Salvezza per uomini morti di Afaneia (/viewuser.php?uid=67759)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Carcere ***
Capitolo 2: *** Patibolo ***
Capitolo 3: *** Colline ***
Capitolo 4: *** Borgo ***
Capitolo 5: *** Tautologia ***
Capitolo 6: *** Crisi del secondo anno (più o meno) ***
Capitolo 7: *** Interferenze ***
Capitolo 8: *** Consigli ***
Capitolo 9: *** Inverno ***
Capitolo 10: *** Vigilia ***
Capitolo 11: *** (Ri)Conquista ***
Capitolo 12: *** Ira ***
Capitolo 13: *** Fanculo i teologi di corte ***
Capitolo 14: *** Strategie ***
Capitolo 1 *** Carcere ***
Salvezza per uomini morti
I -
Carcere
[…] questo rumore lo
sento,
mi pervade
come un tradimento fatto da
me stesso a me stesso,
quel me stesso che avevo
esercitato e temprato
nell’illusorio orgoglio
del
coraggio invincibile – quale coraggio,
se nel profondo ci governa
la nostra vita estranea, la nostra morte estranea?
No, non c’è
alcuna
umiliazione. Se sono stato sconfitto, sono stato sconfitto
non dagli uomini, ma solo
dagli dei. Nessuna vittoria o sconfitta ci appartiene.
Ghiannis Ritsos, Aiace.
Il
suo attendente viene a trovarlo la terza sera. È riuscito a
portargli delle
mele, con la complicità evidente delle guardie che fingono
di non vederle: Link
lo ringrazia con gli occhi perché grazie a sufficienza non
potrà mai dirgliene.
Ne addenta subito una. Non mangia frutta né verdura da
giorni: in carcere non
ne passano. Per quanto i soldati gli stiano usando ogni riguardo
possibile, non
hanno potere sulla scelta del cibo.
Lelek
si siede in silenzio davanti a lui: è un bravo ragazzo.
L’ha servito sempre
fedelmente, con più ammirazione per lui di quanta Link abbia
mai sentito di
meritarsi, e il dolore nei suoi occhi è tale
ch’egli sente quasi d’avergli
fatto un torto. Alle sue spalle, al di là delle sbarre, la
guardia getta
un’occhiata nella cella e dice a bassa voce:
«Cinque minuti, Lelek. Siamo
intesi?»
Lelek
rimane a osservare la guardia finché questa non scompare nel
corridoio
principale, fuori portata d’orecchio, dopodiché si
volta verso di lui e tira
fuori un fagotto scuro da sotto il mantello.
«È
per domani» mormora porgendoglielo. «Nascondetelo
da qualche parte fino a
domani sera. Guardano sotto il materasso?»
È
un vecchio mantello liso, marrone, del tutto anonimo. Gli sfugge quasi
un
sorriso a vederlo. Link si asciuga le mani dal succo di mela sul petto,
con
calma, serenamente, e risponde: «Mettilo via, Lelek, prima
che qualcuno lo
veda.»
La
mascella di Lelek s’irrigidisce mentre i suoi occhi
s’accendono di panico.
Getta uno sguardo disperato verso il corridoio, là dove una
spalla della
guardia s’intravede appena dietro un angolo, e sibila a denti
stretti:
«Capitano, per favore!»
«Lelek…»
«È
già tutto organizzato. Domani notte sono di turno i ragazzi
della squadra. Vi
faranno uscire loro. Fuori dalla prigione ci saranno i miei cugini con
un carro
coperto, se tutto va bene sarete a Vappesca prima
di…»
«Lelek»
ripete Link. «Metti via quel mantello e dì ai tuoi
cugini che domani sera
possono restare a dormire. Non scapperà nessuno. Tantomeno
io.»
La
scarsa sicurezza che Lelek ha tanto faticato a racimolare per venire
qui a
dirglielo sta venendo meno.
«Capitano,
vi prego» mormora. Gli trema la voce di pianto. È
solo un ragazzo, in fin dei
conti, e l’esercito è la sola famiglia che
conosce. Link sa di essere per lui
insieme un capo, un fratello e un eroe, e dovergli dire di no, ora,
è
assurdamente doloroso. «Vi prego. Non potete lasciare che vi
facciano questo.
Lo sapete che hanno già deciso.»
Link
posa la mano sul mantello che gli porge, dolcemente, e spinge indietro
la sua
mano. Non vuole ferirlo né mostrargli ingratitudine; ma
bisogna che Lelek
capisca.
«Se
mi aiutate a scappare, per voi c’è la corte
marziale. Non posso permettervi di
farlo, perciò mettilo via. È un ordine»
aggiunge a bassa voce, sorridendo
appena, nel tentativo di alleggerire quella tensione dolorosa che si
è
stabilita tra loro, nella cella; ma il suo scherzo, a quanto pare, non
è
divertente.
Lelek
lo guarda con occhi pieni di disperazione. «Non sono tenuto a
obbedirvi. Siete
in arresto.»
«Hai
ragione» riconosce Link. «Allora te lo chiedo come
un amico che chiede un
favore a un amico. Per favore, ringrazia i ragazzi e dì loro
che sono grato per
quello che volevate fare, e poi annulla tutto e non parlatene mai
più, nemmeno
tra di voi. Hai corso già abbastanza rischi venendo qui. Non
venire più, siamo
intesi?»
Lelek
ha continuato a porgergli il mantello per tutto questo tempo,
testardamente,
col braccio proteso verso di lui; ma alla fine anche il suo coraggio
gli viene
meno. Abbassa il braccio lentamente mordendosi le labbra per non
piangere.
«Perché
lasciate che vi facciano questo?» mormora.
Link
non sa che altro fare per consolarlo: il suo dolore gli pare
più grande del
suo, in questo momento, e forse è l’unico vero
dolore che sia riuscito a
provare da giorni a questa parte. Lo attira a sé, contro il
proprio petto, e lo
culla tra le braccia mentre è scosso dai singhiozzi.
«Sht»
sussurra contro il suo orecchio come faceva sua madre con lui, come lui
ha
fatto tante volte coi suoi ragazzi troppo giovani che piangevano il
primo
giorno di leva, le notti prima delle battaglie. «È
perché ho giurato di servire
Hyrule sempre. Non piangere, non piangere. Andrà tutto bene,
Lelek, e si
risolverà tutto, ma ora ho bisogno che tu mi prometta che tu
e gli altri
ragazzi non farete nulla di stupido per me, va bene?»
«Avete
combattuto per Hyrule quando ve l’hanno chiesto! E
adesso…»
Lo
interrompe la guardia che torna ad affacciarsi dall’altro
lato delle sbarre.
Getta una rapida occhiata dentro la cella, forse per accertarsi che
siano
ancora lì, e torna subito a distogliere lo sguardo, forse
per imbarazzo o per
evitare di dover mentire se dovesse trovarsi a testimoniare sul loro
incontro.
«Mi
dispiace, Lelek» dice ad alta voce, schierandosi davanti a
loro con le spalle
alla cella. «Cinque minuti. Non posso fare di
più.»
Lelek
è l’unico che sia venuto a trovarlo. Non
è per colpa degli altri: ai Campioni
non è permesso scendere quaggiù, mentre Zelda, se
non è cambiato niente, è
ancora trattenuta dai soldati nelle sue stanze. Impa, forse, sarebbe
potuta
venire; ma Link reprime quel pensiero dentro di sé
perché è troppo doloroso da
affrontare, e al dolore, ora, non può permettersi di
abbandonarsi. Credere che
i suoi compagni d’armi siano stati trattenuti è in
fondo meno spaventoso che
accettare di essere stato abbandonato. Allontana Lelek da sé
con delicatezza.
«Vai,
ora» mormora. Vorrebbe suonare incoraggiante e fiducioso,
infondergli coraggio,
come sul campo di battaglia; ma gli occhi di Lelek sono enormi e
smarriti come
quelli di una bestia spaventata. Non vorrebbe lasciarlo
perché non sa quando lo
rivedrà. «Stai tranquillo. Domani
c’è solo il processo. Non è ancora
detto
niente.»
Glielo
legge negli occhi che non solamente non ci crede, ma che è
ben consapevole,
precisamente come lo è lui, che in realtà tutto
è già detto e prestabilito dal momento
in cui lo hanno arrestato e gettato
in carcere; che questi giorni di attesa, che il processo, domani, sono
soltanto
formalità e finzioni che servono per mantenere una parvenza
di legalità in
tutto ciò; che tutti sanno già perfettamente
quello che accadrà, come nella
sequenza di eventi determinata da un meccanismo.
Lelek
si aggrappa alle sue spalle perché non vuole lasciarlo
andare.
«Abbiamo
fatto una colletta» sussurra. «Vi faranno avere del
vero cibo, qua dentro, per
qualche giorno.»
Chissà
perché è questo, dell’inferno degli
ultimi giorni, a fargli venire un groppo
alla gola che minaccia di farlo piangere. Più
dell’umiliazione dell’arresto,
più del pensiero dell’abbandono, sono i suoi
soldati che hanno fatto di tutto
per fargli avere del cibo decente in carcere. Vorrebbe ringraziarlo,
abbracciarlo di nuovo; vorrebbe piangere; ma tutto quello che concede a
se
stesso di fare è stringerlo brevemente a sé per
un istante e posare la fronte
contro la sua.
«Non
fatelo più» dice guardandolo negli occhi.
«È troppo pericoloso per voi, Lelek.
Non devono potervi accusare di avermi aiutato. Non fatelo
più, promesso?»
Lelek
è stato al suo fianco, insonne, nelle tende ai margini del
campo di battaglia,
per anni; aveva quattordici anni il giorno della loro prima battaglia;
era un
bambino. Ha pulito le sue armi incrostate di viscere e fango, ha
ascoltato i
suoi piani di battaglia interminabili nella notte, fingendo di riuscire
a
seguire i suoi ragionamenti per non spezzare il filo ininterrotto dei
suoi
pensieri; una volta s’è spinto per due miglia su
terreno scoperto, senza
avvisarlo, per procurarsi il pesce per la sua cena; Link
s’è arrabbiato, quella
volta, e gli ha inflitto anche una punizione, sebbene troppo lieve
rispetto
all’infrazione, secondo i regolamenti militari,
perché correre un rischio del
genere per procurare la cena del capitano era inaccettabile: Lelek si
è finto
dispiaciuto e ha accettato la punizione a testa bassa, con
un’espressione
contrita eppure stranamente compiaciuta, perché anche lui
sapeva che il
regolamento avrebbe prescritto una sanzione ben più grave e
che Link gli stava
soltanto mostrando clemenza, quel giorno. Ha trasgredito gli ordini
anche
un’altra volta: quando combattevano a Hebra, nella neve, e
Link ha ricevuto una
lancia nell’addome che gli ha perforato gli intestini. Era
certo di morire,
quella volta: ne aveva visti troppi uomini cadere così. Ha
ritirato la mano
dall’addome, riverso al suolo nella polvere, e se
l’è vista sporca di sangue e
feci fuoriuscite attraverso la ferita: era una condanna a morte,
quella. Tutti
gridavano intorno a lui e lui aspettava invano, colla vista che gli si
appannava
e le orecchie ovattate, di non vederci più del tutto, di non
sentir più dolore
mai; e d’un tratto Lelek è spuntato dal nulla nel
clamore della battaglia e gli
ha messo una mano nella ferita per tenere al loro posto gli intestini e
bloccare la fuoriuscita di sangue. Aveva sedici anni, quel giorno,
quasi
diciassette, e gli occhi enormi d’orrore; era convinto di
morire anche lui
restando lì, esposto, al suo fianco; eppure non
s’è allontanato. Vai
ha mormorato Link muovendo appena le
labbra, ritirata ha ordinato nella
folle idea che forse Lelek avrebbe obbedito a un ordine diretto
impartito in
termini militari; lasciami qui ha
bisbigliato con le labbra screpolate e secche, la bocca piena di sangue
e di
terra, e Lelek ha continuato a ripetere ininterrottamente,
terrorizzato,
sforzandosi di guardarlo sempre negli occhi e di non abbassare mai,
neppure per
un momento, lo sguardo sulla propria mano affondata nel sangue e nelle
feci:
«Revali ha avvertito Mipha, capitano. Sta arrivando, deve
solo superare la barricata.
È a un miglio da qui. Dovete solo avere pazienza. Resto io
qui con voi, ma voi
dovete rimanere sveglio. Per favore, per favore, rimanete
sveglio.» L’accento
disperato della sua voce era cullante come una melodia, e Link pensava
che lo
avrebbe aiutato a perdere lentamente coscienza, cullato dalla monotonia
della
sua voce; andarsene di fianco a quel ragazzo buono e coraggioso era poi
meglio
che morire solo come un cane con le ossa schiacciate dagli Hinox, ma
ascoltandolo Link non è riuscito a lasciarsi morire.
Continuava a pensare che
uno dei suoi ragazzi avrebbe dovuto ritirarsi e invece era
lì, che stava
trasgredendo un ordine diretto e perciò forse lui sarebbe
stato costretto a
infliggergli una punizione; e il cielo sa quanto Link odiasse punire i
suoi
ragazzi. Alla fine è stato questo pensiero a salvarlo, Link
ne è certo: perché
a un tratto, dopo minuti che si facevano interminabili nel clamore
della
battaglia e nella nenia ripetuta del suo attendente che lo supplicava,
egli ha
visto spuntare dal nulla Mipha con due medici militari e un corpo di
soldati
Zora rinforzo che li ha protetti con gli scudi mentre loro lo
ricucivano e lei,
per l’ennesima volta, lo salvava. Lelek è rimasto
al suo fianco anche mentre lo
ricucivano. Link ha ottenuto per lui una medaglia, per questo, e una
sera lo ha
fatto chiamare nei suoi appartamenti e gli ha donato la spada di suo
padre.
Lelek non voleva accettarla, all’inizio: continuava a dire
che quella spada era
troppo importante, che non se la meritava; che sarebbe servita a lui,
un
giorno, quando avesse dovuto riporre nella Foresta la Spada che
esorcizza il
male… ma Link è stato irremovibile. Ha voluto che
Lelek avesse quella spada
perché è stato l’unico a credere che
potesse sopravvivere persino quella volta
quando a vivere lui non credeva neanche più, ed era pronto a
lasciarsi andare
senza lottare oltre, tra il fango e il sangue, sotto i monti di Hebra;
e ora
che la sua morte è divenuta un fatto certo e incontestabile,
qualcosa che è
stato dato in pasto alla macchina burocratica del regno e
dell’esercito e che
proseguirà per la sua strada malgrado la volontà
di chiunque, Link è ancora più
felice di avergli donato quella spada; ma proprio per questo dirgli
addio è un
dolore terribile.
Con
la fronte premuta contro la sua, Lelek ricambia il suo sguardo e
risponde: «Mi
dispiace, capitano. Questo proprio non posso promettervelo.»
Link
non fa in tempo a risponder nulla, forse nemmeno ne ha le forze. Lelek
si alza,
batte la mano sulle sbarre e si fa aprire dalla guardia. Non si volta
più a
guardarlo perché ha gli occhi rossi di pianto.
Link
rimane solo seduto sulla sua branda, a ricordare con gli occhi chiusi
il giorno
di quella battaglia e le cime innevate di Hebra che spuntavano ai
margini del
suo campo visivo, sotto il cielo limpido e azzurro, mentre stava
disteso nel
fango in attesa di morire. Non è stato sempre bello, essere
vivo; ma è stato
intenso, e combattere era la sua vita. Forse avrebbe preferito morire
così,
combattendo; ma non ci è dato sempre scegliere.
Vengono
a portargli la cena, dopo un po’: è sera, dunque;
nei sotterranei del carcere è
difficile tener traccia del tempo che passa. La guardia entra a
portargli la
ciotola con aria profondamente colpevole; eppure non è colpa
sua, questa.
«Sono
riusciti a farvi avere della vera carne, stasera, capitano»
dice a voce bassa
come se dovesse scusarsi di qualcosa. «Anche per domattina,
penso. Almeno
sarete in forze per affrontare il processo.»
Link
si sforza di mostrargli un po’ di gratitudine. Ha sempre
cercato di essere un
esempio per i soldati, fin da quando gli hanno dato il comando.
«Grazie, Ronan.
Non dovreste farlo, ma grazie. Lo apprezzo enormemente.»
«Domattina
verranno a svegliarvi prima del solito e vi porteranno
dell’acqua pulita.
Almeno potrete lavarvi prima di… Mi dispiace che non
possiamo fare altro,
capitano, ma se c’è qualcosa, chiedete. Vedremo
quello che possiamo fare.»
«Non
sono più capitano» gli ricorda Link strofinandosi
gli occhi.
«Mi
dispiace, capitano» borbotta la guardia tornando al suo
posto. «Non sono
d’accordo con voi.»
Link
si appoggia di spalle contro la parete e torna a chiudere gli occhi per
un
istante, beandosi soltanto della sensazione della scodella calda e
pesante tra
le sue mani. È stato destituito, disonorato, imprigionato, e
di certo verrà
messo a morte; ma è bello sapere che i suoi soldati
serberanno un bel ricordo
di lui, anche dopo. È un pensiero confortante cui
aggrapparsi, adesso.
È
successo tutto in maniera così sottile, subdola, che
è stato difficile tener
conto degli eventi finché non è stato troppo
tardi; e a quel punto non gli è
rimasto che restare a guardare gli eventi accadere uno dopo
l’altro,
precipitando dall’alto come massi dalla cima dei monti. Forse
è iniziato tutto
molto tempo fa, quando hanno saputo del ritorno della
Calamità, e forse chissà,
a dar retta al re ancora prima, diecimila anni fa, quando la
Calamità è nata e
per la prima volta, nel passato, un eroe e una principessa
l’hanno combattuta e
hanno vinto; non saprebbe dirlo più. Forse non lo ha
veramente capito.
I
teologi di corte hanno continuato a studiare le antiche leggende per
tutto
questo tempo, nella speranza di trovarvi qualcosa in grado di aiutarli
a
combattere la Calamità: hanno formulato teorie, compulsato
testi antichi,
confrontato varianti e lezioni discordanti della tradizione manoscritta
alla
ricerca di qualsiasi cosa potesse fornir loro un indizio su quanto
sarebbe
accaduto; Link li ha ascoltati col massimo rispetto quando gli hanno
esposto le
loro opinioni, di tanto in tanto, e sempre col massimo rispetto ha
dimenticato
le loro parole subito dopo. Tutto molto interessante, certamente; ma la
Calamità andava combattuta, e combattuta con la spada e con
gli alleati;
null’altro.
I
loro studi non lo hanno mai riguardato fino al giorno in cui i teologi
non
hanno proposto un’interpretazione della leggenda totalmente
nuova, alla quale
Impa e gli altri Sheikah si sono opposti con tutta la loro forza; ma il
buonsenso delle loro argomentazioni si è scontrato e
infranto contro la
suggestione della leggenda. L’eroe
e la
principessa si amavano, hanno iniziato ad affermare i
teologi, l’eroe e la principessa
erano sposati, nelle
ere passate; è per questo che i poteri della principessa
Zelda non si destano:
perché non possono farlo in queste condizioni. Era una stupidaggine, una sciocchezza: la prima
volta che ha sentito
quella teoria, nei corridoi del Castello, Impa s’è
infervorata a smontarla; è
una Sheikah, e queste leggende fanno parte della sua cultura e se
n’è imbevuta
fin da bambina; ma non era una teologa, le è stato risposto.
Era una
consigliera e una guerriera, hanno obiettato i teologi, e forse avrebbe
fatto
meglio a restare al suo posto e a occuparsi di quel che le competeva.
Del resto,
Impa non ci voleva perdere poi molto tempo: erano questioni oziose e
inutili, o
almeno così sembrava per i primi tempi, e lei aveva
realmente altro a cui
pensare.
Il
problema è sorto quando quelle questioni non
sono rimaste poi così oziose come sembrava
all’inizio; quando i teologi hanno
cominciato a mormorare nelle orecchie del re, mostrandogli codici
manoscritti
risalenti a secoli addietro, che forse avevano frustrato ogni tentativo
di
Zelda già in partenza, costringendola a sfiancarsi ed
estenuarsi in preghiere
prive di scopo e di senso, perché se non avesse sposato
l’eroe i suoi poteri
non avrebbero potuto svegliarsi mai; che l’errore non stava
in lei, ma nelle
premesse…
Il resto è venuto da sé. Il re ha passato giorni
a
osservare Zelda incupito, inasprito verso di lei e verso se stesso;
è diventato
intrattabile, roso dal dubbio d’averla incolpata per qualcosa
su cui non poteva
avere controllo né responsabilità; e poi
è passato a osservare Link,
altrettanto intrattabile ma più curioso. Lo ha chiamato
più volte, al termine
dei suoi allenamenti, e Link ha risposto alle sue domande nel modo
più
rispettoso ed esauriente possibile, un po’ sorpreso, ma
neppure più di tanto:
non c’era poi nulla di strano. Non erano domande insolite per
il cavaliere
addetto alla sicurezza personale della principessa, sulle cui spalle
pareva
destinato a pesare il destino di Hyrule.
Ha capito troppo tardi che i teologi e il re
parlavano la stessa lingua, in quei giorni; una lingua che non gli era
dato
comprendere, a quanto pareva, o che forse è stato troppo
sordo per ascoltare
con attenzione. Il primo vero accenno è stato quando un
generale gli ha fatto
le congratulazioni, come se parlasse di qualcosa noto a entrambi: Link
si è
soffermato a guardarlo con attenzione, poi, rispettosamente, ha chiesto
a che
cosa fossero dovute. Il generale ha riso e ha detto che ammirava la sua
discrezione, ma che ormai era cosa nota.
A quanto pareva, era cosa nota a tutti tranne che a
lui, ma non per molto. Quella sera stessa il re lo ha convocato nelle
sue
stanze; c’erano con lui i più alti ranghi
dell’esercito, che apparivano tronfi
e compiaciuti e piuttosto convinti di dargli una splendida notizia;
parlando a
voce bassa, amareggiata, il re ha detto: «Riteniamo che sia
tempo che voi
sposiate la principessa ed entriate a far parte della nostra famiglia
in modo
che entrambi possiate adempiere al vostro destino.»
Se quel riteniamo fosse riferito
al re, come plurale di maestà, o se piuttosto non vi si
celassero dietro i
teologi di corte, Link non avrebbe saputo dirlo. Si è
limitato ad aspettare la
fine del discorso, pensierosamente, e quando è stato
evidente che nessuno
avrebbe più parlato e che ci si aspettava da lui
un’incondizionata
approvazione, ha chiesto: «La principessa Zelda
acconsente?»
«La principessa» ha risposto gravemente il re
«È
ben consapevole del suo ruolo e dei doveri che da lei ci si aspettano.
Riteniamo perciò che acconsentirà come a cosa
necessaria per il benessere e la
salvezza di Hyrule.»
Di questo, rispettosamente, Link si permetteva di
dubitare; ma la cosa, comunque, era al di fuori del suo controllo. Non
poteva
rispondere che per se stesso, perciò ha risposto:
«Ho prestato giuramento di
difendere e di servire Hyrule con la mia spada per tutta la mia vita, e
non
intendo venir meno alla mia parola; ma il mio giuramento riguardava
soltanto la
mia vita nell’esercito. La mia vita privata non è
coinvolta nel mio giuramento.
La mia risposta è no.»
Hanno cercato di convincerlo con le buone,
all’inizio. Hanno parlato tutti, prima accavallandosi e poi a
turno,
ragionevolmente, cercando di dimostrargli che da quel matrimonio non
potevano
derivarne che benefici a lui personalmente, a Zelda, ma soprattutto al
regno
intero; Link ha approvato le loro parole, sentendo sempre
più aggravarsi la sua
situazione, e ha continuato a dir di no. Gli hanno dato tre giorni per
riflettere; in quei giorni Zelda è riuscita a sfuggire per
qualche minuto alla
scorta armata che il re aveva messo alle sue porte, con la scusa della
sua
protezione, per venire a parlargli di nascosto: era confusa eppure
fiduciosa.
Forse non credeva davvero che suo padre avrebbe portato la faccenda
fino in
fondo; persino a lui un matrimonio forzato, come non usano da secoli
addietro,
doveva sembrare troppo. «Forse basterà
rifiutare» gli ha detto in un momento di
speranzosa follia, solo un poco inquieta. «Non possono
obbligarci.»
Potevano. La mattina del terzo giorno Zelda è stata
confinata nei suoi appartamenti dalle guardie e a Link è
stato ricordato senza
mezzi termini che, rifiutando un ordine diretto del re, rischiava la
corte
marziale. Senza scomporsi, Link ha pranzato con calma, ha indossato la
divisa
della guardia reale, ha congedato il suo attendente e si è
seduto nei suoi
alloggi ad aspettare che venissero ad arrestarlo; ha scritto qualche
lettera,
nel frattempo, e ha annotato delle idee sulle mappe che campeggiano da
mesi sul
suo tavolo da lavoro. Quando i soldati mortificati si sono presentati
con
l’ordine d’arresto, ha chiesto solo la cortesia di
non essere ammanettato, ha
deposto la Spada sul tavolo e li ha seguiti senza opporre resistenza.
Lo processano il quarto giorno dopo il suo arresto.
Proprio come il soldato di guardia gli ha annunciato ieri sera, vengono
la
mattina presto a portargli acqua pulita, appena tiepida, e una divisa
di
ricambio. Questo non è regolamentare: Link se la rigira tra
le mani sorpreso e
alza lo sguardo sui soldati, ma loro girano gli occhi attorno fingendo
di non
sapere come possa essersi procurato abiti puliti in carcere. La loro
fedeltà lo
commuove oltre ogni dire. Non vorrebbe che fossero costretti a questo:
è quasi
più doloroso per loro che per lui. Gli danno le spalle per
qualche minuto
mentre si lava e si riveste: l’acqua è fredda, ma
in fondo, quand’era soldato
semplice, ci era abituato. Non è poi tanto diverso da allora.
Quando lo scortano nell’aula designata per il suo
processo, si sorprende di vederla tanto vuota: avrebbe creduto che la
caduta
del cavaliere che brandisce la Spada che esorcizza il male avrebbe
fatto più
rumore, che in tanti sarebbero venuti a vedere la sua rovina; ma poi
l’improvvisa portata di questa realizzazione lo atterrisce
come un colpo in
pieno petto. È un processo a porte chiuse. Forse non
cambierà molto, perché in
fondo già sa come andrà a finire al suo ennesimo
rifiuto di sposare la
principessa; ma avrebbe voluto che ci fosse almeno qualcuno a sentire
la sua
versione dei fatti. Tutto quello che uscirà da questa corte,
invece, sarà che
lui è stato condannato per alto tradimento come se avesse
tramato per
rovesciare il regno. Non c’è nessuno dei Campioni,
né dei suoi sottoposti;
Zelda è assente, ancora nelle sue stanze, probabilmente; non
c’è nessun
consigliere di corte, dunque è logico che manchi anche Impa.
È un tribunale
strettamente militare, del resto, dunque per quale motivo avrebbero
dovuto essere
presenti? C’è solo il re, ma non prende mai la
parola. Si limita a osservare,
in fondo all’aula, e non lo guarda mai negli occhi.
Il processo si svolge in modo farsesco eppure
apparentemente regolare, con sapiente maestria. Gli viene chiesto
perché si sia
opposto a un ordine diretto del re, ma non viene esplicitato quale, in
modo che
non venga messo a verbale; poiché è una domanda
diretta, non gli rimane che
rispondere che quell’ordine esulava dal servizio e dunque lui
non era tenuto a
obbedirvi. Gli viene chiesto se persista nel suo rifiuto di obbedire
all’ordine
del re e dei suoi generali, e Link non può che rispondere
che a quell’ordine
non può obbedire. Potrebbe aggiungere molte cose, riguardo a
questo: per
esempio che quell’ordine esula dalla legalità e
dai fini del servizio, che non
ci sono precedenti, che in nessun regolamento militare è
possibile processare
un ufficiale per non voler prendere una moglie che non desidera e che
non lo
desidera a sua volta; ma non spreca voce né tempo. Sapeva
fin dal momento del
suo arresto che il modo per condannarlo, se avesse continuato a dir di
no, lo
avrebbero trovato senza problemi; e le sue parole non usciranno da
quest’aula.
Se ci fosse stato qualcun altro sarebbe stato diverso: avrebbe almeno
provato a
difendersi, non per salvarsi, ma perché la sua versione dei
fatti,
l’ingiustizia di quel processo, continuasse a vivere anche
dopo di lui; non è
così. È solo di fronte a questi militari anziani,
spaventati dalla Calamità e
dalla loro incapacità a combatterla, convinti in qualche
misura che se
perderanno sarà perché lui non ha obbedito agli
ordini e alle leggende, e
dunque già pronti ad assolversi con e dalla sua condanna.
La corte impiega quasi venti minuti per deliberare,
il che è un bene, a suo modo di vedere – non
perché cambi qualcosa, ma perché
vuol dire che probabilmente c’è ancora qualcuno,
tra quegli anziani generali di
corpo d’armata, che non è pienamente convinto
della sua colpevolezza o della
necessità di metterlo a morte; forse persino qualcuno che si
sta spendendo per
la sua difesa; gli piacerebbe sapere chi è, per ringraziarlo
cogli occhi,
quantomeno.
Quando rientrano in aula decretano che venga
condannato a morte per impiccagione e che la sentenza venga eseguita
all’alba
del giorno seguente.
Quando
ho finito, di recente, la mia fanfiction più strutturata e
ambiziosa, ho
provato un senso di smarrimento violentissimo che è
perdurato per giorni: avevo
paura che non avrei più scritto qualcosa di simile e che mi
desse altrettanta
soddisfazione.
Quella
paura, intendiamoci, non è scemata; ma ho deciso di
combatterla ripromettendo a
me stessa, nonché a mia sorella e alla mia instancabile beta
Fiulopis, che mi
sarei impegnata a scrivere anche cose più rassicuranti e
meno angst del mio
solito. Giuro che, anche se per ora non sembra, questa storia
è scritta proprio
per mantenere la mia promessa: perciò, anche se per ora
c’è puzza del mio
solito angst (la sento pure io!) vi prometto che la rassicurazione
verrà, anche
se non sono sicura che sarò in grado di scriverla. Ma, in
fin dei conti,
pazienza: intendo fare del mio meglio per uscire dai miei soliti schemi
e per
scrivere anch’io su qualcuno dei trope melensi e rassicuranti
che di solito amo
leggere. Spero che vorrete accompagnarmi in questo tentativo al di
fuori della
mia comfort zone, avendo pazienza se ne uscirà uno schifo.
Una
piccola avvertenza prima di proseguire:i sarete ovviamente resi conto
che l'ambiente reale di questa storia sarà, ovviamente, un
tantino più soffocante e rigido che in BOTW e in Hyrule
Warriors: Age of Calamity. Ho pensato di riprendere e sviluppare un'idea che avevo appena abbozzato durante l'ultimo Writober: presto scoprirerte quale.
Nell’attesa
di scoprire che cosa ne uscirà, un bacio a tutti!
Afaneia
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Patibolo ***
II
– Patibolo
E
poi, soprattutto, è riposante, la tragedia,
perché si sa che non c’è più
speranza, la sporca speranza; che si viene presi, che alla fine si
viene presi
come un topo, con tutto il cielo sopra di noi […]. Nel
dramma, ci si dibatte perché si spera di uscirne.
È
ignobile, è utilitario. È gratuito, questo.
È per i re. E non c’è più
niente da
tentare, alla fine!
Jean Anouilh, Antigone.
È troppo frastornato per avere paura. Sta
succedendo tutto così in fretta.
I soldati non hanno il coraggio di
guardarlo negli
occhi. Lo riportano in cella ammanettato per ordine dei superiori:
hanno paura
della sua forza, non i soldati, ma i generali, si rende conto Link
fissando le
proprie mani dure, callose, coperte di cicatrici al di sotto delle
manette;
guardarle lo aiuta a mantenere il contatto con la realtà.
Hanno paura che si
ribelli, che afferri una spada da un fodero qualsiasi, il
più vicino, e si
difenda: allora non potrebbero nulla, lo sanno come lo sa lui. Con la
spada,
anche contro decine di nemici, è invincibile. Per questo
hanno dato ordine di
ammanettarlo: perché sono vigliacchi, ma le manette sono
l’unica infamia che
Link avrebbe voluto che gli fosse risparmiata.
Avrebbe potuto dir di sì,
naturalmente. Sarebbe
stato facile, forse bello, persino: sposare Zelda, e… in
fondo, le vuol bene
come a una sorella, una creatura votata a Hyrule quanto lui, gemella al
suo
destino. Ma per aver salva la vita, per dir di sì, avrebbe
dovuto rinunciare a
una parte troppo grande di sé, che non avrebbe ritrovato mai
più: non sa se
abbia un nome, quella parte di lui, o se si possa dire a parole;
comunque,
sarebbe stato meschino. Come strisciare nella polvere e supplicar
pietà; dire
che farebbe tutto quello che vogliono, purché lo lascino
vivere, e…
In fondo sarebbe dovuto morire quel
giorno a Hebra,
colle cime aguzze dei monti, lividi, ai margini del suo campo visivo, e
gli
intestini in mano, come tanti soldati prima di lui: tutto quello che ha
avuto
dopo quel giorno è stato un di più, un omaggio
che non ricorda di essersi
guadagnato o meritato; quel dipiù è finito,
evidentemente. Non ci sarebbe
neppure da prendersela, perché ha vissuto più di
quanto molti soldati abbiano
ricevuto in sorte, in nome del vigore del suo braccio e della Spada che
esorcizza il male; ma gli dispiace dover morire così,
ignominiosamente,
giustiziato in un cortile interno del castello. A quel punto sarebbe
stato
meglio quel giorno a Hebra, con Lelek di fianco, fiducioso,
incrollabile; ma
non ci è sempre dato scegliere.
Ripete tutto questo a se stesso,
ininterrottamente,
perché la realtà è troppo orribile e
ingiusta da affrontare. La realtà d’esser
stato ricattato e condannato per poter giustificare col suo presunto
tradimento
la possibile sconfitta futura, d’esser stato rinnegato dal
re, dai più alti
ranghi dell’esercito: fronteggiare tutto questo dentro di
sé sarebbe troppo grande
e doloroso, insensato, e la sua mente non può tollerare di
soffermarvisi. Vuole
restare calmo, che tutti lo ricordino così; non è
semplice, ma ribellarsi e
urlare, del resto, sarebbe inutile e controproducente. Non ha spada
né scudo;
gli hanno legato le mani. Non può combattere nel solo modo
che conosca, mentre
le armi della diplomazia e della politica, nelle sue mani, sono prive
di
significato.
I soldati lo conducono in carcere col
massimo
rispetto e gli tolgono le manette non appena possibile. Tengono gli
occhi
bassi, mortificati, e gli chiedono scusa. Gli portano subito il pranzo,
tenuto
in caldo, addirittura, e Link mangia macchinalmente senza pensare
né guardare
cosa stia mangiando; poi vomita nel secchio per i bisogni. Inizia a
rendersi
conto della condanna solo quando si ritrova appoggiato contro il muro
cogli
occhi lacrimanti per lo sforzo, spalancati, e la bocca acida.
Passa una parte del pomeriggio a
vomitare. I
soldati si guardano smarriti, entrano ed escono dalla cella in spregio
a
qualsiasi regolamento; gli portano acqua da bere e per lavarsi, gli
dicono
parole che hanno accenti di conforto. Uno si offre di andare a chiamare
il
medico militare; a quell’idea quasi gli viene da ridere. Si
trattiene soltanto
perché questi ragazzi vorrebbero davvero aiutarlo e non
sanno come fare – e
perché neanche loro realizzano in pieno che domani
morirà. Scuote soltanto la
testa. Lo supplicano almeno di mangiare del pane, per bloccare i
conati, a dir
loro, e Link mangia per accontentarli. Si sente un po’ meglio.
Verso sera torna Lelek. È
agitato, gli tremano le
mani, e si guarda attorno nervosamente perché è
ovvio che non dovrebbe essere
qui; Link vorrebbe sgridarlo, davvero, ma al solo vederlo gli si gonfia
in
petto come un abisso di sollievo. Gli sorride persino. Vorrebbe
ringraziarlo,
abbracciarlo, ma le parole, in questo momento, non gli vengono; gli
prende la
mano.
«Capitano, non vi
arrabbiate» gli dice come prima
cosa Lelek: è pallido e risoluto. «I miei cugini
sono ancora in allarme… basta
una parola e tra un’ora possono essere qui… per
favore, per favore, fate come
vi ho chiesto. Vi prego.»
La proposta di scappare suona
così più tentatrice
rispetto a ieri, ora che la prospettiva della morte
s’è fatta reale e tangibile
e concreta, ed è questione di ore, neppure di giorni;
continuare a dire di no
gli richiede più forza di quanta gliene sia occorsa mai.
Link si sforza di
sostenere lo sguardo dei suoi occhi colmi di speranza quando dice:
«Lelek,
basto io. Non vi permetterò di correre questo rischio per
me. Non voglio più
tornare sull’argomento.»
Lelek ha un fremito
d’impazienza e di disperazione;
i suoi occhi corrono continuamente al corridoio. «Capitano,
per favore…»
«Lelek» mormora Link stringendo brevemente la sua
mano. «Ti prego, non lasciamoci così. Non
farò nulla che possa mettervi in
pericolo e non intendo cambiare idea. Ti prego, non
insistere.»
Lelek rimane in silenzio per un
po’. È affranto,
abbattuto, come svuotato interamente; china lo sguardo sulle proprie
ginocchia
e si prende la testa tra le mani. Poiché non è
riuscito a salvarlo, ora sente
d’aver fallito; sentendosi stringere il cuore, Link si china
su di lui e lo
scuote per costringerlo a guardarlo. «Voglio che mi ricordi
come adesso. Me lo
prometti?»
Cogli occhi pieni di lacrime, Lelek
annuisce
faticosamente, ma questo a Link non basta; lo scuote ancora:
«Ascoltami! Non
venire domani. Prometti che non verrai. Devi ricordarmi calmo come sono
ora.
Sono sereno, vedi, e non ce l’ho con nessuno; non ho paura,
ma tu promettimi
che non verrai a vedere…»
«Non faranno passare
nessuno» balbetta Lelek.
«Hanno dato ordine così… di tenere
tutti fuori, di impedire il passaggio anche
ai Campioni…»
«Va bene» mormora
Link. «È meglio così, devi
credermi.» Ma il suo cuore sprofonda un poco a quelle parole:
sarà
completamente solo, dunque. «Ascoltami. Non domani e forse
non presto, ma,
quando la situazione sarà tornata calma, cerca di avvicinare
la principessa
Zelda. Se avrai modo di parlarle, vorrei che le dicessi che mi dispiace
per
tutto. Che avrei voluto che le cose andassero
diversamente…»
Non riesce a finire di parlare.
D’improvviso arriva
correndo un soldato semplice, trafelato, e batte sulle sbarre della
cella per
attirare la loro attenzione; il regolamento, ormai, è
gettato alle ortiche, ma
Link non è più nella posizione per rimproverare
nessuno.
«Lelek! Sono venuti a cercarti
nei tuoi alloggi»
esclama.
Se sono venuti a chiedere esplicitamente
di Lelek,
potrebbero aver saputo che è venuto a trovare lui. Link lo
afferra per le
spalle e gli ordina: «Vai subito, Lelek, e non tornare
più tardi. Siamo
intesi?»
No che non sono intesi, dicono gli occhi
del
ragazzo; vorrebbe tenergli compagnia, salutarlo per l’ultima
volta; ma Link non
può permettergli di affrontare un processo. In tempi normali
non sarebbe
irreparabile, forse comporterebbe, al massimo, una sanzione; ma
è evidente che
di normale adesso non c’è niente. Link lo scrolla.
«Torna nei tuoi alloggi e
fai finta di nulla, ma se ti interrogano, a quel punto dì la
verità. Dì solo
che eri dispiaciuto per me e che volevi dirmi addio. Se lo sanno
già, è meglio
se confessi: te la caverai con un’ammonizione scritta, al
massimo una
sospensione… ora però vai.»
Avrebbe voluto salutarlo meglio, per lui
più che se
stesso; avrebbe voluto ringraziarlo ancora per Hebra, per quel giorno
in cui lo
ha pregato di restare sveglio e di continuare a vivere; ma anche questa
volta
non gli è dato decidere. Lo abbraccia soltanto una volta per
non dargli il
tempo di protestare, si dicono addio in fretta, poi lo spinge via;
Lelek
barcolla fuori frastornato più che mai. Link rimane solo per
l’ultima volta.
Lo portano al patibolo senza bisogno di
trascinarlo; solo, ogni tanto, lo sorreggono nel lividore
dell’alba. Ha
affrontato la morte tante volte, in battaglia, e non gli ha fatto paura
mai; o
meglio quella paura buona delle battaglie, quella che ti mantiene in
vita – ma
è diverso, adesso. Vorrebbe che ci fosse
l’adrenalina, qualcosa in grado di
scatenarla, proprio come in guerra, ma non c’è
niente: solo squallore.
D’un tratto, mentre
attraversano una corte interna,
Link sente vociare a non grande distanza; rallenta senza volere per
gettare
un’occhiata. C’è un po’ di
confusione. I soldati che lo scortano non sembrano
provare il minimo desiderio dimettergli fretta.
«Protestano
per voi» mormora uno di loro.
Da questa notizia Link vorrebbe trarre
gioia o
conforto, ma tutto quel che prova è un senso di commosso
sgomento. Non sa cosa
dire, forse non capisce neppure; avanza come nella stuporosa nebbia di
un
sogno. Lo toccano appena ed egli riprende a camminare, ciecamente;
tutto è
orribile come in un incubo dal quale non riesce né fa niente
per svegliarsi.
Non c’è risveglio, non più, ormai, e
Link cammina attraverso le ali del
castello come se avanzasse nel sonno.
Alla vista del patibolo, suo malgrado,
si ferma; è
spaventoso anche per lui, inappellabile; è
l’ultima cosa che vedrà mai, la
corda che pende sotto il cielo grigio come acciaio. Ci sono solo
militari,
anche oggi, e il re che attende nell’ombra; ma Link non
riconosce nessuno con
chiarezza per quanto li guardi. Sono indistinti e anonimi come la folla
in un
sogno. Spera soltanto che non ci sia Lelek. Non vuole che lo veda
morire così.
È orribile morire così: questa è la
prima volta che concede a se stesso di pensarlo.
Che come ringraziamento per il suo sangue, per i suoi tormenti, gli
hanno
riservato una morte orribile e infamante. Che non è giusto.
Lo fanno salire sul patibolo e gli
passano il collo
attraverso il cappio; Link li fissa tutti senza capire. Leggono la
condanna: ne
distingue appena alcuni stralci, senza capire, tuttavia; sente solo
qualche
parola: cavaliere, alto tradimento, con la
firma dei seguenti
consiglieri di corte… fa del suo meglio per
concentrarsi, a queste
parole, e riesce ad ascoltare persino i nomi: non
c’è quello di Impa, o
quantomeno lui non l’ha sentito. Impa non l’ha
tradito, dunque; non che abbia
importanza, adesso. Chiude gli occhi per lunghi momenti durante la
lettura,
come se aprendoli potesse non trovarsi più lì; ma
è lì sempre e la lettura non
cessa. Impiccagione finché morte
non sopraggiunga; dovrebbero
essere le ultime parole; poi ci saranno il vuoto e la pace, finalmente.
Chiudendo gli occhi, Link si sforza di richiamare alla memoria
l’immagine delle
cime aguzze dei monti di Hebra ai margini del suo sguardo, vi si
concentra con
ogni fibra di se stesso e tutta la propria attenzione: è una
buona immagine,
quella, per morire e non pensare a quello che sta accadendo intorno a
lui.
Sente: impiccagione
finché…
Poi sente gridare:
«Fermi!»
Link spalanca gli occhi
nell’aria livida del
mattino. È la voce di Impa.
Le guardie tentano di trattenerla con
poca
convinzione, perché sanno che sarebbe in grado di
sconfiggerli con un colpo, se
solo volesse; ma non è lì in veste di guerriera,
ora. È arrivata di corsa; è
sconvolta, ansante, e non è sola: l’accompagna un
Rito alto, corpulento, che le
arranca dietro con l’aria di qualcuno che decisamente non si
aspettava di dover
fare tutta quell’attività fisica di prima mattina.
Link sbatte le palpebre più
e più volte perché non riesce a credere alla sua
presenza, o meglio ci crede,
perché è innegabile; ma non sa spiegarsela.
È l’ambasciatore dei Rito. Può
intercedere per lui, forse; ma con quale autorità?
Il re deve pensare la stessa cosa,
evidentemente,
perché i suoi occhi si appuntano prima su Impa e poi
sull’ambasciatore con
profondo disappunto.
«Lady Impa»
esordisce con sussiego. «Ambasciatore
Mazli. Presumo che abbiate una buona motivazione per interrompere
un’esecuzione
marziale.»
«Maestà»
risponde l’ambasciatore inchinandosi. I
suoi occhi vagano verso il patibolo con una certa preoccupazione.
«Devo
chiedervi di interrompere l’esecuzione finché non
potrò produrre le prove che
questa condanna è ingiusta. Il Campione dei Rito
sarà di ritorno tra poco dal
nostro Borgo con un certificato che prova che, quando gli è
stato imposto
l’ordine di sposare la principessa, il cavaliere Link era
già sposato.»
Link deve esercitare un inumano
controllo su se
stesso per impedirsi di spalancare la bocca per la sorpresa.
È un piano quasi
geniale, a tal punto che quasi si sorprende che non sia venuto in mente
a lui –
un matrimonio invaliderebbe l’intero processo
perché nessuno, neppure il re, avrebbe
potuto ordinargli di rompere un giuramento fatto alla Dea, e
perché
obbligherebbe la corte marziale a tener conto anche della
giurisprudenza dei
Rito. Ci sono solo due piccolissimi problemi: il primo è che
Link non ha mai
menzionato un matrimonio durante il processo. Il secondo è
che, per essere
valido, un certificato di matrimonio deve presentare la sua firma; e il
re
conosce la sua firma. Ma quando Impa, fingendo di gettarsi indietro i
capelli,
si scherma il volto con le braccia per un istante e strizza
l’occhio nella sua
direzione, Link si convince per un istante che la salvezza sia
possibile.
Di questi problemi il re è
consapevole come lo è
lui. Non può ridere in faccia a un ambasciatore, ovviamente;
ma persino lui
deve sforzarsi per controllarsi.
«Un matrimonio»
ripete. Il sarcasmo della sua voce
è malcelato e sferzante, seppur trattenuto. «E il
fatto che questo matrimonio
riguardi nientemeno che l’ambasciatore dei Rito è
dovuto al fatto che sarebbe
sposato con…»
L’ambasciatore ha la precisa
espressione di
qualcuno che sia costretto a mordere un limone estremamente forte, a
lungo, e
soprattutto malvolentieri. «Col Campione dei Rito, il maestro
Revali.»
Link si
sbagliava: la salvezza non è possibile.
Questo è il piano più ridicolo che sia mai stato
formulato.
Ecco
la promessa fatta a Fiulopis mesi fa: scrivere finalmente su uno dei
miei trope
preferiti, uno decente e allegro, per una volta. E poiché,
negli ultimi mesi,
ho iniziato a leggere quasi esclusivamente fake
marriage, ho deciso che avrei fatto questo
tentativo per me assolutamente
folle e avrei provato a scriverne una tutta mia. Ho timore che ne
verrà fuori
una gigantesca cringiata, ma, in fin dei conti, finché non
ci provi non lo sai.
Grazie a An13Uta per il suo sostegno, davvero <3, sperando che
non vada
sprecato!
Un’ultima
cosa. Ci tenevo moltissimo a pubblicare questo capitolo proprio oggi
perché –
rullo di tamburi – è il quindicesimo anniversario
del mio account su EFP! E
considerando che compirò trent’anni ad aprile, in
pratica metà della mia vita è
trascorsa su questo sito. Perciò, anche se questo non
è un capitolo
particolarmente significativo o simbolico, volevo a tutti i costi
postare
qualcosa oggi. È il mio equivalente di una torta con
quindici candeline.
Un
enorme abbraccio a tutti!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Colline ***
III
– Colline
Chi è in grado di dire
che la natura umana sia in
grado di sopportare una cosa simile senza impazzire?
A che serve una tortura così mostruosa,
inutile, assurda? Può darsi che ci sia qualcuno a cui sia
stata letta la
sentenza di morte, gli abbiano fatto provare tutte le torture
dell’attesa, e
alla fine gli abbiano detto: “Va’ pure, sei stato
graziato”.
Fëdor
Dostoevskij, L’idiota.
Non può funzionare. Link
è grato ai suoi compagni, davvero, d’aver provato
a salvarlo nell’unico modo
possibile; se ce ne fosse stato un altro, quantomeno uno che potessero
escogitare in così breve tempo, è certo che
l’avrebbero trovato; ma non può
funzionare. Nessuno ci crederà mai; ma ora Impa e Revali, e
chissà chi altro,
sono coinvolti in questa storia precisamente come lui; hanno mentito
per
salvarlo, e alla loro storia Link non può venir meno senza
tradirli.
Il re rimane in silenzio
per un po’, sopraffatto dall’enormità
della menzogna che ha appena sentito. Sta
riflettendo sulla portata delle sue parole e su come smontarle, una per
una,
senza dichiaratamente accusare l’ambasciatore
d’aver mentito.
«Lady Impa» esordisce
lentamente. «In Consiglio non avete detto niente. Voi lo
sapevate?»
«Se l’avessi saputo,
l’avrei detto» risponde Impa prontamente.
«Ma sono certa che Link abbia avuto i
suoi motivi per tenerlo segreto persino a me.»
«Ovviamente. Un
matrimonio segreto. Ambasciatore Mazli, non vi pare, come
dire… che questo
presunto matrimonio salti fuori in un momento piuttosto
opportuno?»
Gli occhi
dell’ambasciatore si fanno più stretti per un
istante. Sceglie le parole con
grande cura. «Non vi seguo, Maestà. Intendete
forse dire che il difensore della
mia gente, l’orgoglio dei Rito, il maestro Revali, starebbe
mentendo?»
Naturalmente il re non
può dire nulla del genere; sarebbe gravissimo, contrario a
ogni norma della
diplomazia; ma quello che intendeva dire non lo sapranno mai,
perché in quel
momento l’aria si riempie di un frullare d’aria che
Link riconoscerebbe anche in
mezzo alla tempesta, e l’aria chiusa del cortile del Castello
vortica
improvvisamente di vento.
Revali cala dall’alto
come una freccia scoccata. È madido di sudore: se davvero
è arrivato in volo
dal Borgo dei Rito, deve aver volato per ore, forse tutta la notte, se
è
partito ieri dopo la condanna: Link non sa quand’è
che possano aver escogitato
questo folle piano.
Revali s’inchina di
fronte al re, porge all’ambasciatore un rotolo di pergamena,
dopodiché si
precipita su per i gradini del patibolo. Le guardie non sono rapide
abbastanza
da fermarlo, o piuttosto sono volutamente troppo lente e intendono
favorirli in
qualunque modo possano farlo: Revali lo stringe ostentatamente contro
il
proprio petto e chiede ad alta voce: «Stai bene?» E
a voce bassissima, contro
il suo orecchio, solo per lui, mormora: «Articulo
mortis,
quel giorno a Hebra sotto la tua tenda.»
Forse è già morto,
l’impiccagione è avvenuta, e quello è
il più strano inferno in cui potesse
capitare; oppure quelle sono le informazioni che ha bisogno di
conoscere per
salvarsi. Articulo
mortis
vuol dire un matrimonio celebrato in fretta da un ufficiale per
qualcuno in punto di morte; persino lui ha dovuto celebrarne uno, una
volta,
pochi giorni dopo esser diventato capitano: è il ricordo
più infelice della sua
vita. Hebra, in punto di morte: quand’è che si
è trovato a Hebra in punto di
morte?
È ironico che ci abbia
pensato tutto quel tempo, quasi ininterrottamente, negli ultimi due
giorni, a
quelle cime aguzze, innevate, che baluginavano ai margini del suo campo
visivo
mentre lui agonizzava nei rimasugli sporchi di neve, nella pozza del
proprio
sangue, e Lelek teneva i suoi visceri con la mano. Mipha è
arrivata a salvarlo,
quella volta; ma Link è rimasto fuori gioco per due giorni,
dopo che l’hanno
portato al campo, in attesa di riprendere le forze e che il suo
intestino
tornasse a canalizzare regolarmente: ricorda soltanto, vagamente, che i
Campioni si sono alternati al suo fianco, in quei giorni, per tenergli
compagnia, e la presenza di Lelek, costante e confortante come i pali
che
sostenevano la tenda e la coperta sulla sua branda. Ricorda anche i
brodi
leggerissimi che Lelek gli preparava in quei giorni per nutrirlo,
poiché non
poteva ingerire cibi solidi, e poi le pappe di frutta schiacciata. Se
c’è stata
un’occasione in cui ha veramente rischiato di morire, a tal
punto da
giustificare un matrimonio d’emergenza celebrato da un
ufficiale dell’esercito,
è quella.
«Maestro Revali,
allontanatevi dal prigioniero» ordinano i soldati ai suoi
fianchi senza
eccessiva minaccia, vergognosamente in ritardo: nel tempo che hanno
impiegato a
reagire, Revali avrebbe fatto in tempo a portarlo via. Revali lo lascia
andare
e si ritrae da lui levando le braccia in segno di resa. Scende
lentamente dal
patibolo guardandolo negli occhi: vuole esser certo che abbia capito.
Link
sbatte le palpebre due volte. È come in guerra, adesso,
circondati dal fragore
della battaglia da ogni lato: non c’è bisogno di
parlare. Basta solo capirsi; e
in battaglia lui e Revali si sono sempre capiti. Capirsi, del resto,
non
richiede affatto andare d’accordo; e loro in questo sono
sempre stati maestri.
L’ambasciatore sta
leggendo la pergamena che Revali gli ha portato. La sua voce si fa
molto più
sicura e baldanzosa ora che ha qualcosa di scritto a sostegno delle sue
affermazioni.
«Come stavo dicendo,
Maestà» esclama trionfante porgendogli il foglio.
«Un certificato di matrimonio
datato alla scorsa primavera sulla piana di Hebra. Celebrato da un
capitano
Rito e controfirmato per convalida due giorni dopo dal capo del nostro
Borgo.
Questo invalida qualsiasi ordine successivo il vostro cavaliere abbia
potuto
ricevere. Non vi pare?»
Il re prende il foglio
che gli viene porto senza nemmeno degnarsi di guardarlo: è
già convinto che sia
falso. Non ha neppure bisogno di vederlo, il che è un bene,
per loro, perché su
quel documento non può esserci la vera firma di Link.
È ragionevolmente certo
di non essere sposato con nessuno, tantomeno con Revali: se
c’è una firma,
qualcuno deve aver firmato per lui.
«Pare anche a me,
ambasciatore» risponde. «Ma in tal caso il capitano
Link dovrà spiegarci per
quale motivo non ha mai fatto menzione di questo matrimonio
preesistente quando
gli è stato ordinato di sposare la principessa e neppure
sotto processo. Volete
spiegarci, Link?» chiede rivolgendosi verso di lui.
«O forse vorrete dirci che
di questo matrimonio vi eravate dimenticato fino a questo
momento?»
La menzogna gli sale alle
labbra senza bisogno di cercarla perché in fin dei conti
gliel’hanno fornita
loro. Nessuno gli ha mai chiesto le motivazioni del suo ostinato
rifiuto di
sposarsi, prima; e durante il processo il tema del matrimonio non
è mai
stato
sollevato perché
nessuno voleva che venisse messo a verbale. Gli sono state poste
unicamente
domande dirette alle quali non poteva che rispondere di sì o
di no; e per
l’assenza di un pubblico in grado di ascoltare la sua difesa
e le sue
argomentazioni, di difendersi Link non s’è neppure
preso la briga, visto che
sapeva d’esser già condannato in partenza. Questo
non depone a favore della sua
difesa, naturalmente, perché se l’avesse detto fin
dall’inizio non si sarebbe
mai ritrovato con una corda al collo sul patibolo; ma non ha neppure
mai detto
nulla che contraddica la posizione di Revali. È una difesa
stupida e
incredibile, ma ora che c’è un certificato a
provarla è anche piuttosto
incontrovertibile.
«Non mi è stato mai
chiesto» risponde laconicamente Link.
Il re sgrana gli occhi
per un istante. Persino a lui questa risposta pare troppo oltraggiosa.
«Prego?»
Per quanto gli sia
possibile con le braccia ammanettate dietro la schiena, col cappio
ancora lasco
attorno al collo, Link si sforza di rimanere sull’attenti.
«Non mi è stato mai
chiesto il motivo del mio rifiuto, Maestà, e legalmente io
non ero tenuto a
dirlo, perché quell’ordine, come ho ribadito
più volte, esulava di per sé dalle
ragioni del servizio. Neppure durante il processo mi è stato
mai chiesto di
motivare il mio rifiuto, e le mie argomentazioni mi sembravano
sufficienti:
l’ordine non rientrava del servizio. Il mio matrimonio
è un affare che riguarda
solo me.»
«Ai vostri superiori però
avreste dovuto dirlo subito!» tuona uno dei generali.
«Questo vi rende, come
minimo, colpevole d’omissione…»
Revali sorride, perché
tutti in questo cortile sanno che la sanzione per l’omissione
è risibile; di
certo non è la pena di morte. Link sostiene lo sguardo del
generale senza
chinare gli occhi.
«Avete ragione
sull’omissione, generale. Mi dichiaro colpevole, ma posso
spiegare. Se avessi
dichiarato il mio matrimonio come da regolamento, avrei dovuto prendere
un
congedo di una settimana. Non potevo permettere che la principessa
restasse
priva di scorta per tutto quel tempo ora che la minaccia della
Calamità è così
pressante. Avevo in programma di dichiararlo non appena la minaccia
fosse stata
rientrata. Sono colpevole di omissione e sconterò volentieri
la pena prevista
dai regolamenti, ma solo perché non volevo lasciare il mio
posto al fianco
della principessa.»
«Tutto molto comodo, non
trovate, cavaliere?» domanda il re. Non ha neppure badato
all’ultimo scambio,
perché di certo non è per omissione che voleva
accusarlo; i suoi occhi cupi,
infervorati, percorrono il foglio mentre lo stringe tra le mani.
È furioso. «Un
matrimonio che nessuno ha mai menzionato di cui vi ricordate
opportunamente sul
patibolo, certificato soltanto da un documento firmato da soli Rito,
che
potrebbe esser stato fatto stanotte…»
Il petto
dell’ambasciatore si gonfia di sdegno, fa per prendere la
parola; il re ha
appena insinuato che la sua gente si sia prestata a produrre un falso
– il che
è esattamente quello che hanno fatto; ma prima che possa
parlare, una mano si
alza tra i soldati schierati nel cortile e Lelek dice con voce incerta:
«Perdonatemi Maestà, se posso… quella
è la mia firma.»
È almeno la terza volta
che il suo attendente disobbedisce a un suo ordine. Non sa neppure come
faccia
a trovarsi lì in quel momento, perché ieri sera
Lelek gli ha detto che gli
ordini erano chiari, di non far passare nessuno; ma evidentemente
questo non
l’ha fermato. In qualche modo si dev’essere
intrufolato tra i soldati del turno
di guardia, senza che nessuno badasse a lui né alla sua
presenza. Mentre gli
occhi di tutti si appuntano su di lui, Lelek avanza tra i soldati e si
mette
sull’attenti. Il re lo guarda con enorme disappunto.
«La tua firma?»
«Sì, Maestà.» Lelek
accenna col capo al certificato. «Ho firmato come testimone
di nozze, quel
giorno a Hebra. Sono l’attendente del Capitano.»
«Mi ricordo di te»
risponde il re cupamente, scorrendo il foglio cogli occhi. La firma
è proprio
dove dev’essere, immagina Link, perché non chiede
oltre; ma com’è possibile che
quella firma ci sia, se Revali è appena tornato dal Borgo
dei Rito dove
dev’essere andato a far falsificare il certificato? Tutti
sanno che si stanno
raccontando una menzogna, ma il certificato di matrimonio è
stato firmato dal
capo di uno dei domini protetti dalla Corona; e ora
c’è un testimone Hylia che
sicuramente non poteva trovarsi al Borgo dei Rito questa notte. I
generali si
scambiano sguardi e si accostano alle spalle del re per vedere il
certificato
coi loro occhi, solo per doversi arrendere al fatto che quel documento
esiste ed
è incontrovertibile; sono pallidi di rabbia ma impotenti.
«Una medaglia per
servigi resi durante la battaglia di Hebra. Mi ricordo. Hai salvato la
vita del
tuo capitano. Dunque tu avresti assistito a questo famoso
matrimonio.»
«Sì, Maestà. Posso
confermarlo.»
«E puoi anche
raccontarmelo, immagino.»
C’è uno scherno palese
nella voce del re, e proprio quello scherno minaccia di far crollare
tutto.
Link si sorprende a trattenere il respiro, ma non cede alla tentazione
di
cercare lo sguardo di Revali. Ora che hanno iniziato, devono andare
avanti a
dispetto di tutto; ma il suo attendente è soltanto un
ragazzo. Avrebbe
preferito che non venisse coinvolto in tutto questo.
Lelek esita un istante. «Raccontarlo,
Maestà?»
«Raccontarlo, soldato. Ne
sei in grado?»
Link china gli occhi
perché non vuole vedere quello che sta per accadere: il suo
attendente
confondersi e impallidire sotto lo sguardo del re nel tentativo di
salvarlo.
«È stato un po’ più
rapido dei normali matrimoni, Maestà» risponde
Lelek con naturalezza. Link alza
gli occhi di scatto perché non riesce a credere alla
spontaneità di quella
menzogna, eppure, in fondo, è ovvio, dice a se stesso: Lelek
era con lui quando
ha celebrato il suo unico matrimonio per un soldato in punto di morte.
«L’ufficiale Rito ha chiesto soltanto se
esistessero impedimenti alla
celebrazione del matrimonio, il Capitano e il maestro Revali hanno
giurato che
non ce n’erano e io e un arciere dell’esercito Rito
abbiamo testimoniato che
non ne eravamo a conoscenza. Per il resto è stato tutto
molto simile, tranne
per il banchetto.»
La sua descrizione è
talmente semplice e naturale che per un attimo Link si domanda se quel
matrimonio non sia avvenuto veramente e lui se lo sia semplicemente
scordato.
«Il banchetto?»
«Intendo dire che non c’è
stato, Maestà, mentre di solito nei normali matrimoni
c’è» puntualizza Lelek.
«Eravamo tutti molto preoccupati per il Capitano. Temevamo
che non passasse la
notte. Anche la principessa Mipha non era in grado di fare di
più, data la
condizione degli intestini, e anche quando il medico lo ha dichiarato
fuori
pericolo abbiamo dovuto continuare a dargli cibi liquidi per giorni. Io
e il
maestro Revali ci siamo dovuti alternare per imboccarlo.»
L’enormità della sua
bugia è tale che Link si sente avvampare; qualcuno, nel
cortile, sorride. Revali,
invece, è raggelato. Si volta verso Impa e
l’ambasciatore come se dovesse
giustificarsi di qualcosa, dopodiché si schiarisce la voce e
dice: «Credo che
questo esuli dall’argomento della domanda.» Impa
deve trattenersi dal ridere.
Arrivati a questo punto,
ne hanno tutti avuto abbastanza di quella pagliacciata, a quanto pare.
Soprattutto il re.
«Molto bene, allora» conclude
restituendo la pergamena all’ambasciatore senza troppe
cerimonie. «Non finisce
qui. Lasciatelo andare» ordina ai soldati sul patibolo
attraversando il cortile
a grandi passi. «Mettetelo in congedo forzato, fate quello
che volete. Non
voglio vederlo mai più.»
Lasciano il cortile in
fretta, prima che il re cambi idea, mentre l’ambasciatore gli
corre dietro per
chiarire chissà cosa; Link si sente la vista oscurata a
tratti, le gambe
tremanti, l’illusione del cappio ancora attorno al collo, e
mani che lo
sostengono per i gomiti ogni tanto senza ch’egli sappia a chi
appartengono. È
solo vagamente consapevole della presenza di Lelek dietro di lui,
vorrebbe
dirgli qualcosa, ringraziarlo; ma non c’è tempo. Uscite
di qui prima che il re cambi idea e aspettatemi fuori, ha detto
l’ambasciatore prima di sparire, e a quanto pare è
quello che
stanno facendo. Link non obietta né osa far domande
finché non saranno
all’aperto. Revali ancora non gli ha rivolto la parola.
I Campioni li attendono
presso le stalle: hanno fatto sellare i cavalli nell’attesa.
A giudicare dal
sollievo che compare nei loro occhi quando li vedono, nessuno di loro
era
affatto convinto che il piano avrebbe funzionato: Daruk lo stritola tra
le braccia
mozzandogli il respiro, sollevandolo dal suolo, e la brusca carenza
d’ossigeno
al cervello forse è quello che gli occorreva per riportarlo
al presente. Mipha
lo guarda con occhi enormi di terrore come se neppure riuscisse a
credere al
fatto che è salvo davvero: Link le posa una mano sulla
spalla, ma non osa fare
di più. È a conoscenza dei suoi tormenti da
tempo.
«Stai bene, Link»
commenta Urbosa mettendogli una mano sulla spalla. «Ci hai
fatti spaventare sul
serio, stavolta.»
«Sei stato coraggioso,
invece, roccia!» ribadisce Daruk. «Hai tenuto testa
a quei generali con
dignità. Nessuno avrebbe saputo fare di meglio.»
Link non sa neppure come
rispondere loro: si sente frastornato, confuso, e vorrebbe sapere
cos’è
successo e com’è accaduto tutto quanto; ma non
possono correre il rischio di
parlarne finché non saranno lontani dal Castello. Si limita
a guardarli
solamente e chiede, cercando di non sbilanciarsi troppo:
«Devo ringraziare
tutti?»
L’ambasciatore arriva
planando mentre stanno cercando una risposta da dargli. È il
Rito più nervoso e
fuori forma che Link ricordi d’aver mai visto, sebbene la
maggior parte delle
sue esperienze coi Rito, del resto, riguardi perlopiù
guerrieri e arcieri:
quando si posa a terra, ansima affannosamente. Ha l’aria di
voler essere
ovunque piuttosto che qui.
«Ci siete tutti?» chiede
nervosamente scorrendo gli occhi su di loro. «Cavaliere, ho
parlato col vostro
comandante… siete in congedo forzato a tempo indeterminato
finché questa
faccenda non sarà chiarita. Vi consiglio di lasciare il
Castello al più presto.
Ora siete sotto la tutela della mia gente, avete la mia
parola.»
«Non posso lasciare il
Castello» protesta Link scioccamente. È
l’unico pensiero logico che sia in
grado di formulare al momento. «La
principessa…»
«Link» mormora Mipha. La
sua voce è tenue e ragionevole come acqua. «Non
puoi proteggere Zelda in questo
momento. Resteremo noi con lei.»
Link volge gli occhi sui
suoi compagni senza capire. È l’Eroe che brandisce
la Spada che esorcizza il
male, è il cavaliere che protegge la principessa: non
può semplicemente andare
e lasciarla; ma Mipha ha ragione, l’ambasciatore ha ragione.
Non può aiutarla
in questo momento.
«Maestro Revali» riprende
l’ambasciatore. Gli porge il certificato che il re gli ha
restituito: Revali lo
guarda per un istante come se si fosse già dimenticato
dell’esistenza di
quell’oggetto. Il matrimonio deve costituire una discreta
novità anche per lui.
«Vi prego, ditemi che non dovrò
pentirmene.»
Revali sorride. «Pentire
di cosa?»
«Ditemi che non ho
dichiarato il falso.»
Revali prende la
pergamena dalle sue mani e la ripone ordinatamente nei viluppi della
propria
tunica ricamata. «Il certificato è legalmente
vero» risponde con calma. «L’ufficiale
esiste davvero, lo conoscete, e del resto l’ha controfirmato
il capo Kagan in
persona.»
«E per caso il capo Kagan
è stato tirato giù dalla sua amaca in piena notte
per firmare quel
certificato?»
Revali si stringe nelle
spalle. «Lo sapete com’è con questi
matrimoni in punto di morte… c’è sempre
una
gran fretta. Non c’è tempo di andare tanto per il
sottile. Potrebbe essere
successo, ma non saprei dire quando. Quanto alle nozze, naturalmente
voi non
c’eravate e non potete ricordarvele, no? In fondo voi avete
solo fatto valere i
diritti di un vostro concittadino. E comunque, per questo
famoso matrimonio abbiamo anche un testimone che non sa tenere il becco
chiuso»
aggiunge accennando a Lelek in tono piuttosto seccato, e Lelek cerca
disperatamente gli occhi di Link in preda al panico. Link gli sorride e
gli fa
cenno di lasciar correre.
L’ambasciatore si sforza
di sorridere senza troppa convinzione. «Va bene. Ma dopo
questo siamo pari,
maestro Revali, per quel vecchio fatto. Va bene?»
Revali si posa una mano
sul petto e risponde con grande serietà: «Dopo
questo sono io a essere in
debito con voi, ambasciatore. Credete che non lo
dimenticherò.»
«Ora non esageriamo»
borbotta l’ambasciatore un po’ impacciato.
«Non è stata proprio la stessa cosa.
Ora andate» insiste facendo loro cenno di levarsi di torno.
«Non sarò
tranquillo finché non vi saprò nei nostri
confini. Vi scriverò tra qualche
giorno per aggiornarvi sulla questione, e subito se dovesse accadere
qualcosa
che vi riguarda, va bene?»
A giudicare dai cavalli
sellati, il piano prevedeva fin dall’inizio che si recassero
presso il Borgo
dei Rito: la sua cavalla porta bisacce col necessario per qualche
giorno. Ben
assicurata sotto la sella Link intravede l’elsa della Spada
che esorcizza il
male.
«Ho preparato io i vostri
bagagli, Capitano» mormora Lelek timidamente, accostandosi
alle sue spalle. La
presenza dei Campioni lo ha sempre messo in soggezione. «Alla
solita maniera.
Non dovrebbe mancare nulla rispetto al solito. Ho preso tutto quello
che mi è
venuto in mente…»
Link impiega un po’ per
rispondere perché la sua fedeltà pare stringere
un nodo nella sua gola.
«Grazie, Lelek. Hai fatto più di quello che
dovevi.»
«Scusatemi se non mi
asciugo gli occhi» li interrompe Revali spazientito.
«Decidiamo come muoverci.
Link, la cosa più semplice è che tu vada a
cavallo e io mi sposti in volo.
Posso aspettarti direttamente al Borgo dei Rito, o forse è
meglio che facciamo
tappa allo stallaggio più vicino per...»
Link non lo trova un
piano poi tanto assurdo, dato che lui non può volare e
Revali non cavalca, ma
sui presenti cala un silenzio inorridito.
«Revali, per l’amor del
cielo» geme l’ambasciatore. «Se qualcuno
vi vedesse…! Se si sapesse che
viaggiate separati! Tanto vale strappare il certificato e consegnarci
al re!»
Revali lo fissa senza
capire.
«Il tuo amore coniugale è
così travolgente, Revali» sospira Urbosa.
«Sono quasi dispiaciuta di non essere
io la fortunata. Davvero lasceresti tuo marito viaggiare per giorni da
solo
dopo che è appena scampato al patibolo?»
Dall’espressione di
Revali è piuttosto evidente che sì, lo lascerebbe
senza problemi.
«Medoh è in circolo
solitario a tre ore da qui» interviene Impa indicando le
colline in lontananza,
verso nord-ovest. «Puoi aspettarci lì e portarlo
alla quota più bassa possibile
senza farlo schiantare. Io posso accompagnare Link a cavallo fin
lì e da lì
potete proseguire insieme per il Borgo dei Rito. Su Medoh sarete
più lenti che
se tu volassi da solo, ma almeno non sembrerà che abbiate
appena divorziato»
puntualizza in tono lieve di rimprovero, come se Revali si fosse appena
dimenticato di essere legalmente sposato. Il che è,
tecnicamente, quanto è
appena accaduto.
Persino Revali deve
riconoscere a malincuore che è un buon compromesso.
«Bene. Quand’è così, non
perdiamo altro tempo» conclude. «Mi scuserete se
non mi profondo in addii
strappalacrime. Porgete i miei saluti alla principessa.
Ambasciatore» conclude
seccamente. Dopodiché, senza guardar nessuno, si abbassa a
terra per un attimo
e si leva in volo in un vortice.
L’ambasciatore sembra
sorprendentemente sollevato dalla sua partenza. La sua continua
tensione sembra
allentarsi un poco, forse perché la presenza
dell’orgoglio e difensore della
sua gente contribuisce, a dispetto di tutto, a metterlo sotto
pressione. Fissa
Link con un sospiro profondo.
