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Nina
Williams era una donna che vendeva cara la pelle, la cui fama di infallibile ed
implacabile killer era ben nota ed apprezzata dai suoi potenti clienti.
Clienti
che, almeno in Giappone, erano sprofondati nella più nera disgrazia: la MishimaZaibatsu era crollata,
trascinando con se il regime dittatoriale e le vite di JinKazama e dei suoi consanguinei Kazuya
e HeihachiMishima.
Accartocciata su se stessa sia la struttura fisica di quel colosso che aveva
fatto tremare il mondo, con i suoi laboratori pieni di esperimenti genetici,
sia gli ultimi tre membri di quella stirpe maledetta.
Ammesso
e non concesso che non ci fosse in giro qualche altro piccolo erede in procinto
di venire al mondo: d’altronde, anche Kazuya si era
concesso qualche ora di svago prima di venir gettato in un vulcano, e se fosse
stato vero il detto “Tale padre, Tale figlio”, probabilmente l’umanità avrebbe
avuto ancora qualche demone psicolabile con cui fare i conti.
Ma
questo non aveva importanza in quel momento.
Il
crollo della MishimaZaibatsu,
in concomitanza con la fine del Sesto Torneo del Pugno d’Acciaio, aveva
scatenato una caccia aperta ad ogni loro fiancheggiatore, alleato, aiutante.
E
Nina Williams da cacciatrice era diventata preda. Ambita, per altro, da più
fronti. Qualcuno voleva la sua testa, altri forse i suoi servizi. Ma tutti la
stavano comunque cercando con il mitra spianato. Un po’ impossibile capire le
intenzioni delle varie fazioni mentre si veniva inseguiti da un elicottero
militare, tra i sibili dei proiettili.
Molto
meglio sparire per un po’, tagliare la corda in fretta e furia e restare
nascosta in attesa che le acque si fossero calmate.
Era
una donna che ragionava per obbiettivi, una volta focalizzata l’attenzione su
uno di essi, si prodigava anima e corpo per riuscirvi, dopodiché si concentrava
su un altro obbiettivo e così via.
Il
suo obbiettivo primario era quello di lasciare Tokyo, seminando coloro che la
stavano attaccando il più velocemente possibile.
A
rendere ulteriormente difficoltosa la sua fuga, ci si era messa pure la
pioggia.
Un
mezzo nubifragio che stava mandando in tilt il traffico cittadino, già messo a
dura prova dai disordini scoppiati dopo l’evento e che faceva depositare il
nuvolone di polvere e il fuoco dell’esplosione del grattacielo della MishimaZaibatsu.
E
che la stava intralciando davvero troppo.
La
moto le era scivolata via durante una curva, e solo i suoi pronti riflessi
l’avevano salvata dal finire schiacciata tra le ruote di un camion. Aveva
iniziato a correre, mentre i lampeggianti di una qualche unità speciale le si
avvicinavano. Si gettò tra i vicoli della città, concentrata sulla strada da
percorrere, per non trovarsi in un vicolo cieco.
Sentì
quattro colpi alle sue spalle, e decise che era meglio darsi alla fuga sui
tetti: era da un po’ che non sentiva il rombo dell’elicottero, avrebbe avuto
più opportunità di salvezza. Saltò sulle scale anti-incendio di una palazzina.
Vedendo i nemici avvicinarsi si lanciò nel palazzo di fianco, aggrappandosi su
un palo.
Una
scivolata sul cornicione che poteva risultare fatale e di nuovo tra le scale
antincendio di palazzine anonime. Finché qualcosa le entrò dritto nel
polpaccio, in un’esplosione di dolore.
Strinse
i denti, perdendo l’equilibrio, cercando disperatamente di trascinarsi sulla
scala.
Ultimo
piano. Capolinea? Nonostante il dolore atroce e la gamba quasi inutilizzabile,
fece un ultimo tentativo. Una breve rincorsa sofferta e il salto verso la ricco
palazzo di fronte, separato solo da un paio di metri.
La
mano sinistra che si aggrappava sul davanzale della finestra. La presa che le
sfuggiva da sotto le dita. La destra che arrivava troppo tardi e la caduta.
La
fronte che andava a sbattere contro il davanzale più sotto spense la luce.
Buongiorno
a tutte!
Una
nuova Ff in un fandom a me
completamente nuovo! Vedremo come andrà a finire!
Nina
Williams è uno dei miei personaggi preferiti del mio videogioco preferito di
tutti i tempi: lo seguo dal 1997, l’anno in cui mi regalarono la mia prima
Playstation, e da allora non ne posso più fare a meno, e conto i giorni che mi
separano dall’acquisto della PS3 e del 6° capitolo!
Non
ho mai trovato un uomo alla sua “altezza” prima di SergeiDragunov, e ho avuto l’ispirazione per questa storia.
La svegliò il
dolore alla gamba. Non aprì gli occhi prima di essersi accertata di non essere
legata. Rendendosi conto che nulla impediva i suoi movimenti, Nina cercò di
alzarsi, con l’intenzione di toccarsi la gamba ferita. Un violento capogiro la
fece quasi desistere, e dovette lottare contro la sua debolezza per mettere a
fuoco l’ambiente che la circondava e le sue condizioni fisiche.
La stanza in cui
si trovava era avvolta nella penombra. Si trovava tra le lenzuola di un letto
matrimoniale, dalla testata imbottita a cui si appoggiò, faticosamente, per
riuscire a guardarsi intorno meglio. Appena i suoi occhi si furono abituati
alla semioscurità, notò che sul comodino più vicino a lei vi era appoggiata una
scatola di primo soccorso, traboccante di garze e disinfettante. Il suo sguardo
di ghiaccio vagò per la stanza, scoprendo un armadio a muro Laccato di bianco,
un tavolino con un Pc portatile acceso, una
televisione al plasma attaccata al muro e un puntino rosso nell’angolo più
buio, di fianco alla porta finestra dalle imposte chiuse. Il puntino rosso pulsò
ulteriormente, diffondendo un lieve alone del medesimo colore, e alle narici
della donna arrivò l’acre odore di tabacco. Senza volerlo tossicchiò.
“Non l’avrei mai
detto” la voce maschile dall’accento russo, proveniva da dietro al puntino, “che
la infastidisse l’odore del fumo.” Il puntino scomparve.
Il cuore della
donna fece un balzo: i russi erano una fazione a sé stante, indipendente da
tutte le altre che avevano partecipato alla guerra causata da JinKazama. E di certo non era il
massimo cadere nelle loro mani. Non avevano una buona reputazione con i
prigionieri. Boskonovitch era uno di loro, anche se
lavorava per la MishimaZaibatsu,
e il risultato dei suoi esperimenti l’aveva constatato sulla sua pelle. E sulla
propria memoria.
Prima che potesse
azzardare una parola, l’uomo accese la lampada al suo fianco, puntando i suoi
occhi, di un azzurro dolorosamente gelido, nei suoi.
“SergeiDragunov.” Decretò la
donna, con un accento sprezzante nella voce. La sua disgraziata fuga l’aveva
condotta dritta verso un lupo siberiano affamato di distruzione. Non male come
risultato. Cercò di mettersi sulla difensiva, ma una fitta alla gamba la
distrasse.
“Stia ferma.” Ordinò
l’uomo, alzandosi dalla poltrona e avvicinandosi lentamente a Nina. Indossava la
camicia bianca della divisa, con le maniche arrotolate sugli avambracci, i
pantaloni militari e gli stivali. Tolse il lenzuolo che copriva la donna, con
un gesto secco, senza che lei riuscisse a fermarlo, e le fissò la gamba. Lo
sguardo di Nina seguì il suo.
La stoffa della
tuta, tagliata appena sopra il ginocchio scopriva il polpaccio gonfio e
violaceo, un cerotto sporco di sangue copriva la ferita. Imprecò mentalmente.
Con quello non sarebbe riuscita di certo ad andare da nessuna parte.
“L’ho vista
lanciarsi su questo palazzo, scivolare e colpire il cornicione. L’ho presa al
volo. Ringrazi i miei riflessi, o sarebbe nelle mani degli americani. Le posso
assicurare che ce l’hanno con lei e gradirebbero avere la sua testa su un
piatto al posto del tacchino del Ringraziamento.”
“Fa anche del sarcarsmo? Come se fossi finita in mani migliori…”
sibilò la donna con un moto di stizza. Gli occhi gelidi e i lineamenti duri del
militare russo la trattennero dal tentare qualsiasi tipo di attacco.
L’uomo prese dalla cassetta delle medicazioni
un paio di guanti di lattice e se li infilò, senza dire una parola, prima di
sedersi sul letto e di prendere in mano la gamba della donna, per esaminarla.
Lei si morse il labbro, trattenendo una smorfia di dolore.
“Le ho tolto il
proiettile, mentre era svenuta” la informò, togliendo il cerotto insanguinato.
“Le si era conficcato nel muscolo, è stata fortunata, non ha leso né tendini né
nervi, e non ha intaccato l’osso. Questione di millimetri.”
Un taglio lungo
una spanna le attraversava il polpaccio, solcato dal filo nero di sutura. “Sta
facendo infezione” notò la donna, volgendo lo sguardo altrove, disgustata.
L’uomo asserì, poi si allungò di nuovo verso la cassetta e riempì una siringa
con un siero lattiginoso, che iniettò direttamente nel taglio.
Nuovamente, Nina
si morse le labbra.
“Questo è un
potente antibiotico, e anche un anestetico. Farà sparire l’infezione in un paio
d’ore. E questo” prese in mano una bomboletta spray e la puntò sulla ferita. Il
getto fresco diede un istante di sollievo alla gamba della donna.“la farà cicatrizzare più velocemente.”
Una volta posto un
nuovo cerotto, radunò gli oggetti nella cassetta e la chiuse. Poi buttò via i
guanti e si risedette sulla poltroncina di pelle rossa a fianco della finestra,
dopo aver aperto le imposte automatiche, senza smettere di fissarla, con le
mani incrociate sul petto.
“Da quanto tempo
sono qui?” domandò la donna, lo sguardo al di là dei vetri. Fuori continuava a
piovere.
“Tre ore” rispose
velocemente l’uomo. “E siamo all’Hotel Imperial”
aggiunse, anticipando la sua risposta.
“E a quale motivo
devo l’onore delle sue cure, MrDragunov?”
Lui si accese
un’altra sigaretta, studiandola. Non mostrava alcuna espressione, nulla
trapelava da quegli occhi quasi bianchi. “Perdoni la mia maleducazione, se non le
offro una sigaretta, ma il tabacco interferisce con il medicinale che le ho
somministrato. Temo dovrà attendere un paio di giorni, prima di fumare”
Sta
cercando di farmi perdere la pazienza.
Pensò Nina, appoggiandosi impassibile alla testiera del letto. Devo mantenere la calma. Rimase a
fissarlo per alcuni minuti, senza dire nulla, attendendo una risposta o una sua
mossa.
Era una preda, ma
avrebbe lottato con tutte le sue forze prima di soccombere. Avrebbe lottato con
le unghie e con i denti, qualsiasi cosa fosse successa. E doveva farglielo
capire.
Dragunov finì la sua sigaretta e la
spense, poi aprì la finestra per cambiare l’aria ed accese la televisione,
accomodandosi sempre sulla sua poltroncina.
Il telegiornale
trasmetteva immagini di guerriglia urbana e di distruzione. La città era nel
caos. I tumulti si mescolavano ai festeggiamenti degli oppositori del regime.
Qualcuno sputava sulle macerie della MishimaZaibatsu.
Un’immagine fugace
mostrava una disperata Xiaoyu portata via in spalla
da Paul Phoenix e seguita dal suo Panda.
Altri partecipanti
al torneo si davano alla fuga, altri si univano ai festeggiamenti, come quella
mocciosa monegasca che saltellava alzando la gonna e mandando in visibilio chi
la circondava. Il rosso coreano se ne andava in sella alla sua moto, la
ragazzina di Osaka dietro di sé, che gli cingeva la vita e sembrava
singhiozzare, mentre le immagini si spostavano sul cadavere di HeihachiMishima, primo
recuperato dalle rovine, che veniva trascinato in un obitorio.
La giornalista
diffuse poi la lista e le foto dei ricercati.
Prima su tutti
lei, Nina Williams, riuscita a scappare ad un inseguimento delle forze
statunitensi.
Poisua sorella Anna, scomparsa immediatamente
dopo il torneo.
LarsAlexandersson,
visto fuggire su una jeep.
Anche Lee Chaolan risultava disperso, ma non ricercato.
Dragunov spense improvvisamente la
televisione. “Pare che non abbia scampo, Miss Williams”
“Non mi dice una
cosa nuova.”
“Siete disposta a
trattare sulla vostra vita?”
Nina sostenne di
nuovo lo sguardo, dura. “Dipende da cosa proporrete.”
“Non ora.” Il
militare si alzò, avvicinandosi al mobile bar. Si versò un bicchiere di liquore
e lo degustò. “Evito di offrirvelo a causa di medicinale, non per
maleducazione” aggiunse con un ghigno.
“Sono curiosa di
sapere a cosa devo questo interesse sulla mia salute”
Posando il
bicchiere vuoto, l’uomo si voltò nuovamente verso la donna e si avvicinò al
letto. Posò un ginocchio sul materasso. “Le sue capacità sono uniche al mondo,
Miss Williams. Se accetterà i termini dell’accordo che le proporremo, e se
lavorerà per noi come richiesto, sono sicura che non avrà di che pentirsene.”
Appoggiò una mano
e poi l’altra, avvicinandosi alla donna che lo fissava impassibile, cercando di
nascondere il disagio e la rabbia che fremeva sotto la sua pelle. Dragunov le spostò una ciocca dal volto, studiandolo. “Con questi
tratti non avremo difficoltà a farla passare per cittadina russa, se imparerà
alla svelta la nostra lingua.” Le alzò il mento con le dita. “Un volto
pressoché perfetto” dichiarò, senza comunquemostrare
nessun tono di ammirazione, come se stesse guardando una macchina, o una casa
ben costruita, e non una delle donne più letali al mondo.
Il profumo del suo
dopobarba stuzzicò le narici di Nina. Era forte, molto maschile, ma,
contrariamente all’uomo che lo indossava, non la infastidiva. Forse era al muschio
bianco. Gli odori delle persone rimanevano sempre impressi nella sua memoria,
come se al posto del suo nasino ci fosse un tartufo canino.
Sua sorella usava
Chanel 5. Le piaceva lasciare una scia al suo passaggio.
JinKazama
non aveva odore. Nessuno. Forse era la sua natura demoniaca a privarlo anche di
questa caratteristica umana.
Kuma, l’orso di HeihachiMishima, profumava curiosamente di sapone di
Marsiglia, come se lo lavassero insieme al bucato.
E Steve… beh, le era stato vicino solo per una frazione di
secondi. Eppure Nina aveva ben impresso dentro di sé il profumo fresco di
deodorante maschile, quello per giovani ragazzi che vogliono dimostrarsi
sensuali e grandi.
Il volto dell’uomo
si avvicinò al suo, e non si fermò nemmeno quando la donna si voltò appena dall’altra
parte. La furia le montava in petto, quell’uomo doveva ringraziare solamente la
sua gamba infortunata se non si era già trovato all’altro mondo.
Sentì il fiato
caldo di Dragunov solleticarle il collo. Cercò di
rimanere impassibile, stringendo le lenzuola tra le dita. Se solo avesse
allungato le mani quel maledetto russo si sarebbe ritrovato con qualche dito in
meno.
Quel bastardo se
ne stava approfittando troppo, come osava…
“E’ il caso che lei
faccia un bagno.” Disse improvvisamente, facendola trasalire dalla meraviglia.
Si scostò da lei e la prese rudemente in braccio, strappandole un’imprecazione
di protesta mista a dolore. La portò in bagno, facendola sedere al bordo vasca,
mentre con una mano armeggiava con i rubinetti, l’altra le teneva saldamente un
polso.
“Non ho di certo
intenzione di fare il bagno con lei” sibilò inviperita, cercando di prendere di
nascosto un rasoio che aveva adocchiato sul lavandino.
Lui non si
scompose, mentre l’acqua bollente scrosciava nella vasca. “Questa vasca sarebbe
troppo stretta per entrambi” L’anticipò sul rasoio e se lo infilò in tasca. Si
allontanò dalla vasca e sistemò un paio d’asciugamani puliti vicino alla vasca.
“Le sconsiglio di bagnare la ferita, o di forzare la gamba. Quando avrà finito mi
chiami.”
Uscì dalla stanza
da bagno ignorando la richiesta di Nina di lasciarle la chiave per chiudere la porta.
La donna ringhiò
dallo sconforto, non trovando altro da sfogarsi che gettare un boccetto di bagnoschiuma nella vasca.
Aveva
indubbiamente bisogno di lavarsi. I capelli erano ancora umidi dalla pioggia,
così come i vestiti, e si sentiva infreddolita. Gli avvenimenti delle ultime
ore l’avevano spossata più di quanto potesse ammettere a sé stessa, e forse il
fatto di trovarsi in una stanza con un uomo che non pareva intenzionato ad
ucciderla o torturarla a morte non era la cosa peggiore che potesse capitarle. Ammesso
e non concesso che non cambiasse idea.
Vinse la sua
riluttanza a spogliarsi. Se il russo fosse entrato in quel momento non avrebbe
fatto fatica ad avere la meglio su di lei, nelle condizioni in cui si trovava.
Ma anche restare vestita sul bordo della vasca non era di certo una soluzione
al problema. Se Dragunov l’avesse voluta, avrebbe
potuto approfittare di lei nel suo stato di incoscienza,(chi poteva dirlo che
non l’aveva fatto? Pensò con un brivido di ribrezzo) o più tardi, aveva tutto
il tempo a sua disposizione per giocare con la sua preda. Si lasciò scivolare
nell’acqua, facendo ben attenzione a lasciar fuori la gamba ferita.
Quell’uomo aveva
il coltello dalla parte del manico, al momento. Forse non era il caso di
opporre troppa resistenza. A tempo debito si sarebbe vendicata.
Eccome.
Avrebbe trovato il
tempo e il modo per farlo.
Si passò le mani
tra i capelli biondi, prima di riempirli di shampoo.
Nina Williams era
una gatta dalle nove vite, e se la sarebbe cavata a costo di giocarsi tutte
quelle che le erano rimaste.
Ecco
l’entrata del nostro gelido Sergei, come promesso! Tra
l’altro…. Non sono riuscita a farlo parlare meno di così… si sta rifacendo dopo il silenzio di Tekken 5 DR (chissà se nel 6 lo faranno parlare, poraccio)
Desiderate
altro? Ah, si… quello! Beh, vedremo... diamo tempo al
tempo….
Grazie
mille per le recensioni!
X
Miss Trent: ho letto le tue fic
su di loro ieri, le ho trovate troppo belle, prima di sedermi al tavolo e
scrivere la mia. Pensavo inizialmente di essere l’unica pazza che accoppiava
Nina a Dragunov (ti dirò, mi era quasi balenata
l’idea di Nina – Raven), ma per fortuna non soffro di
solitudine! Non vedo l’ora che tu continui la tua storia…
Uscì dal bagno
cercando di coprirsi il più possibile con l’accappatoio. La sua tuta era lurida
e lacera in più punti, inutile utilizzarla di nuovo. Forse il russo aveva
provveduto a recuperare qualche capo d’abbigliamento, oppure se li sarebbe trovati
lei, magari rubandoli alla cameriera del piano dopo averla tramortita.
Saltellò sino al
letto, ignorando l’uomo, che nel frattempo si era seduto al tavolino con il
computer e stava digitando qualcosa. Lui gettò un occhio al di là dello
schermo. “Le avevo detto di chiamarmi quando aveva finito”
“Posso farcela
benissimo da sola.” Rispose dura la donna, sedendosi sul letto e aggiustandosi
la spugna dell’accappatoio. Le imposte erano ancora aperte, ma non arrivava più
alcuna luce dalla strada.
Calcolò l’orario.
Quando era montata sulla moto, il piccolo display sul cruscotto segnava le ore
15.10. La sua fuga non era durata tanto. Tre ore di incoscienza e una mezz’ora
abbondante di toeletta facevano presupporre un orario attorno alle 19.
L’imbrunire. L’ora di cena.
Con l’oscurità
della notte la sua fuga sarebbe stata più facile. Doveva solamente sbarazzarsi
di quell’uomo…
La lotta corpo a
corpo era da escludere. In quel caso lui era nettamente in vantaggio. Si guardò
rapidamente intorno alla stanza alla ricerca di una qualche arma. Possibile che
Dragunov non avesse con sé una pistola, un fucile,
una qualche fottuta arma da fuoco? E possibile che non l’appoggiasse da nessuna
parte?
Si diede della
sciocca a pensare ad una simile alternativa. Sembrava un uomo meticoloso, dai
piani accurati. Di certo non avrebbe commesso l’errore di lasciare un’arma
incustodita, con un’assassina professionista in camera.
Se fosse riuscita
a sedurlo, avrebbe potuto far uso di una qualche tecnica immobilizzante, mentre
era vicino a lei, oppure mettere mano al rasoio che aveva in tasca e
ficcarglielo nella gola.
TSK! Altra
stupidata:pur supponendo
ottimisticamente che Dragunov cedesse alle sue
grazie, di certo non c’era da sperare che le avrebbe lasciato molta libertà
d’azione.
Doveva escogitare
qualcos’altro.
E comunque, a che
fine sarebbe andata incontro riuscendo a liberarsi? Dove sarebbe andata? Che
avrebbe fatto? Con il Sindacato e la MishimaZaibatsu fuori gioco, che scopo poteva prefiggersi?
Ritirarsi a ElPaso e andare a lavorare in un
negozio di dischi?(*)
Pensandoci, il
patto con i russi che Dragunov le aveva accennato non
era una proposta da gettare al vento. Non aveva alternative migliori, quindi
avrebbe forse fatto meglio ad accettare, al momento, preparandosi al giorno in
cui sarebbe riuscita a far perdere le proprie tracce o avesse trovato di
meglio.
Si. Non aveva
altra scelta.
Si accomodò meglio
sul letto, alzandosi la gamba e aggiustando i cuscini contro la testiera del
letto, prima di appoggiarsi. Rimasero in silenzio, con Dragunov
che continuava a lavorare al computer e lei che perdeva il suo sguardo fuori
dalla finestra e in giro per la stanza.
“Cosa stiamo
attendendo?” domandò infine.
Senza alzare gli
occhi dallo schermo, l’uomo rispose: “ Fuori c’è il caos, ho ricevuto l’ordine
di non lasciare questo hotel e di tenerla in custodia” fece per accendersi
un’altra sigaretta, ma cambiò idea all’ultimo minuto, infilandola nuovamente
nel pacchetto. “Una cosa decisamente seccante.”
“Avermi in
custodia?”
“Non avere il
permesso di partecipare alla battaglia là fuori. Spero che il comando sia
clemente e mi dia ordine di sgranchirmi le gambe”. Pronunciò le ultime parole
con le labbra increspate da un ghigno sadico. Quell’uomo doveva far fuoco e
fiamme se lanciato in mezzo alla guerriglia. Peggio di un Jack. O di lei.
Sarebbe stato un
avversario interessante con cui battersi.
Qualcuno bussò
alla porta e Dragunov si alzò, estrasse una pistola
dallo stivale e si avvicinò all’entrata, senza aprire, domandando chi fosse.
Una voce rispose
in russo e Nina sentì aprire la porta. Dragunov e
l’ultimo arrivato scambiarono qualche breve frase nella loro lingua, poi si
salutarono e la porta si richiuse.
L’uomo ricomparve
nella stanza, lanciando a Nina un involucro di plastica. Poi appoggiò un
pacchetto al tavolino vicino al computer e lo aprì. Guardò disgustato il
contenuto, cibo giapponese take away, prima di
prenderne una porzione e mangiarla lentamente, appoggiato alla finestra.
L’involucro che
aveva lanciato a Nina conteneva un paio di pantaloni neri, due camicie del
medesimo colore, qualche cambio di intimo e una giacchetta di pelle rossa. “Il
governo russo ha provviste di vestiti femminili?”
Dragunov non rispose, continuando a
biascicare il suo pranzo, guardando fuori dalla finestra. Si sentiva ancora
qualche scoppio in lontananza, e la donna poteva giurare di averlo sentito
borbottare nella sua lingua natia qualche imprecazione: chissà quanto stava rodendo
per non poter partecipare agli eventi.
Approfittò della
sua distrazione per togliersi l’accappatoio e infilarsi l’intimo e una camicia.
Desistette all’ultimo momento ad infilarsi i pantaloni. La gamba era ancora un
po’ gonfia e dolorava. Si coprì quindi con le lenzuola. Il russo si voltò verso
la donna mentre si stava sistemando la coperta. “Mangia” le ordinò solamente,
indicando il resto del cibo. Rispose che non aveva fame.
Dragunov le si avvicinò nuovamente,
trafiggendola con il suo sguardo impassibile: “Ho ricevuto l’ordine di tenerla
in vita ed in discreto stato di salute, in modo che sia capace al più presto
possibile di partecipare alle missioni che le verranno assegnate. Questo
comprende provvedere alla sua alimentazione, Miss Williams.”
A Nina sembrò per
un attimo che quegli occhi di ghiaccio si posassero sul suo seno, a stento
contenuto nella camicia scura. La cosa le diede inaspettatamente un istante di
sollievo: significava che neppure quel russo dai lineamenti affilati poteva
restare impassibile davanti al suo fascino. Una cosa che avrebbe giocato a suo
favore al momento necessario.
Accettò, con
marcata riluttanza, la porzione di riso ai germogli di soya
che gli porgeva l’uomo, mangiandola lentamente. Dopo qualche minuto gli domandò
di accendere il televisore e lui acconsentì, togliendo però l’audio. Il
notiziario continuava a riportare le immagini del caos in città. Da quello che
poteva capire, anche i cadaveri di JinKazama e di KazuyaMishima erano stati recuperati.
Quindi
questa volta sono morti davvero.Concluse, con sentendosi francamente
sollevata. Si concentrò sulle immagini, cercando volti conosciuti tra la folla
delle persone festanti o combattenti. Quando vide una chioma bionda sperò che
avessero inquadrato Steve Fox, ma si sbagliava. Che fine aveva fatto?
Dicono
che l’istinto materno porti a percepire quando il figlio è in pericolo o meno. Lei ce l’aveva un istinto
materno? Non aveva provato nulla, o quasi, quando era stata informata di essere
la madre di Steve, eppure non aveva premuto il grilletto (non ce l’aveva fatta!
Per la prima volta nella sua vita!) quando l’aveva a tiro. E poi si scopriva a
curiosare tra le notizie sportive, alla ricerca dei suoi successi di boxe. E ad
assistere ai suoi incontri negli ultimi due tornei del Pugno d’Acciaio,
sentendo un moto d’orgoglio pulsare dentro di lei alle sue vittorie.
Chissà se Steve
aveva fatto lo stesso?
Si sentì piombare
addosso una stanchezza incredibile, che la svuotava da ogni energia. Per la
prima volta nella sua vita sentì l’impellente bisogno di trovarsi davanti quel
ragazzo dai capelli dorati e dal destro micidiale.
Come si erano
sgranati i suoi occhi a trovarsela davanti, prima di salvarla da una pallottola di Lei Wulong!
E l’unica parola
che gli aveva rivolto, era stata un ringraziamento. Poteva ritenersi fortunato
il ragazzo. Pronunciarla per lei era una cosa più unica che rara.
La luce nella
stanza sfarfallò e si spense. Beh, ci
mancava solo l’interruzione della corrente. Pensò tra sé e sé, mentre Dragunov sembrava a malapena essersene accorto.
Buio in stanza e
fuori, rumori attutiti dalla moquette sul pavimento, nessun’altra presenza nei
dintorni. Se solo avesse avuto la sua gamba integra, il russo avrebbe avuto i
secondi contati.
Fanculo al proiettile e a quel bastardo
del marine che l’aveva sparato.
Il computer emise
un suono di richiamo, e l’uomo si avvicinò per controllare. Sembrò leggere
qualcosa, poi spense il portatile.
“Domani mattina
verrà un agente scelto a farle da guardia. Io potrò unirmi ai combattimenti, e
domani sera, con il favore delle tenebre, verrà trasferita con un volo speciale
a Mosca. Il quartiere generale mi informa che lei è sotto la mia
responsabilità. Perciò le sconsiglio caldamente di fare la sciocca.” Disse,
prendendo quella che sembrava una piccola lampada da tavolo a pile, e
sistemandola sul tavolino.
Nina dovette far
ricorso a tutto il suo self control per non puntare
alla sua giugulare. L’uomo si sbottonò la camicia e si allentò la cinghia dei
pantaloni, prima di gettarsi sul letto, indossando ancora gli stivali. Una
breve occhiata della donna bastò per confermarle che la pistola si trovava
ancora nascosta lì.
Dragunov chiuse gli occhi, abbandonandosi
al sonno.
Nina finse di fare
la stessa cosa.
Un’ora dopo, il
respiro regolare dell’uomo la convinse che si era ormai addormentato
profondamente. Aprì gli occhi, lasciando che le iridi azzurre si abituassero
all’oscurità. Quando finalmente riuscì a focalizzare la sagoma di Dragunovsul letto,
scivolò delicatamente tra le lenzuola, ignorando l’ormai usuale fitta di
dolore, e allungò la mano verso lo stivale. Doveva fare molta attenzione: un
movimento fluido e veloce per sfilare la pistola e poi puntarla sull’uomo. Si
sarebbe trovato una pallottola in mezzo agli occhi senza nemmeno avere il tempo
di accorgersene e intervenire.
E poi? Un’altra
fuga precipitosa? Probabilmente nello stabile non erano gli unici, vi erano
altre guardie pronte ad intervenire. Braccata di nuovo, e questa volta con
ancora meno chance di successo.
Che stronzata.
Arrestò la mano a pochi millimetri dall’obbiettivo e la ritirò, con il solito
movimento fluido. Tornò alla sua posizione, mordendosi il labbro inferiore.
“Ti pensavo
effettivamente più sciocca.” La voce profonda dell’uomo la fece trasalire.
Doveva prevederlo che avrebbe dormito con un occhio aperto, data la sua
compagna di stanza. L’uomo si sedette e accese la lampadina da tavolo, per poi
togliere la pistola dallo stivale. La puntò contro la donna, che si preparò a
scattare di lato, e premette il grilletto.
CLICK.
Le labbra si
incurvarono un ghigno crudelmente divertito, quando vide la donna gettarsi dal
materasso e atterrare dolorosamente su un fianco. “E’ scarica” aggiunse, come
se non fosse abbastanza ovvio.
Nina sentì una
scarica di rabbia scuoterla da capo a piedi. Si mise in piedi stringendo i
denti. Nessuno, sulla faccia della terra, poteva prendersi gioco di lei e permettersi
di respirare ancora senza aiuti l’ausilio di macchine . Saltò verso Dragunov d’istinto, colpendolo con il taglio della mano sul
collo. L’uomo accusò il colpo, spostandosi di qualche centimetro e piegando la
testa. Nina ne approfittò per colpirlo nuovamente, a palmo aperto, sulla cassa
toracica. Dragunov cadde all’indietro.
L’aveva sottovalutata,
e ne avrebbe pagato le conseguenze.
Mentre attraversava
il materasso per colpirlo di nuovo, Dragunov balzò in
piedi, stendendola con un pugno allo stomaco che la lasciò senza fiato.
Nina tossì,
tentando di respirare e contemporaneamente allontanarsi da lui, furente. Dragunov rimase immobile per qualche istante, dritto di
fronte a lei. Poi si massaggio il collo, si accarezzò il mento lentamente, e le
diede della stupida. “Non c’è che dire, Miss Williams, lei non è una persona
che si arrende facilmente. Mi avevano avvertito che non fosse di certo un agnellino…”
Il soldato
l’afferrò per una caviglia tirandola verso di sé. Il tentativo della donna di
aggrapparsi a qualcosa fu inutile. Tentò un altro attacco, che questa volta il
russo parò, bloccandogli il polso sul materasso. La girò con forza,
afferrandole anche l’altro braccio, torcendolo dietro la schiena. Nina si
dimenava debolmente, accecata dall’odio e dalla rabbia. Con una semplicità
incredibile, come se stesse immobilizzando un bambino, Dragunov
le legò i polsi dietro la schiena,
Le mani dell’uomo
scesero poi sulle sue gambe. Nina lo sentì tener fermo la gamba sana, e
prendere in mano l’altra.
“Stupida” ripeté.
“Hai fatto saltare i punti”
Torcendo il collo
per guardarsi il polpaccio, Nina vide una macchia di sangue allargarsi e
inzuppare il cerotto.
Vinta, smise di
dimenarsi e affondò la faccia tra i cuscini, mentre Dragunov
medicava nuovamente la ferita.
Questa volta
fasciò la ferita, invece di appiccicarvi il cerotto.
Lo sentì salire
con le ginocchia sul letto e prenderle i polsi legati. “Ancora voglia di fare
la sciocca?”interpretò il suo silenzio
come un no, e sciolse i nodi.
Nina si tastò i
polsi doloranti: i segni della corda dell’accappatoio che Dragunov
aveva usato le aveva lasciato dei segni rossi e brucianti. Si rigirò,
trovandosi gli occhi pungenti dell’uomo piantati su di lei. Fece per scostarsi,
ma lui la trattenne ulteriormente, chinandosi appena su di lei, attirato da
qualcosa. Le passò un dito sul labbro, e solo in quel momento Nina si accorse
di avere in bocca il sapore metallico del sangue. Doveva essersi morsa quando
era stata colpita. Passò la lingua sul taglietto. Nulla di grave, aveva già
smesso di sanguinare. Lo sguardo glaciale del russo passò dalle dita, appena
rosse di sangue, ai suoi occhi.
Rimase piegato sulla
donna, appoggiato su una braccio, ad un palmo da lei.
Scivolò sul suo
volto, tergendo con le sue labbra i residui di sangue dalla bocca della donna.
Nina lo lasciò fare, senza chiudere gli occhi. Si era ripromessa di non
peggiorare le cose, di mantenere la pellaccia integra e di prendersi tempo per
la sua vendetta.
La lingua
dell’uomo si fece lentamente strada nella sua bocca, suggendone il sapore,
prendendolo in se.
Il corpo dell’uomo
si avvicinò al suo, le sue mani che si insinuavano sotto la stoffa nera della
camicia, conoscendo la sua pelle centimetro per centimetro. Guidò le sue gambe
ad incrociarsi attorno ai suoi fianchi, con la decisa delicatezza di chi ha tutto
il tempo a sua disposizione per fare ciò che desidera.
Con il suo fiato
sul collo e i centimetri della pelle che istante dopo istante aderivano a
quelli di Dragunov, Nina gettò la testa indietro,
quasi a concedersi ulteriormente a quella bramosa tortura. I brividi correvano
per il corpo, e dovette ammettere a sé stessa che non erano di certo di
ribrezzo. Dragunov l’aveva appena liberata dalla
stoffa della camicetta, quando Nina si trovò a cavalcioni su di lui, una
scarica di folle adrenalina che le impediva di rimanere indifferente e di
lasciarlo lavorare su di lei.
Si strinse di
nuovo a lui, trapassandone le iridi screziate di neve con le sue. Dentro di sé Nina
apprezzò l’impenetrabilità di quegli specchi ghiacciati. Il gioco di sguardi
non sembrava aver fine.
L’uno sembrava
cercare di strappare qualcosa di profondo all’altro, un segreto, una confessione,
forse una preghiera o il significato di ciò che stava succedendo.
Era solo uno
stupido gioco tra cacciatore e preda? Tra prigioniera e carceriere? O era
desiderio, quello che infiammava i lombi del soldato, incendiandola incendiava
a sua volta?
Scelse di non
farsi troppe domande, liberandolo dagli ultimi vestiti che gli erano rimasti e
facendo lo stesso con lei, per poi tuffarsi sulle sue labbra.
Non gli avrebbe di
certo dato la soddisfazione di poter giocare tranquillamente con una preda.
Tombola,
ragazzi!
Come arvete capito, non siamo qui a pettinare le bambole.
Qui si gioca duro!
XD.
Ed ora? Come
andrà a finire?
Non smetterò mai
di ringraziarvi per le vostre recensioni! Sono contenta che la storia piaccia,espero non vi “disturbi” questo capitolo!
Il rumore scrosciante dell’acqua svegliò
Nina. Le imposte erano lievemente aperte, uno spiraglio di luce bigia entrava
dalla fessura e illuminava la stanza. Probabilmente Dragunov
era in bagno a prepararsi per la battaglia. Si stropicciò gli occhi, prima di
controllarsi la gamba.
Nonostante tutto il movimento
della notte precedente la medicazione pareva aver retto, le garze della
fasciatura non erano macchiate di sangue. Si sedette in riva al letto, mano a mano
consapevole a cosa si era lasciata andare nelle ore precedenti. Le venne in
mente il titolo di un insensato B-movie d’azione di inizio anni ’90 che aveva
guardato, annoiata, qualche mese prima: Sesso e Fuga con l’Ostaggio.
All’elenco di stronzate fatte
nella sua vita doveva aggiungerci anche questa.
Se gliel’avessero raccontato, non
ci avrebbe creduto neppure con prove tangibili che qualche ora prima aveva
urlato a cavallo dell’uomo che, di fatto, la stava praticamente tenendo
prigioniera e che, a conti fatti, voleva veder ridotto in poltiglia.
La reclusione in quella stanza la
stava rendendo pazza. Gli era bastato solleticarla qua e là e –Tadan!-ecco che
lei non solo cedeva, ma partecipava attivamente (e con eccezionale gusto)
all’evento.
Chissà quanto ne era soddisfatto,
quel bastardo cosacco, di essersi portato a letto Nina Williams.
Fece appena in tempo a formulare
quel pensiero, che Dragunov comparve dalla porta del
bagno, i capelli corvini allacciati nel solito codino, e la tuta da
combattimento addosso. Grugnì una specie di saluto, prima di sedersi sulla
solita poltroncina ed infilarsi gli anfibi. Diede un’occhiata all’orologio.
“Tra cinque minuti arriverà la tua nuova guarda. Per le 11 in punto è prevista una
tua visita medica e alle 12 e 40 arriverà il tuo pranzo.” La informò,
completando l’equipaggiamento con una cintura multifunzione e un corpetto anti
proiettile, senza guardarla. “Tornerò
alle15 e 30. Alle 18 avremo il volo per
Mosca”
“Ricevuto” annuì la donna
alzandosi e dirigendosi in bagno, facendo in tempo a notare, con una punta di
soddisfazione, lo sguardo di lui fiammeggiare nella sua direzione.
Quando ne uscì, se lo ritrovò davanti,
sulla porta. Gli gettò uno sguardo immobilizzante, che Nina sostenne. “Vuoi
farmi le tue raccomandazioni?” domandò sarcastica.
L’uomo restò un istante in
silenzio, poi rispose, con una vena sottile d’ironia: “Si, non essere eccessivamente gentile con chi ti farà
la guardia oggi.” La punta del suo pollice seguì la curva morbida del mento
della donna. “Io non vado nei guai per certe azioni. Ma non tutti hanno questo privilegio”
La donna distolse il contatto con
un movimento secco del volto. “Non spreco la mia gentilezza con nessuno”
Un piccolo ghigno canzonatorio
comparve per una frazione di secondo sulle labbra sottili e livide del russo.
“Mi era sembrato il contrario, la scorsa notte.”
“Non vantarti troppo delle tue
conquiste con i tuoi compagni”
Lui stava per ribattere qualcosa,
ma un secco bussare alla porta lo interruppe. La stessa voce della sera
precedente si presentò, e l’uomo aprì, facendolo entrare. Dragunov
gli diede brevemente un paio di istruzioni in russo, mentre Nina recuperava la
camicetta sgualcita e la indossava, faticando poi ad indossare i pantaloni
scuri. Si sedette nella poltroncina di fianco alla finestra. Guardò oltre il
vetro. Si intravedeva l’asfalto bagnato di una strada deserta. Anche se non
pioveva forte, la giornata si prospettava comunque uggiosa.
Sentì la porta chiudersi e si
voltò. Dragunov era uscito, senza nemmeno salutarla,
e aveva lasciato il posto ad un ragazzo di circa vent’anni, dai capelli così
biondi da sembrare quasi bianchi e gli occhi verdi. Il soldato la salutò con la
mano alla fronte, cosa che Nina ricambiò annoiata, prima di mettersi in un
angolo immobile come uno stoccafisso.
La
giornata si prospetta lunga e tediosa pensò,
volgendo lo sguardo di nuovo alla strada. Una jeep cabrio, senza capote, con
tre soldati in tuta mimetica a bordo attraversò lo scorcio di carreggiata che
poteva vedere e si fermò. Ne salì uno biondo, con il caschetto anti sommossa e,
con la sua solita andatura lenta e decisa, Dragunov.
Senza sedersi, ma tenendo solo
una mano sulla struttura di ferro, voltò appena il capo verso la finestra
dell’Hotel Imperial, quasi per controllarla
ulteriormente.
Erano le 15 e 31 minuti quando
qualcuno bussò alla porta. Il soldato di guardia si avvicinò, fece una domanda
nella sua lingua, l’unica frase che aveva detto durante la giornata, e che Nina
risentiva per la terza volta. Gli rispose la voce profonda di Dragunov. Il ragazzo aprì la porta e l’altro entrò. Si
salutarono con un gesto militare, poi l’ultimo arrivato si rivolse a Nina,
seduta al tavolino dove lui teneva solitamente il pc,
con lo sguardo annoiato alla televisione.
“Si è comportato bene?”
“Non si è nemmeno seduto, è
rimasto muto e impalato in quell’angolo per tutto il tempo.” raccontò,
sbadigliando di noia.
L’uomo sembrò
soddisfatto della risposta e porgendo il pacchetto di sigarette, si voltò verso
il ragazzo,che ne accettò una di buon grado, ringraziandolo, e poi lasciò la
stanza.
Nina guardò meglio
il russo, che nel frattempo si era infilato un sigaro in bocca e lo fumava con
aria soddisfatta. I suoi capelli corvini erano bagnati, la tuta lercia. Vi erano tracce di fango sugli
anfibi.
Tuttavia non
sembrava stanco. Una vena di sadica euforia gli attraversava gli occhi, e anche
l’andatura denotava l’orgoglio e l’esaltazione per il suo operato.
Si avvicinò alla
finestra, gustandosi il sigaro in una nuvola di fumo.
Nina tossicchiò
disgustata. “Puoi aprire? L’odore di sigaro mi fa vomitare.”
Borbottando
qualcosa in russo, Dragunov aprì appena un vetro.
“Il programma si è
svolto come prestabilito?”
“Il dottore ti fa i
complimenti per il lavoro di sutura sulla mia gamba” rispose semplicemente. “E
quello che mi ha portato il pranzo mi ha procurato anche qualche altro vestito”
Indicò con il mento la poltroncina rossa vicino alla finestra. Sullo schienale
aveva appoggiato unpesante cappotto di
pelle, foderato ed orlato di pelliccia e un lungo cardigan bianco. Per terra vi
erano appoggiati un paio di stivali neri con il tacco.Dragunov li fissò
senza prestargli realmente molta attenzione.
“Divertito, oggi?”
Lui fece annuì
lievemente con la testa. “Anche se il meglio c’è stato ieri. Ma non mi lamento,
anche se ho avuto combattimenti di gran lunga migliori. L’ambasciata rimarrà
qui a sbrigare le faccende burocratiche, ma il resto delle truppe tornerà in
Russia domattina.”
Gettò il mozzicone
del sigaro dal vetro, prima di togliersiil giubbotto antiproiettile e abbandonarlo contro il muro. Gli anfibi
seguirono la stessa sorte.
Guardò l’orologio.
“ Tra un’ora e mezza lasceremo quest’albergo.” Le ricordò, prima di dirigersi
verso il bagno.
Nina aveva radunato
i vestiti all’interno della sacca di tela con cui le erano stati consegnati a
mezzogiorno. Tentò di infilarsi gli stivali, ma il polpaccio era ancora troppo
gonfio per riuscire a chiuderlo.
Dragunov uscì dal bagno, un asciugamano
avvolto alla vita, mentre lei si lasciava scappare un’imprecazione di
sconforto.
“Non importa. Tanto
dovrai tenere la gamba sollevata e camminerai con le stampelle. Le porteranno
qui quando ci verranno a prendere” le disse, gettandosi sul letto. Nina lo
ignorava, accendendo la televisione. Si era decisa a non dare importanza a
quello che era capitato la notte prima, a dimostrargli che, nonostante tutto,
nulla fosse cambiato nei suoi confronti.
E pareva che anche Dragunov fosse intenzionato a fare la stessa cosa. Forse
era stato un attimo di sbandamento anche per lui, nonostante sembrasse tutto
d’un pezzo, ed aveva archiviato in fretta la faccenda.
Si,
ma allora perché è vestito solamente di un asciugamano? Domandò una vocina fastidiosa
dentro di lei.
