Un'eredità di stelle (I Signori dell'Universo, volume I)

di Puglio
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1 ***
Capitolo 3: *** 2 ***
Capitolo 4: *** 3 ***
Capitolo 5: *** 4 ***
Capitolo 6: *** 5 ***
Capitolo 7: *** 6 ***
Capitolo 8: *** 7 ***
Capitolo 9: *** 8 ***
Capitolo 10: *** 9 ***
Capitolo 11: *** 10 ***
Capitolo 12: *** 11 ***
Capitolo 13: *** 12 ***
Capitolo 14: *** 13 ***
Capitolo 15: *** 14 ***
Capitolo 16: *** 15 ***
Capitolo 17: *** 16 ***
Capitolo 18: *** 17 ***
Capitolo 19: *** 18 ***
Capitolo 20: *** 19 ***
Capitolo 21: *** 20 ***
Capitolo 22: *** 21 ***
Capitolo 23: *** 22 ***
Capitolo 24: *** 23 ***
Capitolo 25: *** 24 ***
Capitolo 26: *** 25 ***
Capitolo 27: *** 26 ***
Capitolo 28: *** 27 ***
Capitolo 29: *** 28 ***
Capitolo 30: *** 29 ***
Capitolo 31: *** 30 ***
Capitolo 32: *** 31 ***
Capitolo 33: *** 32 ***
Capitolo 34: *** 33 ***
Capitolo 35: *** 34 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Alle 23 e 35 del 29 Maggio 1890, l’astronomo David Billings e il fisico John Hume dell’osservatorio di Greenwich, puntarono per puro caso il telescopio sulla fascia di cielo compresa tra la Grande Nebulosa di Orione e la piccola Nebula M78, catalogo Messier. Non avevano un reale motivo per osservare quella particolare area del cosmo e anche per questo, quello che si presentò ai loro occhi li lasciò senza parole. Un nuovo pianeta era visibile in modo chiaro e distinto: la sua distanza dal Sole era all’incirca di 150 milioni di chilometri, più o meno la stessa della Terra; ma il pianeta sembrava seguire un’orbita completamente diversa rispetto a quella terrestre. Gli venne dato il nome Side e fu possibile osservarlo per alcuni mesi. In seguito, tuttavia, scomparve misteriosamente com'era apparso. Ogni ulteriore tentativo di inquadrarlo, dopo di allora, si risolse in un insuccesso. Nessuno riuscì mai più a vederlo.

Valle dell'Urubamba, Bolivia, 23 Febbraio 1895

Incrociatore imperiale di Atlantide, Mesekhet



Quando la porta si aprì, lo vide come al solito immerso nelle carte, la fronte corrugata sorretta da una mano. Negli occhi aveva sempre il solito sguardo angelico da bambino, quasi che la sua infanzia si fosse trattenuta in lui forse troppo a lungo, proprio come una lacrima tra le ciglia folte. Ma era più probabile che un'infanzia lui non l'avesse mai neppure avuta e quello non era, dunque, che uno spettro terribile di essa, che aleggiava spargendo tutt'intorno a sé il proprio monito. Era qualcosa di lui che la stupiva sempre: come una tale dolcezza potesse convivere con un animo così duro.

Gli si avvicinò, come sempre attenta ad aspettare che fosse lui ad invitarla a parlare. E, come sempre, lui alzò gli intensi occhi di ghiaccio, fissandoli severamente nei suoi. Talvolta lei l'aveva visto sorridere, ma era molto che non accadeva.

«Si?» le domandò. «Cosa desidera, Faloe?»

«Signore, ci sono novità... spiacevoli» fece la donna. Lui aggrondò ancora di più.

«Quali?»

«Non abbiamo più notizie del resto della spedizione. L'incrociatore Argo è sparito improvvisamente dal rilevatore posizionale, dopo che si erano interrotte le comunicazioni nel passaggio attraverso la Merkaba. Appena abbiamo raggiunto la gravità terrestre abbiamo provato a contattarli, ma senza successo».

L'uomo impallidì. «Non può essere vero».

«Purtroppo è così, signore» fece lei, con un timido inchino. «Li abbiamo persi».



***

Resoconto stilato da:

Capitano di corvetta Jacob Ketterley, Marina Reale Britannica, distaccamento di Wellington, New Zeland, Oceano Pacifico.

Oggetto: Incidente avvenuto presso Samoa, 23 Febbraio 1895


Questo è quanto emerso dall’interrogatorio dei testimoni, marinaio scelto Murray, Carl e mozzo Leslie, Harold.


Versione di: Leslie, Harold, mozzo, prestante servizio a bordo della fregata H. M. S. Queen Victoria:


Il 23 Febbraio, ci trovavamo al largo dell’arcipelago di Samoa, al confine con le acque Americane. Erano circa le 12. Me lo ricordo perché dovevo portare le patate alla cambusa, per il pranzo, ed ero sceso a prenderle nella stiva.

Prima di rientrare, mi sono fermato un secondo sul ponte, a fumare. Non avrei dovuto, ma era tutta la mattina che non mi facevo una sigaretta, e cominciavo ad averne davvero bisogno.

Me ne stavo lì, tranquillo; ricordo che il sole era caldissimo e il riflesso sul mare accecante. Tirava una leggera brezza e sul ponte non c’era nessuno. Stavo bene.

Improvvisamente, ma proprio così, di punto in bianco, tutto s'è fatto silenzioso. Me ne sono accorto perché ho cominciato a sentirlo dentro di me, prima che all’esterno. È strano da spiegare: il cuore ha preso a pulsarmi nelle orecchie, come quando uno se le tappa.

Mi accorsi che il vento si era improvvisamente calmato. Il mare era tranquillo, liscio come un tappeto. Non riuscivo quasi a scorgere la cresta delle onde.

Ricordo benissimo che mi sono guardato intorno e ho visto che tutto aveva cambiato colore. Era come se ci illuminasse una luce chiarissima e abbagliante. Ho guardato all’orizzonte e mi sono accorto di una enorme colonna di luce azzurra che dal mare saliva fino in cielo. Ho pensato subito a un’esplosione vulcanica, qui ne accadono spesso, e ho avuto paura che potesse scatenarsi uno tsunami, o una cosa del genere. Ho gridato, almeno credo, ma non ho sentito nessun suono uscire dalla mia bocca. Per un istante, il sole si è coperto e tutto si è fatto buio. L’unica cosa che brillava era quella intensa colonna di luce azzurra, ma confesso che potrei anche aver avuto un’allucinazione, perché tutto è durato davvero pochissimo. Ho cominciato a correre e ricordo bene la fatica che ho fatto per muovere le gambe. Erano come incollate al legno del ponte e non volevano saperne di muoversi. Forse perché ero terrorizzato, chissà.

Riuscii in qualche modo a dare l’allarme. Il primo che incontrai fu il sottufficiale marinaio scelto Carl Murray. Salì con me sul ponte e quando vide quello spettacolo, restò pietrificato esattamente come me. Fu pochi istanti dopo che la luce scomparve e tutto riprese a scorrere come se nulla fosse successo.



***

Fossa di Tonga, Samoa, Pacifico Occidentale,

23 Febbraio 1895



«Tirali su!»

Il marinaio azionò il verricello. Lentamente e con uno stridente rumore di ingranaggi e lamine di acciaio che sfregavano tra loro, la scaletta si abbassò, raggiungendo il pelo dell’acqua. Uno alla volta, i tre sommozzatori si prepararono a risalire a bordo.

«Ecco il primo, Hanson. È Sergio» gridò uno dei marinai, che se ne stava sulla balaustra, affacciato sul mare come da un balcone.

Hanson Garrett se ne stava dritto in mezzo al ponte, cercando di controllare che tutto filasse per il verso giusto. Fece un cenno deciso con la mano.

«Aiutalo, forza. Tiralo su».

Il sommozzatore si aggrappò alle mani che gli venivano tese dai compagni. Non appena ebbe scavalcato la balaustra, si accasciò sul legno bagnato del ponte, ansante.

«Caràjo» esclamò, guardando da sotto in su Hanson, che avanzava a passo malfermo verso di lui. «Ma que pasò?»

«Quien sabe?» commentò Hanson, tendendo la mano al secondo degli uomini che risalivano la scaletta. «Un gran casino, questo è certo».

«Forse dovremmo andare a vedere che non ci siano feriti, non credete anche voi?» disse il secondo dei sommozzatori, mentre si toglieva di dosso l'attrezzatura.

Hanson annuì. «Credo anch’io. Domanderò a Kurtag se è d’accordo. In fin dei conti, è lui che guida la spedizione».

Non appena tutti i sommozzatori furono fatti risalire a bordo, Hanson compilò un rapporto su quanto avevano riportato, quindi si diresse sotto coperta. Scese la ripida scaletta dagli stretti gradini, attento a non ruzzolare. Il passaggio era angusto e lui poteva avanzare solo stando di lato, a causa della sua stazza.

Devo mettermi a dieta, pensò. Giuro che prima o poi lo faccio. Davvero, così non può andare avanti.

Bussò a una piccola porta di legno. Dall’altra parte di essa, una voce sottile e profonda al tempo stesso lo invitò ad entrare.

Un anziano signore sui settant’anni se ne stava in piedi, con i gomiti appoggiati a una specie di ripiano su cui si trovavano un libro aperto, una carta geografica e diversi fogli manoscritti. Sembrava intento a decifrare qualcosa tracciato su un foglio e se ne stava chino, con la testa dai capelli incanutiti tra le mani.

«Prof.?»

L’uomo si voltò, fissando Hanson da sopra gli stretti occhiali che portava in bilico sulla punta del naso.

«Ah, sei tu?» disse. «Stanno tutti bene?»

«Sì, solo un po’ spaventati» rispose Hanson, e indugiò con lo sguardo sul resto della cabina. Sembrava che tutto si fosse rovesciato là dentro. «E lei?» domandò, lievemente preoccupato.

«Solo un po' di confusione, tutto qui».

Hanson osservò dubbioso la cabina messa a soqquadro. Kurtag dava realmente l'impressione di non essere rimasto toccato da quanto era accaduto. Probabilmente era così immerso nei suoi studi che, quando la mareggiata li aveva investiti, non si era accorto di nulla.

«Il rapporto dell'immersione?» chiese il professore. Hanson gli tese la cartellina.

«Eccolo».

Il vecchio studiò il foglio, limitandosi ad annuire.

«Bene. Come pensavo». disse. Quindi, soppesandolo con gli occhi: «pensi che potremmo scendere ancora più in basso?»

Hanson scosse la testa. «Temo che abbiamo raggiunto il limite. Ho provato ad aggiustare le saldature della gabbia di profondità, ma non so per quanto ancora potranno reggere».

Il professore si morse un labbro, picchiettando la cartellina sul ripiano di lavoro mentre guardava fuori dall’oblò.

«Questo significa che dobbiamo tornare a casa?»

«Almeno finché non riusciamo a trovare il modo di scendere oltre i 500 metri senza rischiare la pelle» rispose Hanson, con una scrollata di spalle.

«Sono convinto che prima o poi riuscirai a trovare la soluzione» fece Kurtag ridendo. «Solo, cerca di muoverti. Non mi resta molto tempo. Sono vecchio».

Hanson rise. Il professore era anziano, è vero, ma ancora pieno di energie. «Un'altra cosa,» riprese Hanson. «Ci chiedevamo se non fosse il caso di andare a controllare...»

«Sì» saltò su Kurtag, intuendo quello che l'altro stava per dire. «Dirigiamoci là, magari possiamo essere di aiuto».

Hanson annuì, quindi si allontanò, lasciando il professore ai suoi pensieri. Non appena fu risalito sul ponte, richiamò l’uomo addetto alle macchine.

«Rotta est, nord est, Kyle» gli disse. «Facciamo in fretta».

Il ragazzo scattò, prendendo la barra del timone. «Andiamo a vedere, Han?»

Hanson annuì. Fissava con il binocolo nella direzione in cui aveva visto alzarsi quella immensa colonna di luce.

«Sì» disse. «Andiamo a vedere. E che Dio ce la mandi buona».



***

Resoconto stilato da:

Capitano di corvetta Jacob Ketterley, Marina Reale Britannica, distaccamento di Wellington, Oceano Pacifico.

Oggetto: Incidente avvenuto presso Samoa, 23 Febbraio 1895

Versione di: sottufficiale Murray, Carl, marinaio scelto, prestante servizio sulla fregata H.M.S. Queen Victoria:


Erano le 12 e 05 quando vidi il mozzo corrermi incontro in preda all’agitazione. Pensai che fosse successo qualcosa di terribile, perché mi sembrò davvero sconvolto. Per questo decisi di seguirlo immediatamente sul ponte, per vedere cosa fosse successo, anche perché dalle sue parole scomposte era difficile riuscire a capire qualcosa.

Quando fui sul ponte, mi trovai di fronte a uno spettacolo a dir poco impressionante. Una enorme colonna di luce azzurra saliva dal mare fino al cielo, in direzione della poppa. Era qualcosa di incredibilmente spaventoso, perché sembrava distante almeno una cinquantina di miglia e tuttavia era colossale. Temetti per un’esplosione vulcanica e per un conseguente tsunami, e per questo corsi immediatamente ad avvertire il capitano; ma non appena questi salì in coperta, della luce non c’era più traccia.

Ci recammo comunque sul posto. Trovammo una serie di frammenti metallici, sparsi tutt'intorno. Dopo poco ci raggiunse una nave cerca relitti, o qualcosa del genere. Erano venuti a vedere anche loro quello che era successo. Ci scambiammo alcune informazioni su quello che avevamo visto e cominciammo a recuperare parte dei frammenti più grandi. Poi, improvvisamente, lo vedemmo: era una luce, una specie di faro che proveniva dal fondo dell’oceano. Lanciava un bagliore intermittente. In un primo momento ne fummo spaventati, perché temevamo che si potesse scatenare una seconda esplosione, ma in realtà non accadde nulla del genere. La luce continuò ad affievolirsi sempre più, finché non restò che un debole scintillio. Decidemmo che era il caso di saperne di più. Tuttavia, noi potevamo fare ben poco: non avevamo l'attrezzatura adatta al recupero subacqueo, né una squadra immersione. Se ne occuparono gli uomini a bordo di quella nave: possedevano tutte le attrezzature necessarie, e anche di più. Sembravano molto competenti, a giudicare da come si muovevano. Calarono in mare i sommozzatori e alcune apparecchiature strane, e trovarono quella pietra luminosa. Il resto lo sapete, non ho nulla da aggiungere a quanto già riferito dal resto dell’equipaggio.

Solo una cosa ancora mi perseguita, in tutta questa storia. Non riesco davvero a capire che fine abbia fatto il tempo che sono sicuro di aver impiegato a guardare l'esplosione. Sono assolutamente certo di essere rimasto lì, a fissare quello spettacolo impressionante per diversi minuti, prima di riuscire a reagire. Eppure, il capitano afferma di avermi visto uscire dalla cabina di comando solo pochi secondi prima che io mi precipitassi a chiamarlo. È questo che non riesco a spiegarmi. Ma chissà, forse la mia fu solo suggestione.

***










La caratteristica di essere un uomo, è solo quella che lo è per importanza.

Winston si sforzò di capire cosa diceva quella frase racchiusa nel quadro. Tutte le volte che si trovava a passare da lì, cercava di capirci qualcosa, ma ogni volta gli risultava sempre più oscura. Non che gli piacesse particolarmente. La trovava persino stupida: per lui, una frase incomprensibile era una frase che non voleva dire nulla.

Scrollò le spalle. Anche il quadro non gli piaceva. Gli dava i brividi. Certo che ce ne voleva di pessimo gusto, per appendere una roba del genere. Uno scheletro umano era raffigurato seduto su un trono, con in mano una enorme spada, mentre nell’altra reggeva una bilancia di cui si serviva per pesare alcune monete d'oro. Sotto ai suoi piedi ossuti, su una pergamena srotolata, si poteva leggere la frase misteriosa, quasi fosse stata messa lì a mo' di commento. O almeno così Winston aveva sempre immaginato.

Il ragazzo guardò il grosso orologio a pendolo appoggiato alla parete. Le tre meno cinque. Ormai era ora.

Si alzò e si aggiustò la giacca. Quindi si incamminò a passo calmo e deciso lungo il corridoio. I suoi passi echeggiavano tra il pavimento di marmo rosa e le pareti imbiancate. Tenne lo sguardo fisso avanti a sé, anche perché non c’era proprio nulla da guardare, se non la grande porta di quercia in fondo al corridoio.

Era come percorrere una sorta di lungo e stretto budello: Winston sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Accadeva tutte le volte che doveva andare in quel posto maledetto.

Si fermò davanti alla porta. Si passò una mano sui capelli impomatati, si spazzolò la giacca e si sistemò la cravatta. Non appena ebbe bussato, una voce calma e scura rotolò da dietro il legno spesso, invitandolo ad entrare. Come sempre, il ragazzo vide l’uomo seduto alla grande scrivania di mogano avvolto in una nuvola di fumo denso, il sigaro stretto tra le dita ingiallite dal tabacco.

«Puntuale, come sempre. Bravo».

Il ragazzo sorrise, impacciato.

L’uomo sospirò e una densa nube di fumo uscì dalle sue labbra. Tra le mani teneva una cartellina, su cui il giovane riuscì a leggere frettolosamente “Resoconti”. Non appena l’uomo alla scrivania se ne accorse, chiuse la cartellina in un cassetto, con un sorriso smaliziato.

«Prenda questa» disse, porgendogli una busta sigillata con la ceralacca. La carta era immacolata, senza alcuna scritta. «La consegni al solito indirizzo».

Il ragazzo si inchinò ossequioso, quindi fece per voltare le spalle e andarsene, come al solito.

«Aspetti».

Lui si fermò, una mano sulla maniglia. «Signore?»

«Lei è bravo» disse l’uomo, dopo un brevissimo istante. «Continui così e farà strada. Ma ricordi: mai rivolgere una domanda su quello che vede qui, né a se stessi, né ad altri; mai parlare di quello che vede qui, né con se stessi, né con altri».

L’uomo aspirò una boccata di fumo caldo. Quindi la trattenne per qualche istante, per poi soffiarla fuori dalle labbra, lentamente e con disinvoltura.

«Intesi?»

«Sì, signore» rispose, il giovane. «Grazie».

L’uomo annuì. «Può andare, Churchill».

E con un ultimo inchino, il ragazzo se ne andò.

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Capitolo 2
*** 1 ***


Londra, 1 Giugno 1895










Con gli occhi ancora pieni di sonno, Nadia allungò la mano in cerca della sveglia, muovendola stancamente sul ripiano del comodino. Procedeva a tentoni: un libro, no, quello era un bicchiere... il vaso con i fiori, regalo di compleanno del suo fidanzato, che oscillò pericolosamente.

Appellandosi a tutte le forze di cui poteva disporre in quel momento, Nadia si slanciò ad afferrarlo, nel disperato tentativo di impedire a quel fragile simbolo d'amore di infrangersi sul pavimento di mattoni rossi. Rose rosse su mattoni rossi.

Che ironia.

Non che lei non lo apprezzasse, ma lo trovava un regalo un po' prosaico. Però, la serata che Jonathan aveva organizzato per festeggiarla era stata davvero deliziosa: cena ad un esclusivo quanto scandalosamente caro ristorante; gita in carrozza lungo l’Embakement, al lume dei pallidi bagliori che dai Docks si riverberavano nel Tamigi, trasfigurando le placide acque del fiume in uno strascico d’avorio e di cera, baluginante di strass; e poi baci fino a tarda notte, lungo la strada che riconduceva alla piccola mansarda in Foley street a cui Nadia, in sei anni di vita londinese, non era mai riuscita a dir addio.

Eppure l’occasione l'avrebbe avuta ora, visto che dopo anni di fatiche aveva finalmente coronato il suo sogno. Ogni giorno, infatti, chiunque avesse acquistato il Times, vi avrebbe trovato la firma di Nadia Ra Arwol stampata in prima pagina. Era un bel successo per una ragazza di ventun anni, giunta a Londra senza un soldo; e soprattutto, senza aver la benché minima idea di cosa fare della propria vita.

L’unica cosa che Nadia sapeva per certo, quando aveva messo piede per la prima volta in Inghilterra, era che doveva trovare la propria strada, a qualunque costo. Per tutta la vita aveva lasciato che fossero altri a scegliere per lei, finché sentì che era giunto il momento di dire basta. Doveva prendere in mano la sua vita, anche se questo avesse voluto dire allontanarsi da tutte le sue certezze: privarsi di tutto per costruirsi qualcosa che fosse solo suo, con le sue sole forze. Non avrebbe mai immaginato che ciò l’avrebbe portata a cancellare il proprio passato in vista di un nuovo futuro, altrimenti non sarebbe mai riuscita a partire. Eppure, era andata proprio così.

Quando lasciò Le Havre era il 1890. Aveva solo quindici anni. Una giovane sconclusionata che attirava su di sé il sospetto e la curiosità per la sua pelle scura. Non aveva una storia, non aveva una famiglia o qualcuno che garantisse per lei. Tutto quello che si portava dietro, era un semplice legame d'amore, qualcosa di così innocente e puro che mai avrebbe pensato potesse infrangersi.

Jean...

Per lei, lui era tutto. E così partì, credendo di poter legare a un nome la sua vita. Pensava di averne la forza, e il potere. Eppure, nonostante il sentimento che in lei risvegliava costantemente il ricordo dell'unica persona che fino ad allora l'avesse veramente amata e che lei veramente amò, la distanza la sopraffece; e un giorno Nadia si ritrovò cresciuta, lontano da quelli che erano stati i suoi affetti, circondata da nuovi amici e da una nuova vita.

Incapace di far fronte alla situazione aveva provato a mentire a se stessa. Ma la vita, alla fine, la costrinse a venire allo scoperto e a saldare i conti con la realtà. Per quanto dura potesse essere da accettare.

L'incontro con Jonathan segnò l'avvio di un nuovo corso, per lei. Il lavoro aveva preso ad andare piuttosto bene. Erano passati i tempi in cui veniva relegata a raschiare i fondi del caffè o a comprare le sigarette. Da tempo non le veniva ordinato di mettere a bollire l'acqua per il tè e nessuno, ormai, le avrebbe più chiesto di decifrare gli appunti che qualche redattore aveva fortunosamente tracciato a stilografica su un rotolo di carta igienica: Nadia era diventata cronista.

Fu un colpo di fortuna. Di quelli che non ti aspetti e che, se non stai attento, ti danno alla testa. Ma Nadia era stata attenta a non montarsi la testa, abituata com’era a non lasciarsi mettere nel sacco dall’ingannevole luccichio di cui a volte risplende la vita.

Avvenne così, inaspettatamente. Jeremy Hunter, il direttore del giornale, aveva notato il carattere determinato e l’incredibile testardaggine della ragazza tanto che, un bel giorno, si prese persino il disturbo di leggere i suoi articoli. Scoprì che non erano poi del tutto male. Cominciò a seguirla silenziosamente nella sua carriera, vagliandone i risultati. La sottopose a innumerevoli prove. La aspettò al varco. Finché, un giorno, la convocò nel suo ufficio.

«È un po’ che ti osservo» le disse, squadrandola.

Nadia non rispose nulla. Ancora non sapeva come avrebbe dovuto reagire. Era la prima volta che parlava con il direttore.

«Non hai nulla da dire?»

«Riguardo a cosa?» azzardò lei.

«A quello che ti ho appena detto».

Lei si strinse nelle spalle, confusa. «Io... non so che dire...»

«Beh, te lo dico io, allora. Mi sembri in gamba. O almeno lo sembravi, fino a tre secondi fa».

Nadia se ne stava tesa, in ascolto, il corpo ridotto a un fascio di nervi.

«Comunque,» continuò lui con un sospiro, scrutandola di sottecchi «ho pensato di affidarti qualcosa di più importante che fare il tè o intervistare la vincitrice del premio per l’orlo a giorno. Che ne pensi?»

«Che è fantastico, signor direttore» esultò lei, e sorrideva così tanto che le facevano male gli angoli della bocca.

«Bene, comincerai da subito. Voglio un tuo pezzo sulla crisi coloniale...» Hunter estrasse dal taschino un grosso orologio, che si aprì con uno scatto. Lui lo guardò torvo, per poi spostare su Nadia il suo sguardo accigliato. «Oggi c’è una conferenza al ministero degli esteri. Alle cinque. Vai, torna e scrivi. Tutto chiaro?

Nadia non riusciva a credere alle sue orecchie. Era un articolo da prima pagina. «Volo!» esclamò, al culmine dell’eccitazione.

«Non farmi pentire, Ra Arwol, intesi?» le abbaiò dietro. «Già avrò i miei grattacapi a far digerire alla gente quel tuo cognome assurdo...»

Nadia sorrise e schizzò fuori dallo studio, non senza aver nuovamente ringraziato il suo direttore. Chi se ne importava se l’aveva presa in giro per il cognome? Aveva un articolo come si doveva, finalmente! E al diavolo l’orgoglio famigliare.

Certo, mentre correva entusiasta lungo Whitehall, Nadia non poteva immaginare che quella circostanza avrebbe segnato l'inizio della sua nuova vita visto che, proprio in quell’occasione, avrebbe trovato nel giovane segretario alla difesa, Jonathan Fisher, l'uomo per cui avrebbe detto definitivamente addio a tutto quello che ancora la legava al suo passato. E certo, nessuno poteva immaginare che, da lì a un anno, il cognome di Nadia sarebbe stata la molla che avrebbe fatto raddoppiare le vendite al giornale per cui lavorava. Perché un anno dopo, quando la pubblicazione in stralcio del suo romanzo Una vita avventurosa apparve sul Times Literary Supplement, fu un successo inaspettato e travolgente.

Era il 1894 e Nadia era lanciata verso il successo. Per l'occasione, il direttore la convocò nel suo studio.

«Ancora non capisco come la mai la gente legga le tue scemenze» grugnì, «ma chi sono io per discutere i loro gusti?»

Nadia non era sicura di apprezzare il termine scemenza, per descrivere due anni di duro lavoro. Era però certa di apprezzare le valanghe di lettere che le giungevano da ammiratori e ammiratrici entusiasti. In particolar modo ammiratrici, perché senza volerlo, quella ragazza sola, straniera e senza un soldo, cresciuta orfana in un circo fino a quando di anni ne aveva quattordici, era diventata l’icona simbolo di tutte quelle donne che, in quegli anni a cavallo di due secoli, cercavano di ritagliarsi un posto in un mondo che ancora le voleva relegate ai margini. Erano quelle donne, madri, amanti e adolescenti che non accettavano più di vivere una vita di indifferenza e solitudine, ma che reclamavano il diritto a nutrire i propri sogni, ribellandosi a quell’universo maschile che le circondava opprimendole, e che negava loro tutto ciò che esulasse dal dover essere madre, moglie, figlia, sorella e donna.

Fu così che Nadia divenne la firma più ricercata del Times. Le raddoppiarono la scrivania – nel senso che gliene diedero una: prima doveva scrivere in sala bozze, appoggiandosi dove capitava – ma l’unica cosa che non raddoppiò fu, però, lo stipendio. In fondo, una cosa era fare il cronista; un’altra fare i soldi facendo il cronista.

A Nadia, però, non è che i soldi interessassero, non veramente. Tutto quello di cui gioiva, era il successo che finalmente le sorrideva. Era qualcosa che si era costruita da sola, lottando, subendo, ingoiando rospi grandi come balene. Ma alla fine ce l’aveva fatta, grazie alla sua forza e alla sua determinazione. Senza mollare mai, aveva dimostrato a se stessa che poteva farcela. Lei chiamava successo tutto questo. Un successo da quindici sterline al mese. E che il resto andasse a farsi benedire.

E poi, anche se avesse guadagnato montagne di soldi, non sarebbe mai riuscita ad abbandonare i luoghi miserandi che avevano fatto da cornice alla sua vita a Londra per tutti quei cinque, quasi sei lunghi anni. Jonathan aveva spesso insistito perché lei lasciasse il quartiere in cui ancora viveva, così poco indicato a una ragazza sola e carina come lei. Lui, segretario del ministro alla difesa, proveniva da una famiglia di importanti personalità del mondo della politica e dell’economia. A casa sua le maniglie alle porte avevano probabilmente più valore dell’intero stabile in Foley Street in cui Nadia alloggiava, ma la cosa non è che le importasse più di tanto. In realtà, quello di cui Jonathan non si rendeva conto, era che quella sicurezza ostentata da Nadia nel “suo” quartiere, era legata a quel particolare tipo di disperazione che nella sofferenza diventa la panacea per tutti i mali. Sei tranquillo perché sai che persino i delinquenti sono più ricchi di te, e che tu non hai nulla che possa in qualche modo interessarli.

Nella solitudine di quelle strade, chiuse da squallide roccaforti popolari in mattoni rosso ocra, di quelli che se ti appoggi ti tingono le mani e i vestiti, nessuno toccava nessuno ma tutti, alla fine, si occupavano di tutti. E così, Nadia aveva imparato a conoscere nome per nome i suoi vicini di casa, e ad amare quelle caserme dalle finestre vuote e dai mattoni rossi ingrigiti dal fumo, che al loro interno accoglievano interi reggimenti di diseredati. Amava le strade dagli acciottolati sconnessi, e gli alberi spogli che si levavano verso il cielo come in un gesto di muta disperazione e supplica. Per quanto triste, lei amava tutto di quel luogo, perché sapeva quanta vita si celava, in realtà, dietro quell’apparente morte.

E mai cuore o anima pulsava più vivamente, quando d’estate le donne del quartiere si raccoglievano sui gradini, o intorno a un’aiuola. In quei momenti, Nadia le raggiungeva, i piedi nudi per sentire il calore che emanava la terra; e sedendosi accanto a loro, in cerchio con loro, quante storie! Quanti i racconti e quante le passioni che ardevano allora nel comune falò dei ricordi, rispolverate dalle loro ceneri sotto il sole che al tramonto infuocava le facciate nude degli edifici e le case di mattoni in terra bruciata; lì, voci solitarie srotolavano come su un tappeto ricordi mai sopiti e passioni mai domante, universi femminili che Nadia non aveva mai neppure immaginato: solo allora scoprì come la vita, l’amarezza di un rimpianto, il sogno e la speranza spesso si raccolgano dietro un sospiro come tesori, come gemme, pronte a risplendere qualora le si riporti alla luce.

In quelle occasioni, Nadia sospirava alle parole vaghe di quelle donne, e sognava con esse. E pensava, insieme a esse, chissà...

Chissà se lui, ancora...

Lui, ormai lontano, nulla più che un ricordo. Eppure, quanta inspiegabile emozione a quel ricordo.


Questi pensieri la sorpresero ormai completamente sveglia. L'orologio era accanto alla sua mano, ancora stretta intorno all’ingombrante, bellissimo vaso di rose che occupava tutto il comodino. Nadia notò che stonava un poco con l’arredamento austero e al limite dello stile minimal – carcerario con cui aveva economicamente arredato la casa. Un tocco di lusso che bucava la vista come una macchia scura su una veste candida. Forse avrebbe dato meno fastidio fuori dalla finestra.

Si mise a sedere sul letto, poggiando i piedi nudi sul pavimento di mattoni sbeccati. Un brivido la percorse tutta. Sollevò le punte dei piedi, lasciando poggiati solo i talloni.

Troppo freddo, ancora. Eppure siamo a Giugno.

Ma quando arriva l’estate?

E le riunioni davanti alle aiuole, con i bambini che intanto giocano alla settimana lungo i marciapiedi sconnessi, tra gli alberi carichi di foglie...

...e nell'aria il profumo caldo dei tigli...

Nadia si liberò delle coperte. Si stiracchiò e si accorse che nella mano teneva la sveglia. La guardò distrattamente.

Le nove e un quarto.

Come?

Fissò per qualche istante il quadrante, credendo di aver letto male. No. Erano proprio le nove e un quarto.

Si precipitò giù dal letto alla velocità del fulmine. Aveva un ritardo pazzesco, doveva essere in redazione per le otto. Il direttore l’avrebbe uccisa.

Si sciacquò la faccia e raccattò velocemente gli abiti sparsi in giro per la stanza. Perché non aveva riordinato, prima di coricarsi? Non se lo ricordava. Anzi, a dire la verità non si ricordava molto di quello che era successo una volta che si era separata da Jonathan. Indossava ancora il corsetto, sotto alla camicia mezza slacciata. Se ne accorse solo ora.

Non aveva tempo per porsi domande inutili. In fondo, quel fastidioso cerchio alla testa che le stava uscendo a tormentarla, era una risposta più che chiara. La prossima volta, avrebbe fatto bene a non eccedere nei festeggiamenti.

Si allacciò la camicia e si infilò la gonna, che trovò abbandonata sulla sedia; glissò invece sulla sottoveste, che non trovava.

Le scarpe...

Trovata la prima, sotto al letto. Mancava una.

Nove e venticinque.

Se non trovava la scarpa in cinque secondi, andava scalza.

Si chinò a terra. Nulla sotto il letto. Nulla sotto alla scrivania.

Eccola, sotto all’armadio.

Nadia evitò di domandarsi come ci fosse finita. Certe cose meglio lasciarle avvolte dal mistero.

Si annodò velocemente un nastrino al colletto e si infilò la giacca di velluto rosso. Raccolse in una semplice coda i capelli che portava tagliati alle spalle, così lisci e neri che riflettevano bagliori come d’azzurro. Si pettinò la frangia, che le ricadeva di lato sulla fronte e agguantò il cappello. Dopo essersi concessa un breve sguardo d'insieme, cercò di convincersi che il suo aspetto era più che soddisfacente e si precipitò fuori dalla piccola mansarda ormai inondata dal sole. Pochi istanti dopo, stava già correndo lungo le strade anonime che circondavano Tottenham Court road, tra gli sguardi contrariati delle signore perbene e quello smarrito dei rispettivi mariti.

Volava lungo i viali, intorno a lei macchie di verde e di rosso. Non si udiva il vociare dei bambini, ma solo il confuso latrare dei mercanti alle bancarelle, poco lontano. Ma non aveva tempo di fermarsi a parlare con loro, oggi. Doveva correre.

Correva per recuperare il suo ritardo, ma Nadia correva anche perché amava correre. Lo faceva ogni giorno, come da bambina, quando era acrobata al circo. Aveva ancora la stessa agilità, e il suo corpo possedeva la stessa tonica bellezza di allora. Solo i ricordi cominciavano a sembrare diversi, e con essi i giorni.

Sfrecciò accanto a dame a braccetto di giovani magistrati rampanti e davanti a uomini in tight che leggevano il Financial Times su panchine di ghisa e di legno. Laggiù in fondo si scorgeva già Fleet street, con le sedi dei quotidiani addossate una all’altra, come a spifferarsi le notizie. Ma intanto Bloomsbury, il quartiere bohemien; uomini indaffarati, studenti, letterati e poeti che accalcavano i caffè si succedevano indistinti in quello che è il quartiere più alla moda di Londra, ma che quando era arrivata Nadia non era altro che un normale quartiere di periferia, dove l’eleganza si ferma ai cancelli e dove gli occhi non vedono l’angoscia che si cela dietro l’angolo delle strade, come indugiando su una soglia sconosciuta; un luogo dove la normalità si ferma alle case dalle porte di legno smaltato e alle facciate di mattoni in stile Georgiano.

Nadia correva, lasciandosi ogni cosa, ogni pensiero alle spalle. Non si sarebbe fermata per nessuno. Correva con la mente e col cuore lungo vie che conducevano a una Londra lontana da quel luogo di semplicità e di rassegnazione in cui viveva, verso un luogo lastricato di sogni per tutti e per nessuno.

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Capitolo 3
*** 2 ***


2










«Dove accidenti eri finita?»

Lisa Stanfields le si affrettò incontro non appena la vide varcare la soglia. Trafelata, Nadia corse ad appendere la giacca e il cappello, cacciandoci dentro i guanti.

«Sono in ritardo?» fece con un sorriso, tanto per sdrammatizzare. Il fiato era ancora corto e le guance ambrate erano accese di rosso.

«In ritardo? Vorrai scherzare! Per un po’ siamo riusciti a far credere a Hunter che eri uscita per un servizio, ma ora penso che gli sia saltata la pulce al naso. Fatti vedere, subito!»

Nadia batté gentilmente la mano sulla spalla dell’amica, in segno di gratitudine. In tutti quei sei lunghi anni, lei e Michael Tippet erano state le uniche persone con cui Nadia era riuscita veramente a legare al giornale.

Lisa era l’altra donna della redazione. Lei e Nadia erano diverse, sotto molti punti di vista. Caparbia e testarda Nadia quanto remissiva e placida Lisa. Alta e dalla pelle ambrata Nadia quanto Lisa era lattiginosa, con una carnagione di un bianco quasi lucido, e con lunghi e ispidi capelli fulvi che le ricadevano in ampi boccoli sulle spalle. Era leggermente bassa e tracagnotta, ma dotata di un viso delizioso, la cui semplicità le conferiva tratti di non comune nobiltà. Il suo sorriso riusciva a sciogliere anche l’animo più disincantato e lei non mancava mai di farne uso, più e più volte in uno stesso giorno.

«Michael è arrivato?» chiese Nadia, correndo alla scrivania.

«Da un’ora. Ti ha lasciato le bozze, lì da qualche parte».

«Gli devo una cena...»

«Non solo a lui» fece Lisa con tono scherzosamente minaccioso, mentre spariva carica di cartelle dietro la porta dell’archivio.

«Naddy, trovate le bozze?» gridò Tippet, sporgendosi dalla porta della sala ristoro. Nadia gli strizzò l’occhio e gli mandò un bacio. Lui alzò il pollice in segno di intesa.

Michael Tippet era un tipo particolare. Alto lo era davvero, almeno rispetto agli standard a cui Nadia era abituata. Camminava per la redazione chino come una canna al vento, la schiena ormai leggermente ricurva a forza di rivolgersi a un mondo sempre più in basso di lui. Era un tipo taciturno e sognatore, che amava vedere nel proprio mestiere una specie di missione. Prendeva tutto quello che faceva tremendamente sul serio, tanto che Nadia lo aveva più volte rimproverato di lasciarsi sfruttare impunemente dai colleghi più quotati, che non si facevano scrupolo di caricarlo del loro lavoro più noioso, ben sapendo che lui non avrebbe mai rifiutato un incarico e mai avrebbe permesso che qualcosa in redazione rimanesse incompiuto.

«Ma non ti accorgi che lo fanno apposta?» gli diceva solitamente lei, in quelle occasioni.

«È il mio lavoro» era il suo semplice commento.

«Il tuo lavoro non consiste nel fare il lavoro degli altri!»

«Ma ormai ho detto che lo avrei fatto...»

In momenti come quelli, Nadia lo avrebbe volentieri preso a schiaffi. Ma tutto quello che invece si limitava a fare, era sedersi in silenzio e tendere la mano, lasciando che lui decidesse quale plico posarci sopra, tra i numerosi che gli erano stati affibbiati.

«Ecco, questo puoi prenderlo se vuoi...» le diceva lui, semplicemente.

«Dà qua, testone!» gli rispondeva lei, seccata. Ma chissà perché, alla fine le scappava sempre da ridere. Al che, anche Lisa li raggiungeva e dava una mano; e allora lavorare diventava difficile e anche il timido e preciso Michael si lasciava andare alle risate e si scioglieva nel raccontare gli aneddoti più succosi sui colleghi d’ufficio.

Nadia amava quei momenti di amicizia più di ogni altra cosa. Erano attimi in cui sentiva che avrebbe potuto passare la vita intera a quella scrivania. Lei insieme ai suoi amici “paria”, Quelli che al Times nessuno sapeva esattamente cosa facessero e perché. E sebbene Nadia avesse ormai lasciato quel club per passare ai piani alti e nonostante tutti, persino Lisa e Michael, si fossero aspettati che cominciasse a frequentare le personalità del giornale – quelli che potevano permettersi un ufficio e il caffè alla scrivania – lei li sorprese ancora una volta, rifiutando ogni prerogativa e accontentandosi di una scrivania ad angolo da sistemare accanto a quelle dei suoi amici. Nessuno di loro osò mai dire nulla in proposito. Ma spesso un silenzio vale più di mille parole.

Nadia bussò alla porta del direttore. Attese qualche secondo, finché una voce roca, preceduta da qualche colpo di tosse risuonò secca oltre il vetro.

«Entra».

Nadia si presentò col sorriso. Si accorse subito che era fuori luogo.

«Che fine hai fatto? Ora ti dai pure alla bella vita?»

Lei fece la finta tonta. «Come dice?»

«Lo so che sei arrivata adesso, Ra Arwol! Che, mi hai preso per scemo?»

«Nossignore».

«Che hai lì?»

«Le bozze mie e di Tippet. Pronte per la revisione».

«Dà qua».

Nadia gli porse il plico.

Improvvisamente, una sorgente di luce, intensa e abbagliante. Qualcosa risuonò. Una luce blu e riflessi di un chiarore accecante.

Svegliati.

Svegliati, Nadia.

Nadia...

Nadia!

Aprì gli occhi. C'era qualcosa di chiaro... Una parete, completamente bianca. Il soffitto. Era sdraiata a terra. Il direttore e Lisa la fissavano con agitazione. Non appena la vide riprendersi, Lisa si chinò su di lei, sollevandole delicatamente la testa.

«Cosa è successo?» chiese Nadia, scossa.

«Sei svenuta. Il direttore è uscito di corsa, chiamandomi. Quando sono entrata ti ho vista già a terra».

«Svenuta? Come...»

Nadia si portò una mano alla testa: le girava e provava un leggero senso di nausea. Vedendo che riacquistava colore, il direttore si rilassò, appoggiandosi con le mani alla scrivania alle sue spalle.

«Maledizione, Nadia. Mi hai fatto pigliare un accidente».

«Mi scusi, signore. Non so cosa mi sia successo» fece lei, cercando di mettersi seduta.

«Lo so io, lo so. Lavori troppo. Prenditi una mezza giornata libera. Anzi, tutta. Non si sa mai che poi torni prima del tempo e mi crepi qui».

Nadia si sollevò a fatica, appoggiandosi a Lisa, il braccio intorno alle sue spalle. Insieme, uscirono dall’ufficio di Hunter, proprio mentre Michael, attratto dal trambusto, spuntava timidamente da dietro lo stipite.

«Che succede? Sta poco bene?» chiese.

«A te che sembra?» ringhiò Hunter. «Fila via».

Michael si precipitò accanto a Lisa, seduta davanti all’amica nella saletta ristoro.

«Michael, puoi fare un tè?» gli disse lei.

Nadia appariva di un pallore disarmante. Si appoggiò con i gomiti alla scrivania, prendendosi il volto tra le mani. Lisa le carezzava i capelli.

«È solo un po’ di pressione bassa, tutto qui» disse.

«Già, credo anch’io» annuì Nadia. «Un tè mi farà bene».

Michael le porse una tazza di tè fumante. Si sedette sul bordo della scrivania, restando a fissare l’amica che beveva a piccoli sorsi.

«Sto già meglio. Grazie» gli disse con un debole sorriso.

«Dovresti riposarti davvero. Lavori come un’ossessa» le fece Lisa.

«Non credo sia il lavoro. Oggi ho dormito fino a tardi, ma al risveglio stavo comunque male» soggiunse Nadia. Lisa e Michael si lanciarono un’occhiata fuggevole. Nadia se ne accorse e preferì sdrammatizzare. «Probabilmente ho solo esagerato un po' ieri sera» disse, bevendo un altro sorso di tè.

Lisa non sembrò del tutto convinta. «È da molto che ti capita?»

«Non so... ogni tanto ho dei vuoti di memoria. Piccole cose. Per esempio, oggi mi sono svegliata e ho trovato la camera tutta in disordine. Ero anche andata a letto mezza vestita. Non ricordavo niente».

«Forse hai davvero esagerato» sorrise Michael. «A volte capita. Metti insieme fiumi di champagne, balli sfrenati...»

«Jonathan lo sa?» chiese Lisa, più pragmatica.

Nadia scosse la testa. «No. Non voglio che si impensierisca. Non mi lascerebbe più respirare».

«Però avrebbe ragione nel pretendere che tu ti riguardassi, non credi?»

«Non so nemmeno di che si tratta» nicchiò lei. «Probabilmente è una sciocchezza».

«Probabilmente sì, ma non sottovalutarla».

Nadia si alzò per versarsi un’altra tazza di tè. «D’accordo, ma non assillatemi, ok? Sono solo svenuta, tutto qui».

«Chi è che è svenuto?» William Ashburne fece il suo ingresso nella stanza lanciando su tutti uno sguardo sostenuto, dall’alto delle sue ottanta sterline al mese e dal suo posto da capocronista. Quando vide Nadia accanto al bollitore, si illuminò. Aveva sempre nutrito una passione per lei, per la sua esotica bellezza; e da quando Nadia aveva acquisito importanza, le appariva una conquista ancora più emozionante. Non vedeva l’ora di aggiungerla alla lista sterminata delle sue amanti, che si diceva contenesse parecchi nomi illustri e che si vociferava fosse il reale motivo per cui William era l’unico in redazione a sapere sempre tutto di tutti, prima di tutti.

«Mio Dio, Nadia. Ancora a perdere tempo con questi incarichi da servetta?» la punzecchiò. Lei alzò gli occhi al cielo.

«Ciao, Will» fece, stancamente.

«Perché non ti cerchi qualcosa di meglio? Non sei ancora stanca di fare il tè?»

«Non so. Tu che dici?»

«Dico che se vuoi posso darti una mano. So che alla Daily Gazette hanno un notevole interesse ad aumentare il numero di croniste femmine. Conosco qualcuno che potrebbe farti entrare in un soffio, se vuoi».

Nadia lo fissò in silenzio. «Davvero?»

«Certo» fece lui, malizioso.

«Beh, Will, ti ringrazio. Se non fosse che il Daily è un giornale scandalistico, che vende metà delle copie del Times e che le sue poche croniste femmina sono famose solo per essere arrivate alla redazione passando prima dal letto del direttore, accetterei subito. Ma ovviamente, dovrei ricambiarti il favore, non è così?»

Lui le sorrise. «Beh, io do una cosa a te... tu la dai a me...»

«E cosa vorresti, esattamente?» gli chiese lei, avvicinando il viso a quello di lui e fissandolo intensamente negli occhi, con un tenue sorriso malizioso.

«Un appuntamento io e te, soli».

Nadia gli voltò le spalle con grazia. «Mi spiace Will» disse, allontanandosi. «Ma per noi croniste femmina non è ancora la stagione degli accoppiamenti».

Lisa e Michael soffocarono una risata.

«D’accordo» le fece William, piccato. «Continua a uscire con quel damerino. Ma so che presto o tardi lo avrai a noia, e allora...»

Nadia gli lanciò uno sguardo di fuoco. «Cosa intendi dire con questo?»

William sorrise soddisfatto. Sapeva di aver colto sul vivo.

«Avanti, lo sanno tutti come fai».

«Come faccio cosa?»

«Usi gli uomini e poi li lasci quando non ti servono più».

Nadia impallidì.

«William, adesso stai esagerando» fece Michael, alzandosi in piedi con fare minaccioso.

«Oh, ma smettila tu» lo zittì lui. «È la verità. Prima viene qui grazie ai soldi di quel poveraccio francese; poi quando conosce il bel diplomatico... chi s’è visto s’è visto!»

Nadia lo incenerì con lo sguardo. «Non è andata affatto così. Sei un imbecille».

«No?» sogghignò lui. «Non è forse vero che ti ha prestato i soldi per vivere qui?»

«Sì, ma...» obiettò nervosamente lei.

«E non è forse vero che quel tipo è rimasto tre anni ad aspettarti, mentre tu gli hai dato il benservito?»

«Non sei nemmeno degno di parlare di Jean» disse lei, stizzita.

«E lui non era degno di te, allora? Evidentemente no, almeno non fino in fondo».

Gli occhi di Nadia si inumidirono. Provava una rabbia intensa. Avrebbe voluto stringere le mani al collo di William e strozzarlo. Ma dentro di sé sentiva solo un’immensa stanchezza.

«Lasciami in pace» disse in un sussurro.

«Come vuoi, vorrà dire che me ne tornerò al lavoro. Mica tutti possono permettersi di star qui a far nulla. Perché voi» disse, guardando prima Lisa e poi Michael «cos’è che fate, esattamente?»

Restarono tutti a guardarlo mentre si allontanava sghignazzando. Nadia era ammutolita. Stavolta William aveva esagerato. C’erano cose che non era lecito toccare: cose personali, dolori privati che dovevano restare tali, sepolti il più possibile sotto montagne di ricordi anestetizzanti. Lui era riuscito a far riaffiorare un dolore antico.

Nadia si prese il volto tra le mani, trattenendo le lacrime che premevano per uscire. Odiava gli uomini. Quando volevano sapevano ferirti come nessun altro.

«Non dare ascolto a quell’idiota. È solo un pallone gonfiato,» Michael le passò una mano sulle spalle. «E tu non devi giustificare nulla».

«Perché dovrei?» scattò lei. Lisa e Michael la fissarono esterrefatti per quella sua reazione inattesa. «Non posso accorgermi di essere innamorata di qualcuno? Devo essere l’unica donna sulla terra a restare insieme alla stessa persona per tutta la vita? Cosa sono, l’eroina di un romanzo per ragazzine?»

Michael lanciò a Lisa uno sguardo allarmato. «Assolutamente no, Naddy. È solo che...»

«Solo che... cosa?»

Lisa le si parò davanti, prendendole le mani.

«Nadia, nessuno ti giudica. Solo tu sei padrona della tua vita. Noi siamo con te».

«E allora lasciatemi stare, tutti quanti!»

Nadia si alzò in piedi, furiosa. Raccolse le sue cose, quindi uscì correndo, senza voltarsi indietro. Michael e Lisa rimasero sbigottiti a fissare la porta aperta e ad ascoltare i passi di Nadia risuonare veloci giù per le scale.

«Non volevo farla arrabbiare» si lamentò lui, abbattuto. «Non credo che abbia capito quello che intendevo dire».

Lisa gli sorrise, mentre rimetteva in ordine la scrivania dell’amica.

«Invece credo che abbia capito» disse, con un sorriso tenero. «È che nemmeno lei sa cosa pensare di sé stessa; e credo che questo sia ciò che la fa soffrire più di ogni altra cosa».

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Capitolo 4
*** 3 ***


3










Nadia camminava spedita, incurante di tutto. Camminava per camminare, senza una meta precisa, con il solo scopo di sentire il proprio corpo in movimento, libero dai pensieri.

Nessuno ha il diritto di giudicarmi, nessuno!

Il sole filtrava tra le fronde di vecchi olmi stanchi. Tagliava il marciapiede in spicchi di luce candida, bagliori accecanti che traevano dall’ombra il suolo annerito dal tempo e dalla sporcizia.

Nadia si perse a fissare quella successione di ombra e di luce. In un universo a chiaroscuro, i suoi passi risuonavano sull’acciottolato, per poi confondersi tra il tramestio di tacchi e suole di cuoio senza corpo, che scalpicciavano tutt’intorno. Una carrozza passò, il ritmico pestare di zoccoli e ferro sul selciato. Risate, uomini che parlavano tra loro.

Improvviso, un ricordo, e un dolore.

Jean...


«...Non posso più continuare così».

«Così come?» Lui ha l’aria rassegnata e smarrita. Come un condannato che conosca già la sua sentenza.

«Jean, io mi sono innamorata di un altro».

Lei cerca nei suoi occhi l’ombra di quel risentimento che più di ogni cosa teme, ma non vi trova che la traccia di un dolore profondo, e di una solitaria stanchezza.

«Sai, lo avevo capito». Aveva atteso un istante, prima di risponderle.

«Non volevo, non l’ho fatto apposta, credimi».

«Non devi scusarti. Non c’è una colpa».

«E invece sì, io dovevo amarti e...»

Lui solleva gli occhi. Una luce li attraversa, ma non è gioia, solo l’abbandono a una precisa consapevolezza.

«Dovevi?»

«Come dici?»

«Hai detto... dovevo amarti? Ma scusa, che senso ha?»

«Io...»

Si volta. Non riesce a sostenere il suo sguardo. È troppo sincero e profondo. Lui la conosce troppo bene. Quegli occhi azzurri così intensi sono discesi troppe volte nei suoi e chiedono una verità che è troppo dura da ammettere.

«Io non voglio che qualcuno si senta obbligato a volermi bene. Non ho bisogno né della tua carità, né della tua pietà».

«Non intendevo questo. Hai frainteso».

«Ma cosa credi, che sia così derelitto da non poter avere nessuna possibilità? Che abbia bisogno che qualcuno si metta una mano sul cuore e...»

«Adesso smettila, sei ridicolo. Io cercavo solo di essere gentile».

«Gentile, certo».

Si volta a guardarlo e c’è fermezza nei suoi occhi, e una rabbia segreta, che fino ad allora non sapeva di avere.

«Non volevo che andasse a finire così. Ma se vuoi che ci lasciamo litigando, per me va bene».

«Non fa molta differenza – fece lui, gli occhi fissi al suolo». Ci lasceremmo comunque.

«Ma potremmo farlo da persone civili. Rimanendo amici».

«No, grazie. Non mi va».

«Non... ti va?»

Lei abbassa lo sguardo. Era triste, ma sorrideva.

«È quello che ti dissi io quando ci incontrammo».

«Cosa?»

«Quando mi chiedesti se volevo essere tua amica. Ti risposi “no, grazie, non mi va”».

«Non me lo ricordavo».

«E invece sì». E quasi piangeva.

Lui si alzò in piedi.

«Me ne devo andare».

«È questo che vuoi? Che ci diciamo addio così?»

No, ti prego, pensò. Non così.

«Addio, Nadia». Sorrideva, anche se era in preda a una profonda tristezza.

E lei pianse, ma nascondeva le lacrime contro il sole che le illuminava il volto.

«Addio Jean» disse, in un sussurro. «Buona fortuna».


«Ma dove vai? Sei impazzita?»

Un calesse le passò accanto sfrecciando, scuotendola come da un sogno. Per un istante, Nadia si sentì come in equilibrio su un filo. Il mondo intorno a lei prese a ruotare, confuso.

Era in mezzo a una strada. Quale, non avrebbe saputo dirlo. I passanti la fissavano incuriositi. Una coppia, un uomo e una donna sulla quarantina, era a passeggio e nel vederla smarrita l’uomo le tese la mano.

«Signorina, sta bene?»

Nadia lo fissò. Perché quell’uomo in giacca nera le parlava? Lo conosceva?

«Io... credo di sì...»

«Venga via dalla strada, o rischia di farsi travolgere».

Nadia si lasciò ricondurre sul marciapiede. Era pallida e sudava. La donna la prese sotto braccio e l’aiutò a sedersi su una panchina.

«Le è successo qualcosa?» chiese.

Lei scosse la testa.

«Devo essermi persa. Sapete dirmi che via è questa?»

«Questa è Euston Road, siamo vicini alla stazione di King’s Cross».

Nadia stentò a crederci. Aveva camminato per cinque chilometri.

«Ora ricordo,» mentì lei. «Grazie, siete stati molto gentili».

I due la guardarono alzarsi in piedi, preoccupati.

«È sicura che non vuole andare da un medico?» chiese la donna. Portava un vestito rosa confetto. Nadia pensò che era un colore bizzarro.

«Sì sto bene. Grazie, arrivederci».

Si diresse lentamente verso casa. Foley street era solo qualche isolato più avanti. Ma com’era possibile che avesse camminato per tutto quel tempo senza rendersene conto?

Percorse la strada verso casa con la mente affollata da pensieri indistinti. Un pesante mal di testa le fece venire la nausea e quando arrivò davanti alla porta di legno ingiallita dal sole del n. 135 di Foley street, Nadia aveva i piedi e le gambe doloranti. Salì le scale pesantemente, appoggiandosi esausta alla porta d’ingresso una volta raggiunto il suo appartamento.

La mansarda era invasa dal sole e dall’afa. Tirò le misere tende alla finestra e subito una cappa di luce lattiginosa si mischiò all’umidità che si spalmava sul mobilio e sul letto disfatto. Lasciò la finestra aperta. Le tende penzolavano inerti, lasciando filtrare uno spiraglio di luce che si stendeva in una lunga linea rosso fuoco sui mattoni del pavimento.

Nadia si gettò sul letto. Chiuse gli occhi e si addormentò subito.

Fu un sonno pesante, e senza sogni.

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Capitolo 5
*** 4 ***


4










Quegli strani vuoti continuarono a intermittenza per tutta la settimana seguente. Senza dir nulla a nessuno, Nadia decise di farsi visitare da uno specialista.

«Non c’è nulla in lei che non vada, miss Ra Arwol. Per sicurezza le consiglierei una dieta ricca di ferro. Dovrebbe provare a mangiare carne di cavallo due volte alla settimana».

Nadia si allacciò la camicia, annodandosi il nastro di seta nera intorno al colletto inamidato.

«Non mangio carne, dottore».

«Da quando?» chiese lui, sorpreso.

«Da sempre». Si sistemò il corsetto e prese la giacca dall’attaccapanni. «Potrebbe essere dovuto a questo?» chiese.

Il dottore alzò le spalle. «Potrebbe anche essere. Le consiglierei di cominciare a mangiarne, almeno un po’. La sua è una questione religiosa o ideologica?»

«Questo può aiutarla a capire perché ho dei vuoti di memoria?» fece lei secca. Il dottore si schiarì la voce, arrossendo lievemente.

«No, era per avere un quadro più generale...»

«Capisco».

Nadia si infilò la giacca di velluto rosso. Il dottore la fissava pensieroso.

«Probabilmente è solo stanchezza. Provi a rilassarsi un poco... vada in vacanza, si prenda un periodo di riposo assoluto, in cui possa passeggiare all’aria aperta e ossigenare la mente».

«L’ultima volta che sono uscita per fare due passi, mi sono ritrovata in giro per Fitzrovia alle tre di notte» commentò sarcastica lei. Il dottore sorrise.

«Mi ascolti: vada in vacanza. E si faccia accompagnare da qualcuno. È la cosa migliore».

Il dottore si alzò in piedi per salutarla, tendendole la mano. Lei ricambiò la stretta con un sorriso sbiadito. Non aveva risolto nulla.

Sulla via del ritorno, Nadia pensava a cosa avrebbe fatto. Non poteva continuare a ignorare la faccenda. Quella storia cominciava ad avere conseguenze pesanti: a volte sul lavoro capitava che perdesse la cognizione di intere ore. Altre volte, mentre tornava a casa, si risvegliava come dopo una trance, da tutt’altra parte rispetto a dove stava andando. Aveva cominciato a prendere la carrozza per spostarsi, ma era una soluzione momentanea, perché costava troppo e lei non poteva permetterselo. Poteva sopportare l’astio che alcuni abitanti di Foley street avevano cominciato a manifestarle, nel vederla rincasare come una signora; ma non poteva sopportare di arrivare a metà del mese senza un soldo in tasca.

Però, poteva sempre chiedere i soldi a John.

No, era contraria a questo genere di cose. E poi avrebbe significato confidargli quello che le stava succedendo; e allora lui non l’avrebbe più lasciata vivere.

Però, era sempre il suo fidanzato. Non poteva nascondergli una cosa come quella.

Glielo dirò a cena.

«Cosa? E da quant’è che hai questo problema?» John era furioso. Nadia aveva sperato che il fatto di trovarsi con lui in un affollato ristorante, potesse trattenerlo dal fare una scenata, ma si era sbagliata. Diverse persone si voltarono verso di loro e lei arrossì fino ai capelli.

«Stai tranquillo, è tutto sotto controllo. Il dottore ha detto che non c’è niente che non vada. Secondo lui dovrei solo andare in vacanza».

