Hollow Night

di whitemushroom
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il ragazzo speciale ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Il ragazzo speciale ***


C’era una volta un ragazzo.
Cioè, forse di ragazzi ce ne sono stati un bel po’ nella città di Shefford, ma quel ragazzo si sentiva speciale. Non che questo fosse una novità -quale dodicenne non si sente speciale, dopotutto?- ma lui adorava essere diverso.
Il primo motivo, era che la gente in fondo vive per parlare male degli altri. Da quando era arrivato nella “Casa del Ragazzo di San Francesco” parlavano tutti alle sue spalle, sia i preti che gli altri ragazzi. Quando era nei paraggi smettevano subito, ma lui lo sapeva che dicevano cose sul suo conto. Lo guardavano sempre, anche quando mangiava il porridge a mensa o pestava a morte i formicai.
E in fondo a lui piaceva che lo guardassero. Se lo guardavano tutti, magari anche dei nuovi genitori lo avrebbero guardato, come quelli che avevano guardato Tom, Grace e Gideon, e li avevano portati nelle loro case col giardino e magari anche un cane.
Il secondo motivo … beh, la gente pagava per vedere qualcosa di speciale. La sua fama un po’ sinistra e qualche trucco di prestigio imparato dal barbone che veniva a mendicare nella cappella, non gli serviva molto altro. I più grandi scommettevano il pane e persino la tavoletta di cioccolata della domenica che non sarebbe riuscito ad indovinare quali carte avessero pescato, ma lui le azzeccava sempre. Aveva pure vinto un bicchiere di whiskey ad Alfred, il più grande della Casa che nessuno aveva mai voluto.
Il terzo motivo, quello più importante, era che se non fosse stato speciale non avrebbe mai conosciuto Sammy.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


“Hai mai pensato a come sarebbe il mondo se tutte le armi si trasformassero di colpo in fiori?”
Njal si voltò, preso alla sprovvista dalla domanda.
Se al loro arrivo sull’isola aveva già intuito che sarebbe stata di tutto, fuorché una vacanza all’insegna del riposo, in quell’esatto momento, con la folla che sembrava un unico essere vivente pronto ad inghiottirli, il pensiero principale era che gli sarebbe servita una vacanza per riprendersi dalla vacanza. Qualunque santo stessero festeggiando in quel minuscolo comune dell’isola era riuscito a richiamare più gente di quella che aveva visto spintonarsi al molo di Napoli.
E qualunque demone avesse convinto Astrid a trascorrere un paio di giorni sull’isola di Ischia dopo la gara per un weekend romantico doveva aver volontariamente trascurato la confusione, il rumore, la gente che urlava per strada senza alcun motivo logico e la musica ad alto volume che usciva da qualsiasi edificio avessero avuto la sfortuna di superare. Da ogni locale una musica diversa sembrava uscire fuori per sovrastare le altre, col risultato che le note e le voci si erano trasformate dopo mezz’ora in una gigantesca cacofonia; le casse di una giostra gigante, montata in fretta e furia in una delle tante, minuscole piazze, si erano aggiunte al tutto promettendogli il miglior mal di testa degli ultimi diciotto anni.
La propria faccia, riflessa nel vetro un po’ opaco di uno dei tremila ristoranti di pesce, aveva qualcosa di vagamente disperato. Non avrebbe scommesso nemmeno un centesimo che sarebbe stata Astrid, tra loro due, a reggere meglio l’impatto. Sospirò, avvicinandosi a lei prima che l’ennesimo signore sovrappeso li scaraventasse sulle sedute in pietra che decoravano l’ingresso al castello. “Prima o poi mi spiegherai come riesci a pensare a cose del genere …”
“Non saprei. Ma mi era venuto in mente e te l’ho chiesto” disse lei. Il cartoccio unto pieno di fritti che doveva essere la loro cena si era magicamente ridotto di metà, e i polpastrelli appiccicosi e carichi d’olio della sua ragazza contro la sua mano erano una chiara prova di colpevolezza.
Non che gliene facesse una colpa, ovviamente. Era stato lui l’idiota a lasciarle il prezioso bottino nella sciocca illusione che sarebbe rimasto intatto.
Se non avesse dovuto affrontare la folla contromano per andare a prendere un secondo cartoccio sarebbe stato più che contento di procedere con l’acquisto e, perché no, a concludere con uno di quei gelati giganti che un gruppo di ragazzi lì vicino sfoggiava con esuberanza.
“Dai, stai facendo una faccia!”
Astrid gli diede una sonora gomitata “Finalmente un po’ di vita!”
Di certo vi era più gente su quell’isola sperduta che a Rekjavík durante gli assalti dei turisti.
Quando il loro allenatore aveva annunciato che la loro prima gara in trasferta sarebbe stata in Italia, Astrid aveva trasformato tutte le ore seguenti agli allenamenti in una serie infinita di foto, mappe, mete che avrebbe assolutamente dovuto visitare, senza contare i vocali whatsapp di una sua amica che era stata a Napoli e le aveva descritto per filo e per segno tutti i locali dove era andata a mangiare la pizza le cui indicazioni si erano rivelate incredibilmente imprecise in una città che probabilmente da sola contava dieci volte più abitanti dell’intera Islanda. Avevano promesso solennemente al loro coach che si sarebbero concessi degli strappi alla dieta soltanto dopo la gara, e non appena avevano intascato la loro meritata qualificazione si erano aggirati per le strade della città scegliendo i pasti in base ai profumi migliori.
Quella piccola isola di fronte a Napoli non faceva eccezione, anche se in fondo vi erano andati soltanto perché Astrid aveva terribilmente insistito.
Per carità, a Njal non dispiaceva quella costante aria di festa, ma alle lunghe quel brusio perenne e la sensazione di aria chiusa persino all’aperto gli facevano girare la testa. “Ma se andassimo a vedere i fuochi da qualche altra parte? Qui se ci danno un’altra gomitata ci sfracelliamo sugli scogli …”
“Uff, e va bene …”
Gli restituì il cartoccio, ormai vuoto. “Però solo se me ne compri un altro”.
“Sai che era anche la mia cena?”
“Lo dici sempre tu che non devi esagerare col fritto. Io ti ho fatto un favore!”
“Se non entri nei pantaloni non voglio saperne niente!” rispose, per poi prenderla per mano e farsi strada nella calca.
I minuti successivi furono un delirio. Almeno un centinaio di persone si era compresso lungo delle cancellate improvvisate per ascoltare un gruppo di cantanti e soprattutto fissare una signora che ballava su un palco a picco sul molo, e altrettanti stavano fotografando il castello incuranti di intralciare il passaggio. Almeno un paio di volte rischiò di perdere la presa sulla piccola mano di Astrid.
Tornarono al negozio e per sicurezza comprarono tre cartocci e due tranci di pizza, giusto per essere sicuri di tornare in albergo a stomaco pieno. Njal gettò un’occhiataccia al ragazzo al bancone sorprendendolo a fissare con troppa attenzione il sedere della sua ragazza, e fu grato all’universo quando riuscirono ad allontanarsi abbastanza dal fiume di turisti.
Il punto che aveva adocchiato era un piccolo arenile a pochi minuti a piedi. Ci erano passati quella mattina, e lo aveva notato perché gli era sembrato strano che intere famiglie si accalcassero su quella lingua microscopica di sabbia per far fare il bagno a dei bambini in un’acqua dove a pochissimi metri ormeggiavano le barche. Aveva però una visuale ampia sul castello, e senza dubbio tutti lo avrebbero ignorato per andare alla sagra. Infatti, a parte qualche bottiglia di birra abbandonata, la piccola spiaggia era deserta.
“Voglio vedere i fuochi dallo scoglio!” dichiarò Astrid, mollandogli di colpo la busta col cibo per levarsi le scarpe. Il ragazzo replicò il gesto, ritrovandosi con le mani piene e con i piedi in acqua in pochissimi secondi.
La cosa che aveva colpito sia lui che Astrid in quei giorni era la temperatura del mare. In Islanda mettere i piedi nell’acqua dell’oceano sarebbe stato impensabile per via delle onde, ed era così fredda che faceva passare la voglia persino a sua madre, che pure non amava lavarsi con l’acqua calda. Invece lì le onde al massimo arrivavano al suo ginocchio, ed anche in quei primi giorni di settembre l’acqua era piacevole nonostante mancassero pochi minuti a mezzanotte. In alcuni punti la sabbia non era molto gradevole al tatto -dei fastidiosi sassolini finivano per ferirgli la pianta dei piedi- ma ignorò la sensazione per raggiungere lo scoglio prescelto da Astrid e vi si arrampicò. “Visto? Si sta meglio lontani da tutta quella gente!”
“A me non dispiace la confusione. Però anche così non è male!” rispose. Gli riprese i cartocci dalle mani e si appoggiò a lui, mettendogli la testa sulla spalla. “Per essere una cosa che hai scelto tu, è pure romantica!”
“Udite, udite. Oggi, otto settembre duemila diciannove, Astrid Arondóttir dichiara che Njal Njalsson ha fatto qualcosa di romantico. Popoli, scrivete questa data e tramandatela ai vostri figli, perché un evento simile sancirà l’inizio di una nuova era!”
“Sei un cretino …”
“Domani i cieli si oscureranno, il sole si farà nero ed una immensa notte calerà sul mondo. Ma sarà un evento rapido, perché già dalla sera Njal avrà fatto qualcosa che Astrid troverà rozzo e poco romantico, e dunque, gente dell’Italia, ammirate la giornata di domani perché non ve ne saranno altre!”
Nonostante il buio, il broncio di lei era chiaramente ben percepibile “Però te la vai proprio a cercare!”
Per tutta risposta Njal le diede un bacio sui capelli e le mise un braccio intorno alla spalla, mentre con l’altra mano cercò di espugnare la cena.
Poi qualcosa alle loro spalle.
Un tonfo leggero, qualcosa che entrava in acqua. Njal probabilmente nemmeno vi avrebbe fatto caso se Astrid non si fosse voltata con un leggero tremito.
La figura illuminata quasi per errore dalla luce di un lampione distante era a meno di un tiro di sasso da loro. Era un uomo, alto, con delle spalle larghe che giocavano uno strano contrasto con l’abito che a prima vista sembrava molto più elegante della media dei turisti. I lineamenti erano avvolti nel buio, ma uno scintillio catturò la sua attenzione, come se metà del volto fosse coperto da qualcosa di metallico. Sobbalzò leggermente quando lui e Astrid si voltarono, come se fino all’ultimo avesse sperato di non essere notato. Lo sguardo del ragazzo corse alle mani del nuovo venuto, ma non impugnava nulla che potesse ricordargli un’arma.
“Devo davvero essere invecchiato per farmi scoprire così …” disse l’uomo, avanzando di un altro passo nella loro direzione, ormai in acqua fino ad oltre le caviglie “… quindi direi di risparmiarci le formalità”.
Il suo inglese era impeccabile.
Al pensiero che l’uomo li stesse seguendo Njal si protese in avanti, puntando i piedi sullo scogli e mettendosi davanti alla sua ragazza. “Perché non te ne vai a infastidire qualcun altro?”
“Per tua fortuna, ragazzo, non ci metterò molto”.
“Nemmeno io, se è per questo” ringhiò Njal. “Vattene subito o ti gonfio”.
Scese dallo scoglio senza preoccuparsi di scivolare. Gli venne addosso, incurante del fatto che l’uomo lo superasse in altezza di almeno una testa. L’altro aveva lo sguardo puntato solo verso Astrid, e questo gli fece salire ancora di più il sangue alla testa. Lo caricò per spingerlo indietro, ma quando andò ad afferrarlo per la camicia quello nemmeno si mosse; diede una seconda spinta, ma gli sembrò di provare a smuovere una colonna di cemento. L’altro non fece nemmeno un passo nella direzione opposta, e quando Njal cercò di rifilargli una spallata quello si spostò e per tutta risposta si sentì il gomito piantato nella schiena. Ebbe abbastanza equilibrio da non cadere a faccia in giù nell’acqua, ma per tornare in piedi impiegò pochi istanti che bastarono all’uomo per salire sullo scoglio ed allungare una mano. Astrid mandò un grido e per un attimo il ragazzo sperò che qualcuno dalla strada potesse sentirla, poi si buttò di nuovo verso l’altro, stavolta afferrandolo dalle spalle “Levale le mani di dosso, maniaco di merda!”
Gli rifilò un calcio per colpirlo alle caviglie, ma quello si mosse ed il suo piede colpì il polpaccio. Ancora una volta gli sembrò di colpire la pietra, ma ignorò il dolore. Cercò di fare leva appoggiandosi allo scoglio, e quando la sua mano trovò un sasso coperto di alghe abbastanza grande, cercò di colpire l’uomo in faccia. L’altro perse la presa su Astrid e fu costretto a lasciarla andare per parare il colpo; con l’altra mano afferrò il ragazzo per la maglietta, e si ritrovò a perdere la presa sull’arma improvvisata. L’aggressore lo tirò a sé, e a quella distanza Njal vide con precisione un baluginare rossastro nelle sue iridi.
“Sei tenace, ragazzino. Te lo concedo”.
Lo colpì un profumo strano, come qualcosa di buono cotto sotto la cenere. La sensazione fu così improvvisa che il ragazzo si trovò per pochi istanti senza fiato, come se un ricordo lontano gli fosse entrato nella testa con un battito d’ali. E forse fu per quell’attimo di distrazione che si accorse troppo tardi dei denti acuminati dell’uomo.
Fu lui stesso a gridare, ma i fuochi d’artificio coprirono la sua stessa voce

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Padre Tsekani se ne stava in macchina, la schiena dritta, le mani strette sul volante. Guardandosi nello specchietto retrovisore capì perché in tanti colleghi lo soprannominavano “il mastino”, ovviamente convinti che lui non li sentisse. Il volto squadrato, la pelle scura, le mascelle serrate ogni volta che qualcosa lo infastidiva; i capelli, già quasi tutti bianchi nonostante l’età, lisci e portati all’indietro sul lato destro per nascondere un bruttissimo inizio di stempiatura. Il fisico imponente in costante tensione, di cui spesso anche i conoscenti migliori avevano timore come se potesse di colpo scattare e fracassare il capo di qualcuno. Non aveva passato da molto i trent’anni, ma ammetteva a se stesso che forse la vita da esecutore aveva contribuito a farlo sembrare molto, molto più grande.
Odiava il traffico. Tutte le volte che veniva a Roma era sempre la stessa storia. Le poche volte che aveva provato a prendere un autobus aveva sentito la propria fede vacillare; non che il traffico gli giovasse, ma quantomeno poteva prendersela soltanto col cambio della macchina e con i pedali. La sua mente volò per qualche istante a El-Gebal, il suo paese natale, dove ancora la gente faticava ad acquistare un’automobile ed aveva imparato ad andare a piedi ovunque. Anche lui adorava camminare ed in molte missioni era stato persino invidiato per la sua resistenza, ma in quella maledetta città sembrava impossibile fare una sana passeggiata senza rischiare la vita ad ogni incrocio.
La nostalgia di casa stava per prendere il sopravvento, quindi scrollò la testa per cacciare il pensiero fuori luogo; si concentrò sull’unica cosa bella a disposizione in quel momento, ovvero l’azzurro meraviglioso del cielo. Il mese di settembre trasformava quella città in quadro vivente, una strana tavolozza dove il cielo era l’indiscusso capolavoro di Dio. Aveva viaggiato in almeno venti paesi diversi, e nessuno poteva vantare un azzurro del genere, dove le rare nuvole bianche sembravano perfette per immaginare le figure più disparate. Il caldo non era più così insopportabile come nei mesi passati, e se avesse risolto il lavoro prima dei tempi stabiliti -aveva avuto modo di toccare con mano in passato che i colleghi della capitale tendevano spesso a perdersi in quisquilie- si sarebbe potuto permettere un fine settimana in città da trascorrere soltanto su un prato a pancia all’aria, a contemplare quel cielo meraviglioso prima dell’arrivo dell’ennesima missione.
Girò intorno a Villa Pamphili sette volte prima di trovare un buco che potesse fungere da parcheggio. Nel dedalo di vie di erano decine di automobili ma pochissime persone a quell’ora, al massimo un signore intento a fare jogging che per evitarlo lungo lo stretto marciapiede per poco non finì investito.
“Padre Tsekani, meno male che è arrivato!”
Dalla rientranza del cancello del palazzo fece capolino la testa di Padre Samuel. Le poche volte che Tsekani Kaudry aveva incontrato il giovane sacerdote era sempre stato per situazioni che definire “spiacevoli” sarebbe stato un eufemismo.
Non che fosse colpa del ragazzo, s’intende.
“Come è la situazione?”
“Pessima, ovviamente!”
Il sacerdote si sistemò il crocifisso al collo, ed al suo gesto nervoso anche Padre Samuel lo emulò, pur senza nascondere un velo di sudore. “Come dire … ci sarebbero delle pressioni …”
“Samuel, portami nell’appartamento e risparmiami i dettagli per dopo!”
Il giovane scattò come punto da una vespa, e con una serie di scuse a bassa voce si limitò a fargli un gesto e si incamminò.
L’attico si trovava in uno dei tanti palazzi della famiglia Pontieri. L’antico nome non serviva certo ad impedire alle macchine di parcheggiare in doppia fila davanti al portone, ma ad ogni passo Padre Tsekani sentì i propri circuiti magici attivarsi fino a pizzicargli alla base del cranio. Attraversò un piccolo cortile con un albero di mandarini al centro, e quando lui e Samuel fecero per prendere l’ascensore vide altri tre sacerdoti scendere dalle scale e scoccare loro uno sguardo indecifrabile.
Padre Tsekani sospirò. Gli esecutori come lui erano mal visti anche dai loro stessi sottoposti, e probabilmente se Padre Samuel non era ancora scappato lontano da lui a velocità folle era solo perché aveva ricevuto ordini irrevocabili.
La prima cosa che lo colpì fu la sensazione di freddo che lo colpì non appena le porte dell’ascensore si aprirono. I circuiti magici iniziarono a vibrare in maniera consistente, e d’istinto l’uomo portò la mano lungo la tunica nel punto in cui sentì la rassicurante presenza di un coltello da lancio; qualunque ne fosse l’origine, era chiaro il motivo della sua chiamata.
L’appartamento dei Pontieri occupava tutto l’attico, e un immenso balcone ricco di piante colpì subito lo sguardo del sacerdote. Le pareti dell’ingresso erano letteralmente coperte da librerie traboccanti di tomi di ogni forma, e l’enorme tavolo in avorio probabilmente era costato più di tre mensilità dell’esecutore.
“Per di qua” fece Padre Samuel, stringendosi nella tunica nera cercando allo stesso tempo di mantenere un’aura di compostezza. “È nello studio. Nessuno ha toccato nulla”.
L’uomo si morse il labbro, poi sorpassò il collega più giovane e mise piede nella stanza. Le trame della magia in quel luogo erano più concentrate che altrove, e si costrinse a fare un bel respiro ed a fare un passo all’interno.
Un uomo giaceva riverso a terra, riverso in una pozza di sangue. L’esecutore portò le labbra al proprio crocifisso prima di avvicinarsi. Intorno al corpo erano tracciati dei simboli sul pavimento, iscritti con gessi di colore azzurro e bianco; le sue conoscenze di magia erano scarse e limitate ai principali simboli da evitare sul campo di battaglia, ma riusciva a comprendere che al momento erano inattive. Purtroppo il malcapitato riverso a terra non aveva potuto dire la stessa cosa.
Era un uomo avanti con l’età, gli avrebbe dato tra i sessanta ed i settant’anni. I capelli, quasi tutti bianchi, ricadevano un po’ radi su un viso segnato dalle rughe. Gli occhi, spalancati, erano di un azzurro molto chiaro. Per sollevare leggermente la testa del malcapitato fu costretto a spostare un curioso cappello a borsalino color marrone chiaro, uno dei pochi indumenti che non erano sporchi di sangue.
“Ci siamo permessi soltanto di prendere dal cappotto della vittima i suoi documenti” disse Padre Samuel “Si chiamava Antonio Zurlì”.
“Qualcuno ne ha denunciato la scomparsa? Era legato ai Pontieri? Ai magi?”
“Stiamo ancora indagando”.
Padre Tsekani osservò il corpo dell’uomo. Indossava un cappotto lungo dello stesso colore del cappello, e appoggiandovi sopra le mani se le ritrovò invischiate di sangue.
Non ebbe il coraggio di guardare lo stato della camicia.
Non servivano le sue conoscenze di esecutore per capire che il signor Zurlì fosse stato ucciso da quelle rune iscritte a terra; ed il fatto che si trovasse negli appartamenti di Angelo Pontieri, uno dei pochissimi magi al diretto servizio della Santa Sede, non migliorava certo la situazione. “Cosa dichiara il padrone di casa?”
“Ehm …”
Si pentì di aver fatto la domanda l’istante successivo. Padre Samuel era un giovane esecutore promettente, ma il suo modo di squittire o di evitare le domande dirette erano il preludio alla vera tempesta in arrivo. “Per quel che riguarda la questione dei Pontieri … uhm … ecco, Padre Whiteflame ha detto che deve conferire soltanto con lui”.
Trovato il problema.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Nei numerosi anni di servizio come esecutore, Padre Tsekani aveva imparato ad osservare. E osservare gli amici ancora più dei nemici.
Gli uffici dei propri superiori, ad esempio, già anticipavano le missioni che avrebbe ricevuto. Un computer piuttosto che un libro sulla scrivania. Il crocifisso appeso alle spalle della seduta o di fronte, oppure la presenza o l’assenza di un tappeto. Tante volte i suoi colleghi sostenevano che avesse uno speciale “fiuto” per i problemi in arrivo, che si abbinava spesso alla sua immagine di mastino.
