Julie

di Bael
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Julie Arlowe ***
Capitolo 2: *** Alan Preston e Mr Todey ***
Capitolo 3: *** Carl Fish ***



Capitolo 1
*** Julie Arlowe ***


Julie, primo capitolo

“...Don't smile
Don't you smile
You're supposed Wither away with me, so, Juliette
Please don't smile
I'm paralysed and you are still alive.”

(Juliette, Sonata Arctica)

 

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Essere autocompiaciuto fino al riprovevole, devo ammettere, è una mia pecca. Piuttosto infelice, in effetti, ma vi chiedo di perdonare il mio tono se vi parlerò di cose terribili con un sorriso, o col mio fare così irritante; non sareste i primi a rimproverarmelo.

Tutto questo potrebbe essere significativamente pedante, tuttavia, mio amato pubblico, vi prego di prestare attenzione alla mia premessa: noi vostri affezionatissimi personaggi, quelli di cui leggete, per intenderci, siamo tutto quello che voi non osereste essere; uccidiamo perché voi non sapete farlo, corriamo perché voi camminate, gridiamo perché la vostra voce è debole. Io vi mostrerò quello che sareste potuti essere; pertanto sedete pure al caldo delle vostre case sulla sedia, davanti al computer, preparate il mouse per scorrere la pagina del sito, mentre io siedo qui a terra, giocherellando con le dita, col sangue sul pavimento. Sedete, prego, miei amati lettori.

 

La storia più vera che conosco. Quello che intendo mostrarvi per ora non ha nulla a che vedere col sangue e qualcuno di voi sospirerà. In realtà riguarda un pullman blu e bianco con file di sedili ruvidi e vetri velati di polvere beige e butterati di pioggia secca. Quinto anno che portavo il culo e lo zaino su quell’affare disseminato di teste scompigliate di prima mattina e musi abbassati per il sonno, quinto anno in cui sentivo la stessa stazione radiofonica e qualche coglione sui sedili in fondo che rideva dell’ennesima stronzata, nonché un paio di vecchi ai primi posti che russavano. Quinto anno per me e il sesto per Julie. Julie nel caso foste interessati a saperlo, e lo siete, era una gran troia. Una puttana di prim’ordine, signori, senza dubbio. Di quelle che impieghi nove mesi a conquistare, una settimana per baciare alla francese, tre mesi per farci petting e che ami per l’arco dei tre giorni che separano una mandata a fanculo dall’altra. E naturalmente quella che non ti scopi mai.

Andiamo con ordine però. La cosa più importante che dovreste sapere è che il mio nome è Alan Preston e che al quinto anno di scuola e di viaggi su un pullman del cazzo, lucidavo moto all’officina di mio padre per una paga da miseria e anche una buona dose di calci in culo dal vecchio. Il vecchio per fortuna aveva tirato le cuoia solo un anno dopo, con gran disperazione di mia madre. A quel tempo portavo i capelli ricci e tristemente crespi lunghi quasi fino alle spalle e leggevo un sacco di saggi, per darmi qualche aria con delle citazioni buttate giù col giusto criterio. Pareva che piacessi alle ragazze per la mia faccia sbarbata vagamente androgina, il che non era poi troppo lusinghiero. Julie era più grande di me di un anno, aveva i capelli lunghi come i miei ma lisci, più chiari, il naso non dritto, gli occhi a mandorla e le labbra sottili. Mi innamorai di lei circa due anni dopo averla conosciuta e non ricordo neppure quello che aveva detto per attirare la mia attenzione. Ci misi un pezzo per convincerla a stare con me e forse avrei dovuto considerare che aveva un cervello da bambina vivace uscita da un cartone animato, che decantava l’amicizia e non aveva idea di come comportarsi con un ragazzo: il risultato era che sapeva essere fuori luogo come pochi, nonché abbastanza frigida da far impazzire un ragazzo.

Non intendo aggiungere altri dettagli, non per ora, a dire il vero, vi basti sapere che a diciannove anni lasciai Julie con una delusione tale, che non insistetti neanche più per rimettere le cose a posto e in effetti ero andato avanti per la mia strada per altri sei anni senza vederla.

