ALJURUH ALMAKSURA

di Duevite
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Quando, quella mattina, la mia sveglia suonò mi sentii pervasa da un numero alto di strane emozioni.
Era l’ultimo giorno del mio ultimo tirocinio in ospedale, dopodiché avrei dovuto solo scrivere la tesi e fare l’esame per l’abilitazione alla professione di ostetrica.
Avevo passato gli ultimi tre anni ad ammazzarmi, tra lezioni, esami e tirocini e adesso che ero arrivata alla fine non sapevo bene che emozioni provare.
Mi alzai velocemente dal letto, volevo arrivare il prima possibile per potermi godere la giornata dall’inizio fino alla fine.
Andai in cucina, diedi un saluto veloce al mio cane e presi una grossa tazza di caffè bollente.
Dopo circa un’ora ero fuori casa che mi dirigevo verso la macchina.
Mi sembrava così strano percorrere quella strada per l’ultima volta da tirocinante.
Non avevo idea di dove sarei andata a finire una volta laureata, in quale ospedale, di quale città, di chissà quale regione e ancora di più per quanto tempo.
Speravo con tutta me stessa di riuscire ad andarmene da lì per un lungo periodo, avevo voglia di viaggiare, avevo voglia di vivere in un altro posto, di conoscere, di aiutare, ero particolarmente curiosa e speranzosa di fare nuove esperienze e conoscenze.
Arrivai in ospedale felice e spensierata, una felicità strana da spiegare.
Le mie colleghe mi accolsero con un vassoio pieno di pasticcini e tanti sorrisi smaglianti, ma il mio turno iniziò in maniera del tutto inaspettata, con un bel parto cesareo d’urgenza.
Erano le 12.30 quando la mia responsabile si avvicinò a me e mi obbligò letteralmente a fare una pausa.
Io non volevo, era il mio ultimo giorno e per un po’ non sarei tornata in ospedale, ma anche io necessitavo di mangiare quindi accettai mio malgrado e mi diressi verso il bar al piano terra.
“Buongiorno carissima, cosa ti do oggi?” mi chiese Roberta, la signora del bar.
Io guardai la vetrina dei salati, non c’era niente che mi stuzzicasse, mi girai verso i dolci e mi convinsi a prendere un po’ di crostata alla marmellata.
“Robi, dammi un po’ di crostata e poi un bel caffè caldo che ne ho proprio bisogno.”
“Va bene tesoro.”
“Ah! Puoi darmi anche una bottiglia d’acqua, per favore?”
Ci sorridemmo a vicenda e lei si apprestò a prepararmi l’ordine.
Io aspettai vicino il bancone guardandomi intorno.
“Mi scusi?” Sentii alle mie spalle.
Mi voltai e mi ritrovai davanti un ragazzo alto, molto alto, con i capelli ricci lunghi, la pelle leggermente scura e un sorriso smagliante stampato in volto.
“Sì?” Dissi io quasi insospettita.
“Lei è una dottoressa?” Mi chiese continuando a sorridere.
“Sono una tirocinante, ha bisogno di qualcuno in particolare?”
“Oh, mi scusi, non sono di qui e non so dove devo andare. Devo fare una visita d’urgenza.”
“Ha dolori muscolari o dolori ossei?” Chiesi io mentre Roberta mi porgeva le cose che le avevo chiesto.
Lui sorrise ancora di più e si avvicinò a me leggermente.
“No, avevo un concerto ieri sera e mi sono penso slogato la caviglia.”
Parlò leggermente a bassa voce, non capivo chi fosse ma non riuscivo a togliere gli occhi da quel suo sorriso.
“Deve andare al secondo piano a sinistra, l’ascensore è in fondo a questo corridoio.”
“La ringrazio molto, dottoressa?”
“Non sono ancora dottoressa.” Replicai io arrossendo.
“Posso almeno sapere il tuo nome?” Mi chiese lui porgendomi la mano.
“Mi chiamo Gabrielle.”
“Molto piacere Gabrielle.” Mi diede un bacio sul palmo della mano che gli avevo porso.
“Io sono Ahmed.”
Si girò e andò via.
Io guardai Roberta quasi incredula.
Non capivo se mi fossi sognata tutto o se era successo davvero.
“L’hai visto anche tu, vero?” Le chiesi guardando quel ragazzo altissimo diventare sempre più piccolo in lontananza.
Lei annuì ridendo appena.
“Ti sei innamorata per caso?” Mi chiese quasi incredula.
“Sarebbe un miracolo.” Replicai io prendendo la crostata, il caffè e l’acqua e mettendomi a sedere ad un tavolino.
Il mio turno finì intorno alle 18, timbrai per l’ultima volta il mio cartellino, salutai tutte le mie colleghe che mi avevano preparato un sacco di sorprese e finalmente uscii dall’ospedale.
