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Stoppai
James Morrison che mi cantava nelle orecchie Get to you e mi fermai ansimando
su una panchina ghiacciata. Faceva un freddo cane ma la corsa mi aveva sufficientemente
scaldato. Osservai il mio respiro condensarsi in pallide nuvolette davanti ai
miei occhi, ricordavano anelli di fumo.
Mi
ritrovai a pensare a come era stato difficile smettere di fumare. Papà me lo
aveva sempre detto, e io allora, da adolescente ribelle quale ero, non gli
avevo dato ascolto: fumare è male, è un orribile vizio e smettere è quasi
impossibile. Quante volte me lo doveva aver ripetuto? Avevo perso il conto.
Eppure io avevo smesso. Grazie a cerotti alla nicotina, dolci ed una volontà di
ferro, ero riuscito a togliermi quell’orrenda dipendenza!
Posai
la testa sulle ginocchia cercando di riprendere fiato: era come se nei polmoni
al posto dell’aria ci fosse del fuoco. Terribile, assurdamente doloroso.
Lentamente le fiamma si spensero e il cuore tornò a battere ad un ritmo più
accettabile. Un rumore mi fece alzare lo sguardo, e il mio cuore si fermò:
guardai la ragazza che faceva jogging, venendomi incontro a passo veloce. Senza
accorgermene avevo smesso di respirare, per poterle prestare tutta
l’attenzione possibile. Non appena fu più vicina però, ripresi aria. Non
era tanto alta, mi arrivava giusto alla spalla, i capelli legati in una coda di
cavallo, in questo poteva sembrare proprio lei, ma indossava una tuta rosa
sgargiante, no, impossibile, lei non lo avrebbe mai fatto: aveva una vera
avversione per tutto ciò che era anche solo vagamente rosato. Tentai di
ignorare la delusione che, come personificata, mi si era seduta affianco, mi
aveva dato un pugno nello stomaco e poi se ne era andata ridendo di me…
Non era lei. Ancora una volta non era lei. Mi poggiai allo schienale della
panchina e buttai la testa all’indietro con un sospiro.
Dodici.
E
con questa eravamo a dodici nell’ultima settimana: dodici volte che il
cuore mi si era fermato, l’aria bloccata nei polmoni e la vista
appannata. Ma per niente. Scherzi della mente, o forse del cuore dovrei dire:
perché ciò che desideravo con tutto il cuore era vedere lei. Per ben dodici
volte mi era sembrato che fosse così e invece no… Chiusi ancora una volta
gli occhi sperando che almeno questa volta non succedesse. Invano. Eccola.
La
marea mi investì. Ed ero di nuovo perso nei ricordi. Irrimediabilmente.
Sapevo
che non era salutare, me lo avevano detto in tanti che mi facevo solo del male
ricordando. Non potevo farci niente però. Chiamatelo masochismo, chiamatela
sindrome del surfista impazzito ma io non potevo voltare le spalle a
quell’onda: stava arrivando per me e non potevo assolutamente cercare di
evitarla.
Correvo. Correvo con lei.
Lei che continuava solo grazie alla sua
forza di volontà, erano passati solo sei minuti ma già era esausta.
Non voleva dare a vedere che non ce la
faceva più, ma io la conoscevo troppo bene. Continuai ad osservarla divertito.
Un rivolo di sudore le scendeva lungo la tempia e il respiro le era diventato
sconnesso. Per me quei sei minuti non erano niente. Soprattutto visto che avevo
adattato la mia falcata alla sua… e normalmente nello stesso tempo io
avrei percorso almeno un chilometro in più. Ma non mi importava, non me ne
importava niente. Ero con lei. Solo questo era importante. Quando con la mano
si scostò dal viso una ciocca di capelli ribelle non ce la feci più. Mi fermai
di colpo, la presi per mano e la attirai impaziente a me.
Lei. A meno di un respiro da me. Mi
guardò sorpresa. Con quei suoi grandi occhi da cucciolo. E io sorrisi.
Innamorato perso sorrisi. Che potevo
fare altrimenti? Lei era lì con me. Tra le mie braccia. Solo mia. E mi
sorrideva. La strinsi a me ancora più forte e la baciai. Eravamo entrambi
sudati. Lei era esausta, io solo un po’ stanco. Le strinsi i fianchi e la
sollevai un po’. Lei mi passò allora le braccia attorno al collo. Ci
staccammo un attimo per guardarci negli occhi. E mi persi nei suoi. Fu lei
questa volta ad attirarmi di nuovo a sé, donandomi un altro dei suoi preziosi
baci. E poi un altro, e un altro ancora, finché non ci dimenticammo
completamente di dov’eravamo. Chi se ne importava, in fondo? Eravamo nel
bel mezzo della strada. Davanti a tutti, a tanti occhi curiosi e invidiosi. Ma
non importava. Non contava nient’altro che lei.
Lei fra le mie braccia. Lei mia.
Semplicemente lei.
Tornai
in me. Mi passai le mani sulla faccia. Nessuno meglio di me sapeva quanto era
doloroso immergersi nei ricordi: una sofferenza acuta, quasi fisica, che ti
abbatteva all’inizio e ancora di più, quando volutamente o meno cercavi
di liberartene, ti affibbiava il colpo di grazia, quello decisivo, il più
brutale di tutti.
Non
dovrebbe essere così: dovrebbe essere piacevole ricordare, ricordare i bei
momenti. Come quando apri un album di fotografie e sorridi rivedendoti,
divertito da quei pezzi di carta in grado di far tornare alla mente momenti
dimenticati. Ma quando hai perso ciò che rendeva belli i ricordi che fai? Non
ti rimane altro che piangere. Mi guardai attorno: il parco era completamente
deserto, la ragazza che mi era passata davanti era ormai solo un puntino
indistinto. Qualcosa mi rimbombava nelle orecchie, una canzone: non me ne ero
reso conto ma era ripartita la musica. Mi concentrai cercando di capire cosa
stessi ascoltando. Dopo un po’ la riconobbi: Talk you down, dei The
Script. “Cos if you go I go”
Mi
alzai e ricominciaia correre. Cercando
di dimenticare. O almeno di non ricordare…
*
-
Ilaria! Ti dai una mossa?-
Era
lì. Doveva essere lì. Com’ era possibile allora che non riuscissi a
trovarlo?
Mi
sentii chiamare ancora e mi voltai irritata verso la mia amica: stava facendo
gli occhi dolci al ragazzo che controllava i biglietti, dopo un po’
guardò l’orologio e impaziente si girò di nuovo verso di me.
-
Ila! Faremo tardi! Se mi fai perdere l’inizio del film me la
paghi…-
Era
inviperita, mi fissava con uno sguardo omicida che mi sentii libera di
ricambiare. Il ragazzo affianco a lei sorrise, accarezzandosi dietro il collo
con la mano e per qualche assurda ragione riuscì ad innervosirmi.
-
Veronica tesoro, hai visto anche tu che mettevo il biglietto in borsa, se la
smettessi di mettermi fretta, forse riuscirei a trovarlo!-
Lo
avevo bisbigliato, in quello che poteva somigliare benissimo ad un ringhio,
cercando al tempo stesso di evitare una scenata. Veronica in risposta alzò gli
occhi al cielo sbuffando, io continuai a frugare nella borsa e poi sollevai la
testa sentendomi osservata. Incrociai gli occhi del ragazzo in attesa: uno
sguardo che sembrava volesse farmi una radiografia. Lui subito mi sorrise
radioso e con voce che doveva sembrare suadente, disse:
- Andate dai: mi fido. Una ragazza così carina
non può assolutamente perdersi l’inizio del film-
Arrossii
sentendo quelle parole, completamente in imbarazzo e rimasi come pietrificata.
Fu Veronica ad afferrarmi il braccio trascinandomi in sala: era la numero due,
una delle più grandi. Salimmo veloci gli scalini, fino a raggiungere la nostra
fila e prendemmo posto. Le luci erano ancore accese. Presi una mentina dalla
borsa e ne passai una anche a Veronica. La vidi imbronciata e le chiesi
sottovoce cosa avesse. Lei rispose senza guardarmi, mantenendo il tono basso,
quasi cospiratorio:
-
Ti odio… e ti adoro-
Sospirai.
E non mi presi neanche la briga di chiederle come mai, sapevo che me lo avrebbe
detto comunque.
-
Vuoi sapere perché? Perché anche se mi sono strusciata con quel tipo per buoni
dieci minuti mentre tu cercavi quello stupido biglietto, lui a chi guarda? Chi
è che fa entrare senza controllare il biglietto? Te. Sempre te! Ti sembra
giusto?-
Mi
guardò con aria piccata,aspettandosi
una qualche risposta da parte mia. Io però non sapevo cosa dire: mi aveva presa
completamente in contropiede:
-
Ma scherzi? Tu sei la biondona con gli occhi blu! E poi devo ricordarti che sei
fidanzata?-
Erano
state le prime cose che mi erano venute in mente: il fatto che fosse bellissima
ed anche già occupata. Lei non sembrava d’accordo con me tuttavia, scosse
la testa fissandomi con aria drammatica:
-
Eppure sei sempre tu ad attirare i più carini… e poi lo sai che sto con
uno sfigato del cavolo che intendo mollare il prima possibile-
Feci
per ribattere ancora, cercando in tutti i modi di toglierle dalla testa quelle
assurde idee, sicura di poter demolire la sua tesi ma non ne ebbi il tempo: le
luci in sala si andarono affievolendo segno che il film stava per iniziare. Mi
avvicinai a Vero perciò decisa a concludere il discorso e le bisbigliai:
-
E si può sapere come mai mi adori?-
Capii
che sorrideva, quasi in imbarazzo, anche se non riuscivo a vederla per bene a
causa dell’illuminazione troppo scarsa. Confessò di botto, come per
togliersi un peso dallo stomaco, dopo aver preso un bel respiro:
-
Perché non ho comprato il biglietto e ho usato quello che avevi in borsa. Tanto
sapevo che il tizio ti avrebbe fatto passare comunque… hai troppo la
faccia da brava ragazza. Cosa che non sei peraltro, ma questo è un altro
discorso-
Le
sue parole mi colpirono e cercai di capire a cosa si stesse riferendo, ma non
conclusi niente perché la rabbia mi assalì inaspettata: ero furiosa eppure
dovevo aspettarmela una cosa del genere da lei. Avrei voluto… non so
nemmeno io cosa avrei voluto farle, ma non potevo fare proprio un bel niente
perché erano già iniziati i titoli di testa. Fu in quel momento che mi accorsi
di non sapere nemmeno che film stavamo per vedere e con voce il più possibile
adirata lo chiesi a Vero. Lei esitò prima di parlare e poi a voce bassissima
rispose:
-
Titanic-
La
rabbia scemò di colpo. Mi sentii svuotata.
No.
Di
nuovo no. Iniziai a prendermela con me stessa, per quanto sapessi che non
serviva a niente.
Perché
diamine ero così vulnerabile? Cercai di combattere ma fu inutile. Sprofondai,
totalmente persa in quel limbo. Quel dolorosissimo limbo che mi stringeva il
cuore e me lo stritolava senza alcuna pietà.
Ero stata io a convincerlo.
Glielo avevo chiesto con voce dolce,
facendomi piccola piccola contro il suo petto e
guardandolo negli occhi. Alla fine avevo vinto. Era venuto con me a vedere
Titanic. Mi aveva tenuto la mano per tutto il tempo, strusciando delicatamente
il pollice come per accarezzarmi. Durante il secondo tempo mi aveva fatto
sedere con lui. Sulle sue ginocchia. Avvolgendomi con le braccia. Baciandomi il
collo. Bisbigliandomi parole dolci. Ripetendo le battute di Di
Caprio nel mio orecchio. Ero stata ben attenta a non lasciarmi andare.
Ma all’ultimo avevo abbassato la
guardia ed ecco una lacrima scendermi lungo la guancia. Cercai di toglierla
velocemente con il dorso della mano, sperando che lui non l’avesse
notata. E invece l’aveva vista e non sorrideva più. Cercai di capire a
cosa stesse pensando ma non me ne diede il tempo. Mi fece girare e mi ritrovai
faccia a faccia con lui. Seduta a cavalcioni. Mi strinse. Forte. E mi guardò
con quei suoi bellissimi occhi verdi a cui proprio non sapevo resistere.
Sorrise dolcemente e mi baciò. Un bacio dolcissimo… mille volte più bello
di quello sullo schermo. Mi allontanai un attimo per riprendere fiato ma lui
impaziente mi riprese e…
Tornai
in me grazie a Veronica che mi scuoteva per la spalla. La fissai con gli occhi
lucidi, convinta che avesse capito tutto quello che stavo provando o che almeno
lo immaginasse e lei mi avvolse le spalle con un braccio. Posai la testa sulla
sua spalla avvilita, demoralizzata da me stessa e dal mio stupido
comportamento.
Vero
sbuffò ma con dolcezza. Accarezzandomi i capelli, mi avvicinò a sé ancora di
più:
-
Sei una stupida sai? E io lo sono ancora più di te: ci avrei scommesso che
andavi in crisi. Non dovevo portarti qui a vederlo. Se vuoi andiamo via-
Mi
rimisi a sedere sentendo quelle parole: non avevo alcuna intenzione di ispirare
compassione.
-
E perché mai? Non sono mica andata in crisi?-
Vero
mi fissò come se fossi pazza, e io quasi per ripicca cominciai a guardare il
film a testa alta. Era come se volessi dimostrare di aver ragione,dovevo provarle che si sbagliava. Anche se
sapevo benissimo che non era così, affatto: ero io ad essere nel torto,
chiunque lo avrebbe capito.
Potevo
fingere, però. Potevo mentire.
A
tutti forse ma non a me stessa: perché era vero e lo sapevo. Ero andata in
crisi. Ed ero ancora in piena crisi… Perché la colonna sonora del film
non mi aiutava, anzi mi aggrediva: terribile e dolorosa. Quelle poche,
evanescenti note, avevano il potere di farmi soffrire: facendomi ricordare con
crudeltà immane quello che più di tutto volevo dimenticare.
Aprii
la porta di casa con un gesto stanco e stavo per entrare quando fui fermato da
un grido imperioso che mi ordinava di non farlo. Ancora fermo sull’uscio,
con un piede a mezz’aria, lanciai un’occhiata furente al mio amico Andrea
sdraiato sul divano. Lui alzò gli occhi al cielo e in risposta mi rivolse un
ghigno compiaciuto:
-
Prenditela con tuo fratello: ha appena finito di passare la cera e non credo
sarebbe soddisfatto di vedere le tue luride impronte sul pavimento. E’ uscito
di testa, Davide… più di quanto già non lo fosse-
Non
potei che trovarmi d’accordo con lui, Maurizio non era mai stato tanto
normale: quale ventiduenne di sesso maschile si comporta come una perfetta
donnina di casa? E non aveva neanche la scusante dell’omosessualità! Sia
io che Andrea lo avevamo sospettato, ma ce ne eravamo accertati: era etero, un
etero che adorava fare la massaia, ma pur sempre etero… e poi era il mio
gemellino preferito! La voce di mio fratello mi giunse dalla cucina, in un
grido che rivelava un misto di sollievo e preoccupazione:
-
Davide, sei tornato! Scusa ora vengo, aspetta ancora un attimo! Non muoverti!-
Maurizio
arrivò di corsa e mi mise sotto gli occhi due coperture per i piedi: delle
sottospecie di pantofole, erano di pile e di un verde sgargiante, quasi
fosforescente. Lo guardai in faccia cercando di capire a che livello di pazzia
potesse essere arrivato ma mi scontrai violentemente con il suo sorriso a
trentadue denti.
-
Fai sul serio?-
Glielo
avevo chiesto a denti stretti, cercando di mantenermi dall’aggredirlo
come invece si sarebbe meritato; Maurizio mi guardò: era serio ma ancora
sorridente e dopo un istante annuì convinto.
Sconsolato
arretrai di un passo per poggiarmi alla ringhiera di ferro con le spalle, velocemente
tolsi le scarpette Nike nuove nuove e presi con
brutalità le cose pelose che Muzi mi porgeva. Le misi ai piedi per quanto il
tutto mi sembrasse un affronto alla mia già scarsa dignità e quindi, scansato
con fare irritato mio fratello, mi diressi insofferente verso Andrea.
Ignorando
il fatto che spintonandolo lo avevo quasi fatto cadere dal divanogli strappai di mano il telecomando senza
alcuna delicatezza e iniziai a fare uno zapping furioso: non era una cosa
sensata ma il cambiare repentinamente canale, quasi senza aver nemmeno
identificato il programma, aveva per me un che di rilassante.
Non
mi sfuggì l’occhiata che i due si scambiarono, carica di complicità e
sostegno. Mi sfuggiva qualcosa e me ne stavo rendendo conto: ora il dilemma era
se mi andava o meno di esserne messo a parte. Non avrei saputo dirlo e in ogni
caso non volevo pensarci, così controvoglia sbottai irritato:
-
Avete qualche problema? Dubbi, perplessità?!-
Andrea
al mio fianco tossì, camuffando quella che poteva benissimo essere una risata e
mormorò a mezza voce: - Sì: puzzi maledettamente! Quanto hai corso? Una doccia
no, eh?-
Non
mi degnai di rispondergli e anzi come gesto di rivalsa puramente infantile
alzai il braccio sinistro per avvolgere le sue spalle: sentii chiaramente come
iniziò a boccheggiare cercando di prendere aria, respirando però unicamente
dalla bocca e quella consapevolezza mi divertì forse più del dovuto.
Andrea
era un vecchio amico di famiglia, quel tipo di persona che puoi affermare
tranquillamente di conoscere come le tue tasche. Mi aveva sempre ricordato un
cucciolo, non in senso cattivo, assolutamente! Era il mio migliore amico ma era
come un cucciolo: quelli iperattivi che vogliono sempre giocare, che rompono i
coglioni anche senza rendersene conto perché è nella loro natura, anche quelli
però che in qualunque situazione sono sempre al tuo fianco, che non ti
abbandonerebbero mai. Ecco: lui era il mio cucciolo! E ne andavo fiero.
Con
la coda dell’occhio osservavo Maurizio che si tormentava le mani seduto
sulla poltrona lì vicino: aveva accavallato le gambe e muoveva con fare nervoso
il piede destro, agitandolo senza sosta.
-
Sto cucinando sai? Qualcosa di spettacolare, vedrai!-
Era
stato proprio lui a parlare, mormorando quelle poche parole a mezza voce: era
tremendamente a disagio eppure continuava a sfuggirmene il motivo. Risposi con
un piccolissimo cenno del capo, quasi impercettibile, del tutto indifferente.
Andrea mi allontanò, lanciandomi uno sguardo disgustato e poi fece segno a
Maurizio di proseguire il discorso: lui mimò il gesto di aspettare con la mano
e quindi, preso un bel respiro, continuò:
-
Ricordi stasera che succede? Davide? Te ne sei dimenticato vero?-
Nell’ultima
domanda la sua voce aveva raggiunto lo sconforto più totale, l’idea di
rispondergli però non mi sfiorò neanche per un attimo. Muzi dovette intuirlo
perché senza aspettare ancora andò avanti:
-
Ci deve pur essere un motivo se sto preparando l’arrosto non trovi?
Vengono quelle due ragazze a cena-
All’ultima
frase il mio dito si bloccò e la tv rimase sintonizzata su rai due: stavano
trasmettendo un cartone animato, Tom e Jerry. Rimasi per qualche minuto in
silenzio, cercando di concentrarmi sulla coda del gatto grigio ma proprio non
mi riusciva di respirare normalmente; Maurizio, spaventato dalla mia calma
apparente e giustamente intimorito dalla mia possibile reazione, con ottimi
riflessi scattò in piedi e si avviò verso la cucina.- Te l’avevo detto che sarebbero
venute, non fare quella faccia! Sono due belle ragazze, non sei contento?
Inizialmente non erano sicure ma quando hanno saputo che eravamo gemelli quasi
facevano i salti dalla gioia...-
Si
interruppe avvertendo la mia presenza alle spalle, trasalì e voltatosi di colpo
mi fissò negli occhi supplice:
-
Davide, per favore. Che ti costa? Una cena, solo una cena. Ti prego-
Il
sorriso era scomparso dal suo volto lasciando il posto ad un espressione a metà
fra la sofferenza e l’esasperazione. Annuii forzatamente e mi avviai
verso il bagno, trascinando i piedi e borbottando fra me e me.
Non
mi ero mai sentito così abbattuto: neanche la perpetua allegria di Andrea
riusciva più a tirarmi su di morale. Non potevo andare avanti così: rischiavo
di arrivare a prendere in considerazione il suicidio.
Ed
era prematuro, poco ma sicuro.
*
Ilaria
Veronica
aumentò il passo per raggiungermi.
Il
ticchettio dei suoi tacchi sull’asfalto mi avvertiva di quanto si stesse
avvicinando, così quando mi prese di slancio a braccetto riuscii a non perdere
l’equilibrio. Lei si poggiò a me di peso, tenendo la testa sulla mia
spalla- Sai, non credevo che ce
l’avresti fatta: soprattutto verso la fine ho temuto il peggio e invece
sei stata bravissima! Voglio sperare che tutte le lacrime fossero unicamente
per il povero Leo-
La
guardai con un’aria che doveva essere offesa, aggrottando poi le
sopracciglia risposi:
-
Certo che sì! Per chi altri potevano essere?-
Lei
allora scoppiò a ridere e mi scoccò un bacio sulla guancia. Se anche sospettava
che le avessi mentito non lo diede a vedere, cambiando invece discorso e
rivolgendomi un enorme sorriso:
-
Ti va un gelato?-
Istintivamente
mi strinsi di più nella giacca, rabbrividendo per un fremito improvviso. Non
ebbi però il coraggio di rifiutare, non ora che per l’ennesima volta mi aveva
dimostrato quanto fosse unica: annuii e sempre a braccetto ci avviammo nel
vicolo a destra, verso la nostra gelateria preferita. Era poco frequentata a
causa della posizione nascosta: occupava un piccolissimo spazio fra
un’autofficina in disuso ed una scuola di ballo per anziani, faceva però
il migliore gelato artigianale della zona, cremoso e dolce al punto giusto.
Quando
entrammo era completamente deserta e il signore dietro il bancone sgranò gli
occhi vedendoci: come dargli torto? Prendemmo due coni dopo aver approfittato
in maniera quasi scandalosa della pazienza del signore: avevamo impiegato poco
meno di mezz’ora per sceglierne i gusti, cambiando idea un’infinità
di volte.
Fra
risa convulse e battiti di denti tornammo infine alle nostre macchine: prima di
salutare Veronica guardai di sfuggita il conta gradi sul cruscotto. Sbattei le
palpebre per accertarmi di non essermi sbagliata: undici.
-
Siamo due pazze! Ti rendi conto?! Tu che mi offri un gelato quando ci sono solo
undici gradi e io che accetto anche! Come si fa?-
Vero
sorrise con le labbra livide per il freddo, abbracciandomi per dimostrarmi la
sua riconoscenza, quindi, dati due frettolosi baci sulle guance scappò via,
salutandomi un’ultima volta con la mano. Nel tragitto verso casa tenni la
musica a palla: avevo bisogno di qualcosa che mi distraesse. Qualunque cosa che
mi aiutasse ad arrivare al letto e possibilmente anche ad addormentarmi prima
che potessi sprofondare ancora nei ricordi. Perché sapevo benissimo cosa
cercavo di evitare. Ero perfettamente cosciente di quale baratro si stava per
aprire sotto di me. La colpa era tutta del gelato. Di riflesso quindi la colpa
era anche di Vero. Impegnata in queste riflessioni folli raggiunsi la porta di
casa ma non appena mi fui chiusa la porta alle spalle ed ebbi posato la chiavi
sul comodino, sprofondai…
- Allora? Lo vuoi o no questo gelato?-
Era stato Davide a chiedermelo, con un
tono che voleva essere esasperato senza però buoni risultati.
Lo guardai di rimando, tormentandomi le mani.
Poi abbassai lo sguardo, messa in difficoltà.
- Non lo so-
Lui sbuffò divertito e con due dita mi
sollevò il mento. Incatenò il mio sguardo nei suoi occhioni indagatori:
- E come mai non lo sai?-
Sorrisi indecisa. Imbarazzata ancor di
più per via di quegli smeraldi che mi fissavano.
- Perché fa freddo-
Lui si illuminò. Sembrava quasi
sollevato da quella risposta, svagato per la situazione.
- Solo per questo? Ti scaldo io piccola.
Ti tengo stretta per tutto il tempo che vuoi…-
Gli diedi uno schiaffetto sulla spalla e
lui rise. Poi mi guardò con aria interrogativa, aspettando che decidessi: alla
fine annuii e con un gesto veloce afferrai la banconota che mi porgeva.
- Va bene: lo prendo. Ma vado sola, tu
aspettami qui-
Mi incamminai verso la gelateria
dall’altro lato della strada con ancora la voce di lui nelle orecchie:
- Non mi muoverò per nulla al mondo-
Scossi la testa, chiudendo gli occhi:
com’era esagerato! Esageratamente dolce…
Quando uscii con il cono in mano lo vidi
ancora nello stesso identico posto: cercava me con lo sguardo.
Non appena mi intravide fra la folla
aprì le braccia per chiamarmi a sé, non me lo feci ripetere due volte e mi
tuffai contro il suo petto. Mi osservava, con quei suoi occhioni verdi… e
poi di colpo visi accese una scintilla.
Era uno sguardo che ormai avevo imparato a riconoscere: uno sguardo che
preannunciava una sua idea.
Un’ idea che sapeva bene mi
avrebbe messa in imbarazzo.
Lo guardai di sottecchi e a mezza voce
gli chiesi che avesse. Lui mi fissò ancora un po’, poi sussurrò:
- Sei sporca di gelato…-
Avevo già mosso la mano per prendere un
fazzolettino nella borsa, quando lui mi fermò. Si avvicinò di più e sorridendo
con aria furba concluse la frase:
-
…ci penso io-
Non ebbi il tempo di capire cosa aveva
intenzione di fare.
Mi attirò a sé e con la lingua iniziò a
percorrere il contorno della mia bocca. Cercai di allontanarmima lui era irremovibile e continuò finché non
mi lasciai andare a quell’ultimo bacio. Quando mi fui arresa Davide
ridacchiò e iniziò a succhiarmi dolcemente il labbro inferiore.
Spensierati come non mai. Divertiti da
quel nuovo gioco, da quel nuovo bacio… da quel vortice confuso in cui si
fondevano e mischiavano nutella, nocciola e stracciatella.
Sussultai
sentendo qualcuno che mi abbracciava da dietro. Mi voltai di scatto,
ritrovandomi faccia a faccia con il mio fratellone.
-
Mirko!-
Lo
avevo gridato, portandomi una mano al petto e cercando di riprendermi dalla
paura. Lui sorrise e mi prese per mano, trascinandomi di peso mi portò in
cucina, facendomi sedere al tavolo. Non accese la luce, prendendo semplicemente
posto di fronte a me e cominciando a studiare la mia espressione
sovrappensiero.
Odiavo
quando mi scrutava in quel modo: mi inquietava terribilmente, così con voce
neutrale domandai la prima cosa che mi venne in mente, sperando di distrarlo:
-
Come mai non sei a letto? Domani non lavori?-
Lui
scosse la testa e subito dopo mosse il capo verso di me, indicandomi
biasimevole:
-
Sei rimasta immobile in soggiorno per più di sette minuti, lo sai?-
Non
mi lasciò rispondere e continuò, sempre guardandomi torvo ed accigliato:
-
Si può sapere che ti prende? Credevo avessimo superato questa fase circa un
mese fa… Ci sei ricaduta? Cioè pensavo andasse meglio e ora ti ritrovo di
nuovo, sprofondata, come dici tu?-
Cercai
di fermarlo: non volevo che si preoccupasse per me ed era vero, l’avevo
superata quella fase.
Ma
ora… come glielo spiegavo? Non poteva capire. Gli volevo un mondo di bene
e lui nemmeno immaginava come gli fossi riconoscente per tutto l’appoggio
che mi aveva dato e che continuava sempre a darmi.
C’era
anche stato un periodo in cui avevo avuto un’incredibile voglia di fargli
leggere i miei diari, per permettergli di capire cosa stessi passando, così da
farmi comprendere appieno. Era stato durante il mio periodo più nero: quando
ero convinta che lui fosse l’unico di cui mi potessi fidare e che non mi
avrebbe tradita in un secondo tempo. Alla fine però non l’avevo fatto:
erano troppo personali e non potevo certo stare alle sue spalle chiudendogli
gli occhi quando arrivava ad una parte che non poteva leggere, o meglio che non
volevo leggesse.
Erano
miei. Solo miei… troppo privati e riservati, anche per il mio fratellone.
Interpretando
erroneamente il mio silenzio Mirko tentò un altro approccio:
-
Sai, lui sta mille volte peggio di te. Sembra abbia un aspetto orribile: che a
mala pena viva un continuo dormiveglia e…-
Non
lo feci concludere: non provavo alcuna pietà, solo rabbia ed un pizzico di
soddisfazione.
-
E tu come le sai queste cose?-
Ignorai
il fatto che fosse impallidito di colpo: che si stesse inventando o meno tutto,
non volevo sentire una parola di più! Per me lui era morto…
Mi
alzai infuriata e mi fiondai in camera, seguita a ruota da mio fratello. Lo
sentii balbettare dietro di me ma non mi preoccupai di capire cosa cercasse di
dire:
-
Se lo merita. Merita di passare tutto quello che sta soffrendo! Brutto bastardo
figlio di… !-
Il
resto della frase fu censurato a Mirko, rimasto chiuso fuori: il rumore
violento della porta sbattutagli in faccia doveva aver coperto le mia parole ma
non credo gli fosse difficile immaginarne il seguito.
Maurizio
camminava scocciato per la cucina con il telefonino incollato
all’orecchio.
Non
appena sentì un “Pronto” dall’altra parte sbuffò spazientito:
-
Andrè! Si può sapere che fine hai fatto?!-
L’altro
restò in silenzio per qualche attimo come ad imporsi di mantenere la calma,
quindi rispose con voce leggermente alterata:
-
Sto arrivando! Cinque minuti e sono sotto casa tua ma si può sapere che ti
prende?! Dieci messaggi! Dico dieci! E tutti del tipo “Muoviti, vieni
subito, perché non sei già qui?!” Cioè ma dico: è una cena! Che può
essere mai successo? Davide si è buttato dal balcone? Ha accoltellato una delle
ragazze? Perché se non è così…!- Maurizio con un sogghigno isterico, lo
interruppe
-
Oh, no… la cena è andata bene: è stato cortese, educato e sporadicamente
ha anche sorriso, figurati! Le ragazze pendevano letteralmente dalle mie
labbra, specialmente Miriam-
Andrea
ormai al cancello suonò il clacson per farsi aprire e poi curioso chiese:
-
E allora? E’ andata bene no? Che volevi di più? … A meno che tu non
sperassi che andasse male, così da portarti a letto tutte e due?!-
Maurizio
mugugnò:
-
Ma per favore! Il problema… cioè quando ho servito il dolce, il gelato
che mi avevi portato, lui è… lo sai, entrato come in catalessi-
Si
fermò ed andò ad aprire la porta.
Andrea
ora davanti a lui, aveva stampato in faccia un mezzo sorriso:
-
In conclusione? Se ne sono andate?-
L’altro
scosse la testa, fissandolo con una faccia da cane bastonato, scuotendo la
testa sconvolto:
-
Devi vedere con i tuoi occhi-
Non
appena furono entrati in salotto, Andrea vide Davide sul divano, completamente
demoralizzato ed avvilito. Ma non fu questo a stupirlo: era una scena che ormai
conosceva bene. A lasciarlo basito furono le due gemelle che lo abbracciavano,
una alla destra e l’altra alla sinistra di Davide: rosse, con gli occhi
celesti e indosso due mini vestitini perfettamente abbinati. Entrambe chine su
di lui: una che gli accarezzava i capelli e l’altra che se lo sbaciucchiava,
mormorandogli qualcosa a fior di labbra.
Andrea
si voltò cercando Maurizio con lo sguardo: lo trovò in cucina, piegato sul
tavolo con il viso nascosto; Gli si sedette di fronte e picchiettò il dito
ritmicamente aspettando che alzasse la testa. Quando Maurizio cedette e lo
guardò disperato, l’altro sorrise divertito:
-
Che stanno facendo le gemelline?-
Maurizio
con voce roca, fra il pianto e la pazzia, rispose:
-
Lo consolano: l’hanno visto triste e sconsolato e da buoni tre quarti
d’ora stanno là, attaccate a lui, gli si strusciano contro e se lo
sbaciucchiano! … ti ho chiamati perché speravo saresti riuscito a
fermarmi dal commettere un triplice omicidio con suicidio per gran finale-
Andrea
non riuscì a trattenere una risata sentendolo parlare, quindi scuotendo la
testa convulsamente disse:
-
Hai visto che avevo ragione?-
Nonostante
l’occhiata di fuoco rivoltagli dall’amico continuò imperterrito:
-
In tutti i casi è un grande a rimorchiare!-
*
Ilaria
Qualcosa
suonava.
Era
un rumore orribile che mi martellava nelle orecchie. Solo dopo qualche minuto
riuscii a connettere e a capire che era la sveglia, puntuale come sempre. In
quel momento l’idea di rimanere a letto era paurosamente allettante, se
non fosse stato per dei rumori sospetti provenienti dalla cucina probabilmente
sarei riuscita ad autoconvincermi ma sembrava che qualcuno stesse distruggendo
qualcosa di là, così sebbene controvoglia mi alzai. Entrai in cucina e vidi
Mirko impegnato ai fornelli che cuoceva delle frittelle.
La
tavola era già apparecchiata, completamente ricoperta da cibo. Ogni spazio era
riempito da dolci, bevande, merendine. Si girò per mettere anche le frittelle a
tavola e mi vide. Sorrise radioso:
-
Scricciolo! Buon giorno!-
Gli
sorrisi di rimando e con aria incredula gli chiesi chi avesse invitato a
colazione.
-
Nessuno. È per te-
Mi
rispose candidamente, come fosse la cosa più naturale del mondo. Lo scrutai
allibita poi di colpo ricordai cosa era successo la sera prima e lo guardai
dispiaciuta:
-
Mirko, non… ieri io non volevo dire, non ce l’avevo con te!
E’ solo che… scusami!-
Lui
mi guardò e fece spallucce:
-
Scusarti? Per cosa? Non ricordo niente che tu abbia da farti perdonare!-
Si
avvicinò e mi spinse su una sedia. Si appoggiò alla porta, socchiudendola con
le spalle e mi incitò a mangiare. Non appena ebbi preso in mano qualcosa gli
squillò il cellulare: lo sentii sospirare innervosito e lo guardai curiosa. Era
scomparso dalla mia visuale, dopo un po’ lo vidi riapparire con la giacca
e delle cartelline in mano.
-
Devo andare. Non sai quanto mi dispiace! Un cliente…-
Con
la mano gli feci segno di fermarsi e gli sorrisi. Non doveva spiegarmi niente:
-
Vai. Ci vediamo stasera-
Mi
passò accanto, prese un muffin e mi baciò sulla guancia di volata. Quando
sentii lo scatto della porta che si chiudeva, mi alzai e mi affacciai alla
finestra. Lo vidi prendere la macchina e partire a tutto gas.
Mi
nascondeva qualcosa, ne ero sicura, ma non avevo né il tempo né la voglia di
scoprire cosa.
Dovevo
andare a casa degli Aronne e poi all’università ed ero già in ritardo!
Corsi in camera e mi preparai: giusto il tempo di mettere un paio di jeans
scuri e una felpa a caso, poi afferrai il primo giubbino sotto tiro, la borsa a
tracolla con i libri e la valigetta del lavoro, niente da invidiare ad un mulo
da soma in conclusione.Scesi di corsa
le scale e stavo aprendo il portone quando mi squillò il cellulare facendomi
trasalire e cadere le chiavi. Imprecando lo presi dalla tasca:
-
La signorina Amato? Sono Claudio Aronne: dovevo contattarla per spiegarle come
arrivare a casa mia-
Annuii
e risposi gentilmente, cercando di sembrare il più disponibile possibile:
-
Sì certo, grazie! Mi dica-
L’altro
iniziò a spiegare la strada: prendere la provinciale, girare al monumento,
passare per il ponte e costeggiando la spiaggia… mi persi in quel punto.
La terra mi iniziò a tremare sotto i piedi, non realmente, per carità, ma per
me tremò. Cercai di non caderci ancora ma non riuscii ad oppormi. Mi poggiai con
le spalle al muro, per metà fuori il portone e sprofondai, ancora.
Mi ero
addormentata al sole, sulla spiaggia.
Con il rumore delle onde a cullarmi
gentilmente. All’improvviso, sentii un soffio sul collo, più volte: ma non
era fastidioso, anzi era piacevole, molto. Continuando a tenere gli occhi
chiusi, senza aver ancora realizzato dove fossi, sorrisi. E allora sentii al
mio fianco una risata dolcissima. Una risata che avrei riconosciuto ovunque.
Aprii gli occhi e vidi Davide sdraiato sul fianco vicino a me. Il mio sorriso
si allargò ancora di più. Mi diede un leggero bacio sulle labbra e lentamente
si spostò lungo il collo… a un certo punto si fermò e mi guardò
sovrappensiero:
- Non hai caldo?-
Esitai un secondo, sentendomi scendere
una goccia di sudore lungo la schiena annuii:
- Un po’. Ma…-
Scossi la testa istintivamente vedendo
di nuovo quella luce nei suoi occhi. Lui mi prese la mano e iniziò a
solleticarmi il palmo.
- Ti va di fare un bagno?-
Sorrisi e scossi la testa, leggermente
preoccupata dalla sua espressione. Lui ridacchiò e mi strinse di più la mano:
- Per favore… ti prego!-
Il mio sguardo si addolcì, mi alzai sui
gomiti e stavo per ridirgli di no quando scattò in piedi e mi prese fra le
braccia. Troppo sorpresa per oppormi riuscii solo ad aggrapparmi al suo collo
mentre correva verso il mare. Ci tuffammo e ridendo riemergemmo.Mi ero allontanata da lui solo un po’,
ed eccolo di nuovo vicinissimo a me, mi circondò i fianchi e sorrise:
- Non è poi tanto male no?-
Io non risposi, mi strinsi di più a lui
e gli passai una mano fra i capelli bagnati…
Una
voce nell’orecchio destro mi riportò alla realtà:
-
Signorina? Ha capito?-
-
Sì… sto arrivando-
Ero
tornata alla realtà. Non ero più in spiaggia. Non ero più sotto il sole. Non
ero più nelle braccia di Davide. Ero fuori il portone di casa. C’erano
dodici gradi. Ed ero sola.
Avevo
deciso: sarei andato a lavoro. E stavolta puntuale. Ad un orario vagamente
decente e non puntuale per la pausa pranzo come mio solito. Era stato papà a farmi
avere il posto. Eh, già, sono proprio un figlio di papà.
Il
mio rapporto con lui non è stato granché, almeno fino ai dodici anni. Fu in
quell’anno che mamma morì: cancro. Non penso molto spesso a quel periodo:
è stato orrendo, terribile a dir poco.
Papà
ne era uscito come l’ombra di se stesso: lui, il grande, ricchissimo,
indistruttibile uomo d’affari, era rimasto chiuso in camera per
quarantacinque giorni e undici ore. Quando ne uscì era cambiato: aveva deciso
che avrebbe ricominciato a vivere, per la mamma, per Maurizio e me, per se
stesso.
E
così fece, l’ho sempre ammirato per la sua determinazione: passò più
tempo a casa, si dedicò tantissimo ai suoi due figli, aiutandoli negli studi e
in qualunque cosa volessero una mano. Non ci fece mancare niente, io e Muzi ci
scherzavamo sempre: con solo la metà dei soldi di papà, dei nostri soldi,
avremmo potuto vivere di rendita noi e tutti i nostri discendenti. Ma non
c’è sfizio a vivere di rendita: dopo un po’ ci si annoia. Così Muzi
aveva iniziato a farsi prendere dalle sue manie di organizzazione, grazie alle
quali era diventato dirigente operativo di… non ho ancora ben capito di
cosa, e io mi ero “accontentato” di un lavoro offertomi da papà:
direttore in una delle sue due multinazionali.
Strusciando
i piedi arrivai in cucina dove trovai Maurizio che leggeva il giornale e
passando avevo intravisto Andrea: davanti alla televisione, ormai parte
integrante del divano. Salutai mio fratello che mi rispose solo con un cenno
del capo e mi versai del caffè, non ero sicuro di ricordare bene cosa fosse
successo la sera prima ma se anche solo una piccola parte dei miei sospetti era
fondata… ero proprio nei guai.
Guardai
ancora Muzi: beveva caffè. Brutto segno. Quando la spremuta d’arancia
mattutina andava a farsi fottere era meglio uscire di casa il più velocemente
possibile; ma stavolta non potevo…
-
Ehy, Maurizio. Bella giornata vero?-
Lui
annuì ma non fiatò, sospirai e guardai sconsolato Andrea che ci osservava
divertito, poi continuai:
-
Mi dispiace-
Maurizio
mi guardò, completamente indifferente:
-
Per cosa?-
Finii
il mio caffè e risposi:
-
Per ieri sera… lo sai-
Lui
bevve un lungo sorso e sorrise, continuando per me:
-
Non hai niente di cui scusarti hai…-
Non
ce la feci più e con immenso piacere di Andrea lo interruppi di botto:
-
Maurì!. Smettila: ho detto che
mi dispiace. Perché sei così sadico? Non so che mi è preso: quando hai servito
il gelato, lo sai, la marea… e io volevo andarmene, ma loro! Sono state
loro a placcarmi e…-
Mi
fermai vedendolo sorridere ma di un sorriso vero stavolta. Maurizio si alzò e
si avvicinò al lavandino, ci buttò il caffè, poi disse:
-
Io dovrei scusarmi. Non tu. Sono stato talmente egoista da prendermela perché
ti eri arraffato le gemelle invece che pensare a come stavi. E’ che: devi
capirmi, era da un po’ che non… ti stranivi in quel modo, o quello
che dici tu, anche mentre sei in compagnia, così… non ero pronto, ecco
tutto-
Gli
misi una mano sulla spalla in segno di riconoscimento. Sarebbe stato un bel
momento tra fratelli da ricordare, non fosse stato per lo scoppio improvviso di
risa proveniente da Andrea. Ci girammo a guardarlo: seduto al tavolo, tutto
preso da una vignetta di Snoopy sul giornale e lui alzò lo sguardo:
-
Oh, scusate! Ho mica interrotto qualcosa?-
Stavo
per andarmene quando Andrea mi fermò e disse tutto entusiasmato:
-
Comunque, per ieri sera, sei stato grande! Non so se lo hai fatto apposta o no
ma sei stato magnifico-
Non
mi sfuggì lo sguardo di ammonimento che gli rivolse mio fratello e non sfuggì
neanche ad Andrea che continuò, leggermente impensierito:
-
Oh… ma stai sul serio ancora tanto male? Cioè, ma dico, di solito non
sono le ragazze a soffrire di più? Specialmente in questo particolare caso! E poi
che io sappia lei sta ancora male, male sul serio e…-
Non
lo ascoltavo più. Non sentivo più niente. Forse era una specie di spirito di
preservazione: automaticamente non ascoltavo quello che mi faceva male, quello
che mi faceva male da impazzire…
Presi
la giacca e le chiavi di casa e me ne andai. Prima di chiudermi la porta alle
spalle, sentii però un urlo di dolore e Andrea che chiedeva cosa mai avesse
detto per meritarsi una batosta simile.
Arrivai
in ufficio talmente presto che la guardia all’ingresso mi guardò come se
invece di essere sceso da una Aston Martinnera, fossi sceso da un’astronave. Presi l’ascensore e salii
fino al dodicesimo piano. Entrai nel mio ufficio e mi buttai sul divanetto. Non
saprei dire quanto tempo fosse passato, ma a un certo punto iniziò a squillare
il telefono.
Non
il mio. Quello dell’ufficio. Strano. Dopo un bel po’ di squilli
decisi di alzarmi visto che il disturbatore non sembrava intenzionato a
desistere. Risposi e una voce allegra mi salutò. Doveva essere Vittorio, o
qualcosa del genere…
-
Sono Vincenzo, del settimo piano-
C’ero
andato vicino.
-
Vincenzo che piacere, posso fare qualcosa…-
Non
mi lasciò terminare la frase, interrompendomi infervorato:
-
Allora sei davvero in ufficio? Non volevo crederci ma tutti non parlano
d’altro…-
Forse
intuì che stava entrando in un campo minato perché cambiò rapidamente discorso:
-…e
mi chiedevo, veramente ci chiedevamo, se ti andasse di unirti a noi per una
partita a poker durante la pausa pranzo…-
Il
mio cervello si era bloccato inspiegabilmente sulla parola poker.
Da
quanto tempo non la sentivo? Persino Andrea aveva imparato a non pronunciarla.
Perciò la sensazione di nausea non mi stupì: stava arrivando, la marea…
- Chi ci sta?-
Era stato Andrea a chiederlo. Al tavolo
eravamo Maurizio, Veronica, Andrea, Ilaria ed io.
Maurizio lasciò. Veronica anche. Toccava
a lei. La guardai. Non traspariva nessuna emozione dal suo viso. Una perfetta
faccia da poker.
Quando mi aveva sfidato a giocare io
avevo riso. L’avevo abbracciata e le avevo sussurrato:
- No, piccola, non mi va di farti
perdere dei soldi-
Ma lei non aveva riso. Anzi, se
l’era presa. E si era intestardita fino a quando non avevo accettato di
farla giocare. E ora eccola lì. La mia piccola. Con una perfetta faccia da
poker. Incredibile.
Sollevò lo sguardo… e puntò. Ci
stava. Andrea sorrise, credendo di averla in pugno. Solo io l’avevo
vista. Quella luce che si era accesa nei suoi occhi. Le guardai le unghie. Non
erano viola. Non era nervosa.
Niente da fare, doveva avere un buon
punto in mano. La mia piccola.
Toccava a me. Puntai. Andrea ormai
fremeva, convinto di poter vincere tutto.
Ma io mi fidavo di lei. E se ci stava
significava che gli avrebbe fatto rimpiangere di averla sottovalutata.
Io l’avevo fatto e avevo
sbagliato… ma come si dice? L’importante è capirli i propri errori.
Maurizio abbassò le sue carte. Full di
donna. Niente male.
Toccava a lei, ma la precedetti e
abbassai le mie di carte: solo un tris di nove. Non ero andato per vincere.
Ero andato per vedere Andrea
perdere… e lei vincere.
Rimaneva solo una persona. Andrea già si
stava allungando verso le fiches.
Lei con lentezza calcolata abbassò le
carte. Scala reale.
Eruppiin un’esclamazione di gioia. Maurizio e Veronica ridevano e si complimentavano
con la vincitrice. Andrea crollò sulla sua sedia, distrutto, con una faccia
degna di essere fotografata. Aveva perso.
Lei aveva vinto. Aveva vinto alla
grande. Aveva stravinto!!
La presi per mano e la portai con me in
balcone. Passando per la cucina avevo preso due bicchieri di champagne.
- Dobbiamo festeggiare-
Lei mi sorrise ancora emozionata.
- Sei stata magnifica-
Prese un bicchiere dalla mia mano e mi
sussurrò nell’orecchio:
- Non te lo aspettavi eh?-
Ero raggiante, la strinsi a me con il
braccio libero:
- E sbagliavo, non lo farò mai più
piccola-
Bevemmo un sorso di champagne… mi
passò un braccio dietro il collo per coprire quei centimetri che ci separavano.
La aiutai stringendola di più a me. Mi ero perso ancora una volta nei suoi
occhi…
-
Davide? Davide ci sei ancora? Allora vieni o no a giocare?-
Risposi
bruscamente di no e attaccai altrettanto brutalmente. Lo odiai in quel momento.
Per avermi fatto seppellire di nuovo dalla marea e per avermici poi tirato
fuori troppo presto.
*
Ilaria
Sulla
via del ritorno, una forza invisibile e sconosciuta mi costrinse a premere il
piede sul freno.
Parcheggiai
la macchina, all’ombra di un’enorme quercia. La strada era deserta.
Se avessi attraversato e mi fossi avvicinata al muretto, sapevo bene cosa avrei
visto. Dire che in quel momento stavo compiendo numerose azioni masochiste era
un eufemismo bello e buono: perché? Perché se avessi attraversato e se mi fossi
avvicinata a quel muretto, avrei visto una spiaggia.
Una
spiaggia che amavo ed odiavo.
La
stessa spiaggia in cui mi ero ritrovata dopo essere sprofondata. Perché mi
volevo fare del male? Domanda retorica. Non ha risposta. Non poteva avere
risposta. Iniziai a camminare, lentamente. Un passettino alla volta. Ma non
verso la macchina, per andare all’università. No, mi stavo avviando verso
il muretto. Era uno di quei momenti in cui… No, niente da fare, non
riuscivo a seguire un corso logico di pensieri. Avevo la mente in subbuglio,
non capivo più niente. Il muretto si avvicinava sempre di più…
Quando
ad un certo punto mi sentii centrata improvvisamente nel fianco. Qualcosa di
pesante, di forte mi aveva colpita e buttata a terra. Mi ci volle un po’
per capire che non era stato un qualcosa, ma un qualcuno… e vedendomi
passare affianco a velocità paurosa un’auto, proprio dove pochi attimi
prima ero io, non mi fu difficile più di tanto, intuirne il motivo. Con il
respiro affannato sollevai lo sguardo sulla figura che mi sovrastava: era un
ragazzo, letteralmente sdraiato sopra di me. Aveva gli occhi chiusi.
Poi
li aprì ed incrociammo lo sguardo. Sorrise.
Non
fu proprio quel che si può definire un sorriso caldo e affettuoso: era un
sorriso tirato, preoccupato, ma al tempo stesso immensamente sollevato.
-
Stai bene?-
Non
risposi subito e in quei pochi attimi di esitazione mi guadagnai
un’occhiata carica di preoccupazione.
-
Che c’è?-
Mi
sorrise di nuovo, più rilassato questa volta:
-
Stavo cercando di capire se non rispondevi perché sotto shock per la morte scampata
o semplicemente perché non ti andava…-
Io
allora replicai, rispondendo al tono scherzoso di lui:
-
Non me ne hai semplicemente dato il tempo. Metabolizzo molto facilmente questo
tipo di notizie. Non sono morta, fine della storia-
Il
suo sorriso divenne ancora più grande:
-
Ah, capisco. Sei viva, fine della storia. Non mi ringrazi neanche?-
Non
riuscii a trattenere un accenno di risata e divertita risposi:
-
Se ti alzassi, dandomi la possibilità di respirare, forse potrei anche trovare
il modo migliore di esprimerti tutta la mia gratitudine-
Lui
guardò a destra e a sinistra come ad assicurarsi che non ci fossero osservatori
indiscreti, poi poggiò le mani a terra, ai lati della mia testa, e facendo leva
solo sulle braccia, si sollevò in piedi.
Subito
allungò un braccio, offrendomi la mano. La afferrai e mi tirò su. Mi girava un
po’ la testa e senza volerlo mi appoggiai a lui per non cadere. Mi
guardò, di nuovo preoccupato:
-
Sicura di stare bene?-
Annuii
ma non gli dovetti sembrare convinta. Mi prese per il braccio e iniziò a
guidarmi lungo la strada.
-
Che fai?-
Senza
guardarmi rispose:
-
Ti offro un caffè-
Lo
guardai sorpresa: non mi ero resa conto di quanto fosse alto, forse poco meno
di Davide.
Fu
allora che scattò qualcosa.
Lo
osservai meglio: era biondo, con due scintillanti occhi blu. Indossava jeans
strappati ed una maglietta a mezze maniche che metteva in mostra i muscoli
delle braccia ben abbronzate.
Era
diverso.
Diverso
da lui. Diverso da colui che volevo dimenticare. La sua voce mi distrasse:
-
Devo prendere la tua mancanza di opposizione come un consenso?-
Lo
aveva chiesto sorridendo, cercando di nascondere dietro un tono giocoso che un
rifiuto gli sarebbe dispiaciuto molto. Incrociai il suo sguardo ancora una
volta:
Molto,
davvero molto, più tardi del solito. La guardia all’entrata era la stessa
di quella mattina. Salutai con un cenno del capo e feci per uscire il più velocemente
possibile. La sentii comunque sussurrare ad una donna delle pulizie, con fare
sarcastico:
-
Ora posso affermare di averle viste tutte-
Appena
uscito fui accolto da una raffica di vento gelido. Automaticamente mi tirai su
il colletto del giaccone ed affondai la testa in quel poco di stoffa sperando
mi trasmettesse del calore. Speranza vana. Tornando alla macchina riecco la
nausea. Ma stavolta non mi sorprese: ero quasi preparato. Sapevo cosa mi
aspettava e non era poi tanto male come prospettiva. Odiavo ammetterlo ma ne
ero quasi diventato dipendente.
Non
riuscivo più a fare a meno di quella marea…
Stavo male. Avevo la febbre.
Non riuscivo quasi a respirare. Avevo la
gola in fiamme. Gli occhi iniettati di sangue. E la testa mi scoppiava. Avevo
chiesto a Maurizio di chiamare Ilaria per annullare l’appuntamento di
quella sera.
Non ero in condizione di fare niente.
Odiavo essere vulnerabile.
E non volevo assolutamente che lei mi
vedesse in quello stato… Ero sdraiato sul divano.
Con la televisione spenta: non faceva
assolutamente niente.
Non avevo sentito il campanello e quando
Maurizio mi disse che avevo visite lo guardai con gli occhi sgranati e con voce
atona gli chiesi se scherzasse. Lui negò:
- Ho chiamato Ilariama lei mi è sembrata preoccupata e… lei
mi piace Davide,non volevo che
rovinassi tutto anche con lei e perché sei malato poi! Perciò le ho detto che
non volevi vederla perché avevi la febbre: lei ha riso e poi haattaccato-
E poi la vidi.
Lì, poggiata allo stipite della porta.
Con quel sorriso che mi faceva impazzire.
Si avvicinò lentamente e si inginocchiò
vicino al divano. Mi fissava con quei suoi occhioni.
Posò leggermente le labbra sulle mie.
Quel piccolissimo contatto bastò a farmi dare i numeri. Sorrisi anch’io.
Dimentico della febbre. Del dolore. Della vergogna.
C’era solo lei. Lei lì davanti a
me.
Aprì la busta che aveva in mano e tirò
fuori dei dvd. Ne mise uno e poi si sdraiò accanto a me. La avvolsi con un
braccio e tirai la coperta anche su di lei. Poggiava la testa sul mio petto.
Ogni tanto si girava verso di me e mi guardava. Poi metteva le sue labbra sulla
mia fronte per sentire la temperatura, scostava con delicatezza i capelli che,
scompigliati, mi ricadevano in viso e mi baciava, per poco tempo, come se avesse
paura che la mia poca riserva d’aria non mi permettesse di reggere più a
lungo.
E forse aveva ragione. Ma non aveva
importanza, avrei rischiato.
Avrei rischiato il tutto per tutto con lei.
Lei che era venuta da me. Lei che mi aveva visto malato. Lei che mi avrebbe
potuto mandare al manicomio in qualsiasi momento, lei che era inutilmente
preoccupata per me.
Fui io a baciarla questa volta, per
tanto tempo… davvero, davvero tanto.
La parte finale del bacio era stata
eccezionale.Quando non riuscivo quasi
più a respirare, avevo lei lì con me,e
sapevo che era più importante anche dell’aria…
Arrivai
a casa in dodici minuti e trentacinque secondi esatti. Tempo record.
Entrai
e mi avviai subito in cucina. Avevo bisogno di bere. Qualcosa di forte. Dal
salotto arrivava della musica, probabilmente la televisione. Quasi certamente
Andrea. Stavo cercando di identificare che programma fosse quando Maurizio mi
colse di sorpresa. Peggio ancora mi colse in flagrante, con la bottiglia di
vino ancora in mano. Mi guardò ma non disse nulla.Feci finta di niente e posai la bottiglia,
quindi passai in salotto.
Stavo
per salutare automaticamente Andrea ma il saluto mi rimase in gola: non era lui
che guardava la televisione. No, era qualcuno che non conoscevo.
Capii
ma solo in parte, come mai Maurizio non mi aveva sgridato.
-
Davide, ti presento Armando, un mio amico. Armando, lui è Davide, mio fratello-
Strinsi
la mano al ragazzo seduto sul divano. Di poco più grande, giusto forse un anno
o due. Era mingherlino, con un paio di occhiali da topo di biblioteca. Gli
sorrisi e stavo per dire una cosa quando squillò qualcosa. Il cellulare di
Maurizio. Per sbaglio rispose con il vivavoce. Era Andrea.
-
Ehy, Maurì! Allora? Davide è tornato? Ha conosciuto lo strizza…-
Maurizio
tolse il vivavoce e se ne andò in cucina, parlando a bassa voce. Ma avevo
sentito abbastanza. Abbastanza per me, troppo per i due che non sarebbero
sfuggiti alla mia furia omicida.
Mi
scusai un attimo con Armando ed andai in cucina. Mi avvicinai con un ghigno al
mio fratellino e gli tolsi il telefono di mano. Con indice e pollice lo chiusi
di scatto e mi voltai furioso verso di lui:
-
Uno strizza cervelli?! Ma che ti passa per la mente? Ti sembro tipo da
ricovero?! Io non parlo con te dei fatti miei, figuriamoci se vado a farlo con
mister faccia di topo!!-
Eruppi
di botto, senza pensare. Non mi erano mai piaciuti i terapisti o qualunque cosa
fossero!
C’era
una frase che condividevo appieno: “Tralo psicologo e il diavolo scelse il
diavolo”
Santa
verità.
Maurizio
di fronte a me assunse un espressione mortificate ma decisa:
-
Davide, sono preoccupato per te. Lo è anche Andrea e questo dovrebbe bastare a
farti intuire la gravità della situazione. Armando è davvero un amico. Non
sarebbe una vera e propria seduta. Dovreste solo parlare. Anche qui, davanti a
una birra. Non è poi tanto male come idea, no?-
Io
risi. Una risata senza allegria. E scossi la testa, sempre ridendo. Andai in
camera mia. Senza riuscire a smettere con quella risata falsa.
Dopotutto,
meglio ridere che piangere.
*
Ilaria
Risi.
Come
non credevo più di saper fare. Una risata libera, spontanea, uscita da sola,
senza alcuno sforzo da parte mia. Ero in un minuscolo bar. Con lui. Ma non lui.
Ero
con un altro lui, con chi mi aveva salvato la vita meno di un’ ora prima,
e poi mi aveva offerto un caffè. Con chi era di fronte a me e faceva il verso
alla cameriera che ci aveva guardato male.
Un
ragazzo niente male, davvero niente male: con un fisico mozzafiato, capelli
biondi probabilmente indomabili, due occhi blu, così limpidi, che ci si
abbandonava senza motivo ed un sorriso… un sorriso tremendamente
contagioso!
Ero
con Fil…Filippo veramente. Non
conoscevano in molti il suo nome completo, era il frutto delle conclusioni di
due genitori depravati, sue parole testuali. Ed ero lì, incredibile a dirsi.
Nessuno
mi avrebbe creduto, quasi non ci credevo nemmeno io! Passammo due ore e
trentasette minuti a parlare e ridere in quel bar. Poi ci salutammo e ce ne
andammo ognuno per la propria strada.
Tornai
alla macchina ripensando agli ultimi cinque minuti di conversazione che avevamo
avuto.
Quei
cinque minuti in cui lui, Fil, mi aveva chiesto se avessi qualche programma per
la sera.
Quei
cinque minuti in cui io avevo risposto che ero libera.
Gli
stessi cinque minuti in cui lui, con un sorriso enorme, mi aveva invitato ad
andare alle nove meno venti in un locale che non conoscevo.
E
infine sempre gli stessi interminabili, indimenticabili, memorabili cinque
minuti in cui io avevo risposto:
Tanto,
a lungo. Avevo perso molte ore di sonno pensandoci. E alla fine avevo concluso
che non era poi tanto una cattiva idea. Cioè, se lo avessi invitato a casa, se ci
fossimo presi una birra e se avessimo iniziato a chiacchierare, poteva capitare
che nel discorso capitasse lei. E lui, da bravo amico di bevuta, avrebbe dovuto
ascoltare. Ma non perché quello era il suo lavoro, assolutamente no: solo
perché era lì e perché io stavo parlando. Non era una cattiva idea dopotutto.
Soprattutto considerando che non lo conoscevo e che di conseguenza, lui non
conosceva me, né conosceva lei.
Quindi
era imparziale: non conosceva la storia e non aveva perciò una sua idea od opinione
personale. Era completamente all’oscuro di tutto. Non era una cattiva
idea affatto. Passai la mattinata ed anche il pomeriggio senza fare niente in
particolare. Senza nessuna meta precisa. Girovagando. Mentre quell’idea
continuava a frullarmi per la testa. Mentre il progetto diventava sempre più
nitido, il desiderio sempre più chiaro.
Così
alle cinque e mezza mi decisi, ormai convinto e lo chiamai:
-
Maurizio? Non essere così sorpreso dai, senti me lo fai un favore? Chiameresti
per me mister faccia di topo, chiedendogli di farsi trovare a casa fra una
mezzora? No, forza, sono sicuro che ce la farai-
Chiusi
la comunicazione e con calma mi avviai verso casa. Non avevo fretta. Ormai
avevo deciso. Ero convinto, determinato, quasi eccitato all’idea.
Entrai
in casa dopo poco più di trenta minuti e mi chiusi la porta alle spalle con
forza.
Eccolo
lì, appena arrivato, il mio strizza cervelli preferito.
Entrai
di filato in cucina ed afferrai una sedia ed una scatola di birra. Tornai in
salotto dove faccia di topo mi guardava senza capire. Gli lanciai una lattina
di birra e trascinai la sedia vicino al mio divano preferito.
Mi
sdraiai sul divano e feci segno al topo di sedersi sulla sedia. Quando si fu
accomodato, bevvi un lungo sorso e gli spiegai:
-
Benissimo. Grazie per essere venuto. Ora tu stai lì seduto a bere birra e ad
ascoltare me. Non mi interrompere. Non commentare. Ascolta e basta. Voglio
raccontarti come è iniziato tutto…-
*
Ilaria
Che
stavo facendo? Cosa diavolo stavo facendo?
Avevo
messo a soqquadro l’armadio. Tutto il suo contenuto sparso drasticamente
per la stanza.
Perché?
Perché cercavo disperatamente qualcosa che andasse bene per quella sera. Per la
mia “uscita”.
In
quel locale sconosciuto. Con quel ragazzo -quasi-
sconosciuto.
Quando
era stata l’ultima volta che mi ero preoccupata di cosa avrei indossato?
Meglio non pensarci. Se ci avessi pensato… no, niente da fare, non
sarebbe stata una saggia scelta. Certo lì non c’era il rischio di finire
sotto una macchina, ma potevo inciampare in uno dei cumuli di vestiti e
rompermi qualcosa. A pensarci bene però rompendomi qualcosa, mi sarei anche
tolta dall’imbarazzo di scegliere un vestito, sarebbe andato benissimo il
camice dell’ospedale! Sorrisi facendo casualmente caso ai pensieri folli
che mi frullavano in testa. Con la coda dell’occhio intravidi un
completino aderente tutto nero finito in fondo ad un cassetto. Allungai una
mano per prenderlo. Non avevo capito cosa fosse. E quando lo presi in mano, la
frittata era fatta.
Era
troppo tardi per tornare indietro. Non ero più nella mia camera. Ero in
città…
- Davide, ti prego, ancora uno! Per
favore!-
Lui mi guardò dall’alto in basso
con gli occhi leggermente socchiusi:
- Prometti che è l’ultimo-
Sorrisi individuando una nota di condiscendenza
nella sua voce.
- Croce sul cuore. E’
l’ultimo negozio-
Risposi divertita. Poi lo afferrai e me
lo trascinai dietro. Lo feci sedere su un divanetto davanti ai camerini e mi
affrettai a scegliere tre o quattro cose da provare. Lo vidi osservarmi,
divertito dalla mia euforia. Ero felice. Poco ma sicuro. Facevo shopping e lui
era con me.
Mi seguiva pazientemente da più di tre
ore. Sempre con il sorriso sulle labbra. Sempre pronto e disponibile.
Mi aveva tolto di mano tutte le buste.
Le aveva portate tutte lui, per chilometri e chilometri.
Veronica lo aveva messo in guardia ma lui era
venuto lo stesso. Ed ora eccolo lì. Ancora una volta seduto ad aspettarmi. Ad
aspettare che mi provassi tutte quelle cose e che gli facessi vedere come mi
stavano.
Al solito mi avrebbe guardata estasiato.
Avrebbe detto che ero bellissima. Che non poteva sceglier perché mi stavano
tutte benissimo. E se avessi tentato di convincerlo a sceglierne uno, avrebbe
poi insistito per comprarmi tutto…
Davide, semplicemente Davide.
Questa volta però volevo sorprenderlo.
Entrai in camerino senza fargli vedere cosa stavo per provare, e ne uscii con
indosso un completino per fare ginnastica artistica. Ebbi la soddisfazione di
vederlo rimanere a bocca aperta. Mi avvicinai a lui sorridendo. Presi posto
sulle sue ginocchia.
- Come sto?-
Gli sussurrai. Non ottenni una risposta.
O almeno non una risposta formata da parole.
Le sue labbra sulle mie però, furono
abbastanza eloquenti…
No,
decisamente non era la cosa più adatta da mettere.
Guardai
l’orologio ed andai nel panico: dovevo muovermi. Chiusi gli occhi e
infilai a caso la mano nel mucchio di vestii più vicino. Strinsi le dita e
guardai cosa avevo afferrato: un vestitino celeste, poteva andare: scollato,
corto e sottile, il tutto senza esagerazione, come era giusto che fosse. Corsi
in bagno ed iniziai a prepararmi. Sarebbe stata un’impresa, lunga,
faticosa e soprattutto disperata.
Ogni sera passavo in moto per quella
strada. La vedevo sempre, ma non mi ci soffermavo mai più di tanto. A quel
tempo cambiavo ragazza si può dire ogni giorno. Teresa, Loredana, Marika,
Giovanna… solo alcune di quel periodo. E lei non mi aveva mai colpito più
di tanto.
Ogni sera, passando per quella strada,
la vedevo avviarsi verso l’incrocio, la sorpassavo senza degnarla
veramente di uno sguardo. Una sera cambiò tutto. Ero in anticipo e invece di
incontrarla lungo la strada, la vidi uscire dalla concessionaria. L’avevo
anche già superata ma un qualcosa era scattato. Non so cosa.
Eppure rallentai. Aspettai che mi si
affiancasse passeggiando sul marciapiedi. Quando fu quasi alla mia altezza,
alzai la visiera del casco e mi voltai a guardarla. Non era male. La salutai.
Lei rispose con un lieve cenno della testa. Avrei potuto afferrare al volo il
messaggio e smammare, ma non volevo farlo.
Continuai a seguirla, stando con la moto
al suo passo:
- Che facevi in quella concessionaria?-
Chiesi senza tanti preamboli, forse era
solo quello ad interessarmi… cioè che ci poteva fare una ragazza così in
una concessionaria? Lei alzò lo sguardo verso di me e rispose:
- Ci lavoro-
Sorrisi ironico:
- Tu cosa?-
Sorrise anche lei ma senza simpatia:
- Io ci lavoro e ora ho finito il mio
turno e torno a casa. Qualcosa in contrario?-
Mi ritrovai inaspettatamente a
trattenere una risata. La osservai di nuovo e chiesi:
- Ti piacciono le macchine?-
Annuì convinta, ignorando il mio tono
ironico. Insistetti:
- E che macchina ti piacerebbe avere?-
Mi sarei aspettato una risposta come una
mini o una polo ma mai, dico mai, che dopo averci pensato un attimo dicesse:
- Una Aston Martin V12 Nera-
Rimasi letteralmente senza parole.
La moto mi si era fermata. E le mie
orecchie faticavano a credere di aver capito bene. Lei non si era fermata. Mi
aveva sorriso e aveva continuato per la sua strada. Ed io per la prima volta,
rimasi lì, imbambolato, a guardarla andare via.
Era una sfida…
La sera successiva, parcheggiai
all’incrocio dove passava lei cinque minuti prima che fosse uscita dalla
concessionaria. La vidi chiudersi la giacca e sistemarsi la borsa. Si
avvicinava a me. Ma era distratta.
Non si era ancora accorta di niente. Poi
mi notò e notò l’auto a cui ero appoggiato.
La mia nuova auto, mia da ben undici
ore. Una Aston Martin V12 Nera. Mi godetti la sua espressione sorpresa. Gustai
fino in fondo il modo in cui riconoscendomi le guance le si infiammarono. E
come ricordatasi della nostra precedente conversazione rallentò il passo ormai
incerto.
Quando mi fu sufficientemente vicina
allungai la mano.
- Davide D’Amico. Molto piacere.
Tu sei?-
Lei sorrise in imbarazzo e mi prese la mano.
Una stretta al tempo stesso timida e decisa, impossibile ma vero.
- Ilaria Amato-
Sentii
la porta di casa. Era Maurizio. Rimase pietrificatovedendo me sdraiato sul divano, faccia di
topo sulla sedia e una dozzina di birre vuote a terra.
-
Io, scusate…-
Balbettò
e poi fuggì in cucina. Sorrisi e mi misi a sedere. Svuotai la birra che avevo
in mano e mi alzai.
-
Armando grazie. Davvero. Mi ha fatto piacere parlare con te. Ora io vado. Poi
ci sentiamo, va bene? Ti faccio sapere io… semmai continuiamo domani-
E
andai in camera mia. Armando si alzò ed entrò in cucina. Lo sentii parlare con
Maurizio. Chissà cosa gli stava dicendo… So solo che dieci minuti dopo la
porta di casa si aprì e si chiuse. Probabilmente Armando che se ne andava.
Passarono altri dieci minuti e poi sentii uscire di casa anche Maurizio.
C’era
qualcosa di sospetto, ma non sapevo cosa, e non mi interessava poi
granché…
*
Ilaria
Guardai
ancora una volta, con odio crescente, il riflesso nello specchio: il mio. Ero
orribile!
Cosa
credevo di fare? Ma dove stavo andando conciata in quel modo?! Nooo,
assolutamente!Vade retro.
Sarei
dovuta tornare in camera all’istante e non uscirne mai più senza un sacco
in testa! O forse, ancora meglio, non ne sarei proprio più uscita! A chi
sarebbe dispiaciuto? O più precisamente, chi se ne sarebbe accorto?! Mirko,
forse. E poi? Veronica? Probabilmente, ma oltre loro? Mamma e papà, in un altro
stato, non avrebbero certo fatto caso al continuo del già prolungatamente
assente scambio telefonico, e per il resto? Mi sorpresi a constatare ancora una
volta l’efficacia del mio superpotere: l’invisibilità.
E
per ultimo, Filippo… oh, a lui di certo non sarei mancata! Certo, si era
comportato da bravo boy scout e aveva salvato la vita ad una sventata, ma
l’invito di stasera, doveva essere solo di compassione: compassione per
una povera ragazza con seri problemi mentali… A quel punto non riuscii
più ad ignorare il battere martellante alla porta, e gridai quasi isterica:
-
Che c’è?!-
Mirko
mi rispose con una strana voce:
-
Ehy, scricciolo! Sei lì dentro da più di un ora non è che ti andrebbe di uscire
un attimino? Io me la starei proprio facendo sotto, ecco! E a meno che non vuoi
che vada di nuovo a fare la pipì nelle camelie della vicina…-
Aprii
la porta e lo lasciai entrare. Mi avviai verso la cappottiera e mi soffermai a
scegliere la giacca più adatta: sarei andata! Non ero il tipo che si tirava
indietro. Avrei affrontato la serata, per quanto catastrofica potesse
preannunciarsi. Mirko aveva lasciato la porta del bagno aperta e sentendomi
prendere le chiavi cacciò un grido: - Aspetta!! Dove vai?-
Lo
sentii tirare lo sciacquone in fretta e furia e uscire rapidamente. Mettendomi
il copri spalle nero, lo vidi saltellare e chiudersi la patta e alzai gli occhi
al cielo. Lui mi fissava con aria interrogativa… io allorasospirai e risposi:
-
Al bar I Sette Re-
Mancava
poco a che scoppiasse a ridere:
-
Tu? Ma se neanche sai dov’è!-
Sbuffai,
ignorando la cartina che improvvisamente mi sembrava pesare troppo nella mia
borsa.
