tu, tesoro, sei la persona che più amo di tutte, quindi dimmi, come potrei stancarmi di te? Ti sto portando in Puglia con me, perché io debbo iniziare l'università, ma tu lì riuscirai a farti dei nuovi amici e magari troverai anche tu qualcuno a cui voler bene come io lo voglio a queste persone. E poi, ricorda, i miei compagni sono anche i tuoi, ti vogliono anche loro bene e ti ammirano. Ogni volta che esco con loro mi chiedono sempre come stai e dove sei. Ma anche se non fosse così, anche se non troverai nessuno, io ci sarò sempre per te e dovranno strapparmi ogni capello dalla testa prima di separarmi da te.»

Le due si abbracciarono e dopo di ciò la piccola tornò in camera, con la scusa di dover andare a riposare prima del loro viaggio. La sorella la lasciò andare senza problemi, essendo d'accordo sul fatto che una buona dormita prima della partenza sarebbe stata ottima. La festa non durò molto e alla fine di questa rimase solo un ragazzo.

«Grazie per essere rimasto.», disse Astrid, riferendosi all'amico che la stava aiutando a riordinare la sala. «Puoi andare ora, finisco io questa parte, poi credo che andrò a dormire, domattina partirò.», lз due si abbracciarono e dopo che lui se ne andò, la ragazza terminò la pulizia e come aveva detto poco prima si diresse verso la propria camera da letto.

Alle sei del mattino la sveglia impostata la sera prima sul suo cellulare iniziò a suonare. La prima a destarsi però fu Agata che, sentendo la suoneria, scese ai piedi del letto e iniziò a vagare per tutta la camera. Non sapeva se far svegliare anche la sorella o meno, le dispiaceva, pensava che sicuramente la festa l'avesse stancata per bene; perciò, prima di prendere una decisione lasciò correre altri quattro minuti.

Dopo di che si avvicinò a lei e iniziò a scuoterla con gentilezza e quando anche Astrid fu con gli occhi aperti e i piedi per terra, le due si salutarono in un forte abbraccio. «Buongiorno.», disse la più grande, per poi continuare sorridendo in uno sbadiglio, «Sei pronta? Tra poco saremo sul tuo primo viaggio in aereo.»

Agata chiese se quello fosse anche il suo primo volo. «Non proprio, anzi, è il mio secondo. Una volta sono andata in Norvegia con lo zio Daniele. Te lo ricordi? Quello che ha tanti gatti.», la sorella annuì capendo di chi stesse parlando, «Beh, lui mi ha portata dalla sua moglie in Norvegia, ma io ricordo poco, ero poco più piccola di te. Tu eri ancora nel pancione di nostra madre. Ora però non c'è tempo da perdere, preparati, così ci incamminiamo.»

Se dovessi scegliere il mio momento preferito con Astrid, beh, non saprei dirvi con esattezza quale sia, perché ogni momento che ho passato con lei è il migliore. Non c'è stato nemmeno un momento che non mi sia piaciuto, anche il giorno della sua partenza verso l'altro mondo. Ho odiato ogni istante che venne dopo la sua morte e tutt'ora, dopo solo un anno, continuo a sentire il vuoto incolmabile dentro di me, ma sono contenta abbia fatto parte della mia vita.

Il giorno in cui scoprii della sua malattia era lo stesso in cui anche lei ne ebbe la notizia. Rammento tutt'ora il dolore che mi procurava vederla ridotta in quello stato.

 

Era accaduto dopo che io andai a vivere da sola, infatti, per un lungo periodo lei era venuta a stare a casa mia, non riuscendo a vivere in perfetta autonomia. Poi, in un giorno di novembre, lei se ne andò, lasciando dietro di sé tutto quello che aveva creato.

Quella mattina era fredda e il vento soffiava leggero tra gli alberi della città. Le due sorelle erano in ospedale, la più grande era stesa su di un lettino e a malapena riusciva a muoversi. «Agata...», esordì lei, «...i dottori dicono che non supererò la mattina. E io, in tutta onestà, non credo che riuscirò ad arrivare a una seconda conversazione dopo di questa.», aveva il viso pallido e sembrava quasi si stesse prosciugando. «Ascoltami. Io ti ho assistita per tutta la tua vita, sono stata con te quando ne hai avuto più bisogno, come tu hai fatto con me. Ma da ora io non ci sarò più, continua con le tue gambe e sii forte. Non pensare a me come una perdita, non pensarmi nemmeno come una sconfitta; questo perché non è la mia malattia che ha vinto, ma sono io, che rimarrò immortale nella tua anima.», seguì una pausa di silenzio di qualche secondo, «Ti voglio bene Agata. Voglio che tu sappia una cosa, prima che io me ne vada del tutto, hai il diritto di saperlo.», i suoi occhi nel mentre continuavano a chiudersi e lei aveva, ogni qualche secondo, dei momenti in cui non diceva niente. «Ricordi il giorno della tua iscrizione in accademia?», lei annuì in silenzio, «Loro non volevano ammetterti alle lezioni, io però insistetti, sono andata lì ogni singolo giorno, per almeno un mese. Ho detto loro che avresti fatto grandi cose, che hai anche tu come me la mente dell'artista.» Un colpo di tosse le spezzò il fiato e nel suo ultimo respiro disse una cosa importante che mai dimenticherò. «Fa' grandi cose, cambia il mondo, ma prima salva te stessa. Fallo per me, ma soprattutto per te. Per noi.»

Si spense quel giorno e in quel momento lasciò dietro di sé il peso delle sue enormi parole e della sua grande anima.

Non vi fu nessun funerale, lei non lo voleva, aveva già parlato con tutti i suoi amici un'ultima volta. Soddisfai il suo desiderio di essere cremata e il mese dopo liberai le sue ceneri in mare. Me lo ripeté più volte di farlo dopo la sua morte, così da poter essere libera anche dopo la vita.

 

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Capitolo 10
*** 9 ***


9

Alice continuava a piangere, abbracciata ad un perfetto sconosciuto, che in qualche modo, nonostante l'avesse spaventata a morte, in quel momento riusciva a darle conforto. «Mi manca così tanto. Mi sento sola senza di lei, ho un vuoto dentro di me.», lui le accarezzò il capo, non aggiunse altro, anche se avrebbe voluto. «C'è un modo con il tuo potere per farla tornare in vita? Il tuo dono non può far anche rinascere le persone?», non erano vere domande, stava solo dicendo le prime cose che le passavano per la mente, che in quel momento era ingombrata da mille e mille pensieri. «Vorrei poterla salutare per l'ultima volta. Rivedere il suo viso e sorriderle come facevo da bambina. Perché dev'essere tutto così complicato?»


Passò almeno mezz'ora e la situazione era cambiata. La ragazza era più tranquilla e non piangeva più, l'altro, invece, era seduto al suo fianco. Entrambз stavano fumando e guardando l'intera città vista dall'alto di quell'alto colle. «Cos'è la poesia per te?», chiese Alice.


Chrisha ci pensò su per qualche secondo, pensando fosse una bella domanda quella che gli aveva posto. Sbuffò una nuvola di fumo e dopo aver trovato le parole rispose. «La poesia per me è un'anima e io ci sono sposato. La poesia è un fantasma con cui danzo ogni notte tra le pagine bianche di un vecchio quaderno. Un amore eterno che mi renderà eterno e anche se siamo solo frutto di fantasia, io e le mie poesie siamo quell'essenza che urla e si fa sentire. Essa non può essere spiegata se non nel suo modo stesso, non la si può parafrasare, ma soltanto godere e adorare. Scrivi una poesia per ogni giorno che ti passa davanti.


Quando ti spezzi, lei non ti può aggiustare, ma può aiutarti a sistemare i cocci di te che rimangono per terra e farci un mosaico bellissimo. Rendi la tua vita una poesia. Lo dico sempre e sempre lo ripeterò. Ognuno di noi è un solo verso di quella che tutti noi comunemente chiamiamo realtà, ma che io chiamo strofa. Perché questa vita non è reale e mai lo sarà.», il ragazzo ridacchiò, «Perdonami, mi sono lasciato prendere dall'argomento, ma capiscimi, è una cosa che mi sta molto a cuore e parlarne è uno dei tanti modi che ho per sentirla scorrere in me.»


Lei gli sorrise, fece cadere la cenere dalla sigaretta quasi finita e dopo aver sbuffato la solita nuvola di fumo disse che non c'era alcun problema. «Mi piace la tua voce.», continuò lei, «Forse abbiamo iniziato con il piede sbagliato. È accaduto tutto così di fretta e non abbiamo avuto nemmeno il tempo di metabolizzare le cose che ci siamo detti. Quindi io direi di rallentare un attimo, tu mi piaci molto come persona, ma vorrei godermi almeno una volta questo interesse che solitamente non provo con qualcuno. Non so se mi spiego, ma tutti qui sembrano essere uno la copia dell'altro, non c'è spirito di individualità, c'è solo la massa e cose che a quest'ultima piacciono. Tu, invece, sei diverso. Me lo sento.»


Il ragazzo la guardò. «Ma?»

Lei rispose poi che non c'era nessun "ma". Chrisha rimase sorpreso, questo perché era riuscito a vedere un paragrafo in avanti e secondo la sua "visione" lei avrebbe successivamente detto che sarebbe tornata a casa, per poi non reincontrarlo mai più. «Va bene, ora che cosa ti va di fare?»


Alice lasciò cadere la sigaretta ormai spenta nel cestino affianco alla panchina, lз due si osservarono in silenzio per qualche secondo, lei gli porse la mano e lo invitò a mettersi in piedi. Una volta alzato lo tirò dolcemente verso di sé e con l'altra mano accompagnò la sua. Insieme si unirono in un ballo lento improvvisato. Chrisha fece notare, sorridendo, che non vi era alcuna musica. «Se siamo davvero in un libro non serve la musica.»


Rimasero così per almeno cinque o dieci minuti, danzando su delle note che solo le loro menti riuscivano a sentire. «Portami dove vuoi.» Pronunciò quelle parole incantata dall'aura rassicurante che finalmente aveva cominciato a percepire in lui. Chrisha era sì uno sconosciuto, non sapeva nulla di lui, quanti anni avesse, il suo cognome e tutto il resto delle cose che fanno parte del profilo di una persona. Ma in fondo, per Alice, ora che la realtà non sembrava essere più così reale, andava bene così.


Decise che innamorarsi di uno sconosciuto non era tanto un'idea sciocca, se alla base di tutto ciò che vedeva e sentiva non c'era nulla di reale. Chiuse gli occhi un'istante e fece finta di potersi guardare dentro, come fanno i personaggi di un libro. Cominciò a domandarsi quale fosse il senso di tutto quello che la circondava e, soprattutto, se tutto quello che la circondava un senso ce l'avesse. Ripensò poi alla sorella e per un attimo si concentrò su di lei, riusciva a vedere, dentro sé stessa, l'immagine vivida di Astrid, nonostante lei non fosse più lì. Ebbe paura, pensò che forse anche lei non era mai stata reale, si rasserenò poi al pensiero che avesse fatto parte della sua realtà.


Mentre pensava quelle cose e affrontava un viaggio all'interno della propria mente, Chrisha continuava a danzare con lei, che si muoveva senza nemmeno accorgersene. Aprì gli occhi per un istante e i loro sguardi si incrociarono quasi immediatamente.


Improvvisamente tutto attorno si fermò, come congelato, lei sbatté le palpebre e quando esse si riaprirono si ritrovò in un luogo diverso da quello in cui era giusto un attimo prima.


Guardandosi attorno si rese conto di essere in un bagno. Tentò di aprire la porta per poter uscire, ma non appena si avvicinò ad essa, quest'ultima si aprì di scatto. Vi entrò un ragazzo che lei riconobbe subito, era Chrisha, aveva soltanto un paio di anni in meno e pareva non essere in sé. Sbatté la porta violentemente e dopo aver rovistato nell'armadietto sotto il lavandino, afferrò una lametta.


