Meadow

di insiemete
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***



Capitolo 1
*** 1 ***



Era una mattina come le altre: i ciottoli camminavano a terra, le nuvole navigavano in cielo e c'era profumo di lenzuola di cotone, quello buono dei Caraibi, quello che alla mano sembrava seta e riusciva a confondere anche il più brillante uomo sulla terra. A terra c'era un mozzicone di sigaretta ancora acceso, era la miccia della rivoluzione interiore. Una folata di vento chiuse una porta e ne aprì un'altra, una ragazza urlò per lo spavento e un'altra per il fracasso. A e B della stessa retta, l'inverno che si chiude al cospetto della primavera. Certe cose le sappiamo perché qualcuno ci ha imposto che dobbiamo saperle. Ma chi può decidere se una cosa è più importante di un'altra, l'ordine del sapere. Le cose più difficili le avevo sempre lasciate per ultime. Una di queste era proprio fisica e per la milionesima volta mi trovavo di fronte alla porta dell'ufficio del professor Dell. Mi aveva bocciata ancora una volta perché le cose a cui io davo importanza non erano quelle a cui dava importanza lui.



«Per favore professor Dell, le prometto che non la deluderò» dissi mentre gli mostravo il sorriso migliore e lo sguardo più attento.

Il professore aggrottò la fronte, mostrando una moltitudine di rughe d'espressione. «Ho già preso la mia decisione» proruppe, appoggiando una cartellina trasparente sulla cattedra, «e non cambio mai opinione.»

«Non vuole nemmeno darmi una possibilità? Perché? Non dovrebbe negarla a nessuno.»

Il docente si sedette su una poltroncina di velluto color smeraldo, accavallò la gamba sinistra sulla destra e continuò a guardarmi torvo, come se avessi detto qualche blasfemia. «Signorina Poulter, lei ne ha avute di possibilità. Una moltitudine. Nemmeno tutti i miei studenti messi insieme arriverebbero alla sua cifra.»

Mi corrucciai, alzai un dito per rimbeccare ma cambiai subito idea. Sapevo in che situazione drastica mi trovavo e continuare a mettere in ridicolo la mia dignità non mi avrebbe di certo aiutata.

«Lo sa, se non fosse la nipote della rettrice sarebbe già stata spedita a casa senza tanti complimenti.» Il suono della sua voce era gelido.

Rimasi in silenzio perché aveva stroncato sul nascere qualsiasi parola dalla mia bocca.

«Capisco possano esserci degli esami più difficili di altri, per questo noi docenti diamo sempre la possibilità agli studenti di ripeterli» si alzò e stirò con le mani i pantaloni satinati. Camminò verso la mia direzione e si fermò a poca distanza, «ma a sua volta lo studente si deve mettere d'impegno, non farmi perdere tempo.»

Prese un gesso e scrisse bianco su nero sulla lavagna. «Rispetto. Lo ripetete una moltitudine di volte il primo giorno di università e poi ve ne dimenticate.»

Abbassai lo sguardo verso il parquet laccato.

«Lei mi sta mancando di rispetto. È la terza volta questa settimana che mi chiede di ripetere l'esame per l'ennesima volta. Lo farà, ma il prossimo anno.»

Raddrizzai la schiena e mostrai uno sguardo fiero quando in realtà stavo morendo dentro.

«Ma signore!»

«Niente ma, me la vedrò io con sua zia. Sono stufo di darla vinta a voi mocciosi raccomandati.»

Mi costava dargli ragione, ma era tutto vero.

«Parassiti della società, ecco cosa siete. Andate e ottenete tutto ciò che volete, senza il minimo sforzo. A voi basta strisciare una carta o avere la parola di qualcuno e potete spendere in un attimo quello che una persona normale non riuscirebbe a racimolare in tutta la vita.»

Fece qualche passo e si avvicinò alla sua cattedra, prese in mano la targa con il suo nome, passò le dita raggrinzite più e più volte sopra la superficie smaltata e levigata e me la mise sotto gli occhi.

«Ho sudato per questa. Ho faticato per avere quella cattedra e il tempo che ho passato a studiare tomi su tomi non può essere vano!»

Non feci altro che annuire con il capo, gli occhi rivolti alla libreria dietro le sue spalle. Alcuni di quei libri avevano dei titoli familiari, sapevo di averli comprati e sfogliati ma non avrei saputo dire cosa vi fosse scritto. Mi sentii ancora più stupida in quel momento. Se solo avessi avuto un appiglio, una misera speranza su cui aggrapparmi per non cadere nel baratro. Invece no, non ricordavo nulla, non mi veniva in mente nessuna parola e nemmeno nessuna immagine.

«Mi dispiace averle fatto perdere tempo.» Dissi la prima cosa che mi venne in mente. Dopotutto, cos'altro avrei potuto aggiungere?

Feci un inchino con il capo e abbassai la maniglia della porta in noce.

Mi riversai nel corridoio principale verso l'ora di pranzo. Gli studenti uscivano a mucchi da ogni porta e chi con più foga di altri, si tuffava in quella marea di teste poco familiari ai miei occhi. Cercai di farmi strada controcorrente e più di una volta finii per sbattere o pestare il piede a qualcuno. Ricevevo di tanto in tanto qualche sguardo bieco e ripensai subito allo sguardo del professor Dell. Non sarei mai stata in grado di descrivere accuratamente la sua espressione, mista tra la delusione e la rabbia. Quei grandi occhi cerulei affossati in quel viso attempato sarebbero stati impressi nei miei incubi per molto tempo.

Mi diressi verso la mia confraternita, la Sigma Delta, che distava pochi minuti a piedi dall'ateneo. Entrai dalla porta sul retro, intenta a non farmi sentire né vedere perché parlare con le mie sorelle era l'ultima cosa che avrei voluto fare quel giorno. Tolsi le scarpe e cercai di fare il minor rumore possibile mentre poggiavo i piedi sul legno del pavimento. Cominciai a salire le scale e non appena appoggiai il piede sull'ultimo scalino, la nostra sorella maggiore, presidentessa della sorellanza, mi chiamò a gran voce.