«Vi è andata bene,
cavaliere» conclude a mo’ di saluto con aria
esausta. Link apre la bocca per
ringraziarlo, ma l’ambasciatore si affretta a metterlo a
tacere come se temesse
di sentire qualcosa di compromettente su cui potrebbe esser chiamato a
giurare
in un secondo momento. «Per l’amor del cielo, non
ringraziatemi… per quanto ne
so io, siete entrato a far parte della mia comunità col
matrimonio, quindi era
mio dovere legale difendervi. Non osate dire quello che
penso.»
Link rimane interdetto
per un istante. «Vi siete comunque speso per me,
ambasciatore. Grazie.»
«Farò conto che mi
abbiate ringraziato perché sono stato disturbato in piena
notte» ribadisce
Mazli, ben determinato a non udire, o a poter dire di non aver udito,
niente di
più compromettente di questo. «Addio, cavaliere.
Con tutto rispetto, spero di
non sentir più parlare di voi.»
Non rimane più altro da
dirsi. L’ambasciatore sembra piuttosto ansioso di rientrare a
casa: i Campioni
si offrono di scortarlo fino ai suoi alloggi presso il borgo che
circonda il
Castello. Si voltano a salutare Link in fretta.
«Promettimi che starai
attento» mormora Mipha abbracciandolo.
«Prometto che cercherò di
non farmi impiccare anche dai Rito» risponde Link, visto che
è il massimo che
ancora sia rimasto sotto il suo controllo, cercare; ma gli occhi di Mipha
rimangono corrucciati e seri. Link le accarezza
una guancia per un istante. «Andrà bene, Mipha,
vedrai. Non possono più farmi
nulla. Non avere paura per me. Me la caverò.»
Urbosa
e Daruk lo abbracciano senza parlare,
poi è tempo di separarsi. Impa sale a cavallo per
accompagnarlo per un tratto,
come hanno stabilito, e Lelek fa lo stesso. Link lo guarda con
disapprovazione
senza riuscire davvero a prendersela. «Non vorrai disertare,
spero. Per oggi mi
pare che tu abbia già disobbedito a sufficienza.»
«Non sarò di turno di
guardia fino a stasera» si difende Lelek. «Posso
almeno venire a salutarvi,
Capitano. Non so neppure quando vi rivedrò.»
Link sprona il cavallo
evitando di rispondere, perché tecnicamente dovrebbe almeno
provare a
riprendere il suo attendente per tre interi giorni di mancanze al
regolamento;
ma, in fin dei conti, si dice prendendo le redini, è in
congedo forzato, al
momento. Non è tenuto proprio a far niente.
«Mentre andiamo potresti
spiegarmi come vi è venuto in mente il piano peggiore del
mondo» propone a Impa
che cavalca al suo fianco. Lelek li segue rispettosamente a qualche
metro di
distanza.
Gli occhi di Impa si
accendono dello spettro di una risata. «Credevo che per un
militare i piani
peggiori del mondo fossero quelli che falliscono.»
«Ammetterai che questo ha
rischiato di andarci molto vicino.»
Non è una spiegazione
avventurosa, e probabilmente, se non riguardasse lui direttamente e il
fatto
che è appena scampato alla morte, non sarebbe neppure tanto
appassionante; ma
Link l’ascolta beandosi dell’aria e dello
spettacolo dell’erba che si flette
nel vento dopo giorni di prigionia. L’ascolterebbe per ore.
La principessa è ancora
reclusa nelle sue stanze, proprio come aveva immaginato lui, e lo
è rimasta per
tutto il tempo. Impa e i Campioni hanno trascorso gli ultimi giorni a
cercare
di scoprire per che cosa esattamente Link fosse stato arrestato e
processato,
perché, se dovevano difenderlo, non potevano farlo che su
basi legali certe; non
è stato facile, perché fino al processo
s’è trattato solo di voci. Tutto quello
che i Campioni potevano fare, in attesa di scoprire l’esatto
motivo della
condanna ufficiale, era minacciare la Corona di ritirare il loro
appoggio
personale e quello dei loro popoli alla causa della Calamità
se il Campione
della principessa fosse stato condannato; l’hanno fatto,
naturalmente, ma non è
servito. Il re ha rifiutato di riceverli adducendo scuse e al loro
annuncio ha
mandato a dire che, semplicemente, non poteva obbligarli a combattere
né
pretendere da loro un aiuto che non erano disposti a dare in piena
libertà. Se
era disposto a spingersi fino a quel punto pur di risvegliare il potere
di
Zelda, era evidente che non si sarebbe fermato.
Hanno avuto certezza
della motivazione della condanna solo dopo il processo, quando i
Consiglieri
sono stati radunati in fretta per ratificarla; ed è stato
grazie a Impa, che ha
insistito perché la motivazione della condanna fosse
dichiarata ufficialmente
prima di procedere alla ratifica. È stato solo grazie alla
sua ostinazione che
hanno avuto conferma che la motivazione della condanna era proprio il
rifiuto
di Link alle nozze; e a quel punto non rimaneva loro che una manciata
di ore
per decidere il da farsi. Le hanno trascorse nella grande biblioteca
del
Castello, a compulsare regolamenti militari e leggi cadute in disuso da
presentare come precedenti, più frustrati e disperati ogni
minuto che passava,
finché Impa non ha levato lo sguardo e ha realizzato che i
regolamenti militari
non c’entravano niente perché non contemplavano
quel caso specifico. Che
l’unica legge che poteva salvare Link era sempre stata ovvia,
quasi scontata,
talmente evidente che fino a quel momento non era venuta in mente a
nessuno, nascosta
in piena vista sotto gli occhi di tutti: quella, valida entro tutti i
confini
reali compresi i domini protetti dalla Corona, che proibiva la bigamia.
A quel
punto non restava che decidere a chi sarebbe toccato l’onore
e l’onere; e, una
volta scelto, l’unico ostacolo era rimasto il tempo. Cercate
l’ambasciatore, ha detto Revali prima di
lasciare la biblioteca, datemi tutto il tempo che
potete.
Il resto viene da sé.
Link strizza gli occhi
nell’aria frizzante del mattino. C’è
qualcosa che non gli torna. «Ma tu e
l’ambasciatore siete arrivati…»
«Non appena
l’ambasciatore s’è degnato di farsi
trovare» risponde Impa, seccata al solo
ricordo. «Lo abbiamo cercato per tutta la notte, ma non era
nella sua residenza
al borgo. È tornato vergognosamente tardi e, a sentire i
suoi collaboratori,
nessuno sapeva dove fosse. Ho avuto la sensazione che abbia qualche
passatempo
notturno, ma, francamente, ho preferito non
indagare…»
Su questo Link concorda
perfettamente con lei. «E la firma?»
Impa si gira sulla sella
a guardare Lelek. «Penso che questo possa spiegartelo meglio
il tuo attendente»
risponde divertita. «A dire il vero, quella è
stata una sorpresa anche per me.»
Sentendosi chiamato in
causa, Lelek sprona il cavallo fino a raggiungere i loro. È
diventato tutto
rosso in viso.
«Non vi arrabbiate,
Capitano» inizia con una certa esitazione. Link dubita che
potrebbe trovare
qualcosa per cui arrabbiarsi con lui questa mattina, ma decide comunque
di non
interromperlo. «È stato quando mi hanno detto che
mi cercavano, ieri sera
mentre ero con voi, ed entrambi abbiamo pensato che avessero scoperto
che ero
venuto a trovarvi.»
Link rimane interdetto
per un istante. Non si sarebbe mai aspettato che Revali si ricordasse
del suo
attendente in un frangente come quello. «Revali è
venuto a chiedere di te?»
Il fatto che non lo stia
rimproverando sembra dare a Lelek un po’ di coraggio.
«Così pare. Mi ha
spiegato cosa intendeva fare e mi ha chiesto se sapessi imitare la
vostra firma
su una pergamena bianca. Ha detto che avrebbe fatto scrivere il
certificato intorno
alle firme. Che gli serviva il mio aiuto per salvarvi.»
Link si è chiesto per
tutto il tempo come potessero esserci la firma di Lelek e la sua su
quel
certificato: la risposta era talmente semplice che si vergogna di non
esserci
arrivato da solo. Le firme erano sul foglio prima del resto del
certificato.
Aggrotta la fronte per un momento. «Ma tu da
quand’è che sai falsificare la mia
firma?»
Lelek si passa una mano
dietro la nuca. «Non lo sapevo fare, ovviamente. Ho cercato
tra i vostri
documenti e l’ho ricalcata un paio di volte finché
non è venuta fluida. Non è
stato per niente facile con Revali che mi stava addosso.»
Link non osa neppure
immaginare quanto poco sia stato facile e non stenta a credergli sulla
parola.
Rimane in silenzio per un
po’, pensierosamente, a osservare le colline che si fanno
più imponenti e
ravvicinate ogni minuto che passa; accarezza il collo della sua cavalla
trattenendo nella mano la sua criniera lunga che s’annoda tra
le sue dita. La
realtà si sta facendo più concreta e tangibile a
misura che si allontanano dal
Castello: nella Hyrule che si allarga attorno a lui finché
l’orizzonte non
scompare: è ancora vivo.
«Sarei terribilmente ingrato
se ti facessi una domanda, vero?»
Impa sorride come se
quella domanda se l’aspettasse ormai da ore. «Devo
essere io a indovinarla?»
Link cerca ovunque le
parole meno offensive e ingrate che gli vengano in mente, ma non
è che ci siano
molti modi per porre questa domanda. «Perché
Revali?»
«Perché
arrivati a quel punto non c’erano
molte scelte, Link. Sapevamo che non era la scelta ideale, ma era
comunque
l’unica possibile: non potevo essere io, perché
non ne avevo fatto parola in
Consiglio e dunque nessuno mi avrebbe creduta. Mipha e Urbosa avrebbero
dovuto
chiedere la ratifica delle nozze alla loro famiglia o alle consigliere
Gerudo.
E poi Mipha…» La sua voce vibra di una nota
esitante di dolore: per l’amore non
corrisposto di Mipha Impa nutre un’enorme comprensione e
un’ancor più profonda
compassione, e Link annuisce senza bisogno ch’ella dica
niente perché ha
compreso che cosa intende dire. Che Mipha avrebbe detto di
sì, ma che non c’era
bisogno di aggiungere al suo anche questo dolore senza fine,
quest’ultima beffa
al suo amore non corrisposto; e che entrambi sanno che piuttosto che
dir di sì,
di approfittare del suo dolore e del suo amore, Link avrebbe scelto la
forca.
«Quanto a Daruk…» Impa
s’interrompe per un momento cercando le parole. Alla
fine ci rinuncia. «Francamente non ci sembrava più
credibile di Revali»
conclude, e Link deve riconoscere che non ha tutti i torti.
«Inoltre, Revali era
l’unico che potesse andare dalla sua gente e ritornare qui in
una dozzina di
ore. Non hai torto sul fatto che fosse un piano disperato, ma era anche
l’unico
che avevamo.»
«Grazie» risponde Link.
Per qualche strano motivo, Impa scuote la testa e abbassa lo sguardo.
«Aspetta a ringraziarmi»
mormora.
Non parlano più finché
non arrivano sul crinale della collina che affaccia sul fiume e sopra
di loro
rimbombano i motori antichi di Medoh che sorvola la vallata. Quando
appaiono
sulla distesa di verde, il colosso inizia una planata lenta, metodica,
verso il
letto del fiume: Revali si abbasserà il più
possibile finché Link non potrà
planare con la paravela e incontrarne il ventre. Non ci sarà
molto tempo per
poter compiere la manovra senza che Revali debba tornare indietro e
compiere
tutti i movimenti di nuovo: i loro saluti dovranno essere concisi.
Quando
scendono da cavallo, Impa si getta al suo collo senza perder tempo.
«Ti abbiamo fatto un
bello scherzo, eh?» chiede a bassa voce.
Link l’abbraccia senza
capire. «Mi avete salvato, Impa. Non potrò mai
ringraziarvi…»
«Non dirlo» lo interrompe
Impa. La sua voce suona immensamente triste. «Era la sola
scelta che avevamo,
ma ora non puoi fare altro. Non potrai sposarti o…»
«Impa» dice Link. «Sono
qui. Va bene così. Tutto è meglio
dell’alternativa.»
Impa si stacca dal suo
collo senza convinzione. «Abbi pazienza con Revali»
mormora. «Non lo conosco
meglio di te, e so che non è perfetto… ma ha
rinunciato a molto per fare questo
per te, compreso un bel po’ del suo orgoglio. Tu non hai
avuto ancora tempo per
realizzarlo, ma avete sacrificato entrambi molte cose, e non era tenuto
a
farlo.»
«Lo so» risponde Link, ma
si rende conto di farlo quasi macchinalmente: Impa ha ragione su una
cosa. Non
ha avuto ancora tempo di realizzare quanto è accaduto.
È stato tutto così
rapido, confuso, indistinto come un movimento troppo veloce e dunque
sfocato:
il patibolo, la corda, Revali, le bugie, le bugie, le bugie. Ora
sarà una bugia
molto a lungo, forse per sempre; è una condanna definitiva
quanto quella di
prima, solo un po’ meno drastica, e si sorprende che
quest’idea non lo spaventi
tanto quanto dovrebbe. «Andrà tutto bene, Impa.
Grazie di avermi salvato.
Chiedi scusa alla principessa da parte mia» aggiunge.
«Dille che avrei voluto
restare, che mi dispiace per tutto. Che…»
«Faremo di tutto per
farti tornare» promette Impa separandosi da lui.
«Ora però direi che hai
qualcun altro da salutare.»
Lelek è rimasto immobile,
a qualche passo di distanza, a trattenere con la mano le redini dei
loro
cavalli. Link gli si avvicina senza saper che dire: è quello
che ha rischiato
più di tutti per lui, perché a differenza dei
Campioni e di Impa non aveva nessuno
a proteggerlo.
«Farò condurre la vostra
cavalla allo stallaggio dei Rito» propone Lelek.
«Ci vorrà qualche giorno, ma
almeno l’avrete a disposizione se vorrete spostarvi.
C’è qualcosa che volete
che vi mandi insieme a lei?»
«Non mi servirà nulla»
risponde Link, che di beni materiali ne possiede assai pochi: i suoi
effetti
personali sono già nei suoi bagagli, e ne è certo
senza neppure bisogno di
controllare perché Lelek prepara i suoi bagagli esattamente
allo stesso modo ormai
da anni. La domanda però gli fa venire in mente una cosa.
«Nella mia armeria
privata però c’è uno scudo blu, antico,
che mi ha tramandato mio padre. Ce
l’hai presente?»
«Certo. Vi interessa solo
quello?»
«Voglio che lo prenda tu»
risponde Link.
Lelek arrossisce di
vergogna come il giorno che Link gli ha donato la spada di suo padre.
«Capitano…»
«È l’unica cosa preziosa
che io possieda, Lelek. Per favore. Voglio che l’abbia tu.
È la seconda volta
che mi salvi la vita, e spero che non ce ne sarà una terza,
perché non mi
rimane altro da regalarti per ringraziarti.»
L’ha detto per scherzare,
naturalmente, ma Lelek non sembra comprendere lo scherzo. «Lo
sapete che non
l’ho fatto per questo.»
«Se avessero scoperto che
hai mentito, avresti rischiato la condanna quanto me» lo
interrompe Link. Posa
le mani sulle sue spalle e la fronte contro la sua fronte: Lelek ha gli
occhi
pieni di lacrime e sbatte le palpebre più volte per
scacciarle. «Poiché sei
stato mio amico in quel momento, tu sei mio fratello per tutta la vita.
Ti
prego, Lelek. Non ho altro da darti, ma consenti che io ti dia almeno
quello
che ho. Sai che non potrò mai ringraziarti per quello che
hai fatto per me.»
Lelek annuisce
asciugandosi gli occhi. Alzano lo sguardo su Medoh: è sempre
più basso, sta per
porsi in orizzontale sull’acqua, quasi di fronte a loro. Link
apre la paravela
che pende dalla sella, si allaccia ai fianchi il fodero della Spada e
si
assicura al petto le bisacce coi suoi pochi effetti personali: a occhio
e
croce, gli rimane circa un minuto prima di dover planare verso il
colosso
sacro. Impa, indietreggiata col suo cavallo per sottrarsi alle correnti
d’aria
provocate da Medoh, lo saluta con la mano sorridendo cogli occhi scuri
e appena
un poco tristi.
«Capitano» mormora Lelek.
«C’è un’altra cosa.»
Ha l’aria di dovergli
confessare un peccato innominabile. Link lo guarda con viva
perplessità. «Che
cosa c’è?»
Lelek si guarda attorno
come se ancora temesse che qualcuno possa essere in ascolto pronto a
smentire
le loro bugie, a ore di distanza dal Castello. «Potete
porgere le mie scuse a
Revali? So di aver parlato troppo prima, nella corte. Volevo solo
essere
convincente, ma temo che non abbia gradito. Per quella storia che vi ha
imboccato quando eravate convalescente, sapete.»
Link sente una risata
sbocciargli in gola per la prima volta da ormai molti giorni.
«Non credo che se
la sia presa davvero, Lelek. Non preoccuparti. Anche se è
stata una bugia un
po’ azzardata.»
Lelek lo fissa con occhi
pieni di confusione.
«Ma non era una bugia»
risponde. «Quella è stata l’unica cosa
che non ho inventato. Non ve lo
ricordate?»
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Borgo ***
Capitolo
IV – Borgo
Cameretta sul mare; m’ha
svegliato il troppo intenso
chiarore della luna, della luna sul mare.
Quando mi avvicinai alla finestra,
credevo fosse l’alba
e che avrei visto il sorgere del sole…
André
Gide, I
nutrimenti terrestri.
Ha preso male la mira,
seppur di poco. Rischia di mancare di una spanna appena la vasta
apertura sul
fianco di Medoh che aveva preso come obiettivo quando si è
lasciato planare
dalla collina con la paravela: è stata colpa di Lelek,
questa volta. Non perché
gli abbia fatto perder tempo, a dire il vero – di tempo ce
n’era a sufficienza;
ma quelle storie lo hanno distratto. Se non conoscesse Lelek, se non
fosse
certo della sua trasparenza e della sua buonafede come lo è
della consistenza
delle proprie mani, del colore dei propri capelli, penserebbe che si
sia
sbagliato; ma disgraziatamente si fida dei suoi occhi e delle sue
parole come
si fiderebbe dei suoi propri occhi, delle sue proprie parole. Se Lelek
dice che
Revali lo ha imboccato, allora Link è certo che sia accaduto
come lo sarebbe se
se lo ricordasse lui stesso. Però, per quanto si sforzi, non
lo ricorda. Non
ricorda tutto di quei giorni, naturalmente: ricorda le cime innevate
dei monti
di Hebra ai margini dei suoi occhi come dita grige e bianche che
indicassero il
cielo, ricorda la voce di Lelek che lo supplicava di restar sveglio
nella neve
liquefatta dal calore del suo sangue; ricorda la preghiera di Mipha che
scorreva sulle sue membra come se fosse acqua, il dolore atroce degli
aghi dei
chirurghi che gli sigillavano le carni; ricorda d’aver
urlato… poi ricorda
d’essere approdato alla coscienza a tratti, come attraverso
scossoni che lo
svegliavano e lo destavano da un’inconsapevolezza buia e
priva di sogni: ogni
volta che apriva gli occhi, Lelek era sempre con lui. Ricorda la
sensazione
della spugna intrisa d’acqua e aceto che gli rinfrescava le
labbra, poi dei
brodi tiepidi di pesce filtrati attraverso le garze; ricorda che Zelda
si è
recata a visitarlo, che anche i Campioni… ricorda anche gli
occhi verdi di
Revali nell’oscurità grigiazzurra della tenda;
allo splendore dei suoi occhi
nel buio ricorda d’aver infisso lo sguardo per qualche
istante in mezzo alle
febbri dell’infezione; ma altro non saprebbe dire. Quando i
suoi ricordi si
riallacciano alla linearità degli eventi e riassumono una
coerenza logica e
ininterrotta, la febbre s’è attenuata, sul suo
ventre smagrito spicca una
grande cicatrice irregolare e Lelek gli porge cucchiai di mela cotta
schiacciata per far canalizzare l’intestino.
Sono stati questi
pensieri ininterrotti a fargli sbagliare la mira, seppure di poco. Se
ne
accorge quando rischia di mancare di una spanna appena
l’apertura; allora, per
raddrizzarsi, è costretto a compiere una manovra piuttosto
infelice con la
paravela: la piega di scatto fino a inclinarsi nel vento e, un istante
dopo, la
chiude. La manovra funziona, ma Link precipita all’interno di
Medoh come un
sasso lanciato da una fionda e rotola al suolo cercando di riprender
fiato. È
quasi sicuro d’essersi ammaccato qualche costola. Non che sia
una novità, ma il
dolore gli toglie il fiato ogni volta come la prima.
«Quanta grazia» commenta
Revali schioccando la lingua.
Lo sovrasta in tutta la
sua altezza nella lama d’ombra che le pareti del colosso
sacro tagliano
attraverso la luce, colle ali ripiegate dietro la schiena, superbo,
marziale.
Sul colosso sacro è a suo agio come lo è
nell’aria; sembra fatta per lui,
questa bestia di pietra che si libra in cielo massiccia eppure come
priva di
peso, e Revali vi appare sempre a casa sua come se non avesse mai
abitato
altrove che lì.
Link si tira a sedere sul
pavimento, controlla le condizioni della Spada che esorcizza il male,
sebbene
sia alquanto sicuro che sia molto più resistente di lui, e
posa a terra la
paravela. «Sono stati le correnti del colosso. Mi hanno
spinto indietro al
momento sbagliato.»
«Sicuro. Le correnti»
commenta Revali. «Strano, non me n’ero
accorto.»
«Revali» lo interrompe
Link, che del suo sarcasmo non ha affatto bisogno, in questo momento, e
vuole
arrivare subito al sodo e dire quello che deve dire. Cerca lo sguardo
dei suoi
occhi verdi nell’ombra scura del colosso.
«Grazie.»
Revali rimane a
osservarlo per un po’ cercando di decidere quale sferzante
sarcasmo dedicargli,
ma Link non vuole permettergli di ridurre il tutto a una risposta
caustica.
«Non eri tenuto a farlo e sai che non potrò fare
niente che ricambi quello che
hai fatto per me. Posso soltanto ringraziarti.»
Revali pare decidere che
le sue parole sono sincere, serie, e come sempre, quando qualcosa lo
riguarda
direttamente e non può ridursi a una sperticata lode delle
sue abilità, distoglie
lo sguardo e gli dà le spalle. Su questo Link ci avrebbe
scommesso, ma non
poteva esimersi dal parlare: non importa se Revali si ritiene troppo
superiore
a lui per sprecar tempo a dargli ascolto, persino in questo frangente.
Lui dirà
quello che sente di dover dire.
«Avrei potuto dir di no»
dice infine Revali. Continua a dargli le spalle. «Ma
d’un tratto non mi è
sembrato giusto. Ho detto di sì. Ho pensato che, in fin dei
conti… se fossimo
stati in guerra tu non mi avresti lasciato morire. Non che a me possa
capitare,
comunque.»
Ovviamente no. Link
sorride della sua sicumera.
«Ma questo è diverso
dalla guerra. Questo è…» Per sempre, vorrebbe dire, ma
d’improvviso, quand’è sul punto di
pronunciarle ad
alta voce, quelle parole gli paiono troppo solenni e intime, quasi
romantiche,
ed egli si trattiene dal pronunciarle. Cerca una via alternativa.
«Vincolante.
Voglio dire che adesso, se tu volessi… non so,
sposarti…»
Si rende conto troppo
tardi d’essere arrossito, ma, per una volta, Revali non cerca
di farglielo
pesare. Forse questa conversazione è penosa anche per lui.
Si limita a
scrollare le spalle. «Sì, beh… non che
la cosa mi interessasse. I miei
allenamenti occupano la maggior parte del mio tempo. Comunque, non ti
montare
la testa» conclude un po’ troppo in fretta.
«Non sei il mio tipo. Suppongo che
per te sia un onore essere sposato col grande Revali, ma non
è che io possa dir
lo stesso di te.»
Non è che Link volesse
tirar fuori questa arma tanto presto, a dire il vero. Avrebbe voluto
avere
almeno il tempo di rifletterci un po’ per conto suo, in
verità, e di cercare di
rievocare, dentro di sé, almeno qualche ricordo
più preciso di quei giorni di
febbre e di dolore; ma Revali ama provocarlo come una miccia, e la
conversazione con Lelek lo ha turbato un po’ più
di quanto voglia ammettere.
«Suppongo che sia perché
non sono il tuo tipo che mi hai imboccato quella volta a
Hebra» risponde con
indifferenza mettendosi a piegare la paravela.
Non lo sta neppure
guardando, ma potrebbe giurare di aver sentito
Revali
avvampar di rabbia.
«Non gli avrai creduto,
spero. Mi pare evidente che il tuo attendente sia un gran
bugiardo.»
«Non dir questo di Lelek»
lo ammonisce Link pigramente, ma del suo tono tagliente è
certo che Revali si
sia accorto. «Certo che gli credo, e comunque Impa me lo ha
confermato. Anche
Impa è una bugiarda?»
Questo è un bluff
spudorato. Impa non gli ha detto proprio niente, e a dire il vero Link
non è
neppure certo di ricordare se in quei giorni lei si trovasse presso il
suo
accampamento o piuttosto più a sud; ma è quasi
certo che, se lui non ricorda la
posizione precisa di ciascuno dell’esercito, non possa
ricordarsene neanche
Revali, che in fondo non ha una gran considerazione di nessuno al di
fuori di
se stesso e in quella battaglia comandava truppe ausiliarie.
Il bluff funziona. Revali
lo fissa indispettito come se Link avesse appena osato mettere a nudo
una sua
debolezza: la sua rabbia è tale che non trova niente da dire
per qualche
momento.
«Molto bene» dice infine,
lentamente. «Allora facciamo che io ti spiegherò
perché ho fatto quel che ho
fatto quando tu mi spiegherai perché quel giorno hai chiesto
di me quando sei
rinvenuto. O questo per te non è conveniente?»
Link apre la bocca, la
richiude, ci pensa un momento e risponde: «Ho chiesto di
chi?»
«Ah, ecco» conclude
Revali trionfante. «Quindi questo il tuo attendente ha
tralasciato di dirtelo.
Piuttosto comodo, eh?»
Link è troppo preso da
quello che ha appena scoperto per rispondere alla sua ennesima
provocazione.
Sta pensando. Quei pochi giorni a Hebra, evidentemente, sono stati
più pregni
di eventi di quanto potesse immaginare. È quasi imbarazzante
il fatto che l’unico
ricordo che ne conserva siano le poltiglie di mele cotte.
«Perché ho chiesto di
te?»
Revali è molto
soddisfatto di aver appena vinto la loro prima discussione
dall’inizio del loro
matrimonio. Non che a Link sia mai interessato molto combattere questa
rivalità
del tutto univoca e unidirezionale che Revali ha stabilito tra di loro
il giorno
del loro primo incontro. «Non lo so, Link. Perché
non me lo dici tu?»
Link sta ancora
riflettendo. Alza gli occhi su di lui cercando di articolare una
domanda che
possa riassumere l’enorme quantità dei dubbi che
lo stanno assalendo a partire
da questa mattina.
«Sei sicurissimo che non
ci siamo sposati quel giorno, vero?»
Revali lo guarda con
disgusto come si guarda una blatta e ritiene che questa domanda non
meriti
risposta. Torna a occuparsi dei comandi di Medoh senza degnarlo di uno
sguardo.
Link rimane solo, nel ventre profondo del colosso, a riflettere su
quello che ha
scoperto nelle ultime ore.
La dirupata città dei
Rito compare sotto di loro verso il tramonto, innalzandosi come un
albero tra i
monti. È bella come un sogno, come sempre: Link la contempla
nella luce
rossastra senza saper bene che pensarne, appoggiato alle pareti del
colosso a
scrutare la vallata sotto di lui: i fuochi emergono dalla penombra come
lampi
in mezzo alla nebbia.
«Se ci caliamo dall’alto,
questa volta pensi di riuscire a beccare la città a dispetto
di tutte le
correnti?» chiede Revali spuntando dalle ombre alle sue
spalle. Dal momento che
la discussione di prima sembra momentaneamente messa da parte, Link
decide di
non raccogliere la provocazione e lasciarlo stare. Si sente ancora
sufficientemente in debito con lui da lasciar correre qualche
punzecchiatura,
per il momento; forse deve ancora realizzare pienamente cosa vuol dire
tutto
questo, per la verità, ma probabilmente avrà il
tempo di pensarci domani. Per
il momento si limita a rimanere in silenzio. «È
quella alta là in mezzo. A
quest’ora è anche illuminata. La vedi? Se non ti
senti sicuro, posso far calare
Medoh sulla rocca…»
Per non dargli
soddisfazione, Link si prepara a spiegare la paravela e non risponde.
Prima che faccia in tempo
a planare nel vuoto, Revali stende improvvisamente un’ala
davanti a lui e dice:
«Aspetta un momento. Ascolta.»
Link lo guarda senza
capire: non capisce cosa ci possa essere da ascoltare nel tramonto
infinito.
Gli occhi di Revali sono puntati verso la città: guardando
dove guarda lui,
Link si concentra per ascoltare. È musica. Non che la cosa
sia sorprendente,
dopotutto: se c’è qualcosa che i Rito amano, dopo
volare, è la musica; ma
evidentemente Revali vi sente qualcosa che a lui sfugge.
«Stanno suonando.»
«Già» conferma Revali
cupamente. «Hai mai sentito queste musiche?»
Link si stringe nelle
spalle senza capire. Non è che sia poi questo grande esperto
di produzione
musicale dei Rito. «Non mi pare. Dovrei?»
«No, se non sei mai stato
a un matrimonio Rito. Ci hanno preparato una festa.»
Link è troppo stanco dopo
questa giornata infinita per riuscire a decidere dentro di
sé cosa pensarne.
Probabilmente dovrebbe esserne turbato, o imbarazzato; qualcosa del
genere; ma
in questo momento non è in grado neppure di decifrare
l’espressione di Revali. È
più facile chiedere. «Sei a disagio?»
Quella domanda lo
riscuote. «Io? Certo che no. Dopotutto, era logico
aspettarselo. Era ovvio che
avrebbero voluto festeggiare le mie nozze.»
Su questo, per una volta,
Link è perfettamente d’accordo con lui: Revali
è superbo e pieno di sé,
d’accordo, ma è il più grande guerriero
dei Rito, impareggiabile e invincibile,
persino per lui, e la sua gente lo ama incondizionatamente. In questi
tempi
d’incertezza, il suo matrimonio dev’essere come un
faro di speranza… persino
con un Hylia.
«Credevo che il nostro
fosse un matrimonio segreto» commenta divertito. Revali lo
fulmina con lo
sguardo.
«Sai com’è… stanotte sono
stato troppo impegnato a spiegare al capovillaggio perché
l’ho
svegliato di notte per farmi fare un
certificato di matrimonio retrodatato di diciotto mesi con un cavaliere
Hylia
contro cui una volta ho messo in allarme l’intero Borgo.
Può darsi che mi sia
sfuggito di dirgli che doveva anche mantenere il segreto. Direi che non
è il
caso di far troppo gli schizzinosi, eh?»
Planano sul Borgo dal
ventre di Medoh, fendendo l’aria infuocata del tramonto:
hanno acceso fuochi
ovunque. A quanto pare, il matrimonio dell’orgoglio dei Rito
è una questione
pubblica per questa gente che in lui ha riposto tutte le sue speranze e
la sua
fiducia: le strette strade scoscese del borgo che si avviluppano
aggrappandosi
ai fianchi della rupe sono decorate di ghirlande di fiori e festoni di
carta.
Revali le osserva con disapprovazione senza dir nulla.
Appena atterrano sono
circondati da Rito. Per un po’ Link non capisce nulla e
rinuncia a capire: gli
gettano fiori attorno al collo, lo abbracciano; vede solo un vorticare
di
piumaggi variopinti e di volti sorridenti che gli danno il benvenuto e
gli
fanno gli auguri per le sue nozze. Non sa neppure cosa rispondere, se
non,
quando gli rimane aria a sufficienza, grazie; lo consola il fatto che
Revali non se la stia cavando tanto meglio. È
stato preso di mira dai bambini: lo adorano, e più che
adorarlo lo venerano. Lo
chiamano grande
Revali, saltano
verso di lui per farsi prendere in braccio: lo sorprende quanto
Revali sia a suo agio coi bambini. Quando un paio, un po’
più alti degli altri,
lo supplicano, porge persino loro il suo Arco Aquila, che Link non gli
ha mai
visto lasciar toccare a nessuno: è talmente pesante che
neppure in due riescono
a tenerlo sollevato. Revali ne sorride: Link non sente con precisione
le sue
parole, ma ne comprende comunque il significato: ci
riproverete quando sarete più grandi. È ancora
troppo pesante per voi. Riprende
l’arco che gli porgono, assieme delusi ed elettrizzati, con
una tenerezza che Link non gli ha mai visto e che mai avrebbe associato
a lui.
Chissà perché la cosa lo colpisce tanto: era
ovvio che qui, in mezzo alla sua
gente che lo acclama come un eroe e un salvatore, Revali si sarebbe
comportato
diversamente; ma è un po’ meno pieno di
sé, tra di loro.
Quando i bambini lo
lasciano andare, Revali lo attira a sé per le spalle e lo
guida su per le scale
che salgono verso la città alta, mormorando:
«Andiamo a trovare il capo. Vorrà
darci la sua benedizione. È tradizione.»
«Credevo ce l’avesse data
diciotto mesi fa» risponde Link innocentemente. I Rito fanno
largo davanti a
loro per lasciarli passare, ma non smettono di cantare: forse
è un inno
nuziale, chi lo sa.
«Chissà. Forse non ne ha
mai avuto l’occasione perché tu eri in fin di vita
in una tenda a bere brodini
di pesce» ribatte Revali senza neppure guardarlo.
«Di certo non poteva lasciare
il borgo per venire a benedire la nostra fortunata unione. Ti sembra
credibile?»
«Mi sembra realistico»
concede Link continuando a salire.
Le strade del borgo, che
sono già strette e ripide in tempi normali, ora sono quasi
impercorribili: i
Rito li circondano da ogni lato. Si sono presentati proprio tutti a
rendere
omaggio al loro Campione, e Revali avanza in mezzo a loro
ringraziandoli col
capo.
Il capo Kagan li aspetta
di fronte alla sua casa, quasi sulla cima della rupe. Link non lo aveva
mai
visto: quando ha accompagnato Zelda al Borgo dei Rito, ormai tre anni
fa, a
chiedere a Revali di pilotare il colosso sacro, si è
occupato unicamente degli
aspetti di difesa, visto che i Rito li hanno attaccati confondendoli
per
qualcun altro, e ha parlato unicamente con i soldati e i capitani:
è sempre
stata Impa ad accompagnarla agli incontri diplomatici. Lo sorprende il
fatto
che abbia circa la loro stessa età, forse è
persino più giovane di Revali: è un
Rito alto e robusto, col petto ampio e le spalle larghe.
Chissà perché il
termine capovillaggio
lo
faceva pensare a qualcuno di anziano e saggio; invece Kagan
è appena
un adulto. Abbraccia Revali come un fratello.
«Ci hai regalato un
giorno di gioia, Revali» gli dice. «Devi perdonare
il nostro entusiasmo. Era da
tanto che non ricevevamo una notizia tanto bella. Abbiamo organizzato
qualcosa
per dare il benvenuto al tuo sposo.»
«Non avreste dovuto»
risponde Revali con un tono che vuol chiaramente dire che quello non
è un
complimento e che veramente non avrebbero
dovuto. Per
tutta risposta, Kagan si limita a guardare
verso Link. Revali lo spinge avanti a sé senza troppe
cerimonie. «Giusto. Capo,
questo è… uhm… è
Link.»
È la presentazione più
squallida del mondo: suona come se Revali si fosse vergognato,
all’ultimo
istante, a pronunciare le parole mio marito e avesse cambiato idea
bruscamente. Kagan attende per un secondo di
udire quelle parole, aspetta per sentire se non ci sia
dell’altro; poi, visto
che dell’altro, a quanto pare, non c’è,
e lui è semplicemente Link, si china e
abbraccia anche lui come se lo conoscesse da sempre.
«Benvenuto, Link. Spero
che ti sentirai a casa nel nostro borgo come nel cuore di Hyrule. La
nostra
gente è molto curiosa di conoscerti» aggiunge
ridendo accennando alla folla che
si è accalcata per le strade. «Ma ti prometto che
faranno di tutto per metterti
a tuo agio… da domani. Stasera dovrai sopportare un
po’ di curiosità.»
«Grazie» risponde Link.
«Avete fatto molto per me. Non potrò mai
ringraziarvi.»
«Io ho solo firmato un
vecchio foglio che Revali si era dimenticato di farmi firmare quando vi
siete
sposati un anno e mezzo fa» ribatte Kagan strizzandogli
l’occhio. «Non mi pare
che tu debba ringraziarmi per altro.»
Kagan ha parlato di un po’ di
curiosità. Non gli sembra una
definizione adeguata, pensa Link per tutta la sera.
Avrebbe parlato piuttosto di un’insana, morbosa, viscerale
curiosità che
riguarda tutta la sua persona.
Hanno preparato un
banchetto. Li fanno accomodare al centro di una tavolata sulla cima
della città
alta: Revali è pallido di rabbia, perché a quanto
pare aveva sperato di poter
condurre le cose con un po’ più di discrezione; fa
del suo meglio per mostrarsi
a suo agio, comunque, ma siede al suo fianco come starebbe seduto su
una bomba.
Tutti e tutte si avvicinano per congratularsi con lui, poi si rivolgono
a Link,
gli danno il benvenuto e gli ripetono quanto è fortunato e
quanta gente avrebbe
voluto trovarsi al suo posto in quel momento. Link stenta a immaginare
in che
modo essere sposati col più orgoglioso e supponente dei Rito
possa costituire
una fortuna, ma egualmente li guarda negli occhi e li ringrazia
sforzandosi di
sorridere in preda alla confusione.
I bambini, naturalmente,
sono i più indiscreti. Gli si avvicinano più
volte durante la cena,
osservandolo e ridendo tra loro in piccoli gruppi: la loro
curiosità è così
innocente e spontanea che Link non riesce a sentirsene a disagio. Una
di loro,
la più coraggiosa, forse, gli si avvicina e gli chiede se
è veramente un Hylia.
Link le sorride e le risponde di sì.
«Perché hai le orecchie a
punta?»
È la prima volta che Link
si rende conto di non averci mai pensato: gli Sheikah non le hanno e
neanche le
Gerudo. La domanda lo mette alquanto in difficoltà.
«Non lo so. Sono nato
così» risponde onestamente. «Tutti gli
Hylia le hanno.»
«Posso toccarle?»
Quello scambio lo diverte
a tal punto che acconsente. Dopo avergli toccato un orecchio, la
piccola Rito
ritorna ridendo dai suoi amici. Revali la osserva allontanarsi.
«Devi scusarli, sai. I
più piccoli non hanno mai visto un Hylia. Da quando si parla
della Calamità,
ormai riceviamo pochissimi viaggiatori.»
«Non mi danno fastidio»
risponde Link, piuttosto sorpreso: non gli era neppure venuto in mente
che ci
fosse qualcosa da scusare. Non ha avuto molto tempo per essere bambino,
quand’era il momento, e nell’esercito non ha
occasione di incontrarne molti:
forse è per questo che non gli danno fastidio.
Ora che ha mangiato, che
è seduto ed è al sicuro,
l’infinità della giornata comincia a pesargli
sulle
spalle e sugli occhi come massi. Fatica a tener gli occhi aperti:
c’è troppo
cibo, su questa tavola, e i suoi vicini di posto continuano a riempire
il suo
piatto ogni volta che lo vedono vuoto e a invitarlo a provare questo o
quel
piatto della loro tradizione. Nel frattempo cantano, naturalmente, e
Link
ascolta le loro ballate e le loro liriche d’amore sentendosi
gli occhi sempre
più pesanti e stanchi e piacevolmente rilassato; finalmente
Revali si rivolge
al capo Kagan e scambia con lui qualche parola. Link non sente cosa si
siano
detti, ma, di qualsiasi cosa si trattasse, Kagan sembra molto
divertito. Revali
si rivolge a lui a bassa voce e mormora: «Vieni, andiamo a
dormire. Se non ci
alziamo noi, sono capaci di continuare tutta la notte. Kagan
farà le nostre
scuse.»
Gli sembra trascorsa
un’infinità dall’ultima volta che ha
dormito. Ricorda d’aver dormito a tratti,
questa notte nella cella, appisolandosi per qualche minuto e
svegliandosi in
preda ai brividi e al terrore, ma reprime questi pensieri non appena si
affacciano
alla sua mente: non vuole ricordare questa notte. Vorrebbe essere in
grado di
non pensarci mai più.
Si alza in silenzio dal
suo posto prima che un’idea lo fermi sul momento,
là dove si trova. Scruta
Revali sentendosi d’improvviso un po’ indeciso.
«Non è che penseranno che
noi…»
Non sa bene come dirlo,
ma per fortuna Revali non ha bisogno che lui completi la frase.
«Non vuoi sapere cosa
penseranno e non voglio saperlo neanche io» risponde
freddamente, implicando
che entrambi sanno benissimo che cosa penserà la sua gente e
non ne parleranno
di comune accordo. «Comunque non possiamo cambiare le cose,
quindi andiamo. Ti
ricordo che mentre tu te ne stavi in cella, io ho volato per tutta la
notte.»
Link potrebbe fargli
notare che il carcere non era propriamente un luogo di riposo, ma per
l’ennesima volta stabilisce dentro di sé che
è ancora sufficientemente in
debito con Revali da dargliela vinta, anche se il credito di cui Revali
gode si
sta paurosamente assottigliando. In ogni caso, vagheggia miraggi di
sonno e
scivola dietro di lui nelle ombre del villaggio lasciando dietro di
sé i cori
dei Rito.
Non ha mai saputo dove
abitasse Revali. Non che se lo sia mai chiesto, comunque, e del resto
l’unica
risposta che avrebbe dato a se stesso sarebbe stata: in una capanna al
borgo
dei Rito. Questa sera scopre che è una risposta estremamente
aderente al vero:
nulla gli avrebbe permesso di identificarla tra le decine di capanne
aggrappate
alla montagna. Il grande braciere al centro della stanza principale
è acceso:
Revali si ferma a osservarlo per un istante, considerando qualcosa,
dopodiché
lascia ricadere dietro di lui la tenda che copre l’ingresso.
Le luci del fuoco
allungano sulle pareti di legno ombre misteriose che si perdono negli
angoli.
«È tradizione preparare
la casa degli sposi» lo informa cupamente. «Meglio
così, comunque. Almeno non
avrai freddo stanotte. Voi Hylia siete troppo freddolosi.»
«Sono stati gentili»
risponde Link per non saper che dire. C’è tutta
una parte di lui che vorrebbe
guardarsi attorno, osservare la casa di Revali dove dovrà
vivere per un po’,
quantomeno; ma gli bruciano gli occhi di stanchezza, e poi, non vuole
essere
indiscreto. Ci sarà tutto il tempo.
«Sì, suppongo di sì. Puoi
andare a dormire, comunque» lo informa Revali, cambiando
bruscamente argomento.
«Di là.»
Che la camera da letto fosse
di
là era
facilmente
immaginabile, visto che non è di qua, ma intuendo il suo
imbarazzo Link preferisce non commentare. Solleva
la tenda verso la seconda stanza, più piccola: contiene
quasi solo un’amaca.
Una amaca.
D’improvviso l’imbarazzo di Revali gli appare
piuttosto comprensibile. Si volta a guardarlo senza saper bene che
dire, e Revali,
che di quel problema ha evidentemente adottato la curiosa risoluzione
di non
voler parlare come se non parlarne bastasse a farlo sparire, si limita
a
distogliere lo sguardo.
«Vai pure» ripete senza guardarlo. «Io ho
qualcosa
da fare. Ti raggiungo dopo.»
Link vorrebbe chiedere qualcosa, ma si ferma. Se
chiedesse, Revali risponderebbe seccato, discuterebbero, la notte si
protrarrebbe infinita, estenuante, in un’eterna frustrazione
di cui nessuno dei
due ha bisogno; vorrebbe chiedergli che cosa deve fare, quando intende
raggiungerlo e in quale modo pensa che questa situazione si
risolverà
semplicemente rimandandola ed evitando di parlarne; se questa sia una
scusa,
anche, e se l’idea di dormire con lui lo imbarazzi a tal
punto da non volerne
neanche parlare; se non abbia mai dormito con nessuno, nemmeno vicino a
un
altro soldato nelle notti gelate sui monti di Hebra; ma
s’accorge prima ancora
di parlare che tutto questo non ha il diritto di chiederlo. Che Revali
ha sacrificato,
per salvarlo, una parte troppo grande di se stesso e della propria
vita, della
propria libertà, per dover anche star qui a render conto a
lui del suo
imbarazzo e della sua volontà. Tutto quello che osa chiedere
è: «Sei sicuro?»
«Sono sicuro» taglia corto Revali senza guardarlo.
«Buonanotte.»
«Buonanotte» risponde Link senza convinzione.
La camera, più lontana dal fuoco, è
più fredda e più
buia della stanza centrale: una volta calata la tenda che copre
l’ingresso,
Link intravede appena i contorni delle cose
nell’oscurità. Intravede una brocca
e un bacile, allora si lava il volto e le mani con acqua fredda che gli
dà
brividi nel buio. Si spoglia alla cieca e piega i suoi abiti con la
disciplina
militare che è ormai parte delle sue abitudini, allo stesso
modo di lavarsi e
spogliarsi; l’amaca è assurdamente in alto per
lui, deve quasi arrampicarvisi;
una volta salito, gli pare di sprofondarvi, ma a poco a poco si fa
confortevole.
Si addormenta all’istante avvolto in una nube di
coperte, vagamente consapevole della presenza di Revali a pochi passi
da lui,
sentendo per la prima volta da giorni d’essere al sicuro come
nel mare calmo.
Si sveglia nella notte che non ha fine senza sapere
con precisione che cosa lo abbia svegliato; poi capisce. È
ascesa la luna,
enorme, eterna, la notte s’è fatta bianca e
argentata tutta intorno a lui,
filtrando attraverso le finestre là dove le pesanti tende
ricamate non si
connettono con precisione a schermarle. Il suo primo pensiero
è di levarsi e
accostare quelle tende, poi si trattiene: attraverso quelle fessure tra
le
tende intravede la valle amplissima e pallida sotto la luna silenziosa.
È bella
come un sogno, come aspersa di madreperla: Link rimane disteso
nell’amaca, in
silenzio, a osservare la valle infinita sotto di lui.
Anche la tenda che separa la camera dall’ingresso
è
parzialmente sollevata; eppure gli era parso di averla lasciata cadere
ieri
sera. Forse era davvero stanco.
Revali è seduto a terra, colle gambe incrociate al
modo della sua gente, la schiena appoggiata alla parete della capanna:
Link
intravede appena il suo volto serio, concentrato, alla luce delle braci
che si
vanno spegnendo di fronte a lui. Sta passando la cera sulla corda del
suo arco.
«Credevo fossi stanco» dice Link senza pensare
né riflettere.
La metodicità dei suoi gesti lo ipnotizza.
Revali si ferma per un attimo, tutti i sensi tesi in
allarme: è evidente che non è abituato ad avere
compagnia. I suoi muscoli si
ammorbidiscono dopo un momento.
«Lo sono. Lavorare mi aiuta a rilassarmi» risponde
a
bassa voce. Poi, dopo un istante di silenzio, aggiunge. «Ti
ho svegliato io?»
Link si chiede la stessa cosa per un momento, poi
decide di no. Che a svegliarlo è stata la luce della luna e
la grande calma
vastissima sotto il cielo. «No. Non mi dai fastidio. Continua
pure.»
«Come sei magnanimo» commenta Revali tornando a
chinarsi sul suo arco.
Link rimane disteso immobile nell’oscillare
impercettibile dell’amaca, ad ascoltare il fruscio lieve dei
suoi movimenti
dall’altra stanza.
«Posso farti una domanda?»
«Se ti dicessi di no staresti zitto?»
Link decide dentro di sé che quello è il suo modo
di
dirgli che può fargli tutte le domande che vuole.
«L’ambasciatore ti ha chiesto se, dopo quello che
ha
fatto ieri per te, eravate pari. Ti doveva un favore?»
Revali tace tanto a lungo che per un po’ Link pensa
che non abbia sentito la domanda. Solleva il capo sull’amaca
per cercare i suoi
occhi, ma proprio in quel momento Revali parla. «Hai presente
quella bambina
che è venuta ad abbracciarmi, quando siamo arrivati? Quella
che voleva che la
prendessi in braccio.»
Revali
è stato preso d’assalto da ogni singolo
bambino del borgo, quando sono arrivati. Link si concentra cercando di
ricordare. «Quella col piumaggio azzurro?»
«No, quella dopo di lei.»
Link ha la sensazione che Revali lo stia prendendo
in giro, ma, visto che gli sta raccontando qualcosa, si decide a dargli
il
beneficio del dubbio. «Più o meno. Comunque,
continua.»
«È sua figlia. Qualche anno fa l’ho
salvata. Per
questo l’ambasciatore mi doveva qualcosa, ma adesso siamo
pari, come vedi.»
Link avrebbe immaginato che Revali si sarebbe
pavoneggiato un po’ di più per aver salvato una
bambina; eppure non sembra
andarne molto fiero. «Che cosa le era successo?»
Revali tace a lungo. Quando parla, la sua voce è
bassa e piatta come un mormorio nel vento. «A volte capita
che i bambini mi
seguano quando mi alleno, per guardarmi. A volte mi metto a giocare con
loro,
ma quella volta non mi ero proprio accorto di lei. Era molto
silenziosa. Non
credo che sia stata colpa mia, ma comunque, quando mi sono accorto di
lei, in
qualche modo stava precipitando. Io l’ho solo ripresa e
portata al villaggio,
comunque, ma da allora Mazli ritiene di dovermi un favore.»
Revali non parla mai della sua vita al Borgo dei
Rito: la sua vita, al di fuori dei suoi allenamenti e delle sue
abilità, è
sempre stata per lui e per i Campioni inaccessibile più di
un mistero; questa è
la prima volta che gli racconta qualcosa di sé, e
inavvertitamente ha detto
anche qualcosa che forse avrebbe preferito non dire: che non crede sia
stata
colpa sua. Il fatto che non lo creda implica che, anche per un minuto
solamente, quell’ipotesi lo ha sfiorato. Link ci pensa in
silenzio per un po’.
«Mazli non sta qui con sua figlia?»
«Evidentemente. È rimasta qui con una zia. Non ha
più la mamma e lui non voleva sradicarla dalla nostra gente,
dalla nostra
terra.»
Il che spiega perché Mazli non si trovava questa
notte: è vedovo, e può darsi, come sospetta Impa,
che abbia trovato compagnia
altrove; ma Link evita di sollevare questo argomento. Non sono affari
che
riguardano né lui né Revali né nessun
altro.
«Capisco. E Kagan?»
«Kagan cosa?»
«Lui che favore ti doveva?»
Revali posa l’arco di scatto. «Senti un
po’, Link.
Ti è mai venuto in mente che qualcuno potrebbe avermi
aiutato semplicemente
perché mi trova simpatico?»
«No» ammette Link.
«Revali…»
«Dormi» risponde Revali particolarmente piccato.
«Grazie di avermi salvato.»
Revali non dice più niente per un po’.
«Smettila di dire che ti ho salvato» risponde
infine. «Suona tremendamente melodrammatico.»
Tutto sommato, pensa Link addormentandosi, su questo
ha ragione. Però non glielo dirà mai.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Tautologia ***
Capitolo
V – Tautologia
“Come
ti ricompenserò?” esclamò il figlio
della stella. “Perché questa è la terza
volta che mi soccorri.”
“Ma
tu per primo hai avuto pietà di me!” rispose la
lepre, e corse via.
Oscar
Wilde, Il
figlio della stella.
Si sveglia nell’aria del mattino più fredda di
quella notturna. Sente che Revali non c’è senza
bisogno di guardare per esserne
certo: sa di essere solo.
È sposato, pensa prima ancora di essere sveglio del
tutto, mentre ancora, nel buio delle palpebre chiuse, riesce a
trattenere le
sensazioni del sonno; è sposato, pensa per la prima volta
con uno sgomento che
ieri ha cercato dentro di sé in ogni luogo possibile senza
riuscire a trovarlo.
È sposato con Revali, e ora che è sveglio non
può più permettersi di credere
che sia stato un sogno e che passerà col tempo. La
realtà di quello che è
successo precipita d’un tratto sulle sue spalle come macigni;
gli pare d’averla
cercata per tutto il giorno, ieri, e di non averla trovata
perché era in una
parte di lui dove non era ancora pronto per guardare. Ora che
è solo per la
prima volta da quando lo hanno svegliato per portarlo al patibolo, in
quella
parte può guardare davvero: è sposato, ripete a
se stesso con uno stupore che
ieri non è riuscito a provare e che ha cercato ovunque
dentro di sé invano; a
dispetto di ogni forma di antipatia, di rivalità, di
competizione, Revali ha
messo da parte se stesso e la propria libertà, una parte
enorme del suo orgoglio,
e lo ha salvato. L’enormità di quanto ha cercato
di dirgli Impa quando lo ha
salutato si fa d’improvviso tangibile e immane nella sua
mente, innegabile: è
legato a lui per sempre, adesso, in un modo che va molto al di
là della
gratitudine e del matrimonio singolarmente; e dovrà restare
con lui per un bel
po’. Il che, pensa alzandosi a sedere, si ricollega al
problema che Revali non
è venuto a letto, stanotte. Link non ha idea di dove abbia
dormito, ma di certo
non con lui. Prima o poi dovranno affrontare anche questo problema.
C’è ancora un po’ d’alba sui
monti, ma l’aria, a
quest’ora, è livida e tagliente come una spada:
quando si solleva faticosamente
sull’amaca cercando di bilanciarne l’oscillazione,
le coperte gli scivolano di
dosso scoprendogli le spalle nude. Al Borgo fa più freddo
che nella piana di
Hyrule: dovrà abituarsi anche a questo.
Si veste in silenzio come se temesse d’infrangere quel
silenzio e quella pace. Attraversa la casa, nella luce livida
dell’alba, ed
esce nella strada deserta illuminata dal sole. Cammina attraverso il
borgo come
se fosse l’ultimo essere vivente rimando al mondo nella luce
del sole: il
villaggio non si è ancora svegliato. Sente
d’essere il primo a credere al
giorno.
Le case sono immobili e silenti: attraverso una
tenda appena scostata intravede il volto assopito di un piccolo Rito
addormentato. Si sofferma a osservarlo per un momento, sentendo di
commettere
una terribile indiscrezione che nessuno scoprirà mai, poi
prosegue: scivola
attraverso le case come una folata di vento.
La tenda che copre l’ingresso alla casa di Kagan è
sollevata: Link vi getta uno sguardo senza volere. Kagan è
seduto al centro
della stanza centrale, di fronte al braciere acceso. Gli sorride quando
i loro
occhi s’incontrano.
«Sei sveglio presto» dice a mo’ di saluto.
«Anche tu» risponde Link un po’ sorpreso.
Chissà
perché si era sentito l’unico già
sveglio in tutto il borgo.
«Mi piace alzarmi prima della mia famiglia per avere
un po’ di tempo per riflettere» ammette Kagan come
se fosse una colpa. «Dicono
che sia l’unico modo per avere un po’ di pace,
quando hai bambini piccoli. Lo
faceva sempre mio padre, e io credevo che esagerasse… poi
è nato il mio primo
figlio. Credevo che tu e Revali avreste dormito di più,
però» soggiunge
sorridendo, e Link si sorprende ad avvampare d’improvviso
sotto i suoi occhi.
Kagan scoppia a ridere. «Era di cattivo gusto, vero? Devi
scusarmi, ma Revali
sposato… è qualcosa che non avrei mai pensato di
vedere in vita mia, ormai. Non
ci sono ancora abituato.»
Link si guarda intorno con un po’ d’imbarazzo, pur
sapendo bene che non c’è nessuno attorno a loro,
più per aspettare che le sue
guance si sfiammino che perché non sappia cosa dire.
«Non è come se fosse un
vero matrimonio, però.»
«Che cos’è un vero
matrimonio?» chiede Kagan
sorridendo.
La domanda lo coglie talmente impreparato che Link
rimane in silenzio. Forse era una domanda retorica, perché
subito dopo Kagan
accenna alla stoia di fronte a sé e riprende: «Ti
va di tenermi compagnia?
Siamo gli unici svegli, a quanto pare.»
In qualche modo Link sente che Kagan ha qualcosa da
dirgli. Entra nella sua casa con titubanza, sentendo di violare
l’intimità
della sua famiglia, e si siede di fronte a lui a gambe incrociate.
Kagan gli
porge una tazza di tè forte, amaro: Link non ricorda di
averlo mai assaggiato.
Si domanda cos’è, ma non gli sembra il momento
giusto per chiederlo.
Kagan lo osserva con attenzione.
«Come stai?»
«Bene» risponde Link macchinalmente.
«Bene.»
«Davvero?» Kagan reclina il capo. «Hai
avuto una
brutta esperienza, da quel che ho capito. Quello che ti è
successo ieri… non
dev’essere stato facile.»
Il cielo grigio come fatto d’acciaio, la corda
ispida e pesante attorno al suo collo, pesante: Link chiude gli occhi
per un
istante mentre i ricordi attraversano la sua mente come sassi scagliati
che
fendono l’aria. Sono dolorosi, improvvisi, e Link sente il
bisogno di spingerli
da parte come farebbe con la mano per non doverli guardare
né sentire. Scuote
la testa un po’ più duramente di quanto avrebbe
voluto, tiene gli occhi
spalancati per non vedere quelle immagini dentro di sé
né provare quelle
sensazioni.
«No, non lo è stato» risponde. Tiene la
tazza tra le
mani per sentirne il calore, ne osserva le volute di vapore che si
arricciano
nell’aria per rimanere ancorato alla realtà e non
sprofondare in quei pensieri:
è vivo, adesso. Il resto passerà. «Ma
non importa. Ora sono qui e va meglio.»
Kagan sorride. «Spero che ti sentirai a casa, qui.
Siamo un popolo tranquillo, ma sappiamo essere anche accoglienti. Lo
vedrai col
passare dei giorni. Revali avrà cura di te, ne sono certo,
ma se tu dovessi
aver bisogno di qualcosa, non sentirti smarrito. Tutti qui saranno
pronti ad
aiutarti.»
«Avete già fatto tanto per me» mormora
Link. «Anche
tu. Non eri tenuto a…»
Kagan lo interrompe con un gesto, ma gentilmente, e
scuote la testa. «Link, ti prego… non
c’è bisogno che mi ringrazi. Chiunque al
mio posto avrebbe fatto lo stesso.»
Quella non gli pare una spiegazione sufficiente per
qualcosa di così grave e importante, definitivo e salvifico
per lui, che ha
messo a rischio, direttamente o indirettamente, tanto Revali quanto
l’ambasciatore e chiunque altro fosse coinvolto: Link non
vuole essere
maleducato, ma ha bisogno di insistere, perché sente di non
essersi spiegato
bene. «Non mi conoscevi neppure, non mi avevi neppure mai
visto. Salvarmi
voleva dire rischiare di compromettere i rapporti con la
Corona…»
«Link» ripete Kagan. «Mettiamola
così. Se il
campione della mia gente viene a svegliarmi di notte e mi chiede di
aiutarlo a
salvare qualcuno che senza di lui morirebbe, io non gli chiedo chi sia
o perché
voglia salvarlo. Metto su l’acqua per il tè e
cerco di ricordarmi che cosa va
scritto in un certificato di matrimonio al buio e alle tre del mattino
mentre
lui insiste perché lo faccia il più in fretta
possibile.»
«E tu davvero non hai chiesto niente?»
Kagan assume un’aria vagamente colpevole come se
fosse stato colto in fallo. «D’accordo, forse
qualcosa ho chiesto. In fondo
anche un capo può essere curioso. E poi,
diciamocelo… non è una richiesta che
capita tutte le notti. Di certo non mi aspettavo che me
l’avrebbe chiesto
Revali.»
«Non aveva nessuno qui?» chiede Link prima di
chiedere a se stesso se sia una domanda adeguata da porre. È
una di quelle cose
che non lo riguarda, che fanno parte della vita di Revali al di fuori
di lui,
di quello cui ha rinunciato per sposare lui a dispetto di tutto: non
avrebbe
dovuto chiederlo; ora vorrebbe ritirare la domanda, ma la gentilezza di
Kagan
lo trattiene. Non c’è alcun giudizio nei suoi
occhi.
«Se hai paura di ritrovarti coinvolto in qualche
spiacevole scenata di gelosia, la risposta è no»
risponde. «E in generale, che
io sappia, la risposta è comunque no. Non credo che gli sia
mai interessato, a
essere sincero. È sempre stato preso dai suoi allenamenti.
Forse è qualcosa che
puoi capire» aggiunge guardandolo, e Link annuisce tra
sé, pensierosamente. Può
capirlo perché in fondo Revali è come lui: ha
voluto, o forse dovuto, essere il
migliore sempre, e la sua forza e la sua grandezza hanno segnato il suo
destino
perché ha dovuto dimostrare continuamente agli altri quanto
valeva, sempre un
po’ di più a misura che i giorni passavano e tutti
confidavano in lui un po’ di
più. Kagan lascia che quest’informazione
attecchisca dentro di lui per qualche
momento prima di chiedere: «Posso permettermi di dirti un mio
pensiero? Sei
libero di prenderlo come vuoi.»
Link
aggrotta la fronte. Chissà per che
cos’è che
gli serve addirittura il suo permesso. «Certo.»
Kagan sembra cercare dentro di sé le parole per
articolare quello che sta pensando. Esita un momento. «So che
è un finto
matrimonio e tutto il resto, e non mi permetterei mai di… ma
prima mi ha
colpito quello che hai detto sul matrimonio. L’altra notte
Revali ha percorso tra andata e ritorno, in dodici ore, una distanza
che normalmente a un Rito ne richiede
circa quindici. Forse può non sembrarti una grossa
differenza, e di certo
Revali è il migliore di tutti noi nel volo,
perciò sei libero di prendere come
vuoi questa informazione… ma quello che voglio dire
è che in ogni caso Revali
lo ha fatto per te e ha scelto di restare con te. È per
questo che mi sono
stupito tanto quando mi hai detto che non era un vero matrimonio:
perché io per
conquistare mia moglie ho fatto molto meno di
questo…»
A nessuno si dovrebbe parlare così, Link di questo
ha una precisa percezione che non saprebbe giustificare ma di cui
è certo: che
Kagan si è spinto troppo in là, che questa
opinione non spettava a lui darla;
eppure non riesce a sentirsi sdegnato. Solo un po’
frastornato. Alla sua
reazione e al suo silenzio, Kagan ride come per nascondere un
improvviso
imbarazzo. «Ho detto troppo, vero? Mia moglie dice sempre che
dovrei farmi i
fatti miei. Lascia che ti inviti a pranzo da noi, oggi. Per farmi
perdonare…»
«Forse dovrei andare a cercare Revali» obietta
Link,
più per non approfittare della sua ospitalità che
perché non voglia restare; in
qualche modo sente che Kagan vuole davvero che lui resti, che sente che
è suo
dovere, come capovillaggio, aiutare anche lui; Kagan accenna sorridendo
a
qualcosa fuori dalla finestra. Link guarda in quella direzione senza
capire.
«Non credo che tornerà tanto presto, sai.
È partito
molto presto per andare al Volodromo. Ci sei mai stato?» Link
scuote il capo. «È
un campo di addestramento che ha fatto costruire per permettere ai
nostri
ragazzi di allenarsi con l’arco e a dominare le correnti,
come lo fa lui. Anche
se nessuno, per il momento, è ancora riuscito a eguagliarlo
in nessuna delle
due discipline.» C’è
un’amarezza nel suo tono che gli fa intuire che quel nessuno
comprende anche lui. «Non credo che
tornerà tanto presto, ma perché non lo
aspetti qui?»
Link finisce per restare lì quasi tutto il giorno:
quando si alza, sua moglie Tara lo saluta con affetto come se lo
conoscesse da
anni; gli chiede se ha dormito bene, anche, e se ha bisogno di qualcosa
per la
casa, perché, dice testualmente, Revali è stato
scapolo tanto a lungo che
probabilmente non ha mai pensato a come organizzarsi adesso che sono in
due.
Glielo chiede con tanta naturalezza che Link non ha il coraggio di
ammettere
che non ha quasi idea di cosa ci sia in quella casa, a parte
un’amaca, una brocca
e un bacile, e di cosa possa mancare, o di cosa avrà mai
bisogno ora che non
abita nei quartieri dell’esercito e non ha un attendente;
opta per una mezza
verità, ossia che ancora non ha avuto tempo di ambientarsi e
che chiederà a lei
se avrà bisogno di qualcosa: lei sembra soddisfatta della
risposta. Link non
riesce a determinare se sappia che quel matrimonio è una
menzogna, ma forse,
semplicemente, non le importa: le interessa che si senta a casa. Link
la aiuta
a dare da mangiare ai bambini, quando si svegliano e accorrono nella
stanza: ne
hanno due. Ce n’è uno che è proprio
piccolo. L’altro invece lo tempesta di
domande: vuole sapere tutto delle battaglie, della sua spada, della sua
buffa
paravela che ha usato per planare sul villaggio; continua a domandare
finché
sua madre non gli ordina di andare a pescare o a giocare coi suoi amici
o a
fare qualsiasi altra cosa. «Scusalo» aggiunge
rivolta verso di lui. «Revali è
il suo idolo, perciò adesso adora anche te.»
«Anche gli altri bambini erano molto interessati,
ieri» osserva Link ricordando la festa della sera prima e la
piccola che gli ha
chiesto di potergli toccare le orecchie.
Tara ride a gola spiegata. «Abbi pazienza con loro,
ma non troppa. Se ti vedranno troppo disponibile, prima o poi te li
ritroverai
nell’amaca che vorranno vedere come dormono gli Hylia.
Qualcuno è un vero
maleducato, perciò non riguardarti a rimetterli al loro
posto, se serve.»
Il pensiero dell’amaca lo turba solo per un istante,
ma è lieto che lei non se ne accorga. Non vuole che nessuno
lo sappia.
Li lascia nel pomeriggio. La strada che discende
dalla sommità del borgo verso la casa di Revali, o quella
che adesso è anche
casa sua, se si sforza di pensarla così, è piena
di gente, ora, e tutti lo
salutano contenti e gli danno ancora il benvenuto: Link non
può non ricordare a
se stesso che ciò è dovuto
all’ammirazione sconfinata che hanno per Revali, il
loro difensore e protettore, e che ora si riversa un po’
anche su di lui. È
strano, per una volta, non essere riconosciuto per i suoi propri meriti
ma per
quelli di qualcun altro; è talmente abituato a essere
considerato l’eroe di
Hyrule, colui che protegge la principessa e brandisce la Spada che
esorcizza il
male, che talora fa fatica a ricordarsi che per le altre genti lui non
è che un
piccolo cavaliere Hylia con un’altrettanto piccola spada. Il
borgo brulica di
vita, a quest’ora: le botteghe sono piene di gente, i piccoli
Rito si
distanziano e si raggiungono inseguendosi lungo le scale infinite,
qualcuno
grida loro rimproveri che si sfilacciano nel vento dietro di loro,
inascoltati;
è tutto stranamente pacifico. È bello come
qualcosa che non gli appartiene ma
che vorrebbe poter toccare con la mano, trattenere; e forse ora
può, o potrebbe
se la Calamità non si levasse sempre all’orizzonte
dei suoi pensieri come un
termine di tempo al di là del quale non fosse in grado di
intravedere il suo
futuro. Ma per la Calamità, dal suo esilio, non
può fare molto, ormai. Il re ha
rifiutato il suo aiuto, il suo braccio e la sua spada nel momento in
cui ha
deciso di prestar retta ai teologi e non più alla saggezza
di Impa: questo
pensiero lo addolora, nonostante tutto, perché lui non
l’ha mai fatto per il re
né per Zelda. L’ha fatto sempre per Hyrule.
La casa è vuota e silenziosa come l’ha lasciata
nella luce dorata del pomeriggio. Link si sofferma al centro della
stanza:
sente che ora può guardarsi attorno senza fretta
né indiscrezione. Quella è la
vita di Revali. Posa la mano su un tavolo, lascia scorrere lo sguardo
sugli
oggetti, sperando che gli dicano qualcosa di lui che ancora non
conosce: sta
lavorando a un arco, forse ha in mente di sostituire quello che usa
ora, che di
certo avrà vissuto, come a lui succede coi suoi scudi e i
suoi archi, sempre una
battaglia più di quanto potrebbe reggere; è
ingombrato di corde, di strumenti
per lavorare il legno. Sul tavolo più lontano
dall’ingresso, invece, c’è una
mappa che mostra le regioni di Colbacco e di Hebra: il Borgo dei Rito
campeggia
al centro, e lontano, sui monti, sono segnalati grotte e covi di
nemici. Sotto
una X in un angolo c’è annotato in fretta Hinox,
con un punto
esclamativo. Revali teme sinceramente per la sua gente.
«Bentrovato» dice Revali alle sue spalle.
Link si volta di scatto: questo dannato Rito e Impa
sono gli unici in grado di coglierlo di sorpresa. Revali è
appena rientrato: è
stanco come se si fosse allenato finora. La sua espressione
è indecifrabile.
Entra dentro, lasciando ricadere la tenda dietro di
sé, e inizia a sfilarsi di dosso l’arco e la
faretra. Link l’osserva in
silenzio senza fare domande.
«Spero tu abbia trovato tutto quello di cui avevi
bisogno. Sono stato al Volodromo. Avevo bisogno di stare un
po’ per conto mio.»
«L’ho immaginato» risponde piano Link.
«Sono stato
da Kagan. Lui e sua moglie sono stati molto gentili. Ho conosciuto
anche i loro
bambini.»
Revali sorride. «Ah, ecco perché il loro
spiumatello
più grande non è venuto a vedermi allenare, oggi.
Di solito quando torno al
Borgo non riesco a levarmelo di torno. Oggi eri tu
l’attrazione del giorno.»
Prima che Link riesca a stabilire dentro di sé se
sia qualcosa per cui debba chiedere scusa o ritenersi ringraziato,
Revali si
volta verso di lui e dice guardandolo negli occhi: «Parliamo
un po’.»
Link si limita ad annuire. Non vuole dir nulla
finché non avrà sentito che cosa abbia da dirgli:
ha sempre fatto già
abbastanza fatica a decifrare le sue intenzioni così, negli
anni precedenti, a
parte in guerra; ma in guerra non conta, ovviamente. Ascolta.
«Non l’ho fatto perché tu mi fossi
debitore di
qualcosa» dice Revali. «Naturalmente i
ringraziamenti sono stati graditi, ma
ora mettiamo questa storia da parte.»
Questo è totalmente inaspettato perché di solito
Revali, per quanto lo conosce, ha sempre voluto
essere acclamato e
lodato per qualsiasi cosa; ma quello, realizza Link
d’improvviso, è in
battaglia. Tutto il riconoscimento che Revali ha sempre cercato
è stato per il
suo arco, per le sue ali possenti e instancabili, per la sua
abilità nel fare qualcosa
che spera che i Rito saranno in grado di imitare quando lui non ci
sarà più; di
certo non per aver falsificato un certificato ed essersi inventato un
matrimonio
che non è mai avvenuto. Non è poi tanto strano,
dopotutto. Link fa segno di
aver capito.
«Molto bene» prosegue Revali. «Quindi
togliti di
dosso quella faccia da cerbiatto smarrito.» Su questo Link
non è sicuro di
poter fare qualcosa, perché è alquanto certo che
Revali si stia riferendo alla
sua faccia; ma in quest’occasione gli viene risparmiata la
necessità di
rispondere, perciò si limita a non farlo. «Penso
che ti troverai bene qui, dopo
qualche giorno, e che ti abituerai in fretta. Qui non avrai il tuo
cucciolo di
attendente a stirarti i vestiti, ma visto che hai servito
nell’esercito da prima
di diventare ufficiale non credo che avrai problemi. Comunque, se
dovesse
proprio servirti qualcosa, chiedi.»
Link ritiene che questo sia il momento migliore per
sollevare un problema che lo angustia ormai da ore.
«Revali, ascolta. Dovremo trovare una soluzione per
quanto riguarda…»
Peccato che quello sia, evidentemente, anche un
problema su cui Revali non è disposto a discutere
né a cercare una soluzione.
«Non intendo procurarmi un’altra amaca e dichiarare
pubblicamente che non dormo con mio marito» scandisce
chiaramente. «Come
abbiamo fatto stanotte andrà benissimo per qualche tempo.
Non è nemmeno detto
che questa situazione sarà eterna.»
Certo, non è detto che sia eterna: con un po’ di
fortuna la Calamità li sorprenderà prima e
moriranno tutti prima che la
situazione possa diventare insostenibile. A volte Link non riesce a
capacitarsi
di quanto possa essere ottuso questo dannato Rito.
