Un'eredità di stelle (I Signori dell'Universo, volume I) di Puglio (/viewuser.php?uid=83885)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1 ***
Capitolo 3: *** 2 ***
Capitolo 4: *** 3 ***
Capitolo 5: *** 4 ***
Capitolo 6: *** 5 ***
Capitolo 7: *** 6 ***
Capitolo 8: *** 7 ***
Capitolo 9: *** 8 ***
Capitolo 10: *** 9 ***
Capitolo 11: *** 10 ***
Capitolo 12: *** 11 ***
Capitolo 13: *** 12 ***
Capitolo 14: *** 13 ***
Capitolo 15: *** 14 ***
Capitolo 16: *** 15 ***
Capitolo 17: *** 16 ***
Capitolo 18: *** 17 ***
Capitolo 19: *** 18 ***
Capitolo 20: *** 19 ***
Capitolo 21: *** 20 ***
Capitolo 22: *** 21 ***
Capitolo 23: *** 22 ***
Capitolo 24: *** 23 ***
Capitolo 25: *** 24 ***
Capitolo 26: *** 25 ***
Capitolo 27: *** 26 ***
Capitolo 28: *** 27 ***
Capitolo 29: *** 28 ***
Capitolo 30: *** 29 ***
Capitolo 31: *** 30 ***
Capitolo 32: *** 31 ***
Capitolo 33: *** 32 ***
Capitolo 34: *** 33 ***
Capitolo 35: *** 34 ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Alle
23 e 35 del 29 Maggio 1890, l’astronomo David Billings e il
fisico John Hume dell’osservatorio di Greenwich, puntarono per
puro caso il telescopio sulla fascia di cielo compresa tra la Grande
Nebulosa di Orione e la piccola Nebula M78, catalogo Messier. Non
avevano un reale motivo per osservare quella particolare area del
cosmo e anche per questo, quello che si presentò ai loro occhi
li lasciò senza parole. Un nuovo pianeta era visibile in modo
chiaro e distinto: la sua distanza dal Sole era all’incirca di
150 milioni di chilometri, più o meno la stessa della Terra;
ma il pianeta sembrava seguire un’orbita completamente diversa
rispetto a quella terrestre. Gli venne dato il nome Side
e fu possibile osservarlo per alcuni mesi. In seguito, tuttavia,
scomparve misteriosamente com'era apparso. Ogni ulteriore tentativo
di inquadrarlo, dopo di allora, si risolse in un insuccesso. Nessuno
riuscì mai più a vederlo.
Valle
dell'Urubamba, Bolivia, 23 Febbraio 1895
Incrociatore
imperiale di Atlantide, Mesekhet
Quando
la porta si aprì, lo vide come al solito immerso nelle carte,
la fronte corrugata sorretta da una mano. Negli occhi aveva sempre il
solito sguardo angelico da bambino, quasi che la sua infanzia si
fosse trattenuta in lui forse troppo a lungo, proprio come una
lacrima tra le ciglia folte. Ma era più probabile che
un'infanzia lui non l'avesse mai neppure avuta e quello non era,
dunque, che uno spettro terribile di essa, che aleggiava spargendo
tutt'intorno a sé il proprio monito. Era qualcosa di lui che
la stupiva sempre: come una tale dolcezza potesse convivere con un
animo così duro.
Gli
si avvicinò, come sempre attenta ad aspettare che fosse lui ad
invitarla a parlare. E, come sempre, lui alzò gli intensi
occhi di ghiaccio, fissandoli severamente nei suoi. Talvolta lei
l'aveva visto sorridere, ma era molto che non accadeva.
«Si?»
le domandò. «Cosa desidera, Faloe?»
«Signore,
ci sono novità... spiacevoli» fece la donna. Lui
aggrondò ancora di più.
«Quali?»
«Non
abbiamo più notizie del resto della spedizione. L'incrociatore
Argo è sparito improvvisamente dal rilevatore posizionale,
dopo che si erano interrotte le comunicazioni nel passaggio
attraverso la Merkaba.
Appena abbiamo raggiunto la gravità terrestre abbiamo provato
a contattarli, ma senza successo».
L'uomo
impallidì. «Non può essere vero».
«Purtroppo
è così, signore» fece lei, con un timido inchino.
«Li abbiamo persi».
***
Resoconto
stilato da:
Capitano
di corvetta Jacob Ketterley, Marina Reale Britannica, distaccamento
di Wellington, New Zeland, Oceano Pacifico.
Oggetto:
Incidente avvenuto presso Samoa, 23 Febbraio 1895
Questo
è quanto emerso dall’interrogatorio dei testimoni,
marinaio scelto Murray, Carl e mozzo Leslie, Harold.
Versione
di: Leslie, Harold, mozzo, prestante servizio a bordo della fregata
H. M. S. Queen Victoria:
Il
23 Febbraio, ci trovavamo al largo dell’arcipelago di Samoa, al
confine con le acque Americane. Erano circa le 12. Me lo ricordo
perché dovevo portare le patate alla cambusa, per il pranzo,
ed ero sceso a prenderle nella stiva.
Prima
di rientrare, mi sono fermato un secondo sul ponte, a fumare. Non
avrei dovuto, ma era tutta la mattina che non mi facevo una
sigaretta, e cominciavo ad averne davvero bisogno.
Me
ne stavo lì, tranquillo; ricordo che il sole era caldissimo e
il riflesso sul mare accecante. Tirava una leggera brezza e sul ponte
non c’era nessuno. Stavo bene.
Improvvisamente,
ma proprio così, di punto in bianco, tutto s'è fatto
silenzioso. Me ne sono accorto perché ho cominciato a sentirlo
dentro di me, prima che all’esterno. È strano da
spiegare: il cuore ha preso a pulsarmi nelle orecchie, come quando
uno se le tappa.
Mi
accorsi che il vento si era improvvisamente calmato. Il mare era
tranquillo, liscio come un tappeto. Non riuscivo quasi a scorgere la
cresta delle onde.
Ricordo
benissimo che mi sono guardato intorno e ho visto che tutto aveva
cambiato colore. Era come se ci illuminasse una luce chiarissima e
abbagliante. Ho guardato all’orizzonte e mi sono accorto di una
enorme colonna di luce azzurra che dal mare saliva fino in cielo. Ho
pensato subito a un’esplosione vulcanica, qui ne accadono
spesso, e ho avuto paura che potesse scatenarsi uno tsunami, o una
cosa del genere. Ho gridato, almeno credo, ma non ho sentito nessun
suono uscire dalla mia bocca. Per un istante, il sole si è
coperto e tutto si è fatto buio. L’unica cosa che
brillava era quella intensa colonna di luce azzurra, ma confesso che
potrei anche aver avuto un’allucinazione, perché tutto è
durato davvero pochissimo. Ho cominciato a correre e ricordo bene la
fatica che ho fatto per muovere le gambe. Erano come incollate al
legno del ponte e non volevano saperne di muoversi. Forse perché
ero terrorizzato, chissà.
Riuscii
in qualche modo a dare l’allarme. Il primo che incontrai fu il
sottufficiale marinaio scelto Carl Murray. Salì con me sul
ponte e quando vide quello spettacolo, restò pietrificato
esattamente come me. Fu pochi istanti dopo che la luce scomparve e
tutto riprese a scorrere come se nulla fosse successo.
***
Fossa
di Tonga, Samoa, Pacifico Occidentale,
23
Febbraio 1895
«Tirali
su!»
Il
marinaio azionò il verricello. Lentamente e con uno stridente
rumore di ingranaggi e lamine di acciaio che sfregavano tra loro, la
scaletta si abbassò, raggiungendo il pelo dell’acqua.
Uno alla volta, i tre sommozzatori si prepararono a risalire a bordo.
«Ecco
il primo, Hanson. È Sergio» gridò uno dei
marinai, che se ne stava sulla balaustra, affacciato sul mare come da
un balcone.
Hanson
Garrett se ne stava dritto in mezzo al ponte, cercando di controllare
che tutto filasse per il verso giusto. Fece un cenno deciso con la
mano.
«Aiutalo,
forza. Tiralo su».
Il
sommozzatore si aggrappò alle mani che gli venivano tese dai
compagni. Non appena ebbe scavalcato la balaustra, si accasciò
sul legno bagnato del ponte, ansante.
«Caràjo»
esclamò, guardando da sotto in su Hanson, che avanzava a passo
malfermo verso di lui. «Ma
que pasò?»
«Quien
sabe?»
commentò Hanson, tendendo la mano al secondo degli uomini che
risalivano la scaletta. «Un gran casino, questo è
certo».
«Forse
dovremmo andare a vedere che non ci siano feriti, non credete anche
voi?» disse il secondo dei sommozzatori, mentre si toglieva di
dosso l'attrezzatura.
Hanson
annuì. «Credo anch’io. Domanderò a Kurtag
se è d’accordo. In fin dei conti, è lui che guida
la spedizione».
Non
appena tutti i sommozzatori furono fatti risalire a bordo, Hanson
compilò un rapporto su quanto avevano riportato, quindi si
diresse sotto coperta. Scese la ripida scaletta dagli stretti
gradini, attento a non ruzzolare. Il passaggio era angusto e lui
poteva avanzare solo stando di lato, a causa della sua stazza.
Devo
mettermi a dieta,
pensò. Giuro
che prima o poi lo faccio. Davvero, così non può andare
avanti.
Bussò
a una piccola porta di legno. Dall’altra parte di essa, una
voce sottile e profonda al tempo stesso lo invitò ad entrare.
Un
anziano signore sui settant’anni se ne stava in piedi, con i
gomiti appoggiati a una specie di ripiano su cui si trovavano un
libro aperto, una carta geografica e diversi fogli manoscritti.
Sembrava intento a decifrare qualcosa tracciato su un foglio e se ne
stava chino, con la testa dai capelli incanutiti tra le mani.
«Prof.?»
L’uomo
si voltò, fissando Hanson da sopra gli stretti occhiali che
portava in bilico sulla punta del naso.
«Ah,
sei tu?» disse. «Stanno tutti bene?»
«Sì,
solo un po’ spaventati» rispose Hanson, e indugiò
con lo sguardo sul resto della cabina. Sembrava che tutto si fosse
rovesciato là dentro. «E lei?» domandò,
lievemente preoccupato.
«Solo
un po' di confusione, tutto qui».
Hanson
osservò dubbioso la cabina messa a soqquadro. Kurtag dava
realmente l'impressione di non essere rimasto toccato da quanto era
accaduto. Probabilmente era così immerso nei suoi studi che,
quando la mareggiata li aveva investiti, non si era accorto di nulla.
«Il
rapporto dell'immersione?» chiese il professore. Hanson gli
tese la cartellina.
«Eccolo».
Il
vecchio studiò il foglio, limitandosi ad annuire.
«Bene.
Come pensavo». disse. Quindi, soppesandolo con gli occhi:
«pensi che potremmo scendere ancora più in basso?»
Hanson
scosse la testa. «Temo che abbiamo raggiunto il limite. Ho
provato ad aggiustare le saldature della gabbia di profondità,
ma non so per quanto ancora potranno reggere».
Il
professore si morse un labbro, picchiettando la cartellina sul
ripiano di lavoro mentre guardava fuori dall’oblò.
«Questo
significa che dobbiamo tornare a casa?»
«Almeno
finché non riusciamo a trovare il modo di scendere oltre i 500
metri senza rischiare la pelle» rispose Hanson, con una
scrollata di spalle.
«Sono
convinto che prima o poi riuscirai a trovare la soluzione» fece
Kurtag ridendo. «Solo, cerca di muoverti. Non mi resta molto
tempo. Sono vecchio».
Hanson
rise. Il professore era anziano, è vero, ma ancora pieno di
energie. «Un'altra cosa,» riprese Hanson. «Ci
chiedevamo se non fosse il caso di andare a controllare...»
«Sì»
saltò su Kurtag, intuendo quello che l'altro stava per dire.
«Dirigiamoci là, magari possiamo essere di aiuto».
Hanson
annuì, quindi si allontanò, lasciando il professore ai
suoi pensieri. Non appena fu risalito sul ponte, richiamò
l’uomo addetto alle macchine.
«Rotta
est, nord est, Kyle» gli disse. «Facciamo in fretta».
Il
ragazzo scattò, prendendo la barra del timone. «Andiamo
a vedere, Han?»
Hanson
annuì. Fissava con il binocolo nella direzione in cui aveva
visto alzarsi quella immensa colonna di luce.
«Sì»
disse. «Andiamo a vedere. E che Dio ce la mandi buona».
***
Resoconto
stilato da:
Capitano
di corvetta Jacob Ketterley, Marina Reale Britannica, distaccamento
di Wellington, Oceano Pacifico.
Oggetto:
Incidente avvenuto presso Samoa, 23 Febbraio 1895
Versione
di: sottufficiale Murray, Carl, marinaio scelto, prestante servizio
sulla fregata H.M.S. Queen Victoria:
Erano
le 12 e 05 quando vidi il mozzo corrermi incontro in preda
all’agitazione. Pensai che fosse successo qualcosa di
terribile, perché mi sembrò davvero sconvolto. Per
questo decisi di seguirlo immediatamente sul ponte, per vedere cosa
fosse successo, anche perché dalle sue parole scomposte era
difficile riuscire a capire qualcosa.
Quando
fui sul ponte, mi trovai di fronte a uno spettacolo a dir poco
impressionante. Una enorme colonna di luce azzurra saliva dal mare
fino al cielo, in direzione della poppa. Era qualcosa di
incredibilmente spaventoso, perché sembrava distante almeno
una cinquantina di miglia e tuttavia era colossale. Temetti per
un’esplosione vulcanica e per un conseguente tsunami, e per
questo corsi immediatamente ad avvertire il capitano; ma non appena
questi salì in coperta, della luce non c’era più
traccia.
Ci
recammo comunque sul posto. Trovammo una serie di frammenti
metallici, sparsi tutt'intorno. Dopo poco ci raggiunse una nave cerca
relitti, o qualcosa del genere. Erano venuti a vedere anche loro
quello che era successo. Ci scambiammo alcune informazioni su quello
che avevamo visto e cominciammo a recuperare parte dei frammenti più
grandi. Poi, improvvisamente, lo vedemmo: era una luce, una specie di
faro che proveniva dal fondo dell’oceano. Lanciava un bagliore
intermittente. In un primo momento ne fummo spaventati, perché
temevamo che si potesse scatenare una seconda esplosione, ma in
realtà non accadde nulla del genere. La luce continuò
ad affievolirsi sempre più, finché non restò che
un debole scintillio. Decidemmo che era il caso di saperne di più.
Tuttavia, noi potevamo fare ben poco: non avevamo l'attrezzatura
adatta al recupero subacqueo, né una squadra immersione. Se ne
occuparono gli uomini a bordo di quella nave: possedevano tutte le
attrezzature necessarie, e anche di più. Sembravano molto
competenti, a giudicare da come si muovevano. Calarono in mare i
sommozzatori e alcune apparecchiature strane, e trovarono quella
pietra luminosa. Il resto lo sapete, non ho nulla da aggiungere a
quanto già riferito dal resto dell’equipaggio.
Solo
una cosa ancora mi perseguita, in tutta questa storia. Non riesco
davvero a capire che fine abbia fatto il tempo che sono sicuro di
aver impiegato a guardare l'esplosione. Sono assolutamente certo di
essere rimasto lì, a fissare quello spettacolo impressionante
per diversi minuti, prima di riuscire a reagire. Eppure, il capitano
afferma di avermi visto uscire dalla cabina di comando solo pochi
secondi prima che io mi precipitassi a chiamarlo. È questo che
non riesco a spiegarmi. Ma chissà, forse la mia fu solo
suggestione.
***
La
caratteristica di essere un uomo, è solo quella che lo è
per importanza.
Winston
si sforzò di capire cosa diceva quella frase racchiusa nel
quadro. Tutte le volte che si trovava a passare da lì, cercava
di capirci qualcosa, ma ogni volta gli risultava sempre più
oscura. Non che gli piacesse particolarmente. La trovava persino
stupida: per lui, una frase incomprensibile era una frase che non
voleva dire nulla.
Scrollò
le spalle. Anche il quadro non gli piaceva. Gli dava i brividi. Certo
che ce ne voleva di pessimo gusto, per appendere una roba del genere.
Uno scheletro umano era raffigurato seduto su un trono, con in mano
una enorme spada, mentre nell’altra reggeva una bilancia di cui
si serviva per pesare alcune monete d'oro. Sotto ai suoi piedi
ossuti, su una pergamena srotolata, si poteva leggere la frase
misteriosa, quasi fosse stata messa lì a mo' di commento. O
almeno così Winston aveva sempre immaginato.
Il
ragazzo guardò il grosso orologio a pendolo appoggiato alla
parete. Le tre meno cinque. Ormai era ora.
Si
alzò e si aggiustò la giacca. Quindi si incamminò
a passo calmo e deciso lungo il corridoio. I suoi passi echeggiavano
tra il pavimento di marmo rosa e le pareti imbiancate. Tenne lo
sguardo fisso avanti a sé, anche perché non c’era
proprio nulla da guardare, se non la grande porta di quercia in fondo
al corridoio.
Era
come percorrere una sorta di lungo e stretto budello: Winston sentì
un brivido corrergli lungo la schiena. Accadeva tutte le volte che
doveva andare in quel posto maledetto.
Si
fermò davanti alla porta. Si passò una mano sui capelli
impomatati, si spazzolò la giacca e si sistemò la
cravatta. Non appena ebbe bussato, una voce calma e scura rotolò
da dietro il legno spesso, invitandolo ad entrare. Come sempre, il
ragazzo vide l’uomo seduto alla grande scrivania di mogano
avvolto in una nuvola di fumo denso, il sigaro stretto tra le dita
ingiallite dal tabacco.
«Puntuale,
come sempre. Bravo».
Il
ragazzo sorrise, impacciato.
L’uomo
sospirò e una densa nube di fumo uscì dalle sue labbra.
Tra le mani teneva una cartellina, su cui il giovane riuscì a
leggere frettolosamente “Resoconti”. Non appena l’uomo
alla scrivania se ne accorse, chiuse la cartellina in un cassetto,
con un sorriso smaliziato.
«Prenda
questa» disse, porgendogli una busta sigillata con la
ceralacca. La carta era immacolata, senza alcuna scritta. «La
consegni al solito indirizzo».
Il
ragazzo si inchinò ossequioso, quindi fece per voltare le
spalle e andarsene, come al solito.
«Aspetti».
Lui
si fermò, una mano sulla maniglia. «Signore?»
«Lei
è bravo» disse l’uomo, dopo un brevissimo istante.
«Continui così e farà strada. Ma ricordi: mai
rivolgere una domanda su quello che vede qui, né a se stessi,
né ad altri; mai parlare di quello che vede qui, né con
se stessi, né con altri».
L’uomo
aspirò una boccata di fumo caldo. Quindi la trattenne per
qualche istante, per poi soffiarla fuori dalle labbra, lentamente e
con disinvoltura.
«Intesi?»
«Sì,
signore» rispose, il giovane. «Grazie».
L’uomo
annuì. «Può andare, Churchill».
E
con un ultimo inchino, il ragazzo se ne andò.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** 1 ***
Londra,
1 Giugno 1895
Con
gli occhi ancora pieni di sonno, Nadia allungò la mano in
cerca della sveglia, muovendola stancamente sul ripiano del comodino.
Procedeva a tentoni: un libro, no, quello era un bicchiere... il vaso
con i fiori, regalo di compleanno del suo fidanzato, che oscillò
pericolosamente.
Appellandosi
a tutte le forze di cui poteva disporre in quel momento, Nadia si
slanciò ad afferrarlo, nel disperato tentativo di impedire a
quel fragile simbolo d'amore di infrangersi sul pavimento di mattoni
rossi. Rose rosse su mattoni rossi.
Che
ironia.
Non
che lei non lo apprezzasse, ma lo trovava un regalo un po' prosaico.
Però, la serata che Jonathan aveva organizzato per
festeggiarla era stata davvero deliziosa: cena ad un esclusivo quanto
scandalosamente caro ristorante; gita in carrozza lungo l’Embakement,
al lume dei pallidi bagliori che dai Docks si riverberavano nel
Tamigi, trasfigurando le placide acque del fiume in uno strascico
d’avorio e di cera, baluginante di strass;
e poi baci fino a tarda notte, lungo la strada che riconduceva alla
piccola mansarda in Foley street a cui Nadia, in sei anni di vita
londinese, non era mai riuscita a dir addio.
Eppure
l’occasione l'avrebbe avuta ora, visto che dopo anni di fatiche
aveva finalmente coronato il suo sogno. Ogni giorno, infatti,
chiunque avesse acquistato il Times, vi avrebbe trovato la firma di
Nadia Ra Arwol stampata in prima pagina. Era un bel successo per una
ragazza di ventun anni, giunta a Londra senza un soldo; e
soprattutto, senza aver la benché minima idea di cosa fare
della propria vita.
L’unica
cosa che Nadia sapeva per certo, quando aveva messo piede per la
prima volta in Inghilterra, era che doveva trovare la propria strada,
a qualunque costo. Per tutta la vita aveva lasciato che fossero altri
a scegliere per lei, finché sentì che era giunto il
momento di dire basta. Doveva prendere in mano la sua vita, anche se
questo avesse voluto dire allontanarsi da tutte le sue certezze:
privarsi di tutto per costruirsi qualcosa che fosse solo suo, con le
sue sole forze. Non avrebbe mai immaginato che ciò l’avrebbe
portata a cancellare il proprio passato in vista di un nuovo futuro,
altrimenti non sarebbe mai riuscita a partire. Eppure, era andata
proprio così.
Quando
lasciò Le Havre era il 1890. Aveva solo quindici anni. Una
giovane sconclusionata che attirava su di sé il sospetto e la
curiosità per la sua pelle scura. Non aveva una storia, non
aveva una famiglia o qualcuno che garantisse per lei. Tutto quello
che si portava dietro, era un semplice legame d'amore, qualcosa di
così innocente e puro che mai avrebbe pensato potesse
infrangersi.
Jean...
Per
lei, lui era tutto. E così partì, credendo di poter
legare a un nome la sua vita. Pensava di averne la forza, e il
potere. Eppure, nonostante il sentimento che in lei risvegliava
costantemente il ricordo dell'unica persona che fino ad allora
l'avesse veramente amata e che lei veramente amò, la distanza
la sopraffece; e un giorno Nadia si ritrovò cresciuta, lontano
da quelli che erano stati i suoi affetti, circondata da nuovi amici e
da una nuova vita.
Incapace
di far fronte alla situazione aveva provato a mentire a se stessa. Ma
la vita, alla fine, la costrinse a venire allo scoperto e a saldare i
conti con la realtà. Per quanto dura potesse essere da
accettare.
L'incontro
con Jonathan segnò l'avvio di un nuovo corso, per lei. Il
lavoro aveva preso ad andare piuttosto bene. Erano passati i tempi in
cui veniva relegata a raschiare i fondi del caffè o a comprare
le sigarette. Da tempo non le veniva ordinato di mettere a bollire
l'acqua per il tè e nessuno, ormai, le avrebbe più
chiesto di decifrare gli appunti che qualche redattore aveva
fortunosamente tracciato a stilografica su un rotolo di carta
igienica: Nadia era diventata cronista.
Fu
un colpo di fortuna. Di quelli che non ti aspetti e che, se non stai
attento, ti danno alla testa. Ma Nadia era stata attenta a non
montarsi la testa, abituata com’era a non lasciarsi mettere nel
sacco dall’ingannevole luccichio di cui a volte risplende la
vita.
Avvenne
così, inaspettatamente. Jeremy Hunter, il direttore del
giornale, aveva notato il carattere determinato e l’incredibile
testardaggine della ragazza tanto che, un bel giorno, si prese
persino il disturbo di leggere i suoi articoli. Scoprì che non
erano poi del tutto male. Cominciò a seguirla silenziosamente
nella sua carriera, vagliandone i risultati. La sottopose a
innumerevoli prove. La aspettò al varco. Finché, un
giorno, la convocò nel suo ufficio.
«È
un po’ che ti osservo» le disse, squadrandola.
Nadia
non rispose nulla. Ancora non sapeva come avrebbe dovuto reagire. Era
la prima volta che parlava con il direttore.
«Non
hai nulla da dire?»
«Riguardo
a cosa?» azzardò lei.
«A
quello che ti ho appena detto».
Lei
si strinse nelle spalle, confusa. «Io... non so che dire...»
«Beh,
te lo dico io, allora. Mi sembri in gamba. O almeno lo sembravi, fino
a tre secondi fa».
Nadia
se ne stava tesa, in ascolto, il corpo ridotto a un fascio di nervi.
«Comunque,»
continuò lui con un sospiro, scrutandola di sottecchi «ho
pensato di affidarti qualcosa di più importante che fare il tè
o intervistare la vincitrice del premio per l’orlo a giorno.
Che ne pensi?»
«Che
è fantastico, signor direttore» esultò lei, e
sorrideva così tanto che le facevano male gli angoli della
bocca.
«Bene,
comincerai da subito. Voglio un tuo pezzo sulla crisi coloniale...»
Hunter estrasse dal taschino un grosso orologio, che si aprì
con uno scatto. Lui lo guardò torvo, per poi spostare su Nadia
il suo sguardo accigliato. «Oggi c’è una
conferenza al ministero degli esteri. Alle cinque. Vai, torna e
scrivi. Tutto chiaro?
Nadia
non riusciva a credere alle sue orecchie. Era un articolo da prima
pagina. «Volo!» esclamò, al culmine
dell’eccitazione.
«Non
farmi pentire, Ra Arwol, intesi?» le abbaiò dietro. «Già
avrò i miei grattacapi a far digerire alla gente quel tuo
cognome assurdo...»
Nadia
sorrise e schizzò fuori dallo studio, non senza aver
nuovamente ringraziato il suo
direttore. Chi se ne importava se l’aveva presa in giro per il
cognome? Aveva un articolo come si doveva, finalmente! E al diavolo
l’orgoglio famigliare.
Certo,
mentre correva entusiasta lungo Whitehall, Nadia non poteva
immaginare che quella circostanza avrebbe segnato l'inizio della sua
nuova vita visto che, proprio in quell’occasione, avrebbe
trovato nel giovane segretario alla difesa, Jonathan Fisher, l'uomo
per cui avrebbe detto definitivamente addio a tutto quello che ancora
la legava al suo passato. E certo, nessuno poteva immaginare che, da
lì a un anno, il cognome di Nadia sarebbe stata la molla che
avrebbe fatto raddoppiare le vendite al giornale per cui lavorava.
Perché un anno dopo, quando la pubblicazione in stralcio del
suo romanzo Una
vita avventurosa
apparve sul Times Literary Supplement, fu un successo inaspettato e
travolgente.
Era
il 1894 e Nadia era lanciata verso il successo. Per l'occasione, il
direttore la convocò nel suo studio.
«Ancora
non capisco come la mai la gente legga le tue scemenze» grugnì,
«ma chi sono io per discutere i loro gusti?»
Nadia
non era sicura di apprezzare il termine scemenza, per descrivere due
anni di duro lavoro. Era però certa di apprezzare le valanghe
di lettere che le giungevano da ammiratori e ammiratrici entusiasti.
In particolar modo ammiratrici, perché senza volerlo, quella
ragazza sola, straniera e senza un soldo, cresciuta orfana in un
circo fino a quando di anni ne aveva quattordici, era diventata
l’icona simbolo di tutte quelle donne che, in quegli anni a
cavallo di due secoli, cercavano di ritagliarsi un posto in un mondo
che ancora le voleva relegate ai margini. Erano quelle donne, madri,
amanti e adolescenti che non accettavano più di vivere una
vita di indifferenza e solitudine, ma che reclamavano il diritto a
nutrire i propri sogni, ribellandosi a quell’universo maschile
che le circondava opprimendole, e che negava loro tutto ciò
che esulasse dal dover essere madre, moglie, figlia, sorella e donna.
Fu
così che Nadia divenne la firma più ricercata del
Times. Le raddoppiarono la scrivania – nel senso che gliene
diedero una: prima doveva scrivere in sala bozze, appoggiandosi dove
capitava – ma l’unica cosa che non raddoppiò fu,
però, lo stipendio. In fondo, una cosa era fare il cronista;
un’altra fare i soldi facendo il cronista.
A
Nadia, però, non è che i soldi interessassero, non
veramente. Tutto quello di cui gioiva, era il successo che finalmente
le sorrideva. Era qualcosa che si era costruita da sola, lottando,
subendo, ingoiando rospi grandi come balene. Ma alla fine ce l’aveva
fatta, grazie alla sua forza e alla sua determinazione. Senza mollare
mai, aveva dimostrato a se stessa che poteva farcela. Lei chiamava
successo tutto questo. Un successo da quindici sterline al mese. E
che il resto andasse a farsi benedire.
E
poi, anche se avesse guadagnato montagne di soldi, non sarebbe mai
riuscita ad abbandonare i luoghi miserandi che avevano fatto da
cornice alla sua vita a Londra per tutti quei cinque, quasi sei
lunghi anni. Jonathan aveva spesso insistito perché lei
lasciasse il quartiere in cui ancora viveva, così poco
indicato a una ragazza sola e carina come lei. Lui, segretario del
ministro alla difesa, proveniva da una famiglia di importanti
personalità del mondo della politica e dell’economia. A
casa sua le maniglie alle porte avevano probabilmente più
valore dell’intero stabile in Foley Street in cui Nadia
alloggiava, ma la cosa non è che le importasse più di
tanto. In realtà, quello di cui Jonathan non si rendeva conto,
era che quella sicurezza ostentata da Nadia nel “suo”
quartiere, era legata a quel particolare tipo di disperazione che
nella sofferenza diventa la panacea per tutti i mali. Sei tranquillo
perché sai che persino i delinquenti sono più ricchi di
te, e che tu non hai nulla che possa in qualche modo interessarli.
Nella
solitudine di quelle strade, chiuse da squallide roccaforti popolari
in mattoni rosso ocra, di quelli che se ti appoggi ti tingono le mani
e i vestiti, nessuno toccava nessuno ma tutti, alla fine, si
occupavano di tutti. E così, Nadia aveva imparato a conoscere
nome per nome i suoi vicini di casa, e ad amare quelle caserme dalle
finestre vuote e dai mattoni rossi ingrigiti dal fumo, che al loro
interno accoglievano interi reggimenti di diseredati. Amava le strade
dagli acciottolati sconnessi, e gli alberi spogli che si levavano
verso il cielo come in un gesto di muta disperazione e supplica. Per
quanto triste, lei amava tutto di quel luogo, perché sapeva
quanta vita si celava, in realtà, dietro quell’apparente
morte.
E
mai cuore o anima pulsava più vivamente, quando d’estate
le donne del quartiere si raccoglievano sui gradini, o intorno a
un’aiuola. In quei momenti, Nadia le raggiungeva, i piedi nudi
per sentire il calore che emanava la terra; e sedendosi accanto a
loro, in cerchio con loro, quante storie! Quanti i racconti e quante
le passioni che ardevano allora nel comune falò dei ricordi,
rispolverate dalle loro ceneri sotto il sole che al tramonto
infuocava le facciate nude degli edifici e le case di mattoni in
terra bruciata; lì, voci solitarie srotolavano come su un
tappeto ricordi mai sopiti e passioni mai domante, universi femminili
che Nadia non aveva mai neppure immaginato: solo allora scoprì
come la vita, l’amarezza di un rimpianto, il sogno e la
speranza spesso si raccolgano dietro un sospiro come tesori, come
gemme, pronte a risplendere qualora le si riporti alla luce.
In
quelle occasioni, Nadia sospirava alle parole vaghe di quelle donne,
e sognava con esse. E pensava, insieme a esse, chissà...
Chissà
se lui, ancora...
Lui,
ormai lontano, nulla più che un ricordo. Eppure, quanta
inspiegabile emozione a quel ricordo.
Questi
pensieri la sorpresero ormai completamente sveglia. L'orologio era
accanto alla sua mano, ancora stretta intorno all’ingombrante,
bellissimo vaso di rose che occupava tutto il comodino. Nadia notò
che stonava un poco con l’arredamento austero e al limite dello
stile minimal – carcerario con cui aveva economicamente
arredato la casa. Un tocco di lusso che bucava la vista come una
macchia scura su una veste candida. Forse avrebbe dato meno fastidio
fuori dalla finestra.
Si
mise a sedere sul letto, poggiando i piedi nudi sul pavimento di
mattoni sbeccati. Un brivido la percorse tutta. Sollevò le
punte dei piedi, lasciando poggiati solo i talloni.
Troppo
freddo, ancora. Eppure siamo a Giugno.
Ma
quando arriva l’estate?
E
le riunioni davanti alle aiuole, con i bambini che intanto giocano
alla settimana lungo i marciapiedi sconnessi, tra gli alberi carichi
di foglie...
...e
nell'aria il profumo caldo dei tigli...
Nadia
si liberò delle coperte. Si stiracchiò e si accorse che
nella mano teneva la sveglia. La guardò distrattamente.
Le
nove e un quarto.
Come?
Fissò
per qualche istante il quadrante, credendo di aver letto male. No.
Erano proprio le nove e un quarto.
Si
precipitò giù dal letto alla velocità del
fulmine. Aveva un ritardo pazzesco, doveva essere in redazione per le
otto. Il direttore l’avrebbe uccisa.
Si
sciacquò la faccia e raccattò velocemente gli abiti
sparsi in giro per la stanza. Perché non aveva riordinato,
prima di coricarsi? Non se lo ricordava. Anzi, a dire la verità
non si ricordava molto di quello che era successo una volta che si
era separata da Jonathan. Indossava ancora il corsetto, sotto alla
camicia mezza slacciata. Se ne accorse solo ora.
Non
aveva tempo per porsi domande inutili. In fondo, quel fastidioso
cerchio alla testa che le stava uscendo a tormentarla, era una
risposta più che chiara. La prossima volta, avrebbe fatto bene
a non eccedere nei festeggiamenti.
Si
allacciò la camicia e si infilò la gonna, che trovò
abbandonata sulla sedia; glissò invece sulla sottoveste, che
non trovava.
Le
scarpe...
Trovata
la prima, sotto al letto. Mancava una.
Nove
e venticinque.
Se
non trovava la scarpa in cinque secondi, andava scalza.
Si
chinò a terra. Nulla sotto il letto. Nulla sotto alla
scrivania.
Eccola,
sotto all’armadio.
Nadia
evitò di domandarsi come ci fosse finita. Certe cose meglio
lasciarle avvolte dal mistero.
Si
annodò velocemente un nastrino al colletto e si infilò
la giacca di velluto rosso. Raccolse in una semplice coda i capelli
che portava tagliati alle spalle, così lisci e neri che
riflettevano bagliori come d’azzurro. Si pettinò la
frangia, che le ricadeva di lato sulla fronte e agguantò il
cappello. Dopo essersi concessa un breve sguardo d'insieme, cercò
di convincersi che il suo aspetto era più che soddisfacente e
si precipitò fuori dalla piccola mansarda ormai inondata dal
sole. Pochi istanti dopo, stava già correndo lungo le strade
anonime che circondavano Tottenham Court road, tra gli sguardi
contrariati delle signore perbene e quello smarrito dei rispettivi
mariti.
Volava
lungo i viali, intorno a lei macchie di verde e di rosso. Non si
udiva il vociare dei bambini, ma solo il confuso latrare dei mercanti
alle bancarelle, poco lontano. Ma non aveva tempo di fermarsi a
parlare con loro, oggi. Doveva correre.
Correva
per recuperare il suo ritardo, ma Nadia correva anche perché
amava correre. Lo faceva ogni giorno, come da bambina, quando era
acrobata al circo. Aveva ancora la stessa agilità, e il suo
corpo possedeva la stessa tonica bellezza di allora. Solo i ricordi
cominciavano a sembrare diversi, e con essi i giorni.
Sfrecciò
accanto a dame a braccetto di giovani magistrati rampanti e davanti a
uomini in tight che leggevano il Financial Times su panchine di ghisa
e di legno. Laggiù in fondo si scorgeva già Fleet
street, con le sedi dei quotidiani addossate una all’altra,
come a spifferarsi le notizie. Ma intanto Bloomsbury, il quartiere
bohemien;
uomini indaffarati, studenti, letterati e poeti che accalcavano i
caffè si succedevano indistinti in quello che è il
quartiere più alla moda di Londra, ma che quando era arrivata
Nadia non era altro che un normale quartiere di periferia, dove
l’eleganza si ferma ai cancelli e dove gli occhi non vedono
l’angoscia che si cela dietro l’angolo delle strade, come
indugiando su una soglia sconosciuta; un luogo dove la normalità
si ferma alle case dalle porte di legno smaltato e alle facciate di
mattoni in stile Georgiano.
Nadia
correva, lasciandosi ogni cosa, ogni pensiero alle spalle. Non si
sarebbe fermata per nessuno. Correva con la mente e col cuore lungo
vie che conducevano a una Londra lontana da quel luogo di semplicità
e di rassegnazione in cui viveva, verso un luogo lastricato di sogni
per tutti e per nessuno.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** 2 ***
2
«Dove
accidenti eri finita?»
Lisa
Stanfields le si affrettò incontro non appena la vide varcare
la soglia. Trafelata, Nadia corse ad appendere la giacca e il
cappello, cacciandoci dentro i guanti.
«Sono
in ritardo?» fece con un sorriso, tanto per sdrammatizzare. Il
fiato era ancora corto e le guance ambrate erano accese di rosso.
«In
ritardo? Vorrai scherzare! Per un po’ siamo riusciti a far
credere a Hunter che eri uscita per un servizio, ma ora penso che gli
sia saltata la pulce al naso. Fatti vedere, subito!»
Nadia
batté gentilmente la mano sulla spalla dell’amica, in
segno di gratitudine. In tutti quei sei lunghi anni, lei e Michael
Tippet erano state le uniche persone con cui Nadia era riuscita
veramente a legare al giornale.
Lisa
era l’altra donna della redazione. Lei e Nadia erano diverse,
sotto molti punti di vista. Caparbia e testarda Nadia quanto
remissiva e placida Lisa. Alta e dalla pelle ambrata Nadia quanto
Lisa era lattiginosa, con una carnagione di un bianco quasi lucido, e
con lunghi e ispidi capelli fulvi che le ricadevano in ampi boccoli
sulle spalle. Era leggermente bassa e tracagnotta, ma dotata di un
viso delizioso, la cui semplicità le conferiva tratti di non
comune nobiltà. Il suo sorriso riusciva a sciogliere anche
l’animo più disincantato e lei non mancava mai di farne
uso, più e più volte in uno stesso giorno.
«Michael
è arrivato?» chiese Nadia, correndo alla scrivania.
«Da
un’ora. Ti ha lasciato le bozze, lì da qualche parte».
«Gli
devo una cena...»
«Non
solo a lui» fece Lisa con tono scherzosamente minaccioso,
mentre spariva carica di cartelle dietro la porta dell’archivio.
«Naddy,
trovate le bozze?» gridò Tippet, sporgendosi dalla porta
della sala ristoro. Nadia gli strizzò l’occhio e gli
mandò un bacio. Lui alzò il pollice in segno di intesa.
Michael
Tippet era un tipo particolare. Alto lo era davvero, almeno rispetto
agli standard a cui Nadia era abituata. Camminava per la redazione
chino come una canna al vento, la schiena ormai leggermente ricurva a
forza di rivolgersi a un mondo sempre più in basso di lui. Era
un tipo taciturno e sognatore, che amava vedere nel proprio mestiere
una specie di missione. Prendeva tutto quello che faceva
tremendamente sul serio, tanto che Nadia lo aveva più volte
rimproverato di lasciarsi sfruttare impunemente dai colleghi più
quotati, che non si facevano scrupolo di caricarlo del loro lavoro
più noioso, ben sapendo che lui non avrebbe mai rifiutato un
incarico e mai avrebbe permesso che qualcosa in redazione rimanesse
incompiuto.
«Ma
non ti accorgi che lo fanno apposta?» gli diceva solitamente
lei, in quelle occasioni.
«È
il mio lavoro» era il suo semplice commento.
«Il
tuo lavoro non consiste nel fare il lavoro degli altri!»
«Ma
ormai ho detto che lo avrei fatto...»
In
momenti come quelli, Nadia lo avrebbe volentieri preso a schiaffi. Ma
tutto quello che invece si limitava a fare, era sedersi in silenzio e
tendere la mano, lasciando che lui decidesse quale plico posarci
sopra, tra i numerosi che gli erano stati affibbiati.
«Ecco,
questo puoi prenderlo se vuoi...» le diceva lui, semplicemente.
«Dà
qua, testone!» gli rispondeva lei, seccata. Ma
chissà perché, alla fine le scappava sempre da ridere.
Al che, anche Lisa li raggiungeva e dava una mano; e allora lavorare
diventava difficile e anche il timido e preciso Michael si lasciava
andare alle risate e si scioglieva nel raccontare gli aneddoti più
succosi sui colleghi d’ufficio.
Nadia
amava quei momenti di amicizia più di ogni altra cosa. Erano
attimi in cui sentiva che avrebbe potuto passare la vita intera a
quella scrivania. Lei insieme ai suoi amici “paria”,
Quelli che al Times nessuno sapeva esattamente cosa facessero e
perché. E sebbene Nadia avesse ormai lasciato quel club
per passare ai piani alti e nonostante tutti, persino Lisa e Michael,
si fossero aspettati che cominciasse a frequentare le personalità
del giornale – quelli che potevano permettersi un ufficio e il
caffè alla scrivania – lei li sorprese ancora una volta,
rifiutando ogni prerogativa e accontentandosi di una scrivania ad
angolo da sistemare accanto a quelle dei suoi amici. Nessuno di loro
osò mai dire nulla in proposito. Ma spesso un silenzio vale
più di mille parole.
Nadia
bussò alla porta del direttore. Attese qualche secondo, finché
una voce roca, preceduta da qualche colpo di tosse risuonò
secca oltre il vetro.
«Entra».
Nadia
si presentò col sorriso. Si accorse subito che era fuori
luogo.
«Che
fine hai fatto? Ora ti dai pure alla bella vita?»
Lei
fece la finta tonta. «Come dice?»
«Lo
so che sei arrivata adesso, Ra Arwol! Che, mi hai preso per scemo?»
«Nossignore».
«Che
hai lì?»
«Le
bozze mie e di Tippet. Pronte per la revisione».
«Dà
qua».
Nadia
gli porse il plico.
Improvvisamente,
una sorgente di luce, intensa e abbagliante. Qualcosa risuonò.
Una luce blu e riflessi di un chiarore accecante.
Svegliati.
Svegliati,
Nadia.
Nadia...
Nadia!
Aprì
gli occhi. C'era qualcosa di chiaro... Una parete, completamente
bianca. Il soffitto. Era sdraiata a terra. Il direttore e Lisa la
fissavano con agitazione. Non appena la vide riprendersi, Lisa si
chinò su di lei, sollevandole delicatamente la testa.
«Cosa
è successo?» chiese Nadia, scossa.
«Sei
svenuta. Il direttore è uscito di corsa, chiamandomi. Quando
sono entrata ti ho vista già a terra».
«Svenuta?
Come...»
Nadia
si portò una mano alla testa: le girava e provava un leggero
senso di nausea. Vedendo che riacquistava colore, il direttore si
rilassò, appoggiandosi con le mani alla scrivania alle sue
spalle.
«Maledizione,
Nadia. Mi hai fatto pigliare un accidente».
«Mi
scusi, signore. Non so cosa mi sia successo» fece lei, cercando
di mettersi seduta.
«Lo
so io, lo so. Lavori troppo. Prenditi una mezza giornata libera.
Anzi, tutta. Non si sa mai che poi torni prima del tempo e mi crepi
qui».
Nadia
si sollevò a fatica, appoggiandosi a Lisa, il braccio intorno
alle sue spalle. Insieme, uscirono dall’ufficio di Hunter,
proprio mentre Michael, attratto dal trambusto, spuntava timidamente
da dietro lo stipite.
«Che
succede? Sta poco bene?» chiese.
«A
te che sembra?» ringhiò Hunter. «Fila via».
Michael
si precipitò accanto a Lisa, seduta davanti all’amica
nella saletta ristoro.
«Michael,
puoi fare un tè?» gli disse lei.
Nadia
appariva di un pallore disarmante. Si appoggiò con i gomiti
alla scrivania, prendendosi il volto tra le mani. Lisa le carezzava i
capelli.
«È
solo un po’ di pressione bassa, tutto qui» disse.
«Già,
credo anch’io» annuì Nadia. «Un tè mi
farà bene».
Michael
le porse una tazza di tè fumante. Si sedette sul bordo della
scrivania, restando a fissare l’amica che beveva a piccoli
sorsi.
«Sto
già meglio. Grazie» gli disse con un debole sorriso.
«Dovresti
riposarti davvero. Lavori come un’ossessa» le fece Lisa.
«Non
credo sia il lavoro. Oggi ho dormito fino a tardi, ma al risveglio
stavo comunque male» soggiunse Nadia. Lisa e Michael si
lanciarono un’occhiata fuggevole. Nadia se ne accorse e preferì
sdrammatizzare. «Probabilmente ho solo esagerato un po' ieri
sera» disse, bevendo un altro sorso di tè.
Lisa
non sembrò del tutto convinta. «È da molto che ti
capita?»
«Non
so... ogni tanto ho dei vuoti di memoria. Piccole cose. Per esempio,
oggi mi sono svegliata e ho trovato la camera tutta in disordine. Ero
anche andata a letto mezza vestita. Non ricordavo niente».
«Forse
hai davvero esagerato» sorrise Michael. «A volte capita.
Metti insieme fiumi di champagne, balli sfrenati...»
«Jonathan
lo sa?» chiese Lisa, più pragmatica.
Nadia
scosse la testa. «No. Non voglio che si impensierisca. Non mi
lascerebbe più respirare».
«Però
avrebbe ragione nel pretendere che tu ti riguardassi, non credi?»
«Non
so nemmeno di che si tratta» nicchiò lei. «Probabilmente
è una sciocchezza».
«Probabilmente
sì, ma non sottovalutarla».
Nadia
si alzò per versarsi un’altra tazza di tè.
«D’accordo, ma non assillatemi, ok? Sono solo svenuta,
tutto qui».
«Chi
è che è svenuto?» William Ashburne fece il suo
ingresso nella stanza lanciando su tutti uno sguardo sostenuto,
dall’alto delle sue ottanta sterline al mese e dal suo posto da
capocronista. Quando vide Nadia accanto al bollitore, si illuminò.
Aveva sempre nutrito una passione per lei, per la sua esotica
bellezza; e da quando Nadia aveva acquisito importanza, le appariva
una conquista ancora più emozionante. Non vedeva l’ora
di aggiungerla alla lista sterminata delle sue amanti, che si diceva
contenesse parecchi nomi illustri e che si vociferava fosse il reale
motivo per cui William era l’unico in redazione a sapere sempre
tutto di tutti, prima di tutti.
«Mio
Dio, Nadia. Ancora a perdere tempo con questi incarichi da servetta?»
la punzecchiò. Lei alzò gli occhi al cielo.
«Ciao,
Will» fece, stancamente.
«Perché
non ti cerchi qualcosa di meglio? Non sei ancora stanca di fare il
tè?»
«Non
so. Tu che dici?»
«Dico
che se vuoi posso darti una mano. So che alla Daily Gazette hanno un
notevole interesse ad aumentare il numero di croniste femmine.
Conosco qualcuno che potrebbe farti entrare in un soffio, se vuoi».
Nadia
lo fissò in silenzio. «Davvero?»
«Certo»
fece lui, malizioso.
«Beh,
Will, ti ringrazio. Se non fosse che il Daily è un giornale
scandalistico, che vende metà delle copie del Times e che le
sue poche croniste femmina
sono famose solo per essere arrivate alla redazione passando prima
dal letto del direttore, accetterei subito. Ma ovviamente, dovrei
ricambiarti il favore, non è così?»
Lui
le sorrise. «Beh, io do una cosa a te... tu la dai a me...»
«E
cosa vorresti, esattamente?» gli chiese lei, avvicinando il
viso a quello di lui e fissandolo intensamente negli occhi, con un
tenue sorriso malizioso.
«Un
appuntamento io e te, soli».
Nadia
gli voltò le spalle con grazia. «Mi spiace Will»
disse, allontanandosi. «Ma per noi croniste
femmina
non è ancora la stagione degli accoppiamenti».
Lisa
e Michael soffocarono una risata.
«D’accordo»
le fece William, piccato. «Continua a uscire con quel damerino.
Ma so che presto o tardi lo avrai a noia, e allora...»
Nadia
gli lanciò uno sguardo di fuoco. «Cosa intendi dire con
questo?»
William
sorrise soddisfatto. Sapeva di aver colto sul vivo.
«Avanti,
lo sanno tutti come fai».
«Come
faccio cosa?»
«Usi
gli uomini e poi li lasci quando non ti servono più».
Nadia
impallidì.
«William,
adesso stai esagerando» fece Michael, alzandosi in piedi con
fare minaccioso.
«Oh,
ma smettila tu» lo zittì lui. «È la verità.
Prima viene qui grazie ai soldi di quel poveraccio francese; poi
quando conosce il bel diplomatico... chi s’è visto s’è
visto!»
Nadia
lo incenerì con lo sguardo. «Non è andata affatto
così. Sei un imbecille».
«No?»
sogghignò lui. «Non è forse vero che ti ha
prestato i soldi per vivere qui?»
«Sì,
ma...» obiettò nervosamente lei.
«E
non è forse vero che quel tipo è rimasto tre anni ad
aspettarti, mentre tu gli hai dato il benservito?»
«Non
sei nemmeno degno di parlare di Jean» disse lei, stizzita.
«E
lui non era degno di te, allora? Evidentemente no, almeno non fino in
fondo».
Gli
occhi di Nadia si inumidirono. Provava una rabbia intensa. Avrebbe
voluto stringere le mani al collo di William e strozzarlo. Ma dentro
di sé sentiva solo un’immensa stanchezza.
«Lasciami
in pace» disse in un sussurro.
«Come
vuoi, vorrà dire che me ne tornerò al lavoro. Mica
tutti possono permettersi di star qui a far nulla. Perché voi»
disse, guardando prima Lisa e poi Michael «cos’è
che fate, esattamente?»
Restarono
tutti a guardarlo mentre si allontanava sghignazzando. Nadia era
ammutolita. Stavolta William aveva esagerato. C’erano cose che
non era lecito toccare: cose personali, dolori privati che dovevano
restare tali, sepolti il più possibile sotto montagne di
ricordi anestetizzanti. Lui era riuscito a far riaffiorare un dolore
antico.
Nadia
si prese il volto tra le mani, trattenendo le lacrime che premevano
per uscire. Odiava gli uomini. Quando volevano sapevano ferirti come
nessun altro.
«Non
dare ascolto a quell’idiota. È solo un pallone
gonfiato,» Michael le passò una mano sulle spalle. «E
tu non devi giustificare nulla».
«Perché
dovrei?» scattò lei. Lisa e Michael la fissarono
esterrefatti per quella sua reazione inattesa. «Non posso
accorgermi di essere innamorata di qualcuno? Devo essere l’unica
donna sulla terra a restare insieme alla stessa persona per tutta la
vita? Cosa sono, l’eroina di un romanzo per ragazzine?»
Michael
lanciò a Lisa uno sguardo allarmato. «Assolutamente no,
Naddy. È solo che...»
«Solo
che... cosa?»
Lisa
le si parò davanti, prendendole le mani.
«Nadia,
nessuno ti giudica. Solo tu sei padrona della tua vita. Noi siamo con
te».
«E
allora lasciatemi stare, tutti quanti!»
Nadia
si alzò in piedi, furiosa. Raccolse le sue cose, quindi uscì
correndo, senza voltarsi indietro. Michael e Lisa rimasero sbigottiti
a fissare la porta aperta e ad ascoltare i passi di Nadia risuonare
veloci giù per le scale.
«Non
volevo farla arrabbiare» si lamentò lui, abbattuto. «Non
credo che abbia capito quello che intendevo dire».
Lisa
gli sorrise, mentre rimetteva in ordine la scrivania dell’amica.
«Invece
credo che abbia capito» disse, con un sorriso tenero. «È
che nemmeno lei sa cosa pensare di sé stessa; e credo che
questo sia ciò che la fa soffrire più di ogni altra
cosa».
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** 3 ***
3
Nadia
camminava spedita, incurante di tutto. Camminava per camminare, senza
una meta precisa, con il solo scopo di sentire il proprio corpo in
movimento, libero dai pensieri.
Nessuno
ha il diritto di giudicarmi, nessuno!
Il
sole filtrava tra le fronde di vecchi olmi stanchi. Tagliava il
marciapiede in spicchi di luce candida, bagliori accecanti che
traevano dall’ombra il suolo annerito dal tempo e dalla
sporcizia.
Nadia
si perse a fissare quella successione di ombra e di luce. In un
universo a chiaroscuro, i suoi passi risuonavano sull’acciottolato,
per poi confondersi tra il tramestio di tacchi e suole di cuoio senza
corpo, che scalpicciavano tutt’intorno. Una carrozza passò,
il ritmico pestare di zoccoli e ferro sul selciato. Risate, uomini
che parlavano tra loro.
Improvviso,
un ricordo, e un dolore.
Jean...
«...Non
posso più continuare così».
«Così
come?» Lui ha l’aria rassegnata e smarrita. Come un
condannato che conosca già la sua sentenza.
«Jean,
io mi sono innamorata di un altro».
Lei
cerca nei suoi occhi l’ombra di quel risentimento che più
di ogni cosa teme, ma non vi trova che la traccia di un dolore
profondo, e di una solitaria stanchezza.
«Sai,
lo avevo capito». Aveva atteso un istante, prima di
risponderle.
«Non
volevo, non l’ho fatto apposta, credimi».
«Non
devi scusarti. Non c’è una colpa».
«E
invece sì, io dovevo amarti e...»
Lui
solleva gli occhi. Una luce li attraversa, ma non è gioia,
solo l’abbandono a una precisa consapevolezza.
«Dovevi?»
«Come
dici?»
«Hai
detto... dovevo amarti? Ma scusa, che senso ha?»
«Io...»
Si
volta. Non riesce a sostenere il suo sguardo. È troppo sincero
e profondo. Lui la conosce troppo bene. Quegli occhi azzurri così
intensi sono discesi troppe volte nei suoi e chiedono una verità
che è troppo dura da ammettere.
«Io
non voglio che qualcuno si senta obbligato a volermi bene. Non ho
bisogno né della tua carità, né della tua
pietà».
«Non
intendevo questo. Hai frainteso».
«Ma
cosa credi, che sia così derelitto da non poter avere nessuna
possibilità? Che abbia bisogno che qualcuno si metta una mano
sul cuore e...»
«Adesso
smettila, sei ridicolo. Io cercavo solo di essere gentile».
«Gentile,
certo».
Si
volta a guardarlo e c’è fermezza nei suoi occhi, e una
rabbia segreta, che fino ad allora non sapeva di avere.
«Non
volevo che andasse a finire così. Ma se vuoi che ci lasciamo
litigando, per me va bene».
«Non
fa molta differenza – fece lui, gli occhi fissi al suolo».
Ci lasceremmo comunque.
«Ma
potremmo farlo da persone civili. Rimanendo amici».
«No,
grazie. Non mi va».
«Non...
ti va?»
Lei
abbassa lo sguardo. Era triste, ma sorrideva.
«È
quello che ti dissi io quando ci incontrammo».
«Cosa?»
«Quando
mi chiedesti se volevo essere tua amica. Ti risposi “no,
grazie, non mi va”».
«Non
me lo ricordavo».
«E
invece sì». E quasi piangeva.
Lui
si alzò in piedi.
«Me
ne devo andare».
«È
questo che vuoi? Che ci diciamo addio così?»
No,
ti prego,
pensò. Non
così.
«Addio,
Nadia». Sorrideva, anche se era in preda a una profonda
tristezza.
E
lei pianse, ma nascondeva le lacrime contro il sole che le illuminava
il volto.
«Addio
Jean» disse, in un sussurro. «Buona fortuna».
«Ma
dove vai? Sei impazzita?»
Un
calesse le passò accanto sfrecciando, scuotendola come da un
sogno. Per un istante, Nadia si sentì come in equilibrio su un
filo. Il mondo intorno a lei prese a ruotare, confuso.
Era
in mezzo a una strada. Quale, non avrebbe saputo dirlo. I passanti la
fissavano incuriositi. Una coppia, un uomo e una donna sulla
quarantina, era a passeggio e nel vederla smarrita l’uomo le
tese la mano.
«Signorina,
sta bene?»
Nadia
lo fissò. Perché quell’uomo in giacca nera le
parlava? Lo conosceva?
«Io...
credo di sì...»
«Venga
via dalla strada, o rischia di farsi travolgere».
Nadia
si lasciò ricondurre sul marciapiede. Era pallida e sudava. La
donna la prese sotto braccio e l’aiutò a sedersi su una
panchina.
«Le
è successo qualcosa?» chiese.
Lei
scosse la testa.
«Devo
essermi persa. Sapete dirmi che via è questa?»
«Questa
è Euston Road, siamo vicini alla stazione di King’s
Cross».
Nadia
stentò a crederci. Aveva camminato per cinque chilometri.
«Ora
ricordo,» mentì lei. «Grazie, siete stati molto
gentili».
I
due la guardarono alzarsi in piedi, preoccupati.
«È
sicura che non vuole andare da un medico?» chiese la donna.
Portava un vestito rosa confetto. Nadia pensò che era un
colore bizzarro.
«Sì
sto bene. Grazie, arrivederci».
Si
diresse lentamente verso casa. Foley street era solo qualche isolato
più avanti. Ma com’era possibile che avesse camminato
per tutto quel tempo senza rendersene conto?
Percorse
la strada verso casa con la mente affollata da pensieri indistinti.
Un pesante mal di testa le fece venire la nausea e quando arrivò
davanti alla porta di legno ingiallita dal sole del n. 135 di Foley
street, Nadia aveva i piedi e le gambe doloranti. Salì le
scale pesantemente, appoggiandosi esausta alla porta d’ingresso
una volta raggiunto il suo appartamento.
La
mansarda era invasa dal sole e dall’afa. Tirò le misere
tende alla finestra e subito una cappa di luce lattiginosa si mischiò
all’umidità che si spalmava sul mobilio e sul letto
disfatto. Lasciò la finestra aperta. Le tende penzolavano
inerti, lasciando filtrare uno spiraglio di luce che si stendeva in
una lunga linea rosso fuoco sui mattoni del pavimento.
Nadia
si gettò sul letto. Chiuse gli occhi e si addormentò
subito.
Fu
un sonno pesante, e senza sogni.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** 4 ***
4
Quegli
strani vuoti continuarono a intermittenza per tutta la settimana
seguente. Senza dir nulla a nessuno, Nadia decise di farsi visitare
da uno specialista.
«Non
c’è nulla in lei che non vada, miss Ra Arwol. Per
sicurezza le consiglierei una dieta ricca di ferro. Dovrebbe provare
a mangiare carne di cavallo due volte alla settimana».
Nadia
si allacciò la camicia, annodandosi il nastro di seta nera
intorno al colletto inamidato.
«Non
mangio carne, dottore».
«Da
quando?» chiese lui, sorpreso.
«Da
sempre». Si sistemò il corsetto e prese la giacca
dall’attaccapanni. «Potrebbe essere dovuto a questo?»
chiese.
Il
dottore alzò le spalle. «Potrebbe anche essere. Le
consiglierei di cominciare a mangiarne, almeno un po’. La sua è
una questione religiosa o ideologica?»
«Questo
può aiutarla a capire perché ho dei vuoti di memoria?»
fece lei secca. Il dottore si schiarì la voce, arrossendo
lievemente.
«No,
era per avere un quadro più generale...»
«Capisco».
Nadia
si infilò la giacca di velluto rosso. Il dottore la fissava
pensieroso.
«Probabilmente
è solo stanchezza. Provi a rilassarsi un poco... vada in
vacanza, si prenda un periodo di riposo assoluto, in cui possa
passeggiare all’aria aperta e ossigenare la mente».
«L’ultima
volta che sono uscita per fare due passi, mi sono ritrovata in giro
per Fitzrovia alle tre di notte» commentò sarcastica
lei. Il dottore sorrise.
«Mi
ascolti: vada in vacanza. E si faccia accompagnare da qualcuno. È
la cosa migliore».
Il
dottore si alzò in piedi per salutarla, tendendole la mano.
Lei ricambiò la stretta con un sorriso sbiadito. Non aveva
risolto nulla.
Sulla
via del ritorno, Nadia pensava a cosa avrebbe fatto. Non poteva
continuare a ignorare la faccenda. Quella storia cominciava ad avere
conseguenze pesanti: a volte sul lavoro capitava che perdesse la
cognizione di intere ore. Altre volte, mentre tornava a casa, si
risvegliava come dopo una trance, da tutt’altra parte rispetto
a dove stava andando. Aveva cominciato a prendere la carrozza per
spostarsi, ma era una soluzione momentanea, perché costava
troppo e lei non poteva permetterselo. Poteva sopportare l’astio
che alcuni abitanti di Foley street avevano cominciato a
manifestarle, nel vederla rincasare come una signora; ma non poteva
sopportare di arrivare a metà del mese senza un soldo in
tasca.
Però,
poteva sempre chiedere i soldi a John.
No,
era contraria a questo genere di cose. E poi avrebbe significato
confidargli quello che le stava succedendo; e allora lui non
l’avrebbe più lasciata vivere.
Però,
era sempre il suo fidanzato. Non poteva nascondergli una cosa come
quella.
Glielo
dirò a cena.
«Cosa?
E da quant’è che hai questo problema?» John era
furioso. Nadia aveva sperato che il fatto di trovarsi con lui in un
affollato ristorante, potesse trattenerlo dal fare una scenata, ma si
era sbagliata. Diverse persone si voltarono verso di loro e lei
arrossì fino ai capelli.
«Stai
tranquillo, è tutto sotto controllo. Il dottore ha detto che
non c’è niente che non vada. Secondo lui dovrei solo
andare in vacanza».
«E
chi sarebbe questo dottore? Lo conosco?»
