Dyamond

di Puffy93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Insonnia ***
Capitolo 2: *** Sogni Pericolosi ***



Capitolo 1
*** Insonnia ***


                      Insonnia

Anche se la musica era ad un volume altissimo, non riusciva a soffocare i miei pensieri, fatti anche d’immagini.
Damy canticchiava stonando molte note, la sua voce era così squillante da superare il volume della radio. Urlava.
Detestavo le canzoni che tutti ascoltavano frequentemente, come milioni di pecore che copiano l’una dall’altra. Non le consideravo nemmeno canzoni, o musica. Il ritmo era sempre lo stesso, con la solita cantante barra bambola gonfiabile, una di quei artisti con una maschera sulla faccia, si creano un personaggio immaginario, ne prendono atto sapendo che milioni di ragazzi e ragazze l’adoreranno per ciò che vedono e non per ciò che è veramente.
«Terra chiama Hebany Glawer!» squillò Damienn, mentre entravamo nel parcheggio della scuola.
Mi voltai verso di lei, mentre cercava uno spiazzo per l’auto. «Cosa?» domandai stralunata.
«Stai zitta, zitta. Cos’hai oggi?» domandò con gli occhi fissi davanti a se, concentrata per fare una manovra.
«Niente, sta notte non ho dormito, come al solito» risposi schietta senza giri di parole.
A volte le persone si chiedevano perché mai io e Damy fossimo amiche inseparabili. Eravamo il contrario dell’una e dell’altra.
Damy aveva lisci capelli biondi, gli occhi erano color nocciola ed era aggraziata e slanciata, vestiva sempre alla moda e femminile, faceva parte del gruppo più popolare della scuola. Mentre io ero sciatta e goffa, avevo i capelli ondulati e così scuri da sembrare neri come il petrolio, la pelle era bianca come la neve, anche d’estate, i miei occhi erano un strano colore, un misto verde giallo con sfumature azzurrine, forse erano l’unica cosa positiva del mio aspetto, di certo non mi vestivo femminile, ero tutta jeans vecchi, camice a quadri o maglie anonime e scarpe da ginnastica. Non avevo amici, solo Damy, non uscivo mai. Due stereotipi completamente opposti, ecco cosa eravamo io e Damy.
«Di nuovo? Ma perché non ti prendi uno di quei sonniferi che abbatterebbero un cavallo, vedrai come dormi!» spense il motore e afferrò la sua borsa.
«Vedrò, dopo la scuola passo in farmacia» risposi non tanto convinta. Aprii la portiera e scesi dal veicolo.
La Waterbury Pubblic High School aveva gia preso vita, anche se eravamo arrivate molto in anticipo dall’inizio delle lezioni, gli studenti erano sparsi qui e la, chi chiacchierava allegramente nel parcheggio, chi nell’entrata, mentre magari cercava qualche annuncio sulla bacheca, alcune ragazze che salutarono Damy erano sedute sui scalini di marmo bianco e vecchio della scuola.
«Devo andare in segreteria per chiedere una cosa, vieni con me?» Damienn era propesa gia verso il corridoio a est, verso l’ufficio di informazioni.
Feci spallucce. «D’accordo».
La seguii in silenzio, mentre percorrevamo il lungo corridoio affollato, ogni tanto mi scontravo con qualcuno, ripetei più volte scusa come un cd incantato, mentre Damy camminava senza problemi davanti a me.
«Buongiorno!» trillò la sua voce aprendo la porta dell’ufficio, dietro ad un bancone alto, di legno rossiccio e laccato in lucido si trovava una signora minuta, con capelli riccioluti e quasi della stessa tonalità del bancone. Era immersa in varie scartoffie.
«Buongiorno signorina Van Goderr» accennò un sorriso di cortesia. Lasciò cadere sulla scrivania un fascicolo e ritornò con attenzione alla mia amica.
«Volevo sapere se era possibile spostarmi o cambiarmi una lezione, presto inizierò gli allenamenti per le cheerleader… »
La segretaria annuii di scatto, come se chissà quante altre ragazze le avessero fatto la stessa richiesta.
«Vediamo» mormorò concentrata, mentre apriva un cassetto in alluminio e frugò in alcuni fogli.
Tornò al banco con in mano almeno una ventina di tabulati uniti da una spilletta.
«La posso spostare ad economia, le va bene?» alzò lo sguardo verso il viso illuminato di damy, che sorrise.
«Si, perfetto. Grazie mille ed arrivederci» si voltò verso di me e prendendomi sotto braccio uscimmo dall’ufficio.
Il corridoio si era affollato ancor di più, era quasi l’inizio delle lezioni.
«Hey, ora devo andare, ci vediamo a pranzo!» esclamai distaccandomi da lei, che annuii per poi voltarsi diretta alla lezione che le spettava.
Quando mi voltai andai a sbattere contro un ragazzone alto e biondo.
