Blues Ballad di bravesoul (/viewuser.php?uid=62160)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Baby Blues. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: Bluesman ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: Blues' Crisis ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3: Blues disease ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4: Melody Without Meaning ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5: Requiem for a Blues soul ***
Capitolo 1 *** Prologo: Baby Blues. ***
Che
dire di questa fic? l' ho partorita, letteralmente. Ne sono
estremamente orgogliosa, perchè è stata un
Odissea. Si è classificata prima al
contest " Mental", ma l' avrei pubblicata anche se fosse arrivata
ultima. Quindi leggete, se non vi spiace commentate^^.
Questa
fic parla di problemi e malattie psicologiche, quindi, se non vi
piace l' argomento o lo ritenete troppo pesante non leggete.
Alle
Giudicesse.
Ma,
soprattutto, a chi mi da la forza di andare avanti
Blues
Ballad
By
Bravesoul
Prologo:
Baby
Blues.
Il
sole bagna lentamente la tua pelle, passi le unghie curate
sull’epidermide
del viso, tastando le piccole rughe che iniziano già a
formarsi agli angoli
degli occhi e della bocca.
I
polpastrelli si fermano inclementi su quelle imperfezioni,
così
minuscole e copie microscopiche del macroscopico scempio inciso sulla
carne
della tua pancia da ex- pregnant e
sulle cosce troppo grosse e con la pelle floscia.
La
pelle non è più perfetta, e tu avresti voglia di
gridare.
Scosti
i capelli, troppo spenti, dagli occhi, sempre troppo umidi,
li passi dietro le orecchie troppo
sensibili.
E le
stesse orecchie percepiscono il pianto di quel bimbo una volta
tanto voluto e che ora non riesci nemmeno a sopportare.
Ti
alzi dalla sedia che sa tanto del tuo ex marito, raccogli le forze,
stringi i pugni, serri i denti, e ti avvicini a quella culla maledetta,
lasci
scorrere lo sguardo per quel corpicino tremante.
Avvolto
nelle coperte pare così indifeso: la testa piccola, gli
occhi
simili ai suoi chiusi, le labbra
socchiuse in un urletto alla richiesta di cibo, le manine serrate
attorno alla
coperta comprata dall’altro,
il corpo
semplicemente rannicchiato.
Dovrebbe
ispirare amore, dovrebbe ispirare tenerezza, a te comunica
solo odio.
Odio,
perché quel bimbo ti ha privata dell’unica cosa
che ti era
rimasta: la bellezza.
Odio,
perché il padre biologico di quel bambino non
c’è più e ti ha lasciato
quella cosa da accollarti.
Odio,
perché vorresti quel fagotto dentro di te, per non sentirti
brutta,
per non sentirti sola, per riportare indietro il tempo.
Vorresti attorcigliare
le tue mani per quel collo
sottile, strappare la vita a quel coso
a cui l’hai data, vorresti estirpare quella vita per averne
il controllo.
Come ne avevi prima.
Dio…
è tuo figlio, come puoi anche solo desiderare una cosa del
genere?E’
il frutto dell’amore vero, del fin’amors,
come puoi anche solo pensare di poter porre fine a questa vita?
Eppure,
eppure nel profondo dell’anima, senti questo desiderio
inconsulto farti visita, rovinare questo forse punto di partenza per
una nuova
vita.
Ti
accasci a terra, serri i pugni, affondando le unghie scarlatte nella
carne delle tue mani perfette, le lacrime che corrono veloci, nervose,
inclementi, sul tuo volto perfetto.
Il
volto che tu odi, perché solcato da quelle rughette
insignificanti.
Vorresti
ucciderti? Vorresti calare un coltello per la tua gola
perfetta, non respirare più ?
Non lo
farai, perché non sei arrivata a tal punto,
perché, ancora, c’è
qualcosa che ti trattiene alla lucidità.
Di
scatto ti alzi, ridi, ridi istericamente, chiedendoti come sia
possibile.
Vuoi
una risposta?
Non lo
è.
Qualcuno
bussa alla porta.
Chiudi
gli occhi, ti alzi, ricomponi la tua perfetta facciata.
Nessuno deve vederti così, nessuno.
Perché?
Chiudi
gli occhi e prepari il cerone per l’ennesima recita,
l’ennesimo spettacolo
di fronte a quel pubblico cieco e sordo.
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Capitolo 2 *** Capitolo 1: Bluesman ***
Capitolo
1:
Bluesman
Capelli argento davanti
agli occhi, mani nelle tasche di un cappotto di lana blu, faccia quasi
coperta
da una sciarpa grigia.
Un occhio nero e vigile,
l’altro, opaco, non vede quasi più, se non qualche
ombra e qualche colore di
tanto in tanto. Qualcosa a cui sono abituato.
La leggera brezza
invernale fruscia, leggera, facendosi beffe dei miei abiti pesanti, del
mio
umore cupo, troppo cupo, e della mia noncuranza supposta.
Le mani
giocano con i ninnoli di cui sono sempre
piene le mie tasche: la sinistra indugia al tatto del metallo caldo
delle
chiavi di casa mia, la destra stringe la chiavetta delle macchinette
dell’ospedale.
Alzo lo sguardo, sapendo
di essere arrivato a destinazione: una villetta a schiera immersa nella
pace di
Salisman street, una piccola via privata di Seattle.
E, come tutte le volte
che guardo questa dannata villetta, mi chiedo che diavolo sia venuto a
fare,
forse solo a farmi del male.
Istintivamente porto la
mano destra all’occhio sinistro, l’occhio ferito,
l’occhio che mi da una scusa per non vedere, per non far
vedere, l’occhio
cieco, l’occhio che, alla fine, è solo una delle
mie facce.
Che
diavolo sono venuto a fare qui?
Solo a farmi male,
rispondo.
Cosa troverò? La donna
infranta del mio migliore amico, anzi, la donna infranta del mio ex- migliore amico. Ex, perché
il mio
migliore amico è… morto.
Morto, lasciandola da
sola a questo mondo, da sola con un bimbo da partorire e crescere.
Solo a
farti male?
Provo un malsano piacere
a farmi male, rispondo. A farmi male… a vederla affrontare
il mondo a muso
duro, mentre io non so fare altro che rifugiarmi nei problemi altrui,
nei corpi
altrui, nelle malattie altrui, senza capire la mia.
Un medico abilissimo nel
far tacere cancri altrui e letteralmente incapace di capire il proprio
morbo.
Avanzo, passo dopo
passo, entro per quel cancello sempre aperto,
busso a quella porta che sa troppo di usuale.
Rumore di passi, il
pianto di un bimbo, sorrido, sotto la sciarpa.
La porta si apre,
rivelando una donna bellissima.
Cristo…
Come al solito il cuore
perde un battito o due nel vedere quegli occhi carmini e quel sorriso
che si
stampa a forza in faccia. Come se non vedessi il disagio sotto quel
volto di
cera costruito di fretta e furia per non fare capire quanto sia
difficile. Come
se non capissi quanto male fa ritrovarsi sola.
E, per l’ennesima volta,
mi chiedo cosa sia venuto
a fare qui.
- Yo!- La mia voce viene
fuori, attutita dalla sciarpa di lana e dal vento. Falsamente allegra,
si
staglia parallela alla tua maschera cerata e costruita.
- Ciao Kakashi!- pieghi
la testa di lato, a sinistra, come fai di solito quando sei contenta e
curiosa.
Gli occhi rilucono, le labbra si arcuano in un sorriso vero.
Le piccole rughe attorno
ai tuoi occhi si fanno presenti, invadenti nei tuoi perfetti quasi
trent’anni. Piccole
rughe che odi, che
cerchi di sterminare con costosissime creme che sono costretto ad
accompagnarti
a comprare. Non ti rendi conto di quanto tu sia bella e umana con quei
piccoli
segni del tempo?
- Cosa sei venuto a fare
da queste parti?- mi chiedi dolcemente, le mani infilate nelle tasche
dei
jeans, hai freddo, coperta solo da un maglione rosso. – Non
dovresti essere in
ospedale a salvare vite?-
Sorrido dolcemente, è la
stessa domanda che mi sto ponendo io in questo momento. –
Sono in pausa e ho
pensato di venire a trovarti, dopotutto Genma mi deve un turno.- mento,
perché
la vera ragione per cui ho attraversato mezza città
affrontando il gelido
inverno non è nota neppure a me.
- Entra.-
la tua voce è allegra, dopotutto ti fa
piacere che mi ricordi di te.
La porta si apre, mi
lascia entrare, prendo il pomello della maniglia e chiudo
quell’entrata sul tuo
mondo privato.
Pavimento di parquet di
noce, casa arredata in un sobrio stile quasi orientale. Hai sempre
adorato
questo genere di cose.
Un grande salotto con un
divano e due poltrone, in tavolo di legno color naturale su un tappeto
probabilmente persiano, probabilmente regalo della madre del tuo
vecchio
compagno. E poi... poi quella culla in legno chiaro, con le sbarre poco
distanti l’una dall’altra che lasciano intravedere
il tuo pargolo. Un fagottino
piangente e che sa ancora del tuo profumo di mamma.
Mi siedo su di una
poltrona, quella rossa, quella che avevate comprato pensando a me. Chiudo gli occhi per un
secondo,
abbandonandomi a quel profumo fantastico e precluso.
Oh,
dannazione.
Il cercapersone inizia a
ronzare nelle mie tasche, faccio finta di nulla, lo spengo.
Tu non te ne accorgi
neppure, eri andata in cucina a prendere... cosa esattamente?
Ah, ora ricordo.
Del caffè.
Improvvisamente un
pianto rompe la mia quiete.
Apro gli occhi,
sorridendo.
Il tuo cucciolo, figlio
di suo padre.
Mi alzo, mi avvicino a
quella culla, una culla che ti ho aiutata a scegliere. Le mie mani
affondano
nelle copertine che ti ho regalato, coperte che sono costate tanto. Non
economicamente quanto umanamente.
Perché
sono venuto?
