Salvezza per uomini morti

di Afaneia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Carcere ***
Capitolo 2: *** Patibolo ***
Capitolo 3: *** Colline ***
Capitolo 4: *** Borgo ***
Capitolo 5: *** Tautologia ***
Capitolo 6: *** Crisi del secondo anno (più o meno) ***
Capitolo 7: *** Interferenze ***
Capitolo 8: *** Consigli ***
Capitolo 9: *** Inverno ***
Capitolo 10: *** Vigilia ***
Capitolo 11: *** (Ri)Conquista ***
Capitolo 12: *** Ira ***
Capitolo 13: *** Fanculo i teologi di corte ***
Capitolo 14: *** Strategie ***



Capitolo 1
*** Carcere ***


Salvezza per uomini morti
 
I - Carcere
 
[…] questo rumore lo sento, mi pervade
come un tradimento fatto da me stesso a me stesso,
quel me stesso che avevo esercitato e temprato
nell’illusorio orgoglio del coraggio invincibile – quale coraggio,
se nel profondo ci governa la nostra vita estranea, la nostra morte estranea?
No, non c’è alcuna umiliazione. Se sono stato sconfitto, sono stato sconfitto
non dagli uomini, ma solo dagli dei. Nessuna vittoria o sconfitta ci appartiene.
 
Ghiannis Ritsos, Aiace.
 
 
    Il suo attendente viene a trovarlo la terza sera. È riuscito a portargli delle mele, con la complicità evidente delle guardie che fingono di non vederle: Link lo ringrazia con gli occhi perché grazie a sufficienza non potrà mai dirgliene. Ne addenta subito una. Non mangia frutta né verdura da giorni: in carcere non ne passano. Per quanto i soldati gli stiano usando ogni riguardo possibile, non hanno potere sulla scelta del cibo.
    Lelek si siede in silenzio davanti a lui: è un bravo ragazzo. L’ha servito sempre fedelmente, con più ammirazione per lui di quanta Link abbia mai sentito di meritarsi, e il dolore nei suoi occhi è tale ch’egli sente quasi d’avergli fatto un torto. Alle sue spalle, al di là delle sbarre, la guardia getta un’occhiata nella cella e dice a bassa voce: «Cinque minuti, Lelek. Siamo intesi?»
    Lelek rimane a osservare la guardia finché questa non scompare nel corridoio principale, fuori portata d’orecchio, dopodiché si volta verso di lui e tira fuori un fagotto scuro da sotto il mantello.
    «È per domani» mormora porgendoglielo. «Nascondetelo da qualche parte fino a domani sera. Guardano sotto il materasso?»
    È un vecchio mantello liso, marrone, del tutto anonimo. Gli sfugge quasi un sorriso a vederlo. Link si asciuga le mani dal succo di mela sul petto, con calma, serenamente, e risponde: «Mettilo via, Lelek, prima che qualcuno lo veda.»
    La mascella di Lelek s’irrigidisce mentre i suoi occhi s’accendono di panico. Getta uno sguardo disperato verso il corridoio, là dove una spalla della guardia s’intravede appena dietro un angolo, e sibila a denti stretti: «Capitano, per favore!»
    «Lelek…»
    «È già tutto organizzato. Domani notte sono di turno i ragazzi della squadra. Vi faranno uscire loro. Fuori dalla prigione ci saranno i miei cugini con un carro coperto, se tutto va bene sarete a Vappesca prima di…»
    «Lelek» ripete Link. «Metti via quel mantello e dì ai tuoi cugini che domani sera possono restare a dormire. Non scapperà nessuno. Tantomeno io.»
    La scarsa sicurezza che Lelek ha tanto faticato a racimolare per venire qui a dirglielo sta venendo meno.
    «Capitano, vi prego» mormora. Gli trema la voce di pianto. È solo un ragazzo, in fin dei conti, e l’esercito è la sola famiglia che conosce. Link sa di essere per lui insieme un capo, un fratello e un eroe, e dovergli dire di no, ora, è assurdamente doloroso. «Vi prego. Non potete lasciare che vi facciano questo. Lo sapete che hanno già deciso.»
    Link posa la mano sul mantello che gli porge, dolcemente, e spinge indietro la sua mano. Non vuole ferirlo né mostrargli ingratitudine; ma bisogna che Lelek capisca.
    «Se mi aiutate a scappare, per voi c’è la corte marziale. Non posso permettervi di farlo, perciò mettilo via. È un ordine» aggiunge a bassa voce, sorridendo appena, nel tentativo di alleggerire quella tensione dolorosa che si è stabilita tra loro, nella cella; ma il suo scherzo, a quanto pare, non è divertente.
    Lelek lo guarda con occhi pieni di disperazione. «Non sono tenuto a obbedirvi. Siete in arresto.»
    «Hai ragione» riconosce Link. «Allora te lo chiedo come un amico che chiede un favore a un amico. Per favore, ringrazia i ragazzi e dì loro che sono grato per quello che volevate fare, e poi annulla tutto e non parlatene mai più, nemmeno tra di voi. Hai corso già abbastanza rischi venendo qui. Non venire più, siamo intesi?»
    Lelek ha continuato a porgergli il mantello per tutto questo tempo, testardamente, col braccio proteso verso di lui; ma alla fine anche il suo coraggio gli viene meno. Abbassa il braccio lentamente mordendosi le labbra per non piangere.
    «Perché lasciate che vi facciano questo?» mormora.
    Link non sa che altro fare per consolarlo: il suo dolore gli pare più grande del suo, in questo momento, e forse è l’unico vero dolore che sia riuscito a provare da giorni a questa parte. Lo attira a sé, contro il proprio petto, e lo culla tra le braccia mentre è scosso dai singhiozzi.
    «Sht» sussurra contro il suo orecchio come faceva sua madre con lui, come lui ha fatto tante volte coi suoi ragazzi troppo giovani che piangevano il primo giorno di leva, le notti prima delle battaglie. «È perché ho giurato di servire Hyrule sempre. Non piangere, non piangere. Andrà tutto bene, Lelek, e si risolverà tutto, ma ora ho bisogno che tu mi prometta che tu e gli altri ragazzi non farete nulla di stupido per me, va bene?»
    «Avete combattuto per Hyrule quando ve l’hanno chiesto! E adesso…»
    Lo interrompe la guardia che torna ad affacciarsi dall’altro lato delle sbarre. Getta una rapida occhiata dentro la cella, forse per accertarsi che siano ancora lì, e torna subito a distogliere lo sguardo, forse per imbarazzo o per evitare di dover mentire se dovesse trovarsi a testimoniare sul loro incontro.
    «Mi dispiace, Lelek» dice ad alta voce, schierandosi davanti a loro con le spalle alla cella. «Cinque minuti. Non posso fare di più.»
    Lelek è l’unico che sia venuto a trovarlo. Non è per colpa degli altri: ai Campioni non è permesso scendere quaggiù, mentre Zelda, se non è cambiato niente, è ancora trattenuta dai soldati nelle sue stanze. Impa, forse, sarebbe potuta venire; ma Link reprime quel pensiero dentro di sé perché è troppo doloroso da affrontare, e al dolore, ora, non può permettersi di abbandonarsi. Credere che i suoi compagni d’armi siano stati trattenuti è in fondo meno spaventoso che accettare di essere stato abbandonato. Allontana Lelek da sé con delicatezza.
    «Vai, ora» mormora. Vorrebbe suonare incoraggiante e fiducioso, infondergli coraggio, come sul campo di battaglia; ma gli occhi di Lelek sono enormi e smarriti come quelli di una bestia spaventata. Non vorrebbe lasciarlo perché non sa quando lo rivedrà. «Stai tranquillo. Domani c’è solo il processo. Non è ancora detto niente.»
    Glielo legge negli occhi che non solamente non ci crede, ma che è ben consapevole, precisamente come lo è lui, che in realtà tutto è già detto e prestabilito dal momento in cui lo hanno arrestato e gettato in carcere; che questi giorni di attesa, che il processo, domani, sono soltanto formalità e finzioni che servono per mantenere una parvenza di legalità in tutto ciò; che tutti sanno già perfettamente quello che accadrà, come nella sequenza di eventi determinata da un meccanismo.
    Lelek si aggrappa alle sue spalle perché non vuole lasciarlo andare.
    «Abbiamo fatto una colletta» sussurra. «Vi faranno avere del vero cibo, qua dentro, per qualche giorno.»
    Chissà perché è questo, dell’inferno degli ultimi giorni, a fargli venire un groppo alla gola che minaccia di farlo piangere. Più dell’umiliazione dell’arresto, più del pensiero dell’abbandono, sono i suoi soldati che hanno fatto di tutto per fargli avere del cibo decente in carcere. Vorrebbe ringraziarlo, abbracciarlo di nuovo; vorrebbe piangere; ma tutto quello che concede a se stesso di fare è stringerlo brevemente a sé per un istante e posare la fronte contro la sua.
    «Non fatelo più» dice guardandolo negli occhi. «È troppo pericoloso per voi, Lelek. Non devono potervi accusare di avermi aiutato. Non fatelo più, promesso?»
    Lelek è stato al suo fianco, insonne, nelle tende ai margini del campo di battaglia, per anni; aveva quattordici anni il giorno della loro prima battaglia; era un bambino. Ha pulito le sue armi incrostate di viscere e fango, ha ascoltato i suoi piani di battaglia interminabili nella notte, fingendo di riuscire a seguire i suoi ragionamenti per non spezzare il filo ininterrotto dei suoi pensieri; una volta s’è spinto per due miglia su terreno scoperto, senza avvisarlo, per procurarsi il pesce per la sua cena; Link s’è arrabbiato, quella volta, e gli ha inflitto anche una punizione, sebbene troppo lieve rispetto all’infrazione, secondo i regolamenti militari, perché correre un rischio del genere per procurare la cena del capitano era inaccettabile: Lelek si è finto dispiaciuto e ha accettato la punizione a testa bassa, con un’espressione contrita eppure stranamente compiaciuta, perché anche lui sapeva che il regolamento avrebbe prescritto una sanzione ben più grave e che Link gli stava soltanto mostrando clemenza, quel giorno. Ha trasgredito gli ordini anche un’altra volta: quando combattevano a Hebra, nella neve, e Link ha ricevuto una lancia nell’addome che gli ha perforato gli intestini. Era certo di morire, quella volta: ne aveva visti troppi uomini cadere così. Ha ritirato la mano dall’addome, riverso al suolo nella polvere, e se l’è vista sporca di sangue e feci fuoriuscite attraverso la ferita: era una condanna a morte, quella. Tutti gridavano intorno a lui e lui aspettava invano, colla vista che gli si appannava e le orecchie ovattate, di non vederci più del tutto, di non sentir più dolore mai; e d’un tratto Lelek è spuntato dal nulla nel clamore della battaglia e gli ha messo una mano nella ferita per tenere al loro posto gli intestini e bloccare la fuoriuscita di sangue. Aveva sedici anni, quel giorno, quasi diciassette, e gli occhi enormi d’orrore; era convinto di morire anche lui restando lì, esposto, al suo fianco; eppure non s’è allontanato. Vai ha mormorato Link muovendo appena le labbra, ritirata ha ordinato nella folle idea che forse Lelek avrebbe obbedito a un ordine diretto impartito in termini militari; lasciami qui ha bisbigliato con le labbra screpolate e secche, la bocca piena di sangue e di terra, e Lelek ha continuato a ripetere ininterrottamente, terrorizzato, sforzandosi di guardarlo sempre negli occhi e di non abbassare mai, neppure per un momento, lo sguardo sulla propria mano affondata nel sangue e nelle feci: «Revali ha avvertito Mipha, capitano. Sta arrivando, deve solo superare la barricata. È a un miglio da qui. Dovete solo avere pazienza. Resto io qui con voi, ma voi dovete rimanere sveglio. Per favore, per favore, rimanete sveglio.» L’accento disperato della sua voce era cullante come una melodia, e Link pensava che lo avrebbe aiutato a perdere lentamente coscienza, cullato dalla monotonia della sua voce; andarsene di fianco a quel ragazzo buono e coraggioso era poi meglio che morire solo come un cane con le ossa schiacciate dagli Hinox, ma ascoltandolo Link non è riuscito a lasciarsi morire. Continuava a pensare che uno dei suoi ragazzi avrebbe dovuto ritirarsi e invece era lì, che stava trasgredendo un ordine diretto e perciò forse lui sarebbe stato costretto a infliggergli una punizione; e il cielo sa quanto Link odiasse punire i suoi ragazzi. Alla fine è stato questo pensiero a salvarlo, Link ne è certo: perché a un tratto, dopo minuti che si facevano interminabili nel clamore della battaglia e nella nenia ripetuta del suo attendente che lo supplicava, egli ha visto spuntare dal nulla Mipha con due medici militari e un corpo di soldati Zora rinforzo che li ha protetti con gli scudi mentre loro lo ricucivano e lei, per l’ennesima volta, lo salvava. Lelek è rimasto al suo fianco anche mentre lo ricucivano. Link ha ottenuto per lui una medaglia, per questo, e una sera lo ha fatto chiamare nei suoi appartamenti e gli ha donato la spada di suo padre. Lelek non voleva accettarla, all’inizio: continuava a dire che quella spada era troppo importante, che non se la meritava; che sarebbe servita a lui, un giorno, quando avesse dovuto riporre nella Foresta la Spada che esorcizza il male… ma Link è stato irremovibile. Ha voluto che Lelek avesse quella spada perché è stato l’unico a credere che potesse sopravvivere persino quella volta quando a vivere lui non credeva neanche più, ed era pronto a lasciarsi andare senza lottare oltre, tra il fango e il sangue, sotto i monti di Hebra; e ora che la sua morte è divenuta un fatto certo e incontestabile, qualcosa che è stato dato in pasto alla macchina burocratica del regno e dell’esercito e che proseguirà per la sua strada malgrado la volontà di chiunque, Link è ancora più felice di avergli donato quella spada; ma proprio per questo dirgli addio è un dolore terribile.
    Con la fronte premuta contro la sua, Lelek ricambia il suo sguardo e risponde: «Mi dispiace, capitano. Questo proprio non posso promettervelo.»
    Link non fa in tempo a risponder nulla, forse nemmeno ne ha le forze. Lelek si alza, batte la mano sulle sbarre e si fa aprire dalla guardia. Non si volta più a guardarlo perché ha gli occhi rossi di pianto.
    Link rimane solo seduto sulla sua branda, a ricordare con gli occhi chiusi il giorno di quella battaglia e le cime innevate di Hebra che spuntavano ai margini del suo campo visivo, sotto il cielo limpido e azzurro, mentre stava disteso nel fango in attesa di morire. Non è stato sempre bello, essere vivo; ma è stato intenso, e combattere era la sua vita. Forse avrebbe preferito morire così, combattendo; ma non ci è dato sempre scegliere.
    Vengono a portargli la cena, dopo un po’: è sera, dunque; nei sotterranei del carcere è difficile tener traccia del tempo che passa. La guardia entra a portargli la ciotola con aria profondamente colpevole; eppure non è colpa sua, questa.
    «Sono riusciti a farvi avere della vera carne, stasera, capitano» dice a voce bassa come se dovesse scusarsi di qualcosa. «Anche per domattina, penso. Almeno sarete in forze per affrontare il processo.»
    Link si sforza di mostrargli un po’ di gratitudine. Ha sempre cercato di essere un esempio per i soldati, fin da quando gli hanno dato il comando. «Grazie, Ronan. Non dovreste farlo, ma grazie. Lo apprezzo enormemente.»
    «Domattina verranno a svegliarvi prima del solito e vi porteranno dell’acqua pulita. Almeno potrete lavarvi prima di… Mi dispiace che non possiamo fare altro, capitano, ma se c’è qualcosa, chiedete. Vedremo quello che possiamo fare.»
    «Non sono più capitano» gli ricorda Link strofinandosi gli occhi.
    «Mi dispiace, capitano» borbotta la guardia tornando al suo posto. «Non sono d’accordo con voi.»
    Link si appoggia di spalle contro la parete e torna a chiudere gli occhi per un istante, beandosi soltanto della sensazione della scodella calda e pesante tra le sue mani. È stato destituito, disonorato, imprigionato, e di certo verrà messo a morte; ma è bello sapere che i suoi soldati serberanno un bel ricordo di lui, anche dopo. È un pensiero confortante cui aggrapparsi, adesso.
 
    È successo tutto in maniera così sottile, subdola, che è stato difficile tener conto degli eventi finché non è stato troppo tardi; e a quel punto non gli è rimasto che restare a guardare gli eventi accadere uno dopo l’altro, precipitando dall’alto come massi dalla cima dei monti. Forse è iniziato tutto molto tempo fa, quando hanno saputo del ritorno della Calamità, e forse chissà, a dar retta al re ancora prima, diecimila anni fa, quando la Calamità è nata e per la prima volta, nel passato, un eroe e una principessa l’hanno combattuta e hanno vinto; non saprebbe dirlo più. Forse non lo ha veramente capito.
    I teologi di corte hanno continuato a studiare le antiche leggende per tutto questo tempo, nella speranza di trovarvi qualcosa in grado di aiutarli a combattere la Calamità: hanno formulato teorie, compulsato testi antichi, confrontato varianti e lezioni discordanti della tradizione manoscritta alla ricerca di qualsiasi cosa potesse fornir loro un indizio su quanto sarebbe accaduto; Link li ha ascoltati col massimo rispetto quando gli hanno esposto le loro opinioni, di tanto in tanto, e sempre col massimo rispetto ha dimenticato le loro parole subito dopo. Tutto molto interessante, certamente; ma la Calamità andava combattuta, e combattuta con la spada e con gli alleati; null’altro.
    I loro studi non lo hanno mai riguardato fino al giorno in cui i teologi non hanno proposto un’interpretazione della leggenda totalmente nuova, alla quale Impa e gli altri Sheikah si sono opposti con tutta la loro forza; ma il buonsenso delle loro argomentazioni si è scontrato e infranto contro la suggestione della leggenda. L’eroe e la principessa si amavano, hanno iniziato ad affermare i teologi, l’eroe e la principessa erano sposati, nelle ere passate; è per questo che i poteri della principessa Zelda non si destano: perché non possono farlo in queste condizioni. Era una stupidaggine, una sciocchezza: la prima volta che ha sentito quella teoria, nei corridoi del Castello, Impa s’è infervorata a smontarla; è una Sheikah, e queste leggende fanno parte della sua cultura e se n’è imbevuta fin da bambina; ma non era una teologa, le è stato risposto. Era una consigliera e una guerriera, hanno obiettato i teologi, e forse avrebbe fatto meglio a restare al suo posto e a occuparsi di quel che le competeva. Del resto, Impa non ci voleva perdere poi molto tempo: erano questioni oziose e inutili, o almeno così sembrava per i primi tempi, e lei aveva realmente altro a cui pensare.
   Il problema è sorto quando quelle questioni non sono rimaste poi così oziose come sembrava all’inizio; quando i teologi hanno cominciato a mormorare nelle orecchie del re, mostrandogli codici manoscritti risalenti a secoli addietro, che forse avevano frustrato ogni tentativo di Zelda già in partenza, costringendola a sfiancarsi ed estenuarsi in preghiere prive di scopo e di senso, perché se non avesse sposato l’eroe i suoi poteri non avrebbero potuto svegliarsi mai; che l’errore non stava in lei, ma nelle premesse…
    Il resto è venuto da sé. Il re ha passato giorni a osservare Zelda incupito, inasprito verso di lei e verso se stesso; è diventato intrattabile, roso dal dubbio d’averla incolpata per qualcosa su cui non poteva avere controllo né responsabilità; e poi è passato a osservare Link, altrettanto intrattabile ma più curioso. Lo ha chiamato più volte, al termine dei suoi allenamenti, e Link ha risposto alle sue domande nel modo più rispettoso ed esauriente possibile, un po’ sorpreso, ma neppure più di tanto: non c’era poi nulla di strano. Non erano domande insolite per il cavaliere addetto alla sicurezza personale della principessa, sulle cui spalle pareva destinato a pesare il destino di Hyrule.
    Ha capito troppo tardi che i teologi e il re parlavano la stessa lingua, in quei giorni; una lingua che non gli era dato comprendere, a quanto pareva, o che forse è stato troppo sordo per ascoltare con attenzione. Il primo vero accenno è stato quando un generale gli ha fatto le congratulazioni, come se parlasse di qualcosa noto a entrambi: Link si è soffermato a guardarlo con attenzione, poi, rispettosamente, ha chiesto a che cosa fossero dovute. Il generale ha riso e ha detto che ammirava la sua discrezione, ma che ormai era cosa nota.
    A quanto pareva, era cosa nota a tutti tranne che a lui, ma non per molto. Quella sera stessa il re lo ha convocato nelle sue stanze; c’erano con lui i più alti ranghi dell’esercito, che apparivano tronfi e compiaciuti e piuttosto convinti di dargli una splendida notizia; parlando a voce bassa, amareggiata, il re ha detto: «Riteniamo che sia tempo che voi sposiate la principessa ed entriate a far parte della nostra famiglia in modo che entrambi possiate adempiere al vostro destino.»
    Se quel riteniamo fosse riferito al re, come plurale di maestà, o se piuttosto non vi si celassero dietro i teologi di corte, Link non avrebbe saputo dirlo. Si è limitato ad aspettare la fine del discorso, pensierosamente, e quando è stato evidente che nessuno avrebbe più parlato e che ci si aspettava da lui un’incondizionata approvazione, ha chiesto: «La principessa Zelda acconsente?»
    «La principessa» ha risposto gravemente il re «È ben consapevole del suo ruolo e dei doveri che da lei ci si aspettano. Riteniamo perciò che acconsentirà come a cosa necessaria per il benessere e la salvezza di Hyrule.»
    Di questo, rispettosamente, Link si permetteva di dubitare; ma la cosa, comunque, era al di fuori del suo controllo. Non poteva rispondere che per se stesso, perciò ha risposto: «Ho prestato giuramento di difendere e di servire Hyrule con la mia spada per tutta la mia vita, e non intendo venir meno alla mia parola; ma il mio giuramento riguardava soltanto la mia vita nell’esercito. La mia vita privata non è coinvolta nel mio giuramento. La mia risposta è no.»
    Hanno cercato di convincerlo con le buone, all’inizio. Hanno parlato tutti, prima accavallandosi e poi a turno, ragionevolmente, cercando di dimostrargli che da quel matrimonio non potevano derivarne che benefici a lui personalmente, a Zelda, ma soprattutto al regno intero; Link ha approvato le loro parole, sentendo sempre più aggravarsi la sua situazione, e ha continuato a dir di no. Gli hanno dato tre giorni per riflettere; in quei giorni Zelda è riuscita a sfuggire per qualche minuto alla scorta armata che il re aveva messo alle sue porte, con la scusa della sua protezione, per venire a parlargli di nascosto: era confusa eppure fiduciosa. Forse non credeva davvero che suo padre avrebbe portato la faccenda fino in fondo; persino a lui un matrimonio forzato, come non usano da secoli addietro, doveva sembrare troppo. «Forse basterà rifiutare» gli ha detto in un momento di speranzosa follia, solo un poco inquieta. «Non possono obbligarci.»
    Potevano. La mattina del terzo giorno Zelda è stata confinata nei suoi appartamenti dalle guardie e a Link è stato ricordato senza mezzi termini che, rifiutando un ordine diretto del re, rischiava la corte marziale. Senza scomporsi, Link ha pranzato con calma, ha indossato la divisa della guardia reale, ha congedato il suo attendente e si è seduto nei suoi alloggi ad aspettare che venissero ad arrestarlo; ha scritto qualche lettera, nel frattempo, e ha annotato delle idee sulle mappe che campeggiano da mesi sul suo tavolo da lavoro. Quando i soldati mortificati si sono presentati con l’ordine d’arresto, ha chiesto solo la cortesia di non essere ammanettato, ha deposto la Spada sul tavolo e li ha seguiti senza opporre resistenza.
    Lo processano il quarto giorno dopo il suo arresto. Proprio come il soldato di guardia gli ha annunciato ieri sera, vengono la mattina presto a portargli acqua pulita, appena tiepida, e una divisa di ricambio. Questo non è regolamentare: Link se la rigira tra le mani sorpreso e alza lo sguardo sui soldati, ma loro girano gli occhi attorno fingendo di non sapere come possa essersi procurato abiti puliti in carcere. La loro fedeltà lo commuove oltre ogni dire. Non vorrebbe che fossero costretti a questo: è quasi più doloroso per loro che per lui. Gli danno le spalle per qualche minuto mentre si lava e si riveste: l’acqua è fredda, ma in fondo, quand’era soldato semplice, ci era abituato. Non è poi tanto diverso da allora.
    Quando lo scortano nell’aula designata per il suo processo, si sorprende di vederla tanto vuota: avrebbe creduto che la caduta del cavaliere che brandisce la Spada che esorcizza il male avrebbe fatto più rumore, che in tanti sarebbero venuti a vedere la sua rovina; ma poi l’improvvisa portata di questa realizzazione lo atterrisce come un colpo in pieno petto. È un processo a porte chiuse. Forse non cambierà molto, perché in fondo già sa come andrà a finire al suo ennesimo rifiuto di sposare la principessa; ma avrebbe voluto che ci fosse almeno qualcuno a sentire la sua versione dei fatti. Tutto quello che uscirà da questa corte, invece, sarà che lui è stato condannato per alto tradimento come se avesse tramato per rovesciare il regno. Non c’è nessuno dei Campioni, né dei suoi sottoposti; Zelda è assente, ancora nelle sue stanze, probabilmente; non c’è nessun consigliere di corte, dunque è logico che manchi anche Impa. È un tribunale strettamente militare, del resto, dunque per quale motivo avrebbero dovuto essere presenti? C’è solo il re, ma non prende mai la parola. Si limita a osservare, in fondo all’aula, e non lo guarda mai negli occhi.
    Il processo si svolge in modo farsesco eppure apparentemente regolare, con sapiente maestria. Gli viene chiesto perché si sia opposto a un ordine diretto del re, ma non viene esplicitato quale, in modo che non venga messo a verbale; poiché è una domanda diretta, non gli rimane che rispondere che quell’ordine esulava dal servizio e dunque lui non era tenuto a obbedirvi. Gli viene chiesto se persista nel suo rifiuto di obbedire all’ordine del re e dei suoi generali, e Link non può che rispondere che a quell’ordine non può obbedire. Potrebbe aggiungere molte cose, riguardo a questo: per esempio che quell’ordine esula dalla legalità e dai fini del servizio, che non ci sono precedenti, che in nessun regolamento militare è possibile processare un ufficiale per non voler prendere una moglie che non desidera e che non lo desidera a sua volta; ma non spreca voce né tempo. Sapeva fin dal momento del suo arresto che il modo per condannarlo, se avesse continuato a dir di no, lo avrebbero trovato senza problemi; e le sue parole non usciranno da quest’aula. Se ci fosse stato qualcun altro sarebbe stato diverso: avrebbe almeno provato a difendersi, non per salvarsi, ma perché la sua versione dei fatti, l’ingiustizia di quel processo, continuasse a vivere anche dopo di lui; non è così. È solo di fronte a questi militari anziani, spaventati dalla Calamità e dalla loro incapacità a combatterla, convinti in qualche misura che se perderanno sarà perché lui non ha obbedito agli ordini e alle leggende, e dunque già pronti ad assolversi con e dalla sua condanna.
    La corte impiega quasi venti minuti per deliberare, il che è un bene, a suo modo di vedere – non perché cambi qualcosa, ma perché vuol dire che probabilmente c’è ancora qualcuno, tra quegli anziani generali di corpo d’armata, che non è pienamente convinto della sua colpevolezza o della necessità di metterlo a morte; forse persino qualcuno che si sta spendendo per la sua difesa; gli piacerebbe sapere chi è, per ringraziarlo cogli occhi, quantomeno.
    Quando rientrano in aula decretano che venga condannato a morte per impiccagione e che la sentenza venga eseguita all’alba del giorno seguente.

 
    Quando ho finito, di recente, la mia fanfiction più strutturata e ambiziosa, ho provato un senso di smarrimento violentissimo che è perdurato per giorni: avevo paura che non avrei più scritto qualcosa di simile e che mi desse altrettanta soddisfazione.
    Quella paura, intendiamoci, non è scemata; ma ho deciso di combatterla ripromettendo a me stessa, nonché a mia sorella e alla mia instancabile beta Fiulopis, che mi sarei impegnata a scrivere anche cose più rassicuranti e meno angst del mio solito. Giuro che, anche se per ora non sembra, questa storia è scritta proprio per mantenere la mia promessa: perciò, anche se per ora c’è puzza del mio solito angst (la sento pure io!) vi prometto che la rassicurazione verrà, anche se non sono sicura che sarò in grado di scriverla. Ma, in fin dei conti, pazienza: intendo fare del mio meglio per uscire dai miei soliti schemi e per scrivere anch’io su qualcuno dei trope melensi e rassicuranti che di solito amo leggere. Spero che vorrete accompagnarmi in questo tentativo al di fuori della mia comfort zone, avendo pazienza se ne uscirà uno schifo.
    Una piccola avvertenza prima di proseguire:i sarete ovviamente resi conto che l'ambiente reale di questa storia sarà, ovviamente, un tantino più soffocante e rigido che in BOTW e in Hyrule Warriors: Age of Calamity. Ho pensato di riprendere e sviluppare un'idea che avevo appena abbozzato durante l'ultimo Writober: presto scoprirerte quale.
    Nell’attesa di scoprire che cosa ne uscirà, un bacio a tutti!
  Afaneia

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Capitolo 2
*** Patibolo ***


II – Patibolo
 
E poi, soprattutto, è riposante, la tragedia, perché si sa che non c’è più speranza, la sporca speranza; che si viene presi, che alla fine si viene presi come un topo, con tutto il cielo sopra di noi […]. Nel dramma, ci si dibatte perché si spera di uscirne. È ignobile, è utilitario. È gratuito, questo. È per i re. E non c’è più niente da tentare, alla fine!
Jean Anouilh, Antigone.
 
    È troppo frastornato per avere paura. Sta succedendo tutto così in fretta.
    I soldati non hanno il coraggio di guardarlo negli occhi. Lo riportano in cella ammanettato per ordine dei superiori: hanno paura della sua forza, non i soldati, ma i generali, si rende conto Link fissando le proprie mani dure, callose, coperte di cicatrici al di sotto delle manette; guardarle lo aiuta a mantenere il contatto con la realtà. Hanno paura che si ribelli, che afferri una spada da un fodero qualsiasi, il più vicino, e si difenda: allora non potrebbero nulla, lo sanno come lo sa lui. Con la spada, anche contro decine di nemici, è invincibile. Per questo hanno dato ordine di ammanettarlo: perché sono vigliacchi, ma le manette sono l’unica infamia che Link avrebbe voluto che gli fosse risparmiata.
    Avrebbe potuto dir di sì, naturalmente. Sarebbe stato facile, forse bello, persino: sposare Zelda, e… in fondo, le vuol bene come a una sorella, una creatura votata a Hyrule quanto lui, gemella al suo destino. Ma per aver salva la vita, per dir di sì, avrebbe dovuto rinunciare a una parte troppo grande di sé, che non avrebbe ritrovato mai più: non sa se abbia un nome, quella parte di lui, o se si possa dire a parole; comunque, sarebbe stato meschino. Come strisciare nella polvere e supplicar pietà; dire che farebbe tutto quello che vogliono, purché lo lascino vivere, e…
    In fondo sarebbe dovuto morire quel giorno a Hebra, colle cime aguzze dei monti, lividi, ai margini del suo campo visivo, e gli intestini in mano, come tanti soldati prima di lui: tutto quello che ha avuto dopo quel giorno è stato un di più, un omaggio che non ricorda di essersi guadagnato o meritato; quel dipiù è finito, evidentemente. Non ci sarebbe neppure da prendersela, perché ha vissuto più di quanto molti soldati abbiano ricevuto in sorte, in nome del vigore del suo braccio e della Spada che esorcizza il male; ma gli dispiace dover morire così, ignominiosamente, giustiziato in un cortile interno del castello. A quel punto sarebbe stato meglio quel giorno a Hebra, con Lelek di fianco, fiducioso, incrollabile; ma non ci è sempre dato scegliere.
    Ripete tutto questo a se stesso, ininterrottamente, perché la realtà è troppo orribile e ingiusta da affrontare. La realtà d’esser stato ricattato e condannato per poter giustificare col suo presunto tradimento la possibile sconfitta futura, d’esser stato rinnegato dal re, dai più alti ranghi dell’esercito: fronteggiare tutto questo dentro di sé sarebbe troppo grande e doloroso, insensato, e la sua mente non può tollerare di soffermarvisi. Vuole restare calmo, che tutti lo ricordino così; non è semplice, ma ribellarsi e urlare, del resto, sarebbe inutile e controproducente. Non ha spada né scudo; gli hanno legato le mani. Non può combattere nel solo modo che conosca, mentre le armi della diplomazia e della politica, nelle sue mani, sono prive di significato.
    I soldati lo conducono in carcere col massimo rispetto e gli tolgono le manette non appena possibile. Tengono gli occhi bassi, mortificati, e gli chiedono scusa. Gli portano subito il pranzo, tenuto in caldo, addirittura, e Link mangia macchinalmente senza pensare né guardare cosa stia mangiando; poi vomita nel secchio per i bisogni. Inizia a rendersi conto della condanna solo quando si ritrova appoggiato contro il muro cogli occhi lacrimanti per lo sforzo, spalancati, e la bocca acida.
    Passa una parte del pomeriggio a vomitare. I soldati si guardano smarriti, entrano ed escono dalla cella in spregio a qualsiasi regolamento; gli portano acqua da bere e per lavarsi, gli dicono parole che hanno accenti di conforto. Uno si offre di andare a chiamare il medico militare; a quell’idea quasi gli viene da ridere. Si trattiene soltanto perché questi ragazzi vorrebbero davvero aiutarlo e non sanno come fare – e perché neanche loro realizzano in pieno che domani morirà. Scuote soltanto la testa. Lo supplicano almeno di mangiare del pane, per bloccare i conati, a dir loro, e Link mangia per accontentarli. Si sente un po’ meglio.
    Verso sera torna Lelek. È agitato, gli tremano le mani, e si guarda attorno nervosamente perché è ovvio che non dovrebbe essere qui; Link vorrebbe sgridarlo, davvero, ma al solo vederlo gli si gonfia in petto come un abisso di sollievo. Gli sorride persino. Vorrebbe ringraziarlo, abbracciarlo, ma le parole, in questo momento, non gli vengono; gli prende la mano.
    «Capitano, non vi arrabbiate» gli dice come prima cosa Lelek: è pallido e risoluto. «I miei cugini sono ancora in allarme… basta una parola e tra un’ora possono essere qui… per favore, per favore, fate come vi ho chiesto. Vi prego.»
    La proposta di scappare suona così più tentatrice rispetto a ieri, ora che la prospettiva della morte s’è fatta reale e tangibile e concreta, ed è questione di ore, neppure di giorni; continuare a dire di no gli richiede più forza di quanta gliene sia occorsa mai. Link si sforza di sostenere lo sguardo dei suoi occhi colmi di speranza quando dice: «Lelek, basto io. Non vi permetterò di correre questo rischio per me. Non voglio più tornare sull’argomento.»
    Lelek ha un fremito d’impazienza e di disperazione; i suoi occhi corrono continuamente al corridoio. «Capitano, per favore…»
«Lelek» mormora Link stringendo brevemente la sua mano. «Ti prego, non lasciamoci così. Non farò nulla che possa mettervi in pericolo e non intendo cambiare idea. Ti prego, non insistere.»
    Lelek rimane in silenzio per un po’. È affranto, abbattuto, come svuotato interamente; china lo sguardo sulle proprie ginocchia e si prende la testa tra le mani. Poiché non è riuscito a salvarlo, ora sente d’aver fallito; sentendosi stringere il cuore, Link si china su di lui e lo scuote per costringerlo a guardarlo. «Voglio che mi ricordi come adesso. Me lo prometti?»
    Cogli occhi pieni di lacrime, Lelek annuisce faticosamente, ma questo a Link non basta; lo scuote ancora: «Ascoltami! Non venire domani. Prometti che non verrai. Devi ricordarmi calmo come sono ora. Sono sereno, vedi, e non ce l’ho con nessuno; non ho paura, ma tu promettimi che non verrai a vedere…»
    «Non faranno passare nessuno» balbetta Lelek. «Hanno dato ordine così… di tenere tutti fuori, di impedire il passaggio anche ai Campioni…»
    «Va bene» mormora Link. «È meglio così, devi credermi.» Ma il suo cuore sprofonda un poco a quelle parole: sarà completamente solo, dunque. «Ascoltami. Non domani e forse non presto, ma, quando la situazione sarà tornata calma, cerca di avvicinare la principessa Zelda. Se avrai modo di parlarle, vorrei che le dicessi che mi dispiace per tutto. Che avrei voluto che le cose andassero diversamente…»
    Non riesce a finire di parlare. D’improvviso arriva correndo un soldato semplice, trafelato, e batte sulle sbarre della cella per attirare la loro attenzione; il regolamento, ormai, è gettato alle ortiche, ma Link non è più nella posizione per rimproverare nessuno.
    «Lelek! Sono venuti a cercarti nei tuoi alloggi» esclama.
    Se sono venuti a chiedere esplicitamente di Lelek, potrebbero aver saputo che è venuto a trovare lui. Link lo afferra per le spalle e gli ordina: «Vai subito, Lelek, e non tornare più tardi. Siamo intesi?»
    No che non sono intesi, dicono gli occhi del ragazzo; vorrebbe tenergli compagnia, salutarlo per l’ultima volta; ma Link non può permettergli di affrontare un processo. In tempi normali non sarebbe irreparabile, forse comporterebbe, al massimo, una sanzione; ma è evidente che di normale adesso non c’è niente. Link lo scrolla. «Torna nei tuoi alloggi e fai finta di nulla, ma se ti interrogano, a quel punto dì la verità. Dì solo che eri dispiaciuto per me e che volevi dirmi addio. Se lo sanno già, è meglio se confessi: te la caverai con un’ammonizione scritta, al massimo una sospensione… ora però vai.»
    Avrebbe voluto salutarlo meglio, per lui più che se stesso; avrebbe voluto ringraziarlo ancora per Hebra, per quel giorno in cui lo ha pregato di restare sveglio e di continuare a vivere; ma anche questa volta non gli è dato decidere. Lo abbraccia soltanto una volta per non dargli il tempo di protestare, si dicono addio in fretta, poi lo spinge via; Lelek barcolla fuori frastornato più che mai. Link rimane solo per l’ultima volta.
 
    Lo portano al patibolo senza bisogno di trascinarlo; solo, ogni tanto, lo sorreggono nel lividore dell’alba. Ha affrontato la morte tante volte, in battaglia, e non gli ha fatto paura mai; o meglio quella paura buona delle battaglie, quella che ti mantiene in vita – ma è diverso, adesso. Vorrebbe che ci fosse l’adrenalina, qualcosa in grado di scatenarla, proprio come in guerra, ma non c’è niente: solo squallore.
    D’un tratto, mentre attraversano una corte interna, Link sente vociare a non grande distanza; rallenta senza volere per gettare un’occhiata. C’è un po’ di confusione. I soldati che lo scortano non sembrano provare il minimo desiderio dimettergli fretta.
     «Protestano per voi» mormora uno di loro.
    Da questa notizia Link vorrebbe trarre gioia o conforto, ma tutto quel che prova è un senso di commosso sgomento. Non sa cosa dire, forse non capisce neppure; avanza come nella stuporosa nebbia di un sogno. Lo toccano appena ed egli riprende a camminare, ciecamente; tutto è orribile come in un incubo dal quale non riesce né fa niente per svegliarsi. Non c’è risveglio, non più, ormai, e Link cammina attraverso le ali del castello come se avanzasse nel sonno.
    Alla vista del patibolo, suo malgrado, si ferma; è spaventoso anche per lui, inappellabile; è l’ultima cosa che vedrà mai, la corda che pende sotto il cielo grigio come acciaio. Ci sono solo militari, anche oggi, e il re che attende nell’ombra; ma Link non riconosce nessuno con chiarezza per quanto li guardi. Sono indistinti e anonimi come la folla in un sogno. Spera soltanto che non ci sia Lelek. Non vuole che lo veda morire così. È orribile morire così: questa è la prima volta che concede a se stesso di pensarlo. Che come ringraziamento per il suo sangue, per i suoi tormenti, gli hanno riservato una morte orribile e infamante. Che non è giusto.
    Lo fanno salire sul patibolo e gli passano il collo attraverso il cappio; Link li fissa tutti senza capire. Leggono la condanna: ne distingue appena alcuni stralci, senza capire, tuttavia; sente solo qualche parola: cavaliere, alto tradimento, con la firma dei seguenti consiglieri di corte… fa del suo meglio per concentrarsi, a queste parole, e riesce ad ascoltare persino i nomi: non c’è quello di Impa, o quantomeno lui non l’ha sentito. Impa non l’ha tradito, dunque; non che abbia importanza, adesso. Chiude gli occhi per lunghi momenti durante la lettura, come se aprendoli potesse non trovarsi più lì; ma è lì sempre e la lettura non cessa. Impiccagione finché morte non sopraggiunga; dovrebbero essere le ultime parole; poi ci saranno il vuoto e la pace, finalmente. Chiudendo gli occhi, Link si sforza di richiamare alla memoria l’immagine delle cime aguzze dei monti di Hebra ai margini del suo sguardo, vi si concentra con ogni fibra di se stesso e tutta la propria attenzione: è una buona immagine, quella, per morire e non pensare a quello che sta accadendo intorno a lui. Sente: impiccagione finché…
    Poi sente gridare: «Fermi!»
    Link spalanca gli occhi nell’aria livida del mattino. È la voce di Impa.
    Le guardie tentano di trattenerla con poca convinzione, perché sanno che sarebbe in grado di sconfiggerli con un colpo, se solo volesse; ma non è lì in veste di guerriera, ora. È arrivata di corsa; è sconvolta, ansante, e non è sola: l’accompagna un Rito alto, corpulento, che le arranca dietro con l’aria di qualcuno che decisamente non si aspettava di dover fare tutta quell’attività fisica di prima mattina. Link sbatte le palpebre più e più volte perché non riesce a credere alla sua presenza, o meglio ci crede, perché è innegabile; ma non sa spiegarsela. È l’ambasciatore dei Rito. Può intercedere per lui, forse; ma con quale autorità?
    Il re deve pensare la stessa cosa, evidentemente, perché i suoi occhi si appuntano prima su Impa e poi sull’ambasciatore con profondo disappunto.
    «Lady Impa» esordisce con sussiego. «Ambasciatore Mazli. Presumo che abbiate una buona motivazione per interrompere un’esecuzione marziale.»
    «Maestà» risponde l’ambasciatore inchinandosi. I suoi occhi vagano verso il patibolo con una certa preoccupazione. «Devo chiedervi di interrompere l’esecuzione finché non potrò produrre le prove che questa condanna è ingiusta. Il Campione dei Rito sarà di ritorno tra poco dal nostro Borgo con un certificato che prova che, quando gli è stato imposto l’ordine di sposare la principessa, il cavaliere Link era già sposato.»
    Link deve esercitare un inumano controllo su se stesso per impedirsi di spalancare la bocca per la sorpresa. È un piano quasi geniale, a tal punto che quasi si sorprende che non sia venuto in mente a lui – un matrimonio invaliderebbe l’intero processo perché nessuno, neppure il re, avrebbe potuto ordinargli di rompere un giuramento fatto alla Dea, e perché obbligherebbe la corte marziale a tener conto anche della giurisprudenza dei Rito. Ci sono solo due piccolissimi problemi: il primo è che Link non ha mai menzionato un matrimonio durante il processo. Il secondo è che, per essere valido, un certificato di matrimonio deve presentare la sua firma; e il re conosce la sua firma. Ma quando Impa, fingendo di gettarsi indietro i capelli, si scherma il volto con le braccia per un istante e strizza l’occhio nella sua direzione, Link si convince per un istante che la salvezza sia possibile. 
    Di questi problemi il re è consapevole come lo è lui. Non può ridere in faccia a un ambasciatore, ovviamente; ma persino lui deve sforzarsi per controllarsi.
    «Un matrimonio» ripete. Il sarcasmo della sua voce è malcelato e sferzante, seppur trattenuto. «E il fatto che questo matrimonio riguardi nientemeno che l’ambasciatore dei Rito è dovuto al fatto che sarebbe sposato con…»
    L’ambasciatore ha la precisa espressione di qualcuno che sia costretto a mordere un limone estremamente forte, a lungo, e soprattutto malvolentieri. «Col Campione dei Rito, il maestro Revali.»
    Link si sbagliava: la salvezza non è possibile. Questo è il piano più ridicolo che sia mai stato formulato.
 
    Ecco la promessa fatta a Fiulopis mesi fa: scrivere finalmente su uno dei miei trope preferiti, uno decente e allegro, per una volta. E poiché, negli ultimi mesi, ho iniziato a leggere quasi esclusivamente fake marriage, ho deciso che avrei fatto questo tentativo per me assolutamente folle e avrei provato a scriverne una tutta mia. Ho timore che ne verrà fuori una gigantesca cringiata, ma, in fin dei conti, finché non ci provi non lo sai. Grazie a An13Uta per il suo sostegno, davvero <3, sperando che non vada sprecato!
    Un’ultima cosa. Ci tenevo moltissimo a pubblicare questo capitolo proprio oggi perché – rullo di tamburi – è il quindicesimo anniversario del mio account su EFP! E considerando che compirò trent’anni ad aprile, in pratica metà della mia vita è trascorsa su questo sito. Perciò, anche se questo non è un capitolo particolarmente significativo o simbolico, volevo a tutti i costi postare qualcosa oggi. È il mio equivalente di una torta con quindici candeline.
    Un enorme abbraccio a tutti!

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Capitolo 3
*** Colline ***


III – Colline
 
Chi è in grado di dire che la natura umana sia in grado di sopportare una cosa simile senza impazzire?  A che serve una tortura così mostruosa, inutile, assurda? Può darsi che ci sia qualcuno a cui sia stata letta la sentenza di morte, gli abbiano fatto provare tutte le torture dell’attesa, e alla fine gli abbiano detto: “Va’ pure, sei stato graziato”.
Fëdor Dostoevskij, L’idiota.
 
    Non può funzionare. Link è grato ai suoi compagni, davvero, d’aver provato a salvarlo nell’unico modo possibile; se ce ne fosse stato un altro, quantomeno uno che potessero escogitare in così breve tempo, è certo che l’avrebbero trovato; ma non può funzionare. Nessuno ci crederà mai; ma ora Impa e Revali, e chissà chi altro, sono coinvolti in questa storia precisamente come lui; hanno mentito per salvarlo, e alla loro storia Link non può venir meno senza tradirli.
    Il re rimane in silenzio per un po’, sopraffatto dall’enormità della menzogna che ha appena sentito. Sta riflettendo sulla portata delle sue parole e su come smontarle, una per una, senza dichiaratamente accusare l’ambasciatore d’aver mentito.
    «Lady Impa» esordisce lentamente. «In Consiglio non avete detto niente. Voi lo sapevate?»
    «Se l’avessi saputo, l’avrei detto» risponde Impa prontamente. «Ma sono certa che Link abbia avuto i suoi motivi per tenerlo segreto persino a me.»
    «Ovviamente. Un matrimonio segreto. Ambasciatore Mazli, non vi pare, come dire… che questo presunto matrimonio salti fuori in un momento piuttosto opportuno?»
    Gli occhi dell’ambasciatore si fanno più stretti per un istante. Sceglie le parole con grande cura. «Non vi seguo, Maestà. Intendete forse dire che il difensore della mia gente, l’orgoglio dei Rito, il maestro Revali, starebbe mentendo?»
    Naturalmente il re non può dire nulla del genere; sarebbe gravissimo, contrario a ogni norma della diplomazia; ma quello che intendeva dire non lo sapranno mai, perché in quel momento l’aria si riempie di un frullare d’aria che Link riconoscerebbe anche in mezzo alla tempesta, e l’aria chiusa del cortile del Castello vortica improvvisamente di vento.
    Revali cala dall’alto come una freccia scoccata. È madido di sudore: se davvero è arrivato in volo dal Borgo dei Rito, deve aver volato per ore, forse tutta la notte, se è partito ieri dopo la condanna: Link non sa quand’è che possano aver escogitato questo folle piano.
    Revali s’inchina di fronte al re, porge all’ambasciatore un rotolo di pergamena, dopodiché si precipita su per i gradini del patibolo. Le guardie non sono rapide abbastanza da fermarlo, o piuttosto sono volutamente troppo lente e intendono favorirli in qualunque modo possano farlo: Revali lo stringe ostentatamente contro il proprio petto e chiede ad alta voce: «Stai bene?» E a voce bassissima, contro il suo orecchio, solo per lui, mormora: «Articulo mortis, quel giorno a Hebra sotto la tua tenda.»
    Forse è già morto, l’impiccagione è avvenuta, e quello è il più strano inferno in cui potesse capitare; oppure quelle sono le informazioni che ha bisogno di conoscere per salvarsi. Articulo mortis vuol dire un matrimonio celebrato in fretta da un ufficiale per qualcuno in punto di morte; persino lui ha dovuto celebrarne uno, una volta, pochi giorni dopo esser diventato capitano: è il ricordo più infelice della sua vita. Hebra, in punto di morte: quand’è che si è trovato a Hebra in punto di morte?
    È ironico che ci abbia pensato tutto quel tempo, quasi ininterrottamente, negli ultimi due giorni, a quelle cime aguzze, innevate, che baluginavano ai margini del suo campo visivo mentre lui agonizzava nei rimasugli sporchi di neve, nella pozza del proprio sangue, e Lelek teneva i suoi visceri con la mano. Mipha è arrivata a salvarlo, quella volta; ma Link è rimasto fuori gioco per due giorni, dopo che l’hanno portato al campo, in attesa di riprendere le forze e che il suo intestino tornasse a canalizzare regolarmente: ricorda soltanto, vagamente, che i Campioni si sono alternati al suo fianco, in quei giorni, per tenergli compagnia, e la presenza di Lelek, costante e confortante come i pali che sostenevano la tenda e la coperta sulla sua branda. Ricorda anche i brodi leggerissimi che Lelek gli preparava in quei giorni per nutrirlo, poiché non poteva ingerire cibi solidi, e poi le pappe di frutta schiacciata. Se c’è stata un’occasione in cui ha veramente rischiato di morire, a tal punto da giustificare un matrimonio d’emergenza celebrato da un ufficiale dell’esercito, è quella.
    «Maestro Revali, allontanatevi dal prigioniero» ordinano i soldati ai suoi fianchi senza eccessiva minaccia, vergognosamente in ritardo: nel tempo che hanno impiegato a reagire, Revali avrebbe fatto in tempo a portarlo via. Revali lo lascia andare e si ritrae da lui levando le braccia in segno di resa. Scende lentamente dal patibolo guardandolo negli occhi: vuole esser certo che abbia capito. Link sbatte le palpebre due volte. È come in guerra, adesso, circondati dal fragore della battaglia da ogni lato: non c’è bisogno di parlare. Basta solo capirsi; e in battaglia lui e Revali si sono sempre capiti. Capirsi, del resto, non richiede affatto andare d’accordo; e loro in questo sono sempre stati maestri.
    L’ambasciatore sta leggendo la pergamena che Revali gli ha portato. La sua voce si fa molto più sicura e baldanzosa ora che ha qualcosa di scritto a sostegno delle sue affermazioni.
    «Come stavo dicendo, Maestà» esclama trionfante porgendogli il foglio. «Un certificato di matrimonio datato alla scorsa primavera sulla piana di Hebra. Celebrato da un capitano Rito e controfirmato per convalida due giorni dopo dal capo del nostro Borgo. Questo invalida qualsiasi ordine successivo il vostro cavaliere abbia potuto ricevere. Non vi pare?»
    Il re prende il foglio che gli viene porto senza nemmeno degnarsi di guardarlo: è già convinto che sia falso. Non ha neppure bisogno di vederlo, il che è un bene, per loro, perché su quel documento non può esserci la vera firma di Link. È ragionevolmente certo di non essere sposato con nessuno, tantomeno con Revali: se c’è una firma, qualcuno deve aver firmato per lui.
    «Pare anche a me, ambasciatore» risponde. «Ma in tal caso il capitano Link dovrà spiegarci per quale motivo non ha mai fatto menzione di questo matrimonio preesistente quando gli è stato ordinato di sposare la principessa e neppure sotto processo. Volete spiegarci, Link?» chiede rivolgendosi verso di lui. «O forse vorrete dirci che di questo matrimonio vi eravate dimenticato fino a questo momento?»
    La menzogna gli sale alle labbra senza bisogno di cercarla perché in fin dei conti gliel’hanno fornita loro. Nessuno gli ha mai chiesto le motivazioni del suo ostinato rifiuto di sposarsi, prima; e durante il processo il tema del matrimonio non è mai stato sollevato perché nessuno voleva che venisse messo a verbale. Gli sono state poste unicamente domande dirette alle quali non poteva che rispondere di sì o di no; e per l’assenza di un pubblico in grado di ascoltare la sua difesa e le sue argomentazioni, di difendersi Link non s’è neppure preso la briga, visto che sapeva d’esser già condannato in partenza. Questo non depone a favore della sua difesa, naturalmente, perché se l’avesse detto fin dall’inizio non si sarebbe mai ritrovato con una corda al collo sul patibolo; ma non ha neppure mai detto nulla che contraddica la posizione di Revali. È una difesa stupida e incredibile, ma ora che c’è un certificato a provarla è anche piuttosto incontrovertibile.
    «Non mi è stato mai chiesto» risponde laconicamente Link.
    Il re sgrana gli occhi per un istante. Persino a lui questa risposta pare troppo oltraggiosa. «Prego?»
    Per quanto gli sia possibile con le braccia ammanettate dietro la schiena, col cappio ancora lasco attorno al collo, Link si sforza di rimanere sull’attenti. «Non mi è stato mai chiesto il motivo del mio rifiuto, Maestà, e legalmente io non ero tenuto a dirlo, perché quell’ordine, come ho ribadito più volte, esulava di per sé dalle ragioni del servizio. Neppure durante il processo mi è stato mai chiesto di motivare il mio rifiuto, e le mie argomentazioni mi sembravano sufficienti: l’ordine non rientrava del servizio. Il mio matrimonio è un affare che riguarda solo me.»
    «Ai vostri superiori però avreste dovuto dirlo subito!» tuona uno dei generali. «Questo vi rende, come minimo, colpevole d’omissione…»
    Revali sorride, perché tutti in questo cortile sanno che la sanzione per l’omissione è risibile; di certo non è la pena di morte. Link sostiene lo sguardo del generale senza chinare gli occhi.
    «Avete ragione sull’omissione, generale. Mi dichiaro colpevole, ma posso spiegare. Se avessi dichiarato il mio matrimonio come da regolamento, avrei dovuto prendere un congedo di una settimana. Non potevo permettere che la principessa restasse priva di scorta per tutto quel tempo ora che la minaccia della Calamità è così pressante. Avevo in programma di dichiararlo non appena la minaccia fosse stata rientrata. Sono colpevole di omissione e sconterò volentieri la pena prevista dai regolamenti, ma solo perché non volevo lasciare il mio posto al fianco della principessa.»
    «Tutto molto comodo, non trovate, cavaliere?» domanda il re. Non ha neppure badato all’ultimo scambio, perché di certo non è per omissione che voleva accusarlo; i suoi occhi cupi, infervorati, percorrono il foglio mentre lo stringe tra le mani. È furioso. «Un matrimonio che nessuno ha mai menzionato di cui vi ricordate opportunamente sul patibolo, certificato soltanto da un documento firmato da soli Rito, che potrebbe esser stato fatto stanotte…»
    Il petto dell’ambasciatore si gonfia di sdegno, fa per prendere la parola; il re ha appena insinuato che la sua gente si sia prestata a produrre un falso – il che è esattamente quello che hanno fatto; ma prima che possa parlare, una mano si alza tra i soldati schierati nel cortile e Lelek dice con voce incerta: «Perdonatemi Maestà, se posso… quella è la mia firma.»
    È almeno la terza volta che il suo attendente disobbedisce a un suo ordine. Non sa neppure come faccia a trovarsi lì in quel momento, perché ieri sera Lelek gli ha detto che gli ordini erano chiari, di non far passare nessuno; ma evidentemente questo non l’ha fermato. In qualche modo si dev’essere intrufolato tra i soldati del turno di guardia, senza che nessuno badasse a lui né alla sua presenza. Mentre gli occhi di tutti si appuntano su di lui, Lelek avanza tra i soldati e si mette sull’attenti. Il re lo guarda con enorme disappunto.
    «La tua firma?»
    «Sì, Maestà.» Lelek accenna col capo al certificato. «Ho firmato come testimone di nozze, quel giorno a Hebra. Sono l’attendente del Capitano.»
    «Mi ricordo di te» risponde il re cupamente, scorrendo il foglio cogli occhi. La firma è proprio dove dev’essere, immagina Link, perché non chiede oltre; ma com’è possibile che quella firma ci sia, se Revali è appena tornato dal Borgo dei Rito dove dev’essere andato a far falsificare il certificato? Tutti sanno che si stanno raccontando una menzogna, ma il certificato di matrimonio è stato firmato dal capo di uno dei domini protetti dalla Corona; e ora c’è un testimone Hylia che sicuramente non poteva trovarsi al Borgo dei Rito questa notte. I generali si scambiano sguardi e si accostano alle spalle del re per vedere il certificato coi loro occhi, solo per doversi arrendere al fatto che quel documento esiste ed è incontrovertibile; sono pallidi di rabbia ma impotenti. «Una medaglia per servigi resi durante la battaglia di Hebra. Mi ricordo. Hai salvato la vita del tuo capitano. Dunque tu avresti assistito a questo famoso matrimonio.»
    «Sì, Maestà. Posso confermarlo.»
    «E puoi anche raccontarmelo, immagino.»
    C’è uno scherno palese nella voce del re, e proprio quello scherno minaccia di far crollare tutto. Link si sorprende a trattenere il respiro, ma non cede alla tentazione di cercare lo sguardo di Revali. Ora che hanno iniziato, devono andare avanti a dispetto di tutto; ma il suo attendente è soltanto un ragazzo. Avrebbe preferito che non venisse coinvolto in tutto questo.
     Lelek esita un istante. «Raccontarlo, Maestà?»
    «Raccontarlo, soldato. Ne sei in grado?»
    Link china gli occhi perché non vuole vedere quello che sta per accadere: il suo attendente confondersi e impallidire sotto lo sguardo del re nel tentativo di salvarlo.
    «È stato un po’ più rapido dei normali matrimoni, Maestà» risponde Lelek con naturalezza. Link alza gli occhi di scatto perché non riesce a credere alla spontaneità di quella menzogna, eppure, in fondo, è ovvio, dice a se stesso: Lelek era con lui quando ha celebrato il suo unico matrimonio per un soldato in punto di morte. «L’ufficiale Rito ha chiesto soltanto se esistessero impedimenti alla celebrazione del matrimonio, il Capitano e il maestro Revali hanno giurato che non ce n’erano e io e un arciere dell’esercito Rito abbiamo testimoniato che non ne eravamo a conoscenza. Per il resto è stato tutto molto simile, tranne per il banchetto.»
    La sua descrizione è talmente semplice e naturale che per un attimo Link si domanda se quel matrimonio non sia avvenuto veramente e lui se lo sia semplicemente scordato.
    «Il banchetto?»
    «Intendo dire che non c’è stato, Maestà, mentre di solito nei normali matrimoni c’è» puntualizza Lelek. «Eravamo tutti molto preoccupati per il Capitano. Temevamo che non passasse la notte. Anche la principessa Mipha non era in grado di fare di più, data la condizione degli intestini, e anche quando il medico lo ha dichiarato fuori pericolo abbiamo dovuto continuare a dargli cibi liquidi per giorni. Io e il maestro Revali ci siamo dovuti alternare per imboccarlo.»
    L’enormità della sua bugia è tale che Link si sente avvampare; qualcuno, nel cortile, sorride. Revali, invece, è raggelato. Si volta verso Impa e l’ambasciatore come se dovesse giustificarsi di qualcosa, dopodiché si schiarisce la voce e dice: «Credo che questo esuli dall’argomento della domanda.» Impa deve trattenersi dal ridere.  
    Arrivati a questo punto, ne hanno tutti avuto abbastanza di quella pagliacciata, a quanto pare. Soprattutto il re.
    «Molto bene, allora» conclude restituendo la pergamena all’ambasciatore senza troppe cerimonie. «Non finisce qui. Lasciatelo andare» ordina ai soldati sul patibolo attraversando il cortile a grandi passi. «Mettetelo in congedo forzato, fate quello che volete. Non voglio vederlo mai più.»
 