-
E con chi ci vai?-
Chiese
lui sardonico.
-
Con nessuno! E comunque non sarebbero affaracci tuoi!-
Uscii
incavolata e per le scale ancora sentivo la sua risata. Entrai in macchina ancora
irritata e aprii barbaramente la cartina: in dieci minuti sarei arrivata. Avevo
appena messo in moto che mi squillò il cellulare, guardai il numero sul
display: Veronica. Chiusi gli occhi riflettendo, rispondere o non rispondere?
Questo è il dilemma. Risposi.
-
Ehy, Ilaria! Allora, che dici, usciamo stasera?-
Mi
sentii terribilmente in colpa ma non avevo scelta:
-
No, Vero. Sono stanca, scusa. Oggi rimango a casa-
La
sentii trattenere il fiato come se stesse pensando a qualcosa, poi ribattè:
-
Va bene, non ti preoccupare. Allora ci sentiamo domani! Anzi, ci vediamo
direttamente al bar dell’università, okay?-
Risposi
di sì ed attaccai. Accesi la radio nel tentativo di distrarmi: odiavo mentire,
e oltretutto non sapevo nemmeno farlo. L’ultima volta che avevo mentito a
Vero era stato per… Davide… alzai il volume della musica ma non
servì a niente.
Avevo detto a Veronica che avrei
lavorato come volontaria all’ospedale, mentre Davide aveva raccontato di
dover andare in non so che concessionaria lontanissima per far revisionare
l’auto.
Invece no. Era venuto a prendermi sotto
casa di mattina presto ed eravamo andati a tutto gas verso il porto della città
vicina. Lì avevamo lasciato la macchina ed eravamo saliti su una barca, una
barca enorme e bellissima: la barca di Davide. Era una delle tante, ma era
diventata la mia preferita.
Eravamo andati verso il largo, lontani
da tutti e tutto, lontani dal rumore, dal caos, dalla realtà.
Fuori dal tempo e dallo spazio.
C’eravamo solo io e lui. Il mio Davide.
Ci eravamo sdraiati per prendere il
sole, in costume…avevamo fatto il
bagno, guardato i fondali, visitato una grotta… felici ed eccitati, per
il semplice fatto di essere insieme, di essere soli!
Eravamo fuori dal mondo:
irraggiungibili, i cellulari erano stati gettati sotto coperta non appena
avevamo buttato l’ancora. Ma la parte migliore della giornata era stato
il finale. Seduta a prua a guardare il tramonto: il cielo che iniziava a
tingersi di colori indescrivibili, il mare che piatto come non mai, cullava
dolcemente la barca… quando sentii delle dita che delicatamente mi
mettevano una ciocca di capelli ancora bagnati dietro l’orecchio, mi
voltai lentamente e vidi Davide: in costume, ancora bagnato,mi guardava come se… non so ma in un
modo che mi scaldò il cuore. Mi prese per mano e mi portò verso una scaletta
che non avevo notato prima: portava sopra, sopra dove?
Salimmo sul tetto della barca,
c’era sistemato un enorme divano, pieno di cuscini, e rivolto verso il
tramonto. Si sedette e poi mi tirò vicino a lui. Fra le sue braccia fresche,
appoggiata al suo corpo bagnato, con il suo respiro caldo sul collo… Mi
baciò il collo dicendomi che il tramonto, per quanto magnifico potesse essere,
in confronto a me non era niente, assolutamente niente.
“Cari
ascoltatori sono le ventuno e otto minuti, auguriamo…”
Cazzo
se ero in ritardo! Ma io in quel bar ci sarei andata. Oh, sì che ci sarei
andata!Avevo lo stomaco sottosopra
per la tensione, perché forse per lui ero più bella di un tramonto… ma
ora non era da lui che stavo andando.
Sospirai
stendendo le gambe sulla scrivania, che conversazione difficile. Quando si
dice: perché tutte a me?!
-
Sul serio non posso! Senti, papà, mi dispiace, ma ho da fare e non ce la faccio
proprio a venire a cena con te e…-
Lo
sentii spegnere il computer e iniziai a preoccuparmi: brutto segno! Aveva
qualcosa da dire e non intendeva tenersela per sé, e quando mai? Tolse il
vivavoce e si mise il telefono vicino all’orecchio:
-
E cos’è che avresti da fare? Sentiamo!-
Chiusi
gli occhi e iniziai a massaggiarmi la fronte con le dita.
-
Riposarmi, papà. Sono stanco, va bene? Ho una gran voglia di farmi una bella
dormita. Andrea stranamente stasera non si è fatto vedere, probabilmente ha
trovato campo libero con qualcuna. Maurizio è scomparso misteriosamente e ho la
casa tutta per me, silenziosa. Permetti che riposi un po’?-
Lo
sentii sghignazzare e poi ricomporsi:
-
Sono preoccupato per te, Duccio-
Odiavo
quel soprannome e lui lo sapeva bene, che fetente. Continuò senza alcun timore:
-
Sai che la voce che passi del tempo in ufficio è giunta fino a me? E non dovrei
preoccuparmi? Cioè figliolo, sarò anche vecchio ma non crederai che io confidi
che tu passi tempo a lavoro per lavorare?-
Mi
chiese calcando particolarmente sull’ultima parola.
-
Dove vuoi arrivare, papà?-
Ribattei
già stufo di quel colloquio. Lo sentii prendere un bel respiro: non aveva
intenzione di lasciar perdere.
-
Ti sei messo con qualcun'altra?-
Mi
domandò con fare casuale.
-
No, non sto con nessuna ma non credo sia un’ informazione che ti riguardi
particolarmente-
Risposi
risentito. Mio padre sbuffò all’altro capo del telefono:
-
E perché? Vedi? Tu vuoi farmi preoccupare!-
Iniziai
a ponderare l’ipotesi che fosse impazzito.
-
Com’è possibile che non stai con nessuna?! TU! Davide D’Amico! Non
so se mi spiego, figliolo… Non va bene così, per niente. Sai quanto bene
volessi a quella ragazza, ma ora non state più insieme o sbaglio?
L’ultima volta…-
Non
lo ascoltavo più. Forse ero io a soffrire di disturbi dell’attenzione o
che so…
Eravamo insieme.
Appena tornati da una festa in grande
stile, e stavamo per entrare nella villa, quando uno scintillio mi distrasse: il
riflesso della luna. Mi fermai e fermai Ilaria con me. Stavo guardando da pochi
istanti la luna, la luna piena che si rifletteva nell’acqua della piscina
ma lei già aveva capito.
Tentò di trascinarmi verso la porta ma
mi impuntai: non avevo intenzione di cedere.
- Per favore-
La implorai, facendole gli occhioni
dolci. Lei mi guardò e scosse la testa, caparbia:
- Tu sei pazzo-
Mi sussurrò.
- Sono le due, di notte!-
Specificò.
- E tuo padre e tuo fratello e non so
quanta altra gente stanno dormendo in casa! E siamo vestiti! E Davide! No!-
Continuò ad addurre stupide scuse, nel
tentativo di farmi cambiare idea, di farmi tornare indietro sui miei passi ma
era inutile: volevo farlo, e volevo farlo con lei, solo con lei, con nessun
altra.
Me la trascinai dietro fino a bordo
piscina. Mi piegai, sempre tenendola saldamente per mano e mi tolsi le scarpe,
per poi, subito dopo, toglierle anche a lei. Fece un po’ di resistenza,
ma meno di quanto mi aspettassi. O era stanca, o sotto sotto
le andava. Speravo tanto che fosse la seconda quella giusta.
Era una pazzia, una di quelle che
faresti solo con una persona, e io volevo farla perché la persona giusta era lì
con me. Diedi le spalle alla piscina, con un braccio le cinsi i fianchi
facendola appoggiare a me e con l’altra mano le chiusi delicatamente gli
occhi… poi mi lasciai andare all’indietro.
Cademmo dolcemente in acqua, vestiti e
stretti l’uno all’altro. Riemergemmo sorridenti ed ancora mano
nella mano. Ora lei era di fronte a me, con gli occhi che le brillavano,
bellissima come sempre. Le afferrai la mano e la tirai a me. Avvicinai
lentamente la mia bocca al suo orecchio:
- Ti amo-
Le sussurrai a mezza voce. Lei mi
strinse i fianchi con le gambe e mi circondò le spalle con le braccia, poi con
una piccola risata mi baciò. In piscina, alle due di notte, vestiti e con mio
padre che dormiva in casa… ci baciammo, con la luna piena.
- Davide! Mi stai ascoltando? Ti voglio a cena da me, entro questa
settimana. Dobbiamo parlare, e nel caso non ti andasse, vedi di fare qualcosa
per convincermi che non c’è n’è bisogno-
Chiuse
così la conversazione, lasciandomi interdetto con il telefono ancora in mano.
-
Farò qualcosa-
*
Ilaria
Non
senza affanno e difficoltà di vario tipo, l’avevo trovato: il bar I Sette
Re.
Avevo
sempre avuto un pessimo senso dell’orientamento. Forse quando lo
distribuivano ero distratta, che novità! Chiunque mi conoscesse, anche solo da
poche ore, poteva facilmente avere un’idea di quanto mi fosse facile
smarrirmi: certo forse non era al corrente di volte come quando mi ero persa
nella mia scuola, o quando, nella mia città, non ero stata capace di arrivare
al municipio senza chiedere informazioni, quelli erano aneddoti che in pochi
conoscevano. Molto spesso mi ritrovavo facilmente nei panni di Snoopy. Non so
se avete presente, il beagle bianco e nero… Bè si, io sono come lui: in
quel momento, pochi minuti fa, avevo il bar di fronte ai miei occhi, ma ero
stata capace di passare oltre, non notandone l’insegna. Una barzelletta
in particolare in quel momento mi si addiceva: c’era Snoopy che durante
una gita nei boschi con gli scout si perde, allora si ricorda di quello che
aveva detto la guida “In caso di necessità, seguite la bussola”
Snoopy prende la bussola, la poggia a terra e sbotta: “Forza stupida bussola!
Sono pronto a seguirti, perché non ti muovi?!” Sì ecco, io ero più o meno
a quel livello.
Mi
feci forza e scesi dall’auto. Non era esattamente un bar, più un locale o
un pub forse, abbastanza grande. Anche da fuori si sentiva la musica, non era
male. Entrai e una folata di aria calda mi accolse. Era un’unica enorme
stanza: piena di tavoli, con un lunghissimo bancone. In fondo alla sala vi era
invece un palco dove suonavano musica dal vivo: una band si stava cimentando in
una cover di Enrique Iglesias, Do you know. Cercai un posto libero e lo trovai
ad un tavolo che si era appena liberato, a metà strada fra il palco e la porta.
Il locale era affollato, c’erano tantissime persone, per lo più giovani,
che mangiavano, bevevano e ridevano, il tutto creava una confusione non
indifferente. C’erano poi da aggiungersi i ricorrenti applausi rivolti al
palco, nell’insieme però era un bel clima: molto accogliente.
Mi
guardai intorno cercando il motivo per cui ero lì e involontariamente
l’occhio mi cadde su un manifesto affisso vicino all’entrata.
C’era scritto il nome di una band, quella che stava suonando: i Barrers,
e sotto vi erano i nomi dei componenti del gruppo. Mi ero bloccata su un nome
in particolare, il primo: Filippo. Veramente ippo era stato cancellato con un
segno del pennarello e si leggeva solo Fil ma il nome era quello. Sorpresa più
che mai mi voltaiverso il palco. Lo
vidi subito.
Era
lui a cantare, sul palco, davanti a tutta quella gente, a ragazzine urlanti che
gli mandavano baci da tutte le parti. Era magnifico: jeans neri ed una
maglietta a maniche lunghe blu scura attillata, non era il blu dei suoi occhi,
no, ma gli stava d’incanto. Era leggermente sudato e i capelli erano un
po’ in disordine, ma che fosse bello da morire era innegabile. Arrossii
quando il suo sguardo incontrò il mio, e andai letteralmente a fuoco quando mi
sorrise illuminandosi. Mi studiò con gli occhi e prese una stecca nel
ritornello della canzone, attirandosi le occhiate sorprese dei suoi compagni,
poi però continuò a cantare, se possibile, ancora meglio di prima. Non sentivo
più niente, niente al di fuori della sua voce: morbida e potente allo stesso
tempo, perfetta. Mi colpì, davvero tanto. Riuscivo a guardare solo lui, persa
nei suoi occhi, incantata dal suo sorriso.
Quando
la canzone finì partirono gli applausi: una vera e propria ovazione e ci
mancherebbe altro… erano stati eccezionali, lui era stato eccezionale! Lo
osservai posare il microfono e saltare giù dal palco. Si fece strada fra la
follaa spintoni e in meno di due minuti
era lì, di fronte a me, affannato e sorridente. Rimase in piedi per un
po’ fissandomi, poi prese posto di fronte a me. Stava per dire qualcosa
quando tre ragazzi gli arrivarono alle spalle ed iniziarono a tempestarlo di
schiaffetti: sulla testa, sulle spalle, ridendo e gridando.
Lui
cercò di fermarli ma non risolse niente, furono loro dopo poco, più calmi, a
fermarsi. Ancora sovraeccitati, lo guardarono e subito dopo, tutti e tre, spostarono
lo sguardo su di me. Avvampai, in imbarazzo, e loro ancora più divertiti,
scoppiarono di nuovo a ridere. Erano uno strano gruppo, tutti diversi fra loro,
altezze, corporatura, capelli, aspetto in generale: totalmente differenti. Il
più secco, quello che suonava la chitarra, alto e allampanato, mi porse la mano
sorridente:
-
Io sono Vincenzo, molto piacere. Tu sei Ilaria, giusto?-
Annuii,
sorpresa. Vincenzo continuò:
-
Possiamo sederci?-
Fil
stava scuotendo la testa ma ricevette una sberla dietro la testa dal ragazzo
più robusto, il batterista, biondo con due enormi occhi castani, che disse:
-
Oh, dai, Ippo! Sai bene che questa non la passi, perciò rassegnati e non
rompere-
Afferrarono
tre sedie molto velocemente e presero posto ai lati di Fil, davanti a me,
ancora a disagio. Fu il terzo ragazzo questa volta a parlare, aveva dei lunghi
capelli neri legati in una coda.
-
Allora tu sei Ilaria. E’ un piacere conoscerti! Ippo non ha fatto altro
che parlare di te, sai?-
Con
la coda dell’occhio avevo notato che Fil si era fatto rosso come un
peperone e mi mantenni a stento dallo scoppiare a ridere. Vincenzo intervenne:
-
Non credevamo saresti venuta. Poi però abbiamo sentito Ippo steccare di brutto
e ci è bastato seguire il suo sguardo per capire quale fosse la causa-
Il
biondo alzò le mani in segno di resa:
-
Non ti incolpiamo di niente, eh? Anzi! Dopo ha tirato fuori una voce! Non aveva
mai cantato così, vero ragazzi? Dovresti sentirti onora…-
Fil
aveva sbattuto una mano sul tavolo e non sorrideva più.
-
Adesso basta! Ragazzi sul serio, forse sarebbe meglio se andaste-
I
suoi amici finsero paura e poi scoppiarono a ridere. Le labbra di Fil, anche se
di pochissimo, si sollevarono verso l’alto. Allora decisi di intervenire,
allungai il piede per sfiorare quello di Fil ed attirare la sua attenzione:
-
Falli restare, sono troppo simpatici!-
I
ragazzi mi guardarono, con un’espressione fra il sorpreso e
l’ammirato:
-
Davvero? Uau, Fil, ne hai trovata una davvero forte!-
Gridò
quasi il gigante, che poi si presentò come Valentino. Mentre l’ultimo era
Valerio, sì, tre V. Mi raccontarono che inizialmente il gruppo si chiamava
“Fil e le tre V.” ma che poi il nome era stato cambiato per non far
sentire solo Ippo. Ordinammo, e fra chiacchiere e risate, si fecero le undici
passate.
Feci
per alzarmi ed andarmene, ma fui bloccata. E mi ritrovai a giocare a
biliardino, e poi a freccette… e il tempo passava, e il locale si
svuotava.
Quando
la porta si aprì, ero seduta per terra, fra le gambe di Fil, ad ascoltare
Vincenzo che strimpellava la chitarra ed i folli battibecchi fra Valentino e
Valerio.
Quando
la porta si aprì, ero appoggiata a Fil, stanca.
Guardai
di sfuggita l’orologio e sbattei le palpebre per assicurarmi di aver
visto bene: le due e dieci.
Ad
entrare da quella porta fu un ragazzo alto, moro, con gli occhi verdi.
Come
era possibile? Lo vidi guardarsi attorno e poi vedermi.
Non
mi staccò lo sguardo di dosso per… non saprei dire quanto tempo. Ma fu per
quello sguardo che capii di essermi sbagliata. Il modo in cui si avvicinò, il
modo di camminare, di muoversi: furono solo conferme.
Non
era lui.
Era
Maurizio. Ero terrorizzata, senza motivo, con il cuore che batteva a mille.
Cercai
di alzarmi, ma Fil mi bloccò. Lo osservai, e solo in quel momento mi resi conto
che non ero stata l’unica a notare il nuovo arrivato. Erano tutti fermi,
immobili. Maurizio si era fermato poco lontano, vicino al bancone. Chiesi a Fil
di lasciarmi alzare, ma lui non reagì.
Mi
sembrava preoccupato, seriamente inquieto per quello che temeva sarebbe
accaduto.
Non
aveva capito niente. Non avrebbe potuto capire niente.
Lo rassicurai con un’occhiata e facendo
leva con le mani sulle sue ginocchia mi alzai. Mi avvicinai a Maurizio che mi
sorrise. Stentai a ricambiare, ma provai: lui non aveva colpe.
-
Come stai?-
Mi
chiese timido. Non risposi. Mi avvicinai ancor di più e lo abbracciai.
-
Vergognati-
Gli
sussurrai. Lui non ricambiò l’abbraccio e anzi si irrigidì. Non mi
allontanò però e io lo strinsi ancora più forte. Non sapevo perché ma sentivo
di doverlo fare.
-
Non ti sei fatto più vivo-
Mormorai
con un tono leggermente accusatorio. Lui allora sospirò come se fosse divertito
dal mio comportamento e ricambiò il mio abbraccio.
-
Scusa. Mi dispiace ma… è complicato. Sai quanto me che sarebbe stato
difficile. E poi, vedo che te la stai cavando bene-
Anche
se non potevo assicuramene sapevo che mentre diceva l’ultima frase
fissava Fil e i ragazzi.
Arrossii,
sentendomi a disagio, e cercai di sciogliermi dalla sua stretta. Dopo pochi
istanti ci guardavamo negli occhi, con pochi metri a dividerci. Mi sorpresi di
quanto poco dolore provassi. Il fatto di avere davanti a me il suo gemello, non mi faceva alcun
effetto.
Semplicemente
perché non era lui.
Quelli
non erano i suoi occhi, le sue spalle, il suo sorriso imbarazzato… no,
era diverso. Ad occhi estranei non ci sarebbe stata alcuna differenza ma ai
miei, il ragazzo che avevo di fronte, appariva solo come Maurizio e non come
ricordo vivente di chi volevo dimenticare. Il suo sguardo si spostò ancora
verso Fil che ci fissava attento. Leggermente irritata mi schiarii la gola per
attirare di nuovo l’attenzione di Maurizio che subito tornò a
concentrarsi su di me.
-
A cosa devo l’onore di trovarti qui? Non sei un po’ lontano da
casa? Credevo non frequentassi questo genere di bar-
Gli
dissi schietta, stanca di quel teatrino che stavamo inscenando. Lui abbassò gli
occhi e iniziò a fissarsi le scarpe.
-
In effetti… cercavo te. Io, io ero venuto a cercarti a casa ma ho trovato
solo Mirko. Mi ha detto lui dove trovarti. Non che mi sia stato difficile
toglierglielo di bocca: era mezzo nudo e molto, molto agitato. Temo di averlo
interrotto-
Sogghignò
ma non mi feci distrarre:
-
E perché mi cercavi?-
Chiesi
spazientita. Maurizio mi rispose con il tono più innocente del mondo:
-
Avevo bisogno di una consulenza, di lavoro è chiaro. Ho aperto una nuova
filiale e mi serve un mago del computer per sistemare tutto, il migliore in circolazione
sei tu-
Normalmente
mi sarei sentita lusingata, ma conoscevo bene quel ragazzo e stetti attenta a
non lasciarmi forviare:
-
Maurizio-
Gli
intimai ma lui allargò le braccia:
-
Che c’è? E’ vero che sei la migliore, non essere modesta! Se ti va
bene perciò ti aspetto nel mio ufficio dopodomani-
Lo
guardai e vidi solo determinazione nel suo sguardo: non aveva intenzione di
cedere. Era chiaro che non mi aveva cercata per quello ma qualunque fosse il
reale motivo, non lo avrei scoperto quella sera.
Annuii
e lui mi sorrise in risposta.
-
Fantastico! Ora devo andare, è tardi. Ti do un passaggio a casa?-
Non
ebbi modo di rispondere, che qualcuno alle mie spalle mi aveva già preceduto:
-
No, grazie. Ci penso io a riaccompagnarla-
Era
stato Fil a parlare. Un Fil vigile e circospetto. Maurizio annuì e i due si
squadrarono per qualche attimo, poi mi salutò baciandomi sulle guance ed andò
via. Non appena la porta gli si fu chiusa alle spalle, un coro di fischi partì
alle mie spalle. Mi voltai e notai le facce meravigliate degli altri ragazzi.
-
Maurizio D’Amico! Conosci Maurizio D’Amico!-
Gridò
Valerio incredulo, feci per controbattere ma Valentino fu più veloce:
-
Conoscere? Io dico che c’era molto di più!-
Scossi
la testa con decisione e riuscii a dire:
-
No! Certo che no!-
I
ragazzi scoppiarono a ridere:
-
A chi vuoi darla a bere? Dai, quanto tempo siete stati insieme?-
Fermamente
ribattei:
-
Non stavo con Maurizio!-
Mi
accorsi troppo tardi di aver formulato male la frase: avevo lasciato intendere
che nascondevo qualcosa.
Così,
sotto lo sguardo di attesa degli altri continuai:
-
… stavo con suo fratello-
Per
un po’ nessuno parlò. Come si dice, la calma prima della tempesta.
-
TU con Davide?! Davide D’Amico?! O mio Dio!-
Le
esclamazioni che seguirono furono tutte simili a questa. Solo una si distinse,
sconcertandomi:
-
Non è alla tua altezza, Fil. Te lo avevo detto!-
Era
stato Valentino a parlare. E solo in quel momento mi ricordai della presenza di
Fil alle mie spalle.
Mi
girai timorosa per vedere come aveva reagito e il suo sorriso mi sorprese:
- Val, potrà anche non essere alla mia altezza, ma ad
accompagnarla a casa stasera sono io-
Era
sottinteso “e non Davide D’Amico” ma omesse questa parte.
Mi
prese a braccetto e mi guidò fuori dal bar, verso la sua macchina.
*
Davide
Stavo
uscendo di casa con una certa fretta, quando passando davanti alla cucina, vidi
Muzi ed Andrea che facevano colazione. E la curiosità fu più forte di me:
dovevo sapere cosa era successo ieri sera.
Mi
fermai vicino alla porta ed appoggiatomi allo stipite li salutai
maliziosamente. Si girarono a guardarmi e mi sorrisero.
-
Già in piedi a quest’ora? Dì un po’ dobbiamo seriamente
preoccuparci per te? Ho sentito dire che stai passando del tempo in ufficio,
non posso fare a meno di chiederti: chi sei tu e cosa hai fatto del mio amico?-
Mi
chiese malignamente Andrea, ripetendo una battuta troppo brutta anche per i
suoi canoni. Incrociai le braccia sul petto ignorando la domanda di Andrea:
-
Ieri siete spariti entrambi, si può sapere che siete andati a fare?-
I
diretti interpellati si scambiarono uno sguardo e poi in contemporanea
risposero:
-
Niente!-
Sentendo
le loro voci fondersi tornarono a fissarsi, per poi distogliere nuovamente lo
sguardo, in imbarazzo: cercavano di evitare l’argomento, era chiaro ma
erano assolutamente lontani dal riuscirvi.
Ne
uscì fuori una scenetta comica che a volerla preparare, non sarebbe riuscita
altrettanto bene. Annuii con aria comprensiva, tentando di capire cosa gli passasse
per la testa:
-
Capisco, sì, non avete fatto niente-
Affermai,
scettico.
-
Mi dispiace per voi, sapete? Io invece mi sono divertito tantissimo! Oh,
sì… ho avuto il piacere in commensurato di stare per oltre mezz’ora
a telefono con papà e mi sono guardato circa sei puntate di Scrubs- Continuai,
impettito, sorridendo. Maurizio mi guardò appena un po’ risentito:
-
Mi dispiace Davide, per papà intendo. Almeno con Scrubs ti sei tirato un
po’ su di morale, no?-
Mi
chiese sempre senza guardarmi in faccia. Senza alcuna pietà ripresi, divertito
dal loro disagio del quale mi approfittai piuttosto esplicitamente:
-
Andrea! Mi fai preoccupare così: che c’è il gatto ti ha mangiato la
lingua? Dai, non ci credo che non hai niente da raccontare! Ieri sera che hai
fatto? Da chi sei stato?-
Incalzai,
cercando di farlo parlare: non lo avevo mai visto tanto a disagio. Vai a sapere
con chi se la intendeva! Decisi di lasciar perdere, visto che sembrava
intenzionato a non dirmi nulla, e mi concentrai su mio fratello:
-
E tu Muzi? Se non avevi niente da fare, dove sei stato? Andrea almeno ha la
scusa di non abitare qui, ma tu?-
Mi
stavo comportando in maniera terribilmente sadica, ma non mi toccava più di
tanto: era troppo spassoso e poi, quando mi sarebbe capitata ancora un’
occasione simile? Di solito capitava l’esatto contrario, io colpevole e
loro a mettermi sotto interrogatorio. Ora i ruoli si erano invertiti: io me ne
ero stato buono buonino a casa e loro se ne erano andati chissà dove, per quale
assurdo motivo non avrei dovuto cercare di trarne un qualche vantaggio?
Maurizio
stava spalmando del burro su un toast, ignorandomi apertamente. Quando feci un
colpo di tosse per fargli notare l’assenza di risposta, se lo mise tutto
in bocca per essere così impossibilitato a parlare: intero, ricoperto solo di
burro… okay, stavamo superando i limiti di decenza.
Scossi
la testa incredulo e allargai le braccia in segno di resa.
-
Va bene, basta. Vado a lavoro-
Uscii
e raggiunsi la macchina.
Oh,
non avevo intenzione di andare in ufficio, non nel mio, almeno.
Arrivai
in centro in dodici minuti esatti: parcheggiai in doppia fila e mi fiondai
verso l’ascensore all’interno del palazzo. Salii al sesto piano.
Quando fui arrivato, mi guardai in giro spaesato, poi notai la targhetta rossa
fuori l’appartamento in fondo al corridoio: bingo!
Mi
indirizzai da quella parte. La porta era socchiusa. La aprii lentamente e mi
fermai un attimo nell’anticamera: la luce fuori la porta successiva era
rossa, il che significava probabilmente che non sarei dovuto entrare.
Ci
pensai solo un attimo, poi feci spallucce a la aprii lo stesso. Avevo detto a
papà: “Farò qualcosa” ma non avevo specificato cosa: irruzione.
Mi
ritrovai in un salotto ben arredato, con un bel tappeto, una scrivania, ed un
divano che aveva un aspetto comodissimo. La sedia dietro il tavolo era girata,
ma quando mi chiusi la porta alle spalle, attirato dal rumore, stupito il
proprietario si girò subito. Ricambiai sorridente l’occhiata meravigliata
che il ragazzo seduto mi lanciò:
-
Armando! Tutto bene? Devi scusare l’intrusione: so che ti avevo promesso
di chiamarti prima, ma avevo fretta. Non ti dispiace vero, Nando?-
Dissi,
senza aspettare risposta, togliendo il giacchetto, prima di continuare:
- E’
un posticino accogliente, eh? Complimenti, molto carino! L’unica pecca è
che non vedo birra o alcool in giro… niente? Vabbè vedrò di arrangiarmi-
Mi
sistemai per benino sul divano, e chiusi gli occhi:
-
Pronto Nando?-
Rimasi
molto sorpreso dal sentirmi rispondere:
-
Anche stavolta non posso parlare? O…-
Lo
zittii con uno “Shhh!” prolungato e aggiunsi:
-
E’ una storia lunga…-
-Ilaria… bel nome-
Ma lei non mi guardava, la sua
attenzione era completamente rivolta verso l ’auto. Sorrisi, era una novità
bella e buona. Preferiva la macchina a me?
- Posso darti un passaggio?-
Lei alzò lo sguardo verso di me per un
attimo, divertita dalla mia sfrontatezza:
-
No, grazie. Prendo il pullman-
Mi rispose, studiando l’interno
dell’auto.
Non potevo crederci. Aveva detto che
preferiva il pullman? Forse notò il mio sguardo allibito perché continuò,
divertita:
- E poi, io sono una brava ragazza. Non
accetto passaggi dagli sconosciuti. Non si fa, sai? E’ pericoloso-
Scherzò. Passò le dita sul cofano della macchina e salutandomi con
l’altra mano, si incamminò verso la fermata dell’autobus. Salii in
macchina di corsa, e dopo pochissimo ero di fianco al marciapiedi, seguendo
ilsuo passo. Mi sembrava di star vivendo
un deja vu… Abbassai il finestrino e ripresi il discorso:
- Non siamo sconosciuti. Ci siamo
presentati-
Lei scosse la testa divertita:
- E’ troppo poco- …
-Nando,
non so se afferri appieno il mio stato d’animo di quel momento. Cioè, non
mi era mai capitata una cosa del genere: una ragazzina qualunque che si faceva
pregare per salire in macchina con me?! Ma stiamo scherzando! Lì per lì, te
l’ho detto, non ci stavo capendo niente… volevo solo stare con lei
un altro po’, e se questo significava trovare un modo per accompagnarla a
casa…-
… -E se ti lasciassi guidare?-
Le parole mi uscirono dalla bocca, ma
non con il mio consenso: forse qualche neurone schizzato aveva preso
l’iniziativa.
Sul serio le avevo chiesto di guidare?
La mia macchina?!
Non era possibile. Nessuna donna era mai
stata al posto di guida con me presente. Era una cosa contro natura. Eppure
alla mia proposta lei rallentò impercettibilmente il passo e non riuscii a
trattenere un moto di contentezza, quando capii di averla in pugno. Avevo
appena scoperto il suo punto debole: ora dovevo solo insistere.
- Non ti va di provare l’ebbrezza
di portare una Aston?-
Mi guardò, di sfuggita, ma lo fece.
- Ultima offerta-
Annunciai. Lei allora si fermò e chiese
diffidente:
- Dici sul serio?-
Sorrisi sotto i baffi, trionfante.
- Certo. Prego è tutta tua-
Accompagnai le parole con l’esplicita
azione di spostarmi sul sedile del passeggero e lei rise. Una risata breve,
dolce e festosa. Mi sorpresi a pensare che avrei fatto di tutto pur di sentirla
sempre ridere così, felice.
Lei aprì lo sportello lentamente e mi
osservò ancorasospettosa. La presi per
un braccio e delicatamente la spinsi sul sedile. Era un po’ stranita ma
chiuse lo sportello: voleva guidare. Quando girò la chiave nella toppa e il
motore iniziò a ringhiare, i battiti del mio cuore rallentarono paurosamente,
che stavo facendo? Morire in un incidente d’auto non era certo uno dei
miei progetti futuri più prossimi! Alzai gli occhi sentendola ridere:
- Non è che ti fai venire un infarto?-
Sorrisi involontariamente: l’aveva
capito.
- Sai almeno guidare?-
Chiesi timoroso. Lei non rispose,
sorrise e partì. Ero terrorizzato. Stava accelerando.
Dio mio! Ma era forse ammattita?
Incollato al sedile mi concentrai sulle sue mani: erano salde, sul volante,
completamente a loro agio. Tornai ad osservare la strada. Non eravamo ancora
andati a sbattere contro un palazzo o cose simili, e non sentivo urla
strazianti di dolore dietro di noi: questo significava che non avevamo neanche
investito qualcuno. Un po’ più calmo, mi rilassai, sorpreso da quella
ragazzina.
Sapeva guidare, e anche bene, davvero
bene. Andava veloce, molto, quel tanto che avrebbe terrorizzato a morte mio
fratello. Si fermò davanti ad un palazzo dopo poco tempo, e si appoggiò serena
al sedile.
- Uau, è una macchina stupenda-
Disse e notando la mia espressione
ancora leggermente sconvolta aggiunse:
- Neanche un graffio, visto? Dovevi
fidarti di me. Sei ancora vivo, no?-
Sorrise e scese senza darmi il tempo di
rispondere. Fece il giro dell’auto e poi si avvicinò al portone, dandomi
le spalle. Prima di entrare però mi lanciò un’ultima occhiata:
- Grazie per il passaggio-
Disse, non senza ironia e poi sparì
dalla mia vista.
-
Rimasi pietrificato sul posto del passeggero per almeno cinque minuti, sai
Nando? Quello che era appena successo era letteralmente assurdo! Senza contare
che l’avevo lasciata guidare la mia Aston, e lei mi aveva lasciato lì!
Non era rimasta incantata da me al punto da pregarmi di non andarmene, quasi
era successo il contrario! Per me che ero abituato ad avere tutte le ragazze
che volevo con uno schiocco di dita, era inammissibile… -
Armando
si schiarì la gola e ignorando il mio sguardo molto eloquente chiese:
-
Te ne eri già innamorato?-
Alla
sua domanda risi, di cuore:
- No!
Certo che no. Ero solo, come dire? Incuriosito.
Divertito da quella novità. Era come un diversivo dal mio normale approccio con
le ragazze, capisci?-
Lui
annuì e ribattè:
-
Un diversivo, sì. Hai detto di averla presa come una sfida. Qual’era lo
scopo? Portartela a letto? L’unica che non era impaziente di venirci di
corsa?-
Scossi
la testa:
-
No! Ma che porco credi che sia?! Era un diversivo nel senso che… era un
cambiamento: ero curioso di vedere perché si comportava in quel modo, come era
possibile che non mi pendesse dalle labbra-
Armando
sorrise serafico:
-
E nel mentre che compivi questa indagine non vedevi le altre ragazze o…?-
Risi
di nuovo:
-
Ma da dove le trovi queste sparate? Come ti viene in mente? Se possibile
aumentai ancora di più il ritmo: rimorchiavo fra le due e le tre ragazze a
sera!-
Guardai
Mister Topo per assicurarmi che stesse seguendo il mio ragionamento.
Lui
mi fece cenno di andare avanti. Sorrisi ancora incredulo per quello che mi
avevo chiesto e stavo per ricominciare a raccontare quando si sentì un ronzio
proveniente dalla porta.
Armando
guardò l’orologio sul muro e cacciò un’esclamazione sorpresa:
-
Le dieci! Davide io ho altri appuntamenti: sono già in ritardo. Devi andare,
scusami. Se vuoi ci rivediamo stasera o…-
Mi
alzai dal divano svogliatamente e mi stiracchiai. Soffocando uno sbadiglio
risposi:
-
Certo. Stasera. Vieni tu a casa, rifornisco il frigo di birra-
Aprii
la porta e feci per uscire. Trovai la stanza prima vuota ora strapiena di
persone. Sorrisi in imbarazzo e mi avviai verso l’uscita. Prima di
andarmene però, mi rivolsi ai presenti:
-
Ah, signori, se siete d’accordo, avrei da proporre un’idea: che ne
dite di convincere Nando a mettere a disposizione degli alcolici durante le sue
sedute?-
Stavo
per aprire la porta quando uno sbadiglio mi colse di sorpresa.
Ero
esausta, quasi non ce la facevo a reggermi in piedi: chissà per quale miracolo ero
ancora discretamente salda sulla gambe! Quando riaprii gli occhi vidi un
ragazzino che, tutto sorridente, mi teneva aperta la porta.
-
Buongiorno-
Mi
fece con aria strafottente, sorridendo scocciato e sollevando le sopracciglia
come ad incitarmi a darmi una mossa. Entrando nel bar gli feci un cenno per
scusarmi di avergli sbadigliato in faccia e lui se ne andò ridacchiando
apertamente. Come gli avrei mollato un bel ceffone su quel faccino che si
ritrovava!
Cercai
con lo sguardo Veronica e la vidi ad un tavolo in fondo alla sala, vicino alla
finestra. Mi tolsi la giacca, confortata dal calduccio all’interno del
locale. Presi posto di fronte a lei: leggeva una rivista bevendo cioccolata
calda. Non alzò lo sguardo su di me nemmeno quando mi fui seduta, perciò mi
rivolsi a lei con voce acida:
-
‘Giorno anche a te, Vero-
Riuscii
a dire solo questo perché poco dopo stavo sbadigliando di nuovo, riuscendo a
mala pena a coprirmi la bocca con la mano. Veronica mosse le dita come a dirmi
di aspettare, io mi allungai sul tavolo curiosa di vedere cosa stesse leggendo
di tanto accattivante: Gossip. C’era da aspettarselo.
Avevo
sempre odiato il gossip: esplicito esempio di come per tutti la privacy fosse
un puro e semplice optional. Tirai fuori dalla borsa il libro che dovevo
finire: Identità al buio, di Coben. Un giallo a dir poco affascinante, che
avrebbe potuto conquistare anche Vero… oh, per favore, che battuta avevo
fatto!
Scoppiai
a ridere, attirando su di me l’attenzione di quelli seduti ai tavoli
vicini, ma non avevo saputo resistere: l’immagine di Vero con un libro in
mano era a dir poco esilarante.Veronica
era la mia migliore amica ma se avessi dovuto spiegare a qualcuno come fosse
possibile, non avrei saputo farlo.
Eravamo
completamente opposte: lei bionda, alta, occhi blu, avrebbe potuto fare
l’indossatrice; io bruna, sicuramente meno alta di lei, occhi nocciola ma
non era solo l’aspetto fisico a differenziarci. Ci conoscevamo ormai da
più di dieci anni, e potevamo tranquillamente affermare di sapere tutto
l’una dell’altra: i pregi, i difetti, le manie, tutto. Se io ero riservata, sensibile,
costantemente indecisa, silenziosa, lei era esattamente complementare a me.
Gli
opposti si attraggono, no? Lo dicono tutti, e prima o poi si viene a scoprire
che non vale tanto per ragazzo e ragazza, ma fra amiche invece sì, può
funzionare. Potrebbe sembrare assurdo dire che non abbiamo niente in comune ma
forse ad unirci erano proprio tutte le nostre diversità. Ogni qual volta dovevo
farle un regalo, le compravo una cosa che ame non sarebbe mai piaciuta: un vestito che non avrei mai indossato, una
borsa inguardabile… se era orribile, era perfetta per Vero. E lo stesso
faceva lei. Un’amicizia anomala la nostra, irregolare e ineguagliabile.
Fantastica nella sua irrealtà. Eccezionale nella sua unicità.
Sorseggiai
la sua cioccolata calda e in quel momento Vero chiuse con un gesto deciso il
giornale che aveva davanti. Mi guardò con gli occhi sgranati dalla sorpresa:
-
Non ci crederai mai! L’ultimo scoop di Hollywood è che…-
Forse
notò il mio scarso interesse perché lasciò cadere il discorso e sospirando
disse:
-
E va bene. Se non vuoi che mi faccia gli affari degli altri mi farò quelli
tuoi! Si può sapere ieri sera che hai combinato?-
Quasi
mi andò di traverso la cioccolata. La guardai con fare innocente e risposi, il
più candidamente possibile:
-
Io? Niente! Te l’ho detto che rimanevo a casa-
Veronica
fece una risata e con aria di chi la sapeva lunga ribattè, sicura:
-
Tesoro, non hai mai saputo mentire, credevo lo sapessi. Ti conosco troppo bene:
qualcosa hai fatto…-
Lasciò
la frase incompleta ed iniziò a studiarmi con attenzione. Si sporse verso di me
per guardarmi meglio in faccia. Poi sorrise, colta da un’illuminazione
improvvisa e mormorò a voce bassa e decisa:
-
Sei uscita-
Involontariamente,
come a farmi beffe di quel poco di intelligenza che mi illudevo di avere,
arrossii: prova a dir poco schiacciante della mia colpevolezza. Veronica sbattè
la mano sul tavolo, con fare vittorioso:
-
Lo sapevo! E con un ragazzo anche!-
Feci
per negare ma niente da fare, aveva già capito tutto.
-
O mio Dio! Chi è? Dimmelo! Devi dirmelo, Lari!-
Sentendo
quel soprannome l’imbarazzo cedette il posto al risentimento. Non mi piaceva
quel nomignolo, o almeno non mi piaceva più e lei lo sapeva. L’aveva
fatto apposta, per provocarmi.
-
Non c’è nessun ragazzo Vero!-
-
Oh, sì che c’è. E devi farmelo conoscere assolutamente! Mi dici chi è?
Per favore-
Quelle
parole. Dio, quand’era stata l’ultima volta che avevo sentito
quelle stesse identiche parole?...
Ero a casa di Vero, ci stavamo
preparando per uscire: la sua camera sembrava un salone di bellezza.
Lei era seduta davanti allo specchio e
si stava truccando, io mi ero accomodata per terra, di fronte
all’armadio, e da buoni venti minuti stavo pensando a cosa potessi
mettermi. Mi ero quasi decisa a chiedere un consiglio a Veronica, quando lei
prese un bel respiro e parlò:
- Perché non me lo dici?-
Continuai a guardare all’interno
di quell’armadio a dir poco immenso e senza girarmi le chiesi a cosa
alludesse. Lei sospirò e continuò:
- Con chi esci. E’ questo che voglio sapere! Perché non me
lo dici?-
Rimasi un attimo interdetta: lo sapeva?
Oddio! E che avrei dovuto dirle?
- Non esco con…-
Non mi lasciò concludere:
- Oh, per favore! A chi vuoi darla a
bere? Da più di una settimana non ti trovo a casa e sei continuamente
distratta. Sorridi sempre poi e ogni tanto scoppi a ridere senza motivo.
Tesoro, è lampante che ti vedi con qualcuno. E ne sono felice, davvero tanto.
Ma ci terrei a sapere chi è! Prendila come pura curiosità-
Tentennai un po’, perché avrei
dovuto continuare a nasconderglielo? Mi decisi:
- Lui… lui è D.-
Veronica si stava mettendo il rossetto,
lo capii dallo schiocco che ebbero le sue labbra. Mi girai leggermente verso di
lei e incontrai il suo sguardo nello specchio:
- D.?-
Mi chiese inarcando le sopracciglia.
Annuii e tornai a frugare con gli occhi nella catasta di panni sopra di me.
Veronica sbuffò, contrariata: iniziava a perdere la pazienza:
- D.! D. e poi?-
Sorrisi ignorando il suo nervosismo:
- D. è come lo chiamo io-
Non potevo vederla, ma conoscendola,
avrei giurato che avesse alzato gli occhi al cielo:
- Va bene, tesoro, tu lo chiami D. ma ce
lo dovrà pur avere un nome completo, no?-
Ridacchiai e a voce bassa le risposi:
- Sì: si chiama Davide-
Assaporai come il suo nome suonasse bene
detto ad alta voce, stavo certamente dando i numeri. Veronica era passata al
fard e sorrise maliziosa della mia espressione felice.
- Davide, va bene. Davide e poi?-
Ah, ma quanto era insistente! Mi alzai
in piedi, con le gambe doloranti e mi sedetti sul letto, alle spalle di
Veronica, in modo da poterla guardare riflessa nello specchio:
- Davide D’Amico-
A Veronica cadde la matita dalle mani.
Rimase pietrificata per qualche istante e poi con gli occhi spalancati si voltò
verso di me.
- … Scherzi? D’Amico… Davide D’Amico?!-
Mi chiese con voce farfugliante. Annuii
senza capire il motivo di tanta sorpresa:
- Che c’è?-
Lei mi guardò come se fossi una
degenerata:
- Non posso crederci! Ma come? Tu? Tu
non hai idea! Lui! E’ il secondo, lo sai?-
Non riuscivo a seguirla. Ma di che stava
parlando? Lo conosceva? Poi afferrai qualcosa:
- Il secondo? Vuoi dire che hai ancora
la lista?-
Lei annuì come se fosse una cosa ovvia.
Non sentivo parlare di quella lista da quasi due anni: Veronica aveva elencato
in ordine di preferenza i ragazzi per cui avrebbe fatto qualunque, dico
qualunque cosa, pur di starci insieme. E Davide era il secondo?
- Chi è il primo?-
Chiesi improvvisamente curiosa. Lei
sorrise ammiccante:
- Il principe William. Ma solo
perchéè di discendenza reale-
Rispose con naturalezza. Qualcosa non
quadrava:
- E come conosci Davide?-
Chiesi ancora tentando di venire a capo
di qualcosa. Lei scosse la testa, stava parlando con un’ignorante.
- Tesoro, il tuo Davide, D. come lo
chiami tu. D’Amico il magnifico, per tutti i comuni mortali, è a dir poco
internazionale! Dio mio, la tua ignoranza rasenta la disinformazione completa.
Ma dove vivi? Come diamine è possibile che non ti è mai capitato di vedere la
foto del tuo D. su un qualunque giornale? Non sto dicendo su una rivista di
gossip, sia chiaro. Su un giornale! E’ ovunque! Sai… sai che è il
figlio di Carlo D’Amico? Il magnate…-
- Sì, sì, lo so che ha i soldi-
Dissi, impaziente e nervosa, ignorando i
gesti di Veronica che indicavano come di soldi fosse ricoperto ben oltre la
testa.
- Quello che voglio sapere è perché mai
è anche sulle riviste di gossip-
Aggiunsi inviperita, Veronica avvicinò
lo sgabello al letto. C’era bisogno di parlare in confidenza? Prima di
riprendere il discorso prese un bel respiro:
- Hai una vaga idea di quanto sia
ambito? Esistono forum su Internet in cui si raccontano…-
Mi lasciai andare all’indietro sul
materasso:
- Veronica! Non mi interessa questo!
Arriva al punto!-
Lei venne a sdraiarsi di fianco a me.
Era una cosa tanto grave?
- E’ stato con molte ragazze,
sai?-
Feci spallucce, e continuando a fissare
il poster dei Finley sul soffitto sbuffai:
- E allora?-
Lei rise, una risata che odiavo: la
risata di quando aveva qualcosa da dire ma non era sicura di volerla dire. La
incitai a proseguire:
- Vuoi qualche esempio: bè, tanto per cominciare
mezza popolazione femminile di qui, e poi tanto per dirne una Marianna
Esposito-
No. Non era possibile. Forse stava
scherzando.
Mi girai a guardarla negli occhi e mi si
fermò il respiro dalla sorpresa: stava dicendo la verità. Marianna? Marianna
Esposito?! La modella? La super modella! Come? Perché mai a Marianna Esposito
sarebbe dovuto interessare il mio D.? Forse era il contrario. Ma che stavo
dicendo? Era una catastrofe comunque!
Mi sentii come se mi avessero appena
malmenata di brutto. Veronica mi guardava apprensiva:
- Ila? Riprenditi, dai. Non intendevo
insinuare niente, ti stavo solo informando di cose che sanno tutti a parte te,
a quanto pare. Sta con te ora? State uscendo insieme, no? Questo è
l’importante. Che fa se è stato con barbie come Marianna o…-
Mi alzai e mi avvicinai alla finestra,
non volevo avere alte notizie. Veronica lo intuì e non continuò. Non avevo
alcuna ragione di essere gelosa. E infatti non lo ero. Ero solo…
sconfortata, con un’autostima che era scesa paurosamente sotto zero. Il
cellulare mi iniziò a vibrare in tasca. Lo tirai fuori e guardai il numero sul
display: era lui. Lo lasciai squillare per altri cinque minuti, guardando le
macchine che passavano veloci per la strada. Alla fine risposi, prima che
potessi cambiare ancora idea.
- Piccola! Stavo cominciando a
preoccuparmi. Tutto bene?-
Aveva una voce bellissima, come riusciva
a far sembrare un poema anche le frasi più banali?
- Piccola, ci sei?-
Mi chiese con un accenno di
inquietudine.
- Sì. Tutto bene-
Persino io sentii la mia voce atona.
Davide rimase qualche attimo in silenzio, poi con voce indagatrice mi chiese:
- Sei a casa di Veronica?-
Risposi con un flebile sì. A che stava
pensando?
- E le hai raccontato di me?-
Si stava avvicinando alla verità…
di già? Con un sommesso mormorio asserii ancora. Lo sentii sospirare e poi con
voce realmente preoccupata:
- Che ti ha detto? Qualcosa su di me,
vero? Piccola, da come me la hai descritta, Veronica è la personificazione dei
paparazzi più sfegatati. Non credere a tutto quello che…-
Si stava arrampicando sugli specchi. Mi
voltai per dare uno sguardo a Veronica, ancora sul letto, che fingeva di non
ascoltare. Capì al volo e uscì dalla stanza.
- D. mi ha detto solo cose vere-
Lui non parlò, come se stesse cercando
di capire a cosa alludessi. Decisi di aiutarlo:
- E’ vero che sei stato con
Marianna Esposito?-
Davide iniziò a ridere. Era di nuovo
sicuro di sé:
- Sì sono stato con Marianna, e allora?
Qual è il problema? Sei gelosa Lari?-
Pronunciò il mio nome con
un’amabilità sufficiente a sminuire la brutalità delle domande
precedenti.
Ci pensai: non ero gelosa.
- No, D. non sono gelosa. Il punto
è… perché stai con me? Perché domani sera non vai ad un bel ricevimento
con Miss Esposito invece che a mangiare una pizza con me? Perché non stai con
lei? Faresti sicuramente un figurone sulle copertine dei giornali, abbracciato
a uno schianto come lei! Con me invece? Non sono neanche in grado di camminare
decentemente sui tacchi! E…-
Non mi fece proseguire.
- Lari. Che ti prende? Ora i tacchi cosa
c’entrano? Non mi interessa Marianna, mi interessi tu. E’ con te
che voglio uscire domani. E se proprio devo apparire sui giornali voglio
assolutamente che al mio fianco ci sia tu. Nessun altro. Piccola? …-
-Ilaria?
Terra chiama Ilaria, Ilaria rispondi-
Veronica
mi fissava, divertita ed al tempo stesso impaziente:
-
Oh, sei di nuovo qui fra noi! Me lo dici con chi eri ieri?-
Involontariamente
sbadigliai, per l’ennesima volta. Veronica scosse la testa, irritata:
- Ma
che ora hai fatto? Immagino che stamattina sei arrivata in ritardo per colpa di
Mirko-
Disse
lei con aria saputa. La guardai interrogativa:
-
Che c’entra Mirko?-
Veronica
sgranò gli occhi:
-
Non ti ha fatto una ramanzina perché hai fatto le ore piccole?-
Negai
con un sorriso indispettito:
-
No, non mi ha detto nulla-
Dicendo
quelle parole mi capitò di ripensare alla conversazione che avevamo avuto in
cucina: in effetti era stata un po’ strana. Io vabbè, non volevo dirgli
con chi ero stata, ma lui era stato troppo accomodante! Come avevo fatto a non
accorgermene? Veronica mi distrasse improvvisamente con un calcio. Tornai a
fissarla arrabbiata:
-
Ma che ti prende?!-
Lei
si accigliò e ribattè:
-
La vuoi smettere di “assentarti” mentre parli con me? E un
po’ di attenzione, per cortesia! Che cavolo ancora non mi hai detto chi è
lui!-
Sorrisi
divertita dal suo comportamento:
-
Va bene. Sono stata al bar I Sette Re. Mi aveva invitata un ragazzo che mi ha
impedito di finire spiaccicata sotto una macchina. Filippo. Veramente
preferisce Fil. E… oddio! Non so il suo cognome!...-
Veronica
mi guardava a bocca aperta:
-
Frena, frena. Rallenta! Allora sei stata ai Sette Re con uno che ti ha salvato
la vita e di cui non sai nemmeno il cognome?! Ho capito bene?-
Annuii
ignorando che Vero davanti a me fosse sconvolta. Era possibile che non gli
avessi chiesto il cognome? Sì! Che mi importava in fondo del suo cognome?!
Ripresi il discorso:
-
Comunque canta, lo sai? Non me lo aspettavo proprio. E’ il cantante di un
gruppo: i Bars o qualcosa del genere-
Veronica
impallidì. Mi guardò con gli occhi sgranati.
-
Intendevi i Barrers?-
Ecco
com’era!
-
Sì brava! C’ero quasi, dai. Barrers, sì-
Veronica
si coprì la bocca con la mano e appoggiò il gomito sul tavolo. Poi spostò la
mano sulla fronte:
-
Hai detto che si chiama Filippo, vero? E che è il cantante dei Barrers…
allora ti posso dire che ieri sei uscita con Filippo Molcovich-
Pronunciò
queste parole con voce impersonale. Dopo qualche istante riprese colore sulle
guance e le si illuminarono gli occhi.
-
E’ incredibile sai? Come è possibile che tutti i personaggi più
conosciuti, siano irrazionalmente attratti da te? La ragazza più disinformata
esistente! Ma dico! E prima tu sai chi. Ora Fil! Filippo Molcovich! Io…
io non riesco a concepire come sia possibile, ti giuro-
La
guardai insofferente. Non stava esagerando? Ero stata anche con tanti comuni
mortali, in fondo. E poi Fil che c’entrava? Era solo un cantante da bar,
no? E allora ci fu l’illuminazione:
- Perché
anche Fil sarebbe conosciuto? E’ bravo a cantare, ma…-
Veronica
si piegò sul tavolo, coprendo il viso sul braccio. Non andava bene così:
-
Vero? C’è qualcosa che non so? Se è sempre è solo gossip, io non…-
A
fermarmi fu la vibrazione del cellulare: non conoscevo il numero. Risposi lo
stesso:
-
Pronto?-
Sentii
una voce morbida, la stessa che stamattina mi aveva augurato la buona notte:
-
Ciao. Ti ricordi chi sono?-
Sorrisi,
quasi senza rendermene conto:
-
Sì, vagamente. Ippo se non sbaglio, vero?-
Lo
sentii ridere dall’altra parte:
-
Sì proprio io. Disturbo?-
Evitai
gli occhi di Veronica e guardando il rigo del libro su cui ero ferma da più di
tre quarti d’ora risposi:
-
No, certo che no. Facevo colazione. E senti, non vorrei sembrare troppo
indiscreta, ma il mio numero come l’hai avuto?-
Fil
ridacchiò:
-
Ho i miei contatti… quindi fai colazione? E non è che allora posso
offrirti il pranzo?-
Mi
chiese con voce decisa e speranzosa. Tentennai: pranzavo con Veronica. Era
troppo prematuro farli conoscere. Veronica come suo solito intuì qualcosa:
-
Ti ha invitata a pranzo?-
Non
diedi cenno di rispondere e lei mi strappò il cellulare di mano:
-
Pronto? Veronica. Sì veniamo volto volentieri. Ci vediamo lì. Ciao-
Attaccò
dopo pochi istanti e mi guardò con gli occhi che luccicavano
dall’eccitazione:
-
Sai Ila? Non potrei vivere senza di te: la vita sarebbe troppo noiosa!-
Poco
ci mancava che mi inginocchiassi dinanzi al poliziotto. Lo guardai implorante.
Era
una fortuna che in quel periodo il mio orgoglio avesse deciso di prendersi una
vacanza. Con un’altra buona dose di suppliche riuscii nel mio intento: il
vigile baffuto non mi fece portare via la macchina dal carro attrezzi. Lo
osservai allontanarsi agitando il manganello. Prima di entrare in un bar, mi
lanciò un’ultima occhiata sprezzante. Brutto stronzo…
Salii
in auto e, quasi per ripicca, partii a tutto gas. Era tardi per fare colazione,
presto per pranzare.
Che
potevo fare? Andare in ufficio? No, decisamente no, ma che mi passava per la
testa?! Mi accorsi troppo tardi che il semaforo ormai paurosamente vicino era
rosso. Frenai all’ultimo momento, arrestandomi a pochi metri di distanza
dalla fila di macchine provenienti da sinistra. Mi accasciai sul sedile e
sospirai sollevato.
Ora
serviva della musica: qualcosa di rilassante, ma non ammorbante. Aprii il
cofanetto sotto il mio gomito e vi iniziai a frugare dentro: Blink 182, Simple
Plan, Good Charlotte, Nelly Furtado… no, non andavano bene. Tirai fuori
tutti i cd che avevo e poggiandoli sul sedile del passeggero mi cadde in grembo
una tessera argentata.
La
guardai meglio: era la tessera della palestra. Avevo completamente dimenticato
di averla. L’avevo proprio rimosso, eppure ora mi eppure ora mi lasciava
una nuova possibilità. Numerosi clacson suonati a lungo mi informarono
garbatamente che il verde era scattato.
Senza
pensarci troppo mi diressi verso piazza Galilei: sarei andato ad allenarmi.
-Pronto?-
Risposi
svogliatamente al cellulare, incespicando nella borsa ai miei piedi: ero nello
spogliatoio, fortuna che tenevo sempre una tuta nel portabagagli.
-
Alla buon ora! Ma dove sei?-
Era
Andrea, e stava parlando. Aveva quindi riacquistato il dono della parola?
Assaporai l’idea di infierire su questo particolare ma poi decisi di
lasciar correre, in fondo mi ero già divertito abbastanza, e non era giusto
infastidire troppo i cuccioli. Così accennai appena un ciao fra i denti. Andrea
con un risolino tornò a parlare:
-
Dove sei? Io sono nel tuo ufficio. Stupido da parte mia illudermi di poterti
trovare qui, vero? Chissà perché avevo supposto che saresti andato a lavorare.
Invece ti posso raggiungere…-
Lasciò
la frase incompleta, aspettando che concludessi per lui. Ci riflettei un
attimo: mi andava che venisse qui anche lui? E va bene, perché no.
-
In palestra-
Andrea
non reagì subito: l’avevo preso in contropiede.
-
Davvero? Uau, vengo in un attimo. Sono già lì!-
C’era
da aspettarselo.
-
Ok. Ti aspetto nella stanza pesi-
Uscii
dallo spogliatoio e mi diressi alla panca davanti alla finestra: la mia
preferita. C’era già un ragazzino, smilzo e brufoloso: mi diede
l’impressione di uno che non aveva ancora raggiunto la pubertà. Doveva
aver appena iniziato: non era per niente sudato. Forse mi sentì arrivare,
perché alzò gli occhi e li fissò nei miei. Fu per poco, poi li abbassò subito,
lasciò andare la sbarra di ferro e si issò a sedere. Mi studiò ancora per
qualche istante, quasi impaurito, quindi con un cenno della testa si alzò e
corse verso il bancone all’entrata.
Ma
che avevo mai fatto? Neanche gli avevo detto niente! Mah, i ragazzi di oggi:
avrei potuto aspettare tranquillamente il mio turno… Cercai con lo
sguardo il poppante per chiedergli se volesse continuare ancora ad allenarsi, e
lo trovai tutto assorto in una conversazione con il tipo seduto dietro al
bancone. Non mi era mai andato a genio: un imbecille in piena regola, emaciato,
con i rasta, e cuffie onnipresenti nelle orecchie.
Decisi
di fregarmene e mi sistemai per cominciare ad allenarmi. Solo dopo la prima
serie da dieci mi venne in mente come mai non ero più venuto: mentre mi allenavo,
per non far caso al dolore che mi provocavano i muscoli, lasciavo libera la
mente di vagare, di toccare i pensieri più disparati… e questo, ora come
ora, non era un bene.
Ero venuto con lei in palestra.
Aveva detto di volermi vedere nel mio
“ambiente” e io l’avevo accontenta, portandomela dietro. Solo
non immaginavo che avrebbe voluto allenarsi anche lei… Il ragazzo al
bancone aveva riso, dicendo fra un sorriso sarcastico e l’altro che lì
non possedevano attrezzi per le femmine. Forse in quel momento aveva iniziato a
darmi sui nervi: come si permetteva di pensare che la mia piccola non fosse
all’altezza? Quello era puro maschilismo, il che forse non mi avrebbe poi
infastidito tanto se non fosse stato rivolto a lei.
Dedicai un ghigno sprezzante
all’odioso maschilista e guidai Ilaria verso lo spogliatoio.
Mi cambiai per primo, chiedendole
diaspettare fuori. Feci in un lampo e
poi lasciai entrare lei, mentre io rimasi fermo fuori la porta, facendo
allontanare con un solo sguardo intimidatore chiunque tentasse di avvicinarsi.
Uscì dopo pochi minuti, con un paio di pantaloncini corti ed una canotta:
assolutamente stupenda. Come mai non l’avevo portata prima in palestra
con me?
Forse inconsciamente sapevo che la sua
presenza, in quella tenuta, mi avrebbe distratto troppo, o che non avrei
sopportato a lungo le occhiate lussuriose degli altri ragazzi, prima di cedere
ad attacchi di rabbia causati da un folle gelosia…
Quando mi prese per mano e mi trascinò
in una stanza completamente vuota, non riuscii a trattenermi dal lasciarmi
andare a inaudite fantasticherie. Lei invece si avvicinò ad uno strumento che
non usavo molto, la sbarra, quella dove mantenendoti solo con le mani e facendo
leva con le braccia, dovevi tirarti su.
Voleva provare a fare quello? Sorrisi
vedendo che allungava le braccia per prendere la misura di quanto avrebbe
dovuto saltare per riuscire ad aggrapparvisi. Mi avvicinai di soppiatto e la
presi dolcemente per i fianchi, sollevandola per aiutarla. Lei mi sorrise grata
e mi fece segno di allontanarmi.
Le girai attorno, fermandomi di fronte a
lei. Iniziò a lavorare. Il primo fu il più difficile, quasi non ce la faceva.
Poi però fu incredibile: come se avesse preso il ritmo, non so, ma ne fece
venti consecutivi, uno dietro l’altro, veloce e precisa. Ma da dove
l’aveva tirata fuori tutta quella forza? Lei così esile e delicata…
Rimasi senza parole, continuando ad
osservarla. Conoscevo almeno cinque ragazzi che erano il doppio di lei e che
non sarebbero riusciti a fare ciò che aveva appena fatto con altrettanta
facilità. A un certo punto notai una leggera variazione nel tempo, aveva quasi
raggiunto i trenta, forse si era stancata.
Incontrai il suo sguardo, cercando di
capire se avessi intuito bene. E vidi i suoi occhi, dolci come sempre, colorati
dalla sua determinazione, che mi mandavano una tacita richiesta. Rapido mi
avvicinai e le strinsi di nuovo i fianchi. La mantenevo io, ora.
Lei lentamente lasciò andare la sbarra,
abbandonandosi a me, sicura della mia stretta. Poggiò le braccia sulle mie
spalle e chinò la testa vicino al mio collo. Sorrisi, e le sussurrai:
- Stanca? Sono fiero di te, sai? Sei
stata magnifica-
Lei rispose con una risatina leggera:
- Sì? Grazie. Ho fatto il mio per oggi.
Ora tocca a te-
Ma io non ero d’accordo. Non mi andava
più di allenarmi. Controllai che in giro non ci fosse ancora nessuno, poi mi
appoggiai ad un muro e lentamente mi lasciai scivolare, fino a sedermi per
terra.
Lei era ancora fra le mie braccia,
calma, completamente mia.
Me la sistemai meglio in grembo ed
iniziai ad accarezzarle la schiena, facendo scorrere delicatamente la mia mano
su e giù, soffermandomi sulle curve dei fianchi.
Senza fretta, feci scivolare la mia mano
sotto la sua maglietta, e sorrisi divertito: le era venuta la pelle
d’oca. Lei iniziò allora a baciarmi sul collo, sensuale come non mai, con
lentezza, indugiando su ogni bacio, rendendoli tutti eccezionali,
indescrivibili nella loro unicità.
Con le dita mi solleticava
deliziosamente dietro il collo, appena sotto le orecchie, divertita dai miei
fremiti di piacere. La strinsi più forte, ancora imprigionato dai suoi baci,
intimorito dall’idea che anche il più piccolo movimento avrebbe potuto
interrompere il piacere che stavo provando…
A
farmi tornare in me furono tante cose.
Il
dolore lancinante alle braccia, le grida di incitamento provenienti dalla folla
che si era radunata, Andrea accovacciato accanto a me che mi diceva di non
fermarmi ora…
-
Forza, forza! Altri cinque e raggiungi i cento!-
Sbigottito
continuai a sollevare i pesi, ignorando il dolore. Ero arrivato a cento? Senza
fermarmi? Come diavolo avevo fatto? Tre, due, uno… Grida di giubilo
accolsero la mia vittoria.
Cento.
Incredibile.
Andrea a quel punto scattò in piedi con un ululato di soddisfazione.
-
Visto gente? Così si fa! Vorrei vedere chi di voi riesce a farmene cento tutti
di seguito!-
Detto
questo tornò a piegarsi su di me riempendomi di schiaffetti. Con
un’occhiata di fuoco gli ordinai di fermarsi: era come se avessero appena
dato fuoco a tutti i muscoli delle mie braccia, quasi non riuscivo a muoverle.
Cercai di tirarmi su, ma in quel momento mi sembrò una cosa a dir poco
impossibile.
Andrea
si accorse delle mie difficoltà e mi offrì una mano per aiutarmi a rimettermi
in piedi. Mi avviai verso lo spogliatoio e lui mi seguì scodinzolante. Prese
posto su una panchina di fronte a me, fissandomi con fare reverenziale.
-
Davide, ma come cazzo hai fatto? Cento! Cioè, dico… ma non eri fuori
allenamento? Io a mala pena riesco a farne dieci senza fermarmi e tu…-
Si
fermò di colpo, studiando la mia espressione accigliata.
Non
so come ma dovette intuire qualcosa, perché mi guardò con compassione. Mi sorse
improvvisamente un dubbio terrificante: glielo avevo raccontato di Lari e me in
palestra? Non ebbi modo di ricordarmelo: mi passò accanto e con una pacca sulla
spalla mi disse:
-
Vatti a fare una doccia fredda, và. Così calmi i bollenti spiriti-
Uscì
dallo spogliatoio ridendo fra sé, non ebbi il coraggio di provare ad indovinare
cosa lo divertisse tanto.
Sì,
a quanto pareva dovevo avergli accennato qualcosa. Seguii il consiglio che mi
aveva dato e, pensando ancora alle labbra di Ilaria sul mio collo, mi infilai
sotto un getto di acqua gelida.
*
Ilaria
Tirai
su la lampo della giacca rabbrividendo: non pioveva più ma la temperatura
sembrava adatta ai pinguini.
Veronica
ed io eravamo appena uscite a prendere una boccata d’aria fresca, ci
dirigemmo verso un’altalena in fondo al cortile.
Ci
sedemmo e sempre senza parlare iniziammo a dondolarci.
Veronica
era stranamente silenziosa, immersa nei suoi pensieri ed io mi distrassi
guardando il paesaggio: eravamo immerse nella natura, appena fuori città. La
taverna l’aveva scelta Fil: “la migliore cucina in assoluto”
aveva detto. Eravamo arrivate circa tre ore fa, e l’avevamo trovato
seduto ad un tavolo enorme nella sala principale: una stanza gigantesca, con un
camino enorme lungo il muro in fondo. Non c’erano molte persone, giusto
un’altra decina di clienti oltre Fil… Fil e i suoi amici.
Non
appena ci aveva viste si era alzato in piedi e ci era venuto incontro. Mi si
era affiancato e prendendomi a braccetto mi aveva rivolto un sorriso
impagabile.
-
Mi dispiace. Ho tentato di non farli venire ma…-
Valerio
era scoppiato a ridere e si sbracciava per farci segno di prendere posto in
fretta.
-
Non potevamo perderci questo pranzo, Fil! La tua nuova ragazza è troppo forte!-
Veronica,
seduta alla mia destra, mi guardò stralunata. Stavo per rassicurarla con gli
occhi, ma mi distrasse un movimento di Fil: era alla mia sinistra, e invece di
arrossire per le insinuazioni ben poco velate degli amici come la volta
precedente, stavolta, sorridendo tranquillo, avvicinò ancora di più la sua
sedia alla mia, fino a trovarsi quasi attaccato a me e passandomi il braccio
destro attorno alla schiena.
Sentii
Veronica trattenere il fiato, ma non ci feci caso: in quel momento stavo solo
guardando il blu di quegli occhi, incapace di distogliere lo sguardo… era
stato magnifico. Un pranzo a dir poco perfetto: la cucina era ottima, come
aveva promesso, e poi c’erano i suoi amici, a dir poco esilaranti, ed un
particolare interesse che Vincenzo sembrava provare per Veronica, che
ricambiava in pieno… e poi c’era lui.
Dolce,
tenero, divertente: favoloso non rendeva l’idea. Erano passate tre ore,
tre ore che erano volate. Tornai a guardare Veronica, aveva
un’espressione sognante che mi divertì:
-
Vero, sei ancora qui?-
Lei
non reagì prontamente, con un leggero ritardo mi guardò e ancora sorridendo mi
rispose, amabile come non mai:
-
Uhm? Sì tutto bene. Io… mi sono divertita, tanto. E Fil è magnifico,
sai?-
Fermai
con i piedi l’altalena per poterla guardare bene in viso:
-
E i suoi amici non ti sono piaciuti?-
Chiesi,
sapendo bene dove volevo andare a parare. Anche Vero lo sapeva. Si fermò anche
lei e rispose, illuminandosi ancor di più:
-
Oh, sì, anche i suoi amici sono simpatici. Molto. In particolar modo…-
Non
concluse la frase, accennando ai ragazzi che stavano per raggiungerci. Non
vennero tutti però. Valerio e Valentino ci salutarono da lontano, per poi
andarsene in una Nissan grigio metallizzata. Sorpresa, mi concentrai
sull’espressione di Fil, cercando di capire cosa stesse succedendo. Lui
mi sorrise serafico e, passatomi alle spalle, iniziò a spingere
l’altalena con lentezza. Girai un po’ la testa all’indietro
per incontrare il suo sguardo e trovai il suo viso a pochi centimetri dal mio.
-
…Che sta succedendo?-
Gli
domandai a bassa voce. Lui deviò lo sguardo e bisbigliò:
-
Volevo proporti una cosa: ti andrebbe di venire con me in un posto?-
Mi
chiese prima di spingere di nuovo l’altalena. Una volta tornata tra le
sue braccia mi aggrappai al suo braccio:
-
Venire con te? Dove?-
Lui
si accovacciò, per trovarsi alla mia altezza:
-
Sorpresa-
E
poi sorrise. Anche volendo non saprei dire se sarei stata in grado di rifiutare
l’offerta. L’unica obiezione che mi venne in mente fu:
-
E veronica?-
Lo
feci ridere:
-
Se n’è già andata con Vincenzo-
Mi
disse accennando con la testa all’altalena alla mia destra. Non riuscivo
a crederci: era vuota. Ma quando se ne erano andati? Come avevo fatto a non
accorgermi di niente?
Fil
mi prese per mano e con delicatezza mi fece alzare.
-
Andiamo?-
Annuii,
sorpresa da me stessa, dalla mia condiscendenza assurda. Non sapevo dove voleva
andare né come, ma l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era che sarei
stata con lui. Mi portò sul retro della trattoria, c’era un parcheggio
quasi deserto: ad occuparlo solo due bici ed una cinquecento bianca. Cercai di
fermarmi per chiedergli qualche spiegazione, ma lui mi colse di sorpresa
trascinandomi in un vialetto secondario che avevo completamente trascurato. Lì
si bloccò vicino ad una moto enorme: nera, con parti blu ghiaccio, un dragone
bianco si allungava lungo la fiancata sinistra e due caschi neri erano poggiati
sul sedile.
Fil
mi teneva ancora per mano, ma ora mi fissava, divertito dalla mia meraviglia.
-
Avevi già preparato tutto?-
Lui
mi porse uno dei caschi e mi aiutò ad indossarlo:
-
Più che altro speravo con tutto il cuore che andasse così…-
Ero
rimasta senza parole. Lui accese il motore, e già pronto a partire mi guardò,
in attesa di una mia mossa: non potei e non avrei voluto fare altro dal montare
in sella e avvolgergli il torace con le braccia.
