Neve ed Ombre

di depy91
(/viewuser.php?uid=84597)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** il diario ***
Capitolo 3: *** Ferocia e timore ***
Capitolo 4: *** Fantasmi dal passato ***
Capitolo 5: *** ieri, oggi, domani ***
Capitolo 6: *** Tempo scaduto ***
Capitolo 7: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

Cielo e terra si congiungevano in una trascendente esplosione di candore scintillante. La morsa del gelo avvolgeva ogni cosa, il ghiaccio e la neve dominavano incontrastati sulle sconfinate distese siberiane e il tiepido sole del mattino era incapace di penetrare le pungenti temperature subartiche. Immersa in questa monocromatica atmosfera senza tempo, da giorni una squadra di operai eseguiva dei carotaggi del terreno per conto di un’ equipe scientifica, impegnata in una ricerca geologica per lo sviluppo delle risorse naturali. Assuefatti alle rigide condizioni locali, i tecnici supervisionavano i lavori, strofinandosi di tanto in tanto i palmi. Gli imponenti macchinari emettevano assordati stridii, non appena le trivelle incontravano la spessa crosta congelata, che sormontava gli strati sottostanti. Quel giorno le attività procedevano a pieno regime come al solito, gli studiosi discutevano sulle ultime analisi geologiche, all’interno delle piccole costruzioni metalliche prefabbricate, che erano state adibite a laboratorio. Sopraggiunse tuttavia un improvviso arresto dell’operato di uno dei grandi escavatori. Qualcosa aveva interrotto il perforamento meccanico, producendo un sinistro rumore di pietra sgretolata. Un operaio corse ad avvisare dell’accaduto la sovrintendenza scientifica, la quale, allarmata, raggiunse il capannello di persone, radunatosi attorno al macchinario che aveva riscontrato il problema. Avvalendosi di potenti torce elettriche, un trio di tecnici fu calato tramite dei cavi d’acciaio nelle viscere del cratere, per ispezionarne il fondo, in cerca dell’oggetto estraneo. La loro reazione di fronte all’avvenuto ritrovamento fu di vivo stupore e curiosità, poiché la trivella aveva scalfito durante il suo percorso, uno strano blocco marmoreo, costellato di lugubri decorazioni scultoree, raffiguranti tremendi supplizi e lunghe file di teschi umani. I tecnici rabbrividirono, ma continuarono comunque la propria indagine. Uno di loro, stranito da un simile rinvenimento sotterraneo, decise di scrutare l’interno del grande contenitore lapideo, dunque raggiunse l’esatto punto, in cui la trivella aveva frantumato parte della lastra superficiale. Il cumulo di frammenti e scaglie di marmo ostruiva il foro, apertosi in seguito alla trapanazione, per cui l’operaio scostò frettolosamente tali residui per apprestarsi a scrutare all’interno. Il varco fu dischiuso ed istantaneamente un’enorme nuvola di vapori violacei fuoriuscì investendo il condotto sotterraneo e i suoi visitatori. Come stretti dalle spire di un serpente, il trio rantolò soffocato, per qualche secondo prima di esalare l’ultimo respiro, contraendo il volto in una terrificante smorfia di dolore. Intanto all’aria aperta, i fumi misteriosi emersero dal cratere, mietendo ancora numerose vittime, prima di assumere una conformazione orribilmente somigliante al viso arcigno di una temibile creatura infernale. Infine svanì sul sottofondo di un’impercettibile e sibilante risata diabolica.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** il diario ***


Diario del prof. Harrison

Ho intrapreso la stesura di questo taccuino, affinché la mia voce possa superare le barriere di quella che temo stia divenendo una vera e propria prigionia. Spero che  quanto mi appresto a documentare su queste pagine riesca a venire alla luce prima possibile, poiché ritengo a buon diritto, che il risultato delle mie ultime ricerche, mantenuto sotto stretta segretezza contro il mio volere, necessiti un’immediata divulgazione, allo scopo di prevenire terribili conseguenze. Per una più chiara comprensione e giustificazione di quanto sopracitato, mi accingo a narrare le recenti vicende che hanno coinvolto la mia persona e mi hanno spinto a redigere questo diario.

Mi chiamo Philip K. Harrison, svolgo da anni l’attività di archeologo e di studioso di antiche simbologie, detengo la cattedra di storia antica al St. Edwards College di Oxford. Una mattina di circa sei mesi addietro impartivo, come di consueto, una lezione ai miei allievi, ma fui interrotto dalla sagoma di due uomini, riconoscibile dall’apertura vetrata sulla porta d’ingresso dell’aula. La coppia mi fece cenno di raggiungerla. Sorpreso, mi scusai con i ragazzi ed uscii dalla stanza. Due uomini elegantemente abbigliati mi stavano attendendo dietro lo stipite. I loro volti mostravano i tipici lineamenti dell’Est, i loro sguardi erano gelidi come le terre da cui provenivano, la loro voce grave e decisa. Sebbene per me fosse la prima occasione in cui li vidi, entrambi mi rivolsero un saluto, pronunciando il mio nome. Domandai dunque se avessimo già avuto modo di conoscerci in passato, ma uno di loro prese la parola ed, esprimendosi in un inglese fortemente viziato dalla cadenza di qualche nazione dell’Europa orientale, negò tale possibilità, ma tuttavia ammise che a coloro i quali li avevano condotti a me era perfettamente noto chi io fossi e il mio reale valore. Appresi questa notizia con comprensibile turbamento, che mi spinse ad interrogare i misteriosi individui sulla loro identità. Mi invitarono a proseguire il discorso in un luogo più tranquillo di un corridoio universitario, dove orecchie indiscrete avrebbero potuto udire quanto gli sconosciuti avevano da dirmi. Non privo di preoccupazione, accettai e decisi di trasferirci nella grande biblioteca del College, della quale nemmeno un angolo mi era nuovo, poiché lungamente amavo fermarvici per consultare i rari e antichi manoscritti di cui dispone. Una volta preso posto attorno ad uno dei banchi della sala lettura, il dialogo riprese. Uno dei figuri diene finalmente inizio alle presentazioni, indicando sé stesso e il collega come membri di un dipartimento segreto delle forze armate russe a cui corrispondeva nome in codice SPETSNAZ. L’organizzazione avevano ricevuto l’ordine dal Cremlino, di svolgere delle indagini sullo strano ritrovamento in cui si erano imbattuti dei ricercatori, durante degli scavi in Siberia risalenti a diverse settimane prima. Quest’informazione non mi era del tutto nuova, poiché la notizia di un’orribile strage, apparentemente inspiegabile, avvenuta nel corso di una spedizione scientifica in quell’impervio territorio, era più volte apparsa nei titoli dei telegiornali di tutta Europa. Domandai cosa potessi avere a che fare io con tutto questo. Non ricevetti risposta, ma i due soldati scelti si scambiarono un’occhiata, poi uno di loro estrasse dal taschino della giacca una foto. Me la esibì e quanto vidi bastò per accendere la mia curiosità insieme con un intimo timore: lo scatto mostrava un sarcofago scoperchiato, contenente i resti perfettamente conservati dal ghiaccio subartico, di una creatura che con molte difficoltà avrei potuto ritenere umana. Solo allora mi fu chiaro cosa intendessero i due militari per “obiettivi speciali”, riferendosi al corpo militare d’appartenenza. Mi riferirono che il quartier generale delle SPETSNAZ mi aveva selezionato tra migliaia di studiosi dell’antico in tutto il mondo, per la mia personale propensione verso le civiltà perdute, di cui da anni mi occupavo pubblicando frequenti saggi sull’argomento, ma senza riscuotere la fiducia della comunità scientifica, restia ad ammettere l’esistenza di una storia differente dalla consueta. A questo punto pretesi di sapere in cosa sarebbe consistito il mio lavoro per l’organizzazione. Fui informato che i laboratori militari erano giunti a scoperte sconvolgenti, ma necessitavano della mia competenza per svelare gli arcani celati da quelle inquietanti spoglie. Il loro scopo era quello di scoprire l’identità della creatura e di comprendere se essa potesse costituire nuovamente un pericolo, come già era accaduto al momento del rinvenimento. Mi accordarono qualche giorno di tempo per ragionare sulla proposta, che innegabilmente aveva sollevato il mio interesse sin dall’inizio. Così come erano venuti, i due soldati lasciarono l’istituto rapidamente e senza rivelare più di tanto la propria presenza. Non richiesero né concessero degli estremi per un’eventuale comunicazione, ma mi avvisarono che quello non sarebbe stato il nostro ultimo incontro.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Ferocia e timore ***


