Ridi Pagliaccio

di Stupid Lamb
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima Parte ***
Capitolo 2: *** Seconda Parte ***
Capitolo 3: *** Terza ed Ultima Parte ***



Capitolo 1
*** Prima Parte ***


L’idea per questa mini ff è partita più o meno una settimana fa, dopo aver visto questo video

L’idea per questa mini ff è partita più o meno una settimana fa, dopo aver visto questo video. Ho iniziato a pensare, pensare, pensare, fino a sfociare nel delirio. Sul serio, il mio neurone è difettato.

 

Ad ogni modo, beccatevi questo obbrobrio XD

Come sono gentile XD

 

*Ridi pagliaccio appartiene a Ruggero Leoncavallo.

*Twilight e i suoi personaggi appartengono a Stephenie Meyer.

*Jerome è mio.

 

Ridi Pagliaccio

 

Prima parte

 

Edward

Attorno a me c’è confusione, come ogni sera.

Il camerino, in questo posto, è un enorme stanzone provvisto di pochi tavoli dotati di specchio, ammassati su uno dei due lati della tenda, quello che confina col parcheggio. Il mio tavolo (mio per modo di dire… lo spartisco con altre venti persone) è l’ultimo della fila. Si trova accanto all’apertura che porta all’esterno. Non la chiamo porta poiché non è una porta. E’ un semplice squarcio nel tendone giallo che ci sovrasta.

 

Sul tavolo c’è tutto l’occorrente per il mio numero.

Come ogni sera, più per ingannare il tempo che per altro, controllo minuziosamente che non manchi nulla.

Cerone bianco, c’è.

Parrucca nera, c’è anche quella.

Bombetta simile a quella di Charlot, c’è. E’ ancora un po’ ammaccata, dopo l’episodio di ieri sera con quel bimbo fin troppo vivace. Infilo le dita all’interno e premo verso l’alto, riportandola alla normalità. Ok, bombetta simile a quella di Charlot, c’è.

Matita nera con cui disegnare una lacrima sotto l’occhio, c’è.

 

Sembra esserci tutto. Getto gli occhi sotto al tavolo traballante, alla ricerca delle scarpe.

In teoria dovrei possederne un paio mio ma, come per il tavolo, qui ci troviamo a spartire tutto con tutti.

E’ la filosofia del circo, se vogliamo. Si vive insieme, si mangia assieme, si lavora assieme, si viaggia assieme. Come un’unica famiglia.

 

Peccato che io in questa famiglia ci sia capitato per caso. Peccato che io desideri avere uno spazio mio, a volte. Privato, esclusivo, silenzioso.

 

Il rullo dei tamburi della piccola orchestra mi ricorda che mancano meno di dieci minuti al mio numero. In questo momento un elefante sta per scavalcare il corpo giunonico di Rose. Muoverà una zampa, poi l’altra, le altre due, e i piatti della batteria dichiareranno finito il numero, assieme alle trombe.

 

Il pubblico applaudirà, Rose si alzerà da terra, s’inchinerà tre volte: al centro, a destra e a sinistra. Accarezzerà l’elefante, e sparirà.

 

Le luci si abbasseranno, ed entrerò io.

Jerome, il pagliaccio innamorato.

Non ho scelto io questo nome, né questo trucco, né questa parrucca, né questo paio di scarpe, troppo grandi perfino per un clown.

L’unica mia colpa, se proprio vogliamo trovarne una, è stata quella di indossare per gioco un naso rosso, più di dieci anni fa, per far ridere una bambina che si trovava in fila al banco dei popcorn e piangeva perché non voleva tornare a casa. Rise del mio viso, dei miei buffi capelli rossi (non una parrucca… ho davvero i capelli rossi), mossi a causa del vento, e Alice passò di lì per caso.

Decise che quella era la mia natura, e che avrei fatto grandi cose per la nostra famiglia.

A nulla valse il mio rifiuto, a nulla valsero i miei ‘voglio continuare a pulire le gabbie, lasciatemi in pace’.

Alice è fatta così. E’ piccola, ma possiede tanta energia. E’ lei che ci mette in riga quando siamo in ritardo, è lei che fissa le nuove date, è lei che fa tutto, fondamentalmente.

 

Il grido di spavento del pubblico mi fa da timer. Mancano cinque minuti. L’elefante ha finto di abbassare una zampa sullo stomaco di Rose, per poi procedere in avanti. A volte la bionda ama rischiare. Le piace ottenere più applausi.

 

Inizio a stendere il cerone con due mani, dopo aver raccolto i capelli sotto una cuffia recuperata da una vecchia calza di nylon. Uno strato leggero, in modo da coprire solo le lentiggini ed il colorito roseo.