Andava
veloce, tanto. Ma non avevo paura e nemmeno freddo: avvinghiata a lui, con il
viso contro la sua spalla, mi sentivo sicura, del tutto conscia che non mi
sarebbe successo nulla. Convinzione stupida, ma che ebbi per tutto il tempo del
viaggio. Tempo non tanto lungo dopo tutto: la moto frenò la sua corsa quando furono
trascorsi al massimo quaranta minuti.
Scesi
per prima, mi tolsi il casco e cominciai ad osservarmi attorno. Eravamo in
alto: uno di quei paesini abbandonati sui pizzi delle montagne. C’era la
neve: poca, giusto un paio di centimetri, ma quel tanto che bastava a dare a
tutto un contorno bianco, un non so che di magico… mi soffermai a
guardare il paesaggioai nostri piedi:
case, colline, distese di piante, tutto lì, bellissimo e nostro. Nostro almeno
in quel momento.
Ero
ancora incantata a fissare un pupazzo di neve in un cortile poco lontano quando
Fil mi afferrò la mano e sorridendo mi invitò a seguirlo. Entrammo nella
piccola cittadina. Avevo visto bene, era abbandonata: i muri e le case erano
diroccati, non c’era quasi più niente ancore in piedi. Affrettai il passo
per tornare in pari con Fil.
-
Cos’è che…-
Non
mi lasciò andare avanti: mi zittì, ma non con cattiveria.
-
Vengo qui spesso. E’ un posto che mi trasmette un… un non so che.
Ha un qualcosa di incantato, soprattutto ora che c’è anche la neve e
guarda qui-
Dicendo
quest’ultima frase mi fece entrare in una piazza circolare non molto
grande, dove c’erano i resti di quello che in passato doveva essere un
castello. Era bellissimo. Come aveva provato a spiegarmi Fil trasmetteva un
qualcosa, un qualcosa di indefinibile. Quel luogo rievocava alla mente il
passato: non solo perché ciò che predominava erano cumuli di macerie, ma perché
quel castelloricordava inevitabilmente
scene epiche come… come quella di Romeo e Giulietta. Mi sconvolse
quell’idea, il modo in cui non sembrava improbabile che da decenni
nessuno camminasse più per quelle strade. Fil mi strinse la mano, ricordandomi
la sua presenza:
-
Ehy, non volevo spaventarti. Non ti piace qui?-
Aveva
frainteso, sorrisi ancora sovrappensiero:
-
No, no. E’ bellissimo-
Lui
mi tirò di più a se:
-Mi
fa piacere che ti piaccia. Ma non è solo per questo che ti ci ho portata.
Vieni-
Inciampai
in un mattone sconnesso della strada e lui mi afferrò giusto in tempo:
-
Non c’è bisogno di tanto entusiasmo-
Scherzò,
stringendomi a sé. Rimanemmo immobili, bloccati in quella posizione solo per
qualche istante, istanti che sembrarono durare all’infinito. Fil avvicinò
lentamente il suo viso al mio, continuava a tenere gli occhi fissi nei miei,
dischiuse leggermente le labbra, accostandole sempre più alle mie. Erano ormai
a pochi millimetri di distanza quando mi scostai, spostando appena appena la testa all’indietro.
Fil
restò immobile ancora qualche secondo, poi tornò a guardarmi sorridendo:
-
Andiamo?-
Mi
chiese, come se non fosse successo niente. Annuii confusa. Confusa da ciò che
era quasi successo e ancora di più dal mio comportamento. Lo seguii
meccanicamente, senza realmente guardare dove mi stesse guidando. Poi notai che
ci stavamo paurosamente avvicinando ad un precipizio e che Fil non sembrava
intenzionato a fermarsi. E va bene, forse lo aveva deluso, ma non credevo fosse
una cosa tanto grave da decidere di buttarsi di sotto! Mi bloccai
precipitosamente e fermai lui con me. Mi guardò sorpreso:
-
Che c’è?-
Sgranai
gli occhi:
-
Hai notato il precipizio?-
Gli
chiesi ironica. Lui scosse la testa sorridendo e mi indicò con la testa un
albero sul bordo del burrone. Inizialmente non notai niente, osservando meglio
invece, mi accorsi di un filo che partiva da uno dei rami dell’albero,
per poi allungarsi sopra tutto il burrone, fino a raggiungere un tronco cui era
legato, su un’altra pianura. Fil mi portò ai piedi dell’albero e
tirò giù un sedile, appeso al filo. Di colpo capii: sedendosi su quel
sediolino, si superava il burrone e si raggiungeva l’altra sponda.
Guardai Fil terrorizzata:
-
Spero tu stia scherzando! Saranno almeno cinquecento metri di distanza!
Come… e se la corda si spezza? Se il sedile si stacca e precipita
giù… se…-
Lui
sorrise, cercando di calmarmi, e dolcemente mi poggiò un dito sulle labbra.
-
E’ sicuro. L’ho già fatto tante volte. Non c’è di che
preoccuparsi-
Scossi
la testa. No. Non si poteva fare, era una pazzia! Lo sentii ridere e mi voltai
a guardarlo come se fosse impazzito. Fil mi afferrò il mento con due dita e lo
sollevò affinché lo guardassi negli occhi:
-
E se andassimo insieme?-
Lo
chiese con un tono di voce che avrebbe potuto convincere chiunque. Non risposi
subito, affascinata dal suo sorriso tentatore. Un groppo in gola mi bloccava le
parole. Riuscii solo ad accennare un timido ed incerto sì con la testa. Fil
allora si illuminò e veloce prese posto sul sedile, poi senza sforzo prese
anche me e mi fece accomodare sulle sue ginocchia. Con un braccio mi avvolse
saldamente i fianchi. Con l’altro strinse la fune che avrebbe dovuto
portarci sani e salvi fino all’altra sponda. Avvicinò la bocca al mio
orecchio e sussurrò:
-
Pronta?-
In
quel momento non ero più sicura di niente, eppure fu per quella voce che
risposi:
Chiusi
con un moto di isteria le ante della credenza. Dov’erano? Dove diamine
potevo averle messe?
Mi
lasciai andare su una sedia con uno sbuffo rabbioso e mi passai le mani sul
viso. Non erano nel mio armadio, né nella mia stanza né in salotto. Ero cosciente
di essere disordinato, ma non lo ero così tanto da non trovare due scatole di
dimensioni abbastanza sostanziose, che per altro dovevano essere per forza in
casa.
Ci
pensai su, arrovellandomi il cervello, fino a quando non mi venne il lampo di
genio: se la colpa non era mia doveva essere per forza di qualcun altro.
Afferrai rapido il telefono sul mobile dietro di me e composi il numero
dell’ufficio di Maurizio. A rispondermi fu una segretaria, Lisa, che non
sembrava intenzionata a passarmi il suo capo perché “molto indaffarato in
quel momento”. Stavo per mettermi ad urlare quando sentii uno scatto
sulla linea ed alla voce di Lisa si sostituì quello del mio caro fratellino.
-
Davide? Che c’è? E’ successo qualcosa? Andrea…-
Ogni
volta che lo chiamavo in ufficio, sembrava che potessero essere accadute tutte
le catastrofi più disparate. Mi sfuggì un sorriso: dovevo chiamarlo più spesso,
forse sotto sotto si sentiva trascurato.
-
Ciao, Muzi. Senti non volevo disturbarti ma mi chiedevo se fossi stato tu a
spostare quelle scatole che… quelle che avevo messo da parte, hai
capito?-
Maurizio
non rispose subito: il che voleva dire che, evidentemente, aveva capito a quali
scatole mi riferivo.
Con voce soffocata poi disse:
-
Sì, sì, ho capito. Mi hai chiesto tu di spostarle… eri completamente
ubriaco e volevi addirittura che dessi fuoco a tutto-
Sentendo
quelle parole mi si bloccò il respiro: non era possibile.
Gli
avevo davvero ordinato di farlo? Perché? Cosa diavolo mi passava per la testa?!
Ero capace di dire scempiaggini simili con un po’di alcool in corpo?
Davvero avevo desiderato di dare fuoco a tutte quelle…
Maurizio,
forse intuendo il mio sconforto, si affrettò a continuare:
-
Ma non l’ho fatto. Cioè temevo che poi te ne saresti pentito, così le ho nascoste
nel retro della cappottiera. Io… ho sbagliato?-
Mi
chiese in preda alla preoccupazione. Muzi! Come avrei fatto senza di lui?
-
No. Hai fatto benissimo. Grazie davvero, Maurì! Non so come ringraziarti. Ora
vado e ti lascio tornare a lavorare. Grazie ancora-
Attaccai
e senza indugi mi diressi verso la cappottiera. Non fu difficile trovarle, le
tirai fuori e una alla volta me le portai dietro, poggiandole in salotto, ai
piedi del divano. Premunitomi quindi di una bottiglia di birra, mi sistemai sul
divano. Due scatole: vecchie e ingiallite, mi venne da ridere: non erano così
vecchie in fondo!
Le
avevo riprese, ma ora che erano lì davanti a me non ero più tanto sicuro di
volerle aprire.
Una
in particolar modo mi metteva paura: la seconda, quella non avrei mai aperto da
solo: sarebbe stato troppo pericoloso, doveva esserci qualcun altro con me,
qualcuno in grado di fermarmi in caso di gesti ben poco brillanti che avrei
potuto compiere.
La
prima invece era un ostacolo molto più facile da superare. Con un piede
l’avvicinai di più a me, mentre spinsi lontano la seconda. Scivolai
lentamente a sedere a terra, e aprii la scatola: lì dentro c’era il mio
sogno, quello che avevo lasciato perdere, quello che avevo preferito mettere da
parte.
Era
quasi vuota: c’erano solo due buste e una macchina fotografica. La mia
macchina fotografica.
Era
una Nikon nera, ancora in ottima condizioni. La presi in mano e me la rigirai
fra le dita: era una bella sensazione, avevo dimenticato come mi sentissi
tenendola in mano. Era un’emozione confusa: fotografare era sempre stata
la mia passione, adoravo l’idea di poter fermare con un semplice scatto
dei momenti di vita: fotografo di tutto, qualunque cosa mi colpisse. Con il
passare del tempo poi avevo cominciato ad affinare il metodo, riuscendo a
capire quale fosse l’angolazione migliore, il momento più adatto a
scattare.
E
le mie foto con il tempo diventavano sempre più belle.
Aprii
quasi con diffidenza una delle due buste: conteneva centinaia e centinaia di
immagini. Foto di Maurizio, di Andrea, di papà, serate in pizzeria, gite con
gli amici, Andrea, Fil ed io allo zoo, papà e mamma, Maurizio e Veronica…
mi bloccai su quella foto: era nel posto sbagliato. Doveva stare
nell’altra scatola. Ci pensai su per un po’ poi decisi che
l’avevo messa nella busta giusta: l’altra scatola era solo di Lari
e me, Veronica non c’entrava.
Ad
Ilaria non piaceva essere fotografata: diceva sempre che sprecavo solo foto
scattandole a lei, che non ne valeva la pena. Dio! Non aveva idea di come fosse
errato ciò che pensava! Con il tempo riuscii a farle perdere quella terribile
convinzione, riuscendo a farla sentire a suo agio davanti all’obiettivo.
E
così arrivai ad unire le mie due più grandi passioni.
In
quella seconda scatola c’erano migliaia di foto che ritraevano Lari e me.
Avevo
chiesto a Muzi di bruciarle… come avevo potuto?
Anche
perché lì dentro non c’erano solo quelle immagini. C’erano anche
dei fogli che mi ricordavano che razza di bastardo fossi. Fogli che perciò non
dovevano per nessuna ragione essere cancellati, anche se, pensandoci bene,
dalla mia memoria non sarebbero mai scomparsi.
Ero
ancora immerso in quelle riflessioni, quando una mano che mi scuoteva la spalla
mi fece fare un salto di buoni tre metri dalla paura. Con il fiato corto mi
voltai per vedere chi ci fosse e mi trovai di fronte Armando. Mi posai una mano
sul cuore, sentendolo battere tanto forte da essere udibile anche da lontano, e
guardai l’orologio: erano le quattro. Spalancai gli occhi e rivolsi a Nando
un’occhiata sorpresa:
-
Già qui? Ma finisci di lavorare così presto? Quando ci eravamo accordati per
stasera credevo ci riferissimo alle nove, o anche più tardi-
Nando
fece spallucce:
-
Non volevo spaventarti. Ho bussato ma non rispondeva nessuno e dato che la
porta era aperta… Non ti dispiace vero che sia già qui?-
Scossi
la testa ancora confuso e gli indicai la poltrona, quindi andai in cucina a
prendere un po’ di alcolici.
In
salone trovai Armando che, togliendosi la giacca, osservava curioso le foto che
stavo rivedendo. Gli lanciai una birra che afferrò prontamente, poi prese posto
in poltrona, sempre continuando ad esaminare le foto:
-
Sono proprio belle. Le hai scattate tu? Hai un talento eccezionale!-
Disse
sincero. Io scossi la testa per lasciar cadere l’argomento e mi sistemai
sul divano:
-
Dì un po’, non è che sei già qui perché eri curioso di sapere il continuo
della storia? Cioè credevo che in quanto strizzacervelli tu le avessi già
sentite di tutti i colori!-
Lui
distolse lo sguardo e ribattè:
-
No, certo che no. E’ solo che il mio appuntamento delle cinque si è
anticipato e così…-
Non
concluse, accigliandosi per via del mio sguardo scettico. Sbuffò e bevve un
sorso della sua birra:
-
E va bene! Ma non è che ero curioso! Solo scocciato dall’idea di non aver
ancora capito come funziona la tua mente bacata!-
Esplose,
per poi pentirsene subito e guardarmi con aria afflitta:
-
Scusa. Io non intendevo…-
Scoppiai
a ridere, era forte in fondo quel topo!
-
Lascia stare, va benissimo così. Mi stai facendo già un grandissimo piacere,
anche se non te ne rendi conto. Allora dov’eravamo rimasti?-
Dopo quella sera in cui“l’accompagnai” a casa,
iniziai ad aspettarla tutti i giorni, al solito posto.
Andammo avanti così per più di due settimane:
lei finiva di lavorare e trovava me ad aspettarla.
Ci alternavamo: una volta guidavo io,
l’altra lei. In quel periodo fu per me come un’amica. Credo sia
stata la prima. Imparai a conoscerla, a capire dal modo in cui mi salutava se
quel giorno era nervosa o felice.
Scoprii che le piaceva molto il caffè e
che su di lei aveva lo strano effetto di calmarla, così ogni sera gliene facevo
trovare uno fumante in macchina. Le piaceva poco zuccherato.
Iniziai a capirla sempre di più, ma non
smetteva mai di sorprendermi.
Non avevo mai conosciuto una ragazza
come lei, o forse, ad essere sinceri, non avevo mai davvero conosciuto una
ragazza. Era diversa, originale, a dir poco strana, ma senza accorgermene
cominciai a dipendere da quella piccola dose giornaliera di lei.
Si intendeva egregiamente di macchine ma
le piaceva anche leggere ed andare a fare compere.
Molto spesso si perdeva nelle sue
riflessioni, dimentica di ciò che le succedeva attorno.
Era piena di contraddizioni: decisa in alcune
cose e del tutto insicura su altre.
Dolcissima in alcuni momenti, fredda e
distante in altri.
Era sempre un passo avanti a me, e per
starle dietro mi ritrovavo in un continuo stato di agitazione.
Non parlava quasi mai di sé, sempre
chiusa e riservata, ma c’erano volte in cui riuscivo ad estorcerle
qualcosa e in quei momenti mi sentivo fortunatissimo: al settimo cielo perché
era a me che stava confidando quelle cose.
Tutto cambiò il sedicesimo giorno, se
non ricordo male.
Ero io a guidare quella sera, andavo
estremamente al rilento, cercando di prolungare il più possibile quei miseri
dieci minuti. Mi fermai davanti al suo palazzo sempre chiacchierando
amabilmente, quando un improvviso silenzio di lei mi mise in allerta.
Seguii il suo sguardo e vidi un ragazzo
seduto su uno scalino fuori il portone. Aveva i capelli ricci, di un castano
molto chiaro, e gli occhi neri che guardavano sorpresi Ilaria al mio fianco.
Lei allora sorrise imbarazzata e,
congedandomi con un grazie, scese per raggiungere lui.
In quel momento provai una fitta allo
stomaco, lancinante in quel caso era un eufemismo.
Lì per lì non la identificai come tale,
ma era proprio quello: gelosia allo stato puro.
Mentre facevo retromarcia vidi nello
specchietto retrovisore come la abbracciava, sussurrandole qualcosa
all’orecchio. Non mi piaceva per niente: come si permetteva?
Lui non ne aveva alcun diritto.
Ero io a capirla veramente, io stavo in
ansia per lei quando mi sembrava anche solo un tantino preoccupata, ero io
quindi a doverla abbracciare, solo io potevo avvicinarle le labbra
all’orecchio... non me ne resi conto subito, ma quella rabbia che provavo
nei confronti di quel giovane era semplice invidia: morivo dalla voglia di
abbracciarla, anche solo di sfiorarla e non l’avevo mai capito.
Stavo per lasciare la frizione con un
gesto rabbioso quando notai che nella scena che stavo osservando qualcosa non
andava: Lari si era innervosita, e ora stava spingendo via il ragazzo che
subito fece per riavvicinarsi.
In un batter d’occhio ero dietro
di lei.
-
Va tutto bene?-
Le chiesi in ansia. Non mi aveva visto
arrivare e la colsi di sorpresa. Annuì ancora confusa:
- Sì, tutto bene. Davide, che fai ancora
qui?-
Avrei dovuto provare imbarazzo, ma in
quel momento riuscivo solo a scrutare con aria di sfida il giovane davanti a
me. Lui intanto mi studiava con reale meraviglia, e ogni tanto spostava lo
sguardo su Ilaria con fare interrogativo. Ad un certo punto, rivolgendosi a lei
disse:
- Non mi presenti il tuo amico?-
Ilaria sbuffò, come infastidita da
quella semplice richiesta, ed indicando prima lui e poi me, fece le
presentazioni:
- Mirko, Davide. Davide, mio fratello-
Sgranai per un secondo gli occhi: avevo
sentito bene? Aveva detto fratello?
Un momento: aveva un fratello?
Rimasi totalmente scombussolato e lei se
ne accorse, perché mi sorrise indulgente e disse, come a trarmi
d’impiccio:
- Non devi andare?-
Annuii ancora frastornato e stavo per
scappare via quando Mirko, con un tono indagatore e divertito chiese:
- Come mai sei intervenuto, prima?-
Domanda legittima, che parafrasata
equivaleva a: “Perché non ti sei fatto i cazzi tuoi?”
Accennai un mezzo sorriso e risposi:
- No, niente. Mi era sembrato che Lari
si fosse innervosita e credevo fosse per causa tua e… non sapevo fossi il
fratello perciò scusate se mi sono intromesso, io…-
Mirko sollevò una mano a fermarmi e con
fare comprensivo scosse la testa:
- No, no, avevi visto giusto. Si è
innervosita e per colpa mia. Ma non ho tutte le colpe. Devi sapere che stasera
dobbiamo andare ad un anniversario di matrimonio, stiamo parlando di nostra zia
quindi non possiamo mancare. Ma… Lari, come l’hai chiamata
tu… stava già cercando di ricontrattare per non venire-
Guardai Ilaria che non mi contava
proprio, troppo occupata ad incenerire il fratello con lo sguardo. Non capii il
motivo di tanta rabbia finché Mirko non continuò:
-
Hai da fare stasera? Perché se sei libero potresti venire anche tu, come
cavaliere di Ila. Certo mi aiuteresti almeno a portarla fin lì-
Mi aveva davvero chiesto di
accompagnarli all’anniversario della zia?
Con la coda dell’occhio vidi
l’espressione di Lari: faceva paura. Non sembrava lontana
dall’avventarsi contro il fratello per strangolarlo. Sapevo perfettamente
che avrei dovuto declinare gentilmente l’invito, ma la mia lingua era
sempre stata più veloce del cervello, così sentii la mia voce dire:
- Certo. Sarà un piacere! Vengo qui
alle…-
Mirko si illuminò alla mia risposta, e
felicissimo continuò per me:
- Fra un’oretta, ti va bene?-
Annuii senza pensarci, eccitato
all’idea. Li salutai entrambi, ignorando volutamente la rabbia di Lari e
salii in macchina. Tornando a casa non riuscii a capacitarmi di come avessi
potuto accettare, mi ero forse bevuto il cervello? Mai uscire con una ragazza assieme
ai suoi familiari: era una mia regola ferrea, come avevo osato infrangerla
così?
Un attimo… uscire?! Quella era da
considerarsi un’uscita?
Sentii il mio stomaco che si rigirava
furioso.
Arrivai fuori casa e parcheggiai con una
manovra che avrebbero dovuto dichiarare illegale.
Salii le scale in un lampo ed entrai in
salone come una furia. Andrea e Maurizio stavano giocando a scacchi e mi
guardarono con tanto d’occhi. Finsi di non notare la loro sorpresa e
corsi in camera mia. Aprii con uno scatto agitato le ante dell’armadio e
iniziai a cercare fra tutti i vestiti quello nero buono. Dopo inutili ricerche
chiusi l’armadio con un calcio isterico e cacciai un urlo:
- Maurizio! Il mio completo nero buono
dov’è?!-
Mi voltai di scatto sentendo la sua voce
vicina: era sulla porta della mia camera, con la spalla appoggiata allo
stipite, mentre Andrea si era sdraiato sul letto. Maurizio inarcò le
sopracciglia e mi rispose con un sorriso enigmatico:
- Lo hai portato a lavare l’altro
ieri. A che ti serve?-
Giusto. Tutta colpa di quell’oca
di Annarita che me lo aveva impiastricciato con il rossetto.
Senza una parola mi diressi in camera di
Muzi e aprii il suo armadio: qualcosa sempre avrei trovato.
- Allora, si può sapere che hai?-
Era stato Andrea a domandarlo. Erano di
nuovo tutti e due dietro di me. Non risposi e Maurizio intervenne:
- Stasera sbaglio o devi uscire con
Laura?-
Imprecai mentalmente: l’avevo
dimenticato. Mugugnai e decisi di spiegarmi:
- Le darò buca: stasera vado con Ilaria
e suo fratello ad un anniversario di matrimonio-
Anche senza vederli in viso la loro meraviglia
era chiarissima.
-
Ilaria? Quella della concessionaria?-
Andrea si intromise:
- Quella è Ilaria? Uau, è la ragazza con
cui è stato più costante-
E continuarono così, scambiandosi
battutine ed insinuazioni come se io non ci fossi. Emisi un’esclamazione
di gioia quando trovai fra i tanti completi uno di mio gradimento: nero, con
una camicia bianca sotto, ricordava uno smoking, ma era molto più elegante. Lo
afferrai e andai in bagno per cambiarmi. Dopo pochi minuti, mentre cercavo di
annodarmi la cravatta, la porta venne spalancata da Andrea che con un sorriso
ironico esclamò:
- Aspetta, aspetta. Non avevi detto con
Ilaria e suo fratello?-
Alzai gli occhi al cielo: non gli era
sfuggito.
- Sì, viene anche il fratello. E’
stato lui ad invitarmi-
Sbuffai sentendo la risata di Maurizio
provenire dalla stanza affianco e guardai con fare minaccioso Andrea, per
intimargli di stare attento a quel che avrebbe detto. Lui sorrise con fare
innocente e alzò le mane in segno di resa:
- Com’è il fratello?-
Lo squadrai per vedere se avevo sentito
bene e lui indifferente continuò:
- Se con quest’ Ilaria vuoi
concludere qualcosa, vengo anch’io e ti tengo occupato il fratello-
Sgranai gli occhi e lo fissai, cercando
di capire fino a che punto scherzasse:
- Andrè, sei mica passato
all’altra sponda?-
Lui sbuffò scocciato:
- Guarda Davide che lo faccio per te. Se
non ti interessa il mio aiuto…-
Sembrava avere un’aria quasi
risentita. Scoppiai a ridere e gli ammiccai:
- Andiamo, dai-
Sospirai sollevato, vedendo di avergli
ridato il sorriso e mi avviai verso l’uscita. Poco prima che aprissi la
porta mi fermò lanciandomi addosso qualcosa, lo sentii esclamare divertito:
- I pantaloni vuoi metterli o credi che
così arriverai prima al sodo?-
*
Ilaria
Scesi
dalla moto mantenendomi a lui.
Mi
tolsi il casco e glielo passai, mi sorrideva serafico e un po’ riluttante
ricambiai il sorriso. Non era sceso dalla moto e si era solo alzato la visiera
del casco. Era come se si sentisse a disagio: ora che eravamo di nuovo in
città, non più soli ed immersi nell’atmosfera speciale di quei luoghi, i
fatti accaduti potevano risultare alquanto imbarazzanti ed era tutta colpa mia.
Mia
e solo mia.
Ero
io che ancora non mi sentivo pronta a lasciarmi andare con lui, con Fil…
e per quale assurdo motivo?
Non
lo sapevo nemmeno io. Quando ero stata lì lì per
cadere e lui mi aveva presa, perché non lo avevo lasciato libero di baciarmi?
Perché mi ero scostata? Ripensai a tutte le emozioni di quel pomeriggio: a
quando eravamo scesi assieme su quella specie di seggiolino.
Ero
terrorizzata ma eravamo arrivati sani e salvi dall’altra parte: quasi non
riuscivo a crederci, era stato divertentissimo! Il sentirsi volare: in aria, su
un burrone di non so quanti metri… fra le braccia di Fil. Entusiasmante
era un eufemismo. Avevamo riso per buoni dieci minuti dopo, stuzzicandoci,
provocandoci per il puro divertimento di vedere le reazioni dell’altro.
Ed erano passate altre due ore, poi eravamo tornati alla moto e dopo un tempo
che mi sembrò brevissimo si era fermato sotto casa mia.
Lo
guardai ancora una volta, cercando di capire cosa stesse pensando, cosa
nascondessero quelle pozze d’acqua azzurra che mi fissavano. Ma lui non
disse niente, si limitò a farmi un cenno col capo per poi partire a tutta
velocità. Rimasi immobile ad osservare il punto dove poco prima era ferma la
sua moto: se ne era andato e non ero tanto sicura che lo avrei rivisto ancora.
Ricacciando indietro le lacrime ed ignorando il groppo amaro che mi si era
formato in gola mi voltai e mi avvicinai al portone.
Avevo
appena cominciato a cercare le chiavi che il portone si aprì con uno scatto.
Ringraziai mentalmente Mirko e salii di corsa le scale. La porta di casa era
socchiusa, la luce dell’atrio accesa ma troppo debole per farmi vedere
chi vi fosse. Feci per togliermi la giacca ma rimasi pietrificata
nell’atto dalla sorpresa.
Sgranai
gli occhi, non riuscendoci a credere ed in un men che non si dica ero fra le
sue braccia.
-
Ray?! Zio Robby! Ma come…? Che ci fai qui? Ti credevo ancora in Africa!-
Buttai
lì quelle esclamazioni di gioia, non sapendo esprimere in altro modo la mia
felicità.
Adoravo
quell’uomo.
Era
la tipica pecora nera di famiglia: costantemente disoccupato, nomade, sciupa
femmine, imbroglione e via dicendo, ma era riuscito a guadagnarsi il mio
affetto incondizionato. Era stato per Mirko e me più presente dei nostri genitori:
lui era stato partecipe ai nostri primi amori, alle nostre prime delusioni e
poi anche a tutte le successive, lui era venuto ai nostri diplomi, e alla festa
di inaugurazione della nuova casa… era sempre lui quello presente. In
qualunque capo sperduto del mondo si trovasse in qualche modo riusciva sempre a
presentarsi al momento giusto.
Continuai
a stringerlo forte finché non sentii una risata alle mie spalle, a quel punto
lo lasciai libero dall’abbraccio e guardai irritata Mirko che fingeva di
asciugarsi le lacrime con un fazzolettino:
-
Non fate così: mi fate commuovere!-
Stavo
per rispondergli male, ma finalmente riuscii a guardare meglio Ray: era
dimagrito e si era lasciato crescere i capelli, ora c’era una leggera
barba ispida a coprirgli la mascella. Aveva l’aria stanca, eppure
sembrava molto eccitato per qualcosa: lo vidi scambiarsi un’occhiata
d’intesa con Mirko e sospirai:
-
Che avete? Mi sono persa qualcosa?-
Sghignazzarono
e mi fecero segno di sedermi con loro in salotto. Ubbidii sebbene ancora
diffidente: non me la contavano giusta. Li guardai con aria interrogativa e fu
Mirko a prendere la parola:
-
Ray starà qui con noi per qualche settimana. Mi stava raccontando della sua
ultima avventura in Africa, quando squilla il telefono: Maurizio-
Sorrise
vedendo la mia bocca aprirsi leggermente dalla sorpresa e dopo avermi fatto
l’occhiolino continua imperterrito:
-
Sì, hai capito bene, Maurizio, che leggermente a disagio mi chiede di
ricordarti che ti aspetta domani alle nove nel suo ufficio. Lo zio Robby non
riusciva a capire il motivo della mia sorpresa e sai come mai? Credeva che tu
stessi ancora insieme a Davide, anzi ormai vi dava per fidanzati. Lasciati dire
che da te questa proprio nonme la
aspettavo: come hai potuto non dirglielo?-
Scosse
la testa fingendo delusione e sorrise a Ray: si stavano divertendo un mondo.
Arrossii
ed iniziai ad agitare nervosamente il piede; Mirko sorrise anche a me e
continuò:
-
Ma andiamo avanti: gli faccio un breve riassunto della situazione ed ero quasi
arrivato a dirgli che non avevo la più pallida idea di dove tu fossi quando
squilla di nuovo il telefono. Veronica stavolta. Veronica che si aspettava di
trovarti a casa e che quando scopre che non è così scoppia a ridere. Tento di
capire il motivo di tanta ilarità e cosa vengo a sapere? Che sei chissà dove
con un certo Filippo!-
Sentii
le guance andarmi a fuoco e lo corressi in un respiro:
-
Fil-
Mi
guardarono entrambi con tanto d’occhi e Ray mi fece segno di andare da
lui.
Mi
ci sedetti in braccio e mi lasciai andare contro il suo petto.
-
Fil? Quello che ti ha accompagnata qui in moto?-
Bene!
Ora mi spiavano anche dalla finestra!
-
Non mi è sembrato ti abbia salutato con tanto affetto, scricciolo-
Chiusi
gli occhi, perché dovevo starli a sentire?
-
E dì un po’: dove ti ha portata a pranzo?-
Perché
facevano così? Volevano farmi soffrire?
-
In una trattoria fuori città-
Risposi
continuando a tenere gli occhi serrati.
Li
sentii sospirare e lo zio Robby iniziò ad accarezzarmi la schiena, come a
consolarmi:
- Ed
era il primo pranzo assieme? Te lo ricordi Davide invece…-
Che
bastardi.
Ma
che avevano in mente? Si stavano forse facendo un filmino mentale per via della
chiamata di Maurizio? Perché altrimenti quella era pura e semplice cattiveria.
Meschinità
all’ennesima potenza.
Volevano
farmi fare un confronto? Farmi fare un paragone fra i due?
Non
era affatto giusto e loro lo sapevano…
Non sapevo cosa aspettarmi: avevo
imparato a non dare nulla per scontato con Davide.
Aveva detto solo: “Faremo tardi,
piccola. Davvero tardi”
E visto che mi aveva dato appuntamento
alle tre del pomeriggio non sapevo cosa pensare: cosa mai poteva aver
organizzato? Anche applicandomi con tutte le forze, non avrei mai potuto
immaginare tanto: il luogo d’incontro era davanti alla nostra solita
caffetteria, così quasi mi aspettavo di vederlo arrivare a piedi.
Invece venne in moto: veloce mi fece
montare dietro di lui e partì a tutto gas.
Provai a chiedergli dove stessimo
andando ma lui non rispose.
Si fermò in uno spazio riservato e mi
portò in quello che sembrava un aeroporto in disuso.
Lì, fermo, vi era un aereo o meglio,
come mi corresse lui sorridendo: “un jet privato, un Airbus A380”
Il suo preferito.
L’ultimo regalo del paparino: un
jet del costo di 500 milioni tondi tondi, aggiunse
con disinvoltura.
E così salimmo su quel jet, chiamato
anche Flying Palace, ovvero Palazzo Volante e non a caso.
Passammo tutto il tempo a visitare quel
coso immenso, mi sentivo come una bambina ai suoi primi passi, completamente
disorientata, intrigata e curiosa. E lui mi seguiva, standomi dietro, sempre
attento, divertito dalla mia meraviglia, pronto a rispondere a tutte le mie
domande.
Per le prime due ore di viaggio
dimenticai persino di chiedergli dove stessimo andando, fu lui poi a portarmi
vicino ad un vetro e a quel punto capii da solo la nostra meta.
Non fu troppo difficile comprenderlo:
davanti ai miei occhi vi era la Tour Eiffel.
Mi aveva portata in Francia: a Parigi!
E quella era la nostra prima vera e
propria uscita, rabbrividii pensando a quello che avrebbe potuto combinare le
volte seguenti. Mi abbracciò da dietro e mi sussurrò piano all’orecchio:
- Ti piace?-
Quasi non riuscivo a rispondere tanto
forte era l’entusiasmo. Lui capì al volo e mi diede un bacetto sul collo:
- Non ti agitare troppo, piccola. Ancora
devi vedere tutto. Questo non era niente, non credevo ti avrebbe fatto tanto
effetto-
Disse calmo, per lui era tutto normale,
all’ordine del giorno. Sentii le gambe tremarmi e lui strinse la presa
sui miei fianchi. Mi soffiò sul collo come si divertiva a fare e disse, tutto
contento:
- Scendiamo? Non che abbia fretta, ma
non sapendo che genere di ristorante preferissi ho prenotato in tutti, così
facciamo un giro completo. Ti va?-
Annuii. Quasi non capivo più niente. Ma
faceva sul serio? Oh, sì, era serissimo.
Davvero aveva prenotato in tutti: mi
portò in tutti i ristoranti di Parigi.
Per prima cosa mi fece fare un giro
sulla Senna: sulla nave Capitaine Fracasse, dove prendemmo un aperitivo; poi andammo
al Baxo: ottima musica, moderno e sofisticato; quindi alla Brasserie Lipp:
assolutamente chic e raffinato; e ancora un salto a Montmartre per andare da
Chartier: uno dei ristoranti più caratteristici di Parigi; successivamente al
Petit Zinc, al La Crémaillère, al Tour d’Argent… e per concludere
in bellezza al Les Ombres: qui aveva prenotato una sala privata tutta per noi,
il tavolino era minuscolo, con due candele ad illuminarlo, come nei migliori
film.
Eravamo come sospesi in aria: circondati
solo da vetrate, con la Tour Eiffel a pochi passi da noi…
A
mala pena riuscii a reprimere le lacrime fino alla porta della mia camera.
Ignorai
le proteste e le scuse dei due che mi seguivano e mi chiusi la porta alle
spalle. Era stata una carognata quella che mi avevano fatto. Davvero una
carognata.
Mi
buttai sul letto e seppellii la testa nel cuscino.
Presi
il telecomando a terra vicino alla mia mano e accesi la musica: All the
words…
Chiusi
gli occhi, cercando di non pensare più a niente: né agli occhi di Filippo
quando se ne era andato sgommando in moto né alle labbra di Davide che sapevano
di champagne parigino davanti alla Tour Eiffel…
Sobbalzai
sentendo una mano sulla spalla. Saltai a sedere e mi ritrovai a fissare un paio
di occhi blu.
-
Fil? Cosa…?-
Lui
mi prese per mano e mi fece alzare. Aveva una strana espressione che non
riuscii a decifrare, pian piano si aprì un largo sorriso sul suo viso e
fissandomi sussurrò:
-
Vieni qui-
La
luce in camera era spenta, provenivano solo dei deboli bagliori da fuori la
finestra, eppure il sorriso di Fil sembrò brillare ed illuminare tutto. Si
avvicinò e mi tirò più vicino a sé: eravamo a pochissimi centimetri di
distanza, sentivo il suo respiro sul mio viso… mi soffermai ad osservare
le sue labbra, leggermente tremanti, e ne rimasi incantata: quasi non mi
accorsi che si avvicinavano sempre di più, e quando lo capii non feci niente
per impedirglielo.
Intrecciai
le mie dita con le sue nello stesso momento in cui le nostre labbra si
congiungevano le une alle altre. Strinsi ancora di più la stretta sulle sue
dita ed il bacio si fece ancora più intenso…
Mi
piacque, e ancora di più quando con le labbra sulle mie bisbigliò:
-
Scusami… Scusa per non averlo fatto prima: non sapevo cosa mi perdevo e
non avevo capito di dover lottare per averlo a tutti i costi.
Non ci vennero ad aprire la porta,
ricevemmo in risposta solo un “Avanti, entrate” gridato
frettolosamente. Aprii la porta incerto e trovando il salotto deserto presi coraggio:
entrai trascinandomi dietro Andrea e prendemmo posto a sedere su un divano.
Era una bella casa: su due piani, con
quell’aria di condominio antico. Si sentiva per tutta la casa una
sensazione di fretta: a un certo punto ci passò davanti di corsa Mirko, quasi
pronto, che accennò un saluto con la mano prima di chiudersi in un’altra
stanza, forse il bagno.
Sentii Andrea ridacchiare:
- Di solito non sono solo le ragazze a
farsi aspettare?-
Ignorai la sua domanda, concentrato su
una musica che proveniva dal piano di sopra: dieci a uno che la camera di
Ilaria era lì. Fui fortemente tentato di alzarmi e salire, ma quando stavo per
entrare in azione Mirko uscì dal bagno, ormai pronto, e sorridente venne verso
di noi. Guardò l’orologio e sospirando si accasciò su una sedia:
-
Ah, siete voi in anticipo! Credevo fossimo in ritardo! Tu sei?-
L’ultima domanda era rivolta ad
Andrea che entusiasta si presentò. Era eccitato come un bimbo a Natale.
Non li stavo ascoltando ma sentendo più
volte il mio nome nella conversazione iniziai a prestare maggiore attenzione:
stava parlando Andrea:
- Oh, sì non puoi immaginare come fosse
nervoso Davide! Fai conto che in macchina, mentre venivamo, ha fissato per
tutto il tempo un pacchetto di sigarette che tiene come monito sul cruscotto.
Ha smesso di fumare più di un anno fa, ma ti giuro temevo che stesse per
accendersene una tanto era irrequieto!-
Irritato smisi di ascoltarli nuovamente,
e concentrai la mia attenzione alle scale: doveva pur scendere.
Non passò molto che la mia richiesta
venne esaudita: spuntarono in cima alla rampa di gradini due scarpe nere con un
piccolo tacco, sollevai pian piano lo sguardo lungo due gambe stupende che non
avevo mai notato, sempre nascoste dai jeans. Continuai a studiare la figura appena
apparsa: un vestitino rosso, che le avvolgeva il busto per poi sciogliersi
languidamente sulle cosce. Le metteva perfettamente in risalto tutte le curve.
Le spalline erano scese, a lasciarle scoperte le spalle, ed i capelli erano
sciolti, a coprirle il collo. Non era molto truccata, giusto un po’ di
colore ad evidenziarle i magnifici occhi nocciola e del lucidalabbra.
Altro colore non serviva: era stupenda
così.
Come avevo fatto a non rimanere
abbagliato fin dall’inizio dalla sua bellezza?
Come avevo potuto non accorgermi di
quello che avevo sempre avuto sotto gli occhi?
Di solito non succedeva così:
normalmente, rimanevo colpito prima dall’aspetto fisico e poi da quello
che erano veramente le ragazze. Questa volta era successo il contrario: prima
avevo scoperto che persona magnifica fosse e poi l’avevo vista
realmente… se possibile, l’attrazione fu mille volte più potente
del solito.
A mala pena riuscii ad aspettare che
scendesse la scale per affrettarmi a prenderle la mano ed accompagnarla fuori.
Venne in macchina conme, non mi
preoccupai neanche di chiedere il parere dei nostri due altri compagni né
tantomeno loro sembrarono interessarsi a noi.
Arrivammo al ricevimento molto dopo
rispetto agli altri invitati e fu colpa mia: non volevo perdere un istante di
quella serata , volevo passare più tempo possibile con lei, solo con lei.
Quella sera non parlammo tanto: lei mi
sembrava leggermente in imbarazzo, io semplicemente non avevo niente da dire,
l’unica cosa che riuscivo a fare era guardarla.
Studiavo ogni suo movimento, ogni sua
più piccola espressione, cercando di capire a cosa stesse pensando; sperando,
completamente folle, che pensasse a me, solo ed unicamente a me.
E quando capitava che incontrassi il suo
sguardo, andavo letteralmente a fuoco: roso dal desiderio di stringerla a me.
Smanioso di poterla osservare da vicino, di poterne sentire il profumo, di
poterla guardare negli occhi e di avere la possibilità di perdermi in essi.
Feci la conoscenza di non so quanti suoi
parenti: fra zie, zii, cugini… normalmente quella sola idea mi avrebbe
terrorizzato, ma in quel momento non mi toccò minimamente. Cercavo anzi di fare
il bravo ragazzo.
Ignorando le occhiate incredule di
Andrea, tentai di fare un’ottima impressione su ogni singola persona lì
presente, con l’unico scopo di impressionare lei.
Lei che sorrideva a tutti.
Lei che veniva chiamata da ogni parte
della sala, invitata sempre a ballare, ad unirsi a foto di gruppo… lei
che mi sfuggiva sempre.
Ed era una cosa che non riuscivo a
tollerare.
Ero abituato ad ottenere quello che
volevo sempre e comunque: in qualsiasi caso.
Com’era possibile allora che lei
mi sembrasse così distante? Così lontana dalla mia portata?
Di solito era il mio nome a fare
scalpore, a fungermi da apripista: ero Davide D’Amico, per la
miseria!
Ma in quel momento il mio nome non
esisteva più: non ero nessuno.
Lei riusciva ad annullarmi
completamente.
A distrarmi dai miei pensieri fu una
mano che mi venne poggiata sull’avambraccio: alzai veloce lo sguardo
sperando fosse lei, ma non era così. Era la zia di Ilaria, quella che
festeggiava l’anniversario e che ora mi sorrideva serafica: una signora
sulla sessantina, bassina e ben proporzionata, molto simpatica. Mi porse la
mano e mi chiese di ballare. Sorpreso riuscii appena ad annuire: non mi era mai
capitata una cosa simile.
Portai la signora sulla pista da ballo
ed iniziammo a ballare; ogni qualvolta mi aveva a portata di voce, mi chiedeva
qualcosa di me, della mia famiglia, dei miei amici… poi mi chiese anche
di Ilaria e la vidi sorridere con aria saputa davanti al mio improvviso
arrossimento. Feci per negare, cercando di distoglierla da ciò a cui
sicuramente stava pensando, quando le parole mi morirono in gola: avevo appena
visto Ilaria.
Era fra le braccia di Andrea e ballavano
assieme, lui le disse qualcosa all’orecchio e lei scoppiò a ridere. Tornò
poi a guardarlo e rispose al suo sorriso scuotendo la testa. Cosa…?
Serrai i denti, sopraffatto da una
rabbia immotivata.
Non capii più niente per qualche
istante; a riportarmi in me fu la risata della signora al mio fianco: abbassai
un attimo lo sguardo sulla zia e la vidi farmi l’occhiolino:
- Avevo capito che eri cotto, giovane.
Ma non credevo fino a questo punto! Su, vai… conquistala.-
Non me lo feci ripetere due volte: rapido
la raggiunsi.
Lanciai ad Andrea uno sguardo che doveva
essere d’avvertimento: non sapeva cosa lo aspettava; quindi afferrai
Ilaria per un braccio e la trascinai con me attraverso la sala fino alla
finestra che dava sul balcone:
- Ti va di venire a prendere una boccata
d’aria?-
Lei mi fissò irritata e rispose
tagliente:
- Immagino che il mio parere non faccia
alcuna differenza. Se non l’hai notato stavo ballando con…-
Continuando a non guardarla sbuffai e
senza ascoltarla la portai fuori con me.
Tirava un po’ di vento, non troppo
né tanto freddo, però la temperatura era bassa: a mala pena dovevano esserci
dieci gradi. In quel momento ad ogni modo era il clima perfetto per me: mi
sentiva avvampare.
Un po’ per la rabbia, un po’
per il solo fatto di sentire la presenza di Ilaria a così poca distanza da me.
Mi appoggiai al parapetto, cercando di
concentrarmi sul paesaggio che avevo di fronte: eravamo in alto ed avevamo gran
parte della città sotto di noi. Per quanto mi sforzassi però, i miei pensieri
erano tutti per lei.
- Lari…-
La voce mi morì in gola: che potevo
dirle?
“Lari non me lo so spiegare ma non
riesco a fare altro che pensare a te, ma non solo al tuo corpo come tutti,
compreso me, potrebbero credere. No, sono totalmente ed incredibilmente affascinato
da te: da Lari. E non posso assicurarti niente, l’unica cosa che so è che
in questo momento sei la persona per cui… che so, mi butterei di
sotto!”
Potevo mai dirle questo? Sarei mai stato
in grado di scoprirmi in questo modo? Di lasciarmi andare completamente e
mettere a nudo i miei sentimenti, così?
Ero ancora talmente concentrato da non
accorgermi di come Ilaria si fosse avvicinata, fino a quando non sentii la sua
mano stringermi l’avambraccio. Era alle mie spalle e mi fissava con le
pupille dilatate.
Mi ricordava un cucciolo impaurito e mi
venne da ridere all’idea che era di me che aveva paura: l’ironia
della situazione, lei aveva paura a causa del mio silenzio che non riusciva a
spiegarsi.
Se le avessi detto quello che mi passava
per la testa che avrebbe fatto?
Sarebbe scappata via credendomi un pazzo
maniaco? Probabile.
Si leccò le labbra, come faceva quando
era indecisa. Chiuse un attimo gli occhi, quindi li riaprì di scatto e si
allontanò di un po’. Incrociò le braccia sul petto, rabbrividendo, e poi
iniziò a parlare:
- Davide? Ti senti bene?-
Fece per continuare ma si fermò un
attimo, prendendo fiato.
Io non dissi nulla. Stavo bene? No, non
direi proprio. Non avevo intenzione di mentirle né tantomeno di affrontare
l’argomento, così rimasi in silenzio.
- Io… stasera non ti riconosco.
Hai uno sguardo strano. Mi guardi come non mi hai mai guardato. E… e ti
arrabbi senza motivo e mi trascini via come un forsennato e ti aggrappi al
parapetto con tanta forza da farti sbiancare le nocche… e mi hai fatto
paura sai? Sembrava quasi che tu volessi buttarti di sotto, a un certo punto!
Ma che diamine ti prende? Ti droghi forse? Cioè, se non ti andava di venire
potevi anche dirlo… o se hai cambiato idea, che so, puoi andare via quando
vuoi, non c’è nessuna costrizione! Davvero, io non…-
Aveva detto tutto d’un fiato,
sempre guardandomi negli occhi, stringendo sempre più le braccia man mano che
andava avanti con il discorso.
Non riuscivo quasi a muovermi: come
faceva a pensare cose simili?
Credeva che mi drogassi, roba da pazzi!
Semmai era lei la mia droga…
L’avevo addirittura spaventata! Se
ci fossi riuscito, forse mi sarei dovuto picchiare da solo…
Sentii le mie labbra arcuarsi in quello
che doveva essere un sorriso, quando realizzai che quella era la cosa che più
si avvicinava alla corte ad una ragazza che avessi mai fatto: bei risultati che
ottenevo!
“Non c’è nessuna
costrizione”
Come era possibile che non capisse? Era
le che mi costringeva a rimanere: solo lei.
Non lo capiva.
Mi avvicinai di qualche passo. Feci per
allungare una mano verso di lei, ma si allontanò ancora.
Scuoteva la testa ora e teneva gli occhi
bassi. Faceva così solo quando non voleva che capissi cosa stava provando e
quindi credeva di star provando le cose sbagliate.
- Davide, ma che ti prende? Davvero, D.
credevo che… e stasera non ti stacchi un attimo e…-
Mi avvicinai in fretta, con pochi passi,
fermandole le labbra con un dito.
Con l’altra mano presi la sua: era
fredda, quasi tremante.
Speravo con tutto il cuore che a farla
rabbrividire non fosse solo il freddo.
Una cosa in particolare mi aveva colpito
nel suo discorso confuso:
- Come mi hai chiamato?-
Lei strinse leggermente gli occhi,
cercando di capire a cosa mi riferissi.
- Io… ti ho chiamato D. non ti
piace? Se ti da fastidio…-
Sorrisi e scossi la testa, quasi in modo
impercettibile.
Mi avrebbe portato alla pazzia quella
ragazza.
- No. No, mi piace. Mi piace tantissimo.
D. Io quindi sono il tuo D.?-
Lei sorrise e arrossì di colpo,
ritraendosi da me. Ma io subito ricoprii quella piccola distanza.
Non doveva allontanarsi.
Non poteva starmi lontana, o forse, non
potevo stare io lontano da lei.
In ogni caso, il risultato era lo
stesso.
A furia di arretrare, eravamo quasi arrivati
a sbattere contro il muro della sala, allora continuai a spingerla
delicatamente, fino a farla appoggiare con la schiena alle mattonelle bianche.
Poggiai la mia mano destra sul muro, a meno di due centimetri dal suo collo,
mentre la sinistra stringeva ancora quella fredda di Lari.
- Lari… non mi hai risposto-
Sussurrai, sovrastandola.
Mi persi nel suo profumo, sapeva di
cannella e… ero fuori. Tanto fuori da non capire più niente.
Le orecchie mi fischiavano e sentivo un
battito fortissimo: non riuscii ad identificare se fosse il mio cuore o quello
di Ilaria. Forse erano entrambi. Qualcuno comunque, rischiava di avere un
infarto.
Presi ancora un respiro, tanto vicino da
sentire il suo respiro sul collo e ripetei la domanda:
- Lari, sono il tuo D.?-
Lei non rispose. Sentii il suo respiro
accelerare e poi rallentare, diventando sconnesso.
La mano stretta nella mia era diventata
se possibile ancora più fredda.
Iniziai a chiedermi se non funzionasse
al contrario anche in quel senso: e le mani invece di sudarle, nei momenti di
tensione, le si facessero ghiacciate. Conoscendola, non era un’ipotesi da
eliminare.
Mi avvicinai ancora di più, solo con il
viso però: non potevo rischiare di toccarla di più, non sarei stato padrone
delle mie azioni altrimenti.
Riuscivo unicamente a fissarle le
labbra. Non avevo mai desiderato tanto qualcosa.
Erano rosse, vive, e quando le vidi
dischiudersi, fu come se avessi ricevuto un tacito consenso a fare quello che
stavo solo sognando.
Ma mi sbagliavo.
Ero ormai lì, quando una mano si poggiò
sul mio torace, spingendo, come a farmi allontanare.
Non era una spinta forte. Non
c’era quasi niente in quella resistenza.
Eppure mi lasciò una ferita bruciante.
Era come se mi avesse marchiato a fuoco
in quel punto.
Non ero mai stato respinto, ma dubito
che mai un rifiuto avrebbe potuto ferirmi di più.
Il battito del cuore aveva rallentato
fin quasi a fermarsi e faticavo a respirare.
Perché?
Avevo sbagliato qualcosa? Avevo fatto
qualcosa di male?
Abbassai lo sguardo, cercando i suoi
occhi. E li trovai lucidi, dilatati.
La sua mano era ancora sul mio petto.
Non premeva più. Ma era come un monito: non dovevo avvicinarmi.
Feci per dire qualcosa ma lei fu più
veloce.
Il suo fu poco meno di un sussurro,
esile e fugace come il vento che ci colpiva.
Dovetti concentrarmi per capire.
- Non è ancora il momento-
Non sapevo cosa voleva dire,
l’unica cosa che contava, l’unica a cui riuscii ad aggrapparmi con
tutto me stesso, era che non significava no.
Non aveva detto no.
Strinse la presa sulle mie dita e
sgusciandomi da sotto mi trascinò verso l’entrata alla sala.
Erano le dieci e mezza.
Per un’altra ora non ci separammo
nemmeno per un attimo: ballammo, ridemmo, chiacchierammo… e poi ancora a
ballare. E fra cocktail e sospiri smarriti, persi completamente la fiducia in
me stesso.
Iniziai a sentirmi come un ragazzino al
suo primo appuntamento: non avevo niente da offrirle: un sorriso era tutto
quello che avevo.
Fu lei poi ad avvicinarsi a me,
bisbigliandomi all’orecchio.
Probabilmente non si rendeva conto
dell’effetto che aveva su di me ogni suo più piccolo movimento, non
poteva quindi immaginare lo sconvolgimento che mi procurò chiedendomi
dolcemente:
- Mi accompagni a casa, D.?-
Mi sorpresi a pensare che non avrei
potuto negarle niente in quel momento.
E la scortai alla macchina, rubandola ai
suoi parenti, incapace di credere che fosse la semplice idea di poterla avere
al mio fianco ancora per un po’, a rendermi tanto felice.
Guidai piano, stando attento a non
superare i limiti di velocità, e anzi probabilmente se mi avessero fermato,
avrebbero potuto farmi una multa per intralcio al traffico. Certo non
c’erano macchine, ma andavo talmente al rilento da poter tranquillamente
essere superato da un moccioso in triciclo.
Non sarei comunque potuto andare più
veloce di così: i miei occhi non guardavano la strada, fissavano lei.
Lei che, seduta al mio fianco, con la
cintura ben allacciata, impregnava quel piccolo spazio con il suo profumo.
Lei che aveva accavallato le gambe e che
dondolava leggermente il piede.
Lei che si mordeva il labbro inferiore,
concentrata nello scegliere una stazione radio che le andasse a genio.
Si accomodò sul sedile quando ormai,
anche volendo lasciar andare avanti la macchina per inerzia, mancavano pochi
minuti all’arrivo. Aveva lasciato la radio RDS, che aveva appena finito
di dare la pubblicità.
“Ed ora cari ascoltatori, diamo il
via alla nostra sequenza mixata. Con questa daremo inizio al nuovo giorno,
signori e signore! Ascoltiamo un successo di qualche anno fa: She will be
loved”
La canzone incominciò quando io avevo
già fermato la macchina.
Ilaria si era sganciata la cintura e
aveva allungato la mano per aprire la portiera.
Quel semplice gesto mi aveva stretto il
cuore in una morsa atroce: se ne stava andando.
Poi però si fermò un secondo ed
allungandosi di nuovo verso la radio alzò il volume, di tanto.
Aveva alzato così tanto che riuscii a
capire cosa aveva detto solo leggendole il labiale:
- Mi accompagni fino alla porta D.?-
Non me lo sarei fatto ripetere neanche
mezza volta ancora.
In un baleno ero al suo fianco, e
l’avevo presa per mano. Avevo lasciato lo sportello aperto e nella fretta
non avevo permesso nemmeno a lei di chiudere bene il suo, perciò la musica si
sentiva benissimo anche all’esterno, e fin anche al portone, seppur come
un soffuso sottofondo, era ancora lì, a rendere quel momento ancora più magico.
Non c’era la luna, anzi il cielo era coperto a chiazze da scuri nuvoloni.
La luce era poca, giusto quella che arrivava da un palo poco distante.
Nonostante tutto, continuo a ricordare
quella serata come una delle più belle in assoluto.
Non la guardai negli occhi, neppure un
attimo: timoroso di leggervi un invito ad andarmene.
Scorsi con lo sguardo la figura del suo collo,
risalendo pian piano, soffermandomi su ogni punto, su ogni suo respiro. Il
vento soffiava alle sue spalle, agitandole i capelli, facendoglieli finire in
viso. Mossi una mano per scostarne alcuni e glieli misi dietro
l’orecchio. Nell’atto incontrai i suoi occhi: erano belli, come non
mai.
Addolciti da un qualche pensiero che
avevo paura ad indovinare.
Non ero più io, non ero più Davide.
In quel momento ero solo D.
Un D. non abbastanza sicuro di sé da
ritenere che fosse lui a farla sorridere.
I miei occhi erano bloccati nei suoi,
incapaci di uscirne.
Mi concentrai sulla musica, cercando la
forza di volontà per girare i tacchi ed andarmene.
I don't mind spending everyday
Out on your corner in the pouring rain
Look for the girl with the broken smile
Ask her if she wants to stay awhile
And she will be loved
And she will be loved
La canzone che poi sarebbe diventata la
nostra canzone.
Lei mi guardava con quegli enormi occhi
color nocciola ed il mio cuore si sciolse assieme al suo sorriso.
A voce così bassa che a mala pena la
sentii, sussurrò:
- Ora è il momento-
Non stetti un secondo a cercare un
significato alle sue parole, inconsciamente le stavo aspettando con tutto me
stesso. Per qualche istante quasi credetti di essermele solo immaginate quelle
parole, ma poi un po’ del vecchio, audace Davide, tornò a prevalere: e se
anche fosse?
Mi avvicinai ancora di più e mi piegai
leggermente su di lei, verso le sue labbra, curioso ed affascinato.
Morivo dalla voglia di vedere che
effetto mi avrebbe fatto, come sarebbe stato poterla finalmente baciare.
Avevo mai aspettato tanto?
Avevo mai faticato, sofferto, desiderato
tanto un bacio?
No, assolutamente no.
Ed era per questo che avevo paura. Paura
di sbagliare qualcosa, di fare un passo falso…
… e di rovinare tutto.
Fu lei a venirmi incontro.
Aveva uno strano sbrilluccichio negli
occhi: divertito ed emozionato allo stesso tempo.
Lentamente posò la sua mano dietro il
mio collo, facendomi venire la pelle d’oca.
Non ebbe bisogno di fare altro.
Non avrei potuto resistere un attimo di
più.
Mi sarei aspettato di tutto: dai fuochi
d’artificio ad uno scontro di treni, come si vedeva nei film, ma mai,
dico mai, mi sarei aspettato tanto.
Fu come se non avessi mai baciato
nessuna prima.
Un primo bacio a dir poco ultraterreno.
Un bacio… indescrivibile.
Un bacio con Ilaria.
Un bacio con Lari.
Un bacio con lei.
La strinsi a me, sopraffatto
dall’emozione, ed iniziai a giocare con le sue labbra.
Le succhiai il labbro superiore,
cercando di farle aprire la bocca e lei rispose mordendo giocosamente il mio.
Poi però schiuse le labbra, lasciandomi entrare, rendendo il bacio più
appassionato, se possibile ancora migliore. Mi lasciò la mano per farla salire
fino ai miei capelli, che iniziò a stringere, accarezzandoli delicatamente.
Quando mi morse di nuovo, la mia lingua prese l’iniziativa, senza
chiedere alcun parere ad altri
- Ti amo-
Nell’idillio in cui ero immerso,
riuscii lo stesso a stupirmi delle mie stesse parole.
La mia meraviglia comunque non eguagliò
minimamente quella di Ilaria, che si pietrificò fra le mie braccia.
Le labbra prima bollenti, le diventarono
velocemente fredde.
Si allontanò, di quel tanto che le mie
mani le consentirono.
Mi guardò fisso negli occhi, e qualcosa
la fece ridere e scuotere la testa:
- Non stai correndo troppo D.?-
Io non sorrisi.
Era una cosa seria quella.
Non ero mai stato tanto deciso come in
quel momento.
Le parole che seguirono erano state
pienamente approvate dal me cosciente, che ne era assolutamente convinto:
- Non sono mai andato tanto a rilento,
piccola-
Le sorrisi vedendo che mi credeva e la
tirai di nuovo a me.
Rubandole un altro interminabile bacio.
Poi con uno sforzo immane di volontà mi
allontanai, voltandole le spalle, e corsi alla macchina.
Salii ed accesi il motore.
Feci inversione e gridai, fuori di me:
- ‘Notte piccola! Ci vediamo
domani-
E partii a tutta velocità.
Cercando di mettere la maggiore distanza
possibile fra di noi.
Quella che prima non volevo e che ora era
necessaria per farmi tornare con i piedi per terra.
La voce squillante della speaker alla
radio mi distrasse:
“E con questa si conclude la
nostra sequenza di grandi successi, in cui c’erano Neffa, Ne-yo, Sum41 e
Maroon 5. E’ mezzanotte e tre minuti carissimi ascoltatori ed è
appena…-
Non l’ascoltavo più.
La mia mente si era bloccata su un
pensiero: avevo appena dato il più bel bacio della mia vita.
Guardai
fisso la faccia di topo stravaccata su una sedia vicina al mio divano: aveva
gli occhi aperti ma al tempo stesso un’espressione a dir poco persa nel vuoto,
non sarei rimasto sorpreso nello scoprire che era in grado di dormire con le
palpebre alzate, in fondo era pur sempre un dannato strizzacervelli e
quell’abilità gli poteva fare molto comodo.
Non
sentendolo rispondere allungai un piede per scuotere la sua sedia e proprio in
quel momento si risvegliò di colpo, sedendosi correttamente e prendendo veloce
un’altra birra dal minifrigo di cui ci eravamo attrezzati; passandosi una
mano fra i capelli e togliendosi gli occhiali con l’altra, disse:
-
No, scusa. Proprio non ci arrivo. Devo star perdendo colpi. Com’è
possibile che due come voi si siano lasciati?! Da come ne parli sembra fosse la
tua anima gemella, la ragazza perfetta per te, l’unica! E invece non
state più insieme, anzi da quel che si lascia sfuggire ogni tanto quella testa
di cacchio del tuo amico, sembra che la colpa in qualche modo sia proprio tua.
Io… davvero non ci arrivo, non me ne capacito. Hai intenzione di
illuminarmi o preferisci lasciarmi così, perché pot…-
Si
bloccò di colpo, forse colpito da un qualcosa nella mia espressione che non ero
riuscito a nascondere: un dolore troppo a lungo represso e che reclamava di
essere liberato.
Un
senso di colpa che volevo uscire allo scoperto, dopo aver logorato troppo a
lungo il suo carceriere.
Una
fievole speranza, debolissima e timorosa, di poter essere compreso e non
disprezzato…
Posai
svogliatamente la lattina che avevo in mano: la birra non bastava, ci voleva
qualcosa di più forte.
Ero
pronto ad affrontare la seconda metà della storia? Quella che da troppo tempo
non avevo il coraggio di ripetere nemmeno a me stesso?
Riguardai
Armando che mi fissava con aria interrogativa: in quel momento non era più uno
psicologo, era solo un ragazzo estremamente curioso ed ansioso di conoscere il
finale di una storia. Proprio per questo non me la sentivo di rovinargli il
tutto, di spiegargli i “dietro le quinte” della favola.
Perché
era questo che gli avevo raccontato fino a quel momento: una favola. Una storia
con tanto di principe azzurro e principessa. Una di quelle su cui ti ritrovi a
sognare e fantasticare per molto tempo a venire.
Per
quale motivo allora avrei dovuto dirgli anche il resto, rovinandogli così il
“vissero felici e contenti” ?
Presi
un bel respiro quando l’interesse di Nando iniziò a degenerare in smania.
-
Per raccontarti il finale, Nando, devo prima raccontarti il lieto fine…-
Si
rimise gli occhiali, tentando di capire.
Non
era un ragionamento così sbagliato in fondo: ogni storia d’amore ha un
culmine, un top, dopo il quale si può continuare a salire oppure scendere
precipitosamente.
Bene,
per spiegargli come si deve il motivo della nostra rapida discesa, era
necessario affrontare ancora una volta quell’onda, quella famosa marea
sempre alle mie spalle, pronta a farmi sua in qualsiasi momento.
Quella
marea che mi faceva rivivere dei ricordi, ricordi contro cui non sarei mai
riuscito ad averla vinta.
Guardai il numero sul display
svogliatamente.
In televisione stavano dando una
maratona di Friends, e con grande frustrazione di Andrea, ero intenzionato a
guardarla, nonostante conoscessi tutti gli episodi a memoria.
Distolsi lo sguardo dallo schermo e
tornai a fissare quel numero che non conoscevo: una parte di me mi diceva di
rispondere, l’altra mi consigliava invece di fregarmene altamente. A
vincere fu la seconda, quando Andrea con uno scatto ansioso mi fece notare che
era il numero di Mirko. Come faceva a saperlo, poi?
Risposi, involontariamente interessato.
- Davide? Ehy, sono Mirko. Tutto bene?-
Sorrisi tra me e me, si assomigliavano
terribilmente nei modi di fare, lui ed Ilaria.
- Si, tutto bene, grazie. Tu?-
Mai avuto conversazione più insolita con
Mirko: di solito non avevo molto a che fare con lui, anzi quasi non lo conoscevo.
Perciò cercai di capire dove volesse andare a parare con quella telefonata.
- Ehm… sì bene. O meglio... senti
ti ho chiamato perché, perché volevo chiederti una cosa-
Mi passai una mano sugli occhi, come la
faceva lunga!
- Mirko, dimmi. Non farti problemi-
Lo sentii prendere un bel respiro,
quindi mi domandò, quasi timoroso.
- Quand’èche hai sentito Ila per l’ultima volta
oggi?-
Mi ritrovai subito in stato di allerta:
che c’entrava Lari?
Quando l’avevo sentita
l’ultima volta? Ci riflettei, solo per qualche secondo.
- Intorno alle undici, stamattina. Era
ancora all’università. Perché? E’ successo qualcosa?-
Stavo andando in iperventilazione.
Andrea se ne accorse e iniziò a farmi
segno con le mani di restare calmo.
Mirko si affrettò a rispondere, con un
tono che voleva essere indifferente e consolatorio:
- No, no. Io non dovevo chiamarti, lo
sapevo. E’ solo che non è ancora tornata e di solito quando fa tardi
chiama.-
Afferrai brutalmente il poso di Andrea e
guardai l’ora: le sette e un quarto.
Che fine aveva fatto Ilaria?!
Iniziai a borbottare fra me e me:
- Non ha chiamato? Mirko dovevi dirmelo
prima! Ora vad…-
Ma non mi fece concludere e cercando di
calmarmi spiegò:
- NO, no. Non ha chiamato, sì, ma ha
mandato un messaggio! Tranquillo. Andrea ha ragione: ti innervosisci subito se
c’è qualcosa che non va con Ilaria-
Iniziò a ridacchiare, ma io non ci
trovavo niente da ridere. Se non dovevo preoccuparmi perché aveva chiamato?
Qualcosa non quadrava e dovevo capire cosa.
- Mirko, fammi capire: se ti ha inviato
un sms dov’è il problema?-
Tentennò, indeciso su cosa dire ed io
con un mugugno di impazienza lo incitai a continuare.
- Ma niente, davvero. E’ una
stupidaggine… solo che, quando manda un messaggio, di solito eh? Lo fa
perché non vuole parlare. Cioè di solito in questi casi è successo qualcosa,
capisci? Ti ho chiamato perché speravo fosse da te o cose simili. In ogni caso
non c’è niente di cui…-
Ero scattato in piedi: se Mirko diceva
che poteva essere successo qualcosa… alla mia Lari!
Chiusi la telefonata senza ascoltare
cos’altro stesse dicendo, quello che mi importava già l’avevo
sentito. Afferrai veloce la giacca di pelle e mi avviai alla porta. Ignorai la
risata di Andrea: non ero proprio in vena e non avevo nemmeno abbastanza tempo
per riempirlo di botte.
- Ma come? Te ne vai? E Friends?! Non
dirmi che ti perdi la maratona! E io come farò? Dio mio, potrei anche guardare
la partita, quale onore! Ah, e Davide!! Piove! L’ombrello no, eh?-
Non sarebbe certo stata la pioggia a
fermarmi.
Montai sulla moto e raggiunsi la mia
prima tappa: casa di Veronica.
Venne ad aprirmi dopo poco tempo, ma non
era sola: c’erano altre tre ragazze dietro di lei, che iniziarono a darsi
di gomito e a lanciarsi occhiate ammiccanti. Veronica mi guardò ad occhi spalancati,
e cercò di calmare senza riuscirci quelle altre ochette.
Probabilmente fui scortese, ma non avevo
tempo da perdere.
Mi rivolsi direttamente a lei, cercando
di ignorare i gridolini provenienti dalle sue spalle:
- Ilaria è qui?-
Conoscevo già la risposta ma dovevo
assicurarmene lo stesso.
Veronica mi fissò per qualche istante,
poi scosse decisa la testa:
- No, non è qui. Davide, sei fradicio!
Entra, dai-
Non appena si rese conto che non avevo
intenzione di seguire il suo consiglio, continuò a parlare:
- L’ho salutata intorno a
mezzogiorno, mi è sembrata un po’ scossa ma non ho indagato: lo sai
com’è Ilaria, se non vuole parlare…-
Non la lasciai concludere e ritornai
veloce alla moto: forse sapevo dov’era.
Aveva accennato diverse volte ad un posto
che la rilassava: nei pressi di un campetto. Diceva che si divertiva a guardare
dei ragazzi correre dietro un pallone: l’idea che si potesse giocare in
qualsiasi momento, qualunque cosa fosse successa, la rilassava.
Mi venne da sorridere: i ragionamenti di
Lari! Non facevano una piega uscendo dalle sue labbra ma non appena si tentava
di ripeterli, non avevano più alcun senso logico.
In pochi minuti arrivai a destinazione,
continuai a percorrere il vialetto fino a costeggiare il campo: c’erano
tipi che giocavano nonostante seguitasse a scrosciare di brutto.
Forse era più divertente se il terreno
assomigliavaad un pantano.
Uno dei giocatori all’improvviso
scivolò, rischiando quasi di affogare, e mi venne da ridere, ma non per quella
caduta: mi ero ricordato di una scena di qualche mese prima.
Ero in macchina con Lari, erano le tre
passate e stavamo tornando da una cena; la strada era deserta, tranne che per
un gruppo di ragazzi che giocavano a pallavolo. Io, divertito e biasimevole,
mormorai rivolto a Lari:
- Chi è tanto imbecille da giocare a
quest’ora?-
Detto questo, con tempismo eccezionale,
mentre passavamo accanto a quella mischia, spuntarono dalla baruffa Andrea e
Mirko che iniziarono a sbracciarsi per attirare la nostra attenzione e poi
salutarci con espressioni beote. Ridemmo per il resto del tragitto, e ancora li
prendevamo in giro.
Fermai la moto sul ciglio della strada e
continuai a camminare a piedi. Pioveva ancora a dirotto e con due dita mi
detersi della gocce di pioggia dalla faccia. In quel momento la vidi:
accoccolata ai piedi di un albero, con lo sguardo rivolto al campo di gioco. Si
era fatta piccola piccola, accerchiandosi le
ginocchia con le braccia.
Non mi aveva sentito arrivare, così il
più silenziosamente possibile, mi avvicinai a lei, per poi sedermi al suo
fianco. La colsi di sorpresa: mi fissò con aria stranita, come se non mi avesse
riconosciuto.
Le strinsi la vita con un braccio e la
sentii tremare. Senza pensarci mi tolsi la giacca, avvolgendoci dentro
lei.
- Piccola…-
Non sapevo cosa dirle. Non l’avevo
mai vista così: era frastornata, come intontita.
La guardai in viso: era pallida, molto,
e aveva gli occhi arrossati.
Mi si strinse il cuore: una minuscola
parte di me si sentiva offesa perché non mi aveva chiamato.
In fondo se qualcosa non andava, non era
con me che doveva parlarne?
Il resto di me invece, si sentiva
completamente fuori luogo: non avevo la più pallida idea di come intavolare il
discorso, di come consolarla.
Proprio perché la conoscevo bene, sapevo
che se non aveva intenzione di parlare, non c’era molto da fare.
Iniziai a sfregarla, stringendola ancora
più forte: era congelata. Continuai a stringerla finché non smise di tremare:
era fradicia, del tutto bagnata: come quando ci eravamo tuffati in piscina completamente
vestiti.
Presi fra due dita una ciocca dei suoi
capelli ed iniziai a giocarci, cercando le parole…
- Piccola. Non fare così, mi fai
preoccupare. C’è qualcosa di cui vuoi… parlare? Diciamo che abbiamo
venti minuti: poi sarebbe più saggio togliersi da qui sotto, se non vogliamo
essere bruciati da un fulmine-
Lei sollevò appena lo sguardo verso di
me: non sorrideva, mantenne il contatto visivo per qualche momento per poi
riabbassarlo velocemente e scuotere la testa. Non demorsi:
- Sei sicura?-
Questa volta non mi guardò nemmeno,
annuì semplicemente.
