Soli sul treno, dopo il delitto

di Milly_Sunshine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [Nicholas] ***
Capitolo 2: *** [Duncan Jr] ***
Capitolo 3: *** [Nicholas] ***
Capitolo 4: *** [Duncan Jr] ***
Capitolo 5: *** B-Side ***



Capitolo 1
*** [Nicholas] ***


Buongiorno a tutti e ben ritrovati! Colta da ispirazione improvvisa, ho iniziato questo racconto, che sarà molto breve (due, al massimo tre capitoli), in cui c'è un nobile inglese degli anni '50 assassinato, ma in cui il fatto che questo nobile inglese degli anni '50 sia stato assassinato non costituisce di fatto il fulcro della trama.

Buona lettura! :-)




[Nicholas]

Fuori dal finestrino, solo campagne desolate, inumidite e ingrigite dalla nebbia: era questo che fissavo, mentre di fronte a me Duncan Jr leggeva un quotidiano. Io ero girato nel senso di marcia del treno, Duncan all'opposto. Non sapevo se fosse un beffardo scherzo del caso, oppure se il mio posto e il suo fosse stata la stessa cameriera di Sir Duncan e se li avesse prenotati insieme.
Tra noi, c'era il gelo più totale, ma del resto non poteva essere altrimenti, dopo quello che avevamo vissuto nelle ultime due settimane. L'esperienza ci aveva provati e forse Duncan ne era stato provato più di me. Al di là della brutta vicenda in cui ero rimasto invischiato, non potevo dire che le mie certezze fossero crollate. Fin da quando era arrivato il piccolo Duncan avevo capito di non contare niente per il Sir, mio zio, e le proprietà e la rendita che mi aveva destinato erano più che sufficienti per trascorrere il resto della vita a dedicarmi ai miei interessi, che differivano in gran parte da quelli di Sir Duncan.
Lo ammiravo, quando ero bambino. Ero convinto che, quando mi aveva accolto in casa sua dopo la morte di mia madre, l'avesse fatto per affetto nei miei confronti. Non era così. Ero semplicemente il figlio della sua defunta sorella e del suo altrettanto defunto cognato, tutto ciò che contava per Sir Duncan era che avessi un tetto sopra la testa, possibilmente quello di una dimora lussuosa, e che ricevessi un'istruzione degna di un ragazzino del mio rango. Avevo avuto i migliori insegnanti, nonostante la cultura servisse poco nell'ambiente in cui vivevo, pieno di uomini e donne senza occupazione alcuna che passavano le giornate a bere, fumare, giocare a carte e parlare dei loro costosi viaggi nei possedimenti dell'Impero Britannico.
Non facevano altro che parlare del fascino delle Colonie e delle ricchezze dell'Impero, senza mai astenersi dal fare smorfie di disgusto quando menzionavano la popolazione locale. Quando Sir Duncan adottò il giovane Duncan, ricordo i commenti sdegnati. In molti pensavano che, se Sir Duncan avesse desiderato un figlio, avrebbe potuto adottare me, che avevo nelle vene il sangue della sua famiglia. Anch'io fui indispettito da quella scelta, ma per ragioni ben diverse. Avevo dodici anni, la stessa età di Duncan Jr, ed ero ancora convinto di essere importante per mio zio, invece di essere solo un pacco postale da scaricare da qualche parte.
Mi sentivo ignorato e rifiutato, a non mi importava niente di dove fosse nato Duncan Jr, di quale fosse il colore della sua pelle o di quale nome, in realtà, avesse ricevuto alla nascita. Non avrei avuto nulla in contrario alla sua accoglienza come "figlio ufficiale" da parte di mio zio, se solo avesse riservato lo stesso trattamento anche a me. Invece mi ero ritrovato a interpretare la parte dell'estraneo, all'essere quel ragazzino che si intrometteva tra le dinamiche di padre e figlio. Gli zii amano i nipoti, ma soltanto finché sono nipoti.
I vari ricchi e nobili che frequentavano la casa di mio zio finirono per accettare la sua presenza, specie quando si resero conto che un giorno sarebbe diventato proprietario di un vastissimo patrimonio e, in quanto tale, sarebbe stato meglio essere con lui anziché contro di lui. Il piccolo Duncan divenne un vero e proprio gentleman inglese, una sorta di genio ribelle che, come da prassi, passava una parte del proprio tempo a giocare a bridge con la sigaretta in bocca e il bicchiere pieno, ma lontano dai salotti nobiliari amava la letteratura e l'arte.
Contrariamente alle aspettative di molti, Sir Duncan non aveva nulla in contrario agli interessi del figlio adottivo e, anzi, lo spingeva a non abbandonare le proprie passioni. Apprezzava le sue poesie e i suoi dipinti... e aveva ragione da vendere, perché il mio cugino adottivo era davvero bravo. Come al solito, mi sentivo uno scalino più in basso, ma nel corso degli anni avevo accettato l'idea che non sarei mai stato per mio zio quello che era quel ragazzino, ormai divenuto adulto, sbucato fuori chissà da dove e ormai considerato degno di rispetto, anche se inizialmente gli erano riservati gli stessi sguardi incuriositi che poteva ricevere un pappagallino tropicale.
