Untill Death Do Us Part

di Yoko Hogawa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Antefatto ***
Capitolo 2: *** Saturday ***
Capitolo 3: *** Sunday ***
Capitolo 4: *** Monday ***
Capitolo 5: *** Tuesday ***
Capitolo 6: *** Wednesday ***
Capitolo 7: *** Thursday - parte 1 ***
Capitolo 8: *** Thursday - parte 2 ***
Capitolo 9: *** Friday ***
Capitolo 10: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Antefatto ***


Questo lavoro è la prima originale che pubblico

Questo lavoro è la prima originale che pubblico.

Non so quanto potrà essere venuto bene, o quanto il cambiamento di stile e genere ne abbia risentito… ma spero comunque che sarà apprezzata, magari come lettura semplice e senza obblighi.

Anche perché è una storia che ho creato per un’occasione particolare.

Sì, questa short story ha una dedica.

E’ dedicata tutta, integralmente, ad una persona molto importante. Ha fatto sì che io diventassi quella che sono oggi; una persona libera al di là del carattere intrattabile e delle abitudini dure a morire.

Una persona che sa scegliere con chi stare invece di amalgamarsi alla massa.

E di questo, di avermi dato la “libertà”, io non smetterò mai di ringraziarla.

 

Dedicato a Shichan;

perché non c’è mai due senza tre.

Don’t Forget.

 

 

 

Antefatto

 

Abrahel

The day I became Joshua Archer

 

 

Lei non era nulla di speciale.

I capelli biondi non avevano riflessi dorati, gli occhi non possedevano una particolare sfumatura di blu, la pelle non era né più chiara né più scura di tante altre.

Era semplicemente una ragazza.

Bella sì, delicata quanto un giglio lasciato in balia della tempesta; ma pur sempre essere umano.

E questo anche Enma lo sapeva.

Nonostante tutto gliela aveva assegnata. Proprio a lui, che delle politiche di buona condotta per l’accompagnamento nell’aldilà se ne infischiava altamente.

Cercava di ammorbidirlo? Quello della ragazza era un caso anormale, fuori dall’ordinario?

Non sembrava.

Eppure doveva esserci un motivo, se uno dei maggiori esponenti dell’aldilà si era deciso a scomodarlo dalla sua eterna nullafacenza. Sapendo com’era fatto lui, tra l’altro.

« Chi sei? » chiese lei, mettendosi a sedere fra le lenzuola bianche bagnate di luna.

Classica domanda. Non era speciale nemmeno in questo.

Cosa cavolo ci faceva lì, allora?

« Uno Shinigami » fu la risposta breve.

Non rispose, inizialmente. Lo guardò solamente, con gli occhi azzurri fin troppo puri puntati sui suoi, nascosti nell’ombra dell’angolo più buio della stanza.

Non poteva vederlo, ne era sicuro. Non più della sua sagoma scura.

« Sei… venuto a prendermi? » chiese poi, acuta.

«» altra risposta breve.

Un leggero sorriso, le labbra curvate verso l’alto, lievemente.

« Ti aspettavo, lo avevo visto » disse.

Ah, eccolo il motivo.

« Sei una veggente? »

Annuì. « Vedo il futuro nei sogni. Ti ho visto arrivare… e so già che non mi darai una settimana di tempo, come fanno tutti gli altri » preannunciò.

« Notevole » fu la semplice risposta, neanche troppo sentita.

Cosa ci trovava Enma di pericoloso in una ragazzina simile? Cosa aveva paura che facesse, con quel potere particolare che si ritrovava?

Glielo aveva detto più volte di non interpellarlo se non si trattava di esseri umani rischiosi, che necessitavano di un trapasso veloce a causa della loro pericolosità.

Quella ragazza era pericolosa quanto lo stelo di una margherita.

« Potresti farlo… subito? » chiese lei, indecisa nonostante la richiesta fosse frutto di una forse morale forte.

Non ribatté. Semplicemente si distaccò dal muro, uscendo dall’ombra.

Si avvicinò a lei, lievemente e con solo un inudibile fruscio a determinare la sua reale presenza in quella camera, a provare che non era solo una delle ombre di un incubo fanciullesco.

Si chinò su di lei, immobile, posando le labbra sottili e rosa pallido su quelle di lei.

Condannando la sua anima alla luce eterna, o alle tenebre perenni. Non stava a lui deciderlo.

Nel momento in cui si distaccò, il suo corpo ormai esanime ricadde scomposto sul materasso.

Quella, era stata l’ultima volta in cui era uscito dall’aldilà.

Francia, anno domini 1785.

 

Le regole ufficiali degli Shinigami sono poche, ma fondamentali.

Primo: gli Shinigami si mostrano solo a coloro il cui tempo sta giungendo al termine. Ogni uomo nasce con un tempo predefinito da poter utilizzare in vita, oltre il quale è necessario che l’anima ritorni al cospetto dei signori dell’aldilà.

Gli Shinigami accompagnano queste persone nei loro ultimi giorni, come figure gentili ma inevitabilmente fatali.

Secondo: viene dato un tetto massimo di sette giorni in cui il dio della morte starà al fianco dell’essere umano, per quanto gli è possibile. Sono loro a dover rubare la scintilla, l’ultimo fiato vitale, così che l’anima sia condotta sana e salva nel mondo dei morti.

Il bacio della Morte, così viene chiamato.

Terzo: il dio della morte non dovrà mai essere coinvolto sentimentalmente. Sono essenze antiche, quasi arcaiche, e vengono selezionati appositamente per questo motivo; per loro i sentimenti sono qualcosa di così vecchio da essersi perso nei meandri nel tempo, e non ricordano cosa sia l’amore, o l’affetto.

Tuttavia sono pervasi da una gentilezza infinita, atta a cercare di far accettare l’idea della morte all’essere umano che dovrà affrontarla.

O almeno, lo erano tutti… tranne uno.

Abrahel.

Lui aveva una sorta di intolleranza verso gli esseri umani, sviluppatasi in tempi così antichi da essere ormai parte di memorie consunte. Eppure ancora reali, vivide, per lui.

Un episodio. Un esperimento da parte sua, conclusosi però in tragedia.

Un uomo, corrotto dalla bellezza, si innamora della Morte. Un uomo che, corroso da tale infatuazione, decide di creare ad essa un altare, per amarla completamente con corpo, mente e spirito.

La Morte sperimenta questa dedizione inconcludente in modo malevolo, demoniaco: chiede all’uomo di sacrificargli il figlio, di ucciderlo in suo nome.

Quando l’uomo lo fece, per poi supplicarlo di restituirgli il sangue del suo sangue, lui ebbe la sua prova:

gli esseri umani erano una razza corrotta, inutile e nociva.

In quel momento, mentre restituiva al padre il figlio così superficialmente sacrificato, decise.

Decise che non avrebbe mai più avuto a che fare con gli esseri umani, di qualsiasi cosa si fosse trattata.

Per lo stesso motivo, per lui le regole degli Shinigami non avevano significato. Anzi, le considerava ipocrite.

Gli dei della morte sono esseri astratti e falsi, che tolgono la vita agli umani solo perché un’entità altrettanto astratta chiamata Fato ha deciso che la loro ora è giunta.

Rubano loro quel tempo a cui disperatamente si aggrappano, e poco conta che debbano seguire un santo o un assassino seriale. Tutti, ognuno di loro, di fronte alla prospettiva della morte piagnucolano, e piangono, e pregano di non far giungere il giudizio finale.

All’ultimo, anche se nella loro esistenza si sono dimostrati retti e coraggiosi, la paura li rivela per quello che sono: codardi.

Per tale motivo Abrahel non era uno Shinigami come gli altri.

E come gli altri non veniva nemmeno considerato.

Lui non dava possibilità, né prolungamenti di tempo. Non c’erano i sette giorni nel suo iter comportamentale e non dispensava gentilezza o dolcezza.

Quando veniva chiamato, e fortunatamente non succedeva così tanto spesso, era solamente per compiti che richiedevano una soluzione veloce.

Assassini, persone con poteri speciali, psicopatici. Portava lui la morte a quelli di loro che non se la davano da soli,  o che non finivano sotto al fuoco incrociato della polizia per una rapina o un tentato omicidio.

Sempre quelli da inferno, in poche parole.

Tranne quella ragazzina. L’unica volta in cui aveva visto un’anima finire in paradiso.

L’ultima anima che aveva visto.

« Abrahel? »

Voltò il capo, aprendo gli occhi chiari sotto i sottili ciuffi corvini.

Chi aveva il coraggio di venirlo a cercare, in quell’universo di tenebra e profondo silenzio?

« Zerachiel » salutò monotono, una volta riconosciutolo: « cosa ti serve? »

« Enma. Ti vuole per un incarico » disse quello.

Abrahel lo guardò con cipiglio confuso.

Da quanto era che non veniva convocato per un’assegnazione? Da quanto tempo, da quanti… anni?

Nel rimanere a fluttuare nell’oscurità di quel mare buio si perdeva il senso del trascorrere del tempo.

Zerachiel sorrise appena, gli occhi ridenti di benevolenza. « Una buona occasione per vedere un po’ di luce, non credi? » azzardò.

Abrahel sospirò rassegnato, cominciando a muovere le mani per cercare nella sua incoscienza una qualche percezione del suo corpo, ormai perduta nell’immobilità a cui si era completamente abbandonato.

Le dita di piedi e mani formicolavano, ma c’erano. Ora anche le braccia, le gambe, i muscoli del collo, tesi… poteva sentirli. I capelli gli solleticavano le gote, la veste di seta scarlatta accarezzava leggiadra la sua pelle.

Trovare le sensazioni del suo corpo era come ritrovare se stesso un’altra volta.

Sperava l’ultima.

« In che anno siamo? » chiese allora, guardando Zerachiel con una maschera di apatia.

Doveva essere un incarico di routine. Probabilmente Enma voleva mandarlo sul Mediano solo perché stava scadendo il tempo, e lui doveva portare un’anima nell’aldilà per prolungare la sua presenza in quel mondo di nulla.

Gli Shinigami non muoiono, no, non possono. La Morte non può morire.

Però possono scomparire.

Quando non entrano in contatto per troppo tempo con l’anima di un essere umano, quando non si nutrono della loro ultima scintilla vitale… semplicemente spariscono, si dissolvono.

L’oblio della sparizione era l’unica cosa rimasta capace di spingere Abrahel a mantenere una coscienza. Altrimenti avrebbe volentieri cancellato anche quella.

Zerachiel non si scompose, aspettando con pazienza che l’essere ritrovasse la mobilità persa. Rispose alla sua domanda, cortesemente: « duemilanove dopo Cristo ».

« Duecento anni… » sussurrò Abrahel, riguadagnando la posizione eretta nonostante fluttuasse ancora.

Era da duecento anni che non vedeva nessuna luce.

« Un po’ di più » ribatté l’altro, sempre sorridente.

Per la prima volta dopo più di due secoli, l’espressione dello shinigami mutò; lineamenti di un’ira seccata comparvero a curvargli le labbra sottili verso il basso, così come le iridi spente brillarono di qualcosa simile al risentimento. « Non trattarmi come una delle anime che scarrozziamo avanti e indietro Zerachiel, non c’è bisogno di quella ostentata gentilezza con me » sputò rabbioso.

« Perché pensi sempre che le persone non possano essere veramente gentili con te, Abrahel? Solo una volta ogni tanto? » ribatté l’altro.

Un lampo, un ghigno su quegli occhi color neve.

« Perché sono la morte, Zerachiel » rispose solamente, prima di passargli accanto per dirigersi fuori dal mare oscuro.

L’angelo sospirò con rassegnazione.

Shinigami… non imparavano mai.

 

I palazzo di Enma non era diverso da quello degli altri sovrani dell’aldilà.

Enorme, maestoso e inopportunamente facoltoso. All’interno, un’enorme stanza circolare piena di porte faceva da luogo di transizione per anime sole e fluttuanti, sfere di luce che attendevano il giudizio per essere indirizzate nel posto in cui avrebbero dovuto passare l’eternità.

Si poteva riconoscere il tipo di anima dal colore della luce che emanava. In definitiva, erano molte sfumature di grigio.

Poche erano le anime nere, quelle così malvagie da aver perso completamente la loro luce.

E, nonostante in passato ne vedesse alcune, quelle completamente bianche erano ormai scomparse. Nessun lucore puro brillava in quella stanza ormai, probabilmente a causa dei tempi che cambiavano, e la possibilità di non vedere bontà nel mondo gli lasciava uno strano senso di nostalgia.

A lui non interessava se la bontà spariva, nel mondo degli esseri umani.

Semplicemente, era dispiaciuto dal fatto che i suoi pensieri sulla razza umana fossero così veritieri, confermati dall’assenza progressiva di quelle luci pure.

Gli esseri umani erano inutili.

Quando mise piede all’interno della grande sala, fasciato dalla formale divisa nera e scarlatta che si era deciso di rifilare agli Shinigami, i beati addetti all’ enumerazione delle anime si ammutolirono.

Non era frequente vedere Abrahel camminare in quella sala… anzi, in quel mondo.

Solitamente si rinchiudeva nelle regioni oscure dell’aldilà, dove non vi era altro che buio e silenzio, e la sua presenza in quel luogo poteva significare solamente che c’era un’anima malvagia in arrivo.

Abrahel, il “Cacciatore delle Luci Nere”.

Enma lo scomodava solo per prelevare anime nere o grigie scure. Per questo nessuna buona sensazione scorreva nello spirito di quello Shinigami, che si cibava solo di scintille oscure, prive di luce.

Prive di sentimenti positivi.

Le iridi albine vagarono per la sala, fulminando gli addetti alla selezione con insensibilità. Quegli occhi, di quel colore bianco che a lui poco si addiceva, avevano il potere di gelare chiunque li guardasse troppo a lungo, e dunque portavano gli altri a distogliere lo sguardo.

Che lui, puntualmente, distoglieva a sua volta.

Anche in quel momento.

Proseguì per il suo cammino, velocemente ma non così tanto da sembrare di fretta. Voleva togliersi di dosso quegli sguardi e tornare ad affogare se stesso nell’universo buio che si era scelto come casa, nel silenzio del nulla.

Appena notato il suo obiettivo, i suoi occhi non videro nient’altro.

« Pietro » chiamò, la voce modulata e vuota.

