The World Behind Our Wall

di loryherm
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dog Unleashed. ***
Capitolo 2: *** I Was Dying To Save You. ***
Capitolo 3: *** Like A Phantom Rider. ***



Capitolo 1
*** Dog Unleashed. ***


Scritta senza nessuno scopo di lucro questa fan fiction nasce dalla delirante fantasia inconscia di questa scrittrice. Buona lettura.

Pioveva, il cielo era plumbeo, quasi nero. A Lenys sembrava che volesse arrivare un tuono che avrebbe spazzato via tutto. Forse lo avrebbe preferito all'affrontare una nuova, estenuante e lunghissima giornata di lavoro.

Tirava un vento forte e fastidioso, le foglie cadute dagli alberi urtavano contro il suo zainetto, bagnandolo e macchiandolo qui e là di piccoli schizzi di fango. Non aveva nemmeno con sè l'ombrello. Non se lo portava mai dietro, dimenticava sempre tutto.

Aspettava l'autobus lì tutte le mattine, ed erano settimane che pioveva ininterrottamente, come se il cielo avesse sempre qualcosa per cui piagnucolare di recente. Lenys amava la pioggia, ma non quella settimana. Sì, perchè quella settimana faceva la dog sitter, e fare la dog sitter a New York City, con una mandria di cani dei quartieri alti, capricciosi, viziati, col pelo quasi più curato e prufumato dei suoi stessi capelli, con quella pioggia assillante e inopportuna, non era decisamente il massimo per i suoi nervi. Lenys si riteneva una persona paziente infatti, tutti la ritenevano una persona paziente. Non aveva molte cose per cui farsi venire un esaurimento o qualcosa del genere. Ma quella mattina da quando aveva messo i piedi a terra, era come se tutto volesse andare per il verso sbagliato. Prima c'erano state le ciabatte morsicchiate dal topo della sua adorabile coinquilina, poi le cialde della macchinetta per il caffè misteriosamente scomparse, il frigo di una desolazione disarmante, la borsa senza un soldo, la valvola scattata, e tanto per chiudere in bellezza, la caldaia aveva esalato il suo ultimo respiro a seguito di mesi di inutili spese di riparazione. Lenys sospirò mentre rivangava il tutto distrattamente, con lo sguardo perso lì sul ciglio della strada. L'autobus era in ritardo. Eppure non ne era sorpresa. Pensò che era destino: quella mattina avrebbe dovuto camminare per ben nove isolati per andare a prendere i tre cuccioli di terranova di Mrs.Clark.

"Perfetto!" Sospirò mentalmente, si stiracchiò energicamente, e una nuvoletta di vapore bianca e densa venne fuori dalle sue labbra viola di freddo. "Almeno camminando potrò scaldarmi un po'." Riflettè, come consolandosi.

New York a quell'ora era già piena di passanti, c'era lo stesso trambusto di sempre, quello che Lenys amava tanto. Un perfetto connubio vitale di gente e macchine, di aria pulita dalla pioggia e smog newyorkese. Fece la strada che ormai conosceva a memoria, passò davanti al giornalaio, poi attraversò la strada e si trovò di fronte il negozio dove lavorava da un paio di mesi la sua migliore amica, nonchè compagna di appartamento, Gigi. Si fermò con respiro affannoso solo pochi isolati più in là e si concesse un caffè veloce, nero e bollente prima di bussare alla porta della 'deliziosa' signorina Mary Clark, che alla bellezza di ottantatrè anni, non amava che circondarsi di bestioline di taglia pericolosamente extra large come due Labrador, tre Terranova, e un meraviglioso esemplare di Pastore Tedesco.

Fortunatamente era stato deciso che Lenys ne portasse al massimo tre alla volta, onde evitare che le bestioline decidessero di fare di lei un trastullo per le loro corsette mattutine. E così quel giorno di metà ottobre toccò alle tre nere e implacabili J; Joe, Jan e Jack essere portati a spasso.

Quando Lenys suonò il campanello si trovò a pensare che stesse incubando una brutta influenza, visto che cominciava a sentire un certo pizzicore alla gola. Ma la signora Clark mise fine a quel vagare della sua testa, quando aprì la porta e la spinse dentro con poca delicatezza.

"Entri o si inzupperà tutta. Stia attenta al pavimento con quei cosi, e restì lì. Arrivo subito." Sbottò, con quel suo vocione da soldato. Lenys non si era mai chiesta perchè Mary non si fosse sposata, la risposta era implicita nel solo starla a guardare, con quei golfini verde militare, il tuppo tirato, la camicia sterile e senza grinze. Pensò che per 'quei cosi' avesse voluto alludere ai suoi stivali di pelle, (tra l'altro nuovi di zecca) che le erano costati la bazzecola di novantasette dollari e cinquanta.

"Aspetto qui." Rispose, sforzandosi di sorridere.

Mrs Mary tornò in un baleno, i cani avevano già il guinzaglio al collo, e scalpitavano ansiosi di mettere il naso fuori casa. Lenys non era decisamente altrettanto ansiosa. Le servivano i soldi, certo, e per quell'incarico veniva pagata bene, eppure c'era uno strano presentimento in lei. Col tempo aveva imparato a fidarsi delle sue sensazioni visto che quasi sempre ci prendeva in pieno. Eppure non voleva pensare che quella che si preparava ad affrontare sarebbe stata l'ennesima mattinata no. Cominciava a perdere colpi?

Quando fu in strada, con i tre guinzagli in mano, ben stretti con la sua ferrea presa, si disse che non era il caso di farla tanto lunga. I lavori precari non le erano mai dispiaciuti granchè, le piaceva rinnovarsi. Oh, certo, deve piacermi per forza. Fece una smorfia, scacciando via il solito pensiero. Sua madre non era contenta, la nonna non era contenta, e nemmeno il padre, e le sue due sorelle, che per quanto piccole e superficiali parevano sempre aver voce in capitolo. Sempre più che rispetto a lei, comunque.

Avevo detto di finirla con queste cose, o no?

Detestava quando la voce della sua coscienza non le dava retta. I suoi pensieri odiavano essere imbrigliati, e spesso Lenys si ritrovava in posti e luoghi della sua mente che non avrebbe voluto esplorare. La si poteva dire distratta, o stralunata. Forse lo era davvero, perchè i suoi passi rapidi e agitati la portarono esattamente nel luogo in cui preferiva pensare. C'erano poche persone, panche e odore di fango bagnato, nel parco. 

Se proprio devo farlo almeno facciamolo stando sedute. Si disse. Jan, Joe e Jack stavano buoni e fermi sotto la sua placida sorveglianza, giocavano tra loro, non curanti dei suoi complicati pensieri di giovane essere umano. Li accerzzò distrattamente, prima di prendere un respiro profondo e rituffarsi nei suoi pensieri. Pioveva meno, e così tolse il cappuccio e lasciò che il vento accompagnasse quel veloce, silenzioso vagare.

"Non è la vita che fa per te!" Aveva singhiozzato sua madre, teatralmente.

"Qualunque cosa è meglio che questo."

"Lasciamola provare."

"Andrò a stare da Gigi."

Ricordava perfettamente l'espressione che travolse le espressioni dei suoi genitori e della nonna a quelle parole. Gigi significava una cosa sola: problemi.

Hanno sempre giudicato le cose normali, problemi. Era convinta che l'abitudine all'essere serviti e riveriti rendesse le persone pigre, chiudesse le loro menti, e Lenys voleva caricarsi di problemi come una qualunque ragazza normale della sua età. Diciassette anni appena, e una valanaga insormontabile di sconvenienze era l'unica cosa che l'avrebbe resa davvero felice. Pazza o meno che la si potesse giudicare, due settimane dopo Lenys lasciò cadere gli scatoloni sul pavimento della sua nuova casetta, quaranta metri quadri, un solo bagno e un divano letto mordicchiato da un topo, con un chilometrico sorriso. Certo dopo due anni di quella vita frenetica e precaria cominciava a pensare di poter fare qualcosa di più, poter vivere in un posto più decente, avere un lavoro serio. Ma ogni volta che pensava a quel giorno, quando finalmente era diventata libera, sorrideva e si convinceva di essere nel giusto. Qualunque posto sarebbe stato migliore di quello che le era toccato in sorte diciannove anni prima. Era felice nella sua casa piccola, con la sua amica normale, nel suo quartiere normale.

Si rimise in piedi, rincuorata e sollevata, tenendo ancora stretto quel ricordo, e cominciò a camminare, tenendo un passo veloce e stando attenta ad ogni movimento dei tre bestioni che portava con sè.

C'era tanto traffico, e doveva stare molto più attenta del solito quando lavorava per la sicurezza dei cani. Così rallentò, e solo quando fu sul marcia piede si tranquillizzò. La casa di Mrs.Mary era vicina, e mancava poco all'ora di pausa. Cominciava a sentire un certo gorgoglìo nello stomaco, e capì di essere affamata. Alzò lo sguardo, e si preparò a svoltare l'angolo, distratta da una magnifica vetrina. Rallentò il passo per mettersi ad osservare con più attenzione. Quel cappotto aveva un cartellino dorato talmente lucido e pulito (abbagliante, quasi) che non riuscì a cogliere tutti gli zero del prezzo. Una cifra esorbitante: soltanto una ragazzina molto ricca o molto stupida (o entrambe le cose) avrebbe potuto permetterselo. A quel pensiero sorrise. Ma ciò che vide nel riflesso della vetrina le mozzò il respiro.

"Attenzione!" 

Successe tutto molto rapidamente, come nell'immediatezza di un millesimo di secondo si rese conto di aver lasciato i guinzagli dei cani, essersi precipitata lì a pochi metri fino al centro dell'incrocio, afferrato quella giacca di pelle nera lucida, e strattonato l'individuo dal braccio per lanciarlo letteralmente dall'altro lato della strada, mentre  la vettura gialla rallentava bruscamente, ma non abbastanza da non prenderla in pieno.

Nello stesso istante, in aria si librarono decine di scatole e buste multicolore, firmate Prada e Dolce e Gabbana, e indumenti di varia natura, una crinieria leoncina sferzò il vento per un secondo prima che due gemiti di dolore insieme risuonassero nel silenzio gravido di panico di tutta Fifth Avenue.




Note dell'autrice: Questa storia è nata da un sogno, o per meglio dire, la scena finale è tratta da un sogno che faccio ricorrentemente, e dunque mi sono finalmente decisa a darle una sembianza reale. E' la seconda Fan Fiction sui Tokio Hotel che scrivo, e per l'ennesima volta li ringrazio per l'ispirazione che hanno fatto sbocciare in me.
Ringrazio sin da ora chi volesse lasciare un commentino, sono sempre graditissimi, e fanno bene a chi scrive. ;-)
Dedico la Fan fiction intera a due delle persone che più mi hanno fatto apprezzare la lettura, la scrittura e i Tokio Hotel stessi; Pao e Mary. Senza di voi questo fandom non sarebbe lo stesso.

Spero che il prologo sia piaciuto, e vi abbia intrigato abbastanza da continuare la lettura. Baci a tutti ^^ 
Loryherm. 



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Capitolo 2
*** I Was Dying To Save You. ***


I was dying to save you Capitolo 1
I Was Dying To Save You.
                                                                                                                                                                                                                                       
Is there anybody out there, walking alone?
                                                                                                                                                                                                                                       
Is there anybody out there, out in the cold?                                                                                                                                                                                

One hartbeat lost in the crowd. 

"Un altro sorso di quella robaccia insipida e vomito anche le piume della giacca."

Tre facce interrogative accolsero la sua affermazione.

"Le ho ingurgitate quando mi hanno riassestato il polso sinistro." Chiarì, distrattamente. Dinanzi a lui un bancone pieno di zuccheri e caramelle, fiumi di caffè e cappuccino. "Oh, sostanze ingeribili. Ho bisogno di qualcosa di forte. Camomilla, phua." Arricciò il naso liscio, in espressione disgustata.

"Bill, io non credo che sia un'idea saggia. Sei già abbastanza agitato così." Gustav gli poggiò una mano sulla spalla, e si sfrozò di sorridergli, per smorzare la tensione.

"Sto benissimo." Rispose quello, sbrigarivo. Sedette sulla panca libera, in fondo. Due righe di caffè trabboccarono dalla sua tazza Starbucks, per il tremore alle mani che non riusciva a controllare. Batteva i denti per il freddo, ma era ancora spaventato a morte, nonostante fossero trascorse già due ore da quando l'avevano raccolto dall'asfalto della quinta strada.