In sintesi, il mio stile di vita consisteva nel vivere e lasciare vivere gli altri, in senso metaforico, ovviamente. Per ironia della sorte, invece, mi ritrovai invischiato in una vicenda in cui "lasciar vivere" si intendeva in senso letterale. Spesso succede nei romanzi polizieschi che il riccone bisbetico di turno venga assassinato e che fosse circondato da miriadi di persone che avrebbero voluto vederlo morto. I ricconi dei romanzi, per abitudini, somigliano sempre un po' a quello che era Sir Duncan: titolo nobiliare ottenuto chissà come, nessuna attività lavorativa, villone nelle campagne inglesi nel quale lavorano decine di camerieri e cameriere, improvvisa decisione di circondarsi di parenti diretti e alla lontana, magari con l'intenzione di condividere qualche informazione a proposito del testamento appena redatto, il tutto corredato da pipe accese e partite a carte disputate tracannando superalcolici. La differenza principale stava nell'animo di Sir Duncan: non ci minacciava di diseredarci se non ci fossimo adeguati alle sue volontà; certo, se qualcuno di noi avesse intrapreso strade molto discutibili magari ci avrebbe fatto un pensiero, ma fintanto che si trattava di preferire la pittura alla finanza, oppure le auto sportive alle carrozze trainate da cavalli, allora non aveva niente da ridire. O meglio, si limitava a borbottare e a fare qualche commento pungente, ma di certo non ci considerava indegni di spendere i suoi soldi, né in vita né dopo la sua dipartita.
Un uomo così, secondo le leggi non scritte dei romanzi gialli, avrebbe potuto vivere tranquillamente fino a novant'anni, se non di più, se avesse avuto la fortuna di godere di una buona salute. Invece non fu così e, a sorpresa, proprio quando al cospetto di amici di vecchia data e di parenti Sir Duncan annunciava che avrebbe dovuto fare un'importante rivelazione, che avrebbe cambiato per sempre le sorti della sua famiglia, finì per morire che di anni ne aveva solo settantadue, colpito dalla testa da un grosso vaso d'ottone che aveva sempre contenuto fiori finti, prontamente spolverati ogni giorno da un'anziana governante.
Trovò il cadavere un'amica di vecchia data, Lady Virginia, una sessantenne vedova che avrebbe volentieri sposato Sir Duncan per il suo patrimonio. Si dichiarò molto dispiaciuta dalla sua triste morte e puntò subito il dito contro Duncan Jr, inveendo contro di lui davanti a tutti, ispettore di Scotland Yard compreso. Altri presenti, invece, si scagliarono contro di me, tacciandomi di odiare mio zio perché mi aveva preferito un "mezzosangue uscito dal nulla" deprivandomi del diritto alla quota d'eredità più grossa.
Era una follia bella e buona, ma nessuno di noi aveva davvero la possibilità di difendersi dalle accuse infamanti che ci venivano rivolte. Chi avrebbe creduto a cuore leggero che Duncan Jr non avesse ucciso il padre adottivo per impossessarsi dell'eredità? E chi, invece, avrebbe dedotto che io non ero un nipote rancoroso che aveva deciso di fare piazza pulita, prima di essere definitivamente messo da parte e diseredato?
Ci stavo ripensando, in silenzio sul treno, seduto di fronte a mio cugino Duncan, quando inaspettatamente si rivolse a me con una domanda che mi lasciò senza fiato: «Secondo te perché è stato così difficile far capire che non avevamo niente contro di lui?»
Anche Duncan Jr stava pensando a Sir Duncan, a quanto pareva, o forse addirittura stava leggendo sul giornale un articolo sul delitto.
Mi sfuggì un sorriso, mentre affermavo: «Nei romanzi, tutti i parenti della vittima detestavano la vittima.»
Il giovane Duncan mi guardò quasi schifato.
«Romanzi? Non chiamare quel ciarpame con questo nome.»
Sospirai.
«Ciarpame? Lo dici proprio tu, che ami la scrittura?»
«Appunto, amo la scrittura» replicò mio cugino, «Non certo stupidi enigmi in cui la realtà è davanti agli occhi di tutti, ma nessuno si scomoda di guardarla da vicino.»
Non concordavo con il suo parere. In fondo le vicende poliziesche erano un'esasperazione di una realtà che esisteva. Bastava solo aggiungere qualche elemento in più, per rimescolare le carte in tavola. Era successo anche a noi, quando ci eravamo ritrovati entrambi sospettati di un omicidio che non avevamo commesso.