Quella foto si incastonò nella mia mente, ero certo di aver già visto qualcosa di simile, ma non riuscivo a ricordare dove. Il sarcofago recava iscrizioni e bassorilievi dal significato oscuro, eppure mi convincevo sempre di più che sarei stato in grado di decifrarli. Quali orribili nefandezze aveva potuto compiere durante la sua esistenza quel deforme umanoide, per meritare di essere seppellito ad una così notevole profondità nelle fredde terre siberiane? I simboli sulla lastra sommitale apparivano come chiari segni di morte e sventura, forse la SPETSNAZ non aveva tutti i torti a ritenere opportuna un’analisi approfondita del reperto, in modo tale da evitare ogni possibile pericolo. Decisi di prendere parte agli studi, la faccenda aveva risvegliato in me nebbiosi presentimenti e l’unico modo per dare ad essi un senso sarebbe stato quello di partire al più presto alla volta della Russia. Come accordato, alla scadenza del periodo d’attesa pattuito, i due militari ricomparvero a farmi visita. Ebbi a malapena il tempo di confermare la loro proposta, prima di venir scortato in aeroporto, dove ci aspettava un velivolo dai motori già caldi, pronto a decollare. Nel corso del viaggio mi feci consegnare la foto per esaminarla con più attenzione. La qualità dell’immagine non era ottimale, ma si riusciva comunque a scorgere delle singolari protuberanze fuoriuscire dalle scapole del corpo mummificato dal gelo. Ciò che mi sconvolse furono i robusti lacci di cuoio che gli stringevano polsi e caviglie, come se al momento della sepoltura qualcuno potesse temere che un giorno quella creatura avesse potuto interrompere il sonno perpetuo e abbattere i vincoli della morte. Rimasi a fissare intensamente quella fotografia per diverse ore, finché fui destato dalla mia osservazione per avvertirmi che la meta era stata raggiunta. L’aereo era atterrato su una pista semi ghiacciata costruita in chissà quale angolo sperduto della Siberia, attorno a noi solo purissime dune imbiancate da una persistente nevicata. Mi informarono che gli ufficiali mi stavano attendendo in laboratorio, ma durante il tragitto non potei fare a meno di notare il sito ove la tomba era stata rinvenuta. L’intera area era stata messa in quarantena, i soli a frequentare quel luogo di mistero erano guardie armate e studiosi vincolati dall’obbligo del silenzio. Nessuno infatti all’infuori dei suddetti doveva venire a conoscenza dell’anomalo reperto e delle indagini sul suo conto. Entrai nell’edificio indicatomi, all’interno del quale erano in corso gli esami sul cadavere e sul contenitore che l’aveva preservato sino ai giorni nostri. Orde di scienziati in camice s’avvicendavano attorno ad un tavolo su cui era stato adagiato il corpo, coperto da un lenzuolo, sotto lo sguardo vigile di militari in alta uniforme. Al mio ingresso uno di loro si avvicinò a me e mi diede il suo personale benvenuto. Si presentò come il caporale Ivan Zarkovskij, coordinatore delle indagini, un uomo alto e impettito sulla sessantina. Egli continuò a parlare e in parte ascoltai quanto aveva da dirmi, ma per lo più la mia attenzione veniva irresistibilmente attratta dall’ingente serie di macchinari e di tecnici specializzati che il laboratorio ospitava. Chiesi di vedere il sarcofago, avevo bisogno di rilevare ogni possibile indizio sulla sua provenienza. La mia richiesta fu esaudita, dunque fui condotto nella stanza adiacente, in cui giaceva il pesante blocco di pietra cavo. Il lastrone che fungeva da sigillo aveva subito notevoli danni sullo spigolo in basso a sinistra, ma il resto era talmente ben conservato da risultare quasi un’opera di recente fattura. Ogni lato era riccamente istoriato, scene di tormenti e torture scorrevano lungo i fianchi lapidei, ovunque iscrizioni in una lingua arcaica comunicavano un messaggio, che sarebbe stato mio compito cogliere. La lastra era incorniciata da un’inquietante fila di teschi continua e all’esatto centro della macabra composizione figurava un simbolo dal significato oscuro, al di sotto del quale compariva una frase incisa, non meno incomprensibile. Osservando quell’emblema fulminea balzò alla mia mente la sensazione di aver già incontrato qualcosa del genere, ma per il momento non ricordavo dove né quando. Il caporale mi osservava in silenzio come se da un momento all’altro si aspettasse che io annunciassi di aver risolto il caso al primo sguardo, ma se così fosse stato si sbagliava ampiamente, poiché la soluzione mi appariva ancora lontana. All’interno del sarcofago i legacci che costringevano gli arti del defunto erano evidentemente stati mozzati, ma non erano gli unici oggetti presenti in quella porta per l’aldilà. Una sferetta vitrea delle dimensioni di una pallina da golf era stata adagiata nella tomba, ma di certo non era sempre stata quella la sua ubicazione originale, per cui mi rivolsi al caporale Zarkovskij e domandai chiarimenti. Egli mi informò che l’oggetto era stato rinvenuto nella bocca della creatura e quella coppia di minuscole crepe, che ne alteravano la superficie ricurva in due punti lievemente affondati, erano stati prodotti dalla pressione esercitata dai canini appuntiti della salma. La cosa mi stupì, poiché non riuscivo a comprendere