Alice tentò di afferrarlo, ma non appena la sua mano toccò il suo corpo, ci passò attraverso, come un fantasma. Capendo cosa stesse vivendo e vedendo e comprendendo che non poteva fare nulla per fermarlo, si coprì gli occhi per non vedere. Quando riaprì gli occhi, lui era scappato via, al suo posto vi era un fiume di sangue sul lavabo.


La porta era rimasta aperta, la ragazza perciò uscì dal bagno, le mani le tremavano, seguì la scia di gocce rosse che il giovane Chrisha s'era lasciato dietro, ritrovandosi in quella che era la sua camera, lui era disteso sul letto e per via della quantità di sangue persa era svenuto su di esso, senza nemmeno accorgersene. Aveva i tagli esposti dal quale continuavano a uscire fiumi di lacrime rosse. Alice corse immediatamente in bagno, tentò di aprire l'armadietto e, non sapendo come, ci riuscì.


Era entrata in contatto con il passato del ragazzo. Afferrò un disinfettante per ferite e delle bende per poterle poi successivamente fasciare. Si sedette al suo fianco e con una cura, ch'era dolcissima, riuscì a medicare al meglio le sue braccia. Sbatté le palpebre e si ritrovò nuovamente in un altro posto, differente da quello in cui era un istante prima.


Di fronte a sé aveva Chrisha e pareva essere ancora più giovane del ricordo che aveva appena visitato. Lui non poteva vedere Alice o sentirne la voce e la presenza, ma lei sì. Il ragazzo, a quei tempi, aveva soltanto dodici anni, si trovava in classe, più precisamente affianco alla cattedra. Con un cenno l'insegnante gli diede il permesso di poter parlare, quella aveva tutta l'aria di essere una verifica orale. In mano aveva un foglio e ad alta voce iniziò a leggere quanto scritto su di esso.


 


«Fior del sole,

che la luna vai cercando.

Persone sole,

che l'amore vanno cercando.

Non credete in altri,

se non allo spirito libero

dei vostri animi

spogli d'ogni velo.

Guardate dentro di voi

e cercate la gioia rubata.»

 



La professoressa non ebbe nemmeno il tempo di complimentarsi, subito si accese un coro di voci nella classe, erano tuttз lз suз compagnз che all'unisono iniziarono a chiamarlo "ricchione". La donna, terribilmente scioccata da quell'episodio che stava vedendo, decise di zittire l'intera aula con un colpo deciso sulla cattedra, per poi dire, infuriata, che avrebbe messo una nota di classe sul registro. Lo fece e quando suonò la campanella che spezzava la fine di ogni ora, tutto il gruppo intero accerchiò Chrisha, approfittando del fatto che non vi era nessun*adultǝ a vederli per iniziare a prenderlo ancora di più in giro e allungargli anche qualche schiaffone.


Alice, che non riuscì a rimanere ferma nemmeno questa volta, corse verso il gruppo e urlò "basta". La sua voce venne sentita da tuttз nell'aula, quando però si voltarono non videro nessunǝ. Spaventatз dall'idea che potese essere stato un fantasma a produrre il grido, tuttз scapparono via. Rimase solo il piccolo Chrisha, che, con il volto arrossito dai colpi ricevuti, era immobile nella sua posizione a guardare il vuoto. Non sapendo che stava mirando in direzione della ragazza che l'aveva salvato da uno dei tanti episodi di bullismo di cui era vittima. Alice sbatté di nuovo le palpebre, questa volta aspettandosi di ritrovarsi nuovamente teletrasportata in un nuovo ricordo, così fu.


Questa volta il luogo era una strada di campagna e Chrisha era seduto sull'erba, in mano aveva uno spinello di marijuana e aveva intenzione di goderselo, non preoccupandosi di essere scoperto da qualcunǝ. Sotto di lui vi era un largo lenzuolo e di fronte a sé c'erano uno zainetto, una bottiglia di thè freddo e al centro un piattino con un pezzo di torta, su di essa vi era una candela a forma di "21". La accese con il proprio accendino e dopo aver espresso il desiderio sottovoce, spense la fiamma con un soffio.


 


Alice era riuscita in qualche modo a sentire ciò che aveva detto. Egli aveva infatti desiderato che la sua vita cambiasse. Subito dopo Alice si ritrovò tra le mani un libro, che non riconobbe da subito, esso aveva la copertina tutta nera, privo di scritte o immagini. Lei si avvicinò a Chrisha e istintivamente, non sapendo perché stesse per fare ciò che aveva in mente, lasciò cadere il libro affianco al ragazzo. L'oggetto entrò quindi a far parte non solo del ricordo, ma anche dell'evento in sé. Non appena lo vide, stranamente non sorpreso, lo aprì con naturalezza e nella prima pagina lesse un nome: "Guntxr", sotto di esso una seconda scritta, più grande, essa recitava: "La Morte Di Chrisha Borni", iniziò a leggerlo.


Nel frattempo, Alice, ignara delle conseguenze di quell'azione appena compiuta, si sedette al suo fianco.


Chrisha si alzò di scatto dopo qualche pagina letta, in mano reggeva il libro, che non riusciva più a tenere fermo per via del suo continuo tremare. «Non è possibile.», dalla voce e dall'espressione sembrava essere terrorizzato. Cadde sulle proprie ginocchia. «Io...io non sono reale. Tutto questo...tutto questo non è reale.» Lanciò un urlo tanto forte che bastò per farlo svenire sul colpo per lo shock e lo stress subiti. Alice, confusa, afferrò il libro e dopo aver letto qualche pagina, anche lei impallidì. Per un po' di pagine veniva descritta per filo e per segno tutta la vita di Chrisha, per non parlare poi del titolo, già tanto inquietante di suo. Il testo arrivava soltanto fino a trenta pagine, che vennero lette tutte dalla ragazza, seguirono un centinaio di pagine vuote, per poi concludersi con l'ultima che presentava un'unica frase.


Alice la recitò ad alta voce. «E poi, solitario, il pettirosso morì.», lasciò cadere anche lei il libro per terra. Rammentò una cosa che Chrisha del presente le aveva detto, lui disse che l'aver scoperto di essere parte di un libro gli aveva rovinato la vita. Fu in quel momento che capì di essere stata proprio lei a causare quella scoperta, se lei non le avesse mai dato quel libro, lui non avrebbe mai avuto questa tragica notizia.



«È colpa mia. Ma...perché l'ho fatto?» Chiuse poi gli occhi, una lacrima scese lungo tutto il viso e quando li riaprì si ritrovò di nuovo nel suo presente. Davanti a Chrisha che continuava a ballare ignaro, il tutto era durato un secondo, nonostante per lei fosse passata una lunga ora di esperienze diverse.



Il silenzio era padrone e anche assassino delle sue parole, troppo amare da mandare giù, ma troppo pesanti da pronunciare. 


 

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Capitolo 11
*** 10 ***


10
L’anima di Alice s’era come congelata nel suo corpo, che sì si muoveva, ma senza alcun controllo da parte di quest’ultima. Come avrebbe fatto a convivere con una condanna del genere? Non ne aveva idea e il solo pensiero le faceva venire i brividi. Chrisha notò la tensione nei suoi movimenti e nella sua espressione. «Cosa ti succede? Stai bene?», chiese lui preoccupato.
 
Lei, che stava per vomitare fuori tutto quello che aveva nella testa, agì di impulso, non riflettendo su quello che stava per fare. Lasciò la stretta di mano che li stava accompagnando nella loro danza, con le stesse afferrò il ragazzo per la maglietta e tirandolo a sé lo racchiuse in un bacio, che lui, contro ogni aspettativa, ricambiò. Non era un’azione di cui si sarebbe pentita, avrebbe voluto solo aspettare di più, perché le loro anime si legassero in qualcosa che fosse di più di una semplice conoscenza di qualche ora.
 
Entrambз però conoscevano tutta la vita dell’altrз ed erano statз presenti in ogni ricordo della loro esistenza. Si affezionarono a vicenda, reciprocamente e in quegli attimi nel presente, ma anni nel passato, fecero dei loro sguardi un impasto unico che li legava alla perfezione.
 
Quando lз due si separarono, rompendo il bacio, i loro sguardi sembravano essere risanati. Lei aveva già dimenticato quello che aveva fatto, lasciando quel ricordo in un angolo buio e spaventoso della sua mente, un angolo pieno di pensieri lasciati lì. Lui, invece, aveva dimenticato della verità che gli aveva rovinato il corso della sua vita. Quel pensiero era stato annebbiato, per sua fortuna, dal fiore che era stato il bacio scambiato. Chrisha le sorrise, le accarezzò il volto dolcemente e mentre lei ricambiava quel dolce gesto, il vento cominciò a soffiare leggero, muovendo i suoi lunghi capelli. Lei sospirò, assumendo uno sguardo rattristito. «Questo è il momento in cui tu scappi via e non ti fai più vedere, vero?» Lui ridacchiò confuso, per poi chiederle il motivo di quella strana domanda. «Di solito, dopo il bacio, la maggior parte delle persone scompare. Per questo non ho mai avuto molte relazioni, anzi quasi nessuna. Quindi…se vuoi andartene…puoi farlo.»
 
Chrisha avvolse le guance della ragazza con le proprie mani e, portandola dolcemente a sé, la baciò una seconda volta. Quando poi lз due si separarono lui commentò sorridendo. «Allora ti dovrò baciare tante volte, così ogni volta che penserai che me ne andrò, io ti ricorderò che non lo farò.», le sue non erano parole messe a caso, quello che diceva lo pensava davvero. Alice afferrò la sua mano e, mentre la stringeva piano, cominciò a camminare. «Da oggi, noi due, non torneremo più alle nostre case.», afferrò poi il proprio cellulare e lo spezzò in due, per poi gettarlo nel cestino. «Non torneremo più alle nostre vite fino a quando queste non miglioreranno. Ci stai?»
 
Alice non era tanto sicura di prendere una tale decisione, si sentiva però in dovere di farlo, perché, ripensandoci, s’era ricordata che tutto quello che stava accadendo e che sarebbe poi accaduto era, in fondo, colpa sua. Allungò quindi il proprio cellulare al ragazzo e lui, in un solo colpo, lo divise in due pezzi, facendogli fare la stessa fine di quello distrutto prima. Lei, non sembrava essere però tanto contenta, lui glielo lesse in faccia; perciò, si sentì di doverla incoraggiare ancora di più. «Alice! Non essere triste! Non scapperemo via per sempre! Dopo una fuga si ritorna sempre a casa. Questo sarà semplicemente per noi un modo per cambiarci, evolverci, migliorare. Immagino tu voglia esaudire l’ultimo di tua sorella, no? Allora andiamo, partiamo e salviamo noi stessi, insieme.», le porse nuovamente la mano e quando lei la afferrò, entrambз sorrisero con aria decisa.
 
«Qual è il primo passo?», chiese lei, che non aveva idea di cosa avrebbero potuto fare. Il ragazzo ci pensò su quattro secondi, poi le chiese di dirle un sogno che aveva nascosto nel cassetto e che avrebbe voluto realizzare. «Beh, mi sarebbe sempre piaciuto vedere un mio quadro esposto da qualche parte. Voglio dire, ho già il mio studio e in più ho sia venduto che donato alcuni dei miei dipinti; quindi, un po’ di questi sono appesi davvero da qualche parte per le case di questa città, ma…»
 
Chrisha la fermò di colpo. «Non pensare, agisci. Portami al tuo studio, è tanto lontano da qui?», lei rispose che ci sarebbero voluti almeno trenta minuti per percorrere tutta la strada a piedi. Insieme poi furono d’accordo sull’andare a prendere l’auto e usare quella per raggiungere lo studio. «Andiamo allora! Da oggi riscriveremo la storia, partendo dalla nostra.», si incamminarono quindi verso la loro meta, seguitз come sempre dal gatto. Lз due, durante la loro passeggiata, si avvicinarono l’un l’altrǝ e con l’intento di tenersi per mano, fecero toccare queste ultime tra di loro.
 
