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Cielo
e terra si congiungevano in una trascendente
esplosione di candore scintillante. La morsa del gelo avvolgeva ogni
cosa, il
ghiaccio e la neve dominavano incontrastati sulle sconfinate distese
siberiane
e il tiepido sole del mattino era incapace di penetrare le pungenti
temperature
subartiche. Immersa in questa monocromatica atmosfera senza tempo, da
giorni una
squadra di operai eseguiva dei carotaggi del terreno per conto di
un’ equipe
scientifica, impegnata in una ricerca geologica per lo sviluppo delle
risorse
naturali. Assuefatti alle rigide condizioni locali, i tecnici
supervisionavano
i lavori, strofinandosi di tanto in tanto i palmi. Gli imponenti
macchinari
emettevano assordati stridii, non appena le trivelle incontravano la
spessa
crosta congelata, che sormontava gli strati sottostanti. Quel giorno le
attività procedevano a pieno regime come al solito, gli
studiosi discutevano
sulle ultime analisi geologiche, all’interno delle piccole
costruzioni
metalliche prefabbricate, che erano state adibite a laboratorio.
Sopraggiunse
tuttavia un improvviso arresto dell’operato di uno dei grandi
escavatori.
Qualcosa aveva interrotto il perforamento meccanico, producendo un
sinistro
rumore di pietra sgretolata. Un operaio corse ad avvisare
dell’accaduto la
sovrintendenza scientifica, la quale, allarmata, raggiunse il
capannello di
persone, radunatosi attorno al macchinario che aveva riscontrato il
problema.
Avvalendosi di potenti torce elettriche, un trio di tecnici fu calato
tramite
dei cavi d’acciaio nelle viscere del cratere, per
ispezionarne il fondo, in
cerca dell’oggetto estraneo. La loro reazione di fronte
all’avvenuto
ritrovamento fu di vivo stupore e curiosità,
poiché la trivella aveva scalfito
durante il suo percorso, uno strano blocco marmoreo, costellato di
lugubri
decorazioni scultoree, raffiguranti tremendi supplizi e lunghe file di
teschi
umani. I tecnici rabbrividirono, ma continuarono comunque la propria
indagine.
Uno di loro, stranito da un simile rinvenimento sotterraneo, decise di
scrutare
l’interno del grande contenitore lapideo, dunque raggiunse
l’esatto punto, in
cui la trivella aveva frantumato parte della lastra superficiale. Il
cumulo di
frammenti e scaglie di marmo ostruiva il foro, apertosi in seguito alla
trapanazione, per cui l’operaio scostò
frettolosamente tali residui per
apprestarsi a scrutare all’interno. Il varco fu dischiuso ed
istantaneamente
un’enorme nuvola di vapori violacei fuoriuscì
investendo il condotto
sotterraneo e i suoi visitatori. Come stretti dalle spire di un
serpente, il
trio rantolò soffocato, per qualche secondo prima di esalare
l’ultimo respiro,
contraendo il volto in una terrificante smorfia di dolore. Intanto
all’aria
aperta, i fumi misteriosi emersero dal cratere, mietendo ancora
numerose
vittime, prima di assumere una conformazione orribilmente somigliante
al viso
arcigno di una temibile creatura infernale. Infine svanì sul
sottofondo di
un’impercettibile e sibilante risata diabolica.
Ho intrapreso la
stesura di questo taccuino, affinché la
mia voce possa superare le barriere di quella che temo stia divenendo
una vera
e propria prigionia. Spero chequanto
mi
appresto a documentare su queste pagine riesca a venire alla luce prima
possibile, poiché ritengo a buon diritto, che il risultato
delle mie ultime
ricerche, mantenuto sotto stretta segretezza contro il mio volere,
necessiti
un’immediata divulgazione, allo scopo di prevenire terribili
conseguenze. Per
una più chiara comprensione e giustificazione di quanto
sopracitato, mi accingo
a narrare le recenti vicende che hanno coinvolto la mia persona e mi
hanno
spinto a redigere questo diario.
Mi chiamo Philip K.
Harrison, svolgo da anni l’attività
di archeologo e di studioso di antiche simbologie, detengo la cattedra
di storia
antica al St. Edwards College
di Oxford. Una mattina di circa sei mesi
addietro
impartivo, come di consueto, una lezione ai miei allievi, ma fui
interrotto
dalla sagoma di due uomini, riconoscibile dall’apertura
vetrata sulla porta
d’ingresso dell’aula. La coppia mi fece cenno di
raggiungerla. Sorpreso, mi
scusai con i ragazzi ed uscii dalla stanza. Due uomini elegantemente
abbigliati
mi stavano attendendo dietro lo stipite. I loro volti mostravano i
tipici
lineamenti dell’Est, i loro sguardi erano gelidi come le
terre da cui
provenivano, la loro voce grave e decisa. Sebbene per me fosse la prima
occasione in cui li vidi, entrambi mi rivolsero un saluto, pronunciando
il mio
nome. Domandai dunque se avessimo già avuto modo di
conoscerci in passato, ma
uno di loro prese la parola ed, esprimendosi in un inglese fortemente
viziato
dalla cadenza di qualche nazione dell’Europa orientale,
negò tale possibilità,
ma tuttavia ammise che a coloro i quali li avevano condotti a me era
perfettamente noto chi io fossi e il mio reale valore. Appresi questa
notizia
con comprensibile turbamento, che mi spinse ad interrogare i misteriosi
individui sulla loro identità. Mi invitarono a proseguire il
discorso in un
luogo più tranquillo di un corridoio universitario, dove
orecchie indiscrete
avrebbero potuto udire quanto gli sconosciuti avevano da dirmi. Non
privo di
preoccupazione, accettai e decisi di trasferirci nella grande
biblioteca del
College, della quale nemmeno un angolo mi era nuovo, poiché
lungamente amavo
fermarvici per consultare i rari e antichi manoscritti di cui dispone.
Una
volta preso posto attorno ad uno dei banchi della sala lettura, il
dialogo
riprese. Uno dei figuri diene finalmente inizio alle presentazioni,
indicando
sé stesso e il collega come membri di un dipartimento
segreto delle forze
armate russe a cui corrispondeva nome in codice SPETSNAZ.
L’organizzazione
avevano ricevuto l’ordine dal Cremlino, di svolgere delle
indagini sullo strano
ritrovamento in cui si erano imbattuti dei ricercatori, durante degli
scavi in
Siberia risalenti a diverse settimane prima.