«Almeno lascia che sia io a dormire sul pavimento.»
Sa che insistere con lui equivale a soffiare forte su un fuoco
incontrollato,
ma su questo non può né intende soprassedere.
«Sono stato soldato semplice per
anni, sono abituato a dormire anche sul…»
Revali non risponde subito. Lascia che la sua voce
si spenga semplicemente perché Link la sente inutile come
onde contro gli
scogli: dopodiché Revali si avvicina a lui, lo guarda negli
occhi e risponde:
«No.»
Con questo dannato Rito non c’è verso di
discutere.
Anche quella notte perciò Link si corica dopo una cena a
base di pesce e di riso
bollito sull’amaca che oscilla nella notte, sentendosi un
po’ in colpa; a pochi
passi da lui Revali si siede vicino al braciere, con le spalle
appoggiate al
muro, e si mette a lavorare sull’impennaggio delle sue
frecce. Questa notte,
chissà perché, Link non abbassa la tenda che
separa le due stanze.
«Hai sempre costruito da solo tutti i tuoi archi?»
Questo è un argomento di cui Revali non sembra tanto
seccato di parlare. «No, non sempre. Quando ero piccolo ho
ricevuto in regalo
il mio primo arco rondine come tutti i ragazzini. Ho cominciato a
costruirne
altri quando quello non è stato più sufficiente
per me.»
«E le frecce, anche?»
Revali sorride come per un ricordo. «Quelle sempre.
Anche quand’ero un bambino, prima ancora d’imparare
a tirare come si deve.»
«Revali, perché mi hai salvato?»
Le parole di Kagan echeggiano nella sua testa ormai
da stamattina: Link aveva bisogno di chiedere. Revali si ferma per un
momento
nel buio.
«Credevo che avessimo deciso di mettere da parte
questa storia.»
«Hai detto che non volevi che ti ringraziassi oltre,
ma io non ti sto ringraziando. Sto ai patti, come vedi.»
Revali tace nell’ombra. Alla luce delle braci
morenti, Link intravede solo il suo profilo e il riflesso verde dei
suoi occhi.
«Tu perché hai chiesto di me, quel giorno a
Hebra?»
«Non ricordo di averlo fatto.» Link aggrotta la
fronte perché vorrebbe, veramente, ricordare quel momento.
«Tu sai precisamente
che cosa ho chiesto?»
«No. Il tuo attendente è venuto a cercarmi
nell’accampamento e ha detto soltanto: il Capitano
ha chiesto di voi. Vi
prego, venite, perché credo che stia morendo.»
Lo dice con un tono che
imita molto da vicino quello di Lelek, e Link sorride
nell’ombra perché è tutto
molto realistico.
«E tu sei venuto.»
«Certo. Magari in punto di morte volevi ammettere
che ero il più grande guerriero che tu avessi mai
visto.»
«L’ho fatto?»
«Sono certo che tu volessi, ma sei rimasto fuori
combattimento per due o tre giorni. Al tuo risveglio, probabilmente, te
n’eri
dimenticato.»
«È possibile» concede Link, che non
può escluderlo
dal momento che non se lo ricorda. «Non credo fosse per
quello, però. Non so
perché io abbia chiesto di te, Revali. Mi
dispiace.»
«Fai un’ipotesi, allora.»
Link si sforza d’immaginare così, al buio, per
quale
motivo possa aver cercato Revali mentre agonizzava nella sua tenda
cogli
intestini appena ricuciti. D’un tratto, in modo del tutto
inaspettato, gli
viene in mente qualcosa che in tutto quel tempo ha sempre saputo ma cui
non ha
mai prestato attenzione. «Sei stato tu ad andare a chiamare
Mipha quel giorno.
Me lo ha detto Lelek mentre ero disteso a terra. Continuava a ripetere
che eri
andato a chiamarla …»
Revali pare in difficoltà come se non avesse mai
pensato che questo potesse venirgli rinfacciato. «Certo che
l’ho chiamata. Se
ti aspettavi che mi sedessi a terra con te a importi le mani o a
ricucirti il
buco nell’addome, per quanto mi riguarda potevi aspettare per
tutta la vita.
Anche perché, francamente, eri immerso nella tua
merda.»
Link non avrebbe mai potuto immaginare di ridere di
quel ricordo che è forse uno dei più drammatici
della sua vita. Dal punto di
vista di Revali, però, è assai più
divertente.
«Forse volevo ringraziarti» ipotizza per rispondere
alla sua domanda.
«Mi aspettavo che avresti detto così. Banale, ma
credibile.»
Il tono in cui ha detto quel banale non gli
è
piaciuto. «Magari volevo solo che tu fossi
lì.»
Cala il silenzio tra loro, per un po’. Link non
riesce a credere di averlo detto.
«Tautologico, non credi?» mormora Revali senza
guardarlo.
«Un po’» borbotta Link che non vuole
dargliele tutte
vinte in questo matrimonio.
«Ti ho salvato perché non volevo che tu
morissi»
dice Revali bruscamente.
Link rimane disteso a oscillare pigramente
nell’amaca, guardando il soffitto della capanna.
«Tautologico, non credi?»
risponde a bassa voce.
Entrambi sembrano convenire che parlare di retorica
è troppo pericoloso.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Crisi del secondo anno (più o meno) ***
Capitolo VI –
Crisi del
secondo anno (più o meno)
Le
famiglie felici si somigliano sempre l’una con
l’altra: ogni famiglia infelice
lo è in un modo particolare.
Lev
Tolstoj, Anna
Karenina.
La mattina,
quando Link si sveglia, Revali non c’è
mai. Link non riesce mai a determinare a quale punto della notte se ne
vada:
probabilmente al mattino molto presto, di certo prima
dell’alba, ancora col
buio, perché non vuole che i suoi concittadini sappiano o
immaginino che non
condivide il letto con suo marito: ai suoi allenamenti mattutini, del
resto,
tutti hanno fatto l’abitudine ormai da anni. Quel che
venerano in Revali, del
resto, è la sua grandezza instancabile e indomita, la sua
fierezza costante e
inappagabile: sono molti i guerrieri che vanno ad allenarsi con lui al
Volodromo, quando non sono di guardia a custodia del borgo. Al loro
ritorno
Link li sente parlare della sua grandezza come di qualcosa che non
potrà essere
eguagliato mai, della sua abilità non solo di sfruttare, ma
anche di creare le
correnti d’aria sotto di sé come di un potere
magico, quasi mistico; ma Link
non la vede così. Nell’abilità di
Revali non c’è la magia misteriosa, forse
ereditaria, che dà vita al potere di Mipha o di Urbosa, a
quello che dovrebbe
risvegliarsi tra le mani di Zelda: ci sono la sua volontà e
la sua ambizione
costanti, roventi, e null’altro. Nessuno a Revali ha lasciato
in eredità
niente, i suoi poteri non si sono svegliati un giorno a dispetto di
ogni sua
aspettativa come una magia tra le sue mani: quello che è in
grado di fare se
l’è creato da sé. Non ha cercato che un
modo per superare i limiti oggettivi
del suo corpo e, quando ha visto che quel modo non c’era,
l’ha creato da sé,
con la forza delle proprie ali, la costanza dei suoi allenamenti
sfiancanti.
Non c’è magia in lui, non ci sono miracoli:
c’è solo abnegazione; ma questo
Link, che ha la sensazione di conoscerlo così poco ora che
lo vede tra la sua
gente, non ha il coraggio di dirlo ad alta voce. Lo pensa solamente.
Durante le
giornate, Link si trova qualcosa da fare
al borgo. Tutti hanno l’aria di volerlo trattare come un
ospite intoccabile cui
deve esser risparmiata ogni fatica, ma Link, in vita sua, non ricorda
d’essersi
riposato mai più di un giorno consecutivamente; e le cose da
fare sono sempre
tante, naturalmente, anche in vista dell’avvento della
Calamità; perciò, col
passare dei giorni, questa gente che l’ha accolto
spontaneamente inizia anche
ad accettare il suo aiuto. C’è da costruire una
casa per una nuova coppia che
sta per sposarsi: lo sposo, Avaris, è un giovane guerriero
che gli racconta
d’aver servito anche lui nella battaglia di Hebra e, prima
ancora, di aver
attaccato lui e Impa il giorno in cui hanno accompagnato Zelda al Borgo
dei
Rito per la prima volta e loro hanno creduto che fossero invasori.
Glielo
racconta ridendo, ma un po’ imbarazzato, come se fosse il suo
modo per
chiedergli scusa di quell’errore a distanza di anni.
«Abbiamo combattuto
insieme, dopo» gli ricorda Link un po’ sorpreso,
perché, per quanto lo
riguarda, aver combattuto insieme per la stessa causa equivale a sanare
qualsiasi
disguido sia esistito precedentemente. «E poi, non conta.
Credevate che
volessimo attaccarvi, perciò era ragionevole che vi
difendeste.»
«Senza
rancore, quindi?»
«Certo»
risponde Link con indifferenza continuando a
piallare una trave che andrà sul tetto della futura
abitazione. «Senza
rancore.»
«Com’è
la vita coniugale?» gli chiede d’un tratto
questo speranzoso promesso sposo in un momento di pausa dai lavori,
mentre
stanno pranzando insieme agli altri Rito nel bel mezzo del cantiere;
Link per
poco non si soffoca bevendo. Tossisce e getta la testa
all’indietro sotto i
suoi occhi stupiti sperando che il suo rossore venga attribuito al
fatto che ha
appena rischiato di annegarsi.
«Bella»
s’inventa dopo aver finito di tossire,
asciugandosi gli occhi e la bocca con la mano. «Impegnativa,
ma bella.»
«Impegnativa,
eh?» ripete Avaris un po’ assorto. Per
fortuna è sufficientemente concentrato su se stesso e sulla
sua futura felicità
da non dar troppo peso della sua reazione esagerata alla domanda.
«Lo
immaginavo. Vivere con un’altra persona…»
«È
dura abituarsi» completa Link con simulata
naturalezza, grato del fatto che esistano infiniti luoghi comuni dai
quali può
attingere senza dover necessariamente ammettere la verità;
ne è così grato che
neppure si sofferma a riflettere sul fatto che è la
verità, quella, e che vale
anche per loro. Se vi riflettesse, la cosa lo imbarazzerebbe troppo.
«E…
senti, scusa se ne parlo con te, ma siete
l’unica altra coppia giovane qui al Borgo. I miei amici sono
tutti sposati da
così tanto tempo, e hanno quasi tutti
bambini…» Link inizia a presentire la
domanda prima ancora che arrivi, la vede nei suoi occhi mentre si
forma;
vorrebbe disperatamente fermarlo, davvero, o quantomeno scappare il
più lontano
possibile per non doverla ascoltare; invece si costringe a restare
fermo, col
piatto sulle ginocchia, a domandarsi se in fin dei conti quella del
patibolo sia
stata un’esperienza peggiore di questa. «Ma la
prima notte di nozze, insomma…»
«È
diversa per tutte le coppie» afferma Link con una
sicurezza che non sapeva di possedere sull’argomento. Beh, di
certo la sua è
stata molto diversa da quella della maggior parte delle coppie; quindi,
tecnicamente, non ha neppure detto una bugia. «Non basarti
sui racconti degli
altri. Devi solo essere te stesso.»
È
evidente che questo giovane sposo si aspettava da
lui qualcosa di assai più rassicurante e definitivo, magari
un vero e proprio
consiglio che gli fungesse da guida e sostegno, ma purtroppo, nel fondo
comune
di verità scontate e proverbi da cui Link può
attingere, vere e proprie
epifanie sconvolgenti non ce ne sono. Poiché vede la sua
delusione, però, si
sforza di aggiungere qualcosa che sappia di vita vera. «Anche
se, sai… per me è
stato diverso. Quando mi sono sposato credevamo che sarei
morto» gli ricorda,
dal momento che, ufficialmente, il suo matrimonio risale alla primavera
scorsa
ed è stato celebrato in quello che si credeva essere un
punto di morte. «Di
certo non sono la persona più adatta per parlare questo
argomento. Non è
proprio un matrimonio come gli altri, capisci.»
A sera, col buio
della capanna che maschera il suo imbarazzo,
trova chissà dove il coraggio di raccontare quella
conversazione a Revali. Per
tutta risposta, Revali ride talmente forte, a lungo e intensamente che
per la
prima volta Link si preoccupa che qualcuno possa sentirlo.
«Sei
ancora la principale attrazione del villaggio,
a quanto vedo. Eppure ormai sono passati diversi giorni. Tu che cosa
gli hai
risposto?»
La sua risata lo
ha infastidito a sufficienza perché
Link decida che, a dispetto di tutta la gratitudine che prova per lui
(e che
del resto Revali ha ribadito che non gli deve), si merita una lezione.
«Le
solite cose che si dicono in questi casi» risponde
perciò con naturalezza,
aspettandosi l’inevitabile domanda che questa risposta
porterà automaticamente
con sé.
«Cioè?
Esiste qualcosa che si dice di solito in
questi casi?»
«Certo.
Che la prima volta non sei riuscito a
trattenerti e mi hai posseduto in piedi contro un muro.»
Link concede a se
stesso di godersi il silenzio
carico di panico di Revali per i quindici secondi più
piacevoli della sua
esistenza prima di decidere che è stato punito a sufficienza.
«Dai,
scherzavo» lo tranquillizza in tono annoiato,
sollevandosi a guardarlo dall’amaca. «Ho detto
soltanto che sei un amante
gentile ma appassionato e molto attento ai miei desideri.»
Il silenzio
prosegue nell’aria della stanza: di
Revali Link intravede solo gli occhi enormemente dilatati
dall’altro lato della
capanna. Avrebbe voluto saperlo prima che ci voleva così
poco a metterlo a
tacere: si sarebbe risparmiato un gran numero di discussioni di fronte
ai piani
di battaglia.
«Revali...
stavo solo scherzando.»
Revali gli
scaraventa addosso la punta di una
freccia imprecando. Link ride fin quasi a soffocarsi.
«Ti
preferivo quand’eri serio e posato» stabilisce
Revali tornando a sedersi contro il muro. «Se avessi saputo
che il matrimonio
ti avrebbe peggiorato tanto, ti avrei lasciato su quel patibolo.
Avresti dovuto
dirgli questo.»
Il giorno dopo
arriva la lettera che Mazli aveva
promesso: Kagan si presenta di persona a casa loro per consegnargliela.
Sembra
di buonumore. «Non l’ho letta, ovviamente, ma ha
scritto anche a me. Credo che
abbia tutto sotto controllo. Era relativamente tranquillo.»
«Relativamente
rispetto al suo solito, intendi?»
chiede Link aprendo la busta. La scorre rapidamente: a quanto pare,
è tutto
tranquillo. Hanno mandato un ufficiale a fargli ancora domande sul
presunto
matrimonio, ma Mazli s’è limitato a ripetere
ciò che era stato già detto, e
questo è quanto: il matrimonio è legalmente
valido e dunque inattaccabile. In
fondo alla lettera Mazli s’è degnato di aggiungere
anche qualcosa che sa
stargli molto a cuore: che la principessa Zelda è stata
rilasciata dai suoi
appartamenti. Link sospira leggendo quella riga di un sollievo misto a
preoccupazione. Zelda è libera, dunque, e di certo
è tornata ai suoi studi e ai
suoi allenamenti; ma è anche sola, o comunque senza di lui a
proteggerla. Non è
in suo potere farci nulla, tuttavia: Mazli ribadisce nella lettera che
non ha
novità in merito al suo congedo forzato. Link non sa come
sentirsi in merito:
quand’anche potesse, non sa se vorrebbe tornare dopo quello
che gli hanno
fatto; ma vorrebbe poter proteggere Hyrule. La Calamità
tornerà
indipendentemente da lui e dal re.
«Certo:
rispetto alla sua consueta ansia» risponde
Kagan sorridendo. Lo osserva mentre legge, e forse intuisce qualcosa
dal
contrarsi della sua fronte, perché, dopo qualche momento,
domanda: «Brutte
notizie?»
Non è
una domanda semplice come Kagan pensa: se si
tratti di brutte notizie o no, Link non saprebbe deciderlo. Stabilisce
di
riporre la lettera e di pensarci in un secondo momento.
«Notizie»
risponde semplicemente. «Grazie, Kagan.»
Kagan agita la
mano, per l’ennesima volta, come a
voler dire che non c’è bisogno di ringraziarlo
affatto. «Dimmi di te,
piuttosto. Come va la vita coniugale?»
Lo chiede in un
tono che vuole essere scherzoso,
probabilmente, ma che invece suona piuttosto malizioso. Link scuote il
capo
sorridendo: per quanto sia oltraggioso, per chissà quale
motivo, non riesce a
prendersela con lui. «Non la definirei coniugale, Kagan. Lo
sai. Io sto bene,
se è quello che vuoi sapere.»
«Revali
mi sembra contento, quando lo incontro»
ribatte Kagan con simulata noncuranza.
A lui, veramente,
Revali sembra sempre il solito
indisponente, pomposo e altezzoso Rito che ha conosciuto sul campo di
battaglia; ma questo a Kagan non si può dire. Forse
è la sua definizione di
buon umore. Link decide diplomaticamente di lasciar perdere.
Finiscono di
costruire anche la casa della giovane
coppia: per ringraziarlo del suo aiuto, la promessa sposa gli dona una
tunica
pesante e spessa, che ha tessuto e ricamato a mano alla maniera dei
Rito, della
sua taglia. È azzurra e bianca, dei colori che sono stati
attribuiti ai
Campioni, come la sua tunica e la sciarpa che la principessa ha donato
a Revali
quando ha accettato di pilotare il colosso sacro. Link se la rigira in
mano
incredulo senza saper che dire e prova a protestare che non
può accettare un
regalo simile, che è di valore troppo grande rispetto
all’aiuto che ha
prestato, ma Leta rimane inflessibile e nasconde le ali dietro la
schiena
perché lui non possa restituirgliela. «Se
preferisci, vedilo come un dono di
nozze» risponde. «Ma ti prego, accettala. E poi,
quest’inverno avrai freddo»
gli ricorda. «Qui siamo molto più a nord e
più in alto che a casa tua. Non sei
abituato ai nostri climi. Ti terrà al caldo,
spero.»
È vero
che avrà freddo, tra poche settimane: la
neve, che in estate è a malapena visibile sulle cime
più lontane di Hebra, ogni
tanto al mattino si fa più vicina e chiara. Link
l’osserva avvicinarsi con
preoccupazione, non per il freddo, ma perché il
diciassettesimo compleanno di
Zelda s’avvicina ogni giorno di più; e, stando ai
ricordi che Pruna è riuscita
a recuperare dalla memoria del piccolo guardiano misterioso, quello
sarà il
giorno del ritorno della Calamità.
Il giorno in cui
si sveglia col freddo nelle ossa e
guardando dalla finestra intravede la neve più grande e
più vicina, Link
trascorre la mattinata inquieto ad attizzare il fuoco nel braciere
senza sapere
perché; la sua mente si rifiuta di soffermarsi su un
pensiero in particolare;
mangia nervosamente un paio di mele, per ingannare l’attesa,
sbucciandole
lentamente. A un certo punto si taglia appena col coltello: il taglio
sottile
sul suo pollice brucia più fastidioso delle ferite
più gravi, e Link si sente
stizzito come se avesse commesso chissà quale sciocchezza.
Si è tagliato perché
stava guardando fuori dalla finestra, in direzione del Volodromo.
Alla fine, verso
l’ora di pranzo, perde la pazienza.
Si cinge alla vita la cintura e il fodero della Spada, attorno al petto
le
cinghie che trattengono il suo scudo, la faretra e il suo vecchio arco
militare
e tira fuori la paravela dal baule dove l’ha riposta; fa per
uscire, poi ci
ripensa. Ha volato molto più carico di così,
perciò annoda in una tovaglia
mele, pane e formaggio e la fissa a una delle cinghie prima di uscire
di casa.
Si lascia planare
verso il Volodromo dal punto più
alto della rupe, manovrando delicatamente la paravela per aggiustare la
direzione: non è una manovra difficile, comunque. Il
Volodromo è facilmente
raggiungibile dal borgo.
Non ci
è mai stato: non sa se fosse già stato
costruito quando ha accompagnato Zelda a chiedere a Revali di
combattere per
loro, e comunque non ci sarebbe stato molto tempo per giri turistici,
all’epoca. Oggi il cielo è freddo e livido come
acciaio: forse per questo non
c’è nessuno ad allenarsi. I bambini, che ogni
tanto vanno ad ammirare le gesta
di Revali, di certo a quest’ora sono a pranzo nelle loro
case. Link attraversa
il campo d’allenamento senza guardarsi troppo intorno: Revali
non si sta allenando,
lo sente dal silenzio che permea l’aria, e Link si limita a
registrare
distrattamente nella sua mente la presenza di bersagli sparsi ovunque
il suo
occhio possa vedere e di un freddo più intenso e
più pungente che al borgo.
Questo luogo è pieno di vento e di correnti
d’aria: non c’è da sorprendersi che
Revali lo abbia scelto per i suoi allenamenti.
All’estremità
opposta rispetto al borgo c’è un
edificio su cui Link punta d’istinto. Entra senza pensarci
troppo. Revali è
seduto sul pavimento, nella posizione abituale in cui Link è
ormai abituato a
vederlo, e sta lavorando sulla corda del suo arco. Il suo arrivo non lo
ha
colto di sorpresa: evidentemente l’ha visto arrivare da
lontano, forse da
quando ha iniziato la planata con la paravela dall’alto. Del
resto, a questo
luogo è impossibile avvicinarsi di soppiatto provenendo
dall’alto: non è
sorprendente che l’abbia progettato uno stratega come Revali.
«Ehi»
si limita a dire senza levare lo sguardo dal
suo arco. È il suo modo di riassumere un saluto e di
domandargli insieme se ha
qualcosa da dirgli. «Sei venuto a vedere il mio
Volodromo?»
Link si slaccia
la prima delle cinghie che gli
serrano il petto.
«Ehi»
risponde a sua volta guardandosi intorno. Sta
per dirgli quello a cui ha pensato tutta la mattina, e in
verità ormai già da
qualche giorno, ma d’un tratto gli cade l’occhio
sull’arredamento della
capanna: è un’unica stanza spoglia, pensata per
riposare durante gli
allenamenti, e forse è per questo che in un angolo
c’è qualcosa che colpisce la
sua attenzione perché è totalmente fuori posto
– c’è un’amaca.
I suoi pensieri
precorrono la sua voce. Rimane in
silenzio per un attimo a osservare quell’amaca mentre nella
sua mente tutto
trova la sua adeguata collocazione: stupito dal suo improvviso
ammutolire,
Revali segue con gli occhi il suo sguardo.
«Tu
dormi qui» dice Link improvvisamente.
Revali lo osserva
per un istante cercando di
decidere, sulla base della sua espressione, se dirgli semplicemente la
verità
oppure rispondergli col consueto sarcasmo. Poiché
è Revali, propende per la
seconda. «Evidentemente.»
Link non sa
perché la cosa lo faccia tanto
arrabbiare. Forse perché non l’aveva intuita da
solo, o forse perché è
semplicemente troppo stupida per crederci. «Tu non vieni qui
per allenarti.
Rimani sveglio fin quasi all’alba e poi vieni qui a riposare
perché nessuno
sappia che non dormi con tuo marito e tutti credano che ti
alleni.»
«Certo
che mi alleno!» sbotta Revali sdegnato. «Solo
che prima dormo qualche ora. Ti pare tanto strano che persino io abbia
bisogno
di dormire nella mia vita e che non sia stato ininterrottamente sveglio
negli
ultimi quaranta giorni?»
«Allora
dormi con me!» urla Link. Non sa da dove gli
provenga tanta rabbia, ed è evidente che non lo sa neanche
Revali, perché
rimane esterrefatto e, per una volta, incapace di trovare una risposta
arguta:
i suoi occhi si sono fatti enormi di stupore. Non lo ha mai visto
alzare la
voce neppure in guerra. «È la cosa più
stupida del mondo! Hai una casa! Perché
diamine non dormi lì di notte?»
Revali riesce a
controllare il suo stupore
abbastanza da provare a rispondere. Tenta davvero di articolare una
frase, ed
esclama: «Link, ascolta…»
Il punto
è che Link non ha voglia né tempo di star
lì a sentire le sue argomentazioni, anche perché
non gli direbbero nulla: non
sa neppure perché è arrabbiato, e
c’è una parte di lui che è consapevole
che
qualunque cosa Revali decida di fare non lo riguarda, perché
è libero
esattamente come lui; ma è proprio questo il problema. Che
in realtà quel
problema lo riguarda, a dispetto di tutto, perché Revali non
dorme in casa sua
da quaranta giorni per permettere a lui di farlo; e di tutto
ciò non gli ha
nemmeno chiesto il suo parere. Link non sa se si senta arrabbiato
perché quello
è l’ennesimo gesto che lo pone in una posizione di
debito e di gratitudine nei
confronti di questo maledetto Rito o semplicemente perché
quella è la soluzione
più stupida che Revali potesse trovare al problema; e ora
è troppo furente per
riuscire a verbalizzare la prima ipotesi.
Si dà
il caso che la seconda, invece, sia perfetta
per l’occasione. Perciò Link gli scaraventa
addosso la tovaglia annodata con
tutto quello che contiene e ci tiene a sottolineare il gesto gridando:
«Come fa
uno stratega come te a essere così idiota?»
Dopodiché
si volta e lascia il Volodromo a piedi. Ha
bisogno di sbollire per un po’.
Arrivare al
Volodromo dal Borgo dei Rito è molto
semplice: basta planare. Ma compiere il percorso inverso allo stesso
modo è
impossibile, visto che il borgo è troppo sopraelevato
rispetto al piano del
Volodromo: va benissimo. Link non chiede di meglio che camminare per
conto suo
per qualche ora. Non ci tiene a rivedere Revali per un po’, e
non ci tiene
nemmeno a domandare a se stesso perché si sia infuriato
tanto.
Quando fa ritorno
a casa, il sole è tramontato da un
pezzo e lui si sente stanco, infreddolito e affamato. La combinazione
di queste
sensazioni, e la consapevolezza di aver urlato addosso alla persona cui
tecnicamente deve la vita, lo rendono anche profondamente nervoso, ma
si sforza
di non pensarci. Affronterà tutto a suo tempo.
Revali
è già in casa, ovviamente, dal momento che il
viaggio di ritorno dal Volodromo a lui non richiede che qualche minuto
di volo,
e sta arrostendo qualcosa sul fuoco. Quando Link entra in casa e lascia
ricadere la tenda alle proprie spalle si aspetterebbe la sua rabbia o
il suo
sarcasmo, ma, stranamente, non è così. Revali sta
ridendo, il che lo farebbe
infuriare ancora di più se solo non avesse freddo e fame e
non fosse così
stanco.
«Che
hai da ridere?» domanda perciò senza troppe
cerimonie mentre si sfila di dosso la faretra.
«Eri
tremendamente buffo, prima» risponde Revali. La
risata vibra ancora nella sua voce, un po’ nascosta, ma
quantomeno egli si sta
sforzando di non ridergli in faccia. «Come un gattino
arrabbiato. Non ti avevo
mai visto così. Sei più simpatico quando perdi le
staffe.»
La sua scoperta
ironia è l’ultima cosa di cui Link
abbia bisogno, sebbene ci sia una parte di lui, neppure tanto sepolta,
che si
sente sollevata dal fatto che Revali non sia arrabbiato con lui. Non sa
come
avrebbe potuto gestire la sua rabbia in questo momento. Gli
dà le spalle mentre
si sfila di dosso anche l’arco.
«È
tutto qui quello che hai da dire, quindi?»
«No,
naturalmente no. Ma volevo aspettare che ti
sedessi, prima.»
La sua voce
s’è fatta un po’ più seria
d’improvviso.
Gettandogli un’occhiata nel tentativo di decifrare la sua
espressione, Link si
sfila di dosso la cintura col fodero, la ripone su un piano e si siede
di
fronte a lui. Gli occhi di Revali brillano come smeraldi nella luce del
fuoco.
«Sono
seduto.»
«Bene.
Allora, posso dirti che ho deciso di
interpretare la tua simpatica scena di oggi come un segno di manifesta
preoccupazione per la mia salute, piuttosto che come
l’ennesimo sintomo del tuo
carattere petulante e della tua tendenza al controllo.»
È un
discorso talmente infarcito di sostantivi e aggettivi
che Link impiega qualche momento a sbrigliarlo tutto nella propria
mente.
Probabilmente è quello che Revali voleva, perché
approfitta del suo silenzio
per proseguire. «Link, non ti ho salvato perché tu
mi fossi debitore, e neppure
perché tu dormissi come un cane o uno schiavo sul pavimento
di casa mia. Se c’è
qualche modo in cui posso essere più chiaro di
così, ti prego, dimmelo, perché
non so come altro esprimerlo. Non intendo umiliarmi facendo scoprire
alla mia
gente che questo è un falso matrimonio, ma non intendo
umiliare neanche te… in
qualunque modo diverso che su un campo di battaglia, cioè.
Lì va benissimo a
entrambi, presumo. Puoi comprendere che, sebbene io mi ritenga
infinitamente
superiore a te sotto una cospicua varietà di aspetti, non
voglio esserlo perché
tu mi devi la vita?»
Link rimane senza
parole per un po’ perché questa è
la massima sincerità possibile che abbia mai ricevuto da
Revali e non sa come
prenderla. Non sa che cosa dire.
«Posso
capirlo» mormora infine.
«Bene»
sospira Revali. «Allora, direi che abbiamo
chiarito.»
«No, un
momento» lo interrompe Link. «Vorrei dire
anche io qualcosa, se non ti dispiace. Dopotutto, siamo
sposati» gli ricorda.
«Alla pari, quindi.»
«Giusto»
commenta Revali sogghignando. «Avanti,
allora. Non sia mai che si dica che tolgo al mio sposo il diritto di
far valere
le sue ragioni sotto il nostro tetto coniugale.»
Link soprassede
sulla sua palese ironia perché, come
sempre, se si soffermasse a combattervi finirebbe soltanto per restarvi
invischiato.
«Posso
comprendere tutto quello che hai detto. Ma tu
puoi sforzarti di comprendere a tua volta che io sono davvero
preoccupato per
te, e che il fatto che tu mi abbia ceduto la tua casa e la tua amaca
non fanno
che accrescere un debito che forse tu non vuoi vedere, ma che io
continuo
comunque ad avere nei tuoi confronti?»
Questa volta
è Revali a rimanere in silenzio di
fronte al chiarore del fuoco. Contempla le sue parole nelle fiamme per
qualche
momento.
«Posso
sforzarmi» dice infine.
Quella
è la massima concessione che gli sia
possibile strappargli, di questo Link ne è certo,
perciò è bene approfittarne.
«Bene.
Per favore, Revali, troviamo una soluzione.
Potremmo fare a turni. Una notte per uno, come di guardia.»
Revali scuote il
capo. «No, Link. Non intendo cedere
su questo.»
Link odia la
sensazione di perdere terreno. «Per
l’amor del cielo, Revali! Quanto pensi di poter resistere
così senza crollare?
Dormi con me.»
Questa volta,
semplicemente, Revali ride. Non c’è
amarezza nella sua risata, ma a quanto pare, semplicemente, trova
l’idea molto
divertente. Link non sa se ritenersene insultato.
«Continuerò a sforzarmi di
apprezzare i tuoi tentativi, Link, ma la risposta continua a restare
no. Vedila
così: ti sto facendo un favore. Di certo staremmo troppo
stretti in due.»
Quella
è la bugia più spudorata che Link gli abbia
mai sentito pronunciare. «Non è vero, e lo sai.
Quell’amaca potrebbe contenere
tutto l’esercito.»
Revali si limita
ad aggrottare la fronte sorridendo.
«Una curiosa associazione mentale, Link, davvero, ma per
quanto i tuoi sforzi
di sedurmi mi lusinghino, la risposta rimane comunque no. Ora vogliamo
cenare o
intendi continuare a manifestare i tuoi imbarazzanti desideri
inconsci?»
Link è
sicuro che un modo per vincere una
discussione con questo dannato Rito, da qualche parte, esista; il
problema è
che dev’essere come uno di quei rompicapo truccati,
impossibili, che si possono
terminare solo conoscendone in anticipo la soluzione. Revali non
cederà, qualsiasi
cosa lui possa dirgli, e gli ha detto anche perché: a quanto
pare dovrà
accontentarsi di questo, del fatto che è stato onesto con
lui e ha cercato di
vedere la cosa dal suo punto di vista. Il che, naturalmente, non ha
portato a
niente; ma è comunque un miglioramento. Perciò,
con un sospiro, Link si alza e
va a lavarsi per la cena nella minuscola stanza adibita a bagno.
Quando ritorna
nella sala, Revali sta sorridendo
come se, in sua assenza, fosse stato colpito da un pensiero
estremamente
divertente. Link si ferma sulla soglia a osservarlo.
«C’è
qualche altro pensiero che trovi ridicolmente
ilare?»
Revali si sforza
di smettere di ridere come se
questo fosse sufficiente a rispondere alla domanda. «Non
è niente. Pensavo solo
che… non sai che giorno è oggi,
immagino.»
Poiché
Link davvero non lo sa, non gli rimane che
restare in silenzio ad aspettare che Revali gli faccia
l’enorme grazia di
rivelarglielo.
«È
passato un anno e mezzo esatto dalla battaglia di
Hebra» dice Revali. «E a quanto pare abbiamo appena
avuto il nostro primo vero
litigio di coppia.»
Link rimane
interdetto a tal punto che non sa come
replicare.
«Credevo
che i periodi di crisi venissero più tardi»
commenta dopo un po’. «Il nostro matrimonio sta
andando davvero male, allora.»
Revali scrolla le
spalle facendogli cenno di
avvicinargli i piatti. A quanto pare la cena è pronta.
«Non saprei. Il primo
litigio dopo un anno e mezzo non mi sembra male.»
«Lo
dirò ad Avaris, allora» risponde Link sedendosi
di fronte a lui. «Anche se, a dire il vero, io ricordo un
discreto numero di
discussioni sui piani di battaglia.»
«Quelle
non contano come litigi coniugali, però»
stabilisce unilateralmente Revali, e Link decide di non discutere
oltre. In fin
dei conti, non si sente poi questo grande esperto di matrimoni.
Più
tardi, dopo cena, mentre Revali si rimette al
lavoro sul nuovo arco che sta realizzando per sostituire il proprio,
Link si
siede a un tavolo a studiare le sue mappe.
«Non mi
hai detto perché sei venuto al Volodromo,
poi» lo informa Revali continuando a lavorare, senza neppure
guardarlo. Questo
è il suo modo di cercare di scoprirlo senza doversi
abbassare a chiedere,
naturalmente, ma Link non intende dargliela vinta tanto facilmente.
È ancora un
po’ arrabbiato.
«No,
hai ragione» conferma sfogliando le mappe. «Non
te l’ho detto.»
Revali attende
per quasi un paio di minuti prima di
decidersi a domandare: «Posso saperlo adesso?»
Lynel, dice una scritta sulla
mappa di fronte
all’imboccatura di una caverna. In un angolo a nord, dentro
quella che si
direbbe una gola, c’è una grossa croce: Link vi
posa le dita per un momento.
Revali sta studiando da mesi un luogo dove la sua gente possa
rifugiarsi quando
verrà la Calamità.
«Si sta
avvicinando» risponde solamente.
Revali continua a
lavorare il legno per un po’ senza
dar segno d’averlo sentito. «Eri venuto a dirmi
questo? So leggere un
calendario, sai.»
«Che
cosa faremo noi quando tornerà la
Calamità?»
Revali
s’interrompe con un sospiro. Quel sospiro,
così come i segni sulle mappe, gli dice tutto quello che ha
bisogno di sapere:
che, come lui, alla Calamità Revali non ha smesso di pensare
mai.
«Io
devo difendere la mia gente» dice Revali
semplicemente.
«Piloterai
Medoh, quindi.»
«Certo.
Sebbene ritenga che il mio talento sia
sprecato in un semplice ruolo di supporto, come credo di averti
già detto.»
«Ricordo
vagamente d’avertelo sentito dire, sì.»
Revali non ha
ancora ripreso il lavoro. «Combatterai
anche tu.»
Link sorride
appena. «Perché non suona come una
domanda?»
«Perché
non lo è. Se c’è qualcosa che devo
riconoscerti, è che supplisci la tua deplorevole mancanza di
talento con un
notevole impegno e qualche trucco con quella tua spada. E che hai
sempre difeso
Hyrule.»
«Non
l’ho mai fatto per il re» mormora Link.
Malgrado quello che gli hanno fatto, malgrado il tradimento,
l’oltraggio,
l’umiliazione, combatterà comunque, sempre,
perché è Hyrule ad aver bisogno di
lui: non il re. Ma lo sorprende che Revali lo conosca tanto bene da
averlo
saputo prima ancora di chiederglielo.
«Lo
so» risponde Revali. «Quindi eri venuto ad
allenarti, suppongo.»
Link si stringe
nelle spalle. «Non vedo lati
negativi ad allenarci insieme. Dal momento che siamo esiliati qui,
tanto vale
mettere a frutto il tempo. No?»
«Suppongo
che qualche volta capiti anche a te
d’avere ragione» risponde Revali.
«Perché no? Se prometti di non tirarmi altro
addosso, torna domani. Che cos’era poi quella roba che mi hai
tirato addosso?»
Link si era quasi
dimenticato di avergli
scaraventato contro la tovaglia con tutto il suo contenuto.
«Era il
pranzo» risponde seccato.
Questa volta
Revali si volta direttamente a
guardarlo senza riuscire a trattenersi. Link aspetta per un
po’ un commento
pungente che, stranamente, non arriva. Per una volta, Revali lo sta
solo
guardando.
«Mi
avevi portato il pranzo?»
La sua domanda
è così stupida che Link decide di
ritorcergli contro una delle sue risposte preferite.
«Evidentemente.»
«Grazie»
dice Revali soltanto.
«Prego»
risponde Link. «Sono contento di avertelo
tirato addosso.»
Revali si rimette a
lavorare ridendo tra sé.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Interferenze ***
Capitolo VII – Interferenze
“Pareva
piena di attenzioni, ma la conosco: lo faceva per gelosia. Non mi ha
voluto
lasciar solo con lui.”
“Perché
vi amava. Non c’è gelosia senza amore.”
André
Gide, I
falsari.
Il giorno successivo Link mette da parte
l’orgoglio
e l’offesa e plana di nuovo verso il Volodromo,
perché Hyrule è più importante
e verrà sempre prima delle scaramucce verbali
coll’altezzoso Rito che gli è
toccato in sorte per marito: Revali, come sempre, vi si è
recato stamani prima
ancora dell’alba, dopo l’ennesima nottata trascorsa
lavorando. Non fanno
menzione della discussione del giorno precedente: va benissimo
così. Quando si
lavora, non c’è tempo per le sciocchezze.
Dopo tre ore di allenamento, Link comincia a
comprendere perché gli altri guerrieri Rito non approfittano
del Volodromo
tanto quanto potrebbero: persino negli allenamenti, Revali è
implacabile. Per
loro, comprende Link d’un tratto mentre Revali vortica sopra
la sua testa e una
pioggia di frecce si conficca nello scudo ch’egli ha fatto
appena in tempo a
sollevare sopra di sé, avere a che fare con lui è
scoraggiante perché
semplicemente non esiste un termine di paragone.
«Chissà come sarebbe finita quel giorno
se la
principessa Zelda non ci avesse interrotti» gli dice quando
si fermano per
bere. Pensa al loro primo duello, quando i Rito, scambiandoli per
nemici, li
hanno attaccati mentre scortavano la principessa e il piccolo guardiano
al loro
Borgo: è stata la prima volta che hanno combattuto, quella.
Non che ce ne siano
state altre, dopo, se non per allenarsi, cogli altri Campioni, nei
giardini del
Castello di Hyrule; ma seriamente mai.
«Non mi pongo domande delle quali conosco
già la
risposta» risponde Revali facendogli cenno di passargli la
borraccia: Link deve
esercitare un notevole sforzo di volontà su se stesso per
non scaraventargli
addosso anche quella.
«Certo» risponde a denti stretti mentre
si limita a
passargliela non troppo vicina, in modo che Revali debba comunque
protendersi e
sbilanciarsi verso di lui per prenderla. «Ci
mancherebbe.»
Revali riprende la conversazione dopo aver bevuto.
«Non devi prendertela quando ti dico queste cose.
È la pura sacrosanta verità,
e non è tutta colpa tua, sai. Semplicemente, tesoro
mio… tu non puoi volare. Mi
limito a enunciare un dato di fatto. Non puoi planare
dall’alto scagliando
frecce e fare tutta una serie di cose che io,
modestamente…»
A questo punto Link fa una cosa che ha sempre punito
severamente ai suoi uomini di fare durante gli addestramenti,
perché è una cosa
puerile e inutilmente pericolosa ed è contraria a ogni norma
di buon senso
sull’uso delle armi, ma che può permettere a se
stesso di fare perché lui è lui
e perché questo maledetto Rito è troppo arrogante
per non essere messo a tacere:
solleva la spada, con un gesto apparentemente casuale eppure
controllato, e la
punta in mezzo ai suoi occhi. Revali ammutolisce all’istante.
«Ti ho mai detto
che è proprio la tua modestia che mi ha convinto a sposarti,
sì?»
Revali contempla la spada che punta tra i suoi occhi
con uno sguardo un po’ più compiaciuto di quello
che sarebbe lecito aspettarsi
in questa circostanza. A quanto pare, l’esser stato appena
colto di sorpresa da
lui lo fa sorridere. «Immagino che tu stia cercando di
dimostrare che ho
allentato la guardia mentre parlavo con te. Molto divertente.
Però non prova
niente.»
«Ne sei sicuro?» chiede Link
rinfoderando la spada.
«Non è che, per caso, non prova niente solo
perché non prova una tua teoria?»
«No. Non prova niente perché tu sei mio
marito e
dunque non mi attaccheresti mai in battaglia.»
Link apre la bocca per protestare senza saper bene
che cosa dire per primo tra non credevo che mi considerassi
davvero tuo
marito e non essere così sicuro che non
ti attaccherei; poi decide
di lasciar perdere. Può impiegare il suo tempo in modo
più produttivo che
sfiancandosi in discussioni con lui, per esempio sistemando il suo
equipaggiamento.
«Potresti provare il mio stesso allenamento,
comunque» propone Revali quasi distrattamente.
Link è talmente concentrato a estrarre punte di
freccia dallo scudo di legno che usa per gli allenamenti che quasi non
lo
sente. «Eh?»
Revali fa un cenno in direzione della voragine che
si spalanca al centro del Volodromo. Link segue il suo sguardo senza
capire:
per quanto lo riguarda, non è che un profondo buco nel
terreno attorno a una
rupe disseminata di bersagli. Aggrotta la fronte perché
quello è troppo
gratuitamente insultante persino per lui.
«So che ci sei rimasto male per la questione della
spada, ma questo è puerile, Revali. Non me
l’aspettavo da te. L’hai detto tu
che non sono in grado di scagliare frecce planando.»
«Non ti sei chiesto perché il Volodromo
è stato
costruito qui?»
«No, ma presumo che la risposta sia che
è facilmente
raggiungibile dal borgo e che è un luogo che hai scelto tu
sulla base della tua
inestimabile saggezza, perché tu sei il grande Revali e sai
sempre che cosa è
meglio per la tua gente.»
Revali lo guarda quasi con soddisfazione perché
evidentemente, per una volta, Link ha azzeccato entrambe le risposte.
Il suo
sarcasmo dev’essere passato inosservato. «Mi
sorprendi, Link. Hai quasi
indovinato, ma ti manca l’elemento fisico. Non hai sentito
che in quel punto le
correnti d’aria sono più forti?» A
questa domanda Link evita accuratamente di
rispondere, perché ha la sensazione che a me
sembra che faccia lo stesso
freddo dannato ovunque non sarebbe considerata una risposta
adeguata. «Ho
scelto questo posto perché ci sono degli sfiatatoi naturali
che la mia gente
poteva usare per sollevarsi in volo. Non ti nascondo che li ho usati
anche io
mentre perfezionavo il mio vortice.»
«Ma senti» commenta Link, cui
l’ennesimo autoelogio
del vortice di Revali interessa immensamente meno che sistemare il
proprio
scudo. «Pazzesco.»
Il suo sarcasmo comincia a diventare abbastanza
evidente perché Revali inizi a infastidirsene.
«Perché non ci provi anche tu?»
«L’hai detto tu, Revali.
Perché non posso. Non ho –
com’è che le chiamate voi? Ah – le
ali.»
«Hai quella tua paravela, no?»
Link non può negare di averla. Leva gli occhi su
Revali con una certa curiosità perché non capisce
dove voglia andare a parare.
«Va bene, ma dovrei comunque riporla per poter mirare. Non ho
la stessa
struttura fisica dei Rito.»
Revali scrolla le spalle. «Se vediamo che
funziona,
possiamo lavorare a un modo per adattarla. Le poche volte che ti ho
visto
tirare con l’arco, la tua mira non era proprio
pessima.»
Quello è l’unico modo che Revali
conosca di fargli
un complimento. È sorprendente come riesca a rassomigliare
anche a un’offesa in
una discreta varietà di modi diversi.
«Naturalmente, capisco che tu non te la senta di
metterti alla prova con me, ma…»
Non è per la sfida: è per Hyrule.
Quantomeno è
questo che Link ripete a se stesso mentre ci pensa per un
po’, osservando
l’enorme buca con un interesse che finora non le ha mai
destinato. Tutto
sommato, Revali non ha torto: con la paravela, forse, qualcosa potrebbe
pure
combinare; un giorno potrebbe trovarsi in una situazione in cui
potrebbe
pentirsi di non aver sviluppato quest’abilità; e
poi, soprattutto, nessuno dei
due lo ammetterà mai, ma sono in uno stallo maledetto. Hanno
passato le ultime
ore ad allenarsi perché ciascuno dei due è il
miglior guerriero che l’altro
conosca – altra cosa che nessuno dei due ammetterebbe mai
– ma non andranno da
nessuna parte, così. E Link è piuttosto stufo di
parare le sue frecce senza
scopo.
«Proviamo» risponde stringendosi nelle
spalle.
Ci sono state molte occasioni in cui Link ha
rivalutato le sue scelte di vita, che non sono state sempre giuste o
felici.
Nessuna è come oggi, però. Nella
fattispecie, Link è
nervoso, frustrato, scoraggiato; il sudore gli si è
ghiacciato sulla schiena
nell’aria gelida che esce a fiotti dagli sfiatatoi naturali
del Volodromo; gli
fanno male le braccia, la schiena, persino la testa; ma, soprattutto,
nutre un
profondo desiderio di commettere un uxoricidio.
Avrebbe dovuto ascoltare quella voce dentro di lui
che gli sconsigliava di accettare quella sfida, se mai quella voce
c’è stata;
o, se non quella voce, quantomeno il poco buon senso che aveva
dimostrato di
avere quando ha detto non posso farlo, non ho le ali. Ora
che ha
iniziato, tirarsi indietro sarebbe come ammettere di fronte a Revali
che non è
alla sua altezza; il che è stupidamente ovvio, da un certo
punto di vista,
perché lui non è un Rito e non sa volare
più di quanto Revali sia in grado di
risalire a nuoto una cascata; ma fa lo stesso. A questo punto, Link
è troppo
orgoglioso per dire semplicemente basta.
Lo stupisce l’assenza di commenti da parte di
Revali: è insolitamente tranquillo. Neppure quando Link
rovina a terra
all’interno della buca, stranamente, gli sfugge una delle sue
battute: si
accerta persino che non sia morto, il che è insolito ai
limiti del commovente,
da parte sua. Sembra più interessato a risolvere il problema
che non a
deriderlo, il che, per lui, è un’assoluta
novità.
Alla fine, verso il tramonto, quando ormai il gelo
si fa insostenibile e rischiano di restare ad allenarsi alla sola luce
di torce
e fiaccole, Link si sfila di dosso la faretra e dichiara:
«Senti, lasciamo
stare. È un problema perso in partenza.»
Revali lo osserva in silenzio per un po’. Sta
pensando.
«Non ne sono sicuro» dice infine.
«Fammi fare ancora
un tentativo.»
Veramente a Link sembra che i tentativi siano
qualcosa che sta facendo lui, fino a prova contraria. «E cosa
pensi che cambi?»
«Non lo so. Aspetta, però…
dammi il tuo arco. Fammi
vedere una cosa.»
Link glielo porge senza troppe aspettative:
qualunque cosa pur di smettere di discutere con questo dannato Rito e
andare a
casa. Si scalda le mani soffiandovi sopra mentre Revali studia il suo
arco
nella poca luce rimasta, tendendolo e piegandolo cogli stessi gesti
lenti,
metodici, di quando lavora il legno la sera mentre Link lo osserva
pigramente
dall’amaca.
«Non è tutta colpa tua»
dichiara infine Revali.
«Questo arco…»
«Fammi indovinare. Il mio arco fa schifo e non
è
neppure comparabile a quelli prodotti dalla tua maestria»
sbotta Link, che si
sta congelando il culo per stare a sentire questo Rito pretenzioso e
arrogante
elargire le sue massime di saggezza a chiunque sia disposto a stare a
sentirlo
abbastanza a lungo; che, nel caso specifico, è lui. Tutto
sommato non è poi
sorprendente che non fosse già sposato, prima del suo
processo. «Ora che
l’abbiamo appurato possiamo andare?»
Revali alza gli occhi su di lui come se fosse
sorpreso della sua presenza. «Che c’è?
Hai freddo?»
Link non ha neppure la soddisfazione di
scaraventargli addosso l’arco. Si avvia imprecando lungo la
strada che porta al
borgo, maledicendo se stesso, Revali e anche Impa per l’idea
che ha avuto:
forse aveva ragione quando lo ha salutato sulla collina, quel giorno, e
gli ha
chiesto di perdonare lei e i Campioni per averlo condannato a questo
matrimonio.
Questa sera, per non dichiarare pubblicamente a
tutta la sua gente di essere il marito peggiore del mondo, Revali non
può
limitarsi a tornare al borgo in volo come fa di solito. È
costretto a camminare
con lui, percorrendo l’ampio semicerchio che si snoda nella
valle girando
intorno alla loro dirupata città, per imboccare
l’unica via d’accesso a piedi.
Continua a studiare il suo arco: se può servire a farlo star
zitto e a
risparmiarsi qualcuno dei suoi commenti, Link è
più che disposto a
lasciarglielo. Tanto più che, a quanto pare, come ha appena
scoperto, è un arco
che fa schifo.
Quando varca la porta principale del villaggio si
sorprende di scoprirlo addobbato in modo simile alla sera del loro
arrivo: Link
solleva gli occhi sulle decorazioni mentre salgono attraverso le strade
strette
verso casa loro. Revali deve notare la direzione del suo sguardo.
«Domani è il giorno del matrimonio di
Avaris e Leta»
gli ricorda. «Finalmente vedrai un matrimonio Rito in piena
regola.»
Link era stato tanto preso all’idea di costruire
la
casa, a dire il vero, che non s’era neppure chiesto
precisamente quando quel
matrimonio sarebbe stato celebrato. «Non come il nostro,
intendi dire.»
«Già. Puoi scrivere al tuo cucciolo di
attendente
che qui ci sarà il banchetto nuziale, a differenza del
nostro.»
Il fatto che Revali insista a definire Lelek un cucciolo
di attendente lo diverte sempre molto, in parte
perché è una definizione
che gli calca a pennello; ma soprattutto perché gli comunica
quanto Revali sia
ancora indispettito per la questione delle rivelazioni nel cortile del
castello. «Gli farà piacere saperlo. Gli
scriverò anche che oggi l’attività con
te mi ha sfiancato, così avrà
qualcos’altro da raccontare per metterti
in imbarazzo la prossima volta.»
Revali non risponde solo perché stanno
attraversando
un punto particolarmente affollato: sembra che metà della
popolazione maschile
del villaggio si sia addensata in questo particolare tratto di strada,
di
fronte a una specifica casa. Revali si ferma.
«Andiamo a porgere i nostri saluti allo
sposo»
sospira dopo un istante. Link lo guarda con curiosità
perché non gli sembra
entusiasta della cosa: per lui, evidentemente, è una perdita
di tempo. «Sarebbe
scortese non andare, giacché siamo qui. È
tradizione.»
Si fanno largo attraverso la folla che si assiepa
sulla soglia della casa: Link deve presumere che sia la casa dove
Avaris ha
vissuto finora con la sua famiglia d’origine, ma evita di
chiedere spiegazioni.
Avaris è raggiante di felicità ma un
po’ nervoso: ringrazia entrambi
abbracciandoli con braccia tremanti.
«Grazie di essere venuti» risponde loro
macchinalmente, come se l’avesse detto già decine
di volte, ormai; il che non è
sorprendente. Un’anziana Rito, forse sua madre, porge loro
tazze di tè
bollente: Link tiene la sua tra le mani nel disperato tentativo di
scaldarsi.
«Maestro Revali, domani ci farete entrambi l’onore
di esserci? Ci sarà anche
Derdran, sapete» aggiunge, come se fosse un dettaglio carico
d’informazioni per
entrambi. Per Revali, evidentemente, lo è, perché
la sua espressione cambia
subitaneamente; ma non sembra essere una buona informazione. Per Link,
invece,
quel nome non vuol dire niente. «Ha preso un giorno di
licenza per poter
venire. Mi ha scritto che sarebbe partito dalle cime di Hebra stanotte
per fare
in tempo.»
«Che bella notizia» risponde gelidamente
Revali. È
una fortuna che Avaris sia sufficientemente preso dal pensiero del
proprio
matrimonio da non accorgersene. «Lo rivedrò
volentieri. Per Link sarà quasi la
prima volta, non è vero?» chiede passandogli un
braccio sopra le spalle: Link
rimane sufficientemente esterrefatto da quel gesto da avere la
prontezza di
annuire solo con qualche secondo di ritardo. Non ricorda di essergli
mai stato
vicino così. Si sente avvampar le guance, ma, per fortuna,
Avaris non sembra
far caso neppure a questo. «Non credo che ti ricordi il suo
nome. Stavi troppo
male, quel giorno, ed eravamo troppo presi da altro. Derdran
è l’ufficiale che
ci ha sposati.»
«Oh» risponde Link, incerto su quello
che ci si
aspetti di sentir dire da lui e ancora piuttosto concentrato sulla
strana
inusuale vicinanza dei loro corpi. Si rende conto solo in questo
momento di non
aver mai pensato alla misteriosa figura dell’ufficiale Rito
la cui firma deve
campeggiare sul loro certificato di nozze: eppure ricorda chiaramente
che
Revali e Mazli ne hanno parlato come di qualcuno che esisteva e che
conoscevano
entrambi. «Ricordo vagamente. Mi farà piacere
rivederlo» aggiunge, poiché gli sembra
una cosa gentile da dire, e questo sembra bastare a convincere Avaris.
La
pressione del braccio di Revali sulla sua spalla si allenta
impercettibilmente:
a quanto pare, Link ha detto la cosa giusta. Anche se non sa bene quale
sia
stata.
Glielo chiede quando rientrano in casa e fanno
bollire l’acqua per lavarsi dopo gli allenamenti, accendendo
bracieri per
scaldare la casa a sufficienza. Finora, quando gli ha chiesto
direttamente
qualcosa legato alla vita del borgo, Revali è sempre stato
sufficientemente
bencreato da rispondergli risparmiandogli battute superflue; volendo,
perciò,
potrebbe limitarsi a chiederglielo senza stratagemmi né
girarci intorno. Ma
oggi Revali ha messo a dura prova la sua pazienza in ogni modo
possibile,
perciò, sfilandosi con noncuranza il mantello per avere una
scusa per guardare
distrattamente altrove mentre parlano, Link chiede a bruciapelo:
«Derdran è il
tuo ex?»
«Il mio cosa?»
«Ex» ripete Link, che non sa come
scandire quella
parola più chiaramente di così. «Sai,
tipo… ex fidanzato?»
Sperava veramente di aver indovinato, ne era quasi
sicuro: glielo ha chiesto così, a tradimento, nella speranza
di coglierlo alla
sprovvista e di strappargli la verità, come quella volta che
su Medoh ha
mentito e ha fatto il nome di Impa per bluffare; ma non è
servito. Revali lo
scruta perplesso per un po’.
«C’è qualcosa che te
l’ha fatto credere?»
«No» deve ammettere Link a malincuore.
Odia che gli
fallisca una strategia. «Speravo solo di scoprire
perché hai cambiato
espressione quando hai sentito il suo nome.»
«E hai pensato subito a una storia
romantica?»
chiede Revali. Dal tono della sua voce, sembra che trovi
l’idea divertente.
«Geloso, eh?»
Link non aveva mai pensato che la sua strategia
potesse ritorcerglisi contro a quel modo. Forse Revali non è
l’unico colpevole
di abbassare la guardia, tra di loro. Dev’essere avvampato
d’improvviso, perché
Revali appare estremamente divertito. «Sai che non me
l’aspettavo da te?»
«Finiscila» sbotta Link scagliandogli
addosso il
mantello. Revali si limita a prenderlo al volo senza smettere di ridere.
«La tua gelosia mi lusinga» prosegue
ignorandolo
bellamente. «Non sapevo che ti sentissi così.
Posso tranquillizzarti dicendoti
che non ho avuto storie di nessun genere né con Derdran
né con nessun altro?»
«Per quanto mi riguarda puoi anche esserti scopato
tutto il creato» risponde Link dandogli le spalle.
«Questa è proprio una cosa che direbbe
qualcuno a
cui darebbe un dannato fastidio se mi fossi scopato anche solo mezzo
creato»
ribatte Revali ridendo. Il che, deve riconoscere Link ripensando alle
proprie
parole, è più vero di quanto gli piaccia
ammettere: suona esattamente come se
gli desse fastidio. «Comunque, se la cosa ti può
tranquillizzare, noi Rito
tendiamo a sceglierci un partner per tutta la vita,
perciò…»
«Revali» lo interrompe Link, che non
vorrebbe
sorbirsi un sermone sulla monogamia dei Rito neppure se non fosse
sposato con
uno di loro. «Ho afferrato il concetto.
C’è qualcosa che devo sapere su questo
Derdran oppure no?»
Revali è quasi dispiaciuto di dover abbandonare
l’argomento della gelosia per tornare a concentrarsi sul
presente. È evidente
che sperava di poterlo prendere in giro ancora per un po’.
«È solo l’ufficiale il cui
nome figura sul nostro
certificato di matrimonio, Link. Devo però ammettere che,
come hai intuito,
effettivamente non mi è particolarmente simpatico. Tutto
qui.»
Link decide che potrà scoprire con calma le
ragioni
di quest’antipatia. «Lui sa di averci
sposati?»
«Ufficialmente sì, visto che lo ha
fatto.»
«E nella pratica?»
«Kagan ha falsificato la sua firma, quella
notte» ammette
Revali. «Ma gli ha scritto subito per informarlo,
naturalmente, e non mi
risulta che abbia protestato. Perciò, fino a prova contraria
e chiunque lo
chieda, Derdran ci ha sposati quel giorno nella tua tenda.»
«Va bene» risponde Link senza troppa
convinzione. C’è
ancora qualcosa che gli sfugge. «Non potevate scegliere
qualcun altro, se lui
non ti piace?»
«Non è che non mi piaccia, è
che…» È raro che Revali
non trovi parole per esprimere la propria disapprovazione per qualcuno:
Link
attende invano da lui chissà quale rivelazione su questo
personaggio misterioso
senza riuscire a comprendere. «Non importa. Lo vedrai da te.
Comunque, non è
che avessimo tanta scelta. Quel giorno a Hebra eravamo solo in tre al
comando,
e uno di loro è morto. Di certo non potevo sposarmi da
solo.»
La sua voce si abbassa d’improvviso: Link non sa
cosa dire. Non ricordava che un ufficiale Rito fosse morto durante la
battaglia
di Hebra, forse non lo ha neppure mai saputo: è stato troppo
occupato a
riprendersi dalle proprie ferite, prima, e a organizzare lo spostamento
dei
propri uomini poi; gli dispiace scoprirlo così, a distanza
di così tanto tempo
che qualunque parola egli possa dire per manifestare a Revali il suo
dispiacere
non avrebbe più alcun significato.
«Mi dispiace» mormora. «Non lo
sapevo. Era tuo
amico?»
«Eravamo cresciuti insieme» risponde
Revali soltanto;
ma lo ringrazia con lo sguardo per aver chiesto. «Aveva la
mia stessa età. Ma è
stato coraggioso, comunque, e si è portato bene per tutta la
battaglia. Ha
guidato tutte le operazioni nella zona della tundra, prima
di… Comunque, non
importa. Il punto è che Derdran era l’unico
ufficiale che quel giorno avrebbe
potuto sposarci. Direi che non ti occorre sapere altro.»
Qualcosa nella voce di Revali gli dice che parlare
di quel misterioso ufficiale morto è troppo intimo e
doloroso, per lui, ed
evita di fare altre domande. Ha
perduto
dei compagni anche lui, negli anni.
«Dovremo ringraziarlo, domani?»
s’informa sfilandosi
la tunica. Non gli giunge risposta, perciò si volta a
guardare.
L’ha fatto così, senza riflettere, come
ha fatto
decine di volte coi soldati, dopo gli allenamenti, ma Revali sembra
piuttosto
interdetto dal fatto che abbia iniziato a spogliarsi. Il fatto che Link
abbia
ancora addosso due strati di abiti prima di arrivare alla pelle nuda
non sembra
tranquillizzarlo in alcun modo. Questo è un vero peccato,
pensa Link. Se avesse
saputo prima che il solo pensiero della nudità lo mette
tanto a disagio, si
sarebbe spogliato in mezzo al Volodromo, a costo di assiderarsi, per il
solo
gusto di fargli dispetto e di farlo star zitto.
«Che c’è? Non sono mica
nudo» si riserva di fargli
notare. «La cosa ti scandalizza? Che razza di soldato sei?
Non ti è mai
capitato di doverti lavare con nessuno dei tuoi uomini, neppure in
missione?»
«Certo che non mi scandalizza!» protesta
Revali a
gran voce. «Ma non è mica la stessa
cosa.»
Per verificare se davvero non sia la stessa cosa, e
soprattutto per il puro desiderio di metterlo ancor più a
disagio, Link procede
a sfilarsi un’altra delle maglie che si è infilato
per resistere al clima della
zona. Revali distoglie ostentatamente lo sguardo da lui e si china sul
suo
tavolo da lavoro, trovando, d’improvviso, irresistibilmente
interessante il
richiamo dell’arco che stava studiando fino a poco fa.
«Benissimo, fa’ come
vuoi. Va’ pure per primo a lavarti mentre io cerco di
risolvere il problema
della tua inabilità con l’arco. Mi ringrazierai
dopo cena.»
«Inabilità è un termine
piuttosto ingiusto» risponde
Link sorridendo, perché è benissimo in grado di
giudicare quando si merita
effettivamente una critica. «Comunque, non mi hai risposto.
Dovremo
ringraziarlo o no?»
«Io lo ringrazierò quando il Monte
Morte gelerà»
risponde Revali eloquentemente senza voltarsi a guardarlo.
«Tu fai come credi.
In effetti, la pelle che ha salvato era la tua, non la mia,
perciò la cosa
riguarda più te che me.»
Link decide di portare la suddetta pelle nella
stanza da bagno prima che questo dannato Rito abbia un infarto.
I matrimoni Rito, a quanto pare, sono infiniti. È
cominciato nella tarda mattinata, con una cerimonia sulla
sommità della città
scoscesa, e ora stanno banchettando da qualcosa come sei ore; e, per
quanto gli
è dato vedere, probabilmente il ricevimento ne
durerà ancora altrettante. Si alternano
discorsi e aneddoti e interminabili canti nuziali; gli versano
più vino di
quanto Link ricordi di averne mai bevuto in tutta la vita: non
può rifiutare di
brindare.
È il primo vero giorno di freddo invernale. Link
ha
indossato la pesante tunica di lana che la sposa ha realizzato per lui,
sopra
una serie di altri strati: è piacevolmente calda; quando va
a congratularsi con
lei e a porgerle i suoi auguri, Leta ne rimane lusingata come se fosse
stato
lui a farle un onore indossandola. «Per gli sposi Rito
è tradizione intonare i
colori dei loro abiti» spiega guardandoli sorridendo, e Link
realizza
d’improvviso che ha scelto il bianco e l’azzurro
non perché fossero i colori
attribuiti ai Campioni della principessa Zelda, ma perché
per lei rappresentava
solo il colore della sciarpa di Revali. Non che per lui cambi niente, a
questo
punto; ma l’idea lo fa arrossire. Revali finge di non saperne
niente volgendo
lo sguardo altrove.
Una buona parte dei discorsi pronunciati e degli
aneddoti raccontati vengono dall’esercito e da momenti di
guerra, dato che
Avaris è un soldato; finalmente Link ha modo di vedere anche
il famoso
ufficiale il cui nome campeggia sul certificato del suo matrimonio, che
a
quanto pare conosce tutta una varietà di episodi divertenti
da raccontare
durante un pranzo di matrimonio.
Link trascorre buona parte del tempo sforzandosi di
pensare a una versione differente dell’espressione due
galli in un pollaio
che possa risultare culturalmente accettabile per i Rito. Non ne trova
nessuna.
In compenso, però, è riuscito a trovare da solo
una risposta alla sua domanda
del giorno precedente, ossia per quale motivo Revali trovi
insopportabile
Derdran: la risposta è evidente. È che sono
uguali.
Non fisicamente. Derdran è notevolmente
più alto e
robusto di Revali, ha il petto più ampio e le spalle
più larghe e un piumaggio
color nocciola che vira al rosso sotto le luci dei bracieri; ha un
atteggiamento più aperto e più franco, anche, e
una risata roboante che par
capace di riempire qualsiasi valle. Ma è innamorato di se
stesso e della
propria forza come lo è Revali, e questo, suppone Link,
è il motivo per cui
nessuno dei due può resistere più di qualche
minuto al fianco dell’altro; anche
della propria voce, a giudicare dalla quantità di tempo che
trascorre
raccontando aneddoti più o meno avventurosi. Per una
straordinaria coincidenza,
Revali trascorre esattamente la stessa quantità di tempo
alzando gli occhi al
cielo.
Nel pomeriggio, gli sposi cantano l’uno per
l’altra
secondo un’antica tradizione. È bello e dolce come
una leggenda: per quanto
Link sappia quanto i Rito amino la musica e il canto, lo stupisce
sempre vedere
quanta parte rivestano nella loro quotidianità.
«Tu non hai cantato per me al nostro
matrimonio»
commenta a un tratto voltandosi appena sulla sedia verso Revali, per il
solo
gusto di vedere la sua reazione.
È quasi il tramonto: la luce fredda e rosata del
crepuscolo invernale accende gli occhi di Revali di strane iridescenze,
come
smeraldi attraversati dalla luce. Revali non li distoglie dalla sposa
che canta
neppure un momento. «Neanche tu, mi sembra.»
«Io ero ferito, però. E non sono un
Rito. Tu che
scusa hai?»
«Magari l’ho fatto e non ti ricordi
neanche questo»
ribatte Revali a bassa voce. L’idea sembra divertirlo.
«Perché non scrivi al
tuo cucciolo di attendente e gli chiedi se lui se lo ricorda?»
Al calare del sole i Rito spingono da parte gli
enormi tavoli e iniziano a danzare. È un caleidoscopio di
piumaggi diversi:
Link non può non sentirsene incantato. Revali scompare
piuttosto rapidamente
borbottando qualcosa d’indistinto: conoscendolo, non vuole
correre il rischio
che qualcuno gli chieda come mai non balla con suo marito a una festa
di nozze.
Se non temesse d’essere scortese, Link tornerebbe volentieri
a casa: si
trattiene perché Avaris e Leta lo hanno accolto come un
amico fin dal primo
momento, senza conoscerlo, e dunque gli sembra quantomeno rispettoso
restare.
Si sta facendo freddo: stringendosi nel mantello, Link si accosta il
più
possibile a uno dei grandi bracieri accesi. In quella gioia e in quella
musica,
può quasi scordarsi della Calamità, per qualche
un po’, e non pensare a niente.
La vita da civile è più dolce e più
pacifica di quanto avesse mai immaginato.
La pace, naturalmente, dura solo qualche minuto.
«Link! Eccoti qua» esclama Kagan
emergendo dalla
folla che danza: è in compagnia di Derdran. Visto da vicino,
colla rigida
divisa da capitano e il copricapo di lunghe piume colorate,
quest’ufficiale è
ancora più alto e più robusto di quanto gli sia
sembrato dall’altra parte del
tavolo, durante il banchetto: i suoi occhi lo percorrono interamente
mentre
Kagan parla. «Revali non è con te?»
«Era qui fino a un attimo fa» risponde
Link, perché
gli sembra che suoni un po’ meglio rispetto a non
voleva correre il rischio
di imbattersi in uno di voi due. «Credo sia stato
trascinato via da
qualcuno dei bambini. Lo sai come sono.»
«Ah, allora mio figlio è di sicuro tra
di loro»
risponde Kagan ridendo. «Spero non gli stiano dando troppo
fastidio. Link,
posso presentarti Derdran? Anche se ufficialmente lo conosci
già. È l’ufficiale
che vi ha sposati quel giorno nella tua tenda» spiega
strizzandogli l’occhio.
Che Revali lo trovi insopportabile o meno, Link
decide che la cosa migliore è porgergli la mano e
comportarsi con tutta
l’urbanità che a suo marito manca. Bisogna pure
che uno di loro dimostri di non
esser proprio una bestia, dopotutto.
«Grazie, Derdran» dice perciò
porgendogli la mano.
«Revali mi ha detto che hai accettato di farci questo
piacere, anche se lo hai
scoperto dopo. Non eri tenuto a farlo.»
Derdran trattiene la sua mano tra le sue molto
più a
lungo di quanto Link riterrebbe necessario in qualsiasi situazione,
compresa
quella.
«È stato un piacere, Link»
risponde. «Anche se ti
confesso che ero molto curioso di conoscere l’affascinante
cavaliere Hylia che
ha fatto perdere la testa a Revali. Su a Hebra eravamo convinti che una
cosa
del genere non si sarebbe verificata mai. Non ti dico lo stupore quando
Kagan
mi ha scritto che aveva dovuto falsificare la mia firma
perché risultasse che
il nostro campione fosse sposato da quasi un anno e
mezzo…»
«Non ha precisamente perso la testa»
cerca di
minimizzare Link sfilando la mano dalle sue nel modo che gli sembra il
più
discreto e educato possibile. Ha la sensazione che Kagan abbia
descritto gli
avvenimenti secondo una chiave di lettura piuttosto romantica, ma,
quando cerca
il suo sguardo, l’attenzione del capovillaggio sta
già venendo richiamata da
altro.
«Scusatemi, temo che abbiano bisogno di me per
qualcosa» dice guardando altrove. «Derdran, Link ti
racconterà tutto meglio di
me. Link, passa da me domattina» aggiunge accomiatandosi.
«È arrivata un’altra
lettera da Mazli. Non l’ho ancora aperta, ma a giudicare dal
volume credo che i
tuoi amici siano riusciti a infilarci qualcosa anche per te.»
Kagan scompare nella folla mulinante di colori come
se ne venisse risucchiato. Derdran lo guarda sorridendo per invitarlo a
raccontare.
«Tipico di Kagan» commenta.
«Però su una cosa ha
ragione. Penso di meritarmi il racconto di questo travagliato
matrimonio,
giusto, Link? Revali sposato è qualcosa che non pensavo che
avrei mai visto… e
da me, poi. Non ti nego che questo sì che è un
matrimonio che mi sarebbe
piaciuto celebrare, anche se gli articulo mortis non
sono proprio
gioiosi, di solito. Anche se mi sembra che tu stia piuttosto
bene» aggiunge
osservandolo interamente.
C’è qualcosa nel suo sguardo, che Link
non saprebbe
dire a parole, che non lo mette a suo agio. Dal racconto,
però, non può
esimersi, perciò si sforza di condensare il tutto nel minor
numero di parole
possibile: dubita che Derdran possa essere molto interessato ai
retroscena dei
teologi di corte o ai rapporti cogli altri Campioni. Al contrario,
Derdran
sembra voler contestualizzare ogni sua parola.
«Un momento» lo interrompe a un certo
punto. «Quando
la principessa Zelda venne a proporre a Revali di pilotare il colosso
sacro,
quel giorno che combattemmo contro di voi… avevo capito che
il suo avrebbe
dovuto essere un ruolo di supporto al tuo. Che tu brandisci una spada
in grado
di esorcizzare la Calamità. E il re era disposto a farti
impiccare malgrado
questo?»
Link si sente la bocca un po’ più
asciutta di prima
quando risponde: «Già.»
Aveva temuto di annoiare Derdran coi dettagli, ma,
al contrario, il capitano chiede chiarimenti su tutto: è
stata la consigliera
Impa ad avere l’idea del matrimonio? E perché
Revali e non qualcun altro?