L’anziano santo, avvolto nella sua tunica bianca ed oro, voltò lo sguardo limpido in sua direzione. « Oh, Abrahel! » disse con gentilezza: « strano vederti qui, davvero. Abbiamo in arrivo un’altra anima oscura? » chiese, sorridendo dolcemente nonostante il ragazzo davanti a lui non avesse la minima intenzione di rispondere a quel gesto.

« Non lo so » rispose l’altro: « sto per l’appunto cercando Enma ».

Davanti alla sua apaticità, Pietro non fece una piega. Era abituato a non vedere emozione alcuna su quel viso delicato e fin troppo bello, in quegli occhi chiari e trasparenti come il ghiaccio.

« Ti consiglio di controllare l’esterno, solitamente si reca» gli consigliò.

Abrahel annuì appena prima di andarsene, salutando Pietro con un breve cenno del capo e una parola sussurrata velocemente.

Non c’era mai bisogno di prodigarsi in ringraziamenti prolissi con il santo del giudizio, e anche se ce ne fosse stato bisogno lui sarebbe stato l’ultimo a farlo.

Ignorando gli sfuggevoli sguardi che il suo passaggio attirava inevitabilmente su di lui, il dio della morte proseguì in direzione di una porta laterale alla stanza, semi nascosta fra una colonna e un arazzo con ritratta chissà quale figura celeste. Attraversò un corto corridoio in penombra e, assottigliando gli occhi all’improvvisa luce esterna, si ritrovò nel giardino di rose dietro il palazzo.

L’angolo di pace di Enma.

Ed infatti il capo degli shinigami spiccava elegante in mezzo ai fiori multicolore, rigogliosi.

Sembrava un uomo, ma non lo era. Era semplicemente un’esistenza dalla forma antropomorfa creata per controllare coloro che amministravano la morte. Poteva scegliere da solo che forma assumere, e non era infrequente che modificasse i suoi lineamenti con artigli e becco da rapace. I capelli corvini e lunghi sforavano tutta la schiena fino alla zona lombare, delicatamente adagiati sulla seta nera di un abito a strascico dagli intarsi d’oro.

Lui non aveva bisogno di voltarsi, per “vedere”. Percepiva la presenza di chiunque, Shinigami, angelo o santo che fosse.

Di fatti, non lo osservò per sincerarsi della sua presenza, quando prese a parlare.

« Grazie per essere venuto così in fretta, Abrahel » disse, la voce colma di quella gentilezza che tutti a avevano nei confronti di tutti; ma che sulle sue labbra risuonava di un tono diverso, regale.

« Mi piacerebbe sapere quale pericoloso criminale è a piede libero sul Mediano da necessitare il mio intervento » arrivò diritto al punto, quasi frettoloso di andarsene. Non apprezzava particolarmente stare al cospetto di Enma… di nessuno che avesse il potere di obbligarlo a fare quello che non voleva.

Non lo vide in volto, ma poté percepire la risatina sincera che vibrò nell’aria.

Anche questo suo comportamento perennemente sconclusionato lo irritava.

« Nessuno, a dire il vero. O almeno, nessuno che debba morire entro breve » rispose l’essere, sfiorando con le dita affusolate e pallide un bocciolo rosso sangue.

Lui arricciò il naso, seccato.

« E allora per cosa ti servo, di grazia? » chiese sgarbato, dandogli del tu.

Enma ridacchiò ancora, divertito da quel comportamento scostante. Era sinceramente ilare vedere quanto lo Shinigami cercasse di mascherare quel disgusto di fondo che provava per qualunque cosa, che parlasse o semplicemente esistesse; come le rose.

Era quasi convinto che non gli sarebbero piaciute nemmeno quelle.

« Per un incarico, ovviamente » gli rispose di nuovo Enma, togliendo qualche foglia gialla dai cespugli profumati e punteggiati di fiori rossi.

Abrahel non ribatté nulla, attendendo probabilmente che l’altro continuasse da sé. Era inutile chiedere, se Enma aveva deciso di giocare con lui per una sorta di diletto personale.

Quando il silenzio si fece pressante, fu infatti l’altro a continuare il discorso.

« Non è un criminale, né un’anima oscura. Anzi, ritengo che sarà un’anima candida, questa volta » precisò.

Se avesse avuto un cuore, probabilmente avrebbe perso un battito.

« Mi rifiuto » disse subito.

« No, non puoi » gongolò Enma.

« E perché? »

« Perché non te lo permetto » disse ancora, quasi in estasi: « non solo perché devi nutrirti dato che rischi di scomparire entro qualche anno, ma anche perché un’anima bianca di cui nutrirti ti serve. Guarda in faccia la realtà, non puoi vivere rubando spiriti oscuri una volta ogni duecento anni » aggiunse.

Abrahel arricciò il naso, disturbato da quel discorso quanto come lo sarebbe stato da una mosca ostinata.

Enma, dall’alto della sua ostentata leggerezza, continuò: « hai avuto a che fare con un’anima pura in passato, no? Non dovrebbe essere una cosa totalmente nuova per te ».

Lo Shinigami assottigliò gli occhi, serrando le labbra.

Ricordava fin troppo bene la sua prima e ultima, nonché unica, anima bianca. Una ragazzina malata di leucemia nel sedicesimo secolo, con capelli biondi e occhi azzurri, e con la particolare capacità di vedere il futuro nei sogni.

L’unica che non abbia avuto paura o che non si fosse sottratta al bacio con cui l’aveva privata dell’ultima briciola di forza vitale che la teneva in vita.

Erano passati più di due secoli eppure, ogni tanto nel suo interminabile sonno privo di coscienza, ancora ci pensava.

Al perché non fosse scappata, al perché non lo avesse rifiutato come tutti gli altri.

« Non voglio più avere niente a che fare con esseri umani dall’anima pura » disse, voce lineare, deciso a non accettare un incarico simile nemmeno sotto tortura.

Non sopportava gli esseri umani di principio; la loro razza, la loro abitudine al masochismo, il loro materialismo e l’attitudine che avevano nel rovinare qualsiasi cosa su cui mettessero le mani.

E aveva a che fare con criminali, per lo più. Figuriamoci se si fosse messo a prendere anime candide.

Se li figurava tutti con gli occhi blu di quella ragazza…

Enma rise al suo tentativo di cavarsene fuori, di cuore.

« Tu farai quello che ti dico, invece » ridacchiò: « e lo farai bene, questa volta. Non in due minuti come sei abituato a fare di solito. Voglio che applichi le regole standard degli Shinigami, che passi con la persona che ti indicherò il tempo necessario per farle affrontare l’idea della morte nel modo più sereno possibile. Non tollererò altre anime spaventate e in preda al panico davanti a Pietro, come non ti concederò persone che hanno visto la tua venuta in sogno e che possono quindi evitarti l’impiccio » spiegò, con una leggiadria quasi fuori luogo per un discorso simile.

Tagliò un bocciolo, lasciandolo cadere a terra. Quello si adagiò sull’erba senza rumore e, in un certo senso, anche quell’azione tanto abituale nella cura delle rose parve un avviso rivolto a lui.

Abrahel non rispose, ribattendo con il silenzio per non esprimere la costrizione con cui si ritrovava a dover provvedere ad un incarico simile.

Perché era ovvio che fosse obbligato.

« Chi è? » chiese dunque, rassegnato all’idea di dover passare sette interminabili giorni fingendosi umano fra gli umani.

Se avesse potuto vederne il volto, era sicuro che sulle labbra di Enma ci fosse stampato un sorriso da vincitore.

Vincitore in ogni caso, tra l’altro. Chi ha potere decisionale vince sempre.

Era in questo che l’essere era simile agli esseri umani.

« Sono felice che tu ti sia convinto » osservò con voce calma, la falsità dell’obbligo che gli aveva messo sulle spalle nascosta da quei toni quasi infantili. « I documenti per il tuo incarico ti verranno consegnati in poco tempo, non appena saranno completati. Quando li avrai, ti consiglierei di crearti un’identità che combaci con la maggior parte degli impegni che il tuo obiettivo ha nella giornata ».

« So fare il mio lavoro » lo interruppe lui, seccato da quei consigli superflui che Enma sembrava tanto in vena di dispensare.

« Oh, ne sono convinto… » rispose malizioso l’altro. « Bene, puoi andare » aggiunse poi.

Abrahel, senza nemmeno salutare, girò i tacchi e si allontanò a passo svelto, quasi violento, puntando i piedi con rabbia contro l’erba verde chiaro del giardino.

Enma, rimasto accanto alle rose di cui si prendeva cura ma che non poteva amare, si voltò appena per guardare la sua schiena scomparire oltre la porta da cui era venuto.

Alzò l’angolo della bocca e ghignò, compiaciuto di se stesso.

Chissà… forse avrebbe imparato qualcosa, questa volta.

Sospirò, sorridendo. « Tu sei sicura che fosse lui quello della tua visione, Selene? » chiese, apparentemente al nulla.

«» rispose però la voce cristallina di qualcuno; di una ragazza dai capelli in lunghi boccoli biondi e dagli occhi blu indaco, fasciata in un vestito bianco dal taglio tardo-settecentesco.

Raccoglieva le rose con un paio di forbici in argento cesellato, posandole al suo fianco in un mazzo che pian piano si ingigantiva. Una nuvola rosso sangue che sfigurava quasi, accanto alla bellezza pura e all’innocenza di quell’anima.

Il ghigno del re si trasformò in un sorriso compiaciuto. Osservando ancora il punto in cui lo Shinigami era sparito, gli occhi carmini di Enma brillarono di una scintilla divertita.

« Buona fortuna, Joshua ».

 

 

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Qualche precisione:

Abrahel è il nome di un demone mitologicamente esistente. All’interno del capitolo è nascosta anche la storia che lo riguarda, facilmente rintracciabile su Wikipedia. Teoricamente con gli Shinigami centra poco e niente; il più adatto sarebbe stato Azazel, che fungeva da “Caronte” per le anime dei morti… ma Azazel era stato usato in talmente tante altre opere (per esempio il film “Dogma”) che mi sembrava ripetitivo utilizzare lui.

Passatemelo come libertà artistica ^^’’’

Selene è il nome di una beata (Selene Alleine) primogenita di una nobile famiglia di Reiterstarker, fondatrice e badessa dell’abazia di Sant’Anderswo. Non è detto che sia stata beata nel settecento, come ho messo nel capitolo, ma per bieca convenienza la userò con questa tempistica. Mi piaceva il nome, dato che era la parola greca che designava la Luna.

Enma è il nome giapponese per il dio buddista dell’oltretomba. E’ usato anche in manga come “Yami no Matsuei” (in italiano “La Stirpe delle Tenebre”) dove ha lo stesso ruolo di questa fanfic.

Zrachiel è un angelo mitologicamente esistente. Non pensate che gli Shinigami siano demoni; semplicemente loro sono neutrali fra bene e male, perché aiutano la Morte, che è neutrale a sua volta.

 

Ok, il prologo è andato. Ed è noioso, lo so, ma utile.

I capitoli dovrebbero essere sette in tutto, e cercherò di frenare il mio impulso ad allungare sempre tutto, altrimenti non finisco più.

Per chi ha letto fin qui, grazie XD

Alla prossima!

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Capitolo 2
*** Saturday ***


Shichan: sono felice che ti piaccia *sisi* anche perché l’ho dedicata a te, ci mancherebbe solo che sia venuto uno schifo

Shichan: sono felice che ti piaccia *sisi* anche perché l’ho dedicata a te, ci mancherebbe solo che sia venuto uno schifo.

Ami Abrahel perché è comparso solo lui prima d’ora XD mi sa che amerai anche Eric, conoscendoti, da questo capitolo in poi.

Grazie mille per le considerazioni stilistiche, sono felice che non sia scialbo. E che Abrahel sia figo, per l’amor del cielo, non è un fatto da nulla U___ù.

 

lucy6: in una copia di quello che ho detto sopra, grazie anche a te per i complimenti stilistici; e sono altresì contenta che la premessa ti piaccia, davvero. Grazie mille per la recensione <3

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Saturday

 

Eric

The day I met Joshua Archer

 

 

Trovava che non ci fosse nulla di così entusiasmante in posti come quello.

La musica alta era fastidiosa, il caldo soffocante, l’odore di alcool e sudore quasi stomachevole.

Se si voleva parlare bisognava urlare, sovrastare in qualche modo quel costante rimbombo di bassi che facevano tremare la cassa toracica.

E, in ogni caso, era probabile che la persona con cui si voleva discorrere non fosse esattamente in sé per capire cosa si veniva detto.

Situazione in cui si trovava quasi ogni fine settimana.

Ogni santo venerdì sera in cui si faceva convincere dai suoi due amici schizzati ad andare al Rock Theater, discoteca di musica rock/dark/commerciale abbastanza famosa a pochi chilometri dalla costa.

E “abbastanza famosa” significava letteralmente “fin troppo affollata”; cosa non male se ci si vuole strusciare in mezzo a corpi sudaticci che si muovono a ritmo sincopato su una pista da ballo, oppure se si vuole bere fino a quando il fegato non si trasforma in una spugna imbevuta di etanolo… un po’ meno bella cosa, invece, se di rimanere quattro ore in mezzo al fracasso (perché ad un volume così alto era solo bordello, non era musica) non se ne aveva nessuna voglia.

Come lui, che in certi locali ci andava solo se ci veniva trascinato.

Cosa che succedeva perennemente, per l’appunto.

« Ehi Eric, un po’ di vita per Dio! » sbottò Douglas al suo fianco, circondandogli le spalle con il braccio muscoloso: « Cristo, sembri mia nonna » aggiunse.

Il castano si scostò un paio di ciuffi corti da davanti agli occhi, puntando le iridi scure direttamente sul viso squadrato dell’amico. « Non pretenderai che io mi ci diverta anche, in posti come questo » sputò, seccato.

Lo avevano preso proprio nella giornata sbagliata, poveri loro.

« Certo che ti ci diverti, santo Dio! Ci veniamo sempre e non ti ho mai sentito lamentarti » aggiunse l’altro membro del terzetto, Robert, terminando con dovizia di incastrare una buona manciata d’erba dentro una cartina.

« Sì, Cristo, ha ragione Rob » aggiunse Doug: « nemmeno io ti ci ho mai sentito ».

« Cazzo, ma volete lasciare in pace Cristo? » sbottò Eric, togliendosi con un movimento non rude il braccio di Douglas dalle spalle.

Lui si era lamentato, invece. Peccato che la maggior parte delle volte o lo ignoravano, o erano troppo sballati per starlo a sentire e capire veramente quel che dicesse.