Non era un buon segno: non voleva
parlare. Le possibilità ora erano due: o ce l’aveva con me per qualche
motivo chiaro solo a lei, o non si fidava della propria voce.
- Lari, ho fatto qualcosa di sbagliato?-
Accennò quella che poteva essere una
risata nervosa e scosse la testa, abbandonandosi poi completamente fra le mie
braccia, poggiando la testa sul mio petto.
Allora era la seconda: era così scossa
da temere di non riuscire a parlare.
Le soffiai sul collo, come adoravo fare,
sperando che così si sentisse più a suo agio e la scongiurai all’orecchio
- Piccola, parla con me. Per favore.-
In risposta chiuse gli occhi, fece per
scuotere la testa ma la fermai. Non insistetti, limitandomi a baciarla sul
collo, come a darle tutto il mio appoggio.
Lei allora prese un bel respiro e
accennò a rispondere:
- Non… non è successo niente-
Su una cosa aveva ragione,in quel momento la sua voce non era
affidabile: le si incrinò, scomparendole quasi del tutto. Non aveva mai saputo
mentire, ora più che mai.
La sentii agitarsi, cercando di liberare
le braccia dalla mia stretta. Allentai la presa così da concederle maggiore
libertà. Lei si portò le mani al viso, e iniziò a sfregarsi gli occhi, come a
cercare di impedire alle lacrime di sgorgare.
Non l’avevo mai vista piangere,
certo qualche volta le era scappata una lacrimetta, ad esempio quando mi
trascinava a guardare un film commovente, ma mai niente di più.
Mi sentii ancora più impacciato,
terrorizzato all’idea che iniziasse a singhiozzare lì fra le mie braccia,
nel luogo che doveva essere il più sicuro in assoluto per lei, e dove invece
non avrebbe trovato nessun aiuto.
Perché era quella la dura verità: non
avevo la minima idea di cosa fare.
Mi concentrai per un po’ sul
rumore della pioggia, era quasi rilassante nella sua monotonia: era uno
scrosciare ritmico, preciso, che era riuscito ad escluderci dal resto del
mondo, creandoci uno spazio tutto nostro. Abbassai di nuovo lo sguardo su di
lei e con delicatezza le scostai le mani dal viso:
- Di cos’è che hai paura? Di
piangere davanti a me?-
Mormorò un fievole no mentre una lacrima
intraprendeva la discesa lungo il suo volto. La bloccai a metà strada,
fermandola con un dito. Con l’altra mano le alzai il volto, per poterla
guardare negli occhi: erano bellissimi. Il cioccolato si era come sciolto:
scolorendosi ed al tempo stesso illuminandosi, trasformato dall’acqua che
si nascondeva al suo interno. Mi si strinse il cuore ma continuai imperterrito:
- Cos’è successo?-
Ilaria scosse ancora la testa ed abbassò
lo sguardo, ma prima che potessi intervenire in alcun modo, tornò a fissarmi e
a voce bassa ed incerta disse:
- Sono io. Una stupida, ecco cosa sono.
Non è successo niente: è solo che ogni tanto… cioè sono tutte le piccole
cose, capisci? Che quando si mettono tutte assieme non si riescono più a
sopportare! Io, non volevo davvero. Non mi capita quasi mai di cadere così
improvvisamente in questo stato. Di solito capisco quando sto per non farcela
più e avviso che starò fuori per un po’. Oggi però… ti ho fatto
preoccupare. Scusa.-
Si stava scusando?! Ma come diamine
ragionava?
Mi guardò confusa, mentre altre lacrime
seguivano il percorso della prima.
Forse si aspettava un sorriso rassicurante
da parte mia, ma ancora non era arrivato il momento per quello. Stava ancora
piangendo, o sbaglio?
- Ad esempio? Quali sono queste piccole
cose?-
Si passò di nuovo le mani sugli occhi ed
emise un suono inarticolato:
- Ma niente, tutte sciocchezze te
l’ho detto.-
Le presi le mani fra le mie,
nell’inutile tentativo di scaldarle un po’ e annuii come ad
incitarla:
- Sì, ma voglio lo stesso sentirtele
dire, piccola-
Sbuffò, ma quello che le uscì somigliava
più ad un singhiozzo mal represso.
- … La macchina stamattina non
partiva. E la sveglia non aveva suonato. E poi ho incontrato un vecchio amico
di cui non ricordavo il nome e che se l’è presa con me per qualche motivo
che ora non mi viene e… la tesina che dovevo consegnare era diventata
illeggibile per colpa della pioggia ed il professore non mi ha creduta epoi Veronica voleva per forza farmi andare a
casa sua per incontrare delle tipe che sono tue fan e…-
La strinsi forte, cullandola contro il
mio corpo: aveva cominciato a singhiozzare, era scossa da fremiti che non
riuscivo a fermare e non riuscivo più a capire cosa stesse balbettando. Si era
aperta. Mi aveva lasciato entrare.
Eccole le piccole cose.
Quelle che l’avevano ridotta in
quello stato. Quelle che erano riuscite a far piangere la mia piccola. Certo
prese individualmente potevano sembrare sciocchezze ma tutte assieme erano
difficili da fronteggiare.
Per parlare aspettai che si calmasse un
po’: non appena i singhiozzi iniziarono a diminuire intervenni deciso:
- Allora vediamo: la macchina la porto
ad aggiustare stanotte stesso e nel caso ti presto la mia o te ne compro una
nuova, lo stesso vale per la sveglia. Il tuo amico, se non lo hai mandato già
tu a quel paese, lo faccio io domani. Per la tesina, se c’è bisogno la
riscriviamo assieme e con il professore ci parlo io, non ti devi preoccupare.
Veronica e le sue amiche non ti infastidiranno più, te lo assicuro e…-
Volevo continuare: ero entrato nel mio
campo, avevo trovato il modo di tornare ad essere padrone della situazione.
Avevo capito che ero in grado di aiutare Lari in ognuno di quei problemi…
ma i suoi occhi mi fermarono: erano ancora lucidi, ma le lacrime non scorrevano
più.
Mi guardava come se, non saprei, come se
si fosse appena resa davvero conto che ero lì.
Tentai di capire a cosa stesse pensando
ma non ne avevo idea.
- Lari, sicura di star bene? Ci
rimangono ancora undici minuti prima di cominciare arischiare la morte. Vuoi andare a casa
oppure…-
Mi sorrise, di un sorriso bellissimo.
Si voltò, per ritrovarsi faccia a faccia
con me. Mi poggiò le mani sulle spalle, e sovrappensiero iniziò a solleticarmi
il collo, muovendo lentamente le dita. Non si rendeva conto di starlo facendo
né tanto meno del piacere che mi provocava.
Riuscì a farmi tornare in me schiudendo
le labbra, per dire qualcosa.
Allora mi concentrai su quelle parole,
cercando di rimanere cosciente.
- Grazie. Grazie per essere venuto,
sotto la pioggia, in questo posto sperduto… per rischiare la vita con me.
Per non avermi preso per una pazza… e D…-
Feci per interromperla: non c’era
alcun bisogno di ringraziarmi per nessuna di quelle cose, era naturale che le
avessi fatte. Così come le avrei rifatte ancora mille volte. Ma non riuscii a
fermarla, perché fu lei a stoppare me, riuscendo a colpirmi con sole due
parole:
- … ti amo-
Il mio cuore mancò un battito.
Tenevo gli occhi fissi su quelle labbra,
incapaci di credere che avesse veramente pronunciato quelle parole. Ma era
stato così.
Il battito tornò, molto più veloce di
prima, forse troppo, ma non importava.
La strinsi di colpo a me, portandola a
meno di un soffio dal mio viso.
- Ripetilo-
L’avevo solo sussurrato, ma alla
distanza a cui ci trovavamo fu come se lo avessi gridato.
Le sue labbra si avvicinarono e prima di
stringersi definitivamente alle mie, bisbigliò:
- Ti amo-
Non sentivo più il freddo.
Non sentivo più la pioggia, né i tuoni
né il vento né i vestiti bagnati incollati addosso… sentivo solo ed
unicamente le labbra bollenti di Lari sulle mie.
L’unica cosa di cui ero cosciente
era il suo piccolo corpo stretto fra le mia braccia.
Il “ti amo” che aveva detto,
aleggiava ancora attorno a noi, rimbombandomi nella testa.
Non ero mai stato tanto felice. Mai
tanto fuori di me. Non riuscivo quasi a credere di star vivendo la realtà.
In quel momento ero convinto di poter
continuare a vivere anche solo grazie a quel “Ti amo”
Due parole, tre sillabe, brevissime,
quasi insignificanti.
Ma non erano tali, non per me.
Significavano tantissimo, e nessuno
avrebbe mai potuto affermare il contrario.
Quel “Ti amo” era riuscito a
dar vita ad emozioni indescrivibili.
Era stato lieve, dolce, impercettibile
ad occhi estranei nella sua grandiosità.
L’aveva detto.
Aveva detto Ti amo.
Sorrisi
nello scorgere uno sbrilluccichio dietro gli occhiali del mio piccolo pubblico.
-
Non dirmi che ti sei commosso, Nando-
Lui
scosse la testa convinto e mi fece segno di continuare.
Io
invece mi alzai. Non riuscivo a guardarlo in faccia:
-
Sono contento che non sia così…-
Dissi,
avviandomi verso la cucina. Mi avvicinai alla finestra e guardando fuori
aggiunsi:
-
… perché meno di quarant’otto ore dopo l’ho tradita-
Forse
fu per via del rumore degli occhiali che gli erano caduti di mano.
O
per il sonoro “Cosa?!” che gli uscì come un grido soffocato.
Spinsi
più a fondo le mani nelle tasche dei pantaloni, continuando a fissare il vetro
della finestra: non si vedeva niente, o forse erano i miei occhi a non
funzionare più. Presi diversi respiri, cercando di calmarmi: stavo andando in
tilt. E non ce n’era alcunmotivo!
Non
stavo facendo niente di male: una semplice conversazione con un amico, ecco
cosa stavo avendo.
Com’era
possibile allora che mi sentissi così male?
Mi
sembrò di essere risucchiato di nuovo in quel vortice di emozioni: quelle che
avevo tanto accuratamente cercato di ignorare, quelle che ora mi stavano
uccidendo…
Poggiai
la fronte contro il vetro fresco, e rimasi così, immobile, per qualche minuto.
Mi
sentivo bruciare, un giramento di testa mi colse improvviso, facendomi perdere
la stabilità sulle gambe e dovetti tenermi forte alla credenza davanti a me.
Era possibile che mi sentissi in quello stato senza essere ancora davvero
arrivato al punto saliente del racconto?
Era
ora che arrivava il difficile.
Ora che dovevo cercare di spiegare le mie ragioni, probabilmente del tutto
errate, ma comunque mie.
Ora che avrei raccontato le cose dal mio punto di vista… la visuale
di un folle.
Tenendo
gli occhi chiusi, a rischio di scontrarmi violentemente con qualcosa, tornai al
divano. Mi ci sdraiai di nuovo e poggiando la testa sulle braccia, a mo’
di cuscino, ricominciai da dove mi ero fermato:
-
Allora Nando, non è affatto facile per me, quindi non rendermi le cose più
complicate di quello che già sono. Io… è stato perché… è lei
che… Dio! Come faccio a spiegartelo?!-
Non
ero mai stato tanto in difficoltà con le parole. No, nemmeno questo era vero.
Era
possibile che mentissi persino a me stesso?
Con
un moto di isteria mi voltai verso Armando: mi squadrava con occhi indagatori,
gli occhiali scesi sul naso, le labbra contratte, sembrava più che mai un
topolino, eppure non riuscì a farmi sorridere. Fu lui a parlare, con voce
calma, misurata, come ponderando ogni singola frase, ogni domanda:
-
Un po’ alla volta, Davide. Vediamo: eravate nei pressi di un campetto,
quando lei ti ha detto “Ti amo”. Giusto, fin qui?-
Annuii.
Annuii solamente. Di più non potevo fare.
Armando
si inumidì le labbra e riprese il discorso, fissandomi e accompagnando le mie
risposte come si fa con un bambino:
-
Quindi, fino al “Ti amo” ci siamo; ora: cos’è successo dopo?
Ci deve essere stato un fattore scatenante: lei ha combinato qualcosa di male?
Ti ha che so fatto arrabbiare? Oppure è andato storto qualcosa nelle vostre
conversazioni successive? O… non dirmi che ti sei ubriacato!-
Fu
Armando a sbloccarmi: lui e tutte quelle sue assurde ipotesi. Come poteva anche
solo pensare che fosse minimamente colpa di Ilaria?! O che io solo per
un’arrabbiatura avrei potuto fare una cosa del genere?
Non
lo sentivo più ormai, mentre continuava con le sue assurde congetture: ero di
nuovo su quel prato bagnato, con Lari fra le mie braccia, le sue parole nelle
orecchie. Non arrivai al bacio, però. Mi fermai prima. Perché non era con quel
passato che dovevo fare i conti: ma con un altro, che meritava dopotutto di
essere ricordato.
Un
passato niente affatto piacevole, che risvegliava in me pensieri
tutt’altro che graditi: quelli che mi facevano sbattere contro la
consapevolezza della mia umanità… non che mi credessi un Dio, ma quei
momenti in particolare mi facevano apparire persino a me stesso come un
bastardo patentato, di quelli che dovrebbero essere condannati a morte senza
pensarci sopra due volte.
Ma
ero io in fondo quell’individuo spregevole, non c’era niente da
fare.
-
No, Nando. Non ci sei. E’ stata colpa di Ilaria, ma non nel modo che
pensi tu. La sua unica colpa è stata di dirmi“Ti amo”. L’ha detto alla persona sbagliata: ad uno
stronzo immane, ecco dov’è stato il suo errore. Non doveva farlo,
semplicemente non doveva. E’ stato quello il fattore scatenante,
capisci?-
Sollevai
lo sguardo per incontrare quello del mio ascoltatore e mi scontrai con il suo
disappunto. Stava scuotendo la testa, lentamente, in maniera inquietante:
-
No, non capisco. Come può aver potuto un semplice “Ti amo” causare
tutto questo? Due parole. Due minuscole parole! Ormai vengono dette in
continuazione, per lo più a sproposito, in qualunque momento a chiunque!
Com’è possibile che abbiano causato la vostra rottura? Non era quello che
volevi sentirti dire, forse?-
Ogni
affermazione fu per me come una frustata: dolorosa, implacabile, ma soprattutto
piena di verità e portatrice di rimorso. Tormento che fu presto sostituito
dalla rabbia. Ira immotivata.
Scattai
a sedere, strizzando gli occhi, stringendo le mani a pugno e piantandomi le
unghie nei palmi, come facevo quando non riuscivo a controllarmi.
Ma
non dovevo comportarmi così e lo sapevo.
Sapevo
che era sbagliato, che l’ultima volta che l’avevo fatto mi ero
ritrovato con le mani sanguinanti ed il cuore straziato. E ora non volevo
succedesse di nuovo, né il sangue né alcun altro tipo di dolore.
Lentamente
allentai la presa e prendendomi la testa fra gli avambracci mormorai fra i
denti:
-
Lo so. Lo so. Lo so! E’ colpa mia! Solo ed unicamente mia! Va bene?-
Ero
arrivato quasi ad urlare, alzando il tono di voce senza rendermene conto.
Urlavo
per il semplice motivo di non voler sentire la verità, ma era quella, e non si
poteva cambiare; gridare non sarebbe servito a nulla. Pian piano tornai nei
limiti e continuai, rispondendo alla domanda più difficile:
-
Certo. Certo, che era quello che volevo sentirmi dire. Non desideravo altro.
Inconsciamente aspettavo quelle due parole con tutto me stesso, ma non avevo
pensato alle conseguenze… Nando, ricordi che io a lei lo dissi la prima
volta che ci baciammo?“Ilaria ti
amo” Per me era facile. La cosa più semplice è naturale del mondo. Era
come dire qualunque altra cosa, perfettamente normale. Questo non significa che
non fosse importante per me, era speciale ogni singola volta. Non era
difficile, però.-
Sospirai
cercando le parole per spiegarmi meglio. Così non andava bene.
-
Per Ilaria è stata dura, capisci? Quella fu la prima volta che me lo disse,
mentre io glielo ripetevo ogni giorno, in ogni momento! Non pensare che mi
dispiacesse: non era un problema per me. Rispettavo i suoi tempi: e se non era
ancora pronta, che ci potevo fare? Già mi dimostrava il suo amore in ogni bacio
che mi concedeva in fondo. Perché avrei dovuto imporle qualcosa? Doveva essere
lei a compiere quel passo, da sola.-
Nando
si tolse di nuovo gli occhiali e bisbigliò, come sottomettendosi
all’atmosfera rigida che c’era:
-
Quindi, l’ha detto troppo tardi? Ha aspettato troppo? Ti sei sentito
offeso in qualche modo?-
Tornai
ad appoggiarmi al divano con un sospiro e piegai la testa all’indietro.
Ma che razza di strizzacervelli era? Come faceva a non arrivarci?
-
No! Certo che no! Se anche avesse aspettato altri dieci anni non sarebbe stato
troppo tardi! Il problema è che è stata sincera! Cioè, pensava seriamente quello
che diceva…-
Armando
sgranò gli occhi, guardandomi come se stessi delirando. Come dargli torto?
-
… Non capisci? Fino a quando ero solamente io a dirle di amarla, era come
se in gioco ci fossi solo io.
Mi
appoggiavo senza accorgermene all’idea che nel caso fosse successo
qualcosa, a me o a lei, se fosse capitata una qualunque cosa, a soffrire di più
sarei stato io. Era un modo assurdo di proteggerla. Fino a quando non avesse
pronunciato quelle parole sarebbe stata, almeno nelle mia improbabili convinzioni,
difesa…
Poi
invece lo disse. E quasi non riuscivo a credere a come suonasse bene sentirselo
dire, a come fosse bello. Trasmetteva dolcezza, aspettativa, fiducia, e
soprattutto, amore. Lì per lì, ti giuro, mi sarei potuto mettere a ballare,
incapace di contenere le emozioni! Ma poi…-
Alzai
per un istante lo sguardo su Nando, per poi riabbassarlo.
Ecco
il punto, ora non potevo più evitarlo, c’ero arrivato.
L’unica
soluzione sarebbe stata saltarlo ancora una volta, ma non era quello che dovevo
fare.
No.
Anzi,
se proprio dovevo affrontare la situazione a testa alta, tanto valeva farlo
come si doveva.
Tornai molto tardi a casa quella sera.
Saranno state le tre, se non le quattro.
Non riuscivo ad allontanarmi da Lari: avevamo passato il resto della serata
assieme, girando per negozi, passeggiando sul corso, il tutto ancora bagnati,
scaldandoci a vicenda.
Poi l’avevo portata a cena e
ancora in giro. Mi ero deciso a riaccompagnarla a casa solo grazie ad un immane
sforzo di volontà: sentivo di non dover mettere dello spazio fra noi, come se
fosse stata un’ avvisaglia, un monito a stare attento, a non lasciarmi
andare.
Ma non potevo rimanere con lei in
eterno, e tornai a casa. Quatto quatto, cercando di
non fare rumore, mi chiusi in camera e mi sdraiai a letto. Mi tirai le coperte
fin sopra il naso: non mi ero nemmeno tolto i vestiti, convinto che mi sarei
addormentato subito, sfiancato dalle emozioni di quella serata. Ma non fu così.
Non riuscii a prendere sonno.
Per qualche inspiegabile motivo ero nervoso,
a dir poco inquieto. C’era qualcosa che non andava, e forse ero soltanto
io, troppo provato da tutte quelle emozioni, che stava dando i numeri: riuscivo
infatti solo a pensare alle parole di Ilaria, ma non in modo positivo,
purtroppo.
Riflettevo e mi tormentavo
all’idea che ora fosse realmente entrata nella nostra partita a due.
Ora anche lei era in gioco, quanto e
forse più di me.
Cercai inutilmente di scacciare quelle
considerazioni a dir poco biasimevoli: sarei dovuto essere contento non terrorizzato.
Perché le cose stavano andando in quel modo? Perché nella mia testa stava
andando tutto a rotoli? Perché non potevo reagire come una persona normale, non
facendo quasi caso a quella dichiarazione d’amore a dir poco antiquata?
E io la risposta la sapevo: era perché
sapevo quanto quell’ ormai sottovalutata dimostrazione d’amore
fosse importante per la mia Lari. Avevo capito come era stato difficile per lei
dirlo e cosa quindi ciò comportasse.
Avrei dovuto stare molto più attento,
riflettendo e giudicando ogni mia azione, perché se mai l’avessi ferita
ora… non volevo pensarci, la sola prospettiva di ferirla era
agghiacciante, figurarsi il perderla!
Fu durante uno di questi miei sproloqui
mentali che mi addormentai.
Dormii fino all’una del giorno
dopo: un sonno ininterrotto e senza sogni. Quando mi risvegliai ero intorpidito
e ancora agitato. Mangiucchiai veloce qualcosa e poi uscii di casa, per andare
da Ilaria.
Più o meno allora imboccai la discesa,
metaforicamente parlando è chiaro.
Quella discesa che avevo solo osservato
timorosamente prima di prendere sonno.
Sempre quella che mai avrei voluto
prendere, ma che mi ritrovai a percorrere a tutta velocità, senza riuscire a
fermarmi, senza alcuna possibilità di tornare indietro.
Ero quasi arrivato a casa di Lari quando
frenai di colpo, e in un attimo avevo fatto retromarcia, tornando veloce
indietro. Iniziavo già a non essere più cosciente delle mie azioni.
Per quale inspiegabile motivo
l’avevo fatto?
Tornai indietro, girando senza meta,
senza vedere realmente dove andavo.
E alla fine mi ritrovai fuori casa mia,
di nuovo.
Tornai in camera e mi rigettai sul
letto: ero di nuovo al punto di partenza.
Non sapevo cosa fare: possibile che mi
comportassi come uno qualsiasi di quei ragazzini stupidi e tremanti della
televisione? Quelli brufolosi, ancora lontani dalla pubertà, che al minimo
sentore di prossime responsabilità fuggivano a gambe levate?
Stavo scappando?! Davvero lo stavo
facendo?
Non riuscivo a crederci, principalmente
perché la parte del mio cervello ancora funzionante non arrivava ad individuare
il motivo di tanta paura. Non era cambiato niente… o no?
Certo avevamo raggiunto un maggiore
stadio di intimità e fiducia reciproca. In quel momento capii dov’era uno
dei tanti errori: la fiducia. Era quella che mi spaventava: che Ilaria potesse
iniziare a fidarsi di me.
Non meritavo tanto. Non ne ero degno.
Io, Davide, ragazzo modello e
responsabile? Ma per favore!
Non ci avrebbe mai creduto nessuno: di
solito si scommetteva su quanto potesse durare una mia relazione, ma era un
gioco molto in negativo, la cui massima puntata era sulle due settimane. Se
avessi detto a qualcuno: “Sai mi sono innamorato e credo di star vivendo
quella che si potrebbe definire una relazione seria”, questo qualcuno mi
avrebbe sicuramente riso in faccia e, dopo avermi poggiato una mano sulla spala
con fare comprensivo, avrebbe asserito: “Stai buono su, vedrai che fra
poco ti passerà”
Chi aveva ragione, il qualcuno o la mia
Ilaria?
Perché mai lei era così pazza da fidarsi
a tal punto di me?
Era tutto sbagliato! Non doveva andare
così… io non dovevo sentirmi così!
Iniziai a girare in circolo per la
stanza fin quando non cominciò a girarmi la testa; a quel punto crollai sulla sedia
della scrivania e mi curvai sul tavolo davanti a me. Nel farlo senza
accorgermene avevo schiacciato assieme diversi pulsanti della tastiera che
azionando chissà quali comandi avevano dato vita a numerosi suoni.
Alzai gli occhi sullo schermo, e mi persi
nell’immagine del desktop: un paesaggio invernale, una baita in montagna,
quella dove stavo progettando di portare Ilaria… con uno scatto
involontario presi il mouse e frettolosamente tentai di coprire la foto aprendo
una partita di solitario.
La persi, così come persi quella
successiva e quella dopo ancora. Non mi andava di giocare.
Aprii la barra dei menù e scorsi i
programmi, non mi andava nessuna di quelle cose. Stavo ponderando l’idea
di iniziare a navigare su Internet, considerando attentamente quanto fossi
pericoloso nel web senza un intento ben preciso, quando l’occhio mi cadde
su una finestra colorata nell’angolino in basso a destra dello schermo:
era una finestra informativa, mi ricordava di avere ben trentasei messaggi non
letti.
Ci cliccai sopra e mi si aprì davanti
una lista di letterine gialle. Ci vagai con lo sguardo, cancellando quelle di
lavoro, ignorando quelle di Andrea… non mene interessava nessuna, o
almeno così credevo.
Ma mi sbagliavo: nella pagina di quelle
più recenti, una mi balzò improvvisamente all’occhio, ingrandendosi e
brillando nella mia mente. Lentamente mossi il mouse su di essa, ma
all’ultimò momento deviai il gesto, portando il cursore sul pulsante di
chiusura. Stavo per chiudere tutto, quando il cellulare mi vibrò in tasca; lo
presi con l’altra mano e guardai il numero sul display: era Ilaria.
Chiusi un attimo gli occhi e riposai il telefono nei pantaloni, quindi tornai a
guardare lo schermo del computer ed aprii quell’e-mail.
Il nome di Marianna
continuava a brillare vivido sotto ai miei occhi.
Morsi il labbro, indeciso:
cosa dovevo fare? Leggere o non leggere?
Alla fine, mi decisi e,
ignaro delle conseguenze che avrebbe avuto, cliccai sulla bustina gialla, cominciando
a scorrere con gli occhi quelle parole che mi avrebbero portato alla rovina.
“Sono appena
tornata da un servizio fotografico in Germania.
Ho cercato
di contattarti ma risultava impossibile.
A quanto
pare stai con un’altra, una certa Ilaria Amato… ma chi l’ha
mai sentita nominare, Duccio?
Che ti
prende, è il tuo nuovo sfizio, il nuovo giocattolino?
Quando mi è
giunta voce che stavate insieme da più di nove mesi, ti giuro non riuscivo a
crederci!
Per un
po’ mi sono anche, come dire, rassegnata all’idea… cioè mi
ero quasi convinta che tu davvero avessi messo la testa a posto. Ma poi mi sono
detta: ma chi voglio prendere in giro?
Duccio non
è il tipo da cose serie, non lo è mai stato e non lo sarà mai.
Così, sono
giunta a questa conclusione: arriverà il momento in cui ti stancherai anche di
lei, come è successo con tutte. E, senza offesa: io credo, e spero, che finirà
a breve fra di voi.
Quando
succederà, chiamami Duccio: fremo dalla voglia di vederti e riaverti un
po’ fra le mie lenzuola.
Il mio
numero ce l’hai. Basta uno squillo.
Uno squillo
e sarò tua.
Con amore
ed attesa, la tua Mari.”
La lessi più volte.
Possibile che avesse davvero scritto
quelle cose?
Ma come si permetteva?!Aveva osato sentenziare sulla mia storia con
Lari!
Aveva sperato finisse al più presto,
permettendosi di dare della nullità alla mia piccola!
Scattai in piedi, tormentandomi le mani.
Ripensai a Marianna: era bella, poco ma
sicuro. Davvero una bella ragazza. Aveva una massa ribelle di enormi boccoli
d’oro e due occhi di ghiaccio, grigi con sfumature metallizzate. Un metro
e settantacinque, magra, flessuosa, a dir poco perfetta.Riusciva a far impazzire gli uomini,
facendoli arrivare a sbavare per lei, riducendoli ad esseri senza più alcuna
dignità o forza di volontà.
Riflettei su quanto mi aveva scritto e
non potei non riconfermare l’opinione che avevo sempre avuto di lei: non
ero altro che una personificazione del demonio. Il diavolo in persona.
Ed io ero caduto nella sua trappola. Veramente
la colpa inizialmente non era stata mia: papà aveva organizzato tutto. Era
stato lui a fissarmi l’appuntamento con la signorina Esposito.
Com’era naturale che fosse ne
rimasi abbagliato al primo incontro: incapace di credere che potesse essere altrimenti.
Quella creatura sovrannaturale nella sua bellezza era davvero uscita con me?
Solo a questo riuscivo a pensare. Ma non ci misi troppo a stancarmi di lei,
delle occhiate di invidia degli altri ragazzi, delle nostre foto costantemente
in copertina su tutte le prime pagine.
Il nostro era più che altro un legame di
convenienza: che fruttava pubblicità, guadagni e fama ad entrambi.
Fu lei infatti ad opporre resistenza
alla nostra rottura, ma io fui irremovibile: non riuscivo più a
sopportarla,a tollerare la sua
superbia, la sua eccessiva sicurezza in sé stessa, la sua alterigia, la sua
arroganza…
Era stata una liberazione non dover più
sopportare le sue prepotenze, le sue cattiverie, i modi melliflui che usava in
pubblico seguiti da frasi piene di malignità sussurrate nel mio orecchio.
Io non ero quel tipo di persona: non mi
piaceva essere cattivo né essere ipocrita e falso.
E quindi non mi piaceva nemmeno
frequentare persone così, per quanto belle e desiderate potessero essere.
Ed ora eccola di nuovo lì, in un
perfetto esempio di come non fosse minimamente cambiata.
Era sempre la stessa: perfida, egoista
e…
A squillare questa volta fu il telefono
di casa: sapevo già chi era, avevo infatti allungato prontamente la mano verso
il cordless pochi istanti prima che suonasse. Era Ilaria: era passato giusto il
tempo che si decidesse a rischiare di svegliarmi o di infastidire qualcuno
chiamando a casa.
- Davide! Non disturbo, vero? Io…-
- No, certo che no. Dimmi Ilaria-
Mi resi conto da solo di come la mia voce
fosse uscita sgraziata, e di come pronunciando il suo nome per intero avevo
sicuramente commesso un passo falso.
Come volevasi dimostrare sentii il suo
respiro aumentare ed il suo tono tingersi di preoccupazione:
- Tutto bene, D.?-
Risposi affermativamente, senza
dilungarmi.
E me ne vergognai: per quale insensato
motivo mi comportavo a quel modo?
Ilaria non parlò per un po’.Stette in silenzio, riflettendo su come
comportarsi, sforzandosi di non farsi assalire dalla preoccupazione.Ed ecco di nuovo la nausea investirmi: era
quello che io volevo evitare. Tutti i miei sforzi fino a quel momento erano
stati concentrati nel tenerla sempre al sicuro, ed ora ero proprio io…
era proprio da me che non potevo proteggerla.
- Senti, D. stasera ci vediamo?-
Aveva deciso di sorvolare sul mio
atteggiamento, aveva pensato fosse meglio non indagare: se avessi voluto dirle
qualcosa l’avrei fatto di mia spontanea volontà. Dio, quanto si
sbagliava.
- No, Ilaria. Stasera proprio non posso,
mi dispiace. Io, credevo di avertelo detto, scusa. C’è quella riunione in
ufficio. Sai meglio di me quanto poco tempo dedichi al lavoro, e se non mi
presentassi nemmeno a queste riunioni mensili, credo che…-
Non mi lasciò finire, interrompendomi
prima.
Colsi facilmente la delusione nel suo
tono, lo sconforto che mi trapassò il cuore come una lama fredda.
- No, D. non hai niente da scusarti:
certo che devi andare a quella riunione! Vai e… divertiti, se possibile.
Ci sentiamo poi, va bene?-
Non mi diede il tempo di rispondere che
aveva già attaccato.
Ero un mostro, niente altro che un
mostro.
La stavo allontanando. Possibile che lo
stessi facendo?
Normalmente avrei detto quelle parole
solo con l’intento di farle poi una sorpresa, di andarla a prendere la
sera con qualche progetto impensabile. Invece ora non era minimamente nei miei
pensieri fare una cosa del genere: non riuscivo a concepire di farlo, era più
forte di me.
Con uno scatto veloce, come se non fossi
più padrone dei miei gesti, aprii lo slide del cellulare e composi un numero.
Un numero che non credevo nemmeno più di ricordare, un numero che avevo odiato
e amato, un numero che a quanto pareva sapevo ancora a memoria: il numero di
Mari.
Una
lattina mi colpì improvvisamente sulla fronte, con brutalità.
Mi
voltai sorpreso verso il punto da cui era arrivata,massaggiandomi allo stesso tempo il punto
ferito.
Rivolsi
uno sguardo confuso esbigottito ad
Armando, che ricambiò con un’occhiata carica di disprezzo e
disapprovazione:
-
Tu! Tu sei un porco! Della peggiore specie! Ma non ti vergogni? Come ti sei
permesso? Hai chiamato… hai chiamato quell’arpia della super
modella! Tu…-
Il
pulsare alla fronte non lo sentivo più: si confondeva ormai con il fiume di
rabbia e amarezza che mi stava invadendo. Con un gesto nervoso bloccai, o
almeno tentai di arginare gli insulti di Nando. Insulti per lo più meritati,
che mi ero già rivolto da me un numero di volte tanto alto da essere ormai
impronunciabile.
-
Lo so. Lo so. Che te lo ripeto a fare? Ti avevo già premesso di essere stato un
bastardo o sbaglio?-
Non
c’era più rabbia nella mia voce, solo tristezza e rimpianto.
Fu
questo forse a far calmare un po’ la faccia di topo livida di contrarietà
che mi squadrava. Un brevissimo istante di silenzio da parte sua mi diede modo
di continuare:
-
Nando, non vorrei dire, ma tu non dovresti essere neutrale, al di fuori di
tutto? Ho come l’impressione che tu invece stia prendendo le parti
di…-
Ribattè
alle mie parole con uno sbuffo contrariato a mala pena celato.
-
Chiunque, anche un serial killer senza cuore, avrebbe preso le parti di Lari!
Te ne rendi conto, vero?-
Non
fu la verità appena pronunciata da lui a colpirmi, ma il fatto che
l’avesse chiamata Lari.
Strinsi
involontariamente il pugno, senza sapere veramente il perché e lo guardai con
tristezza:
-
Vuoi sapere il finale della storia o no? Se preferisci andartene…-
Scosse
la testa ed accavallò le gambe, la sua risposta fu poco più di un sussurro:
-
Neanche prendendomi a calci riusciresti a farmene andare, Duccio. Continua-
Tutta
la sua frustrazione la concentrò nel pronunciare Duccio, ma non ebbi la forza di arrabbiarmi: era lui quello nel
giusto, non io. Come sempre d’altronde.
In realtà da allora… da quando
composi quel numero… i ricordi sono per lo più confusi.
Davvero, non riesco ad averne una
concezione realistica, con una sequenza temporale esatta.
E’ tutto molto, sconnesso!
Sono tante le immagini che mi ronzano in
testa a proposito: flash dolorosi e soprattutto estranei, come se non fossi
stato io a compiere quelle azioni, ti giuro.
Ricordo di aver parlato al telefono con
Marianna, una Marianna affatto sorpresa di sentirmi, che si rivolse a me con
naturalezza, come se si aspettasse veramente che la telefonassi, come se fosse
la cosa più naturale del mondo. Fu proprio quel suo tono a darmi la spinta che
mi serviva, non verso Ilaria però.
Mi confermò infatti come per tutti non
fossi affatto degno di fiducia, come fossi del tutto inconcludente, incapace,
inetto… lo stereotipo maschile in conclusione: quel tipo che fugge al primo
accenno di presa di responsabilità, impaurito da un possibile, solido futuro di
cui si era a mala pena cominciato a parlare.
Se solo in quel momento avessi avuto
maggiore forza di volontà…
Se solo avessi creduto di più in me
stesso…!
Avrei capito come fossero tutti gli
altri a sbagliare! Ero io quello nel giusto, quell’unica volta!
Sì, forse fino ad allora non mi ero mai
davvero impegnato in una relazione seria, ma non avevo ancora incontrato
Ilaria. Ed ora che stava realmente succedendo qualcosa di buono, per colpa dei
giudizi errati di altri e della mia immane stupidità, stavo rovinando tutto.
Il resto, te l’ho detto, e nel più
parecchio caotico: ricordo Marianna principalmente.
Lei con me, in città, insieme. Noi che
usciamo, che beviamo… lei che mi si struscia addosso, che mi abbraccia,
che mi bagna un orecchio con la lingua… il suo mini vestitino nero, i
suoi capelli… a quello che per meera già un equilibrio mentale molto instabile, poi, si aggiunsero anche
litri e litri di alcool. E infine poi…
…la cosa che ricordo meglio in
assoluto, quello che non credo riuscirò più a dimenticare: un viso sconvolto
dal dolore e dalla rabbia, un viso che mi fissava non molto lontano con gli
occhi lucidi ridotti a fessure, il viso per me più importante al mondo…
Il viso della mia Lari.
Aprii
giusto un tantino gli occhi, per poi richiuderli di scatto.
Armando
mi fissava con uno sguardo che non avrei saputo definire in altro modo che
pericoloso.
Non
sarei rimasto sorpreso di sentire improvvisamente le sue mani stringersi
convulsamente attorno al mio collo con l’unico intento di togliermi il
più velocemente possibile dalla faccia della terra.
Sarebbe
stato giusto. Più che giusto.
Eppure
l’aria continuò a scorrermi nei polmoni senza problemi: non ci furono
mani ad impedirglielo.
Per
qualche momento attesi domande del tipo: “Ma come… lei ti, vi ha
visti?! Insieme?! Non… non ci credo!”
Ma
non arrivarono nemmeno quelle: c’era solo un silenzio inquietante in
sottofondo. Un silenzio che sembrava incapace di contenere ancora a lungo tanta
disapprovazione e tanto dolore. Un silenzio che non sarebbe potuto rimanere
tale ancora a lungo.
-
Sai che, Nando? A questo punto credo sia il momento di aprire una certa
scatola-
Mi
alzai con uno sforzo immane e mi diressi verso la cappottiera in cui
l’avevo messa, quasi sperando che potesse scomparire. L’avevo
appena afferrata, e la stavo portando verso Armando, quando un rumore alle mie
spalle mi colse di sorpresa, spaventandomi a morte e facendomi cadere di mano
la scatola.
Mi
voltai innervosito e mi ritrovai a fissare sorpreso Andrea sulla porta: piegato
a raccogliere le chiavi ai suoi piedi. Lui sentì il mio sguardo addosso e si
rialzò veloce, con aria colpevole. Sollevò le mani, scusandosi:
-
Mi sono… mi sono cadute le chiavi, mi dispiace.-
Scossi
la testa , cercando di ricordare cosa mi passasse per la testa quando avevo
deciso di fare una copia delle chiavi di casa per darle proprio a lui. Si stava
ancora scusando per averci interrotto, quando identificò cos’era che stavo
rialzando dal pavimento: non ci mise molto a riconoscerla e quando lo fece
sgranò gli occhi, spostando lo sguardo da Armando, alla scatola, a me.
Iniziò
a balbettare, gesticolando nervosamente con le mani:
-
E’ quello che credo? E’… è davvero quella scatola? Ti…
Ti sei deciso a riaprirla? Vuoi che me ne vada… o posso per caso…
no, eh? Vado…. Vado via. Io, scusate…-
Tornai
a sedermi sul divano e gettai la testa all’indietro. Con un sospiro lungo
e liberatorio fermai Andrea:
-
No. Se vuoi, se ti va… resta-
Lui
mi guardò con tanto d’occhi e rimase ancora un po’ fermo sulla
porta. Poi aprì la bocca, come per chiedermi se ne fossi sicuro, ma cambiò idea
e senza dire nulla, per timore che cambiassi idea, prese posto ai miei piedi
quasi di corsa.
Fece
quindi per aprire la scatola ma si fermò ancora: non era compito suo e lo
sapeva.
Toccava
a me.
Prima
però serviva una piccola premessa:
-
Nando, non so se ti ho mai parlato del fatto che Ilaria tenesse un diario.
Bene, devi sapere che, qui dentro,-
dissi
indicando la scatola ai miei piedi, -…che qui dentro ci sono alcune
pagine di quel diario-
Risposi
allo sguardo sorpreso del topo con un’alzata di spalle:
-
Non le originali: solo delle fotocopie! Me le sono fatte fare da Andrea e,
capirai da te perché-
Lui
ridusse gli occhi a due fessure, squadrando con sguardo inceneritore prima me
poi Andrea:
-
Siete… non ci sono aggettivi per descrivervi!-
Ignorai
i suoi insulti mal riusciti, e finsi di non vedere come Andrea, allargando i
palmi delle mani, volesse far intendere che lui non aveva alcuna colpa. Tutta
la mia attenzione era per quei fogli che avevo appena cacciato.
Quei
fogli pieni dei pensieri della mia piccola.
Quei
fogli che sapevo a memoria.
Le
cui parole riuscivano egualmente a ferirmi ogni volta che le rileggevo.
Le
cui frasi non riportavano altro che la dura verità, quella che io conoscevo
benissimo, quella che desideravo con tutto il cuore Ilaria non avesse mai
conosciuto.
Ma
non era stato così.
Ora vorrei poter urlare.
Vorrei poter spaccare tutto, rompere
ogni cosa.
Vorrei trovare un qualunque modo con cui
poter esternare anche solo un decimo dei sentimenti che il mio corpo non mi
sembra più in grado di tenere a bada.
Eppure l’unica cosa che riesco a
fare, è scrivere.
C’è chi ha detto “Ferisce
più la penna che la spada” … In questo momento mi sembra un’
assurdità…
Sai cos’è successo? No, non puoi
saperlo. Ma non puoi nemmeno lontanamente immaginarlo.
Avevo chiamato Davide oggi, sai? Per
chiedergli cosa gli andasse di fare stasera.
Certo si era comportato in modo strano,
rispondendomi un po’ freddamente, ma forse era stanco.
Questo credevo, così come pensavo
veramente che avrebbe dovuto andare ad una riunione di lavoro.
Quanto sono stupida? Quanto?!
Come ho fatto ad illudermi che lui fosse
diverso?
Doveva lavorare, così ho accettato la
proposta di Veronica di passare la serata insieme, guardando un film, a casa
mia, come non facevamo da troppo tempo.
Ho fatto una corsa giù allora. Diretta
al supermercato a meno di un chilometro di distanza, per fare incetta di
schifezze varie: noccioline, patatine, popcorn, cose di cui non si poteva fare
a meno, in fin dei conti.
E… Dio, quasi non riesco neanche a
scriverlo! Tanto è orribile, deplorevole, e…
Sai che succede poi? Esco dal
supermercato e faccio per incamminarmi verso casa; decido che non è una buona
idea ripassare per il centro: rischiavo di imbottigliarmi nella folla del
sabato sera, così mi avvio per le stradine laterali. Camminando, passo accanto
ad una coppia, stretta in un abbraccio rocambolesco, impegnata in un bacio
appassionatissimo, appena rischiarata dalla luce del portico della casa di
fronte.
Non mi soffermo troppo e li sorpasso
rapidamente: non mi sembrava giusto intromettermi, anche solo guardandoli; Era
il loro momento e per nessun motivo avrebbero dovuto essere interrotti. Il mio
primo pensiero è stato: “quanto sono dolci!” e come mi sarebbe
piaciuto essere al loro posto, abbracciata a Davide.
Poi, così, senza rendermene conto, mi
fermo. Bloccandomidi colpo.
Era stato il mio cervello a fare tutto.
Forse il mio subconscio aveva
realizzato, analizzando l’immagine appena vista.
Tornai lentamente sui miei passi, e
senza pensarci iniziai ad osservare quella coppia.
Una coppia assolutamente sbagliata.
Di cui un componente di certo non avrebbe
dovuto essere lì.
Il componente a cui mi riferivo era
quello che teneva la schiena poggiata contro il muro, quello che teneva in
braccio la bellissima ragazza che mi dava le spalle; la ragazza che gli
avvolgeva le gambe attorno alla vita.
La ragazza sulle cui chiappe lui
stringeva le mani.
Non saprei dire in che momento il dolore
mi assalì, quale immagine riuscì a colpirmi più duramente.
Forse fu quando riconobbi
l’orologio al suo polso sinistro, o i jeans che gli avevo regalato, o le
scarpe, ancora sporche di prato… o forse quando infine mi resi conto di
averlo riconosciuto in realtà dal primo istante, e di aver solo cercato di
ignorare il tutto.
Ma come potevo ignorarlo? Come potevo
fingere di non averlo visto avvinghiato ad un’altra, mentre baciava
un’altra, mentre toccava un’altra, passandole quasi
con furia le mani su ogni lembo di carne… mentre le infilava le dita
sotto il vestito, nella scollatura, come se non riuscisse a trattenersi…
coprendola di baci…
Il peggio poi arrivò dopo pochissimi istanti,
quando lui… lui osò soffiarle sul collo, e sussurrarle poi qualcosa
all’orecchio, con un sorrisetto sulle labbra.
Fu quel semplice e breve soffio ad
uccidermi.
Un soffio. Un soffio che mi trapassò il
cuore da parte a parte, come niente avrebbe potuto fare, non lasciando niente
dietro di sé, niente altro che distruzione.
Un soffio che aveva infranto un cuore,
mandandolo in mille pezzi.
Il mio cuore.
Quello che lui non si era reso conto di
tenere ormai in palmo di mano.
Un soffio che continua a ricordarmi ciò
che più odio: lui.
Lui che era il mio D.
Il D. di cui ero arrivata a fidarmi, il
D. a cui mi ero appena lasciata andare, a cui mi ero affidata, sul quale avevo
puntato tutto, tutta me stessa.
Perché mi ero innamorata!
Perché avevo capito di non poter fare a
meno di lui: del suo sorriso, dei suoi occhi, del suo soffio… di non
riuscire più a fare a meno delle sue foto, della sua risata, delle sue
battutine sarcastiche, della sua voce… semplicemente di lui.
Ma come sempre avevo sbagliato: non avrei mai
dovuto farlo.
Che mi era passato per la testa? Come
avevo potuto rendermi così vulnerabile?
Ripensai a quel pomeriggio, di meno di
quarant’otto prima: quando mi ero sentita crollare il mondo addosso per
una serie di stupidaggini. Eppure per quanto sciocche potessero essere quelle
cose, in quel momento comunque non riuscivo più a trattenermi dal piangere,
quasi rischiavo una crisi isterica; e poi arriva lui.
Lui fradicio, incurante della pioggia,
che èvenuto lì in preda alla
preoccupazione. Per me.
Lui sul punto di impazzire resosi conto
che avevo pianto.
Lui che ha insistito per sapere che
avessi.
Sempre lui che è stato lì con me, a
scaldarmi, a consolarmi, ad asciugarmi le lacrime.
Il mio D. che si è poi prodigato per
tirarmi su, fornendomi una soluzione ad ognuno di quei mini problemi.
E io gli ho detto “ti
amo”… ma come avrei potuto fare altrimenti? Non è altro che la
verità, e lui lo sa quanto me. Quel momento, quando mi ha dimostrato ancora una
volta la sua unicità, mi è semplicemente sembrato il più adatto per dirglielo
finalmente.
Ti amo.
Due parole. Sono state quelle a
provocare tutto questo?
Era perché le avevo dette che ora mi
ritrovavo lì, a guardarlo con un’altra? Io lì, con una busta in mano, pietrificata,
a fissarlo in una scena che non sarei più riuscita a dimenticare. Era quella la
riunione di lavoro? Mi uscì di gola l’accenno di quella che poteva
benissimo essere una risata nervosa: tutte le sue riunioni erano così? Ogni
volta che aveva un impegno, un’emergenza… ecco la prova.
…
E il colmo lo vuoi sentire?
Forse fu la mia risatina ad attirare la
sua attenzione, o un banalissimo caso; ma a un certo punto, riesce
miracolosamente a staccare un po’ la bocca da quella di lei e a sollevare
lo sguardo, incontrando il mio.
Non appena lo guardo negli occhi, non
riesco quasi più a trattenere le lacrime, lacrime che non mi ero accorta di
aver già versato. E scappo via. Inizio a correre, senza la busta che mi era già
caduta di mano, senza riuscire più a pensare a niente, con la testa che mi
scoppia, il respiro affannoso, le lacrime che continuano incessantemente a
scorrere ed un cuore che, sebbene ormai completamente distrutto, batte alla
velocità della luce, facendomi male con ogni singolo battito, con ogni
singolopalpito disperato.
Il colmo comunque, è che i suoi occhi
quando si bloccano nei miei, oltre che di sorpresa, mi sembrarono carichisoprattutto di tristezza, dispiacere. Non è
assurdo? Lui: quello stronzo che stava lì con un’altra, triste!
Non saprei dire quante maledizioni gli
mandai, quante volte gli augurai le pene più atroci, mentre lo sentivo
chiamarmi: come si permetteva di pronunciare anche solo il mio nome?! Che si
aspettava? Che lo ascoltassi, tornassi indietro e docile e sorridente mi
lasciassi presentare a quella… !
Forse non si rendeva pienamente conto di
quello che mi aveva appena fatto: di come fosse riuscito a farmi crollare
tutto, di come fosse riuscito a farmi franare il terreno da sotto i piedi,
facendomi sprofondare…
No, non lo aveva sicuramente capito.
Come avrebbe potuto? Comprendere anche minimamente quanto profondamente mi
fidassi di lui e…
Smisi
di leggere.
Non
avrei sopportato un rigo di più. Mi sentivo gli occhi pizzicarmi, ed un
bruciore costante alla gola: come al solito, come ogni volta che ripensavo a
quelle pagine.
Le
porsi a Nando, davanti a me, senza guardarlo negli occhi: non avevo alcuna
voglia di leggervi i giudizi che già conoscevo. Ero stato un bastardo. Punto. E
lo sapevo, non bastava?
Nando
però non le prese. Nessuno fiatava, nemmeno Andrea: per qualche miracolo stava
riuscendo a stare zitto.
Mi
decisi finalmente a guardarli e rimasi quasi commosso: possibile che fossero
così teneroni? Se ne stavano lì, zitti e muti, con lo sguardo basso, quasi
timorosi anche solo di respirare.
Iniziai
a ridere, senza riuscire più a contenermi: ah, Dio! Ma che avevo fatto per
meritarmi amici come quelli?
Ricambiai
il loro sguardo sorpreso con un sorriso rassicurante e riposai i fogli nella
scatola.
Mentre
compivo quel gesto Andrea parlò, facendo vagamente tornare la situazione alla
normalità:
-
Aspetta! Il resto non glielo fai vedere?-
Feci
per scuotere la testa, ma Armando mi fermò:
-
Che altro c’è?-
Guardai
storto Andrea per aver parlato e risposi a Nando:
-
Nulla. Andrea dava semplicemente aria alla bocca-
-
Non è vero! Davide, dovresti farglielo vedere secondo me. Come pretendi un equo
giudizio altrimenti? Sono cose importanti!-
Gli
avevo allungato un calcio ma non era servito a niente: continuava imperterrito,
con voce decisa e sicura, ora rivolgendosi ad Armando, come cercando la sua
approvazione:
-
Lì dentro ci sono le prove di come lui abbia tentato di farsi perdonare: cose
incredibili, davvero. Lettere, musica, foto, e chi più ne ha più ne metta.
Dovresti vedere… all’inizio non riusciva a darsi per vinto: avrà
passato tipo tre giorni fuori la sua porta, cercando di parlarle. Era diventato
l’ombra di se stesso, ti giuro, Maurizio aveva iniziato a valutare
l’idea di affiancargli qualcuno per assicurarsi che non si suicidasse
e…-
Riuscii
a zittirlo solo lanciandogli diritto in faccia il coperchio della scatola: non
erano cose che volevo sentirmi ripetere; a quel punto poi era meglio, o almeno
meno doloroso, tirare fuori il resto dalla scatola.
Ogni
cosa che prendevo, la passavo a loro due senza starci troppo a pensare: le
degnavo a mala pena di un’occhiata; erano cose che conoscevo, cose fatte
da me: decine e decine di lettere, all’incirca centinaia di pagine di
scuse non meritate; foto, tantissime foto, le più belle di lei e me, con tante
frasi scritte dietro: frasi non mie, ma delle canzoni che mi avevano aiutato a
sopravvivere in quei primi giorni. Mi soffermai su una in particolare, la mia
preferita, quella che avevo ripetuto milioni di volte a fior di labbra:
“On my knees, I’ll ask: last chance for one last dance.
‘Cause with you, I’d withstand all of hell to hold your hand.
– In ginocchio ti chiederei un’ultima possibilità per un ultimo
ballo. Perché con te, resisterei a tutto
l’inferno per stringere la tua mano”
E ancora,
continuai a scorrere tutti i miei inutili tentativi di ottenere il
perdono… che illuso. Potevano forse quelle quattro sciocchezze rimediare
a quello che avevo fatto?
La
voce di Armando mi fece trasalire, ma fu niente in confronto all’impatto
che ebbero su di me le sue parole:
-
Quando hai intenzione di fare qualcosa?-
Vedendo
che lo guardavo senza capire, continuando a scrutarmi con espressione
indecifrabile sbuffò e si avvicinò con la sedia. Mi voltai verso Andrea, come
per ottenere il suo appoggio, ma lui si era spostato di fianco a Nando,
spalleggiando lui.
-
Come intendi riprendertela?-
Mi
lasciai andare all’indietro, sgranando gli occhi: ora mi prendevano anche
in giro? Gli sembrava un buon momento per del sarcasmo? Che cosa…
-
Senti Davide, che hai fatto quella che probabilmente è la cazzata più grande
della tua vita, èassodato.
E
giuro, mi andrebbe tantissimo di spaccarti la faccia per questo, ma è
altrettanto chiaro che ne sei pentito, diamine! Non sei uno stupido, e a parte
quelle poche ore in cui sembra tu abbia completamente perso la capacità di
ragionare, eri perfettamente conscio di quello che facevi. Perciò se ora sei
qui, in questa stanza, a parlare con me di una ragazza con cui non parli da
molto più di un anno, un motivo ci dovrà pur essere.
O
sbaglio? Ti sembra che non le interessi più?-
Stavolta
si era rivolto ad Andrea che in risposta aveva alzato gli occhi al cielo, per
far capire come fosse inutile esprimere la sua opinione su un argomento a
quanto pareva, chiaro a tutti tranne che a me.
Mi
stavano forse incitando a…
-
Devi andare da lei! Riprenditi! Hai sbagliato, certo. Ma… errare è umano,
Davide. Non puoi continuare a tormentarti in questo modo. Provaci… almeno
un’ ultima volta. E se anche stavolta sarà inutile, bè vedi di fartene
una ragione e supera la cosa!-
Mi
alzai, sentendomi svuotato: non mi aspettavo questo, non ero pronto a questo!
Ero
preparato ad affrontare disapprovazione ed insulti, non esortazionia riprovarci con lei!
Afferrai
una bottiglia a caso di liquore dalla credenza e mi ci attaccai, non lo avessi
mai fatto: con quell’unico gesto feci scoppiare la terza guerra mondiale.
Mi
assalirono entrambi alle spalle, gridando e gesticolando come pazzi.
Andrea
mi strappò la bottiglia di mano ed Armando mi rimise sotto gli occhi le
fotografie di Ilaria. Fu la voce di Andrea ad attirare la mia attenzione: non
l’avevo mai sentito usare un tono così serio ed autorevole.
-
Vedi? Vedi in che stato ti sei ridotto? Non è altro che un limbo terrificante
in cui ti costringi a restare. La vuoi ancora? Ti sei davvero rassegnato
all’idea di non riaverla più? Sei convinto di voler andare avanti così?
Non vuoi più vederla? Hai sul serio detto per sempre addio a Lari?!-
Lari.
L’aveva chiamata Lari.
Da
quando in qua anche Andrea era abile in manipolazioni psicologiche?
Lari.
La mia piccola.
Rassegnato
all’idea di non volerla più… addio per sempre…
La
vuoi ancora?
Che
domanda! Certo, certo che la volevo ancora! Non riuscivo quasi più a desiderare
altro!
Era
un desiderio tanto potente da riuscire ormai a lacerarmi con la sua potenza.
La
vuoi ancora? Lari, sì! Sì che la voglio ancora!
Forse
fu grazie a loro, o alle foto, o a tutte le cose messe assieme, ma quando mi
sentii ripetere ancora una volta quella domanda assurda nella sua elementarità,la risposta non riuscivo quasi più a
pronunciarla, tanto me ne ero auto convinto, tanto ne ero sicuro, tanto era
certo per me.
I’d withstand all of
hell to hold your hand.
O
sì, l’inferno e molto molto di più avrei
affrontato.
Niente
mi avrebbe fermato. Niente.
Avrei
stretto ancora una volta la mano della mia piccola.
-
Cosa? Ma scherzi?! Non ha speranze! Io punto sul…-
Non
fu il trillare martellante della sveglia né la radio né la luce che filtrando dalle
tapparelle tentava in tutti i modi di farmi aprire gli occhi; no, nessuna di
quelle cose sarebbe riuscita ad irritarmi nemmeno la metà di quanto fecero i
due esseri accovacciati per terra nella mia stanza.
Ribadisco:
la mia camera! Alle… sollevai giusto un po’ la palpebra sinistra
per poter dare un’occhiata all’orologio e quasi credetti di star
sognando: alle cinque del mattino!
E
che cavolo! Ma che modi! Iniziai a rigirarmi furiosamente nel letto, dando le
spalle ai due che rischiavano altamente di morire a breve ed alzandomi le
coperte fin sopra la testa. Le cinque…
Dio,
non riuscivo a crederci! Le c-i-n-q-u-e!
Per
quale assurdo motivo a me ancora sconosciuto erano lì, a parlare, a ridere, ma
soprattutto, per quale eccesso di sadismo avevano deciso di svegliarmi
all’alba? Iniziai a scorrere mentalmente tutti i modi che conoscevo per
tappare definitivamente la bocca a qualcuno e mi sorpresi di quanti ne sarei
stata in grado e disposta ad attuare. La voce che sentii poco dopo non riuscì
minimamente a farmi smuovere dai miei nuovi progetti: sapevano che la mattina
ero intrattabile, specialmente senza aver ingurgitato la mia regolare dose di
caffeina, benissimo perciò! Volevano la guerra? E guerra sia.
-
Scricciolo?-
-
Bimba sei sveglia?-
Le
due voci, un attimo prima concentrate su di me, tornarono improvvisamente a
prestare tutta la loro attenzione alle parole del cronista. Non capii quasi
niente: aveva parlato in modo talmente veloce da attaccare tutte le parole,
senza prendere aria neanche per un attimo. Subito dopo però sentii
distintamente l’urlo di gioia proveniente da uno dei due condannati a
morte e il verso di sconforto dell’altro. Seguirono un frusciare di soldi
e un clic che fece tacere il cronista ormai finito irrimediabilmente sulla mia
lista nera.
Dopo
pochi attimi qualcuno mi strappò le coperte di dosso facendo entrare uno
spiffero gelido nel mio ricovero tanto soffice e tiepido, ma non ero
intenzionata ad arrendermi: mi chiusi su me stessa a riccio, per conservare più
calore possibile e coprii la testa con un cuscino. Nonostante ciò le voci,
sebbene ovattate, continuavano ad arrivarmi in tutto il loro fastidio:
-
Hai visto con che tenuta sexi dorme?-
Non
ebbi bisogno di guardarmi per capire che non erano seri: un pantalone di tuta
nero ed una felpa non potevano certo suscitare istinti animaleschi. Strinsi
ancora più forte il cuscino: perché tutte a me?
-
Oh, sì… ma niente in confronto a quella che usava con chisaitu!-
-
Naturalmente…-
Ripensai
all’unica cosa che era cambiata: il pezzo di sopra. Con Davide non
indossavo la felpa, ma la sua maglia: la mia preferita, quella enorme, che
potevo tranquillamente usare come camicia da notte, quella con un numero sulla
schiena, il 13, quella che mi ricordava le maglie dei giocatori di football…
quella rossa, con i nostri profumi mischiati assieme. Quella che non ricordavo
nemmeno che fine avesse fatto.
-
Ila…. Dai non fare così!-
-
Su scricciolo, sai che devi alzarti-
Iniziai
a brontolare, quasi senza rendermene conto: ma che volevano?!
-
No, non lo so… perché alle cinque? Ma che vi ho fatto? Andate via…-
Li
sentii sghignazzare,e poi il materasso
si inclinò per via del peso di qualcuno che ci si era seduto. Senza il mio
consenso. Non sarebbero mai riusciti a farmi aprire gli occhi.
-
Un bel caffè ancora caldo non lo vuoi?-
Uh,
ecco le parole magiche. Caffè? C’era del caffè caldo davvero o era tutto
un trucco? Quell’ultimo dubbio venne cancellato non appena iniziai a
sentirne l’odore, mi tolsi il cuscino dal viso e mi alzai a sedere. Aprii
gli occhi solo nel momento in cui mi ebbero messo l’enorme bicchiere tra
le mani. Presi un bel sorso e soddisfatta appoggiai la schiena al muro. Dopo il
terzo sorso tornai a fissare i due tormentatori:
-
Allora, si può sapere il motivo di tutto ciò? Alle cinque di mattina, diamine
ragazzi! Non vi sentite tremendamente in colpa?-
Li
osservai sghignazzare e darsi di gomito continuando a non capire. Che non
fossero completamente normali lo avevo sempre saputo, ma a questo punto stavamo
veramente degenerando… esasperata feci per bere ancora un po’ di
caffè, quando notai il bicchiere che tenevo in mano: non era nostro, era uno di
quelli che si comprano, ad esempio nel bar in fondo alla strada. Incontrai
sorpresa il loro sguardo:
- Siete
andati a comprarmi il caffè? Perché? Avete… avete combinato qualcosa di
grave?-
Squadrai
per bene prima mio fratello, accovacciato ai piedi del letto con la faccia
d’angelo e poi lo zio Robby seduto sul letto, che mi sorrideva. Fu lui a
rispondermi, con una voce calma che nascondeva un accenno divertito:
-
No, certo che no. E’ stato il giovanotto di ieri sera-
Il
giovanotto di ieri sera? Che stava dicendo?
-
Sì, quello che è venuto in camera tua, hai presente?-
Spostai
lo sguardo su Mirko che si era intromesso. Fil? Aveva portato il caffè? Riuscii
sorprendentemente a collegare le informazioni appena ricevute e a formulare
qualche domanda sensata:
-
Filippo? Ha portato il caffè? A che ora? Perché?-
Ray
alzò gli occhi al cielo e soffocò una risatina prima di ribattere candidamente:
-
Bimba, perché? Forse perché vuol far colpo su di te?-
-
Alle cinque del mattino, Ray? Non è una cosa molto logica-
Mirko
a quel punto intervenne, con fare noncurante:
-
E vabbè forse voleva anche dirti qualcosa… è ancora giù se ti interessa-
Cosa?
Era giù? Sgranai gli occhi e quasi mi sfuggì il bicchiere di mano sentendo
quell’ultima parte:
-
E’ ancora giù? Da quanto
tempo?-
Fecero
spallucce entrambi, in contemporanea, come se stessimo parlando del tempo e non
della possibilità che un biondino dagli occhi blu fosse fuori casa, per qualche
ignoto motivo, ad aspettare me!
Vedendo
che non sembravano minimamente propensi a rispondermi, posai il caffè sul
comodino e corsi in bagno: cercai velocemente di darmi una sistemata ai capelli
e sperai di avere un aspetto anche solo vagamente decente. Uscendo dal bagno
quasi mi scontrai con Mirko, che mi porgeva delle pantofole, scuotendo la
testa:
-
Se proprio devi andare…-
Le
misi ai piedi il più in fretta che potevo e iniziai a fare le scale di corsa,
arrivando alla fine a scontrarmi quasi frontalmente con il portone, lo aprii
non sapendo realmente cosa aspettarmi ed ignorai l’aria gelida che mi
investì in pieno, pungendomi il viso e facendomi lacrimare gli occhi.
Non
tirava vento: semplicemente faceva freddo, molto; l’aria era rarefatta e
tutto era avvolto in una specie di nebbiolina umida che dava l’idea di
trovarsi quasi sospesi nel nulla.
Non
ci misi molto a trovarlo: appoggiato ad una macchina ferma accanto al
marciapiedi, con le braccia conserte e gli occhi chiusi, in una specie di
dormiveglia, come se avesse inutilmente tentato di non cedere al sonno.
Mi
avvicinai lentamente, ignorando i movimenti che venivamo da dietro la finestra
del piano di sopra: ci stavano spiando, benissimo, così forse avrebbero
finalmente capito quanto il loro stupido comportamento fosse sbagliato. Ero
ormai a pochi passi da Fil, con il cuore che andava a mille, lo osservai e lo
sguardo mi si addolcì involontariamente: perché non piaceva ai due maniaci di
sopra? Che aveva mai fatto di male?
Sembrava
un angioletto, così esile e bello, con gli occhi chiusi… occhi che
all’improvviso si spalancarono, facendomi trasalire. Fil si esibì subito
in un enorme sorriso, e stendendo le braccia, come per riprendere sensibilità
negli arti mi guardò entusiasta. Fece per dire qualcosa ma dovette schiarirsi
la gola per riuscire a farsi capire. Risentire quella voce, che era poco più di
un sussurro, perdermi ancora una volta nel blu di quegli occhi, riuscì a farmi
dimenticare di tutto: in quel momento c’eravamo solo lui ed io.
-
Ehy… ciao-
Sorrisi
in risposta e mi avvicinai ancora un po’, lui però non lo fece, rimase
fermo sul posto, guardandomi in modo strano, quasi fosse indeciso sul da farsi:
non sicuro di poter coprire la distanza che ci separava. Scese un silenzio
imbarazzato, che non riuscivo a spiegarmi, e che mi decisi dopo un po’ a
rompere:
-
Grazie per il caffè: sei stato gentilissimo-
Lo
osservai come ritirarsi su sé stesso: ma che gli prendeva? Avevo detto qualcosa
di male?
-
Fil, non capisco-
Lui
prese un bel respiro e iniziò a giocare con la zip della giacca, tirandola su e
giù, per poi alla fine fermarla in modo che il colletto fosse completamente
chiuso, a coprirgli perfino la bocca.
-
Ilaria non so come dirtelo: per prima cosa, mi scuso per l’ora. Il caffè
è stato l’unico modo che mi è venuto in mente per, diciamo così,
addolcirti la pillola. Cioè dico, mi sono presentato alle cinque di mattina,
sono stato imperdonabile, davvero. Ma dovevo dirtelo di persona, capisci?-
Scossi
la testa, mentre il sorriso mi scompariva improvvisamente dalle labbra. No, non
ci arrivavo. I miei ricordi con lui si fermavano alla sera prima, quando ci
eravamo baciati in camera, per un tempo indefinito e per questo ancora più bello.
Poi basta. Erano passate meno di otto ore, cosa poteva essere successo?
-
Volevo salutarti dal vivo e non via telefono, io… devo partire per forza,
fra un’ora, con i ragazzi. E’ un impegno che devo mantenere, sono
mortificato-
Arretrai
di qualche passo. Partiva?
Mi
guardò colpevole, con aria afflitta e prese un bel respiro prima di continuare:
-
Dai, Ila non fare così. Massimo domani alle dieci sarò di ritorno-
Se
il freddo non mi avesse congelato il viso, probabilmente sarei rimasta a bocca
aperta. Cosa?!
Lui
mi osservava, cercando di capire cosa mi passasse per la testa.
-
Torni domani?! Io… tu! Tutta colpa tua! Ma ti sembra il modo di
intavolare un discorso? Ah, buon dio, Fil! Se mi arrivi qui e dici “devo
partire” con aria tanto costernata, è normale che io pensi ad un viaggio
di settimane, se non mesi… non si fa così! E che diavolo, bastava
dicessi: “non sarò in città per ventiquattro ore, Ilaria.”Mi hai quasi fatto venire un colpo, invece!-
Continuai
a borbottare ancora per un po’, turbata più che altro dall’essermi
resa conto di quanto mi aveva fatto male l’idea che lui se ne andasse.
Non credevo sarebbe stato così: un bacio in fondo era tutto quello che
c’era stato; niente di più, solo un unico bacio.
Un
minuscolo stramaledetto bacio non doveva farmi quell’effetto!
Fil
aveva ricominciato a giocare con la lampo, e ora mi fissava sorridendo, in
imbarazzo ed al contempo felice di vedere che avessi preso a cuore la faccenda.
Si staccò dalla macchina e avvicinatosi un po’ mormorò:
-
Un mese o ventiquattro ore lontano da te sono ugualmente dolorosi-
Riuscì
a farmi fermare il respiro. Con quell’unica frase.
Ma
dico io, se le preparavano forse?
-
Mi è inconcepibile l’idea di non poterti vedere fino a domani mattina, lo
sai vero? Non trovavo il coraggio di venire qui a dirti che me ne andavo: dopo
ieri sera, poi!-
Aveva
un’espressione corrucciata, visibilmente a disagio, come tormentato
interiormente.
Non
avevo premeditato di fare quel che feci in seguito, forse fu da attribuirsi a
vari fattori: da una ripicca verso i guardoni del piano di sopra, al desiderio
di far tornare un vero sorriso su quel volto contrito, per finire con la
semplice e pura voglia di farlo.
Mi
avvicinai di un altro passetto ed afferrai il colletto del suo giubbino,
tirandolo a me con un movimento deciso. L’avevo preso in contropiede,
sgranò un po’ gli occhi, guardandomi sorpreso, poi tornò a sorridere, il
sorriso che volevo, e mi strinse i fianchi con un braccio.
Fu
lui poi a prendere l’iniziativa, baciandomi con passione, senza staccarsi
un attimo, senza prendere mai aria.
E
fu un bellissimo bacio, capace di farmi dimenticare tutto il resto, dove
fossimo, come fossimo arrivati a quel punto. L’unica cosa su cui riuscivo
a concentrarmi era la sua bocca, quelle labbra morbide che si stavano pian
piano scaldando. Mi strinse a sé ancora di più, ridendo sentendomi
rabbrividire.
Si
allontanò di pochi millimetri, quelli appena sufficienti a bisbigliarmi
divertito:
-
E’ il freddo o devo ritenermi soddisfatto dell’effetto che riesco ad
ottenere?-
Con
lentezza calcolata poggiai le mie labbra sull’incavo del suo collo e
sussurrai in risposta:
-
Tutte e due. Non farti strane idee. E poi, modestamente, anch’io sono
brava-
Aggiunsi
l’ultima parte, mentre con un dito accarezzavo la piccola parte del suo
collo esposta: gli era venuta la pelle d’oca. Rabbrividì e mi scoccò un
bacetto fugace a fior di labbra:
-
Verissimo. Brava è dire poco-
Continuai
a fissare quei due specchi d’acqua davanti a me, a meno di venti
centimetri dai miei.
Era
un momento magico, quasi sovrannaturale, che poco dopo andò in frantumi,
rompendosi in mille pezzi.
Tutta
colpa di una vibrazione, uno squillo proveniente dai pantaloni di Fil che fece
trasalire entrambi.
Non
ce lo aspettavamo e ci aveva colti di sorpresa: tornammo a guardarci e
scoppiammo a ridere vedendo le nostre espressioni così simili. Mi accorsi delle
nostre dita intrecciate solo quando Fil delicatamente le sciolse per prendere
il cellulare dalla tasca. Rispose con voce seccata e senza guardarmi, come a
farmi capire che avrebbe desiderato tutto fuorché fare quello:
-
Sì. Sto arrivando. Ho detto che sto arrivando V. non insistere-
Mi
guardò poi con gli occhi dolci, e sorrise come cercando di cancellare i minuti
appena passati. Lo feci allontanare un po’ e stringendo gli occhi
mormorai:
-
Devi andare, su. Non farli aspettare-
Solo
per un istante gli occhi gli vennero oscurati da un velo di malinconia, poi
tornarono gli stessi di prima, almeno in apparenza:
- Lo
so, devo correre anzi. Ci vediamo domani. E oggi non fare niente di strano:
deve restare tutto come l’ho lasciato, mi raccomando-
Mi
baciò un ultima volta, con una dolcezza che non credevo possedesse, poi scappò
via, verso la moto parcheggiata alla fine della strada, continuando a girarsi
in continuazione verso di me, e alla fine mi lanciò un bacio con la mano, un
attimo prima di sparire dietro l’angolo.
