A light in the dark di lady lina 77 (/viewuser.php?uid=18117)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo due ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 6: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 7: *** Capitolo sei ***
Capitolo 8: *** Capitolo sette ***
Capitolo 9: *** Capitolo otto ***
Capitolo 10: *** Capitolo nove ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Ross
Poldark, un giovane attraente, prestante, pieno di idee e unico erede
di Joshua Poldark, un piccolo proprietario minerario della Sassonia,
portava avanti i
lasciti paterni
dopo una adolescenza turbolenta. Spirito
libero e indomito come il padre, lo differenziava da lui lo spirito,
decisamente romantico ma non libertino come quello visto,
finché era
stato in vita, nel genitore.
Joshua
Poldark, reduce della prima guerra mondiale dove si era distinto per
il suo coraggio, dopo il conflitto era tornato a casa
dall’amatissima
moglie Grace e dai due figli piccoli, Ross e Claude, che erano nati
poco prima dello scoppio del conflitto.
Annaberg-Buchholz,
piccolo borgo e perla di rara bellezza dei monti metalliferi, aveva
visto sbocciare l’amore di Joshua,
ebreo non praticante, uomo di fatica e miniere,
e Grace,
donna della media borghesia e maestra elementare del villaggio. E col
loro amore così particolare e forse osteggiato inizialmente
dalla
famiglia della donna, aveva assistito anche
alla
nascita della loro famiglia. La guerra aveva messo in ginocchio sia
la regione che la Germania intera e le due piccole miniere dei
Poldark, una che estraeva piccole quantità
d’argento e l’altra
che estraeva carbone, erano diventate l’unica speranza di
lavoro
per i poveri minatori della zona.
Il
clima infuocato del dopo-guerra riusciva, in quell’angolo di
Germania incastonato fra foreste, miniere e antiche tradizioni della
lavorazione del legno, a rimanere tutto sommato lontano grazie
all’unione di famiglie e persone che, fra i vicoli e le
casette a
graticcio, si davano una mano per riuscire a sopravvivere alla
carestia e alla perenne mancanza di cibo.
Joshua
pensava che col tempo le cose sarebbero migliorate. Aveva una casa
dignitosa e arredata con gusto dalla sua graziosa moglie, che avevano
ribattezzato ‘Nampara’, posta al delimitare della
foresta, alla
periferia del paese, aveva la sua Grace, aveva due bambini
vivacissimi e intelligenti che avrebbero presto potuto portare avanti
il suo nome. Non poteva davvero credere di più e il suo
spirito
indomito pareva aver trovato pace e un posto solido nel mondo...
Ma
il vento cambiò improvvisamente per lui, spezzando ogni suo
sogno e
ogni sua velleità: il 1919 si portò via
l’amata Grace, stroncata
dalla terribile epidemia di spagnola che flagellava l'Europa fin
dagli ultimi istanti della guerra e l’anno successivo
toccò al suo
figlio più piccolo, Claude, portato via dalla stessa
malattia.
La
morte di Grace gli tolse la voglia di vivere ed iniziò a
trascorrere
le giornate in maniera dissoluta fra donne, gioco d’azzardo e
contrabbando. La
luce che lo aveva guidato, la sua amata Grace, si era spenta e le
sue miniere andarono avanti grazie alla volontà dei suoi
compagni di
lavoro.
E fu così che
il piccolo Ross crebbe senza una vera guida, trasportato dagli
eventi,
quasi senza più figure di riferimento. Le figure della madre
e del
fratellino divennero presto sbiadite nei suoi ricordi e
cercò di
crescere da solo, imparando dal mondo ciò che aveva da
insegnargli.
Negli
anni 20 divenne un ragazzo difficile che scappava spesso da scuola,
incline alle risse, decisamente attirato come il padre dal gioco
d’azzardo e perennemente nei guai con la legge tanto che
Joshua,
per salvarlo dalla prigione, nel 1930 lo mandò per alcuni
anni a
combattere nella legione straniera.
Fu
durante la sua assenza che Joshua morì, consumato dal
dolore, dagli
alcolici e da una vita che senza il suo sole, Grace, non aveva
più
senso.
Ross
venne a sapere di essere rimasto
solo quando tornò a casa, nel 1932, a 23 anni ormai compiuti.
Della sua amata famiglia non era rimasto che lui.
Cresciuto nel fisico, indurito dalla vita militare e orientato al
pessimismo, si trovò solo, con delle miniere ormai quasi in
rovina
portate avanti unicamente dalla volontà di coloro che da
sempre
erano stati gli amici di famiglia,
con un futuro incerto davanti e senza veri appigli affettivi a cui
aggrapparsi.
Senza un soldo, pieno di debiti, si trovò anche a
fronteggiare
ulteriori dolori
perché
la ragazza di cui era innamorato prima della partenza, la bellissima
Elizabeth, figlia
di un contabile locale, sembrava
averlo dimenticato e si era avvicinata a colui che riteneva il
peggiore abitante di Annaberg-Buchholz, George Warleggan, il rampollo
di una avida famiglia di proprietari terrieri e minerari
nonché di
una banca che stringeva la cinghia coi suoi tassi di interesse
esorbitanti a molti dei cittadini della zona. George era avido,
spietato ma incredibilmente ricco. Compagni di classe da bambini,
erano
coetanei, non
lo aveva mai sopportato e spesso si erano azzuffati nel fango. Come
poteva una ragazza dolce ed intelligente come Elizabeth essersi fatta
sua amica?
George era un ragazzo anaffettivo, incapace di provare veri
sentimenti di affetto, empatia, amore... E poi, con Elizabeth, non
aveva nulla da spartire, erano come il giorno e la notte. Certo, lui
era benestante e per la famiglia della ragazza questo contava molto,
aveva tanto da offrirle mentre lui non aveva nulla, però,
però...
Tanti sorrisi, tante promesse, tante speranze che li avevano uniti
prima che lui partisse non potevano essere stati dimenticati
così da
Elizabeth e Ross era certo che dietro al suo avvicinamento a George
ci fossero i genitori. Era così, non poteva che essere
così!
E
poi nella sua vita c’era Nampara, il cui antico splendore era
andato perso a causa dell’incuria e del fulcro del suo
focolare,
sua madre Grace. Era la casa dei suoi genitori, il suo unico posto
nel mondo, la sua eredità, il nido costruito con amore da
sua madre
e suo padre e Ross, in loro memoria, al suo ritorno si
rimboccò le
maniche per ridargli splendore o quanto meno decoro, aiutato dai
fidati amici di sempre, Zachy il minatore e Dwight Enys, il giovane
medico di Annaberg-Buchholz. Non aveva molto, non sapeva come
risollevare le sue miniere e di certo avrebbe avuto bisogno di
capitali per riuscire a darsi una ripartenza ma era testardo e aveva
lottato con tutte le sue forze per farcela.
Un
piccolo anziano banchiere di Annaberg-Buchholz, vecchio amico e
consulente del padre, il signor Pascoe, gli aveva garantito un
piccolo prestito sulla parola e da lì era ripartito. Sul
finire del
1932 aveva ‘assunto’ una ragazzina come domestica, Demelza
Carne, conosciuta
a una piccola sagra di paese dove l’aveva trovata a difendere
il
suo spelacchiato cane in una rissa con dei ragazzi. La piccola, una
quattordicenne dai capelli rossi come fuoco, proveniva da un minuscolo
borgo vicino. Figlia di un minatore spesso ubriaco, sempre violento,
vedovo e con una nidiata di bambini, era scappata di casa col suo
cane, stanca di prendere botte. Accettò subito di lavorare
per lui e
da quel momento rappresentò la rinascita di Nampara. Anche
se era giovane, un pò selvaggia e dal carattere particolare,
la sua
solarità e la sua voglia di fare, il suo essere instancabile
e in
fondo di carattere votato all'ottimismo, Nampara con lei riprese
vita. E anche Demelza parve rinascere, lontana dalla miseria e
dalle botte del padre. Cantava spesso, aveva una bella voce, non
stava mai ferma e col suo cane sempre al seguito, Garrick, era
diventata parte della realtà casalinga di Ross Poldark. Ross
le
aveva regalato un abbecedario affinché imparasse a leggere e
scrivere - non era mai andata a scuola - e lei si era dimostrata da
subito un animo attento e curioso di imparare. Adorava anche la
bicicletta e Ross gliene regalò una, vecchia e trovata
chissà dove,
per andare al villaggio quando doveva fare compere. E adorava il
cinema tanto che spesso, quando Dwight arrivava a Nampara per due
chiacchiere assieme a Caroline, la sua affascinante fidanzata, le due
ragazze si mettevano a chiacchierare di attori e cinema, tutte cose
di cui Ross non sapeva un accidenti. Non riusciva proprio a capire
come alla gente piacesse chiudersi in un cinematografo per vedere una
tela con immagini in movimento!
E
poi
arrivò il 1933 e un’altra tegola, proprio quando
sembrava che le
cose andassero meglio,
arrivò a turbare la vita tranquilla di Ross Poldark: Adolf
Hitler
era
salito
al potere con il partito
nazista e di colpo tutto cambiò
e lui capì che doveva iniziare a guardarsi sempre le spalle.
Perché
Ross Poldark era sì tedesco ma era soprattutto ebreo, anche
se non
praticante
come il padre.
E il nuovo partito salito al governo, col suo fuhrer, questo non
glielo avrebbe perdonato,
gli ci volle poco per capire che tipo di politica avrebbe governato
la Germania.
Non sapeva ancora cosa lo avrebbe atteso ma riusciva a comprendere
che per la sua nazione si stavano avvicinando anni nerissimi e
soprattutto pericolosi.
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Capitolo 2 *** Capitolo uno ***
Annaberg-Buchholz,
3 agosto 1934
Era
una mattina stranamente soleggiata e calda per la Sassonia e a Ross
sembrava quasi una beffa quel cielo sereno che sembrava promettere
meraviglia mentre invece ogni cosa pareva precipitare.
“Da
oggi devi stare attento Ross. Come ti ho detto settimane fa dopo
l’assasinio di Rohm, ancor più devi tenere un
profilo basso
adesso. Con la morte di Von Hindenburg e l’ascesa al potere
come
cancelliere di Hitler col partito nazista, nessuno potrà
stare
tranquillo e si dovrà imparare a misurare parole e pensieri.
Soprattutto tu, soprattutto gli ebrei. Hitler sarà a capo di
TUTTO,
anche delle nostre vite e ogni tentativo politico di opposizione
sarà
osteggiato ed eliminato nel sangue”.
Ross
guardò con amarezza l’amico. Dwight era un giovane
medico
talentuoso, leale, gentile, una delle persone più amate ad
Annaberg-Buchholz per la sua gentilezza, le eccellenti conoscenze
mediche, per le cure che prodigava a tutti, casa per casa,
accontentandosi di poche monete. Era un ragazzo tanto talentuoso
quanto modesto e senza pretese, affascinante senza capire di esserlo,
suo grande amico fin dagli anni di servizio nella legione straniera
dove aveva fatto praticantato come medico. Fidanzato con la giovane e
biondissima ereditiera Caroline Penvenen che sperava presto di
sposare, era uno di quei tedeschi di ‘razza pura’,
come amava
definirli Hitler, che più sembravano inorriditi dalla piega
politica
presa dal loro paese. Uno dei pochi, assieme alla sua civettuola
fidanzata… Pur consapevoli che l’amicizia con un
ebreo non era
ben vista, non si erano allontanati da lui ma gli erano rimasti a
fianco cercando di consigliarlo e dandogli supporto. “Come
può
essere che la Germania sia arrivata a questo punto, Dwight? Sono
tedesco e ne sono orgoglioso, la mia famiglia lo è da secoli
e da
generazioni lavora per questo paese. Sono ebreo ma non praticante,
potrei andare in Chiesa così come in Sinagoga senza alcun
problema,
non credo in nulla se non negli uomini… Alcuni
uomini… Cosa sta
succedendo a questo nostro nobile popolo che sembra pendere dalle
labbra di un folle forcaiolo che vuole abolire ogni diritto civile di
chi non sopporta?”.
Dwight
sospirò. “Prendi un folle, lasciagli dire cose che
la gente ama
sentirsi dire, lascia che lo faccia in modo convincente e questo
è
il risultato. Non tutti amano quanto sta succedendo ma la maggior
parte ha paura a dirlo, china la testa e sta zitto. Altri adorano le
sue parole, sentirsi definire ‘razza superiore’ gli
appare
estremamente gratificante”.
Ross
strinse i pugni. “Ho ancora le mie miniere, no? Danno lavoro
a
tanta gente e so che non sarò tradito dai miei uomini. In
fondo…
per ora… non va così male”.
Dwight
scosse la testa. “Guardati le spalle comunque”. Era
triste dirlo
ad alta voce ma anche estremamente sciocco nascondere la testa sotto
la sabbia. Sia lui che Ross erano consapevoli che le cose avrebbero
potuto solo peggiorare e che quanto successo fosse solo
l’inizio di
una discesa all’inferno.
Già,
anche Ross lo sapeva e temeva che quella finta calma prima della
tempesta sarebbe durata poco. Hitler era salito al potere, un potere
assoluto, solo da un giorno e già tutto il mondo aveva
capito che il
vento era cambiato e che la Germania non sarebbe più stata
la
stessa. Come si sarebbe comportato il nuovo cancelliere? Si sarebbe
limitato a una politica aggressiva e discriminatoria
all’interno
dei confini della nazione o l’avrebbe estesa al resto
d’Europa e
del mondo? Se lo chiedeva lui e se le chiedevano probabilmente i capi
di Stato di tutta Europa e oltre, che stavano fermi ad osservare in
attesa di vedere le sue mosse.
Dwight
gli poggiò amichevolmente la mano sul gomito.
“Facciamo colazione
da qualche parte?”.
Ross
sorrise. “L’ho già fatta, Demelza
prepara sempre ottime torte
salate per la mattina”. La ragazza era alle sue dipendenze
ormai da
due anni, era cresciuta e si era trasformata in una sedicenne
decisamente meno selvaggia di quando l’aveva conosciuta. E
inoltre
si stava dimostrando un’ottima cuoca.
“Sì,
Caroline me lo dice sempre!” – rispose Dwight, a
volte incredulo
che la sua fidanzata apparentemente capricciosa e frivola potesse
aver stretto una così forte amicizia con una domestica
apparentemente diversa come il giorno dalla notte da lei. Caroline
aveva diciotto anni, due più di Demelza, discendeva da una
famiglia
tedesca antica e nobile che, si favoleggiava, fosse persino
imparentata con il nobile casato degli Hesse, amava i pettegolezzi, i
gioielli, i bei vestiti e la moda. Eppure dietro
all’apparenza
distaccata e frivola, si nascondeva una giovane sensibile che adorava
divertirsi ma che era anche intelligente e sensibile al mondo sempre
più difficile che la circondava e forse era stato questo ad
avvicinarla a Demelza e al suo di mondo, fatto di
semplicità,
dapprima per curiosità e infine per stima. Si erano trovate
caratterialmente e quando con Dwight veniva in visita a Nampara, le
due ragazze si mettevano a chiacchierare dopo che Demelza aveva
servito tè e biscotti, unite anche dalla passione comune per
il
cinema. Caroline adorava Clark Gable ed era certa che prima o poi
avrebbe girato un film memorabile che i posteri avrebbero adorato per
sempre, Demelza invece era affascinata da Charlie Chaplin che
considerava un genio. Era anche capitato che nelle sere libere lei e
Caroline fossero andate insieme al cinematografo del paese a vedere
qualche nuovo film ma sia Dwight che Ross temevano che presto
avrebbero dovuto abbandonare questa loro passione. Con Hitler al
potere, probabilmente avrebbero iniziato a trasmettere solo film di
propaganda. Anche se – e Ross ne era divertito –
Demelza
sosteneva che Chaplin fosse anche una passione del Furher
perché
convinto che portasse i baffetti in suo onore e che per questo i suoi
film non sarebbero mai stati censurati. Ne avevano parlato giusto la
sera prima, davanti al fuoco…
“Senti
Dwight, sono quasi le 11, il tempo della colazione è
passato. Ora
possiamo goderci il tempo di una buona birra però. Se
andiamo al
chiosco di Hans, per poche monete ci da anche delle ottime salsicce
di Norimberga”.
Dwight
scoppiò a ridere. “L’alcol ti
ucciderà Ross”.
Lui
alzò le spalle. “Beh, come morte la preferisco a
una per mano di
Hitler”.
Dwight
ammirò il modo di fare di Ross, il suo cercare di non farsi
prendere
dallo sconforto e dall’ansia. Il suo amico non era stupido ed
era
consapevole di quanto rischiava eppure non aveva perso la voglia di
esserci, di lottare, di far valere i suoi diritti e far sentire la
sua voce. “Come medico…”.
“Ahhh”.
Ross lo zittì con un cenno della mano ed entrambi
scoppiarono a
ridere talmente forte che alcuni passanti si voltarono per vedere
cosa avessero da sghignazzare tanto.
Fu
la voce antipatica dietro a quelle persone a spezzare quel momento
leggero.
“Ross
Poldark… Ancora in zona? Ancora non hai trovato la prima
nave che
ti faccia fuggire in America?”.
Quella
voce sgradevole… Da bambino era gracchiante, ora era
semplicemente
odiosa. Ross sospirò, non lo aveva mai sopportato e ora
più che mai
lo avrebbe preso a schiaffi. Elizabeth era accanto a lui, a
braccetto, altera e irraggiungibile come sempre. E sembrava trovarsi
a suo agio accanto a quell’imbecille… Mille
promesse ed ora
eccola lì, assieme all’essere peggiore a cui la
Sassonia avesse
dato i natali. George Warleggan – la serpe – ed
Elizabeth, il suo
antico sogno e primo amore…
La
ragazza lo guardò sostenendo il suo sguardo con la stessa
leggerezza
con cui avrebbe osservato uno sconosciuto. Ovviamente nessuno sapeva
del loro innocente amore giovanile – tanto meno George
– e lei
sembrava averlo rimosso da se stessa e dalle sue esperienze ma lui
no, a lui faceva ancora male quel voltafaccia e come lei lo avesse
lasciato dietro di se senza alcun rimorso. “Ross Poldark, vi
trovo
bene” – disse, con cortesia.
George
ridacchiò. “Gli ebrei stan sempre bene, campano
sulle spalle
altrui, che cosa potrebbe scalfirli, mia cara?”.
Accanto
a lui, Dwight parve irrigidirsi e con un gesto gli prese la stoffa
della manica della camicia per non far esplodere il carattere
burrascoso dell’amico. Ross era ebreo e da quel giorno in poi
una
qualsiasi disputa con un tedesco di ‘razza pura’
poteva costargli
caro.
Ross
prese un lungo respiro, sapeva anche lui di non potersi più
permettere liti e zuffe con quel bell’imbusto e con quelli
come
lui. “In realtà ho una attività e delle
miniere, non mi appoggio
su nessuno se non sull’onesto lavoro”.
“Sull’onestà
c’è sempre da dubitare, se si parla di
ebrei” – insinuò
malignamente George.
Un
pugno, uno solo, solo uno ben assestato. Sarebbe stato infinitamente
grandioso farlo, al pari di un orgasmo dopo una notte di passione con
una bella donna. Peccato solo per la galera che ne sarebbe
conseguita, per la chiusura delle sue miniere e per i suoi minatori
in mezzo a una strada… Peccato, dannato Hitler! Un giorno
avrebbe
pagato pure questo, ne era certo. “Ci penserà
l’ufficio delle
tasse a controllare ma ti ringrazio per il gentile pensiero”
– si
limitò a rispondere ironicamente.
“Ci
penserà il nuovo Furher a rimetterti a posto!
Sistemerà il marcio
che c’è in Germania”.
La
voce di George era sibillina e anche se fingeva di conoscerlo solo
marginalmente, Elizabeth sapeva come potevano essere le reazioni di
Ross. Ammirava il suo inaspettato auto-controllo ma non voleva
rischiare scenate in strada ed eventuali scandali. Cosa avrebbe detto
di lei la gente se l’avesse vista coinvolta in una zuffa fra
un
ebreo e un tedesco? Come aveva fatto Dwight, anche lei prese la
stoffa della camicia pomposa di George, prendendolo poi sotto
braccio. “Mio caro, ci aspettano dai baroni Von Tripp, non
facciamoli aspettare”.
Ross
la osservò sprezzante, da quanto sapeva essere
così glaciale e
controllata? “Il nuovo cancelliere, il nuovo
partito…” –
mormorò.
“Sì?”
– disse George, sperando dicesse qualcosa contro il governo
che lo
condannasse per sempre.
Ma
Ross lo deluse. “Stanno distribuendo le tessere. Scommetto
che la
tua sarà la numero 2, dopo quella del nostro benemerito
nuovo
cancelliere”.
“Sarebbe
un onore ma mi accontento anche della numero 875”.
Ross
ridacchiò. “Oh, quindi da bravo tedeschino sei
già corso a
giurare fedeltà ai nuovi capi. Ma in fondo me lo aspettavo,
l’acconsiscendenza è nel tuo
stile…”.
“Come
ogni buon tedesco sono fedele alla nazione” –
rispose George,
piccato.
Ross
annuì, sprezzante. “Come ogni buon tedesco,
già…”.
Dwight
lo trascinò via. “Ross, andiamo!”.
Anche
Elizabeth fece altrettanto. “George, non ne vale la pena. Fra
l’altro dovresti evitare. Parlare con un ebreo non
è ben visto per
un tedesco. Lascialo stare, non farti provocare”.
George
guardò la fidanzata. Elizabeth non gli aveva detto nulla ma
voci di
paese erano giunte tempo addietro alle sue orecchie e sapeva che lei
era stata il sogno di quel dannato ebreo spiantato. Conquistarla, col
suo fascino e col potere dei soldi della sua famiglia, era stata la
sua vittoria più grande. E ora a spingere Poldark nel fango,
definitivamente, ci avrebbe pensato il nuovo governo.
“Nessuna
provocazione mia cara. Tremava come un agnellino, mi ha assecondato
senza attaccare per paura di una denuncia. E’ ebreo, sono per
natura dei codardi”.
Elizabeth
si morse il labbro, decisa a cambiare argomento per non esporsi
troppo. “Devo dirlo anche a mio padre. Deve fare quanto prima
la
tessera del partito anche lui”.
“Assolutamente.
Ognuno deve dare il proprio contributo e la Germania tornerà
grande!”.
…
“Avrei
voluto spaccargli i denti uno ad uno” –
borbottò Ross mentre a
grandi falcate si dirigeva verso una via laterale alla piazza.
“Lo
capisco e lo avrei fatto anche io ma sai che non si
può!”.
Ross
si fermò, fronteggiando Dwight. “Sarà
sempre così? Dovrò farmi
insultare senza battere ciglio? Non potrò difendermi? Santo
cielo,
cos’è diventata questa nazione?”.
Dwight
scosse la testa, non aveva risposte certe da dargli. “Ross,
non
sarà sempre così e presto torneranno a regnare
pace, sicurezza e
rispetto verso tutti. Ma per ora devi cercare di tenerti lontano dai
guai e avere un profilo basso. Non farti provocare, ne avresti solo
la peggio e lo sai”.
“Lo
so” – disse Ross, stringendo i pugni e sentendosi
impotente. Il
viso di Elizabeth continuava a danzargli nella mente, lei, tanto
bella, lei, con la sua leggerezza, lei, col suo modo di fare
controllato. Lei, a braccetto con LUI. “Tu, Dwight? Farai
anche tu
la tessera del partito?” – chiese, a testa bassa.
Dwight
sospirò, sentendosi impotente. “No,
finché potrò evitarlo. Ma
quando vi sarò costretto, dovrò chinare il capo
come dovrai
imparare a fare anche tu. Se voglio continuare a curare la gente di
questo posto e svolgere il mio lavoro di medico senza grattacapi,
temo che quel giorno sarà inevitabile. Ross, non siamo eroi,
siamo
persone normali gettate in qualcosa più grande di noi che al
momento
non possiamo combattere. Dobbiamo sopravvivere giorno per giorno
anche ingoiando bocconi amari in attesa di trovare la strada per
uscirne. Promettimi che farai altrettanto e che non giocherai a fare
l’eroe!”.
“Prometto…
che tenterò di tenere i guai alla larga”
– rispose Ross. Dwight
come sempre era la voce razionale della sua vita e della sua
coscienza. Avrebbe voluto spaccare il mondo ma questo non avrebbe
risolto alcun problema.
“Andiamo
da Hans?” – chiese Dwight per cambiare argomento.
“Cosa?”.
“La
birra, le salsicce di Norimberga”.
Ross
scosse la testa, dopo quell’incontro aveva ben altri appetiti
e il
suo umore non era dei migliori nemmeno per gustare una birra.
“Non
ho più fame, ci si vede domani” – disse,
liquidandolo ed
allontanandosi sulla strada acciotolata.
“Dove
vai?” – urlò Dwight.
Ross
non si voltò nemmeno. “Da Margareth
Vospel”. Era la donna che
soddisfava i bisogni fisici di uomini disperati come lui. Non amava
quel genere di oblio che non corrispondeva alla sua idea di amore ma
in quel momento lei era esattamente ciò di cui aveva
bisogno.
Ammaliante, che non faceva domande e che non chiedeva tessere di
partito, almeno per ora. Sarebbero bastate poche monete, abbassarsi i
pantaloni e prenderla senza troppi giri di parole. Come piaceva a
lei, come avrebbe fatto volentieri con Elizabeth se l’avesse
avuta
fra le mani. Piacere e oblio, non chiedeva altro.
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Capitolo 3 *** Capitolo due ***
Era
stata una giornata strana quella, per Demelza Carne.
La
sera prima era rimasta sconvolta dalla nomina a cancelliere del Reich
di Adolf Hitler, un uomo visto solo al cinematografo ma che le
incuteva terrore e le era da sempre apparso malvagio, tanto
più per
il suo odio verso gli ebrei che, come diceva il suo padrone, da quel
momento in poi non avrebbero più potuto stare tranquilli.
Demelza
aveva passato un’infanzia ‘selvatica’.
Prima di sette figli,
con sei fratellini tutti maschi e più piccoli di lei, dopo
la morte
della madre si era trovata, a soli 8 anni, ad essere padrona di casa
e punto di riferimento per i più piccoli. Con il padre, un
povero
minatore sempre ubriaco, era andata a scuola pochissimo ed era
cresciuta negli stenti, nell’ignoranza e nella violenza.
Percosse,
botte, cinghiate, con suo padre Tom erano state all’ordine
del
giorno fino a due anni prima quando, ormai quattordicenne, a una
fiera aveva incontrato Ross Poldark che l’aveva presa con lui
come
domestica. Da quel momento la sua vita era cambiata. Nampara, la casa
del suo padrone, era diventata anche la sua di casa e lei aveva
sempre fatto del suo meglio per tenerla pulita, in ordine e renderla
accogliente quanto più possibile. Ross Poldark era un uomo
spesso
taciturno e distante ma con lei si era sempre dimostrato gentile, le
aveva insegnato a leggere e scrivere meglio, le aveva permesso
l’accesso alla biblioteca di famiglia e spesso la invitava a
cenare
con lui la sera. Era piacevole, spesso chiacchieravano e anche se lui
era ombroso e lei invece vivace e curiosa, gli scambi fra di loro
divertivano entrambi proprio per il modo diverso che avevano di
approcciarsi alla vita.
Demelza
era affezionata a Ross Poldark, era stato la sua ancora di salvezza
in una vita durissima che poco aveva da offrirle e si sentiva
talmente leale e fedele a lui e al suo mondo che non lo avrebbe mai
tradito ed abbandonato. Sapeva che era ebreo e che ora le cose per
lui si sarebbero messe male ma non aveva paura di dargli il suo
supporto per quel poco che valeva e che poteva fare una ragazzina
sedicenne. Era bello, leale, pieno di ideali e a lei pareva quasi un
essere ultraterreno da venerare. Ciò che diceva Hitler degli
ebrei
non la riguardava, Ross Poldark rimaneva intoccabile e niente e
nessuno gli avrebbe fatto cambiare idea. Nemmeno il credo religioso
era mai stato un problema fra loro. Ross era ebreo solo di nome, non
professava la sua fede e anche l’avesse fatto, non ci
sarebbero
stati problemi. Lei era protestante, come la maggior parte dei
tedeschi, ma come il suo padrone, decisamente poco praticante. Suo
padre diceva che sarebbe bruciata all’inferno per questo, le
diceva
che doveva lasciar perdere il lavoro e tornare a casa a una vita
morigerata e lontana dal peccato eppure, al momento, la percentuale
di stipendio che Ross gli inviava a casa non lo aveva reso insistente
più di tanto.
Ma
quella mattina, mentre il suo padrone era in piazza con Dwight Enys,
suo padre era arrivato a Nampara col suo migliore vestito e un
pacchetto per lei.
Ancora
incredula, dopo ore guardava ciò che conteneva, poggiato
sulla
sedia. Santo cielo, suo padre non le aveva mai regalato nulla e
ora…
Che beffardo destino e che assurdo genitore le era capitato!
Demelza
sbuffò, ricordando il loro colloquio della mattina.
“Figlia,
la vita nella dissoluzione e nel peccato accanto a un ebreo
dovrebbero finire per il tuo bene ma allo stesso tempo il denaro del
tuo stipendio mi è tristemente necessario. Ma posso
redimerti,
almeno un po’”.
Demelza
lo aveva guardato con un sospiro, ribadendo che non c’era
alcun
peccato di cui vergognarsi, che lavorava come domestica in modo
onesto e che il suo padrone la trattava con rispetto e gentilezza.
Cosa che, negli anni, non si era potuta dire di suo padre. Ma questo
se ne guardò bene dal dirlo…
L’uomo
poi le aveva dato il pacchetto in mano. “E’ per
te”.
“Cos’è?”.
“Un
vestito, una divisa, ogni buona ragazza tedesca da oggi dovrebbe
vestirsi così”.
Accigliata,
Demelza aprì il pacchetto che conteneva una gonna nera a
pieghe
lunga fino al ginocchio, una camicia bianca e una cravatta scura.
Riconobbe subito cos’era perché l’aveva
vista al cinematografo
in alcune parate naziste, una divisa, un qualcosa che rappresentava
una entità a lei totalmente nemica ed estranea.
