Voyager

di Heresiae
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pilot ***
Capitolo 2: *** Il ritorno - Parte I ***
Capitolo 3: *** Il ritorno - Parte II ***
Capitolo 4: *** Smembramento ***
Capitolo 5: *** Sotto Attacco ***
Capitolo 6: *** Fights ***



Capitolo 1
*** Pilot ***


Pilot



Erano già passato un anno da quando avevano lasciato la Terra. Per sempre.
Se lo ripeteva spesso, per ricordarselo, per non cadere preda di ricordi e stati semi allucinativi in cui si svegliava credendo di essere ancora nel quadrante Delta, in cerca della via di casa. Uno stato pericoloso dato che era in fuga da casa. Pericoloso soprattutto se qualcuno del resto dell’equipaggio lo avesse capito: aveva idea che né Sette di Nove né il Dottore avrebbero reagito bene a sapere quanto quella situazione la stava frastornando. Lo trovava buffo, essere riuscita ad adattarsi ad affrontare decenni di viaggio per tornare sulla Terra nel giro di pochi giorni e non essere riuscita ad adattarsi al fatto di essere in cerca di una nuova in un anno. L’anno lo compivano proprio quel giorno in effetti.
Quel pensiero la indusse definitivamente ad alzarsi dal letto. Nonostante mancassero ancora due ore al risveglio ufficiale dell’intera nave, Kathryn Janeway, capitano del vascello interstellare Voyager, era già in piedi. Ammirevole.
- Computer, luci e preparazione la doccia sonica. –
I bassi suoni di risposta precedettero l’effettuazione dei comandi. Si stirò tirando in alto le braccia e muovendo il collo.
Aveva passato una notte pessima, in preda a sogni vorticosi che le avevano lasciato una brutta sensazione in testa, come se l’avesse troppo leggera e il letto le era sembrato scomodissimo, anche se ci dormiva ormai da otto anni. Un paio di flash di alcuni suoi sogni la convinsero a provvedere prima alla colazione che dalla doccia.
Andò verso il replicatore nell’angolo della stanza, ignorando la vestaglia che indossava da quando erano stati costretti e diminuire l’energia al supporto vitale: tutti gli alloggi non avevano più di diciannove gradi quando gli occupanti erano all’interno e svegli, quindici quando si coricavano.
- Caffè, nero. -
Aveva suggerito a tutti di passare più tempo possibile negli spazi comuni, suggerimento pressoché inutile dato che tutti preferivano passare più tempo che potevano negli spazi comuni. Mentre sorseggiava il caffè sentendo la pelle rizzarsi per il freddo e combinarsi con la caffeina procurandole l’immediato risveglio, ripensò a come l’affiatamento a bordo della nave fosse improvvisamente aumentato già appena partiti. Perfino Tom e B’Elanna che avevano una figlia piccola, preferivano stare nell’alloggio il meno tempo possibile. Ripensandoci bene forse erano affetti dalla sua stessa patologia: avevano continuamente bisogno di ricordarsi che non erano più nel quadrante Delta dispersi e soli, ma in quello Alfa, soli e in fuga. La costante e la variabile. Un classico.
Vuotò la tazza e andò in bagno. Sette le aveva detto che entro quel pomeriggio sarebbero stati in vista di un pianeta abitato la cui attività principale era il commercio interplanetario. Se Tom e Harry avevano lavorato bene, forse sarebbero riusciti ad attraccare al porto sotto falso nome e fare scorta di deuterio e provviste, oltre che di un po’ di informazioni.
Si spogliò velocemente nella fredda penombra del bagno e rimase a fissare il proprio riflesso rabbrividendo impercettibilmente. Nonostante lo stress e i trentacinque passati da un pezzo, riusciva ancora a tenersi in piedi abbastanza da ritrovarsi Q in camera da letto a sorpresa. Probabilmente era merito anche del fatto che era stato vietato a tutti spuntini fuori pasto, tranne le evidenti eccezioni per i bambini e le donne in allattamento. O forse gli allenamenti che Tuvok aveva imposto a tutte le squadre addette alla sorveglianza le avevano trasmesso i loro effetti benefici per osmosi.
O forse era il mal d’amore che non passava.
L’ultimo pensiero le si ripercuoté nella testa con la voce della nonna. Sospirò ed entrò nella doccia.
- Non questa volta nonna. –
Si sfregò le braccia e rabbrividì violentemente.
- Computer, attivare doccia sonica. –
Mark era lì ad attenderla quando era sbarcata sulla dalla sua nave dopo quei sette e lunghi anni. Avevano sorvolato tutta San Francisco sopra una folla di persone esultanti e in mezzo a fuochi artificiali colorati. Erano atterrati allo spazio porto della federazione accolti da tutto il Consiglio al completo, compreso il Presidente.
Era stata la prima a sbarcare, seguita da Chakotay che sorrideva e camminava come se non stesse tornando da una missione di sette anni, ma da un giretto a bordo del Flyer. La guardava divertito, come se si aspettasse di vederla crollare da un momento all’altro dall’emozione e la sfidasse a non farlo. Ovviamente non lo fece.
Dietro di lei scesero tutti gli ufficiali addetti alla plancia, compresi Tom e Harry. Tuvok seguiva con tutti i membri della squadra tattica, poi il dottore, e B’Elanna con tutto il reparto della sala macchine e via andare, dagli ingegneri ai semplici marinai, scesero tutti trepidanti e visibilmente commossi. Solo dopo Chakotay le fece notare che Sette era scesa per ultima, quasi di nascosto per non farsi notare, esibendo la fredda aria da drone borg come ultimo paravento all’umanità dilagante che si era ormai impossessata di lei. Due giorni non sono di certo sufficienti a padroneggiare una quantità tale di emozioni.
Il teletrasporto li aveva trasferiti a pochi metri dalla guardia d’onore che li attendeva sull’attenti formando un ampio corridoio che li avrebbe portati davanti al Presidente della Federazione. Lo avevano percorso impettiti e felici, osservando tutti quegli ufficiali in alta uniforme che sorridevano commossi quanto loro mentre facevano il saluto militare. Ecco, il corridoio lo ricordava bene, bene quanto quel capitano a metà percorso con due gradi storti e il colletto mal abbottonato.
Quello che era successo dopo si sfocava e diventava confuso e sospeso a partire da quando aveva intercettato lo sguardo del Presidente. Non era affatto come se l’era immaginato. Era piccolo, sorridente e con folti capelli grigi che sparavano in tutte le direzioni. E parlava veloce, accidenti se parlava veloce. Le era sembrato che fossero passati solo dieci secondi da quando lo aveva visto a quando si era trovato le mani strette nelle sue e le parlava di… qualcosa che doveva essere il loro ben tornato, ma se l’era dimenticato. Chakotay invece lo ricordava bene di sicuro, forse il rapporto con Sette gli aveva reso i nervi saldi quanto quelli di un borg.
Aveva stretto le mani a tutti e così anche tutti i consiglieri, poi erano stati fatti entrare in una vasta sala dove li aspettavano i loro parenti. Ricordava che c’erano delle battute che la facevano ridere, ma non era sicura, la voce la riconduceva a Tuvok. Poi lo vide.
Dopo che si era resa conto di quanto tempo effettivo di avrebbe messo a tornare a casa, Kathryn aveva messo da parte i rosei sogni di amore eterno e si era preparata, pragmaticamente, al peggio. Se l’era immaginato al braccio di una moglie, bellissima e sorridente, addirittura con figli e il resto del parentado al seguito. Si era anche immaginata sua madre che, con voce bassa, le diceva che lui non era venuto o che era morto. Il fatto che in quei mesi di contatto con la terra tramite il Midas non era riuscita a trovarlo, perché disperso perennemente in missioni ai confini della Federazione, le aveva rafforzato quelle aspettative.
Quello che non aveva mai concesso alla sua mente di immaginare era invece quello che vedeva. Lui. Lui accanto a sua madre e a sua sorella che l’aspettava e che apriva le braccia mentre le andava incontro. Le si era precipitata letteralmente contro. In quel momento, mentre sentiva le sue braccia avvolgerla in un abbraccio che tanto le era mancato in quegli anni, aveva pensato che la felicità doveva essere proprio così. Solo emozioni e basta.
La doccia sonica finì il suo ciclo e si disattivò. Kathryn uscì velocemente e andò in camera cercando dei vestiti comodi e caldi sperando di averne ancora di puliti. Aveva ceduto il suo turno di bucato a B’Elanna, la bambina si stava dimostrando più difficile del previsto all’addomesticamento nutrizionale. Trovò una dolcevita nera pesante e un paio di pantaloni in lana grigia. Si infilò un paio di calzettoni pesanti, una giacca scura e corta simile a un soprabito e le scarpe. Prima di uscire si raccolse i capelli in una coda.
- Computer, spegni luci. –
Il suo riflesso apparve sul vetro che mostrava il vasto spazio del quadrante Alfa intorno a loro.
Avrebbe dovuto aspettarselo che tutta quella felicità improvvisa avrebbe richiesto il suo scotto prima o poi.
Uscì velocemente dal suo alloggio e si diresse in plancia. Non c’era ancora nessuno in giro per i corridoi. Chiamò il turbo ascensore e diede la destinazione.
Quando entrò in plancia trovò un rilassato Harry Kim che leggeva un libro dalla poltrona di comando mentre il pilota notturno, Tessa Style, lavorava al suo DiPad. L’ufficiale addetto alla sorveglianza notturna si mise subito sull’attenti attirando l’attenzione degli altri due.
- Capitano in plancia. –
Kathryn si fermò sulla porta mentre Harry e Tessa si voltavano di colpo.
- Riposo Elkt. –
Sorrise al ragazzo. Era ancora restio ad abbandonare il comportamento militare e lei non aveva intenzione di forzarlo. In fondo non c’era niente di male se continuava a indossare la divisa durante i turni e a fare i saluti sugli attenti, anche perché non era il solo. Prima o poi avrebbe smesso. Si appoggiò alla sbarra divisoria e guardò giù.
- Buongiorno Harry. –
- Capitano. –
Le sorrise beffardo rispondendo alla sua smorfia finta corrucciata. Ormai quell’appellativo era solo un modo per scherzare e allentare la tensione, anche se a qualcuno scappava ancora fuori, soprattutto quando al plancia era al completo. Erano ancora poche le persone a bordo della Voyager che non le davano del tu.
- Com’è andata la nottata? – fece un cenno di saluto a Tessa, che sorrise dal suo pannello, prima di appoggiarsi più comodamente alla sbarra.
- Tranquilla e la tua? –
Harry manteneva un tono cordiale e tranquillo, ma dal sorrisetto che ancora non aveva abbandonato il suo volto si capiva benissimo che sapeva molto bene il motivo per cui era arrivata con due ore in anticipo, e sapeva anche cosa aveva pensato appena entrata.
Si alzò e andò a sedersi al posto di Chakotay senza troppa fretta.
- Come tutte le altre. –
- E come va il collo? –
Forse era un parente alla lontana di un ocampa. O forse doveva smetterla di vedere Harry come il ragazzino appena uscito dall’accademia e considerarlo per quello che era: un giovane uomo molto perspicace e intuitivo. Che in quel momento si stava divertendo a prenderla in giro.
Fece un grugnito di protesta e si affossò meglio nella poltrona di Chakotay. Era comoda. Più del suo letto visto che rischiava di assopirsi.
Harry la guardò sempre sorridendo, ma senza beffa stavolta. Si arrese.
- Non ho fatto cinque minuti di sonno decente in tutta la notte. –
- Vedo. Dovresti andare da Doc, non ti fa bene lo sai. –
Fece un gesto con la mano come minimizzare. Estremamente apprensiva per quanto riguardava il suo equipaggio, riusciva ad essere terribilmente superficiale su quel che affliggeva lei. E comunque non era in punto di morte, una leggera insonnia non valeva una analisi di Doc e non l’entusiasmava sapere che l’avrebbe avuto appresso nei due mesi successivi a ripeterle cose che sapeva perfettamente da sola: doveva lavorare di meno, delegare di più, rilassarsi di più, muoversi di più. L’ultimo punto in particolare la infastidiva.
Sbadigliò sonoramente mentre Harry tornava al suo libro. Lo guardò, era un grosso e spesso tomo ingiallito. Non glie l’aveva mai visto in mano.
- Che stai leggendo? –
Lui sollevò la copertina senza smettere di leggere.
- Il signore degli anelli… Ma non è un po’ vecchio? –
Harry sorrise.
- Si, ma leggere di territori sconfinati e vergini, duelli con spade e maghi aiuta ad evadere un po’ di più dei libri di questo secolo. –
- Ragionamento impeccabile. –
- Da vero vulcaniano. –
Lasciò Harry al suo libro e si mise a fissare lo schermo. Le stelle le venivano incontro a velocità moderata. Anche la velocità ridotta era stata scelta per risparmiare e per non destare sospetti. Il mascheramento che avevano comprato il mese scorso non era molto affidabile non funzionava sulle alte velocità: più lenti andavano meno ne lasciavano dietro di se.
Un segnale acustico riportò l’attenzione di Tessa sulla sua consolle, ma fu Elkt a dire di che si trattava.
- Capitano, un vascello federale dieci milioni di chilometri da qui. –
Kathryn di alzò in piedi di scatto, improvvisamente sveglia del tutto.
- Ci hanno rilevato? –
Elkt digitò un paio di tasti prima di rispondere.
- No. Viaggiano a massima curvatura. Ci hanno già superato. –
Si risedette, sentendo ancora nelle orecchie il rimbombo del suo cuore spaventato e il sangue che girava velocemente.
- Kathryn. –
Si voltò verso Harry.
- Tutto bene? -
Lei sospirò.
- Come ogni volta che scampiamo a un contatto Harry. Come ogni volta. –
Harry tornò a guardare il suo libro, ma senza leggerlo.
- È passato un anno. –
Lo disse a voce così bassa che lei dubitò di averlo sentito, ma da come la stava guardando in quel momento capì che non se l’era sognato.
- E ne passeranno altri. –
Aveva gli occhi lucidi e i lineamenti fermi.
- Prima o poi smetteranno di cercarci. E comunque, siamo ancora la nave meglio attrezzata del quadrante. –
Sorrise. Il sorriso di Harry era contagioso e trasmetteva armonia.
- Si, hai ragione. –
Tornò a fissare il suo libro ma si distrasse quasi subito.
- Credo che Doc voglia fare una festa oggi, al ponte olografico. Sono due settimane che ci lavora. –
- Andrà bene qualsiasi cosa, purché non sia una delle sue interminabili esposizioni. –
Risero lievemente e per poco.
Pochi minuti dopo il silenzio era di nuovo sceso in plancia. Harry e Tessa erano di nuovo ai loro interessi mentre Elkt controllava i diversi pannelli delle postazioni rimaste vuote.
Lo spazio continuava ad essere pieno di stelle in movimento e vuoto.
Era in fuga, su una nave rubata a corto di viveri, con tutta la federazione alle calcagna. E il volto deluso e offeso di Mark l’aveva tormentata tutta la notte.
Non poté fare a meno di chiedersi se era davvero per quello che l’ammiraglio Janeway aveva sacrificato la sua vita.

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Capitolo 2
*** Il ritorno - Parte I ***


Il Ritorno - I



L’ampio salone era ingombro di gente. Ufficiali, marinai, civili, professori e ovviamente, giornalisti. Tutti sorridevano, tutti stringevano mani, tutti si abbracciavano, molti piangevano. Tutto appariva così luminoso e vorticante che più di una volta qualcuno si era chiesto se per caso non fosse un sogno. Fortunatamente non lo era. Tom si divertiva a dimostrarlo a tutti quelli che esponevano il loro atroce dubbio, distribuendo cameratesche pacche sulla schiena e pizzicotti che riuscivano a far vedere al malcapitato diverse costellazioni, del quadrante accanto per l’esattezza.
Ci furono lunghi discorsi ufficiali, preparati in fretta per l’occasione, e brevi discorsi improvvisati; il presidente della Federazione trattenne l’attenzione su di se solo pochi minuti, complimentandosi con il capitano e l’equipaggio per come si erano comportati in quei anni, dispersi in uno spazio lontano anni luce da casa e generalmente ostile. Diverso l’intervento del consigliere terrestre, che parlò per oltre mezz’ora con un discorso che, sostanzialmente, riprendeva quello del presidente, ma infarcito di metafore, fronzoli e parole enfatiche. Era così logorroico che l’equipaggio, se fosse stato costretto a scegliere tra lui e le esposizioni del dottore, avrebbero scelto l’esilio a bordo di un cargo malon. Intervennero anche esponenti della comunità vulcaniana, l’ammiraglio Paris e l’ufficiale a capo del progetto MIDAS, che saggiamente limitarono i loro interventi a pochi minuti, dato che il consumo di alcolici della mezz’ora precedente era salito alle stelle. La fine di tutti i discorsi fu salutata con uno scroscio di applausi e un brindisi generale indetto da Harry Kim alle due persone che più tra tutte avevano reso possibile il ritorno a casa. Subito dopo Janeway e Chakotay, distratti dal brindisi, vennero innalzati in trionfo dall’equipaggio guidato da un evidentemente euforico Tom Paris, che fece orecchie di mercante alla minaccia di ritorsioni del suo capitano.
Vennero scattate molte foto e rilasciate molte interviste, furono poste loro le domande più disparate e le presentazioni di familiari e conoscenti sembravano non finire mai. Avevano tutti molte storie da raccontare, tutti le volevano sapere, ma non sarebbero state narrate quella sera. L’intero equipaggio della Voyager era sotto un immenso riflettore che li illuminava agli occhi del mondo, che quella sera sembrava essere affluito completamente intorno al porto. L’eccitazione e l’aria festaiola sembravano non dover finire mai, e dopo cinque ore di strette di mani, flash, risate e brindisi, il capitano Janeway decise che il suo equipaggio si meritava anche un po’ di tranquillità e intimità assieme alle persone che tanto aveva agognato di raggiungere, prima di entrare sotto il riflettore più minuzioso dei rapporti federali.
Tra amici e parenti, quasi tutti avevano un posto dove tornare, anche i maquis che erano stati raggiunti a tempo record dalle famiglie. L’ammiraglio Paris li aveva rassicurati, che presto ciascuno di loro avrebbe avuto un alloggio tutto per se, ma erano tutti ben contenti di tornare a case conosciute quella sera invece che tra quattro mura vergini. Quasi tutti. B’Elanna, per quanto contenta di essere sulla Terra, non era entusiasta di dover stare qualche giorno a casa dei suoceri ma si adattò: qualche giorno non erano una vita. Erano solo tre le persone che non avrebbero lasciato la Voyager quella notte: com’era logico, Sette e Icheb dovevano rigenerarsi e non potevano non tornare alla loro stiva di carico. Anche Tuvok sarebbe rimasto a bordo della nave: la sua famiglia era ancora su Vulcano e sarebbe arrivata solo il giorno dopo. Logico che rimanesse nel suo alloggio senza dover abusare dell’ospitalità di qualcuno.
Il dottore invece sarebbe invece andato a casa di Reg, che gli aveva offerto ospitalità per continuare a parlare tutta la notte e visionare i diari che aveva accumulato negli anni. In quel momento i due stavano parlando fitto fitto tra loro e diedero un saluto decisamente frettoloso e distratto al resto dell’equipaggio. Chakotay era andato via prima: parte della colonia in cui era nato si era stabilita nuovamente sulla terra e gli aveva preparato un accoglienza tradizionale; la madre aveva insistito per non fare tardi. Aveva salutato Sette a malincuore accingendosi a passare almeno la prima notte di ritorno sulla Terra con la madre, promettendole però che al mattino dopo l’avrebbe trovato sulla Voyager nel momento stesso in cui si fosse svegliata.
I saluti e le promesse di rivedersi al più tardi dopo dieci ore si protrassero per un’altra ora, poi finalmente il salone si svuotò. Sette osservò i suoi compagni di viaggio raggiungere le porte abbracciati a loro parenti per qualche secondo, poi decise che era ora di andare.
- Direi che possiamo andare. –
Lei e Tuvok si scambiarono un’occhiata dubbiosa rasentando la telepatia, dato che entrambi pensavano che nessuna delle persone che avevano appena salutato si sarebbe vista fino alla sera successiva. Uscirono dal salone ripercorrendo lo spiazzo dove erano sbarcati, senza trovare la guardia d’onore. L’ambiente circostante era deserto ma poco silenzioso. Sette avvertiva chiaramente il rumore di fondo della città, delle navette che sfrecciavano a bassa quota e dell’aria. L’aria in particolare la sconvolgeva: il suo odore, la sua temperatura, il modo con cui tentava di scompigliarle i capelli… sapeva che non poteva essere molto differente dall’aria di altri pianeti che aveva respirato, ma la trovava comunque unica e speciale. Molto probabilmente, tutto il tempo passato con l’equipaggio che parlava della Terra come l’unico pianeta degno di essere vissuto, aveva istigato anche in lei qualche pensiero di mitizzazione verso quel pianeta. Mitizzazione, pericolosissimo sotto molti aspetti.
Tuvok attivò il dispositivo di comunicazione con la nave.
- Computer, tre da teletrasportare. –
Docile come sempre, la Voyager obbedì al comando riportando a bordo gli unici tre membri dell’equipaggio privi di una casa terrestre, almeno per quel momento. Icheb era silenzioso e teso. A entrambi erano state rivolte molte domande educate, che però non celavano del tutto lo sconcerto di essere davanti a due ex-droni borg. Quando Icheb aveva posto a Sette i suoi dubbi sull’atteggiamento dei terrestri, lei aveva cercato di rassicurarlo che sarebbe stata una cosa passeggera; così come il dottore era richiesto dai più eminenti ricercatori e dottori del mondo che non facevano caso alla sua natura fotonica, si sarebbero dimenticati dei loro trascorsi nella comunità. Veloce come la tipica coscienza umana, il suo riflesso si fece notare mentre usciva dalla sala del teletrasporto.
“Il dottore non ha impianti cibernetici che ricordano a tutti chi è però.”
Evitò di esprimere quel concetto a voce alta e salutò invece il responsabile della sicurezza.
- Buonanotte Tuvok. –
- Buonanotte Sette, Icheb. –
Tuvok si diresse verso il suo alloggio mentre i due presero il corridoio opposto per la stiva di carico due.
- È meglio se aggiungi almeno un paio d’ore al tuo programma di rigenerazione, oggi hai interrotto il ciclo prima della conclusione. –
Icheb annuì, entrò nella sua alcova e la programmò.
- Buonanotte Sette. –
- Buonanotte. –
Il ragazzo attivò il ciclo e chiuse gli occhi addormentandosi istantaneamente.
Rimasta sola, Sette programmò il suo ciclo rigenerativo lasciando che i pensieri e le emozioni di quella sera scorressero liberamente nella sua testa. Tutte quelle persone, quelle manifestazioni di gioia, i suoi compagni che abbracciavano persone che non aveva mai visto e che ridevano fino al punto di mettersi a piangere. Non li aveva mai visti così, nemmeno Chakotay, commosso fino alle lacrime quando aveva incontrato la madre. E gli sguardi della gente… Si era tenuta vicina a Icheb più per conforto per se stessa che verso di lui: non voleva assolutamente doverle affrontare da sola tanto più che si era sentita osservata dal momento in cui era scesa a terra, e non con l’evidente curiosità di chi vuole vedere il miracolo della sdronizzazione. No, era più un esame accurato e approfondito. A dire il vero la sensazione era rimasta anche dopo che tutti se ne erano andati lasciando il salone completamente vuoto. Era più che sicura che qualcuno l’aveva spiata fino alla fine. Scrollò la testa per scacciare il pensiero. Non erano ancora tre giorni che il dottore aveva riprogrammato il suo impianto corticale, sicuramente aveva mal interpretato le sensazioni dovuti al clima particolare del ritorno.
Attivò la rigenerazione sentendosi comunque poco serena.
Due anni prima Sette di Nove era riuscita ad evitare alla Voyager di Fare la fine di Pinocchio nella pancia della balena, dando in gran parte retta, all’inizio, a un istinto di autoconservazione che era forse derivato più dal non voler abbandonare il quadrante Delta che dal non fidarsi di una così grande fortuna. Soltanto in seguito avrebbe imparato che l’istinto è la miglior sistema di difesa di un essere vivente e che la Legge di Murphy, scientifica o no, generalmente ha sempre ragione.

Un uomo vestito con la divisa degli addetti alle pulizie cominciò a spazzare il pavimento in marmo dell’ampio salone dove si era appena tenuta la festa di ben tornato della Voyager. Il vestiti sgualciti, la barba lunga, l’indolenza con cui compiva il lavoro, tradivano un’attitudine dovuta alla quotidianità del suo lavoro. Eppure non era all’operazione di pulizia che la sua attenzione si rivolgeva. Il berretto ben calato nascondeva la direzione dello sguardo, ostinatamente puntata su Icheb e Sette di Nove. L’interesse verso i borg della Voyager durava già da tre anni e ora li aveva sott’occhio, esattamente come aveva sperato. I due ex-membri della collettività costituivano un elemento indispensabile per il suo futuro e quello dalla sua organizzazione, ed era dalla loro comparsa nel quadrante Alfa che si organizzava. Appena i cinque scomparvero dal piazzale portò una mano alla gola attivando un piccolo comunicatore sottocutaneo.
- Visore a Ricevente. –
- Ricevente. –
- Sono sulla nave. –
- Ricevuto. –
La comunicazione si chiuse. Mentre riprendeva a pulire nell’attesa della squadra, ripassò mentalmente tutti gli schemi e i codici di accesso alla nave. Non dovevano lasciare tracce, per nessun motivo. Gli errori potevano essere fatali, soprattutto in un’operazione con un così alto numero di variabili. Variabili che avrebbe dovuto rendere inoffensive.
Un suono basso e quasi impercettibile lo avvertì dell’arrivo della squadra. Smise di pulire e si diresse con il carrellino fuori dal salone, verso uno sgabuzzino. Ripensò alle variabili e automaticamente le associò a un dossier, una per una. Mentre si s’infilava una tuta con dispositivo di occultamento, non riuscì a impedirsi di imprecare tra se. Se non fossero stati più che attenti le variabili avrebbero fatto del loro piano una cometa impazzita, che avrebbe travolto tutti loro e quelli che ne erano coinvolti.
Finì di indossare la tuta che assomigliava molto a un’antica muta da sub, con l’unica eccezione che copriva completamente anche il volto, e sgomberò la mente da qualsiasi cosa eccedesse il presente. Sollevò il braccio destro, sul polso indossava un piccolo DiPad quadrato integrato al tessuto, premette un controllo sul lato e l’uomo scomparve completamente alla vista. Sul pad comparve la piantina del luogo e una dozzina di puntini raggruppati immobili a fianco della Voyager. Uscì. Il dispositivo visore della tuta gli permetteva una visuale pressoché perfetta di tutto ciò che lo circondava, compresa l’individualizzazione di dodici persone che indossavano la sua stessa tuta e lo attendevano fuori dal salone. Non perse tempo con le presentazioni. Li raggiunse continuando a lavorare sul suo pad. Quando ebbe finito il piccolo computer continuò a lavorare da solo fino a quando non si arrestò dando un segnale dell’operazione eseguita. L’uomo premette altri due comandi. Tutte e tredici le persone occultate sparirono nella scia del teletrasporto della Voyager.