Avevo venticinque anni quando sentii sul notiziario di quello che le era successo a Baltimora nel 1991: precipitata giù da un balcone, anni ventisei, aveva agonizzato in ospedale per cinque ore, poi era morta. Sospettato di averla spinta giù il convivente di trentun anni: Carl Fish, figlio di un magnate di un’industria tessile fallita del North Carolina.

Certo, non saprei dirvi come mi sentii in quel momento, dato che in tutta onestà non provai proprio nulla.

Anzi: quello che non provai, in verità, fu il dolore, quello sarebbe stato normale, invece una parte di me prese a essere curiosa, così curiosa che mi misi davanti alla tv, mentre Carl Fish veniva accompagnato in un’auto della polizia con le mani sulla nuca, la bocca aperta e il labbro inferiore sporgente.

La curiosità fu quella di incontrare lui, naturalmente. Non ne compresi il motivo ma volevo conoscere quell’uomo. Lui aveva conosciuto lei: l’aveva gettata giù da un balcone, probabilmente perché lei gli aveva detto che “Sogno sempre di buttarmi giù dal balcone. E volare, volare, volare è il mio sogno”. Infelice la vita degli artisti: semplicemente quello che sognano, nella vita vera li uccide. Infelice e ironico, perché Julie si era ritrovata con la testa aperta per terra, probabilmente dopo aver esasperato un altro uomo come aveva fatto con me. E quell’uomo l’aveva conosciuta, aveva avuto reazioni forse simili alle mie davanti a quella donna.

Non mi sforzai per nulla di capire il motivo per cui mi interessò così tanto conoscere Carl Fish.

In effetti sono parecchie le cose che in questa storia hanno non poco di paradossale e immotivato, ma al buon osservatore – o ascoltatore – non sfuggono quelli che a modo loro sono i cosiddetti motivi.

Quel che è certo in tutta questa storia è che Julie Arlowe era morta e che ogni riferimento a persone realmente esistenti non è affatto casuale, dunque sappiate che se vi chiamate Julie Arlowe siete morti, signori, senza possibilità di appello, grazie.

A questo punto molti di voi mi daranno del pazzo, sapendo che quel giorno mi misi in viaggio alla ricerca del simpatico signor Fish, ma ve lo ripeto. Io faccio solo quello che voi dagli spalti non avreste l’ardire e la stupidità di fare, questo perché l’artista impazzisce al posto del lettore, pur di insegnargli la follia. Lasciate che vi racconti come.

 

 

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Capitolo 2
*** Alan Preston e Mr Todey ***


Alan Preston e Mr Todey

Signore e signori, bentornati.

Signore e signori, penso di avere ancora un debito con voi: una cosa da mostrarvi; molte, credo.

In effetti come potreste indovinare che la luce sugli occhi di Julie Arlowe attraverso gli occhiali, li faceva sembrare di miele, se non ve lo dicessi io? In effetti a nessuno di voi avrebbe ragione di importare una cosa simile. C’è altro che dovreste vedere e io ho promesso di raccontarvi, giusto?

 *

“Julie Arlowe”

Ve l’avevo detto che avrebbe impiegato una settimana prima di baciarmi? Sì? Be’ io no.

Ero inginocchiato sul sedile del pullman, su quello dietro c’era la ragazza che mi aveva appena detto un “sì” insicuro, con quella tensione delle labbra che le faceva affondare l’angolino della bocca nella guancia.

“Sì Alan, mi metto con te”.

Le presi il viso, lo tirai su, costringendola ad alzarsi e la baciai, non ricordo un altro bacio prima, né delle labbra più bagnate e morbide che si chiudevano quasi arricciandosi, come la bocca di Marilyn Monroe che si increspava di rosso e si chiudeva in un bacio. Un bacio. Mai più così bagnato e soffice e avrei potuto contare le pieghe delle labbra. Una a una.