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Capitolo 2
*** [Duncan Jr] ***


[Duncan Jr]

Conoscevo da tempo immemore la totale mancanza di buon gusto da parte di Nicholas, quando si trattava di racconti e romanzi, ma pensavo che i fatti recenti fossero stati almeno sufficienti a spingerlo ad accantonare la narrativa poliziesca. In quelle storie vi era sempre un parente ricco e intrattabile che invitava gente varia presso la propria dimora, preparandosi a fare rivelazioni sconcertanti; una vicenda simile era accaduta anche a noi, con la sola differenza che mio padre Sir Duncan era un uomo ricco, ma non intrattabile. Anzi, si era sempre comportato bene sia con me, sia con i suoi nipoti, e se in quella famiglia c'era stato davvero un vecchio intrattabile, non era certo lui.
C'era stato e si trattava di uno zio decrepito e incartapecorito di cui Sir Duncan era l'unico erede, che fino all'ultimo giorno di vita aveva minacciato di diseredarlo se non si fosse piegato ai suoi più rigidi dettami. Se n'era andato a novantaquattro anni, senza che prima qualcuno gli servisse un tè all'arsenico per anticipare i tempi. Chissà, forse non beveva tè, oppure pretendeva di assistere minuziosamente alla sua preparazione. Nessuno sapeva come avesse fatto a vivere così a lungo, la sua natura salutista - il vecchio zio non fumava e non beveva alcolici, mi era stato riferito, ed era l'unico non fumatore che al contempo fosse anche astemio di cui avessi mai sentito parlare - poteva chiarire il tanto tempo necessario per la sua morte naturale, ma non spiegava come mai non fosse stato assassinato.
Tutto ciò accadeva prima del mio arrivo in Inghilterra, quando Sir Duncan cercava di passare il minor tempo possibile nel villone del vecchio, il quale tuttavia disponeva di contatti ovunque nelle Colonie, tanto da riuscire a tenere sotto controllo il nipote per evitare che facesse alcunché che potesse macchiare la reputazione della famiglia.
Non so come mio padre Sir Duncan riuscì a nascondere per così tanto tempo la propria relazione con una cameriera, ma ne fu in grado, riuscendo a conservare il patrimonio che gli spettava. Non fu ovviamente addolorato dalla morte del vecchio, che ribadisco avvenne per cause naturali: lo zio si era ammalato di polmonite a causa della sua malsana abitudine, maturata negli ultimi anni, di tenere il spento il camino per volontà di risparmiare il denaro della legna. Era morto in ospedale, senza che alcun familiare si fosse recato a fargli visita, pertanto non vi era alcuna ombra..
Avevo solo dodici anni all'epoca e, in linea teorica, avrei dovuto conoscere solo una piccola parte di quegli eventi, ma fin dal momento del mio arrivo era stata mia abitudine recarmi insieme a Nicholas dietro la porta delle cucine, al fine di origliare i pettegolezzi che il personale di servizio aveva appreso a propria volta origliando faticosamente dietro la porta del soggiorno.
Era stata alchimia a prima vista, tra me e mio cugino Nicholas, che aveva la mia stessa età. Era l'unico che non mi considerasse un assurdo capriccio di mio padre, anche se, in alcune occasioni, avevo l'impressione che avrebbe voluto esserci lui, al posto mio. Lo comprendevo: non aveva più i suoi genitori, avrebbe tanto desiderato essere il figlio di qualcuno e si era illuso che mio padre lo adottasse, specie considerato che tutta la gente di cui si circondava gli ripeteva costantemente che avrebbe dovuto avere un discendente da nominare come suo principale erede.
Io ero stato un colpo di scena, visto da tutti come un colpo di testa, e nei primi tempi erano in tanti pronti a scommettere che Sir Duncan si sarebbe stancato presto di me. Raccontavano assurde storie sulla mia provenienza, che spesso origliavo quando erano ripetute da cuoche e cameriere, che non avevano alcuna idea di dove si trovassero Paesi e isole da loro nominati e spesso storpiati. Nicholas mi chiedeva cosa ci fosse di vero, e io gli ripetevo che non c'era niente di accurato in quelle ricostruzioni; gli spiegavo che ero figlio di una ragazza madre in difficoltà economiche alla quale Sir Duncan aveva offerto del denaro per portarmi in Inghilterra e crescermi come figlio suo, per poi portarmi a rivederla ogni anno in occasione dei suoi lunghi viaggi.
Alla fine questa versione dei fatti era stata accettata da tutti, che ne avevano riconosciuto la veridicità. Io stesso credevo fosse la reale storia della mia esistenza, ed erano passati molti anni prima che venissi a conoscenza della verità. Mia madre conservò il segreto fino alla fine prematura dei propri giorni, mentre mio padre Sir Duncan non riuscì a fare altrettanto. Si piegò facilmente alle mie domande, quando iniziai a incastrare i pezzi e a comprendere cosa fosse davvero accaduto. Era proprio ciò che voleva rendere pubblico quando ci invitò tutti nella sua sontuosa abitazione informandoci di avere un annuncio solenne da fare.