Nadia
alzò gli occhi al cielo. Lo sapeva che sarebbe andata a finire
così.
«Ma
che importanza vuoi che abbia?» disse. «Mangia,
piuttosto, se no si fredda tutto».
«Se
solo tu me ne avessi parlato prima» insistette lui, «avrei
potuto consigliarti un medico di fiducia».
Nadia
portò alle labbra un cucchiaio della sua ratatouille.
La sorbì lentamente, quindi posò gli avambracci sul
tavolo, ostentando indifferenza per quello che lui le diceva.
«Non
ce n’era bisogno. E poi ti ripeto che va tutto bene. È
solo un piccolo fastidio, tutto qui».
«D’accordo.
Allora vorrà dire che andremo in vacanza».
«Come?»
Lui
alzò le spalle. «Partiamo. Devi prenderti una vacanza,
no? E allora, andiamo. Io e te».
Nadia
lo fissò incredula. «E dove?»
Lui
ci pensò un istante.
«In
crociera» fece. «Che ne dici?»
Nadia
sorrise, incapace di ribattere. «In crociera! Ma sei
impazzito?»
«Così
se ti metti a gironzolare, sono sicuro di ritrovarti» le disse
lui. Nadia scoppiò a ridere.
«Allora,
accetti?» le chiese.
Lei
lo fissò teneramente. «Va bene. Ma a una condizione...»
Jonathan
si sporse verso di lei. «Quale?»
Nadia
sorrise, maliziosa. «Cabine separate».
Lui
si abbandonò sulla sedia. «E io che speravo...»
Lei
rise. Per la prima volto dopo settimane era finalmente serena.
«Prima
dovrai sposarmi, mascalzone!»
«Non
chiedere, se non vuoi rischiare di ottenere...» le fece lui.
Nadia
gli rivolse uno sguardo tenero. «Ti assicuro che una vita
tranquilla è tutto quello che vorrei per me, adesso».
Jonathan
scostò la sedia, avvicinandola alla sua. Le prese la mano tra
le sue e la fissò intensamente negli occhi. «E io farò
di tutto, per darti ciò che desideri. Lo sai quanto ti amo».
«E
io amo te, John» gli rispose lei. Lo baciò e per un
attimo tutte le preoccupazioni svanirono.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** 5 ***
5
Mentre
rientravano, Nadia non smise di pensare a come sarebbe stato
eccitante andare in crociera. Doveva ammettere di essersi sbagliata:
aveva fatto bene a confidare a Jonathan il suo problema. Era riuscito
a risolvere la questione in un attimo. E ora i suoi problemi non le
erano mai sembrati così lontani.
«Ho
saputo che è tornato Kurtag» esordì John. Nadia,
la testa appoggiata sulla sua spalla, si sollevò a guardarlo.
Andrés Kurtag era un anziano professore di storia del King’s
College. Era il massimo esperto di antichità di tutto il regno
unito e Nadia lo conosceva da anni, da quando l’aveva aiutata a
completare le ricerche per il suo libro. Da allora avevano allacciato
un rapporto quasi filiale ed erano rimasti ottimi amici.
«Davvero?
Quando?» chiese lei, sorpresa che non le avesse ancora detto
nulla.
«Mah,
un paio di settimane,» fece John, vago «non so di
preciso. Comunque l’ho incontrato l'altro ieri a casa del
console Tedesco, il barone Leopold von Caprivi».
«Non
mi ha ancora chiamata. Strano» mormorò Nadia. «E
tu, che ci facevi là?»
«Oh,
le solite cose» disse lui con noncuranza. «Nulla di
importante».
Nadia
restò pensierosa per un po’. «Senti, siamo vicini
a casa sua» disse poi, improvvisamente. «Ti spiace se
passiamo? Non è troppo tardi e forse lo troviamo ancora in
piedi».
Jonathan
estrasse l’orologio dal taschino. «Preferirei di no,
cara. Domani ho un impegno importante in camera di consiglio e non
vorrei tardare...»
«D’accordo.
Vado io».
Lui
strinse le labbra. «Nadia...»
«Avanti,
non ricominciare. Siamo a due passi da casa mia. E sto bene. È
tutta sera che non ho giramenti e penso che non mi accadrà
nulla».
«Pensi?»
«Ne
sono sicura».
Lui
alzò gli occhi, fissando un punto imprecisato davanti a sé.
«D’accordo. Ma...»
«Niente
ma» fece lei, aggiustandogli la cravatta di seta rossa e
sollevandosi sulle punte a baciargli i baffi. «Vai a casa e
stai tranquillo».
Jonathan
la strinse a sé e le baciò i capelli. «Mi
raccomando. Ci terrei a fare quella crociera».
«Anche
io, fidati» gli sorrise lei.
Nadia
imboccò Chenies Street. La serata era piacevolmente frizzante.
Era bello passeggiare lungo le stradine residenziali. Il profumo
dell’edera e delle siepi di bosso si mischiava al fascino di un
cielo senza luna né nuvole. Nadia sollevò gli occhi.
Orione risplendeva alto sopra la sua testa, il pesante randello
levato minacciosamente, pronto ad affrontare il toro che lo caricava.
La sua spada pendeva attaccata a una scintillante cintura di stelle.
Nadia non poté fare a meno di notare la seduzione che uno
spettacolo del genere poteva esercitare sull’animo umano.
Arrivò
davanti a una piccola ma graziosa villetta in mattoni scuri e dalla
porta di legno blu. Bussò e attese. Per un po’ non
rispose nessuno. Nessuna luce ad illuminare le finestre chiuse, da
cui pendevano tende tirate.
Forse
non è in casa,
pensò.
In
quell’attimo la porta si aprì e un uomo dai capelli
grigio argento in completo di tweed comparve sulla soglia. Per un
breve istante, sul volto solcato dagli ampi favoriti Nadia colse uno
velo di inquietudine. Poi le rughe sulla fronte si distesero e con un
sorriso e un abbraccio, Andrés Kurtag accolse Nadia in casa
sua.
***
«Quando
è successo? Sì, capisco...»
Con
molta calma, l'uomo posò la cornetta. Per diverso tempo non
fece nulla, limitandosi a rimanere immobile, a fissare il vuoto
davanti a sé. Solo dopo molto si alzò e si avvicinò
alla finestra che si apriva nel suo studio, scostando la tenda. Il
sole del mattino faticava a farsi strada in un cielo screziato di
nubi. La città si era già animata della solita,
febbrile attività e brulicava di vita, davanti ai suoi occhi.
Un immenso mare di indaffarati parassiti.
Com’è
tutto vano,
pensò. Ogni
cosa, ogni fatica. Tutto, prima o poi, è destinato a svanire,
che lo vogliamo o no.
Si
voltò a guardare la scrivania, dove stava il telefono, nero e
silenzioso. Quindi, con un sospiro si sedette, sollevando nuovamente
la cornetta e componendo un numero.
«Mi
mandi Churchill, è per una consegna» disse. La voce gli
uscì stanca, a dispetto di quanto si sforzasse per mascherare
la sua disillusione. «Gli dica di fare in fretta».
L’uomo
posò debolmente il ricevitore. Aprì un cassetto alla
scrivania ed estrasse un foglio di carta spessa e ruvida, lavorata a
mano. Gli occhi gli caddero su un plico, nascosto proprio sotto alla
carta. Era lì da sei anni e riguardava qualcosa ormai da tutti
dimenticato, ma che per lui rappresentava un ricordo ancora vivo e
terribile. Rimase a fissare il plico, senza poter far nulla. Una
parola, un nome che vi lesse sopra, gli si impresse nella mente:
Side.
Richiuse
il cassetto con una certa esitazione, posando la carta da lettere
davanti a sé. Intinse il pennino nel calamaio e con grafia
lenta ed esitante graffiò una serie di lettere.
Sol
occidit. Orion surgit. La
pietra è perduta.
Rilesse
ciò che aveva scritto, sospirando. Quindi imbustò la
lettera chiudendola con della ceralacca, su cui imprimesse il suo
sigillo, che portava come anello. Quando ebbe terminato, posò
la lettera sulla scrivania; e guardandola quasi con timore, si
abbandonò contro lo schienale della sua poltrona di pelle
ingrassata. Si frugò in tasca ed estrasse un pacchetto
sgualcito, da cui sfilò un sigaro. Frugò in cerca
dell’accendino e dopo averlo acceso, reclinò il capo
all’indietro, espirando il fumo lentamente. Chiuse gli occhi.
Chi
di noi, può sconfiggere il fato?,
pensò. È
questo il nostro destino, che lo vogliamo o no.
Tutto
era successo come aveva previsto e temuto. Aveva fatto quello che
poteva per scongiurare il presente, ma la consapevolezza della sua
inutilità non riusciva ad abbandonarlo. La catena degli
eventi, inesorabile, continuava a procedere e qualcosa in lui sapeva
che nessuno avrebbe mai potuto arrestarla. Non questa volta.
***
Camminava
lungo una strada di porpora. Sentiva la paura crescere dentro di sé,
percepiva lo smarrimento. Si guardava intorno ma non c’era
nessuno che potesse aiutarla a capire.
Era
una bambina. Eppure sapeva di essere cresciuta, aveva coscienza del
suo essere cresciuta, ma era una bambina. Il corpo di una bambina, ma
la mente no, quella non era di una bambina.
Camminava
in silenzio e sentiva i ciottoli scricchiolare sotto i suoi piedi. La
strada appariva deserta e l’unica luce che la illuminava era di
un rosso carico, caldo come sangue e scuro come il sangue. Nadia
poteva percepire l’odore acre del sangue, tutto intorno a sé.
Avvertì un senso di inevitabile rassegnazione farsi strada in
lei. Cercò di lottare, ma non ce la faceva. Era stanca. Aveva
solo voglia di fermarsi, di sedersi. E di bere. Aveva molta sete.
Alzò
lo sguardo verso il cielo e vide che brillava di porpora. Tutto
quello spazio vuoto che si apriva intorno a lei brillava di porpora,
un intenso colore sanguigno, come se si trovasse a viaggiare
all’interno di una gigantesca arteria.
Improvvise,
all’orizzonte, apparvero alcune casupole disabitate che
cadevano a pezzi. Qualche rado filo d’erba era mosso dal vento
che, solo, osava sfidare quell’innaturale fissità. Nadia
si guardò intorno, ma continuò a non vedere nessuno.
Chiuse gli occhi e gli riaprì, ma ancora non apparve nessuno.
Continuò
a camminare, raggiunse le case. Dalle finestre vuote vedeva solo
l’ombra scura degli interni disabitati, mentre i muri sventrati
si piegavano verso di lei pericolosamente, quasi a volerla
schiacciare. Si fece piccola, e avrebbe voluto essere invisibile. Era
come se tutto, intorno a lei, non facesse che guardarla, scrutarla
fuori e dentro di sé, spogliandola al mondo. Migliaia di occhi
nascosti, invisibili si intrecciavano sul suo corpo, come filo
spinato su un campo di battaglia insanguinato.
Si
fermò. Aveva il fiatone. L’aria era irrespirabile, calda
e pesante, immobile, come quella che si trova in una stanza occupata
da un cadavere. Si voltò e alle sue spalle vide un bambino.
Stava lontano, come se la seguisse senza volerla avvicinare. Teneva
la testa bassa e lei non poteva vederne i lineamenti del viso.
Nadia
provò un senso di inquietudine. Si guardò i piedi e
vide che non portava le scarpe. Le dita erano sporche di polvere e le
piante piene di ferite. Anche le sue mani erano piagate, le unghie
spezzate, come se avesse scavato la terra a mani nude.
Nadia
si voltò una seconda volta e vide che il bambino si era
avvicinato. Stava fermo, le braccia abbandonate lungo i fianchi, il
corpo seminudo, scarno e sottile, la testa reclinata verso il basso.
Sentiva che la guardava ma non ne vedeva gli occhi, coperti da una
fitta coltre di capelli.
Riprese
a camminare. Un respiro, dietro di sé. Non aveva bisogno di
voltarsi per capire che il bambino era a pochi passi da lei. Fece
finta di nulla e camminò. Il bambino la prese per mano. Lei
continuò a camminare, senza mai guardarlo.
La
strada continuava in mezzo alle rovine, che sembravano infinite.
Camminarono uno a fianco dell’altra, tenendosi delicatamente
per mano, per un tempo indefinito. Nadia poteva sentire il calore
della mano di lui, il sudore che colava tra i loro palmi. Si volse
verso il bambino ma i capelli sul suo volto non lasciavano
intravedere i tratti del viso. Il suo respiro era affannoso, come
quello di un vecchio. Procedeva tutto ingobbito, come se portasse
sulle spalle il peso di migliaia di anni. I suoi piedi erano nudi,
come quelli di lei, solo più sporchi e più piagati.
Nadia si chiese quanto avesse camminato, prima di allora.
Insieme,
giunsero alla fine della strada. Davanti a loro, nulla. Un immenso
mare rosso si stendeva tutt’intorno, ma non c’era una
spiaggia, né una barca né niente. Persino il mare
sembrava in procinto di dissolversi.
«Cos’è
questo posto?» chiese lei. Ma il bambino taceva.
Nadia
avanzò verso il mare e lasciò che quell’acqua di
sangue le bagnasse i piedi. Sentì un sollievo immediato, che
però la rattristò. L’acqua le lavava le ferite,
ma le piagava l’anima.
«Voglio
andare via da qui» disse. «Ti prego, fammi uscire».
Il
bambino restò in silenzio.
«Ti
supplico, fammi uscire!» gridava, ma il bambino non si muoveva.
«Voglio
andarmene, hai sentito?»
Prese
a scuoterlo ma lui restò immobile. Lei lo colpì e lo
schiaffeggiò, lo picchiò finché non sentì
il sangue colarle lungo i polsi. Con raccapriccio si accorse di avere
in mano una lama affilata. Il bambino giaceva a terra, il volto
sepolto nella terra, il corpo martoriato dalle coltellate. La terra
era imbevuta del suo sangue e continuava a berlo avida, mentre
scorreva dalle sue ferite. Nadia fissò le sue mani con orrore
e si lasciò cadere in ginocchio. Prese il bambino dolcemente e
lo girò. Gli scoprì il volto, scostandogli i capelli
imbrattati di terra e di sangue. Con un grido lo lasciò
ricadere. Il bambino non aveva un volto, ma solo una liscia pelle
bianca, senza naso, né bocca, né occhi.
Nadia
si coprì gli occhi con le mani e pianse. Qualcuno la toccò
sulla spalla. Il bambino si era rialzato e ora la fissava attraverso i suoi occhi vuoti, ma accesi di una strana e cieca consapevolezza. Lei gli rivolse uno sguardo disperato.
«Perché?»
gli chiese. «Perché tutto questo?»
Perché
è il tuo destino,
fu la risposta, prima che lei si svegliasse.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** 6 ***
6
Quando
si svegliò, Nadia aveva un forte mal di testa. Cercò la
sveglia. Aveva qualcosa sulle mani che le rendevano appiccicose. La
pelle le tirava.
Si
sforzò di alzarsi. Con fatica, riuscì a mettersi
seduta. La testa le doleva in modo pazzesco.
Distrattamente,
si guardò le mani.
Con
un moto di orrore, Nadia si riscosse dal sonno. Sangue. Sangue
dappertutto.
Si
rigirò le mani davanti agli occhi: erano imbrattate di sangue
rappreso. Si osservò la camicetta e con un grido strozzato si
accorse di essere completamente sporca di sangue. Terrorizzata, si
tastò per vedere se quel sangue non le appartenesse.
Nulla,
non una ferita.
Ma
allora...
Non
riusciva a ricordare niente. Vuoto più totale.
Si
passò una mano tra i capelli. Ma che accidenti era successo?
Tutto quel sangue non era normale...
Adesso
era davvero agitata. Prese a camminare in cerchio per la stanza. Cosa
doveva fare? Andare alla polizia. E poi? Non ricordava nulla: e se si
fosse resa colpevole di qualche gesto assurdo? Ma no, com’era
possibile... Forse aveva soccorso qualcuno. E se quel poveretto era
ancora per strada, mezzo morto? Aveva allertato i soccorsi? Se fosse
andata alla polizia avrebbe saputo. No, all’ospedale, forse.
Doveva
chiamare Jonathan. Si ricordò che era a una riunione.
Che
ore sono?
Le
otto e mezza.
Devo
andare al lavoro.
No,
il direttore l'aveva messa a riposo.
Però
al giornale forse sapevano qualcosa...
In
quattro e quattr’otto, Nadia si sciacquò e cambiò
d’abito, frugando tra le poche cose che aveva. Quindi, si
precipitò alla redazione del Times.
Al
giornale regnava l’agitazione. Restò sulla soglia a
fissare l’andirivieni del personale che faceva la spola tra una
scrivania e l’altra. Il telefono squillava. Qualcuno corse a
rispondere.
«Sì.
Sì, abbiamo saputo... si, ora. Per l’edizione della
sera. Certo».
Nadia
cercò Lisa e Michael tra la folla, senza riuscire a vederli.
Improvvisamente comparve Lisa, tra le braccia una montagna di
incartamenti.
«Nadia!»
Tutta
la redazione si fermò. Nadia rimase a fissare gli occhi dei
suoi colleghi che la guardavano come attraverso una tela di sogno.
Dopo un attimo di sconcerto, tutti ripresero il loro lavoro, ma nella
stanza era calato come un velo di sommesso imbarazzo.
«Nadia,
tesoro. Come stai?»
Lisa
le si era precipitata accanto. La teneva per le mani, fissandola
angosciata.
«Bene»
mentì. «Cos’è tutto questo trambusto?»
Lisa
la fissò tristemente. «Allora non lo sai?»
«So
che cosa?»
Lei
prese a mordersi il labbro, incerta sul da farsi.
«Lisa,
così mi mandi in paranoia. Cosa c’è che dovrai
sapere?»
«Kurtag.
È stato assassinato ieri sera». La voce le uscì
quasi in un soffio. Nadia sbiancò all’improvviso, e Lisa
le strinse le mani.
«Coraggio,
Naddy. Vieni, andiamo di là, staremo più tranquilli».
Lisa
condusse Nadia in sala riunioni. Scostò una sedia dal tavolo
spoglio e aiutò l’amica a sedersi, perché
sembrava incapace di reggersi in piedi da sola.
«So
che sei sconvolta» disse. «Ma devi cercare di farti
coraggio».
«Com’è
successo?» le chiese Nadia in un sussurro. Le mancava il fiato
persino per respirare.
«Nessuno
lo sa. Oh, Naddy: La polizia dice che era una scena terribile! Io...»
Lisa
si portò la mano al volto. Nadia sentì le lacrime
scenderle lungo le guance, mentre con gli occhi offuscati continuava
a fissarsi le mani. Poteva ancora avvertire la sensazione appiccicosa
del sangue sulla pelle.
«Lisa...»
«Nadia,
devi andare a casa, questo non è il posto per te. Hai già
abbastanza cose a cui pensare e...»
«Lisa,
io...»
«Vai
a casa, d’accordo? Ti chiamo una carrozza, aspetta qui».
Lisa
fece per uscire, ma Nadia la bloccò per un braccio. La ragazza
si voltò sorpresa a fissare l’amica, che se ne stava a
capo chino, le spalle curve.
«Lisa,
credo di averlo ucciso io».
Lisa
fece qualche passo indietro, lanciandole uno sguardo incredulo.
«Cosa?»
Nadia
sollevò gli occhi a guardarla e in essi Lisa scorse paura e
angoscia.
«Nadia,
ma cosa stai dicendo?»
«L’ho
ucciso, Lisa. L’ho ucciso io. Io ho assassinato Kurtag».
Lisa
si appoggiò al tavolo, la bocca spalancata. «Nadia tu
non stai bene...»
«Ieri
sono andata a trovarlo. E stamattina mi sono svegliata senza
ricordare più nulla: tutto ciò che ho in mente è
Andrés che mi apre la porta. Poi il sangue...»
«Che
sangue?» chiese allarmata Lisa, che cominciava seriamente ad
avere paura.
«Stamattina
ero piena di sangue. Ovunque. Le mani e i vestiti. Non riuscivo a
capire che cosa mi fosse successo, ma ora... ora lo so».
Nadia
scoppiò in singhiozzi. Lisa era scioccata. Non sapeva come
reagire. Fissava Nadia come da lontano, da una distanza incolmabile.
Poi si fece forza e cercò di riportare la sua amica alla
ragione.
«Nadia,
perché avresti dovuto uccidere Kurtag? Non eravate amici?»
«Sì».
«E
allora? Scusa, che motivo avresti avuto per fare una cosa simile?»
«E
se fossi pazza? Se questi vuoti di memoria fossero momenti in cui
qualcosa dentro di me prende il sopravvento spingendomi a commettere
cose terribili?»
«Nadia,
stai descrivendo un mostro».
Lei
scosse la testa, in preda all’angoscia. «E se io lo
fossi, un mostro?» gridò.
Lisa
si gettò sull’amica, traendola a sé. La strinse
in un abbraccio forte, lasciando che i suoi singhiozzi si
infrangessero contro il suo petto.
«No,
che non lo sei. Tu sei Nadia e sei mia amica. E di Michael. Noi ti
conosciamo bene e sappiamo che persona sei. Sei testona, lunatica, ma
anche buona e generosa. Sei un’amica fantastica e una delle
persone migliori che io abbia mai conosciuto. Non crederò mai
che tu possa aver commesso nulla del genere, mai! E farò tutto
il possibile per dimostrarlo!»
Nadia
continuava a piangere. Era commossa dall’affetto dell’amica,
ma anche disgustata da se stessa. Era convinta di aver fatto
qualcosa, come se avesse già emesso da sé la propria
sentenza di colpevolezza.
«E
il sangue allora?»
«Forse
hai cercato di salvare Kurtag. Cerca di ricordare, può essere
andata così?»
«Non
so, forse... non ricordo nulla».
Nadia
si alzò in piedi, stringendo i pugni fino a farsi sanguinare i
palmi.
«Maledizione,
ma perché non riesco a ricordare!»
Qualcuno
bussò alla porta. Era Michael. Lanciò un occhiata
fuggevole a Nadia, che se ne stava a braccia conserte in un angolo.
«Lisa,
è qui la polizia» disse. «Ciao, Nadia».
Lei
sorrise debolmente, voltando le spalle. Lisa si avvicinò alla
porta.
«Cosa
vogliono?»
«Vogliono
parlare con Nadia. Chiedono se è qui».
«Digli
di no, che non è ancora arrivata – fece lei».
«Ma
che succede?» chiese Michael, preoccupato.
Lisa
lo spinse fuori dalla porta, chiudendosela alle spalle. «Abbiamo
un gran casino qui, Mickey. Dobbiamo dare una mano a Nadia. Poi ti
spiegherò, ma adesso...»
«Sì
è qui, l’ho vista arrivare poco fa».
Lisa
e Michael guardarono contemporaneamente verso il fondo della sala.
William Ashburne aveva appena finito di indicare ai poliziotti il
luogo in cui si trovava ora Nadia.
«Maledetto
spione!» soffiò Lisa. «Michael, cerca di
contattare Jonathan. Guarda se trovi il numero dell’ufficio
nell’agendina di Nadia, nel primo cassetto della sua scrivania.
Presto!»
«Volo!»
fece lui, allontanandosi velocemente.
Lisa
Stanfields rimase davanti alla porta a sbarrare il passo ai due
agenti della polizia investigativa.
Uno
di loro portava la divisa, mentre l’altro, un tipo non troppo
alto né troppo basso, no. Quest’ultimo si fece avanti,
zoppicando visibilmente e trascinandosi dietro la gamba sinistra. Era
piuttosto tarchiato e sulla testa squadrata e irregolare portava dei
crespi capelli castani, screziati di grigio. Sul grosso naso
allungato stavano in equilibrio due spesse lenti a pince-nez,
che riflettevano innaturalmente due grandi occhi bruni. Vestiva un
orrido completo corvino, che se ne stava arricciato sotto un vecchio
e logoro soprabito color cammello. Una camicia dal colletto liso e un
cravattino nero in coordinato completavano la figura, piuttosto
triste nel complesso.
Con
un sorriso mellifluo, l’uomo tese la mano alla ragazza. Una
grossa mano grassoccia, dalle dita spesse e tozze.
«Piacere,
sono l’ispettore investigativo Peter Simum. Lei è la
signorina Nadia Ra Arwol?»
«Mi
chiamo Lisa Stanfields, la signorina Ra Arwol non è qui».
Lui
la fissò sorpreso. Si girò a guardare dove prima si
trovava William. «Non è qui? Ma che strano, il suo amico
mi ha appena detto che...»
«Non
è un mio amico. La signorina è appena uscita».
«Uscita?
E lei sa per dove?»
«Non
l’ha detto».
L’ometto
la fissò pensieroso per un istante. «Capisco»
disse poi. «Mi dica, è possibile entrare nella stanza?»
«Stanza?
Quale? Ne abbiamo diverse» fece Lisa, tradendo un certo
nervosismo.
«Quella
alle sue spalle».
«Non
c’è nulla, lì».
«Quindi
nulla in contrario se entro e do un occhiata?» insistette
Simum, cordiale.
«Se
mi dice cosa sta cercando la aiuterò. Può mettersi
seduto mentre aspetta» si oppose lei, tenacemente.
Simum
sorrise, visibilmente infastidito. «Non credo che lei possa
aiutarmi a trovare quello che cerco, Miss Stanfields. La prego, ora
mi faccia passare».
«Io...»
«Avete
l’autorizzazione?»
Simum
si voltò sorpreso. Jeremy Hunter se ne stava in piedi,
appoggiato allo stipite della porta a vetri del suo ufficio. In bocca
aveva un sigaro smozzicato e sul volto un’espressione truce e
per nulla accomodante.
«Avete
l’autorizzazione?» ripeté.
Simum
lo fissò con disprezzo. «No».
«E
allora fuori dai piedi» disse tranquillamente. E se ne andò
com’era arrivato, chiudendosi la porta alle spalle. Simum
rimase un istante a fissare la porta dietro cui era sparito Hunter,
il volto teso in uno spasmo di rabbia. Poi, improvvisamente sereno,
si rivolse a Lisa, sorridendole affabile.
«Nel
caso riveda miss Ra Arwol, sarebbe così cortese da comunicarle
che abbiamo rinvenuto alcuni suoi oggetti personali a casa del
professor Andrés Kurtag, e che saremmo interessati a porle
qualche domanda?»
«Vedrò
di fare il possibile» fece Lisa, irremovibile.
«Molto
gentile» commentò Simum, in un ghigno pieno di sarcasmo.
«Arrivederci, allora».
Il
più tardi possibile, voglio sperare!
Pensò lei, mentre seguiva con lo sguardo i due agenti uscire
dalla porta d’ingresso.
In
quel momento entrò Jonathan, trafelato. Incrociò i due
poliziotti a cui tenne aperta la porta con quella che Lisa trovò
un’esagerata deferenza.
«Lisa,
dov’è?» fece lui, rivolgendosi alla ragazza.
«È
qui. Siamo riusciti a tenere a bada la polizia, ma presto torneranno
alla carica».
Lui
la fissò incredulo. «Tenere a bada la polizia? Ma che
senso ha? Dovevate collaborare, invece!»
Lei
lo fissò come se non lo riconoscesse. «Scusa?»
«Ora
penseranno che Nadia ha qualcosa da nascondere! Bella mossa,
complimenti!»
«Scusa
se abbiamo cercato di difendere una nostra amica! Non so se te ne sei
accorto, ma quelli non avevano dubbi riguardo al colpevole...»
Lui
agitò le braccia, sbuffando. «E tu che ne sai? Loro
sono le forze dell’ordine, te ne sei forse dimenticata?»
«Ora
basta, Jonathan. Lisa ha solo cercato di aiutarmi e io le sono
grata».
Non
appena Nadia comparve sulla porta, nella stanza calò un
silenzio pesante. Tutti rimasero a guardare, curiosi di vedere cosa
sarebbe successo.
«Tesoro,»
fece John, avvicinandosi a lei e posandole delicatamente le mani
sulle spalle «devi venire subito alla polizia. Non hai nulla da
temere, ci sarò io con te» le sussurrò, cercando
di tranquillizzarla.
«Jonathan,
quelli hanno trovato il mio portafoglio. L’ho perso ieri sera,
da Kurtag».
Jonathan
si passò le mani tra i capelli. «Lo sapevo che avrei
dovuto accompagnarti, lo sapevo...»
«Beh,
ora è un po’ tardi per le recriminazioni, non credi?»
scattò Nadia.
Lisa
si fece avanti, frapponendosi tra i due. «Non dobbiamo
litigare, ma cercare di trovare il modo per far uscire fuori la
verità. Tutti siamo concordi sul fatto che Nadia non è
colpevole, giusto?»
Michael
e Jonathan annuirono. Nadia abbassò lo sguardo: lei non aveva
tutta questa certezza e non riusciva a fare a meno di sentirsi
colpevole.
«E
allora» continuò la ragazza, «diamoci da fare».
«Io
andrò alla polizia» fece Nadia.
«Meno
male» esalò Jonathan in un sospiro.
Lisa
la bloccò, prendendola per le spalle, anche se era più
bassa di lei. «Nadia, no».
Lei
le sorrise, scuotendo la testa. «Non ti preoccupare, vedrai che
andrà tutto bene. John ha ragione: se sono innocente non ho
motivo di nascondermi. E se sono colpevole, beh... allora almeno lo
scoprirò. Per il resto «e lasciò che i suoi occhi
si spostassero da Lisa a Michael» posso sperare nel vostro
aiuto?
«Lo
avrai, Naddy» affermò deciso Michael.
«Non
aver paura. Ti tireremo fuori dai guai» le confermò
Lisa, commossa.
«Ne
sono sicura» sorrise lei, gli occhi lucidi. Quindi, seguì
Jonathan fuori dalla redazione, avvolta dal silenzio generale. Hunter
era rimasto sulla porta fino ad allora, taciturno; non appena Nadia
si fu allontanata, la richiuse e non si fece più vedere per il
resto della giornata.
Un
silenzio innaturale si stese sulle scrivanie e sulle macchine per
scrivere, i cui tasti non avevano mai battuto così piano.
Nessuno parlava. Nessuno commentava. Lisa era indaffarata, ma alla
fine si muoveva senza concludere nulla. La verità è che
non aveva idea di cosa fare. Non c’erano indizi e la polizia
aveva come uniche prove il portafoglio di Nadia, rinvenuto sulla
scena del crimine. Nessuno aveva visto nulla e nessuno poteva
testimoniare a favore della ragazza. Era davvero una gran brutta
situazione.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** 7 ***
7
La
polizia fece attendere Nadia per circa un’ora. Tutta
quell’attesa cominciava a farla impazzire. Se volevano
interrogarla, perché non lo facevano e basta?
Jonathan
era andato a parlare con qualcuno degli agenti, per vedere di
sveltire la procedura; e lì, in quel corridoio grigio e
percorso frettolosamente da uomini in divisa, dove stava seduta su
quella scomoda e dura panca di legno scheggiato e consunto, Nadia si
sentiva sola e in trappola.
Si
chiese se poteva alzarsi in piedi. Si guardò in giro. Nessuno
sembrava prestarle attenzione. Esitante, si alzò.
«Prego,
rimanga seduta, signorina» fece una guardia, spuntata
improvvisamente da dietro l’angolo. Nadia lo fissò a
bocca aperta, chiedendosi come avesse fatto a vederla. Quindi notò
uno specchio appeso in cima all’angolo del corridoio. Si vide
riflessa nello specchio, il volto tumefatto dal pianto e
dall’angoscia, i capelli arruffati e i vestiti spiegazzati. Non
era che l’ombra di se stessa.
«Stia
seduta, prego» insistette la guardia, sporgendosi di più.
«Sì,
mi perdoni» fece Nadia, timidamente. E si rimise a sedere.
Si
rese improvvisamente conto che, da quando si trovava lì,
stringeva meccanicamente la borsetta tra le mani. Fino ad allora non
si era nemmeno accorta di averla con sé. La aprì per
prendere un fazzoletto e quello che vi trovò la lasciò
stupefatta.
Ma
che accidenti...
Tutto
ciò che vi trovò, furono una grossa pietra e un diario.
Nadia non aveva la minima idea di come quelle cose fossero finite lì
dentro.
Non
le avrò rubate a Kurtag?
Ci
mancava solo quello. Lanciò un’occhiata in giro per
essere sicura che nessuno la stesse guardando. La guardia dietro
l’angolo non avrebbe potuto raggiungere il contenuto della sua
borsetta attraverso lo specchio.
Richiuse
il più tranquillamente possibile la borsa, cercando di
mantenersi calma. Quindi chiuse gli occhi e si abbandonò
contro lo schienale.
Ma
cosa è successo? Cosa, cosa?
Sospirò.
Aprì gli occhi, li richiuse e inspirò profondamente.
Cerca
di ricordare
Ricorda...
Ricorda!
«Nadia?
Che sorpresa... non ti aspettavo».
Profumo
di sigaro toscano e di acqua di Colonia. Odori noti, che ricordavano
qualcosa.
Kurtag
sorrideva da sotto due piccoli baffi perfettamente curati, ma
qualcosa in lui continua a tradire una strana inquietudine.
«La
disturbo? Mi rendo conto che è un po’ tardi...»
Lei
si sentiva un po’ a disagio. Qualcosa nel suo comportamento non
la faceva sentire la benvenuta.
«No,
no... scusa la mia maleducazione. Devo esserti sembrato un po’
distante... prego, entra. Accomodati, carissima».
«Evidentemente
si deve essere scordato di me! John mi ha detto di averla incontrata
giorni fa e lei non mi ha ancora chiamato...»
Lui
ride. Tutto sembra tranquillo, ora.
«Perdonami,
bambina mia, ma ho avuto molto da fare. Ma prego, vieni: accomodati».
La
sala è sempre uguale: dopo la porta sul corridoio c’è
una scrivania a destra, e una libreria all’angolo che arriva
fino al soffitto. Alle pareti capolavori di ogni secolo fanno mostra
di sé alternandosi a maschere tribali e ad attestati in
semplici cornici. La casa è permeata di una nobile semplicità,
che riflette l’animo del suo inquilino. Kurtag era ricco, ma
non amava ostentare il proprio benessere.
Segue
il professore in un percorso tra i numerosi libri che giacciono a
mucchio sul pavimento, o che se ne stanno accatastati agli angoli
delle pareti.
«Sono
tornato da un po’, ma è come se non lo fossi. Sono stato
sempre in giro».
«E
Hanson?»
Lui
fa un gesto allegro con la mano, mentre toglie di torno qualche
libro.
«Quello
sta meglio di tutti noi messi insieme».
«La
spedizione ha portato frutti?»
Un’ombra
passò sul suo viso. «Oh... sì e no».
Ora
tra loro aleggiava una strana inquietudine e un leggero disagio.
«Beh,
mi racconti qualcosa...»
«Oh...
non è che ci sia molto da dire e...»
«Signorina
Ra Arwol, vuole seguirmi?»
Nadia
riaprì gli occhi. Davanti a lei, un agente in divisa la
fissava attraverso due umidi occhi celesti, le mani piantate sui
fianchi.
«Per
di qua, prego».
Nadia
si lasciò guidare lungo i corridoi della centrale. La
condussero all’interno di una piccola stanza con una scrivania
al centro, soverchiata da scartoffie e da documenti. Un logoro
soprabito cammello era appeso dietro la porta. Una stampella di legno
giaceva abbandonata sopra un ripiano, soffocata da cumuli di
raccoglitori impolverati.
«Signorina,
che piacere. Finalmente ci incontriamo».
Nadia
si voltò di scatto verso l’ingresso. Un omuncolo
avanzava zoppicante con un sorriso stiracchiato sulla faccia sudata,
da cui traspariva tutta la fatica di trascinarsi ovunque quella sua
gamba morta.
«Sono
l’ispettore Peter Simum» fece sbuffando mentre si issava
sulla sedia di legno girevole.
«Lo
so, io ero in quella stanza, stamattina» rispose Nadia,
fissandolo direttamente e senza timori. «Ho sentito tutto».
Lui
le lanciò uno sguardo intenso. «Un certo coraggio da
parte sua confessare una cosa del genere, Miss. Lei è una
persona davvero notevole».
«La
ringrazio, ma mi conosce da appena cinque minuti».
«A
volte le prime impressioni sono le migliori. Sa come si dice,
l’istinto».
Nadia
annuì, senza convinzione.
«Si
sieda, non resti in piedi, la prego. Questo non è un
interrogatorio».
«E
cosa, allora?» chiese lei sedendosi. Subito, sprofondò
nell’imbottitura sfondata di quella piccola sedia traballante e
per reazione si spostò sul bordo, dove stette seduta per tutto
il tempo nel modo più scomodo.
«Nulla
più che un semplice scambio di informazioni. Una chiacchierata
informale».
«Naturalmente»
fece lei, aggiustandosi sulla sedia.
«Conosceva
da tempo il professor Kurtag?» chiese l’ometto, frugando
tra le sue scartoffie. L’odore di tabacco stantio e di vestiti
sudati impregnava la stanza, e suscitò in Nadia un senso di
nausea.
«Da
circa quattro anni. Mi aiutò a scrivere un libro».
«Lei
è scrittrice?»
«Tra
le altre cose».
«E
mi dica, il professore aveva avuto qualche screzio in passato, o
recentemente? Aveva dei nemici?»
Nadia
non capiva dove voleva arrivare quel tipo. E quella sedia era
dannatamente scomoda.
«Screzio?
Non direi... non so. Io non sapevo molto della sua vita privata, era
un uomo molto riservato. Ma anche molto solo».
«Quindi
si sente di escludere che avesse dei nemici?»
Quella
sedia era insopportabile.
«Io
non escludo nulla. Come le ho detto...»
«E
cosa sa dirmi...»
Basta.
«Senta,
non giriamoci intorno. So che avete trovato il mio portafogli e so
che sospettate di me, quindi...»
Lui
la fissò impassibile. «Se è così sicura
dei nostri sospetti, perché è venuta qui spontaneamente
e non ha atteso che tornassimo a cercarla?»
Nadia
inarcò le sopracciglia.
«Sarebbe
stato intelligente, secondo lei?»
«Indubbiamente
no» rispose Simum. La guardava con una certa luce curiosa negli
occhi.
«Lei
mi stupisce, miss Ra Arwol. È una persona davvero molto
intelligente. E sa cosa mi sto chiedendo, ora?»
Perché
non hai ancora cambiato la sedia?
«No,
mi illumini».
«Mi
sto chiedendo perché una persona brillante e intelligente come
lei, una giornalista di prima categoria, una scrittrice di successo,
la fidanzata di un noto uomo politico, abbia potuto commettere un
errore così sciocco: dimenticarsi il portafoglio a casa della
vittima».
«Non
so cosa risponderle».
«È
una cosa troppo sciocca, non crede anche lei?»
«Forse
l’agitazione» rispose Nadia.
«Forse».
«O
l’ansia».
«Probabile...»
«O
il fatto che il delitto perfetto non esiste».
Lui
rise. «Ma nemmeno il delitto così imperfetto».
Nadia
si sollevò dalla sedia.
«Qualcosa
non va?» le chiese lui, sorpreso.
«Preferisco
stare in piedi, se non le dispiace» gli rispose lei.
«Trova
la sedia scomoda?»
«Decisamente».
Lui
scrollò le spalle. «Come vuole. Comunque: perché
si trovava da Kurtag, l’altra sera?»
«Sapevo
che era tornato e volevo passare a trovarlo».
«E
il suo fidanzato era con lei?»
Nadia
socchiuse gli occhi. «Questo cosa c’entra?»
«È
una semplice domanda» si scusò Simum.
«No,
non lo è».
«Cosa
vuol dire?»
«Non
ho intenzione di parlare del mio fidanzato».
Simum
si protese verso di lei, gli immensi occhi ridotti a due grandi
fessure.
«Di
cosa ha paura, Miss?»
«Non
ho paura» obiettò lei, decisa.
«E
allora cosa pensa debba temere Mr. Fisher?»
«Nulla».
«Ma
lei non vuole parlare».
«Non
parlerò di lui».
Simum
si appoggiò sullo schienale, prendendo a dondolarsi. Una
pancia perfettamente rotonda fece capolino da sotto la giacca.
«In
che rapporti era con il professor Kurtag, Miss Ra Arwol?»
Nadia
lo fissò incredula. «Ma le ho già risposto!»
«Aveva
una relazione con lui?»
«Che
cosa?» Nadia non credeva alle proprie orecchie. Quella
situazione era assurda.
«Le
ripeto: aveva una relazione con il professore?»
«No!
Lei deve essere completamente uscito di senno!» gridò,
al colmo dell’incredulità.
«Alcune
persone affermano che il suo rapporto con lui andasse ben al di là
dell'amicizia... che l'avesse sempre mantenuta e introdotta nella
società. E che lei, per sdebitarsi, intrattenesse con lui una
relazione di tipo affettivo... e sessuale».
Nadia
spalancò la bocca per lo stupore. – Chi le ha detto una
cosa simile?
«Il
signor... vediamo...» fece placido Simum, dopo aver gettato
un'occhiata al suo taccuino. «William Ashburne».
Nadia
avvampò, incollerita. «E voi prestate ascolto a
quell'individuo?»
«È
nostro dovere prestare attenzione a qualsiasi dettaglio»
osservò serenamente Simum. «Anche ai più
sordidi».
«Ma
certo...» commentò Nadia, sarcastica.
«Il
suo fidanzato era geloso del suo rapporto con Kurtag?» continuò
Simum, ignorando del tutto il tono con cui lei gli aveva risposto.
«State
sospettando di Jonathan?»
«Stiamo
vagliando le possibilità. Se il suo fidanzato avesse scoperto
la sua tresca...»
«Non
esisteva nessuna tresca, come devo ripeterglielo?» sbottò
livida Nadia.
«Va
bene. Ma mettiamo che la gelosia sia arrivata al punto da
accecarlo...»
«E
il mio portafogli, allora?»
«È
una possibilità tra le altre. Prova solo il fatto che lei si
trovava dal professore, la scorsa notte».
Nadia
scosse la testa incredula. «Ha finito?» chiese.
Simum
la fissò serio. «Per il momento» concluse. Nadia
raccattò le sue cose, più che lieta di uscire da lì.
«Signorina!»
la chiamò Simum. Nadia si fermò sulla soglia. Chiuse
gli occhi per l’impazienza e per la frustrazione.
«Cosa
c’è ancora?» chiese, voltandosi e indirizzando
all’ometto dietro la scrivania uno sguardo gelido. Lui la
fissava di rimando con due occhi placidi e un sorriso mellifluo sul
volto. Era proteso verso di lei, un pacchetto in mano.
«Mi
raccomando» fece, sorridendo «non dimentichi il suo
portafogli!»
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** 8 ***
8
«È
andato tutto bene?»
«Come
no, tutto benissimo!»
Nadia
uscì quasi correndo dalla stazione di polizia. Jonathan le
camminava dietro e faticava a tenere il suo passo.
«Nadia,
aspetta... fermati un momento!»
Lei
si fermò. Quando la raggiunse, era talmente irritata che lui
ne ebbe quasi paura.
«Vuoi
dirmi che cosa è successo?»
«Nulla»
replicò lei, recisamente.
«Eppure
non si direbbe. Ti hanno accusato di qualcosa?»
Lei
si grattò la testa, incerta su come confessarglielo.
«Sospettano di entrambi» disse semplicemente, alla fine.
Lui
la fissò come se avesse appena detto qualcosa di assurdo.
«Come?»
«Sospettano
di tutti e due. Anche di te».
«Ma
perché? Io cosa c’entro?» ribatté lui.
Nadia non colse la lieve isteria nella voce di Jonathan.
«Pensano
che possa trattarsi di un delitto di gelosia».
Lui
la guardò incredulo. «Gelosia?»
«Credono
che io e Kurtag avessimo una relazione, che mi facessi mantenere da
lui» disse lei. Scoppiò a ridere di un riso nervoso,
passandosi una mano tra i capelli. «Dio, non sono mai stata
tanto offesa in vita mia! Mi ha trattato come una sgualdrina. E quel
che è peggio, è che ha infangato la reputazione del
povero Andrés, addossandogli questo... schifo!»
Per
la frustrazione, lei pestò un piede a terra. John stava in
silenzio, frenando a stento la propria incredulità.
«Ma
è assurdo!»
«Vallo
a dire a loro».
Jonathan
prese Nadia sotto braccio e si allontanò. Lei percepì
l’irritazione racchiusa dietro quel gesto e, per quanto fosse
possibile, si sentì peggio di prima. In fin dei conti, se lo
aveva cacciato nei guai era solo colpa sua. Avrebbe dovuto dargli
retta e non andare da Andrés, quella maledetta sera.
«John...»
«Questa
non ci voleva davvero» disse lui, a labbra strette. «Non
ora, con l’accordo sul Congo in via di definizione».
Nadia
lanciò a Jonathan un’occhiata in tralice. «Di che
cosa stai parlando?»
Lui
la attirò a sé, costringendola ad accelerare il passo.
Chiamò una carrozza e la spinse a bordo senza troppe
cerimonie, quindi si sedette al suo fianco, aggiustandosi la giacca e
togliendosi il cappello, che posò sulle ginocchia. Per un po’
si sottrasse allo sguardo indagatore di Nadia, giocherellando con la
falda della sua bombetta di un elegante color grigio fumo.
«John?»
«E
va bene» fece lui. «Non ti ho detto nulla perché è
qualcosa che deve restare segreto. Siamo in trattative con la
Germania, trattative importanti... riguardano la gestione di alcuni
domini coloniali».
«Dimmi
di più» lo incalzò. John sbuffò, ma alla
fine cedette, pur ostentando una certa rigidezza.
«La
Germania cederà a noi l’amministrazione diretta del
Congo, in cambio di un patto di amicizia. Se la cosa dovesse
funzionare, sarà finalmente possibile tornare a un assetto
politico di stabilità tra i due paesi».
«Perciò
eri dal console, l’altra sera?»
Lui
non disse nulla.
«Dio,
non ci credo. Mi hai nascosto tutto. Ma perché?»
«Perché
sei una giornalista, ecco perché» sbottò lui. «E
perché ti conosco, so che sei la persona più testarda e
cocciuta del mondo e so cosa pensi delle colonie e del colonialismo.
Ecco perché».
Nadia
lo fissò sconcertata. Lui evitò di guardarla, perché
temeva quel luccichio che le brillava negli occhi.
«Nadia,
io ho delle responsabilità che tu non puoi comprendere»
si limitò ad aggiungere. Teneva la voce bassa, ma il suo tono
tradiva una certa difficoltà nel proseguire quella
conversazione. Lei continuava a guardarlo, ma lui evitava
accuratamente di posare gli occhi su di lei.
«Ma
tu non ti fidi di me?» gli disse. «Davvero credi che
avrei usato queste informazioni per me, che non avrei capito?»
Lui
rimase in silenzio per qualche istante. Nadia, stanca di fissarlo a
vuoto, si voltò dall’altra parte, chiudendo gli occhi.
Ma
come possiamo costruire qualcosa, così?
«Io...
ho sbagliato, ti chiedo scusa» le fece lui, posandole la mano
sul braccio sottile. «Ma non tutto quello che faccio può
essere divulgato. Vorrei che tu lo capissi».
Nadia
aprì gli occhi, lo sguardo fisso a terra. Jonathan le aveva
preso la mano e la guardava sinceramente dispiaciuto.
«Lascia
stare» fece lei, sommessamente. «Ti capisco. Non c’è
problema».
«Non
ti nasconderò più nulla, lo giuro».
Lei
sorrise. «Grazie. Lo apprezzo molto. Oh, John: se solo capissi
quanto vorrei che il tuo paese diventasse anche il mio!»
Lui
abbozzò un sorriso timido e si portò la sua mano alla
bocca, posandovi sopra un leggero bacio aggraziato. «Anche io,
tesoro; e lo faremo accadere, vedrai».
La
carrozza la lasciò a Foley street, dove Nadia superò a
testa bassa la barriera di crescente ostilità che veniva a
crearsi giorno dopo giorno nei suoi confronti. Sempre più
gente cominciava a parlare alle sue spalle, accusandola di voler fare
una vita da gran signora con tutto quel suo andare e venire a bordo
di lussuose carrozze, con il solo intento di sbattere in faccia il
suo benessere ai poveracci senza un soldo. Non potevano sapere che da
qualche tempo ricorreva alle vetture solo perché aveva il
timore di perdersi, a causa dei suoi continui vuoti di memoria. Gli
abitanti di Foley Street si fermavano all'apparenza, giudicando il
suo come un vezzo da aristocratica viziata, e uno sgarbo a quanti che
con il prezzo di una corsa, mantenevano un'intera famiglia per un
giorno. Nadia cominciò a sentirsi sempre più isolata. E
la sera non provava più quel senso di tranquillità di
una volta, quando rientrava sola.
Salì
in fretta le scale che conducevano alla sua mansarda, tenendo gli
occhi bassi quando incrociava qualcuno. Nessuno la salutò. Lei
non salutò nessuno. Aprì la porta e sospirò, ma
anche quelle quattro mura spoglie e scrostate che aveva continuato a
chiamare casa fino a pochi giorni prima, ora la fissavano vuote di
ogni significato.
Si
slacciò il nastro di seta che teneva annodato al collo e si
sbottonò il colletto inamidato. Allentò la gonna e la
lasciò cadere a terra, quindi si sfilò gli stivaletti,
aiutandosi con i piedi. Era troppo stanca per chinarsi. Slacciò
la sottoveste e rimase con la sola camicia indosso, le gambe nude che
splendevano bronzee nella luce fioca della lampada.
Si
sedette sul letto e si portò la borsa vicino. La pietra era
sempre lì, al suo interno, e con essa il diario. Li estrasse
con delicatezza, quindi posò il diario sul letto e prese tra
le mani la pietra, fissandola con curiosità.
Era
una pietra grigia come un sasso, dalla superficie perfettamente
levigata. Su una facciata erano incisi alcuni segni e geroglifici che
Nadia non aveva mai visto, nemmeno in tutti gli anni in cui aveva
frequentato Kurtag. Qualunque cosa fosse, non era in grado di
decifrarla.
Improvvisamente,
la pietra prese a brillare di una intensa luce trasparente. La stanza
si riempì di bagliori accecanti. Nadia la fissava
esterrefatta, incapace di staccarle gli occhi di dosso; e nel
frattempo, questa si era come trasfigurata, assumendo una trasparenza
che permetteva di scorgere un turbinio di figure stilizzate che si
agitava in profondità, sotto la sua superficie. Nadia la
avvicinò agli occhi: al suo interno, elementi tridimensionali
si susseguivano in un gioco di segni dai significati sconosciuti,
creando combinazioni di indecifrabili codici. Nadia fissava tutto
questo a bocca aperta, completamente soggiogata. Improvvisamente,
quella luce intensa la rapì e lei si ritrovò immersa in
universo completamente estraneo: intorno a lei non più pareti
di mattoni, ma luce. Era come se viaggiasse nella luce, come se fosse
la luce stessa. Sentiva il suo corpo nutrirsi di luce e velocità
e le sembrò di volare. Chiuse gli occhi e perse ogni contatto
con la realtà. Intorno a sé si fece il vuoto e lei
restò come sospesa in esso. Solo allora aprì gli occhi:
e vide con stupore le proprie mani che si fondevano con lo spazio
circostante, dando origine a increspature colorate, da cui prendevano
forma oggetti e materia. Vide nascere tra le sue dita animali e
intere foreste, oceani azzurri e pesci dalle pinne d’argento,
che sgusciavano via lungo i palmi delle sue mani. Nadia rise di
stupore e felicità, una felicità intensa, inattesa, che
non aveva ancora mai provato. Era come essere sospesi nella vita,
anzi: era come essere la vita stessa, nel pieno della sua forza e del
suo potere.
Alzò
gli occhi: un cielo di nubi la sovrastava, colorato di rosso e di
giallo. Desiderò di vedere oltre le nubi ed esse si aprirono
come ad un comando preciso, mentre lei continuava a sentire
quell’infinito spazio cangiante che l’accoglieva
scorrerle addosso, scivolando sulla sua pelle. Più su, oltre
il limite estremo del cielo, le stelle discesero fino a lei,
cominciando a ruotarle intorno come pianeti, mentre le galassie
esplodevano in miliardi di fasci colorati come arcobaleni. Nadia tese
la mano e un sole brillò di fiamme vermiglie davanti ai suoi
occhi mentre su un pianeta poco distante lei sentì nascere la
vita, come fosse un primo germoglio. Sentì dentro di sé
quella vita, ne fu come penetrata. Il suo corpo pulsò di una
intensa e vibrante consapevolezza. E l’emozione la sopraffece.
Si
chiese dove sarebbe arrivata, fin dove l’avrebbe condotta il
suo viaggio.
Non
voglio tornare indietro. Voglio rimanere qui. Qui, dove la vita è
come dovrebbe essere...
Pura
meraviglia
Improvvisa,
una voce che lei già sentiva di conoscere, la chiamava.
Nadia...
Non
rifiutare il tuo destino.
Nadia
si risvegliò nel letto. La lampada era spenta e fuori era già
buio. La tenera luce di una luna a metà filtrava dalla
finestra spalancata, da cui era possibile scorgere la fumosa
silhouette dei tetti di Londra. Un grillo, da qualche parte, cantava
coraggiosamente, solitario messaggero d’estate in una metropoli
sommersa dall’afa e dal tanfo di fogna.
Nadia
si rilassò, estenuata. Era completamente spossata ma allo
stesso tempo euforica. La pietra giaceva inerte accanto a lei.
Chiuse
gli occhi e provò a sognare nuovamente quello che aveva appena
visto, desiderosa di perdersi ancora una volta in quel mondo
miracoloso.
Niente
da fare.
Si
sollevò sui gomiti, restando a guardare la pietra. Solo allora
si ricordò del diario. Lo cercò con gli occhi e lo
trovò, abbandonato sul letto. Lo prese, sedendosi con le gambe
intrecciate e lo aprì, posandolo sulle ginocchia.
Sembrava
una serie di annotazioni riguardanti la pietra. Con emozione, Nadia
riconobbe la scrittura di Kurtag. Passò delicatamente un dito
su alcune righe, tirando su con il naso e sollevando la testa, le
labbra strette in un silenzio commosso.
Per
favore, fa che non sia stata io.
E
chiuse gli occhi.
«...Ma
avrà pure qualcosa da raccontare, o no?»
«Ecco,
io...»
Ora
lei lo fissa intensamente. Di fronte allo smarrimento di quegli occhi
verde mare, Kurtag abbassò la testa.
«Nadia,
ci sono alcune cose che ora non ho modo di spiegarti. Non ero
preparato a riceverti e... non dovresti essere qui».
Lei
arrossisce.
«Io...
mi scusi. Non pensavo che...» posò la tazza di tè.
Sorrideva ma si sentiva impacciata. Venire era stata una pessima
idea.
Per
un attimo ci fu un silenzio confuso. Lei raccoglie le sue cose,
imbarazzata.
«Non
volevo disturbarla, mi perdoni».
«Non
è come pensi, bambina mia, solo che...»
Lei
resta a guardarlo, tremendamente confusa.
«Sono
molto stanco. Potremmo vederci domani, se hai tempo. Passa da me
all’università. Avremo modo di parlare».
Ora
era rilassata. «Ma certo. Mi scusi, non mi ero resa conto...»
Lui
sorrise. «Il tuo affetto mi fa piacere, e mi onora. Non sono
che un povero vecchio, ormai... e non so proprio cosa tu possa
trovarci in uno come me».
Lei
scoppiò a ridere. «Ah, non dica così. Lo sa che
ho un debole per gli uomini maturi e affascinanti».
Kurtag
sorrise, guardandola da sotto le sue folte sopracciglia argentate.
«Non scherzare. Ma ora, aiutami, ti prego» disse, e le
porse il vassoio con le tazze. «Porteresti questo di là,
in cucina?»
Lei
prende il vassoio e si allontana. Era serena. Andrés era solo
stanco, tutto qui. Non c’era nulla che non andasse, tra loro
due.
Posò
le tazze nel lavello e vi versò l’acqua, raccogliendola
dalla pompa cigolante. Le sciacquò e quindi prese uno
straccio, per asciugarle.
Mentre
sfregava il panno ruvido contro la porcellana splendente, pensò
a quanto era stata sciocca a preoccuparsi. Kurtag era sempre Kurtag.
Le voleva ancora bene.
Perché
aveva sempre paura che tutti la dovessero abbandonare, prima o poi?
Lo
ritrovò seduto sulla poltrona, la testa reclinata e appoggiata
su una mano chiusa. Quando la vide, lui sorrise e fece per alzarsi.
Lei agita delicatamente la mano, prendendo la sua borsetta e un
panno, abbandonato sul divano. Lo spiega, e lo posa sulle gambe di
lui.
«Stia
tranquillo, conosco la strada».
Lui
la fissò sonnecchiando. «Grazie. Allora a domani,
bambina».
«A
domani» fu la sua risposta. Quindi uscì, chiudendosi
dietro la porta.
Era
per strada ora, e ripensava a Kurtag. Era davvero invecchiato, e
presto avrebbe dovuto dirgli addio. Questo pensiero la commosse e
cercò il fazzoletto. Aprì la borsetta ma non trovò
più nulla delle sue cose. Al loro posto, qualcuno vi aveva
messo una pietra e un diario.
«Ma
cosa...»
Torna
sui suoi passi, decisa a chiedere ragione a Kurtag di quella
stranezza.
Ora
è davanti alla sua porta. Afferra il battente. Sta per
bussare.
Si
ode un rumore provenire da dentro. Si avvicina curiosa alla finestra,
ma non si scorge nulla. Altri rumori. Voci.
Fa
il giro della casa. Vuole assolutamente scoprire cosa succede. Non
c’è ragione in quello che fa. È il suo istinto
che la spinge a cercare di capire.
Nulla,
nemmeno una finestra aperta. Vede al piano superiore le tende di un
piccolo bovindo che svolazzano allegre, agitate dalla sottile brezza
della sera.
E
lì come ci arrivo?
Ma
certo, la grondaia.
Non
sarebbe stato troppo difficile. Da piccola aveva scalato cose ben più
complicate.
Si
infila la borsetta a tracolla, e con un respiro profondo comincia ad
arrampicarsi lungo il tubo di rame. All’altezza della finestra
tende un braccio.
Maledizione,
è troppo lontano...
Getta
un’occhiata alle spalle, sotto di sé, sperando che
nessuno la veda. Tutt’attorno regna il più assoluto
silenzio e per le strade non passa anima viva.
Con
uno sforzo, si tende il più possibile, reggendosi solo con una
mano e con una gamba. Ora è più vicina...
Forza!
Uno, due...
Contrae
i muscoli e si lancia verso il davanzale della finestra. Le dita
cercano affannosamente una presa, mentre il cuore salta un battito.
Si sente scivolare, ma poi trova il modo di aggrapparsi.
Buon
Dio, ma perché faccio di queste cose?
Con
un agile balzo, è in casa. La stanza è buia, ma
riconosce una camera da letto. Una luce tenue risplende dal
corridoio, poco più avanti. Il cuore batte già
all’impazzata.
Nella
stanza c'è silenzio. Improvvisamente, ode del trambusto
provenire da sotto. Mobili rovesciati.
Ha
paura, ma si sporge dal ballatoio in cima alle scale, lentamente.
Passo dopo passo, la sala al piano di sotto si offre sempre più
alla sua vista.
Deve
solo
stare attenta a non farsi scoprire.
Nadia
si sporge con cautela. Sente il cuore rimbombarle nelle orecchie. La
gola è secca.
C'era
qualcuno nel salotto. Un uomo è dietro l’angolo,
nascosto. La sua ombra si staglia contro la parete illuminata dal
debole chiarore della lampada. L'altro, un energumeno dall'aspetto
colossale, stringe Kurtag per il collo.
«Che
cosa volete da me?» da dove si trovava, lei poteva sentire bene
la voce di soffocata di Andrés.
L’uomo
lo fissava con uno sguardo vacuo, privo di qualsiasi espressività,
mentre l'altro frugava tra gli effetti personali del professore. Si
sentiva il rumore degli oggetti rovesciati a terra dagli scaffali.
«Ou
estiek lampropos?»
ruggì l’uomo nascosto. La sua voce le giunse profonda e
carica di determinazione.
Dov’è
la pietra?
Quella frase risuonò chiara nella mente di lei,
inspiegabilmente, come se qualcuno l'avesse realmente pronunciata.
Una
risata strozzata scaturì dalla gola di Kurtag.
«Non
la troverete mai!» ghignò. Quindi, in un soffio «dùseto
t'helios!»
Un
movimento veloce, un guizzo. La parete si macchia di rosso e un grido
agghiacciante corre giù, lungo le scale.
Si
portò una mano alla bocca. Troppo tardi.
«Labè!»
grida l’uomo nascosto. Il gigante solleva lo sguardo e per un
momento gli occhi di lei si specchiano in quelli azzurro ghiaccio
dell’assassino. È un attimo, un istante prima che lui si
lanci al suo inseguimento.
Non
sa che fare. Corre in camera e chiude a chiave la porta, mentre lo
sente salire per le scale a grandi balzi.
Dove,
dove?
Si
guarda intorno sempre più disperata, mentre la porta resiste
eroicamente ai calci e ai pugni che le vengono sferrati. Si sporge
alla finestra: se solo fosse riuscita a scendere...
Troppo
alto per saltare. Forse la grondaia...
La
porta stava cedendo. Sente la testa esploderle. Il rumore alle sue
spalle amplifica il battito del suo cuore che rimbomba in lei,
assordandola.
Dove?
Sotto
il letto.
Patetico,
ma è l’ultima chance.
Improvvisamente,
la porta esplode in una miriade di schegge. Chiude gli occhi. Immersa
nel buio e nella polvere trattiene il respiro, osservando col cuore
in gola oltre il lembo delle coperte che corre tutt’intorno al
letto.
Un’ombra.
Passi in direzione della finestra ancora aperta. Per qualche
interminabile istante, tutto resta come sospeso.
Ti
prego... ti
prego...