Afferro con pretesa
dolcezza quel corpicino tremante, con i capelli morbidi come i tuoi e
gli occhi
di suo padre. E’ un corpo tanto piccolo da farmi sentire a
disagio.
Appoggio la
testa del pargolo nell’incavo della mia
spalla, comincio a passeggiare quasi dondolandomi sui talloni. Questo
bimbo sa
troppo di te. Troppo poco di Asuma.
Il piccolo mi guarda
fisso con quegli occhioni marroni ed enormi, mi afferra i capelli con
curiosità. Hanno un colore strano, effettivamente. Comincia
a tirarli, prima
con dolcezza e poi con foga, quasi volesse scoprire la parrucca e
svelare
chissà quale segreto.
- Ehi, guarda che sono
veri.-
Sorrido, mentre l’ennesima
zaffata del tuo profumo passa da quella pelle al mio naso.
Preferirei…
Non poter percepire
questo odore per l’ennesima volta. Mi fa sentire colpevole,
mi fa sentire in
difetto.
E, credo già di esserlo
a sufficienza.
Torni in salotto, con in
mano due bicchieri colmi di quel caffè americano che sembra
una triste parodia
di quello italiano. Lo odio, ma lo berrò lo stesso.
Avanzi leggera, poi
realizzi l’immagine che ti si para davanti.
Tuo figlio e il migliore
amico di tuo marito.
Tuo figlio che gioca con
il migliore amico di tuo marito.
Giurerei di vedere un
sorriso fare capolino sul tuo volto perfetto. Giurerei di aver visto
per un
secondo quel sorriso illuminarti gli occhi e scaldare il mio cuore
meglio del
liquore.
Giurerei.
O, forse, voglio solo
fare finta di aver intravisto qualcosa di positivo nel tuo volto.
Volto che si trasfigura
da maschera di cera a maschera d’orrore, gli occhi carmini da
calmi che
diventano lucidi, le labbra che perdono quella
posa soddisfatta e si piegano in una smorfia amara.
Le tazze di ceramica che
si infrangono sul parquet, vanno in mille pezzi, il caffè
bollente che schizza
ovunque, come sangue.
Come sangue imbratta il
pavimento, il tuo volto, i miei vestiti.
- Lascialo!-
Between
where we were standing
And your voice was all I
heard
Come echeggia quel
grido.
Come ferisce.
Ti avventi su di me come
una menade, lo scintillio della pazzia nei tuoi occhi.
E
ti lascio la tua creatura, la creatura a cui
mi sono indebitamente legato, come ricordo di ciò che ero,
dell’innocenza che
ho perduto troppo tempo fa.
Di colpo qualcosa dentro
di me si incrina, i miei occhi si fanno gelidi. Pensi non sappia che
sia
difficile? Lo è anche per me.
Ti vedo stringere quel
bimbo come se fosse la cosa più importante,
l’unica che ti resta. I tuoi occhi
non sono quelli di una donna, sono quelli di una fiera che difende i
propri
cuccioli, furiosa, selvaggia, implacabile.
I tuoi occhi sono… i
tuoi occhi ardono di una scintilla che ho visto troppe volte, una
scintilla che
voglio far finta di non vedere.
-Vattene.- sussurri, la
voce roca.
Mi volto, in silenzio,
recupero la sciarpa appoggiata sulla poltrona, chiedendomi se sia
giusto
lasciarti così. Se
non sia piuttosto un
fuggire da qualcosa di cui ho paura, da una responsabilità
che non ho il cuore
e forse nemmeno la forza di prendermi.
Torno ad essere l’essere
gelido che sono quando opero, quando lascio che il mondo non sia per me
che una
futile forma di distrazione.
O, almeno, ci provo.
Ma come posso voltarti
le spalle?
Ti sento singhiozzare,
mi volto. Non posso restare impassibile a tutto questo.
Gli occhi carmini sono
resi lucidi dalle lacrime, il tuo giovane corpo imperfetto scosso dai
sussulti.
Stringi tuo figlio come
se potesse scappare da un minuto all’altro, come se potesse
svanire come suo
padre, in un momento di furiosa e crudele vita.
Ti accasci a terra,
crolli sulle ginocchia, atona e singhiozzante.
Il mio corpo si muove
senza che possa o voglia fare altro, ti stringo tra le mie braccia
forti e
quasi fragili allo stesso tempo. Il tuo corpo si abbassa ritmicamente,
scosso,
bagnato, seducente.
Ed io non posso fare che
chiudere gli occhi.
Solo stringerti e
chiudere gli occhi.
E, invece, vorrei fare
molte altre cose.
Ma non posso.
Chiudo gli occhi, il tuo
respiro torna regolare, le lacrime cessano, mi stringi, come se avessi
bisogno
di calore umano, per supplire qualcosa che manca. Stringi le mie
braccia e tuo
figlio come se fossimo ciò che ti è rimasto.
O, forse, in questo
momento ti ricordo semplicemente lui.
Il cercapersone vibra,
mi chiedo come sia possibile, ero convinto di averlo spento...
Vorrei ignorarlo, ma il
dovere mi chiama, onnipresente, onnipotente.
Con uno sbuffo porto una
mano alla tasca del giaccone estraendo quel piccolo oggetto.
- Dannazione…-
Mi guardi con quegli
occhi rossi che ormai hanno ripreso il controllo della propria maschera
perfetta.
Ma ormai è troppo tardi,
ti ho vista lì sotto, tra il dolore e
qualcos’altro.
- Vai, Kakashi. Hanno
bisogno di te.-
Vorrei rimanere, parlare
con te. Vorrei capire cosa è successo esattamente. Ma forse non
c’è bisogno di parlare, lo
capisco da come serri tuo figlio in una morsa d’ acciaio, da
come i tuoi occhi
paiono adamantini nei miei confronti. Forse davvero non è
bisogno di me quello
che hai dentro.
Ti guardo per l’ennesima
volta, ti scorgo, mi riparo a mia volta dietro la solita maschera
gelida.
- Yo, ci vediamo. Kure…-
Per l’ennesima volta mi
trapassi con lo sguardo, allontani la tua creatura da me, la proteggi,
quasi te
la volessi portare via.
- Se hai bisogno di
qualcosa, qualsiasi cosa … il numero dell’ospedale
lo hai.-
- Grazie. Ora va’.-
Praticamente mi scacci
di casa, e io mi ritiro.
Ti saluto indifferente
mentre chiudi il portone.
Infondo non siamo che
due marionettisti che credono di ingannarsi l’un
l’altro.
Infondo non facciamo che
recitare una parte imperfetta senza ingannare che noi stessi ed il
nostro cieco
pubblico.
Forse.
Infilo le mani in tasca,
affronto la brezza invernale, giocando con le chiavi di casa e la
chiavetta del
caffè dell’ospedale.
Le scarpe, di pelle
nera, affondano nelle pozzanghere, le calze si inzaccherano. Non ho
né la
voglia né la volontà di tornare in ospedale a
piedi.
Vedo un taxi passare e
lo chiamo, tanto il viaggio lo paga l’amministrazione. Chiudo
il portellone
giallo del taxi e
con voce gelida
sussurro – St Paul Hospital.-. L’autista mette in
moto, non ho voglia di
attaccare bottone. Chiudo
gli occhi,
lasciandomi alle spalle Kakashi e diventando il medico chirurgo Kakashi
Hatake,
primario di traumatologia, brillante medico, sciupa femmine, uomo
glaciale e
perennemente in ritardo.
E, comunque, quegli
occhi rossi ballano davanti ai miei. Finisco per chiedermi se davvero
io possa
qualcosa per lei, o se, semplicemente non sarebbe meglio lasciarla
andare.
Il medico prende il
sopravvento sull’essere umano e mi ritrovo a pensare se magari non possa esserci
qualche ragione
patologica a quel comportamento assurdo, ma scaccio l’idea.
Sono ancora troppo
essere umano per poter pensare a lei in questi termini.
Apro gli occhi,
scostandomi dal volto un ciuffo ribelle di capelli argentati.
L’autista ferma la
macchina, si volta, straordinariamente è una bella ragazza
dai capelli rossi e
gli occhi azzurri. – Siamo arrivati, signore.-
Scendo dalla macchina
con grazia, caccio una mano nel portafogli e le do una sostanziosa
mancia.
La ragazza mi guarda
stupita, poi mi ringrazia e socchiude le labbra in un sorriso aperto e
cordiale. – Grazie, dottor… Kakashi Hatake -
conclude, leggendo il cartellino
che mi sono apposto sulla tasca del cappotto. -avesse bisogno faccia un
fischio!-
Le sorrido di rimando,
chiudo il portellone della macchina, mi preparo ad un nuovo tour in
ospedale.
Apro il portone
trasparente dell’edificio, tento di lasciare gli occhi rossi
fuori.
Per diventare perfetto.
Per fare del mio meglio
per i miei pazienti.
Per non annichilirmi.
Per respirare.
Chiudo gli occhi ed
erigo le mie barriere, invisibili e pseudo impassibili.
Al ritmo del mio respiro
mi trasformo.
Il ritmo di un di un
dolce e malinconico Blues.
Perché, alla fine, sono a mio modo un Bluesman.
Un bluesman perfetto e
maledetto.
Perché il blues
è
maledizione e improvvisazione.
E io lo sono in modo
quasi... Maledetto.
Ed eccoci al primo capitolo ^^
grazie x i commenti, spero che possapiacere^______^.
Ditemi che ne pensate... ( anke
se vi fa schifo, please)
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Capitolo 3 *** Capitolo 2: Blues' Crisis ***
Capitolo
2:
Blues’
Crisis
Via, via come il vento.
Le mie mani si muovono
agili per questo corpo infranto dall’incidente.
Che incidente?
L’incidente che è
costato la vita a dozzine di persone.
Un’autocisterna di
benzina si è schiantata in piena autostrada contro un
camion, coinvolgendo
qualcosa come sette macchine.
Le ambulanze sono
arrivate volando, ma per molti dei feriti era decisamente troppo tardi.