Si concesse un
fugace sguardo all’uomo. I muscoli sembravano quasi disegnati, anche se non
erano tesi, ma rilassati tra il lenzuolo e i cuscini del letto.
Nella mente della
donna balzò impertinente il ricordo dei suoi muscoli che si infrangevano contro
di lei, della sensazione di stringere acciaio tra le sue mani, e di graffiare
roccia nel momento più intenso.
Quasi si diede uno
schiaffo per smettere di pensarci. Dannazione, era stata una scopata,
indubbiamente buona, ma nulla di cui ossessionarsi!
Passarono pochi
minuti, poi il russo si alzò a sedere, la fissò per qualche secondo, e poi,
lentamente, la raggiunse.
Lo sguardo della
donna seguitò ostentatamente a restare incollato al televisore, nonostante le
dita dell’uomo giocherellassero tra i fili dorati dei suoi capelli. Finse di
non accorgersene, o meglio, che non stesse accadendo. Lui insistette, facendo
scivolare la mano lungo il collo da cigno, insinuandosi appena sotto il cotone
della camicia.
“Hai già avuto la
tua soddisfazione, Dragunov. Risparmiami il sequel.”
Sibilò, con fare seccato.
“Avevo avuto
l’impressione, la scorsa notte, che tu fossi d’accordo, Miss Williams” marcò il nome, come a ricordarle che avevano avuto
una confidenza maggiore.
Negare l’evidenza
sarebbe stato inutile, si sarebbe ulteriormente preso gioco di lei. “Cambio
idea molto facilmente.” Fu la semplice risposta.
“Lieto di saperlo.”
Con una mossa fulminea, l’uomo la sollevò dalla poltroncina e, incurante delle
sue proteste, la lanciò sul letto.
“Ieri sera non sono
riuscita ad ammazzarti, ma non fallisco mai una seconda volta” ringhiò la
donna, preparandosi ad attaccarlo.
Lui rimase
impassibile. L’asciugamano era un po’ scivolato su un fianco. Salì sul letto,
ma non le andò incontro. Si sedette contro la spalliera, le braccia incrociate
al petto, guardandola come se attendesse qualcosa, o le stesse dimostrando che non
aveva nessuna intenzione di prenderla con la forza.
“Puoi rilassarti”
le disse soltanto, gelido.
Nina si sciolse
dalla posizione d’attacco, sedendosi a fianco a lui. Non lo avvertiva più come
una minaccia. Dragunov aveva rivolto la sua
attenzione al televisore, e glielo indicò con un cenno del capo.
Il filmato che
stava passando lo mostrava mentre lanciava un fumogeno dentro ad uno stabile.
La squadra dei russi entrò, maschere in volto e mitra al braccio.
“Chi c’era li
dentro?”
“Resti
dell’esercito di Kazama. Non li abbiamo fatti fuori.
Non tutti, almeno” spiegò con una nota di rammarico nella voce.
Nina tentennò un
attimo, poi si decise a fargli una domanda: “Si sa nulla di Steve Fox?”
Si sentì studiata
dai suoi occhi. “Il pugile?” la donna annuì.
“Non ho sentito
nulla a proposito di lui. Non è nei miei obbiettivi”
Non chiese altre
spiegazioni, ma allungò lentamente un braccio verso di lei, come se stesse per
accarezzare una fiera pronta a mordere o a fuggire. Le sfiorò la guancia, il
collo, la spalla.
Ma Nina non gli
diede corda, né si ritrasse. Si avvicinò quindi alla sua bocca, baciandola. La
donna si lasciò scivolare sulla schiena, l’uomo sdraiato su di sé.
L’uomo si sbarazzò
dell’asciugamano, premendo il corpo sul suo come se volesse fondersi con lei.
Nina gli sfiorò la schiena, trovando con i polpastrelli i solchi delle sue
unghie che aveva lasciato la notte precedente. Dragunov
abbandonò la sua bocca per un istante, un breve ringhio di piacere a
sottolinearlo. “Mi piacciono i tuoi souvenir” disse con voce roca strappando a
Nina un sorrisetto sornione.
Un bussare energico
alla porta e una voce maschile russa li interruppero.
Il volo partiva in anticipo, per
motivi di sicurezza. Gli aeroporti civili erano stati presi d’assalto dalla
gente in fuga, ed era meglio evitare intralci in quelli militari. In pochi
minuti furono fuori dall’hotel, Nina che si reggeva sulle stampelle e Dragunov che la teneva d’occhio.
Salirono su una vettura nera, che
sfrecciò alla volta dell’aeroporto. Passarono in mezzo ad una città devastata
dalla guerra civile, tra auto date alle fiamme, palazzi sventrati dalle
esplosioni e gente sbandata che non sapeva cosa fare.
Nina provò pena per loro. Ma ora
era il caso di mettere in chiaro le cose tra lei e il russo che le sedeva a fianco,
approfittando del fatto che fossero da soli in macchina.
“Hai già messo al corrente il tuo
comando della notte scorsa?”
“No”
“E lo farai?”
“Se me lo domanderanno, si. Non
hanno specificato nulla, a proposito. Quindi, non è una cosa rilevati ai fini della
missione.”
“Vale a dire che non ti hanno
ordinato di venire a letto con te?”
“Non mi hanno detto nulla a
proposito. Ti hanno descritto come pericolosa ed utile ai fini delle attività
di spionaggio e di riportati viva ed in buono stato di salute.”
“E che cosa dovrò fare per voi?”
“Quello che facevi per il
Sindacato: le missioni che ti verranno assegnate.”
“E il pagamento?”
“Non so con quanti soldi verrai
retribuita. Ma non credo saranno pochi. In più vitto, alloggio, attrezzatura. E
continuerai a vivere.”
Erano arrivati all’aeroporto. Dragunov parcheggiò l’auto, prese il suo borsone e la sacca
di Nina e le porse le stampelle per scendere.
“Non mi hanno ancora fornito
spiegazioni più dettagliate, ma sono sicuro che per i primi tempi sarai
sorvegliata 24 ore su 24. Dovrai meritarti la nostra fiducia.”
I soldati che sorvegliavano
l’aeroporto li salutarono con la mano alla fronte.
Un piccolo aereo privato li
attendeva sulla pista, pronto al decollo. Nina si arrampicò per i primi gradini
con qualche difficoltà, essendo la scaletta bagnata le stampelle scivolavano. Dragunov diede le borse ad un soldato dietro di sé, tolse
le stampelle a Nina con un gesto seccato e la sollevò come se fosse fatta di
piuma, salendo le scale.
“Ce l’avrei fatta benissimo da
sola” brontolò lei, una volta che si fu seduta su uno dei sedili. Il soldato
portò i bagagli all’interno e appoggiò le stampelle vicino a Nina, dando una
grossa busta a Dragunov prima di scendere.
L’uomo guardò il contenuto. Ne
estrasse una lettera scritta in cirillico e la lesse accuratamente, poi allungò
la busta a Nina.
Dentro vi era una piccola guida
turistica di Mosca, con i principali servizi e una cartina della città.
“Su quella guida sono segnati i
posti che ti è permesso frequentare.” La informò, prendendo posto di fronte a
lei ed estraendo il computer dal borsone.
“Inoltre, ti informo che, data la
mia responsabilità sul tuo operato e sulla tua persona, vivrai presso
l’alloggio a me assegnato. Non fare quella faccia, c’è una stanza in più, al
momento inutilizzata.”
Scuotendo la testa, con il serio
dubbio che il comando russo della Spetsnaz fosse
davvero all’oscuro della loro attività notturna, Nina diede un’occhiata
all’opuscolo turistico: Piazza Rossa, Cattedrale di San Basilio, Teatro Bolsoj, vari musei…“Niente Palazzo d’Inverno?”
Dragunov alzò un sopracciglio, gettandole
un’occhiata al di là dello schermo. “No, quello si trova a San Pietroburgo.”
Mentre un lieve rossore
imporporava le guance della donna, l’aereo iniziò la fase di rullaggio.
X
AngelTexasRanger: mi dispiace anche a me per Jin, in fondo mi è sempre stato simpatico e non è stata
tutta colpa sua, il casino che è successo. Non oso pensare ai traumi infantili
che ha avuto…
X
MissTrent: aiuto! Che analisi! Sono contenta che stia
riscontrando il tuo gusto!!!
X
Sackboy: direi che il solo nome Dragunov
ti faccia saltare per aria… bene bene!
Grazie
ancora, spero di rivedervi presto! (Questo Weekend c’è il GP a Monza, mi
dispiace ma non so se riuscirò a scrivere qualcosa…
ho dei ferraristi invasati che mi girano per casa, findendomi
la birra e mangiandosi tutto ciò che c’è di commestibile –e anche non-
sperimentando il dolby surround applicato alla diretta di Sky…
mi sembra di avere Fisichella parcheggiato in salotto.)
I have been
given
One moment from heaven
As I am walking
Surrounded by night,
Stars high above me
Make a wish under moonlight.
On my way home
I remember
Only good days.
On my way home
I remember all the best days. Im on my way home
I can remember
Every new day.
I move in silence
With each step taken,
Snow falling round me
Like angels in flight,
Far in the distance
Is my wish under moonlight.
On my way home (ENYA – The Memory of the Trees))
Io sono stata donata
Un momento dal paradiso
Mentre sto camminando
Circondata dalla notte
Le stelle alte su di me
Esprimi un desiderio sotto la luce della luna.
Sulla mia strada di casa
Ricordo
Solo bei giorni.
Sulla mia strada di casa
Ricordo tutti i giorni migliori.
Sono sulla mia strada di casa
Riesco a ricordare
Ogni nuovo giorno
Mi muovo in silenzio
Con ogni passo fatto
La neve cade intorno a me
Come angeli in volo
Lontano nella distanza
È il mio desiderio sotto la luce della luna
L’aria di Mosca le era sembrata
già gelida, nonostante non fossero nemmeno a metà settembre.
Chissà come doveva essere ad
inverno inoltrato. Evitando di mostrare la sensazione di fastidio che le
procurava il vento gelido sulle guance, Nina Williams scese dall’aereo senza dire
una parola e senza degnare di un’occhiata il pilota e le due guardie armate ai
piedi della scaletta. Una berlina di grossa cilindrata li attendeva, portiera
aperta e autista in divisa militare, direttamente sulla pista, e la donna vi si
infilò automaticamente, seguita da Dragunov.
Partirono subito senza dire una
parola. Anche se non glielo aveva specificatamente detto, Nina si era sicura
che la loro direzione fosse il comando principale della Spetsnaz.
I russi sembravano non voler perdere tempo inutile, era sicura che le avrebbero
concesso pochi giorni di riposo per far guarire la gamba, prima di darle
missioni da svolgere.
L’automobile scivolò tra il
traffico cittadino della capitale, ma la donna non si curò di cercare di
scorgere qualcosa nel buio della notte al di là dei vetri dei finestrini. Non
gli interessava.
Nessuno dei tre occupanti della
vettura proferì parola, sino a quando questa parcheggiò in una piccola piazzola
nel centro cittadino.
Dragunov scese per primo e disse qualcosa
all’autista, che annuì, prima di risedersi in macchina. Poi accompagnò Nina
all’interno dell’edificio più vicino, guardandola impazientemente, come se gli
infastidisse il passo zoppicante che aveva a causa delle stampelle e volesse
spingerla ad andare più forte.
Al di là della porta di vetro,
pochi uomini in divisa militare camminavano per una hall decorata in marmo, i
più diretti verso l’uscita, un paio che chiacchieravano vicino ad una
macchinetta per il caffè automatico, mentre una donna, sempre in divisa, era
impegnata al telefono al di là di un bancone da centralino. Dragunov
le si avvicinò, domandando qualcosa. La donna annuì e gli rispose.
Poi l’uomo si rivolse verso Nina.
“Ci attendono al piano superiore” disse semplicemente, indirizzandola verso
l’ascensore.
Lei non chiese ulteriori
spiegazioni. Le avrebbe sapute al momento entro pochi minuti, non la
incuriosiva più di tanto, non ne era così ansiosa.
Usciti dall’ascensore e
attraversato un corridoio illuminato da freddi neon bianchi, i due varcarono
una porta di legno scuro e si trovarono dentro a quella che sembrava una sala
riunioni.
Tre uomini in uniforme graduata
li attendevano, seduti uno di fianco all’altro ad un lungo tavolo nero.
Dragunov li salutò mettendosi
sull’attenti e portandosi la mano alla fronte. L’uomo al centro gli disse una
parola, e l’uomo tornò alla posizione normale.
“Si accomodi pure, Miss
Williams.” Disse poi, indicando una delle sedie di fronte a loro. Nina ubbidì,
mentre Dragunov sembrava preferire restare in piedi.
“Siamo il Colonnello Volkov, responsabile della Spetnaz,
e i Sergenti Sharapov e Pavlov.”
Si presentò, indicando anche gli altri due al suo fianco. Nina annuì con un
cenno del capo. L’accento russo sulla voce rauca dell’uomo era così marcato da
sembrare quasi una macchietta.
“Si domanderà perché abbiamo
deciso di proporre a lei un accordo”
Nuovamente, Nina annuì, dando
segni di maggiore attenzione. Il suo sguardo saettò verso Dragunov,
in piedi al suo fianco.
“Lei è molto nota come abile
assassina a pagamento, davvero un soggetto interessante a cui proporre missioni
di un certo tipo Come ben immaginerà, la guerra scatenata da Kazamalascerà
strascichi notevoli sull’equilibrio mondiale, e nemmeno la sua improvvisa
caduta ha saputo ristabilire la condizione primaria. Le nazioni continuano ad
essere in guerra per spartirsi il Giappone, o per altri motivi interni. Dalle
ultime informazioni che abbiamo ricevuto, sembrerebbe che LarsAlexandersson si sia messo a capo della TekkenForce, l’ex esercito della
MishimaZaibatsu, di cui
anche lei ha fatto parte, e che stai progettando un’attività eversiva. Con
quali fondi e quali mezzi, dobbiamo ancora capirlo. Lei è a conoscenza di basi
militari segreti della MishimaZaibatsu?”
Nina ci pensò un attimo:
“Hokkaido era un autentico arsenale. So di molte basi segrete disposte
nell’arcipelago delle Filippine, in Corea del Sud e in Malesia. Mi era parso di
capire che stessero tentando di costruire una base anche in Kamčatka,
ma non so dove e se è stata effettivamente costruita.” Rispose. “Purtroppo, anche
all’interno della TekkenForce
ero considerata la stregua di una mercenaria, molti dei “segreti di stato” non
erano di certo alla mia portata. La mia divisione aveva come base logistica
l’isola di Hokkaido.”
“E non è mai stata in
nessun’altra base?” incalzò Pavlov. Lei alzò le
spalle. “A parte Tokio e le portaerei no.”
Sharapov e Pavlov
parlarono nella loro lingua al Colonnello, che guardò Dragunov,
che annuì. Poi si rivolse a lei. “Per il momento può bastare, miss Williams. La
terremo sotto stretta sorveglianza per assicurarci che non ci stia nascondendo
nulla. Avrà due settimane di tempo per rimettersi in sesto, dopodiché farà
parte della squadra d’elite di Dragunov, e si
occuperà di protezione del territorio, la cosa al momento più urgente di cui
dobbiamo occuparci. Quando lo riterremo opportuno, le proporremo missioni da
svolgere da sola.” Sharapov si era alzato e le si era
avvicinato, in mano un braccialetto che sembrava di silicone nero e glielo legò
al polso, attivandoglielo con un piccolo telecomando che portava in tasca. Una
lucina rossa baluginò su un piccolo display del bracciale, e comparve l’ora. Le
Dieci e Venticinque.
“Questo non è un orologio, bensì
un rilevatore. Rilascia un segnale satellitare, che ci permetterà di
localizzarla ovunque lei si trovi. Può anche inviare segnali d’aiuto, tenendo
premuto il display per 10 secondi. Contiene una piccola quantità di esplosivo,
abbastanza per mozzarle il polso se tenterà di forzarlo per toglierselo.”
Spiegò Volkov. “Ed ora, può andare, Miss Williams”
L’auto li aveva attesi sotto il
palazzo, e partì a tutta velocità non appena Nina e Dragunov
vi salirono di nuovo, fermandosi solamente quando arrivò davanti ad un anonimo
condominio, nella prima periferia della città. Dragunov
pensò ai bagagli, mentre Nina, che cercava disperatamente di ignorare il freddo
che si infilava dentro la giacca, si muoveva con le stampelle. Entrarono in un
angusto ascensore di metallo, e salirono al secondo piano. Con una tessera
magnetica e una chiave Dragunov aprì la prima porta
davanti all’ascensore ed entrò, seguito dalla donna.
L’appartamento era composto da un
piccolo salotto, arredato solamente con un divano di pelle marrone, un
mobiletto tv e un tappeto rosso. Una piccola cucina si intravedeva da una
porta. Sul corridoio si affacciavano il bagno e due stanze. Dragunov
le indicò la seconda come la sua, portando al suo interno la borsa di tela.
Nina varcò la soglia. Un letto
con un comodino, un armadio ed una
scrivania, su cui vi era appoggiata una vecchia radio, era tutto il mobilio
presente. Desolante pensò la donna,
appoggiando le stampelle al muro e sedendosi sul letto. La gamba iniziava a
farle male, sentiva solo il bisogno di dormire.
“Nell’armadio troverai delle
coperte.” Indicò il russo prima di uscire. “Hai intenzione di dormire subito?”
La donna gli rispose con
un’occhiata furba e un sorrisetto sornione. “Assolutamente si. Non ho proprio
voglia di giocare con te, stasera”
“Parlavo della cena” rispose
secco l’uomo, scoccandole uno sguardo gelido in risposta.
“Non preoccuparti. Gli
stuzzichini sull’aereo sono stati più che sufficienti.”Scacciò con un gesto
della mano, indirizzato più a sé stessa che al russo, la punta di fastidio
procuratagli dalla sua puntualizzazione. Chiuse la porta appena dietro le
spalle del suo nuovo coinquilino. “Sogni d’oro” cinguettò ironica.
Nonostante
le più fosche previsioni, sono riuscita a scrivere! Capitolo un po’ scarno, lo
so, ma è di passaggio! Accontentatevi!
PICCOLA
NOTA: L’esercito Russo sino al 1991 (ovvero quando ancora era Armata Rossa) non
aveva gradi. L’ho scoperto su wikipedia. Purtroppo,
da nessuna parte ho trovato informazioni sui gradi odierni dell’esercito,
perciò mi sono affidata, sempre grazie a Wikipedia,
ai gradi standard in uso nella maggior parte degli eserciti.
ALTRA
PICCOLA NOTA: perché la canzone di Enya? Beh, il
video è ambientato su un treno della Transiberiana, in mezzo alla neve… E poi anche Enya è
Irlandese come Nina.
X
Angel: si, effettivamente per i suoi standard di gioco, Sergei
è logorroico! Andata bene la festa?
X
Sackboy: accennerò a qualche altro personaggio (non
ti dico chi), ma loro sono i protagonisti di questa storia…
X
Miss Trent: spero che questo capitolino piccino ed
insignificante non ti abbia deluso! Fisichella ringrazia, è già andato via
lasciando le sgommate sul pavimento.
Il rumore delle pale
dell’elicottero militare su cui si trovava era talmente forte da distoglierla
dai suoi pensieri.
Erano due giorni che seguivano le
tracce della base segreta della TekkenForce in Kamcatka, con scarsi risultati. Avevano catturato
quattro membri dell’ex esercito della MishimaZaibatsu: a quell’ora dovevano già essere sotto
interrogatorio alla base russa, ma a parte loro nessuna traccia della base di Alexanderssons, nonostante le numerose intercettazioni in
mano alla Spetnaz che confermavano quello che aveva
raccontato durante il primo interrogatorio con i vertici della divisione
militare.
Nina Williams sbuffò, muovendo le
dita delle mani per recuperare sensibilità. Uno dei quattro soldati che erano
con lei le offrì un sorso di vodka dalla sua fiaschetta personale, ma lei
rifiutò sdegnosamente.
Dovendo tenere il portellone
aperto per essere sempre pronti a rispondere ad un eventuale attacco, la neve e
l’aria gelida di quella terra ostile entravano nell’abitacolo, facendo tremare
gli occupanti, nonostante le pesanti divise di cui erano equipaggiati.
La donna guardò i due uomini ai
comandi. A fianco del pilota, SergeiDragunov teneva i contatti con la base, specificando le
ultime posizioni e ricevendo gli ordini. Dopo aver parlato alla radio, si voltò
verso la squadra e urlò qualcosa in russo. I quattro soldati annuirono
sollevati, e quello che aveva offerto la vodka a Nina la informò, inun inglese stentato, che il comando aveva
ordinato di rientrare alla base.
Nina annuì, sospirando sollevata.
La base significava una doccia calda e una branda dove stendersi: sentiva tutti
i muscoli intorpiditi, e quelle giornate passate a pattugliare deserte lande
innevate le erano risultate estenuanti. Si rilassò contro la parete di metallo
del veicolo, gettando un’occhiata in direzione delle spalle di Dragunov.
Non era più stato il suo amante
da quando avevano iniziato a vivere sotto lo stesso tetto, e non lo sentiva
parlare se non lo stretto necessario, durante le esercitazioni o le brevi
missioni a cui aveva partecipato.
Per questi motivi Nina era
convinta che la notte passata a Tokio non fosse altro che una breve avventura
che il russo si era concesso, magari come premio personale, e che l’avesse
tranquillamente archiviata senza darci alcun peso.
Cosa che aveva fatto anche lei.
Ma nonostante tutto il suo
autocontrollo e la sua noncuranza, le rodeva non poco l’indifferenza di quello
che ora era il suo comandante, nei suoi confronti: gli uomini raramente non
davano cenni di interesse verso la sua bellezza, e anche se lei li disprezzava
visibilmente, il fatto di poter sempre contare sul proprio aspetto fisico come
valido alleato le dava una certa sicurezza.
I pochi uomini che avevano
frequentato il suo letto la guardavano estasiati, in attesa di ricevere
ulteriori segnali di benevolenza da lei: in ogni caso, non la ignoravano.
E l’eccezione denominata SergeiDragunov la infastidiva
parecchio.
Il pilota gridò qualcosa con voce
allarmata, e anche i suoi commilitoni tornarono tesi alle armi. Nina guardò il
ragazzo che le aveva tradotto in precedenza l’ordine ricevuto: “C’è veicolo nemico
su radar!” esclamò.
Merda Pensò la donna, alzandosi in
piedi e caricando il fucile che aveva con sé.
Dopo pochi secondi un altro
elicottero militare comparve dritto davanti a loro, fra la foschia della
nevicata. Iniziò subito a sparare, mirando alle eliche. Nina e i suoi compagni
si accucciarono a terra, sentendo il sibilio dei
proiettili a pochi centimetri dalle loro teste, mentre Dragunov
prendeva il comando dei missili del veicolo russo. Un primo andò a vuoto, il
secondo colpì di striscio l’elicottero nemico. Il gesto di esultanza del pilota
fu cancellato da una raffica di proiettili che lo uccise sul colpo.
Imprecando nella sua lingua
natale, mentre i soldati si aggrappavano per non cadere a causa dei movimenti
incontrollati dell’elicottero, Dragunov spostò il
cadavere del pilota di lato e vi prese il posto, urlando ad uno dei soldati di
venire a suo fianco.
Nina si appiattì per terra,
quando un’altra raffica di mitra li colpì nuovamente.
Girò la testa in tempo per vedere
un altro elicottero recante le insegne della TekkenForce affiancarsi. Una scarica di adrenalina la percorse,
facendola balzare in piedi, fucile spianato, sparando sui nemici.
Seguita dagli altri tre,
risposero al fuoco urlando. Il soldato più vicino a lei cadde a terra, un
proiettile in pieno volto. Due dei nemici però avevano fatto la sua stessa
fine.
Vedendo altri soldati comparire
davanti al portellone, Nina si spostò in tempo per evitare la raffica di mitra
che falciò gli altri due suoi commilitoni. Recuperò una bomba a mano, la
sganciò con i denti e la lanciò con una mira perfetta all’interno del veicolo
avversario, che esplose.
L’onda dell’esplosione fece
oscillare l’elicottero russo, danneggiandolo ulteriormente. La TekkenForce, vedendo
l’esplosione, cercò di sottrarsi alle armi dei russi ripiegando e battendo in
ritirata.
Purtroppo per loro, il soldato a
fianco di Dragunov li aveva già nel mirino, e non
esitò a schiacciare il pulsante dell’ultimo missile rimasto, mandandolo in
mille pezzi.
“Dobbiamo uscire” urlò il
capitano, alzandosi in piedi, mentre la plancia di comando sembrava sul punto
di friggere. “L’elicottero è danneggiato, qui esploderà tutto”
Nina si infilò uno zaino
paracadute e si avvicinò al portellone. Mentre stava per tuffarsi nel vuoto
bianco sotto di sé, un’altra esplosione a bordo la fece scivolare, mandandola a
sbattere contro una parete. Si alzò subito, stentando a prendere l’equilibrio:
l’esplosione proveniva dalla plancia di comando. Dragunov,
che si era già voltato per andare versol’uscita, era inginocchiato a terra, tossendo ed imprecando dal dolore,
mentre per il soldato con lui, da come aveva piegato il collo, sembrava non
esserci più nulla da fare. L’elicottero perdeva velocemente quota.
D’istinto, la donna si lanciò su Dragunov, aiutandolo ad alzarsi e porgendogli un altro
paracadute. Si trascinarono verso l’uscita.
Sotto di loro il nulla, era
difficile capire a quanti metri fossero da terra e se avrebbero fatto in tempo
i paracaduti ad aprirsi.
“Pronto?” urlò all’uomo, che
annuì nonostante la smorfia di dolore. Lo spinse con tutte le sue forze giù dal
veicolo, per poi gettarsi anche lei.
Aprì il paracadute, ma servì a
poco. L’impatto con il terreno fu ammortizzato dalla neve, e Nina vi si rotolò
più volte per perdere velocità, avvolgendosi nella stoffa e nelle corde del
paracadute.
Sentì lo schianto dell’elicottero
più avanti e l’esplosione che ne seguiva.
Riuscì a liberarsi con qualche
difficoltà dal groviglio di funi, e si alzò da terra con qualche difficoltà di
equilibrio. A parte i resti dell’elicottero che bruciavano ad un centinaio di
metri, vi era solo il bianco.
Nessun altro colore. Dragunov non ce l’aveva dunque fatta? Era sola in mezzo ad
una delle regioni più inospitali della Terra, sotto una nevicata copiosa e con
la notte che avanzava?
Il freddo l’attanagliò con la sua
morsa assassina, e la lama gelida della paura iniziò a punzecchiarle lo sterno.
Un movimento, nella foschia,
catturò la sua attenzione. Uno spicchio di rosso, così simile a quello del suo
paracadute.
“Dragunov!”
esclamò, correndo verso quel drappo. Il russo si era liberato da solo dalle
corde, ma tossiva, e una pozza di sangue si faceva largo sulla sua schiena.
Nina si sentì così sollevata dal
vederlo che le ci volle tutto il suo autocontrollo per non lanciarsi al collo.
Lo aiutò nuovamente ad alzarsi,
facendo passare un braccio attorno alle spalle. Dragunov
rimase un attimo ad osservarla, il fiato corto. Strinse la donna a sé. “Grazie”
mormorò, prima di venire colto nuovamente dalla tosse. “Dobbiamo dirigerci a
nord.” Disse, guardando la bussola che aveva sull’orologio multifunzione. “A 2
chilometri c’è una vecchia base di ricerca, dobbiamo ripararci là.”
“Sei ferito, riuscirai a
camminare?” domandò Nina.
“Mi conviene riuscirci. Sono
riuscito a lanciare l’SOS prima di lasciare i comandi, ma con la notte e questo
tempo, sarà difficile che arrivino i soccorsi prima di domattina.”
A Nina venne in mente solo in
quel momento della funzione di localizzatore del suo orologio, e tenne premuto
il dispaly per una decina di secondi, come da
istruzioni.
“Questo non li farà arrivare
prima” le fece notare l’uomo, cercando di incamminarsi verso Nord.
Un paio di calci ben assestati
aprirono la porta di una delle quattro casupole rettangolari, semisommerse
dalla neve, della base di ricerca, abbandonata dalla caduta del regime
sovietico.
Sostenendo Dragunov
sulle spalle, Nina vi entrò, richiudendo la porta e il vento impossibile fuori.
L’uomo si accasciò, più pallido
del solito, per terra.
La donna cercò di utilizzare la
pila che aveva in dotazione: non ebbe successo, il freddo aveva esaurito le
batterie. Frugò tra le tasche di Dragunov, che non
protestò, alla ricerca del suo accendino Zippo e, appena trovato, lo accese e
si guardò intorno.
Si trovavano nell’unica stanza
della casupola, arredata con tavolo e qualche sedia, tre brandine, un
armadietto e un angolo cucina con una stufetta a legna
Aprì l’armadio, trovandovi
qualche coperta appallottolata, una cassetta del pronto soccorso e due candele.
Ne accese subito una, assicurandola ad un piccolo candelabro artigianale
appoggiato sulla stufa.
Tornò verso Dragunov,
che stava cercando di togliersi la casacca e la tuta, entrambe inzuppate di
sangue “Qualcosa mi si è conficcato nella schiena, quando è esplosa la plancia
di comando. Devi togliermela, altrimenti non arriverò a domattina.” Spiegò
stancamente. Nina lo aiutò a coricarsi su una brandina, per poi ispezionargli
la ferita, dopo aver strappato la stoffa. Un pezzo di metallo spuntava dalla
schiena insanguinata del russo, conficcato tra la scapola e la spina dorsale.
“Sei stato fortunato. Qualche millimetro in più o in meno, e non riuscirei a
medicarti io stessa” sospirò la donna, ricordandosi delle prime parole che gli
aveva rivolto, aprendo la cassetta del pronto soccorso, sollevata dal trovare
intatti numerosi strumenti di primo soccorso. Si infilò dei guanti di lattice
tornò dall’uomo. Prese il ferro tra le dita e, appoggiando la mano sulla
schiena di lui, si operò per sfilarlo.
Quando rientrò, pochi minuti più
tardi, dalla sua ispezione alla ricerca di vivere nelle altre casupole, Dragunov sembrava addormentato tra le coperte del letto.
Non appena era riuscita a medicarlo e a cucire il buco provocato dal pezzo di
metallo, Nina si era accorta che la brandina su cui l’aveva fatto appoggiare
era piena di sangue. Gli aveva fatto quindi cambiare giaciglio e, dopo averlo
aiutato a togliersi i vestiti bagnati di dosso, gli aveva messo addosso le
coperte trovate. Era decisamente troppo poco, per sopravvivere a quel gelo, ma
Nina aveva apprezzato la sua fibra eccezionale e la sua incredibile
sopportazione al dolore.
Non appena chiuse nuovamente la
porta, con il voluminoso pacco tra le braccia, lui si voltò, aprendo le fessure
azzurre dei suoi occhi.
“Non ho trovato cibo
commestibile” ammise la donna “A parte queste bustine di tè.” Si avvicinò alla
stufetta e srotolò l’involucro che aveva con sé per terra. “Ma ho trovato altre
coperte, qualche vestito pesante scordato qui e una bottiglia ancora chiusa di
vodka”A sentire l’ultima voce
dell’elenco l’uomo sembrò riprendere un po’ di energia. Nina aprì la bottiglia
e gliela porse, poi si diresse verso una delle sedie vicino al tavolo e la
ruppe a calci. Gettò la legna dentro la stufa, la carta di un vecchio
calendario del 1991 e gli diede fuoco con lo zippo. Ci volle qualche minuto
prima che la vampa di fuoco attecchisse, ma il piccolo calore e la flebile luce
rinvigorirono le membra intorpidite dal freddo della donna. Gettò le altre
coperte sull’ultima branda disponibile, e fece per coricarsi.
“Vieni qui” la invitò Dragunov. “Il freddo qui è più intenso di quanto tu stessa
pensi. Senti che vento che c’è fuori. Porta le coperte su questa branda, è
meglio se dormiamo insieme” La sua voce non aveva più la punta di ruvida
freddezza che usava sempre con lei. Sembrava più morbida, gentile. La donna
ponderò la sua proposta. “Sei ferito” gli ricordò, avvicinandosi con le coperte
in mano.
“E tu sei bagnata” fu la risposta
del russo, che si spostò di lato, sul fianco opposto alla ferita, per
accoglierla. Era vero. Nina non aveva un singolo angolo dei vestiti militari
asciutto. Se li tolse, abbandonandoli su una sedia vicina al fuoco per farli
asciugare, ed indossò una delle casacche e dei pantaloni di tuta imbottiti, di
una misura decisamente troppo abbondante per lei che aveva trovato.
Scivolò nella branda al suo
fianco, sotto le coperte, mentre i resti della sedia crepitavano nel fuoco.
Assaggiò la vodka che lui gli porgeva, sicura che le avrebbe dato calore,
fidandosi dell’uomo con cui stava convivendo quella brutta e glaciale
avventura. Dragunov appoggiò la bottiglia ai piedi
del letto e circondò la donna con un braccio muscoloso. La ringraziò
sinceramente, sorprendendola.
“Dovere, Dragunov.”
Rispose, con un po’ di esitazione. Forse era la vodka, forse era la situazione,
forse era il tepore che si stavano scambiando i loro corpi, ma la vicinanza con
lui le dava i brividi, la stordiva. Sentiva che, se lui si fosse alzato e si
fosse allontanato, si sarebbe portato con sé il suo respiro, i battiti del suo
cuore, il calore della sua vita. Non le piaceva avere questa sensazione di
dipendenza, e voltò il capo di scatto dall’altra parte.
“E il mio nome? Mi pareva che tu
lo sapessi” ghignò sornione. “O avevo capito male, Nina?”
La donna si torturò il labbro
inferiore con i denti. Cosa voleva dire quella punzecchiatura? Forse si era già
ripreso e le stava proponendo un’altra notte folle nel bel mezzo di una
tempesta di neve? Era così matto?
Si voltò di nuovo verso di lui “Sergei.”
Pronunciò lentamente, come se dovesse farglielo entrare in testa bene, strappandogli
un breve sorrisetto soddisfatto. “Vuoi che ti chiami Sergei?”
“Puoi farlo, se ti piace”
appoggiò le labbra sulle sue. Un bacio lieve, appena accennato, così diverso da
quelli passionali e travolgenti che si erano scambiati nella stanza dell’Hotel Imperial di Tokio.
Si guardarono per qualche
istante, prima che fosse Nina a baciarlo nuovamente, cercando di capire, con le
sue labbra e la punta della sua lingua, che cosa stesse cercando in lui, e cosa
lui stesse cercando in lei. L’uomo le accarezzò la guancia pallida, prima di staccarsi
lentamente. “Adesso dobbiamo fare una cosa importante, Nina. Non dobbiamo
addormentarci. Nell’arco di un’ora avremo finito la legna da ardere, e il
freddo sarà talmente intenso da soffocarci. Dobbiamo stare svegli.”
Si rilassò, mentre la donna gli rimaneva
vicino, appoggiando la testa sotto il suo mento. “Io sono stanca già ora. E’
dannatamente difficile non dormire. Come posso fare?”
“Parla. Di qualsiasi cosa.”
BRRRRR!!!!!
Non
bastavano le temperature in picchiata, dovevo addirittura scrivere questo
capitolo proprio ora?
La
loro relazione si sta sviluppando in un modo del tutto inaspettato … vedremo
come si scalderanno i nostri eroi, e cosa si racconteranno.
“Io odio mia sorella.” La prima
cosa che le venne in mente. La più scontata. L’unica cosa conosciuta di lei, a
parte il nome e la fama d’assassina. Doveva parlare, e anche a lungo se voleva
restare sveglia, e quella era l’unica cosa che le veniva in mente di dire. La
sola cosa che lasciava trapelare dai suoi occhi di spesso cristallo. “Eppure
non ricordo neppure bene da cosa sia nato questo odio. Da quando mi sono
svegliata dal sonno criogenico, i miei ricordi sono offuscati, ma questa è la
mia unica certezza: io odio Anna. Dev’essere iniziato
tutto quando eravamo piccole, ricordo vagamente mio padre che mi allenava e che
mi insegnava i suoi colpi segreti e lei che ci guardava in un angolo,
aspettando che fosse nostra madre ad insegnarle qualcosa, quando aveva tempo e
non si allenava per le sue gare. Era dispettosa, ci teneva a farmi fare brutte
figure davanti a tutti: appena andammo a scuola si prodigò per essere agli
occhi di tutti la più simpatica, la più
adorabile, e per farmi escludere dalle nostre compagne. Raccontava frottole, mi
faceva cacciare nei guai. E più diventavamo grandi, più queste cose
peggioravano. Sino a giurarci di ucciderci a vicenda. E di esserci quasi
riuscite.”
Sentiva di aver già detto troppo
di sé e della sua vita: non era abituata a parlare con nessuno, potendo contare
solo sulle sue forze e sulle proprie capacità. L’essere costretta a dover
parlare la innervosiva. “E poi è irritante, non trovi?”
“Conosco solo il suo profilo
criminale, non il suo carattere”
“Beh, non fa altro che
ridacchiare e squittire, agitare il sedere e ammiccare. Mi dà fastidio solo a
pensarci.” Nina sospirò, sfregandosi il naso intorpidito dal freddo. “Chissà
che fine avrà fatto. Chissà se sarà ancora viva o meno. Forse dovrei cercarla.”
L’uomo allungò un braccio, prese
la vodka e ne bevve un gran sorso, per poi porgergli la bottiglia. “Se non la
sopporti, non ha senso. Non si va a cercare qualcosa che si odia, no?”
Dovette riconoscere che aveva
ragione, tracannando un goccio del liquore trasparente. Una breve vampata di
calore le salì dall’interno, incendiando lo sterno per poi gettarsi fuori dalle
narici. Era vero: solitamente si fuggiva dalle cose odiate, che recavano
fastidio. E allora perché sentiva la necessità di vedere Anna davanti a sé, o
di saperla viva? Semplicemente perché la
voglio uccidere con le mie stesse mani si convinse. Voglio infliggerle un’umiliazione tale che non riuscirà a rialzare quel
caschetto da sgualdrina sino alla fine dei suoi giorni.
“Una volta le ho rubato un
ragazzo per farle dispetto” ricordò. “Mi diede del sonnifero e mi tagliò i
capelli nel sonno.” La vodka doveva già esserle andata in circolo nel sangue,
perché sentiva le labbra stendersi in una risata. “Ti rendi conto? A 14 anni mi
ha infilato il sonnifero nel Tè e mi ha rapato a zero!”
Sembrava che anche Sergei trovasse quel ricordo abbastanza ilare: Un angolo
delle sue labbra si era piegato leggermente all’insù. Bevve un altro sorso di
vodka, poi appoggiò la bottiglia per terra, decretando che per quella sera ne
avevano bevuto abbastanza eche era
meglio risparmiarlo per l’indomani, nel caso i soccorsi non fossero arrivati.
“Senza cibo non riusciremo a cavarcela
a lungo, bevendo solo tè e vodka. Hai perso del sangue e hai un buco nella schiena,
non sei molto in forze. Se ci trovasse prima la TekkenForce che i nostri saremmo spacciati. Io sono
riuscita solo a salvare una pistola, il fucile l’ho lasciato sull’elicottero.”
Dragunov disse che anche lui aveva una
pistola in una tasca interna della tuta. “Se non avremo speranze, dovremo
tenere l’ultimo colpo per noi. Non ci conviene cadere nelle mani di Alexanderssons.”
“Ho sempre trovato affascinante l’idea del
suicidio. E’ la scelta di una persona davvero libera, decidere quando è
arrivata l’ora di morire.” Mormorò la donna, lo sguardo perso sul soffitto
buio.
“E’ da codardi” scosse la testa
l’uomo, girandosi sulla schiena. Si coprì la testa con il cappuccio della
giacca, alzandosi poi il bavero sul mento aguzzo. “A parte per sfuggire al nemico”
Rimasero un po’ in silenzio,
finché Nina rabbrividì, accorgendosi del fuoco che languiva. Si alzò, spaccando
l’ultima sedia rimasta e gettandone un pezzo nella stufa, ravvivando la
fiammella. Toccò i vestiti. Erano ancora umidi.
Si stese nuovamente sulla
brandina, rannicchiandosi contro l’uomo. Lo sentiva respirare profondamente, ed
ebbe il dubbio che si fosse addormentato. Le sue guance erano gelide e livide.
Avendo perso molto sangue, doveva patire molto più freddo di lei, eppure non si
lamentava, non tremava: Teneva chiusi gli occhi e basta. Forse doveva essere
nato o addestrato duramente in Siberia. Gli cinse il petto con un braccio,
scuotendolo, facendogli aprire gli occhi di scatto. “Non devi addormentarti”
gli ricordò. “Adesso tocca a te parlare”
Lui deglutì, sembrava pensieroso.
Probabilmente anche lui non sapeva bene cosa raccontarle, di quale parte della
sua vita renderla partecipe.
“Ero molto amico del figlio di Volkov, Alexei.” Iniziò. “Aveva
la mia stessa età e ci conoscevamo da quando eravamo nati. Con i nostri padri
nell’esercito, abbiamo frequentato le stesse scuole e siamo finiti nella stessa
divisione dell’esercito. Abbiamo anche passato l’addestramento insieme,
combattuto in Cecenia e iniziato a lavorare sotto la Spetsnaz.
Era un ragazzo molto leale, coraggioso, un ottimo compagno; Volkov
era estremamente orgoglioso di suo figlio. E’ stata sua l’idea di imparare il Sambo come combattimento corpo a corpo, nonostante a quell’epoca tra i nostri compagni
fossero di moda il Judo e il Karate. Diceva che questa disciplina fosse molto
più efficace. Ed anche secondo me aveva ragione. Sua sorella Tatiana aveva
sedici anni davvero una bella ragazza, faceva già la modella. Lui cercava di
farmi credere che aveva una cotta per me e che dovevo fare la prima mossa.
L’ultima volta che l’ho visto eravamo in istanza a Borzya,
al confine con la Cina, cinque anni fa. Alexei aveva
appena ottenuto la licenza per tornare a casa, durante le vacanze di Natale, mi
venne a salutare mentre io montavo il turno di guardia. Io rimanevo alla base,
non avevo richiesto nessuna licenza. Arrivò a casa sotto una tormenta di neve,
mentre suo padre stava per uscire per andare a prendere Tatiana alla festa di
Natale della scuola: con quel tempaccio non si fidava a farla accompagnare
dalle sue amiche, com’erano d’accordo. Alexei si
propose di andarci lui: era abituato a guidare fuoristrada nel bel mezzo della
steppa, non gli avrebbe dato fastidio un po’ di neve in città.
Mentre tornava a casa con sua
sorella, però, l’auto sbandò, finì contro un’altra in corsa e poi sotto un
camion che veniva dalla corsia opposta. Morirono entrambi sul colpo.” Fece una
pausa, lasciando che il freddo della sua ultima frase calasse su di loro.
“Stava andando troppo veloce. Per Volkov e sua moglie
fu un disastro, non si ripresero più. Un anno dopo lei si sparò in testa con
una carabina del marito.”
Quando una lattiginosa mattina
sorse sulla Kamkatca, Nina Williams e SergeiDragunov erano ancora
svegli. Non avevano più parlato, ma erano riusciti a tenersi svegli l’un con
l’altro, senza disturbare il flusso dei loro pensieri. Nina aveva pensato ad
Anna, si era sforzata di far riemergere dalla nebbia qualche altro ricordo,
qualche altro particolare della loro infanzia o della loro adolescenza. Poi si
era concentrata su posti caldi, si era immaginata stesa al sole dopo una
nuotata in piscina, aveva sognato ad occhi aperti di dover aprire un ventaglio
per farsi aria a causa del calore insopportabile.
Ogni tanto scuoteva Dragunov, e ogni tanto lui le pizzicava il braccio per
accertarsi che fosse sveglia.
Qualche ora dopo il levarsi del
sole, lo stomaco di Nina brontolò di fame. Per accendere nuovamente la stufa e
scaldarsi un po’ d’acqua per il te fu costretta ad entrare nella casupola a
fianco e prendere altre sedie, a cui fece fare la fine delle precedenti. Un
piccolo pentolino di latta fu una teiera precaria ma utile, ed un paio di
bicchieri sbeccati completarono il servizio. Bevvero seduti sul letto, le coperte
nuovamente addosso e le mani che non volevano staccarsi dai bicchieri per non
perdere il calore. Si sentirono entrambi sollevati, rinvigoriti, e la luce che
proveniva dalle finestre li rincuorava: il tempo aveva concesso loro clemenza,
i soccorsi non sarebbero tardati troppo.
Nina si rilassò contro la parete.
Pochi minuti di sonno erano una tentazione a cui voleva cedere al più presto.
Sentì un braccio di Dragunov attorno alle spalle, e
lasciò che la sua testa scivolasse sulla sua spalla. Le labbra dell’uomo si
posarono sulla sua fronte, per poi scendere lungo gli zigomi, la guancia e fermarsi
sulla sua bocca. Lasciò che le loro lingue si toccassero, che giocassero
insieme, che si stuzzicassero a vicenda.Follemente, si slacciò la giacca e vi guidò le mani dell’uomo al suo
interno. Lui si staccò appena mormorando qualcosa in russo.
