Le Cronache dei Necromanti

di Clive Danbrough
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il ritorno del discepolo - Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Preambolo ***
Capitolo 3: *** Parte 1 - Fuga verso l'ignoto ***
Capitolo 4: *** Parte 2 - Nel cuore di Esterme ***
Capitolo 5: *** Parte 3 - Le voci della foresta ***
Capitolo 6: *** Parte 4 - La storia di Alessia ***
Capitolo 7: *** Parte 5 - Pensieri ***
Capitolo 8: *** Parte 6 - Il giardino nel cuore della selva ***
Capitolo 9: *** Parte 7 - La bestia selvaggia ***
Capitolo 10: *** Parte 8 - Un terribile scontro ***
Capitolo 11: *** Parte 9 - La sommità della foresta ***
Capitolo 12: *** Parte 10 - La crudeltà dei Rinnegati ***
Capitolo 13: *** Parte 11 - L'uomo dai molti segreti ***
Capitolo 14: *** Parte 12 - Il terrore dei mercenari ***
Capitolo 15: *** Parte 13 - Il potere del Necromante ***
Capitolo 16: *** Parte 14 - Le parole del salvatore ***
Capitolo 17: *** Parte 15 - La tana del Necromante ***
Capitolo 18: *** Parte 16 - La storia di Libedonia ***
Capitolo 19: *** Parte 17 - Il nome dell'eremita ***
Capitolo 20: *** Parte 18 - Dubbi e misteri ***
Capitolo 21: *** Parte 19 - Un duro colpo ***
Capitolo 22: *** Parte 20 - Il laboratorio ***



Capitolo 1
*** Il ritorno del discepolo - Capitolo I ***


Ciao a tutti!!!

Questo è il mio racconto fantasy, che desidero condividere con tutti voi! Spero possiate assaporarlo appieno e che possiate aiutarmi nel mio tentativo di migliorarmi. Mi raccomando, non lesinate commenti e critiche!!! A presto!

PS: La storia è completa e finita, ma la inserirò a poco a poco. Un po’ per la suspense, un po’ a seconda del numero di recensioni che riceverò. Non lesinate le critiche, dunque!J

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Capitolo 2
*** Preambolo ***


Ciao a tutti!

Vi presento il mio racconto fantasy, terminato alla fine di agosto. Se vi piacciono le storie ricche di intrighi, elementi dark e personaggi misteriosi, allora “Le Cronache dei Necromanti” fanno proprio per voi!

Mi raccomando, non dimenticatevi di recensire e di porgermi qualunque critica J!!!

Buona lettura

Clive Danbrough

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Capitolo 3
*** Parte 1 - Fuga verso l'ignoto ***


Capitolo I

Fuga verso l’ignoto

 

 

 

L’autunno era iniziato da circa due settimane, e la pioggia cadeva già ininterrottamente e copiosa, decisa a disperdere il calore e i colori vivaci dell’estate. I meravigliosi alberi fioriti, e i rigogliosi frutti che generosamente avevano offerto, erano solo un dolce ricordo, che non risollevava il morale di coloro che avevano nostalgia delle giornate calde e soleggiate, e che si vedevano costretti in casa da quel diluvio incessante. I rimpianti per il termine della bella stagione, tuttavia, costituivano per qualcuno l’ultimo dei problemi.

Enormi gocce di pioggia precipitavano con forza sul morbido manto erboso di una valle compresa tra l’estremità meridionale di una grande catena montuosa e una foresta di medie dimensioni, costeggiata ai margini da ulteriori montagne. La valle era piuttosto estesa, ma pressoché indistinguibile dalle molte altre valli che facevano parte della Lirosia.

La valle era conosciuta come Pianura terestiana, dal nome della città che la dominava e che si trovava a poche miglia di distanza. Era una terra ricca e piuttosto fertile, piena di villaggi di contadini e campi coltivati. Nonostante ciò, in quel giorno di diluvio era difficile scorgere anima viva aggirarsi nei dintorni. Eppure qualcosa si intravedeva lo stesso all’orizzonte, in rapido avvicinamento. In lontananza, si avvicinava una figura imponente che la tormenta castigava furiosamente con le sue impietose raffiche di vento.

Un cavallo stava galoppando a tutta velocità verso una destinazione ignota. C’era qualcuno sulla sua groppa, appiattito lungo di essa, che lo spronava a cavalcare come se le braccia della morte si stessero protendendo alle sue spalle per afferrarlo. Il cavaliere era in realtà una ragazza molto giovane, una fanciulla dai lunghi capelli ricci e castani, fradici come i vestiti che indossava, dalla pelle chiara e dal bel volto contratto dalla tensione.

Il cielo coperto aveva assunto il colorito cupo delle peggiori bufere marittime; lampi e tuoni avevano cominciato ad avvicendarsi in quella che prometteva di diventare una tempesta ancor più violenta. Il rombo agghiacciante e assordante dei tuoni incitava la viaggiatrice a raggiungere il prima possibile la sua meta, ossia la foresta che si stagliava innanzi a lei.

Il maltempo le impediva di scorgere nitidamente la strada di fronte, e per governare il destriero si affidava più all’udito che alla vista. La via che stava percorrendo era lastricata di lucidi massi appiattiti, che producevano un sonoro rumore ogniqualvolta il cavallo vi appoggiava pesantemente gli zoccoli. Considerando che l’animale stava galoppando furiosamente come di rado era stato costretto a fare in vita sua, il frastuono era notevole. Semmai fosse involontariamente uscito dalla carreggiata, se ne sarebbe immediatamente accorta.

Il rumore causato dal suo cavallo non era però l’unico suono distintamente udibile nelle vicinanze, oltre al fragore della pioggia. Dietro di sé sentiva il medesimo scalpitare di cavalli, che destò in lei un angosciante timore. Dovevano essere almeno quattro. Non erano ancora tanto vicini da essere visibili in mezzo alla tempesta, ma presto lo sarebbero stati.

La ragazza si voltò per osservare quanto accadeva alle proprie spalle: a tratti, le sembrò di distinguere delle sagome scure all’orizzonte, ma non si soffermò su di esse e volse nuovamente l’attenzione davanti a sé. Non c’erano dubbi che qualcuno la stesse inseguendo. Iniziò a disperarsi.

Se gli inseguitori l’avessero raggiunta prima che fosse arrivata alla foresta, sarebbe stata la fine. Non avrebbe avuto via di scampo. Un enorme peso le si posò sul cuore, la paura di non farcela cominciò a insinuarsi in lei. Dovevano essere molto vicini, ormai.

Anche la foresta tuttavia era vicinissima. Le si illuminò il volto quando vide la strada svoltare a sinistra e, poche centinaia di metri avanti, i primi alberi solitari che preannunciavano il margine della selva. Se fosse riuscita ad addentrarvisi in profondità, probabilmente sarebbe stata salva. Per la prima volta da quando aveva intrapreso quel viaggio, che si era presto rivelato un autentico salto nel buio, la giovane si sentiva finalmente pervasa da un fulgido lampo di speranza. Cominciò a credere realmente nella salvezza.

RECENSITE, MI RACC!

EHI CIAO A TUTTI!!!! Spero vi sia piaciuto quanto avete letto finora :) Se avete letto tutto, vi ringrazio per la vostra attenzione :) mi piacerebbe sapere che cosa ne pensate del mio lavoro, basta anche un semplice commento, un'impressione... va bene tutto! Non siate timidi! Io ci conto, eh? Sto cercando di migliorare il mio stile, perciò ho bisogno di tante recensioni!! Non fatele mancare!!!

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Capitolo 4
*** Parte 2 - Nel cuore di Esterme ***


Dopo pochi istanti, ecco comparire una fitta barriera di tronchi e fronde verdeggianti che si diramavano in ogni direzione. Individuò rapidamente uno spazio tra due alberi che avrebbe permesso sia a lei che al proprio cavallo di passare senza difficoltà. Mancavano pochissimi metri, la speranza era più vivida che mai. Dietro di sé continuava a sentire gli scalpitii dei cavalli degli inseguitori sempre più vicini, ma questa volta non si voltò nemmeno per controllare. Tutto ciò che importava era penetrare nella boscaglia.

Con un balzo, cavallo e cavaliere si portarono fuori dalla strada lastricata che proseguiva a ovest e si prepararono allo scatto finale verso quella che prometteva di essere la fine di quel lungo ed estenuante inseguimento. L’animale fu spronato vigorosamente ad aumentare la velocità in direzione del varco. Né la pioggia battente né il vento sferzante potevano essere di ostacolo adesso che il traguardo era così vicino. Era questione di passi, finalmente si intravedevano chiaramente le rocce e i ciottoli che delimitavano un sentiero, e non uno qualunque: era un tracciato nascosto che conosceva e che, con un po’ di fortuna, l’avrebbe condotta lontano dagli inseguitori.

La ragazza sussurrò al fido destriero di resistere, e dopo tanta fatica e tanto penare l’animale spiccò un nuovo balzo, e furono dentro la foresta. Lei contenne a stento un grido di vittoria, poiché sapeva che coloro che le davano la caccia ora avrebbero avuto notevoli problemi a starle dietro su quel terreno. I loro cavalli erano grossi e potenti, erano riusciti a braccare facilmente la preda fino a quel momento ed erano stati quasi sul punto di agguantarla, ma la situazione adesso cambiava radicalmente: sui tracciati tortuosi e impervi della foresta, non avevano speranze. Con quei cavalli sarebbero riusciti a stento a farsi strada nel bosco, figurarsi a mantenere l’andatura della fuggitiva.

La giovane provava un moto sconfinato di gratitudine per l’animale che l’aveva condotta alla salvezza. L’aveva scelto con cura, quando aveva deciso di attuare la fuga. Apparteneva a una razza particolare; era piccolo, snello e agile, e aveva sofferto quando era stato costretto a sostenere a lungo una corsa tanto impegnativa, ma ora era lui ad essere avvantaggiato. Quei sentieri scoscesi e ripidi erano la sua specialità, la specie a cui apparteneva si era evoluta in ambienti simili e da quel momento in poi sarebbe stato tutto più facile. I suoi zoccoli sopportavano la dura roccia quanto la soffice erba, e si trovava più a suo agio sui terreni accidentati che sulle praterie sterminate.

La ragazza gli scompigliò il folto crine in segno d’affetto. Man mano che aumentava la distanza fra loro e gli individui che li braccavano, lei stessa fu la prima a meravigliarsi per la straordinaria capacità di adattamento che stava dimostrando il suo destriero. Balzava con noncuranza da una roccia all’altra o attraverso le fenditure di giganteschi tronchi secolari, e fu allora, notando una tale agilità, che la fuggitiva si convinse che in groppa a quell’animale non poteva esistere cacciatore, né umano né divino, in grado di catturarla. Decise che quella notte avrebbero potuto concedersi un po’ di meritato riposo, una volta raggiunto il cuore del bosco.

RECENSITE, MI RACC!

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Capitolo 5
*** Parte 3 - Le voci della foresta ***


La selva in cui si stavano addentrando era nota con il nome di Esterme. Era una foresta di medie dimensioni, che comprendeva parte della valle pianeggiante e si estendeva fino ai pendii dei monti accanto. Il cuore vero e proprio della foresta era lassù, sulle montagne: gli alberi più antichi e più alti si trovavano su quelle superfici rocciose da secoli, alcuni addirittura da millenni.