    Lasciano il cortile in fretta, prima che il re cambi idea, mentre l’ambasciatore gli corre dietro per chiarire chissà cosa; Link si sente la vista oscurata a tratti, le gambe tremanti, l’illusione del cappio ancora attorno al collo, e mani che lo sostengono per i gomiti ogni tanto senza ch’egli sappia a chi appartengono. È solo vagamente consapevole della presenza di Lelek dietro di lui, vorrebbe dirgli qualcosa, ringraziarlo; ma non c’è tempo. Uscite di qui prima che il re cambi idea e aspettatemi fuori, ha detto l’ambasciatore prima di sparire, e a quanto pare è quello che stanno facendo. Link non obietta né osa far domande finché non saranno all’aperto. Revali ancora non gli ha rivolto la parola.
    I Campioni li attendono presso le stalle: hanno fatto sellare i cavalli nell’attesa. A giudicare dal sollievo che compare nei loro occhi quando li vedono, nessuno di loro era affatto convinto che il piano avrebbe funzionato: Daruk lo stritola tra le braccia mozzandogli il respiro, sollevandolo dal suolo, e la brusca carenza d’ossigeno al cervello forse è quello che gli occorreva per riportarlo al presente. Mipha lo guarda con occhi enormi di terrore come se neppure riuscisse a credere al fatto che è salvo davvero: Link le posa una mano sulla spalla, ma non osa fare di più. È a conoscenza dei suoi tormenti da tempo.
    «Stai bene, Link» commenta Urbosa mettendogli una mano sulla spalla. «Ci hai fatti spaventare sul serio, stavolta.»
    «Sei stato coraggioso, invece, roccia!» ribadisce Daruk. «Hai tenuto testa a quei generali con dignità. Nessuno avrebbe saputo fare di meglio.»
    Link non sa neppure come rispondere loro: si sente frastornato, confuso, e vorrebbe sapere cos’è successo e com’è accaduto tutto quanto; ma non possono correre il rischio di parlarne finché non saranno lontani dal Castello. Si limita a guardarli solamente e chiede, cercando di non sbilanciarsi troppo: «Devo ringraziare tutti?»
    L’ambasciatore arriva planando mentre stanno cercando una risposta da dargli. È il Rito più nervoso e fuori forma che Link ricordi d’aver mai visto, sebbene la maggior parte delle sue esperienze coi Rito, del resto, riguardi perlopiù guerrieri e arcieri: quando si posa a terra, ansima affannosamente. Ha l’aria di voler essere ovunque piuttosto che qui.
    «Ci siete tutti?» chiede nervosamente scorrendo gli occhi su di loro. «Cavaliere, ho parlato col vostro comandante… siete in congedo forzato a tempo indeterminato finché questa faccenda non sarà chiarita. Vi consiglio di lasciare il Castello al più presto. Ora siete sotto la tutela della mia gente, avete la mia parola.»
    «Non posso lasciare il Castello» protesta Link scioccamente. È l’unico pensiero logico che sia in grado di formulare al momento. «La principessa…»
    «Link» mormora Mipha. La sua voce è tenue e ragionevole come acqua. «Non puoi proteggere Zelda in questo momento. Resteremo noi con lei.»
    Link volge gli occhi sui suoi compagni senza capire. È l’Eroe che brandisce la Spada che esorcizza il male, è il cavaliere che protegge la principessa: non può semplicemente andare e lasciarla; ma Mipha ha ragione, l’ambasciatore ha ragione. Non può aiutarla in questo momento.
    «Maestro Revali» riprende l’ambasciatore. Gli porge il certificato che il re gli ha restituito: Revali lo guarda per un istante come se si fosse già dimenticato dell’esistenza di quell’oggetto. Il matrimonio deve costituire una discreta novità anche per lui. «Vi prego, ditemi che non dovrò pentirmene.»
    Revali sorride. «Pentire di cosa?»
    «Ditemi che non ho dichiarato il falso.»
    Revali prende la pergamena dalle sue mani e la ripone ordinatamente nei viluppi della propria tunica ricamata. «Il certificato è legalmente vero» risponde con calma. «L’ufficiale esiste davvero, lo conoscete, e del resto l’ha controfirmato il capo Kagan in persona.»
    «E per caso il capo Kagan è stato tirato giù dalla sua amaca in piena notte per firmare quel certificato?»
    Revali si stringe nelle spalle. «Lo sapete com’è con questi matrimoni in punto di morte… c’è sempre una gran fretta. Non c’è tempo di andare tanto per il sottile. Potrebbe essere successo, ma non saprei dire quando. Quanto alle nozze, naturalmente voi non c’eravate e non potete ricordarvele, no? In fondo voi avete solo fatto valere i diritti di un vostro concittadino. E comunque, per questo famoso matrimonio abbiamo anche un testimone che non sa tenere il becco chiuso» aggiunge accennando a Lelek in tono piuttosto seccato, e Lelek cerca disperatamente gli occhi di Link in preda al panico. Link gli sorride e gli fa cenno di lasciar correre.
    L’ambasciatore si sforza di sorridere senza troppa convinzione. «Va bene. Ma dopo questo siamo pari, maestro Revali, per quel vecchio fatto. Va bene?»
    Revali si posa una mano sul petto e risponde con grande serietà: «Dopo questo sono io a essere in debito con voi, ambasciatore. Credete che non lo dimenticherò.»
    «Ora non esageriamo» borbotta l’ambasciatore un po’ impacciato. «Non è stata proprio la stessa cosa. Ora andate» insiste facendo loro cenno di levarsi di torno. «Non sarò tranquillo finché non vi saprò nei nostri confini. Vi scriverò tra qualche giorno per aggiornarvi sulla questione, e subito se dovesse accadere qualcosa che vi riguarda, va bene?»
    A giudicare dai cavalli sellati, il piano prevedeva fin dall’inizio che si recassero presso il Borgo dei Rito: la sua cavalla porta bisacce col necessario per qualche giorno. Ben assicurata sotto la sella Link intravede l’elsa della Spada che esorcizza il male.
    «Ho preparato io i vostri bagagli, Capitano» mormora Lelek timidamente, accostandosi alle sue spalle. La presenza dei Campioni lo ha sempre messo in soggezione. «Alla solita maniera. Non dovrebbe mancare nulla rispetto al solito. Ho preso tutto quello che mi è venuto in mente…»
    Link impiega un po’ per rispondere perché la sua fedeltà pare stringere un nodo nella sua gola. «Grazie, Lelek. Hai fatto più di quello che dovevi.»
    «Scusatemi se non mi asciugo gli occhi» li interrompe Revali spazientito. «Decidiamo come muoverci. Link, la cosa più semplice è che tu vada a cavallo e io mi sposti in volo. Posso aspettarti direttamente al Borgo dei Rito, o forse è meglio che facciamo tappa allo stallaggio più vicino per...»
    Link non lo trova un piano poi tanto assurdo, dato che lui non può volare e Revali non cavalca, ma sui presenti cala un silenzio inorridito.
    «Revali, per l’amor del cielo» geme l’ambasciatore. «Se qualcuno vi vedesse…! Se si sapesse che viaggiate separati! Tanto vale strappare il certificato e consegnarci al re!»
    Revali lo fissa senza capire.
    «Il tuo amore coniugale è così travolgente, Revali» sospira Urbosa. «Sono quasi dispiaciuta di non essere io la fortunata. Davvero lasceresti tuo marito viaggiare per giorni da solo dopo che è appena scampato al patibolo?»
    Dall’espressione di Revali è piuttosto evidente che sì, lo lascerebbe senza problemi.
    «Medoh è in circolo solitario a tre ore da qui» interviene Impa indicando le colline in lontananza, verso nord-ovest. «Puoi aspettarci lì e portarlo alla quota più bassa possibile senza farlo schiantare. Io posso accompagnare Link a cavallo fin lì e da lì potete proseguire insieme per il Borgo dei Rito. Su Medoh sarete più lenti che se tu volassi da solo, ma almeno non sembrerà che abbiate appena divorziato» puntualizza in tono lieve di rimprovero, come se Revali si fosse appena dimenticato di essere legalmente sposato. Il che è, tecnicamente, quanto è appena accaduto.
    Persino Revali deve riconoscere a malincuore che è un buon compromesso.
    «Bene. Quand’è così, non perdiamo altro tempo» conclude. «Mi scuserete se non mi profondo in addii strappalacrime. Porgete i miei saluti alla principessa. Ambasciatore» conclude seccamente. Dopodiché, senza guardar nessuno, si abbassa a terra per un attimo e si leva in volo in un vortice.
    L’ambasciatore sembra sorprendentemente sollevato dalla sua partenza. La sua continua tensione sembra allentarsi un poco, forse perché la presenza dell’orgoglio e difensore della sua gente contribuisce, a dispetto di tutto, a metterlo sotto pressione. Fissa Link con un sospiro profondo.
    «Vi è andata bene, cavaliere» conclude a mo’ di saluto con aria esausta. Link apre la bocca per ringraziarlo, ma l’ambasciatore si affretta a metterlo a tacere come se temesse di sentire qualcosa di compromettente su cui potrebbe esser chiamato a giurare in un secondo momento. «Per l’amor del cielo, non ringraziatemi… per quanto ne so io, siete entrato a far parte della mia comunità col matrimonio, quindi era mio dovere legale difendervi. Non osate dire quello che penso.»
    Link rimane interdetto per un istante. «Vi siete comunque speso per me, ambasciatore. Grazie.»
    «Farò conto che mi abbiate ringraziato perché sono stato disturbato in piena notte» ribadisce Mazli, ben determinato a non udire, o a poter dire di non aver udito, niente di più compromettente di questo. «Addio, cavaliere. Con tutto rispetto, spero di non sentir più parlare di voi.»
    Non rimane più altro da dirsi. L’ambasciatore sembra piuttosto ansioso di rientrare a casa: i Campioni si offrono di scortarlo fino ai suoi alloggi presso il borgo che circonda il Castello. Si voltano a salutare Link in fretta.
    «Promettimi che starai attento» mormora Mipha abbracciandolo.
    «Prometto che cercherò di non farmi impiccare anche dai Rito» risponde Link, visto che è il massimo che ancora sia rimasto sotto il suo controllo, cercare; ma gli occhi di Mipha rimangono corrucciati e seri. Link le accarezza una guancia per un istante. «Andrà bene, Mipha, vedrai. Non possono più farmi nulla. Non avere paura per me. Me la caverò.»
    Urbosa e Daruk lo abbracciano senza parlare, poi è tempo di separarsi. Impa sale a cavallo per accompagnarlo per un tratto, come hanno stabilito, e Lelek fa lo stesso. Link lo guarda con disapprovazione senza riuscire davvero a prendersela. «Non vorrai disertare, spero. Per oggi mi pare che tu abbia già disobbedito a sufficienza.»
    «Non sarò di turno di guardia fino a stasera» si difende Lelek. «Posso almeno venire a salutarvi, Capitano. Non so neppure quando vi rivedrò.»
    Link sprona il cavallo evitando di rispondere, perché tecnicamente dovrebbe almeno provare a riprendere il suo attendente per tre interi giorni di mancanze al regolamento; ma, in fin dei conti, si dice prendendo le redini, è in congedo forzato, al momento. Non è tenuto proprio a far niente.
    «Mentre andiamo potresti spiegarmi come vi è venuto in mente il piano peggiore del mondo» propone a Impa che cavalca al suo fianco. Lelek li segue rispettosamente a qualche metro di distanza.
    Gli occhi di Impa si accendono dello spettro di una risata. «Credevo che per un militare i piani peggiori del mondo fossero quelli che falliscono.»
    «Ammetterai che questo ha rischiato di andarci molto vicino.»
    Non è una spiegazione avventurosa, e probabilmente, se non riguardasse lui direttamente e il fatto che è appena scampato alla morte, non sarebbe neppure tanto appassionante; ma Link l’ascolta beandosi dell’aria e dello spettacolo dell’erba che si flette nel vento dopo giorni di prigionia. L’ascolterebbe per ore.
    La principessa è ancora reclusa nelle sue stanze, proprio come aveva immaginato lui, e lo è rimasta per tutto il tempo. Impa e i Campioni hanno trascorso gli ultimi giorni a cercare di scoprire per che cosa esattamente Link fosse stato arrestato e processato, perché, se dovevano difenderlo, non potevano farlo che su basi legali certe; non è stato facile, perché fino al processo s’è trattato solo di voci. Tutto quello che i Campioni potevano fare, in attesa di scoprire l’esatto motivo della condanna ufficiale, era minacciare la Corona di ritirare il loro appoggio personale e quello dei loro popoli alla causa della Calamità se il Campione della principessa fosse stato condannato; l’hanno fatto, naturalmente, ma non è servito. Il re ha rifiutato di riceverli adducendo scuse e al loro annuncio ha mandato a dire che, semplicemente, non poteva obbligarli a combattere né pretendere da loro un aiuto che non erano disposti a dare in piena libertà. Se era disposto a spingersi fino a quel punto pur di risvegliare il potere di Zelda, era evidente che non si sarebbe fermato.
    Hanno avuto certezza della motivazione della condanna solo dopo il processo, quando i Consiglieri sono stati radunati in fretta per ratificarla; ed è stato grazie a Impa, che ha insistito perché la motivazione della condanna fosse dichiarata ufficialmente prima di procedere alla ratifica. È stato solo grazie alla sua ostinazione che hanno avuto conferma che la motivazione della condanna era proprio il rifiuto di Link alle nozze; e a quel punto non rimaneva loro che una manciata di ore per decidere il da farsi. Le hanno trascorse nella grande biblioteca del Castello, a compulsare regolamenti militari e leggi cadute in disuso da presentare come precedenti, più frustrati e disperati ogni minuto che passava, finché Impa non ha levato lo sguardo e ha realizzato che i regolamenti militari non c’entravano niente perché non contemplavano quel caso specifico. Che l’unica legge che poteva salvare Link era sempre stata ovvia, quasi scontata, talmente evidente che fino a quel momento non era venuta in mente a nessuno, nascosta in piena vista sotto gli occhi di tutti: quella, valida entro tutti i confini reali compresi i domini protetti dalla Corona, che proibiva la bigamia. A quel punto non restava che decidere a chi sarebbe toccato l’onore e l’onere; e, una volta scelto, l’unico ostacolo era rimasto il tempo. Cercate l’ambasciatore, ha detto Revali prima di lasciare la biblioteca, datemi tutto il tempo che potete. Il resto viene da sé.
    Link strizza gli occhi nell’aria frizzante del mattino. C’è qualcosa che non gli torna. «Ma tu e l’ambasciatore siete arrivati…»
    «Non appena l’ambasciatore s’è degnato di farsi trovare» risponde Impa, seccata al solo ricordo. «Lo abbiamo cercato per tutta la notte, ma non era nella sua residenza al borgo. È tornato vergognosamente tardi e, a sentire i suoi collaboratori, nessuno sapeva dove fosse. Ho avuto la sensazione che abbia qualche passatempo notturno, ma, francamente, ho preferito non indagare…»
    Su questo Link concorda perfettamente con lei. «E la firma?»
    Impa si gira sulla sella a guardare Lelek. «Penso che questo possa spiegartelo meglio il tuo attendente» risponde divertita. «A dire il vero, quella è stata una sorpresa anche per me.»
    Sentendosi chiamato in causa, Lelek sprona il cavallo fino a raggiungere i loro. È diventato tutto rosso in viso.
    «Non vi arrabbiate, Capitano» inizia con una certa esitazione. Link dubita che potrebbe trovare qualcosa per cui arrabbiarsi con lui questa mattina, ma decide comunque di non interromperlo. «È stato quando mi hanno detto che mi cercavano, ieri sera mentre ero con voi, ed entrambi abbiamo pensato che avessero scoperto che ero venuto a trovarvi.»
    Link rimane interdetto per un istante. Non si sarebbe mai aspettato che Revali si ricordasse del suo attendente in un frangente come quello. «Revali è venuto a chiedere di te?»
    Il fatto che non lo stia rimproverando sembra dare a Lelek un po’ di coraggio. «Così pare. Mi ha spiegato cosa intendeva fare e mi ha chiesto se sapessi imitare la vostra firma su una pergamena bianca. Ha detto che avrebbe fatto scrivere il certificato intorno alle firme. Che gli serviva il mio aiuto per salvarvi.»
    Link si è chiesto per tutto il tempo come potessero esserci la firma di Lelek e la sua su quel certificato: la risposta era talmente semplice che si vergogna di non esserci arrivato da solo. Le firme erano sul foglio prima del resto del certificato. Aggrotta la fronte per un momento. «Ma tu da quand’è che sai falsificare la mia firma?»
    Lelek si passa una mano dietro la nuca. «Non lo sapevo fare, ovviamente. Ho cercato tra i vostri documenti e l’ho ricalcata un paio di volte finché non è venuta fluida. Non è stato per niente facile con Revali che mi stava addosso.»
    Link non osa neppure immaginare quanto poco sia stato facile e non stenta a credergli sulla parola.
    Rimane in silenzio per un po’, pensierosamente, a osservare le colline che si fanno più imponenti e ravvicinate ogni minuto che passa; accarezza il collo della sua cavalla trattenendo nella mano la sua criniera lunga che s’annoda tra le sue dita. La realtà si sta facendo più concreta e tangibile a misura che si allontanano dal Castello: nella Hyrule che si allarga attorno a lui finché l’orizzonte non scompare: è ancora vivo.
    «Sarei terribilmente ingrato se ti facessi una domanda, vero?»
    Impa sorride come se quella domanda se l’aspettasse ormai da ore. «Devo essere io a indovinarla?»
    Link cerca ovunque le parole meno offensive e ingrate che gli vengano in mente, ma non è che ci siano molti modi per porre questa domanda. «Perché Revali?»
    «Perché arrivati a quel punto non c’erano molte scelte, Link. Sapevamo che non era la scelta ideale, ma era comunque l’unica possibile: non potevo essere io, perché non ne avevo fatto parola in Consiglio e dunque nessuno mi avrebbe creduta. Mipha e Urbosa avrebbero dovuto chiedere la ratifica delle nozze alla loro famiglia o alle consigliere Gerudo. E poi Mipha…» La sua voce vibra di una nota esitante di dolore: per l’amore non corrisposto di Mipha Impa nutre un’enorme comprensione e un’ancor più profonda compassione, e Link annuisce senza bisogno ch’ella dica niente perché ha compreso che cosa intende dire. Che Mipha avrebbe detto di sì, ma che non c’era bisogno di aggiungere al suo anche questo dolore senza fine, quest’ultima beffa al suo amore non corrisposto; e che entrambi sanno che piuttosto che dir di sì, di approfittare del suo dolore e del suo amore, Link avrebbe scelto la forca. «Quanto a Daruk…» Impa s’interrompe per un momento cercando le parole. Alla fine ci rinuncia. «Francamente non ci sembrava più credibile di Revali» conclude, e Link deve riconoscere che non ha tutti i torti. «Inoltre, Revali era l’unico che potesse andare dalla sua gente e ritornare qui in una dozzina di ore. Non hai torto sul fatto che fosse un piano disperato, ma era anche l’unico che avevamo.»
    «Grazie» risponde Link. Per qualche strano motivo, Impa scuote la testa e abbassa lo sguardo.
    «Aspetta a ringraziarmi» mormora.
    Non parlano più finché non arrivano sul crinale della collina che affaccia sul fiume e sopra di loro rimbombano i motori antichi di Medoh che sorvola la vallata. Quando appaiono sulla distesa di verde, il colosso inizia una planata lenta, metodica, verso il letto del fiume: Revali si abbasserà il più possibile finché Link non potrà planare con la paravela e incontrarne il ventre. Non ci sarà molto tempo per poter compiere la manovra senza che Revali debba tornare indietro e compiere tutti i movimenti di nuovo: i loro saluti dovranno essere concisi. Quando scendono da cavallo, Impa si getta al suo collo senza perder tempo.
    «Ti abbiamo fatto un bello scherzo, eh?» chiede a bassa voce.
    Link l’abbraccia senza capire. «Mi avete salvato, Impa. Non potrò mai ringraziarvi…»
    «Non dirlo» lo interrompe Impa. La sua voce suona immensamente triste. «Era la sola scelta che avevamo, ma ora non puoi fare altro. Non potrai sposarti o…»
    «Impa» dice Link. «Sono qui. Va bene così. Tutto è meglio dell’alternativa.»
    Impa si stacca dal suo collo senza convinzione. «Abbi pazienza con Revali» mormora. «Non lo conosco meglio di te, e so che non è perfetto… ma ha rinunciato a molto per fare questo per te, compreso un bel po’ del suo orgoglio. Tu non hai avuto ancora tempo per realizzarlo, ma avete sacrificato entrambi molte cose, e non era tenuto a farlo.»
    «Lo so» risponde Link, ma si rende conto di farlo quasi macchinalmente: Impa ha ragione su una cosa. Non ha avuto ancora tempo di realizzare quanto è accaduto. È stato tutto così rapido, confuso, indistinto come un movimento troppo veloce e dunque sfocato: il patibolo, la corda, Revali, le bugie, le bugie, le bugie. Ora sarà una bugia molto a lungo, forse per sempre; è una condanna definitiva quanto quella di prima, solo un po’ meno drastica, e si sorprende che quest’idea non lo spaventi tanto quanto dovrebbe. «Andrà tutto bene, Impa. Grazie di avermi salvato. Chiedi scusa alla principessa da parte mia» aggiunge. «Dille che avrei voluto restare, che mi dispiace per tutto. Che…»
    «Faremo di tutto per farti tornare» promette Impa separandosi da lui. «Ora però direi che hai qualcun altro da salutare.»
    Lelek è rimasto immobile, a qualche passo di distanza, a trattenere con la mano le redini dei loro cavalli. Link gli si avvicina senza saper che dire: è quello che ha rischiato più di tutti per lui, perché a differenza dei Campioni e di Impa non aveva nessuno a proteggerlo.
    «Farò condurre la vostra cavalla allo stallaggio dei Rito» propone Lelek. «Ci vorrà qualche giorno, ma almeno l’avrete a disposizione se vorrete spostarvi. C’è qualcosa che volete che vi mandi insieme a lei?»
    «Non mi servirà nulla» risponde Link, che di beni materiali ne possiede assai pochi: i suoi effetti personali sono già nei suoi bagagli, e ne è certo senza neppure bisogno di controllare perché Lelek prepara i suoi bagagli esattamente allo stesso modo ormai da anni. La domanda però gli fa venire in mente una cosa. «Nella mia armeria privata però c’è uno scudo blu, antico, che mi ha tramandato mio padre. Ce l’hai presente?»
    «Certo. Vi interessa solo quello?»
    «Voglio che lo prenda tu» risponde Link.
    Lelek arrossisce di vergogna come il giorno che Link gli ha donato la spada di suo padre. «Capitano…»
    «È l’unica cosa preziosa che io possieda, Lelek. Per favore. Voglio che l’abbia tu. È la seconda volta che mi salvi la vita, e spero che non ce ne sarà una terza, perché non mi rimane altro da regalarti per ringraziarti.»
    L’ha detto per scherzare, naturalmente, ma Lelek non sembra comprendere lo scherzo. «Lo sapete che non l’ho fatto per questo.»
    «Se avessero scoperto che hai mentito, avresti rischiato la condanna quanto me» lo interrompe Link. Posa le mani sulle sue spalle e la fronte contro la sua fronte: Lelek ha gli occhi pieni di lacrime e sbatte le palpebre più volte per scacciarle. «Poiché sei stato mio amico in quel momento, tu sei mio fratello per tutta la vita. Ti prego, Lelek. Non ho altro da darti, ma consenti che io ti dia almeno quello che ho. Sai che non potrò mai ringraziarti per quello che hai fatto per me.»
    Lelek annuisce asciugandosi gli occhi. Alzano lo sguardo su Medoh: è sempre più basso, sta per porsi in orizzontale sull’acqua, quasi di fronte a loro. Link apre la paravela che pende dalla sella, si allaccia ai fianchi il fodero della Spada e si assicura al petto le bisacce coi suoi pochi effetti personali: a occhio e croce, gli rimane circa un minuto prima di dover planare verso il colosso sacro. Impa, indietreggiata col suo cavallo per sottrarsi alle correnti d’aria provocate da Medoh, lo saluta con la mano sorridendo cogli occhi scuri e appena un poco tristi.
    «Capitano» mormora Lelek. «C’è un’altra cosa.»
    Ha l’aria di dovergli confessare un peccato innominabile. Link lo guarda con viva perplessità. «Che cosa c’è?»
    Lelek si guarda attorno come se ancora temesse che qualcuno possa essere in ascolto pronto a smentire le loro bugie, a ore di distanza dal Castello. «Potete porgere le mie scuse a Revali? So di aver parlato troppo prima, nella corte. Volevo solo essere convincente, ma temo che non abbia gradito. Per quella storia che vi ha imboccato quando eravate convalescente, sapete.»
    Link sente una risata sbocciargli in gola per la prima volta da ormai molti giorni. «Non credo che se la sia presa davvero, Lelek. Non preoccuparti. Anche se è stata una bugia un po’ azzardata.»
    Lelek lo fissa con occhi pieni di confusione.
    «Ma non era una bugia» risponde. «Quella è stata l’unica cosa che non ho inventato. Non ve lo ricordate?»

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Capitolo 4
*** Borgo ***


Capitolo IV – Borgo
 
Cameretta sul mare; m’ha svegliato il troppo intenso chiarore della luna, della luna sul mare.
Quando mi avvicinai alla finestra, credevo fosse l’alba e che avrei visto il sorgere del sole…
André Gide, I nutrimenti terrestri.
 
    Ha preso male la mira, seppur di poco. Rischia di mancare di una spanna appena la vasta apertura sul fianco di Medoh che aveva preso come obiettivo quando si è lasciato planare dalla collina con la paravela: è stata colpa di Lelek, questa volta. Non perché gli abbia fatto perder tempo, a dire il vero – di tempo ce n’era a sufficienza; ma quelle storie lo hanno distratto. Se non conoscesse Lelek, se non fosse certo della sua trasparenza e della sua buonafede come lo è della consistenza delle proprie mani, del colore dei propri capelli, penserebbe che si sia sbagliato; ma disgraziatamente si fida dei suoi occhi e delle sue parole come si fiderebbe dei suoi propri occhi, delle sue proprie parole. Se Lelek dice che Revali lo ha imboccato, allora Link è certo che sia accaduto come lo sarebbe se se lo ricordasse lui stesso. Però, per quanto si sforzi, non lo ricorda. Non ricorda tutto di quei giorni, naturalmente: ricorda le cime innevate dei monti di Hebra ai margini dei suoi occhi come dita grige e bianche che indicassero il cielo, ricorda la voce di Lelek che lo supplicava di restar sveglio nella neve liquefatta dal calore del suo sangue; ricorda la preghiera di Mipha che scorreva sulle sue membra come se fosse acqua, il dolore atroce degli aghi dei chirurghi che gli sigillavano le carni; ricorda d’aver urlato… poi ricorda d’essere approdato alla coscienza a tratti, come attraverso scossoni che lo svegliavano e lo destavano da un’inconsapevolezza buia e priva di sogni: ogni volta che apriva gli occhi, Lelek era sempre con lui. Ricorda la sensazione della spugna intrisa d’acqua e aceto che gli rinfrescava le labbra, poi dei brodi tiepidi di pesce filtrati attraverso le garze; ricorda che Zelda si è recata a visitarlo, che anche i Campioni… ricorda anche gli occhi verdi di Revali nell’oscurità grigiazzurra della tenda; allo splendore dei suoi occhi nel buio ricorda d’aver infisso lo sguardo per qualche istante in mezzo alle febbri dell’infezione; ma altro non saprebbe dire. Quando i suoi ricordi si riallacciano alla linearità degli eventi e riassumono una coerenza logica e ininterrotta, la febbre s’è attenuata, sul suo ventre smagrito spicca una grande cicatrice irregolare e Lelek gli porge cucchiai di mela cotta schiacciata per far canalizzare l’intestino.
    Sono stati questi pensieri ininterrotti a fargli sbagliare la mira, seppure di poco. Se ne accorge quando rischia di mancare di una spanna appena l’apertura; allora, per raddrizzarsi, è costretto a compiere una manovra piuttosto infelice con la paravela: la piega di scatto fino a inclinarsi nel vento e, un istante dopo, la chiude. La manovra funziona, ma Link precipita all’interno di Medoh come un sasso lanciato da una fionda e rotola al suolo cercando di riprender fiato. È quasi sicuro d’essersi ammaccato qualche costola. Non che sia una novità, ma il dolore gli toglie il fiato ogni volta come la prima.
    «Quanta grazia» commenta Revali schioccando la lingua.
    Lo sovrasta in tutta la sua altezza nella lama d’ombra che le pareti del colosso sacro tagliano attraverso la luce, colle ali ripiegate dietro la schiena, superbo, marziale. Sul colosso sacro è a suo agio come lo è nell’aria; sembra fatta per lui, questa bestia di pietra che si libra in cielo massiccia eppure come priva di peso, e Revali vi appare sempre a casa sua come se non avesse mai abitato altrove che lì.
    Link si tira a sedere sul pavimento, controlla le condizioni della Spada che esorcizza il male, sebbene sia alquanto sicuro che sia molto più resistente di lui, e posa a terra la paravela. «Sono stati le correnti del colosso. Mi hanno spinto indietro al momento sbagliato.»
    «Sicuro. Le correnti» commenta Revali. «Strano, non me n’ero accorto.»
    «Revali» lo interrompe Link, che del suo sarcasmo non ha affatto bisogno, in questo momento, e vuole arrivare subito al sodo e dire quello che deve dire. Cerca lo sguardo dei suoi occhi verdi nell’ombra scura del colosso. «Grazie.»
    Revali rimane a osservarlo per un po’ cercando di decidere quale sferzante sarcasmo dedicargli, ma Link non vuole permettergli di ridurre il tutto a una risposta caustica. «Non eri tenuto a farlo e sai che non potrò fare niente che ricambi quello che hai fatto per me. Posso soltanto ringraziarti.»
    Revali pare decidere che le sue parole sono sincere, serie, e come sempre, quando qualcosa lo riguarda direttamente e non può ridursi a una sperticata lode delle sue abilità, distoglie lo sguardo e gli dà le spalle. Su questo Link ci avrebbe scommesso, ma non poteva esimersi dal parlare: non importa se Revali si ritiene troppo superiore a lui per sprecar tempo a dargli ascolto, persino in questo frangente. Lui dirà quello che sente di dover dire.
    «Avrei potuto dir di no» dice infine Revali. Continua a dargli le spalle. «Ma d’un tratto non mi è sembrato giusto. Ho detto di sì. Ho pensato che, in fin dei conti… se fossimo stati in guerra tu non mi avresti lasciato morire. Non che a me possa capitare, comunque.»
    Ovviamente no. Link sorride della sua sicumera.
    «Ma questo è diverso dalla guerra. Questo è…» Per sempre, vorrebbe dire, ma d’improvviso, quand’è sul punto di pronunciarle ad alta voce, quelle parole gli paiono troppo solenni e intime, quasi romantiche, ed egli si trattiene dal pronunciarle. Cerca una via alternativa. «Vincolante. Voglio dire che adesso, se tu volessi… non so, sposarti…»
    Si rende conto troppo tardi d’essere arrossito, ma, per una volta, Revali non cerca di farglielo pesare. Forse questa conversazione è penosa anche per lui. Si limita a scrollare le spalle. «Sì, beh… non che la cosa mi interessasse. I miei allenamenti occupano la maggior parte del mio tempo. Comunque, non ti montare la testa» conclude un po’ troppo in fretta. «Non sei il mio tipo. Suppongo che per te sia un onore essere sposato col grande Revali, ma non è che io possa dir lo stesso di te.»
    Non è che Link volesse tirar fuori questa arma tanto presto, a dire il vero. Avrebbe voluto avere almeno il tempo di rifletterci un po’ per conto suo, in verità, e di cercare di rievocare, dentro di sé, almeno qualche ricordo più preciso di quei giorni di febbre e di dolore; ma Revali ama provocarlo come una miccia, e la conversazione con Lelek lo ha turbato un po’ più di quanto voglia ammettere.
    «Suppongo che sia perché non sono il tuo tipo che mi hai imboccato quella volta a Hebra» risponde con indifferenza mettendosi a piegare la paravela.
    Non lo sta neppure guardando, ma potrebbe giurare di aver sentito Revali avvampar di rabbia.
    «Non gli avrai creduto, spero. Mi pare evidente che il tuo attendente sia un gran bugiardo.»
    «Non dir questo di Lelek» lo ammonisce Link pigramente, ma del suo tono tagliente è certo che Revali si sia accorto. «Certo che gli credo, e comunque Impa me lo ha confermato. Anche Impa è una bugiarda?»
    Questo è un bluff spudorato. Impa non gli ha detto proprio niente, e a dire il vero Link non è neppure certo di ricordare se in quei giorni lei si trovasse presso il suo accampamento o piuttosto più a sud; ma è quasi certo che, se lui non ricorda la posizione precisa di ciascuno dell’esercito, non possa ricordarsene neanche Revali, che in fondo non ha una gran considerazione di nessuno al di fuori di se stesso e in quella battaglia comandava truppe ausiliarie.
    Il bluff funziona. Revali lo fissa indispettito come se Link avesse appena osato mettere a nudo una sua debolezza: la sua rabbia è tale che non trova niente da dire per qualche momento.
    «Molto bene» dice infine, lentamente. «Allora facciamo che io ti spiegherò perché ho fatto quel che ho fatto quando tu mi spiegherai perché quel giorno hai chiesto di me quando sei rinvenuto. O questo per te non è conveniente?»
    Link apre la bocca, la richiude, ci pensa un momento e risponde: «Ho chiesto di chi?»
    «Ah, ecco» conclude Revali trionfante. «Quindi questo il tuo attendente ha tralasciato di dirtelo. Piuttosto comodo, eh?»
    Link è troppo preso da quello che ha appena scoperto per rispondere alla sua ennesima provocazione. Sta pensando. Quei pochi giorni a Hebra, evidentemente, sono stati più pregni di eventi di quanto potesse immaginare. È quasi imbarazzante il fatto che l’unico ricordo che ne conserva siano le poltiglie di mele cotte. «Perché ho chiesto di te?»
    Revali è molto soddisfatto di aver appena vinto la loro prima discussione dall’inizio del loro matrimonio. Non che a Link sia mai interessato molto combattere questa rivalità del tutto univoca e unidirezionale che Revali ha stabilito tra di loro il giorno del loro primo incontro. «Non lo so, Link. Perché non me lo dici tu?»
    Link sta ancora riflettendo. Alza gli occhi su di lui cercando di articolare una domanda che possa riassumere l’enorme quantità dei dubbi che lo stanno assalendo a partire da questa mattina.
    «Sei sicurissimo che non ci siamo sposati quel giorno, vero?»
    Revali lo guarda con disgusto come si guarda una blatta e ritiene che questa domanda non meriti risposta. Torna a occuparsi dei comandi di Medoh senza degnarlo di uno sguardo. Link rimane solo, nel ventre profondo del colosso, a riflettere su quello che ha scoperto nelle ultime ore.
 
    La dirupata città dei Rito compare sotto di loro verso il tramonto, innalzandosi come un albero tra i monti. È bella come un sogno, come sempre: Link la contempla nella luce rossastra senza saper bene che pensarne, appoggiato alle pareti del colosso a scrutare la vallata sotto di lui: i fuochi emergono dalla penombra come lampi in mezzo alla nebbia.
    «Se ci caliamo dall’alto, questa volta pensi di riuscire a beccare la città a dispetto di tutte le correnti?» chiede Revali spuntando dalle ombre alle sue spalle. Dal momento che la discussione di prima sembra momentaneamente messa da parte, Link decide di non raccogliere la provocazione e lasciarlo stare. Si sente ancora sufficientemente in debito con lui da lasciar correre qualche punzecchiatura, per il momento; forse deve ancora realizzare pienamente cosa vuol dire tutto questo, per la verità, ma probabilmente avrà il tempo di pensarci domani. Per il momento si limita a rimanere in silenzio. «È quella alta là in mezzo. A quest’ora è anche illuminata. La vedi? Se non ti senti sicuro, posso far calare Medoh sulla rocca…»
    Per non dargli soddisfazione, Link si prepara a spiegare la paravela e non risponde.
    Prima che faccia in tempo a planare nel vuoto, Revali stende improvvisamente un’ala davanti a lui e dice: «Aspetta un momento. Ascolta.»
    Link lo guarda senza capire: non capisce cosa ci possa essere da ascoltare nel tramonto infinito. Gli occhi di Revali sono puntati verso la città: guardando dove guarda lui, Link si concentra per ascoltare. È musica. Non che la cosa sia sorprendente, dopotutto: se c’è qualcosa che i Rito amano, dopo volare, è la musica; ma evidentemente Revali vi sente qualcosa che a lui sfugge.
    «Stanno suonando.»
    «Già» conferma Revali cupamente. «Hai mai sentito queste musiche?»
    Link si stringe nelle spalle senza capire. Non è che sia poi questo grande esperto di produzione musicale dei Rito. «Non mi pare. Dovrei?»
    «No, se non sei mai stato a un matrimonio Rito. Ci hanno preparato una festa.»
    Link è troppo stanco dopo questa giornata infinita per riuscire a decidere dentro di sé cosa pensarne. Probabilmente dovrebbe esserne turbato, o imbarazzato; qualcosa del genere; ma in questo momento non è in grado neppure di decifrare l’espressione di Revali. È più facile chiedere. «Sei a disagio?»
    Quella domanda lo riscuote. «Io? Certo che no. Dopotutto, era logico aspettarselo. Era ovvio che avrebbero voluto festeggiare le mie nozze.»
    Su questo, per una volta, Link è perfettamente d’accordo con lui: Revali è superbo e pieno di sé, d’accordo, ma è il più grande guerriero dei Rito, impareggiabile e invincibile, persino per lui, e la sua gente lo ama incondizionatamente. In questi tempi d’incertezza, il suo matrimonio dev’essere come un faro di speranza… persino con un Hylia.
    «Credevo che il nostro fosse un matrimonio segreto» commenta divertito. Revali lo fulmina con lo sguardo.
    «Sai com’è… stanotte sono stato troppo impegnato a spiegare al capovillaggio perché l’ho svegliato di notte per farmi fare un certificato di matrimonio retrodatato di diciotto mesi con un cavaliere Hylia contro cui una volta ho messo in allarme l’intero Borgo. Può darsi che mi sia sfuggito di dirgli che doveva anche mantenere il segreto. Direi che non è il caso di far troppo gli schizzinosi, eh?»
    Planano sul Borgo dal ventre di Medoh, fendendo l’aria infuocata del tramonto: hanno acceso fuochi ovunque. A quanto pare, il matrimonio dell’orgoglio dei Rito è una questione pubblica per questa gente che in lui ha riposto tutte le sue speranze e la sua fiducia: le strette strade scoscese del borgo che si avviluppano aggrappandosi ai fianchi della rupe sono decorate di ghirlande di fiori e festoni di carta. Revali le osserva con disapprovazione senza dir nulla.
    Appena atterrano sono circondati da Rito. Per un po’ Link non capisce nulla e rinuncia a capire: gli gettano fiori attorno al collo, lo abbracciano; vede solo un vorticare di piumaggi variopinti e di volti sorridenti che gli danno il benvenuto e gli fanno gli auguri per le sue nozze. Non sa neppure cosa rispondere, se non, quando gli rimane aria a sufficienza, grazie; lo consola il fatto che Revali non se la stia cavando tanto meglio. È stato preso di mira dai bambini: lo adorano, e più che adorarlo lo venerano. Lo chiamano grande Revali, saltano verso di lui per farsi prendere in braccio: lo sorprende quanto Revali sia a suo agio coi bambini. Quando un paio, un po’ più alti degli altri, lo supplicano, porge persino loro il suo Arco Aquila, che Link non gli ha mai visto lasciar toccare a nessuno: è talmente pesante che neppure in due riescono a tenerlo sollevato. Revali ne sorride: Link non sente con precisione le sue parole, ma ne comprende comunque il significato: ci riproverete quando sarete più grandi. È ancora troppo pesante per voi. Riprende l’arco che gli porgono, assieme delusi ed elettrizzati, con una tenerezza che Link non gli ha mai visto e che mai avrebbe associato a lui. Chissà perché la cosa lo colpisce tanto: era ovvio che qui, in mezzo alla sua gente che lo acclama come un eroe e un salvatore, Revali si sarebbe comportato diversamente; ma è un po’ meno pieno di sé, tra di loro.
    Quando i bambini lo lasciano andare, Revali lo attira a sé per le spalle e lo guida su per le scale che salgono verso la città alta, mormorando: «Andiamo a trovare il capo. Vorrà darci la sua benedizione. È tradizione.»
    «Credevo ce l’avesse data diciotto mesi fa» risponde Link innocentemente. I Rito fanno largo davanti a loro per lasciarli passare, ma non smettono di cantare: forse è un inno nuziale, chi lo sa.
    «Chissà. Forse non ne ha mai avuto l’occasione perché tu eri in fin di vita in una tenda a bere brodini di pesce» ribatte Revali senza neppure guardarlo. «Di certo non poteva lasciare il borgo per venire a benedire la nostra fortunata unione. Ti sembra credibile?»
    «Mi sembra realistico» concede Link continuando a salire.
    Le strade del borgo, che sono già strette e ripide in tempi normali, ora sono quasi impercorribili: i Rito li circondano da ogni lato. Si sono presentati proprio tutti a rendere omaggio al loro Campione, e Revali avanza in mezzo a loro ringraziandoli col capo.
    Il capo Kagan li aspetta di fronte alla sua casa, quasi sulla cima della rupe. Link non lo aveva mai visto: quando ha accompagnato Zelda al Borgo dei Rito, ormai tre anni fa, a chiedere a Revali di pilotare il colosso sacro, si è occupato unicamente degli aspetti di difesa, visto che i Rito li hanno attaccati confondendoli per qualcun altro, e ha parlato unicamente con i soldati e i capitani: è sempre stata Impa ad accompagnarla agli incontri diplomatici. Lo sorprende il fatto che abbia circa la loro stessa età, forse è persino più giovane di Revali: è un Rito alto e robusto, col petto ampio e le spalle larghe. Chissà perché il termine capovillaggio lo faceva pensare a qualcuno di anziano e saggio; invece Kagan è appena un adulto. Abbraccia Revali come un fratello.
    «Ci hai regalato un giorno di gioia, Revali» gli dice. «Devi perdonare il nostro entusiasmo. Era da tanto che non ricevevamo una notizia tanto bella. Abbiamo organizzato qualcosa per dare il benvenuto al tuo sposo.»
    «Non avreste dovuto» risponde Revali con un tono che vuol chiaramente dire che quello non è un complimento e che veramente non avrebbero dovuto. Per tutta risposta, Kagan si limita a guardare verso Link. Revali lo spinge avanti a sé senza troppe cerimonie. «Giusto. Capo, questo è… uhm… è Link.»
    È la presentazione più squallida del mondo: suona come se Revali si fosse vergognato, all’ultimo istante, a pronunciare le parole mio marito e avesse cambiato idea bruscamente. Kagan attende per un secondo di udire quelle parole, aspetta per sentire se non ci sia dell’altro; poi, visto che dell’altro, a quanto pare, non c’è, e lui è semplicemente Link, si china e abbraccia anche lui come se lo conoscesse da sempre. «Benvenuto, Link. Spero che ti sentirai a casa nel nostro borgo come nel cuore di Hyrule. La nostra gente è molto curiosa di conoscerti» aggiunge ridendo accennando alla folla che si è accalcata per le strade. «Ma ti prometto che faranno di tutto per metterti a tuo agio… da domani. Stasera dovrai sopportare un po’ di curiosità.»
    «Grazie» risponde Link. «Avete fatto molto per me. Non potrò mai ringraziarvi.»
    «Io ho solo firmato un vecchio foglio che Revali si era dimenticato di farmi firmare quando vi siete sposati un anno e mezzo fa» ribatte Kagan strizzandogli l’occhio. «Non mi pare che tu debba ringraziarmi per altro.»
 
    Kagan ha parlato di un po’ di curiosità. Non gli sembra una definizione adeguata, pensa Link per tutta la sera. Avrebbe parlato piuttosto di un’insana, morbosa, viscerale curiosità che riguarda tutta la sua persona.
    Hanno preparato un banchetto. Li fanno accomodare al centro di una tavolata sulla cima della città alta: Revali è pallido di rabbia, perché a quanto pare aveva sperato di poter condurre le cose con un po’ più di discrezione; fa del suo meglio per mostrarsi a suo agio, comunque, ma siede al suo fianco come starebbe seduto su una bomba. Tutti e tutte si avvicinano per congratularsi con lui, poi si rivolgono a Link, gli danno il benvenuto e gli ripetono quanto è fortunato e quanta gente avrebbe voluto trovarsi al suo posto in quel momento. Link stenta a immaginare in che modo essere sposati col più orgoglioso e supponente dei Rito possa costituire una fortuna, ma egualmente li guarda negli occhi e li ringrazia sforzandosi di sorridere in preda alla confusione.
    I bambini, naturalmente, sono i più indiscreti. Gli si avvicinano più volte durante la cena, osservandolo e ridendo tra loro in piccoli gruppi: la loro curiosità è così innocente e spontanea che Link non riesce a sentirsene a disagio. Una di loro, la più coraggiosa, forse, gli si avvicina e gli chiede se è veramente un Hylia. Link le sorride e le risponde di sì.
    «Perché hai le orecchie a punta?»
    È la prima volta che Link si rende conto di non averci mai pensato: gli Sheikah non le hanno e neanche le Gerudo. La domanda lo mette alquanto in difficoltà.
    «Non lo so. Sono nato così» risponde onestamente. «Tutti gli Hylia le hanno.»
    «Posso toccarle?»
    Quello scambio lo diverte a tal punto che acconsente. Dopo avergli toccato un orecchio, la piccola Rito ritorna ridendo dai suoi amici. Revali la osserva allontanarsi.
    «Devi scusarli, sai. I più piccoli non hanno mai visto un Hylia. Da quando si parla della Calamità, ormai riceviamo pochissimi viaggiatori.»
    «Non mi danno fastidio» risponde Link, piuttosto sorpreso: non gli era neppure venuto in mente che ci fosse qualcosa da scusare. Non ha avuto molto tempo per essere bambino, quand’era il momento, e nell’esercito non ha occasione di incontrarne molti: forse è per questo che non gli danno fastidio.
    Ora che ha mangiato, che è seduto ed è al sicuro, l’infinità della giornata comincia a pesargli sulle spalle e sugli occhi come massi. Fatica a tener gli occhi aperti: c’è troppo cibo, su questa tavola, e i suoi vicini di posto continuano a riempire il suo piatto ogni volta che lo vedono vuoto e a invitarlo a provare questo o quel piatto della loro tradizione. Nel frattempo cantano, naturalmente, e Link ascolta le loro ballate e le loro liriche d’amore sentendosi gli occhi sempre più pesanti e stanchi e piacevolmente rilassato; finalmente Revali si rivolge al capo Kagan e scambia con lui qualche parola. Link non sente cosa si siano detti, ma, di qualsiasi cosa si trattasse, Kagan sembra molto divertito. Revali si rivolge a lui a bassa voce e mormora: «Vieni, andiamo a dormire. Se non ci alziamo noi, sono capaci di continuare tutta la notte. Kagan farà le nostre scuse.»
    Gli sembra trascorsa un’infinità dall’ultima volta che ha dormito. Ricorda d’aver dormito a tratti, questa notte nella cella, appisolandosi per qualche minuto e svegliandosi in preda ai brividi e al terrore, ma reprime questi pensieri non appena si affacciano alla sua mente: non vuole ricordare questa notte. Vorrebbe essere in grado di non pensarci mai più.
    Si alza in silenzio dal suo posto prima che un’idea lo fermi sul momento, là dove si trova. Scruta Revali sentendosi d’improvviso un po’ indeciso. «Non è che penseranno che noi…»
    Non sa bene come dirlo, ma per fortuna Revali non ha bisogno che lui completi la frase.
    «Non vuoi sapere cosa penseranno e non voglio saperlo neanche io» risponde freddamente, implicando che entrambi sanno benissimo che cosa penserà la sua gente e non ne parleranno di comune accordo. «Comunque non possiamo cambiare le cose, quindi andiamo. Ti ricordo che mentre tu te ne stavi in cella, io ho volato per tutta la notte.»
    Link potrebbe fargli notare che il carcere non era propriamente un luogo di riposo, ma per l’ennesima volta stabilisce dentro di sé che è ancora sufficientemente in debito con Revali da dargliela vinta, anche se il credito di cui Revali gode si sta paurosamente assottigliando. In ogni caso, vagheggia miraggi di sonno e scivola dietro di lui nelle ombre del villaggio lasciando dietro di sé i cori dei Rito.
    Non ha mai saputo dove abitasse Revali. Non che se lo sia mai chiesto, comunque, e del resto l’unica risposta che avrebbe dato a se stesso sarebbe stata: in una capanna al borgo dei Rito. Questa sera scopre che è una risposta estremamente aderente al vero: nulla gli avrebbe permesso di identificarla tra le decine di capanne aggrappate alla montagna. Il grande braciere al centro della stanza principale è acceso: Revali si ferma a osservarlo per un istante, considerando qualcosa, dopodiché lascia ricadere dietro di lui la tenda che copre l’ingresso. Le luci del fuoco allungano sulle pareti di legno ombre misteriose che si perdono negli angoli.
    «È tradizione preparare la casa degli sposi» lo informa cupamente. «Meglio così, comunque. Almeno non avrai freddo stanotte. Voi Hylia siete troppo freddolosi.»
    «Sono stati gentili» risponde Link per non saper che dire. C’è tutta una parte di lui che vorrebbe guardarsi attorno, osservare la casa di Revali dove dovrà vivere per un po’, quantomeno; ma gli bruciano gli occhi di stanchezza, e poi, non vuole essere indiscreto. Ci sarà tutto il tempo.
    «Sì, suppongo di sì. Puoi andare a dormire, comunque» lo informa Revali, cambiando bruscamente argomento. «Di là.»
    Che la camera da letto fosse di là era facilmente immaginabile, visto che non è di qua, ma intuendo il suo imbarazzo Link preferisce non commentare. Solleva la tenda verso la seconda stanza, più piccola: contiene quasi solo un’amaca.
    Una amaca.
    D’improvviso l’imbarazzo di Revali gli appare piuttosto comprensibile. Si volta a guardarlo senza saper bene che dire, e Revali, che di quel problema ha evidentemente adottato la curiosa risoluzione di non voler parlare come se non parlarne bastasse a farlo sparire, si limita a distogliere lo sguardo.
    «Vai pure» ripete senza guardarlo. «Io ho qualcosa da fare. Ti raggiungo dopo.»
    Link vorrebbe chiedere qualcosa, ma si ferma. Se chiedesse, Revali risponderebbe seccato, discuterebbero, la notte si protrarrebbe infinita, estenuante, in un’eterna frustrazione di cui nessuno dei due ha bisogno; vorrebbe chiedergli che cosa deve fare, quando intende raggiungerlo e in quale modo pensa che questa situazione si risolverà semplicemente rimandandola ed evitando di parlarne; se questa sia una scusa, anche, e se l’idea di dormire con lui lo imbarazzi a tal punto da non volerne neanche parlare; se non abbia mai dormito con nessuno, nemmeno vicino a un altro soldato nelle notti gelate sui monti di Hebra; ma s’accorge prima ancora di parlare che tutto questo non ha il diritto di chiederlo. Che Revali ha sacrificato, per salvarlo, una parte troppo grande di se stesso e della propria vita, della propria libertà, per dover anche star qui a render conto a lui del suo imbarazzo e della sua volontà. Tutto quello che osa chiedere è: «Sei sicuro?»
    «Sono sicuro» taglia corto Revali senza guardarlo. «Buonanotte.»
    «Buonanotte» risponde Link senza convinzione.
    La camera, più lontana dal fuoco, è più fredda e più buia della stanza centrale: una volta calata la tenda che copre l’ingresso, Link intravede appena i contorni delle cose nell’oscurità. Intravede una brocca e un bacile, allora si lava il volto e le mani con acqua fredda che gli dà brividi nel buio. Si spoglia alla cieca e piega i suoi abiti con la disciplina militare che è ormai parte delle sue abitudini, allo stesso modo di lavarsi e spogliarsi; l’amaca è assurdamente in alto per lui, deve quasi arrampicarvisi; una volta salito, gli pare di sprofondarvi, ma a poco a poco si fa confortevole.
    Si addormenta all’istante avvolto in una nube di coperte, vagamente consapevole della presenza di Revali a pochi passi da lui, sentendo per la prima volta da giorni d’essere al sicuro come nel mare calmo.
 
    Si sveglia nella notte che non ha fine senza sapere con precisione che cosa lo abbia svegliato; poi capisce. È ascesa la luna, enorme, eterna, la notte s’è fatta bianca e argentata tutta intorno a lui, filtrando attraverso le finestre là dove le pesanti tende ricamate non si connettono con precisione a schermarle. Il suo primo pensiero è di levarsi e accostare quelle tende, poi si trattiene: attraverso quelle fessure tra le tende intravede la valle amplissima e pallida sotto la luna silenziosa. È bella come un sogno, come aspersa di madreperla: Link rimane disteso nell’amaca, in silenzio, a osservare la valle infinita sotto di lui.
    Anche la tenda che separa la camera dall’ingresso è parzialmente sollevata; eppure gli era parso di averla lasciata cadere ieri sera. Forse era davvero stanco.
    Revali è seduto a terra, colle gambe incrociate al modo della sua gente, la schiena appoggiata alla parete della capanna: Link intravede appena il suo volto serio, concentrato, alla luce delle braci che si vanno spegnendo di fronte a lui. Sta passando la cera sulla corda del suo arco.
    «Credevo fossi stanco» dice Link senza pensare né riflettere. La metodicità dei suoi gesti lo ipnotizza.
    Revali si ferma per un attimo, tutti i sensi tesi in allarme: è evidente che non è abituato ad avere compagnia. I suoi muscoli si ammorbidiscono dopo un momento.
    «Lo sono. Lavorare mi aiuta a rilassarmi» risponde a bassa voce. Poi, dopo un istante di silenzio, aggiunge. «Ti ho svegliato io?»
    Link si chiede la stessa cosa per un momento, poi decide di no. Che a svegliarlo è stata la luce della luna e la grande calma vastissima sotto il cielo. «No. Non mi dai fastidio. Continua pure.»
    «Come sei magnanimo» commenta Revali tornando a chinarsi sul suo arco.
    Link rimane disteso immobile nell’oscillare impercettibile dell’amaca, ad ascoltare il fruscio lieve dei suoi movimenti dall’altra stanza.
    «Posso farti una domanda?»
    «Se ti dicessi di no staresti zitto?»
    Link decide dentro di sé che quello è il suo modo di dirgli che può fargli tutte le domande che vuole.
    «L’ambasciatore ti ha chiesto se, dopo quello che ha fatto ieri per te, eravate pari. Ti doveva un favore?»
    Revali tace tanto a lungo che per un po’ Link pensa che non abbia sentito la domanda. Solleva il capo sull’amaca per cercare i suoi occhi, ma proprio in quel momento Revali parla. «Hai presente quella bambina che è venuta ad abbracciarmi, quando siamo arrivati? Quella che voleva che la prendessi in braccio.»
Revali è stato preso d’assalto da ogni singolo bambino del borgo, quando sono arrivati. Link si concentra cercando di ricordare. «Quella col piumaggio azzurro?»
    «No, quella dopo di lei.»
    Link ha la sensazione che Revali lo stia prendendo in giro, ma, visto che gli sta raccontando qualcosa, si decide a dargli il beneficio del dubbio. «Più o meno. Comunque, continua.»
    «È sua figlia. Qualche anno fa l’ho salvata. Per questo l’ambasciatore mi doveva qualcosa, ma adesso siamo pari, come vedi.»
    Link avrebbe immaginato che Revali si sarebbe pavoneggiato un po’ di più per aver salvato una bambina; eppure non sembra andarne molto fiero. «Che cosa le era successo?»
    Revali tace a lungo. Quando parla, la sua voce è bassa e piatta come un mormorio nel vento. «A volte capita che i bambini mi seguano quando mi alleno, per guardarmi. A volte mi metto a giocare con loro, ma quella volta non mi ero proprio accorto di lei. Era molto silenziosa. Non credo che sia stata colpa mia, ma comunque, quando mi sono accorto di lei, in qualche modo stava precipitando. Io l’ho solo ripresa e portata al villaggio, comunque, ma da allora Mazli ritiene di dovermi un favore.»
    Revali non parla mai della sua vita al Borgo dei Rito: la sua vita, al di fuori dei suoi allenamenti e delle sue abilità, è sempre stata per lui e per i Campioni inaccessibile più di un mistero; questa è la prima volta che gli racconta qualcosa di sé, e inavvertitamente ha detto anche qualcosa che forse avrebbe preferito non dire: che non crede sia stata colpa sua. Il fatto che non lo creda implica che, anche per un minuto solamente, quell’ipotesi lo ha sfiorato. Link ci pensa in silenzio per un po’.
    «Mazli non sta qui con sua figlia?»
    «Evidentemente. È rimasta qui con una zia. Non ha più la mamma e lui non voleva sradicarla dalla nostra gente, dalla nostra terra.»
    Il che spiega perché Mazli non si trovava questa notte: è vedovo, e può darsi, come sospetta Impa, che abbia trovato compagnia altrove; ma Link evita di sollevare questo argomento. Non sono affari che riguardano né lui né Revali né nessun altro.
    «Capisco. E Kagan?»
    «Kagan cosa?»
    «Lui che favore ti doveva?»
    Revali posa l’arco di scatto. «Senti un po’, Link. Ti è mai venuto in mente che qualcuno potrebbe avermi aiutato semplicemente perché mi trova simpatico?»
    «No» ammette Link. «Revali…»
    «Dormi» risponde Revali particolarmente piccato.
    «Grazie di avermi salvato.»
    Revali non dice più niente per un po’.
    «Smettila di dire che ti ho salvato» risponde infine. «Suona tremendamente melodrammatico.»
    Tutto sommato, pensa Link addormentandosi, su questo ha ragione. Però non glielo dirà mai.

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Capitolo 5
*** Tautologia ***


Capitolo V – Tautologia
 
“Come ti ricompenserò?” esclamò il figlio della stella. “Perché questa è la terza volta che mi soccorri.”
“Ma tu per primo hai avuto pietà di me!” rispose la lepre, e corse via.
Oscar Wilde, Il figlio della stella.
 
    Si sveglia nell’aria del mattino più fredda di quella notturna. Sente che Revali non c’è senza bisogno di guardare per esserne certo: sa di essere solo.
    È sposato, pensa prima ancora di essere sveglio del tutto, mentre ancora, nel buio delle palpebre chiuse, riesce a trattenere le sensazioni del sonno; è sposato, pensa per la prima volta con uno sgomento che ieri ha cercato dentro di sé in ogni luogo possibile senza riuscire a trovarlo. È sposato con Revali, e ora che è sveglio non può più permettersi di credere che sia stato un sogno e che passerà col tempo. La realtà di quello che è successo precipita d’un tratto sulle sue spalle come macigni; gli pare d’averla cercata per tutto il giorno, ieri, e di non averla trovata perché era in una parte di lui dove non era ancora pronto per guardare. Ora che è solo per la prima volta da quando lo hanno svegliato per portarlo al patibolo, in quella parte può guardare davvero: è sposato, ripete a se stesso con uno stupore che ieri non è riuscito a provare e che ha cercato ovunque dentro di sé invano; a dispetto di ogni forma di antipatia, di rivalità, di competizione, Revali ha messo da parte se stesso e la propria libertà, una parte enorme del suo orgoglio, e lo ha salvato. L’enormità di quanto ha cercato di dirgli Impa quando lo ha salutato si fa d’improvviso tangibile e immane nella sua mente, innegabile: è legato a lui per sempre, adesso, in un modo che va molto al di là della gratitudine e del matrimonio singolarmente; e dovrà restare con lui per un bel po’. Il che, pensa alzandosi a sedere, si ricollega al problema che Revali non è venuto a letto, stanotte. Link non ha idea di dove abbia dormito, ma di certo non con lui. Prima o poi dovranno affrontare anche questo problema.
    C’è ancora un po’ d’alba sui monti, ma l’aria, a quest’ora, è livida e tagliente come una spada: quando si solleva faticosamente sull’amaca cercando di bilanciarne l’oscillazione, le coperte gli scivolano di dosso scoprendogli le spalle nude. Al Borgo fa più freddo che nella piana di Hyrule: dovrà abituarsi anche a questo.
    Si veste in silenzio come se temesse d’infrangere quel silenzio e quella pace. Attraversa la casa, nella luce livida dell’alba, ed esce nella strada deserta illuminata dal sole. Cammina attraverso il borgo come se fosse l’ultimo essere vivente rimando al mondo nella luce del sole: il villaggio non si è ancora svegliato. Sente d’essere il primo a credere al giorno.
    Le case sono immobili e silenti: attraverso una tenda appena scostata intravede il volto assopito di un piccolo Rito addormentato. Si sofferma a osservarlo per un momento, sentendo di commettere una terribile indiscrezione che nessuno scoprirà mai, poi prosegue: scivola attraverso le case come una folata di vento.
    La tenda che copre l’ingresso alla casa di Kagan è sollevata: Link vi getta uno sguardo senza volere. Kagan è seduto al centro della stanza centrale, di fronte al braciere acceso. Gli sorride quando i loro occhi s’incontrano.
    «Sei sveglio presto» dice a mo’ di saluto.
    «Anche tu» risponde Link un po’ sorpreso. Chissà perché si era sentito l’unico già sveglio in tutto il borgo.
    «Mi piace alzarmi prima della mia famiglia per avere un po’ di tempo per riflettere» ammette Kagan come se fosse una colpa. «Dicono che sia l’unico modo per avere un po’ di pace, quando hai bambini piccoli. Lo faceva sempre mio padre, e io credevo che esagerasse… poi è nato il mio primo figlio. Credevo che tu e Revali avreste dormito di più, però» soggiunge sorridendo, e Link si sorprende ad avvampare d’improvviso sotto i suoi occhi. Kagan scoppia a ridere. «Era di cattivo gusto, vero? Devi scusarmi, ma Revali sposato… è qualcosa che non avrei mai pensato di vedere in vita mia, ormai. Non ci sono ancora abituato.»
    Link si guarda intorno con un po’ d’imbarazzo, pur sapendo bene che non c’è nessuno attorno a loro, più per aspettare che le sue guance si sfiammino che perché non sappia cosa dire. «Non è come se fosse un vero matrimonio, però.»
    «Che cos’è un vero matrimonio?» chiede Kagan sorridendo.
    La domanda lo coglie talmente impreparato che Link rimane in silenzio. Forse era una domanda retorica, perché subito dopo Kagan accenna alla stoia di fronte a sé e riprende: «Ti va di tenermi compagnia? Siamo gli unici svegli, a quanto pare.»
    In qualche modo Link sente che Kagan ha qualcosa da dirgli. Entra nella sua casa con titubanza, sentendo di violare l’intimità della sua famiglia, e si siede di fronte a lui a gambe incrociate. Kagan gli porge una tazza di tè forte, amaro: Link non ricorda di averlo mai assaggiato. Si domanda cos’è, ma non gli sembra il momento giusto per chiederlo.
    Kagan lo osserva con attenzione.
    «Come stai?»
    «Bene» risponde Link macchinalmente. «Bene.»
    «Davvero?» Kagan reclina il capo. «Hai avuto una brutta esperienza, da quel che ho capito. Quello che ti è successo ieri… non dev’essere stato facile.»
    Il cielo grigio come fatto d’acciaio, la corda ispida e pesante attorno al suo collo, pesante: Link chiude gli occhi per un istante mentre i ricordi attraversano la sua mente come sassi scagliati che fendono l’aria. Sono dolorosi, improvvisi, e Link sente il bisogno di spingerli da parte come farebbe con la mano per non doverli guardare né sentire. Scuote la testa un po’ più duramente di quanto avrebbe voluto, tiene gli occhi spalancati per non vedere quelle immagini dentro di sé né provare quelle sensazioni.
    «No, non lo è stato» risponde. Tiene la tazza tra le mani per sentirne il calore, ne osserva le volute di vapore che si arricciano nell’aria per rimanere ancorato alla realtà e non sprofondare in quei pensieri: è vivo, adesso. Il resto passerà. «Ma non importa. Ora sono qui e va meglio.»
    Kagan sorride. «Spero che ti sentirai a casa, qui. Siamo un popolo tranquillo, ma sappiamo essere anche accoglienti. Lo vedrai col passare dei giorni. Revali avrà cura di te, ne sono certo, ma se tu dovessi aver bisogno di qualcosa, non sentirti smarrito. Tutti qui saranno pronti ad aiutarti.»
    «Avete già fatto tanto per me» mormora Link. «Anche tu. Non eri tenuto a…»
    Kagan lo interrompe con un gesto, ma gentilmente, e scuote la testa. «Link, ti prego… non c’è bisogno che mi ringrazi. Chiunque al mio posto avrebbe fatto lo stesso.»
    Quella non gli pare una spiegazione sufficiente per qualcosa di così grave e importante, definitivo e salvifico per lui, che ha messo a rischio, direttamente o indirettamente, tanto Revali quanto l’ambasciatore e chiunque altro fosse coinvolto: Link non vuole essere maleducato, ma ha bisogno di insistere, perché sente di non essersi spiegato bene. «Non mi conoscevi neppure, non mi avevi neppure mai visto. Salvarmi voleva dire rischiare di compromettere i rapporti con la Corona…»
    «Link» ripete Kagan. «Mettiamola così. Se il campione della mia gente viene a svegliarmi di notte e mi chiede di aiutarlo a salvare qualcuno che senza di lui morirebbe, io non gli chiedo chi sia o perché voglia salvarlo. Metto su l’acqua per il tè e cerco di ricordarmi che cosa va scritto in un certificato di matrimonio al buio e alle tre del mattino mentre lui insiste perché lo faccia il più in fretta possibile.»
    «E tu davvero non hai chiesto niente?»
    Kagan assume un’aria vagamente colpevole come se fosse stato colto in fallo. «D’accordo, forse qualcosa ho chiesto. In fondo anche un capo può essere curioso. E poi, diciamocelo… non è una richiesta che capita tutte le notti. Di certo non mi aspettavo che me l’avrebbe chiesto Revali.»
    «Non aveva nessuno qui?» chiede Link prima di chiedere a se stesso se sia una domanda adeguata da porre. È una di quelle cose che non lo riguarda, che fanno parte della vita di Revali al di fuori di lui, di quello cui ha rinunciato per sposare lui a dispetto di tutto: non avrebbe dovuto chiederlo; ora vorrebbe ritirare la domanda, ma la gentilezza di Kagan lo trattiene. Non c’è alcun giudizio nei suoi occhi.
    «Se hai paura di ritrovarti coinvolto in qualche spiacevole scenata di gelosia, la risposta è no» risponde. «E in generale, che io sappia, la risposta è comunque no. Non credo che gli sia mai interessato, a essere sincero. È sempre stato preso dai suoi allenamenti. Forse è qualcosa che puoi capire» aggiunge guardandolo, e Link annuisce tra sé, pensierosamente. Può capirlo perché in fondo Revali è come lui: ha voluto, o forse dovuto, essere il migliore sempre, e la sua forza e la sua grandezza hanno segnato il suo destino perché ha dovuto dimostrare continuamente agli altri quanto valeva, sempre un po’ di più a misura che i giorni passavano e tutti confidavano in lui un po’ di più. Kagan lascia che quest’informazione attecchisca dentro di lui per qualche momento prima di chiedere: «Posso permettermi di dirti un mio pensiero? Sei libero di prenderlo come vuoi.»
Link aggrotta la fronte. Chissà per che cos’è che gli serve addirittura il suo permesso. «Certo.»
    Kagan sembra cercare dentro di sé le parole per articolare quello che sta pensando. Esita un momento. «So che è un finto matrimonio e tutto il resto, e non mi permetterei mai di… ma prima mi ha colpito quello che hai detto sul matrimonio. L’altra notte Revali ha percorso tra andata e ritorno, in dodici ore, una distanza che normalmente a un Rito ne richiede circa quindici. Forse può non sembrarti una grossa differenza, e di certo Revali è il migliore di tutti noi nel volo, perciò sei libero di prendere come vuoi questa informazione… ma quello che voglio dire è che in ogni caso Revali lo ha fatto per te e ha scelto di restare con te. È per questo che mi sono stupito tanto quando mi hai detto che non era un vero matrimonio: perché io per conquistare mia moglie ho fatto molto meno di questo…»
    A nessuno si dovrebbe parlare così, Link di questo ha una precisa percezione che non saprebbe giustificare ma di cui è certo: che Kagan si è spinto troppo in là, che questa opinione non spettava a lui darla; eppure non riesce a sentirsi sdegnato. Solo un po’ frastornato. Alla sua reazione e al suo silenzio, Kagan ride come per nascondere un improvviso imbarazzo. «Ho detto troppo, vero? Mia moglie dice sempre che dovrei farmi i fatti miei. Lascia che ti inviti a pranzo da noi, oggi. Per farmi perdonare…»
    «Forse dovrei andare a cercare Revali» obietta Link, più per non approfittare della sua ospitalità che perché non voglia restare; in qualche modo sente che Kagan vuole davvero che lui resti, che sente che è suo dovere, come capovillaggio, aiutare anche lui; Kagan accenna sorridendo a qualcosa fuori dalla finestra. Link guarda in quella direzione senza capire.
    «Non credo che tornerà tanto presto, sai. È partito molto presto per andare al Volodromo. Ci sei mai stato?» Link scuote il capo. «È un campo di addestramento che ha fatto costruire per permettere ai nostri ragazzi di allenarsi con l’arco e a dominare le correnti, come lo fa lui. Anche se nessuno, per il momento, è ancora riuscito a eguagliarlo in nessuna delle due discipline.» C’è un’amarezza nel suo tono che gli fa intuire che quel nessuno comprende anche lui. «Non credo che tornerà tanto presto, ma perché non lo aspetti qui?»
    Link finisce per restare lì quasi tutto il giorno: quando si alza, sua moglie Tara lo saluta con affetto come se lo conoscesse da anni; gli chiede se ha dormito bene, anche, e se ha bisogno di qualcosa per la casa, perché, dice testualmente, Revali è stato scapolo tanto a lungo che probabilmente non ha mai pensato a come organizzarsi adesso che sono in due. Glielo chiede con tanta naturalezza che Link non ha il coraggio di ammettere che non ha quasi idea di cosa ci sia in quella casa, a parte un’amaca, una brocca e un bacile, e di cosa possa mancare, o di cosa avrà mai bisogno ora che non abita nei quartieri dell’esercito e non ha un attendente; opta per una mezza verità, ossia che ancora non ha avuto tempo di ambientarsi e che chiederà a lei se avrà bisogno di qualcosa: lei sembra soddisfatta della risposta. Link non riesce a determinare se sappia che quel matrimonio è una menzogna, ma forse, semplicemente, non le importa: le interessa che si senta a casa. Link la aiuta a dare da mangiare ai bambini, quando si svegliano e accorrono nella stanza: ne hanno due. Ce n’è uno che è proprio piccolo. L’altro invece lo tempesta di domande: vuole sapere tutto delle battaglie, della sua spada, della sua buffa paravela che ha usato per planare sul villaggio; continua a domandare finché sua madre non gli ordina di andare a pescare o a giocare coi suoi amici o a fare qualsiasi altra cosa. «Scusalo» aggiunge rivolta verso di lui. «Revali è il suo idolo, perciò adesso adora anche te.»
    «Anche gli altri bambini erano molto interessati, ieri» osserva Link ricordando la festa della sera prima e la piccola che gli ha chiesto di potergli toccare le orecchie.
    Tara ride a gola spiegata. «Abbi pazienza con loro, ma non troppa. Se ti vedranno troppo disponibile, prima o poi te li ritroverai nell’amaca che vorranno vedere come dormono gli Hylia. Qualcuno è un vero maleducato, perciò non riguardarti a rimetterli al loro posto, se serve.»
    Il pensiero dell’amaca lo turba solo per un istante, ma è lieto che lei non se ne accorga. Non vuole che nessuno lo sappia.
    Li lascia nel pomeriggio. La strada che discende dalla sommità del borgo verso la casa di Revali, o quella che adesso è anche casa sua, se si sforza di pensarla così, è piena di gente, ora, e tutti lo salutano contenti e gli danno ancora il benvenuto: Link non può non ricordare a se stesso che ciò è dovuto all’ammirazione sconfinata che hanno per Revali, il loro difensore e protettore, e che ora si riversa un po’ anche su di lui. È strano, per una volta, non essere riconosciuto per i suoi propri meriti ma per quelli di qualcun altro; è talmente abituato a essere considerato l’eroe di Hyrule, colui che protegge la principessa e brandisce la Spada che esorcizza il male, che talora fa fatica a ricordarsi che per le altre genti lui non è che un piccolo cavaliere Hylia con un’altrettanto piccola spada. Il borgo brulica di vita, a quest’ora: le botteghe sono piene di gente, i piccoli Rito si distanziano e si raggiungono inseguendosi lungo le scale infinite, qualcuno grida loro rimproveri che si sfilacciano nel vento dietro di loro, inascoltati; è tutto stranamente pacifico. È bello come qualcosa che non gli appartiene ma che vorrebbe poter toccare con la mano, trattenere; e forse ora può, o potrebbe se la Calamità non si levasse sempre all’orizzonte dei suoi pensieri come un termine di tempo al di là del quale non fosse in grado di intravedere il suo futuro. Ma per la Calamità, dal suo esilio, non può fare molto, ormai. Il re ha rifiutato il suo aiuto, il suo braccio e la sua spada nel momento in cui ha deciso di prestar retta ai teologi e non più alla saggezza di Impa: questo pensiero lo addolora, nonostante tutto, perché lui non l’ha mai fatto per il re né per Zelda. L’ha fatto sempre per Hyrule.
    La casa è vuota e silenziosa come l’ha lasciata nella luce dorata del pomeriggio. Link si sofferma al centro della stanza: sente che ora può guardarsi attorno senza fretta né indiscrezione. Quella è la vita di Revali. Posa la mano su un tavolo, lascia scorrere lo sguardo sugli oggetti, sperando che gli dicano qualcosa di lui che ancora non conosce: sta lavorando a un arco, forse ha in mente di sostituire quello che usa ora, che di certo avrà vissuto, come a lui succede coi suoi scudi e i suoi archi, sempre una battaglia più di quanto potrebbe reggere; è ingombrato di corde, di strumenti per lavorare il legno. Sul tavolo più lontano dall’ingresso, invece, c’è una mappa che mostra le regioni di Colbacco e di Hebra: il Borgo dei Rito campeggia al centro, e lontano, sui monti, sono segnalati grotte e covi di nemici. Sotto una X in un angolo c’è annotato in fretta Hinox, con un punto esclamativo. Revali teme sinceramente per la sua gente.
    «Bentrovato» dice Revali alle sue spalle.
    Link si volta di scatto: questo dannato Rito e Impa sono gli unici in grado di coglierlo di sorpresa. Revali è appena rientrato: è stanco come se si fosse allenato finora. La sua espressione è indecifrabile.
    Entra dentro, lasciando ricadere la tenda dietro di sé, e inizia a sfilarsi di dosso l’arco e la faretra. Link l’osserva in silenzio senza fare domande.
    «Spero tu abbia trovato tutto quello di cui avevi bisogno. Sono stato al Volodromo. Avevo bisogno di stare un po’ per conto mio.»
    «L’ho immaginato» risponde piano Link. «Sono stato da Kagan. Lui e sua moglie sono stati molto gentili. Ho conosciuto anche i loro bambini.»
    Revali sorride. «Ah, ecco perché il loro spiumatello più grande non è venuto a vedermi allenare, oggi. Di solito quando torno al Borgo non riesco a levarmelo di torno. Oggi eri tu l’attrazione del giorno.»
    Prima che Link riesca a stabilire dentro di sé se sia qualcosa per cui debba chiedere scusa o ritenersi ringraziato, Revali si volta verso di lui e dice guardandolo negli occhi: «Parliamo un po’.»
    Link si limita ad annuire. Non vuole dir nulla finché non avrà sentito che cosa abbia da dirgli: ha sempre fatto già abbastanza fatica a decifrare le sue intenzioni così, negli anni precedenti, a parte in guerra; ma in guerra non conta, ovviamente. Ascolta.
    «Non l’ho fatto perché tu mi fossi debitore di qualcosa» dice Revali. «Naturalmente i ringraziamenti sono stati graditi, ma ora mettiamo questa storia da parte.»
    Questo è totalmente inaspettato perché di solito Revali, per quanto lo conosce, ha sempre voluto essere acclamato e lodato per qualsiasi cosa; ma quello, realizza Link d’improvviso, è in battaglia. Tutto il riconoscimento che Revali ha sempre cercato è stato per il suo arco, per le sue ali possenti e instancabili, per la sua abilità nel fare qualcosa che spera che i Rito saranno in grado di imitare quando lui non ci sarà più; di certo non per aver falsificato un certificato ed essersi inventato un matrimonio che non è mai avvenuto. Non è poi tanto strano, dopotutto. Link fa segno di aver capito.
    «Molto bene» prosegue Revali. «Quindi togliti di dosso quella faccia da cerbiatto smarrito.» Su questo Link non è sicuro di poter fare qualcosa, perché è alquanto certo che Revali si stia riferendo alla sua faccia; ma in quest’occasione gli viene risparmiata la necessità di rispondere, perciò si limita a non farlo. «Penso che ti troverai bene qui, dopo qualche giorno, e che ti abituerai in fretta. Qui non avrai il tuo cucciolo di attendente a stirarti i vestiti, ma visto che hai servito nell’esercito da prima di diventare ufficiale non credo che avrai problemi. Comunque, se dovesse proprio servirti qualcosa, chiedi.»
    Link ritiene che questo sia il momento migliore per sollevare un problema che lo angustia ormai da ore.
    «Revali, ascolta. Dovremo trovare una soluzione per quanto riguarda…»
    Peccato che quello sia, evidentemente, anche un problema su cui Revali non è disposto a discutere né a cercare una soluzione.
    «Non intendo procurarmi un’altra amaca e dichiarare pubblicamente che non dormo con mio marito» scandisce chiaramente. «Come abbiamo fatto stanotte andrà benissimo per qualche tempo. Non è nemmeno detto che questa situazione sarà eterna.»
    Certo, non è detto che sia eterna: con un po’ di fortuna la Calamità li sorprenderà prima e moriranno tutti prima che la situazione possa diventare insostenibile. A volte Link non riesce a capacitarsi di quanto possa essere ottuso questo dannato Rito.
    «Almeno lascia che sia io a dormire sul pavimento.» Sa che insistere con lui equivale a soffiare forte su un fuoco incontrollato, ma su questo non può né intende soprassedere. «Sono stato soldato semplice per anni, sono abituato a dormire anche sul…»
    Revali non risponde subito. Lascia che la sua voce si spenga semplicemente perché Link la sente inutile come onde contro gli scogli: dopodiché Revali si avvicina a lui, lo guarda negli occhi e risponde: «No.»
    Con questo dannato Rito non c’è verso di discutere. Anche quella notte perciò Link si corica dopo una cena a base di pesce e di riso bollito sull’amaca che oscilla nella notte, sentendosi un po’ in colpa; a pochi passi da lui Revali si siede vicino al braciere, con le spalle appoggiate al muro, e si mette a lavorare sull’impennaggio delle sue frecce. Questa notte, chissà perché, Link non abbassa la tenda che separa le due stanze.
    «Hai sempre costruito da solo tutti i tuoi archi?»
    Questo è un argomento di cui Revali non sembra tanto seccato di parlare. «No, non sempre. Quando ero piccolo ho ricevuto in regalo il mio primo arco rondine come tutti i ragazzini. Ho cominciato a costruirne altri quando quello non è stato più sufficiente per me.»
    «E le frecce, anche?»
    Revali sorride come per un ricordo. «Quelle sempre. Anche quand’ero un bambino, prima ancora d’imparare a tirare come si deve.»
    «Revali, perché mi hai salvato?»
    Le parole di Kagan echeggiano nella sua testa ormai da stamattina: Link aveva bisogno di chiedere. Revali si ferma per un momento nel buio.
    «Credevo che avessimo deciso di mettere da parte questa storia.»
    «Hai detto che non volevi che ti ringraziassi oltre, ma io non ti sto ringraziando. Sto ai patti, come vedi.»
    Revali tace nell’ombra. Alla luce delle braci morenti, Link intravede solo il suo profilo e il riflesso verde dei suoi occhi.
    «Tu perché hai chiesto di me, quel giorno a Hebra?»
    «Non ricordo di averlo fatto.» Link aggrotta la fronte perché vorrebbe, veramente, ricordare quel momento. «Tu sai precisamente che cosa ho chiesto?»
    «No. Il tuo attendente è venuto a cercarmi nell’accampamento e ha detto soltanto: il Capitano ha chiesto di voi. Vi prego, venite, perché credo che stia morendo.» Lo dice con un tono che imita molto da vicino quello di Lelek, e Link sorride nell’ombra perché è tutto molto realistico.
    «E tu sei venuto.»
    «Certo. Magari in punto di morte volevi ammettere che ero il più grande guerriero che tu avessi mai visto.»
    «L’ho fatto?»
    «Sono certo che tu volessi, ma sei rimasto fuori combattimento per due o tre giorni. Al tuo risveglio, probabilmente, te n’eri dimenticato.»
    «È possibile» concede Link, che non può escluderlo dal momento che non se lo ricorda. «Non credo fosse per quello, però. Non so perché io abbia chiesto di te, Revali. Mi dispiace.»
    «Fai un’ipotesi, allora.»
    Link si sforza d’immaginare così, al buio, per quale motivo possa aver cercato Revali mentre agonizzava nella sua tenda cogli intestini appena ricuciti. D’un tratto, in modo del tutto inaspettato, gli viene in mente qualcosa che in tutto quel tempo ha sempre saputo ma cui non ha mai prestato attenzione. «Sei stato tu ad andare a chiamare Mipha quel giorno. Me lo ha detto Lelek mentre ero disteso a terra. Continuava a ripetere che eri andato a chiamarla»
    Revali pare in difficoltà come se non avesse mai pensato che questo potesse venirgli rinfacciato. «Certo che l’ho chiamata. Se ti aspettavi che mi sedessi a terra con te a importi le mani o a ricucirti il buco nell’addome, per quanto mi riguarda potevi aspettare per tutta la vita. Anche perché, francamente, eri immerso nella tua merda.»
    Link non avrebbe mai potuto immaginare di ridere di quel ricordo che è forse uno dei più drammatici della sua vita. Dal punto di vista di Revali, però, è assai più divertente.
    «Forse volevo ringraziarti» ipotizza per rispondere alla sua domanda.
    «Mi aspettavo che avresti detto così. Banale, ma credibile.»
    Il tono in cui ha detto quel banale non gli è piaciuto. «Magari volevo solo che tu fossi lì.»
    Cala il silenzio tra loro, per un po’. Link non riesce a credere di averlo detto.
    «Tautologico, non credi?» mormora Revali senza guardarlo.
    «Un po’» borbotta Link che non vuole dargliele tutte vinte in questo matrimonio.
    «Ti ho salvato perché non volevo che tu morissi» dice Revali bruscamente.
    Link rimane disteso a oscillare pigramente nell’amaca, guardando il soffitto della capanna. «Tautologico, non credi?» risponde a bassa voce.
    Entrambi sembrano convenire che parlare di retorica è troppo pericoloso.