Quest’informazione non mi era del
tutto nuova, poiché la notizia di un’orribile
strage, apparentemente
inspiegabile, avvenuta nel corso di una spedizione scientifica in
quell’impervio territorio, era più volte apparsa
nei titoli dei telegiornali di
tutta Europa. Domandai cosa potessi avere a che fare io con tutto
questo. Non
ricevetti risposta, ma i due soldati scelti si scambiarono
un’occhiata, poi uno
di loro estrasse dal taschino della giacca una foto. Me la
esibì e quanto vidi
bastò per accendere la mia curiosità insieme con
un intimo timore: lo scatto
mostrava un sarcofago scoperchiato, contenente i resti perfettamente
conservati
dal ghiaccio subartico, di una creatura che con molte
difficoltà avrei potuto
ritenere umana. Solo allora mi fu chiaro cosa intendessero i due
militari per
“obiettivi speciali”, riferendosi al corpo militare
d’appartenenza. Mi
riferirono che il quartier generale delle SPETSNAZ mi aveva selezionato
tra
migliaia di studiosi dell’antico in tutto il mondo, per la
mia personale
propensione verso le civiltà perdute, di cui da anni mi
occupavo pubblicando
frequenti saggi sull’argomento, ma senza riscuotere la
fiducia della comunità
scientifica, restia ad ammettere l’esistenza di una storia
differente dalla
consueta. A questo punto pretesi di sapere in cosa sarebbe consistito
il mio
lavoro per l’organizzazione. Fui informato che i laboratori
militari erano giunti
a scoperte sconvolgenti, ma necessitavano della mia competenza per
svelare gli
arcani celati da quelle inquietanti spoglie. Il loro scopo era quello
di
scoprire l’identità della creatura e di
comprendere se essa potesse costituire
nuovamente un pericolo, come già era accaduto al momento del
rinvenimento. Mi
accordarono qualche giorno di tempo per ragionare sulla proposta, che
innegabilmente aveva sollevato il mio interesse sin
dall’inizio. Così come
erano venuti, i due soldati lasciarono l’istituto rapidamente
e senza rivelare
più di tanto la propria presenza. Non richiesero
né concessero degli estremi
per un’eventuale comunicazione, ma mi avvisarono che quello
non sarebbe stato
il nostro ultimo incontro.
Quella foto si incastonò nella mia mente, ero
certo di aver già visto qualcosa di simile, ma non riuscivo
a ricordare dove. Il sarcofago recava iscrizioni e bassorilievi dal
significato oscuro, eppure mi convincevo sempre di più che
sarei stato in grado di decifrarli. Quali orribili nefandezze aveva
potuto compiere durante la sua esistenza quel deforme umanoide, per
meritare di essere seppellito ad una così notevole
profondità nelle fredde terre siberiane? I simboli sulla
lastra sommitale apparivano come chiari segni di morte e sventura,
forse la SPETSNAZ non aveva tutti i torti a ritenere opportuna
un’analisi approfondita del reperto, in modo tale da evitare
ogni possibile pericolo. Decisi di prendere parte agli studi, la
faccenda aveva risvegliato in me nebbiosi presentimenti e
l’unico modo per dare ad essi un senso sarebbe stato quello
di partire al più presto alla volta della Russia. Come
accordato, alla scadenza del periodo d’attesa pattuito, i due
militari ricomparvero a farmi visita. Ebbi a malapena il tempo di
confermare la loro proposta, prima di venir scortato in aeroporto, dove
ci aspettava un velivolo dai motori già caldi, pronto a
decollare. Nel corso del viaggio mi feci consegnare la foto per
esaminarla con più attenzione. La qualità
dell’immagine non era ottimale, ma si riusciva comunque a
scorgere delle singolari protuberanze fuoriuscire dalle scapole del
corpo mummificato dal gelo. Ciò che mi sconvolse furono i
robusti lacci di cuoio che gli stringevano polsi e caviglie, come se al
momento della sepoltura qualcuno potesse temere che un giorno quella
creatura avesse potuto interrompere il sonno perpetuo e abbattere i
vincoli della morte. Rimasi a fissare intensamente quella fotografia
per diverse ore, finché fui destato dalla mia osservazione
per avvertirmi che la meta era stata raggiunta. L’aereo era
atterrato su una pista semi ghiacciata costruita in chissà
quale angolo sperduto della Siberia, attorno a noi solo purissime dune
imbiancate da una persistente nevicata. Mi informarono che gli
ufficiali mi stavano attendendo in laboratorio, ma durante il tragitto
non potei fare a meno di notare il sito ove la tomba era stata
rinvenuta. L’intera area era stata messa in quarantena, i
soli a frequentare quel luogo di mistero erano guardie armate e
studiosi vincolati dall’obbligo del silenzio. Nessuno infatti
all’infuori dei suddetti doveva venire a conoscenza
dell’anomalo reperto e delle indagini sul suo conto. Entrai
nell’edificio indicatomi, all’interno del quale
erano in corso gli esami sul cadavere e sul contenitore che
l’aveva preservato sino ai giorni nostri. Orde di scienziati
in camice s’avvicendavano attorno ad un tavolo su cui era
stato adagiato il corpo, coperto da un lenzuolo, sotto lo sguardo
vigile di militari in alta uniforme. Al mio ingresso uno di loro si
avvicinò a me e mi diede il suo personale benvenuto. Si
presentò come il caporale Ivan Zarkovskij, coordinatore
delle indagini, un uomo alto e impettito sulla sessantina. Egli
continuò a parlare e in parte ascoltai quanto aveva da
dirmi, ma per lo più la mia attenzione veniva
irresistibilmente attratta dall’ingente serie di macchinari e
di tecnici specializzati che il laboratorio ospitava. Chiesi di vedere
il sarcofago, avevo bisogno di rilevare ogni possibile indizio sulla
sua provenienza. La mia richiesta fu esaudita, dunque fui condotto
nella stanza adiacente, in cui giaceva il pesante blocco di pietra
cavo. Il lastrone che fungeva da sigillo aveva subito notevoli danni
sullo spigolo in basso a sinistra, ma il resto era talmente ben
conservato da risultare quasi un’opera di recente fattura.
Ogni lato era riccamente istoriato, scene di tormenti e torture
scorrevano lungo i fianchi lapidei, ovunque iscrizioni in una lingua
arcaica comunicavano un messaggio, che sarebbe stato mio compito
cogliere. La lastra era incorniciata da un’inquietante fila
di teschi continua e all’esatto centro della macabra
composizione figurava un simbolo dal significato oscuro, al di sotto
del quale compariva una frase incisa, non meno incomprensibile.
Osservando quell’emblema fulminea balzò alla mia
mente la sensazione di aver già incontrato qualcosa del
genere, ma per il momento non ricordavo dove né quando. Il
caporale mi osservava in silenzio come se da un momento
all’altro si aspettasse che io annunciassi di aver risolto il
caso al primo sguardo, ma se così fosse stato si sbagliava
ampiamente, poiché la soluzione mi appariva ancora lontana.
All’interno del sarcofago i legacci che costringevano gli
arti del defunto erano evidentemente stati mozzati, ma non erano gli
unici oggetti presenti in quella porta per
l’aldilà. Una sferetta vitrea delle dimensioni di
una pallina da golf era stata adagiata nella tomba, ma di certo non era
sempre stata quella la sua ubicazione originale, per cui mi rivolsi al
caporale Zarkovskij e domandai chiarimenti. Egli mi informò
che l’oggetto era stato rinvenuto nella bocca della creatura
e quella coppia di minuscole crepe, che ne alteravano la superficie
ricurva in due punti lievemente affondati, erano stati prodotti dalla
pressione esercitata dai canini appuntiti della salma. La cosa mi
stupì, poiché non riuscivo a comprendere che cosa
quell’essere avesse potuto commettere di tanto grave da
richiedere un trattamento talmente singolare e crudele. Per il momento
non ero in grado di trovare una sola risposta alle mie mille domande,
pertanto era assolutamente necessario esaminare accuratamente il corpo.