«Sc-scusami!» esclamai rimettendomi dritta.
Mi fissò come se fossi un verme. «Guarda dove cammini imbranata!» e se ne andò per la sua strada.
Sospirai alzando gli occhi al cielo, poi mi diressi verso la classe di Storia.
La lezione di storia iniziò e finì in un lampo, non perché adoravo quella materia, ma perché mi perdevo nei miei pensieri, era come se finissi in un mondo tutto mio, a volte il professore Sharpet mi riprendeva e buttando lì una battuta sul mio viso quando andavo sull’isola che non c’è, così diceva ogni volta, oppure annuivo meccanicamente, cosi ingannando gli altri con la mia finta attenzione.
La mattinata scolastica proseguì con la mia materia preferita, Arte. Ad insegnarla era una stravagante donna di nome Martha Monrow, gli altri studenti della scuola che partecipavano alle sue lezioni e non, la ritenevano un po’ bislacca, no forse più di un po’. Vestiva hippy, aveva dei lunghi capelli ricci e rossi, tirati indietro da una fascia colorata e bizzarra, portava dei occhiali da vista doppi che mi ricordavano i fondi di bottiglia. gesticolava e parlava teatralmente e una cosa che mi metteva in soggezione era che osservava, meditava ed esaminava ogni minimo particolare di una persona. Molte volte, i miei particolari.
«Signorina Glawer, mi sta ascoltando?» per quanto rintronata poteva sembrare, a lei non la fregavano i miei gesti meccanici quando la mia mente è al di là della classe, della scuola.
Battei gli occhi più volte. «Ahm, si certo» abbozzai un sorriso.
«Bene» battè una mano sull’altra. «Ripeterò comunque ciò che avevo detto» mi esaminò come di sua abitudine faceva. «Farà lei il quadro per la rappresentazione della mostra, a fine anno».
Spalancai la bocca, mentre a razzo l’ansia s’impadroniva di me. «Co-co…» ci riprovai. «Come? Ma io non sono all’altezza di…».
«Cicici!» esclamò per zittirmi, gli altri ridevano sotto i baffi. «Se ho deciso che sarai tu l’artista vorrà dire che sei all’altezza, hai creato alcuni lavori così…. Artistici!» esclamò fissando un punto invisibile della classe e alzando una mano col fare teatrale. «Vedrai. Ne sarai capace!».

Camminavo verso la mensa soprapensiero, le parole della professoressa Monrow continuavano ad echeggiare qui e là nella mia testa.
«Hey Bany! Hebany!» sentivo qualcuno chiamarmi ma non mi fermai, era come se non l’avessi sentito.
«Hebany!» qualcheduno mi aveva afferrato per un braccio.
«Hey!» esclamai scontrosa e infastidita. Ma poi mi accorsi che era Damy. «Oh, sei tu» dissi mordendomi un labbro.
«Ma sei sorda? Ti ho rincorsa per mezza scuola!» esclamò quasi senza fiato.
Scossi la testa. «Scusa» mormorai.
«Sei strana oggi?!» mi esaminò in volto. «C’è qualcos’altro oltre all’insonnia?» domandò, mentre ricominciavamo a camminare verso la mensa, assieme alla massa di folla.
«Beh, forse… no, non lo so» mormorai confusa.
Damy arricciò le labbra. «D’accordo me ne parlerai sta sera. Andiamo a mangiare» a volte Damienn ricordava una mamma chioccia, mi domandava sempre se avevo dormito oppure no, se mi serviva qualcosa, se avevo fame. Era come se cercasse di non farmi sentire la mancanza di una madre, ma lei poteva essere solo la mia migliore amica, un amica chioccia.
Ci sedemmo al tavolo delle cheerleader e dei giocatori di basket ball della scuola. Quello era il suo mondo e a volte, spesso volentieri, mi ci faceva entrare, sperando che diventassi meno asociale.

«Hebany, c’è un problema» m’informò la mia amica quando la campanella annunciò la fine delle lezioni. Mi trovavo alle porte d’ingresso, mi voltai verso di lei «Quale?».
«Ho gli incontri con le cheerleader in palestra…» spiegò.
Arrivai alla conclusione in un attimo. «No, non mi faccio accompagnare da Mark Tayslar!» esclamai imbronciata come una bambina. «Preferisco andare a piedi».
Sbuffò facendosi cadere le braccia lungo i fianchi. «Oh andiamo! Cos’ha che non va Mark?».
«E’ uno stupido buffone senza cervello con solo muscoli e capelli biondi, niente di che, no?» mi sentivo molto acida nei confronti di quel ragazzo, forse perché i primi anni di liceo me li fece passare un inferno.
«E va bene, spero solo che non incominci a piovere» mormorò chiocciolosamente.
Ruotai gli occhi al cielo. «Sta tranquilla mammina» feci un piccolo sorriso e uscii dalla scuola.