Quando però le loro dita si intrecciarono accadde l’inimmaginabile. Entrambз si ritrovarono, letteralmente in un battito di ciglia, teletrasportatз in un luogo e tempo diverso. Questa volta però erano insieme. Chrisha si guardò attorno, capendo immediatamente la situazione in cui si trovava, poi con sorpresa notò che anche Alice era con lui. Quest’ultima aveva cominciato a tremare, impaurita di fare altri disastri nel passato. «Ehi, Alice, tutto bene? Credo che il mio…superpotere…si sia per sbaglio attivato.»
 
Lei annuì chiudendo gli occhi, poi realizzò di essere al suo fianco e di colpo sembrò rasserenarsi leggermente. Lз due si guardarono negli occhi, voltandosi verso l’altrǝ nello stesso istante, poi Chrisha continuò: «Dove ci troviamo? Non riconosco il luogo, quindi dubito sia un mio ricordo.»
 
Alice fece un lungo respiro, lei aveva capito da subito dove si trovava, quello che avevano di fronte era, infatti, la casa dei suoi genitori, in Sicilia. «Questa è la dimora di mia madre e mio padre.», una ragazza dal suo stesso identico aspetto passò attraverso i loro corpi e si fece spazio lungo il giardino, per arrivare poi davanti alla porta d’ingresso dell’abitazione. In mano stringeva una lettera bianca, un po’ stropicciata e bagnata da gocce di lacrime. «Astrid il giorno prima della sua morte mi consegnò una busta da consegnare ai nostri genitori. Il mattino seguente presi il primo aereo disponibile e andai a consegnargliela, il resto lo vedrai da te.», lз due iniziarono perciò a seguire la ragazza, restando a debita distanza. L’Alice del passato bussò quattro volte alla porta, poi un uomo un po’ anziano la aprì, salutando la figlia con un abbraccio freddo e distaccato.
 
La fece entrare e lei, ignara di essere seguita da sé stessa del futuro, si diresse verso la stanza dove la attendeva anche sua madre. Tuttз e tre iniziarono a parlare, facendo brevi conversazioni imbarazzate e, senza pensarci troppo, Alice fece il primo passo, annunciando il nome della sorella. La stanza si congelò in un freddo silenzio. L’unica cosa che lei era riuscita a dire fu una frase diretta, detta di botto, senza pensarci su nemmeno un po’. «Astrid non ce l’ha fatta a superare la notte.», loro risposero che lo immaginavano e che l’avevano intuito dalla sua visita non prevista. La sorella aveva già avvisato i genitori della malattia, ma loro non s’aspettavano affatto una notizia del genere. «Voleva che vi dessi questa.», allungò poi la lettera, non sapeva nemmeno lei cosa contenesse, era, infatti, parecchio curiosa di sapere cosa c’era al suo interno. «Me lo ha detto il giorno precedente alla sua dipartita. Non ho idea di cosa sia, ma ha detto che dovevo essere io e solo io a consegnarvela.»
 
La donna guardò il marito e insieme annuirono silenziosamente. Sembrava quasi stessero comunicando con lo sguardo e, infatti, era proprio così. La madre aprì la busta con l’ausilio di un coltellino, poi guardò la figlia e iniziò a parlare. «Tua sorella ti ha sempre voluto molto bene, sin dal primo giorno in cui sei venuta al mondo. Alice, noi sappiamo perfettamente cosa c’è in questa busta, o meglio, ci aspettiamo di saperlo; perciò, vogliamo che sia tu a leggerla. Abbiamo bisogno di sentirne il contenuto, per confermare che sia ciò che noi pensiamo.»
 
Lei afferrò quindi il foglio piegato e dopo averlo aperto per bene e aver visto il testo, iniziò a recitarlo ad alta voce. «Cara Agata, se le mie previsioni sono corrette, la mamma ti lascerà leggere questa lettera e se la stai stringendo tra le mani vuol dire che io non ci sono più. Non voglio dilungarmi troppo, gli addii ce li daremo in altri modi più consoni e non in uno stupido foglio di carta. Io, Astrid Amur, ho deciso che sarai tu, in mio nome, a ereditare la mia casa e tutti i miei beni. In più, in questa busta lascio a te la chiave del mio studio a Parigi, che diventerà da ora fino a tempo indeterminato di tua proprietà. Lì troverai quello di cui avrai più bisogno, se vorrai andarci. Non sei obbligata a farlo, voglio solo che tu sappia che tutto ciò che ho fatto, l’ho deciso per te e per il tuo bene. Se stai leggendo questo foglio significa che ti ho già detto quel che avevo da dirti, perciò ricorda quelle mie ultime parole e fanne tesoro. Salutami mamma e papà, che ci tenevano tanto a rivederti, sono cambiati e ora anche loro ti amano. Salva il mondo, piccola mia, ti amo di bene. Tua…Astrid.», gli occhi della ragazza erano lucidi e pieni di lacrime. Alice, che aveva ancora le mani intrecciate a quelle di Chrisha, lo guardò, anche lei, come la sé stessa del passato, aveva le lacrime agli occhi.
 
Lui ricambiò lo sguardo, poi parlò. «E loro? Non fanno niente?», lei scosse il capo, dicendo che le avevano soltanto allungato dei fazzoletti e dato qualche pacca sulle spalle. Non un singolo abbraccio, non una singola parola. Aggiunse poi che lo stesso pomeriggio era tornata in Puglia, ancora più amareggiata di prima. «Quindi alla fine sei riuscita ad andare a Parigi?», lei scosse nuovamente il capo, dicendo che non ne aveva avuto mai il coraggio. Le loro mani si separarono e subito dopo, in un battito di ciglia, si ritrovarono di nuovo nel presente.
 
Raggiunsero lo studio di Alice dopo un po’. Chrisha aveva ora due piani da mettere in atto e il primo sarebbe iniziato quella notte stessa. Attese che la ragazza aprisse le porte e dopo essere entrato cominciò ad ammirare tutti i quadri appesi, ve n’era uno in particolare che gli rubò tutta l’attenzione. Si avvicinò ad esso per guardarlo meglio, notò solo dopo che esso era stato creato con dei pezzi di vetro, come un mosaico, attaccati sulla tela. Quest’ultimo rappresentava l’immagine di due donne che si baciavano sulle labbra e una lunghissima freccia che trapassava in orizzontale entrambe le loro teste. «Quello è il mio ultimo lavoro, all’inizio lo dovevo consegnare per un esame, quando poi mi diedero il trenta feci richiesta di tenerlo, così da poterlo far vedere anche ad altre persone. Ti piace?»
 
Chrisha annuì, poi chiese quale fosse il significato legato ad esso. «La freccia è l’amore, che lega le loro menti e le tiene unite. Il significato sta nell’oggetto stesso e la sua metafora, perché come penso tu sappia, se togli una freccia conficcata dal tuo corpo, fa ancora più danno di tenerla lì. È un modo per dire che l’amore può far male, anche se tiene uniti. È difficile spiegarlo a parole, ma è più facile capirlo ammirandolo e assorbendone l’essenza. Lasciati trasportare e non fidarti solo dei tuoi occhi.»
 
Alice si allontanò poi tirando fuori dal pacchetto una delle sue lunghe sigarette e dopo averla accesa cominciò a girovagare per tutto lo studio, spostando cose su cose. Aveva già intuito che la notte sarebbe stata lunga, perciò si avvicinò alla macchina del caffè, ne preparò una tazzina per sé, poi chiese al ragazzo se anche lui ne gradiva un po’. Lui rispose di sì, non distogliendo lo sguardo dal quadro nemmeno per un attimo.
 
 La ragazza si avvicinò a lui, porgendogli la tazzina di caffè, dicendo che era già stato zuccherato. «Grazie.», disse lui, per poi riprendere subito a parlare. «Non riesco a togliergli gli occhi di dosso.», esordì riferendosi al quadro al suo fianco. «Voglio dire, anche gli altri mi piacciono molto, anche se non li ho visti tutti, ma questo è…come dire…speciale. Ha qualcosa dentro di sé che ti cattura e non ti lascia andare. La sua bellezza, la sua composizione, l’armonia e tutto ciò che ne deriva. Ti suscita molte emozioni, una dietro l’altra che fanno la coda per arrivarti nella testa. Non so cosa ci hai messo in questo quadro, ma è davvero un capolavoro.», lei arrossì e sorseggiando il proprio caffè ringrazio il ragazzo.
 
Disse poi che le piacerebbe se più persone come lui vedessero i suoi quadri in quel modo. Lui rispose che non è mai troppo tardi e che avrebbe sicuramente vissuto i suoi sogni di gloria, prima o poi, ricordandole di non rinunciare ai propri obbiettivi.
 
Lei, con ancora la sigaretta in bocca, si sedette sul tavolo al centro della stanza a gambe incrociate e guardando il ragazzo riprese a parlare. «Lo so, non è mia intenzione farlo, infatti. Ho in mente di fare un nuovo dipinto e non vedo l’ora di cominciarlo. Tu, invece, ho sentito stamani che stai scrivendo qualcosa e che hai intenzione di pubblicarlo. Perché non me lo fai leggere?» Chrisha scosse poi il capo e dopo essersi acceso anche lui una sigaretta rispose che non le sarebbe piaciuto. “Troppo noioso”, aggiunse riferendosi al suo lavoro. «Non sarà più noioso di me.», commentò lei ridendo, «Dai, mi piacerebbe leggere una tua poesia, secondo me sei migliorato dall’ultima volta.», lo disse senza pensarci due volte.
 
Chrisha la guardò confuso, lui non le aveva ancora mai fatto leggere o sentire nessuna delle sue poesie, si chiese quindi a cosa la ragazza si stesse riferendo. Ci fu una pausa di pochi secondi in cui i due rifletterono su quanto Alice aveva appena detto. Lui capì subito. Lei, invece, si rese conto di ciò che aveva pronunciato. «Sei stata anche tu in uno dei miei ricordi, vero? Te lo leggo in faccia. Non ti preoccupare, non te ne faccio una colpa, anzi, credo sia opera mia se riesci a entrare nei miei ricordi del passato. Cos’hai visto?», lei raccontò poi l’episodio che aveva visto con i suoi occhi, quello della scuola. Lui ridacchiò un po’ nervoso. «Una scena che non dimenticherò mai, è stato quello il giorno in cui ho avuto il mio primo contatto con la verità della nostra realtà. Una voce senza corpo aveva urlato un qualcosa, non ricordo cosa disse, ma rammento tutt’ora che mi salvò la giornata e tutte le settimane a seguire. Dopo quella volta non mi bullizzarono più, pensando che avevo un fantasma a proteggermi.»
 
Lei si lasciò sfuggire una piccola risata. Anzi, a dirla tutta, la fece uscire volutamente, forzandola più che poteva. Quando il ragazzo aveva nominato quella cosa della realtà le si era ghiacciata l’anima per un istante. Non riusciva più a pensare o dire altro.
 
Lui riprese a parlare, ignaro di tutto. «Dovrei avere ancora, da qualche parte in tasca, la poesia che stavo scrivendo durante la festa di stasera.», iniziò a cercare nei propri pantaloni e dopo qualche secondo fece uscire da essi un foglio stropicciato su cui vi erano scritte delle parole in penna.
 
Lo consegnò poi ad Alice, che lo afferrò gentilmente, iniziando a leggerne il contenuto dentro di sé. Esso recitava:
 
 
“Chiudi l'occhi
e riapri
la tu' mente,
che poi mente.
 
Sono solo,
cerco solo
una fuga
per la strada.
 
Una fuga
dalla casa
dove sono,
e ho sonno.
 
