Blues Ballad

di bravesoul
(/viewuser.php?uid=62160)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Baby Blues. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: Bluesman ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: Blues' Crisis ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3: Blues disease ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4: Melody Without Meaning ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5: Requiem for a Blues soul ***



Capitolo 1
*** Prologo: Baby Blues. ***


Che dire di questa fic? l' ho partorita, letteralmente. Ne sono estremamente orgogliosa, perchè è stata un Odissea. Si è classificata prima al contest " Mental", ma l' avrei pubblicata anche se fosse arrivata ultima. Quindi leggete, se non vi spiace commentate^^.

Questa fic parla di problemi e malattie psicologiche, quindi, se non vi piace l' argomento o lo ritenete troppo pesante non leggete.

Alle Giudicesse.

Ma, soprattutto, a chi mi da la forza di andare avanti

Blues Ballad

By Bravesoul

Prologo:

Baby Blues.

 

Il sole bagna lentamente la tua pelle, passi le unghie curate sull’epidermide del viso, tastando le piccole rughe che iniziano già a formarsi agli angoli degli occhi e della bocca.

I polpastrelli si fermano inclementi su quelle imperfezioni, così minuscole e copie microscopiche del macroscopico scempio inciso sulla carne della tua pancia da ex- pregnant e sulle cosce troppo grosse e con la pelle floscia.

La pelle non è più perfetta, e tu avresti voglia di gridare.

Scosti i capelli, troppo spenti, dagli occhi, sempre troppo  umidi, li passi dietro le orecchie troppo sensibili.

E le stesse orecchie percepiscono il pianto di quel bimbo una volta tanto voluto e che ora non riesci nemmeno a sopportare.

Ti alzi dalla sedia che sa tanto del tuo ex marito, raccogli le forze, stringi i pugni, serri i denti, e ti avvicini a quella culla maledetta, lasci scorrere lo sguardo per quel corpicino tremante.

Avvolto nelle coperte pare così indifeso: la testa piccola, gli occhi simili ai suoi chiusi, le labbra socchiuse in un urletto alla richiesta di cibo, le manine serrate attorno alla coperta comprata dall’altro, il corpo semplicemente rannicchiato.

Dovrebbe ispirare amore, dovrebbe ispirare tenerezza, a te comunica solo odio.

Odio, perché quel bimbo ti ha privata dell’unica cosa che ti era rimasta: la bellezza.

Odio, perché il padre biologico di quel bambino non c’è più e ti ha lasciato quella cosa da accollarti.

Odio, perché vorresti quel fagotto dentro di te, per non sentirti brutta, per non sentirti sola, per riportare indietro il tempo.

Vorresti  attorcigliare le tue mani per quel collo sottile, strappare la vita a quel coso a cui l’hai data, vorresti estirpare quella vita per averne il controllo.

Come ne avevi prima.

Dio… è tuo figlio, come puoi anche solo desiderare una cosa del genere?E’ il frutto dell’amore vero, del fin’amors, come puoi anche solo pensare di poter porre fine a questa vita?

Eppure, eppure nel profondo dell’anima, senti questo desiderio inconsulto farti visita, rovinare questo forse punto di partenza per una nuova vita.

Ti accasci a terra, serri i pugni, affondando le unghie scarlatte nella carne delle tue mani perfette, le lacrime che corrono veloci, nervose, inclementi, sul tuo volto perfetto.

Il volto che tu odi, perché solcato da quelle rughette insignificanti.

Vorresti ucciderti? Vorresti calare un coltello per la tua gola perfetta, non respirare più ?

Non lo farai, perché non sei arrivata a tal punto, perché, ancora, c’è qualcosa che ti trattiene alla lucidità.

Di scatto ti alzi, ridi, ridi istericamente, chiedendoti come sia possibile.

Vuoi una risposta?

Non lo è.

Qualcuno bussa alla porta.

Chiudi gli occhi, ti alzi, ricomponi la tua perfetta facciata.  Nessuno deve vederti così, nessuno.

Perché?

Chiudi gli occhi e prepari il cerone per l’ennesima recita, l’ennesimo spettacolo di fronte a quel pubblico cieco e sordo.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1: Bluesman ***


 

Capitolo 1:

Bluesman

 

Capelli argento davanti agli occhi, mani nelle tasche di un cappotto di lana blu, faccia quasi coperta da una sciarpa grigia.

Un occhio nero e vigile, l’altro, opaco, non vede quasi più, se non qualche ombra e qualche colore di tanto in tanto. Qualcosa a cui sono abituato.

La leggera brezza invernale fruscia, leggera, facendosi beffe dei miei abiti pesanti, del mio umore cupo, troppo cupo, e della mia noncuranza supposta.

Le  mani giocano con i ninnoli di cui sono sempre piene le mie tasche: la sinistra indugia al tatto del metallo caldo delle chiavi di casa mia, la destra stringe la chiavetta delle macchinette dell’ospedale.

Alzo lo sguardo, sapendo di essere arrivato a destinazione: una villetta a schiera immersa nella pace di Salisman street, una piccola via privata di Seattle.

E, come tutte le volte che guardo questa dannata villetta, mi chiedo che diavolo sia venuto a fare, forse solo a farmi del male.

Istintivamente porto la mano destra all’occhio sinistro, l’occhio ferito, l’occhio che mi da una scusa per non vedere, per non far vedere, l’occhio cieco, l’occhio che, alla fine, è solo una delle mie facce.

Che diavolo sono venuto a fare qui?

Solo a farmi male, rispondo.

Cosa troverò? La donna infranta del mio migliore amico, anzi, la donna infranta del mio ex- migliore amico. Ex, perché il mio migliore amico è… morto.

Morto, lasciandola da sola a questo mondo, da sola con un bimbo da partorire e crescere.

Solo a farti male?

Provo un malsano piacere a farmi male, rispondo. A farmi male… a vederla affrontare il mondo a muso duro, mentre io non so fare altro che rifugiarmi nei problemi altrui, nei corpi altrui, nelle malattie altrui, senza capire la mia.

Un medico abilissimo nel far tacere cancri altrui e letteralmente incapace di capire il proprio morbo.

Avanzo, passo dopo passo, entro per quel cancello sempre aperto,  busso a quella porta che sa troppo di usuale.

Rumore di passi, il pianto di un bimbo, sorrido, sotto la sciarpa.

La porta si apre, rivelando una donna bellissima.

Cristo…

Come al solito il cuore perde un battito o due nel vedere quegli occhi carmini e quel sorriso che si stampa a forza in faccia. Come se non vedessi il disagio sotto quel volto di cera costruito di fretta e furia per non fare capire quanto sia difficile. Come se non capissi quanto male fa ritrovarsi sola.

E, per l’ennesima volta, mi chiedo cosa sia  venuto a fare qui.

- Yo!- La mia voce viene fuori, attutita dalla sciarpa di lana e dal vento. Falsamente allegra, si staglia parallela alla tua maschera cerata e costruita.

- Ciao Kakashi!- pieghi la testa di lato, a sinistra, come fai di solito quando sei contenta e curiosa. Gli occhi rilucono, le labbra si arcuano in un sorriso vero.

Le piccole rughe attorno ai tuoi occhi si fanno presenti, invadenti nei tuoi perfetti quasi trent’anni.  Piccole rughe che odi, che cerchi di sterminare con costosissime creme che sono costretto ad accompagnarti a comprare. Non ti rendi conto di quanto tu sia bella e umana con quei piccoli segni del tempo?

- Cosa sei venuto a fare da queste parti?- mi chiedi dolcemente, le mani infilate nelle tasche dei jeans, hai freddo, coperta solo da un maglione rosso. – Non dovresti essere in ospedale a salvare vite?-

Sorrido dolcemente, è la stessa domanda che mi sto ponendo io in questo momento. – Sono in pausa e ho pensato di venire a trovarti, dopotutto Genma mi deve un turno.- mento, perché la vera ragione per cui ho attraversato mezza città affrontando il gelido inverno non è nota neppure a me.

- Entra.-  la tua voce è allegra, dopotutto ti fa piacere che mi ricordi di te.

La porta si apre, mi lascia entrare, prendo il pomello della maniglia e chiudo quell’entrata sul tuo mondo privato.

Pavimento di parquet di noce, casa arredata in un sobrio stile quasi orientale. Hai sempre adorato questo genere di cose.

Un grande salotto con un divano e due poltrone, in tavolo di legno color naturale su un tappeto probabilmente persiano, probabilmente regalo della madre del tuo vecchio compagno. E poi... poi quella culla in legno chiaro, con le sbarre poco distanti l’una dall’altra che lasciano intravedere il tuo pargolo. Un fagottino piangente e che sa ancora del tuo profumo di mamma.

Mi siedo su di una poltrona, quella rossa, quella che avevate comprato pensando a me.  Chiudo gli occhi per un secondo, abbandonandomi a quel profumo fantastico e precluso.

Oh, dannazione.

Il cercapersone inizia a ronzare nelle mie tasche, faccio finta di nulla, lo spengo.

Tu non te ne accorgi neppure, eri andata in cucina a prendere... cosa esattamente?

Ah, ora ricordo.

Del caffè.

Improvvisamente un pianto rompe la mia quiete.

Apro gli occhi, sorridendo.

Il tuo cucciolo, figlio di suo padre.

Mi alzo, mi avvicino a quella culla, una culla che ti ho aiutata a scegliere. Le mie mani affondano nelle copertine che ti ho regalato, coperte che sono costate tanto. Non economicamente quanto umanamente.

Perché sono venuto?