Rientrai
in casa sbandando leggermente lungo la strada, rischiando quasi di cadere per
le scale. Raggiunsi la porta e trovai fermi sullo stipite entrambi gli uomini
di casa, che mi fissavano con un mezzo sorriso sulle labbra
-
Ce l’hai fatta a tornare-
-
Cos’è? Sembrava non ci fosse verso di farvi staccare, e poi basta un
niente a farlo scappare?-
Andai
a sedermi sul divano, completamente indifferente ai loro commenti: non me ne
importava niente.
A
loro Fil non piaceva? Fa niente, l’importante era che piacesse da morire
a me. Mi sembrava di non essere nemmeno più in salotto in quel momento,
assente, persa in un mondo tutto mio.
Ma
come sempre non durò a lungo: il precario equilibrio che si era appena
ristabilito tornò in frantumi in meno di due secondi, quando notai Mirko,
accovacciato davanti a me,che tentava
di attirare la mia attenzione:
-
Ila! Il telefono: è per te-
Lo
presi in mano con la testa ancora fra le nuvole, ma bastò quella voce a farmi
precipitare drasticamente di nuovo per terra: una voce che non mi aspettavo di
sentire, men che meno in quel momento:
-
Ilaria? Scusa l’ora, so che è presto e sono mortificato, ma… ah,
sono…-
Conclusi
io per lui:
-
Maurizio! Ti avevo riconosciuto-
Aggiunsi,
sperando di aver usato un tono accomodante e gentile, del tutto opposto quindi
a come mi sentissi realmente. Lo sentii sospirare, leggermente più rilassato,
quindi forse ero riuscita nel mio intento. Lui continuò:
-
Volevo solo ricordarti di oggi. Sai, dovevi venire per quella consulenza alla
filiale-
Diavolo,
mi era completamente passato di mente! Come avevo fatto a dimenticarlo?
Non
avrei certo dato a vedere la mia mancanza, però: così con voce ferma ribattei:
-
Muzi mi deludi: sul serio hai pensato che potessi dimenticarmene? Sarò lì per
le… che ora preferisci?-
Ci
pensò su giusto pochi istanti prima di rispondere convinto:
-
Alle otto per te va bene? Naturalmente ho già avvertito quelli della sicurezza
all’entrata del tuo arrivo, perciò non dovresti avere problemi.-
Dopo
aver chiuso la conversazione, mi accasciai sul divano con un sospiro: solo
questa ci mancava!
Dalla
cucina mi arrivavano soffusi i commenti dei due cuochi improvvisati: commenti
per niente carini che riuscirono unicamente a farmi innervosire più di quanto
già non fossi.
-
Sai Mirko, devo iniziare a venire a trovarvi con più frequenza, altrimenti
rischio di perdermi troppe cose! Che ne fai una telenovela? Quindi: sta con
Filippo…-
-
…apparentemente-
-
Apparentemente, certo. E ora va a trovare Maurizio per una consulenza-
-
…sì, una “consulenza”-
-
E Davide? C’entra anche lui?-
A quel
punto non ce la feci più ed intervenni, con voce quasi isterica, troncando il
discorso generato da quelle due menti malate:
-
No! Non c’entra Davide! E quella che vado a dare a Maurizio è davvero una
consulenza di lavoro! Diavolo, comportatevi un po’ da adulti quali siete,
o almeno dovreste essere! E per la miseria! Vi sembra giusto inciuciare in
questo modo e fare di queste insinuazioni poi… vergognatevi! Tutti e
due!-
Conclusi
alla grande il discorso sbattendo la porta della camera: prima o poi sarebbe
pur caduta tante le percosse ricevute, poverina. Mi stesi intorpidita sul
letto, fissando il soffitto con sguardo assente: avevo ancora un po’ di
tempo a disposizione e mi sembrava più che giusto sfruttarlo riposandomi.
Mi
poggiai trafelata al semaforo: la corsa era stata del tutto inutile, non che mi
aspettassi il contrario.
Fissai
assente lo sguardo sul palazzo dall’altro lato della strada e
improvvisamente mi sentii grata verso l’omino rosso che mi intimava di aspettare
per attraversare: non ero ancora pronta, affatto.
Cosa
mi era passato per la mente?
Sapevo
benissimo che sì, probabilmente avrei fatto il mio lavoro, finalizzando i
driver di ricerca di ogni maledetto computer presente in quella banca, ma allo stesso
tempo ero perfettamente cosciente del fatto che non stavo andando lì solo per
quello: volevo bene a Maurizio, ma lo conoscevo e anche se non sembrava, quando
voleva sapeva essere un uomo molto calcolatore e distaccato, che sicuramente
aveva qualcosa in mente. Ed era di quello che avevo più paura in assoluto: di
quel secondo fine che ancora non conoscevo.
L’omino
davanti ai miei occhi cambiò colore, passando ad un verde acceso, eppure finsi
non fosse successo nulla e rimasi con la schiena contro il semaforo, spostando
lentamente lo sguardo sull’ingresso della banca, cercando di trovare la
forza per muovere quei pochi passi che mi avrebbero portato da lui.
La
forza però non arrivò in tempo: scattò prima il rosso e non me ne dispiacqui,
accogliendo invece con un sorriso a fior di labbra il ricordo che mi travolse,
annullando la mia già sbiadita percezione della realtà per pochi minuti.
Posò la mano sul mio ginocchio, calmando
momentaneamente il tremore della gamba, trasmesso dal movimento incontrollato
ed incessante del piede.
Non lo guardai e con un gesto della mano
secco e frustato spostai con mal grazia le dita di Davide.
Il suo risolino mi giunse
all’orecchio riuscendo unicamente a far aumentare la mia irritazione.
Probabilmente se ne accorse perché con
un sospiro tornò a stringermi il ginocchio, con maggiore decisione, e
carezzandomi lentamente con il pollice, riuscì a far smettere il tremore.
Mi voltai verso di lui: mi squadrava con
un sorriso sotto i baffi, divertito da quella situazione, dal mio immotivato
nervosismo, dal fatto che fossimo fermi nella sua macchina, nel vialetto
d’ingresso di casa sua, da quasi mezz’ora... Strinsi gli occhi,
provando un improvviso moto di stizza per quel suo sorrisetto: avevo una voglia
matta di strapparglielo brutalmente io stessa da quella faccia d’angelo
che si ritrovava.
- Smettila-
Sussurrai appena, a denti stretti.
Il suo sorriso si allargò e io allora
chiusi gli occhi, reclinando la testa all’indietro, poggiandomi sfinita
al sedile riscaldato, preparandomi ad affrontare la sua risata. La risata che
adoravo ma che in quel momento proprio non mi andava di sentire. Eppure non
arrivò. Aspettai un paio di minuti, ma con mia grande sorpresa lui non rise.
Riaprii gli occhi e trovai i suoi fissi nei miei, ora non sorrideva più.
- Se avessi saputo che rischiavo di
farti venire un attacco di cuore, non ti avrei portata qui per…-
Lo aveva detto con voce dolce,
soffocando un misto di preoccupazione e risentimento che gli si leggeva in
faccia. Posai allora la mia mano sulla sua, bloccandogli il resto delle parole
in gola e scossi la testa.
- No, non mi sta venendo un attacco di
cuore, tranquillo. Ce la faccio. Dammi solo altri due secondi-
Con due dita mi prese il mento e
avvicinò il mio viso al suo. Ci misi un po’ a realizzare che stava
parlando, completamente intontita da quella vicinanza.
- Lari, voglio solo farti conoscere mio
fratello: non capisco il motivo della tua preoccupazione! E’ solo
Maurizio per Dio! Se già fosse stato mio padre avrei potuto capire, ma parliamo
di Maurizio! Che te ne importa?! Dov’è che sorge il problema?-
Rafforzai la stretta sul suo polso,
quasi spasmodicamente.
- E se non dovessi piacergli? Se gli
stessi antipatica? Cioè tu non hai idea di quel che si prova a non andare a
genio a quelli che sono cari alla persona con cui stai: tu piaci sempre a
tutti! E’ una cosa quasi rivoltante come nessuno, dico nessuno, mi abbia
mai detto: “il tuo ragazzo proprio non lo sopporto” … E se
Maurizio ti venisse a dire una cosa del genere? O la andasse a riferire a
qualcun altro? Semmai a tuo padre!-
Stavo per andare in iperventilazione:
avevo detto tutto senza fermarmi un attimo, senza respirare quasi, realizzando
appieno solo in quel momento cosa mi mettesse tutta quella paura addosso.
Furono le sue labbra a evitarmi una
crisi: quelle labbra che premette sulle mie, prima con fare rassicurante, poi
sempre più voglioso.
Quelle labbra che riuscirono
nell’ardua impresa di togliermi ogni preoccupazione.
- Me ne fregherei altamente-
Non capii subito, e lui se ne accorse:
mi sorrise ancora, indulgente e prima di scendere dall’auto mi spiegò:
- Se Muzi mi venisse a dire che non gli
piaci me ne fregherei altamente, e anzi potrei anche prenderla a male sai? Un
bel pugno sul naso non glielo toglierebbe nessuno a quel punto-
Scesi anch’io, sperando con tutto
il cuore che scherzasse sull’ultima parte, prima di iniziare a
rincorrerlo lungo il vialetto. Lo raggiunsi che aveva già aperto la porta ed
era quasi entrato, lo guardai stranita e lui soffocando ancora una volta una
risata mi fece segno di aspettarlo lì.
Accolsi con piacere l’idea di
rimanere ancora per un po’ sotto quell’immenso portico, senza
entrare in una casa la cui magnificenza avrebbe sortito come unico effetto
quello di farmi sentire ancora più a disagio.
Nel tentativo di non soccombere
nuovamente al nervosismo lasciai vagare lo sguardo, distogliendolo dalla porta
attraverso la quale Davide era sparito, facendolo scorrere al di sopra del
prato perfettamente curato, soffermandomi appena sulle miriadi di fiori e
indugiando invece sulla piscina, quella in cui ancora non avevo fatto un
bagno… fu in quel momento che sentii la porta aprirsi: girandomi mi
ritrovai di fronte a Davide, lo guardai con aspettativa e veloce mi avvicinai
di più a lui, stringendogli la mano:
- Allora? Tuo fratello? D. non lasciarmi
più sola in momenti come questi: altri pochi minuti e rischiavo di cedere alla
voglia di buttarmi in piscina!-
Non sentendo arrivare da lui alcuna
risposta né tanto meno un accenno di risa come suo solito, sollevai lo sguardo
per incontrare i suoi occhi, leggermente dilatati, come se fosse sorpreso.
Con un po’ di difficoltà realizzai
diverse cose assieme: prima di tutte che si comportava in modo strano,
osservandomi quasi con diffidenza, allontanandosi da me istintivamente non
appena mi ci ero avvicinata e ricambiando la mia stretta con una freddezza non
sua.
Continuai a squadrarlo senza capire, e
casualmente mi cadde l’occhio sul suo collo: indossava una cravatta!
Cosa? Davide e una cravatta?
- D. ma che hai fatto? Ti sei andato
anche a cambiare? E perché…-
Non riuscii a terminare la frase,
distratta dalla porta che si apriva di nuovo: rischiai seriamente di farmi male
a causa della meraviglia. Vidi uscire di casa infatti un’altra volta
Davide.
Per riflesso lasciai andare la mano che
stringevo nella mia ed iniziai ad arretrare, senza accorgermi dello scalino
alle mie spalle che mi fece perdere l’equilibrio facendomi trovare un
istante dopo distesa supina sul prato.
Continuavo a fissare sconvolta i ragazzi
davantia me: dei due conoscevo solo il
secondo arrivato.
Quelle conclusioni mi colsero alla
sprovvista e troppo velocemente: il primo ad uscire di casa, quello a cui mi
ero buttata addosso, a cui avevo stretto convulsamente la mano, sempre lo
stesso che mi aveva fissata disorientato e che indossava una cravatta, era
Maurizio, il fratello di Davide.
Il fratello gemello di Davide.
Sbattei ripetutamente le palpebre come
per assicurarmi di essere sveglia.
Dopo la quarta volta mi trovai davanti
agli occhi una mano tesa. La afferrai ancora stordita e mi tirai su.
Fu la sua risata a farmi tornare
completamente inme: stava ridendo, quel
figlio di buona donna stava ridendo di me! Dopo aver rivolto una veloce
occhiata di ringraziamento al fratello che mi aveva aiutata, concentrai tutta
la mia attenzione su di lui: lui che era piegato in due dalle risate. Ridussi
gli occhi a due fessure, cercando di trasmettergli tutta la rabbia e il rancore
che provavo in quel momento:
- Tu! Che mi ridi? Diavolo, Davide, non
ti vergogni?!-
Smise di ridere progressivamente, e
asciugandosi una lacrima con l’indice della mano sinistra, provò a
stringermi la spalla con fare comprensivo. Io però mi ritrassi ancora del tutto
inviperita, coalizzandomi inconsciamente con il fratello che al mio fianco lo
squadrava biasimevole.
- No, piccola, non prendertela: non
volevo ridere! Io solo non mi aspettavo una reazione del genere!-
Mi avvicinai di qualche passo con
l’unico scopo di affibbiargli un dovuto ceffone sul braccio:
- E’ stata colpa tua! Potevi anche
dirmelo che eravate gemelli! Ma no: era un semplice e inutile particolare! In
fondo come ho fatto a non aspettarmelo? E’ così banale… gemelli!
Non so se te ne sei accorto, ma quando è uscito, credevo fossi tu! Mi hai fatto
fare una figura di…-
Mi interruppi vedendo che non mi
ascoltava più, troppo impegnato ad ammiccare con il fratello:
- Non le avevi detto che siamo gemelli?-
- Ma dai, non mi era nemmeno passato per
la testa che potesse non saperlo: dire che è notizia di dominio pubblico, non
rende l’idea!-
Continuarono così, con mezze risate,
frasi smozzicate, parole messe lì lì senza alcun
probabile senso. Capendosi in un modo incomprensibile agli altri: con un solo
gesto scoppiavano a ridere e con un pensiero non detto riuscivano a dare
l’idea di aver appena concluso un discorso in piena regola.
Mi passai una mano fra i capelli,
indecisa se schiarirmi la gola nel vano tentativo di attirare la loro
attenzione o continuare tranquillamente a farli divertire senza infierire.
Furono loro a togliermi
dall’impiccio: Davide mi si avvicinò in pochi passi, circondandomi i
fianchi con un braccio mentre Maurizio si sporse verso di me per stringermi la
mano:
- A questo punto credo che possiamo anche
saltare le presentazioni, ti va una cena?-
Annuii con un sorriso stampato in
faccia, seguendoli in auto senza riuscire a pensare ad altro che non fosse
quello che Davide mi aveva sussurrato all’orecchio:
… Gli piaci …
Mi
accorsi all’improvviso di avere pochi secondi per attraversare prima che
scattasse di nuovo il semaforo.
Attraversando
di corsa mi chiesi quanto tempo avessi passato ferma lì, quante volte fosse
scattato il rosso, e quindi il verde… ma in fin dei conti non mi
importava. Mi avvicinai all’entrata della banca, verso la porta girevole
che però anche dopo numerose spinte non si aprì.
Scrutai
confusa l’orologio: ero in ritardo di pochi minuti, perché non si apriva?
Mi
guardai intorno spaesata quando notai nel cubicolo lì vicino un omone che
sonnecchiava dietro il vetro. Bussai leggermente, cercando di attirare la sua
attenzione, ma non sembrava esserci modo di farlo: gli occhiali scesi sul naso,
le gambe allungate sulla scrivania, una rivista di enigmistica aperta sulle
ginocchia… strano che non russasse anche.
Fu
il fastidio ad avere la meglio su di me e ripresi a bussare sul vetro con
maggiore insistenza. A quel punto l’omone dormiente sembrò risvegliarsi e
con un aria a dir poco seccata si sistemò meglio gli occhiali per guardare chi
avesse osato disturbarlo.
-
Buongiorno. Chiedo scusa, ma non è che potrebbe aprire la porta? Ho un
appuntamento con il signor D’Amico. Un appuntamento di lavoro-
Mi
sentii in dovere di aggiungere l’ultima parte, come se altrimenti la
frase potesse avere un senso troppo ambiguo, o almeno suonava così alle mie
orecchie. L’uomo davanti a me chiuse l’enigmistica e con un sorriso
divertito scosse la testa:
-
Signorina, la banca a quest’ora è ancora chiusa: l’ingresso è
libero dalle nove in poi. Torni fra tre quarti d’ora-
Mi
prendeva in giro? Non aveva sentito cosa gli avevo detto?
-
No, guardi forse non ha capito: devo vedermi con il signor D’Amico-
-
L’ho sentita anche prima, signorina. Ma l’unico appuntamento che il
signore mi ha riferito è con un tecnico informatico che doveva essere qui nove
minuti fa. Lei invece mi ricorda solo una delle tante signorine che vengono qui con ben altri fini-
Lo
guardai furiosa: mi stava forse insultando? Oh sì, per quanto velati quelli
erano insulti. Ma come si permetteva? Io, una delle tante signorine?!
Brutto…
-
Guardi che io sono il tecnico che
aspettate. Mi scuso per il ritardo di ben nove minuti, ma ora sono qui, mi fate
entrare o preferite parli io con il signore?-
Lui
scoppiò a ridermi in faccia, per poi afferrare il telefono che aveva a portata
di mano: compose veloce un numero e ancora sghignazzando iniziò a parlare:
-
Gerardo? Non ci crederai: c’è qui una tipa che pur di entrare sta
dicendo…-
No,
ora era troppo. E insultarmi poteva anche andare, ma addirittura sfottermi con
i colleghi!
Presi
il cellulare con uno scatto nervoso e alla velocità della luce feci il numero,
non gli diedi nemmeno il tempo di rispondere: non appena sentii lo scatto di
risposta cominciai a parlare.
-
Maurizio sono io, non è che saresti così gentile da farmi entrare?-
Dall’altro
lato sentii un istante di esitazione seguito da un suono inarticolato, poi
sembrò tornare in sé:
-
Cosa? Io quasi credevo non venissi più! Sei qui fuori?-
Sbuffai
spazientita: ma che avevano tutti? Non potevano fare sul serio!
-
Dieci minuti! Neanche dieci minuti di ritardo! E sì, sono qui fuori! Mi faresti
un’enorme cortesia venendomi ad aprire la porta prima che uccida la iena
cicciona che avete come portiere!-
Mi
voltai appena per fulminare con lo sguardo l’uomo dietro il vetro che
ancora ridacchiava, osservandomi però allo stesso tempo con un misto di
curiosità e sorda comprensione; quindi mi avviai di nuovo verso la porta a
vetri, giusto in tempo per veder aprirsi un ascensore laterale da cui uscì di
corsa quello che era ancora al telefono con me.
Si
avvicinò rapidamente alla porta, per poi premere qualcosa che mi diede
finalmente la possibilità di entrare. Con un gesto esasperato mi chiusi la
porta alle spalle, godendomi l’aria decisamente più calda.
Annuii
riconoscente a Maurizio che mi stava davanti sorridente e che mi fece segno di
seguirlo.
-
Sì, grazie. Meriterebbedi essere
licenziato quel bel tipo, ma non sono così cattiva da suggerirtelo. Sappi
comunque che è un odioso maschilista-
Maurizio
che mi precedeva di pochi passi si voltò a squadrarmi con un sorrisetto mal
celato:
-
Nervosa? Ti va un caffè? O preferisci guardarmi mentre do dell’
“odioso maschilista” al portiere?-
Sorrisi
di rimando e mi passai una mano sul viso, cercando di non notare tutti gli
uffici provvisti di computer che stavamo superando. Con un sospiro lo
raggiunsi, affiancandolo, e mormorai:
-
No, a tutto, ma grazie lo stesso. Preferirei mettermi al lavoro: ho la vaga
impressione che ci vorrà un po’.-
Mi
poggiò una mano sulla spalla, con fare consolatorio, senza rendersi conto che
facendolo confermava solo i miei atroci sospetti. Continuai a studiarlo: non
era cambiato, sempre uguale, profumato, elegante, con una camicia bianca e la
giacca blu tenuta solo su una spalla. Una cosa però era diversa:
-
Niente cravatta, signor Direttore?-
Gli
chiesi, con finta aria innocente, ricordandogli garbatamente tutte le prese in
giro subite negli anni passati.
-
No, fino alle nove niente cappio al collo, nuova regola-
Mi
rispose sorridente, poi continuò con un tono falsamente più professionale:
-
Comunque per mezzogiorno dovresti riuscire a finire: a quel punto passi nel mio
ufficio per dare una controllatina anche al mio computer e sarai libera…
semmai pronta per pranzare-
Ignorai
l’ultima parte concentrandomi sul fatto che secondo i suoi calcoli mi ci
sarebbero volute circa quattro ore, ma che sicuramente aveva tralasciato cose
come interruzioni e complicazioni varie, tutt’altro che trascurabili.
Cercai lo stesso di non deprimermi troppo e dopo avergli rivolto un ultimo
sorriso tirato mi avviai verso il primo ufficio in fondo al corridoio.
Alla
fine i calcoli di Maurizio non si erano rivelati del tutto errati:
all’una meno un quarto ero fuori la porta del suo ufficio, con la schiena
contro il muro ed un caffè doppio in mano.
Un
caffè che ero decisa a finire prima di aprire quella porta.
Non
era stata tanto dura in fin dei conti: tutti molto gentili e disponibili,
alcuni anzi fin troppo; le segretarie per qualche assurdo motivo mi sembravano
tutte dalla mia parte, e a darmene conferma erano stati gli occhiolini ricevuti
senza un reale motivo.
Nonostante
questo cercai con tutte le forze di non provare neanche lontanamente a
spiegarmi il motivo di tale comportamento: ad aiutarmi nell’impresa poi,
intorno alle undici, era anche arrivato il portiere, trafelato e sudato, che
con occhi supplici ed espressione pentita mi aveva implorato di scusarlo, cosa
che non potei negargli quando mi offrì una delle sue ciambelle, anche solo per
il fatto che iniziavo ad avere un certo languorino. A parte il portiere però,
gli unici su cui mi applicai seriamente furono le decine di computer che
dovetti riformattare, finalizzare, programmare… bella fregatura mi aveva
rifilato Maurizio: un lavoretto da niente, sì come no.
Mai
credere al fratello del diavolo, ormai avrei dovuto saperlo.
Capii
di dovermi necessariamente fare coraggio ed aprire quella porta quando mi
accorsi di star inclinando verso le labbra un bicchiere ormai vuoto già da un
bel po’.
Con
un gesto che doveva essere deciso così entrai nell’ultimo ufficio, il più
difficile e soprattutto pericoloso.
Era
un bell’ufficio, bellissimo anzi: il più grande di tutti quelli che avevo
visto. Con il parquet, scrivania in cedro, vista sul parco, poltrone e divano:
l’ufficio del direttore in conclusione.
Direttore
appisolato sul divano per precisare. Mi avvicinai, e con un semplice gesto
delicato gli allentai il nodo della cravatta, quindi presi posto sulla poltrona
più prossima. Lui si rigirò sul fianco, e quasi rischiò di cadere, ma
all’ultimo momento poggiò prontamente un piede sul pavimento, riuscendo
così ad equilibrarsi.
-
Mi avresti lasciato cadere?-
Mormorò
con voce impastata, riuscendo a strapparmi un sorriso velato dalla stanchezza.
-
Era un’idea: dicono che la risata faccia bene e ho proprio bisogno di
riprendermi-
Risposi
io, concludendo il tutto con un sonoro sbadiglio. Maurizio non aveva ancora
aperto gli occhi, e dandosi una spinta con il piede tornò a sistemarsi sul
divano, piegando le braccia dietro la testa a mo’ di cuscino.
-
Sì, hai ragione. Se vuoi c’entriamo in due qua: ti faccio spazio e ci
concediamo un bel sonnellino ristoratore-
Scossi
la testa, e lui dovette intuire il mio diniego perché poco dopo aggiunse:
-
Il computer va bene, manca solo un reset all’hard disk perché…-
Il
resto delle frase fu coperto da un rumore sordo appena fuori la porta, non fu
un problema però: avevo sentito abbastanza. Mi misi al lavoro, lanciando di
tanto in tanto una fugace occhiata ad un Maurizio ormai quasi incosciente sul divano.
Iniziai
a chiedermi se non fosse il caso di concludere la faccenda, una volta per tutte
e come si deve.
Avrei
fatto io la prima mossa, ero la più lucida in quel momento in fondo. Mi
inginocchiai sotto la scrivania per poter raggiungere più facilmente le prese e
gli attacchi usb che mi servivano.
Senza
sollevare lo sguardo dalle mie dita mi decisi a parlare:
-
Maurizio…. Senti, sappiamo bene entrambi che non mi hai convocato qui
solo per resettarti il computer, eppure nonostante ci stia pensando su da un
po’ non trovo un’altra plausibile spiegazione per il tuo gesto. Non
è che ti andrebbe di illuminarmi a proposito?-
Biascicò
qualcosa che non riuscii ad afferrare, le sue parole successive però mi
giunsero chiarissime:
-
Ma niente, ora non serve più… volevo solo chiederti di baciarmi-
Lasciai
andare di colpo l’aggeggio che avevo preso in mano per sollevarlo sulla
scrivania.
Mi
cadde di mano schiantandosi sul pavimento con un forte rumore che sembrò
ripercuotersi nell’aria.
La
mia mente era però bloccata sull’ultima cosa detta da Maurizio: una cosa
completamente assurda, che non riuscivo a spiegarmi nonostante non
l’avessi ancora appieno realizzata.
Alzai
gli occhi su di lui.
Lui
che mi fissava sconvolto, in parte a causa del rumore improvviso che lo aveva
fatto scattare a sedere e in parte a causa delle parole da lui stesso
pronunciate.
Parole
che certo avevano avuto il loro effetto, su di lui quanto su di me, ma che non
eguagliarono minimamente la potenza catastrofica di quelle che giunsero poco dopo:
quelle che arrivarono da una terza persona appena entrata, che aveva aperto la
porta inquieta, spaventata forse dal rumore, e che aveva chiesto:
-
Maurizio?! Che succede? Stai be…-
Non
aveva concluso la frase.
Ma
non perché fosse sconvolta dalle sue parole, solo perché non si aspettava di
vedere quello che vide.
Così
come io non mi aspettavo di sentire quella voce.
La
voce che però avevo sentito e che ora meno che mai avrei potuto affermare di
non essere in grado di riconoscere ovunque, in qualsiasi momento.
La
voce che mi fece desiderare di perdere coscienza, per poter uscire da quella
situazione in cui non mi andava assolutamente di essere.
Lo
svenimento però non giunse, lasciandomi lì, cosciente, in quella stanza, con
quella voce.
Sì,
sapete come succede, quando fin dal primo momento, da quando aprite gli occhi
per la prima volta, di prima mattina, sentite che è una brutta giornata?
Esatto, a me era successo così.
Ora
ero lì, nel mio ufficio, con il cuore che andava a mille, prossimo ad un
attacco di tachicardia.
La
colpa era da attribuirsi a vari fattori: al boato provocato dall’
hardware caduto a terra, alle parole che ero quasi sicuro di aver pronunciato
nel dormiveglia e poi, ciliegina sulla torta, anche alla voce dell’ultimo
arrivato!
Ripensai
a come avrei dovuto seguire il mio istinto, restandomene a casa, evitando di
andare a lavoro.
Perché
non l’avevo fatto? Perché non avevo creduto che il nervosismo mattutino fosse
un evidente avvertimento, segnale di un futuro pericolo?
Non
che mi fossi alzato con il piede sbagliato, ma era stata una sensazione. Una
forte impressione che quel giorno sarebbe successo qualcosa, e non un qualcosa
di bello né tantomeno di piacevole.
A
svegliarmi era stato un profumo di frittelle e sciroppo d’acero, e un
insistente mormorio proveniente dalla cucina, unito poi al forte rumore di
quella che poteva essere una padella appena schiantatasi sul pavimento, seguito
a ruota da uno scroscio di risa improvviso.
Mi
ero alzato seppur malvolentieri, conscio del fatto che fosse molto presto,
nemmeno le sei del mattino probabilmente, e per puro istinto di sopravvivenza
ero andato in cucina: stanza che avevo trovato alquanto affollata, per quanto
fosse strano dato che era appena l’alba.
Avevo
lasciato vagare lo sguardo sui barbari occupanti e sullo sterminio seminato sui
piani cottura, cercando di rimanere calmo e posato.
Ricambiai
con qualche difficoltà i luminosi sorrisi che mi rivolsero Davide, Andrea a
Armando.
Almeno
loro erano contenti: per qualche motivo a me ancora sconosciuto, alle sei meno
un quarto di mattina erano lì, in cucina, tutti assieme, a guardare i puffi e a
cucinarsi la colazione. Con aria sconsolata mi ero andato a sedere, tentando di
capire cosa stessero confabulando; ci misi un po’ ma finalmente riuscii
poi ad afferrare qualcosa.
-
Secondo me devi andare a casa sua-
-
No, io dico che devi presentarti all’università-
-
E poi che faccio?-
-
Le chiedi scusa!-
-
Ma l’ho già fatto! Tante tantetante volte! Nando tu non hai idea di quanto io…-
-
E’ vero Nando, ha provato di tutto, ricordi la scatola?-
Il
discorso si era improvvisamente interrotto, a causa di una domanda posta da
Armando: una domanda giusta, ma probabilmente molto delicata, forse troppo per
quell’ora.
-
Ma se hai provato così tanto, perché…-
A
rispondere era stato Andrea, mentre Davide si attaccava alla bottiglia di
sciroppo d’acero.
-
Secondo me dovresti riprovare. Cioè quando hai insistito tanto
all’inizio, non avevi speranze, e lo sapevamo tutti: perché? Ma dai, era
ancora a caldo! Cioè non solo era ancora maledettamente fresca come ferita, ma
poi se ci aggiungi anche le foto di Marianna e te avvinghiati assieme su tutte
le prime pagine dei giornali… eravate sulla bocca di tutti Davide. Cioè
fossi stato io in Ilaria ti sarei passato sopra con la macchina tipo cinquanta
volte. Cioè…-
-
Andrea, per cortesia, basta con i cioè. Ho capito-
La
voce di Davide aveva lasciato trasparire tutta la sua afflizione, lo fissai
mentre posava sul tavolo la bottiglia quasi vuota e lasciava la stanza. Presi
anch’io un sorso di sciroppo d’acero, storcendo la bocca al suo
gusto troppo dolce e dopo aver rassicurato con un sorriso i due ragazzi rimasti
in cucina, lo avevo seguito in camera.
- Che
farai oggi?-
Lo
avevo chiesto ad un Davide stravaccato supino sul letto, con il viso nascosto
nel cuscino, ed un piede che si agitava furiosamente in aria. Non rispose
subito, come soppesando le varie possibilità, poi in un sussurro mi chiese, con
tono speranzoso, volgendo il viso dalla mia parte:
-
Posso venire a lavoro con te, Muzi? Mi distraggo un po’ così. E vedo
finalmente dov’è che lavori-
Non
avevo risposto subito, sconvolto dalla sua domanda, sì perché non me la sarei mai
aspettata, ma soprattutto perché mi ero appena ricordato, come in un improvviso
flash che quel giorno, proprio quel giorno, avevo appuntamento con Ilaria!
Avevo
iniziato a bestemmiare mentalmente, senza però riuscire a trovare altre
soluzioni, e così quella mattina ero andato a lavoro con il mio caro
fratellino.
Il
destino, il fato… in qualunque modo lo si chiami, una qualche entità che
si diverte scombinando le vite altrui ci deve essere. Basta pensare alle
coincidenze: che giorno Davide decide di venire con me? Lo stesso giorno in cui
deve venire Ilaria, naturalmente! E guarda caso, proprio quando aveva deciso
che era il momento di tornare a provarci e di smettere di passare la vita
vivendo nel passato. Ora che aveva deciso di tornare nel presente, la prima
cosa che gli veniva in mente di fare era venire con me. Ovvio.
Eppure
non mi pento della mia scelta, con tutto me stesso: in fondo sempre a questo si
sarebbe dovuti arrivare, prima o poi, e se doveva andare così… bè
pazienza.
A
pensarci bene anche tutte le cose successe intorno all’ora di pranzo non
erano altro che incredibili coincidenze: perché ero stanco? Perché avevo
trascorso tutta la mattina cercando di fare in modo che i due piccioncini si
trovassero sempre ai due capi opposti dell’edificio.
Proprio
perché ero stanco mi ero poi lasciato finalmente andare sul divano. Quando?
Naturalmente quando Ilaria entra in ufficio.
Quando
mi sono lasciato andare, per pochi minuti, lei mi fa quella domanda: quella a
cui se fossi stato lucido non avrei risposto, ma a cui in quel momento risposi,
biascicando qualcosa di terribile.
Per
quello che avevo mormorato, ad Ilaria era caduto di mano qualcosa, facendo
trasalire me… e facendo accorrere qualcuno da fuori. Quasi non mi
sorpresi vedendo chi era entrato: chi altri poteva essere?
Davide,
ovviamente. Davide che non doveva essere lì.
Davide
che avevo mandato appositamente via, facendolo accompagnare dalla mia
segretaria a pranzo.
Sempre
lo stesso Davide che entrando proprio in quel momento, non aveva fatto altro
che confermare le mie ipotesi sul fatto che quella giornata sarebbe stata da
filmare: perché altrimenti nessuno mi avrebbe creduto quando l’avrei
raccontata… cosa che avrei fatto, una volta ripresomi del tutto dallo
shock.
Ritornando
a noi, ora ero lì, nel mio bellissimo ufficio, con un battito cardiaco udibile
probabilmente fino al Polo Nord. Cercai invano di far stabilizzare la mia
respirazione, appurando che i due lì con me non credevano ai propri occhi e che
quindi mi sarei in qualche modo salvato.
Continuai
a spostare lo sguardo, alternandolo fra Davide ed Ilaria: se ne stavano
immobili da quasi due minuti, sembrava quasi non respirassero nemmeno.
L’unica cosa di cui ero sicuro era che al novantanove per cento si erano
completamente dimenticati della mia presenza, alquanto inutile, e che quindi se
fossi scappato…
Ma
il mio piano di fuga venne a farsi stroncare subito: Davide infatti entrò di
colpo in ufficio, lasciando il posto vicino lo stipite su cui sembrava essersi
pietrificato, e si chiuse di slancio la porta alle spalle.
-
Stai bene?-
Non
pensai nemmeno per un istante che potesse starsi rivolgendo a me.
Tutta
la sua attenzione era per Ilaria, dietro la scrivania, che aveva iniziato a
tormentarsi le mani nervosamente, con un’ espressione indecifrabile in
viso.
Davide
lo avevo chiesto con preoccupazione, una preoccupazione dieci volte maggiore a
quella che aveva dimostrato poco prima, quando aveva chiesto la stessa identica
cosa, credendo che in ufficio ci fossi solo io.
Ma
non era quello il momento di farsi venire complessi da calo di attenzione.
Ilaria
non rispose e allora Davide fece per avvicinarsi, vedendo il suo gesto lei
veloce arretrò di qualche passo, andando quasi a sbattere contro il muro alle
sue spalle.
-
Lari…-
Lo
aveva mormorato così piano che mi sorpresi di essere riuscito a sentirlo, ma lo
sentì anche Ilaria.
Sembrava
un cucciolo spaventato, braccato da un predatore: iniziò a scuotere lentamente
la testa, portandosi una mano sulla bocca. Iniziai a temere che potesse
scoppiare a piangere a dirotto, ma mi sbagliavo.
-
Vattene-
Lo
aveva solo bisbigliato, quasi con timore, come se avesse paura delle sue stesse
parole. Davide non si mosse neppure di un centimetro, rimanendo immobile, fermo
sul posto, continuando a fissarla: ogni tanto chiudeva e poi riapriva gli
occhi, quasi temesse che fosse solo un sogno, che si stesse immaginando tutto.
E
poi ci fu il cambiamento: un totale stravolgimento della situazione.
Me
lo aspettavo, ad essere sinceri.
Per
questo avevo egoisticamente sperato che l’incontro avvenisse da qualunque
altra parte: in qualunque luogo che non fosse casa mia o soprattutto il mio
ufficio.
-
Ho detto vai via!-
Lo
aveva gridato, questa volta. La paura nella voce c’era ancora, ma si sentì
chiaramente anche rabbia, frustrazione e quello che poteva essere facilmente
identificato con l’odio.
-
No-
Fu
in quel momento che mi rassegnai all’idea che il mio ufficio non ne
sarebbe uscito vivo. Quell’incontro gli sarebbe stato fatale. Pazienza.
Sarebbe stata l’occasione per costruirmene uno nuovo nell’attico.
-
Lari…-
-
Non chiamarmi così!-
Scambiai
ancora uno sguardo fra i due: se Ilaria era ormai sul piede di guerra, Davide
era ancora prudente. Continuava ad osservarla con occhi adoranti, indeciso su
come comportarsi.
Improvvisamente
fece un passo avanti, e lei allora con uno scatto velocissimo tentò di
superarlo, con la chiara intenzione di uscire dalla stanza. Ma lui non glielo
permise, afferrandola per il polso e costringendola a fermarsi. Si erano
invertiti di posto: ora avevo Davide alla mia sinistra ed Ilaria a destra.
-
Lari, per favore-
Lei
con un movimento secco si liberò il polso, stringendoselo poi nell’altra
mano.
-
Cosa c’è di difficile da capire? Non mi sembra di aver detto niente di
così complicato: non chiamarmi più così, Davide! Hai capito? Non chiamarmi
così…-
L’ultima
volta lo aveva solo sussurrato, forse accorgendosi di quanto quelle parole gli
facessero male.
Dall’espressione
di Davide sembrava quasi che lo stesse accoltellando, eppure qualcosa scattò
con l’ultimo bisbiglio: perché lo vidi alzare di nuovo la testa, e
fissare Ilaria con aria di sfida.
-
Perché?-
Lei
non rispose, guardandolo senza capire.
-
Perché non devo più chiamarti così? Non mi sembra ci sia niente di male, sai?
Dobbiamo parlare, Lari. Per favore.-
Non
saprei dire se a essere più sorpreso dalle sue parole fui io o lei.
Si
era ripreso. E ne fui immensamente contento, per quanto questo significasse
guai in vista, ne fui felicissimo.
Era
finalmente tornato in sé. Si era tolto quella sottospecie di maschera che lo
fermava, oscurandolo, bloccandolo in uno stato di passività e indolenza, di
rassegnata accettazione.
Avrebbe lottato.
Ma
la cosa non sarebbe stata facile: e lo capimmo tanto io quanto lui, così come
lo avrebbe capito chiunque guardando l’espressione di Ilaria, che persa
la meraviglia era semplicemente tornata ad essere fredda e distaccata.
-
No-
La
risata di Davide mi lasciò basito: era forse uscito di senno?
-
O mio Dio, piccola. Credi veramente che un no mi fermerà?-
Ilaria
però non rise, e anzi l’occhiata che lanciò a Davide mi fece venire i
brividi, per quanto non fosse destinata a me. Ecco: ora arrivava il peggio.
Avevano entrambi deciso di combattere.
-
Sì. Tu non ci credi? Ti ho già detto di non chiamarmi Lari, e aggiungo di non
chiamarmi nemmeno piccola.
Non
ho intenzione di parlare, Davide e…-
-
Lo stai già facendo-
Lo
aveva detto sorridendo, come se per lui fosse già tornato tutto alla normalità
e quello fosse solo un gioco
-
Cosa?-
-
Stai già parlando, piccola-
Ilaria
sospirò, guardandolo come fosse un bimbo che ha appena fatto una marachella.
-
Davide, credevo di avere a che fare con un ventiseienne-
-
E io con una ragazza che non si tirava indietro davanti a niente-
Davide
continuava a sorridere, ma l’ultima parte l’ aveva detta con un
accenno di accusa nella voce. Accenno che Ilaria colse alla perfezione,
studiandolo con aria arrabbiata:
-
Non mi sto tirando indietro-
Scandì
con rabbia, per poi afferrare la giacca sulla sedia al suo fianco, e indossarla
rapida.
-
Ma non ho intenzione di parlare-
Il
sorriso di Davide si affievolì mentre la fermava di nuovo, tirandola per un
lembo del cappotto e facendo in modo che tornasse a guardarlo in faccia.
-
Mi dispiace, Lari. Non hai idea di quanto mi dispiaccia. Ma non volevo…
lo sai, che non volevo. Io…-
-
Tu sei uno stronzo-
Lo
disse con voce piatta, e per questo ancora più dura. Iniziai a temere che
presto sarebbero arrivati a prendersi schiaffi. Mi guardai in giro allarmato,
vedendo con terrore una spillatrice poggiata a pochi metri da Ilaria: forse
avrei dovuto mettere il 113 come chiamata rapida sul cellulare.
-
Ma uno stronzo di prima categoria, lo sai? Di quelli a cui si dovrebbe dedicare
un girone dell’inferno di Dante.
Che
vorresti dire? Che casualmente sei caduto nella supermodella?-
Davide
era impallidito, arretrando un po’ forse inconsciamente. Mi scappò un
sorriso quando vidi il suo sguardo indugiare con timore sulla stessa
spillatrice che avevo adocchiato anch’io. Sentendo l’ultima parte
della frase di Ilaria però prese un bel respiro e partì di nuovo
all’attacco:
- Non sono caduto in Marianna! Un bacio,
Lari! Un bacio!-
-
Marianna…-
Lo
sputò con disprezzo, guardandolo con aria omicida.
Lasciò
vagare lo sguardo intorno, per poi iniziare ad avvicinarsi a Davide, che sgranò
gli occhi dalla sorpresa.
Ilaria
era ormai a pochi passi da lui, quando cominciò a spintonarlo, con le mani sul
suo petto, facendolo arretrare ogni volta di un passo.
-
Tu quello lo chiami un bacio?! Sembrava steste per farlo, lì! Te ne rendi
conto? Le hai viste quelle poche migliaia di foto di voi che hanno girato sui
giornali per settimane?!-
Ad
ogni frase corrispondeva uno spintone, di volta in volta più forte.
Nessuno
sembrava toccare Davide più delle parole che sentiva.
Quando
si decise finalmente a fermarla, le afferrò i polsi, bloccandoli con fermezza,
ed allo stesso tempo con una dolcezza che non gli vedevo più dipinta in volto
da troppo tempo.
-
Hai letto quegli articoli? Piccola, quante volte ti devo dire di non credere a
quello che leggi sui giornali?-
-
Non ho avuto bisogno di credere a niente: avevo visto con i miei occhi-
Si
bloccarono in quella posizione per qualche istante che mi sembrò interminabile:
vicinissimi, lui che teneva ferma lei, e lei affatto intenzionata a muoversi.
Se
qualcuno fosse entrato in quel momento probabilmente li avrebbe potuti prendere
per due innamorati nel bel mezzo di una scenetta idilliaca. Certo, quella non
era proprio una scenetta idilliaca, ma sul fatto che fossero due innamorati non
mi sarei sentito di controbattere.
-
Mi dispiace-
-
E’ troppo tardi-
Ilaria
fece per allontanarsi ma Davide glielo impedì.
-
Lari, non c’è un momento adatto: ora è troppo tardi, allora era troppo
presto. Come devo fare per farti capire che sono pentito?! Ti giuro con tutto
il cuore che se potessi tornare indietro…-
-
Ma non puoi! Lo capisci?! Non si può tornare indietro Davide!-
Dicendolo
aveva iniziato a tempestarlo di pugnetti sul petto, l’ultima affermazione
era stata storpiata dalla voce rotta, come se fosse sul punto di cedere. Lui
non la fermò, lasciando che lo colpisse senza dargli alcun dolore fisico con
quei gesti, nessun dolore paragonabile a quello che gli stava affibbiando con
le parole.
-
Non mi arrendo-
Lei
si fermò improvvisamente, tornando a fissarlo negli occhi, come se fosse
impazzito definitivamente.
-
Non ti arrendi? Non capisci vero? Davide è finita.-
-
NO. Non finché non lo dico io!-
Sobbalzai
sul posto: parola sbagliate. Assolutamente.
Cercai
di attirare la sua attenzione, ma sapevo benissimo sarebbe stato del tutto
inutile. Avrebbero anche potuto dare fuoco al palazzo, né Davide né Ilaria se
ne sarebbero accorti.
Fu
in quel momento che mi accorsi di una vibrazione: un suono che avevo ignorato,
lo squillo di un cellulare. Troppo concentrato sulla scena che si stava
svolgendo davanti a me, mi resi conto solo allora che stava vibrando da quasi
dieci minuti. Cercai di individuare da dove provenisse, ma il mio tentativo
venne troncato sul nascere da una risata. Tornai a guardare la coppia alla mia
sinistra: era Ilaria che rideva.
Si
rivolse improvvisamente a me, lasciandomi di stucco: ma come, avevo perso il
dono dell’invisibilità?
-
L’hai sentito Maurizio? Non sarebbe da prenderlo a schiaffi?-
Avvampai
di colpo sotto i loro sguardi: ora
ero al centro dell’attenzione?! Ora che stavano prendendo in
considerazione l’idea di prendersi a schiaffi?
-
Piccola, davvero. Dammi un’altra chance. Un’ultima possibilità. Ti
prego…-
Ilaria
tornò a guardarlo: aveva i polsi ancora bloccati nella presa di Davide ma le
sue mani non erano più strette a pugno, erano rilasciate con i palmiaperti sul suo petto.
-
No-
-
Ti prego, Lari. Solo un’ultima, io…-
A
bloccarlo era stata una suoneria: la vibrazione era cambiata, trasformandosi in
Any way you want it dei Journey.
Ilaria si staccò improvvisamente da Davide, correndo verso la poltrona su cui
aveva posato la borsa, e cacciandone rapida il telefonino. Per qualche assurdo
motivo la cosa che più mi colpì fu che quella suoneria l’aveva messa
Andrea sul cellulare di Ilaria.
-
Pronto?-
Ero
tornato ad essere invisibile: Ilaria con aria trafelata si era attaccata al
telefono e Davide la fissava, cercando come sempre di capire per quale motivo
la sua piccola fosse tanto chiaramente a disagio.
Fosse
per me avrei attribuito il disagio al fatto che il suo ex ragazzo si era appena
presentato, quando meno se lo aspettava, e che lo squillo del cellulare aveva
interrotto un momento quanto meno “di fuoco”.
Ma
come sempre le mie supposizioni erano troppo banali, lontane dalla possibilità
che potesse esserci un peggio.
Tutti i miei timori più
spregiudicati si erano avverati.
Quello che temevo ed al tempo
stesso desideravo accadesse stava succedendo: ora, nel mio povero ufficio.
Li
guardai ancora, alternativamente: a pochi passi da me, lei mi dava le spalle, bisbigliando
qualcosa al cellulare; lui invece faceva paura: gli occhi invasi da una luce
spiritata, quasi demoniaca.
Studiai
Davide, sperando con tutto il cuore di continuare a passare inosservato.
Eppure
sapevo non sarebbe durata a lungo quella pace apparente: lo vidi avvicinarsi
impercettibilmente ad Ilaria, probabilmente nel tentativo di capire cosa stesse
dicendo al telefono.
Invasione
della privacy, avrei voluto gridargli, ma non lo feci.
Stetti
in silenzio perché ero anch’io concentrato con tutto me stesso sulle
parole quasi incomprensibili di lei.
Io
però non la stavo spiando per puro divertimento, o gelosia, o altro: lo facevo
per me stesso.
Nella
speranza che sarei potuto uscire vivo, o quantomeno sulle mie gambe, da quel
dannato ufficio che ora più che mai riusciva a intimorirmi.
Chiusi
gli occhi, smettendo quasi di respirare per fare meno rumore possibile.
E
poi le sentii.
Quelle
tre parole.
Tre.
Solo
tre parole: sole, cuore, amore… una canzone faceva così.
Le
tre parole che firmarono la mia condanna a morte non furono quelle, però.
Furono
altre, terribili:
“Fil,
non scherzare”
Così
aveva detto Ilaria. E io lo avevo sentito chiaramente, così come al novantanove
virgola nove per cento aveva fatto pure Davide. Spalancai gli occhi
al’istante: dopo meno di dieci secondi da quando aveva finito di
pronunciare “scherzare”.Ero
stato lo stesso troppo lento.
Con
sgomento mi accorsi del corpo di Davide prono su di me: accovacciato sul
divano, con una mano paurosamente vicina al mio collo e l’altra ferma a
spingermi sul petto.
Arretrai
per quanto mi fu possibile, tentando di allontanarmi da lui, dalla sua aria
furibonda, da quegli occhi che sembravano essere tizzoni ardenti corrosi
dall’ira e dalla frustrazione.
Quanto
ero sfigato?! Da uno a dieci? Ma anche dieci!
Davanti
ai miei occhi si presentò improvvisamente quella che sarebbe stata secondo me
la notizia in prima pagina il giorno dopo: “Maurizio D’Amico:
figlio del magnate, ucciso dal fratello. Mal menato e quindi soffocato, tragica
fine della sua giovane vita. Il gemello commenta: Se fosse possibile lo
riporterei in vita… per poterlo ammazzare di nuovo”
A
frenare le mie tragiche fantasie fu la voce di Davide: aveva avvicinato il suo
viso al mio, e in un tono che non ammetteva repliche introdusse il discorso,
parlando a voce molto bassa, come per non farsi sentire da Ilaria.
-
Ora mi spieghi tutto. Dall’inizio-
-
Davide non credo sia il momento per…-
Non
saprei dire cosa mi convinse a tacere: se lo sguardo omicida che mi lanciò o la
presa paurosamente forte con cui mi strinse la camicia. So solo che alla
domanda che mi sussurrò nell’orecchio non pensai neanche lontanamente di
non rispondere.
-
Cosa ci faceva lei qui?-
Ecco:
dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità?
No,
assolutamente.
-
Consulenza di lavoro: revisione generale-
Era
una parte della verità, in fin dei conti
-
Perché non mi hai detto che veniva?-
E
ma insomma, ora andava a cercarsi i discorsi filosofici! Lo guardai con un
misto di intolleranza e sdrammatizzazione. Lui però non retrocesse di un
millimetro:
-
Dai, Davide! Non credevo fosse ancora il momento e poi tu…-
Fui
bloccato di nuovo dalla sua presa che si era ancora stretta: riuscivo quasi a
sentire le sue unghie penetrarmi nella pelle. Mi sembrò di capire quanto forte
fosse la lotta interiore che lo stava lacerando: la vera domanda, quella che
più gli interessava, non me l’aveva ancora posta.
E
ora era sul punto di farmela, vinto dalla parte meno saggia di sé.
Lanciò
uno sguardo alle sue spalle, assicurandosi che Ilaria stesse ancora al
telefono, distratta, poi tornò a fissare intensamente me:
-
Hai sentito?-
Era
stato poco meno di un sussurro, e nonostante ciò avevo capito sia la domanda,
sia a cosa si stesse riferendo. Preferii di gran lunga fare finta di niente
però, e guardandolo con aria innocente chiesi:
-
Cosa?-
Lui
assunse un’aria esasperata, e dopo aver controllato un’ultima volta
Ilaria mi assalì senza più fare giri di parole:
-
Maurizio hai sentito benissimo anche tu che ha detto Fil. Ora, sarò io che mi
costruisco castelli per aria, o che sono leggermente sconvolto e fuori di me in
questo momento… ma ho la terribile sensazione che ci sia qualcosa di
molto sbagliato in questa situazione. E tu sei più informato di me-
Aveva
aggiunto l’ultima frase come una vera e propria minaccia. Non nascondeva
più la rabbia, forse perché troppo impegnato a non farsi vincere dalla paura.
E
faceva bene. Che avesse sempre avuto un sesto senso molto sviluppato lo sapevo.
Così
come sapevo che c’era qualcosa di sbagliato: e che Fil era Fil.
Quel
Fil. Lo stesso a cui Davide, per qualche motivo, aveva subito pensato.
Ma
non ero certo di poterglielo dire, anche ignorando il fatto che a rischio
c’era la mia vita, non era una buona idea e basta. C’erano cose che
Davide semplicemente era meglio non sapesse.
Un
esempio era quello che gli nascondeva Andrea: io sapevo il suo segreto.
Davide
no. Ed era meglio così.
Volevo
un bene dell’anima a mio fratello e lo tenevo in grandissima
considerazione ma non è mai stato… pronto, favorevole diciamo così alle
novità. Non di mentalità ristretta, ma lento a comprendere.
Quella
volta però non riuscii a tenergli nascosta la verità.
-
Davide… devi restare calmo, in ogni caso. Sì, che io sappia, preciso che
non ne sono sicuro, ma dovrebbe essere quel Fil: il nostro Fil. Ma…-
Arretrò
inconsapevolmente, come se fossero le mie parole ad allontanarlo.
Vidi
chiaramente la sorpresa nei suoi occhi trasformarsi lentamente
dall’incredulità alla consapevolezza.
Cercai
di intervenire prima che sopraggiungesse la rabbia, nella speranza di riuscire
a salvare la situazione.
-
Davide-
Mi
ignorava, perso nei suoi pensieri: provai a guardarlo negli occhi, ma sembrava
impossibile.
Fu
lui poi a parlare, biascicando con difficoltà poche parole:
-
E tu come faresti a saperlo?-
Ecco,
a quello andava a parare naturalmente! Tentennai solo qualche istante che lui
già aveva iniziato a riavvicinarsi minaccioso. Alzando gli occhi al cielo mi
decisi a rispondere, pregando che non vedesse le cose, bè… come in fin
dei conti, forse, stavano.
-
Ero andata prima a casa sua, e non c’era. Mirko mi disse che
l’avrei trovata in un bar e… la trovai. Quando sono entrato
l’ho vista con lui-
Ero
stato molto attento a quello che avevo detto, ponderando e censurando i fatti:
evitando cose come lo stato e la situazione in cui avevo trovato Mirko. Certo
non potevo non dirgli che Ilaria era con Filippo, ma speravo di poter omettere
che fossero abbracciati.
-
Erano insieme?-
Faticai
a capire che quella domanda mi era stata fatta da Davide: la voce non era la
sua, lo sguardo incredulo e addolorato non era il suo, il tremore che gli prese
il labbro assolutamente non era suo. Non di Davide.
Chissà,
forse a distanza di anni avremmo ripensato a quel momento ridendone e
scherzandoci: divertiti dalle nostre reazioni, dai nostri pensieri. Certo era
però, che mentre me ne stavo su quel divano, bloccato ed immobilizzato da mio
fratello, anche solo sorridere mi sembrava una cosa al di fuori di qualsiasi
possibilità.
-
Sì-
Inizialmente
mi fermai a quel monosillabo, non sapendo cosa altro dire, cosa fosse giusto
aggiungere.
Iniziai
a temere che non potesse reggere il colpo, ma mai mi sarei aspettato che si
rialzasse di colpo, tirandomi in piedi assieme a lui e spingendomi verso la
porta. Mi mise spalle al muro, continuando a stringere saldamente la presa
sulla mia camicia.
-
Lui! Molcovich! Non è possibile! Io… ora le strappo il telefono e ci
parlo! Brutto deficiente, ma cosa crede di poter fare?! Giuro che appena me lo
ritrovo fra le mani gli stacco quella testolina bionda dal collo!-
Stentai
a credere alle mie orecchie, fui però abbastanza svelto da afferrarlo per il
braccio prima che si muovesse davvero in direzione di Ilaria.
-
Scherzi? Davide quella con Filippo è una questione solo nostra: non puoi
coinvolgere anche lei-
Continuai
quasi subito, accorgendomi di non averlo neanche minimamente convinto:
-
La rivuoi? Allora devi stare attento a quello che fai: gioca d’astuzia.
La conosci meglio di te stesso. Non risolveresti niente cercando di ucciderlo,
e lo sai. Se ci vuoi parlare, ben venga. Ma non quando c’è Ilaria-
Gli
strinsi di più il polso, assicurandomi che il battito fosse tornato quasi alla
normalità.
Lo
vidi annuire impercettibilmente e sospirai di sollievo: forse la catastrofe si
poteva evitare.
-
Ragazzi? Che sta succedendo?-
Alzai
rapido lo sguardo al di sopra della spalla di Davide, sorridendo con fare
rassicurante ad Ilaria che ci fissava con aria sconvolta: forse davamo
l’impressione di stare per picchiarci, e lo capì anche Davide che subito
si allontanò da me, liberando finalmente la mia camicia.
-
Chi era al telefono? Mirko?-
Lo
aveva domandato avvicinandosi di qualche passo ad Ilaria, che ignorandolo aveva
afferrato il giubbotto. Davide però non si era arreso e aiutandola ad indossare
la giacca, continuò a parlare:
-
Stasera che fai? Ti va una cena?-
Quando
Ilaria si girò verso di lui capii di non essere l’unico a fissarlo
incredulo: avevo sì detto di giocare d’astuzia, ma non stava correndo
troppo?
-
Scherzi?-
Lui
le passò la borsa, regalandole un sorriso incredibilmente dolce ed affettuoso:
-
Certo che no. Una cenetta senza pretese, fra amici. Facciamo venire anche
Maurizio, Andrea, Mirko… Veronica se ti va. Così per chiacchierare un
po’-
Era
serio, c’era poco da fare. E lo capì anche Ilaria che continuò a studiare
la sua espressione in silenzio, come indecisa se prendere direttamente la porta
ed andarsene senza nemmeno salutare.
-
Una cena, che ti costa?-
A
quel punto lei alzò di nuovo lo sguardo su di lui, fissandolo come fosse
impazzito:
-
Ma cosa credi di poter ottenere?!-
Lui
sorrise di nuovo, esibendosi con due perfetti occhioni luccicanti ed innocenti,
allargando le braccia e facendo spallucce. Con voce dolce rispose con aria
fintamente offesa:
- Niente.
Assolutamente niente! Te l’ho detto mi va solo di parlare un po’, e
poi è da un sacco di tempo che non vedo Mirko. A te Andrea non manca per
niente? Non che possa biasimarti se è così-
Aggiunse
in tono scherzoso, riuscendo incredibilmente a strapparle un sorriso divertito.
Tornai
a prendere posto sul divano, ripensando a tutte le volte che lo avevo
indirizzato verso la carriera teatrale.
Avevo
ragione: era talento puro.
Lui
allargò leggermente gli occhi, spalancandoli quasi, come in aspettativa: studiando
l’espressione ancora lievemente svagata di lei.
Ilaria
spostò il peso da una gamba all’altra, come soppesando la proposta,
tenendo lo sguardo basso. Dopo pochi attimi rialzò la testa, tornando a fermare
i suoi occhi sul viso di lui.
-
Va bene-
Non
lo aveva detto, lo aveva a mala pena sussurrato. Si leccò le labbra, e fu
quello che fece ripartire Davide all’attacco, più deciso di prima, dato
che un mezzo consenso lo aveva già ottenuto.
-
Allora sì? Perfetto! Passo io a prenderti a casa, così andiamo con una sola
macchina e… “Da Vincenzo” ti va bene? E’ ancora la tua
pizzeria preferita?-
Si
rese conto da solo di aver messo un piede in fallo: aveva rivangato il passato,
e non era un bene.
Fino
a quel momento era stato molto attento, non l’aveva nemmeno mai chiamata
Lari o piccola. Con quella domanda però rischiava di rovinare tutto. Vidi la
paura passare anche per i suoi occhi, opposta al sorriso che ancora risplendeva
sul suo volto.
Per
fortuna Ilaria rispose candidamente al sorriso, prendendo entrambi in
contropiede.
Iniziai
a sospettare che anche lei potesse avere un qualche secondo fine: non era
pensabile che dopo tutta la rabbia ed il risentimento che fino a poco prima
esternava, ora accettasse senza ripensamenti una proposta del genere. Come a
confermare i miei pensieri annuì decisa, sorridendo ancora.
-
Certo. Passa tu. Intorno alle nove se non è un problema-
A
passo lento si avviò verso la porta, e fece per uscire. Con la mano ancora
sulla maniglia si voltò un’ultima volta verso di noi, e rivolgendosi a
Davide aggiunse:
-
Non lo faccio per te: ma solo per Andrea-
E
io avrei voluto commentare che a mio parere non era neanche per Andrea che lo
faceva, ma non lo feci, continuando ad approfittare della mia momentanea
invisibilità.
Ilaria
mosse velocemente le dita della mano in segno di saluto e poi sparì,
lasciandosi dietro solamente una scia di profumo. Lanciai un’occhiata a
Davide che togliendosi quella maschera di calma e sicurezza che aveva indossato
per parlare con lei, si era lasciato andare sulla poltrona: reclinando la testa
all’indietro e poggiandosi un braccio sulla fronte.
Davide
e Ilaria. Nella stessa stanza. E nessuno era morto.
Buon
segno, non c’è che dire. Forse è ancora troppo presto per dare giudizi
però, pensai tormentandomi il labbro con i denti: una pizza tutti
assieme… tutto il vecchio gruppo a mangiare insieme?
Qualcosa
non quadrava. Erano iniziate macchinazioni sotto copertura di cui a quanto
pareva non mi era dato essere a conoscenza. Studiai ancora una volta Davide,
tentando di immaginare cosa gli passasse per la testa, che intenzioni avesse
per la serata. Ma fu inutile: non c’era la minima possibilità che
arrivassi a prevedere cosa sarebbe potuto succedere… e a pensarci bene
forse era meglio che non lo sapessi.
Mi
passai ripetutamente la mano sul viso, cercando di risvegliarmi da quella
assurda situazione.
Non
era un sogno però: e a quanto pareva i giochi erano appena iniziati.
- Sa una cosa, Clara? Non ho proprio
fame, mi perdoni, ma non sono nel pieno della forma in quest ultimo periodo. Le
dispiacerebbe andare da sola a pranzo? -
La segretaria: una venticinquenne
formosa con una folta massa di mossi capelli rossi, mi guardò con i suoi
languidi occhioni castani, negando con il capo:
- Certo che no, signor Davide! Torni
anche di sopra: io sarò di ritorno al massimo in mezz’ora -
Mentre mi avviavo verso le porte
dell’ascensore mi girai di nuovo verso di lei, e con un sorriso
ammiccante le suggerii:
- Clara: faccia con comodo. Mio fratello
è uno schiavista! Si prenda un’ora di pausa: è più che meritata –
Lei mi squadrò sorridente per un
po’, poi arrossì, perdendosi dietro a chissà quale pensiero, e uscì
spedita dalla porta a vetri.
E
poi ero tornato di sopra, e mi ero lasciato andare sulla sedia della scrivania
fuori l’ufficio di Maurizio, poggiandomi pesantemente al muro con lo
schienale.
Perché?
Tutto
per via del caso: un pranzo con Clara e non avrei incontrato lei.
Avevo
seriamente rischiato l’infarto entrando in quell’ufficio: avevo
chiaramente sentito il battito cardiaco rallentare paurosamente mentre
realizzavo che non stavo sognando, che Ilaria era lì davanti a me.
Eravamo
nello stesso ufficio: quello di mio fratello. Se anche per qualche istante mi
si era accesa una lucina, avviso che qualcosa di strano c’era in ciò, era
di un bagliore troppo debole: niente in confronto all’effetto abbagliante
che aveva avuto lei su di me.
Qualunque
fosse il motivo per cui era lì, l’importante era che c’era.
Nient’altro contava.
Troppe
volte avevo fantasticato su di un possibile incontro, puramente casuale o meno,
tormentandomi e immaginando cosa avrei dovuto dire, come mi sarei comportato:
l’unica cosa rimasta invariata in tutte le fantasie era che non mi sarei
lasciato sfuggire quell’opportunità per nulla al mondo.
Eppure,
quando l’avevo vista, mi erano morte tutte le parole in gola, e il primo
istinto nato in me era stato quello protettivo. Il primo pensiero era stato di
vedere se si fosse fatta male.
Per
il resto, non ero riuscito a mantenere alcun controllo sulla situazione né
sulle mie azioni, ma in fondo c’era da aspettarselo: la sola presenza di
Lari era riuscita a farmi perdere completamente la percezione di tutto.
Lei
che mi era apparsa più bella di quanto non fosse mai stata, lei che era a pochi
passi da me ed allo stesso tempo estremamente lontana, e per colpa mia.
Quando
avvicinandomi a lei avevo letto nei suoi occhi quella che poteva essere paura,
un timore irrazionale di me, avevo
creduto di impazzire! A quello eravamo arrivati? Sì, ed era stata lei a farmelo
capire senza troppi giri di parole: voleva che me ne andassi, non voleva
vedermi, non voleva stessi lì… e non voleva nemmeno la chiamassi più
Lari. Era stato quello a far riaccendere qualcosa in me: quella forza spentasi
troppo tempo prima, quel calore che era mio e che lei si era portata via, era
finalmente tornato più forte e potente.
Non
l’avrei lasciata andare via ancora una volta: avrebbe dovuto passare sul
mio cadavere per uscire da quella stanza senza che avessi prima provato
l’impossibile. Certo, conoscendo Lari, sarebbe anche stata in grado di
farlo, ma ad ogni modo avrei provato, rischiando il tutto per tutto.
Il
risultato di trenta minuti di fuoco? Una cena. Molto più di quanto avrei anche
potuto lontanamente sperare.
Ma
glielo avevo chiesto: perché la sua mancanza era ormai un dolore fisico troppo
lancinante, che solo la sua presenza sembrava capace di lenire. Perché quando
avevo preso i suoi polsi nelle mie mani, e avevo sentito le sue mani fredde
poggiarsi sul mio petto, ed ero stato ancora una volta in suo potere, perso nei
suoi occhi, avvolto nel suo inconfondibile profumo alla cannella… avevo
avuto come l’impressione, sostituita presto dalla certezza, che
altrimenti la vita non avrebbe avuto più alcuna vera attrattiva.
E
Lari aveva accettato: per qualche motivo che solo lei conosceva, aveva
acconsentito a quella assurda rimpatriata in pizzeria. Era stato un sì deciso
il suo, accompagnato da quel brillare furbo e malizioso nei suoi occhi che
avevo imparato a riconoscere, e del quale sapevo benissimo di dover diffidare.
Non mi interessava però: l’importante era vederla ancora, che poi facesse
quello che più le andava, umiliandomi, picchiandomi, uccidendomi…
portandosi dietro Filippo…
Mi
si bloccarono le mani a mezz’aria mentre quell’idea mi assaliva
improvvisa: e se avesse invitato anche lui?
Lanciai
un’occhiata impaurita al mio riflesso nello specchio: a quel ragazzo in
abito nero che tentava di annodarsi una cravatta. E se anche fosse? Ben venga.
Sarebbe stata l’occasione per spaccargli la faccia una buona volta.
Sorrisi al pensiero: mi sarebbe piaciuto immensamente e non me ne vergognavo.
Con
un gesto deciso gettai a terra la cravatta, sbottonando i primi tre bottoni
della camicia bianca. Ma non andavo ancora bene, guardai l’ora: mi
restavano quaranta minuti. Veloce afferrai il cellulare e premetti il tasto due
di chiamata rapida: Andrea. Sul primo era ancora salvato il numero di Lari.
Andrea
rispose al secondo squillo, trafelato ed eccitato:
-
Dimmi! Sei pronto? Ci vediamo a casa di Ilaria? O preferisci venga da te? Ma
offri tu vero, o mi devo portare il portafogli? Perché nel caso…-
Interruppi
quel soliloquio senza pensarci, rispondendo con voce secca ma non scortese:
avevo pur bisogno di un consiglio e dovevo tenermelo buono.
-
Casa di Ilaria, e pago io. Senti Andrè, ma secondo te come dovrei…?
Fu
lui quella volta ad zittirmi, rispondendo senza darmi nemmeno il tempo di
concludere la domanda:
-
Jeans blu notte, quelli del compleanno di Marta: ti fanno un fondoschiena
fantastico, e la camicia nera che hai rubato a Muzi, così metti in risalto gli
occhi; per le scarpe anche le nike vanno bene, o le puma nere, è indifferente.
Togliti subito quello che hai indosso, per carità: non stiamo andando a un
funerale. Ah, Maurizio lo passo a prendere io dopo, perciò tu avviati da solo e
muoviti, vedi di non arrivare in ritardo!-
Detto
questo chiuse la conversazione senza attendere oltre, lasciandomi basito e
sorridente: come diamine mi conosceva bene! Vestendomi come aveva suggerito
lui, provai ad immaginare cosa avrebbe messo: probabilmente i soliti jeans
stracciati al ginocchio e la felpa arancione, sì al novanta per cento era così
che lo avrei visto di lì ad un’ora. Rapido infilai le scarpe ed afferrato
il primo giubbotto mi fiondai alla macchina.
#
Ilaria
Mi
pettinai delicatamente, quasi temevo che facendo troppo forte potessi
compromettere quel po’ di sanità mentale che mi rimaneva. Mi guardai allo
specchio: ero chiusa in bagno da più di un’ora, Veronica si era invece
barricata in camera per prepararsi. I due uomini di casa stranamente non si
erano fatti sentire da quando avevo dato la notizia: Mirko, tutto sorridente,
aveva preso il telefono e cominciato subito a chiamare qualcuno, mentre andava
in camera sua a prepararsi e lo zio Robby, sentito che al raduno sarebbe venuta
anche Veronica, si era autoinvitato senza accettare obiezioni.
Sospirai
posando la spazzola ed aggiustandomi ancora una volta il vestito nero: non ne
ero convinta, mi sembrava troppo lugubre, ma Vero aveva insistito, dicendo che
non era elegante e che il risvolto corto e arruffato sulle cosce era magnifico.
Alle mie proteste sul colore poi aveva ribattuto porgendomi semplicemente
orecchini brillanti con collana e bracciali abbinati: quelli sarebbero bastati
a ravvivare il tutto. In conclusione con lei era inutile discutere.
Sollevai
i capelli, raccogliendoli in una coda, ma dopo pochi secondi li lasciai cadere
di nuovo sulle spallescoperte: meglio
sciolti, assolutamente. Arretrai, sedendomi sul bordo della vasca e chiudendo
gli occhi: in che diavolo di situazione ero andata a cacciarmi?
Come
avevo fatto a dire di sì?
Ripensai
velocemente a quello che era successo non tante ore prima: quando era entrato lui.
A
come il mio povero cuore sembrasse aver appena deciso di volermi uscire dal
petto, seguendo a ruota quel po’ di pensiero logico e cosciente che
potevo ancora possedere. Reazione per altro dovuta unicamente alla sua
presenza: a quella voce morbida che mi aveva riempito le orecchie, riuscendo a
stordirmi, facendomi dimenticare momentaneamente di possedere l’uso della
parola.
Non
potevo comportami così. Non potevo cedere. Mi sarei unicamente fatta del male:
e masochista di certo non ero. O almeno credevo di non esserlo, fino a quando
non si era avvicinato di più, avvolgendomi con il suo profumo, quello che mi
aveva fatto venire un giramento di testa , costringendomi ad allontanarmi.
Ci
era voluta tutta la mia forza di volontà per non lasciarmi andare, ma sapevo di
dover rimanere con i piedi per terra, sforzandomi di non perdermi in quel
verde, conscia che sarebbe stato unicamente un errore.
E
poi, a salvarmi era giunto quel suono, che lì per lì non avevo ben
identificato, ma poi avevo riconosciuto come la suoneria del mio cellulare. Ed
ero corsa a rispondere, allontanandomi il più possibile da lui.
Era
stato un susseguirsi di cose da quel momento: la chiacchierata con Fil, che mi
chiedeva con tono amorevole se andava tutto bene, cosa stessi facendo,
preoccupandosi del mio tono quasi sconvolto; le mie risposte positive, io che
omettevo di trovarmi nel pieno di uno scontro con il mio ex-ragazzo… e
poi il suo silenzio seguito subito da una sua frase decisa e infervorata:
“Torno stasera!”
Da
lì di quello che era successo in seguito ancora non riuscivo a capacitarmene
del tutto: avevo davvero risposto entusiasta a Fil, mostrandomi felicissima
della notizia?
Avevo
accettato la proposta di Davide per una pizza tutti assieme? E lui sarebbe
venuto a casa?
Aprii
gli occhi, fissando ancora l’immagine che mi rimandava lo specchio:
studiai pensierosa il mio viso troppo bianco, quasi cereo, forse un po’
di fard non ci sarebbe stato tanto male. Avevo già aperto il beautycase per
prenderlo quando cambiai improvvisamente idea: avrei scommesso tutto sul fatto
che quella sera in ben più di un’occasione ci avrebbe pensato il mio
stesso sangue a colorarmi quanto bastava.