Non ricordava quasi niente di quel momento. Sapeva soltanto che un secondo prima Ben, Georg, Gustav e suo fratello erano dietro di lui, e quello dopo era stato scaraventato da qualcosa dall'altro lato della strada.

Da qualcuno.

E ora era  lì coi suoi amici, e si sentiva come se un treno l'avesse investito. Gli facevano male i polsi e l'anca destra, ma il resto di lui era rimasto bene o male al proprio posto. Era più che altro la sensazione di non sapere, di non capire cos'era successo, dov'era finita la persona che l'aveva spinto via, probabilmente salvandogli la vita, a renderlo inquieto. Non poteva fare a meno di pensare che mentre la sirena dell'ambulanza si era allontanata con quella persona, lui stava camminando, con le sue gambe, per andare a prendersi qualcosa al bar. Avrebbe dovuto esserci lui, lungo disteso al centro dell'incrocio. Avrebbe dovuto essere lui quello portato all'ospedale. Rabbrividì di nuovo.

"Tu non stai bene un cazzo, invece. Cristo, ci è mancato tanto così che finissi sotto un taxi." 

"Tom." Lo ammonì Georg, sottovoce. Nello sguardo di suo fratello Bill non scorse rabbia, o disappunto, nessuna durezza, nonostante gli stesse muovendo un rimprovero; solo paura.

"No, qualcuno deve dirglielo! Quando ti deciderai a mettere la testa a posto?"

"Ti dico che ho controllato prima di attraversare." Sussurrò per discolparsi. E sapeva che fosse una bugia. Si sentiva in colpa, tremendamente in colpa, per aver fatto prendere quello spavento a Tom.

"Sì, come fai sempre." Sbottò, togliendo gli occhi dai suoi, deluso. Aveva ragione, Bill doveva riconoscerlo. Era cosciente del fatto che sin da quando erano piccoli, lui era sempre stato quello con la testa sulle nuvole, che si cacciava nei guai, che combinava casini, e Tom quello che correva ai ripari. Dicevano spesso di lui che fosse una testa di cazzo, ma Bill sapeva perfettamente che in realtà suo fratello l'aveva sempre protetto e difeso, e fino a quel giorno ci era riuscito anche discretamente.

"Tom, non è il momento. A casa." Georg parlò quasi severamente, guardandosi intorno per controllare se qualcuno li stesse osservando troppo, e poi lasciò cadere gli occhi sul nasino a scivolo di Bill, puntato verso il pavimento. Sospirò.

"Ormai è successo, non pensiamoci più." Gli diede man forte Gustav, andando con gli occhi scuri e prudenti dall'uno all'altro fratello. "L'importante è che Bill non ci abbia rimesso le penne."

I gemelli si guardarono lungamente, accusandosi e scusandosi vicendevolmente. Sapevano perfettamente di aver scampato un pericolo che sarebbe stato letale non solo per uno dei due, ma per entrambi. Poi Bill si alzò, e disse: "Andiamo a casa, ho sonno." Un sorriso affiorò sulla bocca di Georg, Gustav sbuffò una risatina, Tom scuoteva il capo rassegnato. "Te le brucerei quelle penne." Bofonchiò, mentre lasciava la mancia al cameriere, che li fissava. Le dita di Bill saettarono immediatamente a lisciare la sua preziosa giacca piumata, e allargò gli occhi con fare grave. "Non oseresti." Sibilò.

"Attento a dove la lasci." Gli occhi di Tom lampeggiarono, divertiti.

"Non ci provare!" La sua criniera d'istrice sventolò impudente, mentre gli puntava contro il dito indice laccato d'argento, agitando il collo. Georg, mai come in quei momenti, si rendeva conto di quanto Diva's Dna ci fosse nella catena genetica di Bill Kaulitz.

"Se fossi in te non la perderei di vista." 

"Tom, smettila!" Georg e Gustav ridacchiavano sotto i baffi, Bill frignava come un bambino. Quando furono fuori si resero conto che era passata quasi un'ora da quando avevano telefonato a David e Ben li aveva lasciati liberi di riprendersi. Erano già lì con la scorta, e finalmente Gustav tirò un sospiro di sollievo. Mentre a lui e al bassista bastava qualche astuto accorgimento per passare tranquillamente inosservati, i Kaulitz Brothers attiravano dannatamente l'attenzione, soprattutto quand'erano tanto esagitati. Georg invece pensò di salvare in calcio d'angolo Bill da una 'ramanzina' che sarebbe stata nota ai posteri come lo sterminio della famosa Rock Star nella limo coi vetri oscurati, quando vide i due ragazzoni biondi che gli stavano di fronte, comunemente noti come i boss, che già tamburellavano coi piedi a terra e affilavano gli occhi infiammati, pronti a scatenare sul frontman il loro stress represso. Sveltì il passo, e si fece loro vicino. "Non gli date addosso, è scovolto. Fate finta di niente." Mormorò con aria grave. I due si guardarono, ma non risposero. Quando Bill li raggiunse, come previsto, aveva già l'espressione da cagnolino bastonato scolpita in faccia. David e Ben lo fissarono lungamente, lui li ricambiava con occhi pentiti e preoccupati.

"Allora, tutti a casa. E' stata una giornataccia." Sospirò alla fine David, rassegnandosi. Georg ghignò.

"Mi aspettavo che mi avreste fatto a pezzi." Miagolò Bill, innocentemente.

Che razza di ruffiano. Tom gli lanciò un'occhiataccia in tralice.

"Per questa volta sei graziato." David gli diede una pacca sulla spalla. "Abbiamo ancora bisogno di un cantante."

"E io che contavo su di voi." Si lagnò il chitarrista.

"Veloci, non abbiamo tempo da perdere." Ben lo ignorò bellamente, poi si avvicinò a Bill, e lo prese per le spalle. "Stai bene, questo conta."

Tom roteò gli occhi. In realtà concordava perfettamente con Benjamin, ma era stupefacente come fosse semplice per suo fratello battere le ciglia e piegare il mondo al suo volere. Georg gli strizzò l'occhio, divertito. "Nessuno può resistere a quello sguardo, non ancora lo impari?" Ma Tom scrollò le spalle. "Se lo dici tu." Sputò lì. Entrò in auto con ancora quella smorfia in viso. Era grato e felice che potesse ancora arrabbiarsi con Bill, quella giornata era stata veramente da dimenticare. Bill, invece, avvicinò Georg, nell'auto, e gli sorrise serafico: "Ti ho sentito."

Il bassista abbassò istintivamente gli occhi, lo sguardo intenso dell'amico era difficile da reggere, e invece si fermò ad osservare la linea lunghissima delle sue gambe, senza riuscire a non sorridere anche lui.

"Grazie." Gli sussurrò Bill, prima di sgusciare via dall'auto.

***

"Blanchard?"

"Esattamente."

"Quei Blanchard?"

"Sì."

"Quelli francesi? Ricchi e famosi?"

"Sì."

"Sono io che ho le allucinazioni? Perchè vedo già una montagna di merda." Benjamin Ebel si lasciò cadere all'indietro, con profondo sconforto, preso alla sprovvista dalla pessima notizia. Nella grande sala illuminata, c'erano dei divani eleganti e due larghe scrivanie da lavoro. Era lì che da un paio di settimane, il mangment del pluripremiato gruppo tedesco, di fama internazione, Tokio Hotel, passava gran parte del tempo, tra telefonate secolari e barili di caffè annacquato. Lo studio era situato in un punto alto e stretgico, ma a quell'ora il sole li accecava. David sospirò pesantamente, portando le dita lunghe e nodose agli occhi.

"Che intendi fare?" Gli domandò Ben, scavallando le gambe, e mettendosi ritto. Da quando stavano a New York il lavoro prendeva pieghe sempre più interessanti, quasi strepitose. Ma come tutte le volte, qualcosa doveva andare per il verso sbagliato. Essere il Menager dei Tokio Hotel era una gran faticaccia. Tra aggressioni e pedinamenti, critiche, melodrammi, impegni da gestire, traversate oceaniche, ora investimenti prodigiosamente sventati, e quant'altro, era già un miracolo che fossero ancora tutti in grado di stare in piedi, figurarsi mettere su un album nuovo di zecca, partendo da zero e con un ritardo clamoroso, per non dire imbarazzante.

Ci mancava solo questa.

"Tenere i ragazzi lontani, è tutto ciò che possiamo fare per il momento."

"Non credi che sia il caso di parlarne con la ragazza?" C'era ansia nel tono del collega.

"Assolutamente, no." David aprì gli occhi di scatto, serissimo.

"Sarebbe saggio assicurarsi che non se ne vada in giro a spifferare stronzate." Replicò Benjamin. Quando David lo osservò si rese conto che la sua inquietudine poteva essergli parsa esagerata. 

"Forse non è così grave come pensiamo. Forse non vuole niente. Infondo è lei che si è buttata sotto un taxi. Chi rischierebbe di sbriciolarsi le ossa soltanto per uno scoop?" 

"Forse non lo voleva." Gli occhi chiari di Ben si illuminarono di una scintilla sottile. David fece una smorfia avvilita. "Intendi dire che potrebbe arrivare alla nostra stessa conclusione in futuro?"

"Sei perspicace, Jost."

"E io prego che tu non lo sia."

I due si guardarono dritto negli occhi per una manciata di secondi, ponderando la questione. Poi Ben si alzò sospirando, ormai rassegnato all'idea che l'unico modo di risolvere la faccenda sarebbe stato renderla nota a tutti, e cercare di prevenire un grosso problema. "Urge una rinuione; i ragazzi devono saperlo: Bocca cucita e discrezione massima."

***

L'appartamento che avevano preso per le registrazioni era comodo e centrale, a Gustav piaceva la vista e il calore del sole che entrava dalle grandi vetrate del salone. Faceva attività fisica nella piccola palestra al piano di sopra, e lunghi bagni nella vasca idromassaggio. Sì, se la passavano decisamente bene di recente. Amava lavorare con la sua batteria, e scaricare così le tensioni delle lunghe giornate. I ragazzi stavano lavorando sodo per dare il meglio con il nuovo album, e lo stress si faceva sentire spesso. Quella giornata, poi, era stata particolarmente destibilizzante.

Gustav aveva visto Bill prendere il volo dinanzi ai suoi occhi, in un attimo terrificante i contorni del suo amico erano spariti dalla sua vista. Aveva sentito il suo gemito di dolore, e quel taxi frenare, con uno stidìo che gli aveva risucchiato completamente l'aria dai polmoni. Al solo ripensarci un sussulto lo scosse. Gustav non era mai stato apprensivo o particolarmente ansioso, ma non pensava che assistere a un incidente del genere lo avrebbe sconvolto così tanto. Continuava a fissare Bill mentre giocava con Georg, e non riusciva a non pensare che avrebbe potuto perderlo, se quella ragazza non avesse deciso che valeva la pena di salvargli la vita. Si sentì un terribile egoista per quei pensieri, perchè era sollevato che al suo posto non ci fosse Bill. Ma era la verità.

Stava seduto sul divano, lì di fronte a lui, e si rendeva conto di quanto ancora desiderasse conoscerlo. Dopo otto anni credeva che la sua dose di Bill fosse sufficiente per sopravvivere anche lunghi mesi senza stare a sentirlo starnazzare dall'alba al tramonto, loro due erano persone immensamente diverse: Bill era irruento, invadente e rumoroso, a lui piacevano il silenzio e la riflessione. Ma stava scoprendo di voler passare ancora tanto tempo con lui e gli altri. Non credeva che fosse vicino il momento in cui le loro strade, anche se solo professionalmente, si sarebbero divise. Comunque aveva imparato, da quell'esperienza, quanto fosse importante averli vicini tutti i giorni. A non darlo per scontato.

"Sono adorabili, vero?" Tom irruppe maleducatamente tra i suoi pensieri.

"Chi?"

"Quei due. Li guardavi con occhi trasognati." Il chitarrista lo guardava beffardamente. Gustav mise veramente a fuoco le due figure degli amici, e scosse il capo. "Adorabili non direi, più che altro rumorosi."

"Mhh, sembra che non sia più di tanto scosso. Mi aspettavo che frignasse tutto il giorno." Tom osservò il suo gemello mentre spingeva via Georg, e si rotolava dalle risate.