“Non ho mai avuto
alcun abito nuovo e ora… arrivi con questo?”
– aveva chiesto,
quasi rabbiosa che suo padre le avesse fatto un dono simile.
“Hai
sedici anni, sei una giovane ragazza che per età fa parte
della
gioventù hitleriana e devi indossarlo da ora in poi. Ho
speso molto
per comprartelo, per il tuo bene e per il bene della
nazione”.
Demelza
aveva stretto con rabbia i pugni. In realtà avrebbe voluto
ridergli
in faccia ma ancora non aveva superato la paura dei suoi schiaffi e
delle sue cinghiate, quindi rimase quanto più neutra
possibile. “Che
bene fa alla nazione l’indossare questa cosa?”.
Lui
le si era avvicinato viso a viso, minaccioso. “E’
per il TUO di
bene ragazza, io penso a te, è mio dovere di padre farlo.
Bambina,
il vento è cambiato, prima lo capisci, prima di togli dai
guai!
Poldark è ebreo, presto dovrai andartene da qui per la tua
salvezza
e per salvezza intendo LA VITA! Ma per ora che è ancora
possibile
farlo, visto che ci tieni tanto a stare qui, accetta i compromessi!
Sei tedesca, hai doveri verso il tuo Stato e vestirti con una divisa
non è gran fatica! Sono tuo padre, sta a me decidere cosa
fare per
il tuo bene”.
Avrebbe
voluto urlare e sbraitare, dire no e ancora no ma non sarebbe
servito. Voleva che se ne andasse e quindi prese il pacchetto, gli
diede qualche moneta avanzata dall’ultimo stipendio e
lasciò che
sparisse alla sua vista. Avrebbe voluto dirgli che del suo bene, a
lui non era mai interessato nulla e che non sarebbe bastato un
vestito a renderlo un padre modello. Ma lo fece andare senza aprire
bocca, ricordandosi che Ross Poldark una volta le aveva spiegato che
è l’ignoranza che spesso rende cattive e sciocche
le persone. E
suo padre non aveva mai letto un libro e da quel che sapeva di lui,
sapeva a stento scrivere il suo nome. Era cresciuto a sua volta,
probabilmente, nella miseria e nella fame e la violenza era tutto
ciò
che la vita gli aveva insegnato.
Rimasta
sola con questi pensieri così complessi per la sua
età, aveva
poggiato la divisa sulla sedia della cucina e poi aveva proseguito
con le sue faccende domestiche cercando di non pensare più
né a suo
padre, né alla divisa né alle parole che le aveva
detto che, benché
non volesse ammetterlo, avevano un fondo di logica e verità
non
trascurabili.
Ross
Poldark non tornò per pranzo ma solo a pomeriggio inoltrato,
con una
faccia ancora più sconvolta della sua.
…
L’incontro
con Margareth Vospel era stato….
‘movimentato’. Oh, alla donna
piaceva essere presa con un certo vigore e lui quel giorno le aveva
dato esattamente quello che voleva. Per ore, nel suo letto, aveva
lasciato che l’oblio lo cullasse, assieme ai gemiti della
ragazza
che si contorceva sotto di lui. Ma finito tutto, si era sentito
sporco. Suo padre amava quel tipo di passatempi senza conseguenze,
dopo la morte della madre aveva passato la sua esistenza a cercane
l’essenza in ogni donna che gli andava a tiro, ma Ross non
era mai
stato così…
Margaret
era l’appiglio ai momenti duri, capitava di rado ma quel
giorno
sentiva di aver bisogno di annullarsi nel nulla. Dopo averla pagata
era andato in montagna, si era lavato in un torrente e per ore era
rimasto solo ad ascoltare i rumori del bosco, sempre uguali e
confortanti a dispetto del nuovo corso della storia.
Poi
era tornato a casa, senza passare dalle sue miniere quel giorno.
Voleva solo pace, una buona cena, leggere un libro e dormire ma
quando entrò dalla porta e vide che pure Demelza sembrava di
cattivo
umore, comprese che forse nemmeno lì a Nampara avrebbe
trovato
tranquillità.
La
osservò, era davvero strano trovare quella ragazzina di
cattivo
umore. In realtà lei era tanto solare quanto lui era
solitamente
ombroso. “Ti ha morsicata una tarantola?”
– chiese, poggiando
il gilet sulla sedia.
Lei
lo fulminò con lo sguardo ma non rispose sgarbatamente.
“Sarebbe
stato meglio”.
Lui
si accigliò, incuriosito. “Che è
successo?”.
“E’
passato mio padre”.
“Ah”.
Ross si sedette, tagliando una fetta di pane dal tagliere.
“Non gli
avevo già versato la sua quota mensile del tuo
stipendio?”.
“Sì,
ma ci teneva a darmi questo!” – disse la ragazza,
spingendo il
pacchetto sul tavolo fino a farlo arrivare a lui.
Ross
la osservò di sottecchi. Demelza era cresciuta molto in quei
due
anni a suo servizio e ora c’era ben poco in lei della
mocciosa
sporca e malvestita che aveva incontrato a una fiera assieme al suo
cane. Anche lui, Garrick, si era raffinato e ora non passava
più le
giornate a seguire le sue galline ma preferiva starsene appollaiato
davanti al camino o seguire educatamente la sua padrona. Demelza era
graziosa, aveva lunghi capelli rossi e stava crescendo in fretta,
avida di quella conoscenza e quel sapere che i suoi primi anni di
vita le avevano negato. Le aveva insegnato a leggere e scrivere
meglio – era quasi analfabeta quando si erano conosciuti
– faceva
molte domande sulla storia, la società e la politica e
dimostrava
una intelligenza e un senso pratico fuori dal comune per una bambina
cresciuta nel nulla. Si era anche raffinata anche se a volte
imprecava ancora e tutto sommato si era dimostrata un’ottima
domestica. Nampara non era mai stata tanto pulita ed in ordine dai
tempi in cui c’era sua madre a prendersene cura.
Il
viso stava perdendo i tratti infantili e ora stava diventando una
ragazzina graziosa, anche bella. Non era bionda come il partito
nazista avrebbe voluto ma i suoi occhi verdi e la lunga chioma rossa
erano più che sufficienti per definirla 'ariana’.
Anche se a lei
quell’aggettivo non piaceva nemmeno un po’. E non
le piaceva
nemmeno Hitler che definiva malvagio, gobbo e vecchio. E anche poco
‘ariano’, visto che non c’era traccia in
lui di capelli biondi
o occhi azzurri…
“Cos’è?”
– le chiese, prendendo fra le mani il pacchetto. Sembrava
terribilmente imbronciata e quando era così si riaccendevano
sul suo
viso i tratti tipici dell’infanzia.
“Un
vestito… Un completo”.
Ross
parve stupito. “Tuo padre ti ha comprato un vestito? Wow, ci
vedo
dei progressi”. Lo disse con ironia, Tom Carne non gli era
mai
piaciuto, così come non gli piaceva nessun uomo che alzava
le mani
contro una ragazzina indifesa. Certo, nemmeno lui era un santo e
aveva passato la mattina a rotolarsi nel letto di una prostituta, ma
quanto meno aveva saputo donare a Demelza un tetto,
tranquillità e
un onesto lavoro.
Demelza
sbuffò. “Temo che questa nuova moda nazista abbia
contagiato pure
lui. E’ la divisa delle ragazze della gioventù
hitleriana. La odio
ma lui sostiene che devo metterla per il mio bene! Ma io lo so da
sola cosa fare per il mio bene e non è toccare roba del
partito
nazista!”.
Ross
sapeva che Demelza lo diceva anche per lui, consapevole dei guai in
cui si stava cacciando a causa della religione a cui apparteneva. Ma
anche se gli faceva piacere quella presa di posizione tanto leale nei
suoi confronti, allo stesso tempo gli risuonavano in testa le sagge
parole di Dwight di quella mattina. “E’ solo un
vestito, non ti
renderà diversa se lo indosserai quando
necessario” – disse, a
denti stretti, odiando se stesso per quel consiglio che in altre
situazioni non le avrebbe dato MAI.
“Voglio
bruciarlo!”.
La
bloccò. “E’ un abito nuovo”
– disse, toccando la stoffa –
“Ne hai mai avuto uno tuo?”.
Demelza
abbassò lo sguardo. “No”.
“E
allora trattalo come tale”.
“Non
mi piace, signore!”.
Ross
scosse la testa, era necessario che fosse lui fra i due, quello che
agiva con saggezza. “Ma questi non sono tempi adatti a fare
gli
schizzinosi, giusto?”.
Demelza
picchiò le mani sul tavolo, arrabbiata. Di solito si
tratteneva,
aveva imparato a farlo, ma a volte il suo animo selvaggio riusciva
ancora ad uscire anche in presenza del suo padrone. “Giudas,
no! Lo
capite cosa rappresenta?”.
Ross
si alzò, oltrepassando Garrick che dormicchiava nel cesto.
Si
avvicinò al camino, poggiando la mano contro il muro.
“Demelza,
non indossarlo potrebbe crearti dei guai se la situazione si facesse
pericolosa. Indossarlo non renderebbe Hitler né
più forte né più
debole. E’ solo un vestito, un vestito nuovo. Trattalo come
tale e
se non ti piace, indossalo solo quando le circostanze ti
costringeranno a farlo”.
La
ragazza abbassò lo sguardo. “Siete
d’accordo con mio padre,
allora? Lui ha detto circa le stesse cose”.
Ross
alzò gli occhi al cielo, dannazione a Tom Carne.
“Per una volta,
sì. Non essere sciocca, non siamo sciocchi! Stamattina
Dwight mi ha
detto le stesse cose che sto dicendo a te. E’ un mondo folle
Demelza, dobbiamo agire con scaltrezza ma senza fare gli eroi,
cercare di sopravvivere anche facendo compromessi e aspettare che
tutto finisca”.
Demelza
osservò il vestito sul tavolo.
“Sì… Dwight è spesso saggio,
lo
dice pure Caroline”.
“L’hai
vista, oggi?”.
“Oggi,
sì. Prima di pranzo quando sono andata da Peter Hauffman per
prenotare la legna da mettere nel camino per l’inverno. Lei
passeggiava sulla via che porta al paese, io in direzione
opposta”.
Ross
si stupì. “Passeggiavi? Hauffman vive fuori
Annaberg Buchholz,
quasi a ridosso dei monti. Ci sei andata a piedi? Non hai preso la
bicicletta?”.
Demelza
sbuffò. “Mi è caduta la
catena”.
“Di
nuovo?”.Beh, non c’era da stupirsene troppo. Le
aveva comprato
quella bicicletta vecchissima a un mercatino, probabilmente di terza
o quarta mano, ruggine, dura da pedalare e per niente comoda. Demelza
la adorava ma era più il tempo che era rotta che quello che
era
funzionante.
“Sì
e sistemarla è orribile. Odio quel grasso nero che mi cola
sulle
mani”.
Ross
scoppiò a ridere. Demelza era una lavorante instancabile,
faceva di
tutto, eccetto toccare la catena della sua vecchia bicicletta che
continuava a cadere. Odiava il grasso e alla fine era sempre lui a
sistemargliela. “D’accordo, dopo ci darò
un occhio”.
“Grazie!”.
Di nuovo di buon umore a quelle parole, Demelza decise di informarlo
della sua giornata. “Caroline mi ha detto che suo zio Ray le
regalerà un’auto nuova fiammante per il suo
diciottesimo
compleanno. Dice che costringerà Dwight a salire con lei per
fare
lezioni di guida insieme!”.
Ross
la fissò con terrore. La viziata, irrefrenabile Caroline
Penvenen
alla guida di un’auto? “Santo cielo, non basta
Hitler ad
attentare alle nostre vite senza che ci si metta pure lei?”.
“Dice
che sarà bravissima!” – lo
schernì la ragazza, divertita.
“A
buttar giù muri, certo! E forse anche persone, anche se mi
auguro di
no”.
“Ma
se imparerà, la sera potremo andare in auto al
cinematografo. In
inverno la sera fa tanto freddo ad uscire a piedi”.
“Oh,
a quando il vostro prossimo film?”.
“Non
lo so, aspettiamo titoli interessanti. Ne avete qualcuno da
consigliarci, signore?”.
Ross
rise. “Io? Io che odio tutte queste diavolerie moderne come i
cinematografi, cosa potrei consigliarvi? Non ho nemmeno idea di chi
siano gli attori più in voga del momento. Ma una cosa la so
e ve la
consiglio: vi conviene andarci quanto prima a guardare un film,
finché avrete facoltà di scelta su cosa
vedere?”.
Demelza
lo fissò senza capire. “In che senso?”.
“Nel
senso che a breve il caro vecchio Furher assumerà un
ministro della
propaganda che riempirà i cinematografi di tutta la nazione
di
spazzatura nazista. Cinema di regime per indottrinare al suo volere
tutti i tedeschi ‘di buona
volontà’”.
“Giudas,
sarebbe orribile!” – sbottò la
ragazzina, picchiando i pugni sul
tavolo.“Giudas, sarebbe orribile! Che mezzo uomo terribile il
nostro cancelliere!”.
Ross
sospirò. “Non dirlo mai ad alta voce, potrebbe
costarti la galera
se non di peggio”.
“Ma
anche Chaplin sarà bandito, secondo voi signore?”.
Ross
sorrise suo malgrado, lei aveva un modo di fare che riusciva a
metterlo di buon umore anche nelle giornate nere come quella.
“Non
capirò mai il tuo amore per il cinema, ragazzina. E nemmeno
l’amore
che nutri per uno che porta i baffetti come il Furher”.
“Dovreste
venire con me allora, stupirebbe anche a voi vedere che genio sia
Chaplin. ‘Il monello’, avete mai visto quel film?
Così soave,
così poetico…”.
Ross
sorrise di nuovo, divertito dal modo in cui lei si appassionava a
quegli argomenti. “No, me lo sono perso. A breve Hitler
impedirà
sicuramente a noi ebrei di frequentare i cinematografi e questa
sarà
una cosa di cui dovrò ringraziarlo”.
“Non
ditelo, signore!”.
Ross
le si avvicinò, poggiando paternalmente la mano sulla sua
spalla.
“Demelza, la vita di tutti noi cambierà giorno
dopo giorno e
speriamo che i cinematografi siano una delle poche cose che quel
folle toccherà”.
Demelza
deglutì. “Sì, signore,
speriamo”.
“Per
il resto? Com’è andata la tua giornata? Tuo padre,
la divisa,
Caroline e l’automobile a parte…?”.
“Hauffman
dice che ci porterà la legna per l’inverno entro
dieci giorni. E’
indaffarato, sta intagliando statuine per i presepi da vendere
durante l’Avvento ai mercatini”.
Ross
annuì, Hauffman oltre ad essere un boscaiolo, era uno fra i
più
rinomati intagliatori di legno della regione.
“Capisco”.
“Vorrei
riuscire a compare qualcosa da lui, a Natale. Fa presepi tanto belli
con la legna, mi accontenterei solo della Sacra Famiglia da mettere
sul comodino”.
Ross
le strizzò l’occhio. “Daremo qualche
moneta in meno a tuo padre
e con quanto risparmiato, ti prenderai il tuo presepe”.
Demelza
divenne rossa in viso dalla contentezza, prendendo poi a saltellare.
“Sì, si, sì!”.Ma poi si
fermò. “E a voi non dispiacerà
avere in casa un presepe?”.
“Perché
dovrebbe?”.
“Beh,
siete ebreo”.
Lui
alzò le spalle. “E allora? Io rispetto te, tu
rispetti me. Un
presepe non esclude altri credo e inoltre lo sai, la religione
è
qualcosa di molto lontano da me”.
Demelza
annuì. “Quindi potrò davvero compare le
statuine?”.
Ross
le si avvicinò. “A una sola condizione: quando
DOVRAI, metterai
quella divisa”.
La
gioia divenne in un attimo serietà. “Per il mio
bene?”.
“Per
il tuo bene” – le rispose, domandandosi per quanto
avrebbe potuto
permettersi di tenerla alle sue dipendenza senza esporla ad eccessivi
rischi.
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Capitolo 4 *** Capitolo tre ***
“Le
convenzioni sociali dicono che questa cosa va proprio fatta e quindi
io e Dwight vi invitiamo al nostro matrimonio che si terrà
il 10
dicembre 1935 nella piazza principale della città. Siete
ovviamente
nostri
graditi ospiti - Hitler se ne farà una ragione -
e condannati a morire di noia – ma a mangiare bene
– per quel
giorno”.
In
questo modo Caroline Penvenen aveva annunciato a Ross Poldark e alla
sua giovane
domestica
Demelza il suo matrimonio con Dwight Enys in un giorno di fine
settembre
del 1935. Con la solita noncuranza, cercando di non tradire alcuna
emozione circa quell’evento, aveva portato a Nampara gli
inviti per
le nozze assieme a un Dwight che invece,
di mascherare le sue emozioni,
non aveva alcun interesse ed era rosso e paonazzo per
l’emozione.
L'invito
era stato recapitato ai due pochi giorni dopo l'emanazione delle
Leggi di Norimberga con cui Hitler aveva privato gli ebrei residenti
in Germania della cittadinanza tedesca e decretato la loro espulsione
dagli uffici pubblici e dalle attività economiche. Ma Ross
era fra i
loro migliori amici e per niente al mondo avrebbero rinunciato ad
averlo alla loro tavola nel giorno più importante della loro
vita.
In
quei tempi bui in cui era difficile anche solo decidere il da farsi
per il domani, in cui tutto ciò che aveva conosciuto si
stava
sgretolando davanti ai suoi occhi e non era più cittadino
gradito
nella nazione dove era nato, quell'attestato di stima riempì
il
cuore di Ross di immensa gratitudine. Aveva ancora molti amici fra i
suoi minatori, le sue miniere in un modo o nell'altro sarebbero
andate avanti ma Ross sapeva che con il passare del tempo si sarebbe
trovato sempre più solo. La repressione verso gli ebrei
sarebbe
aumentata di certo e chi gli era vicino sarebbe stato costretto ad
allontanarsi per aver salva la vita.
Di
umore meno cupo, alla
notizia Demelza si era gettata felice fra le braccia
dell’amica,
entusiasta e sognante. Dwight e Caroline ai suoi occhi erano
l’amore
romantico dei film che vedeva al cinematografo e ormai
diciassettenne, attraverso di loro iniziava a fantasticare di quando
e come avrebbe potuto lei stessa trovare il suo principe azzurro. Non
che aspirasse a molto, non si era mai sentita né carina
né
interessante e non poteva nemmeno contare su una dote
e in tutta franchezza
pensava che ci volesse coraggio per un uomo, interessarsi a una come
lei. Eppure ci sperava che un giorno…
Ross
strinse le mani all’amico, augurandogli buona fortuna. Dwight
era
un bravo ragazzo, un medico scrupoloso ed onesto e soprattutto
adorava Caroline. Il loro matrimonio, seppur diversi come il giorno e
la notte, nasceva sotto i migliori auspici e non dubitava che sarebbe
stata una unione di successo. Per quanto lo riguardava invece, era
ormai piuttosto disilluso sia dalla vita, sia dall’amore. La
situazione politica tedesca somigliava ormai a quella di uno stato
militare, le libertà civili stavano sparendo senza che la
gente se
ne accorgesse e vivere e respirare diventava sempre più
difficile
per un ebreo. Le
leggi di Norimberga erano solo una piccola parte della tragedia che
stava vivendo la Germania e presto tutti avrebbero compreso che il
tributo che avrebbe chiesto la politica di Hitler sarebbe stato caro
per chiunque, ariani compresi. E
poi c’era Elizabeth, sempre troppo vicina a George Warleggan
che,
voci di paese, davano ormai prossimi al matrimonio. Da quando Hitler
era salito al potere lo evitava e se proprio non poteva farne a meno
perché si incontravano faccia a faccia per le vie del paese,
si
limitava al massimo a un impercettibile cenno del capo come saluto.
Frettoloso, quasi vergognandosene. Forse la capiva, George doveva
assillarla su tutto e soprattutto su di lui e poi c’erano le
leggi
razziali che non vedevano di buon occhio l’amicizia fra
tedeschi ed
ebrei, però…
Però
faceva male perché in fondo in molti, fra chi lo conosceva
da
sempre, continuavano a trattarlo come un amico, Dwight, Caroline e
Demelza lo includevano nella loro vita e amicizia senza problemi e
paure mentre Elizabeth… Era davvero cambiata? Oppure la sua
natura
era volubile
come
il vento? Oppure – ma si rifiutava di crederlo –
era più nazista
di
quanto
lui avrebbe mai
potuto
accettare
di sapere?
Dopo
quell'annuncio Ross passò l’autunno a lavorare
come un matto nelle
sue miniere, attorniato dalla sua gente che in lui non vedeva
‘l’ebreo’ ma un amico e un uomo
d’affari che dava loro lavoro
e da vivere. Sotto terra, lontano dalla politica e dall'odio che
contrapponeva uomini ad altri uomini, solo fra rocce, polvere e
sudore riusciva a trovare pace.
A
Nampara era invece Demelza a brillare, casa sua non era mai stata
tanto in ordine come da quando aveva assunto come domestica quella
ragazzina inizialmente selvatica che stava sbocciando sotto i suoi
occhi quasi senza che se ne accorgesse. Era una lavoratrice
instancabile, tanto entusiasta della vita quanto lui ne era
disgustato, sempre allegra, sempre pronta ad affrontare la giornata
senza pregiudizi, in grado di farlo sorridere anche nei momenti per
lui più cupi. Una lavoratrice fedele, che nemmeno si sognava
di
allontanarsi da lui nonostante fosse ebreo
e nonostante l'emanazione delle leggi razziali che definiva 'una
sciocca buffonata'.
Era ironica
talvolta, soprattutto quando le circostanze la obbligavano ad
indossare l’odiata divisa della gioventù
hitleriana e lei
imprecava contro Hitler e il suo assurdo credo. C’erano
momenti
dove trovava piacevole sentirla parlare dell’adorazione per
le
stelle del cinema e di come lei e Caroline bisticciassero sul fatto
che Clarke Gable fosse o meno meglio di Charlie Chaplin. Stranamente
la stava ad ascoltare, anche se di fatto conosceva quei nomi in modo
approssimativo e del cinema non gli interessasse nulla.
Era
cresciuta molto nei tre anni a suo servizio e ora a diciassette anni
stava diventando una bella ragazza e ben poco era rimasto in lei
della bambina emaciata che aveva conosciuto e assunto nel 1932. Aveva
un viso luminoso, i suoi capelli rossi ormai erano lunghi fino alla
vita e aveva imparato a pettinarseli e farli sembrare meno ribelli.
Aveva un bel sorriso che sapeva colmare spesso i suoi vuoti
d’animo
e il suo scoramento e spesso si trovava a pensare al momento in cui
avrebbe dovuto allontanarla se le leggi razziali gli avessero imposto
di scegliere fra il tenerla a servizio con se o la sicurezza di
rimandarla a casa da suo padre, uomo violento ma non ebreo. E questo
ormai faceva la differenza…
Per
regalo comprò,
per gli sposi, un servizio di piatti di porcellana che aveva
scelto
Demelza. La
ragazza partecipò alla spesa chiedendogli di detrarre una
parte di
stipendio, insistendo affinché lo facesse. Lui
acconsentì anche se
non ce n’era bisogno e lasciò a lei il piacere di impacchettarlo
con nastri e carta colorata.
Il
matrimonio si svolse nella Chiese della Piazza di Annaberg-Buchholz
in una giornata nevosa dove ad addolcire l’atmosfera
c’erano le
bancarelle di legno e le luci dei mercatini di Natale. Profumi di
dolci e spezie si mischiavano nell’aria mentre tanti bambini
biondi
correvano fra le casette osservando i giochi di legno e le
decorazioni esposte.
Caroline
fu la regina del giorno e Ross si trovò a pensare che avesse
scelto
il periodo dell’Avvento proprio per farsi notare dalla piazza
gremita di avventori. Degno di lei, classe e piacere di mischiarsi
alla gente erano innate nella neo signora-Enys che all'uscita da
Chiesa, col suo bouquet, si gustò fino in fondo il grido
della
piazza che accompagnò la sua usita: 'Viva la sposa, viva gli
sposi'.
Il grido scaldò di piacevole allegria la piazza e tante
persone che
nemmeno la conoscevano, davanti alle bancarelle, brindarono a lei con
fumanti tazze di Gliwhein in mano. C'era sempre, in Germania, un buon
motivo per mandar giù qualcosa di alcolico, giusto?
Il
pranzo di nozze, per pochi fidati intimi, si tenne nella grande villa
dei Penvenen che da quel momento sarebbe stata anche la casa di
Dwight.
Vestita
di bianco, coi capelli raccolti, la sposa si avvicinò a
Demelza che
stava gustando un pasticcio di carne di maiale con patate.
“Che te
ne pare?”.
La
ragazza le sorrise. “Matrimonio da sogno! Oh, sono
così contenta
per te!”.
Caroline
fece spallucce. “Da sogno sarebbe stato con Clarke Gable! Oh
che
meraviglia averlo come ospite! Il mio primo ballo lo avrei riservato
a lui!”.
“Ma…
Ma Dwight!” – sbottò Demelza.
“Ahhh,
avrebbe capito!”.
Le
ragazze scoppiarono a ridere e Ross e Dwight, che parlavano in un
altro angolo della sala si voltarono a guardarle.
Caroline
si avvicinò all’orecchio di Demelza per
bisbigliare. “Beh, il
ballo era per Clarke, la notte per Dwight”.
A
quella allusione, Demelza avvampò. Non aveva chiaro proprio
del
tutto come fosse ‘l’amore fisico’ e si
trovò in estremo
imbarazzo. “Hai paura?”. Sicuramente doveva essere
così, davanti
alla prospettiva di un qualcosa di sconosciuto e tanto intimo.
Caroline
sospirò. “L’ho sposato e mi fido del suo
amore e che sarà
gentile. Ma sì, forse ho un po’ paura, circolano
racconti
spaventosi sulla prima notte di nozze. Le anziane del paese dicono
che noi donne dobbiamo stringere i denti, non lamentarci e lasciar
fare”.
Demelza
alzò gli occhi al cielo. “Non
ascoltarle, andrà
bene, la
signora Dauchmann e le sue amiche sono vecchie zitelle acide ormai”.
Caroline
annuì. “Esatto, facciamoci da noi le nostre
esperienze senza
ascoltare quella petulante vecchia di Ghertrude Dauchmann”.
Demelza
si trovò d’accordo. Chissà per lei
quando sarebbe arrivata ‘la
prima volta’ e chissà con chi l’avrebbe
vissuta…?
Quasi
leggendole nella mente, Caroline le bisbigliò all'orecchio.
"Fallo
in fretta, potremo crescere assieme i nostri futuri marmocchi!
Troverei intollerabile pensare da sola a pappe, poppate e pannolini".
Demelza
la guardò storto. "E con chi potrei fare un bambino? Non
credo
di essere un soggetto interessante".
"Peter
Wegher ti fa spesso gli occhi dolci quando vai a comprare il pane da
suo padre".
"Peter
Wegher ha sedici anni".
"Solo
uno meno di te, mia cara Demelza. E' pure ariano, Hitler sarebbe
fiero di te e della scelta e vi darebbe la sua benedizione" -
concluse Caroline imitando la voce del Furher.
Demelza
mascherò un sorriso, era incredibile come Caroline riuscisse
a
scherzare anche su argomenti tanto cupi. "Dovrebbe sposarselo
lui allora, Peter Wegher".
"Sicura?
E' un buon partito, il caro Peter" - continuò a prenderla in
giro Caroline.
"Sic...
Anzi no, Hitler non dovrebbe sposarsi affatto! A volte penso a cosa
debba aver passato Geli Raubal con lui, prima di spararsi nel petto!
Dicono che avesse con lei un rapporto... malato".
Il
silenzio cadde su quel nome pronunciato da Demelza inizialmente con
leggerezza. La triste storia di Geli Raubal, nipote di Hitler morta
suicida quattro anni prima a causa delle attenzioni morbose dello
zio, era ancora un argomento tabù di cui non parlare.
Con
un sospiro, la sposa decise di cambiare argomento virando su
tematiche meno... pericolose. "E Ross? Come l'ha presa?".
"Cosa?
La storia di Geli?".
"Ma
no, sciocca! La notizia che a gennaio saranno George ed Elizabeth a
sposarsi...".
Demelza
si morse il labbro, anche quello era stato un argomento tabù
a
Nampara. Tre settimane prima erano state affisse le pubblicazioni di
matrimonio fra l'antico amore del suo padrone e il suo acerrimo
nemico e Ross era stato intrattabile per giorni tanto da arrivare ad
alzare la voce con lei in più di una occasione per motivi
sciocchi.
Una sera era scoppiata a piangere e lui le aveva chiesto scusa. Da
allora aveva cercato di tornare ad essere gentile e avevano fatto
pace ma ci era voluto un pò perché il clima cupo
si affievolisse.
"Non benissimo... La ama ancora, forse la amerà sempre".
Caroline
scosse la testa. "Dovrebbe dimenticarla, lei per lui non spreca
nemmeno un attimo del suo tempo, nemmeno un pensiero".
"Lo
so Caroline, lo so... Forse lo sa anche lui ma non vuole ammetterlo".
"Testone..."
- mormorò Caroline. Voleva aggiungere altro ma un cavaliere
arrivò
a chiederle la mano per il primo ballo. Non era Clarke Gable ma
poteva andare bene lo stesso.
"Allora,
signora Enys, volete ballare con me?".
Caroline
sorrise. "Credevo non arrivassi più a chiedermelo, signor
Enys!".
Dwight
strizzò l'occhio a Demelza. "Non ho il fascino di Clarke ma
posso andar bene ugualmente, no?".
Demelza
sorrise mentre Ross raggiunse il suo fianco. "Decisamente!".
"Di
che parlate?" - le chiese il suo padrone.
"Cinema...".
Ross
sbuffò. "Anche oggi?".