***

L’alba arrivò. Dal lucernaio della sua vecchia casa Kathryn osservò quel fenomeno che le era stato precluso per anni e che aveva aspettato per tutta notte dopo che sua madre era andata a dormire. Aveva deciso di passare la notte da lei invece che rimanere in città, per rivedere casa sua, i suoi prati, la sua camera… cose che non aveva frequentato molto nemmeno prima di diventare il capitano di un vascello spaziale.
Mark era andato via subito dopo la festa, con la promessa di ritrovarsi quel pomeriggio. L’averlo visto sorridente e seriamente emozionato per il suo ritorno aveva spazzato via sette anni di dubbi e supposizioni atte a cercare di non farla soffrire troppo quando sarebbe tornata. Ora erano come echi lontani, spazzati via dalla spiaggia da una mareggiata impetuosa e trascinati così a largo da essere appena distinguibili. Non ricordava nemmeno più le facce che aveva attribuito alle presunte donne che avrebbero dovuto sostituirla.
Il sole fece capolino lentamente dalla radura, andando ad aggiungere un po’ più di azzurro e oro a un cielo che si stava schiarendo. Casa Janeway era un bel ranch ai margini di Bloomington, una cittadina dell’Indiana, immersa in prati e campi che permettevano diversi passatempi ai ragazzini del luogo, come quello a cui stava assistendo adesso: una corsa clandestina di navette.
Ai suoi tempi le organizzavano di notte, quando tutti gli adulti erano troppo aggrovigliati nelle loro coperte per venire a vedere che cosa stavano combinando i loro discoli e comunque lo sapevano già, lo avevano fatto anche loro in passato. Una navetta sfrecciò veloce ai margini della loro proprietà, subito seguita da un’altra. Kathryn guardò verso sinistra e ne vide almeno altre due in arrivo. No, erano cinque. Uno dei due davanti doveva essere un figlio dei Tompson, anche lei a suo tempo aveva fatto fatica a battere il padre. Alcune urla sovraeccitate attirarono il suo sguardo verso la sua destra: alcuni ragazzini erano appostati qualche centinaio di metri a ridosso di un avvallamento a fare il tifo. A giudicare dalle urla non dovevano essere ancora arrivati al liceo e quindi non gli era concesso nemmeno di vedere la gara assieme a tutti gli altri. Si ricordava bene le nottate in cui organizzava pigiama party con le sue amiche solo per poter seguire la corsa da quella soffitta, con un miniradar che aveva costruito coi pezzi di ricambio rubati a suo padre.
Uno sbuffo di vento la riportò nel mondo del presente. Il sole era ormai quasi del tutto visibile, la gara era sicuramente finita. Chiuse la finestra e scese di sotto.
Non c’era nessuno. Sua madre dormiva ancora e a ragione dato che non erano ancora le sette e che erano state in piedi a parlare fino a cinque ore prima.
I suoi passi la condussero in cucina per soddisfare quello che, secondo i segnali del suo corpo, era chiaramente astinenza da caffeina.
Nel momento stesso in cui si era infilata nel suo vecchio letto aveva sentito tutte le terminazioni nervose accendersi di colpo, come se stesse di nuovo avanzando attraverso la guardia d’onore con il sorriso irriverente di Chakotay a fianco. Ovunque posava gli occhi le venivano in mente ricordi legati a quello o quell’altro oggetto, persone e luoghi, avvenimenti, voci, sensazioni… Dopo pochi minuti si era alzata ed era andata in sala. Aveva tirato fuori tutti i vecchi album di fotografie e aveva cominciato a sfogliarli, stupendosi di come la sua memoria riuscisse a ritrovare anche i nomi di persone incrociate giusto per quello scatto. Aveva trovato addirittura l’album segreto suo e di Phoebe, pieno zeppo di tutte quelle foto che in genere non si mostrano mai né ai genitori né ai futuri figli, al massimo ai nipoti. Era stato collocato in bella vista proprio tra le foto del liceo e quelle del matrimonio di Phoebe di quattro anni prima. Aveva represso le lacrime per la rabbia di essersi persa uno degli eventi principi della vita di sua sorella, tra cui la nascita della sua primogenita, una fantastica bambina che avevano chiamato come lei. L’avrebbe conosciuta solo il giorno successivo, lei e il padre erano andati in gita su Daran V e ci avrebbero messo tempo a tornare.
Finite le foto era andata in soffitta, a rovistare tra le vecchie cose della scuola, delle gite, dell’accademia. Aveva montato il vecchio telescopio multifunzione ricevuto in dono al suo nono compleanno - riprogrammato da lei stessa due mesi più tardi - e aveva ripassato una ad una tutte le costellazioni che aveva imparato con suo padre. Alla fine era arrivata l’alba.
Andò con sicurezza al ripiano dove erano riposti i barattoli che contenevano il sale, lo zucchero e il caffè e afferrò il contenitore corrispondente. Il barattolo tintinnò. Kathryn si bloccò interdetta e lo scosse di nuovo. Tintinnò ancora. Un dubbio atroce la assalì e fu confermato quando, aprendolo, vide delle medagliette. Molte medagliette. Tante piccole medagliette colorate che riempivano metà del barattolo del caffè.
- O-oh.-
Prese una medaglietta.
- Computer, luce cucina. –
La luce artificiale illuminò una medaglietta azzurra e tonda, incisa finemente dove il metallo non era smaltato. Diceva ‘Gara statale di matematica 2374’.
La rimise nel barattolo e lo chiuse. Sua madre aveva sostituito il caffè con le medagliette che ogni anno dava ai concorrenti dei concorsi a cui partecipava come giudice. Lievemente stizzita per la sostituzione profana di una bevanda così sacra, Kathryn aprì gli altri barattoli chiedendosi se, per caso, quelli erano stati sostituiti dai biglietti di inviti alle conferenze o le lettere degli ammiratori. No, c’erano solo zucchero e sale. Cominciò ad aprire tutti gli scaffali allora, riuscendo solo a trovare: un servizio di piatti di cui non aveva memoria, vecchi bicchieri sbreccati che sua madre non aveva buttato, tazze, pentole, spezie, biscotti e cereali, la dispensa e un soprammobile in ceramica rappresentante l’aquila di Queaztzocal in viola acceso.
Prese in mano l’aquila e la osservò: un altro regalo orribile della zia Enid. Ne avrebbe trovati a decine nascosti per la casa in posti da dove era facile esibirli velocemente quando la zia piombava a sorpresa da loro. La guardò con sguardo penetrante, come se potesse rivelarle un segreto.
- Se mi dici dov’è il caffè convinco mamma a lasciarti nell’ingresso. –
- Kathryn! –
Si voltò, sua madre era sulla porta e la guardava sorpresa.
- Che ci fai sveglia a quest’ora? Non riuscivi a dormire? –
- Io non dormo mai molto mamma, lo sai. –
Sua madre si avvicinò e guardò l’aquila con la stessa espressione dubbiosa della figlia.
- E’ orribile. –
- Si, lo so. –
- Più degli altri, la zia Enid sta peggiorando. –
- Si ma non glie lo dire, se no torna dal consigliere e peggiora ulteriormente. –
Le prese l’aquila dalle mani e la rimise nel suo angolino nell’armadietto.
- Ti va un the? –
- Veramente preferirei un caffè . –
- Tesoro mi dispiace, ma io non ne bevo. Non ne ho in casa. – prese un barattolo dalla dispensa e un bricco di metallo da uno scaffale. – E poi fa male. Dovresti smettere di berlo, sai? –
Kathryn le scoccò un’occhiata di traverso, occhiata che andò del tutto sprecata dato che la madre sembrava del tutto intenta a prepararsi il suo the e non la degnava di uno sguardo.
- Mamma io vivo di caffè. Senza il caffè non sarei entrata nemmeno all’accademia ufficiali, starei ancora vagando per i corridoi in cerca dell’ufficio iscrizioni. –
Sua madre sorrise e mise il bricco su una piastra che attivò con un controllo laterale.
Kathryn si sedette al tavolo e afferrò un biscotto dall’interno di una zuppiera coperta con un telo, guardando sconsolata il vuoto. Una mattina senza caffè, preferiva un tét-a-tét con la regina borg. Di sicuro lei lo aveva il caffè.
Sua madre si sedette sulla sedia accanto prendendo anche lei un biscotto.
- Hai da fare oggi? –
Le rispose con la parte della mente impegnata a non farle mangiare anche la mano ma solo il biscotto, mentre il resto si disperava ancora sul caffè.
- Si. Devo scrivere il rapporto all’ammiraglio e voglio essere sicura di non essere incriminata per un’azione che la ‘me’ del futuro avrebbe compiuto solo tra ventisei anni. -
L’acqua cominciò a bollire. Prima che fuoriuscisse, Gretchen si alzò e spense la piastra, versò il the in una tazza attraverso un colino, poi prese il barattolo dello zucchero prima di tornare al tavolo.
- Sicura che non ne vuoi? –
- Sicura. –
Afferrò un altro biscotto adocchiando il replicatore nell’angolo accanto al fornello. Chissà se lo aveva anche programmato per non fare il caffè. A un’occhiata più approfondita si rese conto che non ne aveva avuto bisogno, lo aveva disattivato.
Kathryn sospirò. Sua sorella le aveva detto che sua madre in quegli anni aveva avuto un netto rifiuto sulla maggior parte della tecnologia, ma non sapeva ancora fino a che punto era arrivata. Il pensiero corse alla sala mensa della Voyager e ai suoi replicatori sempre docili e disponibili. Pensato e agito. Si alzò afferrando altri due biscotti, se si sbrigava riusciva a precedere la crisi d’astinenza.
- Vai già? –
- Si. Ho lasciato Sette di Nove e Icheb a bordo da soli, a quest’ora saranno già svegli in attesa di istruzioni. Sarà meglio che qualcuno gli vada a dire che per oggi non ce ne sono. –
- Capisco. –
Kathryn fece per uscire dalla cucina ma si bloccò poco prima di uscire.
- Senti un po’, la zia Enid… -
- E’ in Europa alla ricerca del suo ottavo marito. La quarta Torre Eiffel arriverà solo tra un mese. –
- Ah bene. –
Andò in camera sua e si tolse la vestaglia e il pigiama. La divisa della federazione aspettava docile di essere indossata in un angolo ai piedi del letto. Con tutto quello che aveva fatto quella notte non aveva proprio pensato di metterla sulla sedia dopo averla calpestata. Si infilò la divisa sgualcita e scese di sotto, sua madre sorseggiava ancora il the.
- Ciao mamma. Passa in città oggi così ci vediamo. – e le diede un bacio sulla fronte.
- Ma non eri impegnata? –
Kathryn si voltò mentre camminava in direzione della porta.
- Oh, troverò il modo di scansarli. In fondo sono io che comando là sopra, ricordi? Ciao. –
- Ciao. –
Kathryn uscì nel vialetto e andò di fianco a una navetta rossa.
- Computer, aprire navetta. –
- Identificare prego. -
La sera prima aveva chiesto in prestito a Reg la sua navetta per poter avere libertà di movimento da casa sua a Filadelfia. L’uomo era così entusiasta di poter essere ancora utile all’equipaggio che non ci aveva pensato due volte a inserire il suo riconoscimento vocale, prima di portarsi via il dottore per la loro lunga notte bianca.
- Kathryn Janeway. –
Il suono acuto diede l’ok e la portiera si aprì. La piccola navetta a due posti si accese completamente illuminando anche i pannelli di controllo, Kathryn afferrò la cloche e premette il pulsante di avvio dei motori. Pochi secondi dopo sfrecciava alla volta di Filadelfia, missione: recupero caffè.

***

La nave era deserta e silenziosa. Nonostante fosse la solita stanza di teletrasporto che era abituato a vedere da anni, non riuscì a reprimere un leggero senso di estraniamento, lo stesso che lo aveva colto quel mattino quando si era risvegliato in una stanza completamente illuminata dal sole. Aveva passato una notte completamente insonne, rigirandosi tra le lenzuola di un letto tradizionale a cui non era più abituato e oppresso da un senso di fastidio che ci aveva messo parecchio a identificare: il silenzio. Nonostante il progresso tecnico raggiunto nei secoli, l’evoluzione degli apparati tecnici, di propulsione e le innovazioni dei sistemi energetici, una sola cosa gli scienziati non erano riusciti a fare: rendere completamente silenzioso l’insieme di tutte quelle tecnologie. Anche se basso, le luci, il sistema di controllo ambientale, il semplice movimento della nave nello spazio spazzato dal deflettore, producevano un fruscio di sottofondo quasi impercettibile la prima volta che si sale su una nave, perfettamente ignorabile dopo giorni che vi si abita, e assolutamente necessario quando si scende sulla terra ferma per un periodo prolungato di tempo. Era quello che lo infastidiva, il silenzio, e quel silenzio ora invadeva anche la nave, che ferma e con il novantadue per cento delle sue funzioni sospese, sembrava svuotata e priva di vita.
Represse subito quei pensieri e uscì dalla sala dirigendosi verso la stiva di carico due. I corridoi avevano solo le luci di emergenza accese, non si sarebbero illuminati fino a un ordine diretto dell’equipaggio, ma non aveva intenzione di accenderle. Pensava che prima si abituava a non essere più costantemente a bordo della Voyager, meglio era. Quando era arrivato a casa di sua madre, aveva sentito una netta sensazione claustrofobia al pensiero che fosse tutto lì: soggiorno, cucina, bagno e camere. Tutto su un unico ponte. No, su un unico piano. Doveva smetterla di pensare come un marinaio.
Entrò nella stiva, Sette e Icheb dormivano ancora. Guardò il pannello di controllo posto vicino alle alcove: al periodo rigenerativo del ragazzo mancava ancora quasi due ore per terminare, a Sette poco meno di venti minuti. Dopo tre anni di cure da parte del dottore –e una buona organizzazione da parte sua- era riuscita a limitare di molto le sedute di rigenerazione, anche se non fino al punto di poterne fare completamente a meno. Gli impianti rimastile in corpo non lo avrebbero permesso.
“Se non altro loro non soffrono di insonnia.”
Si sedette su una cassa posta proprio di fronte alla sua alcova e attese pazientemente. Quella mattina non aveva potuto fare a meno di indossare la sua divisa, non solo non riusciva ancora ad abituarsi all’idea di essere tornato a casa, ma non era riuscito a trovare di suo gradimento i vestiti che la madre aveva recuperato dal fondo del suo vecchio armadio. Forse sarebbe riuscito a cambiarsi con qualcosa di più comodo dopo il risveglio di Sette, ma non era sicuro che indossare abiti maquis avrebbe favorito il suo reinserimento nella società. Avrebbe avuto più successo con i vestiti tradizionali dei nativi americani. La mente tornò alla sera prima quando era arrivato alla riserva. Il capo del villaggio e lo stregone lo avevano accolto con il saluto in lingua tradizionale, dopo di che le donne del villaggio gli avevano porto piccoli doni a dimostrazione della gioia di riaverlo lì.
Chakotay aveva assecondato il rituale ripescando dalla sua memoria le frasi rituali giuste, incappando in diversi strafalcioni che per fortuna fecero sorridere i presenti, ben consapevoli di con quanto scarso entusiasmo aveva partecipato da giovane agli stessi riti. Aveva dovuto poi assistere a una danza dei guerrieri intorno al fuoco e ai canti di propiziazione sul futuro. Diversamente da quel che si era aspettato, non si era sentito affatto un estraneo anzi, man mano che procedeva si sentiva sempre più coinvolto, e la lingua nativa gli tornava alla memoria diventando più fluida e naturale ogni minuto che passava. Alla fine del cerimoniale, che scoprì essere quello di ritorno dei guerrieri vincitori da una guerra, era stanco, sudato, nudo fino alla cintola e pitturato, ma sereno e rilassato. La comunità si era sciolta alla spicciolata, le madri riportavano i figli a casa, alcuni ragazzi si radunavano poco distante adocchiando le casse di alcolici che alcuni adulti stavano portando davanti al fuoco, gli anziani cominciavano a narrare le loro imprese. Molti dei presenti avevano prestato servizio nella federazione, alcuni erano tutt’ora imbarcati su vascelli o distaccati i stazioni spaziali; aveva ascoltato molte storie prima che il capo villaggio si stufasse di vedere i giovani discoli rubacchiare le bottiglie incustodite e mandasse tutti a letto. Non mancava molto all’alba quando lo avevano scortato fino all’alloggio che gli avevano destinato e si era sentito stanchissimo nel momento stesso in cui gli avevano parlato di andare a dormire. Un’ora dopo aver posato il capo sul cuscino però, si era svegliato e non era più riuscito ad addormentarsi. A sentire quel che gli diceva il suo corpo, avrebbe potuto benissimo affrontare un nuovo cerimoniale del ritorno, da danzatore però.
“O cercare Sette.”
Il pensiero decisamente malizioso che gli passò per la mente lo fece sorridere al vuoto dandogli un’espressione decisamente ebete. Del tutto inappropriata per il primo ufficiale di un vascello rispettabile come la Voyager.
Il computer segnalò la fine del ciclo rigenerativo, distogliendolo dai suoi pensieri e facendogli recuperare un’espressione più appropriata. Contemporaneamente Sette di Nove aprì gli occhi. Lui fu la prima cosa che vide.
- Ciao. –
Lei sorrise contenta che avesse mantenuto la sua promessa, sebbene non ne avesse dubitato nemmeno per un istante.
- Ciao. –
L’alcova si disattivò completamente e lei uscì per andargli incontro.
- Dormito bene? –
- Assolutamente no, e tu? –
- Io mi rigenero, non dormo. Come mai no? –
Appena l’ebbe davanti le cinse la vita con le braccia e la baciò. Dopo averla pensata per buona parte della notte era troppo felice di averla vicino per non dare seguito ad almeno parte delle azioni desiderate.
- Non ha importanza. –
Sette sorrise incapace di proferire suoni intelligibili. Non si era ancora abituata all’intimità e temeva che ci avrebbe messo ancora un bel po’ prima di riuscire a gestirla, ma Chakotay non aveva nessuna fretta, non apparentemente almeno. Lui la guardò negli occhi per lunghi istanti godendosi quasi il suo imbarazzo per una situazione che non era assolutamente in grado di tenere a bada, poi le sorrise e decise di godere della sua compagnia in altro modo, anche perché erano altri i segnali che arrivavano dal suo corpo.
- Colazione? – propose allegro, dandole così qualcosa di più semplice a cui pensare.
- Si, buona idea. –
La sala mensa era vuota. La sera prima si erano dati tutti appuntamento alla Voyager di buon mattino, ma Chakotay dubitava di riuscire a vedere qualcuno prima del pomeriggio. La luce del sole illuminava dolcemente gli arredi e le pareti conferendole un aspetto strano, pieno di ombre e colori diversi dal solito. Sette si guardò intorno consapevole dell’estraneità di quel fenomeno alla nave. Tra pochi giorni l’avrebbero riportata nello spazio per essere studiata, ma per il momento sarebbe rimasta sulla terraferma per essere ammirata dai civili.
Chakotay impartì l’ordine di accendere le luci, vanificando così l’opera della natura. Andò dietro al banco, solitamente occupato da Neelix, che era diventato un po’ la postazione di tutti dato che non c’era più stato un solo addetto alla mensa da quando se n’era andato. Semplicemente qualcuno si offriva volontario per un paio di turni e poi passava la palla a un collega. La colazione però era rimasta un’incombenza privata.
Sette andò al vetro e rimase ad osservare il panorama dall’alto. Il sole era sorto da poco e accecava la vista, facendo brillare l’acqua e il vetro della città sottostante.
- Ti piace? –
Lei si voltò e guardò il volto dell’uomo che raramente la perdeva di vista quand’erano nella stessa stanza.
- Si. La rifrazione della luce sulle strutture e gli elementi naturali crea dei panorami molto suggestivi. –
Chakotay sorrise: impianti corticali o no, dubitava che avrebbe mai perso l’abitudine a ricondurre tutto a un’analisi scientifica.
Ordinò velocemente al replicatore cibo e bevande preferite da entrambi e mise tutto su un vassoio. Sette si era seduta a uno dei tavoli sotto alla finestra per continuare ad ammirare il panorama, la raggiunse affettando un’aria da cameriere provetto.
- La sua colazione signorina: caffè, latte, biscotti e panna. Sono di suo gradimento? –
- Affermativo. –
Chakotay posò sul tavolo la sua colazione ridendo piano con lei. Gustarono la colazione in un silenzio che non richiedeva nient’altro di più. Non avevano mai avuto difficoltà a trovare spazi di intimità a bordo della Voyager, ma il giorno prima era stato difficile anche solo incontrare lo sguardo dell’altro.
Un lieve fruscio e il capitano Janeway apparve sulla porta della sala mensa.
- Signori buongiorno. –
Indossava una divisa alquanto stropicciata, ma aveva un’aria decisamente più attiva degli altri due.
- Capitano! Qual buon vento la porta di primo mattino? –
Janeway andò verso il bancone della sala mensa e ordinò la sua solita colazione.
- Caffè, nero. –
Sette osservò il suo capitano afferrare la tazza colma e vuotarne più della metà in un fiato. Chakotay la guardò sorpreso quanto lei. Non erano di certo le mattine tranquille, prive di compiti e abbordaggi che potevano indurre il loro temprato capitano a integrare così velocemente le riserve di caffeina.
- Effettivamente il caffè dei nostri replicatori è il più buono che io abbia mai provato. –
Janeway ignorò la prima, ma non ultima, battuta della giornata e si riempì di nuovo la tazza e li raggiunse. Il commento di Chakotay conteneva una domanda ben precisa su cui intendeva sorvolare.
- Non sono riuscita a prendere sonno. E non posso completare il rapporto per l’ammiraglio senza alcuni documenti che ho qua. –
- Tradotto: le mancava la Voyager. –
Janeway fece una smorfia a Chakotay che rideva tra se ammiccando a Sette. Il capitano si guardò intorno e assaporò il silenzio così inusuale sulla sua nave.
- Vedo che siamo al completo oggi, quasi in esubero direi. –
- Già . –
- Sono rimasti tutti a godersi casa e famiglie, eh? –
- Se lo meritano. E poi non c’è fretta, ci hanno dato una settimana di franchigia per riorganizzarci e trasferire le nostre cose dalla Voyager. –
Sette di Nove tossì, le era andato quasi di traverso un biscotto. Il capitano la guardò ma si astenne dal commentare. Era principalmente per lei che era venuta così presto. Sapeva che Chakotay l’avrebbe raggiunta, ma si sarebbe sentita troppo in colpa ad lasciare che lei e Icheb affrontassero da soli lo spinoso argomento del trasferimento a terra. Non lo avrebbe mai confessato, ma anche lei si sentiva terribilmente in ansia su come avrebbe reagito la società all’idea di avere tra di loro delle persone che, quando tornavano a casa, si rigeneravano in un’alcova borg invece che in un letto.
- Dov’è Tuvok? –
- Credo che sia ancora nel suo alloggio. –
- Strano. Tutto tranquillo stanotte? -
- Tutto tranquillo. -
- C’erano un po’ di curiosi fanatici alla festa ieri, si aggiravano nel piazzale tentando di salire a bordo. Non so se li hanno mandati via alla fine. –
- Difficile che ci possano riuscire. I nostri codici di sicurezza sono a prova di intrusione esterna. –
- Senza contare che abbordare una nave con il suo responsabile della sicurezza a bordo è come infilarsi in un campo di forza da soli. -
Janeway sorrise e finì di sorseggiare il suo caffè, con calma questa volta. Chakotay osservò la sua seconda tazza a distanza di pochi minuti e sollevò un sopraciglio.
- Come mai due tazze? Non ci aspetta una giornata particolarmente pesante oggi. –
Janeway gli fece una smorfia e tornò a guardare il panorama.
- Mia madre ha bandito il caffè da casa e lo ha sostituito con delle medagliette dell’associazione matematici. Non ho trovato un solo chicco di caffè neanche a pagarlo. –
Sette e Chakotay si guardarono mordendosi le labbra per evitare di infierire. Sapevano entrambi quanto il caffè fosse un elemento indispensabile nella vita del capitano. Tom una volta aveva detto che se si fosse resa necessaria una trasfusione al capitano, avrebbero dovuto inserirle per endovena non litri di sangue, ma di caffè. Nero ovviamente. Il dottore non era stato molto d’accordo sulla validità scientifica dell’affermazione, ma per un mese aveva cercato di convincere il capitano a smettere rimediando una, non troppo velata, minaccia di confisca dei suoi brani d’opera.
Il capitano e il suo primo ufficiale cominciarono a discutere del più e del meno mentre Sette di Nove finiva la sua colazione ammirando il paesaggio esterno, assaporando per la prima volta una sensazione di totale quiete interiore.

***

Milar era sveglia. Di questo potevano essere sicuri i genitori, i nonni paterni e tutti i presenti in un raggio di tre anni luce. B’Elanna schizzò fuori dal letto in cui si era appena assopita e andò verso la culla dove la piccola aveva cominciato a dar prova della potenza dei suoi tre polmoni. Tom mugugnò ed emerse dal groviglio in cui si era immerso come un polipo nel fondo marino ingombro di alghe. B’Elanna prese in braccio la figlia e tornò verso il letto, mentre il marito si lasciava di nuovo andare all’indietro sui cuscini.
- Fame? –
- Eh si, è ora. –
La neo mamma si aprì la camicia da notte e cominciò a nutrire la sua esigente figliola, che smise subito di strillare per riempirsi lo stomaco.
Con voce impastata di sonno Tom si voltò supino e cinse la gambe della moglie con un braccio, per farle sentire se non altro la sua partecipazione morale.
- Farà così ogni volta o pensi che imparerà un modo più civile e meno rumoroso per attirare la nostra attenzione? –
- Ne dubito. In fondo è figlia tua. –
Sorrise al marito che si degnò di risponderle solo con un breve grugnito.
Fuori dalla stanza, tonfi soffocati e rumore di stoviglie indicavano che anche il resto della famiglia Paris era sveglio.
- Che ore sono? –
- Le otto. –
Tom si tirò su del tutto e baciò la moglie sulla guancia, poi si mise ad osservare la figlia appoggiandosi alla parete.
- Ma quanta fame che abbiamo. Quand’è stata l’ultima volta che hai mangiato? Due ore fa? Sei una bella ingorda sai? –
Com’era prevedibile, Milar era troppo impegnata per rispondere. O forse aveva lo stesso senso del dialogo del padre al mattino, rifletté la madre.
Aspettarono pazientemente che la bambina si fosse saziata e avesse fatto il ruttino prima di rimetterla nella culla. L’ammiraglio aveva scovato i vecchi dragonfly di Tom e glie li aveva appesi sulla culla. Un’usanza terrestre che non sarebbe morta nemmeno dopo un’assimilazione borg probabilmente.
Tom li fece girare e Milar si mise ad osservarli affascinata, così B’Elanna ne approfittò per infilarsi in bagno per prima.
- Ho delle occhiaie spaventose. –
- Tranquilla, tutto fascino klingon in più . –
Tom evitò accuratamente di intercettare lo sguardo che la moglie gli rivolse dalla porta del bagno e si mise invece a giocare con Milar, muovendo i dragonfly a una distanza in cui potesse metterli a fuoco.
B’Elanna tornò dal bagno e si mise ad osservare la sua divisa dubbiosa. Nemmeno lei aveva portato niente dalla Voyager, era stati presi tutti alla sprovvista tanto dal ritorno anticipato quando dalla festa, di cui erano stati preavvisati giusto un’ora prima e lei aveva fatto appena in tempo a mettere insieme qualcosa per la bambina. L’organizzazione della Federazione aveva fatto i salti mortali per riuscire a organizzare il benvenuto di circostanza ed era stato anche piacevole. Ma adesso si ritrovava solo con un cambio d’abito e un bambina con frequenti rigurgiti. La vedeva grigia.
- Tranquilla, oggi torniamo sulla Voyager e ci prendiamo un po’ di vestiti informali. –
Nemmeno quel pensiero la confortava più di tanto. Inconsapevole che il suo ex-capitano aveva formulato quel pensiero pochi minuti prima, si chiese cosa avrebbe pensato un ammiraglio della federazione di una ex- ribelle maquis come nuora. Mentre Tom andava in bagno, B’Elanna si domandò se tutti i festeggiamenti della sera prima valevano come una completa accettazione di loro tutti nella società federale o se ci sarebbero state complicazioni. Se era vero che in quei sette anni passati assieme l’equipaggio della Voyager aveva sviluppato un’alta tolleranza verso gli altri e un rispetto automatico verso chiunque, lo stesso non si poteva affermare con sicurezza riguardo alla Terra. Aveva visto diverse persone osservarla dubbiosa mentre veniva presentata a diversi ufficiali della federazione come il Capo Ingegnere della Voyager, ed era sicura che tutti i presenti avessero dato almeno una scorsa alla storia di ogni singolo membro dell’equipaggio. Si immaginava i salti che avevano fatto sulle sedie quando, leggendo i rapporti del Capitano, avevano visto che era diventata responsabile della sala macchine praticamente come erano arrivati nel quadrante Delta. Si reputava fortunata ad essere abbastanza impegnata a doversi occupare di sua figlia, di un marito tornato improvvisamente all’età adolescenziale e di un dottore che non perdeva occasione per rimproverarla dello stress a cui sottoponeva una neonata, per andare a dire a certi curiosi inopportuni il fatto loro. Forse sarebbe bastato fargli sapere che i klingon hanno un udito piuttosto sviluppato e che sono anche piuttosto suscettibili.
Si infilò la divisa decidendo che non aveva nessuna voglia di ripensare a loro in quel momento e prese in braccio Milar, cullandola in attesa di Tom. Non avrebbe pensato al resto del mondo fino a quando non sarebbe stato necessario, ma non sarebbe uscita da quella stanza ad affrontare i suoceri da sola, nemmeno se il mondo si fosse presentato alla sua porta per farle coraggio.

***

Harry si svegliò. L’odore di caffelatte invadeva tutta la stanza. Proprio come quando andava ancora a scuola e sua madre gli faceva trovare la colazione pronta in tavola e un sorriso luminoso tutto per lui. Quella era stata la prima cosa che gli era mancata quando aveva cominciato l’accademia, il caffè della mensa non era affatto come quello di casa e nemmeno i biscotti.
Si girò su un fianco senza aprire gli occhi. Non voleva svegliarsi del tutto e scoprire che era stata un’altra allucinazione. Le aveva avute per giorni i primi tempi in cui la Voyager era stata scaraventata nel quadrante Delta. Alla fine si erano affievolite fino a scomparire del tutto, ma ricominciavano regolarmente tutte le volte che c’era una speranza di tornare a casa prima del tempo. Per fortuna non l’aveva mai scoperto nessuno, Tom sarebbe stato in grado di prenderlo in giro anche per quello, soprattutto da quando non poteva più permettersi di scherzare con B’Elanna. Chissà quando avrebbe partorito… Aveva scommesso per il giorno successivo alle sei di sera, sempre che la madre non decidesse di tirarla fuori a forza, usando la bat’leth in modo poco consono.
L’odore del caffelatte non accennava a smettere, forse qualcuno gli aveva fatto uno scherzo. Se ne sarebbe ricordato alla prossima puntata di capitan Proton con Tom.
L’eco di tazze di ceramica che appoggiavano sul ripiano della cucina e la voce di sua madre però non potevano essere replicabili.
Harry aprì gli occhi. Davanti a lui, il poster dei quattro quadranti che aveva appeso al muro quando aveva solo otto anni gli ricordò dov’era e perché. I condotti di transcurvatura dei borg, l’ammiraglio Janeway, l’arrivo all’interno della sfera, San Francisco, la festa… era a casa.
Si alzò di colpo e si guardò intorno. Era giorno fatto. Il sole entrava allegro dalla finestra del ventesimo piano del loro appartamento ai margini del centro della città. Si era dimenticato di chiudere la serranda, non ne aveva più avuta una da quando aveva ricevuto l’incarico della Voyager. Era tutto come l’aveva lasciato, gli scaffali con i libri e i pad, il modellino in scala del quadrante Alfa fatto alle medie, le foto dei compagni dell’accademia. La divisa era stata appesa alla sedia ordinatamente: sua madre passava sempre a mettergli a posto i vestiti prima di andare a dormire. Glie ne aveva lasciati alcuni informali sulla scrivania, un paio di jeans e una felpa azzurra. Dalla porta chiusa sentiva ancora l’acciottolio delle stoviglie e le voci dei suoi genitori che conversavano piano. Si alzò in piedi e si vestì velocemente.
Li trovò nell’angolo cucina, suo padre aveva il giornale del mattino aperto davanti a se e sorseggiava dalla sua vecchia tazza blu, quella che gli aveva regalato per la promozione a caporeparto anni fa. Sua madre stava asciugando la teglia di ceramica bianca in cui cuoceva le torte. Improvvisamente gli venne fame.
- Buongiorno. –
Sua madre si voltò e gli sorrise felice. Quanto gli era mancato quel sorriso.
- Harry! Buongiorno. –
Gli andò incontro e lo abbracciò.
- Hai dormito bene? –
- Come un ghiro. –
Sorrise a suo padre, che mise giù il caffè e gli scostò la sedia accanto a lui.
- Siediti, hai fame? –
- Assolutamente si. –
Sua madre fece il giro del tavolo e prese dalla credenza una grossa tazza bianca, quella che lui da piccolo chiamava ‘La tazza delle abbuffate’ perché era quella dove riusciva a farci stare più di venti march mellow. Poi era cresciuto ed era diventata semplicemente la sua tazza.
Sua madre gli mise davanti il caffè e il latte, poi mise sul tavolo un piatto con su un involto di tela che emanava un invitante odore di torta allo yogurt, che si rivelò essere esattamente torta allo yogurt nel momento in cui lei lo disfece. Era appena sfornata.
- Mamma, non hai idea di quanto sia felice di essere a casa. –
- Dato che lo stai dicendo mentre ti sto dando il tuo dolce preferito farò finta che sia la verità e non per interesse personale. –
Lui e il padre risero mentre lei tagliava anche per lui un abbondante razione di torta.
- Hai qualcosa da fare oggi? –
Il padre chiuse il giornale e lo guardò. – Perché mi hanno dato un permesso e potremmo andarcene un po’ in giro a salutare un po’ di parenti che non sono riusciti a venire ieri sera. Che dici? –
Harry, che si era buttato a capofitto sulla torta, inghiottì il grosso boccone cercando di non soffocare. La sera prima aveva trovato tutta la famiglia Kim, diretta e acquisita ad accoglierlo e non ricordava affatto che l’estensione del suo albero genealogico non fosse ancora terminata.
- Oggi devo tornare alla Voyager per un po’ di pratiche burocratiche, ma non c’è fretta, in genere non scappa da sola. –
- Meno male! –
Guardarono tutti e due la madre che si era seduta e bevevo anche lei un po’ di caffè.
- Con tutto quel che vi è capitato su quella nave ci manca solo che cominci a prendere decisioni da sola. –
Il padre rise. Harry invece non poté esimersi dal pensare al dottore; non lo disse a sua madre, ma l’eventualità non era poi così remota come si poteva credere.