Quando Padre Samuel gli aveva detto l’ubicazione dell’ufficio di Padre Whiteflame, per un attimo l’esecutore aveva pensato ad uno scherzo, ma il ragazzo lo aveva accompagnato fino all’entrata del capolinea della metropolitana.
“Gli dia questo” disse Padre Samuel, dandogli un bicchiere di carta con del caffè.
“Lo mette di buon umore?”
“Mettiamola così: evita che peggiori”.
L’esecutore passò i tornelli, mentre l’altro rimase in attesa. Scese le scale mobili, ancora poco convinto. Arrivato sulla banchina si guardò intorno, immaginando di trovare un ingresso celato da rune mescolate ai graffiti delle pareti -non sarebbe stata la prima volta, specie nella capitale- ma quando lo sguardo si posò sul treno in attesa, pronto a partire, vide oltre il vetro lo sguardo del suo superiore e si costrinse ad un rapido salto prima che le porte automatiche gli si chiudessero alle spalle e la metropolitana partisse senza di lui.
Diverse persone viaggiavano in piedi, eppure il posto vicino a Padre Whiteflame era vuoto. Padre Tsekani si sedette, sospirando per lo spazio strettissimo e per il turista sovrappeso che lo schiacciò contro la figura ossuta dell’esecutore più anziano. Gli passò subito il bicchierino, e quello trangugiò il contenuto in un istante.
Aveva avuto pochissime volte a che fare con quell’uomo, e in tutte ne era uscito con una fastidiosa sensazione di malessere. Non aveva superato i cinquant’anni, ma l’espressione torva talvolta gliene dava anche venti di più. I capelli e la barba scurissimi iniziavano a mostrare adesso qualche spruzzo bianco, ma il cappuccio calato fino a metà della fronte non faceva indovinare se avessero anche iniziato a cadere. Al posto del crocifisso d’ordinanza l’uomo portava un pendente dalla forma insolita, uno strano quarto di cerchio dorato che pendeva da un filo di corda; non ne aveva mai capito il senso, ma il suo superiore era famoso per dei comportamenti che ad altri sarebbero costati il posto, se non anche il memento.
“Angelo Pontieri è scomparso”.
L’esecutore anziano era più basso di lui, almeno di una testa. Con il capo coperto dal cappuccio e la posizione leggermente china, era impossibile leggerlo in volto.
Padre Tsekani si chiese se tutto, dal luogo alla posizione, non fossero una manovra per metterlo in difficoltà. “Un magus della Chiesa non sparisce come una moneta da un centesimo” replicò. “Immagino abbiamo tracciato i suoi movimenti”.
“Con il suo argume non andrà più lontano della prossima fermata, Padre Tsekani. Se avessi traccia dei suoi movimenti ora sarei in chiesa ad ascoltare i vespri. O, molto meglio, sarei nella mia cella a dormire”.
Erano passate circa tre stazioni davanti a loro, e ad una il vagone si riempì di gente. Un intero gruppo di adolescenti entrò gridando canzoni a squarciagola e con la musica al massimo. Passò anche un signore anziano e d’istinto fece per alzarsi e cedergli il posto, ma un pizzico violento dell’altro lo inchiodò sulla sedia. Per un attimo le reti incantate dei loro corpi cozzarono come scintille, e non osò muoversi. Per fortuna un giovane uomo dai capelli tinti di un azzurro improbabile si alzò, cedendo il passo al vecchio e levandolo dal cocente imbarazzo.
“I casi sono tre” mormorò, insicuro che l’altro potesse sentirlo “O non vuole farsi trovare. O qualcuno non vuole che lo trovi. Oppure …”
“Ecco, evitiamo di finire sulla terza ipotesi. Per quanto non so quale delle tre sia la peggiore”.
Padre Tsekani rimase in silenzio.
La faida contro i magi esisteva dalla nascita di Santa Madre Chiesa. Qualcuno ipotizzava anche da secoli prima, ma le documentazioni erano davvero minuscole e l’esecutore non si era mai considerato un vero esperto di storia.
Il Signore aveva lasciato parte di sé nel mondo. Guglielmo di Champeaux, nelle sue lettere a Ugo di San Vittore, l’aveva definita come la firma di un pittore nell’angolo del suo capolavoro, il segno del passaggio dell’universo dal mondo trascendente del Creatore al mondo particolare ad ai suoi accidenti. Ramon Llull aveva cercato tracce di questa essenza divina consultando anche la fede e la cultura araba, tracciando nei suoi viaggi di conversione ogni segno, ogni passaggio di questo potere; molti dei suoi scritti avevano illustrato quanto questa energia fosse conosciuta e rispettata nella fede ebraica, non in quanto reperti scritti ma nel rispetto di quelle figure, uomini e donne che potessero “sentirla”.
Per secoli l’avevano chiamata, proprio in onore di Guglielmo di Champeaux, la Firma. La Chiesa aveva cercato di avvicinare tutti coloro in cui essa si manifestava, di trovare in loro la via che avvicinasse al pensiero trascendente della vera Creazione; era stato a partire del Quindicesimo Secolo -o Sedicesimo, anche lì le sue conoscenze storiche talvolta avevano dei terribili scivoloni- che avevano compreso ed accettato la totale casualità di questo dono, che poteva per intere generazioni rimanere nel sangue delle famiglie o svanire del tutto, che poteva svegliarsi un giorno -Giovanna d’Arco forse era stato il caso più famoso passato alla storia- e poi svanire come una minuscola fiamma spenta dal vento, ineffabile come Colui che l’aveva lasciata, preziosa come il Suo dono.
Padre Tsekani l’aveva sempre sentita permeare il suo corpo. Una forma di energia che scorreva da un dito all’altro, come un circuito elettrico. Come tanti altri suoi colleghi, l’aveva percepita come del calore, talvolta flebile come un formicolio, altre volte esteso come un incendio. Poteva percepirla nell’aria, respirarla, sentirla proprio come l’aver appena ammirato un quadro meraviglioso e riconoscendone l’autore. Darle forma … era un altro discorso. Più complesso.
Più pericoloso.
La Firma scorreva tra le cose che il Creatore aveva lasciato nel mondo. Libera, pura, la sua stessa presenza non aveva mai causato problemi agli esseri umani. L’intera Chiesa l’aveva sempre conosciuta e trattata nell’unico modo in cui si potesse trattare un legame simile: rispetto.
Purtroppo, come tutti gli esecutori sapevano bene, il rispetto non era mai stato la caratteristica migliore del genere umano. Come la prima moneta di bronzo creò il primo ladro, così il primo calore della Firma creò i magi. Con l’unico scopo di ottenere potere e capacità oltre i comuni mortali, uomini e donne di ogni epoca avevano inventato migliaia di tecniche per incanalare l’energia della firma come acqua nei canali, incuranti delle piogge incessanti e delle inondazioni. Avevano studiato la materia nel dettaglio per imbrigliarne dentro l’essenza che riconduceva alla Creazione; come per mettere le redini ad un cavallo selvaggio, avevano forzato quella potenza per gli usi più svariati, ignorandone la sacralità. Nei secoli la Chiesa ed i suoi esecutori si erano battuti per impedire che la Firma venisse scempiata, abbattendo tutti i magi che usavano un simile dono per sottomettere il prossimo e compiere le azioni più aberranti; non erano riusciti ad impedire che formassero circoli e scuole in cui riunire il loro pensiero malsano, e a partire dal Diciannovesimo Secolo erano stati costretti a tollerarli come entità autonome, senza però smettere di dare la caccia a coloro che minacciavano il benessere della collettività con le loro ambizioni. E, purtroppo, era chiaro che per poter intercettare ed abbattere dei magi, fossero necessari altri magi.
Gli incantatori al servizio della Chiesa erano pochissimi, selezionati, e la loro fedeltà a Roma non poteva essere messa in discussione. Talvolta guidavano di persona le missioni degli esecutori, ed il loro influsso nella Santa Sede rivaleggiava con quello degli arcivescovi.
La sparizione di uno di questi magi assumeva un aspetto drammatico. “Vuole che ritrovi il nobile Pontieri?”
“No, vorrei che tingesse i capelli di rosa e ballasse in mezzo a questo vagone … CERTO che questa è la sua missione”.
Se c’era una cosa per cui Padre Querquen Whiteflame era ancora più famoso della mancanza di empatia, era la mancanza di ironia.
Alla fermata successiva, la metropolitana sembrò scoppiare. L’uomo anziano seduto davanti a lui ormai era sparito alla vista, seppellito da persone e valigie enormi; due ragazzetti cercarono di entrare spintonando tutti, e per poco il ragazzo dai capelli azzurri non gli cadde addosso, insultandoli in tedesco.
Adesso anche l’odore di sudore si stava facendo insopportabile. “Sono un esecutore, non un investigatore. Sono convinto che nella Santa Sede vi siano persone molto più qualificate di me in maniera, e so di esserle mai stato molto simpatico” fece Padre Tsekani, ormai irritato. “C’è qualcosa che ancora non mi ha detto”.
“Non è mia abitudine assegnare incarichi in base alle mie simpatie personali. Anche perché non posso mettere le mie piante a capo di un manipolo di esecutori, dunque mi ritrovo costretto ad affidarmi ai report delle vostre missioni”.
Per un istante la sua testa scattò verso l’alto, rivelando parte del naso, del mento, e le labbra corrucciate. Qualcosa doveva averlo disturbato, perché portò di getto la mano sullo strano quarto di cerchio che indossava. Padre Tsekani cercò di guardarsi intorno, ma nella moltitudine di passeggeri non gli parve di notare nulla di sospetto o anomalie.
“Il ritrovamento di Angelo Pontieri sarà la priorità di tutto il nostro ufficio. La moglie sta facendo incredibili pressioni, e per mia sventura qualcuno ha detto a quella donna che sono il principale referente dell’indagine. Dunque, per il bene dei miei timpani, lei risolverà questa incombenza per me, Padre Tsekani. Le sue competenze ed i suoi anni di servizio sono ciò di cui ho bisogno”.
“E la vittima? L’uomo trovato in casa di Pontieri?”
L’altro sollevò le spalle “I morti sono morti. Preoccupiamoci che i vivi non lo diventino”.
“Non sono d’accordo”.
Bastarono quelle parole a far irrigidire le spalle del suo superiore. “Qualcuno starà cercando quel Zurlì. Dovremo dare delle spiegazioni”.
“Molta gente scompare misteriosamente. Ha idea di cosa voglia dire un cadavere di un civile nell’appartamento di uno dei nostri?”
“L’ennesima pubblicità negativa per la Chiesa? Talvolta mi domando se non ce la andiamo un po’ a cercare …”
Stavolta l’altro si voltò del tutto, mostrando le sue iridi marroni cariche di irritazione. L’esecutore anziano era famoso per le sue esplosioni d’ira -Padre Samuel gli aveva raccontato di averlo visto con i suoi occhi scagliare un incensiere ancora fumante contro un suo stesso superiore- ma c’erano alcune cose che Padre Tsekani non avrebbe concesso a nessuno, nemmeno ad un uomo di quel calibro.
“Lei si limiti a fare il bravo mastino ed a portarmi chi le sto chiedendo”.
“Già, immagino non ci sia nessuna famiglia nobile a richiedere giustizia per il povero Antonio Zurlì. Nessuna moglie altolocata, nessuna pressione dall’alto. Solo un signore anziano che dimenticheremo tra un paio di settimane”.
“Proprio così”.
La mano ossuta dell’altro si serrò sul pendente. Per un attimo Padre Tsekani ebbe l’impressione che, se non ci fosse stata tutta quella folla, l’uomo se lo sarebbe staccato dal collo e glielo avrebbe spinto su per il naso. Ma per quello che gliene importava, a quel vecchio avvoltoio potevano esplodere le coronarie. Avrebbe dato la colpa all’eccesso di caffè. “Lei faccia ciò che le viene chiesto. E, poiché il suo buonismo sta contribuendo alla mia gastrite, sarò ancora più breve. C’è una testimone. La faccia parlare”.
Si alzò, stizzito, e persino uno dei teppisti si fece di lato per farlo uscire. Padre Tsekani si sollevò a sua volta e gli afferrò la tunica, ma la Firma scattò come una scossa; l’altro si voltò, torvo, e bastò quello per aprirgli un corridoio verso la porta nonostante il veicolo fosse pieno da scoppiare. Il signore anziano e il ragazzo dai capelli blu incrociarono per un attimo il suo sguardo, chiaramente incuriositi e spaventati allo stesso tempo. “Mi tocchi un’altra volta e la rispedisco a pulire la merda dei cammelli, Tsekani. Parli con Padre Samuel e si limiti ad eseguire. E rimanete al chiuso”.
All’altezza della fermata S. Paolo le porte si aprirono e l’uomo scese a larghe falcate, tirandosi appresso altre occhiate.
“Alla faccia della segretezza …” mormorò. Si sedette di nuovo. Guardò il proprio crocefisso e mormorò una preghiera, almeno per avere una scusa per non incrociare lo sguardo dei turisti. Una signora di mezza età, seduta di fronte, si segnò il petto.
Uscì due fermate dopo, come da accordi. Trovò Padre Samuel ad aspettarlo sulla banchina, la faccia afflitta e l’espressione di chi avesse appena ricevuto una gran brutta telefonata.
“Doveva proprio contrariarlo?” mormorò, facendo cenno di salire sulle scale mobili.
“Sai benissimo cosa ne penso, Samuel. È l’esempio di tutto ciò che fa schifo, tra di noi. Una telefonata dall’alto e magicamente il mondo inizia a girare al contrario”.
“Sì, ma poi sono io quello a cui urla nel telefono …”
L’esecutore capì che il dialogo non sarebbe andato da nessuna parte. Fu solo molto lieto che, almeno per quella volta, il giovane collega non lo caricasse sull’ennesimo autobus ma gli avesse fatto trovare una vettura d’ordinanza.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


La stanza in cui aprì gli occhi non era molto grande. Delle tapparelle di legno dalla vernice verde scura ormai incrostata erano accostate, e il grosso della luce veniva da due lampade attaccate al soffitto che puntualmente sembravano perdere corrente. Nell'aria c'era qualcosa di disgustoso. Il primo istinto di Njal fu quello di portarsi le mani al viso, come a contrastare una fastidiosa sensazione di bruciore. Era coperto da un lenzuolo leggero, e nel muoversi lo buttò ai piedi del letto su cui chiaramente era stato portato.
Sentì dei passi, e sulla sua destra notò una donna di mezza età, vestita da infermiera, che dopo avergli lanciato un'occhiata si allontanò verso la porta della stanza e disse qualcosa in italiano. Il ragazzo cercò di voltarsi e capire chi altro fosse presente, ma per muovere il collo sentì una fitta che lo costrinse a rimettersi in posizione supina.
Strizzò gli occhi, sforzandosi di capire dove si trovasse; l'ultima cosa che ricordasse era l'uomo dalla strana maschera di metallo, la sua forza innaturale, e soprattutto… “Astrid!” mormorò.
Si accorse di non avere fiato in gola. La voce gli uscì debole, meno di un sussurro. Come se non bevesse da giorni.
Cercò di mettersi a sedere, ma al primo movimento si ritrovò del sapore strano in bocca e tentò di sputarlo.
Sangue.
A giudicare dalla bacinella accanto a lui, non doveva essere il primo attacco.
Gli occhi gli si riempirono di lacrime prima di liberare un secondo, più potente, espettorato. Se non fosse stato per la debolezza, l'odore del sangue e di qualunque schifezza chimica ci fosse nella stanza lo avrebbero fatto rimettere una terza volta. Si portò la mano nella tasca del pantalone e cercare il cellulare, ma non trovò nulla.
“Ehi”.
L'uomo che lo apostrofò arrivò dalla porta, proprio da dove era sparita l'infermiera. Non indossava un camice da dottore, ma la divisa di un uomo delle forze dell'ordine. Njal provò a sollevarsi su un gomito, infastidito dalla figura, ma quello con un gesto gli impose di rimanere sdraiato.
“Come stai?”
Il suo inglese era stentato. Nonostante fosse a pezzi, a Njal non sfuggì la fatica dell'uomo nell’esprimersi. “Dov'è Astrid?” si limitò a chiedergli a sua volta, soppesando il fastidio che sentiva lungo tutto il corpo.
“Di chi stai parlando?”
“La mia ragazza. Era con me”.
Il poliziotto emise un sospiro. Prese il cellulare, chiamò qualcuno e riattaccò dopo nemmeno dieci secondi. Aprì un armadietto dall'altra parte della stanza, e Njal riconobbe le sue cose: il cellulare, le chiavi del B&B, il portafogli, la sciarpa e, ovviamente, il portadocumenti. L'uomo prese l'ultimo oggetto e ne estrasse la carta di identità. “Sei Njal Njaldsson?” “Sì”.
“Nato a Ta…”
“È in Islanda. E comunque sì, sono io” disse. Pochi giorni lontano da casa e aveva visto tutti gli italiani impazzire davanti ai nomi del suo paese. Cosa molto curiosa, visto che Njal poteva dire altrettanto delle loro strade o delle loro chiese. “Che volete? Perché sono qui?”
“Devo farti qualche domanda” fece il poliziotto, sedendosi sul letto vicino al suo e prendendo nota.
“Ricordi dove ti trovavi la notte dell'otto settembre?”
“Non ho fatto nulla di male!”
“Non aggravare la tua posizione, ragazzo. E sdraiati, che non hai una bella cera. Devi solo rispondere a qualche domanda e poi potrai continuare a dormire”. “Non voglio dormire”.
Tutto questo non gli piaceva affatto. Sentiva ancora quel bruciore fastidioso, stavolta irradiato su tutta la pelle, ma allo stesso tempo provava un grandissimo freddo ai piedi. Cercò di arricciare le dita, ma era come se tutti i movimenti fossero svaniti. O, ancora, fossero “strani”.
Njal non era mai stato davvero male. A parte quando si era slogato la caviglia qualche anno prima, durante un allenamento, l'unica volta in cui era stato costretto a letto era stata una brutta influenza intestinale quando era piccolo, complice del pesce andato a male; era stato quasi un mese oscillante tra il letto ed il bagno, aveva perso oltre dieci chili, ma nonostante tutto la sensazione che provava in quel momento era ben peggiore di allora.
Era come se il suo corpo volesse vomitarsi per intero.
Lo sguardo del poliziotto, l'ospedale e gli odori non stavano contribuendo. “Posso chiamare i miei genitori?”
“Per prassi dobbiamo contattarli noi, ma abbiamo guardato nel telefono e non…”
Njal sbuffò di nuovo. Se c'era una cosa per cui era arrivato una volta a litigare con Astrid era stato quando aveva preteso di leggere le sue chat con gli amici. Figuriamoci un poliziotto. Meno male che la sua lingua non era così conosciuta. “Ve lo dico io qual è. Ma Astrid dov'è?”
“La ragazza che hai nominato prima? Non ne ho idea. Se mi dai il contatto del posto dove alloggiate facciamo una telefonata, magari è corsa lì dopo quello che è successo…”
Doveva aver fatto un'espressione assurda, perché tutto d'un tratto il poliziotto cambiò faccia, corrucciando le sopracciglia e mettendo da parte carta e penna. “Ragazzo, hai fatto un casino ieri sera.
I dottori dicono che non eri ubriaco…”
“Non ho bevuto!” ringhiò Njal, mettendosi di nuovo a sedere. Sentì risalire altro sangue, ma lo inghiottì. Nel limite del possibile, cercò di far vedere all'uomo la sua espressione più truce. “Sono uno sportivo, io! Il coach mi ha vietato di ubriacarmi nella maniera più assoluta!”
“E allora, ragazzo, ti chiedo di fornirmi una spiegazione più che sufficiente al fatto che ieri sera ti hanno visto correre durante la festa a Ponte, gridare e insultare in modo sconnesso, e quando un passante ha cercato di calmarti sai cosa è successo?” disse, alzando il tono della voce “Lo hai aggredito e lo hai spinto giù per gli scogli. Non hai idea in che stato fosse. Gli uomini del pronto soccorso non si sono nemmeno pronunciati. Hai idea di quello che vuol dire, Njal?” Il ragazzo si ributtò sul letto e strizzò gli occhi, alla ricerca di ciò non riusciva chiaramente ad afferrare. La folla la ricordava, ma era connessa all'immagine di Astrid, al profumo della friggitoria, alla sensazione di non respirare per tutte le persone intorno a lui. Ricordava benissimo gli scogli, l'attesa per i fuochi artificio, l'uomo…
“La persona che ho spinto… era un signore grosso? Alto? Con una mezza maschera sulla faccia?”
“No” sospirò il poliziotto “Era un turista. Magro, normale…”
Nulla. Si toccò la base del collo, che in quel momento sembrava pulsare come se fosse infetta, alla disperata ricerca di qualcosa che potesse aiutarlo. Lui e Astrid si erano allontanati da quella folla, e gli scogli su cui erano saliti erano così bassi che non avrebbe potuto far male a qualcuno nemmeno volendo… e di certo non aveva bevuto. Ne era sicuro, sicurissimo.
Doveva essere tutto un incubo. Tutto, dall’aggressione sulla spiaggia a quel poliziotto.
Strinse i denti e con un colpo di reni si mise seduto sul bordo del letto, costringendosi ad appoggiare i piedi a terra. Formicolavano in maniera incredibile e tutto intorno a lui ondeggiava, ma si concentrò sulla sensazione fredda del pavimento del pronto soccorso. Guardò verso la bacinella, e si stupì di quanto forte fosse l'odore del suo stesso sangue da poterlo sentire anche a quella distanza. Così come era incredibilmente forte l'odore dei disinfettanti, ed anche quello del dopobarba dell'uomo di fronte a lui. L'insieme di tutto gli fece risalire dell'acido proprio alla base della lingua, mista alla sensazione di una grandissima fame.
Fece forza sulle punte, proprio come faceva per slanciarsi sui pattini, e si alzò in piedi.