«Perché era il più
credibile» risponde Link, che non
intende parlare dello sventurato amore di Mipha né di nessun
altro. «E anche
l’unico che potesse fare fisicamente in tempo a ricavare un
falso certificato
di matrimonio nelle poche ore prima
dell’esecuzione.»
«Uhm. Giusto. Andata e ritorno dal Castello a qui
in
dodici ore, eh? Kagan me l’ha detto» commenta
Derdran pensierosamente. «È
convinto che sia un record assoluto, anche se io e i ragazzi su a Hebra
non ne
siamo convinti.» Link rimane in silenzio perché i
record di velocità in volo
dei Rito sono qualcosa su cui neppure volendo sarebbe in grado di
esprimere
un’opinione. Derdran sembra riflettere su qualcosa.
«Quindi, se ho capito bene,
tra te e Revali non c’è nulla. Cioè,
non è come se steste veramente
insieme. Giusto?»
Link è grato a Derdran, veramente, per aver dato
il
suo consenso e non aver protestato quando Kagan gli ha riferito di aver
falsificato la sua firma per salvarlo; ma in qualche modo è
sicuro che questa
domanda non sia suo diritto porla. Che quello che
c’è tra lui e Revali, di
qualunque natura sia, è qualcosa che non lo riguarderebbe in
nessuna situazione
possibile.
«Beh, siamo sposati» ribadisce,
perché in qualche
modo gli sembra che sia un fatto importante.
Derdran ride della sua risata roboante. «Certo,
certo. Il sacro vincolo del matrimonio, eccetera. Ma intendo dire che sentimentalmente
non c’è nulla. Giusto?»
C’è una parte di lui che continua a
pensare a quando
Kagan gli ha detto che lui, per conquistare sua moglie, ha fatto molto
meno di
quel che Revali ha compiuto per lui in una sola notte; ma ad alta voce
questo
non si può dire, e in verità non sa neppure
perché questo gli torni in mente. Le
supposizioni di Kagan non trovano posto nella realtà.
«No» risponde perciò un
po’ a malincuore, perché
dovergli dar ragione, in questa circostanza, gli secca immensamente.
«Non c’è
nulla.»
Derdran
sorride come se avesse vinto qualcosa. Link sta iniziando a capire per
quale
motivo Revali lo detesti tanto, anche se non saprebbe motivarlo a
parole
neppure a se stesso. Si sforza di trovare qualcosa da dire per condurre
la
conversazione verso argomenti meno personali. «Sei di stanza
a Hebra, quindi.»
«Già.
La difesa nel nord» conferma Derdran. È evidente
che il suo ruolo gli appare
particolarmente importante. «Ormai erano quasi tre mesi che
non tornavo giù al
borgo. Io e i ragazzi abitiamo lì, ormai.»
«Com’è
la situazione lì?» domanda Link. «Dalle
mappe di Revali mi è parso di capire
che ci sono molti mostri.»
I
mostri hanno cominciato a presentire il ritorno della
Calamità ormai da molto
tempo: hanno iniziato a lasciare le loro tane, sui monti e nel deserto,
sotto
la terra, ormai da quasi cinque anni; si sono fatti inquieti, nervosi;
hanno
iniziato ad attaccare i viandanti. È per questo che la gente
non si sposta
quasi più: ma nelle zone disabitate, dove trovano abbondanza
di cibo e nessun
nemico naturale, continuano ad avere l’ambiente naturale per
prosperare. Le
vette di Hebra, come le pendici desolate del Monte Morte e
l’aridità del
deserto, sono i luoghi in cui maggiormente si sono radunati e i popoli
hanno
schierato retroguardie e riserve. Derdran annuisce.
«Soprattutto
lynel e grublin, ma anche qualche hinox, soprattutto di recente. Stiamo
cercando di tenere pulita la zona il più possibile, qualora
il villaggio debba
evacuare verso nord, ma non è facile. Gli uomini sono pochi
e non voglio
rischiare di perderne nessuno in attacchi azzardati.»
Questo
è qualcosa che Link può comprendere senza troppi
sforzi d’immedesimazione:
nessun capitano vuole mettere a rischio i suoi ragazzi; ma bisogna
tenere le
strade libere per facilitare la fuga, casomai servisse.
«State approntando
sistemazioni per gli abitanti, anche?»
Derdran
si lancia in una lunga e complessa spiegazione di quello che stanno
organizzando per l’avvento della Calamità: dalla
predisposizione di vie
d’emergenza sicure per le famiglie con bambini che ancora non
possono volare,
riparate dall’alto e dai lati dagli attacchi dei mostri senza
però rischiare
che si trasformino in imbottigliamenti senza via d’uscita,
alla costruzione di
capanne e rifugi caldi e asciutti dove i Rito possano restare per
almeno
qualche mese; c’è la questione dei rifornimenti
alimentari, perché bisogna
prevedere anche una situazione in cui le provviste accumulate non siano
sufficienti e si riveli necessario continuare ad approvvigionare gli
abitanti
anche per molti mesi. Spiegarsi così, senza una mappa, non
è facile, Link lo sa
per esperienza personale: Derdran si aiuta con ampi movimenti delle
braccia,
cercando di fargli capire così, senza supporto fisico
né punti di riferimento
concreti, come siano strutturati i forti di guardia e le vie di fuga e
di
rifornimento; Link si sforza di seguirlo così, in modo
improvvisato,
sforzandosi di visualizzare quello che sta dicendo, e avanza domande
per
chiarirsi le idee ogni tanto; sa bene quanto difficile sia far capire
un piano
militare a qualcuno che non conosca bene il territorio.
Proprio
per questo, quando Derdran gli posa quasi casualmente una mano sul
fianco, Link
è abbastanza sicuro che non ce ne sia bisogno e non sia
necessario per la
spiegazione.
«Scusa
tanto.» Revali appare alle loro spalle prima ancora che Link
faccia in tempo a
dire niente. «Quello che stai toccando è mio
marito.»
Derdran
scoppia a ridere per mascherare l’imbarazzo mentre Revali lo
scruta con occhi
tempestosi che Link non ricorda di avergli visto mai. Anche Link
vorrebbe
ridere, ma solo perché la situazione gli sembra troppo
ridicola e inaspettata e
ridere gli sembra l’unica alternativa possibile per
sciogliere la tensione;
tuttavia non ride. Revali si sposta lentamente al suo fianco senza
distogliere
gli occhi da Derdran.
«Non
penserai nulla di strano, vero, Revali? Stavamo parlando degli
allestimenti su
a Hebra per…»
«Ho
sentito di cosa stavate parlando, ti ringrazio» risponde
Revali con calma. «Non
sapevo che tu facessi parte di quella schiera di persone prive di
eloquenza che
hanno bisogno di gesticolare volgarmente per farsi comprendere,
Derdran. Ogni
cosa che scopro su di te mi stupisce in negativo.»
Questo
è talmente gratuito e aggressivo, persino da parte di
Revali, che neppure
Derdran trova qualcosa da ridire. Lo fissa in silenzio senza saper che
dire né
come reagire.
«Va
bene, Revali» risponde infine. Solleva le mani in un
universale gesto di pace,
un po’ scherzosamente, per smorzar la tensione, e continua:
«Capisco cosa
poteva sembrare e mi dispiace, ma ti prego di voler credere che
è tutto un
malinteso. Senza rancore?»
Revali
osserva la mano che l’altro gli tende come se si trattasse di
un ratto di una
tipologia che non ha mai visto.
«No»
risponde. «Buona serata, Derdran, e grazie per averci
nominalmente sposati, ma
questo è quanto.»
Link
lo segue senza riflettere mentre Revali fende la folla a grandi passi
senza
guardarlo. È tanto sconvolto che non sa cosa pensare, e
forse lo segue soltanto
perché dopotutto abitano insieme; altri motivi non ce ne
sono, visto che Revali
neppure si volta verso di lui. Link sente la sua rabbia nella tensione
che gli
lega le spalle.
Solo
quando sono a casa, e la tenda è ricaduta
sull’uscio a separarli dal mondo
esterno, Link riesce a raccogliere le idee a sufficienza da domandare:
«Che
cos’era quello?»
«Uhm?»
Revali sta adottando una puerile strategia basata
sull’ignorare quello che è
appena successo e, a giudicare da come si volta verso di lui come se
avesse
appena realizzato la sua presenza, anche lui: ma è ancora
arrabbiato, nervoso,
Link lo vede dal modo in cui evita ostinatamente il suo sguardo.
«Quello cosa?»
Se
questa è la sua strategia, Link non intende giocare al suo
stesso gioco. «Con
me non hai bisogno di mentire, Revali. Ci conosciamo troppo bene. Sai
di cosa
parlo.»
«Non
ne ho idea» ribatte Revali chinandosi ostentatamente sulle
sue mappe senza
vederle.
«Davvero?»
ribatte Link. «Perché a me quella sembrava una
scenata di gelosia.»
«Non
era gelosia!»
Link
non ha mai sentito Revali alzare la voce in tutta la sua vita. Rimane
immobile
di fronte a lui senza saper che dire; e forse neppure Revali
è molto abituato
ad alzare la voce, perché d’un tratto non sa come
proseguire. Rimane appoggiato
al tavolo a fingere di osservare le sue mappe per avere una scusa per
non
guardare nella sua direzione.
«Sei
geloso di me?» chiede Link a bassa voce. Tutto è
talmente nuovo per lui che non
sa come altro porre quella domanda se non così,
direttamente. Gli gira la
testa.
Revali
tace per lunghissimi secondi.
«Non
voglio che ti tocchi qualcun altro.» Quelle parole sembrano
costargli
enormemente per essere pronunciate. «Questo è
tutto quello che posso dire. Ma,
se non sei d’accordo con me, puoi dirlo. Tu non sei una mia
proprietà e io non
ho altro diritto che quello di dirti questo.»
Se
quella è la massima sincerità che Revali
è in grado di esprimergli, Link gli
farà la cortesia di fare lo stesso. Cerca dentro di
sé le parole per esprimere
quello che sente.
«Non
mi ha dato fastidio che tu sia intervenuto.»
Revali
annuisce gravemente. Ha l’aria di dovergli porre una domanda
che non sa come
articolare. «Bene. Posso chiederti,
invece…»
Link
aspetta un po’ prima di incalzarlo. «Puoi
chiedere.»
«Ti
ha fatto piacere che provasse a toccarti?»
«No»
risponde Link con semplicità. «Me la sarei cavato
da solo, comunque.»
«Immagino
di sì» risponde Revali a bassa voce. «E
se…»
«Se?»
chiede Link a bassa voce.
«Niente»
dice Revali un po’ troppo bruscamente. «Lascia
stare. Dimenticatene. Accendiamo
il fuoco, piuttosto. Stanotte avrai freddo.»
Link
non chiede né insiste perché sa che questa
sincerità è costata a Revali più di
quanto sarà mai in grado di ammettere. Però gli
rimane il dubbio di cos’avrebbe
voluto chiedergli.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Consigli ***
Capitolo
VIII – Consigli
Non si può non
comunicare.
Paul
Watzlawick, Pragmatica della
comunicazione umana.
Il
mattino seguente, quando Link si sveglia, Revali non
c’è. Non che questa sia
una novità, ma stamani Link ne è quasi contento:
non saprebbe cosa dirgli. Non
sa neppure cosa pensare.
Attizza
le braci aggiungendo un paio di ciocchi di legna per scaldarsi mentre
si veste:
fa freddissimo, e scostando appena le pesanti tende che coprono le
finestre
intravede la neve ancor più vicina sui monti di Hebra. Si
scalda del latte e vi
spezza del pane, ma gli viene la nausea dopo pochi bocconi. Lo lascia
stare.
Si
avventura fuori, nell’aria gelida nella quale il suo respiro
si condensa appena
uscito dalla sua bocca, per andare a trovare Kagan a proposito di
quella
lettera di cui gli ha parlato ieri. Lo trova in casa, appollaiato su
una sedia
a dondolo vicino al grande braciere centrale, che cerca di imboccare
con la
persuasione suo figlio più piccolo.
Link
bussa sullo stipite della porta per annunciarsi. «Ehi.
Disturbo?»
Tutto
preso dal bambino che gli fa i capricci sulle ginocchia, Kagan alza gli
occhi
su di lui distrattamente, poi torna a posarveli con maggiore attenzione.
«Dipende»
risponde. La sua voce vibra di una risata che non si sforza neppure di
mascherare. «Se parlo con te, mi prometti che Revali non
verrà a cercarmi
stanotte per staccarmi la testa?»
Dunque
dovrà farci i conti. Link decide che
quell’affermazione è un invito a entrare e
si pianta di fronte a lui con le mani sui fianchi. «Credevo
che ieri avessero
bisogno di te quando ci hai lasciati. Non eri andato a fare qualcosa di
urgente
tipo salvare il borgo? O sei rimasto a spiare la nostra conversazione
per tutto
il tempo?»
«Mi
offendi, Link» risponde Kagan molto seriamente, asciugando
pappa dal becco del
suo bambino e da tutto il proprio petto. «Pensi che avrei mai
origliato?»
In
verità quella di Link era una speranza, perché
l’alternativa è molto peggiore.
Una parte di lui non vuole neppure porre la domanda che ne consegue.
«Immagino
di no. Quindi come hai saputo?»
«Mettiamola
così» Kagan finge persino di cercare
l’espressione più adatta per quasi un
secondo. «Diciamo che, in tutto il borgo, nessuno avrebbe mai
immaginato di
sentire il grande Revali piazzare una scenata di gelosia in mezzo a un
matrimonio. Neanche in un’altra occasione,
comunque.»
È
inutile girarci intorno. Link va a sedersi sul pavimento di fronte a
lui, a
gambe incrociate, alla maniera dei Rito, e domanda: «Quindi
ne parla tutto il
borgo?»
«Oh,
non preoccuparti» lo rassicura Kagan gentilmente.
«A quest’ora ne parleranno
anche nel forte di guardia di Hebra. Derdran è ripartito
stanotte.»
Link
posa la fronte contro le ginocchia e rimane così per un
po’. Per qualche
minuto, il suono del bambino di Kagan che gorgoglia sputando cibo
ovunque è
l’unico che riempia la stanza.
«Ci
hai parlato prima che ripartisse?»
«Con
Derdran? Sì, certo. È venuto a salutarmi e a
chiedere se ci fossero ordini.»
«Ti
ha detto qualcosa?»
«Ha
detto che Revali è pazzo e paranoico. Ma questa è
sempre stata la sua idea su
di lui, quindi non è che fosse chissà quale
sorpresa.»
«E
tu cosa ne pensi?»
Kagan
fa una pausa, Link non riesce a capire se sia perché
è troppo impegnato col
bambino o perché sta raccogliendo le idee. «Quello
che penso io è importante,
dici?»
Link
solleva la fronte dalle proprie ginocchia per guardarlo. «Te
lo sto chiedendo,
no?»
«Bene,
allora. Penso due cose non necessariamente correlate tra di loro. Penso
che
Derdran fosse in cattiva fede e penso che Revali sia geloso matto di
te. Tu che
ne pensi, spiumino?» domanda affettuosamente al bimbo
facendoselo ondeggiare
sulle ginocchia. «Sei d’accordo con me,
sì?»
Il
bambino si spalma pappa ridendo su tutta la faccia lasciando al padre
il
compito d’interpretare la sua risposta. Link lo guarda per un
po’. «Quello era
un sì o un no?»
«Un
sì, naturalmente» risponde Kagan con sicurezza
pulendo la faccia del bambino
con un tovagliolo che ha tutta l’aria di essere in servizio
dall’inizio del
pasto. «È mio figlio, quindi è logico
che dia ragione a suo padre. Ma tu puoi
dissentire, se vuoi. Mi prendi qualcos’altro per asciugarlo,
per favore, visto
che sei qui? Questo ormai peggiora solo la situazione.»
Link
si alza e inizia a frugare in giro alla ricerca di un tovagliolo.
È grato che
Kagan glielo abbia chiesto, perché gli dà la
possibilità di distogliere lo
sguardo da lui per qualche secondo.
«Non
lo sento dissentire» commenta Kagan dopo un po’,
alle sue spalle, rivolgendosi
al figlio. «Tu lo senti, spiumino?»
«Revali
ha detto che non vuole che mi tocchi
qualcun altro» borbotta Link, lieto di poterlo dire senza
guardarlo, colla
faccia nascosta da uno stipetto nel quale sta frugando in una pila di
tovaglioli ricamati per trovarne uno che faccia al caso suo.
A
Kagan scappa una mezza risata. «Questo l’aveva reso
abbastanza evidente a tutti
gli invitati. Non c’era propriamente bisogno che lo spiegasse
anche ad alta
voce. Ma immagino che per Revali sia un notevole miglioramento dal
punto di
vista della comunicazione ammetterlo.»
Dopo
aver esaminato tutti i tovaglioli un paio di volte, Link non
può girarci
intorno più di così. Ne prende uno, rimette a
posto gli altri e si decide ad
andare a porgerlo a Kagan e a fronteggiare il suo sguardo.
«Link.»
La voce di Kagan, mentre pulisce il bambino, è dolce e
rassicurante, del tutto
priva di giudizio. «Che cosa sei venuto a
chiedermi?»
«La
lettera di cui mi parlavi» risponde Link debolmente.
«Se
è tutto qui, puoi prenderla da te. È su quel
tavolo. È meglio che io non la
tocchi finché non mi sarò lavato le mani. Ti
serve altro?» Link rimane
immobile, allora Kagan sorride. «Bene. Allora immagino tu sia
venuto qui perché
speravi in un consiglio. Ho ragione?»
Nella
sua vita Link non s’è trovato a chiedere molti
consigli: la sua strada è sempre
stata tracciata già da altri, prima di lui, forse da prima
della vita del
mondo, e a lui non è rimasto altro da fare che da seguirla.
Ha vissuto una vita
semplice, per quanto pericolosa; ma ora è diverso. Questo
non riguarda più
Hyrule né Zelda, né gli eroi del passato o la
Spada che esorcizza il male:
riguarda lui. «Forse sì.»
«Uhm.
Beh, non è che tu sia capitato molto bene»
risponde Kagan, sollevando il
bambino per le ascelle per posarlo sul pavimento. Suo figlio
è molto contento
di questa interruzione, perché gattona sotto il tavolo e si
mette a osservarli
da lì col massimo interesse. Link non aveva neppure idea che
i piccoli Rito
gattonassero fino a questo momento. «Ancora non so neppure
come ho fatto a
convincere mia moglie a sposare me, e temo che Revali sia un
po’ fuori dalla
mia area di competenza… cioè, da quella di
chiunque, in verità. Comunque,
vediamo. Non mi hai ancora detto che ne pensi tu di questa
storia.»
«Sono
confuso» risponde Link senza pensarci neppure.
Kagan
aggrotta la fronte. «Non l’avrei mai detto. Amico
mio, dovrai fare uno sforzo
d’introspezione un po’ più intenso di
questo, se vogliamo andare da qualche
parte, ti pare?»
Non
ha tutti i torti, ma quello che prova Link non è neanche
qualcosa cui sia così
facile dar voce o parole. Link cerca dentro di sé qualcosa
cui possa dar forma
e nome così, di prima mattina, mentre Kagan si asciuga le
mani e prende a
rassettare la stanza.
«Mi
ha fatto piacere che fosse geloso, in un certo senso. Ma mi spaventa
anche,
solo che non so perché.»
«Sforzati
d’immaginarlo.»
Non
ha bisogno di sforzarsi troppo. «Perché sarebbe
complicato. Perché dobbiamo
vivere insieme e, se le cose non funzionassero…»
«Per
carità» lo interrompe Kagan. «Tutto
molto giusto. Ma è proprio necessario
immaginare che tutto vada male? Non potreste, che ne so, essere una
coppia
felice e innamorata come tutte le altre?»
«Va
bene, allora… perché c’è la
Calamità. Non posso permettermi distrazioni.»
Kagan
si ferma bruscamente mentre si sta chinando per attizzare il fuoco. I
suoi
occhi si coprono di un velo per un istante mentre si volta a guardarlo
con
stupore come se lo vedesse per la prima volta.
«Giusto,
la Calamità» mormora. Sembra star pensando ad
altro: Link rimane immobile ad
aspettare da lui una qualche epifania, anche se questo scettico
capovillaggio è
l’ultimo al mondo che sembra in grado di elargirne una. Kagan
continua a
rassettare per un po’ senza curarsi di lui: sta pensando.
«Link…
io a questo finto matrimonio non ci ho mai creduto, ma questo lo sai
già.»
«Sì,
lo so.»
«So
che lo sai… ma quello che credo o non credo io, per fortuna
di tutti, non è
molto importante. Tu provi qualcosa per lui?»
Link
ha girato intorno a questa domanda per settimane da quando ha scoperto
di aver
cercato Revali nella lunga notte di Hebra, nella sua tenda,
quand’era ferito. È
stata dentro di lui per giorni: ha rifiutato di guardarla direttamente
persino
quando Revali gliene ha chiesto il motivo, perché guardarla
avrebbe voluto dire
ammetterne l’esistenza e questo lo imbarazzava e mortificava;
se ha guardato
ovunque tranne che verso quella domanda, è stato
perché conoscerne la risposta
avrebbe voluto dire esporlo al volere d’altrui persino in
quell’unica parte di
lui che è la sola a essergli sempre appartenuta e a non
esser dipesa da altri
mai. Ma è venuto da Kagan apposta perché gli
facesse quella domanda ad alta
voce e così lo costringesse a rispondere; e il cielo sa che
questo
capovillaggio avrebbe altro a cui pensare alla vigilia della minaccia
che
incombe su Hyrule che alle sue sciocchezze. Eppure ugualmente Kagan
s’è tirato
su le maniche e s’è messo ad ascoltarlo e a
cercare di cavargli fuori qualcosa,
qualsiasi cosa; non foss’altro che per questo, Link ora non
può più permettersi
di mentire.
«Forse
sì» mormora.
Kagan
batte le mani. «Ah! Siamo stati qui mezz’ora, e
siamo approdati alla bellezza
di un forse sì. Non sei un tipo facile,
tu, vero?» Sentendosi un po’ in
colpa, Link tralascia di rispondere. Kagan lo guarda con un sospiro
molto più
paziente di quanto Link senta di meritare da parte sua.
«Lasciamo perdere. Ora
che hai appurato che forse potresti essere attratto dal nostro
Campione, che
cosa hai in mente di farci con questa rivelazione? Perché
presumo che tu non
abbia neppure preso in considerazione l’idea che voi due
potreste, non so…
comunicare.»
Il
giorno dopo il suo arrivo, a un certo punto, Link ricorda chiaramente,
Revali
gli ha detto di togliersi dalla faccia quell’espressione
da cerbiatto
smarrito, o qualcosa del genere. In qualche modo è
certo che l’espressione
di cui stava parlando sia quella che ha in faccia adesso,
perché Kagan lo
guarda per un momento con occhi colmi di pietà.
«È
la prima volta che provi qualcosa del genere?»
Link
compie un gesto scomposto che è assieme una scrollata di
spalle e un segno
d’assenso. Kagan l’osserva in silenzio per un
po’.
«Non
ci hai mai nemmeno pensato, vero?» domanda gentilmente, a
bassa voce. La sua
voce ha assunto la stessa tenerezza di quando parla coi suoi figli:
Link scuote
il capo di nuovo, e Kagan, d’improvviso, gli appare
tremendamente triste, come
invecchiato di cento anni.
«Dunque
è questo che abbiamo fatto a voi eroi, eh?»
mormora. «Vi abbiamo riempito la
testa con la storia della nostra salvezza e vi abbiamo convinto che voi
non
siete importanti, che venite sempre dopo di noi e della nostra
meschinità; che
tutto quello che apparteneva a voi solamente fosse qualcosa che avreste
sottratto a noi…»
Link
non sa subito cosa rispondere perché non ha mai sentito
nessuno parlare così;
ma l’amarezza delle sue parole tocca qualcosa dentro di lui
che non ha sentito
mai prima. Lo spaventa il fatto che suoni così vero, che
nelle sue parole gli
appaia per un attimo la prospettiva d’essere egoista, di
poter sottrarre per un
istante se stesso e i propri giorni al pensiero costante della
Calamità. Non è
quello che è stato insegnato a lui né a Zelda,
né, per quanto gli è stato dato
conoscere, a Revali.
Kagan
tutto questo lo capisce, o forse lo legge nei suoi occhi: lo tocca
sulla spalla
con gentilezza.
«Link…
non devi decidere adesso.» Una parte di lui è
delusa da questa risposta,
s’aspettava qualcosa di più definitivo, concreto,
da parte sua; ma la verità è
che Kagan ha ragione, ovviamente. «Forse devi prenderti un
po’ di tempo per
pensare a quello che vuoi. Lo hai mai concesso a te stesso?»
Dire
di no è così imbarazzante che Link scuote il capo
soltanto.
«Già,
comincio a capire» commenta Kagan a bassa voce. «E
forse neanche Revali lo ha
fatto. Il che spiegherebbe molte cose, ora che ci penso.
Perché non torni a
parlarne con me tra qualche giorno, quando ci avrai pensato un
po’?»
In
qualche modo il suo congedo cortese lo esonera dal bisogno di guardare
ancora
in quella parte di sé che gli fa paura: Link se ne sente
quasi sollevato. «Ti
ho portato via già molto tempo con i miei
problemi.»
Kagan
allarga le ali gonfiando il petto. «Che ci vuoi fare? Essere
il capo vuol dire
anche questo. Non ci pensare troppo, però. Vedrai che tutto
si aggiusterà da
sé.»
«Non
dirai a nessuno quello di cui abbiamo parlato oggi, vero?»
chiede Link prima di
uscire.
Kagan,
che è già carponi sul pavimento a inseguire suo
figlio, volta appena il capo
sulla spalla per guardarlo. «A essere sincero, io racconto
sempre tutto a mia
moglie.»
Link
comincia a nutrire il fondato dubbio che questo maledetto capovillaggio
si stia
divertendo un mondo a farlo impazzire. «Sai cosa
intendo.»
«Davvero?»
chiede Kagan alzandosi per guardare verso di lui.
«Stranissimo. Non mi viene in
mente niente.»
«Voglio
dire» sibila Link, che sta cominciando a pentirsi
d’essere uscito di casa
un’ora fa e soprattutto di essere venuto qui. «Non
lo dirai a Revali, vero?»
«Tranquillo»
ribatte Kagan tornando a distendersi sul pavimento per raggiungere suo
figlio
che gattona via ridendo. «Non intendo fare il lavoro sporco
al posto tuo e dire
io a tuo marito che sei innamorato di lui. Prima o poi dovrai farlo
tu.»
«Non
sono…» protesta Link a mezza voce, ma Kagan si
limita a guardarlo al di sopra
della propria spalla come a sfidarlo a terminare la frase. Link decide
di
lasciar perdere ed esce senza sentirsene troppo convinto.
Per
colmo di umiliazione, Kagan attende che abbia già
attraversato la soglia per
richiamarlo. «Ehi, Link. Non è che stai
dimenticando qualcosa?»
Link
rientra in casa sentendosi piuttosto confuso. Kagan sta indicando
qualcosa su
un tavolino con aria divertita.
«So
che per te essere innamorato è un’esperienza
nuova, ma potresti almeno fare
finta di essere davvero venuto qui per quella lettera
anziché per parlarmi di
tuo marito, ti pare?»
Link
afferra la lettera con le guance che gli bruciano. «Non ho
mai detto di essere
innamorato» dice stavolta.
«Davvero?»
ribatte Kagan. «Da noi si dice che quando dimentichi le cose,
o sei vecchio
oppure sei innamorato. Mi rammenti quanti anni hai?»
Link
decide di imboccare diplomaticamente la porta senza rispondere.
Ieri
sera lui e Revali non hanno parlato oltre di quanto è
successo: tutto sommato
va bene così. Hanno cenato ai due lati del braciere, quasi
senza guardarsi, e
sono rimasti seduti in silenzio di fronte alle braci che si
affievolivano,
attorno al fuoco fin oltre l’ora d dormire, facendo finta che
quello che era
accaduto tra di loro non significasse niente perché nessuno
dei due voleva
affrontare oltre l’argomento per timore di guardarlo
direttamente: dalle
finestre schermate da tende e arazzi provenivano musiche e canti della
festa di
matrimonio che proseguiva, del tutto ignara di loro. Per un
po’ è stato come
fingere di non esistere: Revali s’è rimesso a
lavorare al suo arco,
metodicamente, come tutto quello che fa, e Link ha seguito i suoi gesti
cogli
occhi finché non s’è sentito
appisolare, stranamente rilassato nel calore del
fuoco. Revali lo guardava di tanto in tanto al di sopra del braciere.
«Dovresti
dormire» gli ha detto sul tardi.
«Anche
tu dovresti» ha ribattuto Link riscuotendosi dal sonno, e
Revali ha sorriso
solamente e ha risposto: «A me ci penso io. Tu vai a
dormire.»
È
stato gentile, certo; di una gentilezza un po’ assente,
distante, perché non
voleva parlare di quello che era successo e che lo mortificava troppo.
Link non
ha insistito: neanche lui voleva parlarne perché non avrebbe
saputo che altro
dire.
Non
può evitarlo in eterno. Non intende neppure parlargli di
quanto è venuto fuori
nella sua conversazione con Kagan, naturalmente; ma che sia ora o
stasera,
prima o poi dovrà rivedere Revali e affrontare
l’imbarazzo e la strana cortese
distanza che quello che è successo porta con sé.
Perciò Link torna a casa,
getta sopra tutti i suoi vestiti il mantello più pesante che
ha, infila la
lettera in una delle sue bisacce e parte per il Volodromo.
Revali
si sta allenando. Deve aver finito il suo nuovo arco, stanotte, e lo
sta
mettendo alla prova: ha gli occhi esausti, pesantemente cerchiati di
scuro, e
sta mirando ai bersagli disseminati sulla rupe del Volodromo come se
dovesse
far scontar loro tutti i peccati del creato. Che, a giudicare dal
numero di
frecce che Link coglie a colpo d’occhio senza riuscire a
contarle, devono
essere davvero tanti e particolarmente gravi.
Nel
dubbio che Revali abbia qualche peccato da far scontare anche a lui,
Link si
ferma prudentemente a qualche metro di distanza a osservarlo librarsi
nell’aria
senza interromperlo.
Revali
s’interrompe solo quando scopre la faretra vuota sollevando
l’ala dietro di sé,
ed è in quel momento che si accorge della sua presenza. Non
se l’era aspettato:
rimane interdetto per un istante, ma solleva ugualmente il mento in
segno di
saluto.
«Sei
venuto» dice soltanto tornando ad abbassarsi verso terra.
Sembra un po’ meno
arrabbiato di pochi istanti fa, mentre volava.
«La
cosa ti sorprende?» ribatte Link sorridendo mentre piega la
paravela.
«A
essere sincero, sì» risponde Revali.
«Pensavo che ti fossi scoraggiato, l’altro
giorno.» La verità, di cui sono consapevoli
entrambi, è che Revali pensava che
non sarebbe venuto per tutt’altro motivo; ma ancora, come
ieri sera, nessuno
dei due quella verità si sente di dirla ad alta voce;
è troppo scomoda,
imbarazzante, e porrebbe tra di loro qualcosa che nella loro situazione
attuale
non possono permettersi di affrontare.
«Vieni
qui» aggiunge allora Revali facendogli cenno di avvicinarsi.
Più per la
sorpresa di sentirgli dir così che per altro, Link avanza
verso di lui: Revali
dà un’occhiata al di sopra della sua spalla e gli
porge il suo arco. Link ne
rimane talmente stupito che non tende neppure la mano per prenderlo.
«Ah, bene…
hai la faretra. Voglio vedere se era il tuo arco a essere il problema
l’altro
giorno. Prova questo. Beh?» chiede stupito porgendogli
l’arco con più
insistenza.
«Questo
è il tuo arco Aquila» obietta Link scrutandolo con
sospetto.
«Non
ti sfugge niente come al solito» osserva Revali.
«Senti, tu hai tutto il
giorno? Perché io no, quindi muoviti.»
Link
aggrotta la fronte. «Tu non permetti a nessuno di toccare il
tuo arco. Ti ho
visto minacciare di far degradare un soldato semplice solo per avertelo
porto.»
È vero che l’ha lasciato tenere ai bambini, la
sera che sono arrivati al borgo;
ma i bambini non contano, e non solo perché non sono neppure
in grado di
tenderlo, ma soprattutto perché Revali ha un debole per loro
che non ammetterà
mai.
«Davvero?
Può essere» risponde Revali come se la cosa non
avesse la minima rilevanza.
«Allora immagino che me lo avesse porto senza prima chiedermi
il permesso.»
«Non
si possono neanche degradare i soldati semplici, tra l’altro.
È implicito nel
verbo stesso. Eri veramente arrabbiato.»
Revali
gira gli occhi al cielo. «Ma senti. Ti rivelerò un
segreto: non mi interessa
cosa succede ai soldati semplici. Vuoi imparare a tirare come si deve
oppure
no?»
Link
prova il forte impulso di fargli notare che come si deve, all’interno
di
questa conversazione, ha assunto minacciosamente il significato di come
lui,
ma decide di trattenersi, anche se ha la sensazione che
l’unico tra i due
che si stia sforzando di non litigare ogni santo giorno di questo
matrimonio
sia lui; comunque, va bene così. C’è
tutta una parte della sua mente che non
riesce a non ripensare a quello che ha detto Kagan: che forse,
esattamente come
lui non ha avuto molto tempo per pensare ai suoi sentimenti, quel tempo
non è
stato concesso neppure a Revali, e che s’è trovato
coinvolto, esattamente come
lui, in questa situazione che li avviluppa entrambi un po’
troppo da vicino
senza possibilità di districarsene per guardarsi a vicenda
né dentro. Lascia
perdere. Si sfila di dosso le bisacce e lo scudo e prende in mano
l’arco con la
cautela che userebbe a un oggetto sacro. Revali si colloca alle sue
spalle per
osservarlo tirare; Link preferirebbe quasi che si allontanasse un
po’ di più:
dopo aver parlato con Kagan, per ignorare la vicinanza del suo petto
dietro di
sé deve sforzarsi un tantino più di prima. Si
concentra sui bersagli per non
lasciarsene distrarre.
Gli
dispiace quasi che quell’arco non sia pensato per la sua
statura e la sua
struttura fisica. È l’arco più
equilibrato, insieme maneggevole e potente, che
gli sia mai capitato di provare: Revali osserva in silenzio i suoi
movimenti mentre
prende la mira e tira senza commentare, pensierosamente. Quando Link
torna a
porgergli l’arco dopo aver scoccato una decina di frecce, lo
riprende con
lentezza dalle sue mani come se ancora stesse riflettendo.
«È
perfetto» gli dice Link onestamente, perché
è quanto di meno possa dire dopo
averlo provato. Ora gli è chiaro perché tutti al
borgo parlano degli archi di
Revali come della massima vetta raggiungibile dal loro artigianato.
Revali
accenna quasi un sorriso. «Lo so già, ma grazie
comunque. Quindi era davvero il
tuo arco a fare schifo» aggiunge. «Tu non saresti
così male a tirare.»
«Se
questo è un tentativo di ricambiare il mio complimento, non
sono sicuro che ti
sia venuto bene» risponde Link senza offendersene troppo,
perché probabilmente
per Revali quello è davvero un complimento e dunque va preso
per quello che è.
«È
una constatazione» risponde Revali. «Il che prova
comunque che avevo ragione io
e che tu non sei irrecuperabile. Vuoi provare ancora ad allenarti con
me?»
L’altro
giorno è stata un’esperienza
terrificante e frustrante ai limiti dell’umiliazione e Link
non ha mai
desiderato tanto ucciderlo come in quel momento; gli viene quasi da
ridere a
quella proposta, perché anche Revali dovrebbe essersi reso
conto che
quell’allenamento non può portare da nessuna
parte: si trattiene dal farlo,
perché d’improvviso realizza che Revali ci sta
provando esattamente come lui,
seppure in modo diverso, a far funzionare le cose tra di loro; e forse
questo è
l’unico modo che conosca, insegnargli a tirare come lui. Che
Revali lo ha
salvato e adesso sta condividendo con lui tutto quello che possiede;
non può
farci nulla se tutto quello che possiede, esattamente come lui, sono i
suoi
allenamenti estenuanti e l’obbligo di difendere la sua gente:
è quello che ha,
e glielo sta offrendo. Non lo sta tenendo lontano da sé,
quali che siano i suoi
motivi. Anche questo non era tenuto a farlo.
«Metà
giornata» propone.
Revali
sembra trovare la sua risposta inaspettata ed egualmente divertente.
«Spiegati.»
Link
scrolla le spalle. «Per metà giornata io
seguirò il tuo allenamento e per metà
giornata tu seguirai il mio. Ci stai?»
Revali
non risponde subito. Se la prende comoda: inizia a recuperare le frecce
dai
numerosi bersagli, dandogli le spalle; Link sente dalla sua silenziosa
concentrazione che sta riflettendo.
Quando
torna verso di lui, Revali gli porge le sue frecce e risponde:
«Le giornate
stanno diventando troppo corte. Un giorno a testa. Ci stai?»
Sembra
ragionevole. Link prende le frecce che gli porge, è come
stringersi la mano.
A
sera, quando tornano a casa, c’è una piccola
sorpresa. Di fronte all’ingresso sono
posati dei curiosi pannelli rettangolari: Link ne solleva uno. Non ha
mai visto
niente del genere: è una leggera intelaiatura di legno su
cui sono stati tesi
enormi rettangoli di stoffa pesante cucita a maglie molto spesse, tutti
di
fantasie e colori diversi.
«Ah,
ottimo» commenta Revali. A giudicare dalla sua voce, per lui
non si tratta
affatto di una sorpresa. «Domani dobbiamo tornare dal
Volodromo un po’ più
presto del solito, allora. Preferirei montarli con la luce.»
«Che
cosa sono?» chiede Link esaminandolo tra le mani.
«Beh,
mi sembra evidente.» Poiché deve trasparire dal
suo sguardo che per lui tanto
evidente non è, Revali sospira teatralmente per la sua
ignoranza entrando in
casa. «Pannelli per le finestre. Sono rimuovibili,
così da non rinunciare del
tutto alla luce, ma sono costruiti in modo da avere una sorta di camera
d’aria
all’interno, così da essere il più
isolanti possibile. Non hai mai sperimentato
gli inverni in questa zona, ma immagino che tu non ci tenga troppo a
congelarti
quel tuo culo secco, no?»
Link
ha sufficienti domande da fare da lasciar
correre il riferimento al suo culo secco per qualche minuto.
«Quindi sono…
pannelli per isolare la casa dal freddo?»
«Esattamente
come ho detto, sì.»
«E
sono comparsi dal niente mentre ci allenavamo?»
«Sì.
Crescono spontaneamente» risponde Revali. È una
vera fortuna che il pannello
che Link ha in mano sia troppo poco maneggevole per scagliarglielo
addosso, ma
Revali pare intuire quest’intenzione dal suo sguardo,
perché si decide a
spiegare. «Ieri durante il matrimonio sono andato a chiederli
in prestito a
degli amici che ormai hanno figli grandi e non ne hanno più
bisogno. Sono stati
gentili a portarceli già oggi.»
Probabilmente
a Revali sembra d’esser stato chiaro, ma è solo
una sua impressione. Link lo
fissa senza capire per un po’, aspettandosi che a quelle
parole ne facciano
seguito altre più illuminanti; ma, poiché non
arrivano, è costretto a indagare.
«Mi sfugge il collegamento coi figli grandi.»
«Beh,
non sono cose che usiamo abitualmente. Il freddo non ci dà
fastidio come a voi»
spiega Revali. «Se ci farai caso, nei prossimi giorni, vedrai
che quasi nessuno
li ha. Di solito li monta chi ha figli piccoli o spose in attesa. Puoi
decidere
a quale delle due categorie assimilarti, se ti fa piacere.»
«Un
piacere indescrivibile» commenta Link, ma evita di mettersi a
discutere, per
una volta. Anche questo Revali non era tenuto a farlo: si è
preoccupato che non
abbia freddo. «Grazie, Revali. Davvero.»
Revali
si stringe nelle spalle senza guardarlo. «Bah, non
è niente di che. Non avrebbe
avuto molto senso salvarti dal patibolo per farti morire assiderato
quassù,
no?»
No,
probabilmente no.
Dopo
cena, quando s’infila nell’amaca intiepidita da uno
scaldaletto pieno di braci,
Link si decide finalmente ad aprire la grossa busta che gli ha dato
Kagan
questa mattina. Gli spiovono in grembo vari fogli, tutti scritti in
grafie
diverse: Link cerca con lo sguardo quello di Mazli. È
indirizzato a Revali,
tecnicamente, perciò Link si schiarisce la voce.
«Ho
scordato di dirti che Mazli ha mandato una lettera ed è
riuscito a inviarci
qualcosa anche da Impa e gli altri. Questa mattina sono andato a
prenderla da
Kagan. Sul biglietto di Mazli c’è il tuo nome.
Vuoi leggerlo tu?»
Dall’altro
lato della casa, appoggiato come al solito contro il muro, Revali si
è rimesso
al lavoro, come ogni sera. Non alza neppure lo sguardo su di lui.
«Leggilo pure
tu. Mazli sa che siamo sposati. Quello che è mio
è tuo, eccetera.»
«Bastava
dire che non ti interessa.» Link scorre rapidamente il
biglietto con gli occhi:
non dice nulla d’interessante. L’ambasciatore si
limita ad augurarsi che stiano
bene, che Kagan li abbia accolti come si deve e a informarli che non ha
ricevuto ulteriori domande né visite da parte dei generali
dell’esercito; per
quanto ne sa, il suo congedo forzato permane tuttora. «Non
scrive niente di
nuovo, comunque. Ma non hai finito il tuo nuovo arco
stanotte?» chiede mettendo
da parte il biglietto.
«Certo
che l’ho finito. Te l’ho fatto provare.»
Non
è che Link sia poi eccessivamente interessato
all’attività di artigianato di
Revali, ma parlare così, dai due lati della casa, divisi dal
fuoco, è
stranamente rilassante. Ha qualcosa di domestico e confortante che non
ricorda
d’aver mai provato prima, persino quando discutono. Scorre
gli altri fogli che
ha in grembo: Pruna e Rovely gli hanno mandato appunti e schemi di
alcune armi
ancestrali che stanno sperimentando. Si sofferma a esaminare il disegno
di
un’armatura sotto cui Pruna ha annotato nella sua graziosa
grafia piena di
ghirigori: Con questa sembreresti un guardiano anche tu!
Sbrigati a tornare.
Devi provare un sacco di invenzioni! «E ne inizi
subito un altro?»
Revali
s’interrompe per un momento. «Lavorare mi rilassa.
Qualcun altro ha scritto
qualcosa di interessante?»
«Per
ora no.» Per un po’, Link continua a leggere in
silenzio: anche Zelda ha
trovato il tempo di scrivergli, ma, forse per timore che la sua lettera
potesse
cadere in mani sbagliate malgrado l’immunità
diplomatica che protegge la
corrispondenza privata di un ambasciatore, ha evitato di scrivere
alcunché di
compromettente. Parla perlopiù dei suoi continui
allenamenti, delle sue
sfiancanti preghiere, e lo rassicura sul fatto che è al
sicuro e protetta anche
senza di lui. Perdona mio padre,
c’è scritto soltanto in fondo alla
lettera. Si accorgerà di aver sbagliato,
più prima che poi. Non perdonarlo
per lui né per me, perché nessuno di noi lo
merita; ma per Hyrule.
La
lettera più lunga è quella di Impa. La prima data
che riporta, in realtà, è di
pochissimi giorni successiva a quella del processo; ma ha continuato a
scriverla a pezzi, per giorni e settimane, tornandovi sopra ogni volta
che
aveva un momento libero, nell’attesa di trovare qualcuno
diretto al Borgo dei
Rito cui affidarla per fargliela portare: anche spedire la posta, con
l’avvicinarsi della Calamità, sta diventando
sempre più difficile. Io e
l’ambasciatore Mazli stiamo diventando sempre più
amici, scrive a un certo
punto, o per meglio dire lui viene spesso da me in preda alle
sue crisi
d’ansia. Credo che trovi la mia presenza rassicurante, per
chissà quale motivo.
Forse chiederò a lui quando pensa di scrivere al vostro
capovillaggio per
allegare questa lettera alla sua: non penso che me lo
rifiuterà. Mi vede come
se fossi la sua unica complice in una sorta di sanguinoso delitto che
abbiamo
commesso insieme. Il che, dal punto di vista di Mazli,
è esattamente quello
che è successo, considera Link sorridendo; ma la lettera
continua per diverse
altre pagine, forse perché Impa attendeva che Mazli si
decidesse a spedire
qualcosa a casa per porle termine.
Novità!
C’è
scritto nell’ultimo
paragrafo. Urbosa ha scritto per avvisare che gli Yiga sono
in subbuglio:
sospetta qualcosa. Partiremo all’inizio del mese per
raggiungerla sulle
montagne per verificare la situazione e sferrare loro un attacco. La
principessa, inoltre, deve recarsi a pregare nel Canyon di Tanagar:
uniremo le
due occasioni di viaggio. questo significa che dovremo comunque
avvicinarci
molto al Borgo dei Rito tra poche settimane. La principessa ha proposto
che
allunghiamo di un giorno il tragitto per venire a ringraziare
personalmente il
capovillaggio dei Rito di averti accolto: credo che voglia
semplicemente
vederti. So che non riuscirai mai a rispondere prima che partiamo anche
se tu
dovessi trovare qualcuno che viene verso la capitale, ma spero almeno
che
questa lettera ti raggiunga prima di noi.
Link interrompe
la lettura per darne notizia a
Revali: la novità pare destare un certo interesse persino in
lui.
«La
principessa vorrà accertarsi che io non ti
abbia maltrattato troppo» commenta con un sorriso tornando al
lavoro. «Molto
bene. Avvisiamo Kagan, domattina. Vorrà prepararsi a
riceverla.»
«Cerca
di non attaccare lei e la sua scorta anche
stavolta, piuttosto» risponde Link tornando a leggere.
«Rischia di diventare
un’abitudine.»
«Farò
del mio meglio. Ci sarà anche Mipha?»
«Non
penso. Urbosa è nella Cittadella, quindi forse
i Campioni sono tornati…» Link
s’interrompe bruscamente alzando gli occhi dalla
lettera. Si è appena reso conto di qualcosa.
«Perché Mipha?»
Revali solleva un
pezzo di legno in direzione del
braciere per osservarlo in controluce. «Così. Per
chiedere.»
«Ma
perché specificamente Mipha di tutti i Campioni?»
Revali sospira
posando il legno per terra.
D’improvviso sembra a disagio. «Andiamo,
Link… lo sai il perché. Non farmelo
dire ad alta voce.»
«Non
è che, per caso, sei geloso anche di lei?»
È la
prima volta che parlano di nuovo di quello che
è successo ieri, anche se indirettamente: la domanda si
sfilaccia tra di loro
nell’aria della stanza come fumo. Per un attimo Link teme che
Revali non
risponda; ma poi, a bassa voce, fissandolo negli occhi al di sopra del
fuoco,
Revali dice a bassa voce: «È lei che è
gelosa di me, Link. È troppo buona per
ammetterlo mai, e sappiamo entrambi che non dirà mai
niente… ma io so che quel
giorno, quando ho detto che ti avrei sposato io, le ho dato un grande
dolore.»
«Oh»
mormora Link. Torna a distendersi con un
braccio sotto la nuca, sfogliando la lettera di Impa per avere qualcosa
da
guardare che non sia Revali, e domanda: «Quindi suppongo che
sia proprio
evidente, se lo sai anche tu.»
«Lo
dici come se io fossi talmente privo di empatia
da non essere in grado di accorgermi dei sentimenti dei miei
compagni» osserva
Revali, ma non c’è amarezza nella sua voce.
«Che Mipha è innamorata di te?
Penso di non dirti niente di nuovo, Link. Certo che è
evidente.»
«Che
cosa ne pensi?»
Non
l’ha mai chiesto a nessuno; lui e Impa ne hanno
parlato a mezze parole soltanto, scambiandosi accenni e commenti
fuggevoli
durante le notti infinite degli accampamenti e delle veglie notturne;
per il
resto ha sempre fatto finta di non sapere, perché fingere
d’ignorare era più
semplice che ammettere ad alta voce la sua indifferenza.
«Penso
che la cosa non mi riguarda.»
«Davvero?
Perché mi pare che sia stato tu a
menzionare Mipha, non io.»
Dall’altro
lato della stanza proviene un sospiro.
«Pensavo solo che sarebbe indelicato sbandierarle in faccia
la nostra felicità
coniugale, Link. Tutto qui. La cosa forse ti sorprenderà, ma
persino io sono in
grado di provare sentimenti di compassione e simpatia per
qualcuno.»
Non è
questa la cosa che lo sorprende, a dire il
vero. Link si tira a sedere di scatto nell’oscillare
dell’amaca. «Abbiamo una
felicità coniugale?» chiede, perché
quella notizia gli giunge totalmente nuova
e gli viene da chiedersi dov’è che ha trascorso le
prime settimane del suo
matrimonio. «E perché io non me ne sono
accorto?»
«Scemo»
lo rimbecca Revali. «Sai cosa intendo. E
poi, tecnicamente sto adornando casa mia come farei se tu fossi la mia
sposa in
dolce attesa per proteggerti dal freddo. Quindi evita di lamentarti e
accontentati. Hai deciso se ti senti più affine alle spose
incinte o ai bambini
piccoli, a proposito?»
Link decide che
considererà questa domanda come
retorica e si ritiene dunque esentato dal rispondere. Torna a
distendersi
sull’amaca che ancora oscilla pigramente nel buio. La
questione delle spose
incinte gli ronza in testa per un po’.
«Voi
Rito fate le uova?»
Il silenzio che
segue a questa domanda è talmente
lungo che Link teme che Revali non abbia sentito. Quando solleva il
capo per
cercare il suo sguardo nell’oscurità, i suoi occhi
sono enormi e spalancati al
di là del fuoco.
«Non ci
sei andato a scuola?» esala Revali come se
lo avesse mortalmente offeso.
Il che non
è poi una grossa novità, visto che
questo dannato Rito riesce a essere teatrale ai limiti
dell’inverosimile,
perciò Link risponde con sincerità senza darsi
troppo peso della sua reazione. «A
dire il vero no. Ho sempre seguito mio padre negli accampamenti da che
ho
memoria. Quindi?»
«Beh,
è già un miracolo che tu sappia scrivere,
allora» borbotta Revali rimettendosi al lavoro, ancora
piuttosto scandalizzato.
Non è ancora del tutto convinto di non essere stato offeso.
«Ho
detto negli accampamenti, non tra i cinghiali.»
«A
giudicare dalla tua ignoranza, il risultato
sarebbe stato lo stesso» conclude Revali.
«Comunque, ovviamente sì. Perché
questo improvviso interesse? Vuoi partorirmi il mio primogenito
maschio?»
Se glielo
chiedessero, Link non saprebbe spiegare
perché trova quest’immagine subitaneamente
divertente. Forse è l’idea del primogenito
maschio, altisonante come tutto quello che fa questo dannato Rito.
«Vuoi dare
avvio a una dinastia?»
Revali ride.
«Questa non sarebbe una cattiva idea,
ma non credo che sarei molto tagliato per i bambini, anche se quelli
degli
altri mi piacciono. E poi, ci ho rinunciato tanto tempo fa.»
«Come
mai?»
Cala il silenzio,
per l’ennesima volta. Stavolta,
però, Link non si solleva per guardarlo. Qualcosa nella
diversa qualità di quel
silenzio gli dice che è meglio parlarsi senza vedersi, per
adesso.
«Perché,
visti i miei gusti in fatto di partner…»
È
molto raro per Revali non terminare una frase. Le sue parole sfumano
nell’incertezza per un momento, poi si spengono; la sua voce
assume un tono
diverso quando riprende. «È strano, sai. Mi ero
fatto l’idea che anche per te
valesse lo stesso.»
Link si sente la
bocca stranamente asciutta quando
si rende conto che, ben celata in quell’insinuazione,
c’è una domanda che non
trova parole. Si schiarisce la voce. «Sempre parlando di
gusti in fatti di
partner, intendi.»
«Si
capisce.»
«Beh,
allora…» Non è che Link davvero ci
abbia mai
pensato: su questo Kagan ha ragione, pensa. Non ha mai neppure concesso
a se
stesso d’interrogarsi su chi gli piacesse, o su chi o cosa
volesse al suo
fianco, perché ciascuna di queste domande sarebbe stata come
sottrarre tempo ed
energie al compito che il destino gli ha assegnato, a Hyrule, a Zelda,
alla
Spada che esorcizza il male; perché non ha mai neppure
pensato di poter avere
del tempo da dedicare a qualcuno al suo fianco, soprattutto; e ora
d’improvviso
si ritrova a cercare quella risposta dentro di sé senza aver
mai neppure saputo
che quella risposta ci fosse o che fosse importante cercarla. Si
schiarisce la
voce, di nuovo. «Forse vale lo stesso anche per me.»
«Bene»
risponde Revali. «Sono contento che ci siamo
chiariti.»
«Anch’io»
risponde Link girandosi dall’altra parte
nell’amaca. «Buonanotte.»
Nessuno
dei due
reputa necessario sottolineare il fatto che fino a quel momento non era
stata
sollevata alcuna questione che necessitasse d’essere chiarita.
In queste settimane sono
stata presa da un furor scribendi tremendo: mi fermo al volo ad
aggiungere, in
fondo a questo capitoletto, i miei ringraziamenti ad An13Uta e a
LeVicomteDeBragelonne
per aver recensito o messo tra le preferite questa storia: grazie,
davvero, di
cuore.
Spero che possiate
leggere
questo capitolo nel pieno dei festeggiamenti di Pasqua, tra una fetta
di
colomba e un pezzo di uovo di cioccolata!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Inverno ***
Capitolo
IX – Inverno
“Vicino
a te, sono troppo felice per dormire.” L’ho potuto
lasciare solo al mattino.
André Gide, I falsari.
Zelda
raggiunge il borgo in un mattino gelido di pieno inverno in cui
l’aria si
condensa appena uscita dalle loro bocche; ad annunciare il suo arrivo
è uno dei
due soldati semplici posti di sentinella in direzione dello stallaggio,
planando verso l’abitato per avvertirli. La principessa ha
lasciato il grosso
delle truppe che l’accompagnano dagli Yiga a valle, spiega:
risale le colline
solo con un manipolo di guardie, la sua consigliera Sheikah e il suo
piccolo
guardiano. Link si sforza di reprimere il familiare senso di colpa al
pensiero
di non essere con lei per proteggerla e di quanti pericoli la
minacciano anche
in questo momento: se potesse, sarebbe con lei per difenderla a costo
della
vita dai pericoli della valle. Se non c’è,
è perché il re l’ha impedito.
Lui
e Revali scendono loro incontro lungo la strada per accompagnarle verso
il
borgo. Zelda sembra riuscire a malapena a reggersi a cavallo:
è pallida di
stanchezza, con occhiaie pesanti sotto le palpebre come grandi segni di
guerra
violacei tracciati coi pollici: deve aver pregato per giorni nel tempio
celato
in fondo al canyon di Tanagar. È molto magra, più
dell’ultima volta che si sono
visti, in quel giorno, prima del processo, in cui è venuta a
trovarlo per
dirgli che forse sarebbe stato sufficiente che entrambi rifiutassero il
matrimonio combinato per non farlo accadere: gli sembra passata una
vita intera
da quel giorno; eppure è stato poco più di due
mesi fa. Indossa di nuovo i
pesanti abiti bordati di pelliccia che Link ricorda di averle visto
addosso
durante la loro prima visita al Borgo, più di tre anni fa,
quando sono venuti a
chiedere a Revali di pilotare il colosso sacro, ma sembrano in qualche
modo più
larghi sul suo corpo estenuato dai digiuni e dalle continue sfiancanti
veglie
di preghiera. Link sente il cuore stringerglisi in petto a quella
vista: non
avrebbe voluto questo per lei. Ci sono stati momenti in cui avrebbe
desiderato
proteggerla da tutto, dalla Calamità, dai fallimenti, anche
da suo padre, se
possibile: ma nulla di tutto ciò è mai stato in
suo potere: solo dai mostri e
dai nemici, e ora neanche più da quelli. Impa cavalca
qualche metro indietro,
separandola di poco dai soldati: solleva un braccio per salutarli non
appena li
intravede. Link ricambia il saluto.
«Guarda
un po’. Impa ti ha portato un regalo» commenta
Revali a bassa voce. Link lo
guarda senza capire: Revali si limita ad accennare col capo ai soldati
che
compongono la scorta. «Sbaglio o quello è il tuo
cucciolo di attendente?»
Revali
ha ragione: questo è senz’altro un regalo di Impa.
C’è anche Lelek tra gli
uomini che accompagnano la principessa. Il suo cuore ha un piccolo
balzo di
gioia: non pensava che l’avrebbe mai più rivisto.
Quando
li raggiungono, Impa smonta agilmente da cavallo e aiuta Zelda a
scendere: deve
quasi sostenerla. I soldati si schierano tutti attorno a loro per
proteggerle
da eventuali attacchi: Lelek gli sorride raggiante al di sotto
dell’elmo. Forse
neanche lui pensava di rivederlo tanto presto.
Link
s’inchina di fronte alla principessa, ma Zelda scuote la
testa dolcemente. Ha
gli occhi pieni di sollievo al vederlo. Si stacca da Impa per prendere
le sue
mani nelle proprie: persino la sua stretta è troppo esile e
fiacca, più di
quanto Link ricordi; le sue dita anchilosate sembrano chiudersi a
malapena
intorno alle sue.
«Ti
hanno salvato» mormora. «Perdonami per non aver
saputo fare niente per
proteggerti.» Link vorrebbe interromperla, placare la sua
angoscia; vorrebbe
dirle che di quello che è successo lei non ha alcuna colpa e
che è stata
vittima della follia di suo padre e dei teologi tanto quanto lui, ma
Zelda non
gli lascia tempo di parlare, forse perché non vuole essere
perdonata da lui
perché ancora non ha perdonato se stessa. Si rivolge a
Revali. «Dobbiamo tutto
a te, Revali. Se non fosse stato per te…»
Revali
reclina il capo sul petto. «Non c’è
bisogno che mi ringraziate, Altezza. E poi,
l’idea non è neppure stata mia: è stata
Impa a proporlo. Il merito è suo.»
«Sei
più modesto fuori dai campi di battaglia, Revali»
commenta Impa sorridendo.
«Avresti potuto dire di no, invece hai detto di
sì: il merito non è affatto
mio. E poi, dodici ore tra andata e ritorno… Mazli dice che
è un record
assoluto per i Rito.»
Questa
volta Revali sorride. «Questo non lo nego. Avrei potuto fare
di meglio se non
avessi dovuto svegliare il mio capovillaggio, comunque. Non vede
l’ora di
rivedervi.»
«Allora
è meglio non farlo aspettare» suggerisce Impa
osservando Zelda con la coda
dell’occhio. Cerca di non porre l’accento sulla sua
stanchezza, ma Link, che è
in grado ormai di valutare ogni suo pensiero al solo guardarla, come
quando
combattono, legge nei suoi occhi la sua preoccupazione. «E
poi, non possiamo
trattenerci a lungo. Al più tardi domani dobbiamo ripartire
per raggiungere
Urbosa.»
Link
solleva Zelda prendendola per la vita per aiutarla a risalire in sella:
tra le
sue mani è esile come una bambina. La sua eccessiva magrezza
lo preoccupa:
spera di riuscire a chiederne a Impa, se riuscirà a
separarla per un momento da
lei. Impa avanza a piedi, al fianco di Revali, conducendo il cavallo di
Zelda
per le briglie. Link rimane volontariamente indietro per camminare al
fianco di
Lelek. Gli altri soldati si mantengono a distanza per lasciarli
parlare, ma
disponendosi attorno a loro trovano il tempo di mormorare:
«Ben trovato,
capitano. È bello rivedervi.» Link li ringrazia
con gli occhi.
Lelek
sembra avere da dirgli una tale quantità di cose da non
poter aspettare.
«Vi
ho portato degli altri abiti pesanti, capitano» si affretta a
informarlo.
«Quando siete partito non c’era spazio per tutto
nei vostri bagagli, perciò… vi
ho portato anche alcuni dei vostri libri di tattica militare. Lady
Pruna
inoltre mi ha chiesto di…»
«Lelek.»
Lelek s’interrompe avvampando quando si accorge di aver
parlato troppo. «Come
stai?»
«Bene,
capitano» risponde Lelek un po’ impacciato.
«Ma avrei dovuto chiederlo io a
voi. Sono stato tanto preoccupato per voi, sapete. Anche gli altri
ragazzi.»
«Che
cosa ti preoccupava esattamente?» chiede Link. La sua premura
lo commuove oltre
ogni immaginazione.
«Che
non aveste tutto quello che vi occorre» risponde Lelek col
tono di una cosa
proprio ovvia che non vale neppure la pena stare a spiegare.
«Perdonatemi,
capitano… ma non siete mai stato troppo bravo a stirare.
Senza offesa.»
«Cercherò
di non prendermela» lo rassicura Link, che in questi mesi non
è stato neppure
mai sfiorato dal pensiero di un ferro da stiro. «Ma tu,
piuttosto…. hai avuto
problemi per avermi aiutato? Per la storia della firma, eccetera,
sai.»
Lelek
scuote la testa. «Pensavo che li avrei avuti, capitano,
davvero… ma non mi
hanno detto niente. Sono stato solo assegnato al servizio regolare,
poiché non
ero più al vostro. Non sono neppure stato
interrogato.»
«Forse
perché la tua testimonianza sul matrimonio è
stata già abbastanza convincente»
suggerisce Link sorridendo.
«A
proposito di quella, capitano» inizia Lelek a bassa voce. I
suoi occhi nervosi
scrutano le spalle di Revali, come ad accertarsi che sia
sufficientemente
lontano da non poterlo sentire. «Avete avuto occasione di
porgere le mie scuse
al maestro Revali per aver detto… beh… lo
sapete?»
A
dire il vero, della questione delle scuse Link si era dimenticato, ma
decide
che una piccola bugia bianca non può fare troppo male in
questa situazione.
«Ah, non preoccuparti. Non ce l’ha con te.
Piuttosto, Lelek, senti… riguardo
quella volta a Hebra.»
«Tutto
quello che volete, capitano» risponde Lelek, più
per invitarlo a proseguire che
perché ci sia bisogno di rassicurarlo.
In
modo del tutto irrazionale, anche Link osserva la schiena di Revali per
accertarsi della distanza tra di loro. «Tu per caso ricordi
che io abbia
chiamato Revali, quando ero ferito?»
Lelek
lo fissa in silenzio per un momento. «Non vi ricordate
neanche di questo,
quindi?»
Link
stringe le labbra e scuote la testa. Quindi Revali non stava esagerando
come
suo solito. «Puoi dirmi che cosa ho chiesto precisamente?
Ho… bisogno di
schiarirmi le idee.»
«Beh…
non è che abbiate detto niente di che, in
realtà.» Lelek sembra fare mente
locale per un po’. «Credo sia stato dopo pochissimo
che vi avevamo portato
nella vostra tenda, dopo che il medico e la principessa Mipha avevano
detto che
non potevano fare altro e che potevamo solo stare a vedere cosa vi
sarebbe
successo. Ero rimasto solo con voi, perché il medico aveva
suggerito di
lasciarvi riposare, e voi d’un tratto avete aperto gli occhi
e mi avete
cercato. Beh, almeno ho pensato che cercaste me» specifica un
po’ impacciato.
«Eravate molto confuso, non sapevate dove vi trovaste. Ho
cercato di
rassicurarvi e di dirvi che eravamo entrambi al sicuro, ma avevate la
febbre
alta, per via dell’infezione, perciò non so quanto
capiste. Mi avete fatto
davvero spaventare, sapete, forse più che mentre aspettavamo
i soccorsi. È
stato allora che avete chiesto: Dov’è
Revali?»
«Ho
chiesto così, quindi» mormora Link, più
per confermarlo a se stesso che come
domanda. Lelek annuisce.
«Esatto.
Me lo ricordo perché ho pensato che credeste di essere
ancora sul campo di
battaglia. Vi avevo ripetuto talmente tante volte che Revali era andato
a
chiamare la principessa Mipha e che lei sarebbe arrivata presto a
salvarvi, che
credevo che lo chiedeste per quello. Ho provato a rassicurarvi ancora,
a
ridirvi che eravamo al sicuro, ma voi mi avete preso la mano e avete
chiesto se
Revali era salvo. Allora ho pensato che per voi fosse importante, ho
chiamato
un altro compagno perché vi tenesse compagnia e sono corso a
cercarlo. Tutto
qui, capitano» conclude, quasi rammaricato di non potergli
dire di più.
Per
la verità il suo racconto è preciso e puntuale
come una cronaca di guerra, a
distanza di due anni da quel giorno: Link si prende qualche secondo per
rifletterci un po’. «Non ti sei fatto nessuna idea
del perché lo cercassi?
Voglio dire, non ti è sembrato strano?»
«In
realtà, capitano, non ci ho pensato molto» ammette
Lelek quasi con imbarazzo,
come se si trattasse di una sciocca mancanza da parte sua.
«Ho solo pensato che
potesse servire a farvi star tranquillo. Il medico aveva detto che non
bisognava farvi agitare, e voi continuavate a cercarvi intorno senza
trovarlo.»
Link
annuisce pensierosamente. «E a lui non è sembrato
strano, invece? Te lo
ricordi?»
«Oh,
a lui sì» risponde Lelek senza neppure pensarci.
«Devo essergli sembrato un po’
trafelato, perché avevo paura di non trovarlo. Per fortuna
non è stato
difficile. All’inizio non ha capito subito chi ero, ma poi
è stato gentile.
Cioè, gentile rispetto al suo solito, ed è venuto
subito con me.»
«Capisco»
mormora Link. Non ha il coraggio di fare altre domande al riguardo, ma
Lelek,
per fortuna, continua a raccontare senza più bisogno
d’essere interrogato.
«Era
molto composto, sapete, come al solito, ma sembrava preoccupato.
È rimasto con
voi per un po’, considerando che i Rito erano in subbuglio
perché era morto uno
dei loro capitani, finché non vi siete riaddormentato, poi
se n’è andato. Ha
detto di farlo chiamare se foste peggiorato di nuovo,
però.»
«E
tu l’hai mandato a chiamare?»
«Oh,
no. Quella notte avete cominciato a stabilizzarvi» risponde
Lelek. «Ma è
tornato comunque poco prima dell’alba, di questo sono sicuro.
Ha chiesto se non
avevo ancora riposato, dopo la battaglia, e io ho spiegato che dovevo
badare a
voi.» Lo dice come se fosse una cosa talmente ovvia,
naturale, che non avesse
neppure chiuso gli occhi dopo quell’interminabile battaglia,
che Link si sente
il cuore stretto d’angoscia a pensare alla sua
fedeltà e alla sua devozione: ha
la sensazione che anche se salvasse l’intera Hyrule, non
potrebbe mai
eguagliare il suo coraggio e la abnegazione. «Non mi ha
neanche lasciato
rispondere. Ha detto: Ragazzo, puzzi come
un cavallo. Vai a lavarti e chiudi gli occhi un paio d’ore.
Ti faccio chiamare
se ce n’è bisogno.»
«Ha
detto così?» protesta Link scandalizzato.
«Oh,
non intendeva offendermi, capitano» si affretta a
tranquillizzarlo Lelek. «Era
proprio la verità, in effetti. Non avevo fatto in tempo
neppure a lavarmi come
si deve, ed ero stato per un bel po’ immerso in…
beh, non aveva tutti i torti,
in ogni caso.»
«Quindi
mi hai lasciato solo con lui?»
«Non
per tanto» dice Lelek in tono compunto, come se
l’aver osato lavarsi e
cambiarsi dopo minuti trascorsi con le mani nel suo sangue e nelle sue
feci
fosse una terribile colpa da parte sua. «Sono andato solo a
lavarmi e a
cambiarmi. Poi mi sono appisolato, è vero, ma la mia branda
era nella vostra
tenda, perciò sono comunque stato lì per tutto il
tempo. Mi alzavo ogni ora per
controllarvi, in ogni caso, come aveva ordinato il medico.»
«E
Revali è stato lì per tutto il tempo?»
«Per
qualche ora, direi. Era sempre lì quando mi svegliavo.
È andato via quando è
entrata la consigliera Impa a visitarvi. Non è mai rimasto
quando c’erano lei o
gli altri Campioni, anche i giorni successivi, ma
c’è stato comunque più di
loro, nel complesso. Questo è sicuro.»
Link
assente distrattamente. Il racconto di Lelek torna perfettamente col
carattere
di Revali. «E per l’altra questione,
invece?»
Lelek
afferra al volo che cosa gli sta chiedendo, risparmiandogli
l’umiliazione di
dover esplicitare ad alta voce quale sia l’altra
questione. «Quella è stata il terzo
giorno, quando il medico ha detto che
potevo provare a darvi cibi liquidi. È venuto a trovarvi
mentre provavo a farvi
sorbire un po’ di brodo di pesce. Non è mica
facile imboccare qualcuno di
incosciente, sapete?» Link fa del suo meglio per assumere
un’espressione
contrita che gli sembra sia quella che ci si aspetta da lui in questo
frangente, anche se è più interessato a scoprire
che cosa sia successo
esattamente quel giorno con quel benedetto brodo. «Non credo
fosse intenzionato
a fermarsi molto, all’inizio, ma quando mi ha visto alle
prese con voi ha
detto: Non sei neanche capace di
imboccare il tuo capitano? Lascia fare a me, o finirai per soffocarlo. Ma
non vi stavo affatto soffocando, capitano, questo posso
giurarvelo.»
«Sono
alquanto sicuro che se c’è qualcuno che ha
rischiato di soffocarmi quel giorno,
non fossi tu» lo rassicura Link.
Lelek
sembra apprezzare molto le sue parole. «Grazie, capitano,
davvero. È che non
eravate facile in quei giorni. Comunque, è stato gentile, a
modo suo. Mi ha
dato tempo per andare a mangiare e per andare in bagno, quantomeno. Ma
non l’ho
mai fatto rimanere quando voi dovevate fare i vostri bisogni,
perché so che non
avreste voluto» specifica. Link avrebbe preferito dimenticare
di aver avuto
bisogno del suo aiuto anche per espletare quelle specifiche funzioni
corporee
in quei giorni, ma il suo scrupoloso attendente, a quanto pare, non ha
dimenticato neppure i particolari più umilianti e concreti
della sua degenza.
«L’ho sempre fatto uscire dalla tenda. Ma voi
davvero non vi ricordate niente?»
«Niente»
conferma Link scuotendo il capo. «Grazie, Lelek, davvero. Sei
stato prezioso
come sempre.»
«C’è
qualcosa di particolare per cui avete bisogno di saperlo?»
chiede Lelek con
cautela. Non è nella posizione di fargli domande,
ovviamente, ma Link sente che
neppure volendo potrebbe mentirgli o minimizzare la portata di quelle
domande,
non foss’altro che per tutto il rispetto e la gratitudine che
gli deve.
Rallenta volutamente il passo per restare indietro rispetto al gruppo,
e Lelek
si adegua ai suoi movimenti quasi d’istinto, guardandolo con
preoccupazione.
«Non
è nulla di grave, Lelek, davvero. È solo che le
cose con Revali stanno
diventando un po’… inaspettate.»
«Non
vi sta trattando male, vero, capitano?»
Il
concetto di trattare male, quando
si
vive con qualcuno come Revali, deve necessariamente tingersi di varie
sfumature; ma Link decide che la risposta più adeguata a
questa domanda è no.
Prova un imbarazzo indicibile, perché mai prima
d’ora ha parlato di qualcosa
del genere con qualcuno, tranne Kagan che però gli sembra
non contare, e meno
che mai avrebbe pensato di parlarne con un suo subordinato; ma Lelek
non è più
il suo attendente, adesso, e Link sente di dovergli la
verità.
«È
che credo che ci stiamo innamorando» dice tutto
d’un fiato.
Lelek
lo osserva pazientemente come se si attendesse da lui una rivelazione.
A un
certo punto, però, sembra comprendere che la rivelazione era
quella.
«Ah!»
dice soltanto, e Link l’osserva esterrefatto
perché non gli sembra affatto
questa la risposta da dare a una notizia del genere. Lelek si sente in
dovere
di specificare. «Un po’ me l’aspettavo,
capitano. Se posso dirlo.»
Link,
al contrario, si aspettava così poco questa risposta che si
ferma bruscamente
sulla strada, là dove si trova, ed esclama a mezza voce:
«Che cosa?»