«Bene ragazze, c'è anche Meadow, ora possiamo iniziare la riunione!»

Mi girai lentamente e tutte e tredici le mie sorelle aspettavano nell'atrio.

«In realtà non mi sento tanto bene. Stavo andando in camera.»

«Non puoi tirarti indietro un'altra volta,» disse Becca, la mia compagna di stanza, «il tuo posto qui dentro potrebbe essere dato a qualcun'altra se non mostri rispetto alla sorellanza.»

Rispetto. Un'altra volta. Sembrava che l'universo ce l'avesse con me quel giorno. O meglio, sembrava che dovessi pagare per tutti i miei sotterfugi nello stesso momento.

Così, trascinai tutta la mia volontà nella sala comune. Le ragazze avevano imbastito pure un buffet con qualsiasi genere alimentare da ingurgitare durante il tempo che avremmo passato insieme. Mi accomodai a tavola e aspettai che tutte le altre sedie attorno fossero riempite.

«Allora,» cominciò Carly, la presidentessa «sappiamo tutte il motivo di questa riunione.» Sì portò un cupcake salato in bocca e leccò le dita lentamente, finché il gusto non ebbe lasciato la sua pelle. «Savannah ha deciso di andarsene, perciò dobbiamo scegliere il nuovo membro,» prese la borsa e rovistò dentro un fascicolo «queste sono le ragazze che ho scelto.»

Appoggiò sette fogli sul tavolo, quasi fossero degli identikit sui peggiori assassini d'America e ci lasciò qualche istante per leggere le informazioni. Mi soffermai sulle foto e sul percorso di studi che stavano percorrendo e pensai che avrebbero dovuto prendere due ragazze. Due. Una al posto di Savannah e una al posto mio. Di quelle sette, tutte erano meglio di me.

Carly prese un barattolo di latta e ci passò dei brandelli di carta. «Scrivete il nome di chi vorreste e poi infilatelo qui dentro.»

Scrissi quello più corto, non perché la preferissi alle altre, ma perché non vedevo l'ora di ritirarmi in camera.

Infine vinse un'altra ragazza, una certa Annika. A me non importava, speravo che quella fosse l'unica e ultima cosa da dire nella riunione.

Ma, ovviamente, mi sbagliavo.

«E ora veniamo alle cose divertenti» sfregò le mani sulla gonna in jeans e bevve un sorso di bevanda senza zuccheri aggiunti. «Come ben sapete, questo mese, saremo noi a organizzare la festa fra le confraternite.»

Le mie colleghe applaudirono con foga, qualcuna si azzardò a fischiare. Guardai in un punto indistinto fra i tubi del calorifero che non avevamo tinteggiato, mi concentrai sul rumore della goccia d'acqua che cadeva nella vaschetta di ghisa.

«...E quindi estrarremo il nome a caso.»

Chiesi perciò a Madison, che era seduta alla mia destra, che cosa avesse detto Carly e lei rispose che differentemente dalle precedenti volte la nostra presidentessa non avrebbe scelto l'organizzatrice dell'evento. Ma si sarebbe affidata alla sorte. Deglutii quando prese il cellulare e aprì il generatore casuale di numeri.

«Il vostro numero sarà quello del vostro letto.»

Le mie sorelle picchiettarono gli indici sul tavolo, creando un momento di tensione. Io, invece, me ne stavo lì a braccia conserte, aspettando che quel teatrino finisse il prima possibile.

«Batti anche tu» mi intimò Becca.

Con riluttanza diedi corda. Schiaffeggiai il dito contro il legno con così tanta foga che non mi accorsi nemmeno delle parole di Carly. Mi persi in quel frastuono martellante e continuai pure quando tutte le altre avevano smesso.

Mi fermai solo perché sentivo due dozzine di occhi puntante su di me.

Che avevano? Continuavano a guardarmi perché mi ero lasciata trasportare?

«Ci sei?» Becca fece svolazzare le sue unghie nere davanti al mio viso. «Stai bene? Sei paonazza.»

«S-sì» borbogliai.

«Benissimo, allora potrai organizzare senza problemi.»

Scrutai le mie sorelle. C'era chi mi sorrideva, chi mi guardava con ribrezzo e chi mi scrutava con un grosso cipiglio in volto.

«Siete sicure che lei possa andare bene?» chiese Heaven, guardando Carly. «Insomma, non incarna propriamente il motto della sorellanza. Figuratevi se va a organizzare una festa in nostro onore.»

Ascoltai attentamente le sue parole e la assecondai. Portai la mia attenzione su Carly, pure lei mi guardava intensamente, ma non ero in grado di descrivere il tipo di emozione nei suoi occhi. Sembrava fosse sorpresa, che indispettita, che curiosa. Non mi piaceva per niente quell'espressione.

Allora abbassai lo sguardo sul tavolo. E proprio lì lo vidi. Il suo cellulare e un numero impresso sullo schermo. 503. Il mio letto.

«Rifacciamo. Non sono la scelta giusta.»

Becca batté le mani e anche Heaven si unì a lei. «Concordo con lei.»

Carly sembrò non ascoltare nemmeno le mie parole e quindi non rivolse uno sguardo alle due ragazze. «Non si accettano cambi.»

«Ma io-.» Non feci nemmeno in tempo a finire la frase che Carly si allungò sul tavolo.

«Qua decido io. Non siamo in democrazia.»