Intuendo le mie intensioni, Zarkovskij mi fece strada verso
l’area destinata all’autopsia del cadavere. Dopo
aver indossato camice e mascherina sterili, il caporale mi
presentò l’equipe scientifica, infine
ordinò di scostare il lenzuolo. Lo spettacolo che mi si
parò dinanzi agli occhi fu talmente inaspettato, che al
primo impatto le mie carni vibrarono di brividi profondi. Davanti a me
era distesa la salma di un essere abominevole, dalla pelle di
un’innaturale tonalità violacea molto scura e
dotato di un’incredibile coda da rettile. Il suo fisico
muscoloso presentava numerosi spuntoni ossei simmetricamente disposti
su spalle, petto, gomiti e ginocchia, due lunghe corna si arrotolavano
attorno alle tempie, le sue labbra nere come la pece nascondevano una
dentatura da predatore e artigli aguzzi e robusti rendevano mani e
piedi armi micidiali. Un insolito groviglio di segni lineari simili ad
astratti tatuaggi correva lungo tutto il suo corpo ed in particolare
sulla fronte, dove sembravano sottolineare quello che a prima vista
appariva come un terzo occhio spalancato, dall’aspetto
cristallino e dalla colorazione rossastra. Nonostante quanto appena
descritto fosse sufficiente per lasciarmi senza fiato, fu un altro il
particolare che maggiormente mi sconvolse. Sebbene la foto me ne avesse
già offerto un assaggio, dal vivo le protuberanze collegate
alla schiena della creatura risultavano ancora più
sorprendenti. Uno degli scienziati interruppe il mio sconcerto per
elencare alcuni dei risultati a cui erano pervenute le analisi. Il
ghiaccio siberiano aveva ibernato quell’essere per
più di nove secoli, preservandone ogni parte.
Straordinariamente nulla infatti era stato scalfito dal trascorrere del
tempo, ma ancora di più mi colpì
l’apprendere che chiunque avesse seppellito quel corpo, si
era preoccupato di scavare per l’occasione una sorta di
cripta sotterranea, rinforzandone pareti e soffitto con pesanti
rivestimenti in pietra. Non si era mai visto nulla del genere in una
terra impervia come la Siberia, ma soprattutto non era
possibile dedurre un’utilità per una
così complessa struttura funeraria, a meno che i suoi
costruttori non avessero voluto proteggere la tomba e il suo
particolare contenuto da eventuali profanatori, oppure, ancora
più sconvolgente, fossero stati pervasi dal timore che la
creatura potesse un giorno risvegliarsi dalla morte e abbandonare la
sua estrema dimora sotterranea. Lo scienziato aggiunse che i brandelli
di carne e ossa, sporgenti dalle scapole del soggetto, costituissero in
origine la base di due ampie ali, che a quanto pareva, erano state
mozzate di netto, forse per la stessa ragione per cui
l’essere era stato fissato al fondo del sarcofago con i
nastri di cuoio. Come se il quadro non fosse abbastanza confuso, mi
misero al corrente dello strano episodio che, al momento del
ritrovamento durante gli scavi geologici, aveva causato il decesso
istantaneo di decine di operai. Ancora una volta percepivo il pungente
sentore di non essere nuovo ad avvenimenti così
trascendenti, eppure non riuscivo proprio a decriptare questi impulsi
inviatimi dalla mia memoria, qualcosa di importante mi sfuggiva, ma ero
certo che dedicandomi alla decifrazione delle iscrizioni funebri del
sarcofago sarei venuto a capo di tutta la faccenda. Per tale ragione mi
misi subito all’opera, recandomi nuovamente
nell’ala del laboratorio dove veniva conservato
l’involucro mortuario, per concentrarmi maggiormente su ogni
singolo dettaglio. Riportai su di un pezzo di carta i simboli da
tradurre, prestando attenzione al contesto scultoreo in cui erano stati
inseriti. Chiesi il permesso di ritirarmi nello stabilimento
prefabbricato che mi era stato affidato come dimora,
affinché potessi studiare con più
tranquillità quei rilievi. Il caporale Zarkovskij
acconsentì e mi guidò alla mia stanza, infine si
congedò ricordandomi che il successo delle indagini
dipendeva in gran parte da me. Mentre chiudeva la porta alle sue
spalle, un soffio di vento gelido entrò ululando nella
piccola abitazione. Fuori la neve continuava a cadere senza sosta e il
silenzio vigeva dovunque. Era l’atmosfera perfetta per
mettermi a lavoro. Trascorsi tutta la notte a consultare i miei gli
antichi libri che avevo deciso di portare con me in viaggio,
ritenendoli potenzialmente utili. Speravo di scovare in uno di essi la
chiave di lettura delle secolari iscrizioni. La mia esperienza nel
settore mi suggeriva che quell’idioma doveva appartenere con
ottima probabilità ad una delle storiche popolazioni nomadi
che abitavano la Siberia circa un millennio fa. Se così
fosse stato avrei ottenuto un punto di partenza per proseguire nelle
ricerche. Quella notte tuttavia non fu fruttuosa come augurato, ma ne
seguirono numerose altre, finché durante la lettura di uno
dei volumi non mi imbattei in un capitolo davvero interessante.
Le
mie speranze furono
accolte, poiché Il testo narrava le vicende di
un’antica tribù siberiana
vissuta intorno all’anno mille, nota per il temperamento
bellicoso e i metodi
spietati con cui metteva aferro
e fuoco
i villaggi che incrociavano la sua strada. Il libro inoltre accennava
ad un
terribile male, una non meglio definita forza della natura
inarrestabile, che
in brevissimo tempo decimò intere popolazioni, tra le quali
persino la violenta
tribù di barbari condottieri. Tuttavia non erano queste
mistiche leggende ad
interessarmi direttamente, bensì la presenza di un
trafiletto a fondo pagina,
in cui veniva riportata fedelmente una delle iscrizioni incise sulla
lastra di
chiusa del sarcofago. Il libro forniva anche un’utile
traduzione, la quale
sarebbe divenuta il punto di partenza per un’opera di
decifrazione più
accurata. Il brano recitava:
Il mondo ove sorse patire non poté la
sua sete insana di dolore e
devastazione, invase allora le nostre terre, come tremenda pestilenza,
per
recar danno ciecamente e con atroce crudeltà. Il male che in
lui dimora è salvo
dal perire e arma alcuna lo può scalfire. Il suo sonno
è invece la nostra sola
salvezza.
Tali
parole turbarono
bruscamente la mia mente, ma superato l’iniziale momento di
inquietudine, mi
feci forza e sfruttai i mezzi di cui adesso disponevo per carpire il
significato delle altre incisioni mortuarie. Com’era facile
aspettarsi, il tono
di queste ultime non si discostava da quello fosco e drammatico della
precedente. Il sarcofago trasudava lamenti e disperazione, attraverso
citazioni
di terribili avvenimenti che costarono la vita a moltissime persone.
