Avrei amato solo te

di TheAngelica93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1 - Un'improvvisa decisione ***
Capitolo 3: *** 2 - Viaggio in auto ***
Capitolo 4: *** 3 - L'incompreso ***
Capitolo 5: *** 4 - Grandi lavori ***
Capitolo 6: *** 5 - Le pettegole ***
Capitolo 7: *** 6 - Odiata ***
Capitolo 8: *** 7 - Problemi ***
Capitolo 9: *** 8 - La preside ***
Capitolo 10: *** 9 - Vergogna ***
Capitolo 11: *** 10 - Negazione ***
Capitolo 12: *** 11 - Amore disapprovato ***
Capitolo 13: *** 12 - Rifiutato ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO
 
Insostenibile è diventato l'odio che ci viene riversato addosso: la malvagità è sempre ingiustificata, sempre! Eppure le persone di questa cittadina sembrano non volerlo capire a nessun costo, credono di agire nel bene: ma non può mai venire niente di buono dal male, mai! 
Non credevo che al mondo esistesse una cattiveria tale da spingermi a prendere simili decisioni in così giovane età! 
No, caro papà, non devi darti pensiero: questo non è affatto il biglietto di chi ha deciso di abbandonare tutto e tutti, è solo un disperato messaggio di chi ha bisogno di essere salvato, di chi ha la necessità di prendersi una pausa da ogni cosa. 
Fingere di non esistere più, come se fossimo ormai morti da tempo, non servirebbe a niente: la nostra assenza regalerebbe loro solo gran motivo di gioia e interminabili pomeriggi di chiacchiere. 
Non è nelle nostre intenzioni dare a tutti loro soddisfazioni del genere. 
Ti scrivo questo biglietto per dirti che starò bene, anche se non so esattamente cosa il futuro potrà riservarci, ma almeno, e questo ti sarà di consolazione, non sarò sola. Non cercarmi, te ne prego, non potrei tornare mai in questo luogo tanto ostile, ho bisogno di gente normale e molto meno cattiva. 
Mi dispiace doverti lasciare, sento che ti sto abbandonando in un certo senso e questo mi fa sentire in colpa, ma giunti a questi livelli... non so più che fare. 
Insieme al signor Gorman, tu sei l'unico che mi mancherà sul serio: io non sono come te, tu sei più forte e saprai sopravvivere a tutti loro, riuscirai a cavartela. 
Ti vorrò per sempre bene, ricordalo! 
Tua figlia 
Tracy Barlow



 
***

NOTA: Tutti i diritti sono riservati. Questa storia non è allegra e vi saranno accenni a bullismo, disturbi alimentari, morte e violenza (sia fisica che psicologica). Un personaggio è altamente narcistista. Spero comunque che la leggiate e che apprezziate il mio lavoro. Grazie di cuore. Angelica.

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Capitolo 2
*** 1 - Un'improvvisa decisione ***


1 – Un'improvvisa decisione
 
Pov Tracy Barlow
Credevo che la follia di mia madre potesse essere gestita, ma mi sbagliavo.
A conferma di ciò, c'era la mia camera da letto completamente svuotata: i mobili erano stati cacciati via con prepotenza, i miei romanzi d'amore erano stati tutti imprigionati dentro affamate scatole di cartone, il mio spaventato telescopio era già sul crudele camion dei traslochi.
Sfiorai con le dita quelle grigie pareti che un tempo erano rivestite con della carta da parati violaceo rossastra: in alcuni punti gli operai non erano riusciti a staccarla donando così al muro la parvenza di avere ferite aperte e sanguinanti, un po' come mi sentivo dentro in quel momento.
 «Signora, la prego!» un esasperato operaio, con la testa calva e una tuta grigiastra, mi distrasse dai miei tristi pensieri. «Questo è il nostro lavoro!» disse a mia madre, che sentivo urlargli contro non so cosa come una pazza. «Sappiamo cosa fare, e anche come, non c'è bisogno che ci dia delucidazioni ogni tre secondi: ci lasci lavorare in pace.»
Mia madre, Zaya Barlow, era una donna avvenente e che curava molto il suo aspetto (il mio esatto opposto insomma): era una signora elegante nel vestire, ma non nei modi. Era stata etichettata in varie maniere da coloro che la conoscevano, ma gli epiteti più gettonati restavano comunque: insopportabile, esuberante (in senso negativo) e frivola.
Ero certa che i nostri vicini fossero assai contenti del nostro improvviso e inaspettato trasferimento, specie i Faucet che si chiudevano dentro a chiave non appena varcavamo il pianerottolo, anche se io non avevo proferito neanche una parola a riguardo.
Ricordavo ancora come il dramma ebbe inizio: eravamo tutti e tre seduti a tavola per cenare, mamma, papà e io, quando mia madre aveva sbattuto con violenza la forchetta sul tavolo e si era alzata in piedi per informarci del suo nuovo proposito.
 «Eh, no, signorina!» mi aveva detto lei puntandomi contro il cucchiaio che teneva con l'altra mano. «Non tollero più questa situazione: i tuoi amici sono tutti a una festa stasera e tu sei qui a casa come se fossi la perdente di turno che non viene mai invitata. Non voglio avere una figlia sfigata! Tracy, hai quasi diciotto anni: dovresti uscire e divertirti! Inoltre, mi aspetto una festa mastodontica per la tua maggiore età, ricca di gente e di divertimento a non finire... Stai sempre rinchiusa ad ammuffire in quella tua stanza a leggere libri, studiare e fissare quelle due tre stelle che si vedono dalla tua finestra... Ora basta! Ho capito che il problema è la grande città e la troppa gente che ti intimidisce per fare amicizia: cambieremo ambiente! Ce ne andremo da qualche parte dove ci sono meno persone e ti sentirai meno imbarazzata così che per te sia più facile conoscere gente nuova!»
Mio padre la osservava con rassegnata disperazione, sapeva quanto me che quando Zaya Barlow si metteva in testa qualcosa doveva ottenerlo senza se e senza ma, anche se ciò che desiderava era fuori dalla nostra portata e o privo di alcun senso logico.
 «Mamma... Io sto bene!» le avevo risposto, ritenendola sinceramente preoccupata per me, ma la verità era che io non avevo proprio alcun problema: ero un po' solitaria, sì, chiusa in me stessa, ma non per questo ero un'asociale che disprezzava il genere umano.
Il fatto che preferissi concentrarmi sullo studio, invece che coltivare amicizie che non sarebbero comunque durate, non faceva di me la malata mentale che mia madre stava descrivendo.
 «Mamma...» avevo iniziato a parlare, consapevole di dover essere molto cauta nel farlo e che tanta audacia sarebbe potuta venire fraintesa. «Un cambio d'ambiente? Non ci si può mica trasferire da un giorno all'altro e poi... Non pensi a papà? Non sarà un bene per la sua salute!»
 «E invece sì, farà bene anche a lui!» aveva ribattuto lei, sedendosi a tavola, lanciandomi occhiatacce furenti, e chiudendo lì il discorso senza lasciarmi il tempo di replicare alcunché. «Ne so più di un qualsiasi medico che lo vede solo per mezz'ora ogni tanto, io tuo padre lo conosco da anni, lo vedo tutti i giorni e so cosa gli può nuocere e cosa no!» si era sistemata una tovaglietta sulle gambe per non rovinarsi la nuova gonna nera che si era comprata quella mattina. 
Fu così che, lo stesso giorno seguente a quella alzata di testa, mia madre attaccata al telefono – con non sapevo bene chi – ci aveva informato che stava già trattando per una casa nella sua vecchia cittadina d'infanzia.
 «Sì», mi aveva detto lei accarezzando schifata il mio caschetto di capelli neri che a lei non piaceva affatto, «ce ne torneremo tutti nella cittadina dove sono cresciuta. Lasceremo Pinglo City per Snowy Mountain... O che bella infanzia che ho avuto lì. Vedrai che ti piacerà! E, Tracy... elimina quella frangetta, altrimenti ti cresceranno i capelli sulla fronte così!»

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Capitolo 3
*** 2 - Viaggio in auto ***


