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di PaleMagnolia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** In famiglia ***
Capitolo 2: *** Costituzione naturale ***
Capitolo 3: *** Nazisti e margarina ***
Capitolo 4: *** Formaggio e calzettoni ***
Capitolo 5: *** Una rosa è sempre una rosa ***
Capitolo 6: *** Chi attacca pezza... è un fagiano ***



Capitolo 1
*** In famiglia ***


Mary Elisabeth Norma Jane Cleve - Libby per amici, parenti, gatti e mariti – aveva un fratello più piccolo, George, detto Pia

Nelle fotografie di inizio secolo, tutto è soffuso di una tenera luce color sabbia, e le persone - serie come beccamorti, e con uno sguardo vacuo e vagamente estenuato dritto all’obiettivo - sembrano intrappolate dentro una specie di fumo giallo paglierino.

Stormi di bagnanti, avvolti in tutine di lana a strisce e calzettoni al ginocchio, fissano il vuoto color seppia da spiagge deserte e minacciose, accigliati come parenti ad un funerale, e ragazze bionde dall’incarnato perfetto, pettinate a onde innaturali irrigidite dalla lacca, rivolgono sguardi trasognati al soffitto.

Le famiglie ritratte – padre con cappello seduto in poltrona, aria soddisfatta, madre appoggiata al bracciolo della poltrona, aria scomoda, figli infiocchettati sparsi sul pavimento, aria sonnolenta e/o scocciata, a seconda dell’orario dello scatto – sembrano estremamente posate e parecchio annoiate.

Qualche volta compare una giovanotta bruna con l’aria svagata della zitella precoce e della gattara in erba, e l’ombra pelosa di un gattino in grembo, ma sono casi rari.

In generale, insomma, nei primi anni del 1900 tutto sembra molto calmo, molto composto, molto quieto e, in generale, molto seppia.

 

 

1914

 

Mary Elisabeth Norma Jane Cleve  - Libby per amici, parenti, innumerevoli gatti e quasi altrettanto numerosi mariti – aveva sedici anni, non era particolarmente calma, non era affatto composta, era quieta solo quando tentava di evitare uno scappellotto da sua madre, e non era affatto color seppia.

 

Libby Cleve aveva un fratello più piccolo, George, detto Piaga, un padre ferroviere, Roger, detto Papi, e una madre casalinga, Margaret, detta Mami.

Presto avrebbe avuto anche una cognata, Mary, e due nipoti, Eleanor ed Evelyn - ma questa è un'altra storia

Questa era la famiglia di Libby.

Sulla carta.

La vera famiglia di Libby, però, era in effetti composta da George, Papi, Mami, Rodolfo, Lillian, Josie e William.

Rodolfo, come Rodolfo Valentino, era il gatto preferito di Libby. Era grosso come un pastore tedesco di sei mesi e aveva l’aria un po’ tonta di chi è abituato a dormire per la maggior parte della giornata, e a cui non piace essere svegliato.

Talvolta, con un notevole sforzo di volontà, si alzava dalla poltrona per andare a bere un goccio di latte dalla sua ciotola – ma, generalmente, a metà del laborioso processo si bloccava, rivolgeva uno sguardo ispirato al soffitto, e poi crollava, improvvisamente, drammaticamente, su un fianco, addormentato di nuovo.

Lillian, come Lillian Gish, era un’abissina a pelo raso magra come uno stuzzicadenti e morbosamente attaccata alla padrona.

Non che fosse magra perchè meno amata di Rodolfo – solo che, per una particolarità metabolica nota solo ai gatti abissini e ai padroni di abissini, oltre a essere bicolori come un paio di scarpe Spectator, essi sono anche una razza di gatti anoressici, che raramente superano i due etti di peso.

William, così chiamato per la somiglianza spiccicata con William Gladstone, che era primo ministro l’anno in cui era nata Libby, era  grosso, grasso e aveva l’aria torva. Solo l’aria, però; in realtà, il minaccioso animale era amato da piccioni, mosche, cavallette e topiragno, perchè si cibava quasi esclusivamente di tonno in scatola e fagiolini*, ed inoltre era troppo pigro per dare la caccia ad alcunchè.