La guardai dall'alto verso il basso mentre addentava l'ennesimo cupcake alle carote. Dio, sperai con tutta me stessa che le andasse di traverso. Come aveva chiesto a tutte una preferenza sulla nuova sorella, poteva benissimo farlo anche in questo caso. Continuai a fissarla, mentre si puliva con l'indice l'angolo sinistro della bocca. Lei voleva che andasse così, lo notai dal suo sguardo; lei voleva che fossi io a prendermi questa responsabilità e mi chiesi per quale motivo.

Le Sigma Delta erano una delle più importanti confraternite del campus. Negli ultimi anni avevamo perso parecchi punti in graduatoria, ma rimanevamo comunque una delle case con più domande di iscrizione. Non esisteva una ragazza che non avesse voluto far parte della nostra congregazione.

Quindi, perché scegliere me? Voleva che le facessi fallire?

Beh, credo che avesse messo in conto pure questo.

«Va bene» annunciai alzandomi dalla sedia, «lo farò, ma spero che dopo quel giorno mi parlerete ancora.»

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Capitolo 2
*** 2 ***



A Dartmouth eravamo effettivamente in pochi. Forse includendo il personale scolastico, arrivavamo a cinquemila persone, la quale non era una cifra molto alta, soprattutto per le università americane. Ed era uno dei motivi per cui avevo scelto quel posto e non un altro ateneo. Sì, qui avevo mia zia, ma non era l'unico motivo a tenermi ancorata.

Mio padre lavorava nel campo della sicurezza privata. Aveva inventato un sistema di sorveglianza ineccepibile tanto da divenire il maggior produttore mondiale, così affidabile da essere utilizzato nel caveau della Regina d'Inghilterra. Era stato addirittura decorato con qualche onorificenza da quest'ultima. Proprio per questo, gli sarebbe bastata una telefonata e avrebbe mandato a casa tutti qui dentro. Dopotutto io ero la sua unica figlia, la sua stella del mattino, e avrebbe fatto qualsiasi cosa per tenere viva quella luce.

Nonostante avessi tanto voluto chiamarlo, decisi che avrei fatto tutto da sola. Avevo vent'anni e avevo combinato un disastro dietro l'altro, non potevo semplicemente correre via a gambe levate e far compiere il lavoro sporco a qualcun altro.

Così, la mattina successiva alla nostra riunione, mi svegliai alle sei e mezza, mi feci una doccia veloce e decisi di vestirmi più elegantemente del solito: pantaloni neri a sigaretta e camicia color panna. Legai i capelli in una coda alta e mi guardai allo specchio. Potevo andare, poteva funzionare.

Uscii di camera in punta di piedi, cercando di non svegliare Becca che dormiva ancora profondamente. Scesi l'ultimo gradino quando mi ritrovai la chioma mora di Carly sotto il naso.

«Buongiorno, mattiniera oggi?»

Tracciai un piccolo sorriso. «Come noti.»

Feci per sorpassarla ma lei mi fermò premendo contro il braccio.

«Facciamo colazione?»

«In realtà avrei un paio di cose da fare» dissi, cercando di farla demordere.

«Alle sette? E che cos'hai da fare di così importante a quest'ora?»

Deglutii. Avrebbe rallentato la mia tabella di marcia ma era sempre meglio che raccontarle quant'era successo ieri.

«Va bene, vengo» aggiunsi infine e lei mi mostrò uno dei suoi tanti sorrisi sornioni.

Decise di non fare colazione a casa, così mi portò in caffetteria. «Sveglieremo le altre» disse e non feci altro che assecondarla; dopotutto, come aveva detto ieri, questa era una dittatura, non una democrazia.

Presi un cappuccino e lei un latte macchiato al caramello, feci per pagare la mia parte ma lei insistette e strisciò la carta per entrambe. Ci accomodammo su un divanetto all'aperto e guardai come il cortile si riempiva man mano di teste colorate.

«Forse ieri ti ho dato un'impressione sbagliata,» aggiunse in mezzo al chiacchiericcio generale, «non posso mentire e dire che è stata pura casualità.» Posò la tazza fumante sul tavolino che avevamo di fronte e una mano sulla mia spalla. «Io ti ho scelta.»

Tossii, un po' di schiuma mi andò di traverso e inghiottii velocemente il caffè che avevo in bocca. Presi un tovagliolino e pulii gli angoli delle labbra.

«Come?»

«Vorrei organizzassi tu.»

«E perché?»

Fece spallucce. Prese un cioccolatino dalla borsa e se lo mise in bocca, la carta appallottolata lanciata a terra. Con un gesto veloce della mano la presi e centrai il cestino che avevamo alle nostre spalle.

«Facciamo sempre le solite cose e mi sono stufata. A tutte piacciono, eppure tu non ci sei mai. Così, vorrei renderti più coinvolta.»

Aggrottai la fronte. Vivevo con le sorelle da più di un anno e non mi era mai interessato di cosa piacesse a loro e quindi non mi importava che loro sapessero cosa piaceva a me.

«Te non condividi nulla con noi.» Lo disse quasi titubante, come se stesse leggendo per la prima volta una lingua sconosciuta. «Lo sai che dovremmo avere tutte interessi simili, se no che senso avrebbe chiamarla confraternita?»

Dovetti dissentire: non era vero quello che diceva. Anche a me piacevano le stesse cose, solo che non mi andava di condividerle con loro.

«Praticamente stai infrangendo il primo articolo del Libro Mastro. Sai che dovresti essere sbattuta fuori?»

Posai gli occhi nuovamente sul cortile e cercai qualche volto familiare. Non vidi nessuno. Sfortunatamente una delle poche persone su cui potessi fare affidamento era qui affianco. E si stava lamentando di me.

«Va bene, ho capito. Cercherò d'esser più coinvolta.»

Carly lanciò lo stesso cioccolatino sul mio grembo. «Bravissima, vedo che impari in fretta.»