Uso la matita attorno agli occhi e sotto uno di essi, ricreando una lacrima perfetta.

Chi l’ha detto che il pagliaccio innamorato deve per forza essere triste, eh? Perché non può trovare l’anima gemella, una volta ogni tanto? Perché il mio numero deve sempre finire con una batosta fisica e amorosa?

 

Il pubblico ride, e paga. Questo è ciò che conta, per cui stai zitto, Edward, e componi il tuo personaggio.

Infilo la parrucca nera, posiziono la bombetta e indosso le scarpe.

Mi alzo in piedi quando il rumore dei piatti copre finalmente il baccano del camerino, e mi guardo allo specchio.

Pantalone nero, largo ai piedi. Maglietta a maniche lunghe, con righe bianche e nere orizzontali. Due vistose bretelle rosse, che richiamano il colore del naso che devo ancora dipingere. Lo faccio in fretta, ma con accuratezza, come sempre.

Ho detto addio al naso di plastica diversi anni fa, in fondo non sono un clown qualunque io.

Sono un tramp, un pagliaccio romantico.

 

Gli applausi del pubblico mi dicono che Rose è ancora in scena, e la voce del presentatore non fa che confermare la mia idea.

 

Stendo il rossetto scuro (è simile al nero… scelta di Alice) con le dita, e le passo poi su un vecchio asciugamano per ripulirle.

 

“Sono pronto,” mi dico, come faccio ogni sera.

Fletto le ginocchia, come ogni sera.

Appoggio una mano sul cuore e ringrazio Dio, come ogni sera, proprio mentre il presentatore annuncia me.

 

Jerome, il pagliaccio romantico.

 

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Capitolo 2
*** Seconda Parte ***


*Ridi pagliaccio appartiene a Ruggero Leoncavallo

*Ridi pagliaccio appartiene a Ruggero Leoncavallo.
*Twilight e i suoi personaggi appartengono a Stephenie Meyer.
*Jerome è mio.

 

 

Ridi Pagliaccio

 

Seconda Parte

 

Edward

“Jerome, il pagliaccio innamorato!” La voce del presentatore viene subito coperta dagli applausi del pubblico. Nel corso degli anni, nonostante questo non sia il lavoro dei miei sogni, sono riuscito a guadagnarmi un posto in scena, e in molti tornano a vedere la mia performance, anche a distanza di anni. Alice mi ha sempre lasciato carta bianca in merito al contenuto del numero, e io non ho mai messo in scena qualcosa che l’ha delusa. Perfino il vecchio Carlisle, antico capo del circo, si è sempre compiaciuto per le mie scenette.

 

Già, perché è di questo che si tratta… scenette.

Mi applico, ci metto tutto me stesso, ma io non creo nulla, se non una breve e passeggera risata.

Scenette, appunto.

Come quella che sto per mettere in essere adesso.

 

Ogni sera, scelgo fra il pubblico colei che sarà per qualche minuto la jeune fille amata da Jerome. Cerco di mantenermi sempre al di sotto dei trent’anni, onde evitare di far cadere la scelta su una donna sposata. Sarebbe disdicevole, e il pubblico non riderebbe, poiché non si immedesimerebbe.

 

Scelgo una jeune fille fra il pubblico, possibilmente carina – perché al pubblico piacciono le storie d’amore in cui i personaggi sono di bell’aspetto, e procedo a corteggiarla, dando vita a siparietti divertenti in cui mi rendo ridicolo, inciampo, cado a terra fino a che qualcuno (Emmett) viene a portarmi via come un sacco di patate.

 

Povero Jerome, pagliaccio romantico… neppure questa sera è riuscito a far trionfare l’amore!

Ci riuscirà forse domani? Tornate al Cullen Circus per scoprirlo!

 

Il presentatore recita, il pubblico ride e paga, e tutti sono contenti.

Tutti, tranne me.

 

Entro in scena con fare buffo e malinconico, come ogni sera.

Il suono registrato di un’armonica mi accompagna. Dovrebbe ricordare le strade ed il clima di Parigi, città da cui Jerome è partito alla ricerca del suo amore.

 

I bambini mi guardano con attenzione, mangiando i popcorn tenuti in mano dai genitori.

Una jeune fille, Edward. Cerca una jeune fille.

 

Le prime file sono gremite di bambini e genitori, per cui mi tocca frugare nelle file dietro. Ovviamente scruto il pubblico con apparente noncuranza, facendo smorfie buffe che richiamano sorrisi e qualche complimento vocale.

 

Lo detesto, ma sono bravo nel mio lavoro.

 

Su una delle panche di legno, in alto, noto due giovani ragazze. Avranno sì e no venticinque anni… come me. Osservo i loro occhi con attenzione, per cercare di capire se – nel caso in cui dovessi chiamarle – staranno o meno al gioco.

