Devour [Prendimi l'Anima]

di Black_Eyeliner
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Entry: Gloria ***
Capitolo 2: *** Interlude #1: Sympathy For The Devil ***
Capitolo 3: *** Interlude#2: Eye Shadow ***
Capitolo 4: *** Interlude#3: Devour ***
Capitolo 5: *** Exit: Requiem ***



Capitolo 1
*** Entry: Gloria ***


***Questa fan fiction ha partecipato al concorso “Quell’INFERNO di Contest”, indetto da DarkRose86, classificandosi prima.***

***Vincitrice Premio Miglior Trattazione del Pairing***

 

 

Qui il giudizio

 

 

http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=8732915&p=9

 

 

 

 

 

Grazie mille.

 

 

 

 

 

 

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Devour

[Prendimi l’Anima]

 

 

 

 

Entry:

“Gloria”

 

 

 

 

 

 

 

[Non pronunziare falsa testimonianza contro

Il prossimo tuo]

 

Esodo, 16, 20

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una frizzante folata di vento novembrino scosse lievemente il fogliame dei castagni ai margini de La Place Saint Sulpice, rubandone l’effluvio silvestre e spargendolo nella fresca aria di stagione.

Dalle bancarelle di dolciumi e zucchero filato, allestite giù alla fiera nel Settimo Arrondissement della Città Eterna, il profumo fragrante del caramello si sollevava in sbuffi di vapore tiepido, mescolandosi a quello dell’incenso al gelsomino che saturava l’atmosfera rarefatta, a tratti onirica, dell’ampio piazzale dinnanzi alla chiesa.

 

-Che città detestabile…

Le labbra imbronciate vibrarono appena in un brontolio stizzito, quasi un sibilo tra i denti stretti.

I suoi piedi martoriati, ormai vessati da quel misero girovagare senza meta, mossero ancora pochi passi in avanti, scanditi dal suono a malapena percettibile dei piccoli tacchi in vernice nera sul selciato di pietra, prima di arrestarsi completamente.

Nonostante il sole allo zenit inondasse di luce aranciata il sagrato ombroso dell’Eglise Saint Sulpice1, in un gioco ammaliante di chiaroscuri e sprazzi cromatici d’ocra e d’amaranto, il giovane conte di Phantomhive non riuscì a reprimere il lungo tremito che scosse le sue membra stremate e infreddolite; si cinse le spalle gracili con le braccia, constatando seccato d’esser giunto nuovamente nel luogo da cui era partito.

Da quando aveva preso congedo dal lussuoso albergo in cui aveva pernottato, Ciel aveva errato in lungo e in largo per le strade e i vicoli parigini, mescolandosi alla folla brulicante di frettolosi passanti, rappresentanti dell’alta borghesia europea, artisti e clochard, senza riuscire a trovare la via per il porto di Calais; e ancora lo perseguitava quello sguardo attonito, un po’ smarrito del portiere dell’hotel, quando gli aveva chiesto se fosse stato a conoscenza delle sorti del suo accompagnatore.

Ogni passo sottratto alla strada ritemprava il sentore dell’abbandono, così poderoso da smorzargli il respiro già corto per la fatica, ed ogni sosta forzata serviva solo a rammentargli di come quello scioglimento era stato già sancito da poche ed essenziali parole, velate da un tono eccentricamente nostalgico, ma pur sempre devote; il piccolo nobile non ne aveva compreso appieno l’essenza, smarrendone completamente il significato e reinterpretandolo comodamente come un ordinario ossequio, consueto del suo fedele  maggiordomo.

 

-Per favore, dimentichi ogni cosa, signorino. Le auguro una buonanotte.

 

Ciel socchiuse le palpebre, serrando i pugni in una morsa dolorosa quando, per l’ennesima volta, la voce di Sebastian riecheggiò serafica nella sua mente stanca, già enormemente provata da tutte le vicissitudini che avevano tramutato in un incubo quel breve soggiorno a Parigi.

Di sicuro, aveva appreso a sue spese, la menzogna non si confaceva all’indole di una creatura quale Sebastian, votata a principi obsoleti dei quali ancora Ciel ignorava il contenuto ultimo, se non quello per il quale il demone aveva affinato il senso del gusto, portandolo a selezionare con meticolosità le anime di cui desiderava cibarsi.

Eppure, se seducenti parole erano in grado di irretire le prede, conducendole alla perdizione, di contro astute omissioni potevano racchiudere un senso ben più profondo: in questo caso, Ciel convenne, la sentenza cerimoniosa di Sebastian altro non era stata che un commiato denso di riverberi.

 

-Quel “Dimentichi tutto” poi Era forse un addio?

Non poteva dirlo con certezza; peraltro il solo pensiero che il demone avesse potuto prendere in considerazione la sua felicità bastò a far sorridere amaramente Ciel.

Sin dal giorno in cui gli Inferi avevano spalancato le fauci infuocate, reclamando voluttuose la sua carne dilaniata e il sangue colato in copiosi rivoli scarlatti sull’altare sacrificale, il bagliore immacolato dell’innocenza aveva abbandonato le iridi dell’unico erede dei Phantomhive; da allora le tenebre si erano avviluppate alla sua anima vergine, come acido filamentoso, corrodendone poco a poco il lindore, subissandola, fagocitandola, lentamente.

Tra urla fragorose, risa sguaiate e grotteschi applausi, nel giorno della fatale passione, gli artigli smaltati del Corvo avevano ghermito il giovane corpo esanime e un battito d’ali sbilenche gli aveva concesso l’oscuro battesimo, stillando morbida pioggia di tremule piume nere e consacrando così la sua resurrezione.

 

Malgrado da quel dì brancolasse nel buio, Ciel Phantomhive era sopravvissuto.

Per il giovane conte i raggi tiepidi del sole di mezzodì, l’azzurro terso del cielo, il brusio continuo della folla che lo attorniava ora altro non erano che mero dettaglio; faticava a riconoscere i tratti sfocati di una realtà deforme, alla quale si sentiva sempre più estraneo e non c’era luce celestiale tanto potente da rischiarare il diadema arrugginito che gli cingeva il capo, né il sentiero di morte e dolore ai piedi del suo trono oltraggiato.

L’infamia e il disonore che avevano inficiato la purezza delle sue membra, straziandone la carne, plasmando l’anima come creta sul tornio di un odio vorticante e poderoso, trascendente ed immanente al tempo stesso, si erano impressi in cicatrici scarlatte sulla sua pelle, marchiandola nei secoli dei secoli; o, perlomeno, fino all’istante solenne che avrebbe colto le reliquie del contratto redatto dal sangue: il corpo sfinito e privo dell’ άνεμος2, del soffio vitale in esso serbato.

 

-Non importa…

Il sussurro che sfuggì alle labbra di Ciel acquistò ben presto un tono deciso, imperturbabile.

-… Posso tornare a Londra… Anche da solo!

Le dita inguantate percorsero la dura consistenza del diamante che rifulgeva d’azzurro e della gloria arcana dei Phantomhive al suo pollice, in una carezza quasi commossa, subito tradita dal guizzo d’orgoglio nell’iride sinistra del ragazzo.

 

E, proprio mentre Ciel era immerso nei suoi pensieri, una raffica di vento, più fredda e dispettosa delle precedenti, sciolse il nodo laborioso della fascia intorno al suo cappello a cilindro; il nastrino d’organza danzò davanti al suo sguardo attonito, come una libellula turchese prima di essere sospinta dal vento, disegnando astratte spirali nel cielo con ogni fragile acrobazia d’ali sbattute.

La sua mano protesa ne sfiorò appena un lembo ma, non riuscendo ad agguantarlo, Ciel cominciò ad inseguire quella stravagante farfalla di stoffa.

 

 

 

Ciò che si è perso una volta non tornerà più indietro…

 

 

 

Ciel scosse velocemente il capo per scacciare quel pensiero e, quando ormai spossato dalla folle rincorsa si fermò, cercando di riprendere fiato, realizzò che quel nastro d’organza l’aveva condotto  laddove ogni concretezza cessava d’esser tale, tramutandosi in paradosso.

 

-Il tuo futuro, Ciel-kun… Puoi riaverlo…

 

La voce serena di Aberlain parve risuonare sulla soglia della cattedrale: divenne etereo canto, puro spirito, incorporeo; impalpabile.

 

Ciel sgranò l’occhio scoperto mentre il cuore scalpitava nel suo petto, sedotto da quell’improvvisa epifania: percepì le catene del suo legame diabolico stridere rovinosamente, lasciandolo sgomento; l’anima, scissa dal proprio vincolo, dapprima collassò per poi sublimare.

Come fosse un’entità separata dalla propria carne, Ciel la vide precipitare, divenire tetro scarabocchio e di nuovo fulgida cometa, nove giorni in caduta libera verso l’Inferno, solo per spiccare ancora il volo verso gli aurei cancelli del Paradiso.

 

Dunque era davvero l’anima soltanto un’ombra nella dimora del peccato?

Il corpo era davvero nell’anima o era l’anima stessa a congiungersi al corpo?

 

In bilico, come un funambolo in equilibrio sul labile confine tra il sacro e il profano, Ciel rimase immobile in preda all’armonia estatica del suo stesso vacillare, incapace anche solo di fugare i propri dubbi; percepì l’iride destra infiammarsi, bruciare tra lingue di fuoco roventi sotto la benda che preservava il vincolo indissolubile tra la vendetta e la morte, la balaustra invalicabile tra la propria anima corrotta e l’Eden per sempre perduto: il vincolo indissolubile tra Sebastian e il proprio spirito.

 

 

 

 

“… Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte,

io non temerei alcun male,

perché Tu sei con me.”3

 

 

 

 

 

Quasi le parole del Salmo, impresse sul pavimento in tasselli asimmetrici d’avorio e d’oro, fossero un filo invisibile a condurlo oltre l’uscio, Ciel mosse un passo tentennante in avanti, ritrovandosi solo nell’immensa chiesa vuota.

Nessuna liturgia celebrata in latino turbava la quiete di quel luogo, né voci bianche intonavano canti gregoriani e né dita carismatiche battevano i tasti d’ebano dell’organo4 che si ergeva imponente nella parte alta del coro: neanche il fruscio di piccoli guanti in velluto nero, caduti al suolo come falene morenti, sventrarono il silenzio ieratico della cattedrale.

Ciel deglutì a fatica, fermandosi accanto all’acquasantiera di marmo; ne lambì l’orlo con i polpastrelli intirizziti dal freddo, prima di sfiorare delicatamente la superficie dell’acqua consacrata sul fondo; la sua pelle candida, contaminata da invisibili e peccaminose macchie, rabbrividì al contatto, come se quel rinnovato battesimo della carne avesse reciso completamente l’esclusività del legame che lo aveva condannato alla dannazione eterna.

Si sfiorò con un dito ancora umido le labbra inaridite e il sapore di mani sporche dell’acqua santa lo travolse.

L’incenso al gelsomino soffiava sui ceri accesi, piccoli fuochi traballanti in file ordinate ad illuminare le navate laterali in penombra; le ampie vetrate rifrangevano i raggi del sole nei sette colori dell’indaco, illuminando la battaglia sempiterna tra l’Uomo e l’Angelo5, affrescata ad olio e cera.

La donna che spolverava i banchi di frassino non si voltò neanche ad osservare il gravoso incedere di quel giovane nobile lungo la navata centrale: lo smalto trasparente sulle sue unghie sfavillò nella luce mielata del sole, mentre era ora intenta a sistemare i gambi delle orchidee nei vasi di cristallo tempestato d’oro zecchino, come se Ciel non fosse affatto esistito, null’altro che pallido spettro, informe, invisibile.

 

Nessuna esitazione turbò la placida avanzata del conte lungo il sentiero della redenzione; il suono dei piccoli tacchi squadrati scandiva il susseguirsi caotico dei frammenti della sua coscienza, fotogrammi profumati di naftalina di una pellicola cinematografica a ritroso, senza alcuna logica consequenzialità.

Il fulgore proveniente dalle vetrate di cobalto e rame rischiarò l’abside, neutralizzando una ad una le immagini in scorrimento lento impresse nella memoria di Ciel: la voce di Sebastian, le sue labbra, ogni sua ambigua sentenza e il patto impresso in un pentacolo sul dorso della mano sinistra svanirono quando le ginocchia nude del ragazzo collisero con il legno dell’inginocchiatoio con un tonfo sordo.

Lo sportellino del confessionale si dischiuse piano, rivelando attraverso la grata d’ottone imbrunito il profilo aquilino del sacerdote, completamente celato dall’ombra; i minuscoli fori della grata falsarono la voce di Ciel, frammentando le onde concentriche del suono e mutandole in un gemito contorto, spezzato.

 

-Padre, perdonami perché ho peccato…

 

 

 

 

 

 

L’ ipocrisia di mani giunte in penitenza non estingue il peccato.

Cori angelici non sovrastano lo schioccare della frusta e le urla blasfeme.

Diabolica è la tentazione, trascina l’anima tra i flutti oscuri della perdizione ed infine la divora.

L’onda si attarda nella risacca incessante ed è prepotente: sommerge, travolge, bagna ma non sciacqua il dolore; trascina e fuorvia il piccolo corpo inerme che, testardo, continua a barcamenarsi nella tempesta, cercando di restare a galla, per non annegare.

Per non soffocare.

Per non morire.

Reclama vendetta verso chi lo ha condotto all’Inferno.

E non vuole precipitare ancora tra le fiamme della Geenna.

 

Ma non c’è salvezza per chi ha rinnegato la fede.

Non c’è redenzione.

 

Nessuna assoluzione.

 

 

 

 

 

 

 

La sagoma oltre la grata oscillò appena, reclinando il capo in segno d’assenso per invitare Ciel a proseguire; nessuna parola fu pronunziata da labbra invisibili e nessun segno di croce sfiorò la fronte del giovane genuflesso.

Solo l’ammissione di colpa, sussurrata tra pugni chiusi, fece da preludio all’invereconda confessione.

 

-Io…

 

E, d’un tratto, ci fu solo silenzio, un effimero istante, il tempo infinitesimale di un pensiero.

 

 

-Io… Ho mentito.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ho mentito perché io sono un essere umano.

Tu invece avevi detto che non l’avresti fatto.

 

Mai.

 

“Rimarrò al suo fianco, fino alla fine, signorino.”

 

Tu non menti…

 

Non lo fai mai.

 

Non è forse così…

 

 

 

 

… Sebastian?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note al testo

 

1L’ Eglise Saint Sulpice è la Chiesa di San Sulpizio che si trova a Parigi nel VI arrondissement, confinante con il VII arrondissement dove Sebastian e Ciel si recano appena giunti a Parigi per assistere alle numerose mostre e fiere dell’Expo del 1889.

 

2 Si legge ànemos e in greco antico significa letteralmente “alito”, “vento” da cui deriva l’italiano anima, la cui etimologia è appunto soffio, inteso come alito di vita.

 

3E’ uno dei passi più belli del Salmo di Davide, precisamente il XXIII dei 150 del Libro dei Salmi a lui attribuito.

 

4Si tratta dell’organo realmente esistente ad opera di Aristide Cavaillè-Coll, il più grande di tutta la Francia.

 

5Riferimento al celebre dipinto di Eugène Delacroix, “La lotta tra Giacobbe e l’Angelo”, olio e cera su intonaco, 1860.

 

 

 

 

Nda: E il prologo è andato. Dire che non mi aspettavo che questa storia, scritta appena in cinque giorni, potesse raggiungere un risultato del genere è dir poco, probabilmente troppo poco.

Chiedo a chi si accingerà a leggerla di armarsi di un poco di pazienza, dato che è abbastanza lunga: e a questo proposito desidererei conoscere le vostre opinioni in merito che, sicuramente, mi aiuteranno a crescere e a rendermi conto delle imprecisioni e, al contempo, a racimolare nuove idee.