Trascinai la mia carcassa fino alla segreteria. La conversazione avvicendata con Carly mi portò via una parte delle energie e se quella mattina mi ero svegliata con un obiettivo ben preciso, ora stavo rincorrendo una strana sensazione. Mi diedi uno schiaffo in viso, come per risvegliare i pensieri intorpiditi.

Premetti la cartella contro il petto e aprii la porta dell'ufficio. L'odore di muschio bianco inebriava l'intera sala. Mi sedei su una sedia di legno e aspettai nervosamente il mio turno, la gamba sinistra prese a tremare e fece scricchiolare le viti che tenevano insieme la mia seduta. Davanti allo specchio avevo provato più e più volte il discorso, quindi doveva andare bene. Cercai di darmi la giusta carica e ripetei più e più volte in testa discorsi motivazionali.

Se non avesse funzionato questo piano, sicuramente avrei dovuto chiamare mio padre e sentire il suo tono aspro. Con molta probabilità, non mi avrebbe trattata con affetto.

«Potresti stare ferma?»

Qualcuno disse qualcosa ma io ero talmente assopita dai miei pensieri che continuai a fare quello che stavo facendo.

«Sì tu, mi hai sentito? Smetti di fare rumore.»

Nemmeno quella volta prestai attenzione e presi a rigirare l'elastico della cartellina che avevo nella sacca. Lo feci roteare tra le dita e lo liberai lasciandolo sbattere rumorosamente contro la superficie plastificata.

«Ehi!»

La voce si alzò di qualche ottava e con quella si issò in piedi anche una figura. Si avvicinò e strinse con forza il mio polso con una mano. Lì mi accorsi finalmente. Quella voce indistinta era rivolta a me. Alzai gli occhi e incontrai una massa scompigliata color castano. Mi guardava con le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a due minuscole fessure, la mandibola posta in avanti e le labbra premute con forza tra di esse. Aveva un cerotto rettangolare sul sopracciglio destro.

Mi misi composta.

«Finalmente» disse, tornando dritto con la schiena. «Mi stavi facendo saltare i nervi.»

Abbassai lo sguardo e osservai la camicia nera che aveva indosso, era tutta spiegazzata. «Non ti avevo sentito.»

Tornò al suo posto e poi il suono di una risata fragorosa riempì e la stanza e chiunque vi fosse dentro portò l'attenzione su di noi. Ebbi il coraggio di guardarlo dritto negli occhi e gli dissi tutto quello che stavo pensando solo con uno sguardo. Ricambiò penetrandomi nelle viscere con la stessa attenzione e non saprei dire per quanto tempo rimanemmo così.

E siccome ero una persona che portava rancore, feci trascinare in avanti la sedia così da farla cigolare.

Strinse i denti e mi puntò un dito contro. «Ma si può sapere che problemi hai!»

Stavo per rispondergli quando una porta si aprì e fece sbucare mia zia stretta in un tubino blu scuro. «Cole? Elvis Cole?»

Posò la sua attenzione su noi due, che continuavamo a guardarci intensamente e ripeté il nome. «Elvis Cole.»

Il ragazzo di fronte a me abbassò lo sguardo, stirò con i palmi il tessuto sgualcito e camminò verso la rettrice. Elvis Cole, perché quel nome mi diceva tutto e niente allo stesso tempo. Cole, quel cognome l'avevo già sentito. Cercai di concentrarmi ma arrivò finalmente il mio turno. Feci un respiro profondo e mi convinsi che il mio piano avrebbe funzionato.

«Signorina Poulter!» mi salutò a gran voce la segretaria Holt, mi fece segno di sedermi e ci rinchiudemmo nel suo minuscolo ufficio al primo piano. «Che cosa la porta qui? La rettrice è di là se ha bisogno.»

«Non voglio parlare con mia zia.»

La donna mi guardò sorpresa, solitamente quando avevo il benché minimo problema andavo da lei. E lei lo seppelliva o sollevava o qualsiasi cosa volessi. Dio, era tutto così marcio là dentro e io ero una delle cause principali.

«Vorrei cambiare corso.»

La segretaria prese una biro tra le dita, la fece rigirare più e più volte tanto da macchiarsi in qualche punto la pelle. «Non è più in tempo utile.»

«Lo so, ma io ne ho davvero bisogno.»

Accavallò le gambe. «Mi sta chiedendo di infrangere le regole?»

Sapevo di alimentare il fuoco, ma ormai avevo sbagliato così tante volte che il mio falò più grande di così non sarebbe diventato. Stavo facendo una cosa sbagliata, sì, ma per darmi la possibilità di rimediare e avere un futuro migliore.

«So di metterla in una posizione molto scomoda, ma la mia vita in questo momento non sta andando per il meglio e so che continuando a frequentare il corso del professor Dell andrà sempre peggio.»

Si alzò, prese due fascicoli dalla libreria a muro che aveva dietro di lei. Sfogliò per qualche minuto e scrisse qualche parola su un foglio bianco. Lo rigirò verso di me e lessi. «Questo è quanto disponile.»

«È più di quanto immaginassi» dissi con un sorriso negli occhi.

Sentii il suo sguardo percorrere la mia figura da capo a piedi, infine si issò in piedi e mi venne incontro. «Lei mi piace, signorina Poulter. Ma ha dei modi per correggere i suoi errori discutibili.»

La guardai accigliata. «Cosa?»

«So della sua situazione con il signor Dell e mi chiedo perché non abbia chiesto aiuto prima.»

«Semplice, non pensavo di ritrovarmi in questa situazione.»

Si appoggiò alla cattedra e mi guardò dall'alto. «Lo sappiamo tutti qui dentro quanta influenza lei abbia. A volte mi chiedo solo se questo potere sia nelle mani giuste.»

Morsi il labbro, lo stritolai tra gli incisivi e fui abbastanza sicura di essermi procurata un piccolo taglio. Un punta di ferro macchiò il palato e fui veloce a spingerla giù per la gola. Non sapevo cosa rispondere. Era vero, dopotutto.