Di solito, quando aveva degli incubi, funzionava. Magari doveva solo andare in bagno, forse stava così male perché il fritto non era stato cucinato bene e doveva solo svegliarsi, trascinarsi in bagno, rimettere e sarebbe passato tutto. Purtroppo per lui, la mascella squadrata e gli occhi piccoli dell'uomo vicino a lui non scomparvero affatto, anzi, la figura in divisa divenne ancora più nitida e gli venne incontro, allungando le braccia nella sua direzione. Adesso che si trovavano entrambi in piedi, Njal si accorse che l'altro lo superava di oltre una testa. Si sentì afferrare per la spalla, e d'istinto si allontanò. Fece un passo di lato, ancora tutto intorpidito e timoroso del proprio equilibrio, e questo sembrò prendere l'uomo di sorpresa. Gli tornò ancora in mente, con maggiore intensità, la figura dell'uomo della spiaggia ed i suoi occhi dal colore intenso, imponente come il poliziotto davanti a lui; forse per il ricordo, forse per paura, ma il suo corpo reagì di scatto, spingendo indietro l'altro. Per un attimo si ritrovò ancora una volta in spiaggia, con l'acqua del mare fino alle caviglie, sotto il cielo nero costellato di stelle e delle polveri dei fuochi d'artificio. Aveva ancora nelle radici l'odore del sale mescolato a tutta la sua frustrazione.
L'uomo di legge era più alto e più robusto di lui, ma la spinta doveva averlo rovinato il suo equilibrio, perché cadde all’indietro come una persona di tre taglie inferiori. Rovinò su un comodino e poi sul letto che Njal aveva occupato fino a pochi minuti prima, rovesciando il contenuto della bacinella per terra.
Il ragazzo rimase impietrito, la testa ancora frastornata; il poliziotto lanciò un’imprecazione nella sua lingua e fece per tirarsi in piedi, e le gambe insicure e traballanti di Njal fecero il resto. Le mani scattarono sul letto a fianco, dove il poliziotto aveva esposto i suoi oggetti, e afferrò in un istante tutto quello che c'era. Il cuore e lo stomaco presero a battere insieme, e si lanciò verso la porta della stanza con la voce del poliziotto aggredito che senza dubbio gli stava ordinando di fermarsi.
Sapeva solo che doveva trattarsi di un incubo. Doveva, doveva esserlo per forza.
Prese a correre nel corridoio del pronto soccorso, incurante di tutto ; tra i pensieri sconnessi che battevano come martelli, l'unica idea riusciva a seguire era quella di allontanarsi da lì, trovare un posto in cui stare da solo, fare mente locale e chiamare subito i suoi genitori. Strinse tra le dita il telefono, concentrandosi solo su mettere una gamba avanti. La base del collo gli faceva male più di ogni altra parte, e ad ogni passo sembrava estendersi come la puntura di un insetto. Sapeva che la gente lo guardava, che qualcuno avrebbe provato a chiamare qualcuno, sapeva solo che se il poliziotto fosse tornato lo avrebbe portato in prigione.
Non poteva aver spinto un uomo dagli scogli. Non poteva.
Ma non poteva nemmeno aver spinto un uomo più grande di lui, e invece era in corsa proprio per quello.
Vide delle scale e scese.
Fu un solo piano, ma abbastanza per fargli aumentare le vertigini; un giovane infermiere fece il gesto di volergli correre incontro, e gli dovette scoccare lo sguardo più infastidito che trovava. Da lontano vide una porta a vetri enorme che dava verso un cortile con delle autombulanze parcheggiate. Si costrinse a rallentare il fiato per dare meno nell'occhio; ordinò al proprio stomaco di pazientare, mandando giù saliva e sangue ormai trasformati in un'unica massa, unico obiettivo di entrare nel cortile, mescolarsi alla folla e sparire per le strade di Ischia. Era ancora pomeriggio, ma in quell'isola caotica sarebbe stato semplice dileguarsi. Poi… Poi ci avrebbe pensato.
Forse.
Si buttò in un gruppo di gente, notando che in quel marasma in pochi avevano fatto caso a lui. Doveva solo uscire.
Nell'esatto momento in cui lasciò l'edificio, mettendo piede all'esterno, il mondo parve diventare bianco. Tutto esplose come uno schizzo di luce, e gli occhi presero a bruciare. Si portò entrambe le mani in faccia, cercando di non gridare, ma le dita ed il dorso delle mani scoppiarono di dolore e si piegò in due.
Era pronto a giurare che tutta la pelle stesse andando a fuoco. Ma non solo la pelle: i muscoli gli occhi, qualunque cosa stesse succedendo gli stava entrando nelle ossa. La gente intorno a lui si allontanò, qualcuno andò a chiamare soccorsi, ma Njal si contorse, avvicinando una mano alla guancia anche solo per strappare la pelle e farla smettere. Il reflusso si bloccò a metà della gola, cercò di rimettersi in piedi, ma le gambe non rispondevano più. La base del collo sembrava adesso una collana di spine, qualcosa che avrebbe voluto soltanto prendere e strapparsi di dosso.
Non riusciva più a vedere.
Intuì che delle figure, forse degli infermieri, erano corsi verso di lui, ma questo non riuscì a dargli aiuto.
Tentò almeno di rimettersi in piedi, di immaginare la fuga, ma gli parve di esplodere.
Poi sentì una mano afferrare una delle sue, e qualcuno lo tirò indietro con forza.
Gli parve un tocco meraviglioso, come una boccata d'acqua dopo cinque giorni nel deserto.
“Ragazzo, devi tornare subito dentro!”

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


La vecchia Villa non era molto distante dall’abitazione di Pontieri. Era stata edificata dagli Sciarra, una antica famiglia di magi pontifici, e nonostante il nome della dinastia fosse lentamente svanito nel tempo, l’immenso giardino e gli edifici tra le mura erano da sempre stati sotto la giurisdizione della Santa Sede.
L’autista li lasciò ad uno dei cancelli, e passarono l’ingresso con passo lento.
Entrambi sapevano che avrebbero dovuto aspettare il tramonto.
Padre Tsekani aveva visitato la villa oltre venti volte dalla sua ordinazione ad esecutore, e guidò Padre Samuel verso la sua panchina preferita, dedicando ogni passo a sentire il leggero brecciolino sotto i piedi.
Dei bambini sfrecciavano con le loro biciclette per i viottoli del parco, inseguiti da genitori con gli occhi più fissi sullo smartphone che non sulle prodezze dei pargoli, che spesso per giocare a nascondino si buttavano tra le fontane ormai spente della Villa e sparendo per ore intere. Uomini e donne di ogni età correvano in tuta, spruzzando note di colore tra le antiche mura color mattone, il verde degli alberi e l’azzurro del cielo che ogni volta comprava uno dei suoi rari sorrisi.
La panchina un tempo era stata color verde scuro, ma la vernice era sparita da tempo e rimanevano solo delle scomode assi marroni; dava su una vecchia voliera in ferro battuto, che molti anni prima ospitava volatili di ogni tipo, persino il primo pavone che avesse mai visto. Era stato al suo primissimo ordinamento, e le ore trascorse tra quelle mura erano state così cariche di pensieri, aspettative, paure, che per far scorrere il tempo era andato al chiosco accanto ed aveva nutrito gli uccelli della voliera per oltre un’ora nella speranza quasi infantile che quel pavone giungesse da lui e beccasse dalle sue dita.
Non era venuto, ovviamente. In compenso un cigno nero, grande e cattivo, per poco non gli aveva staccato una falange.
E, adesso, la voliera era vuota. Il chiosco non esisteva più, ed il ferro dell’enorme casa dei volatili aveva assunto un colore quasi nero. Le gabbie interne c’erano ancora, ma l’enorme ciotola dell’acqua era piena di liquido piovano mai più svuotato. Le fontane non erano più attive da almeno un decennio, e il muschio che copriva le statue non era più stato rimosso, donando alla Villa un odore di decadenza, oltre che un aspetto triste. Probabilmente la Santa Sede voleva allontanare i civili da quel posto.
Samuel estrasse un piccolo breviario e glielo porse.
“Padre Whiteflame sostiene che lei potrebbe essere in grado di capirci qualcosa”
Le parole gli furono chiare nel momento in cui aprì il piccolo volume. Non vi erano all’interno preghiere o riflessioni, ma pagine e pagine di scrittura ancestrale. Erano vergate in una grafia elegante, senza la minima sbavatura, e nell’esatto momento in cui le sue dita toccarono la carta la Firma attraversò il suo corpo, scaldandogli i polpastrelli. Era chiaro che la copertina religiosa fosse soltanto uno specchietto per i curiosi.
Si diede un’ultima occhiata intorno prima di aprire. Al contatto delle sue dita il colore dell’inchiostro mutò, diventando in parte scarlatto, in parte di un azzurro chiaro difficile da leggere. La scrittura continuava fissa dalla prima all’ultima pagina, senza nemmeno una illustrazione o anche solo una nota fuori posto. “Non conosco l’ancestrale a questi livelli, ma mi dà tutta l’aria di essere un contratto. E anche uno piuttosto elaborato”.
Sull’ultima pagina la mano fu costretta a ritirarsi. Lungo i fogli le lettere vergate presero a muoversi: quelle rosse scivolarono, trasformandosi in un’unica linea sinuosa dal leggero baluginio, mentre l’inchiostro azzurro si mosse per ultimo, avvolgendosi intorno all’altra per generare un intreccio che diede vita a minuscoli punti azzurri che prese forma persino in aria, come una tenue spruzzata di neve uscita dalla carta stessa. Un’ultima nota nera a bordo pagina si animò quando le altre due avevano già disegnato un piacevole arabesco, e si mosse verso la parte alta della pagina per disegnare una curiosa venatura scura. I tre colori diventarono un corpo unico, lasciando che un’unica parola si formasse sotto i loro occhi.
Poseidon…” recitò Padre Tsekani, concentrandosi sull’energia divina racchiusa nelle pagine.
Rimase forse oltre un minuto così, la parola di comando ancora forte sulla sua lingua come nella sua testa. Un’eco di un potere enorme incatenato dalla volontà di un mago.
Si riprese dopo un po’, e di scatto chiuse la copertina del libro.
“Cosa c’entra questo contratto?”
Padre Samuel era chiaramente in agitazione. Da quando gli aveva posto il breviario in mano aveva preso a guardarsi intorno in maniera peraltro molto sospetta. Il tramonto era iniziato da pochissimi minuti, e le ultime persone civili si stavano preparando a lasciare la Villa. “È della testimone” disse, bisbigliandolo al proprio crocefisso. “È una Fata”.
L’esecutore rotolò gli occhi al cielo.
L’unico magus buono è il magus morto, pensò, ma si trattenne l’espressione tra le labbra. “Pontieri era un contrattista, il migliore della Santa Sede. A casa sua, nella volta di famiglia, abbiamo trovato almeno duecento contratti operativi e quasi il triplo consumati o estinti. Aveva delle Fate attaccate anche al suo dito mignolo, probabilmente” disse Samuel. Il giovane, per qualche motivo, non sembrava riuscire a staccare gli occhi dal breviario.
“E la Fata adesso è qui?”
“Sì. È stata lei a ritrovare ciò che restava del signor Zurlì. Ha seguito i nostri fino alla Villa, ma pare che ci siano stati dei …” tossì, abbassando il tono della voce “… problemi”.
“Problemi?”
“Diciamo di sì. La sua esperienza con le Fate è il motivo principale per cui lei è qui, Padre Tsekani. Padre Whiteflame confida molto nelle sue capacità”.
L’uomo sospirò.
Le prime ombre erano scese nella Villa degli Sciarra; i bambini se ne erano andati da almeno un’oretta e le ultime coppie di anziani avevano attraversato i sentieri di ghiaia dandosi il braccio. Vari cigolii in lontananza annunciavano la chiusura dei cancelli agli ingressi, segnale che l’enorme parco non sarebbe stato disponibile al pubblico prima del giorno successivo.
Nel silenzio innaturale dell’immensa distesa di fontane spente, altalene e panchine rotte, un click li avvisò che l’attesa era terminata.
Si portò davanti all’ingresso della voliera, e con una spinta aprì la porta traforata. La serratura, all’apparenza era un ammasso di ruggine dimenticato dal tempo, si lasciò smuovere senza alcuna difficoltà. Con un ultimo sguardo alla ricerca di qualche coppietta alla ricerca di un’esperienza insolita in un parco pubblico chiuso che potesse scoprirli avanzò dentro la vecchia voliera trascinandosi dentro un titubante Samuel. Girò verso la casa più vecchia, quella che anni addietro era stata la dimora del cigno o del pavone, si abbassò ed entrò; non c’era più l’odore nauseabondo di guano -l’unica cosa per cui lo scorrere del tempo era servito a qualcosa- ma col calare della sera impossibile distinguere un asse di legno dall’altro.
I suoi piedi andarono a memoria: avvertì il sottile rilievo nel pavimento, tra un sassolino di ghiaia e l’altro, e lo spinse finché un secondo click, più leggero, non lo avvisò che la botola era sbloccata. Si chinò, la spinse, e sotto di loro delle scale scendevano per un paio di metri. Fece cenno al suo giovane compagno di entrare, poi lo seguì e chiuse l’ingresso.
I pioli della scala cigolavano, e si chiese se l’ultimo giorno della sua vita si sarebbe concluso in un duello all’ultimo sangue con un magus o con la caduta da uno di quei pioli che chiaramente avevano problemi col suo peso.
Due sacerdoti operativi arrivarono nella loro direzione, li riconobbero e fecero cenno di procedere.
La sede della Villa degli Sciarra era trascurata come l’esterno. I corridoio non vedevano una mano di vernice da oltre due decenni; in qualche angolo la luce delle lampadine sfrigolava, ed i tappeti scuri erano così pieni di polvere che l’uomo si chiese perché non li avessero buttati e basta. Non aveva mai esplorato l’intera struttura, ma sapeva che non era uno dei luoghi preferiti della Santa Sede per ricevere ospiti o trattenere sospettati. L’unico motivo per cui una testimone potesse essere stata portata lì sotto, ragionò, era per impedire che troppi sguardi si posassero su di lei.
“Oh, è proprio il caso di dirlo, Samuel: parli del cane e lo senti abbaiare”
La voce giunse da una delle stanze che avevano superato da pochi passi. Seguì il rumore di una sedia spostata, poi quello di passi cadenzati dal leggero picchiettare di un bastone. Padre Tsekani si voltò, non senza osservare l’espressione scocciata del suo giovane collega.
L’uomo che apparve oltre la soglia indossava una tunica lunga fino alle caviglie, di tessuto pesante, nera come le loro ma portata con un taglio più aderente e stretta in vita a metà del petto; il simbolo dell’ordine teatino, una croce rossa sormontata dalle tre cime verdi di un monte, era incastonata nella fibbia di una cintura scura almeno quanto l’abito. La figura indossava un cappello con una falda larga nonostante si trovassero al chiuso, che contribuiva a darle un aspetto sinistro, almeno quanto il soprabito da viaggio portato su una spalla sola, come pronto a cadere da un momento all’altro. Una mano pallida stringeva un bastone da passeggio con forza, anche se lo sguardo dell’esecutore venne subito attratto da una spilla che scintillava proprio accanto al crocefisso, un diadema di filigrana argentata a forma di occhio dentro cui la figura di un orso color verde scuro sembrava voler uscire dal gioiello ed attaccare chiunque si trovasse davanti al suo padrone.
Fece un paio di passi nella loro direzione, e all’esecutore non sfuggì che il mantello da viaggio copriva una discreta zoppia della gamba destra.
“Sono d’accordo con la saggezza antica, Vescovo. Chi non muore si rivede”
I capelli biondi cadevano in ordine sparso intorno ad un viso incredibilmente sottile, quasi emaciato. La smorfia sul viso era difficile da interpretare, ma l’esecutore si soffermò su un dettaglio: le iridi del suo interlocutore erano di un color verde chiaro strano, lattiginoso, con una pupilla appena percettibile.
“Hai le stesse risposte del vecchio avvoltoio, Samuel. Eppure stavolta non ti trovo appollaiato sul suo trespolo, il che è una novità. Ne desumo che il tuo accompagnatore sia il famoso esecutore del sud”.
Sollevò la mano, mostrando l’anello vescovile, e l’esecutore si chinò per baciarlo. “Padre Tsekani Kaudry. Mi duole non avere l’onore di conoscerla”.
“Le chiacchiere su di lei corrono veloci sotto la Cupola, Padre. È un onore sapere che un uomo del suo valore si trovi con noi a Roma. Un po’ meno un onore sapere che Samuel non mi abbia presentato a lei come si deve …”
Il giovane fece per dire qualcosa, ma si morse il labbro.
“Sono il Vescovo Orbert Vidala. Il mio ordine di origine credo sia chiaro” fece, con un tono di voce casuale indicando il simbolo teatino sul suo vestito. “Sono stato informato della disgraziata vicenda di Angelo, ma la questione della sua testimone credo sia oltre il mio livello di conoscenza e gestione. Mi sono occupato di chiedere al Capitolo un esecutore in grado di gestire la faccenda col minor tempo possibile, e sono contento che per una volta quel vecchio gufo di Padre Whiteflame abbia fatto una scelta oculata. Chi lo sa, magari con gli anni ha iniziato a ponderare meglio le sue scelte
“Al contrario di molte persone, il mio superiore ha occhio nella scelta dei suoi sottoposti”.
L’altro sollevò le spalle e fece un gesto annoiato con la mano libera. “Davvero un repertorio monotono. Più che come operativo, Samuel, staresti meglio dietro una scrivania”.
“Non intendo emularla, eminenza”.
Padre Tsekani poggiò una mano sulla spalla del suo compagno; per un attimo quello fece per scrollarsela, ma lentamente tornò in posizione.
“Sono qui per valutare la questione della testimone, Vescovo. Sa dirmi di più? Sa bene che il tempo non è un nostro alleato, se davvero è successo qualcosa a Pontieri”.
L’altro annuì, senza nascondere un sorriso tra le labbra sottili e screpolate. Estese di nuovo la mano, e l’orso incastonato nella spilla emise un sottile bagliore che l’esecutore percepì con il corpo prima che con le parole. L’energia scaturita attraverso la Firma si estese in maniera ampia, come una mano accessoria o un’estensione del pensiero del Vescovo; non appena avvolse il breviario con il contratto, questo si aprì di scatto tra le sue dita. Il contatto con la Firma di Orbert Vidala attraversò entrambi i palmi delle sue mani, quasi come una stretta amicale, e si ritirò l’istante successivo.
“La Fata ha accettato di seguirci per testimoniare sulla questione del ritrovamento di Zurlì. Agli inizi è apparsa più collaborante del previsto, e le abbiamo organizzato il trasferimento in questa sede con il massimo della solerzia. Il problema è che una volta qui … ha iniziato a comportarsi in maniera anomala. Non ha voluto rivelarci nulla, e quando i miei uomini hanno insistito ha reagito con una violenza impensata. Ho fatto recuperare il contratto che la legava a Pontieri nella speranza di reciderlo o quantomeno di fare luce sul suo comportamento, ma temo che le mie competenze giacciano altrove”
“Di che Fata stiamo parlando?”
“Una Asrai”.
“Perché la cosa non mi stupisce …?”
Il Vescovo mosse rapidamente le dita, ed il libro si chiuse. Uno sbuffo di cristalli azzurri si sollevò al movimento delle pagine, ma sparirono nel momento in cui sfiorarono la sua mano.
“La Fata non ha dato cenni di volersene andare. Renderla irascibile non ci è sembrata l’opzione migliore, dunque si trova esattamente dove la abbiamo lasciata. Sono convinto che Samuel sappia già dove andare”.
“Ci saremmo già, se non fosse stato per qualche contrattempo” ringhiò l’altro. “Anzi, direi che stiamo entrambi rubando del tempo a Padre Tsekani, che senza dubbio non è venuto a Roma per baciare anelli!”
“Concordo, concordo …”
Il tono era piuttosto basso, eppure non nascose un leggero verso soddisfatto. “Le auguro un buon lavoro, esecutore del sud. L’intero Capitolo seguirà con attenzione questa sfortunata vicenda. Così come la seguirà la famiglia del nostro adorato magus scomparso … In ogni caso, è stato oltremodo un piacere conoscerla”.
L’esecutore fece un sottile inchino di saluto; aspettò che la figura claudicante rientrasse nella sua stanza e chiudesse il chiavistello, poi si voltò giusto per notare che il suo compagno aveva già attraversato a lunghe falcate il corridoio e avesse messo piede sui gradini di una vecchia scala, incurante di averlo lasciato indietro.
Di screzi sotto la Cupola ve ne erano più dei granelli di sabbia nel deserto. Il vantaggio di essere un esecutore operativo era la lontananza dai tavoli, dalle discussioni, da quei sottili giochi di favori e richieste che da sempre non facevano altro che causargli repulsione. Non si era mai considerato un uomo dalle tante parole. La Santa Sede rivaleggiava con i magi per misteriosi incidenti avvenuti a figure considerate troppo scomode; l’atteggiamento di Orbert Vidala nei confronti del giovane Samuel non era chiaramente un capriccio nato dal nulla, ma Padre Tsekani decise con un sospiro di rimandare le domande ad un momento meno opportuno. Se c’era un uomo che gli aveva da sempre dato l’idea di attirare più nemici che alleati era Padre Whiteflame.

Sottili cristalli di ghiaccio si erano formati lungo lo stipite della porta. Irregolari, contorti, infusi del tocco della Firma più della stessa acqua che li componeva. Respirò l’aria dell’androne, riconoscendo subito il freddo che lo aveva accolto nell’appartamento del magus scomparso.
Aveva lasciato il fucile nelle proprie stanze, e la mano gli corse subito alla fondina sotto la tunica ed al coltello.