In genere il pubblico ama partecipare al circo, ma è importante saper scegliere il proprio assistente, la propria spalla momentanea.

 

Gli occhi delle due ragazze mi dicono che sono annoiate. Sorrido loro, e mando un bacio con la mano coperta da un guanto colorato. Una delle due si copre gli occhi.

Perfetto, ha paura dei clown… scartata.

 

In dieci anni ho imparato a riconoscere la gente al primo colpo.

Percorro il cerchio dell’arena accompagnato dalla musica, e gioco con le palline gommose, con dei fiori finti, con la bombetta. L’ammaccatura di ieri è ormai invisibile… non che uno spettatore si soffermi su di essa, ma a me piace dare il meglio, sempre e comunque.

 

Individuo altre ragazze, sedute stavolta in seconda fila, proprio accanto all’apertura da cui sono entrato in scena.

Sono tutte e tre giovani, intorno ai vent’anni. Hanno i capelli castani. Una, quella che mi sorride, ha gli occhi azzurri.

Mando anche a lei un bacio, e stavolta la ragazza reagisce positivamente.

 

Ai pagliacci è vietato parlare. Noi ci esprimiamo col viso, con i gesti, con l’inclinazione della testa.

Mi avvicino allora alle tre, camminando con le mani dietro la schiena, con fare timido.

Una delle ragazze, con gli occhiali, dà una gomitata a quella centrale, e bisbiglia qualcosa al suo orecchio.

Una volta davanti a loro, aiutato dall’incoraggiamento del pubblico che applaude, allungo la mano verso di lei, verso la ragazza con gli occhi azzurri.

Sorride con fare civettuolo, e si alza come una scheggia, lanciando la borsa fra le mani dell’altra ragazza, quella senza occhiali. La poveretta sembra caduta da una nuvola, e sembra quasi infastidita dal gesto della sua amica.

Le sorrido, e lei mi sorride, ma abbassa subito gli occhi sulle mani. Si fa indietro per consentire alla mia nuova jeune fille di passare, e mano nella mano con lei trotterello verso il centro dell’arena.

 

Jerome è felice! Ha trovato una nuova amata! Riuscirà a conquistarla?

 

“Sono Jessica!” bisbiglia la ragazza, quando l’armonica registrata smette di suonare.

Jessica. Nome piacevole.

 

La musica riprende – stavolta con tono scherzoso, ma ugualmente romantico – e io do il via al mio repertorio. Fiori che mi esplodono in faccia, regali che in realtà nascondono piccole trappole ad acqua che bagnano il sottoscritto (mai ridicolizzare lo spettatore. Il pagliaccio? Il pagliaccio è nato per essere ridicolizzato), capriole provate e riprovate con Jasper, prove di danza che si concludono con me steso a terra.

 

Il pubblico ride, Jessica si diverte e si sente importante.

Sono i suoi occhi a dirmelo, così come gli occhi di una bambina in prima fila mi dicono che si sta annoiando, così come gli occhi di un anziano mi fanno capire che lui invece sta vivendo dei minuti felici.

 

I secondi passano, e mi dico che è giunto il momento di terminare il numero.

Continuando a ballare con Jessica, riesco a condurla nei pressi delle sue amiche, in modo da consentirle di riprendere il suo posto quando Jerome cadrà a terra stecchito e qualcuno correrà a prenderlo.

 

Come ogni sera, è tutto collaudato.

Giravolta, inciampo, testa su qualcosa, a terra stecchito.

 

Lo faccio anche stasera, e come ieri sera, la bombetta simile a quella di Charlot vola via, fra il pubblico.

 

Maledizione.

 

Oh, no! Il povero Jerome non è riuscito a far trionfare l’amore!

 

Emmett entra a raccogliermi da terra, e io fingo di essere privo di forze, come ogni sera. Jessica sghignazza e torna al suo posto, e con un occhio mezzo aperto noto che la sua amica, quella priva di occhiali, si china a terra.

 

Ci riuscirà forse domani? Tornate al Cullen Circus per scoprirlo!

 

La voce del presentatore si unisce all’orchestra e agli applausi, ma non mi impedisce di sentire un’altra voce.

“Il tuo cappello!” grida qualcuno, e di scatto afferro i pantaloni di Emmett, per costringerlo a fermarsi. Penzolo sulla sua spalla, e grazie alla parrucca che mi copre gli occhi posso permettermi di sbirciare.

 

E’ l’amica di Jessica. Ha fra le mani la mia bombetta. La sventola verso di me.

 

“Torna indietro,” dico a Emmett, che già ieri sera è stato costretto a fare la stessa cosa.

