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Sdraiata
nel letto, in posizione fetale, sonnecchiavo, esausta dalla frenetica giornata
che avevo appena vissuto finché, all’improvviso, non sentii sul volto una
folata di aria fredda ed una strana sensazione non mi
colpì alla bocca dello stomaco.
Espirai,
un brivido freddo che saliva lungo la spina dorsale per poi irradiarsi per
tutto il corpo.
Aprii
gli occhi.
Un
secondo.
Poi
urlai.
Era
stata una giornata frenetica.
Di
prima mattina, piena di entusiasmo e paura, mi ero
imbarcata in una nuova avventura. L’università.
Provenivo
da un piccolo centro abitato, uno di quei paesi di provincia, talmente anonimi
da confondersi fra loro, per le persone che venivano da fuori. Avevo vissuto in
quel posto per più di dieci anni eppure, nonostante fossi perfettamente
integrata, c’era qualcosa che mi rendeva diversa dalle altre persone.
I
miei concittadini sapevano dove erano nati. Allo stesso modo, sapevano dove
sarebbero morti. La cosa più inquietante, per me, però era che nessuno di loro stesse male al pensiero che, nella maggior parte dei casi
almeno, i due luoghi coincidessero.
Per
quanto mi riguardava, invece, io sapevo dove ero nata ma ignoravo dove sarei
morta. L’unica certezza rassicurante che avevo, era che non sarebbe stato lì.
Ero
uscita di casa, quella mattina, animata da uno strano entusiasmo. Non ero mai stata un tipo di persona che amava esprimere i
propri sentimenti. Vivendo in un piccolo paese avevo imparato che, volente o
nolente, le persone sanno sempre i fatti di tutti e, generalmente, non si
limitano solo a questo. Oltre a conoscere, desiderano commentare, ingrandire, a
dismisura, ogni piccola faccenda. Era questo, fondamentalmente, che non mi
andava giù perciò, non appena avevo capito come funzionavano le cose, non mi
era rimasto altro che adeguarmi.
Volevano
parlare?!? Di sicuro, però, non di me perché io non gli avrei
dato l’opportunità di farlo.
Avevo
imparato ben presto a mostrarmi poco partecipe, per evitare di essere
coinvolta. Avevo imparato a sentire i discorsi, senza ascoltarli realmente.
Avevo imparato, infine, a tenere per me e le poche persone di cui mi fidavo,
ciò che pensavo. Era più comodo e mi creava meno nervoso.
Ma
quella mattina, salendo sul pullman, per raggiungere il luogo dove avrei
vissuto d’ora in poi, con l’ultima delle borse che costituiva il mio bagaglio e
le cuffiette che mi inondavano il cervello della mia
musica preferita, non ero riuscita a celare il mio entusiasmo. Seduta su quel
sedile, lo sguardo fisso sul panorama esterno, non riuscivo
a smettere di sorridere.
Una
nuova vita mi aspettava. Una nuova vita, nella quale riponevo tutte le mie aspettative. Avrei incontrato nuove persone, visto nuovi
luoghi, ampliato la mia mente.
Sorridendo,
appoggiai il capo contro il vetro freddo del pullman mentre il mezzo percorreva
veloce le strade provinciali, avvicinandosi al capoluogo. Quando
poi, dopo un viaggio di circa un’ora finalmente il pullman si fermò ed io potei
scendere, assieme agli altri viaggiatori, aprii gli occhi, a dismisura e mi stiracchiai,
il sorriso sulle labbra.
Il
sole mi sfiorò il viso ed io impiegai un minuto intero nella ricerca degli
occhiali finché, dopo averli trovati ed appoggiati sul naso, non iniziai a
camminare, il passo svelto, canticchiando una canzone, verso la stazione
ferroviaria.
Comprai
il biglietto, attendendo non poco in fila, continuando a canticchiare. Le
persone attorno a me tenevano lo sguardo su di me ma ora, stranamente, la cosa
non mi dava più fastidio.
Ero nel mondo, non chiusa in una gabbia e, queste persone che
ora mi fissavano non avevano la più pallida idea di chi ero e, soprattutto, nel
giro di un paio d’ore, si sarebbero scordati di quella strana ragazza che
canticchiava canzoni mentre attendeva il suo turno.
Era
una bella sensazione. Sorrisi e, quando finalmente arrivai davanti alla
bigliettaia, esclamai con voce stranamente entusiasta la meta del mio viaggio. La donna dietro il vetro sorrise di rimando, contagiata.
Un
minuto.
Come
avevo previsto, mi stavo allontanando con il biglietto e le altre persone
avevano già trovato una altra persona da fissare,
tanto per soddisfare la loro curiosità.
Lo zaino in spalla, mi appoggiai alla
spalliera di una panchina di cemento, la musica che continuava a scorrere nelle
mie orecchie. Espirai, spostando lo sguardo sull’orologio. Espirai ancora poi spostai una cuffietta, ascoltando gli
annunci. Sorrisi.
Il treno che stavo aspettando frenò poco dopo sul binario ed
io, veloce, saltai su, lo zaino che, per la velocità sbatteva contro la mia
schiena. La musica ancora nelle orecchie, camminai un po’, attraversando il
corridoio, muovendo la testa a tempo, lo sguardo che correva sui numeri dei
sedili, alla ricerca del mio. Alla fine, lo trovai.
Appoggiai la mia piccola mano bianca sulla maniglia,
abbassandola. Feci scorrere la porta dello scompartimento di lato, entrando. Oltre a me, c’era solo un’altra persona, una ragazza che dormiva,
il capo appoggiato contro il poggiatesta, la sua borsa, casualmente,
abbandonata sul sedile al quale corrispondeva il mio biglietto.
La osservai un paio di secondi, poi alzai veloce le spalle,
sedendomi in un altro sedile, iniziando a premere i tasti dell’ipod nel vano tentativo di ascoltare le mie canzoni
preferite ad un volume che fosse almeno “decente” ma
che non recasse disturbo.
Pochi secondi e poi lasciai cadere le mani sul mio grembo,
soddisfatta.
La musica che continuava a suonare, appoggiai
a mia volta la testa contro il sedile, dando le spalle alla porta, osservando
di nuovo il paesaggio che scorreva veloce, al di fuori del finestrino.
Era passata una mezz’ora da quando ero partita dal capoluogo
e il treno aveva abbandonato i campi, sostituendoli con palazzi, grattacieli,
ponti. Espirai, continuando a guardar fuori poi, il sorriso sulle labbra, a
poco a poco, scivolai nel sonno. Mi addormentai.
Sbam.
Qualcosa si era schiantato contro di me ed
io, ancora mezza addormentata, aprii gli occhi.
Lo scompartimento, ora era vuoto.
Corrugai un secondo le sopracciglia, non riuscendo a capire
poi, all’improvviso, notai la ragazza che si trovava nello scompartimento con
me fino a poco prima, sfrecciare di corsa per il binario della stazione nella
quale ci eravamo fermati.
Alzai le spalle, più tranquilla, prima di rimettermi in piedi
in cerca del cartello su cui era riportata la fermata. Un secondo. Dopo averlo
trovato, sorrisi, saltando di nuovo seduta al mio
posto.
“Ne manca solo una…”
Riappoggiai il capo contro il sedile, lo sguardo fisso fuori dal finestrino. Pochi secondi ed il treno ripartì, aumentando la velocità non appena lasciata la
stazione.
Un paio di minuti.
Il treno iniziò a percorrere un lungo ponte, circondato
dall’acqua. Il mare. Sorrisi, afferrando la mia borsa,
incamminandomi verso la porta per scendere.
Il treno ancora in movimento, ferma davanti alla porta, piegai il capo, cercando di intravedere già la città sul
mare.
Venezia.
N. S. S. A.( Nota senza senso dell’autrice):Sbuff…Mi domando per quale motivo, ogni qualvolta io decida
di “appendere” la penna al chiodo, ci sia sempre qualcuno che preme perché io
racconti al mondo gli affaracci suoi… :-P ad ogni
modo… Ringrazio chiunque mi seguirà anche in questa avventura e chi volesse
lasciarmi un commento! VielDank!
Bis bald!
Fissai un paio di secondi ciò che mi stava di fronte,
osservando attentamente il legno poi, espirai, allungando una mano verso il
citofono.
Un istante.
Una voce maschile, resa metallica dal citofono, chiese chi
fossi.
Espirai, avvicinandomi maggiormente e pronunciando il mio
nome.