Nonostante
cercassi di non pensarci i miei pensieri tornarono a bloccarsi su un unico
fondamentale punto: ero stata capace di tanto? Sì ed era inutile provare a
negarlo o a sperare in una via d’uscita. Avevo accettato e per motivi ben
precisi: non potevo prendere ed andarmene, non senza aver avuto modo di parlare
con Maurizio per capire cosa e perché avesse detto quelle cose nel suo ufficio,
e neanche senza aver definitivamente chiuso con Davide; la telefonata di Fil
poi era stata provvidenziale: mi era venuta improvvisamente la pazza idea di
fargli fare una veloce capatina alla pizza, così per aiutarmi a mantenere il
controllo… e forse vedendolo Davide avrebbe capito.
Non
c’era più niente da fare, doveva metterselo in testa. E anche io dovevo
farlo.
Il
bussare alla porta lo sentii distintamente e feci per andare ad aprire, ma
qualcuno fu molto più veloce di me: il grido entusiasta di Ray lo sentirono
probabilmente anche tutti i vicini. Con un sospiro mi affrettai ad uscire dal
bagno.
Già
dal corridoio potei vedere lo zio che stringeva in un abbraccio soffocante
Davide, ancora sulla porta. Che Ray aveva sempre avuto una vera e propria
adorazione nei confronti di Davide, lo sapevo: gli era piaciuto fin dal primo
momento e come allora non aveva mancato di fare allusioni su di un nostro
futuro fidanzamento, ora non tardava a rimproverarmi di non averlo più in
programma quel matrimonio con il principe azzurro.
“E
perché non te lo sposi tu?!”
Troppe
volte glielo avevo gridato, sibilato, ringhiato contro, e lui ogni volta,
accarezzandosi la barbetta mi rispondeva pacato:
“Bimba,
se stessi su quella sponda, lo farei non credere”
Mi
ero fermata al centro del corridoio, fissavo quei due, ancora indecisa su come
comportarmi: non sapevo nemmeno come salutarlo, e la cosa mi dava fastidio più del
necessario. La cosa più normale sarebbe stata di avvicinarmici e baciarlo sulle
guance, ma temevo per il mio autocontrollo in vista di un simile gesto.
A
trarmi d’impiccio fu Veronica che comparendomi improvvisamente al fianco,
mi prese a braccetto, accompagnandomi in salotto e salutando cordialmente
Davide. Vero mi trascinò con sé, avvicinandosi al nuovo arrivato, scostando Ray
per salutarlo come si deve e poi mi lasciò: ignorando il mio sguardo prima
sconvolto e poi omicida, prese lo zio per mano e con gesto deciso lo tirò verso
la cucina, lasciandomi sola con Davide.
Non
appena ebbi realizzato che lo aveva fatto davvero, sebbene reticente sollevai
lo sguardo sulla figura che avevo davanti: non potei fare a meno di rimanerne
incantata, osservandolo, notando quanto poco fosse cambiato. Salii piano con
gli occhi: partendo dai jeans arrivai alla camicia che, con alcuni bottoni
aperti, lasciava intravedere parte della pelle bianca del collo. Indugiai per
un po’ sul suo petto, accorgendomi con sorpresa di come, per quanto
potesse sembrare assurdo, mi andasse di rifugiarmici contro: per sentirne il
calore, per stringerlo con tutte le mie forze… morsi forte il labbro con
i denti: che cosa mi passava per la testa?
Raggiunsi
quindi il viso: gli occhi furono i primi che cercai, ma non trovandoli subito
fissi nei miei, lasciai vagare ancora lo sguardo, avvolgendo ed osservando
tutti quei particolari che credevo di aver dimenticato e che invece erano
ancora lì, sempre gli stessi. La piccola cicatrice bianca all’angolo
destro della bocca, il taglio sul sopracciglio, la fossetta che si formava
quando sorrideva, la curva delle labbra mentre si concentrava…
I
suoi segni particolari, quelli che erano diventati miei.
Sorrisi
in risposta, trovando finalmente i suoi occhi: quelle grandi gemme verdi,
finalmente fermi nei miei. Fu impulsivo a quel punto avvicinarmi e posargli
lentamente una mano sull’avambraccio. Non reagì subito, sorpreso dal mio
gesto, ma poi si piegò in avanti porgendomi la guancia su cui scoccai rapida un
bacetto.
Per
quanto mi fossi sforzata di essere veloce, il suo profumo mi avvolse lo stesso:
offuscando momentaneamente le mie percezioni.
Mentre
lo seguivo, salendo in macchina con lui, rivolsi ai fiocchetti di neve che
soffici volteggiavano nell’aria i miei pensieri più malevoli: con quel
dannato freddo infatti i finestrini sarebbero rimasti ermeticamente chiusi. Un
moto di paura mi assalì mentre pensavo ai venti minuti di tragitto che mi
attendevano: chiusa nell’abitacolo di una Aston Martin con il riscaldamento
acceso al massimo ed il profumo di lui.
Quand’è
che avevo detto di non essere masochista?
#
Davide
“Che
mi racconti piccola?”
Glielo
avevo chiesto, concentrandomi sulla strada buia davanti a me e stritolando il
volante fra le dita.
Fino
a quel momento non ero riuscito a distogliere lo sguardo da lei neppure per un
istante: affascinato, semplicemente, e totalmente conquistato. L’avevo
vista da sopra la spalla di Ray: avvolta nella stoffa nera, ferma a guardare
noi con un sorrisetto appena accennato sulle labbra. E poi Veronica
l’aveva portata a pochi passi da me, lasciandoci soli dopo avermi mimato
con le labbra un “Soffri, bastardo”.
Avrei dovuto preoccuparmi o almeno tentare di capire
il perché di quelle parole, ma non lo feci, perso nella contemplazione di lei:
della sua figura snella, delle curve perfette, le labbra piene e rosse, quelle
che da troppo tempo non erano più mie… e poi il piccolo neo alla fine del
sopracciglio, le lunghe ciglia nere, il rosso delle guance, il modo in cui si
tormentava il labbro con i denti. Stavo ancora studiando quelle cose,
assaporandole una per una, quando avevo sentito la sua mano poggiarsi sul mio
braccio: ero rimasto momentaneamente basito, sorpreso dal suo gesto e ancor di
più dal freddo del suo palmo. Ma poi mi ero piegato, raggiungendola,
permettendole di baciarmi sulla guancia, come fanno i bravi amici.
Che non saremmo potuti mai essere solo amici lo
sapevo, e il bruciore lasciato dalle labbra di lei, tanto quanto la fragranza
del suo collo, bastarono a ricordarmelo anche più di quanto volessi.
Eravamo ormai a metà strada e ancora non avevamo detto
niente di sensato: domande superflue, corrisposte da repliche brevi, alle volte
semplici monosillabi. Poco ci mancava che non si parlasse del tempo.
Eppure non sapevo come fare, cosa dire per rompere il
ghiaccio che si era creato: era come se un’enorme muro si fosse alzato
fra di noi, e non riuscivo ad aggirarlo. L’unica soluzione sarebbe stata
abbatterlo. Certo in quel caso sarebbe stata guerra. La domanda allora era: ero
pronto a farlo o preferivo bearmi ancora in quella piccola illusione che stavo
vivendo?
Sentii il sospiro di lei mentre poggiava la testa al
sedile, reclinandolo leggermente all’indietro. Il mio sguardo si fermò
inaspettatamente sul movimento del suo piede: era un agitarsi nervoso, quasi
irritato, del tutto opposto alla finta compostezza che tentava di ostentare.
E allora capii: in guerra c’eravamo già, e
volente o nolente non potevo più tirarmi indietro.
#
Maurizio
Erano partiti un quarto d’ora prima di noi e
dovevano ancora arrivare.
Una parte contorta della mia mente iniziò a fare le
ipotesi più assurde, per giustificarne il ritardo: dalla possibilità che si
fossero già uccisi vicendevolmente, a quella che li vedeva intenti a fare cose
ben poco caste sui sedili posteriori della macchina.
Decisi di lasciar perdere e mi concentrai sugli altri
seduti al tavolo con me: avevamo preso un tavolo da otto, in modo da poter
stare comodi: Ray, Veronica, Andrea, Mirko e quindi io, questa la sistemazione.
Sentii Mirko alla mia destra che mi dava di gomito, sussurrandomi concitato:
- Secondo te?-
Sapevo a cosa alludeva ma feci spallucce,
sorridendogli con fare rassicurante. Distolsi quindi lo sguardo dal suo conscio
del fatto che altrimenti il discorso non si sarebbe di certo chiuso lì. Finsi
invece di interessarmi profondamente al corridoio di fronte a me: osservai i
tappeti damascati che ricoprivano il pavimento e la porta in fondo che era
quella della toilette degli uomini, continuai a lasciar vagare i pensieri,
passando alternativamente dai muri bianchi ai quadri che vi erano appesi.
Fu Andrea questa volta a distrarmi, chiamandomi con un
semplice e netto fischio: Ray di fronte a me rideva di qualche battuta che non
avevo sentito e Mirko chiacchierava con Veronica, così che nessuno si accorse
del veloce scambio che vi fu fra Andrea e me. Mi girai a guardarlo, e lo vidi
mimare il gesto di tagliarsi la gola, con un ampio movimento del dito mi fece
poi capire quale sarebbe stata secondo lui la conclusione della serata.
Gli rivolsi un sorriso, non propriamente
incoraggiante, in risposta al suo ghigno quasi sardonico.
Non ebbi però il tempo di soffermarmi a capirne il
motivo che due voci ben conosciute mi giunsero alle spalle.
Fatto un veloce giro di saluti, presero entrambi posto
al tavolo: Davide alla mia destra, e Ilaria di fronte a lui.
L’imbarazzante silenzio caduto sul tavolo per
fortuna ebbe presto fine, e la conversazione ripartì fluida e spontanea come
era stata prima dell’arrivo degli ultimi due.
Nella sala oltre noi c’erano poche altre
persone: giusto qualche altra coppietta ed un gruppetto di persone anziane.
Probabilmente ai loro occhi potevamo passare per una allegra combriccola, ma
non era così, e a confermarmelo furono le occhiate preoccupate che mi ero
accorto non solo io lanciavo agli ultimi arrivati: la tensione fra di loro
infatti era paurosamente palpabile, e a quanto pare era pensiero comune che non
sarebbero durati ancora a lungo.
Li guardai ancora di sottecchi: Davide tamburellava le
dita sul tavolo, senza smettere di fissare Ilaria che sbriciolava un pezzetto
di pane. Certo se non fossi stato seduto anch’io a quel tavolo, a meno di
un metro da entrambi, avrei riso a quello che successe subito dopo: si
chiamarono entrambi, pronunciando i nomi in contemporanea. Rimasero qualche
istante a fissarsi sorpresi, poi si voltarono a guardare noi, che interrotti
dalla loro gaffe ci eravamo zittiti. Veloci tutti ripresero a parlare, fingendo
bellamente che non fosse successo niente.
Tutti però ero sicuro avevano un orecchio ben piazzato
nella loro direzione, pronti a cogliere ogni singola parola, tant’è che
io stavo facendo esattamente la stessa cosa.
- Perché ti comporti in questo modo?-
- In che modo?-
Davide sbuffò, contrariato dall’espressione fintamente
incredula di lei. Lo sentii chiaramente iniziare a muovere la gamba
nervosamente e fu più forte di me avvicinarmi con la sedia a Mirko, allarmato
quanto me.
- Come se volessi essere ovunque tranne che qui! Ecco
come!-
Lo aveva detto senza alzare la voce, mantenendo il
tono di voce basso ed al tempo stesso duro e provocatorio. Ilaria in risposta
strinse gli occhi, fissandolo agitata prima di rispondere incerta:
- Non è così Davide, io solo non mi sento…-
Percepii un movimento alla mia sinistra ma lo ignorai,
concentrato sui segnali che se pure inconsciamente avrebbero potuto lanciare:
nella speranza che un qualcosa mi avrebbe avvertito sul momento più adatto a
scappare, in fondo quella doveva essere un’amichevole rimpatriata.
- …a mio agio-
Concluse Ilaria dopo qualche istante di silenzio,
arrossendo leggermente e distogliendo lo sguardo da quello di Davide, che
sebbene non riuscissi a vedere non doveva essere esattamente quel che si vuol
dire amorevole.
- E perché mai, Lari? E’ una cena fra amici. Neanche così ti va più bene?-
- Ah, perché siamo amici ora? Tu ne sei convinto?-
Se fino a quel momento Ilaria aveva probabilmente
tenuto a bada la rabbia, ora non si faceva più scrupolo di nasconderla. Rispose
a Davide con un tono altamente frustato, che portò lui ad alzare di qualche
millesimo la voce nel ribattere:
- Non lo siamo? Non siamo più niente, Lari?! Semplici
conoscenti o nemmeno così va bene?-
- Tu… sei completamente ottuso, lo sai? Amici
dici? Allora fammi capire per te quand’è che una persona entra nella
categoria amici? No, così per capire!-
Davide fece per rispondere ma lei non gliene diede il
tempo, facendogli invece ancora un’altra domanda:
- E Marianna? Lei che dici, è fra gli amici?-
Lui si irrigidì al mio fianco, preso in contropiede
dalla rabbia di lei: forse se la aspettava anche, ma non credeva sarebbe stata
tanto aggressiva: raramente avevo visto Ilaria perdere il controllo, e ora
ancora non era successo del tutto. Nessuno dei due aveva ancora cominciato a
gridare né i piatti avevano cominciato a volare per il tavolo… con un
movimento veloce e silenzioso allontanai i coltelli, portandoli tutti a debita
distanza, così tanto per essere più sicuri: nel caso una forchettata era meglio
di una coltellata.
- Cosa c’entra ora… Marianna non è niente
né lo è mai stata-
Ilaria alzò gli occhi al cielo, spostando la sedia da
vicino al tavolo con una mossa rapida, per poi ribattere sempre con voce bassa,
quasi volesse essere sentita solo da lui:
- Niente? I miei ricordi smentiscono questa tua frase.
E non credo di sbagliarmi, Davide. Non prendermi in giro. Per favore-
Lui strinse le mani contro il tavolo, al punto da
farsi sbiancare le nocche, prima di riaprire bocca:
- Lari, non mi hai mai dato modo di spiegare-
- Spiegare cosa? Non c’è niente da spiegare! Eri
lì con lei!-
Spostò anche lui la sedia all’indietro,
passandosi una mano sul viso, quindi riaprendo gli occhi e fissandoli in quelli
di lei sussurrò pacatamente:
- Posso parlare? Posso provare a…-
Ilaria scattò in piedi, poggiando una mano su fianco e
agitando l’altra in direzione di Davide:
- No! No, che non puoi! Secondo voi…-
Dicendo quell’ultima cosa si era girata verso
gli altri, come per avere il loro appoggio. Ma non c’era più nessuno.
Anche Davide se ne accorse solo in quel momento, e dopo avermi lanciato
un’occhiata interrogativa, si alzò in piedi per seguire Ilaria che si era
avviata lungo il corridoio con passo inquieto.
Guardai alle mie spalle, cercando di capire che fine
avessero fatto tutti e compiacendomi al tempo stesso per l’abilità che
avevano avuto nello sparire: compatti e silenziosi. Probabilmente non appena
avevano sentito il nome di Marianna avevano capito sarebbe stato il caso di
allontanarsi.
Non trovandoli tornai ad osservare i due ancora
davanti a me: erano arrivati alla fine del corridoio ed Ilaria stava per aprire
la porta del bagno. Davide l’avvertì, spiegandole con voce esasperata:
- Lari: è il bagno degli uomini-
Ma lei o non lo sentì, o aveva già piegato la
maniglia, fatto sta che aprì la porta.
Non vidi subito quello che succedeva all’interno
della stanza: a preannunciarmi che non fosse niente di buono furono però le
reazioni che vidi. Sia Davide che Ilaria si bloccarono: pietrificandosi quasi,
forse non respiravano neanche più. Ilaria arretrò poi andando a sbattere contro
un Davide ancora sotto shock, che la sorresse istintivamente. E fu a quel punto
che riuscii a vedere quello che li aveva sconvolti tanto: c’erano due
ragazzi che si baciavano in quel bagno, proprio al centro della stanza, in modo
che la stessa immagine si riflettesse e ripetesse su tutti gli specchi
presenti.
Purtroppo riconobbi subito i due giovani che fino a
qualche attimo prima se ne stavano beatamente abbracciati.
Ora si erano separati di scatto, scambiando occhiate
stravolte con i due ancora fermi sull’uscio.
Mirko si accorse improvvisamente anche di me e mi
lanciò un’occhiata disperata a cui non seppi come rispondere, Andrea al
suo fianco invece strinse gli occhi nella mia direzione e fu in quel momento
che capii quanto il gesto che mi aveva fatto non troppo tempo prima fosse
giustissimo.
Qualcuno che si schiariva la gola al mio fianco mi
fece distogliere lo sguardo dalla scena che si svolgeva di fronte a me: girai
la testa, studiando la cameriera che con il taccuino in mano mi guardava con
aria interrogativa. Mi passai una mano sul viso, poggiando sconfitto la schiena
alla sedia e con voce stanca mi rivolsi a lei:
- Mi deve scusare, ma… temo ci vorrà ancora un
po’ prima che saremo pronti per ordinare-
Arretrai sui miei passi, trovandomi a sbattere contro
un torace forte e sentii due braccia sorreggermi.
Fu avvertendone l’odore che capii si trattava di
Davide, oltre quell’informazione però non riuscii a realizzare
nient’altro. La mia mente si era infatti bloccata su una singola
immagine.
Una scena che si ripeteva davanti ai miei occhi come
un disco impallato: continuavo a rivedere il bacio a dir poco appassionato che
c’era stato fra quei due ragazzi, e che Davide ed io avevamo interrotto
entrando.
A colpirmi non fu il bacio di per sé, quanto i due che
si stavano baciando.
Il primo che riconobbi era stato Andrea: avevo
chiaramente visto i contorni del suo viso, così come lui si era accorto di me.
Fu quando allontanò da sé l’altro, che inquadrai Mirko: non ci avevo
fatto caso inizialmente, sconvolta principalmente dal fatto che Andrea fosse
rinchiuso in bagno con qualcuno che non fosse una ragazza. Il mio cervello in
quel momento non era minimamente preparato ad affrontare un altro colpo.
E l’incontrare lo sguardo arruffato e basito di
mio fratello non aiutò di certo il mio benessere.
Mirko e Andrea si stavano baciando: mio fratello e un
mio amico, il migliore amico di Davide per precisare.
Ripensai a come sene stavano stretti l’uno
all’altro: i corpi che aderivano, le dita nei capelli del compagno,
l’aria felice… perché mai avevo deciso di lasciare quello
stramaledetto tavolo?
Se non mi fossi alzata, dirigendomi furiosa verso il
bagno e aprendo di scatto la porta, probabilmente non avrei fatto venire un
infarto anche ai due amanti che lo occupavano, né attentato alla salute tanto
fisica quanto mentale di tutti i presenti!
Ma no, in qualche modo devo sempre riuscire a
complicare la situazione! E questo quando la circostanza non è certo delle
migliori, naturalmente… altrimenti il bello dove sarebbe?
Arretrai ancora un po’, spingendo Davide dietro
di me, cercando di fare in modo che smettessimo di bloccare la porta che così
si sarebbe richiusa, tornando a concedere dell’intimità a quei due:
sarebbe stato nell’interesse di tutti che niente di quello fosse mai
successo, e che tale scoperta non fosse ancora stata fatta… o almeno non
in quella serata, per l’amor di Dio!
Davide però non sembrava essere d’accordo con il
mio ragionamento: lo sentii irrigidirsi mentre tentavo di farlo arretrare e
mentre elaboravo quella nuova indicazione, il mio cuore cominciò a battere ad
un ritmo molto più sostenuto.
Voltai di un po’ il viso, cercando di cogliere
l’espressione di Davide e con enorme rammarico la vidi totalmente
spiazzata, come se gli fosse appena crollato il mondo addosso. E forse per lui
era così in effetti.
Mi tornarono in mente tutte le battutine a sfondo
sessuale che lo sentivo sempre scambiarsi con Andrea: si era impegnato a tener
segreta la cosa, a quanto pareva, o forse non lo sapeva ancora nemmeno lui.
Qualunque fosse la verità Davide non lo immaginava
neanche lontanamente: era sempre stato molto lento nel capire cose del genere,
o meglio nell’intuire realtà alternative in genere, certo in quel momento
non ero però la persona migliore per emettere giudizi. Non mi ero accorta
dell’omosessualità di mio fratello!
E diamine ma come si fa a dire una cosa del genere
senza sentirsi uno schifo?! Io…
- State scherzando!-
La voce di Davide aveva interrotto il flusso
scoordinato dei miei pensieri, riportandomi brutalmente alla realtà.
Lo aveva quasi chiesto: con un ghigno sul viso e una
luce folle negli occhi. Era come se non riuscisse a credere a quella scena, e
allo stesso tempo cercasse di assimilarla e rifiutarla: il risultato? Niente di
buono.
Per quanto mi costasse ammetterlo lo conoscevo bene,
troppo bene: al punto da sapere che se non fossi intervenuta in tempo ci
sarebbe stato un massacro. Il finimondo sarebbe impallidito di fronte a quella
serata.
Lanciata un’occhiata fra il disperato e il
biasimevole ai due amanti non più tanto segreti, mi girai verso Davide.
Gli puntai le mani sul petto, facendo aderire i palmi
sui suoi pettorali, riuscivo a sentire il calore della sua pelle anche da sopra
la camicia. Alzai il viso cercando di incontrare il suo sguardo ma non ci
riuscii.
- Voi?! No… cos’è una candid-camera?
E’ uno scherzo vero? Perché… perché non è possibile: tu, tu Andrea!
Non può essere! Non con Mirko, cioè tu… voi! Volete dirlo che non è
così?!-
Ad ogni parola il suo tono si alzava di qualche
decibel, e la cosa non andava per niente bene.
Senza guardare i due dietro di me mi limitai ad
aumentare la pressione sul petto di Davide: dovevo riuscire a riprendere in mano
la situazione o sul serio saremmo degenerati al punto da… mah, forse da
manicomio.
Riuscii a spingerlo di nuovo nel corridoio, e sentii
la porta del bagno chiudersi alle mie spalle. Afferrai fra due dita il mento di
Davide e feci in modo che abbassasse il viso e mi guardasse negli occhi.
- Stiamo uscendo di testa! Io non riesco a crederci!-
Continuava a borbottare senza sosta, riferendosi a
nessuno in particolare. Quando i suoi occhi incontrarono i miei si zittì giusto
un istante e poi riprese a mormorare sconvolto. Con uno sbuffo strinsi di più
le dita.
- Davide-
Lo dissi con voce decisa, in tono perentorio, cercando
di farlo ragionare:
- Cos’è che ti da fastidio? Che Andrea sia gay?
Cambierà in qualche modo la tua amicizia con lui, questo?-
Lui non rispose subito, guardandomi come se non
riuscisse a credere alle mie parole. Gli lasciai il viso, tornando a poggiare
le mani sulla sua camicia: non ero ancora sicura che si fosse calmato.
- Certo che no! Luiè sempre il mio migliore amico, però non riesco comunque a crederci! Non
ci hanno detto niente! Loro meritano di…-
- Davide-
Lo ammonii di nuovo, allarmata dal fatto che la sua
voce stesse tornando ad alzarsi troppo. Lui scosse la testa, passandosi una
mano fra i capelli, e con tono sconsolato mormorò:
- Non dirmi “Davide” non cambia niente: si
sono comunque comportati da bastardi e… Dio! Maurizio lo sapeva! Io ora
vado e lo…-
- D.-
Si era girato per fissare il fratello con odio e poi
era tornato a guardare me per rispondermi come prima:
- Non dirmi D. ! Ho ragione io questa volta! E…
come mi hai chiamato?-
Spalancò gli occhi: prima mentre realizzava cosa avevo
detto e poi fissando le mie mani sul suo petto.
Dopo pochi istanti le sue labbra si mossero in un
sorriso, o meglio forse somigliava più ad un ghigno: era contento, e tanto.
Arrossii probabilmente fino alla punta dei capelli e senza guardarlo in faccia
gli intimai di tornare a sedersi. Lui con una mezza risata ubbidì, riprendendo
posto al tavolo, accanto al fratello.
Voltai loro le spalle, tornando ad entrare nel bagno:
ora dovevo far uscire di lì gli altri due imbecilli.
- Ila! Davide cosa sta dicendo?-
- Urla ancora?-
- Noi possiamo anche uscire da questa finestra qui
se…-
Alzai le mani cercando di bloccare il flusso di parole
che i due ragazzi mi stavano rivolgendo: Mirko mi fissava semplicemente
stravolto, Andrea invece sembrava provare anche un po’ di paura. Presi un
bel respiro prima di parlare: era una scena assurda e lo sapevamo tutti. A
quanto pareva però non sembrava nel loro volere far tornare a calmare le acque.
- Ragazzi, per cortesia. Tranquillizziamoci tutti. Ora
torniamo al tavolo-
- Ma scherzi?-
- Sul serio Ila noi pensavamo di rimanere qui per il
resto della serata-
Dovetti fare un enorme sforzo per reprimere
l’impulso di prenderli e sbatterli entrambi con la testa contro il muro.
Anzi no, forse sarebbe stato meglio testa contro testa.
Rialzai lo sguardo su di loro e li vidi osservarmi
intimoriti: che avessero intuito qualcosa?
Sorridendo aprii la porta con una mano e gli feci
cenno di uscire con l’altra. Loro ubbidirono dopo pochi istanti, uscendo
dal bagno, nel corridoio però si fermarono un attimo come sorpresi, poi
continuarono verso il tavolo.
All’inizio c’erano loro ad oscurarmi la
visuale, fu un caso se notai che Andrea passava una banconota nella mano di
Mirko e non potei fare a meno di chiedermi su cosa avessero scommesso.
Non ebbi il tempo di pensarci di più però: se infatti
prima c’erano loro ad impedirmi la vista, non appena si allontanarono
riuscii a vedere cosa, o meglio chi, li aveva fatti fermare prima. Se
inizialmente sentii tutto il sangue defilarsi velocemente dal mio viso, subito
dopo, non appena lui mi sorrise, tornò rapidissimo ad imporporarmi le guance:
era venuto, e momento peggiore probabilmente non avrebbe potuto trovarlo.
Studiai per un po’ la sua figura: vestito solo
con jeans chiari ed una felpa celeste, quasi abbinata ai suoi occhi. Anche così
però era da mozzare il fiato: con i capelli leggermente arruffati, come se non
ne volessero sentire di stare al loro posto, ed un sorriso che andava da un
orecchio all’altro.
Mi venne incontro ed in pochi passi mi fu davanti,
stringendomi fra le braccia fissò i suoi occhinei miei e prendendomi completamente in contropiede mi baciò. Non me lo
aspettavo, non da lui che sembrava tanto timido ed accorto, eppure non mi
lamentai né allontanai. Se in qualche modo mi imbarazzava, o per qualche motivo
sentivo non si sarebbe dovuto fare, tutto il resto di me se ne fregava.
Assaporai quelle labbra morbide abbandonandomi a lui:
lo sentii giocare con la mia lingua, mordicchiando poi giocosamente il mio
labbro inferiore, e quasi senza rendermene conto gli avevo buttato le braccia
al collo.
- Mi sei mancata-
Lo aveva sussurrato a fior di labbra, senza staccarsi
da me, e io sospirai dal piacere, decisa a rispondere.
- Anche tu mi…-
Non conclusi però: avevo aperto gli occhi verso la
fine, incontrando quelli verdi di Davide che mi fissavano. Con un singulto mi
allontanai da Filippo, sorridendo imbarazzata in risposta al suo sguardo
sorpreso.
Che diamine mi prendeva? Avevo sì deciso di finirla ma
di certo non in maniera così drastica, comportandomi per altro da…
Rimproverandomi fra me e me afferrai Fil per il
braccio, trascinandolo verso il tavolo. Rimanendo in piedi accanto a lui mi
decisi a fare le presentazioni, cercando di mantenere il tono di voce il più
saldo possibile:
- Fil, loro sono Davide e Maurizio e gli altri più o
meno mi sa che li conosci e…-
Stavo per continuare ma Davide si era già alzato in
piedi, porgendo la mano a Fil che gliela strinse subito:
- E’ un piacere conoscerti, Filippo-
- Piacere mio, Davide-
Le parole erano state queste, il tono purtroppo quanto
gli sguardi non furono altrettanto benevoli.
Sembrava quasi che fossero pronti a scannarsi di lì a
qualche istante.
Fil mi fece segno di sedermi e non avendo altra scelta
ubbidii, prendendo posto di fronte a Davide, mentre lui si sedeva a capotavola:
esattamente fra Davide e me. Poggiai il gomito sul tavolo, premendo la mano
sulla fronte: mi sarebbe venuta un’emicrania, una terribile
cefalea… abbassai lo sguardo sul tavolo e con mio sommo dispiacere non
riuscii a trovare nemmeno un coltello.
A quanto pareva mi sarei dovuta rassegnare
all’emicrania.
Rimpiansi
quasi subito di aver mandato via la cameriera.
In fondo quella ragazzina poco più che sedicenne dai
capelli lunghi e biondi, legati in due trecce enormi tenute su da elastici colorati,
che masticava una gomma a bocca aperta, somigliando terribilmente ad una mucca,
sì forse proprio lei era l’ultimo contatto che avevo con il mondo reale.
Perché per il resto niente sembrava seguire più un
corso anche lontanamente verosimile.
Più di una volta mi ero ritrovato a rimpiangere di non
essermi portato dietro una videocamera quella sera: probabilmente riprendendo i
fatti ne sarebbe venuto fuori un bellissimo film amatoriale, di quelli che
spopolano su youtube… e come negare la cosa? Che era una pizza fuori
dagli schemi lo avrebbe capito chiunque.
A partire dalle urla seguite alla scoperta della nuova
coppietta: io lo sapevo che stavano insieme, e non era poi tanto difficile da
intuire. Per qualche motivo inspiegabile infatti Andrea era sempre al corrente
di tutto ciò che riguardava Ilaria. E l’unico contatto quale poteva
essere se non Mirko? A confermare le mie ipotesi poi c’erano varie serate
in cui scompariva senza dire niente a nessuno, e quando dopo gli chiedevi
qualcosa diventava rosso come un peperone. Infine c’era stata la sera in
cui ero andato a cercare Ilaria a casa sua e avevo trovato Mirko in boxer.
Avrei potuto ammettere che non era davvero tanto strano se non fosse stato che
nel vialetto sotto casa c’era la macchina di Andrea.
Ad ogni modo non avevo detto niente: né infastidendo
loro due né accennando alcunché a Davide o Ilaria.
Erano liberi di scegliere quando uscire allo scoperto
e non mi sentivo certo nella posizione di togliere loro questo diritto. A
quanto pareva però avevano aspettato troppo.
Quando si era aperta la porta del bagno rivelando il
loro bacio, avevo temuto che potessero svenire tutti e quattro. Invece nessuno
aveva perso i sensi e anzi Davide era riuscito incredibilmente a rimanere
lucido, almeno inizialmente. Poi come c’era da aspettarsi era scoppiato:
e non potei fare a meno che compiacermi del fatto che volendo sarei potuto
scappare a gambe levate senza che nemmeno se ne accorgessero.
Ilaria era riuscita a calmarlo comunque, come solo lei
sapeva fare: senza dire niente, guardandolo… e lui se ne era stato buono,
fingendo almeno di non essere più sconvolto. Non era finita però: mentre lei
tornava nel bagno per chiamare i due che con buone possibilità stavano già
progettando una fuga con tanto di espatriata abbinata, erano tornati al tavolo
anche Veronica e Robby.
Non mi ero quasi accorto che ancora non ci fossero,
poi però dovetti guardarli per forza: mi diedi un pizzicotto sul braccio mentre
li studiavo, sperando con tutto il cuore di svegliarmi da quell’incubo.
Non mi destai purtroppo e l’ultima mia speranza era che mi stessi
sbagliando: forse c’era un valido motivo se Veronica gli accarezzava la
mano con il pollice, e le labbra di Robby avevano un colore che ricordava
vagamente quello del rossetto di lei… sì, ci doveva essere sicuramente
un’altra spiegazione; Mi dovetti ricredere come al solito però, quando
facendomi quasi venire un colpo lei gli avvicinò le labbra al collo,
mordicchiandolo su quello che avevo appena identificato come un succhiotto.
Scoppiai a ridere: una risata nervosa, che conteneva
anche una vena di follia.
A fermarla, a farmela morire in gola in realtà, fu
l’arriva di un ragazzo biondo: lo vidi riflesso nella brocca con
l’acqua sul tavolo e sentii chiaramente una forte stretta ai polmoni che
mi impedì di ridere ancora.
L’effetto che provocò su di me fu però il meno
devastante, o quanto meno fu niente rispetto a come reagì Davide vedendolo: lo
sentii tossire pesantemente rischiando di soffocare per via del sorso
d’acqua appena bevuto, quando riprese normalmente a respirare Filippo gli
era già passato accanto, lanciandogli solo una sfuggevole occhiata per poi
avvicinarsi ad Ilaria.
La prese fra le braccia, baciandola lì, come se non
fosse presente nessun altro: incurante di noi alle sue spalle, così come di
Davide che rischiava di spezzare in due la forchetta che stringeva fra le dita.
Alzai un braccio, come per dare una pacca di conforto a mio fratello ma cambiai
presto idea: non appena lui posò la posata, intrecciando le dita e prendendo un
bel respiro, stabilii che sarebbe stato molto meglio se avessi provato a
tornare a fingermi fantasma. Il fatto che avesse improvvisamente deciso di non
rendere chiara a tutti la sua rabbia, celandola anzi sotto un’apparente
calma e compostezza, rendeva semplicemente ancora più spaventosa l’intera
situazione: da film horror… e fu in quel momento che mi venne
quell’assurda curiosità: possibile che il locale fosse video sorvegliato?
Nel caso avrei chiesto una copia del nastro, poco ma sicuro: a costo di pagarla
tanto oro quanto pesava, l’avrei avuta.
Fu Ilaria poi che si allontanò da Fil, portandolo
verso di noi: fece le presentazioni, continuando a spostare lo sguardo da
Filippo a Davide. Quest ultimo non la lasciò concludere, alzandosi in piedi per
stringere la mano al nuovo venuto, fingendo di fare in quel momento la sua
conoscenza e ancora di più di essere contento della cosa.
Filippo del canto suo stette al gioco, ricambiando la
sua stretta: non mi sarei sorpreso sentendo lo scrocchio di qualche falange che
si rompeva, ma nessuno dei due sembrò risentire di danni alla mano e presero
posto sorridendo con aria innocente.
Guardando quel bel triangolino: Davide, Filippo ed
Ilaria dovetti fare un enorme sforzo di volontà per reprimere la voglia di
prendere il cellulare e scattare qualche foto. Riuscii però a trattenermi e
rimasi semplicemente buono, con il mento poggiato su entrambe le mani, a
godermi il riprendere della cena.
Fu la risatina convulsa di Robby a rompere il silenzio
improvvisamente calato sul tavolo: ci voltammo tutti verso di lui, che rosso in
viso, sorrise imbarazzato alzando le sopracciglia con fare interrogativo. Solo
io mi accorsi probabilmente della mano di Veronica ferma sotto la maglietta di
lui, esattamente sul suo fianco.
Dio mio… ora si facevano anche il solletico!
- Allora tu devi essere Filippo: non abbiamo ancora
avuto modo di fare conoscenza, io sono lo zio di Ilaria-
Lo disse reprimendo un nuovo eccesso di ilarità, e
subito dopo fu Veronica a prendere la parola:
- Dovete scusare la nostra assenza di prima, ma ho
accompagnato Ray fuori: non si sentiva bene-
Non riuscii a trattenermi dal commentare, leggermente
sarcastico, in direzione dei due:
- Ma vedo che ora sta molto meglio: merito tuo,
Veronica?-
Se Robby sentendo le mie parole avvampò di colpo,
passandosi una mano sulla fronte, lei al suo fianco mi sorrise con fare
vagamente intimidatorio, omettendo di rispondere e ribattendo invece:
- Ci siamo persi qualcosa, nel frattempo?-
- Assolutamente niente: solo l’arrivo di Fil ma
mi sembra che a quel punto eravate già tornati-
Aveva risposto Andrea, annuendo al contempo con fare
sicuro e rassicurante, se sperava di cavarsela così però non aveva preso bene
in conto la coppia con cui aveva a che fare: fu Ilaria a commentare per prima,
gesticolando con la mano e alzando gli occhi al cielo:
- Oh certo, nessuna scoperta clamorosa, niente di
nuovo! Dì un po’ Mirko, ma papà e mamma lo sapevano?-
- Cosa?-
- Niente zio, della sua nuova passione-
Ray decise saggiamente di non indagare oltre,
lasciando che lo scambio continuasse fra i due fratelli: Mirko strinse gli
occhi, lanciando uno sguardo infuocato ad Ilaria, che non si lasciò minimamente
intimidire.
- Ila, non credo sia il momento per…-
- Lo sapevano, allora?!-
- Ila, per cortesia-
Se il suo tono prima era stato vicino al minaccioso,
poi era caduto nel disperato. Davide a quel punto intervenne, smettendo di
incenerire Fil al suo fianco e rivolgendosi ad Ilaria:
- Che significa?-
Lei scosse la testa, innervosita, e ribattè:
- Non lo so! Il tuo amichetto poi non mi aiuta di
certo!-
Guardai Andrea, cercando di capire a cosa si riferisse
e notai in quel momento la sua mano poggiata su quella di Mirko e le sue labbra
che sembravano sussurrare frasi di incoraggiamento. Anche Davide se ne accorse
e smettendo di sorridere disse, a voce abbastanza alta da essere facilmente
sentito:
- Sì, a proposito del mio amichetto: spero sappia cosa
lo aspetta-
- Cosa?!-
Andrea non aveva reagito subito, ma capendo che quelle
parole erano riferite a lui, trasalì sulla sedia, girandosi verso di noi e
guardando Davide con aria meravigliata:
- Che significa ? Credevo avessimo già messo una
pietra su tutto e…-
- Non così in fretta, amico mio! Già vuoi far finta di
nulla? Non ti sembra di correre troppo?-
Il tono di entrambi era cambiato a questo punto: se
quello di Andrea assomigliava più al disperato, quello di Davide era diventato
sarcastico. Ilaria di fronte a lui sorrideva, mostrando così la sua piena
concordanza con mio fratello; Veronica e Robby invece, se prima avevano seguito
lo scambio di battute tentando inutilmente di capire, ora avevano smesso di
provare a comprendere qualcosa, limitandosi a discutere amabilmente di cose che
ero sicuro a nessuno avrebbe fatto piacere sapere.
Vidi la cameriera di prima, ferma all’entrata
della sala, far scoppiare la bolla appena fatta con uno schiocco deciso e
scuotendo la testa con fare biasimevole, ci diede le spalle, desistendo dal
proposito di venire a richiedere le ordinazioni. Non potei fare a meno di
complimentarmi silenziosamente con lei per quella saggia scelte, potendo avrei
fatto molto volentieri lo stesso.
Avevo smesso di ascoltare lo scambio acido ed
accusatorio di frasi che i quattro si stavano lanciando, e casualmente
incontrai lo sguardo allibito di Filippo a capotavola, che dopo aver tentato
inutilmente di attirare l’attenzione di Ilaria, si arrese a parlare con
me:
- Mi sono perso qualcosa?-
Sorrisi demoralizzato e annuendo gli feci segno con la
mano di lasciar perdere. Sarebbe stato solo controproducente tentare di
spiegargli.
Fu in quel momento che sentii la voce di Andrea
scattare di qualche decibel mentre si rivolgeva a Davide:
- Ah, e addirittura ora anche Filippo sarebbe passato
in secondo piano?-
Lo aveva detto come un’accusa, irritato dalla
conversazione aveva deciso di salvarsi mettendo lui in mezzo.
La cosa di cui non si rendeva conto però era che
facendo in questo modo, se anche l’attenzione si fosse spostata su Fil,
come per altro sarebbe comunque successo, non solo la situazione si sarebbe
scaldata, ma anch’io avrei rischiato parecchio per il solo fatto di
trovarmi più vicino.
- Sono tornato in gioco anch’io? Ila, sono
arrivato con meno di un quarto d’ora di ritardo, che mi sono perso?-
Lo aveva chiesto scherzosamente, come a sdrammatizzare
la situazione, ma Andrea aveva raggiunto il suo scopo: fu Davide infatti a
rispondergli, dopo aver lanciato un’occhiata ad Ilaria di fronte a lui.
- Niente, Fil. Dì un po’: tua madre come sta?-
Rabbrividii sentendo la domanda, Filippo si irrigidì
sulla sedia e non ribattè subito: prese un bel respiro e prendendo la mano di
Ilaria nella sua, tornò a guardare Davide.
- Bene, ma perdonami dovevo chiedere prima di tuo
padre: anche lui tutto bene?-
Rimpicciolii la mia figura della metà, probabilmente,
nel tentativo di scomparire sotto il tavolo o quanto meno dallo sguardo
incredulo di Ilaria, che mi passava da parte a parte. Lei tornò a fissare i due
che sembravano starsi incenerendo a vicenda con lo sguardo, mentre decidevano
se saltarsi o meno al collo, quindi fissò nuovamente me che sorridendo
imbarazzato, scossi la testa facendo spallucce, come a dire:
“Ma niente di che, non farci caso!”
Lei però non mi sembrò d’accordo: continuò a
guardare i due ragazzi, cercando invano di capire per quale motivo sembrassero
tanto arrabbiati. Se anche avesse sospettato che fosse semplice rivalità, le
allusioni, i dialoghi e soprattutto il fatto che sembrassero molto intenzionati
ad uccidersi a vicenda, la distolsero da quell’idea, che per quanto
sensata non si avvicinava nemmeno un po’ alla verità.
Sentii Davide al mio fianco prendere un bel respiro, e
mentre posava con calma il bicchiere che aveva in mano, mormorò a denti
stretti, senza neanche guardare negli occhi il diretto interessato:
- Non provocarmi, Molcovich!-
- Ma come, D’Amico il magnifico non ha voglia di
parlare?-
Tutti avevamo sentito, per quanto i due si stessero
sforzando di mantenere il tono della conversazione basso e controllato.
Incrociai lo sguardo di Andrea, che facendo a pezzi una fetta di pane con le
dita, mi mimò con le labbra delle scuse per la situazione in cui ci aveva
messi. Scossi impercettibilmente la testa in risposta, sperando capisse che
sarebbe successo comunque: era solo questione di tempo.
Lo vidi piegarsi a spiegare qualcosa
nell’orecchio di Mirko, e mi preoccupai anche di lanciare uno sguardo di
avvertimento a Veronica e Robby che sembravano dell’idea di alzarsi e
scomparire di nuovo: ci avrebbero solo dovuto provare, e li avrei inseguiti,
presi per le orecchie e riportati ai loro posti.
Eravamo un gruppo? Bene: se uno cala a picco, saremmo
calati tutti.
Com’era quella frase? Mal comune, mezzo
gaudio… benissimo: in quel caso il male era tanto, sarebbe servita tutta
la compagnia per dividerlo equamente.
- Che diavolo state dicendo?! Come…? Vi
conoscete? Voi… ?-
Ilaria non era più riuscita a mantenersi, e passandosi
una mano fra i capelli, si era decisa a parlare.
Aveva quasi gridato ad essere sinceri, ma ora meno che
mai mi sarei sentito di trovarmi in disaccordo con lei.
Dicendolo era riuscita a spezzare le catene che
sembravano legare gli occhi dei due ragazzi, che in contemporanea si girarono
verso di lei, sorridendole affabilmente:
- No, che dici?-
- A proposito, non sarebbe il caso di ordinare?-
- Certo! Inizio ad avere un certo languorino-
Lei spalancò ancora più gli occhi sentendoli
rispondere come se niente fosse accaduto, tranquilli come se davvero fosse una serena
cena fra amici. Davide di fronte a lei aveva appena preso un menù fra le dita
che lei glielo strappò brutalmente dalle mani, e Filippo vedendo la scena si
preoccupò di non muoversi di un millimetro, lasciando perdere l’idea di
versarsi dell’acqua: forse conveniva rimanere buoni.
- Tu! Non dire stronzate. Tutti e due, anzi!-
Era partita fissando con aria omicida solo Davide, ma
poi si era corretta, allargando il cerchio di condanna anche su Filippo.
Entrambi la guardarono con aria innocente, facendo spallucce: fu Filippo a
parlare.
- Ila che c’è? Non fare così dai-
- Sì Lari, lo sai che mi piace quando ti arrabbi ma
non credo sia questo il caso di…-
Lei diventò prima bianca e poi di nuovo rossa, tanta
la rabbia che la stava prendendo: scuotendo la testa, sentendosi presa in giro,
lanciò un’occhiata dalla mia parte, per chiedere aiuto, ma non potevo,
non questa volta. Quando capì che non avrebbe trovato appoggio néda me né da Andrea, intento a fingersi occupato
sulla meccanica dell’orologio di Mirko, si prese la testa fra le mani,
mormorando a mezza voce:
- Perché mi trattate come una stupida? Volete
spiegarmi cos’ è successo meno di cinque minuti fa, per cortesia?-
Risposero in contemporanea: se anche le parole non
furono esattamente le stesse, il succo era quello:
- Niente!-
L’unica cosa che cambiò fu che Filippo, finito
di dirlo, si portò la mano di Ilaria alle labbra, scoccandoci sopra un bacio.
Davide strinse gli occhi vedendo quel gesto e quasi ringhiando aggiunse:
- Molcovich!-
Ilaria a quel punto strappò determinata la mano da
quella di Fil e scattò in piedi, facendo stridere la sedia sul pavimento. Gli
occhi lanciavano saette: fulminò entrambi i giovani e con un tono che avrebbe
spaventato chiunque disse:
- Basta! Non ce la faccio, davvero: stiamo
sconfinando. Me ne vado-
Mentre concludeva la frase aveva già iniziato ad
avviarsi fuori dalla sala: Veronica aveva provato ad afferrarle la mano per
fermarla ma non ci era riuscita, e Ray al suo fianco le aveva fatto segno di
lasciar perdere, mormorandole che era meglio lasciarle un po’ di spazio.
Anche Mirko sentì il suo consiglio e tornò a sedersi,
tirato per altro da Andrea per la manica.
Solo Davide e Filippo, dopo qualche attimo di completo
disorientamento, si lanciarono di corsa dietro di lei, pregandola di fermarsi.
Ma sarebbe stato inutile: per quanto avessero corso infatti lei avrebbe
comunque preso quel taxi. Lo stesso taxi che tutti le avremmo impedito di
prendere se solo avessimo saputo.
Nessuno lo sapeva però, quello che sarebbe successo.
Probabilmente è una cosa congenita: cioè ci sono nato
stupido.
Come si dice: “chi nasce tondo non può morire quadrato”! Se sono nato scemo non
posso cambiare in definitiva e con il tempo anzi si può solo peggiorare:
tant’è che da semplice scemo sono riuscito a raggiungere traguardi ben
più onorevoli come stronzo, bastardo e tanti altri.
Certo non epiteti di cui andare molto fieri ma quando
sono meritati c’è poco da ridire e con me non sono mai stati infondati.
La scelta in quel momento per me non era grande: ridere, piangere, anche
l’idea di contemplare il suicidio mi era paurosamente indifferente. Era
come se non avessi più alcun controllo sui miei pensieri.
Ero stato io a cominciare, provocando Fil: chi gli
aveva chiesto della madre?
Io! Ero stato io!
Non ero riuscito a trattenermi, mi sarei dovuto
mordere a sangue la lingua pur di frenarmi e invece no, lo avevo detto,
provocando forzatamente la sua risposta: che giustamente non aveva tardato ad
arrivare.
E poi una frase tira l’altra, eravamo finiti a
minacce come “Molcovich e D’Amico il magnifico”
Cose dell’altro mondo, manco fossimo bambini
dell’asilo! E la realtà era ben peggiore: da ragazzini dell’asilo
infatti ce lo si potrebbe aspettare, ma noi eravamo adulti e vaccinati!
Comportarsi a quel modo: da sconsiderati in balia degli ormoni, era
semplicemente l’ennesima prova che crescendo non si matura.
O almeno questo valeva per me: stavo velocemente
regredendo, tornando ad avere la prontezza di spirito di un bimbo ancora ben
lontano dalla pubertà, che era anche possibile sarebbe riuscito a comportarsi
meglio del sottoscritto!
Avevo del tutto rimosso dov’eravamo, con chi!
Ilaria… mi ero completamente dimenticato della sua presenza.
E come un perfetto idiota, quando ci aveva chiesto
basita a cosa ci riferissimo, di cosa stavamo parlando, avevo fatto finta di
nulla, come se niente ci fossimo detti. Sapevo quanto odiasse essere presa in
giro, ma non ero riuscito a fare altrimenti: Filippo inoltre era subito accorso
a tenermi il gioco, confermando la mia stupida quanto non credibile idea. Cosa
credevamo di poter ottenere?
Certo non mi sarei aspettato che si alzasse e se ne
andasse.
Cioè non mi avrebbe stupito più di tanto che
minacciasse di farci del male, che ci iniziasse a lanciare addosso piatti,
posate e tutto quello che le capitava sotto tiro, ma non lo fece, no.
Semplicemente si alzò, uscendo dalla sala. Poi avevo capito quanto ero stato ingenuo:
inveendoci contro avrebbe comunque in qualche modo continuato a lottare, lei
invece quella sera era stanca, troppo provata per riuscire ancora a tener testa
a qualcosa… tantomeno a qualcuno, a qualche sottospecie di idiota come
Fil e me.
L’avevamo rincorsa e io l’avevo anche
quasi raggiunta fuori, sul bordo del marciapiedi: le avevo gridato di
aspettare, di non fare così. Ma lei non mi aveva ascoltato ed era salita sul
taxi: si era chiusa la portiera dietro, limitandosi a salutarmi con la mano.
Non c’era stato niente da fare.
Più volte in quelle ore mi chiesi se fosse stato il
caso di chiarirle qualcosa, ma ogni volta mi rispondevo che no, non sarebbe
servito a niente, non avrei comunque potuto spiegarle.
Tanto Andrea quanto Maurizio mi diedero il loro
appoggio, dimostrandosi d’accordo con me. Nonostante i loro sforzi non
riuscirono comunque a tirarmi su: passai il resto della serata sdraiato sul
divano, con un bicchiere di scotch in una mano ed una sigaretta spenta
nell’altra.
Non avrei fumato e lo sapevo, ma tenerla in mano
riusciva in qualche modo ad aiutare il mio subconscio.
Era come se in parte mi placasse, riuscendo a dare una
regolata alla masnada di pensieri che mi affollava la mente. Il semplice gesto
di tenerla fra le dita, facendola pian piano rotolare, allontanandola e
ritirandola a me, era palliativo. E proprio l’assurdità di quel
ragionamento arrivava ad ottenere che non mi perdessi definitivamente.
Lanciai uno sguardo per la stanza, osservando senza
realmente vedere i due ragazzi che mi facevano compagnia: stravaccati
sull’altro divano, per quanto cercassero di sembrare rilassati erano
traditi da gesti nervosi e ripetitivi come l’oscillare di una gamba o
l’agitarsi di un piede. Il battere ritmico delle dita di uno dei due sul
tavolo era l’unico rumore che si sentiva, e proprio quel ticchettare
rendeva la scena ancora più surreale: il silenzio veniva infatti come ad
ingigantirsi, occupando tutto il resto dello spazio.
Fu per questo forse che un ronzio improvviso e
continuo che squarciò di colpo quell’atmosfera onirica, riuscì a farci
trasalire tutti, facendomi cadere di mano la sigaretta e quasi versare lo
scotch. Alzai irritato gli occhi, cercando di capire da dove provenisse il
rumore molesto e non ci misi molto a capire che era la giacca di Andrea a
ronzare. Lui con uno scatto fulmineo la raggiunse, afferrando il cellulare fra
due dita e portandoselo rapido all’orecchio. Senza guardare né me né
Maurizio lasciò la stanza, allontanandosi verso la cucina. Incontrai
l’espressione divertita di mio fratello, e rispondendo impacciato al
sorriso mormorai a mezza voce:
- Il mio scotch che è Mirko!-
Capii di aver vinto la scommessa quando ci giunse
soffocata la voce di Andrea: “Amore che c’è?”
Non lo avevo mai sentito usare quel tono, non era da
lui: preoccupato, comprensivo, ed al tempo stesso incredibilmente dolce,
sembrava davvero… innamorato! Il mio sorriso pian piano si allargò,
perdendo ogni tensione: ero contento, dannatamente soddisfatto della cosa; non
me ne ero ancora reso conto, ma davvero ero entusiasta della cosa. Andrea aveva
trovato qualcuno, un qualcuno in grado di farlo parlare a quel modo, con quel tono.Non importava chi: bastava che qualcuno ci
riuscisse.
L’importante era che quel qualcuno lo rendesse
felice.
Muzi incontrò ancora il mio sguardo e dovette intuire
i miei pensieri perché sorrise calorosamente in risposta, annuendo soddisfatto.
Sempre annuendo, con aria più concentrata questa volta, si alzò per afferrare
il cordless di casa: compose rapido un numero e tornando a sedersi in poltrona
poggiò il telefono sul bracciolo azionando il vivavoce. Si accese in me la
curiosità: non era da lui fare una cosa del genere, ma mi decisi ad aspettare.
Nell’attesa che qualcuno rispondesse, colto da
una nuova improvvisa scarica di depressione, portai il bicchiere alle labbra
facendo un minuscolo sorso: è sorprendente quanto lo scotch possa aiutare in
certi casi. E’ un liquido caldo che scende lentamente, esplorando pian
piano ogni tua percezione, lasciando dietro di sé una scia bruciante che ti
invia pulsazioni di piacere direttamente al cervello. Sono sempre stato
convinto del fatto che venderlo anche in farmacia, prescrivendolo inoltre in
caso di depressione, non sarebbe una cattiva idea.
Avevo appena preso a goderne il retrogusto, che si
sentì lo scatto di risposta: chiunque ci fosse all’altro capo del filo
aveva appena alzato la cornetta.
Riconobbi subito quella voce nasale, sobbalzai
sentendola: ero senza parole, completamente basito. Maurizio se pure si accorse
della mia sorpresa non lo diede minimamente a vedere, ignorandomi bellamente e
parlando come se non fossi presente. Ad una piccola parte di me andava di
fargliela pagare per quell’ennesimo tiro mancino: era la stessa parte a
cui era stato negato il piacere del retrogusto dello scotch.
- Armando! Ciao, scusa l’ora. Disturbo?-
Domanda retorica. Per il fatto che era ovvio stesse
arrecando disturbo: e che diamine erano le due di notte! Non si chiama a casa
della gente a quell’ora, regola implicita della buona educazione.
Probabilmente era così che avrebbe voluto rispondere Nando, non lo fece però,
comportandosi da gran signore e preferendo mantenersi su un tono vago, quasi
neutrale. La voce era assonnata, segno che era stato anche svegliato, ma riuscì
a non risultare ostile come invece avrebbe dovuto essere:
- Maurizio? Cosa…? No, non disturbi-
Grandissima cazzata. Mi resi conto di star delirando
mentalmente, ma non ci feci caso più di tanto. Preferii ignorare il fatto di
star perdendo anche l’ultimo briciolo di lucidità e tornai a prestare
attenzione alla conversazione. Muzi aspettò giusto qualche secondo prima di
continuare, pimpante come non avrebbe dovuto essere a quell’ora. Gli
avrei anche consigliato di abbassare di qualche decibel la voce se non avessi avuto
una specie di nodo alla base della gola.
- Perfetto. E’ qualche giorno che non ci
sentiamo, eh? Mi dispiace, ma sai com’è siamo stati un po’ occupati
da queste parti… ed è proprio per questo che ti chiamavo-
Sentii chiaramente il sospiro all’altro capo del
telefono: quello di una persona che si aspettava una cosa ma allo stesso tempo
sperava con tutto se stesso non accadesse. Quello che chiese poi lo disse con
voce quasi divertita:
- Mi prendi in giro Maurizio? Già servo di nuovo?
Credevo di…-
Uno sbadiglio di Nando mi impedì di capire il resto
della frase, non era difficile da immaginare però. Anche Muzi la intuì e senza
attendere continuò per lui:
- Tu ci sottovaluti, giovane! Come puoi pensare che a noi non capiti niente di sconvolgente
in qualche giorno? Non dimenticare con chi stai parlando. E proprio per questo
un tuo aiuto ci potrebbe far comodo: sai com’è la solita
solfa…una bella valutazione
esterna e professionale!-
Sorrise nel dirlo e mi lanciò appena uno sguardo, per
poi tornare a darmi le spalle. Armando rise, di una risata nervosa e inquieta:
- Mi fai spaventare così Maurizio! Che siete speciali come persone lo avevo capito,
ma che in pochi giorni possa capitarvi qualcosa di tanto drastico da dover
ricorrere al mio parere mi sembra troppo!-
Maurizio annuì come a dargli ragione, poi però preso
un bel respiro, riprese il discorso:
- Vuoi un’idea in linee generali? Davide ed
Ilaria si sono incontrati in ufficio da me…-
- Cosa?!-
- Sì e ti lascio immaginare la scena, poi lui ha
organizzato una rimpatriata in pizzeria e lei ha accettato-
- Lei cosa?!-
- Armando se mi interrompi non arriviamo più! Alla
cena si è scoperta la relazione fra Andrea e Mirko ed è venuto fuori anche un
flirt tra Veronica e Ray, lo zio di Ilaria. E… ah, certo: Ilaria è venuta
con il suo nuovo ragazzo, Filippo, nostra vecchia conoscenza-
Si zittì un attimo, aspettandosi una qualche reazione,
poi si ricordò di averlo ripreso per essere intervenuto e dopo avermi guardato
un secondo tornò a fissare il muro di fronte a sé in silenzio. Non mi sarei
meravigliato se Armando avesse riattaccato senza nemmeno salutare: era più che
razionale fare così. Sentendo il rapido riassunto di Muzi mi ero fatto una vaga
idea di quanto fosse assurda la situazione “in linee generali” come
aveva detto lui. Era a dir poco irreale: da paragonarsi alle telenovele che
tanto odio.
Mentre mi scandalizzavo a quel pensiero, la voce di
Muzi tornò a rompere il silenzio:
- Nando? Ci sei ancora?-
- Sì… mi prendevi in giro, Maurizio?-
Il tono di voce era cambiato: si era fatto più sveglio
e vigile.
Mi fece sorridere la speranza che vibrava nelle sue
parole: si stava aggrappando alla possibilità che fosse tutto falso, Muzi però
non attese tanto prima di farlo ricredere brutalmente.
- No. Mi dispiace. Se non ti va di avere a che fare
con una marmaglia di gente… così…
ti capisco. Non sentirti obbligato in alcun modo. Cioè sarebbe davvero un gesto
coraggioso il tuo e io non…-
Nando parlò in quel momento interrompendolo: con tono
fra il biasimevole ed il divertito. Con una nota di incredulità ancora alta
nella voce:
- Da manicomio, ecco che tipo di gente siete. Da
ricovero! Ma ti rendi conto di cosa mi hai appena raccontato? Poteva
tranquillamente essere il riassunto della milionesima puntata di Beautiful! E
invece no: erano semplicemente gli ultimi due giorni della vita dei
D’Amico!-
Mi rigirai il bicchiere ormai vuoto in mano: era
finito all’incirca mentre Nando diceva che eravamo da ricovero. E non
potevo dargli torto: tanto che io credevo sicuramente peggio. Il ricovero non
bastava, fra non molto ci sarebbe voluta la camicia di forze…
A ripensarci ora quello che successe pochi attimi dopo
arrivò perfettamente in tempo per confermare i miei pensieri: la porta della
cucina venne sbattuta con violenza e Andrea irruppe in salotto, stravolto.
Guardandoci allibito, con una mano fra i capelli, e
l’altra a reggere il telefonino ancora vicino l’orecchio.
Non disse niente inizialmente, sadico, come a
prolungare quel momento di tensione. Perché c’era apprensione
nell’aria e tanta: non sapevo dire come mai ma era così. Avrei potuto
pensare ad uno scherzo di Andrea, anche se di cattivo gusto, sentivo però che
non era così e il fatto che sembrasse non riuscire a parlare riusciva solo a rafforzare
i miei timori. Feci per alzarmi ed avvicinarmi a lui, per scuoterlo o fare
qualsiasi cosa lo potesse risvegliato dalla trance in cui sembrava essere
caduto. Non ce ne fu bisogno però: le parole giunsero.
Forti, dure, atroci… al punto da farmi capire
che dovevano necessariamente essere vere.
Ancora oggi riesco a risentirle, come se proprio in
questo momento Andrea le stesse dicendo, con quel suo tono balbettante e
catatonico. Credo sia possibile solo perché mi colpirono come niente altro
avrebbe potuto fare.
- Mirko… Mirko ha appena saputo che… vuole
che lo raggiungiamo in ospedale! E’ per Ilaria!-
Certo nemmeno li
avevo mai davvero odiati, non fino a quel momento.
Mentre percorrevo
i corridoi asettici, scarsamente illuminati, pregni del tipico odore di
malattia e disinfettante, tutti le mie più brutali imprecazioni erano proprio
per l’edificio in sé. Non era un modo di comportarsi sensato.
Però ero
terribilmente in ansia: inquieto e agitato come non credevo sarei mai stato.
Avevo perciò
bisogno di una sottospecie di capro espiatorio: qualunque cosa mi permettesse
di non pensare neanche lontanamente alla persona da cui stavo correndo. Il
primo a subire le conseguenze della mia ricerca era stato il giovanotto di
guardia al cancello: mi aveva guardato per qualche minuto, tentennando
nell’atto di aprirmi il cancello. Immagino abbia poi intuito quanto
vicino a morte prematura si fosse trovato.
Mi resi conto di
essere arrivato nella zona del pronto soccorso solo a pochi passi dalla porta
scorrevole: la sorpassai velocemente e mi avvicinai al banco informazioni,
pronto a chiedere alla prima infermiera di passaggio. Dopo pochi attimi iniziai
però a fremere di impazienza e mi incamminai lungo un corridoio a caso:
sembravano tutti identici, lunghi, grigi e traboccanti di porte bianche.
Non avevo la più
pallida idea di dove mi dovessi dirigere: stavo per cedere ad un crollo nervoso
ma fui salvato all’ultimo momento da un frastuono improvviso. Prestai
maggiore attenzione, colpito da alcune delle voci che si sovrapponevano ed
accavallavano creando un’assordante cacofonia: iniziai a muovermi
lentamente verso quella baraonda e svoltato due volte a sinistra, in fondo
all’ennesimo corridoio grigio, li vidi tutti e tre.
Stringendo gli
occhi quasi mi misi a correre per raggiungere il gruppo assordante: se ne
stavano in cerchio, accalcati attorno ad un uomo in camice bianco, gridandogli
contro delle cose che non riuscii a capire subito.
Veronica e Mirko
erano i più arrabbiati: urlavano come degli ossessi e non sembravano
minimamente intenzionati a smettere. Ray invece, con una mano stretta in quella
della ragazza e l’altra poggiata sulla spalla del nipote, cercava
inutilmente di calmare i bollenti spiriti.
Si rese conto di
quanto l’impresa intrapresa fosse impossibile a realizzarsi quando anche
il camice bianco si lasciò andare in uno sfogo liberatorio, sbattendo il
fascicolo che reggeva su un bancone lì affianco.
Fu in quel momento
che Ray si voltò, accorgendosi del mio arrivo: lo vidi sospirare e rilassare le
spalle prima contratte per via della tensione. Mi rivolse un’occhiata
grata, incitandomi ad affrettarmi.
- E’
arrivato-
Era quasi surreale
il silenzio che calò improvvisamente: si girarono tutti verso di me,
lanciandomi fugaci sorrisi.
Veronica e Ray si
allontanarono di qualche passo, andando a sedersi sulle sedie poco distanti.
Mirko invece mi si avvicinò con aria minacciosa afferrandomi brutalmente
l’avambraccio e trascinandomi verso il dottore che sconcertato osservava
la scena. Non ebbi modo di oppormi né tantomeno ero intenzionato a tirarmi
indietro. Fissai l’uomo di fronte a me: non molto alto, a mala pena un
metro e sessanta forse, calvo e con due corti baffetti neri a colorare il viso
mortalmente pallido. Indossava un camice bianco troppo grande per lui: sembrava
quasi avesse sbagliato misura e ne indossasse uno di due taglie maggiore.
Quando mi vide
strinse gli occhietti neri, fissandomi diffidente. Io non feci niente per
tentare di piacergli: non sorrisi né gli rivolsi alcuna occhiata rassicurante.
Non ero nelle condizioni per pensare anche ad altri.
- Costringilo a
farci entrare-
Guardai Mirko con
la coda dell’occhio ma lui non se ne accorse: era furioso, con i
lineamenti del viso tesi e irati. Scrutava il medico con l’aria di uno
che non ci avrebbe pensato su due volte prima di saltargli alla gola: ricordava
me con la guardia all’entrata. Non era il modo migliore di comportarsi
però: uccidendo il dottore non credo avremmo risolto molto, così dopo essermi
liberato il braccio dalla sua presa, lo tirai alle mie spalle, costringendolo a
rimanersene fermo.
- Ilaria?-
L’uomo di
fronte a me fece per rispondere ma lo zittii con una mano: non era a lui che mi
stavo rivolgendo. Ray, seduto alle spalle dell’uomo, si passò una mano
sul viso prima di rispondere con voce atona:
- Il taxi ha avuto
un incidente: colpa di un motorino o qualcosa del genere. Ci ha chiamati la
polizia dicendo di venire all’ospedale e siamo qua già da più di
mezz’ora ma non sappiamo niente. Il dottor Misepoli qui insiste a non
voler parlare e si ostina a non volerci far entrare-
- Perché?-
Sollevai le
sopracciglia irritato, non ottenendo risposta e gli occhietti neri si
spalancarono dalla sorpresa:
- Oh, ce
l’ha con me! Senta: ho provato a spiegarlo anche ai suoi amici ma…-
- Non è vero!-
Voltai la testa lo
stretto necessario per guardare Mirko che furioso aveva ripreso ad urlare:
- L’unica
cosa che si è degnato di dirci è che non è grave! Ma che cazzo se è vero perché
non ce la fa vedere?! Non è grave! Non mi sta a significare niente se non la
vedo! E…-
Ormai mi ero
girato del tutto, dando le spalle al medico palla da biliardo e fronteggiando
un Mirko fuori di sé: gli posai le mani sulle spalle, stringendole con fare
rassicurante. Non sapevo cosa dirgli, come calmarlo: Ray mi aveva guardato con
aria sconfortata, spiegandomi silenziosamente che lui ci aveva già provato a
fargli dare una regolata ma non era servito a niente. In fondo non era un
comportamento assurdo il suo: era quello di un fratello spaventato a morte cui
non era stato permesso di vedere la sorella in ospedale e il medico sembrava
essersene reso conto. Non aveva ancora visto il peggio avrei voluto
dirgli… aspetti di vedere quello di chi è innamorato della sorella e poi
decida qual è il male peggiore.
La porta
dell’ascensore si aprì in quel momento e ne uscirono tre ragazzi. Fu
quasi incoscientemente che feci voltare Mirko spingendolo in direzione di
Andrea: ecco, avevo fatto qualcosa, se buttarlo nelle braccia di chi
sicuramente lo avrebbe saputo rassicurare meglio di me era classificabile in quanto
tale.
Subito dopo tornai
a rivolgermi al dottore che senza emettere alcun suono se ne stava immobile di
fronte a me:
- Mi ascolti bene:
deve farmi vedere immediatamente Ilaria. Non voglio sentirle dire altro, sono
stato chiaro?-
L’uomo annuì
stancamente prima di rispondermi a voce bassa, come se temesse di essere
sentito dagli altri e la sua più grande paura in quel momento fosse che a tutti
quei ragazzi venisse l’idea di malmenarlo.
- Come ho già
provato a spiegare al suo amico, non è che non voglia ma non posso! La
signorina è stata portata qui da poco, stiamo ancora facendo tutti gli
accertamenti e delle visite potrebbero solo…-
Scossi la testa a
quelle repliche: non mi interessava niente. Mi passai una mano fra i capelli,
scostandoli dalla fronte con un gesto irritato: forse non mi ero spiegato bene.
Feci qualche passo in direzione dell’uomo:
- Dottor…
Misepoli. Credevo di essermi spiegato-
Lui arretrò
istintivamente e un ghigno mi increspò le labbra: non pensavo di poter fare
tanta paura.
Abbassai
anch’io la voce ma nonostante ciò sembrò rimbombare nel corridoio: gli
unici altri rumori erano solo bisbigli, frasi sussurrate dagli altri che il
dottore sapeva benissimo non erano dalla sua parte.
- Deve farmi
vedere Ilaria-
Lo avevo detto
lentamente, calcando su ogni parola, così da assicurarmi che gli giungessero
chiare.
Lui mi fissò in
viso ancora per un minuto, come studiando la situazione, poi sospirò affranto e
sconfitto:
- Va bene. Ma solo
lei. Non accetterò certo tutti quanti siete! E deve promettermi che non rimarrà
molto: l’accompagno io ora ma giusto cinque minuti poi deve andarsene-
Gli feci cenno con
la testa di incamminarsi. Non promisi niente e se anche Misepoli se ne accorse,
non si azzardò a tornare sull’argomento: nulla mi avrebbe convinto ad
andarmene, solo Ilaria avrebbe potuto persuadermi a lasciarla sola ma anche su
quello non avrei messo la mano sul fuoco.
Seguii il lungo
camice bianco senza guardare gli altri: era come se avessi paura di vedere le
loro espressioni preoccupate, a quel punto infatti non sarei più stato sicuro
di riuscire a mantenere il controllo sulle mie emozioni. Se fino a quel momento
in qualche modo ero riuscito a canalizzare la paura, non sapevo per quanto
ancora vi sarei riuscito.
E se il dottore
avesse mentito? Se in realtà fosse stato qualcosa di grave?
Un trauma cranico
o cose simili…
No, non potevo
nemmeno pensarci! Stavo seriamente rischiando un esaurimento nervoso…
Misepoli dovette
accorgersene perché mentre percorrevamo corridoi ai miei occhi completamente
indefiniti, parlò, con voce calma che doveva essere rassicurante.
- Davvero non è
grave, non si preoccupi tanto. Dai primi accertamenti abbiamo riscontrato un
paio di costole incrinate ed una frattura al polso, per il resto solo
contusioni lievi-
Strinsi gli occhi
mentre parlava: e per lui due costole incrinate e un polso fratturato non erano
niente?!
- Non sono cose di
cui si può morire, signor D’Amico-
Ignorai il fatto
che conoscesse il mio nome, così come che gli avrei volentieri assestato un bel
destro in faccia.
- E non c’è
nessuna possibilità di traumi o…-
Non conclusi la
domanda e probabilmente il dottore ne fu contento, perché quando mi lanciai di
corsa verso il letto in cui stava Ilaria non disse nulla, limitandosi a
seguirmi lentamente.
Non si era accorta
di me: concentrata sull’infermiere che delicatamente le puliva un taglio
sulla fronte, distraendola con chiacchiere di cui ben presto si sarebbero
dimenticati entrambi. Lanciai di sfuggita uno sguardo al giovane in camice
celeste, poi tornai a concentrarmi unicamente su di lei.
Era pallida,
spaventata. Teneva il braccio destro immobile, fasciato dal polso fino a metà
avambraccio, posato delicatamente sul lenzuolo sotto di lei: si sotto, era
semisdraiata sul letto ma a quanto pareva non aveva voluto mettersi sotto le
coperte… sorrisi fra me e me, rallentando il passo: alla fine ci si era
ritrovata in ospedale e comunque aveva mantenuto la parola.
“Ti giuro,
se pure un giorno ci dovessi finire, non accetterò mai di indossare quegli
orrendi camici né di farmi trattare come un malato terminale o paralitico
quando non lo sono!”
Lei sì che odiava
gli ospedali.