2 – Viaggio in auto
Pov Tracy Barlow
Lanciai un'ultima occhiata al glorioso palazzo in stile manierista che mi aveva fatto da casa dai primi giorni in cui ero venuta al mondo. Alla consapevolezza di doverlo abbandonare, una lacrima mi bagnò il viso: volevo trattenerle tutte, ma questa era sfuggita al mio controllo.
Quel giorno la strada era anche molto trafficata: avevo dovuto ricordare a mia madre, e più volte, di non indietreggiare troppo mentre chiacchierava, o sarebbe finita sotto un auto.
Non potevo piangere, Zaya Barlow non avrebbe gradito: per lei trasferirsi era motivo di festa e non desiderava altro se non condividere questa sua immensa gioia con me e mio padre.
Mamma non sapeva guidare e trovai davvero di cattivo gusto che avesse obbligato mio padre a mettersi al voltante: per lui affrontare un viaggio così lungo, e nelle sue condizioni, sarebbe potuto essere molto provante. Però non si poteva fare altrimenti: nessuno ci avrebbe dato un simile passaggio e i mezzi di trasporto fuggivano tutti quella cittadina. 
Quindi eccoci tutti e tre a partire con la nostra auto. 
Arthur Barlow, uno spilungone dal viso ovale e dalla carnagione perennemente pallida, di cui avevo ereditato il naso aquilino e i grandi occhi scuri, non godeva più di ottima salute da diversi anni ormai: la sua estrema e costante debolezza, dovuta a una malattia deteriorante, lo aveva costretto persino a lasciare il lavoro.
Mio padre non avrebbe dovuto affaticarsi, mia madre ne era a conoscenza, avrebbe avuto un'altra delle sue crisi se non fosse stato attento.
Ripensai a come i medici ci avevano detto che non sapevano come aiutarlo, mentre si limitavano a dirgli di non fare eccessivi sforzi e di restare sempre rilassato, di come mio padre fosse affetto da una malattia orfana. 
La preoccupazione principale di mia madre, riguardo il precario stato di salute del marito, era stato rivolto alle grandi entrate di mio padre che non sarebbero più arrivate.
Per fortuna il mio vecchio sapeva risparmiare e potevamo vantare di essere benestanti, ma le mani bucate di mia madre potevano davvero metterci in guai seri. 
La sera prima che chiamasse la ditta di traslochi, mamma mi aveva riferito l'assurda e spropositata cifra che aveva fatto sborsare a mio padre per la nuova casa e mi ero chiesta come mai lui non avesse avuto un colpo al sentirla. 
 «Mamma!» ero rimasta a bocca aperta. «È troppo! Non so come sia questa casa, e nemmeno tu: insomma, chi l'ha vista? Una cifra del genere...»
 «Come sarebbe che non l'ho vista?» mi aveva rimproverato lei, agitandomi l'indice davanti al viso. «Ti ricordo che io sono cresciuta a Snowy Mountain: ne conosco ogni vicolo, passavo davanti a quella villetta molto spesso per andare a trovare... per andare a casa di una mia cara amica!» 
Ma non è a questo che mi riferisco. Avevo pensato, sapendo che avrei fatto meglio a tacere da quel momento in poi. 
Da giorni immaginavo, e forse anche mio padre era della stessa idea, che mia madre fosse stata raggirata per bene e che avesse rimediato l'ennesima fregatura. 
Ero davvero molto preoccupata dal non sapere dove saremmo potuti andare a finire, nel caso non fosse stata affatto in vendita la proprietà che mia madre tanto elogiava, dato che avevamo già ricevuto delle offerte per il nostro appartamento di Pinglo City. 
Così salimmo, una volta per tutte, sulla nostra auto familiare grigia, la quale vantava anche due significativi graffi sulla fiancata sinistra. 
Presi posto sui sedili posteriori, estrassi dal mio zaino un libro così da poter leggere durante quel lungo viaggio. 
Mia madre, per tutto il tragitto, non fece altro che conversare da sola; mio padre non aprì mai bocca e a essere onesta, non sentendolo mai parlare, credevo fosse muto, anche se nessuno me lo aveva mai davvero confermato; io, di tanto in tanto, alzavo lo sguardo dalle pagine del romanzo al finestrino per osservare il panorama che scorreva lento.
Per un paio di volte dovetti smuovere la spalla di mio padre, però, per ridestarlo: i suoi occhi tendevano a chiudersi e non era il caso che si addormentasse dato che era al volante.
Il panorama era in continuo mutamento: i palazzi lasciarono posto a piccole casette a schiera, le casette furono sostituite da campagne, seguite da altre campagne e da un vasto bosco.
Era pieno pomeriggio quando eravamo partiti e si stava facendo notte quando vedemmo all'orizzonte l'alta montagna nevosa che nascondeva tra le sue vette la cittadina di Snowy Mountain.
 «Eccola!» gridò mia madre facendo tornare vigile mio padre, un altro secondo e gli avrei toccato io stessa la spalla per non farlo addormentare di nuovo. «Casa dolce casa!»
*
Dopo l'impervia salita, dalle pericolose curve che si affacciavano su crepacci e tratti di strada ricoperti da lastre di ghiaccio, entrammo ufficialmente a Snowy Mountain.
1497 m d'altitudine, sui diecimila abitanti, circondata da alte vette da ogni lato: la solitaria cittadina vantava neve quasi tutto l'anno.
Se pur molto gelida, Snowy Mountain era alquanto carina, ma non appena fatti pochi metri con l'auto mi sentii subito un'indesiderata estranea, un essere non più umano detestato da tutti gli abitanti: ovunque il mio sguardo si posasse potevo notare (sia per strada, che da dietro i vetri delle finestre) un sacco di persone che ci guardavano con sfacciataggine. Non erano incuriosite, bensì irritate.
Mia madre, d'altro canto, si sentiva pienamente a suo agio: ci indicava prima un luogo e poi un altro, riportando a voce alta i ricordi che le riaffioravano nella mente.
 «Quella è la nostra Chiesa!» indicò un imponente edificio con un grande rosone sopra la maestosa entrata, una piccola piazza sul davanti era gremita di panchine. «Laggiù, invece,» e il suo sguardo puntò una pasticceria, una torta rosa gigante stava piazzata sull'angolo sinistro dell'insegna luminosa, «ho dato il mio primo bacio a Cliff Linton: era il ragazzo più carino delle medie... Chissà che fine ha fatto? Devo chiedere. Lì, dove ora c'è quel negozio, c'era la panetteria», pensai stesse indicando un alimentari con un poster, appeso sulla vetrata sporca, che non lessi bene. «Uh, la pizzeria dove con gli amici ci ritrovavamo sempre la sera... Tracy», e si voltò a guardarmi coi suoi truccatissimi occhi nocciola, «mi aspetto di saperti lì con un esteso gruppo di amici, il prima possibile!»
Sospirai, mentre con l'auto salivamo sempre più in alto, molto più in alto.
 «Ma dov'è questa casa?» chiesi a mia madre che intanto dava indicazioni a mio padre sulle vie da prendere. «Sulla punta della montagna?»
 «Non sei divertente Tracy!» mi rimproverò lei indignata. «Si trova un po' in alto, lungo la periferia, è vero, ma è stata un affare se la si confronta con altre proprietà! Comunque è a meno di dieci minuti a piedi dalla tua nuova scuola: il Wilbur Lee Champion's Lyceum.»
Oltre a ricordarmi che l'aveva frequentata anche lei, mia madre mi illustrò la storia della scuola e di Wilbur Lee Champion, ovvero il fondatore di Snowy Mountain: «Un istituto davvero pregevole, in cui ho passato anni meravigliosi... prima della gravidanza, ovvio. C'è anche una squadra di pallacanestro maschile, sai? La scuola prende nome dal nostro fondatore, un giovane impavido che ha sfidato le intemperie per costruirsi un villaggio protetto dal mondo, un uomo colto che teneva molto all'istruzione: la scuola è stata messa su, prima dell'ospedale, pensa! È stato una persona assai importante per noi, Tracy, sai? Si fanno tre feste l'anno in suo onore: l'anniversario della fondazione di Snowy Mountain; il giorno in cui nacque e, ahimè,» si asciugò una lacrima, «ricordiamo anche il giorno della sua dipartita, quando Wilbur Lee Champion fu aggredito da un orso che stava cacciando...»
Continuai a guardare fuori dal finestrino: avevamo preso una serie di svolte sulla sinistra. Stavamo risalendo un rettilineo con diverse villette a schiera, che alle spalle erano protette dalla vegetazione e sul davanti avevano la visuale bloccata da diverse palazzine rossastre e un paio di negozi dalle luci troppo accecanti.
 «La terzultima, alla fine della strada, è la nostra!» esultò mia madre battendo le mani e riprendendo il discorso interrotto dall'impeto d'entusiasmo. «Il territorio era ostile, vero, ma Wilbur ha saputo come sfruttarlo al meglio...»
Acquistando i prodotti di prima necessità dagli abitanti dei villaggi a valle in cambio di pellicce d'orso... Che imprenditore! Pensai sarcastica, sentendomi subito dopo in colpa per la cattiveria di quel mio pensiero.
In un momento di distrazione, trovai curioso come fatto che ognuna di quelle casette avesse il garage aperto: non vi erano auto all'interno, il che mi fece presupporre – come anche le luci spente – che non vi fosse nessuno in casa.
Non hanno paura dei ladri qui! Pensai continuando a osservare il panorama sulla sinistra.
Una di queste casette però si distingueva dalle altre: non solo aveva le luci accese, ma aveva un furgoncino rosso parcheggiato sul piccolo vialetto.
Aguzzai lo sguardo e notai, dal cofano aperto, che qualcuno stava lavorando sul motore di quel veicolo. Chinato com'era, pareva che il tizio stesse per essere divorato per intero dal suo furgone.
Non ne vidi il volto, ma capii che era un ragazzo non solo dal giovane braccio muscoloso e sporco, che si tirava su quel lurido jeans che faticava a restare al suo posto, ma anche dalla cresta castana dalle ciocche violacee che aveva in testa.
Arrossii alla parziale vista di quelle mutande, vergognandomi molto di dove si fosse posato il mio sguardo, così mi concentrai sulla via che avevo di fronte.
La salita era terminata e un'immensa villetta dal tetto scuro, circondata da una recinzione di legno, ci si parò davanti: il cartello “Venduto” (con la parola "Finalmente" aggiunta con una rossa vernice spray) ci confermò che eravamo arrivati a destinazione. 
Mia madre gridò di gioia: fortuna che quei pochi vicini che la udirono, si limitarono solo a spiarci con impertinenza dalle loro finestre, oltre che indicarci per tutto il tempo. La verità era che non condividevo affatto quell'entusiasmo sfrenato: solo l'idea di dover pulire le immense stanze di quell'immobile, mi fece venire i capelli bianchi.
Gli operai della ditta di traslochi stavano uscendo dalla casa proprio in quel momento, uno di questi se la rideva allegramente. Dedussi che dovevano aver finito di scaricare tutto e che se ne stavano andando.
 «Ah, signora!» fece uno di questi, grattandosi il grosso naso in modo rumoroso, l'uomo robusto e curvo si avvicinò a mia madre, esprimendosi con un sarcasmo che lei non colse. «Complimenti! Che affarone con questa casa!»
 «Lo so!» fece lei come se non fosse stata una sprovveduta.
Lanciai un'occhiata a mio padre, questi mi stava osservando con un'eloquente espressione. Anche se non parlava, riuscivo a comprendere bene ciò che poteva pensare: eravamo entrambi preoccupati da cosa quella casa potesse riservarci all'interno.
Avanzammo lungo il disastroso giardino: un imponente tronco d'albero era caduto proprio sulla stradina dalle pietre rotte e sporgenti e dovemmo scavalcarlo per passare oltre; salimmo un paio di malconci gradini, che si disintegravano al solo sguardo; aprimmo il grande portone di legno. 
 «Oh no!» gridò mia madre portandosi le mani sul viso e lasciando cadere a terra la borsetta per rendere più drammatica la scena. «Oh, nooo!»

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Capitolo 4
*** 3 - L'incompreso ***


3 - L'incompreso
 
Pov Drake Gorman
Quel maledetto di un furgoncino scassato quella sera mi stava dando ai matti. Sentivo le urla di mio padre chiamarmi dall'interno della casa, ma non avevo intenzione di mollare quel rottame, non prima di essere certo che si mettesse almeno in moto.
 «Drake Gorman!» risi tra me e me pensando a quanto i vicini fossero abituati a quelle alte frequenze da parte del mio vecchio, per poi incavolarmi subito dopo nell'immaginarli intenti a sparlare di me sull'ultima che avrei potuto combinare. «Entra in casa! È anche ora di cena!»
Mio padre fu così insistente che mi decisi a rientrare passando per la porta del garage.
Una volta nel caldo e disordinato salotto, che gridava a chiare lettere che in quella casa ci vivevano solo due maschi, mi ritrovai davanti Amery Gorman in persona.
 «Drake», mi guardò con esasperazione mio padre, con gli occhi scuri fissi su di me e le mani poggiate sui fianchi, «come puoi stare fuori a mezze maniche col freddo che fa... e di notte per giunta! Ti prenderai qualcosa!»
Mio padre era alquanto basso (io stesso non superavo il metro e settantacinque) e l'età aveva cominciato a pesargli sul viso e sui capelli, arricchendo la sua fronte di rughe e con la ingrigita capigliatura che lasciava far strada alla calvizie; persino il suo fisico si era lasciato andare: da alcuni mesi vantava una pancia ben visibile. 
 «Noi giovani abbiamo la pelle dura!» gli dissi sorridendo con stizza e alzando un sopracciglio divertito dalla sua apprensione. «Potrei stare anche in mutande in mezzo alla bufera, non congelerei!»
 «Drake, non scherzare», mi rimproverò con fare preoccupato, le rughe sulla sua fronte esprimevano appieno la sua apprensione per me. 
 «Hai ragione...» ribattei io, dirigendomi su per le scale: avevo un gran bisogno di una doccia immediata, «solo con le mutande avrei un po' freddo... Non mi aspettare alzato!»
 «Dove credi di andare, signorino?» mi chiese lui con un certo tono di disappunto nella voce, agitando un braccio in aria. «Dobbiamo cenare e poi», non avevo bisogno di ascoltare il finale della frase: sapevo già dove voleva andare a parare, «dobbiamo discutere del fatto che la preside Jones mi ha chiamato anche oggi.»
Mi fermai sulle scale afferrando la ringhiera in legno, sospirai irritato come non mai.
 «Papà...» mi ero stufato persino di ripetere le stesse cose: possibile che non volesse capire?
 «Drake!» il vecchio Amery inclinò la testa di lato: gli occhi piccoli e scuri puntati su di me e le minacciose braccia toniche incrociate al petto. «Non vorrai rifilarmi sempre la solita storia?» 
 «Non è una scusa!» gli rinfacciai esasperato, il petto mi bruciava per la rabbia, ma dovevo controllarmi. «La preside...»
Mi odia! Come mi odiano tutti del resto! Non mi può vedere!
 «Quella donna non ce l'ha con te!» mi ammonì mio padre convinto di ciò che stava dicendo, il suo viso si addolcì. «Nessuno ce l'ha con te! Drake, il mondo non ti è contro! Sei tu che...»
 «Papà, basta!» gli dissi facendo un gesto con la mano come a voler chiudere lì l'argomento. «Credi quello che vuoi. Io mi vado a fare una doccia e poi esco. Punto.»
 «No, tu non esci!» mi disse lui seguendomi lungo le scale fino al piano superiore. «E poi dove vorresti andare? Chi è la ragazza di turno, eh? Ma ti vuoi decidere a comportarti bene? Quando metterai la testa a posto? Lo vuoi capire che con questo atteggiamento non arriverai da nessuna parte?»
Sempre la stessa predica! Mi lamentai a mente. Sembri una radio rotta, papà! Che ne dici se cambiamo stazione?
Volevo lasciar perdere, ma al tempo stesso far valere le mie ragioni, così cominciai il mio monologo: «Mi dispiace papà se ti è uscito un figlio così avvenente da non riuscire a staccarsi di dosso le brave figlie di tutte queste signore così rispettabili. Non sono fortunato come te! Tu avevi la mamma, ma lei...»
Mi zittii all'istante: parlare della defunta Marion Swan in Gorman era ancora un tasto dolente per tutti e due, anche dopo tutto quel tempo. Il cancro che l'aveva divorata e il suo lasciarci così presto. Fu piuttosto devastante per me e mio padre. Restammo soli. Il mondo aveva perso una delle persone più dolci e buone che avessimo mai conosciuto.
Gli occhi presero a bruciarmi come se ci avessero gettato dentro una manciata di terra, una lacrima voleva colarmi sulla guancia; mio padre aveva il viso più intristito che mai, lo sguardo abbassato e le mani tremanti.
 «Scusami», lo abbracciai di slancio, con la rabbia che ormai se n'era andata via, «io...»
Sentii le braccia forti del mio vecchio stringermi con calore e affetto.
 «Voglio solo il meglio per te», affermò scompigliandomi la cresta che avevo in testa. «Io ti voglio bene, lo sai, sì?»
Certo che lo sapevo: era l'unico a volermi davvero bene in quel postaccio buttato su di quella montagna per non contaminare il resto del mondo... Tutta la feccia della civiltà era riunita a Snowy Mountain.  
 «Sai che ti dico, papà?» presi a togliermi la consumata t-shirt dei Soundgarden, ma la tirai giù non appena accennato il gesto: mi ricordai che non potevo mostrarmi a petto nudo davanti a lui o avrebbe subito notato i miei recenti lividi. «Stasera resto a casa con te. Stiamo insieme così tu e io possiamo parlare...»
Il suono del telefono al piano inferiore mi interruppe, ma dal sorriso che stava scaldando il volto di mio padre, capii che lo avevo fatto contento.
 «Chi sarà a quest'ora?» si lamentò mio padre, scendendo le scale col suo passo pesante e asciugandosi il naso con la manica della camicia dopo aver starnutito. «Quel pollo fritto si sarà congelato ormai. Pronto?»
Mi diressi in bagno per darmi una pulita, visto che quel furgoncino scassato mi aveva vomitato addosso una marea di grasso, ma non avevo bisogno di guardarmi allo specchio per poter constatare che ero dotato di un bel fisico muscoloso e ricco di tatuaggi, anche se ammaccato da cicatrici e lividi vari tra cui alcuni freschi e altri di vecchia data. 
Quanto sono affettuosi i miei coetanei a farmi di questi regali... Pensai sarcastico, irritandomi ben presto dell'ingiusto trattamento che mi veniva riservato e che dovevo tacere. 
 «Signora, la prego. Si calmi! Non usi questo tono con me!» udii mio padre agitarsi: non ero abituato a saperlo in quello stato, almeno con altre persone che non fossero me, mi ritrovai assai incuriosito dalla cosa. 
Aprii di un filino la porta, del bagno poco illuminato, per sentire meglio la telefonata.
 «Domani, signora, do-ma-ni... No, ma... Signora, sono perfettamente capace di intendere è lei che... La prego, le ho detto...» 
Poverino. Mi dissi. È in difficoltà.
Ero quasi tentato di prendergli il telefono di mano e maltrattare chiunque lo stesse facendo irritare tanto. 
Ma con chi parli, eh? Chi è la pazza che ci sta disturbando? 
 «Chi le ha fatto il mio nome? Chi le ha detto che sono io il tuttofare?» mi affacciai completamente con la testa; sospirando, mio padre mi lanciò un'occhiata dal fondo delle scale: non ero stato attento a non farmi beccare, gli mostrai la mia sfacciataggine che non aveva limite. «Ah, la signora Cunningham. L'ha incontrata al ristorante. Be', signora? Signora Barlow, mi ascolti...» si asciugò il sudore con un fazzoletto che aveva tirato fuori dalla tasca dei jeans consumati. 
Barlow... Quel cognome non mi era familiare, ma non ci misi molto a ipotizzare che fosse la povera idiota a cui avevano rifilato la villa in rovina dei Farlow: passando col furgone, prima che questi decidesse di abbandonarmi, avevo notato il cartello "Venduto". L'odioso nipote di quel vecchio spilorcio si era tolto un peso di dosso: quella proprietà, che aveva ereditato quando l'alcol aveva finito il lavoro con Joseph Farlow, non valeva proprio niente, almeno non nello stato in cui era ridotta, tutti sapevano che ci sarebbero voluti dei milioni solo per risistemarne il primo piano. 
 «Come vuole signora, verrò stasera con mio figlio a dare un'occhiata alla sua nuova casa. Certo, tra mezz'ora saremo lì. Sì, io lavoro con mio figlio. La signora Cunningham l'ha informata bene. No, signora, mio figlio non è così! Drake è un bravissimo ragazzo. Signora, scusi se mi permetto, ma non può parlare di mio figlio in questi termini! Non glielo consento, lei nemmeno mi conosce! Ah, sarei io il maleducato?» tirai su col naso per il fastidio: la moglie del sindaco non aveva perso tempo nel dipingermi come un teppista con la prima che capitava. «Certo che accetto le sue scuse», disse con poca convinzione mio padre: pareva stesse dando il contentino alla donna per non doverla più sopportare. «Certo che verrò. Gliel'ho già detto. A presto, signora Barlow. A presto... A presto
Il vecchio Amery riagganciò in malo modo il telefono: il viso arrossato gli fumava per l'esaurimento come quando la preside lo aveva chiamato perché ero stato accusato di aver incendiato i bagni della scuola. 
L'aver chiuso la telefonata in faccia a quella signora mi fece ridere da solo: Amery Gorman era sempre stato un tipo molto educato e per bene; chiunque fosse stata quella Barlow, doveva essere una tipa assai esasperante per sfidare persino la pazienza di mio padre.
 «Drake?» mi chiamo lui. «Sei ancora lì a spiare?»
 «Sì, papà!» lo interruppi cercando di non apparire troppo divertito e incominciando a parlare come un telecronista. «Ho sentito tutto: c'è del lavoro da fare. Ora, Drake Gorman si appresterà a lavarsi, il più in fretta possibile. Si vestirà in due secondi e uscirà di casa con suo padre. Destinazione: la vecchia villa in rovina dei Farlow! Yeah!»