"Georg è bravo a distrarlo." Osservò Gustav, sorridendo di sbieco.

"Prima o poi mi chiederà di accompagnarlo in ospedale." Gustav annuì solo, guardando negli occhi inquieti di Tom. Sembrava che l'idea non gli piacesse. Sapevano entrambi che Bill si sentiva in colpa, era nella sua natura. Magari in quel momento non sembrava, ma nella sua testolina d'istrice già si andava plasmando l'idea che fosse stato un suo sbaglio a causare dolore a quella ragazza. 

"Ragazzi?" La voce di Ben fece calare il silenzio nella stanza. Sembrava troppo serio. Quasi preoccupato.

"No, cazzo. Non dirmi che è già uscita la notizia sui giornali." Bill si rizzò dal pavimento, con sguardo seccato. Il manager, dagli occhi chiari e i capelli biondi, restò in silenzio per una manciata di secondi, scorrendo con lo sguardo da uno all'altro componente del gruppo. Bill e Georg sul tappeto, Tom in piedi vicino al batterista. I loro occhi erano attenti e impazienti, seri, come il suo.

"Dobbiamo parlare." Disse. Sedette sul bracciolo del divano, al fianco di Gustav, che gli domandò rapido: "E' grave?" 

"Potrebbe esserlo." 

"Cioè?" Fece Tom.

"Quello che sto per darvi è un consiglio, e non un ordine tassativo, perchè siete maggiorenni e sapete bene di poter fare liberamente ciò che meglio credete. Ma per il bene del gruppo, vi chiediamo di non gironzolare troppo intorno alla ragazza che stamattina ha spinto via Bill dalla strada."

"Che mi ha salvato, vuoi dire." Gli occhi nocciola del cantante si strinsero. Stava pensando che Ben non volesse ammetterlo. Che ci fosse una ragione?

"Perchè?" Domandò Georg, sulla sua stessa lunghezza d'onda. Benjamin restò ancora un poco in silenzio indeciso se riferire ogni cosa ai ragazzi, o solo una parte di verità. In realtà non era affatto convinto che la ragazza avesse qualche pretesa di conoscerli meglio, e se per qualche motivo ne volesse trarre guadagni.

"Potrebbe essere pericoloso per la vostra privacy." Si limitò a dire.

"E' una giornalista?" Gustav lo guardò con aria piuttosto sicura, era sempre il più sottile dei quattro. Il manager allargò gli occhi, colpito. "Non esattamente." Disse, comunque.

"E allora?" Tom sbottò. Stava per perdere la pazienza, detestava stare allo scuro delle cose. "Cos'è tutto questo mistero?" 

Qualcuno tossicchiò rumorosamente, proprio mentre Ben si preparava a rispondere, e la band si voltò per inquadrare David, sullo stipite della porta, con in volto un espressione tesa. "Benjamin, potresti raggiungermi nell'ufficio? E' veramente urgente." Il collega restò confuso da quella richiesta. Sospirò scocciato, per l'interruzione, ma infine i due manager uscirono insieme dalla stanza.

I quattro restarono fermi a fissarsi per un istante, seriamente perplessi, poi Tom esordì: "Chi di voi ci ha capito qualcosa?" Gli amici scuotevano il capo. Nei loro volti c'era solo confusione. "Niente, però non mi piace." Rispose Georg, per primo.

"Che significa: non è esattamente una giornalista?" Si domandò il batterista.

"Forse è una tirocinante." Buttò lì Tom, scrollando le spalle. Non gli sembrava un'ipotesi brillante, ma quantomeno pluasibile.

"O l'assistente di un giornalista."

"O magari una spia!"

"Dì un po'; ti diverti a sparare simili stronzate?" I gemelli si guardarono male per un momento, Bill incrociò le braccia con una smorfia. Poi Georg disse: "Sembrava piuttosto grave. Secondo me dovremmo..."

"Io voglio andare a trovarla." Lo interruppe il frontman, serio e determinato. Li guardava come se li stesse avvertendo che lo avrebbe fatto, più che esprimendo a parole la sua volontà.

"Bill, senti, finchè non ne sappiamo di più è meglio lasciar perdere." Gli rispose subito il fratello, con sguardo severo.

"Voglio almeno ringraziarla." Il cantante rilassò lievemente lo sguardo, ma era evidente che non volesse arrendersi.

Sempre il solito masochista.

"Non credo che sia una buona idea. Non sappiamo chi è, e se Ben e David sono così preoccupati, sono sicuro che c'è un motivo più che valido." Osservò Georg, pacatamente.

"Neanche se le mandassi soltanto un biglietto? Oppure, che so io, un mazzo di fiori, o una scatola di cioccolatini?"

"Ora non fare gli occhioni cucciolosi, tanto non attacca." Rispose il gemello, repentinamente. "Finchè non scopriamo che c'è dietro questa storia, non fare niente. Non resterà delusa; quelli famosi sono tutti degli stronzi senza cuore. E' risaputo."

"Ora sei tu che spari cazzate."

"Bill, senti, non posso darti ordini nemmeno io. Ma ti supplico: non combinare casini."

Il cantante accolse in silenzio quella preghiera. Forse Tom e gli altri avevano ragione; infondo non sapevano nemmeno chi fosse quella ragazza. Ma era stata così buona a salvarlo! Non poteva sicuramente trattarsi di una persona orribile. Che fosse un'ammiratrice che vedendolo in pericolo aveva deciso di proteggerlo?

Possono esserci fan disposte anche a questo per me?

Non seppe perchè, ma immediatamente un profondo senso di sconforto e colpevolezza lo assalì. Non poteva controllare la mente delle ragazze che li seguivano. Ma non voleva che le sue fan pensassero che la sua vita valesse più della loro. Non era giusto, non era sano, ma soprattutto non poteva restare impassibile di fronte ad un atto del genere.

***

Un ordore forte di candeggina e vecchio si faceva spazio tra i suoi sensi. Cosa che le fece storcere subito il naso. Vedeva solo nero, ma sapeva che presto avrebbe aperto gli occhi e si sarebbe trovata in un luogo sconosciuto. Poi, potente e vivida l'immagine dell'incidente le riempì la testa col suo fischio penetrante. Sentì in un antro della testa il bisogno di coprire il viso con le mani, scoprendo di non avere la forza di farlo. Si rendeva conto che non aveva motivo, nè modo, di proteggersi da un ricordo. Non sentiva dolore. Perchè non sentiva dolore?

Non sono morta per salvarlo, vero?

"Ehi, ragazza del suicidio."

Voleva sorridere, ma ancora una volta si rese conto di non esserne capace.

Era viva, invece. Era viva e la sua migliore amica era lì affianco a lei. Sospirò di sollievo mentalmente. Pensava di aprire gli occhi ma era impossibile anche quello. La luce era fortissima anche al buio. Gigi le stringeva la mano, adesso con più forza. "I riflessi sono un po' lenti per via dell'anestesia." La voce che parlò, Lenys non la riconobbe. Probabilmente si trattava di un medico, e quasi certamente la morbidezza che sentiva lontana dietro la sua nuca era quella di un cuscino.

Sono finita in ospedale. La sua coscienza fece una smorfia. Splendido.

"Non sarà in grado di comunicare ancora per molto? Perchè voglio che quando le piomberà addosso la mia ira, sia in grado almeno di supplicare il mio silenzio." Gigi era sarcastica, come sempre. Forse non era poi così mal ridotta. Il dottore rise, osservandola. "Temo di sì, per la sfuriata dovrà attendere ancora un po'."

Ehi, guardate che sono perfettamente cosciente! Lenys avrebbe voluto parlare ma la sua voce non pareva volesse assecondarla. Le dava fastidio che non potesse farsi partecipe di una discussione di cui era l'oggetto.

"Quando si riprenderà totalmente?" L'inflessione di Gigi le sembrò più seria di quanto si aspettasse.

"Basteranno un paio d'ore, non si preoccupi."

E comincerò a sentire dolore.

"I suoi genitori arriveranno presto. Sono molto ansiosi; vederla così potrebbe farli andare fuori di testa." Rise nervosamente. Qualcosa nell'incoscienza di Lenys cominciò a vorticare furiosamente. Un brutto dolore non fisico le bloccò i pensieri e la sua mente si svuotò completamente. I suoi genitori stavano arrivando. Non poteva immaginare niente di peggiore. Insomma se ne stava sdraiata su quel lettino scomodo, non poteva muoversi, non riusciva a parlare, probabilmente in quel momento i cani della signora Mary erano stati dati per dispersi. Quelle povere bestioline vagano sole per New York City, e come se tutto ciò non fosse sufficiente, lei sarebbe stata martoriata (martoriata se fosse stata fortunata, sterminata nel caso peggiore) dai rimproveri dei suoi, e della nonna, e di tutta la sacra famiglia. E perchè? Per chi? Come le era venuta la malsana idea di aiutare quell'idiota?

Ancora una volta si trovò a dare ragione al suo infallibile istinto. Quel maledetto infallibile istinto. Sapeva che qualcosa sarebbe andato storto quella mattina, ed era esattamente ciò che era succsesso. Sorrise amaramente dentro di sè: Storto, non è che un pesante eufemismo nella situazione attuale. E siamo sicuri che sia ancora quella mattina?

Lenys non era certa.

"Cerchermo di non mandarli fuori di testa." Le sembrò quasi di vedere il dottore ghignare. Sembrava simpatico, ma stava flirtando con la sua amica, e la cosa non le andava molto a genio, con lei presente, almeno. Non parlava e non vedeva, ma ci sentiva ancora, anche se le voci le parevano allontanarsi sempre più col passare dei secondi. Che stesse di nuovo perdendo coscienza? Questo la spaventò. Non voleva tornare a dormire, voleva essere pronta per affrontare i suoi genitori faccia a faccia, e dire loro a chiare lettere che non voleva il loro aiuto. Per l'ennesima volta.

Qualcuno bussò alla porta in quell'esatto momento, decretando la fine dei suoi pensieri, e l'inizio del suo battito accellerato. Lo sentì nel 'bit' di quell'aggeggio che aveva accanto al letto. Il dottore disse: "Oh, oh. La signorina sembra agitata."

"E' la strizza." Sbottò Gigi, proprio mentre qualcuno sussurrava; "E' permesso?" Una voce dolce, eppure squillante, vibrava nella stanza come la corda di un violino. Lenys fu invasa da una strana calma, quasi un'estraneazione, al sentire di quel tono dimesso e timoroso, eppure qualcosa nel suo stomaco le suggerì che fosse tremendamente in imbarazzo. Forse era l'effetto dell'anestesia, ma si sentiva confusa e ritardata.

"Si accomodi. Lei è...?"

"Ehm...Bill Kaulitz. Buongiorno."

Chi? Che cosa? Come? Perchè?

"Lui è quello che doveva stare al posto della mia amica." Soffiò bruta Gigi. Lenys immaginò la sua espressione. Aveva alzato gli occhi al cielo, come se stesse dicendo qualcosa di ovvio, ma nel suo modo barbaro aveva inarcato il sopracciglio e agitato il collo fin quasi a farlo scardinare dall'asse. Poi si era fissata le unghia, e aveva schioccato la lingua.

"Sì, esattamente." Dalla voce dolce trapelò una scinitlla d'astio.

"Mi perdoni, ma lei ha un viso noto..." 

"Sì, è il cantante dei Tokio Hotel. Uhh, che emozione."

Oh, Dio, fa che sembri invisibile, rendimi invisibile, cancellami.

"Sono venuto a salutare Lenys." Bill cercò di mantenere la calma. La ragazza era incazzata per la sua amica. Pensava che se qualcuno avesse spedito Georg o Gustav a dormire in un lettino d'ospedale con alte probabilità anche lui avrebbe vomitato insulti.

"Oh, sai anche il suo nome? Allora a voi divinità olimpiche non interessano solo le giacche Prada! A proposito i tuoi vestitini sono nell'armadio in fondo."

No, Dio, rettifico: rendi lei invisibile, ti supplico! E se magari anche qualche santo vuole collaborare e cucirle la bocca, smetto di mangiare la cioccolata e vado a messa tutte le domeniche.

Bill sospirò lievemente, ma saggiamente decise di ignorarla. "Ho portato dei cioccolatini." Dalla voce sembrava terribilmente amareggiato. Lenys si sentì osservata. Non doveva avere una bella cera.