Josie, diminutivo di Josephine, era una gatta nera dotata di una somiglianza strabiliante con Josephine Baker, e, come lei, vantava un’estensione vocale di più di tre ottave, specialmente quando aveva fame o si cacciava in qualche guaio.

 

Per Libby, che in genere si rifiutava categoricamente di riconoscere alcun tipo di parentela con George La Piaga, erano i fratelli e le sorelle che non aveva.

Li amava per varie ragioni, ma la principale di queste era che, a loro, non sarebbe mai venuto in mente di chiamarla “Bruffolo Bill” in pubblico.

Principalmente perchè non sapevano parlare.

Non che Piaga non l’avesse pagata cara, per inciso. La piccola canaglia era andata in giro per una settimana vantandosi, coi ragazzini più piccoli, di avere una mano tatuata sul collo, laddove Libby gli aveva mollato una sventola tale da lasciarlo stordito per cinque minuti buoni.

 

 

 

*Se credete che sia impossibile che a un gatto piacciano i fagiolini lessati, ricredetevi. Ho testimonianze oculari del contrario.

 

 

Per avere un'idea delle foto a cui mi sono ispirata, date un'occhiata su Flickr e non fatevi mancare queste due o tre:

Bellezze al bagno

http://www.flickr.com/photos/13108733@N00/310627662/
http://www.flickr.com/photos/katydaly/1260330273/
http://www.flickr.com/photos/ozfan22/3524978574/

Capelli à la mode degli anni '20

http://www.flickr.com/photos/gotmikhail/2980180558/
http://www.flickr.com/photos/gotmikhail/2979323223/in/photostream/

Allegre Famigliole

http://www.flickr.com/photos/92943860@N00/178398673/
http://www.flickr.com/photos/14745902@N08/2357766430/
http://www.flickr.com/photos/cgoulao/392149423/
http://www.flickr.com/photos/phoebesphotos/33306858/

Notare l'aria perennemente scazzata dei bambini: più piccoli sono, più l'espressione è torva! XD

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Capitolo 2
*** Costituzione naturale ***


Libby Cleve era tonda

Libby Cleve era tonda.

Non era grassa. Non era nemmeno sovrappeso, in realtà.

Era proprio la sua struttura corporea ad essere così: come certi hanno una costruzione fisica quadrata (spalle quadrate, mascella quadrata, testa quadra), Libby era proprio tonda.

Aveva, per la cronaca, un viso tondo, occhi tondi da pesce Chirurgo*, macroboccoli stile rabbino che sembravano disegnati con un bicchiere, e una piccola bocca tonda come l’O di Giotto.

In generale, anche il resto del fisico di Libby – Mami diceva sempre che aveva preso dalla zia Henrietta – tendeva al circolare. Il suo corpo era strutturato come una casa di Gaudì.

Anzi.

Come un otto, diciamo.

La qual cosa le creava qualche problema, in un’epoca in cui l’ideale femminile era il tipo Lillian Gish, allampanata come un fenicottero e piatta come una tavola da surf.

Cioè.

Se le tavole da surf non fossero state esportate in Europa trent’anni dopo.

...

Piatta come un’asse da stiro, va’.

 

Fortunatamente per Libby, anche quando i film di Louise Brooks e Mary Pickford fecero il giro del mondo, gli uomini – sì, anche gli inglesi, per quanto arrossissero come scolarette al solo pensiero - non smisero di guardare altre cose tonde del corpo delle donne.

Due cose tonde di cui Libby era stata generosamente dotata dalla natura.

Perchè, per quanto il tipo ‘maschietta’ fosse di moda, il modello ‘femminuccia’ continuava comunque a riscuotere ufficiosi, ma costanti successi.

E Libby era femminile. Soprattutto... beh, ecco – davanti.

E per quanto la povera ragazza desiderasse ardentemente che gli abiti lucidi e senza maniche le scivolassero addosso come alle modelle secche secche delle riviste di moda, quando ballava il charleston la seta sbrilluccicava proprio dove non avrebbe dovuto, e le frange, invece di stare diligentemente penzoloni verso il basso, assumevano sulla parte anteriore dell’abito angoli totalmente differenti da quello a perpendicolo regolamentare.

