Il Dicembre degli Aranci

di Cattive Stelle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Baciami ancora ***
Capitolo 2: *** II - Duemila volte ***
Capitolo 3: *** III - Cattive Stelle ***



Capitolo 1
*** I - Baciami ancora ***


Contesto: Doc - Nelle tue mani ~
Post finale stagione 3 - episodio 3x16  - "Liberi"
Riferimenti e flashback in corsivo relativi alle puntate 1x04 - "Una cosa buona che fa male" e 1x06 - "Come eravamo"

 

Ispirazioni Musicali 

Sai che (Marco Mengoni)
Baciami ancora (Jovanotti)

 

 


 


I

Baciami ancora

 

 

Di occhi stanchi e amori che restano

 

 

 

 

 

L’acqua del mare luccicava ai raggi caldi del sole di quella bella primavera che andava esaurendosi.
Agnese guardava l’orizzonte, lasciando che l’acqua di qualche onda più dispettosa delle altre schizzasse sui suoi piedi nudi.
Poco più in là, nel suo maglione blu, Andrea camminava senza fretta, un passo dopo l’altro, facendo tremare appena le travi di legno della passerella che si snodava dalla palafitta bianca e blu.
Mentre si avvicinava, la osservava di spalle.
I capelli biondi le cadevano sul vestito color mattone che le lasciava scoperte le ginocchia e il cui orlo si inzuppava un po' di più a ogni onda.
Una volta arrivato affianco a lei, si sedette lentamente sul bordo con le gambe incrociate.
Agnese si voltò lentamente verso di lui.
«Non le togli?» - gli chiese con un mezzo sorriso, facendo cenno alle scarpe.
«Ah» – disse guardando anche lui verso il basso, accorgendosi di averle ancora indosso – «Hai ragione» – e  con una smorfia si sfilò prima le scarpe e poi i calzini.
Lasciò i piedi sospesi in aria per qualche secondo cercando di evitare il più possibile il contatto con l’acqua fredda. Prudenza che non durò a lungo. 
Presto, infatti, cedendo all'impazienza, li lasciò cadere noncurante, a penzoloni sull'acqua: azzardo con cui si aggiudicò un’inevitabile smorfia di fastidio al primo schizzo utile.
Agnese non riuscì a trattenere una risata.
Lo osservava divertita; sembrava un bambino.
Mattia faceva lo stesso quando lo forzavano a fare il bagno. 
La stessa identica smorfia che si era disegnata in quel preciso istante sul volto di Andrea. 
La mente di lei per un attimo sovrappose le due immagini. 
Subito scosse la testa, come se quel semplice gesto potesse rafforzare il tentativo di scacciare quel ricordo, rivissuto tra sé e sé, il prima e il più lontano possibile. 
Era un meccanismo di difesa che conosceva benissimo. Affinato nel tempo e laboriosamente messo in atto ogni volta, giusto un attimo prima che la tenerezza lasciasse spazio alla tristezza e alla malinconia.

Nel frattempo, Andrea si guardava in giro, occhi al cielo. 
Un pensiero gli ballava fastidiosamente nella mente da un po'. 
E, conoscendosi, sapeva benissimo che non sarebbe riuscito a trattenerlo a lungo.
Respirò profondamente un paio di volte, quasi a far sì che l’aria pulita e densa lo attraversasse completamente, facendogli prendere un po' di tempo. 

«In questi giorni, pensando a questo posto, mi chiedevo: chissà se ci sono mai più venuto da solo?» - irruppe però poco dopo, spezzando dal nulla il silenzio.
I pensieri tersi di Agnese si infransero a quella domanda, facendola tornare di colpo al presente.
«Ovviamente io non me lo ricordo» - scrollò le spalle lui.
Lei lo fissava, senza parole.
«E tu invece?» - le pose la domanda Andrea, piegando leggermente la testa come se quel gesto complice potesse invogliarla a rispondere.
Agnese tentennò, prendendosi qualche istante in più per riflettere.
«No, io mai...» - disse con un filo di voce - «Ma ci ho pensato spesso» - concluse, tornando subito a guardare davanti a sè.
«Quindi tu te lo ricordi quanto tempo è passato dall’ultima volta che siamo venuti qui?»
«Troppo tempo» - disse guardandosi i piedi - «Più o meno da quando non ricordi, credo»
Lui annuì un po' deluso.
«Quello che so di sicuro è che l’ultima volta non ci sei venuto con me» - aggiunse Agnese dopo, un po' a fatica.
«Perché lo dici?» - si mostrò dubbioso.
«Perché è l’ultimo ricordo che ho di questo posto» - ribattè, con un accenno di malinconia nella voce.
Andrea la osservava curioso.
«Raccontamelo, ti prego» - le chiese forte di una cosa.
Del fatto che se lo erano promessi. 
Niente bugie, non più. 
In quei giorni avevano parlato tanto. 
Andrea aveva fatto milioni di domande ad Agnese. 
E lei, anche quando le era costato molto, aveva risposto. 
Sempre e senza riserve. 
E lo stesso aveva fatto lui.

Quello era uno di quei momenti.
Si guardarono e, senza parlare, Agnese capì che Andrea in cuor suo si stava appellando proprio a quella promessa. 
E che proprio per questo non avrebbe potuto tirarsi indietro.

«Era un paio di giorni prima che capitasse tutto» - forzò un sorriso.
A quel punto Andrea si adombrò tutto a un tratto, come se non volesse più sentire e riaprire così quella scatola che serbava tanto dolore. 
Agnese intercettò immediatamente quella nuvola scura nei suoi occhi e cercò di fermare l'arrivo impetuoso di quel pensiero troppo pesante prendendogli la mano per stringerla forte tra le sue.
«No. Niente tristezza» - gli disse dolce, guardandolo seria negli occhi - «Per me è ancora un ricordo bello. Non voglio che a te faccia del male»

Andrea abbozzò un sorriso, anche se il suo sguardo si era inevitabilmente velato di una visibile amarezza.
Agnese lasciò con delicatezza la mano di Andrea e buttò un’occhiata al mare. 
Per un attimo, chiuse gli occhi.
Il vento leggero, intriso del profumo del mare, che le scompigliava i capelli si intrecciò inesorabilmente al ricordo che, in quel momento, le invadeva prepotentemente la testa.

La luce di quel tardo pomeriggio tiepido filtrava dalle tende tirate della loro camera da letto.
La pelle di Andrea sulla sua.
I ricci  biondi, morbidi e lunghi sparsi
un po' su quel loro cuscino stazzonato e un po' arrotolati tra le dita delle sue mani grandi.
I vestiti caduti a terra, un po' qua e un po' là, affollavano il pavimento, disordinando la stanza.
I sospiri profondi le rimbombavano dolci nelle orecchie.
Quell'impercettibile sapore di sale sulle labbra schiuse di lui che le baciavano la bocca.

Di ritorno da quel pensiero, Agnese arrossì e abbassò di riflesso lo sguardo. 
Ma poi non resistette e d'impulso si girò per ritrovarlo e guardarlo un'altra volta negli occhi. 
«Sai cosa ricordo?»
Lui la fissò senza fiatare.
«Il sale sulle tue labbra. Il profumo della salsedine sui tuoi vestiti bagnati» - rise appena lei - «Quel giorno eri sparito, dovevi dimettere un paziente speciale. Non avevi detto nulla a nessuno e sei tornato solo a tardo pomeriggio. Bagnato fradicio, con il ragazzo a spalle...»
Andrea la fissava confuso.
«Riccardo?» - le domandò dopo qualche secondo.
Agnese annuì con un sorriso.
«E pensare che quell’inconsciente di Pandolfi quel giorno ha scelto di proporti in consiglio come primario...» - continuò - «E poi, niente. Quel pomeriggio i bambini non c’erano; li avevamo lasciati ai vicini. Quando sei entrato in casa eri tuto bagnato... Un disastro» - nel ripercorrere quel ricordo, Agnese non potè non sorridere, scuotendo il capo.
«Non ti ho nemmeno chiesto dove fossi andato lì per lì, me lo hai detto tu solo dopo. Ma in fondo lo sapevo già. Sapevi di acqua salata. Lo sentivo sulle tue labbra. Ti era rimasto l'odore di questo posto sulla pelle, sui vestiti che avevi lasciato per terra» - Agnese annuì tra sè dopo aver detto quella frase tutta d'un fiato.