La ragazza dietro ad uno dei tanti banconi tornò con le loro ordinazioni, sorridendo di scherno al tentativo malriuscito di Robert di abbordarla.

« Che c’è, che ti ha fatto di male Gesù? » sfotté lo stesso, infilandosi la paglia appena richiusa dietro l’orecchio, in mezzo ai ricci neri.

« A me proprio niente » rispose Eric, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans chiari. « Solo non mi piace molto che si usi come intercalare ogni qualvolta capita l’occasione, tutto qui. Sono sicuro che il vostro repertorio di parole colorite è notevole anche senza scomodare santi e beati » spiegò, fissando lo sguardo sul buttafuori in mezzo alla folla.

Quanto sarà stato alto quel tizio, due metri? E non aveva mandato via da quel posto quei due imbecilli dei suoi amici nemmeno una volta?

« Cazzo Er, che palle che sei » rispose l’amico, ingannando il tempo dell’attesa occupando le mani in un altro patchwork di erba e cartine: « se la tua carta d’identità non dicesse chiaramente che hai vent’anni, come minimo te ne darei quarantacinque » sfotté di nuovo, ridacchiando.

« Beh, qual è il problema? » chiese Eric, evitando per l’ennesima volta il braccio muscoloso di Doug in procinto di circondargli le spalle.

« Sei un maledetto matusa, Eric! » disse il suddetto, rinunciando definitivamente a stritolare l’amico: « tu non sei un adolescente normale! » aggiunse.

« Ohi! Da chi si tirerebbe i confini della Croazia se fossero segnati con la coca non le voglio sentire, queste cagate » ribatté lui sulla difensiva.

Odiava quando si andava a finire su quel discorso. Tutte le volte che i due commentavano le sue abitudini pacate con quell’aria da saccenti gli veniva prurito alle mani dalla voglia di prenderli a sberle.

Cosa che, lo sapeva, non sarebbe comunque servita.

Erano più testardi di muli e dei grandissimi coglioni; se si mettevano in testa una cosa, o si faceva o si faceva, le alternative non venivano nemmeno prese in considerazione.

Soprattutto, si faceva solamente se Eric prendeva in mano le chiavi della macchina e li accompagnava ovunque volessero senza fiatare.

Così che poi toccava a lui farsi trenta chilometri in giro per la città nel disperato tentativo di accompagnare a casa quei due sfigati, convincendo uno di non essere il capitano Kirk sull’Enterprise e cercando di arrivare a casa dell’altro prima che vomitasse nella sua macchina.

Quando, al contempo, cercava di persuadere se stesso che il primo avesse ancora qualche neurone non bruciato dalla droga e che il secondo avrebbe messo la testa a posto per quanto riguardava l’alcool, almeno per rispetto al suo fegato che dire martoriato non rendeva nemmeno l’idea.

Ma non cambiava mai niente, mai. La settimana successiva era un ripetersi sempre della solita scena.

Sipario che veniva alzato anche su di lui, quando Robert gli passava quasi casualmente una canna imbottita d’erba fino ad esplodere o Douglas ordinava puntualmente il suo drink dalla colonna di quelli più alcolici in lista.

Lo trascinavano, legandolo con le catene del vizio ad un gioco a cui non avrebbe nemmeno voluto partecipare.

Ma si sentiva obbligato, costretto; e la sua spinta a continuare per quella strada erano i suoi ragionamenti sconclusionati.

Perché si rendeva conto che Douglas e Robert non erano di certo gli amici ideali per lui, così boriosi e pieni di sé da fare schifo… ma sapeva anche che erano gli unici che lo invitavano fuori la sera, costantemente.

Che, dopo di loro, tutti gli altri volti che componevano il suo mondo non raggiungevano l’appellativo “amici”; rimanevano solo “compagni”.

Compagni di corso, compagni di squadra, compagni di studi. Mai oltre.

Lasciò perdere i discorsi dei due nello stesso istante in cui, preso controvoglia il bicchiere con il drink e bevutone un sorso, sentì almeno quaranta gradi d’alcool scivolargli giù per la gola.

Bruciandola, in quel retrogusto di lime e cedrata, nascosto violentemente dal gin e da quella che sembrava vodka.

E lui doveva guidare, porca miseria.

Ma poco importava. Era sempre importato troppo poco.

Non arrivava mai all’eccesso, alla sbornia violenta, di quelle da non capirci più niente.

Beveva solo fino al sopraggiungere di quella rassicurante foschia ovattata, che si calava piano sul suo cervello fino a rallentarne le funzioni, a mitigarne le disperazioni e disintrecciare i pensieri dalla patina di dolore e solitudine che li avvolgeva.

Dopo averne bevuto più di metà, ed avere ovviamente perso di vista i due che in teoria lo accompagnavano, la poco famigliare tranquillità che lo avvolse lo fece sorridere.

Lui non reggeva bene l’alcool, alcuni dei suoi compagni di squadra glielo dicevano spesso. Era proprio quello il bello.

Sballava con niente.

Leggermente rintronato da quell’iniezione di etanolo si lascò andare su una poltroncina, sporca di cosa non voleva nemmeno saperlo.

Sentiva la canottiera bianca aderire ai muscoli allenati della schiena, umida di sudore dato il caldo soffocante dell’ambiente. Peggio dell’afa estiva; l’aria sembrava condensata, quasi solida.

Boccheggiò, strizzando gli occhi. Poi, a corto di cose da fare quando non aveva pensieri con cui disfarsi i neuroni e l’umore, decise istintivamente di guardarsi intorno.

Non vedeva altro che corpi. Ballavano, scatenandosi in preda agli istinti più impellenti, seguendo il ritmo serrato della batteria e dei bassi sparati a palla dagli altoparlanti. Braccia e mani, movimenti suadenti, sguardi languidi. Si strusciavano l’uno sull’altro, a volte casualmente altre volte volutamente, azzardando a toccare con mano ciò che normalmente, alla luce del sole, non sfiorerebbero nemmeno con lo sguardo.

Tuttavia, non si poteva mettere in dubbio la sensualità di quelle danze. Accompagnati dalla musica adatta, dalle canzoni giuste anche se ridotte quasi ad un rumore continuo senza senso alcuno, quelle avances spietate avevano il potere di incantare anche chi non partecipava, ma guardava solamente.

Erano quelli i momenti in cui si lasciava andare completamente ai suoi desideri più vili, più meschini. Più nascosti. In cui socchiudeva gli occhi e, facendo come se nessuno lo guardasse, sfiorava da sopra la stoffa dei jeans l’interno coscia, distrattamente, approfittando di quella momentanea mancanza di raziocinio.

Ma poi, puntualmente, non andava mai oltre. Se ne rendeva conto prima, di essere ridicolo.

Esattamente come in quel momento, quando la sua mano si fermò d’improvviso sulla sua gamba.

Sospirò. Si faceva quasi pena.

E non sarebbe stato in quel posto nemmeno un minuto di più.

Si alzò, lasciando sul tavolino il suo drink ancora a metà, attraversando il mare di corpi con l’unica intenzione di raggiungere l’uscita, di respirare un po’ d’aria.

Era distrutto e non aveva ancora fatto niente. Nemmeno ballato.

Ma necessitava di ossigeno. Aveva un bisogno fisico di un’aria pulita, del freddo della sera sulla sua pelle accaldata e dell’odore di rugiada nelle narici.

« Eeeeeeeehi, Eric! » strascicò Douglas frapponendosi improvvisamente fra lui e l’uscita, con entrambe le mani occupate a palpare le natiche di due ragazze ubriache quanto lui. « Che fai? Te ne vai? Mi lasci qui con Jiji ed Emma? » si lamentò, già oltre la soglia solita di annebbiamento celebrale dovuto dagli innumerevoli cicchetti che si era già ingoiato, buttandoseli direttamente nel sangue e nel cervello.

« No, Doug, no… » biascicò a sua volta, sempre più confuso e disturbato da quel posto. Oppresso, sentiva come se  muri si stessero chiudendo su se stessi, intrappolandolo fra innumerevoli pareti di musica e corridoi odoranti di sesso sporco e lascività. « Vado solo a prendere… una boccata d’aria » cercò di spiegare.

Ma era ovvio che Douglas, già normalmente poco attento a qualsiasi discorso che si cominciava, in preda ai fumi di chissà quale liquore non voleva nemmeno considerare il fatto che lui avesse facoltà di parola.

Lasciò andare le due ragazze fra un mare di risolini insulsi, afferrandolo in tutta la sua mole non indifferente e appoggiandoglisi praticamente sopra.

Un brivido gli percorse la schiena quando, sentendo le sue mani lungo la colonna vertebrale, percepì il chiaro fraintendimento in cui spesso il Douglas ubriaco cadeva: quello di considerarlo alla strenua di un giochetto sessuale abbastanza divertente, nonostante il ragazzo continuasse (da sobrio, ovviamente) a professarsi un eterosessuale più che convinto.

« Doug, lasciami » disse, calmo nonostante tutto, distogliendosi dalla presa con la forza che intere giornate in piscina avevano avuto modo di conferirgli.

L’altro si lamentò in maniera piuttosto disarticolata, ma lasciò perdere non appena si convinse di non avere abbastanza equilibrio per riacciuffarlo.

« Senti… vai a cercare Rob, ok? Assicurati che sia nei paraggi » propose Eric, conscio che una richiesta così semplice sarebbe stata accettata al volo dal tasso alcolemico da coma etilico che ora guidava il cervello del ragazzo.

Quello sorrise, decisamente rincoglionito, annuendo piano: « Sì, va bene… ma solo perché ti voglio bene, ok Er? » biascicò, ritornando con la mano sul sedere delle ragazze e dirigendosi a passo malfermo verso i bagni.

Robert era là di sicuro, a spacciare e a tirare, come sempre. Sperava solo che non si fosse sniffato anche le piastrelle, di quei fottutissimi cessi.

Da parte sua, riprendere a camminare verso l’uscita fu la cosa più difficoltosa che gli fosse mai capitata di fare. Muovere il primo passo, specificatamente, fu una vera agonia. Il suo mondo si era ristretto, era diventato incredibilmente soffocante, e sentiva gli stessi sintomi di quando in vasca gli prendeva l’ansia prima della gara.

La vista sfocava, le forze sembravano abbandonarlo.

Doveva uscire. Ormai sembrava, ridicolmente, che la sua vita dipendesse dalla boccata d’aria fresca che lo aspettava.

Non c’era più nessuno fra lui e l’esterno del locale; anche la musica si attenuava con la lontananza, divenendo più ovattata man mano che camminava. Sembrava brancolare nel buio, e non disse nulla quando l’addetto gli timbrò la mano per consentirgli di rientrare. Semplicemente seguì l’aria fresca… e uscì.

Respirò a pieni polmoni, ringraziando silenziosamente la notte per essere così fredda e maledettamente rigenerante.

Le sue orecchie, a causa della musica alta, erano come tappate. Come se si trovasse senza cuffia in acqua e il liquido gli impedisse di sentire chiaramente i rumori che lo circondavano.

Le voci delle persone all’esterno, alcune messe molto peggio di lui e abbandonate sui muretti o sostenute dagli amici, arrivavano a lui come lamenti – e non erano effettivamente lontanissimi dall’esserlo.

Facendo respiri profondi si andò a sistemare nel pezzo di muretto più isolato, contento per la prima volta in vita sua di essere da solo. Si sedette pesantemente, puntando i gomiti sulle ginocchia e prendendosi la testa fra le mani.

Doveva farsi passare quella sottospecie di sbronza prima di tornare, altrimenti sarebbe veramente stato un divertimento guidare.

Un leggero odore di nicotina aleggiò nell’aria.

« Stai bene? » chiese una voce da poco più avanti, semi-nascosta nell’ombra delle piante che decoravano quel pezzo di aiuola a muro.

Non alzò nemmeno lo sguardo. E non rispose, inoltre.

Non ci volle molto perché la voce – sicuramente maschile – si facesse sentire di nuovo. Era decisamente particolare, considerò mentalmente; gentile ma in un qualche modo distante, dava un’idea di superficialità ma era al contempo melodica, quasi suadente.

« Sul serio, non sembri molto in forma » disse, prendendosi una certa libertà nel parlare con lui.

Si decise a guardare da che pulpito veniva la predica.

Quando alzò appena il viso, puntando gli occhi alla sua destra, il ragazzo più particolare che avesse mai visto entrò prepotente nel suo campo visivo, marchiando quell’immagine a fuoco nella sua mente.

Capelli scalati e corvini, corti a sfiorare il collo in ciuffi dall’aria maledettamente simile alla morbidezza della seta, eppure perfettamente lisci. Il volto dalla carnagione chiara aveva i lineamenti decisamente mascolini ma al contempo dolci, che incorniciavano il paio d’occhi dalle iridi più chiare che avesse mai visto; non erano azzurre, ma nemmeno bianche… sembravano realmente fatti di ghiaccio fuso, oppure di cristallo. Persino l’apparenza era strana: quasi finta, di vetro, come se quegli occhi fossero stati rubati ad una bambola di porcellana che non se li meritava, strappati ad essa per essere degnamente posati su quel volto dalle forme sia angeliche che demoniache.

Il corpo snello e praticamente perfetto era fasciato di nero: un paio di jeans scuri e una camicia nera aperta sul collo, non troppo aderente ma generosa nel mostrare le forme.

Solo una cosa sfigurava nella sua bellezza, quasi effimera ma fondamentale al contempo: l’aria di distaccamento che accompagnava ogni sua espressione, persino quel sorriso all’apparenza gentile che adesso gli stava mostrando.

Al suo silenzio imbambolato, il ragazzo sorrise un po’ di più. Mostrò la mano destra, con una sigaretta stretta fra indice e medio: « un tiro? » chiese, diretto.

« Per l’amor del cielo, no… » ci mancava solo quella!

Riportò il viso fra le mani, in preda ad un nuovo capogiro. Faceva strano ammetterlo, ma quel ragazzo era la cosa più maledettamente bella che avesse mai incrociato. Una bellezza quasi dannata, quegli occhi soprattutto…

Sentì a malapena una presenza al suo fianco – accanto a lui, seduta sul muretto – prima di udire di nuovo il tono melodico ma quasi meccanico di quella voce: « non stai bene » e questa volta non suonava affatto come una domanda. « Bevuto troppo? » aggiunse l’altro, osservandolo da quella relativa vicinanza.