Ovunque su
quell’ enorme libro di pietra comparivano velati rimandi al
sonno e al suo
campo semantico. Ebbi la sensazione di trovarmi di fronte a veri e
propri
avvertimenti, da seguire scrupolosamente affinché quel
misterioso “male” non
tornasse dal suo mondo per funestare con maggiore ferocia il nostro. Ad
ogni
modo avevo raggiunto una base su cui poggiare le mie ricerche, sebbene
il
significato del simbolo posto sul lastrone di chiusura mi restasse
ancora
oscuro. Decisi di non divulgare immediatamente al resto della squadra
scientifica il risultato dei miei recenti studi e, il mattino seguente,
mi
recai nuovamente in laboratorio per visionare ulteriormente i reperti,
per lo
meno fino a quando la mia memoria non avesse riportato alla luce la
reminescenza che da giorni non mi dava pace. Nella zona degli scavi, a
quanto
sembrava, si erano aggiunti nuovi militari delle forze speciali. Un
capannello
di ufficiali stava confabulando con un soldato che sino ad allora non
avevo mai
visto. Mi colpì profondamente il suo sguardo glaciale come
le nevi siberiane,
il suo viso, dalla pelle pallidissima, recava un vistoso sfregio sopra
il
labbro superiore, lisci capelli corvini gli scorrevano dalla fronte
sino al
collo, mentre qualche ciocca scendeva lungo la fronte. I suoi
conversatori,
nonostante fossero più alti in grado, gli porgevano rispetto
trattandolo come
loro pari. Non saprei dire esattamente perché, ma la figura
di quell’uomo mi
rimase impressa nella testa per tutto il giorno, così come i
suoi occhi gelidi
e impassibili, e non nego di aver provato un insolito timore
nell’osservarlo.
Distolsi lo sguardo da quella scena e mi rimisi a lavoro. Mi tornarono
in mente
alcune delle frasi che da poco avevo terminato di leggere su quelle
pagine
secolari. In un passo in particolare, il narratore si riferiva a quella
devastante piaga definendola “ira demoniaca”. Dopo
tanto penare finalmente ero
pervenuto a quell’insistente presentimento, tramutandolo in
ricordo. Avevo già
avuto a che fare con una simile leggenda e, sebbene al’epoca
non avessi riposto
in essa troppa importanza, adesso mi convincevo di aver individuato la
chiave
del mistero. Senza perdere altro tempo mi precipitai
nell’ufficio del caporale
Zarkovskij e richiesi il permesso di abbandonare la Siberia per qualche
giorno,
per tornare in Inghilterra, dove ero sicuro di trovare quanto cercavo.
L’ufficiale si mostrò titubante e addirittura
rifiutò in un primo momento, ma
quando gli confessai di avere la certezza che al mio ritorno avrei
tenuto in
pugno la soluzione del caso, egli ritirò
l’iniziale divieto e concesse un
velivolo allo scopo, di cui avrei potuto usufruire alla sola condizione
di
venir accompagnato da uno dei sui uomini. Naturalmente accettai,
benché la
proposta suonasse più come un ordine, ma il fine del viaggio
mi aveva preso a
tal punto, da ammorbidire le mie pretese di libertà
personale. La sera stessa
l’aereo era già in assetto. Mi informarono che
colui che era stato scelto per
accompagnarmi si proposto autonomamente per tale compito. Si trattava
di un
giovane soldato semplice, di cui tuttora non conosco il nome,
poiché per tutta
la durata del viaggio non mi rivolse la parola, ma in fondo la
socievolezza non
è mai stata una qualità necessaria ad un
militare, dunque non vi badai più di
tanto. In compenso, quell’uomo divenne la mia ombra, non mi
perdeva mai di
vista e frequentemente comunicava qualcosa probabilmente alla base,
tirando
fuori dalla cintura una ricetrasmittente. Quelle erano le uniche
occasioni che
ebbi per udire la sua voce, in cui curiosamente non riscontrai il
marcato
accento russo dei suoi colleghi. Quando giungemmo ad Oxford era
già calata la notte,
ma mi avvalsi dei miei diritti di insegnante di storia antica per
convincere il
custode a permettermi l’ingresso nella grande biblioteca
oltre l’orario
consentito. Dopo un’accurata ricerca, estrassi da uno degli
alti scaffali colmi
di volumi, un tomo molto antico, risalente all’epoca
medioevale. Si trattava di
un libro molto particolare, poiché raccontava in un alone di
vivo trasporto
mistico tutti i casi conosciuti di presunte reincarnazioni diaboliche.
Naturalmente la maggior parte degli episodi citati appariva come un
mucchio di
storielle fantasiose per allontanare la gente dalle tentazioni di
peccato, ma
già alla prima lettura uno di essi mi aveva colpito per il
suo straordinario
realismo. Secondo quanto lessi, diversi periodi storici denunciavano la
presenza di un essere demoniaco famelico di distruzione. Egli,
immortale e
insaziabile, sorge in ogni epoca da qualche parte nel mondo per recar
danno e
sofferenza all’umanità. Foreste, isole, intere
città sono state devastate da
questa maligna entità e nessuno può sottrarsi
alla sua potenza, né qualcuno è
in grado di ucciderlo. Il brano proseguiva nella descrizioni di
orribili
massacri, soffermandosi sui vani tentativi di porre rimedio ad un
simile male, provando
con ogni mezzo ad abbatterlo. Il testo era corredato dalle immagini
disegnate
dalla penna degli amanuensi. Una di esse mi sconvolse: raffigurava un
altare su
cui giaceva il corpo di un essere abominevole e alato, sullo sfondo
uomini
incappucciati chinavano il capo in preghiera. Passai subito alla
lettura dei
paragrafi che circondavano la raffigurazione. A quanto pareva un
anziano
chierico era riuscito ad escogitare un modo per offrire a quelle terre
martoriate una protezione dalla temibile creatura. Durante una delle
tremende
incursioni del demone nell’antica città di Sibir,
il sacerdote gli si parò
innanzi impavidamente e prese a pronunciare un’arcaica
formula di esorcismo. Quelle
mistiche parole avrebbero avuto
l’effetto di separare il corpo del mostro dal suo malvagio
spirito, ma non di
eliminarlo definitivamente. Il tentativo riuscì e le spoglie
del demone caddero
a terra senza vita, mentre il suo animo errante svanì
nell’oscurità. Affinché
mai più l’eterea essenza riconquistasse il suo
originale aspetto, il corpo
venne seppellito nell’impenetrabile regione siberiana, ad una
notevolissima
profondità. Ogni precauzione fu accolta per evitare il
risveglio dell’essere
mostruoso, compresa l’edificazione di una cripta di pietra
per imprigionare il
sarcofago, sul quale furono incisi avvertimenti sui rischi che
avrebbero corso
eventuali violatori della tomba. Tutto combaciava alla perfezione, la
scoperta
era straordinaria. Ricerche più approfondite non erano ormai
indispensabili,
quanto desideravo sapere era già in mio possesso. Mi voltai
per avvisare il
soldato, che nemmeno in quell’occasione aveva voluto esimersi
dal seguirmi,
eppure stranamente non era più affianco a me. Uscendo dalla
biblioteca lo
ritrovai davanti all’ingresso. Mi dava le spalle ed ancora
una volta stava
parlando con qualcuno attraverso la ricetrasmittente. Era talmente
preso dal
discorso da non accorgersi della mia presenza. Gli strinsi un braccio
per
attirare la sua attenzione. Il suo arto si irrigidì, essendo
stato colto di sorpresa,
ed un istante e prima che egli riponesse la ricetrasmittente nella
custodia,
riuscii ad udire una voce, proveniente
dall’audio-trasmettitore, disturbata dal
segnale instabile, ma ciononostante distinsi tra quelle parole confuse
questa
frase: ”Agente Ashen, agente Red, perché non
risponde? Qui è l’agente Raven,
risponda…”. La cosa mi parve molto sospetta, ma
quanto avevo appena scoperto in
archivio era troppo importante per sprecare del tempo prezioso in
affari che
non mi competevano. Il soldato aveva per un breve momento assunto
l’espressione
di chi nasconde qualcosa, ma immediatamente ricompostosi
tornò ad impersonare
il consueto milite silenzioso. Lo pregai di riaccompagnarmi in
aeroporto, il
mio compito ad Oxford era terminato.