Resto fermo,
non mi muovo,
e nel gelo
ora muoio”
 
 

 
 
Lei alzò lo sguardo, incrociando quello di Chrisha, che attendeva come un bambino davanti ai dolciumi. Gliela riconsegnò senza dire niente. Rimase silenziosa per un paio di secondi, trovò poi le parole subito dopo. «Sei bravissimo, davvero, meriti i miei più sentiti complimenti. Non so che dire se non che è una bellissima poesia. Si sente tutto quello che volevi trasmettere e poi anche il fatto che sia sillabata non è da poco, è un lavoro difficile trovare le parole e sistemarle nel modo giusto e tu ci sei riuscito.»
 
Sul volto del ragazzo apparve un sorriso genuino. Si avvicinò a lei e dopo averle accarezzato il volto la baciò, facendolo con una tale passione e sentimento che lз due non si resero conto di aver fatto scontrare le proprie sigarette spente tra di loro.
 
Qualche momento dopo ne accesero una seconda. Chrisha tornò poi ad ammirare i quadri, esplorando quelli che non aveva ancora visto. Alice, invece, aveva ripreso a sistemare il proprio studio, spostando ancora cose su cose.
 
Il ragazzo si avvicinò ad un dipinto che pareva essere incompiuto. Iniziò poi a parlare ad alta voce, per farsi sentire da Alice, che era dall’altra parte della stanza. «Questo non l’hai finito?», lei rispose di no, spiegando che era un quadro che aveva iniziato prima della morte di Astrid e che stava dipingendo insieme a lei. Non l’aveva concluso di proposito, per simboleggiare la dipartita della sorella. «Mi piace. È molto bello e ha un nonsoché di poetico. Non so se mi spiego.» Esso ritraeva due mani che spuntavano dai lati della tela e che insieme toccavano una stella nella sua forma naturale di sfera. Soltanto una mano era stata dipinta e colorata, insieme a metà della stella, il resto era rimasto a matita e in bianco e nero.
 
Alice tornò da lui dopo qualche minuto, sembrava essere più carica di energie di prima, forse merito del caffè bevuto, forse merito dell’eccitazione provata nel vedere qualcuno davvero interessato alla sua arte. Chrisha, dopo aver finito di ammirare anche l’ultimo quadro, si voltò verso di lei e guardandola dritto negli occhi le chiese: «Scegli il tuo preferito, quello che ti piace di più e di cui sei più fiera.», lei, non facendosi troppe domande, indicò quello delle due mani. Lui quindi corse verso di esso e lo staccò dalla parete. «Raccogli i ferri, abbiamo strada da fare.», Agata non capiva che cosa avesse in mente, decise però di continuare a non domandarsi nulla e agire di istinto, fidandosi di lui e del suo nuovo amico, che forse era più di un amico.
 
«Cosa vuoi fare?», chiese lei una volta che furono fuori dallo studio.
 
«Seguimi e basta.», disse lui, iniziando a camminare a passo svelto, con ancora la tela in mano. «Da oggi le cose possono solo che migliorare. Non dobbiamo pensare, ma agire. Non pensare, ma agire.», lo ripetette due volte di proposito. Non parlarono per tutto il tragitto, dato che lui era troppo impegnato a camminare cercando di non rovinare la tela e lei, invece, era troppo concentrata nel capire cosa avesse intenzione di fare.
 

 
 
Arrivarono davanti ad un vecchio edificio, che aveva tutta l’aria di essere un museo d’arte contemporanea (lo si capiva dal cartello che lo diceva). Lui raccolse un mazzo di chiavi dalle tasche e dopo aver aperto i grandi portoni e aver disattivato l’allarme di sicurezza dal pannello di controllo di quest’ultimo, si fece spazio nella grande sala.
 
Con gran voce, sapendo che nessunǝ l’avrebbe sentito, iniziò a parlare alla ragazza. «Benvenuta al museo delle grandi menti! I miei genitori hanno comprato questo vecchio edificio quando io avevo due anni e mi hanno dato le chiavi per poter sistemare i quadri; quindi, posso entrare e uscire quando voglio.», sembrava essere parecchio fiero della cosa.
 
 
«Cos’hai in mente?», chiese Alice seguendolo.
Chrisha rispose poi: «Di realizzare il tuo sogno.»
 

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Capitolo 12
*** 11 ***


11
 
Alice continuava a seguirlo e mentre quest’ultimo camminava a passo svelto nel grande salone del museo, lei si chiedeva cosa avesse in mente di fare. Chrisha raggiunse quello che pareva essere, per lui, il punto migliore per mettere in atto la sua idea. Un grande muro libero da quadri. «Aspettami qui.», disse lui alla ragazza, lasciandogli in mano la tela.
 
Tornò poi dopo qualche minuto, in mano aveva una cornice, un martello e dei chiodi. Fu lì che lei riuscì a comprendere ciò che voleva fare. Il giovane afferrò quindi i suoi attrezzi e dopo aver impiantato il chiodo alla parete, incorniciò la tela e la appese lì, per poi uscire dalle tasche un piccolo foglio bianco che consegnò poi all’amica, insieme ad una penna, invitandola a metterci su il suo nome e il titolo della sua opera. Mentre quest’ultima era impegnata a scrivere, Chrisha riprese a parlare. «Non è il museo più famoso d’Italia, ma almeno è un passo avanti, non credi? Potrai venire qui tutte le volte che vorrai e il tuo quadro sarà qui. Già immagino le persone che lo ammireranno, non capendone l’essenza, ma godendosi comunque, in qualche modo, la tua arte sublime.»
 
Lз due si guardarono, Alice gli sorrise genuinamente, grata di quel gesto tanto particolare quanto significativo e importante. Aveva intenzione di chiedere di più sui suoi genitori, nonostante avesse letto abbastanza sul libro nero che raccontava la vita di lui. Non si aspettava che subito dopo, quando, per consegnargli lo spesso foglio e la penna, le loro mani si incontrarono, si sarebbe nuovamente ritrovata in un altro dei suoi ricordi.
 
Accadde come tutte le volte precedenti: lei chiuse gli occhi e una volta riaperti, come per magia, non era più nello stesso luogo e tempo di prima. Si guardò attorno, capendo subito ciò che era successo, cercava soltanto gli indizi necessari per comprendere dove si trovasse di preciso.
 
Quello che la circondava pareva essere un ufficio, nel quale si fece spazio un giovanissimo Chrisha, era praticamente ancora un bambino e energico iniziò a correre da un punto all’altro della stanza. Lo seguì un uomo alquanto alto, dai caperti neri come la pece e dallo sguardo severo. «Dalton! Sta fermo!», nel mentre si sedette alla sedia dietro a quella che pareva essere la sua scrivania. «La mamma non ti ha detto come ci si comporta? Quella donna dovrebbe insegnarti un po’ di buone maniere e non solo a farti scorrazzare come un demone. Ora siediti qua con papà, così mi fai compagnia e io mi metto a lavorare. Se vuoi c’è il mio walkman, puoi ascoltare un po’ di Armstrong e Piaf, non è la spazzatura che ascolti tu, ma potrebbe comunque piacerti.»
 
Il bambino scosse il capo. «No papà, voglio solo disegnare. Hai un foglio?», subito l’uomo sembrò farsi serio.
 
Lo guardò con sguardo ancora più freddo, per poi rimproverarlo. «Non ci pensare nemmeno! Non voglio tu sviluppi assolutamente passioni del genere. Non puoi disegnare, non se ne parla proprio. Sai cosa dicono dei pittori?», Chrisha rispose di non saperlo. «Che sono tutti degli scansafatiche, non vogliono lavorare e non portano nemmeno un soldo a casa. Io voglio che tu sia indipendente e che tu abbia una tua vita. Lo dico per il tuo bene, Dalton.», c’era un motivo per il quale l’uomo continuava a chiamarlo con un altro modo e questo era perché, al momento della sua nascita, il padre aveva deciso un secondo nome da dare al figlio, che la madre non aveva apprezzato, ma che lui aveva comunque comunicato all’anagrafe. Perciò per i documenti il suo nome era “Chrisha Dalton”, per la madre “Chrisha” e per il padre “Dalton”. Il bambino chiese poi il motivo per il quale lui, nonostante pensasse quelle cose, avesse deciso, insieme alla moglie, di aprire un museo. «Per carità! Non è stata mica idea mia! Colpa di quella svogliata di tua madre, era una sua idea. Io lo voglio solo perché ci porta tanti soldi, non so se mi spiego. L’arte, secondo me, è solo per fare moneta e null’altro. Per il resto è inutile come lo è anche ciò che c’è dietro. Pensa alla pagnotta, non al quadro!»
 
Alice era rimasta incantata, in senso negativo, da tutta quella scena. Mai si sarebbe aspettata che il trascorso artistico del ragazzo fosse, contro ogni aspettativa, figlio di un padre che odiava il pennello. La madre, però, da come l’uomo la descriveva, sembrava essere più interessata all’arte di quanto aveva dimostrato il marito. Sembrava essere fatta apposta, ma subito dopo una donna entrò in ufficio in fretta e furia. «Chrisha! Ecco dov’eri! Giovanni, devi avvisarmi quando porti con te nostro figlio. Mi farai venire un infarto un giorno.», fece poi cenno al bambino di seguirla. «Vieni piccolo, ti porto a scuola.»
 
L’uomo si piazzò in piedi, alzando le spalle e facendosi grosso. «Non prima che io l’abbia salutato.», si chinò quindi verso il figlio e dopo avergli sussurrato qualcosa all’orecchio, se ne andò di nuovo verso la sua sedia, riprendendo a parlare alla moglie. «Io e te dobbiamo parlare oggi. Ora andate, io ho del lavoro da sbrigare. Il pane non si porta a casa da solo. Ma lo sapete.»
 
La donna, tenendo per mano il bambino e sospirando nervosa, se ne andò, accompagnando poi quest’ultimo alla sua auto. «Senti, Chrisha, cosa ti ha detto papà prima?» Entrambз erano ignarз che nell’auto con loro era entrata anche Alice. Il bambino sembrava avere paura di rispondere alla sua domanda; perciò, si chiuse e le disse che non era nulla di importante. «Ti ha vietato di nuovo di disegnare, vero?», lui annuì e di risposta lei sbuffò esausta, «Non so più cosa fare con quell’uomo. Senti, tesoro, non devi lasciare a nessuno di ostacolare i tuoi sogni. Nessuno. Nemmeno a me. Lascia perdere tuo padre, è solo chiuso nella sua caverna. Piuttosto, come va a scuola? Le nuove insegnanti sono brave?»
 
Alice, che era seduta ai sedili posteriori, sorrise genuinamente a quella scena. Essa era la dimostrazione dell’amore che la donna provava per il figlio, ella era presente nella sua vita e si preoccupava anche di quelle cose che potevano parere banali.
 
Sbatté gli occhi una sola volta e si ritrovò di nuovo nel presente. Chrisha sembrò notare la cosa nel suo sguardo, capì al volo ciò che era appena accaduto. «Di nuovo?»
 
Lei annuì sorridendo, poi lo abbracciò di colpo. «Mi dispiace tuo padre abbia creduto così poco in te, ma sappi che io lo faccio. Sono fiera della tua arte e non penserei mai di bocciare nulla di quello che crei. Sii orgoglioso di te stesso, perché sei figlio di un uomo che ti voleva tagliare le gambe, ma alla quale non hai permesso di riuscirci. Cresci e sii forte Chrisha.», i suoi occhi sembrarono bagnarsi di lacrime dolci, lei però non lo notò. Lз due poi si scambiarono un ultimo bacio, sentendo la passione che scorreva nelle loro anime. «Ora cosa facciamo? Esponiamo una tua poesia?»
 
Il ragazzo le prese dolcemente la mano e la portò con sé all’entrata del museo, dove indicò sul soffitto, su di esso vi era scritto, in caratteri mastodontici:
 
 
“Che io entri
o che io esca.
 
Saranno i venti
a permettere che io cresca.
 
Portami con te
o' somma arte.
 
E mai solo
mi devi lasciare.”
 