«Beh»
risponde Lelek. «Non vedo molti altri motivi per cui doveste
farmi tutte queste
domande. E non vedevo neppure alcun motivo per cui il maestro Revali
dovesse
star sveglio di notte a imboccarvi, a dire il vero. Mi era sempre
sembrato un
po’ strano. Anche quando è venuto a cercarmi
quella notte, per la faccenda del
certificato…»
«E…
e non hai mai detto niente?» protesta Link. Sa di essere
irragionevole e
sciocco a dir così, ma la sorpresa è tale che non
può non rovesciarla su di
lui.
«Ma,
capitano» obietta Lelek. «Sarebbe stato molto
insubordinato e irrispettoso da
parte mia far illazioni sulla vostra vita privata, non
pensate?»
Link
deve riconoscere a malincuore che Lelek si sta dimostrando molto
più
ragionevole e razionale di lui in questa circostanza. Riprende a
camminare
lentamente osservando Revali dalla prudente distanza che li separa.
«È
la prima volta che lo dico ad alta voce.»
«Grazie
di averlo detto a me, capitano» mormora Lelek. «Lo
considero un grande onore da
parte vostra. Davvero.»
«Te
l’ho detto» risponde Link passandogli un braccio
intorno alle spalle. «Non sono
più il tuo capitano, adesso. Ora puoi dirmi quello che
vuoi.»
Lelek
sembra dover racimolare un bel po’ di coraggio per dirgli
quello che deve.
«Allora, se posso, capitano, vorrei dirvi che sono molto
contento per voi.
Penso che vi meritiate un po’ di felicità dopo
quello che vi hanno fatto.»
La
semplicità della visione di Lelek gli stringe un nodo alla
gola doloroso come
un cappio. Link non dice altro. Si accontenta di camminare al suo
fianco
nell’aria gelida.
Data
la stagione ormai alta, era troppo freddo per organizzare un banchetto
per
ricevere la principessa Zelda. Kagan ha deciso perciò di
riceverla
semplicemente in casa sua, nel calore del suo focolare; il che, visto
il
pallore di Zelda, forse è stato comunque meglio.
L’accoglie con semplicità
offrendole tè caldo e dolci, e la fa accomodare vicino al
fuoco perché si
scaldi: Kagan osserva il suo pallore con preoccupazione senza dire
niente.
Per
la prima parte dell’incontro, Zelda si limita a ringraziare
il capovillaggio di
aver aiutato Link e di averlo accolto prestandosi al loro gioco: Kagan
annuisce
gravemente.
«Sarei
un bugiardo se dicessi di averlo fatto per voi o per la Corona,
principessa»
risponde. «Non posso accettare un ringraziamento che non
merito. Il guerriero
che più di tutti difende la mia gente è venuto a
chiedermi di salvare qualcuno
a cui teneva, e io ho soltanto detto di sì. Ammetto di non
aver pensato affatto
ai rapporti con la Corona, in quel momento. Se Revali mi avesse chiesto
di
amputarmi un’ala, l’avrei fatto senza pensare,
perché mi fido del suo giudizio
come del mio.»
Link
non ha mai sentito Kagan parlare così di Revali: tutti i
suoi commenti su di
lui sono sempre stati improntati a una leggera ironia. Ma, dopotutto,
c’è il
Revali altezzoso e pomposo, del tutto incapace di comunicare o di
manifestare i
suoi sentimenti, che è cresciuto con lui, e
c’è l’orgoglio dei Rito e il
Campione dell’aria, che Kagan stima incondizionatamente per
il suo valore e per
il suo coraggio; e forse è quasi una coincidenza che
entrambi coincidano con la
stessa persona.
Zelda
accoglie le sue parole chinando gli occhi. «È
anche per questo che siamo venute
qui oggi, capo Kagan. Il ritorno della Calamità si sta
avvicinando sempre di
più, e sappiamo che i vostri rapporti con la Corona hanno
rischiato di
incrinarsi dopo questo evento… ma mai come in questo momento
è stato importante
mettere da parte le nostre divergenze. Pensate che potrete ancora
sostenerci
nella guerra che verrà?»
«Noi
faremo quello che bisogna fare per difendere le nostre terre e Hyrule
come
abbiamo promesso tempo fa» risponde Kagan con calma.
«La minaccia ci riguarda
tutti. Resta da vedere se vostro padre farà lo
stesso.»
«Avete
la mia parola che lo farà» risponde Zelda a bassa
voce. «Revali, è anche per te
che siamo venute oggi. Sei ancora disposto a pilotare Vah
Medoh?»
Revali
è in piedi alle spalle di Kagan, colle ali incrociate in
petto, marziale e
impassibile come al solito. Reclina il capo per un momento mentre
riflette
sulla risposta da dare.
«Io
devo difendere la mia gente» risponde infine. «E
per difenderla farò tutto
quello che è necessario e darò anche la mia vita,
se serve. Ma fin dal primo
momento la strategia dei colossi sacri prevedeva di dare supporto a
Link nella
sua lotta contro la Calamità. Se non sbaglio, ora che
è stato congedato manca
un tassello piuttosto importante in questo piano.»
Impa
sfiora il dorso della mano di Zelda per chiederle il permesso di
parlare in sua
vece da questo momento in poi: Zelda tace quasi con gratitudine. Ha a
malapena
forze per parlare.
«Non
dubitavo che avresti sollevato questo argomento, Revali. È
soprattutto per
questo che era importante che venissimo qui oggi. Ci sono
novità riguardo al
processo.»
Link
s’accorge d’essersi proteso impercettibilmente in
avanti a queste parole: nel
biglietto di Mazli non c’era alcun riferimento a
novità di nessun genere. Se è
cambiato qualcosa, dunque, dev’essere accaduto di recente,
oppure non essere
ufficiale. Gli occhi di Impa cercano i suoi.
«Link,
non voglio influenzare la tua decisione, perciò
cercherò di dirtelo nel modo
più neutro possibile. I generali stanno rivedendo il
processo. Tu non sei
condannabile in alcun modo, ma se le accuse fossero semplicemente
lasciate
cadere, sarebbe come dire che la Corona ha commesso un errore, e il re
non
intende lasciarlo accadere per non compromettere la sua
autorità. Quello che è
disposto a fare per ripristinarti al tuo posto e al tuo grado
è concederti la
grazia.»
La
sua prima sensazione è di sollievo, come se qualcosa fosse
finito, finalmente,
e fosse tornata la pace; ma dura solo l’istante necessario
alla sua mente per
elaborare tutti i significati di quella parola. Non ha alcun senso: non
riesce
a capire. Per poter ricevere la grazia, deve essere colpevole: ma hanno
fatto
tutto questo proprio per dimostrare che lui non era colpevole di
niente. Sente
Revali irrigidirsi al suo fianco e sollevare il capo di scatto.
Per
sua fortuna, Kagan trova le parole molto più rapidamente di
lui.
«Da
quando in qua la Corona ha il potere di graziare gli
innocenti?» La sua voce
s’è fatta appena più fredda rispetto a
prima.
Zelda
riprende la parola. La sua voce è esile come fumo.
«Non ce l’ha, capo Kagan,
ovviamente. Ma la situazione è questa, e non sarebbe stato
corretto da parte
nostra tenerla nascosta a Link. Se in questo momento volesse tornare,
il modo
ci sarebbe. Mio padre concederebbe la grazia e tutto si
risolverebbe.»
«Graziato
e vivo, ma colpevole, quindi» dice Revali ad alta voce.
«È veramente questo che
offre il re?»
«Sì.
È questo» risponde Impa con calma.
«L’alternativa è proseguire il congedo
forzato a tempo indeterminato, perché il re ha messo in
chiaro che non intende
permettergli di tornare ad altre condizioni che queste. Mi dispiace,
Link, ma
dovevamo darti la possibilità di scegliere. Non potevamo
semplicemente
tenertelo nascosto, indipendentemente da ciò che pensiamo
noi. La scelta è
tua.»
«È
giusto, consigliera» riprende Kagan. «Ma vorrei
chiarire anche qualcos’altro.»
Si rivolge direttamente verso di lui. «Link, col matrimonio
sei entrato a far
parte del mio popolo a tutti gli effetti. Sei libero di scegliere tutto
quello
che desideri, ma voglio che tu sia consapevole che qualunque cosa
accada,
finché vivrai sarai protetto dalle nostre leggi. La legge
della Corona qui non
ha alcun potere, poiché tu non hai commesso alcun reato. Noi
Rito ti sosterremo
sempre e ti proteggeremo anche qualora il re dovesse accampare diritti
su di
te. Ti prego di tenerlo a mente.»
«Grazie,
Kagan» mormora Link; ma non lo sta davvero ascoltando, in
realtà. Sta guardando
Zelda. Lei ha accettato umiliazioni e rinunce molto più
grandi della sua,
quotidiane, irripetibili, da parte dei teologi, dei nobili, di suo
padre
stesso; eppure non ha ceduto mai, non è scappata mai, anche
quando avrebbe
potuto farlo. Ha cercato sempre nuovi modi di servire Hyrule, per
supplire
proprio là dove i suoi poteri non sono in grado di agire; e
ora è venuta a
proporgli la salvezza. I suoi occhi sono divenuti enormi nel suo volto
smagrito, le sue labbra sono più esangui di quanto Link le
abbia viste mai,
eppure trova egualmente, dentro di sé, forza a sufficienza
da sorridergli.
Vorrebbe chiederle che cosa vuole che faccia: vorrebbe una risposta
dalla sua saggezza, dal suo dolore
profondo e costante, inconfessabile, che solo lui ha visto nelle
preghiere
infinite dei sacrari isolati, deserti; se lei gli chiedesse di tornare
per
difendere Hyrule, forse, lo farebbe; ma sa che lei non glielo
chiederebbe mai e
che la sua domanda sarebbe sterile come grano nel mare.
Per me è diverso, gli direbbe lei, non
è lo stesso, e questa sarebbe tutta la sua
risposta. Invece è
proprio lo stesso per entrambi, condannati come sono dal peso eterno di
una
leggenda che s’insegue e si ripete, infinitamente; ma Zelda
è stata cresciuta
senza esser mai in grado di vederlo: non è stata che
mortificata,
continuamente, per ogni suo fallimento, per non riuscire a essere
quello che
altri volevano che fosse, senza vedersi mai riconosciuto mai
alcunché per i
suoi sforzi titanici, implacabili; e dunque non è in grado
di vedere altra vita
che questa. Anche per lui è stato così, fino a
poco tempo fa; ma
paradossalmente è stato proprio il re a liberarlo dalla sua
eterna schiavitù
alla profezia e alla leggenda. Se glielo avesse chiesto un mese fa, due
mesi
fa, prima della prigione e del patibolo, avrebbe detto di sì
a tutto, pur di
poter tornare a combattere per Hyrule; ma è diverso, ora. E
poi, c’è Revali,
adesso. La scelta non riguarda più solo lui; e dello sguardo
di Revali che gli
brucia sulla nuca Link è consapevole come di queste sue
mani. Se accettasse la
proposta del re, si umilierebbe, certo; ma Revali sarebbe libero da
ogni dovere
nei suoi confronti. Potrebbe tornare alla sua vita, senza di lui;
resterebbero
legalmente sposati, ma quantomeno Revali non sarebbe costretto a
prendersi cura
di lui. Kagan ha ragione, Revali ha ragione: il re non ha alcun potere
di
concedere la grazia a un innocente; ma dir di no e rifiutare dal
piedistallo
della sua innocenza non è più così
semplice.
Si
rivolge a Impa. «Posso rispondervi domani?»
Impa
sorride appena. «Vorrei poterti dare ancora più
tempo» risponde. «Vorrei che
fosse in mio potere. Ma sì, hai fino a domani, Link. Fino
alla nostra
partenza.»
Non
ne parlano tra loro fino a sera. Kagan e sua moglie hanno preparato per
Impa e
Zelda due semplici amache nella stanza dei loro bambini: subito dopo
cena, fa
sapere loro, Zelda è crollata a dormire, estenuata dal
viaggio e dalle
preghiere. I soldati di scorta sono stati alloggiati nella caserma di
guardia:
avrebbero voluto montare la guardia intorno alla casa, ma, per via del
freddo,
Kagan si è offerto di sostituirli con quattro arcieri Rito,
della qual cosa gli
infreddoliti soldati Hylia sono stati assai grati. Prima di tornare a
casa,
Link insiste per andare a controllare che non abbiano bisogno di
niente. Revali
lo accompagna senza protestare, ma non scambia una parola coi soldati:
si
limita a salutare Lelek con un cenno del capo, quasi a far segno di
averlo
riconosciuto.
«Sei
proprio affezionato al tuo cucciolo di attendente» commenta
soltanto sulla
strada di casa.
«Sei
geloso anche di lui?» ribatte Link, ma senza troppa acredine.
Non fa che
ripensare a quello che gli ha raccontato Lelek e alle parole di Impa e
getta lì
quella provocazione macchinalmente, quasi senza pensare.
Ma
anche Revali dev’essere un po’ turbato dagli
avvenimenti della giornata, perché
la sua sola risposta, questa volta, è: «No, di lui
no.» In un altro momento,
Link si sarebbe preso la briga di fargli notare che le sue parole
implicano che
di qualcun altro invece lo sia; ma
la
giornata di oggi è stata troppo gravida di eventi, e lui
è troppo stanco. Ci
sarà tempo alla prossima scenata di gelosia per farglielo
notare; ma Revali
prosegue inaspettatamente. «A dire il vero, lo trovo quasi
simpatico. Ti vuol
bene davvero. Piangeva, quella notte, sai? Quando sono andato a
cercarlo nei
tuoi appartamenti.»
Link
ricorda il modo in cui si è congedato da Lelek in quella che
pensava sarebbe
stata l’ultima notte della sua vita, in carcere: ricorda il
modo in cui le sue
mani tremavano mentre lo supplicava di accettare la sua offerta e di
scappare.
«Sì… mi vuole bene davvero.»
Questa
notte è freddo davvero. I pannelli che hanno montato alle
finestre, giorni fa,
contribuiscono a trattenere un po’ il calore, ma non la
isolano del tutto dagli
spifferi: Link si accovaccia davanti al braciere centrale per attizzare
le
braci assopite nella cenere. Non ha molta voglia di andare a dormire:
la scorsa
notte si è svegliato un paio di volte per il freddo. E poi,
c’è la questione
della grazia.
«Forse
dovremmo parlarne» dice pensierosamente.
«Uhm?»
Revali getta nel braciere un paio di tozzi rami secchi per far prendere
vita al
fuoco. «Temo che tu sia giunto a sopravvalutarmi troppo nel
corso di questo
matrimonio, Link. Non ho ancora sviluppato la capacità di
leggere nella tua
mente, sebbene sia sicuro che ci sia relativamente poco da
leggere.»
È
raro che la sua ironia non riesca a strappargli neppure un sorriso.
«Lo sai di
cosa parlo. Della grazia.»
Revali
l’osserva in silenzio per un tempo molto più lungo
di quello che Link si era
aspettato. Quando alza lo sguardo su di lui, si sorprende di trovare i
suoi
occhi quasi privi di espressione. «Non capisco, Link.
Davvero. Di cosa dobbiamo
parlare?»
«Se
io accettassi la grazia, tu saresti di nuovo libero.»
L’espressione
di Revali si fa più dura d’improvviso. Gira
attorno al braciere per andare ad
appoggiarsi al tavolo coperto di mappe, senza guardarlo, e Link lo
segue con lo
sguardo senza capire.
«Quindi
ci stai pensando.»
Link
non si aspettava che la sua voce suonasse così fredda. Non
riesce a capire.
«Revali,
ascolta… tu ti sei addossato un peso che non ti spettava e
che non eri tenuto a
portare. Se io accettassi la grazia, tu potresti tornare alla tua
vita…»
«È
strano, Link.» Le sue parole hanno un accento inusitato,
quasi doloroso, di cui
Link non riesce a comprendere l’origine; eppure provengono
dalla sua gola.
Allora perché? «So di non essere stato il miglior
padrone di casa né il
migliore dei mariti. Non ho mai preteso di esserlo, e sicuramente certe
cose
avrebbero potuto esser diverse. Non importa. Ma ho fatto qualcosa in
questi
mesi, qualsiasi cosa, che ti ha fatto pensare anche solo per un momento
che tu
qui non fossi gradito e che questa non fosse anche casa tua?»
Link
apre la bocca per rispondere molto prima che la sua mente abbia
formulato una
risposta per questa domanda; e poi, non trovando una risposta o meglio
non
trovando quella che si aspettava, la richiude. Revali ha condiviso con
lui
tutto quello che possedeva e, quando non è stato in grado di
condividerlo,
glielo ha donato senza chiedere indietro niente: questa è la
prima volta che
realizza pienamente la portata enorme di quello che Revali ha fatto per
lui e
quanto tutta la sua gratitudine non potrà mai sanare il
debito che ha nei suoi
confronti; e di tutto ciò non si è quasi mai
neppure veramente accorto perché
Revali non ha mai fatto nulla perché se ne accorgesse.
Revali
si volta per cercare la risposta nei suoi occhi visto che non la sente
pronunciare dalla sua bocca; ma forse anche lì non trova
altro che sgomento.
Forse è proprio il suo sgomento a farlo arrabbiare
più di tutto il resto.
«Dunque
è così» dice. La sua voce vibra di
qualcosa molto simile a dolore. «Eppure
m’ero fatto l’idea che tu fossi diverso. Vuoi
proprio dargliela vinta, quindi.
Fargli vedere che possono farti tutto quello che vogliono, e che tu
tornerai
comunque sempre, non importa quanto grande sia l’umiliazione?
Sei così infelice
qui che sei disposto a professarti colpevole pur di tornare dal re a
scodinzolare come un cane, a dire ai generali che in fin dei conti
avevano
ragione, che avevano diritto di ordinarti tutto quello che
volevano…»
Tutto
questo è profondamente ingiusto. Link si alza in piedi
perché gli sembra d’aver
bisogno anche del suo corpo per contrastare questa valanga di accuse ed
esclama: «Non ho mai detto questo!»
«Allora
perché sei disposto ad accettare la grazia come se tu avessi
tradito?»
«Perché
volevo servire Hyrule, e perché…»
«La
mia gente non è Hyrule, quindi?» ribatte Revali
causticamente. «Non puoi
servirla ugualmente anche qui, combattere qui?»
Ma
Link non intende rispondere alla retorica di questa domanda, non
può permettere
di lasciarsene traviare, distrarre: si sforza di continuare a
rispondere a voce
bassa, calma, perché non vuole che quella discussione
diventi un litigio e una
polemica fine a se stessa come al solito, e risponde:
«Perché non riesco a
perdonarmi d’averti portato via la tua libertà e
non so come farò mai a
ripagare questo debito.»
Revali
rimane in silenzio molto a lungo. Il riflesso della luce trema nella
liquidità
dei suoi occhi.
«Non
ti ho mai chiesto di ripagarmi.»
«Lo
so» risponde Link a bassa voce. «Proprio per questo
non sarò mai in grado di
farlo. Tu vuoi che io resti?» Revali non risponde, prova a
distogliere lo
sguardo dal suo, allora Link parla ancora, insegue i suoi occhi nella
stanza.
«Chiedimi di restare.»
Revali
sorride di un sorriso amaro. «No, Link. Non è
così semplice. Non sarò
responsabile delle tue decisioni o delle tue sciocchezze. Se vuoi
restare, se
vuoi andare, se vuoi alzare le braccia e dire che in fin dei conti
è stata
tutta colpa tua, tutto purché ti restituiscano la tua vita
di prima, è un
problema solo tuo. Non ho mai avuto molta stima della tua intelligenza,
comunque, anche se per un attimo ho creduto…»
«Chiedimi
di restare» ripete Link. «Altrimenti
perché tutto questo?»
«Non
farmi questo, Link» risponde Revali dopo un tempo
lunghissimo. «Non ti chiederò
di restare. Tu hai una volontà libera come la mia; e io non
ho mai dovuto
chieder niente a nessuno.»
Con
l’orgoglio di questo dannato Rito, pensa Link chinando il
capo sul petto, non
c’è verso di vincere. Rimane immobile mentre
Revali gli passa accanto in un
frusciare di piume per lasciare la casa: non ha idea di dove voglia
andare né
perché. Ma proprio quando sta per uscire, alle sue spalli,
Revali si ferma un
momento e riprende: «Ma non ti ho mai chiesto neppure di
andartene. Questo è
tutto quello che posso dire.»
Quando
Link si volta, Revali è già uscito.
Vincere
no, forse; ma pareggiare sì, a quanto pare.
Si
sveglia d’improvviso con la sensazione d’essersi
appena addormentato nella
notte densa e infinita, al buio, quando Revali esclama
dall’altra stanza con
voce soffocata: «Kagan! Che cosa…»
È
all’erta nel buio prima ancora d’esser proprio
certo d’esser sveglio del tutto,
con la mano sull’elsa della spada e le orecchie tese nel
buio, consapevole
nell’oscurità che Revali dev’esser
tornato a casa, in un qualche momento della
notte a lui non ben precisato dopo la loro discussione, e che Kagan
dev’essere
entrato in casa loro; il che, a sua volta, non può
significare niente di buono.
«Sht!
Vuoi svegliare tutto il borgo?» protesta Kagan piano. Link lo
intravede appena
nel chiarore delle braci, nell’altra stanza, e dalle sue
parole si sente
immediatamente tranquillizzato: se non vuole svegliare nessuno,
significa che
il borgo non è sotto attacco. È evidente che
anche Revali deve giungere alla
sua stessa conclusione, perché dalla sorpresa la sua voce si
fa carica di
sdegno.
«Allora
si può sapere cosa c’è di tanto urgente
da…»
«Oh,
come se non lo sapessi già che voi due non dormite
insieme!» replica Kagan.
Revali ammutolisce. «Non sono mica cretino. Dovete venire con
me. La
principessa e la consigliera devono partire subito. Mia moglie le sta
aiutando
a prepararsi.»
Link
si divincola dalle coperte e dall’amaca e si veste alla cieca
nel buio,
infilandosi addosso strati su strati senza un ordine preciso.
«C’è qualche
pericolo?» chiede mentre indossa gli stivali allacciandoli
sotto il ginocchio.
«Vedi,
Revali? Almeno uno di voi due è presente a se
stesso» commenta Kagan a voce
alta a sufficienza perché lo senta tutto il borgo,
checché abbia detto un
istante fa. «È arrivata una sentinella dai passi
montani. Dice che ha iniziato
a nevicare copiosamente. Tra poche ore il passo sarà
completamente ostruito
dalla neve, perciò è essenziale che Zelda
raggiunga subito la sua squadra. Ho
già mandato staffette ad avvertire i suoi uomini di tenersi
pronti. Ho pensato
che avreste voluto salutarle. Link… mi dispiace che tu non
abbia avuto più
tempo per scegliere, ma se vuoi accettare quella grazia, questo
potrebbe essere
il momento opportuno.»
Revali
non dice altro mentre si veste a sua volta. Quando escono nella notte,
grandi
fiocchi di neve come batuffoli di cotone solcano l’aria fino
a sfiorarli: per
il momento ancora si posano al suolo sciogliendosi in piccole chiazze
di
umidità, ma presto inizieranno ad attecchire; Link si copre
il volto col
cappuccio del mantello. Seguono Kagan fino a casa sua, che è
illuminata come
una fiaccola nel villaggio immerso nel buio: i soldati della scorta
sono già
pronti a partire, frastornati e semicongelati nell’aria del
borgo.
Discostandosi di qualche passo da Revali, Link sfiora il braccio di
Lelek per
attirare la sua attenzione. Revali osserva i suoi movimenti freddamente
e
distoglie lo sguardo con ostentazione.
«Capitano»
mormora Lelek per tutta risposta. Sta tremando dal freddo.
«Siete sicuro di
riuscire a sopravvivere a questo inverno, sì?»
«Me
la caverò» promette Link seriamente.
«Lelek, ascolta… ti ricordi quello scudo
blu di cui ti ho parlato, vero?»
«Certo,
capitano. Lo scudo di vostro padre.»
«È
molto più resistente di quelli d’ordinanza.
Ascolta, Lelek, quando verrà la
Calamità, promettimi che lo userai per difenderti. So
già che sei coraggioso,
ma vorrei saperti protetto. Lo farai?»
C’è
una certa solennità nel tono di Lelek, tale che per un
istante smette quasi di
tremare, quando risponde: «Capitano, non
posso…»
«Prometti,
Lelek» insiste Link. «Che proteggerai Zelda, se
potrai, ma che soprattutto
starai attento. Lo prometti?»
«Promesso»
mormora Lelek. «Ma starete attento anche voi, allora. Lo
promettete?»
«Farò
del mio meglio» risponde Link, che della sua vita non
s’è curato mai troppo,
nelle battaglie passate, e non vuol fare promesse che non
può mantenere. Lo
abbraccia con difficoltà al di sopra
dell’armatura, dei mantelli, delle armi e
dello scudo: l’acciaio dell’elmo è
gelato e appannato dal freddo, ma Link vi
posa la fronte e lo guarda negli occhi. «Tu sei mio fratello
per tutta la vita,
Lelek. Te lo ricordi?»
«Me
lo ricordo» risponde Lelek a bassa voce. «E mi
accorgo anche che non avete
promesso, capitano. Per favore, per favore, state attento.»
Non
c’è tempo di dirsi altro. Tara scorta fuori di
casa Zelda sostenendola per le
braccia: la principessa è pallida in volto come se avesse la
febbre. Prima di
lasciarla, senza alcun rispetto per il suo rango regale né
per la sua
discendenza diretta dalla divinità, Tara la avvolge stretta
in uno scialle come
una lattante e le infila piume nei capelli, subissandola di
raccomandazioni. «È
in lana Rito, Altezza. Non toglietela per nessun motivo
finché non avrete
passato le montagne. Vi terrà un po’
più calda. Le nostre piume isolano un po’
dall’umidità… si disperde molto calore
dalla testa, sapete. Non toglietevele
finché non sarete dalle Gerudo.» Zelda
è commossa dalle sue tenerezze tanto da
non riuscir quasi a parlare, forse perché in vita sua non ne
ha ricevute quasi
mai. L’abbraccia solamente mordendosi le labbra per non
piangere.
Le
scortano fino ai loro cavalli, che sono rimasti all’ingresso
del Borgo,
custoditi dalle sentinelle di guardia. Kagan si profonde in
raccomandazioni per
tutta la strada, inutili, visto che due sentinelle Rito le scorteranno
fino al
valico e non torneranno indietro finché non si saranno
accertate che si siano
ricongiunte alla squadra; ma forse lo tranquillizza ugualmente sentire
di avere
la situazione sotto controllo. Dà loro vino caldo in otri
foderati che
dovrebbero mantenere la temperatura per almeno un paio d’ore,
poi prende le
mani di Zelda per salutarla. «Spero di rivedervi in tempi
più sereni, Altezza»
le dice stringendola appena. «Abbiate cura di voi. Ci
servirà tutta la vostra
forza nei giorni che verranno.»
Revali
si limita a inchinarsi brevemente in segno di saluto, ma non dice
niente. È
ancora arrabbiato per la questione della grazia: si discosta insieme a
Kagan di
qualche passo per lasciar modo a Link di salutarle.
Link
non ha idea di quando le rivedrà. Solleva Zelda per issarla
in sella: lei si
appoggia con le mani alle sue spalle. È quasi priva di peso.
«Perdonatemi»
dice Link a bassa voce: non sa neppure se stia parlando solo con Zelda
o con
entrambe, o con se stesso. «Non posso…»
«Lo
so già, Link» lo interrompe Zelda. Nella sua voce
c’è una grande dolcezza. «Ma
cerca di capire… non potevamo decidere noi per te. Dovevamo
lasciarti
scegliere.»
Zelda
non s’è mai aspettata che accettasse di tornare,
dunque. Link posa la mano sul
suo fianco, all’altezza della cintura: proprio come si
aspettava, sotto strati
di lana e di pellicce sente il bordo duro della tavoletta Sheikah.
«La tenete
sempre con voi questa, vero?»
«Sempre»
ripete Zelda.
Link
le prende il volto tra le mani perché non distolga gli occhi
dai suoi nemmeno
un istante. Zelda si fida di lui a tal punto che non fa nulla per
scostarsi.
«Quando verrà la Calamità, voi e Impa
raggiungete l’accampamento Rito sulle
montagne di Hebra a qualunque costo, ovunque vi troviate. Io e Revali
vi
troveremo lì. Non posso accettare la grazia, ma
farò comunque di tutto per
proteggere voi e Hyrule. Non lasciatela mai, neppure quando dormite. Me
lo
promettete?»
«Non
sei tenuto a farlo, Link» dice Zelda a bassa voce.
«Nessuno di noi lo merita.
Io e mio padre meno che mai.»
«Non
l’ho mai fatto per vostro padre» ribadisce Link.
«L’ho sempre fatto per Hyrule,
come voi. Vostro padre può essere cieco, ma non appena la
situazione lo
permetterà, scappate sulle montagne con la tavoletta e
aspettatemi lì. Io verrò
a cercarvi e vi troverò. Promettetemelo.»
Zelda
gli accarezza i capelli un’ultima volta, sorridendo appena
colle labbra
bianche. «Lo prometto.»
Quando
si scosta dal cavallo di Zelda, Impa lo abbraccia in fretta per un solo
istante
e mormora in un soffio contro il suo orecchio: «Hai fatto la
scelta giusta. Non
dovevi tornare a nessun costo»; poi sale a cavallo agilmente
senza neppure
dargli il tempo di rispondere e fa cenno alle guardie che sono pronte a
partire. Lelek si volta un’ultima volta a rivolgere loro un
cenno di saluto
mentre la loro piccola spedizione si avvia controvento verso le
montagne, sotto
la neve che cade sempre più fitta.
Link rimane con Kagan e Revali a osservarle
allontanarsi finché la prima curva le sottrae alla loro
vista; ma neppure
quando non le vedono più accennano a rientrare al borgo.
Rimangono lì per un
po’.
«Potete
andare a dormire» commenta infine Kagan, ma senza accennare a
distogliere lo
sguardo dalla strada. È preoccupato, Link glielo legge negli
occhi: ha paura
che non facciano in tempo a passare il valico prima che sia bloccato
dalla
neve. «Io resterò sveglio ancora qualche ora per
aspettare che le sentinelle
tornino ad avvisare che hanno scavallato il passo, ma non ha senso che
restiamo
tutti…»
«Da
quant’è che lo sai?» chiede Revali
improvvisamente. La sua domanda è talmente
imprevista e slegata dal contesto che Link stenta a capire di cosa
parli, e lo
stesso, a quanto pare, Kagan.
«Che
cosa?»
«Che
non dormiamo insieme.»
«Per
amore del cielo, Revali… era piuttosto implicito nel
concetto di finto matrimonio,
sai?» Kagan si volta e
si avvia lungo la strada del borgo senza neppure guardarlo.
«E comunque… me
l’hai appena confermato tu. Devi migliorare a riconoscere i
bluff, amico mio.
Ti facevo più svelto.»
Revali
lo segue furibondo. Link non ricorda di aver mai visto nessuno zittire
Revali
in modo così brutale. Non riesce a non pensare a Impa e
Zelda che arrancano a
cavallo nella neve, ma la sua stima per Kagan è appena
cresciuta in modo
vertiginoso.
Continua
a nevicare per tutto il giorno: anche in casa la temperatura si abbassa
radicalmente. Andare al Volodromo, oggi, è impossibile e
troppo pericoloso:
rimangono in casa. Revali lavora in silenzio ai suoi archi o alle sue
frecce o
a qualsiasi cosa stia facendo; Link sfoglia i libri che gli ha portato
Lelek
con mani gelate per quanto sia vicino al fuoco. Non sono tornati a
dormire,
dopo la brusca sveglia nella notte, malgrado Kagan abbia detto che li
farà
avvertire appena avrà novità: Link è
troppo preoccupato per Zelda. Non
riuscirebbe a dormire.
«Non
hai accettato la grazia, quindi» commenta Revali a un certo
punto, senza alzare
gli occhi dal suo lavoro. Ha l’aria di starci pensando da un
po’.
Il
fatto che voglia parlarne, per i suoi standard, è quasi
sorprendente; ma Link
non è disposto a essere l’unico a sbilanciarsi in
questo strano matrimonio.
Leva lo sguardo su di lui per un istante.
«Evidentemente»
risponde.
Revali
esita come se volesse aggiungere qualcosa, ma poi non dice
nient’altro; sorride
a malapena. Riprendono a lavorare in silenzio.
Kagan
viene di persona nel primo pomeriggio ad annunciare che i soldati che
hanno
accompagnato Impa e Zelda sono tornati: è andato tutto bene,
a quanto pare, e
sono riuscite a scavallare il valico montano con i soldati prima che
venisse
ostruito dalla neve. Link sente il petto gonfiarglisi di sollievo,
forse
scioccamente, perché la debolezza di Zelda, estenuata dalle
preghiere e dai
sacrifici, non è destinata a scomparire semplicemente
perché hanno oltrepassato
un valico montano; ma anch’essa fa parte di quelle cose sulle
quali non può
esercitare alcun controllo. Tutto quello che può fare
è ciò che ha fatto
toccando la tavoletta Sheikah che le pendeva dal fianco mentre la
issava in
sella: assicurarle che la difenderà sempre. Questo
è ciò cui si è ridotto tutto
il suo potere.
«Ti
sei scomodato apposta per venircelo a dire?» replica Revali
per tutta risposta.
«Da quando è compito del capovillaggio venire a
dare queste informazioni?»
«A
dire il vero, ero venuto anche a portarvi un paio di coperte e uno
scaldaletto
in più» risponde Kagan sollevando un involto
annodato con cura. Dalle sue
provocazioni sembra più divertito che offeso. «Non
è che, per caso, sei ancora
arrabbiato con me per la questione che so che non dormite
insieme?»
«E
tu non è che, per caso, non hai proprio intenzione di
pensare al tuo letto
piuttosto che al mio, vero?» ribatte Revali.
«Non
ci penserei proprio al tuo letto, se tu non lo rendessi un argomento
così
divertente.» Kagan si stringe nelle spalle prima di
rivolgersi a Link per
porgergli le coperte. Link si affretta ad alzarsi per prenderle dalle
sue mani.
«Io e mia moglie abbiamo pensato che potessi averne bisogno,
Link. Questa notte
la neve gelerà, e per te sarà davvero molto
freddo. Cerca di stare coperto,
siamo intesi?»
È
un gesto così semplice eppure gentile,
disinteressato, che Link non sa neppure come rispondere: guarda le
coperte
senza quasi saper che dire. «Grazie, Kagan. Voi non ne avrete
bisogno?»
Kagan
agita una mano come a voler minimizzare quel gesto. «Ah, non
preoccuparti. Per
il nostro matrimonio ci hanno regalato talmente tanta biancheria per la
casa
che non siamo mai neppure riusciti a utilizzarla tutta, e i bambini
sono già
infagottati come bachi nel bozzolo. Tu soffrirai il freddo molto
più di noi,
perciò preferiamo che le abbia tu.»
«Lascia
perdere, Link» dice freddamente Revali. «Kagan si
sta solo divertendo a
insinuare che io non ti tenga sufficientemente al caldo con un
raffinato
doppiosenso. Non merita i tuoi ringraziamenti.»
Link
si sente avvampare d’improvviso, ma Kagan scoppia a ridere di
una risata
schietta e risponde: «Giusto, giusto. Dimentico sempre che il
mondo gira
intorno a te, Revali. Link, ti garantisco che né io
né Tara abbiamo un così
cattivo gusto, qualunque cosa Revali ti abbia detto di noi. Cerca di
stare al
caldo, va bene?»
Kagan
non esagerava. La nevicata s’intensifica nel corso del
pomeriggio, il vento
ulula nella valle accumulando sui tetti spessi strati di neve che
inizia a
congelare non appena il sole si abbassa dietro le cime dei monti:
neppure
accanto al fuoco Link smette di tremare. Non ricorda d’aver
mai provato freddo
così: Revali lo osserva con preoccupazione. Non ironizza
più neppure sulle
coperte portate da Kagan. Va un po’ meglio subito dopo cena,
quando lo stufato
bollente lo scalda un po’; ma la temperatura continua a
calare. Link indossa
tutti gli abiti che possiede finché gli è
possibile accumularli gli uni sugli
altri; Revali attizza il fuoco continuamente, senza dir nulla, con aria
quasi
colpevole e impotente; non ha colpa di nulla, ma è vero che
su questo non può
esercitare alcun potere. Tira fuori vecchie coperte da angoli oscuri
della casa
e infila scaldaletto pieni di braci tra strati e strati di coperte
nell’amaca.
«Vai
a dormire» suggerisce infine, sul tardi, forse stanco di
vederlo tremare
incessantemente senza poter fare nulla per aiutarlo: «Forse
ti aiuterà a
scaldarti.»
Link
non ci crede molto, ma è troppo stanco dalla notte trascorsa
in bianco, e
troppo infreddolito, per discutere. S’infila a letto
sfilandosi solo pochi
strati di abiti per non avvertir troppo lo sbalzo termico domattina,
quando
uscirà dal nido di coperte; ma neppure lì riesce
a smettere di tremare. Si
appisola a tratti di un sonno irregolare da cui continua a svegliarsi
ogni
pochi minuti, tremando a tal punto che sente dolergli tutte le
giunture; il
freddo ha penetrato le sue ossa; si sente pieno di nausea.
D’un
tratto si sollevano le coperte, l’amaca s’inclina:
Link si desta del tutto
trattenendo il respiro nel buio. Revali scivola nell’amaca al
suo fianco,
circondandolo con le ali, piano, e mormora: «Solo per
stanotte. Per non farti
morire assiderato. Siamo intesi?»
Link
rimane immobile nel grande calore accogliente del suo petto.
«Non
devi farlo per forza» risponde a bassa voce.
«Lo
so» dice Revali. «Va tutto bene. Non ci pensare.
Dormi, ora.»
Link
si lascia sprofondare nel sonno senza più tremare,
sforzandosi di non porsi
domande delle quali non conosce la risposta.
La
mattina dopo, al risveglio, Link non apre gli occhi subito. Rimane
disteso
immobile nella semioscurità delle sue palpebre chiuse,
sforzandosi di
trattenere al loro interno la sensazione confusa della grande pace che
prova:
Revali è ancora disteso al suo fianco. Link non ha neppure
il coraggio di
aprire gli occhi, di verificare se dorma ancora oppure no: ha paura
che, se si
accorgesse che lui è sveglio, se ne andrebbe. Non sa
perché ne abbia paura.
Alla
fine è la sua rigidità, insieme forse alla
diversa qualità del suo respiro, a
informare Revali che è sveglio. Quando parla, la sua voce
è ancora impastata di
sonno.
«Che
c’è?»
«Mi
stai schiacciando una gamba» inventa Link senza guardarlo,
perché non ha il
coraggio di dire quello che pensa; forse neppure lo sa.
Revali
si sposta lentamente riequilibrando i loro corpi nell’incavo
dell’amaca. «Va
meglio?»
«Uhm»
risponde Link in tono vagamente affermativo.
«Bene.
Hai ancora freddo?»
«Un
po’» mente Link, aspettandosi di sentirsi in colpa
per quella bugia; ma il
senso di colpa, stranamente, non arriva.
«Dormi,
allora. La neve è ancora alta. Dobbiamo restare in casa
anche oggi.»
Revali
non accenna a togliere quell’ala dal suo petto. Link rimane
sveglio per un po’
a soppesarne il peso lieve nella sua mente, poi decide che, tutto
sommato,
Revali ha ragione: se non possono uscire, tanto vale rimettersi a
dormire.
Era
da tanto tempo che non dormiva fino a tardi. È molto
più dolce di quanto
ricordava.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Vigilia ***
Capitolo
X – Vigilia
Metti
la tua mano nella mia,
e
le nostre dita si stringano,
il
tuo collo sulla mia spalla,
e i
nostri cuori si ascoltino battere,
lascia
poggiare la tua fronte
e i
nostri sguardi si confondano.
Ma
non arriviamo fino al bacio
per
paura che l’amore ci distragga.
André Gide, I quaderni di André Walter
Va
un po’ meglio, ultimamente. Davvero. Anche se Link non
sarebbe in grado di
spiegare perché.
Il
giorno si allenano al Volodromo sfruttando le ore di luce, quando non
nevica
eccessivamente; talora persino con la pioggia: Link sguazza nel fango
che gli
arriva a mezza coscia, coi capelli bagnati appiccicati al viso come
serpenti
scuri annidati sulle sue guance, gli abiti fradici che gli aderiscono
addosso
mentre la pioggia gelata ruscella sulla sua schiena insinuandoglisi
lungo la
nuca e sulle clavicole; a parte il fango, Revali condivide il suo
stesso
destino di ghiaccio e di pioggia, così come con lui
condivide il pane e
l’acqua: a sera, quando tornano a casa, Revali non si
sconvolge neppure più per
la sua presunta nudità quando abbandona gli abiti infangati
sulla soglia prima
di entrare in casa.
Mantengono
il patto che hanno fatto: s’allenano alternando le armi di
giorno in giorno. I
giorni in cui Link si allena con l’arco, seguendo i consigli
di Revali, sono i
più pesanti, eppure gli sembra di percepire dei
miglioramenti, a poco a poco.
Riesce a sollevarsi in volo con la paravela sfruttando le correnti
d’aria,
quasi alla maniera dei Rito; quando si lascia cadere, riesce a prendere
la
mira, anche se per un solo colpo, prima di dover riaprire la paravela.
Quest’ultimo passaggio è il più
difficile, ovviamente: la maggior parte delle
volte finisce per rotolare a terra all’interno della voragine
al centro del
Volodromo. Riesce a risalire solo aprendo di nuovo la paravela,
perché la buca
è troppo profonda per arrampicarsi lungo le pareti. La sua
mira però è
migliorata: Revali ha frugato in casa per un po’, mettendo a
soqquadro casse
che avevano l’aria di non venire aperte da una decina
d’anni, nei giorni in cui
erano bloccati dalla neve, e ha tirato fuori alcuni vecchi archi di
varie forme
e dimensioni. Glieli ha fatti provare uno alla volta: la prima volta
Link ha
alzato lo sguardo su di lui con aria interrogativa.
«Abbiamo
appurato che era il tuo arco a far schifo, il che è un bene,
visto che è più
facile cambiare l’arco che l’arciere» ha
detto Revali alzando le spalle.
«Proviamo a cambiare l’arco, quindi. Questi li ho
costruiti quando non ero
molto più alto di te, perciò facciamoli andar
bene per allenarti finché non
avremo trovato una soluzione definitiva.»
«Proviamo»
ha risposto Link poco convinto, perché i patti sono chiari:
nei giorni in cui
segue il suo allenamento, deve dar retta a Revali.
S’è rigirato tra le mani
quegli archi per giorni, uno per volta, quasi per il puro gusto di
sperimentarli: sono adatti a essere usati in volo, sono più
flessibili e più
rapidi di quelli che ha sempre usato nell’esercito Hylia.
S’accorge di scoccare
molto più rapidamente quando li usa.
Revali
osserva i suoi progressi con
soddisfazione, in gran parte perché, ovviamente, li reputa
come progressi
conseguiti da se stesso, dalla sua arte e dalla sua tecnica contro la
natura
degli Hylia. Link non glielo dirà mai, ma sa essere un buon
insegnante, quando
vuole; è importante che non lo sappia, però,
perché a questo dannato Rito non
occorre altro che un altro motivo per andar fiero di se stesso; e Link
non
intende esser quello che glielo fornirà.
A
sera, dormono insieme. Non ne parlano neppure più.
«Hai
freddo?» gli ha chiesto Revali soltanto, le prime sere,
quando la neve
ghiacciata ostruiva la porta e le finestre e persino il fuoco pareva
congelare
nell’aria troppo fredda della notte di Hebra.
«Certo
che ho freddo» rispondeva Link immancabilmente, tremando
mentre sistemava
scaldaletto bollenti nell’amaca; Revali non ha mai risposto,
ma ogni notte s’è
infilato piano al suo fianco, sotto le coperte, lo ha circondato con le
ali, e
ha taciuto nervosamente aspettando che s’addormentasse. Dopo
un po’ di notti
non ha chiesto più. Il suo corpo è caldo come
brace, e Link si sorprende a
cercarlo accanto a sé nelle notti infinite di Hebra.
«Ho
notato che Revali non si alza più così presto per
andare al Volodromo» gli dice
Kagan, quasi distrattamente, un giorno che viene a trovarli in mezzo
alla neve
per accertarsi che sia tutto a posto: a quanto pare, tutto il borgo
è
preoccupato che lui patisca troppo il freddo di Hebra. «Non
si sente bene?»
Poiché
la sua domanda era tendenziosa, Link esita prima di rispondere.
«Mi stai
davvero chiedendo della sua salute?»
«Ovviamente
no» risponde Kagan. «Devo supporre che sia cambiato
qualcosa, quindi?»
Link
si accerta che Revali non sia da nessuna parte a portata
d’orecchio, prima di
rispondere; in verità è soltanto a pochi metri di
distanza, nella stanza da
bagno, ma può correre il rischio ugualmente. Per
precauzione, comunque, si
premura di parlare molto piano. «Dormiamo insieme,
ora.»
Kagan
attende che a queste parole ne seguano altre per un po’.
Poiché altre,
tuttavia, non ne seguono, è costretto a domandare le
informazioni che non è in
grado di inferire da queste parole solamente. «Avete fatto
anche altro, oltre a
dormire?»
Link
non ha mai saputo fino a questo momento di poter arrossire fino alle
orecchie, comprese le orecchie, cioè:
a questa
domanda si rifiuta di rispondere, a dire il vero non riesce a credere
neppure
che gliel’abbia posta, e distoglie lo sguardo facendo finta
di non aver sentito
nessuna domanda e di non poter conseguentemente formulare alcuna
risposta.
Kagan osserva la sua reazione con occhio esperto, cercando di
stabilirne
l’origine esattamente come un medico farebbe con una serie di
sintomi nella
speranza che gli illustrino la natura della malattia.
«No,
direi di no» è la conclusione cui giunge. A Link
non è dato sapere come ci sia
arrivato, ma, a maggior ragione perché è la
verità, non deve né intende
correggerlo in alcun modo. «Ma va bene, sai, Link, davvero.
Alcuni direbbero
che dormire insieme è per certi versi ancora più
intimo che fare l’amore,
perché…»
«Kagan»
sbotta Link quasi senza fiato, convinto che la faccia non possa
bruciargli più
di così. «Potevi anche fermarti quando hai detto
che andava bene. Non importava
la spiegazione.»
«Che
c’è? Mica ti vergognerai» ribatte Kagan
sorridendo amabilmente di un sorriso
spietato. «Comunque, non sei tornato a parlarmi, dopo quel
giorno. Sei riuscito
a fare un po’ di chiarezza dentro di te?»
Link
tiene nervosamente d’occhio la porta da cui teme di vedere
spuntare Revali da
un momento all’altro. «Non lo so, in
realtà. È solo che…»
Kagan
lo incalza dolcemente dopo qualche istante. Tutta la sua ironia
scompare, in
questi momenti. «Solo che?»
Link
non è ben sicuro di sapere come esprimerlo. «Che
ora va tutto così bene, Kagan.
Ho paura di cambiare le cose.»
Con
sua grande sorpresa, e a dispetto di tutta la sua scarsa eloquenza e
del suo
ostinato rifiuto di dar voce ai suoi sentimenti in modo più
chiaro di così,
Kagan riesce a comprendere dalle sue parole molto più di
quanto dicano
effettivamente. «Sei felice così,
quindi.»
Felice?
Link si sorprende a soppesare quella parola tra sé nei
momenti di veglia, con
Revali che dorme di fianco a lui: non aveva mai pensato di poter essere
felice.
È un pensiero così profondamente avvilente che la
sua mente si rifiuta talora
di soffermarvisi troppo a lungo, come al ricordo di
un’ingiustizia: non gli è
stato mai detto che poteva pensare a esser felice, in passato. Hyrule
è stata
al primo posto nei suoi pensieri sempre, per tutta la sua vita
cosciente, e
Hyrule ha assunto tante forme collaterali, nella sua mente, a misura
che il
tempo e le necessità passavano e cambiavano, come diverse
forme assunte dalla
medesima divinità: talora era la Spada, talora era Zelda;
Hyrule è rimasta,
certo, perché a Hyrule Link sente che non potrebbe negare
neppure la sua stessa
vita, quando il momento della Calamità verrà; ma
quelle diverse incarnazioni
assunte dal suo dovere sono sparite, ora. Ora che né i
teologi né le leggende
parlano più al suo orecchio incessantemente, ricordandogli
in ogni momento chi è
e chi dovrebbe essere, e a chi e a che cosa devono andare tutta la sua
lealtà e
il suo amore, e che Zelda non è più
l’unico punto costante al centro
dell’orizzonte verso cui convergono tutti i suoi pensieri,
Link si sorprende a
chiedersi davvero se potrebbe esser qualcosa di diverso mai
dall’eroe che
brandisce la Spada che esorcizza il male; e gli viene da domandarsi se
anche
Revali potrebbe essere qualcosa di diverso dall’orgoglio dei
Rito.
Sono
pensieri stupidi, si dice con rabbia la mattina al risveglio, quando la
necessità degli allenamenti lo incalza ogni giorno di
più, perché ogni giorno
di più li avvicina al compleanno di Zelda e al ritorno della
Calamità; non ha
senso neppure pensarci, perché la Calamità
è un termine di tempo al di là del
quale egli neppure riesce a proiettare se stesso. Se
fallirà, se Hyrule
soccomberà al male, non esisterà neppure
più uno spazio all’interno del quale
poter pensare a qualcosa di diverso: i ricordi del piccolo guardiano lo
hanno
mostrato anche troppo bene. Si trova a vivere in un tempo nel quale
ogni
egoismo non è solo impossibile, ma è persino
inutile: va bene così, per il
momento. Tutto sommato è una fortuna che in vita sua non
abbia avuto occasione d’essere
egoista mai.
Verso
la fine dell’inverno Kagan li convoca entrambi a casa sua:
è una convocazione
ufficiale in modo inusuale per qualcuno che di solito si presenta a
casa loro
non invitato a ironizzare sulle loro abitudini notturne. Ci vanno di
primo
mattino, prima ancora di andare al Volodromo, aspettandosi
chissà cosa: in
verità, è solo una lettera. Kagan,
però, è insolitamente grave.
«Il
re di Hyrule ha scritto per chiedere ai Campioni di prendere posto sui
rispettivi colossi sacri prima del diciassettesimo compleanno di
Zelda» dice.
Nella sua voce Link non ricorda d’aver mai sentito tanta
serietà. Porge loro la
lettera senza dirigerla verso nessuno dei due in particolare: dato che
Revali
non accenna a tendere le braccia che ha incrociato sul petto, Link la
prende al
suo posto e la scorre rapidamente. È una lettera formale, in
carta intestata,
col sigillo di ceralacca e tutto quanto. «Mancano quasi tre
mesi, ma penso sia
opportuno rispondere subito. Non posso decidere per voi, ma
risponderò solo
quello che mi direte.»
«Hai
detto a Zelda che avremmo mantenuto la parola data» gli fa
notare Revali.
«Certo.
Prima che lei m’informasse che il re intende offendere un mio
concittadino
offrendogli la grazia per un reato per cui non può essere
condannato non
avendolo mai commesso» risponde Kagan. «Da un punto
di vista diplomatico, ce
n’è più che a sufficienza per ritirare
il nostro appoggio alla Corona. Non
intendo obbligarvi a fare niente: io scriverò solo quello
che voi mi direte di
scrivere. La scelta spetta solo a voi.»
«La
lettera non parla del ruolo di Link?» domanda Revali.
Kagan
scuote il capo. «No. L’ho letta più
volte e non fa neppure un accenno al ruolo
di Link in tutto ciò: sembra quasi che il re abbia voluto
rimuovere totalmente
ogni riferimento a te o alla tua Spada dall’intera strategia
militare che era
stata concordata in origine, il che è folle. Questo ti
lascia comunque la piena
scelta su come agire, Link» aggiunge guardando verso di lui.
«Noi
difenderemo Hyrule» risponde Link macchinalmente rendendogli
la lettera. Si
accorge solo in quell’istante di aver parlato al plurale: si
volta d’istinto
verso Revali per fare almeno un cenno di scusa nei suoi confronti, ma
Revali
annuisce per sottolineare le sue parole senza neppure guardarlo. In fin
dei
conti, tutto era stato deciso già molto tempo prima che
Kagan li convocasse
qui: ma quando torna a guardare verso il capovillaggio, Link si
stupisce di
vederlo appena un po’ più triste di prima. Forse
sperava che la loro risposta
sarebbe stata diversa; che avrebbe potuto risparmiare a se stesso di
mandarli a
combattere e a morire. Ma anche Kagan, esattamente come loro seppure in
modo
diverso, deve fare quello che bisogna: e bisogna che anche lui difenda
la sua
gente. Riprende la lettera in silenzio.
«Questo
comporta che vi dividerete, quindi» dice a bassa voce senza
rivolgersi a
nessuno di loro in particolare. La sua voce suona immensamente triste.
«Ve ne
rendete conto, sì?»
«Quanto
ti dobbiamo per questa lezione di tattica militare per
principianti?» sbotta
Revali alzandosi per andarsene. Kagan rimane in silenzio senza
rispondere al
suo sarcasmo, forse per la prima volta da quando Link lo conosce. La
durezza
improvvisa nella voce di Revali dice chiaramente che fino a quel
momento non ci
aveva pensato, o aveva evitato di pensarci, ma è la
verità: Link è un soldato
di fanteria. Con la Spada che esorcizza il male, con il ruolo che,
indipendentemente dal re e dai generali, è destinato ad
avere nella guerra che
verrà, non può combattere che a terra: il giorno
in cui Revali dovrà salire su
Medoh, si divideranno. Era per questo che Kagan avrebbe voluto che
dicessero di
no.
Quel
giorno al Volodromo Revali è una furia: non gli rivolge
neppure la parola. Link
incassa le sue frecce schermandosi dietro lo scudo più
preoccupato per lui che
per se stesso, senza saper che dire: vorrebbe trovare parole per
parlare alla
sua rabbia, ma non sa neppure di cosa sia fatta questa sua rabbia o
verso chi
sia rivolta: se sia arrabbiato con Kagan o col re, con la
Calamità o con se
stesso. Lo lascia stare. Non si fermano neppure per riposare
né per mangiare
qualcosa, oggi: solo nel pomeriggio, quando le nuvole cominciano ad
accendersi
di colori infuocati e i loro volti a divenire liquide pozze
indistinguibili nel
calare del sole, sembra rendersi conto di quante ore sono trascorse.
«Scusami»
dice solamente. È la prima volta in vita sua che Link lo
sente chieder scusa
per qualcosa in un modo che non sia ironico, e la cosa rischia di
provocargli
un piccolo arresto cardiaco. «Ero sovrappensiero. Andiamo a
casa.»
Non
tornano sull’argomento neppure dopo cena: a quello che ha
detto Kagan non c’è
niente da aggiungere. Non ne parlano più; Revali lavora al
suo arco solo un po’
più a lungo del solito, dopo cena, ma, quando il fuoco nel
braciere inizia ad
affievolirsi, s’infila sotto le coperte e lo circonda
delicatamente con le
larghe ali calde come sempre. Link, che ha smesso di tremare da qualche
settimana, non ha nulla da obiettare. Il giorno dopo non ci pensano
più.
Continuano
ad allenarsi. Link si sente più sicuro di sé ogni
giorno che passa: lascia
andare la paravela quasi per istinto prima di scoccare, senza neppure
riflettere; i bersagli paiono delinearsi di fronte ai suoi occhi in un
rallentamento del tempo che esiste solo per lui, la sua mano si muove
rapida
come il suo sguardo; cade ancora, ovviamente, di tanto in tanto, quando
non è
svelto abbastanza da riaprire la paravela al volo subito dopo aver
scoccato, ma
molto meno. Revali non dice nulla, ma neppure critica: osserva
soltanto, e, di
tanto in tanto, dà ancora qualche indicazione, ma sempre
meno via via che
passano i giorni. Un giorno scende persino nella voragine, dopo una
caduta
improvvisa, forse per controllare che non si sia fatto troppo male:
è la prima
volta che lo fa da quando si allenano. Link ne rimane tanto sorpreso
che
scoppia a ridere.
«Ti
sei reso conto soltanto oggi che rischi di uccidermi?» chiede
mentre si sfila
la paravela dalle braccia per controllare i danni. Non è
nulla di troppo grave:
solo una lunga scorticatura lungo il braccio sinistro, dal gomito alla
spalla,
dove ha strisciato contro la viva roccia mentre cadeva. Ci ha rimesso
giusto un
po’ di pelle. S’è fatto di peggio.
«Fammi
vedere» dice Revali. Sentendosi un po’ a disagio,
Link si sfila la tunica e gli
porge il braccio. Revali osserva con occhio esperto i lunghi graffi
sottili che
percorrono la pelle spurgando sangue e siero. «Ti sei
sbucciato come un
bambino. Brucerà un po’ quando farai il
bagno.»
«Sopravvivrò»
borbotta Link un po’ imbarazzato, sfilando con delicatezza il
braccio dalle sue
mani. Revali sorride appena.
«È
capitato anche a me di cadere, qualche volta, sai?»
È
la prima volta che Revali ammette di fronte a lui di essere fallibile.
Link lo
guarda un po’ sorpreso nella penombra delle pareti di roccia.
«Mentre mettevi a
punto le tue tecniche?»
«Sì.»
«E
non hai pensato che potrei usare quest’informazione contro di
te, adesso che la
conosco?»
Revali
aggrotta la fronte sorridendo. «Per esempio come?»
«Non
so… potrei ricattarti» propone Link.
«Potrei raccontare in giro che il grande
Revali, una volta, è caduto. Oppure potrei rinfacciartelo
tutte le volte che
cado durante gli allenamenti.»
«Piccolo
Hylia ingrato» ribatte Revali ridendo mentre gli porge una
mano per aiutarlo ad
alzarsi. «Stavo per chiederti se pensi di farcela a uscire di
qui da solo, ma
ho appena cambiato idea. Se non ce la fai, penso che ti
lascerò qui.»
Link
prova a sollevare cautamente la paravela per accertarsi che le braccia
possano
reggere il suo peso. La spalla gli duole un po’, ma nulla
d’insopportabile. «Ti
è andata male, allora. Ti toccherà dormire con me
anche stasera.»
È
la prima volta che parlano ad alta voce del fatto che ormai dormono
insieme, ma
anche quel riferimento, come ogni altro accenno a qualsiasi cosa in
grado di
metterli in imbarazzo, passa sotto silenzio.
«Sopravvivrò»
gli fa il verso Revali. «Comunque, stai migliorando, sai. Mi
spiace non poterti
insegnare a volare.»
L’ha
detto così, senza pensare né riflettere; forse
non intendeva dire nient’altro
che questo, che se sapesse volare sarebbe in grado di fare tutto quello
che fa
lui, che non si sarebbe ferito cadendo; eppure le sue parole risuonano
di una
strana confortevole intimità, come se Revali avesse voluto
metterlo a parte di
quell’ultima parte della sua vita, il volo, che finora
è appartenuta solo a
lui.
«Mi
piacerebbe» risponde guardandolo negli occhi. Per una volta
Revali non
distoglie lo sguardo.
La
notte fa sempre più caldo. Rimuovono i pannelli isolanti
dalle finestre, le
coprono solo di tendaggi sovrapposti: l’aria di primavera
s’è fatta tiepida, il
vento notturno profuma d’erba tagliata e di polline. Link
ormai non indossa più
strati su strati per dormire: una notte si sveglia nel buio sentendosi
soffocare, sudato, e senza riflettere si rigira nell’amaca,
si sfila la tunica
e si rimette a dormire. Quando apre gli occhi al mattino si rende conto
con
orrore d’essere a petto nudo; guarda Revali attendendosi una
sua reazione, ma
Revali non se n’è neppure accorto: le sue piume
sfiorano la sua pelle nuda, gli
solleticano l’ombelico, eppure questo dannato Rito che
provava vergogna alla
sola idea della sua nudità persino quand’era
coperto fino al collo non ci bada
neppure. Link rimane sveglio a guardare il soffitto finché
Revali non si
sveglia.
Al
toccare la sua pelle nuda, Revali chiede soltanto: «Hai avuto
caldo, stanotte?»
Hanno
evitato di parlarne per settimane, nascondendosi dietro la scusa del
freddo e
della neve; ma mentirsi, ora, non è più
possibile. «Un po’.»
«Bene»
risponde Revali alzandosi. «Allora ricordiamoci di togliere
un paio di coperte,
quando torniamo.»
Non
era propriamente la risposta che Link si era aspettato, ma non
è sua intenzione
obiettare. Quella sera si limitano a sfilare un paio di coperte
dall’amaca e
non sollevano più l’argomento.
A
misura che l’aria si riscalda, il tempo gocciola via dalle
loro mani come
acqua. Link vorrebbe poter chiudere le mani, trattenerlo; ma anche se
lo
facesse, proprio come acqua, scivolerebbe via ugualmente. Talora
vorrebbe
voltarsi, e guardando indietro vedere dov’è che il
tempo è fuggito, ma anche
voltandosi non lo troverebbe: neppure di questo parlano mai.
Alla
fine lo sapevano che questo momento sarebbe arrivato. I Campioni
saliranno sui
colossi sacri per metterli in posizione prima del ritorno della
Calamità al
fare dell’alba, proprio come ha ordinato il re: è
come la notte che precede una
battaglia, eppure mai Link s’è sentito
così inquieto. Forse è perché domani
non
lo aspetta la lotta: quando Revali salirà su Medoh, a lui
non resterà altro che
restare sulla terraferma e attendere, attendere. Non può
fare nient’altro. La
prospettiva dell’attesa lo spossa più di quella
del combattimento: d’un tratto
gli pare d’essere tornato in carcere; di vedere i movimenti
di Revali, e forse
anche i suoi, come attraverso uno strato d’acqua che li
separa. Vorrebbe saper
dire qualcosa, ma gli mancano le parole: osserva Revali in silenzio per
tutto
il giorno. Se la cosa lo infastidisce o lo mette a disagio, quantomeno
oggi
Revali è così paziente da non darlo a vedere.
Non
sono andati al Volodromo, oggi: Revali è preso dai
preparativi. Si reca a casa
loro un pellegrinaggio di Rito pronti a salutarlo: portano regali,
frutta,
coperte, qualunque cosa pensino che possa accompagnarlo sul colosso.
Revali li
ringrazia con la sicurezza fiera, un po’ sfrontata, di
sempre: se ha paura, non
la dimostra.
Rimangono
soli soltanto a sera. Link prepara qualcosa da mangiare, ma non ha
fame: si
sente nauseato, angosciato, e gli chiude lo stomaco una morsa come una
grande
mano che lo stringe.
«Siediti
con me, per favore» dice Revali d’un tratto.
È
seduto vicino al fuoco, col suo arco in grembo. Sentendosi il cuore
martellare
in gola più forte di quanto l’abbia sentito mai,
Link obbedisce senza sapere
perché: si siede in silenzio di fronte a lui. Revali
l’osserva per un poco.
«Ti
ricordi, un po’ di tempo fa, quella volta che ti sei stupito
perché ho iniziato
a preparare un nuovo arco subito dopo aver finito il mio?»
Link
ne ha un ricordo vago, a dire il vero, però ce
l’ha: gli torna in mente d’un
tratto, ora che glielo chiede. È stato il giorno dopo il
matrimonio di Avaris:
quel giorno Revali gli ha concesso l’enorme onore, quantomeno
nella sua mente,
di provare l’arco Aquila. Annuisce senza parlare.
«Bene»
riprende Revali dopo un momento. Sembra un po’ impacciato.
«Non te ne ho mai
parlato perché non ero sicuro di fare in tempo a finirlo,
prima di… comunque,
ecco qui. Visto che il tuo arco faceva schifo, te ne ho fatto uno io.
Tieni.
Consideralo un regalo d’anniversario un po’ in
ritardo.»
Link
fissa l’arco che Revali gli porge senza capire: quello
è il suo arco Aquila.
Revali non ha mai permesso a nessuno neppure di toccare – no.
Un momento. Quello
non è il suo arco: è
più piccolo. Link non riesce a credere di aver
osservato Revali lavorarci per tutto l’inverno e di non
essersene mai accorto:
quello è a tutti gli effetti un arco Aquila, ma
dell’esatta misura per un
cavaliere Hylia.
«Non
posso accettare» riesce a dire soltanto quando ritrova voce.
Gli
occhi di Revali si illuminano dello spettro di una risata.
«Sapevo che
l’avresti detto. Per curiosità, perché
no?»
Perché
è troppo, vorrebbe dire Link se
solo gli venissero in mente le parole; perché
è l’arco del tuo genio e della
tua fierezza, che nessuno a parte te è in grado di
maneggiare, neppure tra i
Rito. Invece, frugando nel vuoto che in questo momento
pervade la sua
mente, dice la cosa più stupida del mondo:
«Perché io non ti ho fatto un regalo
per l’anniversario.»
«Avevo
già previsto che saremmo stati una di quelle coppie
sbilanciate in cui uno dei due
fa tutto il lavoro per tenere in piedi la relazione» risponde
Revali. «Cosa
che, in effetti, siamo sempre stati davvero. Ci sono altre motivazioni,
oltre a
questa sciocchezza che ti farò il piacere di considerare una
forma di delirio?»
A
questo punto Link ha ripreso contezza di sé a sufficienza da
riuscire ad
articolare una risposta coerente e quasi ragionevole.
«Revali… è un onore
troppo grande. Non posso accettare.»
«Lo
so che è un onore troppo grande per te: l’ho fatto
io.» Questa volta Revali
sorride senza più ironia. «Link,
ascolta… avremo bisogno di tutte le armi a
nostra disposizione contro la Calamità. Ti ho allenato
perché tu fossi in grado
di utilizzare questo arco, perciò prendilo. Sarò
più tranquillo sapendo che
l’avrai con te quando non sarò qui per
proteggerti.»
Link
lo prende con delicatezza senza sapere cosa dire. Ora che lo tiene in
mano gli
sembra impossibile non essersi reso conto in tutti questi mesi che era
della
misura esatta per le sue braccia, per la sua statura: si sente
profondamente
sciocco per non averlo realizzato prima. Se lo rigira tra le mani senza
parole.
Revali osserva i suoi movimenti con soddisfazione.
«Lo
so, lo so. È più di quanto potrai mai fare per
me, eccetera. Risparmiamoci i
soliti discorsi, d’accordo?»
«I
ringraziamenti rientrano nei soliti discorsi?»
s’informa Link levando gli occhi
su di lui.
Revali
esita un momento. «Quelli sono consentiti, direi. Ma non
esagerare.»
Prima
che Link faccia in tempo ad aggiungere qualsiasi cosa, sentono bussare
piano
contro lo stipite della porta aperta nell’ultimo sole del
tramonto. Quando si
voltano, Kagan è affacciato sull’uscio. Ha
l’aria stanca, vagamente
imbarazzata, e profondamente triste. Link non ricorda
d’averlo mai visto così.
«Ehi»
dice. «Sono ancora in tempo per salutare l’orgoglio
dei Rito?»
Revali
si alza per andargli incontro e gli fa cenno di entrare, ma Kagan
avanza di un
passo soltanto e rivolge a Link appena un cenno di saluto. Si stringe
Revali al
petto come la prima volta che Link lo ha visto, quella sera in cui li
ha
accolti al borgo, ma stavolta mormora con voce rotta: «Per
favore, non andare.»
«Ehi»
lo riprende Revali a bassa voce, senza districarsi dal suo abbraccio.
«Mica
avrai paura, capo?»
«Sì»
risponde Kagan senza mezzi termini. «Ho paura di non
rivederti più. Volevi
proprio sentirmelo dire, eh?»
«Forse
sì» dice Revali. L’ironia nella sua
voce, per una volta, suona un po’ forzata.
«Dobbiamo fare quello che bisogna, Kagan. Tu sei il capo.
Devi mostrarti
coraggioso.»
«Ma
davanti a voi non ce n’è bisogno.» Kagan
si passa una mano sugli occhi per un
momento. «In questi momenti penso che non avrei dovuto
accettare di diventare
capovillaggio, sai. Avresti dovuto accettare tu quando te lo hanno
proposto.
Saresti stato molto più adatto di me. Se dipendesse da me,
non ti manderei mai
a rischiare la vita su Vah Medoh.»
«E
tu che avresti fatto allora? Il campione dei Rito? Non riusciresti a
colpire una roccia ferma
con una freccia.» Revali riesce quasi a strappargli una
risata. «Abbiamo fatto
entrambi quello che ci riusciva meglio, Kagan. E poi, abbiamo avuto
capi
peggiori di te. Ora non me li ricordo, ma…»
«Ora
mi sento meglio» lo interrompe Kagan. «Tutto
sommato, riesci a essere così
antipatico che quasi non mi dispiace più lasciarti
andare.»
Revali
sorride come per una vittoria conseguita; poi, a voce appena
più bassa,
riprende: «Siamo sempre d’accordo per quelle
questioni, sì?»
Kagan
gli fa cenno di sì col capo. «Certo che siamo
d’accordo. Non sono mica
cretino.»
«Questo
è da vedere» risponde Revali. Lo stringe a
sé ancora per qualche istante. «Ti
fermi a cena con noi?»
«Meglio
che vada a dar da mangiare ai miei due bricconi» risponde
Kagan. La voce gli
trema ancora un poco. «Link, vieni da noi, domani? Possiamo
aspettare insieme.»
Domani
non ci sarà nulla da aspettare: se i calcoli di Pruna sono
esatti, mancano
ancora due giorni al risveglio della Calamità, e domani
sarà solo un giorno
come un altro, interminabile; ma proprio per questo Kagan lo sta
invitando a
non trascorrerlo da solo a chiedersi che cosa debba accadere.
«Grazie,
Kagan» risponde Link. Ha il cuore pieno di gratitudine,
perché Kagan sta
cercando di aiutarlo in ogni modo in cui gli è possibile
farlo: e se non ha
altro da offrirgli che la sua casa e i suoi figli vivaci e rumorosi,
allora è
quello che gli offrirà. «Verrò non
appena Revali sarà partito.»
«Bene.
Quand’è così,
allora…» Kagan non si decide a uscire. Guarda
Revali ancora e
ancora, come se potesse convincerlo a cambiare idea e a restare con la
sola
forza del suo sguardo: ma Revali è un guerriero che ha
votato tutto se stesso a
difendere la sua gente sempre.
Posando
una mano sulla sua spalla, Revali dice: «Ci vediamo quando
tutto questo sarà
finito, Kagan. Te lo prometto. Bacia i tuoi spiumatelli da parte mia e
di’ a
quello grande che quando torno gli insegno a volare.»
Kagan
fa per dire qualcosa per salutarlo, ma non trova parole. Si sforza di
accennare
un sorriso che non si allarga ai suoi occhi prima di uscire.
Nessuno
dei due riesce a dormire, questa notte. D’improvviso
è come se l’amaca si fosse
fatta stretta e scomoda: Link si sente consapevole di ogni frazione
dello
spazio in cui i loro corpi si toccano, di ogni minuto che trascorre.
Vorrebbe
che fosse in suo potere accrescere il tempo e lo spazio: vorrebbe che
non
tornasse la Calamità, che Revali non dovesse salire su Medoh
mai. Vorrebbe
prorogare questo tempo infinitamente, trattenerlo; vorrebbe tenere
Revali qui
per sempre, dove può vederlo. Non sa cosa accadrà
domani, tra un giorno, un
mese; ma in questa notte in cui ancora le braci scricchiolano le une
contro le
altre, gli par quasi di poter tenere la Calamità lontana in
eterno.
«Dormi?»
sussurra Revali nel buio.
Per
una volta non suona come un ordine. «No. Neanche tu, mi
sembra.»
«Bene.
Link… ho tre cose da chiederti per domani. Tre favori, se
vogliamo chiamarli
così.»
Link
sente se stesso deglutire dolorosamente
nell’oscurità. «Ti ascolto.»
«D’accordo.
La prima… non venire a vedermi partire, domani.
Sarà più facile se ci salutiamo
adesso.»
Revali
vuole partire da solo. Link riesce quasi a vederlo di fronte a
sé, nello
squallore livido delle prime luci dell’alba, completamente
solo. Non pensava
che questa richiesta gli avrebbe fatto tanto male: è come se
Revali volesse
tenerlo lontano da sé, recluderlo da qualche parte dove la
sua presenza non
possa toccarlo; ma è lui che deve partire, dopotutto. Su di
lui, su quel
preciso momento della sua vita, Link sa di non poter accampare alcun
diritto.
«Ne
sei sicuro?»
«Sì,
Link. Ci ho pensato. Non rendiamo le cose più patetiche di
quanto già non
siano.»
«Va
bene» risponde Link; ma si sente la bocca improvvisamente
molto asciutta. È
lieto che Revali non possa vederlo in questo momento. «La
seconda?»
«Giusto.