Afferro con pretesa dolcezza quel corpicino tremante, con i capelli morbidi come i tuoi e gli occhi di suo padre. E’ un corpo tanto piccolo da farmi sentire a disagio.

Appoggio la  testa del pargolo nell’incavo della mia spalla, comincio a passeggiare quasi dondolandomi sui talloni. Questo bimbo sa troppo di te. Troppo poco di Asuma.

Il piccolo mi guarda fisso con quegli occhioni marroni ed enormi, mi afferra i capelli con curiosità. Hanno un colore strano, effettivamente. Comincia a tirarli, prima con dolcezza e poi con foga, quasi volesse scoprire la parrucca e svelare chissà quale segreto.

- Ehi, guarda che sono veri.-

Sorrido, mentre l’ennesima zaffata del tuo profumo passa da quella pelle al mio naso.

Preferirei…

Non poter percepire questo odore per l’ennesima volta. Mi fa sentire colpevole, mi fa sentire in difetto.

E, credo già di esserlo a sufficienza.

Torni in salotto, con in mano due bicchieri colmi di quel caffè americano che sembra una triste parodia di quello italiano. Lo odio, ma lo berrò lo stesso.

Avanzi leggera, poi realizzi l’immagine che ti si para davanti.

Tuo figlio e il migliore amico di tuo marito.

Tuo figlio che gioca con il migliore amico di tuo marito.

Giurerei di vedere un sorriso fare capolino sul tuo volto perfetto. Giurerei di aver visto per un secondo quel sorriso illuminarti gli occhi e scaldare il mio cuore meglio del liquore.

Giurerei.

O, forse, voglio solo fare finta di aver intravisto qualcosa di positivo nel tuo volto.

Volto che si trasfigura da maschera di cera a maschera d’orrore, gli occhi carmini da calmi che diventano lucidi, le labbra che perdono quella  posa soddisfatta e si piegano in una smorfia amara.

Le tazze di ceramica che si infrangono sul parquet, vanno in mille pezzi, il caffè bollente che schizza ovunque, come sangue.

Come sangue imbratta il pavimento, il tuo volto, i miei vestiti.

- Lascialo!-

Between where we were standing
And your voice was all I heard

Come echeggia quel grido.

Come ferisce.

Ti avventi su di me come una menade, lo scintillio della pazzia nei tuoi occhi.

E  ti lascio la tua creatura, la creatura a cui mi sono indebitamente legato, come ricordo di ciò che ero, dell’innocenza che ho perduto troppo tempo fa. 

Di colpo qualcosa dentro di me si incrina, i miei occhi si fanno gelidi. Pensi non sappia che sia difficile? Lo è anche per me.

Ti vedo stringere quel bimbo come se fosse la cosa più importante, l’unica che ti resta. I tuoi occhi non sono quelli di una donna, sono quelli di una fiera che difende i propri cuccioli, furiosa, selvaggia, implacabile.

I tuoi occhi sono… i tuoi occhi ardono di una scintilla che ho visto troppe volte, una scintilla che voglio far finta di non vedere.

-Vattene.- sussurri, la voce roca.

Mi volto, in silenzio, recupero la sciarpa appoggiata sulla poltrona, chiedendomi se sia giusto lasciarti così.  Se non sia piuttosto un fuggire da qualcosa di cui ho paura, da una responsabilità che non ho il cuore e forse nemmeno la forza di prendermi.

Torno ad essere l’essere gelido che sono quando opero, quando lascio che il mondo non sia per me che una futile forma di distrazione.

O, almeno, ci provo.

Ma come posso voltarti le spalle?

Ti sento singhiozzare, mi volto. Non posso restare impassibile a tutto questo.

Gli occhi carmini sono resi lucidi dalle lacrime, il tuo giovane corpo imperfetto scosso dai sussulti.

Stringi tuo figlio come se potesse scappare da un minuto all’altro, come se potesse svanire come suo padre, in un momento di furiosa e crudele vita.

Ti accasci a terra, crolli sulle ginocchia, atona e singhiozzante.

Il mio corpo si muove senza che possa o voglia fare altro, ti stringo tra le mie braccia forti e quasi fragili allo stesso tempo. Il tuo corpo si abbassa ritmicamente, scosso, bagnato, seducente.

Ed io non posso fare che chiudere gli occhi.

Solo stringerti e chiudere gli occhi.

E, invece, vorrei fare molte altre cose.

Ma non posso.

Chiudo gli occhi, il tuo respiro torna regolare, le lacrime cessano, mi stringi, come se avessi bisogno di calore umano, per supplire qualcosa che manca. Stringi le mie braccia e tuo figlio come se fossimo ciò che ti è rimasto.

O, forse, in questo momento ti ricordo semplicemente lui.

Il cercapersone vibra, mi chiedo come sia possibile, ero convinto di averlo spento...

Vorrei ignorarlo, ma il dovere mi chiama, onnipresente, onnipotente.

Con uno sbuffo porto una mano alla tasca del giaccone estraendo quel piccolo oggetto.

- Dannazione…-

Mi guardi con quegli occhi rossi che ormai hanno ripreso il controllo della propria maschera perfetta.

Ma ormai è troppo tardi, ti ho vista lì sotto, tra il dolore e qualcos’altro.

- Vai, Kakashi. Hanno bisogno di te.-

Vorrei rimanere, parlare con te. Vorrei capire cosa è successo esattamente.  Ma forse non c’è bisogno di parlare, lo capisco da come serri tuo figlio in una morsa d’ acciaio, da come i tuoi occhi paiono adamantini nei miei confronti. Forse davvero non è bisogno di me quello che hai dentro.

Ti guardo per l’ennesima volta, ti scorgo, mi riparo a mia volta dietro la solita maschera gelida.

- Yo, ci vediamo. Kure…-

Per l’ennesima volta mi trapassi con lo sguardo, allontani la tua creatura da me, la proteggi, quasi te la volessi portare via.

- Se hai bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa … il numero dell’ospedale lo hai.-

- Grazie. Ora va’.-

Praticamente mi scacci di casa, e io mi ritiro.

Ti saluto indifferente mentre chiudi il portone.

Infondo non siamo che due marionettisti che credono di ingannarsi l’un l’altro.

Infondo non facciamo che recitare una parte imperfetta senza ingannare che noi stessi ed il nostro cieco pubblico.

Forse.

Infilo le mani in tasca, affronto la brezza invernale, giocando con le chiavi di casa e la chiavetta del caffè dell’ospedale.

Le scarpe, di pelle nera, affondano nelle pozzanghere, le calze si inzaccherano. Non ho né la voglia né la volontà di tornare in ospedale a piedi.

Vedo un taxi passare e lo chiamo, tanto il viaggio lo paga l’amministrazione. Chiudo il portellone giallo del taxi  e con voce gelida sussurro – St Paul Hospital.-. L’autista mette in moto, non ho voglia di attaccare bottone.  Chiudo gli occhi, lasciandomi alle spalle Kakashi e diventando il medico chirurgo Kakashi Hatake, primario di traumatologia, brillante medico, sciupa femmine, uomo glaciale e perennemente in ritardo.

E, comunque, quegli occhi rossi ballano davanti ai miei. Finisco per chiedermi se davvero io possa qualcosa per lei, o se, semplicemente non sarebbe meglio lasciarla andare.

Il medico prende il sopravvento sull’essere umano e mi ritrovo a pensare  se magari non possa esserci qualche ragione patologica a quel comportamento assurdo, ma scaccio l’idea. Sono ancora troppo essere umano per poter pensare a lei in questi termini.

Apro gli occhi, scostandomi dal volto un ciuffo ribelle di capelli argentati.

L’autista ferma la macchina, si volta, straordinariamente è una bella ragazza dai capelli rossi e gli occhi azzurri. – Siamo arrivati, signore.-

Scendo dalla macchina con grazia, caccio una mano nel portafogli e le do una sostanziosa mancia.

La ragazza mi guarda stupita, poi mi ringrazia e socchiude le labbra in un sorriso aperto e cordiale. – Grazie, dottor… Kakashi Hatake - conclude, leggendo il cartellino che mi sono apposto sulla tasca del cappotto. -avesse bisogno faccia un fischio!-

Le sorrido di rimando, chiudo il portellone della macchina, mi preparo ad un nuovo tour in ospedale.

Apro il portone trasparente dell’edificio, tento di lasciare gli occhi rossi fuori.

Per diventare perfetto.

Per fare del mio meglio per i miei pazienti.

Per non annichilirmi.

Per respirare.

Chiudo gli occhi ed erigo le mie barriere, invisibili e pseudo impassibili.

Al ritmo del mio respiro mi trasformo.

Il ritmo di un di un dolce e malinconico Blues.

Perché, alla  fine, sono a mio modo un Bluesman.

Un bluesman perfetto e maledetto.

Perché il blues è maledizione e improvvisazione.

E io lo sono in modo quasi... Maledetto.

Ed eccoci al primo capitolo ^^ grazie x i commenti, spero che possapiacere^______^.

Ditemi che ne pensate... ( anke se vi fa schifo, please)

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2: Blues' Crisis ***


Capitolo 2:

Blues’ Crisis  

Via, via come il vento.

Le mie mani si muovono agili per questo corpo infranto dall’incidente.

Che incidente?

L’incidente che è costato la vita a dozzine di persone.

Un’autocisterna di benzina si è schiantata in piena autostrada contro un camion, coinvolgendo qualcosa come sette macchine.

Le ambulanze sono arrivate volando, ma per molti dei feriti era decisamente troppo tardi.

A nulla sono valse le manovre disperate dei medici, che si sono attardati su quei corpi spezzati e già morituri.