“In inglese, per favore”
bisbigliò di risposta Nina.
“Se non dovessimo risparmiare
energie, ti riscalderei in un modo molto più efficace”tradusse.
Nina non poté impedire ad un
sorrisetto di farsi strada tra le sue labbra. “Scegli proprio i momenti meno
opportuni tu, uh?” si ritrasse, puntandogli addosso i suoi occhi inquisitori. “Cos’è,
ti eccita solo il brivido del pericolo?”
Lui la guardò quasi sorpreso,
prima di rispondere “Anche.” Sbuffò
quasi divertito, capendo a cosa si riferisse la donna. “Se ne avevi voglia, perché
non hai chiesto?”
“Mi hai evitato per due mesi” gli
fece notare, una punta dura nella sua voce resa rauca dal freddo. “E io non
sono una donna che va ad elemosinare attenzioni da qualche maschio”
“Nemmeno io”
Nina si mise le mani sui fianchi.
Provava l’irresistibile impulso di saltargli alla gola e strozzarlo con le sue
stesse mani e contemporaneamente saltargli addosso, strappandogli via i vestiti
e ruzzolarsi in quella brandina puzzolente con lei. “A sua signoria piacerebbe
quindi che mi trovarmi nella propria
stanza vestita solo di lingerie?”
“Si.” Fu la secca e semplice
risposta. “Anche un paio di munizioni andrebbero bene”
Nina scosse la testa: “Voi uomini
siete tutti uguali”
“Se preferisci startene nella tua
stanza fai pure.”
L’ultima frase pronunciata dall’uomo
fece imbizzarrire Nina: che diavolo voleva dire? Che una donna valeva l’altra,
per lui? Che lei non era né meglio né peggio di qualcun’altra? Come osava vomitargli in faccia una cosa
simile?
Lo colpì con uno schiaffo e si
girò dall’altra parte, la faccia in fiamme dall’indignazione. Lui rimase un po’
in silenzio, poi lo sentì scivolare sul materasso. “Non ti conviene fare un’altra
cosa simile. O io non risponderò più delle mie azioni. E sai bene cosa intendo.”
“Porco” sibilò, dandogli sempre le
spalle.
Si sentì afferrare per la vita ed
essere trascinata al suo fianco. “Rimandiamo questa discussione a Mosca”
Dopo pochi minuti di silenzio, le
forze iniziarono ad esaurirsi, e non riuscirono più ad impedirsi a vicenda di
scivolare nel sonno.
Un calcio che apriva la porta
fece aprire gli occhi ad entrambi. Nina raccolse velocemente da terra la
pistola e la puntò verso l’entrata. Due soldati russi si bloccarono, abbassando
i fucili e dichiarando le loro generalità.
Li avevano trovati.
Vennero portati sugli elicotteri
e rifocillati con barrette energetiche e nuove coperte termiche. Mentre il
veicolo militare si alzava in volo, Dragunov ricordò
a Nina che avevano un discorso in sospeso.
Il rumore del motore delle pale,
in accelerazione, coprì la risposta della donna.
E dopo questo si ritorna a Mosca!
Vi ringrazio ancora tantissimo
per le recensioni: Miss Trent, AngelTexasRanger,
Sackboy 97 e GothGirl!
Quando dalla sua camera da letto
Nina lo aveva sentito rientrare, aveva restituito un sorrisetto ammiccante alla
sua immagine riflessa allo specchio.Dandosi un’ultima ravvivata al ciuffo dorato, si era avvolta nella sua
vestaglia azzurra e aveva aperto la porta, trovandosi di fronte alle spalle di Dragunov, che entrava nella propria stanza.
Perfetto. A Nina Williams
piacevano le cose che andavano come previsto, e giusto per deformazione
professionale, se così poteva essere chiamata, aveva passato quei sette giorni
dopo la missione in Kamkatca a controllare le
abitudini del coinquilino, per non lasciare nulla al caso.
Dragunov era una persona estremamente
abitudinaria e incredibilmente precisa, in qualsiasi cosa dovesse fare,
metodico sino allo sfinimento. Aveva certamente previsto una sua mossa, ma di
sicuro, non di quel genere.
L’aveva provocata? Ebbene, ora
doveva pagarne le conseguenze.
Scivolò fuori dalla propria
stanza, seguendo silenziosa l’uomo. Si era tolto il pesante cappotto e l’aveva
abbandonato sull’appendi panni.
Il berretto con l’effige
dell’esercito era invece sul tavolino, seguito dalla cravatta e dalla giacca. Si
accorse della donna troppo tardi, quando ormai lei si era avvicinata al
tavolino e gli voltava le spalle.
“Pensavo che a quest’ora stessi
già dormendo”disse, guardando
l’orologio al polso. Sapeva i suoi orari, bene… anche
lui la stava controllando, e aveva notato che preferiva andarsene a dormire
presto, appena dopo cena.Con una certa
noncuranza Nina alzò le spalle “Non avevo molta sonno”Giocherellò un po’ con la cravatta rossa,
prima di infilarsela al collo, seguita dal berretto sul capo.
Si slacciò la cintura della
vestaglia e la fece scivolare dalle spalle, rivelando la sottoveste di pizzo
nero. Si aggiustò il cappello sulla fronte, prima divoltarsi verso l’uomo e al suo sguardo
interessato, accennando ad un sorrisetto soddisfatto. “Io e te avevamo un
discorsetto in sospeso, Sergei”
Le notti di Mosca erano lunghe e
gelide, l’ininterrotto traffico cittadino giungeva ovattato alle loro orecchie,
nel silenzio e nell’oscurità della camera. Nina stava ponderando l’idea di
alzarsi e di tornare nella propria stanza, di non lasciarsi andare oltre:
l’aveva sedotto ed era stata sedotta a sua volta, si erano rotolati sul letto
con il fiato corto, avevano fatto e rifatto sesso, quasi a voler recuperare i
due mesi perduti. Ora non aveva più senso rimanere sdraiati l’uno accanto
all’altro, no?
Sergei sembrava essere già scivolato
nel sonno, coricato prono con un braccio gettato attorno ai suoi fianchi
sinuosi, che aveva afferrato con foga solo qualche minuto prima. Nina lo fissò
per qualche secondo, soffocando un sorrisino all’accorgersi che non lasciava la
sua aria corrucciata anche neppure quando dormiva. Si ritrovò a sfiorare le sue
labbra con un dito, a disegnarne i contorni. Ritrasse subito la mano quando le
vide muoversi. “Domani mattina dobbiamo alzarci presto, non ti pare di averne già
avuto abbastanza?”
Gli avrebbe volentieri rifilato
uno schiaffo. Si alzò a sedere, sdegnata, e si alzò dal letto, recuperando i
propri vestiti. Faceva freddo fuori dalle coperte, un freddo diverso da quello
provato nella casupola della Kamkacta, che si insinuava
bastardo sotto le sue difese. “Scusa il disturbo” sibilò, dirigendosi verso la
porta.
“Aspetta.”
Nina si fermò: che volesse
chiederle scusa?
“Sbaglio o mi avevi chiesto
notizie di Steve Fox?” La donna girò appena la testa sulla spalla, per
minimizzare il suo vivo interesse per quello che stava per dirle.
“Sarà a Mosca tra due giorni, per
l’incontro della Coppa del Mondo di pesi medi.” La informò.
Steve
sarà in città…pensò, mordicchiandosi il labbro inferiore. Si fece
strada dentro di sé, nuovamente, il bisogno di cercarlo e di vederlo con i
propri occhi. E non le sarebbe bastato essere presente al suo incontro di
pugilato. Sospirò, uscendo dalla porta e tornando nel suo letto gelido,
solitario e vuoto come sentiva il suo cuore.
Era riuscita a trovare il suo
numero di telefono intercettando una mail dell’organizzatore dell’incontro. L’aveva
contattato il giorno stesso del suo arrivo a Mosca, dicendogli a malapena chi
fosse, dove e in che ora trovarsi, prima di riattaccare, temendo di essere
ascoltata.
Così, in quella mattina di
ghiaccio di fine novembre, aveva raggiunto il caffè sulla Piazza Rossa,
meravigliandosi di trovarlo già seduto ad un tavolino, lo sguardo color del
cielo che si posava impaziente fuori dalla vetrina del bar e l’iPod nelle orecchie.
Vedendola, le sorrise lievemente,
prima di alzarsi per salutarla. Nina studiò i suoi movimenti impacciati, il suo
sorriso accennato che non smetteva di comparirgli nelle labbra rosee e le
guance rosse dal freddo.
Come lei, sembrava imbarazzato e
non sapeva bene come comportarsi. Si sedettero l’uno di fronte all’altro.
“Ti trovi in Russia per caso o
abiti qui, adesso?” domandò il ragazzo, rompendo il disagio del silenzio.
“Beh, diciamo che sono qui per
affari” rispose evasiva Nina, prima di ordinare al cameriere un Tè con latte.
Steve invece chiese una
cioccolata calda. “Non era mia intenzione farmi i fatti tuoi. Cioè, immagino
che tu non ne possa parlare, ecco…”
La donna annuì. “Sei riuscito a
scappare da Tokio, come hai fatto?”
“Quando ho visto che le cose si
stavano mettendo male, con tutti i fulmini e i ruggiti di Kazama
e suo padre in versione demoniaca, ho pensato di tagliare la corda, come tanti
altri. Io, Law, Julia e Miguel ci siamo ritrovati
sulla stessa auto, con Julia alla guida. Siamo scappati all’aeroporto e abbiamo
preso il primo aereo che ci capitava, ovvero Tokio – Toronto.
Da Toronto Miguel è riuscito a
tornare in Spagna, Law ha preso il primo treno per
New York e io e Julia siamo andati in Arizona. E’ stata un’odissea…”
ridacchiò. “Ce ne sono successe di tutti i colori, per poco non finivo in
carcere per rissa con il meccanico che non voleva ripararci l’auto che avevamo
… preso in prestito.”
I suoi occhi erano di un azzurro
diverso dai suoi, notò Nina. Erano screziati di blu, palpitavano, erano vivi, mentre raccontava, con il suo
accento londinese, le vicissitudini della sua fuga. Le labbra si muovevano
senza nascondere un sorriso, a metà tra l’imbarazzato e il sereno, e un gesto
della mano sottolineava le sue parole.
“Sono stato al suo villaggio per
un po’, poi, quando le acque si sono calmate e i tornei sono ripresi, sono
tornato ad allenarmi e a gareggiare, Julia a studiare e ci siamo dovuti
separare per un po’.”
“State insieme, dunque?”
Il sorriso si allargò sulla
faccia del ragazzo, mentre annuiva. Sembrava illuminarsi al pensiero della
propria ragazza, e scalpitare all’idea di raccontarglielo.
Come
farebbe qualsiasi ragazzo mentre parla della propria fidanzata a sua madre. Pensò, sentendo qualcosa che si
rilassava dentro di sé. Non capiva il perché, ma le faceva piacere che Steve
non la giudicasse una completa estranea, che forse provava addirittura una sorta di affetto
per lei e non il disprezzo che si era convinta di meritare. Sembrava ci tenesse
che fosse a conoscenza di qualcosa di sé, della parte migliore, della sua vita.
Il ragazzo tirò fuori il
cellulare dalla tasca del giubbotto e glielo porse. La foto sul display
mostrava lui, in una smorfia di finta importanza, torso nudo e con la testa
addobbata da un copricapo indiano, e Julia al suo fianco, uno sguardo
falsamente truce, con i guantoni da pugile alzati a difesa.
“Qui eravamo ad Austin la
settimana scorsa. Dopo aver disputato un incontro a New York sono riuscito a
scappare a trovarla.”
“State bene insieme” annuì Nina,
restituendogli il cellulare. E lo pensava davvero. Erano belli, sorridenti,
complici ed innamorati. Sentì di invidiare qualcosa a suo figlio, e
contemporaneamente sollievo nel saperlo felice con qualcuno.
Un attimo di silenzio seguì
l’arrivo dell’ordinazione, mentre Nina cercava disperatamente un argomento, una
frase da dire. “C’è qualcosa che vuoi chiedermi?”riuscì solamente a dire.
Il ragazzo la guardò con vivo
interesse, posando per un attimo il cucchiaino della cioccolata. “Ci sono un
sacco di cose che vorrei chiederti” tornò a mescolare la bevanda bollente,
prima di assaggiarla. “Sai chi è mio padre?”
Lei alzò le spalle: “Ho letto i
dati relativi al tuo concepimento. Sono stati usati i miei ovuli, che
successivamente mi sono stati rimpiantati, fecondati con un ‘misto di geni’ di
padri diversi e dalle diverse caratteristiche. E’ a questo che devi la tua
forza. Purtroppo non c’erano nomi.” Spiegò, cogliendo una certa delusione sul
viso di Steve, che però la cacciò subito con un gesto della mano, come se fosse
una zanzara fastidiosa. “Come si suol dire, la madre
è sempre certa…”
“Già.”
“E tu? Puoi raccontarmi qualcosa
di te?”
Nina si trovò spiazzata, e alzò
le spalle, non sapendo proprio cosa dire. “Non credo di poterti dire molto…”
“Hai più sentito tua sorella
Anna?”
“No, non so nemmeno se è viva.”
“E’ viva. Almeno, sino a Tokio la
era. Law l’ha vista scappare con Lee Chaolan.”
Tipico di Anna, aggrapparsi ad un
uomo nel momento del bisogno. Per tutti i Numi, proprio quel damerino sciocco
di Chaolan? Una splendida coppia, in due non facevano
mezzo cervello.
“E tu? Sei sposata, o fidanzata,
o qualcosa di simile?” La domanda, così semplicemente diretta e confidenziale,
le fece imporporare le guance.
“No. Cioè.” Portarsi a letto Dragunov era qualificabile come relazione? “Diciamo che ho
una sottospecie di relazione. Ma niente di che. Non ho bisogno di queste cose”
Steve rise, appoggiando la tazza
di cioccolata quasi finita e leccandosi le labbra per togliersi i residui.
“L’ho già sentita questa frase: da Howarang, se ti
interessa saperlo. Avevo fin dei dubbi che fosse dell’altra sponda, prima che
ammettesse di stare con Miss Osaka…” Ridacchiò
nuovamente. “Un giorno sono due colombotti così
stucchevoli da dar fastidio, e il giorno dopo si insultano a vicenda e si
mandano a quel paese”
“Beh, io non sono un ventenne in
preda agli ormoni”
“Vero anche questo”
Nina guardò l’orologio. Tra
mezz’ora si sarebbe dovuta trovare al comando, era giunto il momento di
salutare Steve e di fargli gli auguri per l’incontro.
“Già, devo andare anche io. Ho
un’ora di allenamento, poi una conferenza stampa e dopo mi devo riposare in
attesa dell’incontro.” Si alzarono e si guardarono. Steve avanzò di un passo e,
dopo una piccola esitazione, l’abbracciò.
Nina si sentì avvampare. Nell’abbraccio
del ragazzo c’era qualcosa che ormai non ricordava nemmeno più, qualcosa di
morbido e caldo, e il suo profumo le entrò nelle narici e scese lungo lo
sterno, sino al cuore. Ricambiò l’abbraccio, sentendo di aver riscoperto una
cosa di cui aveva bisogno, che la rendeva vulnerabile e sicura allo stesso
tempo, che non si sarebbe mai azzardata a chiedere a nessun’altro.
Steve la strinse ancora di più a
sé, e si azzardò a schioccarle un bacio sulla guancia. “Se venissi a vedermi,
stasera, mi faresti davvero contento” fece una pausa e prese fiato. “Mamma”
Sentiva come se una corda le si fosse
annodata nella laringe e le impediva di deglutire correttamente, di far sparire
il rossore dalle guance e di respirare con calma, bruciandole la gola e il fiato.
“Non so se avrò degli impegni,
cercherò di esserci”
“Grazie” Bisbigliò, sciogliendosi
dall’abbraccio, riconsegnandola al freddo della Russia e della sua vita. Si
infilò velocemente gli occhiali da sole. Gli occhi le pungevano. “In bocca al
lupo, Steve.”
Uscirono dal locale fianco a
fianco, senza sfiorarsi, senza parlarsi. Fu appena prima girare per andarsene
che Steve la fermò nuovamente. “Scusa la domanda stupida, ma…
se avessi potuto scegliere te il mio nome, quale sarebbe stato?”
Non ci aveva mai pensato. Fissò
il cielo terso perplessa, trovandolo freddo e lontano, così diverso dagli occhi
di suo figlio.“Credo che alla fine,
Steve sia davvero un bel nome”
Quando alla sera
tornò a casa, dopo la riunione al comando e un incarico di intercettazione che
aveva svolto molto facilmente con il computer, Nina aveva acquistato un cuscino
quadrato di velluto blu. L’aveva posizionato sul letto come oggetto d’arredo,
per osservarlo, prima di stringerlo a sé, gustandone la morbidezza. Quel
cuscino le avrebbe ricordato il suo incontro con Steve e il loro abbraccio. Si
sentì nuovamente pungere gli occhi.
La porta
d’ingresso si aprì e si richiuse, e sentì i passi lenti e cadenzati di Dragunov percorrere il corridoio.
Bussò alla sua
porta. “Avanti.” Bisbigliò, rimettendo a suo posto il cuscino e
schiaffeggiandosi le guance per riprendersi.
L’uomo si appoggiò
allo stipite della porta, i suoi occhi di ghiaccio che la scrutavano
indagatori. “Avresti dovuto dirmelo”
Lei lo guardò
spalancando gli occhi: non poteva crederci “Mi hai seguita?”
“Il bracciale
funziona anche da trasmettitore, se sei nell’arco di dieci chilometri dalla
base.” Spiegò. “Ho intercettato la tua telefonata con Fox, ieri mattina, e ho
deciso di utilizzare questa funzione.”
“Erano fatti
personali, che diavolo doveva importartene del nostro incontro?” Nina si
sentiva avvampare dalla rabbia e dalla frustrazione. Non era neppure più libera
di incontrare qualcuno? Cos’era, una schiava? “Pensavi fossi così stupida da
incontrare una spia nemica in pieno centro, alla luce del sole? O, magari,
perché no, il mio amante?”
“Sei sotto la mia
responsabilità” rispose gravemente Dragunov. “Se ti
fosse ‘sfuggito’ qualcosa potevano sorgere dei problemi. Non pensavo neppure
lontanamente che Steve Fox fosse tuo figlio”
“Contento di saperlo? Ora cosa ne
farai di questa informazione? Mi ricatterai? Terrai anche lui sotto il tuo
stretto controllo?”
“Stupida” sibilò Dragunov. Dalla vibrazione nella voce, sembrava sul punto
di arrabbiarsi, magari la stava per colpire. Nina si posizionò sulla difesa,
pronta a ripagarlo della sua stessa moneta. “Di questa informazione non ne
faccio proprio nulla” Gettò qualcosa sul suo letto. Era il biglietto per
l’incontro di Steve contro Gorovich di quella sera.
“Sei libera di andarci. Ci sarei venuto volentieri anch’io. Gorovich
è un pugile eccezionale, i suoi incontri sono sempre entusiasmanti.Ma forse è meglio che tu ci vada da sola. Lo
guarderò dalla televisione.”
Nina raccolse il biglietto. “Non
avevi il diritto di spiare la mia vita privata, di ascoltare le cose private
che ci siamo detti io e Steve”
“Non vi siete detti nulla di
rilevante.” Alzò le spalle lui, prima di uscire dalla stanza. Si fermò in mezzo
al corridoio, prima di fare un passo indietro e di affacciarsi alla porta. “Per
la cronaca, non ho detto nulla al comando. Né del tuo incontro di questa
mattina, né della nostra sottospecie di
relazione.”
Nina si alzò di scatto,
sentendosi gli occhi pieni di lacrime represse di solitudine, di troppo freddo,
di rabbia, di frustrazione. “Vaffanculo” ringhiò,
prendendo la pelliccia ed infilandosela rabbiosamente, afferrando la sciarpa e
la borsetta, prima di uscire di casa sbattendo la porta.
Si ritrovò a piangere sul tetto
di un palazzo, con la strana idea di lasciarsi cadere nel vuoto e di diventare
una pozza di sangue sull’asfalto coperto di neve ghiacciata, di non dover
sentire quel turbine di pensieri e sensazioni che affollavano la sua testa, di
non dover più vedere Dragunov e di desiderarlo.
Si calmò un attimo sul taxi che
la portava all’arena dove si svolgeva l’incontro.
Sorrise appena vedendo Fox
entrare e a fare l’occhiolino, scorgendola tra la folla.
Applaudì, sentendosi orgogliosa
nel vederlo mandare al tappeto Gorovich e ad alzare
la cintura del campione ed uscì nuovamente con le lacrime che le rigavano il
volto.
Si sentì meglio mentre piangeva,
si sentì sollevata. Si ripromise di farlo più spesso, senza farsi vedere da
nessuno. Era così liberatorio e faceva sciogliere quella crosta di calcare che
le pesava sul petto.
Tornò in casa e si diresse nella
sua stanza senza rivolgere uno sguardo all’uomo sul divanetto, che guardava il dopo
incontro alla tv. Si gettò sul letto con il cuscino tra le braccia, nei polmoni
il profumo di suo figlio e nella mente il suo sorriso.
Prima di addormentarsi gli parve
di sentire Dragunov che si fermava al di là della
porta chiusa, come se fosse indeciso ad entrare o meno. Ma doveva esserselo
immaginato, perché mai avrebbe dovuto voler entrare?
Capitolo abbastanza
introspettivo. (a parte l’inizio… XD)
Nina scopre di avere dei
sentimenti, e il primo a cui era giusto indirizzarli era proprio suo figlio
Steve.
Miliardi di grazie per le vostre
recensioni! Continuate così!
Si erano praticamente evitati per
tutta la settimana seguente, rivolgendosi la parola lo stretto necessario. Nina
era ancora furiosa, e lui sembrava non avere interesse a farle passare
l’arrabbiatura, probabilmente sicuro che gli passasse da sola.
Nina passava il suo tempo libero
comprando piccoli oggetti con cui abbellire la propria stanza. Un copriletto
viola, un portapenne decorato, un poster di un film che si ricordava di aver
apprezzato mille anni prima, Scarface. Voleva
creare un angolo solo suo, un piccolo rifugio dai pericoli che correva
quotidianamente e dai suoi tormenti interni.
Per il resto, il lavoro si
portava via le sue giornate una dopo l’altra.Lei, Dragunov e la nuova squadra potevano
volare alla mattina in Giappone, essere al pomeriggio in Thailandia e tornare
alle prime luci dell’alba a Mosca.
Gli spostamenti non la
infastidivano, anzi. Era la squadra che non sopportava. I suoi commilitoni
chiacchieravano per tutto il tempo in russo, e un paio di loro le gettavano
sempre qualche occhiata famelica. Non vedeva l’ora di ricevere una promozione e
di poter svolgere i propri compiti da sola, senza quei soldatini esaltati tra i
piedi e soprattutto, senza essere ininterrottamente sotto la supervisione
precisa di Dragunov, la cui sola presenza dava sui
nervi.
Non ne poteva più di vederlo
tutti i giorni. Non sopportava di trovarselo davanti anche alla sera. Ne aveva
le scatole piene di trovarselo, sovente, a zonzo per i suoi sogni.
La cosa peggiore, comunque, era
quella di non riuscire a non avere un tuffo al cuore quando lo sentiva
pronunciare il suo nome. L’aveva chiamata per nome solo un paio di volte, da
quando aveva incontrato Steve, in privato e solo per cose necessarie, ma non
riusciva a non pensare che quelle quattro lettere, quel semplice nome scandito
con il suo accento russo, pareva quanto
di più simile fosse alle carezze con cui aveva percorso la sua pelle d’avorio. Si
soffermava sulla sua iniziale, quasi ripetendola doppia, lasciava scivolare la
sua lingua sulla i e sulla seconda n e tornava a fermarsi, come se volesse
gustarsela, la a finale.
Non ricordava nessuno che avesse
pronunciato il suo nome così.
Ma probabilmente era tutta una
sua impressione. La passione di Dragunov per lei
iniziava e finiva su un materasso, lo stresso necessario per fare “bella
figura” e per raccogliere il massimo piacere possibile.
Si stava pelando una mela,
chinata sul lavello della microscopica cucina, quando lui entrò. Alzò la testa
in segno di saluto, senza dire nulla, per poi infilarsi un pezzo del frutto in
bocca.
Lo sentì avvicinarsi, brontolando
qualcosa sul fatto che non aveva cenato. Il frigo risultò vuoto, e sbuffò
insoddisfatto, prima di lasciarsi cadere stancamente su una sedia. “Avrai la
tua promozione” la informò. “Volkov ha deciso di
darti fiducia e di metterti alla prova. Domani verrai convocata e ti verrà
affidata una missione che dovrai svolgere da sola.”
Nina annuì soddisfatta, non
potendo trattenere un sorriso mentre si tagliava un altro pezzo di mela e se la
portava alla bocca. Andare a letto con il
capo serve. Lo sentì alzarsi, raggiungerla e passare un braccio attorno
alla sua vita sottile. Il suo fiato caldo sul collo le procurò un brivido,
mentre stendeva la mano e le rubava un pezzo di mela, facendola sbuffare.
La fece girare verso di sé,
sfilandole dalle mani il coltellino con cui stavalavorando il frutto, gettandolo nel
lavandino. La guardò mentre masticava la mela, quasi come se stesse studiando
la sua espressione, che Nina cercava di mantenere il più neutra possibile.
L’uomo cercò le sue labbra, le
catturò, tenendola prigioniera tra il suo corpo e il mobile della cucina. “Hai
voglia di festeggiare?”
Nina ci pensò un attimo. La sua
parte razionale le imponeva di mandarlo a quel paese, di scostarlo da lei e di
andarsene da quella cucina. Ma dentro di sé stava prevalendo il suo lato
ferino, ridestato dal desiderio. Alla
fine, Nina, ci guadagni pure tu. Le ricordò una vocina fastidiosa che
ultimamente le stava diventando troppo famigliare. “Si, direi che è una buona
occasione per festeggiare.” Accordò.
Si sentì sollevare e appoggiare
sul mobile. Cinse i fianchi dell’uomo con le sue gambe, lasciando che le
sbottonasse la camicetta, mentre lei gettava la testa indietro, appoggiandola contro
il pensile, ripetendosi che fosse solo un bisogno fisiologico, e che lui non
avrebbe dovuto sentirsi un vincitore.
Restando lontani il
più possibile avevano trovato un certo equilibrio, doveva ammetterlo. Non si
vedevano per intere settimane, da quando a Nina era stato affidato un incarico
di spionaggio per recuperare il traffico d’armi che alimentava l’esercito di LarsAlexanddersons. Avevano
comunque preso l’abitudine di incontrarsi se, per coincidenza, si trovavano
nello stesso posto, o avevano un volo in comune.
Poche ore rubate ai
reciproci impegni, attimi di passione fra i pericoli quotidiani, ogni volta in
un hotel diverso, nemmeno fossero stati amanti costretti a nascondersi ai
rispettivi consorti.
Nina si rifiutava
di porsi domande sulla sua sottospecie di
relazione con Dragunov. Era palese che si
potesse, anzi, si dovesse ridurre solamente la questione all’atto fisico. Era
una cosa estremamente piacevole, innocua, quasi divertente. Poteva freddamente
definirla un hobby, un passatempo con cui spezzare la routine delle indagini.
Non c’era nulla di
più. Quel tuffo al cuore che sentiva nel vederselo avvicinare non significava
nulla, così come il suo braccio che le cingeva la vita e che la portava a
dormire vicina a lui, al suo respiro, al suo calore.
Nina si imponeva di
non provare nulla. Non ne aveva tempo, voglia e possibilità. Con la vita che
conduceva, legarsi ad una persona era una debolezza che non poteva permettersi,
tantomeno legarsi sentimentalmente, e
non solo fisicamente, ad un uomo freddo e criptico come Sergei.
Lei non era una donnicciola in
fregola, bisognosa di cure e di attenzioni, né una principessa disarmata e in
costante pericolo. Lei era una leonessa bionda dal quale bisognava stare alla
larga, se si voleva seguitare a vivere sereni e camminare sulle proprie gambe.
E
allora perché diavolo continuava ad aprire la sua casella e-mail nella speranza
di trovare un suo messaggio?
L’alba di un giorno di Febbraio
che tingeva di rosa Francoforte, entrando dalle tende aperte, la svegliò
facendola imprecare contro Dragunov, che si era
scordato di chiuderle la sera precedente. L’uomo aprì un occhio, con una
smorfia di disappunto: “Tanto ci saremmo dovuti svegliare comunque.” Si alzò a
sedere, stropicciandosi gli occhi, prima di guardare l’orologio. “Ho il volo
per Berlino tra un paio d’ore.” Biascicò, voltandosi verso la donna, che non
tratteneva una smorfia canzonatoria. “Il mattino è terribile anche per te.”
Lui sbuffò infastidito, prima di
decidersi a fare una doccia per svegliarsi meglio. Nina rimase sul letto:
poteva permettersi una mezz’ora di relax in più, non aveva senso fare le corse.
Provò a richiudere gli occhi, ma il sonno sembrava essersi diretto altrove; in
compenso lo stomaco aveva iniziato a brontolarle rumorosamente. Si ricordò di
un pacchetto di biscotti mezzo aperto sul tavolino della stanza, e si alzò per
prenderne uno. Nel farlo urtò i pantaloni che l’uomo aveva gettato sul mobile,
facendoli cadere: il portafoglio cadde dalla tasca e si aprì ai suoi piedi.
Infilandosi un biscotto in bocca, Nina raccolse ciò che era caduto,
accorgendosi che quel portafoglio aperto era una tentazione troppo forte per
lei, la cui deformazione professionale la portava a cercare informazioni sulle
persone che conosceva tramite qualsiasi mezzo. Con lo scroscio della doccia di
sottofondo, a cui stava ben attenta, diede un’occhiata all’interno del
portafoglio di pelle nera.
Il badge dell’esercito con cui
apriva anche la porta di casa… un altro badge con
nome e nazionalità falsa, un biglietto con una scritta in cirillico…
e, nella tasca più nascosta, una sua piccolissima foto.
Nina spalancò gli occhi
sbalordita. Era un quadratino minuscolo, di carta, probabilmente una foto di
lei rubata di nascosto, infilata in qualche file dell’esercito e stampata per
chissà quale motivo. Sobbalzò accorgendosi di non sentire più il rumore
dell’acqua, avendo la prontezza di rimettere tutto a posto e di appoggiare i
pantaloni, prima che lui uscisse dalla doccia. Il biscotto le era rimasto in
bocca e se lo ricordò solamente dopo qualche secondo. Si risedette sul letto, masticando, con il
batticuore: Sergei teneva una foto sua nel portafoglio.
Probabilmente
risale a mesi fa, l’ha stampata per riconoscerti durante il torneo, per
evitarti, o per catturarti. Per quale altro fottuto motivo avrebbe dovuto
tenere la tua foto? Si
disse, cercando di vincere il suo turbamento. Per quanto provasse a convincersi
dell’utilità pratica di quell’immagine, però, non riusciva a smettere di
sorridere, con le briciole del biscotto sulle labbra. Per ricordarsi con chi ha una sottospecie di relazione ipotizzò
flautata la solita vocetta. Era impazzita, o la
cullava quest’ultima idea?
“E’ tutto tuo” le disse Sergei uscendo dal bagno, l’asciugamano avvolto attorno ai
fianchi. Nina provò ulteriormente a togliersi quel sorriso stupido dalla
faccia, invano. Anche l’uomo si accorse della sua espressione, e la guardò
incuriosito, prima di indicarle il mento pieno di briciole, che lei provedette
a pulirsi con il dorso della mano, improvvisamente nervosa. Si alzò di scatto
per nascondere il suo stato e disse che sarebbe andata a prepararsi, mentre lui
si rivestiva.
“Io invece è il caso che vada”
“Di già?” la domanda era uscita
dalle sue labbra senza che lei lo potesse impedire. Si morse la lingua,
voltandosi verso il bagno ed entrando quasi di corsa, frapponendo tra di loro
la porta bianca e pensando a quanto stupidamente si stesse comportando.
Si pizzicò la guancia, scuotendo
la testa per riprendersi: Una doccia era quello che ci voleva, avrebbe lavato
via tutte le sciocchezze che si era trovata a pensare. Sentì picchiettare
contro il legno della porta: “Si?” chiese con un filo di voce, cercando di
appellarsi alla sua solita, algida dignità per sembrare neutrale.
“Resto a Berlino sino a stasera”
disse Dragunov, aprendo appena la porta. “Poi domani
mattina dovrò prendere il volo per Mosca”
“Quindi?”
“… quindi sarei qui per l’ora di
cena. Hai da fare stasera?”
Un altro tuffo al cuore, un’altra
scarica di stupida agitazione. “Teoricamente no” deglutì, tamburellando con il
piede per terra. Che avesse capito qualcosa? “Torneresti a Francoforte?”
“Dovrei farlo comunque. Domani
non c’è il diretto per Mosca, da Berlino. Tanto vale che venga qui prima.”
Si sentì un po’ delusa: per un
attimo aveva pensato che avrebbe fatto una deviazione di percorso solo per
vederla, non solo perché lo impedivano i piani di volo. Che sciocca! Quasi non si riconosceva più!
Asserì, dicendo che per lei andava bene.
Dragunov aprì la porta e scivolò nel
bagno e la raggiunse, intossicandola con il suo solito, conosciuto, apprezzato
dopobarba. La salutò con un bacio, una cosa quasi inusuale e naturale allo
stesso tempo. “Buona giornata, Nina”
Lei lo salutò con un cenno della
mano, appoggiandosi contro la parete di plexiglass della doccia. Si sentiva
frastornata, agitata, con mille pensieri e mille domande che le vorticavano in
testa. Le venne un’idea, folle, impulsiva, in cui non riconobbe sé stessa,
mentre la metteva in atto: Uscì dal bagno, sui passi di Dragunov
che raggiungeva la porta. “Sergei!” chiamò. “Potremmo
cenare fuori, che ne dici? In questi giorni ho visto un ristorante italiano
all’angolo, non mi dispiacerebbe provarlo e…” si pentì
subito della proposta, preparandosi ad incassare quel NO secco che,
sicuramente, stava per affiorare dalle labbra livide del russo. Quel lampo di
incredulità che gli aveva attraversato le iridi algide ne era il preludio.
Ma invece, con un cenno del capo
quasi impercettibile, rispose“Può andare”, prima di uscire dalla stanza,
lasciandola di stucco.
Concentrarsi sul proprio lavoro
non le era mai stato così difficile come quel giorno, e fu solo un colpo di
fortuna che si trovò ad intercettare qualche informazione riguardante un’Arma X
che l’esercito di Alexanddersons stava sviluppando. Era
solo un piccolo cenno, neppure una descrizione, ma Nina passò subito le
informazioni al comando a Mosca con un’ombra di inquietudine che sparì
completamente al calare della sera.
Capitolo tedioso e descrittivo
sulla loro “sottospecie di relazione”, che vi farà storcere un po’ il naso, ma
che l’ho reputato necessario al fine di farvi capire come procedeva la storia
tra di loro, per arrivare ai “momenti clou” (hihihihi-risata
sadica di una pazza). Non pensate di cavarvela con poco: se tutto procede bene,
questo strazio di storia continuerà a lungo e avrà risvolti inaspettati
(inaspettati pure per me).
L’algida Nina sta perdendo colpi,
ragazzi…
Grazie mille ancora per le vostre
recensioni!! Vi prego, continuate e se vi garba, fatemi pure un po’ di
pubblicità!!!
Nina Williams percorse scocciata
il corridoio del comando che conduceva alla porta della sala riunioni a lei
nota.. Era rientrata in fretta e furia dal Sudafrica, chiamata con urgenza alla
base, proprio quando stava per mettere le mani addosso ad un membro della New TekkenForce, dopo l’ordine che
era arrivato direttamente da Volkov. Bussò, prima di
girare la maniglia ed entrare.
Come la volta precedente, quando
in quella sala era stata interrogata e arruolata nell’elite di Dragunov, i tre posti a sedere erano occupati da Volkov, al centro con Sharapov e Pavlov ai lati. Dragunov era in
piedi di fronte a loro. Nina lo raggiunse, salutando il comando.Le venne il dubbio che non fossero così all’oscuro
della loro sottospecie di relazione, ma escluse a priori che li avessero
richiamati alla base solamente per quel motivo.
Ad un cenno di Volkov, Sharapov accese uno
schermo al plasma attaccato al muro, dove comparve il volto di LarsAlexanderssons, le labbra
sottili distese in un sorriso arrogante.
“Un caloroso saluto dall’ultimo
discendente dei Mishima, cari ascoltatori.” Iniziò,
con un cenno falsamente gentile della mano. “Vi domanderete perché abbia deciso
di mostrarmi a voi tutti, nonostante sia il più ricercato al mondo, pubblicando
un video su youtube come se fosse la bravata di un
adolescente, o un demo promozionale di un qualche cantante emergente. Sono
certo che, in brevissimo tempo, con questo mezzo raggiungerò la maggior parte
delle persone possibili.
Ho tutta l’intenzione di portare
avanti il progetto del mio ‘caro’ nipotino defunto, JinKazama. La MishimaZaibatsu non è crollata miseramente con quel palazzo, la
discendenza non si è spezzata. Vi rimane un ultimo Mishima,
e lo vedete qui davanti ai vostri occhi. In questi ultimi mesi, sono stato
impegnato a lungo per riuscire a riformare l’esercito della TekkenForce e a riequipaggiarci. I governi di tutto il
mondo pensavano che sarebbe stata una cosa così facile distruggere una potenza
come la nostra, ma si sbagliavano di grosso.
Nel momento in cui state
visionando questo filmato, Le mie truppe, i miei agenti segreti, stanno
prendendo il controllo assoluto del Giappone, delle Filippine, della Kamcatka e
dell’Indocina.La MishimaZaibatsu si è ripresa, e sta tornando al potere ora
più che mai.
Tuttavia, ben conoscendo la
disastrosa situazione economica mondiale, ho deciso di rinnovare una tradizione
ventennale della famiglia.
Annuncio con mio grande onore, il
Settimo Torneo del Pugno d’Acciaio, che si terrà a Tokio a partire dal 1°
Giugno di quest’anno. Avete ben 3mesi di tempo per allenarvi, miei cari
lottatori, e per ambire al premio di 100 milioni di dollari. Le selezioni
saranno ardue e il gioco sarà pericoloso. Il migliore si batterà con Deimos, un mio caro… ‘amico’, si possiamo chiamarlo così, in
una lotta all’ultimo sangue.
Sono convinto che le adesioni non
mancheranno. Vi ringrazio per l’ascolto, buon proseguimento di giornata.”
Nina era sbalordita. Lanciò uno
sguardo attonito a Dragunov, a cui fremeva la mascella.
“E’ vero ciò che dice?” quasi ringhiò, all’indirizzo dei comandanti.
“Abbiamo perso il territorio
della Kamcatka, ma non oseranno sfidare la Siberia per attaccare Mosca. Per
quanto riguarda le Filippine, il golpe è passato quasi inosservato, mentre in
Indocina ci sono numerosi scontri, ma ormai è presa. Il governo provvisorio del
Giappone era già provato dalla precedente guerra, si è arreso senza dar
battaglia.”
“Non è previsto nessun intervento
da parte dei nostri contingenti?” I pugni di Dragunov
erano serrati in una morsa stretta, la sua mascella continuava a fremere.
Sembrava sul punto di esplodere da un momento all’altro.
“Ti abbiamo chiamato per
elaborare un piano di salvaguardia del nostro territorio. Per il momento ci
baseremo sulla difesa, insieme agli alleati. Gli Stati Uniti stanno già
inviando la loro flotta navale verso le isole giapponesi.”
SergeiDragunov
incrociò le braccia sul petto, in attesa di nuovi ordini.
Volkov si rivolse a Nina: “Per quanto
le riguarda, Miss Williams, datala sua
comprovata esperienza nei precedenti Tornei del Pugno d’Acciaio, parteciperà,
come se fosse di sua spontanea volontà. Non è necessario che lei si qualifichi
ad un alto livello del torneo, quanto piuttosto che riesca a trovare
informazioni sull’Arma X.”
La donna annuì. “Pensate che si
trovi in Giappone?”
“Ne siamo certi. E’ l’unica
informazione che abbiamo.”
“E potrebbe avere un nesso con questo
Deimos?” Conosceva abbastanza la mitologia greca per
sapere che Deimos, il cui significato era Terrore,
era uno dei figli gemelli di Marte e Venere. E, conoscendo i deliri di
onnipotenza nel pieno stile Mishima, non poteva non
domandarsi se l’ultimo di quella stirpe idiota non avesse trovato un modo per
risvegliare un altro antico Dio. D’altronde, tale padre, tale figlio.
“E’ un’ipotesi da non
sottovalutare” Volkov si alzò, percorrendo con passi
lenti la stanza. “Tra due giorni, Miss
Williams, lei partirà per l’Irlanda. Tornerà al suo paese d’origine, ovviamente
sotto la nostra protezione, e si allenerà per i successivi tre mesi, sino
all’inizio del torneo. Dopo di che volerà a Tokio e prenderà parte. Pavlov si assicurerà che le sarà fornita tutta
l’attrezzatura necessaria, i documenti e l’organizzazione degli spostamenti”.
Nina annuì, mentre riceveva il
congedo del comandante. Salutò e fece per uscire, ma la voce del Colonnello la
fece fermare nuovamente “Un’ultima cosa:”
in questo periodo di tempo, i contatti tra lei e qualsiasi membro della Spetsnaz dovranno essere ridotti al minimo e previa mia
diretta autorizzazione.”
Annuì di nuovo, uscendo dalla
stanza, ormai certa che i capi della Spetsnaz fossero
pienamente a conoscenza di ciò che succedeva tra lei e Dragunov.
Chiuse la valigia con un sospiro,
prima di posarla ai piedi del letto e gettarsi sul materasso. L’orologio
segnava l’una di notte, e Sergeinon era ancora rientrato. Probabilmente era
ancora impegnato nella riunione tattica, ad organizzare la difesa del
territorio russo e a preparare un contrattacco.
Sarebbe andato al fronte.
Dalle ultime notizie che aveva
avuto, Alexanderssons aveva risposto al fuoco della
marina degli Usa con un arsenale di tutto rispetto, sfoderando una flotta aerea
efficiente e dotata di armi d’ultima generazione.
E Sergei
avrebbe combattuto al fronte.
Se
la caverà si
disse, indispettita dai suoi stessi pensieri cupi. Non è mica un pivello. Lui è un uomo nato per combattere, è una
macchina da guerra, e di certo non si risparmierà in battaglia.
Si ritrovò a sospirare,
domandandosi se l’avrebbe più rivisto, cosa ne sarebbe stato di lui.
Idiota.
Pensa a te stessa, non ti aspetta di certo un compito facile. Almeno aveva un alibi alla partecipazione: era
certa che Anna si sarebbe fatta viva, il torneo era un’occasione troppo ghiotta
per farsela scappare, era certa che sua sorella sapesse che avrebbe partecipato,
e si sarebbe presentata di persona per vendicarsi dell’ultimo affronto che
aveva subito al precedente torneo. Nina si lasciò sfuggire un sorrisetto:
questo si che significava vedere il bicchiere mezzo pieno.
Il volto di Steve le balenò in
mente: anche lui avrebbe partecipato a quella farsa? Oh no, troppo pericoloso… suo figlio non poteva essere così stupido da
mettere in repentaglio la sua vita per un pugno di dollari, per quanto fosse
grosso suddetto pugno.
Meglio sincerarsene, comunque,
per impedirgli eventualmente di partecipare. Allungò la mano verso il suo
cellulare, fece per cercare in rubrica il numero di Steve, un numero che
l’aveva tentata tante, troppe volte, e che aveva imparato a memoria dal primo
istante.
Si fermò poco prima di
schiacciare il tasto verde, ricordandosi di essere sotto sorveglianza: meglio
evitare certe seccature, era più saggio attendere il giorno dopo e chiamare da
un telefono pubblico, o da una linea non protetta.
Oppure mandargli una mail. Un po’
troppo freddo ed impersonale forse, ma almeno non le sarebbe venuto quello
scomodo groppo in gola.
Sospirò: il pensiero di Steve la
faceva sentire serena e triste allo stesso tempo. Se lo immaginò mentre
dormiva, magari abbracciato a Julia, rilassato, felice, appagato, con il suo
sorriso radioso dedicato alla propria ragazza.
Una fitta di invidia. Per lei non
c’erano sorrisi.
Ed era giusto così. Forse.
Spense la luce, addormentandosi
con il cellulare in mano.
“Nina. Nina, svegliati.” La voce
calma ma decisa di Dragunov, mentre la scuoteva
gentilmente, la strapparono dal mondo dei suoi sogni vuoti.
