Prolis Perpetua - Il risveglio di Giano

di French_girl88
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** Le Terre Aride - Il risveglio ***
Capitolo 3: *** Le Terre Aride - Nemo ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***


“Ianumque ab eundo dictum, quod mundus semper eat,
dum in orbem volvitur et ex se initium faciens in se refertur”[1].
 
Una strana melodia mi destò e io riemersi, di colpo, come se fossi tornato a respirare dopo aver a lungo trattenuto il fiato. Distinsi le parole che accompagnavano la canzone, parlavano di gente in catene, di città fantasma e foreste radioattive. Intanto balenavano nella mia testa corpi crocifissi lungo sentieri battuti, folle adoranti e mura squarciate. E la canzone andava, la musica incalzava finché la visione di una donna in un lucente sfondo dorato prevalse su tutto il resto. Mi dava le spalle, vedevo solo un velo sul capo e sul collo investito dal vento che trascinava il suo profumo fino alle mie narici. Non sembrava lontana ma più mi avvicinavo e più era irraggiungibile.
A un certo punto mi ritrovai di fronte il suo viso, ancora un po’ sfocato, le sue labbra mi sussurravano qualcosa. Erano alcuni versi della canzone e raccontavano una storia di lotta e libertà, di sacrifici, di sangue e …
«… di vendetta».
Aprii gli occhi, era buio. Un debole raggio di luna filtrava da una crepa sul soffitto di pietra, dovevo trovarmi in una grotta. Faceva freddo, avevo i brividi. C’era silenzio e tesi le orecchie verso l’unico suono che riuscivo a carpire, lo sciabordio di un corso d’acqua.
Il bisogno di rinfrescare la gola arida e strozzata mi colpì così violentemente da spingermi ad alzarmi dal mio apparente stato di immobilità. I miei movimenti erano cauti e goffi, avvertivo le membra intorpidite, i vestiti erano luridi e consunti. Mi sostenni alla parete su cui rifletteva la superficie danzante di una fonte. Allora vidi dell’acqua e, come una dea tentatrice, mi invitò a tuffarmi nel suo gelido abbraccio refrigerante. I miei pensieri corsero alla strana canzone che mi aveva svegliato. Era stato un sogno, un ricordo? Era ancora potente la sensazione che quella parola, “vendetta”, mi aveva lasciato addosso. Mi infilai i pantaloni, il resto del vestiario era troppo malandato. Uscii all’esterno e mi ritrovai al cospetto di una pianura sconfinata, avvolta dal solo mantello della notte. Respirai l’aria polverosa e stranamente familiare, simile al profumo della donna del mio sogno.
Esaminai la distesa silenziosa intorno a me e mi resi conto di non ricordare nulla, né di dove fossi né di chi fossi. Mi gettai sulle ginocchia portandomi le mani alle tempie mentre una serie di frammenti di memoria mi attraversava come una pioggia di schegge appuntite, colpendomi con diapositive di pianti, spari e tripudi. Udii il crepitio delle fiamme, il vagito di un bambino e quella canzone che recitava…
«vendetta».
Eccola di nuovo quella parola, sussurrata sulla base di quella misteriosa e familiare canzone. Distesi le braccia sui fianchi serrando i pugni. Quella musica era l’unico indizio che possedevo e da cui dovevo ripartire se volevo davvero capire cosa mi fosse successo.
 

 


[1]Il mondo va sempre, muovendosi in cerchio e partendo da se stesso a se stesso ritorna”, Macrobio, Saturnalia, I, 9, 11.

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Capitolo 2
*** Le Terre Aride - Il risveglio ***