Gigi stava per aprire la bocca e rispondere, ma (Lenys ringraziò Dio per questo, e si rassegnò a dire addio ai suoi spuntini di mezzanotte, pane, burro e cioccolata) il dottore di cui ancora le era ignoto il nome, tossicchiò e disse: "Non credo che potrà mangiarne." come leggendole nel pensiero. "Per il momento è ancora incosciente, ma glieli terremo da parte per quando si sveglierà. Comunque non prima di un paio d'ore, quindi se vuole ripassare più tardi..."

Sembrava un invito implicito a levare le tende. Il ragazzo sospirò di nuovo, questa volta rassegnandosi. "Lei sta bene?" Domandò, muovendo due lunghi passi verso la porta. Era come se avesse paura di guardarla, o che si vergognasse di stare così bene, mentre lei era incosciente per causa sua e della sua inguaribile stupidità.

"Sarà libera tra un paio di giorni."

Lenys sbuffò. Favoloso; davvero favoloso.

"Potete darle questo da parte mia? Cercherò di tornare il prima possibile."

Questo? Questo, cosa? Tornare? Perchè?

Sentiva le voci sempre più remote e indefinite. Ma aveva capito che Bill sarebbe ritornato, poi cadde nel sonno, e non seppe più nulla.

***

"Che singifica che sei andato a trovarla?" Le labbra di Tom si chiusero ermeticamente dopo aver pronunciato quella domanda soltanto, probabilmente onde evitare che la sequela di parolacce che stavano attraversando la sua testa non venissero pronunciate. Tom non era noto per le due sue doti di pazienza e misericordia, ma volle lasciare che suo fratello si spiegasse prima di mandarlo a quel paese.

"Che il mio cervello ha mandato indicazioni precise al mio corpo perchè mi portasse nel posto in cui avrei potuto trovare un essere umano di genere femminile che rispondesse al nome di Lenys, e che per la precisione è la stessa persona che stamattina mi ha giusto salvato la vita!" Bill mise una mano sui fianchi mentre l'altra gesticolava troppo come al solito.

La mascella di Tom vibrò, mentre chiudeva le palpebre. Nella sua mente altre imprecazioni, ma la sua voce buttò lì un semplice. "Spiritoso."

"Ebete."

"Io, eh? Almeno ti rendi conto della cazzata immane che hai fatto, mi auguro."

"Sono andato a ringraziare la persona a cui dobbiamo la mia attuale permanenza su questo pianeta. Dimmi che cosa c'è di male!" Sbuffò il cantante, con sguardo candido e ostinato insieme. Suo fratello pensò che volesse fregarlo. "Sai benissimo a che cosa mi riferisco, Bill. Non fare il demente." Replicò, spicciolo.

"No, veramente non lo so."

"Bill, santo dio, pensavo che quella misera briciola di buonsenso che naufraga da parte a parte nel tuo cervello avesse decriptificato la frase: non credo che sia una buona idea, e l'avesse collegata al concetto: non commettere questa gigantesca stronzata. Invece sono pronto a scommettere che il bambino che è in te abbia preso ancora una volta il sopravvento, e tu le abbia lasciato qualche bigliettino suicida!"

"Non le ho scritto l'indirizzo."

"Ma vaffanculo, Bill." Sputò finalmente via, Tom. Suo fratello non si lasciò toccare minimamente dall'invito e scrollò le spalle con disinteresse. "Senti, ormai è fatta."

Tom sospirò forte, e guardò l'altro con serietà. "Io non voglio stare qui a farti le paternali, non sono nemmeno bravo a farle. Ma se ci hai messo nella merda non ti aspettare che io ti spalleggi, stavolta."

Bill finalmente alzò gli occhi nocciola, e li lasciò entrare direttamente dentro i suoi, penetranti e disarmanti. "Lo fai sempre." Soffiò, solo.

"Perchè sono un coglione."

"Sei il mio gemello." Un tremolante sorriso tirò su le labbra di Bill, mentre si avvicinava a suo fratello, e gli si sedeva in grembo. Tom non mosse un muscolo, si sforzava solo di sembrare impassibile mentre un sorriso scavalcava bellamente la sua volontà. "L'hai detto."

"Tanto lo so che vuoi abbracciarmi, dirmi che mi ami e che sei grato a gesù bambino che io sia ancora vivo e vegeto, e che puoi ancora mandarmi a fanculo." 

Dopo un attimo di silenzio, due risate argentine riempirono all'unisono la stanza, e i corpi di entrambi vibrarono insieme. Il tono squillante, e quello basso e roco, uniti, davano vita a uno dei suoni più piacevoli che entrmbi riconoscevano.

"Ecco, vai a quel paese, scemo. Levati dalle scatole."

Bill si alzò e gli strizzò l'occhio. "Non c'è bisogno nemmeno che te lo dica, vero?"

"Starò zitto, e adesso vattene!"

Suo fratello ridacchiava tranquillo, mentre si chiudeva la porta alle spalle.

Un giorno crescerà. Ma spero che quel giorno sia ancora lontano. Tom sorrise.

***

La porta si aprì mentre Gigi stava sbadigliando sonoramente. Nessuno aveva bussato, e si voltò curiosamente. Allargò lievemente gli occhi, alla vista di coloro che stavano facendo il loro ingresso parlottando sommesamente l'uno sull'altro, nella stanza di Lenys. Una robusta signora anziana, e due eleganti individui di sua più che vecchia conoscenza. Gigi era preparata a quell'incontro. Portò una mano alla bocca per schiarire la voce, si stampò un sorriso dei suoi sulla faccia, e con assoluta nonchalance, disse: "Buongiorno anche a voi."

La donna che aveva dinanzi semplicemente si limitò a lanciarle un'occhiata glaciale. La soprassò, e restò ferma dinanzi a ciò che le stava di fronte. Sua figlia, di diciannove anni appena, stava bianca e addormentata sul letto di un ospedale qualunque, nella città infernale dove aveva avuto la pessima idea di lasciarla andare. L'omino che le stava dietro invece era il signor Blanchard, il padre, con in viso la sua espressione delusa, quella volta quasi preoccupata. Gigi già voleva cacciarli via. Lenys l'avrebbe ringraziata di sicuro. Svegliarsi con loro affianco sarebbe stato come guardare negli occhi l'uomo nero.

"Ci risparmi la sceneggiata." La donna non si voltò nemmeno per parlarle. Restava voltata di spalle. Quasi sempre si rivolgeva alla gente come se si trattasse di umili spettatori. Come se fossero le comparse del suo monologo.

"Curioso, stavo proprio per dirlo io a lei."

Anche il marito, a passi lenti e tediati, la scavalcò, voltandosi appena per parlarle. "Ci lasci soli, prego." Disse.

Senza troppi complimenti, eh.

"Non mi dia del lei, prego, sta parlando con una ragazza di Brooklyn. Siamo gente umile e modesta." Gigi si sforzava di tenere a freno il ringhio che le ribolliva in gola mentre si rivolgeva a loro. Cosa che non avrebbe fatto con qualunque altra persona l'avesse trattata in quel modo. Ma si convinceva sempre più che leccare il culo a quella gente non serviva a niente. Erano troppo presi da sè stessi per vedere i tentativi di chi stava loro intorno di ingraziarseli. Non che lei avesse mai voluto farlo. Solo non voleva peggiorare le cose con loro. 

"Anche molto insolente, direi."

"Oh, a noi poveri è concesso di essere incivili."

La signora Blanchard si voltò finalmente e di nuovo la guardò dall'alto in basso. "Avevo detto niente sceneggiate." Soffiò, come una gatta.

"Chiedo umilmente perdono." Gigi sorrise mellifluamente, poi indicò col capo la sua migliore amica, e lo sguardo le si fece affilato, quasi minaccioso. "Se si sveglia e grida all'aggressione sono qui fuori."

"Se non grida con un topo in casa, non si spaventerà per una visita di cortesia." Un sorriso arrogante stirò le labbra scarlatte della donna.

"Certi topi sono più civili di altri. Con permesso." Fece un inchino, e ghignò beffarda. Non l'avrebbero mai perdonata, ma avere Lenys con lei era importante. Molto di più che ottenere la stima di quella gente. Sì, non si pentiva di averla portata via da loro. L'aveva salvata.

Note dell'autrice: Come sempre ringrazio i quattro dell'apocalisse per avermi ispirato, e fatto passare tante ore morte in loro immaginaria compagnia.
Ringraziamenti anche a vavy94 e a selina89 per le recensioni, è sempre bello avere nuove lettrici! E un ennesimo grazie speciale anche alle mie tre scrittrici preferite, che hanno recensito, e Principessa in particolare che mi ha pazientemente sopportato quando le chiedevo consigli. :)
Spero che questo capitolo vi abbia intrigato abbastanza, e che continuerete a leggere e a raccontarmi che cosa ne pensate di questa storia. Baci, Loryherm ^^

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Capitolo 3
*** Like A Phantom Rider. ***


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Like a phantom rider.

Each step you make, each breath you take

Your heart, your soul, remote controlled,

This life is so sick You're automatic to me,

There's no real love in you


                                           Why do I keep loving you?

                                                                                                                                        ***

"Credo che si stia svegliando..."

Oh, no. No. Non voglio svegliarmi.

"Le parlerò io per prima."

Mamma...

"Cecil, cerca di non metterla subito sotto pressione. Con la gentilezza si ottiene di più."

Perfetto, c'è anche la nonna.

"Oh, certamente. Le darò un bacino sulla fronte per aver rischiato volontariamente di porre fine alla sua vita, mamma."

"Non essere sciocca, cara. E' solo un'adolescente. Magari era innamorata del ragazzo."

"Fesserie. Lenys non si prenderebbe mai una cotta per un celebrità, va contro i suoi indefessi principi."

"Certe cose non si possono decidere."

"Ad ogni modo non c'era bisogno di farsi ammazzare da un taxi. Non bastano più i messaggini sul cellulare per dire sono pazza di te?"

"Certi discorsi mi imbarazzano, Cecil."

Va bene, Lenys, apri gli occhi e falli smettere di proferire simili stronzate.

"Come ci è venuto in mente di lasciarla venire?"

"E' stata tua la brillante idea, l'hai dimenticato?"

"Ho voluto darle fiducia."

"Era una bambina, e a quanto pare tale è rimasta."

Oh, ma ti prego.

"A che cosa serve rinfacciarsi delle colpe adesso, cara?"

"Desidero avere voce in capitolo se non è chiedere troppo; state parlando di me come se non potessi ascoltarvi."

Sentì l'eco della sua voce, e quasi si spaventò lei stessa. Roca, un soffio appena, come se non parlasse da anni. Con i suoi genitori non parlava da tempo, infatti. E la sua voce, in loro presenza, le era sempre parsa inudibile e lieve. 

L'anestesia le aveva proscigato ogni forza, ma avrebbe dovuto riprendersi, e in fretta, per affrontare un simile incontro. 

Cercò di abituare gli occhi alla luce fortissima nel neon che aveva sopra la testa, ancora fasciata a quanto pareva. Sentiva una brutta pressione sulla fronte, madida di sudore. Aveva caldo, e una gran sete.
"Mi fa piacere che per una volta tu cerchi di ascoltare, Lenys." La voce di sua madre la ricordava esattamente, così tagliente, soffiata, netta. 

Si sforzò di focalizzare meglio le tre figure che stavano vicine (troppo vicine) al suo letto. Sua madre (Cecil, come preferiva farsi chiamare da lei), con la sua pelliccia addosso, la bocca rossa, i fluenti capelli biondi, troneggiava rispetto a suo padre, dietro di lei, e alla nonna, seduta sulla sedia lì accanto, i suoi capelli parevano più grigi di quanto ricordasse.

Si prese del tempo prima di rispondere, del tempo un cui si impose di restare calma. Aveva ragione sua nonna; con la gentilezza si ottenevano più risultati. Ma la verità è che aveva paura, talmente tanta che si sarebbe aggrappata a qualunque cosa pur di non cedere ai loro voleri, che già immaginava.

"Vi ho sempre ascoltati, ho solo deciso di darvi retta. C'è una sottile, ma non banale differenza." Disse, tirandosi su, e abbassando gli occhi. Ritrovare quella luce lapidaria nelle iridi chiare di sua madre fu come ricevere una pugnalata dritta nella bocca dello stomaco, i suoi occhi la lacervano dentro con crudeli parole mute.