Era Settembre inoltrato, il tepore della giornata si stava facendo sempre più lieve tra il fresco di fine estate.
Io scesi gli scalini dell’entrata principale e fissai lo sguardo sul cielo rosa.
Sorrisi istintivamente mentre tirai fuori il telefono per fare una foto a quello spettacolo.
Mi sentii improvvisamente toccare la spalla.
Mi voltai e trovai di nuovo gli occhi scuri del ragazzo misterioso.
“Ti ho aspettata.” Mi disse rivolgendomi nuovamente un sorriso smagliante.
“C-Come?” Dissi io perdendomi nei suoi lineamenti.
“Hai voglia di fare un giro con me?”
“Ma hai detto che non sei di qui.”
“Sì, ma per fare un giro non serve essere di qui.”
“Come sta la caviglia?” Chiesi io prima di accettare.
“Sta bene, in realtà non ho niente, sono semplicemente sbadato.”
Io socchiusi leggermente gli occhi, potevo fidarmi?
“Se vuoi ti faccio vedere la cartella.” Mi disse ridendo appena.
“No, mi fido dai.” Guardai l’ora, guardai il cielo e infine guardai i miei vestiti o, meglio, la mia divisa.
“Io sono vestita così.” Gli dissi guardandolo un po’ in imbarazzo.
“Meglio!” Affermò lui fissando gli occhi nei miei.
“Dai, andiamo.” Mi porse la mano, le dita affusolate e curate.
Misi la mia mano nella sua e, senza dire una parola, accettai la sua proposta.
Ci ritrovammo in poco tempo nel centro di Firenze.
Avevamo parlato a lungo delle nostre vite.
Lui era un cantante famoso, a quanto pareva io conoscevo tutte le sue canzoni senza saperlo.
“Quindi, come mai hai deciso di fare l’ostetrica?” Mi chiese lui mentre passeggiavamo lungo l’Arno.
“Perché voglio aiutare le persone, io non posso avere figli; quindi, voglio aiutare le persone ad averli.” Non lo avevo mai detto ad alta voce.
Improvvisamente mi resi conto dell’enorme informazione che gli avevo appena dato.
Mi bloccai e mi misi una mano davanti la bocca.
“Oddio! Scusami, non volevo essere così sincera.”
Lui mi regalò un sorriso stupendo e rassicurante.
“Stai scherzando, vero? Non c’è niente di più bello della sincerità.
“Sì, ma forse non volevi sapere che non posso avere figli.”
“E perché non dovrei volerlo sapere?”
Mi zittii, non sapevo cosa rispondergli.
“Abbiamo scoperto che vuoi aiutare le persone e sappiamo che hai finito il tirocinio, quindi ora che farai?”
Era particolarmente bravo a non creare silenzi imbarazzanti e ad ascoltare le persone.
“Adesso devo scrivere la tesi, e poi voglio andare in Africa.”
Lui si girò verso di me incredulo.
“Davvero? Dove vuoi andare?”
“Non ho preferenze, dove serve il mio aiuto andrà più che bene.”
“Cavolo! Non sei per niente una persona banale, lo sai?”
Io sorrisi intimidita.
“Ci ho lavorato molto.”
“Si vede infatti.”
Mi guardò a fondo.
“Tu non sei fidanzata, vero?” Mi chiese dopo qualche istante.
Io scossi la testa sorridendo amaramente.
“No, non è una mia priorità nella vita.”
Lui annuì.
“Capisco di cosa parli.”
Guardai l’orologio di nuovo.
“Penso di dover tornare a casa adesso.”
“Sono solo le nove.”
“Sì, ma io sono fuori dalle sei di stamattina, inizio ad essere un po’ stanca.”
“Oh andiamo, domani finalmente giorno libero! Vuoi venire al mio concerto a Milano?”
Me lo chiese come se Milano fosse dietro l’angolo.
Io risi appena.
“Vorrei molto, ma ho altri piani.”
“Chissà se ti vedrò ancora.” Rispose lui un po’ malinconico.
“Chissà, davvero.” Risposi io.
Si avvicinò appena a me, io non indietreggiai e lui si avvicinò ancora.
“Cosa ti hanno fatto, per avere così tanta paura dei ragazzi?”
Mi toccò una ciocca di capelli guardandomi dalla sua altezza.
“Non me lo ricordo nemmeno più.” Risposi io guardando le sue mani e poi posando gli occhi sulle sue labbra.
“Sei davvero bella.”
Mi toccò il mento e tirò su il mio viso.
Fissò i suoi occhi neri.
Speravo mi baciasse il prima possibile.
Sembrò quasi capire ciò che stavo provando.
Si avvicinò ancora e si abbassò su di me.
“Non mi succedeva da tanto, ma penso di aver davvero perso la testa.”