Oltre agli abiti parluccicanti e le frange, anche i capelli davano alla povera Libby seri problemi. Quando aveva provato a tagliarli in un caschetto alla ‘Lulu’, il risultato era stato una zazzera afro – che sarebbe stata favolosa nei primi anni ’60 su Jimi Hendrix, ma che nel 1914 dava ancora un po’ da pensare.

 

 

*Zebrasoma flavescens, http://www.giorgiorusso.it/images/Zebrasoma_flavescens.jpg

 

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Capitolo 3
*** Nazisti e margarina ***


Gioco interattivo del capitolo: trova il personaggio anacronistico, e vincerai la tessera d'iscrizione di Libby Cleve a Weird Tales! xD

 

Libby era seduta scompostamente, semisdraiata e a gambe larghe, sul divano bitorzoluto del salotto di casa. Portava i pantaloni blu alla zuava della divisa scolastica di hockey su prato, i calzettoni e un maglioncino bianco e blu. Gli stivaletti, coi lacci penzoloni, erano abbandonati, uno da una parte e uno dall’altra del divano, sul pavimento.

Il nastro di raso – di dimensioni formidabili, ma la moda è la moda – che aveva in testa si era slacciato e ciondolava sulla nuca, come il controfiocco di un veliero. Libby era troppo assorta nella lettura di “L’agguato del Barone”, per accorgersene.

E comunque sarebbe stata troppo pigra per occuparsene in ogni caso.

Della sua faccia al momento erano visibili soltanto una porzione della fronte aggrottata e un angolino del mento. Il resto era nascosto dall’illustrazione della copertina dell’ultimo numero di The Argosy, che raffigurava una formosa ragazzotta con rose nei capelli, un uomo dall’aria malvagia con un pugnale nella mano destra, e un azzimato tizio in smoking, coi baffetti imbrillantinati alla Salvador Dalì – beh, in effetti sarebbe stato meglio dire che era Salvador Dalì ad avere i baffetti come il tizio della copertina di The Argosy del 1914, ma la descrizione sarebbe diventata un tantino elitaria.

 

Libby avrebbe preferito una storia di scientifantasia o di avventura, ma anche i gialli truculenti, in mancanza d’altro, le andavano bene. Quello, in particolare, trattava della misteriosa morte del baronetto Jean-Claude in seguito ad autocombustione: Libby cercò di non ridacchiare troppo, immaginandosi Piaga – che quando si arrabbiava diventava rosso fluorescente, e pareva sempre sul punto di esplodere – che, dopo l’ennesimo scappellotto da parte della sorella, per il dispetto si inceneriva in modo istantaneo con un sonoro “poof”.

Libby adorava leggere pulp fiction. Amava, nell’ordine, le storie fantastiche, quelle di pirati, quelle di avventura, e i polizieschi.

Successivamente sviluppò una passione per i racconti di Lovecraft – non perchè le piacessero particolarmente le storie dell’orrore, ma perchè aveva una cotta per lo scrittore.

Per tutto l’inverno 1914, impressionata da un racconto di avventura, Libby era andata in giro in pantaloni e stivaletti; se, come alla protagonista di “I Diamanti Del Demonio”, le fosse capitato di dover strisciare per i cunicoli di una miniera abbandonata, avrebbe almeno evitato di mostrare le mutande.

Inoltre, trovava che, per l’eroe muscoloso con la camicia strappata (che sarebbe venuto a salvarla), sarebbe stato più facile sollevarla da terra quando fosse svenuta, senza l’ingombro di tutte quelle sottogonne che portavano le signore.

Al momento attuale, la fissazione di Libby per l’abbigliamento pratico stava, però, rapidamente cedendo il passo a vaporosi abiti pastello e camicette bianche.

Non perchè avesse letto di qualche delicata fanciulla biancovestita rapita dai pirati – anche se, doveva ammettere, il pirata nerboruto e seminudo sulla copertina del mese precedente non era niente male – ma per l’influenza esercitata sulla sua mente dalla sua nuova compagna di classe.

Libby, infatti, frequentava, con scarso rendimento (tranne che in “composizione scritta” e “cucina”), l’Ashford Friars Prep School, una scuola composta in parti uguali di mattoni rossi, edera e margarina.