"Se ci avessi dato retta ora non saresti qui, noi non saremmo qui." Sibilò, con assoluta noncuranza. 

Lenys non voleva più sentirsi offesa dal suo trattarla con sufficienza, ormai avrebbe dovuto esserci abituata. Ma ogni qual volta le capitava di interagire con sua madre, le sembrava di tornare bambina. Una bambina sciocca, che si trovava a mostrare sensazioni, idee, fedi, che ad un adulto apparivano come assolutamente prive di senso. Allora anche lei cominciava a balbettare, a chiedersi se fosse nell'errore, e puntualmente a rispondersi che per loro non sarebbe mai stata abbastanza in ogni caso. Non avrebbe mai eguagliato la 'grandezza' di chi l'aveva preceduta, un po' per quel suo ostinato caratteraccio, un po' per convinzione. Nessuno si rendeva conto di quanto poco le importassero le loro effimere grandezze. Aveva trovato molto di meglio, andando via. Si era messa alla prova, e per la prima volta si era sentita capace, adulta. Per quanto vivesse un mondo parallelo a quello che fino a quel giorno aveva conosciuto, si era vista riflessa in uno specchio, così diversa da sua madre, ma per la prima volta, non si era creduta più piccola. Solo diversa. Nella situazione attuale le sembrava quasi di dover spiegare i colori a un cieco.

"Ma non sarei felice come adesso." Rispose, nella vana speranza che lei potesse capire.

"Felice. Cosa sai della felicità? Hai solo diciannove anni."

Oh, ma perchè ti continui a farti del male, Lenys?

"Proprio perchè sono giovane sono felice, mamma. Sono libera di costrurmi una vita." Disse, riascoltandosi come se ormai conoscesse quelle parole a memoria, come se fossero un'eterna litania della sua vita. Aveva creduto che non ce ne sarebbe più stato bisogno, quando era approdata a New York.

E' mai possibile che mi trovi ancora una volta ad affrontare questo discorso con loro?

Evidentemente si sbagliava. Ancora una volta.

"Ne sei davvero così convinta? Per esempio adesso cosa credi di poter fare?" Sua madre inarcò il sopracciglio perfetto, e increspò le labbra scarlatte, senza neanche sforzarsi di non apparire compiaciuta.

"Non sono affari vostri." Sberciò, affilando lo sguardo castano. Suo padre sbuffò teatralmente, restando però in silenzio, come da copione. La nonna sorrideva, distante. Intanto sua madre, si dilettava a dimostrarle la sua totale, insanabile, incompetenza.

"Non hai un soldo, hai bisogno di cure mediche dignitose, tuo nonno è malato e vuole vederti." Recitò, a raffica.

Era necessaria anche la nota pietosa?

"Cecil, non voglio venire via con voi. Sarebbe il primo passo per arrivare dove volete portarmi." Doveva essere decisa, o non l'avrebbero mai lasciata in pace. Ma non riusciva a guardarla negli occhi. Era ancora difficile.

Faceva male, rivedersi nelle sue aspettative deluse.

"Siamo i tuoi genitori, abbiamo a cuore il tuo futuro."

Lenys non si lasciò toccare dal suo tono più mite, nè dal suo imporsi pazienza, nè dalle chiacchiere riguardo suo nonno. Erano decenni che andavano predicando di sue presunte malattie, ed erano decenni che lui restava sano come un pesce.

"Avete a cuore il patrimonio di famiglia." Replicò, quindi, spicciola.

"Non essere melodrammatica, ora." Ancora quello sguardo. Quello sguardo puntato sempre altrove, lontano. 

Dio, ma mi vedi?

Forse non c'era speranza, davvero. Doveva rassegnarsi.

Non avrebbero mai capito quello che sentiva, non avrebbero mai accettato la sua diversità, la sua intraprendenza, la sua voglia di evadere da quel mondo troppo stretto, delimitato da muri di borghesi convinzioni, di fedi superficiali, e di egoismo. 

Eppure sapeva perfettamente cosa aveva sempre voluto, cosa le era mancato nel suo rapporto con loro. Non le rassicurazioni, non le dimostrazioni di affetto. Non avrebbe mai smesso di volere che loro la guardassero. Solo che si soffermassero per un momento a valutare le sue potenzialità. Senza preconcetti, senza programmi, senza pregiudizi.

"Dovete garantirmi che potrò andarmene quando vorrò."

Ancora una volta si trovava a concedere loro una possibilità. 

"Non possiamo promettertelo. Dipende da cosa diranno i dottori, da quale lavoro troverai, dalle esigenze della famiglia." Sua madre sapeva mentire anche così, guardandola in faccia.


L'aveva sempre fatto bene. Ordinava, con la presunzione di sapere cosa fosse giusto. In realtà che cosa poteva sapere della vita un donna cresciuta in una villa di tre piani, che aveva frequentato scuole private, avuto due tate, cinque domestici, e un'eredità pari a quella di tre generazioni di un comune dirigente d'azienda? 


"La famiglia, la famiglia! Ma che ne sapete di cos'è una vera famiglia? Per voi si tratta solo di mantenere alto un nome, tra l'altro costruito su un sacco di bugie."

"Lenys, stai esagerando."

"Dici delle assurdità smisurate." Fece eco suo padre, la sua bocca si era mossa appena, parlando in un sussurro. 

Sussurri, dietro le porte, dietro le schiene, dietro gli occhi. 

Coi silenzi suo padre se la cavava piuttosto bene.

Ma quanto poteva fare rumore il suo silenzio? Quanti passi ci sarebbero voluti per riempire quel vuoto? 

"Sì, dimenticavo di essere una pazza a credere che ci fosse del marcio in tutto il mondo che vi gira intorno."

"Marcio?" Il volto di sua madre si accese di sdegno, e severità. "Marcio è quello che ti abbiamo dato fino a due anni fa? Una bella casa, dei bei vestiti, un buon nome, un'ottima istruzione, feste e incontri con gente che le tue coetanee ti invidiano da sempre?"

"Siamo persone oneste che fanno un lavoro che purtroppo spesso richiede di aggirarsi in luoghi e situazioni poco piacevoli." Suo padre ripteva quelle parole come un disco rotto, come una macchina, ed erano cose che non pensava, che sapeva essere una menzogna. Ma forse, ormai, quasi non se ne rendeva più conto, di cosa fosse vero e cosa no. 

"Ora chi è che dice delle smisurate assurdità, papà?" Soffiò, esasperata da tanta cecità, e ostinazione.

"Abbassa la voce." Suo padre si guardava intorno con aria circospetta, gli occhi nocciola sgranati e preoccupati.

Lenys alzò gli occhi al cielo. "Non sia mai che qualcuno ci ascolti." Sbottò.

"Sei stata capace di affilare la lingua anche con l'anestesia in circolo, vedo." Sua madre la fissò, un breve cenno di sorriso le stirò le labbra fini. 

Lenys passava ore a gurdarla quando era bambina, invidiandole quell'eleganza, quella raffinatezza, quasi congenite, del tutto naturali. Anche in quel momento non potè fare altro che osservarla, e constatare ancora una volta quale immensa distanza intercorresse tra loro. 

Non era cambiato niente negli anni. Lei era rimasta la persona discreta di sempre, nelle parole, nei gesti, nell'aspetto. E sua madre la donna imperiosa e determinata che era.

Il colore rosso del rossetto poteva nascondere tante parole, scialbe. Lo sguardo lontano poteva coprire tanti segreti. 

Quante bugie si dovevano dire per fare di una vita una bugia? 

"Sono ore che sono cosciente, e ho avuto due anni per pensare a tutte le sciocchezze che mi avete detto su come si vive in questo mondo." Sibilò. 

Sua madre rise, riempiendo la stanza di una frivola superbia.

"Noi non viviamo come te." Constatò, lapidaria. 

"Dovreste. Capireste molte cose." Riuscì a sorridere anche lei, beffardamente. 

Buffo che sia proprio io a dirvi questo, eh?

"Sei tu che devi capire molte cose, Lenys!" Sua nonna la fece sussultare, col suo tono sentito, e parlando così all'improvviso. 

"Sei così giovane e ingenua. Credi che il mondo sia tuo a questa età, ma non è così." Il suo sguardo virente era acceso di un sentimento che Lenys non sapeva ben identificare. Forse l'avrebbe detto rimorso. Restò sorpresa. Sua nonna era una donna dalle maniere gentili, certo, ma come sua madre era stata educata a calibrare bene le proprie emozioni. Invece in quell'istante, sua nipote, vide riflesso nei suoi occhi soprattutto un interesse sincero, una sensazione profonda. 

"Lasciateci sole per favore, cari." Disse seria, ma rassicurante. 

Lenys osservò sua madre. Era evididentemente preoccupata. Voleva essere sempre lei a tenere il gioco, non era il tipo che abbandonava il campo a metà partita. 

Non fu l'unica a pensarlo. 

"Cecil, facciamo come dice." Suo padre le poggiò una mano sulla spalla. I suoi occhi erano sicuri, come se sapesse che lasciare fare alla nonna sarebbe stata una buona mossa. 

Non ne sarei così convinta al tuo posto.

Sentì il respiro di sua nonna affaticato, non più lieve e leggero come una volta. Le sedette accanto quando i suoi genitori uscirono dalla stanza. Le rughe del suo volto le scavavano negli occhi un'espressione ansiosa, come se avesse fretta.

"In tutti questi anni ne ho viste talmente tante, bambina mia." Esordì. C'era stanchezza nel suo tono, ma anche dolcezza. Lenys non l'aveva mai sentita così vicina

"Sei così giovane, ti sembra del tutto sensato credere che da soli si possa conquistare la libertà. Ma ascolta chi ha più esperienza di te: per avere un posto sicuro in questo mondo, devi lottare con le unghia e con i denti." Continuò. "Hai la fortuna di avere una famiglia che può aiutarti, che può renderti le cose facili e immediate. Sfruttala."

La ragazza scosse il capo, immediatamente. Era così stanca di ripetere le sue convinzioni, non voleva più farlo.

"Non la penso come te, lo sai. Questo è il mio posto, è il mio modo di vivere." Si limitò a dire, sofferente. Aveva idea che non si sarebbe arresa. Ma la sua vicinanza improvvisa la rendeva curiosa. Perciò restò ad ascoltarla. Pur non riuscendo a guardarla. 

Ha gli stessi occhi della mamma. Quasi l'avevo dimenticato. 

La nonna le sorrise indulgentemente, scrutando dentro i suoi occhi nocciola con reale interesse. 

Erano così diverse loro due.

"Torna a casa per un po'. Se non per noi, almeno per tuo nonno. Vuole soltanto vedere che stai bene, e salutarti. Ti prometto che gli impedirò di chiederti di restare." 

Lenys alzò immediatamente lo sguardo su di lei, colpita dalle sue parole. La paura di guardarla svanì, sostituita da una sensazione affatto piacevole. 
Forse comprendeva perchè la nonna apparisse così sciolta, quasi arresa. Rassegnata.

"Nonna, io..." Sussurrò, titubante. 

"Siamo vecchi, Lenys. Dopo tanti anni vogliamo vivere ciò che ci resta in pace, potresti regalargli dei bei giorni. Smetterebbe di sentirsi in colpa."

In quel momento venne pervasa da un pessimo presentimento, e si maledì. Ne fu del tutto sicura. Sua madre non stava mentendo. Un problema c'era, ed era grave. Un problema che riguardava l'unica persona che per quanto incarnasse in sè tutto ciò che lei aveva da anni e con assoluta determinazione voluto rifiutare, era anche l'unica che aveva sempre rispettato, con cui si sentiva legata nel profondo. E che in questo la ricambiava totalmente.

"Nonno sta davvero male, allora?" Domandò, con voce fievole. 

La signora Blanchard le posò delicatamente una mano sulla sua, e sorrise, incoraggiante. Per la prima volta Lenys riconobbe nei suoi occhi, limpida e palese, una bugia.

"Forse si riprenderà."

E così, decise.

"Fai rientrare mamma e papà. Dobbiamo organizzarci per la partenza."

***

C'era un silenzio innaturale nella stanza. Ogni dove andassero, lui e i suoi amici, portavano sempre scompiglio e devastazione, e sorrise al pensiero che per un po' di tempo ci sarebbe stato lui, da solo, dentro quella stanza, coi suoi pensieri. Gli piaceva ritagliarsi il suo momento di relax, tra le sollecitazioni incalzanti dello staff, la scaletta di canzoni da provare, e il frastuono della folla acclamante e delirante durante i concerti.