 

Jerome è ferito, per cui non posso alzarmi  per ringraziarla, ma Emmett mi solleva facilmente come se fossi un sacco di patate. Fingo di essere molliccio, e il pubblico ride per il piccolo fuori programma.

 

Povero Jerome! Che magra consolazione!

 

“Tieni…” mormora la ragazza, con le guance in fiamme.

Si avvicina per appoggiare la bombetta sulla parrucca, e il suo profumo mi colpisce in pieno viso, mandandomi al tappeto per davvero. “Sei stato bravo,” aggiunge con un sorriso.

 

Emmett la ringrazia e mi porta via; io la osservo.

Sento uno strano battito nel cuore, prima di sparire dietro la tenda gialla.

 

---

 

Sì, la ragazza che gli restituisce la bombetta è Bella.

 

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Capitolo 3
*** Terza ed Ultima Parte ***


*Ridi pagliaccio appartiene a Ruggero Leoncavallo

*Ridi pagliaccio appartiene a Ruggero Leoncavallo.
*Twilight e i suoi personaggi appartengono a Stephenie Meyer.
*Jerome è mio.

 

 

Ridi Pagliaccio

Ultima Parte

 

Bella

E’ chiaro come il sole: qualcuno ai piani alti ce l’ha con me. Non ho mai imprecato, né commesso omicidi, né rubato, ma qualcuno ha deciso ugualmente di punirmi.

O forse ho deciso io stessa di punirmi, venendo a vivere con mio padre.

Charlie non è un problema, né lo è la vita con lui.

 

Il problema è il mio sentirmi inadeguata.

Ultimo anno al liceo di Forks, unica figlia del capo della polizia locale, timida e scoordinata.

E’ come se camminassi con un cartello appeso alla schiena con su scritto “Ehi, sono qui.”

 

E’ vero, questa punizione me la sono cercata da sola quando ho deciso di tornare nel posto che avevo lasciato con mia madre diversi anni fa.

Tanti anni fa.

 

Ho passato qui le estati, ma non ho mai stretto amicizia con nessuno, per cui al mio ritorno ho dovuto iniziare tutto da capo.

Non l’ho scelto io: se fosse per me, rimarrei chiusa in casa tutto il giorno, ma non voglio dare l’impressione di essere una snob asociale, e quindi ogni tanto accetto di frequentare alcune ragazze della scuola anche al di fuori degli orari di lezione.

 

Come stasera.

Angela e Jessica mi hanno trascinata al circo, più eccitate che mai.

A Forks è raro assistere ad eventi lontanamente divertenti, e il circo è uno di quelli.

A Phoenix, dove ho vissuto fino a qualche mese fa, oltre ai circhi itineranti c’erano due installazioni fisse, a cui mi recavo spesso con mia madre.

 

Adoro il circo. Il grande tendone, che sembra nascondere mille meraviglie; gli animali, i prestigiatori, gli acrobati.

Gli acrobati sono i miei preferiti, in assoluto.

 

Le due ragazze non comprendono quindi la mia calma, mentre siamo in fila per fare i biglietti.

Loro sono state al circo sì e no due volte nella loro vita, e si sentono come bambine.

 

A pensarci bene, la mia prima volta al circo è stata proprio qui, a Forks. Avevo otto anni, e  Charlie mi aveva accompagnata per festeggiare il mio compleanno.

Ora di anni ne sono passati dieci, e assieme a me in questo paesino è tornato anche il circo.

 

Il tendone giallo del Cullen Circus è decorato con luci intermittenti. All’entrata ci sono due ragazzi vestiti da domatori, e si occupano di accogliere il pubblico e di staccare i biglietti.

Poco lontano dal tendone, un grande chiosco per bevande e snack. Un equilibrista, in sella ad un monociclo, regala palloncini ai bambini che l’osservano incantati.

Riconosco nella folla uno dei colleghi di mio padre, e la proprietaria del supermercato presso cui vado a fare la spesa con suo marito.

 

“Andiamo, Bella!” chiama Jessica. “O perderemo i posti migliori!”

Delle due, Jessica è quella che sopporto meno. Non è cattiva, né antipatica, ma con i suoi modi riesce ad indispormi… sempre. E’ come se avesse sempre bisogno di ritrovarsi al centro dell’attenzione, soprattutto da quando sono arrivata io.

Forse mi vede come una rivale, ma sbaglia, perché non intendo sfidarla in nulla.

 

Seguo lei ed Angela (meno esibizionista e più gentile) nel tendone, e lascio che siano loro a scegliere i posti.

Abbiamo la fortuna di beccarne tre in seconda fila, e Jessica decide di mettersi in mezzo, in modo di poter parlare allo stesso tempo con entrambe. Urrà.