«E chi sarebbe questo dottore? Lo conosco?»

Nadia alzò gli occhi al cielo. Lo sapeva che sarebbe andata a finire così.

«Ma che importanza vuoi che abbia?» disse. «Mangia, piuttosto, se no si fredda tutto».

«Se solo tu me ne avessi parlato prima» insistette lui, «avrei potuto consigliarti un medico di fiducia».

Nadia portò alle labbra un cucchiaio della sua ratatouille. La sorbì lentamente, quindi posò gli avambracci sul tavolo, ostentando indifferenza per quello che lui le diceva.

«Non ce n’era bisogno. E poi ti ripeto che va tutto bene. È solo un piccolo fastidio, tutto qui».

«D’accordo. Allora vorrà dire che andremo in vacanza».

«Come?»

Lui alzò le spalle. «Partiamo. Devi prenderti una vacanza, no? E allora, andiamo. Io e te».

Nadia lo fissò incredula. «E dove?»

Lui ci pensò un istante.

«In crociera» fece. «Che ne dici?»

Nadia sorrise, incapace di ribattere. «In crociera! Ma sei impazzito?»

«Così se ti metti a gironzolare, sono sicuro di ritrovarti» le disse lui. Nadia scoppiò a ridere.

«Allora, accetti?» le chiese.

Lei lo fissò teneramente. «Va bene. Ma a una condizione...»

Jonathan si sporse verso di lei. «Quale?»

Nadia sorrise, maliziosa. «Cabine separate».

Lui si abbandonò sulla sedia. «E io che speravo...»

Lei rise. Per la prima volto dopo settimane era finalmente serena.

«Prima dovrai sposarmi, mascalzone!»

«Non chiedere, se non vuoi rischiare di ottenere...» le fece lui.

Nadia gli rivolse uno sguardo tenero. «Ti assicuro che una vita tranquilla è tutto quello che vorrei per me, adesso».

Jonathan scostò la sedia, avvicinandola alla sua. Le prese la mano tra le sue e la fissò intensamente negli occhi. «E io farò di tutto, per darti ciò che desideri. Lo sai quanto ti amo».

«E io amo te, John» gli rispose lei. Lo baciò e per un attimo tutte le preoccupazioni svanirono.

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Capitolo 6
*** 5 ***


5










Mentre rientravano, Nadia non smise di pensare a come sarebbe stato eccitante andare in crociera. Doveva ammettere di essersi sbagliata: aveva fatto bene a confidare a Jonathan il suo problema. Era riuscito a risolvere la questione in un attimo. E ora i suoi problemi non le erano mai sembrati così lontani.

«Ho saputo che è tornato Kurtag» esordì John. Nadia, la testa appoggiata sulla sua spalla, si sollevò a guardarlo. Andrés Kurtag era un anziano professore di storia del King’s College. Era il massimo esperto di antichità di tutto il regno unito e Nadia lo conosceva da anni, da quando l’aveva aiutata a completare le ricerche per il suo libro. Da allora avevano allacciato un rapporto quasi filiale ed erano rimasti ottimi amici.

«Davvero? Quando?» chiese lei, sorpresa che non le avesse ancora detto nulla.

«Mah, un paio di settimane,» fece John, vago «non so di preciso. Comunque l’ho incontrato l'altro ieri a casa del console Tedesco, il barone Leopold von Caprivi».

«Non mi ha ancora chiamata. Strano» mormorò Nadia. «E tu, che ci facevi là?»

«Oh, le solite cose» disse lui con noncuranza. «Nulla di importante».

Nadia restò pensierosa per un po’. «Senti, siamo vicini a casa sua» disse poi, improvvisamente. «Ti spiace se passiamo? Non è troppo tardi e forse lo troviamo ancora in piedi».

Jonathan estrasse l’orologio dal taschino. «Preferirei di no, cara. Domani ho un impegno importante in camera di consiglio e non vorrei tardare...»

«D’accordo. Vado io».

Lui strinse le labbra. «Nadia...»

«Avanti, non ricominciare. Siamo a due passi da casa mia. E sto bene. È tutta sera che non ho giramenti e penso che non mi accadrà nulla».

«Pensi?»

«Ne sono sicura».

Lui alzò gli occhi, fissando un punto imprecisato davanti a sé. «D’accordo. Ma...»

«Niente ma» fece lei, aggiustandogli la cravatta di seta rossa e sollevandosi sulle punte a baciargli i baffi. «Vai a casa e stai tranquillo».

Jonathan la strinse a sé e le baciò i capelli. «Mi raccomando. Ci terrei a fare quella crociera».

«Anche io, fidati» gli sorrise lei.


Nadia imboccò Chenies Street. La serata era piacevolmente frizzante. Era bello passeggiare lungo le stradine residenziali. Il profumo dell’edera e delle siepi di bosso si mischiava al fascino di un cielo senza luna né nuvole. Nadia sollevò gli occhi. Orione risplendeva alto sopra la sua testa, il pesante randello levato minacciosamente, pronto ad affrontare il toro che lo caricava. La sua spada pendeva attaccata a una scintillante cintura di stelle. Nadia non poté fare a meno di notare la seduzione che uno spettacolo del genere poteva esercitare sull’animo umano.

Arrivò davanti a una piccola ma graziosa villetta in mattoni scuri e dalla porta di legno blu. Bussò e attese. Per un po’ non rispose nessuno. Nessuna luce ad illuminare le finestre chiuse, da cui pendevano tende tirate.

Forse non è in casa, pensò.

In quell’attimo la porta si aprì e un uomo dai capelli grigio argento in completo di tweed comparve sulla soglia. Per un breve istante, sul volto solcato dagli ampi favoriti Nadia colse uno velo di inquietudine. Poi le rughe sulla fronte si distesero e con un sorriso e un abbraccio, Andrés Kurtag accolse Nadia in casa sua.

***










«Quando è successo? Sì, capisco...»

Con molta calma, l'uomo posò la cornetta. Per diverso tempo non fece nulla, limitandosi a rimanere immobile, a fissare il vuoto davanti a sé. Solo dopo molto si alzò e si avvicinò alla finestra che si apriva nel suo studio, scostando la tenda. Il sole del mattino faticava a farsi strada in un cielo screziato di nubi. La città si era già animata della solita, febbrile attività e brulicava di vita, davanti ai suoi occhi. Un immenso mare di indaffarati parassiti.

Com’è tutto vano, pensò. Ogni cosa, ogni fatica. Tutto, prima o poi, è destinato a svanire, che lo vogliamo o no.

Si voltò a guardare la scrivania, dove stava il telefono, nero e silenzioso. Quindi, con un sospiro si sedette, sollevando nuovamente la cornetta e componendo un numero.

«Mi mandi Churchill, è per una consegna» disse. La voce gli uscì stanca, a dispetto di quanto si sforzasse per mascherare la sua disillusione. «Gli dica di fare in fretta».

L’uomo posò debolmente il ricevitore. Aprì un cassetto alla scrivania ed estrasse un foglio di carta spessa e ruvida, lavorata a mano. Gli occhi gli caddero su un plico, nascosto proprio sotto alla carta. Era lì da sei anni e riguardava qualcosa ormai da tutti dimenticato, ma che per lui rappresentava un ricordo ancora vivo e terribile. Rimase a fissare il plico, senza poter far nulla. Una parola, un nome che vi lesse sopra, gli si impresse nella mente: Side.

Richiuse il cassetto con una certa esitazione, posando la carta da lettere davanti a sé. Intinse il pennino nel calamaio e con grafia lenta ed esitante graffiò una serie di lettere.

Sol occidit. Orion surgit. La pietra è perduta.

Rilesse ciò che aveva scritto, sospirando. Quindi imbustò la lettera chiudendola con della ceralacca, su cui imprimesse il suo sigillo, che portava come anello. Quando ebbe terminato, posò la lettera sulla scrivania; e guardandola quasi con timore, si abbandonò contro lo schienale della sua poltrona di pelle ingrassata. Si frugò in tasca ed estrasse un pacchetto sgualcito, da cui sfilò un sigaro. Frugò in cerca dell’accendino e dopo averlo acceso, reclinò il capo all’indietro, espirando il fumo lentamente. Chiuse gli occhi.

Chi di noi, può sconfiggere il fato?, pensò. È questo il nostro destino, che lo vogliamo o no.

Tutto era successo come aveva previsto e temuto. Aveva fatto quello che poteva per scongiurare il presente, ma la consapevolezza della sua inutilità non riusciva ad abbandonarlo. La catena degli eventi, inesorabile, continuava a procedere e qualcosa in lui sapeva che nessuno avrebbe mai potuto arrestarla. Non questa volta.

***









Camminava lungo una strada di porpora. Sentiva la paura crescere dentro di sé, percepiva lo smarrimento. Si guardava intorno ma non c’era nessuno che potesse aiutarla a capire.

Era una bambina. Eppure sapeva di essere cresciuta, aveva coscienza del suo essere cresciuta, ma era una bambina. Il corpo di una bambina, ma la mente no, quella non era di una bambina.

Camminava in silenzio e sentiva i ciottoli scricchiolare sotto i suoi piedi. La strada appariva deserta e l’unica luce che la illuminava era di un rosso carico, caldo come sangue e scuro come il sangue. Nadia poteva percepire l’odore acre del sangue, tutto intorno a sé. Avvertì un senso di inevitabile rassegnazione farsi strada in lei. Cercò di lottare, ma non ce la faceva. Era stanca. Aveva solo voglia di fermarsi, di sedersi. E di bere. Aveva molta sete.

Alzò lo sguardo verso il cielo e vide che brillava di porpora. Tutto quello spazio vuoto che si apriva intorno a lei brillava di porpora, un intenso colore sanguigno, come se si trovasse a viaggiare all’interno di una gigantesca arteria.

Improvvise, all’orizzonte, apparvero alcune casupole disabitate che cadevano a pezzi. Qualche rado filo d’erba era mosso dal vento che, solo, osava sfidare quell’innaturale fissità. Nadia si guardò intorno, ma continuò a non vedere nessuno. Chiuse gli occhi e gli riaprì, ma ancora non apparve nessuno.

Continuò a camminare, raggiunse le case. Dalle finestre vuote vedeva solo l’ombra scura degli interni disabitati, mentre i muri sventrati si piegavano verso di lei pericolosamente, quasi a volerla schiacciare. Si fece piccola, e avrebbe voluto essere invisibile. Era come se tutto, intorno a lei, non facesse che guardarla, scrutarla fuori e dentro di sé, spogliandola al mondo. Migliaia di occhi nascosti, invisibili si intrecciavano sul suo corpo, come filo spinato su un campo di battaglia insanguinato.

Si fermò. Aveva il fiatone. L’aria era irrespirabile, calda e pesante, immobile, come quella che si trova in una stanza occupata da un cadavere. Si voltò e alle sue spalle vide un bambino. Stava lontano, come se la seguisse senza volerla avvicinare. Teneva la testa bassa e lei non poteva vederne i lineamenti del viso.

Nadia provò un senso di inquietudine. Si guardò i piedi e vide che non portava le scarpe. Le dita erano sporche di polvere e le piante piene di ferite. Anche le sue mani erano piagate, le unghie spezzate, come se avesse scavato la terra a mani nude.

Nadia si voltò una seconda volta e vide che il bambino si era avvicinato. Stava fermo, le braccia abbandonate lungo i fianchi, il corpo seminudo, scarno e sottile, la testa reclinata verso il basso. Sentiva che la guardava ma non ne vedeva gli occhi, coperti da una fitta coltre di capelli.

Riprese a camminare. Un respiro, dietro di sé. Non aveva bisogno di voltarsi per capire che il bambino era a pochi passi da lei. Fece finta di nulla e camminò. Il bambino la prese per mano. Lei continuò a camminare, senza mai guardarlo.

La strada continuava in mezzo alle rovine, che sembravano infinite. Camminarono uno a fianco dell’altra, tenendosi delicatamente per mano, per un tempo indefinito. Nadia poteva sentire il calore della mano di lui, il sudore che colava tra i loro palmi. Si volse verso il bambino ma i capelli sul suo volto non lasciavano intravedere i tratti del viso. Il suo respiro era affannoso, come quello di un vecchio. Procedeva tutto ingobbito, come se portasse sulle spalle il peso di migliaia di anni. I suoi piedi erano nudi, come quelli di lei, solo più sporchi e più piagati. Nadia si chiese quanto avesse camminato, prima di allora.

Insieme, giunsero alla fine della strada. Davanti a loro, nulla. Un immenso mare rosso si stendeva tutt’intorno, ma non c’era una spiaggia, né una barca né niente. Persino il mare sembrava in procinto di dissolversi.

«Cos’è questo posto?» chiese lei. Ma il bambino taceva.

Nadia avanzò verso il mare e lasciò che quell’acqua di sangue le bagnasse i piedi. Sentì un sollievo immediato, che però la rattristò. L’acqua le lavava le ferite, ma le piagava l’anima.

«Voglio andare via da qui» disse. «Ti prego, fammi uscire».

Il bambino restò in silenzio.

«Ti supplico, fammi uscire!» gridava, ma il bambino non si muoveva.

«Voglio andarmene, hai sentito?»

Prese a scuoterlo ma lui restò immobile. Lei lo colpì e lo schiaffeggiò, lo picchiò finché non sentì il sangue colarle lungo i polsi. Con raccapriccio si accorse di avere in mano una lama affilata. Il bambino giaceva a terra, il volto sepolto nella terra, il corpo martoriato dalle coltellate. La terra era imbevuta del suo sangue e continuava a berlo avida, mentre scorreva dalle sue ferite. Nadia fissò le sue mani con orrore e si lasciò cadere in ginocchio. Prese il bambino dolcemente e lo girò. Gli scoprì il volto, scostandogli i capelli imbrattati di terra e di sangue. Con un grido lo lasciò ricadere. Il bambino non aveva un volto, ma solo una liscia pelle bianca, senza naso, né bocca, né occhi.

Nadia si coprì gli occhi con le mani e pianse. Qualcuno la toccò sulla spalla. Il bambino si era rialzato e ora la fissava attraverso i suoi occhi vuoti, ma accesi di una strana e cieca consapevolezza. Lei gli rivolse uno sguardo disperato.

«Perché?» gli chiese. «Perché tutto questo?»

Perché è il tuo destino, fu la risposta, prima che lei si svegliasse.

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Capitolo 7
*** 6 ***


6










Quando si svegliò, Nadia aveva un forte mal di testa. Cercò la sveglia. Aveva qualcosa sulle mani che le rendevano appiccicose. La pelle le tirava.

Si sforzò di alzarsi. Con fatica, riuscì a mettersi seduta. La testa le doleva in modo pazzesco.

Distrattamente, si guardò le mani.

Con un moto di orrore, Nadia si riscosse dal sonno. Sangue. Sangue dappertutto.

Si rigirò le mani davanti agli occhi: erano imbrattate di sangue rappreso. Si osservò la camicetta e con un grido strozzato si accorse di essere completamente sporca di sangue. Terrorizzata, si tastò per vedere se quel sangue non le appartenesse.

Nulla, non una ferita.

Ma allora...

Non riusciva a ricordare niente. Vuoto più totale.

Si passò una mano tra i capelli. Ma che accidenti era successo? Tutto quel sangue non era normale...

Adesso era davvero agitata. Prese a camminare in cerchio per la stanza. Cosa doveva fare? Andare alla polizia. E poi? Non ricordava nulla: e se si fosse resa colpevole di qualche gesto assurdo? Ma no, com’era possibile... Forse aveva soccorso qualcuno. E se quel poveretto era ancora per strada, mezzo morto? Aveva allertato i soccorsi? Se fosse andata alla polizia avrebbe saputo. No, all’ospedale, forse.

Doveva chiamare Jonathan. Si ricordò che era a una riunione.

Che ore sono?

Le otto e mezza.

Devo andare al lavoro.

No, il direttore l'aveva messa a riposo.

Però al giornale forse sapevano qualcosa...

In quattro e quattr’otto, Nadia si sciacquò e cambiò d’abito, frugando tra le poche cose che aveva. Quindi, si precipitò alla redazione del Times.

Al giornale regnava l’agitazione. Restò sulla soglia a fissare l’andirivieni del personale che faceva la spola tra una scrivania e l’altra. Il telefono squillava. Qualcuno corse a rispondere.

«Sì. Sì, abbiamo saputo... si, ora. Per l’edizione della sera. Certo».

Nadia cercò Lisa e Michael tra la folla, senza riuscire a vederli. Improvvisamente comparve Lisa, tra le braccia una montagna di incartamenti.

«Nadia!»

Tutta la redazione si fermò. Nadia rimase a fissare gli occhi dei suoi colleghi che la guardavano come attraverso una tela di sogno. Dopo un attimo di sconcerto, tutti ripresero il loro lavoro, ma nella stanza era calato come un velo di sommesso imbarazzo.

«Nadia, tesoro. Come stai?»

Lisa le si era precipitata accanto. La teneva per le mani, fissandola angosciata.

«Bene» mentì. «Cos’è tutto questo trambusto?»

Lisa la fissò tristemente. «Allora non lo sai?»

«So che cosa?»

Lei prese a mordersi il labbro, incerta sul da farsi.

«Lisa, così mi mandi in paranoia. Cosa c’è che dovrai sapere?»

«Kurtag. È stato assassinato ieri sera». La voce le uscì quasi in un soffio. Nadia sbiancò all’improvviso, e Lisa le strinse le mani.

«Coraggio, Naddy. Vieni, andiamo di là, staremo più tranquilli».

Lisa condusse Nadia in sala riunioni. Scostò una sedia dal tavolo spoglio e aiutò l’amica a sedersi, perché sembrava incapace di reggersi in piedi da sola.

«So che sei sconvolta» disse. «Ma devi cercare di farti coraggio».

«Com’è successo?» le chiese Nadia in un sussurro. Le mancava il fiato persino per respirare.

«Nessuno lo sa. Oh, Naddy: La polizia dice che era una scena terribile! Io...»

Lisa si portò la mano al volto. Nadia sentì le lacrime scenderle lungo le guance, mentre con gli occhi offuscati continuava a fissarsi le mani. Poteva ancora avvertire la sensazione appiccicosa del sangue sulla pelle.

«Lisa...»

«Nadia, devi andare a casa, questo non è il posto per te. Hai già abbastanza cose a cui pensare e...»

«Lisa, io...»

«Vai a casa, d’accordo? Ti chiamo una carrozza, aspetta qui».

Lisa fece per uscire, ma Nadia la bloccò per un braccio. La ragazza si voltò sorpresa a fissare l’amica, che se ne stava a capo chino, le spalle curve.

«Lisa, credo di averlo ucciso io».

Lisa fece qualche passo indietro, lanciandole uno sguardo incredulo. «Cosa?»

Nadia sollevò gli occhi a guardarla e in essi Lisa scorse paura e angoscia.

«Nadia, ma cosa stai dicendo?»

«L’ho ucciso, Lisa. L’ho ucciso io. Io ho assassinato Kurtag».

Lisa si appoggiò al tavolo, la bocca spalancata. «Nadia tu non stai bene...»

«Ieri sono andata a trovarlo. E stamattina mi sono svegliata senza ricordare più nulla: tutto ciò che ho in mente è Andrés che mi apre la porta. Poi il sangue...»

«Che sangue?» chiese allarmata Lisa, che cominciava seriamente ad avere paura.

«Stamattina ero piena di sangue. Ovunque. Le mani e i vestiti. Non riuscivo a capire che cosa mi fosse successo, ma ora... ora lo so».

Nadia scoppiò in singhiozzi. Lisa era scioccata. Non sapeva come reagire. Fissava Nadia come da lontano, da una distanza incolmabile. Poi si fece forza e cercò di riportare la sua amica alla ragione.

«Nadia, perché avresti dovuto uccidere Kurtag? Non eravate amici?»

«Sì».

«E allora? Scusa, che motivo avresti avuto per fare una cosa simile?»

«E se fossi pazza? Se questi vuoti di memoria fossero momenti in cui qualcosa dentro di me prende il sopravvento spingendomi a commettere cose terribili?»

«Nadia, stai descrivendo un mostro».

Lei scosse la testa, in preda all’angoscia. «E se io lo fossi, un mostro?» gridò.

Lisa si gettò sull’amica, traendola a sé. La strinse in un abbraccio forte, lasciando che i suoi singhiozzi si infrangessero contro il suo petto.

«No, che non lo sei. Tu sei Nadia e sei mia amica. E di Michael. Noi ti conosciamo bene e sappiamo che persona sei. Sei testona, lunatica, ma anche buona e generosa. Sei un’amica fantastica e una delle persone migliori che io abbia mai conosciuto. Non crederò mai che tu possa aver commesso nulla del genere, mai! E farò tutto il possibile per dimostrarlo!»

Nadia continuava a piangere. Era commossa dall’affetto dell’amica, ma anche disgustata da se stessa. Era convinta di aver fatto qualcosa, come se avesse già emesso da sé la propria sentenza di colpevolezza.

«E il sangue allora?»

«Forse hai cercato di salvare Kurtag. Cerca di ricordare, può essere andata così?»

«Non so, forse... non ricordo nulla».

Nadia si alzò in piedi, stringendo i pugni fino a farsi sanguinare i palmi.

«Maledizione, ma perché non riesco a ricordare!»

Qualcuno bussò alla porta. Era Michael. Lanciò un occhiata fuggevole a Nadia, che se ne stava a braccia conserte in un angolo.

«Lisa, è qui la polizia» disse. «Ciao, Nadia».

Lei sorrise debolmente, voltando le spalle. Lisa si avvicinò alla porta.

«Cosa vogliono?»

«Vogliono parlare con Nadia. Chiedono se è qui».

«Digli di no, che non è ancora arrivata – fece lei».

«Ma che succede?» chiese Michael, preoccupato.

Lisa lo spinse fuori dalla porta, chiudendosela alle spalle. «Abbiamo un gran casino qui, Mickey. Dobbiamo dare una mano a Nadia. Poi ti spiegherò, ma adesso...»

«Sì è qui, l’ho vista arrivare poco fa».

Lisa e Michael guardarono contemporaneamente verso il fondo della sala. William Ashburne aveva appena finito di indicare ai poliziotti il luogo in cui si trovava ora Nadia.

«Maledetto spione!» soffiò Lisa. «Michael, cerca di contattare Jonathan. Guarda se trovi il numero dell’ufficio nell’agendina di Nadia, nel primo cassetto della sua scrivania. Presto!»

«Volo!» fece lui, allontanandosi velocemente.

Lisa Stanfields rimase davanti alla porta a sbarrare il passo ai due agenti della polizia investigativa.

Uno di loro portava la divisa, mentre l’altro, un tipo non troppo alto né troppo basso, no. Quest’ultimo si fece avanti, zoppicando visibilmente e trascinandosi dietro la gamba sinistra. Era piuttosto tarchiato e sulla testa squadrata e irregolare portava dei crespi capelli castani, screziati di grigio. Sul grosso naso allungato stavano in equilibrio due spesse lenti a pince-nez, che riflettevano innaturalmente due grandi occhi bruni. Vestiva un orrido completo corvino, che se ne stava arricciato sotto un vecchio e logoro soprabito color cammello. Una camicia dal colletto liso e un cravattino nero in coordinato completavano la figura, piuttosto triste nel complesso.

Con un sorriso mellifluo, l’uomo tese la mano alla ragazza. Una grossa mano grassoccia, dalle dita spesse e tozze.

«Piacere, sono l’ispettore investigativo Peter Simum. Lei è la signorina Nadia Ra Arwol?»

«Mi chiamo Lisa Stanfields, la signorina Ra Arwol non è qui».

Lui la fissò sorpreso. Si girò a guardare dove prima si trovava William. «Non è qui? Ma che strano, il suo amico mi ha appena detto che...»

«Non è un mio amico. La signorina è appena uscita».

«Uscita? E lei sa per dove?»

«Non l’ha detto».

L’ometto la fissò pensieroso per un istante. «Capisco» disse poi. «Mi dica, è possibile entrare nella stanza?»

«Stanza? Quale? Ne abbiamo diverse» fece Lisa, tradendo un certo nervosismo.

«Quella alle sue spalle».

«Non c’è nulla, lì».

«Quindi nulla in contrario se entro e do un occhiata?» insistette Simum, cordiale.

«Se mi dice cosa sta cercando la aiuterò. Può mettersi seduto mentre aspetta» si oppose lei, tenacemente.

Simum sorrise, visibilmente infastidito. «Non credo che lei possa aiutarmi a trovare quello che cerco, Miss Stanfields. La prego, ora mi faccia passare».

«Io...»

«Avete l’autorizzazione?»

Simum si voltò sorpreso. Jeremy Hunter se ne stava in piedi, appoggiato allo stipite della porta a vetri del suo ufficio. In bocca aveva un sigaro smozzicato e sul volto un’espressione truce e per nulla accomodante.

«Avete l’autorizzazione?» ripeté.

Simum lo fissò con disprezzo. «No».

«E allora fuori dai piedi» disse tranquillamente. E se ne andò com’era arrivato, chiudendosi la porta alle spalle. Simum rimase un istante a fissare la porta dietro cui era sparito Hunter, il volto teso in uno spasmo di rabbia. Poi, improvvisamente sereno, si rivolse a Lisa, sorridendole affabile.

«Nel caso riveda miss Ra Arwol, sarebbe così cortese da comunicarle che abbiamo rinvenuto alcuni suoi oggetti personali a casa del professor Andrés Kurtag, e che saremmo interessati a porle qualche domanda?»

«Vedrò di fare il possibile» fece Lisa, irremovibile.

«Molto gentile» commentò Simum, in un ghigno pieno di sarcasmo. «Arrivederci, allora».

Il più tardi possibile, voglio sperare! Pensò lei, mentre seguiva con lo sguardo i due agenti uscire dalla porta d’ingresso.

In quel momento entrò Jonathan, trafelato. Incrociò i due poliziotti a cui tenne aperta la porta con quella che Lisa trovò un’esagerata deferenza.

«Lisa, dov’è?» fece lui, rivolgendosi alla ragazza.

«È qui. Siamo riusciti a tenere a bada la polizia, ma presto torneranno alla carica».

Lui la fissò incredulo. «Tenere a bada la polizia? Ma che senso ha? Dovevate collaborare, invece!»

Lei lo fissò come se non lo riconoscesse. «Scusa?»

«Ora penseranno che Nadia ha qualcosa da nascondere! Bella mossa, complimenti!»

«Scusa se abbiamo cercato di difendere una nostra amica! Non so se te ne sei accorto, ma quelli non avevano dubbi riguardo al colpevole...»

Lui agitò le braccia, sbuffando. «E tu che ne sai? Loro sono le forze dell’ordine, te ne sei forse dimenticata?»

«Ora basta, Jonathan. Lisa ha solo cercato di aiutarmi e io le sono grata».

Non appena Nadia comparve sulla porta, nella stanza calò un silenzio pesante. Tutti rimasero a guardare, curiosi di vedere cosa sarebbe successo.

«Tesoro,» fece John, avvicinandosi a lei e posandole delicatamente le mani sulle spalle «devi venire subito alla polizia. Non hai nulla da temere, ci sarò io con te» le sussurrò, cercando di tranquillizzarla.

«Jonathan, quelli hanno trovato il mio portafoglio. L’ho perso ieri sera, da Kurtag».

Jonathan si passò le mani tra i capelli. «Lo sapevo che avrei dovuto accompagnarti, lo sapevo...»

«Beh, ora è un po’ tardi per le recriminazioni, non credi?» scattò Nadia.

Lisa si fece avanti, frapponendosi tra i due. «Non dobbiamo litigare, ma cercare di trovare il modo per far uscire fuori la verità. Tutti siamo concordi sul fatto che Nadia non è colpevole, giusto?»

Michael e Jonathan annuirono. Nadia abbassò lo sguardo: lei non aveva tutta questa certezza e non riusciva a fare a meno di sentirsi colpevole.

«E allora» continuò la ragazza, «diamoci da fare».

«Io andrò alla polizia» fece Nadia.

«Meno male» esalò Jonathan in un sospiro.

Lisa la bloccò, prendendola per le spalle, anche se era più bassa di lei. «Nadia, no».

Lei le sorrise, scuotendo la testa. «Non ti preoccupare, vedrai che andrà tutto bene. John ha ragione: se sono innocente non ho motivo di nascondermi. E se sono colpevole, beh... allora almeno lo scoprirò. Per il resto «e lasciò che i suoi occhi si spostassero da Lisa a Michael» posso sperare nel vostro aiuto?

«Lo avrai, Naddy» affermò deciso Michael.

«Non aver paura. Ti tireremo fuori dai guai» le confermò Lisa, commossa.

«Ne sono sicura» sorrise lei, gli occhi lucidi. Quindi, seguì Jonathan fuori dalla redazione, avvolta dal silenzio generale. Hunter era rimasto sulla porta fino ad allora, taciturno; non appena Nadia si fu allontanata, la richiuse e non si fece più vedere per il resto della giornata.

Un silenzio innaturale si stese sulle scrivanie e sulle macchine per scrivere, i cui tasti non avevano mai battuto così piano. Nessuno parlava. Nessuno commentava. Lisa era indaffarata, ma alla fine si muoveva senza concludere nulla. La verità è che non aveva idea di cosa fare. Non c’erano indizi e la polizia aveva come uniche prove il portafoglio di Nadia, rinvenuto sulla scena del crimine. Nessuno aveva visto nulla e nessuno poteva testimoniare a favore della ragazza. Era davvero una gran brutta situazione.

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Capitolo 8
*** 7 ***


7










La polizia fece attendere Nadia per circa un’ora. Tutta quell’attesa cominciava a farla impazzire. Se volevano interrogarla, perché non lo facevano e basta?

Jonathan era andato a parlare con qualcuno degli agenti, per vedere di sveltire la procedura; e lì, in quel corridoio grigio e percorso frettolosamente da uomini in divisa, dove stava seduta su quella scomoda e dura panca di legno scheggiato e consunto, Nadia si sentiva sola e in trappola.

Si chiese se poteva alzarsi in piedi. Si guardò in giro. Nessuno sembrava prestarle attenzione. Esitante, si alzò.

«Prego, rimanga seduta, signorina» fece una guardia, spuntata improvvisamente da dietro l’angolo. Nadia lo fissò a bocca aperta, chiedendosi come avesse fatto a vederla. Quindi notò uno specchio appeso in cima all’angolo del corridoio. Si vide riflessa nello specchio, il volto tumefatto dal pianto e dall’angoscia, i capelli arruffati e i vestiti spiegazzati. Non era che l’ombra di se stessa.

«Stia seduta, prego» insistette la guardia, sporgendosi di più.

«Sì, mi perdoni» fece Nadia, timidamente. E si rimise a sedere.

Si rese improvvisamente conto che, da quando si trovava lì, stringeva meccanicamente la borsetta tra le mani. Fino ad allora non si era nemmeno accorta di averla con sé. La aprì per prendere un fazzoletto e quello che vi trovò la lasciò stupefatta.

Ma che accidenti...

Tutto ciò che vi trovò, furono una grossa pietra e un diario. Nadia non aveva la minima idea di come quelle cose fossero finite lì dentro.

Non le avrò rubate a Kurtag?

Ci mancava solo quello. Lanciò un’occhiata in giro per essere sicura che nessuno la stesse guardando. La guardia dietro l’angolo non avrebbe potuto raggiungere il contenuto della sua borsetta attraverso lo specchio.

Richiuse il più tranquillamente possibile la borsa, cercando di mantenersi calma. Quindi chiuse gli occhi e si abbandonò contro lo schienale.

Ma cosa è successo? Cosa, cosa?

Sospirò. Aprì gli occhi, li richiuse e inspirò profondamente.

Cerca di ricordare

Ricorda...

Ricorda!


«Nadia? Che sorpresa... non ti aspettavo».

Profumo di sigaro toscano e di acqua di Colonia. Odori noti, che ricordavano qualcosa.

Kurtag sorrideva da sotto due piccoli baffi perfettamente curati, ma qualcosa in lui continua a tradire una strana inquietudine.

«La disturbo? Mi rendo conto che è un po’ tardi...»

Lei si sentiva un po’ a disagio. Qualcosa nel suo comportamento non la faceva sentire la benvenuta.

«No, no... scusa la mia maleducazione. Devo esserti sembrato un po’ distante... prego, entra. Accomodati, carissima».

«Evidentemente si deve essere scordato di me! John mi ha detto di averla incontrata giorni fa e lei non mi ha ancora chiamato...»

Lui ride. Tutto sembra tranquillo, ora.

«Perdonami, bambina mia, ma ho avuto molto da fare. Ma prego, vieni: accomodati».

La sala è sempre uguale: dopo la porta sul corridoio c’è una scrivania a destra, e una libreria all’angolo che arriva fino al soffitto. Alle pareti capolavori di ogni secolo fanno mostra di sé alternandosi a maschere tribali e ad attestati in semplici cornici. La casa è permeata di una nobile semplicità, che riflette l’animo del suo inquilino. Kurtag era ricco, ma non amava ostentare il proprio benessere.

Segue il professore in un percorso tra i numerosi libri che giacciono a mucchio sul pavimento, o che se ne stanno accatastati agli angoli delle pareti.

«Sono tornato da un po’, ma è come se non lo fossi. Sono stato sempre in giro».

«E Hanson?»

Lui fa un gesto allegro con la mano, mentre toglie di torno qualche libro.

«Quello sta meglio di tutti noi messi insieme».

«La spedizione ha portato frutti?»

Un’ombra passò sul suo viso. «Oh... sì e no».

Ora tra loro aleggiava una strana inquietudine e un leggero disagio.

«Beh, mi racconti qualcosa...»

«Oh... non è che ci sia molto da dire e...»


«Signorina Ra Arwol, vuole seguirmi?»

Nadia riaprì gli occhi. Davanti a lei, un agente in divisa la fissava attraverso due umidi occhi celesti, le mani piantate sui fianchi.

«Per di qua, prego».

Nadia si lasciò guidare lungo i corridoi della centrale. La condussero all’interno di una piccola stanza con una scrivania al centro, soverchiata da scartoffie e da documenti. Un logoro soprabito cammello era appeso dietro la porta. Una stampella di legno giaceva abbandonata sopra un ripiano, soffocata da cumuli di raccoglitori impolverati.

«Signorina, che piacere. Finalmente ci incontriamo».

Nadia si voltò di scatto verso l’ingresso. Un omuncolo avanzava zoppicante con un sorriso stiracchiato sulla faccia sudata, da cui traspariva tutta la fatica di trascinarsi ovunque quella sua gamba morta.

«Sono l’ispettore Peter Simum» fece sbuffando mentre si issava sulla sedia di legno girevole.

«Lo so, io ero in quella stanza, stamattina» rispose Nadia, fissandolo direttamente e senza timori. «Ho sentito tutto».

Lui le lanciò uno sguardo intenso. «Un certo coraggio da parte sua confessare una cosa del genere, Miss. Lei è una persona davvero notevole».

«La ringrazio, ma mi conosce da appena cinque minuti».

«A volte le prime impressioni sono le migliori. Sa come si dice, l’istinto».

Nadia annuì, senza convinzione.

«Si sieda, non resti in piedi, la prego. Questo non è un interrogatorio».

«E cosa, allora?» chiese lei sedendosi. Subito, sprofondò nell’imbottitura sfondata di quella piccola sedia traballante e per reazione si spostò sul bordo, dove stette seduta per tutto il tempo nel modo più scomodo.

«Nulla più che un semplice scambio di informazioni. Una chiacchierata informale».

«Naturalmente» fece lei, aggiustandosi sulla sedia.

«Conosceva da tempo il professor Kurtag?» chiese l’ometto, frugando tra le sue scartoffie. L’odore di tabacco stantio e di vestiti sudati impregnava la stanza, e suscitò in Nadia un senso di nausea.

«Da circa quattro anni. Mi aiutò a scrivere un libro».

«Lei è scrittrice?»

«Tra le altre cose».

«E mi dica, il professore aveva avuto qualche screzio in passato, o recentemente? Aveva dei nemici?»

Nadia non capiva dove voleva arrivare quel tipo. E quella sedia era dannatamente scomoda.

«Screzio? Non direi... non so. Io non sapevo molto della sua vita privata, era un uomo molto riservato. Ma anche molto solo».

«Quindi si sente di escludere che avesse dei nemici?»

Quella sedia era insopportabile.

«Io non escludo nulla. Come le ho detto...»

«E cosa sa dirmi...»

Basta.

«Senta, non giriamoci intorno. So che avete trovato il mio portafogli e so che sospettate di me, quindi...»

Lui la fissò impassibile. «Se è così sicura dei nostri sospetti, perché è venuta qui spontaneamente e non ha atteso che tornassimo a cercarla?»

Nadia inarcò le sopracciglia.

«Sarebbe stato intelligente, secondo lei?»

«Indubbiamente no» rispose Simum. La guardava con una certa luce curiosa negli occhi.

«Lei mi stupisce, miss Ra Arwol. È una persona davvero molto intelligente. E sa cosa mi sto chiedendo, ora?»

Perché non hai ancora cambiato la sedia?

«No, mi illumini».

«Mi sto chiedendo perché una persona brillante e intelligente come lei, una giornalista di prima categoria, una scrittrice di successo, la fidanzata di un noto uomo politico, abbia potuto commettere un errore così sciocco: dimenticarsi il portafoglio a casa della vittima».

«Non so cosa risponderle».

«È una cosa troppo sciocca, non crede anche lei?»

«Forse l’agitazione» rispose Nadia.

«Forse».

«O l’ansia».

«Probabile...»

«O il fatto che il delitto perfetto non esiste».

Lui rise. «Ma nemmeno il delitto così imperfetto».

Nadia si sollevò dalla sedia.

«Qualcosa non va?» le chiese lui, sorpreso.

«Preferisco stare in piedi, se non le dispiace» gli rispose lei.

«Trova la sedia scomoda?»

«Decisamente».

Lui scrollò le spalle. «Come vuole. Comunque: perché si trovava da Kurtag, l’altra sera?»

«Sapevo che era tornato e volevo passare a trovarlo».

«E il suo fidanzato era con lei?»

Nadia socchiuse gli occhi. «Questo cosa c’entra?»

«È una semplice domanda» si scusò Simum.

«No, non lo è».

«Cosa vuol dire?»

«Non ho intenzione di parlare del mio fidanzato».

Simum si protese verso di lei, gli immensi occhi ridotti a due grandi fessure.

«Di cosa ha paura, Miss?»

«Non ho paura» obiettò lei, decisa.

«E allora cosa pensa debba temere Mr. Fisher?»

«Nulla».

«Ma lei non vuole parlare».

«Non parlerò di lui».

Simum si appoggiò sullo schienale, prendendo a dondolarsi. Una pancia perfettamente rotonda fece capolino da sotto la giacca.

«In che rapporti era con il professor Kurtag, Miss Ra Arwol?»

Nadia lo fissò incredula. «Ma le ho già risposto!»

«Aveva una relazione con lui?»

«Che cosa?» Nadia non credeva alle proprie orecchie. Quella situazione era assurda.

«Le ripeto: aveva una relazione con il professore?»

«No! Lei deve essere completamente uscito di senno!» gridò, al colmo dell’incredulità.

«Alcune persone affermano che il suo rapporto con lui andasse ben al di là dell'amicizia... che l'avesse sempre mantenuta e introdotta nella società. E che lei, per sdebitarsi, intrattenesse con lui una relazione di tipo affettivo... e sessuale».

Nadia spalancò la bocca per lo stupore. – Chi le ha detto una cosa simile?

«Il signor... vediamo...» fece placido Simum, dopo aver gettato un'occhiata al suo taccuino. «William Ashburne».

Nadia avvampò, incollerita. «E voi prestate ascolto a quell'individuo?»

«È nostro dovere prestare attenzione a qualsiasi dettaglio» osservò serenamente Simum. «Anche ai più sordidi».

«Ma certo...» commentò Nadia, sarcastica.

«Il suo fidanzato era geloso del suo rapporto con Kurtag?» continuò Simum, ignorando del tutto il tono con cui lei gli aveva risposto.

«State sospettando di Jonathan?»

«Stiamo vagliando le possibilità. Se il suo fidanzato avesse scoperto la sua tresca...»

«Non esisteva nessuna tresca, come devo ripeterglielo?» sbottò livida Nadia.

«Va bene. Ma mettiamo che la gelosia sia arrivata al punto da accecarlo...»

«E il mio portafogli, allora?»

«È una possibilità tra le altre. Prova solo il fatto che lei si trovava dal professore, la scorsa notte».

Nadia scosse la testa incredula. «Ha finito?» chiese.

Simum la fissò serio. «Per il momento» concluse. Nadia raccattò le sue cose, più che lieta di uscire da lì.

«Signorina!» la chiamò Simum. Nadia si fermò sulla soglia. Chiuse gli occhi per l’impazienza e per la frustrazione.

«Cosa c’è ancora?» chiese, voltandosi e indirizzando all’ometto dietro la scrivania uno sguardo gelido. Lui la fissava di rimando con due occhi placidi e un sorriso mellifluo sul volto. Era proteso verso di lei, un pacchetto in mano.

«Mi raccomando» fece, sorridendo «non dimentichi il suo portafogli!»

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Capitolo 9
*** 8 ***


8










«È andato tutto bene?»

«Come no, tutto benissimo!»

Nadia uscì quasi correndo dalla stazione di polizia. Jonathan le camminava dietro e faticava a tenere il suo passo.

«Nadia, aspetta... fermati un momento!»

Lei si fermò. Quando la raggiunse, era talmente irritata che lui ne ebbe quasi paura.

«Vuoi dirmi che cosa è successo?»

«Nulla» replicò lei, recisamente.

«Eppure non si direbbe. Ti hanno accusato di qualcosa?»

Lei si grattò la testa, incerta su come confessarglielo. «Sospettano di entrambi» disse semplicemente, alla fine.

Lui la fissò come se avesse appena detto qualcosa di assurdo.

«Come?»

«Sospettano di tutti e due. Anche di te».

«Ma perché? Io cosa c’entro?» ribatté lui. Nadia non colse la lieve isteria nella voce di Jonathan.

«Pensano che possa trattarsi di un delitto di gelosia».

Lui la guardò incredulo. «Gelosia?»

«Credono che io e Kurtag avessimo una relazione, che mi facessi mantenere da lui» disse lei. Scoppiò a ridere di un riso nervoso, passandosi una mano tra i capelli. «Dio, non sono mai stata tanto offesa in vita mia! Mi ha trattato come una sgualdrina. E quel che è peggio, è che ha infangato la reputazione del povero Andrés, addossandogli questo... schifo!»

Per la frustrazione, lei pestò un piede a terra. John stava in silenzio, frenando a stento la propria incredulità.

«Ma è assurdo!»

«Vallo a dire a loro».

Jonathan prese Nadia sotto braccio e si allontanò. Lei percepì l’irritazione racchiusa dietro quel gesto e, per quanto fosse possibile, si sentì peggio di prima. In fin dei conti, se lo aveva cacciato nei guai era solo colpa sua. Avrebbe dovuto dargli retta e non andare da Andrés, quella maledetta sera.

«John...»

«Questa non ci voleva davvero» disse lui, a labbra strette. «Non ora, con l’accordo sul Congo in via di definizione».

Nadia lanciò a Jonathan un’occhiata in tralice. «Di che cosa stai parlando?»

Lui la attirò a sé, costringendola ad accelerare il passo. Chiamò una carrozza e la spinse a bordo senza troppe cerimonie, quindi si sedette al suo fianco, aggiustandosi la giacca e togliendosi il cappello, che posò sulle ginocchia. Per un po’ si sottrasse allo sguardo indagatore di Nadia, giocherellando con la falda della sua bombetta di un elegante color grigio fumo.

«John?»

«E va bene» fece lui. «Non ti ho detto nulla perché è qualcosa che deve restare segreto. Siamo in trattative con la Germania, trattative importanti... riguardano la gestione di alcuni domini coloniali».

«Dimmi di più» lo incalzò. John sbuffò, ma alla fine cedette, pur ostentando una certa rigidezza.

«La Germania cederà a noi l’amministrazione diretta del Congo, in cambio di un patto di amicizia. Se la cosa dovesse funzionare, sarà finalmente possibile tornare a un assetto politico di stabilità tra i due paesi».

«Perciò eri dal console, l’altra sera?»

Lui non disse nulla.

«Dio, non ci credo. Mi hai nascosto tutto. Ma perché?»

«Perché sei una giornalista, ecco perché» sbottò lui. «E perché ti conosco, so che sei la persona più testarda e cocciuta del mondo e so cosa pensi delle colonie e del colonialismo. Ecco perché».

Nadia lo fissò sconcertata. Lui evitò di guardarla, perché temeva quel luccichio che le brillava negli occhi.

«Nadia, io ho delle responsabilità che tu non puoi comprendere» si limitò ad aggiungere. Teneva la voce bassa, ma il suo tono tradiva una certa difficoltà nel proseguire quella conversazione. Lei continuava a guardarlo, ma lui evitava accuratamente di posare gli occhi su di lei.

«Ma tu non ti fidi di me?» gli disse. «Davvero credi che avrei usato queste informazioni per me, che non avrei capito?»

Lui rimase in silenzio per qualche istante. Nadia, stanca di fissarlo a vuoto, si voltò dall’altra parte, chiudendo gli occhi.

Ma come possiamo costruire qualcosa, così?

«Io... ho sbagliato, ti chiedo scusa» le fece lui, posandole la mano sul braccio sottile. «Ma non tutto quello che faccio può essere divulgato. Vorrei che tu lo capissi».

Nadia aprì gli occhi, lo sguardo fisso a terra. Jonathan le aveva preso la mano e la guardava sinceramente dispiaciuto.

«Lascia stare» fece lei, sommessamente. «Ti capisco. Non c’è problema».

«Non ti nasconderò più nulla, lo giuro».

Lei sorrise. «Grazie. Lo apprezzo molto. Oh, John: se solo capissi quanto vorrei che il tuo paese diventasse anche il mio!»

Lui abbozzò un sorriso timido e si portò la sua mano alla bocca, posandovi sopra un leggero bacio aggraziato. «Anche io, tesoro; e lo faremo accadere, vedrai».

La carrozza la lasciò a Foley street, dove Nadia superò a testa bassa la barriera di crescente ostilità che veniva a crearsi giorno dopo giorno nei suoi confronti. Sempre più gente cominciava a parlare alle sue spalle, accusandola di voler fare una vita da gran signora con tutto quel suo andare e venire a bordo di lussuose carrozze, con il solo intento di sbattere in faccia il suo benessere ai poveracci senza un soldo. Non potevano sapere che da qualche tempo ricorreva alle vetture solo perché aveva il timore di perdersi, a causa dei suoi continui vuoti di memoria. Gli abitanti di Foley Street si fermavano all'apparenza, giudicando il suo come un vezzo da aristocratica viziata, e uno sgarbo a quanti che con il prezzo di una corsa, mantenevano un'intera famiglia per un giorno. Nadia cominciò a sentirsi sempre più isolata. E la sera non provava più quel senso di tranquillità di una volta, quando rientrava sola.

Salì in fretta le scale che conducevano alla sua mansarda, tenendo gli occhi bassi quando incrociava qualcuno. Nessuno la salutò. Lei non salutò nessuno. Aprì la porta e sospirò, ma anche quelle quattro mura spoglie e scrostate che aveva continuato a chiamare casa fino a pochi giorni prima, ora la fissavano vuote di ogni significato.

Si slacciò il nastro di seta che teneva annodato al collo e si sbottonò il colletto inamidato. Allentò la gonna e la lasciò cadere a terra, quindi si sfilò gli stivaletti, aiutandosi con i piedi. Era troppo stanca per chinarsi. Slacciò la sottoveste e rimase con la sola camicia indosso, le gambe nude che splendevano bronzee nella luce fioca della lampada.

Si sedette sul letto e si portò la borsa vicino. La pietra era sempre lì, al suo interno, e con essa il diario. Li estrasse con delicatezza, quindi posò il diario sul letto e prese tra le mani la pietra, fissandola con curiosità.

Era una pietra grigia come un sasso, dalla superficie perfettamente levigata. Su una facciata erano incisi alcuni segni e geroglifici che Nadia non aveva mai visto, nemmeno in tutti gli anni in cui aveva frequentato Kurtag. Qualunque cosa fosse, non era in grado di decifrarla.

Improvvisamente, la pietra prese a brillare di una intensa luce trasparente. La stanza si riempì di bagliori accecanti. Nadia la fissava esterrefatta, incapace di staccarle gli occhi di dosso; e nel frattempo, questa si era come trasfigurata, assumendo una trasparenza che permetteva di scorgere un turbinio di figure stilizzate che si agitava in profondità, sotto la sua superficie. Nadia la avvicinò agli occhi: al suo interno, elementi tridimensionali si susseguivano in un gioco di segni dai significati sconosciuti, creando combinazioni di indecifrabili codici. Nadia fissava tutto questo a bocca aperta, completamente soggiogata. Improvvisamente, quella luce intensa la rapì e lei si ritrovò immersa in universo completamente estraneo: intorno a lei non più pareti di mattoni, ma luce. Era come se viaggiasse nella luce, come se fosse la luce stessa. Sentiva il suo corpo nutrirsi di luce e velocità e le sembrò di volare. Chiuse gli occhi e perse ogni contatto con la realtà. Intorno a sé si fece il vuoto e lei restò come sospesa in esso. Solo allora aprì gli occhi: e vide con stupore le proprie mani che si fondevano con lo spazio circostante, dando origine a increspature colorate, da cui prendevano forma oggetti e materia. Vide nascere tra le sue dita animali e intere foreste, oceani azzurri e pesci dalle pinne d’argento, che sgusciavano via lungo i palmi delle sue mani. Nadia rise di stupore e felicità, una felicità intensa, inattesa, che non aveva ancora mai provato. Era come essere sospesi nella vita, anzi: era come essere la vita stessa, nel pieno della sua forza e del suo potere.

Alzò gli occhi: un cielo di nubi la sovrastava, colorato di rosso e di giallo. Desiderò di vedere oltre le nubi ed esse si aprirono come ad un comando preciso, mentre lei continuava a sentire quell’infinito spazio cangiante che l’accoglieva scorrerle addosso, scivolando sulla sua pelle. Più su, oltre il limite estremo del cielo, le stelle discesero fino a lei, cominciando a ruotarle intorno come pianeti, mentre le galassie esplodevano in miliardi di fasci colorati come arcobaleni. Nadia tese la mano e un sole brillò di fiamme vermiglie davanti ai suoi occhi mentre su un pianeta poco distante lei sentì nascere la vita, come fosse un primo germoglio. Sentì dentro di sé quella vita, ne fu come penetrata. Il suo corpo pulsò di una intensa e vibrante consapevolezza. E l’emozione la sopraffece.

Si chiese dove sarebbe arrivata, fin dove l’avrebbe condotta il suo viaggio.

Non voglio tornare indietro. Voglio rimanere qui. Qui, dove la vita è come dovrebbe essere...

Pura meraviglia

Improvvisa, una voce che lei già sentiva di conoscere, la chiamava.

Nadia...

Non rifiutare il tuo destino.


Nadia si risvegliò nel letto. La lampada era spenta e fuori era già buio. La tenera luce di una luna a metà filtrava dalla finestra spalancata, da cui era possibile scorgere la fumosa silhouette dei tetti di Londra. Un grillo, da qualche parte, cantava coraggiosamente, solitario messaggero d’estate in una metropoli sommersa dall’afa e dal tanfo di fogna.

Nadia si rilassò, estenuata. Era completamente spossata ma allo stesso tempo euforica. La pietra giaceva inerte accanto a lei.

Chiuse gli occhi e provò a sognare nuovamente quello che aveva appena visto, desiderosa di perdersi ancora una volta in quel mondo miracoloso.

Niente da fare.

Si sollevò sui gomiti, restando a guardare la pietra. Solo allora si ricordò del diario. Lo cercò con gli occhi e lo trovò, abbandonato sul letto. Lo prese, sedendosi con le gambe intrecciate e lo aprì, posandolo sulle ginocchia.

Sembrava una serie di annotazioni riguardanti la pietra. Con emozione, Nadia riconobbe la scrittura di Kurtag. Passò delicatamente un dito su alcune righe, tirando su con il naso e sollevando la testa, le labbra strette in un silenzio commosso.

Per favore, fa che non sia stata io.

E chiuse gli occhi.


«...Ma avrà pure qualcosa da raccontare, o no?»

«Ecco, io...»

Ora lei lo fissa intensamente. Di fronte allo smarrimento di quegli occhi verde mare, Kurtag abbassò la testa.

«Nadia, ci sono alcune cose che ora non ho modo di spiegarti. Non ero preparato a riceverti e... non dovresti essere qui».

Lei arrossisce.

«Io... mi scusi. Non pensavo che...» posò la tazza di tè. Sorrideva ma si sentiva impacciata. Venire era stata una pessima idea.

Per un attimo ci fu un silenzio confuso. Lei raccoglie le sue cose, imbarazzata.

«Non volevo disturbarla, mi perdoni».

«Non è come pensi, bambina mia, solo che...»

Lei resta a guardarlo, tremendamente confusa.

«Sono molto stanco. Potremmo vederci domani, se hai tempo. Passa da me all’università. Avremo modo di parlare».

Ora era rilassata. «Ma certo. Mi scusi, non mi ero resa conto...»

Lui sorrise. «Il tuo affetto mi fa piacere, e mi onora. Non sono che un povero vecchio, ormai... e non so proprio cosa tu possa trovarci in uno come me».

Lei scoppiò a ridere. «Ah, non dica così. Lo sa che ho un debole per gli uomini maturi e affascinanti».

Kurtag sorrise, guardandola da sotto le sue folte sopracciglia argentate. «Non scherzare. Ma ora, aiutami, ti prego» disse, e le porse il vassoio con le tazze. «Porteresti questo di là, in cucina?»

Lei prende il vassoio e si allontana. Era serena. Andrés era solo stanco, tutto qui. Non c’era nulla che non andasse, tra loro due.

Posò le tazze nel lavello e vi versò l’acqua, raccogliendola dalla pompa cigolante. Le sciacquò e quindi prese uno straccio, per asciugarle.

Mentre sfregava il panno ruvido contro la porcellana splendente, pensò a quanto era stata sciocca a preoccuparsi. Kurtag era sempre Kurtag. Le voleva ancora bene.

Perché aveva sempre paura che tutti la dovessero abbandonare, prima o poi?

Lo ritrovò seduto sulla poltrona, la testa reclinata e appoggiata su una mano chiusa. Quando la vide, lui sorrise e fece per alzarsi. Lei agita delicatamente la mano, prendendo la sua borsetta e un panno, abbandonato sul divano. Lo spiega, e lo posa sulle gambe di lui.

«Stia tranquillo, conosco la strada».

Lui la fissò sonnecchiando. «Grazie. Allora a domani, bambina».

«A domani» fu la sua risposta. Quindi uscì, chiudendosi dietro la porta.

Era per strada ora, e ripensava a Kurtag. Era davvero invecchiato, e presto avrebbe dovuto dirgli addio. Questo pensiero la commosse e cercò il fazzoletto. Aprì la borsetta ma non trovò più nulla delle sue cose. Al loro posto, qualcuno vi aveva messo una pietra e un diario.

«Ma cosa...»

Torna sui suoi passi, decisa a chiedere ragione a Kurtag di quella stranezza.

Ora è davanti alla sua porta. Afferra il battente. Sta per bussare.

Si ode un rumore provenire da dentro. Si avvicina curiosa alla finestra, ma non si scorge nulla. Altri rumori. Voci.

Fa il giro della casa. Vuole assolutamente scoprire cosa succede. Non c’è ragione in quello che fa. È il suo istinto che la spinge a cercare di capire.

Nulla, nemmeno una finestra aperta. Vede al piano superiore le tende di un piccolo bovindo che svolazzano allegre, agitate dalla sottile brezza della sera.

E lì come ci arrivo?

Ma certo, la grondaia.

Non sarebbe stato troppo difficile. Da piccola aveva scalato cose ben più complicate.

Si infila la borsetta a tracolla, e con un respiro profondo comincia ad arrampicarsi lungo il tubo di rame. All’altezza della finestra tende un braccio.

Maledizione, è troppo lontano...

Getta un’occhiata alle spalle, sotto di sé, sperando che nessuno la veda. Tutt’attorno regna il più assoluto silenzio e per le strade non passa anima viva.

Con uno sforzo, si tende il più possibile, reggendosi solo con una mano e con una gamba. Ora è più vicina...

Forza! Uno, due...

Contrae i muscoli e si lancia verso il davanzale della finestra. Le dita cercano affannosamente una presa, mentre il cuore salta un battito. Si sente scivolare, ma poi trova il modo di aggrapparsi.

Buon Dio, ma perché faccio di queste cose?

Con un agile balzo, è in casa. La stanza è buia, ma riconosce una camera da letto. Una luce tenue risplende dal corridoio, poco più avanti. Il cuore batte già all’impazzata.

Nella stanza c'è silenzio. Improvvisamente, ode del trambusto provenire da sotto. Mobili rovesciati.

Ha paura, ma si sporge dal ballatoio in cima alle scale, lentamente. Passo dopo passo, la sala al piano di sotto si offre sempre più alla sua vista.

Deve solo stare attenta a non farsi scoprire.

Nadia si sporge con cautela. Sente il cuore rimbombarle nelle orecchie. La gola è secca.

C'era qualcuno nel salotto. Un uomo è dietro l’angolo, nascosto. La sua ombra si staglia contro la parete illuminata dal debole chiarore della lampada. L'altro, un energumeno dall'aspetto colossale, stringe Kurtag per il collo.

«Che cosa volete da me?» da dove si trovava, lei poteva sentire bene la voce di soffocata di Andrés.

L’uomo lo fissava con uno sguardo vacuo, privo di qualsiasi espressività, mentre l'altro frugava tra gli effetti personali del professore. Si sentiva il rumore degli oggetti rovesciati a terra dagli scaffali.

«Ou estiek lampropos?» ruggì l’uomo nascosto. La sua voce le giunse profonda e carica di determinazione.

Dov’è la pietra? Quella frase risuonò chiara nella mente di lei, inspiegabilmente, come se qualcuno l'avesse realmente pronunciata.

Una risata strozzata scaturì dalla gola di Kurtag.

«Non la troverete mai!» ghignò. Quindi, in un soffio «dùseto t'helios!»

Un movimento veloce, un guizzo. La parete si macchia di rosso e un grido agghiacciante corre giù, lungo le scale.

Si portò una mano alla bocca. Troppo tardi.

«Labè!» grida l’uomo nascosto. Il gigante solleva lo sguardo e per un momento gli occhi di lei si specchiano in quelli azzurro ghiaccio dell’assassino. È un attimo, un istante prima che lui si lanci al suo inseguimento.

Non sa che fare. Corre in camera e chiude a chiave la porta, mentre lo sente salire per le scale a grandi balzi.

Dove, dove?

Si guarda intorno sempre più disperata, mentre la porta resiste eroicamente ai calci e ai pugni che le vengono sferrati. Si sporge alla finestra: se solo fosse riuscita a scendere...

Troppo alto per saltare. Forse la grondaia...

La porta stava cedendo. Sente la testa esploderle. Il rumore alle sue spalle amplifica il battito del suo cuore che rimbomba in lei, assordandola.

Dove?

Sotto il letto.

Patetico, ma è l’ultima chance.

Improvvisamente, la porta esplode in una miriade di schegge. Chiude gli occhi. Immersa nel buio e nella polvere trattiene il respiro, osservando col cuore in gola oltre il lembo delle coperte che corre tutt’intorno al letto.

Un’ombra. Passi in direzione della finestra ancora aperta. Per qualche interminabile istante, tutto resta come sospeso.