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Capitolo 5
*** 4 - Grandi lavori ***


4 - Grandi lavori
 
Pov Drake Gorman
Dal vedere mio padre nervoso, asciugarsi la fronte sudata con un fazzoletto di cotone, dopo aver discusso al telefono con quella che doveva essere una donna fuori di testa – su alla vecchia villa dei Farlow – mi aspettavo di trovare una pazza pronta a vendere i nostri organi al mercato dopo averceli estirpati senza anestesia.
Non avevo mai visto mio padre così agitato come in quella sera (e io gli davo già abbastanza da pensare), di solito sapeva anche come farsi rispettare. Il mio vecchio non amava lavorare in tarda serata, era una sua regola: aveva degli orari precisi, a meno che non si fosse trattata davvero di un'emergenza. Cosa più importante, Amery Gorman non tollerava che si parlasse male di me, del suo unico figlio. Ma con quella donna, e lo capii dalle cascate del Niagara sulla sua fronte, mio padre non sapeva come comportarsi. 
Presi posto accanto al mio vecchio, occupando il sedile del passeggero della sua Dodge St. Regis del '79: l'ambiente profumava di menta per il Little Trees agganciato allo specchietto retrovisore interno. Inutile ricordargli che oramai eravamo negli anni novanta e che doveva ammodernarsi un po', ma lui era troppo affezionato alla sua auto. Non gli importava quanto costose potessero essere le riparazioni di cui necessitava quel catorcio: era la sua macchina, sua e di mia madre, la loro prima vera auto.
Un po' lo capivo, non desideravo che la buttasse, ma era un po' vecchiotta: persino a piedi ci superavano.
 «Mettiti la cintura, Drake!» mi rimproverò il vecchio Amery, con in mano la chiave bloccata a mezz'aria.
 «Devo mettermi la cintura, per due secondi di strada?» gli rinfacciai poggiando un piede sul cruscotto. «E perché hai portato la cassetta degli attrezzi?» gli chiesi dando un'occhiata ai sedili posteriori. «Darai l'illusione di poter fare qualcosa per quella pazza! Per quella villa c'è una soluzione più efficace: darle fuoco! È una pazzia provare a sistemare le tubature o controllare l'impianto elettrico, tutto insomma! Quel rudere è da buttare a terra!»
Mio padre mi schiaffeggiò la gamba affinché mi sedessi più composto. Non si decideva a mettere in moto.
 «Vogliamo andare?» gli chiesi divertito. «A quella pazza non farà piacere se tardiamo.»
 «Drake, controllati», infilò la chiave nel quadro e la girò, non partì subito, ma aspettò che l'auto si riscaldasse un po', «e non chiamarla in faccia “pazza”. Chiaro?»
Me la ridevo tra me e me pensando che mio padre mi ritenesse così maleducato da poter dire sul serio ciò che mi pregava di tacere. Poggiai nuovamente il piede sul cruscotto davanti a me, e ancora fui intimato di rimetterlo giù.
 «Quella donna», mio padre incominciò a parlarmi con la faccia seria di chi sapeva che un imminente guaio lo avrebbe costretto a reagire, «ha una figlia che ha un anno meno di te. Ti prego di non provarci anche con lei!»
 «Mica mi piacciono tutte le ragazze del pianeta Terra. Calma! Non è che mi contento del fatto che una donna respiri perché io ci possa provare. Che poi... Vogliamo essere davvero davvero onesti? Se ha una madre pazza, come potrà mai essere la sua figlioletta diciottenne? Ah, vedrai», ma qui parlavo più tra me e me a voce alta, che con mio padre, «sarà come una delle tante smorfiosette della zona: piena di sé, elegante nel vestire, una di quelle che ti guarderà dall'alto in basso perché troppo superiore. Ah, già la odio!»
*
Scavalcammo con mio padre un tronco caduto proprio su quella che doveva essere una stradina, ma che ora era solo un ammasso di pietre sporgenti.
Il vecchio Amery quasi inciampò, ma riuscì a riprendere l'equilibrio in tempo; non ebbe la stessa fortuna la cassetta degli attrezzi che, incastratasi tra i rami dell'albero, ormai marcio e pieno di funghi, rovesciò a terra tutto il suo contenuto. 
 «Ci penso io!» mi offrii di aiutarlo, avvicinandomi a lui.
 «No, ma grazie lo stesso, figliolo!» disse lui chinandosi a terra per raccogliere gli attrezzi. «Va' ad avvertire che siamo arrivati.»
 «Che strazio!» un'isterica si lamentò a voce alta, la udimmo all'interno della casa; sia io che mio padre ci lanciammo un'occhiata complice. 
Deve essere la signora Barlow, la pazza! Pensai, scuotendo la testa indignato.
Le urla della donna si fecero più acute: «Quel tuttofare... Ha detto che sarebbe stato qui già da mezzo minuto ormai... Ti pare normale questo ritardo? E dicono che è il migliore... Be', questo lo deciderò io!»
Bussai innervosito all'idea che quella schizzata potesse aprirmi, ma chi mi trovai di fronte fu invece una ragazzina bassetta dai capelli neri a caschetto e dal visetto un po' paffuto.
Sorrisi all'istante constatando quanto normale mi apparisse quella ragazza: che non era come le altre di Snowy Mountain era palese non solo dal fatto che non avesse in faccia chili di trucco, e che non si abbigliasse come una modella, ma dai suoi occhioni verdi che trasmettevano innocenza e timidezza (invece che arroganza e un ego smisurato), inoltre non aveva quel fisico scheletrico che le altre facevano a gara per avere.
 «Ciao, occhioncina, che mi racconti di bello?» mi feci affascinante davanti a lei, poggiai il braccio sullo stipite  della porta – al di sopra della mia testa – quasi a volermi mettere in mostra, ma la ragazza parve non gradire molto la mia audacia: arrossì imbarazzata indietreggiando di un paio di passi.
 «Scusa,» fece lei con un timbro di voce nasale, «tu sei?»
 «Credevo ci aspettaste. Siamo i Gorman!» le risposi, mantenendo la mia postura fiera. Sperai notasse che, sotto i tatuaggi, avevo delle braccia muscolose. 
 «Siete?» lei mi parve un po' confusa.
Forse la pazza le ha detto che sarebbe andato solo mio padre da loro. Ragionai.
Scuotendo la testa, con un mezzo sorrisetto, come si fosse risvegliata da un sogno, la ragazza aggiunse: «Sì, mia madre mi ha detto che ha chiamato un certo signor Amery Gorman... Mi aspettavo qualcuno di più adulto».
 «Be'», e le indicai mio padre, accanto al tronco, che stava rimettendo l'ultima chiave inglese nella cassetta: con quella scarsa illuminazione il vecchietto pareva una scura sagoma indefinita, «ecco il suo Amery, signorina. Io sono il figlio. Ciao, sono Drake.»
Le porsi la mano, che lei strinse senza schifarsi. Volevo godermi quell'istante, prima che anche lei, udendo le perfide voci che circolavano su di me, cambiasse idea sul mio conto e decidesse di evitarmi.
 «Io sono Tracy, Tracy Barlow», mi rispose lei con un sorriso così timido che non avevo mai visto piazzato sulla faccia di nessuna ragazza del luogo.
Mio padre ci raggiunse proprio mentre stavo per sfoggiare una delle mie frasi da rimorchio più efficaci. Gli avevo promesso di non provarci con la nuova arrivata, ma Tracy Barlow aveva un che di così straordinariamente normale che non potei fare a meno di sentirmi attratto da lei.
 «Salve, signorina», la salutò il mio vecchio con fare educato. «Sono Amery Gorman, sua madre...»
 «In cucina», affermò lei con rassegnazione. «La sta aspettando.»
 «Traaacy?» la sentimmo urlare, e poi la vedemmo affacciarsi con la testa dietro una parete. 
Per essere pazza, è una assai bella... esteticamente! Mi dissi, osservando quanto era curata nell'aspetto: la signora Barlow indossava un abito scuro e aderente, che le metteva in risalto un bel corpo magro e ben conservato, uno spacco lasciava intravedere una gamba dalla pelle chiara, i suoi capelli neri erano lisci e lucenti. Un'altra oca alla Snowy Mountain. Ribadii a me stesso con sarcasmo. 
La donna continuò a parlare, mostrandosi stranamente educata rispetto a come l'avevamo sentita dal di fuori della casa: «Chi è? Signor Gorman... Ah, è lei? Venga qui immediatamente a controllare quello che dovrà aggiustare... Non possiamo non avere l'acqua in casa! Che siamo, dei poveracci? E che mi dice della corrente elettrica? In che millennio siamo? Non possiamo restare al buio: qui non tutte le stanze sono illuminate. E questo disgustoso pavimento con queste piastrelle che, anche se fossero state in buono stato, sono inguardabili. Ci sono dei buchi e in quel punto c'è della muffa. E il giardino qui fuori? Non ho parole! Dico, lo ha visto? Che cos'è quella faccia? Lei è un tuttofare, giusto? Provvederà a riparare ogni minima cosa storta in questa villetta orrenda. Oh, ma che furfante quel giovanotto con cui ho parlato al telefono. Sa? Dalla voce pareva tanto per bene. Si muova, non resti nell'atrio. Oh, ma possibile che nessuno mi ascolti mai? Signor Gorman, vuole fare ciò per cui la pagherò? Controlli e mi dica cosa non va in questa casa, oltre ciò che ho già notato io! Ora
*
Si fecero le due di notte quando con mio padre tornammo a casa e sprofondammo ognuno nei rispettivi letti: la signora Barlow aveva insistito, come una bambina viziata a cui non si poteva negare niente, sul fatto che avremmo dovuto iniziare i lavori di ristrutturazione già dal mattino seguente, fregandosene altamente del fatto che potessimo avere altri impegni. Era decisamente una perdita di tempo, e uno spreco di soldi per quella famiglia, ma un grande guadagno per me e il vecchio Amery: ci saremmo riempiti le tasche a dovere con quella signora che aveva soldi da buttare. 
Ero a pezzi, ma felice di aver fatto due nuove conoscenze: Tracy era una ragazza assai tranquilla, sia nei modi di fare che nel dialogare, inoltre l'avevo trovata assai carina in quella sua maglia di lana nera, di un paio di taglie più grande; e il signor Barlow, pur avendo l'aspetto di un cadavere fresco e non avendolo sentito pronunciare neanche una parola, mi stava simpatico a pelle e aveva anche l'aria di essere davvero una brava persona.
Non ero entusiasta della signora Barlow invece: oltre che guardarmi in cagnesco per tutto il tempo, e riferire a mio padre qualche maldicenza udita sul mio conto, assicurandosi che io sentissi tutto, mi era entrata subito in antipatia. 
La pazza ci aveva raccontato, senza che qualcuno glielo avesse domandato, di come era cresciuta bene a Snowy Mountain.
Questo non mi aveva stupito affatto in quanto quella donna aveva tutte le principali caratteristiche degli abitanti della nostra cittadina: narcisismo, cattiveria ostentata, invidia nei confronti altrui e anche una certa dose di stupidità.
Nonostante l'aver dovuto ignorare, e sopportare, quella bastarda per più di tre ore, mi addormentai con un sorriso al pensiero che avrei rivisto Tracy tra i corridoi della scuola: la signora Barlow aveva detto inoltre che la figlia avrebbe iniziato a frequentare le lezioni il prima possibile, per ripetere la fantastica esperienza da lei vissuta negli anni passati. 