A nulla sono valse le
manovre disperate dei medici, che si sono attardati su quei corpi
spezzati e
già morituri.
E io, io che sono un
chirurgo di fama mondiale, persino io ho potuto poco.
E come al solito questo
ha fatto male, anche se nessuno l’ha capito.
Anche se nessuno ha
intuito che sotto i miei occhi neri e indifferenti
c’è un cuore pulsante e
dannatamente ferito.
Le mie mani hanno
clampato vene, oggi.
Hanno sistemato gambe,
braccia, costole.
Le
parole pneumotorace
ed emolisi sono qualcosa che oggi
ho
detto troppe volte, ho pronunciato troppe ore del decesso.
E, ora, sono in sala
operatoria. Per l’ennesima volta, ma forse quella buona.
Ann
Josephine Kent.
Quindici anni, i
genitori ricchi entrambi, capelli biondi ed occhi azzurri. Fisico da
urlo,
gambe perfette e chilometriche. Ora
volto sfregiato quasi irrimediabilmente, genitori morti tra atroci
sofferenze,
una fortuna di cui non saprà che farsi e una gamba talmente
tanto malridotta
che forse tornerà a camminare, non certo a sfilare.
Chiudo l’ultima ferita,
un rapido sguardo all’elettrocardiogramma ed
all’anestesista.
Una carezza solitaria a
quei capelli dorati, uno sguardo triste a quel volto tanto bello una
volta e
ora rovinato.
Mi allontano dal corpo
della giovane che sarà presto vestito e trasportato nella
sua camera da
infermieri e specializzandi.
Tolgo i guanti, esausto.
Li getto, bianchi e
coperti di sangue, nel
cestino apposito
della sala operatoria, sopra tamponi rossi del sangue perso in ore ed
ore di
intervento.
Faccio lo stesso con la
cuffia blu che mi trattiene i capelli, che si riversano come una marea
argentata sul mio volto sudato e stanco.
Tutto comincia a girare
leggermente, so benissimo il perché.
Sono semplicemente
troppo stanco, troppo stranito da questa continua orgia di morte e
sangue, un
orgia che mi porta sempre più ad essere uno di quei fantasmi
sul tavolo
operatorio.
Come Asuma.
Scaccio questo pensiero,
cerco di scuotermi, passo una mano sull’occhio sinistro nel
tentativo, misero,
di liberarmi di questo pensiero
insistente.
Esco da quella stanza
barcollando, vengo investito dall’odore fortissimo di
nicotina che non fa che
ricordarmi il mio amico perduto.
Devo farmi una
sigaretta.
Uno sguardo alla ricerca
di qualcuno che voglia sapere qualcosa di quella giovane.
Un ragazzino moro,
probabilmente il suo ragazzo.
Non sento nemmeno le
parole che dico, la diagnosi purtroppo corretta ed il dolore che devo
trasmettere.
Non sento cosa dico,
sono troppo esausto per curarmi troppo delle parole ripetute sino alla
nausea.
E le parole di conforto?
Solo circostanza.
Ma neanche troppo.
Mi sono trovato anche io
dall’altra parte della barricata un paio di volte. Sia da
quella del parente
che del paziente.
Le ultime parole, quelle
dette da essere umano e non da medico, quelle sono reali.
Così faccio da
messaggero di morte, scrocco una sigaretta e mi dirigo verso il
balconcino dell’ospedale,
quasi fossi un automa. Non so che fare in queste situazioni. Gli
abbracci sono
bruscamente reali, troppo vicini, ci si scotta. Le parole, invece, sono
troppo
distanti e fraintendibili.
Certe volte preferirei
non dover essere un dannato becchino.
Apro la porta antipanico
e trasparente che da sul balconcino, il pavimento sozzo di cenere.
Con la testa che gira mi
avvicino la sigaretta alle labbra, la prendo in bocca, con le mani
cerco un
accendino nelle tasche del camice ancora sporco di sangue altrui.
Armeggio con la fiammella
artificiale, sino a che la sigaretta non si accende, poi mi concedo
quel vizio
maledetto.
La zaffata di nicotina
mi penetra nei polmoni, mi rilassa, mentre chiudo gli occhi e tento di
salvarmi
dalla mia stessa coscienza che mi impone di pensare a … quel
dannato giorno.
La mano libera artiglia
la balaustra, l’altra tenta di non tremare nel avvicinare la
sigaretta alle mie
labbra, mentre faccio un tiro.
La testa mi scoppia.
Merda.
Non sono stato in grado
di fare nulla di buono, per lui.
Per lei.
Soprattutto per lei.
Artiglio ancora di più
quella balaustra, sentendo i muscoli della mano contrarsi quasi da far
male.
- Kakashi… -
Mi volto, nascondendo in
fretta e furia la smorfia di dolore che mi attraversa il volto.
- Yugao…-
Capelli viola, un volto
quasi sempre inespressivo, grandi occhi violetti che sembrano quasi
sondare l’anima
delle persone.
- Detesto disturbarti,
ma una ragazza ha chiesto di te.-
Non c’è
l’ombra di un
sorriso giocoso, come quello che ci sarebbe se fosse una visita di un
certo
tipo.
Mi volto, spaventato.
Non può essere quello
che credo…
Non può essere lei, non
può!!
Tra tutte le ragazze che
conosco…
- Ha un bambino piccolo.
Kakashi… temo che non sia molto in sé.-
E’ come se mi si
spezzasse qualcosa. Temo che non sia
molto in se. Quanto feriscono queste parole? Decisamente
troppo.
Lancio la sigaretta giù
dal balconcino, soffocando un’imprecazione che mi sale alle
labbra.
Non vorrei davvero che
lei fosse venuta qui, forse perché questo ospedale
è una sorta di porto franco
da lei, un posto in cui mi posso abnegare per diventare qualcun altro
di
diverso.
O, forse, è
perché ho
paura che i timori che mi tengo dentro possano trovare conferma in uno
sguardo
insano o malinconico.
Non vorrei che lei fosse
qui, perché ho paura.
Ho paura che non faccia
più ritorno a casa.
Chiudo gli occhi con un
sospiro, faccio segno alla mia visitatrice di condurmi.
Giù per le scale, via
per i corridoi.
E’ tutto irreale e
falsato, quasi sbiadito e di corsa. Non voglio pensare, voglio essere
vuoto.
Sarebbe più facile non provare davvero nulla, come pretendo
di fare.
Non voglio provare
dispiacere, né paura.
Non voglio essere umano,
alle volte.
Essere una macchina
sarebbe più facile, non si farebbero errori, non si farebbe
morire la gente.
Non si ferirebbe la gente nell’intimo.
Semplicemente si sarebbe
macchine autonome, che non lasciano tracce della loro presenza sul
mondo,
neanche per caso. Solo foglie leggere che si guardano senza davvero
vedere, che
spariscono senza provocare tristezza, che svaniscono senza rendersene
conto.
Per vivere e lasciare un
segno ci vuole più forza e più ego.
La mia guida si ferma
davanti ad una porta, l’ambulatorio di pronto soccorso, la
bile mi sale in
gola, ho un orribile presentimento.
Yugao mi guarda negli
occhi, come se si aspettasse una chissà quale reazione, poi
china la testa e mi
sussurra di entrare, perché la ragazza ha chiesto solo di
me, e non si fa
sfiorare da nessun altro.
Spingo la maniglia, apro
la porta, la chiudo alle mie spalle, senza nemmeno guardare chi ci sia
dentro.
Non voglio saperlo.
Alzo gli occhi.
La vedo.
Tiene
il bimbo piccolo stretto al petto, con
una violenza tale da far temere che il piccolo possa risultarne ferito, una mano contratta sulla
copertina che lo
avvolge, contratta in modo nervoso; L’altra mano poggiata in
grembo, ferita ed
avvolta in uno strofinaccio da cucina.
E poi quegli occhi…
Il volto sfatto, le
labbra rosse morse a sangue e spaccate, la pelle cerea, le occhiaie
marcate e
violacee, gli occhi carmini lucidi e rossi dal pianto, animati da una
scintilla
allucinata.
I capelli annodati e
sciolti sulle spalle.
Sconvolta.
E poi quel bimbo con gli
occhi chiusi, stretto come se potesse scivolarle da un secondo
all’altro.
Qualcosa dentro di me si
rompe.
Come posso credere
ancora che sia tutto normale? Come posso illudermi che la scenata di
poco tempo
fa sia stata solo un caso indotto dagli ormoni? Come posso credere che
non sia
successo altre volte?
Come posso non vedere che
la maschera finta è caduta?
Come posso non capire
che il volto che vedo oggi è il volto che questa donna ha
sempre avuto, coperto
da un cerone immateriale e fragile?
Silenzioso, col cuore
grave, le prendo la mano ferita con dolcezza, nonostante lei tenti di
ritrarla.
Disfaccio la bendatura
di fortuna, che rivela un taglio regolare che le attraversa il palmo
della
mano, profondo e sanguinante.
Non la guardo, mentre
pulisco la ferita dalle fibre dello strofinaccio, mentre tampono il
sangue.
Poggio il tampone, le
faccio un’iniezione di antidolorifico e comincio a suturare.
Alzo gli occhi,
incontrandone lo sguardo.
Una lacrima scivola per
il suo volto, facendomi morire.
- Come te lo sei fatta?-
Silenzio, imperterrito,
un gemito, gli occhi che si colmano di lacrime ed il figlio che viene
stretto
ancora più violentemente.
- Rispondimi, Kurenai.
Come te lo sei fatta?- La mia voce è dura, forse anche tesa.
- Se te lo dicessi…- la
tua, di voce, è debole, rotta dal pianto.
Non serve che tu
risponda, ho già capito come te lo sei fatta. Ma voglio
sentirlo da te, voglio
rendermi conto di quanto tu sia consapevole di ciò che stai
facendo. Perché tu
sai cosa succederà, ora. Tu sapevi cosa sarebbe successo a
venire da me in
queste condizioni, eppure sei venuta lo stesso.