Il centro di Esterme era uno dei luoghi più inaccessibili della Lirosia, anche se pochi lo riconoscevano. Malgrado il terreno roccioso, gli alberi crescevano numerosi e fitti, rendendo una vera impresa avanzare tra di essi. Le rocce della montagna erano inoltre insidiose e ingannatrici: anche quelle apparentemente più stabili avrebbero potuto improvvisamente sdrucciolare sotto il peso di un incauto viaggiatore. Nonostante l’inospitalità, essa non era affatto disabitata; poiché animali selvaggi di ogni genere sopravvivevano al suo interno e ne custodivano i meandri con ferocia.

Le bestie selvatiche non erano però l’unica temibile presenza che si nascondeva tra le ombre di Esterme. A sentire le storie di quanti si erano avventurati verso il centro del bosco e ne avevano fatto ritorno, c’era qualcos’altro tra quelle fronde. O meglio, qualcun altro.

Nei vari villaggi della Pianura e delle valli circostanti, i racconti che venivano narrati più frequentemente nelle taverne ai viandanti di passaggio o ai bambini davanti al focolare erano proprio quelle inerenti alle molte stranezze che accadevano nel cuore della cupa boscaglia. Si parlava naturalmente delle terrificanti belve che vi dimoravano e che si nascondevano nelle oscure tane fra le rocce, di come tanti vi si fossero avventurati e ne fossero usciti a stento. Giravano parecchi racconti su gente che scompariva tra le sue ombre: una delle storie preferite era quella sulla spedizione di guerrieri Ferrosanidi che si era recata sulle alture e non aveva mai fatto ritorno. Cinquanta abili e forti soldati svaniti dal giorno alla notte, senza alcuna traccia. La poco convincente versione ufficiale, all’epoca del fatto, fu che la spedizione avesse valicato le montagne e avesse proseguito la missione oltre i confini della Lirosia, qualunque essa fosse. Le dicerie sulla presenza di mostri che si annidavano dentro Esterme si sprecavano già in precedenza, ma da allora ricevettero nuova linfa.

C’era anche un’altra leggenda assai popolare e diffusa tra la gente della Pianura. Vi erano uomini recatisi nella foresta, scalatori ed esploratori esperti, che giuravano di aver assistito a qualcosa di davvero bizzarro. Si trattava di un’ombra evanescente, di forma e proporzioni umane, scorta sempre da lontano attraverso gli alberi, che spariva all’istante dopo averla a malapena intravista.

In tanti ritornavano da quel luogo asserendo decisamente di aver veduto quella sorta di fantasma. Agli occhi della gente, però, esso non appariva interessante quanto i miti sulla spedizione perduta o sulle bestie mostruose della selva. Per quanto ne sapevano, poteva semplicemente trattarsi di una banale illusione ottica o di chissà che altro: d’altronde, dopo qualche calice di vino, non era così strano che si iniziasse a parlare di ombre vive.

Tuttavia, alcuni ipotizzarono che si trattasse di un uomo in carne e ossa, immaginandolo come un vecchio eremita che conduceva un’esistenza di meditazione e solitudine dentro l’impenetrabile Esterme. In ogni caso, uomo o meno che fosse, egli non aveva mai arrecato disturbo o dato prova tangibile della propria esistenza, ragion per cui nessuno si era mai preso la briga di indagare ulteriormente.

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Capitolo 6
*** Parte 4 - La storia di Alessia ***


Mancavano pochi passi a una radura non molto distante dal centro di Esterme. Il suolo era divenuto da tempo duro e compatto, e Alessia aveva deciso di concedere al buon Hificles il riposo pattuito. Anche se preferiva non ammetterlo neppure tra sé, l’inseguimento l’aveva stremata e dubitava di poter proseguire per altri dieci passi.

Infine, lei e il cavallo giunsero alla radura. Legò le redini a un ramo e stramazzò per terra, esausta. Aveva portato con sé solamente una vecchia e logora borsa, contenente viveri, del denaro e poco altro. Ne estrasse una mela e la divorò. Hificles intanto cominciò a brucare lì accanto, per quanto glielo consentivano le briglie legate.

Il diluvio era terminato, alla fine. Dai rami sgocciolavano abbondantemente quelle stesse gocce che l’avevano ostacolata fin dalla faticosa partenza da casa. La sua casa... in un attimo nel suo animo riaffiorarono sentimenti di rancore e disprezzo, a cui era sempre stata avvezza laggiù.

Alessia aveva uno spirito forgiato dalle frustrazioni e dall’odio che provava verso un uomo, suo padre. Chiuse gli occhi, e una scena le si delineò subito e nitida nella mente. Vide un uomo alto, con radi capelli neri e folta barba del medesimo colore. In diciassette anni di vita, non riusciva a ricordare neppure un’occasione in cui quelle labbra si fossero increspate in un sorriso. Un cipiglio severo come pochi, lo sguardo gelido di un boia, l’ombra del disgusto dipinta in ogni angolo della sua espressione: se pensava a suo padre, i primi lineamenti che le tornavano alla mente erano inevitabilmente quelli.

Alessia aveva sempre pensato, da bambina, che nascendo doveva aver arrecato al padre un crudele torto, a giudicare dal trattamento che le veniva riservato. Raramente aveva subito maltrattamenti fisici, ma avrebbe di gran lunga preferito quelli agli sguardi glaciali, alle occhiate di puro odio che il genitore le scagliava addosso ogniqualvolta si incrociavano nei corridoi. Anni dopo, Alessia aveva creduto di comprendere finalmente le ragioni di tale atteggiamento nei suoi confronti. Anche se non glielo aveva mai detto apertamente, sapeva che il padre la riteneva colpevole di aver ucciso sua madre, venendo al mondo.

La giovane non aveva la minima idea delle sembianze della madre, poiché ogni ritratto e busto che la raffiguravano erano stati trasferiti nelle stanze di suo padre, a cui nessuno aveva accesso fuorché lui e pochi indispensabili servitori. Doveva averla amata molto, non vi erano dubbi, ma non aveva mai nemmeno lontanamente pensato di riversare l’amore che ancora provava  per lei nella figlia che gli era stata lasciata. Nella sua mente, quell’atto veniva interpretato come un tradimento. Evidentemente, Alessia non doveva somigliare granché alla madre.

In secondo luogo, ad aggiungere beffa al danno, l’adorata consorte era passata a miglior vita lasciandogli una bambina. Una bambina! In una sola, orrenda notte, il tiranno di Terestia si era visto portar via colei che aveva amato più della propria vita e, al tempo stesso, spazzar via ogni possibilità di avere un erede. Mai si sarebbe risposato, o sarebbe stato capace di giacere con altre donne. Concubine, meretrici e persino le etere di Libedonia lo disgustavano, e benché pochi oramai la pensassero come lui, egli era fermamente convinto che il solo contatto con donne simili avrebbe irrimediabilmente intaccato il suo prestigio di tiranno. Quanto alla piccola, ciò che più lo riempiva di rancore era il fatto di non poter tramandare attraverso di lei il proprio nome alle generazioni future; la massima ambizione dell’uomo, quella di fondare una dinastia, era dunque distrutta per sempre.

Alessia aveva vissuto in un clima di gelo e di intolleranza per diciassette anni, ed era stata costretta a sviluppare uno spirito forte e pieno di volontà di rivalsa per sopravvivere. Era figlia di un uomo potente, ma nella propria dimora tutti la trattavano e la evitavano come un cane randagio, in buona parte perché i servitori non osavano contraddire il volere del loro signore.

Non aveva ponderato molto sulla propria fuga, era stato un gesto istintivo. Naturalmente, da tempo voleva andarsene e allontanarsi il più possibile da quel luogo, ma non aveva mai realmente pianificato quel momento. Le era permesso viaggiare ogniqualvolta lo desiderava, ma questo non era certo un segno di magnanimità: il padre preferiva tenerla lontana da sé, e a Terestia pochissimi sapevano che il loro tiranno avesse una figlia. Viaggiando molto, tuttavia, Alessia aveva acquisito una vasta conoscenza sul mondo che la circondava, e aveva capito quale dovesse essere la sua meta.

RECENSITE, MI RACC!

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Capitolo 7
*** Parte 5 - Pensieri ***


La notte trascorreva serena e fresca. Le scarse tracce lasciate da Hificles erano state rese totalmente invisibili. Malgrado la tranquillità notturna, Alessia non poteva dormire su due guanciali, in quanto le era ben noto che la foresta era dimora di bestie selvagge e, dopotutto, c’era pur sempre qualcuno che le dava la caccia nei dintorni. Ma aveva il sonno leggero, e c’era Hificles di guardia. Inoltre, aveva a portata di mano l’occorrente per fabbricare rapidamente un fuoco, in modo da allontanare le creature del bosco. Tuttavia, sapeva bene che il falò era una risorsa da utilizzare soltanto in caso di estrema necessità, in quanto gli inseguitori non potevano trovarsi a più di qualche quarto di miglio di distanza.

Gli inseguitori li aveva assoldati suo padre, forse. Era l’unico individuo al mondo capace di compiere una simile empietà. Non li aveva visti in volto, non ne aveva avuto modo, ma sperava caldamente di non avere occasione di trovarsi faccia a faccia con loro. Alessia supponeva che avessero iniziato a seguirla quand’era a metà del proprio tragitto: dovevano essere dei cacciatori di taglie davvero in gamba, per colmare in così poco tempo la distanza fra loro e il bersaglio, ammesso che fossero partiti da Terestia.

Alessia si chiedeva dove suo padre potesse averli scovati, nel caso fosse davvero lui il responsabile. Difficilmente mercenari di quel calibro si trovavano a scolare birra nelle taverne dei sobborghi o a scatenare risse nelle bettole da due soldi. La ragazza sapeva solo di essere sfuggita grazie a una buona dose di tempismo e fortuna, e che se avesse concesso loro una seconda opportunità non avrebbe avuto scampo.

Mentre era coricata sul duro terreno della radura, avvolta da una coperta leggera e in pieno tentativo di prendere sonno, cominciò a domandarsi che cosa volessero quegli uomini. Era possibile che suo padre li avesse sguinzagliati per riportarla indietro, ma una voce nella sua testa la voleva convincere che non era così. Alessia presagiva che un uomo come suo padre non avrebbe ingaggiato esperti cacciatori di taglie solo per riaverla accanto a sé. In tal caso, avrebbe mandato i suoi scagnozzi. Doveva esserci sotto qualcos’altro e, a dirla tutta, preferiva non pensarci. Contava solo una cosa: non farsi catturare, perlomeno viva.

Si addormentò crogiolandosi in tali pensieri, sicuramente non rassicuranti ma che mantenevano intatti lo spirito e la determinazione necessari per proseguire il viaggio. La attendevano ancora parecchie insidie prima di raggiungere un luogo che avrebbe potuto definire sicuro. Di tal posto, sapeva solamente che si trovava al di là dei monti che le offrivano protezione. Ben presto, quegli stessi ammassi di roccia avrebbero costituito per lei una serie interminabile di traversie. In precedenza, aveva pensato di chiedere l’aiuto di una guida per trovare un valico che conducesse all’Eogide, confinante con la Lirosia, ma in seguito aveva abbandonato l’idea.

Alessia intendeva fuggire dalla Lirosia senza lasciare la benché minima traccia dei percorsi seguiti e dei propositi meditati. Voleva essere certa di essere irraggiungibile e introvabile, una volta uscita dalla regione. A questo punto, temeva che una guida fosse un testimone troppo rischioso da lasciarsi alle spalle.

