Pure Morning

di Aslinn
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap.1: Pure Morning ***
Capitolo 2: *** Cap.2: Sucker Love ***
Capitolo 3: *** Cap.3: Stuck between the do or die ***
Capitolo 4: *** Cap.3: Borderline bipolar ***



Capitolo 1
*** Cap.1: Pure Morning ***


Pure morning Note:Salve gente! Sono ancora qui con una nuova FF, ebbene sì. Il titolo ha senso qui e non ne ha, non chiedetemi perché l'ho scelto, è meglio per la nostra sanità mentale ò.ò In alcuni punti sarà...emm...diciamo contorta. Spero che però alla fine tutto sia chiaro.
Attenzione: i Placebo appartengono solo a se stessi, io non ci guadagno nulla a scrivere ste cose se non un modo per uccidere la noia. Non voglio offenderer quei tre ragazzotti, e nessun altro. I caratteri sono inventati, supposti, e non corrispondono a quelli reali!
La trama non è nulla di che, ma un'occasione per approfondire i personaggi e il loro rapporto, per dare una mia spiegazione del particolare legame che tiene incollati Stefan e Brian. Beati entrambi!
Il titolo della FF è una canzone dei Placebo, come anche alcuni titoli di capitoli.
Commenti e/o critiche sempre ben accetti.
Buona lettura!