E io, io che sono un chirurgo di fama mondiale, persino io ho potuto poco.

E come al solito questo ha fatto male, anche se nessuno l’ha capito.

Anche se nessuno ha intuito che sotto i miei occhi neri e indifferenti c’è un cuore pulsante e dannatamente ferito.

Le mie mani hanno clampato vene, oggi.

Hanno sistemato gambe, braccia, costole.

 Le parole pneumotorace ed emolisi sono qualcosa che oggi ho detto troppe volte, ho pronunciato troppe ore del decesso.

E, ora, sono in sala operatoria. Per l’ennesima volta, ma forse quella buona.

Ann Josephine Kent.

Quindici anni, i genitori ricchi entrambi, capelli biondi ed occhi azzurri. Fisico da urlo, gambe perfette e chilometriche.  Ora volto sfregiato quasi irrimediabilmente, genitori morti tra atroci sofferenze, una fortuna di cui non saprà che farsi e una gamba talmente tanto malridotta che forse tornerà a camminare, non certo a sfilare.

Chiudo l’ultima ferita, un rapido sguardo all’elettrocardiogramma ed all’anestesista.

Una carezza solitaria a quei capelli dorati, uno sguardo triste a quel volto tanto bello una volta e ora rovinato.

Mi allontano dal corpo della giovane che sarà presto vestito e trasportato nella sua camera da infermieri e specializzandi.

Tolgo i guanti, esausto.

Li getto, bianchi e coperti di sangue,  nel cestino apposito della sala operatoria, sopra tamponi rossi del sangue perso in ore ed ore di intervento.

Faccio lo stesso con la cuffia blu che mi trattiene i capelli, che si riversano come una marea argentata sul mio volto sudato e stanco.

Tutto comincia a girare leggermente, so benissimo il perché.

Sono semplicemente troppo stanco, troppo stranito da questa continua orgia di morte e sangue, un orgia che mi porta sempre più ad essere uno di quei fantasmi sul tavolo operatorio.

Come Asuma.

Scaccio questo pensiero, cerco di scuotermi, passo una mano sull’occhio sinistro nel tentativo, misero, di liberarmi di questo  pensiero insistente.

Esco da quella stanza barcollando, vengo investito dall’odore fortissimo di nicotina che non fa che ricordarmi il mio amico perduto.

Devo farmi una sigaretta.

Uno sguardo alla ricerca di qualcuno che voglia sapere qualcosa di quella giovane.

Un ragazzino moro, probabilmente il suo ragazzo.

Non sento nemmeno le parole che dico, la diagnosi purtroppo corretta ed il dolore che devo trasmettere.

Non sento cosa dico, sono troppo esausto per curarmi troppo delle parole ripetute sino alla nausea.

E le parole di conforto?

Solo circostanza.

Ma neanche troppo.

Mi sono trovato anche io dall’altra parte della barricata un paio di volte. Sia da quella del parente che del paziente.

Le ultime parole, quelle dette da essere umano e non da medico, quelle sono reali.

Così faccio da messaggero di morte, scrocco una sigaretta e mi dirigo verso il balconcino dell’ospedale, quasi fossi un automa. Non so che fare in queste situazioni. Gli abbracci sono bruscamente reali, troppo vicini, ci si scotta. Le parole, invece, sono troppo distanti e fraintendibili.

Certe volte preferirei non dover essere un dannato becchino.

Apro la porta antipanico e trasparente che da sul balconcino, il pavimento sozzo di cenere.

Con la testa che gira mi avvicino la sigaretta alle labbra, la prendo in bocca, con le mani cerco un accendino nelle tasche del camice ancora sporco di sangue altrui.

Armeggio con la fiammella artificiale, sino a che la sigaretta non si accende, poi mi concedo quel vizio maledetto.

La zaffata di nicotina mi penetra nei polmoni, mi rilassa, mentre chiudo gli occhi e tento di salvarmi dalla mia stessa coscienza che mi impone di pensare a … quel dannato giorno.

La mano libera artiglia la balaustra, l’altra tenta di non tremare nel avvicinare la sigaretta alle mie labbra, mentre faccio un tiro.

La testa mi scoppia.

Merda.

Non sono stato in grado di fare nulla di buono, per lui.

Per lei.

Soprattutto per lei.

Artiglio ancora di più quella balaustra, sentendo i muscoli della mano contrarsi quasi da far male.

- Kakashi… -

Mi volto, nascondendo in fretta e furia la smorfia di dolore che mi attraversa il volto.

- Yugao…-

Capelli viola, un volto quasi sempre inespressivo, grandi occhi violetti che sembrano quasi sondare l’anima delle persone.

- Detesto disturbarti, ma una ragazza ha chiesto di te.-

Non c’è l’ombra di un sorriso giocoso, come quello che ci sarebbe se fosse una visita di un certo tipo.

Mi volto, spaventato.

Non può essere quello che credo…

Non può essere lei, non può!!

Tra tutte le ragazze che conosco…

- Ha un bambino piccolo. Kakashi… temo che non sia molto in sé.-

E’ come se mi si spezzasse qualcosa. Temo che non sia molto in se. Quanto feriscono queste parole? Decisamente troppo.

Lancio la sigaretta giù dal balconcino, soffocando un’imprecazione che mi sale alle labbra.

Non vorrei davvero che lei fosse venuta qui, forse perché questo ospedale è una sorta di porto franco da lei, un posto in cui mi posso abnegare per diventare qualcun altro di diverso.

O, forse, è perché ho paura che i timori che mi tengo dentro possano trovare conferma in uno sguardo insano o malinconico.

Non vorrei che lei fosse qui, perché ho paura.

Ho paura che non faccia più ritorno a casa.

Chiudo gli occhi con un sospiro, faccio segno alla mia visitatrice di condurmi.

Giù per le scale, via per i corridoi.

E’ tutto irreale e falsato, quasi sbiadito e di corsa. Non voglio pensare, voglio essere vuoto. Sarebbe più facile non provare davvero nulla, come pretendo di fare.

Non voglio provare dispiacere, né paura.

Non voglio essere umano, alle volte.

Essere una macchina sarebbe più facile, non si farebbero errori, non si farebbe morire la gente. Non si ferirebbe la gente nell’intimo.

Semplicemente si sarebbe macchine autonome, che non lasciano tracce della loro presenza sul mondo, neanche per caso. Solo foglie leggere che si guardano senza davvero vedere, che spariscono senza provocare tristezza, che svaniscono senza rendersene conto.

Per vivere e lasciare un segno ci vuole più forza e più ego.

La mia guida si ferma davanti ad una porta, l’ambulatorio di pronto soccorso, la bile mi sale in gola, ho un orribile presentimento.

Yugao mi guarda negli occhi, come se si aspettasse una chissà quale reazione, poi china la testa e mi sussurra di entrare, perché la ragazza ha chiesto solo di me, e  non si fa sfiorare da nessun altro.

Spingo la maniglia, apro la porta, la chiudo alle mie spalle, senza nemmeno guardare chi ci sia dentro. Non voglio saperlo.

Alzo gli occhi.

La vedo.

 Tiene il bimbo piccolo stretto al petto, con una violenza tale da far temere che il piccolo possa risultarne ferito,  una mano contratta sulla copertina che lo avvolge, contratta in modo nervoso; L’altra mano poggiata in grembo, ferita ed avvolta in uno strofinaccio da cucina.

E poi quegli occhi…

Il volto sfatto, le labbra rosse morse a sangue e spaccate, la pelle cerea, le occhiaie marcate e violacee, gli occhi carmini lucidi e rossi dal pianto, animati da una scintilla allucinata.

I capelli annodati e sciolti sulle spalle.

Sconvolta.

E poi quel bimbo con gli occhi chiusi, stretto come se potesse scivolarle da un secondo all’altro.

Qualcosa dentro di me si rompe.

Come posso credere ancora che sia tutto normale? Come posso illudermi che la scenata di poco tempo fa sia stata solo un caso indotto dagli ormoni? Come posso credere che non sia successo altre volte?

Come posso non vedere che la maschera finta è caduta?

Come posso non capire che il volto che vedo oggi è il volto che questa donna ha sempre avuto, coperto da un cerone immateriale e fragile?

Silenzioso, col cuore grave, le prendo la mano ferita con dolcezza, nonostante lei tenti di ritrarla.

Disfaccio la bendatura di fortuna, che rivela un taglio regolare che le attraversa il palmo della mano, profondo e sanguinante.

Non la guardo, mentre pulisco la ferita dalle fibre dello strofinaccio, mentre tampono il sangue.

Poggio il tampone, le faccio un’iniezione di antidolorifico e comincio a suturare.

Alzo gli occhi, incontrandone lo sguardo.

Una lacrima scivola per il suo volto, facendomi morire.

- Come te lo sei fatta?-

Silenzio, imperterrito, un gemito, gli occhi che si colmano di lacrime ed il figlio che viene stretto ancora più violentemente.

- Rispondimi, Kurenai. Come te lo sei fatta?- La mia voce è dura, forse anche tesa.

- Se te lo dicessi…- la tua, di voce, è debole, rotta dal pianto.

Non serve che tu risponda, ho già capito come te lo sei fatta. Ma voglio sentirlo da te, voglio rendermi conto di quanto tu sia consapevole di ciò che stai facendo. Perché tu sai cosa succederà, ora. Tu sapevi cosa sarebbe successo a venire da me in queste condizioni, eppure sei venuta lo stesso.