***

Reg era crollato. Era andato a prendersi una tazza di caffè per fare colazione e l’aveva trovato riverso sul tavolo, addormentato. Non si sorprese, le sue capacità oratorie lo avevano tenuto sveglio per tutta la notte senza l’ausilio di alcuna sostanza eccitante, ovvio che appena finito di parlare il poveruomo fosse crollato dalla stanchezza.
Osservò il mattino che proseguiva la sua opera di risveglio sul resto della cittadina dalla grande finestra a vetrata di Reg. Le piccole navette private avevano cominciato i loro viaggi dagli alloggi fino ai posti di lavoro e il cielo si presentava punteggiato da piccole macchie colorate che sfrecciavano veloci, rendendo la città decisamente più vivace e caotica di quanto non fosse stata quella notte. Controllò l’ora, erano solo le otto, aveva ancora tempo prima di presentarsi a un piccolo convegno organizzato la sera prima con alcuni eminenti ricercatori di medicina. Il dottor Zimmerman aveva rifiutato categoricamente di presenziare a uno sulle tecniche olografiche con lui, per poter capire come potesse aver sviluppato un’autocoscienza propria e si era rinchiuso nel suo laboratorio sulla Jupiter appena finita la festa. Nonostante la costante espressione corrucciata era stato felice di averlo visto appena sbarcato e sapeva che la sua ritrosia sarebbe stata presto messa da parte dal suo egocentrismo. Non capitava di certo tutti i giorni che uno dei propri ologrammi tornasse dallo spazio profondo con la personalità tipica di un individuo fatto e finito, prima o poi lui e Reg sarebbero riusciti a farlo crollare.
Reg cominciò a russare. Il dottore analizzò la posizione riversa in cui dormiva e decise che era meglio portarlo a letto. Gli si avvicinò e lo scrollò leggermente per una spalla.
- Reg? Reg sveglia, non puoi addormentarti qui, non è la posizione corretta per il riposo. –
Reg, per tutta risposta, russò ancora più forte.
Il dottore si guardò intorno, Neelix il gatto lo guardava serafico dal bordo del divano.
- Immagino che tu non intenda darmi una mano, vero? –
Il gatto socchiuse brevemente gli occhi, la conversazione pareva non interessarlo. Il dottore sospirò.
- Bene, ho capito. –
Si passò un braccio di Reg sopra le spalle e lo sollevò dalla sedia, quando fu in posizione semi eretta lo sollevò del tutto mettendoselo in braccio come un bambino. Reg mugugnò appena.
- Coraggio, andiamo a dormire. Se non ci fossi io, eh Neelix? –
Il gatto voltò appena la testa muovendo la coda, mentre il dottore lo sorpassava e lo portava in camera da letto.
Dopo avergli rimboccato le coperte si guardò nel riflesso di una specchio all’ingresso. Si passò una mano sui capelli, si lisciò l’uniforme e provò diverse pose, da duro, cordiale, misterioso, intellettuale, perfino alla 007, o almeno lui le riteneva tali. Mentre si voltava per pensare a una nuova mossa vide che il gatto Neelix lo stava osservando.
- Che c’è? Puoi provare anche tu sai? Non sono avverso ad avere compagnia. –
Il gatto Neelix si voltò dall’altra parte e cominciò a fare le fusa.
- Vigliacco. –
Il dottore si diede un’ultima occhiata e decise che il suo abbigliamento non andava bene per una conferenza di eminenti ricercatori medici. No, ci voleva qualcosa di più appropriato.
- Computer, registrare messaggio per Reg Barclay, da riferire al suo risveglio. Reg, sono tornato alla Voyager, mi troverai lì fino alle dieci di oggi, da lì in poi sarò alla conferenza fino alle diciassette. Confido in una tua apparizione almeno verso quell’orario, mi troverai sempre alla Voyager altrimenti. Grazie della bella serata e arrivederci. Computer, fine registrazione. –
Messaggio registrato.
- Bene. Allora andiamo. Ciao Neelix. –
Il gatto mosse la coda continuando a fare le fusa, il dottore uscì dall’appartamento. Fuori era proprio una bella giornata di sole. Il dottore decise che c’era abbastanza tempo per farsi una passeggiata fino alla nave e godersi l’atmosfera tranquilla di San Francisco.
Camminando per le ampie strade pulite cominciò a fischiettare uno dei suoi brani d’opera preferiti. Era proprio una splendida giornata, ne era sicuro, era perfetta. Semplicemente perfetta.

***

Tuvok si svegliò di soprassalto. Era nel suo alloggio, ancora a letto, con il sole che illuminava la stanza come se fosse giorno fatto. Guardò l’ora su un piccolo schermo accanto al letto. Era giorno fatto. Le nove e quarantun minuti. Sconcertato e stupito si alzò dal letto e andò verso l’oblò per controllare: effettivamente il sole era già piuttosto alto rispetto all’orizzonte.
- Computer, data stellare attuale. –
Data stellare 54990.15*
Riguardò l’orologio, segnava ancora le nove e quarantuno. Era sfasato di un minuto rispetto al computer di bordo. Rimase a fissare il panorama fuori dall’oblò ripensando alla sera prima. Era tornato nel suo alloggio, si era svestito e aveva cominciato la meditazione. Non ricordava affatto però di essere andato a letto, né di aver riposto tutto il necessario per la meditazione. Ad ogni modo, non era sua consuetudine dormire oltre le sette le mattino.
- Computer, localizzare Dottore. –
Il dottore non è presente a bordo.
Probabilmente era rimasto dal tenente Barclay fino a tardi e sarebbe andato direttamente alla sua conferenza all’Istituto, lo avrebbe atteso nel pomeriggio e si sarebbe sottoposto a una nuova analisi neuronale. La sua malattia comprendeva la degenerazione dei suoi percorsi neuronali fino alla perdita totale della logica di pensiero, ma non provocava amnesie. Ad ogni modo, non avrebbe dovuto succedergli a quello stadio della malattia.
Si vestì ed uscì dal suo alloggio. Per una qualche ragione non si sentiva affatto sicuro e avrebbe fatto un screening completo a tutti i sistemi di sicurezza della nave per accertarsi dei suoi presentimenti. Avrebbe chiesto la collaborazione anche a Sette di Nove.
Nel corridoio della sala mensa incontrò Icheb che lo salutò educatamente e gli cedette il passo.
- Buongiorno comandante. –
- Buongiorno Icheb. –
La porta della sala mensa si aprì, il capitano Janeway, Chakotay e Sette di Nove chiacchieravano a un tavolo sotto agli oblò, i resti della loro colazione ignorati di fronte a loro. Sentendo la porta aprirsi e richiudersi si voltarono, lo stupore era ben visibile sui volti dei suoi superiori, evidentemente anche loro non si aspettavano una sua comparsa a quell’ora tarda del mattino.
- Buongiorno. –
- Buongiorno Tuvok, ciao Icheb. –
- Buongiorno capitano, Comandante, Sette. Signore vada pure a sedersi, ci penso io alla colazione.–
- Grazie Icheb. -
Il ragazzo andò al replicatore a ordinare del cibo mentre Tuvok si avvicinò al tavolo del capitano, trovando scortese ricercare la solitudine in quel particolare frangente. Andò al tavolo accanto tenendo il mano il pad che si era portato dietro dal suo alloggio. I due ufficiali superiori lo osservavano curiosamente mentre Sette riportava discretamente lo sguardo verso il panorama esterno. Janeway lanciò un’occhiata al pad e poi a Tuvok, ulteriormente sorpresa.
- Tuvok, oggi è giorno di franchigia. Non dovrebbe lavorare. –
Tuvok alzò lo sguardo per rispondere la suo capitano.
- Lo so capitano, ma credo che ci siano motivi sufficienti per non rimanere completamente in ozio e fare qualcosa di produttivo. –
Janeway si sporse leggermente per leggere lo schermo del pad.
- E un controllo completo del sistema di sicurezza è sicuramente un modo proficuo con cui passare la giornata vedo. –
- Un controllo completo? –
Chakotay guardò Tuvok ricercando il suo sguardo, che il vulcaniano però evitò riconcentrandosi sul suo lavoro, nel frattempo Icheb posò un vassoio sul tavolo. – Ma ci vorranno ore! –
- Si comandante, infatti speravo di poter richiedere la partecipazione di qualcuno dell’equipaggio. –
Janeway guardò il resto dei commensali come per chiedere conferma di quel che aveva sentito ma ricevette lo stesso tipo di sguardo.
- E posso sapere perché ritiene necessario fare questi controlli? –
- Dei legittimi sospetti. Ieri sera c’è stata molta curiosità intorno alla nave e ritengo mio preciso dovere controllare che non ci siano stati tentativi di accesso e danni derivati. Grazie Icheb. –
Il capitano tornò a voltarsi verso Sette e Chakotay, che ora sorrideva nel probabile tentativo di reprimere tutte le battute sui vulcaniani che in genere spopolavano ovunque nella federazione.
- Beh, se proprio lo ritiene necessario... Ma cerchi di non cooptare con troppa forza altri membri dell’equipaggio, oggi dovrebbe essere festa, anche per lei signor Tuvok. –
- Non si preoccupi capitano, intendo affidare solo le parti riguardanti le subroutine secondarie a qualsiasi volontario si faccia avanti. –
Chakotay guardò di sottecchi Sette, che si era già voltata alla parola ‘affidare’.
- Non ci provare neanche. Tu oggi sei ‘affidata’ a me. –
- Posso aiutarla io comandante. Non mi sono stati affidati incarichi per oggi. –
- Icheb! – il capitano si voltò incredula alla proposta del ragazzo. – E’ il tuo primo giorno sulla Terra, non vorresti visitarla invece che passarlo ulteriormente su questa nave? –
- Se il comandante Tuvok ritiene necessario un’analisi attenta della Voyager avrà i suoi motivi. Ritengo che aiutarlo sia il dovere di ogni aspirante cadetto responsabile. –
Chakotay rise e scosse la testa incredulo mentre Sette e Tuvok rivolgevano al ragazzo uno sguardo di lode. Rassegnata, il capitano accordò il suo permesso per quell’analisi così necessaria che Tuvok voleva assolutamente fare, poi si voltò verso la novella coppia cercando di scoprire che piani avesse Chakotay per la prima visita di Sette alla Terra, provocando diverse battute al primo e rossori imbarazzati alla seconda.
Tuvok invece cominciò a dividersi il lavoro tra se e il giovane Icheb. Aveva sperato in un aiuto del ragazzo, lo trovava molto preparato, intelligente e svelto nello svolgere i suoi compiti. Gli affidò tutta la parte riguardante le routine riguardanti le sezioni meno importanti della nave e le subroutine secondarie, a tutto il resto avrebbe pensato lui.
Il suo era solo un sospetto dovuto all’insolito cambiamento delle sue abitudini. Forse appena il dottore fosse tornato a bordo, avrebbe scoperto che la sua era solo una parte del decorso della malattia e che i suoi sospetti erano completamente infondati. Ma per il momento preferiva controllare.

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NOTE DELL'AUTRICE:
So che in genere certe notizie vanno alle anticipazioni (e sopratutto al primo capitolo...), ma io odio le anticipazioni, quindi tutto ciò che riguara cambiamenti della fiction li troverete qui.
Avviso tutti i trekkie che dovranno lasciare da parte quella 'piccola' cosa che è il film Nemesis, per questa fiction non esiste e non è mai esistito (anche perchè non lo conoscevo quando l'ho ideata).
Ho cominciato a seguire Voyager stabilmente solo dalla quarta serie in poi, insomma me ne sono persa un bel pezzetto e non sempre la miriade di siti Trek che sto consultando mi aiutano a ricostruire il passato dei personaggi. In attesa della mia presa visione di tutti gli espisodi passati ci potrebbero essere diversi strafalcioni. Appena li notate ditemelo e io vi osannerò per il resto della FF ^^
Conto di recuperare gli episodi passati e un po' di film entro un tempo relativamente accettabile ma comunque gli aggiornamenti non saranno regolari, dato che ho un po' da fare, però continueranno. Per ora godetevi questo primo pezzo del ritorno, la seconda parte è già iniziata e finirà quando avrò deciso quale delle versioni presenti nella mia testa è più plausibile.

Grazie mille a lord Martiya e CowgirlSara per le recensioni, spero che la storia continui ad attirarvi =)

H

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Capitolo 3
*** Il ritorno - Parte II ***


Aggiornamento: Il programma che ho usato per mettere il codice html nel testo mi ha sballato gli invii a capo, ora li ho sistemati. Scusate la confusione.



Il Ritorno - II



Come aveva ipotizzato Tuvok, il dottore quel mattino non passò dalla Voyager. Lungo il tragitto si perse ad osservare la vita della città, incappando in parchi giochi, centri commerciali, negozi, scolaresche in gita e via dicendo. Ma un fenomeno in particolare gli fece dimenticare il suo proposito di tornare alla Voyager per modificare il suo vestiario, aveva cominciato a nevicare. Era solo poco più di un nevischio portato dal vento, tale che in certe zone era assente, ma che gli fecero preferire continuare a passeggiare verso l’Istituto Daystrom godendosi il panorama invernale. La sua uniforme era comunque corretta per una conferenza alla quale avrebbero partecipato studiosi della Federazione e ad ogni modo, a lui donava.
Purtroppo il dottore non aveva ben calcolato la distanza dall’appartamento di Reg fino all’istituto, ma soprattutto non aveva calcolato che lui non sapeva proprio in che direzione si trovava. Dopo aver chiesto a un paio di passanti, l’aver scoperto che stava andando nella direzione opposta e che mancavano diverse decine di chilometri alla sua meta, stava quasi per chiamare la Voyager per farsi teletrasportare a destinazione quando incontrò Tom, o meglio, si scontrò. Tom usciva velocemente da quella che a prima vista sembrava una fast food e il dottore camminava speditamente lungo il marciapiede, il risultato fu che cozzarono l’uno contro l’altro finendo a terra.
Il dottore si tirò su immediatamente e guardò chi aveva ‘investito’. Quando si accorse che era il tenete Paris, si rimangiò immediatamente le scuse in cui stava per profondersi assumendo invece il suo solito atteggiamento.
- Tenente! Le sembra il modo di uscire da… - una seconda occhiata rivelò per certo la prima impressione del locale, - da un una fast food?! Ma dico, non le ho insegnato niente in questi anni? –
Tom, che non era un ologramma, si tirò su tastandosi la schiena. Evidentemente la caduta aveva avuto ripercussioni fisiche.
- Dottore! Allegro già di prima mattina vedo. –
- Non è prima mattina. Ma cosa ci fa qui? –
La terza occhiata al locale gli fece individuare B’Elanna seduta a un tavolino con davanti un vassoio carico di cibo e involucri vuoti dello stesso.
- E che ci fa B’Elanna?! –
Tom diede un’occhiata al cielo mentre continuava a testare la funzionalità del suo apparato muscolo-scheletrico, il dottore non si sarebbe mai smentito, Voyager o non Voyager.
- Beh dottore, pare che se nella fase della gravidanza una klingon è in grado di mangiare per due, quando allatta mangia per tre. Ed è altrettanto irascibile mi creda. Se non trovo una sistemazione terrestre per questa notte è meglio che rimaniamo sulla nave, non credo che sopporterebbe un’altra colazione con i miei. –
- O andiamo, non possono essere così terribili… Ma che cosa sta mangiando?! –
Il dottore era ormai incollato alla vetrina e attirava gli sguardi dei passanti e dei clienti, al punto che anche B’Elanna, impegnata del difficile compito di neo-madre affamata, se ne accorse. Si voltò verso la vetrina, lo vide, si paralizzò un attimo e poi tornò a mangiare cercando di evitare gli sguardi inceneritori del suo medico curante. Le aveva raccomandato solo cibi sani fino allo svezzamento di Miral, ma la fame è fame e non sarebbe arrivata nemmeno al primo cambio di tutina della bambina se non si fosse fermata ad accontentare le esigenze fisiologiche del suo corpo.
- Dottore non le conviene mettersi tra una madre klingon e il suo pasto, mi creda. Ologramma o no riuscirebbe a farle male. –
Il dottore si voltò per replicare ma i ricordi di diverse sfuriate, oggetti contundenti lanciati con precisione e pazienti finiti in infermeria, lo fecero desistere.
- Va bene, ma che sia l’ultima volta. –
Tom fece un gesto di impotenza per fargli capire che, volente o dolente, non era di certo lui che comandava in quei frangenti, il gesto però gli fece ricordare che aveva appena subito un gran brutto placcaggio, o meglio, se lo ricordò la sua schiena. Il dottore se ne accorse e gli si avvicinò premuroso.
- Le fa molto male? –
- Non è niente, solo una botta. Ma dove andava così di fretta? –
- All’istituto Daystrom. E lei perché usciva come una furia dal locale? –
- Andavo a prendere una navetta per portarle alla Vo… aspetti un attimo, ha detto al Daystrom? Ma le ci vorranno ancora tre quarti d’ora almeno a piedi. –
Tom scansò il dottore e guardò l’ora. Mancavano solo venti minuti all’orario previsto per l’inizio della conferenza.
- Per la miseria. Sono in ritardo non ce la farò mai! –
Tom sospirò e guardò la moglie che ordinava altri due menu familiari a una sconcertata cassiera.
- Resti qui. –
Entrò nel locale, scambiò tre parole con la moglie che annuì brevemente mentre controllava che Miral stesse bene, salutò la figlia e tornò fuori.
- Ok, l’accompagno io. B’Elanna rimarrà qui ad aspettarmi. –
- Grazie infinite tenente. Ma è sicuro che sia prudente lasciare B’Elanna e la bambina da sole, in un luogo sconosciuto? –
- Dottore mi creda, nessuno in tutta la città può davvero far del male a una neo mamma klingon. –
Detto questo entrarono in macchina. Mentre il dottore osservava Tom accendere i vari comandi gli venne un dubbio.
- Tenente, lei ricorda vero il codice delle navette terrestri? –
- Sicuro. E ora si tenga forte. –
Il dottore annuì preoccupato aggrappandosi allo sportello mentre la navicella si sollevava e faceva inversione in direzione dell’Istituto.

Icheb si era messo diligentemente al lavoro.
Non l’avrebbe mai ammesso ma preferiva di gran lunga continuare a fingere di essere disperso nello spazio ancora un po’. Tutte le emozioni del giorno prima – la distruzione del condotto di transcurvatura borg, l’arrivo sulla Terra, la festa, tutte quelle persone che gli stringevano la mano e si congratulavano con lui – lo avevano molto frastornato. Un analisi più attenta delle sue reazioni sinaptiche, gli aveva rivelato che aveva semplicemente paura del cambiamento improvviso. Una settimana fa mancavano altri sedici anni all’arrivo della Voyager sulla Terra e stava completando un’analisi di routine dei sistemi di comunicazione in una sala mensa piena, ora era su un pianeta sconosciuto completamente solo. L’equipaggio era andato via la sera prima ed erano rimasti solo lui, Sette e Tuvok. Ma quel giorno la famiglia del comandante sarebbe venuta a prenderlo e lui sarebbe partito con loro alla volta di Vulcano. A dire il vero sapeva che anche Sette prima o poi lo avrebbe lasciato. Aveva notato il legame che si stava creando tra lei e il comandante Chakotay ed era la conclusione più naturale che loro due andassero a vivere assieme. Anche il tenente Paris e il Tenente Torres vivevano assieme.
Detestava doverlo ammettere anche con se stesso, ma aveva paura. Un’emozione sciocca e infondata, ma da quando era stato separato dalla collettività borg e aveva dovuto riabituarsi ad avere solo il suo unico pensiero in testa, la Voyager era diventata la sua collettività, con tante voci all’esterno di se. Ora la Voyager era deserta e non voleva assolutamente riprovare il terrore e il disagio che lo aveva invaso, quando si era reso conto di essere “solo”.
“Non di nuovo.”
Notando un calo di concentrazione nel suo lavoro, si corresse e confermò il comando di fine dell’operazione attuale, passando a controllare la routine successiva.
Non importava se il comandante era semplicemente caduto in una lieve degenerazione della sua malattia, anche se quell’analisi non avrebbe portato a niente era ben felice di avere la mente occupata da qualcosa di pratico da fare.

Harry finì di pettinarsi e si diede l’ultima sbirciata allo specchio. La madre era uscita subito dopo colazione per procurargli un abito adatto all’occasione ed era tornato con un bel completo verde dal taglio alla coreana e una maglia nera. Gli stava bene, sua madre non aveva perso l’occhio estetico per lui.
Uscì dal bagno e trovò il padre ad attenderlo con in mano il consueto giornale. Accanto a lui c’era una rivista scientifica, la prese sapendo che la madre di avrebbe messo ancora qualche minuto prima di raggiungerli.
- Dov’è che stiamo andando di preciso? –
- Dai cugini Yen. –
- Chi? –
- Ricordi la bambina che ti ruppe il microscopio elettronico alla festa per i tuoi dodici anni? –
- Quella che per farmi capire che non si sentiva minimamente in colpa poi mi tirò in testa una fetta di torta? –
- Proprio lei. È tua cugina di quinto grado, Michelle. Lei e la sua famiglia non vedono l’ora di rivederti. Ci saranno anche gli zii di tua madre e i miei cugini di secondo grado, i Chen. –
- Uao. Una festa in grande stile. Non avevo idea che il clan dei Kim fosse ulteriormente esteso. -
Harry aprì una rivista mentre suo padre sorrideva condiscendente. La rivista era di qualche giorno prima e gli si aprì su un servizio sulla Voyager. C’era la foto d’archivio di quando era appena uscita dal cantiere navale e le principali specifiche tecniche. Un professore aveva scritto un articolo teorizzando l’evoluzione dell’equipaggio e della nave dopo molti anni di viaggio. Scriveva che il lungo tragitto attraverso l’universo, per il quale gli alloggi e gli spazi comuni non erano stati progettati, avrebbe portato l’equipaggio a trasformare gradualmente la nave in un ambiente più accogliente per un centinaio di persone che volevano “ricreare” una vita sociale normale. Nella pagina successiva c’era un fotomontaggio di come il professore si immaginava la Voyager dopo che era stata modificata. Aveva un bozzo trasparente proprio sopra il centro di comando ed era anche più panciuta. La coda era più corta e il corpo più lungo. Diverse frecce riportavano le nuove sezioni della nave a nomi quali: “Piazza comune”, “Serre”, “Scuola”, “Zona ricreativa”. Era chiaramente una “Nave Comunità”, costruita per accogliere delle persone che non sarebbero mai tornate sul loro pianeta d’origine, continuando a vivere per sempre sul loro vascello.
Harry rabbrividì.
Per quanto quella ipotesi non si sarebbe tradotta in realtà nemmeno se l’ammiraglio Janeway non fosse tornata nel passato per aiutarli, non ci erano andati poi così lontani. Giusto prima di uscire dal condotto di transcurvatura, B’Elanna aveva dato alla luce la figlia sua e di Tom. Chakotay aveva intrapreso una relazione con Sette di Nove. Steve Hawkins del reparto macchine aveva chiesto a Marek Theà della sezione ricerca di sposarlo. Erano diventati insomma, una vera comunità completamente indipendente. Aveva costruito anche una serra e finchè tutti i bambini borg erano rimasti sulla Voyager, una stanza era stata convertita in scuola per fare lezione a loro e a Naomi.
“Si,” si disse, “ci siamo andati vicini.”
Sua madre entrò proprio mentre esaminava meglio la “Piazza comune”, un largo spazio circolare il cui centro era vuoto, circondato da panchine e la circonferenza era leggermente rialzata e da un lato ospitava un bar, il ristorante-mensa e diversi tavolini con sedie, dall’altro un piccolo parco giochi. Il tutto era rivestito da un polimero trasparente per dare almeno a quello spazio, l’illusione di un vero luogo esterno.
- Ecco i miei uomini. Siete pronti? –
Il padre ripiego il giornale e si alzò sistemandosi la cravatta annodata perfettamente. Harry alzò lo sguardo e chiuse la rivista di scatto. I cugini Yen, gli zii Chen, la terribile cugina Michelle.
- Prontissimi. Pronto Harry? –
Avrebbe preferito di gran lunga di no. Ripose la rivista sul tavolino e raggiunse i suoi genitori per andare a questo raduno di famiglia dal quale, lo sapeva, non si sarebbe districato prima del giorno successivo.