Lo sguardo di Andrea si addolcì.
Non c'era bisogno di parole.
Riconosceva quell'imbarazzo nell'accennare a certi momenti: una cosa che non era mai cambiata e che lo riempiva di tenerezza ogni volta.
Era irresistibile quando arrossiva.
Le succedeva i primi tempi ed era così anche ora.
Anche se ormai erano adulti e tra le lenzuola avevano passato insieme chissà quante ore.
Lei non aveva detto nulla. Non aveva lasciato intendere niente di particolare, ma non serviva.
Il modo in cui stava parlando, seppur appena accennato e innocente, pennellava una scena che lui riusciva a vedere e a persino sentire, nitidamente. A riconoscere, pur senza ricordarlo, perché era stato un tempo loro, solo loro.
Come a voler protrarre quel momento, che in realtà era già svanito chissà quanti anni prima, Andrea le sfiorò il braccio con la punta delle dita, da sopra la stoffa della manica del vestito, lungo tutta la sua lunghezza fino al polso.
Quel tocco leggero, ma così intimo, fece tremare Agnese che tornò a guardarlo.

«Forse eravamo confusi, inconsapevoli di tutto, preoccupati. Sicuramente ancora troppo incoscienti. Ma felici, Andrea. Tanto felici.» - gli sorrise di nuovo - «Forse è proprio per questo che non sono più tornata qui e ho cercato di scacciare il pensiero di questo posto il più possibile. Perchè ero convinta che fosse tutto perso, che non saremmo potuti stare così mai più»
Agnese lanciò un’ultima occhiata ai suoi piedi, per cercare di nascondere una lacrima e la timidezza che le stava arrossando le guance, come se fosse una ragazzina.
Travolto, ad Andrea non rimase che un sospiro.
Le sollevò il mento con un dito e la portò delicatamente a guardarlo.

In quell'istante incontrò di nuovo i suoi occhi.
Erano belli e brillavano con l’acqua, diventando sempre più blu e poi improvvisamente grigi.
Li guardò un’altra volta e si chiese quante volte nella vita li avesse incrociati quegli occhi. 
Chissà quante volte ci si era perso dentro e quante altre invece li aveva smarriti, irrimediabilmente. Anche se, grazie a chissà quale dio, quelle non le ricordava più.
Per un attimo gli mancò il fiato. 
Solo in quel frangente realizzò veramente che era stata lei a custodire la sua vita: quella donna fragile e nel contempo fortissima, che stava sfiorando in quel momento, con la paura che potesse sparire, con un implacabile incantesimo di un destino troppo crudele, da un momento all'altro. Lei che aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita a custodire quel suo passato dolente dal tempo e dagli attacchi spietati degli altri. 
Proteggendolo da tutto, perchè era l'unico modo che aveva di salvare anche se stessa.

Di una cosa era certo: che quegli occhi non avevano mai smesso di fargli quell’effetto.
E ora che, dopo tutto il casino che era stata la sua vita degli ultimi anni, la guardava, affianco a sé e controluce e capiva.
Capiva che quegli occhi, anche se più stanchi di quanto avrebbe voluto ammettere, erano e sempre sarebbero stati il suo scrigno.
Perchè avrebbe potuto leggerci qualunque cosa dentro.
All'occorrenza, diventavano il lago d'acqua più pura in cui trovare se stesso.
Il riflesso di quello che era e che erano stati. 
La speranza ancora viva di trovare nuovamente la luce.
Il miglior caleidoscopio con cui immaginare un futuro diverso. 
Perchè lei c'era sempre stata e non avrebbe potuto sperare uno sguardo migliore del suo a cui affidare il proprio cammino.

Andrea le spostò un boccolo dietro l'orecchio.
«Hai ragione, sai?» - disse con gli occhi nei suoi - «È cambiato tutto. Sono cambiato io, sei cambiata tu. È cambiato il tempo e perfino questo posto, anche se sembra sempre uguale, sempre lo stesso» - le sorrise malinconico.
Agnese lo scrutava attenta, cercando di anticipare cosa stesse pensando, anche se le sembrava di non riuscirci e, forse, nemmeno lo voleva.
«Ma c'è una cosa che non è cambiata» - aggiunse Andrea dopo un attimo poggiando la fronte alla sua - «Che qui, con te, adesso, nonostante tutto, io sono di nuovo felice. Tanto felice, Agnese.»
Lei ricambiò il sorriso e chiuse gli occhi, mentre le labbra di Andrea baciavano le sue e si lasciava cadere piano su di lei.
Agnese si trovò presto stesa sulle travi di legno della passarella senza sapere bene come fosse successo, con Andrea steso rocambolescamente a metà sopra di lei.
Scoppiarono a ridere ancora uno sulla bocca dell'altro.
«Tu sei pazzo» - Agnese finse di dargli un buffetto, scendendo piano per sfiorargli la barba con la punta delle dita.
Improvvisamente, guardandola, Andrea fu sopraffatto dalla tenerezza.
Le sfiorò delicatamente prima una palpebra e poi l'altra.

«Che coglione che sono stato, eh?» - rise tra sè.
«Per cosa?» - si incuriosì lei, facendosi seria e mettendosi in ascolto.
«Mi sono impuntato come uno stupido. Ho passato gli ultimi anni a cercare disperatamente quella dannatissima vela. L'ho fatto perchè è difficile guardare avanti quando non puoi voltarti indietro. Quando ti giri e non vedi niente, quando non riconosci la strada che hai fatto. Speravo che una volta trovata: Puff! Per magia si sarebbe risolto tutto e che questo mi avrebbe finalmente aiutato a vedere, a ritrovare la strada e a camminare da solo, sulle mie gambe... Ma non ce n'è mai stato bisogno» - concluse Andrea a bassa voce, mentre lei lo fissava immobile.
«Perchè tu ci sei sempre stata. E nessuno poteva e può vedere, al mio posto, meglio di te» - si fermò un istante - «Perchè i tuoi occhi sono sempre bastati, Agnese. Sempre, per tutti e due»
Immediatamente, gli occhi blu di Agnese si imperlarono con due grosse lacrime bianche.
Andrea le scacciò con il pollice. Si chinò appena su di lei per baciarle prima una palpebra e poi l'altra - «Menomale che ci eravamo promessi di non piangere più, eh?» - si mise a ridere. 
Agnese annuì - «E tu, invece?» - gli chiese dolce e retorica lei, per poi accarezzargli la guancia, irrimediabilmente rigata anch'essa da una lacrima di troppo.
Sapeva cosa c'era in quella lacrima e sapeva altrettanto bene che non sarebbe riuscita a consolarlo. 
O almeno non come avrebbe voluto. 
Ma si sorrisero comunque. Come era già successo chissà quante volte, o forse mai così prima di allora, in quel modo così vero, così disarmante.
Lui si stese su di lei e si abbracciarono, forte. 
Andrea nascose il viso nell'incavo del suo collo e Agnese, accarezzandogli distrattamente una spalla, chiuse gli occhi, come ogni volta che lui la teneva tra le sue braccia.
Sentiva il tepore del sole sulla pelle, il respiro cadenzato e profondo di Andrea tramite quell'abbraccio. Lo percepiva in modo così chiaro da confonderlo col suo.
E così la vita, che sembrava attraversarle le ossa, farle vibrare il sangue con la sua violenta e impetuosa pienezza. 