Naturalmente, mi ero dimenticata della mia sfortuna, cominciò a piovere e più camminavo decisa, ma nella mia testa ronzava la mia voce automatica che diceva “non cadere, non cadere!” iniziò a diluviare, in lontananza incominciarono i tuoni e i lampi illuminavano la tetra luce del pomeriggio con flash argentati.
Il risultato? Arrivai a casa zuppa come un pulcino!
Come fui al coperto mi sfilai le scarpe sporche di fango, e mentre salivo le scale diretta in camera mia mi tolsi la giacca gocciolante. Fui sorpresa di trovare la finestra spalancata, le tende violette svolazzavano smosse dal vento. Si era inzuppata la moquette per colpa della pioggia. Sbuffai e entrai in bagno, con ancora i capelli gocciolanti, presi un asciugamano e l’asciuga capelli ritornai in camera e chiusi la finestra. Continuavo a percorrere la mattinata cercando di ricordare se fossi stata io a lasciare la finestra aperta, ma niente. ricordavo solo di essermi svegliata con il carboncino in mano e il blocco da disegno sul letto, la nottata precedente mi ero addormentata dopo l’ennesimo incubo. Sulle lenzuola azzurre con disegnini floreali erano macchiate di nero. Mentre cambiavo le coperte al mio letto, il telefono squillò.
«Pronto» risposi con voce traballante, cercavo di rimanere in piedi mentre scendevo le scale con le coperte in mano e il telefono stretto tra l’orecchio e la spalla.
«John Smith mi ha invitata ad uscire!» urlò dall’altra parte la voce squillante di Damy. Inciampai nei miei stessi piedi e feci gli ultimi due scalini di sedere. Il telefono era finito a terra, si sentiva comunque la voce di Damienn.
«Bany? Che è successo? Hey ci sei!?».
Sbuffai e afferrai la cornetta. «Sono caduta» borbottai rimettendomi in piedi. «Ma non uscivi con Tom?» domandai mentre raccoglievo le lenzuola.
«Beh si, però. Tom è noioso, devo sempre essere io a chiedergli di uscire e mi aveva rotto. John è più divertente, bello, atletico… » la lista su John Smith continuò per qualche minuto, mentre io infilavo le coperte nel cesto dei panni sporchi. Chiusi la porta della lavanderia e andai in cucina.
«Comunque, ti volevo chiedere una cosa…» attese qualche minuto, voleva una mia risposta.
«Dimmi» ruotai gli occhi, mentre tiravo fuori dal cassetto una padella.
«Ecco, Sabato faranno una festa a casa di Emma e…» ruotò attorno a ciò che veramente voleva chiedermi. Così ci arrivai da sola.
«Scordatelo!» enfatizzai ogni singola lettera.
«Ti prego Bany! Ti prego!» la sua voce si fece implorante. «Mia madre non mi ci manda da sola con lui, per piacere!».
Accesi il fornello e misi in padella un filo d’olio e la cipolla, li lasciai soffriggere. L’odore si espanse per tutta la piccola cucina.
«No, lo sai bene che odio quel tipo di feste, potrei rivelarmi una catastrofe peggio di ora» presi due uova e le misi in un piatto, iniziai a sbatterle mentre ci aggiungevo altri ingredienti.
«Giuro che non ti lascerò cadere o rovesciare qualcosa addosso a qualcuno, giuramento con il mignolo!».
Feci un risata aspra. «Guarda che il patto con il mignolo non vale al telefono».
«Hebany!» fece l’offesa.
Sospirai, aspettai un minuto e poi dissi: «E va bene! Ma niente tacchi, niente mini abito, niente trucco o capelli alla super star!» spiegai bene le condizioni.
«Oh, andiamo! Un po’ di trucco non fa male a nessuno!» protestò lei.
«Un velo di ombretto e basta!» presi le zucchine dal frigo e le pelai, per poi farle a quadretti. Le misi nella padella e poi aggiunsi le uova.
«Ok, però solo una cosa»
Sbuffai con il naso. «Cosa?»
«Non ti mettere le tue classiche camice a quadri» il suo tono era alla Paris Hilton quando giudica un capo orripilante.
«Ma perché? Non sono brutte» mi opposi, appoggiandomi al ripiano della cucina, mentre la cena cucinava nella padella.
«Fanno tanto da… boscaiola! » quel termine lo aveva usato più volte, per descrivere il mio modo di vestire.
Borbottando alla cornetta tirai fuori dal frigo le bistecche di maiale, le posai ancora confezionate sul piano da lavoro e riempii una pentola di acqua, immersi in essa cinque patate e la lasciai sul fuoco per bollirle.
«Damy, ti devo lasciare, tra poco arriva mio…» mi bloccai quando sentii un tonfo in lontananza, in casa. «…Padre» finii la frase con un sussurro, fissai con le orecchie tese la porta della cucina.
«Ok, ci vediamo domani; un bacio!» fece il classico rumore di un bacio e attaccò.