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Capitolo 6
*** Crisi del secondo anno (più o meno) ***


Capitolo VI – Crisi del secondo anno (più o meno)
 
Le famiglie felici si somigliano sempre l’una con l’altra: ogni famiglia infelice lo è in un modo particolare.
Lev Tolstoj, Anna Karenina.
 
La mattina, quando Link si sveglia, Revali non c’è mai. Link non riesce mai a determinare a quale punto della notte se ne vada: probabilmente al mattino molto presto, di certo prima dell’alba, ancora col buio, perché non vuole che i suoi concittadini sappiano o immaginino che non condivide il letto con suo marito: ai suoi allenamenti mattutini, del resto, tutti hanno fatto l’abitudine ormai da anni. Quel che venerano in Revali, del resto, è la sua grandezza instancabile e indomita, la sua fierezza costante e inappagabile: sono molti i guerrieri che vanno ad allenarsi con lui al Volodromo, quando non sono di guardia a custodia del borgo. Al loro ritorno Link li sente parlare della sua grandezza come di qualcosa che non potrà essere eguagliato mai, della sua abilità non solo di sfruttare, ma anche di creare le correnti d’aria sotto di sé come di un potere magico, quasi mistico; ma Link non la vede così. Nell’abilità di Revali non c’è la magia misteriosa, forse ereditaria, che dà vita al potere di Mipha o di Urbosa, a quello che dovrebbe risvegliarsi tra le mani di Zelda: ci sono la sua volontà e la sua ambizione costanti, roventi, e null’altro. Nessuno a Revali ha lasciato in eredità niente, i suoi poteri non si sono svegliati un giorno a dispetto di ogni sua aspettativa come una magia tra le sue mani: quello che è in grado di fare se l’è creato da sé. Non ha cercato che un modo per superare i limiti oggettivi del suo corpo e, quando ha visto che quel modo non c’era, l’ha creato da sé, con la forza delle proprie ali, la costanza dei suoi allenamenti sfiancanti. Non c’è magia in lui, non ci sono miracoli: c’è solo abnegazione; ma questo Link, che ha la sensazione di conoscerlo così poco ora che lo vede tra la sua gente, non ha il coraggio di dirlo ad alta voce. Lo pensa solamente.
Durante le giornate, Link si trova qualcosa da fare al borgo. Tutti hanno l’aria di volerlo trattare come un ospite intoccabile cui deve esser risparmiata ogni fatica, ma Link, in vita sua, non ricorda d’essersi riposato mai più di un giorno consecutivamente; e le cose da fare sono sempre tante, naturalmente, anche in vista dell’avvento della Calamità; perciò, col passare dei giorni, questa gente che l’ha accolto spontaneamente inizia anche ad accettare il suo aiuto. C’è da costruire una casa per una nuova coppia che sta per sposarsi: lo sposo, Avaris, è un giovane guerriero che gli racconta d’aver servito anche lui nella battaglia di Hebra e, prima ancora, di aver attaccato lui e Impa il giorno in cui hanno accompagnato Zelda al Borgo dei Rito per la prima volta e loro hanno creduto che fossero invasori. Glielo racconta ridendo, ma un po’ imbarazzato, come se fosse il suo modo per chiedergli scusa di quell’errore a distanza di anni. «Abbiamo combattuto insieme, dopo» gli ricorda Link un po’ sorpreso, perché, per quanto lo riguarda, aver combattuto insieme per la stessa causa equivale a sanare qualsiasi disguido sia esistito precedentemente. «E poi, non conta. Credevate che volessimo attaccarvi, perciò era ragionevole che vi difendeste.»
«Senza rancore, quindi?»
«Certo» risponde Link con indifferenza continuando a piallare una trave che andrà sul tetto della futura abitazione. «Senza rancore.»
«Com’è la vita coniugale?» gli chiede d’un tratto questo speranzoso promesso sposo in un momento di pausa dai lavori, mentre stanno pranzando insieme agli altri Rito nel bel mezzo del cantiere; Link per poco non si soffoca bevendo. Tossisce e getta la testa all’indietro sotto i suoi occhi stupiti sperando che il suo rossore venga attribuito al fatto che ha appena rischiato di annegarsi.
«Bella» s’inventa dopo aver finito di tossire, asciugandosi gli occhi e la bocca con la mano. «Impegnativa, ma bella.»
«Impegnativa, eh?» ripete Avaris un po’ assorto. Per fortuna è sufficientemente concentrato su se stesso e sulla sua futura felicità da non dar troppo peso della sua reazione esagerata alla domanda. «Lo immaginavo. Vivere con un’altra persona…»
«È dura abituarsi» completa Link con simulata naturalezza, grato del fatto che esistano infiniti luoghi comuni dai quali può attingere senza dover necessariamente ammettere la verità; ne è così grato che neppure si sofferma a riflettere sul fatto che è la verità, quella, e che vale anche per loro. Se vi riflettesse, la cosa lo imbarazzerebbe troppo.
«E… senti, scusa se ne parlo con te, ma siete l’unica altra coppia giovane qui al Borgo. I miei amici sono tutti sposati da così tanto tempo, e hanno quasi tutti bambini…» Link inizia a presentire la domanda prima ancora che arrivi, la vede nei suoi occhi mentre si forma; vorrebbe disperatamente fermarlo, davvero, o quantomeno scappare il più lontano possibile per non doverla ascoltare; invece si costringe a restare fermo, col piatto sulle ginocchia, a domandarsi se in fin dei conti quella del patibolo sia stata un’esperienza peggiore di questa. «Ma la prima notte di nozze, insomma…»
«È diversa per tutte le coppie» afferma Link con una sicurezza che non sapeva di possedere sull’argomento. Beh, di certo la sua è stata molto diversa da quella della maggior parte delle coppie; quindi, tecnicamente, non ha neppure detto una bugia. «Non basarti sui racconti degli altri. Devi solo essere te stesso.»
È evidente che questo giovane sposo si aspettava da lui qualcosa di assai più rassicurante e definitivo, magari un vero e proprio consiglio che gli fungesse da guida e sostegno, ma purtroppo, nel fondo comune di verità scontate e proverbi da cui Link può attingere, vere e proprie epifanie sconvolgenti non ce ne sono. Poiché vede la sua delusione, però, si sforza di aggiungere qualcosa che sappia di vita vera. «Anche se, sai… per me è stato diverso. Quando mi sono sposato credevamo che sarei morto» gli ricorda, dal momento che, ufficialmente, il suo matrimonio risale alla primavera scorsa ed è stato celebrato in quello che si credeva essere un punto di morte. «Di certo non sono la persona più adatta per parlare questo argomento. Non è proprio un matrimonio come gli altri, capisci.»
A sera, col buio della capanna che maschera il suo imbarazzo, trova chissà dove il coraggio di raccontare quella conversazione a Revali. Per tutta risposta, Revali ride talmente forte, a lungo e intensamente che per la prima volta Link si preoccupa che qualcuno possa sentirlo.
«Sei ancora la principale attrazione del villaggio, a quanto vedo. Eppure ormai sono passati diversi giorni. Tu che cosa gli hai risposto?»
La sua risata lo ha infastidito a sufficienza perché Link decida che, a dispetto di tutta la gratitudine che prova per lui (e che del resto Revali ha ribadito che non gli deve), si merita una lezione. «Le solite cose che si dicono in questi casi» risponde perciò con naturalezza, aspettandosi l’inevitabile domanda che questa risposta porterà automaticamente con sé.
«Cioè? Esiste qualcosa che si dice di solito in questi casi?»
«Certo. Che la prima volta non sei riuscito a trattenerti e mi hai posseduto in piedi contro un muro.»
Link concede a se stesso di godersi il silenzio carico di panico di Revali per i quindici secondi più piacevoli della sua esistenza prima di decidere che è stato punito a sufficienza.
«Dai, scherzavo» lo tranquillizza in tono annoiato, sollevandosi a guardarlo dall’amaca. «Ho detto soltanto che sei un amante gentile ma appassionato e molto attento ai miei desideri.»
Il silenzio prosegue nell’aria della stanza: di Revali Link intravede solo gli occhi enormemente dilatati dall’altro lato della capanna. Avrebbe voluto saperlo prima che ci voleva così poco a metterlo a tacere: si sarebbe risparmiato un gran numero di discussioni di fronte ai piani di battaglia.
«Revali... stavo solo scherzando.»
Revali gli scaraventa addosso la punta di una freccia imprecando. Link ride fin quasi a soffocarsi.
«Ti preferivo quand’eri serio e posato» stabilisce Revali tornando a sedersi contro il muro. «Se avessi saputo che il matrimonio ti avrebbe peggiorato tanto, ti avrei lasciato su quel patibolo. Avresti dovuto dirgli questo.»
Il giorno dopo arriva la lettera che Mazli aveva promesso: Kagan si presenta di persona a casa loro per consegnargliela. Sembra di buonumore. «Non l’ho letta, ovviamente, ma ha scritto anche a me. Credo che abbia tutto sotto controllo. Era relativamente tranquillo.»
«Relativamente rispetto al suo solito, intendi?» chiede Link aprendo la busta. La scorre rapidamente: a quanto pare, è tutto tranquillo. Hanno mandato un ufficiale a fargli ancora domande sul presunto matrimonio, ma Mazli s’è limitato a ripetere ciò che era stato già detto, e questo è quanto: il matrimonio è legalmente valido e dunque inattaccabile. In fondo alla lettera Mazli s’è degnato di aggiungere anche qualcosa che sa stargli molto a cuore: che la principessa Zelda è stata rilasciata dai suoi appartamenti. Link sospira leggendo quella riga di un sollievo misto a preoccupazione. Zelda è libera, dunque, e di certo è tornata ai suoi studi e ai suoi allenamenti; ma è anche sola, o comunque senza di lui a proteggerla. Non è in suo potere farci nulla, tuttavia: Mazli ribadisce nella lettera che non ha novità in merito al suo congedo forzato. Link non sa come sentirsi in merito: quand’anche potesse, non sa se vorrebbe tornare dopo quello che gli hanno fatto; ma vorrebbe poter proteggere Hyrule. La Calamità tornerà indipendentemente da lui e dal re.
«Certo: rispetto alla sua consueta ansia» risponde Kagan sorridendo. Lo osserva mentre legge, e forse intuisce qualcosa dal contrarsi della sua fronte, perché, dopo qualche momento, domanda: «Brutte notizie?»
Non è una domanda semplice come Kagan pensa: se si tratti di brutte notizie o no, Link non saprebbe deciderlo. Stabilisce di riporre la lettera e di pensarci in un secondo momento.
«Notizie» risponde semplicemente. «Grazie, Kagan.»
Kagan agita la mano, per l’ennesima volta, come a voler dire che non c’è bisogno di ringraziarlo affatto. «Dimmi di te, piuttosto. Come va la vita coniugale?»
Lo chiede in un tono che vuole essere scherzoso, probabilmente, ma che invece suona piuttosto malizioso. Link scuote il capo sorridendo: per quanto sia oltraggioso, per chissà quale motivo, non riesce a prendersela con lui. «Non la definirei coniugale, Kagan. Lo sai. Io sto bene, se è quello che vuoi sapere.»
«Revali mi sembra contento, quando lo incontro» ribatte Kagan con simulata noncuranza.
A lui, veramente, Revali sembra sempre il solito indisponente, pomposo e altezzoso Rito che ha conosciuto sul campo di battaglia; ma questo a Kagan non si può dire. Forse è la sua definizione di buon umore. Link decide diplomaticamente di lasciar perdere.
Finiscono di costruire anche la casa della giovane coppia: per ringraziarlo del suo aiuto, la promessa sposa gli dona una tunica pesante e spessa, che ha tessuto e ricamato a mano alla maniera dei Rito, della sua taglia. È azzurra e bianca, dei colori che sono stati attribuiti ai Campioni, come la sua tunica e la sciarpa che la principessa ha donato a Revali quando ha accettato di pilotare il colosso sacro. Link se la rigira in mano incredulo senza saper che dire e prova a protestare che non può accettare un regalo simile, che è di valore troppo grande rispetto all’aiuto che ha prestato, ma Leta rimane inflessibile e nasconde le ali dietro la schiena perché lui non possa restituirgliela. «Se preferisci, vedilo come un dono di nozze» risponde. «Ma ti prego, accettala. E poi, quest’inverno avrai freddo» gli ricorda. «Qui siamo molto più a nord e più in alto che a casa tua. Non sei abituato ai nostri climi. Ti terrà al caldo, spero.»
È vero che avrà freddo, tra poche settimane: la neve, che in estate è a malapena visibile sulle cime più lontane di Hebra, ogni tanto al mattino si fa più vicina e chiara. Link l’osserva avvicinarsi con preoccupazione, non per il freddo, ma perché il diciassettesimo compleanno di Zelda s’avvicina ogni giorno di più; e, stando ai ricordi che Pruna è riuscita a recuperare dalla memoria del piccolo guardiano misterioso, quello sarà il giorno del ritorno della Calamità.
Il giorno in cui si sveglia col freddo nelle ossa e guardando dalla finestra intravede la neve più grande e più vicina, Link trascorre la mattinata inquieto ad attizzare il fuoco nel braciere senza sapere perché; la sua mente si rifiuta di soffermarsi su un pensiero in particolare; mangia nervosamente un paio di mele, per ingannare l’attesa, sbucciandole lentamente. A un certo punto si taglia appena col coltello: il taglio sottile sul suo pollice brucia più fastidioso delle ferite più gravi, e Link si sente stizzito come se avesse commesso chissà quale sciocchezza. Si è tagliato perché stava guardando fuori dalla finestra, in direzione del Volodromo.
Alla fine, verso l’ora di pranzo, perde la pazienza. Si cinge alla vita la cintura e il fodero della Spada, attorno al petto le cinghie che trattengono il suo scudo, la faretra e il suo vecchio arco militare e tira fuori la paravela dal baule dove l’ha riposta; fa per uscire, poi ci ripensa. Ha volato molto più carico di così, perciò annoda in una tovaglia mele, pane e formaggio e la fissa a una delle cinghie prima di uscire di casa.
Si lascia planare verso il Volodromo dal punto più alto della rupe, manovrando delicatamente la paravela per aggiustare la direzione: non è una manovra difficile, comunque. Il Volodromo è facilmente raggiungibile dal borgo.
Non ci è mai stato: non sa se fosse già stato costruito quando ha accompagnato Zelda a chiedere a Revali di combattere per loro, e comunque non ci sarebbe stato molto tempo per giri turistici, all’epoca. Oggi il cielo è freddo e livido come acciaio: forse per questo non c’è nessuno ad allenarsi. I bambini, che ogni tanto vanno ad ammirare le gesta di Revali, di certo a quest’ora sono a pranzo nelle loro case. Link attraversa il campo d’allenamento senza guardarsi troppo intorno: Revali non si sta allenando, lo sente dal silenzio che permea l’aria, e Link si limita a registrare distrattamente nella sua mente la presenza di bersagli sparsi ovunque il suo occhio possa vedere e di un freddo più intenso e più pungente che al borgo. Questo luogo è pieno di vento e di correnti d’aria: non c’è da sorprendersi che Revali lo abbia scelto per i suoi allenamenti.
All’estremità opposta rispetto al borgo c’è un edificio su cui Link punta d’istinto. Entra senza pensarci troppo. Revali è seduto sul pavimento, nella posizione abituale in cui Link è ormai abituato a vederlo, e sta lavorando sulla corda del suo arco. Il suo arrivo non lo ha colto di sorpresa: evidentemente l’ha visto arrivare da lontano, forse da quando ha iniziato la planata con la paravela dall’alto. Del resto, a questo luogo è impossibile avvicinarsi di soppiatto provenendo dall’alto: non è sorprendente che l’abbia progettato uno stratega come Revali.
«Ehi» si limita a dire senza levare lo sguardo dal suo arco. È il suo modo di riassumere un saluto e di domandargli insieme se ha qualcosa da dirgli. «Sei venuto a vedere il mio Volodromo?»
Link si slaccia la prima delle cinghie che gli serrano il petto.
«Ehi» risponde a sua volta guardandosi intorno. Sta per dirgli quello a cui ha pensato tutta la mattina, e in verità ormai già da qualche giorno, ma d’un tratto gli cade l’occhio sull’arredamento della capanna: è un’unica stanza spoglia, pensata per riposare durante gli allenamenti, e forse è per questo che in un angolo c’è qualcosa che colpisce la sua attenzione perché è totalmente fuori posto – c’è un’amaca.
I suoi pensieri precorrono la sua voce. Rimane in silenzio per un attimo a osservare quell’amaca mentre nella sua mente tutto trova la sua adeguata collocazione: stupito dal suo improvviso ammutolire, Revali segue con gli occhi il suo sguardo.
«Tu dormi qui» dice Link improvvisamente.
Revali lo osserva per un istante cercando di decidere, sulla base della sua espressione, se dirgli semplicemente la verità oppure rispondergli col consueto sarcasmo. Poiché è Revali, propende per la seconda. «Evidentemente.»
Link non sa perché la cosa lo faccia tanto arrabbiare. Forse perché non l’aveva intuita da solo, o forse perché è semplicemente troppo stupida per crederci. «Tu non vieni qui per allenarti. Rimani sveglio fin quasi all’alba e poi vieni qui a riposare perché nessuno sappia che non dormi con tuo marito e tutti credano che ti alleni.»
«Certo che mi alleno!» sbotta Revali sdegnato. «Solo che prima dormo qualche ora. Ti pare tanto strano che persino io abbia bisogno di dormire nella mia vita e che non sia stato ininterrottamente sveglio negli ultimi quaranta giorni?»
«Allora dormi con me!» urla Link. Non sa da dove gli provenga tanta rabbia, ed è evidente che non lo sa neanche Revali, perché rimane esterrefatto e, per una volta, incapace di trovare una risposta arguta: i suoi occhi si sono fatti enormi di stupore. Non lo ha mai visto alzare la voce neppure in guerra. «È la cosa più stupida del mondo! Hai una casa! Perché diamine non dormi lì di notte?»
Revali riesce a controllare il suo stupore abbastanza da provare a rispondere. Tenta davvero di articolare una frase, ed esclama: «Link, ascolta…»
Il punto è che Link non ha voglia né tempo di star lì a sentire le sue argomentazioni, anche perché non gli direbbero nulla: non sa neppure perché è arrabbiato, e c’è una parte di lui che è consapevole che qualunque cosa Revali decida di fare non lo riguarda, perché è libero esattamente come lui; ma è proprio questo il problema. Che in realtà quel problema lo riguarda, a dispetto di tutto, perché Revali non dorme in casa sua da quaranta giorni per permettere a lui di farlo; e di tutto ciò non gli ha nemmeno chiesto il suo parere. Link non sa se si senta arrabbiato perché quello è l’ennesimo gesto che lo pone in una posizione di debito e di gratitudine nei confronti di questo maledetto Rito o semplicemente perché quella è la soluzione più stupida che Revali potesse trovare al problema; e ora è troppo furente per riuscire a verbalizzare la prima ipotesi.
Si dà il caso che la seconda, invece, sia perfetta per l’occasione. Perciò Link gli scaraventa addosso la tovaglia annodata con tutto quello che contiene e ci tiene a sottolineare il gesto gridando: «Come fa uno stratega come te a essere così idiota?»
Dopodiché si volta e lascia il Volodromo a piedi. Ha bisogno di sbollire per un po’.
 
Arrivare al Volodromo dal Borgo dei Rito è molto semplice: basta planare. Ma compiere il percorso inverso allo stesso modo è impossibile, visto che il borgo è troppo sopraelevato rispetto al piano del Volodromo: va benissimo. Link non chiede di meglio che camminare per conto suo per qualche ora. Non ci tiene a rivedere Revali per un po’, e non ci tiene nemmeno a domandare a se stesso perché si sia infuriato tanto.
Quando fa ritorno a casa, il sole è tramontato da un pezzo e lui si sente stanco, infreddolito e affamato. La combinazione di queste sensazioni, e la consapevolezza di aver urlato addosso alla persona cui tecnicamente deve la vita, lo rendono anche profondamente nervoso, ma si sforza di non pensarci. Affronterà tutto a suo tempo.
Revali è già in casa, ovviamente, dal momento che il viaggio di ritorno dal Volodromo a lui non richiede che qualche minuto di volo, e sta arrostendo qualcosa sul fuoco. Quando Link entra in casa e lascia ricadere la tenda alle proprie spalle si aspetterebbe la sua rabbia o il suo sarcasmo, ma, stranamente, non è così. Revali sta ridendo, il che lo farebbe infuriare ancora di più se solo non avesse freddo e fame e non fosse così stanco.
«Che hai da ridere?» domanda perciò senza troppe cerimonie mentre si sfila di dosso la faretra.
«Eri tremendamente buffo, prima» risponde Revali. La risata vibra ancora nella sua voce, un po’ nascosta, ma quantomeno egli si sta sforzando di non ridergli in faccia. «Come un gattino arrabbiato. Non ti avevo mai visto così. Sei più simpatico quando perdi le staffe.»
La sua scoperta ironia è l’ultima cosa di cui Link abbia bisogno, sebbene ci sia una parte di lui, neppure tanto sepolta, che si sente sollevata dal fatto che Revali non sia arrabbiato con lui. Non sa come avrebbe potuto gestire la sua rabbia in questo momento. Gli dà le spalle mentre si sfila di dosso anche l’arco.
«È tutto qui quello che hai da dire, quindi?»
«No, naturalmente no. Ma volevo aspettare che ti sedessi, prima.»
La sua voce s’è fatta un po’ più seria d’improvviso. Gettandogli un’occhiata nel tentativo di decifrare la sua espressione, Link si sfila di dosso la cintura col fodero, la ripone su un piano e si siede di fronte a lui. Gli occhi di Revali brillano come smeraldi nella luce del fuoco.
«Sono seduto.»
«Bene. Allora, posso dirti che ho deciso di interpretare la tua simpatica scena di oggi come un segno di manifesta preoccupazione per la mia salute, piuttosto che come l’ennesimo sintomo del tuo carattere petulante e della tua tendenza al controllo.»
È un discorso talmente infarcito di sostantivi e aggettivi che Link impiega qualche momento a sbrigliarlo tutto nella propria mente. Probabilmente è quello che Revali voleva, perché approfitta del suo silenzio per proseguire. «Link, non ti ho salvato perché tu mi fossi debitore, e neppure perché tu dormissi come un cane o uno schiavo sul pavimento di casa mia. Se c’è qualche modo in cui posso essere più chiaro di così, ti prego, dimmelo, perché non so come altro esprimerlo. Non intendo umiliarmi facendo scoprire alla mia gente che questo è un falso matrimonio, ma non intendo umiliare neanche te… in qualunque modo diverso che su un campo di battaglia, cioè. Lì va benissimo a entrambi, presumo. Puoi comprendere che, sebbene io mi ritenga infinitamente superiore a te sotto una cospicua varietà di aspetti, non voglio esserlo perché tu mi devi la vita?»
Link rimane senza parole per un po’ perché questa è la massima sincerità possibile che abbia mai ricevuto da Revali e non sa come prenderla. Non sa che cosa dire.
«Posso capirlo» mormora infine.
«Bene» sospira Revali. «Allora, direi che abbiamo chiarito.»
«No, un momento» lo interrompe Link. «Vorrei dire anche io qualcosa, se non ti dispiace. Dopotutto, siamo sposati» gli ricorda. «Alla pari, quindi.»
«Giusto» commenta Revali sogghignando. «Avanti, allora. Non sia mai che si dica che tolgo al mio sposo il diritto di far valere le sue ragioni sotto il nostro tetto coniugale.»
Link soprassede sulla sua palese ironia perché, come sempre, se si soffermasse a combattervi finirebbe soltanto per restarvi invischiato.
«Posso comprendere tutto quello che hai detto. Ma tu puoi sforzarti di comprendere a tua volta che io sono davvero preoccupato per te, e che il fatto che tu mi abbia ceduto la tua casa e la tua amaca non fanno che accrescere un debito che forse tu non vuoi vedere, ma che io continuo comunque ad avere nei tuoi confronti?»
Questa volta è Revali a rimanere in silenzio di fronte al chiarore del fuoco. Contempla le sue parole nelle fiamme per qualche momento.
«Posso sforzarmi» dice infine.
Quella è la massima concessione che gli sia possibile strappargli, di questo Link ne è certo, perciò è bene approfittarne.
«Bene. Per favore, Revali, troviamo una soluzione. Potremmo fare a turni. Una notte per uno, come di guardia.»
Revali scuote il capo. «No, Link. Non intendo cedere su questo.»
Link odia la sensazione di perdere terreno. «Per l’amor del cielo, Revali! Quanto pensi di poter resistere così senza crollare? Dormi con me.»
Questa volta, semplicemente, Revali ride. Non c’è amarezza nella sua risata, ma a quanto pare, semplicemente, trova l’idea molto divertente. Link non sa se ritenersene insultato. «Continuerò a sforzarmi di apprezzare i tuoi tentativi, Link, ma la risposta continua a restare no. Vedila così: ti sto facendo un favore. Di certo staremmo troppo stretti in due.»
Quella è la bugia più spudorata che Link gli abbia mai sentito pronunciare. «Non è vero, e lo sai. Quell’amaca potrebbe contenere tutto l’esercito.»
Revali si limita ad aggrottare la fronte sorridendo. «Una curiosa associazione mentale, Link, davvero, ma per quanto i tuoi sforzi di sedurmi mi lusinghino, la risposta rimane comunque no. Ora vogliamo cenare o intendi continuare a manifestare i tuoi imbarazzanti desideri inconsci?»
Link è sicuro che un modo per vincere una discussione con questo dannato Rito, da qualche parte, esista; il problema è che dev’essere come uno di quei rompicapo truccati, impossibili, che si possono terminare solo conoscendone in anticipo la soluzione. Revali non cederà, qualsiasi cosa lui possa dirgli, e gli ha detto anche perché: a quanto pare dovrà accontentarsi di questo, del fatto che è stato onesto con lui e ha cercato di vedere la cosa dal suo punto di vista. Il che, naturalmente, non ha portato a niente; ma è comunque un miglioramento. Perciò, con un sospiro, Link si alza e va a lavarsi per la cena nella minuscola stanza adibita a bagno.
Quando ritorna nella sala, Revali sta sorridendo come se, in sua assenza, fosse stato colpito da un pensiero estremamente divertente. Link si ferma sulla soglia a osservarlo.
«C’è qualche altro pensiero che trovi ridicolmente ilare?»
Revali si sforza di smettere di ridere come se questo fosse sufficiente a rispondere alla domanda. «Non è niente. Pensavo solo che… non sai che giorno è oggi, immagino.»
Poiché Link davvero non lo sa, non gli rimane che restare in silenzio ad aspettare che Revali gli faccia l’enorme grazia di rivelarglielo.
«È passato un anno e mezzo esatto dalla battaglia di Hebra» dice Revali. «E a quanto pare abbiamo appena avuto il nostro primo vero litigio di coppia.»
Link rimane interdetto a tal punto che non sa come replicare.
«Credevo che i periodi di crisi venissero più tardi» commenta dopo un po’. «Il nostro matrimonio sta andando davvero male, allora.»
Revali scrolla le spalle facendogli cenno di avvicinargli i piatti. A quanto pare la cena è pronta. «Non saprei. Il primo litigio dopo un anno e mezzo non mi sembra male.»
«Lo dirò ad Avaris, allora» risponde Link sedendosi di fronte a lui. «Anche se, a dire il vero, io ricordo un discreto numero di discussioni sui piani di battaglia.»
«Quelle non contano come litigi coniugali, però» stabilisce unilateralmente Revali, e Link decide di non discutere oltre. In fin dei conti, non si sente poi questo grande esperto di matrimoni.
Più tardi, dopo cena, mentre Revali si rimette al lavoro sul nuovo arco che sta realizzando per sostituire il proprio, Link si siede a un tavolo a studiare le sue mappe.
«Non mi hai detto perché sei venuto al Volodromo, poi» lo informa Revali continuando a lavorare, senza neppure guardarlo. Questo è il suo modo di cercare di scoprirlo senza doversi abbassare a chiedere, naturalmente, ma Link non intende dargliela vinta tanto facilmente. È ancora un po’ arrabbiato.
«No, hai ragione» conferma sfogliando le mappe. «Non te l’ho detto.»
Revali attende per quasi un paio di minuti prima di decidersi a domandare: «Posso saperlo adesso?»
Lynel, dice una scritta sulla mappa di fronte all’imboccatura di una caverna. In un angolo a nord, dentro quella che si direbbe una gola, c’è una grossa croce: Link vi posa le dita per un momento. Revali sta studiando da mesi un luogo dove la sua gente possa rifugiarsi quando verrà la Calamità.
«Si sta avvicinando» risponde solamente.
Revali continua a lavorare il legno per un po’ senza dar segno d’averlo sentito. «Eri venuto a dirmi questo? So leggere un calendario, sai.»
«Che cosa faremo noi quando tornerà la Calamità?»
Revali s’interrompe con un sospiro. Quel sospiro, così come i segni sulle mappe, gli dice tutto quello che ha bisogno di sapere: che, come lui, alla Calamità Revali non ha smesso di pensare mai.
«Io devo difendere la mia gente» dice Revali semplicemente.
«Piloterai Medoh, quindi.»
«Certo. Sebbene ritenga che il mio talento sia sprecato in un semplice ruolo di supporto, come credo di averti già detto.»
«Ricordo vagamente d’avertelo sentito dire, sì.»
Revali non ha ancora ripreso il lavoro. «Combatterai anche tu.»
Link sorride appena. «Perché non suona come una domanda?»
«Perché non lo è. Se c’è qualcosa che devo riconoscerti, è che supplisci la tua deplorevole mancanza di talento con un notevole impegno e qualche trucco con quella tua spada. E che hai sempre difeso Hyrule.»
«Non l’ho mai fatto per il re» mormora Link. Malgrado quello che gli hanno fatto, malgrado il tradimento, l’oltraggio, l’umiliazione, combatterà comunque, sempre, perché è Hyrule ad aver bisogno di lui: non il re. Ma lo sorprende che Revali lo conosca tanto bene da averlo saputo prima ancora di chiederglielo.
«Lo so» risponde Revali. «Quindi eri venuto ad allenarti, suppongo.»
Link si stringe nelle spalle. «Non vedo lati negativi ad allenarci insieme. Dal momento che siamo esiliati qui, tanto vale mettere a frutto il tempo. No?»
«Suppongo che qualche volta capiti anche a te d’avere ragione» risponde Revali. «Perché no? Se prometti di non tirarmi altro addosso, torna domani. Che cos’era poi quella roba che mi hai tirato addosso?»
Link si era quasi dimenticato di avergli scaraventato contro la tovaglia con tutto il suo contenuto.
«Era il pranzo» risponde seccato.
Questa volta Revali si volta direttamente a guardarlo senza riuscire a trattenersi. Link aspetta per un po’ un commento pungente che, stranamente, non arriva. Per una volta, Revali lo sta solo guardando.
«Mi avevi portato il pranzo?»
La sua domanda è così stupida che Link decide di ritorcergli contro una delle sue risposte preferite. «Evidentemente.»
«Grazie» dice Revali soltanto.
«Prego» risponde Link. «Sono contento di avertelo tirato addosso.»
Revali si rimette a lavorare ridendo tra sé.

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Capitolo 7
*** Interferenze ***


Capitolo VII – Interferenze
 
“Pareva piena di attenzioni, ma la conosco: lo faceva per gelosia. Non mi ha voluto lasciar solo con lui.”
“Perché vi amava. Non c’è gelosia senza amore.”
André Gide, I falsari.
 
Il giorno successivo Link mette da parte l’orgoglio e l’offesa e plana di nuovo verso il Volodromo, perché Hyrule è più importante e verrà sempre prima delle scaramucce verbali coll’altezzoso Rito che gli è toccato in sorte per marito: Revali, come sempre, vi si è recato stamani prima ancora dell’alba, dopo l’ennesima nottata trascorsa lavorando. Non fanno menzione della discussione del giorno precedente: va benissimo così. Quando si lavora, non c’è tempo per le sciocchezze.
Dopo tre ore di allenamento, Link comincia a comprendere perché gli altri guerrieri Rito non approfittano del Volodromo tanto quanto potrebbero: persino negli allenamenti, Revali è implacabile. Per loro, comprende Link d’un tratto mentre Revali vortica sopra la sua testa e una pioggia di frecce si conficca nello scudo ch’egli ha fatto appena in tempo a sollevare sopra di sé, avere a che fare con lui è scoraggiante perché semplicemente non esiste un termine di paragone.
«Chissà come sarebbe finita quel giorno se la principessa Zelda non ci avesse interrotti» gli dice quando si fermano per bere. Pensa al loro primo duello, quando i Rito, scambiandoli per nemici, li hanno attaccati mentre scortavano la principessa e il piccolo guardiano al loro Borgo: è stata la prima volta che hanno combattuto, quella. Non che ce ne siano state altre, dopo, se non per allenarsi, cogli altri Campioni, nei giardini del Castello di Hyrule; ma seriamente mai.
«Non mi pongo domande delle quali conosco già la risposta» risponde Revali facendogli cenno di passargli la borraccia: Link deve esercitare un notevole sforzo di volontà su se stesso per non scaraventargli addosso anche quella.
«Certo» risponde a denti stretti mentre si limita a passargliela non troppo vicina, in modo che Revali debba comunque protendersi e sbilanciarsi verso di lui per prenderla. «Ci mancherebbe.»
Revali riprende la conversazione dopo aver bevuto. «Non devi prendertela quando ti dico queste cose. È la pura sacrosanta verità, e non è tutta colpa tua, sai. Semplicemente, tesoro mio… tu non puoi volare. Mi limito a enunciare un dato di fatto. Non puoi planare dall’alto scagliando frecce e fare tutta una serie di cose che io, modestamente…»
A questo punto Link fa una cosa che ha sempre punito severamente ai suoi uomini di fare durante gli addestramenti, perché è una cosa puerile e inutilmente pericolosa ed è contraria a ogni norma di buon senso sull’uso delle armi, ma che può permettere a se stesso di fare perché lui è lui e perché questo maledetto Rito è troppo arrogante per non essere messo a tacere: solleva la spada, con un gesto apparentemente casuale eppure controllato, e la punta in mezzo ai suoi occhi. Revali ammutolisce all’istante. «Ti ho mai detto che è proprio la tua modestia che mi ha convinto a sposarti, sì?»
Revali contempla la spada che punta tra i suoi occhi con uno sguardo un po’ più compiaciuto di quello che sarebbe lecito aspettarsi in questa circostanza. A quanto pare, l’esser stato appena colto di sorpresa da lui lo fa sorridere. «Immagino che tu stia cercando di dimostrare che ho allentato la guardia mentre parlavo con te. Molto divertente. Però non prova niente.»
«Ne sei sicuro?» chiede Link rinfoderando la spada. «Non è che, per caso, non prova niente solo perché non prova una tua teoria?»
«No. Non prova niente perché tu sei mio marito e dunque non mi attaccheresti mai in battaglia.»
Link apre la bocca per protestare senza saper bene che cosa dire per primo tra non credevo che mi considerassi davvero tuo marito e non essere così sicuro che non ti attaccherei; poi decide di lasciar perdere. Può impiegare il suo tempo in modo più produttivo che sfiancandosi in discussioni con lui, per esempio sistemando il suo equipaggiamento.
«Potresti provare il mio stesso allenamento, comunque» propone Revali quasi distrattamente.
Link è talmente concentrato a estrarre punte di freccia dallo scudo di legno che usa per gli allenamenti che quasi non lo sente. «Eh?»
Revali fa un cenno in direzione della voragine che si spalanca al centro del Volodromo. Link segue il suo sguardo senza capire: per quanto lo riguarda, non è che un profondo buco nel terreno attorno a una rupe disseminata di bersagli. Aggrotta la fronte perché quello è troppo gratuitamente insultante persino per lui.
«So che ci sei rimasto male per la questione della spada, ma questo è puerile, Revali. Non me l’aspettavo da te. L’hai detto tu che non sono in grado di scagliare frecce planando.»
«Non ti sei chiesto perché il Volodromo è stato costruito qui?»
«No, ma presumo che la risposta sia che è facilmente raggiungibile dal borgo e che è un luogo che hai scelto tu sulla base della tua inestimabile saggezza, perché tu sei il grande Revali e sai sempre che cosa è meglio per la tua gente.»
Revali lo guarda quasi con soddisfazione perché evidentemente, per una volta, Link ha azzeccato entrambe le risposte. Il suo sarcasmo dev’essere passato inosservato. «Mi sorprendi, Link. Hai quasi indovinato, ma ti manca l’elemento fisico. Non hai sentito che in quel punto le correnti d’aria sono più forti?» A questa domanda Link evita accuratamente di rispondere, perché ha la sensazione che a me sembra che faccia lo stesso freddo dannato ovunque non sarebbe considerata una risposta adeguata. «Ho scelto questo posto perché ci sono degli sfiatatoi naturali che la mia gente poteva usare per sollevarsi in volo. Non ti nascondo che li ho usati anche io mentre perfezionavo il mio vortice.»
«Ma senti» commenta Link, cui l’ennesimo autoelogio del vortice di Revali interessa immensamente meno che sistemare il proprio scudo. «Pazzesco.»
Il suo sarcasmo comincia a diventare abbastanza evidente perché Revali inizi a infastidirsene. «Perché non ci provi anche tu?»
«L’hai detto tu, Revali. Perché non posso. Non ho – com’è che le chiamate voi? Ah – le ali
«Hai quella tua paravela, no?»
Link non può negare di averla. Leva gli occhi su Revali con una certa curiosità perché non capisce dove voglia andare a parare. «Va bene, ma dovrei comunque riporla per poter mirare. Non ho la stessa struttura fisica dei Rito.»
Revali scrolla le spalle. «Se vediamo che funziona, possiamo lavorare a un modo per adattarla. Le poche volte che ti ho visto tirare con l’arco, la tua mira non era proprio pessima.»
Quello è l’unico modo che Revali conosca di fargli un complimento. È sorprendente come riesca a rassomigliare anche a un’offesa in una discreta varietà di modi diversi.
«Naturalmente, capisco che tu non te la senta di metterti alla prova con me, ma…»
Non è per la sfida: è per Hyrule. Quantomeno è questo che Link ripete a se stesso mentre ci pensa per un po’, osservando l’enorme buca con un interesse che finora non le ha mai destinato. Tutto sommato, Revali non ha torto: con la paravela, forse, qualcosa potrebbe pure combinare; un giorno potrebbe trovarsi in una situazione in cui potrebbe pentirsi di non aver sviluppato quest’abilità; e poi, soprattutto, nessuno dei due lo ammetterà mai, ma sono in uno stallo maledetto. Hanno passato le ultime ore ad allenarsi perché ciascuno dei due è il miglior guerriero che l’altro conosca – altra cosa che nessuno dei due ammetterebbe mai – ma non andranno da nessuna parte, così. E Link è piuttosto stufo di parare le sue frecce senza scopo.
«Proviamo» risponde stringendosi nelle spalle.
 
Ci sono state molte occasioni in cui Link ha rivalutato le sue scelte di vita, che non sono state sempre giuste o felici.
Nessuna è come oggi, però. Nella fattispecie, Link è nervoso, frustrato, scoraggiato; il sudore gli si è ghiacciato sulla schiena nell’aria gelida che esce a fiotti dagli sfiatatoi naturali del Volodromo; gli fanno male le braccia, la schiena, persino la testa; ma, soprattutto, nutre un profondo desiderio di commettere un uxoricidio.
Avrebbe dovuto ascoltare quella voce dentro di lui che gli sconsigliava di accettare quella sfida, se mai quella voce c’è stata; o, se non quella voce, quantomeno il poco buon senso che aveva dimostrato di avere quando ha detto non posso farlo, non ho le ali. Ora che ha iniziato, tirarsi indietro sarebbe come ammettere di fronte a Revali che non è alla sua altezza; il che è stupidamente ovvio, da un certo punto di vista, perché lui non è un Rito e non sa volare più di quanto Revali sia in grado di risalire a nuoto una cascata; ma fa lo stesso. A questo punto, Link è troppo orgoglioso per dire semplicemente basta.
Lo stupisce l’assenza di commenti da parte di Revali: è insolitamente tranquillo. Neppure quando Link rovina a terra all’interno della buca, stranamente, gli sfugge una delle sue battute: si accerta persino che non sia morto, il che è insolito ai limiti del commovente, da parte sua. Sembra più interessato a risolvere il problema che non a deriderlo, il che, per lui, è un’assoluta novità.
Alla fine, verso il tramonto, quando ormai il gelo si fa insostenibile e rischiano di restare ad allenarsi alla sola luce di torce e fiaccole, Link si sfila di dosso la faretra e dichiara: «Senti, lasciamo stare. È un problema perso in partenza.»
Revali lo osserva in silenzio per un po’. Sta pensando.
«Non ne sono sicuro» dice infine. «Fammi fare ancora un tentativo.»
Veramente a Link sembra che i tentativi siano qualcosa che sta facendo lui, fino a prova contraria. «E cosa pensi che cambi?»
«Non lo so. Aspetta, però… dammi il tuo arco. Fammi vedere una cosa.»
Link glielo porge senza troppe aspettative: qualunque cosa pur di smettere di discutere con questo dannato Rito e andare a casa. Si scalda le mani soffiandovi sopra mentre Revali studia il suo arco nella poca luce rimasta, tendendolo e piegandolo cogli stessi gesti lenti, metodici, di quando lavora il legno la sera mentre Link lo osserva pigramente dall’amaca.
«Non è tutta colpa tua» dichiara infine Revali. «Questo arco…»
«Fammi indovinare. Il mio arco fa schifo e non è neppure comparabile a quelli prodotti dalla tua maestria» sbotta Link, che si sta congelando il culo per stare a sentire questo Rito pretenzioso e arrogante elargire le sue massime di saggezza a chiunque sia disposto a stare a sentirlo abbastanza a lungo; che, nel caso specifico, è lui. Tutto sommato non è poi sorprendente che non fosse già sposato, prima del suo processo. «Ora che l’abbiamo appurato possiamo andare?»
Revali alza gli occhi su di lui come se fosse sorpreso della sua presenza. «Che c’è? Hai freddo?»
Link non ha neppure la soddisfazione di scaraventargli addosso l’arco. Si avvia imprecando lungo la strada che porta al borgo, maledicendo se stesso, Revali e anche Impa per l’idea che ha avuto: forse aveva ragione quando lo ha salutato sulla collina, quel giorno, e gli ha chiesto di perdonare lei e i Campioni per averlo condannato a questo matrimonio.
Questa sera, per non dichiarare pubblicamente a tutta la sua gente di essere il marito peggiore del mondo, Revali non può limitarsi a tornare al borgo in volo come fa di solito. È costretto a camminare con lui, percorrendo l’ampio semicerchio che si snoda nella valle girando intorno alla loro dirupata città, per imboccare l’unica via d’accesso a piedi. Continua a studiare il suo arco: se può servire a farlo star zitto e a risparmiarsi qualcuno dei suoi commenti, Link è più che disposto a lasciarglielo. Tanto più che, a quanto pare, come ha appena scoperto, è un arco che fa schifo.
Quando varca la porta principale del villaggio si sorprende di scoprirlo addobbato in modo simile alla sera del loro arrivo: Link solleva gli occhi sulle decorazioni mentre salgono attraverso le strade strette verso casa loro. Revali deve notare la direzione del suo sguardo.
«Domani è il giorno del matrimonio di Avaris e Leta» gli ricorda. «Finalmente vedrai un matrimonio Rito in piena regola.»
Link era stato tanto preso all’idea di costruire la casa, a dire il vero, che non s’era neppure chiesto precisamente quando quel matrimonio sarebbe stato celebrato. «Non come il nostro, intendi dire.»
«Già. Puoi scrivere al tuo cucciolo di attendente che qui ci sarà il banchetto nuziale, a differenza del nostro.»
Il fatto che Revali insista a definire Lelek un cucciolo di attendente lo diverte sempre molto, in parte perché è una definizione che gli calca a pennello; ma soprattutto perché gli comunica quanto Revali sia ancora indispettito per la questione delle rivelazioni nel cortile del castello. «Gli farà piacere saperlo. Gli scriverò anche che oggi l’attività con te mi ha sfiancato, così avrà qualcos’altro da raccontare per metterti in imbarazzo la prossima volta.»
Revali non risponde solo perché stanno attraversando un punto particolarmente affollato: sembra che metà della popolazione maschile del villaggio si sia addensata in questo particolare tratto di strada, di fronte a una specifica casa. Revali si ferma.
«Andiamo a porgere i nostri saluti allo sposo» sospira dopo un istante. Link lo guarda con curiosità perché non gli sembra entusiasta della cosa: per lui, evidentemente, è una perdita di tempo. «Sarebbe scortese non andare, giacché siamo qui. È tradizione.»
Si fanno largo attraverso la folla che si assiepa sulla soglia della casa: Link deve presumere che sia la casa dove Avaris ha vissuto finora con la sua famiglia d’origine, ma evita di chiedere spiegazioni. Avaris è raggiante di felicità ma un po’ nervoso: ringrazia entrambi abbracciandoli con braccia tremanti.
«Grazie di essere venuti» risponde loro macchinalmente, come se l’avesse detto già decine di volte, ormai; il che non è sorprendente. Un’anziana Rito, forse sua madre, porge loro tazze di tè bollente: Link tiene la sua tra le mani nel disperato tentativo di scaldarsi. «Maestro Revali, domani ci farete entrambi l’onore di esserci? Ci sarà anche Derdran, sapete» aggiunge, come se fosse un dettaglio carico d’informazioni per entrambi. Per Revali, evidentemente, lo è, perché la sua espressione cambia subitaneamente; ma non sembra essere una buona informazione. Per Link, invece, quel nome non vuol dire niente. «Ha preso un giorno di licenza per poter venire. Mi ha scritto che sarebbe partito dalle cime di Hebra stanotte per fare in tempo.»
«Che bella notizia» risponde gelidamente Revali. È una fortuna che Avaris sia sufficientemente preso dal pensiero del proprio matrimonio da non accorgersene. «Lo rivedrò volentieri. Per Link sarà quasi la prima volta, non è vero?» chiede passandogli un braccio sopra le spalle: Link rimane sufficientemente esterrefatto da quel gesto da avere la prontezza di annuire solo con qualche secondo di ritardo. Non ricorda di essergli mai stato vicino così. Si sente avvampar le guance, ma, per fortuna, Avaris non sembra far caso neppure a questo. «Non credo che ti ricordi il suo nome. Stavi troppo male, quel giorno, ed eravamo troppo presi da altro. Derdran è l’ufficiale che ci ha sposati.»
«Oh» risponde Link, incerto su quello che ci si aspetti di sentir dire da lui e ancora piuttosto concentrato sulla strana inusuale vicinanza dei loro corpi. Si rende conto solo in questo momento di non aver mai pensato alla misteriosa figura dell’ufficiale Rito la cui firma deve campeggiare sul loro certificato di nozze: eppure ricorda chiaramente che Revali e Mazli ne hanno parlato come di qualcuno che esisteva e che conoscevano entrambi. «Ricordo vagamente. Mi farà piacere rivederlo» aggiunge, poiché gli sembra una cosa gentile da dire, e questo sembra bastare a convincere Avaris. La pressione del braccio di Revali sulla sua spalla si allenta impercettibilmente: a quanto pare, Link ha detto la cosa giusta. Anche se non sa bene quale sia stata.
Glielo chiede quando rientrano in casa e fanno bollire l’acqua per lavarsi dopo gli allenamenti, accendendo bracieri per scaldare la casa a sufficienza. Finora, quando gli ha chiesto direttamente qualcosa legato alla vita del borgo, Revali è sempre stato sufficientemente bencreato da rispondergli risparmiandogli battute superflue; volendo, perciò, potrebbe limitarsi a chiederglielo senza stratagemmi né girarci intorno. Ma oggi Revali ha messo a dura prova la sua pazienza in ogni modo possibile, perciò, sfilandosi con noncuranza il mantello per avere una scusa per guardare distrattamente altrove mentre parlano, Link chiede a bruciapelo: «Derdran è il tuo ex?»
«Il mio cosa?»
«Ex» ripete Link, che non sa come scandire quella parola più chiaramente di così. «Sai, tipo… ex fidanzato?»
Sperava veramente di aver indovinato, ne era quasi sicuro: glielo ha chiesto così, a tradimento, nella speranza di coglierlo alla sprovvista e di strappargli la verità, come quella volta che su Medoh ha mentito e ha fatto il nome di Impa per bluffare; ma non è servito. Revali lo scruta perplesso per un po’.
«C’è qualcosa che te l’ha fatto credere?»
«No» deve ammettere Link a malincuore. Odia che gli fallisca una strategia. «Speravo solo di scoprire perché hai cambiato espressione quando hai sentito il suo nome.»
«E hai pensato subito a una storia romantica?» chiede Revali. Dal tono della sua voce, sembra che trovi l’idea divertente. «Geloso, eh?»
Link non aveva mai pensato che la sua strategia potesse ritorcerglisi contro a quel modo. Forse Revali non è l’unico colpevole di abbassare la guardia, tra di loro. Dev’essere avvampato d’improvviso, perché Revali appare estremamente divertito. «Sai che non me l’aspettavo da te?»
«Finiscila» sbotta Link scagliandogli addosso il mantello. Revali si limita a prenderlo al volo senza smettere di ridere.
«La tua gelosia mi lusinga» prosegue ignorandolo bellamente. «Non sapevo che ti sentissi così. Posso tranquillizzarti dicendoti che non ho avuto storie di nessun genere né con Derdran né con nessun altro?»
«Per quanto mi riguarda puoi anche esserti scopato tutto il creato» risponde Link dandogli le spalle.
«Questa è proprio una cosa che direbbe qualcuno a cui darebbe un dannato fastidio se mi fossi scopato anche solo mezzo creato» ribatte Revali ridendo. Il che, deve riconoscere Link ripensando alle proprie parole, è più vero di quanto gli piaccia ammettere: suona esattamente come se gli desse fastidio. «Comunque, se la cosa ti può tranquillizzare, noi Rito tendiamo a sceglierci un partner per tutta la vita, perciò…»
«Revali» lo interrompe Link, che non vorrebbe sorbirsi un sermone sulla monogamia dei Rito neppure se non fosse sposato con uno di loro. «Ho afferrato il concetto. C’è qualcosa che devo sapere su questo Derdran oppure no?»
Revali è quasi dispiaciuto di dover abbandonare l’argomento della gelosia per tornare a concentrarsi sul presente. È evidente che sperava di poterlo prendere in giro ancora per un po’.
«È solo l’ufficiale il cui nome figura sul nostro certificato di matrimonio, Link. Devo però ammettere che, come hai intuito, effettivamente non mi è particolarmente simpatico. Tutto qui.»
Link decide che potrà scoprire con calma le ragioni di quest’antipatia. «Lui sa di averci sposati?»
«Ufficialmente sì, visto che lo ha fatto.»
«E nella pratica?»
«Kagan ha falsificato la sua firma, quella notte» ammette Revali. «Ma gli ha scritto subito per informarlo, naturalmente, e non mi risulta che abbia protestato. Perciò, fino a prova contraria e chiunque lo chieda, Derdran ci ha sposati quel giorno nella tua tenda.»
«Va bene» risponde Link senza troppa convinzione. C’è ancora qualcosa che gli sfugge. «Non potevate scegliere qualcun altro, se lui non ti piace?»
«Non è che non mi piaccia, è che…» È raro che Revali non trovi parole per esprimere la propria disapprovazione per qualcuno: Link attende invano da lui chissà quale rivelazione su questo personaggio misterioso senza riuscire a comprendere. «Non importa. Lo vedrai da te. Comunque, non è che avessimo tanta scelta. Quel giorno a Hebra eravamo solo in tre al comando, e uno di loro è morto. Di certo non potevo sposarmi da solo.»
La sua voce si abbassa d’improvviso: Link non sa cosa dire. Non ricordava che un ufficiale Rito fosse morto durante la battaglia di Hebra, forse non lo ha neppure mai saputo: è stato troppo occupato a riprendersi dalle proprie ferite, prima, e a organizzare lo spostamento dei propri uomini poi; gli dispiace scoprirlo così, a distanza di così tanto tempo che qualunque parola egli possa dire per manifestare a Revali il suo dispiacere non avrebbe più alcun significato.
«Mi dispiace» mormora. «Non lo sapevo. Era tuo amico?»
«Eravamo cresciuti insieme» risponde Revali soltanto; ma lo ringrazia con lo sguardo per aver chiesto. «Aveva la mia stessa età. Ma è stato coraggioso, comunque, e si è portato bene per tutta la battaglia. Ha guidato tutte le operazioni nella zona della tundra, prima di… Comunque, non importa. Il punto è che Derdran era l’unico ufficiale che quel giorno avrebbe potuto sposarci. Direi che non ti occorre sapere altro.»
Qualcosa nella voce di Revali gli dice che parlare di quel misterioso ufficiale morto è troppo intimo e doloroso, per lui, ed evita di fare altre domande.  Ha perduto dei compagni anche lui, negli anni.
«Dovremo ringraziarlo, domani?» s’informa sfilandosi la tunica. Non gli giunge risposta, perciò si volta a guardare.
L’ha fatto così, senza riflettere, come ha fatto decine di volte coi soldati, dopo gli allenamenti, ma Revali sembra piuttosto interdetto dal fatto che abbia iniziato a spogliarsi. Il fatto che Link abbia ancora addosso due strati di abiti prima di arrivare alla pelle nuda non sembra tranquillizzarlo in alcun modo. Questo è un vero peccato, pensa Link. Se avesse saputo prima che il solo pensiero della nudità lo mette tanto a disagio, si sarebbe spogliato in mezzo al Volodromo, a costo di assiderarsi, per il solo gusto di fargli dispetto e di farlo star zitto.
«Che c’è? Non sono mica nudo» si riserva di fargli notare. «La cosa ti scandalizza? Che razza di soldato sei? Non ti è mai capitato di doverti lavare con nessuno dei tuoi uomini, neppure in missione?»
«Certo che non mi scandalizza!» protesta Revali a gran voce. «Ma non è mica la stessa cosa.»
Per verificare se davvero non sia la stessa cosa, e soprattutto per il puro desiderio di metterlo ancor più a disagio, Link procede a sfilarsi un’altra delle maglie che si è infilato per resistere al clima della zona. Revali distoglie ostentatamente lo sguardo da lui e si china sul suo tavolo da lavoro, trovando, d’improvviso, irresistibilmente interessante il richiamo dell’arco che stava studiando fino a poco fa. «Benissimo, fa’ come vuoi. Va’ pure per primo a lavarti mentre io cerco di risolvere il problema della tua inabilità con l’arco. Mi ringrazierai dopo cena.»
«Inabilità è un termine piuttosto ingiusto» risponde Link sorridendo, perché è benissimo in grado di giudicare quando si merita effettivamente una critica. «Comunque, non mi hai risposto. Dovremo ringraziarlo o no?»
«Io lo ringrazierò quando il Monte Morte gelerà» risponde Revali eloquentemente senza voltarsi a guardarlo. «Tu fai come credi. In effetti, la pelle che ha salvato era la tua, non la mia, perciò la cosa riguarda più te che me.»
Link decide di portare la suddetta pelle nella stanza da bagno prima che questo dannato Rito abbia un infarto.
 
I matrimoni Rito, a quanto pare, sono infiniti. È cominciato nella tarda mattinata, con una cerimonia sulla sommità della città scoscesa, e ora stanno banchettando da qualcosa come sei ore; e, per quanto gli è dato vedere, probabilmente il ricevimento ne durerà ancora altrettante. Si alternano discorsi e aneddoti e interminabili canti nuziali; gli versano più vino di quanto Link ricordi di averne mai bevuto in tutta la vita: non può rifiutare di brindare.
È il primo vero giorno di freddo invernale. Link ha indossato la pesante tunica di lana che la sposa ha realizzato per lui, sopra una serie di altri strati: è piacevolmente calda; quando va a congratularsi con lei e a porgerle i suoi auguri, Leta ne rimane lusingata come se fosse stato lui a farle un onore indossandola. «Per gli sposi Rito è tradizione intonare i colori dei loro abiti» spiega guardandoli sorridendo, e Link realizza d’improvviso che ha scelto il bianco e l’azzurro non perché fossero i colori attribuiti ai Campioni della principessa Zelda, ma perché per lei rappresentava solo il colore della sciarpa di Revali. Non che per lui cambi niente, a questo punto; ma l’idea lo fa arrossire. Revali finge di non saperne niente volgendo lo sguardo altrove.
Una buona parte dei discorsi pronunciati e degli aneddoti raccontati vengono dall’esercito e da momenti di guerra, dato che Avaris è un soldato; finalmente Link ha modo di vedere anche il famoso ufficiale il cui nome campeggia sul certificato del suo matrimonio, che a quanto pare conosce tutta una varietà di episodi divertenti da raccontare durante un pranzo di matrimonio.
Link trascorre buona parte del tempo sforzandosi di pensare a una versione differente dell’espressione due galli in un pollaio che possa risultare culturalmente accettabile per i Rito. Non ne trova nessuna. In compenso, però, è riuscito a trovare da solo una risposta alla sua domanda del giorno precedente, ossia per quale motivo Revali trovi insopportabile Derdran: la risposta è evidente. È che sono uguali.
Non fisicamente. Derdran è notevolmente più alto e robusto di Revali, ha il petto più ampio e le spalle più larghe e un piumaggio color nocciola che vira al rosso sotto le luci dei bracieri; ha un atteggiamento più aperto e più franco, anche, e una risata roboante che par capace di riempire qualsiasi valle. Ma è innamorato di se stesso e della propria forza come lo è Revali, e questo, suppone Link, è il motivo per cui nessuno dei due può resistere più di qualche minuto al fianco dell’altro; anche della propria voce, a giudicare dalla quantità di tempo che trascorre raccontando aneddoti più o meno avventurosi. Per una straordinaria coincidenza, Revali trascorre esattamente la stessa quantità di tempo alzando gli occhi al cielo.
Nel pomeriggio, gli sposi cantano l’uno per l’altra secondo un’antica tradizione. È bello e dolce come una leggenda: per quanto Link sappia quanto i Rito amino la musica e il canto, lo stupisce sempre vedere quanta parte rivestano nella loro quotidianità.
«Tu non hai cantato per me al nostro matrimonio» commenta a un tratto voltandosi appena sulla sedia verso Revali, per il solo gusto di vedere la sua reazione.
È quasi il tramonto: la luce fredda e rosata del crepuscolo invernale accende gli occhi di Revali di strane iridescenze, come smeraldi attraversati dalla luce. Revali non li distoglie dalla sposa che canta neppure un momento. «Neanche tu, mi sembra.»
«Io ero ferito, però. E non sono un Rito. Tu che scusa hai?»
«Magari l’ho fatto e non ti ricordi neanche questo» ribatte Revali a bassa voce. L’idea sembra divertirlo. «Perché non scrivi al tuo cucciolo di attendente e gli chiedi se lui se lo ricorda?»
Al calare del sole i Rito spingono da parte gli enormi tavoli e iniziano a danzare. È un caleidoscopio di piumaggi diversi: Link non può non sentirsene incantato. Revali scompare piuttosto rapidamente borbottando qualcosa d’indistinto: conoscendolo, non vuole correre il rischio che qualcuno gli chieda come mai non balla con suo marito a una festa di nozze. Se non temesse d’essere scortese, Link tornerebbe volentieri a casa: si trattiene perché Avaris e Leta lo hanno accolto come un amico fin dal primo momento, senza conoscerlo, e dunque gli sembra quantomeno rispettoso restare. Si sta facendo freddo: stringendosi nel mantello, Link si accosta il più possibile a uno dei grandi bracieri accesi. In quella gioia e in quella musica, può quasi scordarsi della Calamità, per qualche un po’, e non pensare a niente. La vita da civile è più dolce e più pacifica di quanto avesse mai immaginato.
La pace, naturalmente, dura solo qualche minuto.
«Link! Eccoti qua» esclama Kagan emergendo dalla folla che danza: è in compagnia di Derdran. Visto da vicino, colla rigida divisa da capitano e il copricapo di lunghe piume colorate, quest’ufficiale è ancora più alto e più robusto di quanto gli sia sembrato dall’altra parte del tavolo, durante il banchetto: i suoi occhi lo percorrono interamente mentre Kagan parla. «Revali non è con te?»
«Era qui fino a un attimo fa» risponde Link, perché gli sembra che suoni un po’ meglio rispetto a non voleva correre il rischio di imbattersi in uno di voi due. «Credo sia stato trascinato via da qualcuno dei bambini. Lo sai come sono.»
«Ah, allora mio figlio è di sicuro tra di loro» risponde Kagan ridendo. «Spero non gli stiano dando troppo fastidio. Link, posso presentarti Derdran? Anche se ufficialmente lo conosci già. È l’ufficiale che vi ha sposati quel giorno nella tua tenda» spiega strizzandogli l’occhio.
Che Revali lo trovi insopportabile o meno, Link decide che la cosa migliore è porgergli la mano e comportarsi con tutta l’urbanità che a suo marito manca. Bisogna pure che uno di loro dimostri di non esser proprio una bestia, dopotutto.
«Grazie, Derdran» dice perciò porgendogli la mano. «Revali mi ha detto che hai accettato di farci questo piacere, anche se lo hai scoperto dopo. Non eri tenuto a farlo.»
Derdran trattiene la sua mano tra le sue molto più a lungo di quanto Link riterrebbe necessario in qualsiasi situazione, compresa quella.
«È stato un piacere, Link» risponde. «Anche se ti confesso che ero molto curioso di conoscere l’affascinante cavaliere Hylia che ha fatto perdere la testa a Revali. Su a Hebra eravamo convinti che una cosa del genere non si sarebbe verificata mai. Non ti dico lo stupore quando Kagan mi ha scritto che aveva dovuto falsificare la mia firma perché risultasse che il nostro campione fosse sposato da quasi un anno e mezzo…»
«Non ha precisamente perso la testa» cerca di minimizzare Link sfilando la mano dalle sue nel modo che gli sembra il più discreto e educato possibile. Ha la sensazione che Kagan abbia descritto gli avvenimenti secondo una chiave di lettura piuttosto romantica, ma, quando cerca il suo sguardo, l’attenzione del capovillaggio sta già venendo richiamata da altro.
«Scusatemi, temo che abbiano bisogno di me per qualcosa» dice guardando altrove. «Derdran, Link ti racconterà tutto meglio di me. Link, passa da me domattina» aggiunge accomiatandosi. «È arrivata un’altra lettera da Mazli. Non l’ho ancora aperta, ma a giudicare dal volume credo che i tuoi amici siano riusciti a infilarci qualcosa anche per te.»
Kagan scompare nella folla mulinante di colori come se ne venisse risucchiato. Derdran lo guarda sorridendo per invitarlo a raccontare.
«Tipico di Kagan» commenta. «Però su una cosa ha ragione. Penso di meritarmi il racconto di questo travagliato matrimonio, giusto, Link? Revali sposato è qualcosa che non pensavo che avrei mai visto… e da me, poi. Non ti nego che questo sì che è un matrimonio che mi sarebbe piaciuto celebrare, anche se gli articulo mortis non sono proprio gioiosi, di solito. Anche se mi sembra che tu stia piuttosto bene» aggiunge osservandolo interamente.
C’è qualcosa nel suo sguardo, che Link non saprebbe dire a parole, che non lo mette a suo agio. Dal racconto, però, non può esimersi, perciò si sforza di condensare il tutto nel minor numero di parole possibile: dubita che Derdran possa essere molto interessato ai retroscena dei teologi di corte o ai rapporti cogli altri Campioni. Al contrario, Derdran sembra voler contestualizzare ogni sua parola.
«Un momento» lo interrompe a un certo punto. «Quando la principessa Zelda venne a proporre a Revali di pilotare il colosso sacro, quel giorno che combattemmo contro di voi… avevo capito che il suo avrebbe dovuto essere un ruolo di supporto al tuo. Che tu brandisci una spada in grado di esorcizzare la Calamità. E il re era disposto a farti impiccare malgrado questo?»
Link si sente la bocca un po’ più asciutta di prima quando risponde: «Già.»
Aveva temuto di annoiare Derdran coi dettagli, ma, al contrario, il capitano chiede chiarimenti su tutto: è stata la consigliera Impa ad avere l’idea del matrimonio? E perché Revali e non qualcun altro?
«Perché era il più credibile» risponde Link, che non intende parlare dello sventurato amore di Mipha né di nessun altro. «E anche l’unico che potesse fare fisicamente in tempo a ricavare un falso certificato di matrimonio nelle poche ore prima dell’esecuzione.»
«Uhm. Giusto. Andata e ritorno dal Castello a qui in dodici ore, eh? Kagan me l’ha detto» commenta Derdran pensierosamente. «È convinto che sia un record assoluto, anche se io e i ragazzi su a Hebra non ne siamo convinti.» Link rimane in silenzio perché i record di velocità in volo dei Rito sono qualcosa su cui neppure volendo sarebbe in grado di esprimere un’opinione. Derdran sembra riflettere su qualcosa. «Quindi, se ho capito bene, tra te e Revali non c’è nulla. Cioè, non è come se steste veramente insieme. Giusto?»
Link è grato a Derdran, veramente, per aver dato il suo consenso e non aver protestato quando Kagan gli ha riferito di aver falsificato la sua firma per salvarlo; ma in qualche modo è sicuro che questa domanda non sia suo diritto porla. Che quello che c’è tra lui e Revali, di qualunque natura sia, è qualcosa che non lo riguarderebbe in nessuna situazione possibile.
«Beh, siamo sposati» ribadisce, perché in qualche modo gli sembra che sia un fatto importante.
Derdran ride della sua risata roboante. «Certo, certo. Il sacro vincolo del matrimonio, eccetera. Ma intendo dire che sentimentalmente non c’è nulla. Giusto?»
C’è una parte di lui che continua a pensare a quando Kagan gli ha detto che lui, per conquistare sua moglie, ha fatto molto meno di quel che Revali ha compiuto per lui in una sola notte; ma ad alta voce questo non si può dire, e in verità non sa neppure perché questo gli torni in mente. Le supposizioni di Kagan non trovano posto nella realtà.
«No» risponde perciò un po’ a malincuore, perché dovergli dar ragione, in questa circostanza, gli secca immensamente. «Non c’è nulla.»
Derdran sorride come se avesse vinto qualcosa. Link sta iniziando a capire per quale motivo Revali lo detesti tanto, anche se non saprebbe motivarlo a parole neppure a se stesso. Si sforza di trovare qualcosa da dire per condurre la conversazione verso argomenti meno personali. «Sei di stanza a Hebra, quindi.»
«Già. La difesa nel nord» conferma Derdran. È evidente che il suo ruolo gli appare particolarmente importante. «Ormai erano quasi tre mesi che non tornavo giù al borgo. Io e i ragazzi abitiamo lì, ormai.»
«Com’è la situazione lì?» domanda Link. «Dalle mappe di Revali mi è parso di capire che ci sono molti mostri.»
I mostri hanno cominciato a presentire il ritorno della Calamità ormai da molto tempo: hanno iniziato a lasciare le loro tane, sui monti e nel deserto, sotto la terra, ormai da quasi cinque anni; si sono fatti inquieti, nervosi; hanno iniziato ad attaccare i viandanti. È per questo che la gente non si sposta quasi più: ma nelle zone disabitate, dove trovano abbondanza di cibo e nessun nemico naturale, continuano ad avere l’ambiente naturale per prosperare. Le vette di Hebra, come le pendici desolate del Monte Morte e l’aridità del deserto, sono i luoghi in cui maggiormente si sono radunati e i popoli hanno schierato retroguardie e riserve. Derdran annuisce.
«Soprattutto lynel e grublin, ma anche qualche hinox, soprattutto di recente. Stiamo cercando di tenere pulita la zona il più possibile, qualora il villaggio debba evacuare verso nord, ma non è facile. Gli uomini sono pochi e non voglio rischiare di perderne nessuno in attacchi azzardati.»
Questo è qualcosa che Link può comprendere senza troppi sforzi d’immedesimazione: nessun capitano vuole mettere a rischio i suoi ragazzi; ma bisogna tenere le strade libere per facilitare la fuga, casomai servisse. «State approntando sistemazioni per gli abitanti, anche?»
Derdran si lancia in una lunga e complessa spiegazione di quello che stanno organizzando per l’avvento della Calamità: dalla predisposizione di vie d’emergenza sicure per le famiglie con bambini che ancora non possono volare, riparate dall’alto e dai lati dagli attacchi dei mostri senza però rischiare che si trasformino in imbottigliamenti senza via d’uscita, alla costruzione di capanne e rifugi caldi e asciutti dove i Rito possano restare per almeno qualche mese; c’è la questione dei rifornimenti alimentari, perché bisogna prevedere anche una situazione in cui le provviste accumulate non siano sufficienti e si riveli necessario continuare ad approvvigionare gli abitanti anche per molti mesi. Spiegarsi così, senza una mappa, non è facile, Link lo sa per esperienza personale: Derdran si aiuta con ampi movimenti delle braccia, cercando di fargli capire così, senza supporto fisico né punti di riferimento concreti, come siano strutturati i forti di guardia e le vie di fuga e di rifornimento; Link si sforza di seguirlo così, in modo improvvisato, sforzandosi di visualizzare quello che sta dicendo, e avanza domande per chiarirsi le idee ogni tanto; sa bene quanto difficile sia far capire un piano militare a qualcuno che non conosca bene il territorio.
Proprio per questo, quando Derdran gli posa quasi casualmente una mano sul fianco, Link è abbastanza sicuro che non ce ne sia bisogno e non sia necessario per la spiegazione.
«Scusa tanto.» Revali appare alle loro spalle prima ancora che Link faccia in tempo a dire niente. «Quello che stai toccando è mio marito.»
 