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Capitolo 6
*** 5 - Le pettegole ***


5 – Le pettegole
 

Pov Tracy Barlow

Erano le tre del mattino, soffiava un vento terribile e io non riuscivo a dormire con quei rami che sbattevano contro la finestra, graffiando il vetro come fossero dita scheletriche.

Accesi la lampada sul comodino accanto al mio letto, la stanza si illuminò di un tenue bagliore aranciastro. Con le gambe sotto le calde coperte e posizionando il cuscino a mo' di schienale, presi a scrivere sul mio diario ciò che mi passava per la mente, diario che avevo nascosto sotto il materasso.

 

Caro Diario,

sono passati una decina di giorni dal mio trasferimento con mamma e papà nella gelida cittadina di Snowy Mountain. Il tempo sembra essersi come fermato, è tutto così immobile, eppure va avanti, come sempre ha fatto e continuerà a fare.

Neanche arrivati, mia madre ha costretto il tuttofare della zona a dare il via alle riparazioni della nostra nuova casa, ovvero la dimora che definisco come “l'ennesimo abbaglio di Zaya Barlow”.

Ovviamente, con mia madre non ho accennato ai miei dubbi sulla nostra situazione attuale, tentare di parlarle è inutile. Lo ha scoperto persino il signor Gorman "il tuttofare": più volte l'uomo le ha ripetuto che sarebbe stato infruttuoso spendere soldi per le piccole riparazioni, ma mia madre si è mostrata così cocciuta che alla fine, il giorno seguente, il signor Gorman si è sentito costretto a tornare per iniziare i lavori.

Hanno cominciato con le tubature.

Già, ho usato il plurale perché il tuttofare non lavora da solo: il figlio del signor Gorman, Drake, sulle prime mi ha un po' intimidita. Voleva forse provarci con me? O semplicemente è il suo modo di essere in generale? Devo dire che è un tipo assai spavaldo, questo mi ha trasmesso, è uno consapevole del proprio fascino. Oh, sì! Sono certa che Drake sappia molto bene di essere bello e ne è anche piuttosto contento. Ma non per questo l'ho trovato montato, anzi, chiacchierando del più e del meno, mentre suo padre discuteva con mia madre, ho capito che è un ragazzo coi piedi per terra, uno maturo per la sua età. Mi sta abbastanza simpatico. Un po' strano lo è, ma non in senso negativo. Quella sua cresta viola, credo voglia simboleggiare una sorta di anticonformismo. Anche dal suo esprimersi, ho intuito che si ritenesse un estraneo nella sua stessa città.

Quei suoi occhi poi, c'è qualcosa in questi che mi ha colpita: è come se Drake Gorman nel profondo del suo animo celasse un universo inesplorato, galassie sconosciute e meravigliose che non permette a nessuno di conoscere.

Ma mia madre, sentendone parlare male fin da subito, mi ha detto, e senza mezzi termini, di stargli alla larga.

 

Alzando lo sguardo dalla pagina e tenendo sospesa in aria la penna blu, sospirai pensando all'agitazione che sentivo nel dover frequentare un nuovo liceo.

Non mi piaceva l'idea di dover, come diceva mia madre, fare amicizia con tutti i ragazzi e le ragazze per poter organizzare una favolosa festa per i miei diciotto anni. Dopo il primo giorno di scuola, Zaya Barlow pretendeva che per cena invitassi già un gruppetto di nuovi amici.

«Non mi deludere», mi aveva detto col viso imbronciato, «o stavolta smetto di parlarti!»

Un colpo di vento spinse un grosso ramo contro la finestra, sobbalzai per lo spavento.

Da quando siamo qui, questa è l'ottava bufera di neve notturna. Pensai.

Tornai a scrivere.

 

Il giorno seguente al nostro arrivo, quando scesi per fare colazione, mia madre era nel salotto con un gruppetto di donne con cui aveva già stretto amicizia. Non mi seppi spiegare il come o il quando questo potesse essere successo.

C'era anche la cinquantatreenne signora Cunningham, conosciuta al ristorante la sera stessa del nostro arrivo, che, compresi, presentò a mia madre le restanti signore.

Anche quella mattina, la moglie del sindaco indossava diversi e vistosi gioielli. La donna portava anche un pantalone e una camicia elegante che le davano un aspetto da signora altolocata.

Notai che mio padre non era presente e dedussi che mia madre lo avesse costretto, e per tutta la notte, a ripulire il soggiorno, vistosamente in uno stato più decente rispetto a come lo avevamo trovato, così da poter ospitare le sue nuove amiche conosciute chissà quando.

«E papà?» le domandai pur sapendo che mi avrebbe risposto che era a letto.

«Dorme ancora» e si voltò verso le altre signore, come se dare spiegazioni a loro fosse più importante che darle a me. «Mio marito è di salute cagionevole», assunse un'espressione avvilita capace di suscitare compassione in chiunque, «e il viaggio in auto lo ha sfiancato molto.»

«Oh, pover'uomo!» parlarono in coro le altre, mostrandosi solidali con mia madre. Alcune di loro allungarono persino le mani verso di lei con fare consolatorio.

Capii fin da subito che Zaya Barlow, a Snowy Mountain, sarebbe stata davvero a casa! Era finalmente tra le sue simili!

Mi presentò a ciascuna delle sue nuove conoscenze.

«La signora Cunningham, Ludmilla, la conosci già. Questa è Jessica Patterson» e mi indicò una signora avanti con l'età, bassa e grassoccia. Questa aveva corti capelli bianchi e occhiali spessi che le scivolavano di continuo sul naso piatto.

La signora Patterson indossava una strana tunica floreale e pantofole ai piedi.

«Jessica ha quasi sessant'anni», mi spiegò mia madre, «anche se ne dimostra una ventina di più. Ma è vero! Comunque, Tracy, cara, sarai contenta di sapere che ritroveremo Jessica tutte le domeniche in Chiesa: la frequenta molto anche lei. La signora Cornelia Hood!»

Mia madre indicò la donna alla sua sinistra, seduta sull'altra poltrona, questa indossava gioielli più modesti, un semplice jeans sotto una camicia di seta. Era ben truccata. I suoi capelli neri erano perfettamente lisci.

«Frequenterai il Wilbur Lee Champion's Lyceum?» mi chiese questa e, senza aspettare che le rispondessi di sì (anche perché era l'unico liceo della cittadina), mi informò che la sua meravigliosa figlia, Malory, che aveva un anno più di me, si sarebbe di certo diplomata col massimo dei voti perché era davvero in gamba. «La mia preziosa bambina ha perso un paio di anni scolastici perché, un paio di anni fa, ha avuto dei problemi seri di salute, altrimenti a quest'ora sarebbe già in uno dei college più importanti del paese. Quanto è brava, la mia stellina!»

«Oh, ma sicuro diventeranno grandi amiche! Vero, Tracy? La tua Malory potrà venire a pranzo da noi quando vorrà. Tracy la inviterà spesso, sì?» le disse mia madre, facendomi un occhiolino incoraggiante, per poi continuare col giro delle presentazioni. «Lei, invece, è Lydia Small!»

Lydia Small, una donna minuta e dal viso a cuore, doveva avere sui quarant'anni come il resto delle altre donne, questa era vestita a lutto.

Mi spiegò che il marito era morto pochi mesi prima e che non se la sentiva di smettere di portare il lutto.

«Condoglianze!» le dissi sentendomi davvero dispiaciuta per lei.

«Oh, grazie, cara!» mi rispose iniziando a prendere confidenza con me. «Mio marito guadagnava molto bene. Quante volte avevo pensato di divorziare da lui se avesse perso tutti i suoi soldi, ma per fortuna così non è stato. Mi manca tanto!»

L'ultima signora, la più giovane del gruppo con soli trentacinque anni, Rosmery Holland (ma lo scriverò solo a te, Diario, e non lo dirò mai a voce alta) l'ho trovata più frivola di mia madre.

Da come me la descrissero poi, che soffriva di albinismo, che era sposata con un semplice spazzino e che, per quanto si mantenesse in forma, non aveva personalità, mi era chiaro che la donna facesse parte del gruppo solo perché aveva la stessa mentalità delle altre.

Lasciando mia madre alle sue nuove amiche, mi diressi nella camera padronale a vedere come stesse mio padre.

Bussai piano per non disturbarlo troppo, aprii con delicatezza la porta e mi affacciai con la testa per vedere se stesse bene.

Era sveglio, ma più pallido e senza forze che mai.

Mi avvicinai per sentirgli la fronte: scottava molto.

Mio padre rimase confinato a letto per altri cinque giorni, senza alzarsi, senza mangiare. Facemmo venire anche un medico che, come altri prima di lui, gli ordinò di restare a riposo.

Mi occupai di papà come meglio potei, con mia madre che era sempre fuori a fare vita sociale. Ormai lei fa ufficialmente parte di quel gruppo di signore che Drake definisce come “oche pettegole”.

Il signor Gorman, col figlio Drake, vengono qui a casa quasi ogni giorno.

Quando il tuttofare disse a mia madre che le tubature erano tutte da sostituire, mamma divenne isterica.

Insistette affinché il signor Gorman le sostituisse tutte da lui e senza arrecare disturbo ai padroni di casa.

 

Sbadigliai, avevo sonno, nonostante il vento mi tenesse sveglia. Riposi il diario sotto il materasso. Sistemai il cuscino e, spenta la lampada, mi infilai anche con la testa sotto le coperte.

Ero troppo nervosa, tremavo senza riuscire a fermarmi. Mi sforzai di chiudere gli occhi.

Mi aspetta una lunga giornata domani! Mi dissi. Devo affrontarla al meglio: mi ci vuole un bel riposo.

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Capitolo 7
*** 6 - Odiata ***


