Capitolo 2
Dopo quasi un anno mi ritrovo di nuovo
su un aereo diretto a Pittsburgh.
Non c’ho messo molto a prendere
una decisione. Fare le valigie e ritornare dove è giusto che
io sia in questo momento. Vicino a Brian. Emmett non ha detto una
parola da quando mi ha informato su Brian. Forse sta aspettando che
io mi riprenda dallo shock, non lo so, so solo che lo ringrazio per
questo silenzio non forzato. È passata solo un’ora da
quando siamo partiti, ma a me sembra un’eternità. Ho una
paura tremenda. Cosa farò se Brian dovesse morire? Morirebbe
senza sapere che lo amo ancora e che non l’ho dimenticato. E
soprattutto che sono stato un vero coglione…Avrei dovuto
chiamarlo, dirgli che mi mancava. Invece mi sono comportato proprio
come lui. un perfetto stronzo orgoglioso ed egoista
Mi passo freneticamente le dita tra i
capelli, ritornati ormai lunghi come un tempo
-E’ inutile distruggersi con i
sensi di colpa- mi volto verso Emmett, perplesso. Lui è sempre
stato capace di leggere le persone meglio di chiunque altro. Anche
adesso, ha capito perfettamente come mi sento. –Lui lo sa-
continua
-Cosa?-bisbiglio
- Brian lo sa che lo ami. E soprattutto
sa perché non ti sei fatto vivo per un anno. Te l’ho
detto…non farti venire i sensi di colpa, raggio di sole-
resto in silenzio. So che Emmett ha
perfettamente ragione, ma non posso far a meno di pensare che forse
tutto questo si sarebbe potuto evitare se solo avessi fatto un passo
verso di lui. ma ormai non posso cambiare le cose. Posso solo sperare
e pregare che si sistemino nel migliore dei modi.
Appoggio la testa allo schienale e
chiudo gli occhi. Ho bisogno di non pensare a nulla
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Arriviamo a Pittsburgh praticamente a
notte fonda. Emmett mi ha invitato a stare da lui per la notte, ma ho
rifiutato. C’è solo un posto dove vorrei essere in
questo momento. Così ci separiamo e mentre lui ritorna a casa
io mi dirigo all’ospedale, ben consapevole che l’orario
delle visite è terminato, ma devo vederlo, anche solo da
dietro un vetro. Il taxi mi lascia davanti le porte scorrevoli, porte
che io fatico a varcare. Un ultimo sospiro ed entro. Il cuore mi
batte forte, le mani mi tremano ed avrò sicuramente gli occhi
lucidi. Mi rivolgo ad un infermiere, che da dietro un vetro, sfoglia
svogliatamente una cartella
-Lei chi è?- chiede annoiato
-Un amico-
-L’orario delle visite è
finito da un pezzo, bello mio. Torna domani-
-Senta…Lei non capisce. Ho
bisogno di vederlo, anche solo per un attimo. Non entrerò
neanche nella stanza. Ma la prego, me lo faccia vedere- non so cosa
lo abbia convinto, se il mio tono di voce implorante oppure i miei
occhi, ma si convince a dirmi il numero della camera di Brian
-Il signor Kinney è davvero
fortunato. Magari avessi anche io un amico che mi ami così
tanto- mi dice infine. Io lo ringrazio, cercando di sorridere, e mi
avvio verso la sua stanza.
Ed eccolo lì, disteso in quel
letto, immobile. E vorrei poter correre da lui, ma resto bloccato
dietro la porta, a spiare quell’uomo che ha le sembianza di
Brian, ma non è lui. E’ smagrito e pallido. E tutto
pieno di tubi. Mi accascio dietro la porta, e le lacrime che avevo
trattenuto, scendono copiose sul mio viso
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Dei rumori in lontananza mi svegliano.
Non mi sono neanche reso conto di essermi addormentato. Mi metto a
sedere dritto e qualcosa scivola dalle mie spalle. Una giacca da
donna. Mi guardo intorno per cercare la proprietaria, e la vedo
seduta di fronte a me, che mi guarda sorridendo
-Ciao topino-
-Debbie-
-Emmett te l’ha detto, quindi-
-Già. Debbie io…-
-Lascia stare, lo so, e ti perdono- si
alza e viene a sedersi accanto a me –Se tu perdoni me-
-Perdonarti? E per cosa?- chiedo
perplesso
-Per non averti detto niente- ed indica
con il pollice Brian steso sul letto
-Non preoccuparti Debbie. Lo so che è
stato lui a chiedertelo. È tipico di Brian -
-Sei entrato a salutarlo?- scuoto la
testa –E cosa aspetti. Và-
In pratica mi costringe ad entrare in
quella minuscola stanza. Resto sulla soglia, spaventato da quello che
potrà accadere, ma allo stesso tempo emozionato. Non lo vedo
da troppo tempo, non siamo mai stati così tanto lontano.
Un passo dopo l’altro mi avvicino
al suo letto. C’è una sedia lì vicino e mi siedo.
Gli sfioro leggermente la mano, inconsciamente sperando che lui
risponda al mio tocco. Ma ovviamente non accade. Potrei parlare, dire
qualcosa per fargli ascoltare la mia voce. Nei film succede sempre
così. Uno parla e chi sta in coma, per magia o per miracolo,
si sveglia. Beh tentar non nuoce
-Cazzo Brian, perché hai detto
agli altri di non dirmi nulla? Perché continui ad escludermi
dalla tua vita? Perché proprio nei momenti in cui avresti più
bisogno di me? È sempre stato così, cazzo-
un rumore mi fa sobbalzare. Lindsay è
alle mie spalle, in mano un mazzo di fiori di campo. Si avvicina al
comodino e sistema i fiori in un piccolo vaso, senza dire nulla, solo
guardandomi con uno sguardo che non preannuncia nulla di buono. Io
continuo a guardare Brian, a sperare che da un momento all’altro
mi guardi di nuovo con il suo sguardo sarcastico, ma che ha sempre
detto molto più del necessario.
-Lui non ti ha dimenticato- dice Linds
all’improvviso –Andava alla villa ogni volta che poteva,
sai? Mi diceva che lì sentiva la tua presenza più che
nel loft. Perché li avete condiviso una parte importante del
vostro rapporto-
-Già- rispondo dopo un po’.
Anche se mi sembra impossibile tutto questo. Non è da Brian
pensare a questo genere di cose. Troppo romantico per lui. ma subito
mi viene in mente il giorno del mio ballo di fine anno. Lui così
bello nel suo vestito nero. Sembra passato un secolo
-Cosa dicono i medici?-
-Sono ottimisti. L’ematoma si sta
riassorbendo in fretta-
-Bene-
-Tu non dovresti essere a New York?-
-Fanculo New York-
-Justin…-
-No Linds. Lui c’è sempre
stato. Mi ha aiutato dopo l’incidente. Glielo devo. Tu invece?
Non dovresti essere in Canada?-
-Touchè- si porta dietro di me e
mi abbraccia forte- E’ un piacere rivederti, Justin-
-Anche per me-
E restiamo in silenzio, per un minuto,
un’ora, un giorno, non lo so neanche io
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