Una
presa d'acciaio alla caviglia e una mano, che la schiaccia al suolo
quando viene trascinata fuori. Nell’ombra scorge l’improvviso
bagliore freddo di una lama. Chiude gli occhi. Non c’è
tempo per la paura, ma solo per un unico, veloce ricordo.
L’ultimo.
Due
occhi azzurri...
Jean
Qualcosa
dentro di lei si accende di un’energia sconosciuta. Sente la
mano che si infila meccanicamente nella borsetta, rispondendo a un
richiamo che le giunge dal profondo della sua anima.
Affidati
a
me!
Improvvisamente,
è libera. Intorno a lei una luce accecante. Sta stringendo in
mano la pietra e grida di dolore si diffondono per la stanza.
Con
inaspettata lucidità, ora lei sa esattamente quello che deve
fare.
Con
la pietra ancora stretta in pugno, si lancia oltre la porta spezzata,
lungo le scale. Il respiro è come strozzato, è senza
fiato ma lei corre lo stesso.
Percorre
i gradini come in volo, ma inciampa, rotolando fino a terra.
Dolorante, striscia per qualche metro lungo il corridoio. Si solleva,
appoggiandosi contro il muro, ma qualcosa la fa scivolare. Si osserva
le mani e per un istante la vista le si annebbia. Sente un conato di
vomito salirle violentemente alla bocca. Le sue mani sono imbrattate
di un liquido rosso e denso, e così i suoi abiti. Sotto ai
suoi piedi, una polla di sangue nero. Improvviso, l’odore scuro
e metallico del sangue la assale: lo sente in bocca, in gola, nei
polmoni. Si portò il dorso della mano alla bocca, trattenendo
a stento il vomito. Si voltò a guardare e vide lì
accanto Kurtag che boccheggiava, disteso a terra in una pozza di
sangue, il corpo scosso da leggeri fremiti. Dietro a lui, il muro
candido pare una tela screziata di porpora.
Vincendo
ogni repulsione, si gettò su di lui. Kurtag la fissava
attraverso due occhi vitrei e sconcertati. La gola era squarciata, ma
per qualche motivo respirava ancora.
«Andrés,
resisti! Vado a cercare aiuto!»
Lui
la trattiene per la camicetta, aggrappandovisi disperatamente, quasi
fosse l’ultimo lembo di vita. Le mani insudiciate e febbrili
tingono di scarlatto il cotone di un bianco candido. Lei gli sorregge
la testa, la vista annebbiata dalle lacrime che era impossibile
fermare.
«Dio,
Andrés, ma che ti hanno fatto...»
In
un gorgoglio Kurtag cerca di pronunciare il nome della ragazza. E lei
ora piange e non sa che fare.
Sente
dei rumori al piano di sopra. Chi l’ha aggredita è
ancora vivo.
Kurtag
stringe il suo braccio fino a farle male. Con tutte le sue forze si
solleva, fissandola attraverso occhi allucinati.
«Vai...
via...»
«No,
io...»
Improvvisamente,
dei passi lungo le scale. Kurtag giace ora immobile al suolo, le mani
ancora strette intorno alla camicia di lei, gli occhi aperti in un
grido silenzioso. Con uno sforzo, si libera dalla stretta gelida di
Kurtag, abbracciando con un ultimo sguardo il suo amico prima di
gettarsi a capofitto lungo il corridoio.
La
porta è lì, di fronte a lei. Allunga la mano verso la
maniglia. Dietro di sé tonfi sordi, passi che si fanno sempre
più vicini. La porta non si apre, perché è
chiusa a chiave.
Avanti!
Apriti, maledizione!
Cerca
la chiave e la gira, ma non si apre ancora. Prova a girare nell’altro
senso.
Un
giro
due
Con
un grido strozzato, viene strappata alla porta. Cerca di difendersi
dalle mani che le stringono il collo. Il respiro svanisce e per un
piccolissimo istante riesce a intravedere nell’ombra il volto
del suo assalitore.
Un
volto freddo, senza alcuno sguardo.
È
così che morirò.
Poi,
ancora quella voce.
Affidati
a me!
Avverte
la testa farsi leggera. Più si agita, più il respiro si
fa rarefatto. Sente i piedi scalciare nel vuoto, mentre conficca le
unghie nella pelle ruvida delle mani che la stringono attorno al
collo in una presa mortale. Nel disperato tentativo di liberarsi,
allunga una mano verso il volto dell’aggressore, che la fissa
con una vacuità allucinata negli occhi. Cerca di graffiarlo e
di colpirlo, ma dai suoi arti stanchi esce solo la pallida parodia di
una carezza. Il suo corpo si abbandona lentamente all’oblio,
sente un torpore diffuso, la vista le si annebbia.
Affidati
a me!
Senza
pensare, la sua mano cerca nella borsa e si stringe intorno alla
pietra. Un’improvvisa energia la pervade e una luce accecante
la avvolge. L’uomo davanti a lei grida di dolore, un grido
agghiacciante. Lei cade a terra e mentre si solleva boccheggiando,
vede il suo aggressore contorcersi in una spirale di fuoco.
Inorridita, indietreggia, aggrappandosi alla porta. Sente le gambe
tremarle e il cuore le sta per esplodere. Stringe gli occhi per
scacciare le lacrime di angoscia e con mano tremante cerca di aprire
la serratura. Sulla soglia del corridoio, una figura immobile resta a
fissarla nell'ombra, i tratti del volto nascosti alla luce che si
irradia dal fuoco che ancora avvolge tra le sue spire il suo
aggressore. Lei incrocia lo sguardo con quegli occhi d’ombra e
di ghiaccio, troppo spaventata per coglierne il sinistro bagliore.
Improvvisamente, la porta si apre e lei si getta di corsa lungo il
vialetto e oltre il cancello, senza mai voltarsi indietro. Non pensa
a nulla. È come se volasse.
Nadia
aprì gli occhi. Stava sudando e aveva il fiatone.
Finalmente,
ora sapeva tutto. Aveva rivissuto quell’esperienza fin nel più
piccolo dettaglio, come se si trovasse ancora là, al di là
della realtà e del presente. Sentiva ancora in bocca il sapore
amaro della paura e con le mani strizzava le lenzuola madide di
sudore.
Si
alzò a fatica, passandosi una mano sulla fronte e sul cuore.
La leggera brezza della sera la percorse in un brivido lungo la
schiena bagnata e lei percepì il fastidio del cotone umido
attaccato alla pelle. Decise di alzarsi e andare alla finestra, per
prendere un po’ di ossigeno.
La
sera era tranquilla e la notte era illuminata da uno sciame di
stelle. Nessuna luna in cielo, a rischiarare gli squallidi tetti di
Londra: solitaria, Nadia fissava oltre l’orizzonte sconosciuto
del cielo, in quello spazio che solo i sogni e i desideri riescono a
toccare. Oppure gli incubi.
Respirò
profondamente, chiudendo gli occhi. Vivida, ritrovò davanti
agli occhi l’immagine straziante del corpo senza vita di
Kurtag: era là, davanti a lei, riverso a terra. Rivedeva
ancora quel suo sguardo vuoto e raccapricciante e un senso di
angoscia la attanagliò. Cacciò quell’immagine
dolorosa e terribile dalla sua testa, cercando di liberare la sua
mente, già così appesantita, con tutte le sue forze.
Si
rendeva conto di essere in serio pericolo. Gli assassini di Kurtag
non si sarebbero fermati di fronte a nulla, finché non
avessero trovato quella pietra. E ora l’aveva lei.
Kurtag
l’ha affidata a me,
pensò. Perché,
cosa pensava che avrei potuto fare?
Aprì
il diario, che teneva stretto tra le mani. Lesse le prime pagine
tutte d’un fiato, senza fermarsi. Quindi prese a scorrerle
velocemente, una dopo l’altra, annotazione su annotazione. Una
precisa consapevolezza cominciò a farsi strada nel suo cuore.
Un timore, e una specie di strana convinzione. Sentiva che quella
pietra aveva un legame con lei, e le annotazioni di Kurtag sembravano
confermare esattamente quanto sentiva, e temeva.
Forse
Kurtag non sapeva esattamente cosa lei avrebbe fatto della pietra, ma
ora Nadia sapeva esattamente cosa avrebbe
dovuto
fare.
Dopo
essersi rivestita velocemente, uscì di corsa nella notte. Non
aveva idea di dove andare, né sapeva come avrebbe fatto a
mettere in pratica il suo piano. Lasciò semplicemente che le
gambe e il cuore la guidassero, abbandonandosi al suo istinto. Quando
finalmente si fermò, sollevò gli occhi e sorrise. Non
sarebbe mai potuta capitare in un luogo migliore.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** 9 ***
9
«Nadia?»
Lisa
strabuzzò gli occhi, quindi passò a sfregarseli
vigorosamente con la mano. Indossava una vestaglia da notte rosa, che
la faceva sembrare un grosso confetto alla fragola.
«Ma
che ore sono? – chiese, sbadigliando».
«Non
lo so. Tardi, suppongo» fece Nadia con un sorriso imbarazzato.
«Posso entrare?»
Lisa
si fece da parte, tenendo gli occhi chiusi e la testa china. Sembrava
quasi stesse dormendo in piedi. «Accomodati» farfugliò.
Nadia
entrò, guardandosi intorno. Un delicato profumo di lavanda la
investì non appena mise piede oltre la soglia. Lisa amava la
lavanda. La metteva ovunque, in casa sua.
Nadia
si voltò a guardare l’amica, sorridendole debolmente.
Lei le si fece incontro scalza, con il passo ondeggiante tipico di
chi ha troppo sonno o è ubriaco.
«Cosa
succede?» le domandò stiracchiandosi.
«Possiamo
parlare?»
Lisa
aprì gli occhi, scrutando l’amica. «Certo. Chi
credi che ci sia qui, oltre a me? Il barone di Gloucester?»
Nadia
ridacchiò, abbassando gli occhi e stringendo le labbra. Lisa
soffriva molto della sua mancanza di una vita affettiva
soddisfacente, e lei lo sapeva. Ma trovava divertente il suo modo di
ironizzare sulla faccenda.
«Vieni,
preparo del tè».
Si
accomodarono nella cucina. Per quanto non navigasse nell’oro,
Lisa poteva comunque contare su un aiuto mensile da parte della sua
famiglia, che le permetteva di mantenere un piccolo bilocale vicino a
Fleet Street. Tra le comodità che quella soluzione poteva
vantare, oltre alla vicinanza al posto di lavoro, vi era anche un
piccolo angolo cottura, in cui Lisa poteva sperimentare a piacimento
la sua passione per la cucina. Nadia la invidiava per questo –
benevolmente, certo. Lei aveva rinunciato a magiare a casa dopo che
il suo piccolo fornelletto a gas era esploso tre anni prima,
rischiando di mandare a fuoco l’intero stabile. Da allora
mangiava sempre con John in qualche ristorante, quando non riusciva a
rimediare con delle schifezze trovate in sala ristoro alla redazione.
Anche perché, a dirla tutta, era sempre stata una pessima
cuoca.
Lisa
mise a bollire l’acqua per il tè e dopo poco un
gradevole aroma si sparse per l’intera casa. Nadia aspirò
quella fragranza conosciuta, che le ricordava il lavoro amato e la
vita di redazione. Quindi sorrise, prendendo tra le mani la tazza
fumante che l’amica le porgeva.
Mentre
sorseggiava il tè bollente, Nadia lasciò che il suo
sguardo vagasse per la stanza. La casa di Lisa era minuscola, ma
decisamente accogliente: un divano, coperto da un lenzuolo di cotone
dalla fantasia floreale, campeggiava in mezzo al salotto, davanti a
un tavolino da tè, molto alla buona. Alcuni scaffali, con
sopra libri accuratamente affiancati, riempivano le pareti, insieme a
qualche quadro dai colori vivaci. Non c’era molto altro da
aggiungere, ma quella grazia semplice e modesta con cui la casa era
arredata, in realtà non facevano altro che riflettere come uno
specchio l’anima di chi vi abitava.
Lisa
prese posto di fronte a lei, sedendosi e piegando una gamba sotto di
sé. Quindi prese a sorbire il tè a piccoli sorsi,
fissando Nadia di sottecchi.
«Dunque?»
disse. «Di cosa volevi parlarmi?»
Nadia
posò la tazza ed estrasse dalla borsa il diario di Kurtag, che
Lisa prese tra le mani, curiosa.
«E
questo dove l’hai preso?»
«È
di Kurtag. Deve avermelo dato lui».
«Deve?»
fece Lisa, sfogliando distrattamente il libriccino.
«Lisa,
ora ricordo cos'è successo, tutto quanto!» soggiunse
Nadia, sporgendosi verso di lei. «La sera da Kurtag, il suo
assassinio... ogni cosa».
Lisa
annuì. «Bene. È qualcosa da cui possiamo
partire».
Nadia
raccontò a Lisa tutto quello che ricordava di quella terribile
sera. Lei la ascoltò in silenzio, senza neppure bere il suo
tè. Non appena Nadia ebbe finito di parlare, scosse la testa.
«È
spaventoso. Devi aver vissuto momenti davvero terribili» Nadia
abbassò gli occhi. «Mi spiace, Naddy» le fece
Lisa, tendendole una mano. «So quanto tu gli volessi bene».
«Grazie»
fece lei, timidamente. «Sei molto cara».
«Ma
di cosa si tratta esattamente?» chiese Lisa, indicando il
diario. Nadia estrasse la pietra dalla borsetta, porgendola
all’amica, che la fissò meravigliata.
«Si
tratta di questa».
Mentre
Lisa si rigirava la pietra tra le mani, Nadia prese a raccontare.
«Kurtag
ha studiato questa pietra per mesi. Il diario non dice esattamente
dove l’abbia trovata, ma sta a sentire: secondo quanto è
scritto, si tratta di una pietra antichissima, che probabilmente
risale a qualche mitica civiltà».
«E
allora?»
Nadia
sospirò. Era lì per cercare l’aiuto di Lisa. Non
era il momento per avere dei dubbi: doveva raccontarle tutto.
«Nel
diario, Andrés scrive che la pietra mostra tracce di
un’energia nascosta, un’energia talmente potente da poter
distruggere qualsiasi cosa nel raggio di miglia. Capisci? Ecco perché
è stato ucciso: per questa».
Nadia
picchiettò con l’indice sulla pietra. Lisa sporse in
fuori il labbro, poco convinta.
«E
tu sostieni che lui ti avrebbe dato queste cose...»
«L’altra
sera, esatto».
«Ma
non ricordi come?»
Nadia
scosse la testa. «Purtroppo no. Deve avermele...»
Il
vassoio. Ma certo!
«È
stato quando mi ha chiesto di portare il vassoio in cucina!»
Lisa
sbarrò gli occhi. «Scusa?»
«A
un certo punto, Andrés mi ha spedito in cucina e io mi sono
trattenuta a mettere a posto alcune cose. Dev’essere stato
allora che mi ha infilato queste cose in borsa».
«Ma
secondo te perché lo avrebbe fatto?» Le chiese Lisa,
alzando le spalle. Continuava a dubitare che quella strada potesse
servire a scagionare la sua amica dall’accusa di omicidio.
«Voglio dire: non avrebbe potuto darle a qualcuno più in
alto di te? Qualcuno capace di proteggerlo e...»
Nadia
sospirò. «L’ho pensato anch’io. Non capisco
perché Kurtag abbia voluto affidarmi queste cose. È
chiaro» disse, scuotendo il libriccino «che qui ci sono
mesi e mesi di ricerche, le ricerche più importanti della sua
vita, stando a quanto scrive lui stesso. Perché affidarlo
proprio a me?»
«Forse
eri l’unica di cui si fidava» fece Lisa con un sorriso.
Nadia
ricambiò. «Allora devo fare di tutto per non tradire la
sua fiducia, non credi?»
La
ragazza annuì. Si portò la pietra vicino agli occhi e
la scrutò tra le palpebre socchiuse, ancora impastate dal
sonno.
«Sembra
quasi che ci siano dei segni, sotto...»
Nadia
le prese la pietra dalle mani. Lisa restò a guardarla
incuriosita, mentre lei la stringeva al petto, gli occhi chiusi come
se stesse recitando una preghiera. Improvvisamente, la pietra prese a
brillare, sotto il suo sguardo incredulo e stupefatto.
«Naddy,
ma cosa...»
«Ecco,
guarda».
Le
porse la pietra, ora completamente trasparente e luminosa. Un
turbinio di segni si agitava sotto la superficie: una intensa luce
azzurra illuminava a giorno la stanza e i volti delle due ragazze.
Lisa fissò affascinata la pietra misteriosa, prendendola tra
le mani e stringendola come se si trattasse di qualcosa di
estremamente delicato e sacro.
«È
fantastico. A dir poco... incredibile!»
Nadia
annuì, gravemente. «E io credo di sapere di cosa si
tratta».
«Cosa
intendi dire?» le chiese Lisa, preoccupata. Nadia la fissò
per qualche istante e fu come se tra loro si fosse alzato un
invalicabile muro di diffidenza. Non riusciva a trovare il coraggio
per raccontare a Lisa tutta la verità sul suo passato, un
passato sconvolgente, che forse le avrebbe allontanate per sempre.
Lisa
si rese conto che l’amica le stava nascondendo qualcosa,
qualcosa di troppo grande e difficile da sopportare. Le strinse la
mano e le sorrise, gli occhi che scintillavano nella penombra della
cucina illuminata dalla debole luce di una lampada a gas e dal
baluginio azzurrognolo della pietra.
«Nadia,
tu lo sai che puoi dirmi tutto. Non c’è nulla che io non
possa ascoltare. O sopportare» aggiunse, avvertendo come una
sorta di presagio.
Nadia
non si mosse. «Forse perché non hai idea di quello che
sto per dirti».
Lisa
reclinò la testa di lato, assumendo un’espressione
preoccupata. «Cosa potrebbe mai essere di tanto terribile?
Nadia, tu sei mia amica e...»
«Allora
ricordatene, quando avrò finito di raccontarti tutto».
Lisa
scosse il capo, incredula. Nadia la guardò ancora una volta,
gli occhi inespressivi e lucidi. Quindi sospirò e cominciò
a raccontare.
«Non
c’è un modo semplice per dirlo, quindi andrò
subito al sodo. Ho sempre raccontato che sono cresciuta orfana in un
circo, ed è questo quello che sai...» Lisa annuì,
in attesa. «Non è vero» riprese Nadia «non
del tutto, cioè. Io provengo da un’antica e sperduta
regione dell’Africa Sahariana. La mia città natale si
chiamava Tartesso, una città antichissima e nobile, che
sorgeva nascosta sull'altopiano dell'Ahaggar, al confine tra
l'Algeria e il Niger. Mio padre e mia madre erano a capo della città.
Io ero la loro secondogenita, la principessa di Tartesso, erede al
trono per diritto di successione».
Nadia
fece una piccola pausa. Non alzò gli occhi, per la paura di
leggere sul volto dell'amica quello che più temeva. Parlava
fissando la superficie liscia del tavolo, le mani intrecciate.
«Quando
ero molto piccola, la mia città venne distrutta a causa di una
guerra scoppiata tra un gruppo di ribelli e le forze governative. Mio
padre si salvò, ma credette che tutti i membri della famiglia
reale, me compresa, fossero morti. Mio fratello allora era solo un
ragazzo: ma aveva appoggiato i ribelli, diventando un loro strumento,
ed era morto negli scontri. Per mio padre fu un duro colpo. Da
allora, partì alla caccia disperata del responsabile di quella
guerra, un uomo spregevole, colui che era stato il suo primo ministro
e che aveva tradito la sua fiducia, rivoltandogli contro persino suo
figlio: quell’uomo si chiamava Nemesis Ra Algol ma si faceva
chiamare Gargoyle».
«Gargoyle...
quel Gargoyle? Quel pazzo che aveva messo in piedi una setta razzista
e che aveva minacciato di distruggere mezza Europa, sei anni fa?»
fece Lisa, ancora incredula davanti alle parole dell’amica.
Nadia
chiuse gli occhi. «Quando la guerra finì, di Tartesso
non restò più che un cumulo di macerie. Io avevo poco
più di un anno, allora. Venni salvata per grazia di mio
fratello, che mi affidò a qualcuno perché mi portasse
oltre le mura della città, prima che si scatenasse l’inferno.
Lui sapeva quale sarebbe stato il mio destino, se fossi rimasta a
Tartesso: e mosso a compassione per me, decise di salvarmi. Venni
trovata dal padrone di un circo ambulante, come sai. Da allora non
rividi mai più l’Africa e non seppi mai nulla del mio
passato finché non rincontrai Gargoyle. Era sulle tracce di un
oggetto particolare, un gioiello che mi era stato lasciato in eredità
da mia madre quale legittima erede al trono. Era un ciondolo, una
pietra azzurra...»
Lisa
abbassò gli occhi sulla pietra splendente che aveva davanti,
quindi li sollevò lentamente, riportandoli sul volto di Nadia.
«Azzurra, dici?»
«Esatto.
Proprio come la pietra che hai davanti agli occhi. L'aspetto è
diverso, questa sembra meno luminosa rispetto alla mia: è più
simile a un sasso, finché non la si attiva. Ecco perché
non l'ho subito collegata a quella che avevo».
«Ma
cosa voleva Gargoyle da te? Perché quella pietra era così
importante?»
«Per
la stessa ragione per cui questa è così importante.
Essa non è una pietra qualsiasi. Aveva ragione Andrés a
ritenere che la pietra racchiudesse un’energia insolita. Essa
ha al suo interno un potere nascosto assolutamente terrificante,
capace di distruggere qualsiasi cosa. Gargoyle cercava la pietra per
questo motivo. Per usarla contro l’umanità e piegarla
così al suo dominio. Io ero rimasta l’unica a poter
usare la pietra, perciò... aveva bisogno di me come di essa».
Lisa
rabbrividì, allontanandosi leggermente. «Io...»
«Hai
paura?» fece Nadia, sorridendo dolcemente. «Ne avresti
tutte le ragioni. Io ho portato quella pietra per anni e ho visto di
cosa era capace. Era grande solo un terzo di questa, e da sola poteva
distruggere un’intera città. Posso solo immaginare di
cosa sia capace una pietra di queste dimensioni».
«Nadia,
ascoltami» Lisa si tese verso l’amica, stringendole
entrambe le mani tra le sue. «Solo perché un uomo come
Gargoyle ti ha dato la caccia allora, non vuol dire che anche
stavolta debba andare così, no?»
«Gargoyle
è morto» rispose Nadia, inespressiva. «È
morto tentando di portare a compimento il suo piano assurdo. La sua
setta, la società di Neo Atlantide, si è sciolta nel
momento in cui lui è stato ucciso e di essa non resta più
nulla. O almeno così credevo. Invece, qualcuno sta cercando
nuovamente di recuperare questa pietra ed è disposto ad
uccidere per essa, esattamente come Gargoyle».
«Ero
solo una ragazzina allora,» notò Lisa «ma ricordo
che quando Gargoyle scomparve e si scoprì dell'esistenza della
sua setta, saltarono fuori un mucchio di scandali al riguardo.
Circolarono pettegolezzi sul fatto che uomini politici di diversi
stati fossero coinvolti nel suo assurdo progetto: sembrò che
persino il barone Von Stockmar, il consigliere segreto della regina
Vittoria, avesse finanziato Neo Atlantide prima di morire».
«Proprio
così» aggiunse Nadia. «E credo che qualcuno
appartenente a quella società sia ancora vivo, e agisca, ora
come allora, con lo stesso intento criminoso: trovare la pietra e
usarla per sfruttarne il potere segreto a proprio vantaggio».
«Ma
come fai a essere sicura che questa pietra sia come quella che avevi
tu?» domandò Lisa, rigirandosi la pietra tra le mani.
«Potrebbe davvero trattarsi di qualcosa di diverso, o che
so...»
«Lo
so perché me lo sento» fece lei, triste. «C'è
una specie di legame fisico, tra me e questa pietra, proprio come
accadeva con l'altra. Sento la sua energia scorrermi nelle vene, ogni
volta che la stringo: è come se il mio corpo vibrasse insieme
ad essa. Ma non è solo per questo. Vedi quei segni?» le
fece Nadia, indicandole le figure che risplendevano sotto la
superficie. «Sono una particolare forma di scrittura definita
Rongo-rongo. È tutto scritto nel diario del professore. Andrés
era riuscito a decifrarla».
«Cos'è
la scrittura Rongo-rongo?»
«Non
lo so con esattezza, ma stando a quanto è scritto qui»
disse Nadia, agitandole il libriccino davanti agli occhi «è
una scrittura che sembra possedere tratti comuni a diverse antiche
civiltà del Pacifico. La teoria del professore era che in un
tempo remoto, nell’Oceano Pacifico si fosse sviluppata una
civiltà molto progredita, che aveva portato la scienza e il
progresso a tutte le civiltà che la circondavano,
colonizzandole. Poi, a causa di un qualche cataclisma o di una
devastazione, questa civiltà decadde, e i suoi sopravvissuti
si spostarono, portando con loro le proprie conoscenze e tradizioni
nei luoghi in cui andarono ad abitare. Alcuni di essi si spinsero
fino all’Egitto: furono loro a creare le piramidi e a fondare
anche la mia città, Tartesso. Altri si stabilirono ad Harappa,
in Pakistan, dove il professore aveva trovato alcune tavolette
recanti i medesimi segni... Altri, infine, abitarono le isole del
Pacifico, tra cui l’isola di Pasqua. È tutto scritto nei
libri di Andrés. Sono le cose a cui ha dedicato un’intera
vita».
Nadia
fece una pausa, e si passò un ciuffo ribelle di capelli dietro
l’orecchio. Lisa cercava nel libro la conferma a quanto stava
raccontando, ed annuiva quando credeva di averla trovata.
«Quando
vennero cacciati dall'isola di Pasqua, fuggirono nuovamente,
spingendosi fino all’America meridionale. Il professore cita
diverse leggende Maya a proposito di uomini venuti dal mare che
possedevano conoscenze incredibili, e che loro presero a venerare
come dei».
«E
tutto questo... cosa c’entra con la pietra?» domandò
nuovamente Lisa.
«Non
capisci? Tutte queste civiltà hanno in comune la stessa
scrittura, le stesse leggende che parlano di un popolo proveniente da
lontano che portò la civilizzazione. I segni incisi sulla
pietra appartengono all’alfabeto Rongo-rongo... Quindi questa
pietra appartiene alla stessa civiltà che ha colonizzato mezzo
Pacifico, senza contare il bacino dell’Indo e l’Africa a
nord del Sahara: la civiltà a cui io appartengo. Il professore
scrive che i simboli sulla pietra narrano l'origine di quel popolo:
secondo quanto riportato sul suo diario, la pietra narra di una
popolazione che Andrés fa coincidere con quelli che gli Inca
chiamavano Viracochas... o qualcosa di simile. Secondo le loro
leggende, erano un popolo venuto dall'Oceano, che si stabilì
vicino al lago Titicaca, dove fondarono una mitica città.
Erano esperti nelle scienze e nelle arti magiche, ma sparirono
misteriosamente. Andrés non è riuscito a tradurre il
testo completamente, perché i simboli che ci sono pervenuti
dell’alfabeto Rongo-rongo sono limitati a poche decine e la
pietra presenta, tra gli altri, alcuni ideogrammi sconosciuti. Ma
io... io riesco a leggerla. Posso tradurla, non chiedermi come. È
qualcosa che è scritto dentro di me, e che sento del tutto
naturale».
«Tu
sei in grado di leggere questi segni assurdi?» fece Lisa,
incredula. E spostò gli occhi sulla pietra. «E cosa
dicono?»
«Narrano
la storia della pietra. È un testo sacro, come aveva capito
anche Andrés, solo che è molto di più di questo.
È la storia stessa dell'universo, che è inscritta in
questa pietra; qualcosa di antico milioni di anni. Fa riferimento a
una "eredità
di stelle"...
ma il racconto non è compiuto. Mancano delle parti».
Lisa
trattenne il fiato. «Quindi... ce ne sono altre?»
Nadia
annuì vigorosamente. «È molto probabile, sì».
Lisa
posò cautamente la pietra. «Mio Dio. Ma se quello che
dici è vero... se una pietra come questa può causare
tutto quel male...»
«Cosa
potrebbero fare molte di esse?» concluse Nadia al suo posto.
«Vedo che hai capito».
«Ma
come mai la tua gente ha avuto accesso a un potere simile? Voglio
dire, sembra quasi il potere di Dio!»
Nadia
arrossì. Abbassò gli occhi, incapace di sostenere lo
sguardo sincero della ragazza. «Questo... è qualcosa che
non posso ancora dirti. Ti prego di perdonarmi».
Lisa
fissò l’amica, che ora la guardava quasi sprezzante,
come a sfidarla a mantenere la sua promessa e a non abbandonarla,
nonostante tutto. Era sconcertata da quello che Nadia le aveva appena
raccontato, un segreto talmente inaspettato che non sapeva davvero
come reagire.
«Ti
chiedo scusa» disse Nadia, sommessamente «Io... non ti ho
detto la verità sul mio conto. Ma se non l’ho fatto, è
perché dopo la morte di Gargoyle e di mio padre, ho provato a
lasciarmi tutto il passato alle spalle. Credevo di esserci riuscita,
ma evidentemente... mi sbagliavo».
Lisa
vide una lacrima caderle sulle mani intrecciate e si intenerì.
«Posso
chiederti com’è morto tuo padre?»
«Si
è sacrificato per salvarmi» disse Nadia. E un sorriso
dolcissimo le si allargò sul volto. «Per salvare me e
tutti quelli che erano con me. Stavo scappando da Gargoyle, quando
incontrai casualmente mio padre. Né io né lui sapevamo
nulla l’uno dell’altra. Non lo avevo mai conosciuto, non
sapevo chi fosse, né che fosse ancora vivo. Di quell’uomo,
sapevo solamente che lottava contro il mio nemico, l’uomo che
mi voleva catturare. Che era mio padre, lo scoprii solo alla fine,
quando era troppo tardi per qualsiasi scusa o tentativo di...»
Nadia si asciugò le lacrime, tirando su con il naso. «Vedendo
che lottavamo per la stessa causa, mi unii a lui e alle persone che
lo seguivano nella guerra contro quel mostro. Dopo l’ultima
battaglia contro Gargoyle, mio padre si sacrificò, per
permettere a me e a tutte le persone che insieme a noi avevano
combattuto, di salvarsi. Con la sua morte permise la nostra fuga. Fui
salva, ma lo persi di nuovo... lo avevo appena ritrovato...»
Nadia
lasciò che le lacrime scorressero liberamente. Lisa le teneva
sempre le mani e ascoltava in silenzio.
«Le
persone che erano con te...» azzardò «...ti
riferisci a Jean, non è così?»
Lei
tirò su con il naso, annuendo debolmente. Sollevò il
volto a guardare l'amica, gli occhi velati dalle lacrime. Non appena
incrociò lo sguardo di Lisa, Nadia non riuscì a
trattenersi e sebbene si stesse sforzando di sorridere, le labbra le
si serrarono, e scoppiò a piangere. Lisa accostò una
mano al suo volto e lei chiuse gli occhi.
«Sì»
disse, tra i singhiozzi. «Lui... sai, quando ci conoscemmo
eravamo solo due ragazzini, ma Jean mi aiutò da subito. Lasciò
tutto per me, sebbene non mi avesse mai visto prima. E mi ha salvata
tante di quelle volte che...»
Scosse
il capo e sorrise. Un sorriso dolce, ma che velava una tristezza
inconsolabile.
«Vi
volevate bene?»
«Lo
amavo. Più... più di ogni cosa. Lui...» la
guardò, sorridendo. E una lacrima solitaria le scorse lungo la
guancia. «Era Jean» disse, come se questo chiarisse ogni
cosa.
Lisa
sorrise, comprensiva.
«Come
mai, allora, vi siete lasciati?»
Nadia
strinse le labbra, sollevando la testa. «Fu per la lontananza,
credo. Ho dimenticato perché mi ero innamorata di lui».
Lisa
annuì. Tornò col pensiero alla pietra e il suo volto si
incupì.
«Hai
già parlato di tutto questo con John?» le chiese.
«No,
e come avrei potuto?» fece lei, scuotendo energicamente la
testa. «L’ho già trascinato suo malgrado in questa
faccenda orribile, non ci penso neanche a coinvolgerlo
ulteriormente».
«Cosa
pensi di fare, ora?»
Nadia
sospirò, drizzandosi a sedere. «Non lo so. Ma penso che
la cosa migliore sia cercare di capire cos’è questa
pietra, se veramente essa sia quello che penso o no; e per farlo,
dovrò cercare di scoprire come Kurtag ne è entrato in
possesso. Dovrò sentire da chi ha lavorato con lui. Credo già
di sapere come muovermi, in tal senso. C'è un mio amico, che
lavorava con Andrés. Si chiama Hanson Garrett. Era con lui,
durante l'ultimo viaggio. Forse sa qualcosa».
«Frena,
Naddy» le fece Lisa. «Per il momento, è meglio se
ti fermi qui a dormire. Domattina ne parleremo anche con Michael e
vedremo di riuscire a scoprire qualcosa. Dovremo innanzi tutto vedere
se c’è qualcosa dietro alle ricerche che Kurtag stava
compiendo: se qualcuno l’ha ammazzato e lui ti ha affidato la
pietra perché tu la difendessi, vuol dire che c’è
qualcosa sotto di molto più grande di quanto non pensiamo. Ma
ora,» aggiunse, dando un leggero buffetto a Nadia «è
meglio se ti riposi. Un buon sonno ti farà bene».
«Ti
ringrazio, ma non vorrei...»
«Non
cominciare, Nadia» fece Lisa perentoria, mentre tirava già
fuori da un vecchio armadio a muro delle lenzuola e una coperta in
più, che poi gli posò tra le braccia. «Da qui non
te ne vai. Sei più sicura in questo posto che in qualsiasi
altro».
Nadia
arrossì, commossa. «Grazie» fu tutto quello che
riuscì dire.
«Davvero
hai pensato che ciò che avevi da raccontare potesse
allontanarmi da te?» le domandò Lisa, abbracciandola.
«Tu non mi hai mai abbandonato, Nadia, mai. Nemmeno quando ti
sarebbe stato comodo e utile farlo» le disse, fissandola
dolcemente negli occhi.
«Ma
non ti ho detto tutto» le fece presente lei, quasi
vergognandosene. Lisa scrollò le spalle.
«Se
non l'hai fatto, avrai il tuo valido motivo. Non mi interessa. Io mi
fido di te. Solo, non nascondermi qualcosa con la paura che io non
possa comprenderlo. Non può accadere, non tra me e te».
Nadia
serrò le labbra, commossa. Eppure, quel suo segreto così
inconfessabile non avrebbe mai potuto raccontarlo nemmeno a lei. Solo
Jean lo sapeva, e i suoi vecchi amici. Era qualcosa che credeva di
aver sepolto insieme a loro in una vita passata, ma che ora stava
risorgendo a terrorizzarla.
«Sei
gentile» disse, glissando su quanto le stava nascondendo. «Non
so come farei, senza di te».
Lisa
sorrise. «È questo che fanno gli amici, no? Si aiutano.
Tu sei mia amica, Nadia, la più grande. E tutto quello che
posso fare per aiutarti, ebbene: io ti giuro che lo farò. E
adesso, fila a dormire».
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** 10 ***
10
«Hanno
bussato. Vai un po' a vedere chi è...»
L'agente
George Lewitt si sollevò dalla sedia con un'evidente
espressione di sufficienza. Era stanco, ed era in piedi da diverse
ore. In più, lo aspettava una notte insonne. Fare la guardia a
quella casa vuota era un dispetto che sicuramente qualcuno si era
divertito a giocargli.
Doveva
passare l'intera notte a casa di quel professore assassinato, Andrés
Kurtag. Per essere sicuri che non venissero commesse infrazioni e che
nessuno tentasse di sottrarre qualcosa, gli avevano detto. Ma per lui
era solo una grande seccatura.
Tirandosi
su i pantaloni, si allontanò lungo il corridoio fiocamente
illuminato dalla luce del salotto. Buttò in fuori la pancia e
sbuffò. C'era una finestra vicino alla porta. Scostò le
tende e sbirciò nell'oscurità che già avvolgeva
tutto il quartiere. Intravide due figure, ferme nell'ombra davanti
all'ingresso. Una di loro si voltò a guardarlo, quindi
estrasse la mano dalla tasca del soprabito scuro, mostrandogli un
distintivo. Lewitt gli dette un'occhiata veloce e annuì da
dietro il vetro. Appena prima di lasciar ricadere la tenda, sollevò
lo sguardo sulle finestre del vicinato. Erano buie, sembrava che
nessuno fosse sveglio, quella notte, a parte lui, il suo collega e
quei due fuori dalla porta.
Bella
roba,
pensò sbuffando.
«Chi
è?» la voce di Patterson, il suo collega, gli giunse dal
salotto, dove dormicchiava seduto sul divano.
«Due
dei nostri» rispose, fiacco.
«Apri,
no?»
«Non
sono questi, gli ordini...»
L'agente
sentì il compagno alzarsi e raggiungerlo a passo stanco lungo
il corridoio. Lo vide far capolino oltre lo spigolo del muro,
preceduto dalla sua ombra.
«Hanno
il distintivo?» chiese Patterson, infilandosi del tabacco da
masticare tra le labbra, piegate in una smorfia assonnata.
«Sì,»
fece l'altro «ma...»
«E
che ti frega?» Patterson scrollò le spalle. «Se
hanno il distintivo va bene, no?»
Nuovi
colpi alla porta. Una voce risuonò decisa.
«Siamo
gli agenti Everett e Mason. Aprite, per favore».
I
due si guardarono. Lewitt prese a fissare il collega, che masticava
il tabacco con una certa villania.
«Allora?»
fece Patterson. «Hai sentito, no? Muoviti!»
Lewitt
strinse le labbra, ma alla fine si decise ad aprire. Sbloccò
il catenaccio e socchiuse la porta. I due che attendevano sulla
soglia gli sorrisero, facendosi avanti ed entrando, senza aspettare
alcun invito.
«Buonasera»
salutarono, levandosi i cappelli. I due agenti di guardia restarono a
fissarli, in attesa.
«...'sera»
biascicò Patterson, che intanto continuava a ruminare. Lewitt
non rispose.
«Siamo
qui per darvi il cambio».
«Non
era previsto» osservò Lewitt. «Nessuno ci aveva
detto nulla, e credevamo...»
«Già,
è una questione di sicurezza» tagliò corto uno
dei nuovi venuti. Erano entrambi vestiti di scuro, e indossavano due
lunghi cappotti neri, di lana. Solo uno dei due parlava, l'altro
continuava a fissare i due poliziotti in silenzio. «Per essere
sicuri che non vi addormentiate e combiniate qualche casino»
aggiunse il primo, alla fine.
«E
quindi vi hanno mandato qui pure a voi, eh?» fece Patterson,
con una smorfia. «Beh, non c'è molto da fare. Mi spiace,
ma vi annoierete parecchio.
«Oh,
non penso» osservò allegro il nuovo arrivato. Aveva un
volto aperto e sorrideva dietro due folti baffi scuri, un sorriso che
si trasmetteva anche ai suoi occhi, vibranti di uno strano
scintillio. «Sarà divertente» soggiunse. «Una
bella casa vuota, tanti libri...»
«Avrete
con voi una lettera, o un ordine scritto, immagino...»
L'uomo
prese a fissare Lewitt con una certa serietà. Quindi sorrise,
amabile. «No, a dir la verità ci hanno sbattuto giù
dal letto, dicendo che dovevamo presentarci qui».
Lewitt
guardò l'uomo con un certo sospetto. «Nessun ordine?
Nulla?»
«No,
non ce l'ho il tuo ordine» ribatté quello, seccato.
Patterson cominciò a ridere.
«Mica
vorrete litigare? Andiamo, Lewitt» disse. «Possiamo
smontare, finalmente».
«Non
so, non mi torna» fece Lewitt, senza distogliere lo sguardo dai
due sconosciuti. «Simum era stato chiaro, in proposito».
Patterson
allargò le braccia, sporgendo in fuori il labbro. «Senti,
sai che mi frega? Se arrivano questi due, vuol dire che li manda
Simum, e io me ne vado. Se qualcosa non va, sono problemi
dell'ispettore, non miei.
«Nulla
in contrario se chiamo il distretto?» insistette Lewitt,
cocciutamente. Lo sconosciuto alzò le spalle. «Prego»
disse, sorridendo.
Lewitt
sollevò la cornetta dall'apparecchio appeso al muro del
corridoio, e compose il numero. Il centralino rispose prontamente
all'altro capo del filo.
Ma
qualcosa non andava, doveva essere caduta la linea. Per quanto
insistesse, l'uomo al centralino non ricevette risposta.
Al
telefono non c'era nessuno.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** 11 ***
11
Per
l’ispettore investigativo Peter Simum, quella giornata non
sarebbe potuta iniziare in modo peggiore.
Tanto
per cominciare, la gamba gli faceva un male cane. E questo lo
indisponeva parecchio. In secondo luogo, faceva caldo. Molto caldo. E
questo lo indisponeva ancora di più, soprattutto se doveva
farsi mezza città a bordo di una delle nuovissime, sgangherate
auto della polizia.
«Per
l’amor del cielo» gridò all’autista, «quanto
manca prima di arrivare?»
Tutto
quel sobbalzare lo stava uccidendo.
«Ormai
ci siamo ispettore» fece l’agente alla guida. «Porti
pazienza, ma sa... queste automobili sono ancora da perfezionare».
Proprio
come la tua guida, idiota.
Ad
ogni sobbalzo, la gamba gli procurava una fitta lancinante. Per tutto
il viaggio, Simum se ne stette a denti stretti, tenendosi il
ginocchio con entrambe le mani.
Certo
che quella gamba deformata era davvero un bel peso. Se la trascinava
dietro da quando era bambino, ma ancora non era riuscito a
rassegnarsi al dolore. Avrebbe cambiato poche cose della sua vita, ma
una di quelle era certamente la gamba.
Essersi
ammalato di poliomielite era stata una bella sfortuna, ma il peggio
era trovarsi condannati a convivere con una gamba storta come un
tronco cresciuto male. Ogni sera, quando rientrava a casa – a
dire il vero quelle poche volte in cui accadeva, dal momento che
spesso si fermava a dormire in ufficio – la schiena gli doleva
per la postura che durante il giorno aveva dovuto assumere nel
camminare. E dal momento che odiava portare il bastone – lo
faceva sentire vecchio – si trascinava quell’arto morto e
rinsecchito per tutta Scotland Yard, ammazzandosi di fatica anche
solo per fare mezzo gradino.
«Certo
che fa caldo, oggi, vero ispettore?» fece l’agente,
giusto per attaccare discorso. Simum grugnì qualcosa in
risposta, ma era qualcosa di inudibile.
«Sembra
proprio che sia arrivata l’estate».
Simum
roteò gli occhi.
L’agente
si zittì, dal momento che non ottenne risposta. Sapeva che con
un tipo come l’ispettore non c’era da scherzare, e quella
mattina sembrava particolarmente di pessimo umore.
Simum
strinse le labbra. Maledizione,
pensò. Sono
già passati due giorni dal delitto e ancora non siamo venuti a
capo di nulla.
Non
una prova, non un indizio certo.
E
come se non bastasse qualcuno, nella notte, si è introdotto in
casa di Kurtag, violando i nostri sigilli dopo aver ucciso entrambi
gli agenti di guardia.
Quel
caso lo indisponeva alquanto. Non era ancora riuscito a far quadrare
tutti i suoi conti sul primo omicidio, ed ecco che gli piovevano sul
groppone due nuovi cadaveri caldi caldi. I casi erano due. O lui
aveva improvvisamente smarrito il cervello, o qualcuno si stava
mostrando decisamente più furbo di lui.
Tanto
per cominciare, la principale sospettata, Nadia Ra Arwol, non era per
nulla convincente come assassina. Quale avrebbe dovuto essere il suo
movente? Perché una ragazza giovane e brillante, all’apice
della fama, avrebbe dovuto uccidere un uomo “tranquillo”
come Andrés Kurtag? E poi, quella donna era troppo
intelligente per commettere un errore così stupido,
dimenticarsi in bella vista i propri effetti personali sulla scena
del delitto. Certo, anche le persone intelligenti commettono degli
errori, ma a Simum l’istinto diceva che quella poveraccia si
era trovata suo malgrado coinvolta in qualcosa più grande di
lei. E poi, come avrebbe potuto tornare nuovamente a casa di Kurtag,
uccidere due agenti da sola e scomparire senza dare nell’occhio?
Tuttavia,
se si escludeva la ragazza, chi restava? Il bel politico? La via del
fidanzato geloso non era credibile e Simum lo sapeva bene. E poi, se
era possibile escludere Jonathan Fisher dall’elenco dei
sospettati, lui l’avrebbe fatto più che volentieri.
Odiava confrontarsi con i potenti. Sapeva benissimo che se anche solo
avesse provato ad avvicinarsi al giovane segretario alla difesa,
qualcuno molto in alto prima o poi sarebbe certamente intervenuto a
insabbiare il tutto. Non che lui avesse paura degli uomini di potere.
Gli facevano semplicemente schifo. E poi, era arrivato a un’età
in cui lavorare per nulla cominciava a scocciargli.
L’automobile
compì una brusca svolta, sballottando Simum sul sedile. Questi
lanciò un’imprecazione, serrando le labbra.
«Mi
perdoni, ispettore» fece l’agente, abbozzando un sorriso
di scusa. «Ecco, siamo arrivati».
Misericordia,
pensò Simum scendendo a fatica dalla macchina. Mai
più, mai più una cosa del genere!
Davanti
a lui sorgeva la villetta di Kurtag. Era una piccola casetta in
perfetto stile Georgiano, come tante altre nei dintorni di
Bloomsbury, dai mattoni scuri e con la porta smaltata di blu. Intorno
alla casa e sul retro vi era un giardino piuttosto curato, ma dalle
dimensioni ridotte. Era, quello, un quartiere residenziale
decisamente tranquillo e dall’aspetto delle abitazioni che
circondavano la via, Simum ne desunse che doveva essere piuttosto
costoso abitare in quella zona.
D’altra
parte, era risaputo che Kurtag fosse piuttosto ricco. E proprio per
questo, un’altra stranezza in quel caso era il fatto che nella
sua abitazione non fossero venuti a mancare oggetti di valore.
Nemmeno le cinquantamila sterline che conservava in cassaforte. Non
sembrava mancare nulla. Tutto questo contribuiva a fare di quel
delitto un crimine apparentemente inspiegabile.
Simum
respirò profondamente una volta messo piede a terra. Aprì
gli occhi massaggiandosi la gamba anchilosata e si guardò
intorno. Numerosi agenti in divisa si stavano affaccendando intorno
alla casa. Alcuni erano occupati a tenere a bada i curiosi. I
giornalisti stavano già organizzando il loro assedio.
Un
uomo dall’andatura dinoccolata gli si mosse incontro. Indossava
un completo di un verde che un tempo doveva essere stato molto più
scuro, ma che ora appariva decisamente scolorito e liso. Una sottile
cravatta di tessuto nero ornava il logoro colletto della camicia, che
se ne stava tutto spiegazzato intorno a un esile collo sbarbato
malamente. Il volto dell’uomo era assonnato, e per questo
sembrava ancora più cascante, a causa anche del mento forse
troppo sfuggente. Portava due baffetti poco curati e un’incipiente
calvizie rovinava la scriminatura dei suoi capelli, impomatati fino a
sembrare unti, che gli ricadevano ai lati del volto.
«Ispettore,
ben arrivato» fece l’uomo cortese, accennando a un
saluto.
«Barnaby,
ha una cera orribile. Sembra che l’abbiano sbattuta giù
dal letto – fu la risposta di Simum».
«Infatti
non ho dormito. Ho finito il turno poco fa. Comunque...» si
incamminarono lungo il vialetto che conduceva alla casa. «Abbiamo
qui l’inventario dei beni compilato dal notaio di Kurtag»
gli mostrò un plico con alcuni fogli vergati in bella grafia.
Simum gli gettò un’occhiata veloce. «Abbiamo
controllato e sembra davvero che non manchi nulla».
Simum
si guardò intorno. «Nulla?»
«Nulla»
fece Barnaby.
«Buon
dio, Barnaby io non capisco. Chi è che commette un’infrazione
e due omicidi per niente?»
«Non
ne ho idea, ispettore».
Simum
si fece strada tra gli agenti che affollavano l’ingresso. Si
diresse a fatica verso il salotto, trascinandosi dietro la gamba.
Tutto era stato messo sotto sopra. Evidentemente, chi si era
introdotto in casa era alla ricerca di qualcosa che non aveva
trovato.
«Avete
controllato tutto?»
«Tutto.
L’inventario è completo».
«Segni
di scasso?»
«No.
Chiunque sia stato, è entrato dalla porta».
«Quei
due idioti di guardia gli hanno persino aperto» fece Simum,
sprezzante, mentre vagava per la stanza guardandosi intorno. Si mosse
pesantemente, camminando senza riguardo sopra i fogli rovesciati sul
pavimento, chinandosi ogni tanto faticosamente a raccoglierne alcuni,
solo per poi scrutarli senza particolare interesse. Tutti i libri
erano stati rovesciati dagli scaffali e i cassetti della scrivania
svuotati e gettati in un mucchio nel mezzo del salotto. In tutta la
casa non c’era un solo oggetto in ordine.
«Ma
cosa diavolo stavano cercando?»
«Mah...»
Simum
si appoggiò alla scrivania.
«Dunque.
Abbiamo un uomo che tutti dicono tranquillo. Non aveva nemici, né
donne, né amanti. Era un professore, viveva per il suo lavoro
ed era molto stimato in ambito accademico. Poca la vita sociale,
nessun parente in Inghilterra. Nessun attrito con i suoi colleghi.
Qualcuno, una bella sera, decide di entrar qui e lo uccide
recidendogli la giugulare. Io mi chiedo: chi può desiderare la
morte di un tipo così?
Barnaby
allargò le braccia, fissando lo spazio intorno a sé
scuotendo la testa. «Oltretutto senza rubare nulla».
«Appunto.
Senza rubare nulla».
Simum
strinse le labbra. Cominciava a odiare quel caso.
Maledizione,
pensò. Stai
a vedere che questo è il primo caso in cui va a finire tutto
in malora...
«E
dire che di cose da portar via qui ce n’erano. Guardi questi
quadri: chissà il loro valore...»
Barnaby
si mise a occhieggiare i muri. Simum si guardò intorno.
Effettivamente la casa era addobba di reperti e di tesori
d’antiquariato.
«Quello
è un Watteau» fece Simum. «E quello laggiù
un Ingres. Qui abbiamo un Monet e un Degas. Il professore si
intendeva di arte e aveva soldi da spendere» commentò.
Simum
passò in rassegna la stanza. Non c'era nulla che potesse
aiutarlo a capire quale movente poteva nascondersi dietro a
quell'omicidio.
«Cosa
cercava l'assassino?» continuava a chiedersi.
Barnaby
scrollò le spalle. «Di sicuro, qualunque cosa fosse, non
l'ha ancora trovata. Abbiamo controllato e non manca nulla rispetto a
quanto inventariato ieri».
Simum
si aggirava pensieroso per la stanza. Arrivò davanti a una
parete a cui erano appese alcune foto. In una di esse, il professore
era ritratto accanto una giovane donna, vestita elegantemente, in
abito chiaro. Lei indossava un cappello a falda larga e la veletta
sollevata lasciava elegantemente intravedere gli splendidi lineamenti
del volto, dalla pelle scura, ambrata. Sorridevano entrambi.
«Sono
Kurtag e la Ra Arwol, giusto?» chiese Barnaby. «Caspita,
che meraviglia di donna. Chiunque farebbe pazzie per una così.
Lei e Kurtag dovevano andare d'accordo, a quanto pare».
«Già...»
Simum
fissava pensieroso la foto. Improvvisamente, prese ad agitare un dito
nell'aria. Si voltò, percorrendo con gli occhi la stanza.
«Se
l'assassino non ha trovato nulla, è perché qualcuno
l'ha preceduto» disse. «O perché ciò che
cercava non risultava tra gli effetti del professore».
«Dal
che ne deduco che lei pensa si tratti di Nadia Ra Arwol, giusto?»
ipotizzò Barnaby. «Io dico che è lei»
asserì. Estrasse un fazzoletto e si soffiò il naso,
emettendo un lungo barrito. «Maledetta allergia! Comunque... la
ragazza ha tutto contro. E non possiede un alibi».
Simum
inarcò un sopracciglio. Si fece un giro nella stanza,
percorrendo a lunghi passi affaticati il salotto devastato dal caos.
I poliziotti erano ancora indaffarati a raccogliere elementi di prova
e a parlare con i testimoni.
«Al
contrario, Io credo che quella poveraccia sia finita in mezzo a
qualcosa più grande di lei» rispose l’ispettore.
«Come
può dirlo?» obiettò Barnaby. «Ha tutto
contro» ribadì, passandosi il fazzoletto sul naso.
«Appunto.
Istinto. Una sensazione legata anche agli omicidi di ieri».
Barnaby
scosse la testa, incredulo. «Stia a sentire, ispettore»
disse. «E se Kurtag avesse avuto un segreto, un segreto
inconfessabile? Qualcosa che, se fosse stato divulgato, avrebbe messo
in serio pericolo la promettente carriera di qualcuno...»
«Si
riferisce alla Ra Arwol?»
«Mi
riferisco al suo fidanzato, il segretario alla difesa, Jonathan
Fisher».
Simum
allargò le braccia, mentre Barnaby si avvicinava all'entrata
con fare deciso.
«Ecco
come è andata. Kurtag è in casa. Chi viene, sa di
trovarlo. Fisher lo conosce bene, la sua fidanzata e il professore
sono molto intimi».
«Giusto»
commentò Simum. Se ne stava con le braccia intrecciate,
appoggiato al muro, sul volto una smorfia divertita.
«Fisher
trova la ragazza e Kurtag insieme. Cominciano a discutere. Fisher ha
scoperto che lei e Kurtag erano stati amanti. Forse lo stesso Kurtag
lo minacciava, o lo ricattava di rivelare tutto. La Ra Arwol era
venuta per cercare di mettere a posto le cose, ma l'arrivo improvviso
di Fisher rende tutto più difficile.
«Perché?»
«Perché
è geloso e nel vedere la sua fidanzata insieme a Kurtag pensa
che la loro relazione sussista ancora».
«Capisco.
Giusto».
«Comunque,
cominciano a discutere. Fisher è alterato. Vuole che Kurtag
ponga fine alla relazione, lo minaccia, ma Kurtag non demorde».
Simum
annuisce col capo, ostentando un’espressione grave. «Ottima
deduzione» fece. Quindi il suo volto si sciolse in un
sorrisetto irriverente e dolciastro. «Quasi mi dispiace
smontare la sua favoletta».
Barnaby
restò a bocca aperta. «Come?» balbettò. «E
perché?»
«Per
prima cosa, nemmeno uno come Jonathan Fisher avrebbe potuto
organizzare qualcosa del genere, assoldare degli assassini per venire
a frugare sul luogo del delitto che lo vede sospettato... no, troppo
stupido. E troppo banale. Fisher non avrebbe mai commesso un gesto
tanto avventato».
«Forse
sì, se messo alle strette».
«Ma
per cosa? Se quello che ha descritto fosse accaduto sul serio, mi
spiega perché, allora, Fisher avrebbe abbandonato la casa la
sera del delitto, per poi mandare qualcuno a completare l'opera il
giorno dopo? Non ha alcun senso».
«Per
quale motivo?» domandò Barnaby.
«Perché
se avesse trovato Kurtag e la Ra Arwol insieme, non avrebbe avuto
ragione di scappare. Sarebbe rimasto lì finché non
avesse ottenuto quello che voleva. No, chi era lì, quella
sera, è scappato perché sorpreso dalla venuta
inaspettata di qualcuno. Ma non sono stati trovati altri testimoni.
Nessuno ha visto nulla. Quindi, per quel che ne sappiamo, qui c'erano
solo tre persone. Kurtag, il suo assassino e Nadia Ra Arwol...»
Barnaby
si strinse nelle spalle, aspettando il seguito della spiegazione.
«Perciò,
ecco quello che penso. Kurtag nascondeva sì qualcosa, ma non
si trattava della sua relazione con la Ra Arwol. Magari andavano
davvero a letto insieme, ma non è questo che conta. Ciò
che conta, è la presenza della ragazza qui, l'altra sera. Ma
prima di poter giungere a una conclusione, mi manca ancora un
particolare...»
Simum
si passò una mano sulla fronte. Faceva davvero caldo.
Casualmente, posò gli occhi sul camino. L'attizzatoio era
appoggiato malamente, come se qualcuno lo avesse abbandonato lì,
senza avere il tempo di rimetterlo al suo posto. Simum si avvicinò,
incuriosito. Si tirò su i calzoni e con una smorfia piegò
di lato la gamba amorfa, tenendola rigida. Appoggiandosi alla spessa
trave che fungeva da mensola, sopra il focolare, si sporse sulle
braci ormai spente, strizzando gli occhi e smuovendole delicatamente
con l'attizzatoio.
«L'agente
che mi ha portato qui, oggi, mi ha fatto notare quanto caldo
effettivamente ci sia, in questi ultimi giorni» disse con
noncuranza, mentre rimestava tra le ceneri. Barnaby sollevò
distrattamente lo sguardo, posando gli occhi stanchi e infossati su
di lui.
«È
vero, fa parecchio caldo» rispose, alzando le spalle. «Strano.
È venuto all'improvviso, fino alla settimana scorsa faceva
davvero freddo. Per me era meglio: col freddo, l'allergia non mi dà
problemi».
«Allora»
sbuffò Simum chino sulla cenere, gli occhi socchiusi «perché
il professore ha avuto bisogno di accendere il camino, l'altra sera?»
Incuriosito,
Barnaby si avvicinò all'ispettore, sporgendosi a guardare
dentro al focolare. «Come fa a sapere che era acceso?»
domandò, senza staccare gli occhi dalle ceneri annerite.
«Queste
braci sono ancora molto scure. E l'attizzatoio era giù di
posto, come se qualcuno lo avesse usato da poco. Se il camino non lo
si usa, lo si pulisce per evitare problemi, non crede anche lei?
Barnaby
annuì, ammirato. «Mi chiedo come lei faccia a capire
cose come queste» disse, sinceramente colpito.
«È
il motivo per cui lei a quarant'anni non è ancora riuscito a
diventare ispettore, Barnaby» disse Simum con voce flautata.
Barnaby sulle prime rise ma poi, quando capì che non si
trattava di una battuta, si accigliò, un poco risentito.
«Non
se la prenda» lo lenì Simum, sollevandosi lentamente.
«In fondo è meglio così. Lei mi è molto
più utile qui, che dietro una scrivania».
«La
ringrazio» ribatté Barnaby, ingenuamente compiaciuto.
«Ora,»
fece Simum, pulendosi le mani «vorrebbe raccogliere quel
frammento di carta che vede tra le braci? È troppo in basso
per me».
Barnaby
occhieggiò sul fondo del camino, stringendo gli occhi per
scrutare nella penombra. Intravide un triangolo di carta scura,
annerita dal fuoco e dal fumo. Lo raccolse e se lo pose sul palmo,
avvicinandolo agli occhi.
«Che
roba è?» fece.
«Sembra
un foglio di un album, o qualcosa del genere. È carta
abbastanza spessa, per questo non è stata incenerita del
tutto» notò Simum. «Vede se c'è scritto
qualcosa?»
«Sembra
la grafia di qualcuno» osservò Barnaby, voltandolo.
«Forse è del professore».
Simum
si guardò intorno. C'era una montagna di libri accatastati
alla rinfusa sul pavimento.
«Forse
era questo che il professore cercava di nascondere» rifletté.
«Se
così fosse» soggiunse Barnaby, mostrando il frammento di
carta «non è che ci resti poi molto».
«Capisce
cosa c'è scritto?»
«No,»
fece Barnaby «il frammento è troppo piccolo».
«Bene»
disse l'ispettore, battendo le mani. «Vediamo se riusciamo a
trovare qualcosa in proposito».
Barnaby
abbassò gli occhi sul pavimento. Simum aveva già
raccolto il primo libro che gli era capitato sotto mano.
«Non
intenderà controllarli tutti, vero?» chiese, attonito.
«Sono centinaia!»
«Allora,
prima cominciamo, meglio sarà» fece Simum con il suo
solito ghigno. «Non sarà necessario controllarli tutti.
Cerchiamo un album, con carta gialla e spessa, di quella trattata a
mano. Forse un diario».
«Tipo...
questo?»
Barnaby
sollevò un libro che era caduto sotto alla scrivania,
leggermente nascosto alla vista. Simum lasciò cadere il volume
che teneva tra le mani e lo prese.
«Bravo,
Barnaby» disse, allegro. «Vede che anche lei possiede una
sua utilità?»
L'uomo
sorrise, senza accorgersi di essere appena stato deriso.
«Guardi
qui» gli mostrò Simum. «È un intero volume
di note, tutte in latino. Evidentemente, voleva essere sicuro che in
pochi potessero leggerlo...» continuava a sfogliare le pagine,
finché lo sguardo gli cadde su un particolare e gli si
illuminò. «Ecco, vede?» fece, esultante. «Le
ultime pagine sono state strappate. Forse erano quelle veramente
importanti... mi piacerebbe sapere cosa voleva nascondere. Dovremmo
trovare qualcuno che ce lo traduca».
«Se
ne occuperà il commissariato» si affrettò a dire
Barnaby, prendendo in custodia il volume che gli porgeva l'ispettore.
«Lei crede che fosse questo che cercavano gli assassini?»
«No,
non credo» disse Simum. «Ma potrebbe aiutarci a capire
cosa...»
Simum
si bloccò, con l'indice sospeso a mezz'aria. Improvvisamente,
tutti i frammenti cominciarono a prendere posto nella sua testa: la
presenza della ragazza sul luogo del delitto, le pagine strappate...
...le
pagine strappate...
Ecco
finalmente il tassello mancante!
Prese
a guardarsi lentamente intorno, fissò gli occhi su Barnaby che
lo scrutava di rimando, incuriosito.