"Anche
oggi...". Demelza lo osservò, ripensando a quanto si erano
dette lei e Caroline fino a poco prima. Attorno a loro gli altri
ospiti mangiavano, bevevano e ballavano e nella sala c'era un clima
sereno. Eppure, era certa, Ross non poteva non pensare a QUELL'ALTRO
matrimonio che sarebbe avvenuto a breve e sarebbe stato decisamente
più pomposo e ricco. Si diceva che George avesse invitato
anche
alcuni gerarchi nazisti locali e che non avrebbe badato a spese per
rendere memorabile quel giorno. "E' così che dovrebbe essere
un
matrimonio, signore. Tutto il resto è esibizionismo e
arroganza".
Ross
la guardò senza capire a cosa alludesse. "In che senso?".
"Calore,
piacere, gioia ma anche semplicità! Come Dwight e Caroline,
non come
quello che avverrà...".
Demelza
si bloccò notando quanto lo sguardo di Ross, a quelle
parole, fosse
diventato cupo. Aveva capito a CHI si stava riferendo, non c'era
bisogno di fare nomi e forse era sbagliato che lei si intromettesse
ma Caroline aveva ragione, Ross si stava facendo del male per niente,
per nessuno. E a lei spiaceva. "Signore...".
Ross
le prese il polso, stringendolo lievemente. "Non parlarne, non
voglio!".
"Mi
fate del male, signore! So che non è affar mio, ma...".
"Esatto,
non è affar tuo!". L'uomo la trascinò fino alla
balconata,
bisognoso di aria e di farla stare zitta! Quando furono soli, sul
terrazzo, con la neve che cadeva sulle loro teste, la
affrontò. "Che
diavolo ti viene in mente? Chi ti da diritto di parlare di cose che
non ti riguardano, ragazzina?".
"Non
sono più una ragazzina!" - rispose lei, a tono, decisa a non
farsi intimorire stavolta.
"Pensavo
fosse chiaro che queste sono cose che non ti riguardano!".
Era
vero, in teoria non la riguardavano affatto eppure...
Demelza
alzò gli occhi, Ross era davanti a lei, a pochi centimetri.
Fino a
quel momento lo aveva visto come un buon padrone, un ragazzo gentile,
quasi un fratello maggiore. Ma adesso... I suoi occhi sembravano
sprizzare furore e passione
e
rabbia
e
il suo viso non gli era mai parso tanto affascinante... Sì,
si era
accorta che era bello
già da molto
ma adesso, guardandolo, sentiva di trovarlo bello 'in un modo
differente'. Deglutì, sentendo le sue guancie bruciare. "Non
volevo farvi arrabbiare ma mi preoccupavo...".
Ross
rise, ironico. "La mia situazione è quindi così
miserabile da
farti provare pietà?".
Demelza
scosse la testa. "No, non pietà. Preoccupazione, che
è
diverso! E' tutto così difficile per voi e io vorrei fare di
più
per rendervi la giornata meno... complicata! Ma dovete cercare di
rendervela meno complicata voi stesso tanto per cominciare e pensare
e struggersi per chi non lo merita... non è un buon modo
intelligente per vivere!".
Ross
spalancò gli occhi, sorpreso da quel moto di coraggio e
quella
franchezza che la Demelza conosciuta tre anni prima mai avrebbe
avuto. In
realtà ben pochi gli avevano parlato in quel modo
così diretto e la
cosa lo destabilizzava. Era una situazione strana ed assurda qualla a
cui Demelza aveva dato vita e anche
lui iniziò a guardarla in maniera diversa e non
più come una
sorellina a cui fare da tutore e padrone. Quando era cresciuta
così
tanto? E
da dove aveva tirato fuori quel coraggio e quella faccia tosta? Prese
un profondo respiro, tentò di calmarsi comprendendo cosa si
agitasse
in Demelza e soprattutto
percependo
le sue buone intenzioni. Non erano molti quelli che si
preoccupavano davvero per lui ormai
e invece di arrabbiarsi doveva sentirsi grato che ci fossero persone
che lo avevano genuinamente a cuore.
Con
un
gesto gentile le sfiorò la spalla. "Sta tranquilla, non me
la
prendo più. Come hai giustamente detto, non ne vale la pena".
"Davvero?".
Non sembrava crederci molto.
Beh,
i
dubbi di Demelza erano legittimi e non
era del tutto vero ciò
che aveva appena detto ma
sapeva di dover
ormai accettare
lo stato delle cose che forse, a mente lucida, gli stava mostrando la
vera natura delle persone che lo circondavano.
"Davvero.
E
tu
invece ragazzina,
da quando sei diventata così saggia?".
Demelza
sorrise mentre il calore della mano di Ross sulla sua spalla si
irradiava per tutto il suo corpo. "Da quando guardo Charlie
Chaplin al cinematografo! Ve lo dico da sempre che è un
genio".
Ross
scoppiò a ridere. "Dovrò davvero venirci, prima o
poi, a
vedere questo tizio
con quei baffetti inquietanti!".
"Beh,
potreste essere accontentato presto! Nel 1936 uscirà il suo
nuovo
film, pare che si chiamerà 'Tempi moderni', dicono che
è un
capolavoro".
Ross
alzò gli occhi al cielo. Tempi moderni, è? Che
tragica ironia della
sorte per uno che odiava il cinematografo, le diavolerie del nuovo
secolo e all'auto preferiva ancora il cavallo.
Come
intuendo ancora una volta i suoi pensieri, Demelza gli offrì
una
alternativa. "Oppure c'è l'animazione di Walt Disney!".
Ross
rise ancora. "Ok, mi rimangio il pensiero di poco fa, sei ancora
una ragazzina che ama i cartoni animati!".
Demelza
lo osservò incuriosita. "Quale pensiero?".
Ross
ricambiò lo sguardo, era decisamente sbocciata e stava
diventando
molto bella e fin troppo brava a leggere nella sua mente. "Un
pensiero sciocco, piccola fans di Mikey Mouse".
"Allora
ne sapete qualcosa?".
Ross
arrossì, preso in castagna ma pronto a ribattere
affinché lei non
partorisse l'orrendo pensiero che lui guardasse di nascosto i cartoni
animati. "Il figlio più piccolo di Zaky ha un pupazzo di
quel
topo".
"Piacerebbe
averlo anche a me!" - disse Demelza.
"Ragazzina!"
- mormorò. Ma in quei pochi minuti aveva compreso che non lo
era più
e che la piccola mocciosa raccolta anni prima si stava trasformando
in una creatura strana, misteriosa e che ancora non riusciva a
decifrare del tutto. E questo lo sconvolgeva.
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Capitolo 5 *** Capitolo quattro ***
Annaberg-Buchholz,
20 dicembre 1936
“Piccole
scimmiette ammaestrate!” – mormorò
Caroline, fra i denti,
abbastanza piano per non essere sentita da chi era distante due o tre
posti ma cristallina per il marito e Demelza che sedevano a fianco di
lei.
Era
passato un anno dal suo matrimonio con Dwight e la ragazza poteva
definirsi una moglie felice. Dwight era un marito premuroso e
gentile, il lato intimo del loro rapporto la elettrizzava e a parte
il fatto che non si sentisse ancora pronta a diventare madre e per
questo venivano prese le giuste precauzioni, si sentiva soddisfatta.
Era
stato un anno stranamente prospero e di grande visibilità
per la
Germania, culminato con le olimpiadi che si erano tenute a Berlino.
Tutto il mondo, a detta del furher, aveva ammirato la grandezza del
Reich e di certo la stampa internazionale doveva esserne rimasta
elettrizzata.
Ma
a parte questo, il partito nazista stava tingendo di rosso e sangue
la vita dei tedeschi, togliendo loro poco a poco le libertà
senza
quasi che se ne accorgessero. Non erano solo gli ebrei ad essere nel
mirino del partito ma anche tutti coloro che manifestavano anche il
più piccolo dissenso. Le bandiere con la svastica
sventolavano
ovunque, sia davanti agli edifici pubblici, sia davanti alle case dei
privati cittadini che in questo modo plateale volevano esprimere il
loro assenso al loro ordine delle cose.
La
propaganda nazista toccava ogni piccolo aspetto della vita, la
sicurezza pubblica era gestita secondo i criteri che piacevano al
partito e violenze e sopraffazioni a danno degli ebrei tedeschi non
solo erano tollerate ma addirittura lodate. Ogni tedesco aveva
imparato a fare il saluto nazista, ogni tedesco aveva dovuto fare la
tessera del partito, scuola e propaganda avvelenavano la mente delle
giovani generazioni e tutto pareva disintegrarsi davanti agli occhi
degli oppositori di quella follia.
Il
ministro della propaganda Goebbels aveva messo
mano, col
suo operato,
su tutti i cinematografi nazionali ed era sempre più
difficile
guardare dei buoni film, soppiantati da video governativi che
esaltavano la razza ariana e la grandezza del popolo tedesco
‘puro’.
Aveva anche coinvolto la sua famiglia, soprattutto i figli, nel suo
operato di persuasione delle masse. La moglie Magda, a
causa di
voci piuttosto vicine al vero, aveva dovuto chiudere non uno ma due
occhi sulle relazioni extraconiugali
del marito e una volta all’anno circa metteva al mondo un
marmocchio da immolare alla causa del nazismo. I bambini, ancora
piccolissimi
e spesso ripresi in compagnia di Hitler che si atteggiava a zio o
nonno,
venivano filmati per essere usati a discrezione del partito e infatti
quella sera tutta la cittadina era dovuta andare al cinematografo per
assistere al
video di
un loro piccolo spettacolo in cui, vestiti con abiti tradizionali,
auguravano ai bravi e puri cittadini tedeschi un felice Natale.
Demelza,
seduta accanto a lei, coi capelli raccolti in due lunghe trecce, la
gonna nera fino al ginocchio e la camicetta bianca con la cravatta
come si confaceva alla ragazze della gioventù hitleriana, le
scarpette in vernice con la fibbietta e il bottone dorato la
bloccò.
“Shhhh, vuoi farti arrestare?”.
Anche
Dwight guardò storto la moglie.
“CA-RO-LI-NE!!!”.
Lei,
noncurante, alzò le spalle. “Non sopporto i
marmocchi, che posso
farci?”.
“Questi
sono marmocchi particolari, i bambini d’oro della nostra
nazione”
– la rimbeccò il marito in un misto fra il tono di
rimprovero e lo
scherzo.
“A
me sembrano solo delle piccole scimmiette ammaestrate, vestite in
modo ridicolo che rappresentano qualcosa di cui nemmeno conoscono il
significato. Non ho ancora deciso se mi fanno pena o se esserne
disgustata”.
Demelza
alzò gli occhi al cielo mentre nella sala si alzava un
vivace
chiacchiericcio, alla fine della proiezione. Erano molti i
compromessi che i tedeschi avevano dovuto imparare ad accettare, lei
stessa doveva pettinarsi e vestirsi come tanto piaceva al partito e
quei bambini – che, a differenza di Caroline, le facevano una
tenerezza infinita – erano nella medesima situazione, con la
differenza che stavano rappresentando qualcosa di orribile senza
rendersene conto. Erano troppo piccoli per capire che quell'uomo che
chiamavano 'zio Adolf' era in realtà un mostro.
La
gente iniziò a defluire dalla sala e sia Caroline che
Demelza si
misero la mantella sulle spalle e il cappello di lana in testa.
“Ti
riaccompagno a Nampara, è buio ed è
tardi!” – asserì Dwight.
Demelza
gli sorrise. “Non è tardi, è solo buio.
Passerò dalla piazza e
in men che non si dica sarò a casa!”.
“Insisto!”
– ribadì Dwight. “Fuori è
pericoloso!”.
Demelza
allargò le braccia. “Trecce, divisa da
gioventù hitleriana,
scarpette di vernice! Sono l’orgoglio del partito, chi
potrebbe far
del male a una ariana di razza purissima?”. Era ironica,
tristemente ironica… Ma allo stato delle cose attuale, in
Germania
funzionava così.
Caroline
le si avvicinò. “Si dice che i giovani del partito
siano
autorizzati a prendere le donne, anche contro la loro
volontà,
affinché generino piccoli ariani da immolare alla gloria
della
nazione”.
Demelza
sospirò. Aveva sentito voci simili ma almeno per quello, si
rifiutava di credere che fosse vero. “Non mi
succederà nulla, fa
troppo freddo, i nostri giovani soldati saranno tutti a casa attorno
al fuoco”.
“Demelza!”.
“Dwight,
dico sul serio, torno a casa da sola. Hai una moglie a cui badare e
io sono grande abbastanza per prendermi cura di me stessa, so
difendermi e non ho nulla da temere. Anzi, sono talmente cresciuta
che forse a breve la divisa della gioventù hitleriana
sarà inadatta
per una ‘attempata’ come me! Ho quasi diciotto
anni, a breve sarò
considerata adulta anche dal signor partito!”.
Dwight
e Caroline si guardarono in viso, poi furono costretti a cedere.
“Sta
attenta, mi raccomando!”.
Demelza
annuì. “Certo, come sempre!”.
Si
salutarono e la ragazza si avviò verso la piazza. Faceva
freddo,
c’era una incredibile quantità di neve a terra e
qualche fiocco
insisteva a cadere dal cielo. Man mano che si allontanava dal
cinematografo le strade si facevano sempre più vuote e
quando arrivò
in piazza, la trovò glaciale e deserta. Le bancarelle di
legno dei
mercatini di Natale erano chiuse in attesa di riaprire la mattina
successiva e del chiasso del giorno non c’era che uno
sbiadito
ricordo. Da bambina ammirava quelle bancarelle piene di dolci, colori
e luci e fantasticava su quanto sarebbe stato bello poter comprare
qualcuno di quegli oggetti o caramelle. Da quando lavorava per Ross
Poldark e aveva uno stipendio, aveva potuto permettersi, ogni anno,
l’acquisto di qualche piccola decorazione e nella sua stanza
aveva
addobbato un piccolo angolo del Natale che riusciva a scaldarle il
cuore.
Rabbrividì,
una folata di vento gelido la investì e lei
maledì il fatto che la
gonna fosse tanto corta e che le calze bianche che indossava non
fossero abbastanza pesanti. “Judas, il signor Adolf non
poteva
inventarsi una divisa invernale più calda?”. Ogni
tanto Ross
Poldark le ricordava che con quella ironia pungente, prima o poi si
sarebbe messa nei guai e lei, sempre a tono, gli rispondeva che la
prediva arrivava da un ben strano pulpito. La paura a rapportarsi con
lui dei primi anni aveva lasciato spazio a una incredibile
sfrontatezza e voglia di dire sempre la sua.
Fece
per incamminarsi verso il sentiero che dalla piazza portava al
limitare del bosco e a Nampara quando il suo occhio cadde su una
figura inginocchiata davanti alla vetrina di un negozio. Demelza lo
riconobbe subito, era l’anziano ciabattino del villaggio,
Smuel
Sauberman. Aveva quasi ottant’anni e le sue mani sapienti
avevano
fatto a mano le scarpe di generazioni
di abitanti di Annaberg-Buchholz. Anche per lui, al pari del suo
padrone, dopo una vita di onesto lavoro, era diventato difficile
vivere in Germania. Era ebreo e questo non poteva essergli perdonato.
Aveva perso tanti clienti e tante persone che aveva servito da sempre
gli avevano tolto la parola.
Che
ci faceva inginocchiato davanti al suo negozio, con quel freddo? Era
anziano e alla sua età doveva essere al caldo, a letto,
davanti al
camino.
Gli
andò vicino. “Signor Sauberman,
che…?”. Si bloccò, capendo
appieno cosa fosse successo.
L’uomo,
inginocchiato, con una spugna in mano e un secchio d’acqua a
fianco, strofinava il muro e la vetrina della sua attività
dove
qualcuno aveva scritto, con della vernice rossa, ‘negozio
ebreo’.
Smuel
alzò gli occhi su di lei, stupito di trovarsela davanti.
“Oh, la
piccola Demelza…”.
La
ragazza si inginocchiò davanti a lui, prendendogli la spugna
dalle
mani. “Signor Sauberman, che ci fate qui fuori? Fa un freddo
terribile, soffrite di reumatismi e non vi fa affatto bene non essere
a casa davanti a un bel fuoco”.
L’uomo
le sfiorò la mano con la sua, rugosa e segnata dai
reumatismi e da
tanti anni di lavoro. “Demelza, Demelza, sei una delle poche
persone con la divisa del partito che trovo piacevole da
ammirare”.
“Sapete
che sono costretta a portarla, anche se la odio…”.
“Lo
so... Come sta il signor Ross? Anche per lui deve essere
dura”.
Demelza
strizzò la spugna, cercando di pulire quello sfregio
così ingiusto
fatto sicuramente da chi un tempo era stato amico di
quell’uomo
onesto e mite e ora lo trattava con spietatezza senza un
perché,
solo perché al governo c’era chi asseriva che
era giusto torturarlo.
“Si chiude nelle sue miniere e lavora come un forsennato per
la
maggior parte del tempo”.
“Lo
conosco da quando era piccolo, lo sai Demelza? Facevo le scarpe per
la sua mamma, la signora Grace, e suo padre si raccomandava sempre
che usassi i materiali migliori. Da bambino ha indossato un paio di
scarpine simili a quelle che hai ai piedi tu, di vernice, con la
fibbietta. Era davvero adorabile con l’abito alla
marinaretta…”.
Demelza
scoppiò a ridere, immaginando la scena. Era davvero
difficile
immaginare il suo padrone da piccolo, agghindato come un bambolotto e
con delle scarpe da bambina. “Forse è meglio che
lui non lo
ricordi…”.
Nonostante
tutto, anche Smuel sorrise.
“Già…”.
Con
un gesto gentile, Demelza gli sfiorò il braccio.
“Potrà pulire
domani, verrò ad aiutarla, lo giuro. Ma adesso vada a casa,
è tardi
e fa freddo”.
L’uomo,
gli occhi lucidi, scosse la testa. “Perché?
Perché succede
questo? Sono nato qui, i miei genitori prima di me han fatto scarpe
per la gente del posto, siamo sempre stati tedeschi onesti e ora ci
trattano come bestie”.
Demelza
non aveva risposte da dargli,
così come non ne aveva da dare al suo padrone.
“E’ un mondo
impazzito, Smuel. E la gente è impazzita con lui”.
Smuel
la guardò con aria grave, come se nel suo sguardo portasse
con se
tutto il peso dei suoi anni e della sua esperienza. “Moriremo
tutti, lo sai ragazza? Sento sempre più vicino
l’eco
dell’esplosione che ci porterà tutti quanti sotto
terra. Noi per
primi, il resto dopo. Questo mondo pazzo, come dici tu,
pagherà a
caro prezzo quello che sta succedendo”.
Demelza
rabbrividì. Odiava quanto stava vivendo la Germania,
l’odio di cui
era impregnata, il dolore di tanti innocenti che subivano ingiuste
sevizie. E forse dentro di lei aveva la stessa certezza di Smuel ma
non aveva mai avuto il coraggio di formulare in modo concreto quel
pensiero. E ora sentirlo dalla voce di un uomo con esperienza e
saggezza, faceva male. Sarebbero davvero morti tutti? Davvero i primi
sarebbero stati gli ebrei? Smuel? Ross…? “Non dica
così”.
Il
signor Sauberman le sorrise, nonostante tutto. Non volevo
spaventarti, piccola. Va a casa, può essere pericoloso
essere visti
dare una mano a un ebreo”.
“Solo
se ci andrete anche voi” – rispose, a tono.
“Sei
testarda!”.
“Lo
dice pure Ross Poldark”.
“E
ha ragione”.
“Andrete
a casa, allora?”.
“Fra
pochi minuti, prometto! Ma tu va, ragazza, è
tardi”.
Demelza
gli sfiorò la guancia rugosa, quell’uomo poteva
essere una specie
di nonno che non aveva mai conosciuto. “Una promessa
è una
promessa”.
Smuel
sorrise tristemente. “Siamo persone di parola noi ebrei, a
dispetto
di quello che afferma il furher”.
“Ne
sono sicura”.
Con
una infinita preoccupazione nel cuore, Demelza si strinse nel
mantello e corse verso casa mentre nelle orecchie le rimbombavano le
fosche previsioni di Smuel. “Moriremo tutti, moriremo tutti,
moriremo tutti”. Lui
aveva
avuto il coraggio di dirlo ad alta voce e ora che l’aveva
sentito,
nulla sarebbe apparso fittizziamente tranquillo come prima. Senza
accorgersene, silenziose lacrime presero a scendere dai suoi occhi
all’idea di perdere le persone a cui teneva
e davanti alla prospettiva di non poterci fare nulla. Non
c'era da stare allegri e tranquilli, una parte di lei lo sapeva e
immaginava che le cose sarebbero diventate ancora più dure
ma l'dea
che quella strada fosse senza ritorno la annientava e non aveva mai
voluto ammetterlo a se stessa. Si
asciugò il viso
solo davanti casa, quando decise che non era il caso di farsi vedere
dal suo padrone mentre frignava come una bimbetta isterica. In
realtà
non l’avrebbe vista affatto, a quell’ora Ross era
già a letto,
quindi si stupì quando, entrando, lo trovò invece
perfettamente
sveglio seduto davanti al camino.
Il
suo sguardo era truce e per niente amichevole. “Dove sei
stata, sai
che ore sono?” – le chiese, con tono severo.
Demelza
sussultò. “Alla proiezione”.
“Che
è finita quasi due ore fa! Non posso uscire per il
coprifuoco,
credevo che ti fosse successo qualcosa dannazione! Dwight non ti ha
accompagnata a casa?”.
“No,
ha insistito ma non ho voluto”.
Ross
gettò un ciocco di legno nella stufa, con un gesto di
stizza.
“Piccola irresponsabile”.
Le
mani di Demelza tremavano dalla rabbia. Le parole di Smuel, il modo
il cui era stato conciato il suo negozio, il rimprovero di Ross, il
nazismo, i figli di Goebbles che cantavano come pappagalli
ammaestrati, era davvero troppo! Picchiò il piede a terra
come forse
faceva da bambina quando faceva un capriccio, gettò il
mantello, e
scoppiò. “Ho i vestiti che dice LUI, ho i capelli
agghindati come
dice LUI, ho persino imparato a fare quel SUO dannato saluto! Che
diavolo devo fare ancora per non essere in pericolo? E voi non siete
mio padre, signore!”.
La
furia di quello sfogo colpì Ross che in realtà
non voleva sgridarla
ed era stato seriamente preoccupato nel non vederla tornare. Si
alzò
dalla panca e si avvicinò a lei, timoroso che invece
qualcosa fosse
le fosse accaduto. La strinse per le spalle, stranito da quello
strano sfogo che ben poco aveva a che fare col carattere solare di
Demelza. “Hei, calma! Che è successo?”.
Gli
occhi le si riempirono nuovamente di lacrime. “Moriremo
tutti?”.
“Cosa?”.
“Smuel
Sauberman dice che moriremo tutti” –
singhiozzò.
Ross
la fissò senza capire cosa dicesse e perché fosse
tanto sconvolta.
Non era da lei comportarsi a quel modo e perdere il controllo eppure
tremava e piangeva, cosa che non l’aveva mai vista fare.
“Beh, un
giorno sicuramente”.
“Dico,
ora?”.
Ross
le accarezzò la guancia. “Ora siamo vivi, anche se
hai il viso
talmente ghiacciato da sembrare effettivamente…”.
Lei
si morse il labbro. “Non ho voglia di scherzare!”.
Ross
sussultò, ultimamente Demelza sembrava aver sviluppato un
notevole
senso critico e la voglia di dire sempre la sua. “Dimmi che
è
successo!”. Non era una richiesta, ora era un ordine!
Demelza
sospirò, si avvicinò al camino e
crollò sul divanetto su cui Ross
era stato seduto fino a pochi istanti prima. Poi gli
raccontò
dell’incontro con Smuel, di cosa avessero fatto al suo
negozio e
del loro dialogo.
Ross
scosse la testa. Santo cielo, davvero i loro compaesani erano
arrivati a tanto? “E’ andato a casa?”.
“Mi
ha detto che lo avrebbe fatto ma non ne sono sicura”.
Ross
si mise l’impermeabile, scuro in volto. “Vado a
dare un occhio”.
Demelza
lo fissò, terrorizzata. “Non potete, signore,
avete il
coprifuoco!”.
“Al
diavolo Hitler e il coprifuoco!”.
Demelza
diede un pugno allo schienale del divano. “Judas, sapevo che
dovevo
rimanere lì e non dirvi niente! E’
pericoloso!”.
Ross
si mise il cappello. “No, hai fatto la cosa giusta, era
pericoloso
per te rimanere ad aiutare un ebreo! Io invece, da ebreo, posso
sentirmi in diritto di aiutare un mio simile! Ed è quello
che farò!
Se non vado da lui, ci passa la notte in piazza e domani
avrà una
polmonite che farà dannare Dwight!”. Fece per
uscire, poi si fermò
per un attimo sulla porta. “Ah, per la cronaca, non sono tuo
padre
ma fammi preoccupare un’altra volta in quel modo e ti
dovrò
prendere a sculacciate come si fa coi bambini troppo
impertinenti!”.
E
detto questo, scomparve dietro l’uscio.
No,
non l’avrebbe sculacciata, questo Demelza lo sapeva bene. E
in
fondo la inteneriva il fatto che lui si fosse preoccupato per lei,
nemmeno il suo vero padre l’aveva mai fatto. Però
questo non
poteva toglierle di dosso la paura che Ross si poteva cacciare nei
guai e con lui Smuel.
Si
accasciò sul divano mentre i più foschi pensieri
affollavano la sua
mente. E scaldata dal fuoco del camino, con le lacrime che le
rigavano nuovamente il viso, sfinita cadde in un sonno profondo ma
agitato.
…
Ross
tornò che erano quasi le due di notte, con le mani congelate
e il
forte desiderio di un bagno caldo. Come immaginava, in giro non
c’era
nessuno. A parte Smuel, che era stato un grande amico di suo padre e
che nonostante la promessa fatta a Demelza, non si era mosso dallo
scempio combinato al suo negozio dagli appartenenti alla
Schutzstaffel. Non c’era stato verso di smuoverlo da
lì e alla
fine aveva dovuto arrendersi al fatto che per mandarlo a casa doveva
aiutarlo a pulire tutto.
Trovò
Demelza rannicchiata sul divanetto, con ancora indosso la divisa
della gioventù hitleriana. Vestita così sembrava
ancora una
ragazzina, anche se di fatto si era accorto ormai da molto che nella
vita di tutti i giorni ormai Demelza era una giovane donna con un
carisma e una intelligenza particolari, uniti a un fascino ancora
acerbo che lei non era consapevole di avere ma che era ben evidente a
chi gli stava attorno. Era impertinente, era complicato avere
l'ultima parola con lei e stava sviluppando un senso critico e feroce
verso la situazione politica della nazione ancor più
radicato di lui
che spesso le doveva ricordare di stare attenta a quel che diceva e a
quel che faceva.
Mentre
la guardava gli venne in mente Smuel e quanto gli aveva detto pochi
minuti prima.
“E’
davvero diventata una bella signorina, la piccola Demelza”.
“Già”.
“Avessi
trenta… quaranta anni in meno anche, le farei la
corte”.
“Smuel
Sauberman, che diavolo…?”.
“Dovreste
farlo, sareste sciocco a non apprezzare la bellezza e la dolcezza di
quella ragazza”.
“E’
la mia domestica, Smuel. E ho dieci anni più di
lei”.
“Io
ne avevo ben quindici in più della mia amata Ingrid ed
abbiamo avuto
un matrimonio felice”.
“Sono
ebreo, Smuel. Demelza o chiunque altra non farebbe un buon affare a
legarsi a me”.
“E’
solo questo? O ancora pensi alla neo-signora Warleggan?
Sai che è incinta?”.
“Elizabeth?
Sì, ne ho sentito parlare e immagino che George
starà gongolando.
Ma non
penso a nulla,
non a lei e al massimo il
mio desiderio è
ripulire questa scritta e rimandarti a casa, Smuel!”.
Attento
a non svegliarla, le tolse le scarpe di vernice e poi le mise una
coperta addosso. Il fuoco era quasi spento e nella stanza iniziava a
fare freddo, tanto che si affrettò a mettere altri ciocchi
nella
brace.
Fu
inevitabile fare un po’ di rumore e quando si
voltò, trovò
Demelza sveglia e seduta. “Scusa, non volevo
disturbarti”.
Con
l'aria stanca, lei sospirò. “Signore, siete
vivo!”.
Lui
ridacchiò. “A quanto pare… Ma non avevo
in programma di morire
stasera!”.
Lei
lo guardò storto, non aveva molta voglia di scherzare.
“E Smuel?”.
“Non
c’è stato nulla da fare, ho dovuto stare con lui
finché non
abbiamo ripulito tutto. Non servirà a nulla e domani qualcun
altro
rifarà quella scritta ma lui non se ne sarebbe tornato a
casa
lasciando il suo negozio in quello stato. Gli ho consigliato di
raggiungere suo figlio in Svizzera, lì sarà
più al sicuro”.
“Lo
farà?”.
“Non
credo, è più testardo di me”.
La
ragazza si strofinò gli occhi. “Che ore
sono?”.
“Le
due, le tre… E’ notte e nevica terribilmente,
fuori ormai le
strade sono impraticabili”.
“Qualcuno
vi ha visto in giro?”.
Ross
le strizzò l’occhio. “Parli dei membri
della Schutzstaffel? Con
questo tempo sono tutti sotto le coperte a dormire, non congeleranno
il loro sedere in nome di Hitler, se non a parole”.
Le
si avvicinò, sedendosi vicino a lei. Una delle trecce della
ragazza
si era sciolta quasi del tutto e ribelli ciocche rosse le cadevano
sul collo e sulla guancia. Era effettivamente bella, desiderabile,
attraente. E lui non doveva fare pensieri del genere anche se Smuel
aveva tentato di mettergli in testa strane idee ora però non
più
così assurde davanti a una diciottenne che stava sbocciando.