- Dimmelo. – Potrei
essere più delicato. Potrei essere dolce e gentile. Ma sono
stanco. Sono stanco
di vedere la gente crollare, di rimanere in piedi, e poi di portare i
rimorsi
nella tomba.
- Io… il
coltello…-
Potresti mentire,
potresti salvare la tua precaria situazione, io ti crederei, e lo sai.
Non per
altro, semplicemente per non guastare questo idillio fallace e finto,
per non
assumermi altre responsabilità.
Ma tu non lo farai. Lo
intuisco da come il tuo sguardo si fa deciso, da come serri tuo figlio,
disperata.
- Mi sono…
tagliata… il
coltello… è scivolato…-
- Te lo sei fatta da
sola?-
Uno sguardo, le lacrime
che scivolano.
Un cenno e capisco.
Te lo sei fatta da sola.
Dannazione.
Finisco la sutura, ti
bendo la mano, mentre vieni scossa dal pianto. In questo momento vorrei
non
essere da questa parte della barricata, vorrei essere un amico e non un
medico.
Ma io sono un medico. In questo luogo, sono prima di tutto un medico e
poi un
essere umano, un amico, una persona che ti da un’ importanza
che non puoi
nemmeno immaginare.
Mi alzo e faccio per
prendere un antidepressivo qualsiasi dall’armadietto dei
medicinali. Ma mi
blocco, non posso farlo. Non posso chiudere gli occhi e far finta di
nulla. Non
posso essere così cieco.
Io sono un medico.
Ed ho più doveri che
diritti.
Apro la porta
dell’ambulatorio, mentre i tuoi occhi mi seguono, speranzosi.
Credi che me ne
possa andare e far finta di non aver visto?
No, non posso. Ma,
fidati, lo vorrei con tutto me stesso.
Yugao si volta,
catturando il mio sguardo.
Chissà come devo essere
ridotto male.
Chissà cosa devo
esprimere in questo momento.
Terrore.
Sconfitta.
Rimorsi.
Solitudine.
Mi guardi, capendo da un
solo sguardo.
- Credo… che sia una tua
paziente, ora.-
Sai quanto mi costi
dirtelo, tu sei una psichiatra e dannatamente brava. Ma sei una terza
persona.
Tu sai quanto detesti delegare queste cose a qualcuno che non sia io
stesso, tu
sai che devo tenere alla data persona troppo.
Mi segui, senza una
parola, senza un gemito.
Apro la dannata porta da
cui sono appena uscito.
Kurenai la vede, si
contrae in una smorfia di dolore, tradita.
Credevi che avrei
risolto tutto con un colpo di magia? No, non posso farlo.
Non posso aggiustare la
tua vita come per magia, non posso aggiustare le cose che si rompono
con un sinuoso
gesto. Io opero i corpi, io mi bagno del sangue della gente, io sono il
primo
ballerino in un’ opera di sangue.
Ma la mente, quella, non
la posso aggiustare.
Mentre quella porta si
chiude, mentre il vagito di un bambino rompe l’odioso
silenzio, sento il mondo
crollare.
Ma non io.
Io rimango fermo,
immobile, ad aspettare che il tempo passi e che tutto torni come prima,
come se
fosse possibile.
Io resto in piedi,
infilo le mani in tasca, mi appoggio al muro.
In attesa.
Perché io non so fare
altro che guardare il mondo cadere e stare fermo, a crollare a poco a
poco con
i muri di questo mondo recluso e piccolo.
Attendo.
Null’altro.
Asuma…
ho fallito.
Ti avevo
giurato di proteggerla, l’avevo giurato ad un
morente.
Ed ho
fallito.
Per
l’ennesima volta.
E sotto questi occhi
neri e ciechi passano donne, bambini, uomini, infermiere.
Ma non li vedo davvero.
In questo momento non
sono il primario Kakashi Hatake. In questo momento sono solo un uomo,
un uomo
come tanti altri.
Un uomo in attesa di un
giudizio finale.
Medico e parente allo
stesso tempo.
Terribile.
Angolino di Brave:
Yama
nihal :
grazie mille dei complimenti, mi fanno sempre davvero molto piacere.
Come mi fa
piacere che ti piaccia l’ introspezione su Kakashi , i suoi
problemi e il ripercuotersi
del lavoro che svolge, il medico, sul resto della propria vita. Il
mestiere del
medico mi ha sempre affascinato e anche le conseguenze
“psicologiche" e
sociali che comporta. Davvero,
mi fa
piacere che tu abbia gradito l’ intro su questo argomento e
che nn l’ abbia
trovata banale o forzata.
Per
quanto
riguarda Kurenai, lei, la sua quasi pazzia, la patologia che
l’ affligge, è
stata la cosa più
impegnativa ma se
vogliamo più entusiasmante.
Grazie
mille
ancora delle recensione, sei un angelo^^
Grazie
a chi legge, a chi ha commentato anche il primo capitolo,
grazie a tutti.
E se
non vi è spiaciuta eccessivamente le fic o se volete dire
qualcosa a suo proprosito nn esitate a commentare^^
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 3: Blues disease ***
Ebbene... ecco il
terzo coitolo. la parte in corsivo ( quella alla fine ) è
scritta di proposito al passato remoto. Non posso dirvi altro che ...
buona lettura...
Capitolo
3:
Blues’
Disease.
- Siediti.-
Suona così
strano, essere dalla parte sbagliata della trincea, ricevere
brute notizie, anziché darne.
Eppure eccomi qui, camice
ancora sporco di sangue, capelli scarmigliati,
occhi rossi dalla stanchezza, occhio sinistro che pulsa.
Mi guardi, il volto grave e
quasi insoddisfatto.
Le tue labbra, carnose e
morbide, tremano un po’.
Ti prego, non tergiversare.
- Kurenai Yuhi, ventisette
anni, donna. Ha avuto un figlio da poco, dal suo
vecchio compagno, morto in un incidente sette mesi fa. Ma queste cose
le sai
già, Kakashi. Le sai già troppo bene. Quello che
non sai è che questa donna
soffre di una patologia non troppo grave, di solito. Viene
impropriamente
chiamata“depressione post partum”, o, almeno,
questo è il nome con cui è nota
ai più. Questa sindrome psicologica si divide in tre fasi.
La prima, chiamata “
baby blues” si manifesta nel 70% delle donne nei giorni
immediatamente
successivi al parto. Non
è nulla di
grave, si manifesta sottoforma
di pianti
senza motivo, irritabilità, ansietà, inquietudine
e sparisce in pochi giorni.
Poi vi è una seconda fase, più grave, chiamata
appunto depressione post partum.
Essi si presenta sintomi come inappetenza, paura, ansietà,
insonnia,
disinteresse per il bambino, pianti senza ragione, improvvisi
cambiamenti d’
umore, paura di nuocere al bambino… - Yugao fa una pausa,
prende fiato. Stiamo
per arrivare al dunque. – Poi vi è una
terza fase, la più grave. Ed è appunto quella di
cui soffre Kurenai. Si chiama
“psicosi post partum” e si presenta con i sintomi
della seconda fase, con l’aggiunta
di paranoia, allucinazioni, depressione, esaurimento e… -
Chiude gli occhi come
se parlarne facesse male pure a lei.- Cosa più
grave… pulsioni suicide ed
omicide nei confronti del bambino.-
Gelido, un brivido, corre
per la mia schiena.
Non è possibile.
Yugao deve avere
sbagliato…
Non è possibile.
Non è possibile.
Non a lei, non a me!
Eppure è
così dannatamente convincente.
Potrei non crederci, potrei
consultare altre persone. Ma so già che questa
è la dura verità.
L’ho conosciuta
nell’istante stesso in cui ho visto quel taglio sulla mano,
l’ho sempre saputa.
Mentre tornavo da casa sua,
dopo che mi aveva scacciato malamente,
furiosamente. Io l’ho sempre saputo, nulla di più.
Dannato idiota.
Mi guardi, come se potessi
capire quello che devo provare. Non puoi. Non
per altro, ma perché non hai mai vissuto un’
esperienza del genere. Non si può
comprendere quello che una persona prova semplicemente guardandola, non
si può
percepire la sensazione provata da ognuno. Perché si
è diversi, perché le
emozioni, la realtà si percepisce in modo diverso.
Apri la bocca,
cos’ altro devi dirmi?
- Kurenai soffre della forma
più grave ed è una psicosi degenerata, quasi.
Significa che non basta più imbottirla di psicofarmaci.
Bisogna dare il via ad
una terapia psichiatrica. Io devo poterle parlare, e le sedute devono
essere
abbinate alla cura con i farmaci. Non è stabile, Kakashi.
Può fare male a sé
stessa, oltre che al bambino. Deve essere ricoverata. Ha
bisogno di essere tenuta sotto controllo,
monitorata ed aiutata. E’ troppo tardi per curarla da casa,
è rischioso per se
stessa e per gli altri. Non ha un compagno che si possa prendere cura
di lei e
del bambino. Soprattutto del bambino. Non può tenerlo con
sé.-
La fisso, sconvolto. Ho
già capito dove vuole andare a parare. Non le
toglieranno il bambino, non lascerò che lo prenda in
custodia qualcun altro,
che una quarta persona entri nel nostro microcosmo e rubi
l’ultima scintilla di
normalità residua.
Non chiamerai gli assistenti
sociali.
- Posso tenerlo io.-
Mi guardi, sorridi, amara.
Come non capire quello che ti passa per la
mente? Non sono nemmeno in grado di prendermi cura di me stesso,
figuriamoci di
una vita appena nata.
E’ questo che sta
pensando? O forse che non sono abbastanza presente,
perennemente chiuso in questo ospedale? O che non sono che un illuso
che si sta
giocando la sanità mentale per una donna che non lo
considera più che il
ricordo del compagno?