 

I posti si riempiono velocemente. I bambini osservano i cavi e i riflettori, l’orchestra e gli addetti ai lavori che preparano le ultime cose.

Hanno negli occhi la stessa sorpresa che avevo io alla loro età.

 

“Allora, Bella, hai deciso con chi andrai al ballo di fine anno? Tyler o James?”

“No, Jessica… non ho ancora deciso. Non so neppure se verrò. Io e il ballo… um… non credo.”

“Ma dai, non puoi mancare!” esclama lei.

“Lasciala stare!” dice Angela, dandole una gomitata. “Se non vuole venire, non verrà.” Sorride e mi fa l’occhiolino, come a chiedermi scusa per l’invadenza della sua amica.

Invadenza perché è da una settimana che mi chiede la stessa cosa, ed è da una settimana che le do la stessa risposta.

 

Temendo che potesse farmi il terzo grado anche stasera, ho addirittura deciso di usare il mio pick up per raggiungere l’area destinata al circo. Peccato che lei abbia avuto il bisogno di chiedermelo ancora.

 

Lo spettacolo inizia dieci minuti dopo il nostro arrivo. Dieci minuti passati ad osservare il vuoto e ad annuire alla parole di Jessica.

Le luci si spengono e il sipario si alza, lasciando entrare decine di giocolieri ed equilibristi. I bambini applaudono, ed applaudo anch’io.

Adoro questi numeri.

 

“Sono molto bravi!” grida Angela.

“Lo sono!” rispondo io, cercando di coprire la voce del presentatore e la musica dell’orchestra.

 

Birilli, palline, fili colorati e monocicli: il primo numero è bellissimo.

Si passa poi ai leoni, e l’arena viene chiusa con grandi gabbie metalliche per proteggere il pubblico. I bambini sono eccitati alla vista dei re della foresta, che appaiono sì spietati, ma anche molto sazi.

E’ il trucco per tenerli quieti… riempirli di cibo prima dell’esibizione.

Me l’ha spiegato Renée.

 

Dopo i leoni, è la volta di Gastone il Pasticcione, un pagliaccio colorato e buffo che diverte i bambini e strappa parecchi applausi.

E poi le amazzoni a cavallo, gli illusionisti, i prestigiatori, fino ad arrivare al numero con gli elefanti.

 

Tre elefanti, guidati da una ragazza bionda – Janette annuncia il presentatore – entrano sulle note di una marcia regale, tenendosi la coda attraverso la proboscide. Janette li fa accomodare sui piedistalli, ed inizia a giocare con loro. Alzano le zampe, si piegano in avanti e indietro.

Sono divertenti, ma non i miei preferiti.

Alla fine del numero, due dei tre pachidermi escono di scena, e Janette si stende a terra. L’elefante rimasto, più piccolo degli altri, ha il compito di passare su di lei senza farle del male.

Ci riesce dopo un piccolo momento di crisi, in cui per un istante pensiamo tutti che Janette possa essere schiacciata.

 

Ce la fanno, ed entrambi escono di scena sotto uno scorciante applauso.

“Vi state divertendo?” chiedo alle mie compagne di classe.

Annuiscono entrambe con vigore, continuando a battere le mani.

“E’ bellissimo!” dice Jessica.

L’arena viene attrezzata per un nuovo numero, e il presentatore annuncia l’ingresso di Jerome, il pagliaccio innamorato.

Uhhh, è lui!”

“Lui chi?” chiedo ad Angela.

“E’ il clown che chiama sempre una ragazza del pubblico per il suo numero. E’ molto divertente; mia cugina Margaret ha partecipato alla sua esibizione di Seattle,” spiega.

“Wow!” intercede Jessica. “Speriamo che chiami una di noi!”

“No, che dici!” esclamo io, temendo il peggio.

 

Jerome è un clown diverso da Gastone il pasticcione. La musica che lo accompagna è malinconica, e lui stesso sembra troppo triste per essere un pagliaccio. Tuttavia riesca a far ridere tutti facilmente, inciampando e sistemandosi le bretelle colorate.

 

Dopo qualche momento di pura comicità, Jerome inizia a scrutare il pubblico, e io inizio a sudare freddo. Ciò che ha detto Angela è vero… sceglierà una ragazza.

Non scegliere me, non scegliere me. Innamorati di tutte, tranne che di me.

 

Se chiamasse me… i riflettori puntati… no, non può accadere.

 

Il presentatore descrive Jerome come un clown alla ricerca della sua jeune fille, e il ragazzo (mi sembra un ragazzo… ha il fisico asciutto e scattante di un giovane) manda baci fra il pubblico alla ricerca della sua amata.

Quando si gira verso di noi, accadono contemporaneamente due cose: Jessica inizia a fremere come se avesse cinque anni, e il mio cuore inizia a battere come se stessi correndo in una prateria.