- Dimmelo. – Potrei essere più delicato. Potrei essere dolce e gentile. Ma sono stanco. Sono stanco di vedere la gente crollare, di rimanere in piedi, e poi di portare i rimorsi nella tomba.

- Io… il coltello…-

Potresti mentire, potresti salvare la tua precaria situazione, io ti crederei, e lo sai. Non per altro, semplicemente per non guastare questo idillio fallace e finto, per non assumermi altre responsabilità.

Ma tu non lo farai. Lo intuisco da come il tuo sguardo si fa deciso, da come serri tuo figlio, disperata.

- Mi sono… tagliata… il coltello… è scivolato…-

- Te lo sei fatta da sola?-

Uno sguardo, le lacrime che scivolano.

Un cenno e capisco.

Te lo sei fatta da sola.

Dannazione.

Finisco la sutura, ti bendo la mano, mentre vieni scossa dal pianto. In questo momento vorrei non essere da questa parte della barricata, vorrei essere un amico e non un medico. Ma io sono un medico. In questo luogo, sono prima di tutto un medico e poi un essere umano, un amico, una persona che ti da un’ importanza che non puoi nemmeno immaginare.

Mi alzo e faccio per prendere un antidepressivo qualsiasi dall’armadietto dei medicinali. Ma mi blocco, non posso farlo. Non posso chiudere gli occhi e far finta di nulla. Non posso essere così cieco.

Io sono un medico.

Ed ho più doveri che diritti.

Apro la porta dell’ambulatorio, mentre i tuoi occhi mi seguono, speranzosi. Credi che me ne possa andare e far finta di non aver visto?

No, non posso. Ma, fidati, lo vorrei con tutto me stesso.

Yugao si volta, catturando il mio sguardo.

Chissà come devo essere ridotto male.

Chissà cosa devo esprimere in questo momento.

Terrore.

Sconfitta.

Rimorsi.

Solitudine.

Mi guardi, capendo da un solo sguardo.

- Credo… che sia una tua paziente, ora.-

Sai quanto mi costi dirtelo, tu sei una psichiatra e dannatamente brava. Ma sei una terza persona. Tu sai quanto detesti delegare queste cose a qualcuno che non sia io stesso, tu sai che devo tenere alla data persona troppo.

Mi segui, senza una parola, senza un gemito.

Apro la dannata porta da cui sono appena uscito.

Kurenai la vede, si contrae in una smorfia di dolore, tradita.

Credevi che avrei risolto tutto con un colpo di magia? No, non posso farlo.

Non posso aggiustare la tua vita come per magia, non posso aggiustare le cose che si rompono con un sinuoso gesto. Io opero i corpi, io mi bagno del sangue della gente, io sono il primo ballerino in un’ opera di sangue.

Ma la mente, quella, non la posso aggiustare.

Mentre quella porta si chiude, mentre il vagito di un bambino rompe l’odioso silenzio, sento il mondo crollare.

Ma non io.

Io rimango fermo, immobile, ad aspettare che il tempo passi e che tutto torni come prima, come se fosse possibile.

Io resto in piedi, infilo le mani in tasca, mi appoggio al muro.

In attesa.

Perché io non so fare altro che guardare il mondo cadere e stare fermo, a crollare a poco a poco con i muri di questo mondo recluso e piccolo.

Attendo.

Null’altro.

Asuma… ho fallito.

Ti avevo giurato di proteggerla, l’avevo giurato ad un morente.

Ed ho fallito.

Per l’ennesima volta.

E sotto questi occhi neri e ciechi passano donne, bambini, uomini, infermiere.

Ma non li vedo davvero.

In questo momento non sono il primario Kakashi Hatake. In questo momento sono solo un uomo, un uomo come tanti altri.

Un uomo in attesa di un giudizio finale.

Medico e parente allo stesso tempo.

Terribile.





Angolino di Brave:

Yama nihal : grazie mille dei complimenti, mi fanno sempre davvero molto piacere. Come mi fa piacere che ti piaccia l’ introspezione su Kakashi , i suoi problemi e il ripercuotersi del lavoro che svolge, il medico, sul resto della propria vita. Il mestiere del medico mi ha sempre affascinato e anche le conseguenze “psicologiche" e sociali che comporta.  Davvero, mi fa piacere che tu abbia gradito l’ intro su questo argomento e che nn l’ abbia trovata banale o forzata.

Per quanto riguarda Kurenai, lei, la sua quasi pazzia, la patologia che l’ affligge, è stata la cosa  più impegnativa ma se vogliamo più entusiasmante.   

Grazie mille ancora delle recensione, sei un angelo^^  

Grazie a chi  legge, a chi ha commentato anche il primo capitolo, grazie a tutti.

E se non vi è spiaciuta eccessivamente le fic o se volete dire qualcosa a suo proprosito nn esitate a commentare^^                                                                                                                                                                                                                                                                         

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          


Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3: Blues disease ***


Ebbene... ecco il terzo coitolo. la parte in corsivo ( quella alla fine ) è scritta di proposito al passato remoto. Non posso dirvi altro che ... buona lettura... 

Capitolo 3:

Blues’ Disease.

- Siediti.-

Suona così strano, essere dalla parte sbagliata della trincea, ricevere brute notizie, anziché darne.

Eppure eccomi qui, camice ancora sporco di sangue, capelli scarmigliati, occhi rossi dalla stanchezza, occhio sinistro che pulsa.

Mi guardi, il volto grave e quasi insoddisfatto.

Le tue labbra, carnose e morbide, tremano un po’.

Ti prego, non tergiversare.

- Kurenai Yuhi, ventisette anni, donna. Ha avuto un figlio da poco, dal suo vecchio compagno, morto in un incidente sette mesi fa. Ma queste cose le sai già, Kakashi. Le sai già troppo bene. Quello che non sai è che questa donna soffre di una patologia non troppo grave, di solito. Viene impropriamente chiamata“depressione post partum”, o, almeno, questo è il nome con cui è nota ai più. Questa sindrome psicologica si divide in tre fasi. La prima, chiamata “ baby blues” si manifesta nel 70% delle donne nei giorni immediatamente successivi al parto.  Non è nulla di grave, si manifesta  sottoforma di pianti senza motivo, irritabilità, ansietà, inquietudine e sparisce in pochi giorni. Poi vi è una seconda fase, più grave, chiamata appunto depressione post partum. Essi si presenta sintomi come inappetenza, paura, ansietà, insonnia, disinteresse per il bambino, pianti senza ragione, improvvisi cambiamenti d’ umore, paura di nuocere al bambino… - Yugao fa una pausa, prende fiato.  Stiamo per arrivare al dunque. – Poi vi è una terza fase, la più grave. Ed è appunto quella di cui soffre Kurenai. Si chiama “psicosi post partum” e si presenta con i sintomi della seconda fase, con l’aggiunta di paranoia, allucinazioni, depressione, esaurimento e… - Chiude gli occhi come se parlarne facesse male pure a lei.- Cosa più grave… pulsioni suicide ed omicide nei confronti del bambino.-

Gelido, un brivido, corre per la mia schiena.

Non è possibile.

Yugao deve avere sbagliato…

Non è possibile.

Non è possibile.

Non a lei, non a me!

Eppure è così dannatamente convincente.

Potrei non crederci, potrei consultare altre persone. Ma so già che questa è la dura verità.

L’ho conosciuta nell’istante stesso in cui ho visto quel taglio sulla mano, l’ho sempre saputa.

Mentre tornavo da casa sua, dopo che mi aveva scacciato malamente, furiosamente. Io l’ho sempre saputo, nulla di più.

Dannato idiota.

Mi guardi, come se potessi capire quello che devo provare. Non puoi. Non per altro, ma perché non hai mai vissuto un’ esperienza del genere. Non si può comprendere quello che una persona prova semplicemente guardandola, non si può percepire la sensazione provata da ognuno. Perché si è diversi, perché le emozioni, la realtà si percepisce in modo diverso.

Apri la bocca, cos’ altro devi dirmi?

- Kurenai soffre della forma più grave ed è una psicosi degenerata, quasi. Significa che non basta più imbottirla di psicofarmaci. Bisogna dare il via ad una terapia psichiatrica. Io devo poterle parlare, e le sedute devono essere abbinate alla cura con i farmaci. Non è stabile, Kakashi. Può fare male a sé stessa, oltre che al bambino. Deve essere ricoverata.  Ha bisogno di essere tenuta sotto controllo, monitorata ed aiutata. E’ troppo tardi per curarla da casa, è rischioso per se stessa e per gli altri. Non ha un compagno che si possa prendere cura di lei e del bambino. Soprattutto del bambino. Non può tenerlo con sé.-

La fisso, sconvolto. Ho già capito dove vuole andare a parare. Non le toglieranno il bambino, non lascerò che lo prenda in custodia qualcun altro, che una quarta persona entri nel nostro microcosmo e rubi l’ultima scintilla di normalità residua.

Non chiamerai gli assistenti sociali.

- Posso tenerlo io.-

Mi guardi, sorridi, amara. Come non capire quello che ti passa per la mente? Non sono nemmeno in grado di prendermi cura di me stesso, figuriamoci di una vita appena nata.

E’ questo che sta pensando? O forse che non sono abbastanza presente, perennemente chiuso in questo ospedale? O che non sono che un illuso che si sta giocando la sanità mentale per una donna che non lo considera più che il ricordo del compagno?

- Giuro, ci ho pensato anche io. Avrei potuto tacere sul fatto che sei una persona appena autosufficiente. Saresti stato in grado di farlo. Sai, potrei raccontarti una balla, potrei dirti che davvero non hai abbastanza tempo, che non hai le competenze adatte per essere il padre di questo piccolo. Ma non sarebbe giusto, verso di te. Ti mancherei di rispetto, un rispetto che ti è dovuto. La verità, Kakashi, è che lei… non vuole.-

Ahia.