Dietro di sé sentiva il cavallo calpestare l’erba sotto gli zoccoli. Alessia cambiò posizione e si coricò sulla schiena, e rimase per un po’ a contemplare il cielo. Quella notte, la volta celeste era chiara e limpida, non c’erano tracce delle nuvole di pioggia che poche ore prima l’avevano coperta e offuscata. Sopra di sé, Alessia vedeva migliaia di piccoli punti che brillavano, divampanti del proprio fuoco e che illuminavano un firmamento dominato dal blu intenso della notte.

Pensava che gli astri fossero come i sogni: risplendevano lontani, pur sembrando così vicini. Quante volte, da bambina, aveva osservato i corpi celesti, provando ad afferrarli con le proprie manine. Si era convinta che, come le stelle, i sogni spesso si rivelano inafferrabili, nonostante sembrino a portata di mano. Si augurava che il suo non fosse irraggiungibile come le stelle che la sovrastavano.

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Capitolo 8
*** Parte 6 - Il giardino nel cuore della selva ***


Capitolo II

Il giardino nel cuore della selva

 

 

 

Una sottile brezza scompigliava i rami circostanti. Alessia aveva freddo, e nonostante si fosse cambiata e asciugata come meglio poteva, aveva l’impressione che il suo corpo si stesse lentamente congelando. Voleva accendere un fuoco, ma non poteva esporsi a un simile rischio.

D’un tratto, qualcosa si mosse tra gli alberi. Alessia era sicura di aver intravisto una grossa figura strisciare da un tronco all’altro. Faceva poco rumore, ma la vista ormai abituata all’oscurità le permetteva ugualmente di vederla, e le fu chiaro fin da subito che non si trattava di una sagoma umana.

D’istinto, estrasse dalla borsa una torcia, dei rametti secchi e un paio di pietre focaie. Non era ancora intenzionata a produrre un fuoco, decisa a temporeggiare fino all’ultimo momento. Dopo alcuni secondi, la misteriosa creatura fu completamente celata alla vista, poiché una nuvola aveva coperto la luna. L’oscurità era pressoché totale.

Probabilmente la bestia l’aveva vista, e Alessia immaginava che si stesse ulteriormente avvicinando col favore del buio. I suoi movimenti erano impercettibili, ma aguzzando le orecchie riusciva ad avvertire dei fiochi versi gutturali. Adesso era braccata anche da un animale selvaggio.

Hificles iniziò a nitrire, spaventato. Scalpitava furiosamente, era agitatissimo e faceva l’impossibile per liberarsi. Alessia comprese che oramai non aveva più scelta: pur non accendendo il fuoco, i mercenari si sarebbero accorti dei nitriti del cavallo, che erano sempre più acuti.

Rapidamente e con destrezza, gettò i rametti secchi a terra e batté con forza tra loro le pietre focaie diverse volte. Alla fine, furono prodotte delle scintille che appiccarono un piccolo fuoco. Immediatamente afferrò la torcia e la appoggiò lì sopra, e poco dopo le fiamme divamparono su di essa. Un ampio cono di luce invase il perimetro circostante, illuminandolo a giorno.

Si guardò intorno, senza scorgere nulla. Poi guardò in direzione di Hificles, e a momenti non stramazzò a terra per l’agghiacciante sorpresa. Gigantesco al punto da eclissare la luna, si stagliava l’enorme corpo di un mostruoso orso nero. La terrificante bestia emise un potente ruggito che mise in mostra le possenti e letali fauci, ma non potevano passare inosservati nemmeno i formidabili artigli, che sarebbero stati in grado di scheggiare e frantumare una spada.

Gli orsi neri erano considerati le bestie più feroci di quella parte della Lirosia, e non a torto. Il primissimo impulso di Alessia fu naturalmente quello di fuggire a gambe levate, ma il raziocinio subito le ricordò che non avrebbe fatto molta strada senza il suo destriero. Con un impeto di audacia che sorprese perfino sé stessa, si frappose fra il mostro e Hificles brandendo la torcia e agitandola furiosamente. Con una mossa repentina, afferrò le briglie del cavallo e, nonostante fosse già in preda al panico, riuscì a slegarle.

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Capitolo 9
*** Parte 7 - La bestia selvaggia ***


Fu un’impresa costringere Hificles alla calma: se questi fosse stato un esemplare più impetuoso e poderoso si sarebbe già scrollato di dosso la presa della padrona, precipitandosi verso la Pianura. Alessia trascinò il destriero lungo la radura, continuando a indirizzare la torcia verso l’abominevole orso, che pareva diventare più famelico a ogni istante. Avanzava lentamente ma con molta decisione sulle quattro zampe, fissando le prede con uno sguardo animalesco che raggelava il sangue. La pelliccia arruffata e macchiata di muschio ne incrementava ulteriormente l’aspetto selvaggio, per non parlare delle zanne innaturalmente lunghe che sporgevano ai lati della bocca. Alessia si rendeva conto che se la bestia avesse deciso di attaccare, non avrebbe potuto fare alcunché per salvarsi. Era come osservare il destino all’opera: da un momento all’altro, questi si sarebbe inesorabilmente abbattuto su di lei, e sarebbe stata la fine.

Senza accorgersene, Alessia indietreggiava velocemente verso un passo roccioso a poca distanza dalla radura erbosa. Si accorse troppo tardi che si era infilata in un vicolo cieco. Alle sue spalle, difatti, c’era il margine del sentiero, che dava su uno strapiombo. Erano molto in alto: da lassù si vedevano la Pianura e l’orlo verdeggiante che delimitava il confine di Esterme. Nelle immediate vicinanze, i secolari abeti si stagliavano verso l’alto, quasi a voler fare da appiglio, dal fondo del baratro.

Innanzi a sé, la belva la fissava con sguardo feroce, inarrestabile e invincibile per la fame. Pochi passi separavano il cacciatore dalla preda. Alessia sapeva quanto fosse inutile gridare aiuto: nessuno l’avrebbe potuta soccorrere. L’orso la stava raggiungendo avvicinandosi a piccoli passi, quasi stesse pregustando l’attimo sublime in cui si sarebbe cibato delle sue carni. Spalancò la terrificante bocca un’altra volta, emettendo un nuovo, terrificante ruggito.

Fu solo allora, abbassando istintivamente il volto come per proteggersi, che Alessia notò dove stava poggiando i piedi. Continuando a retrocedere, era giunta all’estremità del sentiero roccioso, che sporgeva pericolosamente sul precipizio sottostante. E la roccia aveva iniziato a dare segni di instabilità.

L’orso pesava almeno cento volte più di lei, e non si rendeva conto che stava per causare la fine di entrambi. Alessia sapeva che doveva togliersi immediatamente da lì, ma le possibilità di evitare l’orso all’imboccatura della sporgenza erano minori di quelle di sopravvivere a uno scontro diretto. Inconsciamente, o forse mossa dal panico che la attanagliava, infilò una mano nella borsa a tracolla. Sfiorò qualcosa che inizialmente non riconobbe, ma successivamente comprese che quell’oggettino avrebbe potuto aiutarla in una maniera imprevedibile. Lo estrasse. Ringraziò sé stessa di averlo portato con sé, malgrado al momento della partenza lo avesse ritenuto inutile.

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Capitolo 10
*** Parte 8 - Un terribile scontro ***


La paura non le aveva impedito di ragionare a mente fredda, una volta riconosciuto l’oggetto e intuito come poteva utilizzarlo. Sentiva lo stomaco come dilaniato da invisibili lame ghiacciate, e ripensando a ciò che stava per fare non poteva non chiedersi se ne avrebbe avuto il tempo. Strinse forte la piccola boccetta di vetro che teneva saldamente in mano, attendendo il momento ideale per scagliarla contro l’orso. Non avrebbe mai immaginato di usare quella inoffensiva bottiglietta, poco più grande di una mano, contenente un liquore tipico della povera gente e dal sapore piuttosto aspro, come un’arma.

Richiamò a sé forza e coraggio, e si gettò nell’impresa. Fece un passo deciso verso la bestia, che continuava a fissarla con cupidigia, e con un gesto fulmineo e straordinariamente preciso, scagliò la boccetta con energia in direzione dell’animale. Dapprincipio la traiettoria dell’oggetto parve andare oltre la sagoma immane dell’orso, con sgomento e orrore di Alessia, ma poi, miracolosamente, essa cominciò a deviare verso il basso e il minuscolo contenitore si frantumò fragorosamente sul grugno della bestia.

Il dolore dovuto alle schegge di vetro che gli si erano conficcate nella carne scatenò la collera dell’orso, che si eresse sulle due zampe in tutta la sua possente mole e agghiacciò la notte con un ennesimo, furibondo ruggito. Il sangue che gli colava lungo il muso fin nelle fauci non era quello che bramava di assaggiare, e questo lo irritò ancora di più.

Ora Alessia era fredda e attenta. Le era riuscita la parte difficile del piano improvvisato, tutto ciò che rimaneva da fare era colpire prontamente e velocemente. Meno di dieci passi la separavano dalla creatura, quando comprese che il momento propizio era giunto.

Con estrema rapidità, colpì con la torcia il muso animalesco bagnato di alcol, e in pochi istanti l’orso si ritrovò il volto invaso da una moltitudine di fiamme voraci. Il dolore lancinante provocò una nuova ondata di ruggiti e urla, malgrado l’incendio fosse limitato a una minima porzione della testa. Con le sue enormi zampe, l’orso tentava forsennatamente di spegnere il fuoco. Prima che potesse riuscirci, Alessia e Hificles sgattaiolarono alle sue spalle.

Quando si accorse che le prede gli erano sfuggite e si allontanavano velocemente, sfogò la rabbia sbattendo ripetutamente le poderose zampe per terra. Le rocce della rupe non ressero né ai furiosi colpi né all’ingente peso dell’animale, e i deboli scricchiolii divennero fortissimi stridori fra massi.

L’orso nero non fece in tempo a ritornare sullo stabile terreno della radura. Avvertì le grosse pietre sfaldarsi e perdere compattezza sotto i propri piedi, e la frana conseguente lo risucchiò implacabilmente. Il crollo si estese per una vasta porzione di foresta, infrangendosi come un’ondata contro gli alberi con un fragore indicibile che riecheggiò per tutta la valle.

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EHI CIAO A TUTTI!!!! Spero vi sia piaciuto quanto avete letto finora :) Se avete letto tutto, vi ringrazio per la vostra attenzione :) mi piacerebbe sapere che cosa ne pensate del mio lavoro, basta anche un semplice commento, un'impressione... va bene tutto! Non siate timidi! Io ci conto, eh? Sto cercando di migliorare il mio stile, perciò ho bisogno di tante recensioni!! Non fatele mancare!!!

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Capitolo 11
*** Parte 9 - La sommità della foresta ***


Era quasi l’alba. All’orizzonte iniziava a intravedersi un lieve chiarore. Alessia si stava faticosamente facendo strada attraverso le fronde cespugliose degli alberi ostili, tenendo saldamente le briglie di Hificles, che la seguiva qualche passo dietro di lei. La mente continuava a riportarle dinanzi agli occhi le immagini dell’aggressione del mostruoso orso avvenuta alcune ore prima. Era ancora visibilmente scossa, ma faceva di tutto per mantenere il controllo. Continuava a ripetersi che il difficile doveva ancora venire, e non poteva lasciarsi impressionare da quegli ostacoli. Quand’era partita, era ben conscia di ciò che l’attendeva. Sapeva che Esterme, tappa obbligata per uscire di nascosto dalla Lirosia, era un luogo assai pericoloso.

Alessia continuava a pensare a quello che aveva fatto: aveva dimostrato di possedere una buona capacità di improvvisazione, e se ne compiaceva. Riconosceva, tuttavia, che per portare a termine il suo viaggio gliene sarebbe servito molto altro ancora.