Mi disse prima di posare le sue labbra sulle mie.
Mi baciò come se aspettasse quel momento da tantissimo tempo.
Mi strinse forte a sé, la sua mano affusolata si infilò tra i miei capelli.
Sentii il calore della sua bocca nella mia.
Le mie guance iniziarono a diventare più calde.
Misi le mie mani sui suoi fianchi, anche perché non arrivavo oltre.
Strinsi la sua maglietta tra le mie mani.
Lui continuò a baciarmi.
Non voleva staccarsi e io non volevo che si staccasse.
Ma improvvisamente lo fece, mio enorme malgrado.
Si morse il labbro inferiore.
“Non hai idea di quanto sia pericolosa questa cosa.”

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Erano passati due anni da quello strano incontro.
Non vidi più Ahmed da nessuna parte.
O almeno, non fisicamente.
Ma lo seguivo in tutte le sue avventure.
Era diventato molto famoso, si era fatto conoscere parecchio.
Ne ero molto felice, anche se la cosa un po’ mi rattristava.
Io avevo realizzato il mio sogno.
Lavoravo per una Onlus italiana che operava in Africa.
Svolgevo cicli di sei mesi; dunque, lavoravo sei mesi in Italia e sei mesi in Africa.
Quando dovevo lavorare in Italia ero stata inserita nella sede di Milano in cui continuavo ad occuparmi di donne immigrate in gravidanza.
Stavo vivendo il mio sogno, e pensare che ci avevo messo così tanto per raggiungerlo mi sembrava impossibile.
Ero appena atterrata a Milano.
Mi diressi verso il carrello delle valigie aspettando di intravedere le mie.
Appena vidi la mia valigia rossa mi precipitai per prenderla, allungai la mano ma vidi delle dita lunghe con delle unghie smaltate rosse chilometriche afferrare il manico della valigia prima di me.
Spostai lo sguardo e vidi una donna molto slanciata, magra e bianca pallida fissarmi.
“Mi scusi…” le dissi timidamente.
“Quella sarebbe la mia valigia.”
Lei mi rise in faccia in maniera molto irruenta.
“Ti piacerebbe, vero?”
Ci rimasi molto male.
“No guardi, credo ci sia un errore. Quella è davvero la mia valigia, vede?”
Le feci notare la targhetta della mia Onlus attaccata al manico della valigia.
Lei abbassò lo sguardo, puntò di nuovo i suoi occhi nei miei e mi lanciò la valigia addosso.
A quel punto la mia gentilezza venne un po’ meno.
“Mi scusi, non capisco perché debba lanciarmi la valigia addosso. Non mi sembra di essere stata scortese nei suoi confronti.”
“Ciccia! Vedi di non iniziare, non è giornata!”
“Signora, mi scusi ma come non lo è per lei potrebbe anche non esserlo per me.
Questo non la autorizza minimamente a comportarsi in questo modo.”
“Ma non ti permettere di rispondermi in questo modo!”
Replicò lei, improvvisamente si agitò da morire tanto da avvicinarsi a me in modo brusco.
Io indietreggiai leggermente.
“Ehi, ehi, ehi! Angelica! Cosa stai…?”
Spalancai gli occhi quando vidi Ahmed arrivare velocemente sulla ragazza e mettersi in mezzo.
Era bellissimo, esattamente come quando lo incontrai la prima volta.
Era sempre altissimo, questa volta aveva i dreads lunghi fino alle spalle, la pelle leggermente più scura, probabilmente aveva preso il sole, indossava una tuta nera che faceva risaltare i suoi lineamenti.
“Gabrielle!”
Disse mentre le sue labbra si piegavano in un sorriso bellissimo.
“Ciao!”
Dissi io confusa.
Sapevo che viveva a Milano, ma quante probabilità ci potevano essere di incontrarlo all’aeroporto proprio dopo i miei sei mesi in Africa?
“Come stai?” Si avvicinò a me e mi abbracciò.
Io, letteralmente, sparii tra le sue braccia.
“Scusa?!” La ragazza strillò alle sue spalle.
Lui sciolse quell’abbraccio e si girò.
“Cosa c’è?” Le disse un po’ sconsolato.
“Guarda che questa mi stava urlando addosso!”
Io rimasi in totale silenzio, ancora pietrificata dal fatto di averlo davanti ai miei occhi.
“Angelica, sono dieci minuti che ti guardo. Nessuno ti ha urlato addosso, credo sia proprio il contrario.”
Allungai la mano per poter prendere la mia valigia che era tra i due.
Una volta presa mi allontanai lentamente mentre loro continuavano a discutere sempre più animatamente.
Nemmeno si accorsero che io ero andata via.
La cosa mi fece molto ridere.
Presi il telefono in mano, andai su instagram e lo cercai.