PRIMA PARTE

Le Terre Aride
 Il risveglio

Camminai per giorni, avevo visto il sole sorgere e illuminare l’immensa distesa dorata che mi circondava tre volte quando, finalmente, mi imbattei nel primo cartello stradale. Il legno era spugnoso, usurato, e le lettere incise riportavano un nome di origine latina, Ianus est. Conoscevo il latino, evidentemente, ma non avevo idea di dove lo avessi imparato. Nel sentiero che conduceva alla strada maestra, scorsi numerosi cippi miliari con iscrizioni e fregi erosi dal tempo. Contenevano per lo più formule sacre che benedicevano il cammino dei viandanti. Sapevo cosa fossero perché le avevo già viste in passato…
Il territorio era arido, la vegetazione per lo più caratterizzata da arbusti rinsecchiti ed erbacce semigrasse. Inoltre, si era rivelato anche piuttosto instabile a causa dei venti che soffiavano tanto violentemente da cambiare la sua conformazione geografica. Le montagne erano lontane e a malapena visibili nella coltre polverosa degli altipiani che si estendevano per centinaia di chilometri.
A un certo punto, intravidi un piccolo villaggio fortificato dove sperai di trovare riparo. Ero stordito, affamato e terribilmente assetato. Ovunque mi voltassi non vedevo che lande desertiche e, ad eccezione della fonte sotterranea dove mi ero risvegliato, non avevo trovato nessun altra risorsa idrica. Continuavo a chiedermi come ci fossi finito in quella grotta, ma non riuscivo a ricordare niente. Non sapevo neppure come avrei dovuto presentarmi – qualora mi fossi finalmente imbattuto in qualcuno. Osservai le mie mani riconoscendovi una pelle chiara e liscia sotto alla quale sentivo i tendini robusti ed elastici. Non avevo idea di quale fosse il mio volto. L’unico che continuava a balenarmi nella testa era quello – ancora confuso - della donna del sogno…
Alla Porta della cittadella non trovai nessuno di guardia, i bastioni erano aperti. Il silenzio era surreale. Attraversai la strada principale in compagnia di enormi boli di sterpi che rotolavano sospinti dal vento. Le porte e le finestre cigolavano, il sordo tintinnio di un campanello echeggiava in lontananza. Era una città fantasma. Mi diressi verso gli uffici della città, deciso a scoprire qualcosa di più di quel posto. Mi avvicinai a un registro, forse di una deputazione, e presi a sfogliarlo. C’erano diverse lettere e dispacci, molti dei quali riportavano la data del centodecimo anno imperii. A quando risaliva? La maggior parte riferiva notizie relative a una carestia che avrebbe decimato la popolazione del villaggio.
Alle spalle dell’edificio si ergeva una piccola chiesa circondata da un peristilio. La brezza prese a soffiare più forte tra le colonne e chiusi gli occhi per ascoltare il suo alitare. Mi parve di sentire risuonare ancora quella musica, come se fosse orchestrata dal vento. Un calpestio di passi, però, mi riscosse e mi nascosi dietro a una colonna di pietra. Tornare a sentire suoni umani mi aveva riportato alla realtà, una realtà di cui non ricordavo nulla. L’istinto mi suggeriva di essere prudente e mi appiattii alla parete mentre cercavo di captare la direzione dell’intruso. Deglutii mentre riflettevo sulla possibilità di essermi imprudentemente introdotto in quel villaggio desolato e probabile covo di sciacalli. Non avevo neppure un’arma con cui difendermi, d’altro canto non sapevo neppure se fossi in grado maneggiarne una.
I pensieri si affollavano farraginosi quando, improvvisamente, qualcosa saettò vicino alla mia testa. Ansimai, in preda al panico, mentre mi voltavo a controllare che cosa mi avesse appena sfiorato. L’asta di una freccia oscillava vicino al mio orecchio e gli occhi si sgranarono sulla punta di metallo conficcata nella colonna di gesso. Mi stavano attaccando. Mi misi carponi e strisciai lontano dalla traiettoria del nemico cercando di soffocare i gemiti. Un’altra freccia si piantò sulla colonna che mi precedeva e capii di essere in trappola, il mio aggressore non era solo. Cominciai a considerare l’idea di uscire allo scoperto con un urlo e di darmela a gambe approfittando dell’effetto sorpresa. La prospettiva più probabile era, però, che mi riducessero a un colabrodo. Sollevai le mani in segno di resa, non potevo fare altro. I nemici si fecero avanti nell’aranciato bagliore del tramonto.
«Chi sei?» disse uno in tono tutt’altro che amichevole.
Aprii cautamente gli occhi e li vidi. Uno, due e tre, erano in tre. Erano tutti armati di arco e frecce, ma potevo distinguere anche dei coltelli di varia forma e dimensione sulla cintura. Due erano giovani, uno sui vent’anni, l’altro doveva averne meno, il terzo invece era maturo e la chioma scura rivelava i primi segni della mezza età. Le espressioni erano parimenti minacciose, indossavano abiti sporchi di fango e sudore.
«Veritas o Mors[1]?» minacciò quello più giovane vibrando un coltello.
Scossi ripetutamente la testa mentre sentivo i battiti del cuore martellare nel petto: «No, no, vi prego. Veritas, veritas» bofonchiai goffamente. Mi sentivo incredibilmente ridicolo ma l’unico sentimento che riconoscevo da quando mi ero svegliato era la paura.
«Parla, maledizione!» intervenne il ragazzo più alto facendo un passo avanti. Quello maturo si limitava a fissarmi in silenzio.
«Sono un pellegrino, ho raggiunto questo villaggio per cercare ospitalità. Lo giuro».
A quelle parole i tre aggressori mostrarono un’espressione incerta, scambiandosi sguardi carichi di scetticismo. Per un lunghissimo minuto non parlarono e il mio cuore fu quasi sul punto di esplodere.
«Da dove vieni?»
Una domanda semplice, diretta, cui seguiva una risposta spontanea, repentina. A meno che non si nascondeva un segreto. Ma come potevo spiegargli che non ricordavo niente della mia vita? Per quanto ne sapessi potevo essere un esiliato, un latitante, un debitore in fuga…
«Vigliacco! Sei un Vigilante, vero?» riprese il ragazzo più giovane pungendomi sul torace con la punta del coltello, notai che aveva una malformazione al labbro superiore. Le sue parole mi apparvero tanto incomprensibili quanto bizzarre. E la mia espressione interrogativa non doveva essergli sfuggita poiché allentò la pressione delle minacce rilassandosi leggermente.
«Se non sei un Vigilante e neppure un ribelle, allora chi sei?» riprese più pacato.
«Io… io non lo so. Ve lo giuro, mi sono svegliato ieri con un tremendo vuoto di memoria. Non ricordo nemmeno il mio nome» rivelai in fretta ed esausto.
Quelli ripresero a lanciarsi occhiate, sempre più disorientati. L’uomo brizzolato imbracciò l’arco e ripose la freccia nella faretra. Infine tese una mano senza abbandonare l’espressione arcigna: «Beh, allora dovrai venire con noi, Signor Nessuno» ironizzò.
 