In quel letto ormai sfatto, Agnese inarcò appena la schiena per avvicinarsi il più possibile al corpo di Andrea. 

Cinse tra le sue cosce la schiena di lui, come se quella vicinanza non fosse ancora abbastanza e qualsiasi distanza non si potesse proprio più sopportare.  
Intenso e tenero assieme, Andrea strinse i suoi fianchi tra le mani. 
Poco prima di sentire il suo respiro spezzarsi, le aveva domandato quell': "ancora?", pronunciato una volta soltanto, che Agnese non sarebbe mai riuscita a scordare.
Quell'"ancora" che in quella stanza rimbombava. 
Rimbombava sempre più forte. 

Agnese schiuse gli occhi lentamente, li rivolse al cielo appena striato e disse al vento - «Forse è perchè sono ancora felice, Andrea» - e abbassò lo sguardo per cercare il suo viso.
Lui si voltò lentamente, tanto quanto bastava per consentirglielo e per poterla guardare a sua volta.
«Con te. Ancora» - gli sussurrò infine all'orecchio mentre Andrea le baciava l'angolo della bocca.

Ancora, sì.
Ancora.

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Capitolo 2
*** II - Duemila volte ***


Contesto: Doc - Nelle tue mani ~
Stagione 3 - episodio 3x13 - "Legami"

Un botta e risposti dei non detti tratti dalla scena di inizio episodio 3x13, quando Andrea e Agnese si incrociano di prima mattina all'entrata dall'ospedale.
I pensieri di Andrea allineati a sinistra, quelli di Agnese a destra.

Ispirazioni Musicali

Duemila volte (Marco Mengoni)

 

 


 


II

Duemila volte

 

 

Di finte bugie e profondissime crepe

 

 

 

 

 

Andrea Agnese

 

 

 

Andrea si diresse a passo sicuro verso l'entrata del Policlinico. 
Fece il giro attorno all'ascensore con gli occhi bassi, ma ad un certo punto d'istinto si voltò. 
Non avrebbe saputo dire perchè, ma, a posteriori, avrebbe preferito non farlo.

 


Agnese stava salendo le scale del sottopasso, un gradino per volta.
Era assorta nei suoi pensieri, ma appena uscì scorse Andrea giusto davanti all'entrata e il tempo si fermò di colpo, dilatandosi come in una strana bolla in cui, al centro, c'era lui, qualche metro più in là, immobile.
Lei sgranò gli occhi.
Lo sguardo di ghiaccio di lui non le lasciava scampo e aveva creato una crepa sul suolo che li divideva impietosamente.
Era profondissima, tanto che ad affacciarsi non se ne sarebbe mai scorto il fondo.
Una voragine, invisibile a tutti ma non a lei.
E, così, Agnese abbassò subito gli occhi.

 

Andrea le lanciò un'occhiata obliqua e tagliente, convinto di odiarla.
Sperò di ferirla con quello sguardo indifferente, almeno quanto lei aveva ferito lui.
Però, in quel preciso istante, d'improvviso, tornò a vederla per come era e non per come si era abituato a pensarla in quei giorni. 
Con rabbia e rancore.
La guardò per un secondo di troppo forse, e vacillò tutto.

 


Lo sprezzo che lesse nei suoi occhi era troppo e la uccideva. 
Anche se, al momento della scelta aveva tenuto in considerazione le conseguenze, solo allora, Agnese realizzò di aver sottovalutato cosa volesse realmente dire scontare il prezzo di quella dannata bugia.
Che era caro.
Carissimo.
Anche se in quello che gli aveva detto non c'era assolutamente nulla di vero.
"Non ti avrei mai fatto del male. Non l'ho fatto, lo giuro" - avrebbe voluto urlargli senza voce.
Ma non poteva, non ci riusciva.
E le parole che gli aveva detto, lo sapeva, erano una lama affilata che l'aveva ferito.
Una volta sola, o forse duemila.
E ancora altri milioni di volte, in cui il colpo che aveva sferrato penetrava nella sua carne sempre più a fondo.
Lacerando tutto.
Agnese si chiese se la pensava ancora e se, quando gli capitava di farlo, soffriva.
Subito si rimproverò per l'egoismo:
vedere il suo dolore era l'ultima cosa che avrebbe voluto, ma una piccola parte di lei non riusciva a non sperare che la pensasse lo stesso.
"L'ho fatto per te" - si ripeteva - "E sì, forse l'ho fatto anche per me."
Perchè non avrebbe sopportato di vederlo perdersi.
Non di nuovo.
E di sentirsi un'altra volta impotente, senza poterlo aiutare.

 

 

In quell'attimo Andrea capì che, in realtà, più che lei odiava se stesso.
Proprio perchè, nel suo profondo, non riusciva ad odiarla, ma nemmeno a non farlo.
Evitò di chiedersi il motivo: sarebbe stato terribilmente patetico e, tanto, la risposta la conosceva già.
Si diede dello stupido; l'evidenza lo dilaniava ed era inutile scappare. 
Da lei, da loro, da quello che erano stati.
E lo era anche quel suo ostinarsi ad insultarla, a sputare sul loro passato, a rinnegare senza ritegno quello che gli si era smosso sul fondo del cuore e ad ignorare quanto rumore era riuscito a fare, senza che lui lo volesse, opponendosi con tutto se stesso.
Perchè non sarebbe comunque servito a niente.
Era una guerra persa.

 


E nulla poteva alleviare la pena di Agnese, tranne la consapevolezza: gli aveva mentito sì, ma solo perchè pensava che per lui fosse il male minore.
Meglio odiarla che odiarsi.
Meglio non riuscire a perdonare lei che se stesso.
Se lo ripeteva incessantemente da quel pomeriggio di vento in terrazza, anche se da allora non mangiava quasi e non dormiva più.
Abbassò gli occhi per la vergogna di qualcosa che non avevo fatto, ma di cui sentiva l'immenso peso spezzarle la schiena.
Perchè non lo avrebbe mai confessato, nemmeno sotto tortura.
E, tanto meno, sarebbe riuscita a pronunciarlo e forse nemmeno ad ammetterlo a se stessa.
Ma non poteva fare a meno di lui.
Ed era stato Davide a rompere in mille pezzi la campana di vetro in cui custodiva quell'ulteriore segreto solo suo.
Agnese lo teneva lì, gelosamente, da anni, come se potesse servire a qualcosa, come se, così, davvero, nessuno potesse vederlo.
Ma l'amore non si lascia nascondere, mai.
Necessita di un suo spazio.
Lo pretende e, se non glielo si concede, lo conquista da solo.
Davide con quelle parole, così improvvise, così dure e senza appello, l'aveva colpita senza pietà.
Ma le aveva liberato i polsi.
Solo grazie a quel colpo, era riuscita a piegare le sbarre di quella prigione in cui si era costretta a lungo per difendersi da lui.
Da Andrea.
E non da Davide, che ora se ne era andato lasciandola spoglia da tutti gli scudi e da tutte le scuse. Da ogni indugio.
Proprio ora, che, fuori da quella gabbia, lui, ad aspettarla, non c'era più.