Non c’era nessuna Angelica sul suo profilo.
Non avevo idea che fosse fidanzato.
Non doveva importarmi nulla, certo, però ci rimasi un po’ male.
Forse nella mia testa immaginavo di essere io la sua fidanzata segreta.
Tirai fuori anche le cuffie e le infilai nelle orecchie.
Aprii spotify e misi la playlist con tutte le sue canzoni preferite.
Sentire la sua voce che cantava mi faceva sentire così bene.
Presi poi la mia tessera per la metro e mi avviai per tornare a casa mia.
Sinceramente, quando tornavo in Italia dopo i miei sei mesi in Africa avevo sempre una gran voglia di andare a casa dei miei genitori, ma era sempre molto difficile.
Però ci sarei tornata quel fine settimana stesso e la cosa mi rendeva molto felice.
Allungai i miei passi per raggiungere velocemente la metro.
In poco tempo mi ritrovai sulla linea da percorrere per raggiungere quello che sarebbe stato il mio appartamento per quei sei mesi in Italia.
La mia casa era molto piccola.
Si trattava di un bilocale in centro a Milano, era formato da un open space con una piccola cucina e un salotto, la mia camera da letto e un bagno.
Era tutto sui toni del bianco e del beige.
Le vetrate molto grandi e luminose.
Avevo anche un piccolo terrazzino sul salotto.
Per prima cosa aprii un po’ la finestra del terrazzo per far entrare aria in casa e poi svuotai la mia valigia dai vestiti.
Mi feci una doccia molto veloce e mi misi una tuta comoda.
Ovviamente dovevo andare a fare una spesa molto veloce.
Scesi e mi diressi a piedi in un supermercato aperto 24 ore su 24.
Entrata lì comprai molta frutta e molta verdura, qualche yogurt e un po’ di tisane.
Mi recai alla cassa e pagai velocemente.
Quando rientrai in casa mi sentii finalmente tranquilla.
Una tranquillità che provavo spesso negli ultimi mesi, ma quella sera lo ero ancora di più.
La settimana passò molto velocemente.
Era il secondo ciclo di sei mesi che passavo in Italia, mi trovavo molto bene con tutti i colleghi, la zona in cui lavoravo era molto bella e tranquilla, andavo e tornavo a piedi, avevo trovato la mia palestra per Crossfit e vivevo le mie giornate con molta serenità.
Quel fine settimana sarei tornata in Toscana dalla mia famiglia ed ero veramente felice anche perché l’ultima volta che li avevo visti era Natale.
Venerdì lavorai solo la mattina, il pomeriggio avevo il treno per tornare a Firenze.
Ero appena arrivata in stazione quando in lontananza vidi un sacco di persone ammassate.
Sicuramente qualcuno di famoso, pensai tra me e me.
Ma a Milano era veramente molto facile incontrare personaggi famosi girare per la città quindi non ero sorpresa.
Io odiavo quelle situazioni perché il mio lavoro mi aveva dato una piccola notorietà, o meglio, sui miei social parlavo molto del mio lavoro, dei miei interessi in quel campo, di come fossi riuscita ad arrivare a quel punto.
Con il tempo le persone si erano effettivamente interessate a ciò che facevo e per un po’ ero riuscita a star dietro a quelle cose, ma con il tempo diventò sempre più difficile.
Ogni tanto qualcuno mi riconosceva ma comunque ero riuscita a rimanere nel mio.
Avevo, però, visto quanta sofferenza ci fosse al mondo, quanto fosse difficile per alcune persone anche semplicemente riuscire a bere un bicchiere d’acqua al giorno, avevo visto la vera gioia negli occhi delle persone ad un semplicissimo sorriso.
Tutto questo mi aveva fatto capire che a me interessava aiutare quelle persone, fare in modo che qualcuno capisse la bellezza di quei gesti ma non mi interessava diventare famosa per quello.
Feci un piccolo sorriso a quei pensieri e mi avviai verso una caffetteria lì vicino.
C’era veramente tanta gente che urlava, che si ammassava, che si spingeva.
Io entrai nella caffetteria e mi misi in fila.
Alzai un po’ il volume delle cuffie, tanto prima che arrivasse il mio turno sarebbe passato del tempo.
Improvvisamente alzai lo sguardo e vidi che le persone davanti a me si erano girate tutte, io mi guardai attorno un po’ confusa.
Mi girai e vidi che alle mie spalle c’era, di nuovo, Ahmed.
“Dannazione!”
Dissi senza pensarci due volte.
Lui sorrise divertito, io mi tolsi le cuffie dalle orecchie.
“Che ci fai qui?”
Mi resi conto che eravamo letteralmente circondati da tantissime persone.
“Parto. Tu?”
“Parto.” Replicai a mia volta.
“Cosa prendi?” Mi disse avvicinandosi al bancone.