Questo fa dannatamente male.

Questo è un colpo talmente duro che, fossi stato un'altra persona, avrei potuto gridare. Ma io sono così freddo e apatico, io sono colui che grida in silenzio, senza che nessuno si accorga del dato grido.

Questo non l’avevo previsto.

- Ha dichiarato di non volere che tu… tocchi il suo bambino. Le ho spiegato cosa sarebbe successo altrimenti, ha cominciato a non rispondere ed a stringere quel fagotto.  Se volessi potrei dichiararla mentalmente instabile.-

- No. Non sarebbe giusto. Non mi approprierò di suo figlio, se non vuole che accada. Troverò un modo.-

Abbasso gli occhi, le mani tremano impercettibilmente, il cuore pulsa a mille, la testa scoppia.  Ora ci credo, ora capisco che è tutto vero, non è una finzione. E questo mi lascia ferito e moribondo, nell’anima. Mi dipingo una smorfia in volto, estraggo una sigaretta e la stringo dolcemente. – Fa quello che devi. Ricoverala, imbottiscila di farmaci. Ma, ti prego, lasciami un paio d’ore prima di chiamare i servizi sociali. Troverò il modo.- 

Mi volto, non attendo risposta, cammino lentamente, appoggiando le mani ai muri dell’ospedale, apatico.

I piedi mi trascinano dove io non ho la minima forza di andare. Apro la porta che da sul balconcino.

Accosto la sigaretta alla bocca, lasciando che la cenere venga trasportata dal vento, in un mondo lontano.

Un mondo in cui, magari, tutto questo dolore mi sarebbe stato estraneo.

La cenere cade, piange per me.

Perché io non piango, ho già perso tutte le mie lacrime.

 

- Entra.-

Una voce abbastanza tirata mi invita ad entrare nello studio del capo dell’intero ospedale.

Una donna sulla cinquantina, i capelli biondi ed uno strano punto induista in testa mi guarda con occhi color miele e profondi.

Ho sempre l’impressione che lei mi legga nella mente.

Tiene le mani incrociate, nervosamente.

Davanti a sé una cartella clinica, per quello che ne so potrebbe essere anche la mia.

Ho sempre avuto una sorta di timore reverenziale per questa donna.

Chino la testa, i capelli argentati mi nascondono gli occhi, in una cascata di vivo argento, di viva indifferenza e malinconia.

Sanno di sudore, devo farmi una doccia, ma ne avrò tempo dopo.

Tento di stamparmi addosso un sorriso, o almeno una pallida imitazione.

Ma non ce la faccio, le labbra rifiutano di arcuarsi e tendersi, gli occhi rifiutano di perdere la loro sciatta e vuota espressione, in favore di un autocompiacimento banale e superficiale.

Mi guarda, mi guarda fisso.

Sa già.

- Siediti.-

Mi accascio stancamente su quelle poltroncine che stanno davanti al sua scrivania, le poltroncine dei pazienti e dei parenti.  Oggi io sono così, un uomo venuto a chiedere pietà.

- Oggi è stata ricoverata una certa Kurenai Yuhi, Kakashi. – La voce si ferma, in attesa. Poi, non avendo risposta continua, arrivando da sé a quello di cui volevo parlare. – Psicosi post partum. E’ una brutta malattia, decisamente. La conosci, vero?-

Chiudo gli occhi, per non vedere, per non guardare.

- E’ la moglie di Asuma.-

Trattieni il respiro, i polmoni si gonfiano, le tue labbra si socchiudono in una smorfia sorpresa. Non ti sorprende il nome né la parentela, quello che ti sorprende è il tono in cui lo dico. Un tono atono, senza inflessione, un tono spento e carico di dolore.

Non posso mentire anche a te, sebbene lo vorrei. Sono troppo stanco per mentire, ho già esaurito la mia scorta di maschere, per oggi.

Sono nudo, a pezzi.

- Ha un bambino piccolo, che non può tenere. Yugao mi ha detto che avrebbe aspettato un po’ a chiamare i servizi sociali.-  la donna si ferma, in attesa.

-  Tsunade- sama, gliel’ho chiesto io. Non voglio che quel bambino vada in mano a chissà chi. Non posso tenerlo io, la madre non  vuole che mi avvicini nemmeno al figliolo.- lo senti quanto male fa, pronunciare queste parole? Lo senti il dolore grondare? Vorrei di no.

Pausa.

Riprendo fiato, mi schiarisco le idee.

- Non mi interessa cosa dovrò fare, ma quel bambino non deve uscire da questo ospedale.-

Sorrido, stanco.

Ho visto il lampo di collera illuminarti lo sguardo. Ma come potevo non tentare, come potevo lasciarmi scappare la possibilità?

- Non sei tu che dai ordini.-

Pausa.

Uno sguardo miele sul mio corpo umano.

Cosa vedi in questo momento che ti fa sgranare gli occhi?

Cosa vedi di me?

Il medico, l’uomo, o il dolore?

- Ci tieni molto a questa donna, vero? Ci tieni molto a quella promessa. Ci tieni di più della tua stessa vita, della tua stessa carriera.-

Uno sguardo, un attimo.

- E sia. Il bambino può giovare alla madre, è terapeutico. Non vorrei mai che, poi, il bimbo avesse un trauma a causa del distacco forzato dalla madre.-

Non  credo a quello che stai dicendo.

Non ci posso credere.

Mi alzo, balbetto un ringraziamento, nella confusione di questo sollievo.

Faccio per andarmene, ma poi è un sussurro che ti sfugge dalle labbra, lasciandomi interdetto.

- Kakashi… non ti distruggere.-

Oh, capo.

E’troppo tardi.

Passi felpati e poi…

Poi il silenzio.

 

Il piccolo si svegliò nella notte, le manine che si agitavano, afferrando il vuoto.

Eruppe in un vagito sofferto, alla ricerca del calore materno.

Strinse la copertina che lo ricopriva, annusando un odore familiare, anche se non materno.

Qualcuno lo strinse forte, con amore.

Non erano gli abbracci della madre, nervosi e così asfissianti.

Era un abbraccio calmo, che sapeva di menta.

Il piccolo afferrò i capelli del misterioso visitatore, trovandoli morbidi e familiari.

Appoggiò la testa nell’incavo della spalla dell’uomo, sentendosi protetto.

- La mamma tornerà presto. Te lo prometto.-

Chiuse gli occhi, il piccolo, trasmettendo una calma sonnolenta anche a quell’essere che l’aveva abbracciato.

Si addormentò nelle braccio dell’uomo, del medico e del dolore.

Kakashi lo stese nella culla di pediatria, lo coprì con dolcezza, poi si stese sul lettino accanto, chiuse gli occhi.

Si addormentò, cullato dalla dolce nenia del respiro del piccolo.

E, per la prima volta dall’incidente che gli era costato il migliore amico e parte della vista, ebbe un sonno senza sogni e senza incubi.

Sarebbe durata poco.

NOTE by Brave:

Aiko92: Garzie mille per la recensione!! E' una situazione un po' particolare e che, concordo, potrebbe capitare a una persona qualsiasi. E' sempre stato un argomento, quello delle psicosi, che mi ha sempre colpita.  spero ti piaccia questo cap^^

Grazie  a quelli che leggono.

Grazie davvero grazie.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 4: Melody Without Meaning ***


 Ecco, siamo arrivati al penultimo capitolo, spero vi possa piacere.

Questo è il mio capitolo preferito, anke xk alla fine ci sono le lyrics di uan cazone stupenda, " Bleed for you" del fil Daredevil,

Spero vi possa piacere^^

Capitolo 4:

Melody without meaning.

 

Andrea Yates, nata a Huston in Texas il 2 luglio 1964.

Soffre per diversi anni di psicosi di più o meno grave forma, interrata in manicomi ed ospedali per più anni. Solitamente casi di depressione estrema, legata anche alla nascita dei figli e alla patologia comunemente nota come “depressione post partum”.

Ha il quarto figlio, viene ricoverata quasi subito dopo, diagnosi: una psicosi talmente avanzata da renderla un pericolo per sé e per gli altri. Viene dimessa poco dopo, sotto indicazione di non lasciarla mai sola in casa con i figli e, soprattutto, di evitare la procreazione.

Divieto facilmente abolito. Dopo pochi mesi la donna rimane di nuovo incinta e partorirà il suo quinto figlio.

Ed è allora, che accade la tragedia.

Il 20 giugno 2001 la donna, lasciata da sola, presa da un attacco psicotico, annega tutti i cinque figli nella vasca da bagno.

Muoiono tutti…

 

Le mani, furiose, battono sul blocco degli appunti di Microsoft Word, quelle poche righe, lette e copiate da qualche sito internet a dir poco inaffidabile.

Dannazione, se la cosa mi ha distrutto.

Sono un medico, me ne dovevo accorgere…

E’ l’unico pensiero razionale che mi frulla in mentre, mentre compio la solita dolorosa ed inutile routine.  Cartelle da compilare, pazienti da visitare, mani da stringere, sorrisi falsi da mostrare al mondo.

E’ solo l’ennesimo giorno di routine lenta e straziante, una routine fatta di stenti e dolore.

Mentre precorro il corridoio che da sulla tua camera, donna che possiede la mia anima e la mia razionalità, la mente scivola, lasciandomi atono a ricordare quello che eravate una volta, te ed Asuma. E di come io mi sia, inutilmente, invischiato tra voi due.