“Hai mai avuto a che fare con le Fate, Samuel?”
Glielo chiese a bruciapelo, per coprire la crescente sensazione di nervosismo.
“Una sola volta. Un geomante in Australia aveva congiurato un Sidhe per fare il lavoro sporco al posto suo e portargli delle vittime. Padre Whiteflame si rifiutò di farmi partecipare in prima linea alla cattura, ma ci volsero sette esecutori per tendergli una trappola ed abbatterlo” fece. “Non credevo che potessero esistere abomini del genere”.
“Fidati, in questo momento preferirei dover abbattere un Sidhe a mani nude. Le Asrai sono molto difficili da gestire quando sventagli loro la cosa che odiano più di tutte”.
Samuel lo guardò dubbioso. I suoi occhi, di solito sempre pacati, erano ancora oscurati dalle pieghe di rabbia dello scontro col Vescovo. “Ovvero?”
“I maschi umani”.
“Fantastico …”
La porta si aprì, rivelando una stanza meno abbandonata di molte altre. Era stata adibita a parlatorio, con un paio di divani di finto raso e delle poltrone eleganti per accogliere gli ospiti. La brina si era depositata lungo tutti i pavimenti ed il tappeto, trasformandosi in vera e propria neve nel punto in cui la Asrai stava seduta. La pelle era di un colore strano, un misto tra l’azzurro ed il violetto, un colore esaltato dal lungo vestito scuro che indossava, un abito nero che le copriva le spalle, le braccia ed i piedi in strati voluminosi di tessuto che impedivano a chiunque la osservasse di avere informazioni più precise sulla sua reale corporatura. I capelli avrebbero potuto ricordare quelli di una donna, ma erano di un bianco innaturale, con le ciocche che le arrivavano alle spalle e mostravano cenni di ghiaccio persino sulle punte. Non presentava squame a vista, come invece nella maggior parte delle Fate della sua famiglia, ma ai lati della testa mostrava delle escrescenze azzurre che a qualcuno un po’ fantasioso sarebbero potute apparire come delle corna, ed erano decorate con dei diademi di perle e cristalli. Gli occhi, leggermente piccoli rispetto al resto della testa, guizzarono subito verso di loro, rivelando una iride di un azzurro chiarissimo, simile ad una lastra di ghiaccio su cui una pupilla evidente guizzava come un pesce in un lago. La luce elettrica della stanza dava allo sguardo un aspetto difficile da interpretare.
Padre Tsekani lanciò uno sguardo di ammonimento al suo compagno, poi fece un passo avanti per essere sicuro di avere l’attenzione della creatura. “I miei rispetti”.
Per fortuna il suo compagno fu abbastanza intelligente da abbozzare un leggero inchino senza fiatare.
“Siamo Padre Tsekani Kaudry e Padre Samuel Morningstar. Siamo venuti qui per ascoltare e raccogliere la sua testimonianza”.
“Vi manda l’hym con l’orso verde?”
La voce era squillante, di un suono pulito. In un coro di voci umane si sarebbe mescolata senza problemi ma lì, in quella stanza, nascondeva qualcosa di innaturale.
“Non proprio …”
La creatura fece loro cenno di sedersi sul divano di fronte a lei. Mosse le lunghe dita e la sottile patina di ghiaccio che rivestiva i cuscini svanì, lasciando solo qualche macchia di umido. I due uomini si sedettero.
A quella distanza il freddo della Fata riusciva ad entrargli fin dentro le narici.
Non era mai stato semplice definire la natura di quelle creature. Nei suoi viaggi, Ramon Llull aveva cercato di catalogare anche le apparizioni di quegli esseri, figure legate agli esseri umani sin da quando la scrittura potesse documentare. Non appartenevano al loro piano di esistenza, quello era noto, ma troppe volte nella storia degli uomini erano state presenti; la maggior parte dei teologi ancestrali era riuscita a descrivere quegli esseri come delle macchie di inchiostro cadute dalla penna del Signore al momento di apporre la propria Firma sul mondo, frammenti di qualcosa che gli uomini potessero solo intuire ma mai comprendere appieno. Le Fate avevano le loro regole, e in molte di esse gli uomini avevano un ruolo estremamente marginale. I magi che si legavano a quelle creature erano pochi, e molti avevano fatto una gran brutta fine.
Padre Tsekani ne aveva combattuti abbastanza da sapere che una Asrai sotto contratto poteva trasformarsi in una sentenza di morte prima ancora che potesse estrarre le armi.
“Il Vescovo la ha infastidita, mia signora?”
Samuel aprì bocca senza autorizzazione, e l’altro esecutore si dovette trattenere dal buttarlo fuori dalla stanza.
In pensieri, parole, opere e opinioni” mormorò lei.
Quando parlava, sottili strati di condensa si formavano intorno alle sue labbra. “Ma non ha nulla che possa turbarmi. I Vescovi giungono in silenzio davanti alla porta del mio padrone, sapete?”
“Riguardo al vostro padrone …”
“La casa è in ordine?”
Lui si fermò, osservando la leggera peluria bianca che doveva ricordare delle sopracciglia aggrottarsi leggermente. “… prego?”
“La casa del signorino Angelo. È in ordine? Le piante sono state innaffiate?”
“A parte un cadavere nello studio direi che la casa era presentabile, sì”
“Siano lodate le Correnti” mormorò con un sospiro “Cercherò di rendermi utile. Devo tornare a casa il prima possibile, ci sarà un sacco di lavoro arretrato. Le mail, la revisione della macchina, la nuova cameretta del signorino Louis … il padrone non può occuparsi di tutte quelle cose da solo, capite? Ho chiesto all’hym con l’orso verde un portatile ed una connessione per poter gestire almeno le pratiche più semplici, ma non ha voluto sentire ragioni”
Parlava un po’ con se stessa, ad alta voce, quasi come la loro presenza non fosse poi così importante. Non che non lo avesse immaginato, s’intendeva: le Fate venivano spesso vincolate allo svolgimento di compiti piuttosto elementali, e le parole di potere che venivano esercitate finivano immancabilmente per limitarle, come delle gabbie.
Sidhe vincolati a difendere il laboratorio dei magi che li avevano evocati avevano finito per sbranare i loro stessi contraenti qualora avessero aperto le porte delle loro stanze senza identificarsi, o Asrai erano state ritrovate in giro per dei paesi intente ad accoppiarsi con qualunque umano passasse a tiro soltanto perché il contraente non aveva specificato i dettagli del loro vincolo.
La Fata davanti a loro era fin troppo autonoma nel suo modo di esprimersi e di approcciarsi, ed era una chiara opera del genio di Pontieri.
Non ci voleva un genio per capire come mai la Santa Sede avesse ansia di riportarlo all’ovile.
Prese il breviario con il contratto, e con delicatezza lo appoggiò sulle proprie ginocchia. Di colpo la creatura smise di parlare, osservando prima l’oggetto e poi lui. In quello sguardo fatto solo di puro inverno non vi era nulla che potesse essere tradotto con una qualsivoglia emozione.
“Non le voglio rubare tempo, mia signora”.
“Non sono sua, hym
Passo falso.
“Come posso allora rivolgermi?”
“Il mio nome non è ben pronunciabile da voi hym. Ma il mio signore mi ha sempre chiamata Violet”.
“Un’ottima scelta, è davvero un bellissimo nome” fece Samuel, abbozzando un sorriso.
Di colpa la Fata aggrottò le sopracciglia, puntando gli occhi sul giovane esecutore e socchiudendo le labbra. Denti trasparenti e appuntiti come il cristallo apparvero tra le pieghe della bocca, e d’istinto Padre Tsekani portò un braccio davanti al compagno. Il gesto portò di nuovo l’attenzione della creatura su di lui.
Lui e Samuel avrebbero fatto una lunga chiacchierata non appena fossero usciti di lì. “Perdonate il mio collega, dama Violet. Rispondete soltanto ad un paio di domande e prometto che potrete tornare immediatamente ai vostri importantissimi doveri. Siamo qui per il bene del nobile Angelo”.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


“Sono stata io a ritrovare il corpo di quell’uomo”.
La Fata cambiò posizione. Nonostante il lungo abito impedisse di scorgerle le gambe, con un movimento portò i piedi sul divanetto. “Mancavo da casa da tre giorni. Il padrone mi ha mandata a supervisionare i lavori nella sua residenza in Abruzzo. Sapete, aveva intenzione di rendere l’intero seminterrato uno spazio separato per la convergenza contrattuale, qui a Roma purtroppo le interferenze sono troppe. Troppa gente, troppo poco spazio. E visto che da quelle parti ha anche delle cantine e dei vigneti, mi ha chiesto di andarmi ad occupare di tutto con un unico viaggio. È un compito di responsabilità, s’intende, e personalmente nessuno degli amministratori delegati del signorino mi è mai sembrato adatto al compito. Era da mesi che gli chiedevo di poter andare di persona a controllare la situazione, e meno male che ci sono andata … non potete capire quanto sia oltremodo snervante sapere che il denaro del mio padrone vada nelle tasche di hym che non trascorrano i giorni pensando al suo bene”.
“Io vado a prendere qualcosa alla macchinetta” gli mormorò Samuel all’orecchio.
Padre Tsekani annuì, stringendosi due dita intorno alla base del naso per soffocare il mal di testa.
“Io mi occupo di tutto, sapete? Il nobile Angelo non ha tempo da perdere con simili quisquilie materiali. Posso fieramente affermare che solo negli ultimi dieci anni il rendimento dei possedimenti della famiglia Pontieri è aumentato del quarantaquattro per cento e, non per essere modesta, i più produttivi sono stati quelli che sono stati acquistati su mio personale suggerimento. Potete capire da soli che i lavori di ristrutturazione della villa del padrone tendono a rallentare non appena levo loro gli occhi di dosso, dunque …”
La Fata sembrava un fiume in piena.
L’orgoglio era un tratto saliente della maggior parte delle creature ancestrali; la loro natura intrinsecamente legata al mistero della Firma le rendeva fiere e allo stesso tempo di difficile comprensione. Uno degli errori più stupidi di un esecutore era pensare che esseri come le Asrai, dotate di una bellezza inarrivabile per qualunque essere umano, facessero coincidere la vanità con l’orgoglio.
L’esaltazione dell'aspetto estetico non era che un frammento dell'anima di quelle creature, e blandirle un campo minato dove ogni passo gli sarebbe potuto costare la vita. “Comprendo. Immagino che lei avesse anche un occhio nella vita lavorativa del suo padrone, Violet”.
“Assolutamente. Se il signorino dovesse rispondere a tutte le chiamate della Cupola non avrebbe più un minuto libero. Gli preparo personalmente gli incontri con gli esecutori, le riunioni, e progetto i suoi spostamenti con una calendarizzazione di almeno tre mesi” fece “Mi occupo anche della gestione dei contratti minori. Ho l'autorizzazione a gestire le Fate che il padrone ha destinato alle funzioni domestiche ed a controllare che gli accordi siano sempre in ordine”.
L'uomo aspettò qualche istante prima di incalzare. Fino a quel momento, chiacchiera a parte, la creatura sul divano si era mostrata piuttosto incline alla collaborazione. Il Vescovo aveva riportato un comportamento aggressivo durante il precedente interrogatorio, e per quanto le antipatie di Samuel dovessero avere un fondo di verità, Orbert Vidala non gli era sembrato un uomo interessato a mentire su questioni pratiche. E, a meno che il Vescovo non fosse stato così stupido da attentare all’incolumità fisica della Fata, era chiaro che le sue domande dovevano essere entrate in un dominio che potesse in qualche modo interferire col contratto stesso.
Poseidon, il patto che legava Violet a Angelo Pontieri, era molto più complesso della maggior parte degli incantesimi di vincolo che avesse incontrato nel corso della sua carriera. Conosceva i principali simboli dell’ancestrale, ma per decifrare e sviscerare l'origine stessa di Poseidon sarebbe servito un altro magus contrattista.
Si sarebbe dovuto affidare al suo vecchio fiuto.
“Avete raccontato che siete tornata da un viaggio in Abruzzo per conto del vostro magus. È una pratica abituale? Comunicavate i vostri spostamenti?”
“Non mi succede spesso. Non posso farmi vedere da voi hym. Mi espongo solo con persone che conoscono la mia natura, per il resto gestisco la casa per via telematica. Ma non è un evento raro” disse. Rivolse un sorriso ad un punto imprecisato della stanza, poi girò un dito e dei fiocchi di neve apparvero dal nulla e le finirono tra i capelli e le corna. “Prima di partire per Roma ho scritto al signorino, e lui ha visualizzato”.
“E quando siete entrata…?”
“Non suono mai al citofono. Ci mancherebbe anche che il padrone si alzi. Ricordo che da fuori si vedeva la luce di casa accesa e le tapparelle erano alzate, quindi ho pensato che fosse ancora sveglio. Ho aperto con le mie chiavi annunciandomi. Certo, il signorino non mi aveva risposto, ma succede che si addormenti mentre guarda la televisione, quindi sono andata a controllare e…. beh, sapete cosa ho visto”.
Negli occhi della creatura comparve un balenio, un guizzo simile ad un'onda su un mare fin troppo calmo. La sclera scura fu attraversata da una venatura bianca che svanì al successivo battito di ciglia.
Per quanto possibile, la creatura doveva essere turbata. “So che siete stata voi a chiamare la Santa Sede. Non avete provato a contattare il vostro padrone?”
“No”.
La voce divenne di colpo più secca.
“... perché?”
“Perché no”.
Come da manuale, i due eventi infausti avvennero nello stesso istante.
Un cristallo di ghiaccio, appuntito quanto una lama affilata, comparve nell'aria a pochi palmi dalla sua gola, frapponendosi tra lui e la Fata.
Contemporaneamente, Samuel aprì la porta e cacciò un urlo.
Il cristallo cambiò direzione, buttandosi verso il giovane che aveva disturbato la scena. Padre Tsekani reagì d'istinto, estraendo uno dei suoi coltelli da lancio e tirandolo contro il cristallo con tutta la velocità di cui disponeva. Cercò di aggrapparsi alla scia della Firma della Fata per aumentare la potenza, ma riuscì solo a dargli velocità. L'arma impattò sul cristallo, deviandone la traiettoria; questo andò a finire contro una piccola libreria, esplodendo in schizzi di ghiaccio che coprirono più di metà del mobile con una patina fatale per un umano. Samuel si era buttato a terra e fissava la libreria impietrito, con due bicchieri di caffè rovesciati sul pavimento.
Padre Tsekani si alzò, recuperò il coltello e chiuse la porta. Pregò di cuore che nessuno avesse sentito. “Si può sapere cosa vi prende?”.
“Io non ho chiamato il padrone!” gridò lei, alzandosi di scatto. “Io non lo ho chiamato. Non lo ho nemmeno cercato!”
Il freddo fu così intenso che i vasi ornamentali della stanza esplosero, e l'uomo sentì una morsa di ghiaccio nel petto forte come una zampata. In risposta all'energia della creatura ancestrale, il libro del contratto, ancora nella sua mano sinistra, si aprì di scatto come se avesse una propria volontà. Le spirali azzurre che si erano animate poche ore prima si librarono nella stanza come sottili tentacoli, illuminando i loro tre visi con una luce che poteva ricordare soltanto il riflesso del sole sul ghiaccio.
L’esecutore cercò di chiudere il libro, ma la copertina sembrava scolpita nel marmo. “... merda”.
Le parole iscritte in rosso, al contrario, guizzarono tra i fogli in strani cerchi concentrici.
L'energia di Poseidon aumentò; l'uomo sapeva fin troppo bene cosa sarebbe potuto succedere se l'avesse lasciata libera.
Prese un respiro profondo e parlò col tono più forte che avesse “Nessuno vuole costringerla a cercare il suo padrone, signorina Violet” disse. Cercò di assumere un'espressione severa, ma il meno minacciosa possibile. “Quindi adesso ci metteremo tutti seduti e ci comporteremo in maniera civile, d'accordo?”
In tutta risposta le pagine del contratto si screziarono di azzurro e i leggeri caratteri neri si fusero con le rune in rosso. Intorno a lui si disegnò una leggera patina che si eresse a flebile scudo tra lui e qualunque cosa stesse per esplodere dal contratto. Con la coda dell'occhio notò Samuel che si era portato la mano al crocifisso, ma la sua energia di fronte a quella della Fata aveva lo spessore di un guscio d'uovo.
“Per favore, signora” esclamò “Non intendiamo costringerla a dire nulla. Ha la nostra parola”.
La pressione dell'aria diminuì, anche se di poco. L'espressione della Asrai rimase immutata, come se tutto il suo sguardo e la sua stessa essenza fossero focalizzate altrove.
Se gli uomini di Vidala avevano posto le sue stesse domande, iniziava a essergli più chiaro il perché lo avessero mandato a chiamare.
Tentare di forzare - o, peggio, attaccare– una creatura fatata in quelle condizioni era come staccare un biglietto di sola andata per il Verano. Tanto più che qualcosa, nella sua mente, aveva iniziato a scampanellare.
Lentamente i caratteri del contratto presero a rientrare. L'energia celeste diventò sempre più fioca fino a perdere energia, e l'uomo non trattenne un sospiro di sollievo quando le pagine si chiusero.
La Fata spostava lo sguardo da loro al contratto. Se c'era una spirale di sorpresa o dubbio in quegli occhi, era tornato a nascondersi sotto il ghiaccio perenne.
“Posso portarle qualcosa, signorina?” fece Samuel, ancora più pallido di quanto già non fosse.
“Se ci fosse qualcosa di dolce… Ne avrei proprio bisogno… il padrone mi porta sempre degli ovetti di cioccolata. Io gli ripeto che sono per i bambini, ma lui dice che se mi piacciono li posso mangiare anche io. Poi però se ne mangio troppi non mi sento bene, lui dice che è perché esagero, ma io credo che noi Asrai non dovremmo mangiare troppo cibo degli hym, perché poi…”
Con calma l’esecutore si avvicinò ed interruppe il monologo appoggiandole il contratto tra le mani. “Questo è meglio che lo tenga lei, Violet” mormorò “E non lo lasci a nessuno. È il suo legame con il nobile Pontieri ed il nostro mondo”.
Lei lo guardò ancora una volta, soppesandolo; non accennò ad aprirlo, né a sfogliare le pagine. Si limitò a tenerlo più stretto, e lungo la punta delle sue dita una leggera patina di freddo risuonò con l'energia arcana di Poseidon, chiudendo il costone con un sigillo di ghiaccio. “Grazie”.
“È suo”.
“È mio e del mio signorino. Nessuno dovrebbe toccarlo senza il nostro permesso”.
Continuò a tenerlo in mano, senza appoggiarlo. E, quando Samuel finalmente rientrò con delle merendine - lamentando qualcosa sulla sua misera paga - si sedette a mangiare sul divano tenendo il contratto sulle ginocchia. Con la coda dell'occhio fu quasi convinto di scorgere un lieve cenno di ringraziamento con la testa della creatura verso l’esecutore sai capelli biondi. “Purtroppo temo che senza alcune informazioni la Santa Sede impiegherà un po’ di tempo a rimandarla a casa, Violet. Ma mi assicurerò che non vengano più a disturbarvi oltremodo con questa storia” esordì, facendo cenno al suo compagno di alzare i tacchi “Vedrà che la situazione si risolverà al più presto”.
Samuel gli venne accanto, mostrando un leggerissimo inchino di saluto, e fecero per varcare la porta quando un flebile refolo di vento freddo lambì la sua nuca. Una forma della Firma leggera come la punta di un pennino.
“Due settimane fa il padrone mi ha causato un sacco di problemi. Mi ha fatto disdire all'ultimo momento un gala che avevo organizzato da tempo. Gli ho detto che sarebbe stato imbarazzante per la famiglia Pontieri, ma non mi ha dato ascolto. Avevo anche fatto preparare una stanza per il fratello della signora Emma, non potete capire che figuraccia…”
A differenza di pochi minuti prima, il tono della Fata era cambiato. Padre Tsekani la guardò, ma la creatura non incrociava i loro sguardi; avrebbe potuto giurare che fosse immersa nella lettura del contratto, ma il volume era chiuso. Scandiva le parole, scegliendole. “... mi ha detto che andava a cena a Ostia da un amico. Allora mi sono affrettata a prenotargli un ristorante, e mi ha detto di non preoccuparmi, che aveva già fatto tutto il suo amico Antonio. E io ci sono rimasta malissimo, perché in tanti anni il mio signore ha chiesto sempre a me di organizzare le sue cene. E mi sono detta, Violet, devi aver sbagliato qualcosa, forse le ultime volte hai scelto dei posti che non gli sono piaciuti o dove il cibo non era di qualità. Poi mi sono preoccupata, perché questo Antonio non lo conoscevo, a Ostia si mangia il pesce, e se il signorino si fosse preso una intossicazione alimentare perché non ero lì a scegliere il locale giusto non me lo sarei mai perdonata. Lo sapete cosa succede con le intossicazioni alimentari, non è vero?”
L'uomo trattenne il fiato.
La chiara logorrea della Asrai li stava portando da qualche parte; dove, toccava a lui intuirlo.
“Solo che il padrone ha insistito. Allora ho detto al suo autista di preparare la macchina e di portarsi dietro la scatola dei medicinali. Ma lui di nuovo non ha voluto, e ha insistito per guidare di persona. Che, per carità, il nobile Angelo guida benissimo, ma trovo che per una persona del suo livello sia indispensabile disporre di un autista, specie se va in un posto dove non ha un garage e deve trovare parcheggio” sbuffò, e per un attimo l’esecutore si costrinse a non ridere. “Sono una donna scrupolosa, sapete? Il signorino mi ha promesso e strapromesso di non bere nulla di eccessivo, e ho comunque allertato Mirko, il nostro autista, di controllare la macchina, fare il pieno, insomma, capirete la mia apprensione. E lo sapete cosa mi ha riferito Mirko? Ad un certo punto mi ha chiamato, dicendo che mi dovevo affacciare, e lungo la via…”
Fece una pausa, mordicchiandosi il labbro inferiore. Pur non fissando nessuno dei due uomini negli occhi, il suo sguardo sembrava bloccato su un punto fisso, alla ricerca della parola giusta.
