Il limbo degli attori - Actors' limbo

di LawrenceTwosomeTime
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non sono ***
Capitolo 2: *** un essere umano ***



Capitolo 1
*** Non sono ***


Camminavo da ore tra faggi e betulle, l'aritmico sgocciolio della rugiada a scandire i miei passi.
La terra era così scura da sembrar fatta di puro buio, la foresta così fitta da soffocare ogni scampolo di cielo.
Io non vi badavo, come nei sogni non si bada al luogo e al contesto; talvolta, non ci si accorge nemmeno di essere nudi.
Ma io i vestiti li portavo: giubbotto beige e maglietta verde, pantaloni cascanti di un'indefinita tinta azzurro pallido. E scarpe da tennis. Un look ideale per quel clima da foresta pluviale.
E, si: il fatto che indossassi l'equipaggiamento adatto a una spedizione nel folto della macchia era effettivamente preoccupante.
Ma non c'era pensiero che mi adombrasse mentre scostavo con mano ferma i rami dei larici, al massimo un leggero stupore mi coglieva nell'imbattermi in palme e querce, abeti e salici piangenti.
Mi trovavo in un luogo assurdo, tanto più che ad una perfetta proliferazione di flora contrastava un'inspiegabile assenza di fauna: dov'era finita la fonte di quel rigoglio? Perché gli animali se n'erano andati lasciando che le piante germogliassero indisturbate?

E poi, s'impadronì di me una lieve impazienza, o forse era senso di aspettativa. Poco al di là delle felci affastellate di nero, pareva sempre risplendere un fioco bagliore dorato, un chiarore che illuminava – di rimbalzo – col suo riverbero fioco tutta la foresta. Ma era impossibile stabilire da dove provenisse, era come un miraggio: un fuoco di sant'elmo che faceva capolino, simile ad una lampadina, dal fusto di ogni virgulto, scemava tra le pieghe delle ruvide cortecce e riaffiorava nella volta infinita sopra di me che tanto rassomigliava ad un cielo senza stelle.

Mi misi in trappola quando trovai il sentiero: i sentieri sono maliardi tentatori quando ci si trova sperduti in boschi sconosciuti. Era tracciato appena un po' più chiaramente del terreno circostante, e aveva l'aria di non essere stato adoperato da parecchio tempo.
Dopo un'infinità di curve e svolte che si tuffavano tra radici pericolosamente sporgenti e distese di cardi ostili, la strada cominciò a farsi più definita. Definita nel senso che la macchia intorno a me sembrava quasi costruita: non piantata, una foresta non si può "piantare".
Eppure non si staccava da me la sensazione di star camminando in un corridoio naturale progettato a regola d'arte, con volute e volte vegetali che si piegavano idealmente a formare le arcate di una cattedrale.
L'insieme suonava sacrale, ma anche un po' opprimente. La luminescenza era svanita.

Infine, giunsi alla galleria.
A prima vista, non era altro che una voragine di medie dimensioni, molto regolare e incorniciata da una sequela di conci bianchissimi, che faceva bella mostra di sé al centro di una montagna di terra grondante radici. A intervalli sporadici, le appendici si facevano rami, da cui spuntavano foglioline a lancia color ambra. Alcune erano a stella.
Senza avvedermi del timore reverenziale che mi ispirava quel luogo, mi avvicinai per toccare uno di quei rami contorti. I terriccio era soffice e screziato come un'epidermide umana.

Il silenzio era assoluto. Ogni cosa odorava di silenzio, in special modo il buio che trapelava dalla galleria.

Provai a muovere un passo all'interno del cunicolo, e il cuore mi si impennò. Precipitai nel vuoto.