 
La morsa intorno ai polsi mi riportò alla realtà scuotendomi sul pavimento in preda alle vertigini. Presi ad ansimare, il sudore mi incollava i capelli sulla fronte e i gemiti asfissiavano le corde vocali. La claustrofobia mi strozzò come se mi avesse avviluppato intorno al collo una corda e, ormai al limite, cacciai un urlo tanto acuto che attirò qualcuno nella stanza buia. Sulla soglia comparvero le sagome di due uomini appena distinguibili dalla fiamma della torcia che reggevano.
«Vi prego, lasciatemi andare! Lasciatemi andare!» ripetevo tra un gemito e l’altro.
«Sembra che la prigione sia un’esperienza alquanto sconvolgente per te, eh?» osservò quello che si era avvicinato.
L’altro sbuffò: «Sarà un’esperienza “pregressa”» e mi mollò un calcio sullo stinco. «Non è così?»
Sussultai di fronte a quell’inaspettata violenza e mi rannicchiai contro la parete: «Perché mi tenete qui legato? Io non ho fatto niente» reagii debolmente.
«Questo lo vedremo» conclusero uscendo.
L’oscurità tornò ad avvolgermi pesantemente e la testa, sgombra di remoti ricordi, si affollò di funesti pensieri. Dove mi trovavo la civiltà aveva lasciato il posto alla brutalità, e mentre mi tormentavo tra quelle riflessioni la porta si riaprì. La torcia rivelò un volto per la prima volta familiare: era quello dell’uomo che mi aveva trascinato in prigione.
«Su, vieni con me, Signor Nessuno».
Fui letteralmente sguinzagliato fino a un robusto palo di legno, posto al centro di una piazzetta sabbiosa, cui mi vennero legate le mani rivolgendo le spalle nude all’esiguo gruppo di persone raccolte. Era sera, l’area era perfettamente rischiarata dalle torce che la delimitavano. Le gambe tremavano in maniera incontrollabile e la posa curva non mi permetteva di avere il pieno controllo dei miei movimenti. Finalmente il mio aguzzino iniziò a parlare, rivolto ai compagni.
«Guardate queste spalle: pallide, lisce, senza un difetto, né una cicatrice. Nessuna traccia di una battaglia».
L’esigua folla prese a mormorare animosamente e il mio cuore si fece pesante.
«Chi, nelle nostre terre, potrebbe sfoggiare un corpo tanto sano, più puro di quello di un neonato?»
La folla rispose prontamente: «Nessuno! Nessuno!» ripeteva incattivita.
«Chi, nel nostro mondo, potrebbe sentirsi tanto al sicuro da non aver mai dovuto combattere e guastare la purezza del proprio corpo?»
Alla seconda domanda retorica la gente parve compiere un sospiro prima di rispondere, e quando reagì fu più feroce che mai: «Cives! Cives
Sentivo che quel comizio si sarebbe ben presto concluso in una esecuzione abbastanza cruenta da insaporire lo spettacolo.
«Dunque, a chi potrebbe mai appartenere questo corpo incontaminato dai conflitti del nostro tempo se non a un nemico?»
Le voci del pubblico inferocito iniziarono a intonare la parola “morte” accompagnandosi con un pugno rivolto al cielo albeggiante. Ero troppo stanco e avvilito per poter reagire e decisi di prepararmi a subire il mio destino. L’aguzzino tornò a parlare dopo aver azzittito il pubblico con un gesto risoluto: «Prima di punirlo è lecito permettergli di pronunciare le sue ultime parole» e si avvicinò afferrandomi brutalmente i capelli fradici che ricadevano sulle spalle. «Le tue ultime parole, Signor Nessuno?»
Lo guardai attraverso gli occhi gonfi per il pianto e cercai di muovere le mani, paralizzate dalla stretta delle corde. Infine rivolsi la mia attenzione alle sfumature rosa e azzurre dell’alba su cui immaginai di vedere l’incedere di una donna nei suoi veli svolazzanti al ritmo di quella canzone.
«…Vendetta» dissi, non mi venne in mente nient’altro.
D’altronde si trattava dell’unica parola che mi accompagnava fin dal risveglio.
Il pubblico dapprima rumoreggiante, lentamente si acquietò soffocando gemiti di incredulità. Lo stesso aguzzino mi puntò uno sguardo incredulo, rafforzando la stretta sui miei capelli.
«Che cosa hai detto?»
«Vendettavendetta» ripetei dolorante ma improvvisamente lucido. Stranamente quella parola sembrava provocare sul mio nemico lo stesso effetto che provavo anch’io, allora tornai a ripeterla di nuovo, più deciso: «Vendetta. Vendetta
A quel punto la folla riprese a rumoreggiare unendosi a me in quel suono, che profumava di proibito ma che concedeva una piacevole sensazione di frenesia. Il clima era cambiato e, di nuovo, la paura aveva lasciato il posto al coraggio. Non ero più la vittima di quello spettacolo, invece mi sentivo come l’eroe di una storia che non avevo mai conosciuto.
 