Un altro momento di silenzio ed io mi affrettai ad aggiungere
che ero una delle nuove ragazze del collegio.
Ancora silenzio.
Clack.
Tornai a fissare il portone mentre, lentamente, si apriva. Un
ragazzo dai capelli scuri tagliati a scodella rovesciata, mi sorrise “Ciao.” Esclamò, spostandosi per lasciarmi passare.
La borsa in spalla, veloce, attraversai
la porta, ritrovandomi in un atrio molto luminoso.
Il ragazzo mi permise di dare una veloce occhiata intorno,
prima di riattirare la mia attenzione su di sé.
“Allora…” iniziò, fissandomi intensamente, come per farmi capire che voleva gli
rivelassi il mio nome.
“Sofia…”
Lui mi sorrise ancora, prima di ricominciare “Allora, Sofia…”
si fregò un secondo le mani, poi con la destra fece un gesto, indicando
l’ambiente in cui ci trovavamo “Questo, ovviamente, è
l’atrio…”
Io annuii, mordendomi le labbra per evitare di mostrare
subito il mio carattere, definito dai più “Strafottente” solo perché odiavo le
cose ovvie. Espirai.
Un secondo di silenzio, poi lui mosse un paio di passi verso
la sua destra.
In silenzio lo segui, avvicinandomi ad una rampa di scale,
mentre mentalmente avevo un flash di lui che,
indicandole, esclamava “Allora, Sofia, queste, ovviamente, sono delle scale e,
in caso non lo sapessi, quei piccoli spazi che salgono, a poco a poco, si
chiamano gradini…”
Un momento.
“Sofia!”
Sbattei le palpebre, svegliandomi di colpo dal mio mondo, per
tornare in quello “vero”. Deglutii “Scusami…mi sono
persa…dicevi?”
Il ragazzo mi rivolse un altro sorriso, questa volta
accattivante “Dicevo che in teoria gli studenti devo utilizzare le scale per
raggiungere i piani superiori ma, eccezionalmente, è concesso l’uso
dell’ascensore…” terminò, indicando un corridoio buio alla sua destra dove,
immaginavo, fosse ubicato il più vecchio ascensore che
avrei avuto modo di vedere nella mia vita.
In
silenzio, annuii ancora, prima di abbozzare un lieve sorriso, solo perché mi
sentivo un po’ in colpa per il mio piccolo flash.
Il
ragazzo si avvicinò alle scale, iniziando a salire, mentre parlava “La tua
stanza si trova al terzo piano, nel sottotetto…” iniziò “…La maggior parte
delle stanze occupate da studenti “giovani” come te, in realtà si trovano al secondo piano mentre al terzo, di norma, si trovano gli
alloggi degli studenti più grandi…”
Annuii, rispondendo “Capisco…”
“Studenti
come me, che sono al dottorato…Perciò…siccome tu sei davvero un “ospite” in
mezzo a noi, ti pregherei di comportarti esattamente seguendo le regole del
depliant…”
Raggiunto
il pianerottolo del primo piano, il ragazzo si fermò. Un paio di passi, poi
indicò con un braccio alla sua sinistra “La sala da pranzo…” spiegò, prima di
spostare lo stesso braccio a destra ed aggiungere “La cucina, dove gli studenti
non possono accedere…”
Annuii
ancora, seguendolo di nuovo mentre ricominciava a salire.
“Perciò, tornando al discorso di prima, ti prego di moderare
il volume della musica e il tono della voce, anche se è pieno giorno, per non
disturbare, ok?”
“Certo!”
Il
ragazzo si fermò, un piede sul gradino, l’altra gamba tesa. Si voltò e mi
sorrise. “Fallo. Non voglio litigare.” Rincarò, il volto serio, prima di
tornare a voltarsi e ricominciare “Di piantagrane ne abbiamo
già uno…”
Aggrottai
un secondo le sopracciglia, incuriosita ma evitai di porre domande, prima di
diventare anch’io, magicamente, una piantagrane.
Ancora
una rampa, nella quale lui mi elencò tutti gli orari e la miriade di cose che ero pregata di non fare durante il mio soggiorno lì e,
finalmente, raggiungemmo l’ultimo piano.
Appoggiai
il piede, alzando velocemente lo sguardo, ricominciando a guardare attorno.
Il
soffitto era molto più basso, rispetto a quello dei piani precedenti. Ferma in
cima alle scale, gettai un’occhiata alla mia destra, incuriosita, in un buio
corridoio.
Deglutii.
“I
pulsanti luminosi accendono la luce…” disse ancora lui, fermo
accanto a me “…che si spegne, automaticamente, dopo un paio di minuti…”
Espirai.
“La
tua stanza comunque non è in questo corridoio…ora seguimi…”
Lui
si voltò, camminando veloce ed io dovetti quasi mettermi a correre, per stargli
dietro. Ci infilammo in una porta, svoltammo un angolo
e ci trovammo in un altro corridoio buio.
Un
secondo.
Clack.
La
luce illuminò un corridoio lungo il triplo del precedente. Deglutii ancora,
seguendo il ragazzo, osservando, mentre camminavo, le file di porte.
“Sono
tutte occupate?” domandai.
“No,
no…!” rispose subito lui, la voce allegra “La maggior parte sono vuote e
nessuno ci mette piede da anni… Non è da tutti, arrivare al dottorato…”
concluse, la voce piena di orgoglio.
Ringraziando
il cielo perché non poteva vedermi, sollevai le sopracciglia, in un moto di
scherno, poi, veloce, le riabbassai mentre un flash di me che, di notte
camminavo, anzi correvo, per quel corridoio pieno di stanze deserte, mi faceva
rabbrividire. Espirai.
“E in quanti siamo, allora?” domandai ancora.
Il
ragazzo svoltò in un altro piccolo corridoio laterale, lungo come il primo che
avevo visto. “Con te… Sei…”
Sgranai
gli occhi, sbalordita “Solo sei?!? Ma perché allora dobbiamo stare qua in
fondo…?!?”
Lui
aggrottò le sopracciglia, chiaramente infastidito dalla mia osservazione. “Perché il direttore ritiene che sia la soluzione migliore,
presumo…”
Sbattei
un paio di volte le palpebre e, completamente dimentica di chi avessi di fronte, chiesi ancora “E in base a quale
considerazione, scusa?!?”
Lui
mi gettò un occhiata gelida, poi mi voltò le spalle,
senza prendersi la briga di rispondermi.
Lo
seguii, sbuffando, conscia di essere appena diventata
la seconda piantagrane.
Un
paio di passi nel corridoio poi, all’improvviso, sentii
il suono di una melodia rap provenire da una porta
alla mia destra. Sbattei le palpebre, sorpresa.
Un
secondo.
Passando
davanti alla porta anche il mio accompagnatore sentì la musica, sbuffò poi, con
forza, bussò sul legno.
Un
istante.
Nulla.
Pensando che la persona all’interno della stanza non avesse
sentito, osservai il ragazzo abbassare la maniglia, senza troppi
complimenti, spalancando la porta.
Vidi
l’interno di una camera. Le pareti erano bianche, il soffitto, in diagonale. Il
letto, a destra era ricoperto di libri e, a sinistra, dopo un armadio, sulla
scrivania individuai uno stereo dal quale proveniva la musica. Al centro della
piccola stanza, seduto sulla sedia, un ragazzo, i vestiti enormi ed un cappello
hip-hop calato sul viso, leggeva un libro,
tranquillo. Apparentemente, non si era ancora accorto di nulla.
Il
ragazzo davanti a me tossì, cercando di attirare l’attenzione su di sé.
L’altro,
come risposta, girò una pagina del libro.
Io
mi mordicchiai le labbra, cercando di non ridere.
Il
mio accompagnatore attese un altro paio di secondi poi chiamò,
a voce alta “Timoo!”
Aggrottai
le sopracciglia, non riuscendo a comprendere.
L’altro
ragazzo continuò imperterrito a leggere.
Un
altro momento.
Il
mio accompagnatore scattò in avanti, allungando una mano, probabilmente
pensando di scostare le cuffiette dalle orecchie dell’altro, di modo da essere
sentito. Un paio di passi, poi si fermò, la mano a mezz’aria.
“Non
stai ascoltando la musica con le cuffie…” esclamò.
Sobbalzai,
stupita, spostandomi un po’, osservando meglio il ragazzo seduto sulla sedia.