Derdran scoppia a ridere per mascherare l’imbarazzo mentre Revali lo scruta con occhi tempestosi che Link non ricorda di avergli visto mai. Anche Link vorrebbe ridere, ma solo perché la situazione gli sembra troppo ridicola e inaspettata e ridere gli sembra l’unica alternativa possibile per sciogliere la tensione; tuttavia non ride. Revali si sposta lentamente al suo fianco senza distogliere gli occhi da Derdran.
«Non penserai nulla di strano, vero, Revali? Stavamo parlando degli allestimenti su a Hebra per…»
«Ho sentito di cosa stavate parlando, ti ringrazio» risponde Revali con calma. «Non sapevo che tu facessi parte di quella schiera di persone prive di eloquenza che hanno bisogno di gesticolare volgarmente per farsi comprendere, Derdran. Ogni cosa che scopro su di te mi stupisce in negativo.»
Questo è talmente gratuito e aggressivo, persino da parte di Revali, che neppure Derdran trova qualcosa da ridire. Lo fissa in silenzio senza saper che dire né come reagire.
«Va bene, Revali» risponde infine. Solleva le mani in un universale gesto di pace, un po’ scherzosamente, per smorzar la tensione, e continua: «Capisco cosa poteva sembrare e mi dispiace, ma ti prego di voler credere che è tutto un malinteso. Senza rancore?»
Revali osserva la mano che l’altro gli tende come se si trattasse di un ratto di una tipologia che non ha mai visto.
«No» risponde. «Buona serata, Derdran, e grazie per averci nominalmente sposati, ma questo è quanto.»
Link lo segue senza riflettere mentre Revali fende la folla a grandi passi senza guardarlo. È tanto sconvolto che non sa cosa pensare, e forse lo segue soltanto perché dopotutto abitano insieme; altri motivi non ce ne sono, visto che Revali neppure si volta verso di lui. Link sente la sua rabbia nella tensione che gli lega le spalle.
Solo quando sono a casa, e la tenda è ricaduta sull’uscio a separarli dal mondo esterno, Link riesce a raccogliere le idee a sufficienza da domandare: «Che cos’era quello?»
«Uhm?» Revali sta adottando una puerile strategia basata sull’ignorare quello che è appena successo e, a giudicare da come si volta verso di lui come se avesse appena realizzato la sua presenza, anche lui: ma è ancora arrabbiato, nervoso, Link lo vede dal modo in cui evita ostinatamente il suo sguardo. «Quello cosa?»
Se questa è la sua strategia, Link non intende giocare al suo stesso gioco. «Con me non hai bisogno di mentire, Revali. Ci conosciamo troppo bene. Sai di cosa parlo.»
«Non ne ho idea» ribatte Revali chinandosi ostentatamente sulle sue mappe senza vederle.
«Davvero?» ribatte Link. «Perché a me quella sembrava una scenata di gelosia.»
«Non era gelosia!»
Link non ha mai sentito Revali alzare la voce in tutta la sua vita. Rimane immobile di fronte a lui senza saper che dire; e forse neppure Revali è molto abituato ad alzare la voce, perché d’un tratto non sa come proseguire. Rimane appoggiato al tavolo a fingere di osservare le sue mappe per avere una scusa per non guardare nella sua direzione.
«Sei geloso di me?» chiede Link a bassa voce. Tutto è talmente nuovo per lui che non sa come altro porre quella domanda se non così, direttamente. Gli gira la testa.
Revali tace per lunghissimi secondi.
«Non voglio che ti tocchi qualcun altro.» Quelle parole sembrano costargli enormemente per essere pronunciate. «Questo è tutto quello che posso dire. Ma, se non sei d’accordo con me, puoi dirlo. Tu non sei una mia proprietà e io non ho altro diritto che quello di dirti questo.»
Se quella è la massima sincerità che Revali è in grado di esprimergli, Link gli farà la cortesia di fare lo stesso. Cerca dentro di sé le parole per esprimere quello che sente.
«Non mi ha dato fastidio che tu sia intervenuto.»
Revali annuisce gravemente. Ha l’aria di dovergli porre una domanda che non sa come articolare. «Bene. Posso chiederti, invece…»
Link aspetta un po’ prima di incalzarlo. «Puoi chiedere.»
«Ti ha fatto piacere che provasse a toccarti?»
«No» risponde Link con semplicità. «Me la sarei cavato da solo, comunque.»
«Immagino di sì» risponde Revali a bassa voce. «E se…»
«Se?» chiede Link a bassa voce.
«Niente» dice Revali un po’ troppo bruscamente. «Lascia stare. Dimenticatene. Accendiamo il fuoco, piuttosto. Stanotte avrai freddo.»
Link non chiede né insiste perché sa che questa sincerità è costata a Revali più di quanto sarà mai in grado di ammettere. Però gli rimane il dubbio di cos’avrebbe voluto chiedergli.

 

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Capitolo 8
*** Consigli ***


Capitolo VIII – Consigli
Non si può non comunicare.
 Paul Watzlawick, Pragmatica della comunicazione umana.
 
Il mattino seguente, quando Link si sveglia, Revali non c’è. Non che questa sia una novità, ma stamani Link ne è quasi contento: non saprebbe cosa dirgli. Non sa neppure cosa pensare.
Attizza le braci aggiungendo un paio di ciocchi di legna per scaldarsi mentre si veste: fa freddissimo, e scostando appena le pesanti tende che coprono le finestre intravede la neve ancor più vicina sui monti di Hebra. Si scalda del latte e vi spezza del pane, ma gli viene la nausea dopo pochi bocconi. Lo lascia stare.
Si avventura fuori, nell’aria gelida nella quale il suo respiro si condensa appena uscito dalla sua bocca, per andare a trovare Kagan a proposito di quella lettera di cui gli ha parlato ieri. Lo trova in casa, appollaiato su una sedia a dondolo vicino al grande braciere centrale, che cerca di imboccare con la persuasione suo figlio più piccolo.
Link bussa sullo stipite della porta per annunciarsi. «Ehi. Disturbo?»
Tutto preso dal bambino che gli fa i capricci sulle ginocchia, Kagan alza gli occhi su di lui distrattamente, poi torna a posarveli con maggiore attenzione.
«Dipende» risponde. La sua voce vibra di una risata che non si sforza neppure di mascherare. «Se parlo con te, mi prometti che Revali non verrà a cercarmi stanotte per staccarmi la testa?»
Dunque dovrà farci i conti. Link decide che quell’affermazione è un invito a entrare e si pianta di fronte a lui con le mani sui fianchi. «Credevo che ieri avessero bisogno di te quando ci hai lasciati. Non eri andato a fare qualcosa di urgente tipo salvare il borgo? O sei rimasto a spiare la nostra conversazione per tutto il tempo?»
«Mi offendi, Link» risponde Kagan molto seriamente, asciugando pappa dal becco del suo bambino e da tutto il proprio petto. «Pensi che avrei mai origliato?»
In verità quella di Link era una speranza, perché l’alternativa è molto peggiore. Una parte di lui non vuole neppure porre la domanda che ne consegue. «Immagino di no. Quindi come hai saputo?»
«Mettiamola così» Kagan finge persino di cercare l’espressione più adatta per quasi un secondo. «Diciamo che, in tutto il borgo, nessuno avrebbe mai immaginato di sentire il grande Revali piazzare una scenata di gelosia in mezzo a un matrimonio. Neanche in un’altra occasione, comunque.»
È inutile girarci intorno. Link va a sedersi sul pavimento di fronte a lui, a gambe incrociate, alla maniera dei Rito, e domanda: «Quindi ne parla tutto il borgo?»
«Oh, non preoccuparti» lo rassicura Kagan gentilmente. «A quest’ora ne parleranno anche nel forte di guardia di Hebra. Derdran è ripartito stanotte.»
Link posa la fronte contro le ginocchia e rimane così per un po’. Per qualche minuto, il suono del bambino di Kagan che gorgoglia sputando cibo ovunque è l’unico che riempia la stanza.
«Ci hai parlato prima che ripartisse?»
«Con Derdran? Sì, certo. È venuto a salutarmi e a chiedere se ci fossero ordini.»
«Ti ha detto qualcosa?»
«Ha detto che Revali è pazzo e paranoico. Ma questa è sempre stata la sua idea su di lui, quindi non è che fosse chissà quale sorpresa.»
«E tu cosa ne pensi?»
Kagan fa una pausa, Link non riesce a capire se sia perché è troppo impegnato col bambino o perché sta raccogliendo le idee. «Quello che penso io è importante, dici?»
Link solleva la fronte dalle proprie ginocchia per guardarlo. «Te lo sto chiedendo, no?»
«Bene, allora. Penso due cose non necessariamente correlate tra di loro. Penso che Derdran fosse in cattiva fede e penso che Revali sia geloso matto di te. Tu che ne pensi, spiumino?» domanda affettuosamente al bimbo facendoselo ondeggiare sulle ginocchia. «Sei d’accordo con me, sì?»
Il bambino si spalma pappa ridendo su tutta la faccia lasciando al padre il compito d’interpretare la sua risposta. Link lo guarda per un po’. «Quello era un sì o un no?»
«Un sì, naturalmente» risponde Kagan con sicurezza pulendo la faccia del bambino con un tovagliolo che ha tutta l’aria di essere in servizio dall’inizio del pasto. «È mio figlio, quindi è logico che dia ragione a suo padre. Ma tu puoi dissentire, se vuoi. Mi prendi qualcos’altro per asciugarlo, per favore, visto che sei qui? Questo ormai peggiora solo la situazione.»
Link si alza e inizia a frugare in giro alla ricerca di un tovagliolo. È grato che Kagan glielo abbia chiesto, perché gli dà la possibilità di distogliere lo sguardo da lui per qualche secondo.
«Non lo sento dissentire» commenta Kagan dopo un po’, alle sue spalle, rivolgendosi al figlio. «Tu lo senti, spiumino?»
 «Revali ha detto che non vuole che mi tocchi qualcun altro» borbotta Link, lieto di poterlo dire senza guardarlo, colla faccia nascosta da uno stipetto nel quale sta frugando in una pila di tovaglioli ricamati per trovarne uno che faccia al caso suo.
A Kagan scappa una mezza risata. «Questo l’aveva reso abbastanza evidente a tutti gli invitati. Non c’era propriamente bisogno che lo spiegasse anche ad alta voce. Ma immagino che per Revali sia un notevole miglioramento dal punto di vista della comunicazione ammetterlo.»
Dopo aver esaminato tutti i tovaglioli un paio di volte, Link non può girarci intorno più di così. Ne prende uno, rimette a posto gli altri e si decide ad andare a porgerlo a Kagan e a fronteggiare il suo sguardo.
«Link.» La voce di Kagan, mentre pulisce il bambino, è dolce e rassicurante, del tutto priva di giudizio. «Che cosa sei venuto a chiedermi?»
«La lettera di cui mi parlavi» risponde Link debolmente.
«Se è tutto qui, puoi prenderla da te. È su quel tavolo. È meglio che io non la tocchi finché non mi sarò lavato le mani. Ti serve altro?» Link rimane immobile, allora Kagan sorride. «Bene. Allora immagino tu sia venuto qui perché speravi in un consiglio. Ho ragione?»
Nella sua vita Link non s’è trovato a chiedere molti consigli: la sua strada è sempre stata tracciata già da altri, prima di lui, forse da prima della vita del mondo, e a lui non è rimasto altro da fare che da seguirla. Ha vissuto una vita semplice, per quanto pericolosa; ma ora è diverso. Questo non riguarda più Hyrule né Zelda, né gli eroi del passato o la Spada che esorcizza il male: riguarda lui. «Forse sì.»
«Uhm. Beh, non è che tu sia capitato molto bene» risponde Kagan, sollevando il bambino per le ascelle per posarlo sul pavimento. Suo figlio è molto contento di questa interruzione, perché gattona sotto il tavolo e si mette a osservarli da lì col massimo interesse. Link non aveva neppure idea che i piccoli Rito gattonassero fino a questo momento. «Ancora non so neppure come ho fatto a convincere mia moglie a sposare me, e temo che Revali sia un po’ fuori dalla mia area di competenza… cioè, da quella di chiunque, in verità. Comunque, vediamo. Non mi hai ancora detto che ne pensi tu di questa storia.»
«Sono confuso» risponde Link senza pensarci neppure.
Kagan aggrotta la fronte. «Non l’avrei mai detto. Amico mio, dovrai fare uno sforzo d’introspezione un po’ più intenso di questo, se vogliamo andare da qualche parte, ti pare?»
Non ha tutti i torti, ma quello che prova Link non è neanche qualcosa cui sia così facile dar voce o parole. Link cerca dentro di sé qualcosa cui possa dar forma e nome così, di prima mattina, mentre Kagan si asciuga le mani e prende a rassettare la stanza.
«Mi ha fatto piacere che fosse geloso, in un certo senso. Ma mi spaventa anche, solo che non so perché.»
«Sforzati d’immaginarlo.»
Non ha bisogno di sforzarsi troppo. «Perché sarebbe complicato. Perché dobbiamo vivere insieme e, se le cose non funzionassero…»
«Per carità» lo interrompe Kagan. «Tutto molto giusto. Ma è proprio necessario immaginare che tutto vada male? Non potreste, che ne so, essere una coppia felice e innamorata come tutte le altre?»
«Va bene, allora… perché c’è la Calamità. Non posso permettermi distrazioni.»
Kagan si ferma bruscamente mentre si sta chinando per attizzare il fuoco. I suoi occhi si coprono di un velo per un istante mentre si volta a guardarlo con stupore come se lo vedesse per la prima volta.
«Giusto, la Calamità» mormora. Sembra star pensando ad altro: Link rimane immobile ad aspettare da lui una qualche epifania, anche se questo scettico capovillaggio è l’ultimo al mondo che sembra in grado di elargirne una. Kagan continua a rassettare per un po’ senza curarsi di lui: sta pensando.
«Link… io a questo finto matrimonio non ci ho mai creduto, ma questo lo sai già.»
«Sì, lo so.»
«So che lo sai… ma quello che credo o non credo io, per fortuna di tutti, non è molto importante. Tu provi qualcosa per lui?»
Link ha girato intorno a questa domanda per settimane da quando ha scoperto di aver cercato Revali nella lunga notte di Hebra, nella sua tenda, quand’era ferito. È stata dentro di lui per giorni: ha rifiutato di guardarla direttamente persino quando Revali gliene ha chiesto il motivo, perché guardarla avrebbe voluto dire ammetterne l’esistenza e questo lo imbarazzava e mortificava; se ha guardato ovunque tranne che verso quella domanda, è stato perché conoscerne la risposta avrebbe voluto dire esporlo al volere d’altrui persino in quell’unica parte di lui che è la sola a essergli sempre appartenuta e a non esser dipesa da altri mai. Ma è venuto da Kagan apposta perché gli facesse quella domanda ad alta voce e così lo costringesse a rispondere; e il cielo sa che questo capovillaggio avrebbe altro a cui pensare alla vigilia della minaccia che incombe su Hyrule che alle sue sciocchezze. Eppure ugualmente Kagan s’è tirato su le maniche e s’è messo ad ascoltarlo e a cercare di cavargli fuori qualcosa, qualsiasi cosa; non foss’altro che per questo, Link ora non può più permettersi di mentire.
«Forse sì» mormora.
Kagan batte le mani. «Ah! Siamo stati qui mezz’ora, e siamo approdati alla bellezza di un forse sì. Non sei un tipo facile, tu, vero?» Sentendosi un po’ in colpa, Link tralascia di rispondere. Kagan lo guarda con un sospiro molto più paziente di quanto Link senta di meritare da parte sua. «Lasciamo perdere. Ora che hai appurato che forse potresti essere attratto dal nostro Campione, che cosa hai in mente di farci con questa rivelazione? Perché presumo che tu non abbia neppure preso in considerazione l’idea che voi due potreste, non so… comunicare.»
Il giorno dopo il suo arrivo, a un certo punto, Link ricorda chiaramente, Revali gli ha detto di togliersi dalla faccia quell’espressione da cerbiatto smarrito, o qualcosa del genere. In qualche modo è certo che l’espressione di cui stava parlando sia quella che ha in faccia adesso, perché Kagan lo guarda per un momento con occhi colmi di pietà.  
«È la prima volta che provi qualcosa del genere?»
Link compie un gesto scomposto che è assieme una scrollata di spalle e un segno d’assenso. Kagan l’osserva in silenzio per un po’.
«Non ci hai mai nemmeno pensato, vero?» domanda gentilmente, a bassa voce. La sua voce ha assunto la stessa tenerezza di quando parla coi suoi figli: Link scuote il capo di nuovo, e Kagan, d’improvviso, gli appare tremendamente triste, come invecchiato di cento anni.
«Dunque è questo che abbiamo fatto a voi eroi, eh?» mormora. «Vi abbiamo riempito la testa con la storia della nostra salvezza e vi abbiamo convinto che voi non siete importanti, che venite sempre dopo di noi e della nostra meschinità; che tutto quello che apparteneva a voi solamente fosse qualcosa che avreste sottratto a noi…»
Link non sa subito cosa rispondere perché non ha mai sentito nessuno parlare così; ma l’amarezza delle sue parole tocca qualcosa dentro di lui che non ha sentito mai prima. Lo spaventa il fatto che suoni così vero, che nelle sue parole gli appaia per un attimo la prospettiva d’essere egoista, di poter sottrarre per un istante se stesso e i propri giorni al pensiero costante della Calamità. Non è quello che è stato insegnato a lui né a Zelda, né, per quanto gli è stato dato conoscere, a Revali.
Kagan tutto questo lo capisce, o forse lo legge nei suoi occhi: lo tocca sulla spalla con gentilezza.
«Link… non devi decidere adesso.» Una parte di lui è delusa da questa risposta, s’aspettava qualcosa di più definitivo, concreto, da parte sua; ma la verità è che Kagan ha ragione, ovviamente. «Forse devi prenderti un po’ di tempo per pensare a quello che vuoi. Lo hai mai concesso a te stesso?»
Dire di no è così imbarazzante che Link scuote il capo soltanto.
«Già, comincio a capire» commenta Kagan a bassa voce. «E forse neanche Revali lo ha fatto. Il che spiegherebbe molte cose, ora che ci penso. Perché non torni a parlarne con me tra qualche giorno, quando ci avrai pensato un po’?»
In qualche modo il suo congedo cortese lo esonera dal bisogno di guardare ancora in quella parte di sé che gli fa paura: Link se ne sente quasi sollevato. «Ti ho portato via già molto tempo con i miei problemi.»
Kagan allarga le ali gonfiando il petto. «Che ci vuoi fare? Essere il capo vuol dire anche questo. Non ci pensare troppo, però. Vedrai che tutto si aggiusterà da sé.»
«Non dirai a nessuno quello di cui abbiamo parlato oggi, vero?» chiede Link prima di uscire.
Kagan, che è già carponi sul pavimento a inseguire suo figlio, volta appena il capo sulla spalla per guardarlo. «A essere sincero, io racconto sempre tutto a mia moglie.»
Link comincia a nutrire il fondato dubbio che questo maledetto capovillaggio si stia divertendo un mondo a farlo impazzire. «Sai cosa intendo.»
«Davvero?» chiede Kagan alzandosi per guardare verso di lui. «Stranissimo. Non mi viene in mente niente.»
«Voglio dire» sibila Link, che sta cominciando a pentirsi d’essere uscito di casa un’ora fa e soprattutto di essere venuto qui. «Non lo dirai a Revali, vero?»
«Tranquillo» ribatte Kagan tornando a distendersi sul pavimento per raggiungere suo figlio che gattona via ridendo. «Non intendo fare il lavoro sporco al posto tuo e dire io a tuo marito che sei innamorato di lui. Prima o poi dovrai farlo tu.»
«Non sono…» protesta Link a mezza voce, ma Kagan si limita a guardarlo al di sopra della propria spalla come a sfidarlo a terminare la frase. Link decide di lasciar perdere ed esce senza sentirsene troppo convinto.
Per colmo di umiliazione, Kagan attende che abbia già attraversato la soglia per richiamarlo. «Ehi, Link. Non è che stai dimenticando qualcosa?»
Link rientra in casa sentendosi piuttosto confuso. Kagan sta indicando qualcosa su un tavolino con aria divertita.
«So che per te essere innamorato è un’esperienza nuova, ma potresti almeno fare finta di essere davvero venuto qui per quella lettera anziché per parlarmi di tuo marito, ti pare?»
Link afferra la lettera con le guance che gli bruciano. «Non ho mai detto di essere innamorato» dice stavolta.
«Davvero?» ribatte Kagan. «Da noi si dice che quando dimentichi le cose, o sei vecchio oppure sei innamorato. Mi rammenti quanti anni hai?»
Link decide di imboccare diplomaticamente la porta senza rispondere.
 
Ieri sera lui e Revali non hanno parlato oltre di quanto è successo: tutto sommato va bene così. Hanno cenato ai due lati del braciere, quasi senza guardarsi, e sono rimasti seduti in silenzio di fronte alle braci che si affievolivano, attorno al fuoco fin oltre l’ora d dormire, facendo finta che quello che era accaduto tra di loro non significasse niente perché nessuno dei due voleva affrontare oltre l’argomento per timore di guardarlo direttamente: dalle finestre schermate da tende e arazzi provenivano musiche e canti della festa di matrimonio che proseguiva, del tutto ignara di loro. Per un po’ è stato come fingere di non esistere: Revali s’è rimesso a lavorare al suo arco, metodicamente, come tutto quello che fa, e Link ha seguito i suoi gesti cogli occhi finché non s’è sentito appisolare, stranamente rilassato nel calore del fuoco. Revali lo guardava di tanto in tanto al di sopra del braciere.
«Dovresti dormire» gli ha detto sul tardi.
«Anche tu dovresti» ha ribattuto Link riscuotendosi dal sonno, e Revali ha sorriso solamente e ha risposto: «A me ci penso io. Tu vai a dormire.»
È stato gentile, certo; di una gentilezza un po’ assente, distante, perché non voleva parlare di quello che era successo e che lo mortificava troppo. Link non ha insistito: neanche lui voleva parlarne perché non avrebbe saputo che altro dire.
Non può evitarlo in eterno. Non intende neppure parlargli di quanto è venuto fuori nella sua conversazione con Kagan, naturalmente; ma che sia ora o stasera, prima o poi dovrà rivedere Revali e affrontare l’imbarazzo e la strana cortese distanza che quello che è successo porta con sé. Perciò Link torna a casa, getta sopra tutti i suoi vestiti il mantello più pesante che ha, infila la lettera in una delle sue bisacce e parte per il Volodromo.
Revali si sta allenando. Deve aver finito il suo nuovo arco, stanotte, e lo sta mettendo alla prova: ha gli occhi esausti, pesantemente cerchiati di scuro, e sta mirando ai bersagli disseminati sulla rupe del Volodromo come se dovesse far scontar loro tutti i peccati del creato. Che, a giudicare dal numero di frecce che Link coglie a colpo d’occhio senza riuscire a contarle, devono essere davvero tanti e particolarmente gravi.
Nel dubbio che Revali abbia qualche peccato da far scontare anche a lui, Link si ferma prudentemente a qualche metro di distanza a osservarlo librarsi nell’aria senza interromperlo.
Revali s’interrompe solo quando scopre la faretra vuota sollevando l’ala dietro di sé, ed è in quel momento che si accorge della sua presenza. Non se l’era aspettato: rimane interdetto per un istante, ma solleva ugualmente il mento in segno di saluto.
«Sei venuto» dice soltanto tornando ad abbassarsi verso terra. Sembra un po’ meno arrabbiato di pochi istanti fa, mentre volava.
«La cosa ti sorprende?» ribatte Link sorridendo mentre piega la paravela.
«A essere sincero, sì» risponde Revali. «Pensavo che ti fossi scoraggiato, l’altro giorno.» La verità, di cui sono consapevoli entrambi, è che Revali pensava che non sarebbe venuto per tutt’altro motivo; ma ancora, come ieri sera, nessuno dei due quella verità si sente di dirla ad alta voce; è troppo scomoda, imbarazzante, e porrebbe tra di loro qualcosa che nella loro situazione attuale non possono permettersi di affrontare.
«Vieni qui» aggiunge allora Revali facendogli cenno di avvicinarsi. Più per la sorpresa di sentirgli dir così che per altro, Link avanza verso di lui: Revali dà un’occhiata al di sopra della sua spalla e gli porge il suo arco. Link ne rimane talmente stupito che non tende neppure la mano per prenderlo. «Ah, bene… hai la faretra. Voglio vedere se era il tuo arco a essere il problema l’altro giorno. Prova questo. Beh?» chiede stupito porgendogli l’arco con più insistenza.
«Questo è il tuo arco Aquila» obietta Link scrutandolo con sospetto.
«Non ti sfugge niente come al solito» osserva Revali. «Senti, tu hai tutto il giorno? Perché io no, quindi muoviti.»
Link aggrotta la fronte. «Tu non permetti a nessuno di toccare il tuo arco. Ti ho visto minacciare di far degradare un soldato semplice solo per avertelo porto.» È vero che l’ha lasciato tenere ai bambini, la sera che sono arrivati al borgo; ma i bambini non contano, e non solo perché non sono neppure in grado di tenderlo, ma soprattutto perché Revali ha un debole per loro che non ammetterà mai.
«Davvero? Può essere» risponde Revali come se la cosa non avesse la minima rilevanza. «Allora immagino che me lo avesse porto senza prima chiedermi il permesso.»
«Non si possono neanche degradare i soldati semplici, tra l’altro. È implicito nel verbo stesso. Eri veramente arrabbiato.»
Revali gira gli occhi al cielo. «Ma senti. Ti rivelerò un segreto: non mi interessa cosa succede ai soldati semplici. Vuoi imparare a tirare come si deve oppure no?»
Link prova il forte impulso di fargli notare che come si deve, all’interno di questa conversazione, ha assunto minacciosamente il significato di come lui, ma decide di trattenersi, anche se ha la sensazione che l’unico tra i due che si stia sforzando di non litigare ogni santo giorno di questo matrimonio sia lui; comunque, va bene così. C’è tutta una parte della sua mente che non riesce a non ripensare a quello che ha detto Kagan: che forse, esattamente come lui non ha avuto molto tempo per pensare ai suoi sentimenti, quel tempo non è stato concesso neppure a Revali, e che s’è trovato coinvolto, esattamente come lui, in questa situazione che li avviluppa entrambi un po’ troppo da vicino senza possibilità di districarsene per guardarsi a vicenda né dentro. Lascia perdere. Si sfila di dosso le bisacce e lo scudo e prende in mano l’arco con la cautela che userebbe a un oggetto sacro. Revali si colloca alle sue spalle per osservarlo tirare; Link preferirebbe quasi che si allontanasse un po’ di più: dopo aver parlato con Kagan, per ignorare la vicinanza del suo petto dietro di sé deve sforzarsi un tantino più di prima. Si concentra sui bersagli per non lasciarsene distrarre.
Gli dispiace quasi che quell’arco non sia pensato per la sua statura e la sua struttura fisica. È l’arco più equilibrato, insieme maneggevole e potente, che gli sia mai capitato di provare: Revali osserva in silenzio i suoi movimenti mentre prende la mira e tira senza commentare, pensierosamente. Quando Link torna a porgergli l’arco dopo aver scoccato una decina di frecce, lo riprende con lentezza dalle sue mani come se ancora stesse riflettendo.
«È perfetto» gli dice Link onestamente, perché è quanto di meno possa dire dopo averlo provato. Ora gli è chiaro perché tutti al borgo parlano degli archi di Revali come della massima vetta raggiungibile dal loro artigianato.
Revali accenna quasi un sorriso. «Lo so già, ma grazie comunque. Quindi era davvero il tuo arco a fare schifo» aggiunge. «Tu non saresti così male a tirare.»
«Se questo è un tentativo di ricambiare il mio complimento, non sono sicuro che ti sia venuto bene» risponde Link senza offendersene troppo, perché probabilmente per Revali quello è davvero un complimento e dunque va preso per quello che è.
«È una constatazione» risponde Revali. «Il che prova comunque che avevo ragione io e che tu non sei irrecuperabile. Vuoi provare ancora ad allenarti con me?»
 L’altro giorno è stata un’esperienza terrificante e frustrante ai limiti dell’umiliazione e Link non ha mai desiderato tanto ucciderlo come in quel momento; gli viene quasi da ridere a quella proposta, perché anche Revali dovrebbe essersi reso conto che quell’allenamento non può portare da nessuna parte: si trattiene dal farlo, perché d’improvviso realizza che Revali ci sta provando esattamente come lui, seppure in modo diverso, a far funzionare le cose tra di loro; e forse questo è l’unico modo che conosca, insegnargli a tirare come lui. Che Revali lo ha salvato e adesso sta condividendo con lui tutto quello che possiede; non può farci nulla se tutto quello che possiede, esattamente come lui, sono i suoi allenamenti estenuanti e l’obbligo di difendere la sua gente: è quello che ha, e glielo sta offrendo. Non lo sta tenendo lontano da sé, quali che siano i suoi motivi. Anche questo non era tenuto a farlo.
«Metà giornata» propone.
Revali sembra trovare la sua risposta inaspettata ed egualmente divertente. «Spiegati.»
Link scrolla le spalle. «Per metà giornata io seguirò il tuo allenamento e per metà giornata tu seguirai il mio. Ci stai?»
Revali non risponde subito. Se la prende comoda: inizia a recuperare le frecce dai numerosi bersagli, dandogli le spalle; Link sente dalla sua silenziosa concentrazione che sta riflettendo.
Quando torna verso di lui, Revali gli porge le sue frecce e risponde: «Le giornate stanno diventando troppo corte. Un giorno a testa. Ci stai?»
Sembra ragionevole. Link prende le frecce che gli porge, è come stringersi la mano.
 
A sera, quando tornano a casa, c’è una piccola sorpresa. Di fronte all’ingresso sono posati dei curiosi pannelli rettangolari: Link ne solleva uno. Non ha mai visto niente del genere: è una leggera intelaiatura di legno su cui sono stati tesi enormi rettangoli di stoffa pesante cucita a maglie molto spesse, tutti di fantasie e colori diversi.
«Ah, ottimo» commenta Revali. A giudicare dalla sua voce, per lui non si tratta affatto di una sorpresa. «Domani dobbiamo tornare dal Volodromo un po’ più presto del solito, allora. Preferirei montarli con la luce.»
«Che cosa sono?» chiede Link esaminandolo tra le mani.
«Beh, mi sembra evidente.» Poiché deve trasparire dal suo sguardo che per lui tanto evidente non è, Revali sospira teatralmente per la sua ignoranza entrando in casa. «Pannelli per le finestre. Sono rimuovibili, così da non rinunciare del tutto alla luce, ma sono costruiti in modo da avere una sorta di camera d’aria all’interno, così da essere il più isolanti possibile. Non hai mai sperimentato gli inverni in questa zona, ma immagino che tu non ci tenga troppo a congelarti quel tuo culo secco, no?»
 Link ha sufficienti domande da fare da lasciar correre il riferimento al suo culo secco per qualche minuto. «Quindi sono… pannelli per isolare la casa dal freddo?»
«Esattamente come ho detto, sì.»
«E sono comparsi dal niente mentre ci allenavamo?»
«Sì. Crescono spontaneamente» risponde Revali. È una vera fortuna che il pannello che Link ha in mano sia troppo poco maneggevole per scagliarglielo addosso, ma Revali pare intuire quest’intenzione dal suo sguardo, perché si decide a spiegare. «Ieri durante il matrimonio sono andato a chiederli in prestito a degli amici che ormai hanno figli grandi e non ne hanno più bisogno. Sono stati gentili a portarceli già oggi.»
Probabilmente a Revali sembra d’esser stato chiaro, ma è solo una sua impressione. Link lo fissa senza capire per un po’, aspettandosi che a quelle parole ne facciano seguito altre più illuminanti; ma, poiché non arrivano, è costretto a indagare. «Mi sfugge il collegamento coi figli grandi.»
«Beh, non sono cose che usiamo abitualmente. Il freddo non ci dà fastidio come a voi» spiega Revali. «Se ci farai caso, nei prossimi giorni, vedrai che quasi nessuno li ha. Di solito li monta chi ha figli piccoli o spose in attesa. Puoi decidere a quale delle due categorie assimilarti, se ti fa piacere.»
«Un piacere indescrivibile» commenta Link, ma evita di mettersi a discutere, per una volta. Anche questo Revali non era tenuto a farlo: si è preoccupato che non abbia freddo. «Grazie, Revali. Davvero.»
Revali si stringe nelle spalle senza guardarlo. «Bah, non è niente di che. Non avrebbe avuto molto senso salvarti dal patibolo per farti morire assiderato quassù, no?»
No, probabilmente no.
Dopo cena, quando s’infila nell’amaca intiepidita da uno scaldaletto pieno di braci, Link si decide finalmente ad aprire la grossa busta che gli ha dato Kagan questa mattina. Gli spiovono in grembo vari fogli, tutti scritti in grafie diverse: Link cerca con lo sguardo quello di Mazli. È indirizzato a Revali, tecnicamente, perciò Link si schiarisce la voce.
«Ho scordato di dirti che Mazli ha mandato una lettera ed è riuscito a inviarci qualcosa anche da Impa e gli altri. Questa mattina sono andato a prenderla da Kagan. Sul biglietto di Mazli c’è il tuo nome. Vuoi leggerlo tu?»
Dall’altro lato della casa, appoggiato come al solito contro il muro, Revali si è rimesso al lavoro, come ogni sera. Non alza neppure lo sguardo su di lui. «Leggilo pure tu. Mazli sa che siamo sposati. Quello che è mio è tuo, eccetera.»
«Bastava dire che non ti interessa.» Link scorre rapidamente il biglietto con gli occhi: non dice nulla d’interessante. L’ambasciatore si limita ad augurarsi che stiano bene, che Kagan li abbia accolti come si deve e a informarli che non ha ricevuto ulteriori domande né visite da parte dei generali dell’esercito; per quanto ne sa, il suo congedo forzato permane tuttora. «Non scrive niente di nuovo, comunque. Ma non hai finito il tuo nuovo arco stanotte?» chiede mettendo da parte il biglietto.
«Certo che l’ho finito. Te l’ho fatto provare.»
Non è che Link sia poi eccessivamente interessato all’attività di artigianato di Revali, ma parlare così, dai due lati della casa, divisi dal fuoco, è stranamente rilassante. Ha qualcosa di domestico e confortante che non ricorda d’aver mai provato prima, persino quando discutono. Scorre gli altri fogli che ha in grembo: Pruna e Rovely gli hanno mandato appunti e schemi di alcune armi ancestrali che stanno sperimentando. Si sofferma a esaminare il disegno di un’armatura sotto cui Pruna ha annotato nella sua graziosa grafia piena di ghirigori: Con questa sembreresti un guardiano anche tu! Sbrigati a tornare. Devi provare un sacco di invenzioni! «E ne inizi subito un altro?»
Revali s’interrompe per un momento. «Lavorare mi rilassa. Qualcun altro ha scritto qualcosa di interessante?»
«Per ora no.» Per un po’, Link continua a leggere in silenzio: anche Zelda ha trovato il tempo di scrivergli, ma, forse per timore che la sua lettera potesse cadere in mani sbagliate malgrado l’immunità diplomatica che protegge la corrispondenza privata di un ambasciatore, ha evitato di scrivere alcunché di compromettente. Parla perlopiù dei suoi continui allenamenti, delle sue sfiancanti preghiere, e lo rassicura sul fatto che è al sicuro e protetta anche senza di lui. Perdona mio padre, c’è scritto soltanto in fondo alla lettera. Si accorgerà di aver sbagliato, più prima che poi. Non perdonarlo per lui né per me, perché nessuno di noi lo merita; ma per Hyrule.
La lettera più lunga è quella di Impa. La prima data che riporta, in realtà, è di pochissimi giorni successiva a quella del processo; ma ha continuato a scriverla a pezzi, per giorni e settimane, tornandovi sopra ogni volta che aveva un momento libero, nell’attesa di trovare qualcuno diretto al Borgo dei Rito cui affidarla per fargliela portare: anche spedire la posta, con l’avvicinarsi della Calamità, sta diventando sempre più difficile. Io e l’ambasciatore Mazli stiamo diventando sempre più amici, scrive a un certo punto, o per meglio dire lui viene spesso da me in preda alle sue crisi d’ansia. Credo che trovi la mia presenza rassicurante, per chissà quale motivo. Forse chiederò a lui quando pensa di scrivere al vostro capovillaggio per allegare questa lettera alla sua: non penso che me lo rifiuterà. Mi vede come se fossi la sua unica complice in una sorta di sanguinoso delitto che abbiamo commesso insieme. Il che, dal punto di vista di Mazli, è esattamente quello che è successo, considera Link sorridendo; ma la lettera continua per diverse altre pagine, forse perché Impa attendeva che Mazli si decidesse a spedire qualcosa a casa per porle termine.
Novità! C’è scritto nell’ultimo paragrafo. Urbosa ha scritto per avvisare che gli Yiga sono in subbuglio: sospetta qualcosa. Partiremo all’inizio del mese per raggiungerla sulle montagne per verificare la situazione e sferrare loro un attacco. La principessa, inoltre, deve recarsi a pregare nel Canyon di Tanagar: uniremo le due occasioni di viaggio. questo significa che dovremo comunque avvicinarci molto al Borgo dei Rito tra poche settimane. La principessa ha proposto che allunghiamo di un giorno il tragitto per venire a ringraziare personalmente il capovillaggio dei Rito di averti accolto: credo che voglia semplicemente vederti. So che non riuscirai mai a rispondere prima che partiamo anche se tu dovessi trovare qualcuno che viene verso la capitale, ma spero almeno che questa lettera ti raggiunga prima di noi.
Link interrompe la lettura per darne notizia a Revali: la novità pare destare un certo interesse persino in lui.
«La principessa vorrà accertarsi che io non ti abbia maltrattato troppo» commenta con un sorriso tornando al lavoro. «Molto bene. Avvisiamo Kagan, domattina. Vorrà prepararsi a riceverla.»
«Cerca di non attaccare lei e la sua scorta anche stavolta, piuttosto» risponde Link tornando a leggere. «Rischia di diventare un’abitudine.»
«Farò del mio meglio. Ci sarà anche Mipha?»
«Non penso. Urbosa è nella Cittadella, quindi forse i Campioni sono tornati…» Link s’interrompe bruscamente alzando gli occhi dalla lettera. Si è appena reso conto di qualcosa. «Perché Mipha?»
Revali solleva un pezzo di legno in direzione del braciere per osservarlo in controluce. «Così. Per chiedere.»
«Ma perché specificamente Mipha di tutti i Campioni?»
Revali sospira posando il legno per terra. D’improvviso sembra a disagio. «Andiamo, Link… lo sai il perché. Non farmelo dire ad alta voce.»
«Non è che, per caso, sei geloso anche di lei?»
È la prima volta che parlano di nuovo di quello che è successo ieri, anche se indirettamente: la domanda si sfilaccia tra di loro nell’aria della stanza come fumo. Per un attimo Link teme che Revali non risponda; ma poi, a bassa voce, fissandolo negli occhi al di sopra del fuoco, Revali dice a bassa voce: «È lei che è gelosa di me, Link. È troppo buona per ammetterlo mai, e sappiamo entrambi che non dirà mai niente… ma io so che quel giorno, quando ho detto che ti avrei sposato io, le ho dato un grande dolore.»
«Oh» mormora Link. Torna a distendersi con un braccio sotto la nuca, sfogliando la lettera di Impa per avere qualcosa da guardare che non sia Revali, e domanda: «Quindi suppongo che sia proprio evidente, se lo sai anche tu.»
«Lo dici come se io fossi talmente privo di empatia da non essere in grado di accorgermi dei sentimenti dei miei compagni» osserva Revali, ma non c’è amarezza nella sua voce. «Che Mipha è innamorata di te? Penso di non dirti niente di nuovo, Link. Certo che è evidente.»
«Che cosa ne pensi?»
Non l’ha mai chiesto a nessuno; lui e Impa ne hanno parlato a mezze parole soltanto, scambiandosi accenni e commenti fuggevoli durante le notti infinite degli accampamenti e delle veglie notturne; per il resto ha sempre fatto finta di non sapere, perché fingere d’ignorare era più semplice che ammettere ad alta voce la sua indifferenza.
«Penso che la cosa non mi riguarda.»
«Davvero? Perché mi pare che sia stato tu a menzionare Mipha, non io.»
Dall’altro lato della stanza proviene un sospiro. «Pensavo solo che sarebbe indelicato sbandierarle in faccia la nostra felicità coniugale, Link. Tutto qui. La cosa forse ti sorprenderà, ma persino io sono in grado di provare sentimenti di compassione e simpatia per qualcuno.»
Non è questa la cosa che lo sorprende, a dire il vero. Link si tira a sedere di scatto nell’oscillare dell’amaca. «Abbiamo una felicità coniugale?» chiede, perché quella notizia gli giunge totalmente nuova e gli viene da chiedersi dov’è che ha trascorso le prime settimane del suo matrimonio. «E perché io non me ne sono accorto?»
«Scemo» lo rimbecca Revali. «Sai cosa intendo. E poi, tecnicamente sto adornando casa mia come farei se tu fossi la mia sposa in dolce attesa per proteggerti dal freddo. Quindi evita di lamentarti e accontentati. Hai deciso se ti senti più affine alle spose incinte o ai bambini piccoli, a proposito?»
Link decide che considererà questa domanda come retorica e si ritiene dunque esentato dal rispondere. Torna a distendersi sull’amaca che ancora oscilla pigramente nel buio. La questione delle spose incinte gli ronza in testa per un po’.
«Voi Rito fate le uova?»
Il silenzio che segue a questa domanda è talmente lungo che Link teme che Revali non abbia sentito. Quando solleva il capo per cercare il suo sguardo nell’oscurità, i suoi occhi sono enormi e spalancati al di là del fuoco.
«Non ci sei andato a scuola?» esala Revali come se lo avesse mortalmente offeso.
Il che non è poi una grossa novità, visto che questo dannato Rito riesce a essere teatrale ai limiti dell’inverosimile, perciò Link risponde con sincerità senza darsi troppo peso della sua reazione. «A dire il vero no. Ho sempre seguito mio padre negli accampamenti da che ho memoria. Quindi?»
«Beh, è già un miracolo che tu sappia scrivere, allora» borbotta Revali rimettendosi al lavoro, ancora piuttosto scandalizzato. Non è ancora del tutto convinto di non essere stato offeso.
«Ho detto negli accampamenti, non tra i cinghiali.»
«A giudicare dalla tua ignoranza, il risultato sarebbe stato lo stesso» conclude Revali. «Comunque, ovviamente sì. Perché questo improvviso interesse? Vuoi partorirmi il mio primogenito maschio?»
Se glielo chiedessero, Link non saprebbe spiegare perché trova quest’immagine subitaneamente divertente. Forse è l’idea del primogenito maschio, altisonante come tutto quello che fa questo dannato Rito. «Vuoi dare avvio a una dinastia?»
Revali ride. «Questa non sarebbe una cattiva idea, ma non credo che sarei molto tagliato per i bambini, anche se quelli degli altri mi piacciono. E poi, ci ho rinunciato tanto tempo fa.»
«Come mai?»
Cala il silenzio, per l’ennesima volta. Stavolta, però, Link non si solleva per guardarlo. Qualcosa nella diversa qualità di quel silenzio gli dice che è meglio parlarsi senza vedersi, per adesso.
«Perché, visti i miei gusti in fatto di partner…» È molto raro per Revali non terminare una frase. Le sue parole sfumano nell’incertezza per un momento, poi si spengono; la sua voce assume un tono diverso quando riprende. «È strano, sai. Mi ero fatto l’idea che anche per te valesse lo stesso.»
Link si sente la bocca stranamente asciutta quando si rende conto che, ben celata in quell’insinuazione, c’è una domanda che non trova parole. Si schiarisce la voce. «Sempre parlando di gusti in fatti di partner, intendi.»
«Si capisce.»
«Beh, allora…» Non è che Link davvero ci abbia mai pensato: su questo Kagan ha ragione, pensa. Non ha mai neppure concesso a se stesso d’interrogarsi su chi gli piacesse, o su chi o cosa volesse al suo fianco, perché ciascuna di queste domande sarebbe stata come sottrarre tempo ed energie al compito che il destino gli ha assegnato, a Hyrule, a Zelda, alla Spada che esorcizza il male; perché non ha mai neppure pensato di poter avere del tempo da dedicare a qualcuno al suo fianco, soprattutto; e ora d’improvviso si ritrova a cercare quella risposta dentro di sé senza aver mai neppure saputo che quella risposta ci fosse o che fosse importante cercarla. Si schiarisce la voce, di nuovo. «Forse vale lo stesso anche per me.»
«Bene» risponde Revali. «Sono contento che ci siamo chiariti.»
«Anch’io» risponde Link girandosi dall’altra parte nell’amaca. «Buonanotte.»
Nessuno dei due reputa necessario sottolineare il fatto che fino a quel momento non era stata sollevata alcuna questione che necessitasse d’essere chiarita. 
 
In queste settimane sono stata presa da un furor scribendi tremendo: mi fermo al volo ad aggiungere, in fondo a questo capitoletto, i miei ringraziamenti ad An13Uta e a LeVicomteDeBragelonne per aver recensito o messo tra le preferite questa storia: grazie, davvero, di cuore.
Spero che possiate leggere questo capitolo nel pieno dei festeggiamenti di Pasqua, tra una fetta di colomba e un pezzo di uovo di cioccolata!

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Capitolo 9
*** Inverno ***


Capitolo IX – Inverno
 
“Vicino a te, sono troppo felice per dormire.” L’ho potuto lasciare solo al mattino.
André Gide, I falsari.
 
Zelda raggiunge il borgo in un mattino gelido di pieno inverno in cui l’aria si condensa appena uscita dalle loro bocche; ad annunciare il suo arrivo è uno dei due soldati semplici posti di sentinella in direzione dello stallaggio, planando verso l’abitato per avvertirli. La principessa ha lasciato il grosso delle truppe che l’accompagnano dagli Yiga a valle, spiega: risale le colline solo con un manipolo di guardie, la sua consigliera Sheikah e il suo piccolo guardiano. Link si sforza di reprimere il familiare senso di colpa al pensiero di non essere con lei per proteggerla e di quanti pericoli la minacciano anche in questo momento: se potesse, sarebbe con lei per difenderla a costo della vita dai pericoli della valle. Se non c’è, è perché il re l’ha impedito.
Lui e Revali scendono loro incontro lungo la strada per accompagnarle verso il borgo. Zelda sembra riuscire a malapena a reggersi a cavallo: è pallida di stanchezza, con occhiaie pesanti sotto le palpebre come grandi segni di guerra violacei tracciati coi pollici: deve aver pregato per giorni nel tempio celato in fondo al canyon di Tanagar. È molto magra, più dell’ultima volta che si sono visti, in quel giorno, prima del processo, in cui è venuta a trovarlo per dirgli che forse sarebbe stato sufficiente che entrambi rifiutassero il matrimonio combinato per non farlo accadere: gli sembra passata una vita intera da quel giorno; eppure è stato poco più di due mesi fa. Indossa di nuovo i pesanti abiti bordati di pelliccia che Link ricorda di averle visto addosso durante la loro prima visita al Borgo, più di tre anni fa, quando sono venuti a chiedere a Revali di pilotare il colosso sacro, ma sembrano in qualche modo più larghi sul suo corpo estenuato dai digiuni e dalle continue sfiancanti veglie di preghiera. Link sente il cuore stringerglisi in petto a quella vista: non avrebbe voluto questo per lei. Ci sono stati momenti in cui avrebbe desiderato proteggerla da tutto, dalla Calamità, dai fallimenti, anche da suo padre, se possibile: ma nulla di tutto ciò è mai stato in suo potere: solo dai mostri e dai nemici, e ora neanche più da quelli. Impa cavalca qualche metro indietro, separandola di poco dai soldati: solleva un braccio per salutarli non appena li intravede. Link ricambia il saluto.
«Guarda un po’. Impa ti ha portato un regalo» commenta Revali a bassa voce. Link lo guarda senza capire: Revali si limita ad accennare col capo ai soldati che compongono la scorta. «Sbaglio o quello è il tuo cucciolo di attendente?»
Revali ha ragione: questo è senz’altro un regalo di Impa. C’è anche Lelek tra gli uomini che accompagnano la principessa. Il suo cuore ha un piccolo balzo di gioia: non pensava che l’avrebbe mai più rivisto.
Quando li raggiungono, Impa smonta agilmente da cavallo e aiuta Zelda a scendere: deve quasi sostenerla. I soldati si schierano tutti attorno a loro per proteggerle da eventuali attacchi: Lelek gli sorride raggiante al di sotto dell’elmo. Forse neanche lui pensava di rivederlo tanto presto.
Link s’inchina di fronte alla principessa, ma Zelda scuote la testa dolcemente. Ha gli occhi pieni di sollievo al vederlo. Si stacca da Impa per prendere le sue mani nelle proprie: persino la sua stretta è troppo esile e fiacca, più di quanto Link ricordi; le sue dita anchilosate sembrano chiudersi a malapena intorno alle sue.
«Ti hanno salvato» mormora. «Perdonami per non aver saputo fare niente per proteggerti.» Link vorrebbe interromperla, placare la sua angoscia; vorrebbe dirle che di quello che è successo lei non ha alcuna colpa e che è stata vittima della follia di suo padre e dei teologi tanto quanto lui, ma Zelda non gli lascia tempo di parlare, forse perché non vuole essere perdonata da lui perché ancora non ha perdonato se stessa. Si rivolge a Revali. «Dobbiamo tutto a te, Revali. Se non fosse stato per te…»
Revali reclina il capo sul petto. «Non c’è bisogno che mi ringraziate, Altezza. E poi, l’idea non è neppure stata mia: è stata Impa a proporlo. Il merito è suo.»
«Sei più modesto fuori dai campi di battaglia, Revali» commenta Impa sorridendo. «Avresti potuto dire di no, invece hai detto di sì: il merito non è affatto mio. E poi, dodici ore tra andata e ritorno… Mazli dice che è un record assoluto per i Rito.»
Questa volta Revali sorride. «Questo non lo nego. Avrei potuto fare di meglio se non avessi dovuto svegliare il mio capovillaggio, comunque. Non vede l’ora di rivedervi.»
«Allora è meglio non farlo aspettare» suggerisce Impa osservando Zelda con la coda dell’occhio. Cerca di non porre l’accento sulla sua stanchezza, ma Link, che è in grado ormai di valutare ogni suo pensiero al solo guardarla, come quando combattono, legge nei suoi occhi la sua preoccupazione. «E poi, non possiamo trattenerci a lungo. Al più tardi domani dobbiamo ripartire per raggiungere Urbosa.»
Link solleva Zelda prendendola per la vita per aiutarla a risalire in sella: tra le sue mani è esile come una bambina. La sua eccessiva magrezza lo preoccupa: spera di riuscire a chiederne a Impa, se riuscirà a separarla per un momento da lei. Impa avanza a piedi, al fianco di Revali, conducendo il cavallo di Zelda per le briglie. Link rimane volontariamente indietro per camminare al fianco di Lelek. Gli altri soldati si mantengono a distanza per lasciarli parlare, ma disponendosi attorno a loro trovano il tempo di mormorare: «Ben trovato, capitano. È bello rivedervi.» Link li ringrazia con gli occhi.
Lelek sembra avere da dirgli una tale quantità di cose da non poter aspettare.
«Vi ho portato degli altri abiti pesanti, capitano» si affretta a informarlo. «Quando siete partito non c’era spazio per tutto nei vostri bagagli, perciò… vi ho portato anche alcuni dei vostri libri di tattica militare. Lady Pruna inoltre mi ha chiesto di…»
«Lelek.» Lelek s’interrompe avvampando quando si accorge di aver parlato troppo. «Come stai?»
«Bene, capitano» risponde Lelek un po’ impacciato. «Ma avrei dovuto chiederlo io a voi. Sono stato tanto preoccupato per voi, sapete. Anche gli altri ragazzi.»
«Che cosa ti preoccupava esattamente?» chiede Link. La sua premura lo commuove oltre ogni immaginazione.
«Che non aveste tutto quello che vi occorre» risponde Lelek col tono di una cosa proprio ovvia che non vale neppure la pena stare a spiegare. «Perdonatemi, capitano… ma non siete mai stato troppo bravo a stirare. Senza offesa.»
«Cercherò di non prendermela» lo rassicura Link, che in questi mesi non è stato neppure mai sfiorato dal pensiero di un ferro da stiro. «Ma tu, piuttosto…. hai avuto problemi per avermi aiutato? Per la storia della firma, eccetera, sai.»
Lelek scuote la testa. «Pensavo che li avrei avuti, capitano, davvero… ma non mi hanno detto niente. Sono stato solo assegnato al servizio regolare, poiché non ero più al vostro. Non sono neppure stato interrogato.»
«Forse perché la tua testimonianza sul matrimonio è stata già abbastanza convincente» suggerisce Link sorridendo.
«A proposito di quella, capitano» inizia Lelek a bassa voce. I suoi occhi nervosi scrutano le spalle di Revali, come ad accertarsi che sia sufficientemente lontano da non poterlo sentire. «Avete avuto occasione di porgere le mie scuse al maestro Revali per aver detto… beh… lo sapete?»
A dire il vero, della questione delle scuse Link si era dimenticato, ma decide che una piccola bugia bianca non può fare troppo male in questa situazione. «Ah, non preoccuparti. Non ce l’ha con te. Piuttosto, Lelek, senti… riguardo quella volta a Hebra.»
«Tutto quello che volete, capitano» risponde Lelek, più per invitarlo a proseguire che perché ci sia bisogno di rassicurarlo.
In modo del tutto irrazionale, anche Link osserva la schiena di Revali per accertarsi della distanza tra di loro. «Tu per caso ricordi che io abbia chiamato Revali, quando ero ferito?»
Lelek lo fissa in silenzio per un momento. «Non vi ricordate neanche di questo, quindi?»
Link stringe le labbra e scuote la testa. Quindi Revali non stava esagerando come suo solito. «Puoi dirmi che cosa ho chiesto precisamente? Ho… bisogno di schiarirmi le idee.»
«Beh… non è che abbiate detto niente di che, in realtà.» Lelek sembra fare mente locale per un po’. «Credo sia stato dopo pochissimo che vi avevamo portato nella vostra tenda, dopo che il medico e la principessa Mipha avevano detto che non potevano fare altro e che potevamo solo stare a vedere cosa vi sarebbe successo. Ero rimasto solo con voi, perché il medico aveva suggerito di lasciarvi riposare, e voi d’un tratto avete aperto gli occhi e mi avete cercato. Beh, almeno ho pensato che cercaste me» specifica un po’ impacciato. «Eravate molto confuso, non sapevate dove vi trovaste. Ho cercato di rassicurarvi e di dirvi che eravamo entrambi al sicuro, ma avevate la febbre alta, per via dell’infezione, perciò non so quanto capiste. Mi avete fatto davvero spaventare, sapete, forse più che mentre aspettavamo i soccorsi. È stato allora che avete chiesto: Dov’è Revali?»
«Ho chiesto così, quindi» mormora Link, più per confermarlo a se stesso che come domanda. Lelek annuisce.
«Esatto. Me lo ricordo perché ho pensato che credeste di essere ancora sul campo di battaglia. Vi avevo ripetuto talmente tante volte che Revali era andato a chiamare la principessa Mipha e che lei sarebbe arrivata presto a salvarvi, che credevo che lo chiedeste per quello. Ho provato a rassicurarvi ancora, a ridirvi che eravamo al sicuro, ma voi mi avete preso la mano e avete chiesto se Revali era salvo. Allora ho pensato che per voi fosse importante, ho chiamato un altro compagno perché vi tenesse compagnia e sono corso a cercarlo. Tutto qui, capitano» conclude, quasi rammaricato di non potergli dire di più.
Per la verità il suo racconto è preciso e puntuale come una cronaca di guerra, a distanza di due anni da quel giorno: Link si prende qualche secondo per rifletterci un po’. «Non ti sei fatto nessuna idea del perché lo cercassi? Voglio dire, non ti è sembrato strano?»
«In realtà, capitano, non ci ho pensato molto» ammette Lelek quasi con imbarazzo, come se si trattasse di una sciocca mancanza da parte sua. «Ho solo pensato che potesse servire a farvi star tranquillo. Il medico aveva detto che non bisognava farvi agitare, e voi continuavate a cercarvi intorno senza trovarlo.»
Link annuisce pensierosamente. «E a lui non è sembrato strano, invece? Te lo ricordi?»
«Oh, a lui sì» risponde Lelek senza neppure pensarci. «Devo essergli sembrato un po’ trafelato, perché avevo paura di non trovarlo. Per fortuna non è stato difficile. All’inizio non ha capito subito chi ero, ma poi è stato gentile. Cioè, gentile rispetto al suo solito, ed è venuto subito con me.»
«Capisco» mormora Link. Non ha il coraggio di fare altre domande al riguardo, ma Lelek, per fortuna, continua a raccontare senza più bisogno d’essere interrogato.
«Era molto composto, sapete, come al solito, ma sembrava preoccupato. È rimasto con voi per un po’, considerando che i Rito erano in subbuglio perché era morto uno dei loro capitani, finché non vi siete riaddormentato, poi se n’è andato. Ha detto di farlo chiamare se foste peggiorato di nuovo, però.»
«E tu l’hai mandato a chiamare?»
«Oh, no. Quella notte avete cominciato a stabilizzarvi» risponde Lelek. «Ma è tornato comunque poco prima dell’alba, di questo sono sicuro. Ha chiesto se non avevo ancora riposato, dopo la battaglia, e io ho spiegato che dovevo badare a voi.» Lo dice come se fosse una cosa talmente ovvia, naturale, che non avesse neppure chiuso gli occhi dopo quell’interminabile battaglia, che Link si sente il cuore stretto d’angoscia a pensare alla sua fedeltà e alla sua devozione: ha la sensazione che anche se salvasse l’intera Hyrule, non potrebbe mai eguagliare il suo coraggio e la abnegazione. «Non mi ha neanche lasciato rispondere. Ha detto: Ragazzo, puzzi come un cavallo. Vai a lavarti e chiudi gli occhi un paio d’ore. Ti faccio chiamare se ce n’è bisogno.»
«Ha detto così?» protesta Link scandalizzato.
«Oh, non intendeva offendermi, capitano» si affretta a tranquillizzarlo Lelek. «Era proprio la verità, in effetti. Non avevo fatto in tempo neppure a lavarmi come si deve, ed ero stato per un bel po’ immerso in… beh, non aveva tutti i torti, in ogni caso.»
«Quindi mi hai lasciato solo con lui?»
«Non per tanto» dice Lelek in tono compunto, come se l’aver osato lavarsi e cambiarsi dopo minuti trascorsi con le mani nel suo sangue e nelle sue feci fosse una terribile colpa da parte sua. «Sono andato solo a lavarmi e a cambiarmi. Poi mi sono appisolato, è vero, ma la mia branda era nella vostra tenda, perciò sono comunque stato lì per tutto il tempo. Mi alzavo ogni ora per controllarvi, in ogni caso, come aveva ordinato il medico.»
«E Revali è stato lì per tutto il tempo?»
«Per qualche ora, direi. Era sempre lì quando mi svegliavo. È andato via quando è entrata la consigliera Impa a visitarvi. Non è mai rimasto quando c’erano lei o gli altri Campioni, anche i giorni successivi, ma c’è stato comunque più di loro, nel complesso. Questo è sicuro.»
Link assente distrattamente. Il racconto di Lelek torna perfettamente col carattere di Revali. «E per l’altra questione, invece?»
Lelek afferra al volo che cosa gli sta chiedendo, risparmiandogli l’umiliazione di dover esplicitare ad alta voce quale sia l’altra questione. «Quella è stata il terzo giorno, quando il medico ha detto che potevo provare a darvi cibi liquidi. È venuto a trovarvi mentre provavo a farvi sorbire un po’ di brodo di pesce. Non è mica facile imboccare qualcuno di incosciente, sapete?» Link fa del suo meglio per assumere un’espressione contrita che gli sembra sia quella che ci si aspetta da lui in questo frangente, anche se è più interessato a scoprire che cosa sia successo esattamente quel giorno con quel benedetto brodo. «Non credo fosse intenzionato a fermarsi molto, all’inizio, ma quando mi ha visto alle prese con voi ha detto: Non sei neanche capace di imboccare il tuo capitano? Lascia fare a me, o finirai per soffocarlo. Ma non vi stavo affatto soffocando, capitano, questo posso giurarvelo.»
«Sono alquanto sicuro che se c’è qualcuno che ha rischiato di soffocarmi quel giorno, non fossi tu» lo rassicura Link.
Lelek sembra apprezzare molto le sue parole. «Grazie, capitano, davvero. È che non eravate facile in quei giorni. Comunque, è stato gentile, a modo suo. Mi ha dato tempo per andare a mangiare e per andare in bagno, quantomeno. Ma non l’ho mai fatto rimanere quando voi dovevate fare i vostri bisogni, perché so che non avreste voluto» specifica. Link avrebbe preferito dimenticare di aver avuto bisogno del suo aiuto anche per espletare quelle specifiche funzioni corporee in quei giorni, ma il suo scrupoloso attendente, a quanto pare, non ha dimenticato neppure i particolari più umilianti e concreti della sua degenza. «L’ho sempre fatto uscire dalla tenda. Ma voi davvero non vi ricordate niente?»
«Niente» conferma Link scuotendo il capo. «Grazie, Lelek, davvero. Sei stato prezioso come sempre.»
«C’è qualcosa di particolare per cui avete bisogno di saperlo?» chiede Lelek con cautela. Non è nella posizione di fargli domande, ovviamente, ma Link sente che neppure volendo potrebbe mentirgli o minimizzare la portata di quelle domande, non foss’altro che per tutto il rispetto e la gratitudine che gli deve. Rallenta volutamente il passo per restare indietro rispetto al gruppo, e Lelek si adegua ai suoi movimenti quasi d’istinto, guardandolo con preoccupazione.
«Non è nulla di grave, Lelek, davvero. È solo che le cose con Revali stanno diventando un po’… inaspettate.»
«Non vi sta trattando male, vero, capitano?»
Il concetto di trattare male, quando si vive con qualcuno come Revali, deve necessariamente tingersi di varie sfumature; ma Link decide che la risposta più adeguata a questa domanda è no. Prova un imbarazzo indicibile, perché mai prima d’ora ha parlato di qualcosa del genere con qualcuno, tranne Kagan che però gli sembra non contare, e meno che mai avrebbe pensato di parlarne con un suo subordinato; ma Lelek non è più il suo attendente, adesso, e Link sente di dovergli la verità.
«È che credo che ci stiamo innamorando» dice tutto d’un fiato.
Lelek lo osserva pazientemente come se si attendesse da lui una rivelazione. A un certo punto, però, sembra comprendere che la rivelazione era quella.
«Ah!» dice soltanto, e Link l’osserva esterrefatto perché non gli sembra affatto questa la risposta da dare a una notizia del genere. Lelek si sente in dovere di specificare. «Un po’ me l’aspettavo, capitano. Se posso dirlo.»
Link, al contrario, si aspettava così poco questa risposta che si ferma bruscamente sulla strada, là dove si trova, ed esclama a mezza voce: «Che cosa?»
«Beh» risponde Lelek. «Non vedo molti altri motivi per cui doveste farmi tutte queste domande. E non vedevo neppure alcun motivo per cui il maestro Revali dovesse star sveglio di notte a imboccarvi, a dire il vero. Mi era sempre sembrato un po’ strano. Anche quando è venuto a cercarmi quella notte, per la faccenda del certificato…»
«E… e non hai mai detto niente?» protesta Link. Sa di essere irragionevole e sciocco a dir così, ma la sorpresa è tale che non può non rovesciarla su di lui.
«Ma, capitano» obietta Lelek. «Sarebbe stato molto insubordinato e irrispettoso da parte mia far illazioni sulla vostra vita privata, non pensate?»
Link deve riconoscere a malincuore che Lelek si sta dimostrando molto più ragionevole e razionale di lui in questa circostanza. Riprende a camminare lentamente osservando Revali dalla prudente distanza che li separa.
«È la prima volta che lo dico ad alta voce.»
«Grazie di averlo detto a me, capitano» mormora Lelek. «Lo considero un grande onore da parte vostra. Davvero.»
«Te l’ho detto» risponde Link passandogli un braccio intorno alle spalle. «Non sono più il tuo capitano, adesso. Ora puoi dirmi quello che vuoi.»
Lelek sembra dover racimolare un bel po’ di coraggio per dirgli quello che deve. «Allora, se posso, capitano, vorrei dirvi che sono molto contento per voi. Penso che vi meritiate un po’ di felicità dopo quello che vi hanno fatto.»
La semplicità della visione di Lelek gli stringe un nodo alla gola doloroso come un cappio. Link non dice altro. Si accontenta di camminare al suo fianco nell’aria gelida.
 