Capitolo 1: Pure Morning


Ci sono giorni in cui anche il più insignificante rumore diventa il sottofondo di uno sguardo sereno. In cui la luce è solo il veicolo di colori stupendi, che ti cullano gli occhi e l’animo. In cui ogni sensazione tattile è l’esplosione dei sensi.
E ci sono giorni in cui i rumori sono solo pugnalate nel cranio, frantumano ogni osso e ti ricordano che sei uno stronzo senza ragione, perché sei causa del tuo stesso dolore. Continui a farti male per sentirti sanguinare, perché non sai evitarlo. E’ divertirsi e pensare solo a quello, niente conseguenze, bene o male.
Quello era uno di questi giorni dannati. Le lenzuola mi scivolarono sul corpo in maniera odiosamente irritante, quasi strusciando producessero un rumore insopportabile che ronzi nei timpani e ti faccia prudere le orecchie e il cranio. La luce che filtrava dallo spicchio schiacciato di finestra mi bruciava gli occhi, costringendomi dopo attimi infiniti di semicoscienza a voltarmi. Non ero esattamente sveglio, forse non lo sarei stato per tutto il giorno, e mai mi sarei destato, né fisicamente né mentalmente, se nel voltarmi non avessi sentito qualcosa. Non solo la nausea causata dallo stomaco in subbuglio, non solo il trapano che mi passava da una tempia all’altra senza piacere, ma qualcosa di concreto più di tutto ciò: un corpo. Il caldo che emanava dall’epidermide in sudorazione passiva, l’odore della pelle e di ciò che tra le lenzuola c’era stato, e infine la prima sensazione che giungeva come ultima: il tatto.
Pelle pulita, pelle tiepida e morbida, pelle bianca.
Sentivo su un lato del corpo il calore del letto, sull’altro delle lenzuola….e di fronte a me c’era lui. Risalii dal petto che avevo per prima visto fino al collo sottile e poi i capelli spettinati e appiccicati alla fronte…e il viso. Dormiva rannicchiato, in posizione fetale, come sempre. Così piccolo, così indifeso, così dolce. E non era niente di tutto ciò. Lo sapevo bene, ma mi piaceva vivere nell’illusione che fosse un tenero cucciolo, fantasia alimentata da questi attimi. Gli occhi chiusi, le lunghe ciglia a sfiorare gli zigomi, la fronte liscia e rilassata, le morbide labbra languidamente schiuse in un respiro calmo e regolare, così naturale.
Quelle stesse labbra che si incurvavano in sorrisi ironici e arroganti, che fremevano di rabbia, che si atteggiavano a bronci bambineschi, infantili. Sbagliava: lui era un attore, e non ci credeva.
Temevo quasi nel svegliarlo, non volevo che quell’idillio d’osservazione terminasse. Ma la testa mi scoppiava e la nausea mi assaliva, insieme alla consapevolezza che se lui si trovava nel mio letto c’era solo un motivo, un’unica spiegazione. Ci ero ricascato.
Ricordavo convulsamente qualcosa, ma era confuso. Più che altro odori…e sapori.
Mi abbandonai al cuscino e sprofondando la mia testa fece rialzare la stoffa, nascondendomi parzialmente il suo viso. Mi sentivo a pezzi e l’aria di sogno cominciava a sfumare e a dissolversi per lasciar posto a un molto meno poetico nervosismo.
Guardai il bianco e improvvisamente mi balzò alla mente il “White Unicorn”, il locale dove ci saremmo dovuti esibire quella sera. E ci aspettava il soundcheck. Dovevamo muoverci.
Mi alzai e corsi in bagno per prepararmi. Mentre mi rialzavo dal lavello un improvviso senso di vertigine mi catturò la mente e mi chiuse lo stomaco. Mi gettai sulla tazza e vomitai nel cesso. Rimasi sospeso su quel buco bianco per qualche secondo, cercando di riprendere fiato e di reprimere i conati, malgrado sapessi che era meglio lasciarli sfogare.
“Brutta nottata?”
Mi voltai e vidi sull’uscio Brian, in slip neri, che mi guardava sorridendo malizioso. Non mi sembrava proprio il momento di scherzare, ma io e lui abbiamo sempre avuto diverse concezioni dell’opportunità di dire e fare certe cose in determinate situazioni.
Improvvisamente sentii schifo per me stesso, non volevo che mi vedesse così. Mi alzai e, accigliato, mi sciacquai il volto e la bocca nel lavello. Brian mi passò alle spalle e mi carezzò la schiena ancora nuda con le dita sottili. Sentii subito l’istinto di sottrarmi a quelle sue carezze fortuite. Non capiva quanto valessero, almeno così sembrava. Era sempre stato così. Si dimostrava amabile e affabile con tutti, dava carezze leggere ma sapienti, pacche sulle braccia, mani sulle ginocchia, sorrisi e sguardi. Ma sentiva veri solo il 10% d’essi. Ed entrava in contatto solo quando era lui a deciderlo. Ora ha affinato questo modo d’essere, risultando ancora più elegantemente gentile e affabile.
Ma non capivi mai cosa gli passasse in mente. Era volubile, ingannevole. Il giorno prima amava una persona, il giorno dopo giurava il suo disprezzo per essa.
Ma con me ero certo che fosse sempre stato il vero Brian. Quello che ti teneva sveglio per le sue chiacchiere difficili da seguire, soprattutto a tarda ora e dopo esibizioni o prestazioni varie, e quando ormai eri allo stremo e lui si era stancato chiedeva: ti sto annoiando, vero? Sempre con quel suo sorriso.
Ma lui era anche altro. Era quello che per un intero giorno non ti parlava, se ne stava solo a fumare o scrivere musica, e poi quando voleva si avvicinava a te e ti chiedeva coccole che non potevi negargli. Era arrogante, presuntuoso, sicurissimo della sua superiorità mentale, pronto a mortificare se stesso per sentirsi poi più forte, ma anche incredibilmente fragile, come un pupazzo di ghiaccio, lunatico. Sempre tra gli estremi: iperattivo o mollemente adagiato sulla vita, ilare o depresso, fiero o schifato da sé.
Ti usava e ti gettava via, ma non voleva ferirti, almeno così credevo. Lo faceva per sopravvivere. E da me era sempre tornato…ancora oggi mi chiedo se in realtà non fossi io a tornare da lui. Perché possiede quel qualcosa di magnetico così raro e terribilmente superbo.
Mi defilai dal bagno, mentre lui mi guardava con una finta faccia shoccata e poi subito dopo un broncio infantile, il suo broncio infantile.
“Stronzo!”
Chiusi la porta del bagno e lo sentii ridacchiare nel suo modo nasale e profondo, come se scavasse con le unghie per portare stremato a riva la sua felicità, o la creasse sul momento, quasi avesse una massa di creta da modellare a piacimento e tirarne fuori parole dolci e incoraggianti, sorrisi, occhi illuminati.
Un attore della vita.
E io cos’ero? Il suo costumista, quello da cui correva quando la sua maschera si stava sciogliendo nelle lacrime, corrodendolo dall’interno.
Ed ero pronto a raccogliere i suoi pianti e lavare via il suo trucco, per farlo tornare a sorridere in mezzo alla folla acclamante. Nessuno lo conosceva, forse neanche io. Ingurgitavo il suo dolore, pian piano mi corrodeva, ma stavo bene perché mi stava bene. Un compromesso per entrambi. Ingenuo! Non sapevo quanto male stavo facendo, ci stavamo procurando.