che cosa quell’essere avesse potuto commettere di tanto grave da richiedere un trattamento talmente singolare e crudele. Per il momento non ero in grado di trovare una sola risposta alle mie mille domande, pertanto era assolutamente necessario esaminare accuratamente il corpo. Intuendo le mie intensioni, Zarkovskij mi fece strada verso l’area destinata all’autopsia del cadavere. Dopo aver indossato camice e mascherina sterili, il caporale mi presentò l’equipe scientifica, infine ordinò di scostare il lenzuolo. Lo spettacolo che mi si parò dinanzi agli occhi fu talmente inaspettato, che al primo impatto le mie carni vibrarono di brividi profondi. Davanti a me era distesa la salma di un essere abominevole, dalla pelle di un’innaturale tonalità violacea molto scura e dotato di un’incredibile coda da rettile. Il suo fisico muscoloso presentava numerosi spuntoni ossei simmetricamente disposti su spalle, petto, gomiti e ginocchia, due lunghe corna si arrotolavano attorno alle tempie, le sue labbra nere come la pece nascondevano una dentatura da predatore e artigli aguzzi e robusti rendevano mani e piedi armi micidiali. Un insolito groviglio di segni lineari simili ad astratti tatuaggi correva lungo tutto il suo corpo ed in particolare sulla fronte, dove sembravano sottolineare quello che a prima vista appariva come un terzo occhio spalancato, dall’aspetto cristallino e dalla colorazione rossastra. Nonostante quanto appena descritto fosse sufficiente per lasciarmi senza fiato, fu un altro il particolare che maggiormente mi sconvolse. Sebbene la foto me ne avesse già offerto un assaggio, dal vivo le protuberanze collegate alla schiena della creatura  risultavano ancora più sorprendenti. Uno degli scienziati interruppe il mio sconcerto per elencare alcuni dei risultati a cui erano pervenute le analisi. Il ghiaccio siberiano aveva ibernato quell’essere per più di nove secoli, preservandone ogni parte. Straordinariamente nulla infatti era stato scalfito dal trascorrere del tempo, ma ancora di più mi colpì l’apprendere che chiunque avesse seppellito quel corpo, si era preoccupato di scavare per l’occasione una sorta di cripta sotterranea, rinforzandone pareti e soffitto con pesanti rivestimenti in pietra. Non si era mai visto nulla del genere in una terra impervia come la Siberia, ma soprattutto non  era possibile dedurre un’utilità per una così complessa struttura funeraria, a meno che i suoi costruttori non avessero voluto proteggere la tomba e il suo particolare contenuto da eventuali profanatori, oppure, ancora più sconvolgente, fossero stati pervasi dal timore che la creatura potesse un giorno risvegliarsi dalla morte e abbandonare la sua estrema dimora sotterranea. Lo scienziato aggiunse che i brandelli di carne e ossa, sporgenti dalle scapole del soggetto, costituissero in origine la base di due ampie ali, che a quanto pareva, erano state mozzate di netto, forse per la stessa ragione per cui l’essere era stato fissato al fondo del sarcofago con i nastri di cuoio. Come se il quadro non fosse abbastanza confuso, mi misero al corrente dello strano episodio che, al momento del ritrovamento durante gli scavi geologici, aveva causato il decesso istantaneo di decine di operai. Ancora una volta percepivo il pungente sentore di non essere nuovo ad avvenimenti così trascendenti, eppure non riuscivo proprio a decriptare questi impulsi inviatimi dalla mia memoria, qualcosa di importante mi sfuggiva, ma ero certo che dedicandomi alla decifrazione delle iscrizioni funebri del sarcofago sarei venuto a capo di tutta la faccenda. Per tale ragione mi misi subito all’opera, recandomi nuovamente nell’ala del laboratorio dove veniva conservato l’involucro mortuario, per concentrarmi maggiormente su ogni singolo dettaglio. Riportai su di un pezzo di carta i simboli da tradurre, prestando attenzione al contesto scultoreo in cui erano stati inseriti. Chiesi il permesso di ritirarmi nello stabilimento prefabbricato che mi era stato affidato come dimora, affinché potessi studiare con più tranquillità quei rilievi. Il caporale Zarkovskij acconsentì e mi guidò alla mia stanza, infine si congedò ricordandomi che il successo delle indagini dipendeva in gran parte da me. Mentre chiudeva la porta alle sue spalle, un soffio di vento gelido entrò ululando nella piccola abitazione. Fuori la neve continuava a cadere senza sosta e il silenzio vigeva dovunque. Era l’atmosfera perfetta per mettermi a lavoro. Trascorsi tutta la notte a consultare i miei gli antichi libri che avevo deciso di portare con me in viaggio, ritenendoli potenzialmente utili. Speravo di scovare in uno di essi la chiave di lettura delle secolari iscrizioni. La mia esperienza nel settore mi suggeriva che quell’idioma doveva appartenere con ottima probabilità ad una delle storiche popolazioni nomadi che abitavano la Siberia circa un millennio fa. Se così fosse stato avrei ottenuto un punto di partenza per proseguire nelle ricerche. Quella notte tuttavia non fu fruttuosa come augurato, ma ne seguirono numerose altre, finché durante la lettura di uno dei volumi non mi imbattei in un capitolo davvero interessante.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Fantasmi dal passato ***