Sollevò le guance e, un piercing, sulla parte
sinistra del labbro, brillò. Timo piegò un attimo il volto verso destra,
osservando finalmente il suo interlocutore “Esatto, Alberto…” rispose, la voce
che metteva in evidenza una cadenza straniera.
“Allora
perché non mi hai risposto subito?!?” esclamò l’altro
allibito “E’ mezz’ora che ti chiamo!”
Timo sogghignò, chiudendo lentamente gli occhi e riaprendoli
altrettanto lentamente. In silenzio, raddrizzò la testa, tornando ad
osservare il libro che teneva in mano, prima di rispondere “Semplice…Non mi
andava di rispondere…”
Sbattei di nuovo le palpebre, stupita per l’ennesima volta mentre
il mio accompagnatore, davanti a me, iniziava a tremare, per la rabbia.
Un
minuto di silenziosa tensione.
Timo
continuava a leggere, come se nessuno fosse mai entrato nella stanza. Lo stereo
continuava a risuonare note rap. Ascoltai attentamente,
tentando di riconoscere la lingua. Tedesco.
Tutti
e tre, restammo perfettamente immobili per qualche minuto. All’inizio osservai
attentamente il volto paonazzo di Alberto, quasi a
voler monitorare il momento esatto in cui sarebbe esploso ma poi, notando che
non accadeva nulla, tornai ad osservare Timo.
Un
secondo.
Il
ragazzo tedesco spostò lo sguardo dal libro, appoggiandolo su di me. Mi fissò,
senza sorridere, per istanti che a me parvero interminabili, infine, chinò di
nuovo il capo verso destra. Continuò ad osservarmi, a lungo e, per la prima
volta da quando avevo lasciato il mio paese, mi sentii a disagio. Non mi
piaceva, il modo in cui mi fissava. Sembrava che volesse leggermi l’anima.
Infastidita ed imbarazzata, deglutii, spostando lo sguardo di nuovo su Alberto,
sperando che si riprendesse presto e lo facesse smettere.
Altri
secondi.
Espirai.
“Tu
chi sei?” domandò un istante dopo la voce particolare di Timo.
Inconsciamente,
tornai a fissare i suoi occhi color nocciola.
Altri
secondi di silenzio.
“E’
una nuova…” si intromise Alberto all’improvviso, la
voce che denotava una nota d’astio.
Sia
io che Timo spostammo velocemente lo sguardo su di
lui. Io, lo fissai, le sopracciglia corrugate, tutt’altro
che entusiasta ad essere classificata semplicemente come “una nuova”. Timo,
invece, gettò uno sguardo neutro ad Alberto, prima di
ricominciare a fissarmi.
“Beh…Non
voglio mocciose tra i piedi, perciò stammi alla larga…”
esclamò un secondo dopo il ragazzo tedesco, smettendo di osservarmi e tornando
a concentrare la sua attenzione sul libro.
Sorpresa,
sbattei un paio di volte le palpebre, la rabbia che adesso coglieva anche me
“Ma chi ti ha chiesto niente!” sbottai, senza controllo, urlando, per
l’indignazione.
Timo
piegò di nuovo il viso verso destra, appoggiando i duri occhi nocciola su di
me. Un istante. Sul suo viso apparve un ghigno.
Sgranai
di nuovo gli occhi, talmente sconvolta da realizzare
che Alberto, afferrandomi per le spalle, mi aveva trascinato fuori dalla
stanza, solo quando ci ritrovammo di nuovo nel corridoio, la porta della stanza
di Timo, chiusa.
Sbattei
ancora un paio di volte le palpebre, guardando per alcuni secondi il volto di Alberto, senza riuscire a vederlo realmente. Il ragazzo
mi lasciò fare per un po’ poi, vedendo che la mia capacità di ripresa non era
immediata, appoggiando le mani sulle mie spalle, mi fece ruotare.
Vidi
un’altra porta di legno, esattamente di fronte alla stanza di Timo.
“Questa
è la tua stanza…” esclamò lui, allungando veloce una mano sulla maniglia,
abbassandola.
Sbattei
di nuovo le palpebre.
Quella
che sarebbe stata la mia stanza sembrava l’esatto
opposto di quella di Timo. Immersa in una strana penombra, nonostante fosse
pieno giorno e le persiane fossero aperte, il pavimento, diviso in diverse zone
d’ombra, per via dei mobili.
“Ma…ma…” balbettai io, voltandomi velocemente verso Alberto,
senza sapere bene che cosa chiedere.
Lui abbozzò un ghigno “Mi dispiace…Non ci sono altre scelte…o
questa…o questa…!”
Deglutii,
tornando a fissare di nuovo di fronte a me, scrutando attentamente l’ambiente,
alla ricerca di una risposta ad un ipotetica domanda
che nemmeno io sapevo quale fosse.
“Allora…”
ricominciò lui, un istante dopo, la voce allegra “…Ti lascio
familiarizzare con la tua nuova casa e con i tuoi nuovi vicini…”
Non
appena ebbe finito di parlare, Alberto scoppiò in una risata di scherno e, con
passo lento, il mio sguardo allibito perennemente sulla schiena, si allontanò.
Raggiunta la parte opposta del corridoio, abbassò la maniglia dell’ultima
porta, la quinta, sulla destra. Aprendola, fu subito colpito dalla luce del
sole. Fermo nel corridoio, si voltò di nuovo verso di me. Le sopracciglia
alzate, rise ancora, prima di sparire all’interno
della sua stanza, lasciandomi sola, davanti alla porta della mia.
Osservai
la “Stanza Spettrale” per diverso tempo, il cervello che rincorreva i suoi
strani ragionamenti. Inconsciamente, spostando lo sguardo dal pesante letto di
legno massiccio, che occupava tutta la larghezza della stanza, alla scrivania, posizionata esattamente ai suoi piedi, di modo che solo una
persona con tendenze anoressiche potesse andare oltre, raggiungendo l’armadio,
iniziai a valutare i pro ed i contro.
Espirai.
Senza
dubbio, la mia stanza era una di quelle “fresche”. Portando il soprannome di
“Vampiro” per via della mia temperatura corporea più bassa del normale anche
durante la bella stagione, la mia permanenza a Venezia avrebbe coinciso con un
la mia personale era glaciale. Sconsolata, sospirai,
ripensando ai caldi raggi di sole che inondavano la camera di Timo.
Espirai
ancora, tornando a guardare la mia stanza, meditando di spostare la mobilia in
modo da riuscire a raggiungere l’armadio, senza dover prima fare lo sciopero
della fame per più di un mese. Il letto, però, sembrava fuori
dalla mia portata muscolare. Rassegnata, espirai.
Gettai
un ultima occhiata al corridoio, salutai mentalmente
il calore poi, un mezzo sorriso sulle labbra, trascinai il mio bagaglio a mano
dentro la stanza. Chiusi la porta alla mie spalle.
Isolata
dal mondo, lasciai cadere la borsa sul pavimento, smettendo di strisciarla,
tornando a guardarmi attorno. Un istante ed infine notai,
accatastati tra il comò ed il letto, i pacchi che avevo spedito per posta.
Sorrisi, ottimista.
Una volta disfatti i bagagli, non appena le mie cose
avessero invaso la camera, l’ambiente mi sarebbe sicuramente apparso più
famigliare. Riacceso il moto di ottimismo, mi
avvicinai ai pacchi, chinandomi sopra di essi, iniziando ad aprirli. Estrassi
libri, vestiti, ricordi della mia “vecchia vita” accatastandoli per terra e sul
letto, muovendomi a tempo con la musica rap che
proveniva dalla stanza di Timo, improvvisamente diventata più alta. Estrassi il
golf che usavo d’inverno per dormire, rosso fuoco
correlato dall’ improponibile immagine di un tenero orsetto color miele che
dichiarava di essere “Loveable” e lo appoggiai sul
copriletto, pronta a ripiegarmi sul pacco quando, all’improvviso, notai una
strana ombra che, da sotto al letto, si spandeva sul pavimento, accanto a
quella creata dalla colonna dei miei libri.
Osservai
l’ombra, un paio di secondi, domandandomi cosa ci potesse
essere sotto al letto. Inconsciamente, allungai la mano destra verso il
copriletto, per sollevarlo quando, all’improvviso, nel mio cervello apparvero
miriade di immagini di film dell’orrore.
Rabbrividendo, deglutii, la mano ferma a mezz’aria. Rimasi in quella posizione
per un paio di secondi, cercando di convincermi a non essere sciocca, che sotto
al letto non poteva esserci nulla di spaventoso, che
una volta guardato, mi sarei data della deficiente per anni, ripensandoci.