 


Ed era vero: ora c'era Giulia.
Ci si era buttato a capofitto per non pensare, per staccare il cervello. Per rompere finalmente quella catena.
Ormai, poteva finalmente voltare pagina, cancellare tutto.
Ma non era la stessa cosa. Non era lei.
Andrea lo sentiva, anche se faceva finta di niente. Ma, soprattutto quando Giulia non c'era e nessuna distrazione reggeva, tutto sembrava di colpo sprofondare.
E il presente finiva per riavvolgersi dolorosamente attorno ad un vecchio e consumato nastro.
Così, l'altra notte, solo, nel suo letto vuoto, Andrea si era svegliato di soprassalto.
Perchè l'aveva appena sognata.
D'impulso aveva preso tra le mani quella foto sgualcita di lei, con un profondo solco nel mezzo, che teneva sul comodino e l'aveva chiusa con un gesto secco nel primo cassetto.
Andrea non aveva mai ceduto a strappare per davvero quella fotografia. Era lì da sempre, anche da prima dell'amnesia e, chissà perchè, non era mai riuscito a metterla via definitivamente.
In quel momento l'aveva fatto, ma tanto la ricordava lo stesso quell'immagine.
Il modo in cui sorrideva guardando oltre l'obiettivo a chi stava scattando la foto.
Non aveva memoria di quando fosse stata fatta, né dove. 
Da quando l'aveva ritrovata sul comodino, dopo lo sparo, la prima volta che era rientrato nella sua camera da letto, aveva sempre sperato che ci fosse lui dietro l'obiettivo. Avrebbe voluto dire che l'aveva guardato così, almeno una volta.
E che poi quel sorriso era riuscito a catturarlo per sempre.
Come quel suo sguardo, impresso sulla pellicola, che gli era rimasto inciso negli occhi. Tanto che, quando li aveva chiusi per prendere sonno, il suo ritratto si era nuovamente presentato davanti a lui in modo sempre più nitido. 
E non l'aveva abbandonato più.
Andrea si era maledetto con le mani sugli occhi.
Scuotendo la testa, nel buio, aveva sperato di avere forza a sufficienza per andare oltre e sopravvivere a tutto quell'odio, che poi non era altro che il suo sentimento negato e calpestato che non voleva saperne di cedere, nemmeno lì.
Davanti al quadro deprimente di come può finire anche un amore come il loro.

 


Quando anche il suo sguardo di sfida si abbassò, non le rimase più nulla.
Agnese si arrese nuovamente all'inevitabilità di non fare più niente, di restare in disparte, anche se equivaleva a morire.
A sfiorire e ad appassire, irrimediabilmente.
Sì, appassire.
Al bel tempo altisonante di quella giornata stonata.
E, così, lo vide incamminarsi con lo sguardo a terra, come se nulla fosse.

 


Andrea abbassò gli occhi, facendo finta di niente. 
Di non averla vista, che non esistesse.
E si avviò verso l'entrata a passo sicuro, con gli occhi rivolti a terra e senza guardarsi indietro.
C'era un sole insopportabile quel giorno, anche se era presto.
Ma lui avrebbe desiderato il diluvio. 
Sì, che diluviasse su di loro, su quel dolore insensato e incessante.
E che quell'acqua potesse lavare via tutto.
Per dimenticare per sempre, un'altra volta.

 


Agnese sospirò e distolse lo sguardo, puntandolo nella direzione opposta a quella che aveva preso lui.
Sbattè le palpebre più volte, come se potesse servire a scrollare quella squallida scena dai suoi occhi.
Perchè in quella mattina di primavera c'era il sole, ma Agnese avrebbe voluto che piovesse.
Piovesse forte per poter piangere.
Tanto, davanti a tutti, in mezzo alla gente e, ancora una volta, senza che nessuno se ne accorgesse.

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** III - Cattive Stelle ***


Contesto: Doc - Nelle tue mani ~
Stagione 3 - episodio 3x12 - "La scossa"

Ispirazioni Musicali

Cattive Stelle (Francesca Michielin)
Glicine (Noemi)

 

 


 


III

Cattive Stelle

 

 

Di custodi ritrovati e incolmabili vuoti

 

 

 

 

 

Il giorno della scossa,
il pomeriggio

 

 

Nel pomeriggio dopo il terremoto, il reparto era ancora in subbuglio e nonostante fossero passate poche ore dall'inizio del turno erano tutti stanchissimi, come se fosse già fine giornata, ma nei corridoi di Medicina Interna, tutti parlavano della storia del piccolo Mattia.
Avevano preferito trattenere la madre in reparto per gli accertamenti, in vista del suo trasferimento ad ostetricia non appena i risultati fossero stati rassicuranti.
Durante gli esami, per consentire a Margherita di avere affianco il marito, avevano affidato il nuovo arrivato a Lin. 
Con la scusa della pausa pranzo, però, Andrea, che aveva tutt'altro che fame, si era affacciato alla porta della medicheria e si era offerto di tenerlo in attesa che venisse portato al nido.
Proprio per questo, in quel momento, Doc si trovava a fare su e giù in quella stanza chiusa, dalle pareti celesti, con il piccolo Mattia che da poco dormiva serenamente tra le sue braccia.
La verità era che aveva bisogno di prendersi un tempo. 
Un attimo per sè, per pensare e capire. 
Perchè era successo di tutto e troppo in fretta. 
I ricordi, Agnese, Riccardo che voleva lasciare.
E poi i soliti problemi in reparto, Giulia, il terremoto di quella solita mattina che tutto era stata, tranne che solita...
Andrea si chiese se fosse stata più forte la scossa che stava affrontando dentro o quella che tutti avevano visto e con cui stavano facendo i conti là fuori.
Abbassò gli occhi sul bambino che gli stava stringendo forte l'indice destro nel pugnetto dalla pelle pallida.
Pensò a Mattia, al suo Mattia.
Era stato un colpo al cuore sentire pronunciare il suo nome da Margherita qualche ora prima.
Ma, in realtà, lo era sempre, come un fulmine a ciel sereno. Una ferita che non si rimargina e brucia in modo sempre più acuto.
Lo sguardo di Andrea si perse per un attimo, assorto in quel pensiero pesante che si stava gonfiando dentro di lui annientando lo spazio e il tempo in cui era.

Fu a quel punto che, attraverso il vetro della medicheria, apparve timidamente il riflesso di Agnese. La donna mosse qualche passo in avanti a partire dall'accettazione, dove si era affacciata per consegnare alcuni moduli a Teresa. 
Distrattamente gettò un'occhiata in medicheria e poi si fermò a guardare, in silenzio, Andrea che cullava il neonato camminando lentamente su e giù per la stanza.
Lo osservò. Da distante, che poi era l'unico modo in cui le consentiva di stare in quel periodo.
Il nodo che, da giorni, sentiva alla bocca dello stomaco si strinse ancora un po' a vederlo così.
Tremava Agnese, per tutto quell'amore che provava e da un po' non riusciva a trattenere.
Era senza difese, come lo era stata qualche ora prima, nel corridoio di Medicina Interna, quando aveva atteso tanto, fissando invano le sue spalle, sperando che si voltasse.
Ma, invece lì, in quel pomeriggio cupo e pesante, non voleva più affrontare il suo sdegno, la sua indifferenza.
Perchè no, non lo avrebbe sopportato un altro sguardo come quello. 
Preferiva ricordarlo così, come lo vedeva in quel momento, di sbieco, con quel bambino dalla tutina celeste in braccio.
Così, lanciò un'ultima occhiata delusa al vetro e si avviò per tornare in ufficio. 
Fu allora che per una strana coincidenza, Andrea, invertendo senza un perchè l'andirivieni che portava avanti da un po', alzò lo sguardo e con la coda dell'occhio la intravide, mentre si allontanava con la testa bassa.
Si avvicinò alla vetrata e la seguì con lo sguardo fino a quando la sua sagoma non sparì imboccando le scale. 
E' sempre così: più si tenta di evitare qualcosa più arriva a tormentarti - pensò Andrea.