La margarina era generosamente fornita dagli studenti, le cui madri ritenevano, non senza una certa dose di incoscienza (sarebbe più corretto parlare di “squilibrio mentale”, ma si sa, le tabelle alimentari sono venute molto più tardi), che il binomio pane-margarina fosse l’alimento più sano da somministrare ai propri pargoli a merenda.

Libby aveva, timidamente, azzardato l’ipotesi di portarsi a scuola, che so, una mela, o una fetta di crostata ai mirtilli, giusto per vedere se, mangiando in maniera più sana, i bottoni della camicetta della divisa avrebbero smesso di saltare; ma la madre si era girata verso di lei, e l’aveva fissata come se avesse appena pronunciato un giuramento nazista.

Il che sarebbe stato quantomeno improbabile, anche perchè Herr Hitler avrebbe fatto la sua comparsa sulla scena pubblica come minimo quindici anni dopo.

A meno che non si voglia contare come “comparsa sulla scena pubblica” anche il Putsch di Monaco, nel qual caso gli anni sarebbero--

... Stavamo dicendo?

Ah, sì.

Libby rinunciò per sempre a inculcare qualsiasi idea di alimentazione salutista alla madre, e si rassegnò a lasciare che la margarina le si depositasse sui fianchi.

 

 

Per le immagini

The Argosy: http://www.magazineart.org/main.php/v/pulpgeneral/argosy/Argosy1913-10.jpg.html

Salvador Dalì: http://lh5.ggpht.com/__WE_mTFbWUQ/Sg-u3CnZaPI/AAAAAAAAA94/AtwXJ_1lA80/s800/DaliMustache.jpg

Divise scolastiche circa 1915: http://www.flickr.com/photos/32912172@N00/3256398733/

Pantaloni alla zuava: http://www.flickr.com/photos/32912172@N00/3159464678/

Howard P. Lovecraft: http://www.portalpressbooks.com/images/hp.jpg

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Capitolo 4
*** Formaggio e calzettoni ***


La nuova compagna di classe di Libby, nonchè sua nuova fonte d’ispirazione riguardo a maniere e abbigliamento, si chiamava Jo,

La nuova compagna di classe di Libby, nonchè sua nuova fonte d’ispirazione riguardo a maniere e abbigliamento, si chiamava Jo, ed era bella come una rosa in boccio

Beh.

In effetti, dato che vestiva prevalentemente di bianco o di delicati colori pastello, sarebbe più corretto dire che era bella come un giglio in boccio.

Però i boccioli di giglio sono verdini, bitorzoluti, e fanno schifo, quindi ho scelto la rosa, d’accordo?

...

Diciamo che Jo era bella come un fiore, e guai se dalla regia arrivano ancora commenti pignoli.

Se c’è una cosa che non sopporto sono i criticoni. Createla voi una metafora calzante, se siete capaci!

Allora? Non ce la fate? Eh? Eh? Eh?

...

Sì, ehm, ecco. Dicevamo.

Jo era una di quelle bellezze sognanti e delicate che in ogni epoca1 hanno ispirato il calamo2 di poeti, romanzieri e cantautori.

Era, se volete, una di quelle fanciulle biancovestite che potete vedere passeggiare con un parasole nei filmati d’epoca, cercando di essere più aggraziate possibile nel poggiare il piedino sul marciapiede (fatica inutile, visto che, poi, nel filmato, i fotogrammi accelerati faranno comunque sembrare qualsiasi movimento meccanico e vagamente pinguinesco).

Comunque3.

Libby, durante l’intervallo fra le lezioni, ammirava molto la nuova ragazza, che, a quanto si diceva, veniva dritta dritta dal Continente.

Forse era francese, pensò Libby. I francesi sono eleganti.

Però mangiano un sacco di croissant; per cui se fosse francese, come farebbe Jo ad essere così longilinea?

Magari tedesca. I crauti sono dietetici.

Però quegli stupendi capelli scuri non è che ricordino proprio il prototipo della giovane teutonica dalle trecce bionde, riflettè Libby.