- Giuro, ci ho pensato anche
io. Avrei potuto tacere sul fatto che sei una
persona appena autosufficiente. Saresti stato in grado di farlo. Sai,
potrei
raccontarti una balla, potrei dirti che davvero non hai abbastanza
tempo, che
non hai le competenze adatte per essere il padre di questo piccolo. Ma
non
sarebbe giusto, verso di te. Ti mancherei di rispetto, un rispetto che
ti è
dovuto. La verità, Kakashi, è che lei…
non vuole.-
Ahia.
Questo fa dannatamente male.
Questo è un colpo
talmente duro che, fossi stato un'altra persona, avrei
potuto gridare. Ma io sono così freddo e apatico, io sono
colui che grida in
silenzio, senza che nessuno si accorga del dato grido.
Questo non l’avevo
previsto.
- Ha dichiarato di non
volere che tu… tocchi
il suo bambino. Le ho spiegato cosa sarebbe successo altrimenti, ha
cominciato
a non rispondere ed a stringere quel fagotto.
Se volessi potrei dichiararla mentalmente instabile.-
- No. Non sarebbe giusto.
Non mi approprierò di suo figlio, se non vuole
che accada. Troverò un modo.-
Abbasso gli occhi, le mani
tremano impercettibilmente, il cuore pulsa a
mille, la testa scoppia. Ora
ci credo,
ora capisco che è tutto vero, non è una finzione.
E questo mi lascia ferito e
moribondo, nell’anima. Mi dipingo una smorfia in volto,
estraggo una sigaretta
e la stringo dolcemente. – Fa quello che devi. Ricoverala,
imbottiscila di
farmaci. Ma, ti prego, lasciami un paio d’ore prima di
chiamare i servizi
sociali. Troverò il modo.-
Mi volto, non attendo
risposta, cammino lentamente, appoggiando le mani ai
muri dell’ospedale, apatico.
I piedi mi trascinano dove
io non ho la minima forza di andare. Apro la
porta che da sul balconcino.
Accosto la sigaretta alla
bocca, lasciando che la cenere venga trasportata
dal vento, in un mondo lontano.
Un mondo in cui, magari,
tutto questo dolore mi sarebbe stato estraneo.
La cenere cade, piange per
me.
Perché io non
piango, ho già perso tutte le mie lacrime.
- Entra.-
Una voce abbastanza tirata
mi invita ad entrare nello studio del capo dell’intero
ospedale.
Una donna sulla cinquantina,
i capelli biondi ed uno strano punto induista
in testa mi guarda con occhi color miele e profondi.
Ho sempre
l’impressione che lei mi legga nella mente.
Tiene le mani incrociate,
nervosamente.
Davanti a sé una
cartella clinica, per quello che ne so potrebbe essere
anche la mia.
Ho sempre avuto una sorta di
timore reverenziale per questa donna.
Chino la testa, i capelli
argentati mi nascondono gli occhi, in una cascata
di vivo argento, di viva indifferenza e malinconia.
Sanno di sudore, devo farmi
una doccia, ma ne avrò tempo dopo.
Tento di stamparmi addosso
un sorriso, o almeno una pallida imitazione.
Ma non ce la faccio, le
labbra rifiutano di arcuarsi e tendersi, gli occhi
rifiutano di perdere la loro sciatta e vuota espressione, in favore di
un
autocompiacimento banale e superficiale.
Mi guarda, mi guarda fisso.
Sa già.
- Siediti.-
Mi accascio stancamente su
quelle poltroncine che stanno davanti al sua
scrivania, le poltroncine dei pazienti e dei parenti.
Oggi io sono così, un uomo venuto a chiedere
pietà.
- Oggi è stata
ricoverata una certa Kurenai Yuhi, Kakashi. – La voce si
ferma, in attesa. Poi, non avendo risposta continua, arrivando da
sé a quello
di cui volevo parlare. – Psicosi post partum. E’
una brutta malattia,
decisamente. La conosci, vero?-
Chiudo gli occhi, per non
vedere, per non guardare.
- E’ la moglie di
Asuma.-
Trattieni il respiro, i
polmoni si gonfiano, le tue labbra si socchiudono
in una smorfia sorpresa. Non ti sorprende il nome né la
parentela, quello che
ti sorprende è il tono in cui lo dico. Un tono atono, senza
inflessione, un
tono spento e carico di dolore.
Non posso mentire anche a
te, sebbene lo vorrei. Sono troppo stanco per
mentire, ho già esaurito la mia scorta di maschere, per oggi.
Sono nudo, a pezzi.
- Ha un bambino piccolo, che
non può tenere. Yugao mi ha detto che avrebbe
aspettato un po’ a chiamare i servizi sociali.-
la donna si ferma, in attesa.
-
Tsunade- sama, gliel’ho chiesto
io. Non voglio che quel bambino vada in mano a chissà chi.
Non posso tenerlo
io, la madre non vuole
che mi avvicini
nemmeno al figliolo.- lo senti quanto male fa, pronunciare queste
parole? Lo
senti il dolore grondare? Vorrei di no.
Pausa.
Riprendo fiato, mi
schiarisco le idee.
- Non mi interessa cosa
dovrò fare, ma quel bambino non deve uscire da
questo ospedale.-
Sorrido, stanco.
Ho visto il lampo di collera
illuminarti lo sguardo. Ma come potevo non
tentare, come potevo lasciarmi scappare la possibilità?
- Non sei tu che dai ordini.-
Pausa.
Uno sguardo miele sul mio
corpo umano.
Cosa vedi in questo momento
che ti fa sgranare gli occhi?
Cosa vedi di me?
Il medico, l’uomo,
o il dolore?
- Ci tieni molto a questa
donna, vero? Ci tieni molto a quella promessa. Ci
tieni di più della tua stessa vita, della tua stessa
carriera.-
Uno sguardo, un attimo.
- E sia. Il bambino
può giovare alla madre, è terapeutico. Non vorrei
mai
che, poi, il bimbo avesse un trauma a causa del distacco forzato dalla
madre.-
Non
credo a quello che stai dicendo.
Non ci posso credere.
Mi alzo, balbetto un
ringraziamento, nella confusione di questo sollievo.
Faccio per andarmene, ma poi
è un sussurro che ti sfugge dalle labbra,
lasciandomi interdetto.
- Kakashi… non ti
distruggere.-
Oh, capo.
E’troppo tardi.
Passi felpati e
poi…
Poi il silenzio.
Il piccolo
si svegliò nella notte, le manine che si agitavano,
afferrando il vuoto.
Eruppe in un
vagito sofferto, alla ricerca del calore materno.
Strinse la
copertina che lo ricopriva, annusando un odore familiare, anche se non
materno.
Qualcuno lo
strinse forte, con amore.
Non erano
gli abbracci della madre, nervosi e così asfissianti.
Era un
abbraccio calmo, che sapeva di menta.
Il piccolo
afferrò i capelli del misterioso visitatore, trovandoli
morbidi e familiari.
Appoggiò la
testa nell’incavo della spalla dell’uomo,
sentendosi protetto.
- La mamma
tornerà presto. Te lo prometto.-
Chiuse gli
occhi, il piccolo, trasmettendo una calma sonnolenta anche a
quell’essere che
l’aveva abbracciato.
Si
addormentò nelle braccio dell’uomo, del medico e
del dolore.
Kakashi lo
stese nella culla di pediatria, lo coprì con dolcezza, poi
si stese sul lettino
accanto, chiuse gli occhi.
Si
addormentò, cullato dalla dolce nenia del respiro del
piccolo.
E, per la
prima volta dall’incidente che gli era costato il migliore
amico e parte della
vista, ebbe un sonno senza sogni e senza incubi.
Sarebbe
durata poco.
NOTE by Brave:
Aiko92: Garzie mille per la
recensione!! E' una situazione un po' particolare e che, concordo,
potrebbe capitare a una persona qualsiasi. E' sempre stato un
argomento, quello delle psicosi, che mi ha sempre colpita.
spero ti piaccia questo cap^^
Grazie a quelli che
leggono.
Grazie davvero grazie.
|
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Capitolo 5 *** Capitolo 4: Melody Without Meaning ***
Ecco,
siamo arrivati al penultimo capitolo, spero vi possa piacere.
Questo
è il mio capitolo preferito, anke xk alla fine ci sono le
lyrics di uan cazone stupenda, " Bleed for you" del fil Daredevil,
Spero
vi possa piacere^^
Capitolo
4:
Melody
without meaning.
Andrea Yates, nata a Huston in
Texas il 2 luglio 1964.
Soffre per diversi anni di
psicosi di più o meno grave forma, interrata in manicomi ed
ospedali per più
anni. Solitamente casi di depressione estrema, legata anche alla
nascita dei
figli e alla patologia comunemente nota come “depressione
post partum”.
Ha il quarto figlio, viene
ricoverata quasi subito dopo, diagnosi: una psicosi talmente avanzata
da
renderla un pericolo per sé e per gli altri. Viene dimessa
poco dopo, sotto
indicazione di non lasciarla mai sola in casa con i figli e,
soprattutto, di
evitare la procreazione.
Divieto facilmente abolito. Dopo
pochi mesi la donna rimane di nuovo incinta e partorirà il
suo quinto figlio.
Ed è allora, che accade la
tragedia.
Il 20 giugno 2001 la donna,
lasciata da sola, presa da un attacco psicotico, annega tutti i cinque
figli
nella vasca da bagno.
Muoiono tutti…
Le
mani, furiose, battono sul blocco degli appunti di Microsoft Word,
quelle poche righe, lette e copiate da qualche sito internet a dir poco
inaffidabile.
Dannazione,
se la cosa mi ha distrutto.
Sono
un medico, me ne dovevo accorgere…
E’
l’unico pensiero razionale che mi frulla in mentre, mentre
compio la
solita dolorosa ed inutile routine.
Cartelle da compilare, pazienti da visitare, mani da
stringere, sorrisi
falsi da mostrare al mondo.
E’
solo l’ennesimo giorno di routine lenta e straziante, una
routine
fatta di stenti e dolore.