Sì, c'era un momento della giornata in cui Georg voleva distendersi, respirare un po' di sana solitudine. Ed era esattamente in quei momenti che qualcuno trovava il modo di irrompere diseducatamente nella sua meravigliosa bolla immaginaria. Quasi sempre quella persona era la stessa.

"Chi è?" Sospirò, incrociando le gambe e mettendosi seduto. Nella sua mente vagliò tutti i modi possibili per far capire a chiunque lo stesse disturbando che avrebbe fatto meglio a togliersi subito dalle scatole. 

Bill entrò senza nemmeno rispondere. Sul suo viso un'adorabile espressione corrucciata, gli occhi nocciola brillanti e liquidi, le labbra incurvate all'ingiù. Restò lì, ritto e steso come un fuso, le spalle tese. "Sono molto preoccupato." Esordì, come se il suo interlocutore tenesse il filo dei suoi pensieri. Lo guardò per alcuni istanti, facendosi teso anche lui. 

Bill era una persona molto sensibile, e spesso il passo perchè la sua sensibilità si tramutasse in ansia sembrava breve quanto un battito di ciglia. In quel caso anche lui credeva che fosse giusto preoccuparsi. Comunque non sarebbe stato saggio da parte sua mostrarsi troppo turbato, o gli avrebbe dato ragione di agitarsi. Invece gli sorrise, a mezza bocca, con uno sguardo comprensivo e ammonitore insieme.

"Lei sta bene. E' stato un incidente, Bill."

"No, è stata una mia colpa. Se non fossi stato così incosciente..."

"Non serve che tu te ne faccia una colpa, adesso. Ormai è successo. I medici sono ottimisti. Si riprenderà presto, in un paio di giorni sarà di nuovo in piedi."

Le sue parole non sortirono alcun effetto sull'umore di Bill. Forse non le aveva nemmeno ascoltate, troppo preso dal flusso veloce dei suoi pensieri. Il suo sguardo era ancora fermo nel vuoto, e la sua bocca piegata.

"Bill..." Lo chiamò, teneramente. "Non tormentarti così." Gli fece cenno di raggiungerlo lì sul letto, battendo con una mano sul materasso. Quasi gli sembrò di vedere l'accenno di un sorriso piegargli le labbra. Se le era martoriate mordendole, come sempre quando era particolarmente nervoso per qualcosa. Bill si avvincinò con passo lento e stanco, ma lo guardò fisso negli occhi mentre il tragitto diventava sempre più breve. Georg non volle leggere quelle domande nei suoi occhi, ma gli fece spazio, come se gli stesse rispondendo implicitamente. Quando furono entrambi seduti, sostennero l'uno lo sguardo dell'altro. Bill non voleva darsi pace.

"Non costringermi a chiamare tuo fratello." Lo minacciò, severamente.

"Tom non potrebbe fare niente per farmi stare meglio al momento, ho bisogno di te."

Georg si impedì di assumere un'espressione intenerita. "Però potrebbe darti una bella strigliata." Ghignò. Bill sbuffò, reprimendo anche lui un sorriso complice. Poi levò via una ciocca di capelli dal viso con fare altezzoso, lo spinse sul cuscino con l'altra mano, e si accoccolò sulla sua pancia. Grugnì: "Bell'ingrato. Sono venuto da te, e mi cacci via." Gli occhi di Georg si fecero birichini. "Ti sei appena sdraiato su di me, e sono io l'ingrato. Fai silenzio, e dormi che domani è una levataccia." Bill alzò lo sguardo su di lui, e gli sorrise finalmente apertamente. "Mi lasci dormire qui?"

"Perchè, te ne andresti via?" Gli rispose l'altro, ma i suoi occhi erano ridenti e accondiscendenti.

"Non ci penso minimamente." Mugulò Bill, accucciandosi più su, sul suo petto. Georg sistemò un braccio sotto il cuscino sbuffando una risata, e scosse il capo. "Spegni la luce, piattola."

Ma Bill dormiva già; sembrava essersi finalmente rasserenato.

***

"La riportiamo a casa."

"Lei non vuole."

"E' stata lei a decidere di venire con noi, oggi, Gigi."

"Non è vero."

"Se non vuoi credere a noi, chiedilo a lei. Ti fidi di lei, giusto?"

"Lenys non lo farebbe mai."

"Partiamo domani mattina presto. Ora noi andiamo in albergo, questa puzza è insopportabile. Non stressarla, il medico ha detto che deve risposare. A presto, cara."

"Speriamo di no."

Gigi stava ripercorrendo quella conversazione da lunghi minuti. Si era lasciata cadere sulla sedia, quando aveva scoperto che le parole di quella megera erano vere: Lenys sarebbe partita l'indomani con loro per tornare in Francia, e forse non sarebbe più tornata. Ed era stata lei stessa a deciderlo. L'aveva scelto. L'aveva voluto.

Non le sembrava possibile che dopo due anni in cui aveva fatto tanto per sè stessa, la sua migliore amica fosse ricaduta in quella maledetta trappola. Continuava a pensare alle sue parole, ma non vi trovava alcun senso. Se c'era una cosa di cui era stata totalmente certa fino a quel giorno, era che lei non sarebbe mai stata in grado di fare la vita della sua famiglia.

"Devo farlo per mio nonno, Gigi. Credo che stia morendo." 

"Tuo nonno doveva morire dieci anni fa, ed è ancora vivo e vegeto."

"Non essere cinica. Ora sono certa che sia diverso. Tornerò, te lo prometto."

"Non promettere se sai di non poter tener fede a quello che dici." 

Ma aveva dovuto ricredersi. 

Era tutto vero.

"Gigi, questa decisione è stata difficile da prendere, non farmi sentire anche in colpa." 

"La vita è la tua, devi farne ciò che credi sia meglio per te."

"Lo sto facendo."

"Stai facendo quello che è meglio per loro."

"Non giudicarmi, per favore."

"Non ti giudico, Lenys. Ti lascio libera, perchè se vuoi davvero il bene di una persona, sai quando devi lasciarla andare via." 

Lei non l'avrebbe tenuta in gabbia. Non come loro. Anche se arrabbiata, era furiosa, era delusa. E avrebbe voluto tenerla con lei anche solo per dispetto. 

"Non mettere il dito nella piaga."

"Ora vado a casa, devi riposare, hai una pessima cera. Fatti sentire, va bene?"

"No, Gigi, resta ancora." 

"Non posso, l'orario di visita è finito."

"Gigi..."

"Niente lacrime, domani passo a salutarti."

"Ti prego, non avercela con me."

"Buonanotte, Lenys."


***

New York era una città infinita, Gigi era stata innamorata di quella infinitudine. Ma non quella notte. Quella notte New York le sembrava una enorme distesa senza volto, un rumore intermittente che disturbava il suo silenzio. Mentre marciava senza una meta, senza trovare al suo cammino un barlume di senso. 

Niente lacrime. Niente lacrime. 

Non sapeva dove stava andando. 

No, vaffanculo.

Lei non piangeva mai, ma non quella notte. Lontano da tutti, nella folla, nel caos, sotto le luci, nel buio degli occhi sconosciuti, infondo, poteva anche piangere. 

Perchè lei andava via. E chi sapeva, se sarebbe mai tornata?

Unica speranza nel domani.

E se la notte porta davvero consiglio, forse deciderà che il suo posto è questo qui, e capirà che sta per fare una gran cazzata. 

Forse.  

Ma la vista di un letto nudo, la mattina seguente, decretò la netta fine delle sue speranze. 

Mentre un'infermiera compilava dei dati in assoluta concentrazione, senza notarla, una donna sistemava la sua stanza, che ancora sapeva di lei, aveva il suo odore, i suoi fiori, le cartacce della cioccolata, la busta di marshmellows, vuota. Tracce della sua passata prensenza. Ma lei non c'era. 

Lenys era andata via, e senza salutarla. Non le aveva detto nemmeno ciao, nemmeno ti voglio bene, nemmeno niente. Probabilmente a quell'ora era già su un volo per l'Europa. Un volo per un futuro che fino al giorno precedente aveva scelto di rifiutare, che non era il suo, e lei stessa lo sapeva perfettamente. Perchè quel giorno che l'aveva conosciuta, col suo vestito azzurro, i capelli ancora castani, gli occhi inondati di lacrime, quel giorno Gigi, in lei, aveva visto un abbandono. La voglia di lasciare tutto e scappare via lontano. 

Lei l'aveva presa e portata con sè, come se non fosse stata lì per nessun'altro motivo al mondo. Avevano vissuto esperienze pazze e ordinarie, insieme, come due amiche comuni. 
Come persone semplci. Sì, Gigi pensava che Lenys, dietro quel nome importante, fosse davvero una ragazza candida e inguenua, vera, genuina, che con quella gente non avrebbe mai avuto niente che vedere. 

Ma forse si era sbagliata. 

Forse Lenys è solo come tutti gli altri. 

Era arrabbiata, furibonda, decisamente fuori di sè. Nei suoi occhi verdi, un tremore annebbiava tutto, mentre quell'uragano di pensieri la lasciava indifferente a tutto ciò che le accadeva intorno. 

Come aveva potuto illudersi di poter valere più di un patrimonio milionario? Insomma, era solo una comune, ordinaria, ragazza americana. E fino a quel credeva di essere stata speciale per lei, esattamente grazie a questo. E, però, effettivamente, quanto poteva durare?

Prima o poi, davanti a un futuro luminoso, chiunque volterebbe le spalle a un dozzinale modo di vivere.

Ma stava forse dando la colpa a sè stessa? 

No, invece. 

Era di Lenys, la colpa. Era stata lei stessa, in perfetta autonomia, a scegliere di partire per gli Stati Uniti, era stata lei a decidere di vivere con lei, come lei.  Gigi se ne era presa cura con premura e attenzione. Ma avrebbe dovuto lasciarla perdere, perchè a quanto pareva i suoi erano stati solo sforzi inutili. 

Che razza di ingrata. Volta le spalle alla famiglia, ora a meNeanche fossi stata un terribile sbaglio.

Ma le sembravano inutili tutti quei pensieri, quelle giustificazioni, quelle bugie, nella sua testa.    

In realtà sapeva bene come si sentiva. Non oltraggiata, nè offesa, nè arrabbiata.

Era solo triste, era solo a pezzi.

Sì, infatti stava di nuovo piangendo.

"Buongiorno, amica di Lenys."

Una voce dolciastra e sonora alle sue spalle la fece sussultare. 

Quella voce...

Prima di voltarsi, Gigi, pregò che non rispondesse al nefasto individuo che malauguratamente poteva essere l'unico ad esserne il detentore.

Sentì il suo volto ceruleo infiammarsi di fastidio, asciugò in fretta una riga di pianto, con le dita. Quando alzò lo sguardo, e inquadrò la suprema imponenza di una cresta corivina, un lampeggiante sguardo castano, una lucida giacca di pelle, e un paio stivali di camoscio a giro coscia, non potè frenare un secondo sussulto: "Tu! Razza di cataclisma umano, che diavolo ci fai qui?" Ruggì.

Ci mancava solo che la giovane onnipresenza di Bill Kaulitz venisse a dare una nota di colore alla sua giornata di sinfoniche armonie variopinte.

Lo sguardo nocciola del frontman venne attraversato da una luce di sorpresa. 

"Sono venuto a salutare Lenys. Ieri non ho potuto..." Si giustificò da subito, pur restando ritto e rilassato di fronte a lei, con in mano il suo bel mazzo di fiori giallo canarino.

Questa tipa deve farsi una cura di psicofarmaci belli potenti.

"Ah, nemmeno io ho potuto, e soltanto perchè per colpa tua e della tua patologica demenza la mia amica non solo è finita in ospedale, ma adesso i suoi genitori l'hanno anche riportata lontano mille milioni di chilometri da qui."

Bill notò che la ragazza parlava tra i denti, come se si stesse trattenendo dall'urlare a squarciagola, o dallo scaraventare ogni elemento solido presente nella stanza. Probabilmente compreso lui. Quindi optò per un approccio paziente e sereno. "Che cosa significa, esattamente, mille milioni di chilometri?" Domandò.