«Qualcuno
sta controllando la Ra Arwol in questo momento, vero?»
«Sì,
ispettore. Abbiamo una pattuglia che la segue in borghese da ieri».
«Una
pattuglia come quella che sorvegliava questo posto?»
Barnaby
deglutì, sbiancando. Simum si sfilò gli occhiali,
puntandoli alla luce. Erano completamente insozzati: sulle lenti si
potevano vedere numerose e grosse ditate. Estrasse dal taschino della
giacca un fazzoletto spiegazzato e prese a pulire le lenti, ma il
risultato che ottenne fu solo quello di spalmare ancora di più
lo sporco sulla loro superficie.
Alla
fine l’uomo rinunciò, e inforcando gli occhiali rivolse
a Barnaby una smorfia dolciastra.
«Non
si preoccupi, sergente, non fa nulla. Direi che non abbiamo più
ragione di stare qui, non crede anche lei? Piuttosto, è meglio
se andiamo a cercare Nadia Ra Arwol. Sono sicuro che quella ragazza
conosce più cose di quante non voglia far credere».
Barnaby
lo fissò attonito. Non riusciva a capire come Simum avesse le
sue intuizioni. A volte pareva proprio che le tirasse fuori dal
cappello tanto erano bislacche. Il problema era che in vent’anni
di carriera accanto a quell’uomo, non l’aveva mai visto
ingannarsi su qualcosa.
«Lo
pensa sul serio?» chiese, senza nascondere la propria
ammirazione.
Simum
alzò gli occhi e gli sorrise amichevolmente, lo stesso sorriso
mieloso di sempre.
«Oh,
sì Barnaby, certamente» disse, posandogli una mano sulla
spalla. «Credo che quella ragazza sappia esattamente cosa sta
cercando il nostro assassino. Perciò, se vogliamo scoprirlo,
dobbiamo trovarla... sempre che Nadia Ra Arwol si trovi ancora a
Londra. E soprattutto, che sia ancora viva».
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** 12 ***
12
«Così
ora dovrei chiamarti principessa?»
Michael
fissava Nadia con un misto di stupore e ironia. Lei sorrise, felice
che anche lui l’avesse presa meglio di quanto non si
aspettasse.
«Esatto»
rispose. «E io potrò finalmente prenderti a calci nel
sedere».
«Scusa,
ma questo non lo facevi già? – obiettò Lisa,
ridacchiando».
«È
vero» rise Nadia, portandosi elegantemente una mano alla bocca.
«Non ci avevo pensato».
«Spiritose»
commentò acido Michael. «Ma vorrei ricordarvi che qui
c’è un bel casino. Dobbiamo cercare di capire che cos’è
questa cosa e...»
«Cos’è
questa cosa... cosa?»
Si
voltarono tutti e tre verso l’ingresso della sala riunioni,
ammutolendo di colpo. Jeremy Hunter se ne stava sullo stipite, la
maniglia stretta nella mano robusta, e li fissava arcigno. Il
mozzicone di sigaro ondeggiava da un lato all’altro della
bocca, pericolosamente.
«Cosa
diavolo state facendo qui, razza di scansafatiche buoni a nulla? Ra
Arwol! Possibile che dove ci sei tu, c’è sempre qualcosa
che non va?»
Nadia
si irrigidì. «Direttore, ecco...»
«Stanfields.
Tippett! Non avete niente di meglio da fare?» sbraitò. I
due si lanciarono uno sguardo allarmato.
Hunter
fece un passo avanti e si accorse della pietra e del diario posati
sul tavolo. Per un istante, gli occhi di tutti i presenti si
incontrarono. Quindi, nel silenzio più totale, Hunter chiuse
la porta e la serrò a chiave. Socchiuse gli occhi e fissò
a turno i tre davanti a lui.
«Che
roba è?» chiese poi.
Nadia
cercò con lo sguardo il sostegno dei suoi amici.
«È...
una pietra» fece Lisa.
«Esatto...»
aggiunse Michael.
«E
un... diario?» disse Nadia, mordendosi le labbra.
Hunter
strizzò gli occhi. «Me lo stai chiedendo?»
«...No?
Cioè, no!»
Hunter
gonfiò il petto, tirandosi su i pantaloni. Quindi abbassò
la testa, restando a fissare il pavimento. All’improvviso,
sollevò gli occhi e li piantò addosso a Nadia, che
sobbalzò.
«Chissà
perché, Ra Arwol, ma quando c’è da temere il
peggio, io so che gira e rigira, cerca e ricerca, questo arriva
sempre a braccetto con te. Come si spiega questa cosa?»
Nadia
si strinse nelle spalle. «Io...»
«Basta!»
ruggì Hunter. «Voglio sapere che accidenti del diavolo
state combinando qui! Devo saperlo se state cercando di trasformare
la mia redazione in un covo di cospiratori. Tu!» fece, puntando
il dito contro Nadia «Prima l’omicidio. Ora questa...
roba» disse con un moto di disgusto. «Cos’è,
stai diventando una specie di sovversiva, per caso?»
«Veramente,
noi...» cercò di mediare Lisa.
«No»
fece Nadia, trattenendo l’amica con un mezzo sorriso. «Hunter
ha ragione».
«Certo
che ho ragione» disse lui, calmandosi inaspettatamente. «E
vorrei ben vedere».
Nadia
si avvicinò, le mani giunte. Non sapeva davvero da che parte
cominciare.
«È
una storia piuttosto complessa e...»
«Non
ho fretta» soggiunse Hunter, drizzando il busto e fissando
Nadia con sguardo fiero. Lei si voltò verso i suoi amici, che
scrollarono le spalle in un gesto di muta rassegnazione. Hunter la
puntava arcigno e allora lei cominciò a raccontargli tutto.
Non appena ebbe terminato, il direttore si cacciò le mani in
tasca e si avvicinò al tavolo su cui era posata la pietra. La
fissò a lungo, quindi prese a scorrerla delicatamente con un
dito.
«Mi
ricordo di quella vicenda» sussurrò. Tutti tacquero,
stupiti. «Era... quando? Sei anni fa, giusto? Già, e chi
se lo scorda. Allora avevo un giovane redattore, qui. Si chiamava
Tennyson. Samuel Tennyson. Era bravo, ma giovane... e inesperto»
sospirò. «Si infiltrò in quell’associazione,
la Neo Atlantide. Era capace di cose incredibili, ma era anche uno
spericolato. Dio, che testa matta!»
I
tre restarono ad ascoltare come ipnotizzati, incapaci di intervenire.
«Mi
mandava regolarmente rapporti. Roba di poche righe, per non farsi
beccare. Non pubblicavamo nulla, perché aspettavamo di avere
il botto, la notizia giusta, e intanto il tempo passava. La moglie
veniva da me e mi diceva “quando tornerà Samuel? È
via da così tanto!” E io giù a dire, “presto,
Glenda, presto. E quando torna gli darò un bell’aumento,
perché se lo merita”».
Sorrise,
ironicamente. Un espressione di fragilità inattesa si
impadronì del suo volto. «E forse ci credevo pure,
sapete? Che sarebbe tornato. Io gli dicevo di stare attento, pensavo
che fosse sufficiente, ma lui... figurati. Era un imbecille. Ed è
morto da imbecille».
Nessuno
fiatava. Hunter continuava a guardare la pietra, in silenzio. «Ha
lasciato una moglie e un figlio, quel deficiente. Morto per un cavolo
di articolo. E per dar retta a un direttore ancora più scemo
di lui».
Hunter
alzò lo sguardo fiero su Nadia. «Non se ne parla, Ra
Arwol» disse, con un tono che non ammetteva repliche. «Non
perderò la mia cronista migliore un’altra volta. Lascia
perdere questa faccenda, intesi?»
Nadia
provò ad obiettare, ma Hunter la bloccò.
«Non
me ne frega nulla! Vuoi crepare? Bene, ma lo farai per i cavoli tuoi.
Finché lavori sotto di me, io non ti permetterò di
andare a buttare via la tua vita per uno straccio di articolo. Sono
stato chiaro? Sei una ragazzina, per l’amor di Dio! Hai tutta
la vita davanti e la vivrai, dal primo all’ultimo giorno!»
E
così dicendo, uscì, lasciando la porta aperta. Nessuno
fiatò. Una cappa di gelo era calata improvvisamente sulla
stanza e non accennava a svanire.
Per
tutta la mattina, Nadia e i suoi amici rimasero in silenzio. La porta
di Hunter se ne stava chiusa come sigillata e da dietro di essa non
proveniva alcun rumore. Verso mezzogiorno, Nadia non ne poté
più e si alzò, in silenzio, lisciandosi la gonna.
«Che
fai?» le chiese Michael, curioso.
«Vado
a parlargli» disse lei, passandosi un ciuffo di capelli dietro
l'orecchio.
Michael
e Lisa si scambiarono uno sguardo intenso. Quindi aspettarono che lei
bussasse alla porta e non appena fu entrata, si precipitarono ad
origliare, le orecchie incollate alla porta, tenendosi lontano dal
vetro per evitare che qualcuno da dentro potesse vederli.
Quando
Nadia entrò, trovò Hunter che fissava oltre la grande
finestra alle sue spalle. Teneva in mano il sigaro ancora spento e
aveva i radi capelli spettinati. Si voltò e la vide in piedi,
un’espressione risoluta sul volto. Senza scomporsi, tornò
a guardare verso la finestra.
«Che
vuoi?»
«Voglio
che mi ascolti».
«Parla».
Nadia
sospirò, cercando nella sua testa le parole giuste con cui
cominciare. Non le trovò, quindi decise di parlare
liberamente.
«Apprezzo
il suo discorso, e ancora di più apprezzo l’affetto che
mi ha dimostrato in tutti questi anni. Se io sono qui, ora, è
anche grazie a lei, e al fatto che ha sempre creduto in me»
Hunter non fiatava, ma si limitava a fissare l’orizzonte grigio
oltre i tetti della City. Facendosi forte di quel silenzio, Nadia
deglutì e riprese a parlare. «Non sono in molti quelli
che al suo posto avrebbero dato spazio a una giovane ragazza senza
esperienza, venuta da chissà dove. Ma lei l’ha fatto e
io gliene sono e sarò sempre grata. Lavorare qui mi ha
insegnato tanto... tutto. Sono arrivata che ero una bambina e sono
diventata una donna. Ciò che sono, come persona e come
professionista, è indissolubilmente legato a quello che ho
vissuto in questa città e in queste stanze. Ma proprio per
questo ora le dico: io partirò. E non per un scrivere un
articolo da prima pagina, no. Ma perché ho la responsabilità
di farlo e se lei ha ascoltato la mia storia, lo sa meglio di me. Lei
sa che io devo partire e trovare ciò che sta dietro a tutta
questa faccenda. Lo devo a Kurtag, che è stato ucciso
ingiustamente. Lo devo alla verità, che deve essere trovata e
svelata. Ma soprattutto lo devo a me stessa, perché non sarei
più la persona che entrambi conosciamo, se me ne restassi qui
a far finta di nulla. E lei sa benissimo tutte queste cose, non è
così?»
Hunter
chinò il capo, senza dire una parola.
«Posso
solo ringraziarla per tutto l’aiuto che mi ha dato fin’ora.
Ma penso sia giunto il momento di evitare altri guai al giornale. La
polizia mi sospetta di omicidio e non posso mettere ulteriormente a
rischio la reputazione del Times e dei miei amici. Quindi...»
Nadia trasse un profondo sospiro. Quello che stava per dire le fece
venire le lacrime agli occhi e la riempì di agitazione.
«...Sono qui per rassegnare le mie dimissioni, con decorrenza
immediata».
Hunter
restò in silenzio per qualche istante. Quindi gettò il
sigaro nel cestino e voltò leggermente il capo, guardando di
sfuggita Nadia con la coda dell’occhio.
«Accettate»
disse. E non aggiunse altro.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** 13 ***
13
«Te
ne vai?»
Lisa
cercava di trattenere Nadia, ma lei continuava a riempire il cestino
della carta straccia con le sue cose, mossa da una frenesia quasi
isterica, con cui cercava di dissimulare il proprio disagio.
«Sì,
è così» tentava di essere calma e sorridente, ma
si rese conto che la sua voce le era appena uscita con un tono
esageratamente simile a uno squittio.
«Nadia,
ma sei impazzita, per caso?» Michael se ne stava seduto sul
bordo della scrivania e toglieva dal cestino quanto Nadia vi infilava
dentro. Lei gli piantò gli occhi addosso e lui scrollò
le spalle, ma alla fine lui abbandonò l’impresa.
«Devo.
Non posso continuare a stare qui. Metterei in difficoltà tutti
e voi lo sapete».
«Ma
noi potremmo aiutarti!» tentò Lisa. Nadia sorrise.
«Lo
so. Ma avete già fatto più di quanto dovevate. Ora sta
a me sbrigarmela».
Nadia
si infilò la giacca e il cappello. Era già sulla
soglia, quando una voce imperiosa la bloccò, richiamandola
indietro.
«Venite
qui tutti. Ora!»
L’intera
redazione di raccolse davanti alla porta di Hunter, che campeggiava
in mezzo alla stanza a gambe larghe e con le braccia conserte, sul
volto un’espressione di indecifrabile emozione.
«Come
sapete, la nostra collega Ra Arwol è stata sospettata di
omicidio. Tutti noi sappiamo quanto queste accuse siano assolutamente
ridicole».
Un
mormorio percorse la redazione, mentre una serie di sguardi incrociò
gli occhi di Nadia, che arrossì violentemente, cercando di
sottrarsi a tutta quell’attenzione.
«Ora,
la cosa importante è che è stato commesso un omicidio e
la polizia non sa che pesci pigliare. Come sempre, dovremo smuovere
noi le acque, per indirizzare quei rimbecilliti di Scotland Yard.
Quindi...» lasciò che i suoi occhi di brace
percorressero in lungo e in largo l’uditorio «...mi
aspetto la più totale collaborazione da parte di tutti voi. E
con tutti intendo tutti. Perciò, al lavoro. E vedete di
scovare tutto quello che potete. Via!»
Tutti
i presenti schizzarono chi alla scrivania chi al telefono e ci fu
chi, raccattata la giacca, si precipitava giù per le scale.
Hunter fissò Nadia, Tippett e Lisa e li chiamò con un
gesto imperioso nel suo studio.
«Chiudete
la porta» disse, non appena furono entrati. Nadia si tolse il
cappello, chiedendosi cosa stava preparandosi per lei.
«Vi
informo che Nadia ha dato le dimissioni. Ma immagino lo sappiate già,
visto che voi tre andate in giro a braccetto» disse. Lisa e
Michael si guardarono, incuriositi. «Io le ho accettate. Così
lei sarà libera di muoversi come crede. Ma voi...»
disse, indicando prima Lisa e poi Michael «voi dovrete darle
una mano. Voglio che cerchiate subito di capire se c’è
una qualche possibilità che quella stramaledetta setta sia
ancora in giro. Per prima cosa dovete scoprire cosa c’è
dietro la pietra: come è stata trovata, dove, quando e perché.
Te ne occuperai tu, Tippett».
Michael
annuì vigorosamente.
«E
tu, Stanfields,» continuò Hunter «ti preoccuperai
di sapere se qualcuno era interessato alle ricerche di Kurtag, e
terrai dietro alla polizia, in modo da sapere cosa pensano quegli
imbecilli... anche se è improbabile che scoprano qualcosa.
Dobbiamo sapere come intendono muoversi, per offrire a Nadia la
copertura e la libertà necessaria. Mentre tu...» disse
alla fine, rivolto a Nadia «...tu cerca solo di non farti
ammazzare».
Nadia
sorrise e sentì il cuore compierle un balzo nel petto. Si
lanciò verso Hunter e lo sorprese cingendogli le braccia al
collo e scoccandogli un sonoro bacio sulla guancia. L’uomo
restò pietrificato, mentre Nadia gli sussurrava “grazie”
e si allontanava, scomparendo oltre la porta e lasciando dietro di sé
un senso di vuoto che per tutti era già difficile da colmare.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** 14 ***
14
Quando
Nadia rincasò era ormai notte. Si era tenuta lontano da casa
volutamente, perché Lisa la aveva avvertita che la polizia era
tornata a cercarla. Inoltre, l'amica si era recata a casa sua per
prenderle alcune cose, ma anche lì aveva trovato la polizia, e
non se l'era sentita di entrare, per paura di attirare su di sé
l'attenzione. A quel punto, non potendo rientrare al giornale né
a casa sua, Nadia aveva deciso di spostarsi da una biblioteca
all'altra, per cercare tutti i volumi di Kurtag che fosse possibile
reperire. Voleva assolutamente capire qualcosa delle sue teorie
riguardanti le antiche civiltà, nella speranza di poterne
ricavare informazioni preziose per la sua indagine riguardo alla
pietra. Ora era buio, e sperava di riuscire ad entrare senza essere
vista. In fondo, conosceva quel quartiere come le sue tasche. Se
avesse notato qualcosa di insolito, sarebbe passata dalla porta sul
retro, anche se era notte e aveva paura.
Mentre
rientrava, rifletté sul fatto che, da quando aveva la pietra
con sé, non aveva più sofferto di vuoti di memoria. Era
come se la pietra l'avesse guarita.
O
forse la pietra ha smesso di chiamarmi.
In
effetti, tutte le volte che si era persa, Nadia si era ritrovata in
zone prossime all’abitazione di Kurtag, ove era custodita la
pietra. Era stato come se essa, impadronendosi del suo corpo, volesse
spingerla a trovarla.
Nadia
strinse a sé la borsetta in cui custodiva la pietra e il
diario. La serrò tra il braccio e il fianco, incurvando le
spalle e affrettando il passo. Rabbrividì. Alla luce
dell’ultimo bagliore di sole, le ombre che provenivano dagli
oggetti tutt'intorno a lei cominciavano ad allungarsi, fino a
confondersi nella notte.
Quando
raggiunse Foley Street, era già buio. Nadia sentì le
campane del Big Ben risuonare in lontananza undici rintocchi. Si
guardò intorno ma non vide nessuno. La piazza intorno a cui si
raccoglievano i vecchi caseggiati era deserta.
Si
chiese dove potessero essere i poliziotti che Lisa diceva di aver
visto sorvegliare l'entrata. Tutto sommato, le avrebbero trasmesso un
senso di sicurezza.
Varcò
la porta di ingresso al suo stabile nella più totale
solitudine. Il silenzio le rimbombava nelle orecchie. Frugò in
tasca nervosamente, in cerca delle chiavi, quando si accorse di aver
pestato qualcosa di viscido. Alzò gli occhi. Nella penombra,
intravide un ubriaco. Se ne stava seduto a terra, silenzioso,
accasciato accanto ai gradini e con il volto riverso su una spalla.
Un senso di disgusto si fece largo in lei, al pensiero di quello che
poteva aver pestato.
Si
incamminò a passo deciso, superando con indifferenza la figura
immobile ai suoi piedi e sollevando le gambe per scavalcarla. Aveva
appena posato il piede sul primo gradino, quando qualcosa le gocciolò
sul volto. Nadia indietreggiò istintivamente, levando gli
occhi in alto e portandosi una mano alla guancia. Sentì sulle
dita qualcosa di denso e appiccicoso. Strinse gli occhi e vide una
grossa goccia cadere dall’alto verso di lei. La raggiunse sulla
mano aperta e con uno stupore crescente che lasciò il posto
all’orrore, Nadia si accorse si trattava di sangue. Percorse in
fretta i primi gradini e quello che vide la prostrò. Sentì
lo stomaco chiudersi e si piegò in due, scossa da un conato di
vomito. Con estrema lentezza e con le gambe che le tremavano,
indietreggiò, inciampando sull’uomo che le era alle
spalle, seduto per terra. Nadia lanciò un grido, strisciando a
terra e rannicchiandosi in un angolo. Urtò contro qualcosa e
con uno scatto si voltò a guardare. Un altro corpo giaceva a
terra, nell'ombra. Tremante, si alzò e si avvicinò.
Tese la mano verso di esso e lo spinse leggermente. Il corpo rimase
immobile. Lo afferrò per i vestiti e lo girò e la sua
testa ondeggiò nel buio, mostrando alla ragazza gli occhi
torbidi e vuoti. Soffocando un grido, Nadia si lanciò oltre la
porta, per poi sparire nella notte, correndo come se avesse la morte
alle calcagna.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 16 *** 15 ***
15
«Nadia
al telefono? Ma che ore sono?»
«Quasi
l'una, signore».
Jonathan
agguantò la veste di seta. «Ha detto cosa vuole?»
chiese al domestico mentre si rivestiva.
«No,
signore» rispose l'anziano uomo, avvolto da una povera veste da
notte. «Ma sembra molto agitata».
Jonathan
si precipitò fuori dalla camera, scendendo le scale con
trepidazione. Si diresse a passo svelto e deciso nel suo studio,
agguantando la cornetta con trepidazione.
«Nadia,
tesoro, sei tu?»
«John...»
Nadia
raccontò a John tutto quello che le era capitato. Lui la
ascoltò pazientemente fino alla fine, anche se avvertiva
l'angoscia aumentare in lui ad ogni sua parola.
«Dimmi
dove sei. Ti vengo subito a prendere».
«No»
insistette lei. «Potrebbe essere troppo pericoloso».
«Non
dire sciocchezze. Qui da me è l'unico posto in cui sarai al
sicuro. Ora dimmi dove ti trovi».
Nadia
tentennò. «Sono... vicino ad Haymarket».
«Raggiungi
Piccadilly, allora. È più sicuro. Manderò subito
una carrozza a prenderti».
«Io...»
«Fa'
come ti dico!»
John
riagganciò e dette subito disposizioni perché venissero
attaccati i cavalli. Nel giro di dieci minuti, una vettura coperta si
mosse lungo Pall Mall in direzione di Piccadilly Circus, dove caricò
velocemente un passeggero che si celava nell'ombra. Alle due meno
dieci, Nadia fece il suo ingresso nel salone della ricca residenza di
Jonathan, a Kensington.
Lui
le corse incontro. Sembrava inquieta: camminava avanti e indietro, e
sul volto aveva un’espressione indecifrabile. Quando lo vide,
giunse le mani e gli sorrise, ma qualcosa in lei tradiva una profonda
agitazione.
Jonathan
le sorrise, stringendola per le spalle.
«Nadia,
tesoro. Sei qui. Che sollievo».
«John...
ti sono grata, ma non posso restare».
Lui
continuò a sorriderle, mostrando di non aver inteso bene
quello che lei aveva appena detto.
«Cosa?
Che vuoi dire?»
Lei
scosse la testa. «Nulla, solo ho capito quello che devo fare».
Lui
la fissò senza comprendere. «Che devi... fare? Ma di che
stai parlando?»
«John,
io sto per partire. Ti avevo chiamato per avvertirti».
Jonathan
la fissò inebetito, la bocca spalancata.
«Partire?
Ma cosa... per dove?»
«Devo
lasciare Londra, al più presto».
Jonathan
scrutò il suo volto, quindi la prese risolutamente per un
braccio, conducendola nel suo studio e chiudendo la porta dietro di
sé. La fece accomodare su un’elegante poltrona di pelle
ingrassata, mentre si versò un bicchiere di scotch. Ne porse
uno anche a Nadia, che però rifiutò.
«Vuoi
dirmi che ti prende? Sembri fuori di testa, mi stai facendo
preoccupare».
Nadia
tirò fuori la pietra dalla borsetta. Non appena l'ebbe tra le
mani, la pietra cominciò a risplendere di un intenso bagliore
azzurrognolo. «Ecco cosa mi prende» gli fece lei. Lui la
guardò incredulo.
«Chi
te l’ha data?» le chiese in un sussurro.
«Me
l’ha data Kurtag la sera che è stato ucciso. Ho
ricordato tutto, tutto quello che mi è successo quando ero a
casa sua. Lui mi sembrava strano, era come se non volesse che io mi
trovassi lì. Me l'ha messa in borsa mentre ero distratta»
disse. Lo fissò, curiosa. «Non mi chiedi cos'è?»
domandò.
John
si riscosse come da un sogno. Per tutto il tempo non aveva alzato gli
occhi dalla pietra.
«Certo»
fece. «Sicuro».
Nadia
gliela porse. Lui la prese tra le mani, incerto. «Non ti farà
nulla» sorrise lei. «Tranquillo».
«Di
che si tratta?»
Nadia
gli raccontò ogni cosa. John restò ad ascoltare in
silenzio, rigirandosi la pietra tra le mani, affascinato.
«Quindi
è stato ucciso per questa, secondo te?» disse alla fine.
«Ne
sono sicura» rispose lei. «Perché io ho assistito
alla sua morte».
Jonathan
scosse il capo. «Non dirmelo. Tu eri lì, mentre l'hanno
ucciso?»
«Si»
fece lei, con un sorriso imbarazzato, mentre riponeva la pietra. «Ho
fatto in tempo a vedere due uomini. I suoi aggressori. O meglio, ne
ho visto uno solo. L’altro è rimasto nascosto».
«Sapresti
riconoscerli?»
«No»
fece lei, scuotendo la testa. «Non credo... o forse sì...
ma è difficile».
John
socchiuse gli occhi. «E cosa hai fatto dopo?»
«Dopo...
sono fuggita» disse lei. «Ma dopo quello che ho visto
stanotte, ho capito che non potrò nascondermi a lungo, qui.
Devo andarmene».
Jonathan
si passò una mano tra i capelli.
«Ti
rendi conto di quello che hai rischiato e rischi tutt'ora? Se quella
gente riesce a trovarti...»
Lei
assunse un'espressione amara. «Lo so, per questo me ne vado.
Non posso restare qui. Io sono in pericolo e in più non faccio
altro che attirare guai sulle persone che amo».
Jonathan
scolò tutto d’un fiato il suo scotch. Se ne versò
un altro.
«Senti,
Nadia» disse dopo un istante. «Devi andare alla polizia e
raccontare loro tutto. Devi farti proteggere. Questa storia, tutto
quanto... ti rendi conto che cambia le cose, no? Ora c’è
un’altra pista da seguire e...»
«E
secondo te mi crederanno? Crederanno alla storia dei misteriosi
aggressori?»
«Forse.
Perché no?»
Nadia
si alzò in piedi e prese a camminare per la stanza. Con le
guance arrossate dall’agitazione e quella luce negli occhi, era
ancora più affascinante. Jonathan provò una forte fitta
di desiderio, nonostante si rendesse conto che non era la situazione
migliore per dare spazio a certi sentimenti.
«John,
voglio essere franca. Non mi interessa un tubo della polizia. Io me
ne devo andare».
Lui
ci mise un attimo a capire quello che gli stava dicendo. Era ancora
intento ad ammirarla.
«Ma
per dove? E poi scusa, ma che ti salta in mente?»
Lei
gli si avvicinò. «Devo capire cosa significa questa
pietra. Io so che tra lei e me c’è un qualche legame di
sorta e lo sapeva anche Kurtag. Forse lui lo immaginava soltanto, ma
se anche fosse, aveva ragione. Quel legame esiste».
«Ma
come fai a dirlo?» obiettò vivacemente lui.
«È
una storia lunga. Devi fidarti di me».
Jonathan
la fissò scettico. «E se anche fosse? Cosa pensi di
fare, di partire per una delle fantomatiche spedizioni di Kurtag?
Nemmeno sai dove l’ha trovato quel sasso!
«Io
no, ma c’è qualcuno che senz’altro lo sa».
«Chi?»
«Hanson
Garrett».
Jonathan
rise. «Ma per favore! Hanson Garrett? Quel tipo che se ne
andava in giro per il mondo con Kurtag?»
«Proprio
lui. Aveva accompagnato il professore anche l’ultima volta. E
penso che Kurtag abbia trovato la pietra proprio in quell’occasione».
«E
tu vorresti andare fino... dov’è che si trova questo
tipo?» chiese lui, ironico.
«In
America, a Philadelphia» soggiunse lei, incurante della facile
ironia di Jonathan.
«In
America... per chiedergli se ti porta dove Kurtag ha trovato la
pietra?»
«Non
dove lui l'ha trovata, ma dove pensava di scoprire qualcosa di più
su di essa».
«E
cioè, dove, per l'esattezza?»
«In
Bolivia, vicino al lago Titicaca. Lo ha segnato sul suo diario».
John
sbuffò.
«Tu
devi essere pazza» fece lui, buttando giù in un sorso il
suo scotch.
«Io
non sono pazza. Speravo che tu potessi capire e appoggiarmi»
fece lei, accalorandosi. «Ma devo essermi sbagliata».
Jonathan
si rese conto di aver esagerato. Pensava che lei stesse sbagliando,
certo, ma Nadia era sempre la sua ragazza e aveva il dovere di
mostrarle comprensione.
«Nadia,
io capisco. Ma ascoltami: se ora te ne vai, sarà come se la
tua partenza fosse un’ammissione di colpevolezza. Capisci?»
Lei
annuì. «Lo so, ci ho già pensato. Ma non posso
restare ancora qui. Devo partire al più presto e raggiungere
il luogo dove Kurtag ha trovato la pietra prima che quei tipi possano
raggiungermi».
«Ma
come... è un’assurdità! Devi affidarti alla
polizia».
«No!
Se resto qui, presto mi troveranno e troveranno la pietra. E io non
lo posso permettere, lo capisci?» Gridò lei, al colmo
della disperazione. Improvvisamente, forse per la tensione o forse
per il peso di tutto quello che aveva dovuto vivere fino a quel
momento, Nadia scoppiò in lacrime. Non era da lei piangere
così, senza un motivo apparente, e Jonathan ne fu
profondamente scosso. La strinse a sé e lasciò che lei
affondasse il volto nel suo petto. Ma Nadia, nonostante il tentativo
di lui di quietarla, non riusciva a smettere di singhiozzare.
«Potresti
sempre affidare la pietra a me» azzardò lui in un
sussurro.
Nadia
lo fissò in volto, le lacrime che le scendevano copiose lungo
le guance. Nel vederla così affranta, lui provò una
stretta al cuore.
«Non
permetterò mai che tu possa entrare in contatto con una cosa
maledetta come questa».
«Come
mai sei così tragica, ora?»
«Perché
lo so!» gridò lei. «Perché è per
questa che hanno ucciso Andrés... in quel modo...»
«D’accordo»
fece lui, cercando di quietarla. «Allora permetti almeno che ti
accompagni. Voglio venire con te».
Lei
si asciugò le lacrime. «Davvero? Cioè, non devi,
non è necessario...»
«Sì
che lo è. Verrò con te e ti aiuterò come posso».
«E
il tuo lavoro?» fece lei tra le lacrime.
«Potrà
aspettare per un po’».
Nadia
sorrise, gli occhi lucidi e un po' gonfi. «Sai, speravo che tu
lo dicessi» gli confidò. «Ho davvero bisogno di
te, ora».
Jonathan
le prese il viso tra le mani e la baciò teneramente. «Dove
vai tu, vado io, Nadia. E quando tutto sarà finito e ci saremo
finalmente lasciati alle spalle tutto questo, io e te ci sposeremo e
tu sarai finalmente la signora Nadia Fisher».
Nadia
sorrise e si lasciò stringere, cullandosi alla tenerezza di
quel pensiero. Nulla, adesso, le appariva così distante e
irreale come quella semplice speranza di felicità che aveva
per tanto tempo coltivato e che ora si ergeva come un fiore delicato
tra gli abissi del suo cuore.
«Ora
però dovresti dormire almeno un po'» le disse lui. «Mi
sembri distrutta».
Nadia
sospirò, sorridendo debolmente. «Ho continuato a
camminare per Londra tutta la notte... secondo te come posso
sentirmi?»
John
strinse le labbra, attirandola a sé. Sentire il suo corpo
esile tra le braccia gli fece rendere conto di non averla mai sentita
così fragile.
«Resta
qui. Partiremo domattina. Vedrò di trovare un posto sulla
prima nave in partenza. Ti mando subito una donna, che ti aiuti e ti
mostri la tua camera».
Lei
sorrise, guardandolo attraverso occhi luccicanti di felicità e
commozione.
«Sei
tanto caro».
«Ti
amo» le disse lui. «Il mistero è tutto qui».
Fece
per andarsene, quando qualcosa lo trattenne. Si volse a guardarla,
sul volto un'espressione indecifrabile.
«Nadia,
hai parlato con qualcuno di tutto questo?»
Lei
lo fissò di rimando, sorpresa da quella domanda inattesa.
«Ecco...
ne ho parlato a Lisa e a Michael. Anche Hunter sa della pietra.
Perché? Ho fatto male?»
Lui
sorrise.
«No,
era solo per sapere» le rispose. «Buonanotte».
|
Ritorna all'indice
Capitolo 17 *** 16 ***
16
Avvolta
in un silenzio confortante e nelle fresche lenzuola di cotone
leggero, Nadia si abbandonò subito a un sonno ristoratore,
dimentica dei suoi problemi.
Jonathan
restò a fissarla in silenzio, cercando di distinguerne il
contorno delicato nella penombra che avvolgeva la camera. Si sentiva
combattuto dalla tenerezza che provava per lei e dalle necessità
che il suo dovere gli imponeva.
È
così bella,
pensò. Come una pietra preziosissima e rara. La cosa più
bella e delicata che avesse mai incontrato.
Fu
senza pensarci che Jonathan si ritrovò nell’attimo
esatto in cui si innamorò di lei. Accadde fin dal primo
istante.
«Mi
scusi, saprebbe indicarmi la sala conferenze?»
Nel
vederla, si smarrì. Lei lo aveva intercettato casualmente,
mentre stava attraversando a passo svelto un salone al Palazzo della
Difesa. Aveva il volto arrossato, forse per aver corso, e gli occhi
erano vivaci e splendenti, come smeraldi. La sua pelle era colore
dell’ambra: e lui non aveva mai visto un insieme tanto perfetto
e straordinario di particolari. Quella ragazza sembrava la
principessa di un antico reame d’oriente, uscita come per
incanto da un racconto delle mille e una notte.
Improvvisamente,
tutto intorno a lui si spense, come per permettere a lei sola di
rifulgere.
«Mi
perdoni... ma temo di essermi persa. Sono una giornalista, il mio
nome è Nadia Ra Arwol e lavoro per il Times. Dovrei avere
l’accredito da qualche parte... se riesco a trovarlo...»
Lui
la ascolta ma in realtà non sente nulla di quello che sta
dicendo. È troppo preso ad ammirarla. Provò l’impulso
di tendere una mano per toccarla, per capire se fosse vera.
«Ma
mi ascolta?»
«Mi
scusi – fece lui, scuotendosi dalla sorpresa. «È
qui per un motivo particolare?»
«Sì,
cercavo la sala conferenze. Per la relazione di oggi».
Lui
la guarda confuso. «Che io sappia, per oggi non è
prevista nessuna relazione, qui».
La
maschera della delusione che si dipinse sul volto di quella ragazza,
la rese ancora più affascinante. Sembrava un cucciolo da
consolare.
«No,
la prego, non mi dica così...»
«Purtroppo,
è la verità».
La
fissa intensamente, attraverso i suoi sottili occhi scuri.
«Che
disastro...» mormorò lei.
«Prego?»
«Mi
scusi, è che ho combinato un guaio. Dovevo fare un servizio
sulla conferenza del primo Ministro. Quella riguardante l'accordo con
la Germania...» lo fissò come per capire se ne sapesse
qualcosa. Lui non manifestò interesse.
«...sulle
colonie, sa?» fece con aria interrogativa. Lui si limitò
ad abbozzare un sorriso.
«Fa
niente. Comunque: era il mio primo incarico importante, la mia
occasione... ma sono riuscita a fare tardi e...»
«Com’è
potuto succedere?» chiese lui.
«Mi
sono persa! Non sono mai stata qui e non avevo soldi per una
carrozza, e... non sapevo quale fosse il palazzo, l’ufficio...
non trovavo l’accredito e inoltre...»
«Beh,»
fece lui, trattenendosi a stento dal ridere «considerando che
la conferenza del primo ministro si teneva al Palazzo degli Esteri,
mentre qui ci troviamo al Ministero della Difesa, non credo che,
anche volendo, lei potrebbe ormai fare qualcosa. Credo che lord
Salisbury stia per concludere il suo intervento all’incirca...»
estrasse un orologio d’oro dal taschino, osservandolo
distrattamente «ops! dieci minuti fa...»
Nadia
si prese la testa tra le mani, pestando violentemente il piede a
terra. «Oh, al diavolo! che cosa frustrante!»
Lui
scoppia a ridere. Quella donna ha un bel caratterino.
«Lo
trova divertente?» scattò lei, livida. Sembrava
decisamente arrabbiata.
«A
dire il vero, sì» le disse, allegro.
«Sa
che le dico?» si infuriò lei «Vada al diavolo!»
Fa
per andarsene indignata, quando in lui scatta qualcosa. La trattiene
per un braccio, costringendola a fermarsi. Lei si volta e lo fissa
sorpresa.
«Cosa...
come si permette! Mi lasci andare, subito!»
«Mi
perdoni, sono stato davvero un villano a ridere delle sue sventure.
Voglio farmi perdonare, se possibile, quindi facciamo un patto: se
lei accetta le mie scuse e si mostra disposta a concedermi un’altra
chance, io la aiuterò a portare a casa il suo pezzo».
Ora
lo fissa di traverso. «E come?»
Lui
le lanciò uno sguardo ammiccante.
«Mi
segua».
«Non
sono abituata a seguire chi non conosco» fece lei gelida.
«Più
che giusto. Io mi chiamo Jonathan. Ora che mi conosce prego, da
questa parte».
Lo
seguì con una certa riluttanza. Lui sorrise: ammirava quello
strano miscuglio di timidezza e di orgoglio che mostrava di
possedere. Immaginò che in quell’istante stesse pensando
a come fare per andarsene alla svelta, in caso che le cose avessero
preso una piega sgradita.
«Io
non le piaccio, vero?» le domandò.
«Non
particolarmente» fu la sua risposta. Lui non può fare a
meno di sorridere.
«Lei
non maschera mai le sue emozioni?»
«No.
È qualcosa che non mi riesce. Mi perdoni, ma non credo che, al
momento, il mio carattere possa rivestire una particolare
importanza...»
«Forse.
O forse sì, chi può dirlo».
«Cosa
intende?»
Lui
sorride. Si sta divertendo. «Fra poco potrebbe trovarsi nella
situazione di essermi debitrice. E se io non le piacessi... sarebbe
piuttosto sconveniente, non trova?»
«Lei
è sempre così sfacciatamente sicuro di sé,
Jonathan?» nel dirlo, calcò volutamente sul suo nome.
«Sempre.
È una cosa a cui non posso sottrarmi».
Lei
restò in silenzio. Si volta a guardarla e vede che lo fissava
con uno sguardo curioso. Nell’incrociare i suoi occhi, lei
arrossisce violentemente e distoglie lo sguardo. Anche lei sta
giocando con lui.
Arrivarono
in una grande sala decorata in puro stile Vittoriano. Si voltò
verso di lei, prima di dirigersi vero una grande porta in mogano.
«Aspetti
qui, faccio in un attimo».
Lei
annuì. Prima di sparire dietro la porta, le lancia un ultimo
sguardo fugace. La vede che fissa affascinata il soffitto affrescato,
la bocca socchiusa, gli occhi vividi, risplendenti alla luce obliqua
del tramonto che filtrava dalle ampie vetrate. Se ne stava lì
con aria sperduta, stretta nelle spalle, le mani giunte in grembo e
le gambe intrecciate. Sembrava una scolaretta timida, ma nel suo
sguardo brillava come una fiamma profonda e inestinguibile.
Questa
ragazza è la cosa più incredibile che abbia mai
incontrato,
fu quello che pensò.
Quando
poco dopo ritornò da lei, la trovò che fissava il
panorama da oltre una grande vetrata, il volto acceso dei colori
morbidi del pomeriggio. La raggiunse senza che lei se ne accorgesse.
«È
stupendo da qui, vero?» le sussurra. Lei si volta di scatto,
sorpresa. Lo fissa in volto, arrossendo visibilmente. Erano
vicinissimi.
«Come?»
chiede lei, confusa.
«La
vista. Ciò che si può vedere da qui» le dice lui,
senza toglierle mai gli occhi di dosso.
«Sì...
davvero...» risponde lei, timidamente.
Era
arrossita?
«Se
vuole seguirmi, il ministro la aspetta».
Lei
sussultò. Lui la fissò divertito.
«Il...
ministro?»
«Certo.
Non le andrebbe di scambiare una noiosa relazione del Primo Ministro
con una succosa intervista al Ministro della Difesa? Forse non
porterà a casa il pezzo sulla conferenza di lord Salisbury, ma
un’intervista esclusiva con colui che ha stilato l’accordo
con il Primo Ministro tedesco, mi sembra comunque una ottima cosa».
«Potrò...
intervistare il Ministro della Difesa? Io? In forma privata?»
«Proprio
così».
«E
fargli tutte le domande che voglio sull’accordo coloniale con
la Germania?»
Lui
esitò. «Beh, forse non proprio tutte... Comunque, venga:
la sta aspettando oltre quella porta. Si sbrighi, coraggio».
Si
lasciò condurre nello studio privato del Ministro. Era
teneramente in preda all'agitazione. La vedeva, divertito, che
cercava di far mente locale.
Entrarono.
Il Ministro la attendeva seduto alla sua scrivania. Quando la vide le
sorrise, andandole incontro.
«Miss.
Ra Arwol, del Times? È
un piacere. Il mio segretario, il signor Fisher, mi ha detto che
avrebbe voluto intervistami. Prego dunque, si accomodi».
Adesso
lei lo fissa senza parole.
«Segretario?»
mormorò. Lui le sorrise, annuendo. Lei gli lanciò uno
sguardo imbarazzato. Quando terminò l’intervista, non
riusciva a guardarlo in faccia.
«Mi
ha preso in giro» disse.
«Scusi?»
«Lei
mi ha fatto credere di essere una persona comune e invece era il
Segretario alla Difesa».
«È
un suo modo per dirmi grazie?»
«E
il suo è stato un modo per cercare di fare colpo?»
Lui
la fissò esterrefatto. Era incredibile.
«Sì,
è così. Ci ho provato».
Lei
lo guarda torva.
«Ho
fatto male?»
«Sì».
«Perché?»
«Perché
sono fidanzata» disse, neutra. «E non credo...»
Lui
la interruppe. «Senta, non mi importa. Domani c'è un
ricevimento a casa del Ministro. Vorrebbe venirci con me? Ne sarei
onorato».
Lei
restò a fissarlo senza parole.
«Come?»
fece poi, arrossendo. «Ma ha sentito quello che le ho appena
detto?»
«Sicuro»
disse, con una scrollata di spalle. «Allora, vuole venire al
ricevimento con me? Avrà modo di conoscere diverse persone che
contano e poi... vorrei ricordarle che ha un debito da pagare»
le sorrise. Lei si passa una mano tra i capelli. È agitata.
«Ecco,
io...»
«Non
sono disposto a lasciar perdere» fece.
«Non
posso, vede...»
«Lotterò,
se necessario».
Lo
fissò, in evidente imbarazzo.
«Cielo,
io non so che fare... non sono mai stata a un ricevimento, prima!»
«La
prego. Non si tratta che di stringere qualche mano, sorridere e
ballare. In fondo, mica le ho chiesto di sposarmi... Ha un vestito?»
Lei
annuì, confusa.
«Perfetto.
È tutto quello di cui ha bisogno. La sua bellezza provvederà
al resto».
Lei
arrossì, ma poi si sciolse in un sorriso radioso.
«D’accordo,
va bene. Ma solo per questa volta».
«E
sia. Solo per questa volta...»
Erano
passati quasi tre anni da allora.
Perso
nei ricordi, Jonathan si richiuse alle spalle la porta della camera
da letto, la camera dove la sua futura sposa stava dormendo, convinta
di essere al sicuro. Si odiava per quello che stava per fare. Ma era
il suo dovere, il suo lavoro. Nadia era importante per lui, ma i suoi
sentimenti per lei esulavano da quelli che erano i suoi obblighi.
Molte cose della sua vita le erano completamente sconosciute. Non
poteva metterla a conoscenza di tutto, d’altronde. Non di
quello, almeno.
Avrebbe
dovuto farlo prima, lo sapeva bene, ma ormai era troppo tardi. E poi,
probabilmente non avrebbe capito.
La
conosco, non avrebbe sicuramente capito.
Ma
anche lei gli aveva mentito. Non gli aveva raccontato tutta la verità
sul suo passato e lui ora lo sapeva, e se ne doleva. Se n'era accorto
subito, non appena aveva visto la pietra risplendere tra le sue mani.
Lei non era la ragazza che aveva sempre creduto. C'era qualcosa in
lei, qualcosa che la rendeva molto più preziosa di quanto non
avesse mai pensato. Se solo si fosse fidata di lui, tutto questo non
sarebbe accaduto. Perché non lo aveva messo al corrente del
suo segreto? Era qualcosa che faticava ad accettare.
Con
passo deciso, si avviò al suo studio. Si chiuse dentro, quindi
si versò un bicchiere di scotch, che vuotò in un sorso.
Schioccò contro il palato la lingua intorpidita dall’alcol,
stringendo le labbra. Si diresse al telefono, componendo quel numero
che conosceva così bene. Dopo alcuni squilli sentì che
qualcuno all’altro capo del filo sollevava il ricevitore.
«Sono
io».
Una
voce rispose gracchiando, piuttosto lontana.
«Che
piacere. Novità?»
John
indugiò per un istante. Alzò lo sguardo verso la porta,
pensando a lei.
«Abbiamo
l’oggetto» disse con fare meccanico.
Dall’altro
capo fece eco un silenzio teso.
«Eccellente.
Avevamo ormai perso le speranze. Dove si trova?»
«La
mia... Miss. Ra Arwol ne è entrata in possesso».
«Quella
ragazza? E com’è possibile che l’abbia lei?»
«È
stato Kurtag a darglielo».
Silenzio.
«Perché
avrebbe dovuto darlo a lei?»
«Credo
che Kurtag avesse scoperto qualcosa di particolarmente interessante.
Forse lo sospettava solamente, ma...»
«Cosa?»
John
si morse il labbro. Sapeva che se avesse detto ciò di cui era
venuto a conoscenza, tutto sarebbe inevitabilmente cambiato. Ma non
poteva tirarsi indietro.
«La
ragazza... lei è in grado di attivare la pietra».
La
voce tacque.
«Lei
si rende conto» riprese l'uomo al telefono «di cosa mi
sta dicendo?»
«Sì,
signore. La ragazza è colei che credevamo morta».
«E
lei dice che Kurtag l'aveva scoperto? Quindi anche il Consiglio lo
sapeva...»
«Non
credo» disse John. «Penso fosse solo una sua
supposizione. A me non ne ha mai accennato. E comunque, non lo
avrebbe mai rivelato al Consiglio, e lei sa bene perché. Lui
le voleva troppo bene. Per questo le ha dato la pietra. Sperava che
potesse utilizzarla per salvarsi e per fare... la cosa giusta, nel
caso avesse capito».
«Quel
vecchio era un vero idiota, pieno di sentimentalismi» commentò
la voce. «La ragazza sospetta qualcosa?»
«Nulla
di cui dovremmo preoccuparci. Comunque...»
La
voce tacque per qualche istante. Quindi «Ebbene?» disse.
«Alcune
persone sono venute a conoscenza della Pietra. Sono alcuni colleghi
della ragazza. Sarebbe bene farli tacere».
«Naturalmente».
Per
qualche secondo nessuno disse nulla. Jonathan prese a tamburellare
nervosamente sul piano in velluto verde della sua scrivania in legno
massiccio. Era una scrivania costosa, e molto bella. Lui amava
circondarsi delle cose belle.
Lasciò
indugiare il suo sguardo per la stanza, in attesa che il suo
interlocutore riprendesse il discorso.
«Le
cose non potrebbero procedere meglio» continuò la voce.
«Abbiamo ottenuto la pietra e la donna in un colpo solo. Una
fortuna inaspettata. Ha già un piano?»
John
si passò una mano tra i capelli.
«Credo
sia meglio lasciare che gli eventi procedano da soli, per il momento.
La ragazza non accetterebbe mai la verità, per cui penso sia
più sensato lasciarla nella sua ingenuità. Intende
partire per l'America, per incontrarsi con l'uomo che ha trovato la
pietra insieme a Kurtag. Vuole continuare le ricerche del professore.
La seguirò, poi... vedremo».
«Sì»
fece la voce. «Faccia come crede meglio. E poi, credo sia il
caso che lei sparisca dalla circolazione. La situazione si sta
facendo tesa. Avverta il Consiglio che ha trovato la pietra, ma non
faccia menzione al fatto che era la ragazza ad averla, né al
fatto che sta per partire. Al resto, penseremo noi».
John
sospirò. Abbassò lo sguardo e si fissò la mano
aperta.
«Avete
scoperto qualcosa sugli assassini del vecchio? Sono loro?»
«Non
lo sappiamo. Aspettavo qualche notizia dagli uomini che abbiamo
inviato ieri a casa sua, ma ancora non si sono fatti vivi. Sicuro che
non possa essere opera del Consiglio?
«Ne
sono certo» ribadì John. «Ne sarei stato messo al
corrente. La notizia della sua morte li ha lasciati sconvolti... ha
sorpreso anche me, a dire il vero. E poi, Kurtag era uno di loro».
«Chiunque
sia stato a uccidere il vecchio, ha saputo cancellare bene le proprie
tracce» riprese la voce. «Ma sono convito che presto i
misteriosi assalitori si faranno vivi, ora che lei ha con sé
la ragazza e la pietra, cioè esattamente quello che loro
vogliono. Dovrà giocare bene le sue carte: lei sa che è
la nostra unica possibilità per ottenere ciò che
cerchiamo da venticinque anni, e che sogniamo da oltre due secoli».
Per
qualche istante, nessuno dei due disse nulla. Poi:
«credo
che lei sappia già tutte queste cose, dico bene?»
aggiunse la voce.
«Signore,
se mi permette...» azzardò John.
«Sì?»
«Potrebbe
essere pericoloso. Per la ragazza, intendo».
John
sentì la voce ridacchiare. Un suono basso e roco, rantolante.
«E
da quando la vita di una donna è così importante per
lei?»
«Da
quando ho conosciuto questa donna».
La
risata si fece più profonda. «Capisco. Allora, mi
permetta di consigliarle di fare di tutto... per proteggerla. Almeno
finché non scopriamo con chi abbiamo a che fare».
Jonathan
sospirò. «Su questo non c'è alcun dubbio».
«Comunque»
riprese la voce, nel solito tono scostante «non è il
caso che io stia a ricordarle il giuramento. Nulla è più
importante della nostra causa».
John
non disse nulla. Quella prospettiva lo allarmava.
«È
ancora lì?»
Lui
si aggiustò la cornetta all’orecchio, deglutendo.
«Si,
signore».
«Quindi»
disse l'altro «capirà anche che il futuro del mondo che
sogniamo è nelle nostre mani».
«Sì,
signore, capisco benissimo» fu tutto quello che riuscì a
dire.
«Dunque
posso contare sul fatto che saprà prendere la decisione
giusta, se si presentasse l’eventualità? Se preferisce,
posso sostituirla...»
Jonathan
chiuse gli occhi.
«No.
Può contare su di me» disse alla fine.
«Perfetto.
L'Ordine apprezza il suo zelo».
«Dovere»
mormorò John, prima di riattaccare.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 18 *** 17 ***
17
Quando
Peter Simum scese dalla macchina davanti alla casa di Nadia Ra Arwol,
capì subito che quella mattina avrebbe fatto meglio a restare
a letto. Era un intero giorno che di lei si erano perse le tracce; e
come se non bastasse, la barriera di curiosi che si era formata
davanti alla sua casa in Foley Street, non lasciava presagire nulla
di buono.
Si
incamminò a passo strascicato lungo il vialetto dissestato che
conduceva allo stabile, con Barnaby che lo seguiva come al
guinzaglio. Un agente si fece loro incontro, scansando alcuni dei
curiosi appostati davanti all’ingresso.
«Ispettore,
buongiorno» salutò, producendosi in un gesto formale.
«Avete fatto presto».
«Cosa
succede?» Tagliò corto Simum, che già grondava di
sudore.
«Siamo
appena entrati in casa di Miss. Ra Arwol. Di lei non c’è
traccia, ma l'appartamento è completamente a soqquadro».
«Di
chi sono questi corpi?» chiese Simum, indicando i due cadaveri
abbandonati davanti all’ingresso. Si chinò e sollevò
il lembo del telo nero cerato, che copriva uno dei due.
«Non
lo sappiamo. Non avevano documenti, addosso. Nessuno li conosce e
nessuno li ha mai visti prima, qua intorno».
«Chi
li ha trovati?»
Il
poliziotto socchiuse gli occhi, e sollevò lo sfollagente a
indicare un vecchio che parlava in disparte con due agenti in divisa.
«Quel
tipo laggiù» riferì. «È un vagabondo
che di solito viene qui a dormire. Stiamo raccogliendo la sua
testimonianza».
Simum
squadrò il vagabondo con una smorfia. «Dove sono i due
che erano di pattuglia?»
«È
meglio che venga con me».
L’agente
lo condusse all’interno dell’edificio. Simum si fece
largo oltre i corpi, scavalcandoli a fatica. L’interno era buio
e tetro. Un semplice disimpegno, la cui unica luce proveniva dalla
piccola porta di ingresso, perennemente aperta. Simum notò la
serratura incrostata di ruggine.
«Non
dovevano temere intrusioni, qui» commentò.
«Fino
a ieri era un quartiere tranquillo. Povero, ma tranquillo»
disse l’agente. «Qui nessuno ruba agli abitanti del
posto. Vige una sorta di legge del mutuo soccorso, se così si
può dire».
Sarebbe
più corretto dire della mutua disperazione,
pensò sarcasticamente Simum.
I
gradini salivano ripidi, tra le mura scrostate. A giudicare dal
sangue versato, i due davanti alla porta erano stati trascinati lungo
le scale e abbandonati successivamente sulla soglia del palazzo. La
casa di Nadia Ra Arwol era all’ultimo piano, ma non ci fu
bisogno di salire oltre al secondo per trovare il primo dei due
agenti.
«Oh,
Gesù Cristo, aiutaci tu!» Barnaby estrasse un fazzoletto
e se lo portò alla bocca.
Simum
fissò esterrefatto la scena. Il corpo straziato di un uomo,
apparentemente sui quarant’anni, penzolava a testa in giù
dalla ringhiera semidistrutta. Aveva il ventre squarciato fino alla
gola, gli occhi aperti e vitrei, le braccia tese. Probabilmente era
rimasto impigliato nella caduta dall'ultimo piano. Nella sua
tragicità, Simum pensò che quella sua posizione
innaturale manteneva qualcosa di ridicolo.
«Andiamo
su» disse, senza scomporsi più di tanto.
Quando
raggiunsero l’ultimo piano, trovarono anche l’altro
agente. Il suo corpo giaceva sull’entrata della porta di una
piccola mansarda. La testa era stata recisa con un taglio netto.
Barnaby
vomitò. Con un moto di stizza, Simum lo allontanò da
sé.
«Dov’è
la testa di quel poveraccio?»
«La
stiamo ancora cercando, ispettore».
Gesù.
«E
la Ra Arwol? Qualcuno ha qualche idea di dove possa essere?»
«L’abbiamo
trovata!»
Simum
si voltò pieno di speranza. «Sì? E dov’è?»
«Sotto
al letto. Vuole vederla?» fece un’agente. Aprì il
sacco che aveva in mano e mostrò all’ispettore la testa
dell’agente ucciso. Per poco Barnaby non svenne.
«Intendevo
la Ra Arwol...»
«Nessuno
sa dove si trovi, ispettore» intervenne l’agente che li
aveva condotti fin lì. «La casa è stata
completamente rovesciata. Non c’è speranza di trovare
qualche indizio che ci faccia capire dove possa essere andata».
Simum
infilò le mani nelle tasche del soprabito ed estrasse un
fazzoletto spiegazzato come il suo volto, con cui prese a pulire gli
occhiali lerci. Quindi li inforcò e si voltò,
dirigendosi a passo strascicato lungo le scale.
«Ispettore,
dove andiamo?» chiese Barnaby. Il suo volto era ridotto a uno
straccio.
«A
casa di Jonathan Fisher. Spero che quella dannata Ra Arwol sia andata
lì».
«Pensa
che questo sia stato opera sua?»
Simum
si voltò a fissare incredulo il suo assistente. Quindi gli
sorrise.
«Sa,
Barnaby? A volte mi chiedo lei cosa ci stia a fare, in polizia. È
davvero sprecato, lo sa?»
Barnaby
sorrise.
«Mi
chiedo: come può essere capace di pensare che una donna di
vent’anni sia stata in grado, da sola, di scaraventare il corpo
di un uomo di novanta chili giù dalle scale, di tagliarne la
testa a un altro, uccidere due uomini e trascinarne i corpi
dall’ultimo piano al piano terra... Quanto peserà la Ra
Arwol, cinquantacinque chili? Solo un genio come lei poteva
escogitare a un'idea del genere».
Barnaby
trasformò il suo sorriso in una smorfia di delusione.
«Quando
avrà finito di dire stupidaggini, si asciughi il vomito e si
sbrighi. Dobbiamo trovare quella ragazza e proteggerla».
***
La
luce si fece strada oltre le sue palpebre chiuse. Tutto intorno a lei
regnava una calma assoluta. La stanza era immersa nel silenzio e
nella penombra: solo un sottile spiraglio tra le tende permetteva
alla calda luce del mattino di insinuarsi. Fuori splendeva il sole e
doveva essere già giorno inoltrato. Tutto sembrava in ordine.
Per
un istante, e solo per un istante, Nadia fu dimentica della sua
situazione. Durò solo un momento, ma fu bellissimo.
Avrebbe
mai potuto rivivere un momento come quello, in un’altra
occasione e magari lontano da quelle mille preoccupazioni? Sarebbe
mai potuto accadere? Svegliarsi di buon mattino in un letto grande e
comodo, avvolta in morbide lenzuola profumate, tra le braccia di
Jonathan, l’uomo che amava...
Sospirò.
Lentamente, come una cappa gelatinosa, la consapevolezza del presente
discese in lei inesorabile. Fu come se il sole brillasse un po’
meno e come se una mano gelida si fosse posata leggera sul suo cuore.
Nadia
si drizzò a sedere, stiracchiandosi. Scese dal letto e
percorse a piedi nudi la stanza, fino a raggiungere la grande
finestra che aveva di fronte. Si apriva su un balcone, e lei sapeva
che da lì era possibile godere una delle vedute più
emozionanti di Londra.
Scostò
le tende e lasciò che il sole le illuminasse il volto. Chiuse
gli occhi e sorrise. Era una sensazione piacevole.
«È
bello rivederti, Nadia».
Nadia
sobbalzò. Si voltò di scatto, sorpresa da quella voce
sconosciuta.
«Chi
sei?» chiese alla stanza vuota. «Fatti vedere!»
Una
figura sottile emerse dall’ombra, dirigendosi a passo elegante
verso di lei. Nadia restò a fissarla quasi ipnotizzata. Man
mano che avanzava, una strana consapevolezza si fece strada dentro il
suo cuore.
«Mi
spiace averti spaventato. Non era mia intenzione».
Improvvisamente,
il cuore cessò di battere.
Mamma?
Incapace
di muoversi, Nadia prese a tremare. Qualcosa dentro di lei si spezzò
e lei cominciò a piangere, un pianto liberatorio e
irrefrenabile.
«Sono
felice di rivederti, figlia mia. Sei divenuta grande ormai. Non sei
più la bambina che ricordavo, ma una donna. Una bellissima
donna».
Nadia
sentì gli occhi bruciarle per le lacrime. La vista le si
annebbiò, ma non fece nulla per tergersi le lacrime dal volto.
«Com’è
possibile che io ti veda?» mormorò. Era terrore il suo,
ma non per quello che vedeva. Aveva paura di essere impazzita, sì;
ma ancor più, temeva che tutto quanto le stava accadendo non
fosse altro che un sogno, da cui si sarebbe prima o poi dovuta
svegliare.
«Ho
dovuto fare molta strada per venire da te, Nadia. Ma era necessario».
«Credevo
che non avrei più potuto vederti, che non avrei mai più
potuto percorrere la strada...»
La
donna sorrise, facendo un passo avanti. La tenue luce del sole la
illuminò, scendendole lungo i capelli ricci che le ricadevano
come una luminosa cascata sulle spalle. I sui profondi occhi neri
sorridevano splendenti come perle nel volto sottile e delicato di
lei, che emergeva a tratti dalla penombra. Una profonda serenità
e dolcezza traspariva da quella figura minuta e solitaria, la cui
bellezza toglieva il fiato. Nel vederla così vera davanti a
lei, Nadia si sentì sopraffare dall'emozione. Le labbra le
tremavano convulsamente, come in preda a un fremito nervoso.
«...la
strada degli dei? E infatti è così. Non puoi».
«E
allora anche questo... non è altro che un sogno?»
La
donna sorrise e Nadia avvertì un senso di languore al petto.
«Forse
lo ricorderai come tale, ma io sarò contenta lo stesso».
Nadia
scoppiò in singhiozzi, cadendo in ginocchio.
«Perché
mi succede tutto questo?» disse, la voce spezzata dalle lacrime
che la soffocavano. «Non è giusto, io non ho fatto nulla
di male!»
«Nadia...»
«Lasciatemi
in pace, tutti quanti!»
La
donna si chinò su sua figlia, abbracciandola. Nadia si
abbandonò completamente a quel tocco, e non appena aspirò
il profumo di lei, si sciolse in un pianto disperato. Era la prima
volta che abbracciava sua madre. Se era un sogno, allora pregò
di non svegliarsi mai più.
«Nadia,
purtroppo non possiedo molto tempo. Ho ottenuto di venire a
visitarti, ma le energie a mia disposizione sono limitate».
«Per
quale ragione sei qui?» le domandò lei, in un sussulto.
«Per
avvertirti».
Nadia
si asciugò gli occhi e fissò la donna in volto. Nei
suoi occhi, adesso, era possibile leggere uno sguardo profondo e
imperativo e lei restò a fissarla, in attesa.