Improvvisamente la fila era sparita.
“Un caffè normale.” Risposi fissandolo.
Era disarmante la sua bellezza, i suoi lineamenti arabi mi facevano girare la testa, il sorriso che brillava anche grazie alla sua pelle leggermente scura, gli occhi nocciola che sembravano illuminarsi alla luce, i dreads lunghi fino al collo, le mani grandi ma affusolate, la sua altezza spaventosa.
Insomma era perfetto, ai miei occhi.
“Due caffè, grazie.”
La sua gentilezza nei confronti di tutti era sempre bellissima da osservare.
Io rimasi impalata.
“Sei sparita la scorsa settimana in aeroporto.”
Mi disse offrendosi di pagare.
Io lo fermai.
“Cosa fai?” Mi fermò a sua volta.
“Ahmed, lavoro anche io. Sai che mi danno noia queste cose.”
“Gabrielle, è solo un caffè.”
Pagò entrambi i caffè e mi sorrise.
“Stai facendo i tuoi sei mesi in Italia?”
Mi chiese spostandosi verso il bancone.
“Sì, sono stanchissima ma felice.”
“Si vede dai tuoi occhi.”
Sentii le guance diventare calde.
“Quando riparti per l’Africa?”
“Dovrei ripartire…” Fui bloccata da un gruppo di ragazzine che si lanciarono su di lui per avere delle foto.
Lui non rifiutò, gentile come al solito, mi lanciò una velocissima occhiata.
Io mi feci da parte e presi il caffè in silenzio.
Le ragazze lo circondarono letteralmente e lui provò a calmarle.
Mi venne un po’ da ridere nel vedere quella scena.
Lui in palese difficoltà allungò le braccia per fare una foto unica con tutte.
“Ragazze scusate, vorrei poter dedicarvi più tempo, ma sono con una persona importante e tra poco deve partire.”
Loro mi guardarono accigliate, lui si allontanò gentilmente da loro e si riavvicinò a me.
“Perdonami davvero.”
“Ma figurati, so bene che sei diventato una superstar.”
“Ora non esagerare.”
Ridemmo entrambi.
“Dicevi? Quando riparti?”
Anche lui bevve velocemente il caffè e posò gli occhi nei miei.
“Riparto a fine settembre o forse i primi di ottobre ancora devono dirmelo.”
“Ora vai dai tuoi?”
Io annuii guardando il tabellone.
“Anche io vengo in Toscana, un po’ di riposo.”
“Sei solo? O con la tua ragazza?”
“Che ragazza?” Mi disse guardandomi confuso.
“Angelica.”
Io lo guardai a mia volta con uno sguardo un po’ di sfida.
L’angolo sinistro della sua bocca si piegò verso l’alto.
“Adesso ho capito.”
“Cosa?” Risposi io prendendo la mia valigia per uscire dalla caffetteria, lui mi seguì.
“Ho capito perché sei sparita sabato scorso.”
Rise leggermente.
“Non è la mia ragazza, o almeno non più.”
“Ah certo, vai in vacanza con la tua ex?”
“No, dovevamo fare un servizio già pagato. Non abbiamo nemmeno parlato noi ma hanno parlato i nostri manager.”
Io lo guardai un po’ male, ma dentro di me avrei voluto saltare di gioia.
“Non sono fidanzato, te lo direi sennò.”
“Non devi dirmelo.”
“Perché no?”
“Perché non stiamo insieme, non ci parliamo da due anni.”
“Sai, le canzoni dei miei album di questi due anni parlavano tutte di te.”
Mi disse improvvisamente.
“Ma di cosa parli?”
Le sue canzoni parlavano di cose che io e lui non avevamo mai vissuto.
“Ahmed, noi due non siamo mai stati a letto insieme.”
Lui puntò i suoi occhi nei miei, tirò fuori una sigaretta e la accese tenendola con i denti.
“I discorsi che abbiamo fatto quella sera, per me sono stati come venire a letto con te. Anzi, molto peggio.”
Aspirò, lentamente, nel modo più sensuale che esistesse.
Mi si formò uno strano nodo alla bocca dello stomaco.
Le mani iniziarono a sudarmi dal nulla.
Non riuscivo più a sostenere quello sguardo, ma non potevo distaccare gli occhi dai suoi.
“Vorrei tanto baciarti, ma non posso.”
Mi disse aspirando di nuovo.
“Non puoi?”
“Non posso.”
Sentii il numero del mio treno all’altoparlante.
“Questo è il mio treno.” Dissi sottovoce.
“Buon viaggio, Habibi.”
“Anche a te, Wafa.”
Non riuscivo ad allontanarmi, lui mi prese una mano, mi accarezzò il palmo, mi sussurrò qualcosa in arabo e si allontanò da me.