Cosa volete farci, ormai sono in brodo di giuggiole da Sebastian e Ciel!!

Questo pairing è stupendo e ciò che mi ha più ispirata è “Yes, Your Highness”: perfetta per loro, ne? ^^

 

http://www.youtube.com/watch?v=KSgxr5Omc9Y

 

Spero di aggiornare presto, nel mentre GRAZIE di cuore ancora alla giudice DarkRose86 per la velocità con cui ci ha fatto avere i risultati malgrado i suoi impegni, e GRAZIE in anticipo a chi si avventurerà nella lettura di questa storia.

 

Baci.

 

Stè.

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Capitolo 2
*** Interlude #1: Sympathy For The Devil ***


Ed ecco il primo Interludio. Personalmente trovo il pezzo in apertura, uno dei miei preferiti degli Stones, assolutamente sexy e adattissimo a questa prima parte… Se volete ascoltarlo seguite il link^^Sympathy For The Devil

 

Che dire… Spero la storia vi piaccia.

 

 

 

 

 

 

Interlude # 1:

“Sympathy For The Devil”

 

 

“Just call me Lucifer
'Cause I'm in need of some restraint

So if you meet me
Have some courtesy
Have some sympathy, and some taste
Use all your well-learned politesse
Or I'll lay your soul to waste.

 

Pleased to meet you
Hope you guessed my name
But what's confusing you
Is just the nature

Of my game”

 

Rolling Stones

 

 

 

 

 

 

L’indistinto mugghio di Londra era finalmente solo un ricordo; difatti, durante la stagione sociale, la città gremita di nobiluomini e visitatori accorsi da ogni parte dell’Inghilterra rassomigliava ad una bolgia infernale che l’alta borghesia si ostinava a definire vita mondana: lo strepito degli hansom1 e delle carrozze sulle strade lastricate, le risate civettuole di dame in cerca di lascivi piaceri e il chiacchiericcio frivolo dei passanti accalcati in frotte sui cigli e sui marciapiedi delle vie principali accrescevano il desidero dei savi di sottrarsi a quel pandemonio goliardico, in cui anche la notizia di macabri omicidi seriali o il ricorso a narcotiche voluttà erano un ottimo divertissement.

Una volta assolto il compito di dissipare la nebbia per Sua Maestà sull’artefice della carneficina di cui il Times e Scotland Yard continuavano a speculare, la scelta più assennata per il conte era stata quella di ritornare alla propria residenza, nonostante la stagione non fosse ancora giunta al termine.

 

Lontano dal caos frenetico di Londra, la bellezza fiammeggiante dell’estate divampava nella campagna inglese come un incendio dalle mille sfumature d’arancio e di lillà e i raggi color albicocca del sole baciavano languidamente i grappoli di stelle delle orchidee violacee; il dolce vento estivo serpeggiava tra i rovi di rose in fiore, rubandone di tanto in tanto qualche candido petalo e portandolo ad adagiarsi sulla superficie del ruscello, che scorreva placidamente attraverso la rigogliosa radura a sud della villa.

Il barlume giallo miele delle ginestre sfavillava nella luce dorata del primo pomeriggio e il frinire di una cicala solitaria, nascosta tra le polverose radici di un platano, si accompagnava al gorgoglio dell’acqua e al ronzio errabondo di un’ape pelosa, avara del gusto zuccherino del nettare dei papaveri che brillavano sanguigni tra l’erba umida.

 

Le sontuose tende di seta tussorina erano state convenientemente tirate davanti all’ampia finestra per permettere alla luce del sole di inondare la stanza; dai vetri socchiusi l’odore pungente delle margherite era addolcito dalla soave fragranza del tè, versato con eleganza nella tazza di porcellana cinese, decorata a mano dai più raffinati artigiani d’Oriente.

 

-Earl Gray?

 

Le piccole labbra, delicate come ali di farfalla, si attillarono all’orlo della tazza rifinito da ghirigori dorati, lambendo appena il liquido bollente all’interno, e narici armoniosamente cesellate ne inalarono il profumo dolcemente effuso, prima di riporla sul basso tavolino in legno di ciliegio.

 

-Già, proprio così, signorino. E’ un aroma inconfondibile.

 

Le parole rispettose del maggiordomo furono accompagnate da un piccolo inchino del capo e un sorriso salace, sfuggito allo sguardo tronfio di Ciel, non mancò di arricciare le labbra di Sebastian.

Nessun’altra parola turbò il silenzio disceso sui due occupanti dell’immensa sala in cui, da quasi un mese ormai, era stato improvvisato uno studio di pittura; il divanetto imbottito di piume d’oca accanto al camino era stato ricoperto da un lungo drappo color crema, le cui frange argentate ricadevano sul tappeto persiano blu cobalto e un morbido cuscino dello stesso colore era stato posto sullo schienale per consentire al giovane modello una posizione più confortevole.

Ciel aveva cercato invano di opporsi al fatto di dover costantemente posare, ogni giorno prima del tè pomeridiano, per il ritratto commissionato dalla sua esuberante fidanzata; con le dita incrociate sul petto e un radioso sorriso dipinto sul volto, Lizzy l’aveva guardato con i grandi occhi verdi tracimanti di speranza, suggerendo che quel pannello vuoto nell’ingresso non era per nulla carino e che sarebbe stato più opportuno sostituirlo con un ritratto degno del prestigio dell’unico erede dei Phantomhive: malgrado le avesse spiegato di essere oberato dal lavoro, Ciel alla fine aveva ceduto a quella singolare richiesta, se non altro per non sorbirsi le ulteriori bizze e i piagnistei da ragazzina della sua promessa sposa.

 

Ciò che realmente infastidiva Ciel, tuttavia, era non tanto sottrarre del tempo utile al suo gravoso lavoro, quanto il dover rivelare se stesso ad un totale estraneo; sebbene il signor Hurley fosse un artista risaputo per la sua discrezione, la sola idea di dover lasciare che un altro uomo scegliesse i sontuosi capi del proprio abbigliamento o suggerisse pose ed espressioni particolari bastò ad esacerbare il suo tipico cipiglio imbronciato.

Rimanere per ore ed ore semidisteso sul sofà lo irritava enormemente, ma la parte peggiore erano le bieche occhiate che l’uomo gli scoccava dal suo posto dietro il cavalletto, prima che le sue iridi cerulee e vispe tornassero a concentrarsi sulle trame di juta della tela a grandezza naturale, predisposta per quell’occasione più unica che rara; non capitava spesso di dover effigiare le nobili fattezze di un ragazzino, la cui impudente bellezza rammentava quella di un torbido cielo notturno sfregiato di fulgide stelle: e forse l’ebbrezza più squisita per un artista stava proprio nel cimentarsi a rendere, in olio su tela, l’irresistibile commistione di purezza e tenebra tipica dell’animo umano, meglio se ancora così provocantemente infantile.

Mai nella sua breve vita, Ciel si era sentito così vulnerabile come quando sedeva sul divanetto di piume, inerme mentre le dita del pittore vibravano nel furore estatico della sua ispirazione; il ragazzo non poteva fare a meno di sentirsi impotente, nudo con ogni sguardo rapito dell’uomo a scrutare l’ovale perfetto del suo viso, le sue labbra morbide, l’occhio scoperto che scintillava sotto la veletta di pizzo nero come un superbo zaffiro, le linee armoniose del suo corpo languidamente adagiato sul drappo avorio, come a voler carpire ogni sua emozione recondita, il segreto occultato nelle profondità spiraliformi della sua anima, per poi trasmutarlo in macchie tonali e colori sfumati su tela dalle morbide setole del pennello e rivelandone così inesorabilmente l’abominio.

 

Ciel esalò il lungo sospiro che non si era neanche accorto di trattenere, sporgendosi per racimolare dal piatto accanto alla teiera sul tavolino l’ultimo pezzo della torta di mele e uva passa che Sebastian gli aveva servito poco prima: la silenziosa presenza del suo maggiordomo, anziché placare la sua inquietudine, quel pomeriggio, non aveva fatto altro che accrescerla; infatti era stata del tutto imprevista la richiesta di questi di poter assistere all’ultima posa per il quadro e agli ultimi ritocchi e, quando il signor Hurley educatamente aveva preso commiato dalla villa, Sebastian era rimasto lì per riassettare la stanza.

Il giovane, seppur non avendolo dato a vedere, era rimasto spiazzato nello scoprire il morboso interesse di Sebastian verso qualcosa che non concernesse direttamente la sua anima: eppure Ciel aveva astutamente ribaltato le sorti di quel gioco perverso, portando le sue innate doti di seduzione sui binari della consapevolezza, potenziandole; compiacendosi dello sguardo di Sebastian, che adesso sapeva essere puntato unicamente su di lui, il ragazzino si portò la forchetta alle labbra, reclinando il capo all’indietro e socchiudendo le palpebre.

Poi la piccola lingua leccò, in una movenza inconsciamente libidinosa, lo strato superiore di glassa, prima che i denti affondassero nel soffice pan di spagna.

 

-Signorino?

Come al solito fu Sebastian a rompere il teso silenzio, puramente licenzioso, che permeava l’ambiente assolato della camera.

Con la forchetta penzolante tra le labbra, imbiancate per lo zucchero che ivi si era depositato, Ciel sollevò la gamba, poggiandola sul bracciolo del sofà e si adoperò a sciogliere il laccio intricato dello stivale in pelle nera, prontamente scalciato sul pavimento.

-Tira le tende, Sebastian. La luce mi infastidisce.

Rimbeccò acido, raccogliendo i chicchi d’uva passa rimasti sul fondo del piatto e masticandoli piano, mentre si accingeva a slacciare lo stivale sinistro che, ben presto, raggiunse l’altro con un breve tonfo sul tappeto; neanche si premurò di voltarsi verso il suo maggiordomo, intento a sciogliere i cordoncini dorati delle tende e tirandole a coprire la grande vetrata della finestra, come un sipario di seta cremisi sul cielo striato di rosa del crepuscolo.

-Perdoni la mia invadenza, ma mi sembra che oggi il suo umore sia più turbato del solito.

Asserì Sebastian atono, una volta ch’ebbe finito di sistemare le tende; nella luce ora soffusa del salone, le sagome degli uccelli che svolazzavano fuori dalla finestra ricreavano, attraverso il pesante tessuto, un curioso effetto d’ombre veloci lungo le pareti e il soffitto riccamente stuccati e, talvolta, sull’espressione sarcastica del maggiordomo, adombrandone il viso elegante.

Ciel si rifiutò di dar adito a quella subdola provocazione, continuando imperterrito nella propria e leccandosi lentamente le labbra zuccherate.

-Sai bene anche tu che non era nelle mie intenzioni prestarmi a questa inutile perdita di tempo.

Replicò alquanto seccato; non ebbe neanche bisogno di voltarsi per intuire, dalla nota beffarda nella sua voce, che l’espressione di Sebastian era rimasta immutata, ambiguamente divertita.

-E allora, se posso chiedere, perché mai lo ha fatto, mio signore?

-Perché anche tu mi avevi detto di assecondare Lizzy. E poi semplicemente non volevo che si rimettesse a fare i soliti capricci, dato che non ho tempo da perdere nei suoi giochi da ragazzina. Tutto qui.

Tagliò corto, procedendo nello sfilarsi coi denti i guanti di velluto amaranto.

-E quindi ha ben pensato di ingannarla, mostrandosi felice per la proposta solo per non farla soffrire?

Sebastian interloquì, portandosi con fare meditabondo un dito inguantato alle labbra e sollevando gli occhi al soffitto, prima di proseguire.

-Se me lo concede, direi che è un pensiero piuttosto arrogante…

-Arrogante dici, eh?

Un sorrisetto perverso increspò le labbra umide di Ciel; la veletta ricamata impediva agli occhi del ragazzino di abituarsi alla soffusa penombra e presto anche il cappello rosso, decorato da graziosi boccioli di rose azzurrognole, raggiunse i guanti e gli stivali sul pavimento, dove ancora giaceva la scatola di cioccolatini che aveva aperto poc’anzi.

-Conosci qualche essere umano che non lo sia, Sebastian?

-A dire il vero ne conosco soltanto uno, signorino.

-Cosa vorresti insinuare con questo?

Ciel sbottò velenoso; le dita diafane scartarono in brevi scatti collerici il cioccolatino, giocherellando convulse con la carta stagnola.

-Oh, nulla mio signore… Ad ogni modo, trovo che sia stato davvero amabile da parte di Lady Elizabeth omaggiarla con un dono così bello.

In piedi dietro la tela fissata in verticale sul cavalletto, Sebastian era completamente assorto nell’esaminare il ritratto, ancora fresco, del suo giovane padrone; l’artista aveva reso perfettamente il colore chiaro della pelle alabastrina di Ciel, aveva rifinito le sue labbra corrucciate con un bel rosso vermiglio che andava progressivamente asciugandosi in piccoli rilievi di colore brillante e l’iride sinistra rifulgeva nel buio di un vivace, pastoso turchino.

Se il signor Hurley non era riuscito appieno nell’intento di rappresentare l’anima del modello, sicuramente quel dipinto era stato realizzato con un sentimento tale da rivelare l’anima dell’artista stesso; Sebastian si portò un pugno stretto sotto il mento, sogghignando malevolo: a nessuno, a parte lui, era concesso di possedere quell’incantevole signorino londinese, la cui testardaggine e saccenza lo avevano così deliziosamente irretito.

 

Da tempo aveva smesso di divorare una ad una anime insulse, così orribilmente comuni e il gusto insipido dell’ignavia lo aveva portato poco alla volta a discernere il prelibato profumo di anime immacolate, eppure avvinte alla lusinga dell’Inferno; l’anima del conte, la clausola finale del contratto, così pura e cristallina, era stata affissa alla croce dai chiodi invisibili e appuntiti del martirio e Sebastian non aveva potuto fare a meno di adorare quel raro amalgama di bianco e nero, radicato in un corpo splendido e delicato, ancora così commoventemente acerbo.

-Sa, signorino…

Ciel strofinò tra loro i piedi scalzi, distendendo le gambe intorpidite sul sofà e, continuando impassibile a sorseggiare il suo tè rosso, assaporò sulla piccola lingua il retrogusto acre del limone.

-… Temo che Lord Hurley abbia fin troppo egregiamente colto le mille sfaccettature, a dire il vero, più esteriori che interiori della sua eccezionale bellezza.

-Non sapevo che una creatura come te potesse essere suscettibile ad una cosa tanto effimera come la bellezza.

Ciel ribatté prontamente, sorreggendo tra le mani il piattino e la tazza di porcellana e sollevando l’angolo destro della bocca in un mezzo sorriso soddisfatto; non  poteva negare che quel gioco di ruoli inversi, che traspariva da ogni arguto battibecco, cominciava ad appagarlo immensamente.

-In realtà non è questo. Mi prenderò la libertà di dirle chiaramente che c’è un certo grado di fatalità nella distinzione tra la bellezza del corpo e la bellezza dell’anima, forse la stessa fatalità che sembra seguire nella storia, come fedeli cani da guardia, i passi incerti dei re, o forse dovrei dire della Regina…

-Se hai qualcosa da dire, dillo chiaramente!

Ciel tuonò spazientito, posando la tazza ancora una volta sul tavolo di ciliegio e fissando Sebastian in tralice.

-Perdoni la mia eccessiva disinvoltura…

Sebastian, con una mano poggiata sul petto e gli occhi umilmente rivolti a terra, parlò piano, quasi sottovoce, in segno di profondo rammarico.

-… Volevo solo farle presente quanto possa essere deleterio essere troppo diversi dai propri simili, mio signore.