«Un
grande sacrificio ti verrà richiesto, bambina mia. Un
sacrificio che varrà la tua stessa vita».
«Vuoi
dire... che dovrò morire?»
La
donna sorrise, un sorriso velato di profonda mestizia.
«Sono
molti i modi di morire. Non sempre si è tra i fortunati che
nella morte trovano l’oblio da ogni tristezza. A volte, si
muore pian piano in vita e il dolore è qualcosa che ci
accompagna sempre».
Nadia
la scrutò in volto, senza capire cosa volesse dire.
«Se
vuoi dirmi qualcosa ti prego, parla. Non lasciarmi nell’angoscia...»
«Vorrei
tanto aiutarti, figlia mia, non sai quanto!» Un velo di lacrime
scese a offuscare la luce di cui splendevano gli occhi di lei. «Ma
non mi è permesso. Tutto ciò che posso dirti è
di avere sempre fiducia in te stessa. Quando tutto sembrerà
sfuggirti, sappi che solo in te stessa troverai la chiave per andare
avanti. Tu sei la chiave, ricordalo».
«Perché?
Perché devo compiere questo passo? Dimmi almeno questo!»
Lentamente,
la donna si alzò. Nadia continuò a restare aggrappata
alle sue vesti, cercando di tenerla stretta a sé.
«Perché
è il tuo destino» rispose.
«Non
andartene, ti prego!»
La
donna le prese il volto tra le mani e le terse le lacrime, posandole
un bacio sulla fronte.
«Non
siamo che semplici creature di un giorno, io e te. La nostra è
una razza sfortunata, il sogno di un’ombra che vive senza
consapevolezza, correndo incontro a un destino che non conosce ma che
nessuno di noi potrà mai sfuggire. È questa la nostra
più grande disgrazia: amare, e per questo soffrire».
Nadia
si ritrovò improvvisamente sola, a stringere l’ombra in
cui era piombata la stanza. Una voce lontana echeggiò nel suo
cuore.
Perdonami,
Nadia, perdonaci tutti.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 19 *** 18 ***
18
«Madre,
non te ne andare, non lasciarmi!»
Il
grido di Nadia si infranse contro le pareti immacolate della camera.
Con il cuore in gola, rimase a fissare il vuoto davanti a sé.
Si trovava ancora nel letto, avvolta tra lenzuola ormai fradice. Era
completamente madida di sudore e sul suo volto aleggiava ancora
un’espressione sconvolta.
«Nadia!
Che ti succede? Stai bene?»
Jonathan
si precipitò al suo fianco. Non appena l'aveva udita gridare,
era corso da lei. Nadia si passò una mano sulla fronte,
tergendosi il sudore.
«Io...
sì, credo di sì. Solo un brutto sogno, tutto qui».
Jonathan
si accostò al letto, e si sedette sul bordo, prendendola
delicatamente tra le braccia. La strinse a sé e aspirando il
suo profumo le posò una mano sulla testa, carezzandola
teneramente. Nadia si lasciò cullare; e una sensazione di
tepore si impadronì con dolcezza del suo corpo.
«Vorrei
restare così per sempre» mormorò.
Jonathan
non rispose.
«Grazie,
John. Grazie per tutto, davvero».
Lui
le sollevò il viso e la fissò. «Non c’è
bisogno di ringraziarmi. Io ti amo e lo sai che farei tutto per te».
«Già...»
Lui
la vide accigliarsi.
«Che
succede?» le domandò.
«Se
non mi amassi... se io fossi stata una semplice estranea che veniva a
chiederti aiuto... mi avresti aiutata comunque?»
Lui
la guardò come se non comprendesse la sua lingua.
«Cosa?
Io... non so, perché mi fai una domanda del genere?»
«Niente,
lascia stare» fece lei, scuotendo la testa. «È che
sono ancora un po’ scossa».
Lui
sorrise, e la baciò.
«Mi
credi pazza?»
«È
per questo che mi hai chiesto una cosa del genere?»
«Non
so» fece lei, con una scrollata di spalle.
«Non
ti credo pazza. E non lo crederò mai».
Nadia
alzò lo sguardo e gli sorrise. «Sai? Ti amo anch’io,
per la cronaca».
Lui
ricambiò il suo sorriso, allegro.
«Buono
a sapersi. Allora basta con questi discorsi. È quasi ora di
andare».
Nadia
annuì. Pian piano sembrò ritrovare la sua lucidità.
«D’accordo.
Dammi un minuto e sono pronta».
«Faremo
colazione direttamente sulla nave» fece lui, alzandosi. «Non
abbiamo molto tempo e preferirei imbarcarmi il prima possibile. A
proposito: non c’era nessun imbarco diretto per New York, oggi;
e il treno per Portsmouth sarebbe arrivato troppo tardi per
permetterci di salire anche sull’ultima nave. Quindi, l’unica
soluzione possibile era affittare due cabine sul postale che parte da
Londra alle 11 e 10. Sarà un po’ scomodo, ma...»
«Per
me non c’è problema» fece Nadia, convinta.
«Perfetto.
Ho già fatto venire una carrozza. Ah, ci fermeremo a fare
alcuni acquisti, visto che non possiamo andare a recuperare le tue
cose».
«Sei
un tesoro» fece lei, sorridendo. John rispose al suo sorriso
stringendole le mani.
«Piuttosto...
hai pensato a come dovremo muoverci una volta partiti?»
Nadia
uscì da sotto le lenzuola. La leggera veste di cotone che
indossava metteva in risalto le sue forme e lasciava scoperta una
parte generosa del suo corpo. Jonathan avvertì una fitta di
desiderio, e come una lingua di fuoco prese a stuzzicargli i lombi.
La fissò con intensità crescente, ma lei non sembrò
accorgersene.
«Credo
che la cosa migliore sia parlare con Hanson. Non credo che sia venuto
a conoscenza della morte del professore. Sarà un duro colpo
per lui, si conoscevano molto bene. Poi... speriamo che decida di
aiutarci. È l'unico a poterci fornire i mezzi per
un'esplorazione. Ora voltati, per favore, dovrei vestirmi».
«Ma
in concreto cosa speri di ottenere?»
Nadia
si abbassò le spalline della veste. Lanciò a Jonathan
uno sguardo corrucciato e lui si voltò, deglutendo.
«Onestamente,
non lo so. Ma sento che devo portare a termine quello che Kurtag
aveva cominciato. Voleva dirmi qualcosa, affidandomi la pietra e il
diario. Spero accada qualcosa che mi aiuti a capire, prima o poi,
anche se non so dire cosa...»
«E
se non dovesse accadere? Se non scoprissimo nulla e tutto morisse
lì?»
Nadia
restò in silenzio.
«Purtroppo»
aggiunse lei, alla fine «penso che una cosa del genere non
succederà mai».
Jonathan
si voltò a guardarla con la coda dell’occhio e vide che
si stava spogliando. Fece un passo avanti e il corpo nudo di lei
comparve nello specchio appeso sopra la cassettiera. Con il fiato
corto, John lasciò che il suo sguardo indugiasse segretamente
lungo le linee aggraziate del suo corpo.
«Come
pensi di utilizzare la pietra?»
«Utilizzare?
Io... non lo so. Perché mi chiedi una cosa del genere?»
«Beh,
pensavo che...»
«Io
vorrei solo sapere cos’è, la pietra. Se possibile,
vorrei fare a meno di utilizzarla».
Quando
lei si voltò, mostrando nuda ai suoi occhi la sua femminilità,
John sentì il suo cuore fermarsi. Teneva gli occhi fissi sul
corpo di lei, e ne percorreva le curve più segrete,
soffermandosi sul ventre delicato e tonico, spingendosi sempre più
giù, nei recessi più intimi del suo corpo, ove i peli
del pube spuntavano lievi, come un'ombra appena accennata.
«E
questo per qualche ragione particolare?» chiese. Aveva la gola
secca, come quando si è tormentati da una sete inestinguibile.
Nadia
si infilò la biancheria intima.
«Diciamo...
istinto».
Jonathan
abbassò lo sguardo. Ormai lei si era rivestita.
«Ha
qualcosa a che vedere con il tuo passato misterioso?»
Nadia
sussultò. Jonathan non era a conoscenza del suo passato, non
di tutto almeno. Lei aveva cominciato a raccontargli qualcosa, ma non
era riuscita a svelare le cose più difficili. Il timore che
lui non le credesse o che si allontanasse per sempre da lei a causa
di quello che era, l’aveva bloccata ogni volta.
«Forse»
disse, distogliendo lo sguardo. «Ancora non ne sono sicura».
«Il
che significa un sì, ma non ti va di parlarne» fu il suo
commento.
«È...
difficile».
Lui
chinò la testa. Da quando lei gli aveva mostrato la pietra,
lui aveva capito esattamente qual era il suo segreto e ne soffriva
perché lei non aveva avuto il coraggio o l'amore per
confessarglielo. Tuttavia la capì, o almeno si sforzò
di farlo. E immaginandone il profondo tormento, l'amò per la
sua forza. Per questo mentì, mostrandosi completamente
inconsapevole ai suoi occhi.
«Tranquilla»
disse, sollevando le braccia. «Comprendo benissimo. Tutti
abbiamo qualcosa da nascondere».
«Anche
tu?» fece lei maliziosa, ma la sua voce tradiva una concreta
paura. Non riusciva a sopportare l'idea che lui potesse mentirle,
perché aveva bisogno di nutrire il suo immaginario dell'idea
della sua sincerità e della sua perfezione. Non poteva vedere
che lui si era improvvisamente oscurato in volto.
«No»
rispose, sforzandosi di essere allegro. «Io non riuscirei mai a
nasconderti nulla. Sei troppo intelligente per i miei gusti».
«La
verità, è che tu sei l’uomo perfetto».
Lei
lo cinse da dietro e gli appoggiò il viso sulla schiena. John
intrecciò le mani alle sue, portandosele al petto.
«Sei
pronta?» le chiese sottovoce.
«Sì»
rispose lei. «Andiamo».
***
«Lisa?»
Quando
sentì quella voce conosciuta risuonare chiara alla cornetta,
Lisa ebbe un sussulto improvviso.
«Nadia!
Sei tu? Ma dove sei? Perché non ti sei fatta viva stanotte,
ero preoccupata!»
«Lisa,
non c’è tempo. Devi assolutamente ascoltarmi. Qualsiasi
cosa tu stessi facendo per aiutarmi, devi lasciarla perdere, chiaro?
Devi dimenticarti di me. Dimmi che hai capito».
Lisa
si premette sconvolta la cornetta all’orecchio. «Nadia,
ma cosa stai...»
«Sono
stata a casa mia, stanotte. Dovevo prendere alcune cose e...»
Nadia tacque per un istante. «Hanno ammazzato quei poliziotti,
Lisa» disse alla fine.
Lisa
si voltò contro il muro, abbassando la voce perché non
la sentissero.
«Lo
so, stamattina sono venuta a cercarti, perché pensavo...
speravo di trovarti lì. Quando ho visto quel che era
successo... Dio, Nadia, ma cosa sta accadendo?»
Nadia
sospirò. «Non ne ho idea. Ma non è più
possibile per me restare qui. Più mi fermo, più rischio
di attirare guai sulle persone che amo».
«Ma
tu come stai?»
«Io
sto bene, tranquilla. Stanotte sono stata con John, gli ho raccontato
tutto e ha deciso di aiutarmi. Ora ti sto chiamando da una cabina al
porto».
Lisa
sussultò. «Al porto? Ma cosa ci fai al porto, scusa?»
poi capì. «Non vorrai...»
Nadia
la interruppe. «Adesso ascoltami: tu e Michael dovete
assolutamente smettere di aiutarmi. Voglio che lasciate perdere
questa faccenda, è troppo pericolosa».
«Ma
tu? Cosa farai, ora?»
«Io
devo andarmene da qui, non posso restare. Andrò a cercare un
mio vecchio amico, Hanson Garrett, che spero possa aiutarmi a far
luce su quello che successe quando Kurtag ritrovò la pietra».
«Ma
come... se partirai, tutti penseranno che sei colpevole...»
«Non
ho altra scelta, Lisa».
Restarono
in silenzio. Lisa non riusciva a parlare: temeva il momento in cui
avrebbero dovuto troncare la conversazione, perché sapeva che
quella era probabilmente l’ultima volta che avrebbe potuto
parlare con la sua amica e dentro di sé sentiva il bisogno di
prolungare quel momento il più possibile.
«Nadia,
io...»
«Promettimi
che farai come ti ho chiesto».
Lisa
scoppiò a piangere. «Io... non posso...»
«Ti
prego. Ho bisogno di sapere che tu e Mickey sarete al sicuro».
Lisa
si portò una mano alle labbra, chiudendo gli occhi. Le lacrime
a lungo trattenute le scivolarono lungo le guance. «Va bene»
disse alla fine. «Come vuoi tu».
Mentre
ascoltava la voce dolce di Nadia, Lisa piangeva commossa, incapace di
frenarsi.
«Grazie
di tutto, Lisa. Sei stata l’amica migliore che abbia mai avuto.
Tu e Michael. Non vi dimenticherò. E se tutto andrà
come spero, un giorno ci rivedremo!»
«Nadia...»
«Ti
voglio bene».
Lisa
sentì un groppo alla gola. Quasi gridò, tanto che
alcuni, in redazione si voltarono a guardarla.
«Nadia,
aspetta!»
Ma
dall'altro capo del filo non giunse risposta.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 20 *** 19 ***
19
Quando
la polizia bussò alla porta dell’abitazione di Jonathan
Fisher, non trovò nessuno a parte i domestici. Nonostante le
ripetute minacce, nessuno della servitù seppe rivelare dove si
trovavano il segretario alla difesa e la sua fidanzata. Simum decise
comunque di lasciare un presidio di cinque uomini sul posto, per ogni
evenienza.
«Chiamate
il distretto e fatevi raggiungere» disse. «Chiunque sia
sulle tracce della Ra Arwol ha ucciso senza problema quattro uomini.
Non credo che cinque possano costituire un problema».
L’agente
con cui parlava si guardò intorno terrorizzato. Simum
ridacchiò divertito.
«Stia
tranquillo, giovanotto. Se le mie idee sono corrette, nessuno verrà
qui. Sanno già dove andare. E noi siamo in tremendo ritardo».
«Lei
come fa a esserne sicuro?» chiese Barnaby, trotterellandogli
dietro lungo la strada. «Non sappiamo nulla di...»
«Perché
secondo me, mentre perdevamo tempo a salire le scale e a interrogare
quegli stupidi domestici, Fisher e la ragazza se la filavano, seguiti
dai misteriosi assalitori, che li attendevano da qualche parte qui
fuori».
«E
come potevano sapere che la ragazza si trovava proprio qui?»
«Questa
è una domanda intelligente, Barnaby...» fece
l’ispettore, scrutando interrogativamente il volto del
sergente. «Effettivamente è qualcosa che ancora mi
sfugge, ma credo abbia a che fare con quei cadaveri sconosciuti a
Foley Street».
«Cioè...»
«Cioè
penso che ci siano più persone sulle tracce della Ra Arwol e
di ciò che credo lei porti con sé. Ma solo alcune tra
esse mi preoccupano, ora come ora».
Barnaby
fissò affascinato il suo superiore, che si asciugava il sudore
con la manica logora del soprabito.
«E
quali, se posso permettermi?» chiese. Simum lo fissò e
sorrise.
«Quelle
pericolose».
«Senti,
ora devo fare io una telefonata. È importante. Puoi aspettarmi
qui? Ci metto un secondo».
Nadia
si voltò verso Jonathan e gli rivolse un cenno attraverso la
sottile veletta del suo cappellino nuovo.
«Certo,vai
pure. Secondo me, qui ci vorrà ancora un po'».
Jonathan
la lasciò in fila per il controllo dei passaporti e dei
biglietti, dirigendosi a passo veloce verso gli apparecchi telefonici
che si trovavano poco lontano, nella hall della stazione portuale.
Quando
vi giunse li trovò tutti occupati. Con stizza, controllò
l’orario sul grande orologio che campeggiava alto sopra la sua
testa. Le dieci e trentacinque. Non aveva molto tempo, l’imbarco
era previsto per le undici.
Un
telefono si liberò. Jonathan si mosse, ma una signora spuntò
da dietro l’angolo. Sorridendo, prese il posto dell’uomo
che aveva lasciato libero il ricevitore. Spazientito, Jonathan le si
avvicinò.
«Signora,
mi scusi, ma è un...»
«Mi
perdoni, ma ero in fila da un po’. Non ci metterò molto.
Devo imbarcarmi alle undici».
«Anche
io e...»
«Allora
non mi faccia perdere tempo, no?»
Jonathan
si rassegnò ad aspettare per qualche istante. L’orologio
segnava e dieci e quarantadue.
***
«Lisa,
dov'è Nadia? Ho scoperto alcune cose interessanti...»
La
ragazza fissò intensamente Michael, con gli occhi arrossati
dal pianto. «Se n'è andata» piagnucolò.
Lui
si afflosciò, incredulo. «Andata? Come?»
«È
partita. Oggi. Mi ha telefonato dal porto poco fa, non c'è
stato verso di convincerla. Voleva assolutamente che smettessimo di
occuparci del caso, aveva paura che ci capitasse qualcosa».
Michael
fece un giro su se stesso e crollò esausto sulla sua sedia di
legno scricchiolante. «No! Non adesso, dannazione. Non ora che
avevo scoperto tutte queste cose!» disse, picchiando con il
dorso della mano sul suo taccuino.
«E
che cos'è, che hai scoperto?» fece Lisa curiosa, tirando
su con il naso. Michael accostò la sedia alla sua, guardandosi
intorno con circospezione.
«Primo»
disse, muovendo un dito «ho scoperto dove Kurtag ha trovato la
pietra. Nell'Oceano Pacifico, vicino a Samoa. Sul posto c'era anche
una nave militare... e questo ci porta al punto due».
Lisa
seguiva Michael con attenzione. Sembrava elettrizzato.
«La
pietra è emersa nel quadro di un misterioso incidente,
avvenuto là. A quanto riportato, sono stati rinvenuti i resti
di un relitto, fatti di un materiale sconosciuto. In seguito, la
pietra è stata presa in custodia dall'esercito e riportata in
Inghilterra. Kurtag ha cominciato a studiarla solo qui, sotto diretto
incarico del...»
Lui
fissò Lisa con gli occhi che brillavano di malizia.
«Del...
?»
«Non
ci crederai. Ministero della Difesa».
Lisa
strabuzzò gli occhi. «Cosa? E tu come hai fatto a
scoprire queste cose?»
Michael
sorrise altezzoso. Si pavoneggiava tutto e intanto continuava a
dondolarsi sulla sedia, ostentando l'aria di chi la sapeva lunga.
«Ho
dovuto faticare per ottenere queste informazioni» disse lui,
con fare misterioso «e non sai quanto...»
Lisa
gli lanciò un'occhiata colma di sospetto. «Ma va',
informazioni del genere sono ben al di fuori della tua portata».
«Non
se possiedi una lettera di credito firmata da...» e Michael
estrasse dalla tasca interna della giacca un foglietto ripiegato in
quattro, sventolandolo tronfio davanti alla faccia attonita della
ragazza «...William Ashburne».
Lisa
gli strappò di mano la lettera, la aprì e la scorse
velocemente, alzando di tanto in tanto gli occhi sul volto
compiaciuto di Michael.
«Cosa?»
disse, incredula. «E come...»
«Sai
quanto William sia prevedibilmente tonto» confessò
Michael. «Lascia sempre aperta la scrivania e, guarda caso,
mentre frugavo per
sbaglio
tra le sue cose, l'occhio mi è caduto sulle lettere che usa
per raccomandare i suoi tirapiedi, perché svolgano tutto il
lavoro per lui. Probabilmente non si è nemmeno accorto che
mancava».
«Ma
bravo!» ridacchiò Lisa, e batté delicatamente il
foglietto sul braccio di lui. «Proprio una mossa astuta».
«William
deve per forza essere a conoscenza di segreti che gli permettono di
tenere in pugno parecchie persone importanti» disse Michael. «È
incredibile come al solo pronunciare il suo nome, tutti diventino
improvvisamente gentili. Con questa lettera, tutte le porte si sono
magicamente aperte» sussurrò enfatico. «È
stato come se fossi Mosè: apriti! E loro si aprivano».
Lisa
rise alla parodia inscenata da Michael, che si era levato in piedi e
con il petto esageratamente in fuori, agitava le braccia come se
volesse spingere il Mar Rosso a farlo passare. Poi, però,
tornò col pensiero alla situazione presente, e si rabbuiò.
«Il
Ministero della Difesa... Ma allora, se è vero, questo
significa...»
«Esatto»
fece Michael, ritornato anche lui con i piedi per terra. «John
sapeva. Era addirittura il supervisore della ricerca. Praticamente
lavorava a stretto contatto con Kurtag».
Lisa
boccheggiò. «Ma perché avrebbe mentito? Sono
sicura che Nadia non sapesse del suo coinvolgimento».
«Già,
è tutto conservato in un archivio coperto da segreto di stato.
Entrare è stato un gran colpo, non hai idea della roba
contenuta lì. Non sono riuscito a sapere molto, ma pare che
Kurtag sia stato incaricato di svolgere le ricerche direttamente dal
Ministro in persona. Ma qualcosa non è andato per il verso
giusto. Ho letto alcune lettere di Kurtag in cui chiedeva di essere
esonerato. Pare avesse deciso di rinunciare in seguito ad alcuni
sospetti che nutriva nei confronti di chi dirigeva la ricerca».
«E
chi erano queste persone?»
Lui
scrollò le spalle. «Non so. Non ho potuto accedere a
quel materiale».
Lisa
impallidì. «Comunque, John sapeva! Ti rendi conto? Ha
nascosto tutto a Nadia, mentre lui sapeva esattamente cos'era la
pietra e dove era stata trovata! E lei che era così
preoccupata di raccontargli tutto...»
Lisa
si alzò in piedi. Nel vederla così scossa, Michael si
inquietò. «Ehi, che ti prende?» chiese. «Sembra
tu abbia appena visto un fantasma...»
Lei
si voltò a guardarlo, visibilmente sconvolta. «Mi prende
che la nostra Nadia è appena partita per chissà dove
con quel maledetto traditore di Jonathan Fisher. Ecco cosa mi prende.
Lei è con lui ora, mentre noi non abbiamo la minima idea di
cosa quel bastardo abbia in mente. E non possiamo fare nulla per
aiutarla».
***
Adesso
Jonathan cominciava seriamente a spazientirsi.
«Signora,
avrei una certa urgenza...»
La
donna parve ignorarlo e gli voltò la schiena, immergendosi
sempre più fittamente nella conversazione. Lui si guardò
intorno, ma nessuno degli altri telefoni era libero e diverse persone
erano già in fila in ogni postazione.
Le
dieci e quarantaquattro.
«Mi
dia quel telefono!»
Jonathan
strappò il ricevitore dalle mani della donna, stando attento a
non farsi vedere dalle persone intorno a sé. Cinse la donna
con un braccio e si chinò su di lei per sussurrarle qualcosa,
mentre quella lo fissava scandalizzata e spaventata insieme.
«Mi
stia a sentire» sibilò, agganciando il telefono. «Ora
lei, gentilmente, mi consente di fare una telefonata. Se ne va senza
strillare o fare scenate, d’accordo?»
La
donna fece per dire qualcosa, ma lui la strinse di più.
«Se
lei si mette a fare una piazzata, mi vedrò costretto a
reagire. Mi sono spiegato?»
Sentì
il braccio di quell’uomo stringerla alla vita in una morsa
decisa. Il terrore si impadronì di lei.
«Siamo
d’accordo?» fece Jonathan, sorridendo mentre si guardava
intorno.
«Sì.
Ma la prego, mi lasci andare».
«Se
pensa di andare alla polizia, sappia che la troverò».
«Io
non farò nulla, voglio solo...»
«Zitta»
fece lui. «Parla troppo forte. E sorrida».
La
donna si sforzò di sorridere. Incrociò gli occhi di un
uomo in fila di fianco a lei, ma quando sentì il richiamo del
braccio di Jonathan, che la stringeva intorno alla vita, distolse lo
sguardo. L’uomo non si accorse di nulla.
«Ora
si allontani. E faccia la brava, mi raccomando. Direi che siamo sulla
stessa nave, Miss...»
Jonathan
le prese la borsetta e frugò al suo interno. Estrasse il
passaporto e vi lesse il nome.
«...Stetson,
di Fulham. Proprio così. Quindi, se voglio, ora so dove
rintracciarla. E lei non vuole che questo accada, dico bene?»
«No...
io...»
«Brava.
E ora vada, miss Stetson. Stia tranquilla. E faccia buon viaggio».
La
donna si allontanò, fissando Jonathan che la seguiva con gli
occhi, sorridendo. Quindi infilò il passaporto in borsa e si
diresse verso l’uscita a passo malfermo, senza voltarsi
indietro.
Bene.
Probabilmente non la rivedrò più.
Jonathan
lanciò un’occhiata all’orologio. Erano le dieci e
quarantasei quando qualcuno che conosceva bene prese la sua chiamata.
Simum
varcò la soglia del Times, trovando ad attenderlo l'intera
redazione, riunita intorno a Lisa Stanfields.
L'uomo
avanzò, trascinandosi dietro la gamba, furioso. – Dov'è
– ruggì, non appena fu a portata della ragazza. –
Dove si trova la Ra Arwol?
In
un parapiglia di sguardi concitati, Michael e Lisa si occhieggiarono
a vicenda, mentre Hunter fissava nel vuoto, appoggiato con una mano
allo stipite della porta.
«Ebbene?»
insistette Simum. Aveva una fretta dannata e tutta quella reticenza
non faceva altro che infastidirlo.
Lisa
aprì la bocca. Stava per dire qualcosa, quando Michael la
anticipò.
«Non
lo sappiamo. È scomparsa».
«Scomparsa,
eh?»
«Esatto».
Simum
ghignò. «Statemi a sentire, tutti voi. Io non so cosa
abbiate in quelle vostre teste, ma se non troviamo Nadia Ra Arwol al
più presto, il prossimo posto in cui potrete andare a farle
visita sarà il cimitero. Sono stato chiaro?»
Lisa
ebbe un sussulto. Simum lo notò e le si avvicinò. Erano
tanto vicini che Lisa poteva sentire il suo fiato caldo e puzzolente,
impastato di sonno e tabacco.
«Lei
sa qualcosa, Miss. Stanfields, non è così?»
Lisa
si guardò intorno, titubante. Michael la fissava: muoveva
impercettibilmente la testa, come a spingerla a non rivelare quello
che sapeva.
«Io...»
«Lei
deve fidarsi di me» la incalzò lui. Lisa continuava a
scrutare timorosamente nei suoi occhi, incapace di prendere una
decisione. Se avesse parlato, poteva mettere in pericolo Nadia,
attirandole addosso la polizia. Ma se quello che Michael aveva detto
corrispondeva alla verità, Nadia era già in pericolo,
ora più che mai.
Davanti
alla sua indecisione, Simum perse la pazienza. «Ma non capite
che sono qui per aiutarvi, non per farvi la guerra? Voglio trovare
quella ragazza per proteggerla, non per sbatterla in prigione,
Cristo!»
Sbatté
lontano una sedia, e colpì con un pugno la scrivania. Barnaby
indietreggiò di un passo. Non aveva mai visto Simum così
furioso.
L'ispettore
si piegò su Lisa, piantandole i grandi occhi scuri addosso.
«Ora,»
fece, improvvisamente calmo «vorrebbe gentilmente dirmi dove
posso trovare la sua amica, Miss. Stanfields?»
Lisa
lanciò un'occhiata a Michael. Ora anche lui la incoraggiava.
«È...
è al porto» confessò alla fine. «Sta per
imbarcarsi ma non so dirle per dove...»
«A
che ora parte la nave?»
«Non
lo so» lamentò Lisa e Simum capì che diceva la
verità. «So solo che sarebbe partita presto, credo in
mattinata».
Simum
si sollevò, muovendosi verso la porta con una velocità
imprevedibile. Stava già per uscire quando Lisa scattò
in piedi.
«Dovete
proteggerla. John Fisher, lui... non è quello che sembra».
Simum
si volse, gli occhi ridotti a due fessure.
«Jonathan
Fisher? Dice sul serio?»
Lisa
si illuminò. «Sì» disse. «Vi prego.
Aiutatela».
Simum
sorrise, raggiante. «Grazie, a tutti. Forse, per merito vostro,
riusciremo a trovare il cadavere di Nadia Ra Arwol prima che si
raffreddi» e con un ghigno ironico fissò tutti gli
altri, prima di allontanarsi velocemente. «Fosse stato per voi»
aggiunse poi sulla porta, senza voltarsi «saremmo dovuti
andarla a cercare raspando sul fondo del Tamigi».
«Sono
io» disse.
«Dove
si trova? È successo il finimondo».
«Cosa
vuole dire?»
«Gli
uomini che avevo messo sulle tracce della pietra, e di cui non
sapevamo più nulla, sono stati uccisi. È successo a
casa della sua ragazza».
«Lei
ha fatto spiare Nadia?» soffiò John. «Quando? Come
ha osato...»
«La
smetta. L'ordine era stato impartito prima che io sapessi che si
trovava da lei. Cercavamo indizi sulla Pietra e sapevamo che la
polizia la sospettava, quindi abbiamo deciso di inviare degli
uomini».
Jonathan
si passò una mano sugli occhi. «Cose del genere non
devono più accadere» disse.
«Non
è lei che decide cosa si deve o non si deve fare. Ci terrei a
ricordarglielo».
«Forse»
fece John teso, abbassando la voce fino a sussurrare. «Ma ci
terrei a ricordarle chi di noi due ha la pietra, attualmente».
L’uomo
all’altro capo del filo tacque. Quando riprese a parlare, lo
fece con una voce calma e controllata.
«Bene.
Comunque stia attento. Come le ho detto, i nostri uomini sono stati
uccisi».
«Sapete
da chi?»
«No.
Le ricordo che avevamo perso ogni contatto, dopo che si erano
introdotti nell'abitazione di Kurtag, dopo il suo assassinio».
«Non
può trattarsi del consiglio. Me lo avrebbero comunicato. Mi
credono sempre dalla loro parte».
«Non
abbiamo molte informazioni in proposito, ma potrebbe anche trattarsi
di coloro che stiamo aspettando... se così fosse, non ci resta
che aspettare, e vedere come si evolve la situazione».
«Come
dobbiamo muoverci?» domandò John. Continuava a guardarsi
intorno, il volto seminascosto dal braccio appoggiato alla cabina.
«Con
cautela. Di chiunque si tratti, potrebbe costituire un pericolo.
Potrebbero sapere come trovarvi».
Jonathan
tirò un pugno contro la cabina. Alcune persone si voltarono a
guardarlo, curiose.
«Se
dovesse accadere qualcosa a Nadia, la riterrò personalmente
responsabile, Wiesbaden».
«Non
faccia il mio nome, idiota!»
«E
lei non si azzardi più a metter in pericolo le persone che
amo!
«Sia»
fece Wiesbaden. «Ma ora l’importante è salvare la
pietra. Nella nostra causa, è la cosa principale. Non se lo
dimentichi».
John
cercò di ritrovare la calma. Intorno a lui, alcune persone
cominciarono a interessarsi a quello che stava facendo.
«No.
Sarà fatto. Crede che possano averci seguito?»
«Potrebbe
darsi. Dove vi trovate?»
«Al
porto. Stiamo per imbarcarci per Boston, secondo i piani».
«Mantenga
un basso profilo. Lei è un soldato, ha fatto parte della
guardia personale del cancelliere. Saprà di certo come
comportarsi».
«Infatti
è così. Solo che non amo le sorprese».
«Nemmeno
io» ghignò la voce. «Lei veda di tenere la pietra
al sicuro: è l'unica possibilità che abbiamo di
raggiungere i nostri obiettivi. Al resto penseremo noi. Non deve
preoccuparsi di nulla».
«Sì,
siamo intesi».
La
voce si spense e dall'altro capo giunse solo un segnale monotono.
Jonathan riagganciò giusto in tempo per accorgersi che Simum
stava entrando nella stazione.
Simum
si era lanciato fuori dalla vettura prima ancora che questa si
arrestasse completamente. Caracollò verso l’entrata,
cercando di muoversi il più in fretta possibile. Il porto era
affollato: marinai e operai si affaccendavano ovunque nello scaricare
casse e container dai mercantili che provenivano da ogni parte del
mondo. Simum sapeva che trovare quei due era un’impresa
disperata: ai Docks lavoravano un milione di persone circa.
Rintracciare Nadia Ra Arwol e il suo fidanzato in mezzo a quella
bolgia composta da passeggeri e scaricatori di porto, era come
pretendere di estrarre il jolly da un mazzo al primo colpo.
Raggiunsero
l’atrio della stazione portuale, che si stava rapidamente
riempiendo: il vociare della folla, mischiato alle grida degli operai
si innalzava fino alle volte del soffitto ed era a dir poco
assordante. Simum lanciò un’occhiata disperata
all’orologio. Erano le dieci e cinquantadue. Non sapeva a che
ora Nadia sarebbe partita, ma qualcosa dentro di lui diceva che gli
restava poco tempo.
«Dobbiamo
trovarla. Muoviamoci. Barnaby, lei vada a cercare informazioni, io
andrò a vedere direttamente ai Docks, laggiù».
Mentre
Simum si dirigeva verso la banchina, qualcosa attrasse la sua
attenzione. Un gruppo di tre uomini dall’aspetto imponente si
dirigeva a passo deciso oltre la zona recintata della dogana. Simum
li seguì con lo sguardo, incuriosito da quello strano
gruppetto. Si guardò intorno e notò che un gruppo
simile al primo procedeva compatto a poca distanza da lui. Un uomo
dai lunghi capelli biondi e dai lineamenti decisi, li guidava
risoluto attraverso la zona di carico e scarico.
Macchinalmente,
Simum prese a seguirli. Non avrebbe saputo dire perché, ma non
appena li aveva visti qualcosa in lui era scattato, come un
campanello d’allarme.
«Signore!
signore si fermi. Quella zona è vietata ai non addetti ai
lavori».
«Come?»
Simum
si voltò. Una guardia portuale lo fissava severa.
«Le
ho detto che l’accesso a quella zona del porto è
consentito solo agli operai. La prego di tornare indietro».
«Sono
della polizia» lamentò Simum, tastandosi in cerca del
distintivo, mentre continuava a scrutare nella direzione in cui aveva
visto allontanarsi lo strano gruppo. «Ecco, vede?»
L’uomo
osservò la placca dorata che Simum gli stava mostrando; quindi
si portò la mano all’elmetto, in segno di saluto.
«Mi
perdoni ispettore, non potevo sapere...»
Simum
cercò di ritrovare quegli uomini, ma sembravano essere
spariti, confusi tra le centinaia di operai che si affaccendavano
sulla banchina.
«Lasci
stare, non importa» fece, con una smorfia rassegnata.
Idiota.
«Ascolti
un po’» disse, rimettendo al suo posto il distintivo. «Sa
se ci sono navi passeggeri in partenza, questa mattina?»
L’uomo
lo fissò con un certo imbarazzo. «Ma... che io sappia,
oggi non è previsto alcun imbarco passeggeri».
Simum
cascò dalle nuvole. «Come?»
«Nossignore.
Nessuna nave, oggi. Solo merci» disse l'uomo, spostando
indietro il berretto con un gesto buffo. «Ormai sono poche le
navi passeggeri che partono direttamente da Londra, forse solo una o
due al mese. Per viaggi del genere, si fa capo ai porti di Portsmouth
e di Southampton».
Simum
strinse le labbra per l'irritazione. Era stato giocato. Non avrebbe
mai raggiunto la nave in tempo, ammesso che fosse poi riuscito a
trovarla.
Dannazione!
Maledetta
Stanfields.
«Ispettore!»
Barnaby comparve tutto trafelato, sul volto raggiante un’espressione
di vivo compiacimento. «Ho trovato la nave. È un
mercantile, si chiama Sea Victory. Sono appena stati registrati due
biglietti per una coppia. Allo sportello si ricordavano di una donna
dalla pelle scura, in compagnia di un uomo.
«Ah,
quello?» disse il poliziotto portuale, sollevato dal poter dare
una mano. «È un postale, fa rotta per New York. Parte
dal dock 26, tra...» e dette un'occhiata al modesto orologio
che portava al taschino «...dieci minuti».
Simum
strinse le labbra, lanciando un ultimo sguardo nella direzione in cui
aveva visto allontanarsi quello strano gruppo di uomini. Abbandonata
ogni speranza di ritrovarli, raggiunse Barnaby, che lo stava
attendendo poco più avanti.
«Ha
visto qualcosa?» chiese.
«Non
lo so. Forse» rispose Simum». Non importa. Ora abbiamo
altre cose a cui pensare».
Ostentando
indifferenza, John si calcò il cappello in testa e si
allontanò tranquillo attraverso la hall. Quindi si sfilò
la giacca di lino bianco e si mischiò tra la folla multicolore
che assediava le porte di imbarco.
Quando
le fu vicino, Nadia lo riconobbe e agitò la mano allegra.
«John!
Vieni, tocca a noi!»
Lui
le si accostò sorridendo.
«Che
hai?» gli domandò. «Sembri turbato...»
«Non
ti si riesce a nascondere nulla eh?» fece lui, accigliato.
«Problemi
con il lavoro?» chiese lei, preoccupata. «Caro, se non
puoi venire, non devi sentirti costretto...»
Lui
la strinse, dolcemente. «No, non è niente che non si
possa risolvere più avanti. Non ti preoccupare, non c’è
nulla che mi possa trattenere dal seguirti in capo al mondo».
Nadia
sorrise, ma lui distolse lo sguardo. Cercava di individuare dove
potesse trovarsi Simum.
Quel
dannato poliziotto sa qualcosa,
pensò. Non
posso lasciare che si intrometta, non adesso.
Senza
dare troppo nell’occhio, continuò a scrutare la gente
intorno a sé, concentrato a cogliere a qualsiasi cosa colpisse
la sua attenzione. Oltre che da Simum, doveva guardarsi anche dai
misteriosi assalitori degli uomini di Wiesbaden.
«Posso
vedere il suo passaporto, signore?»
Jonathan
non sentì. Non stava ascoltando, perso com’era nei suoi
pensieri.
«Signore,
il suo passaporto, prego».
«John?»
Jonathan
fissò Nadia che lo guardava incuriosita oltre la barriera del
check in. Abbassò lo sguardo sull’uomo seduto davanti a
lui, che tendeva la mano come in attesa che lui vi posasse qualcosa.
«Sì,
mi perdoni...»
«Sei
sicuro che vada tutto bene» gli fece Nadia, una volta passati i
cancelli. «Mi sembri da un’altra parte».
Lui
le sorrise, rassicurandola.
«Va
tutto bene, tranquilla».
Raggiunsero
la nave e si diressero verso la scala. Distavano solo poche decine di
metri dalla scala, quando improvvisamente, alle loro spalle, qualcuno
li chiamò.
«Miss
Ra Arwol, aspetti!»
Nadia
si voltò. Simum stava correndo verso di lei, il volto
tumefatto dal dolore per lo sforzo.
John
afferrò Nadia per un braccio e la spinse verso la scala.
Mancavano solo pochi metri.
«Si
fermi! Fermate quella donna!»
«Continua
a camminare, non metterti a correre» le disse John.
«Ma
come avrà fatto a sapere dove ero diretta?» fece lei,
tesa».
«Non
lo so, ma quell’uomo è una faina. Presto, manca poco».
«Fermi!»
Alcuni
agenti della polizia portuale circondarono i due, costringendoli a
fermarsi. Jonathan si guardò velocemente intorno, nella
speranza di trovare una via d’uscita, ma non ne vide alcuna.
Erano in trappola.
Simum
li raggiunse pochi istanti dopo, sbuffando. Rallentò
l’andatura e prese a strascicare pesantemente la gamba,
soffiando violentemente l’aria fuori dai suoi denti ingialliti.
«Signorina,
la prego di seguirmi... fuori di qui...»
Nadia
non disse nulla, ma si limitò ad abbassare lo sguardo
rassegnata. Era più che altro dispiaciuta per Jonathan, che
poteva rischiare di rimetterci il posto e la reputazione, nel caso si
fosse sollevato uno scandalo.
«Andiamo.
Ci sono alcune questioni che vorrei discutere con voi».
Nadia
e John vennero scortati lungo la banchina, verso la capitaneria di
porto. Passarono attraverso una serie di strade sgombre, dove casse
accatastate giacevano in attesa del controllo doganale. Intorno a
loro non c’era anima viva.
«Mi
vorrebbe spiegare perché ci ha fermato?» fece Nadia,
seccata. «Non ne ha il diritto. Nessun mandato è stato
spiccato nei nostri confronti e...»
«Infatti
non c’è nessun mandato» fece Simum, ancora con il
fiato corto. «La questione è un altra e...»
Senza
alcun preavviso, gli uomini alle spalle di Nadia si accasciarono al
suolo. Simum, Nadia, John e gli agenti di scorta si voltarono a
guardare. Due uomini, due giganti, erano comparsi dal nulla alle
spalle degli agenti e li avevano tramortiti.
«Portateli
via da qui!» gridò Simum, estraendo la pistola.
Improvvisamente,
altri tre uomini apparvero dal nulla, inchiodando al suolo con pochi
fendenti precisi gli agenti rimasti. Simum, che si era messo al
riparo dietro a un pilone di acciaio, osservò Barnaby che,
poco lontano da dove si trovava lui, cercava di proteggere Nadia e
Jonathan.
«Barnaby,
presto! Di là!» gli gridò l’ispettore,
indicando l’uscita. Barnaby annuì e condusse i due in
quella direzione, mentre Simum si sporse per coprirne la fuga. Fece
per sparare, ma qualcosa lo colpì violentemente alle spalle,
facendolo sbilanciare. Mentre cadeva in ginocchio, un dolore acuto lo
percorse dalla gamba per tutto il corpo, accecandolo. Sentì
qualcosa colpirlo alla testa e un senso di calore improvviso lasciò
il posto a un dolore agghiacciante. Cadde riverso a terra, ma si
sforzò di tenere gli occhi aperti. Vide un uomo allontanarsi.
Era alto e dal portamento elegante. Poteva vederlo solo di spalle, ma
notò subito i capelli. Come un angelo, aveva lisci capelli
biondi, racchiusi in una coda che gli raggiungeva il bacino.
Il
dolore si fece insopportabile e sentì le energie che lo
abbandonavano. Un senso di rilassamento si fece strada in lui e
percepì un languore diffuso. Prima che la vista lo
abbandonasse, fece in tempo a vedere quegli uomini colpire Barnaby,
che cadde a terra.
Poi,
il buio.
Con
un movimento rapido, Nadia estrasse la pietra dalla borsa che portava
a tracolla. Gli uomini si fermarono, fissandola senza sapere che
fare.
John
si strinse al suo fianco. Nadia aveva uno sguardo determinato e nei
suoi occhi ardeva come un fuoco di brace. Guardava attenta intorno a
sé, per controllare coloro che la circondavano. Un uomo, dai
capelli lunghi e biondi, teneva gli occhi fissi su di lei, senza che
il suo volto tradisse la benché minima emozione. Nadia
incrociò i suoi occhi ma non vi scorse né rabbia né
odio. Tutto ciò che vi vide fu una strana curiosità.
Lei teneva stretta la pietra, che emanava un intenso bagliore: poteva
percepire un’energia elettrizzante che da essa le si diffondeva
in tutto il corpo.
Improvvisamente,
l’uomo alzò la mano e gli altri che erano con lui
arretrarono di alcuni passi. John ne approfittò. Agguantò
Nadia per un braccio e la trascinò via, senza che nessuno
provasse a fermarli. Raggiunsero la nave e salirono a bordo, appena
in tempo per l’ultima chiamata. Mentre la scala veniva
allontanata e i cancelli chiusi, videro dal ponte che quegli uomini
si erano dileguati. Era rimasto solo quell’uomo misterioso, che
continuava a fissarli immobile dalla banchina. Nadia ne studiò
i lineamenti, decisi ma eleganti, i lunghi capelli biondi e i
profondi occhi azzurri. Vestiva una divisa senza segni particolari,
né mostrine, né gradi né qualcosa che la
rendesse in qualche modo riconoscibile. Il suo grado e la sua
importanza trasudavano direttamente dalla sua persona e Nadia non
avrebbe avuto bisogno di vederlo all’opera per capire che lui
era un capo. Il potere e la volontà di quell’uomo erano
in lui qualità indissolubili, che raggiungevano chiunque gli
fosse vicino in modo inequivocabile. Nadia restò a fissarlo
curiosa, ricambiando il suo sguardo attento.
Quel
giorno era riuscita a fuggire, ma era certa che prima o poi si
sarebbero rincontrati.
L’uomo
osservava la nave mentre si staccava dal porto, in silenzio. Dopo
qualche minuto, una giovane donna lo raggiunse, mettendosi al suo
fianco senza dire una parola.
«Ha
intenzione di lasciarla andare?» chiese lei, alla fine.
Guardava la nave che si allontanava lungo il Tamigi, e non poté
trattenersi dal domandarlo. Il sole si rifletteva sui suoi capelli
dorati, che portava raccolti in un severo chignon. Vestiva un
completo alla coreana di un bianco immacolato, da cui spuntava un
collo dalla pelle che pareva di porcellana, tanto era candida e
delicata. I tratti del volto erano dolci ma severi e i profondi occhi
verdi brillavano attraverso le lenti sottili dei suoi occhiali dalla
montatura in acciaio.
«Lei
sa che fatica abbiamo fatto per trovare la ragazza» aggiunse.
L’uomo
non si scompose. Restò in silenzio a osservare la nave ormai
lontana.
«Signore?»
«Comprendo
il suo punto di vista, Faloe» fece lui, all’improvviso.
La sua era una voce profonda, calma. Quando parlava, sembrava che
meditasse ogni parola.
«E
allora...»
«Allora
sono sempre io a decidere».
La
donna si ammutolì. «Sì, signore. Naturalmente».
Lui
si voltò a guardarla e si il suo sguardo, duro fino a un
secondo prima, si ammorbidì.
«Aveva
la pietra. Ed è più che evidente che non è
ancora in grado di usarla. Se fosse riuscita a scatenarne il potere,
sarebbe stato un disastro. Non è né il luogo né
il momento per dare battaglia, dobbiamo mantenere un basso profilo.
Non possiamo permetterci di attirare le attenzioni di qualcuno».
«Eppure,
non ha esitato a uccidere il vecchio essere umano, per sapere dov'era
custodita la pietra».
«La
situazione era profondamente diversa» commentò lui,
distaccato.
«Capisco»
fece lei. L'uomo abbassò gli occhi su di lei, fissandola
severamente.
«Non
avevo dubbi, in proposito».
La
donna sollevò lo sguardo al cielo, a fissare le nubi.
«Quali
sono i suoi ordini?»
L’uomo
rimase pensieroso per un istante.
«Torniamo
alla base».
«Non
li seguiamo neppure?» chiese lei, sorpresa.
«Non
ce n’è bisogno, tenente Anuri. Presto saranno loro a
venirci incontro».
La
donna lanciò un ultimo sguardo lungo il Tamigi. La nave era
scomparsa. «Come mai ne è così sicuro?»
domandò.
«Perché
è la volontà della pietra. Sarà lei a portarla
da noi» disse lui, e rise. «Quella ragazza ancora non lo
sa, ma si accorgerà presto che ogni tentativo di fuggire, è
del tutto inutile».
|
Ritorna all'indice
Capitolo 21 *** 20 ***
***
Quando
la porta dello studio si aprì, un intenso vociare proruppe
improvvisamente, inondando il corridoio silenzioso. Il giovane
Winston si schermì nel trovarsi tutti gli occhi puntati
addosso. Chiuse la porta alle sue spalle, velato da un leggero
imbarazzo. Con suo enorme sollievo, tutti si limitarono a dedicargli
una semplice occhiata noncurante, così lui poté
tranquillamente eclissarsi lungo le pareti adorne di quadri.
Winston
osservava la scena. Attorno al tavolo ovale sedevano dodici persone.
Tutte parlavano concitatamente tra loro, a gruppetti. Parevano molto
agitati.
Come
sempre in quelle occasioni, Winston Churchill prendeva parte alle
sedute mantenendo il massimo riserbo. Come lui, altri giovani
affiliati in abito scuro stavano in piedi ai lati della sala,
immobili, quasi senza respirare. Tenevano gli occhi alti, per
impedire allo sguardo di intrattenersi troppo a lungo sulle fattezze
di qualcuno. Non sarebbe stato gradito.
La
porta si aprì e un uomo entrò, seguito da due valletti
in livrea. Winston si irrigidì, scattando sull'attenti. Tutti
i presenti si alzarono, mentre l'uomo prendeva posto al tavolo. Era
il tredicesimo. L'ultimo, il più atteso.
Con
un severo gesto del capo, l'uomo accettò che gli venisse messa
al collo la catena cerimoniale. Winston l'aveva vista molte volte.
Era una spessa catena di ferro, dagli anelli ricoperti di ruggine. Al
centro, pendente sul petto, vi era un semplice medaglione che recava
incisa una bilancia, il cui bilanciere era a forma di spada. Era il
simbolo del Reggente, colui che veniva eletto a vita a presiedere il
Consiglio delle Relazioni Estere.
Mentre
osservava quella serie di vuote cerimoniosità, Winston
sogghignò. Un po' lo divertiva far parte di quella
messinscena. Non capiva molto quale fosse il reale valore di tutte
quelle manfrine: collane, ciondoli, vesti luccicanti... Lui, nato con
i piedi concretamente piantati per terra, trovava quelle cose un
cumulo di idiozie, valide per nobili annoiati in cerca di un
diversivo che puzzasse di massoneria. E per lui, sebbene appartenesse
alla casata dei Churchill, e sebbene potesse vantare un padre
Cancelliere, quelle cose puzzavano sì, ma di vecchio. Era solo
per una serie di obbligate contingenze che si prestava a quel gioco
ridicolo. Suo padre vi aveva preso parte e ora a lui toccava seguirne
le orme, come in tutto il resto. In fondo, a Winston della politica
non gliene fregava un accidente. Tutto quello che sognava, come ogni
ventenne, era strusciarsi con qualche bella femmina e sbronzarsi in
compagnia. Tutte cose che da troppo tempo gli erano negate.
Con
solennità, il Reggente fece cenno agli altri di sedersi.
Winston prese a respirare normalmente. Poteva anche non condividere
quella serie di sviolinate, ma l'autorità che emanava dal
Reggente era reale. Winston lo ammirava. Aveva imparato a conoscerlo,
in tutto il tempo in cui era stato al suo servizio: era uno che non
si tirava indietro dalle proprie responsabilità. E questo era
un genere di cose che Winston sapeva apprezzare.
«Signori»
esordì il Reggente «vi ho convocati perché
poteste essere aggiornati riguardo agli ultimi sviluppi. Il nostro
uomo alla difesa, il custode della Pietra, è caduto. Una
lettera ci è stata recapitata stamani. Recava il sigillo
dell'Ordine e annunciava la loro conquista della Pietra. Una sfida,
evidentemente. Era accompagnata dall'anello di appartenenza
dell'agente Fisher».
Il
Reggente mostrò ai presenti un anello di ferro spezzato.
Subito un mormorio concitato, simile a un intero sciame di vespe
ronzanti, si levò sulle teste incanutite dei presenti.
«Come
è potuto accadere?» domandò allarmato un uomo,
seduto alla destra del Reggente. La sua figura allungata e aggrinzita
spuntava dal tavolo come un fuscello rinsecchito e prossimo a
spezzarsi. «Siamo davvero a questo punto? Dobbiamo guardarci le
spalle ad ogni passo, dunque?»
«Signori,
capisco la vostra indignazione» si levò la voce calma e
pacata del Reggente, nel tentativo di quietare gli animi. Ma ormai,
un'insolita agitazione e aveva fatto presa nell'animo dei presenti, e
la loro confusione era più che evidente. «Tuttavia, non
lasciamoci sopraffare dagli eventi. Abbiamo commesso degli errori,
che sono davanti agli occhi di tutti. L'Ordine di Thule, che
credevamo distrutto, è ancora vivo e presente. Ci ha appena
lanciato una sfida, uccidendo il nostro uomo più importante e
fidato e sottraendoci la Pietra. Ciò che dobbiamo
assolutamente evitare, ora più che mai, è di lasciarci
intimorire o cadere nello sconforto».
«Lei
cosa suggerisce di fare?» fece sarcastico un uomo dalla testa
lucida e rotonda, il volto segnato da ampi favoriti. «Ci
illumini! Siamo appena stati giocati dall'Ordine come bambini. Con
l'uccisione di Fisher ci hanno chiaramente mostrato di non avere
alcuna paura di noi. Per di più, sono persino riusciti a
raggiungere la Pietra. Pensate se riuscissero a prendere contatto con
loro...»
«Non
accadrà!» replicò secco il Reggente. «Non
se sapremo fare fronte a questa disgrazia e se sapremo organizzarci
al meglio. Non tutto è perduto. Non sappiamo se l'Ordine sia
effettivamente a conoscenza della presenza dei Signori
sul nostro pianeta. Possiamo ancora sperare che il loro obiettivo
fosse semplicemente impadronirsi della Pietra. Ma questo ci pone di
fronte a un'ulteriore interrogativo. Come hanno potuto sapere della
sua esistenza?»
«Qualcuno
ha tradito!» scattò livido un uomo dal volto rubizzo.
Era talmente infervorato che mentre parlava, sputava. «Qualcuno
tra noi ha commesso l'infamia più grande! Chi?» fece,
lanciando occhiate di fuoco sui presenti.
«Si
calmi, barone Caprivi. Non siamo qui per accusare nessuno»
intervenne il Reggente. «Ma ha ragione su un fatto. In qualche
modo, le informazioni che dovevano restare segrete sono uscite da
queste sale. Anche questo è colpa nostra. Anni di relativa
tranquillità sono stati sufficienti a smorzare le nostre
attenzioni, in termini di difesa. È uno sbaglio da cui
dobbiamo imparare e un errore da non commettere mai più».
«Mai
più!» sbottò Caprivi. «Potrebbe essere
troppo tardi! Potrebbe significare la fine!»
Il
Reggente strinse le labbra. «Proprio per questo siamo qui. Per
impedire l'apocalisse. Chiedo pertanto, ad ognuno di voi, di farsi
intermediario con i governi di rappresentanza. Mi aspetto la massima
collaborazione. Nel giro di una settimana, i capi di governo delle
Dodici Nazioni devono cedere il controllo politico ed economico al
Consiglio. Tutte le azioni diplomatiche e politiche sono sospese.
Tutte le attività belligeranti devono essere rimandate e gli
eserciti ritirati».
«Ma
questo è impossibile!» scattò un ometto piccolo e
secco, dai baffi sottili e arricciati elegantemente all'insù.
«La Francia e Germania si attendevano molto dall'imminente
guerra tra i loro rispettivi paesi. Era un piano organizzato da
tempo... abbiamo speso energie incredibili e questo consiglio non si
è mai tirato indietro...
«Sappiamo
tutto» convenne il Reggente con un cenno grave del capo. «Ma
la guerra dovrà attendere. Non possiamo permettere di
indebolire le risorse generali, non ora. Continueremo a produrre
materiale in eccesso, per prevenire ogni evenienza».
«Ma
lei sa che, prima o poi, questo dovrà trovare sbocco in un
conflitto di portata ancora più ampia, non è vero?»
suggerì l'ometto. «Continuare a produrre materiale che
non può essere assorbito dal mercato, porterà a
scompensi difficilmente appianabili con una semplice scaramuccia di
confine!»
«Se
il mondo riuscirà a sopravvivere a ciò che temiamo
possa scatenarsi, riuscirà anche a sopravvivere a una guerra
mondiale «sentenziò il Reggente, irremovibile. «Meglio
qualche milione di morti, che il totale annientamento dell'umanità.
Sull'intero
consiglio calò un silenzio funebre, che avvinse i presenti
come una spessa pellicola. Nessuno osava fiatare.
«E
ora» aggiunse il Reggente «se nessuno ha altro da
aggiungere, proclamo la seduta aggiornata. Ognuno di voi si affretti
a contattare gli organi di governo di referenza. Ci ritroveremo qui
domattina».
«E
che dio ci aiuti!» mormorò il barone Caprivi. Il
Reggente gli rivolse uno sguardo stanco e disilluso. Winston lo fissò
sconcertato. In tanti anni che lo conosceva, non gli era mai apparso
tanto vecchio e opaco, piagato dagli anni e dalla responsabilità.
«Lei
non ha capito» fece il Reggente, scuotendo il capo dai candidi
capelli bianchi. «È proprio contro dio che stiamo per
entrare in guerra. Pregarlo, stavolta, non servirà a nulla».
|
Ritorna all'indice
Capitolo 22 *** 21 ***
Boston,
27 Giugno 1895
«Jean,
tutto bene?»
Jean
alzò gli occhi. Alexandra lo stava fissando e lui colse un
leggero velo di preoccupazione adombrare i suoi intensi occhi scuri.
Le sorrise.
«Sì,
tutto bene. Perché me lo chiedi?»
«È
tutta la mattina che leggi e rileggi quella lettera. Mi sei sembrato
preoccupato e ho pensato che ci fossero dei problemi. Tutto qua».
Lui
abbassò gli occhi sulla lettera che teneva in mano. Era una
lettera di Rebecca, che annunciava il suo arrivo proprio per quel
giorno, insieme alla piccola Marie.
«No,
nessun problema. Solo...»
«Solo?»
Jean
sospirò, alzando gli occhi nella direzione in cui i binari
curvavano per poi scomparire, oltre il limitare della stazione. Alex
lo fissava, il volto leggermente reclinato, incorniciato dai bei
capelli castani.
«È
così tanto che non vedo Marie» si scusò lui.
«Prima di partire avevo promesso a Rebecca che avrei fatto il
possibile per essere sempre presente e...»
«Jean»
fece Alexandra, posando dolcemente la mano sottile sul suo braccio.
«Tu ci sei sempre stato, per Marie. Non hai nessuna colpa se
per una volta hai cercato di seguire ciò che è meglio
per te. Cosa può esserci di male, in questo?»
Lui
continuò a fissare i binari, poco convinto.
«Sì,
questo lo so... ma...»
«Smettila
di recriminare contro te stesso» aggiunse lei. «Sei stato
eccezionale con Marie, e anche con Rebecca. Pensi che lei non lo
sappia? Guarda che non è colpa tua se Marie è stata
allontanata da scuola. E se non ci fossi stato tu, lei e Rebecca non
avrebbero nemmeno avuto una casa in cui stare».
«Forse
se io fossi stato più presente, se avessi aiutato di più
Rebecca...»
Alessandra
scosse il capo. «Forse, forse, forse... quante storie! Tu hai
fatto molto. Purtroppo Marie sta attraversando un momento difficile e
proprio per questo non credo che ci sia nulla di male, se lascia la
scuola per un po’. Venire qui non le farà certo male».
Jean
la guardò, ma non disse nulla.
«Già,
forse hai ragione» fece, alla fine. «Come sempre,
d’altronde».
Lei
arrossì, senza aggiungere una parola.
«Eccoli!»
Il
treno comparve all’orizzonte, in uno sbuffo di vapore. Jean e
Alexandra si portarono le mani agli occhi, per ripararsi dal riflesso
del sole. Quando il treno raggiunse la stazione, i freni fischiarono
producendo uno stridio assordante, e le persone sulla pensilina
furono avvolte in una nuvola di fumo bianco che puzzava di umido,
catrame caldo e polvere di ferro bruciato.
Jean
passò in rassegna i vagoni con lo sguardo. L'eccitazione
all’idea di rivedere Marie e Rebecca era fortissima, ma anche
la paura.
«Jean!
Siamo qui!»
Quando
Marie apparve sul predellino del treno, Jean si dimenticò di
ogni timore, ed esplose in un sorriso di gioia. Con slancio, lei
corse a terra, abbandonando i propri bagagli. Gli si tuffò tra
le braccia e mentre la stringeva a sé, Jean si accorse di
quanto fosse diventata alta, molto più di quanto non
ricordasse. Ormai non era più una bambina, e la cosa gli toccò
il cuore. Per lui, lei restava la piccola Marie.
«Marie,
che bellezza! Accidenti,» fece, realmente sorpreso «sei
cresciuta tantissimo».
Lei
sorrise sbarazzina, producendosi in una piroetta aggraziata che
metteva in mostra il suo nuovo abito azzurro, adorno di nastrini.
Aveva in volto una baldanza che lui non conosceva, e si chiese quanto
di nuovo in lei avrebbe scoperto. Ma cosa sapeva, veramente, di
quella bambina? Era stato lontano tanto di quel tempo... quanta della
sua vita aveva perduto?
«Hai
visto?» gli chiese allegra. «Ti piace il vestito che mi
ha comprato la zia?»
Jean
ostentò un’espressione meravigliata.
«È
davvero stupendo! Sembri una regina!»
«L’abbiamo
preso a New York, ieri. La zia mi ha portato a fare compere».
«Un’esperienza
meravigliosa! Non ho mai visto tanti negozi pieni di abitini così
belli...»
Jean
sollevò gli occhi, incrociando lo sguardo allegro di Rebecca,
che avanzava a passo elegante verso di loro. Era tutta tirata a
lucido, stretta in uno splendido abito in taffetà giallo
paglierino, che lasciava scoperte le spalle e il petto generoso, come
fosse un abito da ballo. Sulle spalle indossava uno scialle di seta
dalla tonalità più scura, annodato elegantemente sul
seno, che si intonava perfettamente con il largo cappello, portato di
sbieco. Tra le mani guantate di bianco, rigirava un ombrellino in
tinta con il vestito, dal manico in avorio intagliato. Non appena
furono vicini, Jean si alzò e la abbracciò, salutandola
calorosamente. La donna ricambiò felice, sebbene mostrasse un
certo imbarazzo.
«Alex»
fece Marie. «Ti
piace il mio vestito?»
Alexandra
sorrise. «Sì, è davvero stupendo».