Il cellulare che squillava mi destò dal mio stato di catalessi, in piedi di fronte alla porta chiusa del bagno.
Risposi subito e automaticamente, forse avevo bisogno proprio di una chiamata che mi spronasse e distraesse.
“Sì?”
“Stef ma dove diamine siete finiti tu e quell’altro imbecille?”
Riconobbi subito la voce irosa di Steve, quando si arrabbiava era un carro armato. Anche per questo Brian lo usava come guardia personale, quando si ficcava in casini più grossi di lui, con quella dannatissima parlantina.
“Senti Steve…”
“No, non sento nulla, sbrigatevi che ho da fare, io!”
Chiuse la chiamata calcando per bene su quell’ “io”.
Era un tipo impaziente, ma anche fondamentalmente buono e limpido. Se urlava era sicuramente arrabbiato, se sorrideva era certamente felice o per lo meno sereno. L’opposto di Brian. Steve non sapeva fingere.
Gettai un po’ stizzito il cellulare sul materasso, tra le lenzuola attorcigliate e la coperta che ricadeva su un lato del letto.
Bussai con il pugno alla porta del bagno urlando a Brian di muoversi.
Mugugnò qualcosa in risposta, ma dovetti attendere dieci minuti prima che uscisse, nei quali mi ero già vestito, in modo semplice. Brian fece capolino dietro le mie spalle mettendosi in punta di piedi nell’invano tentativo di sbirciare cosa facessi con il cellulare. Stavo solo inviando un messaggio a Steve, per dirgli che stavamo arrivando. E sapevo che Brian non era davvero interessato alla cosa.
Mi voltai con rimprovero e lui mi sorrise come un bimbo.
“Che c’è?”
Lo squadrai, considerando che aveva cambiato solo i boxer.
“Devi muoverti, Brian. Steve ci aspetta.”
Sbuffò annoiato da quei rimproveri, non gli piaceva molto, ma sembrava trovare gusto a farmi arrabbiare. Fino a un certo limite, però. Poi la farsa gli diveniva troppo pesante e si chiudeva in un mutismo snervante. E se insistevi ti faceva capire con poche, precise e studiate parole che era ora di smetterla. Ecco l’arma che più usava per ferire: il silenzio.
Si diresse al mio armadio e cominciò a frugare tra i vestiti, mettendoli in disordine con precisione maniacale.
“Che fai?” chiesi contrariato.
“Qui ci deve essere qualcosa di mio….ah, ecco!” esordì estraendo dal caos che aveva creato in così breve tempo una t-shirt e un paio di jeans scuri. Sorrise soddisfatto mostrandomeli.
Roteai gli occhi e lui per risposta si spostò i capelli di lato in un gesto molto femminile e mi guardò reclinando appena il capo, con l’intento di intenerirmi in quella posa infantilmente sensuale. Era troppo. Presi le chiavi e mi diressi alla porta con il cellulare.
“Ti aspetto giù, muoviti.”

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Capitolo 2
*** Cap.2: Sucker Love ***


C1
Note: Solite: non a scopo di lucro, tutto inventato (situazioni, caratteri, sentimenti) e i Placebo appartengono solo a se stessi.
Questo capitolo è importante per la storia (il massimo sarebbe che tutti lo fossero, ma forse è pretendere troppoXD) e sicuramente il finale potrebbe essere strano, ma tutto, almeno nella mia testolina, ha un perché.
Anche se può sembrare il contrario, non odio Brian XD
Sempre ben accetti commenti e/o critiche.
Buona lettura!
Capitolo 2: Sucker Love


Il viaggio in macchina fu silenzioso. Troppo. Mi voltai più volte, in modo discreto, per osservare rapidamente Brian. Teneva lo sguardo fisso sulla strada fuori, il gomito poggiato sul bracciolo dello sportello e il pugno a sorreggere il mento. L’espressione era neutrale. Mi capitava di vederlo così, anche spesso ultimamente. Solo con me, che io sapessi, si concedeva questo lusso, oltre che con il se stesso più profondo, anche se non la radice che cercava di sopprimere e far tacere. Sembrava in lotta continua con qualche suo Io.
Gli guardai il ginocchio e ritirai lo sguardo sul vetro di fronte a me. Lui avrebbe già allungato una mano al mio posto.
Visto che la strada era ancora lunga nel traffico e che odiavo quel silenzio teso, sapendo che avrebbe potuto portarselo dietro per tutto il giorno, mi decisi a parlare.
“Ieri notte abbiamo alzando parecchio il gomito, eh?”
“Mhm.”
“Eppure sono sempre io che mi sento male la mattina, un giorno mi spiegherai com’è possibile.”
“Già.”
Che situazione. Di solito ero io quello silenzioso, ma quando Brian si chiudeva così parlare sembrava l’unico modo per non ferirsi per il suo mutismo ostinato.
“Non vuoi parlarne?”
Si voltò e mi fissò, senza uno sguardo definibile, ma sentivo i suoi occhi che mi scavavano l’anima, con scarso interesse tuttavia.
Poi scoppiò improvvisamente in una risata, una delle sue così viscerali, e mi poggiò una mano sul ginocchio. Prevedibile, eppure imprevedibile. Questo era Brian.
“Di che ti preoccupi, Stef? Mica è la prima volta.”
Sentivo che sorrideva e lanciandogli uno sguardo, che pregai perché fosse indecifrabile, ma invano, ne ebbi conferma.
Si abbandonò al sedile senza ritirare la sua piccola mano.
“Non ti sarai per caso stancato di noi?”
“Ma che dici? Perché dovrei stancarmi di andare a letto con il mio migliore amico?”
Suscitai involontariamente in lui una risata, un po’ amara.
Tornò a guardare fuori, ritirando piano la mano e portandola sul proprio grembo.
Sapevo che non era deluso da quello che tra noi non c’era. Lui non era affatto il mio tipo, a me piacevano, e tutt’ora piacciono, gli uomini rudi. Lui è fragile ed ho sempre paura di spezzarlo, mi sento incapace di accudirlo, preferisco non avere paure. E poi la forza fisica mi alletta, quella interiore è volubile e minacciosa, anche per una storia. Perché ci andavo a letto? Perché lui lo voleva e perché io l’amavo. Ma non fraintendetemi, lo amavo come potevo amare un fratello, un amico sincero, una persona a ti è così cara che non vorresti mai se ne andasse. Non c’era propriamente attrazione fisica, anche se lui ribadiva che amava il mio corpo. Era carino, ma ero più attratto da ciò che era che da quello che era il suo corpo.
Lui dal canto suo era attratto da me, ma non di quell’attrazione puramente fisica. Era difficile da capire per me allora. E in quel periodo mi convinsi che fosse davvero attratto dai ragazzi. Troppo tardi capii che l’unica cosa che attraeva Brian era il sesso, e la possibilità di esplorarlo in ogni campo e maniera.
E se si comportava così, da puttanella, era perché voleva esserlo. Ne aveva bisogno. Sul palco voleva essere l’idolo che lui aveva sempre cercato, un modo per riscattare quel ragazzino patetico che si dichiarava sensibile per suscitare pietà, ma che in realtà era solo debole e insicuro. Aveva paura di ferirsi e vedeva il mondo come un nemico. Eppure voleva essere ferito, per potersi poi leccare le ferite o farle leccare da altri. La mia verità supposta su di lui era che fosse incredibilmente attratto dal lato nero, del proprio carattere, della propria sessualità, del proprio Io. Provocava gli altri per gusto di essere attaccato. Feriva per poterne poi piangere. Odiava per sentirsi male.
A volte questo per lui era troppo, e allora veniva da me, o dal primo capitato, e chiedeva di essere amato.
Era controverso, e tutt’oggi, dopo anni di collaborazione e intensa amicizia, nonostante io sia la persona a lui più vicina, credo di non aver capito chi lui sia in realtà.