Facevo qualsiasi cosa volessi e non serviva che seguissi le regole perché c'era sempre qualcuno da incolpare o qualche stratagemma da perseguire. Copiai così tanti esami da non ricordarmi nemmeno una singola materia. Mi vendicai di chi mi stava tra i piedi e li fece espellere. Non sarebbero più entrati a Dartmouth e sapevo benissimo che con una telefonata, non avrebbero visto nessun college dell'Ivy League se non della nazione.

I ricchi possono tutto, ed era così. Io potevo fare tutto, ero quasi invincibile.

«Scelga pure quello che preferisce, da domani sarà iscritta lì.»

«No,» tirai la zip della mia cartella, «rimarrò dove sono.»

«Cosa?»

«Cercherò di far capire al professor Dell che merito questo posto, che merito il suo corso. E se fallirò, non importa. Passerò un altro anno qui dentro.»

La segretaria Holt mi guardò con occhi spalancati. «È sicura?»

«Sì,» affermai decisa, mi alzai e spostai la sedia senza fare il benché minimo rumore, «non è mai troppo tardi per essere una versione migliore di se stessi.»

Mi congedai e uscii dall'edificio, un dolce tepore mi accarezzò il viso e il sole mi baciò la pelle. Quel giorno sarebbe stato il primo della mia rinascita.

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Capitolo 3
*** 3 ***



L'indomani mi svegliai presto, non più tardi delle sei e mezza e pensai di andare a fare una corsa. Avevo deciso che la mia rinascita non sarebbe stata solo mentale ma anche fisica. Avevo abbracciato il detto: "mens sana in corpore sano", ed ero più di sempre convinta che questa volta ce l'avrei fatta.

Così, indossai una felpa sportiva abbinata a un paio di leggings del medesimo colore Borgogna e uscii all'aria aperta. Mi diressi verso il fiume Connecticut e percorsi un sentiero alberato che si estendeva lungo questo. Dalle fronde degli alberi faceva capolino il sole e creava un divertente gioco di chiaroscuro con le foglie. Percorsi non so quanti chilometri immersa nel silenzio assoluto, ogni tanto rotto dal cinguettare di qualche uccellino. Attraversai un ponte e mi ritrovai al di là del confine, in Vermont. Mi fermai e presi una grande boccata d'aria. Era così pulita che sentii i miei polmoni purificarsi.

Quando dissi a mio padre che mi sarei trasferita in mezzo al nulla, non fu molto felice.

«Dartmouth? Non vuoi stare vicino casa? Ti ho comprato una penthouse vicino alla Columbia.»

Gli dissi che avevo bisogno di rallentare, che volevo stare in silenzio e allontanarmi momentaneamente dal caos di New York.

«E allora preferisci andare in mezzo al nulla?»

«Sì.»

«Perché non Harvard o Yale allora?»

«Sono troppo grandi.»

Rise e chiamò il maggiordomo. Si fece portare il cellulare.

«Che cosa vuoi studiare?»

«Neuroscienze.»

Ricordo come girò gli occhi verso il soffitto e assecondò le mie volontà.

«Tesoro, un giorno erediterai tutto tu. Dovresti iscriverti a legge o economia.»

Feci spallucce e me ne andai sbattendo la porta.

Mi fermai e appoggiai la schiena contro il tronco di un albero. Ero veramente un disastro. Sfilai dalla tasca il cellulare e decisi di comporre il numero di mio padre. Era da un po' che non lo sentivo, ogni qual volta provasse a telefonarmi io gli rifiutavo la chiamata.

Fece tre squilli e al quarto ero intenzionata a mettere giù, ma lui rispose. Avevo deciso di chiamarlo ma non sapevo che dirgli e quando mi domandò come stessi non riuscii a formulare nessuna parola.

«Meadow? Tesoro, mi senti?»

«S-sì» un sibilo uscì dalle mie labbra.

«Allora come stai?»

«Bene,» pronunciai debolmente, «credo.»

«Sono felice. Mi manchi tanto, sai?»

«Sì, anche tu.»

Lo sentii sospirare dall'altra parte del telefono. «Quando verrai a trovarmi? Andiamo a mangiare qualcosa di buono.»

Risposi con il silenzio.

«Cucina orientale, la tua preferita.»

Mi strinse il cuore. Io amavo la cucina orientale, lui invece la detestava. Eppure avrebbe mangiato con me, solo per me.

«Magari più avanti» proruppi a labbra pressate.

«Sì, certamente.»

Lo sentii mugugnare qualcos'altro ma decisi di chiudere lì la conversazione. Sì, alla fine non ci eravamo detti nulla ma almeno lo avevo sentito. A piccoli passi mi sarei avvicinata a lui.

Posai gli occhi sulla foto che avevo messo come contatto a papà: io e lui sulla vetta del Kilimangiaro. Sorridevamo sinceramente, i capelli spettinati incollati al viso madido di fatica, io stretta a lui mentre mi proteggeva dal vento impetuoso. Passai due dita sulle palpebre e asciugai quelle che sarebbero state delle lacrime copiose.

Papà, scusami, ti renderò fiero di me. Lo prometto.

La mattinata passò più lentamente del previsto e faticai a tenere aperti tutti e due gli occhi durante la lezione di neuropsicologia. Non ero solita alzarmi presto la mattina, generalmente impostavo la sveglia un quarto d'ora prima dell'inizio delle lezioni e mi preparavo in fretta e furia, indossando la prima cosa che capitava sotto la mia vista. Perciò, quando oltrepassai la porta dell'aula a gradoni e mi diressi verso i miei amici, questi spalancarono gli occhi.