Ecco lo sapeva. Un solo giorno sulla Terra e già Tom spariva.
Il pensiero che aveva accompagnato il Dottore alla sua conferenza all’Istituto Daystrom e che quindi forse aveva trovato traffico sulla via del ritorno, nonché diversi ammiratori che lo avevano riconosciuto e quindi lo stavano trattenendo, non la sfiorava nemmeno. Per lei Tom aveva preso e se ne era andato, lasciando lei e la bambina nel caos della metropoli.
Appena sarebbe tornato lo avrebbe ucciso. Possibilmente in modo doloroso.
Milar la osservava dal marsupio che sua suocera aveva ripescato tra i ricordi di Tom bambino e si calmò.
Era uscita dal fast-food e si era diretta verso un parco lì vicino, ignorando gli sguardi dei passanti che andavano dalle sue creste frontali a quelle della bambina.
Non lo sopportava e in quei momenti era decisamente propensa a far emergere i suoi lati klingon. Fortunatamente per i passanti, l’effetto calmante e rilassante che le provocava la vista di sua figlia la riportava a più miti pensieri, e alla speranza che Tom tornasse presto.
Aveva intravisto il Dottore e sapeva che avrebbe dovuto sorbirsi una delle sue ramanzine sul cibo sano in periodo di allattamento, ma non le importava. Non per la fame, ma perché il Dottore era uno dei pochi che sopportava il suo caratteraccio con divertita filosofia.
Tolse Miral dal marsupio e cominciò a cullarla, dimenticandosi di dov’era e chi aveva intorno. Il parco era affollato di mamme e babysitter con relativi pargoli al seguito e l’aria era colma di cicalecci infantili che coprivano i rumori di fondo della città. Lei e Tom avevano scelto il nome della bambina un paio di giorni prima cominciassero i falsi travagli e non l’avevano detto a nessuno. Già quando si era saputo di che sesso era, la gara per suggerire il nome più bello aveva portato un mezzo esaurimento nervoso a lei e a Tom. Alla fine però erano riusciti a trovare un nome che piacesse a tutti e due… e che non era stato suggerito da nessuno dell’equipaggio.
La bambina teneva gli occhi spalancati e la guardava assorta. Si girava appena quando sentiva una voce un po’ più forte o un rumore strano ma era tranquilla. B’Elanna si chiese se non era il caso di stancarla un po’, giusto per poter dormire quella notte. Non si era ancora ripresa del tutto dalla fatica del parto e voleva un po’ di tranquillità. Quando era uscita dall’infermeria per mettere insieme un bagaglio per la piccola, il Dottore l’aveva guardata apprensivo, non sentendosela di impedirglielo. Avrebbe dovuto stare a letto, riposarsi, dormire, avere meno stimoli possibili intorno a se. Il fisico era guarito in fretta grazie alla cure, ma la stanchezza mentale non passa con qualche medicamento rigenerativo.
B’Elanna non si pentiva di aver partecipato alla festa esponendo lei e la bambina a quello stress, ma ora il momento di gloria dovuto e d’obbligo era finito e loro due dovevano riposare. Possibilmente in un luogo familiare almeno per lei.
Miral chiuse gli occhi cominciò ad assopirsi. Intorno a loro le persone chiacchieravano tranquillamente, paghe della serenità e dell’ordine che regnavano nel piccolo parco. Qualcuno ancora le osservava, ma i più ormai le ignoravano. Altri dovevano averla riconosciuta e la indicavano ogni tanto all’interno di una discussione con la compagna di panchina. C’era anche qualche vecchio e loro erano i meno discreti.
Quando si sentì una mano appoggiare sulla spalla per poco non lanciò un grido.
- Ehi amore. Non ti ho spaventata vero? –
Tom si sedette accanto alla moglie scoccandole un bacio e ammirando la figlia che dormiva, ignorando beatamente il suo sguardo bellicoso.
- Adesso dorme! Vedrai che stanotte ci farò di nuovo assistere allo spettacolo canoro più potente del pianeta. –
- Ci hai messo un secolo. Hai fatto il giro del pianeta per portare il Dottore alla conferenza? –
- C’era un traffico pazzesco e quando sono arrivato là hanno cercato di convincermi in tutti i modi a rimanere per fare un discorso. Ho faticato a tornare alla navetta. –
Tom si appoggiò allo schienale della panchina e passò un braccio intorno alle spalle della moglie, guardandola affettuoso.
- Non dirmi che ti sono mancato. –
- Neanche un po’. Ma ero preoccupata, potevi esserti perso. –
Tom sbuffò ma B’Elanna si appoggiò contro la sua spalla improvvisamente paga del semplice fatto che lui fosse lì. I battibecchi li poteva rimandare dopo la merenda. Tom la strinse leggermente e guardò il parco.
- Vuoi tornare alla Voyager stanotte. –
- Si. Tutta la nostra roba è là e io ho bisogno di un ambiente familiare per un po’. Non dico che non mi piacciono i tuoi, sono molto simpatici e stamattina è stato piacevole fare colazione con loro, non avrei mai immaginato che i Paris hanno una tradizione di graduati risalente al tuo trisavolo e che tu portavi il suo nome davvero, ma… ¬-
- Ma domani possiamo fare colazione in un posto dove non mi chiedono in che giorni preferisco organizzare la festa di presentazione della bambina? Tranquilla tesoro, ora come ora anche io non vedo l’ora di tornare alla Voyager e farmi un paio d’ore di sonno nel mio letto. –
Le sorrise mentre le posava un bacio lieve sulla nuca. Era preoccupato per lei. Da quando erano tornati l’aveva vista tenere il comportamento che aveva i primi giorni del viaggio: altero, arrogante e costantemente sulla difensiva, che nel suo caso voleva dire “attacco”. Aveva esitato prima di accettare l’ospitalità dei suoi genitori, ma B’Elanna l’aveva preceduto. Probabilmente voleva fare buona impressione ai Paris, ma lui non era molto d’accordo. Avrebbe voluto che sua moglie e sua figlia si riposassero prima di essere esposte al loro giudizio. Per questo quel mattino aveva detto ai suoi che sarebbero stati un paio di giorni sulla Voyager, prima di spostarsi all’alloggio che la Federazione avrebbe trovato per loro. Le avrebbe impedito anche solo di accendere un Dipad. Fece scivolare il braccio intorno alla sua vita e le parlò piano.
- Stasera torniamo sulla nave, mettiamo Miral nella culla, ti faccio un bel massaggio, ordiniamo al replicatore del vile cibo pieno di grassi e calorie superflue e ci godiamo il nostro frugoletto urlante fino al mattino dopo. Che ne dici? -
B’Elanna spostò leggermente Miral e si accoccolò meglio sul petto di Tom. In quel momento poteva arrivare tutto il Gran Consiglio klingon ad accusarla di svergognatezza e disonore, ma non si sarebbe mossa di lì per nulla al mondo.

Mark l’aveva chiamata.
Era ancora in sala mensa a prendere in giro Chakotay e Sette quando la comunicazione era stata inoltrata dal centro comandi a terra. Aveva lasciato il più decorosamente possibile al sala mensa inondata dalle battute del suo sleale primo ufficiale ed era andata a cambiarsi.
Molto poco dignitoso per un capitano della flotta stellare, ma non ci aveva fatto molto caso. Era arrivata in sala teletrasporto che si stava ancora abbottonando la giacca, Tuvok stava esaminando anche quella consolle. In un angolo della memoria registrò la stranezza di quel comportamento, annotando che avrebbe dovuto parlarne con lui appena tornata sulla nave, ma si dimenticò tutto non appena lo vide ai cancelli di ingresso ad attenderla, con quattro cani al guinzaglio.
Si fermò qualche istante a guardarli mentre annusavano il terreno intorno a loro, poi si avvicinò. Uno di loro alzo il muso in sua direzione annusando l’aria. Kathryn provò a chiamarlo.
- Molly! –
La cagnolina cominciò a scodinzolare, prima timidamente, poi si lanciò in avanti tendendo il guinzaglio. Kathryn accelerò il passo e andò ad abbraccia il suo cane, che cominciò a farle le feste leccandole il viso.
- Ciao tesoro! Come sono felice di vederti! –
- Anche lei a quanto pare. –
Kathryn diede un energico abbraccio al suo cane e poi salutò Mark altrettanto calorosamente.
- Grazie! Sono la sorpresa migliore che potessi farmi. –
- Oh prego. La prossima volta allora li mando in taxi visto che tanto la mia presenza non è necessaria. –
- Spiritoso. –
Gli altri cani dedicarono la loro attenzione alla nuova arrivata. Erano identici a Molly e altrettanto affettuosi.
- E loro sono… -
- Susy, Frank e Jenny. Belli vero? Sono anche delle vere pesti. –
Kathryn si abbassò per coccolare anche loro e presentarsi. Erano bellissimi e aveva la lacrime agli occhi. Cercò di nuovo Molly per farle i complimenti.
- E così hai messo su famiglia eh? Brava cagnolina, sapevo che ce l’avresti fatta anche senza di me. –
Si rialzò e prese il guinzaglio di Molly.
- Allora, dove mi porti? –
Mark le cedette il passò e cominciarono a camminare tranquillamente. Che ne dici di un pranzo a Terminal Shane tanto per cominciare? Hanno un bel giardino interno e fanno mangiare anche loro. Più tardi arrivano Phoebe e il resto della tua famiglia. –
- Mi pare un’ottima idea. –
Kathryn prese sottobraccio Mark e appoggiò la testa alla sua spalla. Stava nevicando e il sole di quel mattino era stato seppellito da coltri di nubi spesse. La giornata migliore della sua vita.

Ci aveva messo mezz’ora a convincerla, ma alla fine aveva ceduto.
Fuori dalla stiva di carico due stava aspettando che Sette finisse di vestirsi, anche se non sapeva nemmeno se aveva per lo meno finito di decidere quali vestiti replicare. Voleva portarla in giro per la città, farle vedere i parchi, i ristoranti, i musei o anche semplicemente un bar dove star seduti per ore a parlare, possibilmente con qualcosa di diverso dalla tuta dermoplastica che indossava sempre. Dal canto suo Sette, stava provando una di quelle sensazioni che tutte le ragazze terrestri prima o poi provano nella vita: il panico da primo appuntamento. Sebbene non fosse il primo non si era mai posta un problema così gravoso, poiché essere parte di un equipaggio delle flotta stellare la metteva al riparo da una simile decisione: che cosa doveva indossare?
Il dottore aveva disegnato per lei molti abiti, ma in quel momento non le sembrava che nessuno di quelli le andasse bene. Erano troppo appariscenti o troppo anonimi, troppo aderenti o troppo larghi. In realtà erano tutti perfetti ma i suoi sensi le dicevano il contrario. Alla fine si stufò, riacquistò un minimo di sangue freddo borg e decise.
La porta dietro a Chakotay diede un sibilo e si aprì. Anche lui indossava abiti informali, un semplice completo blu scuro, con un dolcevita grigio chiaro e un cappotto lungo nero, che secondo lui gli dava un’immagine particolarmente elegante. Però era niente in confronto a quel che vedeva.
Sette aveva indossato un semplice vestito di lana rossa che le arrivava al ginocchio, con il collo voluminoso e arrotolato che le ricadeva sul petto. L’abito si adattava perfettamente alla sua figura, mettendone in risalto la linea sinuosa senza però risultare volgare. E si era sciolta i capelli.
Sebbene abituato a vederla sempre vicino a se, non poté fare a meno di rimanerne incantato.
- Il mio abbigliamento è di tuo gusto? –
Chakotay dovette deglutire un paio di volte prima di ritrovare la parola, la sua salivazione era sparita improvvisamente.
- Sei bellissima. –
Sette abbassò gli occhi e arrossì leggermente. Chakotay seguì il suo sguardo e il quel momento scorse il comunicatore appuntato poco sotto il collo dell’abito. Allungò le braccia e glie lo sfilò.
- Questo per oggi rimane qui. –
Sette fece per protestare ma lui le mise un dito sulle labbra.
- È un ordine. –
Pur sentendosi in mortale imbarazzo rimase a fissarlo quasi con sfida prima di sorridere divertita. A quel punto Chakotay le cedette il passo verso la sala del teletrasporto. Prima di scendere dalla nave posò i comunicatori sulla consolle, li avrebbero ripresi al loro ritorno che, se tutto andava come sperava, non sarebbe stato tanto presto.

La festa era stata massacrante.
Aveva incontrato e parlato con parenti che non aveva mai visto prima, a parte la cugina Michelle, che si era presentata con un fidanzato tutto muscoli che l’aveva guardato in tralice per tutta la festa. La cugina dal canto suo si era limitata ad esporre le sue idee antimilitariste chiedendogli per tutto il tempo se per lui era valsa la pena di perdere sette anni della sua vita per la Federazione.
Harry decise in quel momento che se mai avrebbe messo le mani addosso a una donna, la prima sarebbe stata la cugina Michelle. Per fortuna si fermarono solo fino a metà pomeriggio, dopo di che lui e suo padre si concessero una lunga passeggiata rilassante per la città. aveva smesso di nevicare e l’aria era gelida, ma Harry non ricordava assolutamente di aver avuto freddo. Loro due avevano parlato per ore, ricoprendo a poco a poco un legame che era mancato per molto tempo. Erano poi passati a prendere la mamma ed erano andati al ristorante. Sua madre aveva scovato un posticino proprio vicino all’attracco della Voyager, Harry voleva fargliela visitare prima di cena. Magari qualcuno dei suoi compagni si sarebbe aggregato a loro.

Avevano passato il pomeriggio a Sunny Park. Era un parco isolato dal resto della città da una cupola trasparente che manteneva all’interno un costante clima primaverile. Lui e B'Elanna si erano sdraiati su un prato muniti di spuntini e assopendosi a turno mentre curavano Miral. Era uno spettacolo surreale, stare distesi sull’erba calda e asciutta senza cappotti, mentre sopra di loro nevicava. Intorno a loro molti bambini giocavano o passeggiavano con i loro genitori. C’erano anche molti anziani, che approfittavano di quell’osai meteorologica per stare fuori di casa anche con il brutto tempo. La madre di Tom li aveva raggiunti sul finire del pomeriggio, dimostrandosi in definitiva più simpatica di quando era sembrata a primo impatto. Lei e suo figlio andavano molto d’accordo e chiacchierarono amabilmente fino a quando non si resero conto che era quasi ora di cena. Erano tornati alla Voyager tutti e tre, Tom voleva assolutamente far vedere alla madre la sua postazione. Più di una volta a B'Elanna era venuto il dubbio che Tom stesse cercando di riconquistare la stima della propria famiglia. In fondo non avevano avuto tempo per riconciliarsi dopo che il capitano l’aveva liberato dalla colonia penale per aiutarli ad inseguire i Maquis. Guardando la signora Paris però, B'Elanna aveva solo avuto l’impressione di trovarsi davanti a una donna a cui era molto mancato il figlio. E quando prese in braccio Miral per cullarla, dal suo sguardo capì che non avrebbe più dovuto preoccuparsi di farsi accettare.

Phoebe rideva mentre faceva il solletico a Kathy, sua figlia di tre anni. Kathryn era di fianco a loro e ogni tanto ammiccava a Mark, seduto accanto a lei. Sua madre sedeva davanti. Erano tutti stipati nella navicella di Fred, il marito di Phoebe, che guidava. Erano diretti alla Voyager dopo un pomeriggio passato a casa della sorella. Lei e Mark avevano passeggiato tutta la mattina e pranzato al Terminal Shane, parlando e discutendo come se gli ultimi sette anni non fossero mai esistiti. Si erano raccontati molte cose, partendo dalle più superficiali, come i pettegolezzi sulle alte caste della Federazione, alle più importanti, come i loro sentimenti dopo che era dispersa. Avevano anche sfiorato l’argomento su amori di passaggio, ma era troppo presto per approfondirlo e avevano abilmente deviato la conversazione su Molly. I “cuccioli” avevano preso subito confidenza con lei e non perdevano occasione per elemosinare un po’ di coccole. Molly dal canto suo aveva appoggiato il muso sul suo ginocchio e non l’aveva levato per tutto il pranzo. Anche Kathryn non era riuscita a smettere di accarezzarla per tutto il tempo. Quando l’avevano lasciata a casa di Mark con gli altri ci aveva messo un quarto d’ora a convincerla che non sarebbe sparita di nuovo. Stava pensando di portarla con se alla Voyager quella sera. Erano poi andati a casa di Phoebe. Il marito e la figlioletta erano tornati e sua madre li aveva raggiunti. Era stato incredibilmente emozionante ritrovarsi in braccio un frugoletto rosso con il suo stesso nome. A detta della madre aveva anche la stessa irrequietezza. Non si era minimamente accorta del tempo che passava fino a quando gli stomaci di tutti non avevano dati inequivocabili segnali di allarme. Così avevano tutti deciso di andare a cena fuori. Prima però Kathryn voleva assolutamente far visitare loro la Voyager. Kathy non aveva mai visto un vascello federale e non vedeva l’ora di farglielo esplorare tutto.

Non l’avrebbe mai ammesso, ma era stanco morto.
Sette l’aveva riempito di domande e trascinato ovunque, a piedi ovviamente. Dopo un paio d’ore a terra, era riuscita ad abbandonare quel gelido contegno da borg e a lasciarsi andare. Lui aveva scovato vecchi locali dove andava a divertirsi o a bere quando era uno studente dell’Accademia, peccato che l’argomento le aveva fatto venire voglia di visitare la biblioteca. La vecchia biblioteca pubblica, ora un museo, conservava ancora migliaia di informazioni sotto forma cartacea. Sette aveva passeggiato per i corridoi leggendo i titoli affascinata. Non aveva smesso nemmeno quando Chakotay le aveva chiesto come mai le interessavano tanto i libri e lei non era stata in grado di rispondergli.
- Interesse antropologico – aveva risposto alla fine, senza convincerlo nemmeno per un secondo.
Avevano poi passeggiato per tutta la città ridendo e scherzando fino all’ora di cena e sebbene ritroso, Chakotay aveva acconsentito a tornare alla nave per cambiarsi e uscire di nuovo. Avrebbe preferito di gran lunga appartarsi nel suo alloggio con Sette, ma non voleva fermarla proprio quando il suo entusiasmo per la Terra era così acceso.
Se l’era semplicemente stretta al fianco cercando un mezzo di trasporto. La nave era lontana e stava ricominciando a nevicare. Sette distolse lo sguardo dal suo sorriso beffardo e alzò gli occhi al cielo.
Sapeva cos’era la neve, non c’era niente di misterioso o eclatante in quel fenomeno atmosferico, eppure la affascinava. Si era stretta di più a Chakotay che l’aveva circondata con tutte e due le braccia e si era lasciata andare alle emozioni.
Su un vascello borg, sarebbe stata terminata nel giro di trenta secondi, ma lì sulla Terra era solo un essere umano che viveva la sua vita. Senza neanche rendersene conto Sette di Nove accettò la sua umanità in quell’istante, senza sentirsi minimante a disagio.

Nevicava. Certo sotto la pioggia avrebbe avuto un altro effetto ma dubitava che ci sarebbe stato un modo migliore per esprimere la sua gioia di Singing in the rain. Aveva parlato per ore. Risposto a domande, iniziato dibattiti, fomentato discussioni, messo in dubbio vecchi concetti e introdotti di nuovi, rilasciato interviste, autografi, stretto mani… era stato un successo! Aveva promesso di tornare il giorno dopo con altri dati raccolti in quegli anni e aveva deciso tornare alla Voyager per raccogliere più informazioni possibili. Forse avrebbe potuto portare quella strana coltura che aveva sviluppato l’anno scorso dalla cellula di una pianta di uno strano pianeta rosso, ma non sapeva se avrebbe avuto il tempo di farla esaminare ai biologi.
Fece un elegante piroetta attorno a un lampione scivolando poi graziosamente su una lastra di ghiaccio. Un paio di passi da tip tap e un saltino con tocco di talloni finale lo fecero arrivare al cancello di attracco della nave. La neve le stava dando un effetto strano, candido, quasi surreale.
- Voyager, teletrasporto per uno. -
Scomparve e riapparve nella sala teletrasporto della nave. Si diresse verso l’infermeria passando velocemente davanti alla sala mensa. Si fermò di colpo, torno indietro e osservò attraverso gli oblò. La sala era piena. La porta si aprì e il Dottore entrò.
L’intero equipaggio della Voyager, con parenti al seguito, affollava la sala e proponeva brindisi, cantando, mostrando la nave alla famiglia, insegnando ai bambini la planimetria della nave. La porta si aprì dietro di lui e la famiglia del maggiore Fleck entrò reduce da una visita alla sala macchine.
- Dottore! Buonasera! Le presento la mia famiglia. Li ho portati a vedere la nave. -
- Buonasera maggiore. Signora, ragazzi. Ha fatto bene, sono sicuro che è stata una visita istruttiva. –
In quel momento intravide in centro sala il capitano Janeway che teneva banco a un eterogeneo gruppo di persone. Riconosceva Tom e B’Elanna, Harry, Chakotay, Tuvok e diverse persone che dovevano essere i loro parenti, tra cui una figura flessuosa di spalle vestita di rosso, che stimolò immediatamente la sua curiosità. Cercò di avvicinarsi, ma non poté esimersi dal dover stringere la mani alle famiglie di tre caporali, due tenenti, quattro marinai semplici e altri due maggiori. Finalmente arrivò davanti al capitano, che brandiva un bicchiere di vino e teneva banco con un comportamento degno di un irlandese da taverna.
- Dottore! Finalmente si è fatto vivo! Mancava solo lei! Venga che le presento tutti! Mia madre, mia sorella Phoebe, suo marito Fred e Kathy, l’ammiraglio Paris e sua moglie, il signor Kim e signora, la signora Tuvok e i loro figli. Dove diavolo è stato tutto questo tempo? La festa è cominciata da ore. -
- Solo due e tu sei già ubriaca. –
- Ah giusto, lui è Mark. –
Il Dottore strinse tutte le mani, una ad una e quasi gli venne un colpo quando vide il viso della donna vestita di rosso.
- Sette! -
- Buonasera Dottore. –
- Ma che… ma quando… ma stai benissimo! –
- Grazie. –
Il Dottore si lanciò in una serie di apprezzamenti accolti con diverse risatine sotto ai baffi dall’equipaggio presente, poi Janeway salvò il suo marinaio sviando il discorso.
- Allora, com’è andata oggi? –
- Cosa? Bene! Benissimo! Ho tenuto una conferenza per tutta la giornata. Centinaia di luminari. Dovevate esserci! –
- Non ne dubito. –
Tom e Harry soffocarono le risate nei loro bicchieri, le donne furono più discrete. I vulcaniani ovviamente non diedero segno di vita mentre gli astanti li guardavano incuriositi. L’umorismo di Chakotay ormai era solo per i pochi eletti che ci erano abituati.
- Comandante! Vedo che la sua famiglia è già qui. Mi aveva detto che sarebbero arrivati solo domani mattina. –
Se il Dottore non fosse ormai un esperto di vulcaniani, avrebbe anche potuto dire che Tuvik sembrava preoccupato. Si guardava in giro, squadrando i commensali e rispondeva alle domande dei suoi parenti in ritardo.
- Comandante? -
- Si. Una fortunata coincidenza. Un vecchio amico di studi è dovuto venire sulla Terra per lavoro e li ha accompagnati. –
Dopo di che si rivolse a Icheb che gli aveva portato un DiPad. Janeway glie lo tolse dalle mani.
- No, stasera no. Niente lavoro. È un ordine comandante. –
- Come vuole capitano. –
- Su Dottore si goda la serata! -
- Non sapevo che fosse in programma una festa, nessuno mi ha avvertito. –
Chakotay osservò il suo capitano tracannare l’ennesimo bicchiere della serata e intervenne prima che decidesse di farlo lei.
- Pare che tutti abbiano deciso di mostrare alle famiglie la nave questa sera, e alla fine abbiamo deciso che invece di andare a cena sparsi per i vari ristoranti della città, saremmo rimasti qui. –
- Ordinando del cibo al ristorante qua sotto. Credo che potranno permettersi una crociera dopo questa sera. –
Il Dottore osservò le porte che si aprivano e si chiudevano continuamente, facendo entrare sempre più persone. Aveva quasi il timore che le paratie avrebbero ceduto. L’atmosfera era gioiosa e serena, le persone avevano espressioni felici e ridevano, stringevano mani e parlavano entusiasti.
Si rese conto in quel momento di essere di fronte alla realizzazione di un sogno.
Ding Ding Ding Ding
Si voltò. Il capitano Janeway era salita su un tavolo con un bicchiere in mano, miracolosamente stabile.
- Signori, credo che ormai ci siamo tutti. –
Una porta si aprì e un gruppetto di persone entrò di corsa.
- Ecco, ora ci siamo tutti. –
Le persone risero. Gli uomini dell’equipaggio si fecero improvvisamente tutti attenti e seri di fronte al loro capitano, come se sentissero dentro di se, che quella sera si stava chiudendo qualcosa, definitivamente.
- Signori, ci abbiamo messo sette anni. Sette lunghi anni nello spazio profondo, soli, con pochi amici e tanti nemici. Alla fine, è proprio grazie a nemico e… al sacrifico di una grande amica, se siamo potuti tornare qui. Era quello che volevamo e l’abbiamo ottenuto. Ora, non ci resta che riprenderci le vite che abbiamo lasciato qui in attesa del nostro ritorno. Non vi dirò che non sono triste, voi siete stati il miglior equipaggio che un capitano abbia mai avuto ai suoi ordini. Spero, che qualsiasi cosa facciate nei giorni avvenire, abbiate compagni leali e fedeli come li ho avuti io in questo viaggio. So che questa e una festa e non vorrei mai rovinare l’atmosfera, ma credo sia doveroso ricordare tutti quelli che non sono riusciti a tornare con noi. È grazie anche a loro se siamo tornati sani e salvi, noi li porteremo sempre nei nostri cuori, non li dimenticheremo mai. E ora, un brindisi. Alla compagna migliore di tutti, che ci ha portati qui, ci ha accuditi, nutriti, riscaldati e difesi. Brindo alla Voyager e a voi! –
- Alla Voyager!
I bicchieri si alzarono, le voci si levarono all’unisono, il tempo sembrò fermarsi. In quella sala erano riunite persone che per sette anni avevano convissuto assieme, condividendo gioie e dolori, paure e sogni, lotte, giochi, momenti di calma e di terrore. Intorno a loro, i familiari e gli amici che li avevano aspettati per tutto quel tempo. Era un momento unico, irreplicabile.
Se fosse stato possibile immortalarli tutti in un'unica inquadratura, il Dottore non avrebbe esitato a scattare.

Su un asteroide e migliaia e migliaia di anni luce da lì, qualcuno trafficava con i comandi del centro comunicazioni. Già da cinque giorni non aveva più notizie e si stava preoccupando.
L’ultima volta che aveva parlato con loro, la comunicazione era stata interrotta per motivi tattici. Impegnato com’era nella sua nuova vita familiare, Neelix non si era preoccupato subito e nemmeno il giorno dopo. Ma il giorno prima si. Lui, Sette e Naomi si sentivano tutti i giorni, non era normale che una delle due non lo chiamasse e nemmeno che i suoi messaggi cadessero nel vuoto.
All’ennesimo tentativo non riuscito di comunicare con la Voyager, si spazientì e tirò un pugno sulla consolle. Livax, vice responsabile del reparto, si affacciò preoccupato.
- Ancora niente Neelix? –
- No niente. Non va, non è da loro rimanere in silenzio così a lungo. -
- Magari hanno solo qualche avaria al sistema di comunicazione, vedrai che ti ricontatteranno presto. –
- Speriamo. –
- Senti, mi è venuta fame, faccio un salto alla mensa. Tu vuoi qualcosa? –
- No grazie. –
- Ok. –
Rimasto solo, Neelix guardò il pannello visore di fronte a se, vuoto. Avrebbe voluto essere ottimista come Livax, ma in cuor suo sentiva che era successo qualcosa alla nave.
In quel momento una spia cominciò a suonare.
Neelix abbassò lo sguardo sul pannello di controllo: era in arrivo un pacchetto di dati a bassa risoluzione. Lo analizzò e scoprì che era stato spedito tre giorni prima dalla Voyager. Lo aprì.
Sullo schermo apparve Naomi nella sala astrometrica, Sette era poco dietro di lei. L’immagine era un po’ disturbata, cercò di correggerla ma si rese conto che era per via della sua bassa risoluzione, non poteva farci niente.
- Ciao Neelix! Scusa se non ti contatto direttamente, ma abbiamo incontrato di nuovo i borg e non vogliamo correre rischi. Sette mi ha detto che non avrei messo i pericolo la nave con una comunicazione a bassa risoluzione, che i borg non l’avrebbero neanche guardato. Ti volevo solo dire che noi ce ne andiamo. Qui è successa una cosa incredibile, è arrivata una donna al futuro ed era il capitano Janeway! Lei, che è un ammiraglio e il capitano stanno mettendo a punto un piano per tornare a casa proprio grazie ai borg, anche se non ho ben capito come. Io non dovrei saperlo, ma ho origliato, quindi ho deciso di fartelo sapere per non farti preoccupare. Quando riceverai questo messaggio noi saremo già sulla Terra. Sono molto emozionata e un po’ confusa. Finalmente vedrò il mio papà! Mamma è molto felice e anch’io. Solo che… beh, niente, è che ora ci separeremo tutti. Insomma, non vivremo più tutti assieme e… a me piace come viviamo ora. Ma non fa niente, gli altri sono tutti felici, quindi sarò felice anch’io. Solo che no potremo più parlare assieme. Mi mancherai tanto Neelix. Tutto l’equipaggio ti saluta. Ti vogliamo bene, non ti dimenticheremo mai. Ciao Neelix. –
L’immagine scomparve.
Neelix rimase ad osservare il punto fino a dove, poco prima, si trovava Naomi.
Erano tornati a casa.
Si appoggiò allo schienale della postazione e chiuse gli occhi mentre alcune lacrime cominciavano a scendergli sulle guance. Rimase lì qualche minuto prima riaprirli e scaricare la comunicazione su un DiPad e riguardarla.
- Ben tornati a casa ragazzi. Buona fortuna. –



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L'autora scrive:
Penso che sia il ritardo più lungo della storia ^^'
Mi scuso, ma purtroppo l'ispirazione per questa cosa ormai storica spesso scompare, ed è una cosa strana visto che so perfettamente come deve finire, il problema è che tra i vari avvenimenti in scalettona c'è più o meno un oceano di spazio non ancora definito, e lì è dura.
ORa poi tra l'altro ho iniziato un master e vai a sapere quand'è che finirà questa pacchia senza corsi veri e propri.
Ieri ho iniziato il terzo capitolo però, e se la voglia di non fare i compiti di scuola continua su questo andazzo forse questa volta non ci metterò due anni ad aggiornare. In ogni caso grazie a chi ha avuto il coraggio di iniziare questo mattone e a chi vorrà continuarlo.
Baci,
H

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Capitolo 4
*** Smembramento ***