Steve ci guardava torvo da dietro la batteria, già seduto e pronto a suonare. Quelle occhiaie, ormai perenni e parte di sé, rendevano il suo sguardo ancora più duro e lugubre. Non mi preoccupava molto, allora i litigi tra di noi erano normali e sempre risolvibili, anche se non mi piacevano. Sospettavo che invece Brian ci trovasse gusto a farlo arrabbiare, e a far arrabbiare me.
Cominciammo a suonare, uno strumento alla volta, e dopo diverse sistemazioni provammo un paio di canzoni. Ci fu un problema tecnico per il mio basso, l’amplificatore non funzionava bene, e questo fece perdere più tempo del previsto, facendoci irritare tutti, soprattutto Steve.
Io la presi con calma, sapevo che agitare ulteriormente le acque sarebbe stato inutile. Ho sempre cercato di fare il diplomatico e mettere in pace il gruppo, ma forse il mio apporto non è mai stato né necessario né sufficiente.
“Se avessimo cominciato prima!” esordì Steve alzandosi dal suo sgabello e venendomi dietro le spalle, mentre guardavo a braccia conserte i tecnici che controllavano l’amplificatore.
Lanciai un veloce sguardo a Brian, che nel frattempo si era acceso una sigaretta e aspirava concentrato, con la chitarra che gli pendeva sull’addome. Chissà a cosa pensava? Sembrava non aver notato il tono acido e insinuatore di Steve. Mi voltai verso quest’ultimo e sperai che il mio sguardo di rimprovero bastasse. Ma evidentemente non era così. Lui non lo fermavi, non rientrava negli schemi, era naturale in ciò che faceva.
“Bhe, è colpa vostra!”inveì improvvisamente rosso in volto. Dall’amplificatore uscì una scintilla che ci costrinse a indietreggiare. Steve sbuffo irritato. “Che diamine! Non potete stare una notte senza scopare?”
Mi voltai di botto per fronteggiarlo. Era inopportuno, non sapeva di cosa parlava e mi sentii punto nel vivo e infastidito.
“Taci, Steve!”
Lo sovrastavo nettamente, sebbene probabilmente in uno scontro fisico lucido lui avrebbe avuto la meglio. Ma io dalla mia parte avevo la rabbia che mi stava montando dentro le costole. Comprimeva il respiro rendendolo carico e pesante, frettoloso di uscire da quella gabbia di fuoco, mentre il sangue fuggiva via per lo stesso motivo, ma eccitato e sprizzato dal cuore con impellente bisogno.
“Io dovrei tacere? Non ci penso, Stef! Ci tengo al gruppo, cazzo! Ho lasciato il mio, i miei, tutti distrutti. Non voglio finire in un’altra pattumiera!”
Mi affrontò alzando leggermente la testa per guardarmi dritto negli occhi.
Non vacillò neanche un istante, eppure sapevo che il mio sguardo era spaventoso, come dopo mi avrebbe detto Brian.
“E credi che io non ci tenga? Molto più di te! Ma i nostri fatti personali non c’entrano nulla con la band!”
Mentivo, e lo sapevo. Questo mi rendeva ancor più rabbioso e convinto.
“Che cazzo dici? Ma ti senti? Vi siete proprio fottuti il cervello, tu e quella…”
Il pugno volò prima che me ne rendessi conto. Ricordo un insieme di fotogrammi. Una mano non mia colpiva il mento di Steve e una persona che non ero io ribolliva di rabbia e gli saltava addosso. Mani forti bloccavano una bestia che non ero io e una voce, quella voce, mi richiamava.
“Smettila, Stef.”
Brian guardava stupito un essere rabbioso che non ero io, non potevo essere io….eppure ero io.