 *

Da allora erano passati anni, ora non ricordavo baci, ero in auto col freddo sotto il maglione grigio, stavo cercando di raggiungere il carcere di Baltimora in Maryland. Sappiate che so perfettamente che nel 1991 i Sonata Arctica non cantavano la canzone chiamata “Juliette”, ma che voi vogliate crederci o no, io stavo ascoltando quella canzone, in auto.

Ladies and gentlemen,
Welcome to my life again
Walk with me, every curve, every bend
This promenade that seems to come to an end
Strada, strada, strada, dovevo aver saltato un paio di cartelli con le indicazioni e adesso giravo come un idiota.

La prima volta che avevo baciato Julie sul pullman ricordo che un coglione dietro si era messo ad applaudire e fischiare finché la sua amica non l’aveva colpito in testa con la cartellina.

Ci risi su e il respiro si trasformò in vapore, il motore della macchina singhiozzò per un attimo. L’abitacolo era gelido, mai ricordato un inverno così freddo, giuro.

Signore e signori, ci credereste che davvero il freddo era insopportabile? E che da quel momento accettai perfettamente l’idea di ricordare la maggior parte di quello che era successo a me e Julie per i due anni in cui eravamo stati insieme? Sarebbe sorprendente, perché non ci credo molto nemmeno io, signori miei, in effetti i ricordi, devo ammettere, stanno diventando quasi dei fantasmi.

Riuscii a vedere il cartello delle indicazioni, erano le sei e mezzo di mattina.

Non sarebbe un momento perfetto per far parlare i miei ricordi fantasma?

 *

Quarto mese, credo, con le date sono sempre stato un disastro. A quel tempo le ragazze dicevano a Julie che io volevo solamente scoparla, e in realtà non facevo che chiederglielo. Sesso, sesso, sesso. Nelle mie fantasie succedeva in qualsiasi posizione, luogo e in quel periodo scoprii di essere un amante del burlesque . Il problema era che Julie, dal canto, suo non ci pensava nemmeno ad accontentarmi, e nessuno, signori miei, assolutamente nessuno era capace di ammontare motivazioni sconnesse e plausibili come Julie Arlowe, e spero che nessuno di voi voglia contraddirmi al riguardo.

Sapeva parlare, dicendo un sacco di cose belle, senza che quelle avessero un filo logico, ma tutto ciò che aveva a che fare con lei aveva ben poco senso, spero che l’abbiate capito; una volta eravamo nel garage dei suoi, erano riusciti a metterci il bagno, la stavo baciando lì dentro.

“Piangi” le avevo detto, fermandomi.

“Lo so che vorresti piangere”.

Semplicemente mi sembrava da lei che avesse bisogno di piangere chissà per quale motivo idiota, e lei lo fece, scoppiò a piangere. Forse lo fece solo perché le sembrava una cosa interessante, io dal canto mio sentii una specie di gioia vendicativa. Tu non scopi? E ora piangi, non mi importa se lo fai perché sei stupida o perché tendi a drammatizzare.

Amavo davvero Julie, anche se potreste pensare il contrario.

Qualche anno prima di quel mio viaggio verso un carcere e un uomo chiamato Carl Fish, avevo visto in tv una strana pubblicità, tanto per cominciare c’era una sagoma senza viso in una stanza.

“C’è un uomo che non deve pagare per avere una casa” diceva la voce.

“Non deve comprare un letto, né da mangiare” continuava.

“Ma quest’uomo non è felice, perché è un carcerato”.

Mi venne da ridere: l’omino stilizzato non aveva un’espressione feroce o triste, non aveva una faccia. Era un omino che non era un criminale, aveva solo il ruolo di un carcerato. Lo stesso succedeva a me: non provavo nulla, non avevo uno scopo, mentre viaggiavo, ero solo l’omino che viaggiava, non la persona che cercava.

Avevo raggiunto Baltimora, e al carcere mi avevano risposto che Fish era stato rilasciato quasi subito in mancanza di prove.

“E dove lo trovo?” avevo chiesto alla guardia.

“Signore” mi rispose lui, accompagnandomi fuori.

“Dovrebbe chiedere a Mr Tovey, signore”.

“Mr Tovey?” chiesi. Mi sembrò che mi prendesse in giro, quel tizio grasso e scuro di carnagione.