Data la stagione ormai alta, era troppo freddo per organizzare un banchetto per ricevere la principessa Zelda. Kagan ha deciso perciò di riceverla semplicemente in casa sua, nel calore del suo focolare; il che, visto il pallore di Zelda, forse è stato comunque meglio. L’accoglie con semplicità offrendole tè caldo e dolci, e la fa accomodare vicino al fuoco perché si scaldi: Kagan osserva il suo pallore con preoccupazione senza dire niente.
Per la prima parte dell’incontro, Zelda si limita a ringraziare il capovillaggio di aver aiutato Link e di averlo accolto prestandosi al loro gioco: Kagan annuisce gravemente.
«Sarei un bugiardo se dicessi di averlo fatto per voi o per la Corona, principessa» risponde. «Non posso accettare un ringraziamento che non merito. Il guerriero che più di tutti difende la mia gente è venuto a chiedermi di salvare qualcuno a cui teneva, e io ho soltanto detto di sì. Ammetto di non aver pensato affatto ai rapporti con la Corona, in quel momento. Se Revali mi avesse chiesto di amputarmi un’ala, l’avrei fatto senza pensare, perché mi fido del suo giudizio come del mio.»
Link non ha mai sentito Kagan parlare così di Revali: tutti i suoi commenti su di lui sono sempre stati improntati a una leggera ironia. Ma, dopotutto, c’è il Revali altezzoso e pomposo, del tutto incapace di comunicare o di manifestare i suoi sentimenti, che è cresciuto con lui, e c’è l’orgoglio dei Rito e il Campione dell’aria, che Kagan stima incondizionatamente per il suo valore e per il suo coraggio; e forse è quasi una coincidenza che entrambi coincidano con la stessa persona.
Zelda accoglie le sue parole chinando gli occhi. «È anche per questo che siamo venute qui oggi, capo Kagan. Il ritorno della Calamità si sta avvicinando sempre di più, e sappiamo che i vostri rapporti con la Corona hanno rischiato di incrinarsi dopo questo evento… ma mai come in questo momento è stato importante mettere da parte le nostre divergenze. Pensate che potrete ancora sostenerci nella guerra che verrà?»
«Noi faremo quello che bisogna fare per difendere le nostre terre e Hyrule come abbiamo promesso tempo fa» risponde Kagan con calma. «La minaccia ci riguarda tutti. Resta da vedere se vostro padre farà lo stesso.»
«Avete la mia parola che lo farà» risponde Zelda a bassa voce. «Revali, è anche per te che siamo venute oggi. Sei ancora disposto a pilotare Vah Medoh?»
Revali è in piedi alle spalle di Kagan, colle ali incrociate in petto, marziale e impassibile come al solito. Reclina il capo per un momento mentre riflette sulla risposta da dare.
«Io devo difendere la mia gente» risponde infine. «E per difenderla farò tutto quello che è necessario e darò anche la mia vita, se serve. Ma fin dal primo momento la strategia dei colossi sacri prevedeva di dare supporto a Link nella sua lotta contro la Calamità. Se non sbaglio, ora che è stato congedato manca un tassello piuttosto importante in questo piano.»
Impa sfiora il dorso della mano di Zelda per chiederle il permesso di parlare in sua vece da questo momento in poi: Zelda tace quasi con gratitudine. Ha a malapena forze per parlare.
«Non dubitavo che avresti sollevato questo argomento, Revali. È soprattutto per questo che era importante che venissimo qui oggi. Ci sono novità riguardo al processo.»
Link s’accorge d’essersi proteso impercettibilmente in avanti a queste parole: nel biglietto di Mazli non c’era alcun riferimento a novità di nessun genere. Se è cambiato qualcosa, dunque, dev’essere accaduto di recente, oppure non essere ufficiale. Gli occhi di Impa cercano i suoi.
«Link, non voglio influenzare la tua decisione, perciò cercherò di dirtelo nel modo più neutro possibile. I generali stanno rivedendo il processo. Tu non sei condannabile in alcun modo, ma se le accuse fossero semplicemente lasciate cadere, sarebbe come dire che la Corona ha commesso un errore, e il re non intende lasciarlo accadere per non compromettere la sua autorità. Quello che è disposto a fare per ripristinarti al tuo posto e al tuo grado è concederti la grazia.»
La sua prima sensazione è di sollievo, come se qualcosa fosse finito, finalmente, e fosse tornata la pace; ma dura solo l’istante necessario alla sua mente per elaborare tutti i significati di quella parola. Non ha alcun senso: non riesce a capire. Per poter ricevere la grazia, deve essere colpevole: ma hanno fatto tutto questo proprio per dimostrare che lui non era colpevole di niente. Sente Revali irrigidirsi al suo fianco e sollevare il capo di scatto.
Per sua fortuna, Kagan trova le parole molto più rapidamente di lui.
«Da quando in qua la Corona ha il potere di graziare gli innocenti?» La sua voce s’è fatta appena più fredda rispetto a prima.
Zelda riprende la parola. La sua voce è esile come fumo. «Non ce l’ha, capo Kagan, ovviamente. Ma la situazione è questa, e non sarebbe stato corretto da parte nostra tenerla nascosta a Link. Se in questo momento volesse tornare, il modo ci sarebbe. Mio padre concederebbe la grazia e tutto si risolverebbe.»
«Graziato e vivo, ma colpevole, quindi» dice Revali ad alta voce. «È veramente questo che offre il re?»
«Sì. È questo» risponde Impa con calma. «L’alternativa è proseguire il congedo forzato a tempo indeterminato, perché il re ha messo in chiaro che non intende permettergli di tornare ad altre condizioni che queste. Mi dispiace, Link, ma dovevamo darti la possibilità di scegliere. Non potevamo semplicemente tenertelo nascosto, indipendentemente da ciò che pensiamo noi. La scelta è tua.»
«È giusto, consigliera» riprende Kagan. «Ma vorrei chiarire anche qualcos’altro.» Si rivolge direttamente verso di lui. «Link, col matrimonio sei entrato a far parte del mio popolo a tutti gli effetti. Sei libero di scegliere tutto quello che desideri, ma voglio che tu sia consapevole che qualunque cosa accada, finché vivrai sarai protetto dalle nostre leggi. La legge della Corona qui non ha alcun potere, poiché tu non hai commesso alcun reato. Noi Rito ti sosterremo sempre e ti proteggeremo anche qualora il re dovesse accampare diritti su di te. Ti prego di tenerlo a mente.»
«Grazie, Kagan» mormora Link; ma non lo sta davvero ascoltando, in realtà. Sta guardando Zelda. Lei ha accettato umiliazioni e rinunce molto più grandi della sua, quotidiane, irripetibili, da parte dei teologi, dei nobili, di suo padre stesso; eppure non ha ceduto mai, non è scappata mai, anche quando avrebbe potuto farlo. Ha cercato sempre nuovi modi di servire Hyrule, per supplire proprio là dove i suoi poteri non sono in grado di agire; e ora è venuta a proporgli la salvezza. I suoi occhi sono divenuti enormi nel suo volto smagrito, le sue labbra sono più esangui di quanto Link le abbia viste mai, eppure trova egualmente, dentro di sé, forza a sufficienza da sorridergli. Vorrebbe chiederle che cosa vuole che faccia: vorrebbe una risposta dalla sua saggezza, dal suo dolore profondo e costante, inconfessabile, che solo lui ha visto nelle preghiere infinite dei sacrari isolati, deserti; se lei gli chiedesse di tornare per difendere Hyrule, forse, lo farebbe; ma sa che lei non glielo chiederebbe mai e che la sua domanda sarebbe sterile come grano nel mare. Per me è diverso, gli direbbe lei, non è lo stesso, e questa sarebbe tutta la sua risposta. Invece è proprio lo stesso per entrambi, condannati come sono dal peso eterno di una leggenda che s’insegue e si ripete, infinitamente; ma Zelda è stata cresciuta senza esser mai in grado di vederlo: non è stata che mortificata, continuamente, per ogni suo fallimento, per non riuscire a essere quello che altri volevano che fosse, senza vedersi mai riconosciuto mai alcunché per i suoi sforzi titanici, implacabili; e dunque non è in grado di vedere altra vita che questa. Anche per lui è stato così, fino a poco tempo fa; ma paradossalmente è stato proprio il re a liberarlo dalla sua eterna schiavitù alla profezia e alla leggenda. Se glielo avesse chiesto un mese fa, due mesi fa, prima della prigione e del patibolo, avrebbe detto di sì a tutto, pur di poter tornare a combattere per Hyrule; ma è diverso, ora. E poi, c’è Revali, adesso. La scelta non riguarda più solo lui; e dello sguardo di Revali che gli brucia sulla nuca Link è consapevole come di queste sue mani. Se accettasse la proposta del re, si umilierebbe, certo; ma Revali sarebbe libero da ogni dovere nei suoi confronti. Potrebbe tornare alla sua vita, senza di lui; resterebbero legalmente sposati, ma quantomeno Revali non sarebbe costretto a prendersi cura di lui. Kagan ha ragione, Revali ha ragione: il re non ha alcun potere di concedere la grazia a un innocente; ma dir di no e rifiutare dal piedistallo della sua innocenza non è più così semplice.
Si rivolge a Impa. «Posso rispondervi domani?»
Impa sorride appena. «Vorrei poterti dare ancora più tempo» risponde. «Vorrei che fosse in mio potere. Ma sì, hai fino a domani, Link. Fino alla nostra partenza.»
 
Non ne parlano tra loro fino a sera. Kagan e sua moglie hanno preparato per Impa e Zelda due semplici amache nella stanza dei loro bambini: subito dopo cena, fa sapere loro, Zelda è crollata a dormire, estenuata dal viaggio e dalle preghiere. I soldati di scorta sono stati alloggiati nella caserma di guardia: avrebbero voluto montare la guardia intorno alla casa, ma, per via del freddo, Kagan si è offerto di sostituirli con quattro arcieri Rito, della qual cosa gli infreddoliti soldati Hylia sono stati assai grati. Prima di tornare a casa, Link insiste per andare a controllare che non abbiano bisogno di niente. Revali lo accompagna senza protestare, ma non scambia una parola coi soldati: si limita a salutare Lelek con un cenno del capo, quasi a far segno di averlo riconosciuto.
«Sei proprio affezionato al tuo cucciolo di attendente» commenta soltanto sulla strada di casa.
«Sei geloso anche di lui?» ribatte Link, ma senza troppa acredine. Non fa che ripensare a quello che gli ha raccontato Lelek e alle parole di Impa e getta lì quella provocazione macchinalmente, quasi senza pensare.
Ma anche Revali dev’essere un po’ turbato dagli avvenimenti della giornata, perché la sua sola risposta, questa volta, è: «No, di lui no.» In un altro momento, Link si sarebbe preso la briga di fargli notare che le sue parole implicano che di qualcun altro invece lo sia; ma la giornata di oggi è stata troppo gravida di eventi, e lui è troppo stanco. Ci sarà tempo alla prossima scenata di gelosia per farglielo notare; ma Revali prosegue inaspettatamente. «A dire il vero, lo trovo quasi simpatico. Ti vuol bene davvero. Piangeva, quella notte, sai? Quando sono andato a cercarlo nei tuoi appartamenti.»
Link ricorda il modo in cui si è congedato da Lelek in quella che pensava sarebbe stata l’ultima notte della sua vita, in carcere: ricorda il modo in cui le sue mani tremavano mentre lo supplicava di accettare la sua offerta e di scappare. «Sì… mi vuole bene davvero.»
Questa notte è freddo davvero. I pannelli che hanno montato alle finestre, giorni fa, contribuiscono a trattenere un po’ il calore, ma non la isolano del tutto dagli spifferi: Link si accovaccia davanti al braciere centrale per attizzare le braci assopite nella cenere. Non ha molta voglia di andare a dormire: la scorsa notte si è svegliato un paio di volte per il freddo. E poi, c’è la questione della grazia.
«Forse dovremmo parlarne» dice pensierosamente.
«Uhm?» Revali getta nel braciere un paio di tozzi rami secchi per far prendere vita al fuoco. «Temo che tu sia giunto a sopravvalutarmi troppo nel corso di questo matrimonio, Link. Non ho ancora sviluppato la capacità di leggere nella tua mente, sebbene sia sicuro che ci sia relativamente poco da leggere.»
È raro che la sua ironia non riesca a strappargli neppure un sorriso. «Lo sai di cosa parlo. Della grazia.»
Revali l’osserva in silenzio per un tempo molto più lungo di quello che Link si era aspettato. Quando alza lo sguardo su di lui, si sorprende di trovare i suoi occhi quasi privi di espressione. «Non capisco, Link. Davvero. Di cosa dobbiamo parlare?»
«Se io accettassi la grazia, tu saresti di nuovo libero.»
L’espressione di Revali si fa più dura d’improvviso. Gira attorno al braciere per andare ad appoggiarsi al tavolo coperto di mappe, senza guardarlo, e Link lo segue con lo sguardo senza capire.
«Quindi ci stai pensando.»
Link non si aspettava che la sua voce suonasse così fredda. Non riesce a capire.
«Revali, ascolta… tu ti sei addossato un peso che non ti spettava e che non eri tenuto a portare. Se io accettassi la grazia, tu potresti tornare alla tua vita…»
«È strano, Link.» Le sue parole hanno un accento inusitato, quasi doloroso, di cui Link non riesce a comprendere l’origine; eppure provengono dalla sua gola. Allora perché? «So di non essere stato il miglior padrone di casa né il migliore dei mariti. Non ho mai preteso di esserlo, e sicuramente certe cose avrebbero potuto esser diverse. Non importa. Ma ho fatto qualcosa in questi mesi, qualsiasi cosa, che ti ha fatto pensare anche solo per un momento che tu qui non fossi gradito e che questa non fosse anche casa tua?»
Link apre la bocca per rispondere molto prima che la sua mente abbia formulato una risposta per questa domanda; e poi, non trovando una risposta o meglio non trovando quella che si aspettava, la richiude. Revali ha condiviso con lui tutto quello che possedeva e, quando non è stato in grado di condividerlo, glielo ha donato senza chiedere indietro niente: questa è la prima volta che realizza pienamente la portata enorme di quello che Revali ha fatto per lui e quanto tutta la sua gratitudine non potrà mai sanare il debito che ha nei suoi confronti; e di tutto ciò non si è quasi mai neppure veramente accorto perché Revali non ha mai fatto nulla perché se ne accorgesse. 
Revali si volta per cercare la risposta nei suoi occhi visto che non la sente pronunciare dalla sua bocca; ma forse anche lì non trova altro che sgomento. Forse è proprio il suo sgomento a farlo arrabbiare più di tutto il resto.
«Dunque è così» dice. La sua voce vibra di qualcosa molto simile a dolore. «Eppure m’ero fatto l’idea che tu fossi diverso. Vuoi proprio dargliela vinta, quindi. Fargli vedere che possono farti tutto quello che vogliono, e che tu tornerai comunque sempre, non importa quanto grande sia l’umiliazione? Sei così infelice qui che sei disposto a professarti colpevole pur di tornare dal re a scodinzolare come un cane, a dire ai generali che in fin dei conti avevano ragione, che avevano diritto di ordinarti tutto quello che volevano…»
Tutto questo è profondamente ingiusto. Link si alza in piedi perché gli sembra d’aver bisogno anche del suo corpo per contrastare questa valanga di accuse ed esclama: «Non ho mai detto questo!»
«Allora perché sei disposto ad accettare la grazia come se tu avessi tradito?»
«Perché volevo servire Hyrule, e perché…»
«La mia gente non è Hyrule, quindi?» ribatte Revali causticamente. «Non puoi servirla ugualmente anche qui, combattere qui?»
Ma Link non intende rispondere alla retorica di questa domanda, non può permettere di lasciarsene traviare, distrarre: si sforza di continuare a rispondere a voce bassa, calma, perché non vuole che quella discussione diventi un litigio e una polemica fine a se stessa come al solito, e risponde: «Perché non riesco a perdonarmi d’averti portato via la tua libertà e non so come farò mai a ripagare questo debito.»
Revali rimane in silenzio molto a lungo. Il riflesso della luce trema nella liquidità dei suoi occhi.
«Non ti ho mai chiesto di ripagarmi.»
«Lo so» risponde Link a bassa voce. «Proprio per questo non sarò mai in grado di farlo. Tu vuoi che io resti?» Revali non risponde, prova a distogliere lo sguardo dal suo, allora Link parla ancora, insegue i suoi occhi nella stanza. «Chiedimi di restare.»
Revali sorride di un sorriso amaro. «No, Link. Non è così semplice. Non sarò responsabile delle tue decisioni o delle tue sciocchezze. Se vuoi restare, se vuoi andare, se vuoi alzare le braccia e dire che in fin dei conti è stata tutta colpa tua, tutto purché ti restituiscano la tua vita di prima, è un problema solo tuo. Non ho mai avuto molta stima della tua intelligenza, comunque, anche se per un attimo ho creduto…»
«Chiedimi di restare» ripete Link. «Altrimenti perché tutto questo?»
«Non farmi questo, Link» risponde Revali dopo un tempo lunghissimo. «Non ti chiederò di restare. Tu hai una volontà libera come la mia; e io non ho mai dovuto chieder niente a nessuno.»
Con l’orgoglio di questo dannato Rito, pensa Link chinando il capo sul petto, non c’è verso di vincere. Rimane immobile mentre Revali gli passa accanto in un frusciare di piume per lasciare la casa: non ha idea di dove voglia andare né perché. Ma proprio quando sta per uscire, alle sue spalli, Revali si ferma un momento e riprende: «Ma non ti ho mai chiesto neppure di andartene. Questo è tutto quello che posso dire.»
Quando Link si volta, Revali è già uscito.
Vincere no, forse; ma pareggiare sì, a quanto pare.
 
Si sveglia d’improvviso con la sensazione d’essersi appena addormentato nella notte densa e infinita, al buio, quando Revali esclama dall’altra stanza con voce soffocata: «Kagan! Che cosa…»
È all’erta nel buio prima ancora d’esser proprio certo d’esser sveglio del tutto, con la mano sull’elsa della spada e le orecchie tese nel buio, consapevole nell’oscurità che Revali dev’esser tornato a casa, in un qualche momento della notte a lui non ben precisato dopo la loro discussione, e che Kagan dev’essere entrato in casa loro; il che, a sua volta, non può significare niente di buono.
«Sht! Vuoi svegliare tutto il borgo?» protesta Kagan piano. Link lo intravede appena nel chiarore delle braci, nell’altra stanza, e dalle sue parole si sente immediatamente tranquillizzato: se non vuole svegliare nessuno, significa che il borgo non è sotto attacco. È evidente che anche Revali deve giungere alla sua stessa conclusione, perché dalla sorpresa la sua voce si fa carica di sdegno.
«Allora si può sapere cosa c’è di tanto urgente da…»
«Oh, come se non lo sapessi già che voi due non dormite insieme!» replica Kagan. Revali ammutolisce. «Non sono mica cretino. Dovete venire con me. La principessa e la consigliera devono partire subito. Mia moglie le sta aiutando a prepararsi.»
Link si divincola dalle coperte e dall’amaca e si veste alla cieca nel buio, infilandosi addosso strati su strati senza un ordine preciso. «C’è qualche pericolo?» chiede mentre indossa gli stivali allacciandoli sotto il ginocchio.
«Vedi, Revali? Almeno uno di voi due è presente a se stesso» commenta Kagan a voce alta a sufficienza perché lo senta tutto il borgo, checché abbia detto un istante fa. «È arrivata una sentinella dai passi montani. Dice che ha iniziato a nevicare copiosamente. Tra poche ore il passo sarà completamente ostruito dalla neve, perciò è essenziale che Zelda raggiunga subito la sua squadra. Ho già mandato staffette ad avvertire i suoi uomini di tenersi pronti. Ho pensato che avreste voluto salutarle. Link… mi dispiace che tu non abbia avuto più tempo per scegliere, ma se vuoi accettare quella grazia, questo potrebbe essere il momento opportuno.»
Revali non dice altro mentre si veste a sua volta. Quando escono nella notte, grandi fiocchi di neve come batuffoli di cotone solcano l’aria fino a sfiorarli: per il momento ancora si posano al suolo sciogliendosi in piccole chiazze di umidità, ma presto inizieranno ad attecchire; Link si copre il volto col cappuccio del mantello. Seguono Kagan fino a casa sua, che è illuminata come una fiaccola nel villaggio immerso nel buio: i soldati della scorta sono già pronti a partire, frastornati e semicongelati nell’aria del borgo. Discostandosi di qualche passo da Revali, Link sfiora il braccio di Lelek per attirare la sua attenzione. Revali osserva i suoi movimenti freddamente e distoglie lo sguardo con ostentazione.
«Capitano» mormora Lelek per tutta risposta. Sta tremando dal freddo. «Siete sicuro di riuscire a sopravvivere a questo inverno, sì?»
«Me la caverò» promette Link seriamente. «Lelek, ascolta… ti ricordi quello scudo blu di cui ti ho parlato, vero?»
«Certo, capitano. Lo scudo di vostro padre.»
«È molto più resistente di quelli d’ordinanza. Ascolta, Lelek, quando verrà la Calamità, promettimi che lo userai per difenderti. So già che sei coraggioso, ma vorrei saperti protetto. Lo farai?»
C’è una certa solennità nel tono di Lelek, tale che per un istante smette quasi di tremare, quando risponde: «Capitano, non posso…»
«Prometti, Lelek» insiste Link. «Che proteggerai Zelda, se potrai, ma che soprattutto starai attento. Lo prometti?»
«Promesso» mormora Lelek. «Ma starete attento anche voi, allora. Lo promettete?»
«Farò del mio meglio» risponde Link, che della sua vita non s’è curato mai troppo, nelle battaglie passate, e non vuol fare promesse che non può mantenere. Lo abbraccia con difficoltà al di sopra dell’armatura, dei mantelli, delle armi e dello scudo: l’acciaio dell’elmo è gelato e appannato dal freddo, ma Link vi posa la fronte e lo guarda negli occhi. «Tu sei mio fratello per tutta la vita, Lelek. Te lo ricordi?»
«Me lo ricordo» risponde Lelek a bassa voce. «E mi accorgo anche che non avete promesso, capitano. Per favore, per favore, state attento.»
Non c’è tempo di dirsi altro. Tara scorta fuori di casa Zelda sostenendola per le braccia: la principessa è pallida in volto come se avesse la febbre. Prima di lasciarla, senza alcun rispetto per il suo rango regale né per la sua discendenza diretta dalla divinità, Tara la avvolge stretta in uno scialle come una lattante e le infila piume nei capelli, subissandola di raccomandazioni. «È in lana Rito, Altezza. Non toglietela per nessun motivo finché non avrete passato le montagne. Vi terrà un po’ più calda. Le nostre piume isolano un po’ dall’umidità… si disperde molto calore dalla testa, sapete. Non toglietevele finché non sarete dalle Gerudo.» Zelda è commossa dalle sue tenerezze tanto da non riuscir quasi a parlare, forse perché in vita sua non ne ha ricevute quasi mai. L’abbraccia solamente mordendosi le labbra per non piangere.
Le scortano fino ai loro cavalli, che sono rimasti all’ingresso del Borgo, custoditi dalle sentinelle di guardia. Kagan si profonde in raccomandazioni per tutta la strada, inutili, visto che due sentinelle Rito le scorteranno fino al valico e non torneranno indietro finché non si saranno accertate che si siano ricongiunte alla squadra; ma forse lo tranquillizza ugualmente sentire di avere la situazione sotto controllo. Dà loro vino caldo in otri foderati che dovrebbero mantenere la temperatura per almeno un paio d’ore, poi prende le mani di Zelda per salutarla. «Spero di rivedervi in tempi più sereni, Altezza» le dice stringendola appena. «Abbiate cura di voi. Ci servirà tutta la vostra forza nei giorni che verranno.»
Revali si limita a inchinarsi brevemente in segno di saluto, ma non dice niente. È ancora arrabbiato per la questione della grazia: si discosta insieme a Kagan di qualche passo per lasciar modo a Link di salutarle.
Link non ha idea di quando le rivedrà. Solleva Zelda per issarla in sella: lei si appoggia con le mani alle sue spalle. È quasi priva di peso.
«Perdonatemi» dice Link a bassa voce: non sa neppure se stia parlando solo con Zelda o con entrambe, o con se stesso. «Non posso…»
«Lo so già, Link» lo interrompe Zelda. Nella sua voce c’è una grande dolcezza. «Ma cerca di capire… non potevamo decidere noi per te. Dovevamo lasciarti scegliere.»
Zelda non s’è mai aspettata che accettasse di tornare, dunque. Link posa la mano sul suo fianco, all’altezza della cintura: proprio come si aspettava, sotto strati di lana e di pellicce sente il bordo duro della tavoletta Sheikah. «La tenete sempre con voi questa, vero?»
«Sempre» ripete Zelda.
Link le prende il volto tra le mani perché non distolga gli occhi dai suoi nemmeno un istante. Zelda si fida di lui a tal punto che non fa nulla per scostarsi. «Quando verrà la Calamità, voi e Impa raggiungete l’accampamento Rito sulle montagne di Hebra a qualunque costo, ovunque vi troviate. Io e Revali vi troveremo lì. Non posso accettare la grazia, ma farò comunque di tutto per proteggere voi e Hyrule. Non lasciatela mai, neppure quando dormite. Me lo promettete?»
«Non sei tenuto a farlo, Link» dice Zelda a bassa voce. «Nessuno di noi lo merita. Io e mio padre meno che mai.»
«Non l’ho mai fatto per vostro padre» ribadisce Link. «L’ho sempre fatto per Hyrule, come voi. Vostro padre può essere cieco, ma non appena la situazione lo permetterà, scappate sulle montagne con la tavoletta e aspettatemi lì. Io verrò a cercarvi e vi troverò. Promettetemelo.»
Zelda gli accarezza i capelli un’ultima volta, sorridendo appena colle labbra bianche. «Lo prometto.»
Quando si scosta dal cavallo di Zelda, Impa lo abbraccia in fretta per un solo istante e mormora in un soffio contro il suo orecchio: «Hai fatto la scelta giusta. Non dovevi tornare a nessun costo»; poi sale a cavallo agilmente senza neppure dargli il tempo di rispondere e fa cenno alle guardie che sono pronte a partire. Lelek si volta un’ultima volta a rivolgere loro un cenno di saluto mentre la loro piccola spedizione si avvia controvento verso le montagne, sotto la neve che cade sempre più fitta.
  Link rimane con Kagan e Revali a osservarle allontanarsi finché la prima curva le sottrae alla loro vista; ma neppure quando non le vedono più accennano a rientrare al borgo. Rimangono lì per un po’.
«Potete andare a dormire» commenta infine Kagan, ma senza accennare a distogliere lo sguardo dalla strada. È preoccupato, Link glielo legge negli occhi: ha paura che non facciano in tempo a passare il valico prima che sia bloccato dalla neve. «Io resterò sveglio ancora qualche ora per aspettare che le sentinelle tornino ad avvisare che hanno scavallato il passo, ma non ha senso che restiamo tutti…»
«Da quant’è che lo sai?» chiede Revali improvvisamente. La sua domanda è talmente imprevista e slegata dal contesto che Link stenta a capire di cosa parli, e lo stesso, a quanto pare, Kagan.
«Che cosa?»
«Che non dormiamo insieme.»
«Per amore del cielo, Revali… era piuttosto implicito nel concetto di finto matrimonio, sai?» Kagan si volta e si avvia lungo la strada del borgo senza neppure guardarlo. «E comunque… me l’hai appena confermato tu. Devi migliorare a riconoscere i bluff, amico mio. Ti facevo più svelto.»
Revali lo segue furibondo. Link non ricorda di aver mai visto nessuno zittire Revali in modo così brutale. Non riesce a non pensare a Impa e Zelda che arrancano a cavallo nella neve, ma la sua stima per Kagan è appena cresciuta in modo vertiginoso.
 
Continua a nevicare per tutto il giorno: anche in casa la temperatura si abbassa radicalmente. Andare al Volodromo, oggi, è impossibile e troppo pericoloso: rimangono in casa. Revali lavora in silenzio ai suoi archi o alle sue frecce o a qualsiasi cosa stia facendo; Link sfoglia i libri che gli ha portato Lelek con mani gelate per quanto sia vicino al fuoco. Non sono tornati a dormire, dopo la brusca sveglia nella notte, malgrado Kagan abbia detto che li farà avvertire appena avrà novità: Link è troppo preoccupato per Zelda. Non riuscirebbe a dormire.
«Non hai accettato la grazia, quindi» commenta Revali a un certo punto, senza alzare gli occhi dal suo lavoro. Ha l’aria di starci pensando da un po’.
Il fatto che voglia parlarne, per i suoi standard, è quasi sorprendente; ma Link non è disposto a essere l’unico a sbilanciarsi in questo strano matrimonio. Leva lo sguardo su di lui per un istante.
«Evidentemente» risponde.
Revali esita come se volesse aggiungere qualcosa, ma poi non dice nient’altro; sorride a malapena. Riprendono a lavorare in silenzio.
Kagan viene di persona nel primo pomeriggio ad annunciare che i soldati che hanno accompagnato Impa e Zelda sono tornati: è andato tutto bene, a quanto pare, e sono riuscite a scavallare il valico montano con i soldati prima che venisse ostruito dalla neve. Link sente il petto gonfiarglisi di sollievo, forse scioccamente, perché la debolezza di Zelda, estenuata dalle preghiere e dai sacrifici, non è destinata a scomparire semplicemente perché hanno oltrepassato un valico montano; ma anch’essa fa parte di quelle cose sulle quali non può esercitare alcun controllo. Tutto quello che può fare è ciò che ha fatto toccando la tavoletta Sheikah che le pendeva dal fianco mentre la issava in sella: assicurarle che la difenderà sempre. Questo è ciò cui si è ridotto tutto il suo potere.
«Ti sei scomodato apposta per venircelo a dire?» replica Revali per tutta risposta. «Da quando è compito del capovillaggio venire a dare queste informazioni?»
«A dire il vero, ero venuto anche a portarvi un paio di coperte e uno scaldaletto in più» risponde Kagan sollevando un involto annodato con cura. Dalle sue provocazioni sembra più divertito che offeso. «Non è che, per caso, sei ancora arrabbiato con me per la questione che so che non dormite insieme?»
«E tu non è che, per caso, non hai proprio intenzione di pensare al tuo letto piuttosto che al mio, vero?» ribatte Revali.
«Non ci penserei proprio al tuo letto, se tu non lo rendessi un argomento così divertente.» Kagan si stringe nelle spalle prima di rivolgersi a Link per porgergli le coperte. Link si affretta ad alzarsi per prenderle dalle sue mani. «Io e mia moglie abbiamo pensato che potessi averne bisogno, Link. Questa notte la neve gelerà, e per te sarà davvero molto freddo. Cerca di stare coperto, siamo intesi?»
 È un gesto così semplice eppure gentile, disinteressato, che Link non sa neppure come rispondere: guarda le coperte senza quasi saper che dire. «Grazie, Kagan. Voi non ne avrete bisogno?»
Kagan agita una mano come a voler minimizzare quel gesto. «Ah, non preoccuparti. Per il nostro matrimonio ci hanno regalato talmente tanta biancheria per la casa che non siamo mai neppure riusciti a utilizzarla tutta, e i bambini sono già infagottati come bachi nel bozzolo. Tu soffrirai il freddo molto più di noi, perciò preferiamo che le abbia tu.»
«Lascia perdere, Link» dice freddamente Revali. «Kagan si sta solo divertendo a insinuare che io non ti tenga sufficientemente al caldo con un raffinato doppiosenso. Non merita i tuoi ringraziamenti.»
Link si sente avvampare d’improvviso, ma Kagan scoppia a ridere di una risata schietta e risponde: «Giusto, giusto. Dimentico sempre che il mondo gira intorno a te, Revali. Link, ti garantisco che né io né Tara abbiamo un così cattivo gusto, qualunque cosa Revali ti abbia detto di noi. Cerca di stare al caldo, va bene?»
 
Kagan non esagerava. La nevicata s’intensifica nel corso del pomeriggio, il vento ulula nella valle accumulando sui tetti spessi strati di neve che inizia a congelare non appena il sole si abbassa dietro le cime dei monti: neppure accanto al fuoco Link smette di tremare. Non ricorda d’aver mai provato freddo così: Revali lo osserva con preoccupazione. Non ironizza più neppure sulle coperte portate da Kagan. Va un po’ meglio subito dopo cena, quando lo stufato bollente lo scalda un po’; ma la temperatura continua a calare. Link indossa tutti gli abiti che possiede finché gli è possibile accumularli gli uni sugli altri; Revali attizza il fuoco continuamente, senza dir nulla, con aria quasi colpevole e impotente; non ha colpa di nulla, ma è vero che su questo non può esercitare alcun potere. Tira fuori vecchie coperte da angoli oscuri della casa e infila scaldaletto pieni di braci tra strati e strati di coperte nell’amaca.
«Vai a dormire» suggerisce infine, sul tardi, forse stanco di vederlo tremare incessantemente senza poter fare nulla per aiutarlo: «Forse ti aiuterà a scaldarti.»
Link non ci crede molto, ma è troppo stanco dalla notte trascorsa in bianco, e troppo infreddolito, per discutere. S’infila a letto sfilandosi solo pochi strati di abiti per non avvertir troppo lo sbalzo termico domattina, quando uscirà dal nido di coperte; ma neppure lì riesce a smettere di tremare. Si appisola a tratti di un sonno irregolare da cui continua a svegliarsi ogni pochi minuti, tremando a tal punto che sente dolergli tutte le giunture; il freddo ha penetrato le sue ossa; si sente pieno di nausea.
D’un tratto si sollevano le coperte, l’amaca s’inclina: Link si desta del tutto trattenendo il respiro nel buio. Revali scivola nell’amaca al suo fianco, circondandolo con le ali, piano, e mormora: «Solo per stanotte. Per non farti morire assiderato. Siamo intesi?»
Link rimane immobile nel grande calore accogliente del suo petto.
«Non devi farlo per forza» risponde a bassa voce.
«Lo so» dice Revali. «Va tutto bene. Non ci pensare. Dormi, ora.»
Link si lascia sprofondare nel sonno senza più tremare, sforzandosi di non porsi domande delle quali non conosce la risposta.
 
La mattina dopo, al risveglio, Link non apre gli occhi subito. Rimane disteso immobile nella semioscurità delle sue palpebre chiuse, sforzandosi di trattenere al loro interno la sensazione confusa della grande pace che prova: Revali è ancora disteso al suo fianco. Link non ha neppure il coraggio di aprire gli occhi, di verificare se dorma ancora oppure no: ha paura che, se si accorgesse che lui è sveglio, se ne andrebbe. Non sa perché ne abbia paura.
Alla fine è la sua rigidità, insieme forse alla diversa qualità del suo respiro, a informare Revali che è sveglio. Quando parla, la sua voce è ancora impastata di sonno.
«Che c’è?»
«Mi stai schiacciando una gamba» inventa Link senza guardarlo, perché non ha il coraggio di dire quello che pensa; forse neppure lo sa.
Revali si sposta lentamente riequilibrando i loro corpi nell’incavo dell’amaca. «Va meglio?»
«Uhm» risponde Link in tono vagamente affermativo.
«Bene. Hai ancora freddo?»
«Un po’» mente Link, aspettandosi di sentirsi in colpa per quella bugia; ma il senso di colpa, stranamente, non arriva.
«Dormi, allora. La neve è ancora alta. Dobbiamo restare in casa anche oggi.»
Revali non accenna a togliere quell’ala dal suo petto. Link rimane sveglio per un po’ a soppesarne il peso lieve nella sua mente, poi decide che, tutto sommato, Revali ha ragione: se non possono uscire, tanto vale rimettersi a dormire.
Era da tanto tempo che non dormiva fino a tardi. È molto più dolce di quanto ricordava.

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Capitolo 10
*** Vigilia ***


Capitolo X – Vigilia
 
Metti la tua mano nella mia,
e le nostre dita si stringano,
il tuo collo sulla mia spalla,
e i nostri cuori si ascoltino battere,
lascia poggiare la tua fronte
e i nostri sguardi si confondano.
Ma non arriviamo fino al bacio
per paura che l’amore ci distragga.
 
André Gide, I quaderni di André Walter
 
Va un po’ meglio, ultimamente. Davvero. Anche se Link non sarebbe in grado di spiegare perché.
Il giorno si allenano al Volodromo sfruttando le ore di luce, quando non nevica eccessivamente; talora persino con la pioggia: Link sguazza nel fango che gli arriva a mezza coscia, coi capelli bagnati appiccicati al viso come serpenti scuri annidati sulle sue guance, gli abiti fradici che gli aderiscono addosso mentre la pioggia gelata ruscella sulla sua schiena insinuandoglisi lungo la nuca e sulle clavicole; a parte il fango, Revali condivide il suo stesso destino di ghiaccio e di pioggia, così come con lui condivide il pane e l’acqua: a sera, quando tornano a casa, Revali non si sconvolge neppure più per la sua presunta nudità quando abbandona gli abiti infangati sulla soglia prima di entrare in casa.
Mantengono il patto che hanno fatto: s’allenano alternando le armi di giorno in giorno. I giorni in cui Link si allena con l’arco, seguendo i consigli di Revali, sono i più pesanti, eppure gli sembra di percepire dei miglioramenti, a poco a poco. Riesce a sollevarsi in volo con la paravela sfruttando le correnti d’aria, quasi alla maniera dei Rito; quando si lascia cadere, riesce a prendere la mira, anche se per un solo colpo, prima di dover riaprire la paravela. Quest’ultimo passaggio è il più difficile, ovviamente: la maggior parte delle volte finisce per rotolare a terra all’interno della voragine al centro del Volodromo. Riesce a risalire solo aprendo di nuovo la paravela, perché la buca è troppo profonda per arrampicarsi lungo le pareti. La sua mira però è migliorata: Revali ha frugato in casa per un po’, mettendo a soqquadro casse che avevano l’aria di non venire aperte da una decina d’anni, nei giorni in cui erano bloccati dalla neve, e ha tirato fuori alcuni vecchi archi di varie forme e dimensioni. Glieli ha fatti provare uno alla volta: la prima volta Link ha alzato lo sguardo su di lui con aria interrogativa.
«Abbiamo appurato che era il tuo arco a far schifo, il che è un bene, visto che è più facile cambiare l’arco che l’arciere» ha detto Revali alzando le spalle. «Proviamo a cambiare l’arco, quindi. Questi li ho costruiti quando non ero molto più alto di te, perciò facciamoli andar bene per allenarti finché non avremo trovato una soluzione definitiva.»
«Proviamo» ha risposto Link poco convinto, perché i patti sono chiari: nei giorni in cui segue il suo allenamento, deve dar retta a Revali. S’è rigirato tra le mani quegli archi per giorni, uno per volta, quasi per il puro gusto di sperimentarli: sono adatti a essere usati in volo, sono più flessibili e più rapidi di quelli che ha sempre usato nell’esercito Hylia. S’accorge di scoccare molto più rapidamente quando li usa.
 Revali osserva i suoi progressi con soddisfazione, in gran parte perché, ovviamente, li reputa come progressi conseguiti da se stesso, dalla sua arte e dalla sua tecnica contro la natura degli Hylia. Link non glielo dirà mai, ma sa essere un buon insegnante, quando vuole; è importante che non lo sappia, però, perché a questo dannato Rito non occorre altro che un altro motivo per andar fiero di se stesso; e Link non intende esser quello che glielo fornirà.
A sera, dormono insieme. Non ne parlano neppure più.
«Hai freddo?» gli ha chiesto Revali soltanto, le prime sere, quando la neve ghiacciata ostruiva la porta e le finestre e persino il fuoco pareva congelare nell’aria troppo fredda della notte di Hebra.
«Certo che ho freddo» rispondeva Link immancabilmente, tremando mentre sistemava scaldaletto bollenti nell’amaca; Revali non ha mai risposto, ma ogni notte s’è infilato piano al suo fianco, sotto le coperte, lo ha circondato con le ali, e ha taciuto nervosamente aspettando che s’addormentasse. Dopo un po’ di notti non ha chiesto più. Il suo corpo è caldo come brace, e Link si sorprende a cercarlo accanto a sé nelle notti infinite di Hebra.
«Ho notato che Revali non si alza più così presto per andare al Volodromo» gli dice Kagan, quasi distrattamente, un giorno che viene a trovarli in mezzo alla neve per accertarsi che sia tutto a posto: a quanto pare, tutto il borgo è preoccupato che lui patisca troppo il freddo di Hebra. «Non si sente bene?»
Poiché la sua domanda era tendenziosa, Link esita prima di rispondere. «Mi stai davvero chiedendo della sua salute?»
«Ovviamente no» risponde Kagan. «Devo supporre che sia cambiato qualcosa, quindi?»
Link si accerta che Revali non sia da nessuna parte a portata d’orecchio, prima di rispondere; in verità è soltanto a pochi metri di distanza, nella stanza da bagno, ma può correre il rischio ugualmente. Per precauzione, comunque, si premura di parlare molto piano. «Dormiamo insieme, ora.»
Kagan attende che a queste parole ne seguano altre per un po’. Poiché altre, tuttavia, non ne seguono, è costretto a domandare le informazioni che non è in grado di inferire da queste parole solamente. «Avete fatto anche altro, oltre a dormire?»
Link non ha mai saputo fino a questo momento di poter arrossire fino alle orecchie, comprese le orecchie, cioè: a questa domanda si rifiuta di rispondere, a dire il vero non riesce a credere neppure che gliel’abbia posta, e distoglie lo sguardo facendo finta di non aver sentito nessuna domanda e di non poter conseguentemente formulare alcuna risposta. Kagan osserva la sua reazione con occhio esperto, cercando di stabilirne l’origine esattamente come un medico farebbe con una serie di sintomi nella speranza che gli illustrino la natura della malattia.
«No, direi di no» è la conclusione cui giunge. A Link non è dato sapere come ci sia arrivato, ma, a maggior ragione perché è la verità, non deve né intende correggerlo in alcun modo. «Ma va bene, sai, Link, davvero. Alcuni direbbero che dormire insieme è per certi versi ancora più intimo che fare l’amore, perché…»
«Kagan» sbotta Link quasi senza fiato, convinto che la faccia non possa bruciargli più di così. «Potevi anche fermarti quando hai detto che andava bene. Non importava la spiegazione.»
«Che c’è? Mica ti vergognerai» ribatte Kagan sorridendo amabilmente di un sorriso spietato. «Comunque, non sei tornato a parlarmi, dopo quel giorno. Sei riuscito a fare un po’ di chiarezza dentro di te?»
Link tiene nervosamente d’occhio la porta da cui teme di vedere spuntare Revali da un momento all’altro. «Non lo so, in realtà. È solo che…»
Kagan lo incalza dolcemente dopo qualche istante. Tutta la sua ironia scompare, in questi momenti. «Solo che?»
Link non è ben sicuro di sapere come esprimerlo. «Che ora va tutto così bene, Kagan. Ho paura di cambiare le cose.»
Con sua grande sorpresa, e a dispetto di tutta la sua scarsa eloquenza e del suo ostinato rifiuto di dar voce ai suoi sentimenti in modo più chiaro di così, Kagan riesce a comprendere dalle sue parole molto più di quanto dicano effettivamente. «Sei felice così, quindi.»
Felice? Link si sorprende a soppesare quella parola tra sé nei momenti di veglia, con Revali che dorme di fianco a lui: non aveva mai pensato di poter essere felice. È un pensiero così profondamente avvilente che la sua mente si rifiuta talora di soffermarvisi troppo a lungo, come al ricordo di un’ingiustizia: non gli è stato mai detto che poteva pensare a esser felice, in passato. Hyrule è stata al primo posto nei suoi pensieri sempre, per tutta la sua vita cosciente, e Hyrule ha assunto tante forme collaterali, nella sua mente, a misura che il tempo e le necessità passavano e cambiavano, come diverse forme assunte dalla medesima divinità: talora era la Spada, talora era Zelda; Hyrule è rimasta, certo, perché a Hyrule Link sente che non potrebbe negare neppure la sua stessa vita, quando il momento della Calamità verrà; ma quelle diverse incarnazioni assunte dal suo dovere sono sparite, ora. Ora che né i teologi né le leggende parlano più al suo orecchio incessantemente, ricordandogli in ogni momento chi è e chi dovrebbe essere, e a chi e a che cosa devono andare tutta la sua lealtà e il suo amore, e che Zelda non è più l’unico punto costante al centro dell’orizzonte verso cui convergono tutti i suoi pensieri, Link si sorprende a chiedersi davvero se potrebbe esser qualcosa di diverso mai dall’eroe che brandisce la Spada che esorcizza il male; e gli viene da domandarsi se anche Revali potrebbe essere qualcosa di diverso dall’orgoglio dei Rito.
Sono pensieri stupidi, si dice con rabbia la mattina al risveglio, quando la necessità degli allenamenti lo incalza ogni giorno di più, perché ogni giorno di più li avvicina al compleanno di Zelda e al ritorno della Calamità; non ha senso neppure pensarci, perché la Calamità è un termine di tempo al di là del quale egli neppure riesce a proiettare se stesso. Se fallirà, se Hyrule soccomberà al male, non esisterà neppure più uno spazio all’interno del quale poter pensare a qualcosa di diverso: i ricordi del piccolo guardiano lo hanno mostrato anche troppo bene. Si trova a vivere in un tempo nel quale ogni egoismo non è solo impossibile, ma è persino inutile: va bene così, per il momento. Tutto sommato è una fortuna che in vita sua non abbia avuto occasione d’essere egoista mai.
Verso la fine dell’inverno Kagan li convoca entrambi a casa sua: è una convocazione ufficiale in modo inusuale per qualcuno che di solito si presenta a casa loro non invitato a ironizzare sulle loro abitudini notturne. Ci vanno di primo mattino, prima ancora di andare al Volodromo, aspettandosi chissà cosa: in verità, è solo una lettera. Kagan, però, è insolitamente grave.
«Il re di Hyrule ha scritto per chiedere ai Campioni di prendere posto sui rispettivi colossi sacri prima del diciassettesimo compleanno di Zelda» dice. Nella sua voce Link non ricorda d’aver mai sentito tanta serietà. Porge loro la lettera senza dirigerla verso nessuno dei due in particolare: dato che Revali non accenna a tendere le braccia che ha incrociato sul petto, Link la prende al suo posto e la scorre rapidamente. È una lettera formale, in carta intestata, col sigillo di ceralacca e tutto quanto. «Mancano quasi tre mesi, ma penso sia opportuno rispondere subito. Non posso decidere per voi, ma risponderò solo quello che mi direte.»
«Hai detto a Zelda che avremmo mantenuto la parola data» gli fa notare Revali.
«Certo. Prima che lei m’informasse che il re intende offendere un mio concittadino offrendogli la grazia per un reato per cui non può essere condannato non avendolo mai commesso» risponde Kagan. «Da un punto di vista diplomatico, ce n’è più che a sufficienza per ritirare il nostro appoggio alla Corona. Non intendo obbligarvi a fare niente: io scriverò solo quello che voi mi direte di scrivere. La scelta spetta solo a voi.»
«La lettera non parla del ruolo di Link?» domanda Revali.
Kagan scuote il capo. «No. L’ho letta più volte e non fa neppure un accenno al ruolo di Link in tutto ciò: sembra quasi che il re abbia voluto rimuovere totalmente ogni riferimento a te o alla tua Spada dall’intera strategia militare che era stata concordata in origine, il che è folle. Questo ti lascia comunque la piena scelta su come agire, Link» aggiunge guardando verso di lui.
«Noi difenderemo Hyrule» risponde Link macchinalmente rendendogli la lettera. Si accorge solo in quell’istante di aver parlato al plurale: si volta d’istinto verso Revali per fare almeno un cenno di scusa nei suoi confronti, ma Revali annuisce per sottolineare le sue parole senza neppure guardarlo. In fin dei conti, tutto era stato deciso già molto tempo prima che Kagan li convocasse qui: ma quando torna a guardare verso il capovillaggio, Link si stupisce di vederlo appena un po’ più triste di prima. Forse sperava che la loro risposta sarebbe stata diversa; che avrebbe potuto risparmiare a se stesso di mandarli a combattere e a morire. Ma anche Kagan, esattamente come loro seppure in modo diverso, deve fare quello che bisogna: e bisogna che anche lui difenda la sua gente. Riprende la lettera in silenzio.
«Questo comporta che vi dividerete, quindi» dice a bassa voce senza rivolgersi a nessuno di loro in particolare. La sua voce suona immensamente triste. «Ve ne rendete conto, sì?»
«Quanto ti dobbiamo per questa lezione di tattica militare per principianti?» sbotta Revali alzandosi per andarsene. Kagan rimane in silenzio senza rispondere al suo sarcasmo, forse per la prima volta da quando Link lo conosce. La durezza improvvisa nella voce di Revali dice chiaramente che fino a quel momento non ci aveva pensato, o aveva evitato di pensarci, ma è la verità: Link è un soldato di fanteria. Con la Spada che esorcizza il male, con il ruolo che, indipendentemente dal re e dai generali, è destinato ad avere nella guerra che verrà, non può combattere che a terra: il giorno in cui Revali dovrà salire su Medoh, si divideranno. Era per questo che Kagan avrebbe voluto che dicessero di no.
Quel giorno al Volodromo Revali è una furia: non gli rivolge neppure la parola. Link incassa le sue frecce schermandosi dietro lo scudo più preoccupato per lui che per se stesso, senza saper che dire: vorrebbe trovare parole per parlare alla sua rabbia, ma non sa neppure di cosa sia fatta questa sua rabbia o verso chi sia rivolta: se sia arrabbiato con Kagan o col re, con la Calamità o con se stesso. Lo lascia stare. Non si fermano neppure per riposare né per mangiare qualcosa, oggi: solo nel pomeriggio, quando le nuvole cominciano ad accendersi di colori infuocati e i loro volti a divenire liquide pozze indistinguibili nel calare del sole, sembra rendersi conto di quante ore sono trascorse.
«Scusami» dice solamente. È la prima volta in vita sua che Link lo sente chieder scusa per qualcosa in un modo che non sia ironico, e la cosa rischia di provocargli un piccolo arresto cardiaco. «Ero sovrappensiero. Andiamo a casa.»
Non tornano sull’argomento neppure dopo cena: a quello che ha detto Kagan non c’è niente da aggiungere. Non ne parlano più; Revali lavora al suo arco solo un po’ più a lungo del solito, dopo cena, ma, quando il fuoco nel braciere inizia ad affievolirsi, s’infila sotto le coperte e lo circonda delicatamente con le larghe ali calde come sempre. Link, che ha smesso di tremare da qualche settimana, non ha nulla da obiettare. Il giorno dopo non ci pensano più.
Continuano ad allenarsi. Link si sente più sicuro di sé ogni giorno che passa: lascia andare la paravela quasi per istinto prima di scoccare, senza neppure riflettere; i bersagli paiono delinearsi di fronte ai suoi occhi in un rallentamento del tempo che esiste solo per lui, la sua mano si muove rapida come il suo sguardo; cade ancora, ovviamente, di tanto in tanto, quando non è svelto abbastanza da riaprire la paravela al volo subito dopo aver scoccato, ma molto meno. Revali non dice nulla, ma neppure critica: osserva soltanto, e, di tanto in tanto, dà ancora qualche indicazione, ma sempre meno via via che passano i giorni. Un giorno scende persino nella voragine, dopo una caduta improvvisa, forse per controllare che non si sia fatto troppo male: è la prima volta che lo fa da quando si allenano. Link ne rimane tanto sorpreso che scoppia a ridere.
«Ti sei reso conto soltanto oggi che rischi di uccidermi?» chiede mentre si sfila la paravela dalle braccia per controllare i danni. Non è nulla di troppo grave: solo una lunga scorticatura lungo il braccio sinistro, dal gomito alla spalla, dove ha strisciato contro la viva roccia mentre cadeva. Ci ha rimesso giusto un po’ di pelle. S’è fatto di peggio.
«Fammi vedere» dice Revali. Sentendosi un po’ a disagio, Link si sfila la tunica e gli porge il braccio. Revali osserva con occhio esperto i lunghi graffi sottili che percorrono la pelle spurgando sangue e siero. «Ti sei sbucciato come un bambino. Brucerà un po’ quando farai il bagno.»
«Sopravvivrò» borbotta Link un po’ imbarazzato, sfilando con delicatezza il braccio dalle sue mani. Revali sorride appena.
«È capitato anche a me di cadere, qualche volta, sai?»
È la prima volta che Revali ammette di fronte a lui di essere fallibile. Link lo guarda un po’ sorpreso nella penombra delle pareti di roccia. «Mentre mettevi a punto le tue tecniche?»
«Sì.»
«E non hai pensato che potrei usare quest’informazione contro di te, adesso che la conosco?»
Revali aggrotta la fronte sorridendo. «Per esempio come?»
«Non so… potrei ricattarti» propone Link. «Potrei raccontare in giro che il grande Revali, una volta, è caduto. Oppure potrei rinfacciartelo tutte le volte che cado durante gli allenamenti.»
«Piccolo Hylia ingrato» ribatte Revali ridendo mentre gli porge una mano per aiutarlo ad alzarsi. «Stavo per chiederti se pensi di farcela a uscire di qui da solo, ma ho appena cambiato idea. Se non ce la fai, penso che ti lascerò qui.»
Link prova a sollevare cautamente la paravela per accertarsi che le braccia possano reggere il suo peso. La spalla gli duole un po’, ma nulla d’insopportabile. «Ti è andata male, allora. Ti toccherà dormire con me anche stasera.»
È la prima volta che parlano ad alta voce del fatto che ormai dormono insieme, ma anche quel riferimento, come ogni altro accenno a qualsiasi cosa in grado di metterli in imbarazzo, passa sotto silenzio.
«Sopravvivrò» gli fa il verso Revali. «Comunque, stai migliorando, sai. Mi spiace non poterti insegnare a volare.»
L’ha detto così, senza pensare né riflettere; forse non intendeva dire nient’altro che questo, che se sapesse volare sarebbe in grado di fare tutto quello che fa lui, che non si sarebbe ferito cadendo; eppure le sue parole risuonano di una strana confortevole intimità, come se Revali avesse voluto metterlo a parte di quell’ultima parte della sua vita, il volo, che finora è appartenuta solo a lui.
«Mi piacerebbe» risponde guardandolo negli occhi. Per una volta Revali non distoglie lo sguardo.
La notte fa sempre più caldo. Rimuovono i pannelli isolanti dalle finestre, le coprono solo di tendaggi sovrapposti: l’aria di primavera s’è fatta tiepida, il vento notturno profuma d’erba tagliata e di polline. Link ormai non indossa più strati su strati per dormire: una notte si sveglia nel buio sentendosi soffocare, sudato, e senza riflettere si rigira nell’amaca, si sfila la tunica e si rimette a dormire. Quando apre gli occhi al mattino si rende conto con orrore d’essere a petto nudo; guarda Revali attendendosi una sua reazione, ma Revali non se n’è neppure accorto: le sue piume sfiorano la sua pelle nuda, gli solleticano l’ombelico, eppure questo dannato Rito che provava vergogna alla sola idea della sua nudità persino quand’era coperto fino al collo non ci bada neppure. Link rimane sveglio a guardare il soffitto finché Revali non si sveglia.
Al toccare la sua pelle nuda, Revali chiede soltanto: «Hai avuto caldo, stanotte?»
Hanno evitato di parlarne per settimane, nascondendosi dietro la scusa del freddo e della neve; ma mentirsi, ora, non è più possibile. «Un po’.»
«Bene» risponde Revali alzandosi. «Allora ricordiamoci di togliere un paio di coperte, quando torniamo.»
Non era propriamente la risposta che Link si era aspettato, ma non è sua intenzione obiettare. Quella sera si limitano a sfilare un paio di coperte dall’amaca e non sollevano più l’argomento.
A misura che l’aria si riscalda, il tempo gocciola via dalle loro mani come acqua. Link vorrebbe poter chiudere le mani, trattenerlo; ma anche se lo facesse, proprio come acqua, scivolerebbe via ugualmente. Talora vorrebbe voltarsi, e guardando indietro vedere dov’è che il tempo è fuggito, ma anche voltandosi non lo troverebbe: neppure di questo parlano mai.
Alla fine lo sapevano che questo momento sarebbe arrivato. I Campioni saliranno sui colossi sacri per metterli in posizione prima del ritorno della Calamità al fare dell’alba, proprio come ha ordinato il re: è come la notte che precede una battaglia, eppure mai Link s’è sentito così inquieto. Forse è perché domani non lo aspetta la lotta: quando Revali salirà su Medoh, a lui non resterà altro che restare sulla terraferma e attendere, attendere. Non può fare nient’altro. La prospettiva dell’attesa lo spossa più di quella del combattimento: d’un tratto gli pare d’essere tornato in carcere; di vedere i movimenti di Revali, e forse anche i suoi, come attraverso uno strato d’acqua che li separa. Vorrebbe saper dire qualcosa, ma gli mancano le parole: osserva Revali in silenzio per tutto il giorno. Se la cosa lo infastidisce o lo mette a disagio, quantomeno oggi Revali è così paziente da non darlo a vedere.
Non sono andati al Volodromo, oggi: Revali è preso dai preparativi. Si reca a casa loro un pellegrinaggio di Rito pronti a salutarlo: portano regali, frutta, coperte, qualunque cosa pensino che possa accompagnarlo sul colosso. Revali li ringrazia con la sicurezza fiera, un po’ sfrontata, di sempre: se ha paura, non la dimostra.
Rimangono soli soltanto a sera. Link prepara qualcosa da mangiare, ma non ha fame: si sente nauseato, angosciato, e gli chiude lo stomaco una morsa come una grande mano che lo stringe.
«Siediti con me, per favore» dice Revali d’un tratto.
È seduto vicino al fuoco, col suo arco in grembo. Sentendosi il cuore martellare in gola più forte di quanto l’abbia sentito mai, Link obbedisce senza sapere perché: si siede in silenzio di fronte a lui. Revali l’osserva per un poco.
«Ti ricordi, un po’ di tempo fa, quella volta che ti sei stupito perché ho iniziato a preparare un nuovo arco subito dopo aver finito il mio?»
Link ne ha un ricordo vago, a dire il vero, però ce l’ha: gli torna in mente d’un tratto, ora che glielo chiede. È stato il giorno dopo il matrimonio di Avaris: quel giorno Revali gli ha concesso l’enorme onore, quantomeno nella sua mente, di provare l’arco Aquila. Annuisce senza parlare.
«Bene» riprende Revali dopo un momento. Sembra un po’ impacciato. «Non te ne ho mai parlato perché non ero sicuro di fare in tempo a finirlo, prima di… comunque, ecco qui. Visto che il tuo arco faceva schifo, te ne ho fatto uno io. Tieni. Consideralo un regalo d’anniversario un po’ in ritardo.»
Link fissa l’arco che Revali gli porge senza capire: quello è il suo arco Aquila. Revali non ha mai permesso a nessuno neppure di toccare – no. Un momento. Quello non è il suo arco: è più piccolo. Link non riesce a credere di aver osservato Revali lavorarci per tutto l’inverno e di non essersene mai accorto: quello è a tutti gli effetti un arco Aquila, ma dell’esatta misura per un cavaliere Hylia.
«Non posso accettare» riesce a dire soltanto quando ritrova voce.
Gli occhi di Revali si illuminano dello spettro di una risata. «Sapevo che l’avresti detto. Per curiosità, perché no?»
Perché è troppo, vorrebbe dire Link se solo gli venissero in mente le parole; perché è l’arco del tuo genio e della tua fierezza, che nessuno a parte te è in grado di maneggiare, neppure tra i Rito. Invece, frugando nel vuoto che in questo momento pervade la sua mente, dice la cosa più stupida del mondo: «Perché io non ti ho fatto un regalo per l’anniversario.»
«Avevo già previsto che saremmo stati una di quelle coppie sbilanciate in cui uno dei due fa tutto il lavoro per tenere in piedi la relazione» risponde Revali. «Cosa che, in effetti, siamo sempre stati davvero. Ci sono altre motivazioni, oltre a questa sciocchezza che ti farò il piacere di considerare una forma di delirio?»
A questo punto Link ha ripreso contezza di sé a sufficienza da riuscire ad articolare una risposta coerente e quasi ragionevole. «Revali… è un onore troppo grande. Non posso accettare.»
«Lo so che è un onore troppo grande per te: l’ho fatto io.» Questa volta Revali sorride senza più ironia. «Link, ascolta… avremo bisogno di tutte le armi a nostra disposizione contro la Calamità. Ti ho allenato perché tu fossi in grado di utilizzare questo arco, perciò prendilo. Sarò più tranquillo sapendo che l’avrai con te quando non sarò qui per proteggerti.»
Link lo prende con delicatezza senza sapere cosa dire. Ora che lo tiene in mano gli sembra impossibile non essersi reso conto in tutti questi mesi che era della misura esatta per le sue braccia, per la sua statura: si sente profondamente sciocco per non averlo realizzato prima. Se lo rigira tra le mani senza parole. Revali osserva i suoi movimenti con soddisfazione.
«Lo so, lo so. È più di quanto potrai mai fare per me, eccetera. Risparmiamoci i soliti discorsi, d’accordo?»
«I ringraziamenti rientrano nei soliti discorsi?» s’informa Link levando gli occhi su di lui.
Revali esita un momento. «Quelli sono consentiti, direi. Ma non esagerare.»
Prima che Link faccia in tempo ad aggiungere qualsiasi cosa, sentono bussare piano contro lo stipite della porta aperta nell’ultimo sole del tramonto. Quando si voltano, Kagan è affacciato sull’uscio. Ha l’aria stanca, vagamente imbarazzata, e profondamente triste. Link non ricorda d’averlo mai visto così.
«Ehi» dice. «Sono ancora in tempo per salutare l’orgoglio dei Rito?»
Revali si alza per andargli incontro e gli fa cenno di entrare, ma Kagan avanza di un passo soltanto e rivolge a Link appena un cenno di saluto. Si stringe Revali al petto come la prima volta che Link lo ha visto, quella sera in cui li ha accolti al borgo, ma stavolta mormora con voce rotta: «Per favore, non andare.»
«Ehi» lo riprende Revali a bassa voce, senza districarsi dal suo abbraccio. «Mica avrai paura, capo?»
«Sì» risponde Kagan senza mezzi termini. «Ho paura di non rivederti più. Volevi proprio sentirmelo dire, eh?»
«Forse sì» dice Revali. L’ironia nella sua voce, per una volta, suona un po’ forzata. «Dobbiamo fare quello che bisogna, Kagan. Tu sei il capo. Devi mostrarti coraggioso.»
«Ma davanti a voi non ce n’è bisogno.» Kagan si passa una mano sugli occhi per un momento. «In questi momenti penso che non avrei dovuto accettare di diventare capovillaggio, sai. Avresti dovuto accettare tu quando te lo hanno proposto. Saresti stato molto più adatto di me. Se dipendesse da me, non ti manderei mai a rischiare la vita su Vah Medoh.»
«E tu che avresti fatto allora? Il campione dei Rito? Non riusciresti a colpire una roccia ferma con una freccia.» Revali riesce quasi a strappargli una risata. «Abbiamo fatto entrambi quello che ci riusciva meglio, Kagan. E poi, abbiamo avuto capi peggiori di te. Ora non me li ricordo, ma…»
«Ora mi sento meglio» lo interrompe Kagan. «Tutto sommato, riesci a essere così antipatico che quasi non mi dispiace più lasciarti andare.»
Revali sorride come per una vittoria conseguita; poi, a voce appena più bassa, riprende: «Siamo sempre d’accordo per quelle questioni, sì?»
Kagan gli fa cenno di sì col capo. «Certo che siamo d’accordo. Non sono mica cretino.»
«Questo è da vedere» risponde Revali. Lo stringe a sé ancora per qualche istante. «Ti fermi a cena con noi?»
«Meglio che vada a dar da mangiare ai miei due bricconi» risponde Kagan. La voce gli trema ancora un poco. «Link, vieni da noi, domani? Possiamo aspettare insieme.»
Domani non ci sarà nulla da aspettare: se i calcoli di Pruna sono esatti, mancano ancora due giorni al risveglio della Calamità, e domani sarà solo un giorno come un altro, interminabile; ma proprio per questo Kagan lo sta invitando a non trascorrerlo da solo a chiedersi che cosa debba accadere.
«Grazie, Kagan» risponde Link. Ha il cuore pieno di gratitudine, perché Kagan sta cercando di aiutarlo in ogni modo in cui gli è possibile farlo: e se non ha altro da offrirgli che la sua casa e i suoi figli vivaci e rumorosi, allora è quello che gli offrirà. «Verrò non appena Revali sarà partito.»
«Bene. Quand’è così, allora…» Kagan non si decide a uscire. Guarda Revali ancora e ancora, come se potesse convincerlo a cambiare idea e a restare con la sola forza del suo sguardo: ma Revali è un guerriero che ha votato tutto se stesso a difendere la sua gente sempre.
Posando una mano sulla sua spalla, Revali dice: «Ci vediamo quando tutto questo sarà finito, Kagan. Te lo prometto. Bacia i tuoi spiumatelli da parte mia e di’ a quello grande che quando torno gli insegno a volare.»
Kagan fa per dire qualcosa per salutarlo, ma non trova parole. Si sforza di accennare un sorriso che non si allarga ai suoi occhi prima di uscire.
 