Ti prego... ti prego...

Una presa d'acciaio alla caviglia e una mano, che la schiaccia al suolo quando viene trascinata fuori. Nell’ombra scorge l’improvviso bagliore freddo di una lama. Chiude gli occhi. Non c’è tempo per la paura, ma solo per un unico, veloce ricordo.

L’ultimo.

Due occhi azzurri...

Jean


Qualcosa dentro di lei si accende di un’energia sconosciuta. Sente la mano che si infila meccanicamente nella borsetta, rispondendo a un richiamo che le giunge dal profondo della sua anima.

Affidati a me!

Improvvisamente, è libera. Intorno a lei una luce accecante. Sta stringendo in mano la pietra e grida di dolore si diffondono per la stanza.

Con inaspettata lucidità, ora lei sa esattamente quello che deve fare.

Con la pietra ancora stretta in pugno, si lancia oltre la porta spezzata, lungo le scale. Il respiro è come strozzato, è senza fiato ma lei corre lo stesso.

Percorre i gradini come in volo, ma inciampa, rotolando fino a terra. Dolorante, striscia per qualche metro lungo il corridoio. Si solleva, appoggiandosi contro il muro, ma qualcosa la fa scivolare. Si osserva le mani e per un istante la vista le si annebbia. Sente un conato di vomito salirle violentemente alla bocca. Le sue mani sono imbrattate di un liquido rosso e denso, e così i suoi abiti. Sotto ai suoi piedi, una polla di sangue nero. Improvviso, l’odore scuro e metallico del sangue la assale: lo sente in bocca, in gola, nei polmoni. Si portò il dorso della mano alla bocca, trattenendo a stento il vomito. Si voltò a guardare e vide lì accanto Kurtag che boccheggiava, disteso a terra in una pozza di sangue, il corpo scosso da leggeri fremiti. Dietro a lui, il muro candido pare una tela screziata di porpora.

Vincendo ogni repulsione, si gettò su di lui. Kurtag la fissava attraverso due occhi vitrei e sconcertati. La gola era squarciata, ma per qualche motivo respirava ancora.

«Andrés, resisti! Vado a cercare aiuto!»

Lui la trattiene per la camicetta, aggrappandovisi disperatamente, quasi fosse l’ultimo lembo di vita. Le mani insudiciate e febbrili tingono di scarlatto il cotone di un bianco candido. Lei gli sorregge la testa, la vista annebbiata dalle lacrime che era impossibile fermare.

«Dio, Andrés, ma che ti hanno fatto...»

In un gorgoglio Kurtag cerca di pronunciare il nome della ragazza. E lei ora piange e non sa che fare.

Sente dei rumori al piano di sopra. Chi l’ha aggredita è ancora vivo.

Kurtag stringe il suo braccio fino a farle male. Con tutte le sue forze si solleva, fissandola attraverso occhi allucinati.

«Vai... via...»

«No, io...»

Improvvisamente, dei passi lungo le scale. Kurtag giace ora immobile al suolo, le mani ancora strette intorno alla camicia di lei, gli occhi aperti in un grido silenzioso. Con uno sforzo, si libera dalla stretta gelida di Kurtag, abbracciando con un ultimo sguardo il suo amico prima di gettarsi a capofitto lungo il corridoio.

La porta è lì, di fronte a lei. Allunga la mano verso la maniglia. Dietro di sé tonfi sordi, passi che si fanno sempre più vicini. La porta non si apre, perché è chiusa a chiave.

Avanti! Apriti, maledizione!

Cerca la chiave e la gira, ma non si apre ancora. Prova a girare nell’altro senso.

Un giro

due

Con un grido strozzato, viene strappata alla porta. Cerca di difendersi dalle mani che le stringono il collo. Il respiro svanisce e per un piccolissimo istante riesce a intravedere nell’ombra il volto del suo assalitore.

Un volto freddo, senza alcuno sguardo.

È così che morirò.

Poi, ancora quella voce.

Affidati a me!

Avverte la testa farsi leggera. Più si agita, più il respiro si fa rarefatto. Sente i piedi scalciare nel vuoto, mentre conficca le unghie nella pelle ruvida delle mani che la stringono attorno al collo in una presa mortale. Nel disperato tentativo di liberarsi, allunga una mano verso il volto dell’aggressore, che la fissa con una vacuità allucinata negli occhi. Cerca di graffiarlo e di colpirlo, ma dai suoi arti stanchi esce solo la pallida parodia di una carezza. Il suo corpo si abbandona lentamente all’oblio, sente un torpore diffuso, la vista le si annebbia.

Affidati a me!

Senza pensare, la sua mano cerca nella borsa e si stringe intorno alla pietra. Un’improvvisa energia la pervade e una luce accecante la avvolge. L’uomo davanti a lei grida di dolore, un grido agghiacciante. Lei cade a terra e mentre si solleva boccheggiando, vede il suo aggressore contorcersi in una spirale di fuoco. Inorridita, indietreggia, aggrappandosi alla porta. Sente le gambe tremarle e il cuore le sta per esplodere. Stringe gli occhi per scacciare le lacrime di angoscia e con mano tremante cerca di aprire la serratura. Sulla soglia del corridoio, una figura immobile resta a fissarla nell'ombra, i tratti del volto nascosti alla luce che si irradia dal fuoco che ancora avvolge tra le sue spire il suo aggressore. Lei incrocia lo sguardo con quegli occhi d’ombra e di ghiaccio, troppo spaventata per coglierne il sinistro bagliore. Improvvisamente, la porta si apre e lei si getta di corsa lungo il vialetto e oltre il cancello, senza mai voltarsi indietro. Non pensa a nulla. È come se volasse.




Nadia aprì gli occhi. Stava sudando e aveva il fiatone.

Finalmente, ora sapeva tutto. Aveva rivissuto quell’esperienza fin nel più piccolo dettaglio, come se si trovasse ancora là, al di là della realtà e del presente. Sentiva ancora in bocca il sapore amaro della paura e con le mani strizzava le lenzuola madide di sudore.

Si alzò a fatica, passandosi una mano sulla fronte e sul cuore. La leggera brezza della sera la percorse in un brivido lungo la schiena bagnata e lei percepì il fastidio del cotone umido attaccato alla pelle. Decise di alzarsi e andare alla finestra, per prendere un po’ di ossigeno.

La sera era tranquilla e la notte era illuminata da uno sciame di stelle. Nessuna luna in cielo, a rischiarare gli squallidi tetti di Londra: solitaria, Nadia fissava oltre l’orizzonte sconosciuto del cielo, in quello spazio che solo i sogni e i desideri riescono a toccare. Oppure gli incubi.

Respirò profondamente, chiudendo gli occhi. Vivida, ritrovò davanti agli occhi l’immagine straziante del corpo senza vita di Kurtag: era là, davanti a lei, riverso a terra. Rivedeva ancora quel suo sguardo vuoto e raccapricciante e un senso di angoscia la attanagliò. Cacciò quell’immagine dolorosa e terribile dalla sua testa, cercando di liberare la sua mente, già così appesantita, con tutte le sue forze.

Si rendeva conto di essere in serio pericolo. Gli assassini di Kurtag non si sarebbero fermati di fronte a nulla, finché non avessero trovato quella pietra. E ora l’aveva lei.

Kurtag l’ha affidata a me, pensò. Perché, cosa pensava che avrei potuto fare?

Aprì il diario, che teneva stretto tra le mani. Lesse le prime pagine tutte d’un fiato, senza fermarsi. Quindi prese a scorrerle velocemente, una dopo l’altra, annotazione su annotazione. Una precisa consapevolezza cominciò a farsi strada nel suo cuore. Un timore, e una specie di strana convinzione. Sentiva che quella pietra aveva un legame con lei, e le annotazioni di Kurtag sembravano confermare esattamente quanto sentiva, e temeva.

Forse Kurtag non sapeva esattamente cosa lei avrebbe fatto della pietra, ma ora Nadia sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto fare.

Dopo essersi rivestita velocemente, uscì di corsa nella notte. Non aveva idea di dove andare, né sapeva come avrebbe fatto a mettere in pratica il suo piano. Lasciò semplicemente che le gambe e il cuore la guidassero, abbandonandosi al suo istinto. Quando finalmente si fermò, sollevò gli occhi e sorrise. Non sarebbe mai potuta capitare in un luogo migliore.

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Capitolo 10
*** 9 ***


9










«Nadia?»

Lisa strabuzzò gli occhi, quindi passò a sfregarseli vigorosamente con la mano. Indossava una vestaglia da notte rosa, che la faceva sembrare un grosso confetto alla fragola.

«Ma che ore sono? – chiese, sbadigliando».

«Non lo so. Tardi, suppongo» fece Nadia con un sorriso imbarazzato. «Posso entrare?»

Lisa si fece da parte, tenendo gli occhi chiusi e la testa china. Sembrava quasi stesse dormendo in piedi. «Accomodati» farfugliò.

Nadia entrò, guardandosi intorno. Un delicato profumo di lavanda la investì non appena mise piede oltre la soglia. Lisa amava la lavanda. La metteva ovunque, in casa sua.

Nadia si voltò a guardare l’amica, sorridendole debolmente. Lei le si fece incontro scalza, con il passo ondeggiante tipico di chi ha troppo sonno o è ubriaco.

«Cosa succede?» le domandò stiracchiandosi.

«Possiamo parlare?»

Lisa aprì gli occhi, scrutando l’amica. «Certo. Chi credi che ci sia qui, oltre a me? Il barone di Gloucester?»

Nadia ridacchiò, abbassando gli occhi e stringendo le labbra. Lisa soffriva molto della sua mancanza di una vita affettiva soddisfacente, e lei lo sapeva. Ma trovava divertente il suo modo di ironizzare sulla faccenda.

«Vieni, preparo del tè».

Si accomodarono nella cucina. Per quanto non navigasse nell’oro, Lisa poteva comunque contare su un aiuto mensile da parte della sua famiglia, che le permetteva di mantenere un piccolo bilocale vicino a Fleet Street. Tra le comodità che quella soluzione poteva vantare, oltre alla vicinanza al posto di lavoro, vi era anche un piccolo angolo cottura, in cui Lisa poteva sperimentare a piacimento la sua passione per la cucina. Nadia la invidiava per questo – benevolmente, certo. Lei aveva rinunciato a magiare a casa dopo che il suo piccolo fornelletto a gas era esploso tre anni prima, rischiando di mandare a fuoco l’intero stabile. Da allora mangiava sempre con John in qualche ristorante, quando non riusciva a rimediare con delle schifezze trovate in sala ristoro alla redazione. Anche perché, a dirla tutta, era sempre stata una pessima cuoca.

Lisa mise a bollire l’acqua per il tè e dopo poco un gradevole aroma si sparse per l’intera casa. Nadia aspirò quella fragranza conosciuta, che le ricordava il lavoro amato e la vita di redazione. Quindi sorrise, prendendo tra le mani la tazza fumante che l’amica le porgeva.

Mentre sorseggiava il tè bollente, Nadia lasciò che il suo sguardo vagasse per la stanza. La casa di Lisa era minuscola, ma decisamente accogliente: un divano, coperto da un lenzuolo di cotone dalla fantasia floreale, campeggiava in mezzo al salotto, davanti a un tavolino da tè, molto alla buona. Alcuni scaffali, con sopra libri accuratamente affiancati, riempivano le pareti, insieme a qualche quadro dai colori vivaci. Non c’era molto altro da aggiungere, ma quella grazia semplice e modesta con cui la casa era arredata, in realtà non facevano altro che riflettere come uno specchio l’anima di chi vi abitava.

Lisa prese posto di fronte a lei, sedendosi e piegando una gamba sotto di sé. Quindi prese a sorbire il tè a piccoli sorsi, fissando Nadia di sottecchi.

«Dunque?» disse. «Di cosa volevi parlarmi?»

Nadia posò la tazza ed estrasse dalla borsa il diario di Kurtag, che Lisa prese tra le mani, curiosa.

«E questo dove l’hai preso?»

«È di Kurtag. Deve avermelo dato lui».

«Deve?» fece Lisa, sfogliando distrattamente il libriccino.

«Lisa, ora ricordo cos'è successo, tutto quanto!» soggiunse Nadia, sporgendosi verso di lei. «La sera da Kurtag, il suo assassinio... ogni cosa».

Lisa annuì. «Bene. È qualcosa da cui possiamo partire».

Nadia raccontò a Lisa tutto quello che ricordava di quella terribile sera. Lei la ascoltò in silenzio, senza neppure bere il suo tè. Non appena Nadia ebbe finito di parlare, scosse la testa.

«È spaventoso. Devi aver vissuto momenti davvero terribili» Nadia abbassò gli occhi. «Mi spiace, Naddy» le fece Lisa, tendendole una mano. «So quanto tu gli volessi bene».

«Grazie» fece lei, timidamente. «Sei molto cara».

«Ma di cosa si tratta esattamente?» chiese Lisa, indicando il diario. Nadia estrasse la pietra dalla borsetta, porgendola all’amica, che la fissò meravigliata.

«Si tratta di questa».

Mentre Lisa si rigirava la pietra tra le mani, Nadia prese a raccontare.

«Kurtag ha studiato questa pietra per mesi. Il diario non dice esattamente dove l’abbia trovata, ma sta a sentire: secondo quanto è scritto, si tratta di una pietra antichissima, che probabilmente risale a qualche mitica civiltà».

«E allora?»

Nadia sospirò. Era lì per cercare l’aiuto di Lisa. Non era il momento per avere dei dubbi: doveva raccontarle tutto.

«Nel diario, Andrés scrive che la pietra mostra tracce di un’energia nascosta, un’energia talmente potente da poter distruggere qualsiasi cosa nel raggio di miglia. Capisci? Ecco perché è stato ucciso: per questa».

Nadia picchiettò con l’indice sulla pietra. Lisa sporse in fuori il labbro, poco convinta.

«E tu sostieni che lui ti avrebbe dato queste cose...»

«L’altra sera, esatto».

«Ma non ricordi come?»

Nadia scosse la testa. «Purtroppo no. Deve avermele...»

Il vassoio. Ma certo!

«È stato quando mi ha chiesto di portare il vassoio in cucina!»

Lisa sbarrò gli occhi. «Scusa?»

«A un certo punto, Andrés mi ha spedito in cucina e io mi sono trattenuta a mettere a posto alcune cose. Dev’essere stato allora che mi ha infilato queste cose in borsa».

«Ma secondo te perché lo avrebbe fatto?» Le chiese Lisa, alzando le spalle. Continuava a dubitare che quella strada potesse servire a scagionare la sua amica dall’accusa di omicidio. «Voglio dire: non avrebbe potuto darle a qualcuno più in alto di te? Qualcuno capace di proteggerlo e...»

Nadia sospirò. «L’ho pensato anch’io. Non capisco perché Kurtag abbia voluto affidarmi queste cose. È chiaro» disse, scuotendo il libriccino «che qui ci sono mesi e mesi di ricerche, le ricerche più importanti della sua vita, stando a quanto scrive lui stesso. Perché affidarlo proprio a me?»

«Forse eri l’unica di cui si fidava» fece Lisa con un sorriso.

Nadia ricambiò. «Allora devo fare di tutto per non tradire la sua fiducia, non credi?»

La ragazza annuì. Si portò la pietra vicino agli occhi e la scrutò tra le palpebre socchiuse, ancora impastate dal sonno.

«Sembra quasi che ci siano dei segni, sotto...»

Nadia le prese la pietra dalle mani. Lisa restò a guardarla incuriosita, mentre lei la stringeva al petto, gli occhi chiusi come se stesse recitando una preghiera. Improvvisamente, la pietra prese a brillare, sotto il suo sguardo incredulo e stupefatto.

«Naddy, ma cosa...»

«Ecco, guarda».

Le porse la pietra, ora completamente trasparente e luminosa. Un turbinio di segni si agitava sotto la superficie: una intensa luce azzurra illuminava a giorno la stanza e i volti delle due ragazze. Lisa fissò affascinata la pietra misteriosa, prendendola tra le mani e stringendola come se si trattasse di qualcosa di estremamente delicato e sacro.

«È fantastico. A dir poco... incredibile!»

Nadia annuì, gravemente. «E io credo di sapere di cosa si tratta».

«Cosa intendi dire?» le chiese Lisa, preoccupata. Nadia la fissò per qualche istante e fu come se tra loro si fosse alzato un invalicabile muro di diffidenza. Non riusciva a trovare il coraggio per raccontare a Lisa tutta la verità sul suo passato, un passato sconvolgente, che forse le avrebbe allontanate per sempre.

Lisa si rese conto che l’amica le stava nascondendo qualcosa, qualcosa di troppo grande e difficile da sopportare. Le strinse la mano e le sorrise, gli occhi che scintillavano nella penombra della cucina illuminata dalla debole luce di una lampada a gas e dal baluginio azzurrognolo della pietra.

«Nadia, tu lo sai che puoi dirmi tutto. Non c’è nulla che io non possa ascoltare. O sopportare» aggiunse, avvertendo come una sorta di presagio.

Nadia non si mosse. «Forse perché non hai idea di quello che sto per dirti».

Lisa reclinò la testa di lato, assumendo un’espressione preoccupata. «Cosa potrebbe mai essere di tanto terribile? Nadia, tu sei mia amica e...»

«Allora ricordatene, quando avrò finito di raccontarti tutto».

Lisa scosse il capo, incredula. Nadia la guardò ancora una volta, gli occhi inespressivi e lucidi. Quindi sospirò e cominciò a raccontare.

«Non c’è un modo semplice per dirlo, quindi andrò subito al sodo. Ho sempre raccontato che sono cresciuta orfana in un circo, ed è questo quello che sai...» Lisa annuì, in attesa. «Non è vero» riprese Nadia «non del tutto, cioè. Io provengo da un’antica e sperduta regione dell’Africa Sahariana. La mia città natale si chiamava Tartesso, una città antichissima e nobile, che sorgeva nascosta sull'altopiano dell'Ahaggar, al confine tra l'Algeria e il Niger. Mio padre e mia madre erano a capo della città. Io ero la loro secondogenita, la principessa di Tartesso, erede al trono per diritto di successione».

Nadia fece una piccola pausa. Non alzò gli occhi, per la paura di leggere sul volto dell'amica quello che più temeva. Parlava fissando la superficie liscia del tavolo, le mani intrecciate.

«Quando ero molto piccola, la mia città venne distrutta a causa di una guerra scoppiata tra un gruppo di ribelli e le forze governative. Mio padre si salvò, ma credette che tutti i membri della famiglia reale, me compresa, fossero morti. Mio fratello allora era solo un ragazzo: ma aveva appoggiato i ribelli, diventando un loro strumento, ed era morto negli scontri. Per mio padre fu un duro colpo. Da allora, partì alla caccia disperata del responsabile di quella guerra, un uomo spregevole, colui che era stato il suo primo ministro e che aveva tradito la sua fiducia, rivoltandogli contro persino suo figlio: quell’uomo si chiamava Nemesis Ra Algol ma si faceva chiamare Gargoyle».

«Gargoyle... quel Gargoyle? Quel pazzo che aveva messo in piedi una setta razzista e che aveva minacciato di distruggere mezza Europa, sei anni fa?» fece Lisa, ancora incredula davanti alle parole dell’amica.

Nadia chiuse gli occhi. «Quando la guerra finì, di Tartesso non restò più che un cumulo di macerie. Io avevo poco più di un anno, allora. Venni salvata per grazia di mio fratello, che mi affidò a qualcuno perché mi portasse oltre le mura della città, prima che si scatenasse l’inferno. Lui sapeva quale sarebbe stato il mio destino, se fossi rimasta a Tartesso: e mosso a compassione per me, decise di salvarmi. Venni trovata dal padrone di un circo ambulante, come sai. Da allora non rividi mai più l’Africa e non seppi mai nulla del mio passato finché non rincontrai Gargoyle. Era sulle tracce di un oggetto particolare, un gioiello che mi era stato lasciato in eredità da mia madre quale legittima erede al trono. Era un ciondolo, una pietra azzurra...»

Lisa abbassò gli occhi sulla pietra splendente che aveva davanti, quindi li sollevò lentamente, riportandoli sul volto di Nadia. «Azzurra, dici?»

«Esatto. Proprio come la pietra che hai davanti agli occhi. L'aspetto è diverso, questa sembra meno luminosa rispetto alla mia: è più simile a un sasso, finché non la si attiva. Ecco perché non l'ho subito collegata a quella che avevo».

«Ma cosa voleva Gargoyle da te? Perché quella pietra era così importante?»

«Per la stessa ragione per cui questa è così importante. Essa non è una pietra qualsiasi. Aveva ragione Andrés a ritenere che la pietra racchiudesse un’energia insolita. Essa ha al suo interno un potere nascosto assolutamente terrificante, capace di distruggere qualsiasi cosa. Gargoyle cercava la pietra per questo motivo. Per usarla contro l’umanità e piegarla così al suo dominio. Io ero rimasta l’unica a poter usare la pietra, perciò... aveva bisogno di me come di essa».

Lisa rabbrividì, allontanandosi leggermente. «Io...»

«Hai paura?» fece Nadia, sorridendo dolcemente. «Ne avresti tutte le ragioni. Io ho portato quella pietra per anni e ho visto di cosa era capace. Era grande solo un terzo di questa, e da sola poteva distruggere un’intera città. Posso solo immaginare di cosa sia capace una pietra di queste dimensioni».

«Nadia, ascoltami» Lisa si tese verso l’amica, stringendole entrambe le mani tra le sue. «Solo perché un uomo come Gargoyle ti ha dato la caccia allora, non vuol dire che anche stavolta debba andare così, no?»

«Gargoyle è morto» rispose Nadia, inespressiva. «È morto tentando di portare a compimento il suo piano assurdo. La sua setta, la società di Neo Atlantide, si è sciolta nel momento in cui lui è stato ucciso e di essa non resta più nulla. O almeno così credevo. Invece, qualcuno sta cercando nuovamente di recuperare questa pietra ed è disposto ad uccidere per essa, esattamente come Gargoyle».

«Ero solo una ragazzina allora,» notò Lisa «ma ricordo che quando Gargoyle scomparve e si scoprì dell'esistenza della sua setta, saltarono fuori un mucchio di scandali al riguardo. Circolarono pettegolezzi sul fatto che uomini politici di diversi stati fossero coinvolti nel suo assurdo progetto: sembrò che persino il barone Von Stockmar, il consigliere segreto della regina Vittoria, avesse finanziato Neo Atlantide prima di morire».

«Proprio così» aggiunse Nadia. «E credo che qualcuno appartenente a quella società sia ancora vivo, e agisca, ora come allora, con lo stesso intento criminoso: trovare la pietra e usarla per sfruttarne il potere segreto a proprio vantaggio».

«Ma come fai a essere sicura che questa pietra sia come quella che avevi tu?» domandò Lisa, rigirandosi la pietra tra le mani. «Potrebbe davvero trattarsi di qualcosa di diverso, o che so...»

«Lo so perché me lo sento» fece lei, triste. «C'è una specie di legame fisico, tra me e questa pietra, proprio come accadeva con l'altra. Sento la sua energia scorrermi nelle vene, ogni volta che la stringo: è come se il mio corpo vibrasse insieme ad essa. Ma non è solo per questo. Vedi quei segni?» le fece Nadia, indicandole le figure che risplendevano sotto la superficie. «Sono una particolare forma di scrittura definita Rongo-rongo. È tutto scritto nel diario del professore. Andrés era riuscito a decifrarla».

«Cos'è la scrittura Rongo-rongo?»

«Non lo so con esattezza, ma stando a quanto è scritto qui» disse Nadia, agitandole il libriccino davanti agli occhi «è una scrittura che sembra possedere tratti comuni a diverse antiche civiltà del Pacifico. La teoria del professore era che in un tempo remoto, nell’Oceano Pacifico si fosse sviluppata una civiltà molto progredita, che aveva portato la scienza e il progresso a tutte le civiltà che la circondavano, colonizzandole. Poi, a causa di un qualche cataclisma o di una devastazione, questa civiltà decadde, e i suoi sopravvissuti si spostarono, portando con loro le proprie conoscenze e tradizioni nei luoghi in cui andarono ad abitare. Alcuni di essi si spinsero fino all’Egitto: furono loro a creare le piramidi e a fondare anche la mia città, Tartesso. Altri si stabilirono ad Harappa, in Pakistan, dove il professore aveva trovato alcune tavolette recanti i medesimi segni... Altri, infine, abitarono le isole del Pacifico, tra cui l’isola di Pasqua. È tutto scritto nei libri di Andrés. Sono le cose a cui ha dedicato un’intera vita».

Nadia fece una pausa, e si passò un ciuffo ribelle di capelli dietro l’orecchio. Lisa cercava nel libro la conferma a quanto stava raccontando, ed annuiva quando credeva di averla trovata.

«Quando vennero cacciati dall'isola di Pasqua, fuggirono nuovamente, spingendosi fino all’America meridionale. Il professore cita diverse leggende Maya a proposito di uomini venuti dal mare che possedevano conoscenze incredibili, e che loro presero a venerare come dei».

«E tutto questo... cosa c’entra con la pietra?» domandò nuovamente Lisa.

«Non capisci? Tutte queste civiltà hanno in comune la stessa scrittura, le stesse leggende che parlano di un popolo proveniente da lontano che portò la civilizzazione. I segni incisi sulla pietra appartengono all’alfabeto Rongo-rongo... Quindi questa pietra appartiene alla stessa civiltà che ha colonizzato mezzo Pacifico, senza contare il bacino dell’Indo e l’Africa a nord del Sahara: la civiltà a cui io appartengo. Il professore scrive che i simboli sulla pietra narrano l'origine di quel popolo: secondo quanto riportato sul suo diario, la pietra narra di una popolazione che Andrés fa coincidere con quelli che gli Inca chiamavano Viracochas... o qualcosa di simile. Secondo le loro leggende, erano un popolo venuto dall'Oceano, che si stabilì vicino al lago Titicaca, dove fondarono una mitica città. Erano esperti nelle scienze e nelle arti magiche, ma sparirono misteriosamente. Andrés non è riuscito a tradurre il testo completamente, perché i simboli che ci sono pervenuti dell’alfabeto Rongo-rongo sono limitati a poche decine e la pietra presenta, tra gli altri, alcuni ideogrammi sconosciuti. Ma io... io riesco a leggerla. Posso tradurla, non chiedermi come. È qualcosa che è scritto dentro di me, e che sento del tutto naturale».

«Tu sei in grado di leggere questi segni assurdi?» fece Lisa, incredula. E spostò gli occhi sulla pietra. «E cosa dicono?»

«Narrano la storia della pietra. È un testo sacro, come aveva capito anche Andrés, solo che è molto di più di questo. È la storia stessa dell'universo, che è inscritta in questa pietra; qualcosa di antico milioni di anni. Fa riferimento a una "eredità di stelle"... ma il racconto non è compiuto. Mancano delle parti».

Lisa trattenne il fiato. «Quindi... ce ne sono altre?»

Nadia annuì vigorosamente. «È molto probabile, sì».

Lisa posò cautamente la pietra. «Mio Dio. Ma se quello che dici è vero... se una pietra come questa può causare tutto quel male...»

«Cosa potrebbero fare molte di esse?» concluse Nadia al suo posto. «Vedo che hai capito».

«Ma come mai la tua gente ha avuto accesso a un potere simile? Voglio dire, sembra quasi il potere di Dio!»

Nadia arrossì. Abbassò gli occhi, incapace di sostenere lo sguardo sincero della ragazza. «Questo... è qualcosa che non posso ancora dirti. Ti prego di perdonarmi».

Lisa fissò l’amica, che ora la guardava quasi sprezzante, come a sfidarla a mantenere la sua promessa e a non abbandonarla, nonostante tutto. Era sconcertata da quello che Nadia le aveva appena raccontato, un segreto talmente inaspettato che non sapeva davvero come reagire.

«Ti chiedo scusa» disse Nadia, sommessamente «Io... non ti ho detto la verità sul mio conto. Ma se non l’ho fatto, è perché dopo la morte di Gargoyle e di mio padre, ho provato a lasciarmi tutto il passato alle spalle. Credevo di esserci riuscita, ma evidentemente... mi sbagliavo».

Lisa vide una lacrima caderle sulle mani intrecciate e si intenerì.

«Posso chiederti com’è morto tuo padre?»

«Si è sacrificato per salvarmi» disse Nadia. E un sorriso dolcissimo le si allargò sul volto. «Per salvare me e tutti quelli che erano con me. Stavo scappando da Gargoyle, quando incontrai casualmente mio padre. Né io né lui sapevamo nulla l’uno dell’altra. Non lo avevo mai conosciuto, non sapevo chi fosse, né che fosse ancora vivo. Di quell’uomo, sapevo solamente che lottava contro il mio nemico, l’uomo che mi voleva catturare. Che era mio padre, lo scoprii solo alla fine, quando era troppo tardi per qualsiasi scusa o tentativo di...» Nadia si asciugò le lacrime, tirando su con il naso. «Vedendo che lottavamo per la stessa causa, mi unii a lui e alle persone che lo seguivano nella guerra contro quel mostro. Dopo l’ultima battaglia contro Gargoyle, mio padre si sacrificò, per permettere a me e a tutte le persone che insieme a noi avevano combattuto, di salvarsi. Con la sua morte permise la nostra fuga. Fui salva, ma lo persi di nuovo... lo avevo appena ritrovato...»

Nadia lasciò che le lacrime scorressero liberamente. Lisa le teneva sempre le mani e ascoltava in silenzio.

«Le persone che erano con te...» azzardò «...ti riferisci a Jean, non è così?»

Lei tirò su con il naso, annuendo debolmente. Sollevò il volto a guardare l'amica, gli occhi velati dalle lacrime. Non appena incrociò lo sguardo di Lisa, Nadia non riuscì a trattenersi e sebbene si stesse sforzando di sorridere, le labbra le si serrarono, e scoppiò a piangere. Lisa accostò una mano al suo volto e lei chiuse gli occhi.

«Sì» disse, tra i singhiozzi. «Lui... sai, quando ci conoscemmo eravamo solo due ragazzini, ma Jean mi aiutò da subito. Lasciò tutto per me, sebbene non mi avesse mai visto prima. E mi ha salvata tante di quelle volte che...»

Scosse il capo e sorrise. Un sorriso dolce, ma che velava una tristezza inconsolabile.

«Vi volevate bene?»

«Lo amavo. Più... più di ogni cosa. Lui...» la guardò, sorridendo. E una lacrima solitaria le scorse lungo la guancia. «Era Jean» disse, come se questo chiarisse ogni cosa.

Lisa sorrise, comprensiva.

«Come mai, allora, vi siete lasciati?»

Nadia strinse le labbra, sollevando la testa. «Fu per la lontananza, credo. Ho dimenticato perché mi ero innamorata di lui».

Lisa annuì. Tornò col pensiero alla pietra e il suo volto si incupì.

«Hai già parlato di tutto questo con John?» le chiese.

«No, e come avrei potuto?» fece lei, scuotendo energicamente la testa. «L’ho già trascinato suo malgrado in questa faccenda orribile, non ci penso neanche a coinvolgerlo ulteriormente».

«Cosa pensi di fare, ora?»

Nadia sospirò, drizzandosi a sedere. «Non lo so. Ma penso che la cosa migliore sia cercare di capire cos’è questa pietra, se veramente essa sia quello che penso o no; e per farlo, dovrò cercare di scoprire come Kurtag ne è entrato in possesso. Dovrò sentire da chi ha lavorato con lui. Credo già di sapere come muovermi, in tal senso. C'è un mio amico, che lavorava con Andrés. Si chiama Hanson Garrett. Era con lui, durante l'ultimo viaggio. Forse sa qualcosa».

«Frena, Naddy» le fece Lisa. «Per il momento, è meglio se ti fermi qui a dormire. Domattina ne parleremo anche con Michael e vedremo di riuscire a scoprire qualcosa. Dovremo innanzi tutto vedere se c’è qualcosa dietro alle ricerche che Kurtag stava compiendo: se qualcuno l’ha ammazzato e lui ti ha affidato la pietra perché tu la difendessi, vuol dire che c’è qualcosa sotto di molto più grande di quanto non pensiamo. Ma ora,» aggiunse, dando un leggero buffetto a Nadia «è meglio se ti riposi. Un buon sonno ti farà bene».

«Ti ringrazio, ma non vorrei...»

«Non cominciare, Nadia» fece Lisa perentoria, mentre tirava già fuori da un vecchio armadio a muro delle lenzuola e una coperta in più, che poi gli posò tra le braccia. «Da qui non te ne vai. Sei più sicura in questo posto che in qualsiasi altro».

Nadia arrossì, commossa. «Grazie» fu tutto quello che riuscì dire.

«Davvero hai pensato che ciò che avevi da raccontare potesse allontanarmi da te?» le domandò Lisa, abbracciandola. «Tu non mi hai mai abbandonato, Nadia, mai. Nemmeno quando ti sarebbe stato comodo e utile farlo» le disse, fissandola dolcemente negli occhi.

«Ma non ti ho detto tutto» le fece presente lei, quasi vergognandosene. Lisa scrollò le spalle.

«Se non l'hai fatto, avrai il tuo valido motivo. Non mi interessa. Io mi fido di te. Solo, non nascondermi qualcosa con la paura che io non possa comprenderlo. Non può accadere, non tra me e te».

Nadia serrò le labbra, commossa. Eppure, quel suo segreto così inconfessabile non avrebbe mai potuto raccontarlo nemmeno a lei. Solo Jean lo sapeva, e i suoi vecchi amici. Era qualcosa che credeva di aver sepolto insieme a loro in una vita passata, ma che ora stava risorgendo a terrorizzarla.

«Sei gentile» disse, glissando su quanto le stava nascondendo. «Non so come farei, senza di te».

Lisa sorrise. «È questo che fanno gli amici, no? Si aiutano. Tu sei mia amica, Nadia, la più grande. E tutto quello che posso fare per aiutarti, ebbene: io ti giuro che lo farò. E adesso, fila a dormire».

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Capitolo 11
*** 10 ***


10









«Hanno bussato. Vai un po' a vedere chi è...»

L'agente George Lewitt si sollevò dalla sedia con un'evidente espressione di sufficienza. Era stanco, ed era in piedi da diverse ore. In più, lo aspettava una notte insonne. Fare la guardia a quella casa vuota era un dispetto che sicuramente qualcuno si era divertito a giocargli.

Doveva passare l'intera notte a casa di quel professore assassinato, Andrés Kurtag. Per essere sicuri che non venissero commesse infrazioni e che nessuno tentasse di sottrarre qualcosa, gli avevano detto. Ma per lui era solo una grande seccatura.

Tirandosi su i pantaloni, si allontanò lungo il corridoio fiocamente illuminato dalla luce del salotto. Buttò in fuori la pancia e sbuffò. C'era una finestra vicino alla porta. Scostò le tende e sbirciò nell'oscurità che già avvolgeva tutto il quartiere. Intravide due figure, ferme nell'ombra davanti all'ingresso. Una di loro si voltò a guardarlo, quindi estrasse la mano dalla tasca del soprabito scuro, mostrandogli un distintivo. Lewitt gli dette un'occhiata veloce e annuì da dietro il vetro. Appena prima di lasciar ricadere la tenda, sollevò lo sguardo sulle finestre del vicinato. Erano buie, sembrava che nessuno fosse sveglio, quella notte, a parte lui, il suo collega e quei due fuori dalla porta.

Bella roba, pensò sbuffando.

«Chi è?» la voce di Patterson, il suo collega, gli giunse dal salotto, dove dormicchiava seduto sul divano.

«Due dei nostri» rispose, fiacco.

«Apri, no?»

«Non sono questi, gli ordini...»

L'agente sentì il compagno alzarsi e raggiungerlo a passo stanco lungo il corridoio. Lo vide far capolino oltre lo spigolo del muro, preceduto dalla sua ombra.

«Hanno il distintivo?» chiese Patterson, infilandosi del tabacco da masticare tra le labbra, piegate in una smorfia assonnata.

«Sì,» fece l'altro «ma...»

«E che ti frega?» Patterson scrollò le spalle. «Se hanno il distintivo va bene, no?»

Nuovi colpi alla porta. Una voce risuonò decisa.

«Siamo gli agenti Everett e Mason. Aprite, per favore».

I due si guardarono. Lewitt prese a fissare il collega, che masticava il tabacco con una certa villania.

«Allora?» fece Patterson. «Hai sentito, no? Muoviti!»

Lewitt strinse le labbra, ma alla fine si decise ad aprire. Sbloccò il catenaccio e socchiuse la porta. I due che attendevano sulla soglia gli sorrisero, facendosi avanti ed entrando, senza aspettare alcun invito.

«Buonasera» salutarono, levandosi i cappelli. I due agenti di guardia restarono a fissarli, in attesa.

«...'sera» biascicò Patterson, che intanto continuava a ruminare. Lewitt non rispose.

«Siamo qui per darvi il cambio».

«Non era previsto» osservò Lewitt. «Nessuno ci aveva detto nulla, e credevamo...»

«Già, è una questione di sicurezza» tagliò corto uno dei nuovi venuti. Erano entrambi vestiti di scuro, e indossavano due lunghi cappotti neri, di lana. Solo uno dei due parlava, l'altro continuava a fissare i due poliziotti in silenzio. «Per essere sicuri che non vi addormentiate e combiniate qualche casino» aggiunse il primo, alla fine.

«E quindi vi hanno mandato qui pure a voi, eh?» fece Patterson, con una smorfia. «Beh, non c'è molto da fare. Mi spiace, ma vi annoierete parecchio.

«Oh, non penso» osservò allegro il nuovo arrivato. Aveva un volto aperto e sorrideva dietro due folti baffi scuri, un sorriso che si trasmetteva anche ai suoi occhi, vibranti di uno strano scintillio. «Sarà divertente» soggiunse. «Una bella casa vuota, tanti libri...»

«Avrete con voi una lettera, o un ordine scritto, immagino...»

L'uomo prese a fissare Lewitt con una certa serietà. Quindi sorrise, amabile. «No, a dir la verità ci hanno sbattuto giù dal letto, dicendo che dovevamo presentarci qui».

Lewitt guardò l'uomo con un certo sospetto. «Nessun ordine? Nulla?»

«No, non ce l'ho il tuo ordine» ribatté quello, seccato. Patterson cominciò a ridere.

«Mica vorrete litigare? Andiamo, Lewitt» disse. «Possiamo smontare, finalmente».

«Non so, non mi torna» fece Lewitt, senza distogliere lo sguardo dai due sconosciuti. «Simum era stato chiaro, in proposito».

Patterson allargò le braccia, sporgendo in fuori il labbro. «Senti, sai che mi frega? Se arrivano questi due, vuol dire che li manda Simum, e io me ne vado. Se qualcosa non va, sono problemi dell'ispettore, non miei.

«Nulla in contrario se chiamo il distretto?» insistette Lewitt, cocciutamente. Lo sconosciuto alzò le spalle. «Prego» disse, sorridendo.

Lewitt sollevò la cornetta dall'apparecchio appeso al muro del corridoio, e compose il numero. Il centralino rispose prontamente all'altro capo del filo.

Ma qualcosa non andava, doveva essere caduta la linea. Per quanto insistesse, l'uomo al centralino non ricevette risposta.

Al telefono non c'era nessuno.

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Capitolo 12
*** 11 ***


11










Per l’ispettore investigativo Peter Simum, quella giornata non sarebbe potuta iniziare in modo peggiore.

Tanto per cominciare, la gamba gli faceva un male cane. E questo lo indisponeva parecchio. In secondo luogo, faceva caldo. Molto caldo. E questo lo indisponeva ancora di più, soprattutto se doveva farsi mezza città a bordo di una delle nuovissime, sgangherate auto della polizia.

«Per l’amor del cielo» gridò all’autista, «quanto manca prima di arrivare?»

Tutto quel sobbalzare lo stava uccidendo.

«Ormai ci siamo ispettore» fece l’agente alla guida. «Porti pazienza, ma sa... queste automobili sono ancora da perfezionare».

Proprio come la tua guida, idiota.

Ad ogni sobbalzo, la gamba gli procurava una fitta lancinante. Per tutto il viaggio, Simum se ne stette a denti stretti, tenendosi il ginocchio con entrambe le mani.

Certo che quella gamba deformata era davvero un bel peso. Se la trascinava dietro da quando era bambino, ma ancora non era riuscito a rassegnarsi al dolore. Avrebbe cambiato poche cose della sua vita, ma una di quelle era certamente la gamba.

Essersi ammalato di poliomielite era stata una bella sfortuna, ma il peggio era trovarsi condannati a convivere con una gamba storta come un tronco cresciuto male. Ogni sera, quando rientrava a casa – a dire il vero quelle poche volte in cui accadeva, dal momento che spesso si fermava a dormire in ufficio – la schiena gli doleva per la postura che durante il giorno aveva dovuto assumere nel camminare. E dal momento che odiava portare il bastone – lo faceva sentire vecchio – si trascinava quell’arto morto e rinsecchito per tutta Scotland Yard, ammazzandosi di fatica anche solo per fare mezzo gradino.

«Certo che fa caldo, oggi, vero ispettore?» fece l’agente, giusto per attaccare discorso. Simum grugnì qualcosa in risposta, ma era qualcosa di inudibile.

«Sembra proprio che sia arrivata l’estate».

Simum roteò gli occhi.

L’agente si zittì, dal momento che non ottenne risposta. Sapeva che con un tipo come l’ispettore non c’era da scherzare, e quella mattina sembrava particolarmente di pessimo umore.

Simum strinse le labbra. Maledizione, pensò. Sono già passati due giorni dal delitto e ancora non siamo venuti a capo di nulla.

Non una prova, non un indizio certo.

E come se non bastasse qualcuno, nella notte, si è introdotto in casa di Kurtag, violando i nostri sigilli dopo aver ucciso entrambi gli agenti di guardia.

Quel caso lo indisponeva alquanto. Non era ancora riuscito a far quadrare tutti i suoi conti sul primo omicidio, ed ecco che gli piovevano sul groppone due nuovi cadaveri caldi caldi. I casi erano due. O lui aveva improvvisamente smarrito il cervello, o qualcuno si stava mostrando decisamente più furbo di lui.

Tanto per cominciare, la principale sospettata, Nadia Ra Arwol, non era per nulla convincente come assassina. Quale avrebbe dovuto essere il suo movente? Perché una ragazza giovane e brillante, all’apice della fama, avrebbe dovuto uccidere un uomo “tranquillo” come Andrés Kurtag? E poi, quella donna era troppo intelligente per commettere un errore così stupido, dimenticarsi in bella vista i propri effetti personali sulla scena del delitto. Certo, anche le persone intelligenti commettono degli errori, ma a Simum l’istinto diceva che quella poveraccia si era trovata suo malgrado coinvolta in qualcosa più grande di lei. E poi, come avrebbe potuto tornare nuovamente a casa di Kurtag, uccidere due agenti da sola e scomparire senza dare nell’occhio?

Tuttavia, se si escludeva la ragazza, chi restava? Il bel politico? La via del fidanzato geloso non era credibile e Simum lo sapeva bene. E poi, se era possibile escludere Jonathan Fisher dall’elenco dei sospettati, lui l’avrebbe fatto più che volentieri. Odiava confrontarsi con i potenti. Sapeva benissimo che se anche solo avesse provato ad avvicinarsi al giovane segretario alla difesa, qualcuno molto in alto prima o poi sarebbe certamente intervenuto a insabbiare il tutto. Non che lui avesse paura degli uomini di potere. Gli facevano semplicemente schifo. E poi, era arrivato a un’età in cui lavorare per nulla cominciava a scocciargli.

L’automobile compì una brusca svolta, sballottando Simum sul sedile. Questi lanciò un’imprecazione, serrando le labbra.

«Mi perdoni, ispettore» fece l’agente, abbozzando un sorriso di scusa. «Ecco, siamo arrivati».

Misericordia, pensò Simum scendendo a fatica dalla macchina. Mai più, mai più una cosa del genere!

Davanti a lui sorgeva la villetta di Kurtag. Era una piccola casetta in perfetto stile Georgiano, come tante altre nei dintorni di Bloomsbury, dai mattoni scuri e con la porta smaltata di blu. Intorno alla casa e sul retro vi era un giardino piuttosto curato, ma dalle dimensioni ridotte. Era, quello, un quartiere residenziale decisamente tranquillo e dall’aspetto delle abitazioni che circondavano la via, Simum ne desunse che doveva essere piuttosto costoso abitare in quella zona.

D’altra parte, era risaputo che Kurtag fosse piuttosto ricco. E proprio per questo, un’altra stranezza in quel caso era il fatto che nella sua abitazione non fossero venuti a mancare oggetti di valore. Nemmeno le cinquantamila sterline che conservava in cassaforte. Non sembrava mancare nulla. Tutto questo contribuiva a fare di quel delitto un crimine apparentemente inspiegabile.

Simum respirò profondamente una volta messo piede a terra. Aprì gli occhi massaggiandosi la gamba anchilosata e si guardò intorno. Numerosi agenti in divisa si stavano affaccendando intorno alla casa. Alcuni erano occupati a tenere a bada i curiosi. I giornalisti stavano già organizzando il loro assedio.

Un uomo dall’andatura dinoccolata gli si mosse incontro. Indossava un completo di un verde che un tempo doveva essere stato molto più scuro, ma che ora appariva decisamente scolorito e liso. Una sottile cravatta di tessuto nero ornava il logoro colletto della camicia, che se ne stava tutto spiegazzato intorno a un esile collo sbarbato malamente. Il volto dell’uomo era assonnato, e per questo sembrava ancora più cascante, a causa anche del mento forse troppo sfuggente. Portava due baffetti poco curati e un’incipiente calvizie rovinava la scriminatura dei suoi capelli, impomatati fino a sembrare unti, che gli ricadevano ai lati del volto.

«Ispettore, ben arrivato» fece l’uomo cortese, accennando a un saluto.

«Barnaby, ha una cera orribile. Sembra che l’abbiano sbattuta giù dal letto – fu la risposta di Simum».

«Infatti non ho dormito. Ho finito il turno poco fa. Comunque...» si incamminarono lungo il vialetto che conduceva alla casa. «Abbiamo qui l’inventario dei beni compilato dal notaio di Kurtag» gli mostrò un plico con alcuni fogli vergati in bella grafia. Simum gli gettò un’occhiata veloce. «Abbiamo controllato e sembra davvero che non manchi nulla».

Simum si guardò intorno. «Nulla?»

«Nulla» fece Barnaby.

«Buon dio, Barnaby io non capisco. Chi è che commette un’infrazione e due omicidi per niente?»

«Non ne ho idea, ispettore».

Simum si fece strada tra gli agenti che affollavano l’ingresso. Si diresse a fatica verso il salotto, trascinandosi dietro la gamba. Tutto era stato messo sotto sopra. Evidentemente, chi si era introdotto in casa era alla ricerca di qualcosa che non aveva trovato.

«Avete controllato tutto?»

«Tutto. L’inventario è completo».

«Segni di scasso?»

«No. Chiunque sia stato, è entrato dalla porta».

«Quei due idioti di guardia gli hanno persino aperto» fece Simum, sprezzante, mentre vagava per la stanza guardandosi intorno. Si mosse pesantemente, camminando senza riguardo sopra i fogli rovesciati sul pavimento, chinandosi ogni tanto faticosamente a raccoglierne alcuni, solo per poi scrutarli senza particolare interesse. Tutti i libri erano stati rovesciati dagli scaffali e i cassetti della scrivania svuotati e gettati in un mucchio nel mezzo del salotto. In tutta la casa non c’era un solo oggetto in ordine.

«Ma cosa diavolo stavano cercando?»

«Mah...»

Simum si appoggiò alla scrivania.

«Dunque. Abbiamo un uomo che tutti dicono tranquillo. Non aveva nemici, né donne, né amanti. Era un professore, viveva per il suo lavoro ed era molto stimato in ambito accademico. Poca la vita sociale, nessun parente in Inghilterra. Nessun attrito con i suoi colleghi. Qualcuno, una bella sera, decide di entrar qui e lo uccide recidendogli la giugulare. Io mi chiedo: chi può desiderare la morte di un tipo così?

Barnaby allargò le braccia, fissando lo spazio intorno a sé scuotendo la testa. «Oltretutto senza rubare nulla».

«Appunto. Senza rubare nulla».

Simum strinse le labbra. Cominciava a odiare quel caso.

Maledizione, pensò. Stai a vedere che questo è il primo caso in cui va a finire tutto in malora...

«E dire che di cose da portar via qui ce n’erano. Guardi questi quadri: chissà il loro valore...»

Barnaby si mise a occhieggiare i muri. Simum si guardò intorno. Effettivamente la casa era addobba di reperti e di tesori d’antiquariato.

«Quello è un Watteau» fece Simum. «E quello laggiù un Ingres. Qui abbiamo un Monet e un Degas. Il professore si intendeva di arte e aveva soldi da spendere» commentò.

Simum passò in rassegna la stanza. Non c'era nulla che potesse aiutarlo a capire quale movente poteva nascondersi dietro a quell'omicidio.

«Cosa cercava l'assassino?» continuava a chiedersi.

Barnaby scrollò le spalle. «Di sicuro, qualunque cosa fosse, non l'ha ancora trovata. Abbiamo controllato e non manca nulla rispetto a quanto inventariato ieri».

Simum si aggirava pensieroso per la stanza. Arrivò davanti a una parete a cui erano appese alcune foto. In una di esse, il professore era ritratto accanto una giovane donna, vestita elegantemente, in abito chiaro. Lei indossava un cappello a falda larga e la veletta sollevata lasciava elegantemente intravedere gli splendidi lineamenti del volto, dalla pelle scura, ambrata. Sorridevano entrambi.

«Sono Kurtag e la Ra Arwol, giusto?» chiese Barnaby. «Caspita, che meraviglia di donna. Chiunque farebbe pazzie per una così. Lei e Kurtag dovevano andare d'accordo, a quanto pare».

«Già...»

Simum fissava pensieroso la foto. Improvvisamente, prese ad agitare un dito nell'aria. Si voltò, percorrendo con gli occhi la stanza.

«Se l'assassino non ha trovato nulla, è perché qualcuno l'ha preceduto» disse. «O perché ciò che cercava non risultava tra gli effetti del professore».

«Dal che ne deduco che lei pensa si tratti di Nadia Ra Arwol, giusto?» ipotizzò Barnaby. «Io dico che è lei» asserì. Estrasse un fazzoletto e si soffiò il naso, emettendo un lungo barrito. «Maledetta allergia! Comunque... la ragazza ha tutto contro. E non possiede un alibi».

Simum inarcò un sopracciglio. Si fece un giro nella stanza, percorrendo a lunghi passi affaticati il salotto devastato dal caos. I poliziotti erano ancora indaffarati a raccogliere elementi di prova e a parlare con i testimoni.

«Al contrario, Io credo che quella poveraccia sia finita in mezzo a qualcosa più grande di lei» rispose l’ispettore.

«Come può dirlo?» obiettò Barnaby. «Ha tutto contro» ribadì, passandosi il fazzoletto sul naso.

«Appunto. Istinto. Una sensazione legata anche agli omicidi di ieri».

Barnaby scosse la testa, incredulo. «Stia a sentire, ispettore» disse. «E se Kurtag avesse avuto un segreto, un segreto inconfessabile? Qualcosa che, se fosse stato divulgato, avrebbe messo in serio pericolo la promettente carriera di qualcuno...»

«Si riferisce alla Ra Arwol?»

«Mi riferisco al suo fidanzato, il segretario alla difesa, Jonathan Fisher».

Simum allargò le braccia, mentre Barnaby si avvicinava all'entrata con fare deciso.

«Ecco come è andata. Kurtag è in casa. Chi viene, sa di trovarlo. Fisher lo conosce bene, la sua fidanzata e il professore sono molto intimi».

«Giusto» commentò Simum. Se ne stava con le braccia intrecciate, appoggiato al muro, sul volto una smorfia divertita.

«Fisher trova la ragazza e Kurtag insieme. Cominciano a discutere. Fisher ha scoperto che lei e Kurtag erano stati amanti. Forse lo stesso Kurtag lo minacciava, o lo ricattava di rivelare tutto. La Ra Arwol era venuta per cercare di mettere a posto le cose, ma l'arrivo improvviso di Fisher rende tutto più difficile.

«Perché?»

«Perché è geloso e nel vedere la sua fidanzata insieme a Kurtag pensa che la loro relazione sussista ancora».

«Capisco. Giusto».

«Comunque, cominciano a discutere. Fisher è alterato. Vuole che Kurtag ponga fine alla relazione, lo minaccia, ma Kurtag non demorde».

Simum annuisce col capo, ostentando un’espressione grave. «Ottima deduzione» fece. Quindi il suo volto si sciolse in un sorrisetto irriverente e dolciastro. «Quasi mi dispiace smontare la sua favoletta».

Barnaby restò a bocca aperta. «Come?» balbettò. «E perché?»

«Per prima cosa, nemmeno uno come Jonathan Fisher avrebbe potuto organizzare qualcosa del genere, assoldare degli assassini per venire a frugare sul luogo del delitto che lo vede sospettato... no, troppo stupido. E troppo banale. Fisher non avrebbe mai commesso un gesto tanto avventato».

«Forse sì, se messo alle strette».

«Ma per cosa? Se quello che ha descritto fosse accaduto sul serio, mi spiega perché, allora, Fisher avrebbe abbandonato la casa la sera del delitto, per poi mandare qualcuno a completare l'opera il giorno dopo? Non ha alcun senso».

«Per quale motivo?» domandò Barnaby.

«Perché se avesse trovato Kurtag e la Ra Arwol insieme, non avrebbe avuto ragione di scappare. Sarebbe rimasto lì finché non avesse ottenuto quello che voleva. No, chi era lì, quella sera, è scappato perché sorpreso dalla venuta inaspettata di qualcuno. Ma non sono stati trovati altri testimoni. Nessuno ha visto nulla. Quindi, per quel che ne sappiamo, qui c'erano solo tre persone. Kurtag, il suo assassino e Nadia Ra Arwol...»

Barnaby si strinse nelle spalle, aspettando il seguito della spiegazione.

«Perciò, ecco quello che penso. Kurtag nascondeva sì qualcosa, ma non si trattava della sua relazione con la Ra Arwol. Magari andavano davvero a letto insieme, ma non è questo che conta. Ciò che conta, è la presenza della ragazza qui, l'altra sera. Ma prima di poter giungere a una conclusione, mi manca ancora un particolare...»

Simum si passò una mano sulla fronte. Faceva davvero caldo. Casualmente, posò gli occhi sul camino. L'attizzatoio era appoggiato malamente, come se qualcuno lo avesse abbandonato lì, senza avere il tempo di rimetterlo al suo posto. Simum si avvicinò, incuriosito. Si tirò su i calzoni e con una smorfia piegò di lato la gamba amorfa, tenendola rigida. Appoggiandosi alla spessa trave che fungeva da mensola, sopra il focolare, si sporse sulle braci ormai spente, strizzando gli occhi e smuovendole delicatamente con l'attizzatoio.

«L'agente che mi ha portato qui, oggi, mi ha fatto notare quanto caldo effettivamente ci sia, in questi ultimi giorni» disse con noncuranza, mentre rimestava tra le ceneri. Barnaby sollevò distrattamente lo sguardo, posando gli occhi stanchi e infossati su di lui.

«È vero, fa parecchio caldo» rispose, alzando le spalle. «Strano. È venuto all'improvviso, fino alla settimana scorsa faceva davvero freddo. Per me era meglio: col freddo, l'allergia non mi dà problemi».

«Allora» sbuffò Simum chino sulla cenere, gli occhi socchiusi «perché il professore ha avuto bisogno di accendere il camino, l'altra sera?»

Incuriosito, Barnaby si avvicinò all'ispettore, sporgendosi a guardare dentro al focolare. «Come fa a sapere che era acceso?» domandò, senza staccare gli occhi dalle ceneri annerite.

«Queste braci sono ancora molto scure. E l'attizzatoio era giù di posto, come se qualcuno lo avesse usato da poco. Se il camino non lo si usa, lo si pulisce per evitare problemi, non crede anche lei?

Barnaby annuì, ammirato. «Mi chiedo come lei faccia a capire cose come queste» disse, sinceramente colpito.

«È il motivo per cui lei a quarant'anni non è ancora riuscito a diventare ispettore, Barnaby» disse Simum con voce flautata. Barnaby sulle prime rise ma poi, quando capì che non si trattava di una battuta, si accigliò, un poco risentito.

«Non se la prenda» lo lenì Simum, sollevandosi lentamente. «In fondo è meglio così. Lei mi è molto più utile qui, che dietro una scrivania».

«La ringrazio» ribatté Barnaby, ingenuamente compiaciuto.

«Ora,» fece Simum, pulendosi le mani «vorrebbe raccogliere quel frammento di carta che vede tra le braci? È troppo in basso per me».

Barnaby occhieggiò sul fondo del camino, stringendo gli occhi per scrutare nella penombra. Intravide un triangolo di carta scura, annerita dal fuoco e dal fumo. Lo raccolse e se lo pose sul palmo, avvicinandolo agli occhi.

«Che roba è?» fece.

«Sembra un foglio di un album, o qualcosa del genere. È carta abbastanza spessa, per questo non è stata incenerita del tutto» notò Simum. «Vede se c'è scritto qualcosa?»

«Sembra la grafia di qualcuno» osservò Barnaby, voltandolo. «Forse è del professore».

Simum si guardò intorno. C'era una montagna di libri accatastati alla rinfusa sul pavimento.

«Forse era questo che il professore cercava di nascondere» rifletté.

«Se così fosse» soggiunse Barnaby, mostrando il frammento di carta «non è che ci resti poi molto».

«Capisce cosa c'è scritto?»

«No,» fece Barnaby «il frammento è troppo piccolo».

«Bene» disse l'ispettore, battendo le mani. «Vediamo se riusciamo a trovare qualcosa in proposito».

Barnaby abbassò gli occhi sul pavimento. Simum aveva già raccolto il primo libro che gli era capitato sotto mano.

«Non intenderà controllarli tutti, vero?» chiese, attonito. «Sono centinaia!»

«Allora, prima cominciamo, meglio sarà» fece Simum con il suo solito ghigno. «Non sarà necessario controllarli tutti. Cerchiamo un album, con carta gialla e spessa, di quella trattata a mano. Forse un diario».

«Tipo... questo?»

Barnaby sollevò un libro che era caduto sotto alla scrivania, leggermente nascosto alla vista. Simum lasciò cadere il volume che teneva tra le mani e lo prese.

«Bravo, Barnaby» disse, allegro. «Vede che anche lei possiede una sua utilità?»

L'uomo sorrise, senza accorgersi di essere appena stato deriso.

«Guardi qui» gli mostrò Simum. «È un intero volume di note, tutte in latino. Evidentemente, voleva essere sicuro che in pochi potessero leggerlo...» continuava a sfogliare le pagine, finché lo sguardo gli cadde su un particolare e gli si illuminò. «Ecco, vede?» fece, esultante. «Le ultime pagine sono state strappate. Forse erano quelle veramente importanti... mi piacerebbe sapere cosa voleva nascondere. Dovremmo trovare qualcuno che ce lo traduca».

«Se ne occuperà il commissariato» si affrettò a dire Barnaby, prendendo in custodia il volume che gli porgeva l'ispettore. «Lei crede che fosse questo che cercavano gli assassini?»

«No, non credo» disse Simum. «Ma potrebbe aiutarci a capire cosa...»

Simum si bloccò, con l'indice sospeso a mezz'aria. Improvvisamente, tutti i frammenti cominciarono a prendere posto nella sua testa: la presenza della ragazza sul luogo del delitto, le pagine strappate...