L'aveva già vista quella mattina. 
Quando si era girato per caso, l'aveva trovata alle sue spalle, come se lo stesse aspettando da chissà quanto.
E poi se ne era andata con lo stessa rassegnazione che si portava addosso in quel momento.
Ma in realtà, non aveva cambiato nulla vederla. Nè lì, nè qualche ora fa. 
Perchè, come sempre, era entrata prepotentemente nei suoi pensieri già da prima.
Da subito, quando aveva saputo come avrebbero chiamato quel bambino che adesso cullava, quando lo aveva visto nascere. 
Perchè era inevitabile quando pensava a Mattia, anche se era strano e non avrebbe saputo spiegarlo. 
Mattia somigliava a lui, lo dicevano tutti... al contrario di Carolina che era sempre stata uguale ad Agnese: due gocce d'acqua.
Ma, se Andrea pensava a Mattia, riusciva a mettere a fuoco solo ciò che di lui gli ricordava Agnese. Tutto ciò che aveva preso da lei, le somiglianze anche se piccole, impercettibili.
Ed era così anche in quel momento, in cui avrebbe voluto cancellarla per sempre dalla sua testa, non vederla mai più.
Ma era impossibile. Quel filo bruscamente interrotto con Mattia che la sua mente ripercorreva senza tregue, lo riportava sempre da lei.
D'altronde, anche il nome di Mattia l'aveva scelto Agnese. 
Molti anni prima che nascesse in realtà, quando erano ancora fidanzati.
Andrea se lo ricordava benissimo, come fosse ieri.

Era un pomeriggio d'inizio estate e se ne stavano al parco sull'erba a ripetere per l'ultimo esame prima della laurea.
Agnese aveva passato tutto il pomeriggio ad interrogarlo, senza grande successo. 
Come suo solito, Andrea aveva studiato poco e male, ma lo aveva ammesso solo quando ormai era palese che non avesse sfogliato il libro per poco più di metà. 
Indifendibile come sempre. 
Ma era domenica e lui aveva la testa da un'altra parte. 
Era il tempo dei sogni, quello.
E infatti sognava Andrea, a tempo indeterminato. Come sempre. 
Soprattutto quando passavano del tempo assieme.
«E' domenica, dai» - le aveva detto ridendo quel pomeriggio, sdraiato sull'erba con la testa poggiata sulla gonna del suo vestitino rosso a pois bianchi. 
«Pensiamo a riposarci per oggi, poi domani sarò carico e ricomincio alla grande il programma» - l'aveva guardata dal basso in alto, facendole l'occhiolino.
Agnese aveva scosso il capo, sapendo benissimo quanto fosse una causa persa - «Guarda che così non ci laureiamo più...»
Ma Andrea aveva subito desiderato una famiglia con lei.  
Anzi, l'aveva vista, da sempre.
Sin da quando avevano cominciato a stare insieme un po' per caso. 
All'inizio, si era sentito stupido e se ne era vergognato tremendamente. 
Pensava che se glielo avesse confessato l'avrebbe preso per pazzo o, addirittura, che sarebbe scappata. 
Ma poi non c'era stato nemmeno il bisogno di dirselo. 
Ed era stato così bello scoprire che in fondo condividevano gli stessi desideri. 
Da lì, un po' per gioco, un po' come passatempo, in giornate come quelle, per distrarsi dai libri e dai turni massacranti del tirocinio, avevano iniziato a fantasticare insieme, a immaginare come sarebbe stato il loro futuro. 
E così era stato in quel pomeriggio, quando lui le aveva chiesto: «Vorresti un maschietto o una femminuccia?»
«L'importante è che stia bene» - aveva risposto sommariamente lei alzando gli occhi al cielo.
«Sì, certo. Ma una preferenza ce l'avrai, no?» - ribattè con disinvoltura.
«Sin da bambina, ho pensato che mi sarebbe piaciuto avere un figlio maschio. Se fosse, mi piacerebbe si chiamasse Mattia» - gli aveva detto scostandosi una ciocca di capelli dal viso per portarla dietro l'orecchio.
Andrea l'aveva guardata, sempre dal basso in alto, sdraiato per metà sull'erba e aveva ripetuto quel nome al vento un'altra volta.
E poi aveva sorriso.
Da allora era sempre stato Mattia. 

 

~

 

Il giorno della scossa,
la sera

 

 

Arrivata la sera di quella giornata surreale, Agnese aveva lasciato che il suo sguardo si perdesse oltre il vetro del nido che si apriva su una ventina di culle per metà vuote.
Era scesa, a fine giornata, guardandosi attorno spaesata, mentre percorreva, a passo svelto e cadenzato dai tacchi, il lungo corridoio di Ginecologia. 
Cercava Anna, l'ostetrica che era rimasta bloccata nell'ascensore quella stessa mattina durante il terremoto.
L'aveva trovata dopo essersi affacciata senza successo ad un paio di camere lasciate aperte. Prima che potesse fare il terzo tentativo, aveva infatti buttato un'occhiata veloce al corridoio e aveva scorto una divisa rosa spuntare poco più in là, dalla porta a spinta dal nido.
Agnese le aveva rivolto un timido cenno, alzando la mano e l'ostetrica le era subito venuta incontro con il sorriso un po' provato dalla stanchezza, chiedendole poi perchè passasse di lì.
Voleva solo chiedere come stavano sia lei che il bambino che aveva fatto nascere. 
Nulla di più.
Anche se, in realtà, forse, non sapeva esattamente nemmeno lei perchè si trovasse lì. 
Erano giorni confusi e a casa era un casino. 
Davide se ne era andato una settimana prima, portandosi via tutto.
Avevano poi dovuto inventarsi un modo per spiegare tutto a Manuel. 
Una scena patetica che, nella sua testa, si era ripetuta come un copione logoro e consumato. Aveva già dovuto trovarsi a farneticare in quel modo con Carolina, chissà quanti anni prima, ma gli occhi sbarrati e delusi che si era trovata davanti erano gli stessi. Poco stupiti, molto spaesati.
D'altronde non era una novità che le cose non funzionassero più. 
Tanto che Agnese in quei giorni era arrivata a chiedersi, nel concreto, più volte se tra loro avessero mai davvero funzionato, le cose. 
Anche se quello che l'aveva ferita maggiormente erano state le sue parole.
Aveva detto che il suo cuore era sempre stato da un'altra parte.
Faceva male, perchè era vero. E lei ne era cosciente.
Sentirselo dire, però, era stato un dolore forte, come un marchio a fuoco sulla pelle.
Si era sentita scoperta, vulnerabile come forse mai prima di allora.