 

Non scegliere me, non scegliere me, non scegliere me.

 

Jerome si avvicina, il pubblico applaude.

 

Non me, non me.

 

E’ giovane, avevo visto bene. Indossa una parrucca e un buffo cappello da Charlot. E’ carino. Forse.

 

Allunga una mano verso Jessica, e lei l’afferra subito. Solita esibizionista.

Scelta la nuova jeune fille, Jerome s’incammina verso l’arena. Prima di farlo, mi guarda e mi sorride. Saranno i suoi buffi capelli finti, il colore scuro attorno agli occhi che lo rende perfino misterioso, o la lacrima disegnata che mi tocca il cuore… ma sorrido anch’io.

Abbasso subito gli occhi però, vergognandomi del mio gesto.

 

Lo scopo di Jerome è quello di conquistare Jessica (poveretto), ma a causa della sua goffaggine non riesce a fare un passo senza cadere o ruzzolare. Osservo lui ed in parte rivedo me stessa ed il mio essere imbranata.

Il pubblico ride di Jerome, e lo faccio anch’io, ma ad un tratto, quando lui e Jessica prendono a ballare, io mi fermo a riflettere.

 

Perché ridere?

In fondo Jerome cerca di trovare l’anima gemella, e non ci riesce. Perché una cosa del genere dovrebbe far ridere? Perché gioire della sua sfortuna?

Volendo essere corretti, dovremmo dispiacerci per lui, non sorridere ed applaudire quando finisce in una bacinella di gomma piena d’acqua.

Il pubblico dovrebbe aiutarlo, non affossarlo.

 

Basta, Bella. E’ di un clown che stai parlando. Un clown con cui ti viene facile immedesimarti perché anche tu non riesci a compiere più di tre passi senza inciampare. Un clown che ti ha sorriso. Un clown con gli occhi chiari e una lacrima dipinta sul volto. Basta.

 

Ad un tratto, ballando in cerchio, Jerome e Jessica si ritrovano poco distanti da noi, e il suo numero si conclude con lui che stramazza al suolo dopo essere sbattuto con la testa sul bordo dell’arena.

E’ bravo: non l’ha neppure sfiorato, il bordo, ma i suoi movimenti hanno suggerito il contrario.

 

Il presentatore esprime il suo dispiacere, ed il pubblico applaude per la sua performance.

Entra un altro ragazzo, più alto e più robusto, e lo raccoglie da terra, caricandolo sulle spalle. Jessica torna a sedere fra me ed Angela, e io noto il cappello da Charlot di Jerome poco distante dai miei piedi. Forse gli è caduto quando è stato sollevato da terra.

 

Non so cosa mi spinge ad alzarmi, ma lo faccio. Afferro il cappello e lo sventolo verso il ragazzo robusto che sta uscendo di scena.

“Il tuo cappello!” grido, e la mia voce esce fuori all’improvviso. Sembra che nessuno se ne sia reso conto, poiché tutti continuano a battere le mani.

Il ragazzo che trasporta Jerome si gira, e viene verso di me. Il cuore mi batte, e non so cosa fare.

Arriva a pochi passi da dove mi trovo, e si libera del peso sulla spalla. Jerome finge di non reggersi in piedi, ma riesco a vedere i suoi occhi semi aperti.

“Tieni…” biascico, appoggiando il cappello sulla parrucca. Ho le guance in fiamme. “Sei stato bravo,” aggiungo in un soffio.

 

“Grazie,” dice il ragazzo più alto con un ghigno simpatico, ed entrambi spariscono in fretta lasciando che lo spettacolo continui.

 

Non ho sentito la sua voce, penso. Torno a sedere accanto a Jessica, e fino alla fine dello spettacolo mi ripeto la stessa cosa.

 

***

 

Un’ora dopo, io Angela e Jessica ci alziamo dai nostri posti e ci dirigiamo verso l’uscita. La serata è stata piacevole, anche se dentro sento come se qualcosa fosse andata per il verso storto. Ripenso al cappello da Charlot, e agli occhi chiari di Jerome, e non riesco a spiegarmi il motivo di tanta ossessione.

Già… ossessione.

 

Saluto le mie compagne di classe e mi avvio al pick up, immerso nel parcheggio assieme ad altre decine di auto. Mi toccherà aspettare prima di mettere in moto.

Mi guardo attorno, e noto che il chiosco di bevande e snack è ancora aperto.

Perché no, penso, e lo raggiungo a piedi.

 

“Te l’ho detto, la zona è perfetta per scalare. Dovremmo provarci,” dice il tizio del chiosco ad un ragazzo che gli sta accanto. Consegna un pacco di patatine ad un bambino e si rivolge a me. “Cosa posso darti?”