...le pagine strappate...

Ecco finalmente il tassello mancante!

Prese a guardarsi lentamente intorno, fissò gli occhi su Barnaby che lo scrutava di rimando, incuriosito.

«Qualcuno sta controllando la Ra Arwol in questo momento, vero?»

«Sì, ispettore. Abbiamo una pattuglia che la segue in borghese da ieri».

«Una pattuglia come quella che sorvegliava questo posto?»

Barnaby deglutì, sbiancando. Simum si sfilò gli occhiali, puntandoli alla luce. Erano completamente insozzati: sulle lenti si potevano vedere numerose e grosse ditate. Estrasse dal taschino della giacca un fazzoletto spiegazzato e prese a pulire le lenti, ma il risultato che ottenne fu solo quello di spalmare ancora di più lo sporco sulla loro superficie.

Alla fine l’uomo rinunciò, e inforcando gli occhiali rivolse a Barnaby una smorfia dolciastra.

«Non si preoccupi, sergente, non fa nulla. Direi che non abbiamo più ragione di stare qui, non crede anche lei? Piuttosto, è meglio se andiamo a cercare Nadia Ra Arwol. Sono sicuro che quella ragazza conosce più cose di quante non voglia far credere».

Barnaby lo fissò attonito. Non riusciva a capire come Simum avesse le sue intuizioni. A volte pareva proprio che le tirasse fuori dal cappello tanto erano bislacche. Il problema era che in vent’anni di carriera accanto a quell’uomo, non l’aveva mai visto ingannarsi su qualcosa.

«Lo pensa sul serio?» chiese, senza nascondere la propria ammirazione.

Simum alzò gli occhi e gli sorrise amichevolmente, lo stesso sorriso mieloso di sempre.

«Oh, sì Barnaby, certamente» disse, posandogli una mano sulla spalla. «Credo che quella ragazza sappia esattamente cosa sta cercando il nostro assassino. Perciò, se vogliamo scoprirlo, dobbiamo trovarla... sempre che Nadia Ra Arwol si trovi ancora a Londra. E soprattutto, che sia ancora viva».

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Capitolo 13
*** 12 ***


12










«Così ora dovrei chiamarti principessa?»

Michael fissava Nadia con un misto di stupore e ironia. Lei sorrise, felice che anche lui l’avesse presa meglio di quanto non si aspettasse.

«Esatto» rispose. «E io potrò finalmente prenderti a calci nel sedere».

«Scusa, ma questo non lo facevi già? – obiettò Lisa, ridacchiando».

«È vero» rise Nadia, portandosi elegantemente una mano alla bocca. «Non ci avevo pensato».

«Spiritose» commentò acido Michael. «Ma vorrei ricordarvi che qui c’è un bel casino. Dobbiamo cercare di capire che cos’è questa cosa e...»

«Cos’è questa cosa... cosa?»

Si voltarono tutti e tre verso l’ingresso della sala riunioni, ammutolendo di colpo. Jeremy Hunter se ne stava sullo stipite, la maniglia stretta nella mano robusta, e li fissava arcigno. Il mozzicone di sigaro ondeggiava da un lato all’altro della bocca, pericolosamente.

«Cosa diavolo state facendo qui, razza di scansafatiche buoni a nulla? Ra Arwol! Possibile che dove ci sei tu, c’è sempre qualcosa che non va?»

Nadia si irrigidì. «Direttore, ecco...»

«Stanfields. Tippett! Non avete niente di meglio da fare?» sbraitò. I due si lanciarono uno sguardo allarmato.

Hunter fece un passo avanti e si accorse della pietra e del diario posati sul tavolo. Per un istante, gli occhi di tutti i presenti si incontrarono. Quindi, nel silenzio più totale, Hunter chiuse la porta e la serrò a chiave. Socchiuse gli occhi e fissò a turno i tre davanti a lui.

«Che roba è?» chiese poi.

Nadia cercò con lo sguardo il sostegno dei suoi amici.

«È... una pietra» fece Lisa.

«Esatto...» aggiunse Michael.

«E un... diario?» disse Nadia, mordendosi le labbra.

Hunter strizzò gli occhi. «Me lo stai chiedendo?»

«...No? Cioè, no!»

Hunter gonfiò il petto, tirandosi su i pantaloni. Quindi abbassò la testa, restando a fissare il pavimento. All’improvviso, sollevò gli occhi e li piantò addosso a Nadia, che sobbalzò.

«Chissà perché, Ra Arwol, ma quando c’è da temere il peggio, io so che gira e rigira, cerca e ricerca, questo arriva sempre a braccetto con te. Come si spiega questa cosa?»

Nadia si strinse nelle spalle. «Io...»

«Basta!» ruggì Hunter. «Voglio sapere che accidenti del diavolo state combinando qui! Devo saperlo se state cercando di trasformare la mia redazione in un covo di cospiratori. Tu!» fece, puntando il dito contro Nadia «Prima l’omicidio. Ora questa... roba» disse con un moto di disgusto. «Cos’è, stai diventando una specie di sovversiva, per caso?»

«Veramente, noi...» cercò di mediare Lisa.

«No» fece Nadia, trattenendo l’amica con un mezzo sorriso. «Hunter ha ragione».

«Certo che ho ragione» disse lui, calmandosi inaspettatamente. «E vorrei ben vedere».

Nadia si avvicinò, le mani giunte. Non sapeva davvero da che parte cominciare.

«È una storia piuttosto complessa e...»

«Non ho fretta» soggiunse Hunter, drizzando il busto e fissando Nadia con sguardo fiero. Lei si voltò verso i suoi amici, che scrollarono le spalle in un gesto di muta rassegnazione. Hunter la puntava arcigno e allora lei cominciò a raccontargli tutto. Non appena ebbe terminato, il direttore si cacciò le mani in tasca e si avvicinò al tavolo su cui era posata la pietra. La fissò a lungo, quindi prese a scorrerla delicatamente con un dito.

«Mi ricordo di quella vicenda» sussurrò. Tutti tacquero, stupiti. «Era... quando? Sei anni fa, giusto? Già, e chi se lo scorda. Allora avevo un giovane redattore, qui. Si chiamava Tennyson. Samuel Tennyson. Era bravo, ma giovane... e inesperto» sospirò. «Si infiltrò in quell’associazione, la Neo Atlantide. Era capace di cose incredibili, ma era anche uno spericolato. Dio, che testa matta!»

I tre restarono ad ascoltare come ipnotizzati, incapaci di intervenire.

«Mi mandava regolarmente rapporti. Roba di poche righe, per non farsi beccare. Non pubblicavamo nulla, perché aspettavamo di avere il botto, la notizia giusta, e intanto il tempo passava. La moglie veniva da me e mi diceva “quando tornerà Samuel? È via da così tanto!” E io giù a dire, “presto, Glenda, presto. E quando torna gli darò un bell’aumento, perché se lo merita”».

Sorrise, ironicamente. Un espressione di fragilità inattesa si impadronì del suo volto. «E forse ci credevo pure, sapete? Che sarebbe tornato. Io gli dicevo di stare attento, pensavo che fosse sufficiente, ma lui... figurati. Era un imbecille. Ed è morto da imbecille».

Nessuno fiatava. Hunter continuava a guardare la pietra, in silenzio. «Ha lasciato una moglie e un figlio, quel deficiente. Morto per un cavolo di articolo. E per dar retta a un direttore ancora più scemo di lui».

Hunter alzò lo sguardo fiero su Nadia. «Non se ne parla, Ra Arwol» disse, con un tono che non ammetteva repliche. «Non perderò la mia cronista migliore un’altra volta. Lascia perdere questa faccenda, intesi?»

Nadia provò ad obiettare, ma Hunter la bloccò.

«Non me ne frega nulla! Vuoi crepare? Bene, ma lo farai per i cavoli tuoi. Finché lavori sotto di me, io non ti permetterò di andare a buttare via la tua vita per uno straccio di articolo. Sono stato chiaro? Sei una ragazzina, per l’amor di Dio! Hai tutta la vita davanti e la vivrai, dal primo all’ultimo giorno!»

E così dicendo, uscì, lasciando la porta aperta. Nessuno fiatò. Una cappa di gelo era calata improvvisamente sulla stanza e non accennava a svanire.


Per tutta la mattina, Nadia e i suoi amici rimasero in silenzio. La porta di Hunter se ne stava chiusa come sigillata e da dietro di essa non proveniva alcun rumore. Verso mezzogiorno, Nadia non ne poté più e si alzò, in silenzio, lisciandosi la gonna.

«Che fai?» le chiese Michael, curioso.

«Vado a parlargli» disse lei, passandosi un ciuffo di capelli dietro l'orecchio.

Michael e Lisa si scambiarono uno sguardo intenso. Quindi aspettarono che lei bussasse alla porta e non appena fu entrata, si precipitarono ad origliare, le orecchie incollate alla porta, tenendosi lontano dal vetro per evitare che qualcuno da dentro potesse vederli.

Quando Nadia entrò, trovò Hunter che fissava oltre la grande finestra alle sue spalle. Teneva in mano il sigaro ancora spento e aveva i radi capelli spettinati. Si voltò e la vide in piedi, un’espressione risoluta sul volto. Senza scomporsi, tornò a guardare verso la finestra.

«Che vuoi?»

«Voglio che mi ascolti».

«Parla».

Nadia sospirò, cercando nella sua testa le parole giuste con cui cominciare. Non le trovò, quindi decise di parlare liberamente.

«Apprezzo il suo discorso, e ancora di più apprezzo l’affetto che mi ha dimostrato in tutti questi anni. Se io sono qui, ora, è anche grazie a lei, e al fatto che ha sempre creduto in me» Hunter non fiatava, ma si limitava a fissare l’orizzonte grigio oltre i tetti della City. Facendosi forte di quel silenzio, Nadia deglutì e riprese a parlare. «Non sono in molti quelli che al suo posto avrebbero dato spazio a una giovane ragazza senza esperienza, venuta da chissà dove. Ma lei l’ha fatto e io gliene sono e sarò sempre grata. Lavorare qui mi ha insegnato tanto... tutto. Sono arrivata che ero una bambina e sono diventata una donna. Ciò che sono, come persona e come professionista, è indissolubilmente legato a quello che ho vissuto in questa città e in queste stanze. Ma proprio per questo ora le dico: io partirò. E non per un scrivere un articolo da prima pagina, no. Ma perché ho la responsabilità di farlo e se lei ha ascoltato la mia storia, lo sa meglio di me. Lei sa che io devo partire e trovare ciò che sta dietro a tutta questa faccenda. Lo devo a Kurtag, che è stato ucciso ingiustamente. Lo devo alla verità, che deve essere trovata e svelata. Ma soprattutto lo devo a me stessa, perché non sarei più la persona che entrambi conosciamo, se me ne restassi qui a far finta di nulla. E lei sa benissimo tutte queste cose, non è così?»

Hunter chinò il capo, senza dire una parola.

«Posso solo ringraziarla per tutto l’aiuto che mi ha dato fin’ora. Ma penso sia giunto il momento di evitare altri guai al giornale. La polizia mi sospetta di omicidio e non posso mettere ulteriormente a rischio la reputazione del Times e dei miei amici. Quindi...» Nadia trasse un profondo sospiro. Quello che stava per dire le fece venire le lacrime agli occhi e la riempì di agitazione. «...Sono qui per rassegnare le mie dimissioni, con decorrenza immediata».

Hunter restò in silenzio per qualche istante. Quindi gettò il sigaro nel cestino e voltò leggermente il capo, guardando di sfuggita Nadia con la coda dell’occhio.

«Accettate» disse. E non aggiunse altro.

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Capitolo 14
*** 13 ***


13










«Te ne vai?»

Lisa cercava di trattenere Nadia, ma lei continuava a riempire il cestino della carta straccia con le sue cose, mossa da una frenesia quasi isterica, con cui cercava di dissimulare il proprio disagio.

«Sì, è così» tentava di essere calma e sorridente, ma si rese conto che la sua voce le era appena uscita con un tono esageratamente simile a uno squittio.

«Nadia, ma sei impazzita, per caso?» Michael se ne stava seduto sul bordo della scrivania e toglieva dal cestino quanto Nadia vi infilava dentro. Lei gli piantò gli occhi addosso e lui scrollò le spalle, ma alla fine lui abbandonò l’impresa.

«Devo. Non posso continuare a stare qui. Metterei in difficoltà tutti e voi lo sapete».

«Ma noi potremmo aiutarti!» tentò Lisa. Nadia sorrise.

«Lo so. Ma avete già fatto più di quanto dovevate. Ora sta a me sbrigarmela».

Nadia si infilò la giacca e il cappello. Era già sulla soglia, quando una voce imperiosa la bloccò, richiamandola indietro.

«Venite qui tutti. Ora!»

L’intera redazione di raccolse davanti alla porta di Hunter, che campeggiava in mezzo alla stanza a gambe larghe e con le braccia conserte, sul volto un’espressione di indecifrabile emozione.

«Come sapete, la nostra collega Ra Arwol è stata sospettata di omicidio. Tutti noi sappiamo quanto queste accuse siano assolutamente ridicole».

Un mormorio percorse la redazione, mentre una serie di sguardi incrociò gli occhi di Nadia, che arrossì violentemente, cercando di sottrarsi a tutta quell’attenzione.

«Ora, la cosa importante è che è stato commesso un omicidio e la polizia non sa che pesci pigliare. Come sempre, dovremo smuovere noi le acque, per indirizzare quei rimbecilliti di Scotland Yard. Quindi...» lasciò che i suoi occhi di brace percorressero in lungo e in largo l’uditorio «...mi aspetto la più totale collaborazione da parte di tutti voi. E con tutti intendo tutti. Perciò, al lavoro. E vedete di scovare tutto quello che potete. Via!»

Tutti i presenti schizzarono chi alla scrivania chi al telefono e ci fu chi, raccattata la giacca, si precipitava giù per le scale. Hunter fissò Nadia, Tippett e Lisa e li chiamò con un gesto imperioso nel suo studio.

«Chiudete la porta» disse, non appena furono entrati. Nadia si tolse il cappello, chiedendosi cosa stava preparandosi per lei.

«Vi informo che Nadia ha dato le dimissioni. Ma immagino lo sappiate già, visto che voi tre andate in giro a braccetto» disse. Lisa e Michael si guardarono, incuriositi. «Io le ho accettate. Così lei sarà libera di muoversi come crede. Ma voi...» disse, indicando prima Lisa e poi Michael «voi dovrete darle una mano. Voglio che cerchiate subito di capire se c’è una qualche possibilità che quella stramaledetta setta sia ancora in giro. Per prima cosa dovete scoprire cosa c’è dietro la pietra: come è stata trovata, dove, quando e perché. Te ne occuperai tu, Tippett».

Michael annuì vigorosamente.

«E tu, Stanfields,» continuò Hunter «ti preoccuperai di sapere se qualcuno era interessato alle ricerche di Kurtag, e terrai dietro alla polizia, in modo da sapere cosa pensano quegli imbecilli... anche se è improbabile che scoprano qualcosa. Dobbiamo sapere come intendono muoversi, per offrire a Nadia la copertura e la libertà necessaria. Mentre tu...» disse alla fine, rivolto a Nadia «...tu cerca solo di non farti ammazzare».

Nadia sorrise e sentì il cuore compierle un balzo nel petto. Si lanciò verso Hunter e lo sorprese cingendogli le braccia al collo e scoccandogli un sonoro bacio sulla guancia. L’uomo restò pietrificato, mentre Nadia gli sussurrava “grazie” e si allontanava, scomparendo oltre la porta e lasciando dietro di sé un senso di vuoto che per tutti era già difficile da colmare.

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Capitolo 15
*** 14 ***


14











Quando Nadia rincasò era ormai notte. Si era tenuta lontano da casa volutamente, perché Lisa la aveva avvertita che la polizia era tornata a cercarla. Inoltre, l'amica si era recata a casa sua per prenderle alcune cose, ma anche lì aveva trovato la polizia, e non se l'era sentita di entrare, per paura di attirare su di sé l'attenzione. A quel punto, non potendo rientrare al giornale né a casa sua, Nadia aveva deciso di spostarsi da una biblioteca all'altra, per cercare tutti i volumi di Kurtag che fosse possibile reperire. Voleva assolutamente capire qualcosa delle sue teorie riguardanti le antiche civiltà, nella speranza di poterne ricavare informazioni preziose per la sua indagine riguardo alla pietra. Ora era buio, e sperava di riuscire ad entrare senza essere vista. In fondo, conosceva quel quartiere come le sue tasche. Se avesse notato qualcosa di insolito, sarebbe passata dalla porta sul retro, anche se era notte e aveva paura.

Mentre rientrava, rifletté sul fatto che, da quando aveva la pietra con sé, non aveva più sofferto di vuoti di memoria. Era come se la pietra l'avesse guarita.

O forse la pietra ha smesso di chiamarmi.

In effetti, tutte le volte che si era persa, Nadia si era ritrovata in zone prossime all’abitazione di Kurtag, ove era custodita la pietra. Era stato come se essa, impadronendosi del suo corpo, volesse spingerla a trovarla.

Nadia strinse a sé la borsetta in cui custodiva la pietra e il diario. La serrò tra il braccio e il fianco, incurvando le spalle e affrettando il passo. Rabbrividì. Alla luce dell’ultimo bagliore di sole, le ombre che provenivano dagli oggetti tutt'intorno a lei cominciavano ad allungarsi, fino a confondersi nella notte.

Quando raggiunse Foley Street, era già buio. Nadia sentì le campane del Big Ben risuonare in lontananza undici rintocchi. Si guardò intorno ma non vide nessuno. La piazza intorno a cui si raccoglievano i vecchi caseggiati era deserta.

Si chiese dove potessero essere i poliziotti che Lisa diceva di aver visto sorvegliare l'entrata. Tutto sommato, le avrebbero trasmesso un senso di sicurezza.

Varcò la porta di ingresso al suo stabile nella più totale solitudine. Il silenzio le rimbombava nelle orecchie. Frugò in tasca nervosamente, in cerca delle chiavi, quando si accorse di aver pestato qualcosa di viscido. Alzò gli occhi. Nella penombra, intravide un ubriaco. Se ne stava seduto a terra, silenzioso, accasciato accanto ai gradini e con il volto riverso su una spalla. Un senso di disgusto si fece largo in lei, al pensiero di quello che poteva aver pestato.

Si incamminò a passo deciso, superando con indifferenza la figura immobile ai suoi piedi e sollevando le gambe per scavalcarla. Aveva appena posato il piede sul primo gradino, quando qualcosa le gocciolò sul volto. Nadia indietreggiò istintivamente, levando gli occhi in alto e portandosi una mano alla guancia. Sentì sulle dita qualcosa di denso e appiccicoso. Strinse gli occhi e vide una grossa goccia cadere dall’alto verso di lei. La raggiunse sulla mano aperta e con uno stupore crescente che lasciò il posto all’orrore, Nadia si accorse si trattava di sangue. Percorse in fretta i primi gradini e quello che vide la prostrò. Sentì lo stomaco chiudersi e si piegò in due, scossa da un conato di vomito. Con estrema lentezza e con le gambe che le tremavano, indietreggiò, inciampando sull’uomo che le era alle spalle, seduto per terra. Nadia lanciò un grido, strisciando a terra e rannicchiandosi in un angolo. Urtò contro qualcosa e con uno scatto si voltò a guardare. Un altro corpo giaceva a terra, nell'ombra. Tremante, si alzò e si avvicinò. Tese la mano verso di esso e lo spinse leggermente. Il corpo rimase immobile. Lo afferrò per i vestiti e lo girò e la sua testa ondeggiò nel buio, mostrando alla ragazza gli occhi torbidi e vuoti. Soffocando un grido, Nadia si lanciò oltre la porta, per poi sparire nella notte, correndo come se avesse la morte alle calcagna.

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Capitolo 16
*** 15 ***


15










«Nadia al telefono? Ma che ore sono?»

«Quasi l'una, signore».

Jonathan agguantò la veste di seta. «Ha detto cosa vuole?» chiese al domestico mentre si rivestiva.

«No, signore» rispose l'anziano uomo, avvolto da una povera veste da notte. «Ma sembra molto agitata».

Jonathan si precipitò fuori dalla camera, scendendo le scale con trepidazione. Si diresse a passo svelto e deciso nel suo studio, agguantando la cornetta con trepidazione.

«Nadia, tesoro, sei tu?»

«John...»

Nadia raccontò a John tutto quello che le era capitato. Lui la ascoltò pazientemente fino alla fine, anche se avvertiva l'angoscia aumentare in lui ad ogni sua parola.

«Dimmi dove sei. Ti vengo subito a prendere».

«No» insistette lei. «Potrebbe essere troppo pericoloso».

«Non dire sciocchezze. Qui da me è l'unico posto in cui sarai al sicuro. Ora dimmi dove ti trovi».

Nadia tentennò. «Sono... vicino ad Haymarket».

«Raggiungi Piccadilly, allora. È più sicuro. Manderò subito una carrozza a prenderti».

«Io...»

«Fa' come ti dico!»

John riagganciò e dette subito disposizioni perché venissero attaccati i cavalli. Nel giro di dieci minuti, una vettura coperta si mosse lungo Pall Mall in direzione di Piccadilly Circus, dove caricò velocemente un passeggero che si celava nell'ombra. Alle due meno dieci, Nadia fece il suo ingresso nel salone della ricca residenza di Jonathan, a Kensington.

Lui le corse incontro. Sembrava inquieta: camminava avanti e indietro, e sul volto aveva un’espressione indecifrabile. Quando lo vide, giunse le mani e gli sorrise, ma qualcosa in lei tradiva una profonda agitazione.

Jonathan le sorrise, stringendola per le spalle.

«Nadia, tesoro. Sei qui. Che sollievo».

«John... ti sono grata, ma non posso restare».

Lui continuò a sorriderle, mostrando di non aver inteso bene quello che lei aveva appena detto.

«Cosa? Che vuoi dire?»

Lei scosse la testa. «Nulla, solo ho capito quello che devo fare».

Lui la fissò senza comprendere. «Che devi... fare? Ma di che stai parlando?»

«John, io sto per partire. Ti avevo chiamato per avvertirti».

Jonathan la fissò inebetito, la bocca spalancata.

«Partire? Ma cosa... per dove?»

«Devo lasciare Londra, al più presto».

Jonathan scrutò il suo volto, quindi la prese risolutamente per un braccio, conducendola nel suo studio e chiudendo la porta dietro di sé. La fece accomodare su un’elegante poltrona di pelle ingrassata, mentre si versò un bicchiere di scotch. Ne porse uno anche a Nadia, che però rifiutò.

«Vuoi dirmi che ti prende? Sembri fuori di testa, mi stai facendo preoccupare».

Nadia tirò fuori la pietra dalla borsetta. Non appena l'ebbe tra le mani, la pietra cominciò a risplendere di un intenso bagliore azzurrognolo. «Ecco cosa mi prende» gli fece lei. Lui la guardò incredulo.

«Chi te l’ha data?» le chiese in un sussurro.

«Me l’ha data Kurtag la sera che è stato ucciso. Ho ricordato tutto, tutto quello che mi è successo quando ero a casa sua. Lui mi sembrava strano, era come se non volesse che io mi trovassi lì. Me l'ha messa in borsa mentre ero distratta» disse. Lo fissò, curiosa. «Non mi chiedi cos'è?» domandò.

John si riscosse come da un sogno. Per tutto il tempo non aveva alzato gli occhi dalla pietra.

«Certo» fece. «Sicuro».

Nadia gliela porse. Lui la prese tra le mani, incerto. «Non ti farà nulla» sorrise lei. «Tranquillo».

«Di che si tratta?»

Nadia gli raccontò ogni cosa. John restò ad ascoltare in silenzio, rigirandosi la pietra tra le mani, affascinato.

«Quindi è stato ucciso per questa, secondo te?» disse alla fine.

«Ne sono sicura» rispose lei. «Perché io ho assistito alla sua morte».

Jonathan scosse il capo. «Non dirmelo. Tu eri lì, mentre l'hanno ucciso?»

«Si» fece lei, con un sorriso imbarazzato, mentre riponeva la pietra. «Ho fatto in tempo a vedere due uomini. I suoi aggressori. O meglio, ne ho visto uno solo. L’altro è rimasto nascosto».

«Sapresti riconoscerli?»

«No» fece lei, scuotendo la testa. «Non credo... o forse sì... ma è difficile».

John socchiuse gli occhi. «E cosa hai fatto dopo?»

«Dopo... sono fuggita» disse lei. «Ma dopo quello che ho visto stanotte, ho capito che non potrò nascondermi a lungo, qui. Devo andarmene».

Jonathan si passò una mano tra i capelli.

«Ti rendi conto di quello che hai rischiato e rischi tutt'ora? Se quella gente riesce a trovarti...»

Lei assunse un'espressione amara. «Lo so, per questo me ne vado. Non posso restare qui. Io sono in pericolo e in più non faccio altro che attirare guai sulle persone che amo».

Jonathan scolò tutto d’un fiato il suo scotch. Se ne versò un altro.

«Senti, Nadia» disse dopo un istante. «Devi andare alla polizia e raccontare loro tutto. Devi farti proteggere. Questa storia, tutto quanto... ti rendi conto che cambia le cose, no? Ora c’è un’altra pista da seguire e...»

«E secondo te mi crederanno? Crederanno alla storia dei misteriosi aggressori?»

«Forse. Perché no?»

Nadia si alzò in piedi e prese a camminare per la stanza. Con le guance arrossate dall’agitazione e quella luce negli occhi, era ancora più affascinante. Jonathan provò una forte fitta di desiderio, nonostante si rendesse conto che non era la situazione migliore per dare spazio a certi sentimenti.

«John, voglio essere franca. Non mi interessa un tubo della polizia. Io me ne devo andare».

Lui ci mise un attimo a capire quello che gli stava dicendo. Era ancora intento ad ammirarla.

«Ma per dove? E poi scusa, ma che ti salta in mente?»

Lei gli si avvicinò. «Devo capire cosa significa questa pietra. Io so che tra lei e me c’è un qualche legame di sorta e lo sapeva anche Kurtag. Forse lui lo immaginava soltanto, ma se anche fosse, aveva ragione. Quel legame esiste».

«Ma come fai a dirlo?» obiettò vivacemente lui.

«È una storia lunga. Devi fidarti di me».

Jonathan la fissò scettico. «E se anche fosse? Cosa pensi di fare, di partire per una delle fantomatiche spedizioni di Kurtag? Nemmeno sai dove l’ha trovato quel sasso!

«Io no, ma c’è qualcuno che senz’altro lo sa».

«Chi?»

«Hanson Garrett».

Jonathan rise. «Ma per favore! Hanson Garrett? Quel tipo che se ne andava in giro per il mondo con Kurtag?»

«Proprio lui. Aveva accompagnato il professore anche l’ultima volta. E penso che Kurtag abbia trovato la pietra proprio in quell’occasione».

«E tu vorresti andare fino... dov’è che si trova questo tipo?» chiese lui, ironico.

«In America, a Philadelphia» soggiunse lei, incurante della facile ironia di Jonathan.

«In America... per chiedergli se ti porta dove Kurtag ha trovato la pietra?»

«Non dove lui l'ha trovata, ma dove pensava di scoprire qualcosa di più su di essa».

«E cioè, dove, per l'esattezza?»

«In Bolivia, vicino al lago Titicaca. Lo ha segnato sul suo diario».

John sbuffò.

«Tu devi essere pazza» fece lui, buttando giù in un sorso il suo scotch.

«Io non sono pazza. Speravo che tu potessi capire e appoggiarmi» fece lei, accalorandosi. «Ma devo essermi sbagliata».

Jonathan si rese conto di aver esagerato. Pensava che lei stesse sbagliando, certo, ma Nadia era sempre la sua ragazza e aveva il dovere di mostrarle comprensione.

«Nadia, io capisco. Ma ascoltami: se ora te ne vai, sarà come se la tua partenza fosse un’ammissione di colpevolezza. Capisci?»

Lei annuì. «Lo so, ci ho già pensato. Ma non posso restare ancora qui. Devo partire al più presto e raggiungere il luogo dove Kurtag ha trovato la pietra prima che quei tipi possano raggiungermi».

«Ma come... è un’assurdità! Devi affidarti alla polizia».

«No! Se resto qui, presto mi troveranno e troveranno la pietra. E io non lo posso permettere, lo capisci?» Gridò lei, al colmo della disperazione. Improvvisamente, forse per la tensione o forse per il peso di tutto quello che aveva dovuto vivere fino a quel momento, Nadia scoppiò in lacrime. Non era da lei piangere così, senza un motivo apparente, e Jonathan ne fu profondamente scosso. La strinse a sé e lasciò che lei affondasse il volto nel suo petto. Ma Nadia, nonostante il tentativo di lui di quietarla, non riusciva a smettere di singhiozzare.

«Potresti sempre affidare la pietra a me» azzardò lui in un sussurro.

Nadia lo fissò in volto, le lacrime che le scendevano copiose lungo le guance. Nel vederla così affranta, lui provò una stretta al cuore.

«Non permetterò mai che tu possa entrare in contatto con una cosa maledetta come questa».

«Come mai sei così tragica, ora?»

«Perché lo so!» gridò lei. «Perché è per questa che hanno ucciso Andrés... in quel modo...»

«D’accordo» fece lui, cercando di quietarla. «Allora permetti almeno che ti accompagni. Voglio venire con te».

Lei si asciugò le lacrime. «Davvero? Cioè, non devi, non è necessario...»

«Sì che lo è. Verrò con te e ti aiuterò come posso».

«E il tuo lavoro?» fece lei tra le lacrime.

«Potrà aspettare per un po’».

Nadia sorrise, gli occhi lucidi e un po' gonfi. «Sai, speravo che tu lo dicessi» gli confidò. «Ho davvero bisogno di te, ora».

Jonathan le prese il viso tra le mani e la baciò teneramente. «Dove vai tu, vado io, Nadia. E quando tutto sarà finito e ci saremo finalmente lasciati alle spalle tutto questo, io e te ci sposeremo e tu sarai finalmente la signora Nadia Fisher».

Nadia sorrise e si lasciò stringere, cullandosi alla tenerezza di quel pensiero. Nulla, adesso, le appariva così distante e irreale come quella semplice speranza di felicità che aveva per tanto tempo coltivato e che ora si ergeva come un fiore delicato tra gli abissi del suo cuore.

«Ora però dovresti dormire almeno un po'» le disse lui. «Mi sembri distrutta».

Nadia sospirò, sorridendo debolmente. «Ho continuato a camminare per Londra tutta la notte... secondo te come posso sentirmi?»

John strinse le labbra, attirandola a sé. Sentire il suo corpo esile tra le braccia gli fece rendere conto di non averla mai sentita così fragile.

«Resta qui. Partiremo domattina. Vedrò di trovare un posto sulla prima nave in partenza. Ti mando subito una donna, che ti aiuti e ti mostri la tua camera».

Lei sorrise, guardandolo attraverso occhi luccicanti di felicità e commozione.

«Sei tanto caro».

«Ti amo» le disse lui. «Il mistero è tutto qui».

Fece per andarsene, quando qualcosa lo trattenne. Si volse a guardarla, sul volto un'espressione indecifrabile.

«Nadia, hai parlato con qualcuno di tutto questo?»

Lei lo fissò di rimando, sorpresa da quella domanda inattesa.

«Ecco... ne ho parlato a Lisa e a Michael. Anche Hunter sa della pietra. Perché? Ho fatto male?»

Lui sorrise.

«No, era solo per sapere» le rispose. «Buonanotte».

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Capitolo 17
*** 16 ***


16









Avvolta in un silenzio confortante e nelle fresche lenzuola di cotone leggero, Nadia si abbandonò subito a un sonno ristoratore, dimentica dei suoi problemi.

Jonathan restò a fissarla in silenzio, cercando di distinguerne il contorno delicato nella penombra che avvolgeva la camera. Si sentiva combattuto dalla tenerezza che provava per lei e dalle necessità che il suo dovere gli imponeva.

È così bella, pensò. Come una pietra preziosissima e rara. La cosa più bella e delicata che avesse mai incontrato.

Fu senza pensarci che Jonathan si ritrovò nell’attimo esatto in cui si innamorò di lei. Accadde fin dal primo istante.


«Mi scusi, saprebbe indicarmi la sala conferenze?»

Nel vederla, si smarrì. Lei lo aveva intercettato casualmente, mentre stava attraversando a passo svelto un salone al Palazzo della Difesa. Aveva il volto arrossato, forse per aver corso, e gli occhi erano vivaci e splendenti, come smeraldi. La sua pelle era colore dell’ambra: e lui non aveva mai visto un insieme tanto perfetto e straordinario di particolari. Quella ragazza sembrava la principessa di un antico reame d’oriente, uscita come per incanto da un racconto delle mille e una notte.

Improvvisamente, tutto intorno a lui si spense, come per permettere a lei sola di rifulgere.

«Mi perdoni... ma temo di essermi persa. Sono una giornalista, il mio nome è Nadia Ra Arwol e lavoro per il Times. Dovrei avere l’accredito da qualche parte... se riesco a trovarlo...»

Lui la ascolta ma in realtà non sente nulla di quello che sta dicendo. È troppo preso ad ammirarla. Provò l’impulso di tendere una mano per toccarla, per capire se fosse vera.

«Ma mi ascolta?»

«Mi scusi – fece lui, scuotendosi dalla sorpresa. «È qui per un motivo particolare?»

«Sì, cercavo la sala conferenze. Per la relazione di oggi».

Lui la guarda confuso. «Che io sappia, per oggi non è prevista nessuna relazione, qui».

La maschera della delusione che si dipinse sul volto di quella ragazza, la rese ancora più affascinante. Sembrava un cucciolo da consolare.

«No, la prego, non mi dica così...»

«Purtroppo, è la verità».

La fissa intensamente, attraverso i suoi sottili occhi scuri.

«Che disastro...» mormorò lei.

«Prego?»

«Mi scusi, è che ho combinato un guaio. Dovevo fare un servizio sulla conferenza del primo Ministro. Quella riguardante l'accordo con la Germania...» lo fissò come per capire se ne sapesse qualcosa. Lui non manifestò interesse.

«...sulle colonie, sa?» fece con aria interrogativa. Lui si limitò ad abbozzare un sorriso.

«Fa niente. Comunque: era il mio primo incarico importante, la mia occasione... ma sono riuscita a fare tardi e...»

«Com’è potuto succedere?» chiese lui.

«Mi sono persa! Non sono mai stata qui e non avevo soldi per una carrozza, e... non sapevo quale fosse il palazzo, l’ufficio... non trovavo l’accredito e inoltre...»

«Beh,» fece lui, trattenendosi a stento dal ridere «considerando che la conferenza del primo ministro si teneva al Palazzo degli Esteri, mentre qui ci troviamo al Ministero della Difesa, non credo che, anche volendo, lei potrebbe ormai fare qualcosa. Credo che lord Salisbury stia per concludere il suo intervento all’incirca...» estrasse un orologio d’oro dal taschino, osservandolo distrattamente «ops! dieci minuti fa...»

Nadia si prese la testa tra le mani, pestando violentemente il piede a terra. «Oh, al diavolo! che cosa frustrante!»

Lui scoppia a ridere. Quella donna ha un bel caratterino.

«Lo trova divertente?» scattò lei, livida. Sembrava decisamente arrabbiata.

«A dire il vero, sì» le disse, allegro.

«Sa che le dico?» si infuriò lei «Vada al diavolo!»

Fa per andarsene indignata, quando in lui scatta qualcosa. La trattiene per un braccio, costringendola a fermarsi. Lei si volta e lo fissa sorpresa.

«Cosa... come si permette! Mi lasci andare, subito!»

«Mi perdoni, sono stato davvero un villano a ridere delle sue sventure. Voglio farmi perdonare, se possibile, quindi facciamo un patto: se lei accetta le mie scuse e si mostra disposta a concedermi un’altra chance, io la aiuterò a portare a casa il suo pezzo».

Ora lo fissa di traverso. «E come?»

Lui le lanciò uno sguardo ammiccante.

«Mi segua».

«Non sono abituata a seguire chi non conosco» fece lei gelida.

«Più che giusto. Io mi chiamo Jonathan. Ora che mi conosce prego, da questa parte».

Lo seguì con una certa riluttanza. Lui sorrise: ammirava quello strano miscuglio di timidezza e di orgoglio che mostrava di possedere. Immaginò che in quell’istante stesse pensando a come fare per andarsene alla svelta, in caso che le cose avessero preso una piega sgradita.

«Io non le piaccio, vero?» le domandò.

«Non particolarmente» fu la sua risposta. Lui non può fare a meno di sorridere.

«Lei non maschera mai le sue emozioni?»

«No. È qualcosa che non mi riesce. Mi perdoni, ma non credo che, al momento, il mio carattere possa rivestire una particolare importanza...»

«Forse. O forse sì, chi può dirlo».

«Cosa intende?»

Lui sorride. Si sta divertendo. «Fra poco potrebbe trovarsi nella situazione di essermi debitrice. E se io non le piacessi... sarebbe piuttosto sconveniente, non trova?»

«Lei è sempre così sfacciatamente sicuro di sé, Jonathan?» nel dirlo, calcò volutamente sul suo nome.

«Sempre. È una cosa a cui non posso sottrarmi».

Lei restò in silenzio. Si volta a guardarla e vede che lo fissava con uno sguardo curioso. Nell’incrociare i suoi occhi, lei arrossisce violentemente e distoglie lo sguardo. Anche lei sta giocando con lui.

Arrivarono in una grande sala decorata in puro stile Vittoriano. Si voltò verso di lei, prima di dirigersi vero una grande porta in mogano.

«Aspetti qui, faccio in un attimo».

Lei annuì. Prima di sparire dietro la porta, le lancia un ultimo sguardo fugace. La vede che fissa affascinata il soffitto affrescato, la bocca socchiusa, gli occhi vividi, risplendenti alla luce obliqua del tramonto che filtrava dalle ampie vetrate. Se ne stava lì con aria sperduta, stretta nelle spalle, le mani giunte in grembo e le gambe intrecciate. Sembrava una scolaretta timida, ma nel suo sguardo brillava come una fiamma profonda e inestinguibile.

Questa ragazza è la cosa più incredibile che abbia mai incontrato, fu quello che pensò.

Quando poco dopo ritornò da lei, la trovò che fissava il panorama da oltre una grande vetrata, il volto acceso dei colori morbidi del pomeriggio. La raggiunse senza che lei se ne accorgesse.

«È stupendo da qui, vero?» le sussurra. Lei si volta di scatto, sorpresa. Lo fissa in volto, arrossendo visibilmente. Erano vicinissimi.

«Come?» chiede lei, confusa.

«La vista. Ciò che si può vedere da qui» le dice lui, senza toglierle mai gli occhi di dosso.

«Sì... davvero...» risponde lei, timidamente.

Era arrossita?

«Se vuole seguirmi, il ministro la aspetta».

Lei sussultò. Lui la fissò divertito.

«Il... ministro?»

«Certo. Non le andrebbe di scambiare una noiosa relazione del Primo Ministro con una succosa intervista al Ministro della Difesa? Forse non porterà a casa il pezzo sulla conferenza di lord Salisbury, ma un’intervista esclusiva con colui che ha stilato l’accordo con il Primo Ministro tedesco, mi sembra comunque una ottima cosa».

«Potrò... intervistare il Ministro della Difesa? Io? In forma privata?»

«Proprio così».

«E fargli tutte le domande che voglio sull’accordo coloniale con la Germania?»

Lui esitò. «Beh, forse non proprio tutte... Comunque, venga: la sta aspettando oltre quella porta. Si sbrighi, coraggio».

Si lasciò condurre nello studio privato del Ministro. Era teneramente in preda all'agitazione. La vedeva, divertito, che cercava di far mente locale.

Entrarono. Il Ministro la attendeva seduto alla sua scrivania. Quando la vide le sorrise, andandole incontro.

«Miss. Ra Arwol, del Times? È un piacere. Il mio segretario, il signor Fisher, mi ha detto che avrebbe voluto intervistami. Prego dunque, si accomodi».

Adesso lei lo fissa senza parole.

«Segretario?» mormorò. Lui le sorrise, annuendo. Lei gli lanciò uno sguardo imbarazzato. Quando terminò l’intervista, non riusciva a guardarlo in faccia.

«Mi ha preso in giro» disse.

«Scusi?»

«Lei mi ha fatto credere di essere una persona comune e invece era il Segretario alla Difesa».

«È un suo modo per dirmi grazie?»

«E il suo è stato un modo per cercare di fare colpo?»

Lui la fissò esterrefatto. Era incredibile.

«Sì, è così. Ci ho provato».

Lei lo guarda torva.

«Ho fatto male?»

«Sì».

«Perché?»

«Perché sono fidanzata» disse, neutra. «E non credo...»

Lui la interruppe. «Senta, non mi importa. Domani c'è un ricevimento a casa del Ministro. Vorrebbe venirci con me? Ne sarei onorato».

Lei restò a fissarlo senza parole.

«Come?» fece poi, arrossendo. «Ma ha sentito quello che le ho appena detto?»

«Sicuro» disse, con una scrollata di spalle. «Allora, vuole venire al ricevimento con me? Avrà modo di conoscere diverse persone che contano e poi... vorrei ricordarle che ha un debito da pagare» le sorrise. Lei si passa una mano tra i capelli. È agitata.

«Ecco, io...»

«Non sono disposto a lasciar perdere» fece.

«Non posso, vede...»

«Lotterò, se necessario».

Lo fissò, in evidente imbarazzo.

«Cielo, io non so che fare... non sono mai stata a un ricevimento, prima!»

«La prego. Non si tratta che di stringere qualche mano, sorridere e ballare. In fondo, mica le ho chiesto di sposarmi... Ha un vestito?»

Lei annuì, confusa.

«Perfetto. È tutto quello di cui ha bisogno. La sua bellezza provvederà al resto».

Lei arrossì, ma poi si sciolse in un sorriso radioso.

«D’accordo, va bene. Ma solo per questa volta».

«E sia. Solo per questa volta...»


Erano passati quasi tre anni da allora.

Perso nei ricordi, Jonathan si richiuse alle spalle la porta della camera da letto, la camera dove la sua futura sposa stava dormendo, convinta di essere al sicuro. Si odiava per quello che stava per fare. Ma era il suo dovere, il suo lavoro. Nadia era importante per lui, ma i suoi sentimenti per lei esulavano da quelli che erano i suoi obblighi. Molte cose della sua vita le erano completamente sconosciute. Non poteva metterla a conoscenza di tutto, d’altronde. Non di quello, almeno.

Avrebbe dovuto farlo prima, lo sapeva bene, ma ormai era troppo tardi. E poi, probabilmente non avrebbe capito.

La conosco, non avrebbe sicuramente capito.

Ma anche lei gli aveva mentito. Non gli aveva raccontato tutta la verità sul suo passato e lui ora lo sapeva, e se ne doleva. Se n'era accorto subito, non appena aveva visto la pietra risplendere tra le sue mani. Lei non era la ragazza che aveva sempre creduto. C'era qualcosa in lei, qualcosa che la rendeva molto più preziosa di quanto non avesse mai pensato. Se solo si fosse fidata di lui, tutto questo non sarebbe accaduto. Perché non lo aveva messo al corrente del suo segreto? Era qualcosa che faticava ad accettare.

Con passo deciso, si avviò al suo studio. Si chiuse dentro, quindi si versò un bicchiere di scotch, che vuotò in un sorso. Schioccò contro il palato la lingua intorpidita dall’alcol, stringendo le labbra. Si diresse al telefono, componendo quel numero che conosceva così bene. Dopo alcuni squilli sentì che qualcuno all’altro capo del filo sollevava il ricevitore.

«Sono io».

Una voce rispose gracchiando, piuttosto lontana.

«Che piacere. Novità?»

John indugiò per un istante. Alzò lo sguardo verso la porta, pensando a lei.

«Abbiamo l’oggetto» disse con fare meccanico.

Dall’altro capo fece eco un silenzio teso.

«Eccellente. Avevamo ormai perso le speranze. Dove si trova?»

«La mia... Miss. Ra Arwol ne è entrata in possesso».

«Quella ragazza? E com’è possibile che l’abbia lei?»

«È stato Kurtag a darglielo».

Silenzio.

«Perché avrebbe dovuto darlo a lei?»

«Credo che Kurtag avesse scoperto qualcosa di particolarmente interessante. Forse lo sospettava solamente, ma...»

«Cosa?»

John si morse il labbro. Sapeva che se avesse detto ciò di cui era venuto a conoscenza, tutto sarebbe inevitabilmente cambiato. Ma non poteva tirarsi indietro.

«La ragazza... lei è in grado di attivare la pietra».

La voce tacque.

«Lei si rende conto» riprese l'uomo al telefono «di cosa mi sta dicendo?»

«Sì, signore. La ragazza è colei che credevamo morta».

«E lei dice che Kurtag l'aveva scoperto? Quindi anche il Consiglio lo sapeva...»

«Non credo» disse John. «Penso fosse solo una sua supposizione. A me non ne ha mai accennato. E comunque, non lo avrebbe mai rivelato al Consiglio, e lei sa bene perché. Lui le voleva troppo bene. Per questo le ha dato la pietra. Sperava che potesse utilizzarla per salvarsi e per fare... la cosa giusta, nel caso avesse capito».

«Quel vecchio era un vero idiota, pieno di sentimentalismi» commentò la voce. «La ragazza sospetta qualcosa?»

«Nulla di cui dovremmo preoccuparci. Comunque...»

La voce tacque per qualche istante. Quindi «Ebbene?» disse.

«Alcune persone sono venute a conoscenza della Pietra. Sono alcuni colleghi della ragazza. Sarebbe bene farli tacere».

«Naturalmente».

Per qualche secondo nessuno disse nulla. Jonathan prese a tamburellare nervosamente sul piano in velluto verde della sua scrivania in legno massiccio. Era una scrivania costosa, e molto bella. Lui amava circondarsi delle cose belle.

Lasciò indugiare il suo sguardo per la stanza, in attesa che il suo interlocutore riprendesse il discorso.

«Le cose non potrebbero procedere meglio» continuò la voce. «Abbiamo ottenuto la pietra e la donna in un colpo solo. Una fortuna inaspettata. Ha già un piano?»

John si passò una mano tra i capelli.

«Credo sia meglio lasciare che gli eventi procedano da soli, per il momento. La ragazza non accetterebbe mai la verità, per cui penso sia più sensato lasciarla nella sua ingenuità. Intende partire per l'America, per incontrarsi con l'uomo che ha trovato la pietra insieme a Kurtag. Vuole continuare le ricerche del professore. La seguirò, poi... vedremo».

«Sì» fece la voce. «Faccia come crede meglio. E poi, credo sia il caso che lei sparisca dalla circolazione. La situazione si sta facendo tesa. Avverta il Consiglio che ha trovato la pietra, ma non faccia menzione al fatto che era la ragazza ad averla, né al fatto che sta per partire. Al resto, penseremo noi».

John sospirò. Abbassò lo sguardo e si fissò la mano aperta.

«Avete scoperto qualcosa sugli assassini del vecchio? Sono loro

«Non lo sappiamo. Aspettavo qualche notizia dagli uomini che abbiamo inviato ieri a casa sua, ma ancora non si sono fatti vivi. Sicuro che non possa essere opera del Consiglio?

«Ne sono certo» ribadì John. «Ne sarei stato messo al corrente. La notizia della sua morte li ha lasciati sconvolti... ha sorpreso anche me, a dire il vero. E poi, Kurtag era uno di loro».

«Chiunque sia stato a uccidere il vecchio, ha saputo cancellare bene le proprie tracce» riprese la voce. «Ma sono convito che presto i misteriosi assalitori si faranno vivi, ora che lei ha con sé la ragazza e la pietra, cioè esattamente quello che loro vogliono. Dovrà giocare bene le sue carte: lei sa che è la nostra unica possibilità per ottenere ciò che cerchiamo da venticinque anni, e che sogniamo da oltre due secoli».

Per qualche istante, nessuno dei due disse nulla. Poi:

«credo che lei sappia già tutte queste cose, dico bene?» aggiunse la voce.

«Signore, se mi permette...» azzardò John.

«Sì?»

«Potrebbe essere pericoloso. Per la ragazza, intendo».

John sentì la voce ridacchiare. Un suono basso e roco, rantolante.

«E da quando la vita di una donna è così importante per lei?»

«Da quando ho conosciuto questa donna».

La risata si fece più profonda. «Capisco. Allora, mi permetta di consigliarle di fare di tutto... per proteggerla. Almeno finché non scopriamo con chi abbiamo a che fare».

Jonathan sospirò. «Su questo non c'è alcun dubbio».

«Comunque» riprese la voce, nel solito tono scostante «non è il caso che io stia a ricordarle il giuramento. Nulla è più importante della nostra causa».

John non disse nulla. Quella prospettiva lo allarmava.

«È ancora lì?»

Lui si aggiustò la cornetta all’orecchio, deglutendo.

«Si, signore».

«Quindi» disse l'altro «capirà anche che il futuro del mondo che sogniamo è nelle nostre mani».

«Sì, signore, capisco benissimo» fu tutto quello che riuscì a dire.

«Dunque posso contare sul fatto che saprà prendere la decisione giusta, se si presentasse l’eventualità? Se preferisce, posso sostituirla...»

Jonathan chiuse gli occhi.

«No. Può contare su di me» disse alla fine.

«Perfetto. L'Ordine apprezza il suo zelo».

«Dovere» mormorò John, prima di riattaccare.

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Capitolo 18
*** 17 ***


17










Quando Peter Simum scese dalla macchina davanti alla casa di Nadia Ra Arwol, capì subito che quella mattina avrebbe fatto meglio a restare a letto. Era un intero giorno che di lei si erano perse le tracce; e come se non bastasse, la barriera di curiosi che si era formata davanti alla sua casa in Foley Street, non lasciava presagire nulla di buono.

Si incamminò a passo strascicato lungo il vialetto dissestato che conduceva allo stabile, con Barnaby che lo seguiva come al guinzaglio. Un agente si fece loro incontro, scansando alcuni dei curiosi appostati davanti all’ingresso.

«Ispettore, buongiorno» salutò, producendosi in un gesto formale. «Avete fatto presto».

«Cosa succede?» Tagliò corto Simum, che già grondava di sudore.

«Siamo appena entrati in casa di Miss. Ra Arwol. Di lei non c’è traccia, ma l'appartamento è completamente a soqquadro».

«Di chi sono questi corpi?» chiese Simum, indicando i due cadaveri abbandonati davanti all’ingresso. Si chinò e sollevò il lembo del telo nero cerato, che copriva uno dei due.

«Non lo sappiamo. Non avevano documenti, addosso. Nessuno li conosce e nessuno li ha mai visti prima, qua intorno».

«Chi li ha trovati?»

Il poliziotto socchiuse gli occhi, e sollevò lo sfollagente a indicare un vecchio che parlava in disparte con due agenti in divisa.

«Quel tipo laggiù» riferì. «È un vagabondo che di solito viene qui a dormire. Stiamo raccogliendo la sua testimonianza».

Simum squadrò il vagabondo con una smorfia. «Dove sono i due che erano di pattuglia?»

«È meglio che venga con me».

L’agente lo condusse all’interno dell’edificio. Simum si fece largo oltre i corpi, scavalcandoli a fatica. L’interno era buio e tetro. Un semplice disimpegno, la cui unica luce proveniva dalla piccola porta di ingresso, perennemente aperta. Simum notò la serratura incrostata di ruggine.

«Non dovevano temere intrusioni, qui» commentò.

«Fino a ieri era un quartiere tranquillo. Povero, ma tranquillo» disse l’agente. «Qui nessuno ruba agli abitanti del posto. Vige una sorta di legge del mutuo soccorso, se così si può dire».

Sarebbe più corretto dire della mutua disperazione, pensò sarcasticamente Simum.

I gradini salivano ripidi, tra le mura scrostate. A giudicare dal sangue versato, i due davanti alla porta erano stati trascinati lungo le scale e abbandonati successivamente sulla soglia del palazzo. La casa di Nadia Ra Arwol era all’ultimo piano, ma non ci fu bisogno di salire oltre al secondo per trovare il primo dei due agenti.

«Oh, Gesù Cristo, aiutaci tu!» Barnaby estrasse un fazzoletto e se lo portò alla bocca.

Simum fissò esterrefatto la scena. Il corpo straziato di un uomo, apparentemente sui quarant’anni, penzolava a testa in giù dalla ringhiera semidistrutta. Aveva il ventre squarciato fino alla gola, gli occhi aperti e vitrei, le braccia tese. Probabilmente era rimasto impigliato nella caduta dall'ultimo piano. Nella sua tragicità, Simum pensò che quella sua posizione innaturale manteneva qualcosa di ridicolo.

«Andiamo su» disse, senza scomporsi più di tanto.

Quando raggiunsero l’ultimo piano, trovarono anche l’altro agente. Il suo corpo giaceva sull’entrata della porta di una piccola mansarda. La testa era stata recisa con un taglio netto.

Barnaby vomitò. Con un moto di stizza, Simum lo allontanò da sé.

«Dov’è la testa di quel poveraccio?»

«La stiamo ancora cercando, ispettore».

Gesù.

«E la Ra Arwol? Qualcuno ha qualche idea di dove possa essere?»

«L’abbiamo trovata!»

Simum si voltò pieno di speranza. «Sì? E dov’è?»

«Sotto al letto. Vuole vederla?» fece un’agente. Aprì il sacco che aveva in mano e mostrò all’ispettore la testa dell’agente ucciso. Per poco Barnaby non svenne.

«Intendevo la Ra Arwol...»

«Nessuno sa dove si trovi, ispettore» intervenne l’agente che li aveva condotti fin lì. «La casa è stata completamente rovesciata. Non c’è speranza di trovare qualche indizio che ci faccia capire dove possa essere andata».

Simum infilò le mani nelle tasche del soprabito ed estrasse un fazzoletto spiegazzato come il suo volto, con cui prese a pulire gli occhiali lerci. Quindi li inforcò e si voltò, dirigendosi a passo strascicato lungo le scale.

«Ispettore, dove andiamo?» chiese Barnaby. Il suo volto era ridotto a uno straccio.

«A casa di Jonathan Fisher. Spero che quella dannata Ra Arwol sia andata lì».

«Pensa che questo sia stato opera sua?»

Simum si voltò a fissare incredulo il suo assistente. Quindi gli sorrise.

«Sa, Barnaby? A volte mi chiedo lei cosa ci stia a fare, in polizia. È davvero sprecato, lo sa?»

Barnaby sorrise.

«Mi chiedo: come può essere capace di pensare che una donna di vent’anni sia stata in grado, da sola, di scaraventare il corpo di un uomo di novanta chili giù dalle scale, di tagliarne la testa a un altro, uccidere due uomini e trascinarne i corpi dall’ultimo piano al piano terra... Quanto peserà la Ra Arwol, cinquantacinque chili? Solo un genio come lei poteva escogitare a un'idea del genere».

Barnaby trasformò il suo sorriso in una smorfia di delusione.

«Quando avrà finito di dire stupidaggini, si asciughi il vomito e si sbrighi. Dobbiamo trovare quella ragazza e proteggerla».

***










La luce si fece strada oltre le sue palpebre chiuse. Tutto intorno a lei regnava una calma assoluta. La stanza era immersa nel silenzio e nella penombra: solo un sottile spiraglio tra le tende permetteva alla calda luce del mattino di insinuarsi. Fuori splendeva il sole e doveva essere già giorno inoltrato. Tutto sembrava in ordine.

Per un istante, e solo per un istante, Nadia fu dimentica della sua situazione. Durò solo un momento, ma fu bellissimo.

Avrebbe mai potuto rivivere un momento come quello, in un’altra occasione e magari lontano da quelle mille preoccupazioni? Sarebbe mai potuto accadere? Svegliarsi di buon mattino in un letto grande e comodo, avvolta in morbide lenzuola profumate, tra le braccia di Jonathan, l’uomo che amava...

Sospirò. Lentamente, come una cappa gelatinosa, la consapevolezza del presente discese in lei inesorabile. Fu come se il sole brillasse un po’ meno e come se una mano gelida si fosse posata leggera sul suo cuore.

Nadia si drizzò a sedere, stiracchiandosi. Scese dal letto e percorse a piedi nudi la stanza, fino a raggiungere la grande finestra che aveva di fronte. Si apriva su un balcone, e lei sapeva che da lì era possibile godere una delle vedute più emozionanti di Londra.

Scostò le tende e lasciò che il sole le illuminasse il volto. Chiuse gli occhi e sorrise. Era una sensazione piacevole.

«È bello rivederti, Nadia».

Nadia sobbalzò. Si voltò di scatto, sorpresa da quella voce sconosciuta.

«Chi sei?» chiese alla stanza vuota. «Fatti vedere!»

Una figura sottile emerse dall’ombra, dirigendosi a passo elegante verso di lei. Nadia restò a fissarla quasi ipnotizzata. Man mano che avanzava, una strana consapevolezza si fece strada dentro il suo cuore.

«Mi spiace averti spaventato. Non era mia intenzione».

Improvvisamente, il cuore cessò di battere.

Mamma?

Incapace di muoversi, Nadia prese a tremare. Qualcosa dentro di lei si spezzò e lei cominciò a piangere, un pianto liberatorio e irrefrenabile.

«Sono felice di rivederti, figlia mia. Sei divenuta grande ormai. Non sei più la bambina che ricordavo, ma una donna. Una bellissima donna».

Nadia sentì gli occhi bruciarle per le lacrime. La vista le si annebbiò, ma non fece nulla per tergersi le lacrime dal volto.

«Com’è possibile che io ti veda?» mormorò. Era terrore il suo, ma non per quello che vedeva. Aveva paura di essere impazzita, sì; ma ancor più, temeva che tutto quanto le stava accadendo non fosse altro che un sogno, da cui si sarebbe prima o poi dovuta svegliare.

«Ho dovuto fare molta strada per venire da te, Nadia. Ma era necessario».

«Credevo che non avrei più potuto vederti, che non avrei mai più potuto percorrere la strada...»

La donna sorrise, facendo un passo avanti. La tenue luce del sole la illuminò, scendendole lungo i capelli ricci che le ricadevano come una luminosa cascata sulle spalle. I sui profondi occhi neri sorridevano splendenti come perle nel volto sottile e delicato di lei, che emergeva a tratti dalla penombra. Una profonda serenità e dolcezza traspariva da quella figura minuta e solitaria, la cui bellezza toglieva il fiato. Nel vederla così vera davanti a lei, Nadia si sentì sopraffare dall'emozione. Le labbra le tremavano convulsamente, come in preda a un fremito nervoso.

«...la strada degli dei? E infatti è così. Non puoi».

«E allora anche questo... non è altro che un sogno?»

La donna sorrise e Nadia avvertì un senso di languore al petto.

«Forse lo ricorderai come tale, ma io sarò contenta lo stesso».

Nadia scoppiò in singhiozzi, cadendo in ginocchio.

«Perché mi succede tutto questo?» disse, la voce spezzata dalle lacrime che la soffocavano. «Non è giusto, io non ho fatto nulla di male!»

«Nadia...»

«Lasciatemi in pace, tutti quanti!»

La donna si chinò su sua figlia, abbracciandola. Nadia si abbandonò completamente a quel tocco, e non appena aspirò il profumo di lei, si sciolse in un pianto disperato. Era la prima volta che abbracciava sua madre. Se era un sogno, allora pregò di non svegliarsi mai più.

«Nadia, purtroppo non possiedo molto tempo. Ho ottenuto di venire a visitarti, ma le energie a mia disposizione sono limitate».

«Per quale ragione sei qui?» le domandò lei, in un sussulto.