Mi accomodai tra Mina e Will e aspettai che la smettessero di guardarmi come fossi un leone scappato dallo zoo. Vidi il suo braccio passare attorno alle spalle e picchiettare sulla schiena del ragazzo. Gli mimò qualcosa con le labbra ma Will sembrava non averne capito il significato e si trovò a dire: «Eh?» come se io non fossi lì in mezzo a loro e non mi accorgessi di nulla.

«La volete finire» inveii.

I due si ricomposero subito e dopo qualche istante di silenzio, Mina si avvicinò a me. «Stai bene?» chiese. «Sei arrivata un quarto d'ora prima dell'inizio della lezione e sei vestita come se dovessi andare a un colloquio.»

Abbassai gli occhi sul mio completo viola di Valentino. «Che ha che non va?»

Will e Mina si scambiarono un'altra occhiata confusa, questa volta senza nascondermelo, e abbozzarono un piccolo sorriso.

«Niente,» proferì il moro, «a me piace sinceramente.»

Gli sorrisi e tirai fuori l'occorrente dalla mia cartella. La signorina Folie arrivò allo scoccare delle nove e ci intimò subito di aprire il libro al capitolo cinque. Proiettò una diapositiva contro la lavagna interattiva e intavolò l'argomento.

Non passarono nemmeno cinque minuti che la porta dell'aula si aprì senza permesso. Una chioma castana fece il suo ingresso e non degnò del minimo sguardo la professoressa, che si strinse nelle spalle pronta a riprenderlo. Si avviò su per la scalinata e si accomodò due file più in basso, verso la mia sinistra. Aguzzai gli occhi per mettere meglio a fuoco la figura e non ci misi molto a riconoscerlo. Era il ragazzo della segreteria.

La professoressa si avvicinò, lo guardò dal basso in cerca del suo sguardo, ma lui sembrava ignaro che la sua superiore lo stesse per ammonire. Prese qualcosa dalla tasca dei jeans e se la rigirò tra le dita.

«Le hanno insegnato la buona educazione? Quando si entra in un'aula si bussa e si aspetta l'autorizzazione a entrare.»

Sembrava che non gli importasse minimamente di quelle parole. Picchiettò con il medio e l'indice sul banco.

«E ci si scusa del ritardo.»

Rimase lì, con la testa abbassata, e la professoressa rinunciò a dire altro, avendo capito che da quel ragazzo non avrebbe ricevuto minima risposta. Fece per girarsi e continuare la lezione, ma lui parlò.

«Pazienza.»

Quella parola lasciò sbigottita tutta l'aula e si alzò un brusio generale. Pure io rimasi spiazzata dal modo in cui lo disse, calpestò moralmente l'autorità della signorina Folie.

Prese un foglio dalla cartella e una biro dalla tasca. La portò alla bocca e tirò con i denti il tappo, che rimase lì a penzoloni tra le labbra e l'aria. Si girò verso i suoi compagni e sorrise mostrando una fila di denti candidi come la neve, passò gli occhi lentamente sopra ogni viso e quando arrivò a me sembrò fermarsi per qualche istante in più.

«Esca. Subito!» disse la donna alle sue spalle.

Si voltò lentamente, come se l'aria gli potesse fare del male e posò il suo ultimo sguardo su di lei. Abbassò le palpebre e mise con tutta la cautela del mondo il foglio e la biro nello zaino, lo richiuse e se lo caricò sulla spalla. Fece tre scalini e quando si ritrovò giù fu faccia a faccia con l'insegnante.

«Come vuole» esclamò con strafottenza, sputandole ai piedi il tappo della penna.

Durante quel pomeriggio sembrava non ci fossero altri argomenti all'infuori del teatrino messo su da Elvis Cole. Ogni corridoio, camerata o aula studio parlava di lui all'infinito, come se da secoli non succedesse qualche fatto ben degno di nota nel campus. Persino i miei amici erano interessati alla vicenda e discutevano tra di loro se avesse fatto bene o male a comportarsi così.

«Stai scherzando spero, come puoi difendere un atto del genere?» domandò Mina, prendendo posto su un divanetto di velluto della caffetteria.

«Avrà usato i termini sbagliati, ma se avessi avuto il coraggio l'avrei fatto anche io. Sono stufo di essere deriso dagli insegnanti.»

Will si mise a giocare con la cannuccia del suo milkshake e non degnò di uno sguardo Mina che, invano, continuava a spiegargli che la maleducazione non gli avrebbe portato il rispetto tanto desiderato.

Non davo peso a quella faccenda. L'unica cosa che mi importava in quel momento era capire perché quel cognome mi suonasse tanto familiare. Continuai a sforzarmi di trovare un bagliore nei miei ricordi, ma più ci pensavo, più mi ripetevo "Cole, Cole, Cole" in mente, più mi allontanavo da una possibile soluzione.

La cameriera mi portò la tazza fumante di tè al limone e aggiunsi due bustine di zucchero. Feci roteare il cucchiaino nel liquido e rimasi lì a guardare quel piccolo mulinello per non so quanti minuti. Persistetti a tartassarmi la mente, ma non ottenni nulla. Allora presi il cellulare dalla tasca e controllai se tra i miei contatti ci fosse qualcuno con lo stesso cognome. Frugai anche tra i social ma non trovai nessuna amicizia.

«Secondo me è questa la cosa più strana, non credi anche tu Meadow?» domandò Will.

Mina si portò una mano sotto il mento e sgranò i suoi piccoli occhi orientali. «In effetti, hai ragione.»

«Cosa? Non vi stavo ascoltando.»

Will ripeté e mi ritrovai subito d'accordo. «Sì, non si accettano nuovi studenti a trimestre inoltrato.»

Mina prese una lunga sorsata dalla sua bevanda alla crema e sistemò una gamba sopra l'altra. «E la rettrice non è una donna che scende a compromessi.»

«Magari si era iscritto ma non ha frequentato.»