Non sopportava
niente di quegli ambienti impregnati di dolore. Non le piaceva l’odore né
l’aria mesta e pesante che vi si respirava. Ma più di tutto non le
piacevano le cure e io sapevo il perché.
- Lari…-
Fissò lo sguardo
nel mio, sorpresa: spalancando ancor di più gli occhi già dilatati. Ero ormai a
meno di un passo da lei e quasi crollai sul pavimento, trovando invece nel
letto un aiuto inaspettato: mi ci aggrappai con tutte le mie forze, resistendo
all’impulso di fiondarmi ad abbracciarla, semplicemente per la paura di
farle male.
- Davide, cosa ci
fai qui? Stai bene?-
Mi salì in gola
una risatina nervosa, quasi incredula: lei si preoccupava della mia
salute?
Stavamo
decisamente sconfinando nel paradossale.
Non mi diedi la
pena di risponderle, continuando a studiare ansioso quel viso di cui non avrei
saputo fare a meno: c’era tensione, molta, e sperai non stesse soffrendo
troppo perché non credo avrei saputo sopportarlo.
Le labbra le
tremavano leggermente e aveva un piccolo taglio sul labbro inferiore da cui
usciva una minuscola goccia di sangue. La fissai per un po’ e poi tornai
a cercare i suoi occhi, trovandoli umidi e sofferenti: sentii una stretta al
cuore mentre capivo di non poter semplicemente rimanere lì in piedi. Non ne
sarei stato capace.
- Non sai cosa mi
hai fatto passare, piccola-
Lei sorrise, poco,
inarcando giusto un attimo le labbra e scuotendo la testa:
- Non dovevi preoccuparti…
e nemmeno correre qui! Chi ti ha chiamato?-
- Mirko. Ha
chiamato Andrea e ha fatto bene: credo che se avesse chiamato me, avrei
rischiato di avere un infarto-
Parlando avevo
lanciato una veloce occhiata in giro per la stanza: era grande, con sei letti,
immersa nella penombra. L’infermiere di poco prima sembrava scomparso e
il dottor Misepoli era occupato con l’unico altro paziente nella camera:
nel letto più lontano, un anziano signore con il viso completamente ricoperto
da capelli e barba bianchi. Felice di quella relativa tranquillità mi sporsi
vicino al letto vicino, tirando con me una sedia pieghevole: la posizionai
accanto a Lari, in modo da poterle stare vicinissimo.
- Non farmi più
una cosa del genere-
Lo avevo solo
sussurrato, portandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio e
guardandola negli occhi.
Non era una frase
sensata: lei non lo aveva mica fatto apposta eppure capì il senso delle mie
parole, sorridendomi, questa volta per davvero. Ricambiai il sorriso, contento
che un po’ di colore tornasse sul suo viso e quando notai che la
gocciolina di sangue si era ingrandita sul suo labbro, avvicinai il mio viso al
suo involontariamente. Stavo pensando a quante volte avevo passato la mia
lingua sulle sue labbra e a come in quel momento stessi morendo dalla voglia di
farlo ancora: in fondo la saliva ha poteri lenitivi, no?
Non potevo farlo
però e mi fermai giusto in tempo, grazie ad un controllo ed una forza di
volontà che non sapevo di possedere: semplicemente allungai piano il pollice,
passandolo gentilmente sul suo labbro e togliendone il sangue con più
delicatezza possibile.
La sentii
rabbrividire a quel contatto e sorrisi ancora, divertito, illudendomi che il
freddo non c’entrasse niente.
- Com’è
allora stare in ospedale?-
Lari sbuffò, guardandomi
di traverso: non avrebbe risposto e lo sapevo, non ne ebbe però lo stesso il
tempo.
Il dottor Misepoli
in quel momento si avvicinò a noi, guardandoci con un’espressione
indecifrabile, poi si rivolse a Ilaria senza chiedermi di andarmene, cosa di cui
gli fui infinitamente grato.
Che si fosse reso
conto che non sarebbe comunque servito a niente?
- Come si sente?-
Lari annuì
impercettibilmente prima di rispondere:
- Bene!-
Forse vide la mia
espressione irritata con la coda dell’occhio, perché dopo qualche secondo
di silenzio continuò, con voce più bassa, quasi indecisa:
- Solo il braccio:
è che… il polso…-
Misepoli annuì con
aria greve, spiegando poi per tranquillizzarla:
- E’
normale: essendo solo fasciato anche il più piccolo dei movimenti è doloroso ma
fino a domattina non possiamo ingessarlo. Cosa sente di preciso? Per capire se
c’è bisogno di intervenire già in qualche modo-
Lari guardò prima
me, come se si vergognasse di star soffrendo e doverlo dire apertamente, allora
io mossi la mano verso la sua, fermandola a pochi millimetri così che sentisse
il mio appoggio. Lei prese un bel respiro e fingendo che non ci fossi parlò al
dottore:
- Prima era
peggio: come se un tir ci fosse passato sopra spappolando tutte le ossa, ora
invece è un dolore sordo, forte, pulsante… e come ha detto lei, al più
piccolo movimento sento una fitta enorme che attraversa tutto il braccio, fino
alla spalla-
Fu una fortuna che
Lari non mi guardasse più: non ebbi bisogno di celare le mie reazioni.
Per prima cosa,
sentendo quanto stesse soffrendo sbarrai gli occhi, preso completamente alla
sprovvista, poi cominciai a fissare Misepoli, lanciandogli occhiate di fuoco:
come se fosse possibile dare a lui la colpa di tutto.
Perché non
potevano ingessarglielo ora? E che diavolo almeno facessero qualcosa perché non
stesse tanto male!
Il dottore o non
si accorse della mia rabbia immotivata o non diede minimamente a vederlo. Dopo
qualche attimo di riflessione si decise, dicendo con voce sicura:
- Sa che le dico?
Una bella dose di antidolorifico non potrà farle che bene-
Mi rilassai un
poco sentendoglielo dire, almeno si era convinto ad intervenire! Guardai Lari,
credendo di vedere anche lei sollevata ma mi sbagliavo: notai nei suoi occhi un
lampo di paura che non riuscii a spiegarmi.
Cosa?
- D.!-
Non ero nemmeno
sicuro che lo avesse detto: forse lo avevo solo letto nel movimento delle sue
labbra, la cosa importante era però che mi aveva chiamato e qualcosa la stava
spaventando. Stavo per entrare in crisi, non capendo il perché della sua
reazione quando mi accorsi dei movimenti del dottore: si rigirava fra le mani
una siringa, guardandone la capienza nel raggio di luce di una lampada.
Sgranai gli occhi,
avvicinandomi di scatto a Lari il più possibile e prendendole la mano sinistra
nella mia: la strinsi il più possibile, cercando di passare un po’ di
calore e conforto. Lei però continuava a non guardarmi.
Come avevo fatto a
non pensarci?
Il terrore degli
aghi era una delle poche fobie della mia piccola.
Erano uno dei
motivi per cui odiava tanto gli ospedali: sapeva che era una paura infondata,
se ne rendeva perfettamente conto e per questo non lo raccontava quasi a
nessuno eppure non appena ne vedeva uno andava in tilt.
C’era stato
un periodo, in cui Andrea era venuto a conoscenza di questa paura, che non
dimenticherò mai: ogni volta che gliene capitava l’occasione, con Ilaria
presente, Andrea si divertiva ad infilarsi un ago sotto la pelle del
pollice. Era indolore ed al tempo stesso raccapricciante. Ilaria tentava sempre
di non guardarlo ma lui tanto faceva che alla fine mi ritrovavo sempre ad
entrare in una stanza con lui piegato in due dalle risate e lei pallida e
spaurita. La situazione stava degenerando e mi ero deciso ad intervenire
drasticamente quando non ce ne fu più bisogno: Andrea smise improvvisamente,
non seppi come mai, cosa Ilaria avesse fatto. E non riuscii nemmeno a farmelo
dire: forse lei aveva scoperto una qualche paura di lui o chissà cosa gli aveva
fatto, l’unica cosa certa fu che non vidi più Andrea con un ago in mano
se c’era Lari al suo fianco.
Mossi il pollice
su e giù per il suo palmo ma non riuscii ad attirare la sua attenzione: quando
sentii un piccolo brivido attraversarle il corpo capii che era necessario
distrarla.
- Ehy, ehy!
Piccola! Guarda me! Su, guarda me…-
Se avevo iniziato
con voce squillante e imperiosa, verso la fine mi ero ritrovato a bisbigliarlo
quasi al suo orecchio, con tono dolce e pregante. Il dottore dovette intuire
qualcosa perché mentre riempiva la siringa si girò, dandoci le spalle. Lari a
quel punto riuscì a guardarmi e io le regalai un sorriso enorme, prima di
cominciare a parlare con voce calma e rilassante:
- Vuoi sapere
l’ultima novità?-
Lei non sembrava
davvero interessata, eppure annuì, capendo le mie intenzioni:
- Sai niente di
una nuova coppia fra le nostre schiere?-
Lari sollevò le
sopracciglia con fare interrogativo e io sorrisi, felice di star riuscendo ad
attirare la sua attenzione. Lei poi si accigliò bruscamente, forse
fraintendendomi e con voce solo un po’ tremante rispose:
- Davide scherzi?
C’ero anch’io con te quando abbiamo visto Mirko e Andrea, lo sai?-
Ridacchiai
sommessamente a quella sua uscita: che credeva che lo shock era stato tale da
farmi dimenticare che li avevamo scoperti assieme? Scossi piano la testa,
riprendendo subito il discorso non appena mi accorsi che Misepoli le stava
sfregando il braccio con dell’alcool: anche lei se ne era accorta e
sentii la sua mano stringere più forte la mia, cercando di trarne coraggio.
- Non parlo di
loro. Nemmeno io me ne ero reso conto: è stato Maurizio a lasciarselo sfuggire.
Lo vuoi sapere?-
- Certo che sì-
Era confusa, ma
non era questo che mi importava: ora l’unica cosa fondamentale era che
fosse concentrata sulle mie parole al punto da non pensare più all’ago della
siringa che le stava per entrare nel braccio.
- Scommetto che
nemmeno tu lo avevi notato…-
Si innervosì a
quel punto, conficcandomi di proposito le unghie nel palmo, io però non ci feci
caso e aspettai ancora qualche secondo prima di riprendere il discorso:
- Veronica e tuo
zio-
Era stata una
carognata: avevo calcato appositamente sull’appellativo zio invece di
chiamarlo semplicemente Ray, fui felice perciò di vedere subito dopo il viso di
Ilaria scomporsi per la sorpresa.
Non pensava più
all’ago, ne ero sicuro.
Vidi di sfuggita
anche il dottore sorridere, divertito da quel mio giochetto. Ilaria continuò a
fissarmi per un po’ cercando di capire se stessi scherzando e non
trovando nel mio viso alcun accenno di bluff poi sbiancò di colpo.
Mi avvicinai, non
aspettandomi quella reazione e lei in risposta cercò di allentare la presa
sulla mia mano, io non glielo permisi: almeno non finché Misepoli non avesse
finito con quella dannata siringa.
- Mi prendi in
giro? Non è possibile!-
Tornai a respirare
normalmente mentre lei si accalorava per l’indignazione e proseguiva
infervorata:
- Hanno più di
dieci anni di differenza!-
- Non conta
l’età quando c’è l’amore, Lari-
Lei mi rivolse uno
sguardo sprezzante per quella frase da Bacio perugina e ribattè:
- E secondo te il
loro è amore?! Ma per cortesia! Io non…-
A bloccarla fu la
voce del dottore: togliendosi il guanto di lattice con uno schiocco deciso
annunciò sorridente:
- Ecco fatto!-
Lari spostò lo
sguardo su di lui, meravigliata:
- Di già?-
Misepoli annuì, per
poi continuare con tono professionale, di chi ha già detto le stesse cose tante
volte:
- Con questa dose
dovrebbe alleviarsi il dolore. L’effetto comincerà a sentirsi fra al
massimo venti minuti. Per il resto cerchi di tenere il polso fermo, anche ora,
nel caso si addormenti ci sarebbe bisogno di…-
Guardò me, quasi
aspettandosi una conferma per quello che avrebbe proposto:
- E se lo
legassimo con la fasciatura stessa al…-
Lo interruppi
prima che avesse modo di concludere: non mi piaceva come idea e poi non ce
n’era bisogno.
- Non serve-
Dissi solo quello,
alzandomi e accennando a sedermi affianco ad Ilaria.
Sia lei che il
dottore mi rivolsero un’occhiata sconvolta: fu lei a prendere la parola,
bisbigliando seria.
- Cosa credi di
fare?-
In risposta la spostai
delicatamente più a destra, prendendo agilmente posto accanto a lei e
sdraiandomi con un sospiro soddisfatto. Le passai un braccio dietro la schiena
e con estrema attenzione sollevai il suo braccio destro poggiandolo piano sul
mio petto.
- Così siamo più
sicuri: sto attento io, non si preoccupi dottore-
Misepoli era senza
parole ed Ilaria mi fissava sconcertata: ero sicuro che se fosse stata una
qualunque altra situazione mi avrebbe già buttato a calci giù dal letto. Non
era così adesso però.
- Fingerò di non
aver visto niente-
Lanciai
un’ultima occhiata al dottore che, ridendo sommessamente e passandosi una
mano sulla pelata si stava allontanando velocemente, poi tornai a concentrarmi
su Lari vicino a me:
- Ti do fastidio?-
Lo avevo chiesto per
cortesia, non accettando di ammettere nemmeno con me stesso che una risposta
affermativa mi avrebbe distrutto: io non ero mai stato meglio.
Lari però non
rispose, limitandosi ad avvicinarsi di qualche millimetro e poggiare la testa
sulla mia spalla.
Avevo una voglia
incredibile di fare cose come abbracciarla, o accarezzarle i capelli, ma sapevo
di non essere nella condizione adatta a fare nessuna di quelle.
- D.?-
Tornai subito
sull’attenti sentendomi chiamare e feci per dire qualcosa ma lei fu più
veloce di me:
- Parleresti
ancora un po’ con me mentre non fa effetto la medicina?-
Lo aveva chiesto
con una voce talmente dolce che temevo mi si sarebbe sciolto il cuore.
Strinsi il braccio
attorno a lei e senza aspettare un momento di più ripresi a chiacchierare,
incurante del fatto che ci trovassimo in ospedale, alle tre di mattina e che un
anziano signore, dall’altro lato della stanza, ci osservasse in silenzio
con un sorriso malinconico dipinto sul volto.
*
Non
credo di aver mai scritto un capitolo tanto lungo =)
Ringrazio
subito tutti quelli che sono riusciti a leggere tutto, fino a qui, senza
addormentarsi sulla tastiera o chiudere la pagina con un gesto isterico e
orripilato ^^
Forse
fa schifo, devo dirvi però che mi sono divertita a scriverlo **
Naturalmente
attendo con ansia commenti vari, sperando che ce ne saranno: ci tengo a sapere
se la storia inizia ad essere pesante e noiosa.
Nel
caso cercherò di chiuderla al più presto così da smettere di infastidirvi
inutilmente ^^
L’uomo
dall’altro lato del bancone emise un solo verso: breve, duro, qualcosa di
molto simile ad un grugnito.
Alzai gli occhi, non capendo
se potessi o meno considerarlo come un assenso.
Era un barista: non gli era permesso
rifiutare qualcosa ai clienti, anche nel caso in cui ciò che vogliono è il
quinto bicchierino. Non erano affari suoi e se mi andava di bere doveva solo
rallegrarsene, in fondo dopo lo avrei pagato.
La verità era che cercavo
una qualche scusa, perché mi vergognavo dello stato distrutto in cui mi
ritrovavo: mezzo accasciato su un lucido bancone di un meno lucido bar.
“Il brillo
parlante”
Mi avevano sempre parlato
bene di quel posto, degli aperitivi eccezionali e dell’atmosfera quasi
fiabesca che vi regnava: tutto esatto. Ricordo perfettamente
l’impressione che avevo avuto entrando in quella minuscola taverna:
guardando le stanze piccole, i corridoi stretti, le pareti e ogni arredamento
di colori caldi e spenti… sembrava di essere entrati in un film, uno di
quelli vecchi.
E mi era piaciuto. Molto.
Così avevo preso posto al
bancone, naturalmente mal intenzionato: il barista lo aveva intuito subito, dal
primo sguardo che mi aveva lanciato eppure solo ora che avevo raggiunto la non
tanto onorevole cifra dei cinque bicchierini, mi aveva rifilato
un’occhiata biasimevole e indecisa.
Ricambiai il suo sguardo
indagatore, fissando i miei occhi alquanto vacui nei suoi: neri, piccoli,
scavati e quasi completamente nascosti nelle folte sopracciglia nere. Aveva la fronte
increspata da tante piccole rughe e quando parlò lo fece a voce bassa, con il
tono di un padre che discute con il figlio ribelle e non ha voglia di sgridarlo
per davvero ma solo di farlo ragionare:
- Sicuro di poterlo reggere,
ragazzo?-
- No, non ce la fa. Grazie
lo stesso-
Ebbi qualche attimo di
sbigottimento e confusione mentre realizzavo che c’era stata una risposta
alla domanda del barista e che non era uscita da me: no, ne ero abbastanza
sicuro, non ero stato io a parlare, anche perché lo avevo fatto in terza
persona…
Mi presi la fronte fra le
mani cercando di calmare il battere ritmico delle arterie e fu in quel momento
che mi sentii tirare di peso giù dallo sgabello. Rischiai seriamente di perdere
l’equilibrio e già mi vedevo per terra quando qualcuno afferrò saldamente
il mio braccio, mantenendomi in piedi.
Mi poggiai a quel punto di
equilibrio appena trovato senza remore e solo nell’attimo in cui il
locale smise di vorticare furiosamente attorno a me, mi voltai cercando di
capire con chi avessi a che fare: mi bastò vedere i suoi occhiali a fondo di
bottiglia per riconoscerlo.
- Non credevo fossi tanto
forte, Nando-
- E io credevo sopportassi
meglio l’alcool, Maurizio-
Alzai appena le spalle in
risposta, non opponendo alcuna resistenza mentre mi trascinava di peso verso il
fondo del locale: raggiungemmo un tavolino appartato, in una zona quasi
completamente vuota di cui l’unico altro occupante era un uomo sui
quaranta completamente ubriaco, in quella che ricordava una catalessi da sbronza.
Armando mi spinse sul
divanetto sistemato contro il muro e poi prese posto su una delle sedie
disposte attorno al tavolino di legno. Io mi accasciai sul divano, sedendomi
scompostamente e reclinando la testa all’indietro, sperando che così
almeno diminuisse il senso di nausea.
- Che mi racconti?-
Non lo guardai,
completamente indifferente. Stavo per subire un crollo nervoso e lui
chiacchierava del più e del meno? Ma che stava succedendo al mondo?!
Qualcuno si era divertito a
scuoterlo come fosse una palla di vetro?
- Maurizio-
Mi resi conto solo in quel
momento che mi stava chiamando già da un po’, cercando di attirare la mia
attenzione per dire qualcosa, così emisi una sottospecie di mugolio per fargli
capire che per quel che poteva valere, lo stavo ascoltando.
- Perché non parliamo un
po’?-
Probabilmente si accorse del
movimento che ebbero le mie sopracciglia, inarcandosi repentinamente verso
l’alto: ma di che credeva potessimo parlare?
Un bel discorsetto sulla
crisi industriale o sul problema Gelmini?
- Parlare aiuta sempre,
Maurizio. Ti va di raccontarmi la tua giornata?-
Scossi impercettibilmente la
testa: non mi andava e non ce n’era bisogno. No e basta.
- Se non ti va di farlo a
parole, ripensaci almeno. Riflettici sopra-
A che pro?
Non credo che una seduta
spiritica o un’oretta di meditazione mi avrebbe risolto tutti i problemi.
- E’ iniziata bene,
vero?-
Non si era arreso.
Nando non si dava per vinto:
era il suo lavoro.
- Non voglio che mi
psicanalizzi, Nando. Non sono in vena, perdonami-
- Non era mia intenzione-
Bugia.
Se ne sarebbe potuto
accorgere anche l’ubriaco mezzo morto che stava mentendo.
Lo capì anche Armando.
- Vi ho preso a cuore,
Maurizio. Mi siete simpatici, e molto. Quasi mi sto affezionando e la cosa devo
dirti che mi spaventa: non ho mai avuto tanti amici, per lo più i rapporti che
ho al momento sono con i miei clienti. Voi però siete diversi: poco ci manca
che mi debba mettere in ginocchio per aiutarvi. Ti ripeto che aiuta riflettere,
fallo e basta-
Aveva improvvisato ma aveva
raggiunto il suo scopo.
Era bastato un tono di voce
deciso ed al tempo stesso apprensivo per convincermi.
Rimandai il pensiero al
mattino, intorno alle otto, quando io e Nando avevamo ottenuto dal dottor
Misepoli il permesso di vedere Ilaria.
Non ci credevamo.
Non poteva essere reale
come scena: troppo bella, troppo dolce, troppo tutto.
Troppo per essere vera.
Lo era però.
Ci avvicinammo
lentamente, prendendo silenziosamente posto accanto al letto in cui erano
sdraiati Davide ed Ilaria. Insieme.
Se ne stavano lì,
abbracciati, stretti l’uno all’altra.
Placidamente addormentati.
Sereni, pacifici,
rilassati… quasi sorridevano nel sonno.
Mi sorpresi ad esserne
contento, davvero, davvero tanto: perché quell’ immagine mi piaceva;
adoravo le sensazioni che trasmetteva, il senso di pace, il sentore di un lieto
fine… era eccezionale.
Ma ancora una volta
troppo e avrei dovuto capirlo subito.
Fu mentre pensavo a
quelle cose, mentre mi beavo in quelle nuove emozioni, che Davide aprì gli
occhi: li fissò subito nei miei, spaventato. Non si aspettava di vedermi.
La prima cosa che fece fu
assicurarsi che Ilaria fosse ancora fra le sue braccia: controllò che stesse
bene, che il polso non si fosse gonfiato, che dormisse tranquilla, per poi
stringerla di più, con un fare possessivo che non mi piacque per niente.
No, non andava bene.
- Buongiorno-
Mi girai verso Armando
contemporaneamente a Davide: non si era ancora accorto che ci fosse anche lui.
Lo guardò prima sorpreso, poi sollevato: era felice di vederlo. Parlò a bassa
voce, nel timore di svegliare Ilaria:
- Nando! Che piacere
vederti! Che fa, ti sei riunito al nostro girone dell’inferno?-
- Sai com’è mi
piace soffrire-
Nando aveva risposto
sorridendo, assecondando Davide nel suo fare scherzoso: era allegro, da quanto
tempo non lo era?
Da quanto tempo non si
svegliava così di buon umore, al punto da scherzare di primo mattino?!
Loro chiacchierarono
ancora per un po’, poi Davide, si mosse, sbadigliando.
Piano, cercò di scostare
Ilaria: con un’ attenzione quasi eccessiva liberò il suo braccio da sotto
la schiena di lei e riuscì ad alzarsi, senza svegliarla.
- Vado a rinfrescarmi un
attimo: ci metto pochissimo. Prendo anche qualche caffè, per Lari… voi
non muovetevi, non allontanatevi, non perdetela un solo attimo di vista. Finché
non torno!-
Annuii fra me e me,
pianissimo, cercando di non dare alcun motivo al mal di testa per risvegliarsi.
Armando era rimasto in
silenzio, non aveva detto una sola parola.
Mi aveva lasciato
riflettere.
- Sì, l’inizio è stato
buono. Erano bellissimi assieme. E Davide era felice-
Nando continuava a stare
zitto, al punto che iniziò a sfiorarmi la mente l’ipotesi che non fosse
più lì con me, che se ne fosse andato o che, peggio ancora, mi fossi sognato
tutto e lui non fosse mai entrato al “Brillo parlante” per salvare
me.
- Continua-
Era stato solo un sussurro:
brevissimo e soffocato. C’era stato però. Nando c’era.
- Il resto lo sai, è
leggermente incasinato…-
Mi girava la testa e non era
solo colpa dell’alcool.
Mi lasciai andare
all’indietro, scivolando piano, fino a trovarmi disteso sul divano.
- Cerca di individuare solo
i punti più salienti, le scene che ti hanno colpito, quelle che…-
Avevo capito.
Ilaria si era mossa, segno
che stava per svegliarsi.
Davide era uscito da
pochissimi istanti, tanto che ebbi l’impulso di alzarmi e correre a
fermarlo.
Non lo feci, non ce
n’era bisogno.
Ma ancor più ad essere
sinceri non ne ebbi modo.
La porta si spalancò
all’improvviso, lasciando entrare un ragazzo che, con mio sommo
dispiacere, non era quello uscito poco prima.
Lanciai velocemente uno
sguardo ad Armando, leggendo sul suo viso la mia stessa espressione basita: ma
per favore, scene del genere non succedevano nella realtà! O no?
Poi tornai a guardare il
giovane che affannato correva verso di noi. Sembrava sconvolto, notai con
fastidio: non mi serviva qualcun altro sull’orlo di un esaurimento, ce ne
erano già troppi.
- Ilaria!-
Le si era fiondato
addosso, guardandola come se fosse la prima volta e temesse potesse essere
l’ultima.
Lei lo fissava sorpresa,
ancora scombussolata dato che si era appena svegliata.
Lui notò subito la
fasciatura e sedendosi sul letto affianco a lei, prestò la massima cura a non
spostarla minimamente. Non chiese niente, continuava semplicemente a guardarla.
Avvertii un movimento
alle mie spalle e vidi un camice bianco: riconobbi subito Misepoli per via
della luce che si rifletteva sulla sua pelata. E fu vedendolo allontanarsi che
capii come mai Filippo non stesse chiedendo niente: doveva essere stato appena
informato dal medico in persona.
Ricominciai ad
osservarli, immobile e pietrificato come lo era Armando al mio fianco.
Sembrava che il tempo si
fosse fermato e la scena bloccata di colpo.
Almeno finché non cambiò
qualcosa: un particolare infinitesimale, che notammo tutti.
Le guance di Ilaria
presero pian piano colore, arrivando a diventare rossissime, e la mano sinistra
di lei si mosse di qualche millimetro verso quella di Filippo.
Lui sorrise. Subito. Non
appena si era accorto che lei era arrossita.
Un sorriso enorme, che
gli andava da un orecchio all’altro, illuminandogli tutto il viso.
- Mi hai fatto prendere
uno spavento enorme. Ho temuto che il cuore non sarebbe più ripartito-
- Vi spaventate troppo
alla svelta, voi altri-
Ilaria si accorse quasi
subito di quello che aveva sottinteso, fece per dire qualcosa come a scusarsi
ma Filippo fu più veloce. O non aveva capito cosa a lei alludesse o aveva fatto
finta di niente.
- Ti ho già salvato una
volta e ora mi fai questo? Ma allora vedi che non devo più lasciarti un attimo
da sola? Che credevi di farmi?-
- Vorresti dire che ti
sarei mancata?-
Ilaria sorrise, divertita
da quel giochetto e contenta del fatto che l’atmosfera si stesse pian
piano alleggerendo.
Non ci aveva notati: né
Armando né me.
E la cosa non mi
dispiaceva, anzi: speravo andasse avanti così.
Non osavo immaginare
l’imbarazzo che altrimenti sarebbe sceso su di noi.
- Certo che si! Non avrei
saputo cosa fare senza di te!-
- Oh, ma a chi vuoi
prendere in giro? Molcovich, tu…-
Non concluse, fermata da
lui.
O meglio dalle labbra di
lui.
Non era più riuscito a
trattenersi. Aveva aspettato anche troppo.
Si era sporto verso di
lei, fulmineo.
Sempre attento a non
farle alcun male, vi si era piegato sopra, zittendola.
Ed era partito il bacio:
prima dolce, come un saluto timido, di due persone che hanno sentito la
mancanza l’una dell’altra ma ancora non se ne sono accorte e poi
via via più appassionato, mentre capivano che era
giusto così, quasi irruento tanta la foga.
Cercai di distogliere lo
sguardo, senza alcun risultato: non riuscivo a smettere di osservarli.
Armando naturalmente
intervenne provvidenziale, girando la mia testa e impedendomi così di guardare
ancora quel bacio che non mi riguardava.
Ingenuamente pensavo
fosse il suo unico intento: mi sbagliavo e lo capii vedendo cosa mi indicava.
Non lo vedevo in viso
Armando: riuscivo a scorgerne soltanto i piedi sotto il tavolo.
Erano fermi, immobili.
Nessun segno di ansia o nervosismo.
Fui tentato di mettermi a
sedere per capire se si fosse addormentato ascoltando le mie riflessioni
sporadiche e noiose sull’accaduto di quella mattina. Non lo feci.
Perché se anche non fosse
stato sveglio avrei voluto continuare, ormai convinto che ancora una volta
aveva ragione: riflettere serviva.
E perché non ero sicuro che
alzandomi sarei rimasto cosciente a lungo.
Così chiusi gli occhi,
piegando un braccio dietro la testa ed allungando l’altro vicino al corpo.
Presi un bel respiro,
facendo come quando si fa yoga e sorrisi per l’ironia della situazione.
Ero un brillo parlante.
Un brillo parlante che
faceva yoga.
Sorrisi ancora.
Ne andavo fiero.
Davide stava aprendo la
porta di spalle.
Entrando non guardò verso
di noi: camminava a marcia indietro, tenendo in mano un cartone con diversi
contenitori di caffè.
Allungai il collo sopra
la spalla di Armando cercando di capire con chi stesse confabulando e poi lo
vidi: un ragazzino che gli arrivava a mala pena alla spalla. Camminava dietro
di lui, tenendolo cioè di fronte, guardandolo in faccia con aria arrabbiata e
scocciata.
Era magro, con un aspetto
leggermente sciupato, forse però era solo il pallore a non donargli: non si
intonava con il suo essere, diciamo così. Aveva proprio la faccia da malfattore
eppure non poteva avere più di sedici anni: probabilmente andava ancora al
liceo.
Un viso piccolo e
rotondo: ricoperto di piccole e chiare lentiggini sulle guance, due occhi
grigi, profondi e capelli neri, acconciati in una cresta corta, non troppo alta
e senza una quantità spropositata di gel. Una ruga gli increspava la fronte in
quel momento, proprio sopra il naso.
- Perché no!? Voglio solo
vedere un attimo la ragazza!-
- Ho detto no!-
Il ragazzino non si
arrese. Alzando invece la voce infilò il piede nella fessura della porta,
riuscendo così ad impedire che Davide la chiudesse con un calcio.
- Perché no!?-
Davide sospirò,
continuando a fissarlo: si stava innervosendo, anche se per qualche strana
ragione quel ragazzino sembrava essergli simpatico.
- Sai quella canzone:
quella che fa “Perché no? Perché no!” Ecco è esattamente così:
perché no!-
- Ma ci metto un attimo,
porca…-
- Non essere scurrile per
favore. Ho detto no-
Davide lo aveva
interrotto ancora, usando il tono saccente che si riservava solo per chi
veramente lo meritava. Il ragazzo però era perseverante:
- Ma…-
- Non voglio veda
nessuno. Va’ via-
Il ragazzino sgranò gli
occhi, riprendendo più concitatamente di prima:
- E il biondino allora?!
Lui perché può starsene lì e…-
Ma Davide non lo
ascoltava più.
Non lo guardava più.
Non tentava neanche
più di chiudere la porta.
Si era girato di scatto
sentendo “biondino” e si era scontrato con lo sguardo di Filippo.
Erano una furia.
Mi veniva quasi da ridere al
ricordo: sembrava volessero uccidersi con soltanto lo sguardo.
Arrabbiati neri, entrambi, e
senza nessuna vera motivazione.
Un altro po’ e
sarebbero arrivati ad eguagliare la furia omicida che Mirko aveva ostentato ore
prima: ci erano voluti gli sforzi combinati di diverse persone, ed in
particolare del suo ragazzo, per convincerlo che se c’era Davide doveva
per forza andare tutto alla perfezione.
Su di lui quindi almeno un
qualche effetto lo avevano avuto.
Lanciai un’altra
occhiata alle scarpe di Nando e notai con piacere che si erano spostate di
qualche centimetro: non era morto dalla noia, almeno. Non ancora.
Ho sempre trovato difficile
riuscire a tener sveglie le persone… sarà che sono tedioso.
- Che ci fai qui?-
- Sono venuto a vedere
come stava Ilaria. Non ne sapevo niente, ti sembra normale?!-
- Non sono fatti tuoi,
Molcovich-
- Invece sì che mi
riguardano Davide-
Erano entrambi in piedi,
l’uno di fronte all’altro, che si fronteggiavano.
Ilaria ormai aveva perso
le speranze di poter attirare la loro attenzione ed imporsi in qualche modo, ed
era tornata a poggiarsi con le spalle al cuscino, emettendo un sospiro
sconfortato.
Fu il giovane di prima ad
intervenire inaspettatamente: era entrato senza che nessuno se ne rendesse
conto e ora, spuntando con la testa da dietro i due contendenti, disse:
- Se non avete finito, e
steste per caso programmando una qualche rissa violenta, sareste pregati di
allontanarvi e semmai uscire anche. Io nel frattempo parlo con lei se non vi
dispiace: devo scusarmi per…-
Se la prima parte del
discorso non li aveva colpiti poi tanto, lasciandoli quasi indifferenti, la
seconda ebbe un effetto diverso: si girarono entrambi di scatto verso il
ragazzo, avvicinandolo con fare minaccioso. Filippo parlò per primo:
- Tu che devi fare?-
- Scusarmi…-
Il ragazzino
probabilmente intuì di aver commesso un tragico errore, perché iniziò ad
arretrare lentamente, fino a trovarsi con le spalle al muro.
- E perché?-
- Io… io…-
Aveva iniziato a
balbettare, con il labbro che tremava, riuscì però a rispondere comunque:
- Ho… con il
motorino… ho sbagliato… e mi dispiace…-
- Ti dispiace!?-
Era stato Davide questa
volta: non aveva gridato, lo aveva ringhiato.
Ormai stavano sovrastando
il ragazzo e Davide lo afferrò per il collo della felpa verde che indossava,
sollevandolo da terra di quel che bastava a poterlo guardare negli occhi:
- Tu forse non ti rendi
conto: potevi ucciderla. Se avessi guidato come Dio comanda invece di
comportarti da imbecille quale sei, non sarebbe successo niente. Ma no, tu
dovevi correre e andare contro senso! Tu… tu potevi ucciderla! Lo sai, lo
sai che poi ti avrei cercato fino in capo al mondo per fartela pagare? Ti avrei
ucciso e poi riportato in vita solo per poterti uccidere ancora! Razza di
scriteriato che non sei altro!-
Aveva continuato con lo
stesso tono di voce basso, l’unica variazione era stato nel senso di
minaccia che si avvertiva nella voce e che aumentava man mano. Filippo al suo
fianco non sembrava meno arrabbiato: intervenne poco, con tono duro, fissando
il ragazzo irato.
- Come fanno a dare la
patente a questi bambini?! Dovrebbero sbatterli tutti in gabbia!-
- Basta! Smettetela!-
Mi voltai di colpo,
disincantandomi dalla scena alla mia sinistra e guardando invece a destra, dove
c’era Ilaria che aveva parlato: era intervenuta, riuscendo ad attirare
l’attenzione di tutti.
- Vieni qui-
Aveva parlato
rivolgendosi al ragazzino che spaurito, lasciato da Davide, era corso verso di
lei, prendendo posto su una sedia vicinissima al suo letto.
- Voi due invece uscite-
Non scherzava, non
sorrideva.
- E non tornate finché
non vi sarete calmati. Tutti e due. Calmi e sorridenti, mi sono spiegata?
Altrimenti non vi voglio rivedere qui dentro-
Ed erano usciti per davvero.
Credo che nessuno avrebbe
osato disubbidire.
Noi invece eravamo rimasti:
Ilaria si era accorta anche di noi, ci aveva accolti entusiasta, scusandosi per
le varie situazioni. Aveva conosciuto Armando e si erano fatti simpatia a
sangue.
E poi tutti e tre avevamo
fatto la conoscenza di Mattia: quel ragazzino spaurito che aveva piano ripreso
colore, tornando a sorridere, ad essere se stesso, un sedicenne simpatico,
vivace, sveglio.
Un bravissimo ragazzo, mortificato
nei confronti di Ilaria, che era rimasto colpito dalla gentilezza e dalla
dolcezza di lei, dal fatto che non ce l’avesse con lui.
Lei lo aveva perdonato e
aveva cercato di tirarlo su, per fargli passare il senso di colpa.
E lui si era ripreso, solo
per far contenta lei.
L’aveva presa in
simpatia, sentendola come una sorella, la sorella che non aveva avuto e che
desiderava mi aveva poi spiegato Nando, che lo aveva capito non si sa come.
E Mattia era rimasto per
tutto il tempo, fino al pomeriggio, anche mentre ingessavano il polso ad
Ilaria: non si era allontanato un attimo.
Ci aveva raccontato del
liceo che frequentava: scientifico, e di come la cosa non gli fosse mai
piaciuta. Era il padre a volerlo ingegnere, ma lui desiderava fare
l’avvocato. Continuò parlando entusiasta delle vacanze che si stavano
avvicinando: un’intera settimana di festa, ancora non riusciva a
crederci. Sinceramente però non sapeva bene cosa avrebbe fatto: suo padre era
in viaggio di lavoro e sarebbe tornato di lì ad un mese, sua madre invece non
si vedeva mai.
E aveva continuato a parlare
ininterrottamente, tenendoci svegli con le sue chiacchiere infinite, sempre con
il sorriso sulle labbra. Fino a quando poi non erano tornate le due teste
calde.
Erano entrati con lo sguardo
per terra, avviliti e dispiaciuti.
Mi era piaciuta molto come
scena quella: oh, sì davvero molto. Così come piacque a Mattia, che la osservò
tutto compiaciuto e soddisfatto con un ghigno sulle labbra, anche se poco
dopo si allontanò dalla stanza, promettendo di tornare verso sera.
Un flebile rumore interruppe
il corso dei miei pensieri.
Riaprii piano gli occhi,
cercando di identificarlo e vidi i piedi di Nando agitarsi. Sgranai gli occhi
sorpreso e feci per dire qualcosa ma lui mi precedette:
- Fino a questo punto,
abbiamo passato tutto assieme, Maurizio. Poi cosa è successo? Cos’è che
ti ha sconvolto?-
Scossi la testa: non è che
mi aveva proprio sconvolto. E’ che…
- Una chiacchierata con
Mirko: mi ha detto delle cose… mi ha informato di una cosa di cui non ero
a conoscenza e mi ha chiesto di supportarlo quando avrebbe dovuto farsi
ascoltare anche dagli altri-
Vidi improvvisamente la
testa di Nando fare capolino da sopra il tavolo e guardarmi con
un’espressione fra l’interrogativo e il divertito:
- Se è della sua
omosessualità che stai parlando, Maurizio, ci tengo a ricordarti che non è più
un segreto. Forse l’alcool ti sta annebbiando il cervello e…-
Negai subito, bloccandolo:
no, no che non parlavo di quello. Parlavo di altro, per la miseria!
Di un casino molto più
grosso.
Uno di quelli che dici: ma
come diavolo è possibile?
Cioè, ma qualcuno ci si è
messo e ha programmato tutto a tavolino?
Perché altrimenti non si
spiega, non si capisce come poteva accadere…
Poi, tempo dopo, molto dopo,
avremmo scoperto che davvero c’era qualcuno che aveva organizzato tutto.
In quel momento però non sapevamo niente, tranne che:
- Ti andrebbe un viaggetto a
Siracusa?-
*
Ed eccomi!
Ancora qui? Chiederete voi tutti, scocciati... sì, ebbene sì ^^
Non potevo non tornare, fosse stato solo per ringraziarvi tutti: continuate a
commentare, per qualche motivo a me sconosciuto, e non potrete mai capire
quanto ve ne sia grata *_* In particolare ci tenevo a ringraziare tutte quelle persone che oltretutto
mi hanno votato nel concorso ai migliori personaggi!! Sul serio non
riuscivo a crederci! Ma graaaazieee!!! *___* Siete
state troppo buone! Davvero, ancora un grazie enorme! Immenso e ancora non
basta **
E poooi.... non saprei dire com'è il capitolo ad
essere sincera: l'ho scritto in fretta e nell'unico momento libero che sono
riuscita a trovarmi, per cui... bah, aspetto i vostri giudizi ^^
Se avete domande,
dubbi, qualunque cosa, chiedete! Senza farvi problemi! =)
- Ora, mi ascolti bene: non
deve muoversi di qui finché non glielo dirò io-
Sembrava un ordine, ma che
dico? Era un ordine.
Lanciai un’occhiata al
tassista che annuì, sebbene poco convinto. Era un uomo sulla quarantina e la foto
del suo tesserino lo raffigurava come una persona solare e sorridente, in quel
momento però il suo viso era tutt’altro che amichevole: la fronte
corrucciata, percorsa da numerose piccole rughe, il naso leggermente arricciato
e la bocca imbronciata gli conferivano un’aria vagamente pericolosa.
Come dargli torto, del
resto?
Ripensai alla frase detta da
Maurizio ed in particolare alle spiegazioni per nulla adatte e confortanti che
stava ancora dando: “Dobbiamo prelevare una persona prima, sa
com’è… poi ce ne andiamo di corsa mi raccomando!”
Scossi la testa fra me e me
prendendo la testa fra le mani.
Il tassista continuava a
squadrarci con la faccia di uno che è indeciso se chiamare o meno la polizia.
Non riuscivo però ad
avercela con lui: a sentir parlare Maurizio sembrava di avere a che fare con un
sequestratore seriale.
Sembrava che dovessimo
rapire qualcuno, santo Dio!
Ma che dico sembrava…
noi dovevamo rapire qualcuno.
Sorrisi, reclinando la testa
sul sedile e stringendo con una mano l’avambraccio di Maurizio.
Lui smise di parlare e si
voltò a guardarmi con aria interrogativa. Gli feci cenno di mettersi buono e
avvicinai il viso a quello del tassista ancora accigliato, gli regalai un mezzo
sorrisetto che doveva essere tranquillizzante:
- Senta: non pensi a male,
siamo bravi ragazzi. Non abbiamo intenzione di combinare casini, sul serio.
Dobbiamo certo… prelevare, una persona, ma non è un rapimento glielo
assicuro-
Lui non cambiò espressione,
eppure qualcosa mi disse che o aveva deciso di fidarsi o, cosa più probabile,
aveva deciso che non gliene importava niente.
- Quindi non ci saranno
inseguimenti? Nessuno da seminare, polizia, elicotteri alle calcagna?-
Il mio sorriso si allargò
mentre negavo energicamente con il capo:
- No. No, le assicuro di no-
- Peccato-
Sgranai gli occhi
riconoscendo nei suoi sincera delusione, ma non ebbi modo di approfondire la
questione che sentii Maurizio sobbalzare al mio fianco. Iniziò a tamburellarmi
con le dita sulla gamba come faceva sempre nei momenti di tensione e a bassa
voce ritenne opportuno informarmi:
- Stanno arrivando! Stanno
arrivando!-
Alzai gli occhi al cielo e
con la mano gli bloccai le dita.
- Sì, li vedo anch’io.
E smettila di tamburellare o mi bucherai i jeans prima o poi-
Ebbi l’impressione che
non mi avesse nemmeno sentito: continuò ad agitare le dita, strette nelle mie,
cominciando addirittura a muovere anche il piede.
- Scendo ora? Aspetto che
arrivino? Nando, che devo fare?!-
Sospirai, armandomi di pazienza,
prima di rispondergli tranquillamente e con voce pacata:
- Aspetta che arrivino sul
marciapiedi, poi scendi e la chiami. Niente di più semplice-
Lui annuì, continuando ad
osservare le scale fuori l’ospedale con espressione assente.
Cominciai a guardare
anch’io in quella direzione, ignorando il tamburellare di dita che
appartenevano al tassista questa volta: picchiettavano sul volante a quello che
ironicamente mi sembrava la colonna sonora di un recente thriller con Harrison
Ford e la cosa per quanto divertente era anche altamente snervante.
Erano in parecchi a scendere
quelle scale: persone di tutti i tipi, uomini, donne, vecchi, bambini… a
noi però interessavano solo quattro persone e non ci misi molto ad inquadrarle
nella folla.
Scendevano piano: Ilaria al
centro, Davide e Filippo ai suoi lati.
Dopo un po’ riconobbi
anche Mattia, qualche scalino più in basso che li guardava irritato.
Ridacchiai per quella scena
che di lì a tre giorni era diventata normale: dove c’era Ilaria
c’erano quei due. Non un attimo che l’avessero lasciata da sola in
quarant’otto ore. Non un solo minuto.
Onnipresenti, per quanto la
cosa potesse sembrare assurda.
E se da un lato ci si poteva
compiacere dell’attenzione che i due ragazzi stavano dimostrando,
dall’altro naturalmente vi erano anche numerosi svantaggi.
- Smettetela! Ma dico…
non trattatemi come un’invalida se non lo sono! Ce la faccio benissimo,
davvero, non preoccupat…-
Ilaria si era fermata di
scatto, con un piede a mezz’aria ed un espressione infastidita, guardando
alternativamente i due che tentavano di afferrarle il braccio aveva cominciato
a parlare, con un tono lievemente alto ed infuriato, senza però fare caso al
fatto che l’altro piede non aveva centrato lo scalino successivo.
Fu Mattia a sorreggerla giusto
in tempo, sorridendole e scuotendo la testa:
- Invalida no, ma sul
distratta non troverei niente da ridire-
Lei rispose caldamente al
sorriso, rimanendo poggiata a lui e scendendo con la testa sulla sua spalla,
mormorando qualcosa che non riuscii a sentire.
Davide e Filippo erano
rimasti perfettamente immobili, squadrando con aria omicida il ragazzino che
stava accompagnando Ilaria; per quanto tentassi di non psicanalizzarli in
continuazione era più forte di me: non potevo farci niente, era il mio lavoro,
il mio modo di vivere.
Mi venne spontaneo perciò
ripensare a come si erano comportati negli ultimi due giorni: era come se
stessi ricostruendo un puzzle, tassello dopo tassello, metodicamente.
Controllo possessivo,
dolcezza snervante, amore incondizionato.
L’unica cosa che non
andava era che entrambi si erano comportati in questo modo: normalmente
non dovrebbe essere così. Filippo ne avrebbe avuto il diritto: era il ragazzo
di Ilaria in fondo, o no?
Ma Davide? Lui che scusa
aveva?
Sembrava quasi che non si
impegnasse nemmeno: gli veniva naturale guardarla come se fosse la prima ed
allo stesso tempo potesse essere l’ultima volta che la vedeva; ed era
normale: l’aveva già persa una volta e ora gli si stava prospettando
davanti la possibilità che succedesse di nuovo, per di più per mano di un
ragazzo dal passato sconosciuto e controverso, almeno dal mio punto di vista.
Ogni volta che li osservavo,
gli occhi di Davide non smettevano di abbracciare la figura di Ilaria.
Le occhiate omicida rivolte
agli astanti venivano poi di conseguenza e non ci si poteva fare niente.
Poggiai il gomito contro lo
sportello del taxi, piegando il capo all’indietro: non mi sarei sorpreso
più di tanto a scoprirmi prossimo ad un crollo nervoso.
Fu in quel momento che
Maurizio scattò improvvisamente: aprì la portiera e scese, rimanendo vicino al
taxi. Cominciò ad agitare il braccio destro e a gridare:
- Ilaria! Da questa parte!-
Ripresi ad osservare la
scena: Ilaria e Mattia si voltarono in contemporanea verso di noi, fissandoci
sorpresi.
Il resto successe molto
velocemente: prima domande sorprese ed incomprensibili da parte di Davide e
Filippo, ancora sulle scale; quindi una strana espressione sul volto di Ilaria,
come di chi sta valutando velocemente la situazione; ed infine lei che in pochi
passi ci raggiunge, entrando rapidamente nel taxi e sedendosi al mio fianco,
seguita a ruota da Mattia e Maurizio.
- Parta, parta, parta!-
Sgranai gli occhi, facendomi
al contempo piccolo piccolo per fare in modo che ci entrassimo
tutti: il ragazzino non era previsto ma a quanto pareva la sua era una presenza
ormai costante.
L’uomo al volante non
aspettò nemmeno di sentire cosa davvero Maurizio gli stesse dicendo: appena la
sua voce gli giunse alle orecchie diede gas, partendo a tutta velocità con un
ghigno sulle labbra. Quel tassista aveva decisamente un bisogno irrefrenabile
di cambiamento.
- Grandioso-
Ilaria lo aveva solo
sussurrato, allungando le gambe e stirando le labbra in un sorriso calmo e
soddisfatto. Mattia annuì, convinto ed eccitato, con gli occhi che brillavano
dall’euforia della situazione.
- Eccezionale! Fantastico!
Li abbiamo lasciati lì! Come vi è venuta quest’idea?!-
Alzai gli occhi al cielo a
quelle parole: ma con che razza di gente mi trovavo ad avere a che fare?
Ilaria gli sorrise di più in
risposta, avvolgendogli le spalle con un braccio e studiando Maurizio e me con
lo sguardo: qualcosa non le quadrava.
- Cos’è, un
rapimento?-
Lo aveva chiesto a bassa
voce, con un tono deliberatamente sarcastico.
Non le dispiaceva la cosa:
era stata lei per prima a fiondarsi in macchina, infatti, era suo diritto e volere
sapere però e questo ormai lo avevo capito.
- No, mi hanno assicurato di
no, signorina-
L’autista si era
sentito in dovere di rispondere per noi, guardandoci tutti attraverso lo
specchietto retrovisore con aria decisamente divertita. Maurizio sbuffò piano,
cominciando ad agitarsi e scuotendo la testa parlò: interrompendosi di tanto in
tanto per scegliere le parole più adatte.
E pensare che la parte più
difficile doveva ancora arrivare!
- No, certo che no! Solo,
diciamo che ti abbiamo “prelevata”… noi, io… dobbiamo
parlare. E’ importante ed è anche leggermente delicato come discorso,
perciò abbiamo pensato che sarebbe stato meglio parlarne prima solo con te.
Senza i tuoi due compagnetti, diciamo così. E visto che sembra che ormai non ti
lascino più sola, ci è sembrato il modo migliore per…-
- Parliamo di quello che mi
hai detto nel tuo ufficio?-
Ilaria lo aveva interrotto,
dopo averlo ascoltato attentamente e dopo aver sicuramente frainteso il suo
discorso: con una sola domanda era riuscita a spiazzarci.
Primo fra tutti Maurizio:
aveva spalancato gli occhi, cominciando a respirare in modo affannoso.
Smise di guardare verso di
noi, fissando invece lo sguardo fuori del finestrino.
Ma che diamine,
cos’altro era successo?
Lanciai un’occhiata a
Mattia, sperando in un supporto di qualche tipo, ma il ragazzo sembrava essere
nella mia stessa situazione: fissava Ilaria e Maurizio con aria curiosa e
confusa, aprì la bocca diverse volte ma non ne uscì mai niente. Poi prese a
tamburellare con le dita sulla gamba di Ilaria e quando lei posò lo sguardo su
di lui, cominciò finalmente a parlare:
- Che è successo nel suo
ufficio? Che ti ha detto!?-
Ilaria scosse la testa in risposta,
senza aggiungere niente e Mattia fece un’espressione delusa mentre
l’autista che aveva continuato ad osservarci cominciava a ridacchiare
pacatamente.
- Come? No dai, Ila perché
non me lo dici?-
Lei gli sorrise, negando
ancora con il capo:
- Niente, davvero: è…
difficile Mattia. Una situazione un po’ complicata-
- Un po’!? Cioè a me
sembra che per avere a che fare con voi ci sia il bisogno di un manuale con le
istruzioni!-
A quel punto la risata
sonora e sganasciata dell’autista proruppe improvvisamente facendo
degenerare la situazione: Mattia sorrise, fissando l’uomo al volante con
aria stralunata e Ilaria si lasciò andare in una risatina nervosa.
Mi sporsi
all’indietro, incontrando finalmente gli occhi di Maurizio che fece spallucce
nella mia direzione, lasciando intendere che non aveva alcuna intenzione di
spiegarmi qualcosa.
La macchina si fermò di
colpo, spingendoci tutti in avanti e poi di nuovo all’indietro, contro i
sedili, con un brusco movimento. L’uomo davanti a noi si girò, sorridendo
e mostrando una dentatura alquanto imperfetta, per poi fare un gesto teatrale
con la mano in direzione dell’esterno:
- Giunti a destinazione!-
Maurizio fu il primo a
scendere: si fiondò letteralmente giù dal taxi, dirigendosi verso la porta
della casa con espressione stravolta. Ilaria gli fu subito dietro, mormorando
qualcosa che non riuscii a sentire e che mi dava però l’impressione di
scuse balbettanti.
Mattia invece aspettava che
a scendere fossi prima io: ricambiai la sua espressione spaurita, facendogli
segno di precedermi ma lui scosse la testa. Con un sospiro gli posai una mano
sulla spalla:
- Perché non sei a casa
tua?-
- Non ci sarebbe nessuno-
Rispose con naturalezza e io
strinsi gli occhi, prima di dire altro:
- E ti fa piacere stare qui?
In mezzo a questi pazzi?-
Lui annuì, sicuro di sé e
della sua risposta:
- C’è Ilaria-
Aggrottai la fronte,
riflettendo sul suo commento improvvisato, per poi continuare:
- Sai che ha un ragazzo?-
Lui mi sorrise con aria
saccente e sollevò un sopracciglio:
- Sì. E so anche che oltre
al biondino pure occhi verdi è perso per lei. Non mi sono preso una cotta. Solo
mi piace stare con lei: mi fa stare… bene. E poi, come dici tu, che
dovrei fare, lasciarla sola in mezzo a questi pazzi?-
Il mio viso si aprì a quella
risposta: sedici anni sì, stupido proprio no!
- Fammi capire: nei pazzi
sarei incluso anche io?-
Lo chiesi ironicamente,
scendendo dal taxi con un gesto fluido e tirandomi dietro il ragazzo
sghignazzante che mi rispose come sempre a tono:
- Naturalmente! Speravi di
esserne esentato?-
Negai con il capo,
spingendolo in direzione della casa e cominciando a salire le scale verso
l’appartamento dei D’Amico: avevamo scelto di incontrarci lì
sperando di avere così un po’ di vantaggio sui nostri inseguitori che
probabilmente sarebbero andati prima a casa di Ilaria.
Arrivammo fuori la porta
pochi secondi dopo i due che ci precedevano: Ilaria ci dava le spalle, stretta
nell’abbracci di Mirko che teneva il volto affondato nei suoi capelli.
- E’ bello vederti
fuori dall’ospedale, scricciolo! Mi avevi messo addosso un’ansia
che nemmeno ti immagini. E poi… mi sei mancata tantissimo-
Spinsi avanti Mattia,
immobile davanti a me, che fissava la scena allucinato. Mi piegai verso il suo
orecchio, mormorando a mezza voce:
- E’ il fratello-
A quelle parole il ragazzo
si rilassò visibilmente: chissà cosa aveva pensato!
Fu più forte di me però non
fermarmi a quell’affermazione: accennando con la testa ad Andrea seduto
sul divano in salotto che guardava la scena sorridente, continuai a bassa voce.
- E sta con lui-
Mattia non reagì subito:
rimase qualche istante immobile, come per assorbire bene quello che avevo detto
ed accertarsi di non aver sentito male. Quindi guardò alternativamente Mirko ed
Andrea.
- Cosa?!-
Lo aveva gridato, con voce
stridula ed incredula, arretrando verso il muro.
Al suo urlo Mirko aveva
lasciato andare Ilaria che si era girata per osservare Mattia con aria
interrogativa: il ragazzino sorrise, scusandosi con il viso e muovendo le mani
davanti a sé come a far capire che aveva sbagliato e non lo avrebbe più fatto.
Sembrava un bambino trovato
con le mani nel barattolo della marmellata.
- Lui è… ?-
Andrea lo osservava
palesemente divertito e per nulla contrariato dalla sua presenza. Maurizio spuntò
in quel momento dalla cucina, con un cucchiaio pieno di gelato in mano e
puntando con il dito il ragazzino, rispose:
- Mattia: il nuovo amichetto
di Ilaria-
Andrea gli si avvicinò con
un sorriso che andava da un orecchio all’altro, porgendogli la mano:
- Molto piacere! Vieni,
andiamoci a sedere… ci sarà da divertirsi: l’unica cosa di cui mi
dispiace è che non abbiamo i pop-corn!-
Mattia lo seguì di buon
grado verso il divano, senza guardare nessuno negli occhi e sedendosi alla
destra di Andrea, affondando e quasi scomparendo nei cuscini blu.
Lanciai un’occhiata in
giro, ponderando la situazione: Ilaria aveva un’aria imbronciata ed
infastidita che si accentuò ancora di più quando il fratello la spinse su una
poltrona e Maurizio le mise in mano una vaschetta di gelato ed un cucchiaino.
- Ce la fai con la sinistra
a …-
Avrebbe voluto chiederle se
ce la faceva a mangiarlo con la sinistra, ma lei non gliene lasciò il tempo:
sbuffò spazientita, puntando la posata contro di me. Io spalancai gli occhi,
non sapendo cosa fare: che c’entravo io!? Ilaria però scosse piano la
testa, come desistendo dal suo intento, e lo puntò contro il fratello e
Maurizio, in piedi di fronte a lei:
- No! Così non va: non
speriate di rabbonirmi con del gelato! Mi spiegate cosa diavolo sta
succedendo?! E non mi vuoi spiegare che senso avevano le tue parole quando
eravamo in ufficio, va bene! Ma mi avete “sequestrata” e trascinata
qui, vi decidete a dirmi che c’è ancora che non va?!-
I due ragazzi
indietreggiarono di qualche passo, abbassando la testa e lo sguardo, mentre
l’unico altro rumore erano le risatine provenienti da Andrea: si stava
seriamente godendo lo svolgersi dei fatti e non tentava minimamente di
nasconderlo.
- Sì, ora ti spieghiamo.
Altrimenti perché credi che…-
- Ora, Mirko. Ora-
Lui annuì, dando una leggera
gomitata a Maurizio come a dire “Inizio io”
Maurizio fece segno di sì e
andò a sedersi sul tappeto, ai piedi di Andrea che gli regalò uno scappellotto
dietro la testa e una pacca sulla spalla.
Mi avvicinai anche io, mettendomi
sul bracciolo del divano blu ed osservando attento Mirko che, accovacciato di
fronte alla sorella, cominciava a parlare:
- Ila. Ti ricordi zia
Rossella?-
Ilaria strinse gli occhi,
annuendo impercettibilmente. Mi piegai leggermente in avanti, come per
ascoltare meglio: io già sapevo cosa stava per dire Mirko, eppure non volevo
perdermi neanche una parola.
- L’ultima volta che
l’abbiamo vista è stato all’anniversario di matrimonio, vero?-
Ilaria annuì ancora ed
involontariamente annuii anche io: così l’avevo conosciuta, se si poteva
conoscere qualcuno attraverso il racconto di altri... era stato Davide a
parlarmene: descrivendola come una simpatica ed anziana signora con cui aveva
anche ballato. Quella sera lui aveva accompagnato Ilaria alla festa di anniversario:
aveva fatto gli auguri a zia Rossella ed al marito, zio Ugo. Sempre quella sera
aveva capito finalmente di essere innamorato di Ilaria.
- Ecco. Ora, la zia mi ha
chiamato e…-
- Sta bene? Le è successo
qualcosa?-
Mirko scosse subito la
testa, agitando anche la mano per farle capire di essere sulla strada
sbagliata:
- No, no! Sta benissimo! Lei
mi ricordava che fra meno di una settimana festeggia cinquanta anni di
matrimonio con lo zio Ugo-
Ilaria spalancò gli occhi, dandosi
una manata sulla fronte con aria afflitta:
- Come ho fatto a
dimenticarmene? Cinquanta, caspita! Sono proprio tanti!-
Mirko annuì, continuando
sempre con lo stesso tono di voce incolore, stringendo con la mano il ginocchio
della sorella, come preparandosi a quello che sarebbe venuto poi.
- Già, cinquanta: è un
traguardo importante. La zia diceva che ci tiene molto, che vuole festeggiare
come si deve: non con la solita festicciola di una sera ma con un vero e
proprio ritrovo, diciamo così. Un’ “adunata” di più
giorni… e vuole assolutamente che ci siamo anche noi-
Ilaria strinse gli occhi,
fissando il fratello con espressione concentrata:
- E’ normale. Mi sarei
meravigliata del contrario. Ancora non capisco il problema dov’è, però:
credi che non sopravvivremo a qualche giorno con la zia?-
Mirko scosse la testa,
prendendo un bel respiro:
- Zio Ugo… lui, ha
detto la zia, non è nel pieno della forma: secondo zia Rossy potrebbe star
mostrando i sintomi iniziali dell’Alzheimer-
Ilaria spalancò gli occhi:
il suo viso si contrasse in una smorfia di dolore e preoccupazione; aprì le
labbra più volta per dire qualcosa, ma non ne uscì nulla. Mirko strinse di più
la presa sul ginocchio e continuò, avvicinandosi a lei:
- La zia dice che inizia ad
avere problemi a ricordare. Secondo zia Rossy… lei dice che dato che
l’ultima volta che ci siamo visti è stato all’anniversario e lì tu
eri con Davide… la zia dice che lui è convinto tu stia ancora con lui-
- Con Davide?!-
Mirko ignorò la domanda
della sorella, continuando imperterrito:
- Sempre la zia… lei
vorrebbe che tu lì venissi con Davide. Per non confondere o scombussolare lo
zio. Sai com’è: in questi casi è meglio non farlo agitare e… stare
al gioco?-
L’ultima frase era
finita come fosse una domanda: l’espressione di Miro ormai non era
lontana dalla disperazione. Sentivo il divano sotto di me tremare leggermente e
mi accorsi incredulo che l’iralità di Andrea aveva contagiato anche
Mattia: se ne stavano là tutti a due, vicini e piegati da fremiti di risatine
convulse.
Scossi la testa, teso e in
ansia per il fatto che Ilaria non avesse ancora spiccicato parola: fissava un
punto indefinito di fronte a sé e Mirko lanciava occhiate a lei e poi a me,
finendo con Maurizio.
Non sapevo cosa
rispondergli: se Ilaria non reagiva in qualche modo, non avrei saputo dire come
sarebbe stato meglio intervenire per salvare la situazione.
Fu in quel momento che lei
si riprese, sbattendo più volte le palpebre e scuotendo la testa:
- No, fammi capire: la zia
sa che io non sto con Davide. Presumo inoltre che tu l’abbia
informata del fatto che mi vedo con Fil ora. Ma lo zio non sta bene e per
questo io devo presentarmi con Davide, fingendo di stare ancora con lui,
lì. Lì dove, poi? Ma che razza di scherzo è Mirko? Stare al gioco
dice lui! Cosa dovrei fare secondo te? Starmene buona e sorridente con
Davide affianco per quanto, due, tre giorni? E Fil?! Lui non lo conti?
Ma… io non so che dire guarda! E poi… Veronica dov’è?
Ho bisogno di parlare con lei… io, sto impazzendo ti giuro…-
Con la mano sinistra
tremante aveva preso a portarsi alla bocca diversi cucchiaini di gelato,
scuotendo al contempo la testa e facendo domande a raffica, con gli occhi
lucidi e la voce spezzata e stravolta.
Mirko aveva tentato di
intervenire diverse volte ma lei non glielo aveva permesso.
Allora si alzò in piedi,
sedendosi di fianco a lei ed avvolgendole la vita con un braccio:
- Senti, ora vediamo di
risolvere piano la cosa, va bene?-
La sua voce era uscita dolce
e rassicurante, tranne verso la fine quando si era leggermente incrinata: con
la coda dell’occhio avevo notato Andrea sorridergli e mandargli un bacio
con la mano.
Mirko era arrossito
violentemente, spalancando gli occhi e facendogli segno di smetterla, il che
riuscì solo a far scoppiare nuovamente Andrea a ridere.
- Non può essere poi una
tragedia stare un po’ con Davide, no? Dovrete fingere hai detto
benissimo. Ce la puoi fare, Ila. E per Filippo, fai venire anche lui! Così
tranquillo lui, tranquilla tu, contenta la zia… che dici?-
Ilaria non rispose,
smettendo però di mangiare ed assumendo un’espressione attenta: come se
solo in quel momento stesse cominciando davvero a realizzare. Fece solo una
domanda: concisa, decisa e ferma.
Mirko poteva solo
rispondere.
- Dove?-
Il fratello si irrigidì,chiudendo
un attimo gli occhi.
- Siracusa-
Lei non reagì in alcun modo,
mordendosi solo un po’ il labbro inferiore. Quindi continuò:
- Per quanto?-
- Cinque giorni, escluso il
viaggio-
Questa volta non aveva
tentennato: aveva risposto subito, con voce estranea, come se si stesse
preparando ad un’esplosione improvvisa.
- Quindi: cinque giorni a
Siracusa con Davide secondo te non sono niente?! No, ma che dico aspetta: cinque
giorni a Siracusa con Davide, fingendo di stare ancora con lui, quando invece
il mio ragazzo è Filippo che, per inciso, sarà lì anche lui! Spero per te
che sia tutto uno scherzo perché guarda non credo che altrimenti…-
Si era alzata in piedi a
metà discorso, cominciando a camminare per la stanza, girando in tondo ed
agitando la mano sinistra con aria incredula.
Mirko si era ritrovato da
solo in poltrona e fissava terrorizzato la sorella: lanciò una muta richiesta
di aiuto nella nostra direzione ed Andrea prontamente la raccolse. Si alzò
rapido, raggiungendolo e sedendosi con lui, stringendolo e mormorandogli
qualcosa all’orecchio.
Maurizio annuiva, come a dar
ragione alle parole di Ilaria, mangiando gelato nel frattempo che ancora non
avevo capito da dove stesse prendendo.
Feci per alzarmi e dirigermi
verso Ilaria ma fui bloccato da una mano che mi strinse l’avambraccio:
- Ehy!-
Mi voltai, fissando il viso
di Mattia acceso dall’entusiasmo che mi osservava entusiasta:
- Che c’è?-
Lui non rispose subito, come
ponderando le parole. Alla fine sospirando sorrise e tutto d’un fiato mi
chiese:
- Vengo anch’io!-
Doveva essere una domanda da
come era cominciata, ma poi era finita per essere un’affermazione.
Un’affermazione
convinta, di quelle che non prevedono o accettano repliche.
Io scossi la testa,
spalancando gli occhi e guardandolo come se fosse uscito di testa:
- Stai scherzando! No che
non vieni: forse non ci andiamo manco noi!-
Lui negò, continuando con la
voce di uno che avrebbe tranquillamente potuto fare il politico:
- Sì che ci andrete: ci
andrete tutti perché Ilaria lo farà per gli zii, Davide e Filippo ci andranno
per Ilaria, Mirko ci andrà perché deve, Andrea per Mirko, tu e Maurizio per
trascinamento. A questo punto vengo anche io!-
Fu mentre parlava che
ricordai il suo proposito di diventare avvocato e non potei fare a meno di
constatare che c’erano ottime possibilità che il suo desiderio diventasse
realtà.
- Hai dimenticato Veronica e
Ray-
Dissi io, godendo della sua
espressione confusa per poi spiegargli:
- Loro sono già in viaggio.
Ad ogni modo tu non vieni: non è possibile, assolutamente-
Mattia sgranò gli occhi,
sorridendo ancor di più.
- Invece sì: mia madre dirà
di sì e Ilaria acconsentirà. Siracusa, wow! Sarà magnifico!-
Feci per negare ancora ma
non ne ebbi modo: la porta di casa si spalancò all’improvviso lasciando entrare
un Davide ed un Filippo decisamente trafelati che, con il fiatone, ci
guardarono ad occhi spalancati.
Ilaria si interruppe a metà
della frase, e noi altri ci voltammo verso i nuovi arrivati tutti sorridenti.
- Voi! Cosa… cosa fate
qui… si può sapere?-
- Già, che scherzi…
sono?!-
Continuai a sorridere in
direzione dei nuovi arrivati, dovevo ammettere che mi stavo divertendo: per
quanto assurda, impensabile e fuori luogo fosse tutta quella situazione, la si
poteva definire in qualunque modo fuorché noiosa e deprimente.
- Oh, certo! Perché voi ci
mancavate, giustamente!-
Ilaria lo aveva mormorato
eppure si era chiaramente sentito, così come il tono irato che non era riuscita
a nascondere. Non era arrabbiata con loro e lo sapevamo tutti, con qualcuno però
doveva sfogarsi pensai, e allora ben vengano loro!
- Tutta colpa vostra! Voi e
voi! Se impazzirò sarà solo colpa vostra, lo sapete?! Ma come devo fare, io?
Non ce la faccio più, ve lo giuro!-
Aveva continuato a
borbottare, alzando man mano la voce, mormorando frasi insensate ed infuriate.
Filippo e Davide la
fissavano senza capire mentre lei riprendeva a camminare, per poi allontanarsi
con poche falcate verso la camera di Davide e chiudervisi dentro, sbattendo la
porta con violenza.
Ridacchiai, seguendo finalmente
l’esempio di Andrea e Mattia che non avevano fatto altro per tutto il
tempo. Mi passai una mano sulla faccia, togliendo gli occhiali con un movimento
stanco.
La voce che sentii dopo la
identificai come quella di Davide e sebbene li vedessi sfocati, intuii le
espressioni sconvolte che dovevano avere i due giovani in piedi.
- Ok, dico… avete
intenzione di metterci al corrente o preferite continuare a divertirvi?-
Anche volendo non sarei
riuscito a rispondere a quella domanda.
La risata che mi stava
sconquassando era tale da farmi uscire le lacrime, e mi piaceva: mi piaceva
perché non ricordavo l’ultima volta che avevo riso tanto di gusto.
*
Wow…
Quasi due
settimane senza connessione ad Internet, vi rendete conto?! O_o
Spero mi scuserete
perciò per il ritardo smisurato, ma non è dipeso da me, quanto
dall’imbecille che si è rubato quasi un chilometro di cavo
telefonico…
Dico io… ma
che se ne farà poi del cavo telefonico?!!
Mah, misteri della
vita!
Comunque, in
compenso ho scritto parecchio e come potrete notare ho intenzione di aggiornare
parecchie cosette, alcune poi ho già fatto mi sembra… ^^
Come sempre volevo
ringraziare tutti i coraggiosi che hanno ancora il coraggio di seguire e ancor
più di commentare!!
Siete unici nella vostra
grandiosità, davvero! *__*
C’è da dire
poi che continuate incredibilmente ad aumentare!
Non avete idea di
come mi farebbe piacere sapere cosa ne pensiate perciò, non mi aspetto di avere
un parere da tutti certo, so che sarebbe chiedere troppo =P
Però ci terrei
tantissimo ad avere anche solo un mini commentino dai nuovi o silenziosi
lettori, sapete com’è per capire dove (sicuramente) sbaglio ancora e dove
(cosa certa) potrei migliorare ^^
Non risposi subito,
leccandomi ripetutamente le labbra, non sapendo cosa dire.
Ero combattuta: divisa
fra ragione e sentimento, che ironia!
- E’ la tua camera-
Avevo risposto alla fine,
con voce flebile ed impersonale, senza nemmeno accorgermi che lui era già
entrato.
Si era fermato pochi
passi dietro di me, in silenzio se ne stava lì, guardando me.
Non avevo bisogno di
osservarlo per sapere che era preoccupato: lo conoscevo meglio di me in fin dei
conti.
Sapevo che non gli
piaceva vedermi arrabbiata, che non gli piaceva quando urlavo e sbraitavo senza
che lui ne riuscisse a capire il motivo… sapevo che non gli piaceva
quando uscivo da una stanza a passo infuriato e mi rinchiudevo in un’altra,
sbattendo inoltre la porta con una violenza tale da scardinarla.
Eppure le avevo fatte
tutte quelle cose, era stato più forte di me.
Così come lo era stato
scappare nella camera di Davide ed accucciarmi ai piedi del suo letto, sul
tappeto verde e peloso: era un posto per me familiare, un tappeto, un letto,
una stanza che avevo amato.
E ne avevo amato anche il
proprietario.
Quello stesso ragazzo che
con lentezza calcolata mi si stava avvicinando, piegandosi verso di me.