-Non è forse questa una delle cause del nostro contratto, Sebastian? In fondo il fato è clemente con la gente comune. I rozzi, i brutti, gli sciocchi sono solo misere pedine sulla scacchiera e, nella più ridente delle ipotesi, meri spettatori della partita.

Ciel sentenziò ieratico, alzandosi in piedi e brandendo il manico d’oro intarsiato del suo bastone, per poi muovere pochi passi verso il maggiordomo e il proprio ritratto.

-Chi resta ad osservare non conoscerà mai il sapore della vittoria, ma così almeno ci si risparmia l’amarezza della disfatta. A lungo andare, però, rimanendo a guardare ci si dimentica le regole del gioco e, una volta iniziata la partita, esitare può essere fatale. Proprio per questo continuerò a giocare… E non esiterò.

-Oh capisco… E’ il signorino a giocare, e gioca unicamente per vincere, nevvero?

Ciel si fermò non appena giunto dinnanzi a Sebastian, ogni espressione tracotante dissolta nel sorriso venato di malizia ad incurvargli le sottili labbra di corallo pallido.

-Esatto. E tu… Tu non osare tradirmi, Sebastian. Rimani al mio fianco. Fino alla fine.

L’intimazione, proferita con tono severo, riecheggiò solennemente nell’atmosfera densa della stanza; le iridi amaranto di Sebastian scrutarono i tratti affilati del volto del suo padrone e l’oscena tentazione di prendere quel corpo fragile, divorarlo e privarlo seduta stante di quello spirito tanto seducente, lo fece fremere nell’anticipazione del piacere che sarebbe derivato dal sentire Ciel urlare, gemere e singhiozzare nel tormento di sentirsi prendere, dilaniare senza troppe cerimonie e cadere esanime tra le sue braccia: ma la fine ancora non era giunta a reclamare lo scioglimento del vincolo benedetto dal sangue sacrificale e il demone dovette accontentarsi della deliziosa visione di quel ragazzino, con un gomito posato sul cavalletto e il bellissimo volto oscurato dall’ombra.

-A proposito, Sebastian. Non voglio che questo quadro venga appeso nell’ingresso. Dopo dì a Finnian di riporlo in soffitta. Lì starà benissimo.

-C’è qualcosa che non le piace in questo ritratto, o forse ha semplicemente il timore di mostrarlo, mio signore?

Il maggiordomo domandò serafico, avvicinandosi ancora un poco al suo padrone, ma mantenendo convenienti e ossequiose distanze.

-No. Semplicemente credo che non sia adatto per stare in un luogo tanto visibile.

-Lo sapeva, signorino… Ho sentito che ultimamente si sta diffondendo una certa tendenza2, diametralmente opposta a quella in voga un centinaio d’anni fa, per la quale l’arte deve mostrare soltanto se stessa, celando la propria anima. Questo ritratto vi risponde splendidamente, perciò credo che non vi sia nulla di cui lei si debba preoccupare.

 

Sebastian non poté fare a meno di godere perversamente in ogni singola fibra della propria essenza quando, alla parola anima, le spalle di Ciel furono attraversate da un breve fremito; nondimeno strabuzzò gli occhi e un’espressione di perplessità contorse i tratti imperturbabili del suo volto nel momento in cui le mani del giovane Phantomhive scesero in basso ad allentare i bordi incrociati sul petto della propria giacca; le dita di Ciel, senza preavviso, s’affaccendarono nel liberare dalle asole i bottoni dorati della blusa scarlatta che, con un flebile stropiccio di stoffa, ricadde sul pavimento, subito seguita dal fiocco di raso nero che portava in vita e dai pantaloni corti sfilati in uno slancio di inesperto e immaturo fervore.

Il tempo sembrò arrestarsi di colpo, il ticchettio delle lancette tacque e il pendolo dell’orologio di mogano a ridosso della parete parve immobilizzarsi, rimanendo fisso, di sghembo: i piccoli pollici si uncinarono al laccetto di seta chiara della biancheria intima, strappandolo con foga nell’impacciato tentativo di fare prima, quasi ad ingannare il disagio che lo aveva colto quando Ciel lasciò che la stoffa candida scivolasse oltre i propri esili fianchi, carezzandogli le gambe con un impercettibile fruscio e arrotolandosi provocantemente alle sue caviglie.

Colto alla sprovvista, il maggiordomo rimase immobile ad osservare quell’impudente ragazzino che, senza scomporsi, era rimasto in piedi davanti a lui, privo d’ogni abito, a fissarlo con aria di sfida; sicché, malgrado l’aria di apparente altezzosità, un lieve rossore aveva iniziato ad imporporare le gote altere di Ciel, mentre le sue mani tremule si erano mosse istintivamente per tentare di coprirsi; Sebastian schioccò la lingua al palato, dischiuse le labbra per lo stupore ma, non appena percepì l’adorabile imbarazzo del giovane conte, il suo sguardo allibito si addolcì.

 

-Mi permetta di farle notare che questo… Ecco, questo non è molto conveniente per un giovane del suo rango.

Lo provocò quasi divertito, godendo della brusca risposta.

-Taci, Sebastian! O forse hai dimenticato il tuo compito? L’hai detto tu stesso: per ora sei solo il mio fedele servo. Indi per cui, servimi e non obiettare.

 

Sebastian avanzò ancora di un passo, rapendolo in una invisibile stretta di sguardi allusivi e battiti veloci di ciglia; poi s’inchinò con dedito rispetto.

-Come desidera. Non sono altro che un perfetto maggiordomo…

Si posò una mano sul fronte dell’uniforme nera, con la testa china e senza distogliere lo sguardo dal pavimento.

-… Ordunque… Cosa vuole che io faccia, signorino?

Chiese ubbidientemente, ligio al proprio dovere.

-Voglio che mi prendi in braccio, come sei solito fare.

-Cielo, cielo. Mi sta forse mostrando il suo lato debole?

-E’ solo un semplice ordine. Eseguilo e basta, Sebastian.

Ciel socchiuse gli occhi quando il braccio di Sebastian cinse le sue spalle nude mentre l’altro sgusciò dietro le sue ginocchia; anche se profondamente ostinato nel celare le proprie debolezze, più che mai in una simile circostanza, sussultò sommessamente quando si sentì sollevare velocemente da terra.

Dal canto suo Sebastian non si era aspettato che tenere in braccio quel piccolo corpo completamente esposto lo rendesse infinitamente più desiderabile, così come l’inconscio strofinarsi della guancia delicata e calda del conte contro il fresco della propria camicia: vedere quell’essere umano, quel ragazzino borioso, adesso così teneramente disarmato rinforzò la carica lasciva di averlo nudo tra le braccia; l’odore inebriante di quella pelle nivea come panna montata si diffuse lentamente, quasi fosse un profumo afrodisiaco sparso nell’aria vischiosa che saturava la stanza.

Ciel era del tutto ignaro del fatto che la propria morte gli sarebbe stata lesinata dalle stesse mani che ora lo sorreggevano devote e che non avrebbero esitato, in seguito, a defraudarlo di superflui indumenti; non sapeva che, nel giorno in cui avrebbero tirato le somme del loro patto, le carezze del demone sulla sua pelle nuda lo avrebbero condotto sinuosamente sull’orlo della follia, come piacevole ouverture all’atto successivo di una tragedia quasi romantica, in cui le labbra di Sebastian avrebbero violato ambiziosamente le proprie per sottrargli l’anima in un vile, fatale, esilarante bacio.

-Signorino…

La voce di Sebastian squarciò il silenzio, intervallato fino ad allora solo dal loro respiro, appena un po’ affannoso.

-… E adesso, cosa vuole che faccia?

Ciel si abbandonò al freddo abbraccio del demone; poi i suoi occhi orgogliosi tradirono ogni titubanza.

-Conducimi al divano… Distendimici sopra, Sebastian.

Le parole di Ciel suonarono flebili, soffocate dal proprio viso premuto contro il petto di Sebastian.

Senza contraddire il nuovo ordine impartitogli, il maggiordomo attraversò la stanza in poche, ampie falcate, giungendo all’orlo del sofà e chinandosi in avanti per adagiarvi Ciel che, nel contempo, aveva stretto spasmodicamente tra le dita la sua cravatta, costringendolo ad inclinare il suo viso verso il proprio: i loro profili si sfiorarono in un elettrizzante contatto e il respiro caldo si condensò sulle loro labbra, dischiuse per il fiato sempre più corto e frammentario; rimasero a lungo in quella posizione plastica e nessuna movenza turbò la stasi dell’attimo in cui il demone già pregustava il bacio che gli avrebbe offerto il più lauto dei banchetti, leccandosi lussuriosamente le labbra, tumide per l’eccitante anticipazione.

-Ed ora…

Sussurrò sensuale; il suo sorrisetto sardonico sottrasse attimi preziosi all’inevitabile prosieguo, esacerbando l’eros di quell’ammiccante pausa; sgranò le iridi che, vermiglie e minatorie, baluginarono ferine nell’oscurità.

-… Ora… Ora cosa desidera che io faccia, bocchan?

I loro ruoli definiti di servo e padrone nuovamente si invertirono in quella posizione di stuzzicante sottomissione, con Ciel seduto sul divano di piume d’oca e Sebastian in piedi davanti a lui; il demone protese le dita inguantate, bramose di accarezzare la gota di Ciel, di poter sfiorare le lunghe e tremolanti ciglia scure e scostargli le ribelli ciocche dei capelli che gli erano ricadute sul volto: ma la risposta del ragazzo lo colse in flagrante, facendogli realizzare che il tempo non era ancora maturo e che avrebbe dovuto pazientare ancora per impossessarsi dell’anima che, giorno dopo giorno, s’impreziosiva sempre di più come un diamante lavorato da mani sapienti e che necessitava di essere scalfito e accarezzato, con dolcezza e violenza al tempo stesso.

-Io te l’ho promessa, Sebastian.

Sebastian ritrasse le dita, rivolgendo a Ciel uno sguardo enigmatico; il suo respiro profumato di caramello gli solleticò il mento, l’innegabile tepore gli scaldò la pelle quando nuove parole proruppero dalle labbra del giovane.

-Assaggiala.

La mano del giovane Phantomhive lasciò andare la cravatta di Sebastian, ricadendo mollemente sul sofà, annullando con quel semplice gesto ogni sua orgogliosa difesa.

- Adesso. Dimmi che sapore ha…

-Signorino…

Le iridi rossastre di Sebastian sfavillarono ancor più strenuamente nel buio.

-Ritraimi.

-Ma bocchan, non crede che forse non…

-E invece si. Cogli la mia anima, Sebastian. Dipingimi così, senza nulla addosso. Entrami dentro e rappresenta la mia anima. O hai paura di non riuscire ad essere un perfetto maggiordomo in una situazione come questa?

Ciel asserì impertinente, ogni esitazione fugata quando si lasciò ricadere lentamente sul fianco sinistro senza distogliere gli occhi, ottenebrati da un velo di lascivia, da quelli puramente famelici e cremisi di Sebastian.

-Non potrei mai non esserle fedele e devoto, a prescindere dalla situazione. Per chi serve i Phantomhive è naturale poter fare anche una cosa come questa.

-E allora fallo. Ritrai il dolore della mia anima e rappresentalo. E’ un ordine, Sebastian.

 

-Si, mio signore.

 

Non appena Sebastian si issò in piedi, dandogli le spalle, un lungo brivido serpeggiò sotto la pelle nuda di Ciel; il ragazzino seguì con le iridi, brillanti d’un fuorviante languore, i passi felpati del demone verso il cavalletto e i guanti bianchi elegantemente sfilati a scoprire dita diafane e contornate da unghie perfette e squadrate, laccate di nero.

Sebastian non aveva neppure spalancato le tende, tanto i suoi occhi inumani dovevano essere avvezzi a discernere forme e contorni nel buio; adagio, sostituì la tela affrescata con una nuova più piccola, fissandola ai ganci d’ottone del cavalletto e, con un panno morbido imbevuto di solvente, s’apprestò a pulire le setole indurite dei pennelli.

Il pentacolo impresso nella pupilla destra di Ciel pulsò di luce violetta, reclamando il sinistro riverbero del compagno inciso sul dorso della mano sinistra di Sebastian; un filo sottile di luce ametista brillò, sferzando orizzontalmente le tenebre della sala nella sublime unione tra l’anima del ragazzo disteso sul sofà e la diabolica essenza del demone seduto al cavalletto: ad amplificare l’iniqua natura del loro rapporto, al centro vi era una tela bianca, pronta ad essere sporcata, ad essere partecipe del turpe mistero di quel legame inestricabile.

 

-Bocchan… Per favore, sollevi la gamba destra e la adagi sul cuscino.

Nonostante Sebastian avesse proferito quelle parole con un tono pacato e riguardoso, la loro stessa natura non riuscì a celare del tutto l’ordine in esse implicito.

-Così?

-Si, va bene così. Il braccio destro invece… Lo pieghi e lo appoggi sulla spalliera.

Ciel accondiscese rapidamente alla richiesta che, pensò, scaturiva direttamente dall’imposizione che lui stesso aveva precedentemente formulato; tuttora, però, non riusciva a spiegarsi il tremore che scuoteva le sue membra esposte: malgrado Sebastian l’avesse visto nella sua completa nudità innumerevoli volte, mai aveva percepito il proprio cuore battere così freneticamente, al punto tale da sembrare in procinto di esplodergli nel petto.

-Ed infine i suoi occhi. Mi guardi, la prego signorino, e cerchi di muoversi il meno possibile.

Con quella sentenza perentoria, Sebastian ricambiò lo sguardo arrogante del suo padrone con uno intriso di adorante ammirazione, prima di abbassarlo sulla tela davanti a sé.

Il pennello ammorbidito cominciò a scorrere sulla ruvida superficie in tratti prima delicati e poi sempre più decisi; linee armoniche, chiuse, spezzate, aperte, tratteggiate si susseguirono repentinamente in uno slancio d’esagitato, sovrannaturale estro.

Di tanto in tanto le iridi di Sebastian trafiggevano calorose le fattezze di quel corpo nudo e gracile, in una posizione di leggiadria talmente vicina al suo ideale di perfezione da essere addirittura pregna di un sentore quasi selvaggio, inumano, primordiale.

I movimenti sempre più veloci del polso ricalcarono fedelmente, in ogni oscillazione, i tratti equilibrati e perfettamente simmetrici delle gambe snelle, rilassate nella posizione di riposo, del conte; gli occhi di Sebastian si attardarono deliberatamente sull’inguine tenero e leggermente arrossato, godendo del senso di pudore inoculato da quello sguardo nel ragazzino, spostandosi poi al centro, sul frutto ancora prematuro del peccato di lussuria non commesso, non ancora: le iridi dell’artista risalirono ulteriormente, soffermandosi sulla piega morbida dell’ombelico, per poi posarsi sul petto glabro e pallido, che si alzava e si abbassava al ritmo del respiro veloce e sulla curva sinuosa del collo latteo.

Quando infine Sebastian indugiò sul viso del giovane, un lungo fremito pervase Ciel: il calore che percepì –cos’era quel calore?- nel suo basso ventre gli fece chiudere di scatto le gambe e un gemito minacciò di sfuggire alla sua gola riarsa, quasi avesse inconsciamente percepito la natura, inequivocabilmente sessuale, di quella sensazione a lui ancora sconosciuta.

-Non si muova, signorino. Ho quasi terminato.

Lo incalzò Sebastian quando, infinitamente compiaciuto della trepidazione che aveva colto in Ciel, si concentrò sui tratti severi del viso del suo padrone.

-Di già? Non immaginavo che le tue doti fossero così progredite anche nella pittura.

Rispose Ciel provocatorio per celare il proprio turbamento, muovendosi dispettosamente più del dovuto, quasi ad enfatizzare la sua piccola, infantile ripicca.