Lasciai il telefono sul tavolo e andai in salotto. Mi guardai attorno osservando ogni minimo dettaglio. Un altro tonfo echeggiò nella casa, questa volta riuscii a capire da dove proveniva. Il garage, che per arrivarci bastava attraversare il salotto e raggiungere la porta dipinta di bianco.
La spalancai e tastai con una mano la parete in cerca dell’interruttore. Lo trovai e accesi la luce. La stanza era silenziosa ed addormentata, la nuova tela bianca mi fissava cupa, posizionata sul cavalletto. Quando feci un passo per scendere il primo gradino, udii la porta di casa chiudersi.
«Bany?» mio padre mi chiamò, mentre sistemava come sempre la giacca sull’appendi abiti.
Mi voltai in direzione dell’entrata, invisibile dietro la parete del corridoio.
«Si, sono qui!» risposi, per poi spegnere la luce e chiudere la porta.
«Fammi indovinare…» mormorò mentre si levava la cravatta, annusava l’aria. «Uova e zucchine?».
Sorrisi entrando in cucina, superandolo. «E bistecca con purè di patate» dissi, mentre spegnevo la pentola che conteneva le patate bollite. Levai l’acqua e iniziai a schiacciarle. «Papà, mi prendi la bistecchiera?» chiesi, mentre prendevo il latte e il burro.
«Sissignora» rispose. Aprì l’anta del mobile giallo.
«Sbaglio o siamo di buon umore?» amalgamai gli ingredienti alle patate, facendole diventare una pasta morbida.
«No, solo che sono felice di essere a casa, sono stanchissimo» mi passò la bistecchiera e la misi sul fuoco a riscaldare. Senza che glielo chiedessi prese le zucchine e uova e le mise in un piatto. Iniziò ad apparecchiare. «Ma non quanto te, non hai dormito nemmeno sta notte?» domandò con un tono preoccupato. Ma anche se gli occhi trasmettevano preoccupazione, le forme del suo viso ricordavano sempre un sorriso. Sebbene aveva quarantacinque anni, ne dimostrava trentacinque, i suoi capelli biondi non avevano perso colore, cosi come il profondo castano scuro dei suoi occhi. M’immaginai mia madre, giovane assieme a lui in giro per Parigi, spensierati, insieme.
Irrazionalmente quella voce si mise in moto nella mia testa, una voce melodiosa e perfetta, da farmi venire i brividi.

 

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Capitolo 2
*** Sogni Pericolosi ***


       Sogni Pericolosi

Lasciai vagare il discorso sui miei sogni, sull’insonnia e tutto il resto. La serata continuò tranquilla, mio padre si mise a guardare una partita di baseball. Io mi dileguai in camera mia, con la scusa dei compiti e della stanchezza. Presi il libro di storia e mi sdraiai sul letto iniziando a studiare quel che riuscivo.
La stanchezza mi travolse come una feroce onda implacabile. Gli occhi si chiusero contro la mia volontà, mentre leggevo il paragrafo su qualcosa che trattava il medioevo, cavalieri, guerrieri, Re e damigelle. L’attrazione per quel periodo storico fu irremovibile, mi seguì nel sogno, cambiando l’incubo solo in parte.

Con i miei occhi guardavo davanti a me, Non mi sentivo nel mio corpo, più come una mente vagante, senza forma. Mi trovavo in un lungo corridoio silenzioso ed antico. Le pareti erano di un bianco innaturale, il pavimento era di marmo grigio, era talmente lucido da ricordare uno specchio. Iniziai a percorrere il corridoio, non aveva fine, ne inizio, pensai anche fosse solo dritto, privo di finestre o stanze, ma mi corressi mentalmente, quando trovai una porta. Era fatta di rovere riverniciato in lucido, il pomello era fatto di cristallo; intagliato a mano. La porta di aprì di scatto, talmente all’improvviso che sobbalzai. (almeno così credevo). Dalla misteriosa stanza spuntò una donna. Lei. Il suo viso lo ricordavo nitidamente solo in sogno. Così perfetto e dolce. Ma la sua espressione non cambiava mai. Terrorizzata, spaventata, ma allo stesso momento dolce e materna. Le sue dolci linee la facevano ricordare ad un angelo. Forse era anche più bella di una creatura del paradiso. I suoi lunghi capelli corvini erano in contrasto con la sua pelle bianca come l’avorio. Le labbra erano rosate come una Rosa. Gli occhi erano di quel familiare e particolare colore. Verde giallino, quasi della stessa tonalità del miele con sfumature verdi e azzurre, i colori della terra, del mare, del cielo, della natura. Erano i miei stessi occhi. Il mio stesso e singolare colore delle iridi.
La donna, indossava un abito leggero, fatto di raso più lucido. Ricordava una di quelle camice da notte che usavano le principesse. I capelli erano appena un po’ ondulati, due ciocche erano raccolte all’indietro da un fermaglio fatto da brillanti.