Gigi alzò le mani al cielo, reprimendo un ringhio in gola, e poi le portò ai disordinati capelli castani, scompigliandoli. Era evidente che non avesse chiuso occhio quella notte, per via delle lunghe ombre scure sotto lo sguardo virente, sulla pelle chiara e sciupata.

"Francia, mio caro signore. Europa! Un altro continente!" Esclamò, come se fosse ovvio.

"Aspetta." Bill era decisamente più che confuso, dopo una simile sconcertante rivelazione. "Mi stai dicendo che Lenys non solo non è più qui, ma è anche fuori dai confini del Paese?"


"Oh, ma che bravo! Allora non sei soltanto dotato di altezza e capelli; c'è anche un barlume di vita sotto quel pennacchio che porti in testa!" Soffiò, bieca e rapida.

Poi si morse le labbra. Forse stava esagerando. Ma era furiosa. Era arrabbiata con lui, e non poteva negarlo, e non le interessava che si trovasse a parlare con l'essere di dubbia sessualità che trascinava le masse femminili come un mucchio di estrogeni modificati in laboratorio, e che faceva milioni a palate per il suo bel culetto e qualche mossa da checca repressa.

Era tutta colpa sua.

"Scusa, ma perchè te la prendi con me?" Bill alzò le spalle e la schiena, erigendosi in tutto il suo metro e novanta. La sua voce cambiò completamente tonalità, era chiaramente seccata, eppure anche interdetta e turbata. C'era una strana innocenza nei suoi occhi nocciola, qualcosa che con il suo aspetto stonava, però sembrava pure cadere a pennello ad uno sguardo più attento.

Ad ogni modo Gigi gli lanciò un'occhiata sferzante.

"E me lo chiedi? Quando hanno investito la mia amica, tu creatura celeste, stavi facendo shopping in una delle strade più costose di New York City, lei stava lavorando per mantenersi la vita, gli studi, e un monolocale, in modo da non permettere ai suoi assurdi familiari di soffocarla con le loro smanie di potere. Ora, quei suoi assurdi familiari, a causa della tua dannosa, sciagurata, deleteria e avversa stupidità, sono venuti a prenderla direttamente da Riccolandia, e l'hanno trapiantata a forza nel loro mondo dei sogni. Il che mi riporta al fatto che per la tua sovracitata 'disattenzione', sono qui a chiedermi come, se, e quando potrò mai rivedere la mia migliore amica. Ecco, perchè me la prendo con te!"

"Non ci capisco niente." Ancora lo sguardo ingenuo e candido.

"Non avevo dubbi su questo." 

Il ragazzo si lasciò scivolare addosso anche quell'ennessima denigrazione, e invece domandò: "Sei sicura che non le abbiano semplicemente cambiato stanza?"

Nelle iridi verdi di Gigi si posò una macchia di rassegnazione.

"Certo che ne sono sicura." Sibilò, scorbutica. Le stava forse dando dell'idiota?

"Ho capito: vado a chiedere in assistenza." Bill le voltò le spalle, e si preparò ad incamminarsi verso il corridoio, quando Gigi perse completamente la pazienza.

Ma chi si crede di essere, questo?

"Senti Divina onnipotenza, la situazione attuale è abbastanza distastrosa anche senza che la componente egocentrica di te venga a mettere altro subbuglio." Sbottò, a voce alta.

Bill si voltò ancora verso di lei, apparentemente con assoluta calma. La fissò intensamente per più secondi, osservando il suo sguardo farsi sempre più acceso e di sfida, e poi rispose: "E' sufficiente la tua di componente egocentrica, che la mia, e dico la mia, non riuscirebbe ad oscurare neanche tra cento anni. Focalizzati sul problema, piuttosto." 

"Non c'è proprio un bel niente su cui focalizzarsi. Ha deciso così, sono riusciti a convincerla." Replicò lei, immediata. 

Era stupita dal suo repentino cambio di atteggiamento. Evidentemente la signorina sotto lacca e trucco ha anche un bricolo di fegato.
"Sono i suoi genitori, forse sanno ciò che è meglio per lei." Osservò lui, semplicemente. 

"No, sanno quello che vogliono, e a quanto pare mi sbagliavo a credere che per una volta non sarebbero riusciti ad ottenerlo." 
Lo sguardo del ragazzo si fece ancora diverso; ora era solo interessato. "Sono persone così orribili?" Chiese. 

"Eufemismo." 

"Stronze?"

"Enorme eufemismo."
"Vili, infami e abbiette?"

"Ecco, ora ci sei vicino."

Bill tirò fuori un'inaspettato sorriso divertito, che abbagliò Gigi non poco, anche se solo per un istante. 

Oh, ragazzo mio, vacci piano con quegli espedienti di mercato.

"Perchè ce l'hai così tanto con loro?" Le domandò. 

Gigi lo fissò ancora per qualche secondo, Bill aveva disegnata in volto un'espressione genitile, di nuovo. Un'espressione adorabile, anzi.

Troppo adorabile. 
"Non sono cose che ti riguardano." Soffiò, epigrafica. 

"Oh, scusa se cercavo di capirti e consolarti." Lui incrociò le braccia al petto e fece schioccare la lingua sonoramente, come un bambino. I suoi occhi d'oro erano pieni di offesa e rammarico. 
"Caro, forse la tattica del labbruccio tremulo e gli occhioni teneri funziona con il resto del mondo, ma con me no, quindi risparmiati per le scene." Fece lei, assottigliando lo sguardo verde scuro. Pensava di conoscerli più che bene i ragazzini del Jet set. Qualche mossa da strapazzo e credevano di farla in barba al mondo intero.
Peccato che con me non l'avrai vinta così facilmente, dolcezza.

"Hai ragione tu, sai? Sono anche io una persona vile, infame e abbietta." La voce con cui il ragazzo parlò, però, fece vacillare per un attimo la sua integrità. Era come se lei l'avesse schiaffeggiato in piena faccia, come se si stesse davvero chiedendo cosa aveva mai potuto farle di così deplorevole per meritare un simile trattamento. Magari non era abituato alle manifestazioni d'odio, assuefatto ormai dalle reazioni d'estasi e venerazione che si trascinava dietro da quando non era che un moccioso rocker in erba. 

"D'accordo, mi dispiace." Riuscì a dire, senza spiegarsi neanche lei il perchè di una simile reazione inconsulta. "Sono fuori, adesso. Non so neanche perchè sto parlando con te, stavo andando via." 

Infatti prese a camminare di corsa verso la porta. Non mi plagerai. No, non ci riuscirai, infimo ragazzino spara Ossitocina! 

"Ferma, aspetta." Esclamò lui, preso in contropiede dal suo scatto improvviso. Non osò sfiorarla, ma il suo tono pareva più una preghiera che un ordine. 

Aveva dei bruschi cambi d'umore. Un attimo prima sembrava offeso, poi dispiaciuto, poi divertito, e ancora arrabbiato. Che i suoi filtri emozionali avessero qualche oscuro, maledetto difettaccio? 

"Che altro c'è? Non lo voglio l'autografo." Soffiò, esasperata. Bill mise una mano sui fianchi inclinando il capo. "Spiritosa." Bofonchiò. 

"Sono serissima. Non c'è più niente da fare qui. Me ne torno a casa." Ancora una volta lo scavalcò, e ancora una volta lui la fermò. 

Che razza di zecca rompipalle.

"Ascolta, c'è solo una cosa che puoi fare se sei davvero così convinta che la Francia non sia il posto giusto per Lenys." Disse, con tutta l'aria di saperla lunga sulla questione.
"Illuminami." 

"Se lei non può restare a New York, tu devi andare a prenderla e riportarla a casa. Come dice il detto? Quello di Maometto e delle montagne..." Lo sguardo di Bill si perse per un momento nel vuoto, mentre le sopracciglia si arricciavano in un'espressione dubbiosa, e con le dita gesticolava manifestamente. 
Gigi represse un sospiro frustrato. "Credi che per noi comuni mortali sia così facile?"

"Cosa c'è di difficile, scusa? Prendi un aereo e vai a prenderla." 

E' come schioccare le dita, per te, vero, Milady? 

"Non mi va di discutere questa cosa con te, è assurdo." Cercò per la terza volta di superare la sua allampanata persona. Ma il frontman la bloccò sul posto con una dolce smorfia di colpevolezza nel volto. "Oh, credo di aver capito il tuo genere di problema." Buttò lì, mordendosi il labbro inferiore, carnoso, e morbido. 
La ragazza lo fissò, retorica. "Quello che le Dive come te non avranno mai, ma con cui noi della plebe dobbiamo fare i conti per sopravvivere in questo schifo di mondo." Soffiò, spicciola. 
"Dollari?" 

"Centrato." 

Ancora una volta il volto del cantante si aprì in un sorriso divertito, dolce e malizioso insieme. "Offendo la tua sensibilità se azzardo l'ipotesi di offrirti io stesso il biglietto?" Le chiese, con voce vellutata.
Gigi cercò con tutte le sue forse di reprimere il sorriso che voleva liberarsi dalle sue labbra strette in una buffa smorfia. "Neanche fare il ruffiano ti farà apparire
migliore ai miei occhi." Sibilò, felina. 

"Ah, ma sei impossibile! Come faccio a dimostrarti che sono sincero?" 
"Non puoi farlo, lascia stare."

Bill restò un momento in silenzio, teso. Nella sua altezza la sovrastava, ma cominciava a sentirsi piccolo di fronte a lei. Era come trovarsi faccia a faccia con un muro
di cemento armato. Combatterlo era impossibile, l'unica cosa da fare, era restarvi fermo di fronte, e sperare che bussando si aprisse un varco che lo lasciasse entrare.

"Gigi, per favore, accetta. Lo faresti per Lenys. Metti da parte l'orgoglio." La pregò, cercando di sembrarle il più limpido e sincero possibile. Gigi lo fissò di sottecchi, cercando di scoprire in lui un secondo fine. "Non è all'orgoglio che non voglio cedere." Confessò. 

"E' all'idea che ti sei fatta di me?" 

Lei sbuffò sonoramente. "Ecco che il tuo egoicentrismo colpisce ancora. La questione va ben oltre Bill Kaulitz. C'è anche altro, a questo mondo, che non sia tu." 

Bill alzò gli occhi al cielo. Era abituato a sentirsi dire quelle parole, non gli faceva più quasi nessun effetto. E quella ragazza era talmente inflessibile e accanita che quasi neanche valeva la pena di farle cambiare idea. Voleva solo che lei tornasse da Lenys, per il momento.

"Lo so benissimo, e non è a te che devo venire a dimostrarlo. Hai una certa distorta idea di quello che siamo io e gli altri della band. Ti sembriamo dei poveri sfigati messi su da un discografico e paio di bravi musicisti, ma in ogni caso ce l'abbiamo anche noi divinità olimpiche, un cuore. Vogliamo aiutarti. Prendi almeno in considerazione la proposta." Disse.

"I tuoi amici se ne fregano di me o di Lenys, sono solo felici e contenti che tu sia stato miracolosamente tirato fuori dalla merda."

"Ora ci offendi."

"Allora siamo pari."
"Scusa, non era mia intenzione."

"Non scusarti, per favore." Nello sguardo di Gigi c'era solo un'assoluta frustrazione.

"Ti urta anche la gente che fa uso delle comuni regole per la civile convivenza?" Bill stava perdendo la pazienza. Detestava le persone imperscrutabili. Ne conosceva solo una, che con lui non aveva mai avuto segreti. 

"Ho detto per favore. Ma me lo rimangio, sei assolutamente detestabile e odioso, e con le persone come te non interagisco pacificamente." 

"Accetta, Gigi. Lo sai che devi farlo." Lui le si avvicinò di un altro passo, e lei di nuovo arretrò.

"Ma tu non ti arrendi mai?" Sbottò, esacerbata. 

"Non finchè non ottengo quello che voglio." Un sorriso determinato accese il viso del ragazzo, e i suoi occhi brillarono di sfida. 

"Sei proprio una fottuta celebrità, Bill Kaulitz, capriccioso fino al midollo." Ringhiò, ma ormai arresa.

Come diavolo sono arrivata a farmi pregare per avere un favore da Bill Kaulitz dei Tokio Hotel?

"E anche molto bello, ricco, affascinante e generoso. Ora se non ti dispiace ho una partenza da organizzare. I miei agenti ti contatteranno. Hai un telefono, vero?"

"Sparisci dalla mia vista prima che cambi idea." 