“Popcorn, grazie,” dico, aprendo la borsa per pagare.

“Allora, Edward? Che ne dici? Andiamo a scalare?”

Alzo la testa per passargli il denaro, e lui mi porge il sacchetto bianco. Accanto a lui, l’altro ragazzo osserva me.

In maniera quasi imbarazzante.

Ha i capelli arruffati, rossi, e le lentiggini. Mi ricorda qualcuno, ma non so chi.

Riporto gli occhi sui popcorn, che prendo e pago.

 

Sto per girarmi e tornare al pick up, quando mi sento chiamare. “Scusa…” Oltre alla voce, sento una mano posarsi sul braccio. “Tu sei la ragazza che mi ha restituito la bombetta.”

“Sì… oh… tu sei…” Non riesco a continuare, perché mi si chiude lo stomaco.

E’ lui. Jerome. O Edward, come l’ha chiamato il tizio dei popcorn.

“Volevo ringraziarti di persona… sai, in scena non possiamo parlare,” dice, con le mani nei jeans.

 

E’ così… diverso. Nei panni di Edward sembra… normale, umano.

“Oh, uh… figurati, non c’è di che.” Decido che è meglio sparire, prima di fare una brutta figura, e gli volto le spalle senza aggiungere nulla.

“Ehi, aspetta!” Mi raggiunge e mi si para davanti. “Non so… io… ti è piaciuto lo spettacolo?”

“Sì,” cedo. “Il vostro circo è uno dei migliori,” dico, abbassando gli occhi per non mostrargli le guance rosse.

“Grazie.” Non dice altro, ma so che è ancora davanti a me. Resta in silenzio per qualche istante. Non so cosa fare.

 

Mi sento in imbarazzo, ma allo stesso tempo sento una strana scintilla dentro; una scintilla che mi costringe ad alzare di nuovo gli occhi.

Lui, Edward, sorride. Sorrido anch’io, e stringo fra le mani il sacchetto di popcorn. Stringo fino a che non cade a terra.

“Accidenti…” dico, maledicendomi per avergli mostrato tutta la mia inadeguatezza.

“Non preoccuparti,” ribatte pronto lui. “Possiamo andare a prenderne altri.”

“No… meglio di no,” rispondo, e i suoi occhi verdi si spengono. “Sarà meglio che vada,” sussurro, con gli occhi pieni di lacrime.

 

Abbasso la testa e giro i tacchi, sentendomi non solo stupida ed inadeguata, ma anche ridicola.

Chi è il pagliaccio, adesso? Eh?

 

Ma lui è più veloce di me (di nuovo) e mi raggiunge. “Aspetta… non so neppure il tuo nome.”

“Bella,” rispondo subito, mostrandogli che in realtà mi interessa parlare con lui.

“Sei di Forks, Bella?”

“Sì… tu?” chiedo, sentendomi un’idiota. Sono circensi, girano il paese. Non può essere di qui.

“Io sono di Chicago, ma devo ammettere che questo è un bel posto,” dice, guardandosi attorno.

Poi mi sorride, ed il suo sorriso ha il potere di rendermi tranquilla, meno agitata. Forse è l’effetto di Jerome, o forse sto impazzendo sul serio. “Resteremo fino a domani,” aggiunge.

“Oh… capisco. Beh, io devo andare… è tardi e…”

“Uh… certo. Mi concedi di scortarti alla tua auto? Il parcheggio è un po’ buio,” dichiara, mettendosi al mio fianco per camminare fino al pick up.

Riesco solo ad annuire, colpita ed affascinata dal suo fare cortese.

 

Jerome sarà sfortunato nelle faccende amorose, ma Edward avrà di certo successo.

 

Non riesco a sostenere il suo sguardo, per cui cammino guardando a terra.

“Non inciamperò, Bella… puoi evitare di tenermi d’occhio i piedi. Jerome è a riposo.”

Scoppio a ridere come una bambina, e alzo gli occhi a trovare i suoi. Ride anche lui.

“Sei simpatico…” dico, senza preoccuparmi di ritrovarmi con la faccia spiaccicata sull’asfalto.

Edward scrolla le spalle. “E’ il secondo complimento che mi fai… ora simpatico, qualche ora fa bravo… sono lusingato.” C’è una luce speciale nei suoi occhi, una luce che mi rapisce, e mi fa barcollare.

“Ehi… tutto ok?” chiede, appoggiando una mano sulla mia schiena per non farmi cadere all’indietro. “Sei pallida…”

“Lo sono?” chiedo con voce insicura, notando come la sua mano su di me non fa che velocizzare il battito del mio cuore.

“Sì… sei passata dal rosso fuoco al bianco latte,” scherza.

“Ero rossa?”