Io sospirai lasciandomi andare l’enorme tensione che si era creata.
Chiusi gli occhi, non sapevo se fosse tutto vero oppure solo frutto della mia immaginazione.
Mi allontanati anche io e andai verso il mio treno.
Fu il viaggio più strano della mia vita.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Arrivai a Firenze intorno alle sei di sera.
Alla stazione trovai mia sorella e mio fratello ad aspettarmi.
“Gabri!” Urlò mia sorella appena mi vide in lontananza.
Io sorrisi e le corsi incontro.
Abbracciai prima lei e poi mio fratello, il quale prese la mia valigia e mi diede due baci sulle guance.
“Allora? Come state?” Chiesi io mentre andavamo verso la macchina.
“Molto bene, Agnese non vede l’ora di vederti!”
Agnese era mia nipote, la figlia di mia sorella, che aveva quattro anni.
Ovviamente era la principessa della famiglia, riceveva tanti di quei regali da parte di tutti.
Mio fratello invece era fidanzato da un po’ di anni ed era intenzionato ad averne ma era ancora giovane.
“Ti vedo molto bene!” Disse mia sorella scrutandomi.
“Sono stanca morta, Grace.” Replicai io passandomi una mano tra i capelli.
“Fred, tu come stai?”
“Anche io stanco.” Mi disse lui salendo in macchina.
Mia sorella aveva studiato Economia, mio fratello invece studiava Moda.
Arrivammo dopo poco a casa, lì ci aspettavano i miei genitori, mia nipote e i miei cognati.
Entrando in casa Agnese mi corse incontro.
“Zia!” Esclamò saltandomi tra le braccia.
“Ehi, principessa!” Io la presi al volo e la abbracciai forte.
Salutai tutti gli altri tenendo lei in braccio.
“Che ci racconti di nuovo? Come va a Mombasa?”
“Fa molto caldo, ma si sta benissimo. Niente a confronto.”
Quando decisi che avrei fatto quel lavoro i miei genitori non so bene come la presero.
Non mi dissero mai niente, ma secondo me, almeno all’inizio, morivano dalla paura.
Fui molto fortunata, però, a trovare tante persone che credessero davvero molto in me.
Quella sera i miei genitori decisero di andare a mangiare fuori tutti insieme, la cosa mi rese molto felice perché in Africa non potevo mai permettermi il lusso di una cena fuori, un po’ perché il mio lavoro era talmente imprevedibile che tante volte tornavo a casa e dovevo correre di nuovo in ospedale, un altro po’ perché lì i ristoranti erano davvero pochi e spesso turistici quindi non ne valeva la pena.
Al contrario, però, spesso venivo invitata poi nelle case delle ragazze che aiutavo a partorire, quella era una cosa che mi rendeva sempre felicissima.
Avevo vissuto esperienze spettacolari, momenti che niente e nessuno avrebbe mai cancellato dalla mia mente.
I tramonti dell’Africa, il loro modo di vivere, i loro sorrisi splendenti, il loro modo di dire “grazie” anche senza dirlo a parole, i bambini che vedevo crescere in salute.
Erano tutte piccole cose che mi riempivano di gioia.
Io e mia sorella ci preparammo insieme, come quando eravamo più piccole.
Io mi misi una gonna di jeans e una maglietta stretta a maniche lunghe, le mie immancabili converse nere e un giacchetto di pelle.
Lasciai i capelli sciolti e mi feci un trucco molto leggero.
Uscimmo e andammo a piedi in centro a Firenze.
Decidemmo di andare a mangiare in un ristorante tipico vicino al Duomo.
Quando entrammo vidi che era veramente pieno di gente.
Mi guardai attorno e pensai a quanto io non fossi più abituata a quelle convenzioni sociali.
La cena fu molto piacevole e tranquilla, Agnese si addormentò in braccio al padre come al solito, mio fratello e mia cognata dopo un po’ andarono via, anche quello come al solito.
Non era cambiato niente e nessuno.
Mentre io, mia madre e mia sorella parlavamo il mio telefono vibrò.
Lo tirai fuori e vidi un messaggio del tutto inaspettato.
‘Quella gonna di jeans ti sta benissimo’
Era di Ahmed.
Io alzai lo sguardo, cercai i suoi occhi nocciola lungo la sala del ristorante.
Lo vidi, in fondo alla sala, con una camicia nera sbottonata fino a metà petto e dei pantaloni in simil pelle neri lucidi, alcuni dreads davanti agli occhi, era solo, una mano al mento con le dita sul labbro inferiore, gli occhi puntati su di me.
Mi sentii tremare le gambe.
Non sapevo cosa fare.
“Tutto bene, Gabri?” Mi chiese mia mamma.
Io mi girai verso di lei.
“Eh? Ah, sisi tutto bene.” Risposi togliendo gli occhi da Ahmed.