Smembramento



La festa lasciò a tutti una piacevole sensazione di nostalgia euforica per giorni. Come promesso, la Flotta Stellare aveva trovato alloggi a tutti quelli che ne necessitavano e diversi giorni di licenza per far si che riprendessero contatto con la vita terrestre.
Da protocollo, avevano cominciato anche delle sessioni di terapia con dei consiglieri per controllare che fossero ancora idonei a sostenere delle normali missioni di volo sulle navi.
Tuvok era partito per vulcano per curarsi dalla sua malattia dopo diverse ritrosie: il capitano Janeway aveva dovuto obbligarlo a salire sulla nave che lo avrebbe riportato a casa, con l’ordine di non farsi vedere fino a convalescenza completata.
Più che completata.
Tutto l’equipaggio si era diviso tra le varie zone della terra e addirittura qualche pianeta della Federazione. Pochi erano rimasti a San Francisco. Janeway si era fatta dare i recapiti di tutti quanti, non aveva intenzione di perderli di vista solo perché erano scesi dalla sua nave.
In sette anni erano cambiate molte cose sulla Terra. Non solo la tecnologia, ma anche la Federazione stessa. Kathryn lo aveva percepito chiaramente alla festa ufficiale per il loro ritorno, da alcuni sguardi un po’ troppo insistenti su alcuni membri del suo equipaggio. Naturalmente era solo una paranoia dovuta agli anni di navigazione in uno spazio ostile, ma il comportamento di Tuvok non l’aveva aiutata. Per fortuna aveva la sua famiglia e quella di Molly che la tenevano impegnata. Aveva passato una bella settimana a rilassarsi, fare lunghi bagni senza le incursioni di Q o dei borg, a preoccuparsi che Tom e Harry non sottraessero energia alla nave per i loro giochi olografici, a controllare le scorte di deuterio, a mantenere gli standard morali della Federazione tra l’equipaggio, a sostenere l’equipaggio. Era stata una bella faticata. Ma quando sua madre le chiedeva quand’è che aveva intenzione di farla diventare nonna una seconda volta, lei guardava Kathy costringere uno dei cuccioli a farle da cavallo e pensava che no, decisamente guidare una nave è meno faticoso.
Non si era ancora abituata alla luce del sole che il comando della Flotta la convocò. Lunedì mattina.
Un classico.
Le avevano dato un nuovo comunicatore, più moderno di quelli che avevano, caduti in disuso tre anni prima, ma avevano ottenuto il permesso di tenere il vecchio per ricordo. Ormai erano pezzi da collezione. L’ultima occhiata allo specchio le fece notare di avere ancora quello della Voyager. Si chiese se sarebbe stato di cattivo gusto continuare a indossarlo, poi lo cambiò e uscì.
Arrivò al comando in anticipo e venne fatta aspettare nell’anticamera di un ammiraglio che non conosceva. Una segretaria altezzosa la fece accomodare.
Nell’ufficio c’erano tre persone: l’ammiraglio Stanson, suo diretto superiore quando era partita con la Voyager, l’ammiraglio proprietario dell’ufficio che si presentò come Florence e un colonnello che rimase in un angolo accanto alla finestra senza degnarla di uno sguardo.
- Capitano, spero che si sia riposata in questi giorni. –
- Anche troppo ammiraglio, non sono abituata a tutta questa calma. –
- Lo immagino. Ma non si preoccupi, troveremo il modo di impegnare il suo tempo. –
- Non ne dubito. –
Janeway fu invitata a sedersi in una delle due poltrone davanti alla scrivania dell’ammiraglio Florence, mentre Stanson si sedette in quella accanto. Il colonnello non si mosse.
- L’abbiamo fatta chiamare per discutere del suo incarico. –
- Oh, avete intenzione di affidarmi altre missioni? –
- Si, ma non con la Voyager. Quella nave dovrà essere consegnata ai laboratori per essere studiata. –
- Certo. Per la tecnologia che abbiamo installato in questi anni. –
- Che devo dire è sorprendente. Soprattutto le migliorie apportate allo scafo. Ma anche il Delta Flyer! Quella navetta è prodigiosa. –
- Merito di Tom Paris, è stato lui a progettarla. –
L’ammiraglio Florence parlò.
- A proposito di Tom Paris, le comunico ufficialmente che da questo momento lei non è più né il capitano della Voyager né del suo equipaggio. –
Non fu la notizia in se, più o meno se l’aspettava, quanto il tono. Freddo e quell’intonazione… come se aspettasse solo una sua lamentela.
- Oh si certo, immagino verranno destinati a incarichi più stabili in questi primi tempi. -
- Una… cosa del genere si. -
Kathryn sentì chiaramente il gelo scendere nella stanza. Che diavolo stava succedendo? L’ammiraglio Stanson sembrava in imbarazzo. Evitava di guardarla negli occhi e lanciava occhiate continue a Florence e al colonnello taciturno. A quel punto anche lei guardò il colonnello, che rimaneva rivolto verso la finestra. Guardò fuori anche lei: da dov’erano si vedeva la Voyager ancora attraccata a porto da terra. Non le piaceva il modo in cui guardava la sua nave, proprio per niente.
Nessuno dei suoi superiori accennava a parlare ancora, guardò negli occhi l’ammiraglio Florence, leggermente proteso verso la scrivania con quello sguardo arcigno e freddo. Forse era rimasta troppo tempo nel quadrante Delta, ma ci leggeva un sottinteso. Non le piaceva quel sottinteso.
- E… per il mio incarico? -
- Si. Si, ecco. Riteniamo che lei possa essere di grande aiuto ai nostri cadetti su Venere. Con tutti gli imprevisti incontrati durante il suo viaggio potrà fornire loro insegnamenti preziosi. -
- Ma… Venere è un campo di addestramento per piloti, Tom Paris avrebbe sicuramente più cose da dirgli di me. -
- Ma lei è sicuramente un insegnante migliore. -
- Prenderà servizio domani, alle dieci. È un ordine capitano. -
Janeway osservò l’ammiraglio Florence per alcuni istanti. Il gelo era palpabile.
- È tutto? -
- Non esattamente. In piedi capitano. -
Stanson si alzò in contemporanea con lei.
- È con grande piacere che le conferisco i gradi di ammiraglio a una stella. Per aver mantenuto e diffuso gli ideali della Flotta Stellare ai confini dell’universo e aver completato con successo la missione affidatagli nonostante le avversità. Li porti con onore. -
Le tolse i gradi da capitano al colletto, sostituiti da quelli nuovi.
Kathryn. Sorpresa, ringraziò l’ammiraglio che, sorridente la congedò.
Fuori dall’ufficio incontrò la graziosa segretaria che le fece i complimenti per i gradi. Mentre le porte dell’ascensore si chiusero ripensò alle parole dell’ammiraglio: per aver completato con successo la missione affidatagli nonostante le avversità.
Un brivido gelido le percorse la schiena, sostituito immediatamente da uno caldo di rabbia. Se pensavano che l'ammiraglio se ne sarebbe stato buono, voleva dire che non conoscevano affatto il capitano Kathryn Janeway.

Tom era immerso nella vasca fino al collo ed era del tutto deciso a rimanerci. Miral non l’avrebbe avuta vinta, eh no.
La bambina stava urlando a pieni polmoni nella stanza accanto. Era appena riuscito a farla addormentare e si era concesso un bagno ristoratore. Peccato che appena dieci minuti dopo lei fosse già sveglia.
Infilò la testa sott’acqua e cominciò a far finta di essere un sub dell’era di Verne.
Però diamine, forse aveva davvero bisogno di qualcosa. Forse questa volta aveva davvero il pannolino sporco o spedito il ciuccio dall’altra parte dell’universo. Magari aveva anche fame. Sbuffò.
Sei un debole Tom Paris.
Riemerse dalla vasca come un mostro delle paludi e guardò verso la porta del bagno. Due secondi dopo era accanto alla culla della figlia con un asciugamano addosso e la scia d’acqua dietro di se, come la bava con le lumache.
- Che hai questa volta? –
La prese in braccio e improvvisamente fu il silenzio. Tom si sentì come quando giocava a kal-toh con Tuvok: sconfitto.
- Ma che furbetta. –
In quel momento B’Elanna rientrò.
- Sono a casa! –
Scalciò le scarpe sotto al divano e posò le buste della spesa sul ripiano della cucina aperta. La federazione aveva trovato loro un alloggio a tre stanze: due camere da letto con un grande spazio che comprendeva sia la cucina che il soggiorno.
- Ti ho comprato i pop corn al cioccolato. –
Tom apparve con la piccola in braccio in mezzo al soggiorno.
- Questa volta me ne lascerai qualcuno o spariranno non appena vi lascerò soli? –
B’Elanna si diresse verso suo marito e lo baciò.
- Che tenuta adamitica. –
- Certo, sono un vero maschio io. –
- Indovino: tu stavi facendo il bagno ma nostra figlia non era molto d’accordo. –
- Temo che avremo dei problemi a insegnarle l’igiene personale. -
Prese in braccio Miral e cominciò a coccolarsela.
- Novità? Chiamate? –
- No, nessuna. Il comando non si è fatto vivo, ed è strano. È lunedì, la settimana di franchigia è finita. –
- Magari hanno solo problemi a trovarci altri incarichi, oppure hanno deciso di essere clementi. –
- Da quando la Flotta lo è? –
Tom ignorò il commento acido della moglie e andò a finire il suo bagno.
Rimase immerso almeno un’ora, assopendosi appena nell’acqua calda, solo quando cominciò a raffreddarsi si ridestò. Purtroppo, le parole della moglie furono le prime a venirgli in mente, mettendogli addosso una brutta sensazione.
Non riuscì a levarsela di dosso per tutta la sera, nemmeno giocare con Miral lo distrasse. Alla fine, stufo, accese il comunicatore e chiamò suo padre. Non ci riuscì. Riprovò, ma ebbe lo stesso responso: tentativo di comunicazione fallito.
Andò alla finestra e guardò il cortile del complesso dove abitavano. Era molto bello, un piccolo parco con molti alberi. Ieri Miral si era innamorata della camelia, ci avevano giocato tutto il pomeriggio. Ed era assolutamente certo che quell’ombra era esagerata per un albero dal fusto così esile.

I tecnici della Federazione ci avevano messo tre giorni a installare correttamente l’alcova nel nuovo alloggio e lo avevano fatto guardandola sempre con terrore. B’Elanna aveva direzionato i lavori mentre Chakotay faceva da paciere tenendo a bada entrambe.
- Avrei preferito fare questo lavoro di persona con un paio di miei assistenti. Così andiamo troppo lenti! –
Per qualche motivo, la Flotta aveva vietato a B’Elanna e Sette di occuparsi fisicamente della cosa, ma alla protesta che se l’alcova non fosse stata installata correttamente avrebbe potuto attentare alla vita della proprietaria, avevano acconsentito alla sua supervisione del lavori.
- Avrei potuto farlo io. –
- Tu sei troppo gentile e troppo borg, questi sono tecnici, ci vuole il temperamento klingon. –
- Ah, allora finalmente cominci ad apprezzarti sotto quel lato. –
B’Elanna accolse la battuta con uno dei suoi sorrisi combattivi, e stava quasi per replicare quando uno degli tecnici fece saltare un contatto levando la luce a tutto l’alloggio.
- Ma dove diavolo avete preso il diploma di tecnici? Al mercato Ferengi!? –
E si era fiondata a prenderli a calci.
Alla fine sette aveva avuto la sua alcova. Era in un angolo della stanza, in opposizione a un letto che, per momento, era di decorazione, come le lenzuola e le coperte. Gli appartamenti erano già arredati ovviamente.
Su suggerimento di Chakoaty aveva iniziato a personalizzare l’alloggio andando in giro per negozi e ora era quasi di suo gusto, ma non riusciva a trovare i giusti accessori, tra cui un comunicatore funzionante.
Aveva provato più volte a ripararlo, ma ancora non riusciva a metterlo in comunicazione. Pensando che ci fosse un guasto alla linea, aveva chiamato il tecnico del palazzo, che le aveva confermato la completa operatività dell’impianto. Il primo insuccesso tecnico di Sette di Nove. Le aveva tolto la rigenerazione.
Stava esaminando per la quinta volta i componenti dell’apparecchio quando suonarono alla porta.
- Chi è? –
- Chakotay. –
Si alzò dal basso tavolino del salotto su cui era accovacciata dal primo pomeriggio e si stiracchio.
- È aperto. –
Del tutto simili alle porte degli alloggi sulla Voyager, un basso suono di conferma introdusse il primo ufficiale nel salotto di Sette.
- Che stai facendo di bello? –
- Riparo un comunicatore difettoso. –
Chakotay guardò i resti dell’apparecchio.
- Lascia stare, è già morto. – e andò a salutarla come si deve.
- Vedo che facciamo progressi con il look personale. La vestaglia ti sta benissimo. –
- Non credo ancora che sia un indumento utile. I vestiti che si usano fuori possono essere usati anche in casa. –
- Ma hanno tutto un altro fascino. –
- Davvero? –
- Dipende da chi li indossa. –
Persero vari minuti a salutarsi come si deve, dopo di che il comandante venne al punto focale della sua visita.
- Vestiti. Ti porto a cena fuori. –
- È usanza terrestre uscire tutte le sere? Non pensavo si avesse così tanto tempo libero. –
- Solo quando si è in licenza e quando si esce con te. Comunque stasera ti porto in un posto speciale. –
- Lo era anche ieri sera. –
Sette scomparve in camera da letto mentre Chakotay le lanciava un’occhiata da finto offeso. Ormai le visite a Sette erano un terno al lotto: non sapevi mai se ti trovavi di fronte il freddo drone, o un’ironica giovane donna.
- Cinque minuti arrivo. –
"E adesso scopriamo se il drone ha migliorato la donna."
Sedendosi sul divano osservò il comunicatore sparso sul tavolino: lo aveva fatto proprio a pezzi.
- Non è che manca la linea? –
- Ho già chiesto. –
- Hai provato anche con un rilevatore di dati? –
Sette riapparve con un elegante abito verde di ciniglia, lungo fino alle ginocchia. Il drone aveva vinto.
- Non ho più il tricorder, me l’hanno richiesto indietro gli addetti della flotta alla mia sistemazione. –
Ecco, questo era strano.
Purtroppo non aveva il suo con se e fece mentalmente appunto di portarlo domani.
Non era possibile che un drone borg mettesse le mani su un apparecchio e non riuscisse a farlo funzionare. Era come dire che l’inferno si era ghiacciato.
Eppoi, com’era possibile che pur essendo passata una settimana nessuno aveva tentato di mettersi in comunicazione con lei? Il capitano l’aveva nominata a pieno titolo marinaio della Flotta, qualcuno doveva pensare a come destinarla.
Ma ora che ci pensava, nemmeno lui era stato chiamato.
Sette lo precede all’ingresso indossando il suo cappotto, i capelli le fluttuavano liberi sulle spalle.
Lo aiutò a metterselo dimenticandosi completamente dell’argomento. Qualsiasi cosa fosse poteva aspettare domani.

Era stato convocato quella mattina presto. Si aspettava una chiamata dal capitano o da un ufficiale addetto allo smistamento delle mansioni, non direttamente da un ammiraglio.
Eccitato, si era vestito in fretta ed era uscito di casa senza nemmeno fare colazione, arrivando con mezzora di anticipo.
La segretaria lo fece aspettare nell’anticamera. Aveva continuato a gironzolare nella sala, tra le poltroncine, sfogliando riviste, analizzando le tre stampe anonime appese alle pareti e alla quinta volta in cui chiedeva alla donna se non era ancora ora di entrare, ricevette un’occhiata truce degna di una klingon in travaglio. Finalmente, fu l’ora giusta.
All’interno dell’ufficio lo attendevano tre persone, due ammiragli e un colonnello, che se ne stava defilato all’angolo della grossa finestra con vista sull’accademia della Flotta. C’era anche la Voyager in quella vista.
- Guardiamarina Kim. –
L’ammiraglio seduto davanti alla scrivania si alzò e si fece avanti per stringergli la mano.
- Sono l’ammiraglio Stanson, lui è l’ammiraglio Florence. Siamo felici che sia riuscito a venire. –
- Non è che avessi altri impegni, ammiraglio. –
L’ammiraglio lo scortò cordialmente verso la poltrona accanto alla sua, l’uomo dietro la scrivania aveva uno sguardo truce e teneva le braccia piegate sotto il mento.
- Ammiraglio. Colonnello. –
Il colonnello non si girò.
Rimasero qualche istante in silenzio in cui Harry continuò a sentirsi sempre più in imbarazzo, poi finalmente Stanson parlò.
- Guardiamarina, l’abbiamo convocata per comunicarle un cambio di incarico. –
- Oh, mi destinate ad altre missioni? –
- Lei è stato trasferito alla Mirage. Prenderà servizio come ufficiale addetto alle comunicazioni domani, sotto il comando del capitano Turkinton. –
Harry fissò stupito l’ammiraglio Stanson. Conosceva il capitano Turkinton, era solo di tre anni più vecchio di lui, ma quando era uscito dall’accademia era già stato nominato tenente comandante e si raccontavano le battaglie che aveva condotto contro i maquis. Era un grande onore.
- Accetta la sua nuova mansione? –
L’ammiraglio Florence lo osservava cupo.
- Io… si certo. Certo che accetto ammiraglio. Ne sono onorato. –
- Molto bene allora, si alzi guardiamarina. – Stanson si alzò mentre Harry scattava sull’attenti, - È con grande piacere che la promuovo a tenente. Faccia valere i suoi gradi sulla Mirage. –
Harry guardò l’ammiraglio aggiungere un grado ai suoi sul colletto, quasi non credeva ai suoi occhi.
- Non ne dubiti ammiraglio. –
- Può andare tenente. Melanie le fornirà tutti i dettagli in merito al suo nuovo incarico. –
Harry annuì e uscì dall’ufficio.
Prese il DiPad che le porgeva la segretaria, che si complimentò con lui in maniera particolarmente fredda, e schizzò via. Due gradi in una sola volta! Non vedeva l’ora di dirlo ai suoi e al resto dell’equipaggio. Stava giusto correndo fuori dall’accademia quando si rese conto che non avrebbe più prestato servizio assieme a Tom e tutti gli altri. Gli sarebbero mancate le missioni assieme al capitano Janeway.
Guardò il DiPad. Solo dieci giorni prima erano ancora dispersi nello spazio, migliaia di anni luce da casa, con l’unica missione di dover tornare sulla Terra. No, non poteva rimpiangere quei tempi.
Si diresse verso casa smanioso di raccontarlo a sua madre. Finalmente una promozione. Come minimo avrebbe organizzato una seconda festa.

Icheb era inquieto.
Lo aveva trasferito in un alloggio all’interno dell’Accademia, ma a differenza degli altri ragazzi non lo condivideva con nessuno. La sua alcova borg li spaventava.
Nei giorni dell’installazione si era aspettato di vedere almeno Sette o il tenente Torres, ma non era successo. Quando aveva chiesto ai tecnici della flotta, si era sentito rispondere che il comando della flotta aveva dato precise disposizione riguardo l’installazione delle alcove. Avevano sistemato l’alcova mentre lui veniva presentato al supervisore, quindi non aveva potuto nemmeno controllare i lavori. Aveva dovuto sottrarre due ore di rigenerazione al suo riposo per poter controllare tutti i circuiti.
Per la prima ora e mezzo aveva pensato che era stupido perdere tempo a controllare, in fondo erano ingegneri della Flotta, sicuramente avevano preso gli schemi dalla Voyager. Alla fine, si ritenne fortunato a essere diventato paranoico.
Tra le poche cose che si era portato via dalla Voyager, c’era un DiPad che non aveva fatto in tempo a consegnare al comandante Tuvok. Nei dati raccolti durante la sua ultima ispezione sulla nave, c’erano diversi motivi che giustificavano la sua prudenza nei confronti della Flotta. Ma se quelli non fossero bastati, c’era un circuito di controllo dell’emissione di onde cerebrali manomesso a dimostrarlo.
Doveva parlare con il comandante Tuvok.

Il trapianto mnemonico era stato eseguito con successo. Tuvok aveva eseguito la procedura con suo figlio maggiore e attendeva che la Flotta gli comunicasse i suoi nuovi incarichi. Con sua sorpresa, fu il capitano Janeway a chiamarlo sul comunicatore di casa.
- Capitano Janeway. Mi scuso, ammiraglio. Congratulazioni per la nomina. –
- Grazie Tuvok. Come si sente? È andata bene l’operazione? –
- Molto bene grazie. Ora le mie facoltà intellettive sono integre. –
- Ottimo. Mi serviranno tutte. –
- Mi perdoni aamiraglio, ma mi sembra turbata. Non è felice della nomina? –
- Ho ragione di credere che sia un palliativo per tenermi buona. –
- In che senso? –
- Questo è quello che deve scoprire lei. Si ricorda che aveva sottoposto la nave a un controllo completo il giorno dopo il ritorno? –
- Si certo. –
- Ha scoperto qualcosa? –
- Dopo che lei mi ha ordinato di tornare su Vulcano e curarmi ho potuto portare con me solo alcuni DiPad, ma non ho rilevato niente su quei controlli. –
- Quali altri DiPad le mancano? –
- Un paio di Icheb, che aveva finito di controllare la nave dopo la festa. –
Janeway fece una smorfia divertita.
- Ha disubbidito agli ordini. –
- Esatto. Diceva che un dato non gli tornava e lo voleva ricontrollare. –
- Secondo lei aveva trovato qualcosa? –
- Probabile. –
Rimasero in silenzio alcuni istanti: Tuvok sapeva che in quei momenti lei metteva insieme tutte le informazioni in suo possesso e ne traeva le giuste conclusioni. Quando gli sembrò che fosse passato un tempo ragionevole, intervenne.
- Mi scusi ammiraglio, mi era sembrato di capire che non dava molta importanza ai miei controlli. Cosa le ha fatto cambiare idea. –
- Un’intuizione. –
Tuvok aspettò pazientemente che il suo ex capitano si spiegasse meglio.
- Stamattina sono stata convocata nell’ufficio di un ammiraglio, Florence si chiama, ed era presente anche un colonnello che non si è presentato. Mi ha comunicato la fine ufficiale del mio incarico come capitano della Voyager e del mio equipaggio. –
- Quindi? –
- Il modo con cui l’ha detto… era strano. E poi, mi hanno promossa per aver portato a termine la missione con successo. Si ricorda vero, qual’era la nostra missione? –
- Catturare i Maquis e riportarli indietro. –
Nel momento stesso in cui lo disse Tuvok capì le preoccupazioni del tenente colonnello.
- Teme che la Flotta Stellare perseguirà i maquis del nostro equipaggio come avrebbe fatto sette anni fa? –
- Già. –
- Perché perseguire loro e promuovere lei che li ha integrati con il suo equipaggio. Non le hanno fatto nessuna domanda? Inoltre lei ha reintegrato in servizio anche Tom Paris, degradato con disonore. –
- Non mi hanno chiesto niente e non è l’unica cosa che mi preoccupa. –
Tuvok osservava il viso della donna farsi sempre più teso. Era sera sulla Terra e lei era circondata dai suoi cani che coccolava distrattamente. Indossava la divisa della flotta stropicciata e i suoi nuovi gradi. Era chiaro che aveva passato la giornata a pensare e a raccogliere informazioni.
- Hanno mostrato un enorme interesse per la Voyager e la sua tecnologia. Ormai la nostra non è più una semplice nave della Flotta, è un ibrido di diverse tecnologie ancora sconosciute in quest’epoca. –
- Tecnologie del futuro e aliene. –
- Ha centrato il punto, aliene. –
Se gli anni di addestramento non lo avessero reso ormai impossibile, Tuvok era sicuro che avrebbe sentito un brivido lungo la schiena.
- E se mirassero anche a Icheb e Sette? –

Quarto giorno da solo. Dopo che avevano smesso di organizzare conferenze, si era ritrovato completamente da solo. Tutto l’equipaggio della Voyager era stato trasferito negli alloggi a terra, ma non ne avevano destinato nessuno per lui. Ovvio, era un ologramma, il medico olografico della Voyager per l’esattezza. Il suo posto era l’infermeria, così aveva detto l’ufficiale addetto al trasferimento dell’equipaggio. Lo aveva detto senza guardarlo negli occhi, fissando invece il suo emettitore olografico portatile. Per un attimo aveva temuto che stesse per sequestrarglielo, ma aveva rapidamente distolto lo sguardo verso il capitano Janeway, che stava parlando con il guardiamarina Wildman e suo marito.
No, lo sapeva, il capito Janeway non lo avrebbe mai permesso.
Aveva provato a chiamare il capitano diverse volte in quei giorni, ma i comunicatori della nave sembravano non riuscire a prendere nessuna comunicazione.
Durante la settimana, alcuni membri dell’equipaggio erano venuti sulla Voyager a prendere alcune cose che avevano dimenticato ed erano passati a salutarlo, ma ormai era lunedì, la licenza era finita, sicuramente avrebbero iniziato il loro nuovi incarichi al più tardi domani, non sarebbe venuto più nessuno.
Improvvisamente ebbe paura.
Prese l’emettitore olografico e si diresse verso la sala teletrasporto.
- Computer, teletrasporto a terra per uno. –
Fornire codice di autorizzazione.
- Non ho un codice di autorizzazione. –
Impossibile eseguire il teletrasporto.
- Computer, perché serve un codice di accesso? -
L’accesso alle funzioni primarie della nave è stato limitato.
- Da chi? –
Questa informazione non è disponibile.
- Chi può usare il teletrasporto? –
Informazione non disponibile.
Il Dottore uscì dalla sala teletrasporto e corse verso il ponte comandi. Una volta lì, andò alla postazione di Kim e provò ad attivare il comunicatore.
Impossibile eseguire. Accesso non autorizzato.
Andò ai comandi della nave, provò a mettere in funzione i motori.
Impossibile eseguire. Accesso non autorizzato.
Non era possibile.
- Computer, attivare visione esterna. –
San Francisco apparve di fronte a lui. Era l’alba e il cielo era di un tenue colore azzurro rosato. In lontananza vide arrivare diverse navette nere prive di insegne in formazione. Diede una rapida scorsa ai pannelli di controllo: poteva ancora accedere alle funzioni primarie. Altre navette in formazione giungevano dagli altri tre lati della Voyager. Lo stavano circondando.
Il suono familiare del teletrasporto, lo avvertì appena in tempo. Prima che si materializzassero completamente sul ponte di comando, il Dottore si nascose dietro la postazione di Kim.
Due uomini comparvero davanti alle poltrone del capitano, il Dottore non poteva vederli.
- Comando, qui squadra Uno, tutto tranquillo. –
- Molto bene squadra uno, procedere. –
Diversi tonfi e passi che indicavano lo spostamento dei tre.
- Mica male la poltrona del capitano, è stata comoda in questi sette anni. –
- Diventa capitano anche tu e ti ci potrai sedere. Ora vai alla postazione tattica, io immetto l’autorizzazione al controllo della nave. –
L’uomo andò verso le comunicazioni e trovò il Dottore.
- Ma guarda, siamo usciti dall’infermeria a quanto pare. – e gli puntò il phaser addosso.
Il Dottore si alzò lentamente con le mani alzate, l’altro uomo lo guardava ilare.
- Allora è vero che non è più relegato alla nave. –
- Già. –
- Meglio così. Sarà più facile portarlo via. Chiudilo nel suo aggeggio, lo teletrasportiamo direttamente da Mehindel. –
Prima che lo toccasse il Dottore lo fermò.
- Scusate, non ho capito, voi mi dovreste portare dove? Cos’è questa storia, dov’è il capitano Janeway? –
I due si guardarono e sorrisero, fu sempre l’altro a parlare.
- Come lucetta, non te l’hanno spiegato? La nave deve essere trasferita in un laboratorio speciale della Flotta Stellare, per essere smontata e analizzata in tutte le sue parti. Vi siete portati via robetta interessante dai vostri sette anni in giro per lo spazio, sapete? -
Il Dottore li guardò, ancora non capiva.
- Va bene, ma che centro io? Perché mi dovete portare via? -
L’uomo rise.
- Meno male che dicevano che eri intelligente. Rispondi a questa domanda lucetta, che cosa sei tu? -
- Io sono il medico della Voyager. -
- La designazione ufficiale stupido. -
- Oh! Certo. Medico olografico di emergenza della Voy… -
Aveva capito.
- Esatto. Tu, fai parte della Voyager quindi verrai smontato e analizzato come tutto il resto. -
Non gli piaceva per niente.
- Ma… non potete farlo. Io sono un essere senziente, pensante. Se mi smontate potreste danneggiarmi. -
L’uomo di fronte a lui finalmente parlò.
- Sei solo un ologramma. Spegniti a falla finita. -
Allungò di nuovo la mano verso il suo emettitore olografico ma lui lo fermò.
- Per favore. Non potete farlo, mi ucciderete. -
- Non hai ancora capito? Ormai è deciso. Se fai il bravo ti lasceranno integro il tempo necessario ad analizzare i borg. -
- I… borg! -
In un attimo il quadro fu chiaro. Lui, la nave e Sette, sarebbero stati analizzati senza pietà. Doveva impedirlo.
- Mi dispiace ma non ho nessuna intenzione di fare il bravo. -
Si divincolò dalla presa del soldato e lo atterrò con una gomitata e un sinistro. Prese il phaser e lo puntò verso l’altro, che stava già per afferrare la sua arma.
- A-ah, io non lo farei se fossi il lei. –
Imprevedibilmente sorrise.
- Sono io che ti sconsiglio dal continuare dottore. –
- Comando a Squadra Uno, squadre Due, Tre, Quattro, Cinque e Sei a bordo. –
L’uomo a terra si rialzò, asciugandosi il sangue che gli colava dal naso.
- Però, molto poco olografico l’amico. –
- Già. Squadra uno a comando, abbiamo un… -
Il Dottore lo colpì con il calcio del phaser, poi sparò contro la postazione tattica, ma i soldato aveva già afferrato l’arma e si era acquattato dietro ai comandi. Uscì dalla sala comando correndo verso il turboascensore.
Senza smettere di correre andò verso il turbo ascensore.
- Computer, c’è qualcuno infermeria? –
Negativo.
Entrò nel turboascensore, le porte si chiusero.
- Infermeria–
Pochi secondi dopo era di fronte al lettino diagnosi.
- Computer, ho accesso alle comunicazioni adesso? –
Negativo. Accesso riservato.
- Dannazione! –
Se non riattivava i comandi della nave, sarebbe stata presa in consegna, lui sarebbe stato smontato e nessuno avrebbe saputo niente.
Doveva assolutamente attivare i comandi della nave.
- Computer! Attivare Capitano Olografico di Emergenza!