“Beh… non proprio rossa. Le tue guance erano rosa,” dice, lasciando la schiena una volta resosi conto che posso reggermi in piedi. “Erano carine,” aggiunge a bassa voce, ed ora è lui a guardare a terra.

Dovrei dire qualcosa, giusto?

“Grazie…” è tutto ciò che riesco a partorire.

 

Riprendiamo a camminare, e dietro di noi le luci del circo iniziano lentamente a spegnersi.

“Rimarrete ancora per molto?”

“Domani è l’ultimo giorno,” risponde lui.

Sbaglio, o nella sua voce c’è un po’ di tristezza?

 

Ci avviciniamo al pick up, e inizio a pensare alla velocità della luce. Vorrei dire qualcos’altro, chiedergli se pensa davvero che le mie guance rosa fossero carine o se l’ha detto per gentilezza. Ma resto in silenzio, e lui fa altrettanto.

 

Sono pazza, è sicuro. C’è una forza che mi attira verso questo sconosciuto, e una che mi attira verso casa.

“Eccomi, sono arrivata,” dico poi, davanti alla portiera del pick up rosso. “Grazie per avermi accompagnata.”

“E’ stato un piacere, Bella.”

Appoggiamo la mano sulla maniglia nello stesso istante, e le nostre dita si sfiorano.

Ancora una volta, mi sento barcollare, ma riesco a non dare spettacolo della mia idiozia. Lascio la maniglia prima che lo faccia lui, permettendogli di aprirmi lo sportello.

“Grazie,” dico, salendo a bordo.

Lui mi sorride con candore, e mi sento avvampare.

Chiudo la portiera ed abbasso il finestrino, lasciando che una folata di vento entri a rinfrescarmi il viso, probabilmente di nuovo in fiamme.

Mi giro verso Edward, e lui continua a sorridermi. Svolazzano anche i suoi di capelli, e la luce di un lampione ne mette in evidenza il colore rosso.

In lontananza, il chiosco dei popcorn.

 

Come un flash, rivedo una scena già vissuta.

Ho otto anni, e sono al circo con Charlie. Alla fine dello spettacolo, lo supplico di comprarmi i popcorn e lui accetta, a patto di tornare velocemente a casa.

Io inizio a ribellarmi, e scoppio a piangere, perché non voglio lasciare l’atmosfera allegra del circo.

Un ragazzo con i capelli rossi si avvicina e indossa un naso di plastica, rosso anch’esso; mi fa sorridere. Rido fin quasi a sentirmi male. E tutto passa.

 

Il flash sparisce, e torno alla realtà.

 

“Bella… Bella, stai bene? Sei nuovamente pallida…”

Osservo le sue labbra muoversi, la forma appuntita del naso. Gli zigomi alti, i capelli.

Quei capelli.

 

Eri tu, dieci anni fa, Edward? Eri tu quel clown improvvisato?

 

“Bella?”

“Uh… sì… sì, sto bene. Ora… ora devo andare,” dico, col cuore in gola.

Vorrei dirgli altro… vorrei.

Lui mi guarda con una luce strana negli occhi, e non riesco a decidere se sono io ad immaginarla o se è davvero lì.

“Oh… sì, certo.” Si allontana dal pick up ma resta nelle vicinanze, e con le mani che mi tremano cerco le chiavi nella borsa.

 

Cosa è successo questa sera? Perché queste strane sensazioni?

Perché io? Perché lui?

 

Metto in moto fissando un punto rovinato dello sterzo per evitare di guardare lui; il motore parte con il solito fracasso. Inserisco la retromarcia per uscire dal parcheggio, e mi giro indietro.

Metto la prima, e quando volto la testa salto sul sedile, terrorizzata. Edward è accanto al finestrino, ancora aperto.

E’ piegato sulle ginocchia, e il viso è all’altezza del mio.

 

“Mandami al diavolo, se credi, ma ho bisogno di chiedertelo. Da quando mi hai restituito la bombetta, sotto al tendone… non so cos’è successo, non ne ho idea. Io… ho sentito questa cosa dentro, e ho il tuo profumo… il tuo profumo, Bella… e poi l’ho risentito poco fa, al chiosco… e non potevo… non volevo lasciarti andare… è stato come… una calamita. So che non puoi capire, ma… so che ti sembrerò pazzo, ma devo chiedertelo: verrai ancora domani sera? Qui, al circo? Verrai di nuovo?”

 

Vorrei gridare, piangere, premere sull’acceleratore e tornare a casa, svenire per la troppa emozione.

Invece.

 

“Sì, Edward. Verrò.”

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Fine.

 

Grazie a tutti per essere arrivati fin qui.

Grazie a chi commenterà, e grazie anche a chi non lo farà.

 

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