Fu a quel punto che Agnese sbattè le palpebre e sentì di essere tornata presente a se stessa, nel corridoio colorato di ostetricia, accanto ad Anna.
«E' stato tutto merito del professor Fanti» - quelle furono le prime parole che le rimasero impresse da quando aveva ripreso ad ascoltarla - «Senza di lui... Non so davvero cosa avrebbe potuto succedere»
Il solo sentirlo nominare le provocò una fitta allo stomaco. 
Per dissimulare, abbozzò con un sorriso tirato e annuì perchè l'altra si sentisse libera di continuare.
«Se è vera la storia dell'angelo custode, sicuramente, quello di questo bambino ieri ha fatto gli straordinari» - fece spallucce l'ostetrica - «Comunque è lui, con la tutina gialla» - concluse poi, indicandole un lettino della seconda fila.
Agnese scorse con lo sguardo le culle a una ad una fino a soffermarsi su quella giusta.
Gli occhi le si posarono sulla nuvoletta di cartoncino azzurro su cui avevano appena scritto il nome con un indelebile blu.
Lo rilesse un paio di volte e gli occhi le si inumidirono all'istante, senza che potesse controllare ogni tipo di reazione.
L'ostetrica la guardò ravvedendo sul suo volto la stessa espressione spersa ed affranta che aveva colto in Doc la mattina prima.
«Tutto bene?» - le chiese con una vena di preoccupazione nella voce.
Agnese si voltò lentamente verso di lei ed annuì nuovamente, fingendosi convinta, anche se ormai non aveva più parole da spendere.
In quegli attimi, Agnese sperò di sparire o quantomeno di riuscire a trovare qualcosa da dire per non sembrare stupida o comunque troppo sopraffatta da quella situazione, senza alcun motivo apparente.
Fu a quel punto che, però, provvidenzialmente, la caposala, una donna con la faccia gioviale e i capelli raccolti in uno chignon, si affacciò da una delle camere che davano sul corridoio e si guardò attorno, prima a destra e poi a sinistra.
«Anna, vieni a darmi una mano?» - la chiamò facendole un cenno, scorgendo la sua divisa rosa poco più avanti. 
«Arrivo subito» - le rispose l'ostetrica annuendo.
Dopo averla guardata svanire dietro la porta a spinta, l'ostetrica le posò una mano sulla spalla - «Grazie ancora, dottoressa. E buona serata» - le disse rivolgendole un ultimo sorriso per poi andarsene svelta.
«Buona serata» - ripetè distrattamente lei in risposta, con lo sguardo via via più assente 
Complice di quello smarrimento era stato, senza dubbio, quell'ultimo stralcio di conversazione. Da allora nelle orecchie di Agnese, quella frase di Anna, era diventata via via più invadente e si ripeteva come un ronzio fastidioso che non voleva smettere di infastidirla.
La sua attenzione si era fermata a quando aveva nominato Andrea, tutto il resto sembrava pressochè finito nel dimenticatoio.
Perchè era difficile accettare di essere nuovamente così lontani, come lo erano stati prima dell'amnesia di Andrea. 
A tratti, lo invidiava. 
Certo, era terribile non avere un passato, ma nel profondo, forse, anche lei avrebbe preferito non ricordare più quegli anni. 
Così duri, violenti. Così vuoti.
Sbattè le palpebre di fronte al suo riflesso vacuo e persistente nel vetro che si apriva sul nido.
Agnese puntò attentamente quella culla, quella con la nuvoletta azzurra, e si chiese se quello non fosse un segno. 
Una speranza. Quella di un fiore che con il suo bocciolo indifeso prova a bucare la pietra, sfruttandone una crepa, piccola, difficile da penetrare, ma da cui riesce comunque a filtrare la luce.
Se lo domandò ancora una volta, tra sè. Chissà cosa poteva voler dire qualcosa un bambino che nasce. Un bambino che li aveva uniti, nonostante fossero ormai sempre più distanti, inconsapevoli di lavorare, nonostante tutto, nella stessa direzione e insieme. 
Anche se era così sfuggente la speranza di un nuovo inizio ormai così assurdo, lontano e insperato, lei la nutriva lo stesso.
Per sè stessa, per Andrea.
Per loro due, forse. Non le importava il come.
Quell'ultimo pensiero la imbarazzò, ai limiti della vergogna.
Ma sarebbe stato bello, se fosse stata quella la volta buona. 
Quella in cui erano riusciti a salvare Mattia.
La vita di quel bambino appena nato e la memoria di quello che non era più con loro.
Se a partire da lì avesse potuto aprirsi un tempo nuovo, in cui abbracciarsi più forte, piangere tanto, dirsi tutto e non avere più bisogno di niente.
E fare pace con quelle perdite che non erano riusciti fino in fondo a superare assieme, ma che avevano tenuto ognuno per sè, con le voragini sempre più ingestibili che erano riuscite a scavare.
Sul viso di Agnese comparve una lacrima.
La scacciò con un gesto deciso e poi si guardò attorno, sperando che nessuno la stesse guardando. 
Nella sua testa riecheggiavano le poche battute che aveva scambiato con Anna.
Una in particolare non le dava tregua. 
Ma a questa si arrese.
E se la portò dietro, anche dopo aver voltato le spalle a quelle culle, quando pregò invano perchè quel tormento la lasciasse andare.

 

~

 

Il giorno dopo la scossa,
il pomeriggio

 

 

Il pomeriggio successivo, in reparto, sembrava finalmente tornata la quiete.
Anche se, a dire il vero, di normale, c'era ben poco. 
Lin aveva una faccia da funerale e il morale visibilmente sotto i tacchi.
Federico sembrava aver ritrovato dal nulla la vocazione per la medicina, manifestando un inaspettato entusiasmo dopo la prima tracheotomia di successo.
Al contrario, Martina sembrava intenzionata a passare la maggior parte del suo tempo a nascondersi e a scansare qualsiasi tipo di domanda.
In quanto a Riccardo, si aggirava stanco e di ora in ora più demotivato per i corridoi del reparto trascinando i piedi.
Andrea, dal canto suo, aveva passato parte del suo turno ad osservare quelle stranezze da lontano, cercando di capire quale potesse essere il suo margine di intervento. 
Ma, innegabilmente, accusava ancora la fatica del giorno precedente.
Per non parlare poi della confusione, sempre più fitta... Tutti motivi che l'avevano convinto, per un po', ad astenersi po' dall'impulsività dell'azione, a riflettere quel minuto netto in più e, in definitiva, a rallentare.
Per questo, una mezzoretta prima si era ritagliato del tempo per andare a trovare Margherita, che stava concludendo gli ultimi accertamenti e sarebbe presto stata trasferita ad ostetricia.
Poco prima, Giulia era entrata in stanza a chiamarla per l'ultimo esame e il marito l'aveva prontamente accompagnata. Doc si era offerto di tenere il piccolo Mattia, nell'attesa che qualcuno da ostetricia fosse venuto a prenderlo per riportarlo al nido. 
Così, da qualche minuto, se ne stava seduto sul bordo del letto, facendo dondolare lentamente con la mano destra la culla, in cui il bambino si era addormentato beatamente.
Ma poi, incapace com'era di starsene fermo, soprattutto in quel periodo in cui la serenità non era propriamente di casa, Andrea si alzò di scatto nell'intento di raggiungere la finestra e tirar giù le veneziane. 
Un modo come un altro per non rimanere immobile a rimuginare.
Una volta sceso dal letto, però, Andrea, nonostante le buoni intenzioni, si fermò di colpo.
Seppur con la testa chissà dove, infatti, un suono famigliare aveva attirato la sua attenzione, spingendolo a guardare verso il basso per capire da dove provenisse, cosa fosse.
Ed era stato il suo camice che, muovendosi, aveva inavvertitamente fatto oscillare un campanellino d'argento con un nastro azzurro, legato alla culla con un fiocco.
Andrea si accovacciò sulle ginocchia e allungò la mano verso il campanellino per sollevarlo appena e guardarlo meglio. 
Sgranò gli occhi.
Lo girò e rigirò tra le mani un paio di volte; lo scosse nuovamente per riascoltarne il suono. 
Il suo cuore perse un battito e la mente fece un irrimediabile salto all'indietro.