Un
po’ più convinta, espirai, ricominciando a muovere la mano quando,
all’improvviso, notai una nuova ombra sul pavimento. Alle mie spalle, si spandeva
fino sul letto. Io, le spalle alla porta, immobile, fissai l’ombra. Deglutii,
rabbrividendo. Rimasi immobile per una ventina di secondi, troppo terrorizzata per avere il coraggio di voltarmi e scoprire quale delle
mille creature spaventose che popolavano i film horror si trovasse alle mie
spalle.
Un
altro secondo.
Un brivido freddo mi percorse la schiena, facendomi venire la pelle
d’oca. L’ombra alle mie spalle, si stava muovendo.
Trattenni il respiro, incapace persino di urlare,
stringendo gli occhi.
Un
istante dopo, una mano mi sfiorò la spalla ed io, immediatamente, saltai, come
una molla. Riaprendo gli occhi, mi ritrovai sul letto, le braccia indietro, la
gamba sinistra piegata e sollevata. Inconsciamente, alzai lo sguardo.
Vedendolo, deglutii.
Timo,
in piedi di fronte a me, i vestiti extralarge che
ricadevano sul suo corpo magro, la visiera del cappello hip-hop
un po’ sollevata, ricambiò il mio sguardo. Sul suo volto, uno
sorriso che dava l’idea che il ragazzo si stesse divertendo parecchio.
Imbarazzata,
per aver urlato, mi mordicchiai le labbra, prima di raccogliere tutta la mia
vergogna e tramutarla in rabbia, cercando di darmi un minimo di contegno.
“Che
accidenti ci fai qui?!?” sbottai un secondo dopo “Non
ti hanno insegnato a bussare?!? Mi hai fatto prendere un colpo!”
Timo
rimase immobile, il sorriso che, nonostante le mie aspettative,
si espandeva ancora maggiormente sul suo viso. Le mani in tasca, spostò un
secondo lo sguardo sulla stanza, osservandola. Senza degnarmi di una risposta,
iniziò a camminare, tranquillo. Un istante dopo, passò attraverso il ristretto
spazio tra il letto e la scrivania, fermandosi di fronte all’armadio. Appoggiò
le lunghe mani magre sul legno, spalancando le ante.
Lo
fissai, un paio di secondi, le sopracciglia aggrottate, non riuscendo a capire
che accidenti stesse facendo “Che fai?!?” domandai, un
istante dopo, la voce nuovamente irritata.
Il
ragazzo voltò il viso verso di me, sogghignando “Niente…” iniziò, uno strano
luccichio negli occhi “Cercavo di rendermi utile,
controllando che il direttore abbia veramente sfrattato tutti i mostri dalla
stanza…”
Timo
tacque per un paio di secondi, continuando a sogghignare,
prima di spostarsi verso di me. Avvicinandosi, si fermò accanto al
letto, il suo viso a poca distanza dal mio. Fissando i suoi occhi color
nocciola nei miei, appoggiò la mano sul copriletto. Sorrise.
“Ma
in realtà…il più spaventoso ha sempre prediletto lo spazio sotto il letto, per
nascondersi, in attesa di una vittima…”
Ci
fissammo un paio di secondi negli occhi. Un brivido mi attraversò la schiena
ma, dandomi mentalmente della cretina perché mi stavo facendo suggestionare da
lui, deglutii. “Non scherzare…” interloquii.
Il
viso del ragazzo divenne serio, all’improvviso, come i suoi
occhi “Non sto scherzando” rispose, la voce dalla strana cadenza, seria,
per la prima volta “…L’ho sentito la prima notte che ho dormito qui…Quando si
prepara a colpire…” ricominciò asciutto, gli occhi fissi nei miei “…in genere,
prima terrorizza la vittima designata, rendendola consapevole della sua
presenza, spandendo l’ombra sul pavimento…”
Deglutii
ancora, altri brividi che mi percorrevano la schiena. Espirai poi, ragionando
febbrilmente, domandai “Tu come hai fatto a sopravvivere, allora?!?” Involontariamente, sollevai il sopracciglio, chiaro
segno del mio scetticismo.
Timo
non si scompose, rispondendo subito, la voce calma
“Semplice! I maschi li fa solo spaventare. Basta
scappare e il gioco è fatto ma, le ragazze, invece… La ragazza che occupava
questa stanza prima di te…” Si fermò un secondo,
deglutì, come se non sapesse come dire ciò che doveva.
“Cosa?!?” esclamai subito io, piegandomi in avanti, gli occhi
sbarrati.
“…L’ha
lasciata tranquilla un paio di giorni poi, quando meno se lo aspettava, una
notte…Ha sentito una mano fredda e appiccicosa sfiorarle la pelle della coscia
e…”
Un
secondo dopo, sentii qualcosa, scivolare sulla mia gamba verso l’alto. Sgranai gli occhi, urlando, saltando ancora, rannicchiandomi,
questa volta, contro il petto di Timo che, perfettamente immobile, un secondo
dopo, scoppiò di nuovo a ridere, divertito.
Sbattei
un paio di volte le palpebre, sconvolta, spostando lo sguardo dal volto di lui alla cosa che mi aveva fatto saltare.
Un
secondo.
“Miaoooo!” miagolò un enorme gatto rosso, nella mia
direzione.
Un
altro secondo.
Ricomincia a respirare, ancora premuta contro Timo che, troppo
preso dal suo nuovo personale divertimento, io, continuava a ridere.
“Miaoooo!” miagolò di nuovo il gatto, avvicinandosi di più a
me, strusciandosi, facendo le fusa. L’enorme esemplare appoggiò le sue morbide
zampette sulla mia gamba destra, issandosi verso il volto di Timo. Miagolò
ancora, felice.
“Bravo,
il mio Rot…” disse subito il ragazzo, allungando una
mano, accarezzando la testa dell’animale.
Osservai
la scena, un paio di secondi, senza parole, prima che la vergogna per ciò che
avevo fatto si impossessasse di me, facendomi
arrossire vistosamente. Deglutii poi, cercando di
approfittare della momentanea distrazione di Timo, mi tirai indietro,
lentamente, lontano da lui.
“Miaoooo!” protestò immediatamente il gatto, voltandosi
verso di me.
Un
istante dopo, sentii di nuovo gli occhi castani del ragazzo su di me. Deglutii
mentre sul viso di lui appariva un sorriso sornione
“Dovresti vedere la faccia che hai fatto, quando Rot
ti ha sfiorato!” esclamò nella sua voce dallo strano accento.
Sentii
il calore impossessarsi di nuovo delle mie guance, mentre la rabbia cresceva
“Non è stato per niente divertente!” mi lamentai “Avrei potuto avere un
infarto!” conclusi, esagerando, come al mio solito.
Timo
mi fissò un paio di secondi in silenzio, prima di
ricominciare a ridere “Certo…certo…” esclamò, sogghignando.
Un
istante dopo, si tirò indietro, staccandosi da me, tornando a fissare Rot.
“Miaooo!” miagolò il gatto, non appena la mano magra di Timo
tornò a sfiorarlo.
Osservai
la scena, in silenzio. Un sorriso diverso, era ora apparso sul volto di Timo.
Al suo interno, percepii una sensazione di dolcezza.
Deglutii.
“Quindi…” interloquii, un secondo dopo. Immediatamente, gli
occhi castani di Timo furono nuovamente su di me. Mi scrutò un paio di secondi,
in attesa che continuassi. “Questo sarebbe il tuo
gatto…?!?” domandai, incerta.
Il
volto di Timo si irrigidì subito. Contrasse
la mascella “Non sono affari tuoi…” esclamò lui, un istante dopo,
guardandomi serio.
Lo
fissai, gli occhi sgranati, domandandomi che accidenti gli fosse
preso all’improvviso “Ehy, ehy…”
iniziai, un po’ irritata, mettendomi a sedere in una posizione più comoda, tesa
verso di lui “Ti faccio notare che era in camera mia… Sono affari miei!”
Timo
sollevò le sopracciglia, poi sogghignò. “E’ solo un
caso, che tu abbia avuto questa camera…” rispose, la voce strafottente.
Sbattei
un paio di volte le palpebre, sconvolta “Che cosa intendi dire?!?” domandai.
Lui
continuò a fissarmi, senza rispondere alla mia domanda.