Non si trattava di un testamento: Sir Duncan non aveva l'abitudine di mutarlo spesso, né intendeva diseredare qualcuno. Non intendeva nemmeno chiedere in moglie Lady Virginia, nonostante questa ci sperasse da molti anni, da quando il suo precedente marito era morto, lasciandola a sorpresa senza un centesimo, avendo sperperato in precedenza con il gioco d'azzardo tutto il loro patrimonio.
Non pensavo che mio cugino rispondesse alla mia esternazione a proposito dei romanzi gialli, ma credevo si sarebbe chiuso ancora una volta nel più totale mutismo. Invece, proprio mentre stavo per tornare a concentrarmi sul giornale, Nicholas affermò: «Critichi la letteratura poliziesca solo perché Lady Virginia, per prima cosa, ha sbraitato contro di te, raccontando che Sir Duncan ti voleva diseredare e che l'avevi ucciso per evitare che succedesse. Non puoi biasimare Scotland Yard per avere inizialmente inseguito quella teoria. Nella maggior parte dei casi di omicidio, chi uccide, uccide per soldi.»
«Mio padre, tuttavia, non intendeva diseredarmi» replicai, «E tutti lo sapevano. Era solo la macchinazione disperata di una donna che fino a quel momento aveva contato sulla possibilità di un matrimonio d'interesse.»
«Quando viene commesso un delitto, non è così facile vedere tutto in maniera lucida» obiettò Nicholas. «Per quella ragione Lord Arthur ha iniziato a urlare davanti a tutti che ero stato io ad ammazzare tuo padre. Sosteneva che volessi vendicarmi perché non avrei ereditato da lui tanto quanto te... come se la cosa più furba da fare, a quel punto, non fosse sperare che vivesse il più a lungo possibile nella speranza che ci ripensasse e mi lasciasse una quota di eredità maggiore. Anche quella teoria convinceva molto l'ispettore.»
«E convinceva la signorina Hildegard, oltre che Madame Brigitte e Lady Amanda, nonostante fino a poco prima Lady Amanda ti avrebbe voluto come marito di sua figlia Clarence. Lord Stanley, invece, pensava fossi stato io ed è riuscito in breve tempo a convincere la signorina Hildegard. Non mi stupisce: quella donna pendeva dalle sue labbra un tempo e le cose non sono mutate.»
Nicholas accennò una lieve risata, osservando: «Ricordo che una volta sentimmo dire dalla cuoca che la signorina Hildegard era l'amante di Lord Stanley, quando questo ancora non era rimasto vedovo. Chissà se era vero!»
Obiettai, quasi risentito: «Non vorrai dubitare delle parole della cuoca. Ti ho sempre detto che era la fonte più affidabile. Le cameriere avevano tutte l'abitudine di romanzare i pettegolezzi che sentivano, per non parlare del maggiordomo, mentre la cuoca ha sempre affermato solo ed esclusivamente ciò che sentiva con le proprie orecchie, senza aggiungere dettagli lavorando di fantasia. Ho sempre apprezzato il realismo e credevo che fosse lo stesso anche per te.»
«Apprezzo il realismo» chiarì Nicholas, «Ma i nostri trascorsi ci hanno insegnato che spesso vediamo e sentiamo solo ciò che vogliamo vedere e sentire. Se avesse ascoltato le parole degli altri invitati, l'ispettore di Scotland Yard avrebbe fatto presto a fare due più due. L'unica ragione per cui non l'ha fatto è che gli sono state messe davanti due possibili soluzioni e si è ritrovato combattuto tra le due: chi era l'assassino, tra me e te? Del resto, come fargliene una colpa? Tutto era contro di me, oppure contro di te. Diversamente da quanto succede nei romanzi polizieschi, nessun altro traeva vantaggi dalla sua morte, a meno che non consideriamo la collezione di penne stilografiche che Sir Duncan intendeva lasciare in eredità a Madame Brigitte; tutte vecchie e senza valore!»
Rimarcai un dettaglio finora sfuggito: «Nei romanzi polizieschi, c'è sempre una persona a caso che, improvissandosi detective, risolve il mistero senza grosse esitazioni. Da noi non è successo.»
In più, avrei voluto aggiungere, lo stesso Nicholas aveva cercato di scaricare le responsabilità su di me. Non che io mi fossi comportato diversamente, ma ero arrivato a un punto in cui, per allontanare l'ombra del sospetto da me, avrei potuto addirittura cercare di accusare la mia defunta madre, se solo fosse servito a qualcosa. La verità è che noi non avevamo passato le due settimane necessarie per arrivare alla soluzione del caso fumando sigari, bevendo brandy e giocando a bridge. O meglio, ci eravamo dedicati a tutte quelle attività, ma non l'avevamo fatto con il cuore leggero, convinti che tutto potesse crollare da un momento all'altro.
Non lo potevo negare, avevo sbagliato anch'io. Conoscevo ciò che mio padre intendeva rivelare, ma non l'avevo fatto, nella convinzione che non ci fossero prove e che nessuno sapesse. Non era così, alla fine la cuoca ci aveva visto giusto, e allora era stato proprio Nicholas a capire e a parlare con l'ispettore. La mia posizione era cambiata, mentre quella di mio cugino non ancora. Tuttavia era stata proprio quella la svolta, il nuovo punto di partenza. Non serviva più verificare chi sarebbe entrato in possesso di cosa, ma accertarsi di chi avesse scoperto anzitempo lo "scabroso segreto" di Sir Duncan.