Quando rinvenni, mi trovavo accasciato su una panchina verderame in uno spiazzo deserto ritagliato tra due palazzi. Un lampione antiquato illuminava fiocamente le mattonelle sporche, pagine di giornale svolazzanti, una grata squadrata e discreta, probabilmente usata per far rifluire la pioggia.
Mi sentivo il collo anchilosato mentre mi volgevo a guardare il cielo di un violento viola prugna, e una folata di vento gelido mi aggredì le guance.
Mi tirai in piedi e uscii dal cortiletto. Sbucai in quella che pareva una stradina laterale costeggiata da una rete metallica.
Sembrava una città, ma in qualche modo i colori erano sbagliati. Casermoni granitici, complessi industriali, squallidi scampoli di periferia ammonticchiati l'uno sull'altro come spazzatura nel corso di chissà quanti anni. Marroni e giallastri, color ruggine, vomito, pece, ferocemente acidi.
Ispiravano un senso di familiarità misto repulsione.
"Com'è possibile che un luogo possa deperire fino a tal punto?", mi chiesi.
Anche la conformazione dell'agglomerato era insolita: tutte quelle strade non avevano un punto d'arrivo. Mai una piazzola, un viale un po' più largo del normale, una via maestra o un cortile (con la sola eccezione di quello in cui mi ero svegliato): se imboccavi un percorso, sapevi che non saresti mai approdato al punto di partenza, eppure non c'era fine al numero di vicoli e cunicoli, viuzze e passaggi, e ciò contribuiva a farmi sentire una formica dentro un labirinto.
Svoltai un angolo e mi trovai di fronte una donna. Età indefinita, tra i venti e i quarant'anni, carnagione perlacea, tratti duri e capelli corti biondo platino; indossava un blazer bianco panna e comodi pantaloni scuri con stivali di camoscio. Sul volto aveva una strana cicatrice obliqua che sembrava quasi una pittura rupestre, se possibile ancora più bianca della sua pelle.
Mi indirizzò un sorriso amaro, inclinando appena quelle labbra umide di rossetto, e disse semplicemente: "Vieni, ti porto a casa"

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Capitolo 2
*** un essere umano ***


La signora bianca aveva la caviglia svelta, faticavo a starle appresso.
Mentre incespicavo e arrancavo dietro a quell'ombra sfuggente, arrampicandomi per gradinate claustrofobiche e sottoportici incassati, arrischiai una domanda.
"Dov'è qui?"
La donna sbuffò e agitò la mano in segno di impazienza: "Mai una volta che qualcuno si azzardi a cambiare registro…Dov'è rispetto a cosa, di grazia?"
"Ci troviamo ancora sulla Terra? Insomma, questa è la realtà?"
"Certo che siamo reali, noi e il mondo che ci ruota intorno! E per rispondere alla tua prima domanda…ni"
"Ni?"
"Viviamo in una realtà parallela, una dimensione alternativa, un qualcosa che però è qualcos'altro"
"Stai cercando di dire che esistono delle dimensioni tangenti, degli…spazi periferici, per approssimare?"
La donna bianca scomparve in un sottopassaggio. Mi affrettai a seguirla.
La luce non era che un baluginio di rame, il fetore e i miasmi di decomposizione, molto concreti.
"Ci manca ancora un po', dunque mi permetto di darti una lezione di esistenzialismo", proclamò la signora, niente più che una sagoma tremolante tra le piastrelle scrostate.
"Noi nasciamo in dei corpi, dunque non possiamo fare a meno di pensare di essere il centro del mondo"
"Io lo so benissimo di non essere al centro del mondo! E comunque, è inevitabile osservare le cose da un punto di vista soggettivo…"
"Ecco, appunto, è inevitabile. Anche sotto il giogo della razionalità, la mente tende a setacciare la realtà circostante secondo il proprio personalissimo metro di giudizio. Di conseguenza, anche la concezione del proprio vissuto soggiace a criteri di unicità e "completezza". Gli unici parametri di cui disponete sono quelli della vostra realtà di appartenenza, perciò non concepite che possano esistere altri dove e quando non dissimili da quello in cui vivete voi"

La luce di un tiepido sole lancinante ci investì quando sbucammo all'aperto.
La signora si appoggiò a una murata di cemento e mi squadrò con un po' più di attenzione.
"A proposito, qual è il tuo nome?"
Non me lo ricordavo. Dissi il nome del primo albero che mi veniva in mente.
"Acero"
"Aha. Io sono Altea"
Mi strizzò l'occhio. E proseguimmo.