Il soundcheck fu rimandato di un paio di ore. Mi ritirai in un angolo del locale, seduto su un divanetto con del ghiaccio sulla mano. Andava sciogliendosi e il fatto che mi alleviasse il dolore mi faceva sentire ancora più bastardo.
“Credevo avessi speso tutte le energie stanotte”.
Alzai lo sguardo e vidi Brian che si sedeva accanto a me e passava rapide occhiate dal mio volto al ghiaccio e ancor al mio viso, sorridendo divertito. E io mi chiesi cosa cazzo avesse da sorridere, tuttavia non glielo dissi.
Non risposi, non credo che ci fosse qualcosa da rispondere.
Dopo qualche minuto di silenzio dissi: “Ho esagerato, scusa.”
“Bhe che hai esagerato è normale. Mi piacerebbe sapere cosa ti ha fatto scattare.”
Lo guardai incredulo: non capiva o fingeva? Possibile che non ci arrivasse, quel suo tanto amato intelletto?
“Hai sentito quel che ha detto Steve. Non capisce un cazzo di noi due. E poi ti stava per chiamare…”
“…puttanella, lo so.”
“E non ti ha dato fastidio? Non sei arrabbiato?”
Scrollò le spalle e fece vagare lo sguardo sul locale, senza guardare nulla in particolare. Aveva ancora quello sguardo indecifrabile, e quell’espressione concentrata e insieme assente.
“Cosa pensi che io sia?” chiese tornando a puntare i suoi occhi verdi su di me.
Posai il ghiaccio sulla tavola, usando questo gesto come scusa per riflettere su quello che avrei detto. Ma, con mia sorpresa, lui non mi diede il tempo di parlare.
“Insomma, vado a letto con te quando mi pare, mi ubriaco aspettando che il primo tipo mi scopi, e godo nel sentirmi un oggetto. Come lo definiresti uno così?”
“Tu non sei questo, Bri.”
“Ah no?”disse ironico, ma di un’ironia cattiva e pungente.
Mi guardò con quel sorrisetto e vidi nei suoi occhi la forma scura e turbolenta dell’odio. Verso chi? Se stesso?
“Sono una puttanella, accettalo.”
Fui tentato di sbattere un pugno sul legno del tavolino, ma mi trattenni a stento. Non capivo cosa stesse dicendo, non volevo farlo.
“Smettila di dire queste cose! Non voglio più sentirle.”
“Puoi anche non volerle ascoltare, ma è la verità.” Si voltò lentamente verso di me e i suoi occhi mi trafissero agitandomi lo stomaco. Ero certo che qualcosa si stesse per rompere. “E’ inutile che te la prendi tanto.” Iniziai silenziosamente a pregare che il mondo crollasse in quel momento. “Tu per me sei solo un altro che mi scopa.”
Lo disse con nonchelance, come si dice al barista che c’è un po’ di sporco nel proprio piatto. Si alzò fluido e si diresse verso il palco. Lo seguii con lo sguardo spalancato.
Ero incredulo e per un attimo mi sentii davvero spezzato in due.
Com’era possibile? Davvero per tutto questo tempo per lui non ero stato nulla più che qualche scopata? Gli occhi mi si appannarono mentre pregavo un Dio qualunque di restituirmi il mio Brian e portare via quel folletto malefico che si sistemava la chitarra a tracolla.

Ringraziamenti:
mhcm per aver inserito questa storie tra i preferiti :3

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Capitolo 3
*** Cap.3: Stuck between the do or die ***


PM
Note: Sono sempre meno convinta di questa storia, la posto comunque perché mi è servita a chiarirmi le idee. E comunque ci tengoXD
ATTENZIONE: I Placebo non mi appartengono, non mi pagano, non ho contatti con loro e non voglio certo offenderli. Caratteri e situazioni descritte sono totalmente inventati e non ispirati ad avvenimenti reali.
Commenti e/o critiche sempre ben accetti^^
Buona lettura!