“Sì, sì, ragazzo, Mr Tovey, è un inglese completamente…” e posò l’indice sulla tempia.

“Sì, completamente fuori, ragazzo, mi capisci? Stavo dicendo che è un inglese, a pochi passi da qui, sta sempre davanti alla farmacia e si crede un venditore di tipi sperimentali di dentifricio, pensa un po’” eravamo fuori, lui sghignazzò a un collega dietro di lui, si accese una sigaretta.

“Insomma, insomma, lui vede tutti quelli che escono, che vengono fuori dalla prigione, lui li vede tutti e accidenti se se ne ricorda bene!”

“Capisco, dovrei chiedere a un pazzo dove se n’è andato Carl Fish” borbottai.

“Ragazzo, ragazzo, ringraziami e fa’ come ho detto, va bene? Vedrai che ho ragione, e ora su, fuori dai piedi” aveva detto bonariamente.

Alla fine avevo fatto come aveva detto lui e davanti a una farmacia, c’era un tipo vecchio con i capelli un po’ lunghi un cappellino verde col pon pon blu e un’infinità di rughe, come centinaia di tagli.

“Signore?”osai.

“Oh!” esclamò lui.

“Oh! Oh!” riprese aprendo gli occhi un po’ a mandorla fino a circondare completamente di bianco l’iride.

“Signore, ragazzo caro” disse pestando con dolcezza il  piccolo tappeto sotto i piedi.

“Ragazzo caro, dimmi, te li lavi i denti?”.

“Le compro un dentifricio, signore, se mi dirà se ha visto una persona” dissi, cercando con nella tasca le banconote appallottolate, senza estrarle.

“Davvero signore? Ma che lavoro farei se non le parlassi dei miei prodotti? Eh? Ha mai pensato, ragazzo mio, a un dentifricio al cioccolato? Un dentifricio dolcissimo che si scioglie in bocca e ti lava i denti” il vecchio socchiuse gli occhi e sorrise beato.

“No” dissi seccato.

“Oh, dovresti, ragazzo, l’igiene orale è importante” fece lui severo.

“Certo” borbottai a disagio, molti passanti si giravano a guardarmi.

Il vecchio mi ricordava il mio vecchio, non che c’assomigliasse, ma avevo sempre problemi con la gente che mi rimproverava.

“Chi cerchi allora. Ragazzo?”.

“Si chiama Carl Fish, dicono che sia uscito di prigione cinque giorni fa”.

“Oh!” esclamò lui.

“Ah, quello non mi ha comprato proprio niente” rise lui.

“Però si è seduto qui e cercava di vendere con me i dentifrici, ha guadagnato più di me” aggiunse, rattristando l’espressione.

“Diceva che gli servivano i soldi per tornare da suo padre. Lo saprai dove abita il padre, ragazzo. Lui diceva che al telegiornale l’avevano detto a tutti. A tutti, dove viveva suo padre: è stato in carcere anche lui” poi rise un po’.

“Ti do un dentifricio alla crema” disse con l’espressione mortificata. Si chinò e sfilò un filo dal suo tappetino, un filo bianco e me lo porse.

“Le darò sei dollari signore” dissi, in imbarazzo.

“No, ragazzo, va’ via, non vedi? Devo vendere. Devo vendere le mie invenzioni” disse tutto triste.

 *

La fine della mia relazione con Julie, due anni dopo il bacio sul pullman, avevamo litigato e la colpa era mia. Perché era una ragazza assurda, perché forse non mi bastava e desideravo che smettesse di trattarmi da amico. Le avevo detto che la lasciavo e non aveva battuto ciglio.

“L’hai detto tu” disse.

“L’hai scelto tu” ripeté.

“E tu non ti aspettavi altro” sorrisi io. Pioveva, una goccia era scivolata dentro il giubbotto, aveva bagnato la pelliccia marrone all’interno e ora prudeva, pensate che ci stessi a badare, in quel momento?

Mi girai, non ripresi neanche l’ombrello che avevo lasciato nel suo garage.