Aprì appena gli occhi, scorgendo
l’uomo, chinato su di lei, nella semioscurità della camera. La luce bianca
filtrava dalle tende, doveva già essere l’alba. “Sei appena arrivato?”
Dragunov annuì, gli occhi sempre puntati
sui suoi. “Parto questa sera. Vado verso Ovest.”
“Al fronte?”
Nuovamente, l’uomo annuì. Nina si
spostò di lato, facendogli spazio nel letto. Lui si tolse i vestiti e le si
sdraiò di fianco, attirandola a sé. Le cinse il busto con le braccia, facendola
aderire al suo petto, tuffando il volto tra i suoi capelli dorati. “Per un po’
di tempo prenderemo due strade diverse”
“E non ci potremo neppure
sentire” asserì Nina, senza riuscire a nascondere una punta di rammarico nella
voce. Sembrò che un coltello le stesse dilaniando le carni quando avvertì la
consapevolezza che potevano essere le ultime ore che passavano insieme, e che
quella partenza poteva significare la fine della sottospecie di relazione in cui si era lasciata invischiare quasi
senza accorgersene.
Cosa significava tutto questo?
Poteva seguitare a negare che significasse qualcosa per lei? Si era affezionata a quell’uomo?
Lasciò che i propri pensieri
scorressero liberi, almeno per una volta. Non aveva mai avuto una storia così
lunga con qualcuno, e questo la diceva lunga sui suoi rapporti con l’altro
sesso.
Non era mai stata interessata a
cercasi un uomo con cui condividere qualcosa di più che una breve e rara
parentesi sessuale, il più delle volte per interesse che per desiderio.
Emozioni e sentimenti sembravano estranei dal suo modo di vivere e di pensare,
non li provava né li cercava.
Ma ora le erano capitati tra capo
e collo.
Poteva accettare di provare
qualcosa di caldo, positivo e addirittura tenero per Steve. In fondo era suo
figlio, era giusto così.
Ma per SergeiDragunov?
Decise di tenere i suoi pensieri
per sé, insieme alle sue lacrime e a quella voragine che sentiva le pareva di
avere al posto del petto, ancora una volta.
Lui di certo non provava quello
che stava provando a lei. Nessuno dubbio, nessuna esitazione stupida ed
inutile. Nessuna emozione, sensazione, affezione.
E
allora perché la teneva così stretta a sé, e si era addormentato con le sue
labbra sulla sua guancia?
Oh
nooo!!! Si sepaaaaranonooooo!!!
Bene,
bene. Ecco qui che piano piano si entra nel clou
della storia.
Scusate
il ritardo, ho iniziato a lavorare (Yuppie!).
Ringrazio
ancora per le recensioni!!! Vi vogliobene!!!!
Capitolo 11 *** Isn't Cold, in your Little Corner of The World? ***
Two Pairs of Chilling Eyes
11: Isn’t cold,
in your little corner of the world?
Tre mesi dopo, Nina lasciò
Dublino quasi con sollievo. Passeggiare per la sua città, sui ponti del Liffey,
tra le note degli U2 e i pub di Guinness che si affacciavano sulle strade umide
di pioggia, aveva fatto riaffiorare una nuvola grigia di ricordi spiacevoli.
Si era allenata nell’ex palestra
di sua madre, la cui foto autografata campeggiava all’ingresso. Si
meravigliò nel ricordare come poco l’avesse frequentata, al contrario di Anna,
cresciuta praticamente tra quelle quattro mura di legno.
Dove si trovava la scuola
elementare cattolica che aveva frequentato durante l’infanzia, sorgeva un nuovo
complesso commerciale. Niente più bambine in uniforme a scacchi blu, niente più
pinguine severe.
Aveva ritrovato il palazzo in cui
viveva, ed era riuscita ad entrare e a salire la tromba delle scale, le cui
pareti erano molto più grigie di quanto se le ricordasse. Passando davanti all’unica
finestra che dava sulla strada, le tornò alla mente il ricordo di quando aveva dieci anni e sua
madre, dopo un furioso litigio con suo padre, era uscita sbattendo la porta e portando Anna,
in lacrime, con sé. Aveva fatto per rincorrerle, ma suo padre l’aveva
richiamata indietro.
E lei era rimasta davanti a quel
vetro, a vedere sua madre che camminava veloce sotto la pioggerellina
autunnale, trascinando la sua figlia più piccola. Anna si era voltata,
scorgendola attaccata a quella finestra, lanciandole uno sguardo implorante.
Ma lei aveva ubbidito a suo
padre, era restata al suo posto, seguendole solo con lo sguardo finché non
scomparvero da dietro l’angolo. Scavò nella sua memoria, alla ricerca di un
qualche particolare del litigio, senza successo. Com’era finta, poi?
Ah, si: erano tornate a tarda
notte, dopo tutta la giornata passata in palestra. Anna era entrata nella
camera che condividevano, gli occhi gonfi di pianto e le nocche delle mani
pelate: era stato il suo primo allenamento di Aikido con sua madre.
Ricordò di averla presa in giro
per quelle vesciche scoppiate, mostrandole le sue, affinate da anni di
allenamento paterno, e chiamandola con il soprannome sprezzante che le aveva
affibbiato loro padre, bambolina
mollacciona, mentre la sorella si soffiava sulle mani per alleviare il
bruciore, senza ribattere alle battute crudeli. Provò un qualcosa di vagamente
simile ad una fitta di rimorso per quello che le aveva detto: che razza di
bambina stronza che era stata.
Forse era stata quella l’origine
dell’astio tra di loro.
Aveva poi contattato Steve, un
giorno, da un telefono pubblico. Suo figlio si trovava in Norvegia, aveva
appena vinto un incontro la sera prima. Nina si complimentò con lui,
sinceramente orgogliosa. Durante quell’ultimo anno e mezzo le volte che l’aveva
sentito si potevano contare sulla punta delle dita di una mano, sempre
cercandolo lei per prima, senza mai lasciare recapiti per essere rintracciare.
Nonostante questi contatti rari,
Steve sembrava sempre contento di sentirla, di raccontarle dei suoi incontri,
dei suoi allenamenti e di Julia.
“Adesso faccio qualche mese di
Stop e volo in Arizona.” Decretò, infine. “Ci alleneremo un po’ insieme,
anche.” Aggiunse, con una nota divertita e birbante nella voce.
“Bravo, resta sempre in
allenamento, non smettere. A proposito” La voce di Nina si fece più cupa. “Non
avrai mica intenzione di partecipare al Torneo del Pugno d’Acciaio, vero?”
Dall’altro capo del telefono
Steve rimase un attimo in silenzio. “Beh, ecco…”
“Provaci soltanto, e questa volta
non esiterò a schiacciare il grilletto, siamo intesi?”
“Ma mamma!” protestò il ragazzo,
come un adolescente davanti al diniego del genitore per un’uscita “Sono 100
milioni di dollari! Posso sistemarmi per tutta la vita! Ne vale la pena, non
credi?”
“La tua vita vale molto più di
100 milioni di fottutissimi dollari” sibilò Nina, prima di salutare e riattaccare.
Uomini. Tutti uguali. Tutti
sciocchi ed avventati.
A costo di gambizzarlo, suo
figlio non sarebbe andato al macello contro Lars Alexanderssons e soci.
Alla fine del terzo mese, Nina
ricevette via mail l’ordine di partire per il Giappone, come previsto. Si
imbarcò sull’aereo con un biglietto acquistato su internet, senza voltarsi
indietro.
Mentre l’Hostess di volo le
augurava buon viaggio, dopo averle controllato il passaporto falso, Nina si
rese conto che per quei tre mesi, a parte la telefonata a Steve e una ricevuta
al comando, non aveva parlato praticamente con nessuno.
Come la pioggerellina insistente,
capricciosa e fredda della capitale Irlandese, qualcosa si insinuò tra i suoi
vestiti e le penetrò la pelle. Una cosa ugualmente gelida, fastidiosa ed
insistente: una sensazione di vuoto.
Mentre l’aereo decollava, Nina
sentìil peso della solitudine piombarle
sulle spalle: non l’aveva mai sentito prima, ma lo poteva riconoscere come se
fosse la sensazione a cui lei era più abituata al mondo.
In quei tre mesi non aveva fatto
altro che allenarsi, bighellonare in giro per Dublino scavando nei propri
ricordi, cercando con ogni mezzo di scacciare qualsiasi pensiero su Sergei
Dragunov, per non cadere preda di quella sottospecie di nostalgia che l’avrebbe
distratta dal raggiungere i propri obbiettivi.
Il suo obbiettivo era partecipare
al torneo, facendo una figura credibile, come alibi alla sua attività
investigativa.
Poi avrebbe sistemato i conti con
Anna, ammesso e non concesso che partecipasse.
Infine, a missione ultimata,
allora avrebbe potuto rivedere Sergei, passare altre notti di passione con lui,
e magari trovare una risposta ai mille quesiti che le affollavano la mente.
L’atterraggio all’aeroporto di
Tokio era stato abbastanza brusco. Lo stomaco di Nina si torse fastidiosamente
al rimbalzo del carrello anteriore sull’asfalto.
E’
l’ultima volta che prendo il posto davanti si ripromise, slacciandosi seccata la cintura di
sicurezza.
Un sole malato illuminava una
città dove rovina e ricostruzione si incrociavano in un paesaggio spettrale:
accanto a gru e cantieri in funzione, intenti ad erigere nuove sfavillanti
costruzioni, si trovavano gli scheletri abbandonati di case martoriate dai
bombardamenti, scoperchiate, ridotte a cumuli di macerie. Si domandò con quale
cognizione dell’ordine fosse stata pianificata la ricostruzione urbana.
Un messaggio sul telefono di
servizio l’avvisava del nome dell’Hotel Supreme, con l’indirizzo e addirittura
il numero di camera, il 134. Dopo averlo letto, la donna prese un taxi e vi si
fece portare, rimanendo stupita nel riconoscere la facciata, ridipinta e
ristrutturata, dell’Hotel Imperial. Il suo stupore fu ancora maggiore nel constatare,
quando il facchino aprì la porta della 134 scortandole i bagagli, che era la
stanza che, un anno e mezzo prima, aveva condiviso per la prima volta con
Dragunov.
Il dubbio gentile che ci fosse
lui, dietro a quella prenotazione, e che sarebbe comparso da un momento
all’altro le allietò la giornata e le fece spuntare un sorrisetto sulle labbra
rosee. Lasciò una cospicua mancia al facchino, prima di rovistare nel suo
bagaglio alla ricerca di quel completino di pizzo con cui voleva farsi trovare
dall’uomo.
Dedicò la successiva ora alla
toeletta personale. Non era una donna vanitosa che passava ore allo specchio e
che non si presentava ad un uomo se non perfettamente truccata e pettinata, ma
quella era un’occasione speciale. Dopo tre mesi di lontananza aveva pure il
diritto di trovarsi davanti ad una donna che si potesse definire tale.
Quando ebbe finito accese la
televisione. Guardò qualche programma a caso, un paio di proclami eclatanti di
Alexanderssons e le previsioni meteo, che mettevano pioggia in serata e sereno
per il resto della settimana.
Si sedette sulla poltroncina
rossa vicino alla finestra, ricordandosi che lui e la sua sigaretta erano
seduti proprio lì, con il vetro appena aperto per far uscire il fumo e le
persiane chiuse, che avevano chiuso fuori la guerriglia del post-Mishima. Gettò
un’occhiata dalla finestra: era una posizione ottimale per tenere la strada
sottostante sotto controllo. Un taxi parcheggiò davanti all’ingresso, e Nina
allungò il collo per scorgere l’occupante che stava scendendo, riconoscendo
Paul Phoenix e il suo amico Marshall Law. Sbuffò, guardando l’orologio.
Il telefono della camera suonò e
la donna scattò per alzare la cornetta. La voce della receptionist l’avvisò che
c’era una persona per lei al bancone.
Indossò una corto vestito nero e
i suoi stivali di pelle del medesimo colore, avendo cura, per abitudine, di
nascondere una pistola sotto la gonna.
Attraversò la hall dell’esercito ancheggiando,
guardandosi attorno attraverso le lenti scure degli occhiali da sole che si era
infilata. La hall era affollata di persone,
molte delle quali erano membri di troupe televisive.
“E’ attesa nella sala riunioni,
l’accompagno.” Le sorrise la receptionist.
Era strano. Troppo strano.
Il comando non poteva incontrarla
senza avvisarla in una sala riunioni. Tantomeno Sergei. Ci doveva essere
qualcos’altro sotto. Scosse la testa all’indirizzo della ragazza, facendo
scivolare le dita verso la pistola. “Vado da sola, grazie.” Disse,
incamminandosi verso il corridoio delle meeting rooms.
Arrivando davanti a quella che le
era stata indicata, sfilò la pistola dalla fondina e tolse la sicura.
Aprì la porta di scatto e balzò
dentro, la pistola spianata.
Un sorriso smagliante le rispose
dall’altro lato di un piccolo tavolino nero. “Mi aspettavo una cosa simile
Nina… non cambi proprio mai!”
Lentamente, la donna abbassò la
pistola, meravigliata, ma determinata a non mostrane quanto. “Anna… mi
aspettavo che tu partecipassi al torneo… ma questa tua mossa proprio non
l’avevo prevista”
Di nuovo, la sorella le rispose
con un sorriso. C’era qualcosa di diverso in Anna, qualcosa di strano. Il suo
viso, leggermente abbronzato, le sembrava più tondo, gli occhi le brillavano e
quel sorriso così… genuino non
ricordava di averglielo mai visto.
“Puoi mettere via la pistola, non
sono affatto armata.” Continuò la sorella, giocherellando con la stoffa leggera
del suo svolazzante vestito rosso, senza alzarsi dalla sedia. Sembrava quasi
nervosa.“Avevo solo bisogno di
parlarti”
“Che diavolo vuoi?” domandò dura
la bionda, nascondendo nuovamente la pistola ed incrociando le braccia sul
petto.
Anna rispose con un risolino,
prima di spostare la sedia e alzarsi. “Non l’hai ancora notato?”Mentre si alzava faticosamente, il vestito di
chiffon in stile impero le scivolava lungo il corpo, arrivando alle ginocchia
coperte da leggings neri, delineando un ventre perfettamente tondo e grosso.
Nina rimase di stucco, non
riuscendo a trattenere oltre le braccia al petto, lasciando che le cadessero
lungo i fianchi, l’espressione inebetita come mai prima d’ora.
“Tu… tu sei…”
Senza smettere di sorridere Anna alzò
le braccia, come se fosse stata la cosa più semplice del mondo. “Incinta.
Incintissima direi.” Fece aderire il vestito alla pancia. “Sorpresa!” esclamò.
“E’ un maschietto, sono ormai alla fine, tra 10 giorni è previsto il termine. Volevo
vederti prima e sapevo di trovarti qui, così ho insistito per venire. Ci tenevo
a dirtelo di persona e a renderti partecipe.”
Nina scosse appena la testa,
incredula.
“Noi non siamo mai state amiche,
e non ci siamo mai comportate veramente da sorelle. Ma ora ho uno scopo nella
mia vita che non c’entra niente con l’annientarti o il dimostrare di esserti
superiore. Dopo il sesto torneo, ho vissuto un periodo molto buio della mia
esistenza, da cui ne sono uscita solamente grazie ad una persona che mi è stata
vicino e che mi ha aiutata a capire di cosa avessi veramente bisogno, e cosa
stessi realmente cercando. Io non voglio odiarti, né ucciderti, né umiliarti.
Questo momento che sto vivendo ora, è meraviglioso, incredibile. E voglio
condividerlo con la mia famiglia. Che sei tu.”
Nina fu sorpresa da come le
splendevano gli occhi, da come le guance ripiene si fossero appena arrossate
mentre parlava. Si ritrovò a domandarsi se quello che dicesse fosse realmente
vero, senza doppi fini o tentativi di raggiro. Tuttavia, non poteva essere
davvero possibile una cosa del genere da sua sorella.
“Vuoi farmi credere che questo
discorso strappalacrime sia vera?”
Anna annuì. “Forse sono gli
ormoni” commentò sorridendo, mentre l’altra voltava la testa sprezzante
dall’altra parte. “Hai una vaga idea di chi possa essere il padre?”
La mora scoppiò in una risata
squillante: “Ma certo!” alzò la mano sinistra, dove all’anulare splendeva una
fede dorata. “E’ mio marito, Lee Chaolan.”
Nuovamente, le braccia di Nina si
rifiutarono di restare incrociate.
EEEET
VOILAAAA!
Troviamo
una Anna lievemente cambiata… quasi OOC, direi. Se non fosse che ho un’idea del
personaggio e dei suoi comportamenti ben precisa….
La
storia sta entrando nel vivo…
Come
finirà tra Nina e Anna?
E
quando si degnerà di tornare in scena Dragunov??? (con calma, mi raccomando…
fatti pure i comodi tuoi…)
Grazie
mille per le recensioni… non avete idea di come sia importante questa storia
per me e sapere che vi piace…
Attendo
commenti alla notizioooona. (non preoccupatevi… ci saranno altri colpi di
scena)Ah, a proposito: il titolo è tratto dalla canzone Nikita di Elton John.... se l'ascoltate, e vedete il video... non vi ricorderà Nina?
Capitolo 12 *** Get Ready for the Next Battle! The King of Iron Fist Tournament 7 ***
Two Pairs of Chilling Eyes
12: Get Ready
for the Next Battle! The King Of Iron Fist Tournament 7.
Coricata
sul letto dell’Hotel Supreme, Nina Williams fissava il soffitto, gettando di
tanto in tanto occhiate all’orologio per controllare l’ora. Le 23. 35.
Tre
ore prima aveva ricevuto dal comando l’ubicazione del nascondiglio
dell’attrezzatura, con il consiglio di recarvisi per controllare che fosse
tutto a posto. Non poteva fare a meno di sperare che vi avrebbe trovato anche Sergei ad attenderla. Aveva provato subito a recarsi nel
luogo prestabilito, ma quattro corpulenti bodyguard l’avevano fermata
all’uscita dell’hotel, informandola che era proibito, agli ospiti, lasciare la
struttura se non per partecipare al Torneo che sarebbe iniziato il giorno dopo.
Nina aveva sbuffato: “Volete impedirmi di prendere una boccata d’aria, di
andare a far shopping?” aveva domandato
Uno
di loro aveva scosso la testa: “Mi dispiace, signorina, ma questi sono gli
ordini”
Pazienza.
Avrebbe atteso il favore delle tenebre per uscire dall’edificio. Mezzanotte
sembrava un orario favorevole allo scopo.
Giocherellò
con le lenzuola, pensando all’incontro con sua sorella, poche ore prima.
Il
sorriso di Anna era improvvisamente scomparso, di fronte alla sua ferma
intenzione di non voler aver nulla a che fare con lei. “Non mi vuoi più
battere, sorellina? Hai capito che sono la migliore?”
“Non
mi interessa saperlo” aveva ripetuto Anna. “Voglio solo avere un rapporto
normale con mia sorella. Te l’ho detto, voglio solamente…”
“Risparmiami
ancora questo discorso disneyano, per favore. L’unico motivo per cui mi eri
necessaria era per recuperare la memoria. L’ho recuperata da sola, ed ora, se
non hai intenzione di batterti con me, o di mettermi i bastoni tra le ruote,
non mi sei più di nessuna utilità. Puoi andare pure per la tua strada, a
giocare a fare la casalinga disperata.”
La
sorella le era sembrata davvero contrita. Aveva abbassato gli occhi a terra,
mordicchiandosi il labbro inferiore, incassando senza ribattere il suo rifiuto.
“Perché non riesci a capire…”
“Perché
non c’è nulla da capire, Anna. Hai tentato per tutta la tua inutile esistenza
ad emergere, a diventare qualcosa. Quando finalmente hai capito di non
potercela fare, di essere la perdente che nostro padre ha sempre detto che tu fossi,
allora hai pensato di sposarti un milionario e farti ingravidare per
assicurarti il patrimonio. Una cosa abbastanza banale, l’hanno fatta in molte.”
Scuotendo
il caschetto castano, Anna aveva alzato lo sguardo da terra, un lampo di rabbia
scarlatta che le attraversava gli occhi: “Tu non ne sai nulla, e nulla vuoi
sforzarti di capire” Ringhiò, afferrando la borsetta dal tavolo e avvicinandosi
all’uscita. Si fermò dopo aver aperto la porta, voltando lievemente la testa
verso la sorella maggiore. “Sei un’assassina perfetta, Nina. Senza scrupoli,
sentimenti o debolezze. Complimenti. Se sei felice di questo, allora è giusto
che tu continui a comportarti così.”
Felice?
Nina
era la migliore killer che ci potesse essere in circolazione, era un agente
segreto dell’esercito russo, era bellissima e pericolosa. Era diventata
esattamente quello che suo padre voleva, quello che ci si aspettava da lei.
Era
abbastanza. No?
Non
riusciva a cancellare dalla mente il sorriso con cui l’aveva accolta Anna, l’orgoglio
del suo ventre tondo e gonfio di vita, il suo parlare sereno e pacato, prima
che lei la punzecchiasse.
Provò
una piccola, quasi impercettibile fitta di rimorso. Forse aveva esagerato.
Forse,
se fosse stata sveglia e presente quando era incinta di Steve, avrebbe reagito
diversamente. Chissà cosa si provava a sentire una piccola vita crescere dentro
di sé. Si sentiva il cuore battere? Lo si sentiva scalciare? Si provava paura?
Si
sfiorò il ventre piatto e muscoloso. Dubitava fortemente di poter provare una
cosa simile, nella sua esistenza. Anche rimanendo incinta, non sarebbe riuscita
comunque a sorridere allo stesso modo di Anna, a sembrare così luminosa, così..
Così…
…dannazione,
le costava ammetterlo…
Così
Bella.
Oh,
al diavolo! Mancavano cinque minuti a mezzanotte, era meglio lasciar perdere
simili pensieri sciocchi e prepararsi.
Le
guardie erano ad ogni uscita, armate. Si sarebbe dovuta lanciare sul palazzo
vicino dal vicolo dove si affacciavano le scale antincendio, dove era stata
colpita dal proiettile, un anno e mezzo prima. Prese una fune ed uscì sul
tetto: si calò sulle scale di servizio, agile e silenziosa come una gatta nera.
Era ancora troppo lontana dal muro di fronte. Pochi centimetri più avanti vi
era un piccolo balconcino di una stanza dell’Hotel. Quel metro verso il palazzo
vicino era l’ideale. Saltò agilmente dalle scale antincendio al balconcino,
senza emettere il minimo rumore. Si appiattì contro il pavimento, udendo i
passi cadenzati di una guardia che faceva la ronda sotto di sé.
Cercò
di accucciarsi contro il muro all’angolo tra la balaustra e la finestra,
aspettando che la guardia si decidesse a spostarsi. Purtroppo per lei, non
sembrava aver fretta. Si era accesa una sigaretta e si guardava intorno,
comunicando qualcosa via radio. Stava giusto pensando di saltare giù dal
balcone e tramortirla, quando una voce famigliare proveniente dall’interno
della camera attirò la sua attenzione. Gettò uno sguardo alla finestra: i vetri
erano aperti, ma le tende tirate, si intravedeva qualcosa dalla fessura tra i
due lembi di stoffa.
Vedeva
solamente uno scorcio della camera, la parte finale di lussuoso letto, il muro
in stucco veneziano e un comodino verde. Sussultò nel vedere comparire, diretto
verso il letto, Lee Chaolan, avvolto in un
accappatoio bianco.
“Principessa,
lo sapevi che sarebbe andata così…” sussurrò, con un
tono di voce pacato e gentile.
Anna
lo seguì, avvolta in una camicia da notte bianca. Si sedette anche lei sul materasso,
a fianco del marito con lo sguardo posato mestamente a terra e le mani
abbandonate sulle gambe. “Hai ragione, sono stata proprio una sciocca a pensare
che potesse andare diversamente: dovevo prevederlo che niente avrebbe smosso
mia sorella.”
Lee
le passò un braccio attorno alle spalle, baciandole la tempia. “Non ti merita,
Principessa, non crucciartene. Che cosa sono queste?” l’uomo aveva alzato
delicatamente il volto di Anna con la punta delle dita, e ne sfiorava le guance.
“Lacrime? Non mi avevi promesso che non le avrei più viste?”
“Devono
essere gli ormoni, scusa.” La donna se le asciugò velocemente con le dita della
mano. “Che madre snaturata che sono! Mio figlio non è ancora nato e già lo
espongo al pericolo. E tutto questo per niente!”
“Non
è per niente: hai cercato di rimettere a posto l’ultimo tassello mancante, te
lo eri prefissata come obbiettivo no? Sei stata coraggiosa a tentare una simile
cosa. E poi mi fa piacere saperti sugli spalti a tifare per me, anche se avrei
preferito che tu fossi a casa a riposarti.”
Anna
si accoccolò tra le braccia dell’uomo. “Cerca di stare attento domani… non esporti a nessun pericolo…
e se vedi che la situazione degenera, scappa. Non fai la figura del codardo a
tornare sano e salvo dalla tua famiglia.”
Nina
tolse lo sguardo dalla coppia, sforzandosi di posarlo sulla guardia, che
gettava a terra il mozzicone di sigaretta e riprendeva la sua ronda, girando l’angolo.
Sentimenti contrastanti si agitavano dentro di lei, e le risultava più
difficile che mai riprendere la concentrazione. Anna che piangeva perché non
riusciva ad avere un rapporto pacifico con lei? Dovevano essere davvero gli
ormoni. Lee Chaolan che la consolava dolcemente?
Fantascienza.
Non
riusciva a credere ai suoi occhi, e non poteva neppure riuscire a sopportare il
dubbio, che le si stava insinuando insistente dentro di sé, che non fosse Anna
la perdente.
Si
picchiò la fronte, come per far uscire tutti i pensieri, e sbuffò, per cercare
di recuperare la concentrazione. Salì sulla balaustra, focalizzando la sua
attenzione verso le scale di servizio del palazzo vicino: due metri al massimo
di distanza. Con uno scatto felino flesse le gambe, lanciandosi nel vuoto ed
aggrappandosi alla balaustra di legno. Si issò quasi senza fatica, prima di
rivolgere un ultimo sguardo verso l’Hotel Supreme. Lee adesso accarezzava stava
parlando ad Anna, accarezzandole la pancia. Non riusciva a sentire le parole
che le diceva, ma sua sorella stava ridendo.
L’attrezzatura
si trovava in un’intercapedine dello scantinato di uno stabile diroccato. Nina raggiunse
il nascondiglio con una certa difficoltà, dovendo scivolare attraverso travi
pericolanti e macerie, prima di trovarsi davanti ad una porta di ferro. Estrasse
la pistola dalla fondina e una piccola torcia a led e appoggiò la mano sulla
maniglia, attenta ad ogni rumore. Entrò di scatto, illuminando lo scantinato
con il fascio della luce.
Vuoto.
Non c’era nessuno. Prevedibile.
Si
aspettava davvero Sergei ad attenderla? Davvero stava
diventando così sciocca?
Si
diresse verso l’angolo più lontano alla porta. La torcia illuminò una piccola
botola, che aprì: al suo interno vi era lunga cassa nera con la serratura
elettronica. L’aprì con il badge dell’esercito russo, illuminando il fucile di
precisione, le munizioni ed un altro fucile di grosso calibro al suo interno.
Controllò che fossero funzionanti e contò le munizioni. Notò anche un visore
notturno e qualche esplosivo. Non male come attrezzatura. Prese con sé il
visore notturno e rimise tutto al suo posto. Prima di chiudere la cassa, sentì
sotto le sue dita un piccolo quadrato, attaccato al coperchio della cassa. Lo staccò
e lo illuminò, portandoselo davanti agli occhi. Era una piccola scatola di
fiammiferi, di quelle che si prendevano nei ristoranti come promemoria. Rimase
a bocca aperta nel riconoscere il ristorante italiano, a Francoforte, in cui
più di un anno prima avevano cenato lei e Sergei,
come una coppia normale. Strinse tra le dita quel pezzo di cartone, il segno
che lui era stato li, che si trovava da qualche parte non troppo lontano da lei
e che la pensava.
Non
si capacitò di come potesse trovare quel pezzo di cartone così prezioso. Se lo
infilò nel corpetto della tuta nera, sorridendo scioccamente, prima di
richiudere tutto e di tornare all’Hotel.
Ad
eliminatorie ultimate, nel pomeriggio, solo ventisei giocatori erano ancora in
gara. Nina non sapeva chi fossero quelli che avevano passato il turno, a parte
che Bryan Fury non sarebbe stato tra i fortunati che
avrebbero continuato: l’aveva spedito con tanta violenza contro il muro dell’arena
che alcuni suoi bulloni erano stati scagliati sulla tribuna, con somma gioia
del pubblico.
Si
avviò verso la sala conferenze dell’arena principale, dove sarebbero stati
sorteggiati gli abbinamenti degli incontri: il vero Torneo del Pugno d’Acciaio
stava iniziando. Al di là della porta si trovavano Marshall Law,
che rivolgeva sguardi in cagnesco a BaekDoo San, Howarang e AsukaKazama, impegnati in un
animato battibecco, e Paul Phoenix che guardava gli altri combattenti spavaldo
e sicuro della sua superiorità. Si mise in disparte, lontana dagli altri
partecipanti, attendendo che i giudici di gara dessero il via alla
manifestazione. Sentiva il pubblico fremere e applaudire nell’arena esterna.
Dall’ingresso comparve Lee Chaolan, che le rivolse
immediatamente uno sguardo sprezzante e carico di risentimento. Nina fece
spallucce, mentre Yoshimitsu entrava dalla porta e si
avvicinava a Lee, facendogli sinceri complimenti per la sua futura paternità. Lui
ringraziò, piacevolmente sorpreso, mentre anche Law
si univa alle congratulazioni del ninja.
Paul
si avvicinò tracotante a Nina: “Allora, sei smaniosa di diventare zia?” Domandò
canzonatorio, ricevendo uno sguardo gelido in risposta, e le spalle della
diretta interessata.
La
porta si aprì nuovamente, e questa volta Paul scoppiò in una fragorosa risata,
urlando: “Lo sapevo che avresti passato il turno, Stevie
Balboa!”
Nina
si voltò di scatto. Paul stava rifilando una pacca sulla schiena ad un sudato,
ma soddisfatto, Steve Fox, che quando la vide, impallidì e deglutì
vistosamente. “Sono nei guai” lo sentì mormorare.
“Io
e Julia ne abbiamo discusso e abbiamo pensato che…”
“Mi
sto pentendo amaramente di non averti ucciso quando ne avevo l’opportunità…”
“…ed era anche un’occasione per vederci…”
“E’
evidente che qualcosa nell’esperimento di Boskonovitchdev’essere andato storto… come
può essere uscito uno cosìstupido….”
“Ti
prego, non tenermi il broncio, già Julia è intrattabile da quando è stata
eliminata”
“A
me non interessa! Io so solo che sei un cretino, e spero vivamente di dovermi
battere contro di te: ti darò una lezione che non ti sogni neppure”
“…Ma, mamma!”
“Sparisci
dalla mia vista, prima che decida di spaccarti quella testa bacata che hai”
“Come
vuoi…”
Law esultò con un
verso acuto, quando sul tabellone luminoso comparve il suo nome, seguito, dopo
un VS da quello di BaekDoo
San.
Nina
scorse gli altri incontri:
Howarang
contro AlisaBoskonovitch.
(La mediatrice di Osaka non apprezzò particolarmente questo sorteggio)
AsukaKazama si sarebbe battuta con LingXiaoyou.
Yoshimitsu
contro Miguel CaballeroRojo,
e Paul Phoenix sarebbe stato l’avversario di Lei Wulong.
Steve
Fox si sarebbe battuto contro King, che apprezzò il sorteggio con uno dei suoi
versi animaleschi.
LiliRochefort, la puttanella monegasca come l’aveva
chiamata AsukaKazama, era
stata sorteggiata per confrontarsi con Christie Montero,
e svariati mormorii d’approvazione salirono dalla componente maschile dei
lottatori. “Adoro questi incontri” aveva commentato Paul, sfregandosi le mani,
mentre Eddy Gordo, suo fidanzato, fu sorteggiato per
combattere Feng.
Infine,
come ciliegina sulla torta, Lee Chaolan Versus Nina
Williams, il pomeriggio seguente.
Lee
rivolse nuovamente uno sguardo sprezzante alla cognata. “Avrò cura di fartela
pagare per quello che hai detto ad Anna.” Sibilò, sembrando arrabbiarsi
ulteriormente nel vedere che lei aveva fatto nuovamente spallucce. “Non hai
neppure la vaga idea di quello che ha passato…”
rincarò la dose, quasi ringhiando. Nina si irritò a quelle parole: ne era stufa
di frasi a metà sul presunto periodo difficile di sua sorella, tanto più conoscendo
le sue doti di manipolatrice. “Ha scoperto di avere le doppie punte?” commentò
acida, incapace di trattenere ulteriormente una cattiveria. Lee fece per
ribattere, ma poi girò i tacchi e si allontanò dalla stanza.
Dopo
una doccia rinvigorente, Nina si gettò sul proprio letto, accendendo la
televisione per guardare un paio di notizie.
Il
telegiornale taceva sugli avvenimenti del resto del mondo, segno che LarsAlexanderssons non aveva
intenzione di divulgare alcuna notizia dei vari combattimenti e dei
rovesciamenti di governi. Senza avere contatti con il comando Nina si sentiva
tagliata fuori dal resto del mondo. E questo la infastidiva alla grande.
Bussarono
alla porta, e Nina si alzò per andare a rispondere: era Steve. Aprì la porta,
trovandosi di fronte il viso dispiaciuto di suo figlio.
“Ti
ho deluso?” le domandò, entrando nella stanza.
“Perché
hai partecipato?” Nina scosse la testa, sospirando. “No. Mi hai fatto
arrabbiare. E’ un Torneo pericoloso, e volevo che tu ne restassi fuori.”
“E
allora perché tu partecipi?”
Nina
ponderò l’idea di raccontargli la verità, ma si trattenne: “Volevo scontrami
con Anna, e poi un po’ di allenamento non fa male.”
“Non
ti credo.”
“Non
posso raccontarti nulla.”
“Lavori
per dei servizi segreti?”
“Acqua
in bocca.”
“Americani?
Cinesi? Russi? Per quanto ne so potresti lavorare anche per Alexanderssons.”
Steve sembrava nervoso. Tuttavia si sedette sul letto, fissandola.
Nina
le domandò perché lo volesse sapere. “Sei una spia, forse?”
Il
ragazzo sbuffò. “Voglio solo sapere qualcosa di mia madre, è troppo?”
La
donna lo guardò negli occhi, sostenne il suo sguardo color del cielo, cercando
di capire quanto sincero fosse. Era suo figlio. Ne valeva la pena dirgli
qualcosa di sé. “Russi.”
“Per
questo eri a Mosca, l’anno scorso?”
Nina
annuì. Rimasero entrambi in silenzio per qualche secondo, prima che Steve le
domandasse notizie sulla sua sottospecie di relazione. “E’ con un russo?”
“Sono
tre mesi che non ci vediamo.” Rispose. “ordini superiori.”
“Quindi
anche lui è un agente?” gli occhi di Steve si spalancarono, come se avesse
intuito qualcosa. “Oh, mio dio, mamma… non mi dire…”
“Cosa?”
“Non
mi dire che stai con Rasputin…”
“Rasputin?”
ma non era morto nel Neva quasi cent’anni prima?
“Ma
si… quello che ha partecipato anche agli ultimi due tornei… quella mummia… come
diavolo si chiama…Dragunov?”
“…”
“…
non ci posso credere. Ha ragione Julia. Faccio troppe domande.” Il ragazzo
sospirò, quasi comicamente. “Mia madre dimostra la mia età, mia zia non sa di
esserlo e all’ultimo torneo ci ha provato con me e il mio patrigno è Rasputin.
E poi mi dicono di star lontano dall’alcool…”
Nina
non sapeva bene cosa dire. In effetti Sergei non dava
un’impressione molto positiva, e Steve si trovava effettivamente in una
situazione abbastanza complicata. “Non è proprio il tuo patrigno” fu tutto
quello che riuscì a dire. “Abbiamo solo una sottospecie di relazione.”
“…consolante…”
Nina
punzecchiò ulteriormente Lee, mentre attendevano che lo speaker annunciasse l’incontro,
dietro le quinte dell’arena.
“Chissà
come strillerà la tua mogliettina quando ti spezzerò il primo osso…”
L’uomo
sembrava che si trattenesse a fatica dal saltarle addosso. Tuttavia, con uno
sforzo immane, le rispose: “E’ in Hotel, non ci teneva a vederci massacrare a
vicenda”
“E’
pronta a venirti a ritirare al Pronto Soccorso?”
La
voce del presentatore e il boato del pubblico li accolsero all’interno dell’Arena.
Salirono sul ring ad angoli opposti, Nina concentrandosi subito sul suo
obbiettivo, Lee salutando il pubblico. Diverse voci femminili gli risposero
istericamente.
Entrambi
i contendenti assunsero le posizioni d’attacco.
Al
campanello d’inizio, si avventarono entrambi l’uno contro l’altro, ma appena si
colpirono, la terra inizio a tremare, mentre un ruggito disumano squarciava l’aria.
Nina
cadde dal ring, rimettendosi velocemente in piedi per schivare un riflettore
che si schiantava a terra, mentre tutto continuava a tremare e la gente, in
preda al panico, scappava urlando verso le uscite di sicurezza. Vide Lee che
saltava anche lui a terra e guadagnava velocemente l’uscita, mentre la
struttura iniziava a cedere e i ruggiti non cessavano.
Buona
domenica!!!
Ecco
un altro capitolo…
Come
vedete siamo ormai nel Clou della storia. Chi cacchio starà facendo tutto
questo casino?
Ragazzi,
grazie mille per le recensioni: Miss Trent, Sackboy, AngelTexasRanger…. Continuate
così! I vostri commenti sono vitali per me!
Quello
non era uno dei normali terremoti che scuotevano il Giappone quasi
quotidianamente: La terra vibrava a
colpi, come se fosse calpestata da un gigante, e i latrati che squarciavano
l’aria, alzandosi sopra le urla della gente terrorizzata, non facevano di certo
parte di un evento sismico.
Nina
corse fuori dall’arena, schivando i vari detriti che le cadevano davanti.
Vedeva Lee pochi metri più avanti, anche lui impegnato in quella corsa
accidentata verso la salvezza. Si dovette fermare perché qualcuno le afferrò un
braccio: era Steve, trafelato e con gli occhi azzurri spalancati dal panico. Gli
fece cenno di venire con lei, ma il ragazzo scosse la testa: “Devo trovare
Julia!”
Gli
avrebbe rifilato volentieri un paio di ceffoni, per poi trascinarlo via con sé,
ma si trattenne, cercando di essere comprensiva verso l’eroismo, per lei
alquanto stupido, del figlio: “Corri verso l’hotel, ci vediamo li!” Steve annuì,
lasciandola andare, per poi precipitarsi anch’egli verso le uscite di
emergenza.
Per
prima cosa Nina riuscì a recuperare le armi nascoste. Dentro alla cassa vi era
anche uno zaino militare, che riempì con i fucili e le munizioni, per poi
infilarselo in spalla.
Un altro latrato attraversò l’aria, e la donna si chiese nuovamente che diavolo
stesse succedendo.
Che fosse?
Oddio, l’Arma X di Alexandersson? Che fosse il suo amichetto Deimos? Magari era scappato dal loro controllo.
Le venne in mente che JinKazama annoverava, tra i suoi
film preferiti, anche Cloverfield, un’insulsa storia
americana su un mostro misterioso che distruggeva New York.
No, non poteva essere così:
Neppure il più deficiente dei Mishima avrebbe
lanciato un mostro scatenato a distruggere la città.
Gettò un’occhiatafuori dalla porta, prima di uscire dal suo
nascondiglio e attraversare le strade ormai deserte, intasate di auto
abbandonate dai proprietari.
Da megafoni agli angoli delle
strade, una voce femminile squillante consigliava un’evacuazione veloce ma
ordinata, senza panico. Nina ne fece saltare uno con un colpo di fucile, giusto
per sfregio verso il regime.
Si precipitò verso l’Hotel
Supreme, correndo a perdifiato: aveva tentato di mettersi in contatto con il
Comando Russo, ma il cellulare non aveva campo e nell’attrezzatura Pavlov si era dimenticato di fornirle una radio.
Quando arrivò davanti al lussuoso
albergo, ciò che vide le mozzò il fiato:
Una gigantesca orma a tre dita,
grossa quasi quanto un autobus, era impressa sull’asfalto sfondato della
strada, proprio davanti all’entrata dell’hotel. Ne seguivano altre due, dirette
dalla parte opposta all’Arena. Un grosso segno orizzontale sfregiava il palazzo
restaurato dell’albergo, attraversando i due balconi all’angolo, che erano
crollati a terra insieme all’elegante insegna.
“Cazzo” mormorò tra sé e sé,
riconoscendo uno dei due balconi come quello della camera di Lee e Anna. Girò
attorno all’orma, e per passare l’entrata di vetro, crollata, dovette stare
molto attenta ai detriti. Entrò nella hall deserta, calpestando i cocci delle
vetrate infrante per terra guardandosi attorno.
“STEVE!” chiamò. Nulla.“ANNA!” niente. “LEE!”
Con un vago senso di panico che
le faceva tremare il respiro, corse sulle scale, raggiungendo il corridoio
della stanza di sua sorella.
Le lussuose applique alle pareti
erano cadute, insieme a molti calcinacci e alle rifiniture di pregio.
“ANNA!” chiamò nuovamente.Udì un rumore di passi veloci dietro
all’angolo del corridoio, e la figura impolverata di Lee Chaolan
che faceva capolino. “La porta della camera è bloccata, non riesco ad entrare.
Ho sentito la voce di Anna, sta bene, ma non riesce a spostare quello che c’è
davanti all’uscita.” Spiegò tutto d’un fiato.
Nina camminò velocemente verso di
lui, superandolo e dirigendosi verso la porta. “Hai visto Steve Fox?” domandò,
mentre si avvicinava alla loro camera. Lee scosse la testa bianca.
“Stai sanguinando dalla fronte”
lo informò, mentre appoggiava lo zaino a terra. L’uomo si toccò la testa, ma
non sembrò dargli molto peso. “E’ un taglietto.”
Nina provò a dare due spallate
alla porta. Niente da fare. Doveva esserci qualcosa di molto grosso a
bloccarla. “Anna, mi senti?”
“Nina?” La voce ovattata della
sorella aveva una nota incredula. “Che ci fai qui?”
“Ti tiro fuori, imbecille.”
Rispose, acida. “Che diavolo c’è davanti a questa porta?”
“Un pezzo della balaustra.E’ in cemento, non riesco a spostarlo.”
“C’è una parte di legno libera?”
Dall’altro lato, la donna rispose
affermativamente, picchiettando sulla superficie lignea, in alto.
“Bene, spostati di li, devo farci
un buco” Avvisò, imbracciando il fucile. Quattro colpi ridussero il pannello
superiore della porta ad un colabrodo, e un paio di calci di Lee e di spinte
aprirono un varco. L’uomo si inerpicò al suo interno, seguito da Nina.
Abbracciò la moglie sollevato, trovandola sana e salva.
“Alla televisione si è visto
tutto. Sembrava subito un terremoto, nel panico generale il cameraman ha
inquadrato l’esterno dell’Arena, e si è visto questo mostro sbucare da uno dei
padiglioni e far crollare tutto l’edificio. Quando ho sentito che si stava
avvicinando stavo per uscire, ma la maniglia si era bloccata, nel panico,
sapete com’è…” prese un bel respiro, controllando la
ferita di Lee sulla fronte. “Mi sono chiusa nell’armadio. Ho sentito un rumore
assordante, pensavo crollasse tutto, e quando sono uscita, ho trovato tutto
questo macello.” Concluse, con un cenno alla breccia che si era aperta sulla
porta finestra e all’arredamento distrutto dai detriti.
“Sei stata fortunata
Principessa.”
“Luckof the Irish, te l’ho sempre detto.” Si rivolse poi a Nina
con un sorriso grato. “Un armadio resistente, un marito veloce e una sorella
attrezzata.”
Seppur si sentisse lusingata e
rinfrancata, Nina le voltò la schiena, alzando le spalle. “Non ero qui per te.”
Spostò un paio di calcinacci
dalla porta, aiutata da Lee, e poi, dopo essere riusciti ad aprire la porta, si
diresse verso la sua camera senza dare ulteriori spiegazioni.
Ritornò nella hall dell’hotel
imprecando tra sé e sé: aveva tentato di connettersi ad internet dalla sua
camera, ma nulla da fare, la rete era completamente fuori uso. Aveva bisogno di
una radio. Che diamine doveva fare?
Tenne premuto il bracciale al
polso per dieci secondi: almeno l’avrebbero localizzata. Uscì in strada,
sentendo dei rumori di aerei che sfrecciavano al di sopra dei palazzi. Cercò di
focalizzarne uno: americani.