6 – Odiata
 
Pov Tracy Barlow
Mi ero fatta una doccia col getto d'acqua più gelido al mondo (acqua che al principio usciva mista alla terra) e quello era uno dei tanti problemi che mia madre non tollerava più: ogni giorno, pretendeva dal signor Gorman che questi provvedesse al più presto a rimediare al danno di turno e tutte le volte lui le ricordava che, prima di cominciarne uno nuovo, non poteva lasciare, in quella casa, gli altri lavori iniziati a metà senza finirli.
Anche quella mattina, la sentii telefonare a quel povero uomo e la udii urlargli contro: «Faccia bene il suo lavoro! Mi ha capita? O dirò a tutti quanti che lei è un incapace e così facendo nessuno vorrà più assumerla! Parola mia».
Mi ero infilata nel primo felpone nero a portata di mano e avevo optato per un paio di pantaloni dello stesso colore. Misi degli scarponi pesanti ai piedi per tenerli caldi, oltre le due paia di calze che portavo già. 
 «Oh, ma Tracy!» si lamentò mia madre non appena mi aveva vista scendere dalle scale. Quella mattina, si era truccata ancora di più e sembrava pronta per la passerella. «Ma tutta di nero ti dovevi vestire? Hai già i capelli di questo colore, non ti basta? Vatti a cambiare immediatamente, mettiti qualcosa di colorato e bello. Vuoi forse spaventare la gente conciata così? Sei già grassa! Gli indumenti larghi non faranno altro che evidenziare il tuo problema. Devi fare un po' di dieta. Ma che fa ancora a letto, quel disgraziato? Arthur!» e lo chiamò urlando. «Con la scusa che è debole non alza più un dito.» 
 «Ma, mamma,» le dissi, sentendomi cadere le braccia sui fianchi per lo sconcerto, «papà non è pigro, è malato. Lo hai fatto...» mi zittii prima di aggiungere che lei lo aveva costretto a un eccessivo sforzo, facendogli ripulire il salotto e spostare mobili pesanti per accontentarla, e che questi dovesse riposare per riprendersi. 
Mia madre assunse quell'espressione adirata che conoscevo fin troppo e che mi faceva sentire in colpa ogni volta che me la rivolgeva: i suoi occhi si assottigliarono, le labbra si arricciarono, la narice del naso era tirata su a mostrarmi la sua indignazione.
 «Scusami, mamma», sussurrai piano, avviandomi verso la porta dopo essermi messa il giubbotto e un cappello di lana in testa. «Ora vado a scuola.»
 «Sì, brava!» mi rimproverò lei, incrociando le braccia esili al petto. «Vai a scuola e porta qualcuno a cena stasera. Ma no, tu non lo farai. No, tu vuoi vedermi infelice! Io voglio solo il meglio per te e ciò significa che devi farti degli amici. Tutto pur di farmi dispetto.»
 «Ma no, mamma!» cercai di rassicurarla, era imbronciata e non mi guardava neanche più, intestardita com'era. «Non ti deluderò, ma dammi del tempo, per me non è facile», aggiunsi col proposito di accontentarla, pur essendo cosciente che mi sarebbe costato uno sforzo immane.
Si voltò e mi rispose: «Come vuoi, ma sbrigati! Non sopporto più di avere una figlia così solitaria e la tua festa deve essere l'unica di cui tutti parleranno, anche tra molti anni!» 
Uscii di casa e presi a camminare facendo attenzione nell'evitare di affondare troppo i piedi nella neve fresca e tentando di evitare, il più possibile, le lastre di ghiaccio sulle quali sarei potuta scivolare. 
Pensai e ripensai a come fosse assurda tutta quella situazione, a quanto mi mancavano la mia vera città, la mia vita di prima, la biblioteca in cui mi rifugiavo nei pomeriggi di pioggia e passavo le ore a leggere storie romantiche, il cappuccino troppo zuccherato che prendevo al piccolo bar sotto casa. 
Ero anche molto in pena per mio padre, le sue condizioni erano peggiorate dal giorno del trasferimento e il rigido clima di Snowy Mountain non gli giovava affatto, al contrario di quel che aveva affermato mia madre.
E tutto questo a Zaya Barlow non interessava per niente.
Ero così immersa nei miei tristi pensieri che non mi resi conto di essere arrivata davanti al Wilbur Lee Champion's Lyceum, un imponente e antico edificio di mattoni che, con quelle sue scure finestre alte e strette e il grande portone buio, che pareva un buco nero pronto a risucchiarti e farti sparire per sempre, aveva un'aria assai minacciosa.
 «Ehi, Tracy!» mi sentii chiamare. «Alla fine sei dovuta finire anche tu in questa prigione, eh?»
Mi voltai e vidi Drake: lui portava una semplice giacchetta leggera, che mi fece rabbrividire al solo vederlo; mi stava venendo incontro con un gran sorriso e le braccia allargate.
 «Ciao!» lo salutai contenta di vederlo. «Non è che potresti aiutarmi?» gli chiesi guardandomi intorno. «Il primo giorno non so dove andare, mi sento un po' spaesata.»
 «Ma certo, vieni!» mi rispose lui con gentilezza e con la mano mi invitò ad avanzare insieme a lui.
Col solo averlo accanto, notai che le mie preoccupazioni erano svanite: era come se quel ragazzo avesse la capacità, con la sua sola presenza, di scacciare via tutti i miei cattivi pensieri.
Non lo conoscevo da molto, e neanche tanto bene, ma sentivo che era in grado di trasmettermi una sicurezza immensa.
 «Sono contento di vederti», mi disse lui, guidandomi verso l'edificio.
Più camminavamo lungo quell'ampio spiazzo di cemento, che pareva infinito, e più mi sentivo, e contro la mia volontà, sotto migliaia di riflettori: non ne riuscii a comprendere la ragione, ma non c'era un solo ragazzo o ragazza che non avesse preso a guardarmi male e a indicarmi con disprezzo. 
In un istante, mi sentii presto fuori posto: io, Tracy Barlow, una ragazza acqua e sapone, bassa e un po' grassottella, vestita quasi sempre di nero, da sola in mezzo a delle ragazze alte, magrissime, bellissime, eccessivamente truccate e vestite come se dovessero andare a una sfilata di moda... 
Non ho niente in comune con loro.
Era la stessa spiacevole sensazione che mi aveva afferrato il cuore entrando per la prima volta a Snowy Mountain: tutti gli abitanti, che ci fissavano come fossimo esseri non umani sgraditi alla loro compagnia, mi avevano fatta sentire subito sbagliata.
In quel momento, mi ritornò il malessere di quella prima serata. Un dolore martellante allo stomaco, mi fece portare d'impulso le mani sull'addome, come volessi evitare di spezzarmi in due.
Giustificavo il possibile interesse, in una piccola cittadina, per la nuova arrivata, ma quella gente non era curiosa: mi odiavano!
Drake continuò a dipingermi la scuola in modo negativo: «Gli studenti, come gli insegnanti, sono dei mostri di superficialità...» cercai di prestare  attenzione alle sue lamentele, ma il disagio che mi cresceva in petto mi spinse a desiderare di scomparire nel nulla il prima possibile.
Mi bloccai sul posto, incapace di proseguire. Sentivo che da un momento all'altro sarei potuta svenire, rendendomi ancora più insopportabile agli occhi degli altri. Il mio cuore batteva veloce, sentivo le mani infradiciate di sudore, la fronte che mi bruciava. 
Drake lo notò subito e mi si piazzò davanti con la faccia preoccupata.
 «Ti senti male?» mi chiese, guardandomi negli occhi con apprensione. «Vuoi che ti riaccompagni a casa?»
Avrei preferito lasciare direttamente la città, ma non glielo dissi. Scossi la testa in negazione, stringendomi le braccia al petto, cercando di non vomitare.
 «Non sono abituata a ricevere tutte queste attenzioni», gli spiegai, facendomi coraggio. «Non capisco che cosa posso aver fatto a tutta questa gente. Mi guardano come se...»
 «Mi dispiace! È colpa mia!» mi confessò Drake avvilito e lasciandomi così un tantinello confusa. 
 «Non capisco», gli dissi con sincerità, incitandolo con gli occhi a confidarsi.
Drake sospirò, il suo respiro si condensava nell'aria formando nuvole bianche che venivano spazzate via dal leggero vento che si stava alzando.
 «Ti guardano storto perché sei in mia compagnia», mi spiegò lui passando dall'avvilimento alla rabbia. «Stronzi! Staranno sicuramente dicendo che sei una pessima persona perché frequenti un tizio che ha il mio aspetto e il mio carattere. Scusami, avrei dovuto immaginarlo. Io devo allontanarmi da te. Non voglio metterti tutti contro. Faresti bene a starmi alla larga, se ci tieni ad avere una vita sociale in questo schifo di posto!»
 «Ma Drake...» allungai una mano verso di lui, come volessi afferrarlo, ma questi si era già allontanato di corsa da me, scomparendo alla mia vista dietro i vari gruppetti di studenti che si scansarono lesti non appena lui era nelle loro vicinanze. 
 «Scusami», poco dopo mi sentii picchiettare un insistente dito sulla spalla.
Mi voltai: un'incantevole ragazza, dall'aria arrogante, mi guardò con fare incuriosito. 
 «Ciao, sono Malory Hood» si presentò lei porgendomi la mano. Dietro di lei c'erano delle ragazze che ci fissavano e parlottavano portandosi le mani sulla bocca, cosa che mi fece sentire ancora più a disagio.
 «Tracy Barlow», le risposi stringendole la mano di rimando. Impacciata, incominciai a camminare nel tentativo di eluderla, ma Malory mi seguì, imitando la mia andatura che si fece più sicura e un po' veloce.
Malory non portava i guanti, notai che ero l'unica a indossarli, lei aveva anche le unghie lunghe e ben curate da sfoggiare.
La sue mani erano assai scheletriche e con lo sguardo abbassato ne notai persino delle lesioni sul dorso e sulle nocche.
Malory, che mi guardò come se la stessi accusando di un crimine, le ritrasse subito, nascondendosele nella tasche del suo trench bianco e, come se niente fosse successo, tornò a incrociare le braccia al petto.
 «Credo che le nostre madri siano diventate grandi amiche», mi informò lei con la sua imperiosa voce armonica.
 «Sì», le dissi con semplicità sentendomi incapace di essere una grande conversatrice.
 «È il tuo primo giorno, no?» mi chiese lei prendendomi all'improvviso sottobraccio, cosa che lì per lì mi stranì, ma la lasciai fare ricordando che mia madre non sarebbe stata felice finché non avrei avuto degli amici. «Posso farti da guida io, sempre meglio di quel Drake Gorman!»
La osservai: Malory non doveva arrivare al metro e settanta; aveva un viso a diamante e la carnagione olivastra, anche se mi appariva piuttosto pallida in quel momento; aveva due occhi neri quasi a mandorla, che mi davano l'idea che fosse una ragazza furba, sotto delle sopracciglia folte; i suoi lunghissimi capelli sciolti erano neri e liscissimi e rendevano profumata l'aria che la circondava. 
Era davvero bellissima a livello estetico. Tutte le ragazze lì lo erano, con il loro bel modo di vestire, i tacchi e il trucco, ma lei pareva un angelo sceso in terra.
 «Cos'ha che non va Drake?» le chiesi senza riflettere. «A me sembra un tipo normale!»
Il comportamento elusivo di quel ragazzo mi aveva lasciato con diverse domande senza risposta, però: perché la sua compagnia mi avrebbe rovinato la vita sociale? Perché lo detestavano tutti? Cosa poteva aver mai fatto? Cos'aveva il suo aspetto da far spaventare le persone? 
Non è brutto per niente! Mi dissi. 
Pensai alle volte in cui Drake era venuto a casa mia, per lavorare con suo padre, e che ci eravamo trovati a chiacchierare: mi era subito parso un ragazzo intelligente e per bene. Non capivo proprio l'odio che poteva suscitare negli altri, ma era anche vero che non lo conoscevo a fondo. 
 «Cos'ha che non va? Direi tutto!» mi rispose Malory, ma al mio guardarla accigliata, si decise a spiegarmi quelle che dovevano essere le ragioni generali di tutti. «Dico, lo hai visto da te! In questa cittadina siamo tutti un po', come dire, abbastanza simili. Drake è diverso! Vuole essere diverso!»
 «In cosa?» le domandai forse con troppa insistenza. «È un bravo ragazzo!» lo difesi. «O mi sbaglio?» cercai di carpire più informazioni possibili.
 «Certo, lo è, ma...» Malory abbassò la voce, si guardò intorno come volesse accertarsi che nessuno ci ascoltasse. «Il fatto è che lui è tatuato! È un punk, un ribelle. Ritiene necessario manifestarlo coi suoi capelli viola e il suo stile. Qui nessuno si veste in modo indecoroso. Drake è l'unico che ha osato marchiarsi la pelle con dei tatuaggi. E la cosa più malvista in questa città è che lui...» Malory sospirò e avrei detto persino di averla vista intristita. «Non parliamo più di lui, va bene?» mi chiese, ma mi parve più un ordine il suo, che una domanda.
Stavamo per entrare nella scuola quando entrambe ci voltammo al grido di un ragazzo:  «Dagli una lezione, Willows!»
 «Oh, no!» fece Malory allarmata. «Scusami,» mi disse senza guardarmi, «ma devo fermarli! No, Dick!» urlò il nome di un ragazzo alto e dai capelli castani. «Drake! Fatela finita!»

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Capitolo 8
*** 7 - Problemi ***


7 – Problemi
 
Pov Drake Gorman
Sentivo la necessità di fumare una sigaretta, dopo essere scappato via da Tracy senza darle troppe spiegazioni.
Nella mia testa si presentarono diversi pensieri, uno in particolare attirò la mia attenzione: Tracy era l'unica, oltre mio padre, in quella schifosa città con la mentalità da gregge di pecore, a trattarmi come un essere umano, come una persona vera. 
Quella ragazza tranquilla non si era mai mostrata spaventata dal mio aspetto che, a detta altrui, faceva scappare la gente. Forse, e solo al principio, l'avevo vista intimidita da me, ma dal mio modo di approcciarmi, non dalla mia persona. Tracy non aveva mai dato ascolto alle chiacchiere che giravano su di me, voci che la stessa madre di lei le ripeteva a voce alta anche in mia presenza. 
Mi chiesi se non avessi fatto male ad allontanarla da me.
 «Eccolo là! Ehi, Gorman!» la metallica e boriosa voce di Dick Willows mi giunse alle spalle facendomi scattare in allerta, la rabbia cominciò a ribollirmi dentro, istintivamente serrai i pugni.
Con la sigaretta in bocca, mi voltai verso quello spilungone sul metro e novanta di Dick, mostrandomi divertito dalla sua presenza. 
Come quasi ogni giorno, il ripetente giocatore di pallacanestro, che ci teneva a far capire che fosse lui il capitano, si era vestito con la tuta della sua squadra: un misto di colori bianco e rosso che non gli stavano per niente bene con quel colorito latteo che si ritrovava. Scoppiai a ridere.
 «Che hai da sghignazzare così, Gorman?» continuò a provocarmi Dick, nonostante io avessi deciso di ignorarlo andando avanti per la mia strada. Questi mi si piazzò davanti con fare minaccioso. «Ti ho visto in giro con quella balenottera prima. Cos'è quella cosa tutta vestita di nero? È la tua nuova ragazza? Magari così starai alla larga dalla mia!»
I suoi due tirapiedi, oltre che incapaci compagni di squadra, risero alle battute velenose del loro leader.
 «Sta zitto, idiota! Non devi neanche guardarla Tracy! Perché è così che si chiama: Tracy! Chiaro?» ordinai a Mick, per poi rivolgermi con strafottenza alle sue guardie del corpo, prima che questi potesse ribattere qualcosa. «Conan, Josh, l'aver compreso una delle tante fesserie che escono dalla bocca del vostro amico, deve essere stata per voi un'impresa titanica. Dimmi, Josh, stamattina hai consumato tutto il gel di Snowy Mountain per quei tuoi capellacci neri? Ti sei reso conto poi che non è notte? Non sapevo che i vampiri uscissero anche di giorno! E tu Conan, quel codino biondo, e quei muscoli gonfiati a dismisura, non distrarranno la gente dalla tua perenne espressione da ebete. Dimmi un po', ci sei o ci fai? Credo più la prima.» 
 «Diamine! Ma come ti permetti?» mi urlò contro Conan con la sua voce stentorea. «Sei finito!»
 «Mick!» lo chiamò Josh “il vampiro”. «Ma mi sta prendendo in giro? Io non sono un vampiro! Perché lo ha detto?»
 «Questo deficiente deve capire chi comanda per davvero!» Mick si scrocchiò il collo e le dita delle mani. «L'ultima volta, è evidente, non gli è bastata!»
 «Dagli una lezione!» udii urlare da qualcuno, ma non ebbi il tempo di riconoscere la voce che schivai lesto un destro di Mick.
*
 «No, Mick!» la voce allarmata di Malory giunse alle mie orecchie facendomi distrarre dallo scontro. «Drake! Fatela finita!» la ragazza prese Mick per un braccio e lo guardò con fare implorante. «Ti prego, lascialo andare!» gli disse quasi con le lacrime agli occhi. «Fallo per me. Ti supplico!»
 «Sta zitta, tu!» le rispose lui, scrollandosi infastidito la sua mano di dosso, ma fermandosi. «Non ti impicciare!»
 «Non le parlare così!» rimproverai quel vile, mentre Malory si frappose tra di noi, nonostante Mick le avesse chiarito che doveva andarsene. «Stai bene?» le chiesi sottovoce accarezzandole i capelli e guardandola negli occhi, odiavo vederla così spaventata e sul punto di piangere. «Malory...»
 «Stai tranquillo», mi rispose lei scuotendo la testa. «Vi prego...» e ripeté la stessa scena con me. «Smettetela, fatelo per me!» 
 «Perché lui dovrebbe fare qualcosa per te?» si ingelosì Mick, i suoi occhi si spalancarono e le narici si dilatarono come stessero espirando fiamme incandescenti. «Allora è vero: c'è qualcosa tra voi due! Mi tradisci con questo vigliacco! Sta alla larga dalla mia ragazza, Gorman: Malory è mia! Capito? Mia!» 
 «Per ora!» affermai senza la minima traccia di umorismo.
Mick era pronto a reagire, ma per qualche ragione si trattenne.
 «Che succede qui? Andate tutti in classe, svelti!» disse una donna austera sulla quarantina che ci stava raggiungendo con passo svelto.
Ora capisco! Mi dissi. Che furbo che sei, Mick! Davvero furbo!
La preside Eva Jones era una signora elegantemente vestita, coi capelli biondi sempre raccolti in uno chignon basso, la carnagione chiara e due freddi occhi azzurri. Si avvicinò a noi, ma prese a guardare male solo me.
 «Gorman!» pronunciò il mio cognome con astio, tenendo incrociate le sue mani al petto. Il completo grigio che indossava la faceva sembrare più la direttrice di un carcere, che la preside di una scuola. «Sempre il solito. In presidenza! E voi altri in classe!»
Stavo per avviarmi controvoglia, e per la milionesima volta, verso l'ufficio di quella strega. Mick e i suoi amici risero allegramente.
 «Mi scusi!» riconobbi subito la voce dal timbro nasale di Tracy. «Perché in presidenza ci deve andare solo Drake? È stato quell'altro ragazzo a cominciare!»