Capitolo 3: Stuck between the do or die 

Non ci guardammo in faccia. Quella sera suonammo come al solito …Brian sorrise e io tentai invano, dalla sua batteria Steve non ci provò neppure. Eravamo tesi, credo che nessuno di noi stesse pensando alla musica nella sua essenza, ma solo al meccanico ripetersi delle note e delle parole. Eppure Brian infuse nella sua voce la sua solita espressività, e sembrava felice. E lo odiai, riuscii quasi a provare puro odio per lui. E’ un sentimento così forte e sottovalutato…
Finimmo e la cosa dura fu prenderci per mano e inchinarci sorridenti.
Sentire la sua mano che stringeva la mia con convinta fermezza, mentre la mia era abbandonata con poca convinzione, mi spinse quasi ad abbandonare subito il palco.
Quando scendemmo mi precipitai stanco nel mio camerino.
Mi sedetti sul divanetto prendendomi una pausa prima di rifarmi il trucco e cambiarmi. Poggiai la testa allo schienale imbottito e fissai il soffitto, finché un bussare nervoso mi destò. Poco dopo, senza attendere consenso, entrò Steve. Mi si piazzò davanti e frettoloso mi porse le sue scuse.
“Non avrei dovuto provocarti”.
“Non importa più” dissi sospirando.
“Stavo per chiamare Brian “puttanella”. Non dovevo farlo sul palco.”
Da come rimarcò queste ultime parole capii che lo pensava ancora. Si stava scusando per il modo, non il contenuto del suo sfogo.
“Avevi ragione…su di lui” ammisi con dolore.
Distolsi lo sguardo umido e lui si sedette di fronte a me.
“Cosa è successo?”
Strinsi forte gli occhi per reprimere le lacrime che mi si fermarono in un groppo doloroso nella gola infiammandola.
“Per lui non conto. A lui non importa di nessuno, vuole solo avere il suo divertimento. Gioca con le persone, è manipolatore, pericoloso. Lui è malato!”
Lo dissi con rabbia crescente, finendo per guardare Steve negli occhi, e lo vidi incerto per un attimo.
“Io…sapevo che lui sfruttava gli altri, ma non credevo che lo facesse anche con te. Lui a te ci tiene, almeno così credevo.”
Risi ironicamente, cosa che non avevo quasi mai sentito il bisogno di fare, e mi odiai per come mi ricordava i modi di Brian. Non volevo assomigliargli. In nulla.
“Lui tiene solo a sé.”

Andammo avanti per parecchio tempo così. Parecchio per me, che sopportavo male quella situazione. Il mio letto era vuoto, il mio sguardo, i miei giorni.
Non ho mai amato Brian. Vi sembrerà una contraddizione, ma non l’ho mai amato come si amerebbe il proprio ragazzo. Era qualcosa che andava oltre, tra amicizia e amore, dove i confini sono labili. Sfumare i limiti è bello, ma pericoloso e può creare confusione. La stessa che mi teneva seduto sul letto alle tre di quella notte, a riflettere. Male. Perché il buio e la tarda ora accrescevano la mia confusione mentale. Raggiungevo idee che mi parevano sublimi e il momento dopo ricadevo nel buio dell’oblio mentale o di pensieri depressi. Come supponevo vivesse Brian. E ora capivo il suo star male. Anche se non del tutto.
Come dicevo, io non lo amavo di amore. Gli volevo bene in modo incredibile, e stare senza di lui in quel modo mi feriva. Come se mi avessero strappato madre, padre e figlio in un sol colpo.
Mezzo nudo cominciai a sudare freddo e sentii un bisogno impellente di liberarmi di tutte quelle angosce. Ancora oggi non riesco a spiegarmi se quello fu un caso fortuito o qualcosa di così strano da indurmi a rivalutare per un attimo le miei convinzioni sul destino. Fatto sta che nel bel mezzo di quella mia crisi notturna, il telefonino squillò. Che benedizione!
“Sì?” risposi apatico, apparendo probabilmente svogliato.
“Ciao, sono Steve. Scusa, ti disturbo?”
“Ah Steve” risposi sorpreso che mi avesse chiamato così tardi. “No, non stavo dormendo.”
“Immaginavo, ho chiamato per questo. La mia piccola mi sta tendendo sveglio, e ho pensato che anche tu lo fossi, visto quel che sta succedendo. Ti va di parlare?”
Rimasi stranito. Steve non era il tipo che chiamava così calmo alle tre di notte per fare quattro chiacchiere, preoccupandosi di come stavi.
“Sì, certo. Di cosa vuoi parlare?”
“Di noi. Della band..”
“Ah…cosa c’è da dire?” chiesi fingendomi indifferente, non so perché, ma comunque invano.
E costatai con amarezza e rancore che non ero bravo come Brian a fingere.
“Lo sai bene. Stiamo facendo schifo alle prove. Non ci troviamo più, la tensione è troppa e comincia a innervosirmi. E visto che pare che nessuno dei due…” il pianto della figlia gli fece abbassare la voce. “Dato che nessuno di voi sembra essere abbastanza maturo da affrontare la cosa” riprese dopo aver cullato la piccola, “credo sia meglio dare un taglio da subito.”
“Cosa? No! I Placebo sono…”
“So cosa sono, ma non siamo più noi! Cazzo, un noi non esiste, Stef. Non più. O risolvete o è meglio che chiudiamo. Credimi, di litigi in band ne sono esperto ormai e ti dico che tenere tutto sotto il tappeto è peggio. Prima o poi ci si rivolterà contro.”
“E cosa dovrei fare?” chiesi quasi in lacrime, mordendomi il labbro e agitando i piedi sul lenzuolo attorcigliato…quello che non odorava più di noi. Tutto era diventato estraneo, anche ciò che prima era intimo. Anche la nostra musica. Steve aveva ragione, ma io non volevo del tutto ascoltarlo, una parte di me rigettava quelle parole, l’altra invece le sapeva fin da prima che venissero pronunciate e ne doleva, sanguinava in silenzio nel suo angolo. I Placebo per me erano tutto, e lo sono ancora. Io li ho voluti, e io li dovevo salvare. Ma non potevo da solo.
“Brian è lì in albergo con te, no?”
Era vero. Io e lui alloggiavamo in albergo, Steve in un appartamento lì vicino con la compagna e la figlia.
“Sì…”
“Parlagli. Domani ti chiamerò, e allora mi dirai se i Placebo sono morti o sono più forti di prima.”
Detto questo attaccò senza aspettare risposta o replica.
Ora spettava a me ammazzare la nostra musica, o farla rinascere.