« No, ma lo sopporto veramente poco » buttò lì lui, palesemente impegnato in un personale atto di resistenza contro la nausea impellente.

L’altro doveva averlo capito, perché con la coda dell’occhio lo vide fare un ultimo tiro e poi gettare la sigaretta lontano, sul cemento.

Quantomeno era gentile.

« Non dovresti nemmeno annusarlo l’alcool se ti riduci così » continuò l’altro, la voce sottile.

Notò, in un impeto di acutezza, che comunque non si avvicinava a lui più di quel tanto.

« Mi dispiace che tu sia costretto a fare da spettatore ad una scena così agghiacciante » commentò con auto-sarcasmo, ridacchiando spompato di ogni energia.

Non sapeva perché, ma gli stava venendo sonnolenza…

« Direi che è abbastanza solita, in posti come questo. Anzi, mi sorprende che tu abbia ancora la capacità di elaborare un discorso ragionato e di senso compiuto. Sembri molto più a terra di quella sottospecie di montagna all’ingresso che si sbraccia in questa direzione… ».

Non servì connettere faticosamente il significato dell’intera descrizione pronunciata perché gli venisse in mente un volto noto. “Montagna” fu sufficiente.

Alzò lo sguardo di scatto, osservando da quel suo angolino semi-appartato Douglas sventolare le mani in aria come bandiere di segnalazione aeroportuali. « Ho trovato Roooooooob! » stava cantilenando, nella peggior emulazione di Madonna che avesse mai sentito sulla faccia della Terra.

« Cercano te? » chiese il ragazzo al suo fianco, l’intonazione divertita della voce che aveva un non so che di strano, di formale nonostante il linguaggio fosse l’opposto.

« A quanto sembra… » rispose lui, alzandosi. « Io sono l’autista stasera. Probabilmente sono così strafatti che non si rendono nemmeno conto di dove sono » continuò, sbuffando.

« Comunque io sono… » iniziò, voltandosi per presentarsi… ma rimase stranito nel vedere solamente il muro, dietro di lui, esattamente nel luogo in cui prima c’era il ragazzo.

Un pensiero solitamente idiota gli venne alla testa, contornato da una bella dose di dubbio.

…Non se lo era sognato, vero?

All’ennesimo urletto di Douglas, però, face spallucce e si affrettò ad andare a calmare l’improvvisato cantante, trovandosi al contempo un Robert molto intento a fissare le dita delle sue mani con la bocca socchiusa e gli occhi distanti.

Sospirò, recuperando le chiavi dalla tasca dei pantaloni e lanciando uno sguardo all’orologio.

Le tre e quindici. Era ufficialmente sabato mattina.

 

Sette ore dopo, quando ancora era reduce da un sonno ristoratore, la suoneria del suo cellulare decise di interrompere la tranquillità del suo universo.

Si disse mentalmente, in uno dei primi ragionamenti più o meno concreti post-risveglio, che chiunque fosse dalla parte opposta avrebbe fatto molto presto una fine discutibile. Suo padre possedeva un Winchester 260 e a buttare un cadavere in un fiume ci si metteva poco e niente con il pick up nuovo di suo zio Jordan.

Buttò sgraziatamente la mano sul comodino, afferrando con rabbia il telefonino strillante e vibrante. Non si curò di guardare chi chiamava (non alzò nemmeno la testa dal cuscino, a dirla tutta).

« Pronto? » rispose, seccato.

« Ma senti tu che voce! » gracchiò qualcuno dall’altra parte, sinceramente divertito: « sembri appena uscito dall’Inferno Everald, che ti è successo? » disse con quell’aria sempre paurosamente allegra.

«McFarland? » chiese, una volta che si fu preso il tempo per riconoscere il suo interlocutore.

« Indovinato, ben tornato tra i vigili » rispose quello.

Jonathan McFarland era un suo compagno di corso all’università. Era uno spirito molto libero e, nonostante non amasse per nulla la letteratura, frequentava il corso per il piacere interiore di disobbedire a suo padre, avvocato, che moriva dalla voglia di mandare il figlio a Legge. Ripeteva molto spesso che la vita del padre non lo entusiasmava, così aveva fatto dell’inno “disobbediamo a papà” uno dei maggiori divertimenti della sua esistenza.

Non era eccezionale, ma era discretamente bravo nonostante non ammirasse per niente la materia.

« Cosa c’è? » tagliò corto Eric, strofinandosi un occhio con la mano libera.

« Faccio la funzione del promemoria, Evvy » disse quello, storpiando il suo cognome in maniera incivile. Chissà cosa ci trovava mai di così bello ad affibbiargli quel nomignolo idiota… « ti ricordo che stasera c’è il party alla confraternita Alfa-Epsilon-Omega. Dato che il sottoscritto genio del male si è procurato i contatti per entrare, vedi di fare il bravo bambino e di unirti ai grandi in orario » continuò, sottolineando con la voce la puntualità a cui sperava si attenesse.

« E tu mi chiami così presto per ricordarmi una cosa che già so? »

« No, ti chiamo per precisare che ti voglio puntuale. E comunque sono quasi le undici, non è presto » ribatté al volo Jonathan.

Regola numero uno quando si parla con McFarland: arrendersi. Lui ha sempre la risposta pronta.

Sbuffò sonoramente, giusto per far comprendere allo scocciatore che quella chiamata/sveglia non era affatto gradita. Ma quello sapeva benissimo quando fare orecchie da mercante, ed infatti lo ignorò.

Si trovò costretto ad accettare l’arduo compito di puntualità. « Va bene, va bene » acconsentì « alle dieci davanti alla confraternita, va bene » ripeté, ancora troppo addormentato per trovare altri sinonimi utili.

Una volta libero dalla scocciatura mattutina si alzò, dirigendosi verso il piano inferiore. Ormai era inutile cercare di riaddormentarsi, impossibile quasi, e comunque era sicurissimo che sua madre avrebbe cominciato molto presto a preparare il pranzo – se non aveva almeno due ore e mezza d’anticipo era un vero e proprio disastro, secondo lei – e il rumore delle pentole maneggiate con la finezza di un rinoceronte lo avrebbe sicuramente strappato dalle braccia di Morfeo, anche abbastanza rudemente.

Si mise addosso le prime cose che gli capitarono sotto mano – un paio di pantaloncini e una maglietta a mezze maniche bianca con lo stemma dell’università – scendendo le scale con passo veloce.

Sua madre, come previsto, stava appena rientrando con la spesa.

« Buongiorno Eric! » salutò allegramente, cercando di tenere in equilibrio le due sporte di vivande, chiudere la porta di casa e appoggiare la borsetta sul mobile contemporaneamente.

« Ciao ‘ma » salutò di rimando, abbassandosi appena per prenderle le sporte. Fosse mai che le uova finissero per diventare parte integrante del tappeto.

« Alex e papà? » chiese lei, appoggiando la borsetta per poi seguirlo in cucina.

« Dove vuoi che siano? » domandò lui con ironia: « in giardino a giocare a basket, no? Sia mai che partecipino alle attività di famiglia ogni tanto » si lamentò svogliatamente, aprendo il frigorifero per afferrare il cartone del succo di frutta.

« Usa un bicchiere » lo ammonì la madre, prima di continuare: « tuo padre fa solo il suo lavoro. Il basket è la sua vita, lo insegna e lo pagano per farlo » aggiunse, prendendo come al solito le difese dell’uomo… anche se non sembrava esattamente convinta delle sue parole.

Staccò le labbra dal cartone – bicchiere? E cos’è? – chiudendolo con forza per poi buttarlo malamente nello sportello del frigorifero: « oh, andiamo! Allena Alex come un ossesso solo perché io ho scelto il nuoto! » sbottò, irritato.

« Sei in vena di discussioni oggi? » intervenne la donna, cominciando a svuotare le borse della spesa e dividerla fra gli scaffali.

« Non… non sono in vena di discutere, ok? E’ solo un dato di fatto » precisò con foga, saltando appena per sedersi sul ripiano centrale della cucina. « Prima di convincere mio fratello a pendere dalle sue labbra ha provato a fare il lavaggio del cervello anche a me. Cosa sarebbe successo se Alex non si fosse lasciato incantare e avesse scelto, che so, di fare il ballerino? Papà si impiccava attaccato al canestro? » continuò nella sua invettiva, più carico che mai. Erano rare le occasioni in cui poteva parlare di suo padre senza che l’altro fosse presente, e intendeva approfittare di ogni opportunità.

« Non mi sento di escluderlo » rispose con aria leggera sua madre, terminando di sistemare la spesa e cominciando a tirare fuori le pentole per preparare il pranzo. « In ogni caso, tesoro, che problema c’è? Alex si diverte a basket, ed è probabile che avrà una borsa di studio quando si diplomerà » gongolò allegramente, riempiendo il tegame fondo con dell’acqua dal lavello. « Avresti dovuto provarci anche tu, a questo proposito » aggiunse poi, osservandolo appena con un sorrisetto leggiadro ad incurvarle le labbra.

Eric roteò gli occhi. Era stufo di dover sempre, perennemente affrontare il discorso della sua inutilità.

Certo, era meglio con sua madre che con suo padre. Lei, almeno, aveva la finezza di non dirti esplicitamente di essere una delusione di figlio… solo perché non aveva scelto il basket! Per Dio…

« Scusami se non mi è caduta la borsa di studio fra capo e collo, mamma. Magari un giorno imparerò a comandare al mio corpo di raggiungere la velocità di un missile terra-aria » sfotté, più auto-ironico che cattivo. Non si riusciva ad essere veramente cattivi con una come sua madre. Quella donna non se la prendeva per nulla e non perdeva mai quella sua serafica calma.

Il nuoto non era come il basket, o come il volley. Non ci si poteva fissare su una finta, o una battuta, e provarla ogni allenamento finché non si imparava a farla.

In vasca era lui contro i suoi limiti. L’allenamento conta a mantenere la forma fisica, sì, ma ci sono limiti di velocità che ogni corpo, individualmente, non riesce a superare.

Pochi erano i veri campioni, nel nuoto. E si doveva sacrificare tutto, per avere tutto.

« Oh, non fa nulla » rispose la donna, chinandosi per osservare la fiamma blu di metano accendersi sotto la pentola: « io e tuo padre siamo fieri lo stesso » disse.

Sì, certo. Questa era buona.

Voleva tanto sentirle dire da lui, quelle parole. In bocca a sua madre, che le ripeteva appena possibile, non valevano niente.

Un lieve rumore avvertì gli occupanti della cucina che la porta sul retro si era aperta, e un vociare concitato rivelò che i due di cui si stava parlando erano di ritorno dagli allenamenti casalinghi.

Eric sospirò affranto, preparandosi a ricevere le occhiate del padre e i suoi commenti taglienti.

Lui poteva anche diventare astronauta per la NASA, o premio nobel per la letteratura… ma se non aveva in mano una palla arancione, e sull’armadio un poster di Michael Jordan, per suo padre aveva la stessa importanza di un soprammobile.

Sì, nella mente di Trent Everald non c’era posto per nient’altro.

 

Gli allenamenti erano sempre stati massacranti.

Il loro allenatore usava un metodo spartano, pretendendo il massimo da ogni bracciata. Chi batteva la fiacca aveva allenamento doppio, e questo era un ottimo deterrente per chi si buttava in acqua senza la minima voglia di fare.

Lui, fortunatamente, era sempre arrivato in fondo agli allenamenti senza fermarsi mai. Aveva avuto un’infanzia incentrata sugli addestramenti in vista dell’entrata in una squadra di basket – sempre grazie al suo adorabile padre – dunque il fiato non gli mancava.

Però era massacrante comunque. Soprattutto quando si faceva fondo.

Per questo, una volta fuori dall’acqua, i muscoli delle cosce sembravano come stretti in un torchio. Fitte di dolore ad ogni passo, profonde anche se non acute, con momenti di picco che duravano anche minuti.

Aveva quasi l’impressione che l’acido lattico che accumulava si potesse spremere.

« Stanco Everald? » chiese il coach di ritorno dalla vasca, battendogli violentemente una mano sulla schiena.

La panca sulla quale era seduto sobbalzò dall’urto.

« Un po’ » confessò sorridendo, tamponandosi una goccia d’acqua dal mento con la manica spugnosa dell’accappatoio.

« Poco male, hai tutta la domenica per battere la fiacca » fu la risposta sconsiderata, seguita da una risata. « In ogni caso vedi di non saltare allenamenti la prossima settimana, ok? Ci sono le selezioni il mese prossimo e sto pensando di metterti in staffetta con Satler ».

« Con Timoty? » scattò d’improvviso Eric, puntando gli occhi su quelli piccoli e scuri dell’allenatore: « davvero? » ripeté, chiedendo infantilmente conferma.

Quello annuì.

Non poté fare a meno di farsi tornare il buonumore, nonostante la spossatezza.

Timoty Satler era il suo personalissimo dio. Iscritto a Matematica e suo coetaneo, aveva una preparazione atletica che vantava anni di fatica, tutti passati in vasca. Tempi record e campione nazionale per tre volte consecutive, aveva raggiunto il terzo posto ai federali per un soffio ed ora si preparava a vincerli.

Ma parli del diavolo…

« Everald è il quarto per la staffetta mista? » chiese una voce alle sue spalle, il tono morbido anche se basso. Capelli corti di un rosso scuro e occhi oltremare, Satler ritornava dalle docce insieme al classico profumo di bagnoschiuma.

Odore che durava si e no venti minuti; il cloro si attaccava alla cute come una seconda pelle, vincerne l’odore era impossibile per i nuotatori agonistici.

Mentre parlava con l’allenatore, Eric osservò il ragazzo. Non era una di quelle persone in vista, nonostante l’ottima carriera agonistica e scolastica (dicevano); però aveva un’aria di particolare serietà, che induceva le persone a prendere le distanze ma ad ascoltare al contempo ogni parola che usciva dalle sue labbra.

Era una persona inconsciamente autorevole, ecco. Risultava difficile non fidarsi di lui, soprattutto quando sorrideva così cortesemente.

Anche il sorriso era strano… ma non ci aveva poi fatto così tanto caso. Immaginava che fosse normale, da una persona con un simile ascendente sul prossimo.

Quando gli occhi dell’altro si posarono sui suoi, non poté trattenere un invisibile sobbalzo. « Dunque tu farai la parte dorsista » asserì, distendendo le labbra in un’ombra di sorriso: « parti per primo, dovrai guadagnare il distacco » disse, infondendogli fiducia solo con quelle poche parole.