La povera ragazza aveva, in effetti, un’idea alquanto ristretta del popolo tedesco, alimentata soprattutto dall’immagine della florida contadina in costume tipico che mungeva sorridendo sulla pubblicità del formaggio Münster, che piaceva a sua nonna.

(In realtà, alla nonna di Libby piaceva soprattutto perchè, diversamente dal formaggio Edam, non si attaccava a ventosa al palato della sua dentiera di avorio. Ma non divaghiamo).

Libby si perse per un attimo in una fantasticheria german style; nella quale un biondone muscoloso con ridicole braghette al ginocchio e calzettoni, sollevava gigantesche mucche pezzate con un braccio solo, per fare spazio a lei mentre – con trecce e costume bavarese – zompettava felice fra i monti innevati cogliendo anacronistiche margherite.

A suo onore dobbiamo dire che si riscosse abbastanza in fretta dall’immagine mentale del tedescone; e fu un bene, perchè proprio in quel momento, mentre si domandava se quei meravigliosi occhi neri fossero indice di una focosa natura spagnola, la franco-ispano-teutonica in questione comparve proprio davanti a lei, piantò i focosi occhi neri nei suoi, e disse: “Salve!”

 


1. Beh, naturalmente, tranne questa, di epoche, in cui ad ispirare le penne degli scrittori sono leggiadre fanciulle con lo smalto glitterato, badilate di ombretto sugli occhi e gusti discutibili in fatto di abbigliamento, se vogliamo dar retta a Moccia, Valentina F. & Co.

2. Sì, il ca...lamo, pervertiti!

3. Fermo restando che non si inizia una frase con “comunque”, e che comunque, “comunque” è una brutta parola.

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Capitolo 5
*** Una rosa è sempre una rosa ***


Vi rimando al prossimo capitolo per la classifica dei 1914 Anachronism Awards, e per il premio - nel frattempo, vi sfido a rintracciare il personaggio che porta il cognome di Jo nella produzione letterario/cinematografica italiana.
Come cognome esiste davvero, comunque. Ho controllato.
Sapete... nel caso qualcuno fosse interessato a saperlo. XD

Libby rimase così sorpresa da quell’improvvisa apparizione che disse solo: “Oh

Libby rimase così sorpresa da quell’improvvisa apparizione che disse solo: “Oh.”

L’apparizione, da parte sua, ne rimase piuttosto perplessa. inclinò la testa da un lato, come a dire Sì, d’accordo. E poi...?

Libby si riscosse. Spazzò via dalla mente gli ultimi residui della sua fantasticheria – nella quale il rubizzo tedescone continuava a farsi i bicipiti sollevando vacche – e si sforzò di mettere a fuoco il viso della ragazza.

Non era una cosa così facile come potrebbe sembrare, perché la povera Libby non riusciva a staccare gli occhi dalle sopracciglia scure perfettamente disegnate ad ala di gabbiano della fanciulla.

E, quando riuscì con uno sforzo di volontà a distoglierle lo sguardo dalla fronte, si ritrovò a fissarle un neo nero-inchiostro e perfettamente tondo, assolutamente mozzafiato, proprio accanto alla bocca.

Jo sollevò uno dei sopraccitati sopraccigli perfetti con aria di aspettativa.

Libby si concentrò. “Salve”, disse, debolmente.

La fanciulla parve soddisfatta, e sorrise.

La capacità di conversazione di Libby, però, aveva esaurito le cartucce a disposizione per quel giorno; la poveretta si ritrovò dunque nella situazione di avere, riguardo al come continuare quell’affascinante dialogo, la testa più vuota di un’ascella depilata.

“Ehm”, disse. La ragazza bruna la fissò con espressione intenta.

“... Sei tedesca?”, buttò lì.

L’aria soddisfatta scomparve improvvisamente, sostituita da un’espressione confusa.

“... Come, prego?”, chiese, perplessa.

 “No, no, er - niente”, Libby fece precipitosamente marcia indietro. “È che mia nonna, sai, porta la dentiera, e non può magiare il formaggio Edam perchè le si appiccica alla dentiera e la fa parlare biascicando, quindi compra un formaggio tedesco, e sulla confezione del formaggio tedesco che compra mia nonna perchè non le si attacca alla dentiera c’è disegnata una ragazza, e quella ragazza...”