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Capitolo 3
*** [Nicholas] ***


[Nicholas] 

Non saprei dire come mi venne in mente di cercare di scaricare tutte le responsabilità su Duncan Jr, ma del resto mio cugino non si comportò diversamente. Lord Arthur, Madame Brigitte e Lady Amanda erano convintissimi che avessi assassinato mio zio. Se i primi due non mi facevano né caldo né freddo, non sopportavo il gelo con cui la voce tagliente di Lady Amanda mi tacciava di essere un omicida. Quella donna stravedeva per me. Addirittura aveva cercato più di una volta di convincermi a sposare sua figlia, nonostante lontano da tutto e da tutti avessi già segretamente una donna che amavo e con la quale mi ero unito in matrimonio all'insaputa di tutti. Iniziavo a sospettare che la situazione si stesse mettendo male. Allora avevo colto la palla al balzo: Lady Virginia, Lord Stanley e la signorina Hildegard erano in prima linea nell'accusare Duncan Jr e avevo affermato più di una volta ad alta voce che avevano ragione, che doveva essere stato lui.
Era un'azione della quale, a posteriori, non andavo affatto orgoglioso, ma ricordai a me stesso, ancora una volta, che non c'era nulla di sconveniente, dato che non ero stato il solo. Erano state due settimane molto insolite, in fondo, circondati da persone che urlavano come tifosi allo stadio. E proprio come i tifosi allo stadio, che si insultano tra sostenitori di squarre diverse, una volta lontani dai campi di calcio abbandonano le urla e le offese, noi ci ritrovavamo, di tanto in tanto, in soggiorno a bere, a fumare e a giocare a carte, come se niente fosse successo. Lady Virginia era un fenomeno, nel bridge, mentre Lord Stanley era il migliore nel poker. La signorina Hildegard, invece, non faceva altro che lamentarsi, sostenendo che sarebbe stato meglio giocare a rubamazzo.
Ogni tanto mi allontanano e, come spesso accadeva quando mi trovavo nella dimora di Sir Duncan, mi lasciavo andare alle vecchie abitudini. Quando ero ragazzino andavo a origliare i discorsi dei personale di servizio e, di colpo, mi ritrovavo, quasi senza farci caso, dietro la porta delle cucine. Le cameriere borbottavano, con un brusio continuo, nel quale svettava, di tanto in tanto, la voce di turno che cercava di farsi sentire tra le tante. Le aiuto-cuoche dicevano la loro, venendo messe a tacere da qualche cameriera che osservava: «Voi state sempre qui in cucina, non potete sapere. Noi, invece, che ascoltiamo ogni discorso fingendo di concentrarci sui mobili che stiamo spolverando, sappiamo tutto.»
Era la cuoca a mettere fine a quella caciara, che a sua volta somigliava al tifo calcistico, sostenendo che erano tutte ragazze ignoranti come capre e che perfino la governante non aveva un intelletto superiore al loro, se nessuna riusciva a mettere insieme gli indizi.
La sentii chiaramente, mentre si lasciava andare a un ardito rimprovero: «Non siete capace di fare due più due! Per esempio, ricordate quando l'estate scorsa la cameriera Phoebe si licenziò e, in attesa che arrivasse una ragazza nuova, per qualche giorno accettai di uscire dalle cucine e di occuparmi di riordinare lo studio di Sir Duncan? Era un'occasione imperdibile: ogni volta in cui me ne veniva data la possibilità, cercavo sempre di approfittare di queste situazioni e di andare a occuparmi dei fatti altrui. Così, mentre ordinavo pennini, calamai e carte varie sulla scrivania del Sir, ne approfittai per aprire i cassetti, che non erano chiusi a chiave. E allora trovai quelle fotografie, che erano sempre sfuggite agli occhi attenti della cameriera Phoebe: del resto ce n'erano solo una quarantina, di cui una buona metà che ritraevano una donna di colore in abiti esotici, da sola, e un'altra buona metà in cui la stessa donna si trovava in compagnia di Sir Duncan. In alcuni ritratti, i due si tenevano per mano, in altri accennavano un lieve abbraccio. Chiaramente, qualora la cameriera Phoebe abbia visto le fotografie, deve avere pensato che i due, per puro caso, si siano ritrovati nello stesso posto, per altrettanto caso si siano ritrovati a posare insieme e che, ugualmente per caso, le fotografie siano poi finite nei cassetti della scrivania di Sir Duncan. Ancora più per caso, dietro a una delle foto che li ritraevano insieme, c'era addirittura scritto "amore eterno". Ovvio che una mentre sopraffina come quella di Phoebe non abbia mai pensato minimamente che quella donna fosse l'amante di Sir Arthur!»
A quelle parole calò il silenzio. Io stesso mi domandai se la mia mente fosse stata sopraffina tanto quanto quella della cameriera Phoebe, dato che non avevo mai avuto il benché minimo sospetto. Realizzai subito - mi bastò tornare alla realtà grazie alle parole pungenti della cuoca - che la donna delle fotografie doveva essere stata l'amante di Sir Duncan. Ciò spiegava tante cose, compreso il fatto che si era sempre rifiutato di prendere moglie: da qualche parte, forse in una delle Colonie che visitava con frequenza, aveva già avuto una relazione proibita.