« Forò del mio meglio, se entro » rispose lui, alzandosi dalla panchina e togliendosi il costume da sotto l’accappatoio.

« Entrerai » esordì con sicurezza l’altro, posando nella borsa bagnoschiuma e costume: « altrimenti il coach non lo avrebbe nemmeno accennato. Non è uno che dà false speranze » chiarì, frizionandosi i capelli con il cappuccio dell’accappatoio blu.

« Giusto… » notò lui, sorridendo a se stesso. Iniziò a vestirsi velocemente, infilandosi jeans chiari e maglietta scura.

« Niente doccia? » chiese Staler, probabilmente per non far scendere il silenzio nello spogliatoio. Gli altri erano ancora alle docce.

« Oggi no, non ho tempo » spiegò Eric brevemente, pettinandosi i capelli castani per poi passarci la mano in mezzo, smuovendoli appena per non farli sembrare troppo appiccicati alla nuca. « Vado al party dell’Alfa-Epsilon-Omega e sono già in ritardo sulla tabella di marcia » spiegò, buttando random il pettine nel borsone per poi chiuderne la zip. Il cloro sulla pelle sembrava quasi appiccicoso, ma era conscio che una doccia gli avrebbe occupato quel poco tempo che aveva per tornare a casa, lasciare la borsa e ritornare al campus. « Tu non vieni? » chiese poi, infilandosi la giacca blu e gialla della tuta di squadra.

« No, grazie » rispose l’altro: « non sono feste che fanno per me » concluse, rapido.

Eric decise di non insistere. Era raro vedere Satler veramente di malumore, ma quando non gli andava di fare qualcosa riusciva ugualmente ad esprimerlo.

Cominciava a chiedersi quali fossero, le feste apprezzate dal ragazzo.

« Ok allora » esordì all’improvviso, per non lasciare cadere il discorso nel nulla: « ci vediamo lunedì » salutò, caricandosi in spalla la borsa.

Lo vide annuire con un sorrisetto prima di uscire, percorrendo velocemente il corridoio e l’atrio, uscendo dalla piscina.

 

A dire il vero, party di quel tipo non piacevano nemmeno a lui.

“Alcool a fiumi” sembrava il motto degli organizzatori, che avevano provveduto ad un barman e ad una lista di cocktail più o meno alcolici, e non era assolutamente insolito vedere girare spinelli o bustine di polverina bianca, rapidamente stesa su una superficie riflettente, divisa in striscioline con una qualsiasi carta di credito e aspirata con l’aiuto di un biglietto da cento dollari.

Senza contare la musica, tenuta così alta che sembrava uno stupro per le orecchie. La differenza era la scelta di un più comune pop-commerciale, che alcune volte aveva intermezzi abbastanza lenti da consentire il recupero, anche se parziale e temporaneo,  dell’udito.

Sospirò. Ancora si chiedeva perché accettava sempre di farsi trascinare in posti come quello.

« Eric, ti vedo spento » disse McFarland al suo fianco, sorseggiando da un bicchiere di quella che sembrava vodka e guardandosi intorno in cerca di qualche ragazza abbastanza ubriaca da abbordare.

Come se lui non fosse già abbastanza affascinante da avere bisogno dell’alcool per intortare qualcuna.

Il castano portò lo sguardo sull’altro, infilandosi le mani nelle tasche. « Vengo da due ore di tortura, sono stanco » mentì. Se provava solamente a dire a Jonathan che quel posto non lo eccitava per niente, chissà che scenata gli avrebbe propinato per le due settimane successive.

« Ancora mi stupisco del fatto che tu nuoti » cominciò lui, mandando giù come se fosse acqua metà del bicchiere: « tutte le volte che esci dalla piscina sei disfatto, praticamente a pezzi. Più volte ti ho sentito dire che l’allenamento sembra in tutto e per tutto un campo di addestramento dei Marines, senza contare il fatto che tuo padre è uno degli allenatori di basket più rinomati della nazione e tu non sfrutti l’opportunità. Cos’è, sei scemo? O semplicemente in preda ad un’età della ribellione ritardataria? » chiese, la lingua molto più sciolta nonostante avesse ingerito ancora poca vodka (rispetto agli standard).

Ma cos’era quella, la giornata delle lamentele?

« Sai benissimo perché non seguo ardentemente la strada che mio padre si è prodigato tanto di spianarmi davanti » asserì, decisamente di malumore.

« Oh sì, ricordo perché ti sei lanciato a capofitto sulla via piena di rovi » ironizzò l’altro, continuando con costanza a guardarsi in giro. Sembrò interessato da una bionda di passaggio e, a conferma del suo interesse, la seguì con lo sguardo fino al tavolo del buffet.

« Beh, Eric, io ho da fare » asserì con decisione, piantandogli in mano il bicchiere con i le rimanenti due dita di vodka.

Lui osservò solo per curiosità la preda che l’altro aveva puntato, riconoscendola al volo. « E’ fidanzata » osservò a voce alta: « con un mio compagno di squadra » aggiunse poi, sperando di demoralizzare Jonathan e distoglierlo così da un’imminente morte per mano di un nuotatore cornificato.

Nessuna resisteva al sorrisetto sbieco di Jonathan McFarland, era logico supporre che a portare le corna sarebbe stato il fidanzato non presente.

La notizia dell’impegno sentimentale della biondina non fece altro che stuzzicare Jonathan. « Splendido » borbottò deliziato: « adoro giocare con le proprietà altrui… » aggiunse, mollandolo vicino alle scale per dirigersi verso la ragazza.

Sospirò. Puntuale, succedeva sempre.

Passò i successivi dieci minuti a guardarsi svogliatamente intorno, e i due seguenti a fissarsi la punta delle Convers nere, chiedendosi per l’ennesima volta cosa lo spingesse a partecipare a raduni del genere. Un ragazzo decisamente ubriaco gli passò davanti, sorretto dai suoi amici messi meglio ma non di molto, e all’improvvisa possibilità di un giramento di stomaco del suddetto decise che era meglio spostarsi, per l’incolumità delle sue scarpe.

Girovagò un poco. Non si sognava di andare al piano superiore, dove sicuramente ogni camera con una superficie piana era occupata da gente molto impegnata ad esplorare i limiti del kamasutra; si limitò dunque a vagare per il piano inferiore, abbandonando il bicchiere dell’amico sul primo ripiano libero da sporcizia.

Stava altamente ponderando di tornarsene a casa quando, fra la folla del soggiorno, un paio di occhi color ghiaccio attirarono la sua attenzione. Fu solo un secondo, un breve istante, prima che scomparissero.

Si fermò di scatto, osservando intontito il punto in cui li aveva visti, ora occupato da un ragazzo in maglietta gialla che ballava come un posseduto.

Se li era sognati? Aveva immaginato tutto?

Come un lampo gli tornarono alla mente gli stessi occhi, particolari quanto freddi, visti la sera prima.

Non poteva essere la stessa persona… o sì?

Non si interrogò per molto su quel quesito: i suoi piedi si mossero da soli alla ricerca di quel ragazzo. Non aveva mai visto occhi così chiari, quasi finti, addosso a nessun altro.

Attraversò la sala, attento a non pestare troppi piedi in mezzo alla calca, dirigendosi verso la cucina.

Ancora un lampo, ancora quell’azzurro. Per un attimo, uno solo.

Vi si lanciò. Cercava disperatamente quello sguardo, senza nemmeno saperne il perché; comprendeva solo che doveva rivederlo in fretta.

Magari era solamente perché non conosceva nessuno, si disse, e se incontrava una persona conosciuta – anche solo per qualche istante fuori da un locale – sarebbe tornato indietro sulla sua decisione di mollare McFarland e tornarsene a casa, ad evitare scrupolosamente suo padre e a cercare di tenersi lontano suo fratello e i suoi discorsi sulla nuova finta (o anche sul nuovo tiro, sul nuovo schema di gioco, sul nuovo passo…).

Attraversò anche la cucina, velocemente, uscendo dalla porta sul retro appena socchiusa. L’aria fresca della sera lo invase improvvisamente, facendolo rabbrividire a causa dello sbalzo di temperatura.

Il piccolo gruppo all’esterno, racchiuso in una nube di fumo che puzzava di nicotina, lo osservò con disinteresse senza nemmeno interrompere il discorso in atto. Nessuno di loro aveva gli occhi color ghiaccio che cercava, nonostante ricordasse che il ragazzo senza nome fumasse.

Proseguì di qualche passo sull’erba umida, andando verso sinistra per fare il giro della casa. La musica proveniva attutita lì fuori e il silenzio ovattato del giardino non gli dispiaceva affatto.

« Frequenti posti discutibili » intervenne una voce al suo fianco, nell’ombra della casa causata dal lampione della strada alla fine del vialetto principale.

Sobbalzò, voltandosi di scatto. Cercò di non darlo a vedere, mascherando la sorpresa con la prima domanda abbastanza arguta che gli venne alla mente: « non credo siano affari tuoi i posti che frequento » disse. Risposta decisamente imbecille e un tantino sgarbata, ma a cominciare era stato comunque l’altro, chiunque fosse.

Quello rise. E quando uscì dal cono d’ombra Eric avrebbe giurato di aver sentito quasi il freddo, di quegli occhi di vetro color ghiaccio.

Lo osservò, non potendo trattenersi dal farlo. Semplici jeans scuri e una camicia bianca con una cravatta nera, allentata sul collo dove i primi due bottoni erano sbottonati.

Bene. Cosa si dice alla gente che si cerca per tutta la casa senza un motivo valido? E che tra l’altro non si conosce nemmeno?

Non dovette pensare per molto alla risposta; alla conversazione pensò l’altro.

« Hai ragione » ribatté alla sua osservazione precedente: « però io non ho torto. Questa è veramente una festa discutibile, come lo era il locale di ieri sera » aggiunse, quasi ghignando.

Lo stava sfidando?

« Beh, sa da ipocrisia se esce dalle labbra di qualcuno presente sia ieri che oggi negli stessi posti » osservò a ragione, sorridendo compiaciuto di se stesso.

Quello ghignò di nuovo: « touché » ammise, alzando le mani a mo di scusa.

Non sapeva perché, ma ancora Eric leggeva falsità in quegli atteggiamenti, in quelle mosse così palesemente amichevoli che sfoggiava. Non riusciva a capire se era ostentata simpatia o sincerità che lui scambiava per un atteggiamento costruito. Non ci capiva niente, in definitiva.

Passarono alcuni attimi di silenzio, in cui nessuno dei due seppe cosa dire. Il moro se ne stava in piedi con le mani nelle tasche, semplicemente, osservando di sottecchi tutte le persone che uscivano dalla porta della cucina come se fosse un ricercatore intento a studiare le sue cavie.

Osservò per qualche istante quegli occhi, convinto quasi di potervi trovare le verità che cercava… invano. Non trasparivano nulla.

« Sei un nuotatore, giusto? » chiese poi, lo sguardo sempre puntato verso gli altri che con lentezza tornò su Eric.

« Come…? » chiese lui, stupito. Lo aveva visto? Era in piscina?

« Cloro » rispose però l’altro: « odori di cloro » precisò.

« Oh » cercò di non esserne sorpreso, ma non gli riuscì così bene. « Pensavo che non si sentisse così tanto » disse come scusandosi, portandosi istintivamente il dorso della mano al naso.

« No, normalmente » rispose l’altro: « ma io ho il naso fine, certi odori mi stuzzicano l’olfatto più di altri ».

« E’ fastidioso? » chiese Eric, indicando la mano con il volto come per intendere l’odore di cloro che emanava.

Quello scosse il capo negativamente. « In ogni caso non ci siamo ancora presentati » aggiunse poi, ripetendo nuovamente quel sorriso strano.

« Giusto » borbottò lui, tendendo la destra in sua direzione: « Eric Everald » disse, gentile.

« Joshua Archer » rispose l’altro mimando il gesto.

Era la prima volta che entravano in contatto fisico, anche se minimo, ma Eric non poté non considerare che la mano di Joshua era fredda. Fin troppo, considerando la temperatura più che mite.

Ma i suoi pensieri erano destinati ad essere interrotti, così come la loro ancora acerba conversazione.

« Everald! » chiamò una voce dalla porta della cucina; il viso di Jonathan che si guardava intorno nel tentativo di trovare la persona che stava cercando.

« Sono qui » chiamò lui, facendosi notare appena fuori dall’ombra. Dubitava che Joshua fosse visibile, da quella posizione.

« Alla buon’ora, ti cerco da una vita! » borbottò quello, facendogli segno di rientrare.

« Sei una persona acclamata, Eric » osservò Archer con espressione divertita, osservando con la coda dell’occhio McFarland e la sua espressione delusa.

« Mi dispiace… » si scusò lui, forse dispiaciuto del fatto che venivano perennemente interrotti.

« Figurati, vai pure » disse l’altro, alzando la destra come saluto ed incamminandosi verso il vialetto, probabilmente diretto a casa o da qualche altra parte.

Con passo celere, lui ornò all’interno, dove Jonathan era impegnato a versarsi un altro bicchiere di alcool (a casaccio, notò).

Glielo aveva detto che era fidanzata.

 

 

 

_______________________________________________________________________

 

* Nel nuoto la staffetta mista ha un ordine di partenza particolare: dorso - rana - delfino (farfalla) - stile libero. Questo è dato dal fatto che il dorso non prevede la partenza dal blocco (dunque è senza tuffo), ma si parte direttamente in acqua. Solitamente dunque il dorsista, che è il primo, è quello che cerca di prendere più vantaggio possibile.

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Capitolo 3
*** Sunday ***


Sunday

Sunday

 

Abrahel

Human I don’t want to be

 

 

Passare più di due secoli nel nulla assoluto non era un dispiacere, nemmeno una condanna.

Non per lui almeno.

Però, doveva ammettere, se ci si ritrova catapultati nel ventunesimo secolo quando l’ultimo visto era il diciottesimo, saltava all’occhio qualche problema.

Primo fa tutti il fatto che, così sembrava, lo sviluppo - tecnico, industriale, culturale, artistico, stilistico, architettonico… - pareva aver cominciato a correre veloce quanto prima procedeva a balzelli.

La Rivoluzione Industriale aveva dato il via all’industrializzazione, al materialismo, al capitalismo e infine al consumismo che sembrava letteralmente consumare la società moderna.