S.A.:
Ringraziamenti: grazie a mhcm per il commento^^ E che vuoi farci, spesso le persone sbagliate ci piacciono. Non sai la sorpresa quando, poco dopo aver cominciato ad ascoltare i Placebo, ho scoperto che Stefan è gay °°

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Capitolo 4
*** Cap.3: Borderline bipolar ***


Pure M

Capitolo 4: Borderline bipolar


La porta era lucida nella poca luce del corridoio giallo. Legno scuro e liscio. Ci appoggiai un palmo per tutta la sua lunghezza, distendendolo bene finché il freddo passò nella mia mano e il caldo di essa sulla superficie asciutta. Come la sua pelle. Mi decisi finalmente a bussare, dopo che quegli attimi mi avevano donato una leggera calma.
Mi ritirai dalla porta e attesi che aprisse. Forse stava dormendo…oppure non era in camera.
Stavo per voltarmi e andarmene quando la serratura scattò. Il suo volto fresco mi apparve, ancora truccato leggermente, e mi fece sciogliere. Stavo sbagliando? Cosa avrei potuto dire?
Non parve sorpreso e mi lasciò entrare senza dir nulla. Si sedette sul letto e attese che io parlassi. Capiva tutto, sempre, dannatamente.
“Allora?” mi chiese dopo parecchio tempo, che io impiegai a torcermi le mani come un ragazzino al suo primo appuntamento.
Presi un grosso respiro e tirai tutto fuori.
“Dobbiamo risolvere questa cosa, Brian. O i Placebo moriranno. Non esistiamo più come band, per colpa tua.”
Attesi una risposta. Il suo sguardo era indescrivibile, incomprensibile.
Poi scoppiò a ridere, sorprendendomi e quasi facendomi sobbalzare.
“Colpa mia? E cosa avrei fatto io?”
“Cosa?” quasi urlai incredulo. Possibile che fosse così stupido, o insensibile? “Brian, ti rendi conto di quel che mi hai detto? Che per te non valgo nulla!”
“Ti sbagli” disse, e per un attimo sperai che fosse vero. “Ho detto che vali solo per scopare, è diverso.”
Non avevo intenzione di farlo, non lo avevo premeditato. Diamine, non riuscivo neanche a pensare, come l’altro giorno al locale. Lo schiaffo colpì Brian sulla guancia, facendo ondeggiare i capelli che gli finirono davanti al volto, nascondendomi finalmente e dolorosamente i suoi occhi.
Lo avevo colpito molto forte, ma cercai di reprimere il primo istinto di pentimento: non potevo cedere.
Si voltò con lentezza esasperante, e con la stessa calma subdola si scostò i capelli dal volto e si massaggiò la guancia. Un sorriso divertito disegnò in modo odioso le sue labbra perfette. Attirarono la mia attenzione su di esse e mi chiesi se l’intento di Brian non fosse proprio quello. Ormai non sapevo cosa aspettarmi da lui.
Era impossibile risolvere la cosa se continuava a recitare quella parte dannata.
“Non sono uno qualunque, Brian!” urlai imperterrito. “Sono Stefan! Che cazzo!”
Si alzò e il suo sguardo mutò improvvisamente. Quegli occhi sembravano tanto liquidi e densi da annegarci, e il sorriso scomparve con una velocità impressionante.
“Cosa cazzo vuoi?” chiese con lentezza, scandendo bene ogni parola.
Cominciavo a sentire rabbia, troppa, per l’unica persona che volevo tenere immune da questo odioso sentimento.
Sentii il bisogno di scuoterlo per far andare via quella creatura tremenda che aveva preso il posto del mio Brian. Gli afferrai la maglia e lo scossi con forza.
“Brian, sei fatto o cosa? Che diamine ti succede? Svegliati, cazzo! Non sei un bambino!”
Ma lui non si scompose, solo un leggero tremolio nei suoi occhi mi fece capire che stava reprimendo qualcosa, e sentii il bisogno e il malsano desiderio di provocare la reazione opposta. Volevo smascherarlo, era giunto il momento di farlo.
“Che fai, non rispondi?” avrei voluto chiedergli, ma la mia coscienza stava fluendo via. Ero diventato più calcolatore da quando avevo a che fare con lui, ma rimanevo molto istintivo quando gli istinti stessi prendevano il sopravvento. E la mia rabbia mi stava accecando. Da un lato lo temevo, dall’altro lo desideravo, finalmente.