Mentre
precorro il corridoio che da sulla tua camera, donna che
possiede la mia anima e la mia razionalità, la mente
scivola, lasciandomi atono
a ricordare quello che eravate una volta, te ed Asuma. E di come io mi
sia,
inutilmente, invischiato tra voi due.
Apro
la porta di una camera sobria, un letto ad una piazza, le lenzuola
di carta di colore verdastro, un piccolo televisore.
E poi
tu.
Tu con
gli occhi chiusi e corrucciati, le unghie laccate di rosso che
artigliano le coperte, le braccia contratte, il tuo corpo da donna
coperto da
un pigiama rosso.
Mi
fermo sull’uscio della porta, gli occhi languidi che corrono
per il
tuo corpo, nutrendosi di questa vista quanto mai dolorosa eppure soave.
Quanto
vorrei stringerti, quanto vorrei infrangere la barriera che ti soffoca,
che ci soffoca.
Apri
gli occhi, ghiacciandomi con uno sguardo che mi attraversa, quasi
che io non esista neanche più per te.
Che
male che fa.
Mi
trafigge, eppure non mi fa crollare, mi lascia in piedi.
Perché lo
sai, vero?
Io non
crollo, rimango in un angolo come uno straccio, troppo forte per
crollare, troppo debole per vivere una vita davvero piena.
-
Ciao.-
Un
saluto vuoto, che non mi accusa apparentemente.
Ma nel profondo mi odi, mi odi perché io ti
ho portato via il tuo bambino, perché tu sei venuta per chiedere il mio aiuto e io
ti ho strappato l’ultima
cosa che ti rimaneva di lui. Pensi
che non lo sappia?
Lentamente
mi avvicino al tuo letto, mi stampo un sorriso vuoto in
faccia, mi siedo sul materasso senza toccarti, non oserei mai. Le
carezze… Sono
come gli abbracci, troppo bruschi. Le parole… sono troppo
fredde, soprattutto
con te.
Non so
fare che guardarti in attesa di qualcosa, con questo sorriso
spento, col mondo che mi crolla nel vedere il tuo sguardo vuoto e sedato.
Soffocano
i tuoi impulsi, e hanno ragione.
Soffri
di depressione… anzi no, psicosi post partum. Che
è una specie
di disturbo bipolare, null’altro che una malattia che
riguarda i cambiamenti di
umore talvolta troppo repentini e davvero pericolosi. Per te, per gli
altri,
per il bambino.
Fosse
un qualcosa di più leggero, basterebbe parlare. Basterebbe
un
colloquio anche amichevole con uno psichiatra, ma non è
qualcosa di piccolo, è
qualcosa di tragicamente grave.
Uno
sguardo triste alla boccetta vuota appoggiata sul tuo comodino:
l’infermiera
ti ha appena portato le medicine, i farmaci.
Quello
che ti fanno assumere si chiama “ Risperidone”. È un
antipsicotico, ossia uno di quei farmaci
che agiscono sul sistema nervoso centrale e hanno un’ azione
prevalentemente
antidelirante e antiallucinatoria, e non presentano caratteristiche
proprie dei
supersedativi, al contrario di quanto credono giornalisti poco
informati e
ferocemente lanciati alla ricerca di motivazioni per cui non li si
dovrebbe
usare.
Sono
farmaci utili, ma rischiosi. Tra gli effetti collaterali
c’è
qualcosa come torpore, debolezza, alterazione del ciclo, tendenza
all’ingrassamento,
convulsioni epilettiche…
Passo
una mano sul volto, quanto sono stanco…
Quanti
effetti collaterali possibili, nevvero Kurenai? Ma serve che tu
corra questo rischio, per quanto male faccia l’ammetterlo,
persino a me stesso.
Il
risperidone, venduto sotto il nome di Risperdal, ha come formula
chimica C23H27FN4O2,
il che significa che è costituito
da
ventitré molecole di carbonio, ventisette di idrogeno, una
di fluoro, quattro
di azoto e due di ossigeno. O, almeno, questa è la sua
formula base.
Viene
usato per trattare disturbi psicotici persino sugli
adolescenti e sui bambini, ma questo non significa che sia blando,
semplicemente il più sopportabile.
Si
assume per via orale, tramite gocce o pastiglie,ed una scatola
di queste pastiglie costa qualcosa come 90 euro.
Ha
una metabolizzazione epatica, ossia il nostro corpo lo
metabolizza, lo assimila, tramite il fegato, che quindi è
l’organo più esposto
agli effetti collaterali. Si espelle tramite le urine.
Come
effetti collaterali ha atassia, ossia la perdita della
ordinazione muscolare, bassa pressione sanguigna, può
causare tumori benigni all’ipofisi,
discinesia tardiva, ossia movimenti involontari e incontrollati, il
diabete o
ancora…
Ma
tu, tu che mi guardi con questi occhi spenti
dalla rassegnazione, gli occhi di una persona
che non vuole risorgere, tu che cosa ne puoi sapere?
Forse
hai letto queste cose, senza capirne davvero il senso. Ma
una cosa è leggere da profano della medicina, una cosa
è essere pienamente
conscio di cosa questo farmaco farà al tuo bel corpo, che
credevi deturpato da
una gravidanza solitaria.
Queste pasticche
verdi e dall’aspetto innocente potrebbero trasformarti in una
drogata, un
essere senza controllo dei propri movimenti, un essere obeso oppure,
ancora,
costretto ad interventi al cervello, ad assumere insulina ogni pasto
della tua
vita.
Ma, soprattutto,
potrebbero toglierti la possibilità di avere il tuo bimbo al
seno.
E tu, tu, inconscia
di questo dolore mi guardi come se a me non fregasse nulla di te, del
tuo
destino. Ma tu.. non puoi neanche immaginare come io possa immaginare e
ricordare cosa comportino questi effetti collaterali.
Io sì.
E questa, fidati,
è una tortura infame, più infame di questo
sguardo spento che tenta di ridurre
in polvere anche l’ultimo barlume di coscienza.
Giri la testa, mi
nascondi la vista di queste finestre sulla tua anima soffocata.
Mi alzo, il mio
tempo con te, per oggi, è finito.
Chiudo la porta.
Non stai
migliorando, non stai migliorando per nulla.
Yugao parla con te
ogni giorno, conduce il tuo corpo e la tua mente in luoghi dimenticati
e tenta
di liberarlo da questa oppressione invisibile.
Sarebbe più facile
se tu avessi un proiettile in corpo, lo leverei io.
Un orgia di sangue
che mi sarebbe più lieta di questa attesa snervante ed
impotente.
Perché, amica mia,
se questo mi fa male, non hai idea del dopo.
Perché se non
migliori neanche così… dopo rimane solo
l’elettroshock e… vedere il tuo
cervello fino e logico, fritto tra due elettrodi non solo mi
distruggerebbe, mi
annichilirebbe del tutto.
Non vuoi
risorgere.. ti conosco troppo bene per farmi illusioni in merito.
Tuo figlio non
basta, è lui che ti ha indotta in questo stato, e con
estrema freddezza capisco
che probabilmente ti sarà passato pure per la mente di
stringere il suo collo
bianco e porre fine alla sofferenza.
Sofferenza che poi
ti avrebbe trascinata tra manicomi e celle, funerali e luridi sensi di
colpa.
Eppure, quando lo
vedi, gli occhi ti brillano e il cuore si agita per un momento, prima
che il
cervello, infido bastardo, ti trascini di nuovo nell’apatia
più totale, facendo
spegnere anche quella scintilla.
Passo dopo passo
vado a quel balconcino ormai unico confidente dei miei lugubri
pensieri, della
mia sconfitta sempre maggiore e di quel senso di colpa atroce.
Spingo la maniglia
antipatico e l’aria fredda ed invernale mi investe,
scivolando sotto i vestiti
e ghiacciandomi l’anima.
Accendo una sigaretta,
una delle tante, la
nicotina mi riempie
i polmoni, le mani tremano, gli occhi guardano fissi un puntino
all’orizzonte,
la mente viaggia, riportandomi …
A quel dannato
giorno.
Stride, il freno.
Con occhi calmi, Asuma, guarda
la strada, schiva una macchina e passa oltre.
Il passeggero sorride alla
perizia dell’amico, un adolescente mai cresciuto in cerca
dell’adrenalina.
Asuma accende l’ennesima
sigaretta, il passeggero fa lo stesso.
Battuta sporca, sorriso.
Risata goliardica, pacche sulle
spalle.
Contachilometri che scende,quasi
ad una velocità normale.
Sono spericolati, non stupidi.
80 km/h non sono una
velocità
troppo elevata.
E’ un lampo, una distrazione.
Lo schianto lì davanti, una
macchina dell’altra corsia perde il controllo, vola nella
corsia dei due.
Un attimo.
Ed è l’inferno.
Un camion tenta di evitare la
macchina impazzita, sbanda, perde il controllo.
La macchina si schianta, in una
palla di fuoco.
Le lamiere volano.
Asuma tenta di mantenere la
macchina sotto controllo.
Ce la sta facendo.
Ma una lamiera rompe il vetro.
Le schegge volano, il passeggero
sviene in un lago di sangue.
Asuma, incolume, si volta.
Ed un urlo gli esce dalla bocca.
Troppo tardi.
La macchina sgomma, si scontra
sul camion, finisce giù per la scarpata.
E la morte, silenziosa, prende
l’autista
e risparmia il prigioniero.
Tornerà.
La mano destra
artiglia la balaustra, la sinistra scivola dolcemente
sull’occhio sinistro.
Se solo…
Fosse accaduto il
contrario.
Se solo fossi
morto io quel giorno.
Il mondo scivola,
danza sotto i miei occhi. Gira tutto, tutto, non riesco a tenere gli
occhi
aperti…
E tutto pare
chiamarmi verso il marciapiede, verso quel salto nel vuoto che la mia
mente si
ostina ad impedirmi. Ma
il mio corpo…
Non risponde.
- Merda…-
Dio, quanto mi
sento debole.
Le gambe non
reggono.
Un mano mi
trascina lontano.