«Per avvertirti».

Nadia si asciugò gli occhi e fissò la donna in volto. Nei suoi occhi, adesso, era possibile leggere uno sguardo profondo e imperativo e lei restò a fissarla, in attesa.

«Un grande sacrificio ti verrà richiesto, bambina mia. Un sacrificio che varrà la tua stessa vita».

«Vuoi dire... che dovrò morire?»

La donna sorrise, un sorriso velato di profonda mestizia.

«Sono molti i modi di morire. Non sempre si è tra i fortunati che nella morte trovano l’oblio da ogni tristezza. A volte, si muore pian piano in vita e il dolore è qualcosa che ci accompagna sempre».

Nadia la scrutò in volto, senza capire cosa volesse dire.

«Se vuoi dirmi qualcosa ti prego, parla. Non lasciarmi nell’angoscia...»

«Vorrei tanto aiutarti, figlia mia, non sai quanto!» Un velo di lacrime scese a offuscare la luce di cui splendevano gli occhi di lei. «Ma non mi è permesso. Tutto ciò che posso dirti è di avere sempre fiducia in te stessa. Quando tutto sembrerà sfuggirti, sappi che solo in te stessa troverai la chiave per andare avanti. Tu sei la chiave, ricordalo».

«Perché? Perché devo compiere questo passo? Dimmi almeno questo!»

Lentamente, la donna si alzò. Nadia continuò a restare aggrappata alle sue vesti, cercando di tenerla stretta a sé.

«Perché è il tuo destino» rispose.

«Non andartene, ti prego!»

La donna le prese il volto tra le mani e le terse le lacrime, posandole un bacio sulla fronte.

«Non siamo che semplici creature di un giorno, io e te. La nostra è una razza sfortunata, il sogno di un’ombra che vive senza consapevolezza, correndo incontro a un destino che non conosce ma che nessuno di noi potrà mai sfuggire. È questa la nostra più grande disgrazia: amare, e per questo soffrire».

Nadia si ritrovò improvvisamente sola, a stringere l’ombra in cui era piombata la stanza. Una voce lontana echeggiò nel suo cuore.

Perdonami, Nadia, perdonaci tutti.

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Capitolo 19
*** 18 ***


18











«Madre, non te ne andare, non lasciarmi!»

Il grido di Nadia si infranse contro le pareti immacolate della camera. Con il cuore in gola, rimase a fissare il vuoto davanti a sé. Si trovava ancora nel letto, avvolta tra lenzuola ormai fradice. Era completamente madida di sudore e sul suo volto aleggiava ancora un’espressione sconvolta.

«Nadia! Che ti succede? Stai bene?»

Jonathan si precipitò al suo fianco. Non appena l'aveva udita gridare, era corso da lei. Nadia si passò una mano sulla fronte, tergendosi il sudore.

«Io... sì, credo di sì. Solo un brutto sogno, tutto qui».

Jonathan si accostò al letto, e si sedette sul bordo, prendendola delicatamente tra le braccia. La strinse a sé e aspirando il suo profumo le posò una mano sulla testa, carezzandola teneramente. Nadia si lasciò cullare; e una sensazione di tepore si impadronì con dolcezza del suo corpo.

«Vorrei restare così per sempre» mormorò.

Jonathan non rispose.

«Grazie, John. Grazie per tutto, davvero».

Lui le sollevò il viso e la fissò. «Non c’è bisogno di ringraziarmi. Io ti amo e lo sai che farei tutto per te».

«Già...»

Lui la vide accigliarsi.

«Che succede?» le domandò.

«Se non mi amassi... se io fossi stata una semplice estranea che veniva a chiederti aiuto... mi avresti aiutata comunque?»

Lui la guardò come se non comprendesse la sua lingua.

«Cosa? Io... non so, perché mi fai una domanda del genere?»

«Niente, lascia stare» fece lei, scuotendo la testa. «È che sono ancora un po’ scossa».

Lui sorrise, e la baciò.

«Mi credi pazza?»

«È per questo che mi hai chiesto una cosa del genere?»

«Non so» fece lei, con una scrollata di spalle.

«Non ti credo pazza. E non lo crederò mai».

Nadia alzò lo sguardo e gli sorrise. «Sai? Ti amo anch’io, per la cronaca».

Lui ricambiò il suo sorriso, allegro.

«Buono a sapersi. Allora basta con questi discorsi. È quasi ora di andare».

Nadia annuì. Pian piano sembrò ritrovare la sua lucidità.

«D’accordo. Dammi un minuto e sono pronta».

«Faremo colazione direttamente sulla nave» fece lui, alzandosi. «Non abbiamo molto tempo e preferirei imbarcarmi il prima possibile. A proposito: non c’era nessun imbarco diretto per New York, oggi; e il treno per Portsmouth sarebbe arrivato troppo tardi per permetterci di salire anche sull’ultima nave. Quindi, l’unica soluzione possibile era affittare due cabine sul postale che parte da Londra alle 11 e 10. Sarà un po’ scomodo, ma...»

«Per me non c’è problema» fece Nadia, convinta.

«Perfetto. Ho già fatto venire una carrozza. Ah, ci fermeremo a fare alcuni acquisti, visto che non possiamo andare a recuperare le tue cose».

«Sei un tesoro» fece lei, sorridendo. John rispose al suo sorriso stringendole le mani.

«Piuttosto... hai pensato a come dovremo muoverci una volta partiti?»

Nadia uscì da sotto le lenzuola. La leggera veste di cotone che indossava metteva in risalto le sue forme e lasciava scoperta una parte generosa del suo corpo. Jonathan avvertì una fitta di desiderio, e come una lingua di fuoco prese a stuzzicargli i lombi. La fissò con intensità crescente, ma lei non sembrò accorgersene.

«Credo che la cosa migliore sia parlare con Hanson. Non credo che sia venuto a conoscenza della morte del professore. Sarà un duro colpo per lui, si conoscevano molto bene. Poi... speriamo che decida di aiutarci. È l'unico a poterci fornire i mezzi per un'esplorazione. Ora voltati, per favore, dovrei vestirmi».

«Ma in concreto cosa speri di ottenere?»

Nadia si abbassò le spalline della veste. Lanciò a Jonathan uno sguardo corrucciato e lui si voltò, deglutendo.

«Onestamente, non lo so. Ma sento che devo portare a termine quello che Kurtag aveva cominciato. Voleva dirmi qualcosa, affidandomi la pietra e il diario. Spero accada qualcosa che mi aiuti a capire, prima o poi, anche se non so dire cosa...»

«E se non dovesse accadere? Se non scoprissimo nulla e tutto morisse lì?»

Nadia restò in silenzio.

«Purtroppo» aggiunse lei, alla fine «penso che una cosa del genere non succederà mai».

Jonathan si voltò a guardarla con la coda dell’occhio e vide che si stava spogliando. Fece un passo avanti e il corpo nudo di lei comparve nello specchio appeso sopra la cassettiera. Con il fiato corto, John lasciò che il suo sguardo indugiasse segretamente lungo le linee aggraziate del suo corpo.

«Come pensi di utilizzare la pietra?»

«Utilizzare? Io... non lo so. Perché mi chiedi una cosa del genere?»

«Beh, pensavo che...»

«Io vorrei solo sapere cos’è, la pietra. Se possibile, vorrei fare a meno di utilizzarla».

Quando lei si voltò, mostrando nuda ai suoi occhi la sua femminilità, John sentì il suo cuore fermarsi. Teneva gli occhi fissi sul corpo di lei, e ne percorreva le curve più segrete, soffermandosi sul ventre delicato e tonico, spingendosi sempre più giù, nei recessi più intimi del suo corpo, ove i peli del pube spuntavano lievi, come un'ombra appena accennata.

«E questo per qualche ragione particolare?» chiese. Aveva la gola secca, come quando si è tormentati da una sete inestinguibile.

Nadia si infilò la biancheria intima.

«Diciamo... istinto».

Jonathan abbassò lo sguardo. Ormai lei si era rivestita.

«Ha qualcosa a che vedere con il tuo passato misterioso?»

Nadia sussultò. Jonathan non era a conoscenza del suo passato, non di tutto almeno. Lei aveva cominciato a raccontargli qualcosa, ma non era riuscita a svelare le cose più difficili. Il timore che lui non le credesse o che si allontanasse per sempre da lei a causa di quello che era, l’aveva bloccata ogni volta.

«Forse» disse, distogliendo lo sguardo. «Ancora non ne sono sicura».

«Il che significa un sì, ma non ti va di parlarne» fu il suo commento.

«È... difficile».

Lui chinò la testa. Da quando lei gli aveva mostrato la pietra, lui aveva capito esattamente qual era il suo segreto e ne soffriva perché lei non aveva avuto il coraggio o l'amore per confessarglielo. Tuttavia la capì, o almeno si sforzò di farlo. E immaginandone il profondo tormento, l'amò per la sua forza. Per questo mentì, mostrandosi completamente inconsapevole ai suoi occhi.

«Tranquilla» disse, sollevando le braccia. «Comprendo benissimo. Tutti abbiamo qualcosa da nascondere».

«Anche tu?» fece lei maliziosa, ma la sua voce tradiva una concreta paura. Non riusciva a sopportare l'idea che lui potesse mentirle, perché aveva bisogno di nutrire il suo immaginario dell'idea della sua sincerità e della sua perfezione. Non poteva vedere che lui si era improvvisamente oscurato in volto.

«No» rispose, sforzandosi di essere allegro. «Io non riuscirei mai a nasconderti nulla. Sei troppo intelligente per i miei gusti».

«La verità, è che tu sei l’uomo perfetto».

Lei lo cinse da dietro e gli appoggiò il viso sulla schiena. John intrecciò le mani alle sue, portandosele al petto.

«Sei pronta?» le chiese sottovoce.

«Sì» rispose lei. «Andiamo».

***








«Lisa?»

Quando sentì quella voce conosciuta risuonare chiara alla cornetta, Lisa ebbe un sussulto improvviso.

«Nadia! Sei tu? Ma dove sei? Perché non ti sei fatta viva stanotte, ero preoccupata!»

«Lisa, non c’è tempo. Devi assolutamente ascoltarmi. Qualsiasi cosa tu stessi facendo per aiutarmi, devi lasciarla perdere, chiaro? Devi dimenticarti di me. Dimmi che hai capito».

Lisa si premette sconvolta la cornetta all’orecchio. «Nadia, ma cosa stai...»

«Sono stata a casa mia, stanotte. Dovevo prendere alcune cose e...» Nadia tacque per un istante. «Hanno ammazzato quei poliziotti, Lisa» disse alla fine.

Lisa si voltò contro il muro, abbassando la voce perché non la sentissero.

«Lo so, stamattina sono venuta a cercarti, perché pensavo... speravo di trovarti lì. Quando ho visto quel che era successo... Dio, Nadia, ma cosa sta accadendo?»

Nadia sospirò. «Non ne ho idea. Ma non è più possibile per me restare qui. Più mi fermo, più rischio di attirare guai sulle persone che amo».

«Ma tu come stai?»

«Io sto bene, tranquilla. Stanotte sono stata con John, gli ho raccontato tutto e ha deciso di aiutarmi. Ora ti sto chiamando da una cabina al porto».

Lisa sussultò. «Al porto? Ma cosa ci fai al porto, scusa?» poi capì. «Non vorrai...»

Nadia la interruppe. «Adesso ascoltami: tu e Michael dovete assolutamente smettere di aiutarmi. Voglio che lasciate perdere questa faccenda, è troppo pericolosa».

«Ma tu? Cosa farai, ora?»

«Io devo andarmene da qui, non posso restare. Andrò a cercare un mio vecchio amico, Hanson Garrett, che spero possa aiutarmi a far luce su quello che successe quando Kurtag ritrovò la pietra».

«Ma come... se partirai, tutti penseranno che sei colpevole...»

«Non ho altra scelta, Lisa».

Restarono in silenzio. Lisa non riusciva a parlare: temeva il momento in cui avrebbero dovuto troncare la conversazione, perché sapeva che quella era probabilmente l’ultima volta che avrebbe potuto parlare con la sua amica e dentro di sé sentiva il bisogno di prolungare quel momento il più possibile.

«Nadia, io...»

«Promettimi che farai come ti ho chiesto».

Lisa scoppiò a piangere. «Io... non posso...»

«Ti prego. Ho bisogno di sapere che tu e Mickey sarete al sicuro».

Lisa si portò una mano alle labbra, chiudendo gli occhi. Le lacrime a lungo trattenute le scivolarono lungo le guance. «Va bene» disse alla fine. «Come vuoi tu».

Mentre ascoltava la voce dolce di Nadia, Lisa piangeva commossa, incapace di frenarsi.

«Grazie di tutto, Lisa. Sei stata l’amica migliore che abbia mai avuto. Tu e Michael. Non vi dimenticherò. E se tutto andrà come spero, un giorno ci rivedremo!»

«Nadia...»

«Ti voglio bene».

Lisa sentì un groppo alla gola. Quasi gridò, tanto che alcuni, in redazione si voltarono a guardarla.

«Nadia, aspetta!»

Ma dall'altro capo del filo non giunse risposta.

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Capitolo 20
*** 19 ***


19










Quando la polizia bussò alla porta dell’abitazione di Jonathan Fisher, non trovò nessuno a parte i domestici. Nonostante le ripetute minacce, nessuno della servitù seppe rivelare dove si trovavano il segretario alla difesa e la sua fidanzata. Simum decise comunque di lasciare un presidio di cinque uomini sul posto, per ogni evenienza.

«Chiamate il distretto e fatevi raggiungere» disse. «Chiunque sia sulle tracce della Ra Arwol ha ucciso senza problema quattro uomini. Non credo che cinque possano costituire un problema».

L’agente con cui parlava si guardò intorno terrorizzato. Simum ridacchiò divertito.

«Stia tranquillo, giovanotto. Se le mie idee sono corrette, nessuno verrà qui. Sanno già dove andare. E noi siamo in tremendo ritardo».

«Lei come fa a esserne sicuro?» chiese Barnaby, trotterellandogli dietro lungo la strada. «Non sappiamo nulla di...»

«Perché secondo me, mentre perdevamo tempo a salire le scale e a interrogare quegli stupidi domestici, Fisher e la ragazza se la filavano, seguiti dai misteriosi assalitori, che li attendevano da qualche parte qui fuori».

«E come potevano sapere che la ragazza si trovava proprio qui?»

«Questa è una domanda intelligente, Barnaby...» fece l’ispettore, scrutando interrogativamente il volto del sergente. «Effettivamente è qualcosa che ancora mi sfugge, ma credo abbia a che fare con quei cadaveri sconosciuti a Foley Street».

«Cioè...»

«Cioè penso che ci siano più persone sulle tracce della Ra Arwol e di ciò che credo lei porti con sé. Ma solo alcune tra esse mi preoccupano, ora come ora».

Barnaby fissò affascinato il suo superiore, che si asciugava il sudore con la manica logora del soprabito.

«E quali, se posso permettermi?» chiese. Simum lo fissò e sorrise.

«Quelle pericolose».


«Senti, ora devo fare io una telefonata. È importante. Puoi aspettarmi qui? Ci metto un secondo».

Nadia si voltò verso Jonathan e gli rivolse un cenno attraverso la sottile veletta del suo cappellino nuovo.

«Certo,vai pure. Secondo me, qui ci vorrà ancora un po'».

Jonathan la lasciò in fila per il controllo dei passaporti e dei biglietti, dirigendosi a passo veloce verso gli apparecchi telefonici che si trovavano poco lontano, nella hall della stazione portuale.

Quando vi giunse li trovò tutti occupati. Con stizza, controllò l’orario sul grande orologio che campeggiava alto sopra la sua testa. Le dieci e trentacinque. Non aveva molto tempo, l’imbarco era previsto per le undici.

Un telefono si liberò. Jonathan si mosse, ma una signora spuntò da dietro l’angolo. Sorridendo, prese il posto dell’uomo che aveva lasciato libero il ricevitore. Spazientito, Jonathan le si avvicinò.

«Signora, mi scusi, ma è un...»

«Mi perdoni, ma ero in fila da un po’. Non ci metterò molto. Devo imbarcarmi alle undici».

«Anche io e...»

«Allora non mi faccia perdere tempo, no?»

Jonathan si rassegnò ad aspettare per qualche istante. L’orologio segnava e dieci e quarantadue.

***



«Lisa, dov'è Nadia? Ho scoperto alcune cose interessanti...»

La ragazza fissò intensamente Michael, con gli occhi arrossati dal pianto. «Se n'è andata» piagnucolò.

Lui si afflosciò, incredulo. «Andata? Come?»

«È partita. Oggi. Mi ha telefonato dal porto poco fa, non c'è stato verso di convincerla. Voleva assolutamente che smettessimo di occuparci del caso, aveva paura che ci capitasse qualcosa».

Michael fece un giro su se stesso e crollò esausto sulla sua sedia di legno scricchiolante. «No! Non adesso, dannazione. Non ora che avevo scoperto tutte queste cose!» disse, picchiando con il dorso della mano sul suo taccuino.

«E che cos'è, che hai scoperto?» fece Lisa curiosa, tirando su con il naso. Michael accostò la sedia alla sua, guardandosi intorno con circospezione.

«Primo» disse, muovendo un dito «ho scoperto dove Kurtag ha trovato la pietra. Nell'Oceano Pacifico, vicino a Samoa. Sul posto c'era anche una nave militare... e questo ci porta al punto due».

Lisa seguiva Michael con attenzione. Sembrava elettrizzato.

«La pietra è emersa nel quadro di un misterioso incidente, avvenuto là. A quanto riportato, sono stati rinvenuti i resti di un relitto, fatti di un materiale sconosciuto. In seguito, la pietra è stata presa in custodia dall'esercito e riportata in Inghilterra. Kurtag ha cominciato a studiarla solo qui, sotto diretto incarico del...»

Lui fissò Lisa con gli occhi che brillavano di malizia.

«Del... ?»

«Non ci crederai. Ministero della Difesa».

Lisa strabuzzò gli occhi. «Cosa? E tu come hai fatto a scoprire queste cose?»

Michael sorrise altezzoso. Si pavoneggiava tutto e intanto continuava a dondolarsi sulla sedia, ostentando l'aria di chi la sapeva lunga.

«Ho dovuto faticare per ottenere queste informazioni» disse lui, con fare misterioso «e non sai quanto...»

Lisa gli lanciò un'occhiata colma di sospetto. «Ma va', informazioni del genere sono ben al di fuori della tua portata».

«Non se possiedi una lettera di credito firmata da...» e Michael estrasse dalla tasca interna della giacca un foglietto ripiegato in quattro, sventolandolo tronfio davanti alla faccia attonita della ragazza «...William Ashburne».

Lisa gli strappò di mano la lettera, la aprì e la scorse velocemente, alzando di tanto in tanto gli occhi sul volto compiaciuto di Michael.

«Cosa?» disse, incredula. «E come...»

«Sai quanto William sia prevedibilmente tonto» confessò Michael. «Lascia sempre aperta la scrivania e, guarda caso, mentre frugavo per sbaglio tra le sue cose, l'occhio mi è caduto sulle lettere che usa per raccomandare i suoi tirapiedi, perché svolgano tutto il lavoro per lui. Probabilmente non si è nemmeno accorto che mancava».

«Ma bravo!» ridacchiò Lisa, e batté delicatamente il foglietto sul braccio di lui. «Proprio una mossa astuta».

«William deve per forza essere a conoscenza di segreti che gli permettono di tenere in pugno parecchie persone importanti» disse Michael. «È incredibile come al solo pronunciare il suo nome, tutti diventino improvvisamente gentili. Con questa lettera, tutte le porte si sono magicamente aperte» sussurrò enfatico. «È stato come se fossi Mosè: apriti! E loro si aprivano».

Lisa rise alla parodia inscenata da Michael, che si era levato in piedi e con il petto esageratamente in fuori, agitava le braccia come se volesse spingere il Mar Rosso a farlo passare. Poi, però, tornò col pensiero alla situazione presente, e si rabbuiò.

«Il Ministero della Difesa... Ma allora, se è vero, questo significa...»

«Esatto» fece Michael, ritornato anche lui con i piedi per terra. «John sapeva. Era addirittura il supervisore della ricerca. Praticamente lavorava a stretto contatto con Kurtag».

Lisa boccheggiò. «Ma perché avrebbe mentito? Sono sicura che Nadia non sapesse del suo coinvolgimento».

«Già, è tutto conservato in un archivio coperto da segreto di stato. Entrare è stato un gran colpo, non hai idea della roba contenuta lì. Non sono riuscito a sapere molto, ma pare che Kurtag sia stato incaricato di svolgere le ricerche direttamente dal Ministro in persona. Ma qualcosa non è andato per il verso giusto. Ho letto alcune lettere di Kurtag in cui chiedeva di essere esonerato. Pare avesse deciso di rinunciare in seguito ad alcuni sospetti che nutriva nei confronti di chi dirigeva la ricerca».

«E chi erano queste persone?»

Lui scrollò le spalle. «Non so. Non ho potuto accedere a quel materiale».

Lisa impallidì. «Comunque, John sapeva! Ti rendi conto? Ha nascosto tutto a Nadia, mentre lui sapeva esattamente cos'era la pietra e dove era stata trovata! E lei che era così preoccupata di raccontargli tutto...»

Lisa si alzò in piedi. Nel vederla così scossa, Michael si inquietò. «Ehi, che ti prende?» chiese. «Sembra tu abbia appena visto un fantasma...»

Lei si voltò a guardarlo, visibilmente sconvolta. «Mi prende che la nostra Nadia è appena partita per chissà dove con quel maledetto traditore di Jonathan Fisher. Ecco cosa mi prende. Lei è con lui ora, mentre noi non abbiamo la minima idea di cosa quel bastardo abbia in mente. E non possiamo fare nulla per aiutarla».





***



Adesso Jonathan cominciava seriamente a spazientirsi.

«Signora, avrei una certa urgenza...»

La donna parve ignorarlo e gli voltò la schiena, immergendosi sempre più fittamente nella conversazione. Lui si guardò intorno, ma nessuno degli altri telefoni era libero e diverse persone erano già in fila in ogni postazione.

Le dieci e quarantaquattro.

«Mi dia quel telefono!»

Jonathan strappò il ricevitore dalle mani della donna, stando attento a non farsi vedere dalle persone intorno a sé. Cinse la donna con un braccio e si chinò su di lei per sussurrarle qualcosa, mentre quella lo fissava scandalizzata e spaventata insieme.

«Mi stia a sentire» sibilò, agganciando il telefono. «Ora lei, gentilmente, mi consente di fare una telefonata. Se ne va senza strillare o fare scenate, d’accordo?»

La donna fece per dire qualcosa, ma lui la strinse di più.

«Se lei si mette a fare una piazzata, mi vedrò costretto a reagire. Mi sono spiegato?»

Sentì il braccio di quell’uomo stringerla alla vita in una morsa decisa. Il terrore si impadronì di lei.

«Siamo d’accordo?» fece Jonathan, sorridendo mentre si guardava intorno.

«Sì. Ma la prego, mi lasci andare».

«Se pensa di andare alla polizia, sappia che la troverò».

«Io non farò nulla, voglio solo...»

«Zitta» fece lui. «Parla troppo forte. E sorrida».

La donna si sforzò di sorridere. Incrociò gli occhi di un uomo in fila di fianco a lei, ma quando sentì il richiamo del braccio di Jonathan, che la stringeva intorno alla vita, distolse lo sguardo. L’uomo non si accorse di nulla.

«Ora si allontani. E faccia la brava, mi raccomando. Direi che siamo sulla stessa nave, Miss...»

Jonathan le prese la borsetta e frugò al suo interno. Estrasse il passaporto e vi lesse il nome.

«...Stetson, di Fulham. Proprio così. Quindi, se voglio, ora so dove rintracciarla. E lei non vuole che questo accada, dico bene?»

«No... io...»

«Brava. E ora vada, miss Stetson. Stia tranquilla. E faccia buon viaggio».

La donna si allontanò, fissando Jonathan che la seguiva con gli occhi, sorridendo. Quindi infilò il passaporto in borsa e si diresse verso l’uscita a passo malfermo, senza voltarsi indietro.

Bene. Probabilmente non la rivedrò più.

Jonathan lanciò un’occhiata all’orologio. Erano le dieci e quarantasei quando qualcuno che conosceva bene prese la sua chiamata.


Simum varcò la soglia del Times, trovando ad attenderlo l'intera redazione, riunita intorno a Lisa Stanfields.

L'uomo avanzò, trascinandosi dietro la gamba, furioso. – Dov'è – ruggì, non appena fu a portata della ragazza. – Dove si trova la Ra Arwol?

In un parapiglia di sguardi concitati, Michael e Lisa si occhieggiarono a vicenda, mentre Hunter fissava nel vuoto, appoggiato con una mano allo stipite della porta.

«Ebbene?» insistette Simum. Aveva una fretta dannata e tutta quella reticenza non faceva altro che infastidirlo.

Lisa aprì la bocca. Stava per dire qualcosa, quando Michael la anticipò.

«Non lo sappiamo. È scomparsa».

«Scomparsa, eh?»

«Esatto».

Simum ghignò. «Statemi a sentire, tutti voi. Io non so cosa abbiate in quelle vostre teste, ma se non troviamo Nadia Ra Arwol al più presto, il prossimo posto in cui potrete andare a farle visita sarà il cimitero. Sono stato chiaro?»

Lisa ebbe un sussulto. Simum lo notò e le si avvicinò. Erano tanto vicini che Lisa poteva sentire il suo fiato caldo e puzzolente, impastato di sonno e tabacco.

«Lei sa qualcosa, Miss. Stanfields, non è così?»

Lisa si guardò intorno, titubante. Michael la fissava: muoveva impercettibilmente la testa, come a spingerla a non rivelare quello che sapeva.

«Io...»

«Lei deve fidarsi di me» la incalzò lui. Lisa continuava a scrutare timorosamente nei suoi occhi, incapace di prendere una decisione. Se avesse parlato, poteva mettere in pericolo Nadia, attirandole addosso la polizia. Ma se quello che Michael aveva detto corrispondeva alla verità, Nadia era già in pericolo, ora più che mai.

Davanti alla sua indecisione, Simum perse la pazienza. «Ma non capite che sono qui per aiutarvi, non per farvi la guerra? Voglio trovare quella ragazza per proteggerla, non per sbatterla in prigione, Cristo!»

Sbatté lontano una sedia, e colpì con un pugno la scrivania. Barnaby indietreggiò di un passo. Non aveva mai visto Simum così furioso.

L'ispettore si piegò su Lisa, piantandole i grandi occhi scuri addosso.

«Ora,» fece, improvvisamente calmo «vorrebbe gentilmente dirmi dove posso trovare la sua amica, Miss. Stanfields?»

Lisa lanciò un'occhiata a Michael. Ora anche lui la incoraggiava.

«È... è al porto» confessò alla fine. «Sta per imbarcarsi ma non so dirle per dove...»

«A che ora parte la nave?»

«Non lo so» lamentò Lisa e Simum capì che diceva la verità. «So solo che sarebbe partita presto, credo in mattinata».

Simum si sollevò, muovendosi verso la porta con una velocità imprevedibile. Stava già per uscire quando Lisa scattò in piedi.

«Dovete proteggerla. John Fisher, lui... non è quello che sembra».

Simum si volse, gli occhi ridotti a due fessure.

«Jonathan Fisher? Dice sul serio?»

Lisa si illuminò. «Sì» disse. «Vi prego. Aiutatela».

Simum sorrise, raggiante. «Grazie, a tutti. Forse, per merito vostro, riusciremo a trovare il cadavere di Nadia Ra Arwol prima che si raffreddi» e con un ghigno ironico fissò tutti gli altri, prima di allontanarsi velocemente. «Fosse stato per voi» aggiunse poi sulla porta, senza voltarsi «saremmo dovuti andarla a cercare raspando sul fondo del Tamigi».


«Sono io» disse.

«Dove si trova? È successo il finimondo».

«Cosa vuole dire?»

«Gli uomini che avevo messo sulle tracce della pietra, e di cui non sapevamo più nulla, sono stati uccisi. È successo a casa della sua ragazza».

«Lei ha fatto spiare Nadia?» soffiò John. «Quando? Come ha osato...»

«La smetta. L'ordine era stato impartito prima che io sapessi che si trovava da lei. Cercavamo indizi sulla Pietra e sapevamo che la polizia la sospettava, quindi abbiamo deciso di inviare degli uomini».

Jonathan si passò una mano sugli occhi. «Cose del genere non devono più accadere» disse.

«Non è lei che decide cosa si deve o non si deve fare. Ci terrei a ricordarglielo».

«Forse» fece John teso, abbassando la voce fino a sussurrare. «Ma ci terrei a ricordarle chi di noi due ha la pietra, attualmente».

L’uomo all’altro capo del filo tacque. Quando riprese a parlare, lo fece con una voce calma e controllata.

«Bene. Comunque stia attento. Come le ho detto, i nostri uomini sono stati uccisi».

«Sapete da chi?»

«No. Le ricordo che avevamo perso ogni contatto, dopo che si erano introdotti nell'abitazione di Kurtag, dopo il suo assassinio».

«Non può trattarsi del consiglio. Me lo avrebbero comunicato. Mi credono sempre dalla loro parte».

«Non abbiamo molte informazioni in proposito, ma potrebbe anche trattarsi di coloro che stiamo aspettando... se così fosse, non ci resta che aspettare, e vedere come si evolve la situazione».

«Come dobbiamo muoverci?» domandò John. Continuava a guardarsi intorno, il volto seminascosto dal braccio appoggiato alla cabina.

«Con cautela. Di chiunque si tratti, potrebbe costituire un pericolo. Potrebbero sapere come trovarvi».

Jonathan tirò un pugno contro la cabina. Alcune persone si voltarono a guardarlo, curiose.

«Se dovesse accadere qualcosa a Nadia, la riterrò personalmente responsabile, Wiesbaden».

«Non faccia il mio nome, idiota!»

«E lei non si azzardi più a metter in pericolo le persone che amo!

«Sia» fece Wiesbaden. «Ma ora l’importante è salvare la pietra. Nella nostra causa, è la cosa principale. Non se lo dimentichi».

John cercò di ritrovare la calma. Intorno a lui, alcune persone cominciarono a interessarsi a quello che stava facendo.

«No. Sarà fatto. Crede che possano averci seguito?»

«Potrebbe darsi. Dove vi trovate?»

«Al porto. Stiamo per imbarcarci per Boston, secondo i piani».

«Mantenga un basso profilo. Lei è un soldato, ha fatto parte della guardia personale del cancelliere. Saprà di certo come comportarsi».

«Infatti è così. Solo che non amo le sorprese».

«Nemmeno io» ghignò la voce. «Lei veda di tenere la pietra al sicuro: è l'unica possibilità che abbiamo di raggiungere i nostri obiettivi. Al resto penseremo noi. Non deve preoccuparsi di nulla».

«Sì, siamo intesi».

La voce si spense e dall'altro capo giunse solo un segnale monotono. Jonathan riagganciò giusto in tempo per accorgersi che Simum stava entrando nella stazione.


Simum si era lanciato fuori dalla vettura prima ancora che questa si arrestasse completamente. Caracollò verso l’entrata, cercando di muoversi il più in fretta possibile. Il porto era affollato: marinai e operai si affaccendavano ovunque nello scaricare casse e container dai mercantili che provenivano da ogni parte del mondo. Simum sapeva che trovare quei due era un’impresa disperata: ai Docks lavoravano un milione di persone circa. Rintracciare Nadia Ra Arwol e il suo fidanzato in mezzo a quella bolgia composta da passeggeri e scaricatori di porto, era come pretendere di estrarre il jolly da un mazzo al primo colpo.

Raggiunsero l’atrio della stazione portuale, che si stava rapidamente riempiendo: il vociare della folla, mischiato alle grida degli operai si innalzava fino alle volte del soffitto ed era a dir poco assordante. Simum lanciò un’occhiata disperata all’orologio. Erano le dieci e cinquantadue. Non sapeva a che ora Nadia sarebbe partita, ma qualcosa dentro di lui diceva che gli restava poco tempo.

«Dobbiamo trovarla. Muoviamoci. Barnaby, lei vada a cercare informazioni, io andrò a vedere direttamente ai Docks, laggiù».

Mentre Simum si dirigeva verso la banchina, qualcosa attrasse la sua attenzione. Un gruppo di tre uomini dall’aspetto imponente si dirigeva a passo deciso oltre la zona recintata della dogana. Simum li seguì con lo sguardo, incuriosito da quello strano gruppetto. Si guardò intorno e notò che un gruppo simile al primo procedeva compatto a poca distanza da lui. Un uomo dai lunghi capelli biondi e dai lineamenti decisi, li guidava risoluto attraverso la zona di carico e scarico.

Macchinalmente, Simum prese a seguirli. Non avrebbe saputo dire perché, ma non appena li aveva visti qualcosa in lui era scattato, come un campanello d’allarme.

«Signore! signore si fermi. Quella zona è vietata ai non addetti ai lavori».

«Come?»

Simum si voltò. Una guardia portuale lo fissava severa.

«Le ho detto che l’accesso a quella zona del porto è consentito solo agli operai. La prego di tornare indietro».

«Sono della polizia» lamentò Simum, tastandosi in cerca del distintivo, mentre continuava a scrutare nella direzione in cui aveva visto allontanarsi lo strano gruppo. «Ecco, vede?»

L’uomo osservò la placca dorata che Simum gli stava mostrando; quindi si portò la mano all’elmetto, in segno di saluto.

«Mi perdoni ispettore, non potevo sapere...»

Simum cercò di ritrovare quegli uomini, ma sembravano essere spariti, confusi tra le centinaia di operai che si affaccendavano sulla banchina.

«Lasci stare, non importa» fece, con una smorfia rassegnata.

Idiota.

«Ascolti un po’» disse, rimettendo al suo posto il distintivo. «Sa se ci sono navi passeggeri in partenza, questa mattina?»

L’uomo lo fissò con un certo imbarazzo. «Ma... che io sappia, oggi non è previsto alcun imbarco passeggeri».

Simum cascò dalle nuvole. «Come?»

«Nossignore. Nessuna nave, oggi. Solo merci» disse l'uomo, spostando indietro il berretto con un gesto buffo. «Ormai sono poche le navi passeggeri che partono direttamente da Londra, forse solo una o due al mese. Per viaggi del genere, si fa capo ai porti di Portsmouth e di Southampton».

Simum strinse le labbra per l'irritazione. Era stato giocato. Non avrebbe mai raggiunto la nave in tempo, ammesso che fosse poi riuscito a trovarla.

Dannazione! Maledetta Stanfields.

«Ispettore!» Barnaby comparve tutto trafelato, sul volto raggiante un’espressione di vivo compiacimento. «Ho trovato la nave. È un mercantile, si chiama Sea Victory. Sono appena stati registrati due biglietti per una coppia. Allo sportello si ricordavano di una donna dalla pelle scura, in compagnia di un uomo.

«Ah, quello?» disse il poliziotto portuale, sollevato dal poter dare una mano. «È un postale, fa rotta per New York. Parte dal dock 26, tra...» e dette un'occhiata al modesto orologio che portava al taschino «...dieci minuti».

Simum strinse le labbra, lanciando un ultimo sguardo nella direzione in cui aveva visto allontanarsi quello strano gruppo di uomini. Abbandonata ogni speranza di ritrovarli, raggiunse Barnaby, che lo stava attendendo poco più avanti.

«Ha visto qualcosa?» chiese.

«Non lo so. Forse» rispose Simum». Non importa. Ora abbiamo altre cose a cui pensare».


Ostentando indifferenza, John si calcò il cappello in testa e si allontanò tranquillo attraverso la hall. Quindi si sfilò la giacca di lino bianco e si mischiò tra la folla multicolore che assediava le porte di imbarco.

Quando le fu vicino, Nadia lo riconobbe e agitò la mano allegra.

«John! Vieni, tocca a noi!»

Lui le si accostò sorridendo.

«Che hai?» gli domandò. «Sembri turbato...»

«Non ti si riesce a nascondere nulla eh?» fece lui, accigliato.

«Problemi con il lavoro?» chiese lei, preoccupata. «Caro, se non puoi venire, non devi sentirti costretto...»

Lui la strinse, dolcemente. «No, non è niente che non si possa risolvere più avanti. Non ti preoccupare, non c’è nulla che mi possa trattenere dal seguirti in capo al mondo».

Nadia sorrise, ma lui distolse lo sguardo. Cercava di individuare dove potesse trovarsi Simum.

Quel dannato poliziotto sa qualcosa, pensò. Non posso lasciare che si intrometta, non adesso.

Senza dare troppo nell’occhio, continuò a scrutare la gente intorno a sé, concentrato a cogliere a qualsiasi cosa colpisse la sua attenzione. Oltre che da Simum, doveva guardarsi anche dai misteriosi assalitori degli uomini di Wiesbaden.

«Posso vedere il suo passaporto, signore?»

Jonathan non sentì. Non stava ascoltando, perso com’era nei suoi pensieri.

«Signore, il suo passaporto, prego».

«John?»

Jonathan fissò Nadia che lo guardava incuriosita oltre la barriera del check in. Abbassò lo sguardo sull’uomo seduto davanti a lui, che tendeva la mano come in attesa che lui vi posasse qualcosa.

«Sì, mi perdoni...»

«Sei sicuro che vada tutto bene» gli fece Nadia, una volta passati i cancelli. «Mi sembri da un’altra parte».

Lui le sorrise, rassicurandola.

«Va tutto bene, tranquilla».

Raggiunsero la nave e si diressero verso la scala. Distavano solo poche decine di metri dalla scala, quando improvvisamente, alle loro spalle, qualcuno li chiamò.

«Miss Ra Arwol, aspetti!»

Nadia si voltò. Simum stava correndo verso di lei, il volto tumefatto dal dolore per lo sforzo.

John afferrò Nadia per un braccio e la spinse verso la scala. Mancavano solo pochi metri.

«Si fermi! Fermate quella donna!»

«Continua a camminare, non metterti a correre» le disse John.

«Ma come avrà fatto a sapere dove ero diretta?» fece lei, tesa».

«Non lo so, ma quell’uomo è una faina. Presto, manca poco».

«Fermi!»

Alcuni agenti della polizia portuale circondarono i due, costringendoli a fermarsi. Jonathan si guardò velocemente intorno, nella speranza di trovare una via d’uscita, ma non ne vide alcuna. Erano in trappola.

Simum li raggiunse pochi istanti dopo, sbuffando. Rallentò l’andatura e prese a strascicare pesantemente la gamba, soffiando violentemente l’aria fuori dai suoi denti ingialliti.

«Signorina, la prego di seguirmi... fuori di qui...»

Nadia non disse nulla, ma si limitò ad abbassare lo sguardo rassegnata. Era più che altro dispiaciuta per Jonathan, che poteva rischiare di rimetterci il posto e la reputazione, nel caso si fosse sollevato uno scandalo.

«Andiamo. Ci sono alcune questioni che vorrei discutere con voi».

Nadia e John vennero scortati lungo la banchina, verso la capitaneria di porto. Passarono attraverso una serie di strade sgombre, dove casse accatastate giacevano in attesa del controllo doganale. Intorno a loro non c’era anima viva.

«Mi vorrebbe spiegare perché ci ha fermato?» fece Nadia, seccata. «Non ne ha il diritto. Nessun mandato è stato spiccato nei nostri confronti e...»

«Infatti non c’è nessun mandato» fece Simum, ancora con il fiato corto. «La questione è un altra e...»

Senza alcun preavviso, gli uomini alle spalle di Nadia si accasciarono al suolo. Simum, Nadia, John e gli agenti di scorta si voltarono a guardare. Due uomini, due giganti, erano comparsi dal nulla alle spalle degli agenti e li avevano tramortiti.

«Portateli via da qui!» gridò Simum, estraendo la pistola.

Improvvisamente, altri tre uomini apparvero dal nulla, inchiodando al suolo con pochi fendenti precisi gli agenti rimasti. Simum, che si era messo al riparo dietro a un pilone di acciaio, osservò Barnaby che, poco lontano da dove si trovava lui, cercava di proteggere Nadia e Jonathan.

«Barnaby, presto! Di là!» gli gridò l’ispettore, indicando l’uscita. Barnaby annuì e condusse i due in quella direzione, mentre Simum si sporse per coprirne la fuga. Fece per sparare, ma qualcosa lo colpì violentemente alle spalle, facendolo sbilanciare. Mentre cadeva in ginocchio, un dolore acuto lo percorse dalla gamba per tutto il corpo, accecandolo. Sentì qualcosa colpirlo alla testa e un senso di calore improvviso lasciò il posto a un dolore agghiacciante. Cadde riverso a terra, ma si sforzò di tenere gli occhi aperti. Vide un uomo allontanarsi. Era alto e dal portamento elegante. Poteva vederlo solo di spalle, ma notò subito i capelli. Come un angelo, aveva lisci capelli biondi, racchiusi in una coda che gli raggiungeva il bacino.

Il dolore si fece insopportabile e sentì le energie che lo abbandonavano. Un senso di rilassamento si fece strada in lui e percepì un languore diffuso. Prima che la vista lo abbandonasse, fece in tempo a vedere quegli uomini colpire Barnaby, che cadde a terra.

Poi, il buio.


Con un movimento rapido, Nadia estrasse la pietra dalla borsa che portava a tracolla. Gli uomini si fermarono, fissandola senza sapere che fare.

John si strinse al suo fianco. Nadia aveva uno sguardo determinato e nei suoi occhi ardeva come un fuoco di brace. Guardava attenta intorno a sé, per controllare coloro che la circondavano. Un uomo, dai capelli lunghi e biondi, teneva gli occhi fissi su di lei, senza che il suo volto tradisse la benché minima emozione. Nadia incrociò i suoi occhi ma non vi scorse né rabbia né odio. Tutto ciò che vi vide fu una strana curiosità. Lei teneva stretta la pietra, che emanava un intenso bagliore: poteva percepire un’energia elettrizzante che da essa le si diffondeva in tutto il corpo.

Improvvisamente, l’uomo alzò la mano e gli altri che erano con lui arretrarono di alcuni passi. John ne approfittò. Agguantò Nadia per un braccio e la trascinò via, senza che nessuno provasse a fermarli. Raggiunsero la nave e salirono a bordo, appena in tempo per l’ultima chiamata. Mentre la scala veniva allontanata e i cancelli chiusi, videro dal ponte che quegli uomini si erano dileguati. Era rimasto solo quell’uomo misterioso, che continuava a fissarli immobile dalla banchina. Nadia ne studiò i lineamenti, decisi ma eleganti, i lunghi capelli biondi e i profondi occhi azzurri. Vestiva una divisa senza segni particolari, né mostrine, né gradi né qualcosa che la rendesse in qualche modo riconoscibile. Il suo grado e la sua importanza trasudavano direttamente dalla sua persona e Nadia non avrebbe avuto bisogno di vederlo all’opera per capire che lui era un capo. Il potere e la volontà di quell’uomo erano in lui qualità indissolubili, che raggiungevano chiunque gli fosse vicino in modo inequivocabile. Nadia restò a fissarlo curiosa, ricambiando il suo sguardo attento.

Quel giorno era riuscita a fuggire, ma era certa che prima o poi si sarebbero rincontrati.


L’uomo osservava la nave mentre si staccava dal porto, in silenzio. Dopo qualche minuto, una giovane donna lo raggiunse, mettendosi al suo fianco senza dire una parola.

«Ha intenzione di lasciarla andare?» chiese lei, alla fine. Guardava la nave che si allontanava lungo il Tamigi, e non poté trattenersi dal domandarlo. Il sole si rifletteva sui suoi capelli dorati, che portava raccolti in un severo chignon. Vestiva un completo alla coreana di un bianco immacolato, da cui spuntava un collo dalla pelle che pareva di porcellana, tanto era candida e delicata. I tratti del volto erano dolci ma severi e i profondi occhi verdi brillavano attraverso le lenti sottili dei suoi occhiali dalla montatura in acciaio.

«Lei sa che fatica abbiamo fatto per trovare la ragazza» aggiunse.

L’uomo non si scompose. Restò in silenzio a osservare la nave ormai lontana.

«Signore?»

«Comprendo il suo punto di vista, Faloe» fece lui, all’improvviso. La sua era una voce profonda, calma. Quando parlava, sembrava che meditasse ogni parola.

«E allora...»

«Allora sono sempre io a decidere».

La donna si ammutolì. «Sì, signore. Naturalmente».

Lui si voltò a guardarla e si il suo sguardo, duro fino a un secondo prima, si ammorbidì.

«Aveva la pietra. Ed è più che evidente che non è ancora in grado di usarla. Se fosse riuscita a scatenarne il potere, sarebbe stato un disastro. Non è né il luogo né il momento per dare battaglia, dobbiamo mantenere un basso profilo. Non possiamo permetterci di attirare le attenzioni di qualcuno».

«Eppure, non ha esitato a uccidere il vecchio essere umano, per sapere dov'era custodita la pietra».

«La situazione era profondamente diversa» commentò lui, distaccato.

«Capisco» fece lei. L'uomo abbassò gli occhi su di lei, fissandola severamente.

«Non avevo dubbi, in proposito».

La donna sollevò lo sguardo al cielo, a fissare le nubi.

«Quali sono i suoi ordini?»

L’uomo rimase pensieroso per un istante.

«Torniamo alla base».

«Non li seguiamo neppure?» chiese lei, sorpresa.

«Non ce n’è bisogno, tenente Anuri. Presto saranno loro a venirci incontro».

La donna lanciò un ultimo sguardo lungo il Tamigi. La nave era scomparsa. «Come mai ne è così sicuro?» domandò.

«Perché è la volontà della pietra. Sarà lei a portarla da noi» disse lui, e rise. «Quella ragazza ancora non lo sa, ma si accorgerà presto che ogni tentativo di fuggire, è del tutto inutile».

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Capitolo 21
*** 20 ***


***










Quando la porta dello studio si aprì, un intenso vociare proruppe improvvisamente, inondando il corridoio silenzioso. Il giovane Winston si schermì nel trovarsi tutti gli occhi puntati addosso. Chiuse la porta alle sue spalle, velato da un leggero imbarazzo. Con suo enorme sollievo, tutti si limitarono a dedicargli una semplice occhiata noncurante, così lui poté tranquillamente eclissarsi lungo le pareti adorne di quadri.

Winston osservava la scena. Attorno al tavolo ovale sedevano dodici persone. Tutte parlavano concitatamente tra loro, a gruppetti. Parevano molto agitati.

Come sempre in quelle occasioni, Winston Churchill prendeva parte alle sedute mantenendo il massimo riserbo. Come lui, altri giovani affiliati in abito scuro stavano in piedi ai lati della sala, immobili, quasi senza respirare. Tenevano gli occhi alti, per impedire allo sguardo di intrattenersi troppo a lungo sulle fattezze di qualcuno. Non sarebbe stato gradito.

La porta si aprì e un uomo entrò, seguito da due valletti in livrea. Winston si irrigidì, scattando sull'attenti. Tutti i presenti si alzarono, mentre l'uomo prendeva posto al tavolo. Era il tredicesimo. L'ultimo, il più atteso.

Con un severo gesto del capo, l'uomo accettò che gli venisse messa al collo la catena cerimoniale. Winston l'aveva vista molte volte. Era una spessa catena di ferro, dagli anelli ricoperti di ruggine. Al centro, pendente sul petto, vi era un semplice medaglione che recava incisa una bilancia, il cui bilanciere era a forma di spada. Era il simbolo del Reggente, colui che veniva eletto a vita a presiedere il Consiglio delle Relazioni Estere.

Mentre osservava quella serie di vuote cerimoniosità, Winston sogghignò. Un po' lo divertiva far parte di quella messinscena. Non capiva molto quale fosse il reale valore di tutte quelle manfrine: collane, ciondoli, vesti luccicanti... Lui, nato con i piedi concretamente piantati per terra, trovava quelle cose un cumulo di idiozie, valide per nobili annoiati in cerca di un diversivo che puzzasse di massoneria. E per lui, sebbene appartenesse alla casata dei Churchill, e sebbene potesse vantare un padre Cancelliere, quelle cose puzzavano sì, ma di vecchio. Era solo per una serie di obbligate contingenze che si prestava a quel gioco ridicolo. Suo padre vi aveva preso parte e ora a lui toccava seguirne le orme, come in tutto il resto. In fondo, a Winston della politica non gliene fregava un accidente. Tutto quello che sognava, come ogni ventenne, era strusciarsi con qualche bella femmina e sbronzarsi in compagnia. Tutte cose che da troppo tempo gli erano negate.

Con solennità, il Reggente fece cenno agli altri di sedersi. Winston prese a respirare normalmente. Poteva anche non condividere quella serie di sviolinate, ma l'autorità che emanava dal Reggente era reale. Winston lo ammirava. Aveva imparato a conoscerlo, in tutto il tempo in cui era stato al suo servizio: era uno che non si tirava indietro dalle proprie responsabilità. E questo era un genere di cose che Winston sapeva apprezzare.

«Signori» esordì il Reggente «vi ho convocati perché poteste essere aggiornati riguardo agli ultimi sviluppi. Il nostro uomo alla difesa, il custode della Pietra, è caduto. Una lettera ci è stata recapitata stamani. Recava il sigillo dell'Ordine e annunciava la loro conquista della Pietra. Una sfida, evidentemente. Era accompagnata dall'anello di appartenenza dell'agente Fisher».

Il Reggente mostrò ai presenti un anello di ferro spezzato. Subito un mormorio concitato, simile a un intero sciame di vespe ronzanti, si levò sulle teste incanutite dei presenti.

«Come è potuto accadere?» domandò allarmato un uomo, seduto alla destra del Reggente. La sua figura allungata e aggrinzita spuntava dal tavolo come un fuscello rinsecchito e prossimo a spezzarsi. «Siamo davvero a questo punto? Dobbiamo guardarci le spalle ad ogni passo, dunque?»

«Signori, capisco la vostra indignazione» si levò la voce calma e pacata del Reggente, nel tentativo di quietare gli animi. Ma ormai, un'insolita agitazione e aveva fatto presa nell'animo dei presenti, e la loro confusione era più che evidente. «Tuttavia, non lasciamoci sopraffare dagli eventi. Abbiamo commesso degli errori, che sono davanti agli occhi di tutti. L'Ordine di Thule, che credevamo distrutto, è ancora vivo e presente. Ci ha appena lanciato una sfida, uccidendo il nostro uomo più importante e fidato e sottraendoci la Pietra. Ciò che dobbiamo assolutamente evitare, ora più che mai, è di lasciarci intimorire o cadere nello sconforto».

«Lei cosa suggerisce di fare?» fece sarcastico un uomo dalla testa lucida e rotonda, il volto segnato da ampi favoriti. «Ci illumini! Siamo appena stati giocati dall'Ordine come bambini. Con l'uccisione di Fisher ci hanno chiaramente mostrato di non avere alcuna paura di noi. Per di più, sono persino riusciti a raggiungere la Pietra. Pensate se riuscissero a prendere contatto con loro...»

«Non accadrà!» replicò secco il Reggente. «Non se sapremo fare fronte a questa disgrazia e se sapremo organizzarci al meglio. Non tutto è perduto. Non sappiamo se l'Ordine sia effettivamente a conoscenza della presenza dei Signori sul nostro pianeta. Possiamo ancora sperare che il loro obiettivo fosse semplicemente impadronirsi della Pietra. Ma questo ci pone di fronte a un'ulteriore interrogativo. Come hanno potuto sapere della sua esistenza?»

«Qualcuno ha tradito!» scattò livido un uomo dal volto rubizzo. Era talmente infervorato che mentre parlava, sputava. «Qualcuno tra noi ha commesso l'infamia più grande! Chi?» fece, lanciando occhiate di fuoco sui presenti.

«Si calmi, barone Caprivi. Non siamo qui per accusare nessuno» intervenne il Reggente. «Ma ha ragione su un fatto. In qualche modo, le informazioni che dovevano restare segrete sono uscite da queste sale. Anche questo è colpa nostra. Anni di relativa tranquillità sono stati sufficienti a smorzare le nostre attenzioni, in termini di difesa. È uno sbaglio da cui dobbiamo imparare e un errore da non commettere mai più».

«Mai più!» sbottò Caprivi. «Potrebbe essere troppo tardi! Potrebbe significare la fine!»

Il Reggente strinse le labbra. «Proprio per questo siamo qui. Per impedire l'apocalisse. Chiedo pertanto, ad ognuno di voi, di farsi intermediario con i governi di rappresentanza. Mi aspetto la massima collaborazione. Nel giro di una settimana, i capi di governo delle Dodici Nazioni devono cedere il controllo politico ed economico al Consiglio. Tutte le azioni diplomatiche e politiche sono sospese. Tutte le attività belligeranti devono essere rimandate e gli eserciti ritirati».

«Ma questo è impossibile!» scattò un ometto piccolo e secco, dai baffi sottili e arricciati elegantemente all'insù. «La Francia e Germania si attendevano molto dall'imminente guerra tra i loro rispettivi paesi. Era un piano organizzato da tempo... abbiamo speso energie incredibili e questo consiglio non si è mai tirato indietro...

«Sappiamo tutto» convenne il Reggente con un cenno grave del capo. «Ma la guerra dovrà attendere. Non possiamo permettere di indebolire le risorse generali, non ora. Continueremo a produrre materiale in eccesso, per prevenire ogni evenienza».

«Ma lei sa che, prima o poi, questo dovrà trovare sbocco in un conflitto di portata ancora più ampia, non è vero?» suggerì l'ometto. «Continuare a produrre materiale che non può essere assorbito dal mercato, porterà a scompensi difficilmente appianabili con una semplice scaramuccia di confine!»

«Se il mondo riuscirà a sopravvivere a ciò che temiamo possa scatenarsi, riuscirà anche a sopravvivere a una guerra mondiale «sentenziò il Reggente, irremovibile. «Meglio qualche milione di morti, che il totale annientamento dell'umanità.

Sull'intero consiglio calò un silenzio funebre, che avvinse i presenti come una spessa pellicola. Nessuno osava fiatare.

«E ora» aggiunse il Reggente «se nessuno ha altro da aggiungere, proclamo la seduta aggiornata. Ognuno di voi si affretti a contattare gli organi di governo di referenza. Ci ritroveremo qui domattina».

«E che dio ci aiuti!» mormorò il barone Caprivi. Il Reggente gli rivolse uno sguardo stanco e disilluso. Winston lo fissò sconcertato. In tanti anni che lo conosceva, non gli era mai apparso tanto vecchio e opaco, piagato dagli anni e dalla responsabilità.

«Lei non ha capito» fece il Reggente, scuotendo il capo dai candidi capelli bianchi. «È proprio contro dio che stiamo per entrare in guerra. Pregarlo, stavolta, non servirà a nulla».

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Capitolo 22
*** 21 ***


Boston, 27 Giugno 1895










«Jean, tutto bene?»

Jean alzò gli occhi. Alexandra lo stava fissando e lui colse un leggero velo di preoccupazione adombrare i suoi intensi occhi scuri. Le sorrise.

«Sì, tutto bene. Perché me lo chiedi?»

«È tutta la mattina che leggi e rileggi quella lettera. Mi sei sembrato preoccupato e ho pensato che ci fossero dei problemi. Tutto qua».

Lui abbassò gli occhi sulla lettera che teneva in mano. Era una lettera di Rebecca, che annunciava il suo arrivo proprio per quel giorno, insieme alla piccola Marie.

«No, nessun problema. Solo...»

«Solo?»

Jean sospirò, alzando gli occhi nella direzione in cui i binari curvavano per poi scomparire, oltre il limitare della stazione. Alex lo fissava, il volto leggermente reclinato, incorniciato dai bei capelli castani.

«È così tanto che non vedo Marie» si scusò lui. «Prima di partire avevo promesso a Rebecca che avrei fatto il possibile per essere sempre presente e...»

«Jean» fece Alexandra, posando dolcemente la mano sottile sul suo braccio. «Tu ci sei sempre stato, per Marie. Non hai nessuna colpa se per una volta hai cercato di seguire ciò che è meglio per te. Cosa può esserci di male, in questo?»

Lui continuò a fissare i binari, poco convinto.

«Sì, questo lo so... ma...»

«Smettila di recriminare contro te stesso» aggiunse lei. «Sei stato eccezionale con Marie, e anche con Rebecca. Pensi che lei non lo sappia? Guarda che non è colpa tua se Marie è stata allontanata da scuola. E se non ci fossi stato tu, lei e Rebecca non avrebbero nemmeno avuto una casa in cui stare».

«Forse se io fossi stato più presente, se avessi aiutato di più Rebecca...»

Alessandra scosse il capo. «Forse, forse, forse... quante storie! Tu hai fatto molto. Purtroppo Marie sta attraversando un momento difficile e proprio per questo non credo che ci sia nulla di male, se lascia la scuola per un po’. Venire qui non le farà certo male».

Jean la guardò, ma non disse nulla.

«Già, forse hai ragione» fece, alla fine. «Come sempre, d’altronde».

Lei arrossì, senza aggiungere una parola.

«Eccoli!»

Il treno comparve all’orizzonte, in uno sbuffo di vapore. Jean e Alexandra si portarono le mani agli occhi, per ripararsi dal riflesso del sole. Quando il treno raggiunse la stazione, i freni fischiarono producendo uno stridio assordante, e le persone sulla pensilina furono avvolte in una nuvola di fumo bianco che puzzava di umido, catrame caldo e polvere di ferro bruciato.

Jean passò in rassegna i vagoni con lo sguardo. L'eccitazione all’idea di rivedere Marie e Rebecca era fortissima, ma anche la paura.

«Jean! Siamo qui!»

Quando Marie apparve sul predellino del treno, Jean si dimenticò di ogni timore, ed esplose in un sorriso di gioia. Con slancio, lei corse a terra, abbandonando i propri bagagli. Gli si tuffò tra le braccia e mentre la stringeva a sé, Jean si accorse di quanto fosse diventata alta, molto più di quanto non ricordasse. Ormai non era più una bambina, e la cosa gli toccò il cuore. Per lui, lei restava la piccola Marie.

«Marie, che bellezza! Accidenti,» fece, realmente sorpreso «sei cresciuta tantissimo».

Lei sorrise sbarazzina, producendosi in una piroetta aggraziata che metteva in mostra il suo nuovo abito azzurro, adorno di nastrini. Aveva in volto una baldanza che lui non conosceva, e si chiese quanto di nuovo in lei avrebbe scoperto. Ma cosa sapeva, veramente, di quella bambina? Era stato lontano tanto di quel tempo... quanta della sua vita aveva perduto?

«Hai visto?» gli chiese allegra. «Ti piace il vestito che mi ha comprato la zia?»

Jean ostentò un’espressione meravigliata.

«È davvero stupendo! Sembri una regina!»

«L’abbiamo preso a New York, ieri. La zia mi ha portato a fare compere».

«Un’esperienza meravigliosa! Non ho mai visto tanti negozi pieni di abitini così belli...»

Jean sollevò gli occhi, incrociando lo sguardo allegro di Rebecca, che avanzava a passo elegante verso di loro. Era tutta tirata a lucido, stretta in uno splendido abito in taffetà giallo paglierino, che lasciava scoperte le spalle e il petto generoso, come fosse un abito da ballo. Sulle spalle indossava uno scialle di seta dalla tonalità più scura, annodato elegantemente sul seno, che si intonava perfettamente con il largo cappello, portato di sbieco. Tra le mani guantate di bianco, rigirava un ombrellino in tinta con il vestito, dal manico in avorio intagliato. Non appena furono vicini, Jean si alzò e la abbracciò, salutandola calorosamente. La donna ricambiò felice, sebbene mostrasse un certo imbarazzo.