Iniziò a correre, a piedi scalzi, su quel marmo gelido. Continuava a guardarsi alle spalle, come se qualcuno la seguisse, ma non c’era nessuno. Tranne me che la rincorrevo invisibile ai suoi occhi. Il corridoio aveva una fine, ed essa era una finestra spalancata, le tende bianche erano smosse dal vento. Al di là della finestra si osservava solo il blu nero del cielo notturno, senza luna, senza stelle.
La donna si fermò al davanzale, il vento gelido le sferzo sulle guance e scompigliò i capelli. Si voltò, questa volta guardava me. E mentre il suo sguardo mi raggelava, iniziai ad udire i passi di qualcuno, sempre più vicini.
«Hebany» la sua voce era melodiosa, ma qualcosa traballava da quel tono tranquillo, materno. Come se volesse dirmi qualcosa d’importante, un ricordo o un segreto.
Quando si voltò di nuovo verso la finestra spalancata, capii cosa voleva fare, scavalcò il davanzale attese due secondi. Urlai, ma ero muta, non sentivo la mia voce.
Lei si lasciò cadere nel vuoto, il vestito lungo svolazzava a gran velocità, mentre era in caduta libera verso il suolo, verso il nero. Verso il nulla.


«No!» urlai alzandomi di scatto dal letto. La fronte era imperlata di sudore, i miei capelli erano umidicci. Avevo il fiato corto, mentre quella terribile scena continuava all’infinito nella mia testa.
Solo dopo pochi minuti mi accorsi che in camera si congelava. La finestra era spalancata, facendo penetrare il gelo dell’autunno. Mi alzai dal letto e la chiusi, ma prima controllai se non fosse rotta. Perché ricordavo benissimo che era chiusa quando mi ero addormentata.
Accesi la luce che si trovava sul comodino e controllai l’ora: due e quarantacinque. Era il solito orario in cui finivo di sognare e mi svegliavo in preda all’agonia. La sua voce continuava a ripetere il mio nome, come se un disco rotto si fosse bloccato su un punto e lo facesse ripetere all’infinito. Mi misi le pantofole e scesi al piano di sotto. La casa era addormentata nel buio. Mio padre aveva dimenticato la lucetta accesa sulla scrivania di legno che si trovava in un angolo del salotto.
Quando la spensi, la casa venne illuminata di un secondo di una luce argentea. Un lampo era apparso nel cielo. Annunciando l’arrivo di un temporale. Mi diressi, come tutte le notti, in garage. Accesi la luce al neon e scesi i pochi scalini fatti di legno chiaro. Lì ad aspettarmi si trovava la grande tela bianca, ancora senza vita. Mi sedetti di fronte al cavalletto, sul cemento ruvido e polveroso, mentre fuori un tuono ruggì pieno di rabbia nel buio. Osservavo la tela, le ginocchia strette al petto. I capelli neri mi coprivano la schiena e le spalle, qualche ciocca era caduta in avanti.
All’ennesimo lampo mi alzai, ormai l’acqua aveva iniziato a cadere dal cielo notturno.
Presi un barattolo di blu cobalto e uno di bianco. Immersi nel primo un grosso pennello e iniziai a dare il colore alla tela, il blu acceso mischiato con del bianco, creava casualmente delle linee, a volte ricurve, piccole, corte, creando nella mia fantasia una forma invisibile nel colore. Un occhio, una bocca. Solo io potevo vederli con il mio occhi artistico, il quadro non era finito, ma già vedevo come sarebbe diventato, cosa avrebbe illustrato.
Lei. Mia madre. Dyamond.
«Papà, svegliati è tardi!» esclamai mentre mi legavo i capelli in una coda alta.
Lo sentii sbuffare, quando la sveglia suonò per la quinta volta. Presi la borsa della scuola e la giacca e uscii da camera mia, incontrandolo in corridoio, mentre era diretto nel nostro piccolo bagno.
«Buongiorno!» esclamai, quasi arrivando al tono stridulo di Damy.
Papà ricambiò un saluto con uno sbadiglio ed entrando nel bagno.
Scesi di sotto, diretta nella piccola cucina, con i mobili verniciati di giallo canarino, il ripiano da lavoro in marmo chiaro. Presi una confezione di cereali e la bottiglia di latte e li unii in una ciotola di ceramica verde acqua, inizia a mangiare tranquilla.
Quando misi nel lavandino la tazza sentii il campanello suonare. «Arrivò!» esclamai sciacquando la stoviglia. Andai all’entrata, mentre mio padre scendeva le scale gia in giacca e cravatta, mezza annotata.
Alla porta, come gia sapevo, era Damienn, i suoi lunghi capelli biondi era sciolti sulle spalle, indossava un cappello di lana fatto a mano da chissà quale stilista, un cappotto abbinato al berretto, le stava a pennello. «Heylà!» salutò con una mano coperta da un caldo guanto marrone.