La seconda. Link, se io, per qualsiasi motivo, non fossi in grado di
scendere
da Medoh…» Se io morissi, vuol dire Revali: è la prima volta che
Link gli sente ammettere d’essere mortale. La cosa lo
spaventa più di quanto
sia in grado di dire a parole, perché significa che
è la prima volta che ce n’è
bisogno. «Per favore, fai evacuare la mia gente. Kagan
è un bravo capo, ma sarà
solo e tutti saranno in preda al panico. Il borgo è pieno di
bambini che ancora
non sanno volare. Avrà bisogno di qualcuno che gli dia una
mano. In fondo ti
hanno accolto come hanno potuto…»
«Revali»
lo interrompe Link. «Perché pensi di
dovermi convincere?»
Revali tace a
lungo. «Hai ragione. Non è molto
giusto nei tuoi confronti. È solo che…»
«È
anche la mia gente, adesso» gli fa notare Link a
bassa voce.
Per un
po’ Revali non sa come rispondere a
quest’osservazione.
«Sì»
dice dopo un poco. «Non l’avevo mai vista
così. La nostra gente.»
«E la
terza cosa?» chiede Link per cambiare
argomento. Sente un groppo formarglisi in gola, minacciare di farlo
piangere;
ma non può permetterselo adesso.
«Non
è proprio un favore, in realtà. È
più una cosa
che devi sapere. Il mio testamento ce l’ha Kagan. Tu sei il
mio unico erede,
naturalmente, e non è che io possieda chissà
quali beni… ma ho ritenuto più
prudente scriverlo comunque. Non si sa mai. Qualunque cosa accada,
quando a
situazione si sarà stabilizzata, ti spiegherà
tutto lui e si prenderà cura di
te, se ce ne sarà bisogno.»
Questo
è talmente inaspettato, incredibile, che
Link neppure sa come rispondere. Si tira a sedere incredulo
sull’amaca, in
silenzio, e rimane immobile a considerare quelle parole.
«Sai
cos’è un testamento, vero?» domanda
Revali
dopo un po’, in assenza di una risposta più
precisa da parte sua.
«Certo
che lo so» ribatte Link duramente.
La freddezza
improvvisa della sua voce lo sconcerta
solo un momento. «Bene. Allora di certo capirai
perché bisognava che tu lo
sapessi.»
«Revali»
esclama Link. «Vuoi per favore smetterla
di parlare come se tu da Medoh non dovessi mai più
uscire?»
«Perché?»
ribatte Revali. «Tu di morire non l’hai
pensato mai?»
Link torna a
distendersi lentamente al suo fianco.
Certo che ci ha pensato alla morte: è il futuro dopo di lui,
dopo la sua morte,
che non ha mai preso in considerazione. Di tornare vivo da una
battaglia non
l’ha dato mai per scontato, ha visto morire troppi uomini; ma
non si è mai
chiesto cosa sarebbe accaduto dopo di lui. Neppure quando
l’hanno condannato a
morte ha pensato a qualcosa di concreto, tangibile, reale come un
testamento; e
d’improvviso gli sembra d’esser stato molto miope e
molto sciocco.
Tutto preso da
questi pensieri, non risponde;
allora Revali parla ancora. «A questo proposito,
Link… c’è un’altra cosa. Non
te l’avrei detta se non avessimo sollevato
l’argomento, ma…»
«Che
cosa c’è?» chiede Link a bassa voce,
senza
aspettarsi altro.
«Se io
dovessi morire, e tu volessi risposarti… non
sposare Derdran. È l’unica cosa che ti
chiedo.»
Link impiega un
tempo assurdamente lungo a
realizzare che stavolta Revali lo sta prendendo in giro. Gli scaraventa
addosso
un cuscino, e Revali scoppia a ridere.
«Ti sei
offeso? Per caso volevi sposare proprio
lui?»
«Voglio
scoparmi tutta la guarnigione di Hebra»
ribatte Link. «Contento?»
«Beh,
non posso dire che mi farebbe piacere, ma
rientrerebbe nei patti» deve riconoscere Revali.
«Purché non Derdran, puoi fare
quello che ti pare. Dopo che io sarò morto, però.
Non prima, siamo intesi?»
«Mi fai
venir voglia di andare a cercare proprio
lui solo per farti dispetto. Come se poi la regione di Hebra pullulasse
di Rito
tutti pronti a venire a sposare proprio me tra tutti.»
«Beh, di
certo lui ti sposerebbe
per far dispetto a me» commenta Revali cupamente.
Link torna a
distendersi di fianco a lui. Poiché
gli ha scaraventato addosso il cuscino e non ha la minima intenzione di
frugare
al buio per trovarlo, è costretto ad appoggiare la testa
direttamente contro la
sua spalla. Revali s’irrigidisce appena, ma non si sposta.
«Pensi
ancora a quella scena al matrimonio?»
«Non
penso a nulla. Dico così, per dire.»
Questa
è probabilmente la bugia più grossa che Link
abbia mai sentito. Decide di affrontarla con una strategia meno diretta.
«Va
bene. Farò tutto quello che mi hai chiesto, ma
in cambio ho anche io una richiesta. Ci stai?»
«Mi
sembra equo» conviene Revali.
«Cioè?»
«Ti
farò una sola domanda, ma tu devi rispondere
sinceramente. Se mentirai, me ne accorgerò. E
chiederò a Derdran di sposarmi,
anche. Va bene?»
«Mi
sembra un po’ meno equo. Comunque, vai avanti.
Chiedi.»
«Quella
sera, dopo il matrimonio, a un certo punto
stavi per chiedermi qualcosa. Che cosa volevi chiedermi?»
Revali rimane in
silenzio tanto a lungo che si
potrebbe quasi pensare che non abbia sentito la domanda; ma che
l’abbia sentita
Link lo sente dalla rigidità del suo corpo, dalla lentezza
del suo respiro. Sta
pensando: comunque, lui non ha fretta. Aspetta.
«Ricordo
di averti chiesto se ti avesse fatto
piacere che Derdran avesse provato a toccarti» inizia Revali
lentamente.
«Non
è questo che ti ho chiesto» osserva Link.
«Non
divaghiamo.»
«Va
bene. Avrei voluto chiederti che cosa avresti
pensato se invece avessi provato a toccarti io.»
Link si sente
improvvisamente molto consapevole del
suo corpo, dell’aria nei suoi polmoni, dei grilli che cantano
eternamente nella
notte, delle piume di Revali che sfiorano la sua pelle.
S’accorge di non
respirare da qualche secondo.
«Avresti
voluto toccarmi?» chiede. Gli sembra di
impiegare un’infinità a pronunciare queste parole.
«Qualche
volta» risponde Revali. La sua voce è
bassa, nervosa. «Forse sì.»
«Era per
questo che non volevi dormire con me
all’inizio?»
«Anche.
Non solamente.»
«Perché
non hai mai provato a toccarmi?»
Il silenzio si
prolunga tanto a lungo che Link
quasi potrebbe sentirlo con la mano. Quando Revali parla di nuovo, le
sue
parole sono tanto flebili che è come sentire di averle
immaginate. «Sei così
diverso da me. Non avrei saputo come toccarti, come raggiungerti. Ho
pensato
che avrei potuto farti male.»
Link si tira
bruscamente a sedere sull’amaca e dice
con voce sorda: «Farmi male. Revali, mi hai crivellato
di frecce.»
Revali scoppia a
ridere trascinandolo di nuovo giù.
Link torna a distendersi piuttosto indispettito. «Ho
crivellato il tuo scudo,
non te personalmente. E poi non è la stessa cosa.»
«No»
riconosce Link alquanto contrariato, non del
tutto convinto. «Immagino di no.»
«E
poi…» La sua voce si tinge di una melanconia che
Link non gli ha sentito mai: suo malgrado, Link si ritrova ad
ascoltare. «Che
senso avrebbe avuto iniziare qualcosa, con la Calamità?
Perché uno dei due
rischiasse di rimanere solo, senza l’altro, e dovessimo
separarci comunque
domattina?»
La
Calamità ovunque nei loro discorsi, tutta
intorno a loro, prima di arrivare: per la prima volta nel sentirla
nominare da
Revali Link prova d’un tratto tutta la sciocchezza e la
follia d’avervi
sacrificato tutta la sua vita. Nessuno di loro s’è
concesso mai di vivere, in
nome della Calamità che ancora doveva arrivare, che neppure
esisteva; e ora che
finalmente Link ne sente la miopia e la sciocchezza, è
troppo tardi, anche per
i rimpianti, per i rimorsi. Va bene così, o quantomeno
questo è quello che Link
si ripete: non è in suo potere cambiare le cose,
allontanarle dal corso che
hanno seguito.
«Abbiamo
vissuto come abbiamo potuto, vero?» chiede
a bassa voce, e Revali, che deve aver seguito in qualche modo lo strano
tortuoso percorso dei suoi pensieri, risponde: «Abbiamo fatto
quello che
potevamo con quello che sapevamo.»
Non
c’è altro da dire. Link sente d’essere
arrivato
a quel termine di tempo al di là del quale non è
mai riuscito a proiettare se
stesso: non è mai stato in grado d’intuire cosa
sarebbe stato di lui dopo la
Calamità; non lo è neppure ora, eppure
c’è una parte di lui, una parte che
appartiene a lui solamente e che non ha scoperto che dopo la condanna a
morte,
che dice quasi per sfida: «Vedi di sopravvivere su quel
Colosso, e dopo... si
vedrà. Siamo intesi?»
«E tu
vedi di cavartela con quella Spada che
esorcizza il male, o come si chiama» replica Revali. E poi, a
voce più bassa,
aggiunge: «Promettimi che starai attento.»
«Prometto»
risponde Link. «Promettimi che
tornerai.»
«Prometto»
mormora Revali.
Disteso col volto
affondato contro il cuscino, Link
sente Revali levarsi piano dal suo fianco e alzarsi
dall’amaca piano,
delicatamente, per non farla oscillare troppo. Rimane immobile mentre
lo sente
muoversi e affaccendarsi in silenzio per la casa: sente solo il fruscio
dei
suoi movimenti. Vorrebbe alzarsi, dirgli qualcosa; vorrebbe
trattenerlo,
soprattutto, e chiedergli di non andare, ma Revali gli ha chiesto di
non farlo;
e Link non vuol rendergli le cose più complicate di
così. Si sforza di fingere
di dormire mentre Revali si lava e si veste nell’alba grigia,
fredda, come
acciaio: non sa se gli creda davvero, o se piuttosto faccia solo finta
per non
doverlo salutare di nuovo. Non importa. Mantiene la parola. Tiene gli
occhi
chiusi nel buio del primo mattino.
Revali rimane a
lungo fermo accanto all’amaca, Link
sente dall’esitazione del suo respiro che vorrebbe dire
qualcosa; suo malgrado,
Link trattiene il fiato.
Revali gli sfiora
i capelli, poi esce.
Quando Link va a
casa di Kagan, così
presto nel mattino da risultar quasi
indecente, lui e sua moglie sono già svegli, seduti a tavola
a sbucciare mele
per farne conserve. Lo stavano aspettando: gli hanno persino tenuto in
caldo la
colazione. Sapevano che sarebbe venuto. Link li ringrazia e si siede
con loro,
mangia quello che gli hanno preparato, poi prende un coltello e inizia
a
sbucciare la sua quota di mele per aiutarli.
Passano
così tutta la mattina. Non nominano mai
Revali. Quando si alzano i bambini, Link si offre di dar da mangiare al
più
piccolo. Quello grande sta per chiedergli, come sempre, qualcosa su
Revali, ma
Tara lo fulmina con uno sguardo che potrebbe gelare il Monte Morte,
perciò
ritiene più prudente dirottare la sua domanda su altro.
Link, che avrebbe
risposto volentieri anche a una domanda su Revali per fargli piacere,
si
sorprende di quanto sia più facile parlare d’altro
rispetto a lui.
Non succede niente
per tutto il giorno. A sera,
dopo cena, Kagan cerca di convincerlo a restare a dormire da loro: non
vuole
che rimanga solo, coi suoi pensieri, nell’attesa di qualunque
cosa debba
accadere domani, ma questo non lo dice. «Facciamo venire i
piccoli a dormire
con noi, così puoi stare nella loro camera» dice,
come se si trattasse di
un’offerta che non può rifiutare. «Per
favore, Link. Non costringermi a stare
in pensiero per te.»
«Hai
paura che ci sia un grublin sotto la mia
amaca?» risponde Link, ma Kagan non ride. «Kagan,
va bene così. Sono così
stanco che non avrò le forze per restare a torturarmi a
letto, non
preoccuparti. Ci vediamo domattina.»
È
stanco davvero: quelle giornate trascorse a non
fare niente lo spossano più di sei ore di allenamenti. Link
torna a casa, si
spoglia e s’infila nell’amaca senza neppure
guardarsi attorno, sforzandosi di
non sentire troppo attorno a sé l’insolita
leggerezza dell’amaca e l’assenza di
Revali. Si addormenta all’istante senza concedere a se stesso
di rimuginare
neppure un minuto sul dolore che pare volergli dilacerare il petto.
Il mattino
seguente, quando torna da Kagan, Tara
non c’è. Si è alzata presto per andare
a pescare col ragazzino, spiega Kagan:
non ne poteva più di aspettare senza far niente, dice.
È agitata anche lei:
vuole molto bene a Revali, e il ragazzino cominciava a diventare
incontenibile.
Kagan ha gli occhi
cerchiati di scuro: Link dubita
molto che abbia dormito nelle ultime due notti. Continua a guardare
fuori dalla
finestra, nervosamente, come se si aspettasse di vedere qualcosa, ma il
quadrato di cielo che s’intravede, al di sopra del Volodromo,
non è quello che
in questo momento sta sorvolando Medoh. Il colosso sacro non
è visibile da lì.
Link si siede di
fronte a lui e si versa una tazza
di tè.
«È
prevista per oggi» dice Kagan senza guardarlo né
specificare a cosa si stia riferendo.
Link assente
gravemente. «Secondo le informazioni
del piccolo guardiano e i calcoli di Pruna, per stasera. Oggi
è il compleanno
della principessa Zelda.»
Kagan torna a
sbucciare la mela che ha tra le mani
senza rispondere. Link l’osserva con preoccupazione:
decisamente questo
capovillaggio non è fatto per le battaglie.
«Davvero
avevano proposto a Revali di diventare
capovillaggio?»
«Cosa?»
chiede Kagan distrattamente guardando fuori
dalla finestra, prima che la sua mente faccia in tempo a processare la
domanda.
Si riscuote bruscamente. «Oh… quello. È
stato tempo fa, però. Il nostro
capovillaggio dell’epoca, il mio predecessore, stava cercando
qualcuno da
formare perché prendesse il suo posto. Era ovvio che lo
chiedesse a Revali,
all’epoca. Era già il nostro migliore
guerriero.»
«Però?»
Parlare sembra
alleggerire l’angoscia sul volto di
Kagan. «Come c’era da aspettarsi, non ha voluto,
naturalmente. Queste cose non
gli sono mai interessate, sai. È stato lui a proporgli il
mio nome, e poi… beh,
è andata come è andata.»
«Revali
ha molta stima di te» dice Link cautamente
prendendo una mela dal mucchio.
«Oh, lo
so.» Kagan sorride appena. «Io sono bravo
in molte cose in cui Revali è assolutamente negato, tipo le
relazioni umane, e
viceversa. È per questo che…»
È in
questo momento che il figlio più grande di
Kagan rientra in casa di corsa, tutto trafelato, e grida:
«Papà, devi venire a
vedere!»
Il volto di Kagan
si trasfigura.
«Resta
in casa con tuo fratello» ordina
precipitandosi fuori. «Non uscire per nessun
motivo.»
Link lo segue
fuori correndo: non è possibile, gli
dice la sua mente. Il ritorno della Calamità era previsto
per questa sera:
questo lo indicavano chiaramente le immagini recuperate dalla memoria
del
piccolo guardiano. Un anticipo di così tante ore…
Kagan cerca cogli occhi
l’enorme sagoma scura di
Medoh stagliata contro l’alba, puntata in direzione del
Castello. Link segue il
suo sguardo. Rimangono immobili, impotenti, nel borgo dei Rito bagnato
dal
sole, a guardare mentre il Colosso Sacro viene ricoperto dai viticci
scuri
della corruzione della Calamità.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** (Ri)Conquista ***
Capitolo
XI – (Ri)Conquista
Impreparato,
sì; - non ci riesco; mi manca l’indispensabile
rapporto
con il paesaggio, col tempo, con le cose
e
con gli eventi; - non è per viltà –
impreparato
di
fronte alla soglia dell’azione, completamente estraneo
di
fronte alla missione che gli altri mi assegnarono. Come avviene
che
gli altri stabiliscano a poco a poco la nostra sorte, che ce la
impongano
e
che noi l’accettiamo?
Ghiannis
Ritsos, Oreste.
Link
avanza nella neve dei monti di Hebra senza
vedere né sentire nulla.
Ha le
orecchie che gli ronzano, la vista appannata.
Ha promesso a Revali che avrebbe aiutato a evacuare la loro gente:
è questo
tutto quello che riesce a capire. Sente i bambini urlare e piangere, i
genitori
tentare di calmarli. Continua a camminare nella neve che talora gli
arriva alle
anche: ha le cosce piene di geloni. Vorrebbe riuscire a sentirne il
dolore; ma
non sente niente.
Quando
Kagan ha dato l’ordine di evacuare il borgo
perché nugoli di mostri erano stati avvistati nella gola
Vapone e alle
frontiere di Colbacco subito dopo il terremoto di Hyrule centrale, Link
è
rientrato a casa, alla cieca, e ha preso le prime cose che gli
è venuto in
mente di prendere: del resto, non possedeva molto. Avrebbe dovuto
tenere dei
bagagli pronti, per qualsiasi evenienza, forse: quel pensiero lo ha
sfiorato
per un istante, scioccamente, privo di senso, ed è scomparso
così com’è
arrivato. Del resto, non è più neppure abituato a
farsi i bagagli senza Lelek:
s’è allacciato in vita la Spada che esorcizza il
male, ha preso l’arco che gli
ha fatto Revali e che ora gli appare privo di senso e doloroso come un
rimorso;
s’è caricato sulla schiena una faretra piena di
frecce, poi ha frugato ovunque
in casa per vedere se ci fosse qualcosa da prendere, così,
senza sapere, senza
capire. C’erano le mappe di Revali, gli strumenti di Revali,
gli abiti di
Revali, tutto era doloroso e terrificante come in un incubo. Sotto le
mappe,
nascosto come un segreto, c’era il certificato di matrimonio.
Lo ha guardato
con attenzione per la prima volta: la firma sembra quasi la sua. Lo ha
piegato
e se lo è messo in petto, sotto la tunica, sforzandosi di
non chiedersene il
motivo né il senso; poi è uscito senza guardarsi
indietro. Guardare gli avrebbe
fatto troppo male: è uscito ed è andato a dare
una mano a condurre la sua gente
sulle montagne.
S’è
caricato addosso il bambino più piccolo di
Kagan, quello che ancora non sa camminare né volare,
malgrado le proteste sue e
di Tara, e contro l’altro fianco se n’è
caricato un altro, ancora più piccolo,
di una coppia che non conosce. Kagan protesta, ma Link risponde
immancabilmente: «Se sono stanco, ti chiedo il cambio. Per
ora ce la faccio.»
La sua voce è dura e sorda, distante. Tara si scambia uno
sguardo con Kagan e
non dice nulla; avanza vicino a lui nella neve per tutto il tempo. Non
lo perde
mai di vista. Kagan plana avanti e indietro per sorvegliare la carovana
di
famiglie Rito che si spostano lentamente. Il suo bambino più
grande è molto
coraggioso, e rimane di fianco a Tara per tutto il tempo senza
protestare né
far domande: a volte guarda verso Medoh con una domanda muta negli
occhi, ma
non serve neppure che sua madre lo fulmini con gli occhi. Sa da solo di
non
dover chiedere.
La
guarnigione di Hebra è a una giornata di marcia
dal borgo dei Rito. Link cammina per tutto il giorno senza alzare gli
occhi
verso Medoh: guarda dritto di fronte a sé, nella neve alta,
e si sforza di
andare avanti, ancora avanti. Non vuole concedere a se stesso di
pensare né di
sentire. Quando Kagan dà l’ordine di fermarsi per
far riposare il gruppo e dar
da mangiare ai bambini, Link scarica i suoi ai rispettivi genitori, poi
torna
indietro, verso il gruppo più lento che è rimasto
indietro, si carica addosso i
bagagli che trova e li porta per un po’. Quando il gruppo
è pronto a ripartire,
torna a prendere i bambini, ma Tara lo scuote quasi con violenza. Gli
ripete
qualcosa molte volte per costringerlo ad ascoltarla. Finché
non alza la voce,
Link non riesce a distinguere le sue parole.
«Link,
devi mangiare. Non ripartiremo finché non
hai mangiato qualcosa, sono stata chiara?»
«Allora
non ripartiamo» risponde Link con più
durezza di quanta vorrebbe e soprattutto di quanto Tara meriti,
perché sta
cercando di aiutarlo; ma non può farci niente. La
pietà negli occhi di Tara è
grande abbastanza perché lei possa perdonarlo per questa
risposta.
«Va
bene» dice tristemente. Avrebbe voluto poterlo
aiutare meglio. «Dammi almeno il bambino, però. Lo
porto io da qui in poi.»
«Ce
la faccio» risponde Link alla cieca,
ostinatamente; vorrebbe caricarsi addosso tutto il peso del mondo,
vorrebbe
camminare, come i cavalli, con nient’altro che la strada di
fronte a sé, e
avere paraocchi che lo proteggano dal dolore e da tutto quello che non
vuole
vedere; ma non ha paraocchi né peso a sufficienza. Tara
prende in braccio il
bambino.
«Lo
so che ce la fai» mormora. «Ma io non ho
perduto quello che hai perduto tu.»
Link
vorrebbe che non l’avesse detto. Non può
arrabbiarsi con lei per avergli detto ad alta voce la
verità, per avere il
coraggio di dire quello che nessuno ha ancora osato ammettere neppure
nella
propria mente: che Revali è morto, che il suo corpo
rimarrà prigioniero per
sempre di Medoh e della nera vischiosa melma della Calamità.
Link riprende a
camminare senza guardarla né ascoltarla perché se
si soffermasse sulle sue
parole resterebbe fermo nella neve e nel dolore senza poter guardare
avanti né
indietro. Non può permetterselo adesso. Ha promesso che
avrebbe aiutato a
evacuare la loro gente.
La
guarnigione di Hebra è attestata in una
roccaforte di legno circondata da palizzate e da metri e metri di filo
spinato.
I soldati e gli arcieri di guardia si precipitano ad accogliere i
fuggitivi:
tra di loro ci sono anche i loro genitori e le loro mogli, i loro
figli. Sono
tutti salvi, almeno per ora.
Kagan
viene a cercarlo in mezzo alla folla, lo
afferra per le braccia per costringerlo a guardarlo, come ha fatto sua
moglie
poche ore fa: Link deve concentrarsi sul suo volto per sforzarsi di
comprendere
le sue parole attraverso il ronzio che gli copre le orecchie. Lo fissa
a lungo
senza capire.
«Derdran
vuole parlarci» dice Kagan. Link ha
bisogno di frugare nella propria memoria per un tempo assurdamente
lungo per
ricordare chi sia Derdran: tutto gli pare provenire attraverso una
grande
distanza, i suoi sensi sono ovattati, attutiti come dalla neve.
«La principessa
Zelda è salva. La consigliera Impa è riuscita a
portarla qui con quella sua
tavoletta Sheikah.»
Link
segue Kagan attraverso il forte di guardia
senza capire né comprendere: Zelda è salva,
ripete a lungo dentro di sé. Non
riesce quasi a ricordare perché sia così
importante.
Derdran
li aspetta dentro una costruzione nuda,
essenziale, al centro del forte. È in piedi di fronte al
grande braciere
centrale, costruito alla maniera dei Rito, colle braccia incrociate sul
petto.
È lì anche Zelda: è seduta vicino al
fuoco, con una coperta sulle spalle nude,
ma si affretta ad alzarsi al suo ingresso; quando è scappata
dal Castello non
indossava che i suoi leggeri paramenti sacri, evidentemente. Vederla lo
riscuote un poco dal torpore della sua mente: forse è quel
senso di dovere, di
sacrificio e abnegazione in nome del quale è stato cresciuto
e continua a
vivere, malgrado tutto, e che per una volta lo richiama a se stesso.
C’è anche
il piccolo guardiano, schierato di fronte alla principessa come se
avesse il
potere di difenderla dal mondo.
Impa
è in piedi alle spalle di Zelda, con le
braccia conserte sul petto: ha il volto esangue, estenuato, e forse il
peso del
regno sulle spalle. Alza lo sguardo dal fuoco quando lo sente entrare,
ma non
perde tempo in saluti.
«Il
re è morto» dice. La sua voce sembra rimbombare
nella stanza, improvvisa: Link esita sulla soglia. Qualcosa nello
sguardo di
Zelda sembra vacillare a quelle parole. «Si è
sacrificato per darci il tempo di
fuggire dal Castello. I Colossi Sacri sono stati conquistati da
emanazioni
della Calamità.»
Link
cerca lo sguardo di Impa al di là del fuoco e
di Zelda, e lei, in modo appena percettibile e unicamente per lui,
scuote il
capo in silenzio. Il potere del sigillo non si è
risvegliato, dicono i suoi
occhi senza bisogno di parole. Sono totalmente soli, perduti, dunque;
eppure
Impa sembra pronta a combattere, e Zelda, seppur cogli occhi rossi di
pianto, è
più ferrea e determinata che mai.
Chinando
appena il capo di fronte a lei, Kagan
prende la parola. «Principessa Zelda, vi porgo le mie
condoglianze per la
vostra perdita. Voi e la consigliera Impa potrete restare con noi per
tutto il
tempo necessario.»
Quando
Zelda parla, la sua voce è più dignitosa e
calma di quanto Link ricordi d’averla sentita mai.
«Vi
ringrazio, capo Kagan» dice. «Vi ringrazio
della vostra ospitalità e dell’aiuto che state
dando alla Corona, ma né io né
Impa siamo qui per nasconderci. Siamo venute qui a chiedervi il vostro
aiuto
per liberare i Colossi Sacri.»
Link
sente le sue parole come una lama che scava
nel suo petto ancora e ancora. Non finirà mai, dunque,
questa rincorsa ai
Colossi, questa lotta destinata a esser perduta sempre, ancora e
ancora, e
questo sacrificio eterno, come quello di Revali…?
Posando
una mano sulla sua schiena, Kagan pare
quasi volerlo sostenere. Link s’accorge d’aver
stretto i pugni fino a farsene
sanguinare i palmi, deve aver cambiato espressione, forse tremato;
guarda Kagan
sperando che parli anche in sua vece.
«No,
principessa.» Le parole di Kagan sono dure e
chiare, la sua voce gentile ma inflessibile. «I Colossi ci
hanno già tradito
una volta. Noi Rito abbiamo perduto il nostro guerriero più
amato e più nobile,
e da quello che avete detto mi pare di capire che anche le altre genti
di
Hyrule abbiano sacrificato a sufficienza. Revali era quanto di
più simile a un
fratello io abbia mai avuto, e anche voi avete perduto vostro padre. La
strategia era sbagliata. Non vi pare abbastanza?»
«È
proprio questo il punto» risponde Zelda. Questa
volta, forse per la prima volta da quando Link la conosce, il suo
sguardo non
vacilla. «Noi pensiamo che i campioni sui Colossi siano
ancora vivi. E
intendiamo riprenderceli.»
Gli
attendenti di Derdran porgono loro tazze di tè
bollente che rimangono a fumigare lentamente e poi a raffreddarsi tra
le loro
mani. Sui Colossi, sostiene Impa, i campioni stanno ancora combattendo.
Devono
provare a salvarli.
Non
occorre sentire altro. Non vuole neppure
accertarsi che sia vero: forse non vuole neppure saperlo; gli basta
poterci
credere per il semplice fatto che Impa l’ha detto. Link si
alza in piedi, si
rivolge a Derdran, perché qui non si parla più di
civili ma di guerra, e dice
semplicemente: «Quand’è così,
io vado.»
«Aspetta,
Link» protesta Zelda. «Non puoi andare da
solo. Dobbiamo formulare un piano, e…»
Link
avrebbe obbedito a Zelda, persino a suo padre,
se gli avessero chiesto di lanciarsi alla cieca nella lotta, nella
mischia, e
di sacrificare la sua vita senza neppure saper per cosa: in
verità forse l’ha
fatto molte volte, ma non è questo il punto. Non si tratta
del re né di Zelda,
ora: si tratta di Revali. Sostenendo con calma il suo sguardo, Link
scandisce con
lentezza: «Perdonatemi, principessa. Non posso aspettare. Non
posso chiedere a
nessuno di venire con me, ma io andrò su Medoh
adesso.»
Zelda
annuisce piano. Sa di non poterglisi opporre,
forse neppure lo vuole; vorrebbe soltanto che lui fosse al sicuro, Link
glielo
legge negli occhi; ma, allo stesso modo, anche lei legge nei suoi che
non si
fermerà. Rimane in silenzio.
«Tutto
molto giusto, Link» obietta Impa. «Peccato
solo che non abbiamo modo di salire su Medoh. La cosa più
sensata, in questo
momento, sarebbe liberare Vah Naboris, e poi, col suo
aiuto…»
«Impa»
dice Link con calma, senza alzare la voce ma
neppure chinare lo sguardo. «Io salverò Revali.
Sono uno solo, e non posso
salvarli tutti, ma se devo scegliere salverò mio marito.
Sono stato chiaro?»
Sa di
aver detto una cosa orribile, oscena: sa che
le sue parole condannano Urbosa, Daruk, persino Mipha che quel giorno a
Hebra è
venuta a salvarlo, coi medici militari, e gli ha imposto le mani in
battaglia
decine di volte per guarire le sue ferite; ma è la guerra.
Neppure loro, al suo
posto, potrebbero salvare tutti; dovrebbero scegliere pure loro, alla
fine, e a
un certo punto saprebbero di dover dire ad alta voce la stessa cosa
orribile e
oscena che ha detto lui adesso: che ne sceglierebbero uno solo. Di
Urbosa, di
Daruk, non sa dire chi sceglierebbero: forse ragionerebbero con
freddezza, da
buoni militari, come dovrebbe fare lui adesso, e sceglierebbero il
Campione che
in battaglia potrebbe rivelarsi più utile nei giorni
successivi; ma Mipha
sceglierebbe lui per nessun altro motivo che questo, che lo ama. Link
sceglie
Revali per lo stesso motivo egoistico e disperato per cui Mipha
sceglierebbe
lui sempre.
Impa lo
osserva molto più a lungo del normale, e
Link ha la sensazione che i suoi occhi vedano e le sue orecchie sentano
molto
più dei suoi gesti e delle sue parole.
«Tu
sai già che io verrò con te ovunque»
dice. «Ma,
Link… Medoh sta volando, e, almeno fino a quando non siete
arrivati qui, stava
sbandando sempre più verso nord. A meno che non lo
abbattiamo a cannonate, non
vedo proprio come potremo salirci. Se ci riuscissimo, poi potremmo
usarlo per
liberare Vah Naboris.»
Link si
volta verso Derdran. Se c’è qualcuno che
conosce i monti di Hebra, per quanto possa non piacergli, è
proprio lui.
«Derdran, tu conosci le montagne del nord. Ti viene in mente
un punto da cui
possiamo avvicinarci il più possibile? Medoh non stava
planando molto in alto,
ma…»
Derdran
potrebbe dirgli che sono un branco di pazzi
e insensati; che, se proprio su Medoh deve andarci qualcuno nella folle
speranza di salvare un guerriero che non c’è
alcuna garanzia di trovar vivo,
avrebbe senso che ci andasse una squadra scelta di arcieri Rito, che
siano
quantomeno in grado di raggiungere il colosso autonomamente; ma non
è questo
che dice. Sta riflettendo. Fa un cenno a un attendente, che si
precipita a
srotolargli di fronte una mappa, e cerca qualcosa di specifico
scorrendovi
sopra con la punta delle dita.
«Qui»
dice infine picchiettando su un punto
preciso. Link reclina il capo per guardare al di sopra delle sue ali:
è
un’infossatura tra due montagne, non poi molto più
a nord di dove si trova la
guarnigione. A occhio sono forse due ore di cammino, anche se in mezzo
alle
nevi perenni di Hebra. «In questo punto ci sono degli
sfiatatoi naturali simili
a quelli che si trovano al Volodromo, o quantomeno c’erano
fino a un paio di
anni fa. Può darsi che siano stati ricoperti dalle frane, ma
possiamo farli
saltare con le frecce esplosive. Possiamo usarli per prendere quota e
issarci
fino al Colosso, a meno che non devi dalla direzione che ha preso.
L’importante
è arrivarci in tempo, ma per ora Medoh sta procedendo molto
piano, in balia
solo dei venti. Nessuno lo sta pilotando.»
«Il
fatto che tu dica possiamo mi fa
supporre
che in questo piano ti veda coinvolto tu stesso» commenta
Kagan guardandolo.
Derdran
esita. «Se mi ordini di restare, non posso
disobbedirti, ovviamente. Ma tu sai che preferirei andare. In fin dei
conti, lo
sai… ho qualcosa da farmi perdonare da Revali.»
Kagan
alza gli occhi al cielo. «Ah, quindi ora
ammetti di avere qualcosa da farti perdonare. Era proprio necessario
che
arrivasse la Calamità e Revali restasse prigioniero di Medoh
per costringerti
ad ammettere che tutto sommato non avresti dovuto provarci con suo
marito,
vero?»
Tanto
Impa quanto Zelda non riescono a trattenersi
dal guardare verso Link con aria meravigliata. Derdran ha esattamente
l’espressione di un bambino che sia stato rimproverato in
pubblico dai genitori
e sia del tutto consapevole d’aver combinato qualcosa che non
avrebbe dovuto.
«Come
vuoi, Kagan.» È avvampato di vergogna.
«Link,
perdonami per averci provato con te a quel matrimonio. Non avrei
dovuto,
eccetera. Ma se sei d’accordo che io vi accompagni e se
ritroviamo Revali vivo,
giuro che porgerò le mie scuse anche a lui, va
bene?»
Link,
che a tutto pensava fuori che al matrimonio,
alla scenata di gelosia e alle scuse di Derdran, è
interessato soltanto al
fatto che li accompagnerà un guerriero che conosce quel
territorio. «Grazie,
Derdran. Ci sono mostri in quelle zone?»
«Col
ritorno della Calamità? Temo che ci siano
mostri un po’ dappertutto. Non sarò facile
avanzare nemmeno in volo, e non
possiamo permetterci di perder tempo.» Derdran esegue a mente
un rapido
calcolo. Alza gli occhi verso Kagan. «Mi dai il permesso di
prendere trenta
arcieri?»
Non
è una richiesta banale. Trenta arcieri per una
missione suicida significa trenta arcieri di meno a difendere la
guarnigione, i
vecchi, i bambini: per un attimo il volto di Kagan si trasfigura del
peso della
responsabilità. Sembra troppo giovane per un peso del
genere, eppure, come gli
ha detto Revali solo la sera prima, ciascuno deve fare la sua parte; e
lui deve
scegliere.
«Quanti
ce ne rimangono?»
«Duecentosessanta
tra la guarnigione e le immediate
vicinanze. Un altro centinaio può essere richiamato dai
presidi di controllo
del sud di Hebra e di Colbacco al più tardi in un paio di
giorni, e la
roccaforte non è in pericolo immediato. Io e i ragazzi
abbiamo ripulito le tane
dei mostri nel raggio di qualche miglio fino a ieri, in previsione
della
Calamità. È estremamente improbabile che veniamo
attaccati.»
Kagan
sospira profondamente coprendosi gli occhi
con le mani per qualche istante. «Puoi avere i tuoi trenta
arcieri, allora. Ma
non possiamo ordinare loro di dare la vita per uno solo di noi,
Derdran…
nemmeno per Revali, per quanto sia il migliore tra noi. Dovranno essere
volontari. Siamo d’accordo?»
Derdran
annuisce. A un suo cenno, uno dei suoi
attendenti fa per slanciarsi fuori, ma Kagan lo richiama prima che
esca.
«Aspetta un momento. Derdran, sappiamo entrambi che vorranno
venire tutti con
te per salvarlo. Non più di trenta, siamo intesi? Non
possiamo rischiare di
più. Mi pare già un rischio sufficiente mettere a
rischio la tua vita e quella
di Link. E fammi consegnare un arco, prima di partire»
aggiunge alzandosi
stancamente. «Non credo che verremo attaccati nel corso della
notte, ma almeno,
se dovesse accadere, potrò rendermi utile
anch’io.»
«Ma,
Kagan» protesta Link. Kagan ha tutto fuori che
l’aria di un guerriero, e l’idea di saperlo
combattere lo preoccupa. «Ieri
sera, Revali ha detto…»
«Che
non colpirei neanche una roccia ferma?»
Malgrado la stanchezza, l’angoscia, malgrado il dolore e la
responsabilità che
grava su di lui come colonne posate sulle sue spalle, Kagan trova
ancora
sufficiente ironia, dentro di sé, da strizzargli
l’occhio. «Se non sbaglio,
Revali diceva anche che tu sei un guerriero piuttosto mediocre, quando
ha
accettato di pilotare Medoh. Davvero non hai ancora imparato a non
credere
ciecamente a tutto quello che dice quel borioso di tuo
marito?»
Kagan
riuscirebbe a farlo sorridere ovunque,
persino in questo momento. Chissà perché sono le
sue parole, più delle
supposizioni di Impa, più dei piani di Derdran, che gli
fanno sentire in fondo
al suo petto che forse c’è ancora speranza, e a
Kagan non sfugge l’ombra del
suo sorriso. S’inchina in direzione di Zelda, ma poi, proprio
prima di uscire,
si sofferma un momento. Sembra cercare le parole.
«Se
è vivo, so che ce lo riporterai» dice.
«Buona
fortuna.»
Avanzano
nella neve in cui affondano fino alle
cosce col vento che sferza loro gli occhi, alla luce delle fiaccole:
arcieri
Rito planano sopra di loro portando torce accese; la lunga notte di
Hebra si
spalanca attorno a loro sconfinata. Si inerpicano attraverso la valle
quasi
alla cieca: il vento ulula rimbombando contro le creste rocciose,
spolverando
neve tutta addosso a loro. Derdran lo guida nel buio come se li
conducesse in
piena luce, sembra conoscere persino le rocce, i punti in cui la neve
è infida e
cedevole.
«Mi
pare d’intuire che non è solo per principio che
hai rifiutato la grazia, quindi» dice Impa a un tratto
porgendogli la mano per
aiutarlo a salire. Ha risparmiato fiato per tutto questo tempo per
riuscire a
chiedergli questo.
«Che
cosa intendi dire?» chiede Link afferrando la
sua mano senza incontrare i suoi occhi.
«Hai
davvero bisogno che te lo dica?» Link non
risponde, allora Impa parla ancora mentre scivolano lungo un crinale
sulla neve
fresca. «Lo prenderò come una conferma, comunque.
Tutto sommato ho sempre
pensato che sareste stati bene insieme.»
Se ci
fosse tempo per fermarsi, adesso Link si
fermerebbe ed esclamerebbe: «Anche tu?» Ma tempo
non ce n’è, e Link deve
accontentarsi di fare la stessa domanda arrancando in avanti, ancora
avanti,
col vento freddo che gli fustiga il viso.
«Anche
io?» chiede Impa. «Perché, chi
altri?»
«Lelek»
risponde Link sentendosi avvampare fino
alle orecchie. «Ma tu, da cosa…?»
Per un
po’ Impa cammina soltanto, ansimando, e non
risponde. Riprende fiato.
«Diciamo
che era molto difficile venirti a trovare
nella tua tenda in quei giorni a Hebra senza imbattersi in Revali. E
poi,
quando si è parlato di chi avrebbe dovuto sposarti, quel
giorno… mi è sembrato
piuttosto pronto a offrirsi volontario. Ho reso
l’idea?»
Poiché
non è sicuro di cosa potrebbe dirle, Link
non risponde. Senza fermarsi, Impa gli batte sulla spalla e indica
qualcosa al
di sopra di loro. È l’enorme sagoma di Medoh,
luminosissima sotto la luna e
nell’albedo della neve, avviluppata nei viticci neri e
vischiosi della
Calamità; Link non vorrebbe guardarla perché
è troppo dolorosa, ma segue
ugualmente la direzione della mano di Impa, perché lei sta
attraversando Hebra
a piedi per lui.
Quando
alza lo sguardo, Medoh è illuminato da luci
improvvise come lampi in lontananza.
«Sono
frecce esplosive» dice Impa. «Sta
combattendo, Link. È ancora vivo.»
Derdran
deve aver visto quello che hanno visto
loro, perché cala dall’alto abbassandosi
bruscamente di quota.
«Ci
siamo quasi» annuncia. «Vedo delle esplosioni
su Medoh. C’è ancora qualche speranza. Ancora
pochi minuti e vedremo gli
sfiatatoi di cui vi ho parlato. Può darsi che ci sia bisogno
di far saltare le
rocce con…»
«Capitano!»
urla in quel momento un arciere. C’è
del panico nella sua voce. «Lynel!»
Derdran
non perde tempo. Batte le ali riprendendo
quota per guadagnare visibilità e grida:
«Quanti?»
«Non
siamo sicuri. Almeno una decina. Vediamo solo
le punte delle frecce elettriche nel buio…»
Derdran
osserva qualcosa, oltre la collina, che a
loro non è dato vedere: Link e Impa lo osservano quasi senza
osare respirare.
Un attimo dopo, Derdran plana in silenzio su di loro ed esclama con
voce
soffocata: «Questa non ci voleva, ma non importa. Me lo
aspettavo. Li
tratteniamo noi. Voi andate.»
Non
è una novità, o meglio non dovrebbe esserlo:
è
la guerra, e Derdran li ha accompagnati apposta perché nulla
potesse
rallentarli; ma Link esita ugualmente.
«Derdran…»
«Revali
è lassù da solo. Noi siamo trenta»
ribatte
Derdran. La sua voce è inflessibile e fiera.
«Abbassatevi e correte verso gli
sfiatatoi. Link, porgerai tu le mie scuse a Revali?»
Se
quello vuole essere un ultimo addio, Link non ha
alcuna intenzione di permettergli di farlo. Sostiene il suo sguardo.
«Non
è che stai facendo quello che si sacrifica
perché hai una gran paura di Revali, e non vuoi scusarti di
persona, vero?»
«Non
negherò né confermerò le
insinuazioni» lo
rimbecca Derdran sfoderando il suo arco. «Ora state bassi e
andate.»
Non
c’è tempo per giocare a fare gli eroi e a chi
si sacrifica più degli altri. È la guerra. Impa
lo afferra per mano e scivola
nella neve con la schiena curva, silenziosa come una Sheikah, senza
sollevare
più fruscio del vento. Link la segue camminando nelle sue
impronte.
Non
c’è bisogno di vedere gli sfiatatoi di cui
parlava Derdran per riconoscerli al buio: d’improvviso
all’apertura della valle
li accoglie una ventata gelida che li colpisce in piena faccia mozzando
loro il
respiro. Derdran aveva ipotizzato che una frana potesse averli coperti,
ma non
si direbbe, e l’aria che si leva da terra è
intensa abbastanza da sollevare le
loro paravele: solo di fronte a loro, quasi al centro della distesa di
roccia
friabile e irregolare che ricopre il terreno, si eleva un masso enorme,
gigantesco, crollato forse dalla cima dei monti. Medoh è
ancora visibile: se le
correnti sono abbastanza forti, riusciranno a sollevarsi a sufficienza
da poter
planare fino al suo interno; altrimenti sarà stato tutto
inutile.
Impa
respira affannosamente per riprendere fiato
mentre slega in fretta la paravela che porta legata sulla schiena, alla
maniera
della sue gente, e mormora: «Link, non sappiamo che cosa
troveremo quando
saremo su. Non so cosa stia tenendo prigioniero Revali,
ma…»
La voce
le muore in gola, i suoi occhi si fanno più
larghi d’improvviso: Link non ha neppure bisogno di seguire
il suo sguardo per
capire.
Quello
che hanno di fronte non è un masso. È un
hinox, e si sta alzando in piedi.
Impa
non perde tempo, i suoi riflessi sono più
rapidi della sua voce. Le sue mani scivolano dalle sue spalle ai suoi
fianchi
senza che Link riesca neppure a seguirne i movimenti, quando torna a
vederle
impugnano i suoi pugnali, e spingendolo in direzione del vortice
d’aria che si
leva da terra Impa grida: «Lo trattengo io, tu vai! Salva
Revali e poi
riconquistate Naboris.»
Link
incespica sulle rocce friabili con la paravela
in mano e una protesta sulle labbra; non vuole lasciarla sola, usare
anche lei
come un ponte per arrivare a Revali: è questo che costa la
salvezza? L’hinox
torreggia su di loro levando un ruggito, Link porta suo malgrado la
mano
all’elsa della Spada: può aspettare,
può combattere con lei, e questo non
perché creda nella sua forza, ma perché non
è disposto a sacrificarla; ma Impa
si schiera di fronte a lui come se lo proteggesse col suo corpo. Le sue
dita si
muovono già rapidissime a formare complessi simboli Sheikah.
«Link,
vai, o perderai Medoh!»
«Impa…»
Voltandosi
appena verso di lui al di sopra della
spalla, Impa sorride. Il suo volto è serio eppure del tutto
privo di paura. «Quando
mi ricapita di poter rinfacciare a Revali che mi deve la
vita?»
Link
solleva la paravela e l’aria lo strattona
verso l’alto minacciando di slogargli una spalla.
Si
eleva nell’aria gelata a una velocità
vertiginosa. L’occhio enorme dell’hinox segue i
suoi movimenti stupidamente,
pieno di stupore, ma il vento lo porta rapidamente sempre
più in alto: Link
sente il sibilo di un proiettile, forse di un sasso, saettargli accanto
mancandolo di almeno un paio di metri. Un istante dopo, un boato sotto
di lui
lo informa che Impa ha appena fatto ricorso a una delle sue tecniche
Sheikah,
l’hinox ulula sotto la luna e l’onda
d’urto di un’esplosione lo trascina
nell’aria aggrappato alla paravela. Medoh pare avvicinarsi
vertiginosamente
nella brusca accelerata: le sue pareti sono ricoperte da lunghi viluppi
neri,
vischiosi, e Link riesce a evitarli solo contraendo le gambe contro il
petto;
ma non ci sono più esplosioni né luci, si accorge
con orrore. Sente il panico
dentro di lui risalire il suo petto in grandi ondate pulsanti: il
Colosso è
immobile e silenzioso, ora. Non c’è più
segno di combattimento.
Ricade
all’interno di Medoh rotolando più volte sul
pavimento duro e si rialza all’istante guardandosi attorno.
Il suo petto si
alza e si abbassa freneticamente, i suoi occhi si abituano alla strana
luminescenza all’interno del Colosso; vorrebbe gridare,
chiamare il suo nome,
ma l’addestramento è più forte del suo
istinto. Non grida: non ce n’è bisogno.
Revali
è di fronte a lui. È appoggiato contro una
parete, tenendosi con la mano una grande ferita sotto l’ala:
Link sente il
sangue pulsare all’interno delle sue orecchie, ronzare;
Revali è vivo, contro
ogni speranza; ma non è solo.
In
ginocchi accanto a Revali c’è un Rito alto,
dalle piume pallide del colore del marmo, che Link non ha mai visto.
È curvo su
di lui con aria angosciata, ma al suo arrivo si volta bruscamente a
guardarlo.I
suoi occhi si spalancano per lo stupore.
«Link!»
esclama.
Link lo
guarda senza capire. È certo di non averlo
mai visto, allora come fa a conoscere il suo nome?
Col
volto contratto dal dolore, Revali sorride.
«Vedi,
Teba?» domanda. Parlare sembra costargli uno
sforzo enorme, eppure nemmeno in quella circostanza riesce a resistere
al suo
sarcasmo. «Te lo dicevo che mio marito sarebbe venuto a darci
una mano. In
ritardo come al solito, ma non mi aspettavo
diversamente…»
«Marito?»
chiede lo strano misterioso Rito.
Link
decide che avrà tempo dopo per le domande e i
dubbi dello sconosciuto. Si china su Revali e gli allontana
l’ala dal petto con
delicatezza per controllare la ferita: non è eccessivamente
grave, ma c’è da
sperare che non siano stati coinvolti i muscoli del petto e delle ali,
altrimenti, quando dovrà sollevarsi in volo…
«Link,
lascia stare» dice Revali con una certa
urgenza. Fa fatica a parlare. «Ascolta. Al piano di sopra
c’è qualcosa che non
ho mai visto. Crediamo sia una sorta di emanazione della
Calamità. Abbiamo
combattuto finora, ma ci siamo ritirati
perché…»
«Ho
capito» risponde Link a bassa voce scrutando la
ferita. «Me ne occupo io. Tu non ti muovere, siamo
intesi?»
«Assolutamente
no. Non puoi farcela senza di…»
«Oh,
finiscila» sbotta Link, e poiché Revali pare
ancora molto propenso a discutere lo bacia a lungo per metterlo a
tacere.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Ira ***
XII – Ira
Freder
guardò in faccia la Morte. Poi disse: “Se tu fossi
arrivata prima,
non mi avresti spaventato. Adesso però ti prego: rimani
lontana da
me e dalla mia amata!”
Thea
von Harbou, Metropolis
Link
si separa da Revali quando sente alle sue spalle lo stridore lungo,
raggelante, del grido dell’emanazione della
Calamità che li sta
cercando. Devono essersi rifugiati qui, nel ventre profondo di Medoh,
per dare a Revali il tempo di riprendersi dalla ferita che ha subito;
ma neppure quel nascondiglio può durare per sempre. Bene.
Tocca
anche a lui combattere, adesso: Link si alza in piedi e sfodera la
Spada che esorcizza il male. I suoi occhi corrono velocemente sulla
stanza vuota attorno a loro in cerca di qualunque cosa possa essergli
d’aiuto.
«Mi
hai baciato» osserva Revali piuttosto incredulo.
«Evidentemente»
risponde laconicamente Link.
Il
Rito sconosciuto, che dal suo ingresso su Medoh non ha ancora
dismesso quell’espressione attonita ed esterrefatta e che
Revali,
poco fa, ha chiamato Teba, chiede: «Siete sposati?»
Link
decide che può finalmente riservare a questo estraneo
sufficiente
attenzione da domandare: «Perdonami, ma non mi ricordo di te.
Ci
conosciamo?»
Teba
esita con aria frastornata. «Ecco… è
piuttosto complicato da
spiegare.»
«Fammi
indovinare. Battaglia di Hebra?»
«Oh,
andiamo, Link» sbotta Revali. «Quello che Teba sta
cercando di
spiegarti è che viene dal futuro. Come il guardiano
giocattolo della
principessa Zelda. Non l’hai ancora capito?»
«Scusa
tanto se non ho avuto ore e ore per fare la sua conoscenza mentre
attraversavo tutta Hebra a piedi per venire a salvarti»
ribatte
Link, prima che la sua mente registri ed elabori
l’informazione che
ha appena sentito. Si volta bruscamente verso Teba mentre, da qualche
parte nei visceri di Medoh, l’emanazione della
Calamità stride
orrendamente di rabbia e di frustrazione per non riuscire a trovarli.
«In che senso, futuro?»
Teba
ha una mano posata sulla fronte nel tentativo vano di contenere
un’incipiente emicrania. «Proprio nel senso di
futuro, Link. Non
so come altro spiegarlo.»
«Puoi
fare una stima?» domanda Revali. «Quanto nel
futuro, più o meno?»
«Non
ho bisogno di fare una stima, per quello. Nel mio tempo sono
trascorsi esattamente cento anni da quando la Calamità Ganon
ha
attaccato Hyrule.»
Cento
anni. Link vorrebbe avere più tempo per concentrarsi su
queste
informazioni mentre si sporge cautamente lungo una parete per
esaminare un corridoio buio. Ha bisogno di farsi un’idea
delle
eventuali vie di fuga. Avrà tempo dopo per chiedersi come
tutto
questo sia possibile: comunque, il piccolo guardiano è
arrivato nel
passato in un modo o nell’altro. Non è poi tanto
sorprendente che
sia successo un’altra volta. «Cento anni nel
futuro? Quindi io e
te non ci conosciamo.»
«A
dire il vero, sì. Tu sei ancora vivo nel mio
tempo.»
«Col
mio stile di vita, la cosa mi sorprende» osserva Link
solamente.
«Non ho mai pensato di diventare vecchio.»
Teba
esita. «Non ho mai detto che tu sia diventato vecchio.
Cioè… non
per ora, almeno. È complicato.»
Link
aggrotta la fronte senza rispondere perché non riesce
proprio a
immaginare cosa intenda questo misterioso Rito.
«Io
sono morto, invece. Vero?»
La
domanda giunge calma e priva di emozioni come se Revali si stesse
limitando a enunciare l’unica deduzione plausibile con le
informazioni a sua disposizione. Teba lo guarda senza rispondere,
allora Revali si raddrizza contro la parete cercando una posizione in
cui continuare a tenere premuta la ferita sotto l’ala.
«Non hai
bisogno di risparmiarmelo, Teba, ma ti ringrazio della tua cortesia.
Era piuttosto evidente quando mi hai visto e hai esclamato: maestro
Revali, siete ancora vivo?
Saresti veramente un pessimo bugiardo, lasciatelo dire.»
«Sì,
però…» Teba si guarda intorno cercando
le parole per quello che
deve dire. «Nel mio tempo voi siete morto su Medoh
all’avvento
della Calamità. Non è andata come sta andando
adesso. È possibile
che col mio arrivo le cose stiano in qualche modo cambiando?»
«Probabile,
direi» risponde Revali. «Ma se nel tuo tempo sono
morto, come mi
hai riconosciuto?»
Teba
spalanca le braccia. «Non lo so, maestro. Mi sono trovato qui
su
Medoh, e… Voglio dire, tutti sappiamo come siete fatto. I
nostri
guerrieri vi venerano ancora.»
Revali
gli scocca un’occhiata divertita. «Hai sentito,
Link?»
«Per
l’amor del cielo! C’era bisogno di dirgli che avete
fondato una
sorta di culto?» protesta Link alzando gli occhi al cielo.
«Non ti
sembra già abbastanza pomposo e pieno di sé
così com’è ora?»
«Non
lo so, Link. Potrei sempre peggiorare» commenta Revali
sogghignando.
«Risparmiami»
mormora Link osservando un punto cieco dietro una parete.
Teba
torna alla sua domanda. «Quindi, questa storia che siete
sposati…»
«Non
lo siamo nel tuo tempo?» chiede Link. «O
quantomeno, io non ti ho
mai detto di esserlo, o…? Non so neppure cosa
chiederti.»
«Tu,
nel mio tempo, hai perduto ogni memoria di quello che sta accadendo
in questo preciso momento» risponde Teba. «E a dire
il vero neppure
nelle nostre storie e nelle nostre leggende ho mai sentito dire che
né tu né il maestro Revali foste sposati,
tantomeno tra di voi.
Però devo dire che questo spiegherebbe molte cose.»
Quali
cose?, sta per chiedere
Link; ma è destinato ad aspettare ancora un bel
po’ prima di
scoprire che cosa spiegherebbe il suo matrimonio.
Con
uno stridore inascoltabile, perforante, acuto, appare
l’emanazione
della Calamità. È orrenda: è un mostro
che appare fatto della
stessa sostanza nera, vischiosa, della corruzione che ha contaminato
Medoh; non è bestiale né antropomorfa,
è pericolosa e incostante e
affamata. È in fondo al corridoio oscuro che si apre nel
ventre di
Medoh, ma li ha sentiti, ed è mortalmente rapida: Link
indietreggia
nella stanza per proteggere Revali e domanda a bassa voce:
«Teba,
posso contare su di te?»
Teba
sfodera il suo arco e avanza di un passo. «Certo, Link. Come
l’altra
volta. Cioè… oh, lascia perdere. Te lo
racconterò poi.»
Revali
si alza appoggiandosi alla parete e imbraccia l’arco malgrado
le
ferite: la punta delle sue dita trema appena per lo sforzo. Con lo
scudo parato, la spada in pugno, Link scivola di lato fino a
proteggerlo col suo corpo. «Resta fermo» sibila.
«Me ne occupo io.
Tu comprimi la ferita e resta dove sei.»
«Link…»
«Maestro,
vi prego» insiste Teba. «Lasciate che ci occupiamo
noi dell’Ira.
Voi siete già rimasto ferito.»
Qualcosa
nel tono in cui lo dice lo informa che Ira
è il nome della cosa
orrenda, mostruosa, che in questo momento sta risalendo il corridoio
per venire a ucciderli. «L’avete chiamata voi due
così?» chiede
Link. Parlare è un modo come un altro per spezzare la
tensione.
«Significa qualcosa nel tuo futuro?»
«No»
risponde Teba schierandosi al suo fianco con gli occhi rivolti verso
lo sbocco del corridoio. «È solo che ci
è sembrata molto
arrabbiata.»
L’Ira
stride facendo irruzione nella vasta sala con una rapidità
maggiore
di quella che Link ha visto fino a quel momento. Ha una testa
orrenda, semiumana, coronata da una chioma selvaggia che pare fatta
della stessa sostanza vischiosa che Link ha imparato ormai ad
associare alla Calamità, e osceni occhi vitrei come quelli
dei
guardiani. Ha appendici asimmetriche dove dovrebbe aver le braccia:
una di esse è una bocca da fuoco. Link ha appena il tempo di
elaborare questo pensiero quando l’Ira la solleva contro di
lui e
Teba grida: «Giù!»
Link
ha imparato abbastanza in fretta a buttarsi giù senza fare
domande
quando sente urlare giù,
e probabilmente non sarebbe qui se non lo avesse imparato il suo
secondo giorno nell’esercito; ma dietro di lui
c’è Revali. Link
si ripara dietro lo scudo da una serie di proiettili luminosi che
esplodono a contatto contro lo scudo facendogli tremare il braccio:
la situazione si sta chiarendo rapidamente nella sua mente ogni
secondo che passa. Non possono combattere lì dentro, dove le
esplosioni minacciano di coinvolgere loro più del nemico; ma
non può
nemmeno lasciare Revali da solo, e non solamente perché
è ferito,
ma perché è certo che potrebbe fare qualcosa di
tremendamente
stupido altrimenti.
«Cerco
di attirarlo fuori!» urla rivolto verso Teba, che
è rotolato al
suolo a pochi metri da lui. L’Ira si sposta rapidamente nella
sala
per minimizzare il rischio d’essere colpita, e questo gli
dà
qualche secondo per ripensare una strategia. «Puoi restare tu
con
Revali?»
Teba
sembra comprendere la sua strategia senza bisogno di parole, ma
scuote la testa. «Io posso sfruttare
l’altezza!» risponde.
«Lascia andare me.»
«Link…»
inizia Revali in tono di ammonimento, col volto contratto dal dolore;
ma Link non ha la benché minima intenzione di starlo a
sentire. Se
l’Ira sparerà un’altra volta, non
è certo di poter difendere
Revali, e ha lasciato indietro già troppi guerrieri per
salire
quassù a salvarlo: ora deve fare la sua parte. Cerca il
contatto
visivo con Teba per l’ultima volta per accertarsi che abbia
capito,
a prescindere che sia o meno d’accordo, e Teba esita e infine
annuisce.
Non
si volta a guardare Revali perché non vuole vedere la sua
espressione. Link si abbassa dietro lo scudo e corre verso il
corridoio scuro che porta al di fuori della sala mentre l’Ira
di
Ganon lo insegue con colpi che esplodono sulla sua scia come bombe e
Teba si para di fronte a Revali per proteggerlo.
Link
percorre il corridoio correndo con l’Ira che lo insegue
stridendo:
il suo piano ha funzionato. Quest’emanazione mostruosa non ha
intelligenza sufficiente da comprendere il concetto di strategia; ma
questo è tutto il vantaggio che gli rimane. Una volta fuori,
sarà
da solo, in un campo aperto e sterminato, privo di ogni riparo,
contro di lei.
La
larga schiena di Medoh, coperta di muschio, è spazzata dal
vento e
da alterne correnti ghiacciate che gli mozzano il fiato non appena si
ritrova all’aperto: a quest’altezza non nevica
neppure più,
piovono solo cristalli di ghiaccio sottili che gli frustano le
guance. L’umidità dell’aria si condensa
nel suo respiro e sulle
sue ciglia, gli occhi gli bruciano nel vento: si sforza di battere le
palpebre con regolarità e di tenerli aperti
nell’aria ghiacciata.
Continua
a correre per la lunghezza delle grandi ali sapendo di venire
inseguito: volta solo il capo sulla spalla, senza fermarsi, per
guardare dietro di sé. All’esterno l’Ira
di Ganon pare gonfiarsi
a dismisura, ingigantirsi, come se potesse adeguarsi allo spazio a
disposizione, si fa immensa: ma Link non perde neppure tempo ad avere
paura. In battaglia non ricorda d’averne avuta mai. Accelera
fino a
mettere la maggiore distanza possibile tra sé e la bestia,
poi si
volta di scatto a metà dell’ala che gli appare
sterminata, incocca
una freccia esplosiva nell’arco Aquila e scocca mirando al
vitreo
occhio osceno dell’Ira.
L’onda
d’urto dell’esplosione è forte a
sufficienza da sbalzarlo in
avanti di qualche metro: Link ne sente tutto il calore sul volto e
sulle mani. È lontano a sufficienza da non bruciarsi. Quando
alza lo
sguardo facendosi schermo con lo scudo, l’Ira ulula impazzita
di
rabbia e di dolore. L’esplosione le ha portato via
l’occhio
azzurro da guardiano: è cieca, ora. A lui invece rimangono
una
decina di frecce esplosive.
Proprio
perché è cieca l’Ira di Ganon solleva
il suo braccio armato e
spara alla cieca ovunque, anche verso di lui: Link si rannicchia
dietro il suo scudo massiccio, enorme, e lo sente tremare e gli
strati sovrapposti di legno e di ferro incrinarsi in
profondità: tra
poco sarà inutile, e il meglio che potrà fare
sarà gettarlo
addosso alla bestia per prendere tempo, forse; per il momento, va
ancora bene; ma sparando alla cieca, prima o poi l’Ira lo
colpirà.
D’un
tratto sente, da qualche parte sul dorso di Medoh, sente il ruggito
dei misteriosi meccanismi di Medoh che ruotano e scivolano gli uni
sugli altri per aggiustarsi in risposta a oscuri comandi. Il Colosso
non sbanda più alla deriva in preda alle correnti, cessa di
solcare
il cielo di Hebra sterminato che s’imbianca nella
luminescenza
lattiginosa dell’alba; ma è un altro il rumore che
ha sentito.
Corre in direzione del dorso centrale di Medoh scandagliando la sua
mente per cercare di ricordare com’è che fa a
conoscere quel
rumore e perché sa di
doversi dirigere proprio là.
Revali
non riesce proprio a dargli retta e a lasciar fare a lui.
Dev’essersi
trascinato ai comandi di Medoh, malgrado le ferite, e ha aperto le
vaste griglie dalle quali provengono fiotti d’aria che si
elevano
come dagli sfiatatoi del Volodromo. Gli viene quasi da ridere, e
forse riderebbe se Revali non fosse ferito e un’emanazione
della
Calamità non lo stesse inseguendo alla cieca come un segugio
privo
di occhi e di fiuto: senza saperlo né volerlo, Revali lo ha
allenato
per mesi a fare quello che deve fare in questo momento.
Link
spiega la paravela e si eleva al di sopra della vasta schiena di
Medoh nel vortice che lo strappa bruscamente da terra mentre
l’Ira
cerca affannosamente nell’aria il rumore dei suoi passi che
si è
spento d’improvviso. Spara ancora rivolgendo il braccio verso
terra: i proiettili esplodono al suolo provocando onde d’urto
che
lo fanno oscillare nell’aria: finora lo ha visto correre,
realizza
Link. Di certo non si aspetta che possa volare: ma se ne
accorgerà
presto.
Scocca
la seconda freccia esplosiva lasciandosi cadere dall’alto
come ha
fatto al Volodromo per tutti questi mesi: l’arco Aquila si
piega
sotto le sue mani docile come burro, la forma orrenda
dell’Ira di
Ganon si delinea di fronte ai suoi occhi come se il tempo rallentasse
soltanto per lui, la freccia solca l’aria e colpisce
l’emanazione
sull’appendice che termina in una bocca da fuoco; poi
l’esplosione
erutta come un fiore di fuoco.
Link
non aveva calcolato che precipitando dall’alto si sarebbe
avvicinato all’esplosione molto più rapidamente di
quanto gli
fosse prevedibile o auspicabile. L’onda d’urto
stavolta lo
investe in pieno travolgendolo, la fiamma lo accieca e il boato lo
assorda per un momento, e Link si ritrova sbalzato indietro e impatta
contro il suolo riuscendo a stento a proteggersi il capo con le
braccia.
Rotola
più volte senza vedere né sentire nulla, certo
che ora l’Ira lo
sentirà, lo colpirà, che non ha modo di
difendersi finché non
tornerà a vedere o a sentire dopo l’esplosione:
sbatte le palpebre
furiosamente per recuperare la vista, ma i suoi occhi non vedono
altro che chiare forme luminose, colorate, come dopo aver fissato
troppo a lungo il sole, e le sue orecchie sentono solo un ronzio
indistinto e confuso che dev’essere lo strillo acuto e
insostenibile dell’Ira di Ganon mutilata che urla di dolore.
Si
solleva in ginocchio riparandosi gli occhi col gomito per sforzarsi
di vedere qualcosa, qualsiasi cosa, che possa fornirgli un riparo o
un rifugio anche per un istante solamente: ma riparo o rifugio non ce
n’è. Conosce la larga distesa della schiena di
Medoh, ormai: non
c’è niente dietro cui nascondersi. Annaspa alla
cieca con le dita
cercando il suo scudo, ma non lo trova: dev’essere caduto da
qualche parte, lontano da lui. Può soltanto restare in piena
vista,
pregando che l’Ira di Ganon impieghi più di lui
per riprendersi
dal colpo: non può vederlo, ma può ancora
sentirlo, forse, e Link è
consapevole che il suo petto si alza e si abbassa rapidamente e che
sta boccheggiando in cerca d’aria. Se lo sente, è
la fine. Dopo
dovrà pensarci Teba.
D’improvviso
l’aria sembra tremare di un’altra esplosione,
stavolta più
lontana; il gomito che Link aveva già sollevato contro gli
occhi lo
ripara a sufficienza: al di sotto di esso, sbattendo le palpebre,
Link si sforza di vedere qualcosa. Teba si è frapposto tra
lui e
l’Ira di Ganon e la sta tempestando di frecce: il mostro
è a
terra, è cieco, mutilato, eppure si muove ancora. Le frecce
penetrano nelle sue carni con suoni orrendi, disgustosi, che
attraversano il ronzio che copre le sue orecchie, come se si
trattasse di una materia marcescente.
Lo
intravede a malapena attraverso le grandi macchie di luce che si
dilatano ai margini del suo campo visivo. Link si alza in piedi e
sfodera la Spada che esorcizza il male, stancamente, e arranca
attraverso Medoh; è costretto a sorreggersi alla Spada. La
lama
emette una luminescenza azzurrina nel chiarore dell’alba:
forse il
Grande Albero gliene aveva parlato, ma adesso non ricorda. Grida:
«Teba!»
Teba
china lo sguardo su di lui e comprende quello che sta per fare: forse
è vero che si conoscono già, nel futuro,
quantomeno, e che hanno
combattuto insieme. Abbassa l’arco per non rischiare di
colpirlo
inavvertitamente, ma continua a tenere sotto tiro l’Ira che
agonizza al suolo.
Link
solleva la Spada e ne conficca la punta nel cuore dell’Ira di
Ganon. La sospinge con tutto il proprio peso, affondandola nella
carne repellente dell’emanazione, che che si dissolve come
nebbia
stridendo di dolore.
Si
lascia cadere in ginocchio, col petto che annaspa in cerca
d’aria
freneticamente ma un po’ più piano, e domanda:
«Dov’è Revali?»
Gli
sanguinano le braccia là dove hanno impattato col suolo per
proteggergli il capo e il collo, ha le mani tremanti per lo sforzo di
aggrapparsi alla paravela, le orecchie che a poco a poco tornano a
sentire senza ronzii né fischi; ma va bene, dice a se stesso
rapidamente. È stato peggio, s’è fatto
di peggio. È vivo, Revali
è vivo anche se ferito; va tutto bene.
Teba
plana al suo fianco per aiutarlo, riponendo l’arco. Usa un
arco
Falcone, nota Link in modo quasi inconscio: ne ha usato uno anche
lui, più piccolo, mentre si allenava al Volodromo.
«L’ho
lasciato ai comandi di Medoh. Non sono riuscito a convincerlo a
riposarsi ancora» ammette. «Mi dispiace. Sono
riuscito soltanto a
costringerlo a restare al piano di sotto.»
Link
scuote il capo. L’aria riempie i suoi polmoni a grandi
boccate.
«Hai fatto anche troppo. Non so cosa ricordiate di lui da
dove vieni
tu, ma non è facile averci a che fare. Non pensavo che
sarebbe
rimasto giù.»
Quando
leva gli occhi su di lui, Teba lo sta osservando in silenzio.
«È
così strano incontrarti nel passato» dice in
fretta per
giustificarsi quando si accorge del suo sguardo. «Non mi
sembra
vero. Anche nel futuro abbiamo combattuto insieme per liberare Medoh,
cioè… combatteremo. Non lo so
più» si schermisce nervosamente, e
per mascherare il suo disagio e il suo nervosismo gli porge la mano
per aiutarlo a rialzarsi. Link l’afferra volentieri
perché non è
sicuro che sarebbe in grado di rimettersi in piedi altrimenti.
«Andiamo
giù» dice. «Dobbiamo salvare Urbosa, ma
vorrei che Revali
riposasse alla roccaforte di Hebra e si facesse visitare da un
medico. Urbosa è…»
«So
chi è Urbosa» lo interrompe Teba. «E
anche gli altri Campioni. Non
hai bisogno di spiegarmi niente, Link. Non preoccuparti. Non ho idea
di cosa stia succedendo, ma dimmi come posso aiutarti e lo
farò.»
Link
annuisce senza neppure sforzarsi di capire perché sente che
sarebbe
impossibile. «Dovrai spiegarmi tutto, più
tardi» lo avverte mentre
scendono nel ventre profondo di Medoh.
«Com’è il tuo futuro, e
tutto il resto.»
«Non
sono sicuro che tu lo voglia sapere» risponde Teba cupamente.
«E
comunque, inizio a sospettare che sia molto diverso. A cominciare dal
vostro matrimonio, cioè.»
«Non
è proprio un vero matrimonio» si sente in dovere
di specificare
Link, perché gli pare disonesto non dirlo: in fin dei conti,
non lo
è, e gli pare giusto che Teba lo sappia, se devono
combattere
insieme.
«Lo
so. Non preoccuparti. L’avevo capito.»
«Davvero?»
chiede Link. Per un attimo prova all’altezza della bocca
dello
stomaco qualcosa di molto simile alla delusione.
«Certo.
L’ho capito subito quando la prima cosa che hai fatto quando
hai
visto che era vivo è stata infilargli la lingua in
bocca.» Link si
sente avvampare fino alla punta delle orecchie e apre la bocca per
protestare. La richiude piuttosto in fretta quando si accorge che non
ci sono tante obiezioni possibili di fronte a questa osservazione.
Teba sorride benevolmente. «Il maestro Revali non ha parlato
che di
te tutto il tempo. Anche quando stavo per cedere continuava a
esortarmi dicendomi che suo marito sarebbe arrivato ad aiutarci.
Sebbene io debba ammettere di aver pensato che le sue fossero
allucinazioni dovute alla stanchezza» aggiunge.
«Non ho mai saputo
che il maestro Revali fosse sposato. Tantomeno con te.»
Link
è lieto che la loro conversazione sia finita prima che
arrivino
nella sala dei comandi di Medoh. Revali è ancora in piedi,
appoggiato contro il nucleo di controllo del Colosso Sacro; ma ha il
volto contratto dal dolore, e Link vorrebbe disperatamente poterlo
costringere a dargli retta e a lasciar fare a lui e a riposarsi, una
buona volta, e a badare alla sua ferita.
«Ti
avevo detto di stare fermo e di comprimerla» gli dice con
rabbia.
«Certo.
E tu sai quanto io tenga sempre nella massima considerazione la tua
opinione» risponde Revali. «Ho pensato che ti
facesse comodo un po’
d’aiuto. Che senso avrebbe avuto altrimenti insegnarti a
maneggiare
il mio arco se non potevi sollevarti con quella tua paravela?»
«Me
la sarei cavata anche da solo» borbotta Link, che non
è affatto
sicuro che sarebbe ancora vivo se Revali non avesse attivato i getti
d’aria sul dorso di Medoh; ma l’ego di Revali
è già
sufficientemente ben nutrito senza che ci sia bisogno di fornirgli
ulteriore materiale. Lo trascina a sedere contro una parete per
controllare di nuovo la ferita: Revali lo lascia fare senza agitarsi
troppo. Non sanguina più molto, ma tutto il piumaggio del
busto di
Revali è intriso di sangue secco, scuro: deve averne perduto
molto.