La ragazza, in mezzo ai rovi e agli onnipresenti arbusti, si stava avvicinando sempre più al cuore della famigerata selva. Erano pochissimi coloro che avevano raggiunto quel punto ed avevano fatto ritorno. Alessia si tranquillizzava pensando che in nessun caso avrebbe fatto ritorno. Nessuna occhiata alla strada dietro di sé, importava solo il cammino ancora lunghissimo e tortuoso che si stagliava di fronte.

La luce filtrava abbondante ora, e la foresta aveva un aspetto un po’ meno inquietante. Si distrasse momentaneamente a guardare il cielo, che a poco a poco si stava rischiarando, e per poco non inciampò, rischiando di ruzzolare a terra. Quando alzò nuovamente lo sguardo, vide che nelle vicinanze gli alberi si diradavano e vi si poteva intravedere in mezzo un sentiero. Alessia non ne poteva più del percorso accidentato su cui aveva proseguito fino a quel momento, e si affrettò rumorosamente in direzione del selciato.

Non appena vi mise piede, capì immediatamente che quel posto era strano. Rimase sbalordita dalla sua stranezza, dalla bizzarria che ne pervadeva ogni angolo. Era entrata in una zona molto più ampia di quanto avesse previsto. Osservando gli alberi che la delimitavano, comprese che essa era quasi perfettamente circolare; un cerchio troppo perfetto per essere naturale. Sembrava che i tronchi fossero stati piantati lì in modo da circoscrivere un’area ben precisa.

Per sicurezza preferì legare le briglie di Hificles a un ramo nelle vicinanze e andare da sola in esplorazione. Comprese subito che non era la singolare recinzione arborea a costituire la vera stranezza. A quanto vedevano i suoi occhi, la radura era coltivata. Apparentemente secondo una disposizione geometrica, erano stati piantati cespugli e colture di notevole varietà. Se non lo avesse visto con i propri occhi o se qualcuno glielo avesse raccontato, non vi avrebbe mai creduto.

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Capitolo 12
*** Parte 10 - La crudeltà dei Rinnegati ***


Riconobbe alcune delle piante che le erano più vicine, ma la stragrande maggioranza di quanto vedeva le era assolutamente ignoto. Scorse dei funghi bluastri e dal gambo ricoperto da un umore giallognolo e viscoso, piante ricolme di meravigliosi fiori rossastri e infinite altre erbe dall’aroma fragrante e misterioso. Cominciò ad essere incuriosita.

Erano stati scavati degli stagni per permettere alle specie acquatiche di crescere, come le straordinarie ninfee alte quasi due metri e del crescione rossastro che emanava un profumo intensissimo, e che diffondeva in Alessia un’inspiegabile senso di felicità. Le bellezze del giardino sembravano non avere fine, ma la ragazza continuava a chiedersi chi potesse aver realizzato un simile paradiso nel cuore di Esterme.

 

Alessia stava passeggiando per il sentiero centrale, che attraversava il giardino in tutta la sua estensione. Si sentiva come se fosse approdata in un’altra dimensione, parallela eppur irraggiungibile, che tuttavia stava toccando con mano. Era bello trovarsi lì, ad ammirare quanto gli stava intorno. Improvvisamente, notò che anche gli alberi attorno erano piuttosto anomali. Non si trattava di tronchi robusti e rettilinei come gli altri, bensì di fusti alquanto esili e contorti; Alessia non poté fare a meno di osservare che alcuni ricordavano vagamente sagome umane, tanto erano innaturalmente ingarbugliati.

Tutt’a un tratto, Hificles iniziò a nitrire selvaggiamente. Alessia si voltò di scatto, con il cuore che batteva all’impazzata. Il pensiero di un altro orso nelle vicinanze le raggelava il sangue fin nella più piccola arteria. Si accorse di essersi allontanata troppo: scorgeva con difficoltà Hificles in lontananza, oltre gli alberi del cerchio, ma non riusciva a capire la causa della sua agitazione.

Pochi istanti dopo, tutto le fu chiaro. Si sentì afferrare violentemente alle spalle, da mani dure e sgradevoli, appartenenti a qualcuno ben più forte di lei. Un uomo la bloccò cingendole corpo e braccia con una stretta formidabile. La schiena cominciò a dolorare, a stretto contatto con un’armatura rigida ed evidentemente fornita di spuntoni.

Non riusciva a vedere il volto del suo aggressore, ma dal varco da cui era entrata poco prima, dove aveva lasciato Hificles, apparvero degli individui. Erano tre: indossavano lacere armature di cuoio e di ferro, scheggiate e provate da numerosi scontri, e avevano uno sguardo ostile tutt’altro che rassicurante. Uno aveva i capelli chiari, probabilmente era il più giovane del gruppo. Un altro li aveva rossi, non aveva sopracciglia ed era mortalmente pallido. Il terzo, al centro del gruppetto, era biondo e, a differenza dei compagni, era l’unico che sembrava divertito.

«Che vi avevo detto? Abbiamo fatto bene a continuare le ricerche, stanotte» rise, rivolgendosi ai compari. «Infine, ecco l’ambito premio!»

Tutti e quattro risero e annuirono. Alessia fu pervasa dall’angoscia, comprendendo chi avesse di fronte. Alla fine, ecco davanti a lei coloro che sperava di non dover incontrare mai.

Il capo si sedette su un masso per terra, e si rivolse a lei.

«Non avresti dovuto farlo, piccina. Fuggire da Terestia a quel modo, intendo. Potevi prevedere come sarebbe andata a finire. Dopotutto, sei la figlia del Tiranno. In quanto a riscatto, vali certamente ben più di una manciata di monete!

«Pensavi davvero che ci saremmo lasciati sfuggire un’occasione simile? Nemmeno vendendo quaranta schiavi ricaveremmo il gruzzolo che faremo trattando te. Ti riporteremo a Terestia, ma non aspettarti un rientro trionfale» disse, sorridendo.

Poi prese parola l’uomo dai capelli rossi privo di sopracciglia.

«Ci hanno raccontato come stanno le cose, in giro per la città. E così non ti va di sposarti?» chiese, maligno. «Beh, dopotutto credo che nessuna donna sarebbe ansiosa di diventare la moglie di un capotribù barbaro. Se poi è vero quel che si dice su come i Barbari trattano le donne...» continuò, spietato.

«Già la tua nascita è stata un’offesa al Tiranno. Ti è stata offerta l’opportunità di rimediare almeno in parte, ma hai preferito rendere il tuo crimine ancora più grave. Che insolenza...» disse l’uomo che la teneva immobile con le braccia.

«Dobbiamo ammettere che sei stata piuttosto astuta. Chi si aspettava che ci avresti causato tanti grattacapi?» riprese parola il capo.

Detto ciò, si alzò e si incamminò verso Alessia e il compagno che la teneva ferma. Quando le fu dirimpetto, la fissò negli occhi e ricominciò a parlare.

«Ci aspettavamo che seguissi la strada principale fino al Confine. Nessuno di noi avrebbe scommesso un soldo che volessi seminarci attraverso la foresta. Ci hai colto di sorpresa, per questo ci abbiamo messo più tempo del previsto.

«Ho capito che non eri una sprovveduta quando ho visto bene il tuo cavallo: un ilioride, vero? Una razza poco conosciuta, ma utile. Non sono originari della Lirosia, ma da anni destano la bramosia di ladri e fuggitivi per il loro talento nel dileguarsi.

«Dubito però che uno come tuo padre apprezzi la tua natura... indocile, e non sono affatto sicuro che pagherebbe il riscatto pur di riaverti con sé. Meglio non rischiare. Non ho la minima intenzione di perdere dei soldi, dopo tutta la fatica che abbiamo fatto!».

Alessia, per la prima volta da quando era stata agguantata, smise di divincolarsi. Percepì qualcosa di assai sinistro nella voce dell’uomo. Non capiva perché si ostinasse a spiegarle passo per passo tutto quello che era accaduto da quando era cominciato l’inseguimento. Dubitava che un mercenario qualsiasi si soffermasse così volentieri a conversare piacevolmente con il proprio bersaglio. Si domandò che cosa volesse davvero da lei.

«Chi sei tu?» chiese Alessia, parlando per la prima volta.

«Allora ce l’hai una lingua!» esclamò deliziato l’uomo. «Lieto di fare la sua conoscenza, mia signora. Il mio umile nome è Gianis e, assieme ai miei amici qui presenti, faccio parte della Compagnia Rinnegata».

Alessia ebbe un tuffo al cuore. Aveva sentito parlare di loro, di quella compagine di bruti prezzolati che annoverava tra le sue fila i peggiori elementi arruolati dagli ambienti più disparati: traditori dell’Esercito, Ferrosanidi disertori, briganti, assassini e feccia di ogni altro tipo.

Fu allora che nella testa della giovane scattò qualcosa, un flusso di panico che scorse gelido dentro la schiena, diffondendosi lentamente in tutto il corpo. Le si parò innanzi agli occhi l’immagine del gatto che gioca con la preda inerme prima di divorarla. Comprese che era esattamente ciò che Gianis stava facendo con lei. I Rinnegati erano noti essere del tutto privi di senso dell’onore, cosa che li autorizzava a compiere gli atti più efferati senza alcuna esitazione.

Alessia capì che stava per esserle riservato un trattamento peggiore della morte.

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Capitolo 13
*** Parte 11 - L'uomo dai molti segreti ***


Capitolo III

L’uomo dai molti segreti

 

 

 

«Sei davvero molto bella...» disse Gianis. «Sai una cosa? Penso che una ragazza carina e affascinante come te sarebbe sprecata nelle mani di un vile Barbaro. Non lo pensate anche voi?» domandò ai compagni. «È stata proprio una faticaccia prenderti. È ora di prendersi una piccola ricompensa».

Proferite tali parole, cominciò a sfilarsi l’armatura.

Alessia iniziò a gridare con quanto fiato aveva in gola, pur sapendo che era inutile. Lo sapevano anche i suoi aguzzini, poiché non accennarono a un tentativo per farla stare zitta. Il Rinnegato più giovane osservava attentamente in disparte, quello con i capelli rossi si gustava attimo per attimo il terrore crescente di Alessia. Supplicava aiuto sempre più forte, ma nessuno avrebbe potuto accorrere in suo soccorso in quel luogo remoto.

«Ehi!»

Gianis si fermò di colpo, e Alessia, per la sorpresa, smise di lottare. Lo sgherro che la teneva bloccata si voltò di scatto, permettendole di vedere la fonte della voce. Sia lei che i Rinnegati rimasero basiti.

Davanti a loro si presentava un uomo con volto celato da una cappa nera e corpo interamente coperto da una veste dello stesso colore. Ai piedi aveva stivali di cuoio anch’essi neri come la notte. L’abito era talmente scuro che si riusciva a malapena a distinguerlo dall’ombra degli alberi circostanti. Tutti e cinque gli astanti si chiesero se quella bizzarra apparizione fosse reale.

Gianis fu il primo a volerlo constatare.

«In nome degli Inferi, tu chi accidenti sei?»

«Qualcuno che si innervosisce parecchio quando gli calpestano le siepi» rispose l’individuo con voce controllata, ma che tradiva rabbia ad ogni sillaba. «Il mio giardino è già abbastanza concimato senza bisogno di voi».

Gianis lo guardò frastornato. Tuttavia, si riprese immediatamente dallo sconvolgimento. La sua natura bieca prese nuovamente il sopravvento sull’elementare istinto di sopravvivenza.