 


[1] “Morte o Verità” in latino.

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Capitolo 3
*** Le Terre Aride - Nemo ***


 

«Dunque, ragazzo, affermi di aver perso la memoria e di non ricordare neppure il tuo nome. Eppure pronunci una parola bandita da oltre due decenni e che da queste parti è tabù».

 

Dopo essere stato rilasciato, venni condotto in una casupola del villaggio dove alloggiava il capo della comunità, Don August. Sembrava una comunità piuttosto indigente ma era anche l’unica che avessi visto durante il mio viaggio. Per una ragione che ancora non riuscivo a spiegarmi, avevano deciso di liberarmi dalle catene sebbene ciò non mi facesse ancora sentire al sicuro.

«Ho sentito quella parola in una canzone». Preferii non mentire, magari rivelare quel dettaglio mi avrebbe aiutato a scoprire qualcosa sul mio passato.
«Una canzone…?» di colpo le guance scarne e rugose persero colore. Era anziano e mutilato a un braccio, sull’occhio sinistro correva una corposa cicatrice. Di certo poteva sfoggiare gloriosi segni di una battaglia, al contrario di me.
«Sì, io non so dove l’ho sentita per la prima volta ma, quando mi sono risvegliato in quella grotta, c’era questa melodia a cullarmi» spiegai.
Il vecchio si lasciò andare sulla sedia portandosi una mano ossuta sull’occhio sfregiato. «Erano anni che non ne sentivo parlare» riprese sommesso, sembrava in preda a una profonda emozione. Tornò a guardarmi negli occhi: «Non ho mai conosciuto un uomo come te. Sei sano, privo di cicatrici, ma, paradossalmente, sembri legato un passato “partigiano”» insinuò.