- Dannazione!-
Una voce non mia,
un’immagine sfuocata di viola davanti ai miei occhi
impazziti, la testa che fa
un male allucinante.
L’impatto contro
il pavimento del terrazzo.
E…
Il buio.
Apro gli occhi con lentezza, un
immagine appannata si forma davanti al mio occhio stanco e si riflette
sulla
retina. Yugao…
I capelli viola ti
vanno sugli occhi, occhi viola che sembrano trafitti da un ansia
tremenda, da
un dolore appena scampato eppure così reale.
Le tue mani
stringono freneticamente le mie braccia, le unghie affondano nella mia
carne,
eppure non oso spostarti, non oso far nulla, mentre la tua bocca di
avvicina
alla mia.
Il tuo fiato da un
colore a questo mondo grigio.
L’occhio sinistro
torna a vedere in un modo decente, le testa comincia a girare un
po’ meno.
Sono steso a
terra, tu sei a cavalcioni sul mio corpo… sei tu che mi hai
trattenuto…
Le tue labbra si
avvicinano ed, in un secondo, sembrano la cosa più concreta
che ci sia a questo
mondo. La panacea per questo dolore che mi attanaglia
l’anima, il modo per
scappare alle mie responsabilità, il modo per scappare al
rimorso, per
riprendere la vita da dove l’ho lasciata prima del maledetto
incidente.
Eppure gli occhi
rossi tornano, distogliendomi dalla pace, che io so a portata di mano,
anzi di
labbra.
Io non posso
scappare dal mio inferno, io non posso rinascere e lasciarmi alle
spalle tutto,
io ho la colpa, io ne devo pagare le conseguenze.
Nel mio purgatorio non esiste venia, non
esiste un paradiso.
Solo un inferno
senza fine, una voragine infuocata senza fondo né pentimento.
Chiudo gli occhi,
un gemito mi sfugge dalle labbra, rompe l’incantesimo e la
potenza
purificatrice di te, donna, che mi può salvare.
- Cosa è
successo?- sussurro, mi sento terribilmente stanco.
- Dovresti dirmelo
tu. Stavi cadendo …-
Come posso vedere
quanto ti abbia fatto male, quanto ti abbia fatto male pensare di potermi perdere.
Perché, Yugao, noi
cosa siamo? Eravamo amanti, prima dell’incidente.
Siamo diventati
amici, dopo.
E ora?
Che siamo tragici
burattini capitati nelle mani dello sbagliato marionettista?
Tragiche anime che
si sono incontrate nel posto sbagliato?
Non ti posso
trascinare nella mia voragine.
- Non ho nemmeno
capito cosa succedesse… mi girava la testa…-
Porto
inconsciamente una mano all’occhio sinistro che fa un male
allucinate, tanto da
farmi gemere.
Mi prendi il mento
con delicatezza e osservi l’occhio, scoprendolo
irritato a tal punto che una lacrima scende giù
per la mia guancia.
L’asciughi con
dolcezza, mentre si perde tra le tue dita sottili e dolci.
I tuoi occhi si
incupiscono in un secondo, mentre capisci quale possa esserne mai stata
la
causa.
Mi passi un
braccio dietro le spalle, eludendo la voglia
che ti ritrovi di appoggiare le tue labbra sulle mie, di
scacciare i
miei demoni.
Fai bene.
- Yugao, sto bene.
Ce la faccio da solo.-
Uno sguardo,
arrabbiato, furioso, insofferente, insoddisfatto.
- NO, tu non stai
bene proprio per nulla! –
Quante cose si
possono dire con uno sguardo? Quante frasi si possono evitare, quante
parole
inutili?
Basta questo
sguardo, questo momento per capire che io e te siamo uguali, sotto
sotto.
Abbiamo tutti e
due qualcuno da fare rinascere.
If I could take
your pain away
I would scream for you
And I'd bleed for you
So you’ll never
feel this way again
When you’re in my
arms, again
I would scream for you
I will bleed for you
E, mentre
lo aiuta a trascinarsi
da qualche parte, lo sa.
Ha capito.
Per far
guarire quella velata
tristezza dal suo sguardo farebbe di tutto.
Lo
stringerebbe forte, e mentre
è tra le sue braccia griderebbe per lui, strapperebbe quella
spiacevole
sensazione da quel corpo.
Perché lui non si
sentisse mai più così.
Ma, Yugao,
lo sa.
Non
sarà possibile, perché l’unico
modo per strapparlo da quella solitudine… E’
strappare Kurenai alla psicosi.
E questo
fa male.
Perché
lei per lui… darebbe via
anche la vita.
Le labbra
sussurrano qualcosa al
vento, qualcosa che si perde senza raggiungere il vero destinatario.
Put the weight on my shoulders
And the pain in my heart
Tie the knots in my
stomach, let it tear me apart
So I could be everything
you need
So tear me apart...
A
melody without sense.
Brave's notes:
Grazie ad Aiko e a Yama Nihal,
care siete degli angeli a recensire.
E voi altri, ditemi che ne
pensate. ( anche perchè questo è il cap preferito
XD)
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Capitolo 6 *** Capitolo 5: Requiem for a Blues soul ***
Mi scuso
tremendamente per il ritardo... è davvero inaccettabile fare
aspettare così tanto x il seguito di una storia
già scritta... comunque... questo è l' ultimo
capitolo, spero vi piaccai e che vi ricordiate ancora di
questa storia =)
Grazie mille per avermi seguito, per me è davvero utile
quando si commenta e... solo grazie, davvero.
Un bacio Brave
Capitolo 5:
Requiem for a Blues soul.
Lo sguardo violetto si appunta sulla
donna stesa sul lettino di fronte a lei.
Fosse per lei la sbatterebbe in un
manicomio, getterebbe la chiave e affiderebbe il figlio della ragazza
agli assistenti sociali.
Ma non è lei a decidere di
questa donna in particolare.
Prende una cartella clinica, appunta
qualcosa con una penna blu, in una calligrafia piccola e quasi
incomprensibile, mentre osserva con la coda dell’occhio il
comportamento della paziente.
Gli occhi rossi del soggetto si
muovono lentamente, quasi che non ci sia nervosismo in lei, le mani
sono incrociate sul petto, immobili.
Non muove un muscolo, le gambe
accavallate, vestita di un pigiama di seta.
La psichiatra diviene gelida, posa la
cartella, apre le finestre, annusa lo smog di Seattle, poi le chiude.
- Come va, oggi?-
Pausa, nessuna risposta, lo sguardo di
Kurenai che scorre per lo studio, soffermandosi su una boccetta di
antipsicotici.
- Quando potrò riavere mio
figlio?-
Possibile che non le prema latro?
Yugao stenta a
crederlo. Dopo una serie di incontri lunghissimi ed estenuanti quella
è l’unica frase riguardante la sfera emotiva che
la paziente abbia mai pronunciato.
- Quando migliorerai.-
Yugao vorrebbe fermarsi lì,
come ogni volta. Ma questa volta è diverso, tremendamente
diverso. Non si può fermare lì, dopo quello che
è successo un paio di sere prima, dopo che… lui
è praticamente quasi volato da venti metri di
edificio…
La donna non fa una smorfia, chiude
gli occhi e si chiude nell’imperterrito silenzio.
E questo, la psichiatra, non lo
può sopportare.
- Sai cosa credo?-
La donna la guarda senza capire.
- Io credo che tu sia una dannata
ingrata. Io credo che tu sia talmente concentrata su quanto tu sia
povera e miserabile da non capire quanto questo faccia soffrire gli
altri.-
- Chi?-
Yugao la guarda, esterrefatta. Non
l’ha capito sul serio.
- Come chi? Non ti sei accorta di
nulla?-
Silenzio, occhi che volano sulle
unghie smaltate.
- Kakashi, ecco chi. Gli hai proibito
di tenere il bambino.-
Occhi che si alzano.
- Non lo guardi, lui ti viene a
trovare e tu non lo guardi. Lui ha dato tante di quelle cose per te e
tu…-
- Cosa ha dato per me, cosa? Mio
marito è morto e lui… Kakashi fa solo quello che
aveva promesso ad Asuma prima di morire!-
Yugao socchiude gli occhi, mentre le
immagini dell’amico mezzo morto di affacciano alla sua mente
e un brivido le attraversa la schiena.
- No, sta facendo molto di
più. Tuo figlio sarebbe dovuto andare in adozione da un
pezzo, lui l’ha tenuto qui, mettendo a rischio la sua
carriera per te. Credi lo faccia per Asuma? No, piccola stupida. Lo fa
per te! E’ per te che rimane al tuo capezzale la notte,
è per te che ti procura i migliori farmaci in commercio. La
tua patologia è così grave che io dovrei
ricorrere all’elettroshock. Non lo faccio perché
lui me l’ha chiesto..-
- E io lo ringrazio per questo. Ma non
gli faccio del male.-
- Credi sia facile stare accanto ad
uno psicotico! Credi che gli faccia piacere stare accanto ad una donna
talmente malata da riuscire a malapena ad essere autosufficiente? Credi
che sia piacevole vederti scivolare verso un baratro senza
fine?Perché è questo che stai facendo. Non parli,
mangi poco, ti devo drogare di antipsicotici, il vedere il tuo bambino
non ti provoca che crisi. Non tenti nemmeno di reagire, ti lasci
scivolare. E lui è qui, lui rimane nonostante sia
dannatamente difficile.-
Silenzio, gli occhi rossi si velano di
un‘ombra scura.
- E’ stanco, fa fatica mantenere
i suoi impegni, è distratto. Fuma più del solito,
beve più del solito, parla meno del solito. –
- Io non lo sapevo.-
- Non hai voluto capirlo.-
Silenzio, Yugao vuole infierire.
- Il tuo uomo è morto,
Kakashi è quasi diventato cieco. Non si dovrebbe stancare
troppo, non dovrebbe strafare,lo sai. Per te lo fa. L’ altra
sera è quasi svenuto, rischiando di cadere dal terrazzo
dell’ospedale.-
Kurenai porta le mani al volto,
assaporando il cocente dolore dei sensi di colpa.