 

 
«Lo ha fatto mettere mia madre il giorno in cui mi ammessero all’accademia. Non ero un esperto di poesia per quanto riguarda la struttura e tutto il resto, ma l’animo del poeta era già lì con me. Più vivo che mai.», il ragazzo venne preso come da una scossa elettrica di energia improvvisa, guardò l’amica e sorridendole riprese a parlare con gran voce. «Non abbiamo finito mica! Seguimi!», disse per poi dirigersi a passo svelto verso una porta che quasi pareva essere nascosta. «Sapevo che mi sarebbero serviti questi risparmi e ora ne ho l’occasione di usarli. Per una buona causa, ovviamente.» Alice domandò poi quale fosse questa buona causa, lui subito rispose: «Tu, mi pare anche scontato.», lei, curiosa e sorridente, chiese quindi cosa avesse in mente di fare. «Andremo a Parigi, mi sembra chiaro.»
 
La ragazza si congelò in quel preciso istante e sembrò non muoversi più per un paio di secondi. Rispose poi con sguardo teso. «Non credo sia una buona idea. Non abbiamo nemmeno nulla con noi e poi non potrei mai farti spendere tutti quei soldi. E poi una volta arrivati lì? Cosa faremo? Come torneremo? Cosa farai tu senza soldi? Non hai nemmeno un lavoro.»
 
 
«Alice.»
 
Lei nel mentre stava continuando a parlare senza sosta.
 
«Non possiamo farlo. E le lezioni? Tu sei a un passo dalla laurea, non puoi permetterti di mancare. Come farai? Brucerai tutto il lavoro così?»
 
«Alice io morirò tra quattro giorni.»
 
La ragazza parve ghiacciarsi una seconda volta, questa volta il suo bloccò fu più forte e lungo. Non credeva di aver sentito pronunciare quelle parole e non avrebbe nemmeno voluto crederci davvero.
 
«Non so come accadrà, ma io morirò tra esattamente quattro giorni. Vedi, c’è un motivo se proprio a te ho detto di questa cosa. Una sconosciuta.», ridacchiò nervoso, «Non avevo tempo di trovare qualcun altro e poi quando ci siamo toccati e ho vissuto tutta la tua vita, beh, in quel momento ho capito che eri quella giusta. Avrei preso le cose con più calma, ma sai, non hai molto tempo quando sai che pochi giorni dopo non ci sarai più. È giusto che tu sappia anche il modo in cui l’ho scoperto. Devi sapere che un giorno, il mio diciannovesimo compleanno, ho avuto il mio primo contatto diretto con la verità, la nostra realtà. Ricordo ancora quel libro come se lo avessi qui, ma purtroppo non lo trovo più. Beh, insomma, trovai dal nulla questo…libro tutto nero…lo aprii e dentro di esso trovai scritta tutta la mia intera vita fino a quel momento, riassunta in poche pagine. Poi un mucchio di pagine bianche e alla fine del volume c’era un’unica scritta che recitava “e poi, solitario, il pettirosso morì”. All’inizio non capivo cosa intendesse con “pettirosso”, ma da quel giorno ho cominciato a vedere quel dannato uccello ovunque, capii poi che non era altro che un modo per avvisarmi della mia futura morte. C’era anche la data, sotto quella scritta e quel giorno sarà tra quattro giorni a partire da oggi. Questa che verrà sarà la prima delle mie ultime quattro albe che vedrò.»
 
Alice iniziò a tremare, strinse quindi i pugni, non rendendosi conto di star lacrimando dagli occhi e facendosi coraggio rispose: «Va bene. Andiamo a Parigi.», non aveva il coraggio di dirgli la verità, che era stata lei la causa del ritrovamento di quel libro. Non riusciva nemmeno a pensarci a quella possibilità. Si fece forza e continuò a fingere che tutto stesse andando bene.
 

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Capitolo 13
*** 12 ***


12
Qualche ora più tardi erano entrambз a un centinaio di metri dall’aereo che lз avrebbe portatз poi in Francia.
 
Erano nella parte esterna dell’aeroporto e insieme, tenendosi per mano, guardavano da lontano il sole sorgere. Chrisha commentò la cosa dopo aver riso sottovoce. «Il sole è più bello quando sai che non lo potrai mai più rivedere, diventa più importante, più speciale.»
 
La ragazza si limitò a non dire nulla, restò a godersi il momento in silenzio e ascoltare quello che l’altro aveva da dire. «Sai, Alice, ti conosco da meno di un giorno, eppure, è come se io e te avessimo vissuto insieme da anni. È divertente se ci pensi, se non fosse stato per quella stupida festa io sarei morto da solo, senza nessuno al mio fianco. Mia madre non c’è più da qualche anno e mio padre è andato a vivere in Romania. Non ho nessun amico o amica, ho solo te.»
 
Il cuore le si intenerì, era dispiaciuta nei suoi confronti, eppure le parole non volevano saperne di uscire dalla sua bocca. Esse erano come bloccate nelle stanze della sua mente. Ci pensò su qualche secondo, poi capì cosa avrebbe potuto dire. «Che sia la mia ultima o la mia prima volta, vedere il sole sorgere qui con te è speciale in ogni caso. Anche io sto vivendo questa giornata come se fosse durata tutti gli anni della mia intera vita, in fondo ci conosciamo da qualche ora, eppure, non riesco a immaginare un domani senza una tua poesia.»
 
Continuarono la loro conversazione per un altro paio di minuti, poi s’incamminarono per raggiungere la navetta che lз avrebbe portatз all’aereo. Una volta salitз e sedutз, Alice ci impiegò pochissimo tempo per crollare e addormentarsi sul posto. Chrisha ne approfittò per ammirare la sua bellezza e, seguendo l’istinto, fece la prima cosa che gli venne in mente: farle un ritratto sul suo blocchetto degli appunti che aveva sempre in tasca con sé. Non uscì un capolavoro, ma a lui piaceva.
 
Non riuscì però a terminarlo, perché dopo un po’ notò che gli occhi gli si stavano chiudendo.
 
Rimise quindi il blocchetto nella tasca e dopo essersi messo comodo si addormentò anche lui, abbracciato e cullato dalle vibrazioni dell’aereo in volo. Iniziò a sognare e questo per lui era una cosa davvero bella. Da quando aveva avuto quella rivelazione, il giorno del suo compleanno, aveva smesso di sognare e tutto ciò che il sonno aveva da proporgli era soltanto una grande stanza buia dove lui non poteva vedere niente. Essi finivano poi con il suo risveglio, niente di più, niente di meno.
 
Nel sogno si ritrovò ancora una volta nel buio più totale, rassegnato all’idea che non avrebbe mai più sognato, non si aspettava che in quel vuoto oscuro avrebbe sentito una voce chiamarlo a sé.
 
«Chrisha!» Essa aveva una tonalità femminile e quasi gli sembrava familiare. «Chrisha! Dove sei?!» Il ragazzo iniziò a correre incontro al suono, vagando nel buio per un bel po’. Si ritrovò dopo almeno due minuti di corsa davanti ad una porta illuminata dall’alto, che non era attaccata a nessun muro. Istintivamente mise la mano sul suo pomello, lo fece ruotare in senso antiorario e spingendo la aprì. Da quest’ultimo iniziò a uscire una fonte di luce immensa, che illuminò tutto ciò che fino a poco prima era buio e niente di più.
 
Scoprì di essere in un immenso prato verde e a un centinaio di metri dal punto in cui si trovava, notò un altissimo baobab e all’ombra di esso vi era una dolce fanciulla con un lungo vestito azzurro che le copriva l’intero corpo e continuava a scendere per qualche centimetro anche per terra. «Alice!», urlò lui.
 
Iniziò a correre verso di lei, con un sorriso stampato in volto, quando però vide quest’ultima estrarre una pistola dall’abito si bloccò di colpo. Lei era davvero Alice, ma sembrava che qualcosa in lei fosse cambiato. Glielo leggeva negli occhi come era sempre riuscito a fare fino ad allora. Quest’ultima alzò l’arma e la puntò direttamente verso di lui. Chrisha non esitò un secondo, iniziò a fuggire quindi nel lato opposto, sperando che la ragazza non gli sparasse davvero. Sentì poi il primo sparo, ma questo non veniva dalle sue spalle, bensì in direzione del suo volto. Quando alzò lo sguardo notò che il maestoso albero s’era spostato, compresa la fanciulla sotto di esso.
 
 
Una pallottola lo colpì in mezzo al petto.
Una seconda lo colpì al cuore.
Una terza al lato destro del petto.
E una quarta e ultima al centro collo.
 
Fu quello il colpo fatale che lo fece cadere in ginocchio.
Alice lo raggiunse, gli accarezzò il volto e guardandolo notò che tutto il suo petto era coperto di sangue rosso che senza sosta continuava a sgorgare dal suo collo.
 
Subito dopo Chrisha si svegliò. Erano passate due ore e l’aereo era atterrato all’aeroporto di Parigi. Le sue mani tremavano e guardando l’amica addormentata iniziò quasi ad avere paura di lei. Decise di ignorare il sentimento e notando di essere arrivato a destinazione la mosse dolcemente per svegliarla e quando quest’ultima si destò, si avvicinò a lui con gli occhi ancora chiusi e gli stampò un bacio sulle sue morbide labbra rosee.
 
«Sei bellissimo.», disse lei.
 
«Come fai a dirlo, se nemmeno mi vedi?»
 
«Non mi serve avere gli occhi aperti per vedere la tua bellezza. Fuori sei affascinante e attraente, ma è dentro che c’è il bello di una persona.», lui sorrise nervosamente. Le carezzo il volto e le baciò la fronte chiudendo gli occhi; fu proprio quando abbassò le palpebre che vide davanti a sé, di nuovo, l’immagine di Alice, pronta a sparargli. «Tutto bene, Chrisha? Stai tremando.», lui, che si spaventò ancor di più, rispose che era l’eccitazione a farlo muovere con un pazzo.
 
Passarono altre due ore, questa volta erano in un bar locale, che aveva la particolarità di trovarsi sulla terrazza di un alto palazzo bianco. Entrambз avevano ordinato un caffè, lui però aveva fatto aggiungere due krapfen alla crema, consigliando alla ragazza di assaggiarlo. Quest’ultima aveva poco prima detto, infatti, che in tutta la sua vita non ne aveva mai mangiato uno.
 
E mentre Alice cercava delle sigarette nella propria borsa, che ormai aveva fatto sua, riuscì a sentire la conversazione dei due ragazzi seduti al tavolo di fianco. Entrambi italiani ed entrambi avevano preso lo stesso aereo della coppia. «Sì!», esclamò uno, catturando involutamente l’attenzione della giovane. «Mi sembra assurdo! In quel bar ci sono stato proprio l’altro ieri. Se ci fossi andato ieri…chissà che cosa sarebbe accaduto.»
 
La conversazione continuò per un po’, senza però che i due entrassero nei dettagli. All’inizio Alice perse l’interesse, subito dopo, però, lo stesso ragazzo nominò un certo “Damiano”, che era il nome del proprietario del bar dal cui lei e Chrisha erano scappatз la sera prima. «Non ci si può credere, in che mondo viviamo? Una sparatoria in piena notte da parte di un ubriacone. Ma ti sembra normale?»
 
Chrisha aveva notato l’interessamento da parte di Alice verso quella conversazione. Lз due si guardarono per qualche secondo in silenzio, poi la stessa commentò: «Mi hai fatta scappare via perché lo sapevi, vero?», il ragazzo annuì, accendendosi anche lui una sigaretta. «Allora perché ci siamo andati?», quest’ultimo rispose poi che aveva avuto la previsione nel momento in cui s’erano sedutз, ripetendole inoltre che dopo il loro incontro, il suo dono di riuscire a vedere nel futuro aveva iniziato a non funzionare più come prima.
 