«Già,
già» fece Rebecca agitando allegra la mano. «Merito
del mio incomparabile buon gusto. Marie sta dimostrando di possedere
uno spiccato senso estetico; e, modestamente, credo di avere qualche
merito in questo».
«Indubbiamente»
fece Alexandra, soffocando una risata.
«Avete
tutto con voi? Possiamo andare?» chiese Jean, mentre Rebecca lo
caricava di pacchi e pacchettini.
«Sì,
il facchino dovrebbe portarci il resto. Se riusciamo a trovarlo...»
Rebecca si alzò sulle punte dei suoi stivaletti di vernice
bianca, scrutando tra la folla. Oltre le teste dei viaggiatori che
affollavano la pensilina, intravide il berretto di un facchino.
L'uomo se ne stava appoggiato con le spalle a un pilastro della
stazione, intento a leggere un giornale.
«Ehi»
gridò Rebecca agitando la mano con garbo. «Brav’uomo?»
Il
facchino non diede segno di aver sentito. Rebecca si sfilò un
guanto e, portando due dita alle labbra, lanciò un fischio
tanto acuto da far girare mezza stazione. Il facchino voltò la
testa a fissarla, stupito.
«Dico
a lei! Può venire qui?» sbottò Rebecca.
L’uomo
scattò sull’attenti e si precipitò con il suo
carretto. Rebecca gli indicò distrattamente i bagagli.
«Questi
facchini» lamentò, sfilandosi anche l'altro guanto. «È
sempre più difficile trovare qualcuno con la voglia di far
bene il suo lavoro. Allora, Siamo pronti?»
Jean
annuì da sotto una montagna di scatole. «Direi di sì...
Andiamo. Fuori c’è la mia automobile».
«Tu
hai un’automobile?» chiese Marie, affascinata. Jean
annuì, visibilmente orgoglioso.
«Sì,
l’ho acquistata da poco. Ti piacerebbe farci un giro?»
«Eccome!»
fece Marie, tutta eccitata all'idea. Alex le tese la mano,
strizzandole l’occhio.
«Vieni,
ti porto subito a vederla» le disse con complicità.
«Andiamo!»
esultò la bambina. Rebecca sorrise, lanciando a Jean uno
sguardo obliquo, molto significativo.
«Alex
ci sa fare con i bambini...» disse semplicemente. Quindi
tacque, come per lasciare alle sue parole il tempo di depositarsi.
«Come vanno le cose tra di voi?» buttò lì
poi, distrattamente.
Jean
inciampò, lanciando un’imprecazione. Rebecca si sforzò
di non scoppiare a ridere. Conosceva quel ragazzo come le sue tasche.
«Cosa
vuoi dire?»
«Lo
sai».»
«Siamo
solo amici, tutto qui. Lei è la mia assistente.»
«Già...»
«E
io sono il suo responsabile...»
«Quindi?»
Jean
fissò torvo Rebecca, da sotto la montagna di pacchi. Lei rise
e appoggiò una mano affusolata sull’avambraccio di lui.
«Tesoro,
non pensi che sia il caso che tu dia un ordine alle tue priorità?»
fece lei, con falsa noncuranza.
«Non
capisco proprio cosa tu voglia dire» ribatté lui,
deciso.
«È
evidente che quella ragazza nutre dei sentimenti per te. Lo vedrebbe
anche un cieco».
«Ti
sbagli. Siamo solo...»
«Amici?»
«Esatto»
rispose lui.
«Interessante.
Avessi avuto anch'io, amici così» fece, ostentando una
certa aria divertita. «E anche lei la pensa così?»
Jean
sbuffò. Non capiva il perché di quella assurda
conversazione. «Non sono mica nella sua testa...» si
limitò a far presente.
«Oh,
se la metti così!» ribatté Rebecca leggermente
offesa, lasciando cadere l’argomento. Era intimamente decisa,
però, a riaffrontarlo in seguito. Se c’era qualcosa che
non era disposta a lasciar perdere, questo era la vita sentimentale
di Jean. E sebbene Rebecca fosse per natura una persona avvezza a
concentrarsi tendenzialmente su di sé, non poteva non
accorgersi del dolore che ancora lo imprigionava. Sentiva che se
qualcuno non lo avesse aiutato, sarebbe rimasto a crogiolarsi nel
rimorso per anni, finché non ne fosse rimasto schiacciato.
Alexandra lo amava ed era bella e intelligente. E, soprattutto,
voleva molto bene a Marie. Era il momento che anche Jean se ne
accorgesse.
«Ecco,
siamo arrivati. Quella è la mia auto» fece Jean,
contento di poter cambiare discorso.
Una
specie di carrozza senza cavalli era parcheggiata davanti al
marciapiede della stazione. Era piuttosto grande, con un sedile di
pelle ingrassata ben fatto e dall'aspetto confortevole, su cui due
persone avrebbero potuto sedersi più che comodamente; e un
piccolo scranno anteriore, anch'esso di pelle imbottita, proprio
accanto al volano di guida. Questo consisteva in un lungo bastone di
ferro con in cima un piccolo volano, dotato di manopola per poterlo
girare più comodamente. La vettura era bella a vedersi, nel
complesso, e dava un senso di grande eleganza. Non appena la vide,
Marie strabuzzò gli occhi, assolutamente conquistata.
«Bella»
disse Rebecca, squadrando la luccicante Daimler laccata di nero senza
troppo entusiasmo. Jean non poté fare a meno di notare la nota
sostenuta nella sua voce. Doveva essersela presa perché lui
non era stato al suo gioco.
D’altra
parte, lui lo conosceva quel gioco. Tutte le volte che si
incontravano era sempre la stessa storia. Lei cercava in qualche modo
di affibbiargli una ragazza, nonostante lui non facesse altro che
dimostrarle che la cosa non gli interessava. Non era in grado di
occuparsi di se stesso, come poteva occuparsi di qualcun altro?
Fissò
distrattamente Alexandra: stava giocando con Marie e parlavano fitto
fitto. Marie faceva finta di guidare e Alex le stava seduta accanto,
docile alle fantasie della bambina.
Beh,
bisogna riconoscere che ci sa davvero fare con i bambini,
pensò con un sorriso, mentre assicurava i pacchi al
portabagagli. Improvvisamente incontrò gli occhi di lei.
Sorpresa, Alex arrossì e altrettanto fece Jean. Rebecca, a cui
non sfuggiva nulla, osservò la scena compiaciuta, senza però
dire una parola.
Non
appena arrivarono all’albergo, un facchino in livrea si fece
pomposamente incontro alla macchina. Rebecca alzò lo sguardo
verso l’hotel, incapace di trattenere la propria emozione.
«Ommioddio!»
fece. «Ma è davvero qui che alloggeremo?» Si voltò
speranzosa verso Jean, che aveva già arrestato l’auto ed
era sceso per dare una mano a scaricare i bagagli. «Dev’esserci
un errore...» disse, temendo fosse proprio così. Ma Jean
scosse la testa, sorridente.
«Nessun
errore. Solo il meglio per le donne della mia vita».
Rebecca
si portò le mani alla bocca, gli occhi lucidi per l'emozione,
mentre rimirava le vetrate scintillanti della hall. Già si
sognava seduta a un tavolino nella tea
room, a
sorseggiare cocktail all’ora dell’aperitivo, in compagnia
di eleganti dame in abiti da capogiro e di ricchi e affascinanti
uomini d’affari, provenienti da tutto il mondo. Quell’idea
la conquistò subito, colorando di rosa la sua immaginazione.
«Jean,
ti adoro» fu il suo commento sincero.
«Non
c’è di che» fece lui, divertito. Marie però,
sembrava meno allegra.
«Ma
Jean, non stiamo tutti insieme?» gli chiese, tutta mogia.
«Marie,
io abito al campus. Il mio appartamento è troppo piccolo per
tutti e non potevo certo farvi alloggiare in uno spazio così
ristretto, non credi?»
«Ma
non potevi trovarci qualcosa lì da te?»
«Certo,
ma non avreste avuto le comodità che invece avrete qui, no? E
poi io sarò sempre con voi, vi verrò a prendere la
mattina e staremo sempre insieme, fino a ora di andare a letto».
Marie
sorrise. «Promesso?»
«Promesso»
fece Jean, serio. «Hai la mia parola».
«Allora
va bene» E così dicendo, Marie saltò fuori
dall’auto per correre dietro al facchino che portava i loro
bagagli nella hall.
«Senti,
Rebecca» disse Jean, posando a terra l'ultimo bagaglio, che il
facchino si affrettò a prendere. Jean lo ringraziò,
dandogli qualche moneta di mancia. «Ho lezione, stamattina, ma
sarà una cosa veloce. Non mi prenderà più di
un'ora e mezzo. Verso l'ora di pranzo sarò di nuovo da voi.
Pensi che vada bene?»
«Andrà
benissimo, tranquillo» commentò Rebecca. Quindi,
sorridendogli con malizia «te la passi bene qui... vero,
ragazzo mio?» disse.
Jean
contraccambiò il sorriso di Rebecca con una laconica alzata di
spalle. «Diciamo che non mi posso lamentare».
«Sono
davvero felice per te» fece lei, stringendogli il braccio. «Va
bene, allora a dopo. Adesso ho proprio voglia di bere qualcosa di
fresco. In queste grandi città fa sempre così caldo!»
Jean
osservò Rebecca mentre risaliva le scale ondeggiando i fianchi
voluttuosamente. Avrebbe dato qualsiasi cosa per possedere quella
sicurezza che trasudava da lei in modo così naturale, e di cui
lui si sentiva invece completamente privo.
Eppure,
pensò mentre si chinava per riavviare la macchina, Rebecca non
aveva torto. La vita a Boston non era niente male, per lui.
Quando
due anni prima aveva ricevuto la lettera dal MIT, Jean aveva pensato
subito a uno scherzo. Era vero che di cose fino ad allora ne aveva
fatte: aveva studiato ingegneria al politecnico di Berlino e fisica a
Parigi; e quindi aveva cominciato a produrre progetti innovativi che
le maggiori industrie meccaniche europee si erano offerte di pagargli
a peso d’oro. Ma lavorare al MIT, il più moderno e
innovativo istituto per la ricerca tecnologica al mondo, era tutta
un'altra faccenda. Significava coronare un sogno: lavorare allo
sviluppo per il progresso della scienza. Un progresso gratuito, non
dettato dalle esigenze economiche di qualche privato e nemmeno dal
desiderio di supremazia tecnologica di qualche governo. Il suo lavoro
rispettava esattamente i suoi ideali: servire una scienza che fosse
per tutti e a beneficio di tutti, una scienza che mostrasse il suo
legame con il cuore umano e che avesse la sua forza nel mostrare
all’uomo le possibilità per un mondo migliore.
E
proprio per quella sua energia e per quegli ideali che lui non
esitava a mettere in campo, quando necessario, le lezioni di Jean
divennero presto le più frequentate del MIT, il Massachussetts
Institute of Technologies. Dovettero assegnargli l’aula più
grande dell’intero istituto e la fila di studenti che bussava
alla sua porta in cerca di un dottorato era smisurata. Jean era
sinceramente sorpreso di tutto quel suo successo, che senz’altro
attribuiva all’effetto novità che la sua comparsa doveva
aver suscitato. Probabilmente, o almeno così credeva, il fatto
di avere solo ventun anni lo rendeva più vicino e simpatico ai
suoi studenti, spesso più vecchi di lui. La verità
però, era un'altra: tutti facevano a gara a seguire i suoi
corsi perché erano, semplicemente, i più straordinari.
Ecco
perché, solo il mese prima, Jean Luc Lartigue, docente di
meccanica avanzata e di nuove tecnologie, era diventato il membro più
giovane del comitato scientifico nazionale americano, nonché
membro effettivo del consiglio accademico al MIT.
Allora,
perché continuava a sentirsi come se non avesse mai combinato
nulla in tutta la sua vita?
C'era
qualcosa di vuoto in lui, che gli rodeva l'anima come un cancro,
mandando in pezzi i suoi giorni. Uno spettro ribelle che lo abitava
da tempo e che Jean aveva imparato a riconoscere in quel senso di
stanca inutilità che talvolta lo spingeva a isolarsi dal
mondo, e che gli metteva nel corpo un'agitazione frenetica,
incontrollabile: il desiderio di alzarsi, di correre, legato
all'impossibilità di stare per troppo tempo nello stesso
posto. Gli accadeva di non riuscire a leggere né a lavorare.
Talvolta, appena sentiva qualcuno parlare, provava fastidio. Voleva
essere lasciato solo, ma allo stesso tempo soffriva di questa sua
incapacità di comunicare agli altri il proprio disagio; e
intanto, sentiva crescere in sé l'astio nei confronti di un
mondo che non lo comprendeva e che lo abbandonava a una solitudine
che talvolta cresceva fino a strozzarlo.
Cos'è
che vuoi,
si disse. Si
può sapere cosa stai cercando?
Alzò
gli occhi, incontrando il riflesso del suo volto sul lucido pannello
di legno che copriva la parte posteriore della vettura. Ciò
che vide fu un giovane già vecchio. Nessuna speranza, nessun
sogno. Un vuoto nulla. Con nausea e rassegnazione, Jean girò
seccamente la manovella di accensione. Il motore emise un borbottio,
scoppiettò, quindi si avviò e lui andò a
prendere posto accanto ad Alex, ignorando il suo sguardo indagatore.
Jean
parcheggiò la sua Daimler al solito posto, poco lontano
dall’ingresso del campus. Amava passeggiare attraverso gli ampi
viali coronati di alberi che circondavano l’area universitaria.
Forse era a causa dell’abitudine agli ampi spazi aperti in cui
era cresciuto a Le Havre, ma la vita in una città caotica come
Boston gli andava decisamente stretta. Quelle passeggiate nel verde
erano una reale necessità per lui, qualcosa di assolutamente
vitale: un modo per ritrovare se stesso attraverso le proprie
abitudini.
Camminare
accanto ad Alexandra per quei sentieri tranquilli, gli fece
improvvisamente capire quanto con lei stesse bene. Il loro rapporto
era molto più di un'intensa intesa intellettuale. A volte
sentiva la sua esistenza vibrare insieme a quella di lei, come in
sincrono: e la cosa lo sconcertava ed affascinava insieme. Erano anni
che non provava un'emozione come quella. Lei lo capiva più di
chiunque altro. E per questo, era diventata l'unica persona a cui lui
non avrebbe mai potuto rinunciare, dopo Marie.
Una
cosa che gli piaceva di quella ragazza era la sua capacità di
far sentire sempre gli altri a loro agio. La sua intelligenza era
qualcosa che poteva decisamente spaventare, ma lei non ne faceva
mostra, a meno che non dovesse rimetter al suo posto qualche
arrogante presuntuoso, che pensasse ingiustamente di valere più
di lei.
Comunque,
in quel momento era decisamente rilassata.
Jean
ripensò alle parole di Rebecca e sentì il volto
avvampare. Lanciò uno sguardo furtivo alla ragazza, che
sorrideva, parlando allegramente e gesticolando, come era suo solito
quando era molto presa da una conversazione.
Certo,
è molto carina, pensò,
indugiando per un attimo sulle sue fattezze sinuose ed eleganti.
Ma
cosa dici? È uno schianto...
Forse
era lei la risposta. Tanto vicina, eppure così lontana. Magari
il senso della sua vita era lì, a pochi passi da lui. Si
trattava solo di lasciarsi avvicinare.
Si
lasciò sorprendere mentre la fissava. Lei gli piantò
gli occhi in volto, curiosa. Quando lo vide arrossire e distogliere
lo sguardo, lei sorrise, compiaciuta.
«Sei
sempre così timido?» chiese all’improvviso. Jean
sussultò.
«In
che senso?»
«Nel
senso se sei sempre così timido...»
«No...
beh, forse. Ma riguardo a cosa, esattamente?»
Dio,
ma di cosa diavolo stiamo parlando?
Alex
rise, portandosi graziosamente una mano alla bocca. Il sole che
filtrava tra le ampie fronde secolari del parco si rifletteva sui
suoi lisci capelli castani, che le incorniciavano il volto,
luccicanti come seta.
«Insomma...
proprio non mi chiederai mai di uscire?»
Jean
si immobilizzò. Cos’è che aveva appena detto?
«Uscire?»
Lei
lo fissava piena di aspettativa, sulle guance un rossore diffuso.
Forse lui attese un po’ troppo prima di risponderle, perché
un velo di imbarazzo calò tra di loro, spingendola a
distogliere lo sguardo e a passarsi una mano tra i capelli, nervosa.
«Alex
io... il fatto è che...»
Chiediglielo,
imbecille. Cosa stai aspettando?
«Professor
Lartigue! Eccola, finalmente!»
Jean
rimase come sospeso, con la sua dichiarazione ancora in bilico sulle
labbra. Mr. Devon, il custode, avanzava verso di loro, trafelato,
correndo come una papera all'ingrasso. Jean sbuffò, ma Alex
parve decisamente sollevata da quell'inaspettato diversivo.
«Sapevo
che l’avrei trovata qui in giro» esalò allegro il
piccolo uomo in divisa, che fissava Jean attraverso due sottili
occhietti vivaci, «ma quando ho veduto che tardava, ho
cominciato a preoccuparmi».
Jean
continuava a occhieggiare timidamente il volto di Alexandra, che ora
evitava di incontrare il suo sguardo.
«Qual
è il problema, signor Devon?» disse, cerando di
ostentare una sicurezza che in quel momento non aveva per nulla. «La
lezione comincia solo tra quindici minuti».
«Ci
sono alcune persone che sono venute apposta per lei» riprese il
custode.
«Per
me? E chi sarebbero?» fece Jean, con un’alzata di spalle.
«Un
tal signor Garrett. Con altri signori».
Jean
sussultò. «Garrett? Hanson
Garrett, per caso?»
«Non
so» fece Devon. «Non ha lasciato detto il nome. Solo
Garrett».
«E
dove si trovano ora?»
«La
attendono nel suo studio. Mi sono permesso di farli accomodare».
Jean
si mise a correre. Era eccitato e nel contempo felice. Sperava
davvero che si trattasse di Hanson, il vecchio amico con cui aveva
vissuto tante avventure e che lo aveva seguito a Berlino, dove
avevano studiato insieme per diverso tempo.
Era
successo quasi tre anni prima, quando...
Lascia
perdere. Lei è una storia chiusa.
Con
emozione, aprì la porta del suo studio. Un uomo corpulento,
sui trentacinque anni, era appoggiato alla scrivania, le gambe
intrecciate. Parlava con qualcuno seduto alla poltrona che dava le
spalle all’entrata. Quando lo vide entrare, Hanson sollevò
su Jean gli occhi languidi e incavati, segnati da due perenni
occhiaie, che conferivano al suo volto ampio e rotondo una dolcezza
bovina. Abbozzò un sorriso, e una luce gli si accese in volto.
«Ma
guarda chi si vede! Il professor Lartigue!» esclamò con
la sua voce bassa e dall'inconfondibile nota nasale.
Jean
gli si fece incontro, stringendolo in un abbraccio. L’uomo
ricambiò cordialmente, avvolgendolo tra le sue grosse braccia
e battendogli amichevolmente la mano sulla spalla.
«Hanson,
quanto tempo! Quando mi hanno detto che un
certo signor Garrett
era qui, ho davvero sperato che fossi tu!»
«Voglio
ben vedere! Chi può essere felice di trovarsi davanti l’altro
Garrett?»
Jean
rise. «Se proprio vuoi saperlo, Sanson fa l’attore. Vive
poco lontano da qui, lo sento spesso».
Hanson
rise di gusto. «L’attore? Ma per piacere... è
sempre stato un pagliaccio, nulla più!»
Jean
lasciò che il suo sguardo si posasse sull’uomo che se ne
stava accanto a loro, seduto in poltrona. Era affascinante, alto
all’apparenza e sui trent’anni. Il volto aveva lineamenti
decisi e portava sottili ed eleganti baffi arricciati. Vestiva un
completo estivo di lino e aveva i capelli mossi, ben impomatati e
pettinati all’indietro. Fissava Jean con un mezzo, enigmatico
sorriso.
Hanson
si schiarì la voce.
«Jean,
vorrei presentarti il signor...»
«Fisher.
Jonathan Fisher» fece quello, tendendo la mano mentre si
alzava. Jean la strinse macchinalmente.
Fisher?
Perché quel nome gli diceva qualcosa?
Hanson
lanciò a Jonathan uno sguardo severo, che lui ignorò.
«E
senz'altro ti ricorderai di...»
Nadia!
Improvvisamente,
il mondo si fermò. Jean rimase a fissare la giovane donna che
fino a quel momento era rimasta nascosta, come fosse invisibile. Lei
lo fissava piena di imbarazzo, il volto dalla pelle color dell’ambra
screziato di rosso. Gli occhi erano vividi e scintillavano come
quando una luce troppo forte arriva a colpirli.
«Ciao,
Jean» fece lei. E si avvicinò, tendendogli la mano. «È
bello rivederti».
Jean
non si mosse. Tutto quello che era capace di fare, in quel momento
era continuare a respirare. Ma neppure quello gli riusciva molto
bene.
Nadia
restò per qualche istante con la mano tesa. Quindi, non
ricevendo alcuna risposta, la abbassò vergognosamente,
lisciandosi la gonna e guardando di sottecchi gli altri. Il suo
sguardo si posò distrattamente sul volto della giovane donna
che era entrata insieme a Jean e non poté evitare di notare
quanto lei la studiasse con una severità tale che la
infastidì. Nadia rizzò il mento e sostenne il suo
sguardo, ma la ragazza distolse immediatamente gli occhi e li
concentrò su Jean.
«Jean»
riprese Hanson, visibilmente in imbarazzo «perdonaci questa
intrusione ma...»
«Scusatemi,
devo andare a fare lezione» lo interruppe lui.
Fu
tutto quello che disse, prima di uscire dalla porta senza nemmeno
voltarsi indietro.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 23 *** 22 ***
2
«Chiuda
la porta, Churchill».
Winston
entrò e chiuse la porta alle sue spalle. Si piazzò
proprio davanti alla scrivania, come al solito. Attendeva che l'uomo
da cui aveva preso ordini negli ultimi due anni della sua vita, gli
dicesse ancora una volta cosa fare.
«Lei
si è sempre mostrato all'altezza della situazione»
cominciò l'uomo. Winston
si confuse. Non
si aspettava qualcosa del genere.
«La
ringrazio» disse, piuttosto sorpreso.
«Perciò,
credo sia giunto il momento di affidarle qualcosa di più
serio. Lei è a conoscenza di quanto sta accadendo, non è
vero?»
Winston
non sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto rispondere. Certo che ne
era a conoscenza. Non era uno stupido. Assistere a tutte quelle
riunioni in cui non si parlava d'altro... solo un perfetto idiota, o
qualcuno che davvero credeva nella regola del Consiglio di tapparsi
le orecchie e la bocca in qualsiasi occasione, avrebbe potuto evitare
di ascoltare. Ma non era certo il suo caso.
«Suvvia,
non faccia finta di non sapere».
Winston
drizzò il busto, un movimento veloce, da soldato.
«Sì,
signore. Sono al corrente».
«Che
idea si è fatto?» domandò il Reggente. Winston
abbassò gli occhi a guardarlo. Lo chiedeva a
lui?
«Signore,
se devo essere sincero, questa storia non mi convince del tutto».
L'uomo
alzò gli occhi, stringendoli. Voltò leggermente il
viso, squadrando il volto di Winston di traverso.
«Sarebbe
a dire?»
«La
velocità degli eventi. Non mi quadra. Prima, la pietra
sparisce. Poi viene ritrovata. Sappiamo che Kurtag l'aveva affidata
alla giovane amante di Fisher. È da lei che Fisher l'ha avuta,
esatto?»
«Continui»
disse il Reggente, agitando la mano con eleganza.
«Ebbene...
come è possibile che l'Ordine sia riuscito a rintracciarla
così in fretta? Forse la ragazza si è fatta scappare
qualcosa, magari l'ha detto a qualcuno, facendo giungere la notizia
alle orecchie dell'Ordine... oppure, come? Possibile che Fisher sia
stato tanto stupido da tradirsi?»
«Forse
ha ragione lei, la ragazza ha parlato troppo...»
«Sì,
ma è difficile da credere. Perché l'Ordine si sarebbe
dovuto preoccupare di tenerla d'occhio e di metterle accanto una
spia? Lei era insignificante. Per me, qualcuno deve per forza aver
tradito. Qualcuno interno al Consiglio, che sapeva del ritrovamento.
Solo così l'Ordine avrebbe potuto conoscere chi aveva la
pietra».
L'uomo
si ficcò le mani in tasca, muovendole freneticamente.
Masticava nervoso, come se non riuscisse a ingoiare qualcosa.
«Quello
che dice, se corrispondesse al vero, sarebbe molto grave».
«Lo
comprendo» assentì Winston.
«Vuol
dire che le nostre difese sono state completamente violate. Il
Consiglio stesso dovrebbe sciogliersi e attivare una... epurazione».
«Così
parrebbe».
Il
Reggente lo fissò attentamente. Muoveva le mani nelle tasche,
attirando l'attenzione degli occhi vivaci del giovane, che continuava
a starsene sull'attenti.
«Lei
non sembra particolarmente toccato dalla cosa» fece l'uomo.
Winston tenne gli occhi fissi avanti a sé.
«In
due anni ho imparato che la responsabilità di un uomo di
governo va ben al di là di semplici scrupoli di coscienza».
L'uomo
serrò la mascella. Annuì, volgendo altrove lo sguardo.
«Io le ho insegnato questo? Se è così»
riprese, dopo una breve pausa «ho fatto davvero un lavoro
eccellente. E terribile allo stesso tempo».
«Ciò
che facciamo qui, è segreto perché esula dalla comune
comprensione. Non è quello che mi ha sempre ripetuto,
signore?»
Il
reggente lo fissò stranito. Quindi sogghignò, lasciando
trapelare tutta la sua sorpresa.
«Certo
che lei mi stupisce!» confessò. «Comunque è
vero. Cosa penserebbe la gente se sapesse che ogni cosa nel mondo,
ogni guerra, ogni carestia, ogni trattato, il destino di ogni singolo
angolo della Terra è deciso dai tredici uomini riuniti in
queste sale?»
Si
avvicinò alla finestra. Pioveva, fuori. E una sensazione
uggiosa si trasmise al suo cuore, quasi l'avesse assorbita
dall'esterno come una spugna. «Quello che si impara qui,»
riprese «ci toglie ogni possibilità di essere umani. Ne
ho viste di porcherie, in sessant'anni, ma non sembrano mai avere
fine. L'uomo avanza sempre più verso un destino che è
puro nulla. Si vive rincorrendo il potere, prostituendosi a quella
gran troia che è il successo...»
Si
volse a guardare Winston, che lo fissava curioso, ma impassibile.
«Non ne sente la puzza, Churchill? Non sente il fetore che ci
lascia addosso quella gran puttana? Ognuno di noi smania per
sdraiarsi tra le sue gambe rinsecchite e avide e non ci si accorge di
quanto schifo ci lascia addosso. Quella troia ci succhia l'anima, e
ci trasforma in quello che è. E noi ci ammaliamo di lei, del
denaro, del successo. Cos'altro conta, in fondo? Lei saprebbe
rispondermi?»
Winston
abbassò lo sguardo a fissarlo. «Lei non sembra ancora
una troia, signore».
L'uomo
rise, e la sua era una risata esile e rauca. «Ti ringrazio,
ragazzo» disse, scendendo a una cordialità inusuale. «Ma
la verità è che anche io sono marcio dentro. Tengo le
redini di qualcosa che era nato per assicurare il futuro
dell'umanità, ma che ormai è diventato solo un
meccanismo per far denaro, come tanti. Questo consiglio continua a
vivere dietro la rendita delle sue glorie passate, quando ancora in
queste sale risuonavano ideali e la gente era pronta a morire per una
giusta causa. Ma ora? Ora si pensa a quanto potrebbe fruttare una
guerra tra Francia e Austria. Si organizzano scambi territoriali. Lo
sa cosa sono queste?» fece, sventolando davanti al naso di
Winston una serie di fogli svolazzanti che raccolse dalla sua
scrivania. «Sono i documenti che regolano lo scoppio di una
guerra. Una guerra, proprio così. È stata la nostra
ultima trovata. Una bella guerra per ridurre la popolazione e
azzerare le risorse. È già stabilito tutto. Chi
attaccherà per primo, perché, come... chi vincerà.
Perché non importa, in realtà, se qualcuno perde o
vince, o chi muore e chi no. Importa il risultato. La visione
globale. Crede che la gente potrebbe capire tutto questo?»
«No,
signore» disse Winston. Effettivamente, persino lui faceva
fatica a capirlo.
«Esatto,
proprio così. Dobbiamo dar loro l'idea che il mondo sia ancora
retto da ideali quali la giustizia e la volontà. Dobbiamo dar
loro la speranza. Devono credere di essere padroni del loro destino,
di avere la possibilità di costruire il mondo che vogliono. E
mentre noi gli ammantiamo tutte queste favole edificanti davanti al
naso, gli facciamo andare per traverso la medicina, in modo che
nemmeno si accorgano di averla presa. È sempre stato così,
e sempre sarà. La libertà... bella parola, ma vuota!
Non significa nulla, se non la responsabilità di occuparsi di
chi è troppo ingenuo da capire come stanno realmente le cose».
«Perché
mi dice questo, signore?» osservò cautamente Winston.
L'uomo si riscosse come da un sogno.
«Non
lo so» ammise. «Forse perché avevo solo bisogno di
parlare con lei. Chi può dirlo?»
Tacquero
entrambi. L'uomo riprese a muovere le mani nelle tasche dei
pantaloni.
«Voglio
che vada a scoprire qualcosa su quella ragazza, su come aveva fatto a
trovare la pietra, la gente che frequentava... tutto. Voglio sapere
perché Kurtag le ha affidato la pietra. Magari è
possibile scoprire qualcosa... ed evitare la catastrofe
dell'epurazione. In queste condizioni, sarebbe un vero disastro... un
vero disastro...» ripeté, quasi mormorando.
«Come
ordina» rispose prontamente Winston.
«Io
provvederò al resto, come sempre. Sa?» aggiunse in
ultimo, e sul volto gli si stampò un sorriso vacuo, allungato
come una ferita ancora aperta e sanguinante. «L'unica cosa che
sento, ora, è la fortuna di trovarmi da questo lato. Io darò
l'ordine per l'epurazione: dodici persone probabilmente moriranno e
io penso solo al fatto che non toccherà a me. Ecco come ci si
riduce, Churchill».
«Prima
o poi, tutti devono scontare i propri peccati – fece Winston».
«I
peccati non esistono» lo irrise l'uomo. «Sono una favola
che abbiamo inventato per illuderci di avere un'anima. Il senso di
colpa che ci hanno instillato dentro secoli di religione ha fatto il
resto. Ma in realtà, non c'è proprio nulla di tutto
questo. Esiste solo la volontà. Ed essa non risponde a nessun
altro che a noi stessi».
|
Ritorna all'indice
Capitolo 24 *** 23 ***
3
Jean
se ne stava seduto immobile alla cattedra, lo sguardo perso nel
vuoto. Nel vederlo così indifeso, Alex si intenerì. Lo
pregò di delineare almeno un problema, che poi si sarebbe
occupata lei di esporlo alla classe. Jean non sembrò nemmeno
ascoltarla, forse nemmeno avvertiva la sua presenza in aula, come
quella dei centosessanta studenti che rumoreggiavano in attesa.
«Jean,
la lezione dovrebbe già essere cominciata da cinque minuti.
Presto tutta questa gente si comincerà a chiedere cosa sta
succedendo».
Lui
non sollevò nemmeno lo sguardo, restando a fissare il vuoto
sopra la cattedra, immobile.
Alexandra,
rassegnata, si schiarì la voce. Fissò la massa
indistinta di studenti e prese un bel respiro.
«Signori,
buongiorno. Oggi tenteremo qualcosa di... diverso...» sbirciò
nuovamente in direzione di Jean, che però continuava a
mantenersi chiuso nella sua apatia. «Sarete voi a sottoporci un
problema».
Stava
improvvisando. Scrutò inquieta i volti dei presenti, attenta a
percepire la loro reazione. Questi si guardarono l’un l’altro,
evidentemente sorpresi. Alex non si fece scoraggiare.
«Qualcuno
di voi vorrebbe presentare un problema... o una questione da
discutere?» provò a insistere. «Potrebbe essere
interessante».
Ridicolo,
pensò. Ma sempre meglio di niente.
Hanson,
Nadia e Jonathan entrarono in aula in quel momento. Senza dare
nell’occhio, trovarono posto tra le ultime file. Nadia non
riusciva a scollare gli occhi di dosso a Jean. Non era preparata a
rivederlo, ma soprattutto non era preparata a quello che aveva
provato nel rivederlo. Aveva sempre pensato che fosse un capitolo
chiuso della sua vita e invece, non appena se l’era ritrovato
davanti, il cuore le aveva fatto un balzo nel petto. Era così
cambiato eppure, dietro quell'aria ora un po' triste, sembrava
nascondersi lo stesso ragazzo esuberante che aveva conosciuto tanti
anni prima. I suoi capelli, più scuri e forse meno rossi, ma
sempre ribelli, gli ricadevano sulla fronte come allora, oggi solo un
po’ più lunghi: cosa che gli conferiva un fascino a cui
lei non seppe sfuggire. Ma il suo corpo... quello sì, era
diverso! Più alto, più tonico. Più adulto. E da
quel corpo si irradiava un inquietante richiamo, che la coinvolgeva
segretamente, sconvolgendo tutte le sue certezze. Jean gli piaceva,
gli era sempre piaciuto. E lei doveva ancora imparare a non dare mai
per scontate le regole segrete dell'attrazione.
Lasciò
che il suo sguardo indugiasse sulla fronte corrugata di lui, fino a
scendere sulle labbra serrate e sulle mani, forti ma sottili,
raccolte davanti al viso irrigidito. Solo agli angoli della bocca e
degli occhi, lei rintracciò un ombra di solitaria infelicità,
velata dall'imperscrutabilità in cui avvolgeva il suo volto.
Fu per l'incappare in quel segreto che lui celava agli altri, che lei
si sentì pungere dal senso di colpa. Nadia lottò contro
quel sentimento non voluto, sebbene una parte di lei fosse pronta a
piegarsi ad esso e a subirlo. Quella sofferenza che vedeva in lui, in
fondo, era fortemente legata alle scelte che lei aveva compiuto, alla
vita che lei aveva voluto per sé e alla sua realizzazione. E
per lui, Nadia provava dolore, sì; ma non poteva non gioire di
se stessa, di quello che finalmente era diventata e di ciò che
era riuscita a creare per sé.
«Dunque?»
chiese Alexandra. Un brusio concitato di diffuse per l'aula.
Cominciava a preoccuparsi.
«Chi
è quella ragazza?» chiese Nadia a Hanson, cercando di
ostentare quell’indifferenza che in realtà non
possedeva. Hanson si sporse, per vedere a chi Nadia si riferisse.
«Chi,
quella?» fece. «Si chiama Alexandra. Non so il cognome e
non so molto di lei. Tutto quello che posso dirti è che è
un mezzo genio e penso sia l’assistente di Jean. E che è
molto graziosa» aggiunse, con un sorrisetto ambiguo. Nadia fece
finta di non aver sentito.
«Abbiamo
fatto male a venire» tagliò corto lei. «Io te
l’avevo detto».
«Sì,»
sussurrò Hanson a denti stretti «ma io ti ho anche detto
che l’unico che possa aiutarci a risolvere il nostro problema è
Jean. Quindi, se vuoi che partiamo per la spedizione, abbiamo bisogno
del suo aiuto».
Nadia
sporse in fuori il labbro. «Sarà, ma non mi sembra
dell’idea di aiutarci...»
«Lascia
fare a me» disse lui, fiducioso. «Conosco bene il
ragazzo».
Già.
L’unica a non conoscerlo credo di essere io.
«Professore»
si levò Hanson. Nadia lo fissò con gli occhi
spalancati. Tutto quello che non voleva era attirare lo sguardo di
Jean su di lei. «Avrei io una questione, se può
interessare».
Alex
sorrise. Era un passo in avanti. «Prego» fece.
«Pensa
sia possibile creare un veicolo a motore capace di calarsi a
profondità superiori ai novecento metri?»
Una
risata e un mormorio si diffusero in aula.
«Quello
che dice è impossibile!» fece un giovane studente nella
fila davanti a quella di Hanson. «La pressione lo
schiaccerebbe!»
«Eppure
esistono esperimenti che mostrano come, rispettando determinate
variabili...» intervenne un altro.
«No,
assurdo! E poi come lo muovi? E il motore dove lo metti? E la
pressione in cabina?»
«Signori»
fece Alex «cerchiamo di discutere ordinatamente. La questione è
se sia possibile...»
«Creare
un veicolo capace di raggiungere i novecento metri di profondità»
interloquì Hanson. «Io l’ho costruito, ma ho avuto
problemi con le saldature. Appena raggiunge i cinquecento metri,
saltano».
«Per
forza!»
«Cinquecento
metri? Pazzesco!»
«È
impossibile...»
«No,
non lo è. Immagino che lei abbia solo concepito male la cosa».
Tutti
tacquero, improvvisamente. Hanson sfoggiò un sorriso
compiaciuto. «Lo sapevo» disse in un sussurro. Nadia
arrossì, incrociando lo sguardo di Jean. Lui si alzò in
piedi e si avvicinò alla lavagna.
«Che
materiale ha usato?» chiese.
«Acciaio
temperato e rinforzato».
Jean
sorrise. «Capisco. Ha mai pensato a un unico blocco in acciaio
fuso?»
Hanson
lo fissò, incerto. «Come? In che senso?»
«Se
lei usasse acciaio fuso a campana, non avrebbe problemi con le
saldature. Un’unica struttura offre una resistenza alla
pressione idrostatica molto maggiore di tante parti collegate
insieme».
Hanson
si appoggiò allo schienale. La classe era completamente
attonita e fissava Jean che tracciava velocemente alcuni schizzi alla
lavagna.
«Il
che ci porta alla seconda questione. Tutti pensano, quando vogliono
costruire un mezzo sottomarino, a dargli la forma di una nave, con
scafo e tutto il resto. Ma è assolutamente più comodo
ed efficace usare la sfera».
Nadia
fissava Jean con ammirazione. Quell’uomo che teneva in pugno un
uditorio di centosessanta persone era molto diverso dal ragazzo che
aveva conosciuto a quindici anni.
Eppure,
sebbene ora mostrasse una determinazione e una personalità
trascinanti, sembrava il solito ragazzo timido e modesto di sempre.
Con un sorriso, dovette ammettere che lo trovava davvero eccezionale.
«Scusi
professore, ma perché la sfera? Non sarebbe più pratico
creare uno scafo capace di fendere l’acqua?» chiese un
ragazzo.
«Se
lei avesse bisogno di sviluppare una certa velocità di
immersione, potrei capirla» rispose Jean «e ancora di più
la capirei se mi dicesse che, una volta immerso, dovesse muoversi a
elevata velocità di navigazione. Oltre i quindici nodi, per
esempio».
Il
ragazzo annuì.
«Ma
qui stiamo parlando di un veicolo che deve immergersi a profondità
elevatissime; quindi la sua velocità dev'essere legata alla
capacità di emersione, piuttosto che di spostamento. O almeno
così mi pare di aver capito...»
«Esatto»
convenne Hanson. Jean ammiccò con un semplice gesto del capo.
«La
sfera» continuò «è senza dubbio la forma
migliore. Innanzi tutto, lo abbiamo visto, perché è
possibile fondere un’intera sfera di acciaio, in modo che non
sia necessario ricorrere a saldature supplementari. In secondo luogo,
perché su di essa la pressione idrostatica si esercita con
uniformità di caratteristiche su tutta la superficie esterna,
con il vantaggio di garantire il massimo rapporto tra l'involucro e
la superficie interna».
Jean
tracciò velocemente alcuni disegni. Tutti lo fissavano
ammirati, tra cui Alex, che si appoggiò alla cattedra,
conquistata.
«Immaginate
questo: se costruissimo un mezzo dotato di angoli o spigoli, la
pressione si eserciterebbe in modo difforme sulla struttura,
schiacciando il veicolo ai lati e producendo un effetto più o
meno...» Jean cercò con gli occhi qualcosa. Prese la
caraffa colma d’acqua che era posata sulla cattedra e ne versò
il contenuto in un portamatite di cartone, quindi lo afferrò,
schiacciandolo. L’acqua schizzò ovunque, bagnando la
superficie del tavolo. Alexandra sussultò, sorpresa.
«...ecco,
più o meno così. Nel caso specifico, noi saremmo
l’acqua».
Un
mormorio eccitato percorse l’aula.
«Ma
se noi ci servissimo di una sfera, potreste ben vedere che le forze
agiscono nell’unico modo possibile: uniformandosi sulla
totalità della superficie. Ecco perché la sfera è,
a mio parere, la soluzione al suo problema. Aggiunga poi un motore a
propulsione e un motore elettrico e lei avrà ciò che le
serve».
«Perché
un motore elettrico?» fece una ragazza dalla prima fila. «I
circuiti funzionano a corrente continua, e quindi come è
possibile sfruttare un motore del genere senza perdita di energia e
di coppia?»
«Parla
così perché non conosce il motore elettrico di
Ferraris. Funziona a energia alternata».
L’aula
esplose in un crescendo d’entusiasmo. «È di
dominio pubblico,» concluse Jean «i progetti sono a
disposizione di tutti. Un esempio per noi e per i futuri scienziati».
«Ma
per evitare la presenza di un motore a combustione?» chiese
Hanson.
Jean
si appoggiò alla cattedra, sedendovisi sopra. Alexandra cercò
di fermarlo ma non fece in tempo.
«Beh,
ha mai pensato alla... seppia?»
Tutti
risero.
«La
seppia funziona così. Assorbe una certa quantità
d’acqua e la espelle velocemente. Una sorta di motore a
propulsione idraulica».
«E
come pensa sia possibile aspirare l’acqua, senza una componente
meccanica?»
Jean
sorrise. «Basterebbe creare il vuoto. Un lavoro che potrebbe
appunto essere demandato al motore elettrico, per esempio.
Hanson
annuì. Fissava Jean con ammirazione tale che gli brillavano
gli occhi. «Un motore a compressione. Invece che comprimere
l’aria, si comprime l’acqua. Basta collegarlo al motore
elettrico e il gioco è fatto! Lo sapevo: quel ragazzo è
un vero genio».
Nadia
annuì. Era vero, Jean era in assoluto la persona più
eccezionale che avesse mai incontrato.
«La
lezione di oggi è terminata» fece Jean. «Purtroppo...
impegni urgenti mi impediscono di continuare. Recupereremo la
prossima settimana. Grazie e arrivederci».
Jean
lasciò sfilare gli studenti restando seduto sulla cattedra,
sorridendo a coloro che gli si facevano incontro per rivolgergli un
saluto. Quando l’aula si fu completamente svuotata, Hanson,
Nadia e Jonathan gli si avvicinarono. Lui continuava a restare seduto
sul tavolo, le mani intrecciate tra le gambe. Hanson fu il primo a
raggiungerlo, mentre Nadia preferì tenersi in disparte.
Jonathan la cinse con un braccio, spingendola delicatamente in
avanti. Lei si ribellò per un attimo, ma quando incontrò
lo sguardo severo di Jean, lo sostenne con aria di sfida e si lasciò
stringere da Jonathan. Solo allora Jean abbassò gli occhi.
«Fantastico,
Jean». fece Hanson, esultante «Ero sicuro che avresti
risolto tutto! Se tu sapessi... non riuscivo a dormire la notte per
questo problema».
«Perché?
A che vi serve un mezzo capace di scendere tanto in profondità?»
chiese lui, curioso.
«Dobbiamo
fare delle ricerche che... Nadia...» Hanson manifestò un
certo imbarazzo. «Ecco...»
«...Un
mio caro amico ha avuto un incidente a causa di un oggetto che ha
trovato insieme ad Hanson nel Pacifico. Io, Hanson e... Jonathan
abbiamo deciso di indagare».
Nadia
aveva parlato tutto d’un fiato. Jean la fissò con gli
occhi ridotti a due fessure.
«Un
incidente? E di che genere?»
«Questa
cosa non ti riguarda» obiettò Nadia, decisa. Gli occhi
di lui furono attraversati da un lampo. Lei lo notò, e si
sentì scossa.
«Ma
pensa un po’» fece lui, con una notevole dose di
sarcasmo. «E come credi che possa aiutarti, se non so come
stanno esattamente le cose?»
«Hai
bisogno di sapere come stanno tutte
le cose, per poterci aiutare a costruire una semplice macchina?»
«Non
funziona così» rincalzò Jean, duro. «Se
vuoi il mio aiuto, stavolta devi rispettare certe condizioni».
Lei
schiuse la bocca, sconcertata. «Ma sentilo!» disse,
avvampando di collera. «Chi ti credi di essere, un dio?»
Gli
occhi di lui dardeggiarono, piegandosi in uno sguardo misto di
derisione e rabbia che Nadia non riusciva a ricordare di aver mai
conosciuto. Lo fissava perplessa e frustrata per la strana urgenza
che gli occhi di lui esercitavano sul suo animo, e a cui lei voleva
sottrarsi. Una parte di lei lo disprezzava per quel suo atteggiamento
strafottente, mentre il suo corpo reagiva, contro la sua volontà,
a un richiamo antico, inciso nelle sue viscere.
«Non
sono io ad aver bisogno di aiuto» sentenziò lui, neutro.
«Se non ti va, puoi benissimo andartene. Non ti trattiene
nessuno».
«Ma
vattene al diavolo!» ansimò lei. Jean sorrise, beffardo.
Nadia lo fissò sconvolta e priva di forze, il fiato corto,
senza sapere se doveva sentirsi offesa a morte o no da quel suo
atteggiamento. Hanson la prese in disparte, sussurrandogli qualcosa
all’orecchio.
«Nadia,
maledizione» sibilò. «Siamo qui per elemosinare il
suo aiuto, non per offenderlo!»
Lei
lo fissò sprezzante, ma decise di tacere.
«Il
problema è che dobbiamo calarci sul fondo del lago Titicaca»
ammise Hanson. Nadia lo pungolò con uno sguardo severo, che lo
intimava a non sbilanciarsi troppo, ma lui la ignorò.
«Intendiamo proseguire le ricerche che il nostro amico aveva
cominciato sull'oggetto, e che portano in Bolivia. Ora sai tutto
quello che c'è da sapere, per il momento. Se accetterai di
aiutarci, ti racconteremo tutto, puoi scommetterci».
Jean
annuì. Era tornato improvvisamente tranquillo. Hanson incrociò
le dita. «Che ne dici Jean, ci aiuterai?»
Lui
sorrise. «Va bene. Sarà interessante lavorare ancora
insieme».
«Fantastico»
fece Hanson, elettrizzato. «Vedrai! non appena sarai là,
sentirai subito il richiamo dell’avventura e...»
«Aspetta
un momento!» lo frenò Jean, duro. «Ho detto che vi
aiuterò, ma non ho mai detto che verrò con voi. Sarà
sufficiente che vi aiuti a buttar giù un progetto».
Nadia
si riscosse, confusa. «Ma noi pensavamo che...»
«Ho
altro da fare, che correre in giro per il mondo» ribatté
lui.
«Già.
Ora sei un professore...» si lasciò sfuggire lei, acida.
«Non
è questo, o meglio, non è solo questo...» Jean le
lanciò uno sguardo crudele. «Si tratta di
responsabilità, qualcosa che tu non conosci ancora,
evidentemente».
Nadia
impallidì davanti a tanta durezza. Accanto a lei, John si era
irrigidito, ma Jean non gli diede il tempo di ribattere. Si era già
voltato afflitto a guardare Alex, che lo fissava senza dire nulla.
Nel vederli così intimi, Nadia dimenticò l'offesa
appena subita e provò un'inaspettata fitta al cuore. «Ci
sono persone... di cui devo occuparmi» fece lui, in un
sussurro.
Per
lei, quelle parole furono un colpo inatteso. «Capisco» si
limitò a farfugliare. «È naturale» disse,
anche se non lo pensava affatto. Perché lui non la amava più?
Era così facile dimenticarla? Subito Nadia cominciò a
pensare su di lui le cose più spiacevoli, e immaginò
che non l'avesse mai amata veramente, e che l'avesse dimenticata
subito, innamorandosi di quella nuova ragazza. Il solo pensiero la
soffocò di rabbia.
«Rebecca
e Marie... loro... sono venute a trovarmi oggi. Resteranno qui per
tutta l’estate» disse lui, inaspettatamente.
Hanson
si portò le mani ai fianchi. «Rebecca e Marie? Qui? Ma
allora dobbiamo subito andare a trovarle, Nadia!»
Lei
annuì sollevata, ma ancora turbata da tutta quell'improvvisa
agitazione
che
le aveva sconvolto le viscere.
«Jean,
pensa a quante cose potresti scoprire» gli suggerì
Alexandra, in disparte. «Questo viaggio potrebbe rivelarsi
interessante, e molto. Prendi questo progetto che hai appena
delineato: è assolutamente geniale! L'università
sarebbe orgogliosa di sperimentarlo, non credi?»
Lui
la fissò senza convinzione.
«E
poi» aggiunse Hanson, che aveva capito subito qual era il vero
problema «sono convinto che Rebecca e Marie verrebbero subito
con noi».
«Inoltre»
intervenne per la prima volta Jonathan «se accetta di aiutarci,
non può esimersi dal venire con noi. È una questione di
sicurezza, come certamente capirà».
«Tu
verresti?» chiese Jean ad Alexandra, improvvisamente. Lei
arrossì, del tutto impreparata a una tale domanda.
«Certamente» rispose. «Se ti fa piacere».
Lui
sorrise, e Nadia abbassò gli occhi per nascondere l’emozione.
«D’accordo»
acconsentì Jean. «Ma prima vediamo cosa ne pensano
Rebecca e Marie. Se accettano, è fatta».
«Perfetto!»
fece Hanson. «Andiamo?»
Jean
nicchiò, arrossendo.
«Andate
avanti, io... vi raggiungo».
Lasciò
uscire gli altri, trattenendo Alex per un braccio. Lei lo fissò
divertita.
«Ci
penso io» disse, ridendo. «Vado subito a cercartene un
paio a casa».
Lui
le sorrise, allungandole le chiavi del suo appartamento, e restando a
guardarla mentre si allontanava.
Quando
anche lei fu uscita Jean rimase solo a fissare la sala vuota. Non si
sarebbe mai aspettato che quel giorno le cose potessero prendere una
piega del genere: ritrovare Nadia e partire di nuovo insieme a lei...
Si
passò una mano tra i capelli. Ma perché era tornata?
Dopo tutti quegli anni, si era illuso di averla finalmente
dimenticata. E invece, erano bastati i pochi istanti in cui l'aveva
rivista per ripiombare dentro a quel calderone di emozioni in cui si
dibatteva da sempre, da quando l’aveva conosciuta.
Sei
anni prima, a Parigi. Un giorno che non avrebbe mai dimenticato.
Ma
ora era tutto differente. E più di ogni altra cosa lo
preoccupava la sua capacità di affrontare sentimenti che per
tutti quegli anni aveva sempre cercato di soffocare, e che ora
riaffioravano prepotentemente.
Al
diavolo,
si disse. Ora
ha la sua vita. E io ho la mia. Cosa ci fa, qui?
Certo,
doveva ammettere che era davvero stupenda. Proprio la donna
bellissima che aveva immaginato così tante volte.
Le
cose vanno sempre nel modo più inaspettato, pensò.
E
come se non bastasse, si era seduto proprio dove aveva rovesciato
tutta quell’acqua.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 25 *** 24 ***
4
Mentre
lasciava lo studio in Temple street, Winston continuava a ripetersi
le parole del suo mentore. Quella grande disillusione che aveva
intravisto nei suoi occhi lo aveva sconcertato. Ogni volta che aveva
parlato con lui, quell'uomo gli aveva dato l'impressione di possedere
una volontà inattaccabile, e un senso del dovere assoluto. Non
lo conosceva per nome: i nomi dei superiori erano tabù per i
novizi. Ma sapeva che il Reggente non era un individuo dalle
particolari ricchezze o dal nobile lignaggio. Le voci che circolavano
sul suo conto, parlavano di un uomo venuto dal nulla, creatosi con le
sue sole forze e che ebbe la fortuna di entrare al servizio del
vecchio Consigliere segreto della regina vittoria, il barone tedesco
Carl von Stockmar. Da allora, fino a quando il Consigliere non morì,
nel 1868, il Reggente aveva vissuto alla sua ombra, per poi
ereditarne il potere e gli oneri, fino alla sua nomina a Reggente del
Consiglio delle Relazioni Estere, ovvero il reale organo governativo
del mondo.
Ma
era la prima volta che vedeva su quel volto tutta quella tristezza e
quel disincanto. Per la prima volta, gli apparve vecchio di tutti i
suoi anni, e forse anche di più, carico di tutte quelle
responsabilità inevitabili che la storia del Consiglio si
portava dietro come una pesante catena. E l'idea che forse un giorno
si sarebbe ridotto lui stesso in quel modo, spaventò Winston
più di ogni altra cosa.
«Mi
porti a Fleet street» indicò distrattamente al
vetturino, che lo attendeva davanti all'ingresso del piccolo edificio
in cui aveva sede il Consiglio. L'uomo, seduto a cassetta e
sprofondato nel suo tabarro, fece un lento cenno con il capo, facendo
ondeggiare il cappello logoro.
«Può
chiudere il soffietto?»
L'uomo
si voltò. Uno sbuffo nella pioggia e nulla più. Quindi
armeggiò con il soffietto, in modo da chiudere completamente
la vettura.
«Ecco,
signore» disse, con fare asciutto, ma leggermente infastidito.
Winston
salì e chiuse la porta. L'umido che aveva impregnato i sedili
continuava a stagnare all'interno della vettura. Winston non si sfilò
il soprabito, ma anzi alzò il bavero e sprofondò nel
sedile, accavallando le gambe e stringendosi tra le braccia. Era
quasi Luglio, ma era tornato il freddo. A parte qualche sprazzo di
sole e di caldo, sembrava quasi che l'estate non volesse saperne di
arrivare, quell'anno.
La
carrozza sobbalzò e partì. Winston si abbandonò
al lento cullare del veicolo. Chiuse gli occhi e un insolito torpore
lo avvolse. La sua attenzione era continuamente ridestata dai rumori
che gli giungevano sordi dall'esterno, ma in realtà la cosa
non gli dava fastidio. Era quasi piacevole.
In
quello strano dormiveglia, Winston continuava a ricordare le parole
del Reggente. La responsabilità... era vero: in quelle stanze
si decideva la sorte del mondo, mentre il mondo continuava a vivere
come se nulla fosse, crogiolandosi nelle sue infantili certezze,
illudendosi che parole come democrazia, bolscevismo, monarchia
avessero una reale funzione. Avrebbe dovuto sentirsi orgoglioso per
la possibilità che aveva avuto di far parte dell'élite
che governava il pianeta. Ma qualcosa, nell'eco amaro delle parole
del Reggente, gli aveva risvegliato una consapevolezza diversa. Non
era una fortuna, la sua, ma una maledizione. La maledizione che
colpisce alcuni uomini per salvarne altri. Anche lui, ne era
consapevole, avrebbe perduto la sua anima, la sua umanità. Era
solo questione di tempo. Dal momento che era bravo, se non avesse
commesso errori o sciocchezze, prima o poi sarebbe diventato
Reggente. Lo sapeva, se lo sentiva addosso quel destino, come
qualcosa che gli rodeva dentro desideroso di uscire allo scoperto,
quasi come una malattia. Era il germe del successo. La troia, come la
definiva il Reggente, aveva infettato anche lui. Come per tutte le
cose, era solo questione di tempo.
Un
giorno, si sarebbe accorto che per lui mandare a morte migliaia di
persone per equilibrare le sorti del pianeta non avrebbe significato
nulla. Sarebbe andato a casa sua, avrebbe dato un bacio a sua moglie,
probabilmente, e dato la buonanotte ai suoi figli; si sarebbe
spogliato e sarebbe andato a letto. Pulendosi la coscienza con lo
spazzolino da denti, prima di coricarsi.
Un
sobbalzo più intenso degli altri lo riscosse. Winston
strabuzzò gli occhi, che tornarono a chiudersi sotto le
palpebre pesanti.
Che
vita assurda. Alcuni, vivono senza sapere perché fanno quello
che fanno. Altri, vivono credendo di sapere esattamente quello che
fanno. Altri sono schiacciati dalla consapevolezza
dell'ineluttabilità del loro destino. Chi è tra loro il
più fortunato? Ecco allora a cosa servono i soldi. A
stordirsi. Avere sempre più soldi significa abbandonarsi al
delirio di una vita fasulla, creata ad arte per sgusciare via dalle
grinfie di quella vera. Se hai denaro, puoi credere di essere padrone
di te stesso, di poter comprare il senso delle cose. Ma il denaro non
è che una droga, come tutte le altre. E una volta assunta, ti
lascia addosso un senso di impotenza e di nausea, proprio come tutte
le altre.
La
carrozza sussultò, ondeggiando. Un movimento che, chissà
perché, fece intuire a Winston che erano arrivati.
«Fleet
Street, signore».
La
voce del vetturino gli giunse come da secoli di distanza. Winston
aprì la porta e si avvolse nel soprabito. Aveva cominciato a
soffiare un vento fastidioso.
«Vuole
che la attenda qui?» domandò l'uomo a cassetta. Winston
alzò gli occhi, che gli caddero sulle mani rinsecchite del
vetturino, arrossate da anni di pioggia, di freddo e di vento.
«No,
vada pure. Troverò un altro modo per tornare».
L'uomo
accennò a un saluto, portandosi velocemente la mano al
cappello. Quindi sferzò il cavallo e partì.
Winston
sollevò gli occhi e si guardò introno. Doveva recarsi
alla redazione del Times. Era lì che lavorava la donna di
Fisher. Se voleva scoprire qualcosa sul suo conto, era quello il
posto migliore.
Si
incamminò lungo il marciapiede. Aveva scelto di proposito di
non farsi scaricare davanti al Times. Un'accortezza di quelle che lo
avevano sempre caratterizzato come un uomo avveduto.
Trovò
l'ingresso alla redazione poco più avanti. Si scrollò
la pioggia di dosso, e si infilò nell'androne. Era umido e
fresco. Per terra, impronte di scarpe dalla suola bagnata, e fango.
Si
incamminò lungo le scale. Una ampia porta a vetri smerigliati
si apriva sul primo pianerottolo. Sulla porta di ingresso, segnato
sul vetro, si leggeva London
Times.
Winston
posò la mano sulla maniglia ed entrò. Subito un denso
odore di tè, tabacco e caffè lo avvolse, stordendolo.
Sulle scrivanie aleggiava una cappa di fumo denso, agitata dal
passaggio di uomini e donne indaffarate. Alcune scrivanie
all'ingresso, sovraccariche di fogli. Rumore di macchine da scrivere.
Un vociare intenso, ma monotono e costante.
Winston
si sfilò il soprabito gocciolante e lo ripiegò sul
braccio. Lasciò che gli occhi indugiassero intorno. Cercava
l'attenzione di qualcuno. Chiunque andava bene.
Una
giovane ragazza comparve tutta trafelata da una porta laterale. Gli
lanciò un'occhiata distratta, quindi, realizzando la sua
presenza, tornò a voltarsi verso di lui. Lo squadrò da
capo a piedi, mentre poggiava una serie di cartelle sulla scrivania.
Ancora china, gli rivolse un leggero sorriso, scostandosi una ciocca
dei ricci capelli castani dal volto.
«Buongiorno,
posso esserle utile?» disse, con fare affabile.
«Magari
si» fece laconico Winston. «Mi chiamo Reid, Spencer Reid.
Cercavo notizie sulla signorina Nadia Ra Arwol. Appartengo alla
polizia distrettuale».
Il
volto della ragazza si rabbuiò per un istante. «Mi
spiace, ma non posso esserle di nessun aiuto» disse
semplicemente, voltandogli le spalle con una certa ritrosia.
«No?»
fece stupito Winston. «E perché?»
«Ha
lasciato il giornale. Sono settimane che non sappiamo nulla di lei».
«Davvero?
E lei sa dove si è diretta?»
La
ragazza nicchiò. «Non parlava molto. Non aveva legato
con nessuno qui. Posso solo dirle che aveva ricevuto un'offerta da un
giornale straniero, ma non so dirle quale».
«Capisco».
Winston
assunse un'aria pensierosa.
«Se
vuole, posso farla parlare con il direttore...»
«Le
sarei grato, signora...»
«Signorina
Stanfields» fece lei. «Lisa Stanfields».
Winston
abbozzò un sorriso. Lei ricambiò e gli fece cenno di
seguirla.
«Per
di qua, prego».
Winston
venne introdotto nello studio di Jeremy Hunter. Il direttore era
seduto alla scrivania, le mani immerse in una serie di fogli
manoscritti. Tra le dita teneva un sigaro, il cui fumo denso si
alzava in lente volute, raggrumandosi intorno alla sua testa. Sollevò
flemmaticamente gli occhi e quando si trovò davanti la figura
alta e tenace di Winston, si drizzò, incuriosito.
«Lei
sarebbe?»
«Mi
chiamo Spencer Reid» si presentò Winston, tendendo
cortesemente la mano. Quindi estrasse un distintivo di Scotland Yard.
«Sono della polizia. Vorrei farle alcune domande su Nadia Ra
Arwol».
«Nadia?»
fece il direttore, sporgendo il labbro inferiore. «Non è
che ci sia molto da dire. Comunque, sentiamo pure...»
Winston
si accomodò su una sedia. Lisa, alle sue spalle, chiuse la
porta restandosene poi in piedi, le mani giunte in grembo, accanto
allo stipite. Fissava Hunter con sguardo apprensivo.
«Lei
sa dirmi esattamente dove si doveva recare la signorina Ra Arwol?»
Hunter
espirò il fumo lentamente, facendo ruotare la mano che teneva
il sigaro.