«Ora mi farai il piacere di stare fermo e lasciar fare a noi?
Dobbiamo invertire la direzione di Medoh e riportarlo alla roccaforte
di Hebra. Voglio che ti visiti un medico.»
«Avete
evacuato, quindi» dice Revali. La sua voce ha perso ogni
accenno del
suo sarcasmo di prima. «Ci sono stati…»
«Stiamo
tutti bene» lo interrompe Link. «Dovresti avere
più fiducia in
Kagan, sai? Se l’è cavata benissimo da solo. Non
che io sarei
stato di molto aiuto, comunque. Ha dovuto preoccuparsi anche di
me.»
«Cos’è,
sei affondato nella neve?» chiede Revali scompigliandogli i
capelli.
«Come i pulcini?»
«Avevo
paura per te» risponde Link guardandolo negli occhi, e questo
basta
a metterlo a tacere per qualche secondo. «Bene. Puoi stare
seduto
qui e dirci cosa fare per pilotare Medoh? Dare ordini e insegnare
agli altri cosa fare è una cosa che ti è sempre
riuscita bene, mi
pare.»
«Tutto
mi è sempre riuscito bene, se è per
questo.» Revali si raddrizza
contro la parete. «Ma non è così
semplice. Non ti ricordi che
abbiamo fatto decine di voli di calibrazione con la principessa? Non
basta premere un pulsante.»
«Lo
so, ma non abbiamo tempo» insiste Link. «Dobbiamo
salvare Urbosa,
liberare Vah Naboris.»
«Anche
lei, dunque» mormora Revali, e Link comprende senza bisogno
di dirle
le implicazioni delle sue parole: fino a quel momento aveva pensato
d’essere il solo dei Campioni a essersi lasciato cogliere
impreparato.
Posa
una mano sulle sue ali e mormora: «Tutti gli altri. Non so se
riusciremo a salvarli, ma dobbiamo almeno provare. Non possiamo
soltanto lasciarli.»
«E
la principessa?»
«È
salva. Impa l’ha condotta alla roccaforte di Hebra con la
tavoletta
Sheikah, poi ha accettato di accompagnarmi qui. Tu sei il primo che
abbiamo liberato.»
«Allora
avete sbagliato. Avreste dovuto salvare prima Mipha oppure
Urbosa»
conclude Revali alzandosi. Link vorrebbe picchiarlo, ma Revali si
trascina di nuovo ai comandi. «I loro poteri avrebbero potuto
esserci più utili in battaglia. Io avrei fatto
così. E comunque
Impa dov’è?»
L’impulso
di picchiarlo si sta facendo sempre più forte ogni istante
che
passa. Se Link si trattiene, non è perché Revali
è ferito: è
perché Teba li sta osservando dal fondo della sala,
profondamente
imbarazzato, sforzandosi in ogni modo di far finta di non esistere e
di non star assistendo a un litigio coniugale.
«Scusami
se il mio primo pensiero è stato quello di salvare mio
marito. Se
questo è il ringraziamento, la prossima volta ti
lascerò qui,
allora. Va bene?» Revali si china sui comandi senza neppure
rispondere. «Impa è rimasta a terra con Derdran
per darmi il tempo
di salire su Medoh.»
Questa
volta Revali non può fare a meno di voltarsi.
«Derdran?» ripete
con profondo fastidio.
Link
vorrebbe provocarlo e farlo ingelosire solo perché
è troppo
arrabbiato con questo dannato Rito; ma sono in guerra e non
c’è
tempo di giocare. Si sforza di controllarsi. «Sì,
Derdran. Ci ha
accompagnati con una squadra di arcieri per farci guadagnare
tempo.»
«Ha
lasciato sguarnita la roccaforte di Hebra per venire qui?»
protesta
Revali. «Ma ci sono i vecchi e i bambini, avrebbero
potuto…»
«Vorresti
per favore essere grato del fatto che ti abbiamo salvato e stare
zitto per una volta in vita tua?» urla Link.
Incredibilmente,
funziona. Quella è la seconda volta che Revali lo sente
urlare, ed è
la seconda volta che ammutolisce e non protesta più. Il
fatto che la
ferita sotto la sua ala scelga proprio quel momento per riprendere a
buttare sangue potrebbe concorrere all’ottenimento di questo
risultato, perché per un istante Revali vacilla e si
appoggia al
pannello dei comandi, inspirando profondamente, e Link si precipita a
sostenerlo.
«Per
favore» mormora. Non c’è più
bisogno di urlare. «Per favore,
portaci alla roccaforte di Hebra e scendi per farti visitare da un
medico. Io e Teba ce la caveremo e salveremo Urbosa, se è
ancora
viva. Te lo prometto, ma tu devi riposare.»
«Ho
già invertito i comandi mentre discutevamo»
risponde Revali. La sua
voce fuoriesce a fatica, è dura, ma non lo sta respingendo.
Lo
guarda con pazienza mentre Link si china per l’ennesima volta
a
osservare la ferita. «Starò bene, Link, ma non
posso semplicemente
insegnarvi a pilotarlo in mezz’ora. Non funziona
così. Devo venire
con voi anch’io. È l’unico modo, e Medoh
potrebbe esserci utile,
comunque.»
«Ma
la ferita…»
«Non
è così grave come sembra, credo. Butta sangue
perché è una zona
molto irrorata, ma non credo che siano coinvolti organi né
tendini,
perché altrimenti sarei morto o avrei smesso di muovere
l’ala già
da un bel po’. La cosa ti tranquillizza?»
Link
riflette rapidamente. Revali ha ragione, come quasi tutte le volte,
cosa che non gli dirà mai: hanno bisogno di Medoh per
raggiungere
Naboris, e hanno bisogno di Revali per pilotare Medoh. Non
c’è
neppure molto tempo per prendere una decisione: ogni minuto che passa
è un minuto di vita sottratto a Urbosa, se ancora
è viva e sta
combattendo all’interno di Naboris come ha detto Impa.
«Teba»
chiama. È la soluzione migliore che gli venga in mente, e,
più
probabilmente, l’unica. «Sai per caso ricucire una
ferita?»
Succede
tutto così in fretta che tenerne conto è molto
difficile; forse è
un bene. Se Link si soffermasse a riflettere su quello che deve fare,
sul fatto che gettarsi dall’alto su Naboris, alla cieca,
senza
sapere cosa vi troverà né se Urbosa sia viva o
morta, è una
follia, probabilmente non lo farebbe. Se vuole farlo, deve farlo
così: alla cieca, senza pensare né riflettere
né chiedersi se sia
troppo esausto o stanco per farcela; ma non può non provare
a
salvare anche lei. È stato già sufficientemente
egoista da salvare
Revali a dispetto di tutto; probabilmente questa è la
massima vetta
d’egoismo che abbia raggiunto mai in tutta la sua vita; ma
ora
basta. È ancora l’eroe di Hyrule, e Revali
è salvo.
Non
ha tempo neppure di pensare. Avvistano Naboris molto presto, dopo
neppure due ore di volo: quando è stata attaccata, Urbosa
deve aver
deviato i comandi della bestia sacra in modo da condurla in mezzo al
deserto, dove poteva minimizzare il rischio di arrecare danni; il
Colosso ha piegato due delle enormi zampe, quelle del lato di dritta,
e quando lo sorvolano è pericolosamente inclinato,
circondato da una
distesa di sabbia bruciata e semiliquefatta, in parte vetrificata.
Naboris è circondato da fulmini: Link non ha bisogno
d’altro per
saltare, perché fulmini voglion dire Urbosa. Se ci sono
fulmini,
Urbosa è viva.
Lo
accompagna Teba, che è anche l’unica ragione per
cui Revali
accetta di restare su Medoh a dispetto del suo orgoglio: poi tutto
accelera ancora, ulteriormente, fino a non poter tener conto di
quanto accade, ancora e ancora. In un certo senso è come
tornare su
Medoh un’altra volta, e scoprirvi, di nuovo, qualcosa che
dovrebbe
essere una sorpresa e che proprio per questo non lo è
più del
tutto: che Urbosa non è sola. Che a salvarla, dallo stesso
futuro da
cui proviene Teba, è giunta una ragazza Gerudo intimorita e
insieme
determinata che si rivolge a lei chiamandola grande
Urbosa, che non ha idea
di cosa sta accadendo ma egualmente farebbe di tutto per salvarla, e
che quando lo vede lo riconosce e lo chiama per nome. A quanto pare,
Link conosce anche lei nel futuro: gli gira la testa. Va avanti lo
stesso perché se si fermasse a rifletterci, a riprender
fiato e a
domandarsi che cosa accada, quale sia il significato di tutto
ciò,
non potrebbe più fare quello che va fatto. Avrà
tempo dopo per
pensare e farsi domande. Urbosa è estenuata ma viva.
Anche
quest’emanazione della Calamità è
furente e ferina, famelica e
implacabile: ha un potere simile a quello di Urbosa, è
rapida a tal
punto da scomparire dallo spettro del visibile; è armata di
spada e
scudo ancestrali, simili a quelli che portano alcuni guardiani; Link
non si sente sorpreso di vederla. Forse è proprio questa la
sua
salvezza: che ha già incontrato un’Ira di Ganon su
Medoh, che in
qualche modo sa cosa attendersi; che non ha più paura. Il
suo corpo
sembra agire per lui nella stuporosa nebbia di un sogno; ma la lotta
è più dura, stavolta, o forse lui è
più stanco, gli mancano le
forze. Non importa. Non può fermarsi né
rallentare.
L’Ira,
stavolta, è più rapida e spaventosa. Forse ha
percepito, in qualche
modo e misura, che è successo qualcosa all’altra
emanazione: è
furiosa e selvaggia, inarrestabile, e si muove tra loro in una nube
di fulmini stridendo come vapore; ma loro, adesso, sono quattro. Teba
l’attornia da ogni lato in un nugolo di frecce, attirando i
suoi
fulmini lontano da loro, e Urbosa e Riju gli girano attorno con le
loro lame come se danzassero, lacerando a ogni colpo la sua carne
repellente e allontanandosene rapidamente mentre l’Ira cerca
in
ogni modo di comprendere da quale lato debba difendersi con maggiore
urgenza; poi Link affonda nel suo petto la Spada che esorcizza il
male appoggiandovisi sopra con tutto il proprio peso come una
liberazione.
La
corruzione della Calamità impiastriccia le sue mani come un
fango
nauseabondo e urticante prima di dissolversi nell’aria, ma
lui la
vede ancora, la sente; forse le sue sono allucinazioni dovute alla
stanchezza: non saprebbe dirlo. Non riesce a pensare con chiarezza.
Urbosa
lo richiama alla realtà più volte schioccandogli
le dita davanti
agli occhi per riscuoterlo dal suo istupidito torpore, lo chiama per
nome: ma guardandola negli occhi tutto ciò che Link riesce a
balbettare è: «Perdonami. Avrei voluto arrivare
prima.»
«Link!
Ci hai salvate» ripete Urbosa, forse per l’ennesima
volta. Gli
scosta dagli occhi i capelli intrisi di un sangue che Link non sa
neppure più se appartenga a lui o a Revali e mormora:
«Stai bene?»
«Devo
tornare da Revali» risponde Link senza accorgersi che quella
risposta non è affatto adeguata alla domanda.
«È ferito. Devo
riportarlo alla guarnigione di Hebra.»
«Tu
stai bene?» ripete Urbosa, che non è disposta a
lasciar correre su
quella domanda: i suoi occhi lo percorrono nella sua interezza.
«Sto
bene» risponde Link senza sapere se sia la verità.
«E
gli altri?» chiede Urbosa a bassa voce. Persino lei ha paura
di
scoprire la risposta; ma ha il coraggio di porre la domanda
guardandolo negli occhi fino in fondo. «Sai se anche loro
sono stati
attaccati? La principessa Zelda?»
«Zelda
è salva. Impa l’ha portata nella guarnigione di
Hebra dove ci
siamo rifugiati io e gli altri Rito. Io e Impa siamo riusciti a
liberare Medoh e Naboris» risponde Link. «Quando
siamo partiti,
Mipha e Daruk stavano ancora combattendo sui Colossi. Ora non lo so
più.»
Urbosa
annuisce gravemente col capo. Lo stringe per le spalle.
«Link,
nessuno poteva fare di più, mi hai sentito? Sei stato
costretto a
scegliere. Lo sai meglio di me che in guerra si deve scegliere, a
volte. Non è colpa tua in ogni caso, sono stata
chiara?»
Sì,
lo è stata; ma questo, dall’oscura colpa di aver
scelto per il suo
egoismo, non lo assolverà mai. Posando le mani sui suoi
gomiti,
sulle sue braccia nude, Link l’attira a sé
perché si abbassi
verso di lui e dice disperatamente contro il suo orecchio,
perché
vorrebbe che lei sapesse e lo perdonasse e giustificasse le sue
azioni: «Ho scelto Revali perché è mio
marito. Perdonami. Proverò
a salvare anche gli altri, ma non potevo lasciare indietro proprio
lui. Sono stato egoista.»
Urbosa
sorride. Torna a districare i capelli dalla sua fronte, dolcemente, e
risponde dopo un momento: «Sei stato umano in tutti i modi in
cui
hai potuto esserlo, Link. A te e alla principessina abbiamo addossato
tanta parte del peso del mondo, per così tanto tempo, che a
volte
temo che vi abbiamo fatto dimenticare che siete umani anche voi,
persino voi, e che non potete fare poi molto più di
noi…»
Link
chiude gli occhi per un istante nelle sue parole perché
vorrebbe
sentirsene riscattato e redento molto più di
così; non si sente
assolto, eppure ne ricava un grande calore. Inspira profondamente. A
poco a poco gli sembra di tornare nel presente.
«Potete
aiutarci a tornare su Medoh?» chiede.
Urbosa
sorride stancamente allargando un braccio per presentare la sua nuova
amica. Sentendosi chiamata in causa, la giovane Gerudo si avvicina.
«Lei è Riju. A quanto pare, viene dal futuro. E ho
idea che sia da
dove viene anche questo guerriero Rito. Ho indovinato?» Come
sempre,
Urbosa è molto più intuitiva di lui. Link si
limita ad annuire per
confermare le sue supposizioni, perché non ha forze
né sufficiente
comprensione degli eventi per aggiungere altro.
«Ciao,
Link» dice Riju nervosamente. «Ho già
combattuto con te nel
futuro. Abbiamo liberato Vah Naboris anche lì, solo
che...»
«Solo
che non ci sarà nessuna Urbosa da salvare nel futuro,
immagino»
conclude Urbosa. Anche lei come Revali ha letto i nondetti nelle
parole di Riju, o forse ha soltanto dedotto che, se nessuno forse
venuto a salvarla nel presente, se non ci fosse stata una Riju ad
aiutarla in un certo momento, non sarebbe sopravvissuta. Riju guarda
verso Link come in cerca di un aiuto, ma Link non ne sa più
di
Urbosa, che non ha bisogno di altre conferme. «Lo immaginavo.
Mi
racconterai durante il viaggio. Ora aiutiamo questi due gentiluomini
a tornare su Medoh, che ne dici?»
Il
piano di Urbosa è semplice ed è lo stesso che, in
origine, avrebbe
voluto adottare Impa: utilizzare l’enorme estensione verso
l’alto
del lungo collo di Naboris per aiutarli a tornare su Medoh.
«Volete
venire con noi?» chiede Link. «Zelda è
sui monti di Hebra. Io e
Impa torneremo da lei per fare il punto della situazione, e
poi…»
«E
poi salverete Hyrule» risponde piano Urbosa. «Lo
so, ma non posso
portare Naboris a Hebra, e devo prima accertarmi che la mia gente sia
in salvo. Io tornerò alla Cittadella ad accertarmi che le
mie Gerudo
stiano bene e cercherò di ripulire il deserto dai mostri.
Bisogna
anche controllare che gli Yiga non abbiano approfittato della
situazione per…» Urbosa esita mentre dentro di
sé passa in
rassegna tutto ciò che l’aspetta; per un momento
sembrano mancarle
le forze. «Vi raggiungerò tra tre
giorni» promette infine.
Lo
stringe a sé per un istante prima di lasciarlo andare;
contro il suo
orecchio, solo per lui, mormora: «Non sarebbe colpa tua in
ogni
caso, Link. Ma io so che sono ancora vivi e che tu li
salverai.»
Quando
tornano su Medoh, Revali riesce a stento a restare ai comandi. Non
dice nulla, ma ha il volto contratto dal dolore e dallo sforzo di
rimanere in piedi: non lo ammetterà mai, ma deve aver
perduto molto
sangue.
Rimango
io con lui, si offre Teba
con gli occhi solamente, tu
riposa: ma Link scuote la
testa, si siede sul bordo del pannello dei comandi dal quale proprio
non ha modo di staccare suo marito e rimane in silenzio a
sorvegliarlo con lo sguardo. Contro il suo orgoglio e la sua
ostinazione non riuscirà a vincere mai; ma quantomeno non
intende
lasciarlo. Revali non gli dice nulla, forse perché non ne ha
le
forze; ma neppure gli chiede di andarsene. Link lo considera un
implicito invito a restare. Non dicono nulla neppure del bacio, ma
ogni tanto, quasi senza accorgersene, Revali posa una mano sulle sue
ginocchia, distrattamente, e la lascia lì per un momento
mentre
riflette su altro. Sotto di loro si apre una Hyrule contaminata dalla
Calamità: dalle vaste aperture sui fianchi di Medoh Link
intravede i
mostri che dilagano per le campagne e i neri viticci della corruzione
ovunque.
Quando
giungono in vista della roccaforte di Hebra, non
c’è neppure
bisogno di avvertire del loro arrivo: una piccola squadra di medici
Rito si leva in volo e sale sul Colosso portando delle barelle. A
quanto pare, Kagan ha sperato fino all’ultimo di rivederli
vivi, ma
ha pensato che potessero aver bisogno di aiuto. Forse li conosce
anche troppo bene, pensa Link mentre si sforza di convincere Revali
che la barella è un male necessario e che non può
assolutamente
volare finché la ferita sotto l’ala non
sarà del tutto
rimarginata. Alla fine Revali cede perché non ha forze
sufficienti
per raggiungere la guarnigione in volo. I medici scrutano Teba con
occhi enormi di stupore, ma non fanno domande. Link e Teba,
semplicemente, li seguono mentre portano Revali a terra.
Una
lunga baracca a nord della guarnigione è stata predisposta
come
ospedale da campo: quando ne varca la soglia al seguito dei
barellieri Rito, Link potrebbe giurare di sentire il suo cuore
emanare un lungo sospiro di sollievo. Derdran ha una lunga ferita al
sopracciglio, ma è vivo, e sta sorvegliando i ragazzi della
sua
squadra passando dall’uno all’altro per controllare
che stiano
bene. Impa non è neppure ferita, quantomeno non gravemente,
tranne
per alcuni graffi sulle guance e le tempie: non gli chiede niente, lo
guarda solamente, e in risposta alla muta domanda che i suoi occhi
esprimono Link annuisce soltanto per dirle che anche Urbosa
è salva.
Il suo volto si rilassa soltanto un poco: hanno ancora tanto da fare,
ma almeno due dei Campioni sono salvi.
I
barellieri depongono Revali in una zona dell’infermeria
appartata,
riparata da un paravento, e Kagan, che assai evidentemente non ha
dormito da quando li ha salutati, gli si getta al collo strappandogli
un grido di dolore. È strano vedere questo mite
capovillaggio armato
come i suoi soldati, ma è chiaro che ha mantenuto il suo
proposito
di tenersi pronto a difendere la roccaforte nel caso di un attacco
che per fortuna non è arrivato; e ora che finalmente il suo
guerriero più amato è tornato, a trattenere il
suo sollievo non
prova neppure.
«Ti
avevo detto di non andare!» gli dice quasi con rabbia, e
questo è
il modo più chiaro in cui riesca a esprimere tutto il suo
sollievo
di vederlo vivo.
«Mi
stai uccidendo» risponde Revali, districandosi dal suo
abbraccio per
comprimersi la ferita. Sorride a fatica. «Rito di poca fede.
Link è
venuto a salvarmi, no?»
«Poteva
non arrivare in tempo» insiste Kagan, che non sembra affatto
disposto a lasciarsi convincere da così banali
argomentazioni.
«Poteva morire anche lui. Ho pensato che non ti avremmo
rivisto mai
più, oppure che…»
«Kagan»
lo interrompe Revali a bassa voce. «Lo sapevamo entrambi che
poteva
andare così. È andata meglio di come poteva
andare. Tu, piuttosto,
da quand’è che hai ripreso a tirare con
l’arco?»
«Non
cambiare argomento» lo avverte Kagan. Per fortuna di
entrambi, un
medico si frappone tra lui e Revali e gli fa cenno di fargli spazio e
di lasciargli visitare il ferito, e Kagan è costretto a
rivolgere
altrove la sua attenzione. È solo adesso che si accorge di
Teba.
Rimane a osservarlo interdetto per qualche momento, e Link non sa
come presentarglielo altrimenti che dicendogli tutta la
verità che
conosce.
«Questo
è Teba, capo» dice. Si sente addosso
d’improvviso tutta la
stanchezza della marcia nella neve, delle lotte, del viaggio
interminabile e sconfortante. Derdran e Impa si avvicinano per
ascoltare. «Non so come altro dirtelo. È arrivato
dal futuro e ha
salvato Revali.»
«Da
un futuro nel quale io sono morto» interviene Revali, che
evidentemente non è in grado di star zitto e lasciar fare a
lui
neppure sotto le mani del medico. «Perciò ti
consiglio di trattarlo
bene, Kagan. Non sarei qui senza di lui.»
Sotto
gli occhi di tutti, Teba allarga le ali come a dire che non ha nulla
da aggiungere oltre a quello che è stato già
detto. Kagan l’osserva
in silenzio per un po’.
«Non
ci si può più sorprendere di nulla, di questi
tempi» constata
solamente. «Benissimo. Chiudete le tende e spiegatemi quello
che è
successo.»
Glielo
spiegano al meglio delle loro possibilità: le due Ire di
Ganon,
l’arrivo di Teba e di Riju da un futuro in cui Revali e
Urbosa sono
morti all’avvento della Calamità; Kagan ascolta in
silenzio senza
interromperli neppure una volta.
«Come
il piccolo guardiano della principessa Zelda» commenta Impa,
perché
evidentemente è giunta alle stesse conclusioni cui
è giunto Link, e
lui annuisce. «Quindi è lecito pensare che, forse,
anche Daruk e
Mipha…»
«Possiamo
sperarlo» dice Link: è tutto ciò cui
possono aggrapparsi in questo
momento, sperare che anche gli altri Campioni siano stati salvati. Si
guardano al di sopra del braciere che scalda la stanza: sono giunti
insieme anche a un’altra conclusione condivisa, che devono
andare
anche da loro. Che non possono semplicemente abbandonarli
perché
sono troppo lontani.
«Ti
bastano tre ore per riposare?» chiede Impa.
Link
vorrebbe partire subito, perché il suo riposo è
tempo sottratto
alla vita di Mipha, alla vita di Daruk, ma Impa ha ragione: in queste
condizioni non è in grado di andare da nessuna parte. Deve
mangiare,
riposare almeno un momento; poi tornerà alla guerra.
Annuisce
soltanto, e lei si alza, si scusa coi presenti e scivola via
dall’infermeria per andare ad avvertire Zelda. Posa solo, per
un
momento, la mano sulla spalla di Revali, e lui tocca la sua mano per
dar segno di averla sentita e per ringraziarla. Parleranno poi.
Kagan
sta ancora cercando di assimilare tutte le nuove informazioni che ha
ricevuto. Sta guardando Teba come se ancora non credesse alla sua
presenza lì.
«Cento
anni nel futuro, quindi?»
Teba
annuisce seriamente. «Ve lo giuro, capo Kagan. Nel mio
futuro, tutti
i Campioni sono morti il giorno stesso dell’avvento della
Calamità
e la principessa Zelda si è sacrificata per tenere la
Calamità
vincolata al castello di Hyrule finché Link non fosse stato
in grado
di combatterla di nuovo.»
Kagan
reclina il capo sul petto riflettendo ancora. «Ti crederei,
ragazzo,
davvero. È solo che mi sembra tutto così strano.
Sei proprio sicuro
che esista un futuro nel quale venerate la memoria di questo
stronzo?»
Revali
gli scaglia addosso un bicchiere col braccio non coinvolto dalla
ferita. «Questo stronzo, per tua informazione, è
qui, Kagan. Ed è
grazie a lui che tu sei il capovillaggio.»
Teba
si sta trattenendo dal sorridere. «Posso giurarvi anche
questo. I
nostri guerrieri venerano ancora la memoria di Revali e si allenano
quotidianamente al suo Volodromo per cercare di superarlo, compreso
mio figlio.»
Revali
si mette a sedere sulla branda per alzarsi. «Benissimo. Ora
che
abbiamo parlato a sufficienza del futuro culto della mia memoria, mi
pare di capire che ci siano ancora Daruk e Mipha da salvare. Direi
che Medoh…»
Link
si china istintivamente su di lui per impedirgli di alzarsi in piedi,
ma Kagan è più veloce di lui.
«Oh,
no, Revali» ribatte fermamente. «Non mi pare di
averti dato il
permesso di andare proprio da nessuna parte. Fino a prova contraria,
sono ancora il capovillaggio, grazie a te, come dicevi prima, quindi
mi devi obbedienza. Tu resterai qui finché il medico non
dirà
diversamente.»
Revali
lo guarda quasi con ironia. «Certo, Kagan. Come vuoi. Da
quand’è
che mi dai ordini?»
«Da
adesso» risponde Kagan con calma. «Sei in arresto.
Derdran, procedi
pure.»
Cala
il silenzio per un momento.
«Prego?»
esclama Revali mentre, più o
meno contemporaneamente, Derdran risponde: «Mi pareva che tu
avessi
detto di fargli le mie scuse, Kagan. Non è proprio la stessa
cosa.»
«Scusati
mentre lo arresti» risponde flemmaticamente Kagan.
«Non mi
interessa. Se questo è l’unico modo per
costringere questo dannato
testardo a restare in infermeria, lo mettiamo agli arresti e il
problema è risolto.»
«Non
puoi farlo!» protesta Revali. «Con quale
motivazione?»
Kagan
scrolla le spalle col massimo disinteresse. «Quella che vuoi.
Non
sono tenuto a formulare nessuna accusa per i primi tre giorni dal tuo
arresto, perciò il terzo giorno ti rimetterò in
libertà con tante
scuse. Anche prima, se il medico dovesse dare il suo consenso, cosa
che non credo darà. Sono stato chiaro?»
Revali
non si aspettava questa mossa. Cerca per un po’ qualcosa di
valido
da obiettare, ma non trova niente: quando torna ad appoggiarsi contro
i cuscini con una smorfia di dolore, è quasi ammirato.
«Non
pensavo che l’avrei mai detto, Kagan» commenta.
«Per questa volta
hai vinto tu. Ti basta la mia parola d’onore che non
cercherò di
scappare o vogliamo soddisfare qualche segreta fantasia di Derdran e
ricorrere alle manette?»
Sorridendo
forzatamente con l’aria di qualcuno che vorrebbe rispondere
in ben
altro modo e ben altri toni che quello, Derdran replica a bassa voce:
«Posso garantirti, Revali, che tu e un paio di manette nello
stesso
contesto siete quanto di più lontano io possa concepire da
ogni mia
possibile fantasia. Se a Kagan va bene, direi che un paio di arcieri
di guardia alla porta possono bastare.»
«Mi
fido del tuo giudizio» conclude Kagan. «Non
divulghiamo la cosa,
comunque. Avvisali soltanto che non ha il permesso di uscire, ma che
è per la sua stessa sicurezza. Solo coloro che erano
presenti qui e
la principessa Zelda hanno il permesso di entrare a visitarlo. Evita
di menzionare l’arresto, o rischiamo una rivolta. Siamo
d’accordo?»
«D’accordo,
capo. Comunque farò io il primo turno di guardia. Voglio che
i miei
ragazzi riposino il più possibile.»
Revali
sorride amabilmente nella sua direzione. A quanto pare, visto che gli
viene impedito di combattere, intende comunque prendersi qualche
soddisfazione. «Quindi passeremo qualche ora insieme,
Derdran. Mi è
parso di capire che mi dovessi delle scuse, sì?»
Link
si ferma di nuovo in infermeria prima di partire. Non
s’è
veramente riposato: ha mangiato qualcosa, ha chiuso gli occhi qualche
minuto, s’è cambiato d’abito, ha preso
uno scudo ancora integro,
e questo è quanto. Non si può più
aspettare; ma vuole salutare
Revali, prima di andarsene. Non ha precisamente paura, ma in fondo
non è certo che lo rivedrà. I soldati di guardia
lo fanno passare
senza fare domande: a quanto pare, è agli arresti davvero.
Link non
può che sentirsi velatamente ammirato dalla risoluzione di
Kagan
nell’impedire a Revali di ammazzarsi a qualsiasi costo.
Revali
sta riposando. Per evitare le oscillazioni delle tradizionali amache
Rito, è stato sistemato su una branda rigida in legno
ricoperta da
un sottile materasso di paglia, che ha il vantaggio d’esser
calda e
isolante: Link si siede al suo fianco piano, delicatamente, sul bordo
della branda, stando attento a non toccare i grandi bendaggi che gli
ricoprono il petto, e lo guarda solamente.
Revali
apre gli occhi nella penombra e mormora: «Ehi.»
È
la prima volta che sono soli da quando è partito: quante ore
sono
trascorse? Link neppure lo sa più. «Ehi.»
«Tu
e Impa state per partire?»
La
sua voce è più bassa e più quieta ora
che sono soli e che nessuno
li ascolta. Link annuisce. «Volevo solo salutarti.»
Revali
annuisce per dar segno d’aver capito. I suoi occhi guardano
altrove.
«C’è
qualcosa che potrei dire per convincerti a restare?»
«Vorresti
che restassi?»
«Vorrei
che non rischiassi la vita» risponde semplicemente.
«Ma non saresti
tu se non andassi, immagino. E poi, non possiamo soltanto
lasciarli.»
La sua voce ha come una vibrazione dolorosa a quelle parole: sta
pensando all’emanazione della Calamità, Link lo
sente come se
gliene parlasse; ma non ne parla e Link non chiede, perché
questo
dannato Rito è troppo orgoglioso e testardo per abbassarsi a
parlarne.
«Immagino
di doverti ringraziare, comunque» dice ancora Revali, e Link
si
riscuote da quei pensieri e domanda: «Per che cosa?»
«Sei
venuto a salvarmi, no? Siamo pari, adesso. Avevi tanta paura che non
saresti mai stato in grado di ripagare quel fantomatico debito che
dicevi di avere con me…»
«Non
sarò mai in grado di ripagarlo comunque» lo
interrompe Link. «E
non l’ho fatto per quello.»
A
questo punto, forse Revali dovrebbe chiedere: e
allora perché l’hai fatto?
Ma Revali non chiede perché è troppo orgoglioso e
fiero, e Link
potrebbe anche soltanto non dire altro e andarsene, lasciare
l’infermeria in una selva di sottintesi e sentimenti
impliciti; ma
ha già perduto Revali una volta. Ricorda cos’ha
provato quando ha
visto Medoh in preda alla Calamità e al disastro, la sua
disperazione nella neve, infinita, che non trovava fine come la
notte, più vasta delle montagne; ha conosciuto il rimpianto,
Link, e
non ha più intenzione d’esser stupido e imprudente
e di lasciare
Revali col pensiero che tanto ci sarà tempo, che prima o
poi, forse,
troverà il coraggio; che prima farà chiarezza
dentro di sé e poi
glielo dirà. Quella miopia non gli appartiene più
perché già una
volta ha pensato che fosse stata uno sbaglio e che, se avesse potuto
tornare indietro, avrebbe voluto dir tutto prima; e ora appunto gli
è
stato dato il privilegio di tornare indietro e cambiare le cose. Se
in quell’altro futuro c’è un Link che ha
perduto Revali, per
fortuna, non è lui.
«Sono
venuto a salvarti per primo perché ti amo» dice.
Gli occhi di
Revali si fanno impercettibilmente più grandi nel chiarore
del
fuoco. «Non ti sto chiedendo di dirmi niente se non vuoi.
Quello che
dirai tu non cambia quello che provo io, perciò non devi
sentirti
obbligato a dire lo stesso; ma io so che avrei sacrificato gli altri
per salvare te perché ho avuto paura di continuare a vivere
ugualmente anche se tu non c’eri più. Vedi bene
che le mie
motivazioni sono state molto più egoistiche di quello che
credevi
tu…»
Revali
non lo lascia finire perché lo attira a sé e lo
bacia. Link sente
il proprio cuore fermarsi per un istante.
«Torna
da me» mormora Revali contro le sue labbra.
«Promettimi di
tornare.»
«Lo
prometto.» È una bugia, Link non può
promettere perché la sua
vita, come la sua morte, non gli appartengono del tutto; sono
soggette a forze più grandi di lui; ma farà di
tutto per tornare,
perché morire, dopo aver promesso, significherebbe tradire.
«Lo
prometto.»
«Link…»
C'è un'urgenza nella voce di Revali che Link non ha sentito
mai.
«Non
è detto che li ritroviate vivi, o che sopravvivano se anche
farete
in tempo ad arrivare. Può darsi che tu e Impa stiate andando
soltanto a dir loro addio.»
Link
avverte al petto una fitta di dolore che finora si era sforzato
d’ignorare. «Lo so.»
«Allora
andate prima da Mipha.»
Questo
non se l’aspettava: Link lo guarda senza capire. Il piano che
ha
formulato con Impa prevede già di recarsi prima su Vah Ruta,
ma ha
la sensazione che Revali, per una volta, non stia parlando di
strategia militare. «Perché?»
«Perché…»
Revali posa la mano contro la sua guancia. «Non lo
ripeterò mai ad
altri che a te, ma per un momento, lassù, prima che
arrivasse Teba,
prima che arrivassi tu… persino io ho avuto paura.»
Link
lo sapeva, questo: non risponde. Chiude gli occhi reclinando il capo
contro il palmo della sua mano: pensa che sembra fatto apposta per
contenere la sua guancia.
Revali
parla ancora, dolcemente. «Andate prima da Mipha
perché, se è
ancora viva… in questo momento lei starà pensando
che vorrebbe
rivederti per l’ultima volta prima di morire.»
Link
apre gli occhi senza scostare il volto dalla sua mano. Lo scruta
nella penombra.
«Perché
dici questo?»
Revali
percorre con le dita un suo misterioso percorso lungo i suoi zigomi.
«Perché
è quello che pensavo io.»
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** Fanculo i teologi di corte ***
XIII – Fanculo
i teologi di corte
“It's
not a pleasant thought, John. But I have this terrible feeling from
time to time that we might all just be humans.”
“Even
you?”
“No.
Even you.”
Sherlock,
Ep. 4X02, The
lying detective.
Aveva
ragione Impa: era lecito supporre che anche per Mipha e Daruk fosse
intervenuto qualcuno a salvarli dal futuro. Questo è,
senz’altro,
il potere del piccolo guardiano, e la cosa, dopo Teba e Riju, non li
sorprende più del tutto; quello che non
s’aspettavano era di
trovare Mipha in compagnia di uno Zora alto e prestante, aggraziato e
selvatico come uno squalo, che ripete il suo nome con una punta di
venerazione molto vicina all’incredulità e alla
disperazione e che
Mipha chiama Sidon.
«Ma
Sidon non è lo stesso nome di…?»
mormora Impa mentre già le sue
dita si contraggono a formare complessi simboli di evocazione e di
protezione Sheikah.
È
lo stesso nome. Il fratello di Mipha è giunto dal futuro per
aiutarla, come Teba, come Riju: se questo è vero, allora
significa
che Sidon è l’unico degli eroi del futuro a essere
già vivo sulla
loro terra all’epoca della Calamità; Link
preferisce non
soffermarsi a riflettere sulla complessità delle
implicazioni di
questo evento. Sidon è alto e robusto come gli eroi delle
leggende,
è armato di due tridenti che maneggia simultaneamente e non
si
allontana da sua sorella neppure quando l’Ira che ha
conquistato
Ruta cerca di trafiggerlo con una lunga lancia che si riforma tra le
sue mani non appena l’ha scagliata, difendendola col proprio
corpo;
quando lo vede, sorride di un sorriso luminoso e lo chiama per nome.
Mipha, che forse a stento era riuscita a realizzare di star
combattendo al fianco di una versione più adulta di suo
fratello,
porta lo sguardo dall’uno all’altro senza capire:
ha occhi enormi
di stupore.
«Oh,
Link!» Persino in questa circostanza la sua voce è
dolce di una
dolcezza irreale che Link sente che non potrebbe meritare mai. Li
incalza un’emanazione della Calamità non dissimile
da quella che
Link ha già trovato su Vah Medoh e Naboris, oscena e
bestiale,
implacabile; lei e Sidon stanno resistendo, asserragliati nel ventre
di Vah Ruta, ormai da più di un giorno intero, soli; eppure
Mipha
ancora trova tanta tenerezza, dentro di sé, da rivolgerglisi
così.
Ha gli occhi pieni di lacrime, è stanca, graffiata,
estenuata: il
potere della sua preghiera scorre incessantemente sul suo corpo nel
tentativo di curarlo, e dev’esser così ormai da
ore: i suoi poteri
che si affannano a medicare le sue ferite, in continuazione, mentre
l’Ira di Ganon gliene infligge, in continuazione, ancora e
ancora;
è costretta a sostenersi al suo tridente; presto non
avrà più
forze, eppure Link legge, nel grande sollievo dei suoi occhi, nella
dolcezza della sua espressione, esattamente quello che Revali gli ha
detto prima che partisse: che in tutte queste ore Mipha ha
desiderato, ininterrottamente, di rivederlo. Ora che lo vede, che
sente che è venuto per lei, persino la sua stanchezza sembra
trovar
pace. «Sapevo che saresti venuto ad aiutarci.»
Schierandosi
di fronte a lei, con la Spada in pugno, senza osare di guardarla
negli occhi perché di sostenere il suo sguardo Link non si
sentirà
degno mai, Link risponde: «Ma certo che siamo venuti. Non
potevamo
lasciarvi.»
Vorrebbe
poterlo dire a testa alta, guardandola negli occhi, e forse in parte
è la verità: è qui, ora, e la sta
aiutando; non è del tutto una
bugia; ma la verità è anche che ha posposto la
sua salvezza, come
quella di Urbosa e di Daruk, a quella di Revali. Quest’oscura
colpa
che sente aleggiare dentro di sé e impregnare persino le sue
mani
riuscirà mai a confessargliela senza tradirla?
L’Ira
di Ganon è furente e rabbiosa e spazza l’aria di
fronte a sé con
una lunga lancia ancestrale simile a quelle che imbracciano i
guardiani; porta una mazza ferrata colossale, gigantesca, che si
configge al suolo in un nugolo di schegge di ghiaccio quando la
agita; il suo corpo sgraziato, troppo esile per la sua enorme testa,
sembra composto della corruzione stessa della Calamità
divenuta
carne; Link non ha idea di come Mipha e Sidon, da soli, abbiano
potuto resistere per un intero giorno da soli contro di lei, e di
certo non ne sarebbero stati in grado se non fosse stato per il
potere della preghiera di Mipha; ma lui e Impa sono qui, ora; e Impa,
a quanto pare, sente di non aver ancora combattuto a sufficienza, e
soprattutto è molto arrabbiata.
L’Ira
proietta su di loro schegge di ghiaccio taglienti come lame dalle
quali Link non può che nascondersi dietro il proprio scudo,
forse
solo un secondo troppo tardi, perché se ne sente bruciar la
fronte;
Sidon protegge Mipha avvolgendola in una nube d’acqua che si
fa,
sotto il suo volere, solida e impenetrabile come acciaio, ma Impa vi
scivola attraverso i proiettili di ghiaccio come se neppure potessero
sfiorarla. È rapida a tal punto che Link, per un momento,
non la
vede più, sembra quasi scomparire dallo spettro del
visibile: quando
i suoi occhi tornano a seguire i suoi movimenti, Impa è a
cavalcioni
delle spalle dell’emanazione e conficca con entrambe le mani
i
pugnali nella sua testa.
L’Ira
sgroppa ululando come un cavallo furioso, dalle sue ferite cola un
sangue denso e vischioso dall’odore nauseabondo; Impa si
lascia
sbalzar via senza opporre resistenza per aver modo di controllare la
propria caduta e Mipha si precipita a difenderla col proprio tridente
dalla lancia dell’Ira che spazza rabbiosamente
l’aria nel
tentativo di colpire qualcuno, chiunque; Mipha respinge i suoi colpi
levando il tridente di fronte a sé come uno scudo. Neppure i
colpi
furenti e selvaggi dell'Ira riescono a smuoverla; ma Sidon, che non
può permettere che Mipha rischi neppure per un istante
più del
necessario di venire colpita, lo attira via da sua sorella
scivolandogli davanti in un arco d’acqua che si solleva al
suo
passaggio come se venisse sollevata dalle ruote di un carro.
L'Ira
non sa più su chi concentrarsi. Colpisce alla cieca,
stupidamente,
levando senza guardare né capire l'immane mazza ferrata
ancestrale
che si abbatte al suolo levando schizzi d'acqua che la celano alla
vista; Link stringe le palpebre per prenderla di mira come farebbe in
una tempesta, seguendola con la punta di una freccia finché
non la
vede abbastanza chiaramente da scoccare, ancora e ancora,
strappandole grida di furore e rancore. Link vorrebbe cedere al suo
primo impulso, quello di tempestarlo di frecce elettriche da lontano,
riducendo al minimo indispensabile il contatto con la bestia; ma sono
immersi fino alle caviglie in uno strato d'acqua che condurrebbe
l'elettricità fino a loro; e gli Zora sarebbero ancora
più a
rischio di lui e Impa alla minima scossa. Le normali frecce di legno
che Revali ha confezionato per lui, per questa volta, dovranno
bastare.
Sidon
scivola sull'acqua come potrebbe volare nell'aria, disegnando nel
ventre di Ruta un percorso irregolare e imprevedibile per condurre
l'Ira il più lontano possibile da sua sorella; col corpo
trafitto
da frecce che affondano fino all'impennaggio nelle sue carni, l'Ira
cerca invano di prenderlo di mira con la lunga lancia ancestrale; ma
Sidon sfugge alla sua mira troppo rapidamente perché lei
possa
colpirlo. Talora si volta per un istante a cercare i suoi occhi, come
per trovarvi una muta intesa tra di loro; per un istante Link si
domanda se anche con lui, come con Teba e Riju, sia destinato a
combattere nel futuro, e se dunque Sidon conosca già i suoi
movimenti e le sue strategie; ma non ha tempo di soffermarsi su
questo pensiero. Sidon si ferma d'improvviso sollevando intorno a
sé
un'ondata d'acqua che si rifrange contro le pareti e con un unico
movimento fluido conficca entrambe le sue lance nel volto dell'Ira.
Da
sole quelle ferite non basterebbero; ma mentre Sidon tiene ferma
l’Ira, Link la trafigge alle spalle con la Spada che
esorcizza il
male. Basta un affondo solo. È quasi un’offesa di
fronte alla
resistenza strenua, disperata, di Sidon e di Mipha per tutte queste
ore, e alla Mipha che forse, secondo le parole di Teba, è
morta
nell’altro futuro, prigioniera per sempre
dell’emanazione della
Calamità e del ventre di Ruta come di una tomba: ma quella
Mipha era
sola, dice a se stesso. Non c’è vergogna nella sua
sconfitta come
in quella degli altri Campioni: nessuno di loro avrebbe potuto
vincere da solo, impreparato e confuso, di fronte
all’inatteso;
neppure lui, neppure con questa Spada sacra che esorcizza il male e
che è in grado di sconfiggere le emanazioni della
Calamità.
L’Ira
si dissolve di fronte a lui in un inferno di rancore e di quella
melma nera, densa e appiccicosa, che lo inzuppa fino alle braccia e
però scompare rapidamente mentre ancora Link la sta
osservando. Un
istante dopo, e questa è forse l’unica cosa
veramente inaspettata
che accada su Ruta, Sidon lo solleva tra lo braccia e lo stringe a
sé
esclamando: «Non avevo dubbi che saresti venuto!»
Questo
Zora sconosciuto che lo abbraccia fino a soffocarlo come se lo
conoscesse da una vita sarebbe già strano a sufficienza
perché Link
si trovi profondamente a disagio, anche se il suo volto non
affondasse contro l’incavatura del suo collo per un istante
più
dello stretto necessario. Cosa che invece fa.
«Ti
prego, dimmi che ci conosciamo nel futuro» mormora Link quasi
senza
fiato.
Sidon
scioglie l’abbraccio in cui lo ha stretto con
l’aria di aver
appena realizzato d’esser stato un po’ eccessivo.
«Scusa,
scusa» dice appena troppo in fretta. Link neppure sapeva che
gli
Zora potessero arrossire fino a questo momento. «È
solo che nel
futuro combattiamo insieme, e… perdonami. Mi sono lasciato
trascinare. Tu non puoi ricordarti di me, ovviamente. Sono Sidon, il
fratello di Mipha.»
Link
annuisce senza sapere che rispondere: presentarsi a sua volta
è
superfluo, a quanto pare, perché questi coraggiosi guerrieri
venuti
dal futuro a combattere coi Campioni senza por domande né
frapporre
esitazione lo conoscono già. Non riesce a farsene una
ragione. Dovrà
chiederne a Teba.
«Pare
che nel futuro tu combatta con un bel po’ di gente,
Link» commenta
Impa. I suoi occhi vibrano di una luce divertita e un po’
maliziosa
che a Link mette quasi paura. Sidon si volta verso di lei.
«Voi
dovete essere lady Impa» dice. Il suo tono ha perso la
spavalderia
carica di familiare di poco prima: è più basso e
rispettoso,
adesso, e reclina appena il capo verso di lei in segno di saluto.
«Non ci conosciamo personalmente nel futuro, ma mio padre ha
trattato molto con voi, come capo del villaggio Calbarico. Siete
molto più…» Sorride
d’imbarazzo mentre cerca le parole più
adeguate: il suo sorriso sembra un’arma più
pericolosa e letale,
in molti modi diversi, delle due lance che manovra simultaneamente in
battaglia. «Scusatemi. Voglio dire che io vi
conoscerò cento anni
nel futuro, e quindi…
«E
dunque io sarò, presumibilmente, di cento anni
più vecchia» lo
interrompe Impa sorridendo. «Non preoccuparti di offendermi,
Sidon.
Non posso lamentarmi. Mi pare di capire che tu provenga da un futuro
in cui i Campioni sono morti. Esser viva mi sembra già un
dono di
cui essere grata.»
Il
volto di Sidon si oscura d’improvviso. Guarda verso Mipha,
con
occhi carichi di dolore, e dice solamente: «Non so cosa sia
successo, ma non potevo lasciare che la prendesse di nuovo.
L’ho
già perduta una volta.»
Mipha
posa una mano sul suo braccio come in una carezza. Lo guarda con
occhi che non trovano voce per un momento, e Sidon posa la mano sulla
sua mano e la stringe. Non si dicono altro. Link non riesce neppure a
comprendere l’enormità del dolore di Sidon: non ha
mai avuto
sorelle né fratelli, eppure immagina che perderne uno sia
come
sentirsi strappare un braccio o una gamba e doversi misurare ogni
giorno, per sempre, con la portata enorme di quell’assenza,
avendola sotto gli occhi ogni giorno, come quel braccio o quella
gamba, destinata a non potersi rimarginare mai.
«Voi
sapevate già che Sidon veniva dal futuro, non è
vero?» chiede
Mipha infine distogliendo gli occhi da suo fratello. «E non
solo
perché l’ho chiamato per nome. Non siete rimasti
affatto stupiti.
Che cosa è successo?»
Impa
annuisce. «Crediamo che sia per il potere del piccolo
guardiano
della principessa Zelda. Anche Revali e Urbosa sono stati salvati da
due guerrieri provenienti dallo stesso tempo di tuo fratello. Sono
vivi anche loro.»
«Revali
e Urbosa» ripete Mipha. La sua voce conosce una breve
esitazione. «E
Daruk?»
Impa
tace per un attimo cercando gli occhi di Link. Non sa come dirlo.
«Speriamo che sia stato aiutato anche lui. Non sappiamo
altro. So
che avete combattuto fino a questo momento, ma pensi che tu e Sidon
potreste accompagnarci con Ruta il più vicino possibile a
Rudania
per permetterci di riconquistarlo?»
«Veniamo
con voi» si offre Mipha in fretta. È uno dei suoi
slanci generosi,
disinteressati e puri com’è lei; ma proprio in
risposta al suo
slancio sembra d’un tratto vacillare ed è
costretta ad appoggiarsi
alla Scagliadiluce. Sidon le è addosso per sostenerla prima
di
chiunque altro. Mipha si sforza di sorridere per tranquillizzarlo.
«Perdonami, Sidon. Sono solo un
po’…»
«Sei
esausta» la interrompe Sidon in tono lieve di rimprovero.
«Promettimi di restare su Ruta. Li accompagnerò
io. Io e Link
abbiamo già combattuto insieme, in fin dei conti. Me lo
prometti?»
«Sidon…»
«Ti
prego» insiste Sidon: la sua voce ha un accento di supplica
tale da
suonar quasi dura. «Non ti sto chiedendo di abbandonare il
tuo
compagno. Solo di restare su Ruta. Ti prego.»
Mipha
si arrende non alle sue ragioni, ma alla voce di suo fratello. Passa
una mano sul suo volto. «Starai attento, però.
Vero?»
Sidon
sorride del suo sorriso luminoso. «Prometto. Lady
Impa» aggiunge
levando gli occhi su di lei. «Avete già un piano
per avvicinarvi a
Rudania?»
Impa
sfodera la tavoletta Sheikah, che ha usato per trasportarli entrambi
sulle alture orientali, il più vicino possibile a Ruta, e la
usa per
mostrargli una mappa. Sidon si china su di lei per osservare il
percorso che le sue dita tracciano tra i monti di Akkala e Oldin fino
alle pendici del Monte Morte, là dov’è
attestato Rudania,
aggrappato alle pendici del vulcano in un inferno di calore e di
fiamme: il piano è di utilizzare Ruta per raffreddare la
lava
bollente che circonda la montagna e permettere loro di raggiungere il
Colosso. L’acqua però potrà proteggerli
solo dal fuoco: per le
orde di mostri disseminati sui sentieri che conducono al Monte Morte,
dovranno combattere, e Impa inizia a indicargli i sentieri
più
ripidi e impervi dov’è più improbabile
trovare lynel e magmarok.
Questa è una lingua che Sidon sembra conoscere molto bene;
si china
su di lei per indicare un punto sulla mappa e suggerire qualcosa;
Link si avvicina d’istinto per sentire, ma si sente chiamare.
«Link»
mormora Mipha. S’è avvicinata in silenzio,
discretamente, come
tutto quello che fa, come se temesse d’infastidirlo.
«Grazie di
essere venuto.»
Link
non sa cosa dirle. Vorrebbe prendere le sue mani e chiederle perdono;
vorrebbe confessarle, come ha fatto con Urbosa, che ha scelto di
salvare prima Revali perché… ma dirlo a lei non
è come dirlo a
Urbosa; portebbe con sé tutta una serie di impliciti e
sottintesi
che non sa come affrontare. Ma non può neppure mentirle,
arrogarsi
un merito di salvatore e di eroe che non ha né merita,
minimizzare
la portata enorme e le conseguenze infinite della sua scelta di
salvare Revali per primo, a dispetto di tutto, egoisticamente, per il
semplice fatto che lo amava.
«Avrei
voluto arrivare prima» dice. «Avrei dovuto, ma
Revali era su Medoh
e…»
«Link»
lo interrompe Mipha con una fermezza inflessibile, dolce, che Link
non si attendeva da lei. «Non ha importanza. Sei venuto
ugualmente a
salvarmi. Non eri tenuto…»
«Anche
tu sei venuta quel giorno» risponde Link. Non saprebbe dire
perché
gli paia così importante dirlo, fondamentale: forse
perché non ha
mai avuto occasione di dirle di averla riconosciuta, quel giorno,
né
di ringraziarla. «A Hebra, quando sei spuntata dal niente con
quei
medici militari e mi hai salvato…»
«Te
ne ricordi, quindi.» Gli occhi di Mipha si illuminano un
po’, ma
poi si assottigliano all’istante come per
un’improvvisa
preoccupazione. «Avresti dovuto essere svenuto. Quella
ferita…
devi aver sentito un dolore atroce. Credevo fossi
incosciente.»
«Non
ha importanza adesso» risponde Link, e lo pensa davvero:
quello è
stato prima. Della sua condanna a morte e del matrimonio e del
sacrificio che lui era pronto a fare: i Campioni per la vita di
Revali. Vorrebbe dirglielo, confessarglielo, anche se non trova le
parole; ma prima che possa parlare ancora, Mipha posa la mano sulla
sua tempia, tra i suoi capelli, e mormora: «Sei
ferito.»
Non
se n’è neppure accorto. Se ne rende conto soltanto
quando Mipha
ritira la mano e Link la vede macchiata di rosso vivido: è
sangue
recente. È l’unica prova che quella ferita risalga
a oggi, a
quest’ultima battaglia; per quanto ne sa potrebbe risalire a
ieri,
allo scontro su Medoh, a quello su Naboris. Fa per tirarsi indietro
da lei, ma Mipha torna a mettere la mano sulla sua fronte: Link sente
il potere della sua preghiera scorrere sulla sua pelle come un
balsamo. Chiude gli occhi per un istante tirandosi indietro dalla sua
mano.
«No»
dice. Da qualche parte, di fianco a lui, sente che Impa e Sidon
stanno salendo nel ventre di Ruta, forse per verificare che la strada
sia libera e sprovvista di mostri. «Ti prego.»
La
mano di Mipha rimane protesa verso di lui a mezz’aria, vuota.
Mipha
lo guarda stupita senza poter comprendere.
«Link…»
«Ho
dovuto scegliere da chi andare per primo» esclama Link.
È lieto che
né Impa né Sidon possano sentirlo, ma sente di
doverlo dire. Non
può lasciare che Mipha continui a medicare le sue ferite
dolcemente,
fiduciosamente, come tutto quello che fa, e intanto continuare a
tacere, ancora e ancora, e alimentare le sue speranze finché
lei non
lo scoprirà da sola. «E ho scelto Revali. Mi
dispiace. Non mi
merito le tue cure.»
«Link»
mormora Mipha. La sua voce trema. «Chiunque di noi sarebbe
stato
costretto a scegliere nelle tue condizioni. Revali ti ha salvato, e
tu gli dovevi così tanto…»
«Non
l’ho fatto per questo» risponde Link.
Mipha
tace molto a lungo mentre la portata delle sue parole si fa strada
dentro di lei.
«Perché
mi stai dicendo questo?» chiede a bassa voce.
Link
non risponde.
«Oh»
dice Mipha soltanto, chinando gli occhi, e per qualche momento non
aggiunge altro. «Da quand’è che te ne
sei accorto?»
Link
potrebbe mentirle: se lo facesse, lei gli crederebbe. Ma Mipha non
merita le sue bugie più della sua ingratitudine.
«Non lo so. C’è
una parte di me che lo ha sempre saputo, credo.»
«Mi
dispiace» mormora Mipha. «Devo esserti sembrata
molto sciocca,
vero?»
Questo
Link non può permetterle di pensarlo. Afferra la sua mano
quasi con
disperazione, tirandola a sé, e solo in quel momento Mipha
alza gli
occhi su di lui.
«Non
ho mai pensato che tu fossi sciocca» dice Link. Sente la
propria
voce farsi quasi dura nell’ansia di convincerla.
«Non ho mai
pensato… neppure per un momento… avrei soltanto
voluto non
infliggerti nessun dolore. Perdonami.»
La
luce si riflette negli occhi di Mipha come raggi di sole
nell’acqua,
tanto che Link non saprebbe dire se si tratti della normale
umidità
dei suoi occhi o di lacrime. «Non hai fatto nulla che io
debba
perdonare» osserva sorridendo tra il pianto. «Non
hai nessuna colpa
verso di me. Ma ti ringrazio di avermelo detto.»
Di
non avere nessuna colpa verso di lei Link non è certo
affatto; ma
non saprebbe dire a parole di quale colpa si tratti si tratti.
Abbassa lo sguardo perché quello di Mipha gli pare
d’un tratto
divenuto insostenibile. Dopo un istante sente di nuovo la sua mano
tiepida posarsi tra i suoi capelli e la preghiera di Mipha tornare a
scorrere sulle sue ferite e lenire il dolore. Vorrebbe che smettesse,
allontanarla, forse; ma non ne ha il coraggio.
«Mipha…»
«Non
ti ho mai curato perché mi aspettassi qualcosa in cambio da
te.» La
voce di Mipha è bassa eppure inflessibile.
«Così come tu non hai
mai salvato Hyrule perché ti aspettassi niente in cambio.
Questo non
cambierà mai, Link. Ricordatelo.»
Alzando
lo sguardo sul suo volto, Link risponde: «Non lo merito
ugualmente.»
«Io
penso di sì» risponde Mipha piano. «Sono
felice per te e Revali,
comunque.» Non devi dirlo
per me, vorrebbe dirle
Link, ma si trattiene: non le farà il torto di crederla
così
meschina. Mipha comprende la confusione del suo sguardo senza
ch’egli
dica niente. «A questo mondo c’è troppa
poca felicità perché
cerchiamo di portarcela via gli uni con gli altri. Sarò
sempre
felice per te, Link. Te lo prometto.»
Link
rimane in silenzio sotto il tocco benevolo dei suoi poteri e delle
sue mani. Non dice niente perché di fronte alla smisuratezza
della
sua bontà non gli rimane niente da dire.
Ruta
spruzza torrenti d'acqua che si rovesciano sul crinale della montagna
come marosi, trascinando a valle rocce e fango e boblin che si
dibattono ululando nel tentativo di non annegare.
Link
e Impa si sono impregnati gli abiti e i capelli d'acqua per
combattere il calore soffocante del vulcano: Ruta ha spento e
raffreddato in parte il magma e la lava che si sono solidificati
bruscamente al suolo, ma ancora l'aria proveniente dalle caldere
è
tanto calda e secca che potrebbe far bruciar loro addosso la stoffa
dei loro vestiti. Sono costretti ad avanzare a piedi sulle rosse
terre di Oldin sulle quali Ruta è troppo pesante per
inerpicarsi
rapidamente, su per i pendii scoscesi, contro una massa di boblin e
grublin che discendono dalla montagna come se nascessero dalla terra
e dal fuoco, brandendo clave infuocate e scagliando sassi e lava
solidificata.
Non
resta che farsi strada combattendo contro le orde di mostri
risvegliate dalla Calamità, e andare avanti, ancora avanti,
sulle
pendici ribollenti del vulcano. Link sente che il braccio gli fa
male, che le sue gambe gli sembrano diventate talora rigide e
doloranti come enormi tronchi che deve sollevare faticosamente, uno
alla volta, e trascinare avanti. Affonda la Spada nel ventre dei
mostri ancora, ancora, in continuazione; gli sembra che non finiscano
mai, che continuino a sgorgarne dal ventre della terra, furenti,
disperati, solo per venire a scontrarsi contro il suo braccio che
regge lo scudo, contro il suo braccio che brandisce la Spada. Gli
sembra di non fare altro ormai da ore che mulinare la Spada,
affondarla, tirarla indietro ogni volta più faticosamente
dal ventre
dei lizalfos, dei grublin: è la battaglia più
lunga della sua vita;
o forse è ancora la stessa battaglia, ancora e ancora,
contro il
male e la Calamità, che combatte da quando per la prima
volta ha
imbracciato una spada, da prima ancora di nascere, per infinite vite
passate che non sono appartenute veramente a lui, e che
continuerà a
combattere, ancora e ancora, molto tempo dopo che sarà morto?
Sente
chiamare il proprio nome. Per un attimo non capisca da dove provenga,
se dalla bocca del vulcano o dalle correnti dell'aria, ma poi alzando
lo sguardo intravede Impa in lontananza, leggiadra e distante dalla
terra, levarsi su una roccia al di sopra di lui: persino lei, che
è
abituata a scivolare in mezzo ai nemici con le sue arti Sheikah,
rapida tanto da esser quasi intoccabile, è insozzata di
sangue e
viscere fino ai gomiti e alle ginocchia; s'è tirata una
delle sue
maschere fino a coprirsene il naso, forse per filtrare l'aria troppo
secca del vulcano o gli odori repellenti dei mostri, e ora di lei
Link non vede che gli occhi, esausti come devono essere i suoi,
eppure incrollabili. Link vorrebbe possedere la sua stessa fierezza
e la sua stessa grazia; stagliata così nel cuore di una
battaglia
contro il vulcano e contro i mostri, Impa sembra intangibile e
irreale come una guerriera di qualche antica leggenda Sheikah della
sua infanzia: Link stenta a concentrarsi su quello che dice, deve
sforzarsi per sentire le sue parole al di sopra del vento e delle
urla dei mostri; ha quasi paura d'immaginarsele, forse
perché gli
sembra che provengano da una così grande lontananza. Si
domanda se
possano essere quelle le allucinazioni dovute alla stanchezza di cui
gli parlava Teba ieri, o forse non era ieri ma in un altro giorno:
chissà com'è che gli è tornato in
mente proprio questo. Gli stava
parlando di Revali, si ricorda: forse diceva che non aveva creduto,
all'inizio, al fatto che Revali fosse sposato; pensa alla grande
ferita sotto l'ala di Revali, al sangue che impregnava le sue piume;
non sembrava grave, eppure, se si fosse infettata...
«Link!»
urla Impa al di sopra del vento. L'urgenza nella sua voce lo strappa
alle profondità della sua mente che lo avviluppano come
abissi, Link
si sente richiamato alla realtà dal suo nome: Impa sta
indicando
qualcosa dietro di lui. Guidato da un istinto più
irresistibile
tanto della sua ragione quanto del suo delirio Link si volta e
affonda la Spada alla cieca nell'addome di un grublin che si accascia
addosso a lui crollando come una torre.
Impa
lo aiuta a sollevarsi ripetendo il suo nome, passa più volte
le mani
di fronte ai suoi occhi, e Link si concentra sulle sue mani nere di
sangue e sui suoni che compongono il suo nome. Si sente nelle
orecchie il suono del suo stesso sangue pulsare, come se vi premesse
sopra una conchiglia, e il suo stesso respiro affannato e lento,
raspante nel suo petto.
«Sto
bene»
dice al di sopra di quel respiro e di quella conchiglia, e finalmente
sente la propria voce tra i suoni della battaglia. «Sto
bene. Ce la faccio.»
«Solo
un Colosso, Link»
ripete Impa sostenendolo per le braccia, per il petto:
nell'intimità
della battaglia nessuno dei due sa più a chi appartenga
quale arto,
quale parte del corpo; il sangue che li ricopre e che per la gran
parte non appartiene a loro rende la loro pelle estranea a loro
stessi come una corazza che li protegge. «Ce
l'abbiamo quasi fatta, Link. Li stiamo salvando.»
«Non
come gli altri»
dice Link improvvisamente, e per un istante vede i suoi stessi dubbi
e i suoi stessi timori vacillare in fondo allo sguardo di Impa: non
come quegli altri Campioni che, nel futuro dei loro nuovi alleati,
sono morti il giorno dell'avvento della Calamità. Stanno
cambiando
quell'evento del passato, dunque, o almeno questo è quello
che è
loro dato credere sulla base di quello che sanno; ma questo che
garanzie dà loro di vincere?
«Link!
Lady Impa!»
Sidon
emerge al di sopra di un crinale di roccia: era andato avanti in
avanscoperta per verificare la strada, è tornato indietro
per
guidarli; anche lui, come loro, è coperto di sangue e
interiora sin
quasi alle spalle. Link non ha idea di dove trovi ancora forze per
combattere; gli hanno proposto di restare su Ruta, al sicuro, con sua
sorella: aveva già combattuto più che a
sufficienza, per ore, fino
al loro arrivo; non ha voluto, forse perché temeva che, se
non fosse
venuto lui con loro, sarebbe andata Mipha; e non voleva rischiare
ancora la sua vita. I suoi occhi dicono chiaramente che se
dovrà
esserci un sacrificio, intende far sì che sia il suo. Non
gli è
stata data l'opportunità di salvare sua sorella
perché la sprechi
riposando. È un bene che sia qui per strapparli ai loro
dubbi e alle
loro incertezze.
«Vedo
Rudania»
grida Sidon. «Possiamo
ancora salirci. Sbrighiamoci prima che si sposti. Non c'è
nessuno ai
comandi.»
Non
sa se sia stato il suo nome a riportarlo al presente o forse la
presenza insolita, ancora inspiegabile, di un Sidon adulto che
combatte con loro da pari a pari; forse neppure vuole saperlo. Da
qualche parte al di là del crinale Vah Rudania ruggisce di
un
ruggito tremendo che pare far vibrare l'aria in un inferno di
scintille. Si leva una nube di fumo, da qualche parte, e Impa lo
strattona e dice: «Andiamo.
Non sappiamo se il vulcano erutterà di nuovo.»
Il
suo corpo lo supplica di fermarsi, di smettere; tutti i suoi muscoli
urlano di un dolore sordo, basso, che pervade tutte le sue membra;
Link neppure ricorda quand'è stata l'ultima volta che ha
veramente
dormito, mangiato, riposato; non importa. Solleva lo scudo per
riparare se stesso e Impa mentre si inerpicano su per il vulcano
borbottante.
Rudania
è aggrappato alle pendici del vulcano al di sotto di loro,
con le
zampe enormi che si stringono invano nel tentativo di stringere la
roccia sotto di sé, raspando la polvere e la lava
solidificata in un
nugolo di scintille e di fumo; non ha occhi, eppure sembra vederli e
poterli inseguire; ma non accade. Il Colosso è cieco e privo
di
pilota, ma al di sopra di esso, sulla sua vasta schiena piatta,
s'intravedono figure scure che si muovono. Link non le conta per
timore d'illudersi che anche Daruk sia stato salvato e dover poi
scoprire che non è vero.
«Dobbiamo
arrampicarci» grida Impa per farsi sentire al di sopra del
ruggito
di Rudania e del ribollire sordo del vulcano. «Ve la
sentite?»
Che
se la sentano oppure no non cambia nulla: sono qui. Si issano sul
Colosso ignominiosamente, tirandosi su a forza di braccia sulla
scivolosa superficie ancestrale che, per fortuna, non assorbe il
calore; si aiutano con quello che hanno, colle loro armi,
perlopiù,
e le loro dita scivolano su strati di cenere e fuliggine e lava ormai
cristallizzata.
La
schiena di Rudania è un inferno che brucia. L'ultima Ira di
Ganon è
immensa, più grande di tutte quelle che hanno incontrato
finora,
coronata di fuoco; ma ha un solo braccio realmente funzionale, enorme
e proporzionato rispetto al suo corpo, che imbraccia una spada
ancestrale in fiamme; l'altro è grottescamente
sottosviluppato e
come nudo, privo di muscoli, ricoperto della nero-violacea corruzione
della Calamità; ondate di fiamme divampano sul dorso del
Colosso
allargandosi intorno all'Ira come cerchi nell'acqua a ogni suo
movimento.
Al
centro dell'incendio che infuria, inamovibile e incrollabile, Daruk
scoppia a ridere della sua risata roboante che echeggia tra le valli
montane e grida: «Hai visto che sono venuti ad aiutarci,
Yunobo?»
È
come rivivere la stessa scena, ancora e ancora. Il solo sollievo
è
che è l'ultima volta, deve esserlo: Link si sente chiamar
per nome,
per l'ennesima volta, da qualcuno che non ha visto mai né
conosce ma
che sembra conoscer benissimo lui; è un giovane Goron
insicuro e
nervoso, agitato, poco più di un bambino, che sorride in
mezzo al
fumo al vederlo e grida con voce entusiasta: «Link!»
Se
l'Ira di Ganon non fosse diversa, se lui non fosse circondato da
ondate di fuoco che si rifrangono contro i parapetti di Rudania, se
l'acqua non evaporasse dalla sua pelle e dai suoi capelli rapida fino
a soffocarlo, Link penserebbe d'essere intrappolato in uno strano
viluppo del tempo destinato a ripetersi, ancora e ancora, fino
all'eternità; è come vedere, in un tempo
rallentato e ripetuto
all'infinito, la stessa pantomima ripetuta e identica a se stessa, e
Link deve esercitare un titanico sforzo su se stesso per ricordarsi
che tutto è ancora reale, tangibile, e che quella pantomima
ancora
non è finita e lui ancora non ne conosce il finale.
Lo
richiama alla realtà un'ondata di fuoco che si allarga dal
fendente
della spada ancestrale dell'Ira che taglia l'aria orizzontalmente e
la voce di Daruk che grida ridendo: «Attento,
roccia!»
Un
istante dopo, il giovane Goron si schiera di fronte a loro e li
protegge dal divampare delle fiamme allargando attorno ai loro corpi
uno scudo identico a quello di Daruk. Impa si volta verso di lui con
occhi enormi di stupore nel volto annerito dal fumo e Daruk, di
nuovo, scoppia a ridere.
«Avete
visto? Dal futuro è arrivato un mio discendente ad
aiutarmi!»
«Discendente?»
ripete Impa. La sua voce s'è fatta appena più
acuta e incredula del
solito.
Col
volto contratto dallo sforzo di tenere alto lo scudo contro la
vampata di fuoco e la voce tremante per la fatica e l'imbarazzo, il
giovane Goron china gli occhi e si presenta come se se ne
vergognasse. «Mi chiamo Yunobo, signora. Molto piacere. Sono
anche
un amico di Link nel futuro.»
Impa
dardeggia con gli occhi verso di lui. I suoi abiti Sheikah le coprono
la bocca, ma Link è quasi sicuro che stia sorridendo.
«Un amico di
Link, eh? Più tardi devi raccontarmi come fa a essere tanto
popolare
nel futuro.»
Poi
tutto torna ad adeguarsi al copione che è già
scritto e si ripete,
ancora e ancora, fino alla nausea. L'Ira di Ganon scatena su di loro
un torrente di fiamme da cui Yunobo riesce a tenerli al riparo
finché
non si esauriscono: non può emetterle indefinitamente,
realizza
Link, perciò devono esserci momenti, forse interi minuti, in
cui è
possibile avvicinarsi e colpirla.
Non
gli rimane che accertarsene. In questi momenti il suo corpo non gli
duole neppure più, la stanchezza e il calore neppure li
sente:
approfittando del momento in cui l'Ira termina il suo fendente, Link
si scaglia contro di lei e la colpisce al braccio deforme e troppo
debole che non imbraccia armi. La corruzione della Calamità
risale
lungo la lama della Spada per un tratto, cerca invano di
avvilupparvisi senza trovare appiglio, e Link non è certo
che, se si
trattasse di un'arma che non è sacra, non riuscirebbe a
risalire
lungo l'elsa fino ad avvinghiarsi al suo braccio: forse è
così che
sono morti gli altri Campioni, pensa fugacemente mentre tira indietro
la Spada, avviluppati e soffocati dai viticci della corruzione della
Calamità, prigionieri per sempre dei Colossi sacri come
tombe che a
nessuno è dato vedere; forse, in quell'altro futuro da cui
proviene
Teba, anche Revali...
Il
braccio deforme dell'Ira di Ganon cade mutilato dalla sua lama,
rimane appeso alla spalla dell'emanazione per nient'altro che tendini
e filamenti di pelle e di quella sostanza vischiosa, densa; il mostro
urla di un urlo atroce, bestiale, e colpisce alla cieca con la spada
enorme, che ancora non ha ripreso fuoco, come farebbe per colpire un
moscerino senza vederlo: Link solleva lo scudo all'ultimo istante.
Riesce a parare la lama della spada ancestrale dell'Ira, ma lo scudo
rincula violentemente contro il suo costato mozzandogli il respiro.
Cade al suolo senza aver fiato abbastanza neppure per gridare. Il suo
primo impulso è quello di chinare gli occhi sul proprio
petto: è
quasi certo di vedere la punta d'una costola perforargli la carne, ma
non vede nulla. Se anche si è rotto una costola, quantomeno
la
frattura non è esposta.
Il
secondo fendente dell'Ira lo ucciderebbe se non fosse perché
Sidon
gli si para davanti e lo respinge con le due lance incrociate
facendogli scudo del proprio corpo. Link si tira in piedi
puntellandosi alla Spada e dice ad alta voce:
«Grazie.» Non sa
neppure se Sidon sia in grado di sentirlo al di sopra delle urla
dell'Ira mutilata; ma questo misterioso Zora venuto dal futuro che ha
appena rischiato la vita per salvarlo si volta e gli sorride nel
cuore della battaglia.
«Avventato
come al solito, eh, Link?»