Il
contenuto del libro mi rimbalzava nella testa e non potevo fare a meno
di pensare che cosa fosse accaduto se solo davvero il demone si fosse
ridestato dal suo torpore indotto. Rabbrividii all’idea,
soprattutto associando a tale disastrosa possibilità al
ricordo dei bassorilievi del sarcofago, dai quali traspariva
l’epoca di terrore che li aveva ispirati. Immerso nelle mie
riflessioni, non diedi peso alle lunghe ore di viaggio, che per tale
ragione trascorsero veloci e placidamente. Quando atterrammo,
però, ci accolse un gruppo di guardie armate
dall’aria minacciosa. Temetti per la mia
incolumità, ma non ero io a dovermi preoccupare. I soldati
infatti, non appena la scaletta fu calata a terra, salirono
sull’aereo e placcarono il mio accompagnatore, puntandogli un
fucile contro la schiena. Atterrito domandai spiegazione, ma nessuno mi
accontentò, bensì intimarono al prigioniero di
avanzare. Egli obbedì ancora una volta in silenzio. Fu
l’ultima occasione in cui lo vidi, non idea di quale sia
stato il suo destino. Ancora scosso da quel trambusto, scesi i gradini
e fui accolto da un altro membro della SPETSNAZ, il quale mi
informò che il caporale mi stava attendendo nel suo ufficio.
Seduto sulla sua sedia rivestita di pelle nocciola, Zarkovskij
aspettava il mio ingresso fumando un sigaro. Quando entrai nella stanza
e mi vide, scattò in piedi e mi venne incontro, assetato di
novità sul caso. Di certo gli avrei raccontato ogni cosa, ma
prima mi preoccupai di comprendere le ragioni dell’imboscata
a cui assistetti. Il caporale mi spiegò che il soldato che
mi aveva scortato sino in Inghilterra era in realtà una
spia, infiltratasi tra le SPETSNAZ per carpirne dati e obiettivi.
L’organizzazione per cui lavorava sarebbe rimasta, a suo
parere, segreta ancora per poco, poiché confidava molto nei
metodi di persuasione adottati dai suoi sottoposti. Notai una vena
sadica in quello che mi stava dicendo e la cosa non mi piaceva affatto.
Tornò sull’argomento di maggiore interesse ed io
presi ad esporgli quanto ero stato in grado di scoprire. Dopo aver
ascoltato attentamente, Zarkovskij iniziò a passeggiare in
tondo, strofinandosi il mento barbuto con le dita. Il suo volto si fece
serio, mi ringraziò e si congedò, aggiungendo che
mi era concesso il resto della giornata libero, ma vigeva il divieto
categorico di allontanarsi dalla zona degli scavi. Percepivo ormai che
la faccenda in cui mi ero immesso, avrebbe finito per divenire la mia
costrizione. Salutai il caporale e mi ritirai nella mia stanza. Provai
a riposare qualche ora a letto. La branda scricchiolava ad ogni mio
movimento causato dal mio sonno inquieto. La spaventosa creatura
demoniaca mi apparve in sogno nel pieno di una delle sue sanguinose
scorrerie ed io non potevo fare nulla per fermarla. Sudavo copiosamente
quando quella orribile visione onirica scomparve ed io mi ritrovai
davanti agli occhi sbarrati il soffitto della stanza. Il soggetto dei
miei studi stava diventando la mia ossessione. Guardai attraverso il
vetro della finestra: il pallido chiarore della luna filtrava
attraverso le nuvole cariche di neve candida. Si era fatto tardi, ma
ormai mi era difficile riaddormentarmi, decisi dunque di dar sfogo a
quei maledetti sogni e tornare nell’area dove era conservato
l’essere diabolico. I miei passi affondavano nella morbida
neve fresca che aveva ricoperto il sentiero per il laboratorio. Giunto
ad una certa distanza dall’entrata, scorsi delle guardie a
difesa dell’edificio. La cosa mi insospettì ed
udendo qualcuno che discuteva animatamente all’interno, mi
acquattai dietro i cespugli e mi diressi senza manifestare la mia
presenza verso la finestra che dava sulla sala del cadavere, da cui
peraltro proveniva quel vocio. Protesi il mio sguardo oltre la vetrata
e fui in grado di riconoscere due membri dell’equipe
scientifica e la ben nota sagoma del caporale. Egli fissava il tavolo
operatorio immobile, mentre gli studiosi sedevano su degli sgabelli.
Uno di questi ultimi stava accennando ad un particolare macchinario,
che Zarkovskij avrebbe commissionato alla squadra di ricerca per la
realizzazione di un progetto a me ignoto. Purtroppo
l’argomento della discussione si fece via via più
chiaro, quando il caporale, riferendosi al corpo senza vita del demone,
dichiarò con tono deciso che l’avrebbe reso
l’arma perfetta, a cui nessun esercito poteva resistere e con
cui alcun moderno strumento bellico poteva competere. Un brivido mi
percorse la schiena, e non già a causa del freddo pungente
che penetrava sin dentro le ossa. Da quanto risultava dal mio ascolto,
le SPETSNAZ avevano in mente la terribile idea di trasformare quella
mostruosa entità venuta da un lontanissimo passato, nella
più distruttiva delle armi odierne. Non potei fare a meno di
ipotizzare cosa sarebbe accaduto nel triste caso in cui le forze
speciali non fossero stati in grado di tenere a freno gli istinti
infernali di quella creatura. Come pensavano di controllare un simile
potere? Per la prima volta riuscii a distinguere il vero volto della
SPETSNAZ, e di certo non mi piaceva affatto. Conoscevo il livello
bio-medico e tecnologico di cui disponeva l’organizzazione,
ma non potevo credere che fosse sufficiente a riportare in vita quel
mostro, a meno che non mi sfuggisse ancora qualche dettaglio di
fondamentale importanza. Per quella sera avevo tentato fin troppo la
sorte ed appena un attimo prima che le guardie battessero durante il
giro di ronda la zona in cui mi nascondevo, sparii tra il fogliame e mi
diressi di nuovo verso la mia stanza. Nei giorni successivi
l’area del laboratorio divenne sempre più
sorvegliata e i miei appostamenti troppo rischiosi. Pensai di dover
denunciare quanto avevo ascoltato, ma la richiesta di lasciare la
Siberia mi veniva negata quotidianamente. Una mattina qualcuno
bussò alla mia porta e mi invitò a seguirlo
nell’ala scientifica della struttura. Il caporale Zarkovskij
mi aveva fatto chiamare per mostrarmi gli ultimi risvolti dele ricerche
affrontate dai potenti mezzi di cui era a disposizione il suo corpo
militare. La mia guida mi condusse in un’aula alla quale sino
ad allora non mi era stato consentito l’ingresso.