Nessuno dei due riesce a dormire, questa notte. D’improvviso è come se l’amaca si fosse fatta stretta e scomoda: Link si sente consapevole di ogni frazione dello spazio in cui i loro corpi si toccano, di ogni minuto che trascorre. Vorrebbe che fosse in suo potere accrescere il tempo e lo spazio: vorrebbe che non tornasse la Calamità, che Revali non dovesse salire su Medoh mai. Vorrebbe prorogare questo tempo infinitamente, trattenerlo; vorrebbe tenere Revali qui per sempre, dove può vederlo. Non sa cosa accadrà domani, tra un giorno, un mese; ma in questa notte in cui ancora le braci scricchiolano le une contro le altre, gli par quasi di poter tenere la Calamità lontana in eterno.
«Dormi?» sussurra Revali nel buio.
Per una volta non suona come un ordine. «No. Neanche tu, mi sembra.»
«Bene. Link… ho tre cose da chiederti per domani. Tre favori, se vogliamo chiamarli così.»
Link sente se stesso deglutire dolorosamente nell’oscurità. «Ti ascolto.»
«D’accordo. La prima… non venire a vedermi partire, domani. Sarà più facile se ci salutiamo adesso.»
Revali vuole partire da solo. Link riesce quasi a vederlo di fronte a sé, nello squallore livido delle prime luci dell’alba, completamente solo. Non pensava che questa richiesta gli avrebbe fatto tanto male: è come se Revali volesse tenerlo lontano da sé, recluderlo da qualche parte dove la sua presenza non possa toccarlo; ma è lui che deve partire, dopotutto. Su di lui, su quel preciso momento della sua vita, Link sa di non poter accampare alcun diritto.
«Ne sei sicuro?»
«Sì, Link. Ci ho pensato. Non rendiamo le cose più patetiche di quanto già non siano.»
«Va bene» risponde Link; ma si sente la bocca improvvisamente molto asciutta. È lieto che Revali non possa vederlo in questo momento. «La seconda?»
«Giusto. La seconda. Link, se io, per qualsiasi motivo, non fossi in grado di scendere da Medoh…» Se io morissi, vuol dire Revali: è la prima volta che Link gli sente ammettere d’essere mortale. La cosa lo spaventa più di quanto sia in grado di dire a parole, perché significa che è la prima volta che ce n’è bisogno. «Per favore, fai evacuare la mia gente. Kagan è un bravo capo, ma sarà solo e tutti saranno in preda al panico. Il borgo è pieno di bambini che ancora non sanno volare. Avrà bisogno di qualcuno che gli dia una mano. In fondo ti hanno accolto come hanno potuto…»
«Revali» lo interrompe Link. «Perché pensi di dovermi convincere?»
Revali tace a lungo. «Hai ragione. Non è molto giusto nei tuoi confronti. È solo che…»
«È anche la mia gente, adesso» gli fa notare Link a bassa voce.
Per un po’ Revali non sa come rispondere a quest’osservazione.
«Sì» dice dopo un poco. «Non l’avevo mai vista così. La nostra gente.»
«E la terza cosa?» chiede Link per cambiare argomento. Sente un groppo formarglisi in gola, minacciare di farlo piangere; ma non può permetterselo adesso.
«Non è proprio un favore, in realtà. È più una cosa che devi sapere. Il mio testamento ce l’ha Kagan. Tu sei il mio unico erede, naturalmente, e non è che io possieda chissà quali beni… ma ho ritenuto più prudente scriverlo comunque. Non si sa mai. Qualunque cosa accada, quando a situazione si sarà stabilizzata, ti spiegherà tutto lui e si prenderà cura di te, se ce ne sarà bisogno.»
Questo è talmente inaspettato, incredibile, che Link neppure sa come rispondere. Si tira a sedere incredulo sull’amaca, in silenzio, e rimane immobile a considerare quelle parole.
«Sai cos’è un testamento, vero?» domanda Revali dopo un po’, in assenza di una risposta più precisa da parte sua.
«Certo che lo so» ribatte Link duramente.
La freddezza improvvisa della sua voce lo sconcerta solo un momento. «Bene. Allora di certo capirai perché bisognava che tu lo sapessi.»
«Revali» esclama Link. «Vuoi per favore smetterla di parlare come se tu da Medoh non dovessi mai più uscire?»
«Perché?» ribatte Revali. «Tu di morire non l’hai pensato mai?»
Link torna a distendersi lentamente al suo fianco. Certo che ci ha pensato alla morte: è il futuro dopo di lui, dopo la sua morte, che non ha mai preso in considerazione. Di tornare vivo da una battaglia non l’ha dato mai per scontato, ha visto morire troppi uomini; ma non si è mai chiesto cosa sarebbe accaduto dopo di lui. Neppure quando l’hanno condannato a morte ha pensato a qualcosa di concreto, tangibile, reale come un testamento; e d’improvviso gli sembra d’esser stato molto miope e molto sciocco.
Tutto preso da questi pensieri, non risponde; allora Revali parla ancora. «A questo proposito, Link… c’è un’altra cosa. Non te l’avrei detta se non avessimo sollevato l’argomento, ma…»
«Che cosa c’è?» chiede Link a bassa voce, senza aspettarsi altro.
«Se io dovessi morire, e tu volessi risposarti… non sposare Derdran. È l’unica cosa che ti chiedo.»
Link impiega un tempo assurdamente lungo a realizzare che stavolta Revali lo sta prendendo in giro. Gli scaraventa addosso un cuscino, e Revali scoppia a ridere.
«Ti sei offeso? Per caso volevi sposare proprio lui?»
«Voglio scoparmi tutta la guarnigione di Hebra» ribatte Link. «Contento?»
«Beh, non posso dire che mi farebbe piacere, ma rientrerebbe nei patti» deve riconoscere Revali. «Purché non Derdran, puoi fare quello che ti pare. Dopo che io sarò morto, però. Non prima, siamo intesi?»
«Mi fai venir voglia di andare a cercare proprio lui solo per farti dispetto. Come se poi la regione di Hebra pullulasse di Rito tutti pronti a venire a sposare proprio me tra tutti.»
«Beh, di certo lui ti sposerebbe per far dispetto a me» commenta Revali cupamente.
Link torna a distendersi di fianco a lui. Poiché gli ha scaraventato addosso il cuscino e non ha la minima intenzione di frugare al buio per trovarlo, è costretto ad appoggiare la testa direttamente contro la sua spalla. Revali s’irrigidisce appena, ma non si sposta.
«Pensi ancora a quella scena al matrimonio?»
«Non penso a nulla. Dico così, per dire.»
Questa è probabilmente la bugia più grossa che Link abbia mai sentito. Decide di affrontarla con una strategia meno diretta.
«Va bene. Farò tutto quello che mi hai chiesto, ma in cambio ho anche io una richiesta. Ci stai?»
«Mi sembra equo» conviene Revali. «Cioè?»
«Ti farò una sola domanda, ma tu devi rispondere sinceramente. Se mentirai, me ne accorgerò. E chiederò a Derdran di sposarmi, anche. Va bene?»
«Mi sembra un po’ meno equo. Comunque, vai avanti. Chiedi.»
«Quella sera, dopo il matrimonio, a un certo punto stavi per chiedermi qualcosa. Che cosa volevi chiedermi?»
Revali rimane in silenzio tanto a lungo che si potrebbe quasi pensare che non abbia sentito la domanda; ma che l’abbia sentita Link lo sente dalla rigidità del suo corpo, dalla lentezza del suo respiro. Sta pensando: comunque, lui non ha fretta. Aspetta.
«Ricordo di averti chiesto se ti avesse fatto piacere che Derdran avesse provato a toccarti» inizia Revali lentamente.
«Non è questo che ti ho chiesto» osserva Link. «Non divaghiamo.»
«Va bene. Avrei voluto chiederti che cosa avresti pensato se invece avessi provato a toccarti io.»
Link si sente improvvisamente molto consapevole del suo corpo, dell’aria nei suoi polmoni, dei grilli che cantano eternamente nella notte, delle piume di Revali che sfiorano la sua pelle. S’accorge di non respirare da qualche secondo.
«Avresti voluto toccarmi?» chiede. Gli sembra di impiegare un’infinità a pronunciare queste parole.
«Qualche volta» risponde Revali. La sua voce è bassa, nervosa. «Forse sì.»
«Era per questo che non volevi dormire con me all’inizio?»
«Anche. Non solamente.»
«Perché non hai mai provato a toccarmi?»
Il silenzio si prolunga tanto a lungo che Link quasi potrebbe sentirlo con la mano. Quando Revali parla di nuovo, le sue parole sono tanto flebili che è come sentire di averle immaginate. «Sei così diverso da me. Non avrei saputo come toccarti, come raggiungerti. Ho pensato che avrei potuto farti male.»
Link si tira bruscamente a sedere sull’amaca e dice con voce sorda: «Farmi male. Revali, mi hai crivellato di frecce.»
Revali scoppia a ridere trascinandolo di nuovo giù. Link torna a distendersi piuttosto indispettito. «Ho crivellato il tuo scudo, non te personalmente. E poi non è la stessa cosa.»
«No» riconosce Link alquanto contrariato, non del tutto convinto. «Immagino di no.»
«E poi…» La sua voce si tinge di una melanconia che Link non gli ha sentito mai: suo malgrado, Link si ritrova ad ascoltare. «Che senso avrebbe avuto iniziare qualcosa, con la Calamità? Perché uno dei due rischiasse di rimanere solo, senza l’altro, e dovessimo separarci comunque domattina?»
La Calamità ovunque nei loro discorsi, tutta intorno a loro, prima di arrivare: per la prima volta nel sentirla nominare da Revali Link prova d’un tratto tutta la sciocchezza e la follia d’avervi sacrificato tutta la sua vita. Nessuno di loro s’è concesso mai di vivere, in nome della Calamità che ancora doveva arrivare, che neppure esisteva; e ora che finalmente Link ne sente la miopia e la sciocchezza, è troppo tardi, anche per i rimpianti, per i rimorsi. Va bene così, o quantomeno questo è quello che Link si ripete: non è in suo potere cambiare le cose, allontanarle dal corso che hanno seguito.
«Abbiamo vissuto come abbiamo potuto, vero?» chiede a bassa voce, e Revali, che deve aver seguito in qualche modo lo strano tortuoso percorso dei suoi pensieri, risponde: «Abbiamo fatto quello che potevamo con quello che sapevamo.»
Non c’è altro da dire. Link sente d’essere arrivato a quel termine di tempo al di là del quale non è mai riuscito a proiettare se stesso: non è mai stato in grado d’intuire cosa sarebbe stato di lui dopo la Calamità; non lo è neppure ora, eppure c’è una parte di lui, una parte che appartiene a lui solamente e che non ha scoperto che dopo la condanna a morte, che dice quasi per sfida: «Vedi di sopravvivere su quel Colosso, e dopo... si vedrà. Siamo intesi?»
«E tu vedi di cavartela con quella Spada che esorcizza il male, o come si chiama» replica Revali. E poi, a voce più bassa, aggiunge: «Promettimi che starai attento.»
«Prometto» risponde Link. «Promettimi che tornerai.»
«Prometto» mormora Revali.
 
Disteso col volto affondato contro il cuscino, Link sente Revali levarsi piano dal suo fianco e alzarsi dall’amaca piano, delicatamente, per non farla oscillare troppo. Rimane immobile mentre lo sente muoversi e affaccendarsi in silenzio per la casa: sente solo il fruscio dei suoi movimenti. Vorrebbe alzarsi, dirgli qualcosa; vorrebbe trattenerlo, soprattutto, e chiedergli di non andare, ma Revali gli ha chiesto di non farlo; e Link non vuol rendergli le cose più complicate di così. Si sforza di fingere di dormire mentre Revali si lava e si veste nell’alba grigia, fredda, come acciaio: non sa se gli creda davvero, o se piuttosto faccia solo finta per non doverlo salutare di nuovo. Non importa. Mantiene la parola. Tiene gli occhi chiusi nel buio del primo mattino.
Revali rimane a lungo fermo accanto all’amaca, Link sente dall’esitazione del suo respiro che vorrebbe dire qualcosa; suo malgrado, Link trattiene il fiato.
Revali gli sfiora i capelli, poi esce.
 
Quando Link va a casa di Kagan,  così presto nel mattino da risultar quasi indecente, lui e sua moglie sono già svegli, seduti a tavola a sbucciare mele per farne conserve. Lo stavano aspettando: gli hanno persino tenuto in caldo la colazione. Sapevano che sarebbe venuto. Link li ringrazia e si siede con loro, mangia quello che gli hanno preparato, poi prende un coltello e inizia a sbucciare la sua quota di mele per aiutarli.
Passano così tutta la mattina. Non nominano mai Revali. Quando si alzano i bambini, Link si offre di dar da mangiare al più piccolo. Quello grande sta per chiedergli, come sempre, qualcosa su Revali, ma Tara lo fulmina con uno sguardo che potrebbe gelare il Monte Morte, perciò ritiene più prudente dirottare la sua domanda su altro. Link, che avrebbe risposto volentieri anche a una domanda su Revali per fargli piacere, si sorprende di quanto sia più facile parlare d’altro rispetto a lui.
Non succede niente per tutto il giorno. A sera, dopo cena, Kagan cerca di convincerlo a restare a dormire da loro: non vuole che rimanga solo, coi suoi pensieri, nell’attesa di qualunque cosa debba accadere domani, ma questo non lo dice. «Facciamo venire i piccoli a dormire con noi, così puoi stare nella loro camera» dice, come se si trattasse di un’offerta che non può rifiutare. «Per favore, Link. Non costringermi a stare in pensiero per te.»
«Hai paura che ci sia un grublin sotto la mia amaca?» risponde Link, ma Kagan non ride. «Kagan, va bene così. Sono così stanco che non avrò le forze per restare a torturarmi a letto, non preoccuparti. Ci vediamo domattina.»
È stanco davvero: quelle giornate trascorse a non fare niente lo spossano più di sei ore di allenamenti. Link torna a casa, si spoglia e s’infila nell’amaca senza neppure guardarsi attorno, sforzandosi di non sentire troppo attorno a sé l’insolita leggerezza dell’amaca e l’assenza di Revali. Si addormenta all’istante senza concedere a se stesso di rimuginare neppure un minuto sul dolore che pare volergli dilacerare il petto.
Il mattino seguente, quando torna da Kagan, Tara non c’è. Si è alzata presto per andare a pescare col ragazzino, spiega Kagan: non ne poteva più di aspettare senza far niente, dice. È agitata anche lei: vuole molto bene a Revali, e il ragazzino cominciava a diventare incontenibile.
Kagan ha gli occhi cerchiati di scuro: Link dubita molto che abbia dormito nelle ultime due notti. Continua a guardare fuori dalla finestra, nervosamente, come se si aspettasse di vedere qualcosa, ma il quadrato di cielo che s’intravede, al di sopra del Volodromo, non è quello che in questo momento sta sorvolando Medoh. Il colosso sacro non è visibile da lì.
Link si siede di fronte a lui e si versa una tazza di tè.
«È prevista per oggi» dice Kagan senza guardarlo né specificare a cosa si stia riferendo.
Link assente gravemente. «Secondo le informazioni del piccolo guardiano e i calcoli di Pruna, per stasera. Oggi è il compleanno della principessa Zelda.»
Kagan torna a sbucciare la mela che ha tra le mani senza rispondere. Link l’osserva con preoccupazione: decisamente questo capovillaggio non è fatto per le battaglie.
«Davvero avevano proposto a Revali di diventare capovillaggio?»
«Cosa?» chiede Kagan distrattamente guardando fuori dalla finestra, prima che la sua mente faccia in tempo a processare la domanda. Si riscuote bruscamente. «Oh… quello. È stato tempo fa, però. Il nostro capovillaggio dell’epoca, il mio predecessore, stava cercando qualcuno da formare perché prendesse il suo posto. Era ovvio che lo chiedesse a Revali, all’epoca. Era già il nostro migliore guerriero.»
«Però?»
Parlare sembra alleggerire l’angoscia sul volto di Kagan. «Come c’era da aspettarsi, non ha voluto, naturalmente. Queste cose non gli sono mai interessate, sai. È stato lui a proporgli il mio nome, e poi… beh, è andata come è andata.»
«Revali ha molta stima di te» dice Link cautamente prendendo una mela dal mucchio.
«Oh, lo so.» Kagan sorride appena. «Io sono bravo in molte cose in cui Revali è assolutamente negato, tipo le relazioni umane, e viceversa. È per questo che…»
È in questo momento che il figlio più grande di Kagan rientra in casa di corsa, tutto trafelato, e grida: «Papà, devi venire a vedere!»
Il volto di Kagan si trasfigura.
«Resta in casa con tuo fratello» ordina precipitandosi fuori. «Non uscire per nessun motivo.»
Link lo segue fuori correndo: non è possibile, gli dice la sua mente. Il ritorno della Calamità era previsto per questa sera: questo lo indicavano chiaramente le immagini recuperate dalla memoria del piccolo guardiano. Un anticipo di così tante ore…
Kagan cerca cogli occhi l’enorme sagoma scura di Medoh stagliata contro l’alba, puntata in direzione del Castello. Link segue il suo sguardo. Rimangono immobili, impotenti, nel borgo dei Rito bagnato dal sole, a guardare mentre il Colosso Sacro viene ricoperto dai viticci scuri della corruzione della Calamità.

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Capitolo 11
*** (Ri)Conquista ***


 Capitolo XI – (Ri)Conquista
 
Impreparato, sì; - non ci riesco; mi manca l’indispensabile
rapporto con il paesaggio, col tempo, con le cose
e con gli eventi; - non è per viltà – impreparato
di fronte alla soglia dell’azione, completamente estraneo
di fronte alla missione che gli altri mi assegnarono. Come avviene
che gli altri stabiliscano a poco a poco la nostra sorte, che ce la impongano
e che noi l’accettiamo?
Ghiannis Ritsos, Oreste.
 
Link avanza nella neve dei monti di Hebra senza vedere né sentire nulla.
Ha le orecchie che gli ronzano, la vista appannata. Ha promesso a Revali che avrebbe aiutato a evacuare la loro gente: è questo tutto quello che riesce a capire. Sente i bambini urlare e piangere, i genitori tentare di calmarli. Continua a camminare nella neve che talora gli arriva alle anche: ha le cosce piene di geloni. Vorrebbe riuscire a sentirne il dolore; ma non sente niente.
Quando Kagan ha dato l’ordine di evacuare il borgo perché nugoli di mostri erano stati avvistati nella gola Vapone e alle frontiere di Colbacco subito dopo il terremoto di Hyrule centrale, Link è rientrato a casa, alla cieca, e ha preso le prime cose che gli è venuto in mente di prendere: del resto, non possedeva molto. Avrebbe dovuto tenere dei bagagli pronti, per qualsiasi evenienza, forse: quel pensiero lo ha sfiorato per un istante, scioccamente, privo di senso, ed è scomparso così com’è arrivato. Del resto, non è più neppure abituato a farsi i bagagli senza Lelek: s’è allacciato in vita la Spada che esorcizza il male, ha preso l’arco che gli ha fatto Revali e che ora gli appare privo di senso e doloroso come un rimorso; s’è caricato sulla schiena una faretra piena di frecce, poi ha frugato ovunque in casa per vedere se ci fosse qualcosa da prendere, così, senza sapere, senza capire. C’erano le mappe di Revali, gli strumenti di Revali, gli abiti di Revali, tutto era doloroso e terrificante come in un incubo. Sotto le mappe, nascosto come un segreto, c’era il certificato di matrimonio. Lo ha guardato con attenzione per la prima volta: la firma sembra quasi la sua. Lo ha piegato e se lo è messo in petto, sotto la tunica, sforzandosi di non chiedersene il motivo né il senso; poi è uscito senza guardarsi indietro. Guardare gli avrebbe fatto troppo male: è uscito ed è andato a dare una mano a condurre la sua gente sulle montagne.
S’è caricato addosso il bambino più piccolo di Kagan, quello che ancora non sa camminare né volare, malgrado le proteste sue e di Tara, e contro l’altro fianco se n’è caricato un altro, ancora più piccolo, di una coppia che non conosce. Kagan protesta, ma Link risponde immancabilmente: «Se sono stanco, ti chiedo il cambio. Per ora ce la faccio.» La sua voce è dura e sorda, distante. Tara si scambia uno sguardo con Kagan e non dice nulla; avanza vicino a lui nella neve per tutto il tempo. Non lo perde mai di vista. Kagan plana avanti e indietro per sorvegliare la carovana di famiglie Rito che si spostano lentamente. Il suo bambino più grande è molto coraggioso, e rimane di fianco a Tara per tutto il tempo senza protestare né far domande: a volte guarda verso Medoh con una domanda muta negli occhi, ma non serve neppure che sua madre lo fulmini con gli occhi. Sa da solo di non dover chiedere.
La guarnigione di Hebra è a una giornata di marcia dal borgo dei Rito. Link cammina per tutto il giorno senza alzare gli occhi verso Medoh: guarda dritto di fronte a sé, nella neve alta, e si sforza di andare avanti, ancora avanti. Non vuole concedere a se stesso di pensare né di sentire. Quando Kagan dà l’ordine di fermarsi per far riposare il gruppo e dar da mangiare ai bambini, Link scarica i suoi ai rispettivi genitori, poi torna indietro, verso il gruppo più lento che è rimasto indietro, si carica addosso i bagagli che trova e li porta per un po’. Quando il gruppo è pronto a ripartire, torna a prendere i bambini, ma Tara lo scuote quasi con violenza. Gli ripete qualcosa molte volte per costringerlo ad ascoltarla. Finché non alza la voce, Link non riesce a distinguere le sue parole.
«Link, devi mangiare. Non ripartiremo finché non hai mangiato qualcosa, sono stata chiara?»
«Allora non ripartiamo» risponde Link con più durezza di quanta vorrebbe e soprattutto di quanto Tara meriti, perché sta cercando di aiutarlo; ma non può farci niente. La pietà negli occhi di Tara è grande abbastanza perché lei possa perdonarlo per questa risposta.
«Va bene» dice tristemente. Avrebbe voluto poterlo aiutare meglio. «Dammi almeno il bambino, però. Lo porto io da qui in poi.»
«Ce la faccio» risponde Link alla cieca, ostinatamente; vorrebbe caricarsi addosso tutto il peso del mondo, vorrebbe camminare, come i cavalli, con nient’altro che la strada di fronte a sé, e avere paraocchi che lo proteggano dal dolore e da tutto quello che non vuole vedere; ma non ha paraocchi né peso a sufficienza. Tara prende in braccio il bambino.
«Lo so che ce la fai» mormora. «Ma io non ho perduto quello che hai perduto tu.»
Link vorrebbe che non l’avesse detto. Non può arrabbiarsi con lei per avergli detto ad alta voce la verità, per avere il coraggio di dire quello che nessuno ha ancora osato ammettere neppure nella propria mente: che Revali è morto, che il suo corpo rimarrà prigioniero per sempre di Medoh e della nera vischiosa melma della Calamità. Link riprende a camminare senza guardarla né ascoltarla perché se si soffermasse sulle sue parole resterebbe fermo nella neve e nel dolore senza poter guardare avanti né indietro. Non può permetterselo adesso. Ha promesso che avrebbe aiutato a evacuare la loro gente.
La guarnigione di Hebra è attestata in una roccaforte di legno circondata da palizzate e da metri e metri di filo spinato. I soldati e gli arcieri di guardia si precipitano ad accogliere i fuggitivi: tra di loro ci sono anche i loro genitori e le loro mogli, i loro figli. Sono tutti salvi, almeno per ora.
Kagan viene a cercarlo in mezzo alla folla, lo afferra per le braccia per costringerlo a guardarlo, come ha fatto sua moglie poche ore fa: Link deve concentrarsi sul suo volto per sforzarsi di comprendere le sue parole attraverso il ronzio che gli copre le orecchie. Lo fissa a lungo senza capire.
«Derdran vuole parlarci» dice Kagan. Link ha bisogno di frugare nella propria memoria per un tempo assurdamente lungo per ricordare chi sia Derdran: tutto gli pare provenire attraverso una grande distanza, i suoi sensi sono ovattati, attutiti come dalla neve. «La principessa Zelda è salva. La consigliera Impa è riuscita a portarla qui con quella sua tavoletta Sheikah.»
Link segue Kagan attraverso il forte di guardia senza capire né comprendere: Zelda è salva, ripete a lungo dentro di sé. Non riesce quasi a ricordare perché sia così importante.
Derdran li aspetta dentro una costruzione nuda, essenziale, al centro del forte. È in piedi di fronte al grande braciere centrale, costruito alla maniera dei Rito, colle braccia incrociate sul petto. È lì anche Zelda: è seduta vicino al fuoco, con una coperta sulle spalle nude, ma si affretta ad alzarsi al suo ingresso; quando è scappata dal Castello non indossava che i suoi leggeri paramenti sacri, evidentemente. Vederla lo riscuote un poco dal torpore della sua mente: forse è quel senso di dovere, di sacrificio e abnegazione in nome del quale è stato cresciuto e continua a vivere, malgrado tutto, e che per una volta lo richiama a se stesso. C’è anche il piccolo guardiano, schierato di fronte alla principessa come se avesse il potere di difenderla dal mondo.
Impa è in piedi alle spalle di Zelda, con le braccia conserte sul petto: ha il volto esangue, estenuato, e forse il peso del regno sulle spalle. Alza lo sguardo dal fuoco quando lo sente entrare, ma non perde tempo in saluti.
«Il re è morto» dice. La sua voce sembra rimbombare nella stanza, improvvisa: Link esita sulla soglia. Qualcosa nello sguardo di Zelda sembra vacillare a quelle parole. «Si è sacrificato per darci il tempo di fuggire dal Castello. I Colossi Sacri sono stati conquistati da emanazioni della Calamità.»
Link cerca lo sguardo di Impa al di là del fuoco e di Zelda, e lei, in modo appena percettibile e unicamente per lui, scuote il capo in silenzio. Il potere del sigillo non si è risvegliato, dicono i suoi occhi senza bisogno di parole. Sono totalmente soli, perduti, dunque; eppure Impa sembra pronta a combattere, e Zelda, seppur cogli occhi rossi di pianto, è più ferrea e determinata che mai.
Chinando appena il capo di fronte a lei, Kagan prende la parola. «Principessa Zelda, vi porgo le mie condoglianze per la vostra perdita. Voi e la consigliera Impa potrete restare con noi per tutto il tempo necessario.»
Quando Zelda parla, la sua voce è più dignitosa e calma di quanto Link ricordi d’averla sentita mai.
«Vi ringrazio, capo Kagan» dice. «Vi ringrazio della vostra ospitalità e dell’aiuto che state dando alla Corona, ma né io né Impa siamo qui per nasconderci. Siamo venute qui a chiedervi il vostro aiuto per liberare i Colossi Sacri.»
Link sente le sue parole come una lama che scava nel suo petto ancora e ancora. Non finirà mai, dunque, questa rincorsa ai Colossi, questa lotta destinata a esser perduta sempre, ancora e ancora, e questo sacrificio eterno, come quello di Revali…?
Posando una mano sulla sua schiena, Kagan pare quasi volerlo sostenere. Link s’accorge d’aver stretto i pugni fino a farsene sanguinare i palmi, deve aver cambiato espressione, forse tremato; guarda Kagan sperando che parli anche in sua vece.
«No, principessa.» Le parole di Kagan sono dure e chiare, la sua voce gentile ma inflessibile. «I Colossi ci hanno già tradito una volta. Noi Rito abbiamo perduto il nostro guerriero più amato e più nobile, e da quello che avete detto mi pare di capire che anche le altre genti di Hyrule abbiano sacrificato a sufficienza. Revali era quanto di più simile a un fratello io abbia mai avuto, e anche voi avete perduto vostro padre. La strategia era sbagliata. Non vi pare abbastanza?»
«È proprio questo il punto» risponde Zelda. Questa volta, forse per la prima volta da quando Link la conosce, il suo sguardo non vacilla. «Noi pensiamo che i campioni sui Colossi siano ancora vivi. E intendiamo riprenderceli.»
 
Gli attendenti di Derdran porgono loro tazze di tè bollente che rimangono a fumigare lentamente e poi a raffreddarsi tra le loro mani. Sui Colossi, sostiene Impa, i campioni stanno ancora combattendo. Devono provare a salvarli.
Non occorre sentire altro. Non vuole neppure accertarsi che sia vero: forse non vuole neppure saperlo; gli basta poterci credere per il semplice fatto che Impa l’ha detto. Link si alza in piedi, si rivolge a Derdran, perché qui non si parla più di civili ma di guerra, e dice semplicemente: «Quand’è così, io vado.»
«Aspetta, Link» protesta Zelda. «Non puoi andare da solo. Dobbiamo formulare un piano, e…»
Link avrebbe obbedito a Zelda, persino a suo padre, se gli avessero chiesto di lanciarsi alla cieca nella lotta, nella mischia, e di sacrificare la sua vita senza neppure saper per cosa: in verità forse l’ha fatto molte volte, ma non è questo il punto. Non si tratta del re né di Zelda, ora: si tratta di Revali. Sostenendo con calma il suo sguardo, Link scandisce con lentezza: «Perdonatemi, principessa. Non posso aspettare. Non posso chiedere a nessuno di venire con me, ma io andrò su Medoh adesso.»
Zelda annuisce piano. Sa di non poterglisi opporre, forse neppure lo vuole; vorrebbe soltanto che lui fosse al sicuro, Link glielo legge negli occhi; ma, allo stesso modo, anche lei legge nei suoi che non si fermerà. Rimane in silenzio.
«Tutto molto giusto, Link» obietta Impa. «Peccato solo che non abbiamo modo di salire su Medoh. La cosa più sensata, in questo momento, sarebbe liberare Vah Naboris, e poi, col suo aiuto…»
«Impa» dice Link con calma, senza alzare la voce ma neppure chinare lo sguardo. «Io salverò Revali. Sono uno solo, e non posso salvarli tutti, ma se devo scegliere salverò mio marito. Sono stato chiaro?»
Sa di aver detto una cosa orribile, oscena: sa che le sue parole condannano Urbosa, Daruk, persino Mipha che quel giorno a Hebra è venuta a salvarlo, coi medici militari, e gli ha imposto le mani in battaglia decine di volte per guarire le sue ferite; ma è la guerra. Neppure loro, al suo posto, potrebbero salvare tutti; dovrebbero scegliere pure loro, alla fine, e a un certo punto saprebbero di dover dire ad alta voce la stessa cosa orribile e oscena che ha detto lui adesso: che ne sceglierebbero uno solo. Di Urbosa, di Daruk, non sa dire chi sceglierebbero: forse ragionerebbero con freddezza, da buoni militari, come dovrebbe fare lui adesso, e sceglierebbero il Campione che in battaglia potrebbe rivelarsi più utile nei giorni successivi; ma Mipha sceglierebbe lui per nessun altro motivo che questo, che lo ama. Link sceglie Revali per lo stesso motivo egoistico e disperato per cui Mipha sceglierebbe lui sempre.
Impa lo osserva molto più a lungo del normale, e Link ha la sensazione che i suoi occhi vedano e le sue orecchie sentano molto più dei suoi gesti e delle sue parole.
«Tu sai già che io verrò con te ovunque» dice. «Ma, Link… Medoh sta volando, e, almeno fino a quando non siete arrivati qui, stava sbandando sempre più verso nord. A meno che non lo abbattiamo a cannonate, non vedo proprio come potremo salirci. Se ci riuscissimo, poi potremmo usarlo per liberare Vah Naboris.»
Link si volta verso Derdran. Se c’è qualcuno che conosce i monti di Hebra, per quanto possa non piacergli, è proprio lui. «Derdran, tu conosci le montagne del nord. Ti viene in mente un punto da cui possiamo avvicinarci il più possibile? Medoh non stava planando molto in alto, ma…»
Derdran potrebbe dirgli che sono un branco di pazzi e insensati; che, se proprio su Medoh deve andarci qualcuno nella folle speranza di salvare un guerriero che non c’è alcuna garanzia di trovar vivo, avrebbe senso che ci andasse una squadra scelta di arcieri Rito, che siano quantomeno in grado di raggiungere il colosso autonomamente; ma non è questo che dice. Sta riflettendo. Fa un cenno a un attendente, che si precipita a srotolargli di fronte una mappa, e cerca qualcosa di specifico scorrendovi sopra con la punta delle dita.
«Qui» dice infine picchiettando su un punto preciso. Link reclina il capo per guardare al di sopra delle sue ali: è un’infossatura tra due montagne, non poi molto più a nord di dove si trova la guarnigione. A occhio sono forse due ore di cammino, anche se in mezzo alle nevi perenni di Hebra. «In questo punto ci sono degli sfiatatoi naturali simili a quelli che si trovano al Volodromo, o quantomeno c’erano fino a un paio di anni fa. Può darsi che siano stati ricoperti dalle frane, ma possiamo farli saltare con le frecce esplosive. Possiamo usarli per prendere quota e issarci fino al Colosso, a meno che non devi dalla direzione che ha preso. L’importante è arrivarci in tempo, ma per ora Medoh sta procedendo molto piano, in balia solo dei venti. Nessuno lo sta pilotando.»
«Il fatto che tu dica possiamo mi fa supporre che in questo piano ti veda coinvolto tu stesso» commenta Kagan guardandolo.
Derdran esita. «Se mi ordini di restare, non posso disobbedirti, ovviamente. Ma tu sai che preferirei andare. In fin dei conti, lo sai… ho qualcosa da farmi perdonare da Revali.»
Kagan alza gli occhi al cielo. «Ah, quindi ora ammetti di avere qualcosa da farti perdonare. Era proprio necessario che arrivasse la Calamità e Revali restasse prigioniero di Medoh per costringerti ad ammettere che tutto sommato non avresti dovuto provarci con suo marito, vero?»
Tanto Impa quanto Zelda non riescono a trattenersi dal guardare verso Link con aria meravigliata. Derdran ha esattamente l’espressione di un bambino che sia stato rimproverato in pubblico dai genitori e sia del tutto consapevole d’aver combinato qualcosa che non avrebbe dovuto.
«Come vuoi, Kagan.» È avvampato di vergogna. «Link, perdonami per averci provato con te a quel matrimonio. Non avrei dovuto, eccetera. Ma se sei d’accordo che io vi accompagni e se ritroviamo Revali vivo, giuro che porgerò le mie scuse anche a lui, va bene?»
Link, che a tutto pensava fuori che al matrimonio, alla scenata di gelosia e alle scuse di Derdran, è interessato soltanto al fatto che li accompagnerà un guerriero che conosce quel territorio. «Grazie, Derdran. Ci sono mostri in quelle zone?»
«Col ritorno della Calamità? Temo che ci siano mostri un po’ dappertutto. Non sarò facile avanzare nemmeno in volo, e non possiamo permetterci di perder tempo.» Derdran esegue a mente un rapido calcolo. Alza gli occhi verso Kagan. «Mi dai il permesso di prendere trenta arcieri?»
Non è una richiesta banale. Trenta arcieri per una missione suicida significa trenta arcieri di meno a difendere la guarnigione, i vecchi, i bambini: per un attimo il volto di Kagan si trasfigura del peso della responsabilità. Sembra troppo giovane per un peso del genere, eppure, come gli ha detto Revali solo la sera prima, ciascuno deve fare la sua parte; e lui deve scegliere.
«Quanti ce ne rimangono?»
«Duecentosessanta tra la guarnigione e le immediate vicinanze. Un altro centinaio può essere richiamato dai presidi di controllo del sud di Hebra e di Colbacco al più tardi in un paio di giorni, e la roccaforte non è in pericolo immediato. Io e i ragazzi abbiamo ripulito le tane dei mostri nel raggio di qualche miglio fino a ieri, in previsione della Calamità. È estremamente improbabile che veniamo attaccati.»
Kagan sospira profondamente coprendosi gli occhi con le mani per qualche istante. «Puoi avere i tuoi trenta arcieri, allora. Ma non possiamo ordinare loro di dare la vita per uno solo di noi, Derdran… nemmeno per Revali, per quanto sia il migliore tra noi. Dovranno essere volontari. Siamo d’accordo?»
Derdran annuisce. A un suo cenno, uno dei suoi attendenti fa per slanciarsi fuori, ma Kagan lo richiama prima che esca. «Aspetta un momento. Derdran, sappiamo entrambi che vorranno venire tutti con te per salvarlo. Non più di trenta, siamo intesi? Non possiamo rischiare di più. Mi pare già un rischio sufficiente mettere a rischio la tua vita e quella di Link. E fammi consegnare un arco, prima di partire» aggiunge alzandosi stancamente. «Non credo che verremo attaccati nel corso della notte, ma almeno, se dovesse accadere, potrò rendermi utile anch’io.»
«Ma, Kagan» protesta Link. Kagan ha tutto fuori che l’aria di un guerriero, e l’idea di saperlo combattere lo preoccupa. «Ieri sera, Revali ha detto…»
«Che non colpirei neanche una roccia ferma?» Malgrado la stanchezza, l’angoscia, malgrado il dolore e la responsabilità che grava su di lui come colonne posate sulle sue spalle, Kagan trova ancora sufficiente ironia, dentro di sé, da strizzargli l’occhio. «Se non sbaglio, Revali diceva anche che tu sei un guerriero piuttosto mediocre, quando ha accettato di pilotare Medoh. Davvero non hai ancora imparato a non credere ciecamente a tutto quello che dice quel borioso di tuo marito?»
Kagan riuscirebbe a farlo sorridere ovunque, persino in questo momento. Chissà perché sono le sue parole, più delle supposizioni di Impa, più dei piani di Derdran, che gli fanno sentire in fondo al suo petto che forse c’è ancora speranza, e a Kagan non sfugge l’ombra del suo sorriso. S’inchina in direzione di Zelda, ma poi, proprio prima di uscire, si sofferma un momento. Sembra cercare le parole.
«Se è vivo, so che ce lo riporterai» dice. «Buona fortuna.»
 
Avanzano nella neve in cui affondano fino alle cosce col vento che sferza loro gli occhi, alla luce delle fiaccole: arcieri Rito planano sopra di loro portando torce accese; la lunga notte di Hebra si spalanca attorno a loro sconfinata. Si inerpicano attraverso la valle quasi alla cieca: il vento ulula rimbombando contro le creste rocciose, spolverando neve tutta addosso a loro. Derdran lo guida nel buio come se li conducesse in piena luce, sembra conoscere persino le rocce, i punti in cui la neve è infida e cedevole.
«Mi pare d’intuire che non è solo per principio che hai rifiutato la grazia, quindi» dice Impa a un tratto porgendogli la mano per aiutarlo a salire. Ha risparmiato fiato per tutto questo tempo per riuscire a chiedergli questo.
«Che cosa intendi dire?» chiede Link afferrando la sua mano senza incontrare i suoi occhi.
«Hai davvero bisogno che te lo dica?» Link non risponde, allora Impa parla ancora mentre scivolano lungo un crinale sulla neve fresca. «Lo prenderò come una conferma, comunque. Tutto sommato ho sempre pensato che sareste stati bene insieme.»
Se ci fosse tempo per fermarsi, adesso Link si fermerebbe ed esclamerebbe: «Anche tu?» Ma tempo non ce n’è, e Link deve accontentarsi di fare la stessa domanda arrancando in avanti, ancora avanti, col vento freddo che gli fustiga il viso.
«Anche io?» chiede Impa. «Perché, chi altri?»
«Lelek» risponde Link sentendosi avvampare fino alle orecchie. «Ma tu, da cosa…?»
Per un po’ Impa cammina soltanto, ansimando, e non risponde. Riprende fiato.
«Diciamo che era molto difficile venirti a trovare nella tua tenda in quei giorni a Hebra senza imbattersi in Revali. E poi, quando si è parlato di chi avrebbe dovuto sposarti, quel giorno… mi è sembrato piuttosto pronto a offrirsi volontario. Ho reso l’idea?»
Poiché non è sicuro di cosa potrebbe dirle, Link non risponde. Senza fermarsi, Impa gli batte sulla spalla e indica qualcosa al di sopra di loro. È l’enorme sagoma di Medoh, luminosissima sotto la luna e nell’albedo della neve, avviluppata nei viticci neri e vischiosi della Calamità; Link non vorrebbe guardarla perché è troppo dolorosa, ma segue ugualmente la direzione della mano di Impa, perché lei sta attraversando Hebra a piedi per lui.
Quando alza lo sguardo, Medoh è illuminato da luci improvvise come lampi in lontananza.
«Sono frecce esplosive» dice Impa. «Sta combattendo, Link. È ancora vivo.»
Derdran deve aver visto quello che hanno visto loro, perché cala dall’alto abbassandosi bruscamente di quota.
«Ci siamo quasi» annuncia. «Vedo delle esplosioni su Medoh. C’è ancora qualche speranza. Ancora pochi minuti e vedremo gli sfiatatoi di cui vi ho parlato. Può darsi che ci sia bisogno di far saltare le rocce con…»
«Capitano!» urla in quel momento un arciere. C’è del panico nella sua voce. «Lynel!»
Derdran non perde tempo. Batte le ali riprendendo quota per guadagnare visibilità e grida: «Quanti?»
«Non siamo sicuri. Almeno una decina. Vediamo solo le punte delle frecce elettriche nel buio…»
Derdran osserva qualcosa, oltre la collina, che a loro non è dato vedere: Link e Impa lo osservano quasi senza osare respirare. Un attimo dopo, Derdran plana in silenzio su di loro ed esclama con voce soffocata: «Questa non ci voleva, ma non importa. Me lo aspettavo. Li tratteniamo noi. Voi andate.»
Non è una novità, o meglio non dovrebbe esserlo: è la guerra, e Derdran li ha accompagnati apposta perché nulla potesse rallentarli; ma Link esita ugualmente. «Derdran…»
«Revali è lassù da solo. Noi siamo trenta» ribatte Derdran. La sua voce è inflessibile e fiera. «Abbassatevi e correte verso gli sfiatatoi. Link, porgerai tu le mie scuse a Revali?»
Se quello vuole essere un ultimo addio, Link non ha alcuna intenzione di permettergli di farlo. Sostiene il suo sguardo.
«Non è che stai facendo quello che si sacrifica perché hai una gran paura di Revali, e non vuoi scusarti di persona, vero?»
«Non negherò né confermerò le insinuazioni» lo rimbecca Derdran sfoderando il suo arco. «Ora state bassi e andate.»
Non c’è tempo per giocare a fare gli eroi e a chi si sacrifica più degli altri. È la guerra. Impa lo afferra per mano e scivola nella neve con la schiena curva, silenziosa come una Sheikah, senza sollevare più fruscio del vento. Link la segue camminando nelle sue impronte.
Non c’è bisogno di vedere gli sfiatatoi di cui parlava Derdran per riconoscerli al buio: d’improvviso all’apertura della valle li accoglie una ventata gelida che li colpisce in piena faccia mozzando loro il respiro. Derdran aveva ipotizzato che una frana potesse averli coperti, ma non si direbbe, e l’aria che si leva da terra è intensa abbastanza da sollevare le loro paravele: solo di fronte a loro, quasi al centro della distesa di roccia friabile e irregolare che ricopre il terreno, si eleva un masso enorme, gigantesco, crollato forse dalla cima dei monti. Medoh è ancora visibile: se le correnti sono abbastanza forti, riusciranno a sollevarsi a sufficienza da poter planare fino al suo interno; altrimenti sarà stato tutto inutile.
Impa respira affannosamente per riprendere fiato mentre slega in fretta la paravela che porta legata sulla schiena, alla maniera della sue gente, e mormora: «Link, non sappiamo che cosa troveremo quando saremo su. Non so cosa stia tenendo prigioniero Revali, ma…»
La voce le muore in gola, i suoi occhi si fanno più larghi d’improvviso: Link non ha neppure bisogno di seguire il suo sguardo per capire.
Quello che hanno di fronte non è un masso. È un hinox, e si sta alzando in piedi.
Impa non perde tempo, i suoi riflessi sono più rapidi della sua voce. Le sue mani scivolano dalle sue spalle ai suoi fianchi senza che Link riesca neppure a seguirne i movimenti, quando torna a vederle impugnano i suoi pugnali, e spingendolo in direzione del vortice d’aria che si leva da terra Impa grida: «Lo trattengo io, tu vai! Salva Revali e poi riconquistate Naboris.»
Link incespica sulle rocce friabili con la paravela in mano e una protesta sulle labbra; non vuole lasciarla sola, usare anche lei come un ponte per arrivare a Revali: è questo che costa la salvezza? L’hinox torreggia su di loro levando un ruggito, Link porta suo malgrado la mano all’elsa della Spada: può aspettare, può combattere con lei, e questo non perché creda nella sua forza, ma perché non è disposto a sacrificarla; ma Impa si schiera di fronte a lui come se lo proteggesse col suo corpo. Le sue dita si muovono già rapidissime a formare complessi simboli Sheikah.
«Link, vai, o perderai Medoh!»
«Impa…»
Voltandosi appena verso di lui al di sopra della spalla, Impa sorride. Il suo volto è serio eppure del tutto privo di paura. «Quando mi ricapita di poter rinfacciare a Revali che mi deve la vita?»
Link solleva la paravela e l’aria lo strattona verso l’alto minacciando di slogargli una spalla.
Si eleva nell’aria gelata a una velocità vertiginosa. L’occhio enorme dell’hinox segue i suoi movimenti stupidamente, pieno di stupore, ma il vento lo porta rapidamente sempre più in alto: Link sente il sibilo di un proiettile, forse di un sasso, saettargli accanto mancandolo di almeno un paio di metri. Un istante dopo, un boato sotto di lui lo informa che Impa ha appena fatto ricorso a una delle sue tecniche Sheikah, l’hinox ulula sotto la luna e l’onda d’urto di un’esplosione lo trascina nell’aria aggrappato alla paravela. Medoh pare avvicinarsi vertiginosamente nella brusca accelerata: le sue pareti sono ricoperte da lunghi viluppi neri, vischiosi, e Link riesce a evitarli solo contraendo le gambe contro il petto; ma non ci sono più esplosioni né luci, si accorge con orrore. Sente il panico dentro di lui risalire il suo petto in grandi ondate pulsanti: il Colosso è immobile e silenzioso, ora. Non c’è più segno di combattimento.
Ricade all’interno di Medoh rotolando più volte sul pavimento duro e si rialza all’istante guardandosi attorno. Il suo petto si alza e si abbassa freneticamente, i suoi occhi si abituano alla strana luminescenza all’interno del Colosso; vorrebbe gridare, chiamare il suo nome, ma l’addestramento è più forte del suo istinto. Non grida: non ce n’è bisogno.
Revali è di fronte a lui. È appoggiato contro una parete, tenendosi con la mano una grande ferita sotto l’ala: Link sente il sangue pulsare all’interno delle sue orecchie, ronzare; Revali è vivo, contro ogni speranza; ma non è solo.
In ginocchi accanto a Revali c’è un Rito alto, dalle piume pallide del colore del marmo, che Link non ha mai visto. È curvo su di lui con aria angosciata, ma al suo arrivo si volta bruscamente a guardarlo.I suoi occhi si spalancano per lo stupore.
«Link!» esclama.
Link lo guarda senza capire. È certo di non averlo mai visto, allora come fa a conoscere il suo nome?
Col volto contratto dal dolore, Revali sorride.
«Vedi, Teba?» domanda. Parlare sembra costargli uno sforzo enorme, eppure nemmeno in quella circostanza riesce a resistere al suo sarcasmo. «Te lo dicevo che mio marito sarebbe venuto a darci una mano. In ritardo come al solito, ma non mi aspettavo diversamente…»
«Marito?» chiede lo strano misterioso Rito.
Link decide che avrà tempo dopo per le domande e i dubbi dello sconosciuto. Si china su Revali e gli allontana l’ala dal petto con delicatezza per controllare la ferita: non è eccessivamente grave, ma c’è da sperare che non siano stati coinvolti i muscoli del petto e delle ali, altrimenti, quando dovrà sollevarsi in volo…
«Link, lascia stare» dice Revali con una certa urgenza. Fa fatica a parlare. «Ascolta. Al piano di sopra c’è qualcosa che non ho mai visto. Crediamo sia una sorta di emanazione della Calamità. Abbiamo combattuto finora, ma ci siamo ritirati perché…»
«Ho capito» risponde Link a bassa voce scrutando la ferita. «Me ne occupo io. Tu non ti muovere, siamo intesi?»
«Assolutamente no. Non puoi farcela senza di…»
«Oh, finiscila» sbotta Link, e poiché Revali pare ancora molto propenso a discutere lo bacia a lungo per metterlo a tacere.

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Capitolo 12
*** Ira ***


XII – Ira


Freder guardò in faccia la Morte. Poi disse: “Se tu fossi arrivata prima, non mi avresti spaventato. Adesso però ti prego: rimani lontana da me e dalla mia amata!”
Thea von Harbou, Metropolis


Link si separa da Revali quando sente alle sue spalle lo stridore lungo, raggelante, del grido dell’emanazione della Calamità che li sta cercando. Devono essersi rifugiati qui, nel ventre profondo di Medoh, per dare a Revali il tempo di riprendersi dalla ferita che ha subito; ma neppure quel nascondiglio può durare per sempre. Bene. Tocca anche a lui combattere, adesso: Link si alza in piedi e sfodera la Spada che esorcizza il male. I suoi occhi corrono velocemente sulla stanza vuota attorno a loro in cerca di qualunque cosa possa essergli d’aiuto.
«Mi hai baciato» osserva Revali piuttosto incredulo.
«Evidentemente» risponde laconicamente Link.
Il Rito sconosciuto, che dal suo ingresso su Medoh non ha ancora dismesso quell’espressione attonita ed esterrefatta e che Revali, poco fa, ha chiamato Teba, chiede: «Siete sposati?»
Link decide che può finalmente riservare a questo estraneo sufficiente attenzione da domandare: «Perdonami, ma non mi ricordo di te. Ci conosciamo?»
Teba esita con aria frastornata. «Ecco… è piuttosto complicato da spiegare.»
«Fammi indovinare. Battaglia di Hebra?»
«Oh, andiamo, Link» sbotta Revali. «Quello che Teba sta cercando di spiegarti è che viene dal futuro. Come il guardiano giocattolo della principessa Zelda. Non l’hai ancora capito?»
«Scusa tanto se non ho avuto ore e ore per fare la sua conoscenza mentre attraversavo tutta Hebra a piedi per venire a salvarti» ribatte Link, prima che la sua mente registri ed elabori l’informazione che ha appena sentito. Si volta bruscamente verso Teba mentre, da qualche parte nei visceri di Medoh, l’emanazione della Calamità stride orrendamente di rabbia e di frustrazione per non riuscire a trovarli. «In che senso, futuro?»
Teba ha una mano posata sulla fronte nel tentativo vano di contenere un’incipiente emicrania. «Proprio nel senso di futuro, Link. Non so come altro spiegarlo.»
«Puoi fare una stima?» domanda Revali. «Quanto nel futuro, più o meno?»
«Non ho bisogno di fare una stima, per quello. Nel mio tempo sono trascorsi esattamente cento anni da quando la Calamità Ganon ha attaccato Hyrule.»
Cento anni. Link vorrebbe avere più tempo per concentrarsi su queste informazioni mentre si sporge cautamente lungo una parete per esaminare un corridoio buio. Ha bisogno di farsi un’idea delle eventuali vie di fuga. Avrà tempo dopo per chiedersi come tutto questo sia possibile: comunque, il piccolo guardiano è arrivato nel passato in un modo o nell’altro. Non è poi tanto sorprendente che sia successo un’altra volta. «Cento anni nel futuro? Quindi io e te non ci conosciamo.»
«A dire il vero, sì. Tu sei ancora vivo nel mio tempo.»
«Col mio stile di vita, la cosa mi sorprende» osserva Link solamente. «Non ho mai pensato di diventare vecchio.»
Teba esita. «Non ho mai detto che tu sia diventato vecchio. Cioè… non per ora, almeno. È complicato.»
Link aggrotta la fronte senza rispondere perché non riesce proprio a immaginare cosa intenda questo misterioso Rito.
«Io sono morto, invece. Vero?»
La domanda giunge calma e priva di emozioni come se Revali si stesse limitando a enunciare l’unica deduzione plausibile con le informazioni a sua disposizione. Teba lo guarda senza rispondere, allora Revali si raddrizza contro la parete cercando una posizione in cui continuare a tenere premuta la ferita sotto l’ala. «Non hai bisogno di risparmiarmelo, Teba, ma ti ringrazio della tua cortesia. Era piuttosto evidente quando mi hai visto e hai esclamato: maestro Revali, siete ancora vivo? Saresti veramente un pessimo bugiardo, lasciatelo dire.»
«Sì, però…» Teba si guarda intorno cercando le parole per quello che deve dire. «Nel mio tempo voi siete morto su Medoh all’avvento della Calamità. Non è andata come sta andando adesso. È possibile che col mio arrivo le cose stiano in qualche modo cambiando?»
«Probabile, direi» risponde Revali. «Ma se nel tuo tempo sono morto, come mi hai riconosciuto?»
Teba spalanca le braccia. «Non lo so, maestro. Mi sono trovato qui su Medoh, e… Voglio dire, tutti sappiamo come siete fatto. I nostri guerrieri vi venerano ancora.»
Revali gli scocca un’occhiata divertita. «Hai sentito, Link?»
«Per l’amor del cielo! C’era bisogno di dirgli che avete fondato una sorta di culto?» protesta Link alzando gli occhi al cielo. «Non ti sembra già abbastanza pomposo e pieno di sé così com’è ora?»
«Non lo so, Link. Potrei sempre peggiorare» commenta Revali sogghignando.
«Risparmiami» mormora Link osservando un punto cieco dietro una parete.
Teba torna alla sua domanda. «Quindi, questa storia che siete sposati…»
«Non lo siamo nel tuo tempo?» chiede Link. «O quantomeno, io non ti ho mai detto di esserlo, o…? Non so neppure cosa chiederti.»
«Tu, nel mio tempo, hai perduto ogni memoria di quello che sta accadendo in questo preciso momento» risponde Teba. «E a dire il vero neppure nelle nostre storie e nelle nostre leggende ho mai sentito dire che né tu né il maestro Revali foste sposati, tantomeno tra di voi. Però devo dire che questo spiegherebbe molte cose.»
Quali cose?, sta per chiedere Link; ma è destinato ad aspettare ancora un bel po’ prima di scoprire che cosa spiegherebbe il suo matrimonio.
Con uno stridore inascoltabile, perforante, acuto, appare l’emanazione della Calamità. È orrenda: è un mostro che appare fatto della stessa sostanza nera, vischiosa, della corruzione che ha contaminato Medoh; non è bestiale né antropomorfa, è pericolosa e incostante e affamata. È in fondo al corridoio oscuro che si apre nel ventre di Medoh, ma li ha sentiti, ed è mortalmente rapida: Link indietreggia nella stanza per proteggere Revali e domanda a bassa voce: «Teba, posso contare su di te?»
Teba sfodera il suo arco e avanza di un passo. «Certo, Link. Come l’altra volta. Cioè… oh, lascia perdere. Te lo racconterò poi.»
Revali si alza appoggiandosi alla parete e imbraccia l’arco malgrado le ferite: la punta delle sue dita trema appena per lo sforzo. Con lo scudo parato, la spada in pugno, Link scivola di lato fino a proteggerlo col suo corpo. «Resta fermo» sibila. «Me ne occupo io. Tu comprimi la ferita e resta dove sei.»
«Link…»
«Maestro, vi prego» insiste Teba. «Lasciate che ci occupiamo noi dell’Ira. Voi siete già rimasto ferito.»
Qualcosa nel tono in cui lo dice lo informa che Ira è il nome della cosa orrenda, mostruosa, che in questo momento sta risalendo il corridoio per venire a ucciderli. «L’avete chiamata voi due così?» chiede Link. Parlare è un modo come un altro per spezzare la tensione. «Significa qualcosa nel tuo futuro?»
«No» risponde Teba schierandosi al suo fianco con gli occhi rivolti verso lo sbocco del corridoio. «È solo che ci è sembrata molto arrabbiata.»


L’Ira stride facendo irruzione nella vasta sala con una rapidità maggiore di quella che Link ha visto fino a quel momento. Ha una testa orrenda, semiumana, coronata da una chioma selvaggia che pare fatta della stessa sostanza vischiosa che Link ha imparato ormai ad associare alla Calamità, e osceni occhi vitrei come quelli dei guardiani. Ha appendici asimmetriche dove dovrebbe aver le braccia: una di esse è una bocca da fuoco. Link ha appena il tempo di elaborare questo pensiero quando l’Ira la solleva contro di lui e Teba grida: «Giù!»
Link ha imparato abbastanza in fretta a buttarsi giù senza fare domande quando sente urlare giù, e probabilmente non sarebbe qui se non lo avesse imparato il suo secondo giorno nell’esercito; ma dietro di lui c’è Revali. Link si ripara dietro lo scudo da una serie di proiettili luminosi che esplodono a contatto contro lo scudo facendogli tremare il braccio: la situazione si sta chiarendo rapidamente nella sua mente ogni secondo che passa. Non possono combattere lì dentro, dove le esplosioni minacciano di coinvolgere loro più del nemico; ma non può nemmeno lasciare Revali da solo, e non solamente perché è ferito, ma perché è certo che potrebbe fare qualcosa di tremendamente stupido altrimenti.
«Cerco di attirarlo fuori!» urla rivolto verso Teba, che è rotolato al suolo a pochi metri da lui. L’Ira si sposta rapidamente nella sala per minimizzare il rischio d’essere colpita, e questo gli dà qualche secondo per ripensare una strategia. «Puoi restare tu con Revali?»
Teba sembra comprendere la sua strategia senza bisogno di parole, ma scuote la testa. «Io posso sfruttare l’altezza!» risponde. «Lascia andare me.»
«Link…» inizia Revali in tono di ammonimento, col volto contratto dal dolore; ma Link non ha la benché minima intenzione di starlo a sentire. Se l’Ira sparerà un’altra volta, non è certo di poter difendere Revali, e ha lasciato indietro già troppi guerrieri per salire quassù a salvarlo: ora deve fare la sua parte. Cerca il contatto visivo con Teba per l’ultima volta per accertarsi che abbia capito, a prescindere che sia o meno d’accordo, e Teba esita e infine annuisce.
Non si volta a guardare Revali perché non vuole vedere la sua espressione. Link si abbassa dietro lo scudo e corre verso il corridoio scuro che porta al di fuori della sala mentre l’Ira di Ganon lo insegue con colpi che esplodono sulla sua scia come bombe e Teba si para di fronte a Revali per proteggerlo.
Link percorre il corridoio correndo con l’Ira che lo insegue stridendo: il suo piano ha funzionato. Quest’emanazione mostruosa non ha intelligenza sufficiente da comprendere il concetto di strategia; ma questo è tutto il vantaggio che gli rimane. Una volta fuori, sarà da solo, in un campo aperto e sterminato, privo di ogni riparo, contro di lei.
La larga schiena di Medoh, coperta di muschio, è spazzata dal vento e da alterne correnti ghiacciate che gli mozzano il fiato non appena si ritrova all’aperto: a quest’altezza non nevica neppure più, piovono solo cristalli di ghiaccio sottili che gli frustano le guance. L’umidità dell’aria si condensa nel suo respiro e sulle sue ciglia, gli occhi gli bruciano nel vento: si sforza di battere le palpebre con regolarità e di tenerli aperti nell’aria ghiacciata.
Continua a correre per la lunghezza delle grandi ali sapendo di venire inseguito: volta solo il capo sulla spalla, senza fermarsi, per guardare dietro di sé. All’esterno l’Ira di Ganon pare gonfiarsi a dismisura, ingigantirsi, come se potesse adeguarsi allo spazio a disposizione, si fa immensa: ma Link non perde neppure tempo ad avere paura. In battaglia non ricorda d’averne avuta mai. Accelera fino a mettere la maggiore distanza possibile tra sé e la bestia, poi si volta di scatto a metà dell’ala che gli appare sterminata, incocca una freccia esplosiva nell’arco Aquila e scocca mirando al vitreo occhio osceno dell’Ira.
L’onda d’urto dell’esplosione è forte a sufficienza da sbalzarlo in avanti di qualche metro: Link ne sente tutto il calore sul volto e sulle mani. È lontano a sufficienza da non bruciarsi. Quando alza lo sguardo facendosi schermo con lo scudo, l’Ira ulula impazzita di rabbia e di dolore. L’esplosione le ha portato via l’occhio azzurro da guardiano: è cieca, ora. A lui invece rimangono una decina di frecce esplosive.
Proprio perché è cieca l’Ira di Ganon solleva il suo braccio armato e spara alla cieca ovunque, anche verso di lui: Link si rannicchia dietro il suo scudo massiccio, enorme, e lo sente tremare e gli strati sovrapposti di legno e di ferro incrinarsi in profondità: tra poco sarà inutile, e il meglio che potrà fare sarà gettarlo addosso alla bestia per prendere tempo, forse; per il momento, va ancora bene; ma sparando alla cieca, prima o poi l’Ira lo colpirà.
D’un tratto sente, da qualche parte sul dorso di Medoh, sente il ruggito dei misteriosi meccanismi di Medoh che ruotano e scivolano gli uni sugli altri per aggiustarsi in risposta a oscuri comandi. Il Colosso non sbanda più alla deriva in preda alle correnti, cessa di solcare il cielo di Hebra sterminato che s’imbianca nella luminescenza lattiginosa dell’alba; ma è un altro il rumore che ha sentito. Corre in direzione del dorso centrale di Medoh scandagliando la sua mente per cercare di ricordare com’è che fa a conoscere quel rumore e perché sa di doversi dirigere proprio là.
Revali non riesce proprio a dargli retta e a lasciar fare a lui. Dev’essersi trascinato ai comandi di Medoh, malgrado le ferite, e ha aperto le vaste griglie dalle quali provengono fiotti d’aria che si elevano come dagli sfiatatoi del Volodromo. Gli viene quasi da ridere, e forse riderebbe se Revali non fosse ferito e un’emanazione della Calamità non lo stesse inseguendo alla cieca come un segugio privo di occhi e di fiuto: senza saperlo né volerlo, Revali lo ha allenato per mesi a fare quello che deve fare in questo momento.
Link spiega la paravela e si eleva al di sopra della vasta schiena di Medoh nel vortice che lo strappa bruscamente da terra mentre l’Ira cerca affannosamente nell’aria il rumore dei suoi passi che si è spento d’improvviso. Spara ancora rivolgendo il braccio verso terra: i proiettili esplodono al suolo provocando onde d’urto che lo fanno oscillare nell’aria: finora lo ha visto correre, realizza Link. Di certo non si aspetta che possa volare: ma se ne accorgerà presto.
Scocca la seconda freccia esplosiva lasciandosi cadere dall’alto come ha fatto al Volodromo per tutti questi mesi: l’arco Aquila si piega sotto le sue mani docile come burro, la forma orrenda dell’Ira di Ganon si delinea di fronte ai suoi occhi come se il tempo rallentasse soltanto per lui, la freccia solca l’aria e colpisce l’emanazione sull’appendice che termina in una bocca da fuoco; poi l’esplosione erutta come un fiore di fuoco.
Link non aveva calcolato che precipitando dall’alto si sarebbe avvicinato all’esplosione molto più rapidamente di quanto gli fosse prevedibile o auspicabile. L’onda d’urto stavolta lo investe in pieno travolgendolo, la fiamma lo accieca e il boato lo assorda per un momento, e Link si ritrova sbalzato indietro e impatta contro il suolo riuscendo a stento a proteggersi il capo con le braccia.
Rotola più volte senza vedere né sentire nulla, certo che ora l’Ira lo sentirà, lo colpirà, che non ha modo di difendersi finché non tornerà a vedere o a sentire dopo l’esplosione: sbatte le palpebre furiosamente per recuperare la vista, ma i suoi occhi non vedono altro che chiare forme luminose, colorate, come dopo aver fissato troppo a lungo il sole, e le sue orecchie sentono solo un ronzio indistinto e confuso che dev’essere lo strillo acuto e insostenibile dell’Ira di Ganon mutilata che urla di dolore. Si solleva in ginocchio riparandosi gli occhi col gomito per sforzarsi di vedere qualcosa, qualsiasi cosa, che possa fornirgli un riparo o un rifugio anche per un istante solamente: ma riparo o rifugio non ce n’è. Conosce la larga distesa della schiena di Medoh, ormai: non c’è niente dietro cui nascondersi. Annaspa alla cieca con le dita cercando il suo scudo, ma non lo trova: dev’essere caduto da qualche parte, lontano da lui. Può soltanto restare in piena vista, pregando che l’Ira di Ganon impieghi più di lui per riprendersi dal colpo: non può vederlo, ma può ancora sentirlo, forse, e Link è consapevole che il suo petto si alza e si abbassa rapidamente e che sta boccheggiando in cerca d’aria. Se lo sente, è la fine. Dopo dovrà pensarci Teba.
D’improvviso l’aria sembra tremare di un’altra esplosione, stavolta più lontana; il gomito che Link aveva già sollevato contro gli occhi lo ripara a sufficienza: al di sotto di esso, sbattendo le palpebre, Link si sforza di vedere qualcosa. Teba si è frapposto tra lui e l’Ira di Ganon e la sta tempestando di frecce: il mostro è a terra, è cieco, mutilato, eppure si muove ancora. Le frecce penetrano nelle sue carni con suoni orrendi, disgustosi, che attraversano il ronzio che copre le sue orecchie, come se si trattasse di una materia marcescente.
Lo intravede a malapena attraverso le grandi macchie di luce che si dilatano ai margini del suo campo visivo. Link si alza in piedi e sfodera la Spada che esorcizza il male, stancamente, e arranca attraverso Medoh; è costretto a sorreggersi alla Spada. La lama emette una luminescenza azzurrina nel chiarore dell’alba: forse il Grande Albero gliene aveva parlato, ma adesso non ricorda. Grida: «Teba!»
Teba china lo sguardo su di lui e comprende quello che sta per fare: forse è vero che si conoscono già, nel futuro, quantomeno, e che hanno combattuto insieme. Abbassa l’arco per non rischiare di colpirlo inavvertitamente, ma continua a tenere sotto tiro l’Ira che agonizza al suolo.
Link solleva la Spada e ne conficca la punta nel cuore dell’Ira di Ganon. La sospinge con tutto il proprio peso, affondandola nella carne repellente dell’emanazione, che che si dissolve come nebbia stridendo di dolore.