«Non mi pare di averlo letto nell'annuario» disse lei.

Will cercò qualche altro appiglio per difenderlo ma sembrava a corto di idee. «Avrà cambiato cognome.»

Mina alzò gli occhi al cielo e si innalzò in piedi. Prese un'ultima sorsata dalla tazza e la posò sul tavolino dinnanzi a noi. Ci disse che sarebbe uscita con i suoi genitori quella sera, erano atterrati a New York in mattinata e il loro pullman sarebbe arrivato di lì in mezz'ora. Mi lasciò un veloce bacio sulla guancia e salutò Will con la mano prima di sparire nel corridoio dell'edificio.

«Sarà uno studente di scambio» parlò tra sé e sé.

Estrassi il portafoglio dalla cartella e presi due banconote da dieci dollari. Mi alzai per andare a pagare. «Non è periodo. Oggi offro io.»

Sembrò bofonchiare qualcosa ma ormai mi ero allontanata abbastanza da non essere in grado di comprendere.

Tornata a casa mi liberai di tutti gli indumenti e feci un bagno caldo. Mentirei se dicessi che quella sera e i giorni successivi non ebbi pensato costantemente a una persona che mi ricordava tutto e niente allo stesso tempo.

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Capitolo 4
*** 4 ***



Per tutta la settimana successiva arrivai un quarto d'ora prima dell'inizio delle lezioni. Mi vestivo con i miei abiti migliori e pettinavo i capelli biondi in una coda alta ripassata con del gel. Cercai tutte le mattine di andare a correre e, con molta fatica, ci riuscii. Non feci più tanta strada come il primo giorno, anzi, mi limitai a fare il giro del campus un paio di volte.

E proprio in una di quelle mattine, mentre scendevo a piccoli passi la scalinata che congiungeva il dormitorio alla strada principale, quel ragazzo mi sorpassò. Correva disinvolto, le braccia a penzoloni sui fianchi e il viso che guardava qualche punto impreciso di fronte a sé. Ero abbastanza sicura che mi avesse notata con la coda degli occhi, ma fece finta di niente e allungò il passo. Indossava una semplice canotta nera e dei pantaloncini di cotone color tortora. Mi domandai come facesse a sopportare le mattinate gelide del New Hampshire.

Ebbi l'impulso di seguirlo, mi resi conto di aver preso velocità e di star percorrendo una strada che non ero solita fare. Quasi fossi una falena attirata dal minimo barlume, stetti al suo passo. Non saprei dire perché mi comportassi così. Non ero solita a inseguire le persone, ma quel ragazzo mi aveva intriso i pensieri per tutta la settimana e volevo mettere a tacere le domande nella mia testa. Svoltò così tante volte che pensai d'essermi persa e più passava il tempo più sembrava che i suoi piedi accelerassero. O forse ero io a rallentare.

Alla fine cedetti, mi piegai sulle ginocchia e spalancai le braccia dietro la nuca. Inveii dentro di me e feci scorrere la zip della felpa. Varie goccioline di sudore nacquero dalla fronte e morirono sull'asfalto. Sconfortata, intrapresi la strada più corta per tornare a casa.

Così, lo cercai per il campus. Arrivai sempre per prima in aula, preferii la mensa alla cucina della confraternita, andai più spesso in biblioteca e frequentai gli spazi comuni. Assistetti addirittura a una partita di lacrosse e a una di hockey su ghiaccio. Eppure non lo vidi mai. Sembrava sparito.

«Non è strano che la persona più chiacchierata del campus sia anche quella meno vista? Pure i Senior parlano di lui.»

La voce di Mina portò di nuovo la mia attenzione sul duo.

«Voglio dire, fai tutto quel rumore... quella sceneggiata davanti alla signorina Folie per poi andartene? Hai appiccato un incendio e ora come lo terrai vivo?»

Will annuì tutto il tempo. «Insomma, se getti il sasso poi non vai a nascondere la mano.»

Mina frugò dentro la cartella per qualche istante e infine estrasse una piccola scatola di latta laccata d'oro. Sul coperchio vi era un bellissimo disegno di un ciliegio in fiore. «Mangiate pure» esclamò sorridendo.

Will aprì il contenitore liberando un dolcissimo profumo di fragole.

«Vi ho preparato dei daifuku,» prese due fazzoletti dalla tasca e li aprì sul bancone, «in Giappone sono considerati dei portafortuna.»

Ne agguantò uno in mano, il rosso acceso del frutto contrastava nettamente il bianco latte della pallina di riso, e lo appoggiò davanti a Will. «Questo perché bramo che domenica la tua squadra vinca contro Harvard.»

Poi passò a me. «E questo perché non voglio che tu te ne vada.»

Sorrisi e una lacrima di commozione rigò il mio zigomo sinistro. Strinsi la sua esile figura tra le mie braccia e le sussurrai più e più volte «grazie» all'orecchio.

Avevo raccontato a entrambi la situazione con il professor Dell e nonostante in quel momento non me l'avessero detto, sapevo che erano preoccupati per me.

Sentii un paio di braccia avvinghiarsi attorno al mio corpo e notai che Will si unì all'abbraccio. Eravamo incastrati perfetti, come pezzi del più complicato puzzle. La mia testa sulla spalla di Mina, quella di Mina sulla spalla di Will e Will appoggiato su di me. Rimanemmo così ancora per qualche istante e ci slegammo solo perché Will voleva prepotentemente assaggiare il dolce.

«È così bello che devo fare qualche foto!» Sbloccò il cellulare e fece diversi scatti da ogni angolazione. «Le metterò su Instagram.»

Mina rise e gli schiaffeggiò dolcemente la spalla. «Mangia su.»

Addentò un pezzo e la confettura di fagioli rossi gli scivolò sui pantaloni. «Buonissimi,» pronunciò, facendo un cerchio con il pollice e l'indice, «me ne fai altri?»