La sua attenzione fu catturata da
una mano che spuntava da un cumulo di macerie dei balconi. Spostò un pezzo di
macerie, notando disgustata che era il corpo, pressoché maciullato, di uno dei
bodyguard che le avevano impedito di uscire dall’hotel due sere prima. Notò che
indossava ancora l’auricolare di servizio, e ne tirò il filo, per raggiungere
la radiolina, fortunatamente ancora intatta.
Luckof the
Irish.
“Sai potenziare quest’affare?”
disse, lanciando la radiolina in direzione di Lee, entrando dentro uno dei
salottini. L’uomo la prese, guardandola come se fosse un gioco da ragazzi. “mi
serve un cacciavite e qualche altra piccola stupidatina
elettronica.” Rispose, iniziando a gironzolare qua e là alla ricerca di
qualcosa di utile, non prima di essersi raccomandato con Anna di rimanere
seduta sui divanetto. Per tutta risposta, lei alzò un braccio in segno
affermativo. Nina notò che era impallidita quasi improvvisamente. “Stai male?”
Anna sospirò. “Il bambino è molto
grosso e pesante. E ho avuto un paio di contrazioni nell’ultima mezzora”
“Non avrai mica intenzione di
partorirlo ORA.”
“E’ normale avere qualche
contrazione al nono mese.” Rispose la sorella, cercando di trovare una
posizione più comoda. “E anche dolori qua e là.”
Rimasero un istante in silenzio,
con Nina appoggiata al muro di fronte all’altra, il fucile appoggiato al suo
fianco. Fu Anna a parlare nuovamente per prima. “Ho paura” quasi bisbigliò.
“Avresti dovuto pensarci prima,
idiota.” Sbottò Nina acidamente. “Quando imparerai gli effetti delle tue azioni
stupide?”
La sorella le rivolse il suo
sguardo azzurro, innervosito e rabbuiato. “Quando tu imparerai gli effetti
delle tue parole.”Voltò la testa dalla
parte opposta, posando lo sguardo per terra.
Nina rimase senza parole: cercò
qualcosa da replicare, senza riuscirci, e rimase con le labbra schiuse per
qualche secondo, prima di voltare anche lei gli occhi gelidi da un’altra parte.
“HEY!” una voce maschile, che
Nina riconobbe immediatamente, provenne dalla Hall attigua. La donna lasciò il
muro, avvicinandosi all’entrata del salottino. “Steve!” chiamò.Vide il ragazzo muoversi in mezzo ai detriti,
vederla e sorridere sollevato, prima di chiamare Julia, che sbucò da uno dei
corridoi laterali.
I due le si avvicinarono, mano
nella mano. “Immagino che voi due vi conosciate già” disse il pugile,
grattandosi la testa impolverata, un po’ imbarazzato.
Dietro di sé, Nina sentì la
sorella emettere un verso incuriosito. “Si, l’ho lanciata fuori dal quarto
torneo” ricordò.
Anche Julia sorrise imbarazzata.
“E’ un piacere vederti in una circostanza diversa”
“Si, gli incontri casuali in
città distrutte da un mostro sono sempre i migliori” ironizzò la donna. “Come
mai ci avete impiegato così tanto?”
“All’arena c’era il caos. È
crollato tutto. Ci siamo salvati per miracolo, e non riuscivamo a trovarci. Ci
abbiamo messo un po’.” Spiegò Steve. Nina gli chiese se fosse ferito. “No,
mamma, va tutto bene.”
“…Mamma?”
Lee Chaolan
sbucò proprio in quel momento, la radiolina in mano e gli occhi spalancati. “In
che senso Mamma?”
Steve si sbatté la mano sulla
fronte, Julia scosse la testa. “L’ho sempre detto che parli troppo…”
Nina cercò di sintonizzarsi sulle
frequenze utilizzate dai russi. Sapeva poche parole della lingua di Sergei, quanto bastava per farsi riconoscere. “Agente Williams all’ascolto, rispondete.” Ripeteva
ad ogni frequenza, tra i sibili e i fruscii fastidiosi. Aveva intercettato
qualche messaggio americano, che parlava di massicci bombardamenti e della Cosa che li respingeva. Pareva che
liberasse anche dei parassiti, grandi quanto un bue, che attaccavano qualsiasi
cosa gli capitasse a tiro. Persino Julia, che si trovava vicino a lei, trovò
lampante la somiglianza con Cloverfield.
Nina le domandò come fosse finito
il film
“Hanno bombardato New York, i
protagonisti sono morti, ma da una frase detta velocemente durante i titoli di
coda si capisce che il mostro è ancora vivo.”
“…voi
americani e i vostri stupidi film…” sbuffò Nina. “Agente Williams all’ascolto, rispondete.”
“Non posso davvero crederci che
tu sia mio nipote.” Continuava a mormorare Anna, scrollando la testa. “E’
davvero terribile quello che vi hanno
fatto.”
“Già, però ho avuto la fortuna di
essere adottato da un’ottima famiglia, non mi hanno fatto mancare davvero
nulla, per quanto fosse loro possibile”
“E io due anni fa ho tentato
addirittura di sedurti!”
“Beh, si, in effetti quello è
stato un po’ traumatico…”
“…mio
dio, ti ho anche messo la mano sui pantaloni…”
“A pensarci bene, è stata una
delle cose più imbarazzanti della mia vita…”
“…Potrai
mai perdonarmi…?”
“Non sapevi di essere mia zia e...”
“AH!”
Lee scattò in piedi, come se
avesse ricevuto una scossa elettrica, guardando Anna come se fosse una boma ad
pronta ad esplodere da un momento all’altro. “Che cosa c’è?”
La donna si era afferrata la
pancia tra le mani, gli occhi spalancati e il respiro affannoso. “E’ ufficiale,
tesoro. Sto per partorire.”
Il marito sembrava sull’orlo di
uno svenimento. “Stai scherzando, vero?”
“E’ la quinta contrazione
nell’arco di mezz’ora. Il bambino sta arrivando.”
Anche Julia era scattata in
piedi, ordinando a Steve di correre a prendere dell’acqua calda. “Nina, tu devi
chiamare un dottore!”
“Agente Williams all’ascolto, rispondete. PER FAVORE”
Doveva ammetterlo: Lee era
sorprendete. Dopo lo spavento iniziale aveva mantenuto il suo self control, aiutando Anna a stendersi, fornendole dei cuscini
come supporto e andando a recuperare, dalla loro stanza, una piccola busta dove
aveva preparato, da bravo futuro genitore molto previdente, lo stretto
necessario nel caso sua moglie avesse deciso di partorire con dieci giorni
d’anticipo.
“Tuo figlio ha un tempismo
perfetto per nascere, non c’è che dire…” cercò di
sdrammatizzare. Un’altra contrazione aveva lasciato Anna senza fiato. “Anche se
ci hai messo solo la parte divertente, ti ricordo che è questo è TUO figlio.”
“Agente Williams all’ascolto,
rispondete.”
“WILLIAMS!” Quella
voce rara l’avrebbe riconosciuta tra mille, alta e chiara sopra ai rumori dei bombardamenti
e dei latrati del mostro. SergeiDragunov,
proprio lui. Un caso? Luckof
the Irish.
“WILLIAMS, DOVE SEI?”
Era in mezzo ai combattimenti, in
prima fila. Il suo posto, il suo ruolo perfetto, tra le sue armi e i suoi
uomini da comandare. “Mi trovo all’Hotel
Supreme, ho con me altri quattro civili.” Rispose, sempre in russo,
voltandosi verso Anna, che cercava di controllare il respiro, pallida come un
cencio. “Quasi cinque, per la precisione.”
“Feriti?”
“Negativo” Pensò un attimo alla parola corretta da utilizzare, ma
non ricordandosela in russo, rispose in inglese: “Una partoriente.”
Seguì un istante di silenzio
dall’altro capo della radio. “In che senso partoriente, Williams?”
“Mia sorella Anna ha deciso che
questo fosse il momento più opportuno per scodellare il primo figlio.”
Dal tono della voce ne dedusse
che a Dragunov fosse scappata una imprecazione ben
definita nella sua lingua madre. “Gli americani non vi hanno recuperato?”
“Negativo, non si è visto
nessuno”
“L’ho sempre detto che sono dei buoni
a nulla.” Dragunov imprecò nuovamente: “State fermi
dove siete. Mando una pattuglia a recuperarvi con un medico, se riesco.”
Tra sé e sé Nina sorrise: “Grazie,
comandante.”
“Va bene. Facciamo così: nell’attesa
che vengano a prenderci, Steve e Julia controlleranno la hall. Rimanete
nascosti dietro al bancone, e se sentite il mostro avvicinarsi…
beh, scappate alla svelta. Io pattuglierò l’entrata sul retro. Lee a te
l’ambito ruolo di ostetrico.”
Vide Anna tirare un braccio del
marito, per farlo chinare verso di sé, e bisbigliargli qualcosa nell’orecchio.
“Sicura?” Anna annuì. L’uomo si rivolse a Nina “Vado io sul retro, per ora.
Rimani qui con Anna. Tornerò al momento opportuno.”
La donna fece per protestare, ma
Lee, dopo averle soffiato il fucile di mano, corse fuori dalla stanza.
“Non vuoi la tua dolce metà in
questo momento?”
Anna scosse il caschetto castano,
un piccolo sorriso tirato sul viso candido. “Le contrazioni possono durare ore,
quando sarà il momento decisivo, richiamerò Lee.” Le fece segno di avvicinarsi.
Tra il riluttante e il curioso, Nina acconsentì, sedendosi sulla poltrona più
vicina. “Fa male?”
Sforzandosi di sorridere Anna
annuì. “Mi sento aprire in due. E il peggio deve ancora venire.” Sospirò,
accarezzandosi la pancia. “Non me lo immaginavo così: avevo già prenotato in
una clinica privata di Nassau un bel parto in acqua con epidurale. Il sogno di
ogni donna.”
“Dovevi pensarci nove mesi fa.”
“Ne vale la pena. Questi mesi
sono stati i più belli della mia vita.”
Nina titubò qualche istante sulla
domanda che voleva farle. Alla fine, si decise: “In che senso hai avuto un
periodo buio?”
Il sorriso di Anna si spense
lentamente. Spostò gli occhi azzurri sul soffitto, poi a terra, imbarazzata.
“Dopo il sesto torneo, io e Lee siamo scappati insieme alle Bahamas. Però io… io non riuscivo più a provare nulla. Avevo fallito di
nuovo nel mio obbiettivo, mi sentivo vuota. Non c’era nulla che mi
interessasse, nulla che riuscisse a scuotermi. Cercavo di non darlo a vedere,
ma avevo praticamente smesso di mangiare, e poi sono arrivati gli attacchi di
panico.” Si terse la fronte madida di sudore, sospirando. Non riusciva a
guardare Nina negli occhi. “Capitavano di continuo. Avevo il terrore di uscire,
ma stando sempre in casa non riuscivo a reagire e mi deprimevo sempre di più.
Lee ha cercato subito di aiutarmi, ma non glielo permettevo. Finché una sera, è
tornato a casa da una cena d’affari e mi ha ritrovato nella vasca da bagno con
un vetro in mano e il polso tagliato” alzò l’avambraccio: il polso, a pochi
centimetri dalla mano, era sfregiato da una lunga cicatrice bianca, Nina rimase
a bocca aperta. “Hai davvero fatto una cosa così stupida?”
“Non riuscivo a vedere nessuna
altra via d’uscita. Cercavo di impedire a me stessa di fidarmi di Lee, di
aggrapparmi a lui, conoscendolo. Ma da sola non riuscivo a riprendermi. Alla
fine mi sono resa conto di essere lo spettro di me stessa, e di aver davvero
bisogno di aiuto. E lui me l’ha dato. In pieno.” Recuperò un poco di sorriso.
“Ho conosciuto il suo lato migliore. Quando ho scoperto di essere incinta… ero al settimo cielo! Avrei avuto una persona da
amare, che non mi avrebbe mai lasciata sola in ogni caso. Sinceramente, pensavo
che Lee non la prendesse bene. In fondo, da amante della bella vita com’era,
avrebbe preso il bambino come un intralcio, no? Ma io l’avrei tenuto comunque.
E invece… Beh, ci siamo sposati in spiaggia. Ti rendi
conto? IO che mi sposo con LEE in spiaggia, in un romantico tramonto, solo noi
due con l’ufficiale?”
“Fantascienza”
“L’avrei detto anche io!”
Un’altra contrazione incrinò la voce della donna. “E tu? Cosa hai fatto in
questo tempo?”
“Lavoro per i russi” spiegò
brevemente. “Agente segreto.”
“Cavoli, è un bel passo avanti da
sicario a pagamento, no?”
Nina annuì. Non di certo una
professione invidiabile, ma comunque di gran lunga più remunerativa ed
interessante.
“E nient’altro?”
“Una sottospecie di relazione”
“Oh, questa è una cosa …” la
bocca di Anna si aprì ad O. “Nina, chiama Lee… mi si
sono rotte le acque!” Nina balzò in piedi, pronta a scattare verso l’uscita sul
retro, ma Anna la bloccò nuovamente. “Ti prego, dovresti controllare la
dilatazione.”
Oh,
no… non questo…Pensò Nina disgustata.
Gliel’avrebbe fatta pagare cara a sua sorella, figlio o no.
“Quanti centimetri è?”
“so che non è la prima volta che
te lo dico” rispose alla sorella dolorante e preoccupata. “Ma ce l’hai larga”
Dopo un’ora intera passata tra
urla e imprecazioni varie, dove Anna, nell’ordine, aveva maledetto di essere
nata donna, mandato il marito a quel paese ed invocato l’intervento di una
ventosa sturalavandini, Nina le comunicò che si vedeva la testa del neonato.
Lee chiese come fosse.
“Come diavolo vuoi che sia, razza
di idiota, quadrata?” fu l’acida risposta di Nina. “Avanti, Anna, un’altra
spinta, forza!”
Anna era allo stremo, sembrava
sul punto di collassare da un momento all’altro. Stringeva convulsamente la
mano di Lee, che ormai doveva avere anche qualche osso rotto, ed era paonazza
in volto. “Non ce la faccio più!”
“TSK! Me l’aspettavo, bambolina mollacciona.”
Fu come dar fuoco ad una tanica
di benzina. Anna strinse ancora di più la mano di Lee, che accusò la stretta in
silenzio, con le lacrime agli occhi e strinse i denti così forte che la
mascella si contrasse come se si stesse spezzando.
E un istante dopo, un piccolo
essere sporco e strillante era tra le mani di Nina.
No, non era bello.
Aveva la faccia schiacciata e
sembrava quasi un rospo. Non riusciva a trovare la somiglianza tra di loro come
stavano facendo i due neo genitori, commossi. “Oh, gli occhi sono i tuoi!” “Le labbra sono
le tue!”
Quella sua vocetta
rauca che dava sui nervi.
E poi era davvero grosso. Come diavolo faceva un bambino a
nascere cosi? Non era normale!
Per non parlare del nome: “James
Patrick Chaolan – Williams” aveva enunciato orgoglioso
Lee, pronunciando il lungo nome del suo primogenito come se fosse il principe
d’Inghilterra. Come mai James?
“Abbiamo scoperto che ci
piacciono a tutti e due i film di James Bond” aveva spiegato semplicemente
l’uomo, come se fosse la cosa più naturale del mondo. “Patrick invece come il
patrono d’Irlanda. E Patrick Swayze, che piaceva molto ad Anna. E ci piaceva
mettere il doppio cognome.”
Il destino era stato proprio
inclemente con il piccolo Chaolan. Nascere brutto,
con una voce atroce, in mezzo ad una catastrofe, e con due genitori del genere.
Davvero un destino infausto.
E
allora perché non riusciva a smettere di guardarlo, senza poter impedire alle
sue labbra di stendersi in un sorriso?
Anna glielo rifilò in braccio
senza che lei potesse opporre resistenza. “Ti presento tua zia.”
Nina era impacciata, quasi non
respirava per paura di farlo cadere. Come diavolo faceva sua sorella a
maneggiarlo con tanta naturalezza?”
“Rilassati, è un bambino, non una
bomba”
“Appunto.” Si, gli occhi erano
proprio quelli di sua sorella. Azzurri, chiari, limpidi.
Forse erano come quelli di Steve,
quando era nato.
Si sentì una morsa al cuore al
pensiero di quel momento mancato tra lei e suo figlio: nessuno l’aveva
incoraggiata a farlo nascere, nessuno gliel’aveva appoggiato al cuore mentre
gli tagliavano il cordone ombelicale. Non si era nutrito tramite lei e non era
stato scaldato dal calore delle sue braccia. Nessuno aveva notato le sue
somiglianze, o il suo peso, o la sua lunghezza.
Non c’era stato nulla di ciò per
suo figlio.
Lo vide avvicinarsi a lei e
sedersi accanto. “Ma che bello che è il mio cuginetto!” esclamò, come se fosse
rimbambito, fotografandolo con il cellulare. “Non è vero mamma?”
Nina annuì lievemente, prima di
restituirlo ad Anna. “Grazie, davvero” mormorò. “Nostro padre non avrebbe mai
pensato a quanto potesse essere utile quel nomignolo così stronzo.”
Lee le passò un braccio attorno
alle spalle. Appoggiò la testa contro la sua, gli occhi persi sul proprio
figlio che si stava addormentando. Si baciarono, si sorrisero.
Con la coda dell’occhio vide
Julia avvicinarsi a Steve, e il ragazzo guidarla dolcemente a sedersi sulle sue
ginocchia, abbracciandola.
Si sentì inadeguata, fuori posto,
circondata da tutte quelle persone che si volevano bene. Si alzò dal divano, un
groppo in gola, prendendo il fucile. Teneva lo sguardo abbassato, celato dietro
il ciuffo di capelli biondi. “Vado a pattugliare l’ingresso” riuscì solo a
mormorare.
Si concesse qualche lacrima.
Sola, nella Hall distrutta, avvolta nell’oscurità della notte che aveva
inghiottito la città, con i latrati e i rumori dei combattimenti in lontananza,
abbracciata al fucile. Tutto quello che si era meritata nella vita.
Le persone attorno a lei avevano
avuto una loro vita, si erano costruiti una storia ed una famiglia, potevano
contare sull’aiuto di qualcuno, sull’affetto di qualcun altro.
Lei era sola.
E fu proprio mentre si stava
asciugando le lacrime dagli occhi che il fascio di luce di una jeep fermarsi
pochi centimetri prima dall’entrata dell’hotel, e tre figure scure entrare
nella vetrata.
“Agente Williams?”
La sua voce. Avrebbe voluto
vederlo in faccia, avvicinarsi a lui, ma rimase al proprio posto, conscia che
in quel momento, lui era il suo comandante.
Un comandante che era venuto personalmente a prenderla, insieme a due
suoi uomini.
Il medico non aveva potuto far
altro che constatare le buone condizioni di Anna e del bambino. Aveva
disinfettato il taglio sulla fronte di Lee e controllato la sua mano, che stava
assumendo un certo color viola.
L’altro soldato che era con loro
aveva controllato l’uscita sul retro.“Andremo verso il nostro campo base” riferì, rispondendo alla domanda di
Julia.
“Meglio prima controllare che gli
scontri siano a debita distanza” . Era la prima frase che aveva spiaccicato dal
suo ingresso nella Hall. Dragunov sembrava molto
stanco. Si era appoggiato al muro, più pallido del solito, massaggiandosi il
collo. La sua tuta da combattimento era lacera in più punti e sporca, e i
capelli sudici erano attaccati alla testa e alla faccia.
“Williams, andiamo a pattugliare
il tetto.” Si scostò stancamente dal muro, riprendendo il mitragliatore e
posandoselo sulla spalla, avviandosi verso le scale.
Nina lo seguì: Non le aveva
rivolto nessuno sguardo, nessun cenno di interesse, come se fosse davvero un soldato come un altro. Forse
in quei tre mesi era cambiato qualcosa. Che gli avessero ordinato di tagliare
tutti i ponti con lei? Non disse nulla, limitandosi a seguirlo sulle scale sino
al tetto, all’aria aperta e fresca di quella notte infernale.
Solo quando la porta antincendio
si chiuse alle sue spalle, SergeiDragunov
si voltò verso di lei. Si avvicinò di un passo. Nina riusciva a malapena a
sostenere il suo sguardo intenso. Quando si trovò a pochi passi da lei, alzò il
braccio, sfiorandole il volto, scivolando sulle sue labbra, stringendola contro
il metallo della porta dietro di sé.
Nina lasciò che il fucile le
cadesse di mano, per poi avvolgere le braccia attorno al collo dell’uomo: Il
profumo del suo dopobarba era appena percettibile, sotto l’odore di sudore e
polvere da sparo. Si sentì sollevare e stringere, prima che le lasciasse la bocca.
“Buonasera, Nina.”
“Ciao Sergei.”
Forse non era sola.
LuckOf The
Irish.
Benvenuto,
James Patrick Chaolan-Williams! (O, meglio, il
piccolo Jamie.)
Eccomi
di nuovo con un luuungo capitolo. Preparatevi al
peggio!
Grazie
mille per le recensioni a Miss Trent, AngelTexasRanger e Sackboy97 (scusa per l’errore nel titolo
del cap. precedente). E anche a NilaGor_kj e Goth girl, che non ho
mai citato personalmente nei miei ringraziamenti (scusate la maleducazione)
I
vostri commenti sono la mia linfa vitale!
Piccole
note:
NASSAU,
la città dove Anna aveva programmato di “scodellare il primo figlio” è la
capitale delle Bahamas.
LUCK
OF THE IRISH: (la fortuna dell’Irlandese) è un comune modo di dire, probabilmente
nato negli USA ai tempi della corsa all’oro: i primi minatori e cercatori d’oro
erano Irlandesi. Quanto pare, i primi erano anche molto fortunati.
Non
ho mai visto Cloverfield. Ma ho visto Godzilla.
Per quanto poteva valere il suo
punto di vista, dettato da una cinica, fredda e spietata interpretazione della
realtà, la cui percezione verteva pericolosamente verso il caos, poteva definire
la situazione romantica.
Sul tetto dell’Hotel Supreme,
seduti sul cornicione con le gambe a penzoloni nel vuoto, Nina Williams e SergeiDragunov avevano davanti
agli occhi la città semidistrutta, illuminata dall’incendio scaturito dai
bombardamenti ora sospesi, a pochi chilometri in linea d’aria.
“James” ripeté, dopo avergli raccontato le vicissitudini delle
ultime ore. “Perché hanno in comune la passione per i film di James Bond!” Sergei emise un suono disgustato.
“TSK! Nostro figlio, allora, come
dovremmo chiamarlo, Molotov?” pronunciò la frase sarcastica quasi senza pensarci,
rendendosi conto appena l’aveva terminata di quanto potesse suonare stupida,
fuori luogo ed eccessivamente confidenziale.
Ma lui non si era scomposto
minimamente. “Molotov Dragunov?”
ripeté, arricciando un angolo del labbro inferiore. “Suona male.”
Lo sguardo di Nina tornò sull’incendio.
“Pensi che l’abbiano distrutto?” Domandò dopo qualche minuto, interrompendo il
silenzio contemplativo.
Sergei alzò le spalle, accendendosi una
sigaretta. “Non ne ho idea. Ma è ormai da tre ore che gli spariamo addosso. Quel
bastardo avrà pure la pellaccia dura, ma a tutto c’è un limite.”
“Era lui l’Arma X, vero?”
Il soldato si limitò ad annuire
stancamente, espirando una boccata di fumo. “Deimos.
Non si sa la sua esatta provenienza, o chi diavolo l’avesse creato, ma comunque
era una creatura totalmente fuori controllo, persino della TekkenForce.”
“A proposito, Alexandersson?”
“Sparito, insieme a gran parte
dei suoi. Ma non so se ci sono sviluppi, io mi occupavo del bestione.”
“Dispiaciuto di non essere li?”
Lui alzò solo una spalla. “Non ti
nascondo che avrei preferito farlo fuori io stesso. Ma avevo bisogno di una
pausa” Fece scivolare un braccio attorno alla vita della donna, guidandola ad
appoggiarsi sulla sua spalla. Un contatto a cui Nina si abbandonò
piacevolmente. Aspirò un’altra boccata di fumo. “Questa volta mi spetta davvero
una licenza premio.”
“E hai intenzione di godertela? Non
ne hai mai chiesto! Per quanto ne so, non hai fatto un singolo giorno di
licenza negli ultimi sei anni.”
“Sette” la corresse, scroccando
il collo. “Ma questi tre mesi sono stati massacranti. Mai dormito per più di
tre ore di fila.”
Nina proprio non se lo immaginava
spaparanzato sul divano, a vegetare davanti alla televisione. Soffocò una
risatina ad immaginarselo mentre cercava di rilassarsi tra i fumi di un bagno
termale. “E che hai intenzione di fare?”
Nuovamente, Sergei
alzò le spalle. “Cosa si fa quando si è in licenza?”
“Beh. Credo che tu dovrai farti
un bagno, come prima cosa.” Ironizzò, strappandogli un mezzo sorriso, mentre
aspirava l’ultimo tiro di sigaretta per poi gettarla giù dal tetto. “E poi… non so, qualche hobby? Viaggi?”
Sembrò quasi interessato all’ultima
parola detta da lei. “Dove?”
Stiracchiandosi le braccia, Nina
si coricò, lo sguardo perso nel cielo scuro. Dove avrebbe visto bene Sergei, a parte nel suo letto? Lo vide scivolare accanto a sé,
assumendo la stessa posizione, con le braccia piegate dietro la nuca a fare da
sostegno. “Non so dove ti piacerebbe
andare.” Disse sinceramente. “Non so nemmeno cosa consigliarti.” Si mordicchiò
le labbra, pensando a come sarebbe stato bello sdraiarsi al sole, per
asciugarsi dopo una nuotata in un mare cristallino. “Io andrei in un posto
caldo, al mare.”
“Tipo? Bahamas da tua sorella?”
Nina fece una faccia volutamente
e quasi comicamente disgustata. “Fossi pazza. Altro che relax, con quel moccioso piagnucolante tra i piedi e Anna che mi assilla su di lui!"
"Già. Purtroppo i figli sono una benedizione per chi li desidera: temo che tua sorella non farebbe altro che stressarti su quanto è bello il suo pargolo."
Nina sospirò, riconoscendo che aveva pienamente ragione: "Mi basterebbe un’isoletta
semideserta della Grecia, o l’Italia. Ma niente luoghi affollati. Una isoletta,
uno scoglio in mezzo al mare. Mi basterebbe quello.”
“Una barca?”
“Oh si, quella sarebbe il
massimo.”
Sergei si girò su un fianco, la sua
mano sul suo ventre e gli occhi puntati sui suoi. “Ti meriti anche tu una
licenza. Come tuo comandante te la concedo, a partire da domani.”
“Grazie comandante.” Rispose compiaciuta.
“Quindi posso partire anche io per un bel viaggio al caldo?”
“Come tuo responsabile, ti devo
tenere d’occhio. Non puoi partire. Da sola.”
Nina ebbe l’impressione di aver
capito male. O, meglio, non poteva credere a quello che le sue orecchie
sembravano aver sentito. “In che senso non posso partire da sola?” domandò,
cercando di eliminare le tracce tremolanti dalla sua voce: perché era
impossibile, incredibile quello che SergeiDragunov sembrava volerle suggerire.
“Te l’ho detto. Ti devo tenere d’occhio.”
Ripeté lui, un piccolo, quasi invisibile sorriso sornione sulle labbra livide.
Nina si rizzò sulle ginocchia, voltandosi verso di lui: “Mi stai proponendo di
andare in vacanza insieme?”
“No. Assolutamente.” Rispose l’uomo.
Sembrava del tutto intenzionato a cancellare dalla faccia quella smorfia. Ma sembrava
che gli fosse pressoché impossibile. “Ti sto solo ordinando di seguire il tuo
comandante in una missione navale nell’arcipelago greco.”
Nina si mise le mani sui fianchi:
“E quanti membri della squadra saremmo?”
“In due. Compreso il comandante.”
Con finta serietà si chinò su di lui.
“Sono onorata di essere stata scelta
per questa missione, comandante.” Sussurrò, prima di premere la sua bocca sulle
sue labbra. Sergei la imprigionò tra le sue braccia,
facendola aderire al suo corpo. Rotolò su se stesso, portandola sotto di sé,
prima di interrompere il bacio e di guardarla, come se non desiderasse altro in
quel momento che strapparle i vestiti di dosso e fondersi con lei. “E’ meglio
se ci nascondiamo, qua sopra continuano a passare elicotteri.” Nina sentiva
esplodere qualcosa di luminoso dentro di sé. Si alzò, recuperando il fucile
senza lasciare la mano di Sergei, e guidandolo con sé
verso la porta. “Avanti, prima che a qualcuno venga in mente di recuperarci!”
lo incoraggiò, sentendosi ebbra e stordita, folle, incontrollabile.
Ma prima che riuscisse a
raggiungere la porta, un latrato terribile squarciò nuovamente l’aria. Un’esplosione
lo seguì praticamente subito, e i due, voltandosi verso l’incendio, videro alzarsi
una colonna di fuoco e una figura terribile al suo interno.
“MERDA!” urlò Nina. La radio di Sergei gracchiò e la voce di Volkov
lo chiamò nella loro lingua natale. Mentre i due comunicavano la donna rimase a
fissare il mostro, in lontananza. Sembrava oscillare. “Cazzo. Serg… comandante! Sta arrivando qui!” gridò. Dragunov la prese
per un braccio, trascinandola dentro all’Hotel. “Volkov
manda un elicottero a recuperarci. E’ il mezzo più sicuro e veloce!” la
informò. “Arriveranno qui a minuti. Però noi dobbiamo andare a far fuori il mostro.
Io vado con l’aviazione, tu dovrai seguire i combattimenti da terra. Sei
pronta?”
Nina tolse la sicura al fucile,
preparando il colpo in canna. “Sono nata pronta.” Rispose dura.
Nessuno l’avrebbe fermata. Nina
era una macchina di morte perfetta, il giusto connubio tra razionalità e
ferocia. Soprattutto se combatteva per qualcosa. Quel coso sarebbe stato ridotto presto ad un surrogato per il barbecue,
e lei e Dragunov sarebbero scivolati sul mare liscio
della Grecia per la loro personalissima missione. Sentìla rabbia montarle dentro: nessuno avrebbe
impedito questo.
Scortò i Chaolan,
Steve e Julia al tetto, dove li attendeva l’elicottero. Volkov,
informato delle condizioni dei recuperati, aveva fermato il velivolo, ed era
sceso personalmente. Aveva il volto tirato e le condizioni della sua tuta da
combattimento erano le stesse di quelle di Sergei.
Vide Anna, sfinita e pallidissima, avvicinarsi con il bambino in braccio. “Maschio?”
domandò. Anna annuì orgogliosa, mentre Lee aveva aperto la bocca per
pronunciarne il nome, interrotto dal militare. “Ottima scelta. I maschi danno
molti meno problemi.” Riferì l’ufficiale, facendogli cenno di salire sull’elicottero,
seguiti da Steve e Julia. Il giovane pugile fece spazio accanto a sé per far
sedere Nina, che scosse la testa. “Io devo rimanere qui.” Spiegò, avvicinandosi
comunque al figlio per salutarlo. “Ci vedremo alla base.” Anna aveva affidato Jamie al marito e si era sporta verso di lei, prendendole la
mano. “Grazie” mormorò nuovamente. “Non fare cazzate. Noi…
noi ti aspettiamo.”
“Certo.” Asserì Nina. “Ci vedremo
tra poco. Ora scusatemi, ma ho un lucertolone da scotennare.” La sorella annuì,
le lacrime agli occhi. Nina, con fare scocciato, le ordinò di non frignare come
una mocciosa. “Scusami, sono gli ormoni” rispose Anna, asciugandosi le ciglia.
“La stai usando un po’ troppo
spesso come scusa.”
“Mamma” si intromise Steve,
abbracciandola. “Stai attenta.” Gli stampò un bacio veloce sulla guancia. Nina
ricambiò l’abbraccio, sentendosi invincibile con quell’impronta delle labbra di
Steve sulla guancia. “Non preoccuparti.” Gli sussurrò. Dannazione! Suo figlio
aveva sempre la facoltà di farle salire un groppo in gola. Vide Julia
stringergli una mano, e si sentì rassicurata che qualcuno gli fosse vicino e lo
sostenesse. “Vedete di non farmi diventare nonna, voi due. Già l’essere zia mi
infastidisce non poco” puntualizzò sarcastica, strappando un sorriso ai
quattro. Lee alzò una mano, ringraziandola ancora, mentre con l’altra cullava
il neonato.
Con un cenno, Nina fece chiudere
gli sportelloni ed accendere i motori. Si allontanò,
dopo aver salutato Volkov, verso le scale del tetto,
per poi voltarsi ed assicurarsi che l’elicottero si fosse alzato, per dirigersi
verso la salvezza. Lo seguì con lo sguardo, finché Sergei
non lo posò una mano sulla spalla. “Andiamo Williams, qui vicino c’è il mio elicottero
e la squadra che mi aspetta.”
L’elicottero da combattimento di Dragunov era già in moto quando lo raggiunse, e la squadra
era già pronta per la battaglia. L’uomo si voltò un’ultima volta verso la
donna. “I rinforzi da terra sono sulla via” la informò, indicando una fila in
lontananza di luci che si avvicinavano. “Attendi qui.”
“Agli ordini, comandante.”
Senza aggiungere altro Dragunov entrò nell’elicottero, posizionandosi al posto del
copilota.
Nina seguì anche la salita di
quell’elicottero, tra le rovine dei palazzi, con il fucile sulla spalla e un sorriso
malcelato.
Tra tutte le cose che le potevano
affollare la mente, in quel momento, c’era solo una frase, che galleggiava tra i suoi pensieri e non affondava, neppure spingendola giù con tutte le sue forze.
Una frase, tre parole che non si sarebbe mai sognata di pensare,in russo, la lingua di Sergei, la lingua che stava studiando con impegno, per
capire non solo quello che le dicevano, ma anche per comunicare liberamente
nella nazione in cui viveva, con lui:
Ja tjbjà ljublju
L’elicottero era ormai in alto,
quanto un colpo secco alla nuca la gettò in un abisso di tenebra.
Non un granché questo capitolo,
lo ammetto, ma non ho saputo fare di meglio, sinceramente. Era un passaggio. Per i prossimi capitoli cercherò di “rendere”
di più. Chi ha tirato una botta in testa a Nina? (Un borseggiatore?)Cosa significa la frase che lei ha pensato, e da cui si lasciava cullare? (andatevela a cercare, sfaticati!)
PS: STAMATTINA HO MESSO A POSTO QUALCHE PARTICOLARE QUA E LA... MODIFICANDO SENSIBILMENTE IL CAPITOLO.
In ogni caso, non lapidatemi perché
Sergei sembra un po’ OOC in questo frangente. Diciamo
che anche per lui tre mesi di lontananza dalla Williams sono stati abbastanza
lunghi.
Ad ogni modo, ragazzi e ragazze,
io vi sono incredibilmente grata per le recensioni che mi avete lasciato. Sono piacevolmente
sorpresa, resto a bocca aperta! Lusingatissima! Il
mio ego ringrazia ed impazzisce, ballando nudo in mezzo alle foglie morte del
giardino! (aiuto, che poesia!)
Grazie Miss Trent,
AngelTexasRanger, SackBoy97, NilaGor_kj e la new, apprezzatissima, entry KrisaliaKinomiya!
Mi è stata fatta però un’osservazione,
in PVT. Che, ammetto, è vera.
Nelle mie Ffc’è un incremento delle nascite spaventoso…
Ora, penserete forse che sono un’esaltata
che non vede l’ora di scodellare figli a non finire…
...EBBENE NO! Anzi, me ne guardo bene dal farlo!
Purtroppo sono cresciuta con una
nonna Fan di Beautiful… e li come sapete l’incremento
demografico si fa sentire, che mi “costringeva” a guardare le varie vicissitudini
delle famiglie…
… alla fine questo temo sia il
risultato di queste traumatiche visioni…
La testa aveva iniziato a
pulsare, per questo si era ridestata. Aveva mosso il collo, sentendo i muscoli
duri e doloranti, non riuscendo a nascondere una smorfia di dolore. Provò a
massaggiarseli, ma si rese conto di avere le mani legate saldamente dietro alla
schiena. E la schiena legata allo schienale di una sedia. E le caviglie alle
gambe di metallo della sedia.
Cercò di aprire gli occhi, ma la
luce abbagliante puntata verso di lei le feriva le pupille e la costringeva a
chiudere le palpebre. Tentò di muoversi di nuovo, ogni singolo muscolo del suo
corpo che le provocava dolore e che si tendeva nello sforzo inutile. Imprecò.
Il rumore di una porta che si
apriva, al di là della fonte di luce, le fece drizzare le orecchie e tendere i
sensi, avvertendo il pericolo imminente. Il fascio di luce si spostò,
permettendo ai suoi occhi azzurri di riprendere le proprie facoltà visive e di
capire dove si trovasse.
La stanza era bianca, arredata
solo con la sua sedia e un tavolino, a cui si appoggiavano tre figure, più una,
femminile, in piedi, quasi ad essere sull’attenti.
“Oh merda” pensò, quando riuscì a focalizzare le persone che occupavano
la stanza: Con il peso degli anni sulle sue spalle, Geppetto Boskonovitch la guardava scientificamente incuriosito a suo
fianco un soldato con il mitra in braccio. La donna in piedi era quell’androide
rosa che rispondeva al nome di AlisaBoskonovitch, lo sguardo vitreo ed inespressivo fisso su di
lei, pronta a scattare ad ogni sua mossa.
Ed infine, appoggiato al tavolino
con le braccia conserte sul petto, con una certa impazienza e un piccolo ghigno
stampato sul volto, pallido sotto il casco di ribelli capelli biondi, LarsAlexandersson.
“Bentornata tra noi, Miss
Williams.” Salutò, senza togliersi di dosso il sogghigno. “Ormai stavamo per
risvegliarla noi stessi dai suoi dolci sogni. Dormito bene, a proposito?”
Come risposta, Nina Williams
sputò per terra. Notò un movimento fulmineo dell’androide, come se si volesse
lanciare contro di lei, ma un cenno di Alexandersson
la fece tornare alla sua posizione originaria.
“Che diavolo volete?”ringhiò Nina. La presenza che più la
infastidiva nella stanza era sicuramente Boskonovitch,
a cui avrebbe fatto saltare la testa con le proprie mani, se solo avesse
potuto.
LarsAlexandersson
si scostò dal tavolino, avvicinandosi a lei. “Sappiamo che lavori per i russi,
ora.”
“E a te chi l’ha detto?”
“Oh, Nina, suvvia, non è che ti
sei nascosta tantissimo, prima…” ghignò nuovamente il
biondo dittatore. “Diciamo che ho avuto la fortuna di trovarmi al posto giusto
al momento giusto. Eravamo nascosti tra i palazzi, sai, in attesa che arrivasse
l’esercito da terra… e non potevamo lasciarti così,
sola, con un mostro in libertà.” Raccontò, passeggiandogli attorno. Fece
scivolare una mano guantata sulle sue spalle, sino
alla nuca, e vi premette le dita. Schegge di dolore esplosero nella testa di
Nina, costringendola a serrare la mascella di scatto, e trattenere un urlo.
“Eri distratta. Un colpo alla testa e via, nella nostra base. Semplice, no?”
Nina si maledisse per la sua
distrazione. Ricordava di essersi fermata a fissare, come una sciocca ragazzina
in fregola, l’elicottero di Sergei che si alzava.
Ripensò alla frase che quasi era uscita dalle sue labbra, un’idea folle e
bizzarra.
Che stupida che era.
“Credi che io possa fornirti
certe informazioni, e che, soprattutto, te le cederei semplicemente?”
Alexandersson studiò il suo volto, corrucciato
dal dolore. “Perché no? in fondo, tu non sei che una vile mercenaria. Io ti
posso offrire più soldi, o una via di fuga. Mi basta qualche risposta.”
Nuovamente, Nina sputò per terra.
“Puoi fotterti.” Sibilò. Lo schiaffo che le arrivò, improvviso, le sballottò la
testa dalla parte opposta. Sentì schizzarle in bocca il sapore metallico del
sangue. Alisa era comparsa proprio davanti a lei e
l’aveva colpita. Alexandersson scosse la testa, parlando
dolcemente all’androide, abbassandole il braccio con un gesto lento della mano,
come se fosse una bambina. “Calma, non c’è bisogno di ucciderla ora”
“Ma ti ha offeso!” esclamò lei.
“Non ha importanza, piccola.” Alexandersson si rivolse nuovamente verso Nina: “Dicevamo?”
“Dicevamo che puoi fotterti”
ripeté caparbia, preparandosi ad un altro colpo. Ma Alexandersson
rise. “Ho come l’impressione che la nostra algida assassina non sia più così
professionale. O sbaglio?”
Si chinò verso di lei,
sussurrandole nell’orecchio. “E’ a causa dell’uomo che ti ha accompagnata,
vero?” Le terse con le dita della mano il rivolo di sangue che le usciva dalle
labbra, incurante del fremito che aveva scosso i circuiti dell’androide. “Tre
dei quattro elicotteri russi, impegnati nella missione, sono stati abbattuti.
Due da Deimos. Uno da me personalmente. Quante
probabilità ci sono che il tuo uomo si sia salvato?”
Sentendo lo stomacocontorcersi, Nina deglutì il sangue che aveva
in bocca, sforzandosi di non far vedere il tuffo al cuore che aveva avuto
nell’apprendere la notizia: “Non è una cosa rilevante.”
“Io credo sia il contrario,
invece.” L’uomo si staccò da lei, rivolgendosi agli altri due. “Lei non
parlerà. Non spontaneamente.”
Alisa si propose per risolvere il
problema, ma ancora una volta l’uomo la fermò: “Dottor Boskonovitch,
a lei.”
L’anziano scienziato annuì,
aprendo una piccola confezione di metallo ed estraendo una fiala e una siringa.
Riempì quest’ultima con il liquido della fiala e si avvicinò a Nina. “Non ci
provi a toccarmi” sibilò furiosa la donna, tentando di morderlo. Intervenne Alexandersson, che le piegò la testa di lato. Sentì l’ago
della siringa nel collo, e ringhiò di rabbia impotente.
“Questo è un veleno, che il Dottor
Boskonovitch sta studiando. Agisce nell’arco di una
settimana, provoca spasmi muscolari, febbre alta, deliri, spesso anche
allucinazioni. E poi la paralisi completa, perdita dei sensi e la morte.”
Spiegò Alexandersson. “Soffrirai molto, e sono convinto
che ci fornirai le informazioni che ti chiediamo, Miss Williams, in cambio
dell’antidoto. In ogni caso, sono sicuro che nel delirio della febbre sarai
molto più malleabile.”
Nina non si ricordava di aver
provato per nessuno un odio così feroce: la rabbia sorda che le stava montando
in petto le faceva annebbiare la vista. O era già l’effetto del veleno?
Cavia un’altra volta, e questa
volta con la morte come esito dell’esperimento. Anche se SergeiDragunov fosse ancora vivo, non l’avrebbe potuta
salvare in ogni caso.
Una leonessa non abbassa lo
sguardo davanti al nemico, non si arrende alla fine, non accetta la sconfitta.
E non teme la morte.
Se erano convinti di averla in
pugno, evidentemente non la conoscevano bene: si sarebbe portata qualsiasi
parola nella tomba. Il dolore che avrebbe provato era nulla in confronto a quel
gelo che stava stillando il suo cuore in quel momento.
Follemente, le labbra di Nina si
piegarono in un sorriso di sfida.
1° giorno:
La febbre si stava alzando. Sentiva
brividi per tutto il corpo, ma le guancie bruciavano. Nina si rannicchiò sulla
sua brandina, cercando di trovare il calore dentro di sé per sopravvivere.
Come in Kamcatka. Però ora, in
quella cella umida e grigia, dalla porta di metallo pesante che le sbarrava
ogni via di fuga, Nina era da sola, non con il calore di Sergei
che la teneva in vita.
E non aveva coperte. C’era solo
lei, la brandina con il sottile materasso e un gabinetto in un angolo. E una
telecamera sopra la porta. Una feritoia della porta si era aperta per lasciar
scivolare un vassoio di cibo. Nina non l’aveva neanche guardato. Aveva solo
bevuto l’acqua per toglierle l’arsura che aveva in bocca.
Sergei… Era vivo? E il mostro? Alexandersson non aveva menzionato la sua distruzione. La
stava cercando?
Si piegò nuovamente su sé stessa.
Doveva pensare a qualcosa di
caldo. Come la loro missione in
Grecia. Sorrise appena: sarebbe rimasto sempre e solo un’illusione, un sogno,
perché quelle quattro pareti grigie sembravano avere tutta l’intenzione di
essere la sua tomba. Tanto valeva lasciarsi andare. Che male poteva fare
sognare?