L’aveva
raccolta che era una monella e l’aveva vista crescere come si
guarda a una sorellina e ora non poteva, non DOVEVA avere pensieri
diversi nei suoi confronti. La sua compagnia era piacevole, amava
chiacchierare con lei e il loro rapporto era quasi di amicizia, ben
oltre quello di padrone/domestica, ma… Ma lui era ebreo e
lei no,
Demelza era giovane ed inesperta e lui, dopo la delusione con
Elizabeth, non voleva altre delusioni. Era fin troppo difficile stare
al mondo e ulteriori complicazioni non erano contemplate ed inoltre
sì, forse assecondare l’istinto sarebbe stato
piacevole e Demelza
glielo avrebbe anche potuto permettere ma lui non era e mai sarebbe
stato un uomo che si approfittava di una ragazzina. Quindi, discorso
chiuso! “Mi dici cosa ti ha sconvolta tanto? Voglio dire, non
può
essere solo il pessimismo di Smuel…”.
Lei
lo fronteggiò, viso a viso. “Non lo so ma fino a
stasera non ho
mai davvero voluto pensare che potrebbe andare tutto male, alla fine
di questa storia. Ma Smuel ha detto una cosa che potrebbe essere vera
e io non voglio perdere le persone che sono diventate il mio
mondo”.
Ross
sospirò. “Demelza, il fatto che tutto
andrà male è una
possibilità piuttosto concreta e non possiamo fare finta di
non
saperlo
e ora sei grande abbastanza per saperlo anche tu.
Possiamo ignorare
la cosa, fare finta,
ma dentro di noi lo sappiamo. Le cose per gli ebrei andranno sempre
peggio e la nostra nazione inizierà ad essere vista come
nemica
dagli Stati stranieri. Hitler ha manie di espansionismo, credi che
gli altri glielo lasceranno fare?”.
Demelza
deglutì. “Pensate a una guerra?”.
“Prima
o poi…”.
“E
non possiamo fare nulla per impedirlo?”.
Ross
scosse la testa. “Ci sono tanti oppositori al regime, ma
devono
lavorare di nascosto nel buio. Formazioni partigiane, giovani come te
che non hanno perso la testa per la svastica ma… sono
comunque
troppo pochi e scarsamente organizzati e troppo grande è il
potere
che vorrebbero combattere”.
“Mi
piacerebbe farne parte!”.
"Di
cosa?".
"Di
questi gruppi?".
Ross
scosse la testa, di nuovo stava esprimendo idee pericolose che certo,
lui al suo posto avrebbe perseguito con forza ma non aveva piacere di
vedere le persone a cui teneva correre dei rischi folli. Lui era lui
e giocare sul filo del rasoio faceva parte del suo essere ma gli
altri non dovevano seguire il suo esempio, ecco. “Per farti
ammazzare? Demelza, non essere sciocca, ci saranno fin troppi morti
da piangere in questa disgraziata nazione, prima o poi”.
Demelza
rimase in silenzio. Aveva ascoltato e compreso il suo consiglio
eppure le sarebbe piaciuto fare, nel suo piccolo, qualcosa per
fermare quella follia. Ma cosa?
Ross
sembrò leggerle nel pensiero. “Sei giovane e hai
una vita davanti,
non gettarla. E non rischiare, a meno che non sia strettamente
necessario”.
Demelza
sembrò sconsolata. “Come fate, signore, come fate
ad accettare
tutto questo?”.
Ross
sorrise. “Mi chiudo in miniera e spacco pietre tutto il
giorno.
L'alternativa sarebbe recarmi a Berlino e sparare a tutto il partito,
ma temo che non mi aprirebbero le porte per entrare”.
Lei
rispose al sorriso. “La
miniera, è? Dovrei
venirci
pure io
un giorno, a spaccar pietre”.
“Non
dirlo troppo ad alta voce perché con la penuria di personale
degli
ultimi tempi potrei prenderti in parola!”.
Con
un gesto della mano, la ragazza si scostò i capelli dal
viso. Senza
volerlo, Ross la trovò attraente in quel semplice gesto.
“Signore?”.
“Sì?”
– rispose, distogliendo per un attimo lo sguardo da lei.
Dannazione, da quando la trovava così affascinante?
“Ho
quasi diciotto anni, per quanto dovrò portare ancora questa
dannata
divisa della gioventù hitleriana?”.
“A
lungo, spero… Più ti crederanno giovane, meno ti
chiederanno per
il bene del partito”.
Demelza
rabbrividì. “Dicono che chiedono alle donne di
generare figli con
gli appartenenti al partito”.
Ross
le accarezzò la guancia. Non voleva farlo ma gli venne
naturale. “Lo
dicono e forse non è vero. Ma nel caso, rimani ragazzina
più a
lungo che puoi”. In realtà Ross sapeva che era
vero e che c’era
un programma che prevedeva la nascita di perfetti bambini ariani
generati da puri tedeschi, non importava se sposati o meno, se
consenzienti
o meno. Molte donne avrebbero dovuto sottostare a quella follia,
sottoponendosi a veri e propri stupri nella maggior parte dei casi.
Pregò che a Demelza non capitasse nulla del genere
perché
sicuramente non avrebbe potuto proteggerla.
“Sarebbe
davvero terribile signore, mettere al mondo piccole scimmiette
naziste ammaestrate”.
“Cosa?”.
“Caroline…
E’ così che chiama i figli del ministro
Goebbels”.
Ross
scoppiò a ridere, nonostante tutto. “Severa ma
giusta, Caroline
non si smentisce mai! Ma come te, deve fare attenzione a quello che
dice!”.
“Lo
ha detto alla proiezione!”.
Ross
alzò gli occhi al cielo. “Dwight avrà
presto tutti i capelli
bianchi”.
“Signore?”.
“Dimmi,
che c’è ancora?”.
Demelza
si alzò in piedi e con un gesto secco di tolse la cravatta
della
divisa. “Questa cosa mi strozza!”.
Il
gesto con cui lo fece fu brusco ma ancora una volta Ross la
trovò
attraente. Come faceva a non accorgersene lei stessa? “Va a
letto,
adesso…” - le suggerì, con voce
strozzata.
“Non
mi va, è stata una serata troppo difficile. Restiamo
qui?”.
“Qui,
sul divano?”.
“Sì,
non voglio stare sola”.
Ross
le si avvicinò e stavolta non frenò i suoi
istinti. La abbracciò e
lasciò che lei appoggiasse la testa sulla sua spalla.
“Sta
tranquilla. Ora siamo qui e stiamo bene e staremo bene anche domani.
Al poi ci si penserà…”.
Demelza
alzò gli occhi su di lui. “Giurate – non
come Smuel che non
mantiene la parola – che non morirete!”.
"Farò
del mio meglio". Ross la osservò, leggendo nei suoi occhi
verdi
tanta sincera preoccupazione. Demelza era davvero l’unica al
mondo
a cui importasse di lui e non era per la casa che le aveva dato, il
lavoro o la protezione dalle angherie del padre a spingerla a temere
per il suo futuro, Demelza era davvero affezionata a lui. Si
chinò e
la baciò con fare fraterno sulla fronte, inspirando un
profumo
delizioso di cannella e mela che emanava dai suoi capelli. In quel
momento si rese conto che avrebbe desiderato baciarla in
tutt’altro
modo sulle labbra e forse non sarebbe riuscito a trattenersi troppo a
lungo. Ma per quella sera resistette. Soprattutto per lei e il suo
bene… L’avrebbe baciata e forse sarebbe andato
oltre, se avesse
lasciato agire i suoi istinti, ma l’istinto più
grande era
proteggerla.
La
accompagnò sul divanetto, lasciò che le
appoggiasse la testa sulle
gambe e rimase a guardarla mentre si addormentava.
Fu
invaso da una sensazione di pace, nonostante tutto. Non sapeva se
fosse il camino, la neve o la presenza di Demelza accanto a lui ma
per un momento gli sembrò che tutto il brutto del mondo
fosse
rimasto fuori da quella porta e non potesse toccarli.
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Capitolo 6 *** Capitolo cinque ***
Annaberg-Buchholz,
maggio 1937
Anche
se solo pochi giorni prima gli aerei della Lutfwaffe, assieme ad
altri appartenenti al regime fascista italiano, avevano preso parte
alla distruzione della città spagnola di Guernica, il clima
in
Germania pareva sereno e incurante del fatto che molti temessero che
questo non fosse che una prova generale per una guerra su
più ampia
scala.
La
gente viveva come se la cosa non la riguardasse, in una sorta di
strana tranche guidata dall’utopia di non venire mai toccati
perché
protetti dal grande ed invincibile Furher. Anche se non tutti erano
così ottimisti e più persone vivevano in silenzio
la loro
preoccupazione non potendo e non sapendo cosa fare, la vita procedeva
in una strana tranquillità dove veniva lasciato sempre
più spazio
alla politica e alle leggi del regime come se fosse giusto
così e
non ci si potesse fare nulla. Le bandiere con le svastiche adornavano
sempre più case, strade e piazze, le divise naziste erano
ormai
parte dell’abbigliamento comune e persino la scuola ormai era
diventata parte integrante della propaganda e i bambini venivano
educati ai dettami del governo e all’odio verso chi doveva
essere
ritenuto diverso e inferiore.
Demelza
aveva ormai compiuto diciotto anni e anche se si riteneva grande
abbastanza per non dover indossare più la divisa della
gioventù
hitleriana durante le manifestazioni di piazza, Ross Poldark
l’aveva
quasi costretta a continuare a farlo, dicendo che per il suo bene
doveva fare così.
La
ragazza aveva dovuto cedere ma la indossava solo quando
effettivamente era necessario farlo – e lo diventava sempre
più
spesso perché il nazismo stava prendendo piede in ogni campo
anche
della vita privata dei cittadini – ma per quella domenica
aveva
deciso che non era necessario. Era il suo giorno libero ed aveva
ricevuto un invito…
Pochi
giorni prima, mentre faceva la spesa in piazza, aveva incontrato un
giovane ragazzo inglese, uno studente di nome Hugh Armitage. Poco
più
grande di lei di un anno o due, stava conducendo i suoi studi
universitari all’università di Dresda durante il
semestre
invernale e aveva conosciuto alcuni ragazzi di Annaberg-Buchholz che
lo avevano invitato a trascorrere qualche giorno di vacanza con loro.
Quella domenica avevano organizzato un pic-nic e il ragazzo,
attaccando bottone con lei mentre aspettavano di essere serviti dal
panettiere, l’aveva invitata.
Demelza
conosceva gli altri ragazzi che avrebbero fatto parte della
combriccola: c’erano Hans Koiffer e sua sorella Thereza, i
giovani
Johan Strable e Mark Hessman e infine Thomas Schulz, il figlio del
sindaco del villaggio. Da bambini avevano giocato qualche volta nella
piazza del villaggio ma Demelza aveva smesso di frequentarli
perché
di classe sociale troppo differente e successivamente anche per la
loro vicinanza al partito e alle idee naziste.
Però
Hugh Armitage, coi suoi occhi color verde, i suoi capelli chiari e
leggermente ondulati e la sua dolcezza e simpatia, l’avevano
convita ad accettare.
Si
legò i capelli, si mise un vestito rosso con le maniche a
sbuffo e
infine prese un cappello di paglia ornato con un nastro del medesimo
colore dell’abito e si apprestò ad uscire prima
delle dieci del
mattino. Avrebbero pranzato in campagna, fuori dal villaggio, e poi
lei e Hugh sarebbero andati al cinematografo. Era uscito un
cortometraggio animato di Walt Disney, Biancaneve e i sette nani, e
Hugh, appassionato di cinema e teatro oltre che di musica e poesia,
l’aveva invitata ad andare a guardarlo. Sarebbe stata una
domenica
diversa e forse, anche se le idee erano divergenti come il giorno e
la notte, sarebbe stato divertente passare del tempo con dei ragazzi
della sua età.
Mentre
Garrick, in cortile, rincorreva le galline, in casa regnava la pace.
Demelza aveva lasciato pronto del pasticcio di carne per il suo
padrone, aveva pulito la casa e lui non avrebbe avuto problemi
durante la sua assenza del pomeriggio.
Scendendo
le scale, Ross la incrociò mentre si metteva il cappello in
testa.
Starnutì vigorosamente una, due, infine tre volte. Poi
tossì.
“Passerai ancora la giornata con Caroline al
cinematografo?”.
Demelza
lo osservò starnutire di nuovo.
“No…”. In realtà non aveva
raccontato a nessuno i suoi piani per la giornata anche se non
c’era
motivo di tenerli nascosti, però si sentiva imbarazzata a
raccontare
dell’invito di Hugh.
Ross
parve sorpreso. “Oh… Che gran
novità!”.
Demelza
sorrise. “Caroline oggi è con Dwight a trovare una
sua zia,
saranno suoi ospiti a pranzo. Io invece andrò a un pic-nic
con
alcuni ragazzi del paese”.
Ross
starnutì di nuovo. “Credevo non ti fossero
particolarmente
simpatici”.
Demelza
annuì. “E’ solo per un pranzo e un
pomeriggio. In realtà sono
stata invitata da un ragazzo inglese che si è unito alla
loro
compagnia dopo averli conosciuti in università a Dresda.
E’ un
giovane artista che arriva da Londra, starà qui in
villeggiatura
pochi giorni e ci siamo conosciuti mentre facevo la spesa. E’
gentile e mi ha invitata e ho pensato che forse mi divertirò
pure,
dopo tutto, con gente della mia età. O cominceranno a
pensare che
sia diventata un’orsa brontolona!”.
Ross
sentì una stretta allo stomaco. Un ragazzo l’aveva
invitata? Di
che si stupiva, poi? Era cresciuta, non era più una
ragazzina ed era
normale che stesse succedendo. Però...
Starnutì
di nuovo e poi tossì e stavolta Demelza si
preoccupò. “Signore,
state bene?”.
“Benissimo”.
“Non
smettete di starnutire e tossire. Vi state ammalando, temo…
Forse
sarebbe meglio chiamare Dwight stasera”.
“I
Poldark non si ammalano MAI e non ho bisogno di Dwight!”
– tagliò
corto lui.
Demelza
lo fissò, scettica. Poi alzò una mano a toccargli
la fronte.
“Scottate un po’”.
Il
contatto con la mano fresca e liscia della ragazza gli
provocò un
brivido e Ross si ritrasse subito. “Ti ho detto che sto bene
e se
continuerai a perdere tempo con me, arriverai tardi al tuo
appuntamento”.
“Non
è un appuntamento, è un pic-nic”.
Anche
Ross sembrò non credere alle sue parole e quasi come una
piccola
vendetta, gli venne voglia di stuzzicarla e farla imbarazzare.
“Lo
è, se un ragazzo ti ha invitata ad uscire”.
“Non
la vedo così”.
Starnutì
di nuovo. “Sarà, ma sta attenta”.
“A
cosa?”.
Ross
sospirò, sentendosi schifosamente paternalista.
“Ai desideri dei
ragazzi. Dei maschi…”.
Lei
arrossì, anche se si sentiva ancora abbastanza inesperta in
materia,
la imbarazzava quel botta e risposta con lui e sentiva di doversi
giustificare anche se non sapeva bene per cosa. “Non
è quel genere
di…”.
Ross
si sentì irritato. “Certo, come no!”.
“Volete
che stia a casa?” – chiese lei, confusa.
“Perché
dovresti farlo?”.
“Siete
malato”.
“Non
sono malato! E tu hai un appuntamento!”.
Demelza
strinse i pugni, irritata. Non sapeva perché la infastidiva
il fatto
che lui pensasse a una cosa simile ma le sue parole la facevano
sentire nervosa e improvvisamente confusa. Forse avere diciotto anni
ed essere diventata in qualche modo ‘grande’,
rendeva tutto più
complicato. “Non è un…”.
“Demelza,
va e sbrigati!”.
Il
tono di Ross sembrava perentorio, come se glielo stesse ordinando. E
lei vi scorse una sorta di strana tensione che non riusciva a
decifrare. “Il pranzo è nella pentola, cercate di
riposare e stare
in casa per oggi. Tornerò presto”.
“Non
ce n’è bisogno”.
Demelza
lo guardò con aria di sfida. “Io penso di
sì!”. Poi si mise il
cappello in testa e dopo avergli lanciato un’occhiata nervosa
e
tesa, uscì diretta al luogo di ritrovo con gli altri
ragazzi.
Ross
rimase ad osservare in silenzio la porta dietro a cui lei era
scomparsa. Era strano ma provava sentimenti contrastanti. Da un lato
gli mancava la ragazzina senza freni accolta in quella casa ormai
quattro anni prima, dall’altro lo intrigava e attraeva questa
nuova
Demelza ormai quasi donna, decisa, ironica, intelligente e
affascinante. Il problema era che forse non era l’unico a
provare
questo genere di sensazioni e anche se sapeva che era giusto
così,
che lei DOVEVA stare con persone della sua età e vivere
tutte le
esperienze collegate, da un altro punto di vista si sentiva fuori dai
giochi e dalla vita di quella ragazza fino a quel momento
strettamente connessa alla sua. Demelza aveva reso di nuovo Nampara
una casa accogliente, aveva riempito molti vuoti del suo animo
tormentato e ora stava per spiccare il volo chissà per dove.
E lui,
ebreo e con dieci anni più di lei, poteva farci ben poco.
Poteva,
DOVEVA essere contento per lei ma in realtà non lo era
affatto.
Starnutì
di nuovo e poi si toccò la fronte.
Forse
era davvero il caso di mettersi a letto e di smettere di pensare a
lei in modo così diverso…
…
Mangiarono
salsicce, wurstel e patate e il pic-nic fu divertente. O quanto meno
lo fu fino al momento del brindisi quando Thomas Schulz decise di
brindare alla salute del Furher e alla grandezza del Reich.
D’altronde era il figlio del sindaco, che poteva aspettarsi
di
diverso? Quanto meno ringraziò il fatto che nessuno
accennò mai al
suo impiego verso un uomo ebreo e anzi, soprattutto i maschi si
dimostrarono gentili e premurosi…
Però
ecco, il brindisi al Furher fu il neo della giornata. Demelza si
irrigidì, odiava farlo, odiava sempre quella parte ormai
immancabile
delle loro vite. Si morse il labbro sperando che gli altri non
cogliessero il suo disappunto e brindò a denti stretti
mentre Hugh
Armitage non le toglieva lo sguardo di dosso. Sperò che non
se ne
fosse accorto e che eventualmente non lo raccontasse in giro, non
andare in estasi alla parola ‘Furher’ poteva essere
pericoloso
nella Germania di quegli anni.
Per
fortuna fu solo questione di pochi attimi prima di passare alla
crostata di mele e cannella portata da Hugh.
Lei
e il ragazzo lasciarono gli altri alle quattro del pomeriggio, poi
andarono al cinematografo per gustarsi quella storia che, scoprirono,
era decisamente infantile ma anche tenera e romantica. Demelza
pensava che Walt Disney fosse un mago e riuscisse, con la sua mano e
la sua matita, a creare sogni e magie. I suoi disegni, i colori, le
ambientazioni e la storia di Biancaneve, della strega cattiva e
l’amicizia sincera coi nani la intenerivano. E il bacio col
principe azzurro le fece battere il cuore e sognare un amore simile,
forte e puro. Si stupì perché era sempre stata un
maschiaccio fin
da bambina mentre ora, negli ultimi tempi, stava sviluppando una
strana attitudine anche per il romanticismo.
Quando
uscirono dal cinematografo, erano ormai le sei del pomeriggio
passate. Si stava facendo tardi e Demelza, nonostante fosse
soddisfatta della giornata, si sentiva inquieta. Ross Poldark quella
mattina non era in forma e mentre lei era in giro a divertirsi, forse
era in un letto preda di febbre e tosse e senza nessuno che potesse
occuparsi di lui. Certo, la logica le doveva suggerire che non era un
problema suo e che quello era il suo giorno libero da obblighi
però
sapeva di non potersi permettere di sentirsi così. Ross
Poldark, da
quando lo aveva conosciuto, era sempre stato più di un
semplice
datore di lavoro. L’aveva salvata dalla miseria, le aveva
aperto
mondi ed orizzonti, le aveva insegnato a leggere e scrivere, le aveva
permesso di accedere alla sua biblioteca, le aveva dato una casa,
stabilità, pace e gentilezza, una sorta di
intimità vagamente
famigliare che non aveva mai provato prima. La sera, dopo cena, era
bello chiacchierare e scherzare con lui sulle cose accadute durante
la giornata così come erano preziose ai suoi occhi la
sintonia e
l’intimità delle loro conversazioni e
l’atmosfera serena che
sapeva chiudere le brutture del mondo fuori dalla porta di
casa… Ed
ora non poteva non sentirsi preoccupata per lui.
Hugh
le indicò la piazza. “Ci facciamo una passeggiata
davanti ai
negozi?”.
Lei
sembrò combattuta. “Non so, forse sta diventando
tardi”.
“Le
giornate si stanno allungando, siamo in piena primavera. O hai
impegni?”.
Demelza
sospirò. “No… Ma il mio padrone non
stava bene stamattina e
forse dovrei…”.
Hugh
sembrò perplesso. “E’ un uomo adulto,
sarà pur capace di
occuparsi di se stesso senza dover essere assistito”.
“Sì
certo… Ma…”.
Hugh
le indicò un negozio di dischi. “E’ il
tuo giorno libero Demelza
e non hai obblighi. Adoro la tua compagnia e purtroppo domani
dovrò
ripartire. Dai, fermati ancora un po’”.
La
ragazza abbassò il capo, combattuta. Hugh aveva ragione e
anche lei
trovava che lui fosse un’ottima compagnia ma si sentiva
comunque
preoccupata per Ross, anche se non ce n’era effettivamente
motivo.
“D’accordo, solo due passi…”
– rispose infine, arrendendosi
alle sue insistenze almeno per qualche minuto ancora.
Hugh
le studiò l’espressione del viso.
“Sembri molto coinvolta…
Insomma, è solo il tuo padrone, no?”.
Demelza
avvampò. “Certo… Ma ecco…
Gli sono affezionata”.
Lui
parve perplesso. “Più che affezionata,
sembra”.
Quelle
parole la colpirono. Da quando si sentiva così legata a Ross
Poldark? Perché si sentiva così?
Perché non ci aveva mai pensato
fino alle parole di Hugh? Era sbagliato sentire verso di lui quella
sorta di affetto e quel legame? Era una ragazzina al suo servizio
dopo tutto e lui il suo padrone. E quello era il suo giorno libero,
che diavolo le prendeva?! Deglutì, decidendo di non pensarci
al
momento e cambiando discorso. “Ti è piaciuto il
film?”.
Hugh
non parve troppo sorpreso da quel cambiamento di argomento
così
repentino davanti a un argomento che forse per lei stava diventando
scottante ed imbarazzante. “Sì, forse era da
bambini ma io studio
arte ed architettura e quei disegni animati per me sono pura poesia.
E a te?”.
Demelza
sorrise. “Sì… Forse sto sviluppando uno
strano animo
sentimentale e forse, come dice il mio padrone, sono ancora una
bambina dopo tutto”.
Ancora
il suo padrone? Doveva essere ben più di questo per lei,
sospettò
il ragazzo… “E’ ebreo, dicono. Sei
coraggiosa a lavorare per
lui”.
Lei
si incupì. “Non c’è nulla di
coraggioso nel lavorare
onestamente”.
“Lo
so, intendevo rispetto a questi tempi dove in Germania, essere
ebreo…”.
Demelza
lo fissò negli occhi con irritazione. “Per me
questo non
rappresenta affatto un problema”. E voleva che fosse chiaro!
Hugh
ricambiò lo sguardo, colpito da tutta quella determinazione
e
fedeltà. “Me ne sono accorto”.
Demelza
avvampò di nuovo. “In che senso?”.
Lui
sorrise. “Beh, non sembravi propriamente felice oggi, a
brindare al
Furher e alle sue idee”.
Lei
deglutì. “Si notava molto?”.
Hugh
scoppiò a ridere. “Abbastanza! Se vuoi un
consiglio, esercitati a
diventare più convincente o ti caccerai nei guai”.
Demelza
rimase per un attimo in silenzio. In quegli ultimi anni era riuscita
a trovare un buon equilibrio fra i suoi pensieri e le sue azioni e se
dentro di se odiava senza se o ma Hitler e il nazismo, in pubblico
aveva imparato a denti stretti a non farlo notare, a rimanere
nell’ombra e a mostrarsi fintamente compiacente nei fatti che
riguardavano la politica tedesca. Ross le aveva detto di stare
attenta e soprattutto per lui, perché si fidava dei suoi
consigli,
lo aveva fatto. Aveva partecipato alle manifestazioni di pubbliche
del partito, aveva indossato la divisa della gioventù
hitleriana e
aveva imparato a fare il saluto nazista se necessario e anche se
odiava tutto ciò che quel mondo rappresentava e il male che
stava
facendo agli ebrei, si era piegata perché aveva avvertito,
nei
consigli di Ross, affetto e preoccupazione sinceri verso di lei.
Ross, ancora Ross, sempre Ross nei suoi pensieri, dannazione! E lei
stava bivaccando lontana da casa e lui forse aveva bisogno che
tornasse…
Osservò
Hugh, indecisa se fidarsi o meno. Lui era inglese e apparentemente
non aveva nulla a che fare con la politica locale ma in quegli anni
lei aveva imparato che vi erano spie ovunque e che non ci si doveva
fidare di nessuno o quasi. Quindi rimase sul vago.
“E’ che certe
cose mi sembrano così sciocche a volte… Voglio
dire, Hitler non
era lì, che piacere potrebbe provare da un brindisi in suo
onore di
cui non sa nulla?”.
Hugh
parve stupito da quella risposta e si sentì ammirato per la
sua
intelligenza e per come sapeva condurre la discussione senza
tradirsi. “Questo è vero, ma voi tedeschi amate
nominarlo sempre e
comunque, no?”.
“Non
è proprio così…”.
“Lui,
Hitler, quindi ti piace?”.
Demelza
si morse il labbro davanti a quella domanda così diretta.
“E’ il
capo di questa nazione e non ci sono alternative e quindi spero che
possa lavorare bene”.
“Non
hai risposto alla mia domanda, però”.
Demelza
decise di giocare ancora sul sottile gioco della furbizia.
“Non
posso farlo, non capiresti”.
“Perché?”.
“Perché
voi avete un re, è tutto diverso”.
Hugh
scoppiò a ridere. “Oh si, ma ti stupiresti se ti
dicessi che nella
mia nazione non tutti amano la monarchia?”.
“No,
ma credo che abbiate la libertà di dirlo se vi
va”.
Hugh
scosse la testa. “Insomma, non del tutto… Comunque
sì, abbiamo
un re salito al trono a sorpresa l’anno scorso dopo che il
fratello
ha abdicato per fuggirsene in America con una divorziata”.
Demelza
parve divertita dalla piega che prendeva il discorso, lei e Caroline
spesso discutevano di gossip, di re e regine e scandali vari e la
fuga del re inglese oltre oceano era stata al centro dei loro
pettegolezzi per mesi. “Sì certo, se
n’è parlato pure qui”.
Hugh
si stiracchiò, passeggiando sotto i portici. “Ora
c’è un re
nuovo, dicono che balbetti. Ma ha una bella moglie e due graziose
bambine, Elizabeth e Margareth, e rappresentano la famiglia ideale
per guidare la nazione agli occhi degli inglesi. Amanti dei cani, con
due bambine di mezzo piene di boccoli e vestiti di pizzi e merletti,
di cui una diventerà regina, la gente si affeziona per
forza”.
“E
noi abbiamo Hitler che non ha bambini” – concluse
Demelza.
Avrebbe voluto aggiungere ‘grazie al cielo’ ma se
lo tenne per
se.
Hugh
annuì. “Sì ma sa essere convincente e
usa, per intenerire, i
figli di quel suo braccio destro, Goebbles. E urla, urla tantissimo,
sa parlare e gridare in modo davvero efficace il vostro furher. La
gente va in visibilio”.
Demelza
scoppiò a ridere, Hugh sapeva rendere grottesca la figura di
Hitler
in modo adorabile. “Sì, urla parecchio. Forse
è per farsi sentire
ovunque… Non è molto alto dopo tutto”.
Hugh
le mostrò un dipinto in una vetrina.
“Sì, elogia la razza ariana,
l’uomo tedesco alto e biondo. Cosa che, mi pare, lui non sia.
Non
ho mai capito se se ne renda conto…”.
Demelza
rise di nuovo, divertita ma comunque sempre attenta a quel che
diceva. “Lui è austriaco, non tedesco. E forse in
casa non ha
specchi e i suoi collaboratori non osano dirgli che non è
biondo”.
Hugh
le sfiorò la mano, ammirato da come lei stesse tenendogli
testa
senza sbottonarsi. Era palese che non amasse la figura del Furher e
per questo la ammirava. Ma soprattutto era colpito da come,
nonostante ciò, riuscisse a parlare di quell’uomo
senza dire cose
vietate ma al contempo senza elogiarlo andando contro se stessa.
Demelza
osservò il sole ormai più basso, che iniziava a
scomparire fra i
tetti spioventi delle case. “Quando tornerai a
Londra?”.
“Alla
fine degli esami, a giugno. Mi mancherà la Germania, ho
visto posti
meravigliosi in questa terra”.
“Quali?”.
Hugh
sorrise. “Beh, Dresda è davvero incantevole ma ho
visitato anche
Norimberga e Monaco di Baviera. E soprattutto Fussen, era il mio
sogno fin da bambino andare lì”.
Il
viso di Demelza si illuminò. “Oh, sei stato nei
castelli del re
folle?”.
Il
ragazzo annuì. “Re folle? Re Ludwig? Era un genio,
altro che
folle!”.
Demelza
si stiracchiò, ricordando quando Ross, anni prima, le aveva
raccontato la storia dietro a quei castelli che da bambina, quando li
vedeva in cartolina, la lasciavano a bocca aperta. “Beh, qui
lo
chiamiamo a quel modo. Era un sognatore, un visionario.
Costruì
castelli magnifici, da fiaba come quello in cui Biancaneve e il
principe sono andati a vivere alla fine del film. Ma per costruirli,
dilapidò il suo patrimonio e mandò in lastrico la
Baviera. La sua
morte è avvolta nel mistero, morì apparentemente
annegato in una
pozza d’acqua di dieci centimetri e si narra che il suo
fantasma
ancora vaghi fra le stanze dei suoi castelli”.
Hugh
era deliziato, adorava parlare con lei di arte e storia.