L’atmosfera era cupa e carica di tensione, la sala era colma
di marchingegni tecnologicamente avanzati, di cui non conoscevo la
funzione, mentre il caporale, parte dell’equipe di studio e
alcuni soldati erano disposti di fronte ad una parete tappezzata di
monitor accesi, i quali diffondevano una tenue luce soffusa sui volti
dei loro osservatore. Zarkovskij si voltò, mi vide
e mi diede il benvenuto. Mi informò che aveva intenzione di
illustrarmi alcune fotografie molto interessanti, rinvenute negli
archivi della polizia giapponese. Ero preoccupato, ma non potevo
nascondere la mia curiosità, rimasi in silenzio e ascoltai
la sua spiegazione. Il caporale continuò dichiarando che la
sua squadra era stata capace di rintracciare delle segnalazioni vecchie
di circa venticinque anni, di alcuni testimoni che avrebbero assistito
ad eventi giudicati paranormali dalla polizia. Sugli schermi scorrevano
le foto di un essere terribilmente somigliante al corpo emerso dai
ghiacci siberiani, la sua pelle era di un viola intenso, i suoi occhi
purpurei ed un terzo gli occupava il centro della fronte, la sua
schiena terminava con una coda dalle movenze di serpente, dalla folta
capigliatura mora aggettavano due lunghe corna ondulate, spessi artigli
ornavano le sue dita, infine le sue robuste ali di pipistrello gli
permettevano di librarsi in volo. Il battito del mio cuore
accelerò vertiginosamente, se le immagini fossero state
attendibili, allora nel mondo esisteva almeno un’altra
creatura infernale. Il caporale proseguì e riferì
che il mostro immortalato nelle immagini era stato avvistato per
l’ultima volta nei pressi di un edificio appartenente alla
Mishima Zaibatsu, una grossa società giapponese di
proprietà del ricco magnate ed esperto di arti marziali
Heihachi Mishima. Le ricerche confermavano che la scomparsa del demone
coincidevano esattamente con l’improvvisa morte del figlio
dell’industriale, un certo Kazuya, i cui tratti somatici,
secondo l’analisi virtuale realizzata dal computer sul suo
viso, corrispondevano per il 93% a quelli dell’essere
raffigurato nelle fotografie. Nuovamente le parole mi rimasero bloccate
in gola, incredibilmente il contenuto dell’antico manoscritto
rispondeva a verità. Da quanto mi era possibile dedurre, lo
spirito vendicativo, estirpato dal petto del demone vissuto oltre nove
secoli orsono, aveva trovato nuova dimora nel corpo di un umano
ospitante. Tutto ciò era davvero terribile, ma purtroppo
c’era dell’altro: le indagini avevano rivelato che
quelle non erano le sole segnalazioni di questo tipo. Altre fonti
infatti si pronunciavano riguardo ad un episodio avvenuto soltanto a
qualche mese fa. Un’intera foresta era stata devastata da un
enorme incendio, delle persone avevano depositato in commissariato la
loro testimonianza, in cui ammettevano di aver avvistato qualcosa di
simile ad un uomo alato scagliare distruttivi raggi luminosi dalla
fronte. Anche questo dossier era corredato da fotografie, che
mostravano un essere umano, poco più di un ragazzo, dal capo
adorno di corna appuntite, gli occhi spiritati, sospeso in aria da
grandi ali di corvo. Il dettaglio che maggiormente mi
inquietò furono i simboli che gli decoravano il petto e la
fronte, del tutto simili a quelli che avevo già osservato
sul cadavere dell’antica entità demoniaca. Gli
avvistamenti si concentravano senza esclusioni in un’area
situata a breve distanza da un tempio ligneo, anch’esso
appartenente alla famiglia Mishima. A quanto pareva il diavolo aveva
stretto un patto di sangue con quella stirpe asiatica. Incredulo e
attonito, rimasi immobilizzato dal vortice di sensazioni che mi
travolgeva l’animo.
Uno degli hacker al servizio delle truppe di Zarkovskij
interruppe improvvisamente il suo discorso, per esporre le ultime utili
notizie trapelate dalla sua opera di pirateria informatica. Egli era
riuscito a superare le difese di sistema di una nota società
di biotecnologie, la G-Corporation, e si era impossessato di dati
top-secret raccolti in occasione di uno dei loro studi sperimentali
della massima importanza. Il file riguardava il lavoro compiuto dagli
scienziati della corporation sulla salma di un giovane rinvenuto un
ventennio prima nella bocca di un vulcano. Sofisticati esami avevano
permesso di rintracciare nel suo DNA una molecola davvero unica, la
quale si attivava solo in seguito a specifici stimoli bioelettrici
provenienti dal cervello del soggetto. L’attivazione di
queste particelle provocava nell’organismo ospitante
un’immediata metamorfosi in un essere del tutto nuovo. I
biologi della G-Corporation avevano denominato tale molecola come Devil
gene. Inoltre un’altra sconcertante verità veniva
rivelata da quella banca dati: il cadavere della cavia esaminata era
stato identificato e si trattava proprio di Kazuya Mishima. La pista da
seguire per i segugi della SPETSNAZ era ormai tracciata e il ghigno
soddisfatto sul volto del caporale non concedeva dubbi, sapevo
esattamente cosa gli passava per la mente, ma per non destare troppi
sospetti, mi vidi costretto a domandare per quale ragione esattamente
ero stato convocato al suo cospetto. Egli mi pose una mano sulla spalla
e posando il suo sguardo fermo sui miei occhi, mi chiese se, in base a
quanto avevo scoperto finora, esistesse la possibilità di
trovare una relazione tra le due creature appena analizzate e quella
che giaceva nei loro laboratori. Non potevo mentire e fui obbligato ad
ammettere che il manoscritto medioevale raccontava che lo spirito del
demone avrebbe comunque potuto reincarnarsi nel corpo di chiunque,
nonostante fosse stato privato del proprio. Tanto bastò
all’ufficiale per confermare ai suoi sottoposti
l’ordine di proseguire nelle indagini con maggiore lena,
poiché l’obiettivo stava per essere raggiunto. A
questo punto Zarkovskij mi invitò a
collaborare alle ricerche di nuove informazioni e dunque a rimanere
nella sala dei computer per offrire il mio apporto, mentre egli si
sarebbe trasferito nel suo ufficio in attesa di altri esaltanti
aggiornamenti. Dovetti accettare, perlomeno così facendo,
avrei potuto ricavare maggiori dettagli sul suo piano ed avrei trovato
un modo per porvi rimedio. Fu allora che mi venne in mente
l’idea del diario, intuendo che questa faccenda si era
oltremodo complicata per permettermi di abbandonare il progetto
liberamente, sapevo ormai di conoscere troppe cose, ma per fortuna
dalla mia avevo ancora la fiducia del caporale.