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Capitolo 9
*** 8 - La preside ***


8 – La preside
 
Pov Drake Gorman
Immaginavo già le vendette, ideate ai danni di Tracy, che Mick e i suoi tirapiedi stavano formulando a mente: sapevo quanto poco, i tre, gradivano finire nei guai. Lessi loro in viso quanto tentavano di mascherare l'ira crescente. Persino sulla faccia bianca del vampiro vidi un leggero rossore causato dalla rabbia. 
Perché mi stai difendendo, Tracy? Mi domandai. Devo fare qualcosa per salvarti da questa situazione.
 «No, signora preside!» attirai su di me le attenzioni della donna e del capitano della squadra di pallacanestro. «Ho cominciato io e ho fatto tutto da solo!»
Conan e Josh intanto studiavano Tracy, con delle espressioni stupide e irritate, mentre lei cercava di ribattere qualcosa, ma il mio guardarla negli occhi, in maniera diretta e senza sbattere le palpebre, la fece un attimo desistere. 
 «Certo che sei stato tu!» affermò la preside sdegnata, scuotendo la testa. «Sei sempre tu, piccolo delinquente. In galera dovresti stare, a marcire con la feccia come te. Andiamo. Dick, vai in classe!» dal tono rabbioso passò con l'ultima frase a un tono assai più pacato, quasi dolce.
 «Certo, signora. Come desidera», le rispose Dick sfoderando un sorriso soddisfatto e facendole un occhiolino. «Entriamo, ragazzi! Ormai sono tutti dentro!»
 «Non è giusto!» parlò nuovamente Tracy. «Signora preside! Ammesso che sia stato Drake a iniziare, cosa non vera, perché in presidenza deve andarci solo lui? Quei ragazzi anche erano coinvolti nella rissa! Non sono innocenti!» 
 «Tracy, no!» le dissi sottovoce, con i denti serrati. Trovai quasi irritante la sua ingenuità: davvero credeva che qualcuno potesse non darmi la colpa a prescindere? Un po', però, il pensiero della sua innocenza, mi intenerì, facendomi sorridere internamente. 
Non sa come funzionano le cose qui, in questo schifo di città! 
La preside la guardò con superiorità. Anche se portava scarpe col tacco, era lo stesso abbastanza alta.
 «Tu chi saresti?» le chiese schifata come se si fosse trovata davanti un cane randagio con la rogna.
 «Tracy Barlow», le rispose intimidita la ragazza accanto a me. «Sono nuova. È il mio primo giorno.»
 «Allora congratulazioni, signorina!» la preside sfoderò il suo sarcasmo accompagnato dal suo rinomato sorrisetto sadico. «Neanche cominciato e sei stata già convocata anche tu in presidenza! Dalla pessima compagnia che hai scelto, mi è bastato uno sguardo per capire che anche tu sei una poco di buono. Ora, seguitemi tutti e due nel mio ufficio!»
*
Conoscevo fin troppo bene quella stanza dalle pareti beige, con le crepe sul soffitto e le finestre incrostate da decenni di polvere: il ficus all'angolo era deceduto da anni; piazzati ai lati opposti, i due quadri, raffiguranti entrambi il fondatore di Snowy Mountain, fissavano sia me che Tracy con quei penetranti occhietti marroni, giudicandoci e intimidendoci; la vissuta scrivania, che tanto di male aveva da raccontare, se ne stava davanti alle finestre, sovraccaricata di carte e documenti tenuti in perfetto ordine: non una penna o un foglio di un millimetro fuori posto. 
Maniaca del controllo! La insultai mentalmente.
 «Voi due restate seduti qui!» ci ordinò la donna, prendendo un fascicolo da uno scaffale grigio situato sotto uno dei due quadri, fulminandoci coi suoi occhi azzurri poco truccati. «Torno subito! Gorman, non fare, e non toccare, niente! Capito?» 
La raggelai con gli occhi, dicendole: «Certo che ho capito: non sono un ritardato!» 
La donna indignata uscì dalla stanza sbuffando rumorosamente e chiudendo la porta con decisione e forza. 
 «Tracy, non dovevi difendermi!» le dissi più rilassato, e alquanto dispiaciuto, una volta rimasti soli in quello ufficio deprimente. «Così ti metterai tutti contro!» 
 «Quello a cui ho assistito è orribile e ingiusto!» mi rinfacciò lei senza guardarmi in faccia. I suoi occhioni verdi persi nel vuoto. «Non ci volevo venire in questa città! La gente è cattiva! Sono molto peggio di come me li hai sempre descritti tu. Credevo non potesse essere concentrata così tanta malvagità in un unico luogo, eppure mi sono sbagliata!»
Seduta anche lei su una scomoda seria marrone, Tracy aveva sul volto un'espressione talmente assorta e impenetrabile che fui quasi tentato di chiederle a cosa stesse pensando.
 «Tracy,» insistei io con educazione, «non vuoi avere degli amici? Tua madre ti ha portata qui per questo, in fondo. Me lo hai detto tu. Se continuerai a stare con me...»
 «E io dovrei voler essere amica a delle persone del genere?» mi domandò lei accalorandosi. Da quando la conoscevo non l'avevo mai vista così tenace, la trovai molto carina. «Ripeto, quello che ho visto non mi è piaciuto per niente! Non voglio nella mia vita persone che fanno di queste cose!»
 «Mi dispiace che tu abbia dovuto vedere questo lato di me!» le confessai un po' avvilito. Evitai di toccarla per timore che mi potesse respingere. «Purtroppo sono anche questo.»
Immaginai che, dopo il mio essermi allontanato da lei di corsa e l'avermi visto coinvolto in una rissa, Tracy si fosse fatta un'idea piuttosto pessima di me. 
Non avevo bisogno di tenermi alla larga da te! Mi dissi. Ti saresti dileguata da sola col tempo! 
 «Che dici?» mi rimproverò lei. «Ti sei difeso! Non nel modo giusto, questo no!» dalla sua espressione illeggibile non capii se stesse per farmi un complimento o se provasse semplicemente pena per me. «I buoni si preoccupano degli altri, invece che per loro stessi... Tu sei buono! Ho visto come eri in pensiero per quella ragazza... per Malory.» 
 «Tracy», cominciai a parlare, ma la verità era che non sapevo proprio cosa dirle. Mi limitai a poggiarle una mano sulla spalla.
 «Non mi importa di come potrebbe reagire mia madre», disse lei dopo un attimo di silenziosa riflessione. «Preferisco avere un solo amico vero, che circondarmi di gente falsa e cattiva.»
Mi guardò con un sorriso sincero che ricambiai presto.
 «Quella strega narcisista di tua madre», le dissi cercando di non apparire troppo duro, «non sarà affatto contenta di saperti mia amica!»
 «Io voglio te come amico!» mi disse decisa, facendo dei cenni col capo. «Se anche a te sta bene la mia amicizia, ovvio!»
 «Stai scherzando?» le chiesi estasiato. «Certo che lo voglio anch'io!»
Tracy arrossì leggermente e, porgendomi la sua mano, mi disse: «Allora, amici».
 «Amici», ripetei io pensando che Tracy era davvero la prima e unica persona che mai mi aveva fatto una simile proposta.  
La mia gioia però durò poco. La porta dietro le nostre spalle si riaprì con violenza.
La preside prese posto davanti a noi, un sorriso malvagio le incattiviva il viso.
Che cosa hai appena fatto, bastarda? Le domandai a mente, fissandola irato con un sopracciglio alzato.
 «Ho chiamato i vostri genitori!» esclamò lei fiera, dando una risposta al mio quesito mentale. «Ho trovato sia tuo padre, Gorman, che tua madre, signorina Barlow. Stanno venendo a prendervi. Siete sospesi!» 

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Capitolo 10
*** 9 - Vergogna ***