Possibile che non si sia accorta di
nulla?
Possibile l’avere dormito
per così tanto tempo?
Affonda le unghie nella carne,
vorrebbe solo chiudere gli occhi e non saperne più nulla,
fuggire così a quella depressione atroce.
- Sei solo un’ingrata.-
Lo so, grida una vocina. Ma Kurenai
non la darà vinta a quella dona che di lei non sa nulla.
- Lui per te prova qualcosa di enorme.
Lui per te darebbe la vita, ma tu non te ne sei mai accorta.
E…-
Silenzio, silenzio e solo uno sguardo
tra le due donne che sono passato e futuro dello stesso uomo.
Solo
strada, corre dritta.
Le
mani, guantate, stringono il controller della moto, le gambe si
stringono ai quei fianchi come al corpo di un’ amante.
Piego
il mio corpo per girare a destra.
La
Kawasaki ninja corre silenziosa per le macchine, sorpassando con
estrema grazia.
Il
semaforo segna il rosso, mi fermo, lascio il motore in folle.
Il
verde, un rettilineo dritto e senza curve.
Metto
mano all’acceleratore, il contachilometri si alza, mentre il
vento passa sotto il casco, dandomi quella sensazione di
libertà che poche, pochissime cose mi danno.
Ed
è un orgia folle di piacere.
Fino
a che…
Un
bambino mi taglia la strada, troppo distratto per avvedersi del mio
arrivo.
E,
come al solito, è solo un secondo.
Reagisco
ancor prima che il cervello abbia materializzato cosa stia per
succedere. Sterzo con la moto, evito il bambino, posso sentire il grido
della madre.
Ma,
nello sterzare, perdo il controllo della moto.
E…
Ed
è come un film.
Solo
che al posto dell’attore ci sono io.
Invado
l’altra corsia, la macchina che mi è di fronte non
fa in tempo a frenare.
Mi
prende in pieno.
E’
un dolore soffocante, mentre la moto si alza in aria e io mi stracco da
questa, finisco per
essere lanciato come una palla di cannone.
Energia
cinetica = ½ mv2
Il
che, razionalizzo in un attimo, significa che sono un uomo morto.
Il
dolore si propaga per il mio corpo.
E
poi…
Il
suolo.
Vicino.
Vicino.
Troppo
vicino.
Lo
schianto.
Le
ossa che si rompono.
Le
gente che urla.
La
testa che batte a terra con tanta violenza che il casco si incrina.
Il
sangue sulla visiera.
L’intorpidimento.
La
difficoltà disumana per respirare.
La
moto che cade.
La
gente che corre, la madre del bimbo che strilla.
E
poi…
Il
dolore.
Caldo.
Vischioso.
Insopportabile.
Il
nulla.
- E te ne accorgerai troppo tardi.-
Un brivido che le passa attraverso la
schiena.
Qualcuno che bussa alla porta, lei che
si alza, il cuore in gola.
Quelle frasi.
Sbianca, entra nello studio bianca
come un cencio e caracollante.
- Forse è davvero troppo
tardi.-
Kurenai sgrana gli occhi, non capendo.
- Ha avuto un incidente stradale.
L’hanno ricoverato in condizioni critiche proprio in questo
ospedale. Non sanno se… ce la farà. -
E quelle parole spezzano tutte e due.
Futuro e passato, o forse…
semplicemente due gocce nell’infinito.
***
Testa fasciata strettamente.
L’hanno intubato, una
macchina respira per lui.
Il collo è cinto da un
collare ortopedico, ha due vertebre incrinate.
Il braccio sinistro è
appeso ad una trazione, la clavicola si è fratturata per
l’impatto.
Cinque costole si sono rotte, con
interessamento polmonare, perforando lo stomaco.
La milza è stata lacerata
dall’impatto, hanno dovuta esportarla in gran parte.
Una tibia è spezzata, come
se fosse il problema più grande.
Continue trasfusioni tentano di
mantenerlo in vita.
Una macchia controlla il suo battito
cardiaco, un’altra segna il suo elettroencefalogramma.
Ed è così
da una settimana.
Kurenai si siede su quel letto di
morte, prende la mano sinistra, alla quale è collegato un
sensore per percepire il battito cardiaco dell’uomo.
Stringe quella mano con dolcezza,
quasi in modo infantile.
Quel volto infranto la piega in due.
Sa di averlo condotto lei a quella
fine.
Con i capricci senza senso, con una
depressione che non aveva una minima ragione per essere.
- Mi dispiace. E’ troppo
tardi, forse, amico mio. Mi di spiace di essere stata una tale stupida,
mi dispiace di aver tradito la tua fiducia. Tu avevi così
tanta fede in me, in questo mio bambino. E io non ho fatto che
deluderti. Ti ho scacciato, quando non volevi cha aiutarmi, ho finto
indifferenza con te, che con me ti sei sempre aperto più
degli altri. Dalla morte di Asuma non ho fatto che incolparti di tutto,
senza vedere che la vera responsabile di questa dannazione non ero
altri che io. E ti ho trascinato con me, non ti ho lasciato riprendere.
Sei tu che hai tentato di salvarmi. Sono arrivata al pronto soccorso
con un taglio auto inflitto, terrorizzata, ti
ho negato mio figlio. E tu hai capito, mi hai affidata alla migliore
psichiatra che conoscessi, nella speranza che mi salvassi. E questi
miei occhi egoisti non hanno visto che tradimento e servilismo. Il mio
cervello ha creduto che tu volessi solo liberarti di me. Ti ho negato
mio figlio, hai dovuto correre a chissà quali ripari per
poterlo tenere qui, vicino a me. Eppure tu eri sempre lì a
consolarlo quando io non c’ero, quasi fossi tu il padre di
questa creatura. Quando
hanno iniziato a drogarmi con gli antipsicotici ho creduto che fosse
solo un modo più rapido escogitato da te per liberarti di
me, e non vedevo quello sguardo perso, quelle mani nervose
che tremavano nel darmi quel medicinale.
E io non capivo, chiudevo la mia
mente, sentendomi esclusa. Non ho lottato per nulla, Kakashi.
Non volevo lottare, non avevo nulla
per cui risorgere? Mio figlio? Mio figlio era per me la causa latente e
quanto mai vicina di questo dolore e pazzia. E tu? Tu eri solo uno dei
tanti che scappano al momento del bisogno. Mi sbagliavo. Ho
solo pensato a me stessa, non ho mai incontrato i tuoi occhi per capire
quanto soffrissi, non ho mai tentato di capire cosa fosse
stata per te la morte del tuo migliore amico e la mia pazzia.
Non ho mai realizzato… cosa
fossi io per te. Mai
i tuoi sentimenti. Per me e per lei, per la psichiatra. Lei che
è ed era la fuga dall’inferno che io ti ho creato
attorno. Non ho mai capito nulla, non sono stata che un ostacolo per
te. Per farti risorgere. Io … non potevo risorgere dalla
morte di mio marito e volevo trascinarti con me, per non essere la sola
a sentirsi colpevole. Sai…
non ho ancora un motivo
per cui riemergere, non so se sarà meglio, poi. Ma
c’è una cosa che so. Tu sei finito su questo letto
per me. L’unica cosa che io posso fare è lottare,
se non per me, almeno per quello che tu hai fatto per noi. –
Uno sguardo, una stretta a quella
mano, un bacio gentile sulla guancia.
- Kakashi, io risorgerò,
come una fenice. Io tornerò più forte di prima,
lo farò perché te lo devo. Il
mio cuore è ancora di Asuma ma non posso lasciarmi morire,
io devo andare avanti, e ti devo lasciare andare. Kakashi, ti
prego… svegliati. Non per me, io non merito nulla. Fallo per
lei.-
Silenzio, passi.
Yugao raggiunge Kurenai, che si volta
e le sorride.
La psichiatra ha in braccio un
bambino, il bimbo della paziente.
- Tieni. Ce la puoi fare. –
Un sorriso triste, il bimbo che scappa e si arrampica sul corpo
esanime di Kakashi.
Gattona con estrema dolcezza, poi
afferra una ciocca di capelli argentati che sfugge alle bende sul capo.
La tira, senza reazione.
E piange, piange perché il
bimbo vuole una reazione sia anche di dolore.
Piange perché ha capito
quello che le due non hanno capito, Kakashi non tornerà
più indietro se non in quel momento.
Tira i capelli dell’uomo con
quasi una violenza disperata.
Le due donne fanno per afferrarlo ed
allontanarlo.
Una mano carezza il volto del pargolo
e due occhi si aprono.
Kakashi si apre alla vita.
Deve risorgere, deve farlo per forza.
Una lacrima scivola per le sue guance.
Passato e futuro sono davanti a lui.
L’inferno e il paradiso sono
davanti a lui, anima del purgatorio.
L’inferno, con occhi rossi e
boccoli marroni, prende il piccolo in braccio, volge lo sguardo
sorridendo.
Paradiso, occhi viola e capelli viola
chiede un cenno.
E Kakashi…
Risponde.
E, per la prima volta…
Inferno si chiude, purgatorio sparisce.
Rimane solo il paradiso.
La potenza dell’amare che si
trasforma in atto.
I baci, l’amore da troppo
rubati e troppo temuti.
E come Dante amò e
trovò Beatrice tra i beati, Kakashi trovò Yugao,
passando per l’inferno ed il purgatorio.
Inferno sorrise, strinse il pargolo.
Lasciò andare il
postulante, e, nata dal fuoco, risorse in un mare cremisi e sconfisse
l’amara morte dell’intelletto. Risorse come una
fenice e spiccò il volo, libera dal giogo ad osservare i
mortali amare.
Amare di quell’amore
perfetto che lei non avrebbe mai più conosciuto.
Perché lei…
Lei era andata oltre.
E l’araba fenice
cantò una dolce ballata blues, lasciandola riecheggiare per
l’eternità.
Eterna nella memoria come lei,
ceratura mistica, era eterna nel tempo.
E per sempre lo sarebbe stato.
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