Un
minuto di silenzio. Rot miagolò ancora.
“Ad
ogni modo…” ricominciò lui, all’improvviso “Rot è abituato a dormire qui, essendo la stanza più
fresca del corridoio…”
Sbattei
nuovamente le palpebre, sconvolta. Fino a prova contraria, avevo sempre saputo
che i gatti amassero il calore, non il freddo.
“Quindi…credo che dovrai farci l’abitudine…” concluse lui,
tornando a fissare il gatto, che miagolò di rimando.
Deglutii,
continuando a pensare che qualcosa non tornava, in
tutta questa faccenda.
“E, temo, dovrai abituarti anche a me…” ricominciò lui,
gettandomi un’occhiata divertita “…Rot non ama stare
troppo senza di me, ma non gli piace la mia stanza…quindi…”
Sbattei
le palpebre, nuovamente shockata “Stai forse cercando di dirmi che in realtà
non avrò una vera e propria stanza?!?” domandai,
allibita.
Il
ragazzo sogghignò “In un certo senso…no…” rispose, le sopracciglia ancora
alzate “Ma non pensare che io ne gioisca più di
te…voglio dire… Ne farei volentieri a meno di dover passare il mio tempo con
te…perciò…appena puoi…perché non sparisci…?!?”
Non
pensavo avrei potuto sgranare maggiormente gli occhi, invece ci riuscii “Cosa?!?” esclamai, fuori di me “Guarda, caro mio, che qui, sei tu
l’ospite indesiderato, non io!” sbottai io, fuori di me.
Un
secondo di silenzio, poi Timo rise.
“Il
padrone della stanza è Rot…” rispose, un momento
dopo, “…perciò, sarà lui, a decidere, chi dei due è indesiderato, vero, gatto?!?” terminò, accarezzandogli la testa.
Il
gatto fece le fusa, felice.
Consapevole
di avere poche chance, a proposito, espirai.
Se quella mattina, prima di partire, qualcuno me lo avesse
predetto, di sicuro, io gli avrei risposto che era pazzo e che avrebbe dovuto
farsi vedere al più presto da un dottore. Non uno qualsiasi, però, ma uno
davvero bravo.
Inginocchiata
a terra, tra le pigne dei miei libri e di cd, sollevai, ancora incredula, lo
sguardo, appoggiandolo sul letto. Tranquillamente disteso,
come se fosse in camera sua, Timo, il gatto Rot
disteso sul suo petto, immediatamente ricambiò il mio sguardo.
Espirai,
sconsolata, tornando ai miei pacchi.
Questa
faccenda, in cui mi ero imbattuta mi sembrava davvero impossibile. In un
istante, mi ero ritrovata con le mani legate. Dovevo convivere con un gatto,
sedicente proprietario della “mia” stanza, e questo avrebbe potuto anche starmi
bene, se non fosse per la sua improponibile appendice
umana.
Timo
era a dir poco insopportabile.
Lo
conoscevo da meno di un’ora e già non ne potevo più di vederlo.
Espirai,
cercando di calmarmi e di non sommergerlo, per puro caso, sotto la pigna dei
miei libri, fingendo di inciampare. Sentivo l’esasperazione che aumentava
all’interno del mio corpo, ogni secondo che passava. Gli gettai un’altra
occhiata, subito ricambiata, prima di espirare ancora. E
ancora.
Tornai
ai pacchi, scoprendo che, quelli che contenevano gli oggetti personali e i
vestiti erano finiti. Non restava che quello contenente i cosmetici e i flaconi
del bagno e quello della biancheria intima. Pensando a quest’ultimo,
deglutii, prima di strappare via l’adesivo, aprendo il pacco che mi stava
davanti. Infilai la mano, estraendo, bagnoschiuma, shampoo etc,
appoggiandoli momentaneamente sulla scrivania, facendo avanti ed indietro.
“Hai
intenzione di studiare poco questo semestre…?!?”
esclamò la voce divertita di Timo dal letto.
Sbattei le palpebre, senza capire “Eh?” interloquii subito,
cascandoci come un pesce.
“Voglio
dire…come farai a studiare, se usi la scrivania come armadietto del bagno?!?” domandò ancora lui, tirandosi su. Il gatto Rot, un istante dopo, scivolò via da lui, sedendosi al suo
fianco sul letto.
Sollevai
le sopracciglia, chiaro segno, per chi mi conosceva, che non avevo intenzione
di rispondere ad una domanda che, personalmente, ritenevo
idiota, dandogli le spalle.
Osservai
la scrivania. Realizzando che il tedesco non aveva
tutti i torti, espirai.
“Allora?”
interloquì lui, dando prova di non essere un ragazzo disposto a lasciar cadere
un discorso nel vuoto.
Ancora
senza rispondere, afferrai i primi due flaconi che mi capitarono a tiro, poi trattenni il fiato, cercando di rimpicciolirmi il più
possibile, attraversando lo stretto spazio tra il letto e la scrivania, lo
sguardo fisso di Timo su di me.
Continuando
a fissarmi, attese che, compiendo un numero innumerevole di viaggi, sistemassi
tutti i flaconi nel piccolo comodino di fianco all’armadio, poi si alzò dal
letto e, in perfetto silenzio, si avvicinò all’altro comodino, spostandolo. Lo
osservai, sbattendo le palpebre senza capire. Un altro istante. Sollevò il pacco
chiuso, all’interno del quale si trovava la mia biancheria e, senza troppi
complimenti, lo gettò al di là del letto. Sgranai di
nuovo gli occhi. Con un rumore sordo, il pacco atterrò sul pavimento e,
fortunatamente, si schiacciò solo un po’ da un lato, senza rompersi.
“Che
diavolo fai?!?” esclamai un secondo dopo io, allibita
“Ti sei bevuto il cervello, Timo?!?”
Lui
mi degnò di un breve sguardo. Sollevò le sopracciglia e, senza rispondermi,
spostò il pesante letto di legno massiccio, spingendolo contro il muro poi,
soddisfatto, si mise eretto. “Volevo solo essere utile…” rispose, abbozzando un
ghigno “Ora farai meno fatica a muoverti, no…?!?”
Sgranai
di nuovo gli occhi mentre le braccia mi cadevano in avanti. Inspirai ed
espirai, cercando di calmarmi.
Un
secondo di silenzio.
“Non
dovresti dirmi qualcosa, per ciò che ho fatto per te?!?”
domandò ancora lui, sogghignando.
“In
effetti…” iniziai io, cercando di controllare la voce “…ci sarebbe
una cosa che mi piacerebbe dirti…ma credo che me la terrò per me…”
Un
istante.
Timo
rise, avvicinandosi. “Non essere timida, dai!” mi sfotté, ben consapevole di
ciò che avrei voluto dirgli. Io, espirai ancora, ignorandolo. Mi avvicinai al
pacco, il nervoso, macigno pesante alla bocca dello stomaco.
Sapevo
che lo aveva fatto apposta. Per irritarmi. Prima mi aveva visto trattenere il
fiato e fare innumerevoli viaggi e poi, una volta finito
il lavoro, aveva deciso di mostrarmi che lui avrebbe potuto semplificarmi il
tutto, se avesse voluto. Ma non aveva voluto.
Espirai, consapevole che la mia antipatia per lui, stava
rapidamente aumentando. Chiusi gli occhi un istante, poi mi inginocchiai,
appoggiando le mani sul pacco, schiacciato da un lato per la caduta. Espirai
ancora.
All’improvviso,
uno spostamento d’aria.
Mi
voltai, di scatto, trovandolo inginocchiato alla mia sinistra.
Espirai,
cercando di celare tutto il mio nervosismo, prima di domandare “Che c’è?”
Lui
sogghignò, gettando un’occhiata divertita al pacco. Sollevò le sopracciglia e
sul suo volto apparve uno sorriso accattivante
“Niente. Volevo solo dare una mano…” disse, come se conoscesse già la natura
del contenuto.
Arrossii, di colpo, afferrando il pacco, allontanandolo da lui “Non
è necessario, grazie…” bofonchiai, sentendo un immenso calore sul volto.