«Alex» fece Marie. «Ti piace il mio vestito?»

Alexandra sorrise. «Sì, è davvero stupendo».

«Già, già» fece Rebecca agitando allegra la mano. «Merito del mio incomparabile buon gusto. Marie sta dimostrando di possedere uno spiccato senso estetico; e, modestamente, credo di avere qualche merito in questo».

«Indubbiamente» fece Alexandra, soffocando una risata.

«Avete tutto con voi? Possiamo andare?» chiese Jean, mentre Rebecca lo caricava di pacchi e pacchettini.

«Sì, il facchino dovrebbe portarci il resto. Se riusciamo a trovarlo...» Rebecca si alzò sulle punte dei suoi stivaletti di vernice bianca, scrutando tra la folla. Oltre le teste dei viaggiatori che affollavano la pensilina, intravide il berretto di un facchino. L'uomo se ne stava appoggiato con le spalle a un pilastro della stazione, intento a leggere un giornale.

«Ehi» gridò Rebecca agitando la mano con garbo. «Brav’uomo?»

Il facchino non diede segno di aver sentito. Rebecca si sfilò un guanto e, portando due dita alle labbra, lanciò un fischio tanto acuto da far girare mezza stazione. Il facchino voltò la testa a fissarla, stupito.

«Dico a lei! Può venire qui?» sbottò Rebecca.

L’uomo scattò sull’attenti e si precipitò con il suo carretto. Rebecca gli indicò distrattamente i bagagli.

«Questi facchini» lamentò, sfilandosi anche l'altro guanto. «È sempre più difficile trovare qualcuno con la voglia di far bene il suo lavoro. Allora, Siamo pronti?»

Jean annuì da sotto una montagna di scatole. «Direi di sì... Andiamo. Fuori c’è la mia automobile».

«Tu hai un’automobile?» chiese Marie, affascinata. Jean annuì, visibilmente orgoglioso.

«Sì, l’ho acquistata da poco. Ti piacerebbe farci un giro?»

«Eccome!» fece Marie, tutta eccitata all'idea. Alex le tese la mano, strizzandole l’occhio.

«Vieni, ti porto subito a vederla» le disse con complicità.

«Andiamo!» esultò la bambina. Rebecca sorrise, lanciando a Jean uno sguardo obliquo, molto significativo.

«Alex ci sa fare con i bambini...» disse semplicemente. Quindi tacque, come per lasciare alle sue parole il tempo di depositarsi. «Come vanno le cose tra di voi?» buttò lì poi, distrattamente.

Jean inciampò, lanciando un’imprecazione. Rebecca si sforzò di non scoppiare a ridere. Conosceva quel ragazzo come le sue tasche.

«Cosa vuoi dire?»

«Lo sai».»

«Siamo solo amici, tutto qui. Lei è la mia assistente.»

«Già...»

«E io sono il suo responsabile...»

«Quindi?»

Jean fissò torvo Rebecca, da sotto la montagna di pacchi. Lei rise e appoggiò una mano affusolata sull’avambraccio di lui.

«Tesoro, non pensi che sia il caso che tu dia un ordine alle tue priorità?» fece lei, con falsa noncuranza.

«Non capisco proprio cosa tu voglia dire» ribatté lui, deciso.

«È evidente che quella ragazza nutre dei sentimenti per te. Lo vedrebbe anche un cieco».

«Ti sbagli. Siamo solo...»

«Amici?»

«Esatto» rispose lui.

«Interessante. Avessi avuto anch'io, amici così» fece, ostentando una certa aria divertita. «E anche lei la pensa così?»

Jean sbuffò. Non capiva il perché di quella assurda conversazione. «Non sono mica nella sua testa...» si limitò a far presente.

«Oh, se la metti così!» ribatté Rebecca leggermente offesa, lasciando cadere l’argomento. Era intimamente decisa, però, a riaffrontarlo in seguito. Se c’era qualcosa che non era disposta a lasciar perdere, questo era la vita sentimentale di Jean. E sebbene Rebecca fosse per natura una persona avvezza a concentrarsi tendenzialmente su di sé, non poteva non accorgersi del dolore che ancora lo imprigionava. Sentiva che se qualcuno non lo avesse aiutato, sarebbe rimasto a crogiolarsi nel rimorso per anni, finché non ne fosse rimasto schiacciato. Alexandra lo amava ed era bella e intelligente. E, soprattutto, voleva molto bene a Marie. Era il momento che anche Jean se ne accorgesse.

«Ecco, siamo arrivati. Quella è la mia auto» fece Jean, contento di poter cambiare discorso.

Una specie di carrozza senza cavalli era parcheggiata davanti al marciapiede della stazione. Era piuttosto grande, con un sedile di pelle ingrassata ben fatto e dall'aspetto confortevole, su cui due persone avrebbero potuto sedersi più che comodamente; e un piccolo scranno anteriore, anch'esso di pelle imbottita, proprio accanto al volano di guida. Questo consisteva in un lungo bastone di ferro con in cima un piccolo volano, dotato di manopola per poterlo girare più comodamente. La vettura era bella a vedersi, nel complesso, e dava un senso di grande eleganza. Non appena la vide, Marie strabuzzò gli occhi, assolutamente conquistata.

«Bella» disse Rebecca, squadrando la luccicante Daimler laccata di nero senza troppo entusiasmo. Jean non poté fare a meno di notare la nota sostenuta nella sua voce. Doveva essersela presa perché lui non era stato al suo gioco.

D’altra parte, lui lo conosceva quel gioco. Tutte le volte che si incontravano era sempre la stessa storia. Lei cercava in qualche modo di affibbiargli una ragazza, nonostante lui non facesse altro che dimostrarle che la cosa non gli interessava. Non era in grado di occuparsi di se stesso, come poteva occuparsi di qualcun altro?

Fissò distrattamente Alexandra: stava giocando con Marie e parlavano fitto fitto. Marie faceva finta di guidare e Alex le stava seduta accanto, docile alle fantasie della bambina.

Beh, bisogna riconoscere che ci sa davvero fare con i bambini, pensò con un sorriso, mentre assicurava i pacchi al portabagagli. Improvvisamente incontrò gli occhi di lei. Sorpresa, Alex arrossì e altrettanto fece Jean. Rebecca, a cui non sfuggiva nulla, osservò la scena compiaciuta, senza però dire una parola.

Non appena arrivarono all’albergo, un facchino in livrea si fece pomposamente incontro alla macchina. Rebecca alzò lo sguardo verso l’hotel, incapace di trattenere la propria emozione.

«Ommioddio!» fece. «Ma è davvero qui che alloggeremo?» Si voltò speranzosa verso Jean, che aveva già arrestato l’auto ed era sceso per dare una mano a scaricare i bagagli. «Dev’esserci un errore...» disse, temendo fosse proprio così. Ma Jean scosse la testa, sorridente.

«Nessun errore. Solo il meglio per le donne della mia vita».

Rebecca si portò le mani alla bocca, gli occhi lucidi per l'emozione, mentre rimirava le vetrate scintillanti della hall. Già si sognava seduta a un tavolino nella tea room, a sorseggiare cocktail all’ora dell’aperitivo, in compagnia di eleganti dame in abiti da capogiro e di ricchi e affascinanti uomini d’affari, provenienti da tutto il mondo. Quell’idea la conquistò subito, colorando di rosa la sua immaginazione.

«Jean, ti adoro» fu il suo commento sincero.

«Non c’è di che» fece lui, divertito. Marie però, sembrava meno allegra.

«Ma Jean, non stiamo tutti insieme?» gli chiese, tutta mogia.

«Marie, io abito al campus. Il mio appartamento è troppo piccolo per tutti e non potevo certo farvi alloggiare in uno spazio così ristretto, non credi?»

«Ma non potevi trovarci qualcosa lì da te?»

«Certo, ma non avreste avuto le comodità che invece avrete qui, no? E poi io sarò sempre con voi, vi verrò a prendere la mattina e staremo sempre insieme, fino a ora di andare a letto».

Marie sorrise. «Promesso?»

«Promesso» fece Jean, serio. «Hai la mia parola».

«Allora va bene» E così dicendo, Marie saltò fuori dall’auto per correre dietro al facchino che portava i loro bagagli nella hall.

«Senti, Rebecca» disse Jean, posando a terra l'ultimo bagaglio, che il facchino si affrettò a prendere. Jean lo ringraziò, dandogli qualche moneta di mancia. «Ho lezione, stamattina, ma sarà una cosa veloce. Non mi prenderà più di un'ora e mezzo. Verso l'ora di pranzo sarò di nuovo da voi. Pensi che vada bene?»

«Andrà benissimo, tranquillo» commentò Rebecca. Quindi, sorridendogli con malizia «te la passi bene qui... vero, ragazzo mio?» disse.

Jean contraccambiò il sorriso di Rebecca con una laconica alzata di spalle. «Diciamo che non mi posso lamentare».

«Sono davvero felice per te» fece lei, stringendogli il braccio. «Va bene, allora a dopo. Adesso ho proprio voglia di bere qualcosa di fresco. In queste grandi città fa sempre così caldo!»

Jean osservò Rebecca mentre risaliva le scale ondeggiando i fianchi voluttuosamente. Avrebbe dato qualsiasi cosa per possedere quella sicurezza che trasudava da lei in modo così naturale, e di cui lui si sentiva invece completamente privo.

Eppure, pensò mentre si chinava per riavviare la macchina, Rebecca non aveva torto. La vita a Boston non era niente male, per lui.

Quando due anni prima aveva ricevuto la lettera dal MIT, Jean aveva pensato subito a uno scherzo. Era vero che di cose fino ad allora ne aveva fatte: aveva studiato ingegneria al politecnico di Berlino e fisica a Parigi; e quindi aveva cominciato a produrre progetti innovativi che le maggiori industrie meccaniche europee si erano offerte di pagargli a peso d’oro. Ma lavorare al MIT, il più moderno e innovativo istituto per la ricerca tecnologica al mondo, era tutta un'altra faccenda. Significava coronare un sogno: lavorare allo sviluppo per il progresso della scienza. Un progresso gratuito, non dettato dalle esigenze economiche di qualche privato e nemmeno dal desiderio di supremazia tecnologica di qualche governo. Il suo lavoro rispettava esattamente i suoi ideali: servire una scienza che fosse per tutti e a beneficio di tutti, una scienza che mostrasse il suo legame con il cuore umano e che avesse la sua forza nel mostrare all’uomo le possibilità per un mondo migliore.

E proprio per quella sua energia e per quegli ideali che lui non esitava a mettere in campo, quando necessario, le lezioni di Jean divennero presto le più frequentate del MIT, il Massachussetts Institute of Technologies. Dovettero assegnargli l’aula più grande dell’intero istituto e la fila di studenti che bussava alla sua porta in cerca di un dottorato era smisurata. Jean era sinceramente sorpreso di tutto quel suo successo, che senz’altro attribuiva all’effetto novità che la sua comparsa doveva aver suscitato. Probabilmente, o almeno così credeva, il fatto di avere solo ventun anni lo rendeva più vicino e simpatico ai suoi studenti, spesso più vecchi di lui. La verità però, era un'altra: tutti facevano a gara a seguire i suoi corsi perché erano, semplicemente, i più straordinari.

Ecco perché, solo il mese prima, Jean Luc Lartigue, docente di meccanica avanzata e di nuove tecnologie, era diventato il membro più giovane del comitato scientifico nazionale americano, nonché membro effettivo del consiglio accademico al MIT.

Allora, perché continuava a sentirsi come se non avesse mai combinato nulla in tutta la sua vita?

C'era qualcosa di vuoto in lui, che gli rodeva l'anima come un cancro, mandando in pezzi i suoi giorni. Uno spettro ribelle che lo abitava da tempo e che Jean aveva imparato a riconoscere in quel senso di stanca inutilità che talvolta lo spingeva a isolarsi dal mondo, e che gli metteva nel corpo un'agitazione frenetica, incontrollabile: il desiderio di alzarsi, di correre, legato all'impossibilità di stare per troppo tempo nello stesso posto. Gli accadeva di non riuscire a leggere né a lavorare. Talvolta, appena sentiva qualcuno parlare, provava fastidio. Voleva essere lasciato solo, ma allo stesso tempo soffriva di questa sua incapacità di comunicare agli altri il proprio disagio; e intanto, sentiva crescere in sé l'astio nei confronti di un mondo che non lo comprendeva e che lo abbandonava a una solitudine che talvolta cresceva fino a strozzarlo.

Cos'è che vuoi, si disse. Si può sapere cosa stai cercando?

Alzò gli occhi, incontrando il riflesso del suo volto sul lucido pannello di legno che copriva la parte posteriore della vettura. Ciò che vide fu un giovane già vecchio. Nessuna speranza, nessun sogno. Un vuoto nulla. Con nausea e rassegnazione, Jean girò seccamente la manovella di accensione. Il motore emise un borbottio, scoppiettò, quindi si avviò e lui andò a prendere posto accanto ad Alex, ignorando il suo sguardo indagatore.

Jean parcheggiò la sua Daimler al solito posto, poco lontano dall’ingresso del campus. Amava passeggiare attraverso gli ampi viali coronati di alberi che circondavano l’area universitaria. Forse era a causa dell’abitudine agli ampi spazi aperti in cui era cresciuto a Le Havre, ma la vita in una città caotica come Boston gli andava decisamente stretta. Quelle passeggiate nel verde erano una reale necessità per lui, qualcosa di assolutamente vitale: un modo per ritrovare se stesso attraverso le proprie abitudini.

Camminare accanto ad Alexandra per quei sentieri tranquilli, gli fece improvvisamente capire quanto con lei stesse bene. Il loro rapporto era molto più di un'intensa intesa intellettuale. A volte sentiva la sua esistenza vibrare insieme a quella di lei, come in sincrono: e la cosa lo sconcertava ed affascinava insieme. Erano anni che non provava un'emozione come quella. Lei lo capiva più di chiunque altro. E per questo, era diventata l'unica persona a cui lui non avrebbe mai potuto rinunciare, dopo Marie.

Una cosa che gli piaceva di quella ragazza era la sua capacità di far sentire sempre gli altri a loro agio. La sua intelligenza era qualcosa che poteva decisamente spaventare, ma lei non ne faceva mostra, a meno che non dovesse rimetter al suo posto qualche arrogante presuntuoso, che pensasse ingiustamente di valere più di lei.

Comunque, in quel momento era decisamente rilassata.

Jean ripensò alle parole di Rebecca e sentì il volto avvampare. Lanciò uno sguardo furtivo alla ragazza, che sorrideva, parlando allegramente e gesticolando, come era suo solito quando era molto presa da una conversazione.

Certo, è molto carina, pensò, indugiando per un attimo sulle sue fattezze sinuose ed eleganti.

Ma cosa dici? È uno schianto...

Forse era lei la risposta. Tanto vicina, eppure così lontana. Magari il senso della sua vita era lì, a pochi passi da lui. Si trattava solo di lasciarsi avvicinare.

Si lasciò sorprendere mentre la fissava. Lei gli piantò gli occhi in volto, curiosa. Quando lo vide arrossire e distogliere lo sguardo, lei sorrise, compiaciuta.

«Sei sempre così timido?» chiese all’improvviso. Jean sussultò.

«In che senso?»

«Nel senso se sei sempre così timido...»

«No... beh, forse. Ma riguardo a cosa, esattamente?»

Dio, ma di cosa diavolo stiamo parlando?

Alex rise, portandosi graziosamente una mano alla bocca. Il sole che filtrava tra le ampie fronde secolari del parco si rifletteva sui suoi lisci capelli castani, che le incorniciavano il volto, luccicanti come seta.

«Insomma... proprio non mi chiederai mai di uscire?»

Jean si immobilizzò. Cos’è che aveva appena detto?

«Uscire?»

Lei lo fissava piena di aspettativa, sulle guance un rossore diffuso. Forse lui attese un po’ troppo prima di risponderle, perché un velo di imbarazzo calò tra di loro, spingendola a distogliere lo sguardo e a passarsi una mano tra i capelli, nervosa.

«Alex io... il fatto è che...»

Chiediglielo, imbecille. Cosa stai aspettando?

«Professor Lartigue! Eccola, finalmente!»

Jean rimase come sospeso, con la sua dichiarazione ancora in bilico sulle labbra. Mr. Devon, il custode, avanzava verso di loro, trafelato, correndo come una papera all'ingrasso. Jean sbuffò, ma Alex parve decisamente sollevata da quell'inaspettato diversivo.

«Sapevo che l’avrei trovata qui in giro» esalò allegro il piccolo uomo in divisa, che fissava Jean attraverso due sottili occhietti vivaci, «ma quando ho veduto che tardava, ho cominciato a preoccuparmi».

Jean continuava a occhieggiare timidamente il volto di Alexandra, che ora evitava di incontrare il suo sguardo.

«Qual è il problema, signor Devon?» disse, cerando di ostentare una sicurezza che in quel momento non aveva per nulla. «La lezione comincia solo tra quindici minuti».

«Ci sono alcune persone che sono venute apposta per lei» riprese il custode.

«Per me? E chi sarebbero?» fece Jean, con un’alzata di spalle.

«Un tal signor Garrett. Con altri signori».

Jean sussultò. «Garrett? Hanson Garrett, per caso?»

«Non so» fece Devon. «Non ha lasciato detto il nome. Solo Garrett».

«E dove si trovano ora?»

«La attendono nel suo studio. Mi sono permesso di farli accomodare».

Jean si mise a correre. Era eccitato e nel contempo felice. Sperava davvero che si trattasse di Hanson, il vecchio amico con cui aveva vissuto tante avventure e che lo aveva seguito a Berlino, dove avevano studiato insieme per diverso tempo.

Era successo quasi tre anni prima, quando...

Lascia perdere. Lei è una storia chiusa.

Con emozione, aprì la porta del suo studio. Un uomo corpulento, sui trentacinque anni, era appoggiato alla scrivania, le gambe intrecciate. Parlava con qualcuno seduto alla poltrona che dava le spalle all’entrata. Quando lo vide entrare, Hanson sollevò su Jean gli occhi languidi e incavati, segnati da due perenni occhiaie, che conferivano al suo volto ampio e rotondo una dolcezza bovina. Abbozzò un sorriso, e una luce gli si accese in volto.

«Ma guarda chi si vede! Il professor Lartigue!» esclamò con la sua voce bassa e dall'inconfondibile nota nasale.

Jean gli si fece incontro, stringendolo in un abbraccio. L’uomo ricambiò cordialmente, avvolgendolo tra le sue grosse braccia e battendogli amichevolmente la mano sulla spalla.

«Hanson, quanto tempo! Quando mi hanno detto che un certo signor Garrett era qui, ho davvero sperato che fossi tu!»

«Voglio ben vedere! Chi può essere felice di trovarsi davanti l’altro Garrett?»

Jean rise. «Se proprio vuoi saperlo, Sanson fa l’attore. Vive poco lontano da qui, lo sento spesso».

Hanson rise di gusto. «L’attore? Ma per piacere... è sempre stato un pagliaccio, nulla più!»

Jean lasciò che il suo sguardo si posasse sull’uomo che se ne stava accanto a loro, seduto in poltrona. Era affascinante, alto all’apparenza e sui trent’anni. Il volto aveva lineamenti decisi e portava sottili ed eleganti baffi arricciati. Vestiva un completo estivo di lino e aveva i capelli mossi, ben impomatati e pettinati all’indietro. Fissava Jean con un mezzo, enigmatico sorriso.

Hanson si schiarì la voce.

«Jean, vorrei presentarti il signor...»

«Fisher. Jonathan Fisher» fece quello, tendendo la mano mentre si alzava. Jean la strinse macchinalmente.

Fisher? Perché quel nome gli diceva qualcosa?

Hanson lanciò a Jonathan uno sguardo severo, che lui ignorò.

«E senz'altro ti ricorderai di...»

Nadia!

Improvvisamente, il mondo si fermò. Jean rimase a fissare la giovane donna che fino a quel momento era rimasta nascosta, come fosse invisibile. Lei lo fissava piena di imbarazzo, il volto dalla pelle color dell’ambra screziato di rosso. Gli occhi erano vividi e scintillavano come quando una luce troppo forte arriva a colpirli.

«Ciao, Jean» fece lei. E si avvicinò, tendendogli la mano. «È bello rivederti».

Jean non si mosse. Tutto quello che era capace di fare, in quel momento era continuare a respirare. Ma neppure quello gli riusciva molto bene.

Nadia restò per qualche istante con la mano tesa. Quindi, non ricevendo alcuna risposta, la abbassò vergognosamente, lisciandosi la gonna e guardando di sottecchi gli altri. Il suo sguardo si posò distrattamente sul volto della giovane donna che era entrata insieme a Jean e non poté evitare di notare quanto lei la studiasse con una severità tale che la infastidì. Nadia rizzò il mento e sostenne il suo sguardo, ma la ragazza distolse immediatamente gli occhi e li concentrò su Jean.

«Jean» riprese Hanson, visibilmente in imbarazzo «perdonaci questa intrusione ma...»

«Scusatemi, devo andare a fare lezione» lo interruppe lui.

Fu tutto quello che disse, prima di uscire dalla porta senza nemmeno voltarsi indietro.

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Capitolo 23
*** 22 ***


2










«Chiuda la porta, Churchill».

Winston entrò e chiuse la porta alle sue spalle. Si piazzò proprio davanti alla scrivania, come al solito. Attendeva che l'uomo da cui aveva preso ordini negli ultimi due anni della sua vita, gli dicesse ancora una volta cosa fare.

«Lei si è sempre mostrato all'altezza della situazione» cominciò l'uomo. Winston si confuse. Non si aspettava qualcosa del genere.

«La ringrazio» disse, piuttosto sorpreso.

«Perciò, credo sia giunto il momento di affidarle qualcosa di più serio. Lei è a conoscenza di quanto sta accadendo, non è vero?»

Winston non sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto rispondere. Certo che ne era a conoscenza. Non era uno stupido. Assistere a tutte quelle riunioni in cui non si parlava d'altro... solo un perfetto idiota, o qualcuno che davvero credeva nella regola del Consiglio di tapparsi le orecchie e la bocca in qualsiasi occasione, avrebbe potuto evitare di ascoltare. Ma non era certo il suo caso.

«Suvvia, non faccia finta di non sapere».

Winston drizzò il busto, un movimento veloce, da soldato.

«Sì, signore. Sono al corrente».

«Che idea si è fatto?» domandò il Reggente. Winston abbassò gli occhi a guardarlo. Lo chiedeva a lui?

«Signore, se devo essere sincero, questa storia non mi convince del tutto».

L'uomo alzò gli occhi, stringendoli. Voltò leggermente il viso, squadrando il volto di Winston di traverso.

«Sarebbe a dire?»

«La velocità degli eventi. Non mi quadra. Prima, la pietra sparisce. Poi viene ritrovata. Sappiamo che Kurtag l'aveva affidata alla giovane amante di Fisher. È da lei che Fisher l'ha avuta, esatto?»

«Continui» disse il Reggente, agitando la mano con eleganza.

«Ebbene... come è possibile che l'Ordine sia riuscito a rintracciarla così in fretta? Forse la ragazza si è fatta scappare qualcosa, magari l'ha detto a qualcuno, facendo giungere la notizia alle orecchie dell'Ordine... oppure, come? Possibile che Fisher sia stato tanto stupido da tradirsi?»

«Forse ha ragione lei, la ragazza ha parlato troppo...»

«Sì, ma è difficile da credere. Perché l'Ordine si sarebbe dovuto preoccupare di tenerla d'occhio e di metterle accanto una spia? Lei era insignificante. Per me, qualcuno deve per forza aver tradito. Qualcuno interno al Consiglio, che sapeva del ritrovamento. Solo così l'Ordine avrebbe potuto conoscere chi aveva la pietra».

L'uomo si ficcò le mani in tasca, muovendole freneticamente. Masticava nervoso, come se non riuscisse a ingoiare qualcosa.

«Quello che dice, se corrispondesse al vero, sarebbe molto grave».

«Lo comprendo» assentì Winston.

«Vuol dire che le nostre difese sono state completamente violate. Il Consiglio stesso dovrebbe sciogliersi e attivare una... epurazione».

«Così parrebbe».

Il Reggente lo fissò attentamente. Muoveva le mani nelle tasche, attirando l'attenzione degli occhi vivaci del giovane, che continuava a starsene sull'attenti.

«Lei non sembra particolarmente toccato dalla cosa» fece l'uomo. Winston tenne gli occhi fissi avanti a sé.

«In due anni ho imparato che la responsabilità di un uomo di governo va ben al di là di semplici scrupoli di coscienza».

L'uomo serrò la mascella. Annuì, volgendo altrove lo sguardo. «Io le ho insegnato questo? Se è così» riprese, dopo una breve pausa «ho fatto davvero un lavoro eccellente. E terribile allo stesso tempo».

«Ciò che facciamo qui, è segreto perché esula dalla comune comprensione. Non è quello che mi ha sempre ripetuto, signore?»

Il reggente lo fissò stranito. Quindi sogghignò, lasciando trapelare tutta la sua sorpresa.

«Certo che lei mi stupisce!» confessò. «Comunque è vero. Cosa penserebbe la gente se sapesse che ogni cosa nel mondo, ogni guerra, ogni carestia, ogni trattato, il destino di ogni singolo angolo della Terra è deciso dai tredici uomini riuniti in queste sale?»

Si avvicinò alla finestra. Pioveva, fuori. E una sensazione uggiosa si trasmise al suo cuore, quasi l'avesse assorbita dall'esterno come una spugna. «Quello che si impara qui,» riprese «ci toglie ogni possibilità di essere umani. Ne ho viste di porcherie, in sessant'anni, ma non sembrano mai avere fine. L'uomo avanza sempre più verso un destino che è puro nulla. Si vive rincorrendo il potere, prostituendosi a quella gran troia che è il successo...»

Si volse a guardare Winston, che lo fissava curioso, ma impassibile. «Non ne sente la puzza, Churchill? Non sente il fetore che ci lascia addosso quella gran puttana? Ognuno di noi smania per sdraiarsi tra le sue gambe rinsecchite e avide e non ci si accorge di quanto schifo ci lascia addosso. Quella troia ci succhia l'anima, e ci trasforma in quello che è. E noi ci ammaliamo di lei, del denaro, del successo. Cos'altro conta, in fondo? Lei saprebbe rispondermi?»

Winston abbassò lo sguardo a fissarlo. «Lei non sembra ancora una troia, signore».

L'uomo rise, e la sua era una risata esile e rauca. «Ti ringrazio, ragazzo» disse, scendendo a una cordialità inusuale. «Ma la verità è che anche io sono marcio dentro. Tengo le redini di qualcosa che era nato per assicurare il futuro dell'umanità, ma che ormai è diventato solo un meccanismo per far denaro, come tanti. Questo consiglio continua a vivere dietro la rendita delle sue glorie passate, quando ancora in queste sale risuonavano ideali e la gente era pronta a morire per una giusta causa. Ma ora? Ora si pensa a quanto potrebbe fruttare una guerra tra Francia e Austria. Si organizzano scambi territoriali. Lo sa cosa sono queste?» fece, sventolando davanti al naso di Winston una serie di fogli svolazzanti che raccolse dalla sua scrivania. «Sono i documenti che regolano lo scoppio di una guerra. Una guerra, proprio così. È stata la nostra ultima trovata. Una bella guerra per ridurre la popolazione e azzerare le risorse. È già stabilito tutto. Chi attaccherà per primo, perché, come... chi vincerà. Perché non importa, in realtà, se qualcuno perde o vince, o chi muore e chi no. Importa il risultato. La visione globale. Crede che la gente potrebbe capire tutto questo?»

«No, signore» disse Winston. Effettivamente, persino lui faceva fatica a capirlo.

«Esatto, proprio così. Dobbiamo dar loro l'idea che il mondo sia ancora retto da ideali quali la giustizia e la volontà. Dobbiamo dar loro la speranza. Devono credere di essere padroni del loro destino, di avere la possibilità di costruire il mondo che vogliono. E mentre noi gli ammantiamo tutte queste favole edificanti davanti al naso, gli facciamo andare per traverso la medicina, in modo che nemmeno si accorgano di averla presa. È sempre stato così, e sempre sarà. La libertà... bella parola, ma vuota! Non significa nulla, se non la responsabilità di occuparsi di chi è troppo ingenuo da capire come stanno realmente le cose».

«Perché mi dice questo, signore?» osservò cautamente Winston. L'uomo si riscosse come da un sogno.

«Non lo so» ammise. «Forse perché avevo solo bisogno di parlare con lei. Chi può dirlo?»

Tacquero entrambi. L'uomo riprese a muovere le mani nelle tasche dei pantaloni.

«Voglio che vada a scoprire qualcosa su quella ragazza, su come aveva fatto a trovare la pietra, la gente che frequentava... tutto. Voglio sapere perché Kurtag le ha affidato la pietra. Magari è possibile scoprire qualcosa... ed evitare la catastrofe dell'epurazione. In queste condizioni, sarebbe un vero disastro... un vero disastro...» ripeté, quasi mormorando.

«Come ordina» rispose prontamente Winston.

«Io provvederò al resto, come sempre. Sa?» aggiunse in ultimo, e sul volto gli si stampò un sorriso vacuo, allungato come una ferita ancora aperta e sanguinante. «L'unica cosa che sento, ora, è la fortuna di trovarmi da questo lato. Io darò l'ordine per l'epurazione: dodici persone probabilmente moriranno e io penso solo al fatto che non toccherà a me. Ecco come ci si riduce, Churchill».

«Prima o poi, tutti devono scontare i propri peccati – fece Winston».

«I peccati non esistono» lo irrise l'uomo. «Sono una favola che abbiamo inventato per illuderci di avere un'anima. Il senso di colpa che ci hanno instillato dentro secoli di religione ha fatto il resto. Ma in realtà, non c'è proprio nulla di tutto questo. Esiste solo la volontà. Ed essa non risponde a nessun altro che a noi stessi».

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Capitolo 24
*** 23 ***


3










Jean se ne stava seduto immobile alla cattedra, lo sguardo perso nel vuoto. Nel vederlo così indifeso, Alex si intenerì. Lo pregò di delineare almeno un problema, che poi si sarebbe occupata lei di esporlo alla classe. Jean non sembrò nemmeno ascoltarla, forse nemmeno avvertiva la sua presenza in aula, come quella dei centosessanta studenti che rumoreggiavano in attesa.

«Jean, la lezione dovrebbe già essere cominciata da cinque minuti. Presto tutta questa gente si comincerà a chiedere cosa sta succedendo».

Lui non sollevò nemmeno lo sguardo, restando a fissare il vuoto sopra la cattedra, immobile.

Alexandra, rassegnata, si schiarì la voce. Fissò la massa indistinta di studenti e prese un bel respiro.

«Signori, buongiorno. Oggi tenteremo qualcosa di... diverso...» sbirciò nuovamente in direzione di Jean, che però continuava a mantenersi chiuso nella sua apatia. «Sarete voi a sottoporci un problema».

Stava improvvisando. Scrutò inquieta i volti dei presenti, attenta a percepire la loro reazione. Questi si guardarono l’un l’altro, evidentemente sorpresi. Alex non si fece scoraggiare.

«Qualcuno di voi vorrebbe presentare un problema... o una questione da discutere?» provò a insistere. «Potrebbe essere interessante».

Ridicolo, pensò. Ma sempre meglio di niente.

Hanson, Nadia e Jonathan entrarono in aula in quel momento. Senza dare nell’occhio, trovarono posto tra le ultime file. Nadia non riusciva a scollare gli occhi di dosso a Jean. Non era preparata a rivederlo, ma soprattutto non era preparata a quello che aveva provato nel rivederlo. Aveva sempre pensato che fosse un capitolo chiuso della sua vita e invece, non appena se l’era ritrovato davanti, il cuore le aveva fatto un balzo nel petto. Era così cambiato eppure, dietro quell'aria ora un po' triste, sembrava nascondersi lo stesso ragazzo esuberante che aveva conosciuto tanti anni prima. I suoi capelli, più scuri e forse meno rossi, ma sempre ribelli, gli ricadevano sulla fronte come allora, oggi solo un po’ più lunghi: cosa che gli conferiva un fascino a cui lei non seppe sfuggire. Ma il suo corpo... quello sì, era diverso! Più alto, più tonico. Più adulto. E da quel corpo si irradiava un inquietante richiamo, che la coinvolgeva segretamente, sconvolgendo tutte le sue certezze. Jean gli piaceva, gli era sempre piaciuto. E lei doveva ancora imparare a non dare mai per scontate le regole segrete dell'attrazione.

Lasciò che il suo sguardo indugiasse sulla fronte corrugata di lui, fino a scendere sulle labbra serrate e sulle mani, forti ma sottili, raccolte davanti al viso irrigidito. Solo agli angoli della bocca e degli occhi, lei rintracciò un ombra di solitaria infelicità, velata dall'imperscrutabilità in cui avvolgeva il suo volto. Fu per l'incappare in quel segreto che lui celava agli altri, che lei si sentì pungere dal senso di colpa. Nadia lottò contro quel sentimento non voluto, sebbene una parte di lei fosse pronta a piegarsi ad esso e a subirlo. Quella sofferenza che vedeva in lui, in fondo, era fortemente legata alle scelte che lei aveva compiuto, alla vita che lei aveva voluto per sé e alla sua realizzazione. E per lui, Nadia provava dolore, sì; ma non poteva non gioire di se stessa, di quello che finalmente era diventata e di ciò che era riuscita a creare per sé.

«Dunque?» chiese Alexandra. Un brusio concitato di diffuse per l'aula. Cominciava a preoccuparsi.

«Chi è quella ragazza?» chiese Nadia a Hanson, cercando di ostentare quell’indifferenza che in realtà non possedeva. Hanson si sporse, per vedere a chi Nadia si riferisse.

«Chi, quella?» fece. «Si chiama Alexandra. Non so il cognome e non so molto di lei. Tutto quello che posso dirti è che è un mezzo genio e penso sia l’assistente di Jean. E che è molto graziosa» aggiunse, con un sorrisetto ambiguo. Nadia fece finta di non aver sentito.

«Abbiamo fatto male a venire» tagliò corto lei. «Io te l’avevo detto».

«Sì,» sussurrò Hanson a denti stretti «ma io ti ho anche detto che l’unico che possa aiutarci a risolvere il nostro problema è Jean. Quindi, se vuoi che partiamo per la spedizione, abbiamo bisogno del suo aiuto».

Nadia sporse in fuori il labbro. «Sarà, ma non mi sembra dell’idea di aiutarci...»

«Lascia fare a me» disse lui, fiducioso. «Conosco bene il ragazzo».

Già. L’unica a non conoscerlo credo di essere io.

«Professore» si levò Hanson. Nadia lo fissò con gli occhi spalancati. Tutto quello che non voleva era attirare lo sguardo di Jean su di lei. «Avrei io una questione, se può interessare».

Alex sorrise. Era un passo in avanti. «Prego» fece.

«Pensa sia possibile creare un veicolo a motore capace di calarsi a profondità superiori ai novecento metri?»

Una risata e un mormorio si diffusero in aula.

«Quello che dice è impossibile!» fece un giovane studente nella fila davanti a quella di Hanson. «La pressione lo schiaccerebbe!»

«Eppure esistono esperimenti che mostrano come, rispettando determinate variabili...» intervenne un altro.

«No, assurdo! E poi come lo muovi? E il motore dove lo metti? E la pressione in cabina?»

«Signori» fece Alex «cerchiamo di discutere ordinatamente. La questione è se sia possibile...»

«Creare un veicolo capace di raggiungere i novecento metri di profondità» interloquì Hanson. «Io l’ho costruito, ma ho avuto problemi con le saldature. Appena raggiunge i cinquecento metri, saltano».

«Per forza!»

«Cinquecento metri? Pazzesco!»

«È impossibile...»

«No, non lo è. Immagino che lei abbia solo concepito male la cosa».

Tutti tacquero, improvvisamente. Hanson sfoggiò un sorriso compiaciuto. «Lo sapevo» disse in un sussurro. Nadia arrossì, incrociando lo sguardo di Jean. Lui si alzò in piedi e si avvicinò alla lavagna.

«Che materiale ha usato?» chiese.

«Acciaio temperato e rinforzato».

Jean sorrise. «Capisco. Ha mai pensato a un unico blocco in acciaio fuso?»

Hanson lo fissò, incerto. «Come? In che senso?»

«Se lei usasse acciaio fuso a campana, non avrebbe problemi con le saldature. Un’unica struttura offre una resistenza alla pressione idrostatica molto maggiore di tante parti collegate insieme».

Hanson si appoggiò allo schienale. La classe era completamente attonita e fissava Jean che tracciava velocemente alcuni schizzi alla lavagna.

«Il che ci porta alla seconda questione. Tutti pensano, quando vogliono costruire un mezzo sottomarino, a dargli la forma di una nave, con scafo e tutto il resto. Ma è assolutamente più comodo ed efficace usare la sfera».

Nadia fissava Jean con ammirazione. Quell’uomo che teneva in pugno un uditorio di centosessanta persone era molto diverso dal ragazzo che aveva conosciuto a quindici anni. Eppure, sebbene ora mostrasse una determinazione e una personalità trascinanti, sembrava il solito ragazzo timido e modesto di sempre. Con un sorriso, dovette ammettere che lo trovava davvero eccezionale.

«Scusi professore, ma perché la sfera? Non sarebbe più pratico creare uno scafo capace di fendere l’acqua?» chiese un ragazzo.

«Se lei avesse bisogno di sviluppare una certa velocità di immersione, potrei capirla» rispose Jean «e ancora di più la capirei se mi dicesse che, una volta immerso, dovesse muoversi a elevata velocità di navigazione. Oltre i quindici nodi, per esempio».

Il ragazzo annuì.

«Ma qui stiamo parlando di un veicolo che deve immergersi a profondità elevatissime; quindi la sua velocità dev'essere legata alla capacità di emersione, piuttosto che di spostamento. O almeno così mi pare di aver capito...»

«Esatto» convenne Hanson. Jean ammiccò con un semplice gesto del capo.

«La sfera» continuò «è senza dubbio la forma migliore. Innanzi tutto, lo abbiamo visto, perché è possibile fondere un’intera sfera di acciaio, in modo che non sia necessario ricorrere a saldature supplementari. In secondo luogo, perché su di essa la pressione idrostatica si esercita con uniformità di caratteristiche su tutta la superficie esterna, con il vantaggio di garantire il massimo rapporto tra l'involucro e la superficie interna».

Jean tracciò velocemente alcuni disegni. Tutti lo fissavano ammirati, tra cui Alex, che si appoggiò alla cattedra, conquistata.

«Immaginate questo: se costruissimo un mezzo dotato di angoli o spigoli, la pressione si eserciterebbe in modo difforme sulla struttura, schiacciando il veicolo ai lati e producendo un effetto più o meno...» Jean cercò con gli occhi qualcosa. Prese la caraffa colma d’acqua che era posata sulla cattedra e ne versò il contenuto in un portamatite di cartone, quindi lo afferrò, schiacciandolo. L’acqua schizzò ovunque, bagnando la superficie del tavolo. Alexandra sussultò, sorpresa.

«...ecco, più o meno così. Nel caso specifico, noi saremmo l’acqua».

Un mormorio eccitato percorse l’aula.

«Ma se noi ci servissimo di una sfera, potreste ben vedere che le forze agiscono nell’unico modo possibile: uniformandosi sulla totalità della superficie. Ecco perché la sfera è, a mio parere, la soluzione al suo problema. Aggiunga poi un motore a propulsione e un motore elettrico e lei avrà ciò che le serve».

«Perché un motore elettrico?» fece una ragazza dalla prima fila. «I circuiti funzionano a corrente continua, e quindi come è possibile sfruttare un motore del genere senza perdita di energia e di coppia?»

«Parla così perché non conosce il motore elettrico di Ferraris. Funziona a energia alternata».

L’aula esplose in un crescendo d’entusiasmo. «È di dominio pubblico,» concluse Jean «i progetti sono a disposizione di tutti. Un esempio per noi e per i futuri scienziati».

«Ma per evitare la presenza di un motore a combustione?» chiese Hanson.

Jean si appoggiò alla cattedra, sedendovisi sopra. Alexandra cercò di fermarlo ma non fece in tempo.

«Beh, ha mai pensato alla... seppia?»

Tutti risero.

«La seppia funziona così. Assorbe una certa quantità d’acqua e la espelle velocemente. Una sorta di motore a propulsione idraulica».

«E come pensa sia possibile aspirare l’acqua, senza una componente meccanica?»

Jean sorrise. «Basterebbe creare il vuoto. Un lavoro che potrebbe appunto essere demandato al motore elettrico, per esempio.

Hanson annuì. Fissava Jean con ammirazione tale che gli brillavano gli occhi. «Un motore a compressione. Invece che comprimere l’aria, si comprime l’acqua. Basta collegarlo al motore elettrico e il gioco è fatto! Lo sapevo: quel ragazzo è un vero genio».

Nadia annuì. Era vero, Jean era in assoluto la persona più eccezionale che avesse mai incontrato.

«La lezione di oggi è terminata» fece Jean. «Purtroppo... impegni urgenti mi impediscono di continuare. Recupereremo la prossima settimana. Grazie e arrivederci».

Jean lasciò sfilare gli studenti restando seduto sulla cattedra, sorridendo a coloro che gli si facevano incontro per rivolgergli un saluto. Quando l’aula si fu completamente svuotata, Hanson, Nadia e Jonathan gli si avvicinarono. Lui continuava a restare seduto sul tavolo, le mani intrecciate tra le gambe. Hanson fu il primo a raggiungerlo, mentre Nadia preferì tenersi in disparte. Jonathan la cinse con un braccio, spingendola delicatamente in avanti. Lei si ribellò per un attimo, ma quando incontrò lo sguardo severo di Jean, lo sostenne con aria di sfida e si lasciò stringere da Jonathan. Solo allora Jean abbassò gli occhi.

«Fantastico, Jean». fece Hanson, esultante «Ero sicuro che avresti risolto tutto! Se tu sapessi... non riuscivo a dormire la notte per questo problema».

«Perché? A che vi serve un mezzo capace di scendere tanto in profondità?» chiese lui, curioso.

«Dobbiamo fare delle ricerche che... Nadia...» Hanson manifestò un certo imbarazzo. «Ecco...»

«...Un mio caro amico ha avuto un incidente a causa di un oggetto che ha trovato insieme ad Hanson nel Pacifico. Io, Hanson e... Jonathan abbiamo deciso di indagare».

Nadia aveva parlato tutto d’un fiato. Jean la fissò con gli occhi ridotti a due fessure.

«Un incidente? E di che genere?»

«Questa cosa non ti riguarda» obiettò Nadia, decisa. Gli occhi di lui furono attraversati da un lampo. Lei lo notò, e si sentì scossa.

«Ma pensa un po’» fece lui, con una notevole dose di sarcasmo. «E come credi che possa aiutarti, se non so come stanno esattamente le cose?»

«Hai bisogno di sapere come stanno tutte le cose, per poterci aiutare a costruire una semplice macchina?»

«Non funziona così» rincalzò Jean, duro. «Se vuoi il mio aiuto, stavolta devi rispettare certe condizioni».

Lei schiuse la bocca, sconcertata. «Ma sentilo!» disse, avvampando di collera. «Chi ti credi di essere, un dio?»

Gli occhi di lui dardeggiarono, piegandosi in uno sguardo misto di derisione e rabbia che Nadia non riusciva a ricordare di aver mai conosciuto. Lo fissava perplessa e frustrata per la strana urgenza che gli occhi di lui esercitavano sul suo animo, e a cui lei voleva sottrarsi. Una parte di lei lo disprezzava per quel suo atteggiamento strafottente, mentre il suo corpo reagiva, contro la sua volontà, a un richiamo antico, inciso nelle sue viscere.

«Non sono io ad aver bisogno di aiuto» sentenziò lui, neutro. «Se non ti va, puoi benissimo andartene. Non ti trattiene nessuno».

«Ma vattene al diavolo!» ansimò lei. Jean sorrise, beffardo. Nadia lo fissò sconvolta e priva di forze, il fiato corto, senza sapere se doveva sentirsi offesa a morte o no da quel suo atteggiamento. Hanson la prese in disparte, sussurrandogli qualcosa all’orecchio.

«Nadia, maledizione» sibilò. «Siamo qui per elemosinare il suo aiuto, non per offenderlo!»

Lei lo fissò sprezzante, ma decise di tacere.

«Il problema è che dobbiamo calarci sul fondo del lago Titicaca» ammise Hanson. Nadia lo pungolò con uno sguardo severo, che lo intimava a non sbilanciarsi troppo, ma lui la ignorò. «Intendiamo proseguire le ricerche che il nostro amico aveva cominciato sull'oggetto, e che portano in Bolivia. Ora sai tutto quello che c'è da sapere, per il momento. Se accetterai di aiutarci, ti racconteremo tutto, puoi scommetterci».

Jean annuì. Era tornato improvvisamente tranquillo. Hanson incrociò le dita. «Che ne dici Jean, ci aiuterai?»

Lui sorrise. «Va bene. Sarà interessante lavorare ancora insieme».

«Fantastico» fece Hanson, elettrizzato. «Vedrai! non appena sarai là, sentirai subito il richiamo dell’avventura e...»

«Aspetta un momento!» lo frenò Jean, duro. «Ho detto che vi aiuterò, ma non ho mai detto che verrò con voi. Sarà sufficiente che vi aiuti a buttar giù un progetto».

Nadia si riscosse, confusa. «Ma noi pensavamo che...»

«Ho altro da fare, che correre in giro per il mondo» ribatté lui.

«Già. Ora sei un professore...» si lasciò sfuggire lei, acida.

«Non è questo, o meglio, non è solo questo...» Jean le lanciò uno sguardo crudele. «Si tratta di responsabilità, qualcosa che tu non conosci ancora, evidentemente».

Nadia impallidì davanti a tanta durezza. Accanto a lei, John si era irrigidito, ma Jean non gli diede il tempo di ribattere. Si era già voltato afflitto a guardare Alex, che lo fissava senza dire nulla. Nel vederli così intimi, Nadia dimenticò l'offesa appena subita e provò un'inaspettata fitta al cuore. «Ci sono persone... di cui devo occuparmi» fece lui, in un sussurro.

Per lei, quelle parole furono un colpo inatteso. «Capisco» si limitò a farfugliare. «È naturale» disse, anche se non lo pensava affatto. Perché lui non la amava più? Era così facile dimenticarla? Subito Nadia cominciò a pensare su di lui le cose più spiacevoli, e immaginò che non l'avesse mai amata veramente, e che l'avesse dimenticata subito, innamorandosi di quella nuova ragazza. Il solo pensiero la soffocò di rabbia.

«Rebecca e Marie... loro... sono venute a trovarmi oggi. Resteranno qui per tutta l’estate» disse lui, inaspettatamente.

Hanson si portò le mani ai fianchi. «Rebecca e Marie? Qui? Ma allora dobbiamo subito andare a trovarle, Nadia!»

Lei annuì sollevata, ma ancora turbata da tutta quell'improvvisa agitazione che le aveva sconvolto le viscere.

«Jean, pensa a quante cose potresti scoprire» gli suggerì Alexandra, in disparte. «Questo viaggio potrebbe rivelarsi interessante, e molto. Prendi questo progetto che hai appena delineato: è assolutamente geniale! L'università sarebbe orgogliosa di sperimentarlo, non credi?»

Lui la fissò senza convinzione.

«E poi» aggiunse Hanson, che aveva capito subito qual era il vero problema «sono convinto che Rebecca e Marie verrebbero subito con noi».

«Inoltre» intervenne per la prima volta Jonathan «se accetta di aiutarci, non può esimersi dal venire con noi. È una questione di sicurezza, come certamente capirà».

«Tu verresti?» chiese Jean ad Alexandra, improvvisamente. Lei arrossì, del tutto impreparata a una tale domanda. «Certamente» rispose. «Se ti fa piacere».

Lui sorrise, e Nadia abbassò gli occhi per nascondere l’emozione.

«D’accordo» acconsentì Jean. «Ma prima vediamo cosa ne pensano Rebecca e Marie. Se accettano, è fatta».

«Perfetto!» fece Hanson. «Andiamo?»

Jean nicchiò, arrossendo.

«Andate avanti, io... vi raggiungo».

Lasciò uscire gli altri, trattenendo Alex per un braccio. Lei lo fissò divertita.

«Ci penso io» disse, ridendo. «Vado subito a cercartene un paio a casa».

Lui le sorrise, allungandole le chiavi del suo appartamento, e restando a guardarla mentre si allontanava.

Quando anche lei fu uscita Jean rimase solo a fissare la sala vuota. Non si sarebbe mai aspettato che quel giorno le cose potessero prendere una piega del genere: ritrovare Nadia e partire di nuovo insieme a lei...

Si passò una mano tra i capelli. Ma perché era tornata? Dopo tutti quegli anni, si era illuso di averla finalmente dimenticata. E invece, erano bastati i pochi istanti in cui l'aveva rivista per ripiombare dentro a quel calderone di emozioni in cui si dibatteva da sempre, da quando l’aveva conosciuta.

Sei anni prima, a Parigi. Un giorno che non avrebbe mai dimenticato.

Ma ora era tutto differente. E più di ogni altra cosa lo preoccupava la sua capacità di affrontare sentimenti che per tutti quegli anni aveva sempre cercato di soffocare, e che ora riaffioravano prepotentemente.

Al diavolo, si disse. Ora ha la sua vita. E io ho la mia. Cosa ci fa, qui?

Certo, doveva ammettere che era davvero stupenda. Proprio la donna bellissima che aveva immaginato così tante volte.

Le cose vanno sempre nel modo più inaspettato, pensò.

E come se non bastasse, si era seduto proprio dove aveva rovesciato tutta quell’acqua.

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Capitolo 25
*** 24 ***


4










Mentre lasciava lo studio in Temple street, Winston continuava a ripetersi le parole del suo mentore. Quella grande disillusione che aveva intravisto nei suoi occhi lo aveva sconcertato. Ogni volta che aveva parlato con lui, quell'uomo gli aveva dato l'impressione di possedere una volontà inattaccabile, e un senso del dovere assoluto. Non lo conosceva per nome: i nomi dei superiori erano tabù per i novizi. Ma sapeva che il Reggente non era un individuo dalle particolari ricchezze o dal nobile lignaggio. Le voci che circolavano sul suo conto, parlavano di un uomo venuto dal nulla, creatosi con le sue sole forze e che ebbe la fortuna di entrare al servizio del vecchio Consigliere segreto della regina vittoria, il barone tedesco Carl von Stockmar. Da allora, fino a quando il Consigliere non morì, nel 1868, il Reggente aveva vissuto alla sua ombra, per poi ereditarne il potere e gli oneri, fino alla sua nomina a Reggente del Consiglio delle Relazioni Estere, ovvero il reale organo governativo del mondo.

Ma era la prima volta che vedeva su quel volto tutta quella tristezza e quel disincanto. Per la prima volta, gli apparve vecchio di tutti i suoi anni, e forse anche di più, carico di tutte quelle responsabilità inevitabili che la storia del Consiglio si portava dietro come una pesante catena. E l'idea che forse un giorno si sarebbe ridotto lui stesso in quel modo, spaventò Winston più di ogni altra cosa.

«Mi porti a Fleet street» indicò distrattamente al vetturino, che lo attendeva davanti all'ingresso del piccolo edificio in cui aveva sede il Consiglio. L'uomo, seduto a cassetta e sprofondato nel suo tabarro, fece un lento cenno con il capo, facendo ondeggiare il cappello logoro.

«Può chiudere il soffietto?»

L'uomo si voltò. Uno sbuffo nella pioggia e nulla più. Quindi armeggiò con il soffietto, in modo da chiudere completamente la vettura.

«Ecco, signore» disse, con fare asciutto, ma leggermente infastidito.

Winston salì e chiuse la porta. L'umido che aveva impregnato i sedili continuava a stagnare all'interno della vettura. Winston non si sfilò il soprabito, ma anzi alzò il bavero e sprofondò nel sedile, accavallando le gambe e stringendosi tra le braccia. Era quasi Luglio, ma era tornato il freddo. A parte qualche sprazzo di sole e di caldo, sembrava quasi che l'estate non volesse saperne di arrivare, quell'anno.

La carrozza sobbalzò e partì. Winston si abbandonò al lento cullare del veicolo. Chiuse gli occhi e un insolito torpore lo avvolse. La sua attenzione era continuamente ridestata dai rumori che gli giungevano sordi dall'esterno, ma in realtà la cosa non gli dava fastidio. Era quasi piacevole.

In quello strano dormiveglia, Winston continuava a ricordare le parole del Reggente. La responsabilità... era vero: in quelle stanze si decideva la sorte del mondo, mentre il mondo continuava a vivere come se nulla fosse, crogiolandosi nelle sue infantili certezze, illudendosi che parole come democrazia, bolscevismo, monarchia avessero una reale funzione. Avrebbe dovuto sentirsi orgoglioso per la possibilità che aveva avuto di far parte dell'élite che governava il pianeta. Ma qualcosa, nell'eco amaro delle parole del Reggente, gli aveva risvegliato una consapevolezza diversa. Non era una fortuna, la sua, ma una maledizione. La maledizione che colpisce alcuni uomini per salvarne altri. Anche lui, ne era consapevole, avrebbe perduto la sua anima, la sua umanità. Era solo questione di tempo. Dal momento che era bravo, se non avesse commesso errori o sciocchezze, prima o poi sarebbe diventato Reggente. Lo sapeva, se lo sentiva addosso quel destino, come qualcosa che gli rodeva dentro desideroso di uscire allo scoperto, quasi come una malattia. Era il germe del successo. La troia, come la definiva il Reggente, aveva infettato anche lui. Come per tutte le cose, era solo questione di tempo.

Un giorno, si sarebbe accorto che per lui mandare a morte migliaia di persone per equilibrare le sorti del pianeta non avrebbe significato nulla. Sarebbe andato a casa sua, avrebbe dato un bacio a sua moglie, probabilmente, e dato la buonanotte ai suoi figli; si sarebbe spogliato e sarebbe andato a letto. Pulendosi la coscienza con lo spazzolino da denti, prima di coricarsi.

Un sobbalzo più intenso degli altri lo riscosse. Winston strabuzzò gli occhi, che tornarono a chiudersi sotto le palpebre pesanti.

Che vita assurda. Alcuni, vivono senza sapere perché fanno quello che fanno. Altri, vivono credendo di sapere esattamente quello che fanno. Altri sono schiacciati dalla consapevolezza dell'ineluttabilità del loro destino. Chi è tra loro il più fortunato? Ecco allora a cosa servono i soldi. A stordirsi. Avere sempre più soldi significa abbandonarsi al delirio di una vita fasulla, creata ad arte per sgusciare via dalle grinfie di quella vera. Se hai denaro, puoi credere di essere padrone di te stesso, di poter comprare il senso delle cose. Ma il denaro non è che una droga, come tutte le altre. E una volta assunta, ti lascia addosso un senso di impotenza e di nausea, proprio come tutte le altre.

La carrozza sussultò, ondeggiando. Un movimento che, chissà perché, fece intuire a Winston che erano arrivati.

«Fleet Street, signore».

La voce del vetturino gli giunse come da secoli di distanza. Winston aprì la porta e si avvolse nel soprabito. Aveva cominciato a soffiare un vento fastidioso.

«Vuole che la attenda qui?» domandò l'uomo a cassetta. Winston alzò gli occhi, che gli caddero sulle mani rinsecchite del vetturino, arrossate da anni di pioggia, di freddo e di vento.

«No, vada pure. Troverò un altro modo per tornare».

L'uomo accennò a un saluto, portandosi velocemente la mano al cappello. Quindi sferzò il cavallo e partì.

Winston sollevò gli occhi e si guardò introno. Doveva recarsi alla redazione del Times. Era lì che lavorava la donna di Fisher. Se voleva scoprire qualcosa sul suo conto, era quello il posto migliore.

Si incamminò lungo il marciapiede. Aveva scelto di proposito di non farsi scaricare davanti al Times. Un'accortezza di quelle che lo avevano sempre caratterizzato come un uomo avveduto.

Trovò l'ingresso alla redazione poco più avanti. Si scrollò la pioggia di dosso, e si infilò nell'androne. Era umido e fresco. Per terra, impronte di scarpe dalla suola bagnata, e fango.

Si incamminò lungo le scale. Una ampia porta a vetri smerigliati si apriva sul primo pianerottolo. Sulla porta di ingresso, segnato sul vetro, si leggeva London Times.

Winston posò la mano sulla maniglia ed entrò. Subito un denso odore di tè, tabacco e caffè lo avvolse, stordendolo. Sulle scrivanie aleggiava una cappa di fumo denso, agitata dal passaggio di uomini e donne indaffarate. Alcune scrivanie all'ingresso, sovraccariche di fogli. Rumore di macchine da scrivere. Un vociare intenso, ma monotono e costante.

Winston si sfilò il soprabito gocciolante e lo ripiegò sul braccio. Lasciò che gli occhi indugiassero intorno. Cercava l'attenzione di qualcuno. Chiunque andava bene.

Una giovane ragazza comparve tutta trafelata da una porta laterale. Gli lanciò un'occhiata distratta, quindi, realizzando la sua presenza, tornò a voltarsi verso di lui. Lo squadrò da capo a piedi, mentre poggiava una serie di cartelle sulla scrivania. Ancora china, gli rivolse un leggero sorriso, scostandosi una ciocca dei ricci capelli castani dal volto.

«Buongiorno, posso esserle utile?» disse, con fare affabile.

«Magari si» fece laconico Winston. «Mi chiamo Reid, Spencer Reid. Cercavo notizie sulla signorina Nadia Ra Arwol. Appartengo alla polizia distrettuale».

Il volto della ragazza si rabbuiò per un istante. «Mi spiace, ma non posso esserle di nessun aiuto» disse semplicemente, voltandogli le spalle con una certa ritrosia.

«No?» fece stupito Winston. «E perché?»

«Ha lasciato il giornale. Sono settimane che non sappiamo nulla di lei».

«Davvero? E lei sa dove si è diretta?»

La ragazza nicchiò. «Non parlava molto. Non aveva legato con nessuno qui. Posso solo dirle che aveva ricevuto un'offerta da un giornale straniero, ma non so dirle quale».

«Capisco».

Winston assunse un'aria pensierosa.

«Se vuole, posso farla parlare con il direttore...»

«Le sarei grato, signora...»

«Signorina Stanfields» fece lei. «Lisa Stanfields».

Winston abbozzò un sorriso. Lei ricambiò e gli fece cenno di seguirla.

«Per di qua, prego».

Winston venne introdotto nello studio di Jeremy Hunter. Il direttore era seduto alla scrivania, le mani immerse in una serie di fogli manoscritti. Tra le dita teneva un sigaro, il cui fumo denso si alzava in lente volute, raggrumandosi intorno alla sua testa. Sollevò flemmaticamente gli occhi e quando si trovò davanti la figura alta e tenace di Winston, si drizzò, incuriosito.

«Lei sarebbe?»

«Mi chiamo Spencer Reid» si presentò Winston, tendendo cortesemente la mano. Quindi estrasse un distintivo di Scotland Yard. «Sono della polizia. Vorrei farle alcune domande su Nadia Ra Arwol».

«Nadia?» fece il direttore, sporgendo il labbro inferiore. «Non è che ci sia molto da dire. Comunque, sentiamo pure...»

Winston si accomodò su una sedia. Lisa, alle sue spalle, chiuse la porta restandosene poi in piedi, le mani giunte in grembo, accanto allo stipite. Fissava Hunter con sguardo apprensivo.

«Lei sa dirmi esattamente dove si doveva recare la signorina Ra Arwol?»