Avvicinai il mio volto a quello di Brian, in parte sollevandolo da terra in parte chinandomi minaccioso. Odiavo farlo, ma in quel momento sentivo che non potevo più trattenermi, né una parte di me lo voleva. E lui nelle mie mani era così fragile, la sua ostentata compostezza e arroganza contro la mia furia e forza vibrante.
“Cosa vuoi che ti dica? Ah, lo so” disse Brian fissandomi gelido con quegli occhi immobili. “Vuoi che ti dica che ti amo alla follia, anche se tu non mi ami. E vuoi che mi ficchi nel tuo letto ogni notte, giurandoti amore e dedizione, fedeltà cieca.” Prese una pausa nella quale studiò il mio sguardo. “Oh, sì, mio principe” disse con fare femminile, “sono tutto tuo! Ti giuro amore eterno, non ti lascerò per nessuno e…”
Non gli feci finire quella farsa. Lo sbattei pesantemente sul letto, non con le stesse intenzioni di molte narcotiche notti.
“Smettila!” gli urlai in volto.
Lo scossi così forte che quando non lo udii più parlare mi venne per un attimo il dubbio di averlo….
Mi fermai e quella paura mi rifece prendere coscienza. Mi allontanai dal letto tendendo lo sguardo fisso su di lui. Era steso sul materasso, le braccia allargate e le gambe penzoloni, come un angelo ubriaco. Fissava il soffitto. Improvvisamente una lacrima scivolò stanca di essere trattenuta, giù per l’angolo dell’occhio fino a sfiorare i capelli e a fermarsi tra di essi come rugiada amara e notturna.
Non capivo più nulla. Brian era sempre stato complicato e per molto mi ero semplicemente adattato assorbendo le sue stranezze e dando loro un senso qualunque, convincendomi che fosse quello giusto, e quando non ci riuscivo l’accettavo come semplice parte di Brian. Ma ora mi pentivo, perché capivo che molte cose erano troppo profonde in lui perché anche Brian stesso le potesse afferrare.
La rabbia sfumò in modo odioso, lasciandomi i sensi di colpa ormai familiari e un misto di pietà e paura.
“Brian…” provai a chiamarlo, quasi la mia voce rompesse quell’aria così grava di dolore e sospensione.
Lui si portò le mani al volto e cominciò a piangere, silenziosamente, reprimendo a stento i singhiozzi. Le sue spalle, così gracili, erano scosse e tutto il corpo fremeva. Da quanto tratteneva quel pianto? E l’idea di aver contribuito a fargli quello mi distrusse.
Mi avvicinai cauto e mi sedetti sul materasso vicino al suo corpo. Allungai tremante una mano e gli accarezzai la spalla, cercando di farlo riprendere. Non vedere il suo volto credevo fosse tremendo, ma quando al mio tocco scostò le mani e mi rivolse quegli occhi colmi di pianto e rossi mi sentii molto peggio.
“Cos’hai? Ti prego Bri non mentirmi, non sfuggire, dimmi cosa sta succedendo!”
Mi fissò ancora e nel vedere i suoi occhi i miei si inumidirono. Era questo uno degli aspetti che ingrandiva a dismisura il suo potere.
“Lascia perdere” mi disse con voce rotta. “I Placebo sono morti.”
“Cosa? Non puoi decidere così da un momento all’altro.”
“Stef…”
Mi stava supplicando, per la prima volta.
“Non hai idea della fatica che ci ho messo nella band, di cosa significhi per me e Steve.”
“Stef, smettila.”
“No, Brian, non la smetto. Sei infantile quando…”
“Stef!” supplicò tra le lacrime. “Va’ via!”
Il suo sguardo non ammetteva repliche. Mi alzai lentamente e controvoglia. Uscii dalla camera che lui ricominciava a piangere dietro le mie spalle.

Mi ritrovai di nuovo seduto in camera mia, sul letto. La stessa posizione, la stessa incoscienza, la stessa tortura mentale. Ma ora avevo molti più dubbi e paure. E non avevo risolto nulla, anzi le cose erano peggiorate. Non capivo cosa stesse succedendo a Brian. E quell’annuncio-i Placebo sono morti-faceva dannatamente male.
Non avevo il coraggio di chiamare Steve, di fare qualcosa, qualunque cosa, e neanche di addormentarmi. L’indomani mattina tutto sarebbe stato perso. Malgrado il mio dolore, la mente era troppo stanca e l’animo troppo frustrato. Così mi addormentai scompostamente sul letto.

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