Una delle mie più grandi delusioni: una donna che dopo aver preso tutto da te, non fa nulla per tenerti accanto.

“Alan, perdonami” mi gridò dietro.

Perdonarla?

“Cazzo, Julie” esclamai, girandomi.

“Perdonarti? Ti sembro un prete, Julie?”

 *

Ebbene vi ho presentato Mr Todey, il matto dei dentifrici, senza dirvi nulla della prigione, del secondino e tantomeno della farmacia dietro il pazzo. Non ve l’ho detto signori, però vi ho raccontato di me e Julie Arlowe, volete sapere cosa ho da dirvi su Carl Fish?

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Rispondo ai commenti :)

Reus: Ecco la signorina a cui ho dedicato la storia! XD la mia Julie? Che fai sfotti :-)? Sono felice che tu abbia recensito e letto, un bacio.

Darseey: sono sinceramente felice di ritrovarti in questa nuova piccola impresa narrativa, ne verranno altre col tempo, lo prometto, scuola permettendo, ecco. Comunque mi fa un gran piacere che tu abbia gradito. Per quanto riguarda la mail… purtroppo non mi è arrivato nulla, sospetto che tu sia quel misterioso contatto che ho di recente su msn, ma non fidandomi di quest’idea, a mio rischio posto qui il mio indirizzo msn col pericolo di eventuali denunce-minacce-stupri di chiunque legga XD luther_abel@live.it, puoi aggiungermi come contatto o mandarmi semplicemente mail. Come preferisci, e ancora grazie :)

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Capitolo 3
*** Carl Fish ***


Julie3

E' l'ultimo capitolo, quindi metterò quel che ho da dire ai lettori nella parte superiore del raconto, in modo da lasciare il finale nel dovuto silenzio. Ringrazio chi ha recensito e anche chi ha solo letto. Se qualche passaggio vi risultasse illogico, non temete: non siete voi che non connettete, ma il personaggio XD Ultima cosa, una piccola nota alla persona a cui ho dedicato il racconto: buon compleanno, amore. Vacilli ragazza, ma resisterai.


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Quando si è appena svegli si ha il pregio di essere troppo rincoglioniti per impedire a certe idee insensate di colpirti, al punto che piegheresti la testa come un bambino fissando una briciola di pane tostato sulla tovaglia. Quando ti svegli non senti tua madre che dice qualche puttanata, non ascolti proprio un cazzo di quello che si chiacchiera in giro o che ronza il tg, o il meteo. Però senti il latte brontolare sul fuoco, ti concentri a fissare il bordo ammaccato della tazza ancora vuota che ti hanno messo davanti –chi? Tua madre? O l’hai presa tu?

Nel mio caso mi ero svegliato in auto, con la fronte che si era quasi appiccicata al finestrino, fuori c’erano i piccioni. Naturalmente ero così intontito che rimasi a fissarli. Erano due: uno camminò oscillando fino nascondersi dietro la ruota di un’auto, l’altro camminava in tondo. Era semplicemente. Folle.

Sorrisi, poi vidi che quello che si era nascosto dietro la ruota non c’era più. L’altro volò basso. Un secondo, due. Eccolo che si alza e si appollaia sul cornicione della scuola. Tutti staranno festeggiando il Natale, pensai. Dio solo sa quanto avrei voglia di indossare un maglione, di quelli che pizzicano, o prudono e puzzano di vimini, imprecare mentre cerco le ciabatte alla cieca coi piedi e invece trascino le dita sulle piastrelle e rabbrividisco. Perché sono fredde, Dio, se lo sono. Ma vorrei essere lì a casa mia e scoprire mia madre che ci è entrata, si è fatta un duplicato delle chiavi, lei.

Ero appena arrivato dove credevo di trovare Carl Fish. Prima che partissi avevano dato uno speciale in tv, come succedeva tutte le volte che la gente è talmente idiota da non capire chi cazzo ha ucciso chi, pur trovando il tipo di turno con un coltello dietro la schiena e il sorriso incolpevole. Insomma nel programma parlarono quasi solo del suo vecchio, dei precedenti, dell’allontanamento della moglie e del figlio, del fattaccio della fabbrica e così via. In effetti viaggiavo alla cieca. Dove abitava quest’idiota, di preciso? No, non quest’idiota, questa specie di genio che aveva gettato la mia piccola Julie a salutare due balconi prima di aprirsi sull’asfalto.