Le mie speranze furono accolte, poiché Il testo narrava le vicende di un’antica tribù siberiana vissuta intorno all’anno mille, nota per il temperamento bellicoso e i metodi spietati con cui metteva a  ferro e fuoco i villaggi che incrociavano la sua strada. Il libro inoltre accennava ad un terribile male, una non meglio definita forza della natura inarrestabile, che in brevissimo tempo decimò intere popolazioni, tra le quali persino la violenta tribù di barbari condottieri. Tuttavia non erano queste mistiche leggende ad interessarmi direttamente, bensì la presenza di un trafiletto a fondo pagina, in cui veniva riportata fedelmente una delle iscrizioni incise sulla lastra di chiusa del sarcofago. Il libro forniva anche un’utile traduzione, la quale sarebbe divenuta il punto di partenza per un’opera di decifrazione più accurata. Il brano recitava:

 

Il mondo ove sorse patire non poté la sua sete insana di dolore e devastazione, invase allora le nostre terre, come tremenda pestilenza, per recar danno ciecamente e con atroce crudeltà. Il male che in lui dimora è salvo dal perire e arma alcuna lo può scalfire. Il suo sonno è invece la nostra sola salvezza.

 

Tali parole turbarono bruscamente la mia mente, ma superato l’iniziale momento di inquietudine, mi feci forza e sfruttai i mezzi di cui adesso disponevo per carpire il significato delle altre incisioni mortuarie. Com’era facile aspettarsi, il tono di queste ultime non si discostava da quello fosco e drammatico della precedente. Il sarcofago trasudava lamenti e disperazione, attraverso citazioni di terribili avvenimenti che costarono la vita a moltissime persone. Ovunque su quell’ enorme libro di pietra comparivano velati rimandi al sonno e al suo campo semantico. Ebbi la sensazione di trovarmi di fronte a veri e propri avvertimenti, da seguire scrupolosamente affinché quel misterioso “male” non tornasse dal suo mondo per funestare con maggiore ferocia il nostro. Ad ogni modo avevo raggiunto una base su cui poggiare le mie ricerche, sebbene il significato del simbolo posto sul lastrone di chiusura mi restasse ancora oscuro. Decisi di non divulgare immediatamente al resto della squadra scientifica il risultato dei miei recenti studi e, il mattino seguente, mi recai nuovamente in laboratorio per visionare ulteriormente i reperti, per lo meno fino a quando la mia memoria non avesse riportato alla luce la reminescenza che da giorni non mi dava pace. Nella zona degli scavi, a quanto sembrava, si erano aggiunti nuovi militari delle forze speciali. Un capannello di ufficiali stava confabulando con un soldato che sino ad allora non avevo mai visto. Mi colpì profondamente il suo sguardo glaciale come le nevi siberiane, il suo viso, dalla pelle pallidissima, recava un vistoso sfregio sopra il labbro superiore, lisci capelli corvini gli scorrevano dalla fronte sino al collo, mentre qualche ciocca scendeva lungo la fronte. I suoi conversatori, nonostante fossero più alti in grado, gli porgevano rispetto trattandolo come loro pari. Non saprei dire esattamente perché, ma la figura di quell’uomo mi rimase impressa nella testa per tutto il giorno, così come i suoi occhi gelidi e impassibili, e non nego di aver provato un insolito timore nell’osservarlo. Distolsi lo sguardo da quella scena e mi rimisi a lavoro. Mi tornarono in mente alcune delle frasi che da poco avevo terminato di leggere su quelle pagine secolari. In un passo in particolare, il narratore si riferiva a quella devastante piaga definendola “ira demoniaca”. Dopo tanto penare finalmente ero pervenuto a quell’insistente presentimento, tramutandolo in ricordo. Avevo già avuto a che fare con una simile leggenda e, sebbene al’epoca non avessi riposto in essa troppa importanza, adesso mi convincevo di aver individuato la chiave del mistero. Senza perdere altro tempo mi precipitai nell’ufficio del caporale Zarkovskij e richiesi il permesso di abbandonare la Siberia per qualche giorno, per tornare in Inghilterra, dove ero sicuro di trovare quanto cercavo. L’ufficiale si mostrò titubante e addirittura rifiutò in un primo momento, ma quando gli confessai di avere la certezza che al mio ritorno avrei tenuto in pugno la soluzione del caso, egli ritirò l’iniziale divieto e concesse un velivolo allo scopo, di cui avrei potuto usufruire alla sola condizione di venir accompagnato da uno dei sui uomini. Naturalmente accettai, benché la proposta suonasse più come un ordine, ma il fine del viaggio mi aveva preso a tal punto, da ammorbidire le mie pretese di libertà personale. La sera stessa l’aereo era già in assetto. Mi informarono che colui che era stato scelto per accompagnarmi si proposto autonomamente per tale compito. Si trattava di un giovane soldato semplice, di cui tuttora non conosco il nome, poiché per tutta la durata del viaggio non mi rivolse la parola, ma in fondo la socievolezza non è mai stata una qualità necessaria ad un militare, dunque non vi badai più di tanto. In compenso, quell’uomo divenne la mia ombra, non mi perdeva mai di vista e frequentemente comunicava qualcosa probabilmente alla base, tirando fuori dalla cintura una ricetrasmittente. Quelle erano le uniche occasioni che ebbi per udire la sua voce, in cui curiosamente non riscontrai il marcato accento russo dei suoi colleghi. Quando giungemmo ad Oxford era già calata la notte, ma mi avvalsi dei miei diritti di insegnante di storia antica per convincere il custode a permettermi l’ingresso nella grande biblioteca oltre l’orario consentito. Dopo un’accurata ricerca, estrassi da uno degli alti scaffali colmi di volumi, un tomo molto antico, risalente all’epoca medioevale. Si trattava di un libro molto particolare, poiché raccontava in un alone di vivo trasporto mistico tutti i casi conosciuti di presunte reincarnazioni diaboliche. Naturalmente la maggior parte degli episodi citati appariva come un mucchio di storielle fantasiose per allontanare la gente dalle tentazioni di peccato, ma già alla prima lettura uno di essi mi aveva colpito per il suo straordinario realismo. Secondo quanto lessi, diversi periodi storici denunciavano la presenza di un essere demoniaco famelico di distruzione. Egli, immortale e insaziabile, sorge in ogni epoca da qualche parte nel mondo per recar danno e sofferenza all’umanità. Foreste, isole, intere città sono state devastate da questa maligna entità e nessuno può sottrarsi alla sua potenza, né qualcuno è in grado di ucciderlo. Il brano proseguiva nella descrizioni di orribili massacri, soffermandosi sui vani tentativi di porre rimedio ad un simile male, provando con ogni mezzo ad abbatterlo. Il testo era corredato dalle immagini disegnate dalla penna degli amanuensi. Una di esse mi sconvolse: raffigurava un altare su cui giaceva il corpo di un essere abominevole e alato, sullo sfondo uomini incappucciati chinavano il capo in preghiera. Passai subito alla lettura dei paragrafi che circondavano la raffigurazione. A quanto pareva un anziano chierico era riuscito ad escogitare un modo per offrire a quelle terre martoriate una protezione dalla temibile creatura. Durante una delle tremende incursioni del demone nell’antica città di Sibir, il sacerdote gli si parò innanzi impavidamente e prese a pronunciare un’arcaica formula di esorcismo.  Quelle mistiche parole avrebbero avuto l’effetto di separare il corpo del mostro dal suo malvagio spirito, ma non di eliminarlo definitivamente. Il tentativo riuscì e le spoglie del demone caddero a terra senza vita, mentre il suo animo errante svanì nell’oscurità. Affinché mai più l’eterea essenza riconquistasse il suo originale aspetto, il corpo venne seppellito nell’impenetrabile regione siberiana, ad una notevolissima profondità. Ogni precauzione fu accolta per evitare il risveglio dell’essere mostruoso, compresa l’edificazione di una cripta di pietra per imprigionare il sarcofago, sul quale furono incisi avvertimenti sui rischi che avrebbero corso eventuali violatori della tomba. Tutto combaciava alla perfezione, la scoperta era straordinaria. Ricerche più approfondite non erano ormai indispensabili, quanto desideravo sapere era già in mio possesso. Mi voltai per avvisare il soldato, che nemmeno in quell’occasione aveva voluto esimersi dal seguirmi, eppure stranamente non era più affianco a me. Uscendo dalla biblioteca lo ritrovai davanti all’ingresso. Mi dava le spalle ed ancora una volta stava parlando con qualcuno attraverso la ricetrasmittente. Era talmente preso dal discorso da non accorgersi della mia presenza. Gli strinsi un braccio per attirare la sua attenzione. Il suo arto si irrigidì, essendo stato colto di sorpresa, ed un istante e prima che egli riponesse la ricetrasmittente nella custodia, riuscii ad udire una voce, proveniente dall’audio-trasmettitore, disturbata dal segnale instabile, ma ciononostante distinsi tra quelle parole confuse questa frase: ”Agente Ashen, agente Red, perché non risponde? Qui è l’agente Raven, risponda…”. La cosa mi parve molto sospetta, ma quanto avevo appena scoperto in archivio era troppo importante per sprecare del tempo prezioso in affari che non mi competevano. Il soldato aveva per un breve momento assunto l’espressione di chi nasconde qualcosa, ma immediatamente ricompostosi tornò ad impersonare il consueto milite silenzioso. Lo pregai di riaccompagnarmi in aeroporto, il mio compito ad Oxford era terminato.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** ieri, oggi, domani ***