Apro la porta di una camera sobria, un letto ad una piazza, le lenzuola di carta di colore verdastro, un piccolo televisore.

E poi tu.

Tu con gli occhi chiusi e corrucciati, le unghie laccate di rosso che artigliano le coperte, le braccia contratte, il tuo corpo da donna coperto da un pigiama rosso.

Mi fermo sull’uscio della porta, gli occhi languidi che corrono per il tuo corpo, nutrendosi di questa vista quanto mai dolorosa eppure soave. Quanto vorrei stringerti, quanto vorrei infrangere la barriera che ti soffoca, che ci soffoca.

Apri gli occhi, ghiacciandomi con uno sguardo che mi attraversa, quasi che io non esista neanche più per te.

Che male che fa.

Mi trafigge, eppure non mi fa crollare, mi lascia in piedi. Perché lo sai, vero?

Io non crollo, rimango in un angolo come uno straccio, troppo forte per crollare, troppo debole per vivere una vita davvero piena.

- Ciao.-

Un saluto vuoto, che non mi accusa apparentemente.  Ma nel profondo mi odi, mi odi perché io ti ho portato via il tuo bambino, perché tu sei venuta per  chiedere il mio aiuto e io ti ho strappato l’ultima cosa che ti rimaneva di lui. Pensi che non lo sappia?

Lentamente mi avvicino al tuo letto, mi stampo un sorriso vuoto in faccia, mi siedo sul materasso senza toccarti, non oserei mai. Le carezze… Sono come gli abbracci, troppo bruschi. Le parole… sono troppo fredde, soprattutto con te.

Non so fare che guardarti in attesa di qualcosa, con questo sorriso spento, col mondo che mi crolla nel vedere il tuo sguardo vuoto  e sedato.

Soffocano i tuoi impulsi, e hanno ragione.

Soffri di depressione… anzi no, psicosi post partum. Che è una specie di disturbo bipolare, null’altro che una malattia che riguarda i cambiamenti di umore talvolta troppo repentini e davvero pericolosi. Per te, per gli altri, per il bambino.

Fosse un qualcosa di più leggero, basterebbe parlare. Basterebbe un colloquio anche amichevole con uno psichiatra, ma non è qualcosa di piccolo, è qualcosa di tragicamente grave.

Uno sguardo triste alla boccetta vuota appoggiata sul tuo comodino: l’infermiera ti ha appena portato le medicine, i farmaci.

Quello che ti fanno assumere si chiama “ Risperidone”.  È un antipsicotico, ossia uno di quei farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale e hanno un’ azione prevalentemente antidelirante e antiallucinatoria, e non presentano caratteristiche proprie dei supersedativi, al contrario di quanto credono giornalisti poco informati e ferocemente lanciati alla ricerca di motivazioni per cui non li si dovrebbe usare.

Sono farmaci utili, ma rischiosi. Tra gli effetti collaterali c’è qualcosa come torpore, debolezza, alterazione del ciclo, tendenza all’ingrassamento, convulsioni epilettiche…

Passo una mano sul volto, quanto sono stanco…

Quanti effetti collaterali possibili, nevvero Kurenai? Ma serve che tu corra questo rischio, per quanto male faccia l’ammetterlo, persino a me stesso.

Il risperidone, venduto sotto il nome di Risperdal, ha come formula chimica C23H27FN4O2, il che significa che è costituito da ventitré molecole di carbonio, ventisette di idrogeno, una di fluoro, quattro di azoto e due di ossigeno. O, almeno, questa è la sua formula base.

Viene usato per trattare disturbi psicotici persino sugli adolescenti e sui bambini, ma questo non significa che sia blando, semplicemente il più sopportabile.

Si assume per via orale, tramite gocce o pastiglie,ed una scatola di queste pastiglie costa qualcosa come 90 euro.

Ha una metabolizzazione epatica, ossia il nostro corpo lo metabolizza, lo assimila, tramite il fegato, che quindi è l’organo più esposto agli effetti collaterali. Si espelle tramite le urine.

Come effetti collaterali ha atassia, ossia la perdita della ordinazione muscolare, bassa pressione sanguigna, può causare tumori benigni all’ipofisi, discinesia tardiva, ossia movimenti involontari e incontrollati, il diabete o ancora…

Ma tu, tu che mi guardi con questi occhi spenti  dalla rassegnazione, gli occhi di una persona che non vuole risorgere, tu che cosa ne puoi sapere?

Forse hai letto queste cose, senza capirne davvero il senso. Ma una cosa è leggere da profano della medicina, una cosa è essere pienamente conscio di cosa questo farmaco farà al tuo bel corpo, che credevi deturpato da una gravidanza solitaria.

Queste pasticche verdi e dall’aspetto innocente potrebbero trasformarti in una drogata, un essere senza controllo dei propri movimenti, un essere obeso oppure, ancora, costretto ad interventi al cervello, ad assumere insulina ogni pasto della tua vita.

Ma, soprattutto, potrebbero toglierti la possibilità di avere il tuo bimbo al seno.

E tu, tu, inconscia di questo dolore mi guardi come se a me non fregasse nulla di te, del tuo destino. Ma tu.. non puoi neanche immaginare come io possa immaginare e ricordare cosa comportino questi effetti collaterali.

Io sì.

E questa, fidati, è una tortura infame, più infame di questo sguardo spento che tenta di ridurre in polvere anche l’ultimo barlume di coscienza.

Giri la testa, mi nascondi la vista di queste finestre sulla tua anima soffocata.

Mi alzo, il mio tempo con te, per oggi, è finito.

Chiudo la porta.

Non stai migliorando, non stai migliorando per nulla.

Yugao parla con te ogni giorno, conduce il tuo corpo e la tua mente in luoghi dimenticati e tenta di liberarlo da questa oppressione invisibile.

Sarebbe più facile se tu avessi un proiettile in corpo, lo leverei io.

Un orgia di sangue che mi sarebbe più lieta di questa attesa snervante ed impotente.

Perché, amica mia, se questo mi fa male, non hai idea del dopo.

Perché se non migliori neanche così… dopo rimane solo l’elettroshock e… vedere il tuo cervello fino e logico, fritto tra due elettrodi non solo mi distruggerebbe, mi annichilirebbe del tutto.

Non vuoi risorgere.. ti conosco troppo bene per farmi illusioni in merito.

Tuo figlio non basta, è lui che ti ha indotta in questo stato, e con estrema freddezza capisco che probabilmente ti sarà passato pure per la mente di stringere il suo collo bianco e porre fine alla sofferenza.

Sofferenza che poi ti avrebbe trascinata tra manicomi e celle, funerali e luridi sensi di colpa.

Eppure, quando lo vedi, gli occhi ti brillano e il cuore si agita per un momento, prima che il cervello, infido bastardo, ti trascini di nuovo nell’apatia più totale, facendo spegnere anche quella scintilla.

Passo dopo passo vado a quel balconcino ormai unico confidente dei miei lugubri pensieri, della mia sconfitta sempre maggiore e di quel senso di colpa atroce.

Spingo la maniglia antipatico e l’aria fredda ed invernale mi investe, scivolando sotto i vestiti e ghiacciandomi l’anima.  Accendo una sigaretta, una delle tante,  la nicotina mi riempie i polmoni, le mani tremano, gli occhi guardano fissi un puntino all’orizzonte, la mente viaggia, riportandomi …

A quel dannato giorno.

Stride, il freno.

Con occhi calmi, Asuma, guarda la strada, schiva una macchina e passa oltre.

Il passeggero sorride alla perizia dell’amico, un adolescente mai cresciuto in cerca dell’adrenalina.

Asuma accende l’ennesima sigaretta, il passeggero fa lo stesso.

Battuta sporca, sorriso.

Risata goliardica, pacche sulle spalle.

Contachilometri che scende,quasi ad una velocità normale.

Sono spericolati, non stupidi.

80 km/h non sono una velocità troppo elevata.

E’ un lampo, una distrazione.

Lo schianto lì davanti, una macchina dell’altra corsia perde il controllo, vola nella corsia dei due.

Un attimo.

Ed è l’inferno.

Un camion tenta di evitare la macchina impazzita, sbanda, perde il controllo.

La macchina si schianta, in una palla di fuoco.

Le lamiere volano.

Asuma tenta di mantenere la macchina sotto controllo.

Ce la sta facendo.

Ma una lamiera rompe il vetro.

Le schegge volano, il passeggero sviene in un lago di sangue.

Asuma, incolume, si volta.

Ed un urlo gli esce dalla bocca.

Troppo tardi.

La macchina sgomma, si scontra sul camion, finisce giù per la scarpata.

E la morte, silenziosa, prende l’autista e risparmia il prigioniero.

Tornerà.

La mano destra artiglia la balaustra, la sinistra scivola dolcemente sull’occhio sinistro.

Se solo…

Fosse accaduto il contrario.

Se solo fossi morto io quel  giorno.

Il mondo scivola, danza sotto i miei occhi. Gira tutto, tutto, non riesco a tenere gli occhi aperti…

E tutto pare chiamarmi verso il marciapiede, verso quel salto nel vuoto che la mia mente si ostina ad impedirmi.  Ma il mio corpo… Non risponde.

- Merda…-

Dio, quanto mi sento debole.

Le gambe non reggono.

Un mano mi trascina lontano.

- Dannazione!-

Una voce non mia, un’immagine sfuocata di viola davanti ai miei occhi impazziti, la testa che fa un male allucinante.

L’impatto contro il pavimento del terrazzo.

E…

Il buio.