“Sicura?!?” interloquì lui, apparentemente ancora più divertito
“…Secondo i miei calcoli, questo dev’essere un pacco
particolarmente interessante, dato che l’hai tenuto per ultimo…”
“No..no…”
mi affrettai a dire io, imbarazzata “Niente di che… anzi! Se
vuoi, puoi anche andare a fare qualcosa di più interessante nella tua stanza…
Grazie ancora per il tuo aiuto…”
Timo
mi fissò in silenzio, le sopracciglia sollevate e il ghigno fermo sul suo
volto. Un istante. Scoppiò a ridere “Mi permetto di
insistere…” ricominciò, un istante dopo essersi calmato “…Hai già
sistemato tanti pacchi…hai fatto tanti viaggi solo per quello del bagno…”
disse, sfottendomi. Ignorando l’aperta occhiataccia che gli lanciai,
andò avanti “…Questo, lascialo a me…” concluse, il
sorriso sornione.
“Neanche
morta!” sbottai io, senza pensare, portandolo a ride
nuovamente di me. “Non sono affari tuoi!”
Il volto di lui si irrigidì mentre nella stanza,
all’improvviso, cadde un improvviso silenzio.
“Miaooo?!?” miagolò Rot, con voce interrogativa, sollevando il capo, fissando i
suoi vispi occhi verdi nella mia direzione.
“Eh,
no, Rot!” esclamai io, un secondo dopo “Con tutto il
rispetto, ma quando ci vuole, ci vuole!” conclusi, spiegando le mie ragioni.
Un
secondo dopo, il gatto riabbassò il capo, tornando a dormire, tranquillo. Io e
Timo ci scambiammo un occhiata e, senza pensare
nemmeno un istante, scoppiammo a ridere, contemporaneamente.
“Va
beh…” esclamò poi lui, una volta calmatosi, rimettendosi in piedi “…Vado di là,
allora…” concluse, abbozzando un leggero sorriso nella mia direzione, facendomi
pensare, per la prima volta, che in fondo, non fosse così maldisposto nei miei
confronti. Lo osservai un secondo in volto, prima di
abbozzare a mia volta, un sorriso.
Un
secondo dopo, il ragazzo si voltò, dandomi le spalle, muovendosi veloce verso
la porta. Tornai al pacco. Senza aspettare di sentire il rumore della porta
aprirsi e richiudersi, staccai l’adesivo.
“Solo
una cosa…” esclamò la sua voce neutra, un istante dopo.
Mi bloccai, le mani sul pacco, voltando il capo nella sua direzione
“Cosa?” domandai.
“C’è
la tua biancheria lì dentro, vero?!?” esclamò lui, un
secondo dopo, la voce che diventava rapidamente allegra mentre sul suo viso
appariva un sorriso accattivante. Incapace di controllarmi, arrossii vistosamente, urlando “Non sono affari tuoi!”.
“No…perché…”
ricominciò lui, appoggiandosi contro lo stipite della porta, incrociando le
braccia sul petto, le sopracciglia alzate e il sorriso che diventava sempre più
esteso, sul suo volto “…Se c’è dell’altro, la cosa diventa ancora più
interessante perché dimostra che preferisci girare “libera”…” esclamò poi, allusivo, facendo con le mani il segno delle virgolette
nell’aria.
Arrossii,
ancora di più, gli occhi sgranati. Un secondo dopo, saltai in piedi. Afferrai
la prima cosa che trovai, per la cronaca l’asciugamano delle mani, e lo lanciai
nella sua direzione, urlando “Maniacooo!”
Il
ragazzo lo schivò, veloce, scoppiando a ridere. Io, gli occhi ancora sgranati,
allungai la mano, afferrando un cuscino, lanciando ma lui fu più veloce,
correndo fuori dalla stanza, richiudendo la porta alle
sue spalle. Il cuscino si schiantò contro il legno, scivolando a terra. Un
istante dopo sentii la sua risata, per il corridoio e
poi, attutita, nella sua stanza. Un altro istante e la musica hip-hop ricominciò.
Il
corpo stanco, espirai, avvicinandomi alla porta, raccogliendo il cuscino.
Tornando al pacco, passando davanti a letto, Rot alzò
la testa, gettandomi un’occhiata interrogativa. Gli sorrisi, fermandomi a
grattargli dietro le orecchie.
“Quando ci vuole, ci vuole, vero, Rot?”
Un
secondo.
Il
gatto rosso miagolò il suo assenso.
Hallo^^!
Per Ice Queen Silver: Hallo^^!
Spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto! Volevo anche ringraziarti
tanto per il commento! Mi hai fatto venir voglia di continuare! Farò del mio
meglio^^!!! Comunque, non è vero, che il tuo commento
è stato banale, è stato utile, invece! Grazie ancora di tutto e a presto,
spero!
Il
viaggio ed i quintali di roba da sistemare, per non parlare della presenza
costante ed irritante di Timo mi avevano davvero stancato perciò, una volta finito, mi accasciai sul letto, subito raggiunta
dal gatto, Rot, che senza nessun esplicito invito, mi
era rapidamente saltato sulla pancia, accoccolandosi.
Espirai,
allungando una mano, iniziando ad accarezzare la morbida pelliccia fulva
dell’animale. Rot sollevò il capo, un secondo,
appoggiando i suoi occhi a mandarla nei miei. Miagolò, poi
riabbassò il capo.
Espirai
ancora, lasciando vagare lo sguardo per la stanza, ora completamente immersa
nell’oscurità. La sera era scesa rapidamente, inondando la stanza spettrale di
maggiore oscurità.
Osservai a lungo il soffitto, continuando ad accarezzare il gatto,
poi spostai lo sguardo, sulla mobilia, per iniziare a memorizzare
l’esatta posizione dei mobili. Sorrisi, riflettendo fra me e me. Era una cosa
che facevo sempre, nel momento in cui cambiavo residenza. Memorizzare
l’esatta posizione dei mobili, per evitare, nel futuro più che prossimo, quando
avrei iniziato a girovagare per la stanza al buio, di sbatterci addosso e di
farmi male. Sorrisi ancora, la musica hip-hop
di Timo, tutt’intorno, socchiusi gli occhi, scivolando
piano, nel sonno.
Buio.
Tutt’intorno a me.
Camminavo,
immersa nel buio, con fare sicuro. Sapevo che, per il corridoio in cui stavo
camminando, non c’era nulla contro cui avrei potuto
sbattere, perciò il mio passo era veloce e leggero. Senza sapere dove stessi andando di preciso, mossi le gambe, continuando ad
avanzare, per il corridoio finché, imboccando un altro corridoio sul quale si
apriva un'unica porta, non sentii un pianto sommesso di un bambino. Sgranai gli
occhi, continuando ad avanzare. Il pianto, aumentava, diventando sempre più
nitido. Ad esso, un istante dopo, si sommarono urla
indistinte. Aggrottai le sopracciglia, cercando di cogliere ciò che stessero dicendo, senza riuscirci. Il pianto del bambino era
troppo forte, ora. Mi guardai attorno, nel corridoio buio, cercando di capire
da dove provenisse. Continuai ad avanzare,
raggiungendo l’unica porta, comprendendo che non poteva
che provenire da lì. Senza pensare, appoggiai una mano sulla maniglia,
abbassandola. Chiusa. Il pianto, improvvisamente, si interruppe,
per un secondo, come se il bambino avesse sentito il rumore della serratura. Non appena smisi di muovere la maniglia, riprese, più forte.
Una strana sensazione alla bocca dello stomaco, abbassai nuovamente la
maniglia. Questa volta, senza sforzo. La porta cigolando si aprì. Sgranai gli
occhi. Lo vidi ma, prima che potessi fare qualcosa, un’aria fredda mi colpì,
facendomi rabbrividire.
Sbattei
e palpebre, più volte, realizzando che l’aria fredda
non era nel sogno, ma nella realtà. Quell’aria, mi
strappava via, dal sogno, come se io non dovessi vedere. Come
se non avessi dovuto sapere.
Aprii gli occhi. Ero nel mio nuovo letto, rannicchiata in
posizione fetale. Gettai una rapida occhiata al mio corpo, per poi realizzare che non percepivo il calore del corpo di Rot, perché il gatto non c’era più. Un'altra folata d’aria,
sul volto. Sollevai lo sguardo, davanti a me. Sgranai
gli occhi, un brivido di terrore mi percorse la spina dorsale. Aprii la bocca,
per urlare, ma non ci riuscii. La paura era troppa, per poterci riuscire.
Di
fronte a me, c’era un bambino. Lo osservai, gli occhi ancora sgranati, i
brividi che continuavano ad irradiarsi dalla mia spina dorsale per tutto il
corpo.