«Partigiano?» non capii.

«Urbia ha inviato spesso i suoi agenti nelle nostre terre affinché si infiltrassero tra la nostra gente e catturassero gli ostinati “traditori della patria”. Ma nessuno di loro ha mai osato pronunciare quella parola, neppure in punto di morte. Inoltre, se proprio posso dirlo, nessuno ha mai compiuto una missione segreta in maniera tanto maldestra» e ridacchiò alzando le spalle.
«Voi pensavate che io fossi una spia?»
«Non c’era altra spiegazione, il tuo aspetto e persino il tuo modo di parlare è diverso. Insomma, guarda noi: siamo malati, mutilati, poveri e brutali. Non abbiamo altro scopo se non quello di arrivare vivi alla sera e di portare un po’ da mangiare ai nostri figli. Non ci curiamo più del nostro aspetto o di quello della città, non c’è più alcun sentimento in noi, nessun piacere. Se da qualche parte qualcuno prega, da un’altra parte qualcun altro perde la fede».
Il discorso di Don August mi scosse come sapeva fare soltanto quella parola e strinsi forte i pugni sulle ginocchia.
«E quando arrivi tu, così alto, robusto, sano e con una sfilza di denti dritti e bianchissimi, come non potremmo insospettirci?» ridacchiò di nuovo mentre inarcavo le sopracciglia portandomi inconsciamente le dita ai denti.
«Voglio dire, sei strano. Se non sei un abitante delle Terre Aride, devi obbligatoriamente essere un civis. Forse ti sei allontanato di tua spontanea volontà oppure ti hanno cacciato, seppure questo non rientri nelle loro modalità» disse andando finalmente al punto.
Civis? Di che cosa stava parlando? Scossi la testa confuso.
«Non ricordi niente eh? Va bene, allora siediti. Ti racconterò tutto» disse indicandomi una sedia.
Le Terre Aride, che un tempo facevano parte dell’affascinante provincia d’Hispania, si estendevano intorno al secolare bacino del Mediterraneo, territorio un tempo florido e che aveva ospitato centinaia di popoli. Finché fecero parte dell’Hispania i suoi abitanti vissero dignitosamente sebbene fossero sottoposti a pesanti tributi. Un giorno, però, esplose una rivolta e il popolo della provincia si sollevò contro il Governo centrale trascinando con sé anche le altre province. L’Impero reagì con violenza e, di fatto, l’Hispania venne spazzata via, bombardata e prosciugata da anni di guerra. Da allora, l’Impero tiene a bada i sopravvissuti e i ribelli con le sue spie e i suoi missionari.
«Missionari?»
Già, missionari. Perché il Governo di Urbia governava spalleggiato dalla Chiesa. Urbia agiva così, nel nome della Fede e dello Stato decidendo le sorti dei traditori o, come lei preferiva definirli, degli eretici. Il nuovo motto divenne “Urbia o Mors”.
«Per questa ragione, ti abbiamo sottoposto al nostro motto: “Veritas o Mors”. È una sorta di beffa allo Stato, per noi» intervenne Jacob, il ragazzo con il labbro informe.
Dopo aver ascoltato la storia Don August sull’Impero che un tempo aveva governato anche le Terre Aride, compresi che quella gente non aveva più niente. Per anni aveva versato tributi e fornito soldati e poi, in un attimo, era stata privata di tutto.
Jacob mi stava guidando in un giro d’ispezione ai confini della cittadella rifilando qua e là qualche informazione. Il villaggio si chiamava Riviera, e si diceva che fosse ciò che rimaneva di una grandissima città dell’Hispania. Intorno era stata ricostruita una cinta muraria sulla cui cima erano stati conficcati dei pali acuminati per impedire agli intrusi di oltrepassare.
«Quanto tempo è che siete estromessi dall’Impero?» chiesi mentre lo guardavo accendere le torce sui bastioni della Porta.
«Saranno più di vent’anni ormai. Io non ero ancora nato al tempo della guerra, però ricordo che quando ero piccolo i miei genitori erano ancora in fuga dai Vigilanti che avevano il compito di sterminarci tutti. Hanno persino rilasciato armi batteriologiche e molti tra anziani e bambini sono morti in preda a orribili malattie» rispose fissando i lapilli che guizzavano dalla fiamma della torcia.