 

 

Una sera come tante,
aprile 2002

 


Andrea si chiuse la porta di casa alle spalle, ripose le chiavi nella tasca e lasciò la valigetta di pelle e il giubbotto di camoscio sul divano in salotto. 
Percorse un passo per volta l'entrata buia e l'unica cosa che scorse fu solo la timida luce dell'abatjour che filtrava dalla camera da letto. 
Il silenzio era fittissimo. 
Buon segno - pensò e colse l'occasione per entrare nella prima porta su cui si affacciava il corridoio, attento a non fare rumore.
Quasi in punta di piedi, si diresse verso il lettino pieno di peluche e si sedette piano sul materasso affianco alla bimba.
Dormiva serena, Carolina, rannicchiata sul fianco come suo solito.
Le scostò i capelli dal viso e si fermò un attimo a guardarla. 
Prese un respiro. 
Dopo una giornata come quella, diventava necessaria una pausa per tornare a contatto con la vita fuori dall'ospedale. 
Il suo si concretizzò in un tempo lento, in cui aveva rimboccato le coperte con le quali la piccola aveva combattuto fin lì nel sonno. 
Carolina non stava mai ferma. 
Mai.
Era irrequieta da sempre, in quegli ultimi mesi, forse un po' più del solito.
E lui, non poteva negarlo, si sentiva tremendamente in colpa. 
Anche quella sera, infatti, si era ripromesso di tornare a casa prima per darle la buona notte, ma aveva disatteso il buon proposito.
Andrea lo sapeva. Anche se faceva finta di non averne bisogno, Carolina aveva bisogno di attenzioni, in quel momento più che mai. 
Era sempre stata forte, indipendente, ma altrettanto dolce. 
E infinitamente fragile. 
Soprattutto ora che si trovava a dividere tempo e cure con quel fratellino che sembrava tanto desiderare, prima di averlo davvero.
Scacciando i pensieri pesanti dalla sua mente, Andrea le lasciò un bacio sulla fronte e raggiunse nuovamente la porta.
Si alzò lentamente e, giunto all'imbocco del corridoio, si voltò un'ultima volta a guardarla nella penombra. Sorrise tra sè e, abbassando gli occhi, trascinò stancamente i piedi fino alla sua camera da letto.
Quando vi arrivò, si fermò sull'usci e rimase fermo immobile, per quella che gli parve un'eternità, a guardare in silenzio.
I suoi occhi si soffermarono subito su Agnese, stesa tra le lenzuola, con la testa sul cuscino.
Aveva tutta l'aria di essersi addormentata da poco, teneva tra le braccia Mattia, nel suo pagliaccetto giallo, la manina poggiata sul seno di lei.
Andrea, già disarmato dalla stanchezza, fu travolto da un'ondata di tenerezza e subito dopo dai sensi di colpa. Come un retrogusto amaro, che arriva più tardi, ma condiziona tutto il resto e ti rovina la bocca.
Sapeva benissimo di non riuscire a essere presente quanto avrebbe voluto, e dovuto. Faceva quel che poteva, conscio che non fosse abbastanza.
Forse era per questo che, anche quando era in reparto, la sua testa sembrava ripercorrere avanti e indietro di continuo la strada verso casa.
Ma ora era lì e si convinse che per un po' avrebbe potuto smettere di tormentarsi.
Così si sfilò le scarpe, prima una e poi l'altra e le lasciò sotto la sedia, accanto alla porta. 
Si avvicinò a piedi scalzi al letto e si sedette lentamente sul bordo del letto tentando di non fare rumore. 
Allungò le braccia verso il piccolo, cercando di sottrarlo il più delicatamente possibile all'abbraccio della mamma. 
Quando lo strinse, Andrea si sciolse in un inevitabile sorriso. 
Attese un paio di secondi in apnea per sincerarsi di non averlo svegliato e gli accarezzò piano con la la nocca dell'indice una guancia. 
Il neonato sorrise nel sonno, stringendo di riflesso le palpebre.
Era incredibile quanto potesse mancare un esserino così piccolo, appena arrivato. 
Andrea si chiedeva come fosse possibile. 
Se lo chiedeva da sempre, da quando aveva tenuto in braccio per la prima volta Carolina e adesso era la stessa cosa. 
Realizzò, tra sè, che fortunatamente quella era una sensazione a cui non si fa mai l'abitudine e, meno poeticamente, anche che era ora di mettersi finalmente a dormire.
Sbadigliò, stropicciandosi occhi con l'indice e il pollice e poi voltò lo sguardo verso Agnese che aveva continuato a dormire lì, affianco a lui.
Accarezzò la sua mano, sfiorandone le dita tese tra le lenzuola increspate e si alzò per sistemare Mattia nella culla che stava da sempre vicino alla finestra, dal suo lato del letto.
«Piccolino, hey! Lasciamo riposare un po' la mamma? Che dici?» - sussurrò mentre lo adagiava nella cesta.
Sporgendosi in avanti Andrea urtò per sbaglio il campanellino, legato con un nastro celeste al bordo del lettino di Mattia. 
Era un chiama angeli.

Lo aveva regalato lui ad Agnese, l'estate prima al mare, quando ancora non sapevano di aspettare Mattia. 
In quel periodo, tutti i bambini che correvano sulla spiaggia ne portavano uno al polso. Tintinnavano in modo confusionario e continuo. 
Carolina aveva insistito talmente tanto da costringerli a cedere e a comprargliene uno. Agnese si era lasciata affascinare dalla leggenda che c'era dietro. Le piaceva credere che anche ad un angelo custode si dovesse qualche fragilità. Da qui, il bisogno di un richiamo per ricordarsi della propria missione ogni tanto.
Allora gliene aveva regalato uno d'argento, più grande e pendente, da indossare al collo.
Agnese diceva sempre che avrebbe portato fortuna.
Ma sentirlo suonare in quel momento, indusse Andrea soltanto a maledirsi.
Istintivamente allungò le mani sospese in aria sulla culla, illudendosi così che quel gesto potesse impedire al sonno di Mattia di infrangersi troppo presto.
Trattenne il respiro, stringendo gli occhi.
Contò nella sua mente fino a tre. 
Silenzio.
Si avvicinò ancora un poco, questa volta facendo attenzione.
Scorse Mattia che si stropicciava gli occhi con le manine chiuse a pugno, ruotando appena la testolina per appoggiare la guancia al cuscino.
Andrea tirò un sospiro di sollievo e si lasciò cadere sul letto. 
Sentì sulla spalla un tocco gentile, appena accennato, di una mano che conosceva da sempre.
Girandosi piano, trovò Agnese che gli sorrideva con occhi rossi dalla stanchezza.
«Amore mio...» - le accarezzò una guancia lui in risposta - «Sono il solito disastro. Volevo farne una buona ma...»
«Non si è svegliato, no?» - gli accennò un sorriso.
Andrea scosse appena la testa - «Ma ho svegliato te»
«Ha fatto il suo compito, allora» - lei allungò una mano e gliela passò tra i capelli.
«Perchè?» - le fece una smorfia Andrea, un po' confuso su cosa intendesse.
«Perchè c'eri» - lo guardò negli occhi Agnese - «Abbiamo tutti bisogno di un angelo custode prima o poi. E se più di uno ancora meglio, non credi?»

 