“... il padrone ha fatto salire una donna che lo aspettava all'angolo della strada. Era calato il sole, ma io l'ho vista benissimo. Noi Asrai cacciamo anche a centinaia di metri di profondità, non esiste che io non veda…”
Il suo petto iniziò a sollevarsi ed abbassarsi. Qualunque cosa stesse cercando di dire, stava aggirando il contratto con tutte le sue forze “... ed era una donna molto bella. Aveva dei capelli di un blu incredibile, perfetti come la Madre delle Onde. Era elegantissima, e il signorino appena è salita è partito a gran velocità. E io ci sono rimasta così male…”
“Non dica oltre, signorina. Va bene così”
L’esecutore accompagnò la frase con un gesto pacato della mano. Poseidon stava dando cenni di riapertura, e nessuno di loro tre voleva procedere sul serio. “Giusto una cosa. La moglie del signor Angelo ne sa qualcosa?”
“No. E mi sento un po’ in colpa a non averglielo detto” fece lei, portandosi un'unghia alle labbra “Ma non ne sono sicura. Gli occhi della signora sono ovunque”.
“Grazie mille. Ci è stata davvero molto utile anche così”.
Samuel si avvicinò, replicando l'inchino di congedo. Sul tavolo fece apparire una crostatina, e l'altro non trattenne un semplice sorriso.
I due uscirono, chiudendosi lentamente la porta alle spalle. Nel percorso verso l'uscita evitarono la sala del Vescovo, e fu solo dopo essersi lasciati alle spalle anche l'ultima guardia che il più giovane trovò il coraggio di dare voce ai suoi dubbi. “Padre Tsekani, non sono sicuro che fossimo autorizzati a lasciare alla Fata il suo stesso contratto”.
“Non lo eravamo, infatti” disse lui. “Ma auguri a chiunque provi a recuperarlo, adesso”.
Un sorriso soddisfatto apparve sulla faccia dell'altro. Per quanto in passato avesse avuto modo di lavorare con il più giovane, anche di supportarlo in qualche bega operativa, l'uomo si accorse che conosceva del piccolo inglese molto meno di quanto pensasse. Qualunque screzio fosse avvenuto tra lui e Vidala, fu costretto ad ammettere che aveva catturato la sua attenzione, se non il suo fiuto. Si ripromise di chiederglielo, magari in una sede più neutrale, anche se di norma non era sua abitudine ficcare il naso negli affari altrui, specie quando si trattava di lavoro.
Decise quindi di riportare l'argomento su qualcosa di più adatto “In ogni caso abbiamo ottenuto più di quanto sperato. Questo colloquio non è stato un buco nell'acqua”.
“A parte scoprire che il nostro magus aveva una relazione extraconiugale e che forse anche la sua Fata gli andava dietro? Suppongo che per un nobile pontificio sia la normalità”.
“Una bella donna può causare più guai di un Sidhe fuori controllo” rispose, prendendo fiato per arrampicarsi sulla scala a pioli. “Ma sappiamo qualcosa di ancora più importante”.
Uscirono dalla stamberga per volatili, respirando ancora una volta il tanfo del guano. La Villa, chiusa al pubblico a partire dal tramonto, non disponeva di alcun sistema di illuminazione, sebbene quel punto fosse illuminato dai lampioni al di fuori delle mura.
Fecero qualche passo nella voliera, quando qualcosa lo mise in allarme. Si portò davanti a Samuel, e rimpianse di aver lasciato il fucile nel suo alloggio; l'altro strinse il crocifisso e portò la mano al fianco, alla ricerca della fondina, poi si appoggiò alla casupola in legno e cercò di seguire il suo sguardo.
Intorno a loro, la voliera ed il parco erano caduti nel silenzio più assurdo, un silenzio fuori luogo nel cuore della capitale. Padre Tsekani estrasse la pistola, la puntò davanti a sé e trattenne il fiato, l'occhio alla ricerca di qualunque cosa gli avesse pizzicato i sensi. Nulla intorno a loro, vicino alla panchina, nessun movimento nemmeno nei pressi della fontana. Guardò verso l'uscita della voliera, e nulla li separava dall'uscita né sembrava attenderli nei cespugli subito al di fuori.
Valutò l'idea di far rientrare Samuel nei sotterranei e dare l'allarme, ma aspettò.
Aveva molti difetti e non si considerava il miglior esecutore esistente, ma al buio sapeva di essere il cacciatore. Con la mano libera si portò il crocifisso alle labbra, e di colpo l'energia della Firma scattò, costringendolo a guardare di corsa verso l'alto e puntare l'arma.
Sopra di loro, al culmine della voliera, un cigno nero stava appollaiato all'esterno. La mole era enorme, quasi il doppio di una bestia normale, e gli occhi rossi brillavano nella notte in maniera soprannaturale. Appena scoperto l'animale aprì le ali e piegò la testa verso di loro, forse in posizione d'attacco, e il metallo ormai arrugginito della voliera rimbombò sotto il movimento repentino.
Sparò prima ancora di porsi domande.
Non seppe dire però se avesse colpito il bersaglio, perché l'attimo successivo la creatura era scomparsa, e dall'alto presero a cadere solo delle piume nere, senza più traccia della creatura. Corse fuori dalla gabbia e cercò di afferrarne una, ma questa si dissolse nel nulla prima ancora che potesse sfiorarla.
“E quello cos'era?”.
Non poteva vedere l'espressione del suo compagno, ma la voce gli tremava.
“Direi una conferma della mia idea”.
Qualunque cosa fosse stato quel cigno, poteva sentire la puzza dello zampino di un magus. E nemmeno il magus indipendente più imbecille del mondo avrebbe realizzato una congiurazione simile vicino ad un sito della Santa Sede, il che lasciava a suo avviso ben pochi sospettati. “Angelo Pontieri se ne è andato di sua volontà, ed ha persino impedito alla sua Asrai di provare a cercarlo, forzandola nel suo stesso contratto. Ha violato di sua volontà qualunque protocollo della Cupola, e sa che gli metteranno qualcuno alle calcagna”.
Mosse il passo verso l'uscita, mentre da fuori già qualche cittadino si stava domandando da dove venisse lo sparo. “Non è un rapimento, né un omicidio. È una caccia al magus in piena regola”.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Intorno a lui si era formato un cerchio di persone. La testa continuava a ronzargli come se qualcuno avesse aperto un nido di calabroni dentro il suo cervello e avesse appiccato un incendio. L'unica nota positiva era che la sensazione di bruciore lungo la pelle si era attenuata, sostituita da una strana freschezza che partiva dai punti in cui un signore lo aveva afferrato e lo stava aiutando a sedersi sul pavimento.
“Va tutto bene, ragazzo. Respira piano”.
Njal si lasciò accompagnare a terra, e il pavimento del pronto soccorso fu il primo, serio, ancoraggio al mondo reale. Portò la testa all’indietro per prendere aria, e il capo gli venne appoggiato contro un muro. Nel momento in cui le dita lo toccarono all'altezza della nuca, la sensazione dello sciame impazzito si trasformò in un leggero ronzio ovattato.
Prima ancora che potesse mettere a fuoco chiunque lo stesse soccorrendo, la ressa di curiosi che si era formata si aprì per fare largo al poliziotto da cui era scappato. “Grazie al cielo lo avete fermato!”
“Credo si sia fermato da solo, agente. E credo anche che il ragazzo abbia bisogno di non fare troppi sforzi, adesso”.
La voce del suo soccorritore aveva un tono alto, delicato. C'era qualcosa di strano, ma il cervello di Njal era ancora così dolorante da non riuscire a mettere molto altro a fuoco. “Forse è il caso che chiami degli infermieri con una barella, agente Martinelli”.
“Ci conosciamo?”
“Beh, non proprio…”
Njal guardò il poliziotto, anche solo per capire di che umore fosse. Nonostante si sentisse uno schifo e gli stesse di nuovo risalendo il sangue in bocca, non era così stupido da non capire cosa avesse fatto. Se solo fosse riuscito a chiamare i suoi genitori…
Fece per prendere il telefono dalla tasca, ma la folla si aprì ed un paio di infermieri poggiarono una barella proprio davanti a lui. Valutò se alzarsi e tentare un'ultima corsa verso l'uscita, ma gli bastò il solo pensiero per fargli riprendere i conati. Qualunque cosa gli fosse successa, gli sembrava sempre meno un'intossicazione alimentare. Sbuffò, ma si lasciò caricare. La faccia del poliziotto non preannunciava assolutamente nulla di buono, anche se per fortuna oltre a lanciare occhiatacce a lui, parte della sua attenzione era senza dubbio captata dal nuovo venuto, che si era piazzato adesso alle sue spalle, dietro all'infermiere in retrovia. L'unica cosa che Njal era riuscito a mettere a fuoco erano i suoi lunghissimi capelli castani.
“Vi seguo, agente Martinelli. Mi hanno indicato di rivolgermi a lei per le varie pratiche. Così non le faccio perdere tempo”.
Impiegarono diverso tempo a tornare nella stanza che aveva abbandonato pochi minuti prima; l'unico ascensore grande abbastanza che li conducesse alla loro ala era stato preso d'assalto da altre barelle, e nell'attesa, fermo sotto le finestre del pronto soccorso e la puzza infinita di disinfettanti, sarebbe stato pronto a giurare che l'unica cosa in grado di placare il suo malessere fossero le dita del nuovo arrivato che ogni tanto avvicinava alla sua testa. Fu quasi un sollievo entrare nell'ascensore cigolante e essere rimessi a letto.
Ne approfittò dell’istante per guardare le notifiche di WhatsApp alla ricerca di un messaggio di Astrid, ma nulla.
Gli infermieri si parlarono tra loro in italiano, sembravano essere in accordo su qualcosa, poi appoggiarono una confezione di farmaci sul suo comodino, dissero due frasi agli altri due uomini e se ne andarono.
“Tutto è bene quel che finisce bene, giusto?”
Il nuovo arrivato si avvicinò alle persiane e le socchiuse, regalando alla stanza una leggera penombra. Si mise seduto sulla sedia accanto al suo letto, e a quel punto Njal riuscì a vederlo meglio. Gli avrebbe dato sì e no una trentina d’anni, e senza dubbio i capelli lunghissimi contribuivano alla confusione. Anche da seduto gli arrivavano oltre la vita, e per quanto ne tenesse la maggior parte legati in una coda ve ne erano altrettanti che gli ricadevano in maniera composta sulle spalle. I lineamenti avevano qualcosa di femminile, e sul naso faceva bella mostra un paio di occhiali rotondi, leggerissimi, con una cerchiatura dorata. Alle narici gli arrivò un profumo delicato.
L'agente Martinelli si sedette sul letto opposto. “Ammetto che non mi sarei mai aspettato di vederla in buona salute, signor…?”
“Hector” fece l'altro, rivolgendogli un sorriso. “Ammetto che nemmeno io mi sarei aspettato di stare così bene, ma ogni tanto un pizzico di fortuna aiuta. La lastra e la tac dicono che sto benissimo, mi hanno già lasciato i referti su CD”.
Il ragazzo realizzò solo in quel momento cosa lo avesse incuriosito della voce di quell'uomo: ripeteva ogni frase due volte, rivolgendosi a lui in inglese, e in italiano al signor Martinelli. Qualcosa di quel modo di esprimersi doveva aver tranquillizzato il poliziotto, perché in pochi minuti la sua faccia si era rilassata. “Quando l'ho vista portare via in autombulanza ho creduto il peggio. C'era sangue lungo tutti gli scogli, e i soccorsi erano… poco positivi, per così dire”.
“Grazie al cielo me la sono cavata con un paio di lividi. E devo ringraziare chi mi ha soccorso, sono stati davvero tempestivi. Ed ovviamente devo ringraziare anche lei per essersi disturbato per me, agente”.
Njal rabbrividì, e questa volta non per il malessere.
“A giudicare da come stanno le cose, mi sembri conciato peggio tu!”
Il nuovo arrivato per la prima volta gli si rivolse in modo diretto. Aveva un sorriso calmo, conciliante, non certo quello di un uomo che aveva appena passato un giorno al pronto soccorso. Njal provò a cercare quel viso nei propri ricordi nella speranza di ricordare gli eventi di quella maledetta serata, ma a parte la sera in spiaggia tutte le sue memorie sembravano essere trasformate in un puzzle dai pezzi sfusi.
Doveva aver fatto qualche espressione strana, perché Hector si protese in avanti. “Posso portarti qualcosa? Vado a prenderti dell'acqua, ragazzo?”
“No, grazie…”
L'agente Martinelli emise un sospiro rumoroso e si mise seduto sul letto vicino. Qualcuno doveva aver rimesso in ordine il punto dove Njal lo aveva spintonato. Il silenzio che ne venne dopo fu imbarazzante, ed il ragazzo si ritrovò a stringere i denti senza sapere chi dei due guardare.
E più continuava a chiedersi cosa stesse succedendo, più la sensazione di vomito e rabbia allo stato puro prendevano a mescolarsi all'imbocco dello stomaco.
“Signor Hector, suppongo che sia qui per la deposizione e la denuncia. Di norma la pratica sarebbe di passare per la centrale, ma considerati gli eventi e la tempistica…”
“Stia tranquillo, agente. Non voglio rubare altro tempo a nessuno. Grazie al cielo non mi sono fatto nulla, quindi direi che la cosa migliore sia chiuderla qui. Una denuncia è una cosa piuttosto grave, e il ragazzo…” lo guardò di nuovo con quel suo sorriso delicato “... mi sembra che abbia abbastanza problemi. Non aggiungiamone altri”.
Fece per avvicinare di nuovo una mano alla sua, ma si fermò, scrutandolo. Come a chiedergli il permesso.
L'attenzione di Njal per un momento fu catturata dal pendente che scendeva sul petto dell'uomo: una serie di cerchi concentrici dorati, su ciascuno dei quali vi era incastonata una piccola pietra. Una pietra singola, senza dubbio di un certo valore, si trovava al centro del gioiello e nonostante la scarsa illuminazione risaltava contro il maglioncino magenta del suo padrone.
Njal tornò a scrutare la mano di Hector, ma non si avvicinò e l'altro la ritrasse.
Se la cosa gli avesse dato dispiacere, Njal non riuscì a capirlo.
Il poliziotto sollevò il sopracciglio. “Ne è sicuro? Si tratta comunque di aggressione”.
“Non c'è problema. Sono stato fortunato, e siamo stati ancora più fortunati che abbia spinto me e non qualche signore anziano. Quindi direi che una denuncia è l'ultima cosa di cui tutti e tre abbiamo bisogno, cosa ne dite?”
Il signor Martinelli lo scrutò. Vi era un misto di dubbio e curiosità. Il ragazzo era pronto a giurare che stesse cercando segni di danno sul suo interlocutore. “Piuttosto, i tuoi genitori sanno che sei al pronto soccorso? Hai qualcuno che possa venirti a prendere?”
Njal riprese il telefono, contento che qualcuno si fosse posto il problema. Visto che il poliziotto non accennò a fermarlo sbloccò lo schermo. Non vi erano WhatsApp né di Astrid né dei suoi, e la connessione era inesistente. Aggiornò un paio di volte, ma era staccato dalla rete.
“Guarda, in questo posto non prende. Cioè, per più di metà di questa maledetta isola…” fece l'agente, guardando con tristezza il proprio telefono. “Alla centrale dobbiamo mettere tutti i cellulari su un solo davanzale o rimaniamo isolati…”
Hector andò alla finestra, puntando il proprio come una bacchetta da rabdomante, ma ebbe esito negativo. “Agente, forse potrebbe andare lei in cortile a contattare i signori Njaldsson? Giusto per tranquillizzarli. Credo che il ragazzo abbia capito che non è nei guai”
L'agente borbottò qualcosa nella sua lingua, ma fece un cenno di assenso. Il giovane fu più che contento di lasciargli i numeri dei suoi genitori, così come di non averlo tra i piedi per un po’.
Hector si alzò per aprire una bottiglietta d'acqua e passargliene un bicchiere. Si levò il trench per il caldo, poi bevve a sua volta. Prese a mettere in ordine i suoi effetti, piegandogli la sciarpa e mettendola sul comodino insieme alle chiavi.
Njal si schiarì la gola. “Senti… Scusa per questo casino. E… beh… grazie per la denuncia… è solo che…”
“Cosa è successo quella sera, Njal?”
La sua voce era sempre delicata, ma non gli sfuggí il tono fermo. Scandiva le parole con un inglese impeccabile, ben diverso da quello dell'agente Martinelli. “Eri fuori di te. E non eri ubriaco, so riconoscere quando si alza il gomito”.
“Speravo me lo dicesse qualcuno. Giuro che non lo so” disse. Evitò di dire a quel tipo quanto la cosa lo facesse incazzare. “L’ho già detto a quel poliziotto, non ho idea di cosa sia successo. E sono pure preoccupato per la mia ragazza, maledizione!”
L'altro gli versò un altro po’ d'acqua. Una mano gli andò al pendente, facendo scivolare la catenina tra le dita. L'altra se strinse tra le ginocchia. “Sei emerso da una strada laterale. Gridavi, ma non sono riuscito a capire cosa dicessi. Era chiaro che non capissi dove fossi. Ti toccavi il collo come se ti bruciasse o ti facesse male, poi hai iniziato a camminare verso il molo. La gente ti evitava, ma ho pensato che se fossi scivolato saresti potuto cadere sugli scogli o peggio” fece, recuperandogli il bicchiere dalle mani “Non ero sicuro che sapessi nuotare. Ho provato a prenderti da parte e farti sedere ma… Ti sei agitato, mi hai preso di peso e… eccoci qui! Lo ammetto, non immaginavo che avessi tutta quella forza in corpo. Beata gioventù!”
Njal lo osservò. Quell’Hector doveva essere poco più alto di lui, ma i vestiti tradivano un fisico ben poco sportivo e delle spalle sottili. Certo, gli risultava difficile l'idea di poter sollevare e scaraventare un uomo, ma il ricordo di aver atterrato l'agente di polizia era al contrario ben vivido. L'idea di aver preso di forza il suo interlocutore non gli parve in quel momento così irrealistica. L'altro si sedette stavolta sul bordo del suo letto, e piegò il collo per costringerlo a incrociare il suo sguardo.
Faceva molta attenzione a non toccarlo. “Ti va di raccontarmi cosa ricordi? Pensi che la tua ragazza sia nei guai?”
Annuì, continuando a fissare il cellulare ancora muto.
Iniziò raccontandogli del casino della festa patronale e di come lui e Astrid avessero deciso di allontanarsi. Poi gli raccontò dello strano signore con la mezza maschera sulla faccia e gli occhi vividi, e di come lo avesse allontanato come se fosse stato più leggero di una foglia. Gli disse che si stava avvicinando ad Astrid e di come avesse cercato di difenderla, e quando si accorse che il suo ultimo ricordo era solo l'acqua salata in bocca e la sensazione di svenire per poco non scaraventò il telefono a terra per la rabbia. Più cercava di scavare tra quelle scene e più lo stomaco gli si contorceva. Hector gli passò un fazzoletto, e Njal si accorse di aver preso di nuovo a sputare piccoli grumi di sangue.
Per tutta la durata del racconto l'uomo non aveva detto nulla. Lo aveva ascoltato senza perdere nemmeno mezza parola, ed aveva mantenuto un'espressione seria anche durante l'incontro sulla spiaggia.
Solo quando finí la narrazione, Hector lasciò la presa sul pendente. “In che diavolo di situazione sei finito…”
Si mordicchiò il labbro, senza nascondere un sospiro. “La tua ragazza potrebbe essere in un mare di guai”.
“Quindi mi credi”.
“Non avrei motivo di non farlo” fece.
Si alzò, guardò verso la finestra e scostò le tapparelle. Non vi era più la luce accecante di poco prima, e delle nuvole stavano coprendo il cortile e tutto il pronto soccorso. Un piccione si appoggiò sul davanzale, per nulla intimorito dalla presenza di Hector, e riprese il volo subito dopo. Njal lo vide tamburellare le dita contro il muro, immerso in chissà quale pensiero.
Stizzito, Njal rimise i piedi a terra. Si sentiva ancora nauseato e stanco, ma quella storia lo stava davvero facendo impazzire. Odiava stare male, odiava quando non gli prendeva il telefono e soprattutto odiava quei silenzi del cazzo. “Puoi darmi una mano? Guarda, non me ne frega niente di quel tizio, a me basta che Astrid stia bene. Se le ha fatto qualcosa di male…”
“La troveremo. Punto”.
Il suo sorriso vacillò. Così come l'espressione preoccupata e bonaria allo stesso tempo. Con le sopracciglia aggrottate e le unghie serrate sul davanzale, poteva esserci qualcosa di minaccioso. “Ad una sola condizione. Puoi rimandare tutte le domande a quando saremo lontani da qui?”
Njal non era sicuro di aver capito bene. Provò a replicare, ma fu interrotto dall'arrivo del poliziotto. “Ho provato a chiamare” esordì “C'è un punto vicino al parcheggio delle autombulanze dove prendeva il telefono. Non hanno risposto, ma ho lasciato un messaggio ufficiale ed anche un vocale. Così potranno chiamare il cellulare della polizia e li avviseremo”.
In effetti non era così strano. Probabilmente i suoi erano ancora a lavoro, e talvolta suo padre dimenticava il telefono in macchina. L'espressione dell'uomo era sollevata “Vedrai, Njal, senza denuncia le cose andranno in discesa. Ho un figlio che ha quasi la tua età, non immagini il sollievo nel sapere che non ci saranno ripercussioni serie. Ma sei stato fortunato, se solo…”
Hector lo fermò con un gesto, invitandolo a cessare la ramanzina. “Ha avuto una giornata pesante anche lei, agente. Le abbiamo creato fin troppi problemi”.