 

 Apro gli occhi con lentezza, un immagine appannata si forma davanti al mio occhio stanco e si riflette sulla retina. Yugao…

I capelli viola ti vanno sugli occhi, occhi viola che sembrano trafitti da un ansia tremenda, da un dolore appena scampato eppure così reale.

Le tue mani stringono freneticamente le mie braccia, le unghie affondano nella mia carne, eppure non oso spostarti, non oso far nulla, mentre la tua bocca di avvicina alla mia.

Il tuo fiato da un colore a questo mondo grigio.

L’occhio sinistro torna a vedere in un modo decente, le testa comincia a girare un po’ meno.

Sono steso a terra, tu sei a cavalcioni sul mio corpo… sei tu che mi hai trattenuto…

Le tue labbra si avvicinano ed, in un secondo, sembrano la cosa più concreta che ci sia a questo mondo. La panacea per questo dolore che mi attanaglia l’anima, il modo per scappare alle mie responsabilità, il modo per scappare al rimorso, per riprendere la vita da dove l’ho lasciata prima del maledetto incidente.

Eppure gli occhi rossi tornano, distogliendomi dalla pace, che io so a portata di mano, anzi di labbra.

Io non posso scappare dal mio inferno, io non posso rinascere e lasciarmi alle spalle tutto, io ho la colpa, io ne devo pagare le conseguenze.  Nel mio purgatorio non esiste venia, non esiste un paradiso.

Solo un inferno senza fine, una voragine infuocata senza fondo né pentimento.

Chiudo gli occhi, un gemito mi sfugge dalle labbra, rompe l’incantesimo e la potenza purificatrice di te, donna, che mi può salvare.

- Cosa è successo?- sussurro, mi sento terribilmente stanco.

- Dovresti dirmelo tu. Stavi cadendo …-

Come posso vedere quanto ti abbia fatto male, quanto ti abbia fatto male  pensare di potermi perdere.

Perché, Yugao, noi cosa siamo? Eravamo amanti, prima dell’incidente.

Siamo diventati amici, dopo.

E ora?

Che siamo tragici burattini capitati nelle mani dello sbagliato marionettista?

Tragiche anime che si sono incontrate nel posto sbagliato?

Non ti posso trascinare nella mia voragine.

- Non ho nemmeno capito cosa succedesse… mi girava la testa…-

Porto inconsciamente una mano all’occhio sinistro che fa un male allucinate, tanto da farmi gemere.

Mi prendi il mento con delicatezza e osservi l’occhio, scoprendolo  irritato a tal punto che una lacrima scende giù per la mia guancia.

L’asciughi con dolcezza, mentre si perde tra le tue dita sottili e dolci.

I tuoi occhi si incupiscono in un secondo, mentre capisci quale possa esserne mai stata la causa.

Mi passi un braccio dietro le spalle, eludendo la voglia  che ti ritrovi di appoggiare le tue labbra sulle mie, di scacciare i miei demoni.

Fai bene.

- Yugao, sto bene. Ce la faccio da solo.-

Uno sguardo, arrabbiato, furioso, insofferente, insoddisfatto.

- NO, tu non stai bene proprio per nulla! –

Quante cose si possono dire con uno sguardo? Quante frasi si possono evitare, quante parole inutili?

Basta questo sguardo, questo momento per capire che io e te siamo uguali, sotto sotto.

Abbiamo tutti e due qualcuno da fare rinascere.

 

If I could take your pain away
I would scream for you
And I'd bleed for you
So you’ll never feel this way again
When you’re in my arms, again
I would scream for you
I will bleed for you

 

E, mentre lo aiuta a trascinarsi da qualche parte, lo sa.

Ha capito.

Per far guarire quella velata tristezza dal suo sguardo farebbe di tutto.

Lo stringerebbe forte, e mentre è tra le sue braccia griderebbe per lui, strapperebbe quella spiacevole sensazione da quel corpo.

 Perché lui non si sentisse mai più così.

Ma, Yugao, lo sa.

Non sarà possibile, perché l’unico modo per strapparlo da quella solitudine… E’ strappare Kurenai alla psicosi.

E questo fa male.

Perché lei per lui… darebbe via anche la vita.

Le labbra sussurrano qualcosa al vento, qualcosa che si perde senza raggiungere il vero destinatario.

Put the weight on my shoulders
And the pain in my heart
Tie the knots in my stomach, let it tear me apart
So I could be everything you need 
So tear me apart...

A melody without sense.

 

Brave's notes:

Grazie ad Aiko e a Yama Nihal, care siete degli angeli a recensire. 

E voi altri, ditemi che ne pensate. ( anche perchè questo è il cap preferito XD)

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 5: Requiem for a Blues soul ***


Mi scuso tremendamente per il ritardo... è davvero inaccettabile fare aspettare così tanto x il seguito di una storia già scritta... comunque... questo è l' ultimo capitolo, spero  vi piaccai e che vi ricordiate ancora di questa storia =)
Grazie mille per avermi seguito, per me è davvero utile quando si commenta e... solo grazie, davvero.
Un bacio Brave

Capitolo 5:

Requiem for a Blues soul.

 

Lo sguardo violetto si appunta sulla donna stesa sul lettino di fronte a lei.

Fosse per lei la sbatterebbe in un manicomio, getterebbe la chiave e affiderebbe il figlio della ragazza agli assistenti sociali.

Ma non è lei a decidere di questa donna in particolare.

Prende una cartella clinica, appunta qualcosa con una penna blu, in una calligrafia piccola e quasi incomprensibile, mentre osserva con la coda dell’occhio il comportamento della paziente.

Gli occhi rossi del soggetto si muovono lentamente, quasi che non ci sia nervosismo in lei, le mani sono incrociate sul petto, immobili.

Non muove un muscolo, le gambe accavallate, vestita di un pigiama di seta.

La psichiatra diviene gelida, posa la cartella, apre le finestre, annusa lo smog di Seattle, poi le chiude.

- Come va, oggi?-

Pausa, nessuna risposta, lo sguardo di Kurenai che scorre per lo studio, soffermandosi su una boccetta di antipsicotici.

- Quando potrò riavere mio figlio?-

Possibile che non le prema latro? Yugao stenta  a crederlo. Dopo una serie di incontri lunghissimi ed estenuanti quella è l’unica frase riguardante la sfera emotiva che la paziente abbia mai pronunciato.

- Quando migliorerai.-

Yugao vorrebbe fermarsi lì, come ogni volta. Ma questa volta è diverso, tremendamente diverso. Non si può fermare lì, dopo quello che è successo un paio di sere prima, dopo che… lui è praticamente quasi volato da venti metri di edificio…

La donna non fa una smorfia, chiude gli occhi e si chiude nell’imperterrito silenzio.

E questo, la psichiatra, non lo può sopportare.

- Sai cosa credo?-

La donna la guarda senza capire.

- Io credo che tu sia una dannata ingrata. Io credo che tu sia talmente concentrata su quanto tu sia povera e miserabile da non capire quanto questo faccia soffrire gli altri.-

- Chi?-

Yugao la guarda, esterrefatta. Non l’ha capito sul serio.

- Come chi? Non ti sei accorta di nulla?-

Silenzio, occhi che volano sulle unghie smaltate.

- Kakashi, ecco chi. Gli hai proibito di tenere il bambino.-

Occhi che si alzano.

- Non lo guardi, lui ti viene a trovare e tu non lo guardi. Lui ha dato tante di quelle cose per te e tu…-

- Cosa ha dato per me, cosa? Mio marito è morto e lui… Kakashi fa solo quello che aveva promesso ad Asuma prima di morire!-

Yugao socchiude gli occhi, mentre le immagini dell’amico mezzo morto di affacciano alla sua mente e un brivido le attraversa la schiena.

- No, sta facendo molto di più. Tuo figlio sarebbe dovuto andare in adozione da un pezzo, lui l’ha tenuto qui, mettendo a rischio la sua carriera per te. Credi lo faccia per Asuma? No, piccola stupida. Lo fa per te! E’ per te che rimane al tuo capezzale la notte, è per te che ti procura i migliori farmaci in commercio. La tua patologia è così grave che io dovrei ricorrere all’elettroshock. Non lo faccio perché lui me l’ha chiesto..-

- E io lo ringrazio per questo. Ma non gli faccio del male.-

- Credi sia facile stare accanto ad uno psicotico! Credi che gli faccia piacere stare accanto ad una donna talmente malata da riuscire a malapena ad essere autosufficiente? Credi che sia piacevole vederti scivolare verso un baratro senza fine?Perché è questo che stai facendo. Non parli, mangi poco, ti devo drogare di antipsicotici, il vedere il tuo bambino non ti provoca che crisi. Non tenti nemmeno di reagire, ti lasci scivolare. E lui è qui, lui rimane nonostante sia dannatamente difficile.-

Silenzio, gli occhi rossi si velano di un‘ombra scura.

- E’ stanco, fa fatica  mantenere i suoi impegni, è distratto. Fuma più del solito, beve più del solito, parla meno del solito. –

- Io non lo sapevo.-

- Non hai voluto capirlo.-

Silenzio, Yugao vuole infierire.

- Il tuo uomo è morto, Kakashi è quasi diventato cieco. Non si dovrebbe stancare troppo, non dovrebbe strafare,lo sai. Per te lo fa. L’ altra sera è quasi svenuto, rischiando di cadere dal terrazzo dell’ospedale.-

Kurenai porta le mani al volto, assaporando il cocente dolore dei sensi di colpa.

Possibile che non si sia accorta di nulla?

Possibile l’avere dormito per così tanto tempo?