L’indagine si spostò allora sulla famiglia
Mishima, per scovare i suoi legami con il Devil gene. Dopo un minuzioso
lavoro sui dati, diverse ore più tardi si scoprì
che periodicamente era uso di questa stirpe, indire un grande torneo di
arti marziali, il Tekken, a cui partecipavano prontamente tutti i
migliori combattenti del mondo, per raggiungere l’ambito
titolo di Re del Pugno di Ferro. Sino ad ora si era giunti alla quarta
edizione. I rapporti della G-Corporation informavano che Heihachi
Mishima era rimasto ucciso nella tremenda esplosione che aveva
coinvolto il tempio in cui si era da poco svolta la finale. Nonostante
questo però qualcuno, di cui la fonte non conosceva
l’identità, aveva preso il controllo della
Zaibatsu ed aveva annunciato l’imminente inizio del quinto
Tekken. Al torneo era stato invitato, tra gli altri, anche un altro
componente della famiglia Mishima, un tale di nome Jin Kazama, figlio
di Kazuya e vincitore delle due precedenti edizioni. Il confronto tra
questo individuo e le foto del demone che aveva cancellato
un’intera foresta non lasciava dubbi a riguardo, si trattava
della stessa persona. Dunque anche Jin deteneva il Devil gene e di
certo avrebbe partecipato al torneo. Uno degli scienziati alle mie
spalle pronunciò una frase che da tempo ormai temevo di
sentire. Egli ipotizzava di poter ripristinare il corpo senza vita del
mostruoso essere se la SPETSNAZ fosse stata in possesso di quel
prezioso lembo di DNA. Maledissi il giorno in cui accettai di
collaborare a questo insano progetto, mi ero reso conto troppo tardi
dei rischi a cui stavo esponendo centinaia di persone. Mi odiai
profondamente per tale ragione. L’ultimo tassello per la
rievocazione della micidiale piaga dal passato era stato trovato, non
restava che acquisirlo e combinarlo con i restanti. Afflitto e
impotente sentii le forze abbandonarmi e le gambe cedere, mi lasciai
cade su di una sedia in attesa che il peggio si compiesse. Un emissario
corse a chiamare il caporale, affinché fosse messo al
corrente degli ultimi risvolti della ricerca. Passarono
soltanto pochi minuti, poi lo vidi entrare. Entusiasta si
complimentò con i fautori delle recenti scoperte e chiese
maggiori informazioni, sulle quali aveva ascoltato solo un breve
accenno dall’emissario. Prese la parola lo scienziato che per
primo aveva ammesso la possibilità di riportare in vita la
creatura sfruttando le strabilianti potenzialità del Devil
gene, egli espose la sua teoria, riscuotendo grande successo tra i
presenti. Ammutolito e incapace di qual si voglia reazione, io rimanevo
seduto e contratto in un’espressione spenta e
imperscrutabile. Nell’entusiasmo generale, nessuno badava al
mio pallore o alla mia espressione di profonda perplessità,
ma anche se fosse avvenuto il contrario, chi avrebbe mai voluto
ascoltarmi? Probabilmente se qualcuno si fosse reso conto del mio
parere contrastante con quello degli altri membri dell’equipe
scientifica, sarei apparso come un peso da eliminare, una scomoda spina
nel fianco, e non escludo che avrebbe potuto toccarmi una sorte non
dissimile da quella della spia infiltrata, di cui nessuna ulteriore
notizia era trapelata. Fu resa nota a Zarkovskij l’esistenza
del grande torneo di arti marziali e della partecipazione del obiettivo
chiave, detentore del gene agognato. Il caporale poggiò i
pugni sulla scrivania su cui erano posate le tastiere dei computer, il
suo sguardo si fece più fermo e penetrante del solito,
fissandosi sulle foto di Jin Kazama, che scorrevano sullo schermo.
Rimase in silenzio per un tempo che mi parve illimitato, infine espose
il suo comando: il suo piano consisteva nell’infiltrare un
combattente al servizio delle SPETSNAZ tra gli iscritti al Tekken, il
suo obiettivo sarebbe stato quello di catturare Kazama e portarlo al
quartier generale siberiano, dove gli scienziati nel frattempo
avrebbero già ultimato la costruzione dei macchinari
necessari all’operazione di estirpazione e trasferimento del
Devil gene. Tutto era ormai stabilito, restava soltanto un unico
dettaglio da definire, ossia la selezione di colui che avrebbe preso
parte al torneo. Gli angoli delle labbra del caporale Zarkovskij si
sollevarono in un ghigno inquietante ai miei occhi. Egli sapeva
esattamente su chi sarebbe ricaduta la sua scelta. Si voltò
di scatto verso uno dei soldati posti di guardia
all’ingresso, gli ordinò di avvicinarsi, poi
bisbigliò qualcosa al suo orecchio e appena ebbe concluso,
il militare scattò sull’attenti e uscì
di corsa dalla stanza. Mi guardai attorno, notai che tutti i soldati in
sala sorridevano alla stessa maniera del loro superiore, come se
avessero tutti la certezza di conoscere cosa il caporale avesse
confabulato all’orecchio del loro compagno d’armi.
Ancora divorato dal rimorso, riuscii tuttavia a rimettermi in piedi e
compiere qualche passo verso una delle guardie. A voce sommessa
domandai al soldato se fosse stato in grado di offrirmi delle
delucidazioni sul prescelto di Zarkovskij. Egli mi rispose che con
assoluta sicurezza l’uomo perfetto per la missione
corrispondeva ad un membro delle SPETSNAZ, che aveva raggiunto una
notevolissima fama tra i suoi colleghi e soprattutto tra gli ufficiali,
per la sua totale mancanza di scrupoli e il suo completo asservimento
alle cause del reparto delle forze speciali. Veterano di infinite
battaglie, questo militare dalle indubbie qualità era noto
per la sua profonda conoscenza del Sambo, un tipico stile di
combattimento russo. I suoi colpi precisi e letali come un proiettile
ed il suo aspetto austero ed impassibile, persino di fronte
all’ultimo respiro degli avversari, lo avevano trasformato in
una leggenda tra le SPETSNAZ, ottenendo il suo terrificante soprannome
di Angelo Bianco della Morte, una definizione che ben rendeva il suo
spirito combattivo ed i modi silenziosi e solenni. Alcuni giuravano che
fosse stato privato della lingua, poiché non amava parlare e
preferiva dimostrare il suo valore con le azioni. C’era
persino chi provava timore semplicemente a guardarlo negli occhi, i
quali incutevano, secondo il mio conversatore, profonda soggezione. Da
quanto mi era appena stato spiegato, un simile individuo, la cui intera
vita era devota alla guerra, non avrebbe di certo rifiutato la missione
che il caporale aveva stabilito di affidargli, e così anche
la mia ultima speranza di prendere qualche altro giorno di tempo per
trovare un modo di evadere da questo carcere di ghiaccio e divulgare le
intenzioni dell’organizzazione, andava miseramente in fumo.
Percepii un rumore, un crescente calpestio nella soffice neve, poi la
pesante porta d’ingresso al laboratorio che cigolava mentre
veniva aperta, ancora dei passi, qualcuno si stava avvicinando. La
maniglia ruotò emettendo un sottile stridio, la spessa
imposta blindata fu scostata, un flebile alito di vento precedette
l’entrata dell’emissario di ritorno dal suo
incarico. Appena un istante dopo, un altro soldato in uniforme fece il
suo ingresso in sala, procedendo lentamente, circondato dal silenzio
dei presenti, che ammutolirono aspettandosi delle presentazioni.
Tuttavia egli non aprì bocca, come se la cicatrice, che gli
deturpava le labbra ed il volto pallido, fosse una sorta di sigillo per
la sua voce, sebbene i suoi occhi vitrei comunicassero molto
più di prolissi discorsi. Fu il caporale ad introdurlo a
tutti noi come Sergei Dragunov, milite di indubbio valore e raro acume,
nonché perfetto esecutore di ardue imprese, di certo il
migliore elemento della SPETSNAZ. Riconobbi immediatamente quello
sguardo, si trattava proprio del soldato che aveva attirato la mia
attenzione tempo addietro, ma nonostante ciò, incuteva in me
le stesse particolari sensazioni di allora. Non disse nulla, nemmeno
quando il caporale Zarkovskij lo accolse dandogli il benvenuto,
né quando il responsabile dell’equipe scientifica
premise che quanto avevano da proporgli avrebbe potuto costituire serio
pericolo per la sua stessa incolumità e neppure quando
iniziarono ad illustrargli la missione nei minimi dettagli. Brevi cenni
del capo sostituivano ogni parola e a spiegazione ultimata, non un
briciolo di incertezza o timore attraversò i suoi occhi,
bensì dimostrò di accettare di buon grado la
difficile mansione che gli era stata affidata, posizionandosi
sull’attenti, con visibile soddisfazione del suo superiore,
che avendo ottenuto quanto sperato, congedò
l’agente scelto, consegnandogli una fotografia del target.