Libby sollevò lo sguardo. La compagna di scuola la stava guardando con aria assolutamente atterrita. Questa qui è matta, sembrava esserci scritto a caratteri cubitali e fluorescenti sulla sua fronte. Matta da legare.

Libby sospirò. “D’accordo, ehm... rewind. Fai finta che non abbia detto niente” e fece con la mano il gesto di un nastro che si riavvolge.

Jo la guardava, e dall’espressione sembrava sempre più prossima ad una crisi di nervi – se non altro, perchè nel 1914 le audiocassette non erano ancora state inventate, e tantomeno la funzione “riavvolgi” delle stesse.*

Libby chiuse gli occhi e tirò un profondo respiro, per riordinare le idee.

“Cia-aao”, disse, scandendo per bene le parole e allungando le vocali. “Io mi chiamo Libby”, disse lentamente.

Se Jo fosse stata al corrente dell’esistenza dei centri di auto-aiuto per alcolisti anonimi, avrebbe di sicuro pensato a quelli – ma grazie al Cielo, gli AA sarebbero sorti molto più avanti.

Jo sapeva che i matti vanno assecondati, e decise dunque di rispondere a tono.

“Ciaaaaa-o”, disse, strascicando esageratamente le lettere. “Io mi chiamo Giusep-piiii-na Sbazzegu-uti”, concluse, parlando come se si stesse rivolgendo ad uno squilibrato.

Libby la guardò, sbigottita.

Come?!”, chiese, pensando di aver capito male. Non aveva mai sentito un nome più insolito di quello.

Jo la guardò, perplessa. “ Come... cosa?”

“Come cosa... Cosa?

“Come cosa, cosa... cosa?!”

“... Eh?”

“Ma di che stai parlando?”

“Che ne so, io stavo ripetendo quel che dicevi tu

“No, io ripetevo quel che dicevi tu!”

“No-o, guarda che sono io che stavo ripetendo quello che...”

Attorno alle due si era formato un piccolo capannello di curiosi, che si bisbigliavano l’un l’altro nell’orecchio e facevano gesti strani – come picchiarsi la punta dell’indice sulla tempia, per esempio. O scuotere la testa con espressione compassionevole.

“Senti, meglio che ci togliamo di qui, va bene?”, tagliò corto “Jo” Sbazzeguti e, presa per un braccio Libby, la trascinò via, fra gli sguardi delusi degli astanti.

 

 

 

 

 


*Ma lo sappiamo, nella famiglia Cleve tendono tutti ad essere un po’ più avanti del loro tempo.

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Capitolo 6
*** Chi attacca pezza... è un fagiano ***



Per prima cosa, due parole ai miei adorati commentatori:

 

 

Per prima cosa,  due parole ai miei adorati commentatori:

 

cassiana: hai assolut(issimam)amente ragione,

“Se c’è una cosa che non sopporto sono i criticoni. Createla voi una metafora calzante, se siete capaci!”

è una trasposizione diretta (leggi: plagio) di

“Se c’è una cosa e un’altra che non posso sopportare sono i criticoni: fattelo te l' Universo se sei capace!”, dalla mitica Genesi!

Per quanto riguarda il pandoro e, in generale, il binomio dolci/gatti, non mi esprimo.

Anzi, sì.

Un giorno stavo mangiucchiando una brioche al cioccolato (tipo Saccottino, però tarocca, sai quelle della Coop che scopiazzano il Mulino Bianco ma hanno il doppio della crema dentro?) e il più grasso dei miei gatti mi è saltato in braccio per annusarla. Avevo appena finito di dire “Micio, dai, piantala... è solo una brioche, è inutile che la annusi, tanto non ti piac...”, che quello ha aperto la bocca e ne ha staccato un morso poderoso, per poi ruminarlo felice facendo le fusa e sbavando a cascata sulla mia migliore gonna a ruota.

Sull’altro gatto maschio (le due femmine sono psicolabili, per loro si dovrebbe fare un discorso a parte), che ha un’insana quanto ardente passione per le castagne bollite e i piselli, non sto nemmeno a commentare! XD

 

Yuppu: Dalì è uno dei personaggi anacronistici, anzi, probabilmente fra quelli citati che sono realmente esistiti è quello più anacronistico (1904-1989), quindi ti spetta un premio!