Mi
fissava. Nell’oscurità, i suoi occhi scuri brillarono, dando un aspetto ancora
più inquietante alla sua pelle talmente chiara da poter essere trasparente. Un
secondo. Allungò una manina nella mia direzione. Inconsciamente, mi tirai
indietro, spiaccicando la schiena contro il muro freddo di mattoni,
sottraendomi al contatto. Mi fissò, un istante. I suoi occhi brillarono
di più, ritrasse la mano, fissandosi i piedi nudi. Vedendolo, non potei
evitare di abbassare lo sguardo anch’io su di lui. Gli fissai i piccoli piedi
nudi.
Un
istante. Si voltò, di scatto verso la porta, il suo volto si irrigidì,
poi spostò i suoi occhi, ora enormi per la paura, di nuovo su di me. “Sa che
sono qui…” mormorò, la voce terrorizzata “Non lasciare che mi prenda…”
continuò.
Sentii
i nervi del volto irrigidirsi, mentre spalancavo di nuovo gli occhi ed i
brividi ricominciavano a invadermi il corpo.
“…Non
lasciare che ci prenda…” esclamò ancora, poi saltò,
veloce, verso di me.
Sgranai
di nuovo gli occhi, vedendolo.
Un
secondo.
Urlai.
La
luce si accese, all’improvviso.
Spostai
gli occhi enormi, ora pieni di lacrime, sulla porta, rannicchiandomi
maggiormente. Ero troppo terrorizzata, per poter fare di più.
Timo,
una maglia bianca extra-large su un paio di boxer
neri apparve sulla porta. Mi fissò irato un solo istante poi
sgranò gli occhi. Saltai in piedi, senza pensare, mentre lui, si
avvicinava, rapidamente, il volto preoccupato. Di nuovo senza pensare, mi
lancia contro di lui, sprofondando la testa contro il suo petto. Lui ora rimase
immobile, senza respirare. La sua mano destra si appoggiò sulla mia spalla,
tenendomi. Scoppiai a piangere, contro di lui, senza ritegno.
Un
secondo.
Sentii
il suo petto muoversi. Aveva ricominciato a respirare.
“Hai
fatto un brutto sogno…non era vero, perciò, cerca di calmarti, ok…?” disse lui, impacciato, continuando a tenere la mano
destra sulla mia spalla.
Continuai
a piangere, tremando, contro di lui. Il ragazzo rimase immobile, in silenzio,
continuando a tenermi in quel modo. Quando poi,
finalmente, mi sembrò di aver finito le lacrime, bofonchia, la voce lacrimosa
“…Il bambino…”
Il
corpo di Timo si irrigidì. Alzai il capo, incontrando
i suoi occhi, ora fissi su di me. I suoi era sgranati
“Quale bambino?” domandò lui, preoccupato.
“Non
lo so…” risposi io “…C’era un bambino qui…”
Timo
sgranò maggiormente gli occhi, prima di espirare, cercando di
calmarsi “Non ci sono bambini qui…da molti anni ormai…”
“C’era
invece!” esclamai subito io, voltandomi in fretta, indicando vicino al mio
letto. “Stavo avendo un incubo poi ho sentito dell’aria fredda che mi colpiva
e, quando ho aperto gli occhi, c’era un bambino, che mi fissava, esattamente in
quel punto!”
Lui
non rispose. In silenzio, mi oltrepassò, avvicinandosi al letto. Appoggiò una
mano per terra. La sollevò, poi si voltò verso di me.
Espirò, poi tornò da me. Allungò una mano, spingendomi verso la porta della
stanza. “Andiamo…” disse, il volto serio.
La mano di Timo sulla spalla, uscimmo nel corridoio buio. Non appena mi accorsi di dove mi trovavo, rabbrividii ancora. Il ragazzo, veloce, allungò la mano sinistra.
Click.
La luce illuminò il corridoio vuoto. Osservai entrambe le direzioni, cercando di ricordare se quello del sogno fosse lo stesso dove mi trovavo ora. Aggrottai le sopracciglia, indecisa poi, un momento dopo, Timo cominciò a camminare, attraversando il corridoio. Appoggiò una mano sulla maniglia della porta della sua stanza. La spalancò.
Fissai l’interno della stanza. Il letto sfatto, le pantofole abbandonate, una vicina al letto, l’altra in mezzo alla stanza. Probabilmente, sentendo il mio urlo lui era corso da me, senza nemmeno pensare. Espirai.
“Vieni, dai…” disse lui, la voce neutra, tenendomi la porta aperta e sospingendomi, gentilmente con l’altra mano.
Osservai la stanza un altro secondo, poi deglutii.
“…Non voglio approfittarne…” esclamò lui, un secondo dopo, abbozzando un leggero sorriso “…Le ragazze mi piacciono consenzienti e ben disposte nei miei confronti, non rompiscatoli e timide…” scherzò, la voce allegra.
Gli gettai un’occhiataccia, la tensione che diminuiva “Sempre simpatico, eh?” risposi.
Lui rise. “Che ci posso fare?!? Fa’ parte della mia natura…”
Abbozzai un leggero sorriso poi, un pelino più tranquilla, mossi un paio di passi, verso la stanza.
“Che accidenti state facendo voi due!” gridò, un secondo dopo, la voce isterica di Alberto.
Io e Timo ci voltammo di scatto, fissando il ragazzo che, un accappatoio sopra al pigiama, era appena spuntato dalla sua stanca. Un secondo di silenzio, poi lui avanzò nella nostra direzione. Timo, al mio fianco, mormorò “Scheiße…” talmente piano che solo io riuscii ad udirlo. Mi morsi le labbra, per non scoppiare a ridere, poi deglutii.
“Allora?” rincarò Alberto, oramai a pochi passi da noi. Si fermò, portandosi le mani sui fianchi, con fare autoritario.
Un altro istante di silenzio, poi Timo si mosse, imitandolo, piazzandosi nella stessa posizione di Alberto, nascondendomi dietro di sé “Allora cosa?” domandò, imitandone anche il tono. Alle sue spalle, mi morsi nuovamente le labbra, cercando di non farmi sentire, mentre sogghignavo.
Alberto lo fissò, in silenzio, esterrefatto, prima di sbottare “Non prendermi in giro, idiota! Lo sai benissimo che, se volessi, mi basterebbe andare dal direttore, per farti buttar fuori da questo convitto!” esclamò, cercando di darsi importanza.
Timo sollevò il sopracciglio sinistro mentre un’espressione di disgusto appariva sul suo volto “A me, invece, non serve andare da nessuno, prima di spaccarti la faccia, Alberto ma, non per questo l’ho fatto…” si fermò, un secondo, creando un po’ di suspance, prima di terminare, sogghignando “Almeno non fin’ora…”
Un altro secondo di silenzio. I due si fissarono in cagnesco poi Alberto abbassò lo sguardo dal volto alle braccia di Timo. Deglutì. Il tedesco sogghignò ancora.
“Rispondi alla mia domanda, finché sei in tempo!” ricominciò Alberto un secondo dopo, ora fissando me che, di sicuro, apparivo maggiormente sovrastabile di Timo.
Silenzio.
“Allora, Timo?” Ricominciò Alberto, prima di sbuffare.
L’altro sogghignò ancora “Sinceramente…l’ho trovata una domanda talmente arguta che me la sono dimenticata subito…” lo sfotté, la voce divertita.
Alberto sbuffò ancora, prima di ripetersi “Ti ho chiesto che accidenti stavate facendo!” sbottò, iniziando ad innervosirsi davvero.
Il tedesco rimase un paio di secondi a studiare l’altro, il sorriso sulle labbra, poi allargò le braccia “Come puoi ben vedere, siamo in un corridoio e, come tu dovresti ben sapere, dall’altezza della tua intelligenza sovraumana certificata dal tuo dottorato, Alberto, di norma, i corridoi vengono utilizzati come spazio di movimento, di attraversamento…”
“Come mai sei così logorroico, questa notte?!? Piantala di prendermi in giro e arriva al punto!” lo incalzò l’altro.
Il volto di Timo si irrigidì, poi lui incrociò le braccia sul petto, sollevò il sopracciglio sinistro ed il labbro, in un ghigno canzonatorio “Ovviamente, stavamo passando…” rispose.
“L’avevo notato, Einstein! Ma perché???” urlò un secondo dopo “Dimmi perché accidenti state girando insieme a quest’ora, disturbando la quiete del corridoio…”
“Fino a prova contraria, noi stavamo solo passando e quello che disturba la quiete, caro mio, sei tu, urlando a mo’ di scimmia urlatrice!” lo interruppe subito il tedesco, sogghignando.