Dovevano essere le sette.
A che serviva avere una sveglia con dei figli? Chi aveva difficoltà ad arrivare in orario in ufficio avrebbe dovuto fare semplicemente un figlio. Avrebbe dovuto dirlo ai cadetti dell’Accademia. Fate un figlio! Niente più richiami per ritardo!
Si alzò, toccava a lui. Fortuna che le pareti erano insonorizzate.
Tom si alzò e andò verso la culla della figlia che faceva onore ai suoi antenati klingon usando al meglio il terzo polmone. La prese in braccio e andò verso la cucina.
- Spero che sarai così puntuale anche quando comincerai la scuola. Altrimenti mi vedrò costretto a restituirti il favore, sai? –
Il pianto della bambina si era calmato solo di un paio di ottave, ma non smise fino a quando Tom non ebbe scaldato il latte e datole il biberon.
- Ecco qua. Ora sei contenta vero? –
Andò a sistemarsi sul divano in attesa che B’Elanna lo raggiungesse. Aveva già sentito la porta del bagno aprirsi e richiudersi.
Mentre il sole finiva di illuminare il mondo, Miral smise di bere. Tom la guardò. Aveva lo sguardo fisso rivolto verso la cucina. Tom sapeva che, a differenza dei bambini umani, gli occhi dei klingon funzionavano perfettamente già dalle prime ore di vita, quindi guardò verso la cucina. Non c’era niente.
- Beh, che c’è? Non dirmi che non hai più fame perché non ci credo. –
Provò a farla bere di nuovo, ma la bambina serrava la bocca e fissava ostinatamente un punto verso la cucina.
- Ma che hai? –
Tom si alzò e andò verso la cucina. Miral cominciò a fissare l’ingresso. Lui allora guardò verso la porta, niente.
- Dai Miral, mangia. –
Miral si ostinò a non bere. B’Elanna apparve dalla camera da letto.
- Che succede? Perché te ne stai lì in piedi? –
- Miral non vuole mangiare. –
- Mi prendi in giro? –
Tom glie la mostrò. Miral prima guardò lei, poi di nuovo la porta e non si mosse. La madre si avvicinò preoccupata e la prese in braccio. Provò anche lei a darle il biberon, ma ottenne solo di vederla lottare per fissare di nuovo la porta.
- Non capisco, cosa… -
Qualcuno suonò. Tom e B’Elanna si guardarono sconcertati: non poteva essergli capitata una figlia preveggente. Ma mentre Tom chiedeva chi era, lei sentì una familiare sensazione di gelo invadergli la pancia. Istintivamente afferrò meglio Miral per difenderla da pericolo.
Chi aveva suonato non rispose alla domanda di Tom, entrò direttamente. Sulla porta apparve un ufficiale della Flotta, che entrò nell’appartamento e si fece subito da parte lasciando entrare un intera squadra di una quindicina di uomini armati di phaser. Tom seppe, senza bisogno di guardarli, che erano settati per uccidere.
L’ufficiale parlò.
- Tenente Paris, signora, per ordine dell’alto comando della Flotta Stellare, vi dichiaro in arresto per terrorismo, vandalismo e furto di proprietà della Federazione. Dovete venire con me. –
Due soldati si fecero avanti verso B’Elanna che arretrò in posizione di difesa rifiutandosi di consegnare la figlia, Tom tentò di raggiungerla ma venne subito bloccato da altri due soldati.
- Tom non è un maquis. Di che cosa è accusato? –
- Ha sposato una ribelle, è sufficiente per metterlo in arresto preventivo e sottoporlo a interrogatorio. –
- Lasciate almeno che i miei genitori prendano nostra figlia. Lei non ha di certo l’età per essere accusata. –
- Vostra figlia verrà tenuta in custodia presso il comando. –
Uno dei soldati afferrò B’Elanna per un braccio, ma lei si ribellò. Con un calcio allontanò il primo soldato e si avventò contro il secondo che però la atterrò colpendola al viso con il calcio del kasher. Cadde a terra con Miral che piangeva a dirotto.
- B’Elanna! –
Tom si scagliò contro i due che lo bloccavano per raggiungere moglie e figlia, ma venne atterrato da un colpo di phaser leggero. In pochi istanti vennero immobilizzati e fatti alzare.
- Vi consiglio di non riprovarci più. – l’ufficiale si avvicinò a loro e prese in braccio Miral, raccogliendola da terra. Nessuno avrebbe avuto bisogno di un interprete per capire che, se avesse avuto le mani libere, Tom non sarebbe stato inferiore della moglie in quanto a istinto omicida. – Soprattutto se non volete che sia lei a subirne le conseguenze. –
Miral continuò a piangere ininterrottamente mentre scortavano lei e i suoi genitori fiori dall’alloggio fino a una delle navette parcheggiate fuori dal complesso residenziale. Dai vetri riflettenti era impossibile vederlo, ma diversi condomini erano affacciati alle finestre e osservavano la famiglia Paris portata via di forza in pigiama, alle prime ore del mattino, con la figlia urlante nella mani di un uomo dall’aria spietata.
Forse fu per intuizione, ma prima di salire sulla navetta, l’ufficiale si voltò verso l’edificio e lanciò un’occhiata gelida che sembrò comprendere ogni singola finestra affacciata sulla strada.
Quando se ne fu andato, furono ben in pochi a non sospirare di sollievo per non averlo più di fronte casa.

Come la luce filtrò dalle finestre, Chakotay aprì gli occhi.
Tra l’abitudine della sveglia e la scarsissima abitudine a essere svegliato dal sole, al risveglio era sempre puntualissimo come il miglior cadetto dell’Accademia.
Si concesse qualche secondo a occhi chiusi per riconciliarsi con il mondo. Era un processo che lo portava a stilare una lista di cose da fare durante la giornata. Non avendo nessun tipo di impegno, il pensiero verté sulla giornata appena passata e le prospettive che apriva a quella nuova: un abito verde, lunghi capelli biondi, cena a lume di candela sull’oceano, passeggiata sulla spiaggia… meglio alzarsi prima di scoprire il tipo di sogni di quella notte.
Si voltò sulla schiena e guardò il sole sorgere.
La prima cosa di cui si sente la mancanza, alla prima missione su una nave stellare, è la mancanza della luce naturale a scandire il tempo che passa.
Ti svegli e lo spazio è nero. Pranzi, ed è ancora più nero. Vai a dormire, non è cambiato di una virgola. Ricordava ancora le serate passate con i suoi compagni d’accademia quando tornavano da una delle prime missioni: per loro era inconcepibile che ci fosse qualcuno che smaniava per un incarico su una stazione spaziale. Chissà cosa avrebbero detto ora, dopo i suoi sette anni sulla Voyager.
Si mise a sedere e osservò la sua stanza: fredda e impersonale, non l’aveva minimamente personalizzata. Anche il resto dell’appartamento era così. Non gli importava.
I suoi ultimi anni prima di indossare di nuovo una divisa della Flotta Stellare, li aveva passati come maquis e casa sua era un alloggio sul ponte della sua nave. Per lui e i suoi maquis, abituarsi all’idea di dover vivere per anni su una nave non era stato difficile come per il resto dell’equipaggio della Voyager. Loro vivevano già su una nave.
Si alzò e andò in cucina verso il replicatore. Il riscaldamento dell’appartamento era ancora troppo alto, non riusciva a fargli capire che venti gradi erano troppi per lui. Ordinò succo di frutta e tost e li portò al tavolo della cucina, che dava sui complessi residenziali. Non era il massimo come vista, ma anche quello rompeva la monotonia di stelle e nebulose a cui era abituato.
Tutti le cose che aveva portato via dalla Voyager, erano ancora imballate delle loro scatole. Non aveva tirato fuori niente. Non gli piaceva l’alloggio, appena si fosse sistemato con la Federazione aveva intenzione di trovarsene un altro.
Finì di mangiare e tornò in camera da letto, l’unico posto che denotava la sua presenza. Gli abiti della sera prima erano ancora sulla cassettiera, accanto la divisa della Voyager, il comunicatore e il tricorder. Si ricordò dell’appunto mentale, doveva portarlo a Sette.
Andò in bagno e attivò la doccia sonica.
Non vedeva l’ora di uscire da quella routine priva di occupazioni. In quei giorni aveva prevalentemente dormito, percorso praticamente tutta San Francisco e portato in giro Sette.
Chissà come se la cavavano gli altri.
Spense la doccia sonica, finì di lavarsi e vestirsi e andò in soggiorno, verso il comunicatore.
Lo attivò e pronunciò il nome di Tom.
Impossibile stabilire comunicazione.
Chakotay rimase un istante a fissare lo schermo e poi ci riprovò.
- Comunicatore, chiamare Kathryn Janeway. –
Impossibile stabilire comunicazione..
La mente lo riportò ai circuiti sparsi sul tavolo di Sette e lo sconcerto nell’apprendere che non riusciva a farlo funzionare.
Fece un ultimo tentativo,
- Khaleya, Riserva indiana California. –
Il comunicatore lo emise il suono di conferma, pochi istanti dopo sua madre lo guardava dallo schermo.
- Ciao tesoro. Ti sei svegliato presto. –
- Ciao mamma. –
Ulteriormente sorpreso, non riuscì a trovare niente da dire.
- Va tutto bene? Non hai una bella espressione. –
Chakotay era perso nei suoi pensieri: come mai Tom e Kathryn no, ma sua madre si.
- Chakotay? –
- Si mamma, scusa, dicevi. –
- Perché mi hai chiamata? –
Chakotay ebbe un’illuminazione.
- Niente mamma, volevo solo vederti. –
- Tesoro, perché non vieni direttamente tu. E magari mi porti anche la tua Sette, così la conosco finalmente. –
- Effettivamente non è una cattiva idea. –
- Allora è deciso, stasera a cena da me. E niente scusa. –
- Promesso, a stasera. –
Chiuse la comunicazione e rimase qualche istante a guardare lo schermo nero, poi riprovò. –
- Chiamare Harry Kim. –
Impossibile stabilire comunicazione..
Provò a chiamare Tuvok, niente. Riprovò anche con Tom.
Impossibile stabilire comunicazione.
Sette diceva che il suo comunicatore non funzionava. Nessuno della Flotta o dell’equipaggio si era ancora fatto vivo con lui.
Stava per chiamare il comando della Flotta quando qualcuno suonò alla porta.
- Chi è? –
Non risposero e senza che lui desse il permesso di apertura alla porta, quella si aprì su un ufficiale della Flotta.
- Lei è Chakotay? –
Non perse tempo a rispondere. Si fiondò in camera da letto e chiuse la porta.
- Computer, blocca porta camera da letto. –
Il computer obbedì docilmente.
Andò verso la cassettiera. La porta venne sfondata da un colpo di phaser. Una dozzina di uomini in tenuta da combattimento entrarono in camera e lo circondarono puntandogli contro le armi. Provò ad aggredirne uno, ma venne atterrato pesantemente da tre di loro. Combattimento scorretto.
Quando fu immobilizzato, venne portato davanti all’ufficiale.
- Chakotay, la dichiaro in arresto per ribellione, terrorismo, danneggiamento di proprietà federali e furto. –
- Solo? Pensavo di avere un curriculum migliore. –
- Perquisitelo. –
Un uomo si fece avanti e lo palpò, poi lo scansionò velocemente con il tricorder. Confermò l’assenza di qualsiasi dispositivo o orma.
- Molto bene. -
Con un cenno del capo l’ufficiale ordinò agli uomini di scortarlo alle navette. In pochi secondi l’appartamento era vuoto, come se non vi avesse mai abitato nessuno.

La rigenerazione finì.
Sette aprì gli occhi e uscì dall’alcova borg. Dodici uomini in tenuta da combattimento la circondavano puntandole addosso i phaser. Una rapida occhiata: erano settati per uccidere.
Un uomo con la divisa da ufficiale si fece avanti oltre due soldati.
- Lei è Sette di Nove. –
- Si. –
- Abbiamo l’ordine di prenderla in custodia. –
- Per quale motivo? –
Per tutta risposta, l’uomo le avvicinò un apparecchio molto simile a un ipospray e lo puntò sul collo, trasmettendo una leggera carica elettrica ai suoi circuiti bioneurali. Sette svenne immediamente.

Andò in bagno e attivò la doccia sonica. Non aveva tempo per quella normale.
Dopo pochi minuti la spense e uscì dal bagno. Andò verso l’armadio e ne tirò fuori vestiti e biancheria pulita. Si vestì con i cani che la guardavano scodinzolando lievemente.
Era stata sveglia tutta la notte a cercare informazioni. Aveva tirato giù dal letto vecchi amici, parenti, ma niente. Non aveva ottenuto niente. Non solo, ma nessun membro del suo (ex)equipaggio era raggiungibile. Era solo riuscita a trovare un Harry Kim entusiasta che le comunicava la sua promozione e il suo nuovo incarico.
Aveva rinunciato a chiamare Sette e Icheb dopo una certa ora, erano sicuramente sotto rigenerazione, ma nemmeno Chakotay le aveva risposto, per non parlare di Tom e B’Elanna. Aveva pensato di andare fino alla Voyager ma si era ricordata di non avere più l’autorizzazione a salire a bordo. Aveva provato a chiamare il Dottore ma le comunicazioni con la nave dovevano essere state disattivate. Reg non era in casa.
Dopo essersi assicurata che i suoi cani avessero tutto il necessario fino all’arrivo di Mark, prese il borsone e lo portò in salotto. Si affacciò alla vetrata: una navicella stava atterrando di fronte al suo complesso residenziale, doveva essere il pilota assegnato al suo trasferimento.
Il suo incarico prevedeva tre mesi di insegnamento presso il campo di addestramento su Venere.
Una pacchia.
Uscì dall’alloggio e raggiunse la navetta. Una giovane guardiamarina le aprì il portello.
- Buon giorno ammiraglio. -
- Tenente. -
- Pronta a tornare nello spazio. -
- No, ma non ho molta scelta. Forza, andiamo a vedere sei i piloti dell’Accademia sono spacconi come me li ricordo. -
Sorpresa dal tono mesto, diede potenza ai motori e portò via l’ex capitano Janeway.

Icheb venne chiamato dall’istruttore di atletica. Smise di correre e gli andò incontro.
- Sei richiesto nell’ufficio del tuo coordinatore. –
Icheb si mise sull’attenti e uscì dalla palestra.
Percorse i corridoi dell’Accademia poco affollati tra gli sguardi poco discreti dei cadetti. Mentre svoltava verso la zona degli uffici, sentì il cadetto Sommers bisbigliare con Stevenson.
- Ho sentito che lo arrestano. Lo portano via oggi stesso. –
- Ma che diavolo stai dicendo? Perché dovrebbero farlo proprio dopo averlo ammesso? –
- Che razza di domande fai, è un borg. Non può stare qui. L’unico motivo per cui l’hanno ammesso è perché l’ammiraglio Paris ha fatto pressioni, ma non poteva durare per sempre. I mostri come lui non possono di certo rimanere in mezzo a noi persone normali. Ha superato l’esame in un giorno solo, non è di certo normale. –
- Sei solo in… -
Svoltò ancora e il suo udito non riuscì più a percepire il bisbiglio della compagna.
Origliare era una pratica che detestava, ma già dalla prima sera aveva capito che non avrebbe potuto farne a meno. I suoi compagni non gli parlavano, non direttamente almeno: parlavano di lui agli altri, in particolare il cadetto Sommers. Certo, essere stato ammesso all’Accademia ad anno già iniziato non fa una buona impressione, ma il capitano Janeway aveva garantito per lui mostrando le prove e gli esami a cui lo aveva sottoposto, l’esame e il corso standard della Flotta insomma. Il supervisore aveva preteso che rifacesse l’esame di ammissione, poi era stato ammesso. Tutto regolare.
Ad ogni modo non era quello che lo impensieriva. Sommers era un pettegolo, ma le sue informazioni erano sempre giuste. Quella mattina ad esempio, mentre tentava di nuovo di screditarlo agli occhi di Stevens, aveva detto di essere stato addestrato dal comandante Tuvok, sofferente di una rara malattia mentale vulcaniana. Sicuramente non doveva essere lucido quando aveva preso la decisione di addestrarlo. Sorpreso, era stato tentato dal chiedergli come facesse ad avere informazioni così precise e difficili da reperire, ma non voleva che sapesse la portata del suo udito. Non subito almeno. Sommers non parlava sempre di lui, ma anche delle lezioni: sapeva sempre in anticipo il programma della giornata e, sospettava, le domande ai test. Era informatissimo. Quindi, c’era sicuramente un ufficiale con scorta armata venuto a prenderlo in custodia e difficilmente sarebbe tornato all’Accademia. Era necessaria una piccola deviazione.
Arrivò nell’ufficio del coordinatore con sei minuti di ritardo.
- Te la sei presa comoda cadetto. –
Icheb si mise sull’attenti.
- Mi scusi signore, ho dovuto finire un’esercitazione signore. –
Icheb prese nota della situazione velocemente.
Quattro uomini armati erano disposti ai lati della porta dietro di lui e dietro la scrivania ai lati del coordinatore, un ufficiale era alla finestra a osservare i campo di addestramento. Fu lui a parlare.
- Ti piace l’Accademia, Icheb. –
- Sissignore. –
- No la trovi… pesante? –
- Nossignore. –
- Non ti senti solo? –
- Nossignore. –
- Eppure… - l’ufficiale si voltò e andò verso il ragazzo, fermandosi a pochi centimetri da lui, - … mi hanno detto che i tuoi compagni ti isolano. –
Non essendo una domanda, Icheb non rispose.
- Tu sei un borg, non è nella tua natura essere solo. –
Il modo particolare con cui aveva detto borg, fece tendere leggermente il suo coordinatore. Icheb rimase impassibile. Il suo superiore era uno dei pochi a trattarlo come un cadetto qualsiasi, intervenne prima che potesse farlo lui.
- Sissignore. Ma io non sono più un borg, sono stato scollegato dalla collettività signore. –
- Però… - l’uomo lo prese per i capelli e gli tirò violentemente indietro il capo, - .. questo impianto oculare sembra dire il contrario. –
Il coordinatore tentò di protestare, ma la mano di uno dei soldati lo dissuase a muoversi.
- Colonnello! –
L’uomo lasciò Icheb e si fece da parte.
- Mi scusi coordinatore. Ha ragione, mi sono lasciato trasportare. – poi si voltò di nuovo verso Icheb, - Icheb, ho l’ordine di prenderti in custodia. Dovrai venire con me. –
- Posso chiedere dove e perché, signore? –
L’uomo sorrise in maniera davvero sgradevole.
- No. –
Fece un cenno ai soldati dietro di lui che gli si affiancarono, poi l’ufficiale gli indicò la porta. Icheb guardò lui, poi il suo coordinatore, fece un saluto militare e uscì, scortato dalla quattro guardie.
Prima di uscire il coordinatore raggiunse l’uomo.
- Dove lo portate. –
Lui lo guardò gelido.
- Fossi in lei, mi dimenticherei del ragazzo e non ficcherei il naso in affari che non mi riguardano, siamo intesi? –
Se ne andò senza attendere risposta. Il coordinatore rimase solo nel suo ufficio, a dibattersi tra dovere morale e l’orrore promesso dall’ultima occhiata.
Icheb attraversò i corridoi dell’Accademia suscitando diversi sguardi di sorpresa nei cadetti che incontrava.
All’esterno, incrociò Sommers e Stevens che si stavano dirigendo al campo addestramento tattico. Contrariamente a quando aveva pensato, Sommers sbiancò.
- Diavolo, lo hanno fatto davvero. –
- Ma perché? –
Icheb era ormai lontano quando ripresero a parlare.
- Non ne ho la minima idea. –

Harry scese di corsa le scale e si presentò al guardiamarina che era venuto a prenderlo.
- Tenente Kim, sono il guardiamarina Ross. -
- Guardiamarina. -
Salirono sulla navetta.
- Mirage eh? -
- Già. -
- Immagino che dopo sette anni nello spazio una missione di tre settimane sarà una passeggiata. -
- Non lo so. Dopo essermi riabituato alla luce del sole temo che potrei essere anche più insofferente. -
Il guardiamarina rise. Aspettò che Harry si sistemasse e poi decollò alla volta della nave spaziale.

Tuvok uscì dalla meditazione.
Dopo aver parlato con l’ammiraglio Janeway, aveva dovuto fare l’ora e mezza di meditazione mattutina necessaria alla riuscita della convalescenza. Quando ne era uscito era tornato nel suo studio, aveva diverse cose da fare. Mentre riponeva il necessario alla meditazione, una spia del suo comunicatore cominciò a lampeggiare silenziosamente.
Suo figlio minore entrò.
- Papà, fai colazione con noi? -
- Certo. -
Tuvok chiuse il mobile e andò in cucina con il figlio.

Attivazione completata.
- Attivare corazza, scudi al massimo! Accensione motori. –
Il computer della nave confermò docilmente i suoi comandi. Bene. Ora, sistemiamo gli intrusi.
- Computer, quante persone ci sono a bordo. –
- Dodici. –
- Computer, agganciali e teletrasportali a terra. –
Il computer eseguì.
Nella sala comando, gli uomini che stavano tentando di riprendere il controllo della nave, spiazzati dalla mossa del Dottore vennero smaterializzati a terra. Così avvenne anche per tutti quelli che stavano convergendo verso la sala macchine. Ora era solo a bordo.
- Computer, agganciare emettitore olografico e teletrasportarlo sul ponte di comando. –
Il Dottore si trovò davanti alla poltrona del capitano. Il visore esterno mostrava le navette nere prive di insegne che accerchiavano la nave.
- Non ve lo aspettavate questo, eh? -
Il pannello del comandante Tuvok cominciò a suonare.
- Stanno attivando le armi. Codice Rosso! –
Le luci cambiarono. Il Dottore andò alla postazione di Paris, mentre intorno a lui esplodevano le sirene e le luci rosse.
- Computer! Situazione motori! –
Motori attivati.
- Molto bene. Sgancio attracco. –
La nave si sollevò leggermente. Gli scossoni che seguirono immediatamente la manovra indicavano che ai suoi amici non era piaciuta per niente.
- Computer, scudi? –
Scudi al cento per cento.
- Ah! –
L’euforia momentanea venne scossa subito da nuovi colpi di phaser, che non intaccarono minimamente la copertura della nave.
Corse hai comandi delle armi e mirò a due navette particolarmente accanite, abattendole subito.
- Ah! E adesso chi è che comanda? Eh? Chi è la lucetta? –
Uno scossone particolarmente forte lo fece quasi cadere a terra.
- Computer, scudi? –
Scudi scesi al novantotto per cento.
- Chi ci ha colpito? –
Nave USS Torpedo NCC – 45337, in avvicinamento da ovest.
- Sullo schermo! –
Un altro scossone.
La nave attaccante apparve sullo schermo: stava lanciando dei siluri. Qualsiasi mira avessero sulla nave, preferivano distruggerla e studiare i detriti, piuttosto che lasciarla fuggire.
Gli scossoni aumentavano.
Il Dottore si trascinò fino ai comandi del pilota e diede potenza ai motori. Non era mai decollato con la Voyager prima, sperava solo di non fare troppi danni allo scafo.
- Andiamo! –
La Voyager si alzò, leggera e precisa. Le navette che la sovrastavano dovettero scansarsi, alcune le urtò in pieno.
Si alzò sempre di più prendendo velocità, mentre la Torpedo la inseguiva a phaser spianati. Pochi istanti e fu fuori dall’atmosfera. Lo spazio si apriva davanti a lui.
- Yiiiiaaah! –
La Torpedo era ancora dietro di lui.
- E adesso sistemiamo quei rompiscatole. –
Neanche fece in tempo a pensarlo che suonarono gli allarmi. Il Dottore alzò lo sguardo: davanti a lui, quattro incrociatori pesanti gli venivano incontro in formazione d’attacco. Subito si scoraggiò.
Era nello spazio della Federazione, non nel quadrante Gamma. Lì la flotta disponeva di un intero esercito, non poteva competere con loro.
Le navi cominciarono a fare fuoco.
C’era una sola cosa che poteva fare.
- Computer, mettersi in comunicazione con il capitano Janeway, ovunque lei sia. –


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Lo spazio dell'Autora
Ebbene rieccomi qua! Se siete stati sorpresi dal mio ritorno dopo quasi due anni, con questo capitolo vi mando sotto shock (che banfona).
L'ho scritto in una settimana e ho deciso di pubblicarlo subito perchè non so quand'è che ci posso tornare su -.-', ma se non altro vi ho lasciato con un po' di azione e di suspence, che vi fa intuire un po' di cose. Ho avuto un po' di problemi a coordinare tutte le azioni in questo, capitolo, spero che sia chiara almeno la timeline, nel caso, linciate che poi correggo.
Volevo anche rendere note le mie bibbie: Hypetrek e Istituto Daystrom, non scrivo nessun riferimento al mondo trek senza averlo confermato. Nel caso sbagli, prima controllate lì, poi decidete chi linciare XD
E ora passiamo ai ringraziamenti:
J Till: Ciao! Ma quanti complimenti, grazie! Sono contenta che ti piaccia così tanto. Tranquilla, non voglio metterci due anni, al massimo uno u_u
Poi ora sono lanciata. La calma piatta non fa per me, da qui in poi invece precipita tutto, quindi mi sto anche divertendo di più. Spero ti piaccia anche questo capitolo, al prossimo, ciau!
Cassiana: Ciao! Grazie per essere stata paziente. Scusa per i capitoli ma i programmi mi sono traditore -.-
Sono uscita da un po' dal giro di Voyager, che vuol dire J/Cer? ^^' Sono negata con le sigle =(
Grazie mille per i complimenti, spero che questo capitolo ti piaccia, d'ora in poi dovrei aggiornare più velocemente, scuola permettendo.
Alla prossima, ciau!

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Capitolo 5
*** Sotto Attacco ***


Sotto Attacco



Non vide assolutamente dove lo stavano portando.
Subito dopo essere stato infilato in sulla navetta, gli era stato servito un trattamento degno dei romulani. Quello che sembrava il capo, aveva sogghignato nel vederlo immobilizzato, ordinando ai suoi uomini di fargli “vedere come trattano gli sporchi ribelli come lui.”
I suoi uomini lo avevano preso molto sul serio.
Così, mentre veniva trascinato lungo qualche corridoio freddo e asettico, lui aveva il naso rotto ed entrambi gli occhi pesti.
Si fermarono, una porta si aprì con un fruscio.
- Sei arrivato maquis. –
Venne scaraventato in malo modo sul pavimento davanti a loro, la porta si richiuse.
- Tutto bene Chakotay? –
Chell e Tom si erano avvicinati a lui e lo stavano aiutando a mettersi seduto.
- Ti hanno maltrattano un po’ vedo. –
Lentamente, Chakotay aprì completamente gli occhi.
- Non ti preoccupare, è meno di quello che credono loro. –
Guardò meglio Tom, mentre si massaggiava una spalla.
- Anche con te non ci sono andati leggeri. –
Paris fece una smorfia e si tastò dove il calcio del phaser di uno dei soldati lo aveva convinto più volte a non cercare di raggiungere moglie e figlia.
- Dove sono B’Elanna e Miral? – Tom accennò un'alzata di spalla.
- Da qualche parte… qui in giro. –
Chakotay mise una mano sulla spalla di Tom.
- Le libereremo. –
- E come? Siamo qui da ore e non siamo riusciti ancora a trovare un passaggio. –
Chell indicò il resto dei suoi ex-maquis, che stavano perlustrando centimetro per centimetro la cella.
Erano un piccolo magazzino, completamente spoglio e privo di qualsiasi apertura, se non per le condotte di aerazione poste in alto, a quasi quattro metri da terra. Era molto freddo e umido.
Ayala li raggiunse.
- Abbiamo perlustrato questo posto tre volte, non c’è un’apertura, non c’è un pannello. Quella porta si apre solo da fuori e i condotti sono troppo piccoli anche solo per tentare di arrampicarci. –
Chakotay si guardò in giro e vide Gerron, uno dei maquis più giovani, piccolo di corporatura. Era sdraiato e teneva gli occhi chiusi.
- Anche per lui? –
- Ha ricevuto troppi colpi in testa, quando è arrivato non riusciva a starei in piedi. –
- Grandioso. –
Improvvisamente le luci si spensero, lasciandoli al buio. Tom saltò subito in piedi, agitato.
- Che diavolo succede?! –
- Siediti Tom. –
- Che succede?! –
Tutti cominciarono ad agitarsi e chiamarsi tra di loro, Chakotay dovette urlare per ristabilire l’ordine.
- Silenzio. Silenzio! State tutti zitti, ora! È un ordine! –
Quando ci fu di nuovo silenzio, Chakotay cercò di parlare con più calma e sicurezza possibile.
- È solo una tattica psicologica per stremarci. Altereranno il nostro ciclo sonno-veglia per disorientarci e renderci più vulnerabili. State calmi mantenete i nervi rilassati. Intesi? –
Qualcuno mormorò un assenso poco convinto. Chakotay diede alla sua voce un tono più intimidatorio.
- Non vi ho sentito bene? –
Questa volta risposero tutti - Sissignore! –
- Molto bene, ora trovatevi un punto di appoggio e riposate. Potrebbe servirvi. –
Fruscii sommessi gli fecero capire che stavano eseguendo l’ordine, cercando di non rompersi il naso a vicenda. Qualche esclamazione sommessa indicò che qualcuno c’era andato vicino. Chakotay cominciò a scivolare verso un ipotetico muro. Tom lo aiutò.
- Gran bel discorso comandante. Posso chiederle come mai è così esperto in tortura psicologica? –
- Assolutamente no, tenente. –