«Pensa alla macchia prima» rispose Mina, guardando la chiazza rossa che aveva sul cavallo dei pantaloni.

Will mandò giù il dolce in un sol boccone e prese a strofinare con un fazzoletto la tela dell'indumento. Non fece altro che allargare la macchia. «Merda, sembra che stia sanguinando.»

Una piccola risata scappò dalle mie labbra.

«Sei un disastro,» disse la ragazza, bloccando la mano del biondo prima che peggiorasse la situazione, «vieni con me.» Lo prese per mano e mi disse che sarebbero tornati subito, appena si fosse tolta la chiazza. La lezione cominciò e aspettai che i miei amici tornassero, ma loro, quel giorno, non si fecero più vedere.

Il venerdì era il mio giorno di riposo. Finalmente mi trovavo libera dai corsi e potevo prendere una boccata d'aria. Oltre a ciò, era anche il giorno del tè con la zia. Avevamo preso quest'abitudine l'anno scorso, e da allora ogni venerdì alle cinque di pomeriggio ci trovavamo a sorseggiare del buon infuso alle erbe nella pasticceria appena al di fuori del campus. Zia Mary mi venne a prendere con l'auto e in meno di cinque minuti avevamo parcheggiato di fronte all'entrata del locale. Il porticato bianco assorbiva gli ultimi raggi della giornata e si colorava leggermente di giallo. Ci accomodammo all'esterno, su due seggiole di ferro dallo schienale decorato divise da un piccolo tavolo rotondo.

«Allora, come è andata questa settimana?» chiese, mentre aspettavamo che la cameriera prendesse le nostre ordinazioni.

«Bene direi,» affermai, stringendomi nella mia giacca di lana, «è stata un po' pesante.»

Mi scrutò attentamente, quasi come volesse leggere tra le parole qualche verità nascosta. Appoggiò la borsa di pelle sopra il tavolo e cercò qualcosa dentro.

La guardai con curiosità e quando posò una lettera bianca sotto il mio naso, domandai sorpresa. «Cos'è?»

«Qualcosa che se ti avessero detto a parole, non avresti sentito.»

La aprii meticolosamente, una leggera pressione del dito e la carta si incavava all'interno. Mi bastò leggere il nome in alto a sinistra per accartocciarla e lanciarla sul pavimento. «Non mi interessa.»

«Lo so. Nemmeno a me. Però dovresti comunque andarci» aggiunse sospirando, sapevo bene che quelle parole le costassero fatica. Si stava comportando da donna matura ma anche lei provava le mie stesse emozioni.

«No.»

Prima che potesse soggiungere altro, la cameriera ci sorrise. Estrasse un taccuino dal grembiule e scrisse la comanda. Quel giorno mia zia optò per due tè al cedro e una tarte tatin da dividere.

«Ripeto, lo capisco. Ma è importante per tuo padre.»

Sbuffai, incrociando le braccia al petto e scendendo con la schiena contro la spalliera. «Ho detto di no. Non ci vado, non mi interessa.»

Forse mi stavo comportavo in modo infantile, ma dell'azienda me ne importava meno di zero. Papà aveva cercato invano di farmi inserire nel consiglio di amministrazione e io ogni volta rifiutavo.

«Un giorno questo impero sarà tuo, solo tuo. Come lo gestirai?» diceva a tavola, mentre addentava un pezzo di filetto alla Rossini. Le posate d'argento tintinnavano contro la finissima porcellana mentre affondava il coltello nella carne succulenta.

«Lo venderò» rispondevo semplicemente, ingurgitando una cospicua forchettata di spaghetti. Volevo altro. Non sapevo esattamente cosa, ma sicuramente non quello. Volevo qualcosa di sconvolgente.

Mia zia prese un lungo sorso dalla tazza decorata con fiorellini. Masticò anche un pezzo di torta e si pulì dalle briciole con un fazzoletto di seta. «È anche il suo compleanno» aggiunse dopo attimi di silenzio.

L'avevo dimenticato. Presi il cellulare e guardai la data sul display: mancava solo una settimana. Mi maledii mentalmente e dalle mie labbra uscì un sospiro. Mi allungai sul tavolo e ripresi la lettera, la liberai dalla busta e cominciai a leggerla.

"Alla mia stella luminosa,

spero possa avere l'onore d'esser accompagnato alla festa aziendale dalla persona che amo più al mondo. Sei il regalo più bello mai capitato e più passa il tempo più mi convinco che tu sia l'unica persona che vorrei al mio fianco per sempre."

Il mio cuore prese man mano battiti e dovetti comprimere le labbra per non piangere in un luogo pubblico. Rilessi più e più volte quelle poche righe e cercai di convincermi che avesse ragione. Dopo tutti i problemi che gli avevo causato, dopo tutte le litigate che avevo scaturito per il motivo più banale... papà teneva a me, forse anche più di prima. Mi sentii ancora più colpevole e allo stesso tempo anche più determinata. Volevo che i suoi pensieri fossero veramente reali, che non fossero una bugia mascherata dall'amore. Quindi, fui persuasa a continuare il mio percorso di cambiamento. Avevo deciso di non far più male a nessuno e avrei cominciato con lui. Non l'avrei più ferito.

Mia zia mi guardava con comprensione, la testa inclinata verso la spalla e gli angoli della bocca rilassati verso il basso. Gli occhi scuri e l'ombretto blu che ti scrutavano l'anima come fossi interrogato per aver commesso il crimine peggiore. E io l'avevo commesso. Incalcolabili le occasioni. Avevo tradito la fiducia di chi mi amava innumerevoli volte.

Annuii con la testa. «Come potrei mancare» dissi.

Sorrise e sentii lo stomaco ardere. Era quella la sensazione che si provava dopo aver preso una scelta giusta?

 

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