Il contenuto del libro mi rimbalzava nella testa e non potevo fare a meno di pensare che cosa fosse accaduto se solo davvero il demone si fosse ridestato dal suo torpore indotto. Rabbrividii all’idea, soprattutto associando a tale disastrosa possibilità al ricordo dei bassorilievi del sarcofago, dai quali traspariva l’epoca di terrore che li aveva ispirati. Immerso nelle mie riflessioni, non diedi peso alle lunghe ore di viaggio, che per tale ragione trascorsero veloci e placidamente. Quando atterrammo, però, ci accolse un gruppo di guardie armate dall’aria minacciosa. Temetti per la mia incolumità, ma non ero io a dovermi preoccupare. I soldati infatti, non appena la scaletta fu calata a terra, salirono sull’aereo e placcarono il mio accompagnatore, puntandogli un fucile contro la schiena. Atterrito domandai spiegazione, ma nessuno mi accontentò, bensì intimarono al prigioniero di avanzare. Egli obbedì ancora una volta in silenzio. Fu l’ultima occasione in cui lo vidi, non idea di quale sia stato il suo destino. Ancora scosso da quel trambusto, scesi i gradini e fui accolto da un altro membro della SPETSNAZ, il quale mi informò che il caporale mi stava attendendo nel suo ufficio. Seduto sulla sua sedia rivestita di pelle nocciola, Zarkovskij aspettava il mio ingresso fumando un sigaro. Quando entrai nella stanza e mi vide, scattò in piedi e mi venne incontro, assetato di novità sul caso. Di certo gli avrei raccontato ogni cosa, ma prima mi preoccupai di comprendere le ragioni dell’imboscata a cui assistetti. Il caporale mi spiegò che il soldato che mi aveva scortato sino in Inghilterra era in realtà una spia, infiltratasi tra le SPETSNAZ per carpirne dati e obiettivi. L’organizzazione per cui lavorava sarebbe rimasta, a suo parere, segreta ancora per poco, poiché confidava molto nei metodi di persuasione adottati dai suoi sottoposti. Notai una vena sadica in quello che mi stava dicendo e la cosa non mi piaceva affatto. Tornò sull’argomento di maggiore interesse ed io presi ad esporgli quanto ero stato in grado di scoprire. Dopo aver ascoltato attentamente, Zarkovskij iniziò a passeggiare in tondo, strofinandosi il mento barbuto con le dita. Il suo volto si fece serio, mi ringraziò e si congedò, aggiungendo che mi era concesso il resto della giornata libero, ma vigeva il divieto categorico di allontanarsi dalla zona degli scavi. Percepivo ormai che la faccenda in cui mi ero immesso, avrebbe finito per divenire la mia costrizione. Salutai il caporale e mi ritirai nella mia stanza. Provai a riposare qualche ora a letto. La branda scricchiolava ad ogni mio movimento causato dal mio sonno inquieto. La spaventosa creatura demoniaca mi apparve in sogno nel pieno di una delle sue sanguinose scorrerie ed io non potevo fare nulla per fermarla. Sudavo copiosamente quando quella orribile visione onirica scomparve ed io mi ritrovai davanti agli occhi sbarrati il soffitto della stanza. Il soggetto dei miei studi stava diventando la mia ossessione. Guardai attraverso il vetro della finestra: il pallido chiarore della luna filtrava attraverso le nuvole cariche di neve candida. Si era fatto tardi, ma ormai mi era difficile riaddormentarmi, decisi dunque di dar sfogo a quei maledetti sogni e tornare nell’area dove era conservato l’essere diabolico. I miei passi affondavano nella morbida neve fresca che aveva ricoperto il sentiero per il laboratorio. Giunto ad una certa distanza dall’entrata, scorsi delle guardie a difesa dell’edificio. La cosa mi insospettì ed udendo qualcuno che discuteva animatamente all’interno, mi acquattai dietro i cespugli e mi diressi senza manifestare la mia presenza verso la finestra che dava sulla sala del cadavere, da cui peraltro proveniva quel vocio. Protesi il mio sguardo oltre la vetrata e fui in grado di riconoscere due membri dell’equipe scientifica e la ben nota sagoma del caporale. Egli fissava il tavolo operatorio immobile, mentre gli studiosi sedevano su degli sgabelli. Uno di questi ultimi stava accennando ad un particolare macchinario, che Zarkovskij avrebbe commissionato alla squadra di ricerca per la realizzazione di un progetto a me ignoto. Purtroppo l’argomento della discussione si fece via via più chiaro, quando il caporale, riferendosi al corpo senza vita del demone, dichiarò con tono deciso che l’avrebbe reso l’arma perfetta, a cui nessun esercito poteva resistere e con cui alcun moderno strumento bellico poteva competere. Un brivido mi percorse la schiena, e non già a causa del freddo pungente che penetrava sin dentro le ossa. Da quanto risultava dal mio ascolto, le SPETSNAZ avevano in mente la terribile idea di trasformare quella mostruosa entità venuta da un lontanissimo passato, nella più distruttiva delle armi odierne. Non potei fare a meno di ipotizzare cosa sarebbe accaduto nel triste caso in cui le forze speciali non fossero stati in grado di tenere a freno gli istinti infernali di quella creatura. Come pensavano di controllare un simile potere? Per la prima volta riuscii a distinguere il vero volto della SPETSNAZ, e di certo non mi piaceva affatto. Conoscevo il livello bio-medico e tecnologico di cui disponeva l’organizzazione, ma non potevo credere che fosse sufficiente a riportare in vita quel mostro, a meno che non mi sfuggisse ancora qualche dettaglio di fondamentale importanza. Per quella sera avevo tentato fin troppo la sorte ed appena un attimo prima che le guardie battessero durante il giro di ronda la zona in cui mi nascondevo, sparii tra il fogliame e mi diressi di nuovo verso la mia stanza. Nei giorni successivi l’area del laboratorio divenne sempre più sorvegliata e i miei appostamenti troppo rischiosi. Pensai di dover denunciare quanto avevo ascoltato, ma la richiesta di lasciare la Siberia mi veniva negata quotidianamente. Una mattina qualcuno bussò alla mia porta e mi invitò a seguirlo nell’ala scientifica della struttura. Il caporale Zarkovskij mi aveva fatto chiamare per mostrarmi gli ultimi risvolti dele ricerche affrontate dai potenti mezzi di cui era a disposizione il suo corpo militare. La mia guida mi condusse in un’aula alla quale sino ad allora non mi era stato consentito l’ingresso. L’atmosfera era cupa e carica di tensione, la sala era colma di marchingegni tecnologicamente avanzati, di cui non conoscevo la funzione, mentre il caporale, parte dell’equipe di studio e alcuni soldati erano disposti di fronte ad una parete tappezzata di monitor accesi, i quali diffondevano una tenue luce soffusa sui volti dei loro osservatore.  Zarkovskij si voltò, mi vide e mi diede il benvenuto. Mi informò che aveva intenzione di illustrarmi alcune fotografie molto interessanti, rinvenute negli archivi della polizia giapponese. Ero preoccupato, ma non potevo nascondere la mia curiosità, rimasi in silenzio e ascoltai la sua spiegazione. Il caporale continuò dichiarando che la sua squadra era stata capace di rintracciare delle segnalazioni vecchie di circa venticinque anni, di alcuni testimoni che avrebbero assistito ad eventi giudicati paranormali dalla polizia. Sugli schermi scorrevano le foto di un essere terribilmente somigliante al corpo emerso dai ghiacci siberiani, la sua pelle era di un viola intenso, i suoi occhi purpurei ed un terzo gli occupava il centro della fronte, la sua schiena terminava con una coda dalle movenze di serpente, dalla folta capigliatura mora aggettavano due lunghe corna ondulate, spessi artigli ornavano le sue dita, infine le sue robuste ali di pipistrello gli permettevano di librarsi in volo. Il battito del mio cuore accelerò vertiginosamente, se le immagini fossero state attendibili, allora nel mondo esisteva almeno un’altra creatura infernale. Il caporale proseguì e riferì che il mostro immortalato nelle immagini era stato avvistato per l’ultima volta nei pressi di un edificio appartenente alla Mishima Zaibatsu, una grossa società giapponese di proprietà del ricco magnate ed esperto di arti marziali Heihachi Mishima. Le ricerche confermavano che la scomparsa del demone coincidevano esattamente con l’improvvisa morte del figlio dell’industriale, un certo Kazuya, i cui tratti somatici, secondo l’analisi virtuale realizzata dal computer sul suo viso, corrispondevano per il 93% a quelli dell’essere raffigurato nelle fotografie. Nuovamente le parole mi rimasero bloccate in gola, incredibilmente il contenuto dell’antico manoscritto rispondeva a verità. Da quanto mi era possibile dedurre, lo spirito vendicativo, estirpato dal petto del demone vissuto oltre nove secoli orsono, aveva trovato nuova dimora nel corpo di un umano ospitante. Tutto ciò era davvero terribile, ma purtroppo c’era dell’altro: le indagini avevano rivelato che quelle non erano le sole segnalazioni di questo tipo. Altre fonti infatti si pronunciavano riguardo ad un episodio avvenuto soltanto a qualche mese fa. Un’intera foresta era stata devastata da un enorme incendio, delle persone avevano depositato in commissariato la loro testimonianza, in cui ammettevano di aver avvistato qualcosa di simile ad un uomo alato scagliare distruttivi raggi luminosi dalla fronte. Anche questo dossier era corredato da fotografie, che mostravano un essere umano, poco più di un ragazzo, dal capo adorno di corna appuntite, gli occhi spiritati, sospeso in aria da grandi ali di corvo. Il dettaglio che maggiormente mi inquietò furono i simboli che gli decoravano il petto e la fronte, del tutto simili a quelli che avevo già osservato sul cadavere dell’antica entità demoniaca. Gli avvistamenti si concentravano senza esclusioni in un’area situata a breve distanza da un tempio ligneo, anch’esso appartenente alla famiglia Mishima. A quanto pareva il diavolo aveva stretto un patto di sangue con quella stirpe asiatica. Incredulo e attonito, rimasi immobilizzato dal vortice di sensazioni che mi travolgeva l’animo.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Tempo scaduto ***