La Rivoluzione Francese aveva dato una svolta alla società e alla politica, indirizzandola verso un significato profondo di patriottismo e nazionalismo, proclamando la libertà - tutte le libertà - e fornendo le basi per un sistema di governo basato sulla democrazia.

Un peccato; non disprezzava la monarchia se retta con il cervello al posto del vizio.

Poi le Guerre Mondiali, soprattutto la seconda. La creazione dell’arma che potrebbe distruggere l’intera vita in sé e il suo uso, catastrofico, poco prima della metà del ventesimo secolo.

E ora, ormai giunto al capitolo sulla modernità, la nuova batosta: le pandemie. AIDS, HIV, SARS, TBC… si chiedeva se avessero inventato un acronimo anche per il raffreddore.

Leggere libri, però, non si stava rivelando il metodo migliore per recuperare ciò che si era perso del mondo. L’avanzamento del progresso aveva dato una bella spinta in avanti allo sviluppo storico, creando un’immensa mole di informazioni suddivisa in una altrettanto enorme quantità di scartoffie.

Per leggere tutti i libri che la bibliotecaria gli aveva trovato ci avrebbe messo come minimo due anni, ed era solo lo scaffale di Storia.

Così, aveva deciso per un corso intensivo. Una volta imparato ad accendere un PC era stato facile: convenne che il World Wide Web era stata proprio una bella pensata, e trovò nella sinteticità di Wikipedia la fonte di informazione adatta alle sue esigenze.

Tuttavia, dopo ore di consultazioni - concentrate sul ventesimo secolo, per lo più - si trovò nuovamente d’accordo con se stesso.

Non era importante quanto gli esseri umani imparassero, studiassero, ricercassero o sviluppassero. La razza umana non aveva il minimo rispetto di sé stessa, e lo spirito di auto conservazione che aveva sempre spinto gli uomini a racimolare le condizioni migliori in cui vivere li stava portando, in una sorta di disgustoso controsenso, verso un futuro controllato dalle macchine, minato dalla guerra e soffocato dall’inquinamento.

Gli umani usavano la loro innata forza di sopravvivenza per autodistruggersi.

Faceva schifo. Dal diciottesimo secolo non era cambiato nulla nonostante fosse mutato tutto.

Era solo un’ennesima rappresentazione della perenne ed immutabile condizione di impotenza umana; era solo travestita da luci a laser invece di velluto e annegava nella droga invece che nella poesia.

Pensò a Shakespeare. In un mondo così avrebbe avuto un’ispirazione infinita per le sue tragedie.

Per non parlare della generazione giovanile. Oh, quella era la più sadicamente divertente!

Violenza, vizio, eccesso. Sembrava la realizzazione dei gironi dell’inferno sul Mediano.

Se Lucifero avesse potuto mettere il naso fuori dalla sua voragine gli sarebbe venuta l’ansia a causa del numero di anime oscure che vagavano in giro.

Quel locale in cui aveva seguito l’umano era un ottimo esempio. Un concentrato di anime scure da sembrare quasi il buco nero da dove era stato ripescato da Zerachiel.

Però…

Spense il computer della biblioteca con calma, osservando il salvataggio della sessione sul monitor.

Era sorpreso. E non era cosa da poco esserlo, figuriamoci ammetterlo a se stesso.

L’umano, quello che doveva seguire, aveva un’anima intatta, candida. Quasi fastidiosa da quanto era bianca.

Come faceva? Come faceva a rimanere così puro immerso, anzi sommerso, in una gioventù come quella? Con amici come il ciccione alcolista e lo spacciatore cocainomane, per non parlare del donnaiolo malato di sesso…

Preservava se stesso solo grazie alla sua forza di volontà? Qualcuno gli aveva insegnato principi così saldi da mantenere la sua coscienza integra senza causare una ribellione?

Non sapeva che pensare. E forse non doveva nemmeno ragionarci sopra così tanto.

Era uno stupido, maledetto lavoro. Si sarebbe nutrito della sua forza vitale, lo avrebbe portato nell’aldilà, avrebbe fatto contento Enma e tanti saluti; sarebbe tornato nel suo limbo vuoto, a mai più rivederli.

Sbuffò, disturbato da nulla e da tutto, alzandosi dal proprio posto e dirigendosi fuori.

La biblioteca del campus rimaneva aperta anche la domenica, dando la possibilità agli studenti di preparare gli esami anche nel fine settimana, in cui - aveva imparato - le lezioni non avevano luogo. La porta d’ingresso dava direttamente sul giardino interno dell’università, gremito di ragazzi con gli ormoni in fermento occupati in attività più disparate.

Estrasse dalla tasca della polo nera un paio di occhiali da sole, indossandoli. Era un vero strazio quel tempo limpido per uno come lui, che aveva gli occhi così dannatamente chiari da sembrare anormali anche con l’aiuto delle lenti a contatto blu.

Osservò l’orologio sulla torre: le tredici e cinque. Secondo i documenti che Zerachiel gli aveva fatto il favore di impacchettargli a dovere, l’umano doveva essere a casa con la famiglia per il pranzo della domenica, parenti compresi.

Lungi da lui andare a disturbare la così poco attraente riunione famigliare. Si sarebbe limitato ad osservare da lontano, in barba al suo compito; ficcare il naso in una famigliola tutta sorrisi e smancerie sarebbe stato il colpo di grazia per la sua già torturata pazienza.

Joshua Archer si stava rivelando una faticaccia.

 

Non provava nulla di particolare a parte il disgusto, girando fra la gente.

Ai suoi occhi erano solo anime che vagabondavano avanti e indietro sulla superficie terrestre, occupati in attività così frenetiche da non essere nemmeno percepite come vere attività.

Aveva letto che la quotidianità era il veleno della società. Monotonia, noia, ripetitività: persone che non facevano altro che ripetere gli stessi gesti giorni dopo giorno, come automi programmati a dovere, per anni e anni senza mai variare veramente.

Che modo insulso di sprecare la loro così breve vita.

 

Giunse di fronte alla casa dell’umano dopo un quarto d’ora di cammino. Non era lontana dal campus, notò.

Non era male, per gli standard umani: una villetta a schiera e due piani, con giardino a fronte e sul retro, vialetto sul garage e aiuole pulite con fiori ben curati. Due mezzi di trasporto, uno troppo grande per occupare un posto in garage - a giudicare dal furgoncino sei posti 4x4 parcheggiato sul vialetto, con il nome di una società sportiva stampato sul fianco - e come minimo tre biciclette.

Abbassò di un poco gli occhiali da sole, concentrandosi sulla casa. Ne vide l’interno come se avesse degli occhi ad infrarossi, ma non il mobilio: le anime.

Ve ne erano sei, al momento. Il padre, il nonno e i due adolescenti in sala da pranzo - l’anima dell’obiettivo era così dannatamente luminosa da coprire le altre tre - mentre quelle della madre e della nonna brillavano fioche dalla cucina, diffondendo un alone grigiastro.

Non poteva sentire di cosa stessero discutendo, non era onnisciente e non aveva un udito supersonico come… qual’era il supereroe? Ah, Superman (fantasia portaci via…); ma la situazione all’interno non sembrava una delle più tranquille. L’anima del padre stava ingrigendo ancora di più, e questo era un effetto tipico del risentimento.

Si sistemò meglio gli occhiali, bloccando la sua vista “particolare”. Non ci volle molto perché la porta sbattesse violentemente e, da essa, ne uscisse l’obiettivo con l’aria di essere decisamente incazzato con il mondo.

O forse solo con il padre.

Fenomenale che la lucentezza del suo spirito non diminuisse nemmeno sotto l’effetto della collera! Significava che non era veramente arrabbiato… forse deluso, allora?

E lui era… curioso, sì. Forse vivere da umani aveva effetti collaterali simili.

Lo osservò dirigersi a passo svelto verso l’automobile in garage, le chiavi tintinnanti strette con forza eccessiva nella mano destra. Si fermò interdetto pochi metri prima della porta, palesemente disturbato dal furgoncino posteggiato sul vialetto - gli impediva di uscire con l’auto, considerò logicamente - poi si ficcò le mani nelle tasche dei pantaloncini neri, ignorando il laccio slacciato delle Convers per incamminarsi velocemente in direzione di Heaven Park.

La velocità del passo e i fulmini che lanciava dagli occhi contro gli ignari passanti la dicevano lunga sul suo stato emotivo. Tuttavia il lavoro era lavoro e Abrahel - ops, pardon, Joshua - lo seguì, mantenendosi a debita distanza.

Attraversò la strada alla prima occasione, percorrendo un pezzo della traversa alla fine della via. Come previsto si infilò in Heaven Park, sparendo alla vita inghiottito dalla vegetazione.

Tsk, come se fosse facile sfuggire ad uno come lui. Quell’umano aveva un’anima facente funzione di segnalatore luminoso e lui aveva il detector incorporato.

Attese che il semaforo pedonale scattasse, attraversando a passo lento la strada nella stessa direzione dell’umano.

Sarebbe sembrato un incontro casuale, come tutti gli altri. Un sorriso, una frase cortese, qualche commento sul caldo afoso. Un mezzo saluto dopo l’immancabile silenzio in cui sarebbero caduti; poi la sua voce che lo fermava, chiedendo di restare.

Aveva letto che quando le persone erano arrabbiate, puntualmente arrivava anche la tristezza. Era psicologico. E comune, follemente comune fra gli esseri umani.

L’umano non avrebbe fatto eccezione. Lo avrebbe invitato a rimanere solo per avere compagnia e non lambiccarsi il cervello sulla discussione inutile appena avuta e sulla sua indiscutibile fine.

E lui sarebbe rimasto, ovviamente. Era il suo fottutissimo incarico dopotutto, altro non poteva fare.

Proseguì diritto lungo il vialetto di Heaven Park - un nome ironico, veramente! - ignorando la maggior parte dei passanti che incontrava man mano. Alcuni intenti a passeggiare mano nella mano, altri in bicicletta; un gruppo di bambini giocava a pallone sull’erba mentre, sulle panchine, alcune vecchiette discutevano animatamente sull’uncinetto e sul punto croce, confrontando i loro lavori.

Fu poco più avanti che notò Eric, seduto all’ombra di un tiglio particolarmente rigoglioso. Tagliato un po’ fuori dal mondo, data la posizione della panchina molto oltre il viale, dove probabilmente voleva stare in quel momento.

Si avvicinò a passo moderato, calmo, uguale a quello che aveva mantenuto per tutto il tragitto dall’università a casa Everald fino al parco.

Eric lo notò. Non era difficile, dato che camminava esattamente di fronte a lui.

Azzardò un sorriso, con note più sorprese che seccate. Joshua rispose a sua volta, esibendosi nel più bell’esempio di sorriso allegro della storia degli ultimi due secoli. Nemmeno quell’attore, quel tale Orlando Bloom, sarebbe stato bravo quanto lui.

« Everald » pronunciò in saluto, fermandoglisi davanti con le mani ancora nelle tasche dei jeans.

« Archer » rispose quello, definitivamente sorpreso: « è quasi incredibile quanto spesso ci incontriamo. Potrei quasi asserire che mi stai pedinando, se non lo credessi impossibile » aggiunse.

Se avesse avuto un cuore, probabilmente gli sarebbe mancato il battito.

Ma accusò il colpo con classe, senza tradirsi. Non era abituato a doversi comportare da essere umano, ma mentire non era mai stata una fatica.

« Potrebbe sembrare, sì » disse con finta complicità, per poi aggiungere: « fa caldo, non è vero? ».

Eric annuì appena, scostando gli occhi dai suoi come se fosse in soggezione. Come se avesse potuto vederli oltre le lenti scure degli occhiali da sole, per giunta. « Sì, effettivamente fa caldo » concordò, facendo ben presto cadere il silenzio fra loro.

Joshua sorrise internamente. Esattamente come aveva previsto.

« Beh, allora ti lascio al tuo meritato riposo » soggiunse dopo qualche istante, dando l’impressione di aver afferrato la profondità del buco venutosi a creare nella conversazione. Tutto calcolato, ovviamente. « Ci vediamo » salutò, voltandosi e facendo per andarsene.

Bastò contare fino a tre.

« Archer? » lo chiamò l’altro da dietro.

Si lasciò sfuggire un sorrisetto, prima di voltarsi.

« Se ti va… e non hai niente da fare… sì, insomma, mi faresti compagnia? » domandò il castano, spostandosi inconsciamente un poco più di lato sulla panchina.

Il sorriso interiore si allargò ancora di più. Non sapeva come, ma provava una sorta di sadico divertimento a predire ogni mossa di quell’essere umano.

Annuì con il capo. « Va bene, non ho impegni oggi pomeriggio ».

E per i secoli dei secoli a venire, completò col pensiero.

Percorse al contrario i pochi passi che li separarono, sedendosi con innata eleganza sul lato della panchina lasciato libero dall’altro, improvvisamente rifugiatosi in un imbarazzato mutismo.

Come minimo si stava chiedendo per quale motivo lo avesse richiamato indietro. Ci avrebbe scommesso sopra.

Decise di lanciargli un salvagente: « perdonami la curiosità, ma ti vedo un po’ giù di corda… successo qualcosa? » chiese, senza essere in realtà per nulla interessato alla sua vita privata.

Eric esitò, scostando lo sguardo sui giardini davanti a loro. Osservò per quasi un minuto un pastore tedesco riportare il frisbee al padrone che lo aveva lanciato poi, sospirando con rassegnazione, parlò.

« E’ mio padre » affermò, portando le ginocchia divaricate al petto e appoggiando le braccia su di esse. « E’ allenatore di basket di una squadra locale, abbastanza in gamba tra l’altro. Non gli va giù che io abbia scelto il nuoto » spiegò cupo.

Tipico. Niente meglio di un battibecco famigliare a basso voltaggio per attaccare bottone.

« Perché eri bravo? » chiese, fingendosi moderatamente interessato.

« Perché ero il figlio » lo corresse Eric; una nota di risentimento vibrò nella sua voce. « Aveva bisogno di me, mi ha detto quando mi sono proposto per la squadra di nuoto del college. Ma non aveva bisogno di me » calcò con la voce: « aveva bisogno di un numero. O forse di gonfiare il suo orgoglio per poter dire “tartasso mio figlio giorno e notte fuori allenamento finchè non sputa la milza e suda sangue” » completò, leggermente più infervorato.

« Bella immagine » ironizzò Joshua.