Kathryn Janeway faticava a stare ferma.
Il neo comandante di una classe di cadetti piloti, guardava il monotono paesaggio spaziale in direzione di Venere e sbuffava. Dentro di sé naturalmente.
Fino all’ultimo era stata tentata di rimandare indietro il guardiamarina o di dirottare la navetta verso la Voyager o a uno degli indirizzi dei membri del suo ex-equipaggio irreperibile. L’esperienza (e la paranoia) accumulata in anni di vicissitudine nell’ostile quadrante Delta però, le avevano insegnato a distinguere a colpo d’occhio le finte ombre e le finte navette private.
Avrebbero se non altro potuto lasciarle l’illusione di poter scegliere.
Così, ora era di fianco a una giovane guardiamarina, messa in agitazione da una nervosissima comandante della Flotta Stellare, che per qualche motivo a lei ignoto, detestava l’idea di un incarico all’Accademia per piloti della Flotta.
Ricordava ancora quando era un’ufficiale uscita da poco dall’Accademia: per lei e i suoi compagni, essere un giorno chiamati a dover tramandare le proprie gesta a dei cadetti, era il segno di essere entrati a far parte nella storia della Flotta Stellare.
Ora si chiedeva se fosse davvero così, o se anche i suoi insegnanti erano stati allontanati con gentile fermezza dai loro incarichi.
“E uomini.”
- Ah… mi perdoni signora, posso farle una domanda? –
A quanto pare, la ragazza non difettava in coraggio, sebbene fosse visibilmente terrorizzata.
- Solo se mi chiami comandante e non signora, guardiamarina. –
Sorpresa dal tono cordiale, l’ufficiale si rilassò e cominciò a fare domande.
- Ah… beh, com’è stato stare così tanto tempo a bordo di una nave, dispersi nello spazio? –
Sorrise.
- Difficile, ma non impossibile. –
- E com’è riuscita a mantenere l’ordine? Dovevate essere molto spaventati. –
- Sì, ma se ci si affida agli ideali della Flotta si riesce sempre a trovare una via di uscita e una soluzione per mantenere un equipaggio della Flotta Stellare, tale. –
- Ma, insomma, dev’essere stato un po’ più complicato. A bordo avevate dei—
- Dei maquis? –
Janeway finì per lei la frase. Ora aveva un tono gelido e non sorrideva più della curiosità della ragazza che, accortasene, si irrigidì.
- Sì comandante. –
- Come ti chiami guardiamarina? –
- Elwood, Janet Elwood. –
- Dimmi Janet Elwood, pensi che sia stato difficile perché a bordo avevamo dei maquis? –
Il guardiamarina deglutì.
- Sì comandante. –
- E perché lo pensi? –
- Perché sono… ribelli. Ribelli violenti, terroristi. –
Janeway la guardò. Probabilmente la ragazza era uscita dall’accademia solo qualche mese fa, se non meno. Subito la mente le andò ad Harry Kim e a come aveva fatto subito amicizia con Tom Paris e anche il resto del nuovo equipaggio maquis.
Si chiese cosa poteva essere successo in quegli anni, per formare dei giovani così prevenuti al punto di non accettare l’idea di poter collaborare con persone diverse o addirittura nemici, in caso di bisogno.
- Eravamo dispersi dall’altra parte della galassia, guardiamarina. La nave maquis era andata completamente distrutta nel tentativo (riuscito) del comandante Chakotay di sventare un attacco da parte di una razza aliena. Per inciso, il comandante Chakotay rischiò seriamente la sua vita per metterci in salvo. Ho integrato i maquis nell’equipaggio della Voyager perché ci sarebbero voluti molti, molti anni per tornare a casa, più di quelli che abbiamo impiegato. Molti di più. Crede che avrei fatto meglio a tenerli sotto custodia per anni invece di instaurare una sana e fruttuosa convivenza? –
Il guardiamarina guardava fissa davanti a se, pallida. Quando si accorse che il comandante voleva che le rispondesse si agitò e cominciò a guardare prima lei e poi i comandi, a scatti.
- Ah… io beh, non saprei… io, non lo so. Mi sono sempre parsi… pericolosi ecco. Ma io… non sono un ufficiale al comando. Non saprei proprio, no. –
- Ma un giorno potrebbe esserlo guardiamarina e quel giorno, sarà chiamata a prendere decisioni che cambiano la vita delle persone e dovrò prenderle con tutte la cognizioni di causa. Ha capito bene? –
- Sissignora. –
Stettero in silenzio qualche secondo, poi la ragazza parlò di nuovo.
- Comandante, io, mi scusi, posso parlare? –
- Certo guardiamarina. –
- Ecco io, non volevo sembrare intollerante, è che mi hanno raccontato cose davvero pessime all’Accademia sui maquis. Cose terrificanti. –
Janeway si accigliò.
- Quali cose? –
- Beh, - la ragazza sembrava imbarazzata, - torture, principalmente e rapimenti, di bambini. Di persone giustiziate senza pietà, di notte davanti alla famiglia. Di tutti i tentativi fatti per sovvertire l’ordine della Flotta, in segreto—
- Chi vi ha raccontato queste cose? –
- Il… colonnello Wellington, quando è venuto a farci lezione di guerriglia, all’Accademia. –
Kathryn era basita, e non riusciva a nasconderlo.
- Si sente bene comandante? –
- Non è assolutamente vero! Nessun maquis farebbe una cosa del genere! –
- Comandante? –
- I maquis non hanno mai compiuto simili gesti, sono pure illazioni. Bugie che—
Il comunicatore cominciò a segnalare un messaggio in arrivo.
- Richiedono una comunicazione. È per lei comandante. Dalla… Voyager! –
Janeway la guardò sorpresa un attimo, poi attivò il comunicatore dalla sua postazione. Il dottore apparve nel piccolo schermo ovale tra i comandi. Aveva la divisa da capitano.
- Dottore. Che succede? –
- Salve capitano. Io… sono nei guai ecco. Oh! Vedo che l’hanno promossa, congratulazioni!
- Sì grazie. Ma che succede?! –
- Ecco siamo, sono, sotto attacco. –
Un potente scossone della nave sottolineò le sue parole.
- Vede? –
- Ma perché? Che cos’ha fatto?! –
- Beh ecco, io mi sono rifiutato di consegnarmi assieme alla Voyager per… l’analisi completa. Ecco tutto. –
Janeway rimase interdetta un attimo.
- E con ciò? –
- E con ciò… non hanno gradito. –
- Chi? –
- I soldati venuti a prendermi. –
- I soldati? –
- Sì, ha presente? Fucili phaser, divise da combattimento? Pessime battute e atteggiamenti sbruffoni? Soldati!
Janeway non riusciva a capire.
- E perché mai hanno mandato dei soldati a prendere in consegna una nave vuota? –
- Non lo so. So soltanto che quando sono arrivati i comandi della nave erano bloccati e loro sono saliti a bordo con l’autorizzazione, che io non avevo. E che mi hanno ordinato di spegnermi per essere trasportato e analizzato in uno dei loro laboratori, dove sarei stato smontato algoritmo per algoritmo. E con diversi epiteti offensivi devo dire. Ah! Mi hanno anche detto, che se facevo il bravo, avrei avuto il privilegio di aiutarli a esaminare i borg. Così hanno detto, parola per parola. –
Kathryn sbiancò.
Il suo cervello fece immediatamente tutti i collegamenti necessari, come se li avesse sempre saputi. Non perse tempo a chiedersi se fosse effettivamente così.
- Hanno Icheb e Sette. Dottore! Vogliono sezionare Icheb e Sette! –
- Tra poco lo faranno anche con me se non mi aiuta! –
Altri scossoni alla nave, la voce del computer della Voyager annunciò impassibile: Scudi scesi al settantotto per cento.
- È un bel po’ che si balla qui.
Kathryn non perse tempo.
- Guardiamarina. Inversione di rotta, ora. –
- Ma, comandante! –
- È un ordine guardiamarina! –
- Sissignora. –
- Stia tranquillo Dottore, sto arrivando. Lei cerchi di non lasciargli danneggiare troppo la mia nave nel frattempo. –
- E come faccio scusi? –
- Spari, Dottore. –
- Ah! Giusto. –
La comunicazione si chiuse.
- C-comandante? –
- Si guardiamarina. –
- Lei, è sicura che disobbedire agli ordini sia una buona idea? –
Kathryn fisso lo spazio, le stelle e Venere, proprio di fronte a lei.
- Spinga sull’acceleratore guardiamarina. Ho una nave da salvare. –

B’Elanna era furiosa.
B’Elanna era furiosa e affamata.
B’Elanna era furiosa, affamata e preoccupata da morire per sua figlia.
Una concentrazione di furia assassina e istinto di conservazione klingon, stava attualmente tenendo alla larga le sue compagne di cella, che cercavano di tranquillizzarla.
- B’Elanna, per favore, siediti. Non risolvi niente camminando per tutta la cella come una belva in gabbia. –
- È quello che sono Mariah. –
Diede un calcio alla porta. L’ennesimo a giudicare dalle impronte sul metallo, assolutamente integro.
- Da quanto ci tengono qua?! Mi sembrano già giorni! –
La luce si era spenta e riaccesa già due volte. Loro sapevano bene che potevano essere passati solo pochi minuti, ma non avendo riferimenti temporali, il tempo soggettivo li aveva dilatati in ore. Sempre che non lo fossero davvero.
- Calmanti e siediti, ti prego. –
Erano in poche. Quando erano partiti per le Badlands, erano di più, ma il quadrante Delta le aveva un po’ decimate. Erano solo in quattro ora.
- Milla non c’è. –
- Lei è tornata alla sua colonia subito dopo il rientro della Voyager. Forse non sono riusciti a prenderla. –
- Già. Lei aveva più possibilità di fuga stando a casa sua. –
Diede un altro calcio alla porta, maledendosi per la sua idiozia. Perché Miral si era accorta del pericolo e lei no?
La luce si spense di nuovo.
B’Elanna trattenne l’urlo di sconforto che le era salito in gola. Se le stavano ascoltando, non avrebbe dato loro la sensazione di essere riusciti a piegarla.

Harry era euforico. Il suo nuovo incarico era lo stesso del precedente, ma era su una nuovissima nave da combattimento, con una postazione completamente rinnovata, più mansioni e decisamente più considerazione da parte dell’equipaggio femminile.
Turkinton lo aveva accolto con calore, mostrandogli lui stesso la postazione. Erano in attesa di ordini di missione e l’atmosfera era rilassata. Tutte le procedure di routine erano state eseguite, i motori erano in standby. L’equipaggio di Turkinton non solo era composto interamente da persone molto giovani, ma era così efficiente, che dovevano inventarsi degli incarichi per tenersi occupati. L’addetto alla sicurezza, stava giocando con il pilota a indovinare quale spia del suo pannello si sarebbe accesa per prima.
- Non farci caso. Loro sono i più scarsi a inventasi dei passatempi. Gli altri sono più originali. –
- Non gli piace il ponte ologrammi? –
- Ho fatto smantellare il ponte ologrammi. Distraeva troppo e creava fastidiose dipendenze. A lei non piace, vero? – Harry si sentì arrossire.
- Chi? Io? No di certo. –
- Bene. Buon lavoro allora. –
Kim osservò il suo nuovo capitano sparire nel turbo ascensore, mentre due ufficiali fissavano ostinatamente il pannello di comandi muto.
Se Tom fosse stato lì con lui, probabilmente avrebbe già dato le dimissioni.

Shala si alzò di scatto.
Il cane della famiglia di Tuvok, era stata tranquilla per tutta la colazione ai piedi del nuovo padrone che non conosceva, ma a cui aveva deciso di obbedire incondizionatamente. Però ora era in piedi e fissava ostinatamente lo studio.
- Shala, cos’hai? –
La figlia di Tuvok si alzò da tavola per raggiungerla.
- Torna a tavola Asil. Non abbiamo finito di mangiare. –
Tuvok non aveva apprezzato l’ingresso dell’animale nella famiglia. Sebbene fosse un cane molto ubbidiente e docile, a volte indisciplinava i ragazzi. Ma non se l’era sentita, dopo tutti quei anni in cui non li vedeva, di togliergli il cane come prima azione da padre.
- Papà, credo che ci sia qualcuno nello studio. Shala è agitata. –
- Non c’è nessuno nello studio, ho chiuso la porta. –
Suo figlio si alzò per andare dalla sorella.
- Shala è un cane molto intelligente papà. Non ha mai sbagliato fin’ora. –
Tuvok si alzò preoccupato e anche la moglie, che guardò.
- Che significa? Ci sono stati degli estranei qui? –
- Due volte, alieni. Erano ladri. –
- Strano. –
Tuvok fece segno ai figli di stare indietro mentre avanzava verso lo studio, afferrando il pasher. Fortunatamente, non aveva perso l’abitudine di portarlo con se.
T’Pal, si mise tra lui e i figli.
Deciso e silenzioso, aprì la porta di scatto e puntò l’arma.
Un uomo completamente vestito di nero, con passamontagna e visore esterno, era chino sul comunicatore della sa scrivania. A prima vista, sembrava indossare una spessa corazza da combattimento su tutto il corpo.
- Allontanati subito da lì. –
L’uomo lo guardò sorpreso, poi si chinò di nuovo sul comunicatore.
Tuvok lo colpì con il pasher in una piega tra il mento e il torace.
Settato solo per stordire, l’uomo cadde a terra
Tuvok lo raggiunse e lo esaminò, levandogli il cappuccio. Era un terrestre. Addosso aveva una chiave per trasferimento dati.
- T’Pal, chiama la sicurezza. C’è un intruso e non sembra un semplice ladro. -
I suoi figli lo raggiunsero sulla porta mentre lui andava al comunicatore.
Era aperto su una comunicazione che aveva ricevuto poco fa, ma non aveva sentito arrivare. Lo schermo chiedeva conferma per la cancellazione del dato. Tuvok annullò.
Quella che aveva davanti, era l’analisi che Icheb aveva condotto sui sistemi ausiliari poco prima di essere trasferito all’accademia della Flotta. C’era anche un suo messaggio. Per la prima volta da tempo, Tuvok sentì chiaramente dentro di sé, le avvisaglie di quelle che una volta chiamava “agitazione”.
Pessimo segno.
- Tutto bene papà? –
Shala puntava il muso contro l’intruso, facendo da scudo ai ragazzi, ringhiando leggermente a ogni suo respiro.
Decisamente, si era guadagnata il diritto di restare.

Luce.
Senza una ragione precisa, pensò di aver sempre tenuto gli occhi aperti.
Provò a sbattere le palpebre ma le risultò impossibile. Qualsiasi movimento corporale le risultava impossibile.
Cercò ugualmente di mettere a fuoco quello che vedeva: pannelli, travi illuminati da luce bianca molto sparata, era un soffitto.
Almeno aveva una coordinata spaziale: era sdraiata.
Continuò a mandare impulsi elettrici ai suoi muscoli, senza ottenere successo: era completamente paralizzata.
Subito, la sua fredda lucidità borg si ritrovò a combattere contro l’attacco di panico dell’essere umano. Impossibilitata ad aumentare la propria capacità polmonare, si ritrovò quasi subito in deficit di ossigeno. Mentre il panico la soffocava lentamente, continuò a pensare a un modo per riavere il controllo delle proprie funzioni vitali. Stava sfocando tutto, lentamente. I polmoni le facevano male.
Da lontano, le giunse un suono intermittente molto acuto.
La luce cominciò a sparire. Sentì chiaramente le lacrime scivolarle lungo la tempia.
Proprio mentre il dolore al torace si faceva insopportabile al punto da farle perdere completamente conoscenza, sentì il proprio petto gonfiarsi e la gola incanalare velocemente aria, più volte.
Istintivamente, scattò in avanti portandosi una mano alla gola, occhi chiusi, inspirando furiosamente.
- Iniettalo anche all’altro e poi legalo. Non voglio rischiare. –
Non appena fu in grado di farlo, aprì lentamente gli occhi, continuando a incanalare aria in più, come a volerne fare scorta.
Non vedeva ancora bene dove si trovava, ma aveva tre uomini intorno, che la osservavano. Era sdraiata su un lettino da diagnosi, ma sembrava diverso, modificato. Un quarto uomo stava iniettando qualcosa con l’ipospray a Icheb.
Erano tutti armati.
- Chi siete… ? – non aveva mia sentito la sua voce risuonare così roca.
L’uomo di fronte a lei sorrise.
Sette cercò di calmarsi e sollevò abbastanza il viso da riuscire a metterlo a fuoco.
Capelli scuri, rasati, portamento militare, sguardo arcigno.
- Dove sono? –
Anche gli altri avevano le medesime caratteristiche, cambiavano solo i lineamenti.
Icheb era ancora sul suo lettino, addormentato. Non si doveva essere accorto di niente.
- L’altro è a posto. –
- Meno male. Se me li aveste danneggiati avrei potuto arrabbiarmi e molto. –
I quattro si girarono verso la voce sconosciuta.
Un uomo basso, mal rasato, con i capelli arruffati e un paio di occhiali spessi, la guardava intensamente. La sua incuranza personale contrastava incredibilmente con l’accuratezza del suo vestiario, perfettamente in piega, senza una grinza.
L’uomo le si avvicinò e la squadrò da vicino.
- Io sono il dottor Menhelive cara e mi prenderò cura di te per un po’. –
Sette lo guardò sconcertata.
- Mi dispiace cara, ma il tempo delle domande non è previsto. –
Afferrò un ipospray e le iniettò qualcosa nel collo. Subito Sette si accasciò sul lettino, addormentata.
- Controllate l’altro, dategli una nuova dose di sonnifero, non voglio che si svegli prima del dovuto. –
Uno degli uomini annuì. Quello che stava di fronte a Sette di Nove, la guardava disgustato.
- Non faccia quell’espressione colonnello. Sarà per merito di questa creatura se riusciremo a raggiungere il nostro obiettivo. –
- Sarà, ma non mi piace dover dipendere da… quest’essere. –
- Si ricordi che quest’essere era un essere umano prima di cadere nelle mani dei borg. E ora mi scusi colonnello, ma avrei da fare. –
L’uomo si voltò e se ne andò senza salutare, non prima di aver lanciato la stessa occhiata disgustata a Icheb.
Se fosse stato per lui, li avrebbe eliminati appena presi in custodia. Ma gli ordini erano altri e gli ordini non si discutevano.

Reginald Barclay aprì gli occhi.
Neelix il suo gatto, stava facendo le fusa proprio a un centimetro dal suo naso, evidentemente desideroso che si svegliasse.
- Buongiorno Neelix. –
E si girò dall’altra parte.
Senza smettere di fare le fusa, Neelix lo scavalcò per raggiungere il suo viso dal lato opposto, aumentando l’intensità delle fusa.
Barclay si girò di nuovo.
Il gatto cominciò a leccarlo dietro l’orecchio.
Reginald si infilò sotto le coperte.
Neelix andò a sedersi sulla sua faccia.
- Neelix!! –
Barclay scostò gatto e coperte, con l’unico risultato che Neelix lo raggiunse per aiutarlo a velocizzare le operazioni di risveglio, nel dettaglio, gli stava leccando la faccia.
- Va bene. Va… va bene! –
Reginald rotolò fuori dal letto, seguito dal gatto baldanzoso.
- Potresti essere più fastidioso solo con un pasher e una divisa da capo camerata. –
Andò in cucina e versò al suo gatto la razione mattutina di latte e croccantini, poi si diresse verso il bagno, non prima di aver disoscurato i vetri ammirando la vista dal suo appartamento.
Ci si era trasferito da poco, grazie alla promozione avuta in seguito al successo del progetto Pathfinder e ne era entusiasta. Era al ventitreesimo piano di un grattacielo residenziale con vista sull’accademia. Si vedeva anche l’hangar in cui era stata riposta temporaneamente la Voyager.
Era uno spettacolo svegliarsi al mattino con quella nave sotto gli occhi. Gli dava un profondo senso di soddisfazione e autostima.
I vetri lasciarono trapelare lentamente la luce, rivelando il panorama, mentre si stirava alla luce del mattino.
Raginald Barclay spalancò occhi e bocca, bloccandosi a metà movimento.
La Voyager, la nave che aveva faticato anni a ritrovare, con cui aveva instaurato un rapporto affettivo a distanza e ravvicinato poi, era sotto attacco.
Diverse navette nere e strane la circondavano, bersagliandola coi pasher. Vide la nave rispondere al fuoco e l’arrivo di un incrociatore del tutto deciso a impedire alla Voyager qualsiasi manovra. Davanti a un esterrefatto Barclay, la Voyager si sollevò, speronò alcune navette facendole precipitare e fuggì nello spazio, inseguita da tutte le altre.
Reginald era completamente incapace di muoversi.
- Computer? –
Il computer confermò la sua presenza.
- Attivare comunicatore. Chiamare l’ammiraglio Paris sulla linea privata. Classificazione urgente. –
Il computer confermò.
Tre secondi dopo, l’ammiraglio Paris vestito solo per metà, osservava la schiena di Reginald Barclay ancora inchiodato davanti alla vetrata.
- Allora Barclay, cos’è tutta questa urgenza?
Barclay si voltò lentamente, pallidissimo.
Non aveva la più pallida idea di come comunicarglielo.

Jenaway aveva raggiunto la Voyager.
Intorno a lei, si stavano dispiegando diverse navi da combattimento tutte con le armi attivate.
- Comandante, non credo che possiamo andare oltre. –
- Apra un canale verso tutte le navi. –
Aspettò la conferma del guardiamarina, poi parlò.
- Sono il tenente comandante Kathryn Jenaway. Qualsiasi cosa sia successa con il mio medico di bordo posso risolverla pacificamente. Lasciatemi salire a bordo. –
I pochi istanti che separarono la fine delle sue parole alla ricezione di una nuova comunicazione, sembrarono infiniti alle due donne.
- Comandante, una comunicazione da parte della Torpedo. –
- Sullo schermo. –
- Qui il capitano Jansten. Si ritiri immediatamente comandante. Questo non è affar suo.
- Con tutto il rispetto parlando capitano, è affar mio. Quella nave è stata mia per sette anni e il medico olografico mi ha ubbidita fedelmente per tutto quel tempo. Sono sicuramente la persona più indicata per trattare. –
- Noi non vogliamo trattare comandante.
- Come? –
- Ha sentito bene. Ora si ritiri. La sua autorità sulla Voyager le è stata revocata. Raggiunga il suo nuovo incarico immediatamente o sarò costretto a considerarla ostile.
Janeway guardò il guardiamarina, incredula per quel che aveva appena sentito, ma la ragazza era sconcertata quanto lei.
- Capitano, non ho intenzioni ostili. Sono qui solo per—
- Ha due minuti comandante.
La comunicazione si chiuse.
- Stanno puntando le armi contro di noi comandante! –
Janeway guardò le navi che circondavano la sua nave, poi la Voyager.
Se fosse stata nel Quadrante Delta, avrebbe saputo subito che cosa fare.
- Comunicazione in arrivo comandante. Da vulcano. –
- Sullo schermo! –
- Comandante. –
- Ha un minuto e mezzo Tuvok. –
- Ho ricevuto le analisi di Icheb. Qualcuno ha tentato di trafugarle dal mio comunicatore. Le notizie non sono delle migliori. –
- In fretta Tuvok. –
- Qualcuno ha modificato le subroutine della nave per invadere il sistema di controllo centrale e modificare le autorizzazioni di accesso. Secondo questi dati, la nave era inaccessibile a ogni membro dell’equipaggio.
- E chi aveva l’autorizzazione? –
- Non lo so. Ma ci sono dati di ingressi non autorizzati registrati la sera stessa del nostro ritorno sulla Terra. Erano preparati.
- Trenta secondi comandante. –
- Tuvok, mi raggiunga il più presto possibile sulla Terra. Io vado a salvare il Dottore. –
- Come? –
- Ora Tuvok! –
- Comandante? –
- Guardiamarina, faccia inversione di rotta e raggiunga Venere. Poco prima di attivare il motore ad impulso, mi teletrasporterà sulla Voyager. Ha capito? –
- Comandante! –
- Ora guardiamarina. –
La ragazza, attivò i motori ad impulso e si allontanò dall’assembramento.
Pochi istanti più tardi viaggiava a velocità di curvatura in direzione dell’Accademia dei piloti su Venere, sola.
- È stato un onore conoscerla comandante. –

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Lo spazio dell'autora

Devo essere una delle autrici più incostanti... purtroppo trovo il tempo di seguire questa storia solo in concomitanta di eventi favorevoli (a lei, non a me), che sono un lavoro noioso e al pc. Devo ringraziare Lord Martiya e Cassiana per le precisazioni, che mi sembra di aver corretto già all'epoca, e che prego di continuare a correggermi! =)
Fortunatamente il seguito della storia mi è rimasto in testa, si spera che un giorno finirà (ma non quando avrò raggiunto l'età attuale del capitano...). Il problema che è ora, dopo anni di elucubrazioni, non so più se avere una solo FF o due... si vedrà.
Buona lettura ^^

H.

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Capitolo 6
*** Fights ***


Fights



La luce si accese all’improvviso.
Con tutto il tempo passato nello spazio profondo, nessuno di loro era più abituato a risvegli mattutini o a dormire fino a tardi con il sole che entrava dalle finestre, ignorandolo. Fu come una doccia fredda.
Fece a malapena in tempo a proteggersi gli occhi con le mani, che la porta si aprì. Combattendo contro l’ennesimo shock del suo bulbo oculare, Chakotay si impose di guardare.
Quattro uomini in divisa nera, phaser d’assalto, posa rigida e sguardo impassibile, si erano disposti a lato della porta. Un tizio sempre vestito di nero, ma in atteggiamento più rilassante e non armato, entrò e li guardò benevolo.
- Ispezione. – il tono era quello di uno che osservava il tempo; le conseguenze, altre.
Due delle quattro guardie scattarono e li misero in piedi contro il muro a sinistra, afferrandoli per i baveri, colpendoli con i phaser, prendendoli a calci. Sembrava ci prendessero molto gusto.
- Avete sentito cos’ha detto il comandante? –
- In piedi feccia, ora. –
Chakotay si alzò lentamente tenendo d’occhio i due uomini rimasti sulla porta e si mise contro il muro, ma anche così, non gli fu risparmiato il calcio di un phaser sul mento.
- Che hai da guardare? Sguardo dritto idiota! –
Quando furono tutti allineati e con lo sguardo contro l’altro muro, il comandante cominciò a passarli lentamente in rassegna uno ad uno. Erano in pochi, ma ci mise molto, molto tempo.
- Che brutta cera, non ti farà mica male il fianco? E tu, bella quella cintura, ottima fibbia. Dove l’ha comprata? Interessante scelta di postura, non le faranno mica male i piedi, vero? Forse quelle scarpe sono scomode. Tenente! Dicono che per un pilota le mani siano importanti quanto quelle di un pianista, è vero? –
Ogni volta, uno degli uomini reagiva come se a quella frase fosse stato loro gridato un ordine. Fu così che Ayala venne percosso sul fianco fino a sputare sangue, Gerron frustato con la sua stessa cintura, il suo compagno accanto venne afferrato per le caviglie e tirato giù con violenza, facendogli sbattere la testa contro il muro. Dopo che gli ebbero sfilato gli stivali, cominciarono a picchiarlo sulla pianta dei piedi con un manganello. Per seguire quell’operazione, anche l’uomo di guardia alla porta andò ad aiutarli. Ben presto, i maquis erano a terra contorcendosi dal dolore, cercando di non urlare. Appena ebbero finito con loro, in tre si diressero verso Tom Paris e lo immobilizzarono a terra, tendendogli le braccia. Chakotay capì immediatamente cosa volessero fare. Tentò di scagliarsi contro di loro, ma l’ennesimo colpo di phaser in testa lo convinse a non sfidare ulteriormente la resistenza delle proprie ossa craniche.
- Comandante Chakotay, non deve essere impaziente. Anche lei riceverà la sua parte. –
Mentre il quarto soldato gli assestava un calcio nelle reni, guardò impotente gli altri tre, che spezzavano le ossa delle mani di Tom, una a una.

- Si spieghi meglio Barclay. –
- Io… ho detto tutto ammiraglio. Più o meno. –
Raginald aveva raccontato all’ammiraglio Paris quello che aveva visto e il tutto continuando a guardare fuori dalla finestra per accertarsi di non aver sognato. Ma i rottami delle navette che la Voyager aveva urtato erano ancora lì. Non era un sogno.
- Mi vuol far credere, che lei si è svegliato e ha visto la Voyager - una nave priva di membri dell’equipaggio, ferma da giorni e tenuta sotto stretta sorveglianza - attaccata da diverse navette non identificate, che sono state distrutte dalla Voyager stessa, che ha poi preso il volo diretta verso lo spazio?
- Sì ammiraglio, è esattamente quello che ho detto! –
L’ammiraglio aveva ricevuto in realtà un resoconto confuso e pasticciato fatto di mezze parole, parole non pervenute e scacciate di Neelix dallo schermo, ma era abituato a razionalizzare comunicazioni confuse provenienti dallo spazio profondo e da comunicatori danneggiati, perciò non gli era stato difficile. Il difficile era credergli.
- Ha bevuto per caso? –
- Ammiraglio! Io sono astemio! –
Non molto incline a credergli, l’ammiraglio gli scoccò un’occhiataccia. Barclay era esasperato.
- Controlli!
L’ammiraglio sembrò soppesare l’informazione, che proveniva sì da una delle mente più geniali e brillanti di tutta la Federazione, ma anche da un uomo che qualche mese prima aveva dovuto subire una disintossicazione forzata da una vita virtuale costruita sulla Voyager e l’equipaggio stesso. La ragione però gli diceva che controllare non avrebbe prodotto nessun danno, se non dare un altro brutto risveglio a Barclay.
Aprì il comunicatore ufficiale e cercò di mettersi in contatto con gli uomini che sorvegliavano la Voyager. L’uomo, un ragazzo giovane che sembrava molto sicuro di se, gli comunicò che la Voyager era stata prelevata da dei tecnici autorizzati e portata ai cantieri navali per essere esaminata, come da ordini. Nulla di strano.
Lo comunicò a Barclay che, preso dal panico, afferrò il comunicatore e lo portò alla finestra.
- Le sembra che non si ci sia nulla di strano su quel campo? –
Paris aguzzò la vista. La camera di un comunicatore non era costruita per le riprese a lunga distanza, ma l’alloggio di Barclay era abbastanza vicino da potergli dare una visione non troppo sfocata. Una nave rimorchio stava sollevano con il raggio traente una navetta nera, dalla forma piuttosto… contorta. A terra, c’erano altri diversi rottami. Della Voyager nemmeno l’ombra.
Reginald rimise il comunicatore sul tavolino e ci si piazzò davanti.
- Ho cercato di chiamare il capitano Janeway, non l’ho trovata. –
- Il comandante Janeway è stata promossa e trasferita all’accademia di Venere giusto ieri, è partita stamattina.
A Barclay cadde la mascella.
- Ma… ma… ma allora non sa nulla della sua nave! Lei non lo avrebbe mai permesso, lei non… –
Paris era perplesso, ma non ancora allarmato.
- E perché diavolo non avrebbe dovuto lasciarglielo fare? –
- C’è il Dottore ancora sulla nave!
- Gli avranno trovato una sistemazione. –
- E non riesco a comunicare con lui. –
- Avranno già iniziato a esaminarla e l’avranno disattivata. Ha provato a chiamare il dottor Zimmerman? –
- Non… non ci ho ancora pensato. No.
- Allora perché non lo fa Barclay, mentre io finisco di vestirmi? –
E lanciò un’occhiata eloquente al pigiama dell’uomo.
- Si… io, farò così. Grazie ammiraglio.
L’ammiraglio spense il comunicatore.
Non sapeva di preciso perché, ma era inquieto. Tecnicamente, non c’era niente che non andasse e il giovane ufficiale con cui aveva parlato non aveva ragione di mentirgli. Ma mesi prima aveva imparato che se Reginald Barclay era sicuro di qualcosa, beh era il caso di dargli ascolto.
Sua moglie entrò nello studio.
- Tutto bene tesoro? –
- Si. Nulla di grave per ora. Stai uscendo? –
La moglie era già vestita di tutto punto e aveva una borsa voluminosa.
- Vado da Tom e B’Elanna, ho trovato alcune vecchie cose di Tom che potrebbero servirgli per i primi tempi. –
- E a istituire un trattato di pace con tua nuora. –
La moglie fece spallucce.
- Sì beh, non c’è niente di male no? –
L’ammiraglio sorrise e finì di allacciarsi la divisa.
- Ma principalmente è perché sono preoccupata. Li ho già chiamati quattro volte e non rispondono? –
L’ammiraglio smise e la guardò. Da qualche parte il suo cervello gli rimando il suono dell’allarme rosso.
- Il che è strano perché Miral li sveglia sempre all’alba. È come un orologio. Io vado, il tuo caffè è sul tavolo. –
Gli diede un bacio sulla guancia e uscì. L’ammiraglio rimase a guardare il comunicatore per pochi secondi prima di richiamare la moglie.
Era solo un sospetto, solo un’ipotesi, solo una doccia fredda, ma la doveva verificare subito. Possibilmente prima che tutta la sua famiglia ci rimettesse. Ci mise pochi minuti a far diventare il sospetto una fondatezza fatta a macigno. E quando Barclay richiese nuovamente la linea, fu come se un macigno gli si fosse posato sulle spalle e sullo stomaco.
Pochi minuti prima, la moglie di un ammiraglio, madre di uno dei migliori piloti della flotta, da poco diventata nonna e impaziente di riavere finalmente una famiglia felice sotto al suo tetto, stava andando a godersi una nipotina e un figlio che non vedeva da troppo tempo. Ora, molto velocemente e silenziosamente, infilava lo stretto necessario nella borsa che avrebbe dovuto portare a Tom e B’Elanna, con la glaciale sensazione che il suo desiderio non si sarebbe mai avverato.
Seguendo un protocollo concordato anni prima con il marito, non si diedero l’addio quando lei uscì di casa, verso una meta di cui lui non sarebbe stato a conoscenza, sapendo che una volta uscita da quella porta, probabilmente non si sarebbero parlati mai più.