Hunter espirò il fumo lentamente, facendo ruotare la mano che teneva il sigaro.

«Ha ricevuto un'offerta da una testata straniera. Quando le ho chiesto di che si trattasse, è rimasta sul vago».

«Sul vago, dice?»

«Sì... di solito si usa così. Meglio non far sapere i fatti propri, non crede?»

Winston annuì. Fissava Hunter in modo freddo e inespressivo. I suoi occhi tradivano una concreta distanza da quanto stava accadendo.

«Perché le interessa?» domandò Hunter, tirando una lenta boccata di fumo. «Credevo che i capi di imputazione sull'assassinio di Kurtag fossero caduti per assenza di prove».

«Abbiamo ragione di credere che sia stata assassinata, insieme al suo compagno Jonathan Fisher».

Winston reclinò la testa leggermente, tenendo gli occhi bene aperti e fissi sul volto di Hunter, che sbiancò progressivamente. Quindi si volse a guardare verso Lisa, che aveva appena lanciato un gemito.

«Ora,» riprese Winston, cautamente «perché non la smettiamo di girarci intorno e ci confessiamo a vicenda quello che sappiamo? Se io le dicessi che so esattamente perché la signorina è stata uccisa, voi cosa rispondereste?»

Hunter ci mise un attimo a riprendersi. Si passò la mano aperta sulla fronte, visibilmente sconvolto. Non alzava gli occhi, ma li teneva fissi sulla scrivania.

«Lisa, chiama Michael» balbettò. Lei soffocò un gemito e schizzò fuori dalla porta, tenendosi una mano sulla bocca.

«Sa nulla di un oggetto particolare che la signorina aveva con sé?» indagò Winston. Hunter si stropicciò gli occhi.

«Io... aspettiamo Michael e Lisa, per questo. Loro... erano amici».

Winston accavallò le gambe. Odiava quel genere di situazione. Era evidente che quella gente doveva essere lasciata in pace, ma lui doveva stare lì a torturarli ancora un po'. Era il suo dovere, in fondo.

Michael e Lisa fecero il loro ingresso nello studio. La ragazza richiuse la porta, lasciando fuoriuscire un singhiozzo dalle labbra tappate. Michael fissava a turno i presenti, smarrito.

«Ma cosa succede?» domandò.

«Siediti Michael» fece Hunter terreo, senza alzare gli occhi.

«Volete spiegarmi?» chiese lui, in preda all'ansia.

«Siamo stati informati della morte di Jonathan Fisher» fece Winston, moderando il tono della voce. «Abbiamo ragione di credere che anche la sua ragazza...»

«No!»

Michael scattò in piedi. Lisa gli si fece accanto, mentre Winston abbassò lo sguardo.

«Non può essere» disse Michael, scuotendo la testa. Aveva gli occhi lucidi.

«Michael, ti prego...» lo lenì Lisa. Ma lui si sottrasse con un movimento brusco.

«No!» insistette. «Non è possibile. Non avrebbe senso. Chi avrebbe potuto ucciderli? Era John il traditore!»

Winston socchiuse gli occhi.

«Come dice?»

Lisa lo fissò preoccupata, ma Michael rifiutò il suo sguardo. «Ormai non ha senso continuare a mentire» disse lui, recisamente. «Nadia potrebbe essere morta».

«La prego, signore, continui» fece Winston, improvvisamente interessato. Michael si passò una mano sul volto. Quindi, serrando le labbra, si decise a parlare.

«Nadia aveva ricevuto una strana pietra da Kurtag, la sera del suo assassinio. Voleva scoprire di cosa si trattava, e per questo aveva deciso di andare in America, a incontrare un uomo che aveva lavorato con il professore».

«E questo cosa c'entra con...»

«John è voluto partire con Nadia, fingendo di non sapere nulla della pietra, quando invece abbiamo scoperto che era addirittura a capo delle ricerche che Kurtag stava conducendo!»

Winston si afflosciò sulla sedia.

«Cioè, lei mi sta dicendo che il signor Fisher era in partenza per l'America con la signorina Ra Arwol?»

«Ma non è della polizia?» si infervorò Michael. «Dovrebbe chiedere all'ispettore Simum, lui sapeva tutto e...»

«Simum dice, eh?» mormorò Winston, estraendo un taccuino su cui prese ad annotare il nome. Lisa e Michael lo fissarono curiosi. «Lo farò, senz'altro. Ma voi, potete dirmi altro?»

I due si guardarono senza parole, ancora scossi per quello che era stato loro detto.

«No, tutto quello che sappiamo è che Nadia era in partenza per l'America. Doveva incontrare qualcuno, ma non so dirle chi... non sapremmo aggiungere altro» ammise Lisa.

«Capisco...»

«Mi scusi» fece Lisa, gli occhi velati di lacrime. «Potrebbe dirmi... ecco... siete davvero sicuri che sia morta?»

Winston sospirò. «No» ammise. «A questo punto, tutto acquista una luce diversa. Vorrei chiedervi di accompagnarmi a casa della signorina, e quindi al commissariato; e di raccontarmi quello che sapete a proposito della Pietra che aveva con sé. È molto importante. Se le cose stanno come credo, e quanto avete da raccontare confermerà le mie ipotesi, credo ci siano buone possibilità di trovare la ragazza ancora viva».

«Possiamo farlo senz'altro» fece Lisa, raggiante per la speranza che già si faceva strada in lei.

Lasciarono lo studio di Hunter che, uscendo per ultimo, si chiuse la porta alle spalle. Mentre gli altri infilavano le scale, Michael rallentò un istante, annusando l'aria.

«Che hai?» abbaiò Hunter, mentre indossava il soprabito.

«Non lo sente anche lei? È un odore strano...»

«Quello che puzza è la tua scemenza. Si sente a chilometri» latrò Hunter. «Vedi di muoverti».

«Dove andate?» chiese William Ashburne, che passava di lì in quel momento, una tazza vuota in mano.

«Usciamo» fece il direttore. Ti lascio le redini, Will.

«Non abbia paura» ammiccò lui. «La redazione è in buone mani. Quando tornerà, si stupirà di come la troverà efficiente e organizzata» e mentre parlava, mise il bollitore sul fornelletto, seguendo con lo sguardo Hunter e gli altri chiudersi la porta alle spalle.

Coglione, pensò, con un sorriso. Non capisco cosa ci trovi in quei due imbecilli. Manderà in rovina il giornale.

William prese a frugare in giro. Cercava del tè, ma non riusciva a trovarlo. Infastidito, aprì tutte le ante di un piccolo mobiletto in cui venivano riposte le vivande di cui tutta la redazione si serviva. Niente.

«È finito il tè?» domandò, alzando la voce perché qualcuno potesse sentirlo. Non rispose nessuno. Scrollando le spalle, decise di lasciar perdere.

C'era uno strano odore nell'aria. Con una smorfia, William prese ad annusare in giro. Forse avrebbe fatto meglio ad aprire la finestra.

«Hai detto qualcosa?» gli chiese un collega, affacciandosi alla porta. William, che aveva già la mano sulla maniglia della finestra, lasciò stare, voltandosi.

«Sì, cercavo il tè, ma è finito».

«No, ne abbiamo appena comprato una scatola. Ma è nel ripiano di sotto».

William si chinò a controllare. – Trovato! – disse esultante, aprendo il vasetto e cominciando a versare le foglie di tè nel dosatore. «Da quando manca Nadia, non se ne occupa più nessuno!» fece, sardonico.

«Già» commentò divertito il suo collega. «Ma cos'è questo odore? Hunter ha cambiato marca di sigari, per caso?»

«Non so» rise William. «Apri la finestra. Stavo per farlo io, prima» fece. Poi, come ridacchiando tra sé «chissà, forse è la puzza degli articoli di Tippett» aggiunse, dopo una pausa, suscitando il riso del suo collega.

William non attese che la finestra venisse aperta, per accendere il fuoco sotto al bollitore. Estrasse un cerino e lo sfregò, senza risultato. Spazientito, lo gettò via, prendendone un altro. Se solo avesse aspettato un attimo in più, o se anche quel cerino non si fosse acceso, non sarebbe accaduto nulla. Ma il cerino si accese.

William non si accorse di molto. Fece appena in tempo a vedere la fiammata.

Poi, più nulla.

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Capitolo 26
*** 25 ***


5










Rebecca Granba amava il lusso. Era l’unica rampolla di una ricca famiglia italiana e suo padre, Michele Granba, era un noto industriale piemontese, proprietario di numerose miniere di ferro e magnate della siderurgia. Rebecca perse la madre quando era ancora molto piccola e suo padre non si risposò mai più, finendo col riversare sulla figlia tutto l’amore e le premure di cui era capace. Rebecca crebbe così in una culla dorata, lontano dalla vita e dalle delusioni, in piena sicurezza e circondata dall’affetto. Tra tutti coloro che le volevano bene, vi erano il giovane autista e il meccanico, entrambi di pochi anni più grandi di lei, che da quando presero servizio a villa Granba, le dimostrarono un attaccamento e una fedeltà fuori dal comune, vegliandone ogni passo.

Ma l'ingenuità di Rebecca si sviluppò di pari passo alla sua bellezza. Quel suo essere costantemente protetta dal lato più oscuro della vita, la rese facile agli inganni. Nulla al mondo poteva discostarsi dalle sue infantili idealizzazioni.

Aveva appena sedici anni quando Henrique Gonzales, giovane e affascinante nobiluomo argentino, prese a farle la corte. A nulla servirono le timide rimostranze di chi voleva metterla in guardia. Rebecca era innamorata e felice, e questo era sufficiente. Nulla avrebbe potuto farle cambiare idea.

Tuttavia, ben presto cominciarono a circolare strane voci su Gonzales e Michele Granba gli ingiunse di non avvicinarsi più alla giovane figlia. Era la prima volta che Rebecca doveva rinunciare a qualcosa che voleva: semplicemente, non poteva accettarlo.

E così, un giorno, Rebecca fuggì all’insaputa di tutti, gettando suo padre nella disperazione. Qualche tempo dopo, arrivò una lettera. Era firmata da Henrique Gonzales. Confessava di aver sedotto Rebecca. L'aveva convinta a scappare con lui, dietro il miraggio del coronamento del loro sofferto sogno d'amore. Chiedeva l'assoluzione per entrambi e invitava il padre a considerare un accomodamento. Manco a dirlo, Rebecca tornò a casa pochi giorni dopo, felice e ricoperta di doni, accompagnata da Gonzales, pronto a discutere dell’assegno di dote. Lei non poteva rendersi conto di quello che stava succedendo, ancora troppo presa dai suoi sentimenti e smarrita nella sua imbarazzante ingenuità. Il padre, per proteggere la figlia da uno scandalo che l'avrebbe segnata per sempre, si risolse a scendere a patti con il suo detestato fidanzato. E così, si celebrò un matrimonio.

Nel giro di pochi mesi, il patrimonio della famiglia Granba si trasferì nelle tasche senza fondo di Henrique Gonzales, giovane donnaiolo argentino, amante del gioco e della bella vita, truffatore di professione e mentecatto per natura. Il padre di Rebecca, distrutto dal dolore e da una malattia che lo colse improvvisamente, lasciò la figlia amatissima alla mercé totale del marito, che divenne per legge l'unico amministratore dei suoi beni. Passò appena un mese e Rebecca si ritrovò senza casa, il marito fuggito per scampare ai creditori e il conto in banca prosciugato. Sola, distrutta, senza nessuno a cui appoggiarsi, Rebecca vide la propria vita finire a sedici anni. Fu solo grazie all'aiuto generoso dell'autista e del suo cugino meccanico se lei poté sopravvivere a quel colpo. Da allora furono sempre insieme, vivendo di espedienti e di piccole truffe. E presto Rebecca imparò quanto la vita potesse essere dura e di come fosse necessario, spesso e volentieri, considerare superfluo qualcosa come il sentimentalismo o la pietà.

Eppure, ora, a trentaquattro anni, se ne stava seduta in quella camera d'albergo, a fissare la piccola Marie che disegnava assorta e tranquilla. E si accorse che ormai da molto tempo, qualcosa dentro di lei aveva cominciato a metter in discussione lo scudo di sterili certezze che si era costruita via via, per difendersi dagli attacchi della vita. Chissà, forse la colpa di tutto era proprio di Jean e di Nadia. Quando li aveva incontrati, sei anni prima, qualcosa in lei era cambiato profondamente: per quei due ragazzini soli e sperduti, non solo decise di abbandonare la vita criminale che aveva abbracciato per tutti quegli anni, ma divenne persino tutrice della bimba che loro avevano incontrato e salvato. Era qualcosa che non avrebbe mai pensato possibile. Ma era accaduto. E ne era assolutamente felice.

«Ti piace, zia?»

Rebecca si sporse a vedere. Posò il grembiule che stava ricamando a point de gaze e annuì, senza nascondere un certo compiacimento.

«Molto bello, Marie. Stai migliorando sempre di più».

Marie sorrise e ritornò al suo disegno. Era una bambina incredibilmente intelligente, pensò Rebecca. Peccato che quelle streghe delle suore del collegio non riuscissero a rendersene conto.

Effettivamente, Rebecca era consapevole che Anne Marie von Löwenbräu fosse una bambina un po’ difficile. Quello che non sapeva – o non voleva sapere – era che le suore ricordavano Marie come l’allieva più pestifera che il piccolo, ma prestigioso collegio femminile S. Agnese di Le Havre, avesse mai avuto.

Tanto per cominciare, rifiutava di indossare il grembiule. E a questo si dovevano aggiungere le continue fughe dalla classe, e dal collegio in generale; fughe che costringevano le suore a inseguimenti lungo i campi di grano che circondavano la periferia della piccola cittadina, ispezioni nei fienili abbandonati, arrampicate spericolate sugli alberi. L’unica lezione che Marie sembrava apprezzare era disegno, per cui oltretutto dimostrava un talento notevole. Marie aveva un vera predilezione per la giovane Suor Caterina, l’insegnante di arte, che dal canto suo sembrava aver preso la bambina sotto la sua ala protettrice. Ne copriva costantemente le malefatte, occultandone le prove, quando possibile. E spesso, nel trovarla a girovagare per la scuola quando invece avrebbe dovuto essere in classe, la prendeva con sé, portandola alle lezioni che teneva alle classi più avanzate. Le altre suore non si lamentavano, più di tanto. Per loro era meglio saperla al sicuro tra le mura del collegio che in giro chissà dove a far danni. Per il resto, tutto andava bene.

Tuttavia, nemmeno Suor Caterina poté fare molto quando Marie, dopo un litigio con alcune compagne, rovesciò del catrame per le riparazioni del tetto sulla testa della figlia del noto banchiere De Bligny. Marie venne cacciata. E questo, nonostante Jean avesse pagato profumatamente e anticipatamente le sue lezioni.

Oltretutto, quei soldi non ce li hanno mai restituiti. Maledette streghe.

Ah, ma se ne sarebbero pentite. Un giorno Marie avrebbe fatto vedere loro di cosa era capace. Possibile che non si rendessero conto della situazione di quella povera bambina? In fondo aveva perso i genitori quando era ancora piccola, uccisi da una setta, una banda di gente senza scrupoli. Se non fosse stato per Jean e Nadia, chissà che ne sarebbe stato di lei.

Rebecca si appoggiò allo schienale della comoda poltrona in stile Regency, che faceva parte del ricco arredamento della camera. Allungò le gambe e sospirò, chiudendo gli occhi. Non era più abituata a tutto quel lusso. Dove viveva insieme a Marie era carino, certo; ma nulla a che vedere con quello sfarzo. Si era dimenticata come fosse vivere in una grande metropoli, circondata da negozi, dame in eleganti abiti all’ultima moda...

Sorrise. Era bello vivere così, anche solo per un poco. Jean le aveva fatto davvero un bel regalo.

Jean.

Rebecca sospirò. Quel povero ragazzo si era fatto in quattro per Marie: aveva persino trovato una casetta a Le Havre, poco distante dalla sua, in cui le manteneva, e dove Rebecca tirava avanti facendo la sarta e confezionando abiti per le paesane. Era vero che il padre gli aveva lasciato un certo gruzzolo, ma chi lo obbligava a farsi carico di una donna che quasi non conosceva e una bambina trovata per strada? Senza contare che era persino riuscito a farla ammettere a quella scuola esclusiva, a cui accedevano solo le figlie della gente più in vista di Le Havre.

Ma Jean era così. Lei aveva imparato a conoscerlo, dopo tutti quegli anni. Ed era difficile per lei non amarlo per quel suo miracoloso insieme di semplicità e tenerezza.

Per questo, quando Nadia lo lasciò, lacerandolo, Rebecca sentì che qualcosa in lei si era spezzato insieme al suo cuore.

«A cosa pensi, zia?» chiese Marie.

Rebecca scosse la testa. «A nulla in particolare».

«Sembravi triste».

«Davvero?»

Marie annuì.

«Beh, forse solo un po’...»

Con un sorriso, Marie tracciò un ultimo tocco di carboncino sul foglio, quindi lo fissò, allontanandolo, e infine lo mostrò a Rebecca.

«Che ne dici?»

«Stupendo. Davvero, sei bravissima. Chissà cosa dirà Jean quando lo vedrà».

Marie si alzò in piedi e infilò il foglio nella cartellina in cui teneva tutti i suoi lavori.

Sta diventando sempre più grande, si disse Rebecca, commossa. Poi, un pensiero la sconvolse.

Anche io!

«Rebecca, tu pensi che Jean e Alex si metteranno insieme?»

Rebecca rise, riprendendo a decorare il grembiule che teneva in grembo.

«Mah, non saprei... a te andrebbe bene?»

«Io penso di sì... voglio dire, Alex è simpatica, gioca sempre con me. Non trovi che sia simpatica?»

«Penso di sì».

«E Jean sembra felice quando è con lei. Sembra che non pensi più a Nadia».

Rebecca alzò gli occhi. «E tu che ne sai di queste cose?»

Marie alzò le spalle. Continuava a sfogliare i suoi disegni, dando di schiena a Rebecca.

«Non le so. Dico così per dire».

«Capisco» fece Rebecca, ridendo a fior di labbra.

«Zia» aggiunse Marie dopo un po’. «Ma tu a Nadia non ci pensi mai?»

Ci siamo.

«Ci penso spesso, sì» disse cauta.

Marie tacque per un po’. «Io ci penso molto, sai? Tante volte, durante il giorno. Mi ricordo le cose che abbiamo fatto, quando abbiamo girato il mondo tutti insieme per scoprire il mistero di quella strana pietra azzurra che portava con sé... e tutte le avventure che abbiamo vissuto».

«È una cosa bella, no?»

«Però... ormai non mi ricordo più il suo viso».

Rebecca ammutolì. «Già. Sai, nemmeno io» mormorò a mezza voce. «Nemmeno io».

Marie si voltò a guardare Rebecca, che ora la fissava con dolcezza.

«Perché non è più tornata?»

«Ci sono cose che è difficile spiegare. Vedi... lei e Jean non andavano più d’accordo e...»

«Si è stancata anche di me?»

Rebecca posò il grembiule, scuotendo la testa.

«No, non dirlo nemmeno per scherzo. Lei... ha solo cercato di trovare la sua strada, la sua vita. È difficile da capire, ma quando sarai grande ti diventerà chiaro».

«Se devo essere così, da grande, preferisco non crescere» fece Marie, voltando nuovamente la testa. Rebecca non seppe più cosa aggiungere. Restarono così, l’una che dava le spalle all’altra, una bambina e una donna, entrambe a chiedersi perché, a volte, la vita dovesse essere per forza così incomprensibile.

Nel silenzio, qualcuno bussò alla porta, riscuotendo Rebecca come da un sogno. Si volse a guardare, proprio mentre Jean faceva il suo ingresso nella stanza. Marie gli corse incontro e lo circondò la vita con le braccia. Lui rise, stringendola a sé.

«Visto?» disse. «Ho fatto presto, vero?»

Marie scosse il capo. – Insomma. Mica poi tanto.

«Ah, sì? Allora dovrò farmi perdonare!»

«Proprio così!»

«Sentiamo» la stuzzicò «E cosa dovrei fare?»

«Andiamo a mangiare qualcosa di buono, tutti insieme».

Jean si irrigidì. Rebecca colse subito nel suo sguardo qualcosa di strano.

«Marie, perché non ti prepari, intanto?» fece lei, conciliante.

Attese che Marie corresse in camera sua, quindi «allora,» disse «che succede?»

Jean si sedette di fronte a lei, prendendo tra le mani la cartella dei disegni di Marie.

«È così evidente?» tergiversò, slacciando il nastro che chiudeva il raccoglitore. Lei rise.

«In sei anni ho imparato a conoscerti».

Jean si fece scorrere i disegni davanti agli occhi. Notò che erano davvero molto belli.

«Li ha fatti tutti da sola?»

«Sì» annuì Rebecca. «È una bambina in gamba».

«Lo credo anch’io. Peccato che...»

«Jean, non cambiare discorso» lo ammonì lei. «Vorrei sapere cosa succede».

Lui restò a bocca aperta. Rebecca gli rivolse uno sguardo intenso. «Allora?»

«Nadia» bofonchiò lui. «È qui».

Rebecca lo fissava senza dire nulla.

«Oh...»

«È con Hanson e... il suo fidanzato».

«E cosa sono venuti a fare?»

«Vogliono il mio aiuto per alcune ricerche... in Bolivia, o giù di lì».

«E tu vorresti andare, non è così?»

Jean sospirò. «A dire il vero, io non so proprio cosa fare».

Rebecca sorrise garbatamente. «Potremmo andare tutti insieme».

«Pensi che Marie accetterebbe?»

«Chiediamoglielo. Non possiamo saperlo se non lo facciamo, no?»

«Il fatto è che nemmeno io so se voglio davvero...»

«Rivederla?»

«Sì».

Rebecca mise da parte il grembiule. «Jean, Nadia ha una sua vita, ora. Sai che andare con lei non significa poterla riconquistare, vero?»

Lui non disse nulla. Si limitava a muovere i fogli che teneva in mano.

«Jean?»

«Perché è tutto così difficile?» sbottò lui. Rebecca si accorse che aveva gli occhi lucidi e si addolcì.

«E chi ha mai detto che è facile? Ti voglio dire una cosa. Ormai sei grande e non ha senso che ti racconti bugie. Non è facile, Jean, non è facile per niente. Anzi, ogni giorno che passa sarà sempre peggio. Può darsi che prima o poi riuscirai a convivere con il suo ricordo e ci saranno sempre più giorni in cui penserai di esserti lasciato il passato alle spalle. Ma poi, quando meno te lo aspetti, ecco che esso tornerà a farsi presente, più prepotente che mai: quando sei solo, o quando sei lontano dalla vita di tutti i giorni, la vita che usi per seppellire i ricordi nella tua tranquilla quotidianità. E lei, il suo ricordo o la sua immagine sarà lì a rammentarti i tuoi sentimenti e il dolore sarà forte, insopportabile».

Lui la fissò, inarcando le sopracciglia. «Caspita. Grazie per il supporto morale».

Rebecca sorrise. «Non c’è di che. Benvenuto nel mondo meraviglioso degli adulti».

Jean insaccò le mani in tasca.

«Io... credo di amarla ancora».

«Lo so».

«E che ne sai?»

«Sei un ragazzo romantico, Jean. E per questo sei prevedibile».

Lui si incupì. «Devo dire che dopo questa conversazione mi sento molto meglio» ironizzò.

«Non fraintendermi» ridacchiò lei. «Non volevo denigrarti. È solo che un sentimento come il tuo è qualcosa che non muore dal giorno alla notte. E purtroppo la separazione non aiuta, in questi casi; invece che affievolire la passione, la alimenta».

«Sai che gioia...»

«Jean» disse Rebecca, fissandolo negli occhi con estrema dolcezza «non partire se il tuo scopo è cercare di riallacciare il rapporto con lei. Non voglio alimentare le tue false speranze: lei è qui con un uomo. Non tornerà indietro».

Jean si alzò e si portò alla finestra. Davanti ai suoi occhi, trenta metri più in basso, si stendeva l’intera città di Boston, il reticolato delle sue vie e le strade affollate di pedoni.

«Quindi secondo te non dovrei accettare?»

Rebecca si alzò e andò a portarsi accanto a lui. Gli posò dolcemente la testa sulla spalla, un gesto molto tenero a cui lui non era abituato. Jean chinò la testa e la appoggiò contro la sua; e insieme restarono a fissare in silenzio la città, che scorreva insensibile sotto di loro.

«Dico solo che dovresti accettare, per chiudere definitivamente con il tuo passato. Dai loro una mano, perché sono nostri amici. E per dire a te stesso basta».

Jean sospirò.

«D’accordo, ho capito. Li aiuterò, quindi sprofonderò nuovamente nella mia insulsa vita».

«Non ti consento di dire questo» replicò lei. «Ricordati che tu hai Marie e me. C’è Alex. Per noi, per tutti noi, tu sei molto importante. Ti vogliamo bene e io mi aspetto il massimo da te. Ci siamo capiti?»

Jean abbassò il capo.

«Jean?»

«Sì, lo so. Non ti preoccupare» disse. Ma si odiò per quella menzogna. Il fatto era che lei non poteva capire che ciò che lo stava distruggendo era proprio questo: una intera giovinezza spesa a preoccuparsi degli altri, facendosi carico di responsabilità così insormontabili! E tutto quello che lui voleva, era solo vivere. Vivere! Senza dover nulla a nessuno, senza sentirsi schiacciare dal senso di colpa perché aveva pensato a se stesso e non a Marie, o a Rebecca o ai sentimenti di Alex.

«Bene» fece lei. «Allora non c’è problema. Per me possiamo anche partire subito. In fondo dicono che l'America Latina sia un continente affascinante, pieno di tesori. Sono curiosa di vederlo! Questa vacanza si sta dimostrando più interessante di quanto non immaginassi...»

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Capitolo 27
*** 26 ***


6










«Il problema è qui, vedi? Negli elementi mobili».

Hanson puntò il dito sul progetto. Rimase pensieroso a fissarlo per un attimo, quindi alzò gli occhi umidi verso Jean e sorrise, stirandosi. «Ma che ora è?»

Jean si abbandonò sulla sedia. «Piuttosto tardi?»

«Facciamo una pausa» fece Hanson. «Che ne dici di andare a farci un caffè?»

Jean si stiracchiò a sua volta. «D’accordo. Vieni, c’è una stanza ristoro qui in facoltà. Ci mettiamo un attimo».

Hanson e Jean attraversarono in silenzio gli ampi corridoi deserti del MIT. La tenue luce della luna si infrangeva sul pavimento e sulle pareti immacolate e avvolte dal buio, filtrando attraverso le ampie vetrate che si affacciavano sul parco dell’università. Fuori, nell'ampio giardino, gli alti fusti degli alberi splendevano cerei e con le fronde picchiettavano debolmente alle finestre, mossi da un vento leggero.

I due camminavano in silenzio, uno a fianco all'altro. Hanson prese a guardare Jean di sottecchi.

«Ehi» esordì, schiarendosi la voce «mi spiace di essere capitato qui così. Posso solo immaginare cosa stai provando».

«Lascia perdere» rispose Jean. «Non hai nessuna colpa».

«Nadia è venuta da me circa una settimana fa» riprese Hanson. «Mi ha raccontato che il tipo con cui lavoravo da anni, un professore nostro amico, era stato ucciso; non potevo tirarmi indietro...»

«Già».

«...comunque anche lei era preoccupata all’idea di rivederti, sai? Non voleva farti soffrire. Dico sul serio. Sono stato io a convincerla che il tuo aiuto era necessario».

«Beh, grazie» ironizzò Jean. «Sono lusingato».

Hanson si strinse nelle spalle. «È la verità».

«Queste... ricerche» domandò Jean, dopo un attimo di silenzio. «Cosa riguardano, esattamente?»

Hanson sporse il labbro, lanciando a Jean uno sguardo in tralice. «Non so se Nadia sarebbe d'accordo che io ti dicessi queste cose...»

«Ma lei non è qui» fece Jean «e non deve saperlo per forza».

Hanson si ritrasse, mugugnando. «E va bene» cedette, alla fine. «Io e Kurtag abbiamo trovato una pietra, quando eravamo insieme nel Pacifico. Una pietra strana, che ricorda per certi versi la Pietra Azzurra che aveva Nadia».

«Kurtag... sarebbe il professore amico di Nadia che è stato ucciso?»

«Esatto» fece Hanson. «Era anche amico mio. Me lo presentò lei, a essere sinceri. Avvenne due anni fa, quando io mi trasferii in America per impiantare la mia officina. Cercavo clienti, gente disposta a finanziare le mie macchine innovative. Lui era il tipo giusto. Nadia lo sapeva, naturalmente. E così ci fece conoscere. Kurtag aveva bisogno di qualcuno che lo seguisse nelle sue spedizioni e gli approntasse mezzi particolari, capaci di affrontare le difficoltà legate alle caratteristiche ambientali dei luoghi in cui doveva svolgere le sue ricerche. Aveva soldi in abbondanza, anche se non devi chiedermi dove li trovasse fuori, perché proprio non lo so... comunque era in gamba. E mi offriva l'avventura. Non chiedevo di meglio.

«Questa pietra» chiese Jean, curioso «davvero è come la pietra azzurra?»

«No» confessò Hanson. «Ma le somiglia molto. Nadia la tiene sempre con sé. Dovresti parlare con lei di questo, ma non credo che otterresti qualcosa. Non accetta di parlarne con nessuno».

«E tu cosa sai?»

«Io?» fece Hanson, stranito. «A parte che devo costruire un mezzo da immersione e un dirigibile? Nulla!» rise. «No, a parte gli scherzi... so che Kurtag era andato avanti con le ricerche, dopo che si era portato la pietra in Inghilterra. Credo che abbia capito da dove proviene. Quando Nadia è venuta da me, a Philadelphia, mi ha detto che il professore sarebbe voluto recarsi in Bolivia, per compiere alcune ricerche sulla pietra. Riteneva di aver trovato il suo luogo di origine. Io ero stupito. Mi chiedevo come avesse fatto una pietra così a percorrere tutta la strada tra la Bolivia e Samoa... ma lei era molto sicura. La Bolivia era il posto giusto. Io accettai di seguirla, anche se avevo qualche dubbio. Sentivo di doverlo a Kurtag. In fondo, io la mia fortuna la devo a lui.. e a lei, che me lo ha presentato».

«Ma il lago Titicaca è davvero così profondo? È un lago vulcanico, certo... ma credevo arrivasse al massimo a duecento metri, o giù di lì...»

Hanson sogghignò con espressione furba. «E infatti è così. Ma io e Kurtag lo abbiamo visitato parecchi anni fa e abbiamo trovato una fenditura, una sorta di fossa, sul fondale che fronteggia il lato meridionale, vicino all'isola della Luna. Lì la profondità supera i mille metri».

«E siete riusciti a scendere fin là?» fece Jean, curioso.

«No» rispose Hanson, amaro. «Appena raggiungemmo i quattrocento metri le saldature si incrinarono e dovemmo tornare su in tutta fretta. Per questo organizzammo la spedizione a Samoa. Kurtag credeva che ci fosse una galleria sotterranea che collegasse la fossa di Tonga alla dorsale delle Ande. Ma anche lì la profondità era troppa. Non riuscimmo a superare i cinquecento metri e dovemmo abbandonare».

«Quindi tu eri in America da due anni?» chiese Jean, cambiando discorso. «Perché non mi hai detto nulla? Dopo che sono andato via da Berlino, non ti sei più fatto vivo...»

«E cosa dovrei dire di te?» fece Hanson, arcuando le sopracciglia. «Mica mi hai detto che lavoravi al MIT, o sbaglio? Ho dovuto saperlo da Rebecca, pensa te».

Jean si accigliò. Prese a fissare avanti a sé, lo sguardo perso nell'ombra che li circondava. «Io... ho avuto qualche problema... con me stesso» disse laconicamente.

Il volto di Hanson si addolcì. «Jean, se è per quella storiaccia di Berlino...»

«Siamo arrivati» lo interruppe lui. Hanson sospirò, ma lasciò perdere, e con un gesto di intesa seguì Jean nella stanza.

Era una piccola cucina, completamente immersa nel buio. Sulla sinistra, si intravvedeva un divano e, accanto, un tavolino. Contro la parete in fondo, un angolo cottura e alcuni scaffali. Jean si avvicinò a un mobiletto e tirò fuori un bollitore e la polvere di caffè, muovendosi al buio come se conoscesse quella stanza quanto le sue tasche.

«Caspita. Avete proprio tutto qui, vero?»

«Già, si sta davvero bene. Dovresti presentare domanda. Credo che ti prenderebbero subito».

«Nah. Io non mi ci vedo a fare l’insegnante. Lo sai, nei rapporti interpersonali non vado molto bene. Mi trovo meglio con le macchine».

Jean annuì. «Sai, credo di capirti...»

«Che profumo! C’è un po’ di caffè anche per me?»

Jean si voltò. Con il cuore che cominciava a battere all’impazzata riconobbe la sagoma di Nadia, che si stagliava nel buio.

«Ehi, Nadia» fece Hanson. «Che ci fai qui? Pensavo che tu e Jonathan foste già tornati in albergo».

«John è andato qualche ora fa. Io... ho voluto fermarmi un po’. Avevo bisogno di stare sola».

Jean le porse una tazza.

«Grazie» fece lei, con un sorriso incerto.

«Non c’è di che» fu la sua risposta, asciutta. Un improvviso silenzio si abbatté su di loro, finché Hanson non intervenne a scioglierlo.

«Bene, bene» disse, molleggiandosi sui piedi. «Direi... vado un attimo al bagno. Ci rivediamo tra cinque minuti nello studio, Jean?»

Lui annuì. Nadia avvicinò alla bocca la tazza fumante.

«Hai fatto molta strada» disse lei all’improvviso, non appena furono rimasti soli.

«Anche tu non scherzi».

«Beh, mi sono data da fare» fece lei, con un sorriso. «Sai,» aggiunse con trasporto «ieri in classe sei stato davvero fantastico. Ci avevi tutti in pugno».

«Ti ringrazio».

Nadia si gingillò con la tazza. Fece qualche passo lungo la stanza, mentre pensava a cosa dire.

«Ora sarà meglio che vada» disse lui. Lei sussultò, sorpresa.

«Oh. Certo...»

Lo fissò che si allontanava lungo il corridoio, quando qualcosa la spinse a chiamarlo. Lui si voltò a fissarla: e nel vedere il dolore che affiorava sul suo volto, lei sentì il cuore lacerarsi.

«Cosa c'è?» le chiese, sforzandosi di apparire distaccato.

«Devi per forza tenermi il broncio? Sono passati quasi tre anni...»

Lui sollevò le spalle. Nei suoi occhi brillò quel lampo di derisione che lei non conosceva in lui, e che cominciava ad odiare. «Io non ti tengo il broncio» le disse. «Sei in errore».

«Certo! Come no».

Lui la fissò, e lei vide che tutta la profonda irrisione di prima aveva lasciato in lui il posto a un tremenda solitudine. Sembrava tanto fragile che lei temette potesse spezzarsi lì, davanti ai suoi occhi.

«Hai finito?» fece lui, in tono piatto. «Sono stanco, non ho voglia di discutere».

«Jean, mi dispiace» disse lei, allargando le braccia. «Non volevo che finisse così, con me e te che ci evitiamo, come se fossimo due perfetti sconosciuti».

«Ma noi lo siamo» la corresse lui. Nadia rimase a fissarlo, pietrificata. «Sei sparita dalla nostra vita per tre anni. Ho dovuto inventarmi storie assurde per giustificare a Marie la tua assenza. Mi hai lasciato? Bene, ma che ne è stato di lei? Come hai potuto lasciarla così?»

«Io non sapevo come comportarmi» provò a giustificarsi.

«Avresti semplicemente dovuto continuare a esserci».

«Lo so, io...»

«No, tu non lo sai. Altrimenti non saresti ricomparsa qui, dopo tutto questo tempo, comportandoti come se nulla fosse, mentre io... io davvero non so chi tu sia».

Io sto solo provandoci, Jean, avrebbe voluto dire. Ma le parole le morirono sulle labbra. Lo seguì con lo sguardo mentre spariva avvolto nell’ombra. Quindi si appoggiò allo stipite della porta, lasciando che il buio che stringeva quelle quattro mura si spingesse piano piano fin nel profondo del suo cuore.

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Capitolo 28
*** 27 ***


7










La mattina arrivò presto e Nadia si risvegliò con la luce del sole che filtrava attraverso le finestre della saletta. Si era addormentata sul divano e ora si sentiva tutta indolenzita. Si stropicciò gli occhi e si accorse improvvisamente di non essere sola. Alcuni professori si erano riuniti intorno a lei e bevevano il caffè, lanciandole occhiate a dir poco curiose. Con un leggero imbarazzo, Nadia sorrise, distogliendo lo sguardo.

Si alzò, facendo scivolare a terra la giacca che la copriva. Non era sua. Probabilmente, qualcuno la sera prima l’aveva trovata addormentata e aveva pensato di coprirla con qualcosa.

Ne aspirò il profumo e riconobbe quello di Jean. Un sorriso le si dipinse in volto e lei strinse involontariamente la giacca a sé. Era stato dolce.

Con una insolita eccitazione, si infilò le scarpe e corse fuori, percorrendo allegra i corridoi che cominciavano a popolarsi di studenti. Bussò allo studio di Jean ma lo trovò chiuso.

Dev’essere andato a dormire. Abita qui da qualche parte, se non mi sbaglio...

Percorse in fretta le scale, lottando contro la marea di studenti e professori che si stava riversando nell’edificio. D’un tratto intravide John, fermo in mezzo all’atrio. Si guardava attorno, come se stesse cercando qualcosa o qualcuno. Lei lo raggiunse, e quando lui la vide la abbracciò, salutandola con un bacio. Lei ricambiò ma, stranamente, non avvertì alcun trasporto.

«Ma si può sapere dove ti eri cacciata?» la rimproverò. «Stamattina, quando ho bussato alla tua porta e non mi ha aperto nessuno, ho cominciato a preoccuparmi. Il maître mi ha detto che non eri rientrata... puoi solo immaginare la mia agitazione!»

«Scusami, sono stata una sciocca» si giustificò lei. «Mi sono fermata più del dovuto e sono crollata».

John notò la giacca che teneva in mano.

«Di chi è quella?» domandò.

«È... di Jean» abbozzò lei. «Me l’ha lasciata ieri... credo».

«Credi?»

Nadia arrossì. «L’ho vista solo stamattina. Deve avermi trovata addormentata e mi coperto con questa».

John la studiò intensamente. «Un pensiero carino».

«Lo stavo giusto andando a cercare per restituirgliela. Tu aspettami qui, arrivo subito».

«Vengo con te. Così posso ringraziarlo anch’io».

«Non ce n’è bisogno» fece lei, insolitamente fredda. Lui si indurì.

«Bene» fece lui, glaciale. «Vorrà dire che ti aspetterò».

Nadia scosse la testa. «Non litighiamo, ti prego. Non c’è motivo. È... una situazione difficile, e vorrei solo non complicare le cose».

«E io vorrei che quel tipo stesse lontano da te».

«Lo sta facendo» lo rassicurò. Lui strinse le labbra, ma alla fine sorrise.

«Va bene» disse. «Vai pure. Ti aspetterò qui».

Nadia salutò John con un bacio frettoloso. Mentre lui saliva le scale, si voltò ancora a cercarla, ma lei era già sparita, dileguata tra la folla, in cerca di Jean.

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Capitolo 29
*** 28 ***


8










«State tutti bene?»

Winston e gli altri avevano appena messo piede sui gradini, quando un boato, seguito da una tremenda una esplosione, li aveva investiti in pieno, scuotendo il palazzo fino alle fondamenta e scaraventandoli giù per le scale.

Passò in rassegna i volti di Lisa e degli altri. Sembravano tutti incolumi. Solo Lisa aveva una leggera escoriazione al volto, ma nulla di grave. Lui le offrì un fazzoletto per tamponarsi la ferita.

«Cosa è successo?» grugnì Hunter, che faticava a stare seduto. Aveva fatto un ruzzolone per le scale, atterrando piuttosto male.

«C'è stata un'esplosione» disse Winston, che sembrava avere ancora il pieno controllo di sé. Lisa, che al contrario era terrorizzata, lo fissò ammirata. «Restate qui,» fece lui «vado a vedere».

Risalì velocemente le scale coperte di macerie, facendosi largo tra i resti di legno e calce che bruciavano sul pianerottolo. La porta era stata divelta e i vetri si erano infranti in mille schegge, sparse sul pavimento tra i residui di intonaco e legno. All'interno della redazione, numerosi focolai di fiamme ardevano qua e là tra le scrivanie rovesciate e la mobilia distrutta. Un fumo nero e un puzzo intollerabile costrinsero Winston a ripararsi con il braccio, mentre avanzava cautamente nella stanza.

Sentì qualcuno tossire, poco lontano. Sul pavimento, intravide dei resti umani. Vi passò accanto, evitando con cura di fissarli troppo a lungo.

«C'è qualcuno?» gridò. Una flebile voce che chiedeva aiuto lo raggiunse dal corridoio. La stanza era piena di corpi inanimati. Chi si trovava nelle vicinanze della sala ristoro non aveva avuto scampo. Solo chi era negli uffici più lontani si era potuto salvare.

Winston entrò in un ufficio sulla destra, facendosi largo tra i calcinacci che scricchiolavano, inquietanti, sotto le suole delle sue scarpe. Vide un'ombra nell'angolo. Si muoveva. Era un uomo, ed era vivo.

«Eccomi, stia tranquillo!»

Si chinò su di lui, facendosi passare un braccio intorno al collo. Quindi lo aiutò a sollevarsi, sorreggendolo mentre camminava.

«Sa se c'è qualcun altro qui?» gli domandò. L'uomo annuì e indicò le altre porte lungo il corridoio invaso dal fumo e dalle fiamme.

«Riesce a camminare da solo?» tossì Winston. L'uomo fece un cenno affermativo e Winston lo indirizzò all'uscita. Quindi si incamminò lungo il corridoio.

Fortunatamente, trovò solo persone scioccate, ma non ferite. Dopo averle radunate, le guidò verso l'uscita. Ma una nuova esplosione, meno forte della precedente ma ugualmente terrificante, li costrinse a ripararsi dietro a un muro.

«Muovetevi» gridò Winston. «Uscite, presto!»

Li condusse all'uscita, osservandoli sfilare con il cuore che pulsava senza freni. Una nuova esplosione li avrebbe sorpresi tutti allo scoperto, e li avrebbe lasciati senza scampo. Non appena l'ultimo dei superstiti fu uscito, Winston si precipitò fuori, contento di non dover restare lì dentro un secondo di più.

In fondo alle scale si era già radunata una piccola folla. Winston cedette il passo ai vigili del fuoco, che salivano trascinandosi dietro un lungo tubo di gomma e pesanti secchi d'acqua. Si spazzolò la cenere dalla raffinata giacca di lana nera, quindi si avvicinò a Lisa, Michael e Hunter, che lo attendevano insieme ad alcuni dei loro colleghi del Times.

Erano tutti spaventati, ma incolumi per lo più. Fuori, una folla di persone fissava ciò che restava del primo piano del palazzo, gli occhi sollevati al cielo, le mani alzate ad indicare le fiamme che uscivano dalle finestre sventrate.

«L'avevo detto che sentivo odore di gas» fece Michael, tossicchiando. La caduta gli aveva incrinato una costola.

«Devo imparare a darti retta più spesso» ammise Hunter, strappandogli un sorriso. Quindi si rivolse a Winston, fissandolo serio. «Quanti, i... ?» domandò, con voce tremante.

Winston si oscurò in volto. «Almeno in sei».

«Buon dio!» lamentò Hunter, passandosi una mano sulla fronte impolverata.

«Quel fornello era molto vecchio?» domandò Winston.

«No, non molto» rispose Hunter, ancora molto scosso. «Stamane erano persino venuti a controllarlo gli uomini della manutenzione. È una cosa periodica. Chissà che hanno combinato...»

Winston si chinò sui talloni. «Gli uomini della manutenzione? Li conosceva, dunque?»

«Mai visti. Cambiano sempre. Li manda la società proprietaria dell'immobile» fece Hunter.

Con semplicità, il giovane Churchill si ravviò i capelli leggermente scomposti. Quindi sorrise, divertito.

«Che le prende?» fece Lisa, profondamente offesa da quella che giudicò una mancanza di tatto. «Delle persone nostre amiche sono morte, e noi abbiamo appena rischiato la pelle!»

«Esatto, signorina. Anche se credo che sarebbe più giusto dire che qualcuno ha cercato di farvi la pelle. Ma per una serie di fortunate coincidenze, non gli è riuscito».

Lisa e Michael si guardarono stravolti. «Cosa? E perché avrebbero dovuto...»

«Perché, ormai è chiaro, Nadia Ra Arwol e Jonathan Fisher non sono affatto morti. E qualcuno non vuole che lo si arrivi a sapere».

«E come può dirlo?» chiese Hunter. «Cos'è, un veggente?»

«Qualcuno sapeva che eravate a conoscenza della Pietra che la Ra Arwol ha con sé, e del luogo in cui si è recata insieme al suo fidanzato. Lasciarvi in vita era troppo pericoloso, per due che dovevano sparire. Solo così si spiega il tentativo di togliervi di mezzo».

«Piuttosto maldestro, a dire il vero» fece Michael, con una smorfia.

«Oh, no. Tutt'altro. Se io non vi avessi chiesto di seguirmi, e se solo avessimo atteso qualche secondo in più, saremmo tutti morti. E sarebbe sembrato solo un banale incidente, dovuto a una fuga di gas. È stato davvero ben architettato, se devo essere sincero».

Michael impallidì, fissando Winston senza parole.

«Lei ha parlato di Nadia e di John, che avevano necessità di sparire» fece Hunter, sollevandosi con una smorfia e soffocando un lamento. «Vuol dire... che tutto questo... è opera di quei due?»

«No» ammise Winston. «Non lo credo. Troppo complicato per due sole persone. Ma credo che il signor Michael non avesse tutti i torti riguardo al fatto che qualcuno di loro nascondeva qualcosa. Dovrò cercare di scoprire qualcosa di più sul conto di Jonathan Fisher. Sono sicuro che scoprirei aspetti interessanti».

«Siamo con lei, agente» fece Michael, sollevandosi faticosamente in piedi. Ma appena tentò di raddrizzare il busto, avvertì una fitta al costato che lo piegò in due.

«Non sia sciocco» lo ammonì Winston. «Lei ha bisogno di farsi curare, è evidente. Mi sarebbe solo di intralcio. Questo non è un gioco, lo abbiamo visto. Il rischio è grande».

«Giusto, il signore ha ragione» intervenne Lisa. «Andrò io con lui. E appena voi due vi sarete ripresi, decideremo insieme il da farsi».

Winston la fissò sconcertato. «Lei non ha capito, io non la voglio tra i piedi. Nessuno di voi».

«È lei a non aver capito» ribatté Lisa, con un sorriso. «Non si contraddice mai una signora».

Il giovane strinse le labbra, gonfiando il petto. Un bagliore di ostilità gli lampeggiò negli occhi per un istante. Ma poi il suo volto si distese, assumendo un'aria divertita.

«Va bene. Ma cerchi di stare attenta. Non posso essere sempre lì a pararle il sedere».

«Lei ha davvero un modo raffinato di esprimersi, sa?» lo schernì lei. «Comunque non si preoccupi. So badare a me stessa».

«Perfetto» fece lui, ammiccando leggermente. «Andiamo allora».

«Lisa, per l'amor di dio, stai attenta» la ammonì Hunter. Quello sguardo preoccupato che le rivolse, unito alla sua figura improvvisamente smagrita e afflitta, la commosse profondamente.

«Stia tranquillo» lo confortò. «Andrà tutto bene».

«Andiamo!» Winston la tirò delicatamente per un braccio. «Dobbiamo muoverci. Ogni minuto è prezioso».

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Capitolo 30
*** 29 ***


9










Mentre percorreva a passo leggero i viali del parco, Nadia ripensò alle accuse mossele da Jean. Aveva ragione su ogni cosa: era sparita di punto in bianco, cancellando tutto il suo passato con un colpo di spugna. Pensò a Marie e si chiese come avrebbe mai potuto farsi perdonare da lei, per quello che le aveva fatto. Se ora la odiava, ne aveva tutte le ragioni: aveva pensato solo a se stessa.

Ne avevi il diritto, si disse.

No, nessuno ha il diritto di far soffrire gli altri.

Era scappata. Solo ora se ne rendeva conto: era scappata da qualcosa che la spaventava. Ma cosa l'aveva terrorizzata così tanto, da spingerla ad abbandonare tutto ciò che rendeva la sua vita piena, e a ricrearsene un’altra completamente nuova?

Non era infelice. Anzi. Era innamorata, ed era circondata da persone che la amavano. Eppure non si sentiva realizzata. Ma era solo quello? No, a crederlo mentiva a se stessa. Lei sapeva che inaspettatamente, un giorno, dentro di lei era scattato qualcosa: una paura ancestrale, che periodicamente affiorava improvvisa nella sua vita, a sconvolgerne gli equilibri precari su cui si reggeva in modo insospettabile.

Ma di cosa avevo paura? Di cosa ho sempre paura?

Avrebbe dato qualsiasi cosa per saperlo. E per tornare indietro, forse...

Improvvisamente, vide Alexandra che se ne stava seduta su una panchina. Accanto a lei c’era una bambina. Poteva essere...

Marie.

Nadia avvertì l’emozione crescerle in petto. Non era pronta ad affrontare la situazione, anche se sapeva che prima o poi avrebbe dovuto farlo. In quel preciso momento, la bambina alzò lo sguardo, incontrando gli occhi smarriti di lei. Nadia rimase immobile a guardarla. Stettero così, una di fronte all’altra, finché Marie abbassò di nuovo gli occhi, prendendo a fissare il vuoto ai suoi piedi.

Con il cuore in gola, Nadia si appressò cautamente alla panchina. Alexandra spostò su di lei il suo sguardo e le sorrise.

«Ciao» fece Nadia. «Marie? Sei... proprio tu, vero?»

Marie alzò gli occhi verso di lei e annuì senza calore.

«Sei diventata grande» Nadia sentì un groppo in gola. Si sforzò di trovare quelle parole che non volevano saperne di uscire dalle sue labbra. «Sei davvero una signorina, ormai».

Marie non disse nulla. Si limitò a fissarla macchinalmente per qualche istante, quindi abbassò di nuovo gli occhi.

«Buongiorno, Nadia. Cercavi qualcuno?» si intromise Alexandra, esaminando la giacca che lei teneva in mano.

Nadia restò per qualche istante a guardare Marie, quindi spostò gli occhi in quelli di Alex.

«Veramente... cercavo Jean. Dovrei restituirgli questa».

«Dovrebbe essere ancora a letto. Ha fatto molto tardi, ieri».

«Oh. E tu come lo sai?»

Quelle parole le sfuggirono di bocca. Alexandra la fissò, sorridendo. Nadia arrossì, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro.

«Scusa?»

«Mi chiedevo come potessi essere così informata...»

«Perché lo aspettavo. Ero a casa sua».

Nadia si sentì avvampare. Una rabbia crescente si fece strada in lei, senza trovare ostacoli.

«Dovevo occuparmi di cercare alcune cose nel suo archivio personale» aggiunse Alex, placidamente.

«Non devi giustificarmi la cosa».

«Te l’ho detto solo perché sembravi molto interessata a farti i fatti suoi».

Nadia drizzò il busto.

«Il tuo ragazzo si trova bene a Boston?» continuò Alex, sorridendo.

«Molto» disse Nadia a denti stretti. «Puoi indicarmi dove esattamente abita Jean? Così posso restituirgli la giacca».

«Se vuoi, posso occuparmene io».

«Preferirei sbrigarmela da sola».

«Il fatto è che gli appartamenti sono in un’area vietata al pubblico».

Nadia rise. «Ma certo, come no».

Alex si accigliò.

«Non capisco il tuo tono, Nadia» disse.

«E io non capisco il tuo, Alexandra. Credi di conoscere Jean...»

«Forse lo conosco, che ne sai?» interloquì lei.

«...quanto lo conosco io? Tu non hai nemmeno idea di quello che io e lui abbiamo vissuto insieme».

«Basta!»

Nadia e Alex si voltarono sorprese verso Marie, che le fulminò entrambe con gli occhi.

«Lascia in pace Jean e lascia in pace Alex. Lei non conoscerà Jean quanto te, però non gli ha mai fatto tutto il male che invece gli hai fatto tu!»

Nadia sentì il cuore mancarle un battito. Fissava sbigottita Marie, che le teneva gli occhi piantati addosso, il volto segnato dalle lentiggini costretto in un’espressione dura e accusatoria. Senza parole chinò la testa e tese la giacca ad Alexandra, che ora sembrava quasi guardarla con una certa compassione. Si sentì umiliata.

«Bene. Sarei felice se potessi occupartene tu. Grazie» fece Nadia, affidandole la giacca. La ragazza la prese e annuì, senza sorridere.

«Lo farò. Gli dirò che lo hai cercato».

Nadia la ringraziò con un cenno del capo. Lanciò un ultimo sguardo a Marie, ma la bambina era già tornata a fissare lontano. Con le lacrime agli occhi, Nadia si voltò e si incamminò, cercando di scacciare l’eco terribile della voce sprezzante di Marie. Sapeva che quelle sue parole non erano altro che la verità; ma si trattava di una verità che lei non era ancora pronta ad accettare.

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Capitolo 31
*** 30 ***


10










Lisa seguì Winston lungo Fleet Street. Camminavano a passo svelto, ma con un certo contegno. Lui se ne stava immerso in un silenzio assorto che era difficile da decifrare. Alla fine, prese coraggio e decise di parlargli.

«Lei non è un poliziotto, vero?»

Winston la fissò stupito. «E da cosa lo deduce?»

«Dalla sua aria misteriosa. E dal fatto che sembra sapere cose che la gente comune ignora».

Sul volto ampio di lui comparve un sorrisetto divertito. «Lei è indubbiamente molto acuta, Miss Stanfields».

«Vuole dirmi chi è?»

Winston alzò il braccio per attirare l'attenzione di un vetturino di passaggio. L'uomo tirò le redini e fermò la carrozza proprio davanti a loro. Winston aprì la porta e tese la mano a Lisa, per aiutarla a salire. Quindi si issò, prendendo posto accanto a lei.

«Whitehall» fece, sporgendosi verso il vetturino. L'uomo abbozzò un cenno di intesa e partì. Winston si accasciò sul sedile scrostato, estraendo un pacchetto di sigarette dal taschino del soprabito. Con movimenti lenti, ne accese una, inspirando con fare liberatorio.

«Allora?» lo incalzò Lisa, che per tutto il tempo era rimasta a fissarlo in silenzio e in attesa. Lui le rivolse un'occhiata lontana.

«Cosa?»

«Come, cosa? Le ho chiesto di dirmi chi è...»

«E lei si aspetta che le risponda? È davvero così ingenua?» fece lui, ridacchiando.

«Se dobbiamo lavorare insieme...»

«Mi stia bene a sentire, ragazza» fece lui, avvicinandosi al suo volto e penetrandola con i suoi occhi densi e scuri. «Io non sto affatto lavorando con lei, la sto al massimo tollerando. È con me solo perché potrebbe tornarmi utile in qualche modo. Quindi, veda di non rompere e se ne stia buona».

Lei avvampò di collera. «È un gran maleducato!»

Winston ghignò, tirando una boccata di fumo. «Già, può essere».

Se ne stettero in silenzio per tutto il resto del tragitto. Winston fece arrestare la carrozza davanti al palazzo del ministero della difesa. Aprì la porta e tese la mano a Lisa, che però la rifiutò sdegnosamente. Winston sorrise, divertito.

«Non vuole nemmeno dirmi cosa dobbiamo cercare?» gli chiese Lisa, gelida.

«Qualsiasi cosa» fece lui, aggiustandosi il soprabito. «Tenga gli occhi aperti».

«Tenga gli occhi aperti» gli fece il verso lei. «Razza di cafone...»

«Ha detto qualcosa?» le chiese, senza nemmeno voltarsi. Lei gli rivolse una smorfia.

L'ingresso del Palazzo della Difesa era monumentale. Era la prima volta che Lisa aveva occasione di entrarci. Uomini eleganti in completo scuro sfrecciavano affaccendati attraverso le sale affrescate, con pesanti faldoni di documenti tra le braccia. Riconobbe alcuni deputati particolarmente famosi che chiacchieravano rilassati a lato della sala principale, fumando sigari e sorseggiando liquori. Lisa si guardò timidamente. Aveva il vestito sgualcito e coperto di polvere. I capelli erano arruffati e il volto era ombreggiato dal sangue rappreso, che le era colato dalla ferita sulla fronte. Arrossì. Si sentiva parecchio fuori luogo.

«Non può muoversi?» la rimproverò Winston, volgendo la testa a guardarla. Lei sollevò gli occhi e lui percepì il suo smarrimento. Con una smorfia, la prese a braccetto e la condusse lungo gli ampi corridoi. E subito Lisa si sentì più a suo agio.

Una guardia in divisa sbarrò loro il passo. Lisa credette che fossero arrivati al capolinea.

«Non potete passare, signori» fece la guardia, lanciando ai due un'occhiata perplessa. Si soffermò in particolare su Lisa, squadrandola da capo a piedi, con disgusto. La ragazza chinò la testa, avvampando. «Mi dispiace, ma questa è un'area riservata».

«Dica al ministro che Churchill è qui, e ha urgente bisogno di parlare con lui» fece tranquillo Winston. L'uomo lo fissò sospettoso, quindi sparì, annuendo severamente.

Lisa allungò gli occhi su di lui, che evitava di guardarla. «Così, ora si chiama Churchill?» disse.

«A quanto sembra» fu la sua risposta secca.

«E avrà anche un nome, immagino?»

Lui strinse i denti. «Evidentemente».

«Evidentemente non me lo dirà, non è così?»

Winston abbassò gli occhi sul volto pallido di lei. Quella ragazza era esasperante.

«Mi chiamo Winston. Contenta?»

Lei annuì. «Bene, Winston. È un piacere fare la sua conoscenza. Crede che ora comincerà a dirmi la verità?»

«Lei spera troppo» ridacchiò lui. «Ma potrei anche farlo visto che, ora che sa come mi chiamo, dovrò ucciderla».

Lei si ritrasse, incredula.

«Sto scherzando» rise lui.

«Non è per nulla simpatico, sa?» fece Lisa, rabbrividendo. «Lei non mi piace, neanche un po'».

Lui si irrigidì, fissandola con astio. «Nemmeno lei, se è per questo. È sempre così dannatamente intollerabile? La conosco da stamattina e già non la sopporto più».

Lisa aggrottò le sopracciglia, furiosa. «Se fossi sua moglie, le garantisco che le metterei del veleno nel tè» sibilò, livida. Lui chinò il volto ampio a guardarla, sulle labbra una smorfia stiracchiata.

«E io le garantisco, signorina, che se lei fosse mia moglie non esiterei a berlo!»

Lisa arrossì violentemente. Quindi voltò il viso, accigliata, sporgendo il labbro inferiore e assumendo un'aria profondamente offesa. In quel momento la guardia fece ritorno. Aprì la transenna e si fece da parte.

«Prego signori. Il ministro vi attende».

Lisa si lasciò trascinare da Winston, sorpresa dalla facilità con cui erano riusciti a passare.

«Dunque è così?» chiese. «Lei viene qui, dice il suo nome e il ministro la fa accomodare?»

«Godo di certi privilegi» ammise neutro Winston, tenendo lo sguardo fisso avanti a sé. «Siamo arrivati».