La macchina era praticamente congelata, girai la chiave per metterla in moto per quasi mezz’ora prima di capire che era andata.

Piegai la testa contro la spalliera, sembrava il pullman, lo stesso pullman che prendevo quando frequentavo le superiori, respirai piano. Le costole sembravano una gabbia ghiacciata e dolorante sotto la pelle, la schiena scricchiolò. Sembravo fatto di ingranaggi cigolanti di un vecchio orologio e quella macchina era come una tomba accartocciata e umida, aprii lo sportello e uscii. Fuori non faceva tanto più freddo che dentro l’automobile, ma quello a cui pensavo per davvero era che non avevo idea di dove cercare Fish. Ero ancora stanco e i miei passi raschiavano sull’asfalto, come quelli di Mr Todey.

Il piccione sul cornicione della scuola si guardò in torno col collo che andava a scatti, come la lancetta di un orologio, poi volò via. Camminai, girovagando come un barbone, percorsi il marciapiede della scuola, attraversai e continuai a camminare dritto davanti a me col sonno che man mano si scioglieva permettendomi di pensare a cose inutili. Per esempio dove mi stessi trascinando, il perché, o il motivo per il quale mi ero trasformato in una persona che vagava per istinto.

No, non istinto.

Ispirazione. Ecco! Ecco di cosa si trattava!

Ecco perché camminavo alla ricerca dell’uomo che aveva ucciso Julie. Ispirazione!

La parola era scivolata via, prima di quel momento, dietro esempi e spiegazioni che facevano acqua. Come il carcerato!, ricordai. Anche Mr Tovey, anche lui non ha bisogno di una motivazione per vendere dei fili colorati come dentifrici, ma l’ispirazione quella sì. E Julie poteva essere la persona insensata che era per lo stesso motivo.

Eravamo tutti geni ispirati, compresi. Eravamo bellissimi. Mi fermai.

Avevo raggiunto un cimitero dei carri allegorici di Carnevale. C’era un topo enorme tutto scrostato, con carta –era carta?- che colava via dalla faccia, svelando una rete verde per scheletro. Il sorriso di carta screpolata era quasi inquietante, dietro di lui ce n’erano altri, sembravano putrefatti, alcuni erano solo una rete accartocciata. Riuscii a scavalcare la ringhiera arrugginita con una strana euforia isterica, una sorta di panico felice.

Era un quadrato di terreno inutilizzato, o meglio un terzo conteneva i carri, il resto era probabilmente il rifugio di qualche gruppetto di ragazzini che ci andavano per bere, fumare o scopare, nella maggior parte dei casi. I più piccoli, quindi i più bastardi, ci avevano raccolto le lucertole per giustiziarle in orari più soleggiati. Un’esecuzione sotto un sole terribile e silenzioso. È tutto, tutto così ispirato. Camminai con le gambe rigide per il freddo, mi feci qualche giro abbastanza inutile per tutto il terreno. Dall’altra parte dell’inferriata sorgeva relativamente isolato un condominio bianco con l’intonaco che cedeva, le ringhiere dei balconi erano attaccate alle finestre, neanche con lo spazio per un vaso di fiori, uno schifo, insomma. Attorno c’era qualche grossa bestia di metallo: per demolirlo, realizzai. Scavalcai ancora, questa volta caddi a terra e i jeans strofinarono contro le ginocchia fino a sbucciarle, alzai gli occhi fino a vedere quella casa in prospettiva dal basso: un cono decapitato, no, no, più basso, un patetico trapezio decadente e screpolato, mia alzai. Il portone doveva essere rotto e non si chiudeva, dentro c’era un vaso di piante rotto, che vomitava terra brunita e pastosa, non c’era ascensore: solo scale. Salii fino al terzo piano dove vidi una delle porte aperta. Entrai senza far rumore, sulla mia sinistra c’era una grossa specchiera annerita che probabilmente non erano riusciti a smontare e portarsi via –erano tre specchi rettangolari che volevano un bel pezzo di parete – perché tutta quella fretta poi?