"Quello che non capisco", dissi riprendendo il filo del discorso, "è perché sono finito qui. Che cos'è questo posto?"
"Non ha nome", rispose lei con tono cupo, "ma tutti lo chiamano "Il limbo degli attori". A suo tempo capirai perché"
"Tutti chi? Non c'è anima viva"
"È perché ognuno vive questa realtà in modo differente. Chiunque sia capitato in questo luogo, ci è capitato per sua scelta: ogni, e dico ogni persona che abbia mai avuto accesso a questa realtà, vi è entrata perché ha deciso di imboccare un dato sentiero, e sempre in completa autonomia, ha scelto di varcare una determinata porta"
"Cosa intendi con "in modo differente?""
"La città è infinita, ed è in simbiosi con chi la abita. Ma potrebbe non essere una città. Lo è nel tuo caso. C'è chi percorre vaste pianure desolate o futuribili megalopoli piene di vita e di rumore. Parte dell'estraniazione che sperimentiamo deriva da questo luogo, e parte è opera nostra. Come pure la scansione temporale funziona in modo totalmente differente"
"Cioè?"
"Qui il tempo è bloccato. A ognuno viene assegnato un determinato settore temporale, un frammento, un istante non scomponibile di tempo. E lì vi rimane. In eterno"
"Certo", aggiunse poi, notando la mia espressione, "può darsi che in un determinato futuro, questa città torni a rifiorire, ma tu non vedrai mai quel momento. Perché il tuo momento è qui, ora, e per sempre. Solo chi osservasse da fuori l'intercalazione di un determinato numero di soggetti in questo recipiente dimensionale, potrebbe avvedersi di uno scorrere del tempo. Ma tu no, tu vivi dentro un istante"
"E tu, allora?", chiesi con la bocca incredibilmente secca. Stavamo costeggiando una fila di casette a schiera.
"Io? Io sono una sibilla; un essere umano che, come te, è capitato in questo luogo senza riferimenti, e ha scelto di farne parte. Ho sempre amato fare da guida alla gente", precisò con una punta di orgoglio. "E la mia carica mi impone di aiutare tutte le anime sperdute a trovare il loro centro; di contro, posso viaggiare attraverso tutti i dove e i quando che compongono questa dimensione"
Avvertii un tono di mestizia nella sua voce.
"Ma…?", la incalzai.
"Ma sono condannata a rimanere qui per tutta l'eternità. Non che la cosa mi dispiaccia: per me questo posto è meglio del Paradiso"
"Vuoi dire che è possibile uscire da qui?"
"Possibile, ma non dimostrato. È come la teoria dei buchi neri, o le speculazioni sulle proprietà dell'antimateria: il calcolo probabilistico non impedisce di negare la possibilità che esista una via d'uscita. Se ci sei entrato, dovresti poterne anche uscire"
"E qualcuno ce l'ha fatta?"
"Non che io sappia"

Intanto avevamo raggiunto un piccolo viale cosparso di lamiere accartocciate, che affiancava una serie di porticine dall'aria molto graziosa e curata, in legno lucido, incastonate in un muro leggermente ribassato rispetto al livello del suolo.
"Ecco, siamo arrivati", annunciò Altea.
"La tua casa è dietro quell'ultima porta in fondo", disse indicandomi uno degli usci.
"Vivici come ti pare e piace, e non disperare: in questo posto c'è molta più vita di quanto non appaia"
"Ma che cosa si suppone che faccia?", domandai.
"Quello che facevi tutti i giorni", rispose lei con sguardo enigmatico. "Fingi di vivere"

Avrei avuto ancora molte domande da farle, ma prima che potessi avvedermene era sfuggita alla messa a fuoco dei miei occhi. Non c'era più.

Mi volsi verso l'entrata della mia nuova abitazione, conscio che probabilmente non si trattava di una semplice casa, e ruotai la maniglia di ottone.

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