«Ha
ricevuto un'offerta da una testata straniera. Quando le ho chiesto di
che si trattasse, è rimasta sul vago».
«Sul
vago, dice?»
«Sì...
di solito si usa così. Meglio non far sapere i fatti propri,
non crede?»
Winston
annuì. Fissava Hunter in modo freddo e inespressivo. I suoi
occhi tradivano una concreta distanza da quanto stava accadendo.
«Perché
le interessa?» domandò Hunter, tirando una lenta boccata
di fumo. «Credevo che i capi di imputazione sull'assassinio di
Kurtag fossero caduti per assenza di prove».
«Abbiamo
ragione di credere che sia stata assassinata, insieme al suo compagno
Jonathan Fisher».
Winston
reclinò la testa leggermente, tenendo gli occhi bene aperti e
fissi sul volto di Hunter, che sbiancò progressivamente.
Quindi si volse a guardare verso Lisa, che aveva appena lanciato un
gemito.
«Ora,»
riprese Winston, cautamente «perché non la smettiamo di
girarci intorno e ci confessiamo a vicenda quello che sappiamo? Se io
le dicessi che so esattamente perché la signorina è
stata uccisa, voi cosa rispondereste?»
Hunter
ci mise un attimo a riprendersi. Si passò la mano aperta sulla
fronte, visibilmente sconvolto. Non alzava gli occhi, ma li teneva
fissi sulla scrivania.
«Lisa,
chiama Michael» balbettò. Lei soffocò un gemito e
schizzò fuori dalla porta, tenendosi una mano sulla bocca.
«Sa
nulla di un oggetto particolare che la signorina aveva con sé?»
indagò Winston. Hunter si stropicciò gli occhi.
«Io...
aspettiamo Michael e Lisa, per questo. Loro... erano amici».
Winston
accavallò le gambe. Odiava quel genere di situazione. Era
evidente che quella gente doveva essere lasciata in pace, ma lui
doveva stare lì a torturarli ancora un po'. Era il suo dovere,
in fondo.
Michael
e Lisa fecero il loro ingresso nello studio. La ragazza richiuse la
porta, lasciando fuoriuscire un singhiozzo dalle labbra tappate.
Michael fissava a turno i presenti, smarrito.
«Ma
cosa succede?» domandò.
«Siediti
Michael» fece Hunter terreo, senza alzare gli occhi.
«Volete
spiegarmi?» chiese lui, in preda all'ansia.
«Siamo
stati informati della morte di Jonathan Fisher» fece Winston,
moderando il tono della voce. «Abbiamo ragione di credere che
anche la sua ragazza...»
«No!»
Michael
scattò in piedi. Lisa gli si fece accanto, mentre Winston
abbassò lo sguardo.
«Non
può essere» disse Michael, scuotendo la testa. Aveva gli
occhi lucidi.
«Michael,
ti prego...» lo lenì Lisa. Ma lui si sottrasse con un
movimento brusco.
«No!»
insistette. «Non è possibile. Non avrebbe senso. Chi
avrebbe potuto ucciderli? Era John il traditore!»
Winston
socchiuse gli occhi.
«Come
dice?»
Lisa
lo fissò preoccupata, ma Michael rifiutò il suo
sguardo. «Ormai non ha senso continuare a mentire» disse
lui, recisamente. «Nadia potrebbe essere morta».
«La
prego, signore, continui» fece Winston, improvvisamente
interessato. Michael si passò una mano sul volto. Quindi,
serrando le labbra, si decise a parlare.
«Nadia
aveva ricevuto una strana pietra da Kurtag, la sera del suo
assassinio. Voleva scoprire di cosa si trattava, e per questo aveva
deciso di andare in America, a incontrare un uomo che aveva lavorato
con il professore».
«E
questo cosa c'entra con...»
«John
è voluto partire con Nadia, fingendo di non sapere nulla della
pietra, quando invece abbiamo scoperto che era addirittura a capo
delle ricerche che Kurtag stava conducendo!»
Winston
si afflosciò sulla sedia.
«Cioè,
lei mi sta dicendo che il signor Fisher era in partenza per l'America
con la signorina Ra Arwol?»
«Ma
non è della polizia?» si infervorò Michael.
«Dovrebbe chiedere all'ispettore Simum, lui sapeva tutto e...»
«Simum
dice, eh?» mormorò Winston, estraendo un taccuino su cui
prese ad annotare il nome. Lisa e Michael lo fissarono curiosi. «Lo
farò, senz'altro. Ma voi, potete dirmi altro?»
I
due si guardarono senza parole, ancora scossi per quello che era
stato loro detto.
«No,
tutto quello che sappiamo è che Nadia era in partenza per
l'America. Doveva incontrare qualcuno, ma non so dirle chi... non
sapremmo aggiungere altro» ammise Lisa.
«Capisco...»
«Mi
scusi» fece Lisa, gli occhi velati di lacrime. «Potrebbe
dirmi... ecco... siete davvero sicuri che sia morta?»
Winston
sospirò. «No» ammise. «A questo punto, tutto
acquista una luce diversa. Vorrei chiedervi di accompagnarmi a casa
della signorina, e quindi al commissariato; e di raccontarmi quello
che sapete a proposito della Pietra che aveva con sé. È
molto importante. Se le cose stanno come credo, e quanto avete da
raccontare confermerà le mie ipotesi, credo ci siano buone
possibilità di trovare la ragazza ancora viva».
«Possiamo
farlo senz'altro» fece Lisa, raggiante per la speranza che già
si faceva strada in lei.
Lasciarono
lo studio di Hunter che, uscendo per ultimo, si chiuse la porta alle
spalle. Mentre gli altri infilavano le scale, Michael rallentò
un istante, annusando l'aria.
«Che
hai?» abbaiò Hunter, mentre indossava il soprabito.
«Non
lo sente anche lei? È un odore strano...»
«Quello
che puzza è la tua scemenza. Si sente a chilometri»
latrò Hunter. «Vedi di muoverti».
«Dove
andate?» chiese William Ashburne, che passava di lì in
quel momento, una tazza vuota in mano.
«Usciamo»
fece il direttore. Ti lascio le redini, Will.
«Non
abbia paura» ammiccò lui. «La redazione è
in buone mani. Quando tornerà, si stupirà di come la
troverà efficiente e organizzata» e mentre parlava, mise
il bollitore sul fornelletto, seguendo con lo sguardo Hunter e gli
altri chiudersi la porta alle spalle.
Coglione,
pensò, con un sorriso. Non
capisco cosa ci trovi in quei due imbecilli. Manderà in rovina
il giornale.
William
prese a frugare in giro. Cercava del tè, ma non riusciva a
trovarlo. Infastidito, aprì tutte le ante di un piccolo
mobiletto in cui venivano riposte le vivande di cui tutta la
redazione si serviva. Niente.
«È
finito il tè?» domandò, alzando la voce perché
qualcuno potesse sentirlo. Non rispose nessuno. Scrollando le spalle,
decise di lasciar perdere.
C'era
uno strano odore nell'aria. Con una smorfia, William prese ad
annusare in giro. Forse avrebbe fatto meglio ad aprire la finestra.
«Hai
detto qualcosa?» gli chiese un collega, affacciandosi alla
porta. William, che aveva già la mano sulla maniglia della
finestra, lasciò stare, voltandosi.
«Sì,
cercavo il tè, ma è finito».
«No,
ne abbiamo appena comprato una scatola. Ma è nel ripiano di
sotto».
William
si chinò a controllare. – Trovato! – disse
esultante, aprendo il vasetto e cominciando a versare le foglie di tè
nel dosatore. «Da quando manca Nadia, non se ne occupa più
nessuno!» fece, sardonico.
«Già»
commentò divertito il suo collega. «Ma cos'è
questo odore? Hunter ha cambiato marca di sigari, per caso?»
«Non
so» rise William. «Apri
la finestra. Stavo per farlo io, prima» fece. Poi, come
ridacchiando tra sé «chissà, forse è la
puzza degli articoli di Tippett» aggiunse, dopo una pausa,
suscitando il riso del suo collega.
William
non attese che la finestra venisse aperta, per accendere il fuoco
sotto al bollitore. Estrasse un cerino e lo sfregò, senza
risultato. Spazientito, lo gettò via, prendendone un altro. Se
solo avesse aspettato un attimo in più, o se anche quel cerino
non si fosse acceso, non sarebbe accaduto nulla. Ma il cerino si
accese.
William
non si accorse di molto. Fece appena in tempo a vedere la fiammata.
Poi,
più nulla.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 26 *** 25 ***
5
Rebecca
Granba amava il lusso. Era l’unica rampolla di una ricca
famiglia italiana e suo padre, Michele Granba, era un noto
industriale piemontese, proprietario di numerose miniere di ferro e
magnate della siderurgia. Rebecca perse la madre quando era ancora
molto piccola e suo padre non si risposò mai più,
finendo col riversare sulla figlia tutto l’amore e le premure
di cui era capace. Rebecca crebbe così in una culla dorata,
lontano dalla vita e dalle delusioni, in piena sicurezza e circondata
dall’affetto. Tra tutti coloro che le volevano bene, vi erano
il giovane autista e il meccanico, entrambi di pochi anni più
grandi di lei, che da quando presero servizio a villa Granba, le
dimostrarono un attaccamento e una fedeltà fuori dal comune,
vegliandone ogni passo.
Ma
l'ingenuità di Rebecca si sviluppò di pari passo alla
sua bellezza. Quel suo essere costantemente protetta dal lato più
oscuro della vita, la rese facile agli inganni. Nulla al mondo poteva
discostarsi dalle sue infantili idealizzazioni.
Aveva
appena sedici anni quando Henrique Gonzales, giovane e affascinante
nobiluomo argentino, prese a farle la corte. A nulla servirono le
timide rimostranze di chi voleva metterla in guardia. Rebecca era
innamorata e felice, e questo era sufficiente. Nulla avrebbe potuto
farle cambiare idea.
Tuttavia,
ben presto cominciarono a circolare strane voci su Gonzales e Michele
Granba gli ingiunse di non avvicinarsi più alla giovane
figlia. Era la prima volta che Rebecca doveva rinunciare a qualcosa
che voleva: semplicemente, non poteva accettarlo.
E
così, un giorno, Rebecca fuggì all’insaputa di
tutti, gettando suo padre nella disperazione. Qualche tempo dopo,
arrivò una lettera. Era firmata da Henrique Gonzales.
Confessava di aver sedotto Rebecca. L'aveva convinta a scappare con
lui, dietro il miraggio del coronamento del loro sofferto sogno
d'amore. Chiedeva l'assoluzione per entrambi e invitava il padre a
considerare un accomodamento. Manco a dirlo, Rebecca tornò a
casa pochi giorni dopo, felice e ricoperta di doni, accompagnata da
Gonzales, pronto a discutere dell’assegno di dote. Lei non
poteva rendersi conto di quello che stava succedendo, ancora troppo
presa dai suoi sentimenti e smarrita nella sua imbarazzante
ingenuità. Il padre, per proteggere la figlia da uno scandalo
che l'avrebbe segnata per sempre, si risolse a scendere a patti con
il suo detestato fidanzato. E così, si celebrò un
matrimonio.
Nel
giro di pochi mesi, il patrimonio della famiglia Granba si trasferì
nelle tasche senza fondo di Henrique Gonzales, giovane donnaiolo
argentino, amante del gioco e della bella vita, truffatore di
professione e mentecatto per natura. Il padre di Rebecca, distrutto
dal dolore e da una malattia che lo colse improvvisamente, lasciò
la figlia amatissima alla mercé totale del marito, che divenne
per legge l'unico amministratore dei suoi beni. Passò appena
un mese e Rebecca si ritrovò senza casa, il marito fuggito per
scampare ai creditori e il conto in banca prosciugato. Sola,
distrutta, senza nessuno a cui appoggiarsi, Rebecca vide la propria
vita finire a sedici anni. Fu solo grazie all'aiuto generoso
dell'autista e del suo cugino meccanico se lei poté
sopravvivere a quel colpo. Da allora furono sempre insieme, vivendo
di espedienti e di piccole truffe. E presto Rebecca imparò
quanto la vita potesse essere dura e di come fosse necessario, spesso
e volentieri, considerare superfluo qualcosa come il sentimentalismo
o la pietà.
Eppure,
ora, a trentaquattro anni, se ne stava seduta in quella camera
d'albergo, a fissare la piccola Marie che disegnava assorta e
tranquilla. E si accorse che ormai da molto tempo, qualcosa dentro di
lei aveva cominciato a metter in discussione lo scudo di sterili
certezze che si era costruita via via, per difendersi dagli attacchi
della vita. Chissà, forse la colpa di tutto era proprio di
Jean e di Nadia. Quando li aveva incontrati, sei anni prima, qualcosa
in lei era cambiato profondamente: per quei due ragazzini soli e
sperduti, non solo decise di abbandonare la vita criminale che aveva
abbracciato per tutti quegli anni, ma divenne persino tutrice della
bimba che loro avevano incontrato e salvato. Era qualcosa che non
avrebbe mai pensato possibile. Ma era accaduto. E ne era
assolutamente felice.
«Ti
piace, zia?»
Rebecca
si sporse a vedere. Posò il grembiule che stava ricamando a
point
de gaze
e annuì, senza nascondere un certo compiacimento.
«Molto
bello, Marie. Stai migliorando sempre di più».
Marie
sorrise e ritornò al suo disegno. Era una bambina
incredibilmente intelligente, pensò Rebecca. Peccato che
quelle streghe delle suore del collegio non riuscissero a rendersene
conto.
Effettivamente,
Rebecca era consapevole che Anne Marie von Löwenbräu fosse
una bambina un po’ difficile. Quello che non sapeva – o
non voleva sapere – era che le suore ricordavano Marie come
l’allieva più pestifera che il piccolo, ma prestigioso
collegio femminile S. Agnese di Le Havre, avesse mai avuto.
Tanto
per cominciare, rifiutava di indossare il grembiule. E a questo si
dovevano aggiungere le continue fughe dalla classe, e dal collegio in
generale; fughe che costringevano le suore a inseguimenti lungo i
campi di grano che circondavano la periferia della piccola cittadina,
ispezioni nei fienili abbandonati, arrampicate spericolate sugli
alberi. L’unica lezione che Marie sembrava apprezzare era
disegno, per cui oltretutto dimostrava un talento notevole. Marie
aveva un vera predilezione per la giovane Suor Caterina, l’insegnante
di arte, che dal canto suo sembrava aver preso la bambina sotto la
sua ala protettrice. Ne copriva costantemente le malefatte,
occultandone le prove, quando possibile. E spesso, nel trovarla a
girovagare per la scuola quando invece avrebbe dovuto essere in
classe, la prendeva con sé, portandola alle lezioni che teneva
alle classi più avanzate. Le altre suore non si lamentavano,
più di tanto. Per loro era meglio saperla al sicuro tra le
mura del collegio che in giro chissà dove a far danni. Per il
resto, tutto andava bene.
Tuttavia,
nemmeno Suor Caterina poté fare molto quando Marie, dopo un
litigio con alcune compagne, rovesciò del catrame per le
riparazioni del tetto sulla testa della figlia del noto banchiere De
Bligny. Marie venne cacciata. E questo, nonostante Jean avesse pagato
profumatamente e anticipatamente le sue lezioni.
Oltretutto,
quei soldi non ce li hanno mai restituiti. Maledette
streghe.
Ah,
ma se ne sarebbero pentite. Un giorno Marie avrebbe fatto vedere loro
di cosa era capace. Possibile che non si rendessero conto della
situazione di quella povera bambina? In fondo aveva perso i genitori
quando era ancora piccola, uccisi da una setta, una banda di gente
senza scrupoli. Se non fosse stato per Jean e Nadia, chissà
che ne sarebbe stato di lei.
Rebecca
si appoggiò allo schienale della comoda poltrona in stile
Regency,
che
faceva parte del ricco arredamento della camera. Allungò le
gambe e sospirò, chiudendo gli occhi. Non era più
abituata a tutto quel lusso. Dove viveva insieme a Marie era carino,
certo; ma nulla a che vedere con quello sfarzo. Si era dimenticata
come fosse vivere in una grande metropoli, circondata da negozi, dame
in eleganti abiti all’ultima moda...
Sorrise.
Era bello vivere così, anche solo per un poco. Jean le aveva
fatto davvero un bel regalo.
Jean.
Rebecca
sospirò. Quel povero ragazzo si era fatto in quattro per
Marie: aveva persino trovato una casetta a Le Havre, poco distante
dalla sua, in cui le manteneva, e dove Rebecca tirava avanti facendo
la sarta e confezionando abiti per le paesane. Era vero che il padre
gli aveva lasciato un certo gruzzolo, ma chi lo obbligava a farsi
carico di una donna che quasi non conosceva e una bambina trovata per
strada? Senza contare che era persino riuscito a farla ammettere a
quella scuola esclusiva, a cui accedevano solo le figlie della gente
più in vista di Le Havre.
Ma
Jean era così. Lei aveva imparato a conoscerlo, dopo tutti
quegli anni. Ed era difficile per lei non amarlo per quel suo
miracoloso insieme di semplicità e tenerezza.
Per
questo, quando Nadia lo lasciò, lacerandolo, Rebecca sentì
che qualcosa in lei si era spezzato insieme al suo cuore.
«A
cosa pensi, zia?» chiese Marie.
Rebecca
scosse la testa. «A nulla in particolare».
«Sembravi
triste».
«Davvero?»
Marie
annuì.
«Beh,
forse solo un po’...»
Con
un sorriso, Marie tracciò un ultimo tocco di carboncino sul
foglio, quindi lo fissò, allontanandolo, e infine lo mostrò
a Rebecca.
«Che
ne dici?»
«Stupendo.
Davvero, sei bravissima. Chissà cosa dirà Jean quando
lo vedrà».
Marie
si alzò in piedi e infilò il foglio nella cartellina in
cui teneva tutti i suoi lavori.
Sta
diventando sempre più grande,
si disse Rebecca, commossa. Poi, un pensiero la sconvolse.
Anche
io!
«Rebecca,
tu pensi che Jean e Alex si metteranno insieme?»
Rebecca
rise, riprendendo a decorare il grembiule che teneva in grembo.
«Mah,
non saprei... a te andrebbe bene?»
«Io
penso di sì... voglio dire, Alex è simpatica, gioca
sempre con me. Non trovi che sia simpatica?»
«Penso
di sì».
«E
Jean sembra felice quando è con lei. Sembra che non pensi più
a Nadia».
Rebecca
alzò gli occhi. «E tu che ne sai di queste cose?»
Marie
alzò le spalle. Continuava a sfogliare i suoi disegni, dando
di schiena a Rebecca.
«Non
le so. Dico così per dire».
«Capisco»
fece Rebecca, ridendo a fior di labbra.
«Zia»
aggiunse Marie dopo un po’. «Ma tu a Nadia non ci pensi
mai?»
Ci
siamo.
«Ci
penso spesso, sì» disse cauta.
Marie
tacque per un po’. «Io ci penso molto, sai? Tante volte,
durante il giorno. Mi ricordo le cose che abbiamo fatto, quando
abbiamo girato il mondo tutti insieme per scoprire il mistero di
quella strana pietra azzurra che portava con sé... e tutte le
avventure che abbiamo vissuto».
«È
una cosa bella, no?»
«Però...
ormai non mi ricordo più il suo viso».
Rebecca
ammutolì. «Già. Sai, nemmeno io» mormorò
a mezza voce. «Nemmeno io».
Marie
si voltò a guardare Rebecca, che ora la fissava con dolcezza.
«Perché
non è più tornata?»
«Ci
sono cose che è difficile spiegare. Vedi... lei e Jean non
andavano più d’accordo e...»
«Si
è stancata anche di me?»
Rebecca
posò il grembiule, scuotendo la testa.
«No,
non dirlo nemmeno per scherzo. Lei... ha solo cercato di trovare la
sua strada, la sua vita. È difficile da capire, ma quando
sarai grande ti diventerà chiaro».
«Se
devo essere così, da grande, preferisco non crescere»
fece Marie, voltando nuovamente la testa. Rebecca non seppe più
cosa aggiungere. Restarono così, l’una che dava le
spalle all’altra, una bambina e una donna, entrambe a chiedersi
perché, a volte, la vita dovesse essere per forza così
incomprensibile.
Nel
silenzio, qualcuno bussò alla porta, riscuotendo Rebecca come
da un sogno. Si volse a guardare, proprio mentre Jean faceva il suo
ingresso nella stanza. Marie gli corse incontro e lo circondò
la vita con le braccia. Lui rise, stringendola a sé.
«Visto?»
disse. «Ho fatto presto, vero?»
Marie
scosse il capo. – Insomma. Mica poi tanto.
«Ah,
sì? Allora dovrò farmi perdonare!»
«Proprio
così!»
«Sentiamo»
la stuzzicò «E cosa dovrei fare?»
«Andiamo
a mangiare qualcosa di buono, tutti insieme».
Jean
si irrigidì. Rebecca colse subito nel suo sguardo qualcosa di
strano.
«Marie,
perché non ti prepari, intanto?» fece lei, conciliante.
Attese
che Marie corresse in camera sua, quindi «allora,» disse
«che succede?»
Jean
si sedette di fronte a lei, prendendo tra le mani la cartella dei
disegni di Marie.
«È
così evidente?» tergiversò, slacciando il nastro
che chiudeva il raccoglitore. Lei rise.
«In
sei anni ho imparato a conoscerti».
Jean
si fece scorrere i disegni davanti agli occhi. Notò che erano
davvero molto belli.
«Li
ha fatti tutti da sola?»
«Sì»
annuì Rebecca. «È una bambina in gamba».
«Lo
credo anch’io. Peccato che...»
«Jean,
non cambiare discorso» lo ammonì lei. «Vorrei
sapere cosa succede».
Lui
restò a bocca aperta. Rebecca gli rivolse uno sguardo intenso.
«Allora?»
«Nadia»
bofonchiò lui. «È qui».
Rebecca
lo fissava senza dire nulla.
«Oh...»
«È
con Hanson e... il suo fidanzato».
«E
cosa sono venuti a fare?»
«Vogliono
il mio aiuto per alcune ricerche... in Bolivia, o giù di lì».
«E
tu vorresti andare, non è così?»
Jean
sospirò. «A dire il vero, io non so proprio cosa fare».
Rebecca
sorrise garbatamente. «Potremmo andare tutti insieme».
«Pensi
che Marie accetterebbe?»
«Chiediamoglielo.
Non possiamo saperlo se non lo facciamo, no?»
«Il
fatto è che nemmeno io so se voglio davvero...»
«Rivederla?»
«Sì».
Rebecca
mise da parte il grembiule. «Jean, Nadia ha una sua vita, ora.
Sai che andare con lei non significa poterla riconquistare, vero?»
Lui
non disse nulla. Si limitava a muovere i fogli che teneva in mano.
«Jean?»
«Perché
è tutto così difficile?» sbottò lui.
Rebecca si accorse che aveva gli occhi lucidi e si addolcì.
«E
chi ha mai detto che è facile? Ti voglio dire una cosa. Ormai
sei grande e non ha senso che ti racconti bugie. Non è facile,
Jean, non è facile per niente. Anzi, ogni giorno che passa
sarà sempre peggio. Può darsi che prima o poi riuscirai
a convivere con il suo ricordo e ci saranno sempre più giorni
in cui penserai di esserti lasciato il passato alle spalle. Ma poi,
quando meno te lo aspetti, ecco che esso tornerà a farsi
presente, più prepotente che mai: quando sei solo, o quando
sei lontano dalla vita di tutti i giorni, la vita che usi per
seppellire i ricordi nella tua tranquilla quotidianità. E lei,
il suo ricordo o la sua immagine sarà lì a rammentarti
i tuoi sentimenti e il dolore sarà forte, insopportabile».
Lui
la fissò, inarcando le sopracciglia. «Caspita. Grazie
per il supporto morale».
Rebecca
sorrise. «Non c’è di che. Benvenuto nel mondo
meraviglioso degli adulti».
Jean
insaccò le mani in tasca.
«Io...
credo di amarla ancora».
«Lo
so».
«E
che ne sai?»
«Sei
un ragazzo romantico, Jean. E per questo sei prevedibile».
Lui
si incupì. «Devo dire che dopo questa conversazione mi
sento molto meglio» ironizzò.
«Non
fraintendermi» ridacchiò lei. «Non volevo
denigrarti. È solo che un sentimento come il tuo è
qualcosa che non muore dal giorno alla notte. E purtroppo la
separazione non aiuta, in questi casi; invece che affievolire la
passione, la alimenta».
«Sai
che gioia...»
«Jean»
disse Rebecca, fissandolo negli occhi con estrema dolcezza «non
partire se il tuo scopo è cercare di riallacciare il rapporto
con lei. Non voglio alimentare le tue false speranze: lei è
qui con un uomo. Non tornerà indietro».
Jean
si alzò e si portò alla finestra. Davanti ai suoi
occhi, trenta metri più in basso, si stendeva l’intera
città di Boston, il reticolato delle sue vie e le strade
affollate di pedoni.
«Quindi
secondo te non dovrei accettare?»
Rebecca
si alzò e andò a portarsi accanto a lui. Gli posò
dolcemente la testa sulla spalla, un gesto molto tenero a cui lui non
era abituato. Jean chinò la testa e la appoggiò contro
la sua; e insieme restarono a fissare in silenzio la città,
che scorreva insensibile sotto di loro.
«Dico
solo che dovresti accettare, per chiudere definitivamente con il tuo
passato. Dai loro una mano, perché sono nostri amici. E per
dire a te stesso basta».
Jean
sospirò.
«D’accordo,
ho capito. Li aiuterò, quindi sprofonderò nuovamente
nella mia insulsa vita».
«Non
ti consento di dire questo» replicò lei. «Ricordati
che tu hai Marie e me. C’è Alex. Per noi, per tutti noi,
tu sei molto importante. Ti vogliamo bene e io mi aspetto il massimo
da te. Ci siamo capiti?»
Jean
abbassò il capo.
«Jean?»
«Sì,
lo so. Non ti preoccupare» disse. Ma si odiò per quella
menzogna. Il fatto era che lei non poteva capire che ciò che
lo stava distruggendo era proprio questo: una intera giovinezza spesa
a preoccuparsi degli altri, facendosi carico di responsabilità
così insormontabili! E tutto quello che lui voleva, era solo
vivere. Vivere! Senza dover nulla a nessuno, senza sentirsi
schiacciare dal senso di colpa perché aveva pensato a se
stesso e non a Marie, o a Rebecca o ai sentimenti di Alex.
«Bene»
fece lei. «Allora non c’è problema. Per me
possiamo anche partire subito. In fondo dicono che l'America Latina
sia un continente affascinante, pieno di tesori. Sono curiosa di
vederlo! Questa vacanza si sta dimostrando più interessante di
quanto non immaginassi...»
|
Ritorna all'indice
Capitolo 27 *** 26 ***
6
«Il
problema è qui, vedi? Negli elementi mobili».
Hanson
puntò il dito sul progetto. Rimase pensieroso a fissarlo per
un attimo, quindi alzò gli occhi umidi verso Jean e sorrise,
stirandosi. «Ma che ora è?»
Jean
si abbandonò sulla sedia. «Piuttosto tardi?»
«Facciamo
una pausa» fece Hanson. «Che ne dici di andare a farci un
caffè?»
Jean
si stiracchiò a sua volta. «D’accordo. Vieni, c’è
una stanza ristoro qui in facoltà. Ci mettiamo un attimo».
Hanson
e Jean attraversarono in silenzio gli ampi corridoi deserti del MIT.
La tenue luce della luna si infrangeva sul pavimento e sulle pareti
immacolate e avvolte dal buio, filtrando attraverso le ampie vetrate
che si affacciavano sul parco dell’università. Fuori,
nell'ampio giardino, gli alti fusti degli alberi splendevano cerei e
con le fronde picchiettavano debolmente alle finestre, mossi da un
vento leggero.
I
due camminavano in silenzio, uno a fianco all'altro. Hanson prese a
guardare Jean di sottecchi.
«Ehi»
esordì, schiarendosi la voce «mi spiace di essere
capitato qui così. Posso solo immaginare cosa stai provando».
«Lascia
perdere» rispose Jean. «Non hai nessuna colpa».
«Nadia
è venuta da me circa una settimana fa» riprese Hanson.
«Mi ha raccontato che il tipo con cui lavoravo da anni, un
professore nostro amico, era stato ucciso; non potevo tirarmi
indietro...»
«Già».
«...comunque
anche lei era preoccupata all’idea di rivederti, sai? Non
voleva farti soffrire. Dico sul serio. Sono stato io a convincerla
che il tuo aiuto era necessario».
«Beh,
grazie» ironizzò Jean. «Sono lusingato».
Hanson
si strinse nelle spalle. «È la verità».
«Queste...
ricerche» domandò Jean, dopo un attimo di silenzio.
«Cosa riguardano, esattamente?»
Hanson
sporse il labbro, lanciando a Jean uno sguardo in tralice. «Non
so se Nadia sarebbe d'accordo che io ti dicessi queste cose...»
«Ma
lei non è qui» fece Jean «e non deve saperlo per
forza».
Hanson
si ritrasse, mugugnando. «E va bene» cedette, alla fine.
«Io e Kurtag abbiamo trovato una pietra, quando eravamo insieme
nel Pacifico. Una pietra strana, che ricorda per certi versi la
Pietra Azzurra che aveva Nadia».
«Kurtag...
sarebbe il professore amico di Nadia che è stato ucciso?»
«Esatto»
fece Hanson. «Era anche amico mio. Me lo presentò lei, a
essere sinceri. Avvenne due anni fa, quando io mi trasferii in
America per impiantare la mia officina. Cercavo clienti, gente
disposta a finanziare le mie macchine innovative. Lui era il tipo
giusto. Nadia lo sapeva, naturalmente. E così ci fece
conoscere. Kurtag aveva bisogno di qualcuno che lo seguisse nelle sue
spedizioni e gli approntasse mezzi particolari, capaci di affrontare
le difficoltà legate alle caratteristiche ambientali dei
luoghi in cui doveva svolgere le sue ricerche. Aveva soldi in
abbondanza, anche se non devi chiedermi dove li trovasse fuori,
perché proprio non lo so... comunque era in gamba. E mi
offriva l'avventura. Non chiedevo di meglio.
«Questa
pietra» chiese Jean, curioso «davvero è come la
pietra azzurra?»
«No»
confessò Hanson. «Ma le somiglia molto. Nadia la tiene
sempre con sé. Dovresti parlare con lei di questo, ma non
credo che otterresti qualcosa. Non accetta di parlarne con nessuno».
«E
tu cosa sai?»
«Io?»
fece Hanson, stranito. «A parte che devo costruire un mezzo da
immersione e un dirigibile? Nulla!» rise. «No, a parte
gli scherzi... so che Kurtag era andato avanti con le ricerche, dopo
che si era portato la pietra in Inghilterra. Credo che abbia capito
da dove proviene. Quando Nadia è venuta da me, a Philadelphia,
mi ha detto che il professore sarebbe voluto recarsi in Bolivia, per
compiere alcune ricerche sulla pietra. Riteneva di aver trovato il
suo luogo di origine. Io ero stupito. Mi chiedevo come avesse fatto
una pietra così a percorrere tutta la strada tra la Bolivia e
Samoa... ma lei era molto sicura. La Bolivia era il posto giusto. Io
accettai di seguirla, anche se avevo qualche dubbio. Sentivo di
doverlo a Kurtag. In fondo, io la mia fortuna la devo a lui.. e a
lei, che me lo ha presentato».
«Ma
il lago Titicaca è davvero così profondo? È un
lago vulcanico, certo... ma credevo arrivasse al massimo a duecento
metri, o giù di lì...»
Hanson
sogghignò con espressione furba. «E infatti è
così. Ma io e Kurtag lo abbiamo visitato parecchi anni fa e
abbiamo trovato una fenditura, una sorta di fossa, sul fondale che
fronteggia il lato meridionale, vicino all'isola della Luna. Lì
la profondità supera i mille metri».
«E
siete riusciti a scendere fin là?» fece Jean, curioso.
«No»
rispose Hanson, amaro. «Appena raggiungemmo i quattrocento
metri le saldature si incrinarono e dovemmo tornare su in tutta
fretta. Per questo organizzammo la spedizione a Samoa. Kurtag credeva
che ci fosse una galleria sotterranea che collegasse la fossa di
Tonga alla dorsale delle Ande. Ma anche lì la profondità
era troppa. Non riuscimmo a superare i cinquecento metri e dovemmo
abbandonare».
«Quindi
tu eri in America da due anni?» chiese Jean, cambiando
discorso. «Perché non mi hai detto nulla? Dopo che sono
andato via da Berlino, non ti sei più fatto vivo...»
«E
cosa dovrei dire di te?» fece Hanson, arcuando le sopracciglia.
«Mica mi hai detto che lavoravi al MIT, o sbaglio? Ho dovuto
saperlo da Rebecca, pensa te».
Jean
si accigliò. Prese a fissare avanti a sé, lo sguardo
perso nell'ombra che li circondava. «Io... ho avuto qualche
problema... con me stesso» disse laconicamente.
Il
volto di Hanson si addolcì. «Jean, se è per
quella storiaccia di Berlino...»
«Siamo
arrivati» lo interruppe lui. Hanson sospirò, ma lasciò
perdere, e con un gesto di intesa seguì Jean nella stanza.
Era
una piccola cucina, completamente immersa nel buio. Sulla sinistra,
si intravvedeva un divano e, accanto, un tavolino. Contro la parete
in fondo, un angolo cottura e alcuni scaffali. Jean si avvicinò
a un mobiletto e tirò fuori un bollitore e la polvere di
caffè, muovendosi al buio come se conoscesse quella stanza
quanto le sue tasche.
«Caspita.
Avete proprio tutto qui, vero?»
«Già,
si sta davvero bene. Dovresti presentare domanda. Credo che ti
prenderebbero subito».
«Nah.
Io non mi ci vedo a fare l’insegnante. Lo sai, nei rapporti
interpersonali non vado molto bene. Mi trovo meglio con le macchine».
Jean
annuì. «Sai, credo di capirti...»
«Che
profumo! C’è un po’ di caffè anche per me?»
Jean
si voltò. Con il cuore che cominciava a battere all’impazzata
riconobbe la sagoma di Nadia, che si stagliava nel buio.
«Ehi,
Nadia» fece Hanson. «Che ci fai qui? Pensavo che tu e
Jonathan foste già tornati in albergo».
«John
è andato qualche ora fa. Io... ho voluto fermarmi un po’.
Avevo bisogno di stare sola».
Jean
le porse una tazza.
«Grazie»
fece lei, con un sorriso incerto.
«Non
c’è di che» fu la sua risposta, asciutta. Un
improvviso silenzio si abbatté su di loro, finché
Hanson non intervenne a scioglierlo.
«Bene,
bene» disse, molleggiandosi sui piedi. «Direi... vado un
attimo al bagno. Ci rivediamo tra cinque minuti nello studio, Jean?»
Lui
annuì. Nadia avvicinò alla bocca la tazza fumante.
«Hai
fatto molta strada» disse lei all’improvviso, non appena
furono rimasti soli.
«Anche
tu non scherzi».
«Beh,
mi sono data da fare» fece lei, con un sorriso. «Sai,»
aggiunse con trasporto «ieri in classe sei stato davvero
fantastico. Ci avevi tutti in pugno».
«Ti
ringrazio».
Nadia
si gingillò con la tazza. Fece qualche passo lungo la stanza,
mentre pensava a cosa dire.
«Ora
sarà meglio che vada» disse lui. Lei sussultò,
sorpresa.
«Oh.
Certo...»
Lo
fissò che si allontanava lungo il corridoio, quando qualcosa
la spinse a chiamarlo. Lui si voltò a fissarla: e nel vedere
il dolore che affiorava sul suo volto, lei sentì il cuore
lacerarsi.
«Cosa
c'è?» le chiese, sforzandosi di apparire distaccato.
«Devi
per forza tenermi il broncio? Sono passati quasi tre anni...»
Lui
sollevò le spalle. Nei suoi occhi brillò quel lampo di
derisione che lei non conosceva in lui, e che cominciava ad odiare.
«Io non ti tengo il broncio» le disse. «Sei in
errore».
«Certo!
Come no».
Lui
la fissò, e lei vide che tutta la profonda irrisione di prima
aveva lasciato in lui il posto a un tremenda solitudine. Sembrava
tanto fragile che lei temette potesse spezzarsi lì, davanti ai
suoi occhi.
«Hai
finito?» fece lui, in tono piatto. «Sono stanco, non ho
voglia di discutere».
«Jean,
mi dispiace» disse lei, allargando le braccia. «Non
volevo che finisse così, con me e te che ci evitiamo, come se
fossimo due perfetti sconosciuti».
«Ma
noi lo siamo» la corresse lui. Nadia rimase a fissarlo,
pietrificata. «Sei sparita dalla nostra vita per tre anni. Ho
dovuto inventarmi storie assurde per giustificare a Marie la tua
assenza. Mi hai lasciato? Bene, ma che ne è stato di lei? Come
hai potuto lasciarla così?»
«Io
non sapevo come comportarmi» provò a giustificarsi.
«Avresti
semplicemente dovuto continuare a esserci».
«Lo
so, io...»
«No,
tu non lo sai. Altrimenti non saresti ricomparsa qui, dopo tutto
questo tempo, comportandoti come se nulla fosse, mentre io... io
davvero non so chi tu sia».
Io
sto solo provandoci, Jean,
avrebbe voluto dire. Ma le parole le morirono sulle labbra. Lo seguì
con lo sguardo mentre spariva avvolto nell’ombra. Quindi si
appoggiò allo stipite della porta, lasciando che il buio che
stringeva quelle quattro mura si spingesse piano piano fin nel
profondo del suo cuore.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 28 *** 27 ***
7
La
mattina arrivò presto e Nadia si risvegliò con la luce
del sole che filtrava attraverso le finestre della saletta. Si era
addormentata sul divano e ora si sentiva tutta indolenzita. Si
stropicciò gli occhi e si accorse improvvisamente di non
essere sola. Alcuni professori si erano riuniti intorno a lei e
bevevano il caffè, lanciandole occhiate a dir poco curiose.
Con un leggero imbarazzo, Nadia sorrise, distogliendo lo sguardo.
Si
alzò, facendo scivolare a terra la giacca che la copriva. Non
era sua. Probabilmente, qualcuno la sera prima l’aveva trovata
addormentata e aveva pensato di coprirla con qualcosa.
Ne
aspirò il profumo e riconobbe quello di Jean. Un sorriso le si
dipinse in volto e lei strinse involontariamente la giacca a sé.
Era stato dolce.
Con
una insolita eccitazione, si infilò le scarpe e corse fuori,
percorrendo allegra i corridoi che cominciavano a popolarsi di
studenti. Bussò allo studio di Jean ma lo trovò chiuso.
Dev’essere
andato a dormire. Abita qui da qualche parte, se non mi sbaglio...
Percorse
in fretta le scale, lottando contro la marea di studenti e professori
che si stava riversando nell’edificio. D’un tratto
intravide John, fermo in mezzo all’atrio. Si guardava attorno,
come se stesse cercando qualcosa o qualcuno. Lei lo raggiunse, e
quando lui la vide la abbracciò, salutandola con un bacio. Lei
ricambiò ma, stranamente, non avvertì alcun trasporto.
«Ma
si può sapere dove ti eri cacciata?» la rimproverò.
«Stamattina, quando ho bussato alla tua porta e non mi ha
aperto nessuno, ho cominciato a preoccuparmi. Il maître mi ha
detto che non eri rientrata... puoi solo immaginare la mia
agitazione!»
«Scusami,
sono stata una sciocca» si giustificò lei. «Mi
sono fermata più del dovuto e sono crollata».
John
notò la giacca che teneva in mano.
«Di
chi è quella?» domandò.
«È...
di Jean» abbozzò lei. «Me l’ha lasciata
ieri... credo».
«Credi?»
Nadia
arrossì. «L’ho vista solo stamattina. Deve avermi
trovata addormentata e mi coperto con questa».
John
la studiò intensamente. «Un pensiero carino».
«Lo
stavo giusto andando a cercare per restituirgliela. Tu aspettami qui,
arrivo subito».
«Vengo
con te. Così posso ringraziarlo anch’io».
«Non
ce n’è bisogno» fece lei, insolitamente fredda.
Lui si indurì.
«Bene»
fece lui, glaciale. «Vorrà dire che ti aspetterò».
Nadia
scosse la testa. «Non litighiamo, ti prego. Non c’è
motivo. È... una situazione difficile, e vorrei solo non
complicare le cose».
«E
io vorrei che quel tipo stesse lontano da te».
«Lo
sta facendo» lo rassicurò. Lui strinse le labbra, ma
alla fine sorrise.
«Va
bene» disse. «Vai pure. Ti aspetterò qui».
Nadia
salutò John con un bacio frettoloso. Mentre lui saliva le
scale, si voltò ancora a cercarla, ma lei era già
sparita, dileguata tra la folla, in cerca di Jean.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 29 *** 28 ***
8
«State
tutti bene?»
Winston
e gli altri avevano appena messo piede sui gradini, quando un boato,
seguito da una tremenda una esplosione, li aveva investiti in pieno,
scuotendo il palazzo fino alle fondamenta e scaraventandoli giù
per le scale.
Passò
in rassegna i volti di Lisa e degli altri. Sembravano tutti incolumi.
Solo Lisa aveva una leggera escoriazione al volto, ma nulla di grave.
Lui le offrì un fazzoletto per tamponarsi la ferita.
«Cosa
è successo?» grugnì Hunter, che faticava a stare
seduto. Aveva fatto un ruzzolone per le scale, atterrando piuttosto
male.
«C'è
stata un'esplosione» disse Winston, che sembrava avere ancora
il pieno controllo di sé. Lisa, che al contrario era
terrorizzata, lo fissò ammirata. «Restate qui,»
fece lui «vado a vedere».
Risalì
velocemente le scale coperte di macerie, facendosi largo tra i resti
di legno e calce che bruciavano sul pianerottolo. La porta era stata
divelta e i vetri si erano infranti in mille schegge, sparse sul
pavimento tra i residui di intonaco e legno. All'interno della
redazione, numerosi focolai di fiamme ardevano qua e là tra le
scrivanie rovesciate e la mobilia distrutta. Un fumo nero e un puzzo
intollerabile costrinsero Winston a ripararsi con il braccio, mentre
avanzava cautamente nella stanza.
Sentì
qualcuno tossire, poco lontano. Sul pavimento, intravide dei resti
umani. Vi passò accanto, evitando con cura di fissarli troppo
a lungo.
«C'è
qualcuno?» gridò. Una flebile voce che chiedeva aiuto lo
raggiunse dal corridoio. La stanza era piena di corpi inanimati. Chi
si trovava nelle vicinanze della sala ristoro non aveva avuto scampo.
Solo chi era negli uffici più lontani si era potuto salvare.
Winston
entrò in un ufficio sulla destra, facendosi largo tra i
calcinacci che scricchiolavano, inquietanti, sotto le suole delle sue
scarpe. Vide un'ombra nell'angolo. Si muoveva. Era un uomo, ed era
vivo.
«Eccomi,
stia tranquillo!»
Si
chinò su di lui, facendosi passare un braccio intorno al
collo. Quindi lo aiutò a sollevarsi, sorreggendolo mentre
camminava.
«Sa
se c'è qualcun altro qui?» gli domandò. L'uomo
annuì e indicò le altre porte lungo il corridoio invaso
dal fumo e dalle fiamme.
«Riesce
a camminare da solo?» tossì Winston. L'uomo fece un
cenno affermativo e Winston lo indirizzò all'uscita. Quindi si
incamminò lungo il corridoio.
Fortunatamente,
trovò solo persone scioccate, ma non ferite. Dopo averle
radunate, le guidò verso l'uscita. Ma una nuova esplosione,
meno forte della precedente ma ugualmente terrificante, li costrinse
a ripararsi dietro a un muro.
«Muovetevi»
gridò Winston. «Uscite, presto!»
Li
condusse all'uscita, osservandoli sfilare con il cuore che pulsava
senza freni. Una nuova esplosione li avrebbe sorpresi tutti allo
scoperto, e li avrebbe lasciati senza scampo. Non appena l'ultimo dei
superstiti fu uscito, Winston si precipitò fuori, contento di
non dover restare lì dentro un secondo di più.
In
fondo alle scale si era già radunata una piccola folla.
Winston cedette il passo ai vigili del fuoco, che salivano
trascinandosi dietro un lungo tubo di gomma e pesanti secchi d'acqua.
Si spazzolò la cenere dalla raffinata giacca di lana nera,
quindi si avvicinò a Lisa, Michael e Hunter, che lo
attendevano insieme ad alcuni dei loro colleghi del Times.
Erano
tutti spaventati, ma incolumi per lo più. Fuori, una folla di
persone fissava ciò che restava del primo piano del palazzo,
gli occhi sollevati al cielo, le mani alzate ad indicare le fiamme
che uscivano dalle finestre sventrate.
«L'avevo
detto che sentivo odore di gas» fece Michael, tossicchiando. La
caduta gli aveva incrinato una costola.
«Devo
imparare a darti retta più spesso» ammise Hunter,
strappandogli un sorriso. Quindi si rivolse a Winston, fissandolo
serio. «Quanti, i... ?» domandò, con voce
tremante.
Winston
si oscurò in volto. «Almeno in sei».
«Buon
dio!» lamentò Hunter, passandosi una mano sulla fronte
impolverata.
«Quel
fornello era molto vecchio?» domandò Winston.
«No,
non molto» rispose Hunter, ancora molto scosso. «Stamane
erano persino venuti a controllarlo gli uomini della manutenzione. È
una cosa periodica. Chissà che hanno combinato...»
Winston
si chinò sui talloni. «Gli uomini della manutenzione? Li
conosceva, dunque?»
«Mai
visti. Cambiano sempre. Li manda la società proprietaria
dell'immobile» fece Hunter.
Con
semplicità, il giovane Churchill si ravviò i capelli
leggermente scomposti. Quindi sorrise, divertito.
«Che
le prende?» fece Lisa, profondamente offesa da quella che
giudicò una mancanza di tatto. «Delle persone nostre
amiche sono morte, e noi abbiamo appena rischiato la pelle!»
«Esatto,
signorina. Anche se credo che sarebbe più giusto dire che
qualcuno ha cercato di farvi la pelle. Ma per una serie di fortunate
coincidenze, non gli è riuscito».
Lisa
e Michael si guardarono stravolti. «Cosa? E perché
avrebbero dovuto...»
«Perché,
ormai è chiaro, Nadia Ra Arwol e Jonathan Fisher non sono
affatto morti. E qualcuno non vuole che lo si arrivi a sapere».
«E
come può dirlo?» chiese Hunter. «Cos'è, un
veggente?»
«Qualcuno
sapeva che eravate a conoscenza della Pietra che la Ra Arwol ha con
sé, e del luogo in cui si è recata insieme al suo
fidanzato. Lasciarvi in vita era troppo pericoloso, per due che
dovevano sparire. Solo così si spiega il tentativo di
togliervi di mezzo».
«Piuttosto
maldestro, a dire il vero» fece Michael, con una smorfia.
«Oh,
no. Tutt'altro. Se io non vi avessi chiesto di seguirmi, e se solo
avessimo atteso qualche secondo in più, saremmo tutti morti. E
sarebbe sembrato solo un banale incidente, dovuto a una fuga di gas.
È stato davvero ben architettato, se devo essere sincero».
Michael
impallidì, fissando Winston senza parole.
«Lei
ha parlato di Nadia e di John, che avevano necessità di
sparire» fece Hunter, sollevandosi con una smorfia e soffocando
un lamento. «Vuol dire... che tutto questo... è opera di
quei due?»
«No»
ammise Winston. «Non
lo credo. Troppo complicato per due sole persone. Ma credo che il
signor Michael non avesse tutti i torti riguardo al fatto che
qualcuno di loro nascondeva qualcosa. Dovrò cercare di
scoprire qualcosa di più sul conto di Jonathan Fisher. Sono
sicuro che scoprirei aspetti interessanti».
«Siamo
con lei, agente» fece Michael, sollevandosi faticosamente in
piedi. Ma appena tentò di raddrizzare il busto, avvertì
una fitta al costato che lo piegò in due.
«Non
sia sciocco» lo ammonì Winston. «Lei ha bisogno di
farsi curare, è evidente. Mi sarebbe solo di intralcio. Questo
non è un gioco, lo abbiamo visto. Il rischio è grande».
«Giusto,
il signore ha ragione» intervenne Lisa. «Andrò io
con lui. E appena voi due vi sarete ripresi, decideremo insieme il da
farsi».
Winston
la fissò sconcertato. «Lei non ha capito, io non la
voglio tra i piedi. Nessuno di voi».
«È
lei a non aver capito» ribatté Lisa, con un sorriso.
«Non si contraddice mai una signora».
Il
giovane strinse le labbra, gonfiando il petto. Un bagliore di
ostilità gli lampeggiò negli occhi per un istante. Ma
poi il suo volto si distese, assumendo un'aria divertita.
«Va
bene. Ma cerchi di stare attenta. Non posso essere sempre lì a
pararle il sedere».
«Lei
ha davvero un modo raffinato di esprimersi, sa?» lo schernì
lei. «Comunque non si preoccupi. So badare a me stessa».
«Perfetto»
fece lui, ammiccando leggermente. «Andiamo allora».
«Lisa,
per l'amor di dio, stai attenta» la ammonì Hunter.
Quello sguardo preoccupato che le rivolse, unito alla sua figura
improvvisamente smagrita e afflitta, la commosse profondamente.
«Stia
tranquillo» lo confortò. «Andrà tutto
bene».
«Andiamo!»
Winston la tirò delicatamente per un braccio. «Dobbiamo
muoverci. Ogni minuto è prezioso».
|
Ritorna all'indice
Capitolo 30 *** 29 ***
9
Mentre
percorreva a passo leggero i viali del parco, Nadia ripensò
alle accuse mossele da Jean. Aveva ragione su ogni cosa: era sparita
di punto in bianco, cancellando tutto il suo passato con un colpo di
spugna. Pensò a Marie e si chiese come avrebbe mai potuto
farsi perdonare da lei, per quello che le aveva fatto. Se ora la
odiava, ne aveva tutte le ragioni: aveva pensato solo a se stessa.
Ne
avevi il diritto,
si disse.
No,
nessuno ha il diritto di far soffrire gli altri.
Era
scappata. Solo ora se ne rendeva conto: era scappata da qualcosa che
la spaventava. Ma cosa l'aveva terrorizzata così tanto, da
spingerla ad abbandonare tutto ciò che rendeva la sua vita
piena, e a ricrearsene un’altra completamente nuova?
Non
era infelice. Anzi. Era innamorata, ed era circondata da persone che
la amavano. Eppure non si sentiva realizzata. Ma era solo quello? No,
a crederlo mentiva a se stessa. Lei sapeva che inaspettatamente, un
giorno, dentro di lei era scattato qualcosa: una paura ancestrale,
che periodicamente affiorava improvvisa nella sua vita, a
sconvolgerne gli equilibri precari su cui si reggeva in modo
insospettabile.
Ma
di cosa avevo paura? Di cosa ho sempre paura?
Avrebbe
dato qualsiasi cosa per saperlo. E per tornare indietro, forse...
Improvvisamente,
vide Alexandra che se ne stava seduta su una panchina. Accanto a lei
c’era una bambina. Poteva essere...
Marie.
Nadia
avvertì l’emozione crescerle in petto. Non era pronta ad
affrontare la situazione, anche se sapeva che prima o poi avrebbe
dovuto farlo. In quel preciso momento, la bambina alzò lo
sguardo, incontrando gli occhi smarriti di lei. Nadia rimase immobile
a guardarla. Stettero così, una di fronte all’altra,
finché Marie abbassò di nuovo gli occhi, prendendo a
fissare il vuoto ai suoi piedi.
Con
il cuore in gola, Nadia si appressò cautamente alla panchina.
Alexandra spostò su di lei il suo sguardo e le sorrise.
«Ciao»
fece Nadia. «Marie? Sei... proprio tu, vero?»
Marie
alzò gli occhi verso di lei e annuì senza calore.
«Sei
diventata grande» Nadia sentì un groppo in gola. Si
sforzò di trovare quelle parole che non volevano saperne di
uscire dalle sue labbra. «Sei davvero una signorina, ormai».
Marie
non disse nulla. Si limitò a fissarla macchinalmente per
qualche istante, quindi abbassò di nuovo gli occhi.
«Buongiorno,
Nadia. Cercavi qualcuno?» si intromise Alexandra, esaminando la
giacca che lei teneva in mano.
Nadia
restò per qualche istante a guardare Marie, quindi spostò
gli occhi in quelli di Alex.
«Veramente...
cercavo Jean. Dovrei restituirgli questa».
«Dovrebbe
essere ancora a letto. Ha fatto molto tardi, ieri».
«Oh.
E tu come lo sai?»
Quelle
parole le sfuggirono di bocca. Alexandra la fissò, sorridendo.
Nadia arrossì, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro.
«Scusa?»
«Mi
chiedevo come potessi essere così informata...»
«Perché
lo aspettavo. Ero a casa sua».
Nadia
si sentì avvampare. Una rabbia crescente si fece strada in
lei, senza trovare ostacoli.
«Dovevo
occuparmi di cercare alcune cose nel suo archivio personale»
aggiunse Alex, placidamente.
«Non
devi giustificarmi la cosa».
«Te
l’ho detto solo perché sembravi molto interessata a
farti i fatti suoi».
Nadia
drizzò il busto.
«Il
tuo ragazzo si trova bene a Boston?» continuò Alex,
sorridendo.
«Molto»
disse Nadia a denti stretti. «Puoi indicarmi dove esattamente
abita Jean? Così posso restituirgli la giacca».
«Se
vuoi, posso occuparmene io».
«Preferirei
sbrigarmela da sola».
«Il
fatto è che gli appartamenti sono in un’area vietata al
pubblico».
Nadia
rise. «Ma certo, come no».
Alex
si accigliò.
«Non
capisco il tuo tono, Nadia» disse.
«E
io non capisco il tuo, Alexandra. Credi di conoscere Jean...»
«Forse
lo conosco, che ne sai?» interloquì lei.
«...quanto
lo conosco io? Tu non hai nemmeno idea di quello che io e lui abbiamo
vissuto insieme».
«Basta!»
Nadia
e Alex si voltarono sorprese verso Marie, che le fulminò
entrambe con gli occhi.
«Lascia
in pace Jean e lascia in pace Alex. Lei non conoscerà Jean
quanto te, però non gli ha mai fatto tutto il male che invece
gli hai fatto tu!»
Nadia
sentì il cuore mancarle un battito. Fissava sbigottita Marie,
che le teneva gli occhi piantati addosso, il volto segnato dalle
lentiggini costretto in un’espressione dura e accusatoria.
Senza parole chinò la testa e tese la giacca ad Alexandra, che
ora sembrava quasi guardarla con una certa compassione. Si sentì
umiliata.
«Bene.
Sarei felice se potessi occupartene tu. Grazie» fece Nadia,
affidandole la giacca. La ragazza la prese e annuì, senza
sorridere.
«Lo
farò. Gli dirò che lo hai cercato».
Nadia
la ringraziò con un cenno del capo. Lanciò un ultimo
sguardo a Marie, ma la bambina era già tornata a fissare
lontano. Con le lacrime agli occhi, Nadia si voltò e si
incamminò, cercando di scacciare l’eco terribile della
voce sprezzante di Marie. Sapeva che quelle sue parole non erano
altro che la verità; ma si trattava di una verità che
lei non era ancora pronta ad accettare.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 31 *** 30 ***
10
Lisa
seguì Winston lungo Fleet Street. Camminavano a passo svelto,
ma con un certo contegno. Lui se ne stava immerso in un silenzio
assorto che era difficile da decifrare. Alla fine, prese coraggio e
decise di parlargli.
«Lei
non è un poliziotto, vero?»
Winston
la fissò stupito. «E da cosa lo deduce?»
«Dalla
sua aria misteriosa. E dal fatto che sembra sapere cose che la gente
comune ignora».
Sul
volto ampio di lui comparve un sorrisetto divertito. «Lei è
indubbiamente molto acuta, Miss Stanfields».
«Vuole
dirmi chi è?»
Winston
alzò il braccio per attirare l'attenzione di un vetturino di
passaggio. L'uomo tirò le redini e fermò la carrozza
proprio davanti a loro. Winston aprì la porta e tese la mano a
Lisa, per aiutarla a salire. Quindi si issò, prendendo posto
accanto a lei.
«Whitehall»
fece, sporgendosi verso il vetturino. L'uomo abbozzò un cenno
di intesa e partì. Winston si accasciò sul sedile
scrostato, estraendo un pacchetto di sigarette dal taschino del
soprabito. Con movimenti lenti, ne accese una, inspirando con fare
liberatorio.
«Allora?»
lo incalzò Lisa, che per tutto il tempo era rimasta a fissarlo
in silenzio e in attesa. Lui le rivolse un'occhiata lontana.
«Cosa?»
«Come,
cosa? Le ho chiesto di dirmi chi è...»
«E
lei si aspetta che le risponda? È davvero così
ingenua?» fece lui, ridacchiando.
«Se
dobbiamo lavorare insieme...»
«Mi
stia bene a sentire, ragazza» fece lui, avvicinandosi al suo
volto e penetrandola con i suoi occhi densi e scuri. «Io non
sto affatto lavorando con lei, la sto al massimo tollerando. È
con me solo perché potrebbe tornarmi utile in qualche modo.
Quindi, veda di non rompere e se ne stia buona».
Lei
avvampò di collera. «È un gran maleducato!»
Winston
ghignò, tirando una boccata di fumo. «Già, può
essere».
Se
ne stettero in silenzio per tutto il resto del tragitto. Winston fece
arrestare la carrozza davanti al palazzo del ministero della difesa.
Aprì la porta e tese la mano a Lisa, che però la
rifiutò sdegnosamente. Winston sorrise, divertito.
«Non
vuole nemmeno dirmi cosa dobbiamo cercare?» gli chiese Lisa,
gelida.
«Qualsiasi
cosa» fece lui, aggiustandosi il soprabito. «Tenga gli
occhi aperti».
«Tenga
gli occhi aperti»
gli fece il verso lei. «Razza di cafone...»
«Ha
detto qualcosa?» le chiese, senza nemmeno voltarsi. Lei gli
rivolse una smorfia.
L'ingresso
del Palazzo della Difesa era monumentale. Era la prima volta che Lisa
aveva occasione di entrarci. Uomini eleganti in completo scuro
sfrecciavano affaccendati attraverso le sale affrescate, con pesanti
faldoni di documenti tra le braccia. Riconobbe alcuni deputati
particolarmente famosi che chiacchieravano rilassati a lato della
sala principale, fumando sigari e sorseggiando liquori. Lisa si
guardò timidamente. Aveva il vestito sgualcito e coperto di
polvere. I capelli erano arruffati e il volto era ombreggiato dal
sangue rappreso, che le era colato dalla ferita sulla fronte.
Arrossì. Si sentiva parecchio fuori luogo.
«Non
può muoversi?» la rimproverò Winston, volgendo la
testa a guardarla. Lei sollevò gli occhi e lui percepì
il suo smarrimento. Con una smorfia, la prese a braccetto e la
condusse lungo gli ampi corridoi. E subito Lisa si sentì più
a suo agio.
Una
guardia in divisa sbarrò loro il passo. Lisa credette che
fossero arrivati al capolinea.
«Non
potete passare, signori» fece la guardia, lanciando ai due
un'occhiata perplessa. Si soffermò in particolare su Lisa,
squadrandola da capo a piedi, con disgusto. La ragazza chinò
la testa, avvampando. «Mi dispiace, ma questa è un'area
riservata».
«Dica
al ministro che Churchill è qui, e ha urgente bisogno di
parlare con lui» fece tranquillo Winston. L'uomo lo fissò
sospettoso, quindi sparì, annuendo severamente.
Lisa
allungò gli occhi su di lui, che evitava di guardarla. «Così,
ora si chiama Churchill?» disse.
«A
quanto sembra» fu la sua risposta secca.
«E
avrà anche un nome, immagino?»
Lui
strinse i denti. «Evidentemente».
«Evidentemente
non me lo dirà, non è così?»
Winston
abbassò gli occhi sul volto pallido di lei. Quella ragazza era
esasperante.
«Mi
chiamo Winston. Contenta?»
Lei
annuì. «Bene, Winston. È un piacere fare la sua
conoscenza. Crede che ora comincerà a dirmi la verità?»
«Lei
spera troppo» ridacchiò lui. «Ma potrei anche
farlo visto che, ora che sa come mi chiamo, dovrò ucciderla».
Lei
si ritrasse, incredula.
«Sto
scherzando» rise lui.
«Non
è per nulla simpatico, sa?» fece Lisa, rabbrividendo.
«Lei non mi piace, neanche un po'».
Lui
si irrigidì, fissandola con astio. «Nemmeno lei, se è
per questo. È sempre così dannatamente intollerabile?
La conosco da stamattina e già non la sopporto più».
Lisa
aggrottò le sopracciglia, furiosa. «Se fossi sua moglie,
le garantisco che le metterei del veleno nel tè» sibilò,
livida. Lui chinò il volto ampio a guardarla, sulle labbra una
smorfia stiracchiata.
«E
io le garantisco, signorina, che se lei fosse mia moglie non esiterei
a berlo!»
Lisa
arrossì violentemente. Quindi voltò il viso,
accigliata, sporgendo il labbro inferiore e assumendo un'aria
profondamente offesa. In quel momento la guardia fece ritorno. Aprì
la transenna e si fece da parte.
«Prego
signori. Il ministro vi attende».
Lisa
si lasciò trascinare da Winston, sorpresa dalla facilità
con cui erano riusciti a passare.
«Dunque
è così?» chiese. «Lei viene qui, dice il
suo nome e il ministro la fa accomodare?»
«Godo
di certi privilegi» ammise neutro Winston, tenendo lo sguardo
fisso avanti a sé. «Siamo arrivati».