“Folle? Ha
costruito castelli magnifici. E sì, forse spese molto ma ha
lasciato
un patrimonio inestimabile a tutti noi”.
Demelza
lo occhieggiò, divertita. Forse Hugh non conosceva proprio
tutta la
storia… “L’ultima cosa che disse, che
urlò – un po’ come
Hitler – quando lo rinchiusero in uno dei suoi castelli come
prigioniero, era che nessuno avrebbe mai posato piede su quei
pavimenti. Li costruì per lui, non per i posteri”.
“Ma
dopo la sua stramba morte, furono aperti al pubblico per rientrare
nelle spese. E in tre secoli la Germania ha recuperato alla grande
quanto speso. E’ un genio e ciò che ha creato
è magnifico”.
Demelza
alzò le spalle. “Sì, sono
belli!” – ammise.
La
campana della piazza rintoccò le sette e la preoccupazione
tornò ad
attanagliare Demelza. “Hugh, sul serio, ora devo
andare”.
Lui
sembrò deluso. “Posso accompagnarti?”.
“Preferisco
andare da sola, cammino velocemente quando ho fretta”.
Il
ragazzo le si avvicinò, accarezzandole la guancia e
facendola
arrossire. “Mi auguro che il tuo padrone
sia
consapevole della fortuna che ha”.
Lei
non rispose ma quelle parole la colpirono, di nuovo. “Quella
fortunata ad averlo incontrato sono io, mi ha cambiato la
vita”.
“E
forse tu l’hai cambiata a lui, sei così bella e
speciale”.
Demelza
sorrise dolcemente, Hugh era un vero galantuomo. “Sono solo
una
mocciosa cresciuta nella miseria, dubito di poter cambiare la vita di
qualcuno”.
“Non
sottovalutarti, sei molto più speciale di quello che pensi.
E sei
anche molto intelligente”.
Con
un gesto d’affetto e gratitudine per quelle parole che la
fecero
sentire speciale, Demelza gli diede un leggero bacio sulla guancia.
Hugh doveva aver compreso molto di lei, senza che lei gli spiegasse
apparentemente nulla di ciò che pensava davvero.
“Spero di
rivederti prima o poi”.
Hugh
sorrise. “Lo spero anch’io. E sta
attenta”.
“A
cosa?”.
“Ad
essere convincente durante i brindisi”.
Lei
rise. “Me lo ricorderò. Grazie di tutto Hugh,
è stata una bella
giornata e mi auguro che i tuoi studi e il rientro in Inghilterra
vadano bene”.
“E’
stata una bella giornata anche per me, grazie della tua compagnia. E
ora va, si vede che non vedi l’ora di tornare a casa da
lui”.
Lei
avrebbe voluto replicare che era solo preoccupazione ma dentro di se
sapeva che non era del tutto vero e che si sentiva legata a Ross
Poldark più di quanto in quel momento sapesse ammettere
anche solo a
se stessa. “Buona fortuna”.
Poi
corse via e lui la guardò sparire nel vicolo.
Che
strano posto la Germania e che strane persone la abitavano. Non solo
fanatici del regime, indottrinati e senza spina dorsale ma anche
persone che avevano le loro idee e cercavano di farle valere in un
mondo che metteva a tacere chi la pensava diversamente.
Demelza
non lo aveva detto apertamente ma era palese che fosse contraria al
regime ed anche se era giovane, in se aveva la forza che forse,
assieme a tanti come lei, un giorno avrebbe portato alla rinascita
della Germania dopo il buio che la stava avvolgendo. Avrebbe voluto
conoscerla meglio ma doveva rientrare. Gli spiaceva non essere stato
del tutto sincero con lei ma non poteva dirgli di non essere solo uno
studente ma anche e soprattutto una spia del governo inglese, inviata
per capire meglio come si muoveva la società tedesca sotto
Hitler.
Ma d'altronde quelli erano tempi duri e nessuno era completamente
sincero, nemmeno Demelza lo era stata in fin dei conti.
Hugh
sorrise, quella ragazza gli piacevole e nel suo rapporto avrebbe
raccontato anche di lei, senza metterne il nome. Sarebbe stato
davvero piacevole dire, nel suo rapporto, che non tutti seguivano
come pecore quell’uomo sinistro dai baffetti scuri che urlava
e
blaterava cose folli alle folle ma che c’erano anche persone
oneste
per le quali valeva la pena lottare affinché potessero
vivere in una
nazione libera e prospera, amica delle altre nazioni e non
più un
pericolo per esse.
No,
non avrebbe dimenticato Demelza Poldark e in cuor suo sperava di
rincontrarla un giorno…
Anche
se, temeva, prima di allora li aspettavano tempi difficili.
Ma
per il momento il sole era ancora visibile in cielo ed era stata una
bella giornata. Questo per ora bastava.
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Capitolo 7 *** Capitolo sei ***
Al
ritorno a casa, Demelza trovò Nampara insolitamente buia e
silenziosa. Certo, c’era ancora luce ed era primavera, il suo
padrone non era solito accendere il lume se non era necessario e
poteva anche essere uscito, però la situazione le
sembrò ugualmente
strana.
Trovò
Garrick che sonnecchiava davanti al recinto (ben chiuso) delle
galline ma di Ross nessun segno. Era forse uscito nonostante non
avesse impegni e non si sentisse affatto bene?
Demelza
entrò in casa e in cucina trovò totalmente
intatto ciò che aveva
lasciato preparato per pranzo al suo padrone. Il cuore prese a
battere più forte, stava forse così male da non
potersi alzare dal
letto per mangiare?
Di
corsa salì al piano di sopra e aprì la porta
della stanza patronale
immersa nella penombra dovuta alle imposte semi-chiuse. Ross Poldark
era ancora a letto, avvolto nelle coperte, piuttosto pallido in viso.
L’uomo,
sentito l’uscio che si apriva, sollevò il capo.
“Non si usa più
bussare prima di entrare nella stanza di qualcuno?”.
Demelza
si morse il labbro e arrossì. A quanto sembrava lui era
ancora di
cattivo umore come quella mattina. “Beh ecco,
sì… Ma di sotto ho
visto il cibo intatto e mi sono preoccupata per un aggravamento delle
vostre cond…”.
Ross
la bloccò con un gesto della mano, mettendosi a sedere.
“Ti ho
detto che sto benissimo! Un uomo potrà pur decidere di voler
stare a
letto nel suo giorno di riposo, no? Sono sano come un
pesce!”.
“E
io ribadisco che è una bugia!” –
sbottò lei, picchiando il
piede sul pavimento.
Ross
la fissò con irritazione. Sapeva di non aver motivo di
avercela con
lei, che Demelza durante la sua giornata libera poteva fare
ciò che
voleva ed era abbastanza grande per fare le sue scelte ma era
irritato. Forse con se stesso più che con lei
perché in quella
giornata solitaria non aveva fatto altro che chiedersi cosa Demelza
stesse facendo e se quel bell’imbusto inglese le avesse messo
le
mani addosso. Anche quello non doveva essere affar suo ma
l’idea
gli faceva ribollire il sangue. Demelza era in grado di tenere alla
larga qualsiasi persona a lei sgradita ma se quel ragazzo non le
fosse stato sgradito affatto? La osservò in viso chiedendosi
se lo
avesse baciato, se fosse in qualche modo diversa dalla ragazza che
era uscita da quella stessa casa quella mattina ma non
riuscì a
leggere nulla nella sua espressione. Si sentì in colpa, una
sorta di
guardone della vita altrui e non capiva perché gli
importasse tanto.
Ma Demelza era cresciuta con lui, davanti ai suoi occhi si era
trasformata in una giovane e bella donna e l’istinto di
protezione
e il ruolo padrone/domestica facevano ormai a pugni con
l’attrazione
che provava verso quella ragazza che stava sbocciando. Non la amava,
non voleva più amare nessuno dopo essersi scottato con
Elizabeth ma
la desiderava e sarebbe stato sciocco non ammetterlo a se stesso. E
questo lo confondeva perché non capiva da cosa nascessero
questi
istinti verso una persona che fino a poco tempo prima vedeva come una
pestifera ed impertinente ragazzina. Non poteva cedere a certi
istinti, farsi avanti… Intanto non era detto che lei
nutrisse un
qualche genere di interesse per lui, non aveva nulla da offrirle, era
tedesca e lui ebreo e un rapporto fra loro non avrebbe fatto altro
che metterla in pericolo ed inoltre non sarebbe stato giusto. Demelza
meritava ben altro, amore e affetto sinceri e non un uomo che provava
per lei pura e semplice attrazione. Non che non le volesse bene,
gliene voleva molto e rispettava la sua intelligenza e il suo acume,
adorava il rapporto amichevole e famigliare che si era instaurato fra
loro ma questo non poteva bastare. Non per lui e i suoi dettami
morali. “Quando fai così, sembri proprio una
mocciosa. Solo i
mocciosi picchiano il piede a terra”.
“Anche
far finta di essere un uomo di ferro che non si ammala e che invece
se ne sta a letto come un cencio stropicciato, bianco come un
fantasma, è da mocciosi”.
Colpito
e affondato. Ecco, c’era un’altra cosa che
apprezzava in lei, la
sua mancanza di peli sulla lingua. Quando Demelza metteva in luce
questo lato del suo carattere davanti agli altri lo trovava
divertente, un po’ più difficile era gestirlo
quando lo faceva con
lui migliorando la sua tecnica di volta in volta. “Sembro un
cencio
stropicciato?”.
“Sembrate
uno con la febbre”.
“Ho
mal di testa, tutto qui”. Era vero ed era atroce, un dolore
fisso
sulle tempie che pulsava senza sosta e forse aveva anche la febbre ma
ostinatamente non voleva ammetterlo.
Demelza
si sentì in colpa per essere uscita perché
benché lui
minimizzasse, era palese che fosse malato. “Volete che chiami
Dwight?”.
“No”.
“Signore,
ma…”.
“NON-HO-NULLA!”.
La
ragazza non si scoraggiò e si avvicinò,
appoggiandogli dolcemente
la mano fresca sulla fronte. Faceva così quando era bambina
e i suoi
fratelli parevano malati… “Scottate. Non molto ma
un po’ si”.
Ross
sentì un brivido a quel contatto. Demelza era gentile, era
palese
che si preoccupasse per lui e in cambio stava ricevendo solo
scortesia e saccenza. “Non è nulla, domani
starò meglio”.
Demelza
si sedette al suo fianco. “Se mi aveste detto di non stare
bene
stamattina, non sarei uscita. Non avete nemmeno toccato cibo e non
è
da voi”.
“Era
il tuo giorno libero e avevi un appuntamento!”.
Demelza
arrossì. “Non era un appuntamento!”.
“Certo,
non era un appuntamento come io non ho la febbre” –
rispose Ross,
sarcastico.
Demelza
sospirò, divertita nonostante tutto. “E’
così importante
definire la nostra giornata?”.
Si
trovò d’accordo con lei. Lui aveva indubbiamente
la febbre e lei
era uscita con un ragazzo, tutto banalmente qui, senza motivo di
recriminazione. “Non sei obbligata a stare a casa, sei una
persona
libera e hai diritto al tuo giorno di riposo”.
“Sarei
rimasta a casa volentieri”.
Non
sapeva se crederle o no ma sapeva che era sincera per quanto
riguardava il suo stato di salute. “Non ho nulla di grave,
una
buona dormita e domani sarò come nuovo”. Avrebbe
voluto aggiungere
che le era mancata e che sì, le avrebbe fatto piacere
saperla in
casa quel giorno ma ovviamente non poteva farlo, andava oltre al loro
rapporto che doveva rimanere strettamente professionale.
“Com’è
stata la tua giornata?” – chiese infine, cambiando
discorso
volontariamente.
Lei
si trovò in imbarazzo. Non sapeva perché ma
raccontare a Ross
Poldark di Hugh Armitage la metteva a disagio. “E’
stata bella…
più o meno”.
Ross
entrò in allarme. L’inglesino aveva tentato
qualche approccio
esagerato? “Più o meno?”.
“Durante
il pic-nic sono stata costretta a fare un brindisi al furher”
–
rispose, sospirando.
Ross
si trovò a mascherare un sorriso, trovava a suo modo
divertente
l’avversione di quella ragazza puramente ariana per Adolf
Hitler.
“Capisco…”.
Demelza
si alzò dal letto, avvicinandosi alla finestra. “A
parte questo
però, è stata una giornata piacevole, divertente.
Non mi capita
spesso di uscire con ragazzi della mia età e a parte
Caroline, non
vedo mai praticamente nessuno dei miei coetanei del paese. E’
bello
ogni tanto essere solo una ragazza…”.
Ross
la osservò, trovandosi a pensare a quanto, da sempre, la
vita di
quella giovane donna fosse stata dura. Orfana di madre da
piccolissima, sei fratellini di cui prendersi cura, un padre
alcolista e violento, un lavoro presso di lui come domestica e forse
mai un vero sogno o ambizione da perseguire. Demelza era stata
cresciuta con l’idea che fosse adatta solo a lavorare e ora
che
stava iniziando a formare una personalità propria
– una forte
personalità – sentiva giustamente il bisogno di
vivere la
spensieratezza della sua età. La capiva, in fondo nemmeno
lui aveva
avuto una infanzia e una giovinezza libere da pensieri e anche se in
fondo aveva potuto trovare il tempo di fare il ragazzino e cacciarsi
nei guai vivendo i rischi dell’età, sentiva su di
se il peso di
una madre assente e un padre con la mente addolorata e lontana.
Né
lui né Demelza erano cresciuti attorniati dal cosidetto
‘focolare
domestico’ e questo gliela faceva sentire incredibilmente
vicina in
quel momento. “Capisco, davvero. Forse dovresti uscire
più
spesso”.
Demelza,
a quelle parole, ripensò a quanto dettole da Hugh.
“Può essere
pericoloso. Per via di Hitler, sapete…”.
“Sei
tedesca e ariana, puoi fare ciò che vuoi”.
“Ma
non so fingere troppo bene. Il mio scarso entusiasmo per il furher
prima o poi mi tradirà!”.
Ross
scoppiò a ridere a quelle parole. “Chi ti ha detto
una cosa
simile?”.
La
ragazza sospirò. “Quel ragazzo, Hugh”
– sussurrò, arrossendo.
Hugh…
Nel sentire quel nome, Ross si irrigidì. Ecco il punto del
discorso,
il tarlo che lo aveva divorato tutto il giorno. Quel nome sentiva di
detestarlo anche se non conosceva il proprietario. Ma era giovane,
inglese, non ebreo e acculturato. Tutto ciò poteva apparire
estremamente seducente agli occhi di una giovane ragazza.
“Che gli
hai detto?” – chiese, allarmato che lei si fosse
sbottonata
troppo nel parlargli dei suoi sentimenti verso il nazismo.
“Nulla
di compromettente, sono stata attenta”.
Lui
la bloccò. “Ci sono spie
ov…”.
Anche
lei lo fermò. “Ovunque, lo so”. Avrebbe
voluto aggiungere che
secondo lei Hugh non lo era affatto ma qualche cosa del suo istinto
la bloccò. In fondo le spie non erano mica abili a
cammuffarsi?
Difficilmente un giovane studente inglese poteva esserlo ma sapeva
anche che perorare quella causa davanti a Ross Poldark
l’avrebbe
condotta a una cocente sconfitta. Lui avrebbe trovato mille valide
ragioni per farglielo sembrare sospetto e sapeva che quelle mille
ragioni potevano essere plausibilissime.
Ross
si accorse che quel silenzio nascondeva imbarazzo.
“E’ andato
tutto bene con lui? Ti sei divertita?”.
Demelza
sorrise. “Sì, siamo stati al cinematografo a
vedere quel film di
animazione di Walt Disney, Biancaneve. Ohh, è stato
così magico!”.
Ross
alzò un sopracciglio. Un maschio, UN RAGAZZO, che andava a
vedere
cartoni animati per bambini? Iniziava a provare curiosità
per questo
Hugh… “Non che mi intenda di cinema ma questo
Disney non fa mica
cose per ragazzini?”.
Gli
occhi di Demelza brillarono. “Oh, no, non solo! Lui crea
magie e la
magia è bella per tutti!”.
“Per
una ragazza di certo” – obiettò Ross
– “ma un giovane
uomo…”.
Demelza
lo bloccò. “Sembrate il furher”.
“Scusa?”.
Lei
alzò le spalle e ironicamente imitò la voce di
Hitler. “Gli
uomini devono fare la guerra con nervi di acciaio, essere pronti a
morire per la patria e non possono permettersi debolezze e
sentimentalismi”. Annuì, fiera della sua
interpretazione. “Lui
direbbe così!”.
Ross
rise, in effetti il ragionamento non faceva una piega. “Ok,
magari
un uomo potrebbe essere una buona via di mezzo fra un combattente
ariano e uno che va a vedere un cartone animato”.
Demelza
ci pensò su. “Non c’è niente
di male ad andare al cinematografo
a vedere un cartone animato”. Ne era estremamente convinta e
sapeva
che anche Hugh lo aveva trovato divertente.
Ross
sospirò. Nonostante la conversazione fra loro fosse
diventata
improvvisamente piacevole, stavano avvicinandosi a un livello di
confronto troppo personale. “Demelza, sicuramente Hugh ti ha
accompagnata unicamente per compiacerti”. Non voleva dirlo ma
non
riuscì a frenarsi…
Lei
parve non capire. “Perché avrebbe dovuto farlo? Se
non fosse stato
interessato, sarebbe bastato dirlo e avremmo cambiato programma. Hugh
è un artista, un poeta, uno studioso… Credo trovi
affascinante la
tecnica dell’animazione”.
Ancora
una volta, Ross non riuscì a trattenersi. “Credo
trovi più
affascinante te… Per questo ti ha chiesto di
uscire”.
Quelle
parole la riempirono di imbarazzo e non riuscì a trattenersi
dall’arrossire. “Vi… sbagliate. Come
potrebbe interessarsi a me
un giovane colto come Hugh?”. Era impossibile anche solo
pensarlo!
“Perché
non dovrebbe?” – insistette Ross –
“Avete circa la stessa
età, siete liberi e abbastanza grandi per questo genere di
cose”.
Dirlo ad alta voce faceva male, così come la consapevolezza
che
stava spingendosi troppo oltre, forse per metterla in guardia, forse
per farle capire qualcosa di se stesso oltre che di Hugh. I
sentimenti e le pulsioni di un uomo verso una donna erano uguali ad
ogni latitudine del mondo dopo tutto e un giovane ventenne bombardato
dagli ormoni della pubertà non poteva che desiderare
carnalmente una
giovane ragazza in fiore come Demelza.
La
risposta di Demelza interruppe il flusso dei suoi pensieri.
“E’
uno studioso, signore. Inglese, colto, un universitario che presto
tornerà a casa. Cosa potrebbe trovarci di interessante in
una
domestica quasi analfabeta che non ha mai messo il naso fuori da
questo paesello?”.
Ross
provò un momento di gioia. “Sta per tornare in
Inghilterra?”.
“Sì,
a fine semestre”.
“Quindi
non lo rivedrai più?”.
Lei
scosse la testa. “No, non credo, non lo so… Mi ha
detto che mi
scriverà però. Devo esercitarmi meglio nella
lettura e nella
scrittura, la sera. Almeno saprò rispondergli in modo
comprensibile”.
Ross
abbassò il capo, pensieroso. Improvvisamente in mal di testa
era
aumentato. “Quindi ci tieni al fatto che ti
scriva?”.
“Credo
di sì, è un ragazzo così piacevole e
gentile. E sa così tante
cose anche del nostro paese che è bello parlarci e
discuterne”.
“Solo
per questo?”. D’accordo, stava andando decisamente
troppo sul
personale, Ross lo sapeva. Ma interrompere quella conversazione stava
diventando una impresa sempre più impossibile.
“In
che senso?”.
Ross
scosse la testa. “Avanti Demelza! Lui è quasi un
uomo, tu quasi
una donna, non siete più ragazzini e alla vostra
età, se si
desiderano la compagnia di qualcuno e le sue attenzioni, non
è certo
per andare al cinema a vedere un cartone animato. Non solo per
questo, almeno…”.
Lo
sguardo di Demelza si indurì, le dava fastidio che lui
sentisse il
bisogno di farle quella ramanzina. “Non sono una ragazzina e
so
bene cosa succede fra un uomo e una donna! Ma Hugh è stato
un
gentiluomo educato e semplicemente ha provato piacere a passare un
pomeriggio con me! Non so se l’abbia fatto per compiacermi,
forse
sì ma sicuramente ha fatto qualcosa che piaceva anche a lui.
E voi
non siete mio padre per dirmi queste cose!”.
Spesso,
quando le cose fra loro diventavano personali, Demelza gli ricordava
che lui non era suo padre e se fino a poco tempo prima in effetti a
volte si sentiva in dovere di essere la figura adulta che guidava le
azioni della ragazza, ora le cose erano diverse. Era bella,
desiderabile, per lui quanto sicuramente per Hugh e qualsiasi altro
ragazzo. “Non mi sento decisamente tuo padre e questo vorrei
che
fosse chiaro una volta per tutte!”.
“E
allora perché mi dite queste cose?”.
Ross
la fissò a lungo, non sapendo come uscirne. Era stato lui a
portare
la conversazione verso binari che sarebbe stato meglio evitare ed ora
non poteva tirarsi indietro nascondendosi con mezze frasi e allusioni
generiche. “Perché… forse…
un po’ ero preoccupato dal
saperti sola con quel ragazzo straniero”.
“Preoccupato?”.
“Forse
non è la parola giusta Demelza… E forse non
dovremmo nemmeno avere
questa conversazione”.
Lei
si morse il labbro, con il cuore che le martellava nel petto.
C’era
qualcosa di altamente personale fra loro, qualcosa a cui forse non
aveva mai osato sperare e pensare e che magari non aveva la
maturità
per comprendere appieno ma sentiva che doveva insistere visto che
Ross sembrava non riuscire a essere sincero del tutto e pareva
frenarsi. “L’avete iniziata voi questa
conversazione, non io!”.
“Lo
so, non ricordarmelo”.
Demelza
strinse la stoffa della sua gonna, stropicciandola con la mano.
“Ma
dubito si possa tornare indietro, quindi forse dovreste dirmi quello
che sentite e che volete intendere”.
“Io
credo che forse non dovrei! Magari straparlo, magari ho davvero solo
la febbre!”.
Demelza
scosse la testa. “Non siete moribondo!”.
Ross
sorrise, nonostante tutto era affascinante il suo strano sarcasmo.
Prese un profondo respiro, forse affrontare il nocciolo della
questione lo avrebbe aiutato a vedere le cose in una prospettiva
più
innocente e meno compromettente per entrambi. “Credo mi
desse…
fastidio… saperti al cinema con quel tizio”.
Demelza
rimase in silenzio alcuni istanti dopo quelle parole. Poi prese un
profondo respiro. “Avreste potuto venirci voi al suo
posto… Ve
l’ho chiesto tante volte, tante volte mi avete promesso che
lo
avreste fatto e invece avete sempre trovato una scusa”.
“Non
amo il cinema, lo sai! E inoltre le leggi mi vietano di venire nei
luoghi pubblici destinati agli ariani”.
Demelza
scosse la testa, stava trovando mille scuse patetiche. “Le
leggi
che lo vietano esistono, è vero! Ma non da così
tanto tempo e fino
a poco fa avreste potuto…”.
“Non
è una cosa che mi appassiona… Nemmeno la radio,
nemmeno tutte le
cose tecnologiche che stanno inventando e che invece voi sembrate
apprezzare tanto!” – tentò di
giustificarsi.
“Come
fate a dirlo se nemmeno le avete provate? Molte di quelle invenzioni
aiutano a renderci la vita meno pesante e difficile. Non parlo del
cinema ma gli elettrodomestici… E comunque non è
un peccato
divertirsi con musica e cinema, ogni tanto. La vita non deve essere
fatta di solo lavoro e doveri” – ribatté
lei.
Ross
alzò lo sguardo su di lei che in quel confronto pareva
schiacciarlo
dimostrando una maturità decisamente superiore ai suoi anni.
Continuava a ostinarsi nel volerla trattare da ragazzina, si sentiva
in colpa per l’attrazione che provava verso di lei e non
riusciva
ad accettare di avere davanti una donna ormai fatta e finita,
intelligente, scaltra, saggia oltre che molto bella. “Mio
padre mi
diceva sempre, in effetti, che la mia cocciutaggine non mi
permetteva, a volte, di guardare oltre…”.
Demelza
si avvicinò alla finestra, osservando il bellissimo tramonto
primaverile che si dipanava fuori dalla stanza. La natura era un
tripudio di colori e il cielo, terso e limpido, sembrava quasi
beffardamente appoggiarsi su un mondo e su anime in subbuglio. La
ragazza pensò al suo padrone, un uomo che, da quando
l’aveva
conosciuto, aveva venerato. Affascinante, gentile, giusto, dal
carattere a volte complicato ma che non poteva non colpire chi sapeva
e voleva conoscerlo bene. Era testardo, spesso diventava un mulo e se
si fossilizzava sulle sue idee era difficile fargliele cambiare ma
anche questo faceva parte del suo fascino ai suoi occhi. Per Demelza,
negli anni, l’ammirazione infantile si era trasformata pian
piano
in profonda riconoscenza e fiducia incrollabile nonché in un
totale
senso di appartenenza a lui e a quella casa. Era un uomo che, quando
la guardava, le faceva ribollire il sangue come nessuno e che
giudicava bello come e più di un divo del cinema. Se ne
sentiva
attratta certe volte e forse avrebbe dovuto dirgli che nessun Hugh
Armitage avrebbe potuto competere con la visione che aveva di lui,
ma… Aveva senso aprirsi a lui, al suo padrone, in quel modo?
Lei,
una misera piccola stracciona presa per pietà come domestica
come
poteva anche solo pensare di esporre certi pensieri a un uomo come
Ross Poldark? Un uomo un tempo – e forse anche adesso
–
innamorato di una dea vivente come Elizabeth, che cosa poteva vedere
in una ragazzina come lei? La verità era che negli anni Ross
per lei
era diventato tutto, tanto da non toglierselo dalla testa nel
suo giorno di riposo a spasso con un altro uomo, sapendolo malato. Ma
l’altra faccia della medaglia era che sicuramente per lui non
era
così. Però sapere che era stato preoccupato
sapendola in compagnia
di un giovane che magari poteva non essersi comportato un gentiluomo,
le aveva scaldato il cuore. Improvvisamente i ricordi del piacevole
pomeriggio con Hugh sparirono lasciando spazio a un forte desiderio
di dirgli anche solo in parte come si sentiva. “Se mi aveste
chiesto, detto, di voler venire al cinematografo con me, io ne sarei
stata felice. Non ci avrei messo mezzo secondo ad annullare
l’uscita
con gli altri ragazzi e con Hugh. Me lo avete promesso un sacco di
volte ma non lo avete fatto mai! E lo so, a volte le bugie si
raccontano per far star zitti i bambini troppo insistenti e quindi da
un po’ non ve lo chiedo più ma ci sarei venuta
davvero, con voi,
oggi, a vedere Biancaneve o qualunque altra cosa voi aveste
proposto”.
Parlò
senza voltarsi, con lo sguardo rivolto verso la finestra, dandogli le
spalle, in un tono decisamente serio. Difficilmente lui ricordava di
averla mai sentita parlare in modo tanto serio…
D’istinto
Ross si alzò dal letto e la raggiunse, poggiandogli le
braccia sulle
spalle e costringendola a voltarsi. “Non ti vedo e non ti
tratto
come una bambina, tutt’altro. Forse un tempo è
stato così ma ti
assicuro che da un po’ le cose sono decisamente cambiate. Ed
è
questo il problema”.
Demelza
sussultò. “Cosa intendete?”.
Ross
alzò la mano, sfiorandole d’istinto una ciocca di
capelli che le
sfiorava la guancia. Forse era giusto essere onesti visto che Demelza
lo era e si stava dimostrando abbastanza adulta per quella
conversazione. “Intendo che vederti come una bambina era
molto più
facile. Ma ora non è più così e no,
non ti voglio fare da padre o
da mentore o fratello maggiore. E a volte certo di mantenere le
distanze per evitare di essere troppo vicino a te. Hugh, io, chiunque
altro siamo uomini, nient’altro che uomini con istinti a
volte
forti per essere tenuti a bada. Proviamo desiderio quando guardiamo
una donna e spesso quel desiderio è guidato puramente da
istinti
egoistici”.
Demelza
sussultò, arrossendo. “Desiderio? Parlate
di…”.
Ross
le si avvicinò ulteriormente, ormai i loro visi erano a
pochi
centimetri. “Parlo di ciò che è
evidente. A me, a Hugh e
sicuramente a qualcun altro. Sei cresciuta, sei bella e noi uomini ci
sentiamo attratti davanti a una giovane che diventa donna come lo sei
diventata tu. Ma quel desiderio è un bene o un male? Nel mio
caso lo
avverto e lo sento come un male”.
Demelza
si sentì vorticare il mondo attorno. Lui stava dicendo che
era
attratto da lei? Aveva davvero capito bene? Perché conosceva
l’amore
solo da quanto visto nei film al cinematografo ma non ne aveva
esperienza e non era certa di aver compreso appieno quello che il suo
padrone le stava dicendo. Ma di una cosa era certa, però!
“Credo
che voi pensiate troppo” – si azzardò a
dire.
“Come?”.
Era sarcastica o seria? “Hai idea di chi sono, della mia
età e
della politica di questo dannato paese?”.
Demelza
alzò lo sguardo su di lui e i suoi occhi azzurri erano di
fuoco.
“Sì, pensate troppo a cose in cui forse dovreste
farvi guidare
dall’istinto. Avete dieci anni più di me, non
così tanti. Siete
un uomo onesto e vivete sentimenti umani e sì, so anche cosa
vive
questo paese visto che devo indossare da anni quella dannata divisa
da ragazza della gioventù hitleriana che odio. Ma so anche
che
questa è la vostra casa, che ci vivo da anni e qui comandate
voi,
non Hitler e le sue leggi! Di certo quelle leggi non hanno mai
comandato ME! Sto dicendo che, se ho compreso bene, ciò che
mi avete
detto mi rende felice e che se è quello che sentite, non
sarò io a
fermarvi, tutt’altro…”.