Del resto, fintanto che c'era il malefico zio successivamente morto di polmonite da ultranovantenne, sarebbe stato diseredato se la sua amata non fosse stata approvata dal bisbetico e irritante parente. Figurarsi se avrebbe potuto accettare che Sir Duncan sposasse una donna che non solo non era nobile, ma non era neanche britannica, né tantomeno bianca.
Mio zio doveva avere agito nell'ombra per chissà quanti anni e da quell'unione doveva essere stato generato un frutto indelebile. Di colpo compresi tutto: Sir Duncan non mi aveva mai voluto come figlio perché non era l'uomo senza discendenti diretti che tutti credevano, ma perché aveva già un vero figlio, nascosto in uno degli angoli di mondo nei quali si recava ogni volta in cui ne aveva la possibilità. Non appena il vecchio bisbetico era morto, aveva portato Duncan Jr con sé in Inghilterra e, dal momento che ufficialmente non era figlio suo, l'aveva adottato.
Glielo chiesi, mentre il treno rallentava per entrare in una stazione.
«Tu lo sapevi, vero?»
Duncan Jr distolse lo sguardo dal giornale, lanciandomi un'occhiata innocente degna di chi non sa di essere stato adottato dal suo padre naturale.
«Sapevo cosa?»
«Che eri davvero figlio suo.»
Mio cugino tornò ad abbassare gli occhi sul quotidiano. Non rispose. Forse avrei dovuto lasciare perdere, tornare di nuovo ad affogare nel silenzio, come avevamo fatto per molto tempo. Tuttavia non potevo lasciare correre, avevo bisogno di certezze.
«Sto parlando con te.»
Duncan alzò nuovamente gli occhi e ribatté: «Tu, invece, lo sapevi? Come l'hai scoperto?»
Mi svelai.
«Dalla cuoca.»
«Infallibile, quella donna.» Duncan annuì con aria soddisfatta. «Te lo dicevo, che ha sempre la soluzione per tutto. Mi sorprende solo che, quando l'ispettore di Scotland Yard è entrato in cucina attirato dal buon profumo di torta alle mele, la cuoca non abbia abbandonato i fornelli per dedicarsi all'indagine come dilettante. Avrebbe senz'altro scoperto che la signorina Hildegard si trovava in compagnia di Lord Stanley, ma nessuno dei due voleva ammetterlo, quindi hanno preferito non riferire di avere un alibi.»
«Sono rimasto stupito in negativo anch'io della sua decisione» ammisi. «Avrebbe dovuto comprendere le proprie potenzialità e intervenire quando Scotland Yard non cavava un ragno dal buco. Invece si è sottovalutata e la situazione è scivolata in una lunga fase di stallo.»
«In cui, mio caro Nicholas, hai sbandierato ai quattro venti che per te ero colpevole. Hai perfino inseguito l'assurda teoria del complotto secondo cui mio padre avrebbe voluto diseredarmi, nonostante sono certo che tu non vi abbia mai creduto.»
«Ti ricordo che tu, da parte tua, non ti sei comportato molto diversamente da me, né tantomeno hai fatto alcunché per difenderti. Perché non hai raccontato la verità su tuo padre? Perché non hai detto che ti aveva adottato perché eri già figlio suo?»
«La sua volontà. Non ha mai parlato. O meglio, l'ha fatto, a un certo punto, e non si è trattato di una decisione che abbia dato ottimi frutti. Tu, piuttosto, perché hai parlato, dopo avere origliato i discorsi della cuoca?»
Fui io ad abbassare lo sguardo. La verità era che non lo sapevo. Avevo agito d'impulso, come se fossi con le spalle al muro e non avessi idea di cosa fare per sistemare quella terribile faccenda una volta per tutte.
Non saprei dire se Duncan Jr comprendesse il mio stato d'animo, ma di certo non insisté. Ricominciò a leggere il giornale, mentre il treno si rimetteva in marcia. Fuori dai finestrini, c'era ancora il grigiore della nebbia, reso ancora più tetro dall'avvicinarsi dell'ora del tramonto.
Per la prima volta da quando ero salito a bordo, il muro di silenzio iniziava a starmi stretto, quindi, pur senza rispondere alla domanda di mio cugino, affermai: «Non importa che quei malpensanti che Sir Duncan aveva invitato siano rimasti spiazzati, non importa se avrebbero approvato o meno quello che provava per tua madre. Tutto quello che conta è vivere la vita che si desidera, essere quello che si è.»
«Complimenti per il pensiero profondo» mi prese in giro Duncan. «Credi davvero che siamo liberi di fare quello che vogliamo? Quando riflette ciò che gli altri si aspettano da noi, allora magari lo siamo davvero. Ma in tutti gli altri momenti? Quante volte rinunciamo a vivere solo perché non possiamo affrontare il giudizio altrui? E no, non ti permettere di dire che dovremmo fregarcene dei giudizi. Non è nostro dovere. Dovrebbero essere le persone che abbiamo intorno a non giudicare. Un po' come fa la cuoca: raccoglie i fatti, sistema gli indizi e le prove, dopodiché ricostruisce le vicende, solo attirata dalla sete di conoscenza e non dal desiderio di esprimere in proposito opinioni non richieste. Quella donna non ha detto alcunché nemmeno quando c'è stata una seconda vittima.»
«Seconda vittima» ripetei. Non ero sicuro che fosse la definizione corretta. «Parli forse di Lady Virginia?»
«E di chi altro?» obiettò mio cugino. «Per fortuna soltanto una persona ha bevuto un tè corretto con il cianuro, quindi abbiamo avuto un unico altro decesso, oltre a quello di mio padre. Era più che sufficiente, non credi?»