-Oh, non importa, signorino. Ho finito. Venga, le do una mano a rivestirsi.

Asserì Sebastian, sorridendo beffardo e porgendo al conte la veste da camera di seta oltremare, che gli aveva fatto indossare quello stesso pomeriggio prima di cambiarlo d’abito per il ritratto; le labbra imbronciate di Ciel non avevano lasciato presagire nessuna replica immediata: evidentemente il piccolo nobile aveva optato per un pedante di silenzio a precedere l’ovvia intimazione che seguì dopo qualche istante.

-Voglio vederla.

-Certamente, mio signore.

Disse semplicemente Sebastian, una volta allacciata la cintura di seta intorno ai fianchi stretti di Ciel.

-Prego, da questa parte, my lord.

Il ghigno del maggiordomo svanì nel momento stesso in cui il ragazzo osservò esterrefatto il proprio dipinto; in un tempo estremamente ridotto, Sebastian invero era riuscito a ritrarlo magnificamente, addirittura meglio di Hurley: eppure qualcosa stonava, come se il ritratto, almeno nelle forme plastiche del corpo raffigurato, mancasse di un particolare che all’arguto intelletto di Ciel non sfuggì.

-E questo sarei io?

Le parole proruppero adirate dalla piccola bocca e un’espressione di sdegno alterò l’inconfutabile beltà del suo volto.

-Precisamente.

-Hai mentito, Sebastian! Avevi detto che avresti colto la mia essenza, ma qui non vedo nulla.

-Io non ho alcun interesse nel mentirle, mio signore. Osservi meglio.

Ciel colse la sfida, esaminando ripetutamente il disegno e, d’un tratto, sbottò.

-Gli occhi?!

Un breve inchino del busto in avanti accompagnò il rinnovato sorriso di Sebastian, ancor più beffardo, semmai fosse stato possibile.

-Esatto. Come vede, ho preferito evitare di rappresentarli.

-Cosa vuoi dire? Parla… !

Il maggiordomo, riportandosi in posizione eretta, incrociò lo sguardo inasprito del giovane conte, parlando piano, sussurrando quasi.

-Vede, bocchan… Una becera diceria, molto comune tra gli umani, vuole che siano gli occhi lo specchio dell’anima. Non c’è nulla di più falso, così terribilmente banale.

Ciel sgranò le iridi cobalto e il pentacolo, in quella destra, scintillò di un tenue viola nelle tenebre sempre più fitte per l’ora ormai tarda.

-Il vero specchio dell’anima, della sua anima, non è solo la forma armonica del suo splendido corpo. Sono le sue labbra, con ogni movenza e verbo proferito, a dar voce all’anima squisita che mi ha promesso, signorino.

-Le labbra… ?

Seppur non volendo, Ciel non riuscì a fare a meno di tacere, non sapendo come continuare; le parole di Sebastian sicuramente racchiudevano, nella loro forma apparentemente educata e rispettosa, una sinistra profezia di cui non ne comprese completamente il fine, troppo preso dal desiderio d’esorcizzarla.

-Si, signorino. E’ attraverso le labbra, le sue ostinatissime labbra, che davvero si può degustare l’anima e, parimenti, sottrarla delicatamente o divorarla dolorosamente. Dipende dai gusti.

Nulla aveva lasciato presagire l’impeto con cui Ciel afferrò la mano nuda di Sebastian, sollevandola con fare stizzito e portandosela alla bocca; Sebastian guardò rapito il proprio indice destro svanire in quella graziosa bocca da bambino.

Rimase senza fiato, eccitato voyeur condannato all’afasia, quando vide la morbida e umida lingua di Ciel posarsi sulla propria pelle gelata: percepì immediatamente quel piccolo muscolo muoversi sgraziatamente intorno al suo dito, strofinarvisi contro con fare goffo e maldestro, suscitando in lui un eccentrico senso di intenerita libidine; ne sentì la corposità, mentre disegnava cerchi bagnati sulla sua pelle e mai avrebbe rinunciato a quella sublime visione presentata ai suoi occhi demoniaci.

Per tutto il tempo il ragazzino non distolse lo sguardo indisponente da quello basito del suo maggiordomo, attillando le labbra brillanti di saliva intorno al dito nella sua bocca e continuando a succhiarlo con ingenua avarizia, come una caramella al sapore di lampone che fatica a sciogliersi; con un ultima, lasciva leccata, Ciel condusse il polpastrello umido di Sebastian a seguire il contorno delle proprie labbra: poi, con un gesto del tutto imprevisto, il giovane scostò la mano da sé, sospingendola verso la bocca del suo maggiordomo e costringendo quest’ultimo a leccare il proprio dito ancora umido.

-Allora, Sebastian, dimmi…

Le labbra di Ciel si incurvarono in una piega affascinante e perversamente sadica mentre il sentore della vittoria, che tanto adorava, si faceva strada in ogni meandro del suo corpo.

-Che gusto ha la mia anima?

-La sua anima…

Sebastian si leccò ancora l’indice, sorridendo di rimando al suo giovane, ammiccante padrone.

-La sua anima… Non c’è che dire, ha un gusto davvero unico… Sa di zucchero… E di lacrime, signorino.

-Ed è… Dolce?

Sebastian si chinò, sussurrando sensuale all’orecchio proteso di Ciel con l’intento di costringerlo a cedere alle sue maliziose lusinghe.

-Non immagina neanche quanto, per uno come me, my lord.

-Sebastian…

La voce di Ciel tremò quando il respiro caldo sotto il suo lobo forato lo fece tremare.

-Si… ?

-Cos’è quest’odore?

Ciel storse il naso, allontanando il maggiordomo da sé con una esasperata spinta contro il petto che Sebastian non esitò ad assecondare, profondamente divertito.

-Oh… Temo sia colofonia3, mio signore.

Scrollò brevemente le spalle, replicando placidamente.

-Beh, non lo sopporto! Pulisci tutto, Sebastian. E il ritratto di Lord Hurley… Oh, lascia perdere! Dì a Finnian di appenderlo nell’ingresso.

Concluse in un misto di rabbia e qualcosa di molto simile ad un imbarazzo mai provato, prima di incamminarsi verso il battente d’acero intarsiato sul fronte opposto del salone.

Sebastian guardò l’austero ed elegante incedere del suo signorino, con i piccoli piedi ancora scalzi sul tappeto e, prima che Ciel potesse lasciare definitivamente la stanza, si inginocchiò in un profondo inchino.

 

-Yes, my Lord.

Sebastian sorrise quasi che le sue labbra, quando si trattava dell’adorabile testardaggine del suo padrone, non sapessero fare altro.

Poco male, pensò.

Alla fine avrebbe tenuto per sé il secondo ritratto, dato che ne era stato proprio lui l’artefice: dopotutto non aveva rivelato alcunché della propria anima ma aveva rivelato, almeno in parte, l’anima del suo preziosissimo modello e la cosa lo aveva alquanto soddisfatto.

Se gli esseri umani e i meccanismi perversi della loro società erano per lui una fonte di interesse inesauribile, senza dubbio quel ragazzino era quanto di più allettante quell’universo caotico avesse da offrirgli.

Avrebbe conservato quel quadro nelle sue stanze, gelosamente, teneramente, come piacevole palliativo fino al giorno in cui invece avrebbe tenuto per sé il signorino stesso.

 

La sua anima.

 

Il suo corpo.

 

Le sue dolci labbra.

 

Per l’eternità.

 

Trascinandolo con sé all’Inferno.

 

 

 

 

 

 

 

Note al testo

 

 

1Tipica vettura inglese a due ruote.

 

2Riferimento al movimento letterario dell’Estetismo, sviluppatosi nell’ambito della più ampia corrente del Decadentismo di fine Ottocento, di cui il massimo esponente fu Oscar Wilde.

 

3Da un punto di vista chimico, la colofonia è un solvente in grado di sciogliere diverse sostanze; oggi è uno dei componenti dell’acqua raggia, che spesso di usa per diluire le macchie d’olio e di pittura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nda: Ed anche la prima shot è andata; quanto adoro questi personaggi *ç*

 

Ad ogni modo passo velocemente alle risposte ai commenti:

 

Red S i n n e r:  sono contenta che lo stile ti sia piaciuto: adoro cimentarmi nelle descrizioni e sì, i riferimenti religiosi sono stati inseriti appositamente, proprio a rendere l’idea di un’atmosfera in bilico tra il sacro e il profano; e sapere che hai trovato Ciel IC mi riempie d’orgoglio, non a caso è il mio personaggio preferito! Grazie ancora per il commento, spero che anche questa seconda parte di sia piaciuta^^ A presto.

 

Owarinai yume:  ciao! Mi fa davvero piacere ti piaccia il mio modo di scrivere e, soprattutto, spero che questo seguito non ti abbia deluso… Ad ogni modo, fammi sapere, aspetto altri commenti. ^*^

 

Saeko no Danna:  guarda, sarò sinceraXDXD. In realtà avevo già raccolto le idee, appuntandole su un quadernetto insieme a tutte le note che troverai sparse qua e là in questa fan fiction; poi, dato che mi riduco sempre agli sgoccioli, ho ricopiato il tutto, stravolgendolo completamente, in cinque giorni di “passione” intesa proprio come “patior”… Una sofferenza immane con due ore di sonno a notte XD.

A ogni modo è vero, nel raccogliere tutte le informazioni mi sono impegnata tanto e ho riguardato più volte l’anime e riletto il manga, proprio  testimoniare l’amore spropositato per questo fandom e sapere che un’autrice del tuo calibro abbia apprezzato lo sforzo mi rende davvero felice!

Per Grell… Devo dire che Grell insieme a Lau ed Undertaker è uno dei miei personaggi preferiti nell’anime… Solo in un contesto yaoi con Sebastian non riesco a inquadrarlo! Poi ovviamente, come si suol dire in questo caso, de gustibus non disputandum est.^^ A prestissimo, e grazie mille ancora.

 

Lolly:  credimi, il merito non è assolutamente mio, ma della Toboso per emozionarci tutti così tanto; io mi sono limitata a scrivere una storia che, spero, non abbia stravolto o rovinato i personaggi originali e sapere che il prologo ti sia piaciuto mi fa molto piacere e per quanto riguarda le descrizioni su Parigi, ho dovuto attingere a wiki e a tutte le informazioni sulla storia dell’arte che mi ricordavo dai tempi del liceo XD Sapere che una persona che ha vissuto a Parigi (beata!) le abbia trovate realistiche è sicuramente per me un ottimo risultato^^. Per i personaggi, hai colto nel segno: ho cercato proprio di descrivere questo rapporto complesso che lega i due protagonisti, quasi un gioco di ruolo in cui il vinto è vincitore e viceversa… Come si fa a non adorarli?! J Spero che anche il seguito sia di tuo gradimento.^*^

 

ballerinaclassica: è sempre un onore ritrovarti tra le recensioni alle mie storie, cara *____* Credimi, ciò che hai scritto, anche sulle mie altre storie mi ha davvero colpita… Sono felice che ti piaccia il mio modo di scrivere, così come mi fa piacere il fatto che, almeno finora, non ti abbia delusa. Sai che alla JokerxDagger non ci avevo mai pensato, troppo presa dalla SebastianxCiel (che è diventta la mia coppia Yaoi preferita in assoluto, soppiantando persino l’Uchihacest… E ce ne vuole!!) ?

Anyway… Povero Joker T____________T Le atmosfere stile Mary Poppins non sono un caso: adoro la Londra di quel film O_O

Comunque dico anche a te che sapere di aver azzeccato l’IC di Ciel mi fa saltellare di gioia perché semplicemente lo adoro^^

Grazie mille ancora, cara, spero che il seguito non ti abbia delusa.:)

 

P.s. Grazie mille ai Preferiti e alle Seguite.

 

Alla prossima.

 

Stè.

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Capitolo 3
*** Interlude#2: Eye Shadow ***


Note: Non ce la faccio, SebastianxCiel… *ç**ç**ç* E mentre mi addentro nella lime, ringrazio i nuovi Preferiti e Owarinai yume per aver commentato.^^

 

Nota supplementare: Alzino le mani coloro che conoscono “Sebastian” di Steve Harley. Bene, abbassate le mani e seguite il link--à Sebastian  (Già, la canzone si chiama proprio “Sebastian”, una delle mie canzoni preferite, che, STRANAMENTE, negli ultimi tempi ho rispolverato).

 

Cos’altro aggiungere… Spero la storia vi piaccia.:)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Interlude # 2:

“Eye Shadow”

 

 

 

 

 

 

 

 



 

“You're not gonna run, we only just begun to compromise
Slagged in a Bowery saloon, love's a story we'll serialise

Pale angel face;

green eye-shadow, the glitter is out of sight
No courtesan could begin to decipher your beam of light

Somebody called me Sebastian…”

 

“Sebastian”

Steve Hurley and Cookney Rebel

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il percorso da seguire per diventare un perfetto maggiordomo sicuramente era impervio; sebbene Sebastian si fosse immedesimato in quel ruolo con singolare destrezza, alcune delle mansioni che era stato chiamato a ricoprire nell’ultimo periodo erano state alquanto eccentriche e, nondimeno, avevano reso molto più intrigante il suo soggiorno presso la residenza dei Phantomhive.

Non che assecondare i capricci del suo prezioso signorino fosse un’esperienza spiacevole, tutt’altro; solo Sebastian si era chiesto se memorizzare un intero saggio di medicina facesse anch’esso parte dei compiti tipicamente attribuiti ad un maggiordomo.

L’aspetto più interessante dell’intera faccenda non era stato soltanto scoprire quanto gli esseri umani avessero affinato le proprie conoscenze con l’avvento del nuovo secolo; ciò di cui piuttosto era rimasto piacevolmente sorpreso era stato l’insistente formicolio che continuava a percepire nel dito destro intento a sfogliare le pagine rilegate del trattato sull’asma, a rammentargli la piccola e ardente lingua che, dolcemente inesperta, lo aveva leccato come si lecca un confetto di mandorla e zucchero raffermo.

Sebastian non aveva previsto l’eventualità che il suo viziato signore avesse potuto tramutare il loro legame in un gioco di ruolo, perverso quanto bastava da indurlo a credere che mai la scelta di un’anima da divorare fosse stata più azzeccata, lusinghieramente succulenta; avrebbe atteso pazientemente, non senza godere del piacere implicito nell’attesa stessa del delizioso compenso d’ogni sua prodiga servitù.

 

La sfumatura felina nel suo sorriso, illuminata dal fioco riverbero del candelabro, presto si dissolse quando quegli stuzzicanti pensieri cessarono di vorticare nella sua mente; le mani, come sempre celate dal candore di morbidi guanti, sospinsero elegantemente il carrello da portata lungo il corridoio che conduceva alle stanze del conte dove, da due notti e tre giorni ormai, il ragazzino si dibatteva tra le lenzuola umide in preda ad una febbre logorante.

 

Tre colpetti, battuti con le nocche inguantate sul pesante uscio in legno d’acero, precedettero l’ingresso di Sebastian nell’ampia camera da letto del signorino.

 

-Perdoni l’intrusione, mio signore.

Non ricevette alcuna risposta; le sue mani spinsero audaci il battente e, ben presto, l’oscuro spiraglio tra l’anta e lo stipite divenne squarcio a lasciar fluire lo sfavillio traballante delle candele, ricreando un ipnotico effetto di luce pesca e violetta lungo la moquette di feltro marrone e gli alti pannelli di quercia olivastra che rivestivano le pareti della stanza.