Ross
dovette far resistenza a se stesso per non baciarla, spingerla sul
letto e farla sua. Con gli ultimi brandelli di coscienza che gli
rimanevano prima dell’oblio, tentò una ultima
difesa. “Non sono
l’uomo per te, non lo sono più per nessuno dopo
Elizabeth e i miei
sono sentimenti tutt’altro che romantici. Non fa per me
l’amore e
non voglio provarlo. Provo desiderio, davvero questo ti
basta?”.
Sì,
le bastava perché sapeva che Ross era troppo severo verso se
stesso
e aveva tanto da dare ad una donna anche se sembrava aver chiuso il
suo cuore. Sapeva che non l’amava, non era tanto sciocca da
illudersi di una cosa del genere, ma sapeva di volerlo e che essere
desiderata da lui era quasi come un sogno che si avverava. Se pensava
alla sua prima volta, a quel rapporto fra uomo e donna spesso
accennato ma mai spiegato fino in fondo da Caroline, era con lui che
voleva avvenisse, era un desiderio che aveva cullato segretamente
anche da se stessa da tanto. “Mi basta,
sì”.
“Non
essere sciocca!”.
Lei
alzò lo sguardo, decisa. “Non sono sciocca e non
mi getto via. So
bene del vostro rapporto con Elizabeth e di certo non posso
competere con lei ai vostri occhi. Ma so che tenete a me, so che non
volete ferirmi e lo so perché avete mille preoccupazioni a
mio
riguardo. Mi basta, mi basta solo questo, davvero! E’
più di
quanto chiunque abbia provato per me da quando sono nata”.
“Ti
farò del male!”.
“No,
non credo!”.
Ross
scosse la testa, tentò di resisterle ma dovette cedere. Le
strinse
la vita, la attirò a se e poi la baciò
furiosamente sulle labbra.
Labbra mai toccate da nessuno, era felice che Hugh non le avesse
violate.
Demelza
rispose al bacio, tremando per quelle sensazioni nuove e quel
contatto fisico mai vissuto prima. Santo cielo, si sentiva ribollire
e Ross altrettanto.
Ma
quando lui la strinse a se facendole avvertire il suo corpo e la sua
virilità, si irrigidì e avvertendolo, Ross si
staccò da lei.
“Demelza,
vattene!”.
“Signore,
io…”.
Lui
si allontanò, con notevole fatica. Non poteva permettere che
succedesse, troppi erano i rischi e troppo poco ciò che
poteva
offrirle. “Vattene! Vai nella tua stanza e
restaci!”.
Ferita,
Demelza indietreggiò. “Non voglio!”.
Lo
sguardo di Ross si fece furioso, doveva cacciarla, per il suo bene!
“Vattene e dimentichiamoci di tutto questo! Vattene o
dovrò
rimandarti da tuo padre!”.
A
quella minaccia, gli occhi di Demelza si riempirono di lacrime.
Indietreggiò, si avvicinò alla porta e
sparì dietro all’uscio.
Ross
la lasciò andare prima di chiudere la porta e dare un pugno
alla
parete. Il corpo gli faceva quasi male e il bisogno di allontanarla
faceva a botte con il suo desiderio per lei. E ora che ne sarebbe
stato del loro rapporto e della loro amicizia? Come avrebbero potuto
proseguire come se nulla fosse stato? Come avrebbe potuto resisterle?
Non
doveva succedere, non doveva!!!
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Capitolo 8 *** Capitolo sette ***
Dopo
che Ross l’aveva allontanata da se dopo il bacio che si erano
scambiati, su Nampara era calato un fitto gelo e le conversazioni fra
i due si erano come congelate in uno stato di tensione e
risentimento. Ross usciva al mattino presto, rientrava la sera tardi,
cenava, spiegava freddamente a Demelza i suoi compiti per il giorno
successivo e poi si chiudeva o in camera o nel suo studio. Delle loro
chiacchiere e risate serali non vi era più traccia e ognuno
pareva
essersi chiuso in se stesso, rifugiandosi nei rispettivi ruoli di
padrone e domestica. Questa era stata infatti l’unica cosa
che Ross
aveva detto il giorno dopo quel bacio. “Io sono il tuo
padrone, tu
la mia domestica, i ruoli sono quelli. Ricordalo”.
Demelza
era amareggiata ma ancor più, si sentiva ferita. Non tanto
per il
rifiuto di Ross Poldark di affrontare la situazione che si era creata
fra loro, quanto per il fatto che sembrava aver dimenticato la parte
amichevole e bella del rapporto costruito da entrambi fino a quel
momento, quel rapporto che non la faceva sentire una normale
domestica ma parte di quella casa. Tutto finito, tutto
dimenticato…
Ma in fondo di cosa si stupiva? Alla fine cos’era se non
davvero
una banale domestica arrivata dal nulla? E lui non era forse un
proprietario minerario discendente di una antica e blasonata
famiglia? Davvero lei aveva rivestito una qualche importanza nella
sua vita? Come aveva potuto illudersi?
Anche
se non era nella sua natura, Demelza stessa si era irrigidita e si
limitava a poche parole con lui, a semplici scambi verbali relativi
unicamente al lavoro da svolgere. “Sì signore, va
bene signore”.
Tutto semplice, tutto facile, nessun coinvolgimento. Non era
così
che doveva comportarsi una brava domestica?
C’erano
stati momenti in quelle settimane in cui aveva pensato che forse
sarebbe stato meglio andarsene. Ma dove? Non aveva altri lavori, non
voleva tornare da suo padre e soprattutto non voleva lasciare lui
e Nampara. Ross Poldark significava tanto per lei e da quando era
nata era stato l’unico a trattarla con rispetto, a
interessarsi a
ciò che voleva dire, a cosa avesse fatto durante la
giornata, al suo
mondo e ai suoi pensieri… E anche se ora tutto sembrava
finito e
lui sembrasse semplicemente distante ed indifferente, per lei non era
finita affatto. E quindi, finché non fosse stato il suo
padrone a
cacciarla, lei sarebbe rimasta al suo posto e avrebbe quanto meno
svolto al meglio il suo lavoro senza dargli disturbo.
Era
ormai giugno e il tempo era caldo e piacevole.
Erano
passate più di tre settimane da quella domenica incriminata
e quel
pomeriggio era andata in bicicletta in piazza per comprare scorte per
la dispensa. E visto che la sfortuna non arriva mai da sola, giunta a
destinazione le era caduta nuovamente la catena della bicicletta.
Imprecò fra se e se, come faceva da bambina. Poteva fare
tutto ma
odiava sporcarsi le mani con l’olio nero degli ingranaggi e
siccome
capitava spesso, era sempre stato Ross a sistemarle la bicicletta. La
prendeva amabilmente in giro per questo aspetto del suo carattere che
trovava divertente ma ora le cose erano cambiate e non se la sentiva
di chiedergli più niente. Quindi optò per portare
la bicicletta dal
ciclista di Annaberg-Buchholz, il signor Spieldarman, fece la spesa e
poi tornò a piedi a casa. La bicicletta, aggiustata, le
sarebbe
stata restituita dopo due giorni al costo di pochi spiccioli. Soldi
ben spesi, pensò…
Arrivò
accaldata, con le borse in mano, percorrendo a lunghe falcate il
sentiero che dal villaggio portava a Nampara e quando aprì
l’uscio,
scoprì che Caroline e Dwight erano venuti a far visita e con
Ross
stavano conversando amabilmente in salotto.
Quando
entrò Ross non la salutò nemmeno, al contrario di
Dwight e Caroline
che le andò incontro. “Mia cara, che fine hai
fatto? E’ un po’
che siamo qui”.
Demelza
sorrise, poggiando le borse della spesa in terra. “Sono stata
al
villaggio a fare compere e la catena della bicicletta mi ha di nuovo
tradita. L’ho lasciata dal signor Spieldarman per farla
riparare e
sono tornata a piedi, per questo ci ho messo tanto”.
Dwight
rise. “Oh, quindi Ross si è stancato del lavoro di
ciclista!”.
Per
un attimo calò un silenzio imbarazzato che però
Demelza fu veloce a
stoppare. “No, è che ero troppo lontana da casa e
non ce l’avrei
fatta a tornare con la bicicletta rotta e le borse della spesa,
quindi ho deciso di rivolgermi a Spieldarman”.
Caroline
e Dwight si guardarono brevemente negli occhi, avvertendo una strana
tensione che mai avevano avvertito nel rapporto rilassato fra Demelza
e Ross. Ma non chiesero nulla e Demelza gliene fu grata.
La
ragazza prese le borse, dirigendosi verso la cucina. “Vi
preparo
del tè?”.
“Ci
siamo arrangiati mentre tu non c’eri e abbiamo bevuto del
sidro,
non ci serve nulla!” – rispose Ross, freddamente.
Demelza
si irrigidì. “Sì signore. Allora vado a
sistemare e se avete
bisogno, sono di la”.
Caroline
e Dwight si fissarono nuovamente. Che stava succedendo? Quando
arrivavano a Nampara, quello fra loro era un incontro fra quattro
amici, non c’erano ruoli, non c’erano ospiti,
padrone e domestica
mentre in quel momento avvertivano un forte distacco fra Ross e
Demelza, quasi che ognuno non volesse avere a che fare con
l’altro.
Avevano discusso? Demelza in fondo era molto portata a rispondere a
tono e Ross era una persona che si accendeva facilmente quando
colpito nel vivo…
Caroline
strinse i pugni, decisa a far terminare subito quella situazione
strana e incomprensibile. “Aspetta! Volevo giusto che ci
fossi
anche tu! Io e Dwight abbiamo due notizie importanti da darvi! Una
bella, una brutta!”.
Dwight
sospirò alzando gli occhi al cielo mentre sia Ross che
Demelza
sembrarono assumere un atteggiamento più curioso.
Demelza
poggiò nuovamente le borse. “Che
succede?”.
Caroline
le si avvicinò. “Partiamo dalla bella notizia!
Clarke Gable ha
appena firmato il contratto per il film dell’anno, anzi, DEL
SECOLO!!! Con Vivien Leigh sarà il protagonista
dell’adattamento
di Via col vento! Prevedo un successo planetario, prevedo un film che
resterà per secoli negli annali del cinema, prevedo di
piangere
tutte le mie lacrime quando lo vedrò”.
A
Demelza scappò da ridere, Caroline era davvero spassosa
quando
parlava di Gable con quella venerazione, quasi quanto lo era lei
quando parlava di Chaplin. “Ottimo! E la notizia
brutta?”.
Caroline
sbuffò. “La notizia brutta è che non so
quando potrò vederlo
visto che un mini-Enys è in arrivo e accidenti,
romperà le scatole
proprio all’uscita del film!”.
Ross
spalancò gli occhi e Demelza ci mise un attimo a capire. Poi
scoppiò
a ridere e col consueto entusiasmo con cui si approcciava sempre alle
belle notizie indipendentemente dal suo stato d’animo,
abbracciò
quella brontolona della sua cinica amica che, poteva scommetterci,
era felice anche se non lo avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura.
Caroline
sbuffò. “Sei incaricata di venire a salvarmi da un
mondo fatto
solo di pannolini e latte! Le nostre uscite al cinematografo devono
rimanere immutate!”.
Demelza
sospirò, divertita. Era da giorni che non provava sensazioni
tanto
belle ed era felice perché quel bimbo sarebbe stato amato e
accudito
con mille cure e tanto amore. “Farò del mio
meglio”. E così la
vita andava avanti, con le sue meraviglie, i suoi dolori, i suoi
cambiamenti. La gente cresceva, si evolveva, abbracciava nuove
esperienze e chissà quando questo sarebbe potuto succedere
anche a
lei…
Ross
poggiò la mano sulla spalla di Dwight. “E
così seguite i dettami
del regime e contribuite alla politica militare di Hitler con un
futuro piccolo soldato. Eppure, sono comunque felice per voi”.
A
quelle parole, Caroline lo bloccò. “Spero sia
femmina, altro che
soldato! Mi ci manca solo di avere per casa un marmocchio che saluta
alzando il braccio e brinda col biberon alla salute del furher o che
mi diventa una piccola copia sputata delle scimmiette dei Goebbels!
Che dannato incubo!”.
E
Demelza bloccò lei, trattenendosi dal ridere, con
l’animo
improvvisamente più leggero. “Santo cielo, povera
bambina!
Costretta a mettere per anni quella dannata divisa della
gioventù
hitleriana e a danzare sulle note di canzoni naziste”.
Fu
una battuta leggera, tipica di Demelza che riusciva a sdrammatizzare
anche le situazioni che riteneva più antipatiche. Ross
avrebbe
voluto sorriderne, come aveva sempre fatto, ma si impose di voltare
il viso, rimanere neutrale e far finta di non averla nemmeno sentita.
Alzò semplicemente il calice col sidro e fece per accennare
a un
brindisi quando qualcuno bussò alla porta.
“Postino,
ho una missiva per Fräulein Demelza Carne”.
Ross
parve sorpreso, da quando Demelza era stata assunta non le aveva mai
scritto nessuno e anche la ragazza sembrò incerta sul da
farsi. Con
un cenno, l’uomo la intimò ad aprire.
“E’ per te, a quanto
pare”. Era assolutamente curioso, chi diavolo poteva averle
scritto? Ovviamente non le avrebbe chiesto niente.
Fu
Caroline a venirgli in aiuto, interrogando subito Demelza appena la
ragazza ebbe in mano una busta colorata dalle tenui tonalità
pastello. “Chi è?”.
Demelza
rigirò la busta, lesse il nome del mittente e sorrise
osservando il
disegno e il timbro sul francobollo. “Allora ci è
andato!”.
Caroline
parve non capire. “Allora! Non fare la misteriosa, chi
è?”.
Demelza
mise la busta nella tasca del vestito, decisa a leggere la lettera
con calma, da sola, quella sera. “E’ una cartolina
di Hugh
Armitage. A quanto pare prima di tornare in Inghilterra è
stato a
Fussen per visitare i castelli di re Ludwig. Ne avevano parlato
quando siamo usciti”.
Caroline
si esibì in una espressione maliziosa.
“L’inglesino?”.
“Già!”.
Demelza non aggiunse altro, non voleva parlare di cose personali
davanti a tutti e sentiva di voler tenere gli aspetti della tenera
amicizia nata con Hugh per se. Non che ci fosse qualcosa da
nascondere o di cui vergognarsi ma nelle ultime
settimane
aveva maturato la necessità di tenere le sue cose personali
per se.
Fosse stata sola con Caroline, forse avrebbe raccontato di
più ma
non le andava di parlare di Hugh in presenza di Ross dopo quanto
detto tre settimane prima.
Ross
la osservò silenzioso, con sguardo duro, ma non disse nulla.
Si
chiese se Demelza stesse cercando di provocarlo o se semplicemente
avesse deciso, come le aveva chiesto, di mantenere le distanze fra
loro. Non era stato forse lui a ribadirle che non erano altro che il
padrone e una cameriera? Che non c’era spazio per altro? Che
non le
aveva più rivolto la parola se non per darle ordini? Quindi
che
diavolo aveva per sentirsi irritato? Alla fine strinse nuovamente il
calice, lo alzò e guardando Caroline e Dwight
accantonò i suoi
pensieri e l’argomento-Hugh di cui non gli importava NIENTE!
“Brindiamo! Al piccolo o alla piccola Enys che
sarà sicuramente –
alla faccia di Hitler – motivo di gioia per tutti i
presenti”.
Caroline
sospirò, fece per riprendere in mano il bicchiere ma
l’occhiataccia
di Dwight la fermò. “Lo so, lo so, niente
alcolici”. Osservò
poi Demelza. “Sai mia cara? Forse lo gradirei davvero un buon
tè”.
Demelza
le sorrise. “Te lo preparo subito”.
E
sparì in cucina.
...
“Cara
Demelza, dopo il nostro bel pomeriggio insieme non ho potuto che
andare a visitare i castelli di Re Ludwig a Fussen prima del mio
ritorno in Inghilterra. Non ho fatto altro che pensare alla piacevole
chiacchierata avuta in merito con te e il mio animo artistico e forse
sognatore non ha potuto che rimanere estasiato davanti alla bellezza
di tali opere che racchiudono in loro una magica visione della vita,
un animo estroverso, il giusto mix di egocentrismo, arte, storia e
fiaba. E’ stata una piacevole disgressione dai miei studi e
mi
auguro di tornare in quei luoghi quanto prima. Magari con te come
compagna di avventura per un’altra piacevole gita. Ti lascio,
unito
alla presente, il mio indirizzo inglese in modo che potrai, se vorrai
scrivermi, trovarmi senza problemi. Sperando tu possa stare sempre
bene in questo mondo difficile che ti circonda, ti saluto con
profondo affetto.
Il
tuo fedele amico, Hugh Armitage”.
Dopo
che Dwight e Caroline se n’erano andati, Demelza aveva
sistemato la
spesa, aveva cucinato a Ross quello che lui aveva chiesto, aveva
riordinato la sala da pranzo e la cucina e una volta finito tutto il
suo lavoro si era seduta sulla panca fuori casa, che dava verso il
bellissimo bosco che si estendeva fino al paese e si era concessa
quel momento di pace per leggere quella missiva prima che facesse
buio e fosse ora di andare a letto.
C’era
una piacevole tranquillità attorno a lei e il culmine
dell’estate
che faceva tramontare il sole ad ora tarda le donava la luce
necessaria per leggere.
Era
stata felice di ricevere quella lettera, un balsamo per il suo animo
triste e in subbuglio. Si era sentita sola in quelle settimane e la
situazione creatasi col suo padrone le aveva fatto dimenticare il
piacevole pomeriggio con Hugh, la spensieratezza di quella giornata
da normale ragazza che si viveva la sua età, la dolce
sensazione che
ci fosse qualcuno che trovava piacevole la sua compagnia.
Divorò
quelle poche righe avidamente, ormai era diventata piuttosto brava
nella lettura e impegnandosi, anche nella scrittura. Gli avrebbe
scritto presto che sì, le sarebbe piaciuto andare a scoprire
con lui
i castelli di Fussen. Un giorno vivere sarebbe diventato più
semplice, un giorno forse avrebbe visto altro, avrebbe scoperto il
mondo o quanto meno ciò che c’era fuori da quel
villaggio dove era
nata e dal quale non si era mai allontanata. Un giorno,
forse…
In
realtà nel suo animo non era così ottimista circa
il futuro e ogni
volta che era costretta a vedere segni del nazismo che si faceva
spazio attorno a lei, veniva colta da foschi presagi che le
suggerivano che ci si stava incamminando verso un sentiero
pericolosissimo. Ma quella lettera di Hugh le alleggeriva il cuore
tanto da renderla serena in un momento della sua vita strano.
Piegò
la lettera dopo averla riletta per l’ennesima volta e rimase
ad
osservare la cartolina del castello di Neuschwanstein che Hugh vi
aveva allegato, sognando di principi, favole ed epiche avventure.
Solo quando fu davvero buio si decise ad entrare in casa per andare a
dormire.
Giunta
in salotto, si accorse che Ross era ancora sveglio ed era intento ad
osservare alcune mappe delle sue miniere.
L’uomo
alzò lo sguardo, poi lo riabbassò. Non le
rivolgeva la parola da
ore… “Hai letto la lettera del tuo
spasimante?”.
La
stava provocando? Beh, non ci sarebbe riuscito stavolta.
“Sì, l’ho
letta”.
Quella
risposta lo spiazzò. “E ora hai fretta di
chiuderti in camera per
rispondergli?”.
“Può
darsi”.
Ross
strinse la matita che teneva fra le mani. Che diavolo gli veniva in
mente di chiederle qualcosa? E soprattutto, che diavolo di risposte
stava ricevendo? Si sentì irritato perché
rispetto a tre settimane
prima dove Demelza aveva negato qualsiasi coinvolgimento con Hugh,
ora sembrava voler affermare l’esatto opposto.
Demelza
si fermò davanti alle scale, aspettando che chiedesse altro.
“Posso
andare? O avete bisogno di me per qualcosa?”.
“Non
ho bisogno di niente!” – fu la gelida risposta.
La
ragazza gli voltò le spalle, salì al piano di
sopra di nuovo di
cattivo umore ed entrò nella stanza. Si sedette sul letto,
improvvisamente stanca di tutto, di tutti e di quella situazione
assurda che si era creata. Nampara era stata l’unico luogo in
cui
si era sentita a casa e improvvisamente non lo era
più…
Dopo
aver appoggiato sulla scrivania la lettera di Hugh si sciolse i
capelli, fece per pettinarseli ma fu interrotta da un forte bussare
alla sua porta.
“Demelza,
apri!”.
La
voce di Ross la fece trasalire, poi fece quello che le era stato
chiesto. “Signore?”.
“Voglio
del ruhm. Adesso!” – le ordinò appena la
ebbe davanti.
“V…
Va bene… Ve lo devo portare nella vostra stanza o in
salotto?”.
Lui
si morse il labbro. Non sapeva nemmeno perché fosse andato
da lei e
non aveva bisogno e voglia nemmeno di bere alcolici. Che diavolo gli
prendeva? Cosa aveva in se di così magnetico quella dannata
ragazzina per confonderlo così? Perché lo scambio
verbale di poco
prima fra loro lo aveva spinto a salire da lei? Non era solo la sua
domestica? “Ho cambiato idea, non voglio più il
ruhm!” – disse
solo, sentendosi decisamente idiota.
Demelza
sospirò. “E cos’altro volete,
signore?”.
“Non
so, qualcosa”.
Si
sentì irritata. La stava prendendo in giro? Voleva mancarle
di
rispetto prendedosi gioco di lei? Era la sua domestica, certo, ma era
abbastanza grande per comprendere quali comportamenti fossero leciti
e quali no anche per un padrone. “Beh, quando lo avrete
deciso
tornate e fatemelo sapere”. Irritata fece per chiudere la
porta,
che lui facesse quello che voleva. Che la licenziasse per la sua
impertinenza, che si decidesse a chiedere cosa volesse bere,
pazienza! Se doveva vivere così, tanto valeva tornare da suo
padre.
Ross
bloccò l’uscio, il suo viso sembrava furibondo.
“Non ti permetto
di rispondermi con quel tono!”.
“E
io a voi di prendervi gioco di me!”.
Lei
glielo disse adirata, guardandolo negli occhi in un modo in cui lui
non era più capace di fare. Si sentì in colpa, in
realtà non
voleva prenderla in giro, in realtà non sapeva nemmeno cosa
diavolo
lo avesse spinto lì. “Non era quello che stavo
facendo”.
“Mi
sembra di sì”.
“E
io ti dico di no”.
Demelza
sospirò, si sentiva così stanca. “Cosa
desiderate, signore?”.
Anche
Ross si sentì improvvisamente stanco del gelo che si era
creato fra
loro e che MAI avrebbe desiderato. “Non lo so…
Dirti qualcosa,
non so cosa però. Sono salito e basta”.
Demelza
rimase in silenzio, poi uscì nel corridoio e lo
fronteggiò. Il suo
sguardo era serio e sembrava decisamente più maturo dei suoi
18
anni. “Io non so cosa vogliate dire voi ma per quel che mi
riguarda
ho tanto da dire io, da tre settimane a questa parte. Non mi parlate
o se lo fate, lo fate a malapena quasi aveste paura di me. Non mordo,
non chiedo nulla, non faccio nulla di male e cerco di lavorare al
meglio. Più di questo non so fare e se ritenete che non lo
faccia al
meglio, cacciatemi e trovatevi un’altra domestica. Se la mia
presenza vi infastidisce, la soluzione rimane quella che vi ho appena
suggerito. Siete il mio padrone, questa è la vostra casa,
dite cosa
volete e io lo farò”.
Ross
si sentì turbato da tanta risolutezza che lui, in preda a
mille
dubbi, non riusciva ad avere. Allargò le braccia. "Solo fare
la
cosa giusta. E non so come farla".
"La
cosa giusta? Relativa a cosa?".
"Lo
sai, Demelza!".
La
ragazza gli si avvicinò di alcuni passi. Ross Poldark non le
aveva
mai chiesto cosa pensasse, cosa sentisse, come guardasse a quel mondo
che attorno a loro stava cambiando in modo feroce. Erano diversi e
diversi erano i loro ruoli all'interno della società che
Adolf
Hitler aveva creato ma dannazione, a LEI lui aveva mai chiesto
qualcosa in merito? "Sapete qual'è per me la cosa giusta?".
Ross
sembrò confuso. "No".
Demelza
si guardò attorno, indicandogli poi una finestra del
corridoio.
"Pensate che Hitler, Goebbels o Himmler o chiunque altro siano
quì fuori a sbirciare cosa facciamo?".
"Beh,
no! Ma decidono delle nostre vite in modo pericoloso" - rispose
lui.
Demelza
scosse la testa. "Certo, non dovete spiegarmelo! Voi signore
siete ebreo e siete PER FORTUNA esentato dalla vita del partito
nazist. Ma io quello che dicono e fanno lo conosco e lo capisco
bene!".
Ross
rise, sarcastico. "Esentato? Per fortuna? Demelza, noi ebrei non
siamo ben accetti da nessuna parte ormai!".
Anche
Demelza parve diventare sarcastica. "E gli permettete di farlo,
anche noi gli permettiamo di farlo, questo è il problema.
Hitler
parla e i tedeschi obbediscono come burattini, Hitler vi distrugge la
vita e voi ebrei gli spalancate le porte di casa e gli permettete di
farlo".
Ross
si sentì irritato. Stava dandogli del codardo? "Che pretendi
che faccia? Che inforchi un fucile, vada a Berlino e spari a tutto il
Bundstag? Sto cercando di sopravvivere Demelza e ti assicuro che
stare zitto è la cosa più difficile per me e se
mi conosci almeno
un pò, sono certa che lo sai! Rimanere in vita, per noi
ebrei, è
più difficile che per te e quelli come te. Non voglio, non
posso
trascinare nessuno nell'inferno in cui sta piombando la mia vita, lo
capisci?".
La
ragazza scosse la testa, fingendo di non sentirlo. "Non mi avete
mai chiesto cosa si dice, cosa ci fanno vedere al cinematografo
quando la sera ci sono le proiezioni propagandistiche di Goebbels".
Ross
alzò le spalle. "Parlerà male di noi ebrei, che
c'è da
chiedere?".
Demelza
scosse la testa. "No...Cioè, non solo... E' che lui, loro...
ti
parlano attraverso dei video su quanto sia bello essere tedeschi
puri, di come Hitler ci ami, di come sarebbe bello morire per lui e
per la patria. E tutto quello che mi viene da pensare, quando
ascolto, è che ci stia preparando per una guerra, che ci
stia
rendendo mansueti in modo da mandarci al macello come agnelli
sacrificali, felici di morire per seguire la sua follia".
Ross
spalancò gli occhi, non poteva credere a qualcosa del
genere.
"Avanti Demelza, sicuramente Hitler non sarebbe tanto folle da
distruggere tutto ciò che ha ricostruito a livello
economic...".
Demelza
lo fermò, con un gesto stizzito della mano. Poi scosse la
testa,
esasperata dal fatto che lui fingesse di non voler capire. "Credete
che si fermerà alla Germania? Credete che si
accontenterà di essere
al governo di una sola nazione? Judas, quando farà scoppiare
l'apocalisse e le bombe cadranno su questo disgraziato paese, che
cosa credete che succederà? Credete che avergli obbedito
fedelmente
ci salverà? Questo paese sarà distrutto,
sarà raso al suolo fra
non molto e molti di noi non saranno quì a vederlo
ricostruire! E
allora ho deciso che non mi comanderà, che se deve
distruggere la
mia esistenza, prima di morire voglio vivere! Come voglio io, secondo
ciò che provo io! Che finché ci sarà
qualcosa di bello e buono che
mi rende felice, io ne godrò! Io ho scelto di non farmi
comandare da
Adolf Hitler, ho scelto di maledirlo in silenzio ogni volta che vedo
una svastica, di prendermi gioco di lui con Caroline, di continuare a
fare le cose che amo! Non mi dirà chi frequentare, cosa
fare, come
devo pensare! Non lo farà fino alla fine. Se per la sua
follia dovrò
morire, quanto meno sarà dopo che ho vissuto! Voi fate
ciò che
credete giusto ma non scegliete per me! Non servirà a
salvarmi e non
salverà nemmeno voi probabilmente! Non dovete andare a
Berlino a
fare una strage nella sede del partito nazista, nessuno ve lo chiede!
Ma se volete un consiglio, cercate di rendere felice il vostro
piccolo angolo di mondo finché potete!".
Ross
rimase totalmente spiazzato. Chi diavolo aveva davanti? Una
ragazzina? Santo cielo, Demelza era più matura di lui di
almeno
dieci anni, era una sognatrice ma era anche estremamente consapevole
di cosa la circondava. Aveva in se una lucidità rara in una
persona
tanto giovane, osservava tutto e forse aveva capito più di
lui tutto
ciò che stavano succedendo.
Davanti
al suo silenzio, Demelza si riavvicinò alla porta. "Beh, ora
credo che andrò a dormire! Se avete bisogno di qualcosa,
sapete dove
trovarmi".
Sparì
dietro la porta, fece per chiuderla e a quel punto una forza
sovrannaturale si fece più forte di qualsiasi resistenza si
fosse
imposto. Le prese il polso, la afferrò fermamente e la
costrinse a
tornare indietro e voltarsi. Demelza aveva dannatamente ragione,
perché si rifiutava di vivere e seguire ciò che
di buono
l'esistenza gli offriva, finché poteva farlo? Aveva davanti
una
giovane donna bella, intelligente, che lo attirava come una calamita.
Al diavolo tutto, al diavolo Hitler, al diavolo la legge!
Le
lasciò il polso, la afferrò per la vita, la
spinse contro la parete
e la baciò sulle labbra e sul collo, affamato di lei. La
voleva,
come non credeva possibile. Dopo baci lunghi, passionali e profondi,
si staccò da lei per un'ultima fievole resistenza. "Non ho
nulla da offrirti se non questo! Non posso prometterti alcun futuro,
solo la mia compagnia e la passione che sento per te! So che ti
voglio, che queste settimane senza parlarci mi hanno distrutto e che
non posso andare avanti così. So che sono un uomo passionale
con
esigenze forti, non sono come il tuo inglesino che parla di arte e
castelli e che ti desidero
come donna. Totalmente! Quindi ora Demelza sta a te, se vuoi mandarmi
via è l'ultima possibilità che hai per scegliere".