«Ti riferisci a queste siepi?» domandò allo sconosciuto.

Il Rinnegato si avvicinò a un cespuglio dalle bacche verde smeraldo che gli era accanto. Dopo essersi assicurato che chi l’aveva sfidato gli stesse dedicando la propria attenzione, si mise a calpestare furiosamente la pianta, improvvisando persino una specie di balletto, finché il cespuglio intero non fu irrimediabilmente danneggiato.

Benché Gianis non potesse vederlo, Alessia avrebbe giurato che gli occhi dello sconosciuto avessero emesso per un istante un inquietante, sinistro bagliore, e la ragazza percepì ulteriori brividi percorrergli la schiena.

«O magari intendevi queste?» continuò nel frattempo Gianis, indirizzandosi verso un altro gruppo di colture.

«Perché non provi a calpestare me, invece?»

Il capo dei Rinnegati, al culmine della frenesia saccheggiatrice, non si rendeva conto dei guai in cui si stava impelagando. Avesse ragionato a mente fredda, forse avrebbe potuto fiutare il pericolo. In quel momento, Gianis era schiavo della peggior aspetto del suo turbolento carattere: l’impulsività, che ne aveva causato anni prima l’espulsione dall’Esercito. La smania di uccidere non gli permise di ponderare gli eventuali rischi nell’affrontare un misterioso individuo che lo stava sfidando sul proprio terreno.

«Tenetemi la ragazza pronta, voialtri!» urlò Gianis. «Ci vorrà solo un minuto!»

Detto ciò, sguainò dalla fodera dei gambali una lama lunga quanto un avambraccio, e si incamminò con passo rapido e deciso verso lo sfidante. Nel frattempo, questi aveva estratto da una tasca interna del mantello un guanto in maglia di ferro e se lo era infilato, con calma e naturalezza.

Quando Gianis gli fu dirimpetto, tutto avvenne con tale rapidità che gli spettatori impiegarono alcuni secondi prima di capacitarsi dell’accaduto.

L’ultima cosa che avevano visto e di cui erano certi, era la figura del Rinnegato in procinto di sferrare un micidiale fendente allo stomaco dell’uomo incappucciato. La maggior parte di quanto era successo dopo dovettero ricostruirlo a mente, poiché la velocità dell’azione non aveva permesso loro di seguirne gli sviluppi.

L’individuo senza nome aveva afferrato il polso del nemico e lo aveva dirottato verso il vuoto a lato del proprio fianco. Così facendo, i due contendenti si erano trovati petto contro petto. Prima che Gianis potesse accennare a una reazione, il forestiero gli aveva posto la mano coperta dal guanto sulla faccia, più per appoggiarla che per colpirlo. La parte immediatamente successiva era quella incomprensibile: il mercenario era stramazzato a terra, esanime. Ma non era tutto. Con sommo orrore dei suoi compari, quello che giusto un minuto prima era stato il volto del loro capo adesso era una massa di carne sanguinolenta e ustionata, con l’impronta di una mano marchiata a fuoco.

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Capitolo 14
*** Parte 12 - Il terrore dei mercenari ***


Il corpo di Gianis ancora si muoveva, ma si trattava di spasmi scoordinati e bruschi, che preannunciavano il trapasso. Durante il brevissimo scontro non aveva emesso alcun suono, nemmeno quando gli era stata posta la mano rovente sopra la faccia. Alessia osservò la mano dell’uomo che aveva sconfitto con tanta facilità un Rinnegato: il guanto di ferro era davvero arroventato, incandescente al punto da farlo apparire fiammeggiante. Pareva addirittura che il guanto stesse per fondersi e colare dalla mano che lo indossava. Eppure, non vi erano dubbi sul fatto che pochi istanti prima quel metallo fosse stato freddo.

«Aveva ragione» disse l’uomo incappucciato, fissando Gianis. «C’è voluto solo un minuto».

Prima che un’altra parola venisse pronunciata, fece un passo in avanti e si incamminò lentamente verso il resto del gruppo. Contemporaneamente, il mercenario dai capelli rossi si scagliò furente contro di lui, estraendo la spada e impugnandola con entrambe le mani. L’individuo misterioso scostò il mantello e si preparò a fermare l’attacco. Il mercenario si arrestò bruscamente a pochi centimetri dal nemico e, sollevando l’arma più in alto che poteva, si apprestò a farla precipitare sul cranio dell’avversario. Questi tuttavia lo bloccò prima che la micidiale lama fosse a metà strada, cingendo con la mano rovente le dita che impugnavano saldamente l’elsa della spada. Un urlo straziante esplose riecheggiando nei dintorni.

Il Rinnegato dai capelli rossi lasciò cadere la spada sull’umido terreno erboso, mentre le sue dita erano ancora intrappolate nella morsa dell’uomo vestito di nero. Alessia e gli altri due guerrieri rimasti videro con raccapriccio le mani del compagno subire la stessa sorte del viso di Gianis, bruciandosi e ustionandosi come carne sulla brace.

Lo strazio della vittima durò tuttavia poco. Con rapidità il forestiero estrasse dal mantello un pugnale lucente dal manico elaborato, e con freddezza pose fine alle sofferenze del Rinnegato, che ricadde sulla schiena, mostrando così il profondo taglio in cui era penetrata la lama. Il terrore degli ultimi due criminali rimasti era decisamente palpabile, scatenato dalla vista del pugnale che si era fatto strada attraverso una spessa corazza di ferro come se fosse stata di burro.

«Lasciate la ragazza, per favore» disse all’improvviso, rinfoderando la propria arma.

Solo allora i due Rinnegati si ricordarono di avere un ostaggio. Per il terrore, erano indietreggiati sino a toccare i bizzarri tronchi della recinzione. L’uomo in nero si avvicinò ancora.

«Non ti avvicinare!» urlò il mercenario giovane. «Lasciaci andare, o la uccido!» Detto questo, estrasse un coltello dentellato e lo puntò alla gola di Alessia.

La ragazza cominciò a sentirsi davvero disperata. Non era facile intravedere una via d’uscita. Si chiese come avrebbe potuto quel cupo soccorritore venirle in aiuto, questa volta. E anche se ci fosse riuscito, chi le assicurava che finire nelle sue mani non fosse peggio che rimanere in quelle dei Rinnegati?

Alessia non indugiò a lungo su tali pensieri, perché il forestiero diede segno di essere pronto a fare la sua mossa. I due Rinnegati rimanenti scrutavano con occhio vigile ogni minimo movimento di quell’uomo, attendendo la sua risposta. Che in costui fossero presenti molti lati assai sospetti, era stato lampante sin dal primo istante in cui lo avevano incrociato. Ora, egli si apprestava a mostrare loro qualcosa che non avrebbero più avuto modo di vedere, poiché sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbero visto in vita.

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Capitolo 15
*** Parte 13 - Il potere del Necromante ***


Lentamente, infilò una mano sotto il mantello. I Rinnegati e Alessia credettero che intendesse estrarre nuovamente il pugnale, ma si sbagliavano. Quando la levò, impugnava un oggetto che non poteva certamente essere una lama. Assomigliava molto a un piccolo ramo, non più grande del pugnale che avevano veduto prima, accuratamente intagliato e dal brillante colore marrone scuro, con alcune pietre incastonate in ordine sparso. Aveva un manico e una lunga estremità appuntita.

Nell’intravedere il manufatto, il carceriere di Alessia allentò improvvisamente la presa in cui teneva stretta la giovane. Nei secondi successivi, la mente del Rinnegato fu invasa da ricordi appartenenti a sfere temporali assai confuse, che gli permisero finalmente di comprendere appieno quanto era accaduto fino ad allora. I racconti, le testimonianze raccolte nei vari viaggi, le dicerie... tutto improvvisamente acquistava un senso. Amalgamando quanto sapeva e quanto aveva sentito dire, adesso gli appariva cristallino ciò che poc’anzi era torbido e incoerente: aveva compreso con esattezza la natura dell’incubo che stava vivendo.

«Non un passo di più, Necromante!» urlò con quanto fiato aveva in gola.

Alessia impallidì. Quella parola riversò un torrente di paura nelle sue vene. La situazione stava diventando di attimo in attimo più terrificante, e la sua, in particolare, stava degenerando precipitosamente, sprofondando in guai dai quali non sapeva come tirarsi fuori.

“Le voci su Esterme, dunque, non erano tutte fandonie”, pensò Alessia. In quella foresta maledetta si annidava davvero qualcosa di immondo. La ragazza aveva udito spesso degli inquietanti racconti sui mostri e le creature abominevoli che risiedevano nelle foreste selvagge, ma mai si sarebbe immaginata che Esterme nascondesse tra le sue cupe ombre un Necromante.

Non si poteva parlare dei Necromanti senza che il cuore venisse pervaso dall’angoscia. Il folclore popolare li dipingeva come una razza abietta di stregoni e assassini, dediti unicamente a sacrileghi rituali e ad atti blasfemi con cui profanare tutto ciò che dall’uomo era venerato come sacro. Costoro avevano giocato un ruolo di primo piano nelle vicende della Lirosia: l’eterna e immortale faida tra i Necromanti e i Ferrosanidi, paladini della Fede e braccio armato del Simposio, costituiva la sostanza della storia millenaria di quella terra.

Alessia comprese subito come aveva fatto il Rinnegato a riconoscerlo: l’oggetto che questi aveva rivelato altro non era che un caduceo. Non si sapeva con esattezza se tali strumenti possedessero poteri propri o se fossero solo un mezzo di incanalamento per i poteri dei Necromanti, ma era certo che con un caduceo in mano era possibile stravolgere molte leggi della natura. Si mormorava che, grazie a quel portentoso artefatto, i Necromanti fossero capaci di prodigi quali il risveglio dei morti, e di asservirli ai loro comandi.

Anche se erano assai pochi coloro che potevano vantarsi di aver incontrato un Necromante, quasi tutti conoscevano l’aspetto di un caduceo: dalle campagne contro i nemici della Fede, i Ferrosanidi avevano riportato, come parte del bottino di guerra, diversi caducei come trofei. Tuttavia, nessuno aveva mai avuto modo di ammirare l’effettivo potere di quegli oggetti, poiché nessuno, salvo un Necromante, era capace di usarli e di risvegliarne il potere quiescente.

Alessia stava per assistere a qualcosa di assolutamente fuori dal comune. Il Necromante impugnò fermamente con entrambe le mani il caduceo e la paura dei Rinnegati degenerò rapidamente in panico. Benché non potessero vederlo perché oscurato dalla cappa, il viso dell’uomo era contratto dalla concentrazione e ormai non udiva più le parole che gli venivano rivolte.

«Per gli Dei, fermati! Tieni la ragazza, ma lascia andare noi!» gridò il mercenario giovane, togliendo la lama dalla gola di Alessia.

La luce che fino a un attimo prima filtrava abbondante dalle fronde degli alberi scomparve del tutto, ammantando il giardino nascosto in una tiepida oscurità. Era calato un silenzio tombale: apparentemente, non vi era insetto, uccello o animale che facesse rumore o si muovesse nei dintorni.

Bruscamente e con rapidità inaudita, Alessia avvertì qualcosa abbattersi violentemente sulla faccia del suo carceriere. Una manciata di secondi più tardi fu libera. Le braccia dell’uomo che l’aveva trattenuta fino ad allora si erano allentate e l’avevano lasciata cadere sul prato. Voltandosi, Alessia si avvide con orrore e sgomento di ciò che succedeva.