« E’ quello che fa con mio fratello minore » chiarì l’altro: « ma ad Alex piace scodinzolare dietro papà, dunque peggio per lui. Almeno lascia in pace me ».

« Da come appari oggi, non si direbbe » notò Joshua, osservandolo di sbieco. Eric restituì lo sguardo.

« Sono solo… le sue allusioni » riprese, fissando il pastore tedesco come se dovesse dargli fuoco: « sempre. Continuamente. Soprattutto quando ci sono degli ospiti, o dei parenti; e quando sono presente anche io, ovviamente, altrimenti no, non si renderebbe necessario ». Una piccola pausa, un sospiro: « “è un vero peccato per Eric, ma cosa ci possiamo fare? Ha preferito l’acqua” oppure “mi ricordo ancora i tiri da tre di Eric, anche se quelli di Alex sono meglio” » fece il verso al padre. « Se sono così tanto meglio di cosa ti lamenti? Adesso ce l’hai il tuo figlio cestista: lascia in pace il mondo, cazzo! » sbottò infine, dando un calcio all’aria e lasciando ricadere la gamba sul metallo della panchina.

Se non fosse stato indelicato farlo, si sarebbe messo a ridere. Gli esseri umani trasformavano una cagata in un problema insormontabile.

Sogghignò, in effetti, ma non lo diede abilmente a vedere. « Mai pensato di parlarci? » propose invece, osservando a sua volta il cane con interesse nullo. Così, tanto per guardare la stessa cosa.

« Cosa? » esclamò l’altro, a metà fra lo sorpreso e l’orripilato.

« Parlarci » ripeté lui: « sai, è un’attività piuttosto comune per coloro che possiedono una capacità di linguaggio complessa ed intelligibile » scherzò appena, pacatamente.

« E per dirgli cosa? » domandò retorico: « non ascolta mai. Mai. Potrei parlargli del Super Ball come della fine del mondo e non mi presterebbe attenzione ugualmente » esclamò.

Dio, quanto la faceva complicata… « senza offesa Everald » cominciò però lui, voltandosi definitivamente verso il castano: « ma l’unica cosa che stai facendo in questo momento è lamentarti di qualcosa contro cui non prendi nemmeno provvedimenti. E’ come disprezzare i viaggi in treno mentre ci stai seduto sopra. Finché ti piangi addosso e vai a nasconderti non arriverai da nessuna parte ».

Eric aggrottò le sopracciglia, lo sguardo si fece seccato. « Sembri saperne un bel po’, eh? Dell’andare a nascondersi » ribatté.

L’espressione di Joshua si fece più seria nonostante gli occhiali da sole ne coprissero gli occhi.

Ne sapeva qualcosa, sì. Aveva passato gli ultimi due secoli a nascondersi.

Non rispose alla provocazione, tornando a fissare il parco. Eric Everald era l’ultima - e l’unica - persona nell’universo a cui volesse dare abbastanza peso per scatenare una reazione sentita ad una qualsivoglia provocazione verbale.

Era un Dio della Morte, santa merda. Lui non aveva il permesso di avere reazioni.

Ritornando un po’ in se stesso anche Eric si voltò verso il prato, mormorando qualche scusa sconnessa per la sua maleducazione.

Come se lui potesse offendersi per una cosa simile!

Non resistette a se stesso. L’impulso di parlare lo vinse.

« Qualche anno fa… » qualche SECOLO forse, si disse: « …in occasione di un viaggio studio in Belgio conobbi un pastore » cominciò, adattando la sua storia arcaica ad un immaginario moderno. Non era difficile, si ritrovò a pensare, mentre si assicurava di avere l’attenzione di Eric, silenzioso al suo fianco.

« Non era un uomo cattivo, o particolarmente stupido… era solo disperato. Aveva perso la moglie da poco, credo; non ricordo, sinceramente » proseguì, il tono di voce calmo di chi parla del tempo, o del risultato di una partita di calcio: « perse letteralmente la testa per un demone pagano. Così tanto che cominciò ad adorarlo, asserendo di potergli parlare, spiegando con una folle contentezza che il demone ricambiava i suoi sforzi per compiacerlo ».

Il castano pendeva dalle sue labbra. Ma non fu la totale attenzione del suo obiettivo la cosa che lo colpì di più.

Più che altro la sua stessa improvvisa propensione ai racconti vecchi quanto Giotto e il suo cerchio perfetto.

Continuò, indolente di tutto: « un giorno, quel pastore avvelenò il figlio. Sostenne che il demone glielo aveva richiesto come prova del suo amore incondizionato » rivelò, voltando nuovamente il capo in direzione di Eric.

La sua espressione non poteva esprimere maggiore stupore.

« Per me la parola “padre” non ha significato. Per questo ti consiglio di mettere le cose in chiaro, ma non da padre a figlio: devi farlo da uomo a uomo. E’ arrivato il momento che ti tratti come una persona, non come il prototipo venuto male di Magic Johnson » terminò.

Un silenzio di piombo cadde fra loro. Silenzio pieno di parole per le menti di entrambi, probabilmente; o perlomeno lo era per Joshua.

Stare sul Mediano faceva male davvero. Si stava abituando troppo in fretta ad essere umano, a quanto pareva, per lasciarsi trasportare così sentitamente da una discussione. Sulla famiglia, poi! Lui che nemmeno l’aveva!

« Certo che le sai mettere le cose in chiaro, quando serve » ironizzò poi Eric, ritrovando le parole e accompagnandole con una leggera risata.

« Sembra di sì » rispose lui, per nulla scomposto. A dire il vero era la prima volta che gli capitava, ma dirlo ad alta voce avrebbe scatenato sicuramente dei dubbi.

« Ti va di camminare un po’? » propose poi il castano, alzandosi. « Queste panchine non sono esattamente l’apoteosi della comodità » aggiunse come pretesto, stiracchiandosi.

Joshua annuì. Lo avrebbe comunque seguito per il resto del pomeriggio, tanto valeva farlo parlandoci. « Ho sentito che in centro hanno aperto una nuova gelateria, andiamo a vedere che gente gira » propose, riuscendo addirittura a far credere che la cosa lo entusiasmasse.

« Mh, aggiudicato » commentò il castano: « ho voglia di un gelato ».

 

Scoprì con interesse che non era così seccante, discorrere con Eric. Anzi, era intellettualmente piacevole.

Non era una testa vuota come la gente che lo accompagnava; anzi, tutt’altro.

Era sveglio. Parecchio, per essere uno studente di letteratura abituato a immergere il naso in libri impolverati, i testi vecchi di centinaia d’anni.

La conversazione, suo malgrado, aveva preso piede quando l’altro gli aveva confessato una certa passione per Shakespeare. Considerando che era l’unico autore che Joshua - o Abrahel, più verosimilmente - leggeva con un moderato interesse, i commenti sulle sue molteplici tragedie si concatenarono senza tregua per tutto il pomeriggio.

« il Romeo e Giulietta » confessò Eric, leccando con cipiglio critico il gelato al pompelmo dal cono: « sembrerà banale, ma è una delle sue opere che più apprezzo » aggiunse, annuendo a se stesso come per dirsi che la scelta del pompelmo non era stata avventata.

« Non sembra, è banale » intervenne Joshua, scrutando con recitata incuranza il frappè alla menta; in realtà senza esserne molto convinto. Lo aveva preso solo per non destare sospetti, dato che l’aveva tirata fuori lui l’idea della gelateria.

« Superficiale » lo accusò il castano.

« Non è superficialità » rispose lui, lasciando finalmente stare la cannuccia. « Romeo è il classico cretino che cade innamorato cotto solo per aver visto una ragazza un po’ più bella dello standard. Ipocrita, tra l’altro, dato che solo dodici ore prima sbavava dietro a Rosalina ».

« E’ perché è stato creato così che è diventato il “classico cretino”. E’ il Romeo di Shakespeare che ha dato forma al cosiddetto “classico cretino” » intervenne Everald con fervore.

« Se lo è divenuto è perché la tragedia rispecchia le abitudini frivole del periodo, dunque i creduloni cretini esistevano già » ribatté Joshua. « E Giulietta? Sarà colpa del gap generazionale, ma a me pare abbastanza libertina per essere una pudica vergine » disse, decidendosi ad assaggiare il frappé.

« Era solo innamorata! » la difese Eric, scandalizzato da ciò che sentiva.

Staccò con cautela le labbra dalla cannuccia. « E adesso mi dirai che Shakespeare ha ideato il colpo di fulmine, data la brevità con cui Giulietta ha deciso di sposarsi Romeo » ironizzò.

La brodaglia verde non faceva poi così schifo.

L’altro sogghignò. « Potrebbe, che ne sai? » chiese retorico, saltando sul posto per sedersi sul muretto al quale erano appoggiati entrambi.

Joshua fece spallucce.

« Benedetto Signore! » esclamò Eric a metà fra il divertimento e l’esasperazione: « c’è un personaggio che ti piace in quell’opera? Uno solo! » chiese, quasi pregandolo di rispondere positivamente.

Lo Shinigami attese qualche istante, prendendo un altro sorso di frappé. « Mercuzio » sentenziò poi.

« Mercuzio?! » ripeté interdetto l’altro: « lo sboccato? » aggiunse, con il tono di uno che non crede a quello che ha appena udito.

« Sì, Mercuzio » confermò il moro. « E’ il primo personaggio che muore ma è lungi dall’essere inutile. Scatena il senso di vendetta in Romeo, per il quale uccide Tebaldo, dando così il via alla caduta libera che porterà l’intera opera ad essere una tragedia come poche dopo di essa. Inoltre è il migliore amico di Romeo, gli vuole bene come ad un fratello, ma in punto di morte prova abbastanza risentimento da maledire entrambe le famiglie. E’ l’incarnazione della paura che gli umani provano di fronte alla… morte » l’ultima parola, dimentico del suo autocontrollo, gli uscì con voce soffocata.

Eric si zittì, pensoso. « Non l’avevo mai pensata in questo modo » si limitò ad ammettere poi, mangiando distrattamente il secondo gusto - banana - del cono.

Lo Shinigami non rispose. Come aveva fatto a farsi trascinare così profondamente dal discorso fino a dimenticarsi di moderare il linguaggio?

Nonostante fosse alquanto impossibile che un essere umano se ne uscisse con un: “Maddalena puttana, sei un dio della morte!” non voleva lasciare nulla al caso e, soprattutto, non doveva sottovalutare l’acutezza mentale che aveva scoperto essere qualità di Eric.

Un clacson interruppe il loro silenzio.

Alzò gli occhi probabilmente nello stesso istante dell’altro: un furgoncino a sei posti pieno di ragazzini era parcheggiato dall’altra parte della strada, il nome di un’associazione sportiva spiccava in caratteri color arancio sulla fiancata.

Udì Eric borbottare un mezzo insulto. Un uomo sulla cinquantina stava scendendo dallo sportello dell’autista, mentre sette facce li osservavano attraverso i finestrini della vettura.

« Eric! » sbottò l’uomo una volta attraversata la strada, pronunciando il nome con esaustiva prepotenza ma abbastanza piano da non attirare l’attenzione delle altre persone fuori dalla gelateria.

« Papà » ribatté il ragazzo atono, senza la minima intenzione di scendere dal muretto.

« Oggi c’è la partita! Te ne eri dimenticato? No, scommetto di no, vero? Lo fai apposta per farmi incazzare! » cominciò a dire, agitato ed arrabbiato al contempo.

« Papà, ti presento Joshua Archer » lo interruppe però il castano, incurante della sfuriata a voce bassa del padre.

Quello, come risvegliatosi da una sorta di trance di cui facevano parte solo lui e il figlio ribelle, lo osservò con espressione interdetta. « Oh, scusa la maleducazione » cercò subito di rimediare, probabilmente notando solo in quel momento che il figlio maggiore era in compagnia. Tese la mano, presentandosi: « Trent Everald ».

Joshua ricambiò la stretta il più brevemente possibile, quasi sfiorando con le sue dita fredde la mano calda e sudaticcia dell’uomo. « Joshua » si presentò a sua volta, riportando la mano nella tasca dei jeans.

Trent aveva notato la temperatura un po’ bassa della sua pelle, a giudicare da come aveva guardato la mano che lui aveva stretto. Ma Abrahel era altrettanto sicuro che avrebbe accantonato la cosa come una stranezza senza significato, dimenticandosela in quattro e quattr’otto.

« Allora, Joshua… come hai conosciuto mio figlio? » chiese, evidentemente costretto dall’etichetta a cercare di intrattenere una sottospecie di conversazione di cortesia con la persona che si è appena conosciuta.

Notò uno scatto di panico nell’espressione di Eric, ma lui aveva già la risposta pronta.

« Frequentiamo lo stesso college » disse infatti, pacato e con un sorriso tranquillo in volto.

« Oh, splendido » evidentemente apprezzava, data la spontaneità della risposta: « quale facoltà, se posso chiedere? » domandò.

« Fisica » rispose rapidamente, ma non troppo per palesare la sua poca intenzione di intrattenersi oltre le formalità di rito.

Anche Eric parve sorpreso. Dopotutto, considerò Joshua, non gli aveva ancora detto che frequentava Fisica nella sua stessa università. Non vi era ancora stata l’occasione.

« Buona fortuna per i tuoi studi, allora » augurò l’uomo, Joshua annuì. Poi tornò con gli occhi al figlio, incenerendolo quasi: « vorresti per cortesia venire con noi? C’è la partita » ricordò veemente.

« Non è la partita, è una partita! » puntualizzò il ragazzo, seccato: « e Alex di sicuro non si metterà a piangere dalla disperazione se per una volta non vado ad una sua partita di basket! ».

Lo sguardo del padre dardeggiò. « Ci siamo sempre andati tutti, e continueremo ad andarci tutti! E adesso scendi e sali in macchina! » ordinò, alzando il tono.

Alcuni ragazzi nelle vicinanze si voltarono, osservando straniti nella loro direzione per qualche istante.

Fu Eric a cedere. E Abrahel non si stupì che un’altra sua previsione avesse fatto centro.

« Per le mie gare non vale lo stesso ragionamento, però… » lo sentì bisbigliare, ma fece finta di nulla. Eric lo salutò controvoglia, mimando un ringraziamento con le labbra unito a delle scuse, probabilmente per la scena a cui aveva assistito.

Lui fece semplicemente un cenno negativo, sollevando appena la mano per salutarlo di rimando.

Osservò il furgone sparire e, considerando le facce degli occupanti, la rabbia di Trent Everald era infine esplosa.