9 – Vergogna
 
Pov Tracy Barlow
Non riuscivo a capacitarmene: la preside mi aveva sospesa! E per di più neanche cominciato il primo giorno di scuola.
Deve esserci un errore! Pensai allarmata. 
Nella mia mente si stavano già formando i vari scenari in cui mia madre mi avrebbe definita “una vergogna”, sapevo bene che avrei dovuto subire ore e ore di lamentele da parte sua: mi avrebbe ricordato che disapprovava la mia simpatia per Drake, mi avrebbe rinfacciato di trovarmi amici più rispettabili.
 «Sospesi per cosa, esattamente? Perché le stiamo sul cazzo?» le domandò Drake furibondo, esponendo a voce i pensieri che non volevo esternare e dandogli un tono anche più volgare dei miei. 
Osservarlo mentre tentava di trattenere un'ira crescente, seduto alla mia destra, mi fece provare un moto di empatia nei suoi confronti: entrambi stavamo ricevendo una punizione esagerata e priva di alcuna logica. 
Drake aveva la mascella serrata e stringeva così forte i pugni, poggiati sulle ginocchia, che temetti potesse conficcarsi le unghie mangiucchiate nei palmi. 
D'istinto gli poggiai la mano sulla sua, gesto che capii non si aspettava da me, dato il suo leggero sobbalzo, ma che gli fu gradito in quanto sentii le sue dita rilassarsi a quel contatto. 
 «Per aver dato il via a una rissa!» rispose la donna soddisfatta e con un sorriso arrogante a farle da contorno. Mi guardò con fare indignato e con un'aria di superiorità che mi fece sentire alquanto a disagio. «Mi aspettavo una nuova alunna più decente,» mi disse con sufficienza, «ma ora so che ho a che fare con un pessimo elemento. Le cattive compagnie che frequenti la dicono lunga su di te.»
 «Drake non è una cattiva compagnia!» ribattei con audacia per poi sentirmi in imbarazzo per essermi mostrata così sfacciata. «Sono stati quei ragazzi a... Perché non chiedete a Malory Hood com'è andata? Ha cercato di fermarli tutti!»
La preside si alzò e cominciò a camminare per la stanza divertita, per poi dire: «Ma guardatela come difende questo criminale! E come cerca di mettere in mezzo una ragazza rispettabile come Malory.»
 «Tracy!» mi chiamò Drake, sentivo di essere sul punto di piangere dinanzi a quell'insensibilità che mi veniva rivolta e a cui non ero abituata. «Lascia perdere la preside: è una stronza!» e lo disse anche in modo che la donna potesse udirlo. «Non solo è prevenuta nei miei confronti da sempre, e ora lo sarà anche con te, ma non farà mai passare i guai a quel Mick! Non è così? Signora Jones, la scrivania sa di che parlo... Quel ventenne passa molto tempo qui dentro, no?» 
Vidi il volto della donna passare dal rosa pallido a un rosso fuoco intenso, la rabbia le ribolliva dentro che quasi immaginai vederle fumare le orecchie come una pentola a pressione.
 «Fuori di qui, animale!» disse la donna puntando il dito verso la porta. «Se non ti caccio da qui è solo perché tuo padre è un brav'uomo! Perché gli è dovuto uscire fuori una bestia come te? Per fortuna tua madre non c'è più! Ora sparisci dalla mia vista. E tu,» rivolse i suoi gelidi occhi azzurri su di me, «piccola sgualdrina, vattene anche tu se non vuoi una punizione peggiore di una sospensione! Fuori!» 
Non me lo feci ripetere due volte, mi alzai dalla scomoda sedia su cui ero seduta e uscii dall'ampia porta che si richiuse con un rumore assordante alle mie spalle.
 «Ma che ti è saltato in testa di dirle, eh?» chiesi a Drake in ansia al pensiero di tornare a casa e affrontare mia madre.
Con mio padre, pensavo, sarebbe stato più facile, era di gran lunga più comprensivo: gli avrei raccontato la verità e lui mi avrebbe fatto capire di aver compreso facendo un cenno con la testa.
 «Mettere in mezzo... Drake, non darle peso! Quando una persona parla per cattiveria...» cominciai a dire, carezzandogli il braccio nel tentativo di fargli capire che le ero vicina, nonostante non sapessi esprimermi al meglio: Drake mi aveva accennato alla morte della madre, a quanto male ancora gli faceva parlarne.
Stavo odiando la preside: non potevo credere che quella donna avesse affermato che era una buona cosa che la madre di Drake fosse morta. Ero così indignata, mi morsi l'interno della guancia per il nervoso. 
 «Ho detto le cose come stanno!» si impuntò Drake sbuffando, aveva uno sguardo assente. «Adesso ho voglia di fumare una sigaretta! Usciamo dai.»
Non avevo il coraggio di dirgli che non sopportavo la puzza del fumo prodotto dalle sigarette accese, ma lo seguii ugualmente fino al portone che faceva sia da entrata che da uscita di quell'orrido istituto.
L'aria gelida di quella mattina mi punse le guance.
A mente, cercai di formulare dei dialoghi che avrebbero portato mia madre a comprendermi, ma più provavo e più capivo che era un'impresa impossibile: Zaya Barlow avrebbe dato peso solo alla sua opinione e ai suoi stessi pensieri.
Drake dovette notare che ero nervosa, mi avvolse la spalla col suo braccio consolatore.
 «Non è la fine del mondo», cercò di tirarmi su, «c'è di peggio che essere sospesi ingiustamente!» e da come me lo disse, intuii che c'era qualcosa che stava tenendo segreto.
*
 «Sei una vergogna!» mi gridò contro mia madre dopo neanche cinque secondi che avevamo varcato la soglia dell'ingresso. «E, lei,» si rivolse al signor Gorman che aveva fatto la strada con noi, mentre Drake aveva accelerato il passo finendo col dileguarsi. «Vada al piano superiore a sistemare quelle maledette tubature del bagno!» 
 «Mamma, io...» provai a parlarle, una volta rimaste sole.
 «No, Tracy!» mia madre mi diede le spalle. «Mi disgusti! Sei imbarazzante! Ma come si fa a essere espulsi da una scuola, senza neanche avervi messo un piede dentro, eh? Me lo spieghi?»
 «Sospesa...» cercai di interromperla, ma mia madre, entrata in cucina, prese un mestolo in mano continuando a parlare e ad agitarsi davanti ai miei occhi. 
 «Ho una figlia davvero sfigata! Che cosa ho fatto di male, eh? Hai preso da tuo padre! Su questo non c'è dubbio. Due falliti siete! Sono circondata da perdenti!»
Più mia madre alzava la voce e più mi sentivo in imbarazzo: il signor Gorman, al piano superiore, ero certa che non avesse alcuna difficoltà nell'udire le cattiverie gratuite che mia madre sbandierava con furia.
 «Mamma, mi dispiace!» le dissi cominciando a piangere, vederla così irata mi procurava sempre un grande dolore, accompagnato da un senso di colpa pressante per rimediare al più presto al suo cattivo umore.
 «Ti dispiace? Che originalità!» lanciò il mestolo contro un quadro facendolo cadere rovinosamente a terra. «Tu non mi vuoi bene, mi vuoi far solo stare male! In questo momento ti afferrerei per i capelli e ti trascinerei giù, lungo tutta la strada, per buttarti dalla scarpata più vicina. Che schifo che mi fai!»
Subito dopo, inspirò ed espirò con lentezza, come volesse ricomporsi per mostrarsi al suo meglio; mi sfoggiò un sorriso a trentadue denti che, immaginai, potesse far innamorare di lei qualunque uomo.
 «Tesoro,» mi poggiò le mani scheletriche e pallide sulle spalle: quando usava il tono dolce, la trovavo più spaventosa che nei suoi momenti di ira. Incominciai a tremare involontariamente. «Voglio il meglio per te, lo sai?»
Aspettava che le rispondessi e così feci un cenno d'assenso col capo.
 «Voglio che tu abbia degli amici, amici veri!» aggiunse con tono affettuoso, ma lasciandomi intendere che era un ordine al quale non avrei potuto disobbedire.
Ho trovato un amico, un amico vero! Pensai. Tu lo disapprovi e, da quello che ho visto, Drake è uno dei pochi, in questa città, che merita davvero la mia amicizia. 
Mia madre aggiunse: «Quel teppista di Drake Gorman non rientra in questa categoria».
Cercai di mostrarmi convinta, fingendo un sorriso: «Hai ragione!» le mentii con la consapevolezza che mi sarei dovuta andare a confessare al più presto. Sentivo già il pentimento farsi largo dentro di me, facendomi provare vergogna per il mio non essere stata sincera.
Una volta che mia madre si sentì soddisfatta dalla mia risposta, se ne tornò in salotto a sistemare la stanza per poterla rendere più accogliente nell'ospitare le sue amiche quello stesso pomeriggio: dispose vasi, con tanti fiori colorati, in vari angoli strategici della stanza. 
Mio padre scese le scale in quel momento, si reggeva alla ringhiera a stento e si muoveva con passo traballante. 
Era in pigiama, pallido al punto da sembrare un fantasma. Ebbi l'impulso di dirgli di tornarsene subito a letto, correndogli incontro, ma questi venne verso di me e allargò le braccia. Il suo volto era affranto. Mi strinse a sé accarezzandomi i capelli e facendomi piangere in silenzio tutte le lacrime che avevo trattenuto in quell'orrida mattinata. 

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Capitolo 11
*** 10 - Negazione ***


10 – Negazione
Pov Tracy Barlow
Mi rinchiusi in camera, con gli occhi ancora gonfi a causa del pianto: la solidarietà ricevuta da mio padre non mi era bastata. 
Stavo esplodendo di tristezza, avevo bisogno di sfogarmi ancora: piangere in silenzio mi aveva tolto un gran peso, ma mi sentivo ancora schiacciata.
Tutto quello che era accaduto quella mattina, mi fece sentire sola e in modo negativo.
Mi era sempre piaciuta la solitudine, ma un conto era scegliere di stare in pace con sé stessi, un altro era non avere nessuno al mondo che potesse comprenderti e in quel momento mi sentivo come se nessuno avesse il potere di capirmi.
Drake mi leggeva dentro, pensavo, ne ero certa, sapeva cosa provavo, ma se n'era andato via lo stesso, lasciandomi in balia di una madre che non faceva altro che darmi della perdente.
Come biasimarlo? Affermai. Anche lui è terrorizzato da quella donna!
Presi a camminare per la mia nuova camera, che non sentivo davvero mia, con un sentimento di rabbia che mai avevo provato prima. Odiavo quella città e i suoi abitanti dalla mentalità distorta, detestavo quelle bufere di neve troppo frequenti, non sopportavo quella casa da buttare giù. 
Affacciandomi alla finestra, per distrarmi, notai i vicini della casa di fronte che mi fissavano con insistenza: il fatto che fossero alla mia stessa altezza poi, regalava loro una visuale perfetta della mia angoscia crescente.
Chiusi le tende con un gesto così scattante che mi caddero addosso.
 «Accidenti!» esclamai atterrando a terra.
Non riuscivo a darmi pace in quel momento, non potevo non chiedermi se mia madre stesse facendo davvero i miei interessi o se si stesse solo occupando dei suoi. Mi aveva mai ascoltata sul serio? Mi voleva almeno un po' di bene?
Mi alzai in piedi, volevo sfogare la mia tristezza sulle pagine del mio diario, ma inciampai col piede sopra le tende rimaste sul pavimento. Atterrai sulla lampada che trovai rotta a terra. 
 «Perché mia madre è entrata qui per rompermi la lampada?» mi domandai a voce alta portandomi il palmo della mano alla bocca.
I cocci mi avevano ferito le mani. Il bruciore per quei tagli era intenso.
Il mio primo impulso fu quello di trovare un disinfettante per evitare così una qualche infezione nefasta che avrei potuto contrarre in quella casa sudicia.
Uscii dalla mia stanza per dirigermi in bagno quando, dal corridoio, udii mia madre ridacchiare con fare civettuolo. 
 «Ma cosa mi dici?» la sentii domandare allegramente. «Ancora? Ma sei un birbante! Certo che ne hai di fantasia, eh! So essere ingegnosa anch'io!» 
Non riuscii a comprendere con chi mia madre potesse parlare in casa, o del perché stesse usando quel tono, non udivo altre voci oltre la sua. In principio, credetti stesse cercando solo di sedurre mio padre, ma affacciandomi con cautela dal piano superiore, vidi che lei era al telefono, da sola. 
Zaya Barlow se ne sta lì, in piedi, che si rotolava tra le dita esili una ciocca di capelli e sorrideva come una liceale che si era presa una cotta. 
 «Vedremo, vedremo!» disse poi passandosi la lingua sui denti. «Non sai ancora con chi hai a che fare!» aggiunse, ma dal suo tono malizioso capii che l'affermazione appena fatta non era in assoluto una minaccia. 
Avvertii un'improvvisa nausea disturbarmi lo stomaco, un rigurgito acido mi salì su per la gola facendomi provare una forte sensazione di bruciore. 
Sperai con tutto il cuore che fosse solo la mia immaginazione a farmi fraintendere la situazione e che ciò che avevo appena ascoltato non fosse reale. 
La mano! Ricordai all'improvviso. Le infezioni!
Con uno scatto veloce, ma silenzioso, mi diressi subito in bagno a medicarmi.

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Capitolo 12
*** 11 - Amore disapprovato ***


11 – Amore disapprovato

Pov Drake Gorman
Pensavo a Tracy, a quello che per lei era stato un assaggio di un primo giorno di scuola che non avrebbe mai dimenticato, nemmeno con una seduta di elettroshock; a come mi ero defilato per evitare quella pazza della madre che, pur di non smettere di guardarmi di traverso e con totale disprezzo, preferiva rischiare di scivolare, con i suoi tacchi, sulle lastre di ghiaccio e di farsi quasi investire da un camion che trasportava legna. 
La mia nuova e unica vera amica aveva piazzata sulla faccia un'espressione assai abbattuta, mentre mi allontanavo da lei, tanto che le nuvole su di noi apparivano quasi più grigie, rispetto alle altre, per l'energia negativa che lei stessa sprigionava. 
Immaginai subito che Tracy avesse timore di quella pazza che si era ritrovata per madre. Non riuscivo a capire come quel bravo uomo di Arthur Barlow (perché si vedeva che fosse un tipo a posto, anche se silenzioso) si fosse potuto far incastrare da un'arrivista come quella strega. 
Eppure, il signor Barlow non dà l'idea di essere un superficiale che, visto un bel visetto, cade preda di un incantesimo.
Avrei voluto restare con Tracy, ma sua madre non avrebbe gradito la mia presenza ancora a lungo: la immaginavo in preda all'isteria che mi avrebbe rincorso per strada, con qualche arnese in mano, dando spettacolo di sé trapanando i timpani di tutti gli abitanti di Snowy Mountain. Sapevo che lei mi riteneva responsabile delle sospensione di sua figlia, della stessa Tracy che era stata sospesa solo per essermi amica. 
Superai la vecchia villa dei Farlow in tutta fretta e invece di scendere giù, lungo la strada che mi avrebbe condotto a casa mia, ritornai indietro verso la scuola, prendendo un'altra deviazione.
Ritenendo che mio padre sarebbe stato costretto a lavorare alla catapecchia dei Barlow, e avendo io ricevuto in regalo tutto quel tempo libero, ne approfittai per avvantaggiarmi con gli altri lavori che avevamo lasciato in sospeso a causa di Zaya Barlow.
Alla vista del cancello dell'istituto scolastico, proseguii per un altro paio di minuti, lungo una via quasi deserta e circondata solo da pini, per poi scendere verso i quartieri ricchi della città. Un paio di auto mi sfrecciarono davanti e, se non fosse stato per il mio camminare sul marciapiede, sarei stato investito. Oltrepassando due grossi edifici sulla sinistra, e riflettendo sul come fosse stata costruita a caso quella città, con palazzi e casette a schiera messi alla rinfusa, mi avvicinai sempre di più a una grossa villa alla mia destra. 
Aprii il cancello di ferro riverniciato, e mi diressi dritto verso il grande portone verde, attraversando il giardino curato e tutto imbiancato dalla neve di quella notte.
 «Sì?» sentii qualcuno rispondere al citofono.
 «Sono Drake Gorman, ci avevate chiamati, un paio di giorni fa, per un lavandino della cucina...» non conclusi la frase che qualcuno aprì la porta.
Mi aspettai di trovare la signora Hood, impeccabile come sempre, coi suoi capelli neri e lisci e le sue camicette eleganti, magari intenta a nascondere il signor Willows in bagno per non far sapere a nessuno di quella sua frequentazione, di cui tutti erano lo stesso a conoscenza, persino suo marito, ma ad aprirmi invece era stata una sua versione più giovane e, a mio parere, assai più bella: Malory. 
 «Che fai qui?» le chiesi scandagliando l'interno lussuoso della casa, alla ricerca di un'altra presenza oltre la sua.
 «Sono uscita prima», mi disse lei, facendomi cenno di entrare, «non mi sentivo bene.»
 «Tua madre è qui?» le domandai aspettando di vederla spuntare da dietro qualche parete. «Tuo padre?»
Mi rispose a voce bassa: «Sono sola».
Non persi tempo: avvolgendo un braccio dietro la sua schiena, la attirai a me e la baciai, le divorai con avidità quelle labbra deliziose che aveva.
Malory si ritrasse, spingendomi con delicatezza le mani contro il petto.
 «Ti prego,» mi sussurrò lei a disagio, «non farmi fare questo. Ho un fidanzato! Dio non approverebbe!»
 «Malory...» la lasciai subito, prendendole il volto tra le mani e guardandola fisso negli occhi col desiderio ardente di baciarla ancora. «Siamo entrambi maggiorenni e...» esitai un attimo, «non siamo nuovi a queste cose!»
 «Ora è tutto diverso!» ribatté lei spintonandomi per mettere distanza tra noi. «Non posso farlo. E poi c'è il mio fidanzato... Mick non...»
 «Hai il coraggio di chiamarlo fidanzato quello? Lascialo!» le dissi carezzandole le guance tiepide con dolcezza. «Malory, io ti amo!»
Il suo abbassare lo sguardo in quel momento, e il suo sospirare con mestizia, intuii essere il suo modo di dirmi che mi amava anche lei, ma che la situazione non era delle migliori.
 «Drake,» cominciò a parlarmi poggiando le sue mani sulle mie, il suo tocco amorevole mi fece venire ancora più voglia di baciarla, ma mi trattenni, «sai che non posso farlo. Mick...» si rabbuiò sciogliendo il nostro tocco, mi diede le spalle e si diresse verso il salotto. «Mick non ne sarebbe contento: si vendicherebbe di me, ferendo te e questo non lo sopporterei. Mia madre non vorrebbe mai che io lo lasciassi, lei non sa che lui... Ti prego, Drake, è tutto così difficile per me! Possibile che non capisci quanto mi fa male questa situazione?»
Come in tante altre case, in cui avevo lavorato con mio padre, quella stanza si presentava in maniera impeccabile: non un mobile fuori posto, non un granello di polvere visibile.
 «Malory!» le corsi dietro e la feci voltare verso di me poggiandole una mano sulla spalla. «Non ce la faccio più a vederti soffrire per un tipo del genere, per tua madre che si aspetta troppo da te...» stavo parlando senza riflettere, ma al tempo stesso sapevo che ciò che dicevo era dettato dal mio cuore. «Andiamocene da questa città! Tu e io!» le proposi all'improvviso lasciandola di stucco. «Ricominciamo daccapo in un altro luogo. Sono certo che ti farebbe bene allontanarti da questa gente, da questo ambiente...»
 «Tu sei completamente pazzo, Drake... Non potrei mai fare una cosa così. Non posso!» mi rispose lei indignata, abbandonandosi però tra le mie braccia. «Non potrei mai! È impossibile», continuava a ripetermi, fuggendo i miei occhi che volevano solo restare incatenati ai suoi.
 «Invece puoi!» ribattei io sempre più convinto di realizzare il mio proposito. I suoi capelli sotto le mie mani risultavano così soffici che li avrei accarezzati in eterno. «Malory, io saprò amarti, saprò prendermi cura di te. Non ti farò mai mancare niente, ti amerò con tutto me stesso...»
 «Ti prego,» si staccò da me cercando di mostrarsi indifferente, eppure, da quello sguardo che conoscevo bene, sapevo che voleva che la baciassi ancora, «non insistere!»
Il rumore di una porta che si apriva, ci fece scattare sull'attenti.