I due Rinnegati si stavano furiosamente divincolando dalla presa di mani e braccia non umane. Quelli che poco prima erano stati solamente alberi dalla forma bizzarra, ora sembravano uomini fusi nel legno, che era dotato di vita propria. Dai tronchi erano fuoriusciti due corpi, se così si potevano definire, le cui fattezze ricordavano quelle umane. Si protendevano dagli alberi fino alla vita, ed era lo spettacolo più aberrante che Alessia avesse mai visto. Benché animati, la pelle e il corpo sembravano fatti anch’essi di legno. Scricchiolavano fragorosamente a ogni movimento, possedevano mani innaturalmente lunghe e nodose, ma non era possibile distinguerne un volto, poiché ne erano sprovvisti. Il viso era difatti l’unica parte liscia dei corpi rugosi, come se i lineamenti fossero stati cancellati o avessero fatto parte di una maschera che era stata strappata via.

La scena era terrificante. I mostri arborei stavano schiacciando con gli scheletrici arti le malcapitate vittime, che non riuscivano più a emettere alcun suono. Stavano soffocando, ma nonostante la crudeltà e la sofferenza che ne accompagnavano la fine, Alessia non riusciva a provare pietà per loro. Non riusciva neppure a staccare lo sguardo dalla scena: gli ultimi incontrollati fremiti, i gemiti sommessi di dolore, il terrore che trasudava da ogni particella d’aria...

Infine, lo strazio ebbe termine. I Rinnegati non si mossero più, gli abominevoli arti che li attanagliavano iniziarono a ritrarsi e a sprofondare nuovamente all’interno dei tronchi cavi, per immergersi in un nuovo sonno. Liberati dalla raccapricciante morsa, i corpi ormai esanimi ricaddero sull’erba, immobili, spenti per sempre.

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Capitolo 16
*** Parte 14 - Le parole del salvatore ***


Alessia era paralizzata e sconcertata, la sua mente offuscata da mille pensieri contrastanti. Non aveva bisogno di voltarsi per sapere che il Necromante era alle sue spalle e la stava scrutando, forse anch’egli indeciso sul da farsi. La ragazza non riusciva ancora a distogliere l’attenzione dai cadaveri, mentre sentiva che l’uomo dietro di lei la stava squadrando con occhi gelidi.

«Ti senti bene?»

Per la sorpresa, Alessia si girò. Tra tutte le possibili domande che avrebbe potuto rivolgerle, quella era l’unica che la coglieva impreparata.

«Io... beh, sì... sì, sto bene» balbettò debolmente, e si sentì in dovere di aggiungere: «Grazie a te».

L’uomo parve sordo a quest’ultima affermazione, iniziando a concentrarsi sul sangue che vedeva qua e là sul corpo della ragazza. Si inginocchiò accanto a lei per osservare meglio. Le sue braccia erano piene di lividi, a causa della violenza con cui era stata tenuta prigioniera. C’erano ferite lievi di vario tipo, piccole escoriazioni dovute al passaggio attraverso l’impervia foresta. Si abbassò il cappuccio per scrutare con maggior attenzione.

Fu così che Alessia lo vide in faccia per la prima volta. Aveva i capelli neri e corti, lucidi al punto da sembrar bagnati, occhi cerulei e freddi come ghiaccio, e la carnagione chiara. Era un viso florido, con guance piene e corporatura robusta. Non fosse stato per l’aspetto severo e sinistro, avrebbe potuto essere molto attraente.

«Immagino che brucino» le disse, indicando con gli occhi le ferite. «Non sono profonde, ma le medicherei se fossi in te. In luoghi come questo, può bastare il taglio più sottile a scatenare un’infezione» aggiunse.

«Ecco... sì, hai ragione, in effetti dovrei... il problema è che non ho con me unguenti o altro...»

Il Necromante la fissò, indecifrabile.

«A dirla tutta, mi sorprende assai che una ragazzina si sia fatta strada attraverso Esterme e sia arrivata fin qui senza grosse ferite. Specialmente quando sei stata aggredita dall’orso...»

Alessia annuì, ma improvvisamente una scarica di rinnovata energia la pervase, dovuta al ricordo della bestia che aveva sconfitto poche ore prima. Rimase basita per quello che le era appena stato rivelato.

«Tu come sai dell’orso?!» esclamò, sconcertata.

Egli sospirò, abbozzando un mezzo sorriso che però si affrettò a far scomparire.

«Il tuo ingresso nel mio bosco non è stato molto discreto. Sappi che, così come io sono dentro la foresta, la foresta è dentro di me. Quando sei penetrata in Esterme al galoppo, io mi trovavo su un dirupo a osservare la scena. Ero lì per caso, e ho assistito a quanto è avvenuto.

«Ho visto gli uomini che ti inseguivano. Li ho riconosciuti subito come mercenari, e ho pensato di venirti incontro. Ho cercato, per quanto mi fosse possibile, di indirizzarti sul sentiero più agibile, e di rallentare l’avanzata degli altri. All’inizio, ho preferito restare in disparte e osservare da lontano. Non ho ritenuto necessario mostrarmi. Ho atteso la notte, ho spiato – con un certo divertimento, non lo posso negare – i mercenari mentre imprecavano e bestemmiavano furiosi perché avevano perduto le tue tracce. Una volta accertatomi che con l’oscurità non potessero procedere, mi sono allontanato per raggiungere te. Sono arrivato alla radura appena in tempo per vedere un orso chiuderti in un vicolo cieco. Stavo per richiamarlo, ma ti liberasti di lui da sola prima che avessi il tempo di fare alcunché.

«Ti ho veduta fuggire, e ti ho seguita. Sapevo che il fuoco della torcia che avevi acceso, per non parlare del frastuono della frana, avevano nuovamente messo sulle tue tracce i Rinnegati; quindi ho deciso di starti dietro. Quando sei arrivata qui e anche loro ti hanno raggiunto, ho capito che il divertimento era finito ed era ora di intervenire. E poi, stavano calpestando le mie piante!»

Alessia aveva ascoltato ogni singola parola, e la mente le si stava a poco a poco affollando di domande. Era ancora scossa per quanto era avvenuto prima, ma lentamente si stava riprendendo e lo spirito audace e ribelle che la contraddistingueva stava tornando alla ribalta.

«Che vuoi dire con stavo per richiamare l’orso”?!»

L’uomo non rispose, ma in compenso si rialzò e le tese una mano.

«Ti devi medicare. Te l’ho già detto: quassù anche la più piccola ferita non ripulita può essere fatale».

Indispettita per la mancata risposta, Alessia non accettò l’aiuto offertole per rialzarsi. Si levò in piedi con le proprie forze, e il Necromante le fece cenno di seguirlo.

EHI CIAO A TUTTI!!!! Spero vi sia piaciuto quanto avete letto finora :) Se avete letto tutto, vi ringrazio per la vostra attenzione :) mi piacerebbe sapere che cosa ne pensate del mio lavoro, basta anche un semplice commento, un'impressione... va bene tutto! Non siate timidi! Io ci conto, eh? Sto cercando di migliorare il mio stile, perciò ho bisogno di tante recensioni!! Non fatele mancare!!!

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Capitolo 17
*** Parte 15 - La tana del Necromante ***


«Prima devo prendere il mio cavallo» disse Alessia.

«Fai in fretta».

Alessia si affrettò a raggiungere Hificles e a slegarlo, e lo condusse lungo il sentiero centrale del giardino. La ragazza si premurò di far sì che le zampe del cavallo non calpestassero accidentalmente nemmeno una foglia dei vegetali circostanti, avendo constatato quanto una simile azione potesse rivelarsi azzardata.

Di lì a poco, furono fuori dal recinto arboreo dello strano orto. Alessia seguiva a qualche passo di distanza, mentre l’uomo proseguiva tranquillamente lungo un sentiero di ciottoli che serpeggiava attraverso gli alberi, verso una destinazione ignota.

«Sei davvero un Necromante?» domandò all’improvviso.

L’uomo rallentò un istante, ma quasi subito riprese la normale andatura.

«Se anche fosse?» buttò lì in risposta.

«Beh, dal momento che mi hai salvata, sappi che, chiunque tu sia, non posso nutrire pregiudizi verso di te» affermò Alessia.

«Molto gentile da parte tua» disse l’altro, senza voltarsi. «Comunque sia, è così. Io sono un Necromante».

Alessia deglutì, ma non si scompose.

«Che intendi fare di me?»

«In che senso?»

«Ecco... insomma...»

«Ho capito. Non preoccuparti. Se ti volevo morta, avrei lasciato che fossero i Rinnegati a occuparsi dell’incombenza».

Alessia constatò che aveva ragione. Quell’uomo si stava rivelando del tutto diverso da come l’aveva immaginato. Tuttavia, c’era un dubbio che continuava ad assillarla.

«Volevo sapere...» incominciò la ragazza, ma l’uomo la interruppe.

«Per ora basta con le domande. Parleremo di qualunque cosa tu voglia una volta che ti avrò curato quelle ferite. Non sopporto la vista del sangue».

 

Dopo una breve camminata, gli alberi si diradarono e apparve un vasto spazio aperto, circondato dalla vegetazione. Ciò che balzava immediatamente all’occhio era una maestosa parete rocciosa ornata da giganteschi abeti, che si stagliavano verso il cielo azzurro. Su quella stessa roccia si apriva una fenditura che pareva assai profonda.

«Seguimi» la invitò il Necromante.

Inizialmente Alessia non comprese dove avrebbe dovuto seguirlo, ma poco dopo vide l’uomo infilarsi con naturalezza dentro la fenditura. La giovane, piuttosto sorpresa, legò Hificles a uno degli abeti che si ergevano lungo l’entrata e si apprestò a seguirlo all’interno della spaccatura.

Dentro lo strettissimo condotto era buio pesto, ma si intravedeva in lontananza una tenue luce. Essa tremolava alla fine del passaggio, proveniente probabilmente da uno spazio più ampio situato in profondità. Si fece strada lentamente attraverso la galleria, appoggiandosi con le mani sulle pareti e appiattendosi per passare. Infine, sbucò nel luogo più singolare che avesse mai visto.

Si trattava di una caverna caldamente illuminata da candele sparse per ogni dove. A giudicare da quanto vedeva, era indubbiamente il rifugio del Necromante. Ben pochi, a meno che non fossero Necromanti essi stessi, potevano affermare di aver visitato la dimora di uno di quegli enigmatici individui. Il morbido e soffuso bagliore dei ceri accesi dipingeva tutto quanto di un intenso chiaroscuro, come se nella grotta regnasse costantemente la luce del tramonto. Essa era costituita da un’unica, vasta camera che conteneva un’infinità di strumenti inconsueti da cui Alessia si sentiva inspiegabilmente incuriosita.

Sulla parete di fronte, c’era un mobile in legno alto fino al soffitto e suddiviso in dieci scaffali. Su ognuno dei ripiani erano sistemati, l’uno accanto all’altro, oggetti tutti uguali dalla forma rettangolare, disposti verticalmente, in apparenza rilegati da comune pelle animale. Lungo il medesimo muro, era collocato un tavolo su cui erano stati disposti in pile numerosi di quegli oggetti. Ve n’era uno aperto: all’interno era composto da molti sottilissimi strati di un materiale che non riconobbe, simile alla pergamena ma assai più resistente. Ciò che catturava immediatamente l’attenzione erano i disegni impressi sopra: schizzi raffiguranti uomini, ma come Alessia non li aveva mai visti rappresentati. In quelle figure, la loro pelle sembrava fosse stata cancellata, in modo da poterne vedere i muscoli e lo scheletro sottostanti.

Prima che potesse porsi ulteriori domande, una voce la richiamò al presente.