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Capitolo 4
*** [Duncan Jr] ***


[Duncan Jr]

Solo una persona aveva bevuto tè con il cianuro e l’aveva fatto per una ragione ben precisa. Mi ero chiesto fin dal primo momento come sarebbe andata, se Nicholas non avesse rivelato all’ispettore la verità sul mio concepimento, che ero davvero figlio di Sir Duncan, nato dalla sua “relazione proibita” vissuta lontano dalla madrepatria quando il malefico zio era ancora in vita. Avrebbe voluto portarla con sé in Inghilterra, mi aveva raccontato, fregandosene del giudizio della ristretta cerchia che aveva intorno. Era stata mia madre a rifiutare, aveva preferito rimanere nella sua terra natia, continuare a incontrare mio padre soltanto quando andavamo da lei, durante le lunghe vacanze che si concedeva ogni anno.
Aveva mantenuto il più totale riserbo sulla mia effettiva identità e sulle ragioni per cui mi aveva adottato, ma mi aveva confessato di sentirsi almeno in parte incompleto. Era quella la ragione per cui aveva convocato a casa sua me, mio cugino Nicholas e la solita ristretta cerchia di gente che gli stava accanto. I ricconi vari e i nobili, siano essi abbienti o decaduti, finiscono sempre per ritrovarsi insieme, senza avere quella libertà che mio padre aveva assaporato soltanto quando riusciva a eludere la stretta sorveglianza del malefico vecchio. Del resto non aveva la possibilità di fare nuove amicizie, tanto valeva continuare a frequentare le solite persone di un tempo, invitarli sporadicamente nella propria dimora e sperare che se ne andassero dopo qualche settimana. Chissà quanto a lungo sarebbero rimasti, i soliti vecchi amici, se non fosse accaduto il delitto. Chissà come sarebbe andata se mio padre avesse accettato il corteggiamento di Lady Virginia, oppure non le avesse raccontato in anteprima di avere amato mia madre e di essere il mio padre biologico, oltre che adottivo.
La lettera che Lady Virginia lasciò fu piuttosto chiara. Fu la cuoca a trovarla, accanto al cadavere. La lesse ad alta voce, davanti a tutti, quando l’ispettore ci convocò. Fu proprio quella lettera che mi spinse a riflettere, che mi fece capire quanto non bisognasse colpevolizzare chi si sentiva giudicato o non accettato. Vomitava parole di odio contro mia madre e contro di me, sosteneva che Sir Duncan era stato rovinato da noi: dalla donna che l’aveva sedotto e dal figlio che aveva come unica colpa quella di essere nato. Sosteneva che l’aveva sempre amato e che non rinnegava i propri sentimenti mai ricambiati, ma che non si sarebbe mai potuta pentire di quello che aveva fatto. Quando mio padre le aveva rivelato la verità, aveva preso quel vaso e l’aveva colpito alla testa talmente forte da ucciderlo e avrebbe continuato a fingere di credermi colpevole, se Nicholas non avesse rivelato quanto scoperto dalla cuoca.
Si uccideva soltanto perché, per sua ammissione, era convinta che nessuno potesse comprenderla fino in fondo. “Perfino le persone che hanno sempre condiviso i miei valori penseranno che io abbia sbagliato, quando sono sicura di avere semplicemente ristabilito la giustizia” scriveva, nella sua lettera di addio. “Sir Duncan si è unito alla feccia e ha generato feccia, rifiutando il vero amore con una rispettabile nobile inglese.”
Non ero sicuro al cento per cento che gli altri inviati le avrebbero voltato le spalle, ma mi spingevo a ritenerlo probabile. L’omicidio non è accettato, a parte da coloro che ne ricavano vantaggi, e tra i presenti nessuno aveva guadagnato alcunché dalla morte di mio padre, a qualche piccolo cimelio senza grosso valore. I possedimenti e il denaro passavano tutti a me, a parte la quota, piuttosto generosa, che aveva lasciato a mio cugino. Stranamente tutti sembravano aspettarselo, dato che nessuno era apparso particolarmente deluso. Non so dire se furono delusi dal suicidio di Lady Virginia, quando la scoperta della sua colpevolezza era ormai imminente, certo è che fu uno shock per tutti quanti; uno shock che generò anche conseguenze positive, tuttavia, dal momento che finalmente Scotland Yard chiuse il caso e ci lasciò liberi di abbandonare una volta per tutte il luogo del delitto.
Stavo pensando a quando, finalmente, mi ero sentito leggero, mentre chiedevo a una cameriera di preparare i miei bagagli. Certo, era stata una sensazione durata molto poco ed era bastato un istante per tornare ad avere il cuore pesante come un masso, ma almeno c’era un punto di svolta, la fine di una situazione di stallo durata per quello che mi era sembrato un tempo a dir poco infinito. Ero immerso in questa riflessione quando Nicholas riprese a parlare.
«È per quello che ha scritto Lady Virginia, vero?»
Eravamo due maestri, quando si trattava di dire le cose a metà, doveva essere questo che aveva minato definitivamente il nostro rapporto.
«Di cosa parli?»
Era da un po’ che stavamo - di nuovo - in silenzio, ciascuno rinchiuso nel proprio mutismo dal quale sembrava non esservi via d’uscita.
«Parlo di quello che hai detto sui giudizi» chiarì Nicholas. «Nessuno dovrebbe colpevolizzare né Sir Duncan né te, se avete taciuto la verità per paura di essere visti in maniera negativa, perché nessuno avrebbe dovuto ritenersi in diritto di giudicarvi.»
Annuii.
«La lettera di addio di Lady Virginia era molto chiara. Riteneva che la colpa dell’accaduto fosse di mia madre, mia e infine di mio padre. Non ha mai preso in considerazione l’idea di avere sbagliato... e il tutto dopo avere sfondato la testa di mio padre perché non aveva accettato di sposarla e di mantenerla, avendo amato soltanto un’altra donna nella sua vita. Riusciva non solo ad assolversi per le proprie azioni, ma addirittura a ritenere di non avere fatto nulla di male, eppure al contempo considerava un male inaccettabile il fatto che i miei genitori si fossero amati pur appartenendo a due etnie e a due culture diverse.»
«Hai ragione» ammise Nicholas. «Non spetta a te sentirti in colpa perché non puoi essere davvero te stesso alla luce del sole, né spettava a Sir Duncan. È chi impedisce agli altri di essere sé stessi che dovrebbe fare un passo indietro, che dovrebbe smetterla di tarpare le ali a chi ha intorno. Su questo non posso far altro che essere d’accordo con te.»
Mentre pronunciava quelle parole, il treno iniziò a rallentare. Mio cugino guardò fuori dal finestrino, come ad accertarsi di dove fossimo.
Capii subito.
«È la tua stazione?»
«Già.»
Non avevo altro da aggiungere, per quanto mi riguardava, pertanto ripresi a leggere il giornale. Superai le pagine di cronaca, in fondo non avevo alcun desiderio di leggere altro a proposito di delitti e disgrazie. Mi chiesi se Nicholas avrebbe detto qualcos’altro, prima di scendere, e rimasi invano ad aspettare le sue parole.
Il treno era ormai fermo del tutto e già si vedevano le luci della stazione, quando si alzò in piedi e recuperò le proprie valigie. Rimase immobile un attimo e, alzando lo sguardo dal giornale, mi accorsi che mi fissava. Si stava senz’altro chiedendo come dovesse congedarsi, se dovesse farlo in qualche modo.
Fui io a rompere il ghiaccio.
«Spero di rivederti.»
Non sapevo se il mio tono era apparso convinto oppure no, ma Nicholas rispose: «Spero di rivederti anch’io.»
Pronunciate quelle parole, mi voltò le spalle e si allontanò. Lo guardai scomparire fuori dallo scompartimento e, quando il treno si arrestò e aprì le porte, lo intravidi sulla banchina accanto al binario. Poi il treno sparì. Non distolsi lo sguardo, ma bastò un attimo affinché mio cugino sparisse dalla mia vista. Probabilmente non avrebbe mai più fatto parte della mia vita, né io avrei più fatto parte della sua. Da ragazzini non ci saremmo mai immaginati il nostro addio, ma la realtà non è mai come ce la aspettiamo quando siamo troppo giovani per averne la giusta percezione; sempre che la giusta percezione sia quella che maturiamo da adulti, cosa di cui tendo a dubitare.