Si lascia cadere in ginocchio, col petto che annaspa in cerca d’aria freneticamente ma un po’ più piano, e domanda: «Dov’è Revali?»
Gli sanguinano le braccia là dove hanno impattato col suolo per proteggergli il capo e il collo, ha le mani tremanti per lo sforzo di aggrapparsi alla paravela, le orecchie che a poco a poco tornano a sentire senza ronzii né fischi; ma va bene, dice a se stesso rapidamente. È stato peggio, s’è fatto di peggio. È vivo, Revali è vivo anche se ferito; va tutto bene.
Teba plana al suo fianco per aiutarlo, riponendo l’arco. Usa un arco Falcone, nota Link in modo quasi inconscio: ne ha usato uno anche lui, più piccolo, mentre si allenava al Volodromo.
«L’ho lasciato ai comandi di Medoh. Non sono riuscito a convincerlo a riposarsi ancora» ammette. «Mi dispiace. Sono riuscito soltanto a costringerlo a restare al piano di sotto.»
Link scuote il capo. L’aria riempie i suoi polmoni a grandi boccate. «Hai fatto anche troppo. Non so cosa ricordiate di lui da dove vieni tu, ma non è facile averci a che fare. Non pensavo che sarebbe rimasto giù.»
Quando leva gli occhi su di lui, Teba lo sta osservando in silenzio.
«È così strano incontrarti nel passato» dice in fretta per giustificarsi quando si accorge del suo sguardo. «Non mi sembra vero. Anche nel futuro abbiamo combattuto insieme per liberare Medoh, cioè… combatteremo. Non lo so più» si schermisce nervosamente, e per mascherare il suo disagio e il suo nervosismo gli porge la mano per aiutarlo a rialzarsi. Link l’afferra volentieri perché non è sicuro che sarebbe in grado di rimettersi in piedi altrimenti.
«Andiamo giù» dice. «Dobbiamo salvare Urbosa, ma vorrei che Revali riposasse alla roccaforte di Hebra e si facesse visitare da un medico. Urbosa è…»
«So chi è Urbosa» lo interrompe Teba. «E anche gli altri Campioni. Non hai bisogno di spiegarmi niente, Link. Non preoccuparti. Non ho idea di cosa stia succedendo, ma dimmi come posso aiutarti e lo farò.»
Link annuisce senza neppure sforzarsi di capire perché sente che sarebbe impossibile. «Dovrai spiegarmi tutto, più tardi» lo avverte mentre scendono nel ventre profondo di Medoh. «Com’è il tuo futuro, e tutto il resto.»
«Non sono sicuro che tu lo voglia sapere» risponde Teba cupamente. «E comunque, inizio a sospettare che sia molto diverso. A cominciare dal vostro matrimonio, cioè.»
«Non è proprio un vero matrimonio» si sente in dovere di specificare Link, perché gli pare disonesto non dirlo: in fin dei conti, non lo è, e gli pare giusto che Teba lo sappia, se devono combattere insieme.
«Lo so. Non preoccuparti. L’avevo capito.»
«Davvero?» chiede Link. Per un attimo prova all’altezza della bocca dello stomaco qualcosa di molto simile alla delusione.
«Certo. L’ho capito subito quando la prima cosa che hai fatto quando hai visto che era vivo è stata infilargli la lingua in bocca.» Link si sente avvampare fino alla punta delle orecchie e apre la bocca per protestare. La richiude piuttosto in fretta quando si accorge che non ci sono tante obiezioni possibili di fronte a questa osservazione. Teba sorride benevolmente. «Il maestro Revali non ha parlato che di te tutto il tempo. Anche quando stavo per cedere continuava a esortarmi dicendomi che suo marito sarebbe arrivato ad aiutarci. Sebbene io debba ammettere di aver pensato che le sue fossero allucinazioni dovute alla stanchezza» aggiunge. «Non ho mai saputo che il maestro Revali fosse sposato. Tantomeno con te.»
Link è lieto che la loro conversazione sia finita prima che arrivino nella sala dei comandi di Medoh. Revali è ancora in piedi, appoggiato contro il nucleo di controllo del Colosso Sacro; ma ha il volto contratto dal dolore, e Link vorrebbe disperatamente poterlo costringere a dargli retta e a lasciar fare a lui e a riposarsi, una buona volta, e a badare alla sua ferita.
«Ti avevo detto di stare fermo e di comprimerla» gli dice con rabbia.
«Certo. E tu sai quanto io tenga sempre nella massima considerazione la tua opinione» risponde Revali. «Ho pensato che ti facesse comodo un po’ d’aiuto. Che senso avrebbe avuto altrimenti insegnarti a maneggiare il mio arco se non potevi sollevarti con quella tua paravela?»
«Me la sarei cavata anche da solo» borbotta Link, che non è affatto sicuro che sarebbe ancora vivo se Revali non avesse attivato i getti d’aria sul dorso di Medoh; ma l’ego di Revali è già sufficientemente ben nutrito senza che ci sia bisogno di fornirgli ulteriore materiale. Lo trascina a sedere contro una parete per controllare di nuovo la ferita: Revali lo lascia fare senza agitarsi troppo. Non sanguina più molto, ma tutto il piumaggio del busto di Revali è intriso di sangue secco, scuro: deve averne perduto molto. «Ora mi farai il piacere di stare fermo e lasciar fare a noi? Dobbiamo invertire la direzione di Medoh e riportarlo alla roccaforte di Hebra. Voglio che ti visiti un medico.»
«Avete evacuato, quindi» dice Revali. La sua voce ha perso ogni accenno del suo sarcasmo di prima. «Ci sono stati…»
«Stiamo tutti bene» lo interrompe Link. «Dovresti avere più fiducia in Kagan, sai? Se l’è cavata benissimo da solo. Non che io sarei stato di molto aiuto, comunque. Ha dovuto preoccuparsi anche di me.»
«Cos’è, sei affondato nella neve?» chiede Revali scompigliandogli i capelli. «Come i pulcini?»
«Avevo paura per te» risponde Link guardandolo negli occhi, e questo basta a metterlo a tacere per qualche secondo. «Bene. Puoi stare seduto qui e dirci cosa fare per pilotare Medoh? Dare ordini e insegnare agli altri cosa fare è una cosa che ti è sempre riuscita bene, mi pare.»
«Tutto mi è sempre riuscito bene, se è per questo.» Revali si raddrizza contro la parete. «Ma non è così semplice. Non ti ricordi che abbiamo fatto decine di voli di calibrazione con la principessa? Non basta premere un pulsante.»
«Lo so, ma non abbiamo tempo» insiste Link. «Dobbiamo salvare Urbosa, liberare Vah Naboris.»
«Anche lei, dunque» mormora Revali, e Link comprende senza bisogno di dirle le implicazioni delle sue parole: fino a quel momento aveva pensato d’essere il solo dei Campioni a essersi lasciato cogliere impreparato.
Posa una mano sulle sue ali e mormora: «Tutti gli altri. Non so se riusciremo a salvarli, ma dobbiamo almeno provare. Non possiamo soltanto lasciarli.»
«E la principessa?»
«È salva. Impa l’ha condotta alla roccaforte di Hebra con la tavoletta Sheikah, poi ha accettato di accompagnarmi qui. Tu sei il primo che abbiamo liberato.»
«Allora avete sbagliato. Avreste dovuto salvare prima Mipha oppure Urbosa» conclude Revali alzandosi. Link vorrebbe picchiarlo, ma Revali si trascina di nuovo ai comandi. «I loro poteri avrebbero potuto esserci più utili in battaglia. Io avrei fatto così. E comunque Impa dov’è?»
L’impulso di picchiarlo si sta facendo sempre più forte ogni istante che passa. Se Link si trattiene, non è perché Revali è ferito: è perché Teba li sta osservando dal fondo della sala, profondamente imbarazzato, sforzandosi in ogni modo di far finta di non esistere e di non star assistendo a un litigio coniugale.
«Scusami se il mio primo pensiero è stato quello di salvare mio marito. Se questo è il ringraziamento, la prossima volta ti lascerò qui, allora. Va bene?» Revali si china sui comandi senza neppure rispondere. «Impa è rimasta a terra con Derdran per darmi il tempo di salire su Medoh.»
Questa volta Revali non può fare a meno di voltarsi. «Derdran?» ripete con profondo fastidio.
Link vorrebbe provocarlo e farlo ingelosire solo perché è troppo arrabbiato con questo dannato Rito; ma sono in guerra e non c’è tempo di giocare. Si sforza di controllarsi. «Sì, Derdran. Ci ha accompagnati con una squadra di arcieri per farci guadagnare tempo.»
«Ha lasciato sguarnita la roccaforte di Hebra per venire qui?» protesta Revali. «Ma ci sono i vecchi e i bambini, avrebbero potuto…»
«Vorresti per favore essere grato del fatto che ti abbiamo salvato e stare zitto per una volta in vita tua?» urla Link.
Incredibilmente, funziona. Quella è la seconda volta che Revali lo sente urlare, ed è la seconda volta che ammutolisce e non protesta più. Il fatto che la ferita sotto la sua ala scelga proprio quel momento per riprendere a buttare sangue potrebbe concorrere all’ottenimento di questo risultato, perché per un istante Revali vacilla e si appoggia al pannello dei comandi, inspirando profondamente, e Link si precipita a sostenerlo.
«Per favore» mormora. Non c’è più bisogno di urlare. «Per favore, portaci alla roccaforte di Hebra e scendi per farti visitare da un medico. Io e Teba ce la caveremo e salveremo Urbosa, se è ancora viva. Te lo prometto, ma tu devi riposare.»
«Ho già invertito i comandi mentre discutevamo» risponde Revali. La sua voce fuoriesce a fatica, è dura, ma non lo sta respingendo. Lo guarda con pazienza mentre Link si china per l’ennesima volta a osservare la ferita. «Starò bene, Link, ma non posso semplicemente insegnarvi a pilotarlo in mezz’ora. Non funziona così. Devo venire con voi anch’io. È l’unico modo, e Medoh potrebbe esserci utile, comunque.»
«Ma la ferita…»
«Non è così grave come sembra, credo. Butta sangue perché è una zona molto irrorata, ma non credo che siano coinvolti organi né tendini, perché altrimenti sarei morto o avrei smesso di muovere l’ala già da un bel po’. La cosa ti tranquillizza?»
Link riflette rapidamente. Revali ha ragione, come quasi tutte le volte, cosa che non gli dirà mai: hanno bisogno di Medoh per raggiungere Naboris, e hanno bisogno di Revali per pilotare Medoh. Non c’è neppure molto tempo per prendere una decisione: ogni minuto che passa è un minuto di vita sottratto a Urbosa, se ancora è viva e sta combattendo all’interno di Naboris come ha detto Impa.
«Teba» chiama. È la soluzione migliore che gli venga in mente, e, più probabilmente, l’unica. «Sai per caso ricucire una ferita?»


Succede tutto così in fretta che tenerne conto è molto difficile; forse è un bene. Se Link si soffermasse a riflettere su quello che deve fare, sul fatto che gettarsi dall’alto su Naboris, alla cieca, senza sapere cosa vi troverà né se Urbosa sia viva o morta, è una follia, probabilmente non lo farebbe. Se vuole farlo, deve farlo così: alla cieca, senza pensare né riflettere né chiedersi se sia troppo esausto o stanco per farcela; ma non può non provare a salvare anche lei. È stato già sufficientemente egoista da salvare Revali a dispetto di tutto; probabilmente questa è la massima vetta d’egoismo che abbia raggiunto mai in tutta la sua vita; ma ora basta. È ancora l’eroe di Hyrule, e Revali è salvo.
Non ha tempo neppure di pensare. Avvistano Naboris molto presto, dopo neppure due ore di volo: quando è stata attaccata, Urbosa deve aver deviato i comandi della bestia sacra in modo da condurla in mezzo al deserto, dove poteva minimizzare il rischio di arrecare danni; il Colosso ha piegato due delle enormi zampe, quelle del lato di dritta, e quando lo sorvolano è pericolosamente inclinato, circondato da una distesa di sabbia bruciata e semiliquefatta, in parte vetrificata. Naboris è circondato da fulmini: Link non ha bisogno d’altro per saltare, perché fulmini voglion dire Urbosa. Se ci sono fulmini, Urbosa è viva.
Lo accompagna Teba, che è anche l’unica ragione per cui Revali accetta di restare su Medoh a dispetto del suo orgoglio: poi tutto accelera ancora, ulteriormente, fino a non poter tener conto di quanto accade, ancora e ancora. In un certo senso è come tornare su Medoh un’altra volta, e scoprirvi, di nuovo, qualcosa che dovrebbe essere una sorpresa e che proprio per questo non lo è più del tutto: che Urbosa non è sola. Che a salvarla, dallo stesso futuro da cui proviene Teba, è giunta una ragazza Gerudo intimorita e insieme determinata che si rivolge a lei chiamandola grande Urbosa, che non ha idea di cosa sta accadendo ma egualmente farebbe di tutto per salvarla, e che quando lo vede lo riconosce e lo chiama per nome. A quanto pare, Link conosce anche lei nel futuro: gli gira la testa. Va avanti lo stesso perché se si fermasse a rifletterci, a riprender fiato e a domandarsi che cosa accada, quale sia il significato di tutto ciò, non potrebbe più fare quello che va fatto. Avrà tempo dopo per pensare e farsi domande. Urbosa è estenuata ma viva.
Anche quest’emanazione della Calamità è furente e ferina, famelica e implacabile: ha un potere simile a quello di Urbosa, è rapida a tal punto da scomparire dallo spettro del visibile; è armata di spada e scudo ancestrali, simili a quelli che portano alcuni guardiani; Link non si sente sorpreso di vederla. Forse è proprio questa la sua salvezza: che ha già incontrato un’Ira di Ganon su Medoh, che in qualche modo sa cosa attendersi; che non ha più paura. Il suo corpo sembra agire per lui nella stuporosa nebbia di un sogno; ma la lotta è più dura, stavolta, o forse lui è più stanco, gli mancano le forze. Non importa. Non può fermarsi né rallentare.
L’Ira, stavolta, è più rapida e spaventosa. Forse ha percepito, in qualche modo e misura, che è successo qualcosa all’altra emanazione: è furiosa e selvaggia, inarrestabile, e si muove tra loro in una nube di fulmini stridendo come vapore; ma loro, adesso, sono quattro. Teba l’attornia da ogni lato in un nugolo di frecce, attirando i suoi fulmini lontano da loro, e Urbosa e Riju gli girano attorno con le loro lame come se danzassero, lacerando a ogni colpo la sua carne repellente e allontanandosene rapidamente mentre l’Ira cerca in ogni modo di comprendere da quale lato debba difendersi con maggiore urgenza; poi Link affonda nel suo petto la Spada che esorcizza il male appoggiandovisi sopra con tutto il proprio peso come una liberazione.
La corruzione della Calamità impiastriccia le sue mani come un fango nauseabondo e urticante prima di dissolversi nell’aria, ma lui la vede ancora, la sente; forse le sue sono allucinazioni dovute alla stanchezza: non saprebbe dirlo. Non riesce a pensare con chiarezza.
Urbosa lo richiama alla realtà più volte schioccandogli le dita davanti agli occhi per riscuoterlo dal suo istupidito torpore, lo chiama per nome: ma guardandola negli occhi tutto ciò che Link riesce a balbettare è: «Perdonami. Avrei voluto arrivare prima.»
«Link! Ci hai salvate» ripete Urbosa, forse per l’ennesima volta. Gli scosta dagli occhi i capelli intrisi di un sangue che Link non sa neppure più se appartenga a lui o a Revali e mormora: «Stai bene?»
«Devo tornare da Revali» risponde Link senza accorgersi che quella risposta non è affatto adeguata alla domanda. «È ferito. Devo riportarlo alla guarnigione di Hebra.»
«Tu stai bene?» ripete Urbosa, che non è disposta a lasciar correre su quella domanda: i suoi occhi lo percorrono nella sua interezza.
«Sto bene» risponde Link senza sapere se sia la verità.
«E gli altri?» chiede Urbosa a bassa voce. Persino lei ha paura di scoprire la risposta; ma ha il coraggio di porre la domanda guardandolo negli occhi fino in fondo. «Sai se anche loro sono stati attaccati? La principessa Zelda?»
«Zelda è salva. Impa l’ha portata nella guarnigione di Hebra dove ci siamo rifugiati io e gli altri Rito. Io e Impa siamo riusciti a liberare Medoh e Naboris» risponde Link. «Quando siamo partiti, Mipha e Daruk stavano ancora combattendo sui Colossi. Ora non lo so più.»
Urbosa annuisce gravemente col capo. Lo stringe per le spalle. «Link, nessuno poteva fare di più, mi hai sentito? Sei stato costretto a scegliere. Lo sai meglio di me che in guerra si deve scegliere, a volte. Non è colpa tua in ogni caso, sono stata chiara?»
Sì, lo è stata; ma questo, dall’oscura colpa di aver scelto per il suo egoismo, non lo assolverà mai. Posando le mani sui suoi gomiti, sulle sue braccia nude, Link l’attira a sé perché si abbassi verso di lui e dice disperatamente contro il suo orecchio, perché vorrebbe che lei sapesse e lo perdonasse e giustificasse le sue azioni: «Ho scelto Revali perché è mio marito. Perdonami. Proverò a salvare anche gli altri, ma non potevo lasciare indietro proprio lui. Sono stato egoista.»
Urbosa sorride. Torna a districare i capelli dalla sua fronte, dolcemente, e risponde dopo un momento: «Sei stato umano in tutti i modi in cui hai potuto esserlo, Link. A te e alla principessina abbiamo addossato tanta parte del peso del mondo, per così tanto tempo, che a volte temo che vi abbiamo fatto dimenticare che siete umani anche voi, persino voi, e che non potete fare poi molto più di noi…»
Link chiude gli occhi per un istante nelle sue parole perché vorrebbe sentirsene riscattato e redento molto più di così; non si sente assolto, eppure ne ricava un grande calore. Inspira profondamente. A poco a poco gli sembra di tornare nel presente.
«Potete aiutarci a tornare su Medoh?» chiede.
Urbosa sorride stancamente allargando un braccio per presentare la sua nuova amica. Sentendosi chiamata in causa, la giovane Gerudo si avvicina. «Lei è Riju. A quanto pare, viene dal futuro. E ho idea che sia da dove viene anche questo guerriero Rito. Ho indovinato?» Come sempre, Urbosa è molto più intuitiva di lui. Link si limita ad annuire per confermare le sue supposizioni, perché non ha forze né sufficiente comprensione degli eventi per aggiungere altro.
«Ciao, Link» dice Riju nervosamente. «Ho già combattuto con te nel futuro. Abbiamo liberato Vah Naboris anche lì, solo che...»
«Solo che non ci sarà nessuna Urbosa da salvare nel futuro, immagino» conclude Urbosa. Anche lei come Revali ha letto i nondetti nelle parole di Riju, o forse ha soltanto dedotto che, se nessuno forse venuto a salvarla nel presente, se non ci fosse stata una Riju ad aiutarla in un certo momento, non sarebbe sopravvissuta. Riju guarda verso Link come in cerca di un aiuto, ma Link non ne sa più di Urbosa, che non ha bisogno di altre conferme. «Lo immaginavo. Mi racconterai durante il viaggio. Ora aiutiamo questi due gentiluomini a tornare su Medoh, che ne dici?»
Il piano di Urbosa è semplice ed è lo stesso che, in origine, avrebbe voluto adottare Impa: utilizzare l’enorme estensione verso l’alto del lungo collo di Naboris per aiutarli a tornare su Medoh.
«Volete venire con noi?» chiede Link. «Zelda è sui monti di Hebra. Io e Impa torneremo da lei per fare il punto della situazione, e poi…»
«E poi salverete Hyrule» risponde piano Urbosa. «Lo so, ma non posso portare Naboris a Hebra, e devo prima accertarmi che la mia gente sia in salvo. Io tornerò alla Cittadella ad accertarmi che le mie Gerudo stiano bene e cercherò di ripulire il deserto dai mostri. Bisogna anche controllare che gli Yiga non abbiano approfittato della situazione per…» Urbosa esita mentre dentro di sé passa in rassegna tutto ciò che l’aspetta; per un momento sembrano mancarle le forze. «Vi raggiungerò tra tre giorni» promette infine.
Lo stringe a sé per un istante prima di lasciarlo andare; contro il suo orecchio, solo per lui, mormora: «Non sarebbe colpa tua in ogni caso, Link. Ma io so che sono ancora vivi e che tu li salverai.»


Quando tornano su Medoh, Revali riesce a stento a restare ai comandi. Non dice nulla, ma ha il volto contratto dal dolore e dallo sforzo di rimanere in piedi: non lo ammetterà mai, ma deve aver perduto molto sangue.
Rimango io con lui, si offre Teba con gli occhi solamente, tu riposa: ma Link scuote la testa, si siede sul bordo del pannello dei comandi dal quale proprio non ha modo di staccare suo marito e rimane in silenzio a sorvegliarlo con lo sguardo. Contro il suo orgoglio e la sua ostinazione non riuscirà a vincere mai; ma quantomeno non intende lasciarlo. Revali non gli dice nulla, forse perché non ne ha le forze; ma neppure gli chiede di andarsene. Link lo considera un implicito invito a restare. Non dicono nulla neppure del bacio, ma ogni tanto, quasi senza accorgersene, Revali posa una mano sulle sue ginocchia, distrattamente, e la lascia lì per un momento mentre riflette su altro. Sotto di loro si apre una Hyrule contaminata dalla Calamità: dalle vaste aperture sui fianchi di Medoh Link intravede i mostri che dilagano per le campagne e i neri viticci della corruzione ovunque.
Quando giungono in vista della roccaforte di Hebra, non c’è neppure bisogno di avvertire del loro arrivo: una piccola squadra di medici Rito si leva in volo e sale sul Colosso portando delle barelle. A quanto pare, Kagan ha sperato fino all’ultimo di rivederli vivi, ma ha pensato che potessero aver bisogno di aiuto. Forse li conosce anche troppo bene, pensa Link mentre si sforza di convincere Revali che la barella è un male necessario e che non può assolutamente volare finché la ferita sotto l’ala non sarà del tutto rimarginata. Alla fine Revali cede perché non ha forze sufficienti per raggiungere la guarnigione in volo. I medici scrutano Teba con occhi enormi di stupore, ma non fanno domande. Link e Teba, semplicemente, li seguono mentre portano Revali a terra.
Una lunga baracca a nord della guarnigione è stata predisposta come ospedale da campo: quando ne varca la soglia al seguito dei barellieri Rito, Link potrebbe giurare di sentire il suo cuore emanare un lungo sospiro di sollievo. Derdran ha una lunga ferita al sopracciglio, ma è vivo, e sta sorvegliando i ragazzi della sua squadra passando dall’uno all’altro per controllare che stiano bene. Impa non è neppure ferita, quantomeno non gravemente, tranne per alcuni graffi sulle guance e le tempie: non gli chiede niente, lo guarda solamente, e in risposta alla muta domanda che i suoi occhi esprimono Link annuisce soltanto per dirle che anche Urbosa è salva. Il suo volto si rilassa soltanto un poco: hanno ancora tanto da fare, ma almeno due dei Campioni sono salvi.
I barellieri depongono Revali in una zona dell’infermeria appartata, riparata da un paravento, e Kagan, che assai evidentemente non ha dormito da quando li ha salutati, gli si getta al collo strappandogli un grido di dolore. È strano vedere questo mite capovillaggio armato come i suoi soldati, ma è chiaro che ha mantenuto il suo proposito di tenersi pronto a difendere la roccaforte nel caso di un attacco che per fortuna non è arrivato; e ora che finalmente il suo guerriero più amato è tornato, a trattenere il suo sollievo non prova neppure.
«Ti avevo detto di non andare!» gli dice quasi con rabbia, e questo è il modo più chiaro in cui riesca a esprimere tutto il suo sollievo di vederlo vivo.
«Mi stai uccidendo» risponde Revali, districandosi dal suo abbraccio per comprimersi la ferita. Sorride a fatica. «Rito di poca fede. Link è venuto a salvarmi, no?»
«Poteva non arrivare in tempo» insiste Kagan, che non sembra affatto disposto a lasciarsi convincere da così banali argomentazioni. «Poteva morire anche lui. Ho pensato che non ti avremmo rivisto mai più, oppure che…»
«Kagan» lo interrompe Revali a bassa voce. «Lo sapevamo entrambi che poteva andare così. È andata meglio di come poteva andare. Tu, piuttosto, da quand’è che hai ripreso a tirare con l’arco?»
«Non cambiare argomento» lo avverte Kagan. Per fortuna di entrambi, un medico si frappone tra lui e Revali e gli fa cenno di fargli spazio e di lasciargli visitare il ferito, e Kagan è costretto a rivolgere altrove la sua attenzione. È solo adesso che si accorge di Teba. Rimane a osservarlo interdetto per qualche momento, e Link non sa come presentarglielo altrimenti che dicendogli tutta la verità che conosce.
«Questo è Teba, capo» dice. Si sente addosso d’improvviso tutta la stanchezza della marcia nella neve, delle lotte, del viaggio interminabile e sconfortante. Derdran e Impa si avvicinano per ascoltare. «Non so come altro dirtelo. È arrivato dal futuro e ha salvato Revali.»
«Da un futuro nel quale io sono morto» interviene Revali, che evidentemente non è in grado di star zitto e lasciar fare a lui neppure sotto le mani del medico. «Perciò ti consiglio di trattarlo bene, Kagan. Non sarei qui senza di lui.»
Sotto gli occhi di tutti, Teba allarga le ali come a dire che non ha nulla da aggiungere oltre a quello che è stato già detto. Kagan l’osserva in silenzio per un po’.
«Non ci si può più sorprendere di nulla, di questi tempi» constata solamente. «Benissimo. Chiudete le tende e spiegatemi quello che è successo.»


Glielo spiegano al meglio delle loro possibilità: le due Ire di Ganon, l’arrivo di Teba e di Riju da un futuro in cui Revali e Urbosa sono morti all’avvento della Calamità; Kagan ascolta in silenzio senza interromperli neppure una volta.
«Come il piccolo guardiano della principessa Zelda» commenta Impa, perché evidentemente è giunta alle stesse conclusioni cui è giunto Link, e lui annuisce. «Quindi è lecito pensare che, forse, anche Daruk e Mipha…»
«Possiamo sperarlo» dice Link: è tutto ciò cui possono aggrapparsi in questo momento, sperare che anche gli altri Campioni siano stati salvati. Si guardano al di sopra del braciere che scalda la stanza: sono giunti insieme anche a un’altra conclusione condivisa, che devono andare anche da loro. Che non possono semplicemente abbandonarli perché sono troppo lontani.
«Ti bastano tre ore per riposare?» chiede Impa.
Link vorrebbe partire subito, perché il suo riposo è tempo sottratto alla vita di Mipha, alla vita di Daruk, ma Impa ha ragione: in queste condizioni non è in grado di andare da nessuna parte. Deve mangiare, riposare almeno un momento; poi tornerà alla guerra. Annuisce soltanto, e lei si alza, si scusa coi presenti e scivola via dall’infermeria per andare ad avvertire Zelda. Posa solo, per un momento, la mano sulla spalla di Revali, e lui tocca la sua mano per dar segno di averla sentita e per ringraziarla. Parleranno poi.
Kagan sta ancora cercando di assimilare tutte le nuove informazioni che ha ricevuto. Sta guardando Teba come se ancora non credesse alla sua presenza lì.
«Cento anni nel futuro, quindi?»
Teba annuisce seriamente. «Ve lo giuro, capo Kagan. Nel mio futuro, tutti i Campioni sono morti il giorno stesso dell’avvento della Calamità e la principessa Zelda si è sacrificata per tenere la Calamità vincolata al castello di Hyrule finché Link non fosse stato in grado di combatterla di nuovo.»
Kagan reclina il capo sul petto riflettendo ancora. «Ti crederei, ragazzo, davvero. È solo che mi sembra tutto così strano. Sei proprio sicuro che esista un futuro nel quale venerate la memoria di questo stronzo?»
Revali gli scaglia addosso un bicchiere col braccio non coinvolto dalla ferita. «Questo stronzo, per tua informazione, è qui, Kagan. Ed è grazie a lui che tu sei il capovillaggio.»
Teba si sta trattenendo dal sorridere. «Posso giurarvi anche questo. I nostri guerrieri venerano ancora la memoria di Revali e si allenano quotidianamente al suo Volodromo per cercare di superarlo, compreso mio figlio.»
Revali si mette a sedere sulla branda per alzarsi. «Benissimo. Ora che abbiamo parlato a sufficienza del futuro culto della mia memoria, mi pare di capire che ci siano ancora Daruk e Mipha da salvare. Direi che Medoh…»
Link si china istintivamente su di lui per impedirgli di alzarsi in piedi, ma Kagan è più veloce di lui.
«Oh, no, Revali» ribatte fermamente. «Non mi pare di averti dato il permesso di andare proprio da nessuna parte. Fino a prova contraria, sono ancora il capovillaggio, grazie a te, come dicevi prima, quindi mi devi obbedienza. Tu resterai qui finché il medico non dirà diversamente.»
Revali lo guarda quasi con ironia. «Certo, Kagan. Come vuoi. Da quand’è che mi dai ordini?»
«Da adesso» risponde Kagan con calma. «Sei in arresto. Derdran, procedi pure.»
Cala il silenzio per un momento.
«Prego?» esclama Revali mentre, più o meno contemporaneamente, Derdran risponde: «Mi pareva che tu avessi detto di fargli le mie scuse, Kagan. Non è proprio la stessa cosa.»
«Scusati mentre lo arresti» risponde flemmaticamente Kagan. «Non mi interessa. Se questo è l’unico modo per costringere questo dannato testardo a restare in infermeria, lo mettiamo agli arresti e il problema è risolto.»
«Non puoi farlo!» protesta Revali. «Con quale motivazione?»
Kagan scrolla le spalle col massimo disinteresse. «Quella che vuoi. Non sono tenuto a formulare nessuna accusa per i primi tre giorni dal tuo arresto, perciò il terzo giorno ti rimetterò in libertà con tante scuse. Anche prima, se il medico dovesse dare il suo consenso, cosa che non credo darà. Sono stato chiaro?»
Revali non si aspettava questa mossa. Cerca per un po’ qualcosa di valido da obiettare, ma non trova niente: quando torna ad appoggiarsi contro i cuscini con una smorfia di dolore, è quasi ammirato.
«Non pensavo che l’avrei mai detto, Kagan» commenta. «Per questa volta hai vinto tu. Ti basta la mia parola d’onore che non cercherò di scappare o vogliamo soddisfare qualche segreta fantasia di Derdran e ricorrere alle manette?»
Sorridendo forzatamente con l’aria di qualcuno che vorrebbe rispondere in ben altro modo e ben altri toni che quello, Derdran replica a bassa voce: «Posso garantirti, Revali, che tu e un paio di manette nello stesso contesto siete quanto di più lontano io possa concepire da ogni mia possibile fantasia. Se a Kagan va bene, direi che un paio di arcieri di guardia alla porta possono bastare.»
«Mi fido del tuo giudizio» conclude Kagan. «Non divulghiamo la cosa, comunque. Avvisali soltanto che non ha il permesso di uscire, ma che è per la sua stessa sicurezza. Solo coloro che erano presenti qui e la principessa Zelda hanno il permesso di entrare a visitarlo. Evita di menzionare l’arresto, o rischiamo una rivolta. Siamo d’accordo?»
«D’accordo, capo. Comunque farò io il primo turno di guardia. Voglio che i miei ragazzi riposino il più possibile.»
Revali sorride amabilmente nella sua direzione. A quanto pare, visto che gli viene impedito di combattere, intende comunque prendersi qualche soddisfazione. «Quindi passeremo qualche ora insieme, Derdran. Mi è parso di capire che mi dovessi delle scuse, sì?»


Link si ferma di nuovo in infermeria prima di partire. Non s’è veramente riposato: ha mangiato qualcosa, ha chiuso gli occhi qualche minuto, s’è cambiato d’abito, ha preso uno scudo ancora integro, e questo è quanto. Non si può più aspettare; ma vuole salutare Revali, prima di andarsene. Non ha precisamente paura, ma in fondo non è certo che lo rivedrà. I soldati di guardia lo fanno passare senza fare domande: a quanto pare, è agli arresti davvero. Link non può che sentirsi velatamente ammirato dalla risoluzione di Kagan nell’impedire a Revali di ammazzarsi a qualsiasi costo.
Revali sta riposando. Per evitare le oscillazioni delle tradizionali amache Rito, è stato sistemato su una branda rigida in legno ricoperta da un sottile materasso di paglia, che ha il vantaggio d’esser calda e isolante: Link si siede al suo fianco piano, delicatamente, sul bordo della branda, stando attento a non toccare i grandi bendaggi che gli ricoprono il petto, e lo guarda solamente.
Revali apre gli occhi nella penombra e mormora: «Ehi.»
È la prima volta che sono soli da quando è partito: quante ore sono trascorse? Link neppure lo sa più. «Ehi.»
«Tu e Impa state per partire?»
La sua voce è più bassa e più quieta ora che sono soli e che nessuno li ascolta. Link annuisce. «Volevo solo salutarti.»
Revali annuisce per dar segno d’aver capito. I suoi occhi guardano altrove.
«C’è qualcosa che potrei dire per convincerti a restare?»
«Vorresti che restassi?»
«Vorrei che non rischiassi la vita» risponde semplicemente. «Ma non saresti tu se non andassi, immagino. E poi, non possiamo soltanto lasciarli.» La sua voce ha come una vibrazione dolorosa a quelle parole: sta pensando all’emanazione della Calamità, Link lo sente come se gliene parlasse; ma non ne parla e Link non chiede, perché questo dannato Rito è troppo orgoglioso e testardo per abbassarsi a parlarne.
«Immagino di doverti ringraziare, comunque» dice ancora Revali, e Link si riscuote da quei pensieri e domanda: «Per che cosa?»
«Sei venuto a salvarmi, no? Siamo pari, adesso. Avevi tanta paura che non saresti mai stato in grado di ripagare quel fantomatico debito che dicevi di avere con me…»
«Non sarò mai in grado di ripagarlo comunque» lo interrompe Link. «E non l’ho fatto per quello.»
A questo punto, forse Revali dovrebbe chiedere: e allora perché l’hai fatto? Ma Revali non chiede perché è troppo orgoglioso e fiero, e Link potrebbe anche soltanto non dire altro e andarsene, lasciare l’infermeria in una selva di sottintesi e sentimenti impliciti; ma ha già perduto Revali una volta. Ricorda cos’ha provato quando ha visto Medoh in preda alla Calamità e al disastro, la sua disperazione nella neve, infinita, che non trovava fine come la notte, più vasta delle montagne; ha conosciuto il rimpianto, Link, e non ha più intenzione d’esser stupido e imprudente e di lasciare Revali col pensiero che tanto ci sarà tempo, che prima o poi, forse, troverà il coraggio; che prima farà chiarezza dentro di sé e poi glielo dirà. Quella miopia non gli appartiene più perché già una volta ha pensato che fosse stata uno sbaglio e che, se avesse potuto tornare indietro, avrebbe voluto dir tutto prima; e ora appunto gli è stato dato il privilegio di tornare indietro e cambiare le cose. Se in quell’altro futuro c’è un Link che ha perduto Revali, per fortuna, non è lui.
«Sono venuto a salvarti per primo perché ti amo» dice. Gli occhi di Revali si fanno impercettibilmente più grandi nel chiarore del fuoco. «Non ti sto chiedendo di dirmi niente se non vuoi. Quello che dirai tu non cambia quello che provo io, perciò non devi sentirti obbligato a dire lo stesso; ma io so che avrei sacrificato gli altri per salvare te perché ho avuto paura di continuare a vivere ugualmente anche se tu non c’eri più. Vedi bene che le mie motivazioni sono state molto più egoistiche di quello che credevi tu…»
Revali non lo lascia finire perché lo attira a sé e lo bacia. Link sente il proprio cuore fermarsi per un istante.
«Torna da me» mormora Revali contro le sue labbra. «Promettimi di tornare.»
«Lo prometto.» È una bugia, Link non può promettere perché la sua vita, come la sua morte, non gli appartengono del tutto; sono soggette a forze più grandi di lui; ma farà di tutto per tornare, perché morire, dopo aver promesso, significherebbe tradire. «Lo prometto.»
«Link…» C'è un'urgenza nella voce di Revali che Link non ha sentito mai. «Non è detto che li ritroviate vivi, o che sopravvivano se anche farete in tempo ad arrivare. Può darsi che tu e Impa stiate andando soltanto a dir loro addio.»
Link avverte al petto una fitta di dolore che finora si era sforzato d’ignorare. «Lo so.»
«Allora andate prima da Mipha.»
Questo non se l’aspettava: Link lo guarda senza capire. Il piano che ha formulato con Impa prevede già di recarsi prima su Vah Ruta, ma ha la sensazione che Revali, per una volta, non stia parlando di strategia militare. «Perché?»
«Perché…» Revali posa la mano contro la sua guancia. «Non lo ripeterò mai ad altri che a te, ma per un momento, lassù, prima che arrivasse Teba, prima che arrivassi tu… persino io ho avuto paura.»
Link lo sapeva, questo: non risponde. Chiude gli occhi reclinando il capo contro il palmo della sua mano: pensa che sembra fatto apposta per contenere la sua guancia.
Revali parla ancora, dolcemente. «Andate prima da Mipha perché, se è ancora viva… in questo momento lei starà pensando che vorrebbe rivederti per l’ultima volta prima di morire.»
Link apre gli occhi senza scostare il volto dalla sua mano. Lo scruta nella penombra.
«Perché dici questo?»
Revali percorre con le dita un suo misterioso percorso lungo i suoi zigomi.
«Perché è quello che pensavo io.»


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Capitolo 13
*** Fanculo i teologi di corte ***


XIII – Fanculo i teologi di corte

It's not a pleasant thought, John. But I have this terrible feeling from time to time that we might all just be humans.”
Even you?”
No. Even you.”
Sherlock, Ep. 4X02, The lying detective.

Aveva ragione Impa: era lecito supporre che anche per Mipha e Daruk fosse intervenuto qualcuno a salvarli dal futuro. Questo è, senz’altro, il potere del piccolo guardiano, e la cosa, dopo Teba e Riju, non li sorprende più del tutto; quello che non s’aspettavano era di trovare Mipha in compagnia di uno Zora alto e prestante, aggraziato e selvatico come uno squalo, che ripete il suo nome con una punta di venerazione molto vicina all’incredulità e alla disperazione e che Mipha chiama Sidon.
«Ma Sidon non è lo stesso nome di…?» mormora Impa mentre già le sue dita si contraggono a formare complessi simboli di evocazione e di protezione Sheikah.
È lo stesso nome. Il fratello di Mipha è giunto dal futuro per aiutarla, come Teba, come Riju: se questo è vero, allora significa che Sidon è l’unico degli eroi del futuro a essere già vivo sulla loro terra all’epoca della Calamità; Link preferisce non soffermarsi a riflettere sulla complessità delle implicazioni di questo evento. Sidon è alto e robusto come gli eroi delle leggende, è armato di due tridenti che maneggia simultaneamente e non si allontana da sua sorella neppure quando l’Ira che ha conquistato Ruta cerca di trafiggerlo con una lunga lancia che si riforma tra le sue mani non appena l’ha scagliata, difendendola col proprio corpo; quando lo vede, sorride di un sorriso luminoso e lo chiama per nome. Mipha, che forse a stento era riuscita a realizzare di star combattendo al fianco di una versione più adulta di suo fratello, porta lo sguardo dall’uno all’altro senza capire: ha occhi enormi di stupore.
«Oh, Link!» Persino in questa circostanza la sua voce è dolce di una dolcezza irreale che Link sente che non potrebbe meritare mai. Li incalza un’emanazione della Calamità non dissimile da quella che Link ha già trovato su Vah Medoh e Naboris, oscena e bestiale, implacabile; lei e Sidon stanno resistendo, asserragliati nel ventre di Vah Ruta, ormai da più di un giorno intero, soli; eppure Mipha ancora trova tanta tenerezza, dentro di sé, da rivolgerglisi così. Ha gli occhi pieni di lacrime, è stanca, graffiata, estenuata: il potere della sua preghiera scorre incessantemente sul suo corpo nel tentativo di curarlo, e dev’esser così ormai da ore: i suoi poteri che si affannano a medicare le sue ferite, in continuazione, mentre l’Ira di Ganon gliene infligge, in continuazione, ancora e ancora; è costretta a sostenersi al suo tridente; presto non avrà più forze, eppure Link legge, nel grande sollievo dei suoi occhi, nella dolcezza della sua espressione, esattamente quello che Revali gli ha detto prima che partisse: che in tutte queste ore Mipha ha desiderato, ininterrottamente, di rivederlo. Ora che lo vede, che sente che è venuto per lei, persino la sua stanchezza sembra trovar pace. «Sapevo che saresti venuto ad aiutarci.»
Schierandosi di fronte a lei, con la Spada in pugno, senza osare di guardarla negli occhi perché di sostenere il suo sguardo Link non si sentirà degno mai, Link risponde: «Ma certo che siamo venuti. Non potevamo lasciarvi.»
Vorrebbe poterlo dire a testa alta, guardandola negli occhi, e forse in parte è la verità: è qui, ora, e la sta aiutando; non è del tutto una bugia; ma la verità è anche che ha posposto la sua salvezza, come quella di Urbosa e di Daruk, a quella di Revali. Quest’oscura colpa che sente aleggiare dentro di sé e impregnare persino le sue mani riuscirà mai a confessargliela senza tradirla?
L’Ira di Ganon è furente e rabbiosa e spazza l’aria di fronte a sé con una lunga lancia ancestrale simile a quelle che imbracciano i guardiani; porta una mazza ferrata colossale, gigantesca, che si configge al suolo in un nugolo di schegge di ghiaccio quando la agita; il suo corpo sgraziato, troppo esile per la sua enorme testa, sembra composto della corruzione stessa della Calamità divenuta carne; Link non ha idea di come Mipha e Sidon, da soli, abbiano potuto resistere per un intero giorno da soli contro di lei, e di certo non ne sarebbero stati in grado se non fosse stato per il potere della preghiera di Mipha; ma lui e Impa sono qui, ora; e Impa, a quanto pare, sente di non aver ancora combattuto a sufficienza, e soprattutto è molto arrabbiata.
L’Ira proietta su di loro schegge di ghiaccio taglienti come lame dalle quali Link non può che nascondersi dietro il proprio scudo, forse solo un secondo troppo tardi, perché se ne sente bruciar la fronte; Sidon protegge Mipha avvolgendola in una nube d’acqua che si fa, sotto il suo volere, solida e impenetrabile come acciaio, ma Impa vi scivola attraverso i proiettili di ghiaccio come se neppure potessero sfiorarla. È rapida a tal punto che Link, per un momento, non la vede più, sembra quasi scomparire dallo spettro del visibile: quando i suoi occhi tornano a seguire i suoi movimenti, Impa è a cavalcioni delle spalle dell’emanazione e conficca con entrambe le mani i pugnali nella sua testa.
L’Ira sgroppa ululando come un cavallo furioso, dalle sue ferite cola un sangue denso e vischioso dall’odore nauseabondo; Impa si lascia sbalzar via senza opporre resistenza per aver modo di controllare la propria caduta e Mipha si precipita a difenderla col proprio tridente dalla lancia dell’Ira che spazza rabbiosamente l’aria nel tentativo di colpire qualcuno, chiunque; Mipha respinge i suoi colpi levando il tridente di fronte a sé come uno scudo. Neppure i colpi furenti e selvaggi dell'Ira riescono a smuoverla; ma Sidon, che non può permettere che Mipha rischi neppure per un istante più del necessario di venire colpita, lo attira via da sua sorella scivolandogli davanti in un arco d’acqua che si solleva al suo passaggio come se venisse sollevata dalle ruote di un carro.
L'Ira non sa più su chi concentrarsi. Colpisce alla cieca, stupidamente, levando senza guardare né capire l'immane mazza ferrata ancestrale che si abbatte al suolo levando schizzi d'acqua che la celano alla vista; Link stringe le palpebre per prenderla di mira come farebbe in una tempesta, seguendola con la punta di una freccia finché non la vede abbastanza chiaramente da scoccare, ancora e ancora, strappandole grida di furore e rancore. Link vorrebbe cedere al suo primo impulso, quello di tempestarlo di frecce elettriche da lontano, riducendo al minimo indispensabile il contatto con la bestia; ma sono immersi fino alle caviglie in uno strato d'acqua che condurrebbe l'elettricità fino a loro; e gli Zora sarebbero ancora più a rischio di lui e Impa alla minima scossa. Le normali frecce di legno che Revali ha confezionato per lui, per questa volta, dovranno bastare.
Sidon scivola sull'acqua come potrebbe volare nell'aria, disegnando nel ventre di Ruta un percorso irregolare e imprevedibile per condurre l'Ira il più lontano possibile da sua sorella; col corpo trafitto da frecce che affondano fino all'impennaggio nelle sue carni, l'Ira cerca invano di prenderlo di mira con la lunga lancia ancestrale; ma Sidon sfugge alla sua mira troppo rapidamente perché lei possa colpirlo. Talora si volta per un istante a cercare i suoi occhi, come per trovarvi una muta intesa tra di loro; per un istante Link si domanda se anche con lui, come con Teba e Riju, sia destinato a combattere nel futuro, e se dunque Sidon conosca già i suoi movimenti e le sue strategie; ma non ha tempo di soffermarsi su questo pensiero. Sidon si ferma d'improvviso sollevando intorno a sé un'ondata d'acqua che si rifrange contro le pareti e con un unico movimento fluido conficca entrambe le sue lance nel volto dell'Ira.
Da sole quelle ferite non basterebbero; ma mentre Sidon tiene ferma l’Ira, Link la trafigge alle spalle con la Spada che esorcizza il male. Basta un affondo solo. È quasi un’offesa di fronte alla resistenza strenua, disperata, di Sidon e di Mipha per tutte queste ore, e alla Mipha che forse, secondo le parole di Teba, è morta nell’altro futuro, prigioniera per sempre dell’emanazione della Calamità e del ventre di Ruta come di una tomba: ma quella Mipha era sola, dice a se stesso. Non c’è vergogna nella sua sconfitta come in quella degli altri Campioni: nessuno di loro avrebbe potuto vincere da solo, impreparato e confuso, di fronte all’inatteso; neppure lui, neppure con questa Spada sacra che esorcizza il male e che è in grado di sconfiggere le emanazioni della Calamità.
L’Ira si dissolve di fronte a lui in un inferno di rancore e di quella melma nera, densa e appiccicosa, che lo inzuppa fino alle braccia e però scompare rapidamente mentre ancora Link la sta osservando. Un istante dopo, e questa è forse l’unica cosa veramente inaspettata che accada su Ruta, Sidon lo solleva tra lo braccia e lo stringe a sé esclamando: «Non avevo dubbi che saresti venuto!»
Questo Zora sconosciuto che lo abbraccia fino a soffocarlo come se lo conoscesse da una vita sarebbe già strano a sufficienza perché Link si trovi profondamente a disagio, anche se il suo volto non affondasse contro l’incavatura del suo collo per un istante più dello stretto necessario. Cosa che invece fa.
«Ti prego, dimmi che ci conosciamo nel futuro» mormora Link quasi senza fiato.
Sidon scioglie l’abbraccio in cui lo ha stretto con l’aria di aver appena realizzato d’esser stato un po’ eccessivo.
«Scusa, scusa» dice appena troppo in fretta. Link neppure sapeva che gli Zora potessero arrossire fino a questo momento. «È solo che nel futuro combattiamo insieme, e… perdonami. Mi sono lasciato trascinare. Tu non puoi ricordarti di me, ovviamente. Sono Sidon, il fratello di Mipha.»
Link annuisce senza sapere che rispondere: presentarsi a sua volta è superfluo, a quanto pare, perché questi coraggiosi guerrieri venuti dal futuro a combattere coi Campioni senza por domande né frapporre esitazione lo conoscono già. Non riesce a farsene una ragione. Dovrà chiederne a Teba.
«Pare che nel futuro tu combatta con un bel po’ di gente, Link» commenta Impa. I suoi occhi vibrano di una luce divertita e un po’ maliziosa che a Link mette quasi paura. Sidon si volta verso di lei.
«Voi dovete essere lady Impa» dice. Il suo tono ha perso la spavalderia carica di familiare di poco prima: è più basso e rispettoso, adesso, e reclina appena il capo verso di lei in segno di saluto. «Non ci conosciamo personalmente nel futuro, ma mio padre ha trattato molto con voi, come capo del villaggio Calbarico. Siete molto più…» Sorride d’imbarazzo mentre cerca le parole più adeguate: il suo sorriso sembra un’arma più pericolosa e letale, in molti modi diversi, delle due lance che manovra simultaneamente in battaglia. «Scusatemi. Voglio dire che io vi conoscerò cento anni nel futuro, e quindi…
«E dunque io sarò, presumibilmente, di cento anni più vecchia» lo interrompe Impa sorridendo. «Non preoccuparti di offendermi, Sidon. Non posso lamentarmi. Mi pare di capire che tu provenga da un futuro in cui i Campioni sono morti. Esser viva mi sembra già un dono di cui essere grata.»
Il volto di Sidon si oscura d’improvviso. Guarda verso Mipha, con occhi carichi di dolore, e dice solamente: «Non so cosa sia successo, ma non potevo lasciare che la prendesse di nuovo. L’ho già perduta una volta.»
Mipha posa una mano sul suo braccio come in una carezza. Lo guarda con occhi che non trovano voce per un momento, e Sidon posa la mano sulla sua mano e la stringe. Non si dicono altro. Link non riesce neppure a comprendere l’enormità del dolore di Sidon: non ha mai avuto sorelle né fratelli, eppure immagina che perderne uno sia come sentirsi strappare un braccio o una gamba e doversi misurare ogni giorno, per sempre, con la portata enorme di quell’assenza, avendola sotto gli occhi ogni giorno, come quel braccio o quella gamba, destinata a non potersi rimarginare mai.
«Voi sapevate già che Sidon veniva dal futuro, non è vero?» chiede Mipha infine distogliendo gli occhi da suo fratello. «E non solo perché l’ho chiamato per nome. Non siete rimasti affatto stupiti. Che cosa è successo?»
Impa annuisce. «Crediamo che sia per il potere del piccolo guardiano della principessa Zelda. Anche Revali e Urbosa sono stati salvati da due guerrieri provenienti dallo stesso tempo di tuo fratello. Sono vivi anche loro.»
«Revali e Urbosa» ripete Mipha. La sua voce conosce una breve esitazione. «E Daruk?»
Impa tace per un attimo cercando gli occhi di Link. Non sa come dirlo. «Speriamo che sia stato aiutato anche lui. Non sappiamo altro. So che avete combattuto fino a questo momento, ma pensi che tu e Sidon potreste accompagnarci con Ruta il più vicino possibile a Rudania per permetterci di riconquistarlo?»
«Veniamo con voi» si offre Mipha in fretta. È uno dei suoi slanci generosi, disinteressati e puri com’è lei; ma proprio in risposta al suo slancio sembra d’un tratto vacillare ed è costretta ad appoggiarsi alla Scagliadiluce. Sidon le è addosso per sostenerla prima di chiunque altro. Mipha si sforza di sorridere per tranquillizzarlo. «Perdonami, Sidon. Sono solo un po’…»
«Sei esausta» la interrompe Sidon in tono lieve di rimprovero. «Promettimi di restare su Ruta. Li accompagnerò io. Io e Link abbiamo già combattuto insieme, in fin dei conti. Me lo prometti?»
«Sidon…»
«Ti prego» insiste Sidon: la sua voce ha un accento di supplica tale da suonar quasi dura. «Non ti sto chiedendo di abbandonare il tuo compagno. Solo di restare su Ruta. Ti prego.»
Mipha si arrende non alle sue ragioni, ma alla voce di suo fratello. Passa una mano sul suo volto. «Starai attento, però. Vero?»
Sidon sorride del suo sorriso luminoso. «Prometto. Lady Impa» aggiunge levando gli occhi su di lei. «Avete già un piano per avvicinarvi a Rudania?»
Impa sfodera la tavoletta Sheikah, che ha usato per trasportarli entrambi sulle alture orientali, il più vicino possibile a Ruta, e la usa per mostrargli una mappa. Sidon si china su di lei per osservare il percorso che le sue dita tracciano tra i monti di Akkala e Oldin fino alle pendici del Monte Morte, là dov’è attestato Rudania, aggrappato alle pendici del vulcano in un inferno di calore e di fiamme: il piano è di utilizzare Ruta per raffreddare la lava bollente che circonda la montagna e permettere loro di raggiungere il Colosso. L’acqua però potrà proteggerli solo dal fuoco: per le orde di mostri disseminati sui sentieri che conducono al Monte Morte, dovranno combattere, e Impa inizia a indicargli i sentieri più ripidi e impervi dov’è più improbabile trovare lynel e magmarok. Questa è una lingua che Sidon sembra conoscere molto bene; si china su di lei per indicare un punto sulla mappa e suggerire qualcosa; Link si avvicina d’istinto per sentire, ma si sente chiamare.
«Link» mormora Mipha. S’è avvicinata in silenzio, discretamente, come tutto quello che fa, come se temesse d’infastidirlo. «Grazie di essere venuto.»
Link non sa cosa dirle. Vorrebbe prendere le sue mani e chiederle perdono; vorrebbe confessarle, come ha fatto con Urbosa, che ha scelto di salvare prima Revali perché… ma dirlo a lei non è come dirlo a Urbosa; portebbe con sé tutta una serie di impliciti e sottintesi che non sa come affrontare. Ma non può neppure mentirle, arrogarsi un merito di salvatore e di eroe che non ha né merita, minimizzare la portata enorme e le conseguenze infinite della sua scelta di salvare Revali per primo, a dispetto di tutto, egoisticamente, per il semplice fatto che lo amava.
«Avrei voluto arrivare prima» dice. «Avrei dovuto, ma Revali era su Medoh e…»
«Link» lo interrompe Mipha con una fermezza inflessibile, dolce, che Link non si attendeva da lei. «Non ha importanza. Sei venuto ugualmente a salvarmi. Non eri tenuto…»
«Anche tu sei venuta quel giorno» risponde Link. Non saprebbe dire perché gli paia così importante dirlo, fondamentale: forse perché non ha mai avuto occasione di dirle di averla riconosciuta, quel giorno, né di ringraziarla. «A Hebra, quando sei spuntata dal niente con quei medici militari e mi hai salvato…»
«Te ne ricordi, quindi.» Gli occhi di Mipha si illuminano un po’, ma poi si assottigliano all’istante come per un’improvvisa preoccupazione. «Avresti dovuto essere svenuto. Quella ferita… devi aver sentito un dolore atroce. Credevo fossi incosciente.»
«Non ha importanza adesso» risponde Link, e lo pensa davvero: quello è stato prima. Della sua condanna a morte e del matrimonio e del sacrificio che lui era pronto a fare: i Campioni per la vita di Revali. Vorrebbe dirglielo, confessarglielo, anche se non trova le parole; ma prima che possa parlare ancora, Mipha posa la mano sulla sua tempia, tra i suoi capelli, e mormora: «Sei ferito.»
Non se n’è neppure accorto. Se ne rende conto soltanto quando Mipha ritira la mano e Link la vede macchiata di rosso vivido: è sangue recente. È l’unica prova che quella ferita risalga a oggi, a quest’ultima battaglia; per quanto ne sa potrebbe risalire a ieri, allo scontro su Medoh, a quello su Naboris. Fa per tirarsi indietro da lei, ma Mipha torna a mettere la mano sulla sua fronte: Link sente il potere della sua preghiera scorrere sulla sua pelle come un balsamo. Chiude gli occhi per un istante tirandosi indietro dalla sua mano.
«No» dice. Da qualche parte, di fianco a lui, sente che Impa e Sidon stanno salendo nel ventre di Ruta, forse per verificare che la strada sia libera e sprovvista di mostri. «Ti prego.»
La mano di Mipha rimane protesa verso di lui a mezz’aria, vuota. Mipha lo guarda stupita senza poter comprendere. «Link…»
«Ho dovuto scegliere da chi andare per primo» esclama Link. È lieto che né Impa né Sidon possano sentirlo, ma sente di doverlo dire. Non può lasciare che Mipha continui a medicare le sue ferite dolcemente, fiduciosamente, come tutto quello che fa, e intanto continuare a tacere, ancora e ancora, e alimentare le sue speranze finché lei non lo scoprirà da sola. «E ho scelto Revali. Mi dispiace. Non mi merito le tue cure.»
«Link» mormora Mipha. La sua voce trema. «Chiunque di noi sarebbe stato costretto a scegliere nelle tue condizioni. Revali ti ha salvato, e tu gli dovevi così tanto…»
«Non l’ho fatto per questo» risponde Link.
Mipha tace molto a lungo mentre la portata delle sue parole si fa strada dentro di lei.
«Perché mi stai dicendo questo?» chiede a bassa voce.
Link non risponde.
«Oh» dice Mipha soltanto, chinando gli occhi, e per qualche momento non aggiunge altro. «Da quand’è che te ne sei accorto?»
Link potrebbe mentirle: se lo facesse, lei gli crederebbe. Ma Mipha non merita le sue bugie più della sua ingratitudine. «Non lo so. C’è una parte di me che lo ha sempre saputo, credo.»
«Mi dispiace» mormora Mipha. «Devo esserti sembrata molto sciocca, vero?»
Questo Link non può permetterle di pensarlo. Afferra la sua mano quasi con disperazione, tirandola a sé, e solo in quel momento Mipha alza gli occhi su di lui.
«Non ho mai pensato che tu fossi sciocca» dice Link. Sente la propria voce farsi quasi dura nell’ansia di convincerla. «Non ho mai pensato… neppure per un momento… avrei soltanto voluto non infliggerti nessun dolore. Perdonami.»
La luce si riflette negli occhi di Mipha come raggi di sole nell’acqua, tanto che Link non saprebbe dire se si tratti della normale umidità dei suoi occhi o di lacrime. «Non hai fatto nulla che io debba perdonare» osserva sorridendo tra il pianto. «Non hai nessuna colpa verso di me. Ma ti ringrazio di avermelo detto.»
Di non avere nessuna colpa verso di lei Link non è certo affatto; ma non saprebbe dire a parole di quale colpa si tratti si tratti. Abbassa lo sguardo perché quello di Mipha gli pare d’un tratto divenuto insostenibile. Dopo un istante sente di nuovo la sua mano tiepida posarsi tra i suoi capelli e la preghiera di Mipha tornare a scorrere sulle sue ferite e lenire il dolore. Vorrebbe che smettesse, allontanarla, forse; ma non ne ha il coraggio.
«Mipha…»
«Non ti ho mai curato perché mi aspettassi qualcosa in cambio da te.» La voce di Mipha è bassa eppure inflessibile. «Così come tu non hai mai salvato Hyrule perché ti aspettassi niente in cambio. Questo non cambierà mai, Link. Ricordatelo.»
Alzando lo sguardo sul suo volto, Link risponde: «Non lo merito ugualmente.»
«Io penso di sì» risponde Mipha piano. «Sono felice per te e Revali, comunque.» Non devi dirlo per me, vorrebbe dirle Link, ma si trattiene: non le farà il torto di crederla così meschina. Mipha comprende la confusione del suo sguardo senza ch’egli dica niente. «A questo mondo c’è troppa poca felicità perché cerchiamo di portarcela via gli uni con gli altri. Sarò sempre felice per te, Link. Te lo prometto.»
Link rimane in silenzio sotto il tocco benevolo dei suoi poteri e delle sue mani. Non dice niente perché di fronte alla smisuratezza della sua bontà non gli rimane niente da dire.


Ruta spruzza torrenti d'acqua che si rovesciano sul crinale della montagna come marosi, trascinando a valle rocce e fango e boblin che si dibattono ululando nel tentativo di non annegare.
Link e Impa si sono impregnati gli abiti e i capelli d'acqua per combattere il calore soffocante del vulcano: Ruta ha spento e raffreddato in parte il magma e la lava che si sono solidificati bruscamente al suolo, ma ancora l'aria proveniente dalle caldere è tanto calda e secca che potrebbe far bruciar loro addosso la stoffa dei loro vestiti. Sono costretti ad avanzare a piedi sulle rosse terre di Oldin sulle quali Ruta è troppo pesante per inerpicarsi rapidamente, su per i pendii scoscesi, contro una massa di boblin e grublin che discendono dalla montagna come se nascessero dalla terra e dal fuoco, brandendo clave infuocate e scagliando sassi e lava solidificata.
Non resta che farsi strada combattendo contro le orde di mostri risvegliate dalla Calamità, e andare avanti, ancora avanti, sulle pendici ribollenti del vulcano. Link sente che il braccio gli fa male, che le sue gambe gli sembrano diventate talora rigide e doloranti come enormi tronchi che deve sollevare faticosamente, uno alla volta, e trascinare avanti. Affonda la Spada nel ventre dei mostri ancora, ancora, in continuazione; gli sembra che non finiscano mai, che continuino a sgorgarne dal ventre della terra, furenti, disperati, solo per venire a scontrarsi contro il suo braccio che regge lo scudo, contro il suo braccio che brandisce la Spada. Gli sembra di non fare altro ormai da ore che mulinare la Spada, affondarla, tirarla indietro ogni volta più faticosamente dal ventre dei lizalfos, dei grublin: è la battaglia più lunga della sua vita; o forse è ancora la stessa battaglia, ancora e ancora, contro il male e la Calamità, che combatte da quando per la prima volta ha imbracciato una spada, da prima ancora di nascere, per infinite vite passate che non sono appartenute veramente a lui, e che continuerà a combattere, ancora e ancora, molto tempo dopo che sarà morto?
Sente chiamare il proprio nome. Per un attimo non capisca da dove provenga, se dalla bocca del vulcano o dalle correnti dell'aria, ma poi alzando lo sguardo intravede Impa in lontananza, leggiadra e distante dalla terra, levarsi su una roccia al di sopra di lui: persino lei, che è abituata a scivolare in mezzo ai nemici con le sue arti Sheikah, rapida tanto da esser quasi intoccabile, è insozzata di sangue e viscere fino ai gomiti e alle ginocchia; s'è tirata una delle sue maschere fino a coprirsene il naso, forse per filtrare l'aria troppo secca del vulcano o gli odori repellenti dei mostri, e ora di lei Link non vede che gli occhi, esausti come devono essere i suoi, eppure incrollabili. Link vorrebbe possedere la sua stessa fierezza e la sua stessa grazia; stagliata così nel cuore di una battaglia contro il vulcano e contro i mostri, Impa sembra intangibile e irreale come una guerriera di qualche antica leggenda Sheikah della sua infanzia: Link stenta a concentrarsi su quello che dice, deve sforzarsi per sentire le sue parole al di sopra del vento e delle urla dei mostri; ha quasi paura d'immaginarsele, forse perché gli sembra che provengano da una così grande lontananza. Si domanda se possano essere quelle le allucinazioni dovute alla stanchezza di cui gli parlava Teba ieri, o forse non era ieri ma in un altro giorno: chissà com'è che gli è tornato in mente proprio questo. Gli stava parlando di Revali, si ricorda: forse diceva che non aveva creduto, all'inizio, al fatto che Revali fosse sposato; pensa alla grande ferita sotto l'ala di Revali, al sangue che impregnava le sue piume; non sembrava grave, eppure, se si fosse infettata...
«Link!» urla Impa al di sopra del vento. L'urgenza nella sua voce lo strappa alle profondità della sua mente che lo avviluppano come abissi, Link si sente richiamato alla realtà dal suo nome: Impa sta indicando qualcosa dietro di lui. Guidato da un istinto più irresistibile tanto della sua ragione quanto del suo delirio Link si volta e affonda la Spada alla cieca nell'addome di un grublin che si accascia addosso a lui crollando come una torre.
Impa lo aiuta a sollevarsi ripetendo il suo nome, passa più volte le mani di fronte ai suoi occhi, e Link si concentra sulle sue mani nere di sangue e sui suoni che compongono il suo nome. Si sente nelle orecchie il suono del suo stesso sangue pulsare, come se vi premesse sopra una conchiglia, e il suo stesso respiro affannato e lento, raspante nel suo petto.
«Sto bene» dice al di sopra di quel respiro e di quella conchiglia, e finalmente sente la propria voce tra i suoni della battaglia. «Sto bene. Ce la faccio.»
«Solo un Colosso, Link» ripete Impa sostenendolo per le braccia, per il petto: nell'intimità della battaglia nessuno dei due sa più a chi appartenga quale arto, quale parte del corpo; il sangue che li ricopre e che per la gran parte non appartiene a loro rende la loro pelle estranea a loro stessi come una corazza che li protegge. «Ce l'abbiamo quasi fatta, Link. Li stiamo salvando.»
«Non come gli altri» dice Link improvvisamente, e per un istante vede i suoi stessi dubbi e i suoi stessi timori vacillare in fondo allo sguardo di Impa: non come quegli altri Campioni che, nel futuro dei loro nuovi alleati, sono morti il giorno dell'avvento della Calamità. Stanno cambiando quell'evento del passato, dunque, o almeno questo è quello che è loro dato credere sulla base di quello che sanno; ma questo che garanzie dà loro di vincere?
«Link! Lady Impa!»
Sidon emerge al di sopra di un crinale di roccia: era andato avanti in avanscoperta per verificare la strada, è tornato indietro per guidarli; anche lui, come loro, è coperto di sangue e interiora sin quasi alle spalle. Link non ha idea di dove trovi ancora forze per combattere; gli hanno proposto di restare su Ruta, al sicuro, con sua sorella: aveva già combattuto più che a sufficienza, per ore, fino al loro arrivo; non ha voluto, forse perché temeva che, se non fosse venuto lui con loro, sarebbe andata Mipha; e non voleva rischiare ancora la sua vita. I suoi occhi dicono chiaramente che se dovrà esserci un sacrificio, intende far sì che sia il suo. Non gli è stata data l'opportunità di salvare sua sorella perché la sprechi riposando. È un bene che sia qui per strapparli ai loro dubbi e alle loro incertezze.
«Vedo Rudania» grida Sidon. «Possiamo ancora salirci. Sbrighiamoci prima che si sposti. Non c'è nessuno ai comandi.»
Non sa se sia stato il suo nome a riportarlo al presente o forse la presenza insolita, ancora inspiegabile, di un Sidon adulto che combatte con loro da pari a pari; forse neppure vuole saperlo. Da qualche parte al di là del crinale Vah Rudania ruggisce di un ruggito tremendo che pare far vibrare l'aria in un inferno di scintille. Si leva una nube di fumo, da qualche parte, e Impa lo strattona e dice: «Andiamo. Non sappiamo se il vulcano erutterà di nuovo.»
Il suo corpo lo supplica di fermarsi, di smettere; tutti i suoi muscoli urlano di un dolore sordo, basso, che pervade tutte le sue membra; Link neppure ricorda quand'è stata l'ultima volta che ha veramente dormito, mangiato, riposato; non importa. Solleva lo scudo per riparare se stesso e Impa mentre si inerpicano su per il vulcano borbottante.
Rudania è aggrappato alle pendici del vulcano al di sotto di loro, con le zampe enormi che si stringono invano nel tentativo di stringere la roccia sotto di sé, raspando la polvere e la lava solidificata in un nugolo di scintille e di fumo; non ha occhi, eppure sembra vederli e poterli inseguire; ma non accade. Il Colosso è cieco e privo di pilota, ma al di sopra di esso, sulla sua vasta schiena piatta, s'intravedono figure scure che si muovono. Link non le conta per timore d'illudersi che anche Daruk sia stato salvato e dover poi scoprire che non è vero.
«Dobbiamo arrampicarci» grida Impa per farsi sentire al di sopra del ruggito di Rudania e del ribollire sordo del vulcano. «Ve la sentite?»
Che se la sentano oppure no non cambia nulla: sono qui. Si issano sul Colosso ignominiosamente, tirandosi su a forza di braccia sulla scivolosa superficie ancestrale che, per fortuna, non assorbe il calore; si aiutano con quello che hanno, colle loro armi, perlopiù, e le loro dita scivolano su strati di cenere e fuliggine e lava ormai cristallizzata.
La schiena di Rudania è un inferno che brucia. L'ultima Ira di Ganon è immensa, più grande di tutte quelle che hanno incontrato finora, coronata di fuoco; ma ha un solo braccio realmente funzionale, enorme e proporzionato rispetto al suo corpo, che imbraccia una spada ancestrale in fiamme; l'altro è grottescamente sottosviluppato e come nudo, privo di muscoli, ricoperto della nero-violacea corruzione della Calamità; ondate di fiamme divampano sul dorso del Colosso allargandosi intorno all'Ira come cerchi nell'acqua a ogni suo movimento.
Al centro dell'incendio che infuria, inamovibile e incrollabile, Daruk scoppia a ridere della sua risata roboante che echeggia tra le valli montane e grida: «Hai visto che sono venuti ad aiutarci, Yunobo?»
È come rivivere la stessa scena, ancora e ancora. Il solo sollievo è che è l'ultima volta, deve esserlo: Link si sente chiamar per nome, per l'ennesima volta, da qualcuno che non ha visto mai né conosce ma che sembra conoscer benissimo lui; è un giovane Goron insicuro e nervoso, agitato, poco più di un bambino, che sorride in mezzo al fumo al vederlo e grida con voce entusiasta: «Link!»
Se l'Ira di Ganon non fosse diversa, se lui non fosse circondato da ondate di fuoco che si rifrangono contro i parapetti di Rudania, se l'acqua non evaporasse dalla sua pelle e dai suoi capelli rapida fino a soffocarlo, Link penserebbe d'essere intrappolato in uno strano viluppo del tempo destinato a ripetersi, ancora e ancora, fino all'eternità; è come vedere, in un tempo rallentato e ripetuto all'infinito, la stessa pantomima ripetuta e identica a se stessa, e Link deve esercitare un titanico sforzo su se stesso per ricordarsi che tutto è ancora reale, tangibile, e che quella pantomima ancora non è finita e lui ancora non ne conosce il finale.
Lo richiama alla realtà un'ondata di fuoco che si allarga dal fendente della spada ancestrale dell'Ira che taglia l'aria orizzontalmente e la voce di Daruk che grida ridendo: «Attento, roccia!»
Un istante dopo, il giovane Goron si schiera di fronte a loro e li protegge dal divampare delle fiamme allargando attorno ai loro corpi uno scudo identico a quello di Daruk. Impa si volta verso di lui con occhi enormi di stupore nel volto annerito dal fumo e Daruk, di nuovo, scoppia a ridere.
«Avete visto? Dal futuro è arrivato un mio discendente ad aiutarmi!»
«Discendente?» ripete Impa. La sua voce s'è fatta appena più acuta e incredula del solito.
Col volto contratto dallo sforzo di tenere alto lo scudo contro la vampata di fuoco e la voce tremante per la fatica e l'imbarazzo, il giovane Goron china gli occhi e si presenta come se se ne vergognasse. «Mi chiamo Yunobo, signora. Molto piacere. Sono anche un amico di Link nel futuro.»
Impa dardeggia con gli occhi verso di lui. I suoi abiti Sheikah le coprono la bocca, ma Link è quasi sicuro che stia sorridendo. «Un amico di Link, eh? Più tardi devi raccontarmi come fa a essere tanto popolare nel futuro.»
Poi tutto torna ad adeguarsi al copione che è già scritto e si ripete, ancora e ancora, fino alla nausea. L'Ira di Ganon scatena su di loro un torrente di fiamme da cui Yunobo riesce a tenerli al riparo finché non si esauriscono: non può emetterle indefinitamente, realizza Link, perciò devono esserci momenti, forse interi minuti, in cui è possibile avvicinarsi e colpirla.
Non gli rimane che accertarsene. In questi momenti il suo corpo non gli duole neppure più, la stanchezza e il calore neppure li sente: approfittando del momento in cui l'Ira termina il suo fendente, Link si scaglia contro di lei e la colpisce al braccio deforme e troppo debole che non imbraccia armi. La corruzione della Calamità risale lungo la lama della Spada per un tratto, cerca invano di avvilupparvisi senza trovare appiglio, e Link non è certo che, se si trattasse di un'arma che non è sacra, non riuscirebbe a risalire lungo l'elsa fino ad avvinghiarsi al suo braccio: forse è così che sono morti gli altri Campioni, pensa fugacemente mentre tira indietro la Spada, avviluppati e soffocati dai viticci della corruzione della Calamità, prigionieri per sempre dei Colossi sacri come tombe che a nessuno è dato vedere; forse, in quell'altro futuro da cui proviene Teba, anche Revali...
Il braccio deforme dell'Ira di Ganon cade mutilato dalla sua lama, rimane appeso alla spalla dell'emanazione per nient'altro che tendini e filamenti di pelle e di quella sostanza vischiosa, densa; il mostro urla di un urlo atroce, bestiale, e colpisce alla cieca con la spada enorme, che ancora non ha ripreso fuoco, come farebbe per colpire un moscerino senza vederlo: Link solleva lo scudo all'ultimo istante. Riesce a parare la lama della spada ancestrale dell'Ira, ma lo scudo rincula violentemente contro il suo costato mozzandogli il respiro. Cade al suolo senza aver fiato abbastanza neppure per gridare. Il suo primo impulso è quello di chinare gli occhi sul proprio petto: è quasi certo di vedere la punta d'una costola perforargli la carne, ma non vede nulla. Se anche si è rotto una costola, quantomeno la frattura non è esposta.
Il secondo fendente dell'Ira lo ucciderebbe se non fosse perché Sidon gli si para davanti e lo respinge con le due lance incrociate facendogli scudo del proprio corpo. Link si tira in piedi puntellandosi alla Spada e dice ad alta voce: «Grazie.» Non sa neppure se Sidon sia in grado di sentirlo al di sopra delle urla dell'Ira mutilata; ma questo misterioso Zora venuto dal futuro che ha appena rischiato la vita per salvarlo si volta e gli sorride nel cuore della battaglia.
«Avventato come al solito, eh, Link?»
Si tirano indietro appena prima che un'altra ondata di fiamme si allarghi attorno a loro, mentre l'Ira stride di furore. I loro compagni la circondano da ogni lato, approfittando di ogni varco nella distesa di fuoco che le si spande attorno; Daruk e Yunobo la martellano da vicino, pericolosamente, abbattendo i loro enormi martelli in grandi colpi dall'alto come fabbri furenti; del resto, non temono il calore né il fuoco; ma la gigantesca spada ancestrale che l'Ira brandisce col braccio che le è rimasto può ferire anche loro.
Impa comprende i suoi pensieri al solo cogliere la direzione del suo sguardo.
«Link! Provo a rallentarlo» grida. Le sue dita si piegano e si flettono rapidissime, evocando antichi simboli Sheikah che appaiono sul corpo dell'emanazione, percettibili appena alla vista come ombre proiettate da una nube; è sufficiente. I gesti dell'Ira si fanno più lenti e pesanti, aggravati come da un peso invisibile: non può durare a lungo, gli occhi di Impa sono assottigliati e fissi nello sforzo dell'evocazione; non si può perdere neppure un istante. Non appena le fiamme che circondano l'Ira si attenuano sulla pietra viva di Rudania, spegnendosi progressivamente in anneriti cerchi semiconcentrici di fumo e cenere, Link scavalca gli ultimi barbagli di fuoco e conficca la Spada nel braccio enorme dell'emanazione.
Non è un arto sottile e poco sviluppato come l'altro. Stavolta è come tagliare con una spada il tronco di un albero, e per di più disperatamente, sperando che l'albero non si ribelli e resti fermo a sufficienza da lasciarglielo fare: non c'è nulla di eroico in tutto questo. È un atto ignominioso, nauseante: la Spada affonda nelle carni dell'Ira di lato recidendo misteriosi tendini duri, spessi, come se tagliasse i cordami in tirare di un'imbarcazione, quasi uno dopo l'altro, e ogni volta Link deve strattonarla via più forte e con più disperazione, convinto fino all'ultimo, ogni volta, che questa volta non riuscirà più a estrarla dalle sue carni repellenti e che si ritroverà disarmato e solo troppo vicino all'emanazione della Calamità... poi Daruk compare all'improvviso dal nulla da qualche parte ai margini del suo campo visivo e gli fa scudo del proprio corpo da un fiotto di fiamme che Link non aveva visto arrivare. Il calore attorno a lui si fa insopportabile, vede il fuoco scorrer loro attorno come se l'osservasse dal centro di un cristallo nel quale non può muoversi né gridare, le braccia possenti di Daruk lo inchiodano al suolo mentre l'inferno passa loro addosso senza riuscire a bruciarli; poi le fiamme intraprendono un percorso diverso, Sidon e Yunobo attirano lo sguardo dell'Ira distante da loro, altrove sulla schiena vastissima di Rudania, e Daruk abbassa lo scudo che li scherma e lo lascia andare.
L'Ira di Ganon gli sta dando le spalle. La strategia di Sidon e Yunobo ha funzionato, l'emanazione della Calamità cerca di inseguirli ma invano: a malapena brandisce l'enorme spada ancestrale, il braccio che le è rimasto penzola dalla sua spalla come un brandello di pelle, privo di forze; non è più in grado di allungare alcun fendente. È quasi innocua, ora.
Link si solleva sulle gambe che quasi non lo sostengono e conficca la punta della Spada tra le costole dell'Ira, affondandola nella sua schiena con tutto il proprio peso. L'ultima Ira di Ganon si spegne sotto la sua Spada stridendo come vapore.