Affonda le unghie nella carne, vorrebbe solo chiudere gli occhi e non saperne più nulla, fuggire così a quella depressione atroce.

- Sei solo un’ingrata.-

Lo so, grida una vocina. Ma Kurenai non la darà vinta a quella dona che di lei non sa nulla.

- Lui per te prova qualcosa di enorme. Lui per te darebbe la vita, ma tu non te ne sei mai accorta. E…-

Silenzio, silenzio e solo uno sguardo tra le due donne che sono passato e futuro dello stesso uomo.

 

Solo strada, corre dritta.

Le mani, guantate, stringono il controller della moto, le gambe si stringono ai quei fianchi come al corpo di un’ amante.

Piego il mio corpo per girare a destra.

La Kawasaki ninja corre silenziosa per le macchine, sorpassando con estrema grazia.

Il semaforo segna il rosso, mi fermo, lascio il motore in folle.

Il verde, un rettilineo dritto e senza curve.

Metto mano all’acceleratore, il contachilometri si alza, mentre il vento passa sotto il casco, dandomi quella sensazione di libertà che poche, pochissime cose mi danno.

Ed è un orgia folle di piacere.

Fino a che…

Un bambino mi taglia la strada, troppo distratto per avvedersi del mio arrivo.

E, come al solito, è solo un secondo.

Reagisco ancor prima che il cervello abbia materializzato cosa stia per succedere. Sterzo con la moto, evito il bambino, posso sentire il grido della madre.

Ma, nello sterzare, perdo il controllo della moto.

E…

Ed è come un film.

Solo che al posto dell’attore ci sono io.

Invado l’altra corsia, la macchina che mi è di fronte non fa in tempo a frenare.

Mi prende in pieno.

E’ un dolore soffocante, mentre la moto si alza in aria e io mi stracco da questa, finisco  per essere lanciato come una palla di cannone.

Energia cinetica = ½ mv2

Il che, razionalizzo in un attimo, significa che sono un uomo morto.

Il dolore si propaga per il mio corpo.

E poi…

Il suolo.

Vicino.

Vicino.

Troppo vicino.

Lo schianto.

Le ossa che si rompono.

Le gente che urla.

La testa che batte a terra con tanta violenza che il casco si incrina.

Il sangue sulla visiera.

L’intorpidimento.

La difficoltà disumana per respirare.

La moto che cade.

La gente che corre, la madre del bimbo che strilla.

E poi…

Il dolore.

Caldo.

Vischioso.

Insopportabile.

Il nulla.

 

- E te ne accorgerai troppo tardi.-

Un brivido che le passa attraverso la schiena.

Qualcuno che bussa alla porta, lei che si alza, il cuore in gola.

Quelle frasi.

Sbianca, entra nello studio bianca come un cencio e caracollante.

- Forse è davvero troppo tardi.-

Kurenai sgrana gli occhi, non capendo.

- Ha avuto un incidente stradale. L’hanno ricoverato in condizioni critiche proprio in questo ospedale. Non sanno se… ce la farà. -

E quelle parole spezzano tutte e due.

Futuro e passato, o forse… semplicemente due gocce nell’infinito.

 

 

***

Testa fasciata strettamente.

L’hanno intubato, una macchina respira per lui.

Il collo è cinto da un collare ortopedico, ha due vertebre incrinate.

Il braccio sinistro è appeso ad una trazione, la clavicola si è fratturata per l’impatto.

Cinque costole si sono rotte, con interessamento polmonare, perforando lo stomaco.

La milza è stata lacerata dall’impatto, hanno dovuta esportarla in gran parte.

Una tibia è spezzata, come se fosse il problema più grande.

Continue trasfusioni tentano di mantenerlo in vita.

Una macchia controlla il suo battito cardiaco, un’altra segna il suo elettroencefalogramma.

Ed è  così da una settimana.

Kurenai si siede su quel letto di morte, prende la mano sinistra, alla quale è collegato un sensore per percepire il battito cardiaco dell’uomo.

Stringe quella mano con dolcezza, quasi in modo infantile.

Quel volto infranto la piega in due.

Sa di averlo condotto lei a quella fine.

Con i capricci senza senso, con una depressione che non aveva una minima ragione per essere.

- Mi dispiace. E’ troppo tardi, forse, amico mio. Mi di spiace di essere stata una tale stupida, mi dispiace di aver tradito la tua fiducia. Tu avevi così tanta fede in me, in questo mio bambino. E io non ho fatto che deluderti. Ti ho scacciato, quando non volevi cha aiutarmi, ho finto indifferenza con te, che con me ti sei sempre aperto più degli altri. Dalla morte di Asuma non ho fatto che incolparti di tutto, senza vedere che la vera responsabile di questa dannazione non ero altri che io. E ti ho trascinato con me, non ti ho lasciato riprendere. Sei tu che hai tentato di salvarmi. Sono arrivata al pronto soccorso con un taglio auto inflitto, terrorizzata,  ti ho negato mio figlio. E tu hai capito, mi hai affidata alla migliore psichiatra che conoscessi, nella speranza che mi salvassi. E questi miei occhi egoisti non hanno visto che tradimento e servilismo. Il mio cervello ha creduto che tu volessi solo liberarti di me. Ti ho negato mio figlio, hai dovuto correre a chissà quali ripari per poterlo tenere qui, vicino a me. Eppure tu eri sempre lì a consolarlo quando io non c’ero, quasi fossi tu il padre di questa creatura.  Quando hanno iniziato a drogarmi con gli antipsicotici ho creduto che fosse solo un modo più rapido escogitato da te per liberarti di me, e non vedevo quello sguardo perso, quelle mani  nervose che tremavano nel darmi quel medicinale.

E io non capivo, chiudevo la mia mente, sentendomi esclusa. Non ho lottato per nulla, Kakashi.

Non volevo lottare, non avevo nulla per cui risorgere? Mio figlio? Mio figlio era per me la causa latente e quanto mai vicina di questo dolore e pazzia. E tu? Tu eri solo uno dei tanti che scappano al momento del bisogno. Mi sbagliavo.  Ho solo pensato a me stessa, non ho mai incontrato i tuoi occhi per capire quanto soffrissi, non ho mai tentato di capire cosa  fosse stata per te la morte del tuo migliore amico e la mia pazzia.

Non ho mai realizzato… cosa fossi io per te.  Mai i tuoi sentimenti. Per me e per lei, per la psichiatra. Lei che è ed era la fuga dall’inferno che io ti ho creato attorno. Non ho mai capito nulla, non sono stata che un ostacolo per te. Per farti risorgere. Io … non potevo risorgere dalla morte di mio marito e volevo trascinarti con me, per non essere la sola a sentirsi colpevole.  Sai… non ho ancora un  motivo per cui riemergere, non so se sarà meglio, poi. Ma c’è una cosa che so. Tu sei finito su questo letto per me. L’unica cosa che io posso fare è lottare, se non per me, almeno per quello che tu hai fatto per noi. –

Uno sguardo, una stretta a quella mano, un bacio gentile sulla guancia.

- Kakashi, io risorgerò, come una fenice. Io tornerò più forte di prima, lo farò perché te lo devo.  Il mio cuore è ancora di Asuma ma non posso lasciarmi morire, io devo andare avanti, e ti devo lasciare andare. Kakashi, ti prego… svegliati. Non per me, io non merito nulla. Fallo per lei.-

Silenzio, passi.

Yugao raggiunge Kurenai, che si volta e le sorride.

La psichiatra ha in braccio un bambino, il bimbo della paziente.

- Tieni. Ce la puoi fare. – Un sorriso triste, il bimbo che scappa e si arrampica sul  corpo esanime di Kakashi.

Gattona con estrema dolcezza, poi afferra una ciocca di capelli argentati che sfugge alle bende sul capo.

La tira, senza reazione.

E piange, piange perché il bimbo vuole una reazione sia anche di dolore.

Piange perché ha capito quello che le due non hanno capito, Kakashi non tornerà più indietro se non in quel momento.

Tira i capelli dell’uomo con quasi una violenza disperata.

Le due donne fanno per afferrarlo ed allontanarlo.

Una mano carezza il volto del pargolo e due occhi si aprono.

Kakashi si apre alla vita.

Deve risorgere, deve farlo per forza.

Una lacrima scivola per le sue guance.

Passato e futuro sono davanti a lui.

L’inferno e il paradiso sono davanti a lui, anima del purgatorio.

L’inferno, con occhi rossi e boccoli marroni, prende il piccolo in braccio, volge lo sguardo sorridendo.

Paradiso, occhi viola e capelli viola chiede un cenno.

E Kakashi…

Risponde.

E, per la prima volta…

Inferno si chiude, purgatorio sparisce.

Rimane solo il paradiso.

La potenza dell’amare che si trasforma in atto.

I baci, l’amore da troppo rubati e troppo temuti.

 

E come Dante amò e trovò Beatrice tra i beati, Kakashi trovò Yugao, passando per l’inferno ed il purgatorio.

Inferno sorrise, strinse il pargolo.

Lasciò andare il postulante, e, nata dal fuoco, risorse in un mare cremisi e sconfisse l’amara morte dell’intelletto. Risorse come una fenice e spiccò il volo, libera dal giogo ad osservare i mortali amare.

Amare di quell’amore perfetto che lei non avrebbe mai più conosciuto.

Perché lei…

Lei era andata oltre.

E l’araba fenice cantò una dolce ballata blues, lasciandola riecheggiare per l’eternità.

Eterna nella memoria come lei, ceratura mistica, era eterna nel tempo.

E per sempre lo sarebbe stato.


Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=445823