Poi, ti spetta anche un risarcimento perchè ho usato la storia del tuo gatto mangia-fagiolini senza pagargli le dovute royalties! È che la storia del gatto-fagiolo (e dei suoi machiavellici trucchi per distrarre la nonna, tipo miagolare disperatamente in una stanza, per poi fiondarsi sui fagiolini non appena la povera donna esce dalla cucina per controllare cosa diavolo stia combinando) mi ha fatto ridere per un’intera serata (nonchè continuare a ripetermela e a ridacchiare silenziosamente sotto alle coperte, una volta a letto), non potevo non citarla!

 

Rika88: Yep! Esattissimamente, e tanto di cappello a te per la colta citazione! XD

Incredibile, ma ho scritto il capitolo proprio un paio di giorni prima che su Rete4 cominciassero a passare le repliche del (mitico) Don Camillo!

Rodolfo Valentino ( 1895-1926) è un altro dei vari personaggi anacronistici del capitolo: il suo primo film risale al 1914, quindi l’anno in cui è ambientato il racconto, ma, a meno che Libby non avesse un biglietto per la premiére o non avesse una vista particolarmente acuta (Rudy faceva la comparsa), dubito che potesse conoscerlo!

PS: ehi, un micio che mangia i ceci conditi con l’olio è già più dignitoso di un gatto che mangia i corn flakes glassati sbavando a tutto spiano! XD

E, sì, parlo per esperienza (è lo stesso gatto che mangia le castagne bollite di cui sopra)

 

kiara_chan: ebbene sì, il Jean-Claude del giornale è proprio “quel” bellissimo baronetto Jean-Claude, ed è anche, in assoluto, il personaggio più anacronistico del capitolo,

a-      perché è contemporaneo

b-     perché in effetti, non esiste ( e se anche esistesse, vivrebbe nel ‘700, quindi sarebbe anacronistico due volte, a-ha a-ha a-ha!)

c-      perché è ghei, (sì, lo so che è l’icona etero del secolo, però...) e io per questo racconto non ho messo l’avvertimento slash, quindi lui, qui, ‘un ci può stare!

Il primo premio è dunque tuo!


weird tales


E ora, la storia, che sarebbe poi il motivo per cui avete aperto questa pagina.

Credo.

 

 

Avvertenza.

Si consiglia una visione massiccia degli sketch di Giuseppe Giacobazzi su Youtube, l'ascolto reiterato di Guccini (l'accento è quello), o la lettura di questo dizionario per una migliore comprensione del capitolo qui sotto indicato.

Com’è giusto e doveroso, la scelta di consultare uno o tutti gli strumenti è, in ogni caso, lasciata alla discrezione dei Signori Lettori (sì, insomma, voi), e l’Autrice spera che lo scritto risulti sufficientemente chiaro anche a chi sceglierà di non utilizzare i supporti multimediali indicati.

E ora, cari Lettori, bando alle ciance, fuoco alle polveri, e chi più ne ha, più polizze faccia con la mia compagnia.

 

 

 

“Ehi”, protestò con scarsa convinzione Libby, mentre la compagna la trascinava nel bagno delle ragazze.

Una volta che Jo ebbe opportunamente ispezionato il luogo e lo ebbe ritenuto sufficientemente riservato, le lasciò il polso e le sorrise con aria di scusa.

A Libby sembrò più esotica, delicata e affascinante del solito, con quel vestito di sangallo di cotone leggerissimo, e i capelli raccolti in una treccia morbida avvolta intorno alla testa come una corona.

“Mi spiace”, disse l’adorabile fanciulla. “Ma nel cortile c’era troppa balòtta per i miei gusti, sai”

Libby la guardò strabuzzando gli occhi.

“... Eh?”, disse debolmente.

La ragazza ricambiò il suo sguardo, perplessa. Questi inglesi, pensò. Non capivano mai, la prima volta che dicevi qualcosa.

 

“Sì, insomma, intendo che a me, dopo un po’, mi scende la catena, a parlare davanti a una sbadilata di cioccapiatti come quelli lì, ecco.”