«Ti interessa l’anatomia?»

Alessia si voltò bruscamente e imbarazzata, come se fosse stata sorpresa a rubare.

«Io non sapevo... perdonami...»

«La curiosità è umana. Immagino che tu non abbia mai visto niente di simile» disse il Necromante, indicando e afferrando uno degli oggetti riposti sullo scaffale.

«Che cosa sono?» domandò Alessia.

«Libri» le rispose lui. «Fai attenzione: una volta che ne avrai aperto uno, difficilmente riuscirai a separartene».

Detto questo, aprì il libro che aveva preso e iniziò a sfogliarlo.

«Sai leggere?» le domandò, senza distogliere lo sguardo dalle pagine.

«Sì» rispose Alessia. «So leggere. E ho letto molto. Tuttavia, non avevo mai veduto simili manufatti. Da dove provengono?»

«Da ogni dove. Ovunque ci sia cultura, ci sono i libri. Solo in Lirosia è proibita la loro diffusione, per colpa dell’Ordine e, soprattutto, del Simposio».

Alessia tacque. Percepì, seppur molto velata, una nota di risentimento nella voce del Necromante. Questa volta, la ragazza non ebbe bisogno di fare domande per comprendere il senso delle sue parole.

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Capitolo 18
*** Parte 16 - La storia di Libedonia ***


La Lirosia, per innumerevoli secoli, era stata teatro di feroci scontri tra due potenti fazioni, due forze che sembravano nate per combattersi e destinate a farlo fino alla fine dei tempi. Da una parte, i Necromanti, fermi sostenitori della superiorità della natura umana su quella divina, veneratori del puro intelletto, per i quali non esisteva niente di sacro, disposti a distorcere le leggi della natura oltre ogni limite per il raggiungimento della conoscenza. Dall’altra, i Ferrosanidi, custodi di un culto segreto che imponeva la sottomissione agli Dei e al Simposio, una setta proclamatasi l’autorità in grado di fungere da tramite tra i Mortali e gli Dei. L’Ordine della Rosa e del Ferro, la confraternita che selezionava i soldati più devoti e indottrinati, resisi meritevoli di integrare le fila dei Ferrosanidi, si assumeva, sotto la benedizione del Simposio, il sacro compito di proteggere la Fede da ogni minaccia terrena, e in special modo dalla Necromanzia.

Nel corso degli ultimi due secoli, il Simposio aveva accumulato sufficiente forza da soppiantare i grandi rivali. A causa della frammentazione insita nella loro natura e dei molti conflitti interni che li contraddistinguevano, i Necromanti si erano indeboliti tanto da concedere al nemico il predominio sulla Lirosia su un piatto d’argento. L’Ordine, anno dopo anno, catturava e giustiziava un numero sempre maggiore di Necromanti, e l’opera diffamatoria intrapresa dal Simposio aveva cominciato a dare i frutti sperati: la stessa parola Necromanzia era divenuta sinonimo di empietà, incarnando significati abietti in ogni linguaggio.

A seguito delle atroci stragi ai danni dei loro consimili, e con l’aumentare del discredito del loro nome in Lirosia, i Necromanti abbandonarono quella terra, nella speranza di cominciare una nuova vita nelle regioni confinanti. Così, i pochissimi rimasti rappresentavano una minoranza discriminata e temuta, spietatamente braccata dalle forze nemiche, le quali non avevano perso tempo a consolidare il predominio finalmente raggiunto.

Il Simposio, che prima d’allora risiedeva, come i Necromanti, in città e centri sparsi per il territorio, aveva fatto di Libedonia, la città più grande e prospera dell’intera Lirosia, la sua dimora. Nominatisi Patriarchi della città, le alte sfere del Simposio ne controllavano ogni aspetto della vita religiosa, politica e sociale. Libedonia era inoltre il centro culturale dell’intera regione, e perciò la diffusione della Fede ai territori limitrofi fu assai agevolata.

Naturalmente la Necromanzia fu bandita come pratica sacrilega, chiunque fosse sospettato di conoscerne i precetti o di offrire sostegno ai Necromanti incorreva nella pena capitale. L’istruzione, ritenuta pericoloso veicolo di ricaduta nell’eresia necromantica, fu anch’essa bandita. Le Sacre Pergamene erano l’unica forma di lettura concessa alla Lirosia, ma solo i pochi eruditi rimasti erano in grado di leggerle.

Erano tempi assai bui, tempi di ignoranza e superstizione. L’oblio aleggiava sulla vita di ogni uomo e donna, lesto a penetrare nelle menti e a privarle di ciò che le rendeva tali.

 

Alessia era seduta in mezzo alla camera al centro della piccola grotta. L’uomo che l’aveva salvata era sparito con il libro che aveva preso dalla libreria, raccomandandole di non muoversi. Guardandosi attorno, notava ad ogni occhiata nuovi oggetti strampalati che la incuriosivano e la riempivano di desiderio di conoscenza.

A poca distanza, c’era un letto intagliato nelle spesse radici di una quercia che era cresciuta sopra la caverna. Malgrado l’aspetto rustico si intuiva che era stato realizzato con cura, sulla parete al di sopra e tutt’intorno si trovavano ripiani e mensole varie, su cui erano appoggiati altri libri, ma non solo: stranissime ampolle di vetro dalla forma decisamente inconsueta, alcune vuote e alcune ripiene di un liquido verdastro, e vi erano anche dei grossi contenitori con piccole creature immerse nel liquido, che la ragazza era certa di non aver mai visto. Era misteriosamente attratta da quelle bizzarre lucertole e da quei rettili così esotici, preservati dalla decomposizione nei barattoli.

Era una situazione davvero incredibile: si trovava nel covo di un Necromante, uno degli esseri più famigerati dell’intera Lirosia, in procinto di ricevere le sue cure.

Improvvisamente, udì un rumore di passi leggeri provenire dalla galleria in cui poco prima si era addentrato il Necromante. Lo vide uscirne con in mano una piccola scodella di peltro. Non aveva idea di che cosa contenesse, ma qualunque cosa fosse doveva essere stata riscaldata, perché si intravedevano volute di vapore che si sollevavano verso l’alto.

«Spalmalo sulle ferite. Scotterà un po’, ma eviterà che ti ammali» disse, porgendogliela.

Alessia, nonostante il vapore che le ostacolava la vista, ne intravide il contenuto: una sostanza pastosa di colore biancastro, che emanava un familiare odore di erbe macinate, alla quale presumeva fossero stati aggiunti particolari oli disinfettanti.

«Che cos’è?» domandò la ragazza.

«Ti farà bene. Non è velenoso».

«Come ti devo chiamare?»

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Capitolo 19
*** Parte 17 - Il nome dell'eremita ***


Per i miei lettori

Mi scuso per la storia dei preamboli… non intendevo infastidire nessuno. Prometto che non si verificherà più tale inconveniente, e che d’ora in avanti le notifiche che riceverete riguarderanno esclusivamente reali aggiornamenti della storia.

Scusate ancora.

Clive Danbrough

L’uomo parve sussultare. Sembrava che quella domanda lo avesse colto impreparato, come se non gli fosse stata rivolta da anni. La fronte gli si corrugò.

«Desidero solo ringraziarti per l’aiuto che mi stai dando» aggiunse Alessia. «Forse non hai un nome?»

«Ho un nome» le rispose il Necromante. «Ma conoscerlo, per te, equivarrebbe a una condanna a morte. Se in un modo o nell’altro qualcuno dovesse scoprire che mi hai conosciuto, per te sarebbero grossi guai. E anche per me. Perdonami, ma non sono disposto a correre questo rischio».

«Capisco» disse Alessia, amareggiata.

La ragazza infilò una mano nella scodella e con le dita cominciò a spalmarsi la pomata sulle braccia. Scottava per davvero, ma la ragazza non fece commenti.

«Se proprio vuoi darmi un nome, chiamami Calidius. È falso e non ha alcun legame con il mio vero nome. Spero ti basti».

Alessia alzò la testa, guardandolo negli occhi. Non poté fare a meno di sorridere.

«Grazie per avermi salvato, Calidius. Te ne sono profondamente riconoscente. Mi hai salvata dal peggiore dei destini».

«La tua casa deve essere un posto proprio brutto, se hai deciso di sfidare la foresta pur di andartene».

«Non puoi immaginare quanto. Io vivevo in un palazzo, ma non era altro che una prigione dorata. Le mie catene erano d’argento, ma erano pur sempre catene».

«Si capisce che sei di famiglia nobile» la interruppe Calidius. «Nonostante il velo di sporco e di fatica che ti ricopre, si intuiscono tante cose di te. Le tue mani sono morbide e rosee, non conoscono il duro lavoro. I tuo capelli, sebbene arruffati, sono fini e curati. La carnagione e la corporatura, inoltre, tradiscono il fatto che sei stata ben nutrita».

«Avrei rinunciato a ognuna di queste cose pur di ricevere un minimo di considerazione. Avrei dato tutto pur di essere considerata una persona!» si sfogò Alessia.

Calidius la osservò, continuando a rimanere in piedi. Lei, seduta innanzi a lui, continuava a spalmarsi l’unguento sulla pelle escoriata.

«Non so neanche perché ti dico queste cose. So che non hanno importanza per te. Perdonami».

«Infatti è così» le rispose Calidius. Alessia alzò lo sguardo, sorpresa e offesa. «Mi importa assai poco del perché e del per come sei finita qui. Tuttavia, ti ascolterò molto volentieri ogni volta che lo vorrai».

«Che senso avrebbe, se non sei minimamente interessato a quello che dico?!»

«Per il momento non lo sono, infatti. Ma potrei sempre diventarlo. E poi, ho l’impressione che tu abbia davvero bisogno di parlare».

La ragazza, colpita nel segno, tacque. Comprendeva perfettamente che fosse nella natura di quell’individuo celare segreti, ma si rese conto di non sopportare l’aura di superiorità, forse persino di arroganza, che emanava. Non accettava l’idea che Calidius leggesse dentro di lei come se fosse un libro aperto, mentre a lei non era concesso scrutare nemmeno una delle pagine che componevano l’anima di quell’uomo.

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Capitolo 20
*** Parte 18 - Dubbi e misteri ***


Capitolo IV

Dubbi e misteri

 

 

 

La mattina era velocemente trascorsa. La poca luce che filtrava dalle fessure del soffitto era intensa e calda, doveva essere quasi mezzogiorno. Alessia e Calidius avevano parlato per la maggior parte del tempo, ma la ragazza non era mai sazia di risposte. L’uomo, d’altro canto, nonostante volesse a tutti i costi apparire riluttante nel proseguire la conversazione, non riusciva a drenare il fiume di parole che sgorgava dalla bocca della sua giovane ospite. Probabilmente falliva in tale impresa poiché egli per primo non era intenzionato a porre fine al dialogo. Malgrado in cuor suo facesse di tutto per convincersi del contrario, Calidius aveva voglia di parlare.

«Sei realmente in grado di controllare gli animali?» fu l’ennesima domanda che Alessia gli rivolse.

«Non esattamente» rispose lui, apparentemente pacato ma con una sospetta nota di compiacimento nella voce. «Non posso affermare di poter comandare gli orsi e le bestie selvagge come più mi aggrada. Semplicemente, sono in grado di richiamarli e allontanarli a mio piacimento. Non ne influenzo in alcun altro modo il comportamento. Non posso convincere un orso a mangiare un cavolfiore, ma posso attirarlo a me, indirizzarlo da qualche altra parte, oppure farlo andare via. Tutto qui».