«È terribile» commentai.
«Già, però io ho sempre vissuto in questo modo. Non ho idea di come sarebbe la mia vita al di fuori delle Terre Aride, non ho alcun termine di paragone. Mi comprendi?» riprese voltandosi.
Abbassai lo sguardo, anche per me era lo stesso, se non peggio. Non avevo la minima idea di come fosse il mondo, mi sentivo come un bambino che stava imparando a conoscere ciò che lo circondava.
«A proposito, non so neppure come chiamarti. È un po’ frustrante. Se non ricordi il tuo nome potrei dartene uno io, che ne dici?» disse portandosi una mano al mento.
Fui riscosso da quella proposta inattesa. Da una parte ero sollevato di avere finalmente un’identità, dall’altra mi infastidiva l’idea che fosse un ragazzino qualunque a darmi un nome, neanche fossi un cane randagio.
«Che ne dici di Nemo? Significa “nessuno”, mi sembra proprio adatto a te. Qui il latino lo conoscono soltanto gli anziani, era la lingua della Chiesa e di queste terre più di duemila anni fa; si dice che sia tornata a fluire nell’Impero, tra le classi alte».
«Nemo, eh? Mi sembra un nome davvero stupido» soggiunsi colpendo con la punta del piede un sasso.
«Hai un’idea migliore?»
«Direi di no» ribattei mordendomi un labbro, poi riportai l’attenzione sulle informazioni del compagno. «Come siete a conoscenza di ciò che accade nell’Impero? Avete qualche informatore?»
Il ragazzo fece spallucce: «A volte catturiamo qualche Vigilante imprudente, altre volte passa di qui qualche viandante coraggioso che ci porta doni e informazioni in cambio di ospitalità».
«Capisco. Il confine più vicino non è molto lontano da qui, vero?» mi chiedevo se non fossi davvero un civis, un cittadino dello Stato, in quel caso non mi sarebbe stato facile tornare a “casa”.
«Le Terre Aride rappresentano quella che un tempo è stata la bellissima provincia d’Hispania, che includeva le tre penisole del Mediterraneo: l’iberica, l’italica e l’ellenica. Dove terminano le Terre Aride, a nord, iniziano le Terre Perdute, che appartengono invece a un’altra ex provincia imperiale, la Gallia. A est si ergono le mura di una delle più ricche province esistenti, Danubia» spiegò. «Dunque, per rispondere alla tua domanda, no, direi che il confine non sia affatto vicino dal momento che l’Estrema Frontiera imperiale si trova a più di 1000 chilometri da qui. Inoltre, da queste parti non abbiamo mezzi di trasporto a parte i cavalli» e posò su di me uno sguardo interrogativo.
«Mille chilometri, eh?» soggiunsi con un sorriso di circostanza, sentivo che quella domanda aveva sortito nell’amico qualche perplessità. «Il nemico è piuttosto lontano, allora» aggiunsi per cambiare discorso.
«Il nemico può essere ovunque» concluse raggelandomi, allora girò i tacchi e se ne andò.
Il giorno dopo raggiunsi la comunità nella piazza centrale per la colazione. Lì ogni mattina era distribuito il rancio alle famiglie prima del secondo e ultimo che avveniva al tramonto. Inoltre si svolgevano piccoli traffici come il baratto o il commercio. Intorno erano dislocati i piccoli quartieri abitati che trovavano nel municipio del centro cittadino un punto di riferimento. Nessuno abitava nello stabile sgangherato e Don August preferiva alloggiare con la sua famiglia qualche isolato più a nord. La vita trascorreva pacifica in quelle terre ma si respirava un’aria pesante e gli abitanti tiravano avanti trascinando sulle spalle un pesante fardello. Non c’era gioia nei loro occhi, nessun entusiasmo. Mi avvicinai alla gente in coda per la colazione, che era costituita da zuppa di mais e purea di patate, tutto rigorosamente insipido. Il sale era un lusso da quelle parti e quando si catturava un animale, la sua carne andava subito lavata e consumata. In ogni caso non sarebbe servito a nulla conservarla, si viveva alla giornata. Non avevo memoria del mio passato ma stranamente ricordavo molto bene il sapore del cibo salato. Ed era buono. L’appetito mi aiutò a cancellare ogni inspiegabile nostalgia e divorai tutto. Non sapendo come darmi da fare, mi avvicinai a un gruppo di manovali impegnati a ristrutturare la colonna portante di un edificio.