Frugò nelle tasche del trench, e ne estrasse un pacchetto di cioccolatini. Uno glielo appoggiò sul lato del letto ed uno lo avvicinò all'uomo in divisa. “Direi che abbiamo tutti bisogno di riposare”.
Avvicinò il cioccolatino nel palmo dell'altro, chiudendovi sopra le dita “Max”.
Martinelli emise un sonoro sbadiglio. La testa gli si piegò sul petto, poi la rialzò di scatto, come se si fosse appena appisolato e stesse cercando di svegliarsi. Hector gli scattò vicino, tenendogli il busto per impedirgli di cadere in avanti, poi lo adagiò sul letto libero. Il ragazzo fece per avvicinarsi ed aiutarlo, ma l'altro con un gesto gli fece cenno di non avvicinarsi. Nell'istante in cui la sua testa venne appoggiata su un cuscino, il poliziotto era caduto in un sonno profondo. Se non fosse stato per il respiro profondo, avrebbe potuto persino pensare che fosse svenuto.
Njal aprì bocca, solo per ritrovarsi tra le mani la sua sciarpa, le chiavi e tutti i suoi oggetti. Hector prese poi il telefono di Martinelli e lo fece sparire in una tasca interna. “Ricordi quella parte sul niente domande? Ecco. Come puoi vedere non è il momento adatto”.
Per un attimo si fermò a pensare a qualcosa, poi gli prese di mano la sciarpa e gliela mise intorno al collo con una strana espressione. “Andiamo a tirare fuori dai guai la tua ragazza”.
Stavolta non fece complimenti e lo tirò per il polso, facendolo uscire e chiudendosi la porta alle spalle. Al contatto con la pelle dell'altro, Njal ebbe la conferma che quel tocco era tutto, fuorché normale. La nausea si trasformò in un leggero fastidio, e le gambe gli tornarono salde, al massimo intorpidite come dopo un pomeriggio di allenamento. Deglutì a secco, ed il sangue non fece mostra di risalire.
Una delle pietruzze sul gioiello di Hector sembrava più vivida delle altre, di una tinta ambrata.
“Niente domande" mormorò tra sé, lasciandosi trascinare verso l'uscita.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


La Via del Mare.
Anni addietro, quando era rimasto bloccato sulla Pontina per oltre quattro ore a causa di un incidente, si era ripromesso di non recarsi nelle periferie a sud della capitale se non per casi riguardanti come minimo la sicurezza del Papa in persona.
Grazie al cielo quel pomeriggio la strada era trafficata soltanto nel verso opposto, la luce del sole era gradevole e non aveva nemmeno bisogno di accendersi l'aria condizionata. Il pullman davanti a lui viaggiava a una velocità accettabile, che dava all’esecutore il tempo di voltarsi e lanciare qualche sguardo al mare.
La prima volta che aveva visto il mare aveva quindici anni. Era appena arrivato in Italia dall'Egitto, impacchettato insieme ad un'altra decina di ragazzi della sua età.
Non tutti loro erano risultati idonei alla vita di esecutori, ed erano finiti a dire messa o a predicare in qualche angolo sperduto del globo. Di quelli che erano risultati idonei, non ne aveva più saputo nulla. Ma di quelle facce esili, affamate, di quella Babilonia di accenti incomprensibili e sogni confusi di un futuro ancora più confuso poteva ricordare una ad una le facce sorprese di tutti quei ragazzi davanti alla bellezza del Mediterraneo al tramonto e di quella sabbia scura che si appiccicava sotto i sandali. Aveva trascorso la sua intera esistenza nella sabbia del deserto, ad averla come unico panorama per giorni e giorni quando con i suoi genitori accompagnava i turisti fino alle oasi o alle riserve dei safari, ma non avrebbe mai potuto immaginare che potesse diventare pastosa, modellabile come un gioco. Conosceva la sabbia dei fiumi, quella sì, ma quel lungomare gli aveva rapito un pezzo di anima.
Probabilmente lo sguardo curioso dei suoi compagni doveva essere stato dipinto anche sulla sua faccia, ma purtroppo non vi era più nessuno a ricordarselo. Nemmeno Freki.
Parcheggiò un po’ distante dal ristorante e sbuffò. Non era il momento di farsi prendere dai ricordi. Se era ancora vivo lo doveva al fatto che negli anni era diventato piuttosto bravo a separare il lavoro dalla vita privata.
Anche se, mormorò una vocina nell'angolo della sua testa, questo avrebbe potuto spiegare perché fosse in missione ventotto ore su ventiquattro.
L'unico pagamento eseguito a Ostia dalla carta di Pontieri era stato effettuato in un ristorante sul mare, nella stessa data indicata da Violet. La Vecchia Pineta era un edificio elegante, luminoso, con tavolini sia all'interno che su delle terrazzine. Era ormai metà pomeriggio, ma già dall'esterno riusciva a vedere il personale affaccendarsi nell'edificio in via di apertura, e dal piano inferiore già si sentiva rumore di pentole all'opera. Un paio di furgoni si fermarono per scaricare casse di bevande e cibo, e l'uomo contò almeno cinque persone intente ad aprire il locale e scaricare. Una cena in quel luogo e avrebbe potuto salutare buona parte del suo stipendio, ma a giudicare dalla cifra spesa da Pontieri era chiaro che la paga di un magus pontificio non era quella di un esecutore.
Si lanciò un ultimo sguardo in una vetrina. Investigare in tonaca sarebbe stato il modo migliore per farsi notare, e da almeno dieci anni la sua copertura era sempre la stessa. L'abito formale era la cosa più scomoda che l'essere umano avesse mai inventato insieme ai lacci delle scarpe, e la camicia e la giacca lo comprimevano alle spalle facendolo sudare in maniera indicibile. Si sentiva sempre un gigante ridicolo e, ancora peggio, aveva la sensazione che se si fosse ritrovato a combattere con quegli abiti sarebbe stato inefficiente e inutile. Senza citare quanto la cravatta potesse essere una potenziale arma nelle mani di un nemico.
Notificò il suo arrivo a Samuel con un vocale, poi entrò.
I tavoli non erano ancora vestiti, l'ingresso era pieno di prodotti da catalogare, ma la vista del mare attraverso le vetrate riusciva lo stesso a indurre un senso di meraviglia. Non avrebbe mai osato dirlo davanti ai colleghi, ma il riflesso del sole tra le onde era, a suo dire, la più grande prova materiale dell'esistenza di Dio. E le Asrai, la forma più pura della Firma del Signore sulla superficie dell'acqua, erano l'emblema di quella connessione.
“Il signor Torre?” fece un uomo in divisa da cameriere. Padre Tsekani annuì al suo nome da copertura.
“Per di qua. È arrivato in anticipo”.
“Ho solo avuto molta fortuna col parcheggio” disse, scandendo le parole con lentezza. Per quanto nella Chiesa si parlasse in latino, con l'italiano si sentiva sempre in difficoltà.
Con estrema sorpresa, venne accompagnato all'esterno; un tavolino era stato preparato proprio all'estremità del terrazzo, leggermente rialzato dalla spiaggia. L'uomo notò che era preparato per due persone, ed al centro una bottiglia di vino bianco in un secchio con del ghiaccio. Si voltò verso l’inserviente, e quello gli fece cenno di sedersi.
Esitò, pensando ad un errore, ma una voce si fece strada alle spalle del cameriere. “Non si preoccupi, signor Torre, è gratis”.
Un uomo anziano apparve all'ingresso del terrazzino, ed il giovane dipendente si dileguò. Degli occhiali da sole rotondi gli coprivano gli occhi, ma l'espressione cordiale sulle labbra sottilissime si trasformò in una leggera smorfia non appena i loro sguardi si incrociarono.
“Si sieda”.
Padre Tsekani si accomodò, imitato dal suo ospite. Fece per tendere la mano e stringergliela, ma l'altro arricciò il naso. “Sono Lucio Danieli, il proprietario della Pineta”
“Piacere di conoscerla”.
L'altro non rispose subito. Un inserviente, diverso da quello di prima, si affacciò ed il titolare gli fece un cenno, per poi sparire nei meandri del locale.
“Ammetto che fino a quando non ho visto il bonifico della sua agenzia, signor Torre, sono rimasto un po’ scettico. Uno studio legale d’oltreoceano non si vede tutti i giorni nelle periferie di Roma”.
“La Polish&Dagger opera in tutto il mondo, signor Danieli. Diciamo che ci occupiamo solo di casi incredibilmente selezionati”.
Prima o poi avrebbe voluto vedere in faccia quegli imbecilli del dipartimento Cupola per capire come si fossero fatti venire in mente un nome così idiota per la copertura delle investigazioni vaticane. Anche perché poi era lui a dover mantenere una faccia seria davanti ai clienti. “Spero che il pagamento sia andato a buon fine”.
“Non vi avrei ricevuto, ovviamente. Posso farle portare uno stuzzichino?” disse “È incluso nel bonifico che mi avete fatto”.
Il secondo rimando al prezzo gli fece supporre di avere davvero la faccia di un morto di fame. Il che, a giudicare dai suoni minatori che erano usciti dalla sua carta all'ultimo pieno di benzina, poteva anche essere molto vicino al vero. Annuì, e a un cenno del titolare, arrivarono sul tavolo una decina di ciotole con un antipasto di mare dal profumo invitante. Un cestino del pane venne messo in mezzo al tavolo, e il cameriere stappò la bottiglia e ne versò il contenuto nel calice. Padre Tsekani per sicurezza aspettò che il suo ospite si servisse, poi attaccò dei polipetti al sugo che lo stavano chiamando dallo stesso momento in cui erano entrati in tavola.
“Non so come funzioni nel vostro paese, ma qui non si discute di argomenti delicati a stomaco vuoto” disse il signor Lucio. Si sistemò il tovagliolo sulle ginocchia. All’esecutore non sfuggì il tono canzonatorio della sua espressione; il colore scuro della sua pelle gli aveva dato delle grane durante qualche missione, ma finse che l'insulto fosse caduto nella ciotola di cozze.
L'ultima volta che qualcuno gli aveva rivolto un insulto dello stesso tipo poteva aver violato un sacramento o due. Grazie al cielo esistevano la confessione e le palline antistress. “Direi di andare al punto. Si rende conto che il nostro bonifico copre anche la sua discrezione”.
“Si capisce. Ma non è solo una questione di soldi” mormorò. Staccò un pezzo di pane e lo lanciò sul terrazzo, a meno di un metro dal loro tavolo. Un gabbiano arrivò al volo ed afferrò il bottino, per poi rifugiarsi sulla tettoia. Il recente incontro con il cigno nero mise immediatamente l’esecutore in allarme. “È successo qualcosa a Tonio, vero?”
Padre Tsekani non nascose un sospiro. “Dall'agenzia le hanno anticipato della questione? Di norma non…”
“Sarete pure americani, ma guardate che anche qui in Italia sappiamo fare due più due, sa? Pensate che siamo imbecilli?”
La conversazione stava per evolvere in un chiaro esempio della sua carriera lavorativa: l'unica volta che riusciva ad ottenere qualcosa di positivo, ad esempio un pranzo gratis in un ristorante di lusso, prima o poi un problema sarebbe saltato fuori. Era chiaro che il vecchio Danieli si sarebbe impegnato per mandare al diavolo la sua digestione. “No, anzi. Sono contento, questo velocizzerà la nostra chiacchierata. Ne desumo che conosca il signor Zurlì”.
“Certo. Tonio è un amico. Ci conosciamo da più di vent'anni. E una cosa ve posso dire… qualunque cosa sia successo…” abbassò la voce “... è una brava persona”.
Padre Tsekani aspettò che l'altro bevesse il terzo bicchiere di vino. Era certo che dalla centrale avessero contattato il signor Lucio preavvisandolo solo che avrebbe ricevuto qualche domanda, senza il benché minimo accenno. Il fatto che il suo interlocutore avesse già intuito l'argomento era un indizio sufficiente a farlo preoccupare. L'altro non si era levato gli occhiali, ma si stringeva le mani in maniera nervosa. “Non posso dire nulla che ricada sotto la privacy dell'agenzia. Ma sappia che, oltre a consulenze legali, il nostro compito è anche raccogliere prove e fatti. Qualunque cosa lei possa dirmi, andrà a beneficio del signor Zurlì”
“Va bene…”
Girò la testa verso il mare. Altri gabbiani, leggeri come soffi d'aria, si erano poggiati lungo la riva. Il sole stava avviandosi al tramonto, e gli ultimi bagnanti iniziavano a riordinare le loro cose. A breve la Vecchia Pineta avrebbe aperto i battenti. “... Che volete sapere?”
L’esecutore aprì il telefono, selezionò una foto di Angelo Pontieri e gliela passò. “Avete visto quest'uomo?”
“Certo che sì. Immaginavo che fosse lui il problema. Mi dà proprio l'idea del tipo di persona su cui degli americani come voi possano indagare. Che ha fatto? Droga? Armi?”
“Purtroppo non posso scendere in questi dettagli” rispose l'uomo, riprendendo il telefono reprimendo la soddisfazione. Dall'altra parte dello schermo, la foto di Pontieri sembrava sfidarlo ad inseguirlo. Come tutti i magi, aveva una faccia che sembrava fatta apposta per sfilargli due schiaffi dalle mani.
“Qualche settimana fa Tonio mi chiama. Mi dice che ha degli ospiti, due amici che vengono da lontano e con cui vuole fare bella figura. Ammetto che mi sono fatto gli affari miei, Tonio ha origini siciliane, pure se non lo ho mai sentito parlare molto di altre amicizie non mi sono posto problemi. Insomma, gli ho prenotato un tavolo per tre. Tonio mi ha detto che avrebbe pagato lui per tutti, che avremmo regolato i conti tra di noi, da amici. Adesso, voi capite che con la sua pensione da professore Tonio non navigasse nell'oro, e il mio ristorante, senza falsa modestia, serve il pesce migliore del litorale. E, a giudicare dal vostro piatto, anche voi sarete d'accordo con me” fece. “Mi sa che al vostro paese certe cose ve le sognate…”
In effetti, a parte i gusci delle cozze, il piatto dell’esecutore era immacolato. Senza accorgersene aveva dato fondo anche al secondo cestino del pane. “Comunque, come le ho detto, Tonio è un amico. Ha pure dato ripetizioni di matematica a quella capra di mio figlio e non ha mai voluto un euro, quindi ho pensato che gli avrei fatto pagare solo il vino, e che la cena ai suoi amici la avrei offerta io. Non glielo avevo detto, ovviamente, che altrimenti avrebbe protestato, ma non è questo il punto della storia. Cioè, lo è per quello che poi è successo. Ma intanto le faccio portare una fritturina…”
Il vecchio tirò fuori un pacchetto di sigarette e se ne accese una. Fece il gesto di offrirgliela, ma l’esecutore gliela rifiutò. “E poi si dice fumare come un turco… lasciamo stare. Insomma, arriva la famosa cena. Io mi aspetto di vedere qualche vecchio rincoglionito della mia età, e invece vedo Tonio entrare con questi due tipi che giuro sembravano degli attori di Hollywood. Quella foto che mi ha fatto vedere non gli rende giustizia. Lui con degli occhi azzurri inconfondibili, e vestito con un completo da sera come se ne vedono solo ai matrimoni. E lei… signor Torre, spero di star parlando con un uomo vero, dai gusti sani”.
L’esecutore annuí, invitandolo a continuare.
“Dio, quella donna era una fata, parola mia. Non scherzo, si sono girati tutti. Meno male che mia moglie stava in cucina…”
“Una donna dai capelli tinti di blu?”
“Allora sa di chi sto parlando. Una così o è un'attrice, o una escort. Ma immagino non possiate dirmi nemmeno questo. In ogni caso, immaginatevi questi due giovani, forse trent'anni a testa, vestiti come per salire su una passerella, al tavolo col vecchio Tonio ed il suo cappello borsalino. Uno spettacolo che mi ricorderò finché campo”.
All’arrivo della frittura mista il gabbiano tornò ad affacciarsi sulla terrazza. L'uomo levò un po’ di fritto da un calamaro e glielo lanciò. L’esecutore decise che fotografare il piatto e mandarlo a Samuel sarebbe stato troppo poco professionale per l'emissario di uno studio legale, e si limitò ad annuire. “Ha avuto modo di ricordare qualcosa della loro conversazione?”
“No, non ascolto i miei clienti. Men che mai i miei amici. Sono andato solo a prendere di persona gli ordini ma poi non mi sono immischiato. Li ho fatti servire da Diego, uno dei camerieri. Capirà, quel ragazzetto era tutto rosso quando andava vicino a quella fata”
Lanciò altro pesce fuori dalla terrazza, quasi divertito dal nugolo di volatili attratti dal cibo, per un attimo distratto dai propri ricordi. “Tonio era davvero ossequioso verso l'uomo. Verso la donna non saprei dire, credo che lei fosse più un’accompagnatrice, avrà aperto bocca una volta o due. Ma una donna del genere non ha bisogno di parlare, si fidi di un esperto! Giusto… lei ha ordinato poco, doveva essere indisposta. Nemmeno il dolce, e le assicuro che Diego le aveva proposto di tutto. Però mi dispiace, non saprei dirvi di cosa abbiano parlato. Ho scritto a Tonio il giorno dopo, ma non ho più avuto risposta”
Nella testa dell’esecutore danzarono mille pensieri. Le informazioni del signor Danieli coincidevano con la versione della Asrai, e dunque era chiaro se Antonio Zurlì non era un estraneo per Pontieri. Probabilmente doveva dei favori al nobile romano, ma la relazione tra i due era ancora tutta da svelare.
Soprattutto come potesse un professore in pensione, estraneo alle dinamiche della Santa Sede e della Firma, essere entrato in contatto con un magus la cui intera esistenza era basata sulla segretezza. Un magus contrattista, ragionò tra sé, un essere famoso per non concedere alcun favore senza poterne ricavare un buon guadagno; e Antonio non sembrava il tipo di persona in grado di suscitare favori nella vittima della sua caccia.
Guardò sconsolato il piatto, accorgendosi di aver divorato fino all'ultimo anello di calamaro.
“Però una cosa strana è successa…”
Il vecchio Lucio, con la sigaretta abbandonata nel posacenere, si portò una mano sotto il mento. “... come vi ho detto, mi ero riproposto di offrire la cena a Tonio. L'uomo giovane è venuto da me in cassa, si è offerto di pagare, ma io non mi rimangio la parola e gli ospiti degli amici sono anche miei ospiti, quindi gli ho detto di lasciar perdere. Non ci crederà, signor Torre, non ho mai visto un uomo insistere così tanto per pagare. Mai, giuro, mai. Non c'è stato verso. Allora ho acconsentito anche solo per levarmelo dai piedi, lo ho convinto, ed ha insistito per pagare con la carta. Che, per carità, questo è un posto a norma di legge, ma… per mia esperienza gente di quel tipo paga sempre in contanti”.
La questione non lo aiutò. Che Pontieri avesse pagato con la carta lo sapeva, ed era il motivo per il quale era riuscito ad arrivare fino alla Vecchia Pineta. Le preoccupazioni finanziarie di Danieli non erano l'argomento della discussione.
Aveva bisogno di scoprire cosa si fossero detti.
Poi un urlo.
Un urlo così agghiacciante che Lucio perse la presa sul bicchiere, per poi alzarsi di scatto nonostante l'età. La mano dell’esecutore d'istinto afferrò il coltello e fece un salto oltre il tavolo, oltrepassando il suo ospite e buttandosi verso la sorgente dell’urlo.
Veniva da dentro la Vecchia Pineta.
Entrò nel salone, e tutto il personale stava correndo verso le cucine. Al primo urlo se ne sovrapposero altre, più confuse; qualcuno gridava di chiamare la polizia.
Si fece strada sfruttando il proprio fisico: tracce della Firma si muovevano nell'aria, simili ad una tela stracciata o ad un odore sulla via di disperdersi. Entrò a forza nella cucina, maledicendo i pantaloni stretti e l'assenza delle sue armi.
I suoi occhi individuarono subito un corpo piegato in due davanti al frigorifero. Una macchia scura lungo l'anta colava verso il basso, lasciando poco spazio all'immaginazione. Per terra vi erano sparse delle posate e un piatto era rotto, caduti insieme al giovane in divisa da cameriere. Si avvicinò, rivolgendo un'espressione truce a un inserviente che cercò di trattenerlo; nessuno si azzardò a venirgli dietro e probabilmente fu per il meglio perché, quando si avvicinò per vedere se fosse possibile soccorrere il malcapitato, soltanto gli anni sul campo gli impedirono di distogliere lo sguardo dal disgusto.
Al posto di entrambi gli occhi c'erano pozze di sangue. Tagli e graffi su tutto il viso, tra i capelli, e non appena lo mosse un secondo fiotto di sangue acceso uscì da una ferita alla base del collo. Degli occhi non vi era rimasto più nulla.
Doveva aver cercato di difendersi perché alcune ferite erano anche sulle mani; al contrario il petto non riportava alcun colpo, l'uniforme era perfetta. Qualunque cosa lo avesse ucciso, aveva attraversato il cranio con una disgustosa precisione.
Si portò la mano al collo, sfiorando il crocifisso: l'energia nell'aria fluttuò come una scia, e l’esecutore la seguì con lo sguardo.
La finestra era aperta, e i suoi occhi percepirono il rapido battere di ali di un gabbiano che prendeva il volo.
“Che è successo a Diego?” gridò il signor Danieli apparso all'ingresso della cucina. “Chiamate subito la polizia!”
Padre Tsekani sudò. “Io provo ad andargli dietro!”