«Ma come ci riesci?»

«Grazie a questo» disse Calidius, infilando una mano nell’orlo della camicia ed estraendone un piccolo corno, legato al collo tramite una cordicella. «Questa è la punta del corno di un Minotauro, la parte più sottile e facile da lavorare. È cava, e vi ho introdotto qualche meccanismo di mia invenzione. Mi basta soffiarvi dentro e, a seconda della cadenza del suono, posso impartire gli ordini che desidero».

«Quando ero nella foresta, tuttavia, non ho udito alcun suono!»

«Sarei rimasto molto sorpreso se non fosse stato così. Il suono che esce da questo corno non viene percepito dalle orecchie umane. Solo gli animali sono in grado di captarlo».

«Incredibile...» mormorò colpita Alessia. «Tutti i Necromanti sono dotati di simili abilità?»

Calidius sospirò, ma non distolse lo sguardo.

«Non saprei dirti. Tuttavia, ne dubito. Ciò che sa fare un Necromante non è detto che sappia farlo anche un altro. In genere, essi non fanno trapelare granché del proprio patrimonio di segreti e scoperte. E poi, la maggior parte dei Necromanti è occupata in ben altri campi di ricerca. Non sono i misteri di piante o animali quelli che destano il loro interesse».

Proferendo le ultime parole, un’ombra cupa era calata sul suo volto e la fronte gli si era leggermente corrugata. Alessia avrebbe giurato che un bagliore sinistro avesse lampeggiato per un istante nei suoi occhi gelidi, e comprese che sarebbe stato saggio non approfondire ulteriormente l’argomento.

«Basta chiacchiere, per ora. È mezzogiorno passato e io ho fame. Dovresti averne anche tu» disse improvvisamente Calidius.

Essendo rimasta rapita dalla conversazione con un Necromante, Alessia si era dimenticata sia del dolore per le ferite sia della stanchezza e, soprattutto, dell’appetito. Adesso che tutto gli era repentinamente tornato alla mente, si rese conto di essere alquanto provata da tutto quello che era successo nelle ore precedenti.

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Capitolo 21
*** Parte 19 - Un duro colpo ***


Poco dopo, Alessia si ritrovò ad assaporare una minestra di verdure dal sapore inusuale, ma ricco e nutriente. Riconobbe dei funghi nella ricetta, assieme a ortaggi bolliti comuni quali carote e patate. Mangiò le verdure e sorbì anche il brodo, tanto era affamata. Con piacevole sorpresa, si rese presto conto che quella singola porzione di zuppa l’aveva rinvigorita come se avesse mangiato almeno quattro portate. Sospettava che l’effetto ricostituente fosse strettamente correlato al fatto che il cuoco era un abile Necromante.

Calidius non aveva pranzato in sua compagnia. Alessia riteneva che si fosse ritirato in qualche antro nascosto della caverna, e ne identificava la ragione nella natura schiva del suo ospite. Malgrado avesse intrattenuto una lunga conversazione con lei, l’avesse accolta, curata e nutrita, la giovane percepiva in Calidius una natura profondamente solitaria e guardinga verso tutto ciò che poteva ricondurlo al mondo degli uomini.

Alessia sapeva che ben presto si sarebbe dovuta allontanare da quel luogo. Calidius probabilmente non aveva voluto infrangere la sacra legge dell’ospitalità, ma allo stesso tempo non v’era dubbio che condividesse l’opinione secondo cui il miglior ospite è quello che se ne va in fretta.

La giovane fu interrotta nel mezzo dei propri pensieri dall’eco di passi in avvicinamento, segno del ritorno di Calidius. Infatti, pochi istanti dopo, l’uomo ricomparve davanti a lei, scrutandola con i suoi penetranti occhi azzurri.

«Non ti ho ancora chiesto come ti chiami» esordì.

«Ero sul punto di credere che nemmeno questo ti interessasse» rispose la ragazza, più divertita che stizzita. «Comunque il mio nome è Alessialis».

«Che nome ridicolo!» esclamò Calidius.

Alessia lo scrutò torva, stavolta più stizzita che divertita.

«Lo so» replicò freddamente. «Infatti tutti mi chiamano Alessia».

«Se me lo permetterai, penso proprio che anche io ti chiamerò così» disse Calidius. «Come sei finita quaggiù?»

Alessia gli raccontò nuovamente della propria rocambolesca fuga dai Rinnegati e anche dei suoi propositi. Gli parlò del suo intento di valicare le montagne allo scopo di lasciarsi il passato alle spalle, e di come aveva sacrificato tutto pur di raggiungere tale obiettivo.

Un abbozzo di sorriso baluginò sul volto ombroso di Calidius, ma scomparve rapidamente. Il Necromante aveva una strana espressione, come se dovesse comunicare alla sua ospite qualcosa di spiacevole. Sul tavolino adiacente ad Alessia era appoggiato un bicchiere di creta, ed accanto una brocca dello stesso materiale piena d’acqua. La ragazza si versò da bere.

«Immagino che tu non sappia granché sulle terre oltre il Confine...»

«Tu invece sì?»

«So alcune cose. Posso dirti innanzitutto che hai fatto un viaggio inutile».

La sorsata d’acqua che stava bevendo le andò di traverso, facendola tossire e sputacchiare più volte.

«Che stai dicendo? Che intendi dire?»

«Il Confine è chiuso» replicò pacato Calidius. «Da diversi anni a questa parte, milizie Ferrosanidi e legioni dell’esercito di Libedonia controllano e presidiano gli avamposti lungo le strade che entrano ed escono dalla Lirosia. Tutte, senza eccezioni. Pattugliano persino i valichi sulle montagne e le vie più insidiose. Sono tutte sorvegliate. In questo momento, in Lirosia non si entra e non si esce. Siamo come pesci in una rete, per fartela breve».

Alessia era sconvolta.

«Ma perché? Per quale motivo fanno questo?»

«Ho qualche vaga ipotesi, ma nessuna certezza».

«Ma allora... se il Confine è chiuso, io...»

«Temo di sì» disse Calidius. «Sei bloccata qui. Il tuo progetto di fuga è fallito, a quanto pare. In Lirosia, i fuggitivi e gli evasi sono ricercati secondi per importanza solo ai Necromanti».

Alessia si fermò a soppesare il significato delle parole di Calidius. Se era vero che ogni strada, ogni via d’uscita da quella terra maledetta era protetta e invalicabile, per lei non rimanevano più speranze. Bloccata in un territorio ostile, braccata dai mercenari e priva di mezzi di sussistenza, si sentiva stretta in una morsa che di minuto in minuto la soffocava sempre di più. Il sogno era infranto, sul suo futuro incombeva un famelico sciacallo chiamato destino.

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Capitolo 22
*** Parte 20 - Il laboratorio ***


«Non rimproverarti, è assai difficile procurarsi notizie fresche di questi tempi. Io stesso mi sono dovuto recare di persona al Confine per scoprirlo. L’Ordine è abile a celare le proprie mosse» mormorò Calidius, intuendo la disperazione della ragazza.

«Le proprie... mosse...» mormorò debolmente Alessia, mentre cominciava a sentirsi le gambe sempre più deboli.

«Suppongo che tutto questo abbia in qualche modo a che fare con la campagna contro i Necromanti...»

Ma Alessia ormai non lo ascoltava più. Vedeva le labbra di Calidius muoversi, ma alle sue orecchie non giungeva alcun suono. Ogni rumore giungeva ovattato, i contorni scuri del Necromante diventavano sfocati e confusi, persino la luce all’interno della grotta cominciò pian piano a diventare sempre più flebile, fino a scomparire del tutto in un delicato e infinito oblio.

 

Molte ore dopo, Alessia riaprì gli occhi. Vide sopra di sé, raffigurati sul soffitto, curiosi graffiti realizzati con inchiostro nero, che in precedenza non aveva notato. Era sdraiato sul letto intagliato nelle radici. Calidius non era nella stanza.

Si rese conto di essere svenuta. La tensione degli ultimi giorni, unita allo scarso riposo che si era potuta permettere e alla sconcertante notizia che le era stata comunicata poc’anzi le avevano causato la perdita dei sensi. Si sedette lentamente sull’orlo del giaciglio, guardandosi intorno. La stanza era vuota, e si accorse che il passaggio da cui era entrata nella caverna poco tempo prima era stato sbarrato. La galleria nella roccia era chiusa con uno spesso portone in legno.

La ragazza si alzò e si diresse verso di esso. Ne afferrò i bordi, ma ogni tentativo di smuoverlo si rivelò presto vano. Non solo la pesantezza dell’ostacolo contribuiva a renderne lo spostamento un’impresa, ma si rese presto conto che esso era dotato di una serratura e chiuso a chiave.

Improvvisamente, udì un rumore provenire dalla galleria interna della caverna. Alessia non era sicura di essere autorizzata ad aggirarsi per quel luogo come più le aggradava, ma d’altronde Calidius non le aveva imposto alcuna restrizione in merito. Decise che avrebbe osato ficcanasare in giro, ragion per cui si intrufolò nell’oscuro cunicolo. Esso era, se possibile, anche più angusto e stretto della via di ingresso alla grotta, e Alessia si chiedeva come Calidius fosse in grado di attraversare senza difficoltà quei passaggi.

A un certo punto, ebbe l’impressione di intravedere delle luci baluginanti alla fine del percorso. Si trattava di lampi intermittenti di colore bluastro, e sembravano essere l’unica fonte di illuminazione di quell’area. Era quasi giunta al termine della spaccatura nella roccia, e sentiva la curiosità pervadere le sue membra con rinnovato entusiasmo.

Sbucò infine in un antro dalle dimensioni notevolmente maggiori rispetto a quello dove aveva dormito in precedenza. Era quasi del tutto vuoto, eccezion fatta per la fonte delle luci misteriose. Tale spazio sarebbe stato completamente buio se non fosse stato per i bagliori scaturiti da una serie di ampolle e alambicchi di vetro, posizionati in ordine sparso sopra alcuni tavoli in fondo alla camera. Erano i liquidi contenuti nelle ampolle e negli alambicchi a generare i fasci luminosi colorati. A intervalli di pochi secondi, tutto lo spazio circostante era pervaso da uno sfolgorio di lampi tinti del blu della notte più intensa.

Alessia avvicinò il volto a uno degli involucri di vetro: i liquidi al loro interno stavano bollendo, poiché erano sospesi sopra un catino in ferro che, come la ragazza ebbe modo di appurare, conteneva carboni ardenti. Sottili vapori si levavano leggiadri dalla superficie dei fluidi in ebollizione, vorticando velocemente in spirali e incanalandosi da una fiala all’altra.

Agli alambicchi erano collegati strani marchingegni, sormontati da quelli che parevano i piatti di una bilancia. Sopra di essi erano stati posti, diversi per ogni singolo macchinario, della polvere bianca come zucchero, dei semi dal fortissimo aroma dolciastro e delle foglie secche che emanavano il medesimo odore.

Accanto ai tavoli da lavoro su cui era poggiato quell’incredibile complesso di stramberie, vi erano diverse piattaforme in legno, su cui erano state lasciate decine di scodelle e mortai di varie dimensioni, con i relativi cucchiai e pestelli. Sulle stesse piattaforme era stata collocata una straordinaria quantità di ingredienti alchemici, con un immenso assortimento. Non mancavano radici, foglie, semi e baccelli, né qualsiasi altro componente di pianta da cui si potesse ricavare una qualche sostanza. Molto probabilmente, la maggior parte di quello che vedeva proveniva dall’orto segreto in cui aveva incontrato Calidius.

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