«Entra, mi devo ancora mettere gli stivali» lasciai la porta aperta, mentre sgattaiolavo in salotto.
«Hai visto che tempaccio?» chiese raggiungendomi, proprio mentre parlava un tuono ruggì.
«Si, infatti» dissi, indaffarata a mettermi gli stivali per la pioggia.
«Bany, sai dove sono le chiavi della macchina?» domandò mio padre dalla cucina. Probabilmente stava bevendo il caffè in tutta fretta.
Mi alzai dal divanetto e frugai tra i cuscini. Le trovai quasi incastrate sotto la fodera. Mi diressi in cucina, con le chiavi in mano che tintinnavano come tante piccole campanelle, mentre Damy mi seguiva.
«Salve signor. Glawer!» salutò Damienn, appoggiata allo stipite della porta.
«Eccoti le chiavi, e non fare tardi. Ciao!» m’infilai in tutta fretta la giacca impermeabile e presi per un braccio Damy e la trascinai fuori casa.
Dovemmo correre verso l’auto per evitare di inzupparci, per fortuna non scivolai sui scalini in cotto antico ed arrivai alla macchina sana e salva.
«A quanto pare l’inverno è proprio arrivato» mormorò soprapensiero Damy, mentre accendeva il riscaldamento. «Come mai tanta fretta di andare a scuola, oggi?».
Feci spallucce, cercando di recitare la parte della finta tonta. «Così…» risposi, evitando lo sguardo accusatorio della mia amica.
«Bany…?» alzò un dorato sopraciglio continuando a fissarmi.
«Beh, sta notte ho avuto un altro sogno» iniziai, guardandomi le mani inguantate.
Sospirò e si girò verso il volante, mise in moto l’auto. «Di nuovo?» iniziammo a muoverci lentamente verso scuola.
«Si, ma era diverso» enfatizzai l’ultima parola.
«Bany, ogni sogno che fai è diverso, luogo, il tempo, i vestiti ed eccetera» sembrava dire la frase come una filastrocca, spesso mi aveva ripetuto quelle parole.
«Beh, si… Ma lui non c’era» spiegai, aspettando una parola, o sguardo.
«Capito, e cosa c’è di strano in questo? Capita che i sogni che fai non siano tutti perennemente uguali, Bany» sembrava una mamma che ripeteva la stessa cosa al proprio figlio: Niente dolci prima di cena!
«E, mia madre si è buttata da una finestra…» sta volta la fissai di sottecchi.
«Davvero?» la sua voce fu più allarmata. «Secondo te cosa può significare?» aveva aggrottato la fronte.
«Beh, questo lo volevo chiedere io a te… » ruotai gli occhi, per poi fermali sul finestrino, perlato di piccole gocce di pioggia.
«Che ne dici di parlarne con un esperto, magari sarà spiegarti il significato di questi incubi» la sua voce era incerta, non sapeva che cosa le avrei risposto.
«No, non ho intenzione di andare da un psicologo, Damy» continuavo a fissare il vetro, mentre le goccioline venivano spazzate via per colpa del vento.
«Ok, era solo un consiglio!» sbuffò.
Eravamo finalmente arrivate a scuola. Alcuni ragazzi correvano verso l’entrata con un libro in testa per non bagnarsi. Mentre il parcheggio era bloccato, tutti cercavano uno spiazzo, ma con la pioggia era più difficoltoso.
Mentre Damy si affannava per rubare il primo spiazzo che trovava, mi persi nei pensieri. Considerazioni su considerazioni, se seguire alcuni consigli, oppure No. Isolare la mente o mettermi veramente a pensare a contattare uno specialista, ormai continuavo le notti insonnie da così tanto tempo, che mi sembrava da sempre. Invece era solamente da tre mesi, e non era nemmeno poco. Da quando trovai per puro caso una foto della mamma in mezzo ad un libro vecchio che si trovava in camera di mio padre. All’inizio nel vederla credevo fosse una modella, non aveva avuto nemmeno l’idea che fosse mia madre, ma poi leggendo il suo nome sul retro capii che era lei. Mio padre non aveva la minima idea dei miei sogni, o almeno cosa vedevo nel sogno. E non sapeva nemmeno che avevo trovato la foto di mamma in un suo libro. Fin da bambina mi aveva vietato di toccare alcuno cose sue, per esempio gli oggetti chiusi nel mobiletto di legno con i vetri blu, e altre cose che non avrebbero mai suscitato curiosità ad una bambina.
«Hebany, mi stai ascoltando?» la voce di Damy mi fece riemergere dai miei pensieri. Eravamo ferme, in macchina. Era riuscita a parcheggiare, nemmeno lontano dall’entrata, la pioggia cadeva fitta sulla strada, sugli edifici, gli alberi e le macchine. Era ovunque.