Andai avanti e la prima porta alla mia sinistra dava sulla cucina (a destra e un po’ più avanti c’era una specie di salone, ma le stanze che non fossero bagno e cucina erano talmente vuote da non essere riconoscibili) c’era ancora qualche mobile e una sagoma più chiara dove erano riusciti a toglierli e portarseli via. Fantasmi di mobili, scherzai. Sbattei un paio di volte le palpebre quando in mezzo a quelle chiazze chiare, ne trovai una scura e appollaiata che canticchiava; quando mi vide, la sagoma scattò in piedi.

“Non è che questa è casa tua, no?” bofonchiò la sagoma, scossi la testa e quello si rilassò.

Quando misi meglio a fuoco, vidi che il suo volto era familiare.

“Lo so perché mi fissi, sono stato in tv, io. Sono famoso, sono quello della tv”insistette.

“Fish” dissi, lui rise.

“Quel bastardo del mio vecchio non ci pensa neppure a darmi qualche soldo, quel pezzente, guarda un po’ che mi tocca fare, questo non l’hanno detto ai notiziari e a quei programmi”

Chiuse il cassetto di un mobile lungo, di gusto orrendo, con qualche anta ammaccata di nero.

“Che stronzata, qui hanno spazzato via tutto”

“No, per l’amianto sono morti un sacco dei mocciosi che andavano alla scuola qui vicino, poi si sono incazzati, i genitori dico, no?, si sono incazzati, insomma e allora in uno slancio di compassione – rise e tossicchiò – hanno fatto evacuare il condominio, così in fretta che alcuni hanno lasciato qualche schifezza … ah ecco qui!” aprì la penultima anta e mi lanciò l’unica bottiglia che aveva trovato.

Provai a bere, riuscii a ingurgitare qualche goccio il resto lo sputai a terra: quella schifezza aveva qualcosa di strano dentro, come grumi di zucchero.

“Comunque ti ho già visto” disse.

“Sì ti ho visto in foto sei l’ex della – tirò su col naso e tossì ancora – della piccola Arlowe”

Appoggiai la bottiglia a terra.

“La piccola Arlowe?”

“Così la chiamavo all’università. Io ero quello studioso, no? Quello serio che fa da tutor a… insomma e lei era la piccola Arlowe, d’altronde era quello che si aspettavano tutti: che fosse la piccola…”

 

Quel che rimaneva del lampadario oscillava in tondo, disegnano una spirale, o forse ero io, ero io che ondeggiavo come un ubriaco. Su-giù, su-giù, in tooondo.

Ma se è su e giù non è in tondo, razza di…

Lasciai cadere a terra quel che restava della bottiglia andata in pezzi, che gocciolava quell’intruglio di alcol e zucchero e sangue.

Fece due tonfi vetrosi, quando cadde e saltò via soltanto un pezzo. Carl Fish a terra aveva i capelli bagnati, con le gocce di Dr. Hyde Absinthe  tedesco che gli colavano dalla testa al viso, fino a picchiettare sul pavimento. Nel suo portafogli c’era una foto di Julie in camicetta, pareva che portasse i capelli parecchio lunghi, la mia. Julie.

Mi sedetti a terra, appoggiando la schiena alla parete.

Guardai il lampadario che prima nella mia immaginazione aveva preso ad oscillare.

Non avevo provato nulla per Julie quando mi ero messo alla ricerca di Fish, e invece l’avevo ammazzato. Io non ero mai stato violento in vita mia.

Non so quanto tempo rimasi là seduto, inebetito a guardare il soffitto, ma quel tempo forse breve, forse lungo fu sufficiente per capire. Non era stato l’istinto, né l’ispirazione, né il caso a portare me e Fish nella stessa casa o una grande sfera nera a demolire le pareti del palazzo sollevando un’alta nebbia di polvere.

Ma la sua immagine, compresi prima che la polvere mi fosse addosso.

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