Lз due passarono almeno un’ora sedutз in quel bar, degustando dell’ottimo caffè e assaggiando entrambз per la prima volta dei veri croissant francesi. Una volta in strada si incamminarono verso un giardino pubblico, un enorme parco che si estendeva e che suscitava in loro una tale calma e serenità che dimenticarono tutto ciò che li aveva circondatз fino a quel momento, il mare dentro al quale erano ancora immersз e nel quale riuscivano a malapena a rimanere a galla.
 
Il silenzio si fece regnante, ma questa volta non era un mutismo disagiante, esso era bensì un momento di rilassamento. Non avevano ancora vissuto nulla, eppure, continuavano a ripetersi di aver vissuto delle ore che sembravano anni.
 

 
 
Alice, una volta entrata nell’esteso giardino, si liberò della scomodità delle proprie scarpe nere ed eleganti, subito dopo, notò che ancora non aveva detto nulla su ciò che il ragazzo indossava. Si voltò quindi verso di lui, con entrambi i mocassini in mano, e dopo averlo squadrato per bene commentò il suo stile sorridendo. «Mi piace. Non te l’avevo ancora detto, ma quella felpa e quei jeans a cavallo basso e a zampa mi piacciono particolarmente. Rientrano molto nel tuo stile. Non vorrei limitarmi a stereotipi di alcun genere, ma posso chiederti che musica ascolti?» Chrisha iniziò a parlare, ma subito dopo lei iniziò a liberarsi in una corsa, sorridendo e dicendogli di continuare, che lo stava ascoltando e che non aveva intenzione di ignorarlo.
 
Il giovane quindi, ridacchiando un po’ tra sé e sé, riprese a parlare. «Beh, io rientro nello stereotipo del mio vestiario. Come avrai già immaginato sono un amante dell’hip-hop e del rap. Ascolto e stimo molto artisti come Eminem, Snoop Dogg, Dr. Dre e altri della scena americana. Per quanto riguarda gli artisti italiani, invece, apprezzo molto le canzoni di Salmo, Fabri Fibra, Club Dogo e i maestri dei testi conscious rap per eccellenza: Caparezza e Rancore.», ridacchiò ancora una volta e sottovoce si commentò da solo, dicendo: «Spero di non far finire Gunter in qualche guaio di tipo legale con tutti questi riferimenti. In ogni caso,», esordì a gran voce guardando l’amica che continuava a correre felice per tutto il prato, «…tu cosa ascolti? Dal tuo stile oserei dire qualcosa come il jazz o l’indie rock
 
Lei si fermò e nonostante il fiatone che le era venuto, tentò di rispondere alla sua domanda. Rise un po’, per poi dire che il jazz non era il suo genere, mentre l’indie rock era troppo calmo per lei. «È come il caffè. Il caffè va bevuto amaro, è la vita che dev’essere dolce. Per la musica è lo stesso, la mia musica va ascoltata scatenandosi, è la mia anima che dev’essere calma.»
 
«Quindi ascolti metal?», lei scosse il capo, «Punk?», ricevette la stessa risposta, «Allora…vediamo…Sarà per caso techno o comunque musica elettronica?», lei scosse il capo una terza volta, si fermò a pensare e subito dopo disse che, invece, ci aveva proprio azzeccato; semplicemente non si aspettava lo indovinasse così presto. «Beh, in fondo ti ricordo che ho vissuto la tua vita, abbiamo sentito le stesse canzoni. Quindi questo mio tirare a sorte era solo per non far morire la passione del dialogo.», lei non era però affatto interessata all’argomento, voleva concentrarsi di più sul godersi il momento che stavano vivendo insieme. Si avvicinò a lui e dopo avergli lasciato un bacio sulle labbra, gli strinse dolcemente le mani. Chiuse gli occhi e di colpo si ritrovò teletrasportata in un proprio ricordo. Questa volta però non era merito di nessun dono, era solo la sua mente che le faceva rammentare dei pezzi della sua vita. Quando si sta bene, pensava sempre lei, si ritrovano altre cose nel proprio passato che ci hanno fatto stare bene.
 
Il ricordo era condiviso, lei non era sola in quel pezzo della sua vita, era bensì con Giulia, sua migliore amica. Un episodio accaduto un paio di anni prima e che in quel momento le tornò alla mente per qualche istante.
 
Erano entrambe fuori dal loro paesino, in una città limitrofa. Si trovavano più precisamente in un esteso parco, simile a quello che poi Alice avrebbe visitato in Francia, soltanto molto più piccolo. Entrambe correvano liberamente, dando sfogo alla loro grande energia che avevano accumulato dentro di sé. «Perché non facciamo venire anche Astrid qui? Se ne sta sempre bloccata a Cavea…», era il nome del paesino dove vivevano, «…magari tutto questo verde potrebbe aprirle la mente e aiutarla con il suo blocco d’artista.», l’amica rispose che era una buona idea e che ci avrebbe pensato su. «Ancora non capisco perché, quando eravamo più piccole, mentisti dicendo che vivevi ancora con i tuoi genitori.»
 
Alice, che intanto s’era fermata, la guardò bene e con una fine leggerezza iniziò a parlare. «Non ti conoscevo bene e non conoscevo bene nemmeno me stessa, era imbarazzante per me dire che i miei genitori non m’hanno mai voluta davvero. Voglio dire, amo Astrid con tutto il mio cuore e la mia anima, ma dire che siamo scappate via dalla Sicilia, per poi venire qui a cambiare vita, era troppo da elaborare per una piccola mente di una bambina. In ogni caso, ora non pensiamo ad altro, godiamoci il momento.», non sapeva che avrebbe fatto lo stesso ragionamento poi in futuro con Chrisha. «E a proposito di ispirazione, sai cosa ho portato?», l’amica scosse il capo, dicendo poi che non aveva notato nulla di strano nell’auto. «Aspettami qui.»
 
Iniziò poi a correre via e mentre Giulia rimase lì ad attenderla, il sole cominciò a farsi spazio nel cielo, mostrandosi oltre le nuvole che lo stavano coprendo fino a quel momento. La ragazza, che era intanto rimasta da sola, sapendo che l’altra ci avrebbe messo un po’ di tempo, decise di intrattenersi in qualche modo. «Forse è questo il momento di cui parlava Beatrice.», si riferiva ad una conversazione avuta con la cugina poco tempo prima. Le aveva consigliato di trovare dei momenti di pura pace, nell’ambiente giusto, che l’avrebbe portata a creare dell’arte sempre nuova e di qualità. «È questo il momento giusto. L’istante in cui tutto coincide e si allinea alla perfezione.» Tirò fuori dalla tasca un foglio di carta stropicciato e con la matita che aveva nel proprio giaccone iniziò a scrivere una parola dopo l’altra.
 
Esso recitava una poesia incompleta:
 
 
“Via dal sole,
le persone son sole.
Ma dentro il buio
trovo le parole.
E quando questo
inizia ad arrivare
Io mi inebrio
e comincio ad amare.”

 
 
Cominciò a scrivere su quel foglio stropicciato e una dopo l’altra continuava ad aggiungere nuove parole e cancellare quelle che non la convincevano del tutto. La cosa andò avanti per almeno dieci minuti, giusto il tempo che impiegò Alice per tornare dall’auto, a sua volta parcheggiata lontana dal parco. «Eccomi!», esclamò la ragazza, avvicinandosi all’amica che era concentrata sulla sua poesia. Quest’ultima si limitò a salutarla con la mano, non distogliendo lo sguardo dal foglio nemmeno un singolo secondo. «Cosa fai?», chiese l’altra mentre iniziava a produrre dei rumori che Giulia non riusciva a identificare poiché non stava guardando.
 
Alice allungò il collo, dopo aver ricevuto un silenzio come risposta, e notò che l’amica stava per l’appunto scrivendo parole su parole, senza fermarsi nemmeno un singolo secondo. «Cos’è? Una poesia?»
 
Lei annuì, per poi alzare lo sguardo sospirando e rimettendo il foglio in tasca, stropicciandolo più di quanto non lo fosse già di suo. «Nulla di importante. In ogni caso, cosa stavi facendo prima? Sentivo un sacco di suoni misteriosi, ma ero alquanto concentrata su quella poesuccia.»
 
Alice si spostò quindi di qualche passo più a destra, per poter mostrare all’amica ciò che aveva preparato, ossia due treppiedi con delle grandi tele su di esse e un tavolino colmo di pennelli, tempere e altre cose utili alla pittura. Le due si guardarono negli occhi, un sorriso comparve sui loro volti e subito dopo, Giulia, ch’era rimasta seduta sulla panchina tutto il tempo, s’alzò in piedi, andando ad abbracciare l’altra che la stava aspettando a braccia aperte, intuendo subito quello che quest’ultima aveva intenzione per fare. «Prima di dipingere, però…», esordì lei, «…voglio leggere quella…come l’hai chiamata? Poesuccia? Sei riuscita a finirla?» Lei annuì, dicendo che aveva cambiato un po’ di parole, sostituendole con altre migliori e che aveva aggiunto nuovi piccoli versi per poterla concludere per bene.
 
Le consegnò il foglio; dopo di che Alice iniziò a leggere dentro di sé quanto scritto:
 
 
“Via dal sole,
le persone son sole.
Ma dentro il buio
trovo le parole.
E quando questo
inizia ad arrivare
Io mi inebrio
e comincio ad avere
una paura
che tanto dolce mi pare,
ma che la mia parola
fa affogare.”

 
 
 
«Giulia, è bellissima!», quest’ultima sorrise arrossendo, poi l’amica continuò a parlare, facendolo con molto orgoglio nei suoi confronti. «Non sarò esperta in poesia, ma per una come te che ha l’anima nel pennello e non nella penna questa è una dimostrazione di grande successo!», gliela riconsegnò, piegandola con dolcezza e cura. «Non pensavo ti piacesse la poesia. Come mai questo cambio netto di stile?», lei spiegò poi che era tutto merito di sua cugina, grande appassionata della letteratura, che a sua volta le aveva regalato una raccolta di poesie contemporanee, da lì, disse lei, l’ispirazione era venuta da sé.
 
Le due si scambiarono un sorriso genuino, poi Alice l’abbracciò, ripetendole più e più volte di essere fiera di lei. Quando si separarono, entrambe si avvicinarono alle tele, prendendo una matita in mano. «Cos’hai in mente di fare? Io non ho molte idee, quindi mi limiterò a dipingere quello che ho di fronte a me.», l’altra rispose che il suo soggetto sarebbe stata lei. Giulia, presa bene dall’idea, continuò anche lei dicendo: «Sai cosa? Io dipingerò te, che dipingi me. Mi sembra un’idea carina e particolare. Magari a fine lavoro potremmo regalarlo all’altra e scambiarceli, che ne pensi?»
 
«Penso sia un’idea meravigliosa.», le due allora si misero al lavoro e da lì fino al tramonto non si staccarono nemmeno un singolo minuto dalle loro tele. Nel mentre avevano messo della musica classica di sottofondo, non era la loro preferita, ma secondo le due era perfetta per il momento e le aiutava a tenersi concentrate. «Perfetto, il mio è finito.», disse Alice dopo aver passato almeno dodici ore a dipingere senza sosta. Spostò poi lo sguardo sulla tela di Giulia, anch’essa ormai completa. «Wow!», esordì la stessa esclamando, «Hai fatto un ottimo lavoro! Complimenti! Il mio in confronto sembra il disegno di un bambino.», commentò lei ridendo.
 
 
Poi quando anche la più piccola delle due ebbe dato la sua ultima pennellata, le due si guardarono negli occhi, leggendo la stanchezza nello sguardo dell’altra. «Abbiamo fatto entrambe dei capolavori. In più tu siamo anche due soggetti molto affascinanti, perciò non poteva uscire un lavoro brutto. Ti senti pronta?», chiese lei mentre afferrava la tela, invitando l’altra a fare lo stesso. «Ora dobbiamo solo scambiarcele.»
 
«Non lo firmi il tuo?»
 
«Non c’è bisogno, so benissimo che ti ricorderai del mio nome sempre e per sempre.», entrambe sorrisero all’unisono.
 