Si
tirano indietro appena prima che un'altra ondata di fiamme si
allarghi attorno a loro, mentre l'Ira stride di furore. I loro
compagni la circondano da ogni lato, approfittando di ogni varco
nella distesa di fuoco che le si spande attorno; Daruk e Yunobo la
martellano da vicino, pericolosamente, abbattendo i loro enormi
martelli in grandi colpi dall'alto come fabbri furenti; del resto,
non temono il calore né il fuoco; ma la gigantesca spada
ancestrale
che l'Ira brandisce col braccio che le è rimasto
può ferire anche
loro.
Impa
comprende i suoi pensieri al solo cogliere la direzione del suo
sguardo.
«Link!
Provo a rallentarlo» grida. Le sue dita si piegano e si
flettono
rapidissime, evocando antichi simboli Sheikah che appaiono sul corpo
dell'emanazione, percettibili appena alla vista come ombre proiettate
da una nube; è sufficiente. I gesti dell'Ira si fanno
più lenti e
pesanti, aggravati come da un peso invisibile: non può
durare a
lungo, gli occhi di Impa sono assottigliati e fissi nello sforzo
dell'evocazione; non si può perdere neppure un istante. Non
appena
le fiamme che circondano l'Ira si attenuano sulla pietra viva di
Rudania, spegnendosi progressivamente in anneriti cerchi
semiconcentrici di fumo e cenere, Link scavalca gli ultimi barbagli
di fuoco e conficca la Spada nel braccio enorme dell'emanazione.
Non
è un arto sottile e poco sviluppato come l'altro. Stavolta
è come
tagliare con una spada il tronco di un albero, e per di più
disperatamente, sperando che l'albero non si ribelli e resti fermo a
sufficienza da lasciarglielo fare: non c'è nulla di eroico
in tutto
questo. È un atto ignominioso, nauseante: la Spada affonda
nelle
carni dell'Ira di lato recidendo misteriosi tendini duri, spessi,
come se tagliasse i cordami in tirare di un'imbarcazione, quasi uno
dopo l'altro, e ogni volta Link deve strattonarla via più
forte e
con più disperazione, convinto fino all'ultimo, ogni volta,
che
questa volta non riuscirà più a estrarla dalle
sue carni repellenti
e che si ritroverà disarmato e solo troppo vicino
all'emanazione
della Calamità... poi Daruk compare all'improvviso dal nulla
da
qualche parte ai margini del suo campo visivo e gli fa scudo del
proprio corpo da un fiotto di fiamme che Link non aveva visto
arrivare. Il calore attorno a lui si fa insopportabile, vede il fuoco
scorrer loro attorno come se l'osservasse dal centro di un cristallo
nel quale non può muoversi né gridare, le braccia
possenti di Daruk
lo inchiodano al suolo mentre l'inferno passa loro addosso senza
riuscire a bruciarli; poi le fiamme intraprendono un percorso
diverso, Sidon e Yunobo attirano lo sguardo dell'Ira distante da
loro, altrove sulla schiena vastissima di Rudania, e Daruk abbassa lo
scudo che li scherma e lo lascia andare.
L'Ira
di Ganon gli sta dando le spalle. La strategia di Sidon e Yunobo ha
funzionato, l'emanazione della Calamità cerca di inseguirli
ma
invano: a malapena brandisce l'enorme spada ancestrale, il braccio
che le è rimasto penzola dalla sua spalla come un brandello
di
pelle, privo di forze; non è più in grado di
allungare alcun
fendente. È quasi innocua, ora.
Link
si solleva sulle gambe che quasi non lo sostengono e conficca la
punta della Spada tra le costole dell'Ira, affondandola nella sua
schiena con tutto il proprio peso. L'ultima Ira di Ganon si spegne
sotto la sua Spada stridendo come vapore.
È
in ginocchio sulla larga schiena di Rudania, ha le dita anchilosate
strette attorno all'elsa, doloranti, il polso piegato; deve far forza
con l'altra mano per aprire le dita fino a lasciarla andare. La Spada
scivola giù per le sue ginocchia tintinnando sul dorso
annerito del
Colosso mentre il suo petto si abbassa e si rialza rapidamente in
grandi respiri brucianti e angosciati. È finita, ripete a se
stesso
e forse lo dice qualcuno al di fuori di lui, finita; i Campioni sono
stati salvati.
Sente
da qualche parte la risata possente di Daruk, roboante, e la voce
incerta ma sollevata di Yunobo; Impa dice qualcosa, anche, e Link
distingue appena il nome di Sidon, quello di Zelda: se non ci fosse
Impa con lui, Link non saprebbe neppure da dove partire a raccontare
quello che è successo.
Si
ritrova stretto d'un tratto tra le braccia solide di Daruk,
schiacciato contro il suo petto immenso e il fianco di Impa. Se l'Ira
di Ganon non gli aveva ancora spaccato una costola, Link è
quasi
certo che ce l'abbia fatta questo Goron troppo entusiasta; ma la sua
stretta forse è quello di cui aveva bisogno per tornare al
presente
e rendersi conto d'esser vivo.
«Mi
dispiace» esala con la poca voce che i suoi polmoni ancora
sono in
grado di emettere. «Mi dispiace. Avrei dovuto venire
prima...»
«Venire
prima? Roccia, ma per chi mi hai preso?» ribatte Daruk. La
sua voce
è squillante e pare riempire l'intera vallata. «Se
c'era qualcuno
che poteva resistere, quelli eravamo io e Yunobo. Avete seguito la
strategia giusta. E poi, stiamo tutti bene, no?»
Di
fronte alla sua schiettezza della sua voce, alla franca
semplicità
del suo ragionamento, Link china gli occhi. Non sa cosa rispondere,
forse perché tutti i Campioni lo hanno perdonato, ciascuno a
suo
modo, per aver scelto Revali; ma questo non l'ha fatto in alcun modo
sentire meglio. Forse è perché è lui a
non aver perdonato se
stesso; o forse è perché è consapevole
che sceglierebbe Revali
ancora e ancora, ogni volta, e dunque le sue parole non sono altro
che una richiesta di un'assoluzione per un peccato che commetterebbe
di nuovo. Forse non gli rimane altro che accettare che un'assoluzione
non c'è; che lui non è, e forse non è
mai stato, l'eroe
disinteressato e puro delle leggende e che gli altri hanno sempre
richiesto da lui. Che forse persino lui è umano e fragile e
talora
gli è dato essere egoista.
«Grazie»
risponde solamente. La manata che Daruk gli abbatte sulle spalle
questa volta non gli fa quasi più male.
Daruk
e Yunobo si uniranno a loro tra tre giorni, non appena si saranno
accertati che tutti, nella città dei Goron e nelle terre di
Oldin,
stiano bene; devono difendere la loro gente dai mostri. Si offrono di
riaccompagnare Sidon al limitare dei domini degli Zora, alla massima
distanza percorribile da Rudania: Sidon cerca invano di convincere
lui e Impa a venire con lui. Su Ruta Mipha potrà medicare le
loro
ferite, dice; ma loro devono riferire alla principessa. Link, che ha
il costato dolorante a ogni respiro che gli gonfia il petto, non dice
niente; è contento soltanto di tornare a casa. Gli pare
d'esserne
stato lontano abbastanza a lungo: vuole solo dormire il più
a lungo
possibile, magari per giorni, e vedere Revali. Poi
combatterà anche
per Hyrule, come sempre; ma prima vuole rivederlo e accertarsi che
stia bene.
La
tavoletta Sheikah li trasporta appena fuori della roccaforte di
Hebra. Non sembra possibile essere di nuovo lì: hanno
percorso
Hyrule in ogni direzione possibile, ne hanno attraversato quasi tutte
le regioni; sono state giornate infinite. Impa posa la mano sul suo
braccio per un momento per fargli cenno di attendere: Link guarda a
lungo nel suo volto che è annerito ed estenuato come il suo.
Al di
sotto del sangue, della polvere, della cenere, non riesce a
intravederne quasi che gli occhi: probabilmente è tutto
quello che
anche lei vede quando guarda lui.
«Stai
bene?»
«Una
costola incrinata, credo» risponde Link.
«Passerà. Ora voglio
solo...»
«Non
parlavo di quello» lo interrompe Impa.
Link
alza gli occhi sul sole rosseggiante, basso al di sopra delle cime
dei monti, appena visibile attraverso le grandi nubi. A Hebra calano
le ombre molto presto.
«Credi
che sia definitivo?» chiede. È la prima volta che
ha il coraggio di
chiederlo ad alta voce, o che anche solo che ha il tempo di
articolare questo pensiero per esteso, nella sua mente, e che non
è
soltanto un insieme di sprazzi e di dubbi che aleggiano appena ai
margini della sua coscienza. «Che il fatto che li abbiamo
salvati
stavolta abbia scongiurato quel futuro in cui sono morti e la
Calamità dura per cent'anni...?»
Dalla
voce di Impa è evidente che si è posta la stessa
domanda e che si
attendeva di sentirla anche da lui.
«Non
lo so.» Percorre con la gamba un semicerchio sulla neve
ghiacciata,
pensierosamente. «Ma non sono morti da soli, prigionieri dei
Colossi
per cento anni. Concentriamoci su questo. Dobbiamo ringraziare il
piccolo guardiano, immagino. Anche se non so ancora spiegarmi
come.»
«Ho
detto a Mipha di me e Revali» dice Link d'improvviso. Non sa
perché
d'un tratto gli sia parso inspiegabilmente importante dirlo.
Impa
l'osserva in silenzio per un po'.
«Hai
fatto bene» dice finalmente. «Meritava di saperlo
da te, penso.
Sarebbe stato peggio se vi avesse visto soltanto baciarvi. Me l'ha
detto Teba» aggiunge ridendo quando Link la guarda incredulo
chiedendosi come faccia a saperlo. «Rifattela con lui. Non
che non
potessi intuirlo anche da sola, comunque. Ma tu non gliel'hai detto
solo perché volevi che lo sapesse, vero?»
Impa
riesce a leggere dentro di lui molto più a fondo e meglio di
quanto
riesca lui stesso, forse perché lo conosce così
bene, da tanti
anni, e hanno combattuto insieme più volte di quante a
entrambi
faccia piacere ricordare. Link non ha neppure il coraggio di
guardarla.
«Li
avrei lasciati morire» dice. «Se non ci fosse stato
il piccolo
guardiano, se non fosse stato per Teba e gli altri... non avrei mai
fatto in tempo a salvare anche loro dopo Revali.»
«Posso
farti notare una cosa?» Link ascolterebbe da lei qualsiasi
cosa:
Impa prosegue. «Quando siamo arrivati su Ruta, Mipha non ha
ringraziato entrambi per essere venuti a salvarla. Ha ringraziato te.
Oh, no, ti prego» aggiunge per smorzare sul nascere le
proteste che
Link sta già per pronunciare. «Tu sai che io non
sono così
meschina, e che non mi aspetto ringraziamenti più di quanto
te li
aspetti tu. Non è questo che stavo cercando di dire. Quello
che
intendo è che... sappiamo entrambi che Mipha è la
migliore tra noi,
Link. Eppure anche lei, quando ha avuto paura di morire, non ha visto
che te. Se neppure lei ha potuto impedirsi un pensiero egoistico, in
quel momento, forse non possiamo fare altro che rassegnarci al fatto
che siamo esseri umani...»
Link
rimane in silenzio molto a lungo a osservare il sole nascondersi
dietro i picchi innevati di Hebra. Discendono in silenzio verso il
cuore della guarnigione.
«Link.»
Quando Impa parla di nuovo, la sua voce è calma e
ragionevole. «Ho
avuto modo di chiedere qualcosa a Sidon, mentre tu parlavi con Mipha
su Ruta. Gli ho chiesto se per caso sapesse che cosa è
successo a me
e a te all'avvento della Calamità, in quel futuro da cui
proviene
lui.»
Link
non vorrebbe neppure pensare a quel futuro in cui Revali è
morto,
eppure fa forza su se stesso e chiede egualmente. «Che cosa
ci è
successo?»
«Non
sa di preciso cosa sia successo a me, se non che, nel suo futuro, io
sono un'anziana capovillaggio del Villaggio Calbarico. Ci
pensi?»
Link ride con lei a bassa voce: non riesce a figurarsela vecchia.
Chissà come sarà. Un capo sì,
però: Impa è nata per guidare la
gente,per come la vede lui. «Di te, invece, lo sapeva. Hai
protetto
la principessa com'era tuo dovere, l'hai condotta via dal castello,
poi sei rimasto vittima di un attacco di guardiani. Sei stato
condotto in un antico sacrario Sheikah per essere curato e hai
dormito per cento anni per riprenderti. Beh, lui te lo
racconterà
meglio» protesta di fronte al suo sguardo confuso.
«Non è che
avessimo poi molto tempo per raccontarci i dettagli. Comunque, nel
suo tempo, hai fatto quello che dovevi: sei rimasto il Cavaliere che
brandisce la Spada che esorcizza il male, hai protetto la principessa
Zelda a costo della tua vita... ma non li hai salvati.»
Link
l'ha ascoltata finora in silenzio, cogli occhi bassi, attendendosi da
lei qualcosa, una rivelazione, forse; ma non era questa. Leva lo
sguardo su di lei sentendosi colto alla sprovvista. «Che cosa
intendi?»
«Che
in quel tempo abbiamo fatto tutto quello che ci era stato detto,
Link. Tu sei stato fino alla fine l'eroe della leggenda, e io
avrò
fatto, immagino, quello che si richiedeva da me... eppure non li
abbiamo salvati e abbiamo perso. Se abbiamo salvato tutti i Campioni,
se abbiamo ancora una speranza di vincere contro la
Calamità, non è
in quel mondo in cui abbiamo obbedito, ma in questo nostro presente
in cui tu sei troppo innamorato di Revali e hai deciso che l'avresti
salvato contro tutto e contro tutti, senza neppure curarti di essere
l'eroe...»
Link
lascia che le parole di Impa scavino dentro di lui a una
profondità
alla quale neppure sapeva che parole potessero arrivare. Non sa che
cosa dire. Vorrebbe credere a quelle parole perché sono
disperatamente belle, perché redimono le sue azioni e le
innalzano a
uno stato in cui la disobbedienza non è più
egoismo ma libertà; ma
proprio per questo credervi gli sembra troppo comodo e troppo facile.
Forse non è ancora pronto per concedere a se stesso di
credere di
aver fatto bene ad agire per se stesso e a mettere il suo amore prima
di tutto, prima del dovere, prima di Hyrule.
«Lo
pensi davvero?» chiede senza osare guardarla.
Sente
il tocco tiepido delle dita di Impa sotto gli occhi, là dove
sudore,
sangue e fuliggine devono aver creato uno tale strato di sporcizia
che la sua pelle neppure è più visibile.
«Penso
che il piccolo guardiano abbia cambiato qualcosa e ci abbia dato una
possibilità di cambiare le cose» risponde.
«E penso che se questa
possibilità ci è stata data, non è
perché la sprechiamo a cercare
di commettere gli stessi errori di coloro che invece hanno sbagliato
e perso. Il che non ci impedisce di sbagliare e perdere anche noi,
ovviamente... ma in modo diverso. Basta con le leggende, adesso.
Forse dobbiamo cavarcela con le nostre forze nel presente che ci
è
stato dato.»
Link
annuisce, quasi più per sé che per lei.
«Con buona pace dei
teologi di corte, quindi.»
«Fanculo
i teologi di corte» ribatte Impa.
Link
non potrebbe sentirsi più d'accordo con lei.
Kagan
li fa trascinare quasi di peso in infermeria non appena li vede: la
principessa Zelda accorre non appena avvertita. I suoi occhi si
dilatano di stupore e di sollievo quando li vede: ha addosso abiti
Rito che ricadono sproporzionatamente grandi sul suo corpo magro,
stretti in vita da grandi cinture, e i capelli raccolti in un
castigato nodo sulla nuca. Appare piccola e minuta come Link non
ricorda di averla mai vista, esausta: forse anche lei non dorme da
quando è scappata dal Castello, è inquieta,
angosciata; sembra
ricominciare a respirare solo quando li vede. Passa cogli occhi
dall'uno all'altra senza avere il coraggio di chiedere: Link annuisce
soltanto. Ci sarà tempo di spiegarle tutto più
tardi; ma per ora
deve sapere che ce l'hanno fatta. Che queste ferite e questo sangue
non sono stati vani: che li hanno salvati.
Kagan
non è disposto a creder loro neppure quando gli giurano che,
per la
maggior parte, il sangue che hanno addosso non appartiene a loro: non
ha tutti i torti, dopotutto. Un medico lo tira a sedere su una branda
e gli sfila la tunica senza troppe cerimonie: Link prova almeno a
dirgli che è quasi sicuro d'essersi incrinato solo un paio
di
costole, ma lascia perdere perché ha la sensazione che non
lo
ascolterebbe. Non c'è da biasimarlo.
«Avrei
dovuto metterti in arresto quando potevo farlo» commenta
Kagan
seccato, sorvegliando a braccia incrociate l'operazione. È
l'unico
modo in cui sappia dirgli che era in pena per lui, a quanto pare.
«Avrei potuto farlo, tecnicamente, sai. Sei sottoposto alla
legge
dei Rito.»
«Come
sta Revali?» chiede Link a bassa voce. Ha resistito
all'incertezza
finché ha potuto; ma ora deve sapere se sta bene.
Kagan
sembra considerare per qualche momento se debba rispondergli oppure
se debba tenere il punto ancora per un po'. Getta uno sguardo a
Derdran, che assiste alla scena sull'attenti dal fondo
dell'infermeria. «Offeso a morte ma vivo, direi. È
ancora agli
arresti. Ti farò condurre da lui non appena il medico
dirà che puoi
andare.»
Derdran
si schiarisce nervosamente la voce.
«Capo,
a questo proposito, posso dare l'ordine del rilascio? Posso mandare
subito un soldato, se...»
Kagan
neppure si volta verso di lui: sembra molto più interessato
a
esaminare le larghe abrasioni sulle spalle di Link sotto le dita del
medico. «Che fretta c'è? Se dai ordine di smettere
adesso la
sorveglianza, si precipiterà qui per vederlo, e il medico ha
detto
di farlo stare a riposo il più possibile. Sbaglio?»
Il
medico che in questo momento è curvo su Impa, intento a
pulire
lentamente la sua ferita, sfilandone con sottili pinzette minuscole
particelle di ghiaia, annuisce distrattamente per conferma. Kagan
scrolla le spalle come a dire che, se quello è il parere del
medico,
lui non può farci niente; ma Derdran non appare
particolarmente
convinto.
«Non
è da me difendere Revali, capo, ma lo stiamo trattenendo
senza
accuse. I soldati parlano. Non hanno creduto alla questione della
sicurezza.»
«L'ultima
volta che sono passato davanti alla capanna di Revali durante il tuo
turno di guardia, mi pare di averlo sentito minacciare di scoccarti
una freccia su per il retto*» risponde Kagan in tono
perfettamente
neutrale. Impa scoppia a ridere persino sotto i ferri del medico
mentre Derdran avvampa di rabbia. «Non capisco che fretta tu
abbia
di rimetterlo in libertà, Derdran. Qualche altro minuto di
fermo non
lo ucciderà. I soldati hanno già l'ordine di
rilasciarlo non appena
vedranno arrivare Link. Rilassati.»
Kagan
non ha mentito. Quando il medico acconsente finalmente a lasciarlo
andare con la sola diagnosi di qualche costola incrinata e di
un'insperabile fortuna e la raccomandazione di assoluto riposo,
Derdran lo scorta di persona attraverso il forte: Revali è
stato
sistemato in una minuscola baracca all'estremità orientale
della
roccaforte. Due arcieri sono collocati di guardia di fronte alla
porta, ma Derdran non lo accompagna fin lì: si limita a fare
un
segno coll'ala da lontano. È sufficiente: gli arcieri fanno
cenno
d'aver capito, si sporgono all'interno a dire qualcosa e si
allontanano. Derdran rimane a osservarli finché non li vede
scomparire.
Link
non sa dove trovi dentro di sé la forza d'ironizzare.
«Non entri a
salutare?»
Derdran
gli concede un sorriso forzato. Persino lui sembra non aver
più
forze: è responsabile per la sicurezza di tutta la loro
gente, come
Kagan, del resto, e per i suoi soldati; e negli ultimi due giorni ha
dovuto mettere tutto questo da parte per aiutare lui a salvare
Revali. «Hai sentito cosa mi ha detto Revali. Mi perdonerai
se non
entro a scoprire se scherzava o meno.»
«Presumo
che non abbia accettato le tue scuse, quindi.»
«In
verità, credo che questo fosse proprio il suo modo di
accettarle.»
Derdran reclina il capo in segno di commiato. «Complimenti,
Link, e
grazie. Per quello che hai fatto. Ti darei una pacca sulla spalla, ma
preferirei non dover ricominciare tutto daccapo con tuo
marito.»
«Grazie
a te» risponde Link mentre Derdran torna verso la caserma, e
lo
pensa davvero. «Per i lynel.»
«Bah»
risponde Derdran senza voltarsi. Dalla sua voce Link deduce che stia
sorridendo tra sé. «Figurati. Per così
poco. In fin dei conti,
forse glielo dovevo. Ma ora siamo pari, eh?»
Link
posa una mano sulla maniglia, inspira profondamente ed entra; poi
Revali lo prende tra le braccia prima ancora che abbia varcato la
soglia del tutto.
Link
sente allargarsi nel suo petto qualcosa di molto simile al sollievo.
Prova persino a protestare, per un attimo, per un vago senso di
civiltà che aleggia ancora da qualche parte dentro di lui, e
posando
le mani contro il largo petto di Revali, ancora coperto di bende,
prova a dire: «No, aspetta... sono quasi sicuro di avere
delle
viscere di boblin tra i capelli. O di lizalfos. Non stringermi
così.»
«Tutto
molto interessante» mormora Revali, ma non accenna a
lasciarlo
andare, e Link decide che ha già fatto quello che poteva per
convincerlo e che può restare contro il suo petto ancora per
un po'.
Sente da qualche parte il pulsare basso e rapido del suo cuore contro
la pelle, solo un po' accelerato, e va benissimo così.
«Ne terrò
debito conto. Sei vivo.»
«Ti
avevo detto che sarei tornato» risponde Link.
«Giusto»
riconosce Revali a bassa voce. «Gli altri...»
«Li
abbiamo salvati.» Diventa più reale quando lo dice
ad alta voce,
tangibile, quasi. «Anche loro erano stati salvati da
guerrieri del
futuro, come te e Urbosa. Sono vivi.»
Revali
annuisce contro la sua fronte, lentamente. «Io e Teba
l'avevamo
ipotizzato. Lui ha persino proposto dei nomi. Il fratellino di Mipha
e un discendente di Daruk. Aveva ragione?»
«Tutta
gente con cui combatterò nel futuro, a quanto
pare» conferma Link.
«Non è che devo essere geloso di Teba,
vero?»
Revali
ride. Link sente la sua risata col volto reclinato contro la sua
gola, più contro la pelle che con le orecchie: è
una vibrazione più
che un suono; è piacevolmente bella.
«Direi
di no. È sposato e ha anche un figlio, da quel che ho
capito. Penso
che tu possa stare tranquillo. Sai che i soldati sospettano che
discenda da Kagan nel futuro?» Revali posa la mano tra i suoi
capelli. «Puzzi come una stalla bruciata, comunque. Forse
devi fare
un bagno davvero, sai.»
Link
scoppia a ridere contro il suo petto.
È
come essere di nuovo a casa, in un certo senso. È tutto
più piccolo
e più scomodo, arrangiato alla meglio, naturalmente: fanno
bollire
l'acqua limpida, pulita, che affiora nel forte dalle stesse falde
delle terme di Hebra, e riempiono la vasca di fortuna in un angolo
della capanna che ospita una sola stanza. L'aria si fa calda e satura
di vapore mentre l'acqua s'intiepidisce lentamente.
Link
si sfila strati su strati di cotte di maglia e abiti incrostati di
sangue. Quando alza le braccia al di sopra della testa le costole gli
dolgono tanto da mozzargli il respiro, ma è solo per qualche
giorno,
dopotutto: passerà.
Ha
il torso cosparso di grandi ematomi violacei, qualcuno quasi rosso,
dove il sangue si è raggrumato in maggior
quantità; i muscoli delle
braccia e delle gambe sono intorpiditi a tal punto che quasi non
riesce a muoverle; gli fa male tutto il corpo, e respirare è
doloroso quasi come i colpi stessi ricevuti in battaglia; ma
è a
casa, adesso. Il dolore è qualcosa che si attenua col tempo.
Revali
lo osserva in silenzio mentre si spoglia. S'è sempre
vergognato
mortalmente di guardarlo mentre si spogliava, ha fatto ogni volta di
tutto per evitare la sola idea della nudità; forse si
vergogna
ancora, un po', e di certo non è del tutto a suo agio; ma
non si
sottrae più. Posa la mano delicatamente sulla sua pelle,
contro
l'ematoma più grande e più vistoso, quello sopra
le costole: Link
si sforza di non trasalire. I grandi occhi verdi di Revali non si
distolgono dai suoi.
«È
stata la Calamità» mormora.
«L'Ira
del Fuoco, penso» risponde Link. «Voglio dire,
quella che abbiamo
trovato su Rudania.»
Revali
annuisce. «Mi sembra un nome adeguato.» La sua mano
scivola sulla
grande cicatrice oblunga, irregolare, che risale accanto al suo
ombelico per il suo intero addome: Link trattiene il respiro per un
istante. In qualche modo quel contatto è più
intimo e privato che
se toccasse la sua intimità. «Questa è
di Hebra» mormora.
Link
annuisce soltanto. È la cicatrice della battaglia di quel
giorno,
orrenda e deforme, di quando i medici militari gli hanno reinserito a
mano gli intestini nell'addome e Mipha, piangendo, lo ha salvato.
Revali
lo aiuta a entrare nella vasca e a sedersi al suo interno: Link non
è
sicuro che riuscirebbe a entrarvi senza il suo aiuto. Le sue gambe
sono talmente irrigidite, doloranti, che a malapena gli sembra di
riuscire a muoversi; sollevare le ginocchia è tremendamente
doloroso. Si sente riavere nell'acqua calda: chiude gli occhi per
qualche istante appoggiando la nuca contro il bordo della vasca.
«Quella
è stata la prima volta che mi sono accorto di tenere a
te» dice
Revali improvvisamente.
Link
apre gli occhi al nervosismo della sua voce. «Quando mi hanno
ferito
a Hebra?»
«Sì.
Quando il tuo cucciolo è venuto a dirmi che forse stavi
morendo.»
Link
considera per un istante l'opportunità di fargli notare che
nei suoi
racconti Lelek è passato molto rapidamente dall'essere
indicato come
attendente a cucciolo di attendente a
cucciolo, ma
infine decide di no. Che quel nome fa trasparire abbastanza di quanto
Revali pensa di Lelek senza bisogno che lui se ne accorga.
«Che cosa
hai pensato?»
«Non
lo so con precisione. Forse non lo sapevo neanche allora. So solo che
d'un tratto ho avuto paura che tu morissi.»
Link
si sforza di non voltarsi verso di lui perché ha paura che,
se lo
guardasse, Revali non parlerebbe più; ma si sente la gola
stranamente chiusa. Pensa al cammino interminabile, con Impa e con
Derdran, sulle montagne di Hebra, coll'angoscia continua di non
raggiungere Medoh in tempo. «Sì... lo
capisco.»
«Ho
avuto paura anche questa volta. Ho pensato che...» Link sente
contro
le tempie il tocco lieve delle dita di Revali che districano piano i
suoi capelli umidi. «Mi dispiace. Sto cercando un modo per
dirti che
ti amo, ma non so come dirlo.»
Link
potrebbe giurare d'aver sentito il proprio cuore saltare un paio di
battiti.
«Va
bene anche così» dice. Si sente la bocca molto
asciutta. «Ho
capito quello che c'era da capire.»
*
Ok, questa l'ho rubata ad An13Uta dalla sua recensione al settimo
capitolo. Perdonami, ma mi avevi fatto talmente tanto ridere che ho
dovuto a tutti i costi renderlo canon (per quanto canon possa essere
qualcosa in una fanfiction, s'intende).
Colgo
l'occasione di fermarmi a ringraziare An13Uta, LeVicomteDeBragelonne
e Agares per star seguendo questa storia in qualsiasi modo. Forza e
coraggio, giuro che siamo quasi alla fine! (Anche se, tecnicamente,
questo capitolo doveva contenere anche i prossimi due. Solo che poi,
non ho capito come, si è triplicato.)
Alla
prossima!
Afaneia
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** Strategie ***
XIV
– Strategie
Così
è, dunque, la guerra: essa si fonda sull'inganno,
è mossa dal
profitto, ed è soggetta a variabili definite dal continuo
frammentarsi e ricomporsi armonico delle forze.
Sun
Tzu, L'arte
della guerra.
Lo sveglia un dolore al costato
che
gli mozza il respiro, poco prima dell'alba. Impiega un po' per
ricordarsi dove si trova: all'inizio, nel buio, è quasi
convinto di
trovarsi ancora a casa, nel borgo dei Rito. Realizza dove si trova
solo quando s'accorge del diverso orientamento dell'amaca rispetto
alla porta, rispetto alle oblique lame di luce livida che spiovono
dalla finestra: sono nella roccaforte di Hebra. I ricordi degli
ultimi giorni lo assalgono attraversando la sua mente come ondate: la
Calamità si è risvegliata, hanno fatto evacuare
gli abitanti sulle
montagne; ha salvato Revali, Urbosa, poi Mipha e Daruk; Revali gli ha
detto che lo ama; ha lavato via il sangue dai suoi capelli,
delicatamente, e poi lo ha tenuto tra le braccia in silenzio, solo un
po' nervosamente, finché non si è addormentato.
Link si passa più
volte le mani sugli occhi, premendole contro le palpebre, per esser
proprio certo di essere sveglio: glielo conferma il dolore. Gli fanno
male le braccia, i polsi, persino le dita: va bene così.
Provare
dolore è confortante perché vuol dire che
è ancora vivo, del
resto.
Scivola fuori dall'amaca piano,
sforzandosi di non farla oscillare; Revali dorme ancora. È
ancora un
po' pallido dopo la ferita: ha perso più sangue di quanto
gli
piaccia ammettere; ma si riprenderà del tutto, ha detto il
medico. È
un miracolo che non siano rimasti coinvolti i muscoli né i
tendini
del petto e delle ali; se così fosse stato, forse non
avrebbe più
volato come prima, ha detto; Link non ne è così
sicuro, perché
Revali è già riuscito a trovar modi per levarsi
in volo persino
quando tutta la fisiologia della sua gente e del suo stesso corpo gli
diceva che non era possibile; ma è un sollievo non doversene
accertare, comunque. Quando la ferita si sarà del tutto
rimarginata,
potrà tornare a volare e a combattere. Se potessi
t'insegnerei a
volare gli ha detto stanotte, a un certo punto, scostandogli
da
dietro i capelli dagli occhi, e Link ricorda d'aver tremato, per
chissà quale motivo, perché quella frase gli
è parsa più intima
e profonda, intensa, in un modo in cui neppure il contatto fisico
potrà mai esserlo; perché Revali sarebbe disposto
a condividere con
lui persino qualcosa che fino a questo momento non è
appartenuto che
a lui. Ricorda che gliel'ha detto anche un'altra volta,
quest'inverno, mentre si allenavano, e anche allora ha provato la
medesima sensazione.
«Dillo di
nuovo» ha detto così,
senza riflettere né voltarsi, e Revali ha riso e ha ripetuto
contro
la sua nuca: «Che mi piacerebbe poterti insegnare a
volare?»
Si getta addosso strati su strati
di
vestiti di lana e si raccoglie i capelli infilandovi piume per
disperdere meno calore possibile dalla testa: è primavera,
ma nelle
nevi perenni di Hebra gli pare quasi d'esser tornato nel cuore di
quest'inverno, a quella notte troppo fredda in cui Revali per la
prima volta si è infilato sotto le coperte al suo fianco e
lo ha
circondato con le ali; quando ci ripensa, lo ricorda, Link prova la
sensazione strana di qualcosa che scava dentro il suo ventre per
farsi strada o forse per penetrare all'interno, non saprebbe dire;
è
una strana confortante eccitazione; è tutto così
nuovo, per lui.
Dovrà fare i conti anche con questo, ma non c'è
fretta.
Esce dalla capanna nell'aria
livida
dell'alba: il suo fiato si condensa appena fuori dalla sua bocca,
cristallizza nelle fibre dei suoi abiti in minute goccioline; la
terra è gelata, stanotte, e dura come ghisa. Il forte dorme
ancora,
sono svegli solo i soldati di guardia: gli fanno cenni di saluto al
vederlo passare, disinvolti e abituati a vederlo come se fosse
proprio uno di loro; e forse lo è, ormai.
«Sei stato grande,
Link» dice
qualcuno battendogli una mano sulla spalla al suo passaggio: Link si
sforza di non gemere sotto il colpo che gli fa quasi scricchiolar le
costole. «Teba ci ha raccontato.» A quanto pare
anche Teba è stato
coinvolto, come risucchiato, nel vortice della vita del forte, delle
necessità della difesa, da questa gente che ha accolto anche
lui,
qualche tempo fa: chissà cosa pensa, se è
preoccupato, spaventato.
È cento anni indietro nel passato rispetto alla sua vita:
nel suo
tempo ha una moglie e un figlio, stando a quanto ha detto Revali.
È
arrivato nel loro tempo col potere del piccolo guardiano; ma
potrà
tornare indietro allo stesso modo? Forse Pruna e Rovely saranno in
grado di trovare una soluzione; ma solo dopo averlo pensato Link si
rende conto che non sa neppure se stiano bene o siano rimasti
coinvolti nel terremoto dell'avvento della Calamità. Non sa
neppure
se Lelek sia in salvo: il suo cuore si gonfia d'improvviso nel suo
petto a quel pensiero. Avrebbe voluto poterlo proteggere; ma neppure
questo gli è stato dato scegliere.
La principessa Zelda è
stata
alloggiata in una piccola costruzione nuda e spoglia al centro della
roccaforte: le finestre sono state protette con pannelli simili a
quelli che Revali ha montato per lui quest'inverno per tenerle al
caldo. Link bussa piano contro lo stipite della porta, aspetta
qualche istante, poi entra.
Prova la strana sensazione
d'essere
aspettato. La principessa è sveglia: è
infagottata nei suoi abiti
Rito troppo grandi per lei, coi capelli ancora raccolti e, di fianco,
il piccolo guardiano come una sorta di inseparabile custode, come
avrebbe dovuto esser lui per lei. Non s'è ancora abituata al
clima
troppo freddo dei monti di Hebra: tiene tra le mani una tazza di
tè
caldo che non accenna a bere, forse solo per scaldarsene le mani, ed
è seduta, a gambe incrociate, accanto al grande braciere
centrale,
già acceso, china su uno stuolo di mappe militari. Non dice
nulla,
ma alza gli occhi di lui e si posa un dito sulle labbra, in silenzio.
Impa deve stare ancora dormendo: Link intravede un'amaca nascosta
dietro un paravento. Anche lei ha combattuto quanto lui, del resto.
Link avanza nella stanza,
s'inginocchia di fronte a Zelda e dice a bassa voce: «Vi
chiedo
perdono, Altezza. Non vi ho ancora fatto le condoglianze per la
vostra perdita.»
Zelda ha gli occhi pieni di
quelle
lacrime e di quella morte che non l'abbandona mai. Ci pensa sempre,
ininterrottamente; è in ogni suo gesto, in ogni decisione
che
prenderà, d'ora in poi; ma chinando il capo per accogliere
le sue
condoglianze, risponde: «Non sei tenuto a farmele, Link, ma
grazie.
Mio padre non si è comportato bene con te.»
«Non importa. Era
vostro padre. Ha
cercato di fare quello che poteva nel tempo che aveva, come tutti
noi.»
«Ma ha sbagliato, non
è vero?»
mormora Zelda. Posa la tazza sul pavimento di fianco a sé.
«Anche
io non sono stata corretta verso di te, Link. Non ti ho mai
ringraziato per aver detto di no al mio posto quando ti hanno detto
che avresti dovuto sposarmi.»
Link abbassa gli occhi sentendosi
d'improvviso un po' confuso. «Perdonatemi, principessa. Non
vorrei
che voi aveste pensato... che fosse per voi. Sarei stato molto
fortunato a sposare voi, ovviamente, ma...»
«Link»
insiste Zelda. «Neppure io
volevo, ma avrei comunque fatto tutto quello che mi ordinavano, come
ho fatto sempre. Non avrei mai avuto il coraggio di oppormi... eppure
a me non avrebbero mai fatto quello che stavano per fare a te. Mio
padre non mi avrebbe messa a morte se avessi detto di no, ma io avrei
avuto comunque paura e avrei detto sì, tutto quello che
volevano,
purché finalmente il mio potere si risvegliasse e
smettessero
d'accusarmi d'essere inutile e viziata. Tu sei stato coraggioso e
hai detto di no per entrambi. Mi hai salvato anche da questo, come
quel giorno dagli Yiga... e io non ti ho neppure mai
ringraziato.»
«Non dovete
ringraziarmi mai,
principessa. Come quel giorno dagli Yiga» risponde Link, e
Zelda
sorride di un sorriso che a malapena rischiara i suoi occhi. Link
osserva le mappe sul pavimento per cercare le parole da dire.
«L'altro giorno, se voi
mi aveste
ordinato di andare a salvare Urbosa per prima, io avrei
disobbedito.»
«In quel momento eri in
congedo.
Non eri neppure tenuto a obbedire ai miei ordini.»
Link scuote la testa.
«Non funziona
proprio così, Altezza. Prima di tutto, è un
congedo forzato. Se voi
mi aveste ordinato di rientrare in servizio, io avrei dovuto
obbedire... ma non è questo il punto. Il punto è
che avrei
disobbedito a prescindere, anche se avessi dovuto fronteggiare un
altro processo marziale.»
«Link!»
protesta Zelda a mezza
voce. «Tu sai che io mai... mai, neppure se tu...»
Link alza le mani gentilmente per
pregarla di lasciarlo parlare. Zelda ammutolisce ma un po' inquieta.
«Principessa, voi sapete che io ho giurato di difendere
Hyrule
sempre, e non intendo venire meno al mio giuramento. Neppure adesso.
Ma non voglio più combattere lontano da Revali. Se sapessi
che lui è
al sicuro, forse sarebbe diverso; ma anche Revali è come me
e
combatterà sempre, perché anche lui vuole
difendere la sua gente.
Permettetemi di combattere dove posso vederlo.»
Zelda china gli occhi sulle mappe
che ha di fronte e le fa scorrere le une sulle altre con la punta
delle dita. Sta riflettendo.
«Link, tu avrai il
comando delle
operazioni militari a partire da oggi. Non hai bisogno di chiedermi
questo.»
Questo Link non se l'aspettava:
è
talmente inatteso che si limita a scuotere la testa. «No,
Altezza.
Questo non è possibile per una questione di grado. I
generali...»
«I generali che
volevano
costringerci a sposarci e metterti a morte?» Quando Zelda
alza gli
occhi su di lui, il suo sguardo è più duro e
tagliente di quanto
Link l'abbia visto mai. «Link... io posso perdonare mio padre
per
quello che ha fatto perché sono sua figlia, e soprattutto
perché si
è sacrificato per difendermi ed è morto. Se
doveva pagare, ha già
pagato. Ma anche i generali hanno sbagliato. Posso perdonarli come ho
perdonato mio padre; ma non intendo permettere loro di sbagliare
ancora. Link, io mi fido solo di te. Accetterai il comando?»
Fanculo
i teologi di corte, gli
ha detto
ieri Impa sulla neve; fanculo i generali, gli
sta dicendo ora Zelda, con parole diverse da quelle di Impa, che non
potrebbe usare mai, forse; ma con la stessa intenzione. Se suo padre
è morto, Zelda ora è regina: e ora ha
facoltà di scegliere e di
rimediare agli errori di suo padre, dei generali, dei teologi, di
quella generazione di vecchi spaventati che hanno cercato ovunque al
di fuori che in loro una risposta al pericolo e alla
Calamità,
ovunque, nelle leggende e in un passato destinato a ripetersi sempre,
pur di non dover ammettere di dover cercare la salvezza da soli.
«Se lo accetto, voi
sarete disposta
a esaudire una mia richiesta?» Zelda non gli chiede neppure
di che
cosa si tratti: lo guarda solamente, come a invitarlo a parlare senza
volerlo interrompere, e Link prosegue. Gli sembra che non gli sia mai
occorso più coraggio che per fare questa richiesta.
«Voi sapete che
io combatterò sempre per Hyrule, a qualsiasi costo... ma ho
bisogno
di chiedervelo. Quando tutto questo sarà finito, quando la
Calamità
sarà stata sconfitta... se io volessi lasciare l'esercito,
mi
lascereste andare?»
È una vigliaccheria.
Dal suo
destino di principessa, di regina, Zelda non potrà tirarsi
indietro
mai: non potrà semplicemente prendere congedo, scappare,
ritirarsi:
resterà prigioniera del castello e del destino delle sue
antenate a
vita, eternamente, e non potrà semplicemente andarsene,
rinunciare;
ma Link non è Zelda, dopotutto. I loro destini sono
già divisi;
l'ha detto lei stessa; si sono separati, se non altro, quando il re
ha messo a morte soltanto lui per aver cercato di salvare entrambi.
Ha diritto di chiedere.
Zelda l'osserva a lungo come se
lo
vedesse per la prima volta. Quando riprende la parola, d'un tratto
Link si accorge che non è lui che le sembrava di non aver
mai visto
prima.
«Tu sarai libero come
lo sei ora,
Link. Io non ti imporrò mai niente. Ma... dopo la
Calamità potremo
ricominciare dall'inizio, credi?»
Link vorrebbe attraversare la
breve
distanza che li separa; vorrebbe scavalcare le mappe che si stendono
tra loro e prendere la sua pallida mano per darle forza; ma non l'ha
mai fatto e neppure lo osa. China lo sguardo sul piccolo guardiano
che sorveglia Zelda gelosamente come un cucciolo con la madre e
risponde: «Se non ci è dato neppure sperarlo,
perché lui sarebbe
tornato indietro?»
Più tardi, prima che
Impa si
svegli, per non disturbarla, Link rientra nella loro capanna: Revali
si è alzato. Non è più agli arresti,
ma non sembra particolarmente
ansioso di uscire: è seduto per terra, a gambe incrociate, e
come
sempre sta lavorando. Sta sistemando il suo arco dopo la lotta contro
l'Ira su Medoh. Alza gli occhi appena quando lo sente rientrare.
«Ah, eccoti. Per un
attimo ho
pensato di trovarmi in una di quelle ballate d'amore in cui
l'innamorato scappa prima del mattino.»
«Avete delle ballate
ben tristi.»
Link rimane sulla soglia a osservarlo lavorare. «Non mi
chiedi dove
sono stato?»
«Qualcosa nella tua
domanda mi fa
presumere che me lo dirai ugualmente.» Revali lo osserva al
di sopra
dell'ardita curva dell'arco. «Posso conoscere questo
segreto?»
«Sono stato dalla
principessa. Mi
ha chiesto di accettare il comando dell'esercito.»
Non è che sia poi
così facile, o
frequente, cogliere Revali alla sprovvista. Per un attimo Link ha la
strana soddisfazione di vederlo aggrottar la fronte per la sorpresa.
«Non so cosa io debba
dire in un
caso del genere. Congratulazioni? Complimenti?»
Link si stringe nelle spalle
mentre
si siede di fronte a lui al calore del fuoco. «Non credo ci
sia
nulla da congratularsi in questa situazione. Le ho chiesto il
permesso di non combattere più separato da te, ma solo se tu
sarai
d'accordo, naturalmente. Non voglio importi niente. Forse avrei
dovuto parlarne prima con te, ma se non vorrai, sarai libero di
muoverti come credi meglio.»
Dopo un lunghissimo istante,
Revali
posa al suolo l'arco che ha in mano. I suoi occhi limpidi lo scrutano
al di sopra del chiarore del fuoco.
«Perché?»
La sua voce è
insolitamente calda.
Sforzandosi di sostenere lo
sguardo
dei suoi occhi verdi, Link risponde: «Perché ho
commesso degli
errori ieri. A un tratto, sul Monte Morte, se non ci fosse stata
Impa... e anche su Rudania. Se non mi avesse riparato il fratello di
Mipha, forse sarei morto. Mi sono reso conto d'essere distratto. Lo
sai, non va bene per un soldato.»
«A che cosa
pensavi?»
«Lo sai a cosa
pensavo.»
Revali annuisce piano tra
sé. Torna
a sollevare l'arco, ma non si rimette subito al lavoro: è
come se
avesse bisogno d'una scusa per aver le mani e gli occhi occupati.
«Ci sarà
molto da combattere nei
prossimi mesi» commenta soltanto senza guardarlo.
«Esatto. E non voglio
rischiare di
trovarmi in un campo di battaglia isolato per giorni senza avere idea
di dove sei o se tu sia vivo. Non voglio...» Link esita
perché per
quello che deve dire ora non ha mai trovato parole prima e non sa se
sia in grado di trovarle. «Quel giorno in cui credevo che tu
fossi
morto... non so cosa ho pensato. Se non ci fosse stata Tara mi sarei
lasciato soltanto sprofondare nella neve e avrei lasciato che gli
altri andassero avanti senza di me. Neppure il patibolo è
stato...
non importa. È stato quello che è stato, ma quel
giorno è stato
diverso. Ha senso per te?»
Revali l'osserva a lungo al di
sopra
del fuoco: le fiamme riflettono nei suoi occhi barbagli aranciati e
ognora mutevoli. Posa di nuovo l'arco sul pavimento di fianco a
sé,
delicatamente, e protendendosi in avanti posa la mano sui suoi
capelli e lo attira piano contro il proprio petto.
«Non è che
tu sia proprio un
retore, eh?»
«Stronzo»
risponde Link affondando
il volto contro di lui.
«Comunque, ho capito.
Non puoi
vivere senza di me eccetera, giusto?»
«Non farmici
ripensare» lo
ammonisce Link, e Revali scoppia a ridere. Link sente la sua risata
sotto forma di vibrazioni che lo scuotono.
«Potevi propormi un
viaggio di
nozze come tutti i comuni mortali, comunque. Che so, Akkala in
autunno. Invece no, tu mi proponi di combattere insieme. Non sei
proprio fatto per il romanticismo, tu.»
Link potrebbe fargli notare che
si
dà il caso che questo dannato Rito sia probabilmente la
negazione
assoluta del romanticismo, ma decide di lasciar perdere. Si rigira e
si distende fino a lasciar riposare il capo nel suo grembo, e Revali
sorride e si rimette a lavorare al di sopra di lui. Disteso contro di
lui, Link sente che potrebbe quasi rimettersi a dormire: osserva i
movimenti di Revali sentendosi le palpebre piacevolmente rilassate.
C'è una strana piacevole abitudinarietà in quei
gesti che non si
era reso conto d'aver ormai imparato a conoscere.
«Potremmo andarci
davvero, quando
tutto sarà finito.»
«Andare dove?»
«Ad Akkala, io e
te.»
Revali sorride appena e gli
scompiglia piano i capelli, quasi distrattamente, come per abitudine.
«È un'idea. Ne hai avute di peggiori.»
Link si appisola pensando alle
foglie rosse degli aceri sulle colline di Akkala, infuocate sotto il
tramonto, e per qualche minuto il pensiero della guerra che lo
attende non gli sembra più così terribile. Revali
continua a
lavorare in silenzio tenendosi il suo capo sulle ginocchia come se
fosse una cosa proprio naturale.
Il giorno seguente raggiungono il
grosso dell'esercito Hylia, che è attestato nella piana di
Hyrule in
attesa di ordini.
Kagan non li ha visti partire con
favore. «Se potessi, vi farei rimettere entrambi agli
arresti» ha
detto all'alba, al momento di salutarli, sforzandosi di non agitarsi
perché aveva il suo bambino in braccio e non voleva
turbarlo; ma se
fossero stati soli, Link ne è certo, avrebbe dovuto
trattenere le
lacrime come la sera in cui è venuto da loro a salutare
Revali.
«Vorrei sapervi al sicuro.»
«Smettila con questi
metodi
dittatoriali, o ci prenderai l'abitudine» gli ha risposto
Revali
abbracciandolo, e Kagan gli ha tirato un pugno non troppo scherzoso
sulla spalla.
«Mi fido solo di
te» ha detto poi
rassegnato, rivolgendosi a Teba che li avrebbe accompagnati, e Teba
ha chinato il capo un po' imbarazzato; ma Kagan lo ha abbracciato
ugualmente come se lo conoscesse da una vita, proprio come ha fatto
con Link la sera in cui è arrivato al borgo. «Sei
l'unico tra di
loro con un po' di buon senso. So che ti do un grosso peso, ma dai
un'occhiata a questi due idioti da parte mia, va bene?»
I
soldati e i capitani sulla piana, quando li raggiungono, sono
scoraggiati e demoralizzati. Hanno cercato di combattere contro i
guardiani che si sono ribellati, per un po', ma senza convinzione;
perlopiù sono riusciti a tenerli confinati nelle zone
immediatamente
circostanti il castello, lontano dai centri abitati principali, e
questo è già qualcosa: per attaccare oltre, i
generali attendono
ordini più precisi. Gli uomini hanno paura: non hanno mai
visto
niente del genere, e molti di loro non sanno se le loro famiglie
siano in salvo e al sicuro. La notizia che i Colossi sacri sono stati
liberati e che i Campioni sono vivi, e che i popoli alleati
continueranno a inviare truppe di rinforzo e a partecipare alle
operazioni, li rinfranca un po'; ma soprattutto li riconforta il
ritorno di Link. Gli uomini si sono fidati di lui sempre,
incondizionatamente, talora anche troppo, perché Link si
sente ben
lontano dall'essere infallibile; ma il fatto che sia tornato dal suo
esilio, per loro, è come il chiarore che precede l'alba. Se
hanno di
nuovo tra di loro la Spada che esorcizza il male, pensano, la
vittoria sulla Calamità non può tardare ad
arrivare; e Link spera
tanto che abbiano ragione. I soldati lo acclamano quando lo vedono
arrivare, percuotono gli scudi con le lance e con le spade, e gli
ufficiali cercano di tenerli a bada ma con poca convinzione: al suo
passaggio i capitani e i tenenti gli danno pacche sulle spalle e lo
abbracciano familiarmente. Bentornato, mormorano
alle sue orecchie, ci sei mancato; poi
osservano Revali, che avanza al suo fianco in silenzio, superbo e
marziale come sempre, colle ali incrociate dietro la schiena, gli
ingombranti bendaggi ancora ben visibili sotto la tunica, e danno
ordine di presentare le armi per l'orgoglio dei Rito.
Lelek lo raggiunge non appena lui
e
Revali si sono sistemati nella tenda predisposta al centro
dell'accampamento: non lo saluta neppure. Link si sente d'un tratto
un paio di braccia che lo cingono alla vita a tradimento, da dietro,
e qualcosa di molto simile a un singhiozzo. Capisce di chi si tratta
perché solo una persona in tutto l'esercito, e forse al
mondo, ha
abbastanza familiarità con lui da abbracciarlo
così, d'improvviso;
e anche perché, se Revali non gli ha ancora strappato le
braccia,
non può essere che perché si tratta anche
dell'unica persona al
mondo di cui Revali non sembra esser geloso. Si gira a fatica,
all'interno di quell'abbraccio, e si stringe Lelek al petto
accarezzandogli piano i capelli. Per un po' non dicono niente.
«Siete vivo»
balbetta Lelek. Ha un
po' di pianto nella voce.
«Certo che sono vivo.
Ne dubitavi?»
«Avevano detto...
pensavamo che,
quando i Colossi sono stati conquistati... non sapevamo se voi foste
su Medoh, oppure...»
«Sht. Va tutto
bene» mormora Link
contro la sua fronte. Lo accarezza come quella sera in carcere, come
un bambino: se esiste qualcuno che vorrebbe essere in grado di
proteggere dal mondo, quello è Lelek. «Tutto bene,
tutto bene. I
ragazzi della squadra sono salvi? E i tuoi cugini...»
I soldati e i suoi cugini sono la
sola famiglia che a Lelek sia rimasta, e lo è stato anche
lui, per
un po', prima della condanna e dell'esilio: Lelek annuisce contro il
suo petto. «Ho convinto i miei cugini a spostarsi al
villaggio
Calbarico più di un mese fa perché fossero al
sicuro. Io e i
ragazzi non eravamo al Castello quando è successo: ci
avevano
mandati in ricognizione perché erano stati avvistati dei
lynel alle
pendici dell'Altipiano... Ho il vostro scudo, sapete? Lo scudo di
vostro padre...»
«Hai fatto
bene» mormora Link. Lo
discosta piano da sé per poterlo guardare negli occhi.
«Ci
riprenderemo il Castello, Lelek, vedrai. I Campioni sono salvi. Non
siamo ancora perduti.»
«Lo so. Voi siete
tornato»
risponde Lelek tranquillamente, col tono di una cosa proprio ovvia, e
dalla sua fede incrollabile e dalla sua fiducia Link si sente
commosso oltre ogni dire. Non è mai stato certo di vincere,
di
liberare Hyrule, di sconfiggere la Calamità; ma la fiducia
semplice
e spontanea nella voce di Lelek è qualcosa che neppure
volendo
potrebbe tradire dopo averla sentita. Si sente un groppo in gola che
non sa come sciogliere né come reprimere: si guarda intorno
per
cercare ovunque qualcosa che gli permetta di non dover sostenere
oltre lo sguardo fiducioso dei suoi occhi; non vuol farsi vedere
piangere, neppure di commozione.
Revali interviene a toglierlo da
quella situazione. Avanza sorridendo dal fondo della tenda e posa
sulle spalle di Lelek la lunga ala, scuotendolo appena, quasi per
incoraggiarlo, e commenta ad alta voce: «Guarda un po' chi si
rivede... il cucciolo di attendente. Il tuo capitano era sperduto
senza di te, sai?»
Riesce persino nell'intento di
strappargli una risata: Lelek si raddrizza e si asciuga gli occhi
sforzandosi di ricomporsi. «Perdonatemi, maestro Revali. Non
vi ho
neppure salutato come si deve.»
Quando Zelda comunica ai generali
che ha stabilito di affidare il comando delle operazioni militari a
Link, non si solleva il coro di proteste e di minacce che Link si era
aspettato in un primo momento: hanno paura, comprende Link al primo
sguardo; e in questo modo, se fallirà, sarà solo
colpa sua; non
hanno più idea di come gestire la minaccia della
Calamità ora che è
arrivata di quando era solo prevista; ma ora l'evidenza dei loro
errori sarebbe scoperta e palese e sotto gli occhi di tutti.
Rassegnarsi al volere della regina e mostrarsi indignati e
oltraggiati, certo, ma pronti a mettere da parte il loro orgoglio
personale in nome del bene di Hyrule, è pur sempre
più facile e
dignitoso che dover ammettere che non hanno idea di dove metter le
mani d'ora in poi. Lo osservano con sospetto e malcelato rancore, ma
poi giurano tutti, perché non giurare, di fronte a un ordine
di
Zelda, sarebbe alto tradimento: Link li ringrazia chinando il capo
per la loro fiducia, posa l'elmo sul tavolo e srotola di fronte a
loro una serie di mappe militari. Del resto, non intende umiliarli:
del loro aiuto e della loro esperienza intende servirsi in ogni modo
possibile, e soprattutto non vuole rischiare a nessun costo
un'insurrezione militare o un colpo di Stato; perciò affida
loro
compiti fondamentali ma non centrali e li colloca in difesa della
Necluda e di Firone, nonché sulle coste, dove ci sono
importanti
centri abitati che a qualunque costo devono essere difesi; ma
dovranno anche tenere difesa la piana di Hyrule. Il Castello, dove si
annida la Calamità, è perduto, per il momento; ma
Link intende
tenerla confinata lì finché non avrà
modo di indebolirla e
occuparsene direttamente.
Quando
gli altri Campioni raggiungono il quartier generale nella Hyrule
centrale, dopo aver messo in sicurezza i riconquistati Colossi sacri
e le rispettive città, portano con sé anche i
guerrieri provenienti
dal futuro: è la prima volta che si trovano tutti insieme.
Vengono
tutti dal medesimo futuro, ma tra di loro non si conoscono, a quanto
pare: conoscono tutti Link, però, e hanno combattuto con
lui. Link
starebbe ad ascoltarli per ore, e forse finisce per approfittarsi
della loro cortesia e del loro bisogno di parlare e di chiarire a se
stessi che cosa sia accaduto: rimane a parlare con loro
infinitamente, nelle notti troppo lunghe dei turni di guardia,
attorno al fuoco, e cerca di figurarsi senza vederlo questo futuro in
cui lui ha dormito per cento anni e Zelda è prigioniera del
Castello
e della Calamità, priva di un corpo e di una forma umana.
Quando le
è possibile, Zelda siede al suo fianco in silenzio,
intimorita e
inquieta, ad ascoltare un futuro che avrebbe potuto essere e forse
non sarà; i suoi grandi occhi azzurri lo scrutano al di
sopra del
fuoco, forse cercando d'indovinare i suoi pensieri e di determinare
se corrispondano o meno ai suoi. Nei loro racconti, Zelda è
assente;
o meglio è onnipresente, ma come uno spettro o un'assenza:
è la
consapevolezza vaga di quello strano Link del futuro, silenzioso e
disperato, di avere un compito ineluttabile e di dover salvare una
principessa che non ricorda d'aver mai vista né conosciuta
ma cui in
qualche modo deve la vita; è la presenza misteriosa, nel
Castello,
che tiene vincolata a sé la Calamità e attende un
eroe che non sa
se arriverà mai.
«E ce l'ho
fatta?» chiede Link; si
sente percorso da brividi pur nel calore del fuoco: Zelda sembra
trattenere il respiro nell'attesa della loro risposta. «Nel
vostro
futuro l'ho salvata, dite?»
«Sì,
Link» risponde Sidon a bassa
voce, e gli altri eroi del futuro sembrano essergli grati d'aver
risposto per tutti: Mipha posa le mani sul suo braccio. Sidon non
lascia mai il suo fianco da quando l'ha ritrovata, e la guarda, in
ogni momento, come un miracolo incarnatosi sulla terra; per lui, del
resto, è proprio così. «Sei andato al
Castello, hai combattuto e
hai vinto. Nel futuro da cui proveniamo, tu e la principessa state
lentamente ricostruendo Hyrule.»
Un lieto fine, dunque, ma dopo
cento
anni; e dall'altro lato del fuoco gli occhi di Zelda dicono
abbastanza chiaramente che quel futuro non vuole vederlo mai.
Salveranno Hyrule a qualunque costo, ma in questo tempo. Non sanno
cosa accadrà in quell'altro futuro, ma non possono
permettere che
diventi anche il loro.
Anche i guerrieri del futuro sono
molto interessati al loro passato, tuttavia, soprattutto per quanto
differisce da quello che conoscono: la Calamità che si
è
risvegliata in anticipo, ovviamente, li colpisce per l'enorme portata
delle conseguenze di cui è carica; ma anche il suo
matrimonio desta
non poco interesse. Sta diventando difficile anche spiegarlo,
perché
è ormai evidente che la definizione falso
matrimonio non è
più esauriente, o quantomeno è adatta soltanto a
spiegare com'è
che è andata all'inizio: e i salvatori ascoltano col fiato
sospeso
il tradimento dei teologi di corte e dei generali, il processo e
l'esecuzione e il salvataggio, proprio all'ultimo momento, quando
Link ormai aveva già il collo stretto dal cappio e a vivere
non ci
credeva neppure più. L'idea del falso matrimonio sembra loro
avventurosa e folle, rocambolesca e geniale nella sua
semplicità, ma
soprattutto romantica come una leggenda: Revali passa talora un'ala
attorno alla sua vita, un po' diviso tra l'imbarazzo e l'orgoglio,
quando Yunobo o Riju si soffermano su quest'ultimo aspetto, e non
dice altro. Non lo tocca mai in presenza di Mipha, perché
della sua
smisurata bontà non intende approfittare in alcun modo, e
forse
perché quello che hanno gli sembra qualcosa che non
può venire
ostentato né interessare ad altri; ma talora, quantomeno
quando è
certo che lei non possa vederli e dunque di non poterle infliggere
alcun dolore, lo sfiora appena, e Link lo guarda e gli sorride. Sono
in guerra, e questo è quello che hanno: ma va bene
così. Urbosa e
Daruk si concedono di prenderli un po' in giro, benevolmente, come
tutto quello che fanno, e questo è il loro modo di dire che
sono
felici per loro; ma talora, con la coda dell'occhio, Link coglie ai
margini del suo campo visivo Sidon che distoglie discretamente lo
sguardo e talora si allontana. Non sa cosa pensare.
Gli Yiga si consegnano a loro il
quinto giorno dopo l'avvento della Calamità: questa
è forse la cosa
più incredibile, e Riju, alla notizia, alza gli occhi in
allarme e
cerca con lo sguardo gli occhi degli altri guerrieri del futuro.
È
un'altra differenza del loro passato, a quanto pare, rispetto al
futuro che finora conoscono, e che prova che il piccolo guardiano sta
cambiando le cose: nel futuro, a quanto pare, gli Yiga non si sono
mai arresi e combattono ancora per Ganon a distanza di cento anni.
«Stai
attento» lo supplica Riju
quando Link dà ordine di far passare Koga e Supa, privi di
armi, che
vengono a parlamentare per trattare i termini della propria resa.
«È
una trappola.»
Ma non è una trappola.
Link, Impa e
Revali s'incaricano di riceverli, mentre Zelda, per sua sicurezza,
assiste all'incontro da una tenda comunicante ma riparata, protetta
dai Campioni e dai guerrieri del futuro: Koga racconta tutto senza
neppure venirne richiesto. Racconta cose incredibili. Parla loro di
uno strano stregone di nome Astor che ha richiesto da loro, in nome
della Calamità e delle sue Ire, un sacrificio che neppure
gli Yiga
erano più disposti a concedere: quando s'è visto
morire i suoi
uomini davanti senza poterli proteggere, persino Koga si è
arreso; e
ora gli Yiga sono disposti a rimettersi al giudizio della Corona e ad
affrontare un processo per i loro crimini, pur di godere della
protezione della regina e di potersi vendicare del traditore.
Se si trattasse soltanto d'altri
alleati, Link forse li farebbe arrestare e condannare a morte sul
momento; ma non sono soltanto le loro forze che gli Yiga gli stanno
offrendo. Se dietro il ritorno della Calamità si cela questo
Astor e
gli Yiga hanno collaborato con lui, allora possiedono delle
informazioni che a loro sono indispensabili; e di quelle informazioni
non intende fare a meno.
Link si ritira con Zelda, per
qualche minuto, per decidere: si trovano d'accordo molto presto.
È
un rischio; ma se è stata concessa loro la
possibilità di salvezza,
devono aggrapparvisi.
Concedono agli Yiga la grazia
della
vita purché combattano per la Corona e si sottopongano a
processo
non appena la Calamità sarà stata sconfitta, e
soprattutto purché
consegnino dieci ostaggi, scelti tra gli ufficiali Yiga di
più alto
grado, che dovranno rimanere in consegna all'esercito Hylia per tutta
la durata della guerra: Link è quasi certo che a questa
condizione
rifiuteranno, invece Koga, dopo aver chinato il capo sul petto per un
momento, sospira e si offre di consegnarsi. Prima che faccia in tempo
ad alzarsi in piedi, Supa si frappone tra di loro e chiede d'esser
scelto al suo posto. È in questo momento, nella voce di Supa
che
sceglie di consegnarsi al posto del suo maestro, che Link comprende
d'un tratto quanto sono disperati e soli di fronte ad Astor e alla
Calamità: hanno perduto anche loro degli uomini, dopotutto,
e a
differenza sua li hanno perduti per propria colpa. Delle vite perdute
di quegli Yiga non cesseranno d'esser colpevoli mai, e tutto quello
che rimane loro, adesso, è la speranza di sconfiggere Astor
e
vendicarli. Come ostaggi li rifiuta entrambi: li ha visti combattere.
Se deve correre il rischio di fidarsi di loro, tanto vale averli di
fianco a sé sul campo di battaglia: vuole la follia di Koga,
le lame
formidabili che solo Supa è in grado di maneggiare; si fa
consegnare
dieci sottufficiali con la promessa che non saranno obbligati a
togliersi le maschere per mostrare i propri volti e che nessuno
farà
loro del male. A questo patto, poiché non ha alternative,
Koga
accetta. Impa organizza personalmente il trasferimento degli ostaggi
al villaggio Calbarico sotto la custodia degli Sheikah: da questo
momento gli Yiga combattono per loro.
La Calamità, e
soprattutto questo
misterioso e inafferrabile Astor, hanno aperto più fronti su
più
regioni di Hyrule: le battaglie si succedono le une alle altre. I
generali mettono in discussione più volte le sue strategie:
Link
accoglie molte delle loro osservazioni, li tratta sempre col massimo
rispetto; molto spesso hanno ragione, e della loro esperienza e dei
loro punti di vista egli si sforza di far tesoro; altre volte fa di
testa sua. Non vuole perdere più uomini dello stretto
necessario,
centellina le forze: non intende mandare soldati suoi né
alleati
alla morte per niente; non si possono salvare tutti, ovviamente; fa
del suo meglio. È la guerra. Zelda si fida di lui
ciecamente.
Autorizza tutto quello che lui chiede o consiglia,
approvvigionamenti, spostamenti di carri, bestiame, munizioni,
rifornimenti, truppe: Impa lo consiglia costantemente. Revali
è al
suo fianco sempre: irride le sue decisioni in continuazione, ma mai
davanti ad altri, e nel suo sarcasmo e nella sua ironia Link si sente
rinvigorito in modi inusitati. La sera, nella loro tenda, Link rimane
sveglio a riflettere sulle mappe e sui piani di battaglia, ripetendo
costantemente progetti e riflessioni; Revali smonta ogni sua idea ed
evidenzia ogni fallacia dei suoi piani, poi lo tiene tra le braccia,
nell'amaca, e gli illustra alternative strategiche finché
non si
addormenta: il giorno dopo, quando illustra i piani ai generali, Link
non sa più che cosa provenga dalla sua mente e che cosa da
quella di
suo marito, ma Revali sorride compiaciuto dall'altro lato della
tenda.
Riconquistano le fortificazioni
di
Akkala e di Finterra, dove Rovely è rimasto attestato per
giorni con
un manipolo di soldati Hylia e Sheikah incaricati di difenderlo: lui
e Pruna saranno essenziali nei giorni che verranno; il loro genio
è
insostituibile. Gli accampamenti si susseguono senza sosta per tutta
l'estate: Link cerca di non aprire più fronti
simultaneamente,
perché non vuole disperdere le forze; non è
sempre possibile, però.
Non sono tutte battaglie campali: occorre difendere i villaggi e i
piccoli centri abitati, respingere mostri isolati e interi gruppi di
sbandati che scendono dalle montagne; talora occorre inviare piccole
squadre, di solito guidate dai Campioni; Link stesso guida
più di
una spedizione. Non è fatto per comandare soltanto,
è fatto per
imbracciare la Spada e combattere; persino le piccole vittorie contro
gli hinox e i lynel isolati servono a rinvigorire il morale
dell'esercito e dei guerrieri, dopotutto: una volta Supa gli salva la
vita, si schiera di fronte a lui intercettando un fendente brutale
dello spadone di un lynel; Link rimane talmente senza fiato che gli
viene in mente di ringraziarlo come si deve solo dopo, a scontro
finito, e Supa reclina il capo e non risponde. Dopo questo episodio
anche i Campioni iniziano a prestargli un po' più di
fiducia, e Link
lo guarda diversamente. Non saprebbe dire se gli Yiga siano pentiti
davvero, quantomeno in parte, o se la loro non sia soltanto una
raffinata strategia per ottenere la vendetta che bramano sullo
stregone che li ha traditi, e se dopo, quando Astor sarà
stato
sconfitto, torneranno alla loro vita ai margini di Hyrule e della
pace della Corona: ma Supa ha appena rischiato di perdere un braccio
per aiutarlo. Se gli Yiga tradiranno quando tutto questo
sarà
finito, la Corona li perseguiterà; fino ad allora, Link
intende
valersi delle loro tecniche e della loro forza come di quelle degli
altri alleati.
La guerra e le battaglie si
avvicendano anche quando all'estate si succede un clima meno
benevolo: i terreni di battaglia si fanno pantani in cui è
difficile
persino sollevare le gambe; Astor è sfuggente e
imprendibile. Link
prova talora la sensazione d'inseguire uno spettro o un sogno; a
volte gli sembra d'essere a un passo dall'afferrarlo, d'esser quasi
sul punto di sconfiggerlo o prenderlo, ma Astor sembra fuggire di
fronte alla loro avanzata più rapido e incomprensibile di
una
chimera; sta perdendo terreno, però. Questo è
innegabile, perché a
poco a poco riconquistano le frontiere, le fortificazioni, i
territori perduti; e forse la continua fuga di Astor non è
più un
vantaggio ma si fa, a poco a poco, il ripararsi d'una bestia con le
spalle al muro, di tana in tana, nella speranza che prima o poi i
suoi cacciatori rimangano invischiati in una delle trappole che ha
teso per loro.
Prima che venga l'inverno,
ripuliscono la gola Vapone dai mostri che vi si sono stanziati,
protetti dalle alte pareti: è fondamentale,
perché non possono
permettere che i Rito affrontino un inverno sulle montagne, dove il
freddo minaccerebbe non tanto gli adulti quanto i bambini; Revali
spazza dall'alto di Medoh la lunga gola infinita che fende Hyrule
come una ferita, ma è poi necessario andarci di persona, in
piccole
squadre, per giorni, a controllare le grotte e le fenditure profonde
nella roccia, per stanare i mostri che vi si sono annidati e
distruggerne covate e cuccioli: è un'operazione lunga,
infame, e
richiede di restar per giorni in piccoli gruppi all'interno di una
voragine dalla quale a stento si vede il cielo, comunicando grazie a
Rito scelti che fanno da staffette e da sentinelle per sorvegliare i
lavori dall'alto ed evitare che le squadre si trovino colte
impreparate o alle spalle, o peggio ancora vengano attaccate
dall'alto; ma non è pericoloso. È quanto di
più simile alla sua
antica vita Link sia in grado di ricordare: la notte, quando si
accampano, intravede qua e là, in lontananza, ai due lati
della
gola, i fuochi delle altre squadre di Campioni e soldati accampati
come loro: le staffette Rito portano gli ultimi ordini per il giorno
seguente, si schierano sentinelle sui dirupi, poi la gola sprofonda
in un silenzio denso che non sembra trovar fine in nessuna direzione,
infinito: le stelle vacillano al di sopra di loro, verticalmente,
come un telo proteso tra le pareti della gola. Dormono all'aperto
lungo le pareti di roccia altissima, quand'è necessario, o
nelle
grotte umide, fredde, coperte di muschio.
Talora, nelle notti sconfinate,
echeggiano le strida dei grublin nascosti, annidati nelle
profondità
della gola, ma sempre più fioche e lontane, rade.
Rannicchiato tra
le braccia di Revali nell'umidità delle grotte, Link ascolta
le
grida fendere il silenzio, sempre più diradate col
progredire della
loro missione.
«Tra poco la nostra
gente potrà
tornare a casa» dice. «Quando avremo eliminato gli
ultimi mostri,
saranno di nuovo al sicuro.»
Revali percorre piano i suoi
zigomi
con la punta delle dita. «Kagan sarà contento.
Potrebbe quasi
perdonarci per non esserci fatti arrestare.»
«Non penso che basti
questo. Forse
quando la guerra sarà finita e torneremo a casa, dove
può vederci.»
Chissà
perché si aspettava la
risata di Revali contro la sua gola, ma Revali, stranamente, non
ride. Continua a percorrere i tratti del suo volto, lentamente, e
d'un tratto Link sente che c'è qualcosa che deve dirgli.
«Sei
completamente riabilitato, ora. Se tu volessi potresti tornare alla
tua vita di prima. Non sei obbligato a tornare a casa con me.»
Link si solleva puntellandosi a
un
gomito per guardarlo negli occhi. «Che cosa intendi
dire?»
Revali non incrocia il suo
sguardo.
«Voglio dire che, se tu volessi rientrare nell'esercito
regolare,
potresti farlo. Riavresti il tuo attendente, i tuoi alloggi, la tua
vita di prima.»
Link lo strattona per costringerlo
a
guardarlo. «Perché mi stai dicendo
questo?»
«Perché
è giusto che tu possa
scegliere» risponde Revali. «Non è la
vita che avresti scelto fin
dall'inizio. Non voglio che tu rimanga solo
perché...»
«La mia vita sei
tu» lo interrompe
Link.
Gli occhi di Revali si fanno
appena
più grandi nel chiarore delle braci morenti. Sorride appena
mentre
lo tira giù piano per farlo tornare a distendersi accanto a
lui.
«Quando torniamo a
casa, devi
tagliarti i capelli» dice solamente, e Link ride contro il
suo petto
e si addormenta.
Non ne parlano
più.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=4076717
|