«Ehm, no… Mi ero persa. Cosa stavi dicendo?» mi tirai dietro un orecchio una ciocca di capelli scuri. Stavo prestando attenzione solo da una parte, fissavo il cruscotto davanti a me, senza vederlo veramente.
«Ti stavo dicendo che oggi andiamo in centro per comprare qualcosa per la festa» spense la radio che era ad un volume molto basso, si sentiva solo un mormorio incompreso.
Annuii , cercando di sgombrare la mente. «Passeremo anche in farmacia» mormorò con quel suo tono materno.
Alzai lo sguardo fissandola negli occhi. «Grazie» mi sentivo un groppo alla gola, come quando mi svegliavo nel pieno della notte.
«Vedrai che è solo una situazione passeggera» .
Eccolo. Il motivo per cui io e Damy eravamo, e siamo amiche. Perché dopo tutto che siamo l’opposto dell’altra, che nella normalità della vita di adolescenti, due ragazze come noi si dovrebbero odiare, ma noi usciamo fuori dalla norma.
«Ora è meglio che andiamo, se non vogliamo finire in presidenza» il suo viso s’illuminò del suo sorriso sbarazzino e aprì la portiera dal lato suo.
Rimasi immobile per altri due secondi, poi la imitai.
Fuori l’aria era gelata, il respiro che facevo uscire dalla bocca si trasformava in piccole nuvolette che poi si perdevano nell’aria. Mi chiusi la giacca fino al collo e mi diressi assieme a Damy all’entrata, come tutti gli altri studenti.
«Ci vediamo a pranzo, solito tavolo!» Damy quasi urlava tra la folla che si accalcava sempre più, come ogni mattina.
«Ok!» mi voltai e mi diressi verso la classe di Arte.
La professoressa Monrow non era ancora arrivata. Sospirai e mi andai a sedere al mio posto. Alcuni ragazzi erano seduti sui banchi e chiacchieravano. Per passare il tempo continuavo a guardare qui e là, nell’aula erano appesi i migliori quadri fatti dagli altri studenti, e più li fissavo più mi deprimevo, con una scrollata di spalle spostai lo sguardo sul gruppetto davanti a me. Cercai di capire di cosa stessero parlando.
«Avete visto il ragazzo nuovo?» esclamò uno di loro, anche se frequentavo quella classe per ben tre anni, la mia memoria non aveva ancora memorizzato i nomi dei miei compagni.
«Oddio, si!» esclamò una ragazza bionda, naso all’in su e grossi occhi verdi, ricordava una barbie. «Toglie il respiro, io ci ho parlato, prima all’entrata» inarcò un sopraciglio con sguardo malizioso e condivise con l’amica un commento, che però non riuscii a capire.
«Buongiorno! Per favore prendete il vostro posto, è gia molto tardi» non era nemmeno entrata in classe e aveva gia iniziato a parlare senza fermarsi. «Vi starete chiedendo come mai sia arrivata in ritardo, beh, come sapete io organizzo molte mostre, a scuola e anche in gallerie, quindi sono molto indaffarata…» posò sulla cattedra una somma inquietante di cartelline, fogli e libri. «Ma comunque, bando a ciance e iniziamo la lezione, dunque… Chi sa dirmi cosa abbiamo fatto ieri? Non ricordo.» frase tipica che fa ogni volta all’inizio della lezione. Iniziò a frugare nella sua gigantesca, ed etnica, borsa marrone e dorata in cerca di una penna.
Qualcuno bussò alla porta, e la professoressa Monrow tutta indaffarata per la caccia al tesoro nella sua borsa esclamò:«Avanti!» e con gran baccano svuotò la borsa sulla cattedra. Nell’aula scappò quale risolino. In tanto la porta si aprì e rivelò un ragazzo alto, la pelle chiara e i capelli neri come il carbone, indossava una maglia grigio scuro, le maniche arrotolate fino al gomito. Entrò nella classe con disinvoltura, portava in spalla uno zaino vecchio e nero.
«Sono il nuovo studente…» parlò a voce bassa, appena possibile udibile da dove ero seduta io.
«Oh, si giusto… Trovata!» esclamò mentre teneva in mano la penna stilografica. «Puoi dirmi il tuo nome?» aprì il registro.
«Black Valclous». Il suo sguardo scuro e cupo mi attraversò per pochi secondi, per poi tornare a fissare con riluttanza la professoressa.
L’unico posto libero era accanto a Johnathan Tayson, cioè dall’altra parte della classe. Tutte le ragazze non prestavano attenzione alla lezione, erano concentrate ad osservare il nuovo arrivato, che non degnò di uno sguardo nessuno.
Fissavo davanti a me, scarabocchiavo con frenesia un foglio. Non osavo voltarmi dalla sua direzione, per paura di incontrare di nuovo quel suo sguardo cupo, privo di emozione o forse si. L’ora d’arte durò piu’ del dovuto, forse avevo solo l’impressione che le lancette dell’orologio appeso al muro fossero ferme.