- Allora cos’abbiamo qui? –
- Capitano! Volevo dire, Comandante! –
- Si rilassi Dottore e mi dia la situazione. –
- Scudi al cinquantasei per cento, tutte le armi funzionanti e nessun membro dell’equipaggio ferito. Siamo solo… completamente circondati. –
Janeway gli scoccò una delle sue occhiate sarcastiche prima di mettersi proprio davanti alla posizione del pilota. Non vedeva traccia della sua navetta, il guardiamarina aveva eseguito gli ordini. La consolle delle comunicazioni lanciò un fischio. Il Dottore ci si precipitò.
- È la Torpedo comandante. Vogliono parlare. –
Janeway si acquattò velocemente dietro la postazione di Tom.
- Risponda! –
- Ma… comandante! –
- Per il momento credono che io sia di nuovo diretta su Venere. Continui a farglielo credere! –
- Agli ordini. –
Il Dottore tornò al centro del ponte di comando e si schiarì la voce sistemandosi la giacca.
- Computer, aprire il canale. –
Janeway sbuffò. Il capitano Jansten apparve sullo schermo e squadrò il Dottore, vestito da ufficiale in comando.
- Allora Dottore, vogliamo piantarla con… i capricci? Consegni la nave, ora.
- Mi dispiace, ma sono costretto a dirle di no, almeno finché non mi saranno garantite delle… quisquilie come il mio diritto a rimanere integro e padrone di me. –
Jansten rise.
- Lei è il medico olografico della Voyager, che appartiene alla Federazione. Di conseguenza lei appartiene alla Federazione, che può disporre della sua… integrità come meglio crede. E se questo comporta smontarla in tanti piccoli algoritmi e numeri, allora sia. Consegni la nave.
- Non so come la pensa lei a riguardo capitano, ma la prospettiva di finire smembrato non mi aggrada. E credo non aggrada nemmeno il mio comandante. –
- Il comandante Janeway se ne è andata con le pive nel sacco dottore, non la verrà a tirare fuori da guai. È solo. E ha due minuti per decidere, da adesso. – e chiuse la comunicazione.
Janeway venne fuori da sotto la postazione del pilota.
- Quella dei due minuti è una fissazione. –
- E adesso che si fa? Non possiamo batterci contro tutte quelle navi! –
Janeway squadrò a sua volta la divisa rossa del dottore e sospirò.
Il punto di non ritorno lo aveva oltrepassato salendo a bordo della Voyager, violando gli ordini e rendendosi complice di una ribellione. Qualsiasi cosa fosse successa, sarebbe stata retrocessa, punita e, nelle migliori delle ipotesi, congedata con disonore. Il pensiero balenò di nuovo a Sette e Icheb.
No, il suo punto di non ritorno lo aveva oltrepassato molto tempo fa, prima di ordinare a Tuvok di raggiungerla, prima di accettare la proposta dell’ammiraglio Janeway di cambiare il corso del tempo per salvare Sette, prima di prendersi la responsabilità di ri-umanizzare un borg, prima ancora. Lo aveva passato quando aveva preso su di se la responsabilità di tutti quegli uomini e donne dispersi nello spazio e di fare dei maquis il suo equipaggio. Sapeva di non avere scelta. Forse non l’aveva mai avuta.
- Attivi le armi Dottore, dichiariamo guerra alla Federazione. -
Forse fu solo un’impressione, ma il Dottore sbiancò.
- Lei… è sicura? –
Ovviamente no.
- I due minuti stanno scadendo Dottore. –
Andò alla postazione di Paris e si sedette.
- Ma lei è un comandante ora, un’ufficiale di alto grado, un simbolo, un esempio. Non può farlo! –
Janeway lo guardò.
- Preferisce essere ridotto a delle cifre binarie, Dottore? –
- No! Io… cioè… Non intendevo questo, no, io—
- E allora vada alla postazione tattica, non voglio perdere altri scudi. E metta i phaser al massimo. –
- Si capitano! Ammiraglio. Comandante. –
- Dottore! –
- Subito comandante. –
E si fiondò ai comandi.
Janeway guardò torva le navi di fronte a se.
Aveva sentito delle voci alla festa, pezzi di discorso, allusioni… E aveva visto sguardi, sguardi di sottecchi, nessuno dei quali le era piaciuto. Forse non doveva lasciarsi distrarre dalla sua famiglia. Forse doveva dar retta al suo istinto paranoico.
Forse doveva dare retta a Tuvok. Come sempre.
I due minuti erano scaduti.
- Dottore, fuoco. –

B’Elanna atterrò uno dei soldati e si scagliò contro un altro. Sorpresi, gli altri due puntarono i phaser mentre il comandante la osservava tra il sorpreso e il compiaciuto. Prima che i soldati potessero fare fuoco, le altre tre maquis gli furono addosso e li atterrarono, impossessandosi dei phaser. B’Elanna afferrò la testa dell’uomo e la fece cozzare violentemente contro il pavimento. L’uomo non si mosse più.
Si rialzò velocemente per affrontare il prossimo, ma le sue compagne avevano in mano la situazione. Il comandante applaudì.
- Bene, molto bene. Un’ottima dimostrazione di forza klingon. Un vero peccato che lei non sia di discendenza pura, avrebbe fatto carriera tra la sua specie. –
B’Elanna ringhiò. Ignorando le sue compagne si avventò contro l’uomo che non smetteva di sorriderlo e lo inchiodò al muro.
- Voglio sapere dov’è mia figlia, bastardo. –
- Sa, si dice che le madri klingon triplichino la loro forza in vista di un pericolo per i cuccioli. –
B’Elanna fece pressione sulla cassa toracica dell’uomo, che cominciò a diventare paonazzo.
- Se non mi dici subito dov’è Miral, ne avrai una prova in diretta. –
L’uomo sollevò leggermente la testa e la guardò beffardo.
- Perché… non… la vai a cercare… stupida bestia. –
B’Elanna allontanò leggermente il braccio e colpì forte. Alcuni schiocchi secchi e molto ravvicinati, indicarono la rottura delle costole del comandante, che cadde a terra esalando rumorosamente aria.
- Ti consiglio trovare una posizione più consona, la stupida bestia potrebbe averti rotto tutte le costole e tu sai quanto possono essere taglienti le ossa rotte, vero? –
Afferrò uno dei Phaser che le porgevano e con il calcio rese incoscienti i due ancora svegli. Nessuna di loro lo giudicò un comportamento violento. Mariah si reggeva a malapena in piedi, era stata la prima a ricevere il trattamento “calcio di phaser” quando entrarono. Egrea era la seconda, l’avevano messa contro il muro e denudata, tenendola ferma. Il soldato aveva appena fatto in tempo a slacciarsi i pantaloni mentre il comandante sorrideva a B’Elanna, osservandola come un allevatore giudica le proprie bestie, che lei aveva già sibilato: - Non ti azzardare a toccarmi. –
Lui aveva fatto una smorfia, allungando velocemente una mano per afferrargli i capelli, ma evidentemente non aveva mai lottato con una klingon prima. B’Elanna lo aveva calciato via così velocemente che non se ne era nemmeno reso conto. Aveva dato un colpo di taglio alla trachea dell’aspirante macho man della base immobilizzandolo e, con un abile mossa che tradiva più di un’esperienza, gli aveva afferrato i genitali provocandogli una dolorosa torsione testicolare. Il soldato si era afflosciato come una bambola di pezza. Si era poi occupata del più vicino, mentre le altre ragazze afferravano i due ancora illesi.
Era stato un grave errore sottovalutarle in quanto donne e poche.
B’Elanna controllò il corridoio, mentre Madeline aiutava Mariah a tamponarsi il naso ed Egrea si rivestiva. Nell’operazione, urtava accidentalmente l’inguine dell’uomo afflosciato ai suoi piedi, con un’espressione di dolore terrificante in faccia.
- È libero, ci siete? –
Per tutta risposta, le ragazze settarono i phaser sulla massima potenza.
- Andiamo a cercare gli uomini. –

Tuvok aveva radunato velocemente le proprie cose mentre rifletteva.
Era perfettamente cosciente di quel che andava incontro. Non era semplice disobbedienza, era ribellione. Aveva pochi dati in suo possesso e anche dopo averli presi in esame non riusciva a trovare la soluzione. Sapeva solo che erano abbastanza allarmanti da convincerlo a rischiare di ricevere almeno un ammonimento.
Al rapporto di Icheb aveva aggiunto l’irreperibilità dello stesso, di Sette e molti membri dell’equipaggio che avevano una sola cosa in comune: erano maquis.
Mentre cercava ancora di far combaciare i pezzi del puzzle di fronte a una moglie perplessa quanto lui, l’ammiraglio Paris lo chiamò. Gli comunicò i recenti avvenimenti riguardo alla Voyager, al Dottore e all’assenza di suo figlio e sua nuora da casa. Tuvok lo informò che il comandante Janeway in quel momento si trovava a bordo della Voyager.
L’ammiraglio diede un solo commento poco sorpreso.
- Tipico. -
Nelle somme, cosa veniva fuori?
Tutti i maquis erano scomparsi, assieme ai borg.
Avevano tentato di sequestrare la nave.
L’equipaggio era stato disperso ai quattro venti.
Tuvok non vedeva ancora il disegno di insieme. L’ammiraglio sì, privilegio di chi non era stato disperso nello spazio negli ultimi sette anni, solo non poteva parlarne su una linea non criptata.
- Se riesce a non farsi mettere nei guai assieme al suo comandante, si metta in contatto con Barclay, sarò con lui. –
- Mi dica solo una cosa ammiraglio. – il tono di Tuvok era grave. – Sto per andare incontro a punizioni molto severe, devo sapere almeno indicativamente in che gioco stiamo entrando. –
L’ammiraglio soppesò molto attentamente le sue parole prima di parlare.
- Non lo so esattamente. Sono solo voci, sospetti, operazioni segrete, file che spariscono, ombre… ma le dico una cosa, se decide di giocare Tuvok, non si può tornare indietro. Faccia quello che può per il suo comandante, ma se si rende conto che per lei e per la sua famiglia non vale la pena, si ritiri. Poi decida il da farsi. –
Tuvok ringraziò e chiuse la comunicazione.
- Che cosa farai? –
Guardò T’Pel e prese il phaser dal tavolo, dove l’aveva lasciato dopo che la sicurezza aveva portato via l’intruso.
- Andrò sulla Terra. Indagherò. E se scoprirò che ci sono intenti criminali dietro a tutto questo, sarà mio dovere fermarli. –
- E se così non fosse? –
- Consiglierò al comandante Janeway di costituirsi. –

Janeway non seppe mai come fu possibile. Negli anni il Dottore avrebbe mitizzato la scena rendendola l’idolo assoluto di Paris, ma lei non seppe mai dare spiegazioni sull'accaduto.
Non aveva mai realmente guidato la Voyager e non aveva mai affrontato una flotta di navi federali mentre tentava la fuga verso… beh niente.
Eppure, come mise le mani sui comandi seppe improvvisamente cosa fare. La Torpedo era la nave più lontana, si teneva fuori tiro lasciando a tutte le sottoposte il compito di fiaccare la loro resistenza. Di conseguenza, lo schieramento era più fitto di fronte a loro. Non che le avessero lasciato molto spazio sui fianchi e nel retro, ma quelle che aveva davanti erano pesanti incrociatori da battaglia, grossi e poco agili. La Voyager no. Era una nave esploratrice, piccola e agile, studiata per riuscire a cavarsela dentro nebulose e tempeste. Non per questo difettava in difesa. Quei comandanti avrebbero dovuto ricordarsi che, anni prima, fu la Voyager a essere mandata dentro una tempesta di plasma a inseguire una nave maquis, non un incrociatore. Inoltre, credevano che a bordo ci fosse solo un medico olografico, non due capitani, di cui una con una consolidata esperienza a sfuggire a ogni essere ostile dell'universo. Per non parlare dei borg. Chiaramente, la quantità di fuoco era stata schierata solo a causa della loro nuova corazza.
- Dottore, tenga preparati tutti i phaser e i siluri fotonici. Voglio che che al mio segnali concentri il fuoco dei phaser sulla Torpedo. -
- Sì comandante. -
Se era perplesso sugli ordini appena ricevuti non lo diede a vedere e fu meglio così, perchè i due minuti erano scaduti.
Sulla Torpedo, il comandante Jansten osservava la piccola nave esploratrice circondata da tutti i suoi incrociatori. La spessa corazza futuristica la ricopriva completamente e sapeva che era solo merito di quella se scudi vecchi di sette anni, non avevano ancora ceduto alle loro armi più recenti.
Il dottore olografico stava facendo più resistenza di quel che si aspettava. Conosceva bene il programma, era stato costretto ad averci a che fare anni prima, quando condusse il suo equipaggio in una battaglia contro una nave ribelle Klingon. Aveva perso metà degli uomini, nonchè tutto il personale medico solo al primo attacco e stavano arrivando i rinforzi. Per loro.
Se non fosse stato costretto in infermeria, era sicuro che quel dannato essere irritante lo avrebbe inseguito per tutta la nave per impedirgli di andarsene in giro con un braccio scorticato e l'occhio contuso. I medici della Federazione gli dissero che avrebbe dovuto dargli ascolto, a quell'ora non avrebbe un braccio bionico e il suo occhio vedrebbe perfettamente. I suoi superiori invece, gli avrebbero detto che cancellare il programma era stato uno degli errori più stupidi della sua intera carriera. Dovettero scortarlo fuori dall'edificio per impedire alla folla dei parenti dei caduti di linciarlo. Solo l'influenza di cui godeva la sua famiglia e presso alcune frange della Federazione impedì ai suoi superiori di congedarlo con disonore, ma fu molto difficile trovare uomini disposti a seguirlo in missione. Quando si resero conto che buona parte delle defezioni erano merito suo, cominciarono ad affidargli solo i cadetti più problematici. Poi la Voyager scomparve e questo cambiò molte cose. In meglio.
Quei sette anni, se li era proprio goduti e sapeva che poteva solo migliorare, ma poi il capitano Janeway era riemersa dallo spazio, con quella stupida nave e il suo disgustoso equipaggio, a minare equilibri che si stavano consolidando. Da quando se n'era andata, per lui era cominciato un periodo favorevole, fatto di missioni importanti ed equipaggi svegli e preparati. Non sapeva perchè e non gli importava, voleva solo che rimanesse tale. E non sarrebbe stato uno stupido MOE a rovinargli la festa.
- I due minuti sono trascorsi capitano. -
- Fuoco. -

La ragazze trovarono la cella degli uomini relativamente presto: gli bastò seguire le tracce di sangue. Incontrarono solo due guardie lungo il cammino ma ci pensò B'Elannaa loro: la leggenda sulla forza di una madre klingon era assolutamente fondata.
La porta a cui si fermarono aveva davanti diverse impronte di stivali insanguinati in uscita. Con la sua solita delicatezza, B'Elanna scardinò con il calcio del phaser il pannello di controllo del portello e collegò due fili, facendolo aprire all'istante. Dentro la luce era accesa e Mariah soffocò un urlo, ma tutte sapevano cosa aspettarsi.
Gli uomini erano tutti stesi a terra, in condizioni pietose, sul fianco per lo più.
B'Elanna riconobbe Tom e gli si precipitò accanto, sollevandolo con delicatezza, mentre le altre si occupavano dei compagni. Tom aveva il volto pesto, ma niente in confronto alle mani. Sfiorandole delicatamente, B'Elanna si rese conto che gli avevano spezzato tutte le ossa. Sibilò diversi insulti klingon rimpiangendo di non aver picchiato più forte quel bastardo.
- E' meno peggio di quello che sembra. - la voce di Tom era roca e sorrideva ironico. - Niente che il Dottore non possa rimettere in sesto. -
B'Elanna lo aiutò ad alzarsi: a parte le mani, era quello messo meglio. Chakotay era steso su un fianco e non si muoveva, così come Ayala. Gerron era steso a terra, la camicia della completamente strappata; i profondi solchi sanguinanti erano talmente tanti da formare un'unica piaga. Chell era in grado di camminare sostenuto dalle due maquis, ma dalla sua espressione non sarebbe durato molto. Mentre le sue compagne si affaccendavano nella cella, a controllare chi potesse muoversi e chi no, B'Elanna sospirò: non sarebbero mai riusciti ad andarsene via di lì velocemente, e la loro fuga sarebbe stata scoperta presto.
Tom sembrò leggerle nel pensiero.
- Che ne avete fatto dei soldati? - Egrea lo guardo con un sorriso amaro.
- Nel mondo dei sogni, i fortunati. -
Tom annuì, in quella situazione era un bene che i maquis non fossero di primo pelo.
- Andate e prendete le divise. -
- Siete troppo malconci per passare inosservati - commentò Soraya.
- Sono per voi, potete muovervi velocemente e passare inosservate. Ci servono altre armi e delle lettighe. Alla fuga pensiamo poi. -
Soraya ed Egrea guardarono dubbiose B'Elanna, che però annuì. Uscirono veloci e decise, come se non avessero mai smesso di combattere da quando avevano lasciato il quadrante Alfa. Tom si rimise giù mentre Mariah montava di guardia alla porta.
- Così sei tu il capo. -
- Chi picchia più forte prende le decisioni. -
- Regola maquis? -
- Delle emergenze. -
Giusto.
- Hai trovato Miral? -
B'Elanna deglutì. Tom ricacciò indietro a sua volta la preoccupazione, lasciarle prendere piede equivaleva a una condanna.

Alla USS Mirage, arrivò una comunicazione urgente che Harry sul momento non comprese. Meglio, non ci credeva. La comunicazione portava l'ordine immediato di inseguire la Voyager, attualmente in fuga, comandata dall'MOE. Ad ogni modo, doveva riportarla.
- Capitano, c'è una comunicazione dal comando ma... non può essere esatta. -
- Cosa dice? -
- Ci ordina di... di partire all'inseguimento della Voyager signore. La Voyager è in fuga e ci ordinano di fermarla e di arrestare... l'MOE ribelle signore. -
Il capitano Turkinton era inespressivo, lo rimase quando contattò direttamente il comando di flotta che confermò gli ordini ricevuti e quando diede l'ordine di massima curvatura in codice rosso. Harry invece, ne era sicuro, aveva un'espressione assolutamente confusa e non riusciva a ricomporsi. Quando usciti dalla curvatura, incrociarono una Voyager che ci entrava, in fuga da una dozzina di incrociatori di cui alcuni mal ridotti, la confusione si mutò in sconcerto. Anche perchè aveva capito che il Dottore, da solo, non ce l'avrebbe potuta fare.

Sette di Nove aprì gli occhi.
Immediatamente provò a muoversi, con il terrore di scoprire di essere di nuovo paralizzata. Non riuscì a sedersi. Precipitò velocemente nel panico prima di rendersi conto che i suoi muscoli rispondevano: erano le giunture a essere bloccate.
Sbattè un paio di volte le palpebre e tentò di sollevare la testa, che era libera. Era sempre nella stanza in cui si era risvegliata prima, ma braccia, gambe e busto erano saldamente fissate al lettino. Accanto a lei Icheb la stava guardando.
- Sono felice che ti sei svegliata. Ti senti bene? -
Sette provò a ruotare il collo e a fare diversi profondi respiri. Sì, stava bene.
- Tu come ti senti? -
- Confuso. Devono avermi drogato. Ma va già meglio di qualche minuto fa.
Sette di Nove annuì. I corpi borg non erano immuni alle droghe, ma le smaltivano più velocemente. Dovevano aver calcolato male la dose.
- Sei riuscita a capire perchè siamo qui? -
- Non del tutto. Ho visto solo un dottore e alcuni suoi assistenti, ma non hanno spiegato niente. -
- Qualche idea su come evadere? -
Sette guardò Icheb, immobilizzato quanto lei. Sicuramente aveva già provato a fare forza sulle cinghie, che erano evidentemente molto robuste.
- A meno che non giungano aiuti dall'esterno, temo dovremo adattarci a questa situazione. -
Icheb sospirò. Era sicuro che il comandante Tuvok lo avrebbe cercato appena ricevuto il suo file e che, non trovandolo, si sarebbe messo sulle sue tracce. Ma avrebbe potuto essere difficile localizzarlo.
La porta si aprì.
Entrambi osservarono il nuovo arrivato. Sette lo conosceva, era uno degli assistenti che aveva visto al suo risveglio. Dietro di lui c'erano altri due soldati donna. Sette battè le palpebre, Icheb le guardò perplesso.
Soraya puntò il phaser verso l'assistente e fece fuoco, mandandolo a terra. Senza tradire alcuna emozione, Egrea corse verso di loro, liberandoli, mentre Soraya perlustrava il laboratorio.
- Stiamo cercando medicinali e armi per evadere da qui. Qualche idea di dove siamo? -
Sette prese il phaser che gli porgeva Egrea.
- Nessuna. -
- Beh, - sospirò Soraya, - ora che ci siete voi, forse avremo più probabilità di successo. -
Senza fare altre domande perlustrarono tutto il laboratorio, trovando quel che gli serviva e anche un paio di lettighe. Tornarono di corsa alla cella degli uomini, che vennero rappezzati alla meglio. Fortunatamente, quasi tutti erano almeno in grado di camminare o erano coscienti, tranne Chakotay, che continuava a rimanere privo di sensi.
Nessuno fece commenti, mentre attraverso i lunghi e ampi corridoi incontravano cadaveri o ne aggiungevano altri. La furia maquis e l'efficienza borg collaboravano egregiamente senza alcuna pietà. I primi si erano adattati velocemente alla situazione, tornando a una situazione pre-Voyager, ricordando tutto quello che avevano fatto prima che il capitano Janeway li integrasse in una comunità pacifica e collaborativa. I secondi, ragionavano secondo i classici principi di sopravvivenza. Non c'era scampo per nessuno.
Sfondarono tutte le porte che incontravano, nella speranza di trovare Miral, ma quando alla fine arrivarono a un hangar navette in cui dovettero ingaggiare una pesante battaglia, B'Elanna urlò per lo sconforto.
Mentre i maquis si trinceravano dietro a casse e navette, combattendo contro i soldati che ora affluivano numerosi grazie all'allarmeche risuonava nella base, Icheb riuscì a salire su una delle navette più grandi e ad attivarla. Trascinandosi dietro i riluttanti coniugi Paris, i maquis riuscirono a salire tutti a bordo e a sfondare il portello dell'hangar. Purtroppo, quello che trovarono fuori, era ben lontano dall'essere la libertà.

L'Ammiraglio Paris aveva indossato la sua uniforme e controllato con più cura del solito che fosse in ordine. Aveva guardato la sua casa che, nonostante fosse stata lasciata dalla moglie solo pochi minuti prima, sembrava già disabitata. Si era diretto verso la sua navetta ed era andato verso il comando centrale, ma all'ultimo aveva fatto una deviazione.
In un piccolo parco, poco frequentato, si era incontrato con Barclay. L'ammiraglio aveva sorriso, ricordando che Tom avrebbe ricondotto la situazione a qualche film o romanzo del ventesimo secolo. Purtroppo, nonostante i secoli di evoluzione sociale e politica, a quanto pare non stavano riuscendo a fare di meglio dei loro antenati.
Barclay indossava la sua uniforme, ma era sgualcita e non sembrava essersi pettinato. Sembrava pericolosamente vicino a una crisi d'astinenza da ponte olografico.
- Non ce n'è nemmeno uno ammiraglio, nessuno reperibile! E quelli che non sono reperibili sono su navi, stazioni o pianeti ad anni luce da qui. -
Senza nemmeno salutare, Reginal si mise di fronte all'ammiraglio, in attesa che gli dicesse qualcosa. Ad esempio, che sarebbe andato tutto bene, che c'era un errore e che non erano già arrivati al punto di non ritorno.
L'ammiraglio avrebbe voluto dirgli esattamente quelle cose, più di quanto lui non desiderasse sentirle, ma sapevano entrambi che era impossibile. Dopo aver parlato con Tuvok aveva riflettuto e aveva capito una cosa: li avevano sottovalutati.
Il piano, era sicuramente far sparire silenziosamente mezzo equipaggio della Voyager, senza che nessuno se ne accorgesse, in primis Janeway. Ma già da quel punto di vista avevano fallito. Il secondo punto su cui avevano fallito, era il tenere lui all'oscuro di tutto. Purtroppo per loro, il giorno stesso della messa in atto del piano lui aveva potuto mettersi già in azione e aveva idea che, il suodi piano, avrebbe funzionato meglio.
- Non c'è mai stato un punto di non ritorno Barclay, o è dentro o è fuori e lei mi sembra troppo coinvolto emotivamente per starne fuori, o mi sbaglio? -
Barclay non rispose ma incrociò le braccia, incoraggiando l'ammiraglio a proseguire.
- Abbiamo un nemico forte da combattere, con mezzi e risorse per distruggerci e purtroppo... purtroppo questa volta, non avremo il conforto di vedere che indossano divise diverse dalle nostre. - ignorò il suo tentativo di parlare e andò avanti. - Quello che voglio che faccia ora, è andare al suo laboratorio, continuare ciò che stava facendo e aprire bene le orecchie. La Voyager è partita lasciandosi dietro uno scia non indifferente di rottami, al punto che sono stati costretti a chiamare altre navi per inseguirla. Ormai sarà sulla bocca di tutti e lei, che è una delle persone che è più vicina all'equipaggio, sarà interrogato. Sa quello che deve rispondere alle domande, vero? -
Barclay lo sapeva.
- Quando ci aggiorniamo? -
- Stasera, a meno che non senta qualcosa di realmente importante. Il comandante Tuvok sta arrivando da Vulcano e dovremo aggiornare anche lui. Fino ad allora, spero di non dover essere chiamato a identificare il cadavere di nessuno. - Barclay ricacciò indietro l'impulso di chiedergli della famiglia.
Prima che si separassero però, gli pose un'altra domanda: - Cosa faccio con l'equipaggio ancora raggiungibile? -
L'ammiraglio pensò alle espressioni che aveva visto la sera della festa e si chiese se valeva la pena di distruggere la felicità di quelli che l'avevano appena recuperata. Avrebbero dovuto decidere loro.
- Gli metta la pulce nell'orecchio. Se diventano sospettosi, li mandi da me. -
Quella sera Tuvok arrivò puntuale all'incontro con l'ammiraglio. Era ironico, pensò, che anche in quel frangente sarebbe stato un Vulcaniano il primo a sapere della nuova evoluzione che stava per compiere la società terrestre.
- Ammiraglio. -
- Tuvok. -
- Allora, cos'è che non poteva spiegarmi al comunicatore. -
L'ammiraglio trasse un profondo respiro.
- Siamo in guerra Tuvok. Una guerra civile. -



Beh, il tempo e la concentrazione non sono mai magnanimi con me, ma sto andando avanti pianino pianino. Il prossimo capitolo ci saranno le tanto sospirate rivelazioni (giurin giuretta), spero vi piaceranno ^^.
Ho sicuramente scritto delle cavolate pazzesche nella parte della battaglia tra la Voyager e la Flotta, non me ne vogliate, accetto critiche e modifico con giuoia XD.
H.

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