Il ricordo di quelle parole fu talmente vivido che ad Andrea avrebbe giurato di averle sentite risuonare nelle orecchie, mentre rigirava un'ultima volta il campanellino tra le mani. 
Lo guardò attentamente, da ogni angolo, e non c'erano dubbi.
Pensò di essere impazzito, di aver avuto un altro deja-vu scomposto... e non sarebbe, di certo, stata una sensazione nuova in quel periodo.
Fu in quel preciso istante che la porta si aprì e vide Anna entrare.
«Buon pomeriggio, Doc!» - lo salutò l'ostetrica, cogliendolo di sorpresa e avvicinandosi alla culla sorridente.
«Proprio te cercavo!» - rinsavì improvvisamente lui, tagliando corto. Atteggiamento tipico di quando era ossessionato da qualche pensiero. 
«Lo so, ho tardato qualche minuto a venire a prendere il bambino. Ma da stasera, verrà trasferita anche la mamma in reparto quindi...» - iniziò a giustificarsi lei, sentendosi ingiustamente in fallo.
«No... no, figurati! Non è per questo. Sarei sceso io a momenti...» - le spiegò Doc agitando le mani - «Ti cercavo per questo» - finì frettolosamente la frase indicando il chiama angeli.
L'ostetrica gli rivolse un'occhiata perplessa - «Per questo?» - domandò incerta, sfiorando il ciondolo.
«Sì, questo campanellino» - annuì Doc - «Sai per caso da dove arriva? Lo hanno appeso qui i suoi genitori, o, non so, forse un parente?»
«Non lo avevo notato prima...» - prese una pausa Anna, sforzandosi di fare mente locale - «Comunque non saprei. Ieri sera, quando hanno riportato la culla dall'orario visite, non c'era e, da allora, nessuno dei parenti è venuto a trovare il bambino giù al nido»
«Quindi mi stai dicendo che nessun altro può essere passato dal nido?» - incalzò Andrea che sembrava non arrendersi a trovare il bandolo della matassa.
«Beh, ovviamente le ostetriche e i colleghi di Pediatria. Oltre loro, solo voi di Medicina. E la dottoressa Tiberi, ora che ci penso...» - riflettè a voce alta.
Andrea aggrottò visibilmente la fronte.
A quella reazione l'ostetrica si sentì in dovere di aggiungere - «Sì, è passata ieri pomeriggio e, se non sbaglio, anche questa mattina sul presto. Voleva sapere come stesse il bambino...»
Ad Andrea cascò il mondo addosso in un solo istante, ma tanto lo sapeva già.
Si trattava di una conferma inevitabile
«Doc, tutto a posto?» - gli domandò preoccupata dall'espressione che aveva assunto il suo volto.
Andrea annuì con gli occhi assenti di chi non sa più cosa pensare.
«Allora vado» - alzò una mano per congedarsi lei per poi sistemare la copertina al bambino che dormiva nella culla.
Andrea che, da un po' aveva perso coscienza di quel momento presente che poco gli interessava, reagì, in preda allo spaesamento, non programmando il da farsi. 
Non pensandoci troppo, accompagnò Anna fuori dalla stanza e la osservò poi, con un sorriso forzato, mentre portava via con sè la culla. 
Quando la porta si chiuse e rimase solo in quelle quattro mura vuote, una nostalgia pungente ed immensa prese il sopravvento. 
Tutto di lui si concentrò su Agnese, pur non volendolo. 
E si chiese perchè. Perchè pensava a lei.
Il suo cervello dovette fare i conti sul come fosse inevitabile. 
Inevitabile che quel filo non riuscisse proprio a spezzarsi. 
Perchè il loro passato era lo stesso e non si vive senza passato. 
Lui lo sapeva meglio di chiunque altro.
Per questo quel filo era ancora lì, indistruttibile ed era sopravvissuto anche a loro.
Nonostante loro.
In silenzio, inveì con foga verso quel destino crudele. 
Per un attimo pensò a quanto la sincerità fosse una virtù sopravvalutata. 
Beata ignoranza!
Se lei non avesse sentito quell'esigenza ingiustificata di vomitargli addosso quella verità così indesiderata, forse sarebbe stato meglio. 
Nella menzogna, certo. 
Ma meglio.
Nulla gli avrebbe impedito di correre da lei, di chiederle il motivo di quel gesto.
E di dirle grazie. 
Nonostante si fosse, per quanto possibile, sforzata, Teresa non era infatti riuscita a tenere per sè quanto successo il mattino precedente. 
Alla fine, gli aveva detto che era stata lei ad insistere con i tecnici perchè li soccorressero in tempo.
Doc, seppur immensamente scocciato, aveva riconosciuto di doverle essere riconoscente.
Gli dava tremendamente fastidio, ma in quel momento la odiava di più per altro.
Perchè non poteva stargli vicino, ad esempio.
Perchè non aveva potuto dirle che avevano salvato un bambino, insieme, anche senza saperlo, senza chiederselo. 
E che, per uno strano scherzo del destino, quel bambino si chiamava Mattia.
Ma loro non parlavano più.
E Andrea soffocò tutto in quel silenzio forzato che non trovava spazio e soprattutto parole. E gli stringeva sempre più forte lo stomaco.

 

~

 

Il giorno dopo la scossa,
il mattino

 

 

Con le prime luci del mattino che facevano capolino dalle finestre, Agnese annodò stretto il nastro celeste del chiama angeli alla culla vuota. 
Lo sistemò con cura, in modo che pendesse sulla nuvoletta con il nome di Mattia, senza però coprirne la scritta.
Il nido era deserto e i bambini tutti dalle loro mamme.
Si prese un minuto per respirare. 
Tirò su col naso, cercando di trattenere il groppo in gola.

Quanto poteva essere stupido un gesto?
Anzi, quanto poteva essere stupido quel gesto? - si chiese tra sè e sè.
Fin troppo sciocco e ingenuo.
Ma era l'unico modo che aveva trovato per sentirsi vicini, per tentare finalmente di chiudere un cerchio.
Sollevò appena il ciondolo.
Lo fece scomparire nella stretta della sua mano e lo agitò per sentirlo tintinnare.
Ricordò lo stupore, quando la sera prima lo aveva ritrovato in quella scatola impolverata che aveva chiuso e mai più riaperto.
Anche se sicuramente, mai dimenticato.
L'ultima volta che era andata a cercarlo non suonava più. 
Da allora era passato un tempo infinito, che si rifiutò di quantificare in modo preciso.
Ricordava soltanto che, allora, il suo male era quasi sconfitto, Andrea non dormiva già più a casa da un po' e quel campanellino muto aveva contribuito ad ingigantire a dismisura quel vuoto, già sconfinato di suo. 
Agnese pensò a quanto avesse pianto, quella sera, seduta a terra, quando aveva chiuso con rabbia e rassegnazione quella scatola. 
Ma la sera prima, dopo tutti quegli anni, le era bastato sollevare appena quel chiama angeli dal nastrino azzurro per sentirlo nuovamente suonare. 
Dinanzi a quel tintinnio, tanto flebile quanto limpido, il suo cuore sembrava essere precipitato fin giù ai piedi con un tonfo sordo.
Era stato quell'emozione a convincerla.
Così strinse forte il nodo di quel fiocco alla culla e con il nastro soffocò anche quel desiderio irrealizzabile, quasi malsano, di correre da lui, di farsi stringere forte, di trovare riparo tra le sue braccia, come faceva spesso quando riusciva a mettere un freno all'orgoglio.
Ma non si può - le ripetè una voce nella sua testa, svuotandole il cuore.
Non si può.
E di certo quel campanellino non sarebbe servito a niente, anche se le piaceva illudersi del contrario, come se il richiamo di quel chiama angeli fosse tornato e che, con lui, anche qualcos'altro di allora. 
Come, contro ogni previsione, era tornato Andrea, il suo sorriso di un tempo, la sua passione per il lavoro, l'entusiasmo, l'ostinazione, l'innata propensione al casino.
E ancora il vuoto allo stomaco che provava a guardarlo, il desiderio, la tenerezza.
E poi c'erano tutte le altre cose, quelle che invece non erano tornate, per cui non era tempo e per non ce ne sarebbe stato mai più.
Nella sua testa si avvicendavano una serie di illusioni per le quali era troppo razionale, ma che, nel contempo, le donavano tregua, respiro. Per questo le assecondava, pur non credendoci.
Le faceva bene pensare che non fossero un caso quei ritorni, uno dopo l'altro, e che fossero legati. Insomma, che quel destino smarrito, rinchiuso e dimenticato per anni in quel ciondolo vecchio, potesse essere vivo.
Per ridare speranza a un angelo custode sperso.
E chissà, magari ancora utile a qualcuno.
Ad un nuovo Mattia, forse.
Anche "solo" come porta fortuna.

E così se ne andò, lasciando lì, annodato a quella culla, qualcosa di suo.
Qualcosa di loro.
Che ormai non era più solo suo e nemmeno solo loro.
Ma che lo sarebbe stato per sempre, pur non essendoci più.
E non lasciandoli mai.

 

 

 

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