Aprì una grande porta di mogano. Lisa entrò subito dopo di lui, affacciandosi timidamente all'ingresso. L'ufficio del ministro era diverso da come se lo aspettava. Non era troppo grande e nemmeno luminoso. Una carta da parati color salmone irradiava una luminosità triste, in quel giorno di pioggia. Alle pareti vi erano parecchi scaffali ricolmi di file ordinate di volumi. Una piccola scrivania in noce, su cui era disposto ordinatamente il materiale da scrittura. Due piccole ma apparentemente comode poltrone fronteggiavano la scrivania. Sulla destra, un piccolo salottino per il tè.

Il Ministro, un uomo dall'aspetto pingue e mansueto, con larghi baffi ingrigiti e la fronte lucida e ampia, li accolse andando loro incontro.

«Signore, che piacere averla qui. Devo dire che sono assolutamente sorpreso».

Lisa strabuzzò gli occhi di fronte a tanta cordialità. Fissò Winston perplessa, chiedendosi che ruolo rivestisse quel giovane per avere diritto a esser trattato con tanta familiarità da personaggi così illustri.

«Non è una visita di cortesia, Ministro» replicò secco Winston. Abbassò gli occhi e notò subito il camino acceso. «Sospettiamo che il signor Fisher fosse coinvolto nell'Ordine. Abbiamo bisogno di accedere ai documenti riservati riguardanti il Reperto».

«Cosa?» obiettò incredulo il Ministro. «È assurdo. Il signor Fisher era un uomo probo, onesto. Il Consiglio è stato informato della sua morte, no?»

«Pensiamo che il signor Fisher non sia affatto morto, signore, ma che la sua sia solo una montatura».

L'uomo fissò Winston con antipatia.

«È un modo meschino di infangare la memoria di un vero servitore della patria».

«Basta» tagliò corto lui. «Non sono tenuto a spiegarle nulla. Si limiti a fare quello che le chiedo».

Il Ministro occhieggiò esitante Winston, balbettando qualcosa di inarticolato.

«Allora?» insisté Winston, tagliente. «Sto aspettando».

L'uomo si terse il sudore dalla fronte, quindi si sforzò di simulare un sorriso di compiacenza.

«Ma certo. Come chiedete. Permettetemi solo di avvisare la cancelleria... è una procedura lunga».

Fece per andarsene, ma Winston lo trattenne. Un lampo di malignità comparve per un istante sul volto tirato dell'uomo.

«Non è necessario. A dir la verità, io volevo solo metterla al corrente della cosa. Non ho bisogno di alcun permesso della cancelleria, come lei ben sa».

«Ma questo... è contro le regole» sorrise affabile il Ministro.

«Siamo noi che facciamo le regole» fu la risposta distaccata di Winston. «E ora, vuole seguirmi?»

L'uomo fissò stancamente Winston e Lisa, che dal canto suo era sconcertata. Ma chi era quel tipo che si permetteva di fare il bello e il cattivo tempo di fronte al Ministro della Difesa in persona?

«Prego» sorrise Winston. «Dopo di lei».

L'uomo boccheggiò un istante. Quindi si volse e sorrise, con grande fatica. «Mi perdoni, ma credo sia utile prendere alcuni documenti che tengo nel cassetto della mia scrivania. Farò in un attimo...»

L'uomo estrasse velocemente un fascicolo dal cassetto, prima che Winston potesse fermarlo.

«Ecco» disse semplicemente. «È tutto qui».

«Si allontani da lì e posi il fascicolo sulla scrivania» gli intimò Winston. L'uomo alzò gli occhi a fissarlo con un sorrisetto malizioso.

«Non capisco...»

«Non voglio correre il rischio che lei bruci anche questo, ministro. Ci penseranno altri a controllare le sue carte, può starne certo».

Lisa fissò stralunata Winston, che teneva gli occhi piantati in quelli del Ministro, sfidandolo con un sorriso beffardo.

«Cosa intende dire?» gli chiese lei.

«Giusto, Ministro. Cosa intendo dire? Perché non lo spiega lei, alla ragazza?»

L'uomo ghignò. «Come l'ha capito?»

Winston occhieggiò verso il camino. «Chi tiene il camino acceso, di Luglio?» osservò. «Fa freddo, sì, ma non così tanto».

Lisa fissò il camino in cui ardevano allegre le fiamme. Quindi spostò gli occhi sul fascicolo che reggeva tra le mani il ministro.

«Il Ministro sapeva che prima o poi saremmo venuti a controllare» riprese Winston. «Perciò, ha saggiamente deciso di disfarsi di alcuni documenti compromettenti, che lo mettevano in relazione ad alcune persone... poco raccomandabili. Peccato che non potesse prevedere la mia venuta, oggi, effettivamente inaspettata. Dico bene?»

«Dice benissimo» fece ironicamente l'uomo. «Non pensavo che il Consiglio ci avrebbe messo così poco, a capire di Fisher».

«Devo ringraziare la fortuna. Permette che le presenti la signorina? È Lisa Stanfields, la giornalista che dovevate uccidere».

Il ministro piantò gli occhi addosso a Lisa, che si sentì agghiacciare.

«Quindi... è ancora viva. È per questo, che ha capito».

«Avete fallito» fece Winston. «Avete fatto i conti senza l'elemento più imperscrutabile. Il caso. E come disse un uomo saggio, la fortuna la si crea con la previdenza».

Il ministro ridacchiò. «A quanto pare, lei ha saputo leggere gli eventi meglio di noi».

«Sono piuttosto bravo, in questo» ammise Winston, sardonico. «Mi hanno istruito bene».

«E saprebbe anche dirmi cosa c'è qui dentro?» fece il ministro, sventolando il fascicolo. Winston reclinò il capo.

«Suppongo le missive di Fisher, che indicano il luogo in cui si trova ora, più altre cose riguardanti la pietra e ciò che intendete farne».

«Lei mi sorprende» sorrise l'uomo.

«Posso vedere?» chiese Winston, in un tono che in realtà nascondeva un imperativo preciso. L'uomo annuì, facendo ondeggiare le guance paffute.

«Sicuro! Prego. A questo punto...»

Fece per porgergli i documenti, ma all'ultimo li gettò nel camino acceso. Con un balzo, Winston si avventò sui fogli che già imbrunivano accartocciandosi, aggrediti dalle fiamme. Si voltò appena in tempo per vedere il Ministro che colpiva Lisa per poi scappare lungo il corridoio.

«Dannazione!»

Winston si lanciò al suo inseguimento. Lisa gli tenne dietro, ancora stordita per il colpo ricevuto. Videro il corpo grasso del Ministro infilarsi in una stanza sulla destra. Alcune guardie, attirate dalla confusione, accorsero a vedere, precipitandosi lungo il corridoio.

«Fermate il Ministro!» gridò Winston. «Muovetevi, è un ordine del Consiglio».

A quelle parole, le guardie scattarono all'inseguimento. L'uomo si stava già lanciando giù per le scale, quando trovò la strada bloccata. Con un movimento improvviso, ritornò sui suoi passi e con un'imprevedibile agilità superò il cordone di guardie che gli impediva la fuga. Ansante, ormai allo stremo, si rifugiò nella biblioteca, dove cercò l'ultimo, disperato nascondiglio. Si spinse tra gli scaffali, affaticato, gli occhi stralunati, sotto lo sguardo attonito dei presenti. Arrivò fino in fondo alla sala, dove una immensa vetrata si ergeva a sbarrargli definitivamente la strada. Solo allora capì di essere in trappola e si volse. Winston lo raggiunse, il respiro leggermente pesante, il volto screziato di rosso. Il Ministro lo fronteggiò spavaldamente, fissandolo sprezzante negli occhi.

«Credete di aver raggiunto qualcosa? Anche se avete scoperto tutto, non troverete mai Fisher in tempo».

«Sarà lei a dirci dove trovarlo, Ministro» ansimò Winston. «Gliel'assicuro».

«Oh, no» ghignò l'uomo, il volto trasfigurato dall'odio. «Non io. Può scommetterci. Io non tradirò l'Ordine. Porterò a termine il compito che mi è stato assegnato».

Si volse a guardarsi intorno. Quindi, con uno sguardo di estrema consapevolezza, fissò la vetrata. Solo allora tornò a guardare Winston e le guardie che lo stavano accerchiando, e che gli si avvicinavano sempre di più.

«È finita» disse placido Winston. «Non ha più alcun senso continuare. Ci aiuti a mettere termine a questa pazzia».

«Pazzia?» ruggì il ministro. «Lei è pazzo. Lei e tutti quelli del Consiglio. Voi non sapete con chi avete a che fare. Ma ve ne accorgerete presto. La Regina è tra noi. Tutto cambierà, ogni cosa! Sarà l'apocalisse, e una nuova era nascerà, per tutti noi! E saranno gli uomini come me ad ereditare il potere dalle mani dei Signori dell'Universo!»

Lisa era sconvolta. Quell'uomo delirava, evidentemente, ma quello che stava dicendo era allucinante.

«La Regina?» fece Winston, impallidendo. «Cosa stai dicendo, pazzo? Di che diavolo parli?»

L'uomo esplose in una risata agghiacciante per la sua follia. «Aspettate e vedrete. Vedrete! La fine è vicina. La fine!»

E così dicendo si slanciò contro la vetrata. Winston si sporse nel tentativo di agguantarlo, ma riuscì solo a lambire l'orlo del suo vestito. Restò a osservare disarmato il corpo del Ministro che cadeva nel vuoto, circondato da una miriade di schegge di vetro.

Mentre cadeva, il Ministro alzò gli occhi verso Winston. Rideva. Il suolo era sempre più vicino.

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Capitolo 32
*** 31 ***


11










Jean si svegliò con un forte mal di testa. Alzò distrattamente gli occhi sull’orologio appeso al muro. Segnava le undici e un quarto.

Non era abituato a dormire fino a tardi. Era andato a letto non prima delle tre; ma per via della stanchezza, non era riuscito a prender sonno che all’alba.

Si alzò a fatica, portandosi una mano alla testa. Sentiva un forte senso di nausea e la sola idea di far colazione gli fece salire un conato di vomito.

Diavolo, è peggio di una sbornia colossale.

Si rivestì svogliatamente, passandosi le bretelle sulle spalle. Cercò in giro la giacca, ma non la trovò. Si ricordò solo in un secondo momento di averla data a Nadia. La notte prima era tornato a cercarla per scusarsi e l’aveva trovata addormentata sul divanetto della sala ristoro. Le aveva sfilato le scarpe e l’aveva coperta con la sua giacca. Un modo come un altro per dirle “mi dispiace”.

Ma alla fine, gli dispiaceva davvero?

Sì. Non avevo il diritto di dirle quelle cose.

Aveva sofferto, ma cosa ne sapeva di quello che aveva passato lei? E se quello che Hanson gli aveva detto era vero, almeno Nadia aveva mostrato una certa sensibilità nel preoccuparsi per lui. Che, al contrario, si era preoccupato solo di sbatterle in faccia tutto il suo rancore.

Con un sospiro, Jean lasciò il suo appartamento, diretto all'aula seminari, dove si sarebbe dovuto incontrare col resto del gruppo. Fuori era una bella giornata e l’aria calda del mattino lo rinfrancò. Forse c’era la possibilità che quel giorno si presentasse migliore rispetto al precedente. Magari si poteva ricominciare tutto da capo.

Passeggiava con le mani in tasca, immerso nei suoi pensieri, quando vide la figura elegante e slanciata di Alex farglisi incontro. Jean sorrise. Si sentiva dell’umore giusto per affrontare la discussione che avevano lasciato in sospeso.

Le si mosse incontro a passo deciso, un sorriso allegro sul volto ombreggiato dalla barba vecchia di due giorni. Ma non appena le fu vicino, si accorse con stupore che sembrava turbata.

«Alex? C’è...»

Lei gli tese la giacca.

«Con i ringraziamenti di Nadia».

Jean prese la giacca dalle mani di lei, che restò immobile a fissare per terra.

«Alex, ascolta...»

«Stammi a sentire, Jean» fece lei, tranquilla. «Io ti capisco. La ragazza di cui eri così tanto innamorato si ripresenta all’improvviso, ed è normale che tu ti senta scombussolato. E che io mi senta a pezzi».

Lui restò a fissarla, in silenzio.

«È solo... io ti chiedo solo di...»

Lui cercò di rincuorarla. Ma per quanto si sforzasse, non riusciva a trovare nulla da dire.

«Io mi sono innamorata di te, Jean. Quindi voglio saperlo: ami ancora Nadia?»

Lui tacque per qualche istante.

«Non lo so» confessò lui, alla fine. Alex si morse il labbro, guardando lontano.

«Perché vuoi che parta con te?» domandò. «Perché me lo hai chiesto, per farla ingelosire o cosa?»

«No!» ribatté lui, con energia. «Assolutamente! Mi credi davvero così meschino?»

«No, Jean» fece lei, dolce. «Ma allora perché? Credimi, io partirei con te subito, ora. Ma non sono così poco sana di mente, da imbarcarmi in un’avventura che mi porterà a stare a stretto contatto con te e la donna che ami. Grazie, ma no. Preferisco restarmene a casa. A meno che...»

«Cosa?»

«Tu non mi dica perché vuoi che io venga con te. Sinceramente Jean: cosa vuoi, tu, da me?»

Jean allargò le braccia, con un sospiro. «Io ho bisogno di te, Alex. Senza di te io... non sono molto equilibrato, lo sai».

«Io non voglio essere la tua stampella».

«E io non ti ho chiesto di esserlo. Voglio che tu venga perché ti voglio con me. Ho... bisogno di averti accanto».

Alex lo fissò a lungo prima di dire qualcosa. Quindi spostò gli occhi sull’orizzonte e sorrise, scuotendo leggermente la testa.

«È la cosa più vicina a una dichiarazione d’amore che tu mi abbia mai detto. Ne sei consapevole, vero?»

Jean rise. «Può darsi».

«Ho qualche speranza?»

«Tu sei davvero importante per me» le confessò, con il cuore in gola. «Ma ti mentirei se ti dessi una risposta precisa. Per me è...»

«...difficile. D’accordo. Penso di poterlo accettare. Sono una che ama lottare per ciò che vuole veramente».

Jean arrossì e sorrise, imbarazzato.

«Non dovresti venire, se pensi che...»

«Ah, no!» fece lei, alzando la mano. «Dopo quello che mi hai detto, non rinuncerei a partire per nulla al mondo, caro mio! E alla fine... vedremo. Ma solo alla fine».

E così dicendo si allontanò, lanciando a Jean uno sguardo maliziosamente allegro.

Lui rimase a fissarla mentre si allontanava, gettandosi la giacca sulla spalla.

Forse quel giorno sarebbe stato davvero fantastico.

Mentre saliva le scale che conducevano alla sala seminari, Jean incappò in Jonathan, intento a guardare oltre le vetrate lungo corridoio. Decise di assumere un’espressione neutra e gli sorrise, mentre gli passava accanto. Aveva già la mano sulla maniglia quando John lo bloccò, impedendogli di entrare. Jean si voltò a guardarlo, sorpreso.

«Professor Lartigue, se ha un momento gradirei dirle due parole».

Jean sospirò. Immaginava già dove li avrebbe condotti quella discussione.

«Io apprezzo realmente il suo aiuto,» fece John conciliante «ma gradirei che lei si limitasse ai suoi compiti».

Jean lo fissò stranito. «Mi scusi... i miei compiti

«Si tenga gentilmente alla larga dalla mia fidanzata».

«Capisco» sorrise lui, sarcastico.

«Davvero? Perfetto. Perché, vede, non penso di apprezzare appieno le gentilezze che le riserva. Non quando lei è al momento così vulnerabile. In fin dei conti lei, professore, non c’era quando Nadia aveva delle difficoltà. Io, c'ero. Quindi, ora è troppo facile far leva sulla sua sensibilità e sbatterle in faccia delle presunte colpe, nella speranza di circuirla».

«Signor Fisher,» fece Jean, cercando di controllare la propria emozione «se preferisce posso anche fare di meglio. Lascerò lei e la signorina Ra Arwol a sbrigarvela da soli».

«Maturo da parte sua» commentò velenoso John.

«Ed è maturo da parte sua venirmi a fare questa scenata di gelosia?» ribatté Jean, duro. «In fondo, io stavo benissimo prima di ritrovarmi tra i piedi gente come lei, che si permette di venirmi a dire quello che devo o non devo fare. Forse è abituato così, a comandare a bacchetta persone che si dimostrano ben felici di seguire le sue direttive. Bene, buon per lei. Ma con me non funziona».

Jonathan serrò la mascella. Uno scintillio balenò duro nei suoi occhi, mentre fissava Jean, sprezzante.

«Chiarito questo, le garantisco che non ho nessuna intenzione di rubarle la fidanzata. Ho avuto a che fare con Nadia già una volta, e mi è bastato. Può stare tranquillo, non ho più intenzione di ripetere una simile esperienza».

Jean fece per aprire la porta ed entrare. Solo in quel momento si accorse di lei: Nadia era appena arrivata e stava immobile sulle scale a fissarlo con gli occhi sbarrati, che brillavano di una fragile luminosità. Lui sostenne per un poco il suo sguardo ma presto un senso di smarrimento lo prese, costringendolo a spingere altrove i suoi occhi.

Ora non aveva dubbi: quel giorno avrebbe fatto ancora più schifo del precedente.

Aprì la porta ed entrò, portandosi dietro come un odore sgradevole quel senso di angoscia che gli era improvvisamente calato addosso.

Davanti a lui sedeva la comitiva al completo. Nadia e Jonathan lo seguivano silenziosi e presero posto accanto agli altri. Nadia teneva gli occhi bassi, sul volto un’espressione indecifrabile. Nel guardarla, Jean non poté fare a meno di sentirsi un verme.

Alex era seduta defilata. Appena lo vide entrare gli sorrise. Fu per lui come un’oasi di serenità, in quello che assomigliava sempre più ad un inferno da incubo. Ma poi, il pensiero di come l'aveva coinvolta in quella girandola di sentimenti da cui non prevedeva alcuna uscita, lo fece sentire ancora più depresso.

«Jean! Eccoti, cominciavamo a chiederci dove fossi finito».

Tutto pimpante, Hanson si alzò in piedi non appena lo vide entrare. Jean si chiese dove trovasse tutta quella energia e ne fu infastidito.

«Allora, signori» fece Hanson, sfregandosi le mani. «Vogliamo illustrarvi i particolari della spedizione. La partenza è prevista fra una settimana. Ho già contattato la mia officina e devo solo inviare loro i progetti a cui io e Jean abbiamo lavorato. Raggiungeremo la Bolivia a bordo di un dirigibile anfibio, che abbiamo modificato per l’occasione. Questo ci permetterà di partire direttamente da qui».

«Da qui?» chiese John. «E come?»

«Jean mi ha chiesto di presentare un progetto speciale al direttore del MIT» intervenne Alex. «L’intento era quello di convincerlo a finanziare parte del progetto: e devo dire che quando ha visto i disegni preliminari, si è mostrato subito entusiasta. Ci metteranno a disposizione le officine meccaniche dell’università. Questo dovrebbe aiutarci a velocizzare i lavori».

«Esatto» fece Hanson. «Potremo dividere il carico dei lavori di costruzione tra la mia officina e il MIT. Così avremo i nostri mezzi a tempo di record».

Nadia arrossì. Dunque era per quel motivo che Alexandra si trovava a casa di Jean, il giorno prima. Quello che le aveva detto, dunque, era vero.

Ma perché ti interessa così tanto, pensò. Lo hai sentito. Lui ti detesta.

«Partendo da Boston, in circa una settimana dovremmo essere in prossimità di Lima. Il dirigibile fungerà da base e da centro di controllo. È capace di ospitare il mezzo sommergibile che Jean e io abbiamo progettato... tra ieri notte e stamattina, modestamente parlando».

Hanson sorrise, cercando consensi introno a sé. Si accorse però che nessuno sembrava dell’umore giusto per sorridere alle sue battute, quindi si schiarì la voce e riprese a parlare.

«Dunque... con esso potremmo finalmente calarci nelle profondità del lago Titicaca, dove Kurtag riteneva si trovasse l'ingresso al luogo da cui pensava provenisse l'oggetto che abbiamo trovato. Qualche domanda?»

«Sì» fece John. «Una volta arrivati, dove alloggeremo?»

Hanson lanciò a Jean uno sguardo sorpreso.

«Beh, là non troveremo certo alberghi di lusso, trattandosi di montagne alte oltre quattromila metri» ridacchiò, nervoso. «Ma il dirigibile presenta lo spazio necessario per una dozzina di persone. Noi siamo in otto, nove... se consideriamo anche quel... mio cugino» disse, in una smorfia. «Quindi non avremo problemi a...»

«Cioè, dovremo vivere su quel coso tutti insieme, per tutto il tempo?» fece John, sprezzante. Incontrò lo sguardo di Jean che sorrideva beffardo e sentì un crescente fastidio montargli dentro.

«Beh,» fece Hanson «è vero che dovremo adattarci un po’, ma...»

«Eravamo sicuri che avreste apprezzato l’idea» fece Jean, alzandosi in piedi. Il volto, pallido e teso, era atteggiato in una smorfia ferocemente sarcastica. «Sarà come andare tutti in colonia, non credete?»

E detto questo lasciò la sala, in un silenzio sbigottito. John strinse i denti, masticando amaro, mentre gli altri si apprestavano a uscire dalla stanza senza una parola.

«Già,» mormorò, senza che nessuno lo sentisse «proprio come andare in colonia. In una colonia penale, però».


***










Era una bella giornata di Luglio. Nadia respirò a pieni polmoni l’aria calda e carica di odori che aleggiava nel parco. Tutt'intorno a lei, un'esplosione di colori, e la vita addormentata nella placida calura estiva.

In quella calma, lei camminava sola. Aveva bisogno di riflettere.

Le parole che aveva udito inavvertitamente da Jean l’avevano colpita come una frustata. Improvvisamente, si era resa conto di quanto era stata sciocca a credere di poter contare ancora qualcosa per lui. Davvero era andata a Boston credendo di poterlo avere ancora ai suoi piedi?

Che stupida!

Sorrise, e le sue labbra si incresparono, mettendo in evidenza due piccole fossette agli angoli della bocca.

Doveva dimenticarlo, dimenticare tutto. Contava solo la pietra. E John.

John... Inavvertitamente, aveva fatto soffrire anche lui.

Sono un vero disastro, in amore, si disse tra sé e sé. E non poté trattenersi dal ridere.

Si sedette su una panchina, intrecciando le mani tra le gambe. Rimase a fissare gli studenti che andavano e venivano nel parco, le coppiette che si baciavano all’ombra di qualche frasca, al riparo da sguardi indiscreti. Aveva mai provato un simile senso di intimità, quella pace e quell’energia che ti trasmette una cosa così semplice e naturale?

Lo aveva dimenticato. Aveva dimenticato tante cose nella sua vita, probabilmente troppe. Si era concentrata su se stessa fino a perdere il senso del mondo intorno a sé.

Jean comparve poco lontano. Marie era accanto a lui e insieme passeggiavano tranquillamente attraverso le aiuole. Incuranti di chi avevano intorno, si erano tolti le scarpe e le tenevano in mano, come quando si cammina su una spiaggia. Marie era allegra e parlava. Nadia avrebbe tanto voluto sapere quello che stava dicendo.

Jean sorrideva e annuiva. Faceva qualche segno a Marie, che lo spintonava felice. Nadia restò affascinata a vederli. Avrebbe potuto guardarli per ore. Erano qualcosa di compiuto, e perfetto.

Alex li raggiunse e prese Marie per mano. Nel vederli così uniti, Nadia sentì una lacrima sfuggire ai suoi occhi e scenderle solitaria lungo la guancia. La lasciò cadere e la seguì nella sua discesa lenta, senza cercare di contrastarla. Quella lacrima era un monito per lei, come se il suo cuore, nel vedere quella scena, le sussurrasse mai più.

Non permettere mai più che accada.

Aveva perso tutto, tutto! Scappando, per la paura di costruire la propria felicità. Amare, essere amati, sentire una persona fino dentro alla pelle, sotto la pelle, e nei pensieri, negli atti, nei sogni... Era troppo. Troppo dipendere da qualcuno, e rischiare poi di perdere tutto in un gioco che è troppo grande...

Troppo grande, per me.

Nadia abbassò lo sguardo. Se ne era andata perché aveva paura di perdere ogni cosa. Lei, da sempre abituata a vivere sola, a curarsi da sola, alla fine aveva ceduto al richiamo rassicurante della solitudine. Troppo difficile amare, mettersi in gioco, rischiare per poi vedere finire tutto. Meglio lasciare il tavolo quando si sta ancora vincendo e mettere tutto in borsa. Ricordi, sentimenti, vita.

La vita che rappresentavano quei tre era qualcosa che poteva appartenere solo a coloro che amano il rischio. Coloro che giocano, e vincono. E che a volte perdono. Nadia non sopportava di perdere. Era un’eterna vincente e, come tale, perdeva sempre qualcosa, ogni volta. Quello che non aveva provato, quello per cui non aveva rischiato.

Strinse le labbra, e le lacrime presero a scendere più abbondantemente. La vista le si offuscò, ma non vi si oppose. Lasciò che l’immagine che aveva davanti si mescolasse ai colori sfumati che le giungevano attraverso il velo di lacrime che le ammantava gli occhi.

«Nadia!»

La voce di John la raggiunse da lontano. Si asciugò gli occhi imperlati di lacrime. Pregò che non si accorgesse che aveva pianto. Non aveva voglia di inventare scuse.

«Sei qui! Vieni, andiamo a pranzo. Dovremo pensare a come occupare il tempo! Per un po’ non avremo molto da fare, dato che non partiremo prima della prossima settimana».

«Sì, certo...»

Nadia si alzò. In quel momento, Jean si voltò e la vide. I loro occhi si incontrarono in uno spazio tra loro che era inaccessibile a chiunque altro. Lui la fissò e per la prima volta, attraverso quel muto sguardo, si lanciarono una promessa, antica e mai ancora pronunciata. Avevano ancora molto da darsi l’uno all’altra e quell’estrema consapevolezza li raggiunse ferendoli, marchiandoli come il fuoco. Era qualcosa che discese in loro attraverso un semplice sguardo, quello sguardo che arrivò a toccare Nadia nel profondo del cuore, e che lei sentì correre come un brivido lungo le pieghe del suo corpo, e negli spazi lasciati vuoti dall’anima. E quel brivido, quello smarrimento che la atterriva e la cercava oltre le sue paure e le sue barriere, si spingeva in lei fino all’abisso in cui si era rifugiata, per trarla a sé e alla vita. Fu per quegli occhi che lei lasciò la sua anima aperta e vulnerabile, lasciò che in lei ogni velo cadesse. Si offrì, per la prima volta, completamente nuda. Voleva che lui la guardasse. E voleva essere guardata, e salvata.

Sono qui. Allunga la mano.

Lui le sorrise e fu come se le catene che la opprimevano gemessero dietro l’azione di una forza irresistibile.

«Nadia, andiamo?»

La voce lontana di John la richiamò a sé. Distolse lo sguardo, tremante. Aveva paura di quella vita, non era la sua, non poteva esserlo. Lui era troppo, era tutto. Essere sua significava smarrirsi, proprio come ora.

È John la mia famiglia. È lui la mia famiglia, è John...

Mentre si allontanava si voltò ancora un’ultima volta, quasi disperatamente, dimentica di tutto e di tutti. Lo trovò ancora lì che la aspettava, il suo sguardo che indugiava su di lei all’ombra fitta degli alberi. Tra loro una promessa che chiedeva di essere mantenuta.

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Capitolo 33
*** 32 ***


12










«Venga con me».

Lisa si lasciò strattonare via da Winston. Ancora non riusciva a capacitarsi di quanto era appena accaduto. Aveva appena visto il ministro della difesa lanciarsi dal terzo piano... stentava a crederci.

«Dove stiamo andando?» balbettò. Era profondamente scossa e continuava a lanciare fuggevoli occhiate alle sue spalle, verso la vetrata in frantumi. «Il Ministro...»

«Il Ministro è morto» sibilò Winston, rafforzando la presa sul suo braccio. «Non abbiamo più alcuna ragione di stare qui».

«Ma non dovremmo parlare con qualcuno, che so...» disse lei, mentre avanzava incespicando, tirata a viva forza da Winston.

«Si muova!» fu la sua risposta secca. «Non mi faccia perdere altro tempo».

Esasperata, Lisa strattonò il braccio liberandosi dalla presa di lui, che si voltò a guardarla stupito. Lei lo fronteggiava, rossa in volto, gli occhi che brillavano per l'emozione ancora forte nel suo cuore.

«La finisca!» esplose. «Un uomo si è appena ucciso davanti ai miei occhi, la redazione in cui lavoro è esplosa e molte persone sono morte... e questo solo perché io mi trovavo lì...» Lisa sentì gli occhi che le bruciavano per le lacrime. «Sono stanca di correre di qua e di là, senza sapere cosa sta succedendo e perché... voglio delle risposte!»

Winston mosse la mascella come se dovesse masticare qualcosa di duro. Alzò gli occhi a fissare il vuoto alle spalle di lei, quindi sospirò, assumendo un'espressione rilassata.

«Non posso dirle nulla perché non so ancora nulla» confessò. «Non avrebbe senso parlare per congetture. Anche io cerco delle risposte».

Le si avvicinò e le posò le mani sulle spalle. Quindi riprese a parlare, abbassando il tono di voce. «È evidente che il Ministro era d'accordo con Fisher e occultava la sua fuga. Credo che entrambi sapessero cos'è in realtà la pietra che Nadia Ra Arwol ha con sé... ciò che non capisco è perché si portino dietro anche lei».

«Nadia non è una traditrice, o una spia». replicò Lisa, decisa.

«No» fece lui, stringendole delicatamente le spalle «ne sono sicuro. Qualcosa mi dice che la sua amica serve a quella gente per un motivo diverso. Anche se ancora non mi è chiaro quale».

Lisa si asciugò gli occhi, quindi si terse il volto, accettando il fazzoletto che Winston le porgeva cortesemente.

«Di cosa stavate parlando con il ministro?» chiese lei.

«Quando?»

«Prima, nel suo studio. Ha parlato di un Ordine, o qualcosa di simile. E prima di gettarsi ha nominato una Regina... cosa intendeva?»

Winston fece una smorfia. «A lei non sfugge proprio nulla, eh?»

Lei sorrise, le guance arrossate dal pianto e gli occhi illuminati dalle lacrime appena versate. «Sono una giornalista, l'ha dimenticato?»

«Già» fece lui. «Purtroppo, sono domande a cui non posso rispondere».

«Perché se no dovrebbe poi uccidermi?» scherzò lei. Lui la fissò con severità e il suo sorriso si trasformò in una smorfia di stupore. «Non dirà sul serio?» fece Lisa, tremando.

«Ci sono cose che non possono essere divulgate. Ho già commesso un mare di infrazioni al protocollo, portandola con me».

«Non si libererà di me facilmente» fece lei, agguerrita. «La mia amica è in pericolo, e voglio aiutarla».

«Oh, non ho nessuna intenzione di lasciarla andare,» la tranquillizzò «anche se ne avrei una gran voglia. Credo che lei potrà ancora tornarmi utile. E poi, è più al sicuro con me, che da sola. Chi ha provato a ucciderla potrebbe tentare di finire quello che ha cominciato».

Lei rabbrividì, e volse la testa oltre le spalle, per guardarsi intorno. «Lei... dice?»

«Andiamo» fece lui, prendendola per mano. «Voglio passare al commissariato. Mi piacerebbe controllare gli incartamenti riguardanti le indagini sulla morte di Kurtag. Chissà che non salti fuori qualcosa».


Mentre si lasciavano il palazzo della difesa alle spalle, passarono accanto a un capannello di gente raccolta intorno al corpo martoriato del Ministro. Piena di timore, Lisa guardò timidamente il cadavere con la coda dell'occhio e lo intravide a terra, un'ombra scura e scomposta sul selciato macchiato di porpora.

Il Ministro giaceva immobile, sul volto dall'aspetto gentile aveva un sorriso quasi di stupore. Intorno al corpo, centinaia di frammenti di vetro, che brillavano al sole.

Era come circondato da una grande corona di luce.

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Capitolo 34
*** 33 ***


13










Erano diverse ore che Winston e Lisa frugavano tra i fogli di Simum. Al commissariato li avevano avvertiti della morte dell'ispettore e avevano messo a loro disposizione tutto il materiale che questi aveva raccolto sul caso. L'ispettore aveva lasciato tutto in disordine: non aveva ancora archiviato nulla e si fecero l'idea che quel tipo amasse lavorare tenendo tutto a mente, senza segnarsi nulla, se non l'indispensabile. L'intero caso era riassunto in pochi fascicoli, in cui erano riportate deposizioni o documenti notarili, informazioni sui viaggi di Kurtag, la sua condizione economica, i suoi trascorsi giovanili... nulla che potesse illuminarli su quanto era avvenuto la sera che era stato ucciso, né sulla pietra che Nadia aveva con sé.

«Non troveremo niente, qui» lamentò Winston, passandosi le mani nei capelli e sbuffando sonoramente. «L'unico che avrebbe potuto dirci qualcosa era Simum stesso. Ma è morto e si è portato i suoi segreti nella tomba.

«Forse se continuiamo a cercare...» fece Lisa, frugando dentro uno scatolone che le era stato portato da poco da un agente in divisa.

«No,» replicò secco lui «è tutto inutile. Dovremmo cercare le informazioni in un altro modo. Forse...

«Scusate, cercavo l'ispettore Peter Simum».

Winston si volse a guardare la persona che si era appena affacciata alla porta. Era una donna sui quarant'anni, sottile e curva, i lisci capelli screziati di grigio abbandonati sulle spalle senza molta cura, ad incorniciare un viso non brutto, ma lievemente allungato e incavato.

«Chi lo cerca?» le domandò Winston, stringendo gli occhi.

«Sono la professoressa Call, insegno lettere antiche al King's College. Ero collega di Andrés Kurtag. Ho terminato la traduzione del testo, come mi era stato chiesto».

«É stato l'ispettore a darglielo?» chiese lui, alzandosi e fissando il volume che la donna stringeva tra le mani. Lei prese a guardarlo con sospetto.

«No, me lo ha dato un uomo del commissariato».

Winston si avvicinò, tendendo le mani. «Lo dia pure a me, sono l'assistente dell'ispettore».

«Simum non c'è?» domandò la donna, stringendo al petto il volume. Winston represse un moto di stizza.

«No, al momento è fuori. Ma me ne occuperò io».

La donna sospirò, ma alla fine parve convincersi.

«Va bene, che mi importa» disse, alzando le spalle. «Dovevo riferire alcune cose all'ispettore, ma...»

«Dica pure a me» fece Winston, con un sorriso. Lei strinse le labbra, poco convinta.

«Il testo è una raccolta di dati riguardanti una civiltà antica, di cui non conosco molto, a dir la verità» riferì. «Ma non credo che la cosa le interessi... Ho riportato tutto in un fascicolo a parte, ecco sì, proprio quello. Forse potreste chiedere delucidazioni al professor Bennet, è uno specialista in antichità, insegna archeologia, lui e Kurtag erano molto amici, sa...»

Winston alzò le mani a frenare la donna. Lei si fermò a guardarlo, stupita.

«Professoressa, Call» fece lui, conciliante «non è che potrebbe esporci brevemente quanto ha scoperto? Gliene saremmo davvero grati».

Lei drizzò il busto, irrigidendosi. Si sistemò gli occhiali sul naso appuntito e aprì il volume.

«Kurtag fa spesso riferimento a un nome...» disse seccamente, mentre scorreva le pagine a cercare il punto che le interessava. «Ecco: i Viracochas. Sono tutte note di Andrés su iscrizioni precolombiane da lui trovate, riguardanti questa popolazione... almeno fino a un certo punto. Poi, tutto cambia.

Winston e Lisa la fissarono incuriositi».

«In che senso?» domandarono praticamente insieme. La donna li fissò, inarcando le sopracciglia.

«Ecco, a un certo punto il testo comincia a concentrarsi su alcune leggende legate a questa popolazione, e a qualcosa che Kurtag continuava a chiamare le Quattro Arche».

Winston socchiuse gli occhi. «Continui» fece.

«Le note proseguono incentrandosi su quella che penso sia una figura mitologica, ma non saprei dirle... sa, non sono un'esperta... comunque Kurtag la definisce "la Regina" e ne parla come di un personaggio realmente esistito. Stando a quanto scritto qui, dovrebbe essere colei che ha il potere di risollevare le arche, decretando la fine dell'umanità. Dice proprio così, risollevare. È strano, non trova anche lei?»

«Nient'altro?» domandò Winston, teso. «Nessun riferimento a una pietra, o qualcosa del genere?»

«No» rispose lei, sporgendo in fuori il labbro. «Tutte le pagine sono dedicate alla figura della Regina, a parte una pagina dove compaiono alcune annotazioni riguardanti la signorina Ra Arwol, ma è roba di poco conto. Alcune notizie su di lei e la sua storia... sa, era un'amica di Kurtag» fece la donna, con un certo tono sarcastico. «Non capisco cosa ci vedesse, in quella ragazza. Era praticamente fissato per lei. Quando veniva a trovarlo, non c'era più per nessuno. Comunque...» riprese, ostentando una certa ritrosia «quella contenuta qui mi pare una delle tante leggende millenaristiche, di quelle che si trovano un po' in tutte le culture, sparse in giro per il mondo... è strano che un uomo come Andrés Kurtag perdesse tempo dietro a simili sciocchezze, ma in fondo, chi sono io per giudicare?» fece, strizzando il volto secco in una smorfia significativa. «Oh, dimenticavo» riprese. «Le ultime pagine sono strappate. Non ho potuto leggere oltre questo punto».

Winston prese il volume dalle mani della donna e lo sfogliò. La grafia elegante di Kurtag prese a scorrergli davanti agli occhi, in una serie infinita di segni e parole indecifrabili.

«Di che parlavano le note, appena prima delle pagine strappate?» domandò, alzando distrattamente gli occhi sulla donna. Lei si passò una mano sul viso.

«Ecco, non ricordo bene, ma ho scritto tutto nel fascicolo che ho allegato. Comunque...» disse, facendosi meditabonda «ricordo che compariva spesso un nome, il nome di una città che Kurtag riteneva fondamentale, perché credeva avesse un qualche legame con questa fantomatica Regina».

«Si ricorda qual era il nome della città?» fece Winston, speranzoso.

«Credo fosse... Tarsi, o una cosa del genere...»

«Tartesso, forse?» intervenne Lisa. La donna si illuminò in volto.

«Esatto! Proprio quella» fece. «Ma lei come fa a saperlo?»

«Già» disse Winston, fissando la ragazza intensamente. «Come fa a saperlo?»

«Pensate di avere ancora bisogno di me?» domandò la donna. «Perché in caso contrario...»

«Vada pure, professoressa Call» la congedò Winston con un sorriso. «Lei ci è stata davvero di grande aiuto».

La donna si allontanò con un sorriso incerto, incamminandosi lungo il corridoio e mantenendosi rasente al muro, come un'ombra. Non appena fu sparita alla vista, Winston chiuse la porta, voltandosi ad affrontare Lisa. Lei lo fissava tormentandosi le mani, sul volto un'espressione ansiosa.

«Come faceva a sapere quel nome?» domandò lui, deciso.

«Me lo disse Nadia» rispose lei, sollevando gli occhi. Sembrava davvero preoccupata. «È il nome della città in cui è nata».

«Cosa?»

Winston abbassò lo sguardo sul libro, che teneva ancora tra le mani. Quindi lo girò e lo mise sotto il braccio, restando per un attimo a fissare nel vuoto.

«Si ricorda il nome della persona che la sua amica voleva contattare?» fece lui, all'improvviso. «Doveva trattarsi di un amico di Kurtag, non è così?»

Lisa si mise a pensare, corrugando le sopracciglia. «Sì,» disse alla fine, dopo un attimo di riflessione. «So che era con lui quando è stata trovata la pietra...»

«E saprebbe dirmi il suo nome? Nadia non gliel'ha detto, forse?»

Lisa si strinse nelle spalle. «Penso... Garland...no! Garrett. Hanson Garrett. Ecco, ora ricordo!»

Winston sorrise, stringendo delicatamente la spalla di Lisa.

«Conosce un luogo sicuro in cui andare?» le chiese. Lei annuì.

«Bene. Ecco il mio biglietto da visita. C'è il mio recapito telefonico. Appena si sarà sistemata, mi chiami».

«Lei dove va?» domandò lei, ansiosa.

«Devo recarmi in un posto, e stavolta non posso portarla con me. Ma lei mi chiami appena può. Se non mi trova, lasci un messaggio. Verrò a riprenderla appena mi sarà possibile».

Lisa annuì. Abbassò gli occhi giusto il tempo necessario a guardare il biglietto da visita. Quando li rialzò, Winston era già sparito.

***










Winston percorse il corridoio a passi veloci. Sentiva le suole di cuoio scivolare a contatto con il marmo roseo del pavimento, mentre l'eco dei suoi passi rimbombava tutto intorno a lui. Arrivato davanti alla grande porta di quercia, bussò energicamente. La solita voce roca e conosciuta scivolò oltre la porta, invitandolo ad entrare.

Trovò il Reggente che lo attendeva come al solito, seduto alla sua pesante scrivania e avvolto nel fumo del suo sigaro. Quando Winston entrò, l'uomo sollevò lentamente gli occhi dai fogli che teneva davanti; quindi si raddrizzò, riducendo gli occhi a due fessure.

«Churchill» esclamò, sorpreso. «Già di ritorno? Cosa succede?»

«Il Ministro della Difesa è morto» disse Winston, portandosi davanti alla scrivania e scattando sull'attenti. «Si è suicidato».

L'uomo sbiancò. «Come?»

«Era un membro dell'Ordine. Si è ucciso prima che potessimo interrogarlo. Ma non è tutto. Ho capito chi è il traditore. Si tratta di Fisher. È lui l'uomo: ha passato tutte le nostre informazioni all'Ordine, prima di sparire».

«Fisher?» obiettò il Reggente. «Ma non può essere... Fisher è...» l'uomo lanciò a Winston uno sguardo indagatore. «È ancora vivo, non è così? Ed è da qualche parte, con la pietra» concluse. Winston annuì, in silenzio.

Il Reggente si lasciò sprofondare nello scranno. Se ne stava a bocca aperta, incapace di articolare anche il minimo suono.

«Santo dio...» fece.

«Prima di morire, il Ministro ha nominato "la Regina". Le dice qualcosa?»

Il Reggente spostò gli occhi sul volto di Winston.

«Non può essere» disse, incredulo. «Cosa ha detto, esattamente?»

«Che è qui, tra noi».

Il Reggente restò a fissare avanti a sé con gli occhi sbarrati. Quindi girò lo scranno e si alzò in piedi. Sembrava reggersi a fatica, e dovette appoggiarsi alla scrivania per sostenersi.

«È qui» mormorò. «Lei è viva, ed è qui...»

«Ho trovato questo» disse Winston, mostrando il volume di appunti di Kurtag, che teneva ancora sotto il braccio. Il Reggente non sembrò nemmeno vederlo. «Contiene le ricerche di Kurtag riguardo a un popolo chiamato Viracochas. Parla di qualcosa come le Quattro Arche. Ma nomina anche la Regina... sembra che il professore avesse capito dove si trovava».

Il Reggente si volse a guardarlo. Aveva il volto stravolto e Winston temette quasi di vederlo dissolversi da un momento all'altro, tanto si era fatto sottile e pallido.

«Dove?» domandò semplicemente, ma con grande fatica.

«Tartesso» fece Winston. Il Reggente mosse gli occhi umidi, come a cercare qualcosa lì intorno. «Tartesso» ripeté in un soffio. «Tartesso...»

«Signore» intervenne Winston. «Non so cosa questo voglia dire, ma credo di sapere chi è la Regina».

Il Reggente si riscosse come da un sogno. Prese a fissare Winston incredulo.

«È Nadia Ra Arwol».

«La donna di Fisher?» esclamò il Reggente, perplesso. «E sulla base di cosa è arrivato a questa conclusione?»

«È nata a Tartesso» rispose Winston, accalorandosi. «Viaggia con Fisher, ha con sé la pietra. Ecco perché l'Ordine non si è ancora sbarazzato di lei, perché è lei la Regina. Credo che Kurtag l'avesse capito e perciò avesse cercato di occultare la sua scoperta. Ha strappato le pagine in cui tutto questo emergeva con chiarezza, probabilmente perché sperava di proteggere la ragazza. E poi ha nascosto la sua identità anche a noi. Doveva volerle molto bene, per venir meno ai protocolli del consiglio».

«L'ha fatto perché sapeva cosa rischiava» fece il Reggente, scuro in volto. «Tutto questo tempo passato a cercarla» mormorò. «La credevamo morta anni fa... e invece era qui, accanto a noi. Era qui e Kurtag lo sapeva, e ce l'ha tenuto nascosto... a tutti...»

L'uomo si passò una mano sulla fronte, emettendo un lungo lamento. Winston, temendo che si sentisse male, gli corse accanto, a sorreggerlo. Lo aiutò a sedere e gli versò un bicchiere d'acqua, prendendolo dalla caraffa posata su un lussuoso vassoio d'argento che il Reggente teneva su un mobiletto, poco lontano dalla scrivania. L'uomo portò il bicchiere alla bocca con mano tremante, e bevve avidamente. Quindi chiuse gli occhi, per riaprirli solo dopo molto tempo.

«Se quello che dice è vero,» fece lui, la voce più ferma e decisa, ma con qualcosa di malato che ancora permaneva in essa «la fine è vicina. Se non troviamo Nadia Ra Arwol al più presto, l'umanità è destinata a soccombere».

«Cosa dovremmo fare?» domandò Winston. Il Reggente sollevò gli occhi, piantandoli in quelli di lui.

«La trovi» disse, con fermezza e con una caparbietà che non lasciava spazio ad alcuna indecisione. «Al più presto possibile. Quella donna è un pericolo per tutti. Deve essere assolutamente eliminata».

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Capitolo 35
*** 34 ***


15










«Sei sicuro che sia qui?»

Rebecca fissava con sospetto l’ingresso del teatro. «A me sembra che sia tutto chiuso...»

«No, mi ha detto di venire proprio qui... anche se a questo punto sembra strano anche a me».

Jean lesse nuovamente la locandina che Sanson gli aveva mandato. L’indirizzo era quello giusto, ma effettivamente il teatro aveva l’aspetto di essere in disuso.

«Sì, è il posto giusto. Guardate, c’è una locandina con il nome dello spettacolo» fece Marie, euforica. Tutti si radunarono intorno al cartellone sbiadito a cercare il nome di Sanson Garrett, senza riuscire a trovarlo.

«Mah... a me sembra che questa locandina risalga a quando hanno costruito il teatro» fece Hanson scettico, grattandosi la grossa mascella bovina. «Ma siamo sicuri? Non vorrei che a entrare lì dentro incappassimo in qualche fantasma o che so...»

«Hanson, sei davvero un idiota» disse Rebecca. «Andiamo, se il posto è questo, è questo».

«Sì ma non c’è nessuno» notò Nadia. «Come facciamo con i biglietti?»

«Proviamo a entrare. Magari qualcuno ci dirà qualcosa» fece Jean, perplesso.

In quel momento, un piccolo ometto tarchiato vestito in un lercio completo gessato, sbucò da una porticina laterale, tutto intento a pulirsi delle piccole e unticce mani grassocce sul bavero della sua redingote. Fissò con noncuranza i presenti, continuando a masticare, quindi si passò una mano a lisciare i mustacchi sgualciti per poi sfregarsela sulla fronte lucida come una boccia di vetro. Con pochi movimenti decisi, sollevò una saracinesca che rivelò dietro di sé un’entrata improbabile, ornata da un panno sdrucito che un tempo, forse molto remoto, doveva essere di un colore che assomigliava vagamente alla porpora.

«Se siete qui per lavorare, siamo al completo» fece l’omino, passandosi con noncuranza un’unghia tra i denti. Marie seguì l’operazione con una smorfia nauseata.

«Anche se tu... tu e tu... potreste andare bene» fece riferendosi a Nadia, Alex e Rebecca. «Se volete, ho dei costumi da farvi provare».

«Veramente...» intervenne Jean.

«Tu no. Non saprei che farti fare. Ma dì, ti sei visto?»

Jean si guardò da capo a piedi.

«Senta... – fece Jonathan».

«E tu, men che meno. Ma da dove sbuchi, dal Circolo Pickwick

Nadia rise. Non si aspettava certo una citazione tanto dotta da un tipo del genere. John la fulminò con lo sguardo, e lei soffocò la propria ilarità.

«Veramente, siamo qui per lo spettacolo» fece Alex con un sorriso. L’uomo la fissò come se stesse aspettando qualcosa. «Come spettatori...»

Con un sonoro schiocco, lui estrasse il dito che si era ficcato in un orecchio. Marie si lasciò scappare un verso di disgusto.

«Spettatori? Ah, sì? E tutti quanti? Ma va!»

«È una cosa così strana?» chiese Hanson.

«Beh... veramente... ma che dico! Prego, prego: si accomodino. Sono otto pence a biglietto, sette e mezzo per i bambini!»

«Alla faccia dello sconto famiglia!» sussurrò Hanson a Jean, rimediando un’occhiata torva da parte dell’ometto.

Presero posto nella sala deserta. Le poltrone erano coperte da uno spesso strato di polvere e quasi tutte presentavano strane macchie sul rivestimento. Le fodere di velluto erano lise e strappate. Alcune poltrone avevano solo lo scranno di legno, in altre i chiodi spuntavano dal sedile. Si sistemarono verso il centro della sala. Le file davanti a loro erano coperte da un telone su cui era depositato uno strato di calcinacci. Hanson fissò preoccupato il soffitto, dando di gomito a Jean.

«Sai, ti ricordi di quel pazzoide in Germania che voleva far cadere il teatro in testa agli spettatori? Beh, mi sa che qui poco ci manca...»

Jean studiò il soffitto, su cui si allungavano parecchie crepe e fenditure.

«“L’arte è fatta per turbare e la scienza per rassicurare”...»

«E tu, va al diavolo!» fece Hanson.

Alcune altre persone fecero il loro ingresso in sala, sedendosi un po’ qui e un po’ là. Quindi, il sipario si alzò a scatti, rivelando la scena.

Era una scena piuttosto bella, a dir la verità. Restarono tutti molto colpiti. Lo spettacolo che veniva rappresentato era il “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare e la scenografia consisteva in una foresta, con un grazioso gazebo in stile neoclassico sullo sfondo, che si affacciava su di un laghetto di ninfee. L’unico aspetto negativo, fu che non mutò per tutto il corso della rappresentazione.

«Ma siamo sicuri che ci sia? No perché...»

«Sst! Eccolo!» fece Rebecca.

Sanson apparve sulla scena truccato pesantemente e anche piuttosto malamente. Recitò la sua battuta, senza lode né infamia. Fu solo quando poco dopo riapparve con in testa un paio di orecchie da asino che Hanson non ce la fece più. Non appena lo vide, esplose in una fragorosa risata, e poco mancò che si mettesse a rotolarsi sul sudicio pavimento di moquette.

Dal palco, Sanson gli indirizzò un’occhiata feroce.

«Oh, al diavolo! Ma devi proprio ridere così?» gridò, nonostante si trovasse nel bel mezzo di una scena. Qualcuno del pubblico si spazientì. Volò qualche fischio.

«Hanson, maledizione! Mi hai rovinato lo spettacolo» ragliò Sanson, tra l’imbarazzo generale.

«Ma ti sei visto?» fece Hanson, con le lacrime agli occhi. «Sai, ho sempre pensato che tu meritassi di trasformarti in quel somaro che sei, ma mai avrei pensato di poter vedere i miei sogni diventare realtà!»

Sanson digrignò i denti. «Ah, è così? Aspetta solo un attimo!»

Si gettò giù dal palco, agguantando Hanson per il collo, mentre dal pubblico si levavano ingiurie e grida. Qualcuno incitava alla lotta. Jean cercò di dividere i due, ma tenere testa alla forza di Sanson era impresa dura.

«Voi due, smettetela» fece Rebecca, e immediatamente i due contendenti smisero di lottare. Hanson si lisciò il vestito e Sanson si sistemò la tunica, voltandogli le spalle.

«Insomma» disse lei, al colmo dell’esasperazione. «Possibile che sia sempre la solita storia? Non riuscirete mai a lasciarvi il passato alle spalle?»

«Quel ciuco mal riuscito deve ancora chiedermi scusa, a dir la verità!» fece Hanson.

«Io non mi devo scusare di niente. Non è colpa mia se la tua ragazza era una dai facili costumi» obiettò Sanson. «La prossima volta, cercatene una migliore».

Hanson andò su tutte le furie. «Vicky era una brava ragazza, prima che io commettessi l’errore di presentarle te, brutto bestione».

«Ah! Forse allora si annoiava solo con te...» ironizzò Sanson. Solo l’intervento di Rebecca riuscì a dividerli, poiché Hanson era già con le mani attorno al collo del cugino.

«Ora basta! Hanson: Sanson ti chiede scusa. Sanson: Hanson dice che ti perdona se sei un idiota. Ora va meglio?»

Sanson ci pensò su un attimo. Qualcosa non gli tornava, aveva l’impressione che solo lui avesse chiesto scusa. E in più, si era preso anche dell’idiota. Tuttavia, decise di passarci sopra.

«Per me, va bene. Qua la mano, cugino».

Hanson lo fissò truce, ma poi si arrese e gli strinse la mano. «E va bene. Pace».

Rebecca tirò un sospiro di sollievo. «Alleluia! Allora, possiamo finalmente parlare del perché siamo qui?»

Sanson rivolse a Rebecca uno sguardo curioso. «Ma come, non eravate venuti per vedermi recitare?»

«A vedere te?» ghignò Rebecca, infilandosi i guanti. «Ma vorrai scherzare? Piuttosto, ci devi sessantaquattro pence».

«Sessantatré e cinquanta» la corresse Marie, che fissava Sanson con simpatia. «Io pago cinquanta penny in meno!»

«Sessantaquattro pence? Ma se io prendo una sterlina a spettacolo! Non mi resterà nulla!»

«Ed è un problema mio?» obiettò Rebecca. «Su, andiamocene. Dobbiamo discutere di cose importanti».

«Aspettate un momento» fece Sanson deciso. «Questo è il mio mondo, la mia vita. Io voglio essere un attore».

«D’accordo, e quando pensi di cominciare?» lo sfotté Hanson.

«Non ti azzardare...»

«Ma scusa, Sanson» intervenne Marie «se tu reciti qui, perché sul cartellone non c’è il tuo nome?»

Sanson agitò una mano. «Perché il cartellone è quello dell’ultima recita che è stata fatta, ecco perché. E da allora non è più stato cambiato».

«E tra gli spettatori c’era per caso George Washington?» fece Hanson, caustico.

«Sai dove ti infilo quella tua ironia?» ringhiò Sanson in risposta.

«Sanson!» abbaiò Rebecca.

«Ok» fece lui, tirando un respiro profondo. «Allora, sentiamo. Perché siete qui?»

Jean si fece avanti. «Stiamo per partire per una spedizione. Abbiamo bisogno di un pilota e di un tiratore scelto».

«Oh, oh!» fece Sanson, incrociando le braccia, con un sorriso compiaciuto. Le orecchie da asino presero a vibrare sopra la sua testa. «E così, ecco che rispunta fuori il vecchio Sanson...»

«Ma fammi il piacere» grugnì Hanson. «Se non fosse per noi, quale alternativa avresti? Stare qui a saltellare come un cretino su quel palco tarlato?»

Il volto di Sanson arrossì violentemente ma poi, d'improvviso, si sgonfiò come fosse un pallone forato.

«Sapete? Avete ragione» fece, tirandosi via le orecchie da asino. «Ma a chi voglio darla a bere... come attore sono negato».

«No, non è vero» fece Marie. «A me sei piaciuto».

«È vero» disse Nadia, con sincerità. «Non c’era nessun paragone tra te e quel tipo che sembrava ubriaco, quello che è finito nel proscenio alla fine del primo atto».

«Ah, ma quello era davvero ubriaco».

«Oh...»

«Comunque,» riprese Sanson «basta! Sono stanco di indossare abiti pulciosi per questi spettatori pidocchiosi. Mi avete sentito?» fece lui rivolgendosi a quelli del pubblico che ancora erano in sala. «Io me ne vado».

Nessuno rispose.

«Forse qualcuno dovrebbe andare a controllare che quel poveretto in terza fila respiri ancora» suggerì Alex.

«Ah, nessun problema» disse Sanson. «Dunque: dov’è che si va?»

«Siamo diretti in sud America» disse Nadia.

«Fantastico» fece lui, estatico. «Già mi vedo a prendere il sole su spiagge dorate... esotiche bellezze che ballano solo per me...»

«Non correre con la fantasia» interloquì Hanson. «La nostra è una cosa seria. Quindi non metterti a fare il buffone come tuo solito».

«Fidati di me. Vi ho mai dato modo di dubitare delle mie capacità?»

Hanson alzò gli occhi al cielo, in una preghiera silenziosa.

«Aspettatemi fuori. Vado a cambiarmi e vi raggiungo. Tra poco il vecchio Sanson vi traghetterà con mano ferma e sicura oltre le scure e profonde acque dell’oceano.

«Per favore» fece Hanson «qualcuno spieghi a quel cretino che non si trova più su un palco, prima che ci spedisca tutti sotto terra».

Nadia sorrise. Era felice: tutti i suoi amici, vecchi e nuovi, si erano riuniti. Mentre uscivano, si accorse che Jean la fissava curioso e lei gli rivolse un cenno di intesa.

«Perché ridi?» le chiese lui.

«Sono felice. Ora ci siamo proprio tutti, come ai vecchi tempi».

Lui annuì. «Già, è bello. Sono contento anch’io».

«Vorrei che fosse sempre tutto così... facile» disse, osservandolo con complicità. «Non lo pensi anche tu?»

Jean la guardò dritta negli occhi. Lei si voltò verso di lui, offrendosi completamente alla sua vista. Gli sorrideva come un tempo, un sorriso che, come allora, lui sapeva leggere come nessun altro. E Nadia si lasciò abbracciare da quella consapevolezza.

«Non vuoi proprio dirmi che cosa ti tormenta, né perché hai deciso di partire per questo viaggio?» le chiese. «Non è da te essere così...»

«Misteriosa?»

«No» rise lui. «Quello lo sei sempre stata. È parte del tuo fascino».

«Grazie» fece lei allegra. E arrossì.

«Ti trovo... ansiosa».

Lei si incupì. «Forse. Mi ero dimenticata quanto tu mi conoscessi».

«Ti va di parlarne?»

Lei lo fissò dolcemente. «Prima o poi. Ma ora... ora preferisco essere felice. Almeno per un po’. Credi di riuscire a capirmi?»

Lui annuì. «Sì».

Con un sorriso, lei gli posò la mano sul braccio e si allontanò, lasciandolo solo a fissare la porta, da dietro la quale giungevano le voci allegre degli altri.

La sala era vuota: ormai le luci erano spente e il sipario era calato. Il tipo solitario in terza fila aveva preso a russare.

Nell’aria immota e pesante, resisteva l’eco delle ristate che provenivano dall’esterno, come qualcosa di delicato, un profumo flebile e dolcissimo che ricorda qualcuno che è appena andato via e che ancora stenta a dissolversi. Jean lo aspirò, come per ricordarsene una volta che fosse svanito.

E così uscì, mentre anche l’ultima luce si spegneva alle sue spalle.

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