“... Eh?”

“Cioè, voglio dire, quei gran fagiani che ci fissavano là fuori, ecco, ancora un po’ e ne prendevo un paio per il colletto e ci dicevo, ‘oh, cinni, se non la piantate subito vi caccio uno smataflone che vi attacco al muro!’, capito?”

“... No”, rispose Libby, sempre più avvilita.

“Oh”. Jo si morse il labbro, pensosa. “Insomma, quel che volevo dire è che fuori in cortile c’era troppa gente, capisci, e insomma, a me da fastidio chiacchierare con tutti quei personaggi che ci fissano, ecco. Ancora un po’ e appiccicavo al muro uno di loro con uno schiaffone da paura, sì, sì! Cioè, ecco, mi sa che non mi so spiegare, ecco.”

“No, no, adesso ho capito”, si affrettò a rassicurarla Libby. “Davvero”, aggiunse, quando vide l’espressione dell’altra ragazza.

Jo si rilassò. “No, è che, cioè, non sono mica abituata a parlare forbito, io, insomma, non son micca tanto buona di fare dei simitoni, se capisci cosa intendo...”

“... No.”

“... Sì, voglio dire, non è che io sia tanto brava con le parole, per farla breve.”

“... Ah.”

“Cioè, però, pensa una cosa: meno male che esiste il cinematografo, così ho una professione assicurata per il futuro, no?”

Libby la fissò, confusa.

“Per fare il cinema non devi micca fare tanti discorsi, per quello dico che è il mio lavoro ideale. Mia mamma dice sempre che ci ho una faccia da pellicola, finché sto zitta. Meno male che i film non ci hanno micca il sonoro!” diede una gomitata a Libby, ridacchiando. “Ci pensi se gli attori parlassero? Cioè, non ci andrebbe micca nessuno, a vederli al cinema, eh!”

Anche Libby ridacchiò, al pensiero. Attori che parlano!

Che fantasia, quella ragazza.

“... Per questo io voglio fare l’attrice: così posso fare un mucchio di cose senza avere bisogno di attaccare delle gran pezze a...”

Libby corrugò la fronte.

“... Voglio dire, senza dover discutere, ecco.”

“Ah!”, Libby sorrise.

Ci fu un momento di silenzio. In effetti, l’ultimo momento di silenzio che ci sarebbe stato fra le due per molto, molto tempo a venire – ma questo, Libby non poteva saperlo, e quindi si affrettò a interromperlo per non mettere a disagio la compagna.

“... C’era qualcosa che volevi dirmi, là in cortile? Cioè, a parte la teoria di tua mamma, gli schiaffoni che daresti a quei tizi del primo anno, e quella storia degli attori che parlano?”

Jo sembrò illuminarsi.

“Ah, sì, giusto”, disse, come se si fosse improvvisamente ricordata qualcosa di fondamentale.

 

Voi direte: come diavolo fa Jo a tradurre in inglese questi modi di dire? Non esiste mic(c)a una parola inglese per “cinno” o “cioccapiatto”!

Beh, io ci ho provato. Ecco il mio tentativo.

 

- troppa balòtta: such a ballot box [Il ballot box è l’urna elettorale, nella quale di solito c’è effettivamente un gran casino]

- una sbadilata di cioccapiatti: a heap o’ noisemakers

- mi scende la catena: my bike chain came of from th’ gear

- quei gran fagiani: that bunch o’ birdbrains [lett. “testa di gallina”]

- oh, cinni, se non la piantate subito vi caccio uno smataflone che vi attacco al muro: hey, you tot [fam. Per “bimbo, bambino”], if ya don’t stop just now, I’ll slap you with sucha swipe that’ll put you up the wall!

- simitoni: praishies [praise: complimenti. Praishies: storpiatura all’emiliana]

- micca: indeed-y [Indeed: mica. Indeedy: micca. Logico, no?]

- attaccare pezza: chat up a patch, buttonhole a patch [to chat up/buttonhole: attaccar bottone. To chat up/buttonhole a patch: la mia interpretazione di “attaccare una pezza... di conversazione” XD]

Sì, lo so che è stupido, ma fate finta di apprezzare lo sforzo!

 

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