Uno degli hacker al servizio delle truppe di Zarkovskij interruppe improvvisamente il suo discorso, per esporre le ultime utili notizie trapelate dalla sua opera di pirateria informatica. Egli era riuscito a superare le difese di sistema di una nota società di biotecnologie, la G-Corporation, e si era impossessato di dati top-secret raccolti in occasione di uno dei loro studi sperimentali della massima importanza. Il file riguardava il lavoro compiuto dagli scienziati della corporation sulla salma di un giovane rinvenuto un ventennio prima nella bocca di un vulcano. Sofisticati esami avevano permesso di rintracciare nel suo DNA una molecola davvero unica, la quale si attivava solo in seguito a specifici stimoli bioelettrici provenienti dal cervello del soggetto. L’attivazione di queste particelle provocava nell’organismo ospitante un’immediata metamorfosi in un essere del tutto nuovo. I biologi della G-Corporation avevano denominato tale molecola come Devil gene. Inoltre un’altra sconcertante verità veniva rivelata da quella banca dati: il cadavere della cavia esaminata era stato identificato e si trattava proprio di Kazuya Mishima. La pista da seguire per i segugi della SPETSNAZ era ormai tracciata e il ghigno soddisfatto sul volto del caporale non concedeva dubbi, sapevo esattamente cosa gli passava per la mente, ma per non destare troppi sospetti, mi vidi costretto a domandare per quale ragione esattamente ero stato convocato al suo cospetto. Egli mi pose una mano sulla spalla e posando il suo sguardo fermo sui miei occhi, mi chiese se, in base a quanto avevo scoperto finora, esistesse la possibilità di trovare una relazione tra le due creature appena analizzate e quella che giaceva nei loro laboratori. Non potevo mentire e fui obbligato ad ammettere che il manoscritto medioevale raccontava che lo spirito del demone avrebbe comunque potuto reincarnarsi nel corpo di chiunque, nonostante fosse stato privato del proprio. Tanto bastò all’ufficiale per confermare ai suoi sottoposti l’ordine di proseguire nelle indagini con maggiore lena, poiché l’obiettivo stava per essere raggiunto. A questo punto   Zarkovskij mi invitò a collaborare alle ricerche di nuove informazioni e dunque a rimanere nella sala dei computer per offrire il mio apporto, mentre egli si sarebbe trasferito nel suo ufficio in attesa di altri esaltanti aggiornamenti. Dovetti accettare, perlomeno così facendo, avrei potuto ricavare maggiori dettagli sul suo piano ed avrei trovato un modo per porvi rimedio. Fu allora che mi venne in mente l’idea del diario, intuendo che questa faccenda si era oltremodo complicata per permettermi di abbandonare il progetto liberamente, sapevo ormai di conoscere troppe cose, ma per fortuna dalla mia avevo ancora la fiducia del caporale.
L’indagine si spostò allora sulla famiglia Mishima, per scovare i suoi legami con il Devil gene. Dopo un minuzioso lavoro sui dati, diverse ore più tardi si scoprì che periodicamente era uso di questa stirpe, indire un grande torneo di arti marziali, il Tekken, a cui partecipavano prontamente tutti i migliori combattenti del mondo, per raggiungere l’ambito titolo di Re del Pugno di Ferro. Sino ad ora si era giunti alla quarta edizione. I rapporti della G-Corporation informavano che Heihachi Mishima era rimasto ucciso nella tremenda esplosione che aveva coinvolto il tempio in cui si era da poco svolta la finale. Nonostante questo però qualcuno, di cui la fonte non conosceva l’identità, aveva preso il controllo della Zaibatsu ed aveva annunciato l’imminente inizio del quinto Tekken. Al torneo era stato invitato, tra gli altri, anche un altro componente della famiglia Mishima, un tale di nome Jin Kazama, figlio di Kazuya e vincitore delle due precedenti edizioni. Il confronto tra questo individuo e le foto del demone che aveva cancellato un’intera foresta non lasciava dubbi a riguardo, si trattava della stessa persona. Dunque anche Jin deteneva il Devil gene e di certo avrebbe partecipato al torneo. Uno degli scienziati alle mie spalle pronunciò una frase che da tempo ormai temevo di sentire. Egli ipotizzava di poter ripristinare il corpo senza vita del mostruoso essere se la SPETSNAZ fosse stata in possesso di quel prezioso lembo di DNA. Maledissi il giorno in cui accettai di collaborare a questo insano progetto, mi ero reso conto troppo tardi dei rischi a cui stavo esponendo centinaia di persone. Mi odiai profondamente per tale ragione. L’ultimo tassello per la rievocazione della micidiale piaga dal passato era stato trovato, non restava che acquisirlo e combinarlo con i restanti. Afflitto e impotente sentii le forze abbandonarmi e le gambe cedere, mi lasciai cade su di una sedia in attesa che il peggio si compiesse. Un emissario corse a chiamare il caporale, affinché fosse messo al corrente degli ultimi risvolti della ricerca.  Passarono soltanto pochi minuti, poi lo vidi entrare. Entusiasta si complimentò con i fautori delle recenti scoperte e chiese maggiori informazioni, sulle quali aveva ascoltato solo un breve accenno dall’emissario. Prese la parola lo scienziato che per primo aveva ammesso la possibilità di riportare in vita la creatura sfruttando le strabilianti potenzialità del Devil gene, egli espose la sua teoria, riscuotendo grande successo tra i presenti. Ammutolito e incapace di qual si voglia reazione, io rimanevo seduto e contratto in un’espressione spenta e imperscrutabile. Nell’entusiasmo generale, nessuno badava al mio pallore o alla mia espressione di profonda perplessità, ma anche se fosse avvenuto il contrario, chi avrebbe mai voluto ascoltarmi? Probabilmente se qualcuno si fosse reso conto del mio parere contrastante con quello degli altri membri dell’equipe scientifica, sarei apparso come un peso da eliminare, una scomoda spina nel fianco, e non escludo che avrebbe potuto toccarmi una sorte non dissimile da quella della spia infiltrata, di cui nessuna ulteriore notizia era trapelata. Fu resa nota a Zarkovskij l’esistenza del grande torneo di arti marziali e della partecipazione del obiettivo chiave, detentore del gene agognato. Il caporale poggiò i pugni sulla scrivania su cui erano posate le tastiere dei computer, il suo sguardo si fece più fermo e penetrante del solito, fissandosi sulle foto di Jin Kazama, che scorrevano sullo schermo. Rimase in silenzio per un tempo che mi parve illimitato, infine espose il suo comando: il suo piano consisteva nell’infiltrare un combattente al servizio delle SPETSNAZ tra gli iscritti al Tekken, il suo obiettivo sarebbe stato quello di catturare Kazama e portarlo al quartier generale