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Capitolo 13
*** 12 - Rifiutato ***


12 – Rifiutato
 
Pov Drake Gorman
Cornelia Hood era entrata in casa con una busta della spesa stretta tra le braccia esili, la vidi di sfuggita mentre Malory mi spingeva in cucina.
 «Fa vedere che eri qui per lavorare e non per me!» mi disse Malory sottovoce, poco prima che la donna entrasse nella stanza. «Gli attrezzi di mio padre sono sotto il lavandino!»
 «Cosa sta succedendo qui?» domandò la donna alla figlia, non appena ebbe notato la mia presenza. I suoi occhi astiosi erano puntati su di me, crudeli e carichi di veleno. «Malory che ci fai a casa? Vuoi rovinare la tua media di presenze, cominciando ad assentarti, adesso? Questa tua giornata persa non gioverà al tuo curriculum. Ricordati che hai perso già troppo tempo e la cosa non mi fa piacere raccontarla.» 
 «Mamma non mi sentivo bene e Drake... Drake Gorman è venuto per il lavandino!» le rispose la figlia passandosi nervosa una mano tra i capelli lisci e scuri, così simili a quelli che aveva la madre.
 «Perché non è venuto tuo padre? Non dovresti essere a scuola anche tu?» cominciò a interrogarmi la snob signora Hood. 
Era un'altra di quelle donne che ritenevo una strega sotto copertura tanto era bastarda.
 «E lei non ha un marito a cui essere fedele? Che fa con il signor Willows quando il signor Hood è a lavoro?» la provocai d'impulso, ma, osservando lo sguardo di disappunto di Malory, mi detti una calmata e moderai i termini. «Ci sono molti lavori da fare nella vecchia villa dei Farlow, mio padre è occupato lì!»
 «Vero,» fece la donna cominciando a sistemare i viveri nel suo costoso frigorifero, col chiaro intento di ignorare la mia insinuazione iniziale, «la casa della mia amica Zaya necessita di molti piccoli restauri!»
Piccoli... Pensai sarcastico. Come no! Quel cesso è da demolire e basta! 
Alzai indignato un sopracciglio mentre, allungato di schiena a terra, armeggiavo col lavandino per scoprire quale fosse il problema.
 «Signora,» la chiamai cercando di non apparire troppo divertito da quel problemino insignificante che avevo riscontrato, «non ha bisogno di far rifare l'intera cucina, come ha detto a mio padre al telefono: questo è un semplice caso di blocco intestinale!» la donna parve non cogliere la mia battuta, il suo condannarmi dall'alto con sguardo confuso mi diede la conferma.
 «Giovanotto,» mi insultò la donna, portandosi le mani sui fianchi come volesse prevalere su di me, mostrandosi superiore alla mia persona, «l'ironia non mi è mai stata gradita! Se tuo padre sopporta un maleducato come te, in casa sua, non significa che anche tra queste mura vi sia la stessa tolleranza. Pretendo rispetto io! Non sono come te, un mostriciattolo senza vergogna e privo di un minimo di decenza, sono una signora per bene...» 
 «Ho capito!» le risposi con un tono troppo aggressivo, sentii il piede di Malory darmi un calcetto alla gamba a mo' di rimprovero. «Mi scusi!» aggiunsi, fingendomi pentito. 
 «Sì,» disse questa con voce soddisfatta, «chiedimi scusa per essere uno screanzato!»
Digrignai i denti dal nervoso alla consapevolezza che quell'episodio sarebbe stato argomento di conversazione nella prossima riunione delle oche pettegole. 
Allungato a terra, cercando di non pensare, col volto rivolto verso il fondo del lavandino e le varie tubature, incominciai a parlarle come avrei fatto con un bambino: «Il tritarifiuti! È questo il problema! Ha capito? Una patata, direi, è rimasta incastrata proprio qui. Vuole vedere? La furbetta non è riuscita a cadere nella camera di scarico».
 «E allora?» mi rimbrottò la donna. «Non ti pago per parlare, ma per aggiustare. Risolvi il problema immediatamente, ti pagherò ciò che ti devo e poi lascerai subito questa casa, scostumato! Chiaro?»
 «Come vuole!» le risposi sarcastico mentre mi occupavo dell'evacuazione dell'intestino intasato. «Ai suoi ordini!»
Più lavoravo e più nella mia mente si fece tutto più chiaro, avevo già avuto di questi pensieri, ma in quel momento ebbi come un'illuminazione: dovevo mollare la scuola e dedicarmi solo al lavoro.
Mi tratteranno anche male, come accade a scuola, ma almeno qui mi pagano! Pensai.
Mi ero deciso, ne avrei parlato anche con mio padre.
Sì. Mi dissi, tra un ragionamento e l'altro. Gli dirò che non ho bisogno di un pezzo di carta: ho già un mestiere e sono anche molto bravo nel farlo! Quanti anni da ripetente devo fare ancora prima che capisca che la scuola non fa per me? Il lavoro, quello sì che è più alla mia portata. L'esperienza di certo non mi manca! Me ne andrò da questo schifo di città, sperando che Malory venga con me, e mi troverò da vivere altrove. Farei venire con me anche te, papà, ma so che non lasceresti mai Snowy Mountain! Qui è sepolta mia madre, tua moglie... non la abbandoneresti mai. 
Finito di operare il paziente, feci per alzarmi da terra, neanche il tempo di levarmi completamente che la signora Hood mi sbatté in faccia una banconota da cinquanta e, con una faccia che non ammetteva repliche, mi fulminò facendomi capire che dovevo andarmene all'istante. 
*
 «No!» mi urlò contro mio padre. «Tu ti diplomerai! Capito? Non voglio discuterne! Anche se dovessi riuscirci a trent'anni, ma lo devi prendere quel diploma! Non voglio sentire scuse!» 
Eravamo seduti a tavola e stavamo cenando, mio padre azzannò il petto di pollo con furia: lo avevo fatto innervosire.
In fondo speravo che, con il cibo che più adorava, a portata di denti, mio padre sarebbe stato meno critico e più cordiale nei miei confronti.
Il televisore che avevamo di fianco, buttato sul mobiletto scassato, si guardava da solo da un po' ormai.
 «Andiamo, papà!» non volli proprio mollare, non nel momento in cui mi ero finalmente convinto sulla strada da intraprendere nella mia vita. «Lavoro con te da molti anni, sai che sono bravo! Sono il migliore! E poi mi piace da pazzi aggiustare le cose! Mi tiene la mente occupata.» 
 «Io non dico che non sei capace o che tu non sia un gran lavoratore!» mi rispose sorseggiando una birra. «Anzi... Ce ne fossero di ragazzi come te!» aggiunse facendo dei cenni col capo. «Drake, non c'è fretta! Insomma, che ti costa aspettare di diplomarti, eh?»
 «Perché?» lo provocai infastidito massacrando, nel piatto, la mia porzione di patate fritte. «Secondo te quella stronza della Jones mi permetterà di arrivare al diploma? Sai che ha sospeso Tracy solo per essermi amica?»
Il vecchio Amery alzò tormentato lo sguardo su di me e mi disse: «Sì, la figlia dei Barlow, si è avvicinata a me prima che me ne andassi, per spiegarmi che gli altri hanno cominciato a provocarti... È una dolce giovinetta, quella Tracy Barlow, molto leale e tanto timida. Non è affatto come la madre, per sua fortuna. Sai...» il suo volto si rilassò un attimo, «sono contento che tu abbia un'amica. Ti farà bene e lei mi sembra davvero una con la testa a posto». 
 «Anch'io ne sono felice!» ammisi con un sorriso.
 «Sarebbe piaciuta anche a tua madre!» aggiunse mio padre con gli occhi lucidi: ogni volta che parlava di sua moglie, il vecchio Amery si commuoveva.
Mi alzai per dirigermi al telefono.
 «Drake!» mi rimproverò mio padre, tornando tutto d'un pezzo. «Finiamo almeno di cenare!»
 «Non ci metterò molto!» gli dissi mentre giravo la rotella sui numeri da comporre. «Voglio solo sapere se Tracy sta bene, se la madre non è impazzita troppo!» 
Mentre il telefono squillava però, riagganciai.
 «E se rispondesse quella strega di sua madre?» mi chiesi a voce alta facendo scoppiare a ridere mio padre.
Mi rispose con le lacrime agli occhi, continuando a ridacchiare: «Il rischio che alzi lei, per prima, la cornetta, c'è!» 
 «Ah, io la chiamo lo stesso!» mi decisi e ricominciai a girare la rotella. «Potrei anche divertirmi nel sentirla sclerare!»
Udii un borbottio di ammonimento da parte di mio padre.
 «Pronto?» mi rispose proprio Tracy, la sua voce era assai avvilita.
 «Sono io, Drake!» le dissi sorridendo. «Ehi, papà! Giù le mani dalle mie patate! Solo perché mi sono alzato da tavola, non vuol dire che puoi fregarmi la roba nel piatto!»
 «Che succede da te?» mi chiese Tracy, dal tono divertito intuii di averle risollevato un po' il morale. «Stai cenando?»
 «Sì, lasciamo stare!» le risposi ridendo sotto i baffi, per poi tornare serio. «Hai parlato con mio padre!»
 «Be', io...» la sentii titubante.
 «Grazie! Ho apprezzato che tu abbia preso le mie parti!» ed ero completamente sincero nel ringraziarla.
 «Ho detto solo la verità!» ammise lei con convinzione. «E poi siamo amici! Giusto? Non è questo quello che fanno gli amici? Si sostengono e difendono l'uno con l'altra!»
 «Certo.»
Tracy sospirò, mi sembrava nervosa: «Scusami!» mi disse agitandosi all'improvviso. «Ti richiamo più tardi, se mia madre scopre che sono al telefono, con te poi...»
 «Ci risentiamo dopo!» conclusi io la frase per lei, un po' deluso dalla brevissima durata della telefonata.
Non ho fatto neanche in tempo a chiederti come stavi! Realizzai. No, non va bene. Potresti stare molto meglio.
Ripresi posto a tavola, la mia mente era colma di pensieri e quesiti: potevo tornare in quella casa a lavorare, e per vedere Tracy, o la signora Barlow mi avrebbe cacciato non appena avessi messo piede nella sua proprietà? 
 «Finisci di mangiare, su!» mi incoraggiò mio padre avvicinandomi il piatto, solo che io non avevo più fame.

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