Non ho mai più tolto quel quadro del mio studio e lei, una volta appeso il mio nel suo soggiorno, affianco a quello delle statue di marmo, non l’avrebbe mai più staccato da lì e tutt’ora si trova ancora in quel luogo, sulla stessa parete. Le nostre anime, legate in un mucchio di pennellate, erano pronte a varcare la soglia della comune banalità affettiva.
 

 
 
Quando Alice riaprì gli occhi erano passati soltanto un paio di secondi, avvolse il viso di Chrisha tra le proprie mani e lo baciò con passione. Poi sottovoce disse una cosa senza pensarci troppo. «Forse non riuscirò a salvare la tua vita, ma tu hai cambiato la mia, per sempre.»
 
Il ragazzo sorrise, non sapeva esattamente che dire, chiuse anche lui gli occhi, ma, al posto della solita pace interiore, rivide l’immagine di Alice con la pistola in mano, pronta a sparargli un altro colpo in petto.
 
 

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Capitolo 14
*** 13 ***


13
Chrisha si distese sul prato verde sotto di loro e subito dopo anche Alice fece lo stesso, mettendosi al suo fianco. Entrambз cominciarono a fissare il cielo azzurro, solo alcune nuvole si facevano spazio su di esso e a volte qualcuna era più grigia di altre. Il silenzio aveva cominciato a farsi comodo nel momento, zittendo ogni loro pensiero e facendo godere loro di quegli istanti che scorrevano veloci, rapidi come se stessero fuggendo via.
 
Un suono entrò nella mente di lei, era come un piccolo seme di pensiero che nacque nella sua testa e che piano piano iniziò a crescere. Lentamente dentro di lei si creò quasi un quesito, che avrebbe voluto così tanto esprimere a parole, ma che probabilmente –secondo lei– non sarebbe mai stato compreso.
 
Prese quindi coraggio e decise di parlarne comunque. Questo perché, riflettendoci su, capì che quando le cose pensate non potrebbero mai più essere ascoltate, allora acquisiscono un valore proprio, un’importanza non da poco. Guardò quindi il ragazzo negli occhi e parlò. «Credi nelle stelle?»
 
Quest’ultimo non sapeva che rispondere. «Cosa intendi?», chiese lo stesso ridacchiando, pensando fosse l’incipit di una barzelletta.
 
Lei si mise quindi seduta, concentrandosi sul trovare le parole giuste per spiegare il concetto che aveva fisso in mente da ormai qualche minuto. «Voglio dire…si può non credere in qualcosa di cui si ha la certezza che esista?», lui rispose che sarebbe sciocca una cosa del genere, subito dopo lei riprese a parlare. «È proprio questo ciò che intendo. Se io so per certo che una cosa accadrà, allora perché dovrei far finta di non crederci? Perché cerco in tutti i modi di omettere dalla realtà quella verità, che per quanto dura possa essere, è reale.» Chrisha, mettendosi anche lui seduto al suo fianco, sembrò interessarsi all’argomento, capendo subito dove sarebbe voluta arrivare con quel discorso. «Ascoltami bene, se io so che una cosa è messa in una maniera…», la ragazza quasi faticava a trovare le giuste parole per esprimersi, «…allora perché ne sono così spaventata? Ciò che intendo è che…mi pare assai sciocco temere l’avvento di qualcosa di cui si ha la certezza che accadrà. Le cose stanno così e basta, me ne devo fare soltanto una ragione, no?»
 
Lui mise la propria mano su quella della ragazza, che intanto s’era bagnata delle sue lacrime. Lei lo guardò con gli occhi lucidi e con le guance a strisce d’acqua di dolore e tremando gli fece una domanda.
 
«Allora perché io ho così tanta paura che tu te ne debba andare? Me ne dovrei fare una ragione, no? Eppure, non è così semplice, no, non lo è affatto.», lui la abbracciò e subito dopo lei scoppiò in un pianto liberatorio, cominciando a singhiozzare e tremare ancora di più. «Il nostro amore è troppo giovane per essere dimenticato.»
 
Chrisha chiuse gli occhi e per un secondo cancellò dalla propria testa l’incubo che aveva fatto, rimosse anche tutto il resto, ciò che li circondava e non solo. Ora c’erano solo loro due, in mezzo al vuoto, tutto chiaramente nella sua testa. «Non verremo dimenticati. Tu non ci dimenticherai mai. Sai Alice, all’inizio ho tentennato, dopo la fuga dal bar, ho pensato “Forse lei non è pronta, forse non è quella giusta”, ma quando mi hai baciato, ho visto qualcosa che mi ha spinto a scegliere comunque te e spiegarlo sarebbe impossibile, anche se, prima di andarmene, cercherò di raccontartelo. Quello che importa è che ora stiamo insieme. No?»
 
Quella stessa notte tentò davvero di spiegarmi quello che aveva visto durante il nostro primo bacio e io, che l’ho vissuto nelle sue parole, vi racconterò quella che era stata la sua esperienza. Mistica la definirei oggi. Non capii da subito quello che mi stava raccontando, quello che aveva visto e tutto il resto, ma ora, ripensandoci, sento come se l’avessi vissuto anche io.
 
Alice aveva appena posato le sue labbra su quelle di Chrisha e insieme avevano cominciato a muoversi e perdersi in un bacio appassionato di un amore che stava per nascere. Il ragazzo, una volta chiusi gli occhi, si trovò come trasportato in un luogo diverso.
 
Tutt’attorno era buio e l’unica cosa che il giovane riusciva a sentire era un flusso d’acqua che scorreva sui suoi piedi scalzi. Quest’ultimo fece qualche passo in avanti, ma l’acqua sembrava non finire mai, solo dopo qualche metro riuscì a toccare qualcosa di diverso, sembrava essere dell’erba. Essa era fredda e morbida allo stesso tempo, si guardò attorno e nonostante non riuscì a vedere nulla di ciò che lo circondava, riusciva comunque a percepire un senso di tranquillità che non si spiegava.
 
«Alice?», chiamò il suo nome, risentendo l’eco della propria voce nel vuoto oscuro e quando il suono delle sue parole tornò a lui, un brivido gli corse lungo tutta la schiena. «Alice?», ripeté, quasi spaventato. Inspirò e, dopo aver buttato fuori tutta l’aria che aveva tirato dentro di sé, riprese a tranquillizzarsi. Non temeva il buio o il vuoto in cui si trovava, aveva più paura di rimanerci da solo, di non ritrovare la ragazza e non poter fare più niente.
 
Si sedette su quelli che, al contatto con la sua pelle, parevano essere fili d’erba e dopo aver tirato fuori dalla propria tasca una sigaretta, in maniera assai tranquilla, la accese e iniziò a fumarla. Solo dopo quattro tiri contati si rese conto che quest’ultima non era una normale delle sue tante, essa sembrava essere fatta, infatti, con i fiori al posto del tabacco e di conseguenza profumava di buono. Aveva lo stesso profumo di Alice, ma lui non se ne rese conto, perché troppo concentrato a viversi il vuoto.
 
Non sapeva e non comprendeva in che luogo si trovava, eppure, quel posto tanto buio e vuoto gli pareva più che familiare. Si stese sul prato sotto di sé che non riusciva nemmeno a vedere, lasciandosi cullare dalla terra che lo stava abbracciando in un caldo gelo che in qualche modo lo faceva sentire al sicuro. La sigaretta non finiva mai, pur se lui gli rubava anche trenta respiri e non lo affaticava nemmeno, non era pesante, ma nemmeno insoddisfacente.
 
Quest’ultimo s’alzò poi in piedi e, preso dall’istinto, cominciò a camminare, andando sempre dritto di fronte a sé e non pensando di cambiare strada nemmeno una singola volta. Colpì poi con il piede scalzo un ostacolo, lo toccò con le proprie mani e capì subito cosa avesse trovato: un albero. Più precisamente un baobab, lui però non lo sapeva, lo identificò come un semplice arbusto dalle grandi dimensioni.
 
Lo accarezzò con la propria mano e voltandosi notò che dietro di sé vi era l’unica cosa che era in grado di mirare. Essa pareva essere una creatura informe fatta di luce propria e che, svolazzando, illuminava ciò che aveva attorno –nel raggio di un metro– quindi l’erba sotto di sé e il viso del ragazzo che la stava ammirando.
 
Chrisha non restò a rifletterci su nemmeno un secondo, subito tentò di avvicinarsi ad essa, allungando la mano nella sua direzione e quando riuscì a toccarla, si ritrovò la mano immersa di questo gas luminescente che passò dall’essere di colore rosso all’essere viola. Lui ritirò quindi a sé la mano, osservando poi il ritorno dell’essere al colore originale.
 
«Alice?», ripeté lui per la terza volta, riferendosi questa volta all’entità che aveva di fronte a sé, per poi continuare: «Sei tu?»
 
Si sentì una voce uscire da essa, era proprio la voce della ragazza, pareva però essere più dolce, più delicata nel suono e in qualche modo lui immaginava quest’ultima come delle docili dita che suonano l’arpa che era la sua mente. «Chrisha.», disse lei, per poi continuare: «Non son’ io nella mia completezza quel che vedi, ma l’anima nella mia totale essenza. Guardati le spalle dagli alberi che ti tengono ombra e dal sole che fa buio. Qui sei al sicuro, da ogni cosa e puoi anche scegliere di non andare mai più via, sarai nel caldo e comodo della mia anima.»
 
Il silenzio fu la sua risposta per qualche secondo, poi capì che avrebbe dovuto dire qualcosa in merito e che lei stava aspettando proprio che lui parlasse. «Non voglio essere al comodo, voglio essere vivo.»
 
Mi raccontò poi che subito dopo lei lo lasciò andare, raccontandomi anche per filo e per segno l’incubo che aveva fatto quella stessa mattina. Io lo invitai a riderci su, ma riflettendoci bene, mi rendo conto solo ora che lui aveva sognato la sua anima nella mia mente, un prato illuminato e un baobab e aveva incontrato la mia anima nella sua mente, un prato notturno senza sole, con un baobab nascosto. Avevamo la stessa casa delle nostre anime, la stessa anima, ma la sua era buia.
 
Era ormai notte quando stavano tenendo quella conversazione e lз due erano a girovagare per le strade di Parigi, non c’era nessunǝ in strada; a essere destз erano soltanto loro, le macchinette del caffè, le guardie, i ladri e le fontanelle. Chrisha prese per mano Alice, la guardò negli occhi e dopo averle stampato un bacio sulle labbra le disse che si sarebbe allontanato per un paio di secondi, riferendo che aveva bisogno di andare al bagno.
 
Lei lo aspettò lì dov’era rimasta e mentre quest’ultimo entrò nel bagno pubblico si sentirono come una serie di rumorini non identificabili provenire da dentro. La ragazza pensò che fosse semplicemente qualcun’altrǝ che stava usando il bagno.
 
Chrisha si diresse verso il lavabo e dopo essersi sciacquato il volto con dell’acqua fresca, alzò lo sguardo verso lo specchio. Quando però aprì gli occhi vide l’immagine di un altro nel riflesso.
 
«Ciao!», disse quest’ultimo, sorridendo quasi come fosse una cosa normale. Chrisha si voltò subito, dietro di sé vi era un uomo dai lunghi capelli castani e lisci, con una folta barba dello stesso colore e dei vestiti eleganti rosso fuoco.
 
«Ti piace?», chiese poi al ragazzo, riferendosi all’abito.
 
«Il tizio dell’altro libro è morto e non ne ha più bisogno. Mi pare si chiamasse Dunkel, non ti sarebbe piaciuto, l’ho trovato parecchio eccentrico.»
 
«Si può sapere chi diavolo sei? E mi spieghi come hai fatto a fare quella cosa con lo specchio? Cosa sei, un mago?»
 