Le raffinate calzature in pelle nera perfettamente lucidata non produssero alcun suono mentre, con passo felpato, Sebastian si appropinquò lentamente al letto a baldacchino nel quale il suo signore era finalmente riuscito ad ottenere un po’ del tanto anelato riposo; il maggiordomo sollevò di più  il braccio per permettere al candelabro di rischiarare l’ambiente fosco, voltandosi guardingo: difatti, di tutta la villa, la camera da letto di Ciel aveva in primo luogo catturato il suo interesse, grazie all’atmosfera intrisa del dolce profumo di zucchero filato e d’avena della pelle di quel dispettoso fanciullo, nonché della miriade di ammalianti promesse di cui quelle quattro semplici mura erano intrepide ed allettanti guardiane.

Era infatti, nel suo genere, una camera molto bella, con il suo fregio immacolato decorato in arabeschi d’oro verdognolo e con la grande lumiera di vetro soffiato e di cristallo sospesa al centro del soffitto, tinteggiato di un pallido rosa antico; il fuoco si era spento da un po’ nel camino, sulla cui mensola di legno intarsiato due grandi vasi cinesi di porcellana azzurra erano stati convenientemente riposti: l’effluvio floreale dei tulipani sfrangiati gialli e arancioni si spargeva soave nell’atmosfera, già satura del profumo delle pietanze servite sul carrello da portata e dalle finestre, parzialmente adombrate dai tendaggi di taffetà oltremare, pioveva la luce mielata di un’altera falce di luna.

Tuttavia il particolare più armonioso e accattivante dell’intero ambiente era il corpicino sudato e sfinito che, infagottato nelle lenzuola bianche e nelle pesanti coperte di kashmir, pareva smarrirsi in quel letto così grande.

La febbre si era abbassata considerevolmente, constatò Sebastian una volta giunto al capezzale del suo giovane padrone: lo scrutò con una languida occhiata, colma di adulazione e di intenerito desiderio al rossore che era svanito dalle gote color latte di Ciel, alle goccioline di sudore che gli imperlavano la fronte liscia e alle ciocche umide dei capelli bellamente sparpagliate sul cuscino.

Adesso, il tronfio padrone di casa Phantomhive, nelle iridi cremisi del demone che l’osservavano tracimanti di cupidigia e famelica voglia di divorarlo, pareva un bambino indifeso che avesse giocato troppo a lungo, fino a stancarsi: Sebastian tralasciò di osservare convenienti distanze nel momento stesso in cui la propria conturbante bramosia lo condusse a muovere un altro passo in avanti, completamente ebbro dello splendore di quell’anima che ancora non possedeva del tutto ma della quale contemplava costantemente l’esaltante essenza.

 

Il maggiordomo osservò con inverecondo trasporto come le coperte fossero state scalciate via per la febbre bruciante a lasciare intravedere i lineamenti delicati e orgogliosamente belli del giovane dormiente; il riverbero opalescente della luna calante, attraverso la superficie traslucida delle vetrate, giocò dispettoso con il corpo di Sebastian, proiettandone l’ombra sghemba e sbilenca sul letto sfatto quasi quella macchia d’oscurità, allungandosi all’infinito, fosse lì ad offuscare ogni virginea purezza e a rimarcare la pretesa di possesso del demone sul gracile corpo lì disteso.

Strappare l’anima a quel ragazzino, succhiargliela dalle caduche viscere in un umido e drammatico bacio sarebbe stato così facile adesso; il demone lo avrebbe condotto con passo volutamente tardo sulla riva desolata del fiume che conduceva al sonno eterno: non avrebbe mancato di godere dei suoi ansiti soffocati né i suoi lunghi artigli avrebbero esitato nel graffiare le gote morbide di Ciel, qualora avesse tentato di sottrarsi al bacio mortale.

Ciò nonostante Sebastian avrebbe continuato a carezzarlo e cullarlo dolcemente tra le sue braccia, raccogliendo sui polpastrelli le brillanti stille di pianto che, diluite da vermigli rigagnoli di sangue, finalmente sarebbero colate come fresca pioggia autunnale dalle ciglia di Ciel, accompagnando la sua mesta caduta verso l’Inferno.

 

-Bocchan… E’ giunta l’ora.

Bisbigliò assorto; le dita, protese nello spasmo dell’attimo tanto agognato, vibrarono un poco prima di lambire la fronte madida del signorino; le iridi vermiglie indugiarono sul bordo di seta della veste da notte di Ciel, tra le cui pieghe la pelle delle sue gambe pareva tanto più tenera e più candida dello stesso tessuto.

Sebastian si inchinò in avanti quel tanto che bastava per percepire il calore tra le esili gambe del suo signore travolgere il gelo inumano della propria pelle; il sorriso sardonico svanì dalle sue labbra quando il pensiero di porre fine alla sua penosa e straziante attesa si concretizzò nella mano inguantata che, vorace, si artigliò all’incavo del ginocchio del ragazzino e nelle sue dita adesso separate solo da un palmo dal viso di Ciel.

 

-Mio signore, mi rincresce enormemente, ma temo sia ora…

Con un balzo repentino, Sebastian ritrasse la mano che aveva posata sulla gamba di Ciel mentre un pugno improvviso, battuto con forza contro il suo torace, gli smorzò il respiro, lasciandolo sgomento.

-… Temo sia giunta l’ora di alzarsi.

Sussurrò riguardoso, cercando di preservare scaltramente la grottesca farsa del maggiordomo e di nascondere il proprio sconcerto: eppure, nel momento stesso in cui Sebastian sollevò lo sguardo umile dal letto per incrociare quello del suo signorino, il bagliore di puro terrore che colse nelle iridi cobalto di Ciel fu sufficiente a lasciarlo impietrito.

-Signorino… Qualcosa non va?

Domandò sommessamente, osservando come la mano del ragazzino si era sollevata cercando di agguantare, in brevi tremiti convulsi, qualcosa che a Sebastian, malgrado la sua natura, continuava a rimanere invisibile.

-C-chiunque tu sia… Sa-salvaci…

I sussulti che seguitarono a scuotere la piccola figura del conte lo fecero incespicare sulle sue stesse parole confuse, attorcigliate alla lingua impastata dal calore della febbre; i suoi occhi sgranati, rivolti al soffitto, erano ancora ottenebrati dall’incubo che continuava a ripetersi crudelmente, inesorabilmente, portando con sé il dolore di un passato che seguitava tenacemente ad incalzarlo.

Malgrado il ragazzino stesse strenuamente lottando per liberarsi di quella terribile, evanescente visione, il suo sonno tormentato pareva avergli incollato le ciglia come filamenti blu acido di costoso kajal indiano, simili a frammenti sparsi di pellicola cinematografica, una bobina a ritroso, deforme, sfuocata, oscura, in scorrimento lento.

-C’è qualcosa di cui è spaventato, bocchan?

Le grandi mani gelide di Sebastian afferrarono la piccola mano di Ciel, stringendola e carezzandola dolcemente come si carezzano riverenti le mani di un padrone, le mani di un amante o le mani di un bambino che ha fatto un brutto sogno; le parole di Agni continuavano a riecheggiare nella sua mente sulla necessità di dover vezzeggiare quel ragazzetto capriccioso, facendolo sorridere malevolo: continuò a blandire con fare adulante la mano tremula di Ciel, ma il gemito sofferto che lasciò le sottili labbra esangui lo colse di sorpresa.

-Ormai è fuori da quella gabbia, mio signore. Non ha nulla da temere.

Le labbra di Sebastian si arricciarono in una piega inequivocabile quando, attirando Ciel a sé, lo sentì completamente avvinto ed inerme contro il proprio petto.

-Venga, bocchan… Pronunci il mio nome…

Con l’indice e il pollice gli catturò velocemente il mento tra le dita, costringendo il ragazzo a sollevare i grandi occhi colmi d’angoscia verso i propri; tuttavia si sorprese quando la resistenza che incontrò fu molto più blanda di quanto si aspettasse realmente.

Ciel strizzò forte le palpebre, annaspando: dischiuse la bocca per urlare, o forse per gemere o forse ancora per singhiozzare, ma ne uscì solo il fiato caldo; il sorriso velato di un sottile sadismo di Sebastian divenne ancor più ampio, lasciando scoperti i canini affilati e la lingua che, di tanto in tanto, lasciava una scia brillante di saliva sulle labbra subdolamente piegate all’insù: l’incommensurabile e perversa lussuria di vedere una creatura mortale lottare per respirare, affannarsi pur di sfuggire al supplizio estremo dell’Inferno abbandonandosi alle ingannevoli premure di un demone, fece fremere Sebastian fin nelle profondità convesse del proprio oscuro spirito.

Non importava di quale stregua di esseri umani si trattasse: gli uomini, quando sull’orlo del baratro, erano disposti a rinnegare la loro fede ed aggrapparsi a qualunque cosa pur di non precipitare verso il fuoco supremo della perdizione, senza neanche fermarsi a soppesare le conseguenze, senza neppure discernere la sottile frattura tra Bene e Male.

-Lo invochi… Lo urli…

Lo incitò, stringendolo a sé, soffocandolo nella sua stretta; Sebastian annusò l’odore acre dei suoi capelli incollati alla fronte sudata, sorrise, godette, avviluppò le diaboliche spire al suo corpo fin quando, dalle piccole labbra, proruppe il suo nome.

-Se-Sebastian!

L’angoscia che trapelò dall’urlo di Ciel fermò il tempo, immortalando in un fulgido frammento di memoria la miriade di emozioni contrastanti che scaturivano dal solo invocare il nome di Sebastian; con una movenza fulminea, la mano del ragazzino si sottrasse alla stretta dell’altro, quasi avesse acquistato di colpo consapevolezza del freddo inumano di quella pelle a contatto con la propria.

Le dita diafane e contratte sguainarono la pistola a spillo1 nascosta sotto il cuscino, serrandosi spasmodicamente al grilletto; il metallo scuro scintillò nell’oscurità, lambito dai raggi della luna che, nella sua altezzosa vanità, specchiò la propria inquietante bellezza sulla superficie lucida della canna, puntata alla fronte dell’uomo chino sul letto.

Ansimi focosi rubarono alla camera il suo melodrammatico silenzio, squarciandone la solenne essenza e stravolgendola completamente in una sintesi alchemica di sguardi allibiti, labbra tremanti e parole taciute: Sebastian rimase a fissare, con la mascella penzoloni e la mano ancora sospesa a mezz’aria, il piccolo corpo del suo signore squassato da brividi sempre più intensi, tremendamente eccitante nella sua posizione supina e ancor di più per la pericolosa arma da fuoco brandita da mani immature e puerili.

-Non… Non mi toccare… !

Quasi avesse intuito l’ambiguità dell’ordine appena proferito con un fil di voce, Sebastian rimase ancora ad osservare, per un lasso di tempo che parve infinito, la bocca della pistola puntata verso il proprio volto: il pensiero di essere egli stesso nel mirino bastò a farlo fremere di una diabolica libidine; senza dir nulla, si ritrasse con garbo, inchinandosi poi umilmente dinnanzi al suo padrone ancora visibilmente sconvolto.

-Non era nelle mie intenzioni, signorino.

Asserì con il tono più cordiale che riuscisse a rendere credibile le proprie fasulle intenzioni, dissimulate da un’interpretazione come sempre magistrale; avrebbe volentieri contato uno ad uno, con prodiga e allo stesso tempo degenere devozione, quei gemiti allettanti che continuavano a smorzare il respiro affannoso di Ciel, il quale ancora tentava di fermare il tremolio nel suo polso per poter puntare fermamente il revolver: parlò piano quando i suoi occhi turchesi incontrarono l’ordito scuro del cielo che si stagliava dietro i vetri della finestra.

-E’… E’ buio?

Balbettò incredulo, abbassando la pistola e lasciandola ricadere di colpo sul soffice materasso.

-Sebastian! Che ore sono?!

Nonostante il respiro non si fosse ancora regolarizzato, la voce di Ciel suonò minacciosa, profondamente adirata quando s’accorse di aver dormito a lungo, comunque troppo.

-Precisamente sono trascorsi quattordici minuti dalle sette di sera, mio signore.

Proclamò atono Sebastian, esaminando le lancette del suo orologio da tasca rifinito in puro argento.

-Si può sapere come ti è saltato in mente di lasciarmi dormire fino a quest’ora?

Porgendo al suo signore la veste da camera di seta e aiutandolo ad indossarla, Sebastian sospirò e finse di ignorare l’astio che permeava ogni singola parola di Ciel, replicando remissivo.

-Ho ben pensato di lasciarla riposare, dato che gli elementi del caso ci sono già noti da diversi giorni e la fretta, nelle sue condizioni di salute, mi è parsa assolutamente fuori luogo. E poi, se me lo concede signorino, si dice che il sonno sia la miglior cura per gli esseri umani.

Concluse serafico, scrutando di sottecchi l’espressione del conte mutare da una di pura rabbia ad un’altra di vaga esasperazione; soddisfatto della reazione, Sebastian si accinse a versare il tè nella tazza di ceramica decorata da nontiscordardime azzurri e dal manico d’argento brillante, rincarando ulteriormente la dose.

-Ad ogni modo il signorino ha mentito ancora una volta, vedo. Non si è neanche premurato di mettermi al corrente della malattia di cui soffre in modo cronico sin da quando era ancora un bambino.

L’enfasi con la quale l’ultima parola fu proferita non mancò di indispettire Ciel che, nel frattempo, tentò invano di alzarsi dal letto.

-Non me l’hai mai chiesto, quindi non vedo perché avrei dovuto parlartene.

Rimbeccò velenoso, scostando ancora di più le coperte da sé.

-E adesso non perdere tempo in inutili chiacchiere. Sbrigati e dammi una mano a vestirmi.

Il sorriso mellifluo di Sebastian non era ancora svanito del tutto quando, con lo sguardo umilmente rivolto verso il basso, si compiacque dell’adorabile testardaggine del suo padrone.

-Certamente, ma non prima di averle servito la cena. E adesso, signorino, avanti… Apra la bocca.

-Sei forse uscito fuori di senno, Sebastian?

Inveì, scandalizzato dall’aria furbescamente consapevole con la quale Sebastian aveva avvicinato il cucchiaio alla sua bocca.

-Non dirmi che stai cercando di… Imboccarmi?!

Se Ciel era ormai avvezzo alle lusinghe di quel demone tanto astuto e tanto persuasivo, rabbrividì alla sensazione del cucchiaio tiepido, premurosamente premuto contro le proprie labbra dalle dita inguantate di Sebastian.

-Affatto. Ho a lungo pensato alla possibilità che oltre all’esserle fedele, un perfetto maggiordomo dovrebbe anche preoccuparsi della sua salute, nondimeno vezzeggiar-

-Non dire idiozie, Sebastian. Non ho bisogno delle tue premure… Mi disgustano! Smettila immediatamente.

Con uno schiaffo, che lasciò Sebastian momentaneamente perplesso, il ragazzino allontanò quella mano impudente da sé, sibilando indignato tra i denti stretti.

-Sono spiacente se la disgustano. Ma vede, signorino… Credo che sia vero ciò che si dice e cioè che certi gesti possono aiutare a placare la tensione ed inoltre, tutti convengono nel dire che le premure ben  si prestano ad una persona della sua età… A maggior ragione se dopo aver avuto un incubo.

-La mia età?

Le lenzuola, strette nella morsa ferrea dei suoi pugni, minacciarono quasi di strapparsi quando Ciel, attonito per l’inusitata spudoratezza di Sebastian, si scagliò contro l’uomo in piedi davanti a sé.

-Si può sapere cosa stai cercando di insinuare? Non osare… Non provarci neppure!

-Non potrei mai osare tanto…

Sebastian ripose con cura il cucchiaio d’argento nel piatto da portata, optando invece per diluire il tè versato poc’anzi nella tazza con del latte; la fragranza fortemente speziata dell’Assam Mangalam2 si diffuse rapidamente nell’atmosfera rarefatta della stanza, inebriando per un effimero istante i sensi dei suoi due occupanti e interrompendo l’acceso diverbio che stava avendo luogo: una volta che ebbe terminato di aggiungere due zollette di zucchero, la mano inguantata del maggiordomo si adoperò nel mescolare il liquido bollente con estrema e deliberata lentezza.