2° Giorno:
Mantenere la lucidità mentale non
era facile, con la febbre alta. Nina si sentiva a pezzi. Non c’era un singolo
muscolo del suo corpo che non le dolesse. Stare coricata non sembrava aiutarla.
Decise che fosse meglio mangiare qualcosa, non doveva indebolirsi troppo.
Alzandosi dalla brandina, venne colta da un capogiro, e per poco non rovinò a
terra. Camminò verso il vassoio appoggiandosi alle pareti. Riuscì a mangiare
solo qualche boccone di pane: la mascella le doleva terribilmente, forse anche
a causa dello schiaffo di due giorni prima datole da Alisa.
Traccannò l’acqua tutta d’un sorso: le sembrava di
avere il fuoco in bocca. Mentre stava per tornare sulla brandina, alzandosi faticosamente,
sentì lo stomaco torcersi, e vomitò il parco pasto nella tazza.
Si trascinò di nuovo sulla
brandina: non sarebbe resistita a lungo. Forse nemmeno alla fine della
settimana.
Ma non si sarebbe arresa.
Cercò di immaginarsi il sole
caldo della Grecia.
3° Giorno:
Aveva iniziato a respirare male.
Le sembrava di avere un masso che le premeva lo sterno. Alzarsi dalla brandina
era una vera impresa, sentiva gli arti informicolati. Ma ce la mise tutta, e,
con fatica, riuscì a mettersi in piedi, appoggiata al muro. Mosse qualche passo
incerto, decisa a non lasciarsi vincere dalla preannunciata paralisi. Per
mantenere la concentrazione si aiutò contandoli: uno, due, tre, quattro…
la testa le girava, e più di una volta dovette fermarsi, vinta dal senso di
nausea che la seguiva da ormai due giorni. Scivolò lungo la parete, sentendosi
miserabile e detestandosi con tutta sé stessa. Le venne in mente il discorso
sul suicidio che aveva intavolato con Sergei: meglio
uccidersi che cadere nelle mani del nemico. Forse sarebbe riuscita a porre fine
alla sua esistenza prima che la consumasse il veleno. Lo sguardo appannato
corse per tutta la stanza. Non c’era nulla con cui potesse impiccarsi o farsi
seriamente del male, e di sicuro quei bastardi che stavano assistendo alla sua
agonia dall’altra parte della telecamera avrebbero impedito anche quella
scappatoia.
Di nuovo, la rabbia le montò in
petto. Si alzò, ancora, sempre più incerta, continuando a camminare attaccata
alla parete: uno, due, tre, quattro…
4° Giorno:
Aprì gli occhi perché qualcuno la
chiamava. Qualcuno con una vocetta infantile e
ridacchiante. Le sembrava famigliare. Anna?
Lo sguardo di cristallo di una
bambina con il caschetto castano le rispose. La fissò incuriosita, prima di
sedersi per terra, senza dire una parola. Anna?
Cosa ci faceva sua sorella, per
di più tornata bambina, in quella cella umida? Beh, al momento la fissava.
Forse era il caso di chiederglielo. “Che ci fai qui?”
Anna piegò la testa di lato,
appoggiandosi il dito davanti alla bocca, in segno di silenzio. “Non ci
cascare”. Sussurrò.
Caspita, era vero. Le
allucinazioni. Strappò un pezzo di tessuto dall’orlo del camice che indossava e
se lo infilò in bocca: anche se avesse straparlato nel delirio della febbre,
nessuno l’avrebbe sentita. Anna approvò, prima di scivolare fuori dalla
finestrella della porta.
Doveva mantenere il controllo. Si
sforzò di pensare a qualcosa, qualsiasi
cosa e di concentrarsi su quel pensiero. Un qualcosa di impegnativo. La
trama di un libro?
Qual’era l’ultimo libro che aveva
letto?
Mmmm…DanBrown.
Il Codice da Vinci, quasi tre anni prima. Non era proprio patita per la
lettura.
Però le piaceva Leonardo Da
Vinci. L’aveva vista al Louvre, no, la Gioconda?
Oh, cielo. Ora non ne era molto
sicura di essere stata a Parigi. Forse l’aveva vista solo in riproduzioni qua e
là.
La confusione nella testa
cresceva. Mille pensieri, voci, parole, immagini le vorticavano nella mente. Riuscì
a farsi cullare dalla sensazione di essere in balia di onde che muovevano dolcemente
la chiglia di una barca e svenne.
5° Giorno.
Affanno. Le veniva il fiatone ad
alzarsi da letto. Gli arti erano sempre più intorpiditi, e cominciava a perdere
sensibilità alle dita delle mani. I muscoli le esplodevano dal dolore, la
febbre la faceva delirare, e per poco non si strozzava con il pezzo di stoffa
che si era cacciata in gola.
Che cosa strana essere a Dublino,
nella sua cameretta da bambina che condivideva con Anna. Ma non c’era nessuno
in camera. Si alzò dal lettino ed uscì dalla stanza, trovandosi nel soggiorno.
Sentiva sua madre e suo padre litigare da qualche parte nella casa, mentre sua
sorella, ragazzina, era seduta con le nude gambe incrociate , sul divano.
Indossava la divisa della scuola, e un libro era aperto sulle sue ginocchia. Un
uomo, che Nina ricordava come uno stretto collaboratore di suo padre, era
seduto invece sulla poltrona di fronte a lei, e Nina poteva giurarci, stava
spiando tra le pieghe della gonna di Anna.
Lei se ne accorse, accentuando la
sua posizione, e fingendo di leggere, appoggiando un dito tra le labbra. L’uomo
sogghignò. “Allora, piccola Anna… tutto bene con gli
allenamenti?” Lei annuì, falsamente innocente. “Diventerai più brava di tua
sorella?”
“Questo poco ma sicuro…” ridacchiò.
“Per ora sei molto più carina di
lei.”
Anna annuì, chiudendo il libro.
Allungò le gambe sul tavolino, che separava il divano dalla poltrona dove era
seduto l’uomo.“Piccola Anna, Stai
attenta a quello che fai… ci sono i tuoi genitori di
là, non siamo da soli.”
La ragazza fece spallucce,
gettando un’occhiata al corridoio. “Mio padre non batterebbe ciglio a vedermi
seduta su di lei. A proposito:” Anna si sporse in avanti, regalando la visione
della sua generosa scollatura. “Dov’è il regalo che mi ha promesso la scorsa
volta?”
L’uomo rise, frugandosi in tasca.
Ne estrasse un piccolo pacchetto, che fece tintinnare davanti agli occhi
illuminati della ragazza. “Vieni a prenderlo.”
Anna salì con le ginocchia sul
tavolino, sporgendosi verso l’uomo, le dita che si chiudevano attorno alla
scatolina. “E un bacino no, piccola?”Lei gli stampò un bacio veloce sulla bocca, prima di sedersi sul tavolino,
dando la schiena all’uomo, aprendo la scatolina. “Oh si! Sono proprio gli
orecchini che volevo!” esclamò. L’uomo si era alzato, avvicinandosi alla
schiena di Anna. Fece scivolare una mano sulla spalla e poi dentro al colletto
della divisa scolastica. Vide Anna trattenere il respiro e deglutire, mentre la
mano dell’uomo scendeva verso il suo petto.
La stanza era di nuovo grigia.
Era un’altra allucinazione, o questa volta si trattava di un ricordo?
Le pareti della stanza sembravano
chiudersi su di lei. Nina si coprì gli occhi con le mani, ripetendosi che fosse
tutto un’allucinazione e che sarebbe tutto finito presto.
6° Giorno.
La vista stava scemando. E la
febbre non la lasciava stare. Faticò a voltarsi verso la porta, quando la sentì
aprirsi, per la prima volta dopo giorni. Non si sorprese nel vedere entrare AlisaBoskonovitch, d’altronde,
durante le sue ultime allucinazioni, si era trovata a parlare con suo padre,
con Edgar Allan Poe e con Volkov,
che le aveva chiesto un’aspirina per il suo mal di testa post sbronza.
L’androide si fermò davanti al
suo letto, osservandola senza espressione. “Non hai ancora intenzione di
parlare?”
Nina voltò fieramente lo sguardo
altrove, non riuscendo ad emettere suono.
“Eppure stai soffrendo” Alisa sembrò osservarla meglio, quasi come se stesse
analizzando le sue condizioni fisiche. “Non arriverai a domani sera” spiegò.
Rimase un attimo in silenzio,
come se si aspettasse davvero che l’ultima frase sortisse qualche effetto su di
lei. “Sei davvero bella.”
Nina la guardò scettica. Cosa doveva
sopportare, anche le avances di un androide femmina? “Diciamo che ho stile”
"Lui ti Desidera"
Senza nemmeno tentare di sedersi,
Nina le prestò attenzione: certo, era sicuramente un’allucinazione, ma aveva
del tempo a sua disposizione, poteva tranquillamente fare conversazione con
essa. Chi la desiderava, a parte Sergei?
“Lars
ti desidera” ripetèAlisa,
sospirando.
“Questo cambia le cose.” Tossicchiò
la donna. “Potrei davvero provare a sedurlo, magari mi farebbe uscire. Si, sono
convinta di essere molto sensuale in questo momento.”
Alisa distolse lo sguardo con uno
scatto della testa. “Lui ti vorrebbe, io lo so, glielo leggo negli occhi. Ma mi
ha giurato che non mi tradirà.” Mosse qualche passo per la stanza. Nina si
domandò se fosse dotata di pensieri propri, sembrava assorta. “Io mi fido del
mio Lars. Anche se so che sono diversa da una donna
vera, so che non mi tradirà.”
Parlare le stava risultando
sempre più difficile: “E allora perché sei qui?”
Era un androide talmente ben
costruito da provare la gelosia femminile tanto quanto fosse stata una donna in
carne ed ossa? E anche l’invidia per non essere tale, a quanto pareva.
Ma tutto ciò non aveva
importanza. Era tutto un’allucinazione, un sogno. Uno degli ultimi, a giudicare
dalle sue condizioni fisiche che peggioravano di minuto in minuto.
Il robot si avvicinò, chinandosi
verso di lei. “Volevo vederti soffrire” mormorò. “E ci sto riuscendo” La sua
voce sembrava afona, nessuna inflessione sadica la turbava. Forse non ne era
soddisfatta?
“E ti senti meglio?”
Alisa scosse appena i boccoli rosa. “Quando
tu morirai, lui desidererà un’altra.” Si alzò e si diresse verso la porta. “Ma
avrà sempre e solo me. Me l’ha giurato”
“E tu credici.” Sogghignò Nina,
conscia che la sua smorfia avesse assunto ormai un aspetto grottesco. “Dovrà
bastarti.”
L’androide sembrava sul punto di
colpirla, ma si ritrasse all’ultimo momento, per lei non ne valeva la pena
sporcarsi le mani candide, quando poteva vedere la rivale agonizzare e cedere
sotto il giogo del veleno.
Quando fu uscita, Nina non era
più sicura che fosse tutto una visione.
7° Giorno.
Era come se miliardi di spilli
incandescenti fossero piantati nel suo corpo. Il dolore era così acuto da
strapparle dei faticosi lamenti, i muscoli non rispondevano più ai suoi
comandi, attraversati da scatti improvvisi, come se fossero percorsi da scosse
elettriche.
Nina si era accorta di non
possedere più la vista, e anche la facoltà di parola sembrava averla
abbandonata. C’era solo il dolore, in un universo buio e terribile. E l’udito,
che le faceva sentire i rimbombi delle sue stesse urla nella cella.
Fu più volte sul punto di urlare “Basta!”
e di chiedere l’antidoto, ma con la poca capacità di pensiero che gli era
rimasta si rendeva conto che ormai era troppo tardi.
Si arrese al dolore, piegata su
un fianco, lasciando che il respiro affannoso si spegnesse da solo, insieme ai
battiti del suo cuore.
Sentì la porta aprirsi
nuovamente, e si domandò se stesse per arrivare di nuovo l’allucinazione di AlisaBoskonovitch.
Invece sentì una mano guantata sfiorarle la guancia madida di sudore gelido e
scostarle le ciocche di capelli.
Alle narici rose dalla febbre
arrivò l’odore di salsedine, che la convinse che tutto era davvero finito, e
che era stato tutto un bruttissimo incubo doloroso. Quella mano era di Sergei, ne era sicura, che la stava svegliando. La mano guantata la voltò supina, ma non le ridiede la vista. Sentì
il pezzo di stoffa che veniva sfilato dalle sue labbra. “Sergei?”
riuscì solo a mormorare.
“Sergei?”
All’improvviso, il profumo del
mare era scomparso. Quella voce non era quella del suo uomo, e venne di nuovo
avvolta dalla consapevolezza che lui non c’era, non ci sarebbe mai più stato,
non con lei su quella terra.
Ormai non valeva la pena
disperarsi. Nemmeno riconoscendo la voce che le aveva risposto. Lei era persa,
morta ormai, e nulla sarebbe riuscita a scuoterla. Si rese conto che l’ultima
volta che aveva sentito il suo cuore era stato quando Alexandersson
le aveva insinuato il dubbio di aver spedito Sergei
all’altro mondo.
Aveva iniziato a morire in quel
momento, senza veleno.
“Mi ha preso per il tuo
fidanzato, Nina?” La canzonò la voce.
La voce di LarsAlexandersson.
Eh, questa volta è davvero difficile
saltarci fuori, vero Nina? (Stron2a sadica…NdNina)
Spero di aver reso bene l’idea
della situazione e della sofferenza di Nina.
Ma Dragunov
sarà morto o no? E che vorrà Lars? (… beh, vedete un po’
voi! NdAlexandersson)
Come sempre, vi ringrazio per le
recensioni! Vi voglio troppo bene!
Fate
lies ahead
Like the sun will rise
The light has been gone far too long
From your eyes
But you never changed, never played your part
And you have erased all the fear from your heart
And tried to forget
The light in your eyes keeps fading out
Night's falling deeper in the heart
Hiding the truth and crashing down
My baby's a dancer in the dark
La
mano di Alexandersson scese dalla spalla sino al
polso, tastandolo come se volesse fratturarglielo da un momento all’altro. “ E
così, ecco la spietata Nina Williams sul letto di morte” Sembrava divertito, e
Nina poteva tranquillamente immaginarsi il suo sorrisetto sadico.“Agonizzante e alla mia mercè…”
Il
filo di voce che riuscì ad emettere la donna fu il più faticoso della sua
esistenza, e di certo non aveva nulla di minaccioso . “Non cantar vittoria
troppo presto” Cercò di muovere il braccio, di tentare una mossa, ma il suo
corpo si rifiutava di risponderle, e il debole guizzo muscolare procurò la
risata divertita dell’uomo, che le afferrò anche l’altro polso, spingendoglieli
entrambi contro il materasso. Nina avvertì il suo peso sulla brandina, e le
tornò in mente, offuscata e lontana, la conversazione con AlisaBoskonovitch. Non riuscì a far altro che a lasciare
che un lamento le uscisse dalla bocca, rendendosi conto che, probabilmente,
quella non era di certo un’altra allucinazione.
“Con
la tua morte, ci sarà un essere spregevole in meno al mondo, Nina.” Sibilò. “Provo
disgusto per te.”
“Perché
sono un’assassina? Anche tu hai ucciso” mormorò la donna. Stava cercando di
prendere tempo, per lasciare che il veleno le togliesse l’ultimo respiro, prima
di subire un’ultima, indegna umiliazione.
“E’
diverso. Io ho tolto la vita a mostri come te, per un’ideale. Tu l’hai fatto
solo per soldi. Non avevi un motivo valido per portare a termine la vita delle
persone che hai ucciso. Io invece ce l’ho. Tolgo la vita ai miei nemici, quelli
che hanno seminato morte e distruzione. Anche se erano miei famigliari. Non hai
notato che Tokio era semideserta? Gli innocenti li avevo già fatti evacuare.
Erano tutti in salvo. Peccato per chi mi ha mosso guerra.”
“Sei
un bastardo.” Nel bisbiglio di Nina c’era tutto il disprezzo che poteva esprimere.
“Un vero Mishima”
“Dipende
dai punti di vista.” Ridacchiò l’uomo. Lo sentì percorrere il suo corpo con le
mani, e sentendo il ribrezzo che le procurava. “Forse a tua sorella e a tuo
figlio – si, lo so che Fox è tuo figlio… ma non è un
mio obbiettivo – unpo’ dispiacerà. Ma
sarà una cosa passeggera. Anna sarà rincuorata dalla sua famiglia, Fox dalla
sua nativa americana. Alla fine, a nessuno mancherai veramente. Non sarà una gran perdita.”
Le
lacrime pizzicarono gli occhi bui della donna, mentre sentiva il fiato di Alexandersson sul collo.
Voglio morire
pensò, Provò a trattenere il fiato, ma l’istinto fu più forte della sua
volontà. La testa le cadde di lato, le braccia abbandonate senza più forze.
L’oblio stava arrivando, ma non era così veloce come avrebbe voluto. Il benservito per le mie azioni si
commiserò. Quello che mi merito.
“C’è un ultimo sfizio che voglio togliermi,
Nina.” I bottoni del camice cedevano alle dita dell’uomo. “Uno sfizio che
voglio togliermi dalla prima volta che ti ho vista. Oh, so cosa stai pensando:”
le scostò le ciocche di capelli dalla faccia, muovendogliela tra le dita. “Si, Alisa è dolce, è cara, fedele… ma
non è una vera donna. E’ un freddo robot, nonostante tutti i suoi sforzi, non è
paragonabile ad una donna in carne ed ossa…”
La
sua lingua invase le labbra di Nina. Tentò di morderla, senza successo.Ormai era la fine. Ma perché il suo cuore
batteva ancora?
Perché
non riusciva ad arrendersi al buio?
Voglio morire…
una discesa lenta verso l’oblio
Voglio morire…gli
arti quasi non le facevano più male
Voglio morire
… non aveva più sensibilità da nessuna parte. Ormai lei non era più lì.
E
il rumore di un’esplosione, in lontananza, che le era giunta alle orecchie
doveva essere davvero l’ultima allucinazione.
Probabilmente
la sensibilità del suo corpo era svanita del tutto, perché non sentiva più le
mani di Alexandersson su di lei. Tanto meglio.
Una
voce acuta che gridava, la porta della cella che si apriva, e un attimo di gelo.
“Mi
hai tradito!”
“No,
Alisa, fermati, aspetta…!”
“Mi
avevi giurato che mi saresti rimasto fedele, che non l’avresti sfiorata nemmeno
per sbaglio!”
Che
cosa divertente. Chissà se stava succedendo davvero. La voce di Alisa era stridula, se fosse stata un’umana sarebbe
scoppiata a piangere, avendo una crisi isterica. “Io mi fidavo di te! Ti ho creduto! Lars, come hai potuto farmi questo?”
Lars
era sempre in prossimità del letto, e cercava in tutti i modi di discolparsi.
No,
quella non era un’allucinazione. Ironia della sorte, la cosa più improbabile
era reale. Peccato non vedere quella scenetta.
Un’altra
esplosione, più vicina.
“Alisa, ne parliamo dopo, dobbiamo scappare”
“Io
non scappo con te!” Sembrava stesse singhiozzando. “Come hai potuto farmi
questo?”
I
passi si allontanavano concitati dalla stanza.
Senza
degnarla di una parola.
Ora
era davvero sola.
Sola
con i rumori di spari e urla fuori dalla cella. Chissà che stava accadendo. Oh
beh, non aveva più importanza adesso.
Ma
sola, a morire.
Poteva
dirigere i suoi ultimi, faticosi pensieri dove voleva lei.
A
Steve e ai suoi occhi brillanti e vivi.
Ad
Anna e al suo nuovo sorriso caldo, rivolto al figlio appena nato.
A
Sergei, chissà se e dove la stava attendendo, l’uomo
che le aveva invaso la mente.
E
si, anche quel muscolo che prima avrebbe giurato di non possedere, che
risiedeva nel suo petto e che batteva ancora più piano.
L’ultima
volta che l’aveva contemplato, dedicandogli il suo pensiero, l’aveva fatta
cadere in trappola.
La
sua prima debolezza l’aveva uccisa.
Non
avrebbe avuto più l’occasione di cedere di nuovo.
C’era
una voce che urlava qualcosa in russo. Chiamò qualcuno, e sentì la frequenza di
una radio.
Ormai
sentiva la lingua russa in ogni dove? Cercò di prestare attenzione, sicura che
ormai fosse davvero l’ultimo scherzo del veleno.
“Abbiamo trovato Williams. Viva
signore. Ancora per poco però.”
Una
mano le premette sulla giugulare, per sentire il cuore. Altri passi, e il busto
che le veniva alzato, le spalle che le venivano scosse. “Williams!”
Quella
voce! Oh, almeno il veleno era clemente, a riportare a galla la sua voce, prima di ucciderla!
“Williams!”
lo sentì chiamare, più piano. “Che diavolo ti hanno fatto?” Poteva sentire le
sue dita sulla gola, poi sulla guancia, che le scostavano i capelli dorati. “Nina…” Non c’era disperazione, né rassegnazione, nessuna
inflessione emotiva. Ma c’era la sua voce, e la sua presenza vicino a lei.
No,
non poteva essere un’allucinazione. Era la realtà. Lo sentiva.
“Non c’è più niente da fare, Dragunov. Ormai Williams è persa. Andiamo.” Quella
era la voce di Sharapov.
Scivolò
dalla presa di Sergei, si sentì adagiare sul letto,
le braccia raccolte sul grembo. Un’ultima carezza, sulla fronte.
Non
poteva finire così. Si sforzò di emettere un qualsiasi suono, di fare un
qualsiasi gesto. Nulla. Era imprigionata nel suo corpo.
“Addio
Williams.”
Dentro
di sé urlava, impotente. Di nuovo, gli occhi le pizzicarono. Non poté impedire
che una lacrima scivolasse tra le sue palpebre semichiuse, attraversando la
tempia, mentre avvertiva che la presenza di Sergei si allontanava da lei.
“Pashkin,
Tatarskij, copritemi le
spalle.” Si sentì
sollevata da due braccai forti che ben conosceva.
“Ma il comandante Sharapov ha detto…”
“Me ne fotto”
Si sentì adagiata su una spalla, e per un attimo la flebile fiamma della
speranza scaldò il suo cuore. “Mi
prenderò tutte le responsabilità del caso”
I
sibili degli spari e i rumori dei combattimenti erano vicinissimi, ma non se ne
preoccupava. Ora sapeva di essere al sicuro, e anche se fosse morta in quel
momento, sarebbe stata felice di morire così, tra le sue braccia, mentre lui sfidava gli ordini per salvarla .
Io non voglio morire.
Dragunov
rovinò a terra, trascinando anche lei, ma si rialzò subito, imprecando. Riprese
a correre, mentre urlava indicazioni ai due soldati che coprivano la fuga.
Una
folata di aria fresca colpì il volto di Nina, insieme all’odore di carburante e
di esplosivo. Erano fuori dalla base di Alexandersson?
La
corsa di Sergei finì, e si sentì appoggiata, neppure
troppo delicatamente, su una superficie dura. Qualcuno l’assicurò a qualcosa,
sentì delle parole concitate, degli ordini, raccomandazioni, gente che le
tastava la gola e che le infilava qualcosa nel braccio.
Un’altra
esplosione, più grande delle precedenti, e di nuovo la voce di Sergei. “Ve l’avevo
detto che sarebbe stato meglio per voi seguirmi…”
Era
finita. In ogni caso, era finita.
Si
concesse di svenire.
Via dalle Grinfie di Lars! Non voletemene Fan di Alexandersson…
mi serviva un cattivo, e in genere i Mishima si
prestano bene a ricoprire questo ruolo!
La canzone iniziale è DANCER IN THE
DARK –THE RASMUS.
X AngelTexasRanger:
chissà come mi odi, ora! Su su… come ha detto Lars, Alisa è splendida ma… è un robot. Non è stata progettata per i fini – ehm –
pratici.
X SackBoy97: Tifi ancora per Lars? :P
X Miss Trent:
Grazie ancora ciccia! Adesso sognati questo soldatino salvatore! (oddio, questa
si sogna davvero che entra Dragunov nella camera e se
la branca via!)
X Nefari:
grazie mille per la tua recensione! Spero di non averti delusa!
Ringrazio anche Krisalia
e Nila!
Besitos, fatemi sapere, vi prego, se vi ho
soddisfatto… le vostre recensioni, i vostri commenti
(anche critiche, per carità) sono pane per i miei denti!
Una scossa. I muscoli che si
tendevano, attraversati dalla corrente, la schiena che si inarcava.
“LIBERA!”
Un’altra scossa. Ancora brividi
elettrici tra i tendini e i nervi. E questa volta poteva sentire un vago dolore.
“Abbiamo
il battito.”
E aveva iniziato a galleggiare.
Era notte, ma non c’era più
freddo. Anzi, riusciva ad avvertire tepore attorno alle sue membra. Ma era
tutto così confuso, così…lontano.
Aveva iniziato a sentire dei
rumori, a centinaia di chilometri da sé, voci, spezzoni di frasi. Ma non erano
vicini al posto in cui galleggiava
lei. Erano da un’altra parte, in un’altra dimensione, in un mondo fermo e
statico, di cui lei ora non faceva parte.
“… perché so che puoi sentirmi. Anzi,
scommetto che tra poco ti sveglierai, e mi insulterai dicendomi che la mia voce
da cornacchia sveglierebbe pure i morti.” Una risata leggera, appena accennata,
e il tepore che si accentuava da qualche parte, sul suo corpo. “Ti racconto tutto, Nina? Ma si, dai, credo
che tu abbia tempo”Quella voce lontana
ed evanescente le faceva danzare davanti agli occhi trasparenti l’immagine di
una giovane donna con un corto capello castano. Anna?
Anna, nella sua veste scarlatta,
le parlava dalla sponda di quel lago scuro in cui lei era immersa. Sussurrava a
pelo dell’acqua, affidava alle onde parole che echeggiavano debolmente nelle
orecchie.
“Ti hanno dato per spacciata ben due volte. Ed entrambe le volte ti sei
ripresa. Tutt’ora i medici sostengono che tu abbia poche possibilità di
salvezza. Poveretti, non ti conoscono proprio!”
Il tepore arrivava dalla sua
mano. C’era qualcosa appoggiato sopra le sue dita, che le scaldava e la faceva
riaffiorare dall’acqua. “Uhm, vediamo cosa posso dirti…ah,
si. Aggiornamenti! Alexandersson è saltato per aria,
sai? Kaboom! Non ho capito molto bene come siano
andate le cose, ma pare che l’androide che era con lui – com’è che si chiamava?
Elisa? Arisa?Alissa? Mah -
sia esploso. Probabilmente si è suicidato per non cadere in mano al nemico. Non
è stata una brutta idea, la sua.”
La voce di Anna echeggiava tutto
attorno a lei. Era rassicurante sentirla in mezzo a quelle tenebre. Avrebbe
voluto risponderle, ma l’acqua le impediva di parlare. “E poi ti devo raccontare
di Jamie! Ti devo portare assolutamente una foto, oh,
quanto è bello! Ma forse sono di parte. In ogni caso, è diventato il beniamino
della base. Tutti lo cercano e tutti mi fanno i complimenti per il piccolo. Oh,
beh, piccolo… pesa già4 chili e mezzo, a sole due settimane di
vita! Lee ne è estasiato. Semplicemente, lo adora. Quando lo prende in braccio
sembra che abbia tra le mani il Dalai Lama!”
Le onde avevano iniziato a
distorcere le parole di sua sorella, non gliele portavano limpide e chiare.
Qualcuno le disse qualcosa che lei non afferrò. Il tepore sulla mano si strinse
attorno alle sue dita. “L’orario delle visite è finito, non puoi stancarti
troppo. Devo andare, anche perché il piccolo Buddha reclama sicuramente la sua
poppata pomeridiana. Buon riposo, sorellina.”
Il tepore lasciò la sua pelle,
per poi tornare quasi subito. “Ah, credo di aver capito chi è l’uomo con cui
hai una ‘sottospecie di relazione’. E’ Dragunov,
vero? Viene sempre a trovarti, alla sera. Spesso sta fuori dalla porta e ti
osserva dalla finestrella. Ogni tanto entra, ma non credo che ti ammorbi di
chiacchiere come faccio io…!”
Era leggera. Così leggera che
fluttuava. Un peccato che stesse fluttuando nella notte e che non riuscisse a
vedere la terra sotto di sé. Ma il vento
le accarezzava le guancie, insistentemente, e si insinuava, caldo, tra le dita
di una sua mano. Il vento condusse a lei una voce maschile, incrinata dall’emozione,
ma decisa a resistere e a mostrarsi calma e ironica.
“… avremo qualcosa in più in
comune, oltre al nostro patrimonio genetico” C’era della foschia davanti a sé, fumo che
prendeva le sembianze di suo figlio. Steve?
“Potrò avere una vita
normalissima, come la sto conducendo ora, anche senza un rene. E se ne avrò
bisogno, te lo richiederò indietro!”
Un rene? E perché? A cosa serviva
un rene, quando si fluttuava e si veniva cullati dal vento? Perché ora la usa
mano era bagnata? Stava per tornare nel lago?
“Ti offendi mamma se dico che ho
un po’ paura?”
Steve era ora un bambino biondo che
si mangiucchiava le unghie, nervoso. Non
aver paura, la mamma è qui.
“Ci sono tante cose che ti devo
ancora chiedere, e non ne ho il coraggio, sai? Vorrei sapere se tu, senza sonno
criogenico, mi avresti tenuto. Se mi avresti cresciuto con te. Ci conosciamo
così poco… Ma farò in modo che tu ti possa svegliare,
mamma, e cercherò di trovare la forza di farti tutte le domande che voglio
porti.”
E la mano rimaneva umida, fresca,
sulle dita l’impronta di due labbra che le appartenevano più di quanto si
potesse immaginare. Il calore non svaniva neppure quando non le fu più vicino.
Un inglese stentato spezzava il
silenzio di quella notte stellata. “Non c’è stato rigetto, e il rene ha
iniziato sin da subito a funzionare correttamente.” Lei era nel cielo trapunto
di stelle, circondata da quegli astri brillanti, ma dissimile in tutto e per
tutto da loro.
“E’ ancora presto per dirlo,
bisognerà attendere che il fegato ripristini la sua funzione e che si risvegli.”
“Grazie dottore.” Mormorò una voce femminile,
dal tono sereno.Un rumore strano,
vicino a dove si trovava lei, quasi una vocetta
gracchiante. Un vagito.
La voce femminile fece un debole “Shhh” per acquietare la vocina. “Oggi ti siamo venuti a
trovare con Jamie” sussurrò la voce femminile, che
lei si sforzò di riconoscere come quella di Anna. “Ho pensato che ti poteva
riportare in questo mondo con uno dei suoi DO di petto.”
Le stelle avevano assunto una
posizione ben precisa. Tanti, milioni, miliardi di puntini luminosi si erano
radunati a formare la figura della sorella con un bambino al collo. Attaccato a
lei, formato alla stessa, scintillante maniera, Lee.
“Già, dovresti sentirlo! Quando ha
fame, o le colichette, fa un concerto!”
“Abbiamo un solista in famiglia,
Nina. Non vedo l’ora di farti vedere come è cresciuto.” Ancora un piccolo
vagito, quasi un urletto. “Appunto, è d’accordo anche
lui!”
“L’operazione è andata benissimo.
Steve ti ha donato uno dei suoi reni – uno dei tuoi era completamente da
buttare e l’altro era messo malissimo – ed ora il tuo fisico potrà riprendersi
piano piano. Stai facendo progressi, sai? Hai avuto
delle reazioni al caldo e alla luce. Almeno, così ci hanno detto.Non preoccuparti, Steve sta benissimo, si è
già ripreso e non ha avuto conseguenze, se non che gli hanno perso il piercing
al capezzolo e ora è imbronciato perché gli si richiuderà il buco. Ieri mi ha
chiesto uno dei miei orecchini. Julia gliel’ha messo e…
oh, che schifo, vedrai la foto. Sembrava uno Zulù con quel cerchio colorato al
capezzolo.”
“Orribile” concordò divertito l’uomo.
La luce si rivolgeva a loro,
lasciandola al buio. Apparivano di secondo in secondo sempre più sfavillanti,
composti da diamanti splendenti.
Il bambino sembrò agitarsi e
piagnucolare. Lee si chinò verso la moglie per prenderlo, dicendo che l’avrebbe
portato fuori, così da non disturbarla.
Rimase solo Anna nel cielo,
diversa come non mai da lei. “Noi dobbiamo andare. Il nostro visto è scaduto, e
ci hanno chiesto di lasciare il paese.”Calore. Calore tra le sue dita, sul suo braccio. Calore e tremore,
apprensione. “Ho fiducia in te, Nina. So che non ti lascerai andare. Ti conosco
troppo bene, non sei così stupida da mollare proprio ora. Tu non sei una bambolina mollacciona. Non mi deluderai.
Non ci deluderai. Mi dispiace solo
che non potrò vederti da sveglia. Non subito, ovviamente. Ci vedremo quanto
prima vero? Ci terranno informati sulle tue condizioni di salute. L’ho chiesto
esplicitamente.”Una mano sulla sua
fronte. “Cavoli Nina, meno male che stai dormendo e non puoi guardarti allo
specchio. Ha un aspetto orrendo. E pensare che ieri mi sono anche messa d’impegno
per metterti a posto almeno le sopracciglia, ma non è che sia servito granché.”
Nel cielo rimbombò un altro
rumore, e la figura di Anna si guardò alle spalle. “Oh, è lei!” esclamò
sorpresa. “Stavo andando, il nostro volo parte tra poco.”Si rivolse nuovamente a Nina. “Buona fortuna
sorellina. Ti aspettiamo alle Bahamas.”
Le stelle scemavano, tornando al
loro posto, mentre Anna si voltava e si allontanava.
“Mi farà sapere, vero?” domandò
al nuovo arrivato. “Grazie. Mi dispiace non essere qui, quando si sveglierà, ma… beh, non sono preoccupata. La lascio in buone mani.” Le
ultime stelle stavano lasciando il suo contorno, quando Anna si voltò di nuovo
verso il suo angolo di tenebra. “Non le parla mai, vero? Dovrebbe. Lei ascolta,
sono sicura che parlarle l’aiuterà a tornare da noi.” Sembrò attendere qualcosa
dal suo interlocutore, che restò in silenzio, all’ombra delle stelle. “Non le
costa nulla provare. E poi, qui non la sente nessuno. Abbia cura della mia
sorellina, Dragunov.”
Dragunov. Un nome che si infrangeva su di
lei come un’onda di acqua salata. Poteva sentire il suo profumo, fragranza
maschile inconfondibile sulla sua pelle.
La notte volgeva al termine, le
costellazioni scivolavano via insieme, e la stella del Mattino palpitava in
lontananza, specchiandosi sul mare che si tingeva dei colori pastello dell’alba.
C’era la brezza che increspava le onde, facendole sbattere sugli scogli e muovendo
la sabbia che la circondava e su cui era adagiata, la rena bagnata e tiepida
del primo mattino.
Lo sciabordio la cullava,
sottolineando la dolcezza di quell’insenatura deserta, abitata solamente da
lei, naufraga delle tenebre e dai cespugli secchi della vegetazione
mediterranea, che crescevano sino al limitare della spiaggia. Sulmare ondeggiava la vela di una barca bianca,
ferma a pochi metri dalla riva.
Nina non aveva mai visto nulla di
più bello, e niente era mai riuscito ad infonderle più pace. La calda carezza
del sole che spuntava all’orizzonte la scaldò dentro, e la investì di luce.
C’era qualcuno seduto accanto a lei, ne
avvertiva la presenza. Qualcuno che, lo sapeva, era sceso dalla barca a vela ed
era arrivato a nuoto sulla riva, guardandola mentre dormiva senza osare
interrompere il suo sonno.
Non si voltò a guardarlo, non ne
aveva bisogno. Conosceva sin troppo bene i suoi tratti affilati, gli zigomi
alti, le labbra livide ed imbronciate solcate da una sottile cicatrice. Poteva benissimo
immaginarsi le gocce d’acqua salata che scivolavano sui suoi lineamenti duri,
tra i suoi capelli neri, infrangendosi contro le sue spalle, solcando i suoi
muscoli. Restarono in contemplazione
dell’alba che avanzava per qualche minuto, e poi lui parlò.
“Sei la persona più tosta di
questa terra, Nina.” C’era un’incrinatura nella sua voce profonda, una vena di
ammirazione, quasi calore. “Dicono che non ti riprenderai. Che resterai un
vegetale, e che i tuoi organi collasseranno, uccidendoti.”Il sole aveva smesso di salire, e sembrava anzi
retrocedere, scomparire all’orizzonte. “Ma io non ci credo.”
Lo sentì sfiorarle la pelle del
braccio. Le sue mani erano libere dai guanti, le dita dure come la pietra si
piegavano su una carezza distratta, fatta per indugiare sulle parole da dire. “Dicono
che hai sofferto incredibilmente. E a questo credo. E’ stata colpa mia.”
Il sole era fermo. Immobile. La Terra
non girava più, anche il mare sembrava essersi fermato.
“Ho visto quando ti hanno presa,
Nina. Ero sull’elicottero, e uno dei soldati della squadra mi ha urlato che tre
soldati della TekkenForce
ti avevano catturata. Ho preso il fucile e mi sono sporto però…
non ho sparato.
Anche se ho visto chiaramente che
uno di loro era Alexandersson, non sono riuscito a
sparare. Eri tra le loro braccia, ti avrei colpita. Si, lo so. Meglio morta che
in mano al nemico. L’ho pensato anche io. Ma non ce l’ho fatta. Sono stato così stupidamente debole. Saresti stata
torturata ed uccisa ed io, idiota, non
riuscivo ad impedirlo, perché non ti volevo piantare un proiettile in testa, perché
non riuscivo ad ucciderti. Non ho mai avuto remore ad terminare la vita di
qualcuno, ma con te non ce l’ho fatta. Ti avrei risparmiato ciò che hai
passato.” Restò un attimo in silenzio, con il sole indeciso sul da farsi. “ Staccherei
la testa di Alexandersson a morsi, se non si fosse
fatto esplodere autonomamente.” Dita che si infilavano tra le sue, stuzzicandole,
giocherellandoci, prima di portarle alle labbra che ne rimanevano pensierose a
contatto. “Sharapov è morto. Se gli avessi dato
ascolto, lasciandoti in quella cella, sarei morto anche io. Invece sono vivo, e
sono stato promosso di grado, prendendo il suo posto. Ho fatto bene a salvarti
e a disobbedire.”Il palmo della mano
sulla sua guancia liscia. “Ma tu non apri gli occhi, e questo non mi va giù.”
Il sole si era alzato. Era altissimo
in cielo, splendente e accecante. La barca aveva levato gli ormeggi ed era
partita, con il suo comandante al timone. Ma lui sarebbe tornato, se solo lei
si fosse svegliata.
Dopo quattro settimane di coma,
Nina Williams aprì gli occhi.
Rieccoci!
Dunque:
immagino che due palle vi siano venute con questo capitolo. Avete ragione.
Il
fatto è che io non sono mai stata in coma (per fortuna) e volevo descrivere la
sensazione di totale estraneità del proprio corpo che aveva Nina, insieme al suo
‘sentire’ le persone che parlavano con lei. Morale: ne è risultato sto papiello onirico: tranquilli, niente droghe per me stasera.
Solo la candela dell’Ikea ai frutti di bosco accesa vicino a me. (dite che…?)
I
commenti del precedente episodio, e quelli di ChillingMissing, mi hanno lasciato estasiata…
posso vivere senza nutella e senza crema idratante, ma mai senza le vostre
recensioni!
GRAZIE
GRAZIEGRAZIE. Per favore
fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo, se sono stata esaustiva, se
ho usato descrizioni appropriate ( e se ho descritto bene).
Ovviamente
il Titoloè l’omonima canzone degli Evanescence.
PS:
non penserete mica che questa Ff finisca qui, vero?
Nina
Williams si lasciò cadere sul divano, il fiato corto:faceva fatica addirittura a salire le scale
di casa, figurarsi a partecipare alle missioni.
Dietro
di lei Sergei lasciò cadere la sua borsa sul
pavimento, chiudendo la porta alle sue spalle con un colpo del piede,
lanciandole un’occhiata, che lei evitò: detestava farsi vedere in quelle
condizioni a suo dire “pietose” e cercava di nascondere la fatica che faceva a
fare le cose più elementari.
Ma
sarebbe stata una cosa temporanea. Era logico che il suo fisico fosse
debilitato dopo un avvelenamento, un trapianto di rene e un mese in
rianimazione. Per essere stata ad un passo dalla morte, era davvero un fiore.
Avrebbe
intrapreso un allenamento riabilitativo appena le fosse passata la debolezza
post –ricovero. D’altronde sino a dieci giorni prima era in coma, ed in quel
momento rivedeva l’appartamento che condivideva con Sergei
per la prima volta dopo più di quattro mesi. Osservò il salotto, senza
meravigliarsi di non trovare nessun cambiamento. Incrociò le gambe sul divano,
rabbrividendo. “Non avevo mai notato quanto freddo ci fosse in questa casa”
“Siamo
a Luglio. Neppure qui fa freddo in questo mese. È il tuo fisico che è
debilitato.”
Nina
sbuffò, raggomitolandosi su sé stessa. Non si era mai sentita così debole, era
una sensazione umiliante e frustrante.
“Dovresti
andare a letto. Non ti sei riposata per tutto il giorno e ti sei pure voluta
fermare a mangiare in un bar.”
“Dopo
un mese in coma una boccata d’aria è un diritto elementare” borbottò la donna
alzando le spalle. “Di tutta questa storia la cosa più piacevole è il mio
infermiere personale.” aggiunse, con una vena ironica, facendo alzare un
sopracciglio all’uomo. “Va bene, va bene: fai così perché sei il mio
responsabile, lo so.”Da quando si era
risvegliata, aveva iniziato ad appuntarsi i ricordi che le riaffioravano alla
mente relativi al suo sonno, e a cercare un riscontro con ciò che era successo
in realtà. Si era sorpresa ad avere la certezza che sua sorella passava davvero
molto tempo nella stanza con lei e le parlava di continuo, mentre le faceva le
sopracciglia o la manicure. Le aveva portato davveroJamie a trovarla, e aveva cercato
davvero di aiutarla. Era senza
parole: l’aveva ringraziata, al telefono, e l’aveva sentita davvero felice di saperla sveglia e in fase di
recupero.
Che
fossero gli ormoni?
Se
gliel’avessero detto, non ci avrebbe creduto. Ormai poteva davvero capitare di
tutto al mondo, non si sarebbe neppure sorpresa di vedere un asino volare o HeihachiMishima predicare la
nonviolenza.
Steve
le aveva davvero donato un rene. L’aveva visto appena si era svegliata, era
corso in camera sua zoppicando, estasiato di rivedere sua madre viva. E lei lo
avrebbe preso volentieri a calci, per la sua incoscienza. Ma era stata più che
felice di rivederlo. Ora si trovava in Arizona, con Julia, e si stava
riprendendo a colpi di carne di bufalo cacciata dalla sua dolce metà.
Per
quanto riguardava Dragunov… beh, lui era un punto
interrogativo costante. In confronto alla reazione entusiasta del figlio, lui
era sembrato appena sollevato dal suo
ritorno alla vita, e di certo era difficile trovar riscontri sul suo discorsetto che si affacciava tra la
nebbia della sua memoria.
Però
la sua salvezza la doveva solamente a lui. Aveva disobbedito per lei. E come
non ricordare quell’idea folle e dolce di far rotta per la Grecia?
Era
venuto a trovarla spesso.
E
ora l’aveva riportata nel loro appartamento.
Per
i suoi standard, poi, era quasi premuroso nei suoi confronti.
Erano
tanti indizi che le suggerivano che, per Sergei, lei
fosse davvero…davvero…qualcosa.
Forse
era il caso di togliere il suffisso sottospecie
dallo stadio relazione.
Si
alzò a fatica, puntando verso le camere da letto. Si soffermò in mezzo alle due
porte. Il suo istinto di autoconservazione, quello che usava per proteggerla da
sentimenti e qualsiasi cosa potesse scalfirla, si era risvegliato proprio in
quel momento, per suggerirle di tornare nella sua camera.
Se ti vuole, ti verrà a cercare
lui.
Ma
che diavolo,dopo tutto quello che
avevano passato riusciva ancora ad avere qualche remora?
“Non
ti ricordi più? La porta a destra!” le suggerì brusco l’uomo. Nina sorrise tra
sé e sé, aprendo la porta di quella che si sentiva di chiamare la loro camera.
Dragunov
ritornò alle undici di sera, dopo una riunione. Nina notò un barlume di
sorpresa nei suoi occhi gelidi, quando, entrando nella stanza, la vide ancora
sveglia, seduta contro la testiera del letto.
“Non
riesci a dormire?” le domandò, togliendosi la giacca per abbandonarla sulla
sedia, come suo solito. La donna scosse la testa, senza distogliere lo sguardo
dal suo. “Ti voglio.” Spiegò semplicemente.