«Perdona i miei modi.», porse quindi la mano all’altro, per poi continuare dicendo: «Piacere di fare la tua conoscenza, chiamami pure figlio del male, ma solitamente la gente si riferisce a me con il nome Shiōkami. Mi dispiace che il nostro primo incontro sia così, ma voi avete deciso di venire a Parigi e non riuscivo a trovarvi. Ho dovuto improvvisare e fare comunque una buona entrata ad effetto, sai, ai lettori piacciono questo tipo di cose.», la situazione s’era fatta inquietante, come faceva quello sconosciuto che s’erano appena spostatз? E cosa intendeva con lettori? Che sapesse anche lui la verità su quel mondo?
 
 
«Chrisha.», esordì lo stesso, scatenando ancora più domande nel giovane confuso. «Non mi sono fatto milleottocento chilometri in volo solo per venire a farti paura, io ho bisogno di parlarti. Quindi invito te e Alice a bere qualcosa insieme, offro io.», in questo momento il ragazzo si sentì spinto come da un istinto ad accettare, non si fidava affatto di quella persona dagli occhi color castagna, ma era certo che sapesse molto; perciò disse, con naturalezza, quasi come se la cosa non lo toccasse, che gli andava bene. «Perfetto! Non ho dovuto farti fare il giro negli inferi per convincerti!», commentò lo stesso ridendo, per poi dire che stava chiaramente scherzando.
 
I due uscirono quindi dal bagno e insieme si diressero verso Alice. «Bonsoir.», disse lei, pensando che il nuovo arrivato fosse uno del posto che per l’appunto parlava francese.
 
«Non sono francese, mi spiace. Ma in compenso ho un dono qui per te e solo per te.», allungò la mano in direzione della ragazza e come per magia dalla sua manica rossa e stretta iniziò a crescere, per poi sbocciare, un tulipano rosa. Lei lo afferrò e dopo aver sorriso lo ringrazio arrossendo. «Ora però, tutti a bere! Voi non siete astemi, giusto?», disse ridendo e cominciando a camminare dritto. La ragazza chiese sottovoce all’amico chi fosse quello strano individuo, lui non ebbe il tempo di rispondere, che l’altro si intromise a voce alta. «Shiōkami, Figlio del Male, La Bestia, William, Walt, il Distruttore, ho tanti nomi, ma il primo va bene. Credo qualcuno mi abbia anche definito l’anticristo. Pff, non sa che io e Gesù eravamo grandi amici, sono stato in quella linea temporale, sapete? Un grande uomo dai grandi ideali. La storia dei sette giorni della creazione? Una cazzata, il nostro creatore o creatrice ci ha messo un giorno per dare il via al tutto e non è ancora nulla concluso.»
 
Chrisha, che intanto aveva preso a seguirlo, ridacchiò. «Creatore o creatrice? A chi ti riferisci, a Dio?»
 
«Certo che no, intendo Gunter.»
 
Alice e Chrisha si voltarono l’unǝ verso l’altrǝ nello stesso istante.
 
«Vi sorprende che io sappia chi è Gunter? A me sorprende che vi definisca ancora amici, quando è chiaro che stiate insieme. Anche se non apprezzo questo buco di trama, voglio dire, vi conoscete da un giorno e già state insieme? Non è naturale, è un dettaglio che non va sottovalutato.»
 
Non sapevano che dire, decisero quindi di restare ad ascoltare. Questo però aveva appena trovato un bar sulla strada, entrò quindi al suo interno e chiese al primo cameriere che trovò di uscire a prendere le ordinazioni. Si sedettero tuttз e tre ad un tavolino all’esterno. Lз due parevano essere intimiditз dalla presenza di Shiōkami, che, invece, pareva essere la persona più tranquilla di sempre. «Non mi pare ancora di aver capito chi sei.», chiese Alice, «Sei una specie di demone?»
 
«Certo! Non apro le mie ali per non mettermi in mostra, ma ce le ho e sono vere. Anche se in realtà sarei più una divinità, la reincarnazione di chi ci ha creati, ma la mia storia è stata già scritta, inutile che ve la racconti.», si voltò poi verso il cameriere che era arrivato da loro. «Tre bionde medie, per favore, la mia con tanta schiuma. Sapete, poca schiuma in boccale è uguale a tanta schiuma nel pancino.», sollevò poi di poco il proprio guanto destro e dal suo interno fece uscire una strana sigaretta tutta bianca, che portò alle labbra e accese con una fiamma che uscì direttamente dal proprio indice. «In ogni caso, sono qui a causa vostra. Stavo viaggiando tra i mondi come ormai sono abituato, ma entrando in questo mondo vi ho visti e ho visto quella scena sulla collina. Non so cosa sia accaduto mentre vi baciavate, ma io sono entrato nelle vostre teste, entrambe allo stesso tempo, sono poi svenuto e dopo aver provato a uscire da questo mondo mi sono ritrovato a rientrarci più e più volte. Perciò ho capito che voi sapevate più di quello che dovevate sapere e quindi ho compreso la verità di quello che era il mio compito.»
 
Calò il silenzio. «Ucciderci.», disse Chrisha con tono secco.
 
«Per questo ci hai offerto da bere, vero? Per rendere leggera la nostra morte. Sei il sicario del creatore.», Shiōkami scoppiò in una grassa risata.
 
«Io non sono il sicario di nessuno, caro mio. Piuttosto, sono qui per farvi scappare. Dovete uscire dal libro. Immediatamente. Voi dovete andare via da qui, scappare e non farvi sentire mai più. Anche quando sentirete di aver bisogno di essere letti, lì dovrete rinunciare ai vostri sogni di gloria e rimanere muti. Altrimenti vi ritroverete bloccati in un altro falso mondo. Chrisha, tu non hai più tempo, devi farlo oggi stesso, perché il finale è cambiato, queste sono le nostre ultime pagine, tu morirai tra esattamente quattro ore. Fottuto quattro.»
 
Il ragazzo scoppiò anche lui in una risata, la sua era però assai nervosa, si voltò quindi verso Shiōkami e continuando a ridere gli rispose: «Ho capito il tuo gioco, tu ci hai seguiti, hai ascoltato le nostre conversazioni e ora ti spacci come il messia di ‘sto cazzo. Non puoi affatto venire qui e pensare che noi ti ascoltiamo.», intanto le birre erano arrivate. Il ragazzo dai lunghi capelli si alzò in piedi, facendo cenno allз due di aspettare, entrò quindi con il cameriere e ci restò per una decina di minuti.
 
 
 
Chrisha s’alzò in piedi dopo essersi assicurato di non essere visto «Alice. Dobbiamo andare via, adesso. Non mi fido di quel tizio, non voglio averci a che fare.», lei afferrò il boccale di birra e iniziò a seguirlo. «Perché ti sei portata la birra?», chiese lui mentre continuava a camminare a passo svelto.
 
Lei rispose con due singole parole. «È gratis.», cominciarono poi a correre, sempre più velocemente. Questo fino a quando, stanchз, arrivarono in una piazza vuota, piena di statue di arlecchino in ogni posa possibile. Si fermarono pensando di essere riuscitз a scappare via dal ragazzo inquietante. Quest’ultimo però non diede loro nemmeno il tempo di voltarsi e dire nulla, era in volo sulle loro teste, con le sue bellissime e grandissime ali nere piumate. In volto aveva una maschera di legno tutta nera con una croce greca rossa in posizione dell’occhio destro.
 

 
 
Si piazzò davanti a loro, toccando piano il suolo con i piedi.
 
«Chrisha, lo so che sei spaventato. Lo sarei anche io, ma devi credermi. Io non sono né il messia né un sicario. Io non voglio né uccidervi né ingannarvi. Sono stato troppo a lungo portatore di sventure, voglio solo farti capire che quello in cui credi è vero, noi viviamo davvero in un libro e tutto questo è finto, proprio come dici tu. Sono entrato nelle vostre menti e ho letto tutto, so tutto di voi.»
 
Il ragazzo sembrò agitarsi ancor più di prima. «ORA BASTA! SMETTILA DI DIRE CAZZATE! SEI SOLO UNO DEI SICARI CHE VUOLE METTERE FINE ALLA MIA VITA!», estrasse perciò la pistola che aveva con sé nei pantaloni e la puntò al giovane alato. Quest’ultimo chiuse le ali e si tolse la maschera, i suoi occhi erano diventati completamente neri, sclera compresa. Da sotto la propria giacca rossa fece uscire un libro tutto nero, lo lanciò in direzione del ragazzo, che si chinò e lo raccolse.
 
«Lo riconosci quello? Ora mi credi Chrisha?»
 
«E tu Alice, lo riconosci?»
 
Il giovane nel mentre aveva cominciato a fissare il libro spaventato a morte. Le mani gli tremavano e non riusciva a stare fermo dalla paura. Si chiese poi cosa c’entrasse la fidanzata con quell’oggetto, si voltò quindi verso di lei. «Alice, tu hai già visto questo libro?»
 
Quest’ultima, ch’aveva cominciato anche lei a tremare, con gli occhi lucidi, cercò di spiegarsi e scusarsi, balbettando e allontanandosi lentamente dall’altro. «I-io…i-io non…s-scusami Chrisha. Sono stata io a darti il libro quel giorno. Ero in un tuo ricordo e sono riuscita ad entrarci a contatto. Mi sono ritrovata quella cosa tra le mani e l’ho lasciata al tuo fianco. Non so perché l’ho fatto, te lo giuro, non me lo so spiegare.»
 
Chrisha la guardò, puntò di nuovo la pistola contro Shiō.
 
«Pensa bene a quello che stai per fare.»
 
Lui poggiò il dito sul grilletto e con le lacrime agli occhi sparò quattro colpi sul corpo del ragazzo mascherato.
 
Corse poi da lui, lo afferrò per il vestito e lo sollevò da terra.
 
Iniziò a ridere e con la mano sporca di sangue si dipinse il petto. «E solitario…», caricò un’altra volta l’arma, «…il pettirosso…» la puntò alla propria tempia, «…morì.»
 
Prima un sorriso.
 
Subito dopo un botto.
 
E dopo ancora lui cadde per terra esanime.
 
Alice corse immediatamente da lui, lo strinse tra le proprie braccia e piangendo lavò via il sangue dal viso del fidanzato ormai perduto. Iniziò a macchiarsi di due sangui diversi, uno rosso e l’altro nero. Questo perché Chrisha era così tanto impazzito che non s’era reso conto che il colore del sangue di Shiōkami era nero e non rosso come, invece, aveva creduto.
 
Lui non era più un pettirosso.
 
Lui poteva salvarsi, ma non lo voleva più.
 
Tra le urla e gli strilli di dolore, Alice non riuscì a contenersi. Gli accarezzò il volto e piangendo gli disse un’ultima cosa. «Ora cosa faccio? Svegliati, ti prego. Devi concludere la tua poesia. Devi finirla e devi pubblicare la tua storia. Ti scongiuro, apri gli occhi.»
 
Inutile dirvi che…non li aprì mai più.
 
 
 
 

 
 
 
Del ragazzo mascherato non ebbi più alcuna notizia, era come scomparso nel vuoto per sempre. Qualche settimana dopo sono andata allo studio di mia sorella, era bellissimo, non tornai a casa per almeno un anno e addirittura Giulia era venuta a trovarmi qui a Parigi.
 
Le cose dopo la morte di Chrisha sono andate bene, ho ripreso a dipingere alimentata dal dolore, ho iniziato a scrivere anche poesie e fare sculture. Tutto ha cominciato ad avere un suono diverso, ho imparato il francese e abbandonato l’accademia per dedicarmi alle mostre di pittura qui in città. Sono tornata soltanto da un mese qui in Italia e ho avuto così tante cose da raccontare alla mia psicologa che mi ha consigliato di farci un libro. Vorrei solo lui potesse leggere, ma così non può essere.
 
Lui non c’è più e fa male. Tanto male.
 
Spero che, ovunque lui sia, riesca a sorridere come ha sempre fatto.
 
Addio pettirosso, vola libero in cielo.
 

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