-Ma vede, un fatto rimane comunque inconfutabile…

Quando si voltò, Sebastian fu ricambiato da uno sguardo talmente furibondo da trafiggere quasi la sua stessa carne; con passo calibrato e languidamente felino, l’uomo si avvicinò al letto, porgendo la tazza a Ciel con un ossequioso inchino e una mano poggiata gravemente sul petto, pur conoscendo in anticipo il tono da usare per neutralizzare la caparbia resistenza del piccolo conte, che ora lo guardava di sbieco seduto nel letto.

-Non credo che lei possa davvero contraddirmi su un fatto tanto palese e veritiero, quindi mi conceda di dirle che la realtà dell’intera faccenda è che il signorino…

Sebastian si chinò appena e la provocazione del suo avvicinare così tanto il volto a quello pallido e delicato di Ciel prese forma ben presto nel sussurro impudico soffiato contro le labbra color rubino del ragazzo, facendole fremere per l’inaspettata sensualità implicita in quel gesto; con una mano l’uomo sollevò quella dell’altro, posandogli sul palmo la tazza calda e, rallegrandosi della smorfia di fastidio dipinta sul viso infantile del signorino, concluse sottovoce.

-… E’ che il signorino ha solo tredici anni. Con tutto il dovuto rispetto, vuole forse negarlo, bocchan?

-Taci! Sta zitto… Sebastian.

Sebastian si ritrasse con un veloce balzo all’indietro, smarrendosi nella leziosa voluttà della sua stessa contemplazione; il guizzo di rancore che attraversò le iridi di Ciel si dissipò nel momento stesso in cui il giovane conte indugiò sulla propria immagine riflessa sulla superficie concentrica, tenuamente increspata del tè nero nella tazza che reggeva tra le mani: ma nulla aveva lasciato intuire l’impeto con il quale Ciel posò di scatto la tazza sul comodino, issandosi in ginocchio sul materasso e sporgendosi in avanti.

 

Le piccole dita febbricitanti si avvilupparono colleriche alla cravatta dell’uomo che non esitò ad assecondarne la movenza, lasciandosi trascinare passivamente verso l’esile corpo davanti a sé; le loro labbra collisero violentemente in un bacio casto e al contempo delirante, muovendosi con foga eppur rimanendo serrate.

 

Sebastian rimase impassibile, ostinato nella sua volontà di non cedere alla tentazione di quella deliziosa bocca di bambino; non che per lui fosse un problema, solo giocarci prima di accondiscendere a corromperla gli sembrò infinitamente più eccitante; aveva assaporato nel corso della sua lunga esistenza ogni tipo di bacio, da quello lascivo della donna matura ed esperta a quello del giovane uomo irretito dal fascino della trasgressione, ma nulla era degno di poter essere paragonato neanche lontanamente ad un bacio di quel tipo.

 

 

Si stupì del modo in cui le mani minute e trepidanti del ragazzino gli avevano dapprima accarezzato gli zigomi affilati ed alteri, per persuaderlo ad aprire la bocca e del modo in cui, percependo il suo rifiuto, si erano intricate nei suoi capelli corvini, tirandoli con veemenza; la lingua inesperta del piccolo conte lambì lascivamente le labbra chiuse dell’altro, attardandosi sugli angoli perfettamente disegnati della bocca di Sebastian, reclamandone con autorità l’accesso che, obbedientemente, alla fine gli fu concesso.

 

 

Le mani di Ciel strinsero il capo di Sebastian, costringendolo a reclinarlo all’indietro per approfondire quel traviante e squisito contatto, con ogni nuova spinta inconsapevolmente lussuriosa della lingua che, ingenua e umida, continuò imperterrita la sua curiosa esplorazione; ora che il piccolo Phantomhive, nel fervore della sua inesperienza, si era alzato in piedi, chiudendo d’istinto gli occhi indisponenti, Sebastian scrutò i tratti armoniosi del volto appena arrossato, godendo dei capelli scuri del ragazzo a solleticargli la fronte e la punta del naso: l’incomputabile desiderio di conquistare quel corpo gracile premuto contro il proprio e nascosto solo dalla stoffa leggera della veste di seta, l’incommensurabile brama di vincere quel cuore indurito dall’odio sempre più possente che percepiva scalpitare contro il proprio petto, la smania frenetica di divorare quell’anima tanto impura e teneramente infantile ancora una volta consacrarono il glorioso vincolo che neanche la morte avrebbe potuto recidere, benedicendolo nell’acqua e nelle fiamme catartiche del Regno di Geenna.

 

A sua volta Sebastian mosse le labbra, baciando di rimando il suo giovane padrone, ma senza pretendere il dominio della sua bocca: lasciare a lui condurre le redini del gioco era decisamente la scelta più avveduta e infinitamente più procace; solo adesso, malgrado la sua secolare esperienza, il demone aveva compreso quanto potesse essere appagante la sprovveduta spontaneità di un bacio che per quel ragazzino era il primo, rovinosamente bagnato e così irruentemente bollente.

Ciel gemette involontariamente contro le labbra di Sebastian, ogni suo vagito dolcemente ingoiato dalla bocca dell’altro; mugolò quietamente, irretito dal piacere che mai aveva provato se non in quel fatidico istante.

I denti di Ciel mordicchiarono insolenti le labbra del suo maggiordomo, prima che la piccola e fervida lingua tornasse ad esplorare prepotentemente la bocca dell’altro: un filo di saliva aveva cominciato a colare lungo il suo mento, per il modo maldestro e adolescenziale del giovane Phantomhive di baciare.

Quando dopo svariati istanti Ciel si allontanò un poco, leccandosi le labbra screpolate e unite ancora da un filo di saliva a quelle del suo maggiordomo, entrambi si ritrovarono ansimanti, incapaci di sciupare il silenzio disceso tra loro con sconvenienti parole di ripicca; Ciel, con aria vittoriosa eppure ancora turbata da tutte le sensazioni contraddittorie che il suo giovane corpo aveva provato, si rimise a sedere con fare noncurante, ghermendo il manico della tazza e portandosi l’orlo alle labbra ancora gonfie e arrossate per quel fuorviante bacio.

 

-Che hai ancora da guardare? Muoviti a preparare tutto. Voglio finire al più presto questa storia e tornarmene a casa…

Rimbrottò Ciel sprezzante, posando la tazza ormai vuota sul comodino e tentando impacciatamente di sfilarsi la veste da solo; come scosso improvvisamente dalle parole aspre del suo signore, Sebastian si affrettò verso di lui, facilitandogli il compito di svestirsi.

-Signorino… ?

-Si può sapere adesso cosa c’è?!

-Volevo solo chiederle… Se è possibile… Cos’è che le ha ispirato questo?

Ciel si voltò di spalle, disdegnoso della sentenza che, sebbene fosse stata pronunziata con tono oltremodo rispettoso, allo stesso tempo racchiudeva tutta la provocazione e il divertito scherno dei quali il demone si serviva costantemente pur di indurlo alla resa.

-Non credere che abbia il significato che pensi, Sebastian!

-Le chiedo scusa in anticipo, ma temo di non comprendere appieno le sue intenzioni. A quale significato crede che io pensi?

Ciel alzò le braccia meccanicamente per lasciare che Sebastian gli infilasse la giacca, continuando tuttavia a dargli altezzosamente le spalle.

-Se proprio vuoi saperlo, non ha significato nulla. Era solo per dimostrarti che non hai a che fare con un ragazzetto sprovveduto. Solo con un bambino. E dovresti sapere che, quando si tratta di giocare, i bambini della mia età possono diventare molto avidi.

Un sorriso malevolo increspò le labbra di Ciel mentre il suo fedele maggiordomo era ora intento a legare, in un nodo laborioso ed elegante, i due lembi della sua benda nera; la stoffa nera coprì il pentacolo che, come il filo di saliva poco prima aveva unito le loro labbra fameliche, come un filo d’acido nero e denso a poco a poco corrodeva le distanza tra i loro spiriti oscuri, fino al giorno in cui sarebbero diventati un’unica, demoniaca essenza.

-Lei fa sempre qualcosa che va oltre ogni mia tacita aspettativa. Perché lei, in fondo, è la mia anima. Anzi, no. Lei è il mio signorino.

-Adesso basta, Sebastian, andiamo.

 

-Yes, my lord.

 

La lingua di Sebastian percorse sinuosamente le sue stesse labbra, assaporandone il gusto di miele, di zucchero e di lacrime che la bocca di Ciel vi aveva lasciato; sorrise beffardo alle spalle del suo signore, indaffarato nel sistemarsi il cappello a cilindro e nel cercare il suo corto bastone in legno laccato di nero.

 

-A proposito, ho di nuovo trovato quel libro tra le sue lenzuola, mio signore.

-Quale libro?

Sibilò Ciel, arrestandosi poco prima di giungere all’uscio.

-Quello per il quale non riesce a sbarazzarsi dei suoi continui incubi. Dovrebbe evitare di cimentarsi nella lettura di Edgar Allan Poe prima di ritirarsi per la notte.

Con un colpo secco, Ciel spalancò il battente, replicando tracotante.

-Ti ricordo che io faccio quello che mi pare, o davvero ti piace sentirmi ripetere?

-Senz’altro è così, bocchan. Solo ripensavo ad alcune parole che, magari, potrebbero continuare a turbare il suo sonno. Dopotutto non ha nulla da temere. Se lei lo desidera il contratto rimarrà valido ed  io continuerò ad essere la sua ombra e ad appartenerle, corpo, cuore ed anima, sino alla fine.

-E con questo?

Ciel chiese seccato, incamminandosi verso l’oscurità del corridoio che conduceva alle scale: solo l’eco lontana della voce sarcastica di Sebastian lo raggiunse alle spalle, insieme al riverbero del candelabro ad illuminare flebilmente i pannelli di legno delle pareti adornate dai ritratti sfocati dei suoi avi.

 

-Sappia però signorino che non può giocare troppo a lungo con il cuore di un demone. Non è poi una cosa così facile da maneggiare.

 

E non lo si può rubare con un bacio…

 

Uno spiffero d’aria gelida, proveniente dalle imposte dischiuse della finestra in fondo al corridoio, spense di colpo le fiammelle sfavillanti di luce blu e rossastra del candelabro, sfogliando le pagine del libro apparso dal nulla sul leggio accanto al davanzale; la luna calante ne illuminò i caratteri in inchiostro nero, rendendoli  brillanti per far sì che potesse sussurrarli alle tenebre:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Ed ecco: dall’oscurità di quei drappeggi da cui si

Disperdevano canti sonori si fece avanti un’ombra oscura, indefinita-

Un’ombra quale la luna allorché pende bassa nel cielo potrebbe disegnare

Da una figura d’uomo:

 

ma era ombra non d’uomo,

né di Dio,

né di cosa consueta.

 

[…]

 

E noi rimanemmo sgomenti perché la voce dell’ombra

Non era di un essere soltanto,

ma di una moltitudine e, variando cadenza di sillaba in sillaba,

torbidamente colpiva le nostre orecchie,

con gli accenti indimenticabili e consueti di

mille e mille

ormai scomparsi cari.”3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

-Un bacio non può conquistare il cuore di un demone. La vendetta compiuta grazie ad un demone non può fermare la triste dipartita di coloro che non ci sono più. L’avermi evocato è un fatto che non potrà mai essere cambiato. E neanche se i suoi baci riuscissero a conquistare un demone coloro che amava ritornerebbero. Perché essi non torneranno… Mai più, bocchan.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note al testo:

 

1Tipico modello di rivoltella a doppia canna, in voga nella fin de siècle.

 

2Famoso e pregiato tè nero indiano.

 

3Estratto da “I Racconti del Terrore”, intitolato “Ombra”, di Edgar Allan Poe.

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Capitolo 4
*** Interlude#3: Devour ***


Premessa: ecco a voi il quarto e penultimo capitolo di questa mia lunga storia; il titolo, che a sua volta riprende quello dell’intera fic, è tratto dall’omonima canzone del Reverendo, Devour, dolcissima, provare per credere -à     Devour

 

Inoltre ho dovuto censurare questo capitolo, capirete voi stessi dove; molto probabilmente posterò altrove la versione non censurata, apponendo il link nel prossimo ed ultimo capitolo.

 

Detto questo, buona lettura ^^

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Interlude # 3:

“Devour”

 

 

 

 

“You're the one that I should never take
But I can't sleep until I devour you
I can't sleep until I devour you
You're a flower that's withering
I can't feel your thorns in my head

Pain's not ashamed to repeat itself

I can't sleep until I devour you!
I can't sleep until I devour you!
I can't sleep until I devour you!”

 

Marilyn Manson

“Devour”

 

 

 

 

 

La diabolica essenza del loro legame era stata stravolta dall’incommensurabile voluttà di cui le loro labbra si erano impregnate quella sera; l’eros traviante del bacio, consumato nell’estrema ingordigia di lingue intrecciate e poi sciolte solo per intrecciarsi nuovamente, continuava a ripetersi dinnanzi alle iridi azzurre del giovane Phantomhive, impenetrabili custodi dell’anima cui le stelle ballerine, che avevano solcato il cielo di quella notte, avevano carpito l’osceno e perverso desiderio.

Nella sua coscienza, schiacciata dal peso della sua stessa febbricitante smania di possesso, le immagini del godimento quasi sadico che Ciel aveva provato nel reclamare la bocca e il cuore di un demone continuavano a susseguirsi imperterrite, annientandola, annichilendola poco a poco.

 

Uno squarcio di luce perlacea graffiò le tenebre che si erano addensate come nubi di fumo scuro, compattando l’atmosfera rarefatta della stanza e creando un iridescente riverbero sulle coperte trapuntate d’oro e d’argento; attraverso le arcate delle ampie finestre piombate, la luna piena già alta nel cielo rassomigliava ad una lanterna semitrasparente di luce candida, sospesa da un filo invisibile nella turpe vacuità del Cosmo, infinito oltre ogni umana cogitazione.

L’astro solitario nel cielo d’ossidiana, con il suo ambiguo splendore, reclamava nella notte occhi curiosi ad ammirarne la bellezza intrinseca e ingannatrice; e pretendeva la turpe libidine di sogni proibiti, sussurrati da labbra impudiche, disperdendoli come polvere di stelle nel nero assoluto dell’Universo.

 

Sulla pelle eburnea piccole stille di un piacere liquido e appena compreso scintillavano innocentemente al chiaro di luna, colando lentamente sulle lenzuola di seta e sporcandole del frutto colto troppo precocemente dall’albero della Conoscenza1: pareva che solo l’effimera ebbrezza di lasciarsi andare all’orgasmo, strappato con foga alle sue viscere bollenti, fosse in grado di stravolgergli completamente i sensi, rubando all’anima la sua inconfessabile e immorale aspirazione e stemprando la concupiscenza che aveva infine soggiogato il suo cuore indomito.

Difatti solo alla luna all’acme, spruzzando di luce immacolata l’indecoroso palcoscenico della lussuria, era concesso di celarne il vituperio nella foschia della notte: unica testimone di fatti e misfatti destinati a svanire, come impalpabile ombra nella rosea luce dell’alba, essa vegliava benevola il quieto riposo di uomini casti e il sonno senza sogni di vedove stanche; baciava, con le sue labbra d’argento, la fronte tenera di fanciulli illibati e di giovani donzelle vergini languidamente assopiti, chiudendo loro le palpebre per preservare la purezza delle loro anime.