Continuai ad ignorarlo,
fingendo che non ci fosse nemmeno.
Strinsi di più le gambe
al petto, poggiando il mento sulle ginocchia e ondeggiando impercettibilmente.
- Sei arrabbiata con me?-
Lo aveva chiesto a voce
bassa, a pochi millimetri dal mio orecchio, riuscendo a farmi passare un brivido
per il corpo: partì dal collo e toccò tutta la schiena, come solo la sua voce
riusciva a fare.
Sì, avrei voluto
rispondere.
Sono arrabbiata e da
troppo tempo. Ed è colpa tua.
Non risposi però, perché
la sua domanda si riferiva ad altro e lo sapevo.
Negai perciò con il capo,
capendo perfettamente cosa stava facendo: non era la prima volta, era il suo
modo di fare. Quando non riusciva a capire un mio comportamento non si
arrabbiava: no, non lo faceva mai.
Lui veniva da me e con
dolcezza, calma, pazienza, riusciva a capire. Sempre.
Non ce l’ho con te,
D.
Non ce l’ho con
nessuno.
E’ la vita che mi
gioca brutti scherzi, mi devo solo abituare all’idea.
Perché devi capire, mi
sento come in un film di seconda serie… di quelli già visti e rivisti
milioni di volte.
I due ex fidanzati che
fingono di stare ancora insieme a causa di forze maggiori.
Dì là verità, non è
ridicolo? Assurdo.
Giurerei che abbiamo
anche visto un film così assieme, al cinema, una volta.
Mi veniva da piangere
mentre pensavo a quelle cose: riflessioni mie, che non avrei esternato, non con
lui.
Ma dimenticavo con chi
avevo a che fare: avrebbe tranquillamente potuto spacciarsi per Edward Cullen,
nessuno gli avrebbe mai riso dietro, men che meno io.
Lui non disse niente,
lasciandomi pensare.
Prese posto sul tappeto,
accanto a me. Mettendosi nella mia stessa posizione, fissando il muro che avevamo
di fronte: quello completamente vuoto, tutto bianco… quello che una volta
era occupato da centinaia e centinaia di fotografie, tutte scattate da lui,
tutte magnifiche, magiche, bellissime.
Adoravo quelle foto.
- Che fine hanno fatto?-
Non saprei dire perché lo
chiesi: uno di quei momenti in cui la lingua è più veloce del cervello.
Capì subito, senza
bisogno che aggiungessi altro.
Fece spallucce,
sorridendo mestamente.
- Prima o poi le
rimetterò-
Non dissi altro, non
sapendo cosa aggiungere: il velo di tristezza nel suo tono mi avevo colpito e
la cosa, come al solito, non andava bene. Fu lui poi a parlare, una frase,
breve, coincisa.
- Ce la possiamo fare-
Non mi sorpresi di come
fosse riuscito a raccogliere e rispondere a tutti i miei pensieri.
Semplicemente pensai:
riecco Edward.
- Insieme-
Sorrisi piano, quasi con
timore: come poteva pensare che solo quelle poche parole mi convincessero?
Certo mi faceva piacere
che almeno non l’avesse presa a ridere, come fosse uno scherzo: già era
qualcosa.
Nemmeno però mi bastava:
“insieme”… avremmo combinato solo un bel casino insieme.
- Piccola? Insieme. Non
ti lascio-
Sentii gli occhi
inumidirsi mentre altri pensieri prendevano il sopravvento: dovevo farlo e lo
sapevo.
Avevo paura, però.
Paura dell’Alzheimer.
Paura per zio Ugo, paura per zia Rossy. Paura per quello che sarebbe potuto
succedere.
Paura in generale.
- Andrà tutto bene,
piccola-
Annuii piano, ridendo
dentro di me per il mio inconsapevolmente magico Edward.
- Insieme D.?-
Mi girai appena verso di
lui, leggendo le discordanti emozioni sul suo volto, soffermandomi sugli occhi
che luccicavano dall’emozione. Quando rispose lo fece con tono fermo,
sicuro, esattamente da lui.
- Insieme-
- Ti ho detto che ci penso
io!-
- Molcovich! Lascia fare a
me!-
Chiusi gli occhi, passandomi
una mano sul viso con gesto stanco.
Mi avrebbero fatto uscire di
testa! Eravamo partiti da nemmeno sei ore e già progettavo di farli fuori
entrambi.
Chi me lo aveva fatto fare?
Masochismo, ecco
cos’era. Ma che dico, masochismo era un eufemismo.
Niente sarebbe potuto
bastare a descrivere cos’era l’intraprendere un viaggio in macchina
verso Siracusa con Davide e Filippo. In macchina, sottolineo. Tredici ore fino
al traghetto. Tredici.
Forse era stata semplice
stupidità.
Annuii fra me e me,
continuando ad insultare la mia intelligenza, quando mi sentii tirare per una
manica.
- Vieni-
Riaprii gli occhi, fissando
lo sguardo negli occhioni grigi di Mattia: ah, c’era anche lui! Grazie a
Dio!
Gli sorrisi d’istinto,
grata semplicemente della sua presenza, seguendolo verso il ciglio della
strada.
Lo imitai prendendo posto
sul guardrail e cominciai a muovere piano i piedi, ondeggiandoli avanti e
indietro.
Sentivo i fili di erba più
alti sfiorarmi le gambe, solleticandomi gentilmente, mossi da quel vento troppo
debole per essere considerato davvero tale: la bandoliera dall’altra
parte della carreggiata se ne stava immobile, ripiegata su se stessa lungo
l’alto palo grigio. Non fosse stato per le tante macchine che veloci
sfrecciavano lungo la strada, incuranti dei limiti imposti, il paesaggio
sarebbe risultato irrealmente inanimato.
Sbuffai, storcendo la bocca
e facendo sollevare il ciuffo di capelli che mi ricadeva sull’occhio,
coprendomi in parte la visuale: poco lontana la nostra bella macchina blu era
ferma, con una ruota bucata.
E fin lì lo spettacolo non
risultava granché interessante, ma poi bisognava aggiungervi due ragazzi,
adulti e vaccinati, che si comportavano come bambini di nemmeno dieci anni
litigando su chi dovesse cambiare lo pneumatico forato. Sembrava quasi che così
potessero rimarcare la propria virilità.
Scossi la testa, contrariata
da quel loro comportamento infantile: non avevano fatto altro per tutto il
tempo, frecciatine, commenti spinosi ed equivoci… assolutamente
insopportabili.
Per fortuna c’era
Mattia.
Girai la testa, guardando
quel ragazzino che era stato la mia ancora di salvezza: la sua attenzione era
tutta per i nostri compagni di viaggio, li osservava con il sorriso sulle
labbra, palesemente divertito.
Una parte di me mi
consigliava di rimanere in silenzio, lasciandolo in pace e libero di ridere per
l’assurdo di quella situazione; un’altra però, decisamente più
marcata, non desiderava altro che parlare con qualcuno.
- Matt non ce la faccio più-
Sentì le mie parole e si
voltò verso di me, fissandomi con aria preoccupata:
- Non ti senti bene?
E’ il polso che ti fa male?!-
Negai subito, quasi
infastidita e lo fissai con aria supplice. Per favore, almeno tu
capiscimi…
- No! Sono loro: i due bambini
lì! Che devo fare, Matt?-
Sorrise, afferrando
finalmente il mio punto di vista e ammiccando rispose con tono serio:
- Se vuoi ti aiuto ad
ucciderli: possiamo farli investire da qualche macchina, sai com’è è
un’autostrada e gli incidenti capitano! Ce li togliamo entrambi di torno
così e ci godiamo la vacanza!-
Ridacchiai, divertita da
quel ragazzino a cui mi ero fin troppo affezionata.
Scuotendo appena la testa
ribattei, continuando a mantenere un tono scherzoso:
- No, troppo drastica come
soluzione. Qualcosa che non preveda omicidi, non ti viene in mente?.
Fece una faccia pensosa,
facendo per prendere a grattarsi il mento come se avesse la barba ma io lo
interruppi:
- Secondo te perché si
conoscono?-
Mattia cambiò repentinamente
espressione: tornò ad osservare un attimo i due e poi guardò me, stringendo gli
occhi e avvicinando il viso al mio, come chi non ha ben capito e chiede
spiegazioni.
Ecco, maledetta lingua che
mi ritrovo!
Era Mattia non Veronica, me
lo dovevo mettere bene in testa: non potevo uscirmene con frasi del genere di
punto in bianco! Tentai in qualche modo di spiegarmi, ancora indecisa e
titubante.
- Scusa. E’ solo che
non ho Veronica a portata di mano… ci sei tu, però!-
Potevo o non potevo parlarne
con lui? Fino a che punto potevo fidarmi?
Lanciai un’occhiata
veloce a Davide e Filippo ancora immersi in una fitta discussione: ci davano
entrambi le spalle, rivolti verso il cofano dell’auto, uno con le mani in
tasca e l’altro con le braccia conserte.
Con un sospiro, senza
guardare Mattia, continuai il discorso decisa a non fermarmi:
- Senti: che si conoscono è
chiaro come il sole, ora la domanda è perché. O meglio perché si odiano a tal
punto! Cioè… non sopporto essere all’oscuro, ma non mi dicono
niente, hai visto anche tu. Ne sai qualcosa?-
Era stato un discorso
assurdo, un ragionamento insensato.
Avevo accavallato le parole,
non sapendo come esprimere ciò che veramente volevo dire.
Che ne poteva sapere lui,
d’altronde?
E perché lo torturavo così
se non c’era Veronica? Non era mio diritto, eppure la tentazione era
troppo forte.
- L’avevo detto io che
con voi servono le istruzioni-
Feci per dire qualcosa, ma
quello di Mattia era stato solo un brontolio sommesso e alla fine demorsi,
fingendo di non averlo sentito e rimanendo immobile ed in silenzio.
Lui continuò poco dopo con
voce strana: fra il divertito e il biasimevole.
- Non saprei dirti, davvero.
Per quanto mi riguarda in questo momento mi danno entrambi sui nervi: è per te
che sono qui…-
Si interruppe, prendendo un
respiro profondo e costringendomi a guardarlo: lui ricambiò il mio sguardo con
apatia. Aveva qualcosa da dire, da spiegarmi, ma non era sicuro se farlo o
meno. Con un cenno del capo provai ad incitarlo, cercando contemporaneamente di
non forzarlo.
Lui chiuse gli occhi per qualche
secondo poi li riaprì e prendendo a strofinarsi le mani biascicò:
- Non sono il tipo
che… non volevo autoinvitarmi e spero di non infastidirti, sul serio. Non
scherzavo dicendo che l’ho fatto per te ad accompagnarti, certo anche
l’idea di passare una settimana e più di vacanza in una casa
completamente vuota non mi intrigava particolarmente ma…-
Provai più volte ad
interrompere le sue parole: volevo fargli capire quanto fossi grata della sua
presenza, pentita di non averglielo detto prima. Volevo spiegargli che se non
si fosse invitato da solo, al novanta per cento lo avrei fatto io
all’ultimo momento. Volevo dirgli tante, davvero tante cose, ma non
riuscii a dirgliene nessuna.
Lui infatti quando si zittì,
a metà della frase, lo fece per estrarre dalla tasca dei jeans scoloriti e
stracciati un pacchetto bianco e rosso di sigarette.
Se lo rigirò per qualche
attimo fra le mani e quindi lo aprì per prenderne una. Lo mosse poi verso di
me, come per offrirmene una in un gesto silenzioso ed esplicito. Io strinsi gli
occhi, serrandoli quasi.
Mattia si girò quel tanto
che bastava a vedere la mia espressione e io tentai di renderla il più chiara
possibile, sibilando allo stesso tempo fra i denti, con voce incredula e
scandalizzata:
- Tu fumi?!-
Lui non rispose, limitandosi
ad annuire impercettibilmente nella mia direzione, bloccato a metà nel gesto di
portare la sigaretta alla bocca. Scossi animatamente la testa, piantando la
mano sui fianchi con fare biasimevole:
- No! Non devi! Ma perché
mai, poi? Non lo sai che è dannoso e…-
- … e fa male alla
salute, a chi ti sta intorno e provoca il cancro ai polmoni?-
Non ero stata io a
concludere la ramanzina: qualcun altro ci aveva pensato per me, usando però un
tono sbagliato, fra il divertito e lo strafottente. Alzai piano lo sguardo
verso il ragazzo in piedi affianco a noi.
Lui mi sorrise sfrontato e
aprendo la zip della felpa bianca, lasciando così intravedere la canotta nera,
fece segno a Mattia di fargli spazio sul guardrail: prese quindi posto
agilmente, sedendosi in mezzo a noi e guardandoci alternativamente con aria
svagata.
Gli occhi di Davide si
fermarono poi sul pacchetto ancora nella mano di Mattia, e le labbra del
ragazzino si aprirono in un sorriso sollevato: lo allungò verso di lui,
offrendogliene una.
La mia mano si mosse
automaticamente: prima colpì di striscio Davide sulla spalla e poi rapida
afferrò le sigarette. Ancora non contenta strappò con violenza anche quella fra
le dita di Mattia.
- E che diavolo, no! Ma che
diamine vi passa per la testa, si può sapere? Tu, piccolo sfrontato moccioso,
prova solo a fumarne una in mia presenza e ti assicuro che se non respirerai
più dopo non sarà per colpa del cancro ai polmoni. Mentre tu, idiota numero
due, non azzardarti nemmeno a cedere o ad incentivarlo che…-
Scoppiarono a ridere
insieme, facendomi morire in gola la voce: Mattia rischiò quasi di perdere
l’equilibrio, tanto il ridere, ma la mano di Davide lo afferrò saldamente
per il cappuccio, tirandolo verso di sé.
Fra un singhiozzo e
l’altro Mattia riuscì a mala pena ad articolare una frase completa:
- Fa sempre così?-
Davide, asciugandosi con un
dito gli occhi umidi, annuì concitatamente:
- Sì, esilarante vero? Crede
di far paura-
Aggiunse poi, scuotendo la
testa incredulo.
Mattia spalancò gli occhi,
come sconvolto da quella rivelazione, per poi tornare finalmente a guardare me.
Non avevo idea della faccia
che potevo avere: troppo confusa per poterlo anche solo immaginare.
Non sapevo se arrabbiarmi o
meno per quel comportamento insensato quanto insolente: si stavano forse
prendendo gioco di me? No, dico, ma stiamo scherzando?
- Me lo ridai il pacchetto?-
Lo avevo chiesto con un tono
fintamente pregante e disperato, facendo gli occhi dolci. Non mi sfuggì però la
gomitata d’intesa che scambiò con “l’idiota numero due”
al suo fianco. Fu impulsivo allora allungare il braccio verso l’alto e
lanciare il pacchetto giusto in mezzo alla strada.
Con piacere osservai gli
occhi dei due spalancarsi increduli: a stento mi trattenni dal sogghignare
tanta la soddisfazione che aumentava minuto dopo minuto e che raggiunse il
culmine nel momento stesso in cui le ruote di un camion lo schiacciarono
irrimediabilmente.
Le parole che Davide disse
subito dopo però, costrinsero me a spalancare la bocca:
- Se vuoi ce n’è un pacchetto
nello scomparto laterale dello sportello del guidatore-
Mattia scattò in piedi,
contento ed al tempo stesso sorpreso:
- Ma allora fumi!-
Davide scosse il capo,
sorridendo ed evitando accuratamente di incontrare il mio sguardo:
- Ho smesso-
Mattia annuì appena, per
nulla colpito, facendo per dirigersi verso l’auto. Allungai svelta la
mano afferrandolo per il cappuccio e trascinandolo di nuovo sul guardrail: lo
guardai con aria truce, per nulla infastidita dalla sua espressione contrariata
ed innervosita.
- Non provarci nemmeno o ti
rispedisco a casa-
Lui socchiuse gli occhi,
cercando di capire fino a che punto doveva prendere in considerazione la mia
presunta minaccia: alla fine alzando gli occhi al cielo e strappando irritato
qualche foglia dalle piante alle nostre spalle, tornò a sedersi sbuffando
sonoramente.
- Non essere troppo severa
con il bambino-
Il fiato di Davide mi
accarezzò il collo, facendomi rabbrividire e sorridere allo stesso tempo.
Ignorai la sua frase e mi
scostai un po’ prima di rispondere, sussurrando come lui:
- Perché tieni le sigarette
in auto?-
Ridacchiò rimanendo in
silenzio, per poi portare la gamba vicino al petto per slacciare e riallacciare
la scarpa. Rifece il nodo tre volte, senza mai alzare lo sguardo dalla
scarpetta bianca.
Non sapevo cosa fare in
realtà: faceva così in momenti di ansia o tensione, eppure quello non mi
sembrava tale.
- Davide?-
Non rispose subito, fingendo
anzi completa indifferenza, poi lasciando improvvisamente i lacci, fece
spallucce e parlò con voce incolore:
- Evenienza-
Sollevai un sopracciglio,
confusa da quella sua risposta banale ed enigmatica: mi aveva sì dato un
indizio, ma nemmeno si era sbilanciato troppo permettendomi di capire! Sorrise,
accorgendosi della mia espressione e si avvicinò, avvolgendomi la vita con un
braccio ed assottigliando gli occhi:
- Che c’è? Vuoi sapere
proprio tutto?-
Avrei voluto e dovuto
rispondere di no, che non volevo più avere a che fare con lui fino a quel
punto, ma come ormai capitava fin troppo spesso venni interrotta da
un’altra voce, vicinissima e leggermente alterata:
- Sai che ti dico? Continua
tu, Duccio-
Sgranai gli occhi,
allontanandomi di scatto da Davide, sorpreso quanto me di trovare Filippo a
pochi passi da noi: lui si passò una mano fra i capelli biondi, brillanti sotto
i raggi del sole, per poi avvicinarsi in pochi attimi.
Scostò Davide, facendolo
scendere dal guardrail, poi, tirando su le maniche della maglietta blu fino al
gomito, prese posto accanto a me.
Con il mento indicò
l’auto, facendo cenno a Davide di andare: lui sorrise sereno, assumendo
un’espressione calma e accomodante, quindi fece per avviarsi verso
l’auto. All’ultimo momento si girò nuovamente verso di noi,
guardando fisso solo me e, con lentezza calcolata, mi lanciò un bacio con la mano.
Restai qualche istante
pietrificata, sconvolta da quel gesto, aprii la bocca per dire qualcosa ma lui
non aveva ancora finito: con un movimento fluido si tolse la felpa bianca,
rimanendo solamente con la canotta nera.
La pelle chiara si intonava
perfettamente con il colore scuro della magliettina leggera e a giromanica che
a mala pena sembrava essere in grado di coprirgli il busto.
Non mi ero accorta di
essermi incantata, finché non sentii il braccio di Fil stringermi forte la
vita: mi voltai di scatto, trovando il suo viso a pochi centimetri dal mio. Mi
persi in quegli occhi blu, resi ancora più luminosi dal contrasto con la
carnagione abbronzata ed arrossata dall’affaticamento.
Notai una gocciolina di
sudore scendergli lungo la tempia e con l’indice sinistro, lentamente,
gliela asciugai. Lasciai poi scivolare piano il dito lungo il profilo del suo
viso, accarezzandolo, fino ad arrivare al collo.
Osservai compiaciuta le sue
labbra schiudersi e aprirsi poi in un sorrisetto dolce.
- Com’è cambiare una gomma?
Faticoso?-
- Io so solo com’è
toglierla. E sì, molto, molto, stancante. Dici che riusciresti a rimettermi in
forma?-
Sorrisi, divertita dalla sua
espressione da cucciolo voglioso e lasciai vagare lo sguardo dal suo viso più
in basso: scorrendo piano il collo ed il petto, per poi soffermarmi sugli
avambracci scoperti e muscolosi.
Non mi resi conto che mi
aveva avvicinata ancora a sé finché le sue labbra non cominciarono a giocare
con il mio orecchio: con il naso faceva dondolare giocosamente il lungo
orecchino che portavo, facendo sì che mi accarezzasse il collo, confondendomi
sadicamente.
Fu in un momento di lucidità
che presi il sopravvento sulla situazione, scostandolo leggermente e
passandogli la mano sinistra dietro il collo:
- Non dovevo fare qualcosa
io?-
Non rispose, preso alla
sprovvista, limitandosi a fissarmi con gli occhi luccicanti e le labbra rosse
socchiuse.
Cominciai a muovere piano il
pollice dietro il suo collo, accarezzandolo: continuai finché non sentii quella
leggera peluria sollevarsi minimamente. A quel punto mi mossi rapida, facendo
combaciare le mie labbra con le sue, muovendole piano, godendo di quel bacio
dolce e desiderato: lui rimase prima fermo, poi rispose con passione,
accarezzandomi delicatamente la gamba e aumentando la presa sulla mia vita.
- Molcovich!-
Non mi mossi di un
millimetro: ignorai quella voce, quel grido accaldato proveniente da quello che
sembrava un luogo molto remoto. La voce continuò purtroppo, sperando forse di
riuscire a fermarci.
Che ingenua.
- Toccava a te, no? Il genio
della meccanica! Senti genietto mio: com’era? Svita a destra, avvita a
sinistra o avvita a destra e svita a sinistra?-
Tentai di continuare a far
finta di niente ma Fil invece si mosse, impercettibilmente ma si mosse,
staccandosi quasi involontariamente da me e fissando truce il proprietario
della voce.
- No, perché capiscimi: non
vorrei sbagliare e finire per sbagliare. Chiedo umilmente l’aiuto del
maestro!-
Fulminai Davide con lo
sguardo ma Filippo si era già alzato, muovendo qualche passo verso di lui.
- Torno subito, non
scappare-
“E dove vuoi che
vada?”
Avrei voluto rispondere, non
lo feci però: annuii sorridendo velatamente e osservandolo mentre si
allontanava camminando elegantemente. Un fischio sommesso mi distrasse,
facendomi spostare lo sguardo su Davide che sorridendo mi ammiccò, facendo
l’occhiolino.
Alzai gli occhi al cielo,
afferrando saldamente il guardrail sotto di me e chiudendo gli occhi.
No, così non si poteva
continuare: mi sorprendeva che ancora si limitassero a semplici giochetti del
genere.
La frase che mormorò Mattia
subito dopo, con tono tremendamente serio, riuscì solo a confermare i miei
pensieri, ricordandomi che non c’è mai fine al peggio:
- Nel caso si decidano ad
allestire uno spogliarello per te, quando non ci sono, filmalo mi raccomando
che lo metto su youtube-
*
Allora… ecco il nuovo capitolo, devo dirvi che
non so esattamente cosa pensarne ^^
Cioè, non sono sicura di averlo indirizzato sulla “strada
giusta”, rileggendolo continuo ad avere tantissimi dubbi ma non ho
nemmeno il tempo per riscriverlo, perciò… pazienza! Speriamo vi piaccia!
Poi, ho chiesto la volta scorsa, di sentire la “voce”
dei tantissimi lettori silenziosi, maa
quanto pare non è stato possibile ^^
Non che vi biasimi sia chiaro! Io in prima persona non ho più il
tempo neanche di respirare, quindi vi comprendo appieno!
Ad ogni modo, oltre a ringraziare tutti quelli che leggono, questa
volta faccio una sorpresa a quelli che commentano: non so come sono riuscita a
rispondere alle recensioni ** e prometto che d’ora in poi cercherò di
farlo sempre =D
Alla prossima!
Risposte
alle recensioni
Supreme: sceneggiatrice di sitcom?! ^^ Ma grazie! Speriamo
solo che continuando ad aggiungere intrighi e personaggi non ne derivi un
casino tale da far demordere i lettori dal capirci qualcosa! =D
AleEe_E: Ale! Graziee! Ci sei sempre, ma come fai?? ^^
Comunque hai ragione: avrei potuto e dovuto approfondire il carattere
introspettivo ed indagatore di Nando, a spaventarmi e frenarmi ci sono state la
lunghezza del capitolo ed il timore di annoiarvi… ad ogni modo, in vista
di una futura revisione, seguirò certamente il consiglio! **
Nessie93: Grazie! Sono contentissima anch’io di essere
entrata nella seconda fase, anche se non riuscivo a crederci! Niente da
correggere, dici? Sei troppo buona secondo me: almeno io, ogni vota che
rileggo, trovo nuovi errori! =D Mattia ti è simpatico? Devi ancora vedere il
meglio che può dare! ^^
Tetide: Ciao ** Lo sai vero quanto ti sono riconoscente? Ci
sei sempre: con recensioni, voti… sei magnifica, sul serio! Un grazie non
è minimamente sufficiente! Spero ardentemente di non arrivare a deluderti mai,
riuscendo al tempo stesso a mantenere attivo il tuo preziosissimo appoggio! *_*
Serena Van Der Woodsen: Non avresti voluto Filippo a Siracusa?! Ma come? O_o
E
che faceva, rimaneva a casa solo soletto? xD No, mi spiace ma come vedrai la
sua presenza è fondamentale! ^^ Forse, dico forse, potrei anche riuscire a
fartelo andare a genio… ^^
Annalisa70: Ciao! Eh sì, si sta evolvendo pian piano; stiamo
arrivando alla fase culminante, spero di non deluderti! ^^ Sono brava a
scrivere? ** Stento a crederlo, ma graaziee *_*
Saretta_Trilly_: Ehy! Ma lo sai che i tuoi commenti riescono sempre a
mettermi di buon umore?! Sei unica, davvero! E anche troppo buona, aggiungerei:
mi fai arrossire con tutti quei complimenti, immeritati per altro xD Un pov di
Mattia eh? Non ti nascondo che ci avevo fatto un pensierino, vedrò che riuscirò
a fare… ^^
Lilyian: Oh, sì da divertirsi sicuramente e anche da
strapparsi i capelli temo… per non parlare dei fazzolettini ^^ Ma non
dico nulla dai, mi limito a ringraziarti per i continui aiuti e supporti, un
bacione!
ChiaraBella: Ciaoo ** Immagino che sia inutile dire qualunque
cosa: un grazie, un bacione, un abbraccio… no, non riuscirebbero comunque
a rendere la gratitudine che provo xD Lo sai meglio di me, in funzione di
coscienza e gemellina, come sei unica e speciale, quindi solo mi limito a dire:
alla prossima! **
Ila_Cullen; Ilaaa!! ^^ Ma dai, addirittura a “Chi
l’ha visto”?! xD Dio, come mi mancano le pazze conversazioni su msn
con te!! =D Coomunquee: fidanzatini per una settimana sì sì… qualche idea
su quello che potrà succedere?! ^^
Beeble: ** Lo sai che mi farai commuovere un giorno di
questi? Creano dipendenza? Ahh, se fosse vero!! xD L’Alzheimer tu dici
che è stato architettato, eh? Bè potresti e non potresti sbagliare… =D
Non posso aiutarti, mi spiace… si arriverà a capire comunque, pian
pianino ^^
Phe: Una ventata di aria fresca, dici? ** Sono contenta!
Grazie! ^^ Mi fa piacere di esserti riuscita a strappare non solo un sorriso ma
anche una risata, speriamo che riesca ancora, in seguito xD
Mikichan17: Allora, per i ringraziamenti, immagino siano
superflui quanto inutili, spero di averti già fatto approssimativamente capire
quanto il tuo lunghissimo, bellissimo, magnifico, dolcissimo commento mi abbia
fatto piacere. *___*
Oltre
quello, spero solo che non cambi idea con il passare dei capitoli! ^^
Ancella79: Fuochi d’artificio? No, aspettati più una
terza guerra mondiale xD Graaziee per aver commentato, non sai come mi ha fatto
felice ^^ In attesa dello scoppio, spero continuerai a leggere ^^
Non ero nemmeno
riuscito a dirlo, la gola troppo secca per emettere alcun suono.
Cercai di
muovere la lingua ma mi sembrava impossibile.
Come se non
bevessi da giorni.
Inghiottii più
volte, a vuoto. Sbattei le palpebre, una, due, tre volte.
E ancora.
Nella speranza
che gli occhi smettessero di bruciare, che quel dannato pizzicore sparisse,
finalmente.
Ma a quanto
pareva non era il mio giorno fortunato.
Scossi la
testa, ignorando il fatto che la vista mi si stesse appannando.
Sollevai lo
sguardo, mettendomi allo stesso tempo a sedere: non riuscii ad identificare il
luogo in cui mi trovavo, mi sembrava come dire, etereo. Non mi apparteneva,
così come non erano mie quelle emozioni troppo forti e potenti. Non potevano
appartenermi.
Fissai i camici
bianchi di fronte a me, cercando di metterli a fuoco.
Immaginai di
star giocherellando con l’obiettivo della mia Nikon, ma no… non era
la stessa cosa.
Per il semplice
fatto che questa volta non funzionava, perché diavolo non funzionava?!
Tentai ancora
per un po’ di vedere il viso di colui che mi stava di fronte ma fu tutto
inutile, l’unica cosa che riuscii a vedere fu il camice bianco, bianco
sterile, come l’ambiente indefinito in cui ci trovavamo.
- Come?-
Ero stato io a
chiederlo, non so nemmeno come. Ero stato io.
Il camice
bianco si era spostato un po’, io però non riuscivo a muovermi.
Sentii la sua
voce, la stessa di sempre, ripetermi cose che avevo già sentito.
- Signor
D’Amico, non so come dirglielo: la signorina Amato, lei… non ce
l’ha fatta-
Era un tono
dolce, triste, che me lo diceva.
Un tono già
sentito, quello che avevo classificato come tono da condoglianze.
Non ero pronto
a sentirlo.
Non volevo
sentirlo.
Ma più di tutto
non riuscivo a crederci, perché non era possibile, non per me.
Non poteva
essere.
Scossi la
testa, cacciando indietro quelle cose liquide che mi premevano contro le
palpebre, quelle che brutalmente cercavano di scavalcare le ciglia e che mi
sembrava di non riuscir più a trattenere.
- Non…
non può essere-
Il camice
bianco sospirò. Con aria grave, di chi crede di capire… ma no.
Lui non capiva.
Non poteva capire.
- Trauma
cranico, signor D’Amico. Sono sorte complicanze, noi… abbiamo fatto
tutto il possibile-
No.
Era uno scherzo.
Aveva detto che
non c’era nessun trauma.
Io glielo avevo
chiesto, tante volte, perché volevo accertarmene.
E lui aveva
detto che no, non c’era nessun problema, solo il polso fratturato.
Non correva
rischi.
Perché
allora… perché ora mi diceva quelle cose?
Non poteva
essere vero. Stava mentendo. Non c’erano altre spiegazioni.
Non poteva
essere morta.
Lei non poteva
essere morta.
La mia Lari, no
lei non doveva morire. Lei non poteva morire.
Scossi ancora
la testa, cercando di lottare, di resistere e non pensare a niente.
Perché se
avessi pensato, se avessi anche solo per un attimo preso in considerazione
l’ipotesi assurda che lei non ci fosse più… io non, io non avrei
più avuto ragione di vivere.
Come avrei
fatto senza di lei?
Senza il poter
sentire la sua voce, il modo in cui mi chiamava: con una sola lettera, la mia
lettera.
Quella lettera
che pronunciata da lei diventava improvvisamente la più bella di tutte.
Senza il suo
sorriso, quello che le creava due piccole fossette nelle guance, quelle
fossette che mi facevano letteralmente impazzire, quelle per cui avrei dato
tutto me stesso perché non smettesse mai di sorridere?
Senza il tono
irritato che usava quando la facevo arrabbiare, quando mi chiamava Davide,
perché avevo fatto qualcosa di sbagliato e dovevo farmi perdonare.
Se lei non
c’era, non c’ero nemmeno io.
- No, dottore.
Lei si sbaglia, non può essere che…-
Ma il camice
bianco non mi lasciò concludere, interrompendo la mia voce già spezzata.
- Le ripeto,
signor D’Amico: non c’è stato niente da fare, mi dispiace-
Scossi ancora
la testa, non riuscendo più a fermare le lacrime.
Per il semplice
fatto che l’idea prendeva sempre maggiore consistenza nella mia testa e
sembrava essere ormai diventata quasi reale: sentivo le lacrime scorrere, lente
e inesorabili.
Lungo le
guance, sulle labbra, giù per il mento e per tutto il collo.
Lacrime calde,
non più represse. Lacrime che erano dolore puro.
Un distillato
di dolore.
E la rividi,
nei miei pensieri, come se non fosse passato nemmeno un attimo
dall’ultima volta.
Dall’ultima
volta che mi si era avventata contro, entusiasta per qualcosa: che fosse un
voto, un complimento, persino un semplice arcobaleno, solo, lei doveva dirmelo,
rendendomi parte della sua gioia… e ci riusciva sempre, a qualunque ora
del giorno e della notte.
Dall’ultima
volta che con aria colpevole e maliziosa, cucchiaino in una mano e gelato
nell’altra mi si era avvicinata, bisbigliando le parole che non avevo più
bisogno di sentire.
Dall’ultima
volta che l’avevo stretta tra le braccia.
E scossi la testa,
con le lacrime che ancora scendevano, irreprensibili.
No, non era
possibile.
Non è vero, non
è vero…
- Non è vero, non
è vero, non è vero…-
Aprii gli occhi,
cercando di riprendere fiato, respirando con affanno neanche avessi corso dieci
chilometri.
Con un calcio
tolsi le coperte, quelle troppo calde e troppo strette, quelle in cui mi ero
avvolto senza volere, incastrandomi nell’agitazione. E mi ci ero quasi
abituato ormai.
Un incubo, ecco
cos’era stato.
Un dannato,
fottutissimo incubo. Era forse la ventesima volta che lo facevo ed era sempre
peggio.
Ogni volta era più
brutta della precedente.
Terrore puro, ecco
cosa mi provocava: una paura cieca ed incondizionata.
Una paura che mi
attanagliava le viscere, impedendomi di respirare.
E non riuscivo mai
a svegliarmi subito. Prima dovevo soffrire, sempre, ogni dannatissima volta
dovevo stare lì a sentirmi dire che era morta e non avevano potuto fare niente.
La cosa peggiore che mi potesse capitare.
Un incubo, per
l’appunto.
Mi sollevai piano
a sedere, sentendo gli occhi bruciare e la schiena fradicia.
Lacrime e sudore,
che punizione peggiore esisteva?
Sorrisi, sadico
verso me stesso, prendendomi la testa fra le mani: così non potevo andare
avanti.
Era una tortura,
pura e tremenda.
Con una scrollata
di spalle mi alzai, lasciando il letto, ultimo teatrino degli orrori.
Aprii cautamente
la porta della cabina, uscendo nel corridoio appena illuminato: a piedi scalzi
lo percorsi, passeggiando sul parquet lentamente, indeciso sul da farsi.
Sentivo la nave ondeggiare sotto di me, cullata dalle onde, e con il corpo ne
seguivo i movimenti, assecondando le onde.
Con la cosa
dell’occhio vidi la mia immagina riflessa in un vetro all’angolo:
immerso nella penombra con indosso solo un pantalone di flanella ed una camicia
sbottonata; i capelli completamente fuori controllo, ricordavano vagamente
quelli di Harry Potter e il viso bianco era molto somigliante a quello di un
morto.
Cosa vuoi di più
dalla vita?
Così non potevo
proprio andare avanti: se dormivo nemmeno sette ore a notte rischiavo di
arrivare ad avere per davvero le sembianze di uno zombie e in quanto zombie non
avrei ottenuto niente.
Invece io da
ottenere avevo molto.
Dovevo
guadagnarmelo, però…
Non me ne accorsi
nemmeno, ma prima ancora di arrivare a prendere la decisione i miei piedi già
avevano preso a muoversi e passo dopo passo avevano raggiunto una stanza che
non mi era affatto indifferente.
Infilai la mano
nella tasca posteriore dei pantaloni e ne estrassi una tessera magnetica.
La guardai con un
sorrisetto compiaciuto, eccoli i vantaggi di avere un buon cognome:
passpartout.
Feci scorrere la
tessera nell’apposita fessura e sentii la porta aprirsi con uno scatto
secco.
Lentamente, con
l’evanescente speranza di sentir finalmente la ragione prendere il
sopravvento, cominciai ad aprire la porta. La aprii il necessario a farmi
passare però, e niente in me sembrava intenzionato a richiuderla.
Entrai trattenendo
il respiro e con passo felpato mi avvicinai al letto in fondo: la stanza era
immersa nel buio più assoluto, neanche la fievole luce proveniente dal
corridoio riusciva a rischiarare un po’ l’ambiente.
Arrivato vicino al
letto mi fermai, osservando immobile la figura sotto le coperte: non ne riuscivo
a vedere i contorni ma il profumo di lei impregnava la stanza… lo avrei
riconosciuto ovunque.
Senza respirare
poggiai un ginocchio sul materasso, sentendolo piegarsi appena sotto il mio
peso.
Non riuscii comunque
a svegliarla e, finalmente deciso, con il cuore che batteva a mille, mi sdraiai
sul letto.
Chiusi gli occhi,
beandomi di quella sensazione, del piacere che mi dava il sentire il suo
respiro calmo e regolare, di chi dorme e sta bene. Mi lasciai cullare da quella
nuova realtà che non mi apparteneva: mi piaceva, mi piaceva da morire e non
potevo non ammetterlo. Ero convinto che accanto a lei sarei riuscito a dormire
anche più di sette ore.
Molto più di sette
ore, solo ci voleva lei, la sua presenza.
Dov’era il
problema allora?
Non potevo forse
rimanere lì? Non potevo restare nel letto con Lari?
Ci pensai per un
po’ non riuscendo a trovare alcun motivo per cui fosse sbagliato e
sospirando mi distesi meglio, cercando di eliminare la tensione. Mancava ancora
qualcosa però, e purtroppo sapevo anche cosa.
Con un altro
sospiro, più lungo e profondo del primo, presi il coraggio a due mani e
sollevai un braccio: volevo abbracciarla, volevo sentire il suo corpo aderire
al mio, le sue spalle avvolte e strette da me…
Lo volevo così
tanto che ormai mi sembrava di star patendo un dolore fisico e non più solo
psicologico.
Allungai il
braccio, circondando le spalle e cercando di avvicinare a me la figura al mio
fianco. Quasi subito tuttavia mi resi conto che qualcosa non andava:
c’era un che di sbagliato che stonava nell’insieme.
Mossi piano la
mano, ritrovandomi incredulo ad accarezzare una corta zazzera di capelli ed un
petto decisamente troppo muscoloso: mentre faticavo a realizzare quelle
informazioni sentii prima il respiro al mio fianco farsi sconnesso, come quello
di chi si sta svegliando e poi il clic di una luce che si accende.
- Ilaria? Avevi la
porta aper…-
Mi voltai di
scatto a fissare Mattia: pietrificato sull’uscio della camera che si
stropicciava gli occhi insonnolito, con una mano ancora sull’interruttore
della luce. Dio, per favore fa che non sia vero!
Mi girai,
ignorando il ragazzino, deciso invece a guardare chi stessi abbracciando: il
grido che mi proruppe dalle labbra fu istintivo, un misto di incredulità ed
orrore.
- Molcovich?!-
Filippo spalancò
improvvisamente gli occhi, fissando i suoi azzurri nei miei, sconcertato:
- Davide? Che
cazzo ci fai qui? Per… perché diavolo mi abbracci!?-
Scattai giù dal letto
mentre ancora stava pronunciando il mio nome: misi fra di noi buoni tre metri
di distanza, continuando a fissarlo con gli occhi che temevo fra non molto mi
sarebbero usciti dalle orbite.
Santo Dio, ma
perché a me?
Le avance a
Molcovich, ecco solo quelle ci mancavano a coronare la nottata!
Scossi la testa,
osservandolo mentre si tirava su a sedere e mi fissava sconvolto. Alzai i palmi
verso di lui facendogli cenno di stare zitto e lui incredibilmente ubbidì.
Vediamo: quella era
la camera di Ilaria. Mattia era entrato chiamando lei.
Ora la domanda
era: perché diavolo Molcovich si trovava nel suo letto?!
No, non volevo
saperlo. Assolutamente.
Scossi ancora la
testa, arretrando di qualche passo.
Urtai di struscio
un Mattia ancora pietrificato con la bocca dischiusa e mi defilai da quella
stanza alla velocità della luce: non ero pronto a niente del genere e credo
nessuno lo sarebbe mai stato.
A passo svelto,
nervoso ed ancora incredulo, uscii sul ponte della nave: una brezza mi accolse
placida, scompigliandomi i capelli e sollevando i lembi della camicia ancora
aperta. Chiusi gli occhi, accogliendo quel venticello fresco, quasi freddo: era
inaspettato anche lui, in positivo però, questa volta.
Era frizzante,
tanto da farmi venire la pelle d’oca: mi sembrava di sentire i peli sulle
braccia sollevarsi piano, uno dopo l’altro… riaprii gli occhi,
lasciando vagare lo sguardo oltre il ponte, giù sull’oceano di un blu
così scuro che si confondeva tranquillamente con il cielo ancora buio: non vi
era più un confine, erano diventati un tutt’uno, un’indefinibile
ammasso incolore. O almeno così appariva ai miei occhi.
Eppure solo il
senso della vista era limitato: quello dell’olfatto c’era, con il
tipico odore di salsedine e marino che avevo imparato a riconoscere; e anche
quello dell’udito c’era ancora, portava chiaramente il suono
ritmico e cadenzato delle onde che si infrangevano placide sullo scafo e fu
proprio grazie a quest ultimo che sentii quel nuovo, inaspettato trillo. Quello
dei tasti di un cellulare, premuti con abile velocità.
Riaprii gli occhi,
lanciando occhiate intorno, alla ricerca della fievole luce di un telefonino.
Non ci misi molto
ad individuarla: verso la prua, poggiata al muretto c’era lei, lei che
avrebbe dovuto trovarsi tranquilla nel suo letto, in un sonno che non stava
vivendo.
- Lari?-
Sobbalzò, sentendo
la mia voce. E sobbalzò perché la sentì vicinissima, prossima al suo orecchio.
Le mie intenzioni,
purtroppo per lei, non erano cambiate.
Con un braccio le
avvolsi la vita, poggiando il mio corpo sul suo, la testa sulla sua spalla.
La sentii
irrigidirsi chiaramente e anche tentare di divincolarsi. Non ci mise molta
convinzione però.
C’era
qualcosa che la tratteneva e lo capii subito.
La mia Lari non se
ne sarebbe stata buona e indifferente al mio abbraccio, quando nel suo letto
c’era uno stupido biondino che la aspettava: come minimo invece mi
avrebbe rifilato una ginocchiata ben assestata nei gioielli di famiglia.
Non dissi niente.
In silenzio,
respirando appena, mi godetti quel momento.
Non lo feci durare
troppo però, era sbagliato e lo sapevo.
Non avrebbe dovuto
esserlo.
No, per niente.
Questo pensai
mentre piano scioglievo l’abbraccio e poggiavo i gomiti sul limite del
ponte, vicinissimo a lei.
Posai il viso sui
palmi aperti, girando lo sguardo verso il mare: mi avrebbe fatto troppo male
vedere il viso di lei e, a quel punto, mi avrebbe distrutto il ripensare a come
si era irrigidita al mio tocco.
- Qualcosa non
va?-
Mi sembrava incredibilmente
strano che fossi riuscito a chiederlo, eppure lo avevo fatto.
In quanto alla
gola, secca e prosciugata, era come star vivendo un maledetto deja-vu.
- No-
Risposta quasi
indifferente, graffiante nella sua anonimità.
Non era vero, lo
sapevamo entrambi e la prova era nelle sue mani: nello schermo brillante del
cellulare.
Lari non era il
tipo da passare la notte a messaggiare, piuttosto lei era quella che prendeva
il telefonino e lo buttava a mare, per poi sedersi sul ponte a guardare il sole
che sorgeva.
Inarcai le
sopracciglia, ben conscio del fatto che lei non potesse vedermi.
- C’è un
biondo rincretinito nel tuo letto-
Lo dissi con voce
incolore, come fosse un semplice fatto di cronaca: lei emise un semplice
mugolio in risposta, come a darmi ragione unicamente per farmi tacere.
Che cavolo stava
succedendo?
Decisi che in
qualche modo dovevo studiare meglio la situazione e non essendo decisamente
nella posizione adatta per fare domande dirette ed intime, avrei dovuto
arrangiarmi con metodi alternativi:
- Sai una cosa?
Per fingere come si deve quando saremo arrivati, sarebbe il caso che ci
allenassimo un po’, così per non insospettire nessuno… cose che non
facciamo da tempo e che forse bisognerebbe riprovare. Un bel bacio ad esempio,
che dici? Non vorremo mica sembrare…-
Non conclusi,
bloccato in parte dal mio cervello che mi pregava di non umiliarmi oltre e in
parte da un bip proveniente dal cellulare che Ilaria teneva in mano. Un
messaggio.
Lei se lo avvicinò
un po’ al viso, leggendo quello che vi era scritto, poi sospirò,
girandosi verso di me.
Si avvicinò di
qualche passo, facendo sì che finalmente riuscissi a guardarla in viso.
Ma era poi un
bene?
Fissai i suoi
occhioni cioccolato, liquidi e spauriti. Dopo qualche secondo si animarono,
come percorsi da una scossa, vivi di una nuova luce. Determinazione.
- Hai ragione-
Mi inceppai su
quella frase, cercando inutilmente di assimilarla.
Non era una serata
normale quella.
Quasi non mi
accorsi del movimento di Ilaria: con un gesto fluido ed elegante portò la sua
mano destra sul mio petto e la sinistra dietro il mio collo.
La pelle
d’oca provata prima non era niente…
… niente in
confronto a quello che provai quando le sue labbra si posarono sulle mie.
*
Lapidatemi,
sparatemi… fate quello che volete. Mi merito sicuramente tutto e anche
molto di più.
Ho fatto
dannatamente tardi, ma un ritardo a dir poco pauroso, vi assicuro. Non volevo,
per quanto possa contare o per quanto vi possa importare, davvero non volevo.
E’ stata
colpa di Maggio, della scuola, dei prof… tutto insieme, diciamo così. Non
riuscivo più a scrivere niente di decente.
Non che ora sia
cambiato qualcosa, per carità.
Probabilmente il
capitolo è orrendo e nessuno lo avrà letto perché vi ho persi tutti a causa del
ritardo ^^
Non posso fare
altro perciò che chiedervi scusa all’infinito. Non smetterò mai di farlo…
Sappiate
comunque che voglio a tutti un bene enorme **
Risposte alle recensioni:
AleEe_E: Alee! Ma quanto tempo è passato? O.o
Non me ne parlare, per interrogazioni e compiti è un vero delirio. Io ancora
non ho finito, ma spero che per te invece lo sia! ^^ Per il capitolo mi
raccomando, sono in trepida attesa di un tuo commento: lo sai che ormai non
posso farne a meno! **
ChiaraBella: Allora, partiamo dal fumo: chi
interessa a te, no, non fuma. Quello che interessa a me invece fumava, ora non
più ^^ Pooi… volevo sapere di Celestino! Nn
ricordavo avessi un gatto! Me ne devi parlare assolutamente!! E poi, passando
all’insicurezza, non mancare di darmi il tuo parere sul cap. che
altrimenti non scrivo più lo sai! ^^ Un bacio!
annalisa70: “sono uomini quindi organismi
mono cellulari che si differenziano dai primati solo per il pollice
opponibile” Lo sai che stavo morendo dal ridere mentre leggevo questa
parte della tua recensione?! Comunque concordo in pieno, e naturalmente, per
non smentirsi sai com’è, anche i protagonisti di questa storia non sono
altro che cerebrolesi! Spero che ancora leggermi sia per te un piacere, perché
se lo è, per me scrivere e dieci volte più piacevole.
ila_cullen: Oiiii, Ilaaaa!!
Non hai idea di quanto mi manchi! Cmq msn è guarito! Finalmente è risorto,
amen! Appena ti trovo in linea non ti lascio più andare, e ti uccido a suon di
sproloqui! ^^ Per Fil spiaccicato da un tir.. ci sto facendo un pensierino, non
temere. Se poi mi dai altri spunti, ben vengano! Per Davide invece, mmm.. nn ti
dico niente, sono sadica come sempre! A sentirci al più presto mi raccomando!
Beeble: Ciao, ho fatto tardi lo so ^^ Più di
quanto potessi anche lontanamente temere, spero di non aver perso tutti i
lettori così, ma te in particolare.. mi mancheresti troppo. Se però lo studio e
i prof. mi hanno fatto perdere quel po’ di inventiva e capacità di
scrivere che avevo, lo capisco. Non indugiare a dirmelo! Per il resto, spero
che a te vada meglio di me =)
Tetide: Io ti amo, lo sai? Letteralmente, ti
giuro! Non potrei più fare a meno di te oramai! Ho fatto tardi lo so,
dannatamente tardi, e mi dispiace tantissimo. Rileggendo il tuo commento
naturalmente mi sono venuti i lucciconi agli occhi: ti faccio sognare? Ah, se
fosse vero anche solo un po’ mi metterei a piangere dalla gioia! Spero
che il ritardo e l’esaurimento nervoso non abbiano reso il capitolo
altamente disgustoso… fammi sapere come al solito, però, eh?
chichilina: Ciao! Lettore silenzioso, eh? Oh ma non
preoccuparti assolutamente! Faccio più schifo io con questo mostruoso ritardo
che non è assolutamente da me! Comunque, sono stracontenta che ti piaccia la
storia, e spero con tutto il cuore di non aver deluso tutte le tue aspettative
con questo nuovo cap. ma sai com’è, sono un po’ fusa ultimamente.
Per quanto riguarda il “trofeo Ilaria” ad essere sincera.. ancora
non so a chi lo darò ^^ Come mai Davide non ti va proprio a genio?
free09: Ciaoo!! Tu invece odi Fil eh? Ma
insomma! Così siete due schieramenti opposti! Se faccio finire tutto con un
triangolo che dite? No, scherzo! Ma lasciarlo per l’autostrada nemmeno mi
sembra carino! Per farli rimettere insieme poi… uff, non posso dirti
niente, non ci perdere le speranze però!
Nessie93: Spogliarello per tutta
l’autostrada, eh? Sì un pensierino ci si potrebbe fare, hai ragione,
magari con Macho macho man in sottofondo =) Per il
contagio di Mattia, invece, temo che i tempi si stiano riducendo drasticamente!
Non manca molto ^^
Saretta__Trilly__: Sono contentissima di riuscire a farti
ridere, lo sai? Si, si, stracontenta! *annuisce convinta, sorridendo diabolica*
No, dai, siamo seri! Una cosa volevo chiedertela: quando dici che fra i tre non
sai scegliere, intendi Fil, Dave e Mattia, vero? E
perché Muzi e Ray non li conti proprio? Antipatici…? xD No, siamo serie
davvero: ti volevo ringraziare: commenti sempre e riesci sempre a farmi
sorridere, sei incredibile, grazie davvero! **
Phe: Ciao! Oh, sì: luuuuuunga
vacanza, proprio lunga! ^^ Spero riuscirai a reggerla tutta! Per D. e Lari poi,
se sei sicura che siano fatti per stare insieme, non ti resta che aspettare no?
Serena Van Der Woodsen: Ciaoo!
Ma lo sai che ti adoro,
vero? Mi commenti sempre e sei sempre troppo buona! Non sono mica così brava!
Mi fai arrossire se dici cose del genere! Graaziee, lo stesso però! xD Poi, per
le domande, vediamo.. mm… bè qualcosa è vero e qualcosa no, diciamo che
si mischiano davvero bene realtà e fantasia! Se vuoi sapere qualcosa di più
preciso, non farti problemi a chiedere, davvero! Anche su msn, non ci sono
problemi!
Lilyian: Eh, sì, hai capito benissimo invece:
fazzolettini, e tutto il resto sono d’obbligo! L’unica cosa che non
deve esserci è l’infarto mi raccomando, altrimenti come fai poi a
seguirmi e commentarmi?? Non abbandonarmi per nessuna ragione mi raccomando!
Ancella79: Terza guerra mondiale è riduttivo, ma
immagino te ne sia resa conto da sola leggendo il capitolo! E questi sono solo
i preamboli, mi dispiace per voi, e per il mio povero neurone ch emi prega di
internarmi da già troppo tempo ormai! Continua e non lasciarmi! ^^
nikoletta89: Curiosa, eh? E ora, lo sei ancora o è
passata proprio la voglia di leggere? Spero ardentemente non sia così e ti
ringrazio per i complimenti! Mi farete commuovere prima o poi! Mi spiace, per
il ritardo, e non smetterò mai di dirlo: spero di non arrivare mai più a simili
vi assicuro.. tanti grazie davvero e un abbraccio virtuale =)
vannagio: Ciao! Ancora super impegnata come me?
Spero di no, così come spero che per qualche assurdo motivo continui a
seguirmi, senza dar per certo che Fil sarà scartato! Perché ne sei così sicura?
Non potrebbe essere che il figlio di papà sbagli ancora e che a quel punto un
attacco premeditato di Fil e Ila lo portino ad affogare nel mare di Siracusa? ^^
pirilla88: Ciao ragazze! Se prima mi eravate
mancate tanto voi, ora spero di non essere mancata io a voi! ^^ Scusate,
davvero: periodo frenetico non rende minimamente l’idea vi giuro! Per il
resto, spero di riuscire a giungere al più presto al sodo, non temete! Un
bacione enorme, sperando che stiate meno incasinate di me ^^
Miki 91: Ciaoo! Davvero sono riuscita a tenerti
incollata al pc per tre giorni? Mi prendi in giro, vero? Non credo
assolutamente di aver creato una storia degna di tanto! Se invece assurdamente
fosse così, spero con tutto il cuore che ti vada ancora di farmi sapere che ne
pensi! E’ sempre un onore sentire le vostre opinioni! P.s. Muzi da
proprio di orsacchiotto puccioso, vero? Anche a me fa quell’effetto! xD
zia_addy: Ciaooo! ç___ç Ora ho fatto
tremendamente tardi io, hai visto?! Mi sei mancata, lo sai? Proprio tanto, tu e
le tue favolose e divertentissime recensioni. Ma come fai? Cioè, come ti
vengono? L’idea dei capitoli Stupendi (leggi in verticale) mi ha fatto
morire! Non hai idea delle risa ti giuro, mi stavo commovendo! Grazieee! Non
smetterò mai di ringraziarti! **
rosa62: Ciao! Ci sei sempre è incredibile! **
Grazie! Spero di non arrivare mai ad annoiarti ma temo sia un desiderio
impossibile ^^ Ci tenevo comunque a ringraziarti per il tuo appoggio, e
prometto, di non fare più un ritardo tanto mostruoso (escluso mese al mare,
temo) per il resto, un abbraccio virtuale e ancora grazie **
valeflo: Davvero stupenda? Wow, me lo dite in
tanti e io ancora fatico a crederci! Grazieee! Mi fate venire le lacrime agli
occhi! Se ti va, fammi sapere ancora cosa te ne pare ^^
Ancella79: Si, ho fatto tardi lo so. Non sono
morta però! xD No, non ci sono scusanti e non devo buttarla sullo scherzo ma mi
sono sentita un po’ abbattuta e metti questo metti quello non riuscivo
più nemmeno a scrivere, Spero mi perdonerete, davvero! Un bacio!
“
Come solo il cuore di un uccellino in gabbia può fare ”
Il tre o
l’asso ?
Cosa mi conveniva
scartare? Se buttavo il tre, c’era la possibilità tanto di fare una scala
quanto di riuscire a fare un tris; allo stesso tempo però, tenendo in mano quel
tre di picche, c’erano maggiori probabilità di non ritrovarmi alla fine
incartata. Mi sarei rovinata con le mie mani a quel punto!
Continuai a
fissare le carte che le mie dita stringevano pigramente: quasi senza
accorgermene mi stavo succhiando l’interno guancia. Ero concentrata,
c’era poco da fare: tutti i neuroni applicati in quella decisione.
Sospirai, pensando
giustamente che non era con la scelta di Sofia che avevo a che fare.
Era solo una
partita di scala quaranta, per la miseria!
Feci per sollevare
l’indice della mano destra, ricordando solo dopo un attimo lì
ingessatura: allora con gli incisivi, delicatamente, afferrai il tre e lo
gettai fra le carte di scarto. Sorrisi, sollevando lo sguardo: soddisfatta del
gesto appena compiuto e per niente scalfita dall’espressione del mio
avversario.
- Ho perso tre
anni di vita -
Inarcai le
sopracciglia e Mattia, storcendo la bocca, continuò imperterrito:
-
Nell’attesa. Ho perso tre anni di vita mentre ti decidevi, Ila. E che ne
fai la scelta di Sofia ? -
- Uff, non
infierire. Ti serve o no il tre ? – domandai scocciata, osservando il
sorriso divertito che cercava inutilmente di nascondere dietro smorfie di
disappunto.
- No, no che non mi
serve. Mi dici secondo te a chi mai potrebbe servire un tre ? –
Feci spallucce,
scuotendo il ventaglio di carte verso il viso per farmi aria: iniziavo a sudare
e non andava affatto bene. Non ero pronta a sudare. Non si può sudare con un
gesso.
E invece il sole
picchiava, incurante del fatto che se avesse preso a gocciolarmi il polso, con
prurito annesso, non avrei potuto fare niente e sarebbe stata solo una tragica
tortura. Lanciai uno sguardo tutt’attorno, osservando curiosa e
incantata.
Il traghetto ci
aveva scaricati ormai da più di tre quarti d’ora: eravamo scesi a riva,
silenziosi come non mai, e ci eravamo sistemati temporaneamente sulla banchina.
O almeno credevamo temporaneamente, lo speravamo.
A momenti, così ci
avevano detto gli altri, sarebbero arrivati in macchina.
Sempre a momenti,
saremmo arrivati all’agriturismo.
A momenti, a
momenti.
Tre quarti
d’ora si potevano ancora includere nei momenti ?
Non avrei saputo
dirlo. Avevamo avuto il tempo di rinfrescarci, di contemplare il mare, la
spiaggia, la strada.
Anche il bar
avevamo contemplato. Poi mi ero stancata di contemplare: con gesti nervosi
avevo cercato le carte francesi nello zainetto e trascinato Mattia per il
cappuccio gli avevo amorevolmente proposto di giocare.
Poveretto: una
volta ritrovatosi seduto a bordo strada, con tredici carte in mano e nessuna
via di fuga, probabilmente si era sentito come in dovere di giocare. Ero ancora
fermamente orgogliosa tuttavia, di non averlo forzato in alcun modo.
- Che ti prende,
Ila ? -
Sobbalzai, presa
in contropiede, e tornai ad incrociare lo sguardo di Mattia: era curioso e
preoccupato allo stesso tempo. Non riusciva a capire il perché del mio
turbamento, ma come potevo aiutarlo?
Non potevo e
basta.
Fino ad un certo
punto potevo sfruttare quel ragazzino, ma parlargli di quello, sarebbe
stato sicuramente sconfinare oltre il limite. Lo sapevo e non avrei mai smesso
di ripetermelo.
Scossi la testa,
come per scacciare una mosca: ma niente, davvero, cosa vai a pensare!
Continuava però a
scrutarmi per niente convinto o intimorito: voleva sapere.
Mi sentii
spogliata da quello sguardo, privata improvvisamente delle difese che con tanta
fatica stavo tentando di sollevarmi tutto attorno. Non puoi farmi questo,
Mattia…
Deviai lo sguardo,
non reggendo più quegli occhi grigi così profondi, e cercai altri aiuti: come
al Milionario che so, non potevo chiedere l’aiuto del pubblico? No,
naturalmente. Semplicemente perché non c’era.
Nessun pubblico.
Sembrava deserta
l’isola: nessuno a destra, nessuno a sinistra, nessuno di fronte. E lo
stesso valeva per il lato mare. Non c’era anima viva.
- Ma Fil ? E
Davide ? Che fine hanno fatto, Matt ? - lo avevo chiesto come ultima spiaggia,
accorgendomi solo in quel momento del silenzio, della loro assenza.
Fino a meno di
dieci minuti prima erano lì entrambi: vagabondi irrequieti che non riuscivano a
darsi pace.
Non avevano fatto
altro che imprecare: conto Maurizio, Veronica, Ray, Andrea e chiunque altro gli
capitasse sotto tiro. Era loro la colpa. Era a causa loro che ci ritrovavamo
confinati lì, senza nessuno, senza alcun modo di andare via né di tornare
indietro.
E ora,
improvvisamente il silenzio.
Mi sorpresi di non
essermene resa conto prima: mi ero talmente abituata a quel mormorio
continuo…
Eppure ne ero
certa: ora si erano improvvisamente volatilizzati. Tutti e due.
Mattia fece
spallucce, segno che non aveva idea:
- Si saranno
uccisi a vicenda, chi se ne importa. Davano solo fastidio. Si può sapere che
hai, allora ? -
Si stava
innervosendo anche lui, lo capii dalla voce.
Erano tutti
nervosi ultimamente, notai con una punta di risentimento.
E a quanto pareva
la causa di tanto nervosismo ero sempre io.
Mea culpa.
Mia, solamente e
totalmente mia.
Merito mio se
Davide era sceso dalla nave con un diavolo per capello, se Filippo non riusciva
a stare zitto un attimo e se ora Mattia si fosse messo ad urlare. Non era
giusto, però. Nemmeno un po’.
Avrei voluto
urlare io a quel punto: perché non era logico.
Ripensai per prima
cosa al racconto di Mattia: a quel poco che avevo afferrato fra un rantolo e un
altro. A stento riusciva a trattenersi il ragazzino: si manteneva la pancia,
soffocato e sconvolto dalle risa. E anche io avevo riso, non si poteva fare
altro: quando quell’immagine ti si profilava nella mente, eri costretto a
sorridere.
Com’è che
aveva raccontato, Mattia ?
Ilaria! Ila,
non ci crederai mai!
Non ci puoi
credere, ti giuro! E’ incredibile! Sconvolgente, ti giuro!
Io ero…
ero entrato in camera tua: era socchiusa la porta e così mi sono detto: perché
no?
Credevo fossi
ancora sveglia, che non riuscissi a prendere sonno nemmeno tu, e mi sono
convinto ad aprire la porta. Ti ho chiamata ma non sentivo niente. Visto che
non rispondevi, mi sono insospettito… e ho acceso la luce. Dio, non lo
avessi mai fatto!
Ho realizzato
poco alla volta, ti assicuro. Era come se si muovesse tutto al rallentatore.
Come se ogni
immagine si dividesse in fotogrammi, apparendo e mostrandosi piano ai miei
occhi.
Prima ho visto
Filippo nel tuo letto, quel biondino, ti rendi conto ?
Ma lo sapevi
che era nel tuo letto ?
Comunque, lui
dormiva: occhi chiusi, avvolto nel lenzuolo… e poi, poi ho visto
l’altro!
Davide!!
Sì, e
c’era anche lui nel tuo letto! Ma non solo!
Come se non
bastasse…
Allora aspetta,
prima ho pensato a male: vedendo prima uno e poi l’altro ho detto: da Ila
questa non me l’aspettavo, che fa si diverte con entrambi? Cioè, che
razza di giochini ci fa con tutti e due?
Ho pensato a
male, lo so.
Poi però ho
notato il braccio di Davide: era stretto attorno a Filippo!
Si stavano
abbracciando!
Incredibile…
Ho detto: ed
eccoli, che fanno, come quelli di Brockback Mountain ?
Cioè, ho
pensato male di nuovo.
Mi sono detto:
ed eccoli! Ma cos’è contagioso? Ora fanno come quegli altri due?
Come Andrea e
Mirko?
Che vogliono
fare poi, un’uscita a quattro?
E invece no! Il
meglio doveva ancora venire! Sì, perché non appena ho acceso la luce…
avresti dovuto esserci.
Non puoi
immaginare le facce! Le espressioni, santo Dio! Incredibili!
Sono saltati
tutti e due come molle! Neanche una scarica elettrica avrebbe potuto tanto!
Prima Davide e
poi Filippo!
“Ma che
cazzo ci fai nel letto, perché mi abbracci” e simili… stavo per
morire ti giuro.
Poi ho capito.
Non erano lì
con te né senza di te.
L’unica
cosa in dubbio a quel punto era dove fossi tu…
Sorrisi, riuscendo
a mala pena a crederci.
E quello, forse,
era il perché del nervosismo di Filippo.
Ma Davide?
Quello era più
complesso. Quello veniva dopo, subito dopo il racconto di Mattia.
Era una nuova
scena, con personaggi diversi e uno sfondo diverso: c’eravamo solo Davide
ed io… sul ponte.
Impallidii,
ripiegando le carte che avevo in mano e lasciando perdere il ventaglio.
Ripensai per prima
cosa ai messaggi che avevo trovato in segreteria: quelli a cui stentavo a
credere.
Perché
semplicemente, lo trovavo assurdi, o meglio ancora, perché non volevo crederci.
Mi erano
inconcepibili.
Uno di Veronica,
uno di Ray… cos’è che dicevano? Oh, in generale niente di che.
Erano stati bravissimi nel distrarmi: ci erano riusciti a tal punto che quasi
non avevo sentito l’informazione più importante: quella che davvero
volevano darmi e che avevano tentato di addolcire.
I miei genitori.
Di quello avevano
parlato, accennando al fatto che ci sarebbero stati anche loro. E io non ci
avevo visto più.
Una rabbia, sorda
ed incolore, era risalita dentro di me. Diventando quasi soffocante.
Un groppo amaro in
gola, ecco con cosa mi ero ritrovata.
Perché ?
Non saprei…
ripensavo all’ironia della vita, a quanto fosse ingiusta, a quanto
fossero ingiusti.
Loro. Loro lo
erano.
Loro che non
c’erano mai stati e ora, di punto in bianco, decidevano di farsi vivi.
Perché?
Perché ai
cinquant’anni di matrimonio della zia?
Perché per la zia
trovavano il tempo e per me no? Non riuscivo a capire.
Non potevano
esserci per me, mai.
Né quando avevo
compiuto i diciotto anni né quando avevo superato l’esame di maturità.
Non c’erano quando dovevo pendere la patente, non c’erano quando
avevo incontrato Davide. Non c’erano quando volevo farglielo conoscere,
quando avevo bisogno di un consiglio, quando mi serviva un appoggio morale,
finanziario, mai.
Mai, mai, mai.
Nemmeno quando ero
stata bocciata due volte allo stesso esame, quando era caduto dalle scale
Mirko, quando avevo scoperto il tradimento di Davide e mi ero sentita crollare
il mondo addosso.
Mai, mai.
Che piangessi, che
mi disperassi, che li chiamassi, li implorassi. Che andasse tutto male o a
meraviglia. Loro non c’erano in nessun momento. Via telefono, no. Via
mail, lettera, no.
Mai.
E ora, per la zia,
improvvisamente c’erano.
Anni di amarezza
stavano risalendo a galla. Incomprensioni, delusioni, tutto riemergeva.
E non potevo farci
niente.
Mi sembrava quasi
che a stento ricordassi le loro facce.
E cosa avrei
dovuto fare io, poi? Abbracciarli, salutarli, baciarli, come se niente fosse?
Mentre pensavo a
quelle cose era arrivato lui.
Lui con il suo
abbraccio, con il suo respiro, con la sua presenza.
E il groppo se ne
era andato, lasciando pian piano spazio a nuove idee, nuovi pensieri: ricordai
quanto avevo desiderato far conoscere il mio ragazzo ai miei genitori. Era un
passo decisivo.
Quante volte ci
avevo fantasticato, ricordando scene viste in film, lette in libri, in
racconti.
Tante, troppe. E
non era mai successo.
Ancora lo
desideravo, però: più ardentemente di prima.
Ora equivaleva ad una
vendetta, quasi. Era come un regolamento di conti.
Un qualcosa che
non avevo avuto modo di fare e mi bruciava dentro.
E capii così, di
volerlo.
Di volerlo nel
modo sbagliato forse: doveva essere perfetto. Dovevo far capire loro quanto
avevano sbagliato.
Cosa si erano
persi.
Si erano persi me,
Mirko e tantissimo altro. E volevo se ne pentissero.
Perciò doveva
essere perfetto.
Fra Davide e me.
O almeno, di
quello mi ero convinta.
Forse ne avevo
solo bisogno. Bisogno per non crollare.
Ad ogni modo, sentirlo
così vicino mi aveva destabilizzato e quando sentii quello che diceva…
Ancora non me ne
capacito: lo avevo fatto.
Lo avevo
arpionato, stringendolo a me. Lo avevo baciato. Io. Di mia volontà.
E gli avevo messo
il braccio dietro al collo, per sentirlo di più.
Per sentirlo mio.
Avevo rischiato di
svenirgli tra le braccia, su quel ponte. Per colpa di quelle labbra.
Quelle labbra che
avevo dimenticato, quel sapore che avrei sempre ricordato.
Lui, soltanto lui.
Un bacio con lui.
E il mio cuore era
impazzito, aveva preso a battere frenetico non appena avevo sfiorato il suo
viso con il mio.
Impazzito,
totalmente impazzito.
Come il cuore di
un uccellino in gabbia.
Come il cuore di
un uccellino che vede l’alba sul mare, che sente la brezza su di sé e
vuole volare via, verso l’orizzonte, seguendo un istinto di cui ha
imparato a non fidarsi, ma non può. No, che non può.
Perché c’è
una gabbia, trasparente e dorata. Inviolabile. Che non può ignorare.
Una gabbia che si
è creato da solo…
- Ila! -
Sussultai più
della prima volta, sentendo la voce di Mattia così alterata.
Mi resi conto solo
in quel momento che mi stava chiamando già da un po’, e finsi un sorriso
tirato.
- Sono scappata
via – sussurrai, parlando più che altro a me stessa.
- Cosa? Da che sei
scappata? Quando? –
Domande, solo
domande.
Come potevo
rispondere?
Da Davide. Meno di
tre ore fa.
Da Davide. Dopo
averlo baciato.
Da Davide,
correndo nella cucina del traghetto, lasciandolo lì così, dopo aver fatto un
casino coi fiocchi.
E sì, mi ero
comportata da stronza.
Lo sapevo
benissimo, solo non volevo ammetterlo. Non volevo dirlo a Mattia.
Perché a quel
punto, se anche lui giustamente mi avrebbe biasimato, prendendo le parti di
Davide ad esempio… a me chi sarebbe rimasto? Nessuno.
E io, senza
nessuno, non ce la potevo fare.
Stavo per
rispondergli, inventando una scusa qualunque, quando sentii un clacson.
Lo sentì anche
Mattia che si voltò, sorpreso quanto me: fissammo il furgoncino che si
avvicinava, arancione, privo di tetto e lunghissimo. Ci potevano entrare che
so, a occhio e croce, una dozzina di persone.
Sorrisi,
riconoscendo la guida a rotta di collo di Andrea e ringraziai.
Li ringraziai, per
avermi salvato in calcio d’angolo… da Mattia, dai miei pensieri.
Da tutto.
Con una sbandata e
una sonora sgommata il mezzo si fermò, impennandosi quasi, davanti a noi.
Come in un gioco
di prestigio, improvvisamente ed apparentemente dal nulla, riapparvero anche
loro: Davide e Filippo, che generosi di battute salaci, avvicinarono i miei
salvatori.
Sempre sorridendo
avanzai verso il furgoncino.
Sorridendo, pronta
ad affrontare quel breve periodo di vacanza.
Sorridendo, come
un condannato a morte.
*
Salve ! ^^
Tanto per cominciare, buon luglio a tutti! E
con questo è inteso anche buone vacanza, buon bagno, buon sole e tutti gli
annessi e connessi!
Mi sembra, sempre che non sbaglio (colpa del
sole) di avervi già parlato del mio confinamento in un paesino sperduto…
Ora come ora, sono ancora lì!
Non andate in ansia per me =D è oltremodo
divertente ritrovarsi a socializzare con quelli del luogo, stando qui però
c’è un lato oscuro della medaglia…
Niente Internet.
Niente connessione sta a significare niente
efp e quindi niente aggiornamenti.
E’ orrendo quello che vi sto facendo
lo so, proprio per questo avendo a disposizione solo pochi minuti mi sono
premurata di aggiornarvi almeno di un capitolo tutte le storie.
Per chi ne segue più di una, spero di aver
fatto bene, di non aver deluso nessuno.
E per chi ne segue solo una in particolare,
bè non so che dire: io di più non posso fare in questo momento… perché
non fate un azzardo allora e finito il capitolo non ne provate qualcun'altra di
storia? C’è la ben remota possibilità che vi vada a genio ^^
Lasciandovi, posso solo assicurarvi che
appena ho un minuto libero lo passo scrivendo.