siberiano, dove gli scienziati nel frattempo avrebbero già ultimato la costruzione dei macchinari necessari all’operazione di estirpazione e trasferimento del Devil gene. Tutto era ormai stabilito, restava soltanto un unico dettaglio da definire, ossia la selezione di colui che avrebbe preso parte al torneo. Gli angoli delle labbra del caporale Zarkovskij si sollevarono in un ghigno inquietante ai miei occhi. Egli sapeva esattamente su chi sarebbe ricaduta la sua scelta. Si voltò di scatto verso uno dei soldati posti di guardia all’ingresso, gli ordinò di avvicinarsi, poi bisbigliò qualcosa al suo orecchio e appena ebbe concluso, il militare scattò sull’attenti e uscì di corsa dalla stanza. Mi guardai attorno, notai che tutti i soldati in sala sorridevano alla stessa maniera del loro superiore, come se avessero tutti la certezza di conoscere cosa il caporale avesse confabulato all’orecchio del loro compagno d’armi. Ancora divorato dal rimorso, riuscii tuttavia a rimettermi in piedi e compiere qualche passo verso una delle guardie. A voce sommessa domandai al soldato se fosse stato in grado di offrirmi delle delucidazioni sul prescelto di Zarkovskij. Egli mi rispose che con assoluta sicurezza l’uomo perfetto per la missione corrispondeva ad un membro delle SPETSNAZ, che aveva raggiunto una notevolissima fama tra i suoi colleghi e soprattutto tra gli ufficiali, per la sua totale mancanza di scrupoli e il suo completo asservimento alle cause del reparto delle forze speciali. Veterano di infinite battaglie, questo militare dalle indubbie qualità era noto per la sua profonda conoscenza del Sambo, un tipico stile di combattimento russo. I suoi colpi precisi e letali come un proiettile ed il suo aspetto austero ed impassibile, persino di fronte all’ultimo respiro degli avversari, lo avevano trasformato in una leggenda tra le SPETSNAZ, ottenendo il suo terrificante soprannome di Angelo Bianco della Morte, una definizione che ben rendeva il suo spirito combattivo ed i modi silenziosi e solenni. Alcuni giuravano che fosse stato privato della lingua, poiché non amava parlare e preferiva dimostrare il suo valore con le azioni. C’era persino chi provava timore semplicemente a guardarlo negli occhi, i quali incutevano, secondo il mio conversatore, profonda soggezione. Da quanto mi era appena stato spiegato, un simile individuo, la cui intera vita era devota alla guerra, non avrebbe di certo rifiutato la missione che il caporale aveva stabilito di affidargli, e così anche la mia ultima speranza di prendere qualche altro giorno di tempo per trovare un modo di evadere da questo carcere di ghiaccio e divulgare le intenzioni dell’organizzazione, andava miseramente in fumo.
Percepii un rumore, un crescente calpestio nella soffice neve, poi la pesante porta d’ingresso al laboratorio che cigolava mentre veniva aperta, ancora dei passi, qualcuno si stava avvicinando. La maniglia ruotò emettendo un sottile stridio, la spessa imposta blindata fu scostata, un flebile alito di vento precedette l’entrata dell’emissario di ritorno dal suo incarico. Appena un istante dopo, un altro soldato in uniforme fece il suo ingresso in sala, procedendo lentamente, circondato dal silenzio dei presenti, che ammutolirono aspettandosi delle presentazioni. Tuttavia egli non aprì bocca, come se la cicatrice, che gli deturpava le labbra ed il volto pallido, fosse una sorta di sigillo per la sua voce, sebbene i suoi occhi vitrei comunicassero molto più di prolissi discorsi. Fu il caporale ad introdurlo a tutti noi come Sergei Dragunov, milite di indubbio valore e raro acume, nonché perfetto esecutore di ardue imprese, di certo il migliore elemento della SPETSNAZ. Riconobbi immediatamente quello sguardo, si trattava proprio del soldato che aveva attirato la mia attenzione tempo addietro, ma nonostante ciò, incuteva in me le stesse particolari sensazioni di allora. Non disse nulla, nemmeno quando il caporale Zarkovskij lo accolse dandogli il benvenuto, né quando il responsabile dell’equipe scientifica premise che quanto avevano da proporgli avrebbe potuto costituire serio pericolo per la sua stessa incolumità e neppure quando iniziarono ad illustrargli la missione nei minimi dettagli. Brevi cenni del capo sostituivano ogni parola e a spiegazione ultimata, non un briciolo di incertezza o timore attraversò i suoi occhi, bensì dimostrò di accettare di buon grado la difficile mansione che gli era stata affidata, posizionandosi sull’attenti, con visibile soddisfazione del suo superiore, che avendo ottenuto quanto sperato, congedò l’agente scelto, consegnandogli una fotografia del target. Precisò che Jin Kazama doveva assolutamente giungere vivo al quartier generale e tale frase mi sconvolse almeno quanto l’aria del tutto naturale con cui l’Angelo Bianco della Morte apprendeva quell’inquietante restrizione al suo operato, ma evidentemente si trattava di un appunto necessario, che forse non sempre era stato rispettato, con mio grande orrore. Infine Zarkovskij gli consigliò di iniziare a preparare l’occorrente per la missione, un lungo viaggio verso l’Oriente lo attendeva. Dragunov annuì e silenzioso come un felino in agguato sulla preda, lasciò la sala senza degnare di uno sguardo nessuno dei presenti. Mi ripresi dalla mia momentanea distrazione, causata dal tentativo di scrutare nell’animo di quell’uomo misterioso, e constatai che avevo già fatto tutto ciò che era in mio potere per ostacolare i piani della SPETSNAZ, ma un semplice archeologo non poteva certo pretendere di riuscire in un simile obiettivo. Un ultima cosa tuttavia mi restava ancora da fare. Mi scusai col caporale e gli chiesi il permesso di ritirarmi nel mio alloggiamento, adducendo come motivazione un’improvvisa emicrania che non mi avrebbe permesso comunque di lavorare serenamente. Egli accettò con qualche esitazione, così potei allontanarmi dal laboratorio e chiudermi nella mia stanza, avendo avuto premura di controllare che nessuno mi seguisse. Tirai fuori da un cassetto un taccuino, afferrai la penna dal mio taschino e confidando nel sostegno della mia memoria, presi a scrivere questo diario, augurandomi che qualcuno possa leggerlo in tempo utile per evitare un tremendo disastro. Termino qui la rievocazione della mia esperienza e delle mie colpe, ribadendo che quanto riportato su queste pagine corrisponde purtroppo al vero. Quell’essere diabolico risorto dalle viscere della terra deve restare un segreto, come lo è stato per tutti questi secoli, affinché non piombi su tutti noi un’era di tenebre e sangue, da cui difficilmente potremmo emanciparci.