Gli uomini osservavano stupiti la mia energia, erano sempre troppo deboli per i lavori pesanti ma io apparvi instancabile ai loro occhi. In effetti, non soffrii la fatica e, quando al tramonto i lavoratori si ritirarono nelle proprie case, restai per continuare fino all’alba. Il mio unico rimpianto era di non conoscere bene il mestiere. Avevo appreso qualcosa durante la giornata ma avevo bisogno di qualche lezione sulle tecniche di costruzione. Ero felice di poter dare una mano, mi sentivo finalmente utile dal risveglio in quella grotta.
Mentre stavo rimettendo a posto gli attrezzi da lavoro, udii il vagito di un bambino provenire da una casupola in legno senza finestre. Come ipnotizzato da quel pianto familiare e al contempo sconosciuto, mi avvicinai e scorsi una donna che cullava un neonato. Il cinguettio degli uccelli mi ravvisò del sopraggiungere del nuovo giorno. Avevo trascorso l’intera notte a lavorare ma non ero stanco. Ero solo curioso. Mi avvicinai di più quando sentii la donna canticchiare una ninnananna e appoggiai la testa alla finestra sollevando del pulviscolo. Chiusi gli occhi, facendomi cullare insieme al bambino. Avrei voluto essere stretto anch’io fra le sue braccia, avrei voluto sentirmi protetto.
«Che cosa fai lì?»
Mi riscossi bruscamente e persi l’equilibrio così, reggendomi alla finestra, feci crollare il telaio sgangherato.
«Oh, no. Mi dispiace! Mi dispiace, mi dispiace!» ripetei mortificato. Dovevo essere diventato tutto rosso perché sentivo il calore pervadermi dal collo in su. Inaspettatamente la donna sorrise, forse tacitamente divertita dalla mia goffaggine, e mi invitò a entrare.
«Puoi farlo anche dalla finestra ormai» disse scherzando sull’enorme varco che avevo provocato.
«Sono un vero idiota… lo rimetterò subito a posto, ho imparato a lavorare la pietra la scorsa notte» la informai ma quelle parole suscitarono altra ilarità nella donna che iniziò persino a ridere.
«Hai imparato a lavorare la pietra la scorsa notte? Allora sarà meglio chiamare Cador se non vuoi combinare altri pasticci» disse riferendosi al capomastro che il giorno prima aveva diretto i lavori.
«No, io l’ho distrutta e io la riparerò» insistetti e corsi a recuperare gli attrezzi.
La donna era rimasta a guardarmi mentre riparavo la parete. Il bambino si era addormentato ma non si vide l’ombra del padre.
«Mi piacerebbe offrirti qualcosa ma non ho niente» disse lei a denti serrati.
«Ma sono io che sto pagando un debito, tu non mi devi niente» la rassicurai asciugandomi la fronte con un braccio.
«Aspetta» si chinò per asciugarmi il viso con uno straccio. Quel gesto mi costrinse a fermarmi da qualsiasi cosa stessi facendo e ad osservare il viso lentigginoso della donna. Era giovane, molto magra ma graziosa con i suoi grandi occhi ambrati incorniciati dalle spettinate sopracciglia nere.
«I tuoi occhi… sono di colore diverso, lo sapevi?»
La sua voce mi destò dall’intorpidimento: «Cosa?» domandai stupidamente.
«Il tuo occhio destro è grigio-azzurro, come il cielo, e quello sinistro verde-oro, come la terra» riferì affascinata. «Sei cielo e terra…» aggiunse per poi interrompersi, solo allora si rese conto di non conoscere il mio nome.
«Ti ringrazio. Il… il mio nome è Nemo» mi presentai incerto.
«Nemo? Che nome strano. Io invece sono Bea» disse con un sorriso. «Dunque, Nemo, sei lo straniero smemorato?»