E nondimeno solo alla luna era permesso assistere all’ineffabile goduria di cosce allargate e seme viscoso colato sull’addome, di tradimenti e segreti malati consumati nelle caliginose e decadenti bettole lungo il Tamigi, di labbra tumide e brame taciute, del pungente olezzo del sesso di bassa lega miscelato al narcotico e muschiato effluvio dell’oppio e dell’hashish; a poco serviva che le depravate bramosie degli uomini trovassero sfogo nei vicoli bui dei sobborghi, in leziose camere da letto di nobili corrotti o in polverosi bordelli di periferia: il limpido riflesso del plenilunio sempre riportava a galla l’infamia ed il peccato dai torbidi flutti della perdizione, restituendo alle tenebre, cui appartenevano di diritto, il godimento di mucose riarse dai fumi del papaver somniferum2, di menti annacquate da illusorie gioie artificiali, di pelle squarciata dalle poderose sferzate di borchie e fruste schioccate con forza, di cera bollente colata sulla lingua, di invocazioni e gemiti blasfemi, di corpi sfatti venduti sui cigli delle strade, di anime volgarmente svendute all’inferno in nome di una fallace sete di vendetta.

 

Comodamente adagiato tra soffici guanciali, Ciel attese pazientemente che il suo respiro ansimante tornasse regolare; voltando lentamente la testa di lato, lasciò che il bagliore della luna facesse riverbero sulla punta del suo naso e sulle lunghe ciglia scure, dalle quali grossi lucciconi di piacere si erano finalmente districati, solcando lentamente le sue guance arrossate: tuttavia si rifiutò di scrollarsi di dosso il senso di torpore che era seguito ai piccoli gemiti a stento trattenuti e alla tensione spasmodica che aveva contratto le sue membra, crogiolandosi nella sua posizione supina sul materasso.

Fuori dalla finestra le costellazioni come perle di luce macchiavano l’ordito nero del cielo, sfregiandolo di luce; un pipistrello, rapace libellula notturna, piroettava solitario tra i tralci fioriti di un caprifoglio, disegnando anelli immaginari nell’aria frizzante e, in lontananza, la mesta litania di una civetta, appollaiata tra i rami nodosi di una quercia, fendeva il silenzio della sera.

 

Ciel deprecò l’indolenza che lo aveva di colpo pervaso, appellandosi alle forze rimaste per tirare in basso il bordo della veste da notte a coprire le inequivocabili tracce di piacere che opacizzavano il pallore della sua pelle; si mise lentamente a sedere e il campanello d’ottone riposto sul comodino catturò immediatamente il suo sguardo, offuscato da una fastidiosa nebbiolina che andava dissipandosi progressivamente: la malsana tentazione di allungare la mano e pretendere accanto a sé la presenza del suo maggiordomo si palesò nella mano tesa verso il tavolo da notte, subito ritratta  nell’ostinata volontà di dissimulare ogni comportamento, scioccamente infantile, che avesse lasciato presagire una qualunque forma di debolezza.

 

Chissà se la solerte luna aveva colto la sua esitazione… Il solo pensiero bastò a riscuoterlo dalla trascinante fiumana delle sue riflessioni, portandolo a scalciare nervosamente da sé le coperte stropicciate e ormai inesorabilmente imbrattate dagli strascichi brillanti della sua solitaria passione: difatti non v’erano né candore né lustro che potessero sciacquare via da quel piccolo corpo marchiato a fuoco il dolore delle lame che lo avevano trafitto; e, per quanto  comodamente adagiato nel lindore di coperte lavate e profumate di rose selvatiche, sempre la sua pelle finiva per sporcare le pregiate lenzuola di seta avorio, che fosse di sudore, di saliva, di sangue, di sperma o di lacrime.

Tanto era divenuto assuefatto alla corruzione ineluttabile cui la sua anima convergeva giorno dopo giorno che Ciel neanche s’accorse della forma in cui il gemito, sfuggito in un rantolo tracimante di vogliosa cupidigia, venne articolato dalle sue labbra; il nome proferito nella notte come un’empia ingiunzione riecheggiò come un mantra, oscenamente profano, licenziosamente sacrilego.

Mai e poi mai Ciel avrebbe rinunciato alle abiette virtù di cui il solo evocare il nome di Sebastian si faceva portavoce; il sentirlo bruciare come lava rovente sulla lingua, il sillabarlo in una voluttuosa movenza labiale, l’essere consapevole di poter impartire qualsiasi ordine solamente sussurrandolo, aveva, sin dalla prima volta, suscitato nel suo corpo una sensazione d’ambigua libidine.

Per quanto il giovane Phantomhive, per la stessa natura del titolo nobiliare ereditato, fosse avvezzo alla cieca obbedienza che la servitù sempre gli riservava, sapeva che con Sebastian quel gioco di ruolo inverso e riverso poteva assumere delle sfaccettature estremamente più interessanti; dopotutto, ad esacerbare l’esclusività del loro rapporto, non era tanto la sua posizione privilegiata nonostante l’età, quanto la carica lasciva, velatamente erotica, sicuramente sadica di  avere un demone al suo fianco, incline ad accondiscendere ad ogni suo capriccio, di stregua anche infima rispetto al vero scopo di vendetta per il quale il loro patto era stato stipulato.

 

Eppure a dissuadere Ciel fu l’imbarazzo di poter essere sorpreso nella umiliante flagranza del circolo vizioso in cui si era cacciato; s’avvolse seccato nella leggera veste da camera riposta ai piedi del letto, strofinando alla meglio l’equivoca macchiolina che faceva bella mostra di sé sul fronte della camicia da notte: folle del suo stesso trasgredire ogni rigore imposto dalla posizione che ricopriva, il piccolo conte s’incamminò con fare guardingo verso il battente, dischiudendolo lentamente per evitare che i cardini stridessero troppo nella silente quiete notturna.

Avanzò  a tentoni nel buio, sorreggendosi al corrimano in legno cerato della scalinata che conduceva ai piani inferiori, non senza che i suoi minuti piedi scalzi inciampassero nelle frange dorate del tappeto scarlatto steso sul parquet; si maledì tra i denti digrignati, imboccando il labirinto di corridoi tetri che conducevano alle cucine: tastò il terreno, poggiando le mani sull’uscio e sospingendolo in una fluida e repentina movenza, ma quando realizzò che le lampade ad olio erano accese, rimase impietrito.

Sussultò e poi trattenne il respiro per svariati attimi.

Come facessero gli altri dimoranti nella residenza a non percepire l’aura sinistra e distintamente inumana di quella creatura era un fatto di per sé inspiegabile: o forse erano semplicemente le scintille che scricchiolavano sulla sua pelle ogni qualvolta le pelle di Sebastian sfiorava la propria, per attrito e per fatale attrazione insieme, a rammentare a Ciel che oltre le fasulle apparenze, la lugubre essenza di un demone teneva d’occhio ogni istante della sua vita mortale, in una subdola e concupiscente veglia funebre sulla sua anima.

 

-Mi perdoni, ma temo che sia alquanto sconveniente per un giovane nobile come lei avventurarsi a quest’ora della notte negli umili alloggi della servitù, ed in cucina per giunta…

Il tono ossequioso, eppure vagamente allusivo di Sebastian, lo travolse insieme al pesante aroma dello zenzero e del cumino3 che colmava l’ambiente concentrato della cucina.

Seppur frastornato dalla presenza del suo remissivo servitore, Ciel riacquistò tracotanza, investendo il suo incedere verso il tavolo di una nuova sicurezza.

-Vedo che sei ancora impegnato per il concorso di dopodomani, Sebastian.

La mano del ragazzino si lasciò andare ad una languida movenza, affondando le dita nella salsa ambrata lasciata a riposo nei tegami di ceramica; la lingua sgusciò tra le piccole labbra, arricciate da un sorriso immancabilmente licenzioso.

-Dopotutto il signorino mi ha impartito molti ordini ultimamente e ho ben pensato di sfruttare le ore notturne pur di accondiscendere alla sua brama di vittoria.

Ciel si biasimò per non avere pronta una replica immediata; sicuramente aveva vagliato la possibilità che assistere ad una sconfitta di Sebastian sarebbe stato molto più intrigante rispetto alla solita routine; con una breve scrollata di spalle, azzardò, rigirando il discorso.

-Oh, certo. Ad ogni modo non sono certo sceso fin qui per fare conversazione. Avevo solo voglia di qualcosa di dolce da mangiare.

-Sono spiacente, ma ho paura di dover declinare la sua richiesta.

Sebastian inarcò le sopracciglia, assumendo l’aria grave di chi è ben conscio delle proprie parole.

-Suvvia, Sebastian. Fallo. Qualcosa che sia perfetto, come solo tu sai fare.

Un mezzo sorriso adulante increspò i tratti armoniosi del ragazzino, intento a leccare via dalle dita la densa salsa giallognola; nonostante l’invito fin troppo esplicito del giovane, Sebastian rimase impassibile, rimarcando la sua precedente constatazione.

-Mi dispiace enormemente, ma non posso permetterle di infrangere così l’etichetta, bocchan. Con il dovuto rispetto, trovo sia meglio torni nelle sue stanze e si riposi. La luna è già così alta e l’agenda di domani è colma… Non vedo alcuna ragione plausibile per cancellare i suoi impegni.

-Tu, razza di…

Non proferì altro verbo, ogni replica gli morì sulla lingua arrovellata dal sapore piccante del curry nella sua bocca. In ritardo, riprese:

-… Non credo tu sia nella posizione di poterti rifiutare.

Sebastian si pulì velocemente le mani, non senza rivolgere al suo tronfio signore uno sguardo servile e al contempo ambiguamente ammiccante; con passo deliberatamente lento, quasi giocoso, superò il lungo tavolo, avvicinandosi al giovane: le narici strette ed eleganti del demone fremettero e Ciel fu certo che Sebastian si fosse appropinquato così tanto solo per poter annusare la sua pelle, affidandosi al suo olfatto inumano pur di cogliere, oltre ai residui lascivi sulla sua veste e sulla sua carne, anche il sentore dell’anima e della lusinghiera tentazione di cui essa si faceva allettante messaggera.

-Sa, lo credo anche io. Così come credo, se me lo concede, che rubare tempo al suo fine per attardarsi nelle attrattive di piaceri così effimeri, non sia propriamente nel suo stile, bocchan.

-Non ho la più pallida idea di cosa tu stia parlando, Sebastian!

Null’altro che una tagliente esclamazione sferzò  il teso distacco, accorciandolo; l’incomprensibile pudore di quella vicinanza, tanto improvvisa e tanto seducente, gli tolse il respiro: quasi il suo folle, malato desiderio d’essere domato e dominato per una sola notte da quell’esistenza distorta, creatura dolcemente oscura, fosse un letale e inodore veleno effuso nell’aria, le sue ginocchia divennero molli, le gambe tremarono e il cuore saltò diversi battiti, arrestandosi nel suo petto.

-Non vi è alcun bisogno di mentire, mio signore.

Sebastian gli scoccò una breve occhiata perspicace; sorridendo sarcastico, gli si avvicinò ulteriormente: eluse inutili e riguardose distanze, godette intimamente dell’amabile tergiversare di Ciel, attendendo una replica che tuttavia non giunse, soffocata dalla mancanza improvvisa di prezioso ossigeno.

-Crede forse che io non abbia colto l’insolito turbamento che le toglie il sonno… ?

Le fiammelle delle lampade vibrarono, quasi per un fugace istante si spensero; la luce fioca ombreggiò momentaneamente l’ambiente, per poi tornare a risplendere di rosso, giallo e arancio facendo riverbero nelle iridi furbescamente immobili e vermiglie del maggiordomo.

Ciel si ritrasse disgustato; affilò lo sguardo mordace su Sebastian, indietreggiò di qualche passo per sfuggire al suo fascino perverso e rimbrottò sprezzante.

-Non credere di sapere ogni cosa!

-… Non ho la presunzione di conoscere ciò che non vedo. Eppure gli occhi talvolta posso incappare in visioni assolutamente deliziose, da cui è difficile distogliersi.

Da diabolica creatura qual era, Sebastian sorrise affabilmente, dolcemente ingannevole; abbassò il capo, e proseguì importuno, accrescendo l’enfasi viziosa delle proprie parole, in netto contrasto con il tono riverente con cui esse furono pronunciate.

-E devo dirle, con il dovuto rispetto mio signore, che in un simile frangente ho trovato il suo aspetto oltremodo interessante.

Ciel reagì quasi immediatamente, sottraendosi con un sobbalzo all’aura puramente tendenziosa che lo aveva circuito.

-Sta zitto, Sebastian. Non provarci…

Ululò inviperito; la morsa micidiale che lo aveva avvinto alla malia del demone gli rendeva impossibile la fuga, condannandolo al respiro infernale che gli solleticava le gote arrossate, come lingue di fuoco in procinto di arderne la pelle morbida, così irresistibilmente fanciullesca.

-Oh, non sa signorino, quanto possa essere stato incantevole per me vederla a quel modo. E’ ben diverso dal vederla legato e sanguinante in balia di un qualunque malfattore…

Nelle iridi di Sebastian un nuovo fervore fece riverbero, accentuandone lo sfavillio scarlatto, ipnotico.

Quanto sarebbe valso il rimorso di non aver atteso che il tempo opportuno fosse giunto a rendergli la dovuta ricompensa?

Non lo sapeva; non lo avrebbe mai saputo, tanto simili e deleteri, sciocchi sentimenti erano estranei alla sua natura ultraterrena, malvagia, iniqua, squisitamente perversa.

L’anima del signorino.

Sublime.

Focosa, impaziente, logorata dall’estenuante attesa.

E che continuasse ad attendere… Ancora… E ancora…

Ancora un po’.

La sentiva quell’anima, oscura e limpida, sporca e pura al contempo.

La percepiva dibattersi violentemente negli esili confini di quella pelle di miele, fremere nell’anticipazione di essere strappata, imbrigliata, posseduta: divorata, dolcemente, teneramente, con peccaminoso ardore.

E ne annusava il sentore libertino, gustosamente immorale, assolutamente appetitoso; dimenticò sciocchi ruoli da interpretare, si scordò d’osservare servili distanze nel momento in cui le dita, prive dei consueti guanti, scostarono una ciocca dispettosa, ancora umida incollata al collo tenero di Ciel, così facile da corrompere, così invitante da mordere e far sanguinare, accesso delizioso all’anima che lo aveva irretito, che lo aveva innamorato di un amore così distante da quello flemmatico ed effimero degli uomini: quell’amore vorace, ferino, sovrannaturale, nella sua essenza più pura, potente quanto l’odio nella perpetua dicotomia di cui erano poli immutabili, statici, eterni.

 

-Smettila, Sebastian. Si può sapere cosa stai cercando di insinuare?

La tipica sfumatura arrogante nel tono di voce di Ciel vacillò per un istante; quella dannata esitazione finale lo tradì e Sebastian ne approfittò, inchinandosi e sillabando al suo orecchio proteso.

-Perdoni la mia franchezza, ma devo confessarle che è anche diverso dal vederla fallire nell’allacciarsi le scarpe… Non oserei mai insinuare nulla, piuttosto direi che ho apprezzato il suo aspetto, così inquietante, distorto dal piacere, scabroso ma pur sempre elegante. Si confà ad uno come lei, così minuto, così estremamente fragile.

Quell’alito profumato di Inferno, esalato con ogni salace verbo, era per Ciel uno spasimo di piacere che giammai lo avrebbe stancato.

-Razza di idiota… !

Ciel inveì contro l’uomo irto dinnanzi a lui, maledicendo la propria, inopportuna debolezza; indietreggiò, strizzando i pugni, poi tuonò aspro, con un’espressione contrita e sdegnata dipinta sul volto.

-Non dirmi che mi hai spiato… ?!