Aprì
una grande porta di mogano. Lisa entrò subito dopo di lui,
affacciandosi timidamente all'ingresso. L'ufficio del ministro era
diverso da come se lo aspettava. Non era troppo grande e nemmeno
luminoso. Una carta da parati color salmone irradiava una luminosità
triste, in quel giorno di pioggia. Alle pareti vi erano parecchi
scaffali ricolmi di file ordinate di volumi. Una piccola scrivania in
noce, su cui era disposto ordinatamente il materiale da scrittura.
Due piccole ma apparentemente comode poltrone fronteggiavano la
scrivania. Sulla destra, un piccolo salottino per il tè.
Il
Ministro, un uomo dall'aspetto pingue e mansueto, con larghi baffi
ingrigiti e la fronte lucida e ampia, li accolse andando loro
incontro.
«Signore,
che piacere averla qui. Devo dire che sono assolutamente sorpreso».
Lisa
strabuzzò gli occhi di fronte a tanta cordialità. Fissò
Winston perplessa, chiedendosi che ruolo rivestisse quel giovane per
avere diritto a esser trattato con tanta familiarità da
personaggi così illustri.
«Non
è una visita di cortesia, Ministro» replicò secco
Winston. Abbassò gli occhi e notò subito il camino
acceso. «Sospettiamo che il signor Fisher fosse coinvolto
nell'Ordine. Abbiamo bisogno di accedere ai documenti riservati
riguardanti il Reperto».
«Cosa?»
obiettò incredulo il Ministro. «È assurdo. Il
signor Fisher era un uomo probo, onesto. Il Consiglio è stato
informato della sua morte, no?»
«Pensiamo
che il signor Fisher non sia affatto morto, signore, ma che la sua
sia solo una montatura».
L'uomo
fissò Winston con antipatia.
«È
un modo meschino di infangare la memoria di un vero servitore della
patria».
«Basta»
tagliò corto lui. «Non sono tenuto a spiegarle nulla. Si
limiti a fare quello che le chiedo».
Il
Ministro occhieggiò esitante Winston, balbettando qualcosa di
inarticolato.
«Allora?»
insisté Winston, tagliente. «Sto aspettando».
L'uomo
si terse il sudore dalla fronte, quindi si sforzò di simulare
un sorriso di compiacenza.
«Ma
certo. Come chiedete. Permettetemi solo di avvisare la cancelleria...
è una procedura lunga».
Fece
per andarsene, ma Winston lo trattenne. Un lampo di malignità
comparve per un istante sul volto tirato dell'uomo.
«Non
è necessario. A dir la verità, io volevo solo metterla
al corrente della cosa. Non ho bisogno di alcun permesso della
cancelleria, come lei ben sa».
«Ma
questo... è contro le regole» sorrise affabile il
Ministro.
«Siamo
noi che facciamo le regole» fu la risposta distaccata di
Winston. «E ora, vuole seguirmi?»
L'uomo
fissò stancamente Winston e Lisa, che dal canto suo era
sconcertata. Ma chi era quel tipo che si permetteva di fare il bello
e il cattivo tempo di fronte al Ministro della Difesa in persona?
«Prego»
sorrise Winston. «Dopo di lei».
L'uomo
boccheggiò un istante. Quindi si volse e sorrise, con grande
fatica. «Mi perdoni, ma credo sia utile prendere alcuni
documenti che tengo nel cassetto della mia scrivania. Farò in
un attimo...»
L'uomo
estrasse velocemente un fascicolo dal cassetto, prima che Winston
potesse fermarlo.
«Ecco»
disse semplicemente. «È tutto qui».
«Si
allontani da lì e posi il fascicolo sulla scrivania» gli
intimò Winston. L'uomo alzò gli occhi a fissarlo con un
sorrisetto malizioso.
«Non
capisco...»
«Non
voglio correre il rischio che lei bruci anche questo, ministro. Ci
penseranno altri a controllare le sue carte, può starne
certo».
Lisa
fissò stralunata Winston, che teneva gli occhi piantati in
quelli del Ministro, sfidandolo con un sorriso beffardo.
«Cosa
intende dire?» gli chiese lei.
«Giusto,
Ministro. Cosa intendo dire? Perché non lo spiega lei, alla
ragazza?»
L'uomo
ghignò. «Come l'ha capito?»
Winston
occhieggiò verso il camino. «Chi tiene il camino acceso,
di Luglio?» osservò. «Fa freddo, sì, ma non
così tanto».
Lisa
fissò il camino in cui ardevano allegre le fiamme. Quindi
spostò gli occhi sul fascicolo che reggeva tra le mani il
ministro.
«Il
Ministro sapeva che prima o poi saremmo venuti a controllare»
riprese Winston. «Perciò, ha saggiamente deciso di
disfarsi di alcuni documenti compromettenti, che lo mettevano in
relazione ad alcune persone... poco raccomandabili. Peccato che non
potesse prevedere la mia venuta, oggi, effettivamente inaspettata.
Dico bene?»
«Dice
benissimo» fece ironicamente l'uomo. «Non pensavo che il
Consiglio ci avrebbe messo così poco, a capire di Fisher».
«Devo
ringraziare la fortuna. Permette che le presenti la signorina? È
Lisa Stanfields, la giornalista che dovevate uccidere».
Il
ministro piantò gli occhi addosso a Lisa, che si sentì
agghiacciare.
«Quindi...
è ancora viva. È per questo, che ha capito».
«Avete
fallito» fece Winston. «Avete fatto i conti senza
l'elemento più imperscrutabile. Il caso. E come disse un uomo
saggio, la fortuna la si crea con la previdenza».
Il
ministro ridacchiò. «A quanto pare, lei ha saputo
leggere gli eventi meglio di noi».
«Sono
piuttosto bravo, in questo» ammise Winston, sardonico. «Mi
hanno istruito bene».
«E
saprebbe anche dirmi cosa c'è qui dentro?» fece il
ministro, sventolando il fascicolo. Winston reclinò il capo.
«Suppongo
le missive di Fisher, che indicano il luogo in cui si trova ora, più
altre cose riguardanti la pietra e ciò che intendete farne».
«Lei
mi sorprende» sorrise l'uomo.
«Posso
vedere?» chiese Winston, in un tono che in realtà
nascondeva un imperativo preciso. L'uomo annuì, facendo
ondeggiare le guance paffute.
«Sicuro!
Prego. A questo punto...»
Fece
per porgergli i documenti, ma all'ultimo li gettò nel camino
acceso. Con un balzo, Winston si avventò sui fogli che già
imbrunivano accartocciandosi, aggrediti dalle fiamme. Si voltò
appena in tempo per vedere il Ministro che colpiva Lisa per poi
scappare lungo il corridoio.
«Dannazione!»
Winston
si lanciò al suo inseguimento. Lisa gli tenne dietro, ancora
stordita per il colpo ricevuto. Videro il corpo grasso del Ministro
infilarsi in una stanza sulla destra. Alcune guardie, attirate dalla
confusione, accorsero a vedere, precipitandosi lungo il corridoio.
«Fermate
il Ministro!» gridò Winston. «Muovetevi, è
un ordine del Consiglio».
A
quelle parole, le guardie scattarono all'inseguimento. L'uomo si
stava già lanciando giù per le scale, quando trovò
la strada bloccata. Con un movimento improvviso, ritornò sui
suoi passi e con un'imprevedibile agilità superò il
cordone di guardie che gli impediva la fuga. Ansante, ormai allo
stremo, si rifugiò nella biblioteca, dove cercò
l'ultimo, disperato nascondiglio. Si spinse tra gli scaffali,
affaticato, gli occhi stralunati, sotto lo sguardo attonito dei
presenti. Arrivò fino in fondo alla sala, dove una immensa
vetrata si ergeva a sbarrargli definitivamente la strada. Solo allora
capì di essere in trappola e si volse. Winston lo raggiunse,
il respiro leggermente pesante, il volto screziato di rosso. Il
Ministro lo fronteggiò spavaldamente, fissandolo sprezzante
negli occhi.
«Credete
di aver raggiunto qualcosa? Anche se avete scoperto tutto, non
troverete mai Fisher in tempo».
«Sarà
lei a dirci dove trovarlo, Ministro» ansimò Winston.
«Gliel'assicuro».
«Oh,
no» ghignò l'uomo, il volto trasfigurato dall'odio. «Non
io. Può scommetterci. Io non tradirò l'Ordine. Porterò
a termine il compito che mi è stato assegnato».
Si
volse a guardarsi intorno. Quindi, con uno sguardo di estrema
consapevolezza, fissò la vetrata. Solo allora tornò a
guardare Winston e le guardie che lo stavano accerchiando, e che gli
si avvicinavano sempre di più.
«È
finita» disse placido Winston. «Non ha più alcun
senso continuare. Ci aiuti a mettere termine a questa pazzia».
«Pazzia?»
ruggì il ministro. «Lei è pazzo. Lei e tutti
quelli del Consiglio. Voi non sapete con chi avete a che fare. Ma ve
ne accorgerete presto. La Regina è tra noi. Tutto cambierà,
ogni cosa! Sarà l'apocalisse, e una nuova era nascerà,
per tutti noi! E saranno gli uomini come me ad ereditare il potere
dalle mani dei Signori dell'Universo!»
Lisa
era sconvolta. Quell'uomo delirava, evidentemente, ma quello che
stava dicendo era allucinante.
«La
Regina?» fece Winston, impallidendo. «Cosa stai dicendo,
pazzo? Di che diavolo parli?»
L'uomo
esplose in una risata agghiacciante per la sua follia. «Aspettate
e vedrete. Vedrete! La fine è vicina. La fine!»
E
così dicendo si slanciò contro la vetrata. Winston si
sporse nel tentativo di agguantarlo, ma riuscì solo a lambire
l'orlo del suo vestito. Restò a osservare disarmato il corpo
del Ministro che cadeva nel vuoto, circondato da una miriade di
schegge di vetro.
Mentre
cadeva, il Ministro alzò gli occhi verso Winston. Rideva. Il
suolo era sempre più vicino.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 32 *** 31 ***
11
Jean
si svegliò con un forte mal di testa. Alzò
distrattamente gli occhi sull’orologio appeso al muro. Segnava
le undici e un quarto.
Non
era abituato a dormire fino a tardi. Era andato a letto non prima
delle tre; ma per via della stanchezza, non era riuscito a prender
sonno che all’alba.
Si
alzò a fatica, portandosi una mano alla testa. Sentiva un
forte senso di nausea e la sola idea di far colazione gli fece salire
un conato di vomito.
Diavolo,
è peggio di una sbornia colossale.
Si
rivestì svogliatamente, passandosi le bretelle sulle spalle.
Cercò in giro la giacca, ma non la trovò. Si ricordò
solo in un secondo momento di averla data a Nadia. La notte prima era
tornato a cercarla per scusarsi e l’aveva trovata addormentata
sul divanetto della sala ristoro. Le aveva sfilato le scarpe e
l’aveva coperta con la sua giacca. Un modo come un altro per
dirle “mi dispiace”.
Ma
alla fine, gli dispiaceva davvero?
Sì.
Non avevo il diritto di dirle quelle cose.
Aveva
sofferto, ma cosa ne sapeva di quello che aveva passato lei? E se
quello che Hanson gli aveva detto era vero, almeno Nadia aveva
mostrato una certa sensibilità nel preoccuparsi per lui. Che,
al contrario, si era preoccupato solo di sbatterle in faccia tutto il
suo rancore.
Con
un sospiro, Jean lasciò il suo appartamento, diretto all'aula
seminari, dove si sarebbe dovuto incontrare col resto del gruppo.
Fuori era una bella giornata e l’aria calda del mattino lo
rinfrancò. Forse c’era la possibilità che quel
giorno si presentasse migliore rispetto al precedente. Magari si
poteva ricominciare tutto da capo.
Passeggiava
con le mani in tasca, immerso nei suoi pensieri, quando vide la
figura elegante e slanciata di Alex farglisi incontro. Jean sorrise.
Si sentiva dell’umore giusto per affrontare la discussione che
avevano lasciato in sospeso.
Le
si mosse incontro a passo deciso, un sorriso allegro sul volto
ombreggiato dalla barba vecchia di due giorni. Ma non appena le fu
vicino, si accorse con stupore che sembrava turbata.
«Alex?
C’è...»
Lei
gli tese la giacca.
«Con
i ringraziamenti di Nadia».
Jean
prese la giacca dalle mani di lei, che restò immobile a
fissare per terra.
«Alex,
ascolta...»
«Stammi
a sentire, Jean» fece lei, tranquilla. «Io ti capisco. La
ragazza di cui eri così tanto innamorato si ripresenta
all’improvviso, ed è normale che tu ti senta
scombussolato. E che io mi senta a pezzi».
Lui
restò a fissarla, in silenzio.
«È
solo... io ti chiedo solo di...»
Lui
cercò di rincuorarla. Ma per quanto si sforzasse, non riusciva
a trovare nulla da dire.
«Io
mi sono innamorata di te, Jean. Quindi voglio saperlo: ami ancora
Nadia?»
Lui
tacque per qualche istante.
«Non
lo so» confessò lui, alla fine. Alex si morse il labbro,
guardando lontano.
«Perché
vuoi che parta con te?» domandò. «Perché me
lo hai chiesto, per farla ingelosire o cosa?»
«No!»
ribatté lui, con energia. «Assolutamente! Mi credi
davvero così meschino?»
«No,
Jean» fece lei, dolce. «Ma allora perché? Credimi,
io partirei con te subito, ora. Ma non sono così poco sana di
mente, da imbarcarmi in un’avventura che mi porterà a
stare a stretto contatto con te e la donna che ami. Grazie, ma no.
Preferisco restarmene a casa. A meno che...»
«Cosa?»
«Tu
non mi dica perché vuoi che io venga con te. Sinceramente
Jean: cosa vuoi, tu, da me?»
Jean
allargò le braccia, con un sospiro. «Io ho bisogno di
te, Alex. Senza di te io... non sono molto equilibrato, lo sai».
«Io
non voglio essere la tua stampella».
«E
io non ti ho chiesto di esserlo. Voglio che tu venga perché ti
voglio con me. Ho... bisogno di averti accanto».
Alex
lo fissò a lungo prima di dire qualcosa. Quindi spostò
gli occhi sull’orizzonte e sorrise, scuotendo leggermente la
testa.
«È
la cosa più vicina a una dichiarazione d’amore che tu mi
abbia mai detto. Ne sei consapevole, vero?»
Jean
rise. «Può darsi».
«Ho
qualche speranza?»
«Tu
sei davvero importante per me» le confessò, con il cuore
in gola. «Ma ti mentirei se ti dessi una risposta precisa. Per
me è...»
«...difficile.
D’accordo. Penso di poterlo accettare. Sono una che ama lottare
per ciò che vuole veramente».
Jean
arrossì e sorrise, imbarazzato.
«Non
dovresti venire, se pensi che...»
«Ah,
no!» fece lei, alzando la mano. «Dopo quello che mi hai
detto, non rinuncerei a partire per nulla al mondo, caro mio! E alla
fine... vedremo. Ma solo alla fine».
E
così dicendo si allontanò, lanciando a Jean uno sguardo
maliziosamente allegro.
Lui
rimase a fissarla mentre si allontanava, gettandosi la giacca sulla
spalla.
Forse
quel giorno sarebbe stato davvero fantastico.
Mentre
saliva le scale che conducevano alla sala seminari, Jean incappò
in Jonathan, intento a guardare oltre le vetrate lungo corridoio.
Decise di assumere un’espressione neutra e gli sorrise, mentre
gli passava accanto. Aveva già la mano sulla maniglia quando
John lo bloccò, impedendogli di entrare. Jean si voltò
a guardarlo, sorpreso.
«Professor
Lartigue, se ha un momento gradirei dirle due parole».
Jean
sospirò. Immaginava già dove li avrebbe condotti quella
discussione.
«Io
apprezzo realmente il suo aiuto,» fece John conciliante «ma
gradirei che lei si limitasse ai suoi compiti».
Jean
lo fissò stranito. «Mi scusi... i miei compiti?»
«Si
tenga gentilmente alla larga dalla mia fidanzata».
«Capisco»
sorrise lui, sarcastico.
«Davvero?
Perfetto. Perché, vede, non penso di apprezzare appieno le
gentilezze che le riserva. Non quando lei è al momento così
vulnerabile. In fin dei conti lei, professore, non c’era quando
Nadia aveva delle difficoltà. Io, c'ero. Quindi, ora è
troppo facile far leva sulla sua sensibilità e sbatterle in
faccia delle presunte colpe, nella speranza di circuirla».
«Signor
Fisher,» fece Jean, cercando di controllare la propria emozione
«se preferisce posso anche fare di meglio. Lascerò lei e
la signorina Ra Arwol a sbrigarvela da soli».
«Maturo
da parte sua» commentò velenoso John.
«Ed
è maturo da parte sua venirmi a fare questa scenata di
gelosia?» ribatté Jean, duro. «In fondo, io stavo
benissimo prima di ritrovarmi tra i piedi gente come lei, che si
permette di venirmi a dire quello che devo o non devo fare. Forse è
abituato così, a comandare a bacchetta persone che si
dimostrano ben felici di seguire le sue direttive. Bene, buon per
lei. Ma con me non funziona».
Jonathan
serrò la mascella. Uno scintillio balenò duro nei suoi
occhi, mentre fissava Jean, sprezzante.
«Chiarito
questo, le garantisco che non ho nessuna intenzione di rubarle la
fidanzata. Ho avuto a che fare con Nadia già una volta, e mi è
bastato. Può stare tranquillo, non ho più intenzione di
ripetere una simile esperienza».
Jean
fece per aprire la porta ed entrare. Solo in quel momento si accorse
di lei: Nadia era appena arrivata e stava immobile sulle scale a
fissarlo con gli occhi sbarrati, che brillavano di una fragile
luminosità. Lui sostenne per un poco il suo sguardo ma presto
un senso di smarrimento lo prese, costringendolo a spingere altrove i
suoi occhi.
Ora
non aveva dubbi: quel giorno avrebbe fatto ancora più schifo
del precedente.
Aprì
la porta ed entrò, portandosi dietro come un odore sgradevole
quel senso di angoscia che gli era improvvisamente calato addosso.
Davanti
a lui sedeva la comitiva al completo. Nadia e Jonathan lo seguivano
silenziosi e presero posto accanto agli altri. Nadia teneva gli occhi
bassi, sul volto un’espressione indecifrabile. Nel guardarla,
Jean non poté fare a meno di sentirsi un verme.
Alex
era seduta defilata. Appena lo vide entrare gli sorrise. Fu per lui
come un’oasi di serenità, in quello che assomigliava
sempre più ad un inferno da incubo. Ma poi, il pensiero di
come l'aveva coinvolta in quella girandola di sentimenti da cui non
prevedeva alcuna uscita, lo fece sentire ancora più depresso.
«Jean!
Eccoti, cominciavamo a chiederci dove fossi finito».
Tutto
pimpante, Hanson si alzò in piedi non appena lo vide entrare.
Jean si chiese dove trovasse tutta quella energia e ne fu
infastidito.
«Allora,
signori» fece Hanson, sfregandosi le mani. «Vogliamo
illustrarvi i particolari della spedizione. La partenza è
prevista fra una settimana. Ho già contattato la mia officina
e devo solo inviare loro i progetti a cui io e Jean abbiamo lavorato.
Raggiungeremo la Bolivia a bordo di un dirigibile anfibio, che
abbiamo modificato per l’occasione. Questo ci permetterà
di partire direttamente da qui».
«Da
qui?» chiese John. «E come?»
«Jean
mi ha chiesto di presentare un progetto speciale al direttore del
MIT» intervenne Alex. «L’intento era quello di
convincerlo a finanziare parte del progetto: e devo dire che quando
ha visto i disegni preliminari, si è mostrato subito
entusiasta. Ci metteranno a disposizione le officine meccaniche
dell’università. Questo dovrebbe aiutarci a velocizzare
i lavori».
«Esatto»
fece Hanson. «Potremo dividere il carico dei lavori di
costruzione tra la mia officina e il MIT. Così avremo i nostri
mezzi a tempo di record».
Nadia
arrossì. Dunque era per quel motivo che Alexandra si trovava a
casa di Jean, il giorno prima. Quello che le aveva detto, dunque, era
vero.
Ma
perché ti interessa così tanto,
pensò. Lo
hai sentito. Lui ti detesta.
«Partendo
da Boston, in circa una settimana dovremmo essere in prossimità
di Lima. Il dirigibile fungerà da base e da centro di
controllo. È capace di ospitare il mezzo sommergibile che Jean
e io abbiamo progettato... tra ieri notte e stamattina, modestamente
parlando».
Hanson
sorrise, cercando consensi introno a sé. Si accorse però
che nessuno sembrava dell’umore giusto per sorridere alle sue
battute, quindi si schiarì la voce e riprese a parlare.
«Dunque...
con esso potremmo finalmente calarci nelle profondità del lago
Titicaca, dove Kurtag riteneva si trovasse l'ingresso al luogo da cui
pensava provenisse l'oggetto che abbiamo trovato. Qualche domanda?»
«Sì»
fece John. «Una volta arrivati, dove alloggeremo?»
Hanson
lanciò a Jean uno sguardo sorpreso.
«Beh,
là non troveremo certo alberghi di lusso, trattandosi di
montagne alte oltre quattromila metri» ridacchiò,
nervoso. «Ma il dirigibile presenta lo spazio necessario per
una dozzina di persone. Noi siamo in otto, nove... se consideriamo
anche quel... mio cugino» disse, in una smorfia. «Quindi
non avremo problemi a...»
«Cioè,
dovremo vivere su quel coso tutti insieme, per tutto il tempo?»
fece John, sprezzante. Incontrò lo sguardo di Jean che
sorrideva beffardo e sentì un crescente fastidio montargli
dentro.
«Beh,»
fece Hanson «è vero che dovremo adattarci un po’,
ma...»
«Eravamo
sicuri che avreste apprezzato l’idea» fece Jean,
alzandosi in piedi. Il volto, pallido e teso, era atteggiato in una
smorfia ferocemente sarcastica. «Sarà come andare tutti
in colonia, non credete?»
E
detto questo lasciò la sala, in un silenzio sbigottito. John
strinse i denti, masticando amaro, mentre gli altri si apprestavano a
uscire dalla stanza senza una parola.
«Già,»
mormorò, senza che nessuno lo sentisse «proprio come
andare in colonia. In una colonia penale, però».
***
Era
una bella giornata di Luglio. Nadia respirò a pieni polmoni
l’aria calda e carica di odori che aleggiava nel parco.
Tutt'intorno a lei, un'esplosione di colori, e la vita addormentata
nella placida calura estiva.
In
quella calma, lei camminava sola. Aveva bisogno di riflettere.
Le
parole che aveva udito inavvertitamente da Jean l’avevano
colpita come una frustata. Improvvisamente, si era resa conto di
quanto era stata sciocca a credere di poter contare ancora qualcosa
per lui. Davvero era andata a Boston credendo di poterlo avere ancora
ai suoi piedi?
Che
stupida!
Sorrise,
e le sue labbra si incresparono, mettendo in evidenza due piccole
fossette agli angoli della bocca.
Doveva
dimenticarlo, dimenticare tutto. Contava solo la pietra. E
John.
John...
Inavvertitamente,
aveva fatto soffrire anche lui.
Sono
un vero disastro, in amore,
si disse tra sé e sé. E non poté trattenersi dal
ridere.
Si
sedette su una panchina, intrecciando le mani tra le gambe. Rimase a
fissare gli studenti che andavano e venivano nel parco, le coppiette
che si baciavano all’ombra di qualche frasca, al riparo da
sguardi indiscreti. Aveva mai provato un simile senso di intimità,
quella pace e quell’energia che ti trasmette una cosa così
semplice e naturale?
Lo
aveva dimenticato. Aveva dimenticato tante cose nella sua vita,
probabilmente troppe. Si era concentrata su se stessa fino a perdere
il senso del mondo intorno a sé.
Jean
comparve poco lontano. Marie era accanto a lui e insieme
passeggiavano tranquillamente attraverso le aiuole. Incuranti di chi
avevano intorno, si erano tolti le scarpe e le tenevano in mano, come
quando si cammina su una spiaggia. Marie era allegra e parlava. Nadia
avrebbe tanto voluto sapere quello che stava dicendo.
Jean
sorrideva e annuiva. Faceva qualche segno a Marie, che lo spintonava
felice. Nadia restò affascinata a vederli. Avrebbe potuto
guardarli per ore. Erano qualcosa di compiuto, e perfetto.
Alex
li raggiunse e prese Marie per mano. Nel vederli così uniti,
Nadia sentì una lacrima sfuggire ai suoi occhi e scenderle
solitaria lungo la guancia. La lasciò cadere e la seguì
nella sua discesa lenta, senza cercare di contrastarla. Quella
lacrima era un monito per lei, come se il suo cuore, nel vedere
quella scena, le sussurrasse mai
più.
Non
permettere mai più che accada.
Aveva
perso tutto, tutto! Scappando, per la paura di costruire la propria
felicità.
Amare,
essere amati, sentire una persona fino dentro alla pelle, sotto la
pelle, e nei pensieri, negli atti, nei sogni... Era troppo. Troppo
dipendere da qualcuno, e rischiare poi di perdere tutto in un gioco
che è troppo grande...
Troppo
grande, per me.
Nadia
abbassò lo sguardo. Se ne era andata perché aveva paura
di perdere ogni cosa. Lei, da sempre abituata a vivere sola, a
curarsi da sola, alla fine aveva ceduto al richiamo rassicurante
della solitudine. Troppo difficile amare, mettersi in gioco,
rischiare per poi vedere finire tutto. Meglio lasciare il tavolo
quando si sta ancora vincendo e mettere tutto in borsa. Ricordi,
sentimenti, vita.
La
vita che rappresentavano quei tre era qualcosa che poteva appartenere
solo a coloro che amano il rischio. Coloro che giocano, e vincono. E
che a volte perdono. Nadia non sopportava di perdere. Era un’eterna
vincente e, come tale, perdeva sempre qualcosa, ogni volta. Quello
che non aveva provato, quello per cui non aveva rischiato.
Strinse
le labbra, e le lacrime presero a scendere più
abbondantemente. La vista le si offuscò, ma non vi si oppose.
Lasciò che l’immagine che aveva davanti si mescolasse ai
colori sfumati che le giungevano attraverso il velo di lacrime che le
ammantava gli occhi.
«Nadia!»
La
voce di John la raggiunse da lontano. Si asciugò gli occhi
imperlati di lacrime. Pregò che non si accorgesse che aveva
pianto. Non aveva voglia di inventare scuse.
«Sei
qui! Vieni, andiamo a pranzo. Dovremo pensare a come occupare il
tempo! Per un po’ non avremo molto da fare, dato che non
partiremo prima della prossima settimana».
«Sì,
certo...»
Nadia
si alzò. In quel momento, Jean si voltò e la vide. I
loro occhi si incontrarono in uno spazio tra loro che era
inaccessibile a chiunque altro. Lui la fissò e per la prima
volta, attraverso quel muto sguardo, si lanciarono una promessa,
antica e mai ancora pronunciata. Avevano ancora molto da darsi l’uno
all’altra e quell’estrema consapevolezza li raggiunse
ferendoli, marchiandoli come il fuoco. Era qualcosa che discese in
loro attraverso un semplice sguardo, quello sguardo che arrivò
a toccare Nadia nel profondo del cuore, e che lei sentì
correre come un brivido lungo le pieghe del suo corpo, e negli spazi
lasciati vuoti dall’anima. E quel brivido, quello smarrimento
che la atterriva e la cercava oltre le sue paure e le sue barriere,
si spingeva in lei fino all’abisso in cui si era rifugiata, per
trarla a sé e alla vita. Fu per quegli occhi che lei lasciò
la sua anima aperta e vulnerabile, lasciò che in lei ogni velo
cadesse. Si offrì, per la prima volta, completamente nuda.
Voleva che lui la guardasse. E voleva essere guardata, e salvata.
Sono
qui. Allunga la mano.
Lui
le sorrise e fu come se le catene che la opprimevano gemessero dietro
l’azione di una forza irresistibile.
«Nadia,
andiamo?»
La
voce lontana di John la richiamò a sé. Distolse lo
sguardo, tremante. Aveva paura di quella vita, non era la sua, non
poteva esserlo. Lui era troppo, era tutto. Essere sua significava
smarrirsi, proprio come ora.
È
John la mia famiglia. È lui la mia famiglia, è John...
Mentre
si allontanava si voltò ancora un’ultima volta, quasi
disperatamente, dimentica di tutto e di tutti. Lo trovò ancora
lì che la aspettava, il suo sguardo che indugiava su di lei
all’ombra fitta degli alberi. Tra loro una promessa che
chiedeva di essere mantenuta.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 33 *** 32 ***
12
«Venga
con me».
Lisa
si lasciò strattonare via da Winston. Ancora non riusciva a
capacitarsi di quanto era appena accaduto. Aveva appena visto il
ministro della difesa lanciarsi dal terzo piano... stentava a
crederci.
«Dove
stiamo andando?» balbettò. Era profondamente scossa e
continuava a lanciare fuggevoli occhiate alle sue spalle, verso la
vetrata in frantumi. «Il Ministro...»
«Il
Ministro è morto» sibilò Winston, rafforzando la
presa sul suo braccio. «Non abbiamo più alcuna ragione
di stare qui».
«Ma
non dovremmo parlare con qualcuno, che so...» disse lei, mentre
avanzava incespicando, tirata a viva forza da Winston.
«Si
muova!» fu la sua risposta secca. «Non mi faccia perdere
altro tempo».
Esasperata,
Lisa strattonò il braccio liberandosi dalla presa di lui, che
si voltò a guardarla stupito. Lei lo fronteggiava, rossa in
volto, gli occhi che brillavano per l'emozione ancora forte nel suo
cuore.
«La
finisca!» esplose. «Un uomo si è appena ucciso
davanti ai miei occhi, la redazione in cui lavoro è esplosa e
molte persone sono morte... e questo solo perché io
mi trovavo lì...» Lisa sentì gli occhi che le
bruciavano per le lacrime. «Sono stanca di correre di qua e di
là, senza sapere cosa sta succedendo e perché... voglio
delle risposte!»
Winston
mosse la mascella come se dovesse masticare qualcosa di duro. Alzò
gli occhi a fissare il vuoto alle spalle di lei, quindi sospirò,
assumendo un'espressione rilassata.
«Non
posso dirle nulla perché non so ancora nulla» confessò.
«Non avrebbe senso parlare per congetture. Anche io cerco delle
risposte».
Le
si avvicinò e le posò le mani sulle spalle. Quindi
riprese a parlare, abbassando il tono di voce. «È
evidente che il Ministro era d'accordo con Fisher e occultava la sua
fuga. Credo che entrambi sapessero cos'è in realtà la
pietra che Nadia Ra Arwol ha con sé... ciò che non
capisco è perché si portino dietro anche lei».
«Nadia
non è una traditrice, o una spia». replicò Lisa,
decisa.
«No»
fece lui, stringendole delicatamente le spalle «ne sono sicuro.
Qualcosa mi dice che la sua amica serve a quella gente per un motivo
diverso. Anche se ancora non mi è chiaro quale».
Lisa
si asciugò gli occhi, quindi si terse il volto, accettando il
fazzoletto che Winston le porgeva cortesemente.
«Di
cosa stavate parlando con il ministro?» chiese lei.
«Quando?»
«Prima,
nel suo studio. Ha parlato di un Ordine, o qualcosa di simile. E
prima di gettarsi ha nominato una Regina...
cosa intendeva?»
Winston
fece una smorfia. «A lei non sfugge proprio nulla, eh?»
Lei
sorrise, le guance arrossate dal pianto e gli occhi illuminati dalle
lacrime appena versate. «Sono una giornalista, l'ha
dimenticato?»
«Già»
fece lui. «Purtroppo, sono domande a cui non posso rispondere».
«Perché
se no dovrebbe poi uccidermi?» scherzò lei. Lui la fissò
con severità e il suo sorriso si trasformò in una
smorfia di stupore. «Non dirà sul serio?» fece
Lisa, tremando.
«Ci
sono cose che non possono essere divulgate. Ho già commesso un
mare di infrazioni al protocollo, portandola con me».
«Non
si libererà di me facilmente» fece lei, agguerrita. «La
mia amica è in pericolo, e voglio aiutarla».
«Oh,
non ho nessuna intenzione di lasciarla andare,» la
tranquillizzò «anche se ne avrei una gran voglia. Credo
che lei potrà ancora tornarmi utile. E poi, è più
al sicuro con me, che da sola. Chi ha provato a ucciderla potrebbe
tentare di finire quello che ha cominciato».
Lei
rabbrividì, e volse la testa oltre le spalle, per guardarsi
intorno. «Lei... dice?»
«Andiamo»
fece lui, prendendola per mano. «Voglio passare al
commissariato. Mi piacerebbe controllare gli incartamenti riguardanti
le indagini sulla morte di Kurtag. Chissà che non salti fuori
qualcosa».
Mentre
si lasciavano il palazzo della difesa alle spalle, passarono accanto
a un capannello di gente raccolta intorno al corpo martoriato del
Ministro. Piena di timore, Lisa guardò timidamente il cadavere
con la coda dell'occhio e lo intravide a terra, un'ombra scura e
scomposta sul selciato macchiato di porpora.
Il
Ministro giaceva immobile, sul volto dall'aspetto gentile aveva un
sorriso quasi di stupore. Intorno al corpo, centinaia di frammenti di
vetro, che brillavano al sole.
Era
come circondato da una grande corona di luce.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 34 *** 33 ***
13
Erano
diverse ore che Winston e Lisa frugavano tra i fogli di Simum. Al
commissariato li avevano avvertiti della morte dell'ispettore e
avevano messo a loro disposizione tutto il materiale che questi aveva
raccolto sul caso. L'ispettore aveva lasciato tutto in disordine: non
aveva ancora archiviato nulla e si fecero l'idea che quel tipo amasse
lavorare tenendo tutto a mente, senza segnarsi nulla, se non
l'indispensabile. L'intero caso era riassunto in pochi fascicoli, in
cui erano riportate deposizioni o documenti notarili, informazioni
sui viaggi di Kurtag, la sua condizione economica, i suoi trascorsi
giovanili... nulla che potesse illuminarli su quanto era avvenuto la
sera che era stato ucciso, né sulla pietra che Nadia aveva con
sé.
«Non
troveremo niente, qui» lamentò Winston, passandosi le
mani nei capelli e sbuffando sonoramente. «L'unico che avrebbe
potuto dirci qualcosa era Simum stesso. Ma è morto e si è
portato i suoi segreti nella tomba.
«Forse
se continuiamo a cercare...» fece Lisa, frugando dentro uno
scatolone che le era stato portato da poco da un agente in divisa.
«No,»
replicò secco lui «è tutto inutile. Dovremmo
cercare le informazioni in un altro modo. Forse...
«Scusate,
cercavo l'ispettore Peter Simum».
Winston
si volse a guardare la persona che si era appena affacciata alla
porta. Era una donna sui quarant'anni, sottile e curva, i lisci
capelli screziati di grigio abbandonati sulle spalle senza molta
cura, ad incorniciare un viso non brutto, ma lievemente allungato e
incavato.
«Chi
lo cerca?» le domandò Winston, stringendo gli occhi.
«Sono
la professoressa Call, insegno lettere antiche al King's College. Ero
collega di Andrés Kurtag. Ho terminato la traduzione del
testo, come mi era stato chiesto».
«É
stato l'ispettore a darglielo?» chiese lui, alzandosi e
fissando il volume che la donna stringeva tra le mani. Lei prese a
guardarlo con sospetto.
«No,
me lo ha dato un uomo del commissariato».
Winston
si avvicinò, tendendo le mani. «Lo dia pure a me, sono
l'assistente dell'ispettore».
«Simum
non c'è?» domandò la donna, stringendo al petto
il volume. Winston represse un moto di stizza.
«No,
al momento è fuori. Ma me ne occuperò io».
La
donna sospirò, ma alla fine parve convincersi.
«Va
bene, che mi importa» disse, alzando le spalle. «Dovevo
riferire alcune cose all'ispettore, ma...»
«Dica
pure a me» fece Winston, con un sorriso. Lei strinse le labbra,
poco convinta.
«Il
testo è una raccolta di dati riguardanti una civiltà
antica, di cui non conosco molto, a dir la verità»
riferì. «Ma non credo che la cosa le interessi... Ho
riportato tutto in un fascicolo a parte, ecco sì, proprio
quello. Forse potreste chiedere delucidazioni al professor Bennet, è
uno specialista in antichità, insegna archeologia, lui e
Kurtag erano molto amici, sa...»
Winston
alzò le mani a frenare la donna. Lei si fermò a
guardarlo, stupita.
«Professoressa,
Call» fece lui, conciliante «non è che potrebbe
esporci brevemente quanto ha scoperto? Gliene saremmo davvero grati».
Lei
drizzò il busto, irrigidendosi. Si sistemò gli occhiali
sul naso appuntito e aprì il volume.
«Kurtag
fa spesso riferimento a un nome...» disse seccamente, mentre
scorreva le pagine a cercare il punto che le interessava. «Ecco:
i Viracochas. Sono tutte note di Andrés su iscrizioni
precolombiane da lui trovate, riguardanti questa popolazione...
almeno fino a un certo punto. Poi, tutto cambia.
Winston
e Lisa la fissarono incuriositi».
«In
che senso?» domandarono praticamente insieme. La donna li
fissò, inarcando le sopracciglia.
«Ecco,
a un certo punto il testo comincia a concentrarsi su alcune leggende
legate a questa popolazione, e a qualcosa che Kurtag continuava a
chiamare le
Quattro Arche».
Winston
socchiuse gli occhi. «Continui» fece.
«Le
note proseguono incentrandosi su quella che penso sia una figura
mitologica, ma non saprei dirle... sa, non sono un'esperta...
comunque Kurtag la definisce "la
Regina"
e ne parla come di un personaggio realmente esistito. Stando a quanto
scritto qui, dovrebbe essere colei che ha il potere di risollevare le
arche, decretando la fine dell'umanità. Dice proprio così,
risollevare. È strano, non trova anche lei?»
«Nient'altro?»
domandò Winston, teso. «Nessun riferimento a una pietra,
o qualcosa del genere?»
«No»
rispose lei, sporgendo in fuori il labbro. «Tutte le pagine
sono dedicate alla figura della Regina, a parte una pagina dove
compaiono alcune annotazioni riguardanti la signorina Ra Arwol, ma è
roba di poco conto. Alcune notizie su di lei e la sua storia... sa,
era un'amica di Kurtag» fece la donna, con un certo tono
sarcastico. «Non capisco cosa ci vedesse, in quella ragazza.
Era praticamente fissato per lei. Quando veniva a trovarlo, non c'era
più per nessuno. Comunque...» riprese, ostentando una
certa ritrosia «quella contenuta qui mi pare una delle tante
leggende millenaristiche, di quelle che si trovano un po' in tutte le
culture, sparse in giro per il mondo... è strano che un uomo
come Andrés Kurtag perdesse tempo dietro a simili sciocchezze,
ma in fondo, chi sono io per giudicare?» fece, strizzando il
volto secco in una smorfia significativa. «Oh, dimenticavo»
riprese. «Le ultime pagine sono strappate. Non ho potuto
leggere oltre questo punto».
Winston
prese il volume dalle mani della donna e lo sfogliò. La grafia
elegante di Kurtag prese a scorrergli davanti agli occhi, in una
serie infinita di segni e parole indecifrabili.
«Di
che parlavano le note, appena prima delle pagine strappate?»
domandò, alzando distrattamente gli occhi sulla donna. Lei si
passò una mano sul viso.
«Ecco,
non ricordo bene, ma ho scritto tutto nel fascicolo che ho allegato.
Comunque...» disse, facendosi meditabonda «ricordo che
compariva spesso un nome, il nome di una città che Kurtag
riteneva fondamentale, perché credeva avesse un qualche legame
con questa fantomatica Regina».
«Si
ricorda qual era il nome della città?» fece Winston,
speranzoso.
«Credo
fosse... Tarsi, o una cosa del genere...»
«Tartesso,
forse?» intervenne Lisa. La donna si illuminò in volto.
«Esatto!
Proprio quella» fece. «Ma lei come fa a saperlo?»
«Già»
disse Winston, fissando la ragazza intensamente. «Come fa a
saperlo?»
«Pensate
di avere ancora bisogno di me?» domandò la donna.
«Perché in caso contrario...»
«Vada
pure, professoressa Call» la congedò Winston con un
sorriso. «Lei ci è stata davvero di grande aiuto».
La
donna si allontanò con un sorriso incerto, incamminandosi
lungo il corridoio e mantenendosi rasente al muro, come un'ombra. Non
appena fu sparita alla vista, Winston chiuse la porta, voltandosi ad
affrontare Lisa. Lei lo fissava tormentandosi le mani, sul volto
un'espressione ansiosa.
«Come
faceva a sapere quel nome?» domandò lui, deciso.
«Me
lo disse Nadia» rispose lei, sollevando gli occhi. Sembrava
davvero preoccupata. «È il nome della città in
cui è nata».
«Cosa?»
Winston
abbassò lo sguardo sul libro, che teneva ancora tra le mani.
Quindi lo girò e lo mise sotto il braccio, restando per un
attimo a fissare nel vuoto.
«Si
ricorda il nome della persona che la sua amica voleva contattare?»
fece lui, all'improvviso. «Doveva trattarsi di un amico di
Kurtag, non è così?»
Lisa
si mise a pensare, corrugando le sopracciglia. «Sì,»
disse alla fine, dopo un attimo di riflessione. «So che era con
lui quando è stata trovata la pietra...»
«E
saprebbe dirmi il suo nome? Nadia non gliel'ha detto, forse?»
Lisa
si strinse nelle spalle. «Penso... Garland...no! Garrett.
Hanson Garrett. Ecco, ora ricordo!»
Winston
sorrise, stringendo delicatamente la spalla di Lisa.
«Conosce
un luogo sicuro in cui andare?» le chiese. Lei annuì.
«Bene.
Ecco il mio biglietto da visita. C'è il mio recapito
telefonico. Appena si sarà sistemata, mi chiami».
«Lei
dove va?» domandò lei, ansiosa.
«Devo
recarmi in un posto, e stavolta non posso portarla con me. Ma lei mi
chiami appena può. Se non mi trova, lasci un messaggio. Verrò
a riprenderla appena mi sarà possibile».
Lisa
annuì. Abbassò gli occhi giusto il tempo necessario a
guardare il biglietto da visita. Quando li rialzò, Winston era
già sparito.
***
Winston
percorse il corridoio a passi veloci. Sentiva le suole di cuoio
scivolare a contatto con il marmo roseo del pavimento, mentre l'eco
dei suoi passi rimbombava tutto intorno a lui. Arrivato davanti alla
grande porta di quercia, bussò energicamente. La solita voce
roca e conosciuta scivolò oltre la porta, invitandolo ad
entrare.
Trovò
il Reggente che lo attendeva come al solito, seduto alla sua pesante
scrivania e avvolto nel fumo del suo sigaro. Quando Winston entrò,
l'uomo sollevò lentamente gli occhi dai fogli che teneva
davanti; quindi si raddrizzò, riducendo gli occhi a due
fessure.
«Churchill»
esclamò, sorpreso. «Già di ritorno? Cosa
succede?»
«Il
Ministro della Difesa è morto» disse Winston, portandosi
davanti alla scrivania e scattando sull'attenti. «Si è
suicidato».
L'uomo
sbiancò. «Come?»
«Era
un membro dell'Ordine. Si è ucciso prima che potessimo
interrogarlo. Ma non è tutto. Ho capito chi è il
traditore. Si tratta di Fisher. È lui l'uomo: ha passato tutte
le nostre informazioni all'Ordine, prima di sparire».
«Fisher?»
obiettò il Reggente. «Ma non può essere... Fisher
è...» l'uomo lanciò a Winston uno sguardo
indagatore. «È ancora vivo, non è così? Ed
è da qualche parte, con la pietra» concluse. Winston
annuì, in silenzio.
Il
Reggente si lasciò sprofondare nello scranno. Se ne stava a
bocca aperta, incapace di articolare anche il minimo suono.
«Santo
dio...» fece.
«Prima
di morire, il Ministro ha nominato "la
Regina".
Le dice qualcosa?»
Il
Reggente spostò gli occhi sul volto di Winston.
«Non
può essere» disse, incredulo. «Cosa ha detto,
esattamente?»
«Che
è qui, tra noi».
Il
Reggente restò a fissare avanti a sé con gli occhi
sbarrati. Quindi girò lo scranno e si alzò in piedi.
Sembrava reggersi a fatica, e dovette appoggiarsi alla scrivania per
sostenersi.
«È
qui» mormorò. «Lei è viva, ed è
qui...»
«Ho
trovato questo» disse Winston, mostrando il volume di appunti
di Kurtag, che teneva ancora sotto il braccio. Il Reggente non sembrò
nemmeno vederlo. «Contiene le ricerche di Kurtag riguardo a un
popolo chiamato Viracochas. Parla di qualcosa come le
Quattro Arche.
Ma nomina anche la Regina... sembra che il professore avesse capito
dove si trovava».
Il
Reggente si volse a guardarlo. Aveva il volto stravolto e Winston
temette quasi di vederlo dissolversi da un momento all'altro, tanto
si era fatto sottile e pallido.
«Dove?»
domandò semplicemente, ma con grande fatica.
«Tartesso»
fece Winston. Il
Reggente mosse gli occhi umidi, come a cercare qualcosa lì
intorno. «Tartesso» ripeté in un soffio.
«Tartesso...»
«Signore»
intervenne Winston. «Non so cosa questo voglia dire, ma credo
di sapere chi è la Regina».
Il
Reggente si riscosse come da un sogno. Prese a fissare Winston
incredulo.
«È
Nadia Ra Arwol».
«La
donna di Fisher?» esclamò il Reggente, perplesso. «E
sulla base di cosa è arrivato a questa conclusione?»
«È
nata a Tartesso» rispose Winston, accalorandosi. «Viaggia
con Fisher, ha con sé la pietra. Ecco perché l'Ordine
non si è ancora sbarazzato di lei, perché è lei
la Regina. Credo che Kurtag l'avesse capito e perciò avesse
cercato di occultare la sua scoperta. Ha strappato le pagine in cui
tutto questo emergeva con chiarezza, probabilmente perché
sperava di proteggere la ragazza. E poi ha nascosto la sua identità
anche a noi. Doveva volerle molto bene, per venir meno ai protocolli
del consiglio».
«L'ha
fatto perché sapeva cosa rischiava» fece il Reggente,
scuro in volto. «Tutto questo tempo passato a cercarla»
mormorò. «La credevamo morta anni fa... e invece era
qui, accanto a noi. Era qui e Kurtag lo sapeva, e ce l'ha tenuto
nascosto... a tutti...»
L'uomo
si passò una mano sulla fronte, emettendo un lungo lamento.
Winston, temendo che si sentisse male, gli corse accanto, a
sorreggerlo. Lo aiutò a sedere e gli versò un bicchiere
d'acqua, prendendolo dalla caraffa posata su un lussuoso vassoio
d'argento che il Reggente teneva su un mobiletto, poco lontano dalla
scrivania. L'uomo portò il bicchiere alla bocca con mano
tremante, e bevve avidamente. Quindi chiuse gli occhi, per riaprirli
solo dopo molto tempo.
«Se
quello che dice è vero,» fece lui, la voce più
ferma e decisa, ma con qualcosa di malato che ancora permaneva in
essa «la fine è vicina. Se non troviamo Nadia Ra Arwol
al più presto, l'umanità è destinata a
soccombere».
«Cosa
dovremmo fare?» domandò Winston. Il Reggente sollevò
gli occhi, piantandoli in quelli di lui.
«La
trovi» disse, con fermezza e con una caparbietà che non
lasciava spazio ad alcuna indecisione. «Al più presto
possibile. Quella donna è un pericolo per tutti. Deve essere
assolutamente eliminata».
|
Ritorna all'indice
Capitolo 35 *** 34 ***
15
«Sei
sicuro che sia qui?»
Rebecca
fissava con sospetto l’ingresso del teatro. «A me sembra
che sia tutto chiuso...»
«No,
mi ha detto di venire proprio qui... anche se a questo punto sembra
strano anche a me».
Jean
lesse nuovamente la locandina che Sanson gli aveva mandato.
L’indirizzo era quello giusto, ma effettivamente il teatro
aveva l’aspetto di essere in disuso.
«Sì,
è il posto giusto. Guardate, c’è una locandina
con il nome dello spettacolo» fece Marie, euforica. Tutti si
radunarono intorno al cartellone sbiadito a cercare il nome di Sanson
Garrett, senza riuscire a trovarlo.
«Mah...
a me sembra che questa locandina risalga a quando hanno costruito il
teatro» fece Hanson scettico, grattandosi la grossa mascella
bovina. «Ma siamo sicuri? Non vorrei che a entrare lì
dentro incappassimo in qualche fantasma o che so...»
«Hanson,
sei davvero un idiota» disse Rebecca. «Andiamo, se il
posto è questo, è questo».
«Sì
ma non c’è nessuno» notò Nadia. «Come
facciamo con i biglietti?»
«Proviamo
a entrare. Magari qualcuno ci dirà qualcosa» fece Jean,
perplesso.
In
quel momento, un piccolo ometto tarchiato vestito in un lercio
completo gessato, sbucò da una porticina laterale, tutto
intento a pulirsi delle piccole e unticce mani grassocce sul bavero
della sua redingote. Fissò con noncuranza i presenti,
continuando a masticare, quindi si passò una mano a lisciare i
mustacchi sgualciti per poi sfregarsela sulla fronte lucida come una
boccia di vetro. Con pochi movimenti decisi, sollevò una
saracinesca che rivelò dietro di sé un’entrata
improbabile, ornata da un panno sdrucito che un tempo, forse molto
remoto, doveva essere di un colore che assomigliava vagamente alla
porpora.
«Se
siete qui per lavorare, siamo al completo» fece l’omino,
passandosi con noncuranza un’unghia tra i denti. Marie seguì
l’operazione con una smorfia nauseata.
«Anche
se tu... tu e tu... potreste andare bene» fece riferendosi a
Nadia, Alex e Rebecca. «Se volete, ho dei costumi da farvi
provare».
«Veramente...»
intervenne Jean.
«Tu
no. Non saprei che farti fare. Ma dì, ti sei visto?»
Jean
si guardò da capo a piedi.
«Senta...
– fece Jonathan».
«E
tu, men che meno. Ma da dove sbuchi, dal Circolo
Pickwick?»
Nadia
rise. Non si aspettava certo una citazione tanto dotta da un tipo del
genere. John la fulminò con lo sguardo, e lei soffocò
la propria ilarità.
«Veramente,
siamo qui per lo spettacolo» fece Alex con un sorriso. L’uomo
la fissò come se stesse aspettando qualcosa. «Come
spettatori...»
Con
un sonoro schiocco, lui estrasse il dito che si era ficcato in un
orecchio. Marie si lasciò scappare un verso di disgusto.
«Spettatori?
Ah, sì? E tutti quanti? Ma va!»
«È
una cosa così strana?» chiese Hanson.
«Beh...
veramente... ma che dico! Prego, prego: si accomodino. Sono otto
pence a biglietto, sette e mezzo per i bambini!»
«Alla
faccia dello sconto famiglia!» sussurrò Hanson a Jean,
rimediando un’occhiata torva da parte dell’ometto.
Presero
posto nella sala deserta. Le poltrone erano coperte da uno spesso
strato di polvere e quasi tutte presentavano strane macchie sul
rivestimento. Le fodere di velluto erano lise e strappate. Alcune
poltrone avevano solo lo scranno di legno, in altre i chiodi
spuntavano dal sedile. Si sistemarono verso il centro della sala. Le
file davanti a loro erano coperte da un telone su cui era depositato
uno strato di calcinacci. Hanson fissò preoccupato il
soffitto, dando di gomito a Jean.
«Sai,
ti ricordi di quel pazzoide in Germania che voleva far cadere il
teatro in testa agli spettatori? Beh, mi sa che qui poco ci manca...»
Jean
studiò il soffitto, su cui si allungavano parecchie crepe e
fenditure.
«“L’arte
è fatta per turbare e la scienza per rassicurare”...»
«E
tu, va al diavolo!» fece Hanson.
Alcune
altre persone fecero il loro ingresso in sala, sedendosi un po’
qui e un po’ là. Quindi, il sipario si alzò a
scatti, rivelando la scena.
Era
una scena piuttosto bella, a dir la verità. Restarono tutti
molto colpiti. Lo spettacolo che veniva rappresentato era il “Sogno
di una notte di mezza estate” di Shakespeare e la scenografia
consisteva in una foresta, con un grazioso gazebo in stile
neoclassico sullo sfondo, che si affacciava su di un laghetto di
ninfee. L’unico aspetto negativo, fu che non mutò per
tutto il corso della rappresentazione.
«Ma
siamo sicuri che ci sia? No perché...»
«Sst!
Eccolo!» fece Rebecca.
Sanson
apparve sulla scena truccato pesantemente e anche piuttosto
malamente. Recitò la sua battuta, senza lode né
infamia. Fu solo quando poco dopo riapparve con in testa un paio di
orecchie da asino che Hanson non ce la fece più. Non appena lo
vide, esplose in una fragorosa risata, e poco mancò che si
mettesse a rotolarsi sul sudicio pavimento di moquette.
Dal
palco, Sanson gli indirizzò un’occhiata feroce.
«Oh,
al diavolo! Ma devi proprio ridere così?» gridò,
nonostante si trovasse nel bel mezzo di una scena. Qualcuno del
pubblico si spazientì. Volò qualche fischio.
«Hanson,
maledizione! Mi hai rovinato lo spettacolo» ragliò
Sanson, tra l’imbarazzo generale.
«Ma
ti sei visto?» fece Hanson, con le lacrime agli occhi. «Sai,
ho sempre pensato che tu meritassi di trasformarti in quel somaro che
sei, ma mai avrei pensato di poter vedere i miei sogni diventare
realtà!»
Sanson
digrignò i denti. «Ah, è così? Aspetta
solo un attimo!»
Si
gettò giù dal palco, agguantando Hanson per il collo,
mentre dal pubblico si levavano ingiurie e grida. Qualcuno incitava
alla lotta. Jean cercò di dividere i due, ma tenere testa alla
forza di Sanson era impresa dura.
«Voi
due, smettetela» fece Rebecca, e immediatamente i due
contendenti smisero di lottare. Hanson si lisciò il vestito e
Sanson si sistemò la tunica, voltandogli le spalle.
«Insomma»
disse lei, al colmo dell’esasperazione. «Possibile che
sia sempre la solita storia? Non riuscirete mai a lasciarvi il
passato alle spalle?»
«Quel
ciuco mal riuscito deve ancora chiedermi scusa, a dir la verità!»
fece Hanson.
«Io
non mi devo scusare di niente. Non è colpa mia se la tua
ragazza era una dai facili costumi» obiettò Sanson. «La
prossima volta, cercatene una migliore».
Hanson
andò su tutte le furie. «Vicky era una brava ragazza,
prima che io commettessi l’errore di presentarle te, brutto
bestione».
«Ah!
Forse allora si annoiava solo con te...» ironizzò
Sanson. Solo l’intervento di Rebecca riuscì a dividerli,
poiché Hanson era già con le mani attorno al collo del
cugino.
«Ora
basta! Hanson: Sanson ti chiede scusa. Sanson: Hanson dice che ti
perdona se sei un idiota. Ora va meglio?»
Sanson
ci pensò su un attimo. Qualcosa non gli tornava, aveva
l’impressione che solo lui avesse chiesto scusa. E in più,
si era preso anche dell’idiota. Tuttavia, decise di passarci
sopra.
«Per
me, va bene. Qua la mano, cugino».
Hanson
lo fissò truce, ma poi si arrese e gli strinse la mano. «E
va bene. Pace».
Rebecca
tirò un sospiro di sollievo. «Alleluia! Allora, possiamo
finalmente parlare del perché siamo qui?»
Sanson
rivolse a Rebecca uno sguardo curioso. «Ma come, non eravate
venuti per vedermi recitare?»
«A
vedere te?» ghignò Rebecca, infilandosi i guanti. «Ma
vorrai scherzare? Piuttosto, ci devi sessantaquattro pence».
«Sessantatré
e cinquanta» la corresse Marie, che fissava Sanson con
simpatia. «Io pago cinquanta penny in meno!»
«Sessantaquattro
pence? Ma se io prendo una sterlina a spettacolo! Non mi resterà
nulla!»
«Ed
è un problema mio?» obiettò Rebecca. «Su,
andiamocene. Dobbiamo discutere di cose importanti».
«Aspettate
un momento» fece Sanson deciso. «Questo è il mio
mondo, la mia vita. Io voglio essere un attore».
«D’accordo,
e quando pensi di cominciare?» lo sfotté Hanson.
«Non
ti azzardare...»
«Ma
scusa, Sanson» intervenne Marie «se tu reciti qui, perché
sul cartellone non c’è il tuo nome?»
Sanson
agitò una mano. «Perché il cartellone è
quello dell’ultima recita che è stata fatta, ecco
perché. E da allora non è più stato cambiato».
«E
tra gli spettatori c’era per caso George Washington?»
fece Hanson, caustico.
«Sai
dove ti infilo quella tua ironia?» ringhiò Sanson in
risposta.
«Sanson!»
abbaiò Rebecca.
«Ok»
fece lui, tirando un respiro profondo. «Allora, sentiamo.
Perché siete qui?»
Jean
si fece avanti. «Stiamo per partire per una spedizione. Abbiamo
bisogno di un pilota e di un tiratore scelto».
«Oh,
oh!» fece Sanson, incrociando le braccia, con un sorriso
compiaciuto. Le orecchie da asino presero a vibrare sopra la sua
testa. «E così, ecco che rispunta fuori il vecchio
Sanson...»
«Ma
fammi il piacere» grugnì Hanson. «Se non fosse per
noi, quale alternativa avresti? Stare qui a saltellare come un
cretino su quel palco tarlato?»
Il
volto di Sanson arrossì violentemente ma poi, d'improvviso, si
sgonfiò come fosse un pallone forato.
«Sapete?
Avete ragione» fece, tirandosi via le orecchie da asino. «Ma
a chi voglio darla a bere... come attore sono negato».
«No,
non è vero» fece Marie. «A me sei piaciuto».
«È
vero» disse Nadia, con sincerità. «Non c’era
nessun paragone tra te e quel tipo che sembrava ubriaco, quello che è
finito nel proscenio alla fine del primo atto».
«Ah,
ma quello era davvero ubriaco».
«Oh...»
«Comunque,»
riprese Sanson «basta! Sono stanco di indossare abiti pulciosi
per questi spettatori pidocchiosi. Mi avete sentito?» fece lui
rivolgendosi a quelli del pubblico che ancora erano in sala. «Io
me ne vado».
Nessuno
rispose.
«Forse
qualcuno dovrebbe andare a controllare che quel poveretto in terza
fila respiri ancora» suggerì Alex.
«Ah,
nessun problema» disse Sanson. «Dunque: dov’è
che si va?»
«Siamo
diretti in sud America» disse Nadia.
«Fantastico»
fece lui, estatico. «Già mi vedo a prendere il sole su
spiagge dorate... esotiche bellezze che ballano solo per me...»
«Non
correre con la fantasia» interloquì Hanson. «La
nostra è una cosa seria. Quindi non metterti a fare il buffone
come tuo solito».
«Fidati
di me. Vi ho mai dato modo di dubitare delle mie capacità?»
Hanson
alzò gli occhi al cielo, in una preghiera silenziosa.
«Aspettatemi
fuori. Vado a cambiarmi e vi raggiungo. Tra poco il vecchio Sanson vi
traghetterà con mano ferma e sicura oltre le scure e profonde
acque dell’oceano.
«Per
favore» fece Hanson «qualcuno spieghi a quel cretino che
non si trova più su un palco, prima che ci spedisca tutti
sotto terra».
Nadia
sorrise. Era felice: tutti i suoi amici, vecchi e nuovi, si erano
riuniti. Mentre uscivano, si accorse che Jean la fissava curioso e
lei gli rivolse un cenno di intesa.
«Perché
ridi?» le chiese lui.
«Sono
felice. Ora ci siamo proprio tutti, come ai vecchi tempi».
Lui
annuì. «Già, è bello. Sono contento
anch’io».
«Vorrei
che fosse sempre tutto così... facile» disse,
osservandolo con complicità. «Non lo pensi anche tu?»
Jean
la guardò dritta negli occhi. Lei si voltò verso di
lui, offrendosi completamente alla sua vista. Gli sorrideva come un
tempo, un sorriso che, come allora, lui sapeva leggere come nessun
altro. E Nadia si lasciò abbracciare da quella consapevolezza.
«Non
vuoi proprio dirmi che cosa ti tormenta, né perché hai
deciso di partire per questo viaggio?» le chiese. «Non è
da te essere così...»
«Misteriosa?»
«No»
rise lui. «Quello lo sei sempre stata. È parte del tuo
fascino».
«Grazie»
fece lei allegra. E arrossì.
«Ti
trovo... ansiosa».
Lei
si incupì. «Forse. Mi ero dimenticata quanto tu mi
conoscessi».
«Ti
va di parlarne?»
Lei
lo fissò dolcemente. «Prima o poi. Ma ora... ora
preferisco essere felice. Almeno per un po’. Credi di riuscire
a capirmi?»
Lui
annuì. «Sì».
Con
un sorriso, lei gli posò la mano sul braccio e si allontanò,
lasciandolo solo a fissare la porta, da dietro la quale giungevano le
voci allegre degli altri.
La
sala era vuota: ormai le luci erano spente e il sipario era calato.
Il tipo solitario in terza fila aveva preso a russare.
Nell’aria
immota e pesante, resisteva l’eco delle ristate che provenivano
dall’esterno, come qualcosa di delicato, un profumo flebile e
dolcissimo che ricorda qualcuno che è appena andato via e che
ancora stenta a dissolversi. Jean lo aspirò, come per
ricordarsene una volta che fosse svanito.
E
così uscì, mentre anche l’ultima luce si spegneva
alle sue spalle.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=430569
|