Alberto lo fissò, esterrefatto, poi prese un bel respiro, cercando di calmarsi, le sue mani tremarono “Ad ogni modo…” riprese un istante dopo “…come tu ben saprai oramai, essendo molto tempo che ci obblighi a sopportare la tua presenza…” ricominciò, osservando il viso del suo interlocutore che, sempre più divertito sollevò di nuovo le sopracciglia “…il regolamento del collegio proibisce agli studenti di invitare persone di sesso opposto nella propria stanza…”
I due si fissarono. Alberto sogghignò, certo di averla appena avuta vinta. Timo invece, perfettamente calmo, si mosse, veloce, verso la sua stanza tornando un istante dopo, un depliant in mano. “Leggo testualmente…” iniziò, sollevando le sopracciglia di nuovo “…Agli studenti è inoltre severamente vietato invitare persone di sesso opposto all’interno del collegio, in particolar modo nella propria stanza…” Staccò gli occhi dal depliant, tornando a fissare quelli di Alberto, sogghignò “E’ vietato invitare estranee, Alberto, non persone che risiedono qui…” Il sorriso sul suo volto divenne più esteso “Mi dispiace, darti l’ennesima delusione, ma sembra che, nemmeno questa volta, io abbia infranto una delle tue stupidissime regole…” concluse, la voce dolce.
L’altro lo fissò, gli occhi sgranati, il suo volto che diventava velocemente di un acceso color bordeaux. Un secondo, poi pestò il piede destro “Forse non ancora, Timo, ma prima o poi, farai un passo falso e ti assicuro che io sarò lì, quel giorno e, finalmente, mi liberò di te, piantagrane!” sbottò.
Il tedesco rimase impassibile, sogghignando “Continua a sognare, che è meglio…Sono troppo fuori dalla tua portata…”
Alberto pestò di nuovo il piede, prima di indicarci, con l’indice della mano destra “Non cantare vittoria! Mi liberò di te, anche se dovesse essere l’ultima cosa che faccio!” si fermò un secondo, gettandomi un’occhiataccia “E anche di te, piccola piantagrane!” concluse, prima di voltarci le spalle e allontanarsi, a passo d’elefante per il corridoio. Lo fissai, shockata, consapevole di non aver fatto nulla. Un secondo. Dopo essere entrato nella sua stanza, sbatté rumorosamente la porta. Un piccolo quadretto, appeso sul muro poco distante, cadde, rompendosi.
Ancora sconvolta dalla reazione del ragazzo, gettai un’occhiata a Timo che mi confidò, la voce allegra “Adoro farlo arrabbiare così…” Mi sorrise, complice, prima di appoggiare una mano sulla mia schiena, sospingendomi all’interno della sua stanza.
Tlack.
Osservai la porta richiudersi lentamente, seduta sul letto sfatto di Timo. Un istante dopo, il ragazzo appoggiò la schiena contro il legno, iniziando ad osservarmi, in silenzio. Mi grattai, imbarazzata, una guancia, non sapendo che fare. Un secondo. Arrossii. Non sapevo nemmeno perché mi ero lasciata convincere a venire nella sua stanza. Gettai una veloce occhiata all’ambiente. Stereo, cd, libri e dizionari, attirarono immediatamente la mia attenzione sulla scrivania. Sorrisi. Non sapevo perché ma mi sentivo sicura lì. Forse era la luce accesa o il fatto che la camera fosse maggiormente raccolta della mia oppure, la presenza di Timo, ma mi sembrava impossibile che, in quella stanza, qualcosa di brutto avrebbe mai potuto disturbarmi. Espirai.
“Parliamo del sogno, vuoi..?” esclamò lui, all’improvviso.
Rapidamente, spostai lo sguardo su di lui. Mi fissava, i suoi occhi castani erano seri. Deglutii, prima di rispondere “Non me lo ricordo bene…C’era un corridoio buio…urla…pianto…”
Lui sgranò di nuovo gli occhi prima di sbattere le palpebre, più volte “Ma non avevi detto che avevi visto un bambino?”
Un secondo poi fui io a sgranare gli occhi. Presi un respiro profondo poi negai col capo “No, Timo. Il bambino era reale.” Esclamai, convinta.
Lui rimase a fissarmi in silenzio per alcuni secondi poi chiese “Sicura di non avere confuso la realtà con il sogno?!? Sarebbe più che normale…voglio dire…appena svegli, credere che il sogno fosse reale…”
Negai ancora col capo, più che convinta “Non mi sono sbagliata, Timo!” esclamai con impeto “Sono più che sicura di essere stata sveglia…ha tentato di toccarmi con una mano, mi sono tirata indietro, poi lui ha detto qualcosa…” Aggrottai le sopracciglia, tentando di ricordare cosa avesse detto di preciso ma non ci riuscii. Espirai. “Accidenti!” imprecai, un secondo dopo.
Timo, le spalle ancora appoggiate contro il legno, espirò poi si passò una mano fra i corti capelli biondo scuro. Ci fissammo a lungo, in silenzio, poi lui espirò ancora “Sei davvero così convinta?” domandò ancora.
Gli gettai un’occhiata, veloce, iniziando a spazientirmi “Non credermi se non vuoi…”
Lui non rispose, sollevò solo un istante le spalle. Avvicinandosi a me, si fermò alla scrivania, appoggiandosi contro lo schienale della sedia, incrociò nuovamente le braccia. “Cosa pensi di fare?” domandò poi, all’improvviso.
Sbattei un secondo le palpebre “Che cosa intendi dire?!?” chiesi, la voce sconvolta.
Lui espirò “Pensi di far finta di niente o cosa?” continuò poi, notando la mia espressione sempre più sconcertata si sbrigò ad aggiungere “Lascerai la camera e il collegio o farai finta di non aver visto niente?”
I miei occhi si sgranarono ulteriormente. Un secondo. Sentii un immenso calore al volto “Non farò nessuna delle due cose... Non farò finta di non aver visto quel bambino ma non per questo rinuncerò ai miei sogni” risposi.
Un altro momento di silenzio. I suoi occhi castani, ora duri, scrutarono i miei “Non so se sia la cosa migliore…”
Lo fissai, ancora più sconvolta, prima di esclamare, senza nemmeno pensare “Scusa?!? Che intendi dire?!? Cosa sarebbe meglio fare, secondo te?” chiesi, irritata.
“Andare via…” concluse lui, la voce impassibile.
“Andare via?!?” ripetei io, shockata.
“Si…vai via…è meglio…”
Un secondo di silenzio poi mi alzai, veloce “Davvero gentile da parte tua!” abbaiai, irata, avvicinandomi alla porta “Non pensavo certo che fossimo già diventati amici, ma di sicuro non mi aspettavo questo…”
Mi fermai, davanti alla porta, abbassando la maniglia. Mi voltai, fronteggiandolo. Timo mi fissava, impassibile, come se nemmeno mi avesse sentito. Aspettai, un paio di secondi, sperando che dicesse qualcosa che sistemasse tutto ma lui rimase immobile, in silenzio a fissarmi. Sbuffai. “Mi dispiace non incontrare i tuoi desideri, ma io non me ne vado da nessuna parte, ne ora, né mai!” esclamai infine, uscendo e chiudendo la porta dietro di me.
Di nuovo nel corridoio buio, espirai, cercando di calmarmi. Di non lasciarmi dominare dalla rabbia e dalla delusione. Silenziosamente, appoggiai la schiena contro il legno della porta, chiusi gli occhi.
Un secondo.
Sentii i piedi nudi di Timo muoversi sul pavimento, all’interno della stanza.
“E’ un peccato che tu non te ne vada…” disse la sua voce, all’improvviso, dall’altra parte del muro. Sgranai gli occhi, un brivido mi attraversò la colonna vertebrale ma rimasi ferma, in silenzio. Non volevo che mi scoprisse.
“Un peccato per me…ma anche per te…” concluse. Lo sentii espirare poi si sdraiò.
Click.
Ferma contro il legno, espirai un ultima volta, prima di tornare alla stanza spettrale.
Per Sakuruccia: Innanzitutto, chiedo perdono per l'immenso ritardo... Ho avuto un sacco di problemi e la voglia di scrivere è andata a farsi benedire...al momento, sto cercando di farmela tornare... scusa ancora! Grazie ancora per tutto l'appoggio^^! Spero di nn deluderti! Bacio.