Finsi di non aver visto quella immagine.
Mi sentivo osservata o, meglio, fissata.
Con avidità e desiderio.
Non ci dovevo pensare.
“Devo andare un attimo in bagno.”
Dissi io scivolando dalla sedia.
Lasciai il telefono sul tavolo e mi diressi verso il bagno a passo svelto.
Gli passai davanti e sentii i suoi occhi fissi su di me per tutto il tempo.
Nel preciso istante in cui passai davanti al suo tavolo sentii la sua figura possente alzarsi e seguirmi.
Non riuscii ad arrivare alla porta del bagno, sentii la sua mano grande e affusolata afferrarmi il polso e girarmi.
Mise entrambe le mani sui miei fianchi e mi spinse verso il muro.
Si abbassò su di me e scivolò sulle mie labbra.
Mi baciò con desiderio, mise una mano sulla mia nuca e spostò la mia testa all’indietro.
Io mi lasciai scappare un verso di piacere.
“Non fare così.” Pronunciò sulle mie labbra.
Puntai i miei occhi nei suoi e con un dito afferrai la collana che aveva al collo per avvicinarlo di più a me.
“Non so cosa vuoi da me.” Dissi fissando le sue labbra.
“Esci con me.” Mi disse inaspettatamente.
“Cosa?” Mi allontanai leggermente.
Fino a quel momento non avevo mai pensato a noi due insieme, o almeno non credevo lui ci pensasse.
“Esci con me.” Ripeté lui sorridendo.
“Non pensavo volessi uscire con me.”
“Siamo già usciti una volta.” Si allontanò anche lui leggermente, era davanti a me.
Bellissimo e altissimo.
“Non era una vera uscita.” Replicai io incrociando le braccia.
“Hai perfettamente ragione.” Mi sorrise, si avvicinò a me e mi prese una mano.
“Sei libera adesso?” Mi diede un bacio sul palmo guardandomi.
Era un ragazzo dannatamente ammaliante.
“Adesso sono con la mia famiglia, in più sono davvero stanca.
Se vuoi ci sono domani.”
Lui si avvicinò di nuovo a me, mi prese il mento e mi diede un bacio leggero sulle labbra.
“Allora domani staremo insieme.”
Si girò e si allontanò da me, poi si fermò più avanti, come se mi stesse aspettando.
Io mi avvicinai a lui, mi prese la mano e mi fece camminare al suo fianco.
Mi sentivo così piccola in confronto a lui.
Mi sorrise di nuovo e mi diede un bacio sulla guancia.
“Buonanotte, Habibi.”
Io gli sorrisi a mia volta e tornai al tavolo con i miei genitori, i quali non si erano accorti di nulla.

La mattina dopo mi svegliai con estrema calma.
Avevo passato gli ultimi sei mesi senza orari veri e propri, lì in Africa cercavano in tutti i modi di darci orari fissi ma alcune volte diventava veramente complicato.
La settimana a Milano fu leggermente incasinata, un po’ perché dovevo riprendere il ritmo della città, un po’ perché la casa era stata vuota per tanto tempo e quindi andava sistemata, un altro po’ perché mi mancava il caldo e il mare Africano.
Quella mattina mi ero imposta di dormire fino a tardi.
Scesi dal letto e andai subito in bagno dove mi feci una doccia veloce e rinfrescante.
Erano i primi giorni di Aprile, c’era una temperatura molto piacevole, né troppo calda né troppo fredda.
Scesi in cucina dove c’era mia mamma che giocava al telefono.
“Buongiorno.” Dissi leggermente assonnata mentre mi avvicinavo alla macchinetta del caffè.
“Buongiorno, tesoro.” Rispose mia mamma alzando appena la testa dal telefono.
“Che programmi hai per oggi?” Mi chiese lei dopo che avevo bevuto il mio caffè.
“Non lo so, vorrei uscire un po’.”
Dalla sera prima non avevo ancora toccato il telefono, ero davvero stanca e confusa da tutto quello che stava succedendo.
Feci velocemente colazione e tornai in camera mia, la risistemai e poi finalmente presi il telefono.
C’erano due messaggi di Ahmed.
Nel primo, mandato la sera prima, c’era scritto: ‘I tuoi occhi mi hanno ricordato perché bisogna sempre sorridere almeno una volta al giorno.’
Leggere quel messaggio, mi fece sorridere.
Il secondo me lo aveva mandato qualche minuto prima e c’era scritto semplicemente: ‘Alle 11.30 sono da te, fatti trovare pronta, ho una piccola sorpresa.’
Guardai l’ora.
Erano le 10, avevo tantissimo tempo per prepararmi.
Alle 11.30 precise lui arrivò sotto casa mia.
Io uscii dal cancellino, lui era sceso dalla macchina.