Abbassai gli occhi imbarazzato. Bel modo di presentarsi agli estranei, eppure, da quel che sembrava, la mia storia era già sulla bocca di tutti. D’altronde quella era una piccola comunità. «Non ricordo nulla. Non so che cosa mi sia successo».
Lei mi studiò assottigliando gli occhi poi abbozzò un sorriso: «Ognuno di noi ha un passato, ma quel che conta è il presente. Carpe diem, quam minimum credula postero[1]».
«Cosa?»
Rise alzandosi in piedi: «È la frase di un famoso e antico scrittore, Orazio» spiegò sfilando un libro da una mensola impolverata. «Ecco, tieni» me lo porse entusiasta.
Iniziai a sfogliarlo, era scritto in una lingua strana, lessi “Recueil de poèmes, édition française” sulla copertina: «È un libro di poesie».
«Tu… lo capisci?» domandò esterrefatta. «Sai leggere?»
Nascosi lo sguardo imbarazzato tra le pagine del libro: «L’autore si chiama Catullo».
«Esatto, io lo adoro. Racconta l’amore travagliato fra due amanti. Ti piacerebbe leggermi qualcosa?» disse in preda a un entusiasmo incontenibile.
«Ma tu non le conosci?»
Distolse lo sguardo: «Io non so leggere, era mio padre a farlo per me. Conosceva il latino ed è stato lui a spiegarmi il significato di ogni singola poesia».
Mi sentii sopraffatto dalla sua malinconia e mi affrettai a sceglierne una per leggerla ad alta voce:
«Vivamus, mea Lesbia, atque amemus
Rumoresque senum severiorum
Omnes unius aestememus assis».
«Questa la adoro» e iniziò a recitarla insieme a me.
«Da mi basìa mille, deinde centum,
Dein mille altera, dein secunda centum
Deinde usque altera mille, deinde centum».
Mi interruppi per guardarla. C’era una nuova luce nei suoi occhi. Ripensai alle parole di Don August, al fatto che non ci fosse più alcun sentimento nei suoi compagni, non era vero. Quella piccola scintilla d’emozione c’era, era fievole, ma sempre accesa ed era bastata una poesia per alimentarla. «Di che cosa parla?»
Bea sospirò portandosi una mano al petto, quasi fosse in affanno: «Il poeta esorta la donna che ama ad ignorare i pregiudizi, le regole e le convenzioni della gente per abbandonarsi totalmente all’amore» e mi lanciò una strana occhiata, inarcando le labbra.
«Oh, dunque è una poesia sovversiva» commentai ma la ragazza trasalì strappandomi il libro dalle mani.
«Ma che vai blaterando! Voi uomini vedete la Rivoluzione dappertutto» e prese un altro libro riacquistando il buon umore. «Vai a pagina 27».
Inarcai un sopracciglio.
«Conosco solo i numeri, sai, per praticità» si limitò a dire sollevando le spalle.
Trovai la pagina dove si stagliava l’immagine di una succulenta torta con una farcitura di panna e fragole. Non sapevo spiegarmelo, ma riuscivo a riconoscere gli ingredienti di quel dolce che ricordavo fosse squisito. Dunque dovevo averlo mangiato almeno una volta e sentii salire l’acquolina in bocca.
«Ogni volta che ho i crampi allo stomaco per la fame mi precipito a fissare quella golosa poltiglia di frutta e farina. Spesso ho sognato di prepararla con le mie mani, ma qui è impossibile» la voce si affievolì insieme all’entusiasmo.
Posai il libro su un tavolo e aggiunsi con determinazione: «Non preoccuparti, un giorno la prepareremo. Troverò gli ingredienti e ne mangeremo a volontà».
Il volto di Bea si illuminò e si portò le mani al petto come aveva fatto dopo la lettura della poesia. Il quel momento il bambino prese a piangere e ci ridestammo entrambi.
«Sarà meglio che vada» dissi per congedarmi e la ragazza mi prese una mano per ringraziarmi.
«Spero di rivederti stasera in piazza, di solito restiamo a suonare e a cantare sotto le stelle prima di andare a dormire» gli occhi tremavano colmi di speranza.
Mi sentii strano, come se accettando quell’invito avessi commesso un crimine: «Spero di farcela» mi limitai a dire.
A lei bastò perché mostrò un ampio sorriso che arrotondò gli zigomi ossuti.

 


[1] “Cogli l’attimo, confidando il meno possibile nel domani”. Orazio, Odi 1, 11, 8.

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