Si morse il labbro, nevrotico attese una replica che, gelida e pungente, non tardò ad arrivare.

-Non credevo che vederla indulgere a tali diletti fosse così interessante. E sì, ho seguito i movimenti delle sue mani e ciascuno degli spasmi delle sue gambe, ho contato ogni suo brivido… E ho ascoltato ciò che la sue deliziose labbra gemevano e sussurravano, piagnucolavano quasi… Ricorda, bocchan? Lo specchio dell’anima…

Sebastian trasalì; si massaggiò basito la parte lesa, cercando di lenire il bruciore per l’improvviso schiaffo assestato con forza sulla sua gota sinistra.

-Tieni a freno la lingua, o hai scordato con chi stai parlando, servo!

Sebastian tacque per un istante, sgomento; sgranò gli occhi e sbatté le palpebre, prima che un sorriso beffardo si accennasse appena sulle sue labbra, appena incurvate all’insù.

-Le chiedo scusa, signorino.

Si pose una mano sul petto con fare riverente, gli occhi desolati obbedientemente rivolti a terra.

-Sono profondamente mortificato.

Lo sbeffeggiò in maniera subdola, il freddo scherno sapientemente camuffato dal tono pacato e cortese della sua voce.

Ciel lo guardò allibito, le iridi brillanti di rabbia e le sopracciglia aggrottate; non si era neanche accorto di come le sue scapole fossero premute dolorosamente contro la parete priva di intonaco dietro di lui: ogni passo in avanti del demone, tardo e suadente, lo aveva alla fine inchiodato al muro, come una ingenua e debole preda braccata da una belva feroce.

Dal parte sua, Sebastian era rimasto in piedi davanti a lui, contemplando il laconico silenzio del suo signore, indispettito, spettinato e con un lieve rossore ad imporporargli le guance e il dorso del piccolo naso all’insù; l’odore acre del seme che ancora gli impregnava la pelle e la camicia da notte era una piacevole distrazione, un dolce profumo afrodisiaco, deviante quanto bastava ad accrescere la sua voglia di irretire quel ragazzino orgoglioso, costringerlo alla resa, farlo capitolare e gustarne, per una sola, eccitante volta, la lasciva disfatta.

Solo perché era lui, Ciel Phantomhive.

Una candida rosa dalle irte, sanguinarie spine.

E gli apparteneva.

Immensamente, all’infinito, in eterno.

Per omnia saecula saeculorum.4

 

-Avrebbe solo dovuto ordinarmelo.

Sebastian sogghignò, leccandosi avidamente le labbra secche. Proseguì imperterrito, deliberatamente sensuale.

-Io l’avrei fatto.

Si chinò in avanti, sussurrando a ridosso delle rosse e accattivanti labbra, sporte in un provocante broncio stizzito; senza preavviso si dischiusero, vibrando nell’infernale tormento di cedere al bacio che, oltre al suo corpo, gli avrebbe concesso il suo cuore, la sua anima, di nuovo, ancora.

-E allora fallo.

-Lo dica, signorino. Pronunci il mio nome… Me lo ordini.

Una carezza pudica lambì il ventre teso attraverso la stoffa di seta leggera della veste corta, scendendo in basso in una movenza improvvisa, sconcia e triviale, dolcemente contrastante con le parole, colme d’adorazione, di Sebastian.

-Prendimi, Sebastian. E’ un ordine.

 

 

 

-Yes, my lord.

 

 

 

 

 

 

 

 

*   *   *

 

 

 

 

 

 

La salsa ambrata del curry scivolò densa sulla pelle nuda, mescolandosi agli umori agrodolci del rapporto appena consumato.

Le dita vi si mescolarono avide, premendo contro le labbra gonfie e chiedendo riverenti l’accesso a quella bocca zuccherata, così tenera e corrotta, che mai si sarebbe stancata di cedere alle lusinghe di quei baci voraci e accaldati, frementi e asfissianti.

-Ne gradisce ancora, bocchan?

Il tacito rifiuto fu accentuato dal capo prontamente girato di lato, le palpebre strizzate spasmodicamente quando le dita scesero a contornare, con brevi movimenti concentrici e lussuriosi, il marchio scarlatto sulla sua pelle; Sebastian vezzeggiò con una premura insolita, quasi commossa quei segni rossastri, quasi volesse imprimerne ogni rilievo nella propria memoria, prima di risalire sul viso di Ciel, carezzandolo nel vano tentativo di calmare gli ansimi che ancora non si erano spenti del tutto.

 

-Dio…

L’aria tronfia, tipicamente altezzosa di Ciel, aveva lasciato il posto ad una mai tanto visibilmente indifesa, terribilmente ingenua.

E gli piacque immensamente, come quell’ultima invocazione, proferita a fior di labbra; non esitò a raccoglierla e stravolgerla, sovvertendola come era solito fare, con tono provocatoriamente compiaciuto.

-Mi perdoni, signorino, ma non credo che Dio sarebbe molto soddisfatto nel vederla in questo stato.

Sentenziò spietato, circuendogli le spalle con le braccia e sollevandolo dallo scomodo tavolo dove ancora le tracce opalescenti del misfatto, mescolate alle spezie del curry, erano lì a rammentare la fuggevole frenesia dell’umido amplesso che, simile a un sacrificio divino, si era appena compiuto.

Ogni gesto di Sebastian pareva contrastare con la malvagità implicita nelle sue parole rivolte a Ciel, ormai stremato; con un balzo elegante e repentino, lo prese delicatamente in braccio, fingendo di ignorare il sussulto che scosse quel corpo acerbo, appena contaminato dal seme di un demone.

Ed era proprio l’ingenua sensualità di quel corpo gracile e meraviglioso, la purezza stuprata dalle tenebre di quell’anima tanto invitante ad inoculare in lui quel senso di perversa adulazione e tenerezza che mai avrebbe cessato di usare nei confronti del suo capriccioso, preziosissimo signorino.

Lo cullò mordacemente tra le sue braccia, rimembrando ogni singola unghia conficcata nella sua schiena, le gambe strenuamente allacciate al bacino, il manrovescio assestato sulla sua guancia nel momento in cui l’aveva preso con tanto ardore, i singhiozzi smorzati dalle labbra premute contro il suo polso e il suo nome, gemuto, sillabato, evocato in preda al tormento nella notte, urlato alle tenebre, mentore di una fede rinnegata e di un Paradiso proibito.

-Sebastian… ?

Il fazzoletto imbevuto d’acqua e sapone che stava facendo scorrere lungo le gambe tuttora scosse dai tremiti del ragazzino, si fermò di colpo.

-… Dimmi che anche allora… Che allora… Mi farai male come hai fatto adesso.

Quel signorino, così perfido e così dolce, mai avrebbe smesso di provocargli quei brividi, del tutto ignoti eppur piacevolissimi, a serpeggiargli sotto la pelle con ogni sorpresa che le sue improvvise parole gli riservavano.

Lo scrutò curioso, percorrendo con le iridi illanguidite dalla brama di divorarlo ancora, di più, fino in fondo alle viscere, le forme delicate del suo corpo finito: gli sorrise amabilmente, con dolcezza quasi commossa a quel tono flebile di voce che mai prima d’allora aveva ascoltato, intervallato dagli ansimi che andavano lentamente scemando.

-Tipico di lei, signorino…

-Così come hai scolpito il mio dolore nella mia carne… Giurami che allo stesso modo lo scolpirai nella mia anima…

Ciel si voltò a guardarlo, sollevò il viso e dischiuse la bocca per poter parlare ancora, prima che venisse rapita da un nuovo, famelico bacio.

-Si, mio signore.

Gli leccò un’ultima volta il labbro inferiore, sollevandolo di nuovo da terra e conducendolo nelle sue stanze ai piani superiori.

-Non lasciarmi, stanotte, Sebastian.

Il sorriso che increspò le labbra di Sebastian si incupì al chiaro di luna che filtrava dalle tende, venandosi di un’ineffabile, esagitata, beffarda malinconia.

-Finché lo desidera, le starò accanto e non abbandonerò il suo fianco. Le apparterrò e rimarrò con lei. Fino alla fine.

 

Lo guardò un’ultima volta, vegliando il sonno che non tardò a giungere.

Avrebbe adorato quel ragazzino fino in ultimo.

Avrebbe accettato tutto ciò che quell’esile corpo aveva da offrirgli.

Avrebbe avviluppato al suo cuore il filo spinato del possesso per impedire alla tentazione di altri baci che non fossero i suoi di sottrarne i piccoli, infantili e veloci battiti.

Lo avrebbe tenuto stretto al suo petto qualora gliel’avesse chiesto.

 

Purché non l’avrebbe reso troppo affamato.

Almeno fino al giorno in cui gli avrebbe preso –divorato- l’anima.

 

-Riposi adesso, bocchan.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note al testo.

 

1L’albero proibito del giardino dell’Eden: mangiandone, Adamo ed Eva disobbedirono a Dio cedendo alle lusinghe di Satana, discernendo così il Bene e il Male.

 

2Nome scientifico dell’oppio, uno stupefacente ottenuto appunto incidendo le capsule immature del papaver somniferum, raccogliendone il lattice che emana un odore vagamente dolce e che ha un gusto profondamente amaro.

 

3E’ una pianta erbacea che si coltiva principalmente nelle aree del Mediterraneo. Si usa per il curry.

 

4Espressione latina tradotta come “nei secoli dei secoli”.

 

 

 

 

 

 

Nda: severe nosebleed, direbbero le colleghe americane *ç*. Parecchia gente ultimamente sta attentando alla mia vita, a cominciare dall’Autrice di SebxCiel Cat in My Fridge per finire a Hisae Fujikawa che da Sapporo mi ha spedito due doujinshi ancora incellophanate SebastianxCiel R18 da sala di rianimazione… A proposito, se qualcuno è disposto a tradurmele, me lo faccia sapere, che non esiterò a scannerizzarle… Anche solo vederle… *ç* My, oh, my…

 

 

Ma bando ad ogni ulteriore delirio, ringrazio tutte le ragazze che mi sostengono e mi commentano, in particolare:

 

Saruwatari_Asuka :  oh, salve! Innanzitutto ti ringrazio per aver commentato anche le mie altre storie, non sai quanto mi ha fatto piacere sapere che anche questa fiction ti sia piaciuta! E sì, verissimo, per quanto mi piaccia l’anime di Kuroshitsuji, il manga è qualcosa di terribile, splendido, perverso e affascinante e come fare a non adorarlo, specie in alcune parti, come quando Sebastian cerca di imboccare Ciel… Esilarante XD E non preoccuparti per la recensione infinita, oltre a farmi un piacere immenso, è sempre bello condividere le proprie passioni. Spero che questo capitolo non ti deluda ^*^

 

Owarinai yume: Adoro Edgar! Infatti quando ho visto che Ciel nel manga lo legge, sono quasi impazzitaXD E anche io adoro questi due e le loro frecciatine: Sebastian è un co***one, Ciel anche… COME NON AMARLI??  Sono davvero contenta d’essere riuscita a rendere la coppia, e grazie mille ancora per i complimenti ^*^  ^*^

 

DEVILKRIS: Mi fa piacere ti sia piaciuta, in fondo l’intento di scegliere uno stile di scrittura piuttosto che un altro è proprio quello di tener vivo l’interesse di chi legge. Mi fa piacere sapere d’esserci riuscita almeno in parte e mi auguro che anche questo capitolo ti piaccia. **

 

 

 Grazie mille ai Preferiti che aumentano e alle Seguite, con la speranza che questo capitolo non sia molto deludente.

 

 

Kiss.

 

Stè.^^

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Capitolo 5
*** Exit: Requiem ***


Ed ecco la conclusione, approfittandone per festeggiare un anno su EFP *___*

 

Grazie mille a tutti coloro che hanno seguito questa storia, che l’hanno inserita nei preferiti, che l’hanno letta in silenzio e che l’hanno commentata, in particolare:

 

 

 

 

 

DEVILKRIS

 

Owarinai yume

 

Saruwatari_Asuka

 

 

Buona lettura^^

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Exit:

“Requiem”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“La disperazione e il futuro si fondono nelle tenebre.
Vivevo freddamente mostrando la tristezza al chiaro di luna...

Il segreto che hai donato ad un amico,
avanza nella tranquillità di una notte blu.


Voglio amare ancora un mondo d'illusioni,
nascondendo un sogno negli occhi,
finché le mie lacrime non cadranno sul mio cuore sporco.”

 

 

Lacrimosa

Kalafina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il funesto boato che riecheggiò tra i pilastri dell’ Eglise Saint Sulpice frantumò il muro bianco del suono.

 

 

La confessione, sussurrata attraverso la grata d’ottone del confessionale, degradò il virgineo silenzio della cattedrale: le colonne vibrarono, mani invisibili di spettri arcani picchiarono i tasti dell’organo, l’acqua santa evaporò nel calore di fiamme diaboliche e i raggi affilati del sole che colpivano il meridiano si spensero come candele verdognole nell’uragano della perdizione.

 

Parole d’estrema vergogna scardinarono le porte degli Inferi.

Tra lo sferragliare metallico di aurei cancelli, il Paradiso serrò i battenti, collassando nella volta celeste ed ergendo l’invalicabile balaustra di candidi nembi: svanì dinnanzi all’anima corrotta che, ripudiata, precipitò.

 

La voragine infernale di colpo si spalancò; l’odore acre dello zolfo sopraffece il profumo dell’incenso al gelsomino, accogliendo l’inesorabile caduta dell’anima impura.

Lo stridio di violini di angeli mesti si zittì e cori mefistofelici e stonati di demoni giunti a reclamare l’empio spirito, accompagnandone la dipartita, si innalzarono profani al cielo.

 

-Io ho mentito… La vera menzogna è l’essere giunto fin qui…

Le mani giunte si sciolsero, le labbra sprezzanti tacquero per un fugace istante, prima che l’urlo prorompesse da esse, librandosi efferato verso la cupola della chiesa.

-Non abbandonerò quell’odio! Se lo facessi, sarebbe come aver mentito sin da quel giorno. Ed io non voglio, non posso dimenticare.

Spasimi inconsulti scossero le dita sottili, avviluppate nervosamente tra i capelli scuri.

Il pentacolo rifulse di luce violacea sotto la benda e le ultime parole, gridate al vuoto, accompagnarono la folle corsa verso l’uscita.

-Io… Tornerò a Londra! Anche da solo…

 

L’ombra oltre la grata si mosse.

Scosse lentamente il capo ed infine si fermò.

Nel buio del confessionale, due punte di spillo roventi sfavillarono di luce rossastra.

Occhi.

Perversi, malevoli.

Adoranti.

 

E l’affilato, mellifluo sorriso si dispiegò sulle labbra carnose quando la catena del supremo legame si rinsaldò al suo polso, scottando la sua pelle e trascinando il suo corpo dalle ingannevoli fattezze umane verso il giovane Phantomhive in corsa verso l’Inferno.

 

-Non mi muoverò. Non ancora. Non senza un suo ordine.

 

Una risata beffarda rimbombò tra le mura di calce, portavoce di una orrenda e ineluttabile profezia.

E nel confessionale piume nere vorticarono veloci, accompagnate da un’ultima, efferata e allo stesso tempo dolcissima sentenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

-Sono proprio curioso di vedere cosa farà… Mia preziosa anima.

 

Mio capriccioso,

 

preziosissimo

 

signorino.

 

 

Perché io non lo faccio,

 

non lo farò mai.

 

Mai le mentirò.

 

Fino alla fine…

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ultima piuma si adagiò sul sedile di pelle rossa del confessionale.

 

E l’ultima parola riecheggiò.

 

Dolce.

 

Dolce.

 

Come non mai.

 

 

 

 

Bocchan.

 

 

 

 

 

 

 

Fin.

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