Sergei
la fissò, slacciandosi la cravatta e la camicia, quasi sorpreso dalla
spontaneità di quell’affermazione, che di certo non disdegnava: “Se ti prendo adesso, ti rimando in
rianimazione.”
“Correrò
il rischio…” mormorò la donna, scostando le lenzuola.
Non smetteva di fissare gli occhi dell’uomo, che sembravano accendersi di
secondo in secondo, mentre si toglieva, con lentezza esasperante, i vestiti,
sorridendo alla sfida. “Non mi provocare…”
“L’ho
già fatto” Sussurrò, mentre lui scivolava sotto le lenzuola con lei. Le sue
labbra corsero sul collo, le mani affamate percorrevano la sua pelle, mentre
faceva aderire il suo corpo con il suo. Nina rabbrividì di piacere, sentendo
l’adrenalina schizzarle nel cervello e provando una sensazione di completa appartenenza,
sentendo di trovarsi al posto giusto, di nuovo tra le sue braccia, predatrice e
vittima del suo desiderio. Nella foga la strinse con troppa forza, appoggiando
il braccio sulla ferita dell’operazione, strappandole un gemito di dolore. Come
se fosse stato colpito da una scarica elettrica, Sergei
si scostò da lei.
“Non
è niente, non è niente!” si affrettò a dire Nina, cercando di togliersi dalla
faccia la smorfia, per poi accostarsi di nuovo a lui. Cercò le sue labbra, ma
lui gliele negò. “Dormi, è meglio.”
“COSA?”
“Lasciamo
stare, lo faremo quando starai meglio.”
“Io
STO meglio!” protestò. “Non…non vorrai mica lasciarmi
così! Non mi desideri più?”
La
sua mano le sfiorò la guancia. “Te l’ho detto, ti rimanderei all’ospedale.”
“E
io ti ho già detto che correrò volentieri
questo rischio!” Gli gettò le gambe attorno al busto, imprigionandolo. “La
prima volta che mi sei saltato addosso avevo una gamba aperta in metà, ricordi?
Eppure non hai fatto tutto questo chiasso!” Lo vide accarezzarle il polpaccio,
le dita sfiorare la cicatrice che il proiettile americano le aveva lasciato,
due anni prima. “Io TI VOGLIO, e ti voglio ADESSO, chiaro? Quindi togliti quei pantaloni
e PRENDIMI! E’ un ORDINE!”
Le
restituì uno sguardo quasi accigliato e un piccolo sorrisetto. “Non puoi dare
ordini ad un tuo superiore.”
Risalì
le sue gambe sino ai fianchi, per accostarsela. “Punirò la tua arroganza,
Williams.” Le sussurrò ad un centimetro dal volto. “Ti farò abbassare la
cresta, biondina.”
“Così
si ragiona, comandante.”
Con
gli occhi chiusi, cercava di assaporare al massimo quel momento. Le braccia di Sergei l’avvolgevano ancora, incrociate alle sue sul petto
e il suo respiro sulla spalla le donava un piacevole solletico. Era indecisa se
lasciarsi vincere dal sonno e dalla stanchezza o tentare di restare sveglia per
prolungare quell’incantesimo il più possibile.
Scelse
la seconda opportunità, decidendosi a porgere una domanda che le ronzava in
testa, dolce ossessione e illusione: “Sergei?”
“Mmm?”
“Parlavi
davvero per quanto riguardava la Grecia?”
Il
suo silenzio la infastidì, facendola pentire di aver posto quella domanda, di
essersi resa ancora più patetica, ai suoi occhi, di quanto il suo stato già non
la rendesse.
“Non
si può più fare” rispose infine l’uomo. “Da quando sono stato alzato di grado
sono molto più impegnato, e di certo non riesco a prendermi altri giorni di
licenza. Non a breve almeno.”
Nina
annuì, lieta di nascondere a Sergei quell’espressione
delusa che le era comparsa in faccia. “Altri giorni?”
“Mi
sono dovuto riprendere anche io dalla battaglia di Tokio.”rispose, facendole
ricordare di come le fosse sembrato sfinito, alla sua entrata all’hotel
Supreme, un miliardo di anni prima. “Già, è vero. Non avevi una gran cera”
“Ecco,
immaginami una settimana dopo…” Sergei
sbadigliò contro la sua schiena, mordicchiandole poi la pelle. “E’ ora di
dormire. Domattina mi sveglio presto.”
Lo
sentì rilassarsi contro di lei, scivolare nel sonno senza togliere il braccio
che le cingeva il busto e che la teneva stretta a sé.
Nina
sorrise, accoccolandosi contro il suo petto, prima di addormentarsi.
6 Mesi dopo.
“Andiamo,
il medico militare ha certificato che mi sono ripresa, mi sento in ottima forma
e gli allenamenti hanno dato i loro frutti.” Nina riempì rabbiosamente lo
spazzolino di dentifricio. “Non vedo altri motivi per impedirmi di ritornare
operativa.” Se lo infilò in bocca, spazzolandosi i denti più energicamente del
solito a causa del nervoso.
“Non
spetta a me deciderlo” rispose l’uomo, con una vena di esasperazione nella sua
solita voce calma.
“Come
no! sei tu il mio responsabile, no?”
“Si,
e ho già fatto presente che per me potresti ricominciare. Almeno con qualcosa
di semplice. Credimi,l’acidità che ti
da l’apatia mi è insopportabile.”
“Oh,
poverino! Ti è difficile sopportarmi per un paio d’ore alla sera!”
Lo
vide con la coda dell’occhio alzare gli occhi al cielo, prima di infilarsi il
cappotto, e la cosa le diede ulteriormentesui nervi. Si sciacquò la bocca con foga, prima di rivolgersi nuovamente
a lui, accigliata. “Non sperare di cavartela restando in silenzio! Questa volta
ho intenzione di andarci sino in fondo e…”
Lui
la ignorò completamente, infilandosi il berretto in testa e dirigendosi verso
la porta. Indignata dal suo comportamento, uguale a quello di tutte le mattine
degli ultimi mesi, Nina lo inseguì. “Smettila di far finta che non stia
parlando!”
Con
un movimento fluido l’uomo si voltò, le passò il braccio attorno alla vita
sottile e la fece atterrare, con un’elegante e innocua capriola, sul divano del
salotto. “Sei mesi fami avresti
spezzato un braccio mentre tentavo di fare questo.”
Nina
sospirò, aggrottando le sopracciglia: aveva ragione, ma non voleva
assolutamente darsi per vinta. “Mi hai preso alla sprovvista…!”
“E’
vero: di solito il nemico ti lancia un fischio d’avviso prima di colpirti.” Borbottò
ironico, prima di aprire la porta. “Non voglio più tornare sull’argomento.
Chiaro?”
Nina
gli rispose alzando il dito medio.
Che nervi.
Pensò per l’ennesima volta. La capriola che aveva fatto le aveva fatto venire
la nausea. Tornare era il termine esatto,
visto che era stata la sua compagna il giorno precedente.
E
ora che ci pensava, anche quello prima ancora.
Ce
l’aveva anche all’ultima visita medica, e su questo sintomo aveva taciuto. Il
suo stomaco stava iniziando a farle brutti scherzi. Colpa dell’inattività.
Anche
se cercava di pianificare le sue giornate in modo da riempirle con allenamenti
in palestra e al poligono di tiro (la sua mira già fantastica era diventata
impeccabile), non essere al centro dell’azione era frustrante.
Sergei
non faceva nulla per evitare che le saltassero i nervi. A volte spariva per
giorni interi, mandato a destra e a manca dal comando, impegnato dalle prime
ore del mattino sino a tarda serata, praticamente ogni giorno della settimana.
Quando
tornava evitava di avere qualsiasi tipo di dialogo con lei, e sin qui tutto
normale, parlando di SergeiDragunov.
Se non che dava chiaramente segnali di insofferenza appena lei apriva bocca
anche solo per chiedergli come andava.
Sono troppo acida ed insopportabile
anche per lui. Pensò tristemente, sospirando di nuovo.
La vita di coppia si era rivelata molto più ardua del previsto. Di certo non
erano due persone dal carattere facile e malleabile, ma trovare un punto di
incontro era praticamente impossibile, anche con le migliori intenzioni!
Al
contrario di quello che stava succedendo ad Anna, a quanto pareva: dalla loro
ultima conversazione, il mese precedente, la sorella le aveva snocciolato
informazioni non richieste sulla sua fantastica vita famigliare.
Se
non fosse stato che suo marito rispondesse al nome di Lee Chaolan
l’avrebbe quasi invidiata.
Si
alzò dal divano, decisa a non lasciarsi abbattere e a dimostrare che le sue
nove vite non erano ancora finite.
Venne
sorpresa da un capogiro, e fu costretta a risedersi. Anche quello ci mancava!
I
giramenti di testa erano una costante dei primi due mesi dopo il ricovero, a
causa dei farmaci che doveva prendere dopo il trapianto.
I
mesi in cui ancora riusciva ad andare d’accordo con Sergei.
Le venne in mente quella volta che era crollata in corridoio, a come lui
l’aveva afferrata praticamente al volo e sollevata come se fosse stata una
piuma, per poi farla stendere sul letto. “I
cali di pressione sono normali, lo sai” L’aveva rincuorata, notando la sua
espressione corrucciata. “Mi sento
patetica. Che schifo!” “Passerà presto.”
Dannazione!
Era così difficile tornare ai primi tempi, quando si sentiva rinascere
solamente a vederlo varcare la soglia, quando non sembrava sempre così scocciato
da quello che diceva e la faceva dormire tra le sue braccia, dopo i loro
momenti di cieca passione?
Parlo come se stessimo insieme – o,
peggio, sposati – da almeno dieci anni. Pensò laconica. Se una
relazione arrivava ad un punto del genere tanto presto, forse significava che
non era giusta.
“Ma
che vado a pensare!” sbottò, rialzandosi nuovamente ignorando il nuovo
capogiro. “Mi lascio condizionare da questa situazione miserabile e guarda che
pensieri cretini che partorisco!”
Sergei
tornava da lei appena poteva. Faceva combaciare i suoi esercizi al poligono di
tiro con quelli di Nina. E, soprattutto, dormiva ancora accanto a lei dopo i
loro momenti di cieca, folle e fantastica passione.
Si
decise a farsi un bel thè caldo per scacciare
ulteriormente i pensieri gelidi da cui si era lasciata pervadere. Sbadigliò
mentre entrava nella piccola cucina e storse il naso disgustata quando aprì la
confezione del thè. L’odore dell’EarlGrey non era il solito che l’accoglieva alla mattina,
e girò la confezione per controllare la data di scadenza, ben lontana ad
arrivare. Forse l’aveva conservato male…
Impossibile.
Il The era per lei quasi un oggetto sacro, non si sarebbe mai permessa di
sciuparlo. E Sergei non lo toccava nemmeno.
“E’
perché stamattina mi sento un po’ sottosopra.” Si convinse ad alta voce,
abitudine che aveva preso in quei mesi di pausa, riempiendo d’acqua la teiera. “Fa
male iniziare la giornata con una litigata. Mi è venuta la nausea, mi gira la
testa e sento l’odore del thè disgustoso.” Sbadigliò
di nuovo, dando un’occhiata all’orologio: ma come diavolo faceva Sergei a svegliarsi così presto senza fare una piega?
“Mi
sento già spossata, quasi quasi me ne ritorno a
letto.” Borbottò nuovamente, attendendo che la teiera iniziasse a fischiare. “Fa
proprio male iniziare a litigare al mattino presto.”
A
proposito, che giorno era? Perdeva la nozione del tempo tra quelle quattro
mura. Il calendario era aperto sulla pagina di Marzo, e scorse con gli occhi i
giorni sino alla metà.
Un
momento.
Nina
Williams si avvicinò al calendario. C’era qualcosa che non andava.
Contò
i giorni mentalmente. Ricontò le caselline del foglio segnandole con un dito. Le
contò nuovamente segnandosele sulle dita.
Quando
la teiera iniziò a fischiare stava contando per la quinta volta.
“Oh
cazzo.”
Tutto
ciò non aveva senso.
Erano
sempre stati attenti.
Esatto,
meticolosi e scrupolosi come era loro solito fare. La precisione era uno (se
non l’unico) dei punti in comune cheavevano.
Certo,
aveva dovuto smettere la pillola, a causa dei medicinali, e il medico le aveva
consigliato di non prenderla ancora per qualche mese.
Però
non si erano affidati a metodi inaffidabili e insicuri. Loro volevano avere la certezza di non avere inconvenienti
spiacevoli.
Quindi,
perché preoccuparsi? Perché avere questo dubbio, se si aveva la coscienza
pulita dai propri errori?
Certo,
il ritorno dei capogiri era sospetto. Così come la sua nausea e il fatto di percepire
odori diversi da prima.
E
il ritardo – Come cazzo aveva fatto a
non notare quel fottuto ritardo di
ben nove giorni?
Era
lo stress di essere frustrata, ovviamente, certamente. Non c’erano altre
spiegazioni plausibili.
Quindi
quel test che aveva in mano e che si rigirava freneticamente tra le dita, non
sarebbe mai stato Positivo, vero?
Vero?
Non
si poteva essere certi con quella righetta! Insomma, doveva esistere un falso positivo, anche se le
istruzioni della confezione lo escludeva a priori. Come potevano essere così
precise quelle cosine di plastica?
Meglio
farne un altro.
Non
c’è il due senza il tre. Un altro ancora.
Come
poteva una confezione contenerne solamente tre test?
Nina
guardò i tre test di gravidanza appoggiati sul mobiletto del bagno. Tutti e tre
avevano lo stesso, identico, inconfutabile e tragico responso.
Li
aveva fatti sparire. Non c’erano testimoni, giusto?
Oddio,
non c’erano telecamere in giro per la casa, vero?
Li
gettò nella spazzatura. Poi prese il sacco dell’immondizia e lo legò. Si infilò
velocemente la giacca e lo consegnò personalmente al bidone della strada.
Bene,
le prove erano sparite e nessuno sapeva della loro esistenza.
Il problema però non sono le prove.
Pigolò una vocina dentro di sé. Il problema verrà a galla tra poco…
Meglio
sparire. Alla svelta.
Ma
il problema principale sarebbe rimasto.
…e
adesso?
Doveva
trovare una soluzione, in fretta.
Ciao Sergei,
tutto bene oggi? Hai fatto fuori qualcuno? No? peccato…
mi dispiace. Ma ora ho una splendida notizia che ti tirerà su il morale. Ipotesi Scartata.
Ti è mai capitato di avere la
nausea, capogiri e un ritardo stratosferico sulle tue cose? Scartata
anche questa.
Se ti dico un segreto mi prometti
che non ti arrabbi? Vomitevole.
Nel mio corpo al momento è in corso
una gravidanza non isterica. Troppo scientifico.
Sono incinta. Troppo diretto.
No,
non poteva dirglielo. Non ora. Non dopo che litigavano tutte le mattine, e
quasi tutte le sere. Non se la sentiva di affrontare una discussione così pesante ora.
Doveva
tergiversare. Prendere tempo.
Ma
come avrebbe fatto a nascondere una cosa simile?
Che
fosse strana, l’avrebbe notato anche un cieco. Che la sua voce aveva un tono
falsamente suadente, persino un sordo. E anche la sua improvvisa gentilezza sarebbe balzata subito all’occhio
persino a chi la incontrava per la prima volta.
Ma
SergeiDragunov era
impegnato a vincere una battaglia con una succulenta bistecca al sangue, e non
sembrava essersi accorto di nulla.
Per
ora.
“Volevo
domandarti una cosa…”
“Mmm?”
“Visto
che sono ancora non operativa, pensavo di fare un viaggetto, ecco… che ne dici?”
“…
ancora con la storia della Grecia? A Gennaio?”
Nina
si sforzò di non piantargli il coltello nel polso, e mantenne un tono pacato ed
eccessivamente stucchevole. “No, so che in Grecia fa freddo a Marzo e che tu
non hai mai tempo. Ecco.. . sai che
mia sorella mi chiede sempre di
andarla a trovare… e un po’ di sole e caldo mi
farebbe sicuramente bene…”
“E
sopporteresti il moccioso e suo padre?” Oh no, si stava insospettendo.
“Le
devo un favore…” cinguettò. “Si tratterebbe in fondo di
pochi giorni, una settimana. Che ne dici?”
Dragunov
alzò le spalle, infilandosi in bocca il penultimo pezzo di bistecca. “Fai un po’
come vuoi.”
Fai un po’ come vuoi? Una
preoccupazione lampante la sua… Già se lo immaginava,
entrare nell’appartamento vuoto e buio, guardarsi intorno e poi gustarsi il
silenzio. Cercò di non storcere la bocca nervosamente, impegnandosi sulla sua
insalata.
“Che
c’è, non ti piace?”
“Non
tanto” sibilò.
“La
bistecca era ottima.”
Nina
fece leva a tutto il suo autocontrollo per non aprire bocca e riferirgli la notizia
che, ne era certa, gli avrebbe bloccato la digestione per una settimana. “Sono contenta che te la sia gustata…”
“Anna?”
“Ciao
Nina! Non ci posso credere che ti sia fatta viva due volte nello stesso mese,
mi stai facendo preoccupare, non ti sarà mica capitato qualcosa!” Salutò la
sorella, un risolino a sottolineare la battuta.
Era
sufficiente per riattaccare. Ma aveva bisogno e quindi si sforzò di mandar giù
anche quella frase. “Volevo domandarti se… beh, se
avevi tempo la prossima settimana. Sono libera in questo periodo e…”
“Verresti
qui? Ottimo! Non ci sono problemi!” La sentì spostarsi dall’altro capo del
telefono e poi abbassare la voce. “E’ successo qualcosa davvero, eh? Hai una
voce strana. Ed è ancora più strano che tu mi telefoni e mi venga a trovare.”
Non
ci poteva credere. Quell’idiota con cui condivideva la sua vita non si era
accorto di nulla, e sua sorella, a migliaia di chilometri di distanza, aveva
notato che c’era qualcosa di strano.
“Avrò
modo di spiegarti. Temo.”
Nonna: “Oh! Brava Cassy, lo sai che i colpi di scena alla Beautiful sono
sempre i ben accetti.”
EC: “Se lo dici tu nonna…”
Nina & Dragunov
caricano i fucili e li puntano su di noi.
EC: “Uhn…nonna… ho come l’impressione che loro non siano d’accordo.
E sono armati”
Nonna (Tira fuori dalla borsetta di
un Prada palesemente falso una Casseruola rossa con i cuoricini bianchi. EC
inizia a sudare freddo.) “PURE IO”
Ok, Piccola divagazione in onore
della mitica e pericolosissima Nonna Alba.
Ad ogni modo…
si, potete uccidermi. Me lo merito.
Ma non è ancora finita, quindi
lasciatemi vivere!!! Un po’…
Diciamo che la parte d’azione è finita… ora si va sul personale.
Farò tutto il possibile per non far
scadere questa storia nel banale, nell’indigesto e nel surreale. Farò di tutto.
Però vi prego non uccidetemi (sennò vi mando la Nonna Alba)
IL TITOLO: è una canzone di Bruce
Springsteen. Che adoro (sia il BOSS che la canzone). Perché l’ho usata? Leggetevi
il testo, sfaticati.
GRAZIE
MILLE, MILIONI, MILIARDI A:
MISS
TRENT (Come rovinare la poesia, eh? Fammi sapere il livello di OOC che ho raggiunto… insultami pure)
NILA
GOR_KJ: Mi sa che ti ho rovinato Sergei,
giusto?
ANGEL
TEXAS RANGER: se eri rimasta shockata con Anna… ora
come lo sei?
SACKBOY97:
spero che non ti annoi… mi dispiacerebbe perdere un
fedelissimo come te!
Dopo
tredici ore di viaggio, due scali, un ritardo di due ore sull’ultima
coincidenza di volo a Miami e alcune, fastidiosissime turbolenze sull’Atlantico,
Nina Williams si sentiva in diritto di scendere sulla pista di Nassau International
Airport barcollando.
Si
infilò gli occhiali da sole, alzando gli occhi verso il cielo azzurro. Quasi
non si ricordava potesse esistere un clima così meravigliosamente caldo e un profumo di mare così inebriante.
L’orologio
del Terminal segnava le 13 del pomeriggio, ma per il suo fisico era notte
inoltrata. Si sentiva stanchissima, e non era riuscita a chiudere praticamente
occhio durante i voli a causa del nervoso e della nausea che si rifiutava di
andarsene.
Stava
giusto per comunicare a sua sorella del suo arrivo, dopo aver recuperato il
bagaglio, quando una voce familiare che la chiamava la fece voltare. Si ritrovò
Anna a pochi metri, sorridente, abbronzatissima magrissima e con il figlio in braccio. “Eccoti, finalmente!”
esclamò, salutandola raggiante.
“Accidenti,
ma quanto diavolo è cresciuto?” Nina era esterrefatta da Jamie: sembrava davvero un bambino disegnato, con le guanciotte rosa ripiene e un ciuffo di capelli bianco
sparato per aria. Incoraggiato dalla mamma, il piccolo sorrise alla zia,
facendo comparire due fossette sulle guancie. “E’ diventato davvero bello, sei
sicura sia di Lee Chaolan?”
“Si,
di questo ne sono sicura. Ma ha preso tutto dalla mamma, a parte i capelli… dici che è troppo presto per provarglieli a
tingere?”
Dopo
aver assicurato il bambino al seggiolone del suo lussuoso fuoristrada, Anna
mise in moto. “ Potrei prendere qualche marciapiede, non farci caso…” avvisò.
“Basta
che non prendi qualche pedone…” replicò l’altra
stancamente. La testa era tornata a girare, e la stanchezza si faceva sentire:
tenere aperti gli occhi era un’impresa.
“Sei pallida come un cencio…”
Nina
alzò una spalla. “Sfortunatamente non riesco ad andare in giro in bikini per Mosca…”rispose. “Fa
piuttosto fresco laggiù in questo periodo.”
“Sei
sicura di sentirti bene?”
“Certo,
perché?”
“Perché
hai due occhiaie che toccano terra.”
“Ho
fatto un viaggio molto lungo e sono stanca. E poi il jet leg
mi uccide.”
L’espressione
di Anna era scettica. “Sicura di esserti ripresa?”
“Certo!”
esclamò indignata “Sono passati 8 mesi, sono in perfetta forma.”
“Ok,
ciò non toglie che tu abbia una brutta cera.” Anna domandò se volesse fermarsi
per il pranzo, ma lei negò con un gesto della mano quasi infastidito. Fissò lo
sguardo fuori dal finestrino, perdendolo sul lungomare di Nassau, tra i turisti
seminudi e i chioschi di bibite e gelati. “Ho bisogno solo di un paio d’ore di
sonno per riprendermi.”
“Ok.
Sputa il rospo. Cosa sta succedendo? Sta andando male con Rasp…pardon,
Dragunov?”
Nina
tentennò un po’ la risposta. Le risultava difficile parlare della sua vita
privata con sua sorella, come se avesse qualche remora nei suoi confronti, o
come se non riuscisse a fidarsi ancora di lei.
Eppure
Anna le era stata davvero vicina, l’aveva aiutata, si era comportata da sorella
nei suoi confronti, e non era ancora riuscita a ricambiare il favore.
Doveva
sforzarsi e parlare con lei. Togliersi quel peso dallo stomaco le avrebbe dato
una visione più chiara della situazione, convincendola sul da farsi. “Non va
molto bene, in effetti. Litighiamo spesso.” Iniziò, sperando che alla sorella
bastasse quella affermazione.
“Vi
state lasciando?”
Probabilmente quando saprà della
gravidanza si. “Non lo so sinceramente.”
“Non
conosco lui, ma di sicuro a prima impressione non mi ha dato proprio l’idea di
essere una persona con cui avere una relazione non complicata. Infatti tu
stessa la chiamavi sottospecie di relazione…”
“E’
diventata Relazione vera e propria, stai tranquilla.” Le spiegò brevemente che
non era ancora rientrata in servizio, che si sentiva arrabbiata e frustrata,
quanto questo la rendesse nervosa, e di come Sergei
non facesse nulla per evitare il suo malumore.
“Guarda
gli uomini sono laureati nel far saltare i nervi ad una donna.” Replicò Anna,
quando ebbe finito. Controllò dallo specchietto retrovisore Jamie,
che si era addormentato sul seggiolone, un rivolo di bavetta tra le labbra a
cuore. “Io ne ho a che fare con due, ti posso assicurare che anche da piccoli
ci riescono.”Aggiunse con ironia. “Guardalo! Mi ha fatto passare la notte in
bianco per colpa del primo dentino, questa mattina era arrabbiato ed
infastidito da qualsiasi cosa ed ora dorme beato!”
Nina
si voltò appena a vedere il nipote dormire, per poi tornare a guardare fisso
davanti a sé. “Tra te e Lee invece va tutto bene?”
“Si,
anche se abbiamo poco tempo per noi due da soli, il piccolo non tollera
distrazioni e richiede tutte le nostre attenzioni, ma per ora va bene così. E’
da quando è nato che non usciamo più a cena, la cosa ci manca, ma ci rifaremo
quando Jamie sarà più grande.” Sorrise,
incolonnandosi ad un semaforo. “Per ora la priorità è quel piccolo rompiscatole
là dietro.”
Nina
annuì nascondendosi dietro gli occhiali. “Toglimi una curiosità: L’avete
cercato o vi è capitato?”
“Distrazione,
una sola! Questo si che è stato cogliere la palla al balzo!” ridacchiò.
“Già”
annuì tetra: almeno aveva una cosa in comune con Anna. “E come l’hai detto a
Lee?”
“Sono
andata nel suo ufficio, molto calma, e con altrettanta calma e nonchalance gli
ho mostrato il test di gravidanza e ho fatto il discorsetto sulla possibilità
di crescerlo da sola, se lui non l’avesse voluto; la cosa mi sembrava molto
plausibile visto che sembrava stesse per avere un infarto. Poi siamo andati dal
medico -Lee non credeva nell’affidabilità del test- e
dopo che ha dato anche lui la conferma… mi ha portato
fuori a cena e mi ha chiesto di sposarlo!” Interruppe la propria risata,
gettandole uno sguardo fugace. “Perché vuoi sapere queste cose?”
“Così.”
Cercò di sembrare il più neutrale possibile, ma evidentemente non c’era
riuscita, perché la faccia della sorella era allarmata.
“Oh
mio dio…” Anna si voltò verso di lei, gli occhi
azzurri spalancati. “Non mi dirai che…”
“ATTENTA!”
La
brusca frenata di Anna arrivò un secondo troppo tardi, e non impedì al
fuoristrada di tamponare l’auto davanti. Risvegliato dall’impatto, Jamie iniziò a strillare. Almeno, la scarsa velocità dell’impatto
non aveva fatto attivare gli airbag.
“Oh
merda, questa è la terza volta in un mese…” mugugnò
la sorella. “Ma dovevi proprio dirmelo mentre guidavo?”
“Che
ne sapevo che avresti avuto una reazione tanto stupida?”
“Ti
sembra una notizia da niente?”
“Potevi
stare attenta a quello che stavi facendo, no? Io non ho avuto una reazione del
genere quando ho scoperto che eri incinta!”
“Tu
non avevi un fottuto volante tra le mani, altrimenti avresti combinato una strage conoscendoti.” Anna sospirò,
guardando il piccolo capannello di gente che si era formato attorno al
tamponamento. Fu visibilmente sollevata dal vedere illeso il conducente del
furgoncino. “Questa volta Lee me lo toglie davvero il fuoristrada.”
“…e tu digli che è stata colpa mia”
“
Poco ma sicuro…”
Quattro
ore più tardi, dopo unpaio d’ore di sonno
rigeneratore e un veloce spuntino, Anna aveva richiesto espressamente alla
sorella dettagli sulla situazione in cui si stava trovando.
Sospirando,
Nina le raccontò di quando l’aveva scoperto e del fatto che Sergei
non sapesse nulla, insistendo, come motivazione ulteriormente al suo gesto,
sulla distrazione e sul disinteresse che l’uomo mostrava nei suoi confronti
negli ultimi tempi.
“Come
ti dicevo, credo che ormai siamo al capolinea” concluse, con una punta di
rammarico. Era una cosa che non riusciva a pensare davvero, ma la sentiva come
inevitabile e prossima. Qualcosa che le faceva male.
Sapeva
dell’esistenza di un dopo Sergei, ma non riusciva nemmeno ad immaginarselo, per
quanto vicino lo potesse percepire. E a peggiorare ulteriormente le cose, ci si
era messo persino quella gravidanza.
Anna
scosse lievemente la testa. “Non fasciarti la testa prima di essertela rotta.
Innanzitutto gli devi dire del bambino, e il resto…
verrà da sé. Magari la prende in modo molto diverso da quello che pensi,
d’altronde, chi l’avrebbe mai detto che Lee Chaolan
fosse entusiasta all’idea di metter
su famiglia?”
“Credimi,
Sergei non è così.” Borbottò, bevendo un sorso del suo cocktail di
frutta analcolico. “E poi non credo proprio che terrò il bambino.”
“Perché
no?”
“Perché… andiamo, non sono affatto pronta per questo. Non ne
ho voglia di spendere le mie nottate per i dentini, cambiare pannolini e
cercare di non crescere un figlio che non sia uno psicopatico socialmente
pericoloso. Sono un’assassina a pagamento, beh, al momento agente in licenza
per malattia, non fa per me la maternità, non ci sono portata.”
“Ma
se Steve ti adora!”
“E’
diverso: Ho saputo di essere la madre di Steve quando lui era già adulto e
autonomo. Non ho avuto a che fare un moccioso strillante – senza offesa a Jamie. A proposito, ma dorme sempre?”
Il
bambino era sdraiato nella sua sdraietta, il ciuccio
in bocca e l’espressione più beata del mondo stampata sul viso paffuto.
“Ieri
sera non ha chiuso occhio, e poi quando suo padre torna lo strapazzerà per un
bel paio d’ore, facendolo giocare in piscina. Gli è venuta la malsana idea di
avviarlo alla via del surf, non domandarmi perché... ma non cambiar discorso!”
“Non
c’è nient’altro da dire. Non ha senso far nascere un figlio che non si
desidera, senza nemmeno una vera famiglia. Io e Sergei
non siamo una coppia normale che riesce a vivere normalmente e crescere dei
figli. No, assolutamente: sarebbe capace di regalargli un fucile per il suo
primo compleanno!”
“Tu
credi di non riuscire a farcela da sola?”
Nina
fece una pausa, finendo il cocktail. “Non ci penso nemmeno ad iniziare…”
La
sorella scosse la testa. “Non credo che tu la pensi davvero così: Se tu non ci
pensassi nemmeno minimamente a tenere il bambino, saresti filata subito in una
qualche clinica a risolvere il problema.
Invece sei venuta qui con noi, ben sapendo che di sicuro io avrei tentato di
convincerti a tenerlo.”
“Non
è così. Ero –sono- confusa e non so
cosa fare. Avevo bisogno di tempo per pensarci e realizzare, e passare il tempo
a litigare con Sergei non mi avrebbe aiutato.”
Sulle
labbra rubino di Anna comparve un sorrisetto. “Il tuo subconscio vuole il pupattolo…!” cantilenò. “Ed io sono decisa a convincerti di
tenerlo.” Si sdraiò sul lettino, accavallando le gambe senza perdere il
sorrisetto. “Anche con mezzi subdoli”
“Sei
una strega.”
“Lo
so.” Si voltò verso Jamie, sentendolo sveglio e sorridendo
al suo sbadiglio impacciato. “Eh piccolo mio, lo vuoi vero un bel cuginetto?” Se
lo portò in grembo, facendogli il solletico. Il bambino rise di gusto, muovendo
le braccia paffute. “Vedi? Anche lui è felicissimo di avere un cuginetto! O
sarà una cuginetta?”
Nina
sospirò, scuotendo la testa, prima di ritrovarsi improvvisamente Jamie tra le braccia. “E’ diventato un po’ più pesante da
quando l’hai preso in spalla la prima volta!” l’avvisò Anna.
Il
bambino sorrideva, con i suoi occhi vispi, emettendo buffi versi. Capendo al
volo che quello era solo il primo tentativo subdolo della sorella, Nina assunse
un’espressione disgustata: “Bah, mi ha già coperta di bava!”
“Oh,
c’è Lee!” squittì lei, vedendo il marito, già in tenuta da piscina, avvicinarsi
a loro. “Non sa ancora niente dell’incidente. Ma glielo dirò stanotte, e sarò molto carina.”
“Non
sa nulla nemmeno del mio problema, vero?”
L’uomo
era troppo vicino, ormai, perché la sorella potesse risponderle. Gli gettò le
braccia al collo, salutandolo con un bacio. La scenetta fece tornare la nausea
a Nina; sperava solamente di non dover sopportare anche le pressioni del marito
e padre dell’anno…
“Nina,
che piacere vederti tutta intera!” la salutò finalmente. Vedendo il papà Jamie si voltò verso di lui con le braccine
alzate, sgambettando e agitandosi, chiamandolo con i suoi versi. Lee lo
accontentò, prendendolo in braccio. “Mi dispiace togliertelo proprio ora che
dovresti far pratica…”
Nina
sbattè le ciglia. “Tua moglie ha tamponato un
furgoncino, stamattina”
Anna
si morse le labbra, cercando di sorridere smorfiosa.
“ANCORA?”
“Stronza… questa me la paghi…”
sibilò a denti stretti, cercando di non perdere il sorriso.
Jamie
rideva a crepapelle, mentre giocava con suo padre nell’acqua. Rideva tanto
forte che Nina quasi non riusciva a sentire il corso dei suoi pensieri. Si
sforzava di fingere di prendere il sole, dietro agli occhiali scuri, e di non
guardare di sottecchi Lee Chaolan che faceva fare i
tuffi a suo figlio, mentre sua moglie imbronciata si era nascosta dietro ad una
rivista sorseggiando il suo cocktail di frutta.
“Anna,
tesoro, avrei un’idea” iniziò Lee, senza smettere di fare il solletico al
bambino. “Jamie ha già preso confidenza con sua zia,
potremmo lasciarglielo stasera e andare fuori a cena io e te…
C’è il Galà di Primavera questa sera all’Hotel Hilton. Faccio ancora in tempo a
dare la partecipazione.”
La
moglie gettò la rivista dietro alle spalle, la bocca aperta dalla sorpresa. “E’
un’idea fantastica!” esultò.
Nina
non sembrava dello stesso avviso: “Io non ho intenzione di fare da balia a
vostro figlio!”
“Oh,
si. Non ti puoi rifiutare dopo avergli spiattellato del tamponamento!”
“Ti
avrebbe sequestrato il fuoristrada comunque.”
“Non
se glielo dicevo a modo mio.”
Lee
alzò un sopracciglio, interessato. “Puoi sempre ripetermelo, Principessa…” si rivolse poi al figlio, suggerendogli di
far vedere alla zia quanto fosse contento di passare con lei la serata. “Siamo
stati proprio fortunati ad averla qui, non è vero?”
“La
fortuna maggiore di quel bambino è di non capire ancora nulla” sibilò Nina,
imbronciata. “E la tua fortuna invece, è di non essere allergico al Botox.”
Anna
scoppiò a ridere divertita, piegandosi in due dalle risate. Toccò il bicchiere
della sorella, davanti all’espressione corrucciata del marito. “Questa è davvero buona”
“Voi
due mi eravate più simpatiche quando cercavate di uccidervi…”
“In
ogni caso, scordatevi di usarmi da baby sitter.”
“Ha
già mangiato a sazietà, ma se dovesse aver fame, puoi far scaldare un biberon
di latte: eccolo, è qui dentro.” Anna aprì il frigo da camera, mostrandole una
decina di boccette di vetro piene di liquido bianco.
“Latte
fresco di giornata.” Mostrò orgogliosa.
“Dio
mio, ma… è tutto tuo?”
Anna
annuì: “Ho due grossi contenitori.” Disse, indicandosi i seni fasciati
dall’abito da sera color piuma di pavone. “Pensa un po’: per tutta la vita ho
pensato che servissero solo ad attirare gli uomini, e poi ho scoperto che il loro
utilizzo era tutt’altro.”
Si
mosse per la stanza, mostrandole il cambio nel fasciatoio. “Di solito fa qualcosa prima di andare a letto, quindi
verso le undici.”
“Non
vorrai che…”
“Mio
figlio non è così precoce da andare in bagno da solo.”Si rivolse verso il lettino, spiegandole di
coprirlo solo con il lenzuolo, e di accendere la lucina notturna sul tavolino
prima di uscire.
“Di
solito si addormenta subito, e ronfa per tutta la notte: il dentino è
finalmente spuntato, e quindi non dovrebbe essere così noioso come lo era ieri
sera. Se comunque vedi che frigna e si infila le dita in bocca, sempre nel
frigorifero troverai il succhiotto per le gengive.”
Nina
annuì di nuovo, controvoglia. Ancora non riusciva a capacitarsi di come era
stata così stupida da cascarci. Anna si raccomandò di portarlo a dormire verso
le undici, di farlo giocare con i suoi giochini e di
tenerlo sveglio, altrimenti si sarebbe svegliato all’alba. “Un’ultima cosa”
“Dimmi”
Anna
fece una piroetta. “Come sto?”
Doveva
ammetterlo: sua sorella era in splendida forma. Il vestito da sera di chiffon
le fasciava morbidamente il corpo, coprendole le gambe, ad eccezione di uno
spacco che arrivava alle ginocchia. Portava un piccolo cerchietto di platino
tra i capelli e un punto luce al collo. Tra le mani, una pochette di perline
nere. “Stai davvero bene.” Annuì.
“Grazie.
Dopo che avrai partorito ti farò avere la mia dieta. È fantastica. Mangi di
tutto ma in giuste quantità e poi allattare il bambino fa perdere un sacco di
calorie” si controllò il trucco ad uno specchio.
“Io
non partorirò.”
“Non
può farlo qualcun altro al posto tuo, altrimenti l’avrei fatto fare a Lee.”
“Anna,
io…”
Ma
la sorella gli rispose con un sorriso: “Non prendere decisioni affrettate. Dopo
stasera, sono sicura che cambierai
idea.”
Si
avviarono per il corridoio, raggiungendo Lee, nel salotto, seduto con Jamie sul divano. L’uomo, in perfetto smoking, diede il
bambino a Nina, borbottando qualcosa sul solito ritardo delle donne.
Anna
schioccò un bacino sulla guancia del bimbo, lasciando un lieve segno rosso.
“Fai il bravo tesorino, mamma e papà tornano presto…”
“No,
mamma e papà stasera tornano TARDI e vanno a divertirsi!” esclamò l’uomo,
trascinando la moglie fuori di casa.
“Non
preoccuparti Nina, Jamie è tranquillissimo!”
Appena
chiusero la porta di casa, il bambino guardò la zia allarmato, per poi
esplodere in un pianto disperato.
Due
ore dopo, finalmente, il moccioso aveva capito che nessuno voleva squartarlo, e
aveva smesso magicamente di piangere. Nina si era gettata sul tappeto, di
fianco a lui, stremata.
Come
poteva un essere talmente piccolo, disarmato e senza particolari abilità
marziali generare un simile caos e sfiancarla così tanto?
Oh
no, proprio non faceva per lei una vita del genere. Guardò l’orologio,
meravigliandosi a constatare che fossero solamente le nove e mezzo di sera. Le
venne quasi da piangere: e ora cosa avrebbe fatto sino alle undici di sera?
“Col
cavolo che lo metto a letto a quell’ora. Mi sono già stufata. Se si sveglierà
saranno fatti dei suoi genitori, così imparano a fare la Dolce Vita al Galà dell’Hilton.”
Lo
sentì muoversi di fianco a lei, e si voltò, notando sorpresa che il bambino si
era girato sulla pancia, e le puntava gli occhi chiari, sorridendo.
“Ti
stai prendendo gioco di me?” il bambino fissava attento le dita della mano che
Nina muoveva di fronte alla sua faccia, e fece per allungare una manina per
prenderle.
Dispettosa,
la zia spostò la mano, facendolo ridere e ritentare. “Sei un tipetto testardo,
eh?” nascose di nuovo la mano, velocemente, mentre Jamie
apriva la bocca ad O, sorpreso.
Continuò
a giocare con lui per diversi minuti, semplicemente porgendogli qualcosa per poi
tirarglielo via all’ultimo minuto: suo nipote sembrava apprezzare questo gioco
di riflessi, e rideva, le fossette lucide dalla bavetta che le labbrine non riuscivano a trattenere, rotolando su se
stesso e gattonando goffamente.
Alla
fine, si coricò supino, stanco e soddisfatto. Sembrò sospirare di piacere
quando Nina gli grattò la pancia.
“Dai,
alla fine non ce la siamo cavati tanto male io e te. Non è vero?” gli infilò il
ciuccio in bocca e il bambino sembro apprezzare ulteriormente. Gli occhietti
gli si chiudevano, mentre si rilassava ai grattini di Nina, che sospirò.
La
consapevolezza che dentro di sé stesse crescendo un vero bambino, e che sarebbe
potuto assomigliare a Jamie la investì: non era
riuscita ancora a realizzare che il problema che le era capitato tra capo e
collo sarebbe diventato una persona vera e propria, a qualcosa di vivo, che si
stava nutrendo di lei e che si riposava, dopo un lungo viaggio e una serata
estenuate, protetto dal suo corpo.
Era
un maschio o una femmina? A chi poteva assomigliare? “Spera che il tuo
cuginetto non abbia il naso di Dragunov” sospirò,
ridendo subito da sola del pensiero che aveva espresso ad alta voce al suo
nipotino semiaddormentato.
Jamie
spalancò gli occhi a sentirla ridere, fissandola incuriosito. Si, anche suo
figlio (il suo secondogenito) avrebbe
avuto gli occhi azzurri, in ogni caso. Che fossero quelli chiarissimi, quasi
bianchi, di Sergei, o i suoi, color del cielo,
sarebbero stati azzurri. L’unica cosa certa era quella.
Decise
che era ora di cambiare Jamie e di portarlo a letto.
Lo prese in braccio, improvvisamente ed inspiegabilmente allegra, canticchiando
un motivetto che neppure lei sapeva dove l’avesse sentito, avviandosi verso la
camera del piccolo.
Si
fermò davanti ad una grossa foto alla parete; domandandosi come avesse fatto a
non notarla prima. Era il ritratto di Anna e Lee la sera delle nozze.
Seduti
su uno scoglio, il tramonto dietro di loro non oscurava il loro sorriso. Il
vestito crema di sua sorella si gonfiava appena all’altezza della pancia.
L’allegria
era scomparsa più rapidamente di quanto non fosse arrivata.
Entrò
nella cameretta, appoggiando il bimbo sul fasciatoio.
“Che
stupidaggini che penso. Non potrei offrire nulla di simile al tuo cuginetto,
non è vero Jamie? Tu hai dei genitori che ti adorano,
che sono felici insieme e che sono estasiati dall’averti con loro. Se facessi
nascere questo bambino… oh, non oso pensare che
tragedia sarebbe. Sarei sola. E anche se Sergei
rimanesse con me… non riuscirei a dargli quello che
si merita. Non siamo fatti per stare insieme, figurarsi per formare una
famiglia.”
Le
ritornarono in mente le litigate dei suoi genitori, le recriminazioni che si
lanciavano a vicenda: ecco dove era nata la rivalità tra lei e sua sorella:
Dall’essere in mezzo all’occhio del ciclone, spinte a detestarsi a vicenda
dagli stessi genitori in guerra e in competizione tra di loro. Chi le aveva
messe al mondo piantato il seme dell’odio, cresciuto con gli anni e con le
liti, diventato gigante con le loro rivalità e morto con la consapevolezza di
essere sorelle, di essere una famiglia e di aver bisogno l’una dell’altra.
Era
cambiato tutto perché Anna era diventata più forte e più serena, perché aveva
messo da parte la rabbia e la frustrazione, non di certo grazie a lei.
Accarezzò
con la punta delle dita il viso di Jamie. No, non si
sentiva pronta e capace di avere una famiglia.
Si
svegliò, sentendo la porta d’ingresso chiudersi e delle risatine sulle scale.
Si alzò dal divanetto della cameretta di Jamie, dove
si era addormentata qualche ora prima. “Che diamine, sono le tre passate!” si
lamentò, vedendo la sorella aprire la porta ed entrare in punta di piedi, i
sandali dal tacco alto in mano. “Ohh… guarda il mio
angioletto come dorme!”
Uscendo
dalla stanza, Nina le domandò se la serata fosse andata bene.
Anna
ridacchiò, gli occhi brillanti nel buio. “Magnifica. Abbiamo mangiato benissimo
e c’era l’orchestra… abbiamo ballato tantissimo io e Lee… dovevi vederci, sembravamo i protagonisti di una favola… ci guardavano tutti. ” rise nuovamente, scuotendo
il caschetto con aria sognante. “Ora mi sta attendendo in camera, per
concludere la serata in modo perfetto!”
“Immagino.”
“Tu
tutto bene?”
“A
parte che ha passato le prime due ore a spaccarmi i timpani si.”
“E…?”