Mandarlo
via? Judas, era pazzo? Tutto ciò che sognava stava
avverandosi e lui
le chiedeva se voleva mandarlo via? Sapeva che non poteva offrirle
nulla ma anche lei aveva sofferto quelle settimane di silenzio e ora
non desiderava che di essere sua, totalmente. Non
credeva, anche se lo adorava, che la sua lontananza emotiva avrebbe
potuto farla soffrore così ed ora era come se la spada che
aveva nel
cuore da settimane si stesse sciogliendo come neve al sole. Era
inesperta e forse un uomo come Ross non avrebbe trovato
chissà quali
soddisfazioni da lei ma era pronta a donarsi a lui. A lui soltanto.
"Nemmeno io ho nulla da donarvi, signore! Ma so che questo è
esattamente ciò che voglio
e al diavolo il futuro, il presente, tutto. Non vi manderei via per
tutto l'oro del mondo".
"Ci
stiamo cacciando in un grosso guaio".
Lei
sorrise. "Beh, almeno non potremo dire di vivere esistenze
noiose e condizionate da altri".
"Potrei
farti male".
"Mi
fido di voi...".
Ross
non disse più nulla, lei
aveva detto tutto ciò che aveva bisogno di sentirsi dire. Si
chinò su di lei, tornò a baciarla e non
staccandosi fra loro,
giunsero fino al letto. Lui le sollevò il vestito che
Demelza aveva
iniziato a slacciarsi prima che piombasse nella sua stanza, glielo
sfilò e poi le sollevò la sottoveste. Era
inebriato da quel corpo
giovane che nessuno aveva mai sfiorato. Quando gliela tolse, la
invitò a sdraiarsi sul letto
e
prima di stendersi su di lei
la osservò inebriato.
Si baciarono, si toccarono, lui le baciò il seno e il petto
prima di
tornare alle sue labbra. Poi le tolse anche gli ultimi indumenti
intimi prima di spogliarsi a sua volta. Lei lo aiutò a
sfilarsi la
camicia e lui fece da solo coi pantaloni. Poi si guardarono,
completamente nudi, lui le accarezzò il viso sentendosi
responsabile
per quella ragazzina che stava per far diventare donna. "Se ti
farò male, dimmelo".
"Va
bene..." - mormorò lei.
La
fece stendere, con delicatezza forzò le sue ginocchia ad
aprirsi e
poi si stese fra le sue gambe. La osservò negli occhi verdi
e
trasparenti, era bella davvero... Poi la baciò, entrando in
lei con
tutta la delicatezza di cui era capace.
Per alcuni istanti la
sentì irrigidirsi e aggrapparsi a lui
e si sentiì in colpa per averle provocato quel dolore
inevitabile...
Cercò
di di rassicurarla, le
accarezzò i fianchi e con baci gentili cercò di farla
abituare a quella nuova realtà che stava scoprendo con lui.
E
quando la sentì rilassarsi iniziò a muoversi
dentro di lei, prima
lentamente e poi man mano più forte. E dopo pochi istanti
entrambi
si resero conto che i loro corpi sembravano fatti per incastrarsi fra
loro perfettamente e persino Ross, che di donne ne aveva avute molte
ed esperte, sentì che nessuna gli aveva mai dato sensazioni
tanto
forti.
Demelza
chiuse gli occhi, il dolore sparito e una valanga di sensazioni nuove
tutte da scoprire. Era quindi questo il piacere di cui parlava
Caroline, la massima espressione di intimità fra uomo e
donna? Era
tutto così sconvolgentemente bello che le veniva voglia di
urlare...
Si
concentrò sulle spinte di Ross, cercò di seguirne
il ritmo ed
entrambi
persero la percezione del tempo, dello spazio, di cosa li circondava.
E si fusero in un amplesso sconvolgente.
Sulla
scrivania, come
muta testimone,
la lettera di Hugh Armitage... Probabilmente ci sarebbe voluto molto
tempo prima che Demelza si ricordasse di rispondergli...
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Capitolo 9 *** Capitolo otto ***
Ross,
nel silenzio della stanza intervallato unicamente dal rumore del
placido respiro di Demelza accanto a lui, si sentiva incredulo per
quanto appena successo. Demelza, la bambina selvaggia e sporca
raccolta dalla strada anni prima per senso di pietà e
giustizia, si
era trasformata in una giovane donna affascinante, appassionata e
capace di attrarlo come una calamita. Ciò che c'era appena
stato fra
loro era stata pura elettricità, senza inibizioni,
reticenze, paure.
Lei si era donata a lui, gli aveva donato la sua verginità
senza
remore, con naturalezza. E si era dimostrata una amante passionale,
forse inesperta ma capace di portarlo a un genere di estasi che mai
aveva provato. Era come se il corpo di quella ragazzina fosse stato
creato apposta per fondersi perfettamente con il suo ed ora si
sentiva frastornato, incapace di comprendere i suoi sentimenti e
decidere il da farsi. Questa Demelza sensuale e appassionata
conosciuta nell'intimità come avrebbe potuto conciliarsi con
la
ragazza solare, amante del cinema e degli attori, con cui aveva
condiviso la vita negli ultimi anni?
Si
voltò verso di lei e la trovò stranamente
silenziosa, col viso
rivolto verso il soffitto di legno. Si erano cacciati in grossi guai,
LEI soprattutto. Ciò che c'era stato e che ci sarebbe stato
fra loro
in futuro, per la sua sicurezza, sarebbe dovuto rimanere un segreto.
Il partito nazista vietava ogni rapporto fra ariani ed ebrei e di
certo una giovane tedesca che si donava a 'un impuro' avrebbe potuto
andare incontro a conseguenze pericolose.
Demelza
era bella, affascinante, con un corpo fresco e perfetto. Avrebbe
dovuto uscire con un ragazzo della gioventù hitleriana,
donarsi a
lui, fare figli con lui in nome di Hitler e del partito
ed invece
aveva fatto una scelta diversa, coraggiosa
e
irrevocabile. Le aveva detto che non la amava ma questo non l'aveva
fatta arretrare. Certo, le voleva bene e le era affezionato ed ora si
sentiva pure inebriato per quanto accaduto ma questo bastava per
metterla in pericolo
lanciandosi in quella relazione tanto folle?
"Demelza,
a cosa stai pensando?" - chiese infine, stanco di quel silenzio.
Lei
voltò il viso. "A nulla di particolare, mi sento la mente...
vuota...".
L'uomo
sospirò, in preda agli stessi mille dubbi che l'avevano
frenato
nelle settimane precedenti. "Non avrebbe dovuto succedere".
"Perché?".
Lui
strinse i pugni. "Lo sai bene, ci sono mille ottimi motivi!".
La
ragazza sospirò. "Ma è successo lo stesso e
questo non può
essere cambiato. Lo volevamo, no?".
"Per
i motivi sbagliati!".
Demelza
parve ferita da quelle parole e rimase in silenzio. Lui se ne accorse
e si sedette sul letto, fronteggiandola. "Prima che accadesse,
sono stato chiaro, no? Ero attratto da te, lo sono ancora e se
dipendesse da me ti prenderei di nuovo anche subito. Ma l'amore...
l'amore è altro, dovrebbe includere altro... Meriti di
meglio di me,
meriti di meglio di qualcuno che non sa più amare e che
potrebbe
mettere a rischio la tua vita".
Anche
Demelza si mise a sedere, coprendosi il petto nudo col lenzuolo. "Il
meglio che mi sia capitato da quando sono nata, è stato
oggi. E voi
siete stato la persona che più mi ha avuta a cuore da quando
sono
nata. A parte mia madre, forse... Non sono pentita e non mi sento
sbagliata. So cosa mi avete detto prima, so che non posso essere
neppure lontanamente la donna dei vostri sogni e so bene cosa sto
rischiando ma non mi importa. Io sto bene, BENE. Ed è stato
bello
quanto successo, io nemmeno immaginavo che ci si potesse sentire
così. E se mi volete prendere ancora, anche adesso, io sono
pronta.
Sarò sempre pronta per voi. Preferisco rischiare ma essere
felice
che vivere come nelle ultime settimane dove sembravate non sopportare
più la mia presenza".
Quelle
parole lo fecero sentire in colpa. "Mi dispiace, cercavo solo un
modo per proteggerti da me. Ma l'ho fatto nel modo sbagliato... Mi
è
mancato non parlarti, non avere a che fare con te, scherzare con
te...".
"Anche
a me"- rispose lei, prendendogli la mano. "Potete riavermi
anche subito, dico sul serio. Ogni volta che volete sarò
pronta per
voi. Ma non dite che non è giusto che succeda
perché io la vedo
diversamente. C'è così poco di cui gioire in
questo mondo, in
questi anni, perché privarci di un momento di piacere e
pace?".
Era
un invito eccitante, se non si fosse sentito così
responsabile per
lei, l'avrebbe spinta sul materasso e l'avrebbe posseduta subito
ancora e ancora. Ma Demelza era giovane, aveva appena conosciuto
intimamente il corpo di un uomo e non era nemmeno certo che stesse
bene. "Non dovresti parlare in modo tanto spudorato, una
ragazzina per bene non parlerebbe così".
"Io
sono abituata a dire ciò che penso, sempre".
Ross
sorrise, suo malgrado. "Sì,
me ne sono accorto. Ma prima di fare qualsiasi cosa, devo
parlarti
Demelza, e devi stare a sentirmi".
"Quali
cose?".
Alzò
la mano ad accarezzarle la guancia. "Puoi darmi del tu quando
siamo da soli, soprattutto a letto. E' piuttosto assurdo che tu dia
del lei a un uomo con cui fai l'amore".
Lei
spalancò gli occhi. "Ma... ma... signore!".
"Chiamami
Ross, è più semplice. Siamo quì, nudi,
abbiamo appena fatto
l'amore e siamo perfettamente sullo stesso livello, solo un uomo e
una donna".
Demelza
sorrise anche se non era certa di riuscirci. "Va bene, ci
proverò".
"Seconda
cosa: la nostra intimità deve rimanere segreta! Se qualche
nazista
zelante ne venisse a conoscenza e lo dicesse a chi di dovere,
potresti essere perseguitata. Sei ariana, nessuno si aspetta o
sospetta che tu venga a letto con un ebreo. Può essere
pericoloso e
basto già io a rischiare la vita, non è
necessario che la rischi
anche tu".
La
ragazza si morse il labbro. "Nemmeno a
Dwight e Caroline?".
Lui
scosse la testa. "Mi fido di loro, so che sarebbero contenti per
noi. Ma sapere e tacere la cosa, diventare parte di questo segreto,
metterebbe a rischio pure loro. Caroline aspetta un bambino, Dwight
è
un dottore da cui dipendono tante vite quì. Devono vivere al
sicuro".
Demelza
ci pensò su e giunse alla conclusione che lui avesse
ragione. "Va
bene".
Ross
sorrise. "Ultima cosa: stai bene? Hai male da qualche parte?".
Lei
si accigliò, poi sorrise dolcemente. "Ho avuto un
pò di male
all'inizio, quando voi...". Si bloccò, arrossendo mentre
ripensava a Ross che entrava dentro di lei. Ma poi riprese coraggio e
capì che doveva rassicurarlo. "E' durato pochi istanti, poi
mi
è piaciuto subito. Sto bene, non ho male da nessuna parte".
Non
mentiva. Non aveva dolore e l'unica cosa che ricordava era la
sensazione di stare fra le sue braccia, coi loro corpi fusi che si
muovevano all'unisono in una sorta di danza dell'amore.
Ross
la osservò, era bellissima con quei lunghi capelli rossi che
le
ricadevano sulle spalle nude. Anche se celata dal lenzuolo, poteva
scorgere sotto di essere quel corpo e quelle curve che lo avevano
fatto sentire in paradiso fino a poco prima. "Ti voglio, ancora!
Adesso".
Lei
annuì. "Anche io, signor... Ross".
Lui
la baciò sulle labbra, avidamente. Poi raggiunse il suo
collo, il
petto. Crollarono sul materasso, si stese su di lei ed entrambi
scivolarono gradualmente, di nuovo, verso l'estasi.
Ross
comprese che non c'era nulla da fare, non poteva opporsi a quella
forza che lo attraeva senza possibilità di sottrarsi. Quella
ragazza
lo aveva stregato...
...
Erano
passate sei settimane dalla notte che per Ross e Demelza aveva
segnato l’inizio di qualcosa di nuovo, inizialmente
indecifrabile
ma col tempo sempre più intenso.
Ross
era felice, condizione strana per una persona solitamente cupa e poco
propensa all’ottimismo come lui. Non sapeva se fosse solo per
Demelza, per quelle notti di passione che condividevano o per il
fatto di sentirsi meno solo in quel mondo che stava diventando sempre
più folle e oscuro, però era così. Era
felice e tutto pareva meno
difficile da affrontare, anche la sua condizione di ebreo nella
Germania sempre più nazista. Forse Demelza aveva ragione,
lasciare
la politica e il nazismo fuori dalla porta di casa non era poi una
così cattiva idea…
Demelza,
dal canto suo, rimaneva una creatura indecifrabile ai suoi occhi ma
lo affascinava sempre di più. La vivace ragazzina,
instancabile
lavoratrice, entusiasta della vita e amante di cinema e attori,
sempre sorridente e dotata di un notevole spirito di osservazione
nonché di una maturità sorprendente per la sua
giovane età, era
cresciuta e diventata donna davanti ai suoi occhi. Bella, seducente,
disinibita, passionale, riusciva a confonderlo e a farlo sentire in
paradiso quando erano insieme. Apparentemente lei non era cambiata,
il suo modo di fare non era mutato dopo le loro prime esperienze
intime insieme e rimaneva la stessa fresca, giovane ragazza
entusiasta della vita, un’ottima conversatrice ma anche una
silenziosa ascoltatrice quando si fermavano a parlare di tutto o
niente di importante davanti al fuoco del camino. La passione fra
loro, unita a una conoscenza reciproca che si era consolidata in un
rapporto costruito negli anni aveva prodotto un qualcosa di profondo,
molto più di quanto lui avrebbe potuto immaginare. E se nei
primi
giorni ad unirli era il puro bisogno fisico, man mano si trovava
sempre più spesso a chiedersi cosa fossero diventati
‘insieme’.
Perché la passione, man mano che passavano i giorni, si
stava
mischiando sempre più alla tenerezza e a un rapporto che
stava
diventando ‘altro’ anche se ancora lui non sapeva
definirne la
natura. Eppure era stato chiaro dall’inizio, con lei e con se
stesso: non era più capace di amare e non aveva voglia
né di farlo
né di soffrire di nuovo. Ma cominciava a capire che mente e
cuore
spesso non andavano d’accordo e ognuno prendeva la sua strada
senza
che lui potesse farci niente.
L’estate
era nel pieno del suo splendore e quel pomeriggio aveva lasciato la
miniera piuttosto presto per andare ad acquistare dei libri contabili
per le sue attività.
Era
andato nella piazza di Annaberg-Buchholz di malavoglia, lo faceva
sempre meno da quando il partito nazista aveva preso piede e ad ogni
angolo delle strade si notavano bandiere con la svastica, ma non
poteva farne a meno. Il caro Hitler odiava gli ebrei ma sembrava
gradire particolarmente le esose tasse che questi pagavano allo Stato
e non aveva voglia di avere più grande di quante ne desse la
sua
condizione di ebreo diventando anche evasore.
Dopo
aver preso dei libri contabili nuovi dal cartolaio, ignorato da chi
lo incrociava, lo conosceva da una vita ma non voleva averci a che
fare, a passo spedito si avviò verso il viottolo che dalla
piazza
portava alla periferia e di lì alla campagna e al sentiero
di
montagna che lo avrebbe condotto a casa.
Stava
diventando un lupo solitario – non che fosse mai stato il re
delle
feste nemmeno prima - ma ultimamente gli pesava ancora di
più
frequentare quel paese dove un tempo si recava con piacere per bere
una birra o mangiare qualche salsiccia con i suoi minatori. Ma i
tempi erano cambiati, la gente era cambiata e non era facile per un
ebreo essere in mezzo a persone che conosceva da sempre che per paura
o avversione ora lo trattavano con disprezzo e supponenza e lui era
consapevole di non essere propriamente bravissimo ad ignorare
eventuali provocazioni. Per questo era ormai solo Demelza a scendere
in paese per fare compere e lui si limitava a passare le giornate fra
miniera e casa.
Stava
per lasciare la piazza quando improvvisamente e assolutamente a
sorpresa, si trovò davanti Elizabeth. La donna, vestita con
un
elegante abito verde e con i capelli raccolti sotto a un elegante
cappellino di peltro, spingeva la carrozzina che ospitava il bambino
nato a febbraio di quell’anno dall’unione con
George Warleggan.
Ross
impallidì quando vi si trovò faccia a faccia, lei
impallidì ancora
di più. Erano mesi, forse un anno, che non si vedevano e
Ross si era
sforzato di dimenticarla e non pensare più a lei. Elizabeth
era
ormai parte del suo passato e aveva reso ben chiari quali fossero
ormai i suoi orizzonti e le sue priorità. E lui non ne
faceva parte!
Era
bella come sempre, la gravidanza sembrava non aver lasciato alcun
segno sul suo fisico snello e appariva aggraziata e aristocratica
più
che mai.
Elizabeth
si guardò attorno preoccupata prima di tornare a fissarlo
con aria
grave. “Ross… E’ molto
che…”.
Lui
si accorse del suo disagio e della paura di essere notata mentre
parlava con un ebreo. Aveva sposato il nazista più nazista
del
paese, ne aveva abbracciato le idee – per forza o forse per
piacere, temeva – e ora doveva essere ben difficile trovarsi
in
quella situazione. “E’ molto, sì. Ma
suppongo di non esserti
mancato”.
La
donna osservò il bambino di sei mesi che sgambettava nella
carrozzina. Aveva i suoi stessi capelli neri ma gli occhi erano
piccoli e ravvicinati come quelli del padre e parevano esprimere una
freddezza inconsueta per la sua età. “Beh, ho
avuto molto da fare,
sì”.
Ross
annuì, fissò brevemente il bambino e poi ancora
lei. “E’
grazioso. Come si chiama?”.
Elizabeth
rispose con un sorriso di circostanza. “Valentine
perché è nato
il 14 febbraio. Non sei obbligato ad essere gentile con me e a
chiedermi di mio figlio, comunque”.
Lui
la fissò, serio. “Non me la prendo con un bambino
a causa delle
sue parentele ma hai ragione, non siamo obbligati ad essere cordiali
e a parlarci” – le rispose, a tono, deciso a non
farsi sopraffare
dai ricordi e dai sogni che aveva cullato per lei. Elizabeth si stava
dimostrando molto diversa da come aveva creduto.
Quasi
fosse stata punta sul vivo, consapevole di non essere più il
centro
dell’adulazione dell’uomo che aveva davanti e
irritata per
questo, lei arrossì nervosamente. “Comprendo che
tu possa pensar
male di me e ne hai motivo, ma cerca di capire, sono tempi difficili
per tutti e dobbiamo fare delle scelte…”.
Lui
sorrise, sarcastico. “Oh, lo so bene che sono tempi
difficili, non
c’è bisogno che tu venga a spiegarlo a un
ebreo”.
Elizabeth
tentò un approccio più dolce, avvertendo sarcasmo
e disprezzo in
lui. Amava essere adulata e anche se ora era la signora Warleggan e
Ross rimaneva un ebreo e per questo per legge gli era inferiore,
desiderava sentirsi ancora al centro della vita di quell’uomo
tanto
virile. “Mi dispiace per la tua condizione,
davvero”.
Lui
la fissò, non credendo a mezza parola. No, a lei non
dispiaceva, lei
era stata la prima a voltargli le spalle dopo l’emanazione
delle
leggi razziali. Aveva scelto, aveva fatto in fretta a farlo e aveva
intrapreso la strada più comoda e sicura senza preoccuparsi
delle
macerie che lasciava attorno a se. Ci aveva messo molto a comprendere
la natura di quella donna su cui un tempo aveva posato gli occhi ma
alla fine aveva dovuto arrendersi al fatto che lei fosse
così. Non
cattiva ma sicuramente accentrata più su se stessa e la sua
tranquillità che agli altri. “Dubito tu ci perda
il sonno”.
“Dico
davvero!”.
Ross
sorrise ancora, sarcastico. “E allora perché ti
guardi attorno con
paura, come se temessi che qualcuno ti veda parlare con me?”.
Lei
scosse la testa, esasperata. “Te l’ho detto, sono
tempi difficili
e noi non dovremmo…”.
Ross
scosse la testa, strinse a se i registri appena acquistati e poi la
fronteggiò prima di andarsene. “Sono tempi
difficili, sì. Eppure
accanto a me ho persone che non mi hanno voltato le spalle e hanno
continuato ad essermi amiche. Senza di loro sarei completamente solo
al mondo. Loro mi danno speranza che in questa Germania tanto folle e
crudele ci sia ancora posto per l’umanità e ci
siano le basi per
ricostruire tutto un po’ meglio di come è
ora”. Demelza, Dwight,
Caroline, i suoi minatori… Per loro lui continuava ad essere
un
amico, un affetto, come un fratello. Per loro lui era una persona,
non un ebreo di cui vergognarsi se lo si incrociava per strada. Erano
tempi difficili e pericolosi anche per quelle persone ma a differenza
di Elizabeth avevano fatto altri tipi di scelte che li avevano
mantenuti umani e non macchine comandate da un folle coi baffetti.
“Non
tutti siamo coraggiosi, Ross” – mormorò
lei.
Lui
scosse la testa. “Ma tutti dovremmo sforzarci di rimanere
perlomeno
umani”. E detto questo se ne andò senza salutarla
o darle modo di
rispondere, felice di lasciarsela alle spalle. C’era stato un
tempo
in cui sognava di incontrarla ad ogni angolo di strada mentre ora,
mentre parlava con lei, non sentiva che la necessità di
andarsene
verso chi lo attendeva a casa con un sorriso e affetto. Quella bella
ragazza non era mai stata adatta a lui e forse doveva ringraziare il
nazismo per averglielo fatto capire. Non era rancoroso, Elizabeth
seguiva semplicemente la sua natura volubile e delicata. Ed era
questo il problema: in comune non avevano mai avuto nulla e si
sarebbero resi infelici a vicenda.
Riprese
la sua strada verso casa sentendosi leggero, come se
quell’incontro
avesse spezzato l’ultimo velo che ancora non aveva scoperto
ai suoi
occhi la vacuità che lo aveva legato un tempo alla figura di
Elizabeth. Si sentì libero, incredibilmente sereno, come se
quell’incontro fosse l’ultimo tassello mancante per
consentirgli
di andare finalmente avanti con la sua vita.
Quando
arrivò a Nampara, circondata dagli alberi del bosco al pieno
del
loro splendore estivo, trovò Garrick che dormiva nel portico
perfettamente rassettato. Demelza aveva spazzato tutto, sistemato le
piante e i fiori e non c’era nulla fuori posto.
Dalla
finestra aperta che dava sulla cucina usciva un invitante profumo di
stufato di carne e patate che gli risvegliò
l’appetito. Si sentì
a casa, felice di esserlo e in pace col mondo.
Quando
entrò, trovò Demelza seduta al tavolo davanti ai
fornelli, intenta
ad osservare delle stampe tutte sparse davanti a lei. Indossava la
divisa della gioventù hitleriana, quella sera ci sarebbe
stata una
proiezione nel cinematografo del paese e lei era costretta a
parteciparvi. Le sorrise. “Che stai facendo?”.
Anche
Demelza sorrise, serena. “Mi sono portata avanti, odio fare
le cose
di fretta. Ho messo a cuocere la cena anche se è ancora
presto e ho
già indossato questi dannati vestiti. Mi chiedo che diavolo
avrà da
dirci Goebbels di tanto importante… Con tutti i bei film che
potrebbero trasmettere al cinematografo, è davvero un
delitto che
venga occupato da lui”.
Ross
si sedette accanto a lei, poggiando sul tavolo, accanto alle stampe,
i nuovi registri contabili. Le accarezzò le trecce,
scompigliandole
i capelli con fare affettuoso e scherzoso. “Dovrà
rendervi edotti
di quante volte ieri Hitler sia andato a fare
pipì”.
Demelza
scoppiò a ridere, divertita. “Già,
suppongo che potrebbe trovare
la notizia di estremo interesse per la popolazione. Resta il fatto
che però morirò di noia”.
“Fingi
di ascoltare e pensa ad altro, io facevo così a
scuola”.
La
ragazza rise ancora. “Buona idea!”.
Ross
tornò ad osservare le stampe che Demelza stava spargendo sul
tavolo.
Non che ne capisse molto ma sembrava roba attinente a cinema, attori
eccetera, tutte faccende a lui totalmente sconosciute.
“Cos’è
questa roba?”.
Fiera
di se stessa, felice che glielo avesse chiesto, Demelza si
alzò
dalla sedia indicandogli le stampe una ad una. “Le ho
comprate ieri
dal cartolaio. So che non dovrei spendere denaro per queste cose ma
non ho resistito”.
Lui
osservò le foto. “Sono soldi tuoi che ti guadagni
con fatica, sei
libera di farci ciò che vuoi”.
“Mio
padre non sarebbe d’accordo!”.
“Tuo
padre non è qui e comunque gli verso già parte
del tuo stipendio,
mensilmente. Il resto del denaro è tuo. Chi sarebbero questi
divi?”
– chiese poi, cambiando discorso.
Demelza
prese una stampa raffigurante un uomo e una donna. “Questa
l’ho
presa per Caroline, sono Clarke Gable e Vivien Leigh, i protagonisti
del film che aspetta tanto, Via col vento. E’ follemente
innamorata
di Gable, quasi quanto di Dwight”.
Ross
rise. “Oh, il famoso rivale…”.
Osservò altre stampe, alcune di
Chaplin, grande passione di Demelza. Era il suo, di rivale? Poi lo
sguardo gli cadde su una donna affascinante, dai capelli chiari. Lei
era davvero interessante… “Lei, chi
sarebbe?”.
Demelza
spalancò gli occhi, stupita. “Oh Ross, davvero non
sai chi è?”.
Lui
la guardò storto. “Ti ricordo la mia avversione
per queste
diavolerie moderne…”.
Demelza
sospirò “Già, dimenticavo che sei fermo
all’ottocento… E’
una attrice tedesca, si chiama Marlene Dietrich. E’ quella de
‘L’angelo azzurro’, non ne hai mai
sentito parlare? Un film
così famoso…”.
Ross
si rese conto di avere uno sguardo ebete e di essere effettivamente
fuori dal mondo. Forse troppo…
“Ehm…no!”.
Demelza
sospirò di nuovo. “E’ tedesca, pare che
Hitler ne sia innamorato
e le abbia scritto numerose lettere con offerte amorose a cui lei non
ha risposto”.
Ross
sorrise, sempre più interessante questa Marlene che mandava
in
bianco il tanto osannato Furher. Allora era vero, ce n’erano
tante
di donne che avevano avuto il coraggio di scegliere, dire no e vivere
rimanendo fedeli a loro stesse. Elisabeth diventava una figura sempre
più piccolina… “Oh, questo le
farà guadagnare un posto in
qualche campo di lavoro” – commentò,
sarcastico.
“No,
non credo. Si è trasferita negli Stati Uniti e dubito voglia
tornare
qui. Si dice che sia totalmente contraria all’ideologia
nazista”.
Ross
prese la foto della donna, osservandola con ammirazione.
“Interessante, interessante”.
Demelza
lo osservò assorta e orgogliosa di aver risvegliato in lui
un
qualche tipo di interesse per le sue passioni. Le mostrò
quindi
un’altra stampa, raffigurante una bimbetta paffuta e piena di
boccoli. “Lei invece è Shirley Temple. Piccola ma
famosissima,
negli Stati Uniti la adorano, fa film su film da quando non aveva che
due o tre anni. Per loro è quasi una dea”.
Ross
osservò la graziosa bimbetta vestita di trine e merletti.
Graziosa,
sicuramente con tutte le caratteristiche necessarie per mandare in
visibilio mamme e nonne d’America, ma non condivideva
l’entusiasmo
di Demelza. “Una bambina dovrebbe essere solo una bambina.
Scommetto che preferirebbe passare le giornate a giocare e non sotto
i riflettori. C’è il tempo del lavoro e credo che
non lo sia alla
sua età”. Poi osservò Demelza.
“A proposito…”.
“Cosa?”.
Lui
guardò verso la finestra. “Ho visto il portico,
è più lucido di
uno specchio”.
“L’ho
pulito stamattina”.
Lui
la osservò, preoccupato. “Non dovresti lavorare
troppo e
stancarti, non è necessario tirare a lucido
l’esterno”.
Lei
scosse la testa. “Ma è il mio lavoro!”
– obiettò. “Lo
faccio da sempre”.
Ross
le prese la mano, costringendola ad alzarsi. Si accorse di essere
apprensivo, di preoccuparsi per lei e di volere unicamente il suo
bene. Demelza era ormai troppo preziosa per lui e se la guardava, non
vedeva più la sua domestica ma quanto di più caro
possedesse. Si
trovò a pensare che non avrebbe voluto sentirsi legato
così a
qualcuno, che c’erano mille buone ragioni per non farlo ma al
suo
cuore non poteva comandare e Demelza era entrata dentro di lui troppo
in profondità per poter ignorare i suoi sentimenti.
“Credo di
considerarti ben altro. Non ti vedo affatto come la mia
cameriera”.
Lei
rimase incerta, silenziosa. “Ma… Mi hai
assunta…”.
Le
accarezzò la guancia. “Direi che le cose sono
cambiate, no? Voglio
solo che tu faccia il necessario, non c’è
necessità che Nampara
somigli a un museo”.
“E
cosa dovrei fare tutto il giorno quando non ci sei?”.
Le
sorrise, baciandola sulla fronte. “La signora di questa casa.
Siediti, guardati le tue stampe, porta a spasso Garrick, leggi. Ma
non lavorare troppo duramente, non è necessario”.