Bill saltellò sul posto per un momento, mentre il suo sorriso più fanciullesco e zuccherino gli illuminava il volto pallido, quasi marmoreo.

"Il numero puoi lasciarlo alla reception." Trillò, mettendo a freno la sua eccitazione.

"Agli ordini, Madame." Sussurrò roca lei, per tutta risposta. 

Ho appena compuito una clamorosa, colossale, stronzata. E già so che me ne pentirò, molto, molto, amaramente.

"A domani, Gigi." Bill le si avvicinò, e agitò le dita affusolate per salutarla. Le voltò le spalle e si incamminò verso la grande porta verde ospedale.

Lei restò a fissare il letto vuoto di Lenys. Sorrise nascostamente, e sberciò: "A domani, vostra molesta grazia." 

Poi si rese conto che aveva mancato di dirgli qualcosa. Si voltò per guardarlo negli occhi. 

"Ah, e...Bill?" Lo chiamò. 

Non sorridergli, non sorridergli.

Lui si voltò subito, con ancora quel sorriso a luccicargli negli occhi. "Sì?"

"Grazie." E gli sorrise. 

***

"Scusi? Lei è il signor Kaulitz?"

Bill era proprio sulla soglia dell'uscita, quando una voce femminile e roca lo chiamò. Si voltò, con in volto un'espressione gentile. Quella di quando veniva sorpreso da una fan.

"In persona. Ha una penna? Non ce l'ho con me, stamattina." Disse, sfoderando la sua aria più diplomatica. 

"Una penna?" La donna che gli stava di fronte era bassa e tarchiata, coi capelli corti e rossicci, un paio di occhiali verde pastello calati sul naso a patata. 

Non era decisamente la classica figura di fan dei Tokio Hotel che Bill aveva in mente, ma nella sua carriera ne aveva vista anche di esteticamente ben peggiori.

"Per l'autografo." Rispose, battendo le ciglia. 

La signora abbassò il capo sorridendo di sottecchi. "Ah, no, c'è una lettera per lei, veramente."

Sul volto di Bill passò una smorfia di sorpresa; "Oh" Sospirò, timidamente. E subito chiese: "Una lettera?"

Lei annuì, rapida. "Da parte della ragazza del quinto piano, che è andata via stamattina."

"Lenys?"

"Lenys Blanchard, esatto. Eccola." L'infermiera tirò fuori dalla tasca del grembiule rosa una piccola busta, e gliela porse. 

"Grazie mille, buona giornata." Bill le sorrise cortese, afferrandola, eccitato. 

"Ehm, signor Kaulitz?" Lo chiamò lei, con voce impacciata. Il cantante si voltò curioso. "Mi dica." 

"Per quell'autografo...mia nipote sarebbe proprio contenta se..." La donna sorrideva con imbarazzo. Bill ridacchiò e si avvicinò. 

"Nessun problema, si figuri." Firmò rapidamente un post.it arancione, e glielo incollò divertito sulla spallina del camice. Le strizzò l'occhio, e lei arrossì. 

"Saluti sua nipote. Arrivederci." 

"Torni presto!"

Bill era un fascio di curiosità. Non riuscì neanche ad arrivare alle porte della struttura, prima di aprire la busta gialla, e tirare fuori il piccolo biglietto. Una scrittura ordinata e veloce aveva scritto poche parole: Grazie del biglietto, e del pensiero, Bill. Non sentirti in colpa, è andata bene così. Al mondo servi vivo. Io torno a casa, per le cure.  Il mio numero di scarpe è trentasei e le adoro di pelle. Stai bene. Lenys.

***

La sala della casa, era il posto preferito della band, comoda e confortevole. Era lì che i ragazzi trascorrevano gran parte delle loro ore libere, a chiacchierare, o semplicemente a poltrire. Infatti, Bill e Georg, appena rientrati a casa dopo un pomeriggio di shopping, erano già splamati sul divano, con due tranci di pizza in mano, facendo zapping. 

"C'è solo spazzatura." Sbuffò Bill, limandosi le unghia. 

"C'è un film splatter." 

"Appunto, spazzatura. Ho comprato un biglietto aereo all'amica di Lenys per andarla a trovare, oggi." Buttò lì il cantante, come se stesse commentando qualcosa di appena rilevante. 

Gli occhi del bassista strabuzzarono per un momento fuori dalle orbite. "Scusami?" 

"Ehi, ragazzi; Io e Gus andiamo al Roxy. Vi unite a noi?" Tom irruppe nella conversazione con un tempismo ottimo. Indossava dei vestiti con una parvenza di decenza, quindi probabilmente il Roxy era un posto abbastanza ricercato per gli standard di suo fratello. 

"A fare?" Gli chiese, Bill. 

"C'è il concerto di un gruppo figo."

"Il tuo concetto di figo lo conosco; io e Georg restiamo a casa." Bill sorrise a Georg. "Vero?" Gli sussurrò. 

"Signor Listing, mi delude." Ridacchiò il chitarrista. "Resta a casa a fare la calzetta con Nonna Kaulitz invece di venire a divertirsi con i suoi giovani e balzanti amici?"

Georg fece cadere il suo sguardo sul frontman, di fianco a lui, che gli sorrideva sfacciatamente. "Per questa sera farò un'eccezione." Si arrese. Era stanco, sì. Sarebbe rimasto a casa a vedere la tv con Bill.

"Come preferisci, ma alla prossima intervista non mi risparmierò dal commentare la tua recente condotta abulica." Sberciò Tom. I suoi occhi nocciola ridevano divertiti. Adorava stuzzicare Georg di fronte alle telecamere, e vederlo fremere per picchiarlo, nell'assoluta impotenza di farlo. 

"Tu non sai neanche che significa la parola abulica, Tom." Commentò Bill distrattamente. 

"Perchè tu, sì?" Il gemello inarcò un sopracciglio, beffardamente. 

"No, ma sono sicuro che il tuo irrisorio vocabolario non contenga questo termine aulico."

"Ma senti come parla!" 

"Come una persona civile." Sberciò il fratello. 

Gustav e Georg si scambiarono uno sguardo d'intesa, poi pacatamente il batterista disse: "D'accordo, Tom leviamoci dalle scatole. E' tardi." 

"A domani, ragazzi." Sorrise Georg, scuotendo il capo. Tom si infilò al volo l'enorme giacca felpata, e inarcò un sopracciglio, boriosamente. "Sì, quando torneremo a casa voi due starete già facendo la ninna." Ghignò. 

"Sparisci, rompipalle." Bill gli lanciò contro una patatina. 

"Mi macchi tutto, scemo!"

"Sono sicuro che c'è già una macchia di rossetto da qualche parte." Bill se la rideva sotto i baffi. Toccare i punti deboli di Tom lo divertiva da morire. 

"Come siamo spassosi, stasera." Sbottò suo fratello, con una smorfia. 

"Gustav, tienilo d'occhio." Fece Georg, strizzandogli l'occhio. 

"Come tutte le volte." Gustav battè una mano sulla spalla del chitarrista, e salutò gli altri con la mano. 

"Notte, notte, stelline. Fate i bravi mentre non ci siamo!" Strillò Tom dall'ingresso.

Quando i due amici furono fuori dall'appartamento, Georg si voltò verso Bill, attento e severo.

"Fammi capire bene; tu hai invitato l'amica di quella ragazza in Francia?" Gli domandò. Non poteva credere che l'invadenza e la vena suicida di Bill avessero toccato simili, vertiginosi picchi in soli tre giorni. Prima a momenti si buttava sotto un taxi, poi era andato a trovare la ragazza che l'aveva salvato sotto esplicita richiesta di non farlo, ora comprava biglietti aerei a perfetti sconosciuti. 

Il cantante annuì, tranquillo. "Esatto." Disse. 

Gerog incrociò le braccia la petto, con una smorfia. "E l'avresti fatto perchè?"

"Perchè dovevano rivedersi!" Esclamò quello, con fervore, ma come se fosse del tutto ovvio. In viso la solita espressione capricciosa. 

"O perchè tu volevi rivedere loro?" Lo inchiodò con uno sguardo astuto. 

"Oh, Georg, andiamo. Che vuoi che me ne importi?" Bill sventolò una mano, distrattamente. 

"Raccontalo a qualcun'altro." Negli occhi verdi di Georg, Bill vide passare una scintilla di fastidio anche piuttosto evidente. Cercava di ingannarlo con un sorriso disinvolto, ma ormai lo conosceva troppo bene. Si sentì in dovere di giustificarsi. 

"Non sono neanche riuscito a parlare con Lenys, e Gigi è una ragazzina impertinente con cui non potrò mai avere niente a che vedere, a meno che non si tratti di sputarci in faccia insulti e denigrazioni reciproche." Disse, serio. 

"Una ragazza che ti insulta?" Rise Georg, colpito. 

"Sì lo so che è incredibile, perchè andiamo chi è che potrebbe parlare male di me? Seriamente, chi potrebbe? Nessuno!" Bill sembrava serissimo. 

Il bassista scosse il capo, ormai tristemente abbandonato alla consapevolezza di quanto bizzarro e assurdamente altero potesse essere il suo migliore amico.

"Bill, sappiamo tutti e due che hai questa pessima qualità che si chiama altruismo, o più precisamente sappiamo che sei una persona terribilmente sconveniente e folle. Ma stavolta hai davvero superato te stesso. Ben e David non saranno per niente contenti." Volle metterlo in guardia, ritornando al punto. 

"Ma se dicono tutti che sono un incorreggibile egoista!" Lo sguardo di Bill si fece pungolato. Mise un lieve broncio. 

"E lo sei, con qualche notevole eccezione." Georg gli sorrise. 

Lui alzò gli occhi e li fece entrare nei suoi, serio. "Tu pensi che abbia sbagliato?" Gli chiese. 

"Io penso che ci cacceremo nei guai."

"Quindi, sì."

"Quindi se ti serve qualcuno che deve coprirti l'hai appena trovato, ma è l'ultima volta." Si sforzava di restare serio e severo, ma se Bill continuava con quelle facce da martire era impossibile. 

"Oh, Georg, come si può non adorarti?" Battè le mani, allegro. 

"Come si può non detestarti, oh impareggiabile ruffiano?" Georg alzò un sopracciglio, scaltro. 

"Nessuno mi chiama più per nome, ormai sono per tutti un impareggiabile qualcosa!" Fece il cantante, di nuovo imbronciato. 

"Sicuramente non sei una persona comune."

Ed era verissimo. Bill era l'ultima persona al mondo che si potesse dire normale. Look a parte era un improbabile misto tra una scapestrata donna in carriera, un cantante bello e dannato, una diva anni ottanta, e un bambino di otto anni. Bastava aggiungere qualche pennellata di comica superbia, trasgressivo sex appeal, occhi luccicanti di un cucciolo in amore, ed ecco il Bill Kaulitz che solo pochi avevano imparato a conoscere. 

"Questo l'abbiamo sempre saputo." Il volto del cantante si dipinse di superiorià, ma un sorriso lo tradiva. 

Georg non sapeva spiegarsi ancora perchè non riuscisse mai a muovergli un rimprovero degno di tale nome. Però alzò gli occhi al cielo, e alzò il volume della tv.

"D'accordo, adesso comincia il film, quindi zitto." Glo ordinò, brutale. Bill si mise a braccia conserte, accoccolandosi sotto la coperta di pail. 

"Ma che gusto c'è senza i miei commenti?" Sbuffò. 

"Quello di una visione tranquilla."

"Ecco, nessuno." 

Georg gli prese la testa e la sistemò sul cuscino che stava sulle sue gambe, per farlo addormentare. Sapeva che sarebbe crollato in pochi minuti.

"Bill, taci." 

E Bill tacque.


Note dell'autrice: Oh, finalmente anche questo capitolo ha trovato una fine! Ringrazio per la paziente attesa e per la presenza di alcune persone, che sicuramente sanno di essere qui chiamate in causa. Le recensioni sono sempre ben attese. Grazie di aver letto, e seguito la storia.
E un grazie fa in particolare a Ladynotorius e a chi mi ha voluto tra le storie scelte. Sono commossa e grata per questo regalo. Devo tutto a certe brillanti scrittrici, senza le quali sarei ancora la superficiale Loryherm di qualche anno fa. Grazie anche a Eli, per avermi lasciato usare una sua esilarante citazione. Baci, al prossimo capitolo.

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