“E
visto che vai da tuo marito, ora, vedi di non avere altre distrazioni: un
nipote mi basta e avanza.” Senza dire altro, si avviò verso la sua stanza,
mordicchiandosi le labbra per non ridere: chissà quando i favolosi coniugi Chaolan avrebbero capito dove aveva nascosto il pannolino
sporco del loro erede…
Nina
ed Anna erano davanti al check in dell’aereoporto.
“Non
mi hai ancora detto la tua decisione.”
“Non
l’ho ancora presa.” Sospirò Nina. “Ma ne parlerò con Sergei
appena lo vedrò, e decideremo insieme sul da farsi.”
“So
che prenderai la decisione giusta. Conta comunque su di noi.”
“Grazie.”
“Figurati… riposati, e appena arrivi a Mosca fai una visita
di controllo.”
Nina
sorrise amaramente, prima di salutare e dirigersi verso il check
in.
Mentre
sorseggiava un thè, durante l’ultimo scalo a Londra,
Nina Williams ricevette una telefonata. Gli rispose la voce di Pavlov, che la informava che era stata scelta per
partecipare ad una missione. “Accetta, Williams?”
Nina
tentennò un attimo. Una missione l’avrebbe stressata, le avrebbe fatto correre
dei rischi. Doveva prima parlarne con Sergeie…
…e
dannazione! Ne andava della sua carriera! Sarebbe stata prudente. Tanto più che
non sapeva ancora se tenere o meno il bambino.
“Va
bene, comandante. Mi fornisca i dettagli.”
Capitolo TROOOOOPPO lungo.
Volevo tagliarlo. Come Kill Bill.
Ma poi ho preferito farvi
annoiare di più, in una botta sola!
Un trilione di grazie a voi, schockati dalla rivelazione, che avete commentato: spero di
non avervi deluso, i vostri commenti sono il mio carburante, senza di loro… non scriverei!
Grazie
a Miss Trent, Angel Texas Ranger, Nils_ Gorkj,
Sackboy97 e Krisalia!
Sdraiata bocconi su un tetto di
un alto e anonimo palazzo della periferia di Berlino, Nina Williams attendeva,
il fucile di precisione pronto e l’occhio nel mirino, puntato verso una delle
tantissime finestre del palazzo di fronte, uguale e grigio come quello su cui
si era appostata.
Pavlov le aveva riservato una missione
estremamente semplice, per i suoi standard:trovare ed eliminare un’ex agente della Spetsnaz,
convertitosi a spia nemica.
Una pallottola nella testa
sarebbe stata la giusta punizione per aver spiattellato importanti informazioni
alla TekkenForce, un anno
prima.
Un compito banale, che lei aveva
accettato per dimostrare che le sue capacità erano rimaste invariate, che il
suo allenamento aveva dato ottimi frutti e che non aveva nessun tipo di problema.
O, meglio, per nascondere il suo problema.
Aveva trovato l’obbiettivo quasi
subito, la sua abitazione ubicata in quel degradato quartiere periferico, il
suo appartamento che si perdeva tra gli altri dello stesso palazzo.
La finestra a cui mirava era
quella del bagno. Inizialmente aveva pensato di bussare alla porta, fingendosi
facchino di un corriere espresso, e di sparargli a bruciapelo, ma poi aveva
pensato fosse meglio mantenere le distanze, decidendo di mettere alla prova la
sua rinnovata mira da cecchino.
Avrebbe svolto quel lavoro, poi
avrebbe preso l’aereo per Mosca e sarebbe andata a parlare immediatamente con Sergei. Non sapeva ancora quali parole avrebbe utilizzato, né
che decisione avrebbe preso: dipendeva, fondamentalmente, tutto dalla sua
reazione: al momento non si sentiva molto lucida per ponderare la soluzione più
ragionevole e fattibile.
Durante il volo si era domandata
più volte cosa realmente volesse dalla vita, se le andasse realmente bene quel
destino che le era stato cucito addosso da suo padre: un genitore orgoglioso e
assente, che non le aveva mai offerto una carezza, soltanto qualche parola di
complimento, sempre suo maestro e mentore e mai il padre di una bambina.
Anzi, due. Ma per Richard
Williams Anna praticamente non esisteva. Era un’ombra della casa, una ragazzina
che cercava di attirare in tutti i modi la sua attenzione, senza riuscirci. Lui
aveva già la sua allieva ed erede, non gliene serviva un’altra.
La porta del bagno che si apriva
attirò nuovamente tutta la concentrazione della donna, che prese la mira. Davanti
alla finestra un uomo dai biondi capelli cisposi entrò nella stanza e si
posizionò davanti allo specchio, sbadigliando. Si spalmò la schiuma da barba
sulla faccia e fece per prendere il rasoio.
Il proiettile lo colpì,
silenzioso, alla tempia prima che riuscisse a portare la lametta al volto.
Crollò a terra, Nina poté immaginare il tonfo sordo.
Perfetto. Pensò, smontando velocemente il
fucile e infilandolo nello zaino. Gettò un ultimo sguardo alla finestra, prima
di alzarsi, catturando una scena che le fece gelare il sangue nelle vene.
La porta del bagno si era
riaperta, ed era comparsa una bambina dai lunghi capelli ricci e dorati. Fissò
con gli occhi spalancati il cadavere sul pavimento, e lo strillo acuto che
emise a pieni polmoni arrivò sino alle orecchie di Nina.
Aveva una figlia? Una figlia con
lui, nel suo stesso appartamento, che si era trovata il padre morto in bagno,
con il cervello sul pavimento.
Un conato di vomito le salì in
gola, e Nina lo soffocò a stento.
Si voltò e scappò più velocemente
che poteva.
Non si stupì nel trovare l’appartamento
vuoto e buio. Non accese la luce subito. Si avvicinò praticamente a tentoni al
divano e si lasciò cadere, il trolley che scivolava sul pavimento. Si sfilò le
scarpe rabbiosamente e si portò le ginocchia al petto, abbracciandosele.
Non aveva voglia di piangere. Provava
dentro di sé solamente una rabbia sorda ed impotente, che la faceva
rabbrividire.
Quella bambina aveva visto il
corpo di suo padre morto sul pavimento del bagno. Probabilmente non aveva
capito il perché. Aveva una madre o era sola al mondo?
Quanti anni avrà avuto? Otto,
nove al massimo?
Lei
quanti anni aveva quando la testa di suo padre era esplosa davanti ai suoi
occhi?
Venti.
E non riusciva a scordarselo, e
non riusciva a superarlo.
Quel sangue ovunque, le parti di cervello addosso anche a lei.
L’urlo acuto di Anna era uguale a
quello della bambina.
L’aveva soffocato nei meandri più
neri della sua anima oscura, cacciato a pedate sotto una coltre di
indifferenza, seppellito con la sua coscienza.
Coscienza rediviva, che sbucava reclamando
la sua mente e rinfacciandole le sue colpe.
Era una cosa ignobile, orribile,
schifosa.
Ma la cosa peggiore…era che lei non riusciva a piangere, a
pentirsi dei suoi peccati.
Le tornarono in mente le parole
dure che Alexandersson le aveva rivolto, quando ormai
credeva di averla in pugno, morente e piegata ai suoi voleri.
Come poteva pensare di poter
essere una buona madre? Come poteva credere di crescere un figlio? Cosa gli
avrebbe insegnato, lei che sapeva solo colpire, sparare, uccidere?
Il conato di vomito le tornò alla
gola, e si precipitò in bagno, sbattendo contro le porte.
I passi di Sergei
erano nel corridoio, Nina aprì la porta del bagno. Aveva ancora i capelli
umidi, dopo la doccia, ed indossava la sua camicia da notte.
Il sorrisetto soddisfatto dell’uomo
sembrò vacillare davanti al suo sguardo rosso e vago, al suo volto tetro e
tirato.
“Devo dedurre che tu non sia
stata soddisfatta della tua missione, Nina?” le domandò con disappunto. “Ho
suggerito io stesso a Pavlov di affidartela, dovresti
ringraziarmi per essere riuscito a farti tornare operativa. Tutti credevano
fosse presto, e che non eri ancora pronta. Ma so che è tutto filato liscio come
l’olio, e Volkov ne è stato visibilmente soddisfatto.”
Le aveva voltato le spalle, camminando lentamente verso la camera, togliendosi
il pesante cappotto. “Immagino che tu sia stanca.”
“Che ne è stato della bambina?”
Sergei le rivolse uno sguardo
interrogativo. “Sua figlia?”
Nina annuì, rivolgendogli uno
sguardo di puro disprezzo, appoggiandosi al muro. La testa le girava
vorticosamente, si sentiva senza energia, sull’orlo di uno svenimento.
“Beh, credo proprio che sia
tornata da sua madre. Erano separati, ma so che anche lei vive a Berlino.”
Appoggiò il cappotto all’appendiabiti.
“Come mai mi hai fatto questa domanda?”
“Ha trovato suo padre riverso a
terra, con la testa aperta in due da un proiettile, in un lago di sangue. Io l’ho
vista mentre lo trovava e…”
“Non è stata ferita, quindi…”
“MA CAPISCI QUANDO PARLO?”Incurante di essere ad un passo dal collasso,
Nina si era staccata dal muro, la voce più alta che poteva, che lasciava uscire
la sua esasperazione e la sua rabbia. “Quell’immagine non se la toglierà mai
dalla mente! Quanti anni avrà avuto, Otto, Nove?”
“Senti, non ci possiamo fare
nulla, no? Suo padre era un traditore, era una spia pericolosa, doveva essere
eliminato. Nessuno sapeva che ci fosse sua figlia con lui.”
Una fitta improvvisa attraversò
il ventre di Nina, che non smise di urlare: “A posto così per te?”
“Nina…”
“Dimmi, quante missioni abbiamo
svolto insieme? O che mi avete fatto svolgere da sola? Mi hai mai visto in
queste condizioni? Mi hai mai visto così Furiosa?”
“Nina…”
“E non ti domandi perché? Io mi
sento così? Lo vuoi sapere? PERCHE’ MIO PADRE E’ STATO AMMAZZATO COME UN CANE
DAVANTI AI MIEI OCCHI, LA SUA TESTA E’ ESPLOSA E IO ERO RICOPERTA DAL SUO
CERVELLO E DAL SUO SANGUE.”
“NINA, STAI SANGUINANDO!”
Fu come se qualcosa in lei si fosse
rotto, quando seguì lo sguardo dell’uomo tra le sue gambe. Abbassò gli occhi,
in tempo per vedere una goccia, color rubino, cadere sul pavimento già
macchiato.
Si premette le mani sulla bocca,
prima di appoggiarsi al muro dietro di lei e scivolare al suolo. “Dobbiamo
andare all’ospedale.”
“Nina, non è successo niente, su… non è una cosa normale per voi donne?”
“IDIOTA, portami all’ospedale
subito!” Le lacrime avevano iniziato a solcarle le guancie, mentre gocce di
sudore freddo le percorrevano la schiena.
Sergei l’aiutò a sollevarsi, prima di
andare a recuperarle la giacca e le scarpe. “Non capisco, provi dolore?”
Lei non poté far altro che
annuire.
Quando tornarono nell’appartamento
era l’alba.
Nuovamente, Nina scivolò sul
divano, portandosi le gambe al petto.
Ecco. Ora sapeva. Sapeva tutto
quello che c’era da sapere.
Cioè che dentro di sé non c’era
più nulla. Che il suo ventre era tornato freddo e vuoto. Che il problema non sussisteva più.
Si sentiva completamente
svuotata, prima di ogni energia. C’era un groppo nella sua gola che non
riusciva a ricacciare giù, che non voleva andarsene.
Da quando il medico l’aveva
informata che aveva perso il bambino, che
si era verificato un aborto spontaneo,Sergei non aveva più spiaccicato parola. L’aveva
fissata, stupito, quasi stralunato e poi erano tornati a casa dopo la visita.
Ed ora si era seduto di fronte a
lei, sul tavolino di legno tra la televisione e il divano. Le venne in mente,
chissà perché, il giorno in cui lei aveva
deciso che serviva un tavolino in quel posto, e che lo era andata a comprare in
un negozio di mobili a basso costo. Era tornata a casa con la confezione,
piatta e rettangolare, e l’aveva aperta, per scoprire che non era capace di
raccapezzarsi tra tutti quei pezzetti di legno e viti.
Sergei era tornato venti minuti dopo,
trovando uno sbilenco tavolino per terra e Nina dall’espressione corrucciata,
persa tra le istruzioni.
E si era messa con lei a leggerle
e a rimontare il mobiletto.
L’avevano montato insieme, come
una coppia normale. E ora lui era seduto su quel tavolino di truciolato scuro,
lo sguardo posato da qualche parte, tra lei e il muro, i gomiti sulle ginocchia
e le mani che sorreggevano il mento. Sembrava sforzarsi di dire qualcosa, senza
riuscirci.
Lo precedette lei: “E’ stato
meglio così.” Decretò con voce afona, studiando la sua reazione. Lui alzò una
spalla. “Beh, si. Il medico ha detto che sono così che capitano durante i primi
mesi.”
“I primi mesi della prima gravidanza.” Ricordò lei. “Tecnicamente,
questa per me era la seconda.”
“Credi sia stata la missione?”
Nina annuì. “Colpa di quello che
ho visto.” Gettò la testa all’indietro. Era davvero
stato meglio così. Eppure non riusciva a scrollarsi di dosso quel senso di
vuoto e di freddo, quella punta di dolore che le feriva il costato. “Il bambino
non è voluto rimanere dentro un essere così…spregevole come me.”
“Stronzate” borbottò Sergei. “Non ho mai preso davvero in considerazione l’idea
che potesse davvero succedere. In fondo
siamo stati attenti, no? Come può essere stato possibile? In ogni caso, è
andato, non devi più pensarci, Nina. Così come non lo sapevi prima.”
Nina alzò la testa. Sergei credeva che li non sapesse di essere incinta? Bene.
No. Doveva saperlo. In fondo
ormai il bambino non c’era più, e quindi la sua reazione non sarebbe cambiata.
Ma doveva dirglielo.
“Sapevo di essere incinta.” Disse
semplicemente. Sergei le piantò gli occhi dritti in
faccia, sorpreso. “Da quanto lo sapevi?”
“Dal giorno prima della mia
partenza per le Bahamas. Ho notato di avere un ritardo, e ho fatto il testo.
Tre, per la precisione. Tutti e tre identici.”
“Ed è per questo che sei andata
da tua sorella? Hai scoperto di essere incinta e sei scappata alle Bahamas? Perché cazzo
non hai detto nulla?”
Lo sguardo dell’uomo si stava
incendiando. “Non sapevo che reazione avresti avuto. E volevo pensarci un po’ su,
non sapevo se tenerlo o meno e…”
“E sei stata così vigliacca da nascondermelo?” Il pugno
che aveva tirato al tavolino l’aveva fatta sobbalzare. Era scattato in piedi,
volgendole le spalle. Era furioso. “Mentre io ero al comando a cercare il modo
di rimandarti il missione, di non farti più sentire un’ameba inutile chiusa in
casa, di farti contenta, tu scappavi
alle Bahamas perché eri confusa e non
sapevi la mia reazione alla notizia?”
“Non vorrai farmi credere che
saresti stato contento” anche Nina era saltata in piedi, incrociando le braccia
al petto, guardandolo con sfida. Sergei aveva
lasciato la bocca semiaperta, la mano sollevata a mezz’aria, come se non
sapesse cosa dire, come se fosse stato folgorato da una rivelazione improvvisa.
“Non è questo il punto!” esclamò,
volgendole di nuovo le spalle. Si stava accarezzando il mento, Nina lo sapeva,
lo conosceva ormai troppo bene. Forse non abbastanza. “Quello che voglio dire è
che… hai tradito la mia fiducia.” Lo stomaco le si
torse a sentire la frase. “Io mi sono fidato, pensando che quello che stessimo
vivendo fosse… come dire, abbastanza per instaurare un rapporto di fiducia reciproca. Ma a
quanto pare, per te siamo ancora allo stadio di Sottospecie di Relazione e non abbiamo nulla da spartire, a parte
il letto.”
“NO!” protestò lei. Le mancava il
fiato, le sue parole, dette con quel tono così duro e calmo allo stesso tempo,
la ferivano come mille lame. “Cosa dovevo pensare, con tutti quei litigi
continui, con la tua disattenzione nei miei confronti? Cosa posso aspettarmi da
una persona che non si accorge nemmeno che sta succedendo qualcosa quando gli
sono davanti, mentre mia sorella se ne è accorta parlandomi solamente per
telefono?”
“Cosa ti potevi aspettare?”
sibilò, avvicinandosi a lei. Nina indietreggiò, sedendosi sul divano, mentre l’uomo
si inginocchiava davanti a lei, gli occhi alla sua altezza, pericolosi, freddi,
quasi bianchi.
“Ho mentito ai miei superiori, ho
lasciato la mia squadra contro un mostro per venirti a prendere in quel cazzo di Hotel di Tokio, ho passato una
settimana praticamente senza dormire o mangiare per recuperarti, ho disobbedito
agli ordini, rischiando collo e carriera per salvarti dalla base di Alexandersson, Ho risparmiato la vita di quel bastardo di Boskonovitch per l’antidoto, e anche in questo caso sono
andato contro i miei superiori. E’ solo perché Volkov
mi reputa il migliore, e perché ero così amico di suo figlio, se il mio culo è
ancora dentro la Spetsnaz, se sono stato promosso
nonostante l’insubordinazione e se, soprattutto, tu abiti ancora in questo
posto e sei stata curata dall’elite di medici migliori a nostra disposizione.”Una lacrima scese sul viso pallido di Nina. “E
TU non sai cosa aspettarti da ME?”
Si allontanò come se le facesse
ribrezzo, come se fosse una carogna in putrefazione. La guardò disgustato, livido di rabbia. Poi si
diresse verso il corridoio.
Nina si morse le labbra,
sforzandosi di piangere in silenzio. Andò nella sua camera, quella in cui
dormiva senza di lui, un milione di
anni prima. Si gettò sul materasso, abbracciando quel cuscino azzurro che
rappresentava Steve, immergendoci la faccia sino quasi a soffocarsi.
La porta che si chiudeva le annunciò
che era rimasta sola.
Ancora.
E la cosa le faceva troppo male.
Eccolo
qui, il capitolo per cui mi farete fuori!!! Siete contente???
Purtroppo
la situazione non si è risolta per il meglio, per quanto riguarda il bambino… spero di non avervi deluso, o schifato, o peggio
ancora fatto arrabbiare.
C’est
la vie, e gli imprevisti sono dietro l’angolo.
Ci
stiamo avvicinando alla fine, sappiatelo. Un paio di
capitoli e avrò concluso (?) questa Fanfiction.
GRAZIE,
GRAZIE GRAZIEGRAZIE,
GRAZIE GRAZIE
GRAZIE,
GRAZIE GRAZIEGRAZIE,
GRAZIE GRAZIE
GRAZIE,
GRAZIE GRAZIEGRAZIE,
GRAZIE GRAZIE
GRAZIE,
GRAZIE GRAZIEPER TUTTE LE VOSTRE RECENSIONI, SUPPORTI, E
DEGENERAZIONI (come quelle di Miss Trent :P)
Non
vi ringrazierò mai abbastanza. Questa FF l’avete scritta anche VOI.
Era riuscita a smettere di
piangere, ma continuava a restare rannicchiata nel letto freddo, abbracciata al
cuscino.
Si sentiva spezzata, sfibrata,
come se quegli occhi di ghiaccio, così carichi di disprezzo nei suoi confronti,
avessero cancellato qualsiasi traccia di linfa vitale.
Vuota come quell’appartamento
spartano e freddo, quando l’avrebbe voluto riempito da almeno un’altra persona.
Che invece se ne era andata
sbattendo la porta, lasciandola sola.
Sola, come quando scappava dagli
americani che la braccavano, prima che venisse colpita da quel (benedetto) proiettile nella gamba.
Sola come a Dublino, bersaglio dei
suoi ricordi, della pioggia e della primavera umida e timida dell’Irlanda.
Sola come nell’entrata dell’Hotel
Supreme, con il fucile in braccio, mentre nella stanza di fianco si festeggiava
la nascita di suo nipote, quando lui era
venuto di persona a recuperarli.
Sola
come nella
prigione di Alexandersson, quando ormai era certa che
per lei fosse arrivata la fine, in compagnia del dolore, delle allucinazioni e
della febbre, quando lui l’aveva portata via, mandando a quel paese tutto e
tutti, pur di salvarla.
Sola
buio del coma, Sola con i test di gravidanza tra le
dita, Sola sull’aereo per e da
Nassau, Sola ad uccidere un uomo
davanti a sua figlia, Sola in quella
casa, a lasciarsi inghiottire dalle proprie lacrime.
Ed adesso?
Lo sguardo di Sergei
era stato eloquente. Disprezzo, disgusto, rabbia.
Si era voltato perché non sopportava di vederla davanti agli occhi. Doveva sparire.
La sua fiducia era qualcosa di
prezioso, liquido raro spillato per poche persone, tra cui lei.
E non era solo una questione di
fiducia. C’era di più –altrimenti non avrebbe avuto quella reazione, altrimenti
non le avrebbe lanciato quello sguardo
terribile.
Qualcosa che lei non aveva
compreso ed apprezzato sino in fondo. Che diavolo si aspettava, gesti plateali,
dichiarazioni da film?
Pensava di avere in mano della
sabbia, ed invece era polvere d’oro quella che si era lasciata sfuggire tra le
dita. E quando se ne era accorta, era troppo tardi, e il palmo era vuoto.
Stupida.
Chi è causa del
suo mal, pianga sé stesso.
Idiota.
Si alzò dal letto
come se fosse stata un automa. C’era solo una cosa da fare.
Non aveva più
senso restare in quella casa, non aveva più senso ferirsi con quelle lame
azzurre che sino a pochi giorni prima le rivolgevano sguardi molto diversi.
Aprì la valigia
sul letto, era ancora piena dei vestiti che si era portata alle Bahamas. Non li
tolse, ma la riempì ulteriormente con tutti gli altri suoi vestiti presenti
nella camera.
Poi si trascinò
nella loro camera (no, nella camera di Dragunov) a
prendere quelli che le mancavano.
Ne aveva un paio
in quell’armadio. Si fermò un attimo a fissare la divisa di ricambio di Sergei appesa.
Gliel’aveva mai
detto che quella divisa gli stava alla perfezione, e che adorava quando abbandonava il berretto sul tavolo e si sfilava al
volo la cravatta, senza smettere di guardarla negli occhi, avvicinandosi a lei?
E che quando
partiva sentiva sempre una fitta nello sterno, perché aveva sempre quel blando
timore di non vederlo tornare?
E perché solo
adesso notava che il braccio che Sergei gettava sul
suo fianco quando si addormentavano sfiniti dalla passione era diventato un
abbraccio sicuro e gentile?
Che i suoi baci
non erano solo quelli con cui divorava le sue labbra nel mezzo della passione,
ma anche quelli che percorrevano le sue mani, che saggiavano la sua pelle, che
la salutavano al mattino e alla sera?
Si sedette sul
letto.
Non aveva capito
niente, e aveva rovinato tutto.
Sarebbe stato
magnifico, se solo lei avesse fatto incrinare quella parete di ghiaccio che si
era costruita.
Perché
lui per lei l’aveva fatto.
E se lei fosse stata
un pochino meno stupida e più umana, dentro di lei ci sarebbe ancora stato un
figlio dall’uomo che…
… amava.
E avrebbe corso il
rischio di essere lasciata, di litigare, di finire nei guai, per proteggere ciò
che più li avrebbe uniti.
Ma non era stata
abbastanza forte.
Aveva bisogno di
parlare con Anna. O forse no, con Steve.
No… suo figlio stava vivendo la sua
vita magica, lontano migliaia di chilometri, perché intristirlo
o farlo preoccupare?
E Anna… ora a Nassau era notte inoltrata, svegliarla sarebbe
stata una cosa stupida.
Scivolò sul
copriletto.
Sarebbe andata al
comando e avrebbe presentato le dimissioni, chiedendo di lasciare il paese.
Si, il dopo-Sergei doveva assolutamente cominciare dall’altra parte
del mondo, senza neve e senza freddo, perché nessuno l’avrebbe
più riscaldata.
E se non le
avessero concesso di dimettersi… beh, che almeno le
dessero un altro alloggio.
Lì non poteva più
restarci.
Faceva troppo
male.
La chiave che
girava nella toppa la scosse dai suoi pensieri. Aveva passato ore e ore sul
letto, pensando e ripensando a tutti i momenti, in quei due anni, vissuti Sergei.
Si alzò di scatto,
il fiato che le mancava. Percorse lentamente, quasi come se fosse nel bel mezzo
di una missione, impegnata a non dover fare il minimo rumore,
pena la propria vita.
Nina si affacciò
alla sala, conscia che stava aprendo il capitolo conclusivo, che era arrivata
alla resa dei conti. SergeiDragunov,
seduto sul divano, sembrava attenderla.
La donna rimase
appoggiata allo stipite, mantenendo le distanze, temendo ogni singola parola,
gesto, espressione che le sarebbe stata rivolta.
Dopo un lungo
silenzio, fu lui il primo a parlare.
“Ho pensato a
tutto quello che è successo.” Fece una pausa, guardandola vagamente, quasi
senza incrociare il suo sguardo. “E credo proprio che non si possa continuare
così.”
Nina annuì. “Hai
ragione. Chiederò al comando di accettare le mie dimissioni e di permettermi di
lasciare il paese. Oppure” Prese respiro e forza, cercando disperatamente di
cancellare quel leggero tremolio della voce: “di assegnarmi un altro alloggio.
Così non funziona, è distruttivo.”
Dragunov rimase immobile un istante, come
se stesse soppesando le sue parole, se le stesse metabolizzando, poi si
alzò in piedi, raggiungendola a passi lenti. “Vorresti davvero andar via?”
“Si.” rispose
veloce. Poi però si morse le labbra, serrando le ciglia, intrappolando le
lacrime al suo interno. Non era vero. L’unica cosa che voleva davvero era
tornare indietro nel tempo alla sera prima, anzi, alla settimana precedente,
digli subito che era incinta, parlare subito con lui e trovare una soluzione,
un accordo, qualsiasi cosa. Ma non esisteva nessun tasto REWIND da nessuna parte.
Non si azzardò ad
aprire gli occhi, neppure quando sentì il fiato di Sergei
sul suo volto e le sue mani tra le sue, le dita che si intrecciavano.
“Sono successe
tante cose, Nina, e ci siamo spinti troppo oltre. Sarebbe meglio rientrare nei
ranghi, riprendere il controllo, non trovi?”
Nina annuì di
nuovo, abbassando il volto. Il Capolinea.
Le labbra di Sergei premettero sulla sua fronte. “Andarsene, restare… La decisione spetta a te. Io la mia l’ho già
presa. E spero tu sia d’accordo.”
Sfiorò le sue
labbra con le sue, le accarezzò, le assaporò, come se fosse la prima (e non l’ultima)
volta che le sentiva sulle sue. Le sue mani si chiusero a pugno su quelle di
Nina, che tentava disperatamente di imprimere dentro di sé, nella sua mente,
nella sua memoria, il tepore di quel bacio.
Si staccò
lentamente, come se volesse prolungare quell’attimo il più possibile. Appoggiò
la fronte sulla sua. Un secondo. E poi si staccò, si voltò, riprese il berretto
della divisa dal mobile su cui l’aveva abbandonato e uscì.
Sola.
Sola di nuovo con
le lacrime che scendevano dagli occhi, con il suo profumo nelle narici e le
labbra che sapevano ancora di lui.
Fu solo dopo un
istante che si rese conto che aveva entrambi i pugni chiusi, stretti al suo
petto.
E che c’era
qualcosa dentro la sua mano sinistra. Qualcosa di duro, circolare. Una moneta, forse.
Qualcosa che Sergei aveva fatto scivolare sul suo
palmo mentre la baciava.
Nina Williams
schiuse le dita della mano. E scivolò per terra lungo lo stipite della porta,
la bocca spalancata, il cuore che sembrava esploderle nel petto.
Ecco
il PENULTIMO (?)capitolo di questa fortunata serie!
Capitolo
molto introspettivo, triste… e anche sdolcinato. (e
OOC---soprattutto nel caso di Nina)
Scusate,
ma avevo dimenticato il sadismo giù in cantina. Lo vado a riprendere? Meglio,
eh?
Vi
ringrazio per la penultima volta, voi, miei fedeli recensori…
e anche chi ha seguito questa storia, chi l’ha messa tra i preferiti, chi l’ha
leggiucchiata e l’ha chiusa arricciando il naso…
Insomma,
tutti quelli che hanno cliccato su TwoPairsofChillingEyes.
Il
titolo è una (splendida) canzone di Shakira.
Alla
prossima… ma non temete, non ho intenzione di
sparire. Non tanto presto, almeno. ;)
Click!
La luce si accendeva, mentre la porta d’ingresso veniva chiusa.
Passi
cadenzati e lenti percorrevano il pavimento.
Click!
Un’altra luce. Altri pochi passi.
“Nina?”
Non
ricevette risposta. I passi tornarono indietro.
Un
piccolo tonfo attutito suggeriva che si era seduto sul divano. Il silenzio
contemplativo, che aveva visto ciò che c’era rimasto sul tavolino. E sarebbe saltato subito alle conclusioni.
Affrettate.
Silenziosa,
era scivolata quindi fuori dalla porta della camera, comparendo sulla porta
della sala.
Sergei
era seduto sul divano, gli occhi di cristallo fissi sul cerchietto dorato che
reggeva tra l’indice e il pollice come se lo stesse analizzando. Sembrò stupito
dal trovarsela davanti, richiuse le dita sull’anello e schiuse appena le
labbra.
“E’
il tuo saluto?” chiese in un sussurro. Nina Williams avanzò lentamente, quasi
senza respirare. Si sedette sul tavolino, di fronte a lui, fissandolo negli
occhi. Senza dire nulla, gli porse la mano sinistra, il palmo rivolto verso il
basso e le dita appena aperte , e studiò la sua reazione. Sergei
la fissò con vivo interesse, quasi cercasse di prevedere la sua prossima mossa.
La
voce di Nina era bassa, ma ferma e decisa, quasi fosse un accenno di
rimprovero: “Se mi vuoi davvero, quell’anello non me lo lasci di nascosto in una
mano prima andartene, ma me lo infili al dito.”
L’uomo
restò immobile per un istante. Poi, con una lentezza quasi esasperante, prese la sua mano, e fece scivolare l’anello
nel suo dito.
“Ehm,
dovrebbe essere l’anulare, non il medio.” Lo corresse Nina, trattenendo un
sorriso nel cogliere il lampo di imbarazzo sul suo volto.
Sergei
ebbe uno scatto quasi scocciato, mentre gli toglieva il cerchio dal dito
sbagliato e lo infilava in quello corretto, a fianco. “Ed ora?”
Nina
sorrise appena. “Ed ora ti dico di si.”
8 anni dopo:
Tra
gli spalti gremiti del palazzetto del ghiaccio, seduta a fianco dell’unico
seggiolino vuoto, Nina Williams gettò l’ennesimo, nervoso sguardo all’orologio,
che segnava le 16 e mezza. “Dovevano iniziare mezz’ora fa” borbottò, finendo
l’ultimo pop corn rimasto scoprendo di avere ancora
fame, appallottolando scocciata il sacchetto e gettandolo, centrandolo
perfettamente, nel bidone dell’immondizia a qualche metro di distanza. Un
bambino, seduto in mezzo ai suoi genitori, seguì la parabola perfetta del
lancio, fischiando d’approvazione.
Nina
mosse i piedi, impaziente, cercando una posizione più comoda. Quelle maledette
tribune avevano gradoni troppo stretti, seggiolini troppo piccoli ed erano
eccessivamente pieni di gente. Tutto quel rumore le dava il mal di testa. Si
massaggiò la testa, conscia di essere proprio intrattabile in certe occasioni. Gettò di nuovo uno sguardo al
posto vuoto al suo fianco, tentata dal togliere la borsetta con cui lo stava
tenendo occupato, rendendolo libero per qualcuno. Se poi arriva realmente, beh, si arrangerà, tanto non ha problemi a
restare in piedi per ore e ore. Così impara ad arrivare – se arriva- in
ritardo.
Per
impiegare il tempo, estrasse dalla custodia la nuova videocamera, trafficando
con le impostazioni. Quella precedente era stata vittima di un curioso
incidente in lavatrice, mistero tutt’ora irrisolto nonostante le sue accurate
indagini e i suoi interrogatori mirati. Accorgendosi che le luci si stavano
abbassando, Nina si accomodò meglio, trovando l’angolazione migliore dove
puntare l’obbiettivo della videocamera.
Notò
con la coda dell’occhio che qualcuno stava per sedersi a suo fianco, e lei si
voltò pronta a ribadire, per l’ennesima volta, che quel posto era occupato.
Rimase invece piacevolmente sorpresa: “Ah, sei arrivato, finalmente! Iniziavo a
perdere le speranze!”
SergeiDragunov storse la bocca infastidito, sedendosi e
voltandosi verso di lei. “Felice anche io di vederti.” Salutò, slacciandosi il
cappotto.
Nina
roteò gli occhi, prima di chiedergli se avesse portato qualcosa da mangiare come
da lei espressamente richiesto.
“Ho
preso delle patatine all’entrata” rispose l’uomo, porgendogliele. Nina ne fu
sollevata e aprì subito la confezione, iniziando a mangiucchiarle. “Come mai
non hanno ancora iniziato?”
“Uhn, Non lo so… avranno avuto
qualche imprevisto. Che ne so, con quei costumini…”
Sergei
studiò la videocamera, annuendo soddisfatto dell’acquisto. Un gruppetto di
persone, due adulti e tre bambini strillanti, avevano iniziato a urlare slogan
da stadio e a far ondeggiare uno striscione.
Ulteriormente
infastidito, domandò chi fossero.
“La famiglia al gran completo di LiljaRomanova, la favorita.”
“Esiste
una favorita nel campionato di pattinaggio dei ragazzini Under 6?”
Nina
annuì. “Se tu fossi più spesso a casa, sapresti che è la diretta avversaria di Vika: Quella mocciosa ha un ottimo equilibrio, e lei… insomma, ogni tanto si ritrova con il sedere per terra.
Cosa perfettamente normale per una bambina di della sua età.”
“Forse
non si allena abbastanza…”
“Per
nostra figlia questo sport è un
gioco, per ora, ha cinque anni! Non ha senso che passi le sue giornate intere
ad allenarsi. E’ già brava così. E anche se perdesse la gara oggi, o sbagliasse
qualcosa, non sarebbe una tragedia: deve imparare a gestire anche i
fallimenti.”
“Parli
come un libro aperto…” borbottò l’uomo.
Lei
alzò le spalle. “Devo pur informarmi da qualche parte.”
La
famiglia Romanov aveva iniziato ad intonare cori e canzoncine, stoccata finale
all’emicrania di Nina.
“Non
ti ricordano qualcuno?”
“Uhn….No, Anna non si è vestita da Cheerleader per le gare
di Jamie.” Sospirò: “Anche se le magliette che mi
hanno costretto ad indossare erano proprio imbarazzanti.”
“Silver Haired Surfer‘s Supporters?Bah, Mi sembra
che Vika la adori.”
“Si,
la famosa rivalità Williams pare non esista tra cugini…”
Una
delle allenatrici risalì gli spalti avvicinandosi alla madre di LiljaRomanova e dicendole
qualcosa. La donna gettò a terra i ponpon arancioni, seguendola con lo sguardo attonito e
ansioso.
Parecchi
genitori annuirono soddisfatti all’interruzione del tifo chiassoso ed
eccessivo.
I
primi gruppi di piccoli pattinatori iniziarono ad entrare nella pista, tra gli
applausi dei genitori e i flash delle loro fotocamere.
Dopo
il saggio di gruppo dei più piccoli, una delle insegnanti presentò l’inizio
della gara, e la prima partecipante.
Nina
vide con la coda dell’occhio Sergei che iniziava a
registrare.
“Guarda
che Vika è la quinta ad entrare, è inutile riprendere
anche gli altri.”
“Lo
faccio perché così potrà guardare i programmi dei suoi avversari e studiarne le
mosse.”
Nina
roteò gli occhi al cielo, nuovamente. “Santo cielo, Sergei,
sono bambine di cinque anni, è già tanto che riescano a stare in piedi e ad
accennare ad un salto! Studiarne le mosse? Non deve andare alle olimpiadi, e
nemmeno scatenare una guerra mondiale contro di loro!”
“Se
esistono le favorite in questo campionato, allora può esistere anche lo
spionaggio sportivo.”
La
donna non poté far altro che scuotere la testa: tentare di far capire qualcosa
a quello zuccone era una missione impossibile.
La
piccola LiljaRomanova,
nella sua tuta luccicante color arancio, era tornata dalla sua famiglia
piangendo disperata e gettandosi tra le braccia del padre. Dietro di lei sua
madre reggeva in mano gli scarponcini da pattinaggio, e non riusciva a
capacitarsi di come avesse potuto la lama staccarsi di netto dalla suola.
SergeiDragunov si voltò lentamente verso sua moglie, che
gli rispose con lo sguardo più innocente che poteva dipingersi in faccia,
indicandosi con una patatina come per dire “Io?”
“…un tranquillo campionato di bambine dicinque anni, eh?”
“Lilja ne ha già sei, è la più grande, non dovrebbe
gareggiare contro le più piccole, è ovvio che le altre partano in svantaggio.”
Tornò alle sue patatine, non riuscendo a trattenere un sorrisetto soddisfatto.
“Se in questo campionato può esistere lo spionaggio sportivo, può esistere
anche il sabotaggio.”
“Spero
che nessuno ti abbia vista.”
“Caro,
per chi mi hai preso…?”
“Tsk! Non sei più così agile con quelpancione…
per non parlare poi del passare inosservata…”
“A
parte che io non passo mai inosservata, pancione o meno.” Frugò
nella borsetta, dal quale ne estrasse una busta bianca, che porse al marito. “E
poi, ecco il responso della visita di ieri. Guarda un po’.”
Lentamente,
l’uomo aprì il foglio e ne lesse brevemente il contenuto. Un angolo della bocca
si piegò verso l’alto, soddisfatto, prima di ripiegare il pezzo di carta e di
restituirglielo. “Ottimo lavoro Williams.”
Nina
appallottolò la confezione vuota di patatine, lanciando anche quella nel bidone
dell’immondizia, con un preciso canestro. “Lo chiamiamo Alexei,
allora?”
“Si,
decisamente Alexei.”
Il
lampo di impazienza che gli aveva attraversato gli occhi, al pensiero di
chiamare il figlio con il nome del suo amico defunto non passò inosservato alla
donna. Era una cosa che aveva sempre temuto, e che le aveva fatto evitare in
quei cinque anni, di cercare un altro figlio, finché il piccolo non aveva
deciso di autoinvitarsi. “Se trascurerai Vika, sappi
che ne pagherai le conseguenze.”
Questa
volta toccò a Sergei a roteare gli occhi. “Come se si
facesse mettere in secondo piano, con il caratterino che si ritrova.”
“Non
le andrà giù il fatto di trovarsi un
fratellino tra i piedi… Ma se fosse stata
un’altra femmina… beh, ti conveniva battere la
ritirata alla svelta.”
“Io
non batto mai in ritirata. Combatto sino alla morte. A costo di scavare una
trincea in salotto.”
“Ti
devo rammentare quello che capitava tra me e mia sorella?”
“Non
importa, tanto sarà un maschio, e i maschi danno meno noie…”
Nina
trattenne un risolino. Nonostante tutti i suoi rimbrotti e le sue –finte –
lamentele sull’avere a che fare con due femmine in casa, sapeva che Sergei non avrebbe scambiato sua figlia con nulla al mondo:
complice anche una certa predisposizione della bambina a farsi rispettare anche
dai bambini più grandi, dopo che ne aveva fatto volare un paio dall’altra parte
dell’atrio della scuola materna.
Orgoglio
di papà, preferiva il Sambo all’Aikido.
“C’è
solo un problema” Sbuffò la donna. “La data del termine e quella del matrimonio
di Steve e Julia coincidono”
“Beh,
non credo che Steve si farà tanti problemi a spostare la data, se glielo
chiedi.”
“Altrimenti
ci andrò comunque, rischierò di partorire in Arizona, ma…”
“…
Mio figlio nascerà in Russia, non ci
pensare nemmeno per un secondo a partorirlo negli Stati Uniti, chiaro?”
“Odio
quando sei così inflessibile e permaloso…”
Quando
all’altoparlante annunciarono il turno di ViktorjiaDragunova, una bambina avvolta in uno scintillante
completino color lavanda, i capelli corvini stretti in uno chignon e gli occhi
azzurri concentrati sulla pista scivolò sul ghiaccio, sino a raggiungere il
centro.
Nina
applaudì, voltandosi verso Sergei per controllare che
facesse lo stesso.
Ma
lui era impegnato a filmare la bambina, l’ombra di un sorriso che gli stendeva
le labbra livide e gli occhi fissi sul piccolo schermo della videocamera.
Nina
non poté fare a meno di sorridere, mentre la sua bambina iniziava la sequenza
di volteggi e piroette a ritmo di musica, sentendosi incredibilmente
orgogliosa. Si appoggiò una mano sulla pancia, chiedendo mentalmente al suo
cucciolo non ancora nato di fare il tifo per la sorella.
Aveva
scelto di cambiare la sua vita, di deviare radicalmente il flusso della sua
esistenza, arrendendosi di fronte al fatto di non essere un freddo pezzo di
pietra, di non essere perfetta, e di avere bisogno di qualcuno. E il risultato
era stato più che positivo: con una figlia che sognava di diventare una stella
del pattinaggio, un bambino in arrivo per l’estate e un marito che, seppur
spesso assente per gli impegni militari, faceva i salti mortali per stare con
loro.
Si
amavano. A modo loro, un modo quasi
incomprensibile per il resto degli esseri umani, ma era quanto di più tangibile
e reale ci fosse mai stato nella sua vita.
Vika terminò la sua
esibizione, applauditissima anche dagli altri genitori, con un elegante inchino
e agitando la manina in direzione degli spalti.
Chissà
se si era accorta che il suo papà c’era davvero, che era riuscito a tornare in
tempo per la sua prima, importantissima gara.
Sentì
la mano di Sergei che sfiorava la sua, e le loro dita
che si incrociavano. La strinse.
“E’
stata davvero brava.” Lo sentì mormorare, mentre spegneva la videocamera e la
riponeva nella custodia.
“Niente
più spionaggio sportivo?”
“Con
questi mocciosetti senza arte né parte, è inutile…”
Nina
Williams sorrise, guardandolo di sottecchi. Non vedeva l’ora di andare a
recuperare Vika, di farle i complimenti e di portarla
a cena per una pizza premio nel suo locale preferito.
L’idea
della pizza sembrò stuzzicare anche l’inquilino della sua pancia, che sembrò
approvare scalciando. Senza dire nulla, fece scivolare la mano di Sergei, ancora allacciata alla sua, sul suo ventre. Rivide
di nuovo l’angolo delle se labbra piegarsi. “Ottimo, si sta già allenando…”
Last, butnotleast!!
Eccoci all’ultimo (?)
capitolo di questa storia!
Si, lo so, è OOC, è impossibile
e quasi sdolcinato, e che rovina la storia. Si, lo so, lo so, lo so. il mio
sadismo imbizzarrisce e mi tiene il muso.
Tant’è che, stando
all’idea iniziale, doveva essere mooooolto diverso (MissTrent lo sa).
Questa FF è stata
quella che, finora, mi ha soddisfatto di più nel pensarla e nello scriverla.
Prima di tutto è stata
la più lunga, con 22 Capitoli. Poi è stata la più commentata. (e l’Ego si
impenna)
E quella che mi ha
divertito e impegnato di più a scriverla. E anche quella che ha subito più
cambiamenti. Inizialmente Jamie doveva essere una
femmina (Lyanna… nome che univa il suono di quello
dei genitori… e suscitava perplessità negli altri)
Nina non veniva catturata da Lars (a cui va la Palma
d’oro per l’OOC) ma rimaneva sotto le macerie dell’Hotel, e nel finale non
restava con Sergei. (ma poi il sadismo si è voltato
un attimo e… ZACK!)
Insomma, tutta un’altra
storia.
Qua e la c’è qualche
accenno a dei film, oltre a Godzilla/Cloverfield, nel terzo capitolo figura pure una citazione
di Kill Bill.
Beh, in ogni caso,
Grazie, Grazie, Grazie per aver recensito, per averla letta, apprezzata… insomma, grazie mille a tutti.
A Miss Trent e alle nostre divagazioni/pare mentali/discorsi,
congetture.
A Angel Texas Ranger
per non avermi strangolato dopo che ho fatto fare quella fine a Lars e Alisa (mi farò perdonare)
A SackBoy
per la sua presenza fedele
A Krisalia,
a cui rompo sempre le scatole su MSN.
A Nila,
per la gioia con cui commenta.
A YukinoLang, GothGirl e a Nefari, per aver commentato anche solo una volta.