Lo disse più per levarsi i curiosi da torno che non per altro ma funzionò, perché l'intero staff del ristorante gli fece ala. Ritornò verso la terrazza dove aveva appena mangiato, accorgendosi di essere ancora armato solo di un coltellino da pesce. Si lasciò guidare dal crocefisso di nuovo, percependo il gabbiano allontanarsi. Maledì l'arsenale e la tunica ancora in macchina, ma non poteva perdere l'opportunità.
Si slacciò di corsa la cravatta, mandò un rapido vocale a Samuel, prese un bel respiro e iniziò a correre a perdifiato lungo il litorale.
La traccia della Firma volteggiava labile nel cielo, ma stavolta sapeva come fare.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


“Nausea?”
Njal fece un mezzo cenno di assenso. Lo stomaco mandava segnali contrastanti, e il riverbero degli ultimi raggi del sole sul vetro del veicolo era davvero molto, molto fastidioso.
Lui e Hector si erano buttati dentro uno degli autobus della linea circolare, per poi cambiare dopo un paio di fermate ed incrociare la linea che li avrebbe portati al suo B&B. Su quest'ultimo erano riusciti a trovare un posto per sedersi, ed il ragazzo fu grato di poter appoggiare un attimo la testa sulla seduta in plastica; l'autobus aveva imboccato una lunghissima serie di curve a strapiombo sul mare, ed i turisti si accalcavano sul lato esterno per scattare foto del promontorio al tramonto. Il brusio dei loro commenti era davvero fastidioso, quasi amplificato, e contava i minuti che lo separavano dalla sua stanza. Teneva il telefono in una mano, in attesa di una qualsiasi vibrazione che segnalasse un messaggio in arrivo, ma l'oggetto rimaneva silenzioso. A giudicare da qualche commento, anche i turisti stavano sperimentando lo stesso disagio.
Pur rivolto verso l'esterno, si sentiva lo sguardo di Hector addosso. L'uomo si era seduto accanto a lui, e a parte controllare la connessione del suo cellulare di tanto in tanto non aveva parlato più dello stretto indispensabile.
Nella testa di Njal vi erano più domande di un quiz universitario, e le risposte multiple senza senso continuavano a rimbalzargli tra le labbra. La cosa buffa era che non sapeva nemmeno cosa chiedere per prima.
L'intera strada dava su uno strapiombo. In basso, sporgendosi, gli ombrelloni colorati tempestavano lo strettissimo arenile, e anche da quell'altezza poteva vedere le sagome degli ultimi bagnanti rientrare e muoversi verso le auto parcheggiate in fila lungo la stretta strada, le stesse che costringevano il bus a rallentare per riuscire a passare.
Lui e Astrid si erano ripromessi di fare un bagno al mare prima di ripartire.
“Martinelli immaginerà che il primo posto dove venirti a cercare è il tuo alloggio” sussurrò Hector. “E, se è abbastanza intelligente, farà perquisire anche il mio. Direi di farci notare il meno possibile, cercare tracce della tua ragazza e poi allontanarci da qui. A meno che tu non abbia un piano…”
“Ti sembra che ne abbia uno?”.
Njal non aveva la benché minima idea di quando finisse il coprifuoco del niente domande, ma preferì focalizzarsi sul proprio stomaco e attendere; per quanto non avesse idea di cosa diamine gli fosse successo, il solo fatto che Hector gli credesse gli dava una fragile sensazione positiva.
Chiunque fosse l'uomo con la maschera a metà, sembrava un fantasma intento ad apparire e scomparire in qualunque suo pensiero. Più cercava di tornare indietro a quella sera e più il suo sorriso diventava ancora più intenso del ricordo di Astrid. Strinse tra le dita il cellulare e le chiavi del Bed, alzandosi di corsa non appena il 5 ebbe terminato la corsa, scaricando i turisti in spiaggia per caricarne almeno il quadruplo. Si recò al proprio alloggio a falcate ampie; l'accesso era privato, ed i padroni dell'alloggio dovevano essere andati via dalla casa vacanze da almeno un'oretta, quindi imboccò il cancelletto senza timore di essere notato. Dietro di lui Hector trotterellava lamentandosi di qualcosa, ma lui aveva solo un pensiero per la testa.
“Astrid, sono io!” disse mentre apriva la porta.
Come parte di lui temeva, non ebbe risposta.
Entrò dentro a tutta velocità. L'appartamento era in ordine, proprio come lo avevano lasciato: nella cucinetta c'erano persino gli integratori di vitamine dei capelli di Astrid proprio vicino al rubinetto dell'acqua, e quando entrò in camera era come se nessuno fosse mai passato di lì. I costumi che avevano comprato in previsione del mare erano ancora nella busta con il loro cartellino, ed entrambi i caricabatterie erano attaccati alle prese. Andò all'armadio e cercò la cassaforte, ma i loro tablet erano ancora lì dentro. L'aria aveva odore di chiuso.
“Niente”.
Lo disse più a se stesso che non al suo compagno. Hector si stava pulendo le scarpe sullo zerbino, ed entrò nell'alloggio quasi in punta di piedi. Si guardò intorno ed accese la luce, e solo in quel momento Njal si accorse che per la preoccupazione nemmeno si era accorto che ormai il sole fosse calato. “Non c'è, Hector. Non è passata per di qui. Quello stronzo deve averla rapita!”
“Maledizione…” disse. Njal lo vide iniziare ad ispezionare la stanza proprio come aveva fatto lui, ma non se la sentì di dirgli che era una mossa inutile. “Mi dispiace, credevo potesse essere qui, e…”
“Che facciamo adesso?”
Il mal di testa e la nausea di poche ore prima sembravano essersi coalizzate: avrebbe dato qualunque cosa per stringere il collo del loro aggressore con le sue stesse mani, e per la rabbia tirò un calcio al comodino. Hector gli venne subito vicino, appoggiandogli la mano sul braccio; fu tentato di mandarlo al diavolo e allontanarlo, ma di nuovo quella strana sensazione di benessere al tocco lo fecero desistere. Si limitò a sbuffare ed a sedersi sul letto, fissando il suo cellulare. “Se solo potessi chiamarla…”
Hector imitò il gesto, avvicinando persino il proprio telefono alla finestra. Emise un suono frustrato, poi si girò. “Non c'è campo, ma possiamo provare con un telefono fisso. Lo so che è una stupidaggine, ma…”
“Chi diamine ha un telefono fisso nel 2019, Hector?”
“Tutti i posti dove la telefonia mobile non prende. Ovvero, almeno metà di questa isola” disse. “Abbiamo qualcosa da perdere?”.
Il ragazzo non se lo fece ripetere e scese insieme a lui.
L'accesso alla sala comune era al piano terra. I titolari, due signori gentili dall'inglese stentato, avevano ripetuto più volte a lui e ad Astrid che potevano servirsi di tutte le merendine che volevano, anche per degli spuntini notturni, e lo sguardo gli cadde sulla dispensa. La sala comune sembrava immacolata, e nessuna voce veniva dagli alloggi vicini; si avvicinò alla scrivania, il posto dove erano stati accolti per fare il check in, ed in effetti un telefono fisso, di quelli che forse avevano i suoi nonni, era posizionato all'angolo del mobile con un paio di penne vicino.
Sollevò la cornetta, e suonava. Digitò il numero di Astrid e attese.
I primi due squilli se li fece trattenendo il fiato, sentendo libero.
Al terzo squillo la sua faccia incontrò l'espressione terra di Hector, quando realizzarono entrambi che un cellulare stava suonando al piano di sopra. Ed era la suoneria di Astrid.
Abbandonò il telefono, saltando gli scalini due a due. Mise le chiavi nella toppa per aprire di nuovo il suo appartamento , con la suoneria che veniva chiaramente da lì dentro, quando Hector lo afferrò per la spalla. “Aspetta” disse “Non sappiamo che cosa sia successo”
“So solo che prima il telefono di Astrid non c'era, Hector! Ti pare che aspetto?”
“Appunto perché prima non c'era. Non ti sto dicendo di non entrare, solo…”
Njal per poco non cacciò un urlo quando dalla tromba delle scale arrivò un frullio di ali che passò proprio vicino alle sue orecchie. Un piccione era apparso da chissà dove, fece un paio di giri e si appoggiò sul pavimento proprio davanti alla porta. Con una calma ai limiti dell’esasperante, Hector socchiuse la porta “... prendiamo qualche precauzione”.
Il telefono continuava a strillare.
Il piccione entrò, e l'uomo chiuse di nuovo la porta.
Njal era attraversato dal bisogno fisico di sfondare la porta e correre, quindi si impose di fissare Hector e qualunque cosa stesse facendo: nonostante la penombra poteva vedere con precisione le pupille dell'altro assottigliarsi ed il suo respiro cambiare ritmo. Se non fosse stato impossibile, avrebbe potuto giurare di sentire persino il suo cuore accelerare. Aveva di nuovo portato una mano al suo ciondolo, e con le labbra aveva mormorato qualcosa. Dopo una decina di secondi la sua faccia cambiò espressione. “Njal, avevi guardato nel bagno, vero?”
“Certo che sì. Che c'è? Che succede?”
“Forse è il caso che entri solo io, non è proprio…”
Le ultime briciole della pazienza di Njal svanirono, interruppe Hector con uno sbuffo e scattò nell'appartamento.
La suoneria continuava a squillare.
Dal bagno uscì il piccione, che volò verso Hector e si perse.
C'erano pozze d'acqua su tutto il pavimento.
Si avvicinò alla vasca da bagno, da cui soltanto una mano ossuta usciva, col telefono di Astrid tra le dita. Tutta la rabbia di qualche istante prima si trasformò in una sensazione di tremore alle gambe, e se non si fosse ritrovato Hector alle spalle forse sarebbe persino indietreggiato. L'altro gli poggiò una mano sull'avambraccio e lo sorpassò. “Non è un bello spettacolo…”
Il ragazzo lo lasciò fare.
Hector si avvicinò alla vasca con un'espressione illeggibile: appoggiò entrambe le mani contro quella che stringeva il telefono, quasi con una carezza affettuosa. Le dita si aprirono, e l'uomo gli porse il telefono. Per avvicinarsi e prenderlo Njal si sporse, mosso dalla curiosità, e quello che vide gli fece gelare il sangue: vi era un uomo dentro la vasca, un signore anziano dal volto tumefatto come se fosse stato a mollo per giorni interi. Le sue iridi morte e lattiscenti erano di un azzurro chiaro, e quando Njal le incontrò girò subito lo sguardo.
Non aveva mai visto un cadavere.
Lo stomaco tornò a contorcersi e si avvicinò al gabinetto. Su di esso, appoggiato, vi era un cappello borsalino anch'esso bagnato. Fece per spostarlo e sollevare la tavoletta, ma qualcosa dentro il suo petto si agitò così tanto che retrasse la mano. Si appoggiò la mano alle costole per placare la sensazione e per voltarsi e rimettere nel bidet, ed in quel momento realizzò la cosa più stupida e più impossibile del mondo.
Il battito del suo cuore era flebile, quasi inesistente.
“Hector…”
Non riuscì a finire la frase. Il telefono continuava a suonare, imperterrito, e il volume della suoneria era persino aumentato. Sul display era indicato solo un numero privato.
Fissò il telefono, poi l'uomo, poi di nuovo il telefono. Infine rispose.
Dall'altra parte la voce di un uomo prese a dire qualcosa. Non era una lingua che Njal conoscesse, ma vi era qualcosa, nelle parole pronunciate, che gli sembrava affine, quasi come se il loro significato si trovasse proprio sulla punta della sua lingua. Provò a interromperlo, ma la voce continuò in maniera costante, con un tono di voce così monocorda da sembrare un messaggio registrato. Qualcosa dentro di lui sembrava sentire addirittura il bisogno di ascoltarla, e solo quando incrociò lo sguardo preoccupato di Hector si accorse con terrore che con le proprie labbra stava seguendo le parole.
Avvicinò il telefono all'uomo, invitandolo ad ascoltare, e nel farlo notò che le proprie mani tremavano. L'altro le prese tra le sue, e con quel gesto avvicinò il display all'orecchio con un'espressione che definire terrorizzata sarebbe stata un eufemismo.
Schizzò fuori dal bagno ancora col telefono in mano e Njal lo seguì. Si ritrovarono a guardare insieme oltre la finestra, solo per portarsi entrambi le mani al petto e allo stomaco per il dolore.
Il cielo era diventato nero. Un nero strano, privo di vita, un colore che non aveva nulla a che spartire con quello della notte. Njal cercò subito un cenno di luna o di stelle, senza trovarle; non era però un'assenza dovuta alle nuvole, o a qualsiasi forma di maltempo. Era un nero che da solo gli riverberava persino nello stomaco, quasi a riflettere ed essere un tutto unico col dolore che stava attraversando sia lui che Hector. La base del collo prese a pulsargli di nuovo, con più violenza di quanto non fosse successo all'ospedale, e quando piegò la testa per implorare un po’ di sollievo vide nel cielo, proprio oltre il tetto del suo alloggio, qualcosa che assorbì qualunque suo pensiero e respiro.
Un enorme sole, nero quanto e più della notte, sorgeva sopra il mare. Non emanava nessuna luce, e nemmeno un riflesso scintillava sopra le onde; si trovava fisso nel cielo come se fosse l'origine stessa di quella oscurità priva di senso, una massa da cui il ragazzo trovò quasi impossibile distogliere lo sguardo. Era come riuscire a fissare il sole con gli occhi, senza filtri, ma ben lontano da come lo aveva visto anni addietro, durante un’eclissi. Lo vedeva, ma ancora di più ebbe l'impressione di sentirlo dentro di sé, quasi come una scarica viva sotto la pelle. L'edificio, la strada, gli stabilimenti, qualunque forma di illuminazione artificiale era sparita. Nonostante le pupille sembravano inchiodate sull’astro nero, parte della sua coscienza fissava con terrore il buio abbattuto sulla costa; non vi erano urla o gente che scappava, ma solo un silenzio anch'esso parte del cielo e della notte intera.
Ritornò alla realtà quando, alle sue spalle, Hector per contorcersi cadde contro una sedia: nonostante fossero immersi nel buio più totale, il ragazzo si accorse di vedere con estrema precisione la faccia dell'uomo perdere colore. Aveva portato le mani dal petto al ciondolo, e una serie di piccole luci di vari colori uscivano da quello strano gioiello; le luci però non riverberavano nella stanza o nell'aria circostante, ma disegnavano solo scariche lungo il corpo del loro proprietario. Njal piantò i piedi a terra, sentendo di nuovo risalire il malessere ed i conati quasi in sintonia con i colori resi ancora più vividi da quel buio. Costrinse le sue gambe a muoversi e rimise in piedi l'uomo. “Ce la fai?”
Hector gli strinse la spalla, appoggiandosi con tutto il suo flebile peso. La strana sensazione di benessere che veniva dalla sua mano sembrava salire e scendere insieme ai colori del ciondolo. Qualunque cosa stesse succedendo, stava affliggendo l'uomo anche più di lui.
Non aveva idea di cosa fare.
Lo tirò verso l'interno, lontano dalla finestra. Dal telefono continuava ad uscire quella voce, e lo lanciò con rabbia dall'altra parte della stanza senza lanciare nemmeno un'occhiata al cadavere nella vasca. Quando provò ad appoggiare Hector sul letto, anche solo per evitare che gli crollasse addosso, l'uomo fece un severo segno di diniego. “Andiamo al parcheggio. Dobbiamo correre”.
“E dove dobbiamo andare?”
“Ci serve una chiesa” ringhiò “E subito”.
Njal decise che non era il caso di discutere. Hector provò a farsi forza ed a affrettarsi verso la porta, ma il ragazzo lo vide ondeggiare così male che lo fece appoggiare alla sua spalla ignorando il martellare incessante della bocca dello stomaco. L'altro pesava ancora meno di quanto sembrasse.
Quando uscirono all'aperto l'intero piazzale era avvolto nell'oscurità. Il negozio di articoli da mare e la boutique avevano le porte spalancate, ma non c'era nessuna luce accesa e nessun movimento. Si sporse per vedere se vi fossero persone sulla scala che portava agli stabilimenti, ma non vi erano sagome o voci. Parte di sé era tentata di fissare ancora una volta il sole nero.
Scendendo dal bus aveva adocchiato una discesa con un parcheggio destinato ai bagnanti, quindi spinse Hector giù per la stradina ignorando il confusionario caleidoscopio che animava il suo pendente. L'uomo mormorò qualcosa tra un respiro e l'altro, e da sopra di loro un battito d'ali scese in picchiata e volò fino al casotto del custode del parcheggio, un piccolo gabbiotto poco distante da entrambi. Njal ed Hector erano arrivati arrancando alla fine della rampa quando il volatile tornò verso di loro, un piccolo gufo con un mazzo di chiavi di una macchina nel becco. Le fece cadere nel palmo di Hector e si librò in aria.
L'uomo procedette stentando verso la macchina più vicina, e la aprì. “Tranquillo, guido io”
“Immagino non sia tua…”
“Io immagino che in questo momento i padroni abbiano ben altri problemi” mormorò, tirando a fatica la portiera “Muoviamoci”.
Il ragazzo strinse le mani della sciarpa, quasi a cercare conforto, poi entrò nel veicolo. Era una macchina vecchissima, ed i suoni che emise all'accensione non promettevano nulla di buono.
“Siamo in tempo per rubarne un'altra?”
“No”.
Fissò l'uomo, ed era terreo. La mano era avvinghiata sul cambio ed aveva l'espressione di stare per svenire da un momento all'altro. “Guido io?” chiese, ricordandosi delle curve a strapiombo dell'isola “Ho preso la patente il mese scorso, se vuoi…”
“Tu guardati intorno e avvisami se c'è qualcosa di strano”.
I suoi occhi si assottigliarono di nuovo, come quando aveva chiamato il piccione al Bed. Mise in moto e uscirono dal parcheggio, risalendo lungo la strada che avevano percorso in autobus.
I fari della macchina avevano qualcosa di strano: nonostante Njal fosse pronto a giurare che fossero accesi, sembravano non essere in grado di illuminare sul serio. Le luci attraversavano il buio della notte in maniera impalpabile, a fatica, quasi come fosse calato un banco di nebbia. L'aria era però tersa e netta, ma i fari non riuscivano in ogni caso ad illuminare più di pochi centimetri: il ragazzo ebbe un sussulto quando Hector spinse il vecchio macinino su per una curva a gomito con estrema precisione, e il gesto lo portò a realizzare un dettaglio a cui non era ancora riuscito a dare voce.
“Hector… lo sai che sto vedendo al buio?” fece. I fari si perdevano in quella strana oscurità, ma le sagome degli alberi, delle macchine parcheggiate e delle case a strapiombo riusciva a distinguerle. Anzi, più le sagome si trovavano vicine alla sorgente luminosa e meno sembravano mettersi a fuoco.
Nonostante l’assenza di luci interne del veicolo, il cenno silenzioso di assenso dell'altro gli arrivò come una coltellata.
Fu quando terminarono la salita panoramica e si buttarono nella strada principale che le notò.
Prima pensò che fosse solo un'impressione, ma vi era qualcosa che si muoveva tra una casa e l'altra. I suoi occhi inquadrarono un movimento strano oltre la prima piazza, ma continuarono ad apparire nonostante la macchina mantenesse la sua andatura. Ci fu un guizzo persino riflesso nello specchietto retrovisore. “Hector, c'è qualcosa che si muove”.
“E ci sta seguendo?”
“Non lo so…”
Si forzò a guardare di nuovo. Non sapeva nemmeno più nemmeno cosa pensare, perché qualunque forma di pensiero gli si stava paralizzando nella testa. Alle loro spalle, lungo la strada che si stavano lasciando indietro, i movimenti presero ad aumentare.
Cercò di dar loro una forma, ma tutto ciò che riuscì a percepire furono quasi delle sensazioni, degli echi che non riusciva a definire con delle parole. Erano nere nel nero, qualcosa che non aveva una sagoma ma si trovava alle loro spalle. Aprì il finestrino per sporgersi e vederle con i propri occhi, ma quando l'aria esterna entrò nell’abitacolo fu colpito da una sensazione di malessere tale che lo rinchiuse di colpo; per un attimo ebbe persino l'impressione che nell'aria stessa vi fosse qualcosa che appartenesse a quelle ombre, guizzi che scuvolavano tutti intorno a loro. Non sapeva nemmeno definire se si trattasse di una sola entità o di numerose, ma quando un movimento saettò davanti ai loro fari cacciò un urlo e si portò le mani alla bocca. Hector non rallentò, e il leggero sobbalzare della vettura come se avesse urtato qualcosa fu sufficiente a farlo raggomitolare nel vecchio sedile.
Il piccolo gufo comparve come per magia a pochi metri da loro, indicando una strada laterale in cui Hector si buttò senza nemmeno rallentare.
“Manca poco” lo sentì sussurrare, osservando con terrore quanto l'altro sembrasse avere difficoltà persino ad ispirare un po’ d'aria. “Manca poco…”
Njal volle credergli, ma dallo specchietto le ombre fecero capolino alle loro spalle, sempre più veloci.
Il sole nero si stagliava sopra di loro.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Padre Tsekani inspirò ed espirò a lungo, riacciuffando l'aria. Intorno a lui qualche curioso lanciava delle strane occhiate, ma gli bastarono uno sguardo ammonitore ed il suo ringhio da mastino per scoraggiare i passanti.
Aveva corso per oltre dieci minuti all’inseguimento del gabbiano, passando dalla spiaggia al lungomare, per poi buttarsi in delle vie laterali che lo avevano portato decisamente lontano dal litorale. Anni di addestramento da esecutore gli avevano permesso di reggere lo sforzo, ma a giudicare dall’affanno e dal leggero tremore alle gambe l'aver superato i trent'anni si stava facendo sentire. Il suo crocefisso veicolava le tracce libere della Firma, ed usò l'essenza divina presente nell'area per convogliare del tepore nelle ginocchia per placare il dolore ed impedire i crampi in arrivo.