Indossava dei jeans chiari un po’ larghi, una camicia di lino bianca leggermente aperta e un giacchetto di pelle azzurro chiaro.
Era sempre impeccabile.
Si avvicinò alla portiera del passeggero e la aprì.
“Buongiorno, habibi.”
Mi porse la mano, io misi la mia nella sua, lui mi baciò il palmo e mi fece salire in macchina.
Erano questi piccoli dettagli che mi piacevano tantissimo di lui.
Fece il giro della macchina, entrambi continuammo a fissarci, salì in macchina e mi sorrise.
“Sei pronta?”
“Sono curiosa, più che altro.” Replicai io.
Mise in moto la macchina e partì.
“Allora, come va il lavoro?” Mi chiese quasi subito.
“Il lavoro molto bene, sono riuscita a fare ciò che desideravo e anche di più.”
“Lo so, ti vedo da instagram.”
Io sorrisi timidamente.
“Piuttosto te, come sta andando il nuovo disco?”
“Stancante, non riesco molto bene a capire cosa sta succedendo.
Alcune volte penso che sia solo un sogno.”
“Ho visto che nell’ultimo anno sei diventato davvero famoso, io ho sempre creduto sarebbe successo.”
“Tu hai sempre creduto in me, è diverso.”
“Sì, hai ragione.”
Mi sorrise di nuovo e poi mise la sua mano nella mia.
In dieci minuti arrivammo a destinazione, era un palazzo immerso nel verde.
Entrammo da un cancello alto all’interno di un parcheggio immenso.
Lui fermò la macchina e scese velocemente arrivando dalla mia parte, mi aprì la portiera e mi porse la mano.
Io scesi e mi sistemai leggermente il vestito lilla che avevo.
“Sei veramente bellissima.”
Mi disse squadrandomi.
“Anche tu lo sei.”
Lui si morse il labbro e poi distolse lo sguardo.
“Ti piace?”
“Il posto è bellissimo, ma cosa c’è di particolare?”
Lui rise appena.
“Non ti smentisci mai, eh?”
“Lo sai già.”
“Andiamo.”
Mi prese la mano e percorremmo il viottolo per entrare all’interno del palazzo.
Una volta entrati ci trovammo in una prima stanza dove c’erano due infopoint ad entrambi i lati, uno stanzone unico con delle finestre molto alte dove c’era un ristorante/bar e due scalinate che portavano al piano superiore.
Non c’era nessuno se non noi e le persone che vi lavoravano.
Lui prese la mappa del posto e si diresse verso la scalinata a destra.
“Ahmed! Ma dove vai?” Chiesi io non capendo cosa stesse facendo.
“Seguimi.” Mi fece segno di andare verso di lui.
Lo seguii e andammo al piano superiore.
Una volta raggiunta la cima della scalinata mi ritrovai in uno stanzone enorme, illuminato grazie alle enormi vetrate, pieno zeppo di fiori coloratissimi.
Lui si fermò davanti a me e si girò per guardarmi o, meglio, per guardare la mia reazione.
Io ero a bocca aperta, incantata da tutti quei bellissimi fiori.
“Ma che posto è?”
“Ti piace?” Mi chiese mettendosi una mano davanti la bocca sorridendo.
Io lo guardai e mi avvicinai a lui.
Lui mi prese i fianchi e mi avvicinò a lui.
“Questo, è veramente spettacolare.”
“Sono contento ti piaccia.”
Si abbassò su di me e mi lasciò un bacio leggero sulle labbra.
Io lo abbracciai, lui ricambiò.
“Ma che cos’è? Tipo una mostra?” Chiesi io staccandomi da lui e girando per la stanza piena di fiori.
“No, l’ho preparato io.” Mi rispose con tranquillità venendomi dietro.
Io mi bloccai e lo guardai.
“Cosa?” Risposi confusa.
Lui rise appena.
“Ho allestito questa stanza per te.”
“Stai scherzando, vero?”
“Perché?” Mi chiese lui prendendo una rosa rosso fuoco.
“Non ti hanno mai regalato dei fiori?”
Mi porse la rosa, io la presi guardandomi attorno.
“Ahmed, tu non mi hai semplicemente regalato dei fiori.”
Lui puntò i suoi occhi nei miei.
In quella stanza, con quella luce, con tutti quei fiori, mi sembravano più chiari e bellissimi.
“Lo so.”
Si avvicinò a me e mi baciò, come non aveva mai fatto fino a quel momento.
Mi strinse a sé e il suo profumo mi abbracciò con lui.
Si staccò appena.
“Tu meriti tanto e lo sai.”
Mi sussurrò sulle labbra.
“Io posso darti quel tanto di cui hai bisogno, te lo prometto.”
“Le promesse sono pericolose, Ahmed.”
“Per te sono disposto a correre il rischio.” 

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