Precisò che Jin Kazama doveva assolutamente giungere vivo al
quartier generale e tale frase mi sconvolse almeno quanto
l’aria del tutto naturale con cui l’Angelo Bianco
della Morte apprendeva quell’inquietante restrizione al suo
operato, ma evidentemente si trattava di un appunto necessario, che
forse non sempre era stato rispettato, con mio grande orrore. Infine
Zarkovskij gli consigliò di iniziare a preparare
l’occorrente per la missione, un lungo viaggio verso
l’Oriente lo attendeva. Dragunov annuì e
silenzioso come un felino in agguato sulla preda, lasciò la
sala senza degnare di uno sguardo nessuno dei presenti. Mi ripresi
dalla mia momentanea distrazione, causata dal tentativo di scrutare
nell’animo di quell’uomo misterioso, e constatai
che avevo già fatto tutto ciò che era in mio
potere per ostacolare i piani della SPETSNAZ, ma un semplice archeologo
non poteva certo pretendere di riuscire in un simile obiettivo. Un
ultima cosa tuttavia mi restava ancora da fare. Mi scusai col caporale
e gli chiesi il permesso di ritirarmi nel mio alloggiamento, adducendo
come motivazione un’improvvisa emicrania che non mi avrebbe
permesso comunque di lavorare serenamente. Egli accettò con
qualche esitazione, così potei allontanarmi dal laboratorio
e chiudermi nella mia stanza, avendo avuto premura di controllare che
nessuno mi seguisse. Tirai fuori da un cassetto un taccuino, afferrai
la penna dal mio taschino e confidando nel sostegno della mia memoria,
presi a scrivere questo diario, augurandomi che qualcuno possa leggerlo
in tempo utile per evitare un tremendo disastro. Termino qui la
rievocazione della mia esperienza e delle mie colpe, ribadendo che
quanto riportato su queste pagine corrisponde purtroppo al vero.
Quell’essere diabolico risorto dalle viscere della terra deve
restare un segreto, come lo è stato per tutti questi secoli,
affinché non piombi su tutti noi un’era di tenebre
e sangue, da cui difficilmente potremmo emanciparci.
Epilogo
Le sommità delle grandi pagode svettavano tra gli edifici
della giungla urbana giapponese. Sergej assisteva ad un tale panorama,
per lui del tutto nuovo, volgendo lo sguardo al finestrino
dell’aereo di linea con cui era partito alla volta
dell’Asia Orientale per non attirare troppa attenzione su di
sé. Il sole splendeva alto nel cielo quel giorno,
l’atmosfera perfetta per la vigilia del torneo. Quando
Dragunov posò il piede sul suolo del Giappone,
l’ansia e il ripensamento per una missione così
particolare e pericolosa non erano sentimenti condivisi dal suo animo
indomito e gelido. Una volta abbandonato l’aeroporto il
soldato delle forze speciali russe estrasse dalla tasca dei pantaloni
il dispositivo di localizzazione, fornitogli dalla SPETSNAZ per tenerlo
costantemente in contatto con il quartier generale ed indicargli i
luoghi, in cui sarebbero stati via via previsti i match della
competizione. Egli avrebbe sostenuto gli incontri ed in contemporanea
avrebbe proseguito le sue ricerche dell’obiettivo, il giovane
combattente Jin Kazama. Consultò la mappa virtuale
inviatagli dalla base sul dispositivo ed apprese la sua prima
destinazione: avrebbe dovuto recarsi nell’ enorme palazzo
Mishima, nel quale in serata sarebbero stati resi noti gli
accoppiamenti per il primo turno di scontri. Se la fortuna fosse stata
dalla sua parte, aveva a disposizione una prima occasione per
incontrare e studiare colui per il quale era stato spedito in Oriente.
Ripose il dispositivo di localizzazione nella tasca e si
incamminò verso la sua meta, un impercettibile sorriso
apparve sul suo volto, come se il suo viso freddamente inespressivo
avesse per un attimo rivelato una certa eccitazione per
l’intrigante missione con cui doveva misurarsi. Aveva
compiuto solo qualche passo, quando d’un tratto Dragunov
percepì un fruscio di fogliame proveniente dal grande salice
alle sue spalle. Si voltò lentamente, avvertendo la
fastidiosa sensazione di essere osservato, ma dietro di lui non scorse
nulla di sospetto. Riprese dunque il suo cammino senza curarsi troppo
dell’episodio. Intanto celato dalle fronde
dell’imponente albero, qualcuno stava effettivamente seguendo
le mosse del militare russo. Confondendosi nelle tenebre
all’interno della chioma lussureggiante della pianta, un
individuo vestito di una tuta da mimetizzazione di pelle nera, aveva
osservato ogni cosa, pedinando il soldato attraverso movimenti
rapidissimi e silenziosi. I suoi capelli di un biondo brillante
risaltavano sulla sua carnagione scura e disegnavano sulle tempie
curiose fantasie ondulate, gli occhiali da sole non potevano celare
completamente la profonda cicatrice ad "X" che gli marchiava il volto. La velocità e
l’eleganza delle sue movenze, mentre balzava da un ramo
all’altro del viale alberato, percorso da Dragunov prima di
sostare per dare uno sguardo al dispositivo, indicavano la sua profonda
conoscenza delle arti ninjitsu. Quando l’Angelo della Morte
svanì dalla sua visuale, il misterioso pedinatore
portò una mano all’orecchio destro, nel quale era
posizionato un auricolare dotato di microfono, spinse un piccolo
bottone attivando la comunicazione, infine avvertì:
“Base, qui l’agente Raven. Il soggetto si sta
dirigendo verso la proprietà dei Mishima, a quanto pare
prenderà parte al torneo come avevamo ipotizzato. Mi
appresto a raggiungerlo per prendere posto anch’io tra i
combattenti. Mi concentrerò come stabilito sulla missione
primaria, ma lo terrò comunque d’occhio e se
sarà necessario interverrò per intralciare i suoi
piani. Ristabilirò la connessione non appena avrò
scoperto qualcosa di interessante sull’organizzatore di
questa quinta edizione del Tekken. Diamo ufficialmente inizio alla
missione. Passo e chiudo”. Un breve tintinnio
significò l’interruzione della comunicazione. In
meno di un secondo l’agente si volatilizzò nel
nulla causando uno spostamento d’aria che smosse lievemente
il fogliame.
Il cinguettio delle rondini fungeva da sottofondo di quella assolata
mattinata, il vento soffiava lieve e discreto, la vita scorreva
tranquilla, eppure tutto ciò appariva come la quiete prima
della tempesta. Ancora una volta quella sibilante risata dalle fosche
tonalità echeggiò, levandosi dalla bocca
dell’inferno, per appestare l’aria di palpabile
tensione.