Quando suonò la campanella fu un sollievo. Presi tutte le mie cose e mi alzai, diretta alla prossima lezione, ormai sicura che non avrei incontrato Black Valclous per almeno fino all’ora di pranzo.
Le ragazze, quella mattina non facevano altro che parlare del nuovo ragazzo, di quanto fosse bello e tenebroso. Oh si, molto tenebroso, faceva quasi paura.
«Bany! Siamo Qui!» ero impilata tra la folla, in mano reggevo un vassoio di plastica dura rosso scuro, conteneva una lattina di aranciata e una fetta di pizza con la mozzarella. Cercai con lo sguardo la mia amica. La sua voce trillava oltre a quelle degli altri studenti. Finalmente la trovai. Stava in ginocchio su una sedia, al tavolo vicino alla finestra. Si sbracciava per farsi vedere da me. Avanzai con passo lento e attento, non volevo scaraventare la mia pizza addosso a qualcuno. Così a testa bassa raggiunsi il tavolo dove si trovava Damy, assieme ai suoi amici. Mi bloccai di scatto, una mano sulla sedia su cui avrei dovuto sedermi. Sgranai gli occhi e sbiancai, nel vedere seduto lì, al tavolo dove avrei dovuto mangiare, Black Valclous. Mi fissò, con un accenno di ironia amara, la sua bocca perfetta e rosea era curvata in un sorriso.
«Bany, cos’hai? Hai visto un fantasma per caso?» Damy mi scrollò per un braccio.
Feci spallucce e distolsi lo sguardo dai suoi occhi per incontrare quelli della mia amica. «No, mi ero imbambolata».
Mi sedetti accanto a lei, tenni lo sguardo fermo sul mio trancio di pizza, sperando che per una sola volta nella vita Damy non cercasse di inserirmi nel gruppo.
«Ah, quasi dimenticavo!» esclamò all’improvviso Damienn. «Non ti ho presentato il nuovo arrivato».
Avrei tanto voluto nascondermi sotto il tavolo o magari saltare fuori dalla finestra. Fui costretta ad alzare lo sguardo.
«Black lei è Hebany, Hebany lui è Black» usò il suo tono da organizzatrice di appuntamenti ossessiva. Fissai con sguardo tremolante il ragazzo.
«P-piacere» balbettai.
«Tu frequenti il corso di arte giusto?» la sua voce era rauca ma sinuosa. Il suo viso era illuminato da un sorriso furbo.
Annuii e diedi un morso alla pizza. Di colpo mi era passata la fame. Così la lasciai nel piatto e bevvi solo un sorso di aranciata.
«Ah quindi gia vi siete visti!» Damy diede un morso alla sua mela verde e lucida. Glie l’avrei ficcata in bocca molto volentieri.
Per le ultime ore non avevo avuto un altro incontro con il misterioso Black, che a differenza dell’ora di arte – anche se non ha fatto niente di esplicito – era notevolmente cambiato nei miei confronti. Durante il resto dell’ora di pranzo ha continuato a chiedermi qualcosa sull’arte, poi su le altre materie, fino a giungere alle domande piu personali. Rispondevo meditabonda con sguardo basso. Quando finalmente capì che non mi andava tanto di continuare il suo spietato interrogatorio da curioso, mi sorrise. I suoi denti erano bianchissimi e perfetti, il suo sorriso era qualcosa di inumano. Forse era un alieno.
«Io penso che gli piaci» Damy parlò all’improvviso, mentre guidava verso il centro della città.
Mi voltai verso di lei, con uno sguardo che faceva pensare ad un enorme e significativo punto interrogativo. «A chi piaccio?» domandai con voce stridula, soffocai perfino la canzone degli AVA che trasmetteva la radio.
Damienn alzò gli occhi al cielo e abbassò il volume. «A Black, è stato per tutto il pranzo a fissarti e cercava di attaccare bottone» sorrise, compiaciuta di se stessa e della sua stramba teoria, a dir poco impossibile.
«Non dire sciocchezze Damy» tornai a fissare la città oltre il finestrino, per il nervoso iniziai ad attorcigliarmi una ciocca di capelli attorno all’indice, mio padre diceva che era un tic ereditato da mia madre.
«Non le sto dicendo, infatti!» frenò di scatto, quando un semaforo era passato dal verde al rosso. Una macchina dietro di noi suonò il clacson. «Gli piaci, direi pure parecchio». Si voltò verso di me fissandomi con quei suoi occhi celesti da barbie.
«Non ci pensare nemmeno» l’avvertii col fare tono intimidatorio, ma mi uscì male, come sempre.
«Non sto pensando a niente!» fece spallucce e fissò davanti a sé. Il semaforo divenne di nuovo verde e ritornò a guidare. Incominciò a canticchiare, il suo eccessivo buon umore mi metteva paura, piu di Black Valclous.

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