Prof. Philip K. Harrison

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Epilogo ***


Epilogo
Le sommità delle grandi pagode svettavano tra gli edifici della giungla urbana giapponese. Sergej assisteva ad un tale panorama, per lui del tutto nuovo, volgendo lo sguardo al finestrino dell’aereo di linea con cui era partito alla volta dell’Asia Orientale per non attirare troppa attenzione su di sé. Il sole splendeva alto nel cielo quel giorno, l’atmosfera perfetta per la vigilia del torneo. Quando Dragunov posò il piede sul suolo del Giappone, l’ansia e il ripensamento per una missione così particolare e pericolosa non erano sentimenti condivisi dal suo animo indomito e gelido. Una volta abbandonato l’aeroporto il soldato delle forze speciali russe estrasse dalla tasca dei pantaloni il dispositivo di localizzazione, fornitogli dalla SPETSNAZ per tenerlo costantemente in contatto con il quartier generale ed indicargli i luoghi, in cui sarebbero stati via via previsti i match della competizione. Egli avrebbe sostenuto gli incontri ed in contemporanea avrebbe proseguito le sue ricerche dell’obiettivo, il giovane combattente Jin Kazama. Consultò la mappa virtuale inviatagli dalla base sul dispositivo ed apprese la sua prima destinazione: avrebbe dovuto recarsi nell’ enorme palazzo Mishima, nel quale in serata sarebbero stati resi noti gli accoppiamenti per il primo turno di scontri. Se la fortuna fosse stata dalla sua parte, aveva a disposizione una prima occasione per incontrare e studiare colui per il quale era stato spedito in Oriente. Ripose il dispositivo di localizzazione nella tasca e si incamminò verso la sua meta, un impercettibile sorriso apparve sul suo volto, come se il suo viso freddamente inespressivo avesse per un attimo rivelato una certa eccitazione per l’intrigante missione con cui doveva misurarsi. Aveva compiuto solo qualche passo, quando d’un tratto Dragunov percepì un fruscio di fogliame proveniente dal grande salice alle sue spalle. Si voltò lentamente, avvertendo la fastidiosa sensazione di essere osservato, ma dietro di lui non scorse nulla di sospetto. Riprese dunque il suo cammino senza curarsi troppo dell’episodio. Intanto celato dalle fronde dell’imponente albero, qualcuno stava effettivamente seguendo le mosse del militare russo. Confondendosi nelle tenebre all’interno della chioma lussureggiante della pianta, un individuo vestito di una tuta da mimetizzazione di pelle nera, aveva osservato ogni cosa, pedinando il soldato attraverso movimenti rapidissimi e silenziosi. I suoi capelli di un biondo brillante risaltavano sulla sua carnagione scura e disegnavano sulle tempie curiose fantasie ondulate, gli occhiali da sole non potevano celare completamente la profonda cicatrice ad "X" che gli marchiava il volto. La velocità e l’eleganza delle sue movenze, mentre balzava da un ramo all’altro del viale alberato, percorso da Dragunov prima di sostare per dare uno sguardo al dispositivo, indicavano la sua profonda conoscenza delle arti ninjitsu. Quando l’Angelo della Morte svanì dalla sua visuale, il misterioso pedinatore portò una mano all’orecchio destro, nel quale era posizionato un auricolare dotato di microfono, spinse un piccolo bottone attivando la comunicazione, infine avvertì: “Base, qui l’agente Raven. Il soggetto si sta dirigendo verso la proprietà dei Mishima, a quanto pare prenderà parte al torneo come avevamo ipotizzato. Mi appresto a raggiungerlo per prendere posto anch’io tra i combattenti. Mi concentrerò come stabilito sulla missione primaria, ma lo terrò comunque d’occhio e se sarà necessario interverrò per intralciare i suoi piani. Ristabilirò la connessione non appena avrò scoperto qualcosa di interessante sull’organizzatore di questa quinta edizione del Tekken. Diamo ufficialmente inizio alla missione. Passo e chiudo”. Un breve tintinnio significò l’interruzione della comunicazione. In meno di un secondo l’agente si volatilizzò nel nulla causando uno spostamento d’aria che smosse lievemente il fogliame.
Il cinguettio delle rondini fungeva da sottofondo di quella assolata mattinata, il vento soffiava lieve e discreto, la vita scorreva tranquilla, eppure tutto ciò appariva come la quiete prima della tempesta. Ancora una volta quella sibilante risata dalle fosche tonalità echeggiò, levandosi dalla bocca dell’inferno, per appestare l’aria di palpabile tensione.

FINE

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=429499