*** FINE ***
Ringrazio Swan Song per avermi seguita in quest'altro racconto, commentando tutti i capitoli e dimostrando ancora una volta il suo apprezzamento. <3
Ringrazio anche tutti gli altri lettori futuri, questo racconto si conclude qua ma, come ho scritto nell'introduzione, la vicenda è stata ispirata da una mia vecchia poesia in inglese, il cui titolo era "Fallen Angel". Come "B-Side" la pubblicherò come capitolo extra.

 

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Capitolo 5
*** B-Side ***


FALLEN ANGEL

That's the end of the trip,
The train is slowing down,
This time I have to stop
And wonder what I've found.

You sit in front of me
Reading your newspaper,
You look me in the eye
And you say "see you later".

I whisper a goodbye
And I can hear the sound
Of the million times
You knocked me on the ground.

I cry my soul away
Because nothing is endless,
You may be my demon
But I'm a fallen angel.

The day you left me alone
I flew with broken wings
Daydreaming on revenge
And not on a new spring.

Then it came the last time,
I was running to the door,
I guess that day I left you
Still bleeding on the floor.

I can hear all our past,
It has my voice, it screams
That's the end of everything,
That's the end of the dreams.

I can hear our present,
It has your voice, that's you,
You say you'll miss me a lot
And I know I'll miss you too.

 

xx.02.2017

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