È in ginocchio sulla larga schiena di Rudania, ha le dita anchilosate strette attorno all'elsa, doloranti, il polso piegato; deve far forza con l'altra mano per aprire le dita fino a lasciarla andare. La Spada scivola giù per le sue ginocchia tintinnando sul dorso annerito del Colosso mentre il suo petto si abbassa e si rialza rapidamente in grandi respiri brucianti e angosciati. È finita, ripete a se stesso e forse lo dice qualcuno al di fuori di lui, finita; i Campioni sono stati salvati.
Sente da qualche parte la risata possente di Daruk, roboante, e la voce incerta ma sollevata di Yunobo; Impa dice qualcosa, anche, e Link distingue appena il nome di Sidon, quello di Zelda: se non ci fosse Impa con lui, Link non saprebbe neppure da dove partire a raccontare quello che è successo.
Si ritrova stretto d'un tratto tra le braccia solide di Daruk, schiacciato contro il suo petto immenso e il fianco di Impa. Se l'Ira di Ganon non gli aveva ancora spaccato una costola, Link è quasi certo che ce l'abbia fatta questo Goron troppo entusiasta; ma la sua stretta forse è quello di cui aveva bisogno per tornare al presente e rendersi conto d'esser vivo.
«Mi dispiace» esala con la poca voce che i suoi polmoni ancora sono in grado di emettere. «Mi dispiace. Avrei dovuto venire prima...»
«Venire prima? Roccia, ma per chi mi hai preso?» ribatte Daruk. La sua voce è squillante e pare riempire l'intera vallata. «Se c'era qualcuno che poteva resistere, quelli eravamo io e Yunobo. Avete seguito la strategia giusta. E poi, stiamo tutti bene, no?»
Di fronte alla sua schiettezza della sua voce, alla franca semplicità del suo ragionamento, Link china gli occhi. Non sa cosa rispondere, forse perché tutti i Campioni lo hanno perdonato, ciascuno a suo modo, per aver scelto Revali; ma questo non l'ha fatto in alcun modo sentire meglio. Forse è perché è lui a non aver perdonato se stesso; o forse è perché è consapevole che sceglierebbe Revali ancora e ancora, ogni volta, e dunque le sue parole non sono altro che una richiesta di un'assoluzione per un peccato che commetterebbe di nuovo. Forse non gli rimane altro che accettare che un'assoluzione non c'è; che lui non è, e forse non è mai stato, l'eroe disinteressato e puro delle leggende e che gli altri hanno sempre richiesto da lui. Che forse persino lui è umano e fragile e talora gli è dato essere egoista.
«Grazie» risponde solamente. La manata che Daruk gli abbatte sulle spalle questa volta non gli fa quasi più male.


Daruk e Yunobo si uniranno a loro tra tre giorni, non appena si saranno accertati che tutti, nella città dei Goron e nelle terre di Oldin, stiano bene; devono difendere la loro gente dai mostri. Si offrono di riaccompagnare Sidon al limitare dei domini degli Zora, alla massima distanza percorribile da Rudania: Sidon cerca invano di convincere lui e Impa a venire con lui. Su Ruta Mipha potrà medicare le loro ferite, dice; ma loro devono riferire alla principessa. Link, che ha il costato dolorante a ogni respiro che gli gonfia il petto, non dice niente; è contento soltanto di tornare a casa. Gli pare d'esserne stato lontano abbastanza a lungo: vuole solo dormire il più a lungo possibile, magari per giorni, e vedere Revali. Poi combatterà anche per Hyrule, come sempre; ma prima vuole rivederlo e accertarsi che stia bene.
La tavoletta Sheikah li trasporta appena fuori della roccaforte di Hebra. Non sembra possibile essere di nuovo lì: hanno percorso Hyrule in ogni direzione possibile, ne hanno attraversato quasi tutte le regioni; sono state giornate infinite. Impa posa la mano sul suo braccio per un momento per fargli cenno di attendere: Link guarda a lungo nel suo volto che è annerito ed estenuato come il suo. Al di sotto del sangue, della polvere, della cenere, non riesce a intravederne quasi che gli occhi: probabilmente è tutto quello che anche lei vede quando guarda lui.
«Stai bene?»
«Una costola incrinata, credo» risponde Link. «Passerà. Ora voglio solo...»
«Non parlavo di quello» lo interrompe Impa.
Link alza gli occhi sul sole rosseggiante, basso al di sopra delle cime dei monti, appena visibile attraverso le grandi nubi. A Hebra calano le ombre molto presto.
«Credi che sia definitivo?» chiede. È la prima volta che ha il coraggio di chiederlo ad alta voce, o che anche solo che ha il tempo di articolare questo pensiero per esteso, nella sua mente, e che non è soltanto un insieme di sprazzi e di dubbi che aleggiano appena ai margini della sua coscienza. «Che il fatto che li abbiamo salvati stavolta abbia scongiurato quel futuro in cui sono morti e la Calamità dura per cent'anni...?»
Dalla voce di Impa è evidente che si è posta la stessa domanda e che si attendeva di sentirla anche da lui.
«Non lo so.» Percorre con la gamba un semicerchio sulla neve ghiacciata, pensierosamente. «Ma non sono morti da soli, prigionieri dei Colossi per cento anni. Concentriamoci su questo. Dobbiamo ringraziare il piccolo guardiano, immagino. Anche se non so ancora spiegarmi come.»
«Ho detto a Mipha di me e Revali» dice Link d'improvviso. Non sa perché d'un tratto gli sia parso inspiegabilmente importante dirlo.
Impa l'osserva in silenzio per un po'.
«Hai fatto bene» dice finalmente. «Meritava di saperlo da te, penso. Sarebbe stato peggio se vi avesse visto soltanto baciarvi. Me l'ha detto Teba» aggiunge ridendo quando Link la guarda incredulo chiedendosi come faccia a saperlo. «Rifattela con lui. Non che non potessi intuirlo anche da sola, comunque. Ma tu non gliel'hai detto solo perché volevi che lo sapesse, vero?»
Impa riesce a leggere dentro di lui molto più a fondo e meglio di quanto riesca lui stesso, forse perché lo conosce così bene, da tanti anni, e hanno combattuto insieme più volte di quante a entrambi faccia piacere ricordare. Link non ha neppure il coraggio di guardarla.
«Li avrei lasciati morire» dice. «Se non ci fosse stato il piccolo guardiano, se non fosse stato per Teba e gli altri... non avrei mai fatto in tempo a salvare anche loro dopo Revali.»
«Posso farti notare una cosa?» Link ascolterebbe da lei qualsiasi cosa: Impa prosegue. «Quando siamo arrivati su Ruta, Mipha non ha ringraziato entrambi per essere venuti a salvarla. Ha ringraziato te. Oh, no, ti prego» aggiunge per smorzare sul nascere le proteste che Link sta già per pronunciare. «Tu sai che io non sono così meschina, e che non mi aspetto ringraziamenti più di quanto te li aspetti tu. Non è questo che stavo cercando di dire. Quello che intendo è che... sappiamo entrambi che Mipha è la migliore tra noi, Link. Eppure anche lei, quando ha avuto paura di morire, non ha visto che te. Se neppure lei ha potuto impedirsi un pensiero egoistico, in quel momento, forse non possiamo fare altro che rassegnarci al fatto che siamo esseri umani...»
Link rimane in silenzio molto a lungo a osservare il sole nascondersi dietro i picchi innevati di Hebra. Discendono in silenzio verso il cuore della guarnigione.
«Link.» Quando Impa parla di nuovo, la sua voce è calma e ragionevole. «Ho avuto modo di chiedere qualcosa a Sidon, mentre tu parlavi con Mipha su Ruta. Gli ho chiesto se per caso sapesse che cosa è successo a me e a te all'avvento della Calamità, in quel futuro da cui proviene lui.»
Link non vorrebbe neppure pensare a quel futuro in cui Revali è morto, eppure fa forza su se stesso e chiede egualmente. «Che cosa ci è successo?»
«Non sa di preciso cosa sia successo a me, se non che, nel suo futuro, io sono un'anziana capovillaggio del Villaggio Calbarico. Ci pensi?» Link ride con lei a bassa voce: non riesce a figurarsela vecchia. Chissà come sarà. Un capo sì, però: Impa è nata per guidare la gente,per come la vede lui. «Di te, invece, lo sapeva. Hai protetto la principessa com'era tuo dovere, l'hai condotta via dal castello, poi sei rimasto vittima di un attacco di guardiani. Sei stato condotto in un antico sacrario Sheikah per essere curato e hai dormito per cento anni per riprenderti. Beh, lui te lo racconterà meglio» protesta di fronte al suo sguardo confuso. «Non è che avessimo poi molto tempo per raccontarci i dettagli. Comunque, nel suo tempo, hai fatto quello che dovevi: sei rimasto il Cavaliere che brandisce la Spada che esorcizza il male, hai protetto la principessa Zelda a costo della tua vita... ma non li hai salvati.»
Link l'ha ascoltata finora in silenzio, cogli occhi bassi, attendendosi da lei qualcosa, una rivelazione, forse; ma non era questa. Leva lo sguardo su di lei sentendosi colto alla sprovvista. «Che cosa intendi?»
«Che in quel tempo abbiamo fatto tutto quello che ci era stato detto, Link. Tu sei stato fino alla fine l'eroe della leggenda, e io avrò fatto, immagino, quello che si richiedeva da me... eppure non li abbiamo salvati e abbiamo perso. Se abbiamo salvato tutti i Campioni, se abbiamo ancora una speranza di vincere contro la Calamità, non è in quel mondo in cui abbiamo obbedito, ma in questo nostro presente in cui tu sei troppo innamorato di Revali e hai deciso che l'avresti salvato contro tutto e contro tutti, senza neppure curarti di essere l'eroe...»
Link lascia che le parole di Impa scavino dentro di lui a una profondità alla quale neppure sapeva che parole potessero arrivare. Non sa che cosa dire. Vorrebbe credere a quelle parole perché sono disperatamente belle, perché redimono le sue azioni e le innalzano a uno stato in cui la disobbedienza non è più egoismo ma libertà; ma proprio per questo credervi gli sembra troppo comodo e troppo facile. Forse non è ancora pronto per concedere a se stesso di credere di aver fatto bene ad agire per se stesso e a mettere il suo amore prima di tutto, prima del dovere, prima di Hyrule.
«Lo pensi davvero?» chiede senza osare guardarla.
Sente il tocco tiepido delle dita di Impa sotto gli occhi, là dove sudore, sangue e fuliggine devono aver creato uno tale strato di sporcizia che la sua pelle neppure è più visibile.
«Penso che il piccolo guardiano abbia cambiato qualcosa e ci abbia dato una possibilità di cambiare le cose» risponde. «E penso che se questa possibilità ci è stata data, non è perché la sprechiamo a cercare di commettere gli stessi errori di coloro che invece hanno sbagliato e perso. Il che non ci impedisce di sbagliare e perdere anche noi, ovviamente... ma in modo diverso. Basta con le leggende, adesso. Forse dobbiamo cavarcela con le nostre forze nel presente che ci è stato dato.»
Link annuisce, quasi più per sé che per lei. «Con buona pace dei teologi di corte, quindi.»
«Fanculo i teologi di corte» ribatte Impa.
Link non potrebbe sentirsi più d'accordo con lei.


Kagan li fa trascinare quasi di peso in infermeria non appena li vede: la principessa Zelda accorre non appena avvertita. I suoi occhi si dilatano di stupore e di sollievo quando li vede: ha addosso abiti Rito che ricadono sproporzionatamente grandi sul suo corpo magro, stretti in vita da grandi cinture, e i capelli raccolti in un castigato nodo sulla nuca. Appare piccola e minuta come Link non ricorda di averla mai vista, esausta: forse anche lei non dorme da quando è scappata dal Castello, è inquieta, angosciata; sembra ricominciare a respirare solo quando li vede. Passa cogli occhi dall'uno all'altra senza avere il coraggio di chiedere: Link annuisce soltanto. Ci sarà tempo di spiegarle tutto più tardi; ma per ora deve sapere che ce l'hanno fatta. Che queste ferite e questo sangue non sono stati vani: che li hanno salvati.
Kagan non è disposto a creder loro neppure quando gli giurano che, per la maggior parte, il sangue che hanno addosso non appartiene a loro: non ha tutti i torti, dopotutto. Un medico lo tira a sedere su una branda e gli sfila la tunica senza troppe cerimonie: Link prova almeno a dirgli che è quasi sicuro d'essersi incrinato solo un paio di costole, ma lascia perdere perché ha la sensazione che non lo ascolterebbe. Non c'è da biasimarlo.
«Avrei dovuto metterti in arresto quando potevo farlo» commenta Kagan seccato, sorvegliando a braccia incrociate l'operazione. È l'unico modo in cui sappia dirgli che era in pena per lui, a quanto pare. «Avrei potuto farlo, tecnicamente, sai. Sei sottoposto alla legge dei Rito.»
«Come sta Revali?» chiede Link a bassa voce. Ha resistito all'incertezza finché ha potuto; ma ora deve sapere se sta bene.
Kagan sembra considerare per qualche momento se debba rispondergli oppure se debba tenere il punto ancora per un po'. Getta uno sguardo a Derdran, che assiste alla scena sull'attenti dal fondo dell'infermeria. «Offeso a morte ma vivo, direi. È ancora agli arresti. Ti farò condurre da lui non appena il medico dirà che puoi andare.»
Derdran si schiarisce nervosamente la voce.
«Capo, a questo proposito, posso dare l'ordine del rilascio? Posso mandare subito un soldato, se...»
Kagan neppure si volta verso di lui: sembra molto più interessato a esaminare le larghe abrasioni sulle spalle di Link sotto le dita del medico. «Che fretta c'è? Se dai ordine di smettere adesso la sorveglianza, si precipiterà qui per vederlo, e il medico ha detto di farlo stare a riposo il più possibile. Sbaglio?»
Il medico che in questo momento è curvo su Impa, intento a pulire lentamente la sua ferita, sfilandone con sottili pinzette minuscole particelle di ghiaia, annuisce distrattamente per conferma. Kagan scrolla le spalle come a dire che, se quello è il parere del medico, lui non può farci niente; ma Derdran non appare particolarmente convinto.
«Non è da me difendere Revali, capo, ma lo stiamo trattenendo senza accuse. I soldati parlano. Non hanno creduto alla questione della sicurezza.»
«L'ultima volta che sono passato davanti alla capanna di Revali durante il tuo turno di guardia, mi pare di averlo sentito minacciare di scoccarti una freccia su per il retto*» risponde Kagan in tono perfettamente neutrale. Impa scoppia a ridere persino sotto i ferri del medico mentre Derdran avvampa di rabbia. «Non capisco che fretta tu abbia di rimetterlo in libertà, Derdran. Qualche altro minuto di fermo non lo ucciderà. I soldati hanno già l'ordine di rilasciarlo non appena vedranno arrivare Link. Rilassati.»
Kagan non ha mentito. Quando il medico acconsente finalmente a lasciarlo andare con la sola diagnosi di qualche costola incrinata e di un'insperabile fortuna e la raccomandazione di assoluto riposo, Derdran lo scorta di persona attraverso il forte: Revali è stato sistemato in una minuscola baracca all'estremità orientale della roccaforte. Due arcieri sono collocati di guardia di fronte alla porta, ma Derdran non lo accompagna fin lì: si limita a fare un segno coll'ala da lontano. È sufficiente: gli arcieri fanno cenno d'aver capito, si sporgono all'interno a dire qualcosa e si allontanano. Derdran rimane a osservarli finché non li vede scomparire.
Link non sa dove trovi dentro di sé la forza d'ironizzare. «Non entri a salutare?»
Derdran gli concede un sorriso forzato. Persino lui sembra non aver più forze: è responsabile per la sicurezza di tutta la loro gente, come Kagan, del resto, e per i suoi soldati; e negli ultimi due giorni ha dovuto mettere tutto questo da parte per aiutare lui a salvare Revali. «Hai sentito cosa mi ha detto Revali. Mi perdonerai se non entro a scoprire se scherzava o meno.»
«Presumo che non abbia accettato le tue scuse, quindi.»
«In verità, credo che questo fosse proprio il suo modo di accettarle.» Derdran reclina il capo in segno di commiato. «Complimenti, Link, e grazie. Per quello che hai fatto. Ti darei una pacca sulla spalla, ma preferirei non dover ricominciare tutto daccapo con tuo marito.»
«Grazie a te» risponde Link mentre Derdran torna verso la caserma, e lo pensa davvero. «Per i lynel.»
«Bah» risponde Derdran senza voltarsi. Dalla sua voce Link deduce che stia sorridendo tra sé. «Figurati. Per così poco. In fin dei conti, forse glielo dovevo. Ma ora siamo pari, eh?»
Link posa una mano sulla maniglia, inspira profondamente ed entra; poi Revali lo prende tra le braccia prima ancora che abbia varcato la soglia del tutto.
Link sente allargarsi nel suo petto qualcosa di molto simile al sollievo. Prova persino a protestare, per un attimo, per un vago senso di civiltà che aleggia ancora da qualche parte dentro di lui, e posando le mani contro il largo petto di Revali, ancora coperto di bende, prova a dire: «No, aspetta... sono quasi sicuro di avere delle viscere di boblin tra i capelli. O di lizalfos. Non stringermi così.»
«Tutto molto interessante» mormora Revali, ma non accenna a lasciarlo andare, e Link decide che ha già fatto quello che poteva per convincerlo e che può restare contro il suo petto ancora per un po'. Sente da qualche parte il pulsare basso e rapido del suo cuore contro la pelle, solo un po' accelerato, e va benissimo così. «Ne terrò debito conto. Sei vivo.»
«Ti avevo detto che sarei tornato» risponde Link.
«Giusto» riconosce Revali a bassa voce. «Gli altri...»
«Li abbiamo salvati.» Diventa più reale quando lo dice ad alta voce, tangibile, quasi. «Anche loro erano stati salvati da guerrieri del futuro, come te e Urbosa. Sono vivi.»
Revali annuisce contro la sua fronte, lentamente. «Io e Teba l'avevamo ipotizzato. Lui ha persino proposto dei nomi. Il fratellino di Mipha e un discendente di Daruk. Aveva ragione?»
«Tutta gente con cui combatterò nel futuro, a quanto pare» conferma Link. «Non è che devo essere geloso di Teba, vero?»
Revali ride. Link sente la sua risata col volto reclinato contro la sua gola, più contro la pelle che con le orecchie: è una vibrazione più che un suono; è piacevolmente bella.
«Direi di no. È sposato e ha anche un figlio, da quel che ho capito. Penso che tu possa stare tranquillo. Sai che i soldati sospettano che discenda da Kagan nel futuro?» Revali posa la mano tra i suoi capelli. «Puzzi come una stalla bruciata, comunque. Forse devi fare un bagno davvero, sai.»
Link scoppia a ridere contro il suo petto.
È come essere di nuovo a casa, in un certo senso. È tutto più piccolo e più scomodo, arrangiato alla meglio, naturalmente: fanno bollire l'acqua limpida, pulita, che affiora nel forte dalle stesse falde delle terme di Hebra, e riempiono la vasca di fortuna in un angolo della capanna che ospita una sola stanza. L'aria si fa calda e satura di vapore mentre l'acqua s'intiepidisce lentamente.
Link si sfila strati su strati di cotte di maglia e abiti incrostati di sangue. Quando alza le braccia al di sopra della testa le costole gli dolgono tanto da mozzargli il respiro, ma è solo per qualche giorno, dopotutto: passerà.
Ha il torso cosparso di grandi ematomi violacei, qualcuno quasi rosso, dove il sangue si è raggrumato in maggior quantità; i muscoli delle braccia e delle gambe sono intorpiditi a tal punto che quasi non riesce a muoverle; gli fa male tutto il corpo, e respirare è doloroso quasi come i colpi stessi ricevuti in battaglia; ma è a casa, adesso. Il dolore è qualcosa che si attenua col tempo.
Revali lo osserva in silenzio mentre si spoglia. S'è sempre vergognato mortalmente di guardarlo mentre si spogliava, ha fatto ogni volta di tutto per evitare la sola idea della nudità; forse si vergogna ancora, un po', e di certo non è del tutto a suo agio; ma non si sottrae più. Posa la mano delicatamente sulla sua pelle, contro l'ematoma più grande e più vistoso, quello sopra le costole: Link si sforza di non trasalire. I grandi occhi verdi di Revali non si distolgono dai suoi.
«È stata la Calamità» mormora.
«L'Ira del Fuoco, penso» risponde Link. «Voglio dire, quella che abbiamo trovato su Rudania.»
Revali annuisce. «Mi sembra un nome adeguato.» La sua mano scivola sulla grande cicatrice oblunga, irregolare, che risale accanto al suo ombelico per il suo intero addome: Link trattiene il respiro per un istante. In qualche modo quel contatto è più intimo e privato che se toccasse la sua intimità. «Questa è di Hebra» mormora.
Link annuisce soltanto. È la cicatrice della battaglia di quel giorno, orrenda e deforme, di quando i medici militari gli hanno reinserito a mano gli intestini nell'addome e Mipha, piangendo, lo ha salvato.
Revali lo aiuta a entrare nella vasca e a sedersi al suo interno: Link non è sicuro che riuscirebbe a entrarvi senza il suo aiuto. Le sue gambe sono talmente irrigidite, doloranti, che a malapena gli sembra di riuscire a muoversi; sollevare le ginocchia è tremendamente doloroso. Si sente riavere nell'acqua calda: chiude gli occhi per qualche istante appoggiando la nuca contro il bordo della vasca.
«Quella è stata la prima volta che mi sono accorto di tenere a te» dice Revali improvvisamente.
Link apre gli occhi al nervosismo della sua voce. «Quando mi hanno ferito a Hebra?»
«Sì. Quando il tuo cucciolo è venuto a dirmi che forse stavi morendo.»
Link considera per un istante l'opportunità di fargli notare che nei suoi racconti Lelek è passato molto rapidamente dall'essere indicato come attendente a cucciolo di attendente a cucciolo, ma infine decide di no. Che quel nome fa trasparire abbastanza di quanto Revali pensa di Lelek senza bisogno che lui se ne accorga. «Che cosa hai pensato?»
«Non lo so con precisione. Forse non lo sapevo neanche allora. So solo che d'un tratto ho avuto paura che tu morissi.»
Link si sforza di non voltarsi verso di lui perché ha paura che, se lo guardasse, Revali non parlerebbe più; ma si sente la gola stranamente chiusa. Pensa al cammino interminabile, con Impa e con Derdran, sulle montagne di Hebra, coll'angoscia continua di non raggiungere Medoh in tempo. «Sì... lo capisco.»
«Ho avuto paura anche questa volta. Ho pensato che...» Link sente contro le tempie il tocco lieve delle dita di Revali che districano piano i suoi capelli umidi. «Mi dispiace. Sto cercando un modo per dirti che ti amo, ma non so come dirlo.»
Link potrebbe giurare d'aver sentito il proprio cuore saltare un paio di battiti.
«Va bene anche così» dice. Si sente la bocca molto asciutta. «Ho capito quello che c'era da capire.»






* Ok, questa l'ho rubata ad An13Uta dalla sua recensione al settimo capitolo. Perdonami, ma mi avevi fatto talmente tanto ridere che ho dovuto a tutti i costi renderlo canon (per quanto canon possa essere qualcosa in una fanfiction, s'intende).
Colgo l'occasione di fermarmi a ringraziare An13Uta, LeVicomteDeBragelonne e Agares per star seguendo questa storia in qualsiasi modo. Forza e coraggio, giuro che siamo quasi alla fine! (Anche se, tecnicamente, questo capitolo doveva contenere anche i prossimi due. Solo che poi, non ho capito come, si è triplicato.)
Alla prossima!
Afaneia

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Capitolo 14
*** Strategie ***


XIV – Strategie

Così è, dunque, la guerra: essa si fonda sull'inganno, è mossa dal profitto, ed è soggetta a variabili definite dal continuo frammentarsi e ricomporsi armonico delle forze.
Sun Tzu, L'arte della guerra.

Lo sveglia un dolore al costato che gli mozza il respiro, poco prima dell'alba. Impiega un po' per ricordarsi dove si trova: all'inizio, nel buio, è quasi convinto di trovarsi ancora a casa, nel borgo dei Rito. Realizza dove si trova solo quando s'accorge del diverso orientamento dell'amaca rispetto alla porta, rispetto alle oblique lame di luce livida che spiovono dalla finestra: sono nella roccaforte di Hebra. I ricordi degli ultimi giorni lo assalgono attraversando la sua mente come ondate: la Calamità si è risvegliata, hanno fatto evacuare gli abitanti sulle montagne; ha salvato Revali, Urbosa, poi Mipha e Daruk; Revali gli ha detto che lo ama; ha lavato via il sangue dai suoi capelli, delicatamente, e poi lo ha tenuto tra le braccia in silenzio, solo un po' nervosamente, finché non si è addormentato. Link si passa più volte le mani sugli occhi, premendole contro le palpebre, per esser proprio certo di essere sveglio: glielo conferma il dolore. Gli fanno male le braccia, i polsi, persino le dita: va bene così. Provare dolore è confortante perché vuol dire che è ancora vivo, del resto.
Scivola fuori dall'amaca piano, sforzandosi di non farla oscillare; Revali dorme ancora. È ancora un po' pallido dopo la ferita: ha perso più sangue di quanto gli piaccia ammettere; ma si riprenderà del tutto, ha detto il medico. È un miracolo che non siano rimasti coinvolti i muscoli né i tendini del petto e delle ali; se così fosse stato, forse non avrebbe più volato come prima, ha detto; Link non ne è così sicuro, perché Revali è già riuscito a trovar modi per levarsi in volo persino quando tutta la fisiologia della sua gente e del suo stesso corpo gli diceva che non era possibile; ma è un sollievo non doversene accertare, comunque. Quando la ferita si sarà del tutto rimarginata, potrà tornare a volare e a combattere. Se potessi t'insegnerei a volare gli ha detto stanotte, a un certo punto, scostandogli da dietro i capelli dagli occhi, e Link ricorda d'aver tremato, per chissà quale motivo, perché quella frase gli è parsa più intima e profonda, intensa, in un modo in cui neppure il contatto fisico potrà mai esserlo; perché Revali sarebbe disposto a condividere con lui persino qualcosa che fino a questo momento non è appartenuto che a lui. Ricorda che gliel'ha detto anche un'altra volta, quest'inverno, mentre si allenavano, e anche allora ha provato la medesima sensazione.
«Dillo di nuovo» ha detto così, senza riflettere né voltarsi, e Revali ha riso e ha ripetuto contro la sua nuca: «Che mi piacerebbe poterti insegnare a volare?»
Si getta addosso strati su strati di vestiti di lana e si raccoglie i capelli infilandovi piume per disperdere meno calore possibile dalla testa: è primavera, ma nelle nevi perenni di Hebra gli pare quasi d'esser tornato nel cuore di quest'inverno, a quella notte troppo fredda in cui Revali per la prima volta si è infilato sotto le coperte al suo fianco e lo ha circondato con le ali; quando ci ripensa, lo ricorda, Link prova la sensazione strana di qualcosa che scava dentro il suo ventre per farsi strada o forse per penetrare all'interno, non saprebbe dire; è una strana confortante eccitazione; è tutto così nuovo, per lui. Dovrà fare i conti anche con questo, ma non c'è fretta.
Esce dalla capanna nell'aria livida dell'alba: il suo fiato si condensa appena fuori dalla sua bocca, cristallizza nelle fibre dei suoi abiti in minute goccioline; la terra è gelata, stanotte, e dura come ghisa. Il forte dorme ancora, sono svegli solo i soldati di guardia: gli fanno cenni di saluto al vederlo passare, disinvolti e abituati a vederlo come se fosse proprio uno di loro; e forse lo è, ormai.
«Sei stato grande, Link» dice qualcuno battendogli una mano sulla spalla al suo passaggio: Link si sforza di non gemere sotto il colpo che gli fa quasi scricchiolar le costole. «Teba ci ha raccontato.» A quanto pare anche Teba è stato coinvolto, come risucchiato, nel vortice della vita del forte, delle necessità della difesa, da questa gente che ha accolto anche lui, qualche tempo fa: chissà cosa pensa, se è preoccupato, spaventato. È cento anni indietro nel passato rispetto alla sua vita: nel suo tempo ha una moglie e un figlio, stando a quanto ha detto Revali. È arrivato nel loro tempo col potere del piccolo guardiano; ma potrà tornare indietro allo stesso modo? Forse Pruna e Rovely saranno in grado di trovare una soluzione; ma solo dopo averlo pensato Link si rende conto che non sa neppure se stiano bene o siano rimasti coinvolti nel terremoto dell'avvento della Calamità. Non sa neppure se Lelek sia in salvo: il suo cuore si gonfia d'improvviso nel suo petto a quel pensiero. Avrebbe voluto poterlo proteggere; ma neppure questo gli è stato dato scegliere.
La principessa Zelda è stata alloggiata in una piccola costruzione nuda e spoglia al centro della roccaforte: le finestre sono state protette con pannelli simili a quelli che Revali ha montato per lui quest'inverno per tenerle al caldo. Link bussa piano contro lo stipite della porta, aspetta qualche istante, poi entra.
Prova la strana sensazione d'essere aspettato. La principessa è sveglia: è infagottata nei suoi abiti Rito troppo grandi per lei, coi capelli ancora raccolti e, di fianco, il piccolo guardiano come una sorta di inseparabile custode, come avrebbe dovuto esser lui per lei. Non s'è ancora abituata al clima troppo freddo dei monti di Hebra: tiene tra le mani una tazza di tè caldo che non accenna a bere, forse solo per scaldarsene le mani, ed è seduta, a gambe incrociate, accanto al grande braciere centrale, già acceso, china su uno stuolo di mappe militari. Non dice nulla, ma alza gli occhi di lui e si posa un dito sulle labbra, in silenzio. Impa deve stare ancora dormendo: Link intravede un'amaca nascosta dietro un paravento. Anche lei ha combattuto quanto lui, del resto.
Link avanza nella stanza, s'inginocchia di fronte a Zelda e dice a bassa voce: «Vi chiedo perdono, Altezza. Non vi ho ancora fatto le condoglianze per la vostra perdita.»
Zelda ha gli occhi pieni di quelle lacrime e di quella morte che non l'abbandona mai. Ci pensa sempre, ininterrottamente; è in ogni suo gesto, in ogni decisione che prenderà, d'ora in poi; ma chinando il capo per accogliere le sue condoglianze, risponde: «Non sei tenuto a farmele, Link, ma grazie. Mio padre non si è comportato bene con te.»
«Non importa. Era vostro padre. Ha cercato di fare quello che poteva nel tempo che aveva, come tutti noi.»
«Ma ha sbagliato, non è vero?» mormora Zelda. Posa la tazza sul pavimento di fianco a sé. «Anche io non sono stata corretta verso di te, Link. Non ti ho mai ringraziato per aver detto di no al mio posto quando ti hanno detto che avresti dovuto sposarmi.»
Link abbassa gli occhi sentendosi d'improvviso un po' confuso. «Perdonatemi, principessa. Non vorrei che voi aveste pensato... che fosse per voi. Sarei stato molto fortunato a sposare voi, ovviamente, ma...»
«Link» insiste Zelda. «Neppure io volevo, ma avrei comunque fatto tutto quello che mi ordinavano, come ho fatto sempre. Non avrei mai avuto il coraggio di oppormi... eppure a me non avrebbero mai fatto quello che stavano per fare a te. Mio padre non mi avrebbe messa a morte se avessi detto di no, ma io avrei avuto comunque paura e avrei detto sì, tutto quello che volevano, purché finalmente il mio potere si risvegliasse e smettessero d'accusarmi d'essere inutile e viziata. Tu sei stato coraggioso e hai detto di no per entrambi. Mi hai salvato anche da questo, come quel giorno dagli Yiga... e io non ti ho neppure mai ringraziato.»
«Non dovete ringraziarmi mai, principessa. Come quel giorno dagli Yiga» risponde Link, e Zelda sorride di un sorriso che a malapena rischiara i suoi occhi. Link osserva le mappe sul pavimento per cercare le parole da dire.
«L'altro giorno, se voi mi aveste ordinato di andare a salvare Urbosa per prima, io avrei disobbedito.»
«In quel momento eri in congedo. Non eri neppure tenuto a obbedire ai miei ordini.»
Link scuote la testa. «Non funziona proprio così, Altezza. Prima di tutto, è un congedo forzato. Se voi mi aveste ordinato di rientrare in servizio, io avrei dovuto obbedire... ma non è questo il punto. Il punto è che avrei disobbedito a prescindere, anche se avessi dovuto fronteggiare un altro processo marziale.»
«Link!» protesta Zelda a mezza voce. «Tu sai che io mai... mai, neppure se tu...»
Link alza le mani gentilmente per pregarla di lasciarlo parlare. Zelda ammutolisce ma un po' inquieta. «Principessa, voi sapete che io ho giurato di difendere Hyrule sempre, e non intendo venire meno al mio giuramento. Neppure adesso. Ma non voglio più combattere lontano da Revali. Se sapessi che lui è al sicuro, forse sarebbe diverso; ma anche Revali è come me e combatterà sempre, perché anche lui vuole difendere la sua gente. Permettetemi di combattere dove posso vederlo.»
Zelda china gli occhi sulle mappe che ha di fronte e le fa scorrere le une sulle altre con la punta delle dita. Sta riflettendo.
«Link, tu avrai il comando delle operazioni militari a partire da oggi. Non hai bisogno di chiedermi questo.»
Questo Link non se l'aspettava: è talmente inatteso che si limita a scuotere la testa. «No, Altezza. Questo non è possibile per una questione di grado. I generali...»
«I generali che volevano costringerci a sposarci e metterti a morte?» Quando Zelda alza gli occhi su di lui, il suo sguardo è più duro e tagliente di quanto Link l'abbia visto mai. «Link... io posso perdonare mio padre per quello che ha fatto perché sono sua figlia, e soprattutto perché si è sacrificato per difendermi ed è morto. Se doveva pagare, ha già pagato. Ma anche i generali hanno sbagliato. Posso perdonarli come ho perdonato mio padre; ma non intendo permettere loro di sbagliare ancora. Link, io mi fido solo di te. Accetterai il comando?»
Fanculo i teologi di corte, gli ha detto ieri Impa sulla neve; fanculo i generali, gli sta dicendo ora Zelda, con parole diverse da quelle di Impa, che non potrebbe usare mai, forse; ma con la stessa intenzione. Se suo padre è morto, Zelda ora è regina: e ora ha facoltà di scegliere e di rimediare agli errori di suo padre, dei generali, dei teologi, di quella generazione di vecchi spaventati che hanno cercato ovunque al di fuori che in loro una risposta al pericolo e alla Calamità, ovunque, nelle leggende e in un passato destinato a ripetersi sempre, pur di non dover ammettere di dover cercare la salvezza da soli.
«Se lo accetto, voi sarete disposta a esaudire una mia richiesta?» Zelda non gli chiede neppure di che cosa si tratti: lo guarda solamente, come a invitarlo a parlare senza volerlo interrompere, e Link prosegue. Gli sembra che non gli sia mai occorso più coraggio che per fare questa richiesta. «Voi sapete che io combatterò sempre per Hyrule, a qualsiasi costo... ma ho bisogno di chiedervelo. Quando tutto questo sarà finito, quando la Calamità sarà stata sconfitta... se io volessi lasciare l'esercito, mi lascereste andare?»
È una vigliaccheria. Dal suo destino di principessa, di regina, Zelda non potrà tirarsi indietro mai: non potrà semplicemente prendere congedo, scappare, ritirarsi: resterà prigioniera del castello e del destino delle sue antenate a vita, eternamente, e non potrà semplicemente andarsene, rinunciare; ma Link non è Zelda, dopotutto. I loro destini sono già divisi; l'ha detto lei stessa; si sono separati, se non altro, quando il re ha messo a morte soltanto lui per aver cercato di salvare entrambi. Ha diritto di chiedere.
Zelda l'osserva a lungo come se lo vedesse per la prima volta. Quando riprende la parola, d'un tratto Link si accorge che non è lui che le sembrava di non aver mai visto prima.
«Tu sarai libero come lo sei ora, Link. Io non ti imporrò mai niente. Ma... dopo la Calamità potremo ricominciare dall'inizio, credi?»
Link vorrebbe attraversare la breve distanza che li separa; vorrebbe scavalcare le mappe che si stendono tra loro e prendere la sua pallida mano per darle forza; ma non l'ha mai fatto e neppure lo osa. China lo sguardo sul piccolo guardiano che sorveglia Zelda gelosamente come un cucciolo con la madre e risponde: «Se non ci è dato neppure sperarlo, perché lui sarebbe tornato indietro?»
Più tardi, prima che Impa si svegli, per non disturbarla, Link rientra nella loro capanna: Revali si è alzato. Non è più agli arresti, ma non sembra particolarmente ansioso di uscire: è seduto per terra, a gambe incrociate, e come sempre sta lavorando. Sta sistemando il suo arco dopo la lotta contro l'Ira su Medoh. Alza gli occhi appena quando lo sente rientrare.
«Ah, eccoti. Per un attimo ho pensato di trovarmi in una di quelle ballate d'amore in cui l'innamorato scappa prima del mattino.»
«Avete delle ballate ben tristi.» Link rimane sulla soglia a osservarlo lavorare. «Non mi chiedi dove sono stato?»
«Qualcosa nella tua domanda mi fa presumere che me lo dirai ugualmente.» Revali lo osserva al di sopra dell'ardita curva dell'arco. «Posso conoscere questo segreto?»
«Sono stato dalla principessa. Mi ha chiesto di accettare il comando dell'esercito.»
Non è che sia poi così facile, o frequente, cogliere Revali alla sprovvista. Per un attimo Link ha la strana soddisfazione di vederlo aggrottar la fronte per la sorpresa.
«Non so cosa io debba dire in un caso del genere. Congratulazioni? Complimenti?»
Link si stringe nelle spalle mentre si siede di fronte a lui al calore del fuoco. «Non credo ci sia nulla da congratularsi in questa situazione. Le ho chiesto il permesso di non combattere più separato da te, ma solo se tu sarai d'accordo, naturalmente. Non voglio importi niente. Forse avrei dovuto parlarne prima con te, ma se non vorrai, sarai libero di muoverti come credi meglio.»
Dopo un lunghissimo istante, Revali posa al suolo l'arco che ha in mano. I suoi occhi limpidi lo scrutano al di sopra del chiarore del fuoco.
«Perché?» La sua voce è insolitamente calda.
Sforzandosi di sostenere lo sguardo dei suoi occhi verdi, Link risponde: «Perché ho commesso degli errori ieri. A un tratto, sul Monte Morte, se non ci fosse stata Impa... e anche su Rudania. Se non mi avesse riparato il fratello di Mipha, forse sarei morto. Mi sono reso conto d'essere distratto. Lo sai, non va bene per un soldato.»
«A che cosa pensavi?»
«Lo sai a cosa pensavo.»
Revali annuisce piano tra sé. Torna a sollevare l'arco, ma non si rimette subito al lavoro: è come se avesse bisogno d'una scusa per aver le mani e gli occhi occupati.
«Ci sarà molto da combattere nei prossimi mesi» commenta soltanto senza guardarlo.
«Esatto. E non voglio rischiare di trovarmi in un campo di battaglia isolato per giorni senza avere idea di dove sei o se tu sia vivo. Non voglio...» Link esita perché per quello che deve dire ora non ha mai trovato parole prima e non sa se sia in grado di trovarle. «Quel giorno in cui credevo che tu fossi morto... non so cosa ho pensato. Se non ci fosse stata Tara mi sarei lasciato soltanto sprofondare nella neve e avrei lasciato che gli altri andassero avanti senza di me. Neppure il patibolo è stato... non importa. È stato quello che è stato, ma quel giorno è stato diverso. Ha senso per te?»
Revali l'osserva a lungo al di sopra del fuoco: le fiamme riflettono nei suoi occhi barbagli aranciati e ognora mutevoli. Posa di nuovo l'arco sul pavimento di fianco a sé, delicatamente, e protendendosi in avanti posa la mano sui suoi capelli e lo attira piano contro il proprio petto.
«Non è che tu sia proprio un retore, eh?»
«Stronzo» risponde Link affondando il volto contro di lui.
«Comunque, ho capito. Non puoi vivere senza di me eccetera, giusto?»
«Non farmici ripensare» lo ammonisce Link, e Revali scoppia a ridere. Link sente la sua risata sotto forma di vibrazioni che lo scuotono.
«Potevi propormi un viaggio di nozze come tutti i comuni mortali, comunque. Che so, Akkala in autunno. Invece no, tu mi proponi di combattere insieme. Non sei proprio fatto per il romanticismo, tu.»
Link potrebbe fargli notare che si dà il caso che questo dannato Rito sia probabilmente la negazione assoluta del romanticismo, ma decide di lasciar perdere. Si rigira e si distende fino a lasciar riposare il capo nel suo grembo, e Revali sorride e si rimette a lavorare al di sopra di lui. Disteso contro di lui, Link sente che potrebbe quasi rimettersi a dormire: osserva i movimenti di Revali sentendosi le palpebre piacevolmente rilassate. C'è una strana piacevole abitudinarietà in quei gesti che non si era reso conto d'aver ormai imparato a conoscere.
«Potremmo andarci davvero, quando tutto sarà finito.»
«Andare dove?»
«Ad Akkala, io e te.»
Revali sorride appena e gli scompiglia piano i capelli, quasi distrattamente, come per abitudine. «È un'idea. Ne hai avute di peggiori.»
Link si appisola pensando alle foglie rosse degli aceri sulle colline di Akkala, infuocate sotto il tramonto, e per qualche minuto il pensiero della guerra che lo attende non gli sembra più così terribile. Revali continua a lavorare in silenzio tenendosi il suo capo sulle ginocchia come se fosse una cosa proprio naturale.

Il giorno seguente raggiungono il grosso dell'esercito Hylia, che è attestato nella piana di Hyrule in attesa di ordini.
Kagan non li ha visti partire con favore. «Se potessi, vi farei rimettere entrambi agli arresti» ha detto all'alba, al momento di salutarli, sforzandosi di non agitarsi perché aveva il suo bambino in braccio e non voleva turbarlo; ma se fossero stati soli, Link ne è certo, avrebbe dovuto trattenere le lacrime come la sera in cui è venuto da loro a salutare Revali. «Vorrei sapervi al sicuro.»
«Smettila con questi metodi dittatoriali, o ci prenderai l'abitudine» gli ha risposto Revali abbracciandolo, e Kagan gli ha tirato un pugno non troppo scherzoso sulla spalla.
«Mi fido solo di te» ha detto poi rassegnato, rivolgendosi a Teba che li avrebbe accompagnati, e Teba ha chinato il capo un po' imbarazzato; ma Kagan lo ha abbracciato ugualmente come se lo conoscesse da una vita, proprio come ha fatto con Link la sera in cui è arrivato al borgo. «Sei l'unico tra di loro con un po' di buon senso. So che ti do un grosso peso, ma dai un'occhiata a questi due idioti da parte mia, va bene?»
I soldati e i capitani sulla piana, quando li raggiungono, sono scoraggiati e demoralizzati. Hanno cercato di combattere contro i guardiani che si sono ribellati, per un po', ma senza convinzione; perlopiù sono riusciti a tenerli confinati nelle zone immediatamente circostanti il castello, lontano dai centri abitati principali, e questo è già qualcosa: per attaccare oltre, i generali attendono ordini più precisi. Gli uomini hanno paura: non hanno mai visto niente del genere, e molti di loro non sanno se le loro famiglie siano in salvo e al sicuro. La notizia che i Colossi sacri sono stati liberati e che i Campioni sono vivi, e che i popoli alleati continueranno a inviare truppe di rinforzo e a partecipare alle operazioni, li rinfranca un po'; ma soprattutto li riconforta il ritorno di Link. Gli uomini si sono fidati di lui sempre, incondizionatamente, talora anche troppo, perché Link si sente ben lontano dall'essere infallibile; ma il fatto che sia tornato dal suo esilio, per loro, è come il chiarore che precede l'alba. Se hanno di nuovo tra di loro la Spada che esorcizza il male, pensano, la vittoria sulla Calamità non può tardare ad arrivare; e Link spera tanto che abbiano ragione. I soldati lo acclamano quando lo vedono arrivare, percuotono gli scudi con le lance e con le spade, e gli ufficiali cercano di tenerli a bada ma con poca convinzione: al suo passaggio i capitani e i tenenti gli danno pacche sulle spalle e lo abbracciano familiarmente. Bentornato, mormorano alle sue orecchie, ci sei mancato; poi osservano Revali, che avanza al suo fianco in silenzio, superbo e marziale come sempre, colle ali incrociate dietro la schiena, gli ingombranti bendaggi ancora ben visibili sotto la tunica, e danno ordine di presentare le armi per l'orgoglio dei Rito.
Lelek lo raggiunge non appena lui e Revali si sono sistemati nella tenda predisposta al centro dell'accampamento: non lo saluta neppure. Link si sente d'un tratto un paio di braccia che lo cingono alla vita a tradimento, da dietro, e qualcosa di molto simile a un singhiozzo. Capisce di chi si tratta perché solo una persona in tutto l'esercito, e forse al mondo, ha abbastanza familiarità con lui da abbracciarlo così, d'improvviso; e anche perché, se Revali non gli ha ancora strappato le braccia, non può essere che perché si tratta anche dell'unica persona al mondo di cui Revali non sembra esser geloso. Si gira a fatica, all'interno di quell'abbraccio, e si stringe Lelek al petto accarezzandogli piano i capelli. Per un po' non dicono niente.
«Siete vivo» balbetta Lelek. Ha un po' di pianto nella voce.
«Certo che sono vivo. Ne dubitavi?»
«Avevano detto... pensavamo che, quando i Colossi sono stati conquistati... non sapevamo se voi foste su Medoh, oppure...»
«Sht. Va tutto bene» mormora Link contro la sua fronte. Lo accarezza come quella sera in carcere, come un bambino: se esiste qualcuno che vorrebbe essere in grado di proteggere dal mondo, quello è Lelek. «Tutto bene, tutto bene. I ragazzi della squadra sono salvi? E i tuoi cugini...»
I soldati e i suoi cugini sono la sola famiglia che a Lelek sia rimasta, e lo è stato anche lui, per un po', prima della condanna e dell'esilio: Lelek annuisce contro il suo petto. «Ho convinto i miei cugini a spostarsi al villaggio Calbarico più di un mese fa perché fossero al sicuro. Io e i ragazzi non eravamo al Castello quando è successo: ci avevano mandati in ricognizione perché erano stati avvistati dei lynel alle pendici dell'Altipiano... Ho il vostro scudo, sapete? Lo scudo di vostro padre...»
«Hai fatto bene» mormora Link. Lo discosta piano da sé per poterlo guardare negli occhi. «Ci riprenderemo il Castello, Lelek, vedrai. I Campioni sono salvi. Non siamo ancora perduti.»
«Lo so. Voi siete tornato» risponde Lelek tranquillamente, col tono di una cosa proprio ovvia, e dalla sua fede incrollabile e dalla sua fiducia Link si sente commosso oltre ogni dire. Non è mai stato certo di vincere, di liberare Hyrule, di sconfiggere la Calamità; ma la fiducia semplice e spontanea nella voce di Lelek è qualcosa che neppure volendo potrebbe tradire dopo averla sentita. Si sente un groppo in gola che non sa come sciogliere né come reprimere: si guarda intorno per cercare ovunque qualcosa che gli permetta di non dover sostenere oltre lo sguardo fiducioso dei suoi occhi; non vuol farsi vedere piangere, neppure di commozione.
Revali interviene a toglierlo da quella situazione. Avanza sorridendo dal fondo della tenda e posa sulle spalle di Lelek la lunga ala, scuotendolo appena, quasi per incoraggiarlo, e commenta ad alta voce: «Guarda un po' chi si rivede... il cucciolo di attendente. Il tuo capitano era sperduto senza di te, sai?»
Riesce persino nell'intento di strappargli una risata: Lelek si raddrizza e si asciuga gli occhi sforzandosi di ricomporsi. «Perdonatemi, maestro Revali. Non vi ho neppure salutato come si deve.»
Quando Zelda comunica ai generali che ha stabilito di affidare il comando delle operazioni militari a Link, non si solleva il coro di proteste e di minacce che Link si era aspettato in un primo momento: hanno paura, comprende Link al primo sguardo; e in questo modo, se fallirà, sarà solo colpa sua; non hanno più idea di come gestire la minaccia della Calamità ora che è arrivata di quando era solo prevista; ma ora l'evidenza dei loro errori sarebbe scoperta e palese e sotto gli occhi di tutti. Rassegnarsi al volere della regina e mostrarsi indignati e oltraggiati, certo, ma pronti a mettere da parte il loro orgoglio personale in nome del bene di Hyrule, è pur sempre più facile e dignitoso che dover ammettere che non hanno idea di dove metter le mani d'ora in poi. Lo osservano con sospetto e malcelato rancore, ma poi giurano tutti, perché non giurare, di fronte a un ordine di Zelda, sarebbe alto tradimento: Link li ringrazia chinando il capo per la loro fiducia, posa l'elmo sul tavolo e srotola di fronte a loro una serie di mappe militari. Del resto, non intende umiliarli: del loro aiuto e della loro esperienza intende servirsi in ogni modo possibile, e soprattutto non vuole rischiare a nessun costo un'insurrezione militare o un colpo di Stato; perciò affida loro compiti fondamentali ma non centrali e li colloca in difesa della Necluda e di Firone, nonché sulle coste, dove ci sono importanti centri abitati che a qualunque costo devono essere difesi; ma dovranno anche tenere difesa la piana di Hyrule. Il Castello, dove si annida la Calamità, è perduto, per il momento; ma Link intende tenerla confinata lì finché non avrà modo di indebolirla e occuparsene direttamente.
Quando gli altri Campioni raggiungono il quartier generale nella Hyrule centrale, dopo aver messo in sicurezza i riconquistati Colossi sacri e le rispettive città, portano con sé anche i guerrieri provenienti dal futuro: è la prima volta che si trovano tutti insieme. Vengono tutti dal medesimo futuro, ma tra di loro non si conoscono, a quanto pare: conoscono tutti Link, però, e hanno combattuto con lui. Link starebbe ad ascoltarli per ore, e forse finisce per approfittarsi della loro cortesia e del loro bisogno di parlare e di chiarire a se stessi che cosa sia accaduto: rimane a parlare con loro infinitamente, nelle notti troppo lunghe dei turni di guardia, attorno al fuoco, e cerca di figurarsi senza vederlo questo futuro in cui lui ha dormito per cento anni e Zelda è prigioniera del Castello e della Calamità, priva di un corpo e di una forma umana. Quando le è possibile, Zelda siede al suo fianco in silenzio, intimorita e inquieta, ad ascoltare un futuro che avrebbe potuto essere e forse non sarà; i suoi grandi occhi azzurri lo scrutano al di sopra del fuoco, forse cercando d'indovinare i suoi pensieri e di determinare se corrispondano o meno ai suoi. Nei loro racconti, Zelda è assente; o meglio è onnipresente, ma come uno spettro o un'assenza: è la consapevolezza vaga di quello strano Link del futuro, silenzioso e disperato, di avere un compito ineluttabile e di dover salvare una principessa che non ricorda d'aver mai vista né conosciuta ma cui in qualche modo deve la vita; è la presenza misteriosa, nel Castello, che tiene vincolata a sé la Calamità e attende un eroe che non sa se arriverà mai.
«E ce l'ho fatta?» chiede Link; si sente percorso da brividi pur nel calore del fuoco: Zelda sembra trattenere il respiro nell'attesa della loro risposta. «Nel vostro futuro l'ho salvata, dite?»
«Sì, Link» risponde Sidon a bassa voce, e gli altri eroi del futuro sembrano essergli grati d'aver risposto per tutti: Mipha posa le mani sul suo braccio. Sidon non lascia mai il suo fianco da quando l'ha ritrovata, e la guarda, in ogni momento, come un miracolo incarnatosi sulla terra; per lui, del resto, è proprio così. «Sei andato al Castello, hai combattuto e hai vinto. Nel futuro da cui proveniamo, tu e la principessa state lentamente ricostruendo Hyrule.»
Un lieto fine, dunque, ma dopo cento anni; e dall'altro lato del fuoco gli occhi di Zelda dicono abbastanza chiaramente che quel futuro non vuole vederlo mai. Salveranno Hyrule a qualunque costo, ma in questo tempo. Non sanno cosa accadrà in quell'altro futuro, ma non possono permettere che diventi anche il loro.
Anche i guerrieri del futuro sono molto interessati al loro passato, tuttavia, soprattutto per quanto differisce da quello che conoscono: la Calamità che si è risvegliata in anticipo, ovviamente, li colpisce per l'enorme portata delle conseguenze di cui è carica; ma anche il suo matrimonio desta non poco interesse. Sta diventando difficile anche spiegarlo, perché è ormai evidente che la definizione falso matrimonio non è più esauriente, o quantomeno è adatta soltanto a spiegare com'è che è andata all'inizio: e i salvatori ascoltano col fiato sospeso il tradimento dei teologi di corte e dei generali, il processo e l'esecuzione e il salvataggio, proprio all'ultimo momento, quando Link ormai aveva già il collo stretto dal cappio e a vivere non ci credeva neppure più. L'idea del falso matrimonio sembra loro avventurosa e folle, rocambolesca e geniale nella sua semplicità, ma soprattutto romantica come una leggenda: Revali passa talora un'ala attorno alla sua vita, un po' diviso tra l'imbarazzo e l'orgoglio, quando Yunobo o Riju si soffermano su quest'ultimo aspetto, e non dice altro. Non lo tocca mai in presenza di Mipha, perché della sua smisurata bontà non intende approfittare in alcun modo, e forse perché quello che hanno gli sembra qualcosa che non può venire ostentato né interessare ad altri; ma talora, quantomeno quando è certo che lei non possa vederli e dunque di non poterle infliggere alcun dolore, lo sfiora appena, e Link lo guarda e gli sorride. Sono in guerra, e questo è quello che hanno: ma va bene così. Urbosa e Daruk si concedono di prenderli un po' in giro, benevolmente, come tutto quello che fanno, e questo è il loro modo di dire che sono felici per loro; ma talora, con la coda dell'occhio, Link coglie ai margini del suo campo visivo Sidon che distoglie discretamente lo sguardo e talora si allontana. Non sa cosa pensare.
Gli Yiga si consegnano a loro il quinto giorno dopo l'avvento della Calamità: questa è forse la cosa più incredibile, e Riju, alla notizia, alza gli occhi in allarme e cerca con lo sguardo gli occhi degli altri guerrieri del futuro. È un'altra differenza del loro passato, a quanto pare, rispetto al futuro che finora conoscono, e che prova che il piccolo guardiano sta cambiando le cose: nel futuro, a quanto pare, gli Yiga non si sono mai arresi e combattono ancora per Ganon a distanza di cento anni.
«Stai attento» lo supplica Riju quando Link dà ordine di far passare Koga e Supa, privi di armi, che vengono a parlamentare per trattare i termini della propria resa. «È una trappola.»
Ma non è una trappola. Link, Impa e Revali s'incaricano di riceverli, mentre Zelda, per sua sicurezza, assiste all'incontro da una tenda comunicante ma riparata, protetta dai Campioni e dai guerrieri del futuro: Koga racconta tutto senza neppure venirne richiesto. Racconta cose incredibili. Parla loro di uno strano stregone di nome Astor che ha richiesto da loro, in nome della Calamità e delle sue Ire, un sacrificio che neppure gli Yiga erano più disposti a concedere: quando s'è visto morire i suoi uomini davanti senza poterli proteggere, persino Koga si è arreso; e ora gli Yiga sono disposti a rimettersi al giudizio della Corona e ad affrontare un processo per i loro crimini, pur di godere della protezione della regina e di potersi vendicare del traditore.
Se si trattasse soltanto d'altri alleati, Link forse li farebbe arrestare e condannare a morte sul momento; ma non sono soltanto le loro forze che gli Yiga gli stanno offrendo. Se dietro il ritorno della Calamità si cela questo Astor e gli Yiga hanno collaborato con lui, allora possiedono delle informazioni che a loro sono indispensabili; e di quelle informazioni non intende fare a meno.
Link si ritira con Zelda, per qualche minuto, per decidere: si trovano d'accordo molto presto. È un rischio; ma se è stata concessa loro la possibilità di salvezza, devono aggrapparvisi.
Concedono agli Yiga la grazia della vita purché combattano per la Corona e si sottopongano a processo non appena la Calamità sarà stata sconfitta, e soprattutto purché consegnino dieci ostaggi, scelti tra gli ufficiali Yiga di più alto grado, che dovranno rimanere in consegna all'esercito Hylia per tutta la durata della guerra: Link è quasi certo che a questa condizione rifiuteranno, invece Koga, dopo aver chinato il capo sul petto per un momento, sospira e si offre di consegnarsi. Prima che faccia in tempo ad alzarsi in piedi, Supa si frappone tra di loro e chiede d'esser scelto al suo posto. È in questo momento, nella voce di Supa che sceglie di consegnarsi al posto del suo maestro, che Link comprende d'un tratto quanto sono disperati e soli di fronte ad Astor e alla Calamità: hanno perduto anche loro degli uomini, dopotutto, e a differenza sua li hanno perduti per propria colpa. Delle vite perdute di quegli Yiga non cesseranno d'esser colpevoli mai, e tutto quello che rimane loro, adesso, è la speranza di sconfiggere Astor e vendicarli. Come ostaggi li rifiuta entrambi: li ha visti combattere. Se deve correre il rischio di fidarsi di loro, tanto vale averli di fianco a sé sul campo di battaglia: vuole la follia di Koga, le lame formidabili che solo Supa è in grado di maneggiare; si fa consegnare dieci sottufficiali con la promessa che non saranno obbligati a togliersi le maschere per mostrare i propri volti e che nessuno farà loro del male. A questo patto, poiché non ha alternative, Koga accetta. Impa organizza personalmente il trasferimento degli ostaggi al villaggio Calbarico sotto la custodia degli Sheikah: da questo momento gli Yiga combattono per loro.
La Calamità, e soprattutto questo misterioso e inafferrabile Astor, hanno aperto più fronti su più regioni di Hyrule: le battaglie si succedono le une alle altre. I generali mettono in discussione più volte le sue strategie: Link accoglie molte delle loro osservazioni, li tratta sempre col massimo rispetto; molto spesso hanno ragione, e della loro esperienza e dei loro punti di vista egli si sforza di far tesoro; altre volte fa di testa sua. Non vuole perdere più uomini dello stretto necessario, centellina le forze: non intende mandare soldati suoi né alleati alla morte per niente; non si possono salvare tutti, ovviamente; fa del suo meglio. È la guerra. Zelda si fida di lui ciecamente. Autorizza tutto quello che lui chiede o consiglia, approvvigionamenti, spostamenti di carri, bestiame, munizioni, rifornimenti, truppe: Impa lo consiglia costantemente. Revali è al suo fianco sempre: irride le sue decisioni in continuazione, ma mai davanti ad altri, e nel suo sarcasmo e nella sua ironia Link si sente rinvigorito in modi inusitati. La sera, nella loro tenda, Link rimane sveglio a riflettere sulle mappe e sui piani di battaglia, ripetendo costantemente progetti e riflessioni; Revali smonta ogni sua idea ed evidenzia ogni fallacia dei suoi piani, poi lo tiene tra le braccia, nell'amaca, e gli illustra alternative strategiche finché non si addormenta: il giorno dopo, quando illustra i piani ai generali, Link non sa più che cosa provenga dalla sua mente e che cosa da quella di suo marito, ma Revali sorride compiaciuto dall'altro lato della tenda.
Riconquistano le fortificazioni di Akkala e di Finterra, dove Rovely è rimasto attestato per giorni con un manipolo di soldati Hylia e Sheikah incaricati di difenderlo: lui e Pruna saranno essenziali nei giorni che verranno; il loro genio è insostituibile. Gli accampamenti si susseguono senza sosta per tutta l'estate: Link cerca di non aprire più fronti simultaneamente, perché non vuole disperdere le forze; non è sempre possibile, però. Non sono tutte battaglie campali: occorre difendere i villaggi e i piccoli centri abitati, respingere mostri isolati e interi gruppi di sbandati che scendono dalle montagne; talora occorre inviare piccole squadre, di solito guidate dai Campioni; Link stesso guida più di una spedizione. Non è fatto per comandare soltanto, è fatto per imbracciare la Spada e combattere; persino le piccole vittorie contro gli hinox e i lynel isolati servono a rinvigorire il morale dell'esercito e dei guerrieri, dopotutto: una volta Supa gli salva la vita, si schiera di fronte a lui intercettando un fendente brutale dello spadone di un lynel; Link rimane talmente senza fiato che gli viene in mente di ringraziarlo come si deve solo dopo, a scontro finito, e Supa reclina il capo e non risponde. Dopo questo episodio anche i Campioni iniziano a prestargli un po' più di fiducia, e Link lo guarda diversamente. Non saprebbe dire se gli Yiga siano pentiti davvero, quantomeno in parte, o se la loro non sia soltanto una raffinata strategia per ottenere la vendetta che bramano sullo stregone che li ha traditi, e se dopo, quando Astor sarà stato sconfitto, torneranno alla loro vita ai margini di Hyrule e della pace della Corona: ma Supa ha appena rischiato di perdere un braccio per aiutarlo. Se gli Yiga tradiranno quando tutto questo sarà finito, la Corona li perseguiterà; fino ad allora, Link intende valersi delle loro tecniche e della loro forza come di quelle degli altri alleati.
La guerra e le battaglie si avvicendano anche quando all'estate si succede un clima meno benevolo: i terreni di battaglia si fanno pantani in cui è difficile persino sollevare le gambe; Astor è sfuggente e imprendibile. Link prova talora la sensazione d'inseguire uno spettro o un sogno; a volte gli sembra d'essere a un passo dall'afferrarlo, d'esser quasi sul punto di sconfiggerlo o prenderlo, ma Astor sembra fuggire di fronte alla loro avanzata più rapido e incomprensibile di una chimera; sta perdendo terreno, però. Questo è innegabile, perché a poco a poco riconquistano le frontiere, le fortificazioni, i territori perduti; e forse la continua fuga di Astor non è più un vantaggio ma si fa, a poco a poco, il ripararsi d'una bestia con le spalle al muro, di tana in tana, nella speranza che prima o poi i suoi cacciatori rimangano invischiati in una delle trappole che ha teso per loro.
Prima che venga l'inverno, ripuliscono la gola Vapone dai mostri che vi si sono stanziati, protetti dalle alte pareti: è fondamentale, perché non possono permettere che i Rito affrontino un inverno sulle montagne, dove il freddo minaccerebbe non tanto gli adulti quanto i bambini; Revali spazza dall'alto di Medoh la lunga gola infinita che fende Hyrule come una ferita, ma è poi necessario andarci di persona, in piccole squadre, per giorni, a controllare le grotte e le fenditure profonde nella roccia, per stanare i mostri che vi si sono annidati e distruggerne covate e cuccioli: è un'operazione lunga, infame, e richiede di restar per giorni in piccoli gruppi all'interno di una voragine dalla quale a stento si vede il cielo, comunicando grazie a Rito scelti che fanno da staffette e da sentinelle per sorvegliare i lavori dall'alto ed evitare che le squadre si trovino colte impreparate o alle spalle, o peggio ancora vengano attaccate dall'alto; ma non è pericoloso. È quanto di più simile alla sua antica vita Link sia in grado di ricordare: la notte, quando si accampano, intravede qua e là, in lontananza, ai due lati della gola, i fuochi delle altre squadre di Campioni e soldati accampati come loro: le staffette Rito portano gli ultimi ordini per il giorno seguente, si schierano sentinelle sui dirupi, poi la gola sprofonda in un silenzio denso che non sembra trovar fine in nessuna direzione, infinito: le stelle vacillano al di sopra di loro, verticalmente, come un telo proteso tra le pareti della gola. Dormono all'aperto lungo le pareti di roccia altissima, quand'è necessario, o nelle grotte umide, fredde, coperte di muschio.
Talora, nelle notti sconfinate, echeggiano le strida dei grublin nascosti, annidati nelle profondità della gola, ma sempre più fioche e lontane, rade. Rannicchiato tra le braccia di Revali nell'umidità delle grotte, Link ascolta le grida fendere il silenzio, sempre più diradate col progredire della loro missione.
«Tra poco la nostra gente potrà tornare a casa» dice. «Quando avremo eliminato gli ultimi mostri, saranno di nuovo al sicuro.»
Revali percorre piano i suoi zigomi con la punta delle dita. «Kagan sarà contento. Potrebbe quasi perdonarci per non esserci fatti arrestare.»
«Non penso che basti questo. Forse quando la guerra sarà finita e torneremo a casa, dove può vederci.»
Chissà perché si aspettava la risata di Revali contro la sua gola, ma Revali, stranamente, non ride. Continua a percorrere i tratti del suo volto, lentamente, e d'un tratto Link sente che c'è qualcosa che deve dirgli. «Sei completamente riabilitato, ora. Se tu volessi potresti tornare alla tua vita di prima. Non sei obbligato a tornare a casa con me.»
Link si solleva puntellandosi a un gomito per guardarlo negli occhi. «Che cosa intendi dire?»
Revali non incrocia il suo sguardo. «Voglio dire che, se tu volessi rientrare nell'esercito regolare, potresti farlo. Riavresti il tuo attendente, i tuoi alloggi, la tua vita di prima.»
Link lo strattona per costringerlo a guardarlo. «Perché mi stai dicendo questo?»
«Perché è giusto che tu possa scegliere» risponde Revali. «Non è la vita che avresti scelto fin dall'inizio. Non voglio che tu rimanga solo perché...»
«La mia vita sei tu» lo interrompe Link.
Gli occhi di Revali si fanno appena più grandi nel chiarore delle braci morenti. Sorride appena mentre lo tira giù piano per farlo tornare a distendersi accanto a lui.
«Quando torniamo a casa, devi tagliarti i capelli» dice solamente, e Link ride contro il suo petto e si addormenta.
Non ne parlano più.

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