“Non
sono affatto la signora di questa casa, Ross”.
La
bloccò, prendendole il viso fra le mani. “Demelza,
ascolta…”.
La
ragazza, col cuore che le martellava in petto, deglutì.
Erano ormai
molto vicini, intimi, eppure percepiva che c’era qualcosa di
diverso fra loro in quel momento, ben più della vicinanza
che
condividevano mentre facevano l’amore.
“Ross…” – mormorò,
incerta.
Lui,
serio come raramente lo aveva visto, la guardò negli occhi.
Non
poteva darle molto se non il suo cuore ed era inutile negarlo o
derubricare il loro rapporto a semplice passione. Demelza era la sua
ragione a tornare a casa di sera, quel qualcosa che ancora gli dava
fiducia nel mondo e negli esseri umani, la donna che condivideva con
lui confidenze, intimità, tenerezza, passione. E nel giro di
poco
era diventata quanto di più caro avesse al mondo.
“Ascolta! Prima
di tornare, in piazza, ho visto Elizabeth per
caso…”. La sentì
irrigidirsi e volle subito tranquillizzarla. “Solo poche
parole,
non vedevo l’ora di andar via perché volevo
tornare da te! L’avevo
davanti e mentre la guardavo sì, notavo che è
ancora bella come
quando me ne ero innamorato ma che mi sbagliavo, lei non
è
affatto adatta a me. Non lo è mai stata! Che vedevo
un’illusione
mentre tu sei la mia realtà adesso”.
“Ross…”.
Demelza tremava, non riusciva a credere a quanto lui stava dicendo.
Cosa intendeva, cosa stava cercando di farle capire?
La
baciò sulle labbra, un bacio lungo, dolce e gentile. Poi
appoggiò
la fronte contro la sua, sospirando. “Demelza, quello che
voglio
dirti è che ti amo, che non sei la mia domestica ma la donna
che
desidero al mio fianco. E non è solo perché
facciamo l’amore
insieme ed ogni volta è fantastico, è che tu mi
completi e sento –
spero – di completare a mia volta te! Se ti ho fatto dei
torti in
passato, perdonami! Non posso prometterti nulla, né che
sarà facile
ma sei parte di me e non voglio rinunciarci. Sei settimane fa mi hai
detto che siamo vivi e che dobbiamo assaporare al meglio ciò
che le
nostre esistenze ci danno e il meglio non è più
solo la passione
che condividiamo a letto ma tutto. Io voglio tutto di te! Sono un
uomo complicato, a volte difficile e con una vita difficile. Ma tu mi
rendi felice e credo non mi sia mai successo davvero”.
Demelza
si sentì senza fiato. Aveva davvero sentito bene? Davvero
lui aveva
usato la parola ‘amore’? Per lei, lei???
“Ross, caro Ross… Io
vivo per te, da sempre. E ti amo forse da prima di capire il
significato di questa parola” – disse, con gli
occhi lucidi. Come
avrebbe anche solo potuto sperare in qualcosa di tanto bello lei, una
piccola stracciona raccolta anni prima forse per pietà da un
giovane
che le era apparso bello ed irraggiungibile?
Lui
le sorrise dolcemente, come percependo il suo stupore e i suoi
pensieri, prima di baciarla di nuovo per riaffermare quanto appena
detto. “Allora siamo d’accordo”.
La
prese per la vita, la sollevò e la mise sul tavolo,
scostando le
stampe degli attori. Poi la baciò ancora, mai sazio di lei,
scompigliandole i capelli con le mani mentre cresceva il desiderio di
amarla.
Lei
rise contro le sue labbra. “Stai scompigliando le mie
bellissime
trecce da brava ragazza ariana. E la mia bella e amatissima
divisa” – sussurrò, sentendo le mani di
lui sotto la sua gonna.
Ross
rise, rideva sempre quando era con lei, sentendosi stranamente
leggero. “Immagino tu sia disperata per questo”.
Lei
per risposta lo baciò.
“Parecchio…” –
sussurrò, ironica.
Ross
si staccò lievemente. “Fra quanto devi andare alla
proiezione?”.
“Fra
tre ore”.
Lui
sorrise. “Abbiamo tutto il tempo per darti qualcosa a cui
pensare
mentre Goebbels parlerà di sciocchezze!”. Era
fantastico, con lei
riusciva a scherzare anche di cose così drammatiche come il
nazismo
e l’impatto sulle loro vite senza provare ansie e paure. Non
era
forse questo l’amore? Amare, essere riamato e condividere
tutto
fino all’anima con la persona che scegli di avere accanto?
Demelza
si trovò d’accordo. “Ottima idea.
Penserò a questo e a quello
che mi aspetterà quando tornerò a
casa”.
Lui
la baciò, lei sapeva diventare così attraente e
seducente quando
erano vicini... Erano stesi su un tavolo e si sentivano lo stesso
assolutamente comodi. “Torna a casa subito, appena finita la
proiezione!”.
Demelza
rise, maliziosa. “Sembri mio padre però, se parli
così”.
Di
tutta risposta lui la baciò con passione, tornando ad
alzarle la
gonna. “No, non sono tuo padre, decisamente no!”.
La
amava, la desiderava e lei amava e desiderava lui. Forse sul letto
sarebbero stati più comodi ma non riuscivano nemmeno a
pensare di
riuscire ad arrivarci.
La
passione, fra due anime gemelle che avevano ormai ben chiaro di
esserlo l’uno per l’altra, esplose. Avevano scelto,
si erano
scelti e avevano avuto il coraggio di farlo! E questo era tutto
quello che contava.
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Capitolo 10 *** Capitolo nove ***
La
piccola Sophie Enys vide la luce il 30 gennaio 1938, in un gelido
giorno d’inverno dove la natura sembrava addormentata sotto
uno
spesso strato di neve bianchissima.
La
gravidanza era stata perfetta a detta del dottore – che era
anche
il padre della piccola – ma questo non aveva impedito a
Caroline di
lamentarsi per le caviglie gonfie, per il mal di schiena, per il
fatto di non poter andare a cavallo e al cinema e per non essere
più
in grado di rotolarsi sul tappeto del salotto assieme al suo carlino
Horace. E poi c’era il cinematografo, una vera tragedia che
Dwight
non avesse voluto farla uscire nelle ultime settimane di gravidanza,
con ghiaccio, neve e pancione… Si era chiesta spesso se
Clarke
Gable l’avrebbe mai perdonata per questa sua
mancanza…
La
bimba, biondissima come la madre, coi suoi stessi lineamenti fini e
con un faccino vivace, venne al mondo strillando come
un’aquila,
tanto che Dwight aveva subito affermato che avrebbe potuto fare la
venditrice del pesce al banco del mercato da grande. Caroline invece
si era chiesta subito per quanto avrebbe potuto tollerare quel
piccolo essere urlante che attentava alle sue orecchie e
all’integrità dei vetri.
Ross
e Demelza erano andati a trovarli, a piedi, due giorni dopo, in una
serata buia, oscura ma quanto meno asciutta.
Il
tratto di bosco che separava Nampara da Killewarren era fitto di
alberi ed appariva buio e pieno di ombre sinistre. Se non avessero
conosciuto, sasso per sasso, albero per albero quella strada,
probabilmente si sarebbero sentiti come Hansel e Grethel mentre
cercavano la via per tornare dai loro genitori. “Forse ci
apparirà
dal nulla una casetta di marzapane” –
mormorò Demelza, tenendo
stretto il pacchetto di cioccolatini che avevano comprato per
Caroline.
Ross
sorrise, strano come spesso pensassero alle stesse identiche cose,
anche alle più stupide. “Sperando non ci sia
dentro una strega da
mettere nel forno”.
Si
guardarono negli occhi e sorrisero.
Da
quell’estate fino a quel momento erano stati mesi intensi e
bellissimi per loro. Nonostante tutto, nonostante il mondo che
diventava sempre più violento e cupo, con amore e passione
erano
riusciti a far crescere la loro storia e a chiudere i problemi fuori
dalla porta di casa. Si amavano intensamente, notte dopo notte, senza
reticenze, imbarazzi, sensi di colpa. Si amavano, si baciavano,
ridevano e vivevano insieme, un uomo e una donna innamorati senza
nulla a dividerli.
Ross
trovava che Demelza fosse cresciuta molto in quei mesi. Alcuni tratti
più infantili del suo carattere erano spariti lasciando al
loro
posto un animo intelligente e malizioso pieno di curiosità
per la
vita ma anche più consapevole delle forze oscure che si
agitavano
attorno a tutti loro. In realtà lo era sempre stata ma ora
pareva
avvertire maggiormente la gravità della situazione che via
via
andava dipanandosi davanti a loro e alla Germania. Demelza rideva
spesso ma a volte, se si metteva ad osservarla di nascosto, la vedeva
assorta, cupa, persa in pensieri che ancora non aveva voluto
condividere con lui. Era preoccupata per la sua sorte di ebreo, era
chiaro, e forse pensava di proteggerlo semplicemente non parlandogli
dei suoi timori. Eppure sembrava anche consapevole del fatto che
presto avrebbero dovuto fare scelte difficili ed affrontare quella
guerra che il mondo sembrava voler fare a chi, come loro, si amava a
dispetto dei dettami sempre più stringenti del nazismo.
Era
dura per entrambi nascondere il loro amore e non poter fare come
tutti, passeggiare mano nella mano, andare al cinematografo o a fare
una gita, baciarsi in una via o mangiare un gelato in piazza insieme.
Certo, nel loro piccolo mondo di Nampara, quando chiudevano la porta,
erano felici, ma fin quanto tutto questo poteva durare? Fin quando
sarebbe bastato accontentarsi di quegli scampoli di tempo rubati di
nascosto al mondo? E soprattutto, sarebbe arrivato il giorno in cui
Demelza si sarebbe stancata di vivere un amore unicamente
clandestino?
Questo
e mille altri tarli si mangiavano l’animo di Ross,
così come
quello di Demelza era attanagliato dalla preoccupazione per il suo
uomo.
Ross
la prese per mano. Di notte, nel bosco, in pieno inverno, nessuno li
avrebbe visti.
Demelza
parve sorpresa ma poi rispose alla stretta con forza.
E
in silenzio raggiunsero la grande casa degli Enys, antica, austera ed
elegante, circondata dai silenzi del bosco, comoda per vicinanza al
borgo di Annaberg-Buchholz ma abbastanza lontana per vivere appartata
la sua placida esistenza senza intromissioni esterne.
Fu
Dwight ad accoglierli. Il giovane medico dai lineamenti e dai modi
gentili li accolse indossando una calda camicia da camera bianca e
pantaloni verdi. Era raggiante e Ross gli strinse subito la mano.
“Ti
credevo più provato!” –
commentò, scherzando.
Lui
rise. “Sì, c’è stato un
momento dove ero certo di soffrire più
di Caroline ma me ne sono ben guardato dal dirglielo!”.
“E
hai avuto salva la vita” – rispose Ross con
sarcasmo.
Ross
e Demelza risero e dopo aver ricevuto le loro congratulazioni,
l’uomo
li fece entrare e li condusse nel grande salone riscaldato da uno
scoppiettante camino.
Caroline,
vestita con un morbido abito azzurro, li aspettava sul divano assieme
ad Horace. Davanti a lei, sul tavolino, c’erano un vassoio
con dei
pasticcini e una bottiglia di vino bianco. Di fianco al divano, una
culla.
Demelza
corse ad abbracciare l’amica. Caroline sembrava il ritratto
della
salute e il viso reso più pieno dalla gravidanza la rendeva
ancora
più bella. Sembrava già tornata in perfetta forma
e solo un accenno
di pancia indicava che aveva partorito da poco. Poi andò a
vedere la
bimba, placidamente addormentata. “Oh Caroline, è
davvero
perfetta!”.
L’amica
alzò le spalle. “Perfettamente rompiscatole!
Dovessi sentirla la
notte quando strilla perché ha fame e pretende di ricevere
attenzioni immediate fregandosene del bisogno di dormire della
sottoscritta!”.
Demelza
rise. “Beh, i neonati son così, non lo fanno
apposta! Mia madre
morì che ero piccola e ho cresciuto i miei sei fratelli
tutta da
sola, ne so qualcosa”.
Caroline,
dopo quelle parole, guardò Dwight. “Tesoro, dimmi
che possiamo
rubarla a Ross e assumerla come bambinaia, ti prego!”.
Ross
rise. “Scordatelo! Nampara necessita di Demelza ben
più di te”.
Lo disse scherzando ma in cuor suo non poté non chiedersi se
per la
sua amata non sarebbe stata una soluzione migliore e più
tutelante.
Ma ricacciò indietro quel pensiero quasi
doloroso…
“Sì
sì certo, Nampara…” –
mormorò maliziosamente Caroline, sotto
voce.
I
quattro si sedettero attorno al tavolo parlando di bambini, parti, di
cinema, di cani, di tutto e niente, ridendo e scherzando come non
facevano da tanto.
Quando
la piccola Sophie si svegliò, fu Demelza a correre per
prenderla in
braccio. Non vedeva l’ora di spupazzarsela a
dovere…
Ross
la osservò in silenzio. Santo cielo, come aveva potuto
considerarla
tanto a lungo una ragazzina? Era una donna bella, giovane, piena di
vita, appassionata ma anche tenera. E con quella bimba fra le braccia
non poteva non immaginare, sognare una vita al suo fianco non solo
come amanti clandestini ma come una futura famiglia… Faceva
male
anche quel pensiero perché quel sogno accarezzato forse per
la prima
volta, sarebbe stato irrealizzabile fino a che Hitler e il nazismo
avessero dettato legge.
Demelza
intercettò il suo sguardo a cui rispose, quasi leggendogli
nel
pensiero, con un sorriso, mentre cullava la bambina.
Anche
Caroline intercettò lo sguardo fra i due, sorridendo
nuovamente
maliziosa. “Sophie è come me, capricciosa e
desiderosa di una
amica del cuore! Sinceramente non voglio per casa una marmocchia
ariana che corre per i corridoi cantando canzoni naziste come i
pargoletti-Goebbels, io voglio che abbia una amica VERA e soprattutto
intelligente! Quindi, Demelza e Ross, impegnatevi e fornitegliene
una!”.
Ross
e Demelza sussultarono mentre Dwight la fissò ad occhi
spalancati.
“CA-RO-LI-NE!!!”.
Lei
guardò il marito con noncuranza e finta innocenza.
“Avanti,
smettiamola di nascondere l’elefante che passeggia nella
stanza!”.
Dwight
accentuò lo sguardo di rimprovero ma Caroline finse di
ignorarlo,
rivolgendosi ai due amici. “Sappiamo… O meglio,
abbiamo capito
tutto già da un po’ io e il dottor Enys! Ci
chiedevamo quando
avreste voluto dircelo!”.
Ross
si irrigidì. “Dirvi cosa?”.
“Di
voi!” – ripose la donna, con tono calmo.
“Credo sia parecchio
che ormai, chiusa la porta di casa vostra, non siate più
padrone e
domestica. Giusto?”.
Demelza
arrossì e Ross rimase in silenzio, presi decisamente alla
sprovvista. E ora? Da cosa avevano capito tutto?
Fu
Dwight a toglierli dall’imbarazzo, deciso a fare una bella
ramanzina a Caroline una volta rimasti soli. Sia lui che sua moglie
conoscevano fin troppo bene Ross e Demelza per non accorgersi dei
cambiamenti nel loro rapporto ma per mesi avevano taciuto,
rispettando e comprendendo la scelta dei due di tenere nascosta la
loro relazione. E ora che diavolo prendeva a Caroline?
“Tesoro, non
sono fatti nostri”. Poi, con un sospiro, guardò
Ross negli occhi.
“Scusa, mia moglie non voleva essere inopportuna ed invadere
la
vostra privacy”.
Caroline
balzò in piedi. “Sì che volevo! Che
amici saremmo se non fossimo
sinceri? Avanti, lo sappiamo che siete una coppia, credevate che non
l’avessimo capito? Che non avessimo captato gli sguardi
furtivi fra
di voi in nostra presenza? Credevate che non vi avremmo
appoggiato?”.
Demelza
prese un lungo respiro, a spiegarsi era da sempre migliore di Ross.
“Ovviamente contiamo da sempre sul vostro supporto,
ma…”.
Ross
la interruppe, era giusto che fosse lui a spiegare le cose, era il
più grande e si sentiva il più responsabile di
quella situazione.
“Avete ragione, dall’estate scorsa molte cose sono
cambiate fra
me e Demelza e non volevamo certo tenervene all’oscuro per
mancanza
di fiducia. Volevamo solo proteggervi, sappiamo bene cosa succede a
chi non denuncia un legame fra un ebreo e una ariana. Volevamo solo
che foste al sicuro, assieme alla vostra bambina in arrivo”.
Dwight
sorrise, poggiando amichevolmente una mano sulla sua spalla.
“Lo
sappiamo Ross e vi supportiamo in ogni cosa! E siamo felici per
voi”.
Caroline
abbracciò Demelza, che teneva in braccio sua figlia.
“Già,
felici! Era da così tanto che volevo dirtelo mia
cara”. Poi
avvicinò le labbra alle sue orecchie, sussurrando sotto
voce. “Poi,
un giorno che saremo da sole, mi racconterai di
com’è Ross sotto
le lenzuola. Mi ha sempre dato l’idea di uno che sa come
prendere
una donna. O sbaglio?”.
Demelza
divenne rossa come un peperone, comprendendo assolutamente bene a
cosa alludesse la sua amica.
Non
rispose e Caroline le strizzò l’occhio.
“Sono felice per te e
per voi, siete una bella coppia insieme”.
Ross
si sentiva commosso per la felicità degli amici ma il suo
animo non
poteva non tormentarsi per loro, oltre che per Demelza.
“Ragazzi,
saperlo vi pone di fronte a dei rischi. State attenti, non dite
nulla”.
Caroline
alzò le spalle. “Siamo stati zitti per mesi e
continueremo a
farlo, non essere ansioso”.
Dwight
rimase in silenzio, assorto. Conosceva Ross, era il suo migliore
amico da molto e condivideva le sue preoccupazioni. Lui stesso,
benché ariano e gradito al partito, era angustiato per la
situazione
del paese e per l’impatto che questo avrebbe avuto su sua
moglie e
sua figlia e non poteva non comprendere i timori di Ross che si
trovava in una situazione ancora più pericolosa per lui ma
soprattutto per Demelza. Sapeva quanto si sentisse responsabile verso
di lei, come da sempre fosse stato protettivo e ora il legame fra
loro non poteva che aver acuito questi sentimenti.
I
due uomini, mentre le ragazze si occupavano di Sophie che si era
messa a piangere e necessitava di essere cambiata, si avvicinarono
alla grande finestra che dava sul giardino.
Ross
abbassò lo sguardo, fissando l’oscurità
che regnava fuori da
Killawarren. “Dwight, ti chiedo un favore enorme e tu e
Caroline
siete gli unici di cui mi fidi davvero”.
Dwight
annuì, forse presagendo cosa Ross volesse da lui.
“Non
preoccuparti, qualunque cosa accada, io e Caroline ci saremo sempre
per Demelza”.
Ross
per un attimo parve sorpreso ma poi sorrise. Lui e Dwight erano come
fratelli e forse era normale leggersi nella mente e capirsi. Entrambi
amavano due donne, entrambi vivevano in un’epoca storica
difficile
ed entrambi comprendevano quanto incerto fosse il destino davanti a
tutti loro. “Non sappiamo cosa ci aspetta domani e se
dipendesse da
me fermerei il tempo a questa serata perfetta, alle nostre risate,
confidenze, alla gioia per la nascita di Sophie, alla reciproca
compagnia. Ma il tempo non si può fermare e gli eventi
corrono
veloci. Se tutto diventasse difficile, se per necessità
dovessi
dovermi separare da Demelza vi prego, prendetela con voi. La battuta
di Caroline di poco fa, di farne la bambinaia di Sophie, forse non
è
così folle. Da voi sarebbe più al sicuro che con
me”.
Dwight
si morse il labbro, avrebbe voluto dirgli che non ce ne sarebbe stato
bisogno ma entrambi avrebbero saputo che era una illogica illusione,
una bugia. “Te lo prometto. E che Hitler e il nazismo ce la
mandino
buona”.
“Ho
dei forti dubbi, Dwight”.
“Anche
io! Ma stasera dobbiamo festeggiare, godercela come dici tu! Gioire
delle amicizie vere e della vita che trionfa nonostante le brutture
del mondo”. Alzò il calice di vino. “A
noi, perché un giorno,
fra un mese, un anno, dieci anni o chissà, ci si possa
trovare di
nuovo insieme in questa stanza a brindare senza paure, problemi,
senza Hitler e in un mondo di pace fatto da uomini liberi e uguali
gli uni davanti agli altri”.
Ross
fece tintinnare il bicchiere contro quello dell’amico,
pregando che
quel desiderio potesse avverarsi davvero quanto prima. “A noi
e a
tutto ciò che c’è di buono,
perché succeda
presto
e se non è presto... prima o poi”.
...
Ross
e Demelza lasciarono la casa degli Enys quando mancava poco a
mezzanotte. Avrebbero voluto lasciar tranquilli i neo-genitori ben
prima, ma Caroline aveva insistito affinché rimanessero
ancora un
po’, adducendo che sentiva la necessità di sana
vita sociale dopo
giorni in cui si era sentita una mucca circondata da pannolini.
I
due si misero in cammino verso Nampara sotto una fitta nevicata,
stringendosi nei mantelli, in rigoroso silenzio. E se il non essere
particolarmente loquace era una delle caratteristiche predominanti
del carattere di Ross, lo stesso non si poteva dire per lo spirito
vivace e allegro di Demelza.
La
ragazza camminava assorta, seria, osservando distrattamente il
sentiero davanti a loro.
Ross
la osservò attentamente, sembrava improvvisamente triste e
non ne
capiva il motivo dopo una serata tanto piacevole. Certo, anche lui
aveva molti pensieri per la testa ma la chiacchierata con Dwight e la
sua disponibilità ad aiutare Demelza nel caso ce ne fosse
stato
bisogno, lo aveva alleggerito di un pesante fardello. “Cosa
c’è?”
– chiese alla ragazza, preoccupato per quello strano mutismo.
Demelza
scosse impercettibilmente la testa. “Nulla”.
Ross
le si affiancò, Demelza aveva un passo incredibilmente
svelto quella
sera. “Ti conosco e direi proprio che
c’è QUALCOSA”.
La
giovane si fermò, alzando gli occhi al cielo per osservare i
candidi
fiocchi di neve gelata che le cadevano sul viso.
“Pensavo…”.
“A
cosa?”.
Lei
sorrise, tristemente. “Da piccola adoravo la neve, mi
sembrava una
creatura magica che arrivava sul mondo per pulire tutto lo sporco a
terra per poi riempire ogni cosa di magia. Mi piace ancora ma non
riesco più a pensare che sia magica”.
Ross
alzò le spalle. “Beh, pulisce
l’aria”.
“Ma
non le nostre vite, Ross” - commentò, amaramente.
L’uomo
sussultò davanti a quella apparente battuta che
però nascondeva
tutta la tragedia della loro vita e della Germania in quel momento.
“No, non le nostre vite purtroppo”.
Demelza
si voltò a fronteggiarlo. “Sai, guardavo Dwight e
Caroline con
Sophie, prima. E non potevo non pensare che dopo tutto loro hanno una
speranza e uno scopo. Crescere, prosperare come famiglia, vivere
ciò
che va vissuto alla luce del sole. Nonostante Hitler, nonostante il
nazismo…”.
Ross
scosse la testa, ricordandosi di una piccola confidenza fattagli da
Dwight poco prima, sotto voce per non essere udito da Caroline.
“Non
è così nemmeno per loro, Demelza. Questo non
è un buon momento per
nessuno per mettere al mondo bambini. Anche chi si crede al sicuro,
non lo è davvero”.
Demelza
sussultò. “Beh, ma c’è chi ha
comunque qualcosa più di noi,
più di me e te che dobbiamo nasconderci nell’ombra
nonostante non
stiamo facendo nulla di male”.
Ross
sentì un brivido lungo la schiena.
“Stai… stai cercando di dirmi
che sei stanca di me, di noi e di…”.
Demelza
lo bloccò. “No, nulla del genere”
– disse con urgenza – “Sto
solo dicendo, sto solo chiedendomi… Vedremo mai la luce in
fondo a
questo tunnel? Potremo vivere come tutti gli altri un
giorno?”. I
suoi occhi si riempirono di lacrime. “Ross, io vivo per te e
posso
sopportare tutto. E lo farò sempre, ma… Ma poco
fa, osservando
Caroline e Dwight con la loro bimba… mi sono chiesta se un
giorno
potremo vivere anche noi qualcosa di simile senza paura, senza
nasconderci, con gioia. Non ho potuto non chiedermi che ne
sarà di
noi se le cose non cambieranno”.
Ross
alzò la mano per accarezzargli la guancia ed asciugarla
dalle
lacrime. Ecco cosa temeva, ecco perché non voleva legarsi a
lei.
L’aveva trascinata in un mondo di incertezze e insicurezze,
non
poteva darle un futuro, garantirle nulla! “Ora lo capisci
perché
inizialmente ti volevo tenere lontana, senza legami con me? Non
volevo che vivessi questo, non volevo che tu soffrissi! Non volevo
privarti di quella gioia che ora vivono Caroline e Dwight e che al
momento può darti chiunque altro eccetto me”.
Demelza
si sentì in colpa per quello sfogo e per aver caricato Ross
delle
sue paure e ansie. “Ma io non voglio nessun altro che non sia
tu.
Vorrei solo essere certa che ci sarà una fine a tutto questo
e che
il mondo tornerà ad essere un luogo di pace fatto da uomini
liberi,
uguali e che non devono nascondersi”.
Ross
le sorrise. “Certo che tutto questo finirà, DEVE
finire in un modo
o nell’altro. Ho paura quando penso a come si
risolverà la cosa ma
so che qualunque strada intraprenderà il mondo,
sarà purtroppo
necessaria anche se non indolore. Dobbiamo solo avere pazienza e
vivere giorno per giorno in attesa di avere anche noi, io e te, un
futuro. Nemmeno io voglio rinunciare a te e nemmeno io voglio una
donna che non sia tu al mio fianco. E sarà sempre
così”.
Demelza
tirò su col naso. “E’ che ho
così delle brutte sensazioni”.
Ross
guardò il cielo. Anche lui, dalla notte di capodanno di quel
1938,
aveva brutte sensazioni. In realtà gennaio era passato
relativamente
calmo ma sentiva che nell’aria c’era qualcosa di
sinistro pronto
ad abbattersi su tutti loro. La abbracciò, forte.
“Andrà tutto
bene, amore mio. Non so dirti quando ma sarà
così”.
“E
allora Ross, tienimi forte a te”.
La
baciò sulla nuca. "Non posso fare che questo, per ora".
Poi la baciò sulle labbra, per la prima volta fuori da casa
loro,
dalle sicure mura di Nampara.
Demelza
rispose a quel bacio dolce in modo un pò nervoso,
guardandolo poi
negli occhi. "Siamo all'aperto, Ross! E se qualcuno ci
vedesse?".
Lui
scosse la testa, per una volta deciso a far prevalere l'aspetto
più
selvaggio del suo carattere. "Non c'è in giro nessuno, siamo
in
un bosco, di notte, sotto la neve. Tutto questo appartiene a noi e
nessun altro in questo momento e se qualcuno passasse di
quì... che
vada al diavolo e si faccia i fatti suoi". Lo disse con furore,
baciandola nuovamente. "Non stiamo facendo nulla di male, hai
ragione tu" - sussurrò contro le sue labbra. Poi le sorrise.
"Ti prometto che arriverà un giorno in cui usciremo insieme
mano nella mano fra la gente senza paura, il giorno in cui vivremo
come Caroline e Dwight e potremo rivendicare al mondo il nostro
diritto di essere una coppia e una famiglia. Ti giuro anche che il
nazismo finirà e che da quel giorno ti porterò
spesso, almeno una
volta al mese, al cinematografo!".
Demelza
inclinò il capo, sorridendo. Era sincero, non stava
promettendo
qualcosa solo per tranquillizzarla, Ross pareva crederci davvero e
questo faceva sentire la sua anima più leggera. "Non fare
promesse che non puoi mantenere" - lo rimbeccò.
"Parli
del nazismo e della sua fine?".
Lei
rise. "Parlo del fatto che verrai al cinematografo una volta al
mese! Lo odi, come odi tutte le cose moderne! Fosse per te, la gente
si sposterebbe ancora a cavallo".
"Che
sarebbe un bel modo per vivere" - osservò lui, perfettamente
convinto di quel che asseriva.
Poi
la abbracciò, coprendola con il suo mantello. "Torniamo a
casa
adesso, fa freddo".
Lei
annuì, facendosi avvolgere dalle sue braccia.
Camminarono
nelle neve candida, con quel vago senso di inquietudine per delle
sensazioni a cui non sapevano ancora dar nome, che non se ne voleva
andare.
Perché
lo sapevano, la storia stava facendo il suo corso e Ross e Demelza,
assieme alla Germania, si stavano avviando verso un pericoloso punto
di non ritorno.
Fra
l'11 e il 13 marzo le truppe tedesche avrebbero invaso l'Austria,
annettendola al Reich. Una invasione tutto sommato pacifica, a cui
seguirà l'annessione, a settembre, della regione
cecoslovacca dei
Sudeti. Il tutto mentre, qua e la nella nazione e nel totale
silenzio, nascevano i primi 'campi
da lavoro'.
Ma
quel che Ross e Demelza non potevano immaginare, sarebbe avvenuto a
novembre, dieci mesi dopo. E da quel momento in poi il buio sarebbe
piombato sulle loro vite e ci avrebbe messo tantissimo tempo a
diradarsi.
Le
leggi razziali che attanagliavano la vita degli ebrei erano
già di
per se terribili ma la Notte dei Cristalli sarebbe piombata su tutti
loro con la sua furia, distruggendo quel poco di speranze che erano
rimaste. Le vite di molte persone sarebbero andate in frantumi,
esattamente come le vetrate dei negozi e delle case degli ebrei che
quella notte sarebbero finite in un incubo senza ritorno.
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