Il gabbiano aveva volato con estrema lentezza; non era svanito nel nulla, come era accaduto con il cigno nero, e si era mescolato con i propri simili in più di un'occasione. L'uomo era sicuro di aver intravisto persino tracce di sangue lungo il becco, e di certo non si considerava una persona suggestionabile. La creatura aveva compiuto diversi giri lungo gli interni di Ostia, e si era decisa ad entrare dentro un edificio anonimo, una palazzina come mille lì intorno, con il portoncino e le mura scoloriti dalla salsedine e dall’incuria.
Si avvicinò all'ingresso e gettò un'occhiata ai nomi scritti sui vari citofoni. Non serviva il suo fiuto da vecchio mastino per indovinare quale interno cercare.
Su una delle targhette campeggiava la scritta “Zurlí - Di Meglio”.
“Prevedibile…” mormorò a denti stretti.
Maledicendo le tasche strette del completo elegante, estrasse il telefono e compose il numero di Samuel. “Abbiamo un problema”.
“Me ne sono accorto!”
La voce che rispose dall'altra parte dello schermo non era quella del suo giovane collega, ma quella autoritaria di Padre Whiteflame. “La polizia è già arrivata ed hanno contattato la copertura dell'agenzia. Alla faccia della sua discrezione, Padre Tsekani!”
La voce del vecchio superava di molto i decibel di qualunque forma di discrezione accettabile, ma l’esecutore non ebbe il coraggio di farglielo notare. Una signora entrò nel portone e gli lanciò uno sguardo dubbioso, e per sicurezza l'uomo decise di camminare intorno al palazzo per non attirare l'attenzione; con tristezza notò di aver lasciato in macchina non solo le armi, ma anche le cuffiette. “Hanno riportato che un ragazzo è stato ucciso da un gabbiano. Da un gabbiano! Cosa le avevo detto al nostro ultimo incontro?”
“Massima riservatezza, lo so…”
“No. Quella dovrebbe essere nelle basi, insieme al Padre Nostro ed alla patente!” tuonò l'altro.
Seguì un silenzio imbarazzante. Padre Tsekani cercò di ricordare la conversazione, ma a parte le lamentele sulla moglie di Pontieri non gli veniva altro in mente.
“La avevo avvisata esplicitamente di rimanere al chiuso. Ma no, lei doveva mangiare su un terrazzino sul mare!”
L’esecutore si morse il labbro.
Dovette fare uno sforzo, ma in effetti il suo superiore aveva mormorato un ordine simile prima di andarsene; certo, non era stato l'avviso più esplicito della sua vita, ma non poteva certo negare di averlo ricevuto. Poteva vedere chiaramente l'espressione furibonda sulla faccia del vecchio dall'altra parte del cellulare, e di contro la faccia disperata di Samuel.
Diede un pugno silenzioso contro un muro.
“Se lei non si fosse esposto in questo modo, forse quel ragazzo sarebbe ancora vivo! Danieli mi ha detto che lo avevate nominato durante il pranzo, vi possa andare tutto di traverso!”
Ormai era arrivato al terzo giro dell'edificio, e continuava a tenere d'occhio la finestra dove il volatile si era rintanato. La mente tornò al dialogo lungo la terrazza e alle affermazioni del signor Lucio: i gabbiani erano sempre stati lì, ad ascoltare.
“Diego, il ragazzo… quella sera si era avvicinato al tavolo di Pontieri” disse, ragionando ad alta voce. “Era il cameriere di turno. Ci hanno ascoltato e lo hanno ucciso prima che io gli parlassi. Ed ho il sospetto che lei sapesse che qualcuno mi stesse osservando, o non mi avrebbe dato quell’avvertimento”.
“Il pranzo lo ha reso percettivo?”
Il tono odioso gli fece venire voglia di prendere il telefono e scagliarlo contro il primo pilastro di cemento. Era stanco, sudato, con gli abiti e le scarpe più scomodi degli ultimi anni, e la sensazione di impotenza verso la morte di Diego gli premeva il petto: per quanto parte di lui sapeva di meritarsi le urla del proprio superiore, l'altra avrebbe voluto soltanto afferrare il vecchio e chiuderlo nel portabagagli della sua auto. “Adesso mi faccia una cortesia, Padre Tsekani” continuò l'altro “Alzi i tacchi e torni a Roma. Ha un magus da riportare all’ovile”.
“Ho seguito il gabbiano. Mi trovo davanti alla casa di Antonio Zurlí, confido di trovare qualcosa lì dentro”.
“Non se ne parla!”
“Ma…”
“Lasci perdere quell’uomo e rientri. Abbiamo ben altri problemi”
“Con tutto il rispetto, Padre Whiteflame, ma non è così!” fece, costringendosi a non alzare la voce ed a tenere tutto l'odio tra i denti. “Due civili morti sono un problema. E, se non sono il suo, le assicuro che sono il MIO!”
Le dita gli scattarono sul pulsante rosso e chiuse la chiamata.
Rimase diversi secondi a fissare il display, immaginando che il vecchio barbagianni richiamasse da un momento all'altro (o, peggio, che facesse richiamare Samuel); si sentiva il cuore a mille, frustrato da quella conversazione priva di senso.
Non era diventato un esecutore per quello.
Padre Whiteflame non richiamò.
Lanciò un'occhiata alla finestra incriminata, quasi ad aspettarsi il gabbiano e il suo strano ghigno di soddisfazione. Poi controllò quanto distasse la macchina, rendendosi conto di essersi allontanato davvero tanto dalla Vecchia Pineta.
Mandò mentalmente all’inferno quel bastardo del suo superiore e entrò nella palazzina approfittando di una coppia che ne usciva. Salì le scale fino al secondo piano, dove aveva visto entrare il volatile, e fu grato di non incrociare nessuno. L'appartamento di Zurlí era uno dei tanti, anonimo, un portoncino di legno scuro senza alcuna decorazione, il tappetino sollevato come se nessuno fosse in casa; nessun segno di effrazione evidente, ma le energie ancestrali che permeavano l'edificio ed entravano in vibrazione col suo crocefisso erano ben chiare. La Firma sembrava pura, pulita, fin troppo delicata per essere l'opera di un magus.
Se non si fosse trattata della casa di un morto, avrebbe potuto persino considerarla piacevole.
In altre situazioni avrebbe preso il portoncino a spallate, ma la situazione richiedeva discrezione, anche perché il vecchio gufo non doveva assolutamente scoprirlo: ringraziando di avere il coltellino a serramanico attaccato alle chiavi della macchina iniziò a forzare la porta, maledicendo il sudore, la stanchezza e la testa vuota dei suoi superiori.
A Freki poteva aver imputato tante cose, ma senza dubbio avrebbe approvato.

El-Gebal era lontana, lontanissima nel tempo e nello spazio. Forse addirittura irraggiungibile, come una clessidra vuota. E poi quanto tempo era che non scriveva a sua madre? Niente whatsup, niente sms, niente mail: solo lettere, che non potevano essere tracciate e che altrettanto facilmente potevano andare perse.
Ripensò al primo incontro con Freki, Falce della Luna, esecutore capo delle missioni di recrutamento, poco prima di essere caricato su un aereo per l’Italia come un pacco. Forse non l'avrebbe mai incontrata se non fosse stato per l'Americano.
L’Americano. Senza dubbio aveva avuto anche un nome ed un cognome, ma nei ricordi di Tsekani Kaudry era solo un americano grasso come quelli dei film, e lui un adolescente dal pugno facile e dal brutto carattere. Un Americano che lui, dopo averlo sentito insultare i suoi genitori nonostante lo avessero portato in giro fino all’oasi e lo avessero trattato con sultano, aveva tirato giù dal cammello per turisti ed aveva preso a cazzotti quella faccia col doppio mento. Perché nessuno chiamava la sua famiglia “sporchi negri”.
Probabilmente aveva agito senza pensare alle conseguenze di colpire un turista in grado di comprarsi il suo villaggio, ma ricordava solo quei giorni precipitare e sua madre in lacrime.
Poi erano arrivati loro, quelli delle missioni. Sempre con quella tunica scura e il pendente con la croce, che secondo suo padre dicevano una valanga di cazzate ma quantomeno portavano del cibo ed insegnavano ai più piccoli a leggere e scrivere. Avevano parlato con i suoi e lo avevano accompagnato in un edificio vicino la loro piccola chiesa; il che non sarebbe stato un problema se non fosse stato che vi erano facce nuove, tutte armate.
Freki, l'unica donna lì dentro, era seduta ad un tavolo. Una lunga serie di mappe e altri pezzi di carta era sparsa davanti a lei, ma ciò che davvero occupava la scrivania era una grossa spada.
“Eccolo qua. Il piccolo pugile che tanto piccolo non è. Siediti”.
Rimestò un po’ tra le carte, poi trovò un foglio e lo lesse. Tsekani non sapeva davvero cosa pensare.
“Allora, Tsekani, non te la faccio troppo lunga. Quel tipo a cui hai dato più di un pugno vuole far partire una causa, che non ti sto nemmeno a spiegare cosa sia. Diciamo che vuole dei soldi dai tuoi e, visto che i tuoi non li hanno, sta creando più di una grana. E i miei amici della missione non vogliono grane. Chiaro?”
Tsekani restò zitto, senza cambiare espressione. Si limitò ad annuire.
La pelle della donna era più bianca di quella di qualsiasi turista avesse mai visto. A giudicare dalle chiazze rosse sulla faccia, il sole dell’Egitto non era stato clemente. I capelli biondi erano anch'essi incredibilmente chiari, ed erano appiccicati dal sudore e dalla sabbia.
Lei fece un cenno di approvazione. “Bene. Mi piace che non accampi scuse del cazzo” fece, tamburellando le dita “Sei qui perché quell’americano vuole dei soldi, e nessuno gioca a rialzo con la Cupola. E, guarda un po’, io sono da queste parti perché mi serve un po’ di personale giovane. Sappi che tuo padre ha già firmato preventivamente”.
“Che vuol dire?”
Non era spaventato. Forse perché a quindici anni non aveva nemmeno bene in testa il concetto della paura. Era ancora furioso con quell’Americano.
“Vuol dire che tra quattro giorni c'è un aereo diretto a Roma: tu alzi il culo e ci sali. Noi risolviamo il casino che tu hai combinato e ci metto anche un bonus per i tuoi, che mi stanno simpatici. E, se sei bravo, ti trovo un lavoro migliore di spalare merda di cammello”.
Tsekani la osservò, poi lanciò un'occhiata alla spada. Doveva essere una di quelle scemenze da turisti, perché al giorno d'oggi chi usava più una spada? Pure gli uomini all'ingresso avevano armi da fuoco.
“Di che lavoro si tratta?”
Lei portò la schiena all’indietro, facendo scivolare la sedia, e accavallò le gambe. Aveva una vistosa cicatrice sul lato sinistro del collo. “Un lavoro alla tua portata. Prendere a pugni un po’ di gente che se lo merita. Io ti dico che pezzo di merda picchiare, e tu lo fai. Io ti dico di recuperare qualcosa, e tu me la porti. Ma, se fai schifo, ti mando a fare il missionario in un posto che El-Gebal ti sembrerà Las Vegas, è chiaro? È un biglietto di sola andata, ragazzo. Ma considerala un'opportunità”.
Il giovane aggrottò la fronte. Era un ragazzino, ma certe cose le capiva. Gli guizzò un muscolo della mascella e si strinse nelle spalle; non gliela voleva rendere facile. “Un'opportunità perché siamo poveri, vero?”
“Bene, sei anche sveglio. Mi piaci!” fece, allungandosi in avanti per guardarlo meglio. “Se mi devo procurare un mastino, ne voglio uno che morda. E morde quello che ha più fame di tutti. Secondo te vado a prendere i ragazzini americani imbottiti di panini del Mc Donald? Mi friggono nel loro lardo dopo nemmeno dieci minuti e devo pure sentire le lagne dei genitori”.
“Quindi siamo sacrificabili”.
“Non fai questa vita se non sei sacrificabile. Fattelo entrare nella zucca” sbuffò “Però ti assicuro che ripulire il mondo da certa merda è una gran bella soddisfazione. E non te lo dico perché ti voglio convincere a partire”.
“Mi avevate già convinto alla parte dei soldi…”
Si alzò, deciso a non prolungare oltre quella discussione. Anche perché aveva il sospetto che nessuno, nemmeno la sua famiglia, avrebbe accettato un no come risposta. L'unica certezza era che non ci avrebbe messo molto a fare il bagaglio.
Poi si girò, deciso a levarsi una stupida curiosità. “Posso chiedere a cosa serve una spada? Insomma, oggi ci sono le armi da fuoco!”
“Semplice: una donna con una spada uccide più gente di una donna senza una spada. E se fai altre domande inutili ti faccio arrivare in aeroporto a calci in culo, ragazzino”.
In effetti, anche dopo tanti anni, la risposta di Freki si era rivelata l'unica davvero sensata.

Qualcosa picchiettava sulla sua testa in maniera molto, molto fastidiosa.
Riaprì gli occhi, mettendo a fuoco l'ambiente; la testa gli rimbombava come se tutte le campane di Roma si fossero date appuntamento nel suo cervello.
Di nuovo qualcosa di piccolo gli atterrò in testa.
“Fratacchione, potresti sincronizzarti un po’ più velocemente? Non per metterti fretta, ma nessuno dei due vorrebbe che chiamassero la polizia!”
Padre Tsekani si portò una mano alla tempia, alla ricerca dell'ultimo ricordo utile. Doveva aver sognato qualcosa di casa, senza ombra di dubbio, ma…
“Ce la diamo una mossa?”
L’esecutore si girò d'istinto, percependo l'oggetto in arrivo: lo afferrò al volo senza nemmeno guardarlo, e quando aprì il palmo vide un sassolino di ghiaia. Intorno a lui ve ne era almeno una decina. Si alzò per mandare al diavolo la voce petulante, ma gli occhi erano pesanti in modo innaturale.
Il crocefisso emanava impulsi flebili, segno di una sovraesposizione di cui però non aveva alcun ricordo. Non si era mai ubriacato, ma era certo che una sbronza avesse lo stesso effetto.
La stanza in cui si trovava era immersa in una bella luce pomeridiana. Sembrava un salottino, un bell’ingresso di una casa come tante, sulla sinistra un mobile basso, pieno di libri -persino una Bibbia - e sulla destra un tavolino, delle poltroncine, un secondo mobile pieno di libri. Persino un orologio a cucù. Dritto davanti a lui un corridoio portava verso il cuore della casa, dove la Firma si agitava in maniera preoccupante. Si portò di nuovo la mano alla tempia, alla disperata ricerca di cosa diamine lo avesse condotto in quel posto e come ci fosse arrivato.
“Te la sei fritta bene la testa, fratacchione! Vuoi un riassunto rapido?”
Padre Tsekani si girò per dare un corpo a quella voce.
La porta dell'appartamento era aperta e dall'altra parte, in piedi, stava un uomo di taglia piccola, decisamente più giovane di lui, con i capelli di un azzurro improponibile e persino fastidioso alla vista. Doveva averlo già visto da qualche parte, ma nel cervello ancora saettavano ricordi di casa.
La faccia da cazzo, però, era chiaramente quella di un magus. Gli ringhiò, anche solo per fargli capire subito le sue intenzioni, ma armato di un coltello senza lama e dopo un'esperienza simile doveva essere ben poco minaccioso, perché l'altro gli lanciò un altro sassolino che evitò. “Sappi che appena esco di qui…”
“Passiamo alle minacce senza nemmeno una buona presentazione. Voi della Chiesa siete davvero dei bruti. Sai, non capita tutti i giorni di vedere un esecutore inciampare in un memento come un bambino, avrei potuto rimanere qui e godermi la scena invece di svegliarti. Non imparerò mai a farmi gli affari miei!”.
Padre Tsekani stava per rispondergli per le rime, ma si fermò.
Il caldo e il sapore della sabbia sul suo palato erano ancora incredibilmente reali. Per quanto ogni tanto la mancanza di casa fosse forte, era addestrato a non cedervi durante le missioni. A meno che non fosse incappato in un memento.
Non era nelle vie della Cupola imbrigliare il potere del Signore attraverso vie complesse o lesive: non sarebbero stati molto diversi dai magi. Nonostante talvolta lo stesso Tsekani fosse costretto ad ammettere che vi fossero delle eccezioni, la Santa Sede preferiva lasciare incontaminata e libera la Firma, incanalandola per mostrarne la bellezza, la purezza e il tocco del Creatore. L'uso dei memento era la più comune delle prassi difensive della Santa Sede per scoraggiare chiunque cercasse di ficcare il naso nei suoi affari. La gentilezza della Firma poteva arrivare al cuore di chiunque, alla loro mente, ai ricordi migliori. Una piccola spinta in grado di riempire la mente dell’intruso delle sue memorie più intense e svuotarla di quelle prossime, ad esempio i vari motivi per cui uno avrebbe potuto entrare in un'area protetta dal memento. Era anche molto utilizzato per rimuovere informazioni sensibili dagli stessi esecutori in situazioni “scomode”. Padre Tsekani ne aveva sempre apprezzato la delicatezza, ma non gli era mai capitato di finirvi coinvolto. Il suo crocefisso avrebbe dovuto avvisarlo.
“Puoi stare zitto per un maledetto minuto?” ringhiò in direzione del magus.
“Purtroppo per te, no. Finché rimani lì dentro sei a rischio di crollare un'altra volta, cacciatore seriale di gabbiani”.
A quelle parole, l’esecutore scrollò la testa.
Il maledetto gabbiano.
La finestra del salottino era senza dubbio quella in cui l'animale si era infilato, ma non ve ne era traccia nel suo campo visivo. Il viso di Freki decorata ogni singolo angolo della sua mente, quasi come un quadro moltiplicato in un vetro rotto, difficile da mettere da parte.
Si accorse di sudare per la concentrazione, e deglutì a vuoto.
Il potere dei memento era inversamente proporzionale al centro di protezione: il magus era al sicuro oltre l'ingresso dell'appartamento, ma se Padre Tsekani fosse andato verso le altre stanze dell'edificio avrebbe rischiato di venire aggredito da una seconda, più potente energia cancellatrice. Cercò di sincronizzarsi sulla lunghezza d'onda della Firma per entrarne in risonanza, ma l'energia intorno a lui era soverchiante.
Un altro sassolino gli volò vicino al naso “Fratacchione, guarda che se svieni non ti prendo in braccio e ti porto fuori. Potresti portare la tua grossa figura fuori di qui?”
Per quanto la voce del nuovo arrivato avesse qualcosa di insopportabile, parte della mente dell’esecutore capì che vi era un fondo di verità; i memento non erano pensati per lasciare coscienti coloro che li attraversavano. E, a giudicare dall’intensità del potere divino intorno a lui, chiunque avesse eretto una barriera intorno alla casa di Antonio Zurlì voleva essere ben sicuro che anche un uomo col rango di esecutore non potesse entrarvi senza un permesso.
Antonio Zurlí.
Si obbligò a tornare al ricordo di quell'uomo devastato, fatto a brandelli.
Era nella sua casa, nel suo piccolo squarcio di vita dove un magus aveva deciso di entrare e farvi il proprio nido. I magi, alla fine, erano tutti uguali. Anche Pontieri, al servizio della Chiesa, alla fine era andato ad infettare con la sua stessa esistenza quella di un uomo comune, trascinandolo con sé.
Si diede un pizzico pesante sulla guancia per costringersi a restare lucido, poi mosse un passo avanti, verso la cucina.
Lo doveva al vecchio professore ed al giovane Diego.
Gli insegnamenti della Falce della Luna erano assoluti.
Il giovane mago dietro di lui si schiarì la voce. “Sei uno a cui piace sfidare il destino, a quanto pare”.
Lo ignorò.
I conti con chiunque fosse quella mina vagante li avrebbe sistemati dopo.
Non fece in tempo a formulare il pensiero che con un tonfo l'asta che sosteneva la tenda davanti alla finestra crollò a terra, divelta dal muro. Sotto i suoi occhi, come mossa da una mano invisibile, la corda che regolava l'apertura del tendaggio si staccò dal tessuto quasi fosse un serpente Padre Tsekani fece d'istinto un passo indietro, maledicendo di non aver portato con sé la pistola, ma quando la spessa corda arrivò a poca distanza dal suo piede si fermò.
Sulla soglia della casa, un tintinnio lo costrinse a riportare l'attenzione sul giovane magus: stava giocherellando con una monetina, e un sorrisetto sornione gli era apparso sulla faccia. “E, a chi piace sfidare un po’ il destino, la fortuna si permette di dare una mano”.
Mormorò qualcosa tra i suoi incantamenti, e la seconda estremità della corda guizzò nella sua direzione. Il magus la afferrò e la assicurò al mancorrente della scala che portava al piano superiore. “Non ti offendi se non la tengo io, esecutore? Se provo a trascinare tutti i tuoi muscoli mi vengono quattro ernie!”
“Non sia mai che un magus fatichi…” sibilò Padre Tsekani, sollevando con rassegnazione la corda e stringendola con un doppio nodo intorno alla cintura.
Un flebile, timido angolo del suo cervello cercò di ricordargli che si stava spingendo dentro un memento con la sua unica via d'uscita collegata ad un magus sconosciuto, e che le ipotesi di uscita da quella situazione erano poche e potenzialmente problematiche.
Ad esempio, uscirne tutto intero e con un magus a cui dovere un favore.
O l'espulsione, se Padre Whiteflame fosse venuto a saperlo.
Forse l'espulsione sarebbe stata la conseguenza meno grave, e si augurò che la timida vocina nella sua testa fosse soltanto alimentata dal potere infinito del memento.

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