 

Non rincasò.

Per un qualche motivo che non riusciva a spiegarsi, preferì di gran lunga passeggiare senza meta fino a sera e oltre, rendendosi conto di aver vagato praticamente per tutta la città solo quando il sole era completamente scomparso dietro la linea dell’orizzonte.

Lui non sentiva la fatica, era da dire. Per quello non si rendeva conto di quanto camminava, quando era immerso nei suoi pensieri.

E di cose su cui riflettere ne aveva fin troppe.

A cominciare dal pomeriggio passato in compagnia dell’obiettivo e dalla sua totale mancanza di precauzioni, da un certo punto in poi. Da qualche parte la sua autocoscienza aveva fatto acqua e lui non riusciva a trovare il punto in cui si era aperta la falla.

Secondo ma non meno importante, cominciava a sentire fame. Probabilmente due secoli di incoscienza ed immobilità avevano indebolito la sua resistenza, donandogli la sgradevole necessità di soddisfare il suo impulso a saziarsi prima del solito.

Si guardò attorno. A giudicare dalla vegetazione era di nuovo ad Heaven Park, solamente in un punto diverso rispetto a quello del primo pomeriggio; attorno a lui vi erano larici, infatti, non tigli, anche se con il buio della prima notte apparivano come una massa di alberi scuri dalle forme appena abbozzate.

Scrutò meglio, senza nemmeno il bisogno di assottigliare gli occhi. Era risaputo che i parchi pullulano di coppie di fidanzatini durante la notte, gli bastava trovarne una.

Ed eccoli, infatti, su di una panchina non molto lontana da lui. Abbracciati teneramente, sembravano impegnati in una conversazione a bassa voce fatta di paroline dolci e promesse d’eterno amore.

Storse il naso, profondamente disgustato dalle sue stesse ipotesi.

Le loro anime erano grigie, come quasi tutte le altre. Solo quella della donna sembrava un po’ più chiara, anche se di poco; un grigio cinereo sicuramente più gradevole del grigio asfalto di quella di lui.

Sospirò, chiudendo gli occhi. Doveva accontentarsi.

Quando li riaprì, era pronto per entrare in scena.

« Scusatemi! » sussurrò, dipingendosi in volto un’espressione di tenerezza colpevole. Corse verso la loro panchina, dove entrambi lo osservarono pacatamente stupiti.

« Sì? » chiese la ragazza una volta che fu davanti a loro, sicuramente molto più disposta del ragazzo ad accogliere la sua ancora inespressa richiesta d’aiuto.

« Mi dispiace disturbare il vostro… sì, insomma… la vostra chiacchierata » finse imbarazzo, magistralmente: « ma la mia ragazza si è persa - sapete, non è di queste parti - e io ho finito il credito nel cellulare » spiegò, velocemente ma senza dare l’idea che fosse tutto improvvisato: « potreste prestarmene uno? Ci metterò solo due minuti, il tempo di farmi spiegare dov’è » aggiunse, ancora fastidiosamente colpevole.

Il ragazzo lo squadrò, facendo per tirare fuori il suo non appena si convinse della sua menzognera buona fede. Gli tese il piccolo apparecchio e, approfittando del gesto, Anbrahel gli sfiorò le dita della mano con le proprie. Ci volle poco: in nemmeno cinque secondi le sue palpebre si abbassarono e il ragazzo cadde addormentato contro lo schienale della panchina.

« Jake? » chiamò lei, ancora interdetta da quello strano comportamento: « cosa ti succede? ».

« Starà bene » esordì il dio della morte, appoggiando il cellulare sulla panchina. Subito dopo toccò con l’indice destro la fronte della ragazza, i cui occhi si velarono di apatia, facendola cadere in una sorta di trance.

Fece un passo indietro, tenendo teso l’indice con cui aveva toccato la donna. Lo mosse da sotto in su in un movimento alquanto elegante e quella, seguendo la volontà dello Shinigami, si alzò in piedi.

Odiava quel lavoro per molti motivi, ma quello era sicuramente al primo posto: il doversi nutrire della forza vitale senza uccidere.

Non era facile. La differenza fra l’uccidere e il nutrirsi era enorme per loro, gli Shinigami, incatenati da leggi severe quanto crudeli. Un sottile equilibrio regolava la vita e la morte e loro erano le prime entità a non doverlo assolutamente infrangere.

Per tale motivo non potevano uccidere chi non era stato designato e, in modo analogo, non potevano far sì che la persona indicata continuasse a vivere.

Lui era sempre riuscito a scampare all’inconveniente. Li uccideva subito, senza aspettare, infrangendo le leggi di “buona condotta” imposte da Enma ma preservando perfettamente intatte quelle del mondo.

Obbligato ad attendere si sentiva come in trappola.

Chiuse gli occhi per un istante soltanto, concentrandosi. Non doveva ucciderla. Solo nutrirsi, rubarle energia vitale senza darle la morte. Non era la sua ora.

Riaprendo gli occhi con rinnovata convinzione si avvicinò, posando le labbra su quelle di lei.

Non un vero e proprio bacio, anche se lo somigliava. Poteva essere ironicamente chiamato “bacio della morte”, con un certo gusto per il macabro.

Attraverso le labbra socchiuse di entrambi cominciò a scorrere un fiotto di aria fredda, dalla bocca di lei a quella di lui. Energia vitale, più semplicemente, anche se il sapore era alquanto sgradevole.

Acida. Come un’arancia non ancora matura, scorreva nella sua gola dandogli forza e disgusto al contempo. Era come bere un bicchiere di succo puro di limone, non zuccherato o allungato con acqua o sciroppo. Sinceramente disgustoso.

Forzando se stesso, dopo quelli che parvero minuti quanto in realtà erano si e no venti secondi, Abrahel si distaccò con uno scatto indietro del busto, accompagnato da un passo. Strinse gli occhi, portandosi la mano destra alla bocca, chiudendola per non avere la tentazione di terminare di rubare quello che aveva cominciato a prendere dalla ragazza, caduta a peso morto a terra, girata su un fianco.

Tutto si faceva dolce, nella morte. Persino il sapore schifosamente acido di quell’anima cinerea.

Ed era difficile smettere di succhiare fluido vitale quando si conosceva la dolcezza che emanava un’anima che muore.

« Maledizione… » imprecò a denti stretti, serrando gli occhi con tutta l’intenzione di recuperare un minimo di controllo su se stesso e sulle sue pulsioni. Sembravano amplificate di dieci volte, da quando aveva ritrovato la forma umana e si era messo a vivere come uno di loro.

Ed erano passate solo quarantotto ore…

Un leggero battere di mani pervase l’aria, poco distante. Un battito che, si rese conto, poteva tranquillamente essere un applauso appositamente lento.

Voltò il capo nella direzione da cui proveniva. Non si stupì di quello che vide, ma sicuramente non si aspettava di avere anche pubblico di quel tipo.

Un giovane stava in piedi esattamente al centro del vialetto, immobile e così effimero da sembrare una scultura di innaturale bellezza.

La pelle del viso era delicata e chiara, con appena un tocco rosato sulle guance che però non dava eccessivo colore al suo pallore. Lunghi capelli, sottili come fili di seta, erano racchiusi da un elastico in una coda di cavallo alta sulla nuca, di un biondo così chiaro da rilucere d’argento alla luce soffusa delle lampade del parco. Vestiva di scuro - jeans neri e una maglia smanicata a collo alto - ma quello che dava sicuramente più nell’occhio era il colore dei suoi occhi, rilucenti in modo sinistro nella semi oscurità: rossi. Un rosso rubino molto simile a quello del sangue.

Sembrava un adolescente, ma il suo sguardo esprimeva molto più della quasi ventina d’anni che dimostrava.

« Shinigami » disse poi, abbassando le mani ancora intente a battere l’una sull’altra: « incontrare roba come te è raro quanto parlare alla Madonna » esordì.

Il linguaggio non era gentile quanto lo era la sua bellezza.

Arricciò il naso. « Vampiri » si fece scivolare fuori dalla bocca nel medesimo tono, ma non vi riuscì propriamente; venne molto, molto peggio: « il vostro senso dell’umorismo è scarso come sempre » commentò, ritrovando la compostezza.

Aveva messo in conto di poter incontrare altre creature “metafisiche”, ma mai in un parco pubblico così affollato.

Il ragazzo sembrò ilarmente accigliato, quasi curioso, come se non si aspettasse altro che una piacevole chiacchierata da quell’incontro. « Hai visto altri vampiri? » chiese, nello stesso modo in cui si chiede il conto in un ristorante, o che tempo farà nel week end.

« E tu altri Shinigami? » domandò lui in risposta.

Un piccolo sorriso: « Sono abbastanza vecchio da poter dire di sì ».

« Perfetto. Allora ti manca solo la Madonna » ribatté spontaneamente, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans e rimanendo ad osservare il vampiro. Entrambi non avevano motivo di temere l’altro; come molte altre creature, i vampiri non erano soggetti alle leggi che regolavano il loro mondo. Il fatto che non potessero morire - nemmeno invecchiare, veramente - fungeva da scappatoia alla morte vera e propria.

Il loro corpo era già morto, dopotutto.

« Cosa ci fai qui? Credevo che voi sanguisughe batteste i vicoli in cerca degli scarti della società » disse poi, aspettando invano che il vampiro rispondesse alla sua battuta.

« Una regola che non vale più » fece spallucce l’altro, facendo sparire le mani nelle tasche dei pantaloni neri: « i vicoli ora sono battuti anche dai poliziotti, non solo da noi. Umani, non si fidano mai di ciò che non possono vedere » ironizzò, sogghignando appena alla sua sottile battuta. « E’ in posti come questo che si trova parecchia feccia. Ovviamente non sul vialetto… »

Abrahel storse il naso; era una frecciatina puntata diritta su di lui.

«ma nascosti dietro gli alberi ci trovi scippatori, spacciatori… se dice bene la serata, anche qualche violentatore seriale » terminò l’altro.

Il suo stomaco ebbe un moto di disgusto. Tutte anime oscure, tutte; poteva sentirne il sapore amaro della loro sporca linfa vitale anche senza avercela direttamente in bocca.

« Disgustoso » commentò.

« Concordo » rispose l’altro: « ma, per quanto strano, anche noi sanguisughe abbiamo delle regole. Non posso mettermi a mordere bambini, mammine, giovani ragazzine o ragazzini di nemmeno vent’anni » affermò, calcando con la voce sul termine usato prima dallo Shinigami.

Abrahel non rispose. Si limitò a guardarlo camminare, osservandolo procedere in avanti in sua direzione fino a superarlo, il passo pacato e l’aria di chi non si cura di nulla.

« Nome? » chiese quando ce lo ebbe a pochi passi di fronte.

« Marcus » rispose quello: « ma data l’epoca, è meglio Alec » precisò.

Lo Shinigami annuì solamente, ricambiando le formalità: « Abrahel » disse, rispettando il tacito accordo appena accesosi fra loro: complicità. Fra tutti loro, creature ultraterrene, nonostante le apprensioni che dividevano le diverse razze vi era una sorta di codice d’onore unitario.

E questo codice era prima di tutto la cortesia.

« Con permesso » sussurrò il vampiro passandogli a fianco. Poi, uno spostamento d’aria.

Non rispose e non si voltò. Molto probabilmente era già sparito.

 

 

 

 

Earvin “Magic” Johnson jr.: giocatore NBA molto famoso, praticamente uno dei mostri storici del basket. Giocava come playmaker.

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So che Marcus sembra un personaggio piantato lì dal nulla, ma fidatevi: più avanti avrà il suo ruolo XD

Per ora, ringrazio tutti quelli che hanno avuto il fegato di arrivare a leggere fino a qui. Troppo buoni, davvero.

E, naturalmente, tutti coloro che hanno recensito!

 

Kicchina: Oh, Peter Pan Theory. Ed è vero, effettivamente mi sembrava di aver visto il tuo nick da qualche altra parte O.ò

Comincio con il ringraziarti per i complimenti sulla scrittura. Mi fanno sempre piacere e, suvvia, mi hai decisamente elogiato al di sopra di ogni mia immaginazione. Diciamo che ci godo come il riccio sulla spontex, dato che la mia autostima solitamente fatica a galleggiare intorno allo zero U___ù.

Per quanto riguarda i personaggi, beh… posso dire che mi impegno per renderli interessanti, ma non riesco a stabilire autonomamente se mi riesce. Cerco sempre di evitare i soliti cliché scontati, ma non è detto che abbia successo XP. Eric, soprattutto, dovrebbe riservare ancora qualche sorpresina.

Prima che mi dilunghi troppo, ti ringrazio nuovamente per tutti i complimenti e per aver recensito.

 

_Metallica_: Oddio, no, l’infarto no! *sventola il foglio degli appunti nel tentativo di evitare la crisi cardiaca*.

Bando alle ciance: sì, anche io solitamente le fic che parlano di Shinigami le salto in pacca. Mi ricordano troppo Yami no Matsuei, o trovo collegamenti con il suddetto, dunque non mi fido. Il fatto che poi io mi sia trovata a scriverne una è totalmente estrinseco dal mio volere, lo giuro! XD Il corso degli eventi ha voluto così.

Ti ringrazio molto per la recensione e per i complimenti sullo stile. Sono felice, ovviamente, che piaccia… non riesco mai a capire se sia venuta bene o meno, rileggendola. Se apprezzi vuol dire che non sta uscendo poi così male XD

E poi, ti dirò. Sono sette capitoli più Antefatto ed Epilogo… quindi alla fine sono nove, no? *si sente il rumore degli specchi su cui si sta arrampicando*.

 

dea73: come detto abbondantemente sopra, grazie per la recensione. E no, il fatto che i protagonisti siano dei bei fanciulli non è assolutamente casuale. Insomma… com’è che si dice? “L’occhio vuole la sua parte”, no? XP

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Capitolo 4
*** Monday ***


Penso che non finirò mai di ringraziare Bunny per avermi portato al concerto dei Birthday Massacre

Penso che non finirò mai di ringraziare Bunny per avermi portato al concerto dei Birthday Massacre. Mi sono innamorata di una loro canzone (e del relativo video, seppure inquietante) che mi ha accompagnato per tutta l’ultima parte del capitolo.

Per chi se la vuole ascoltare e non la conosce, è Looking Glass. Il titolo del capitolo è preso dal testo.

Note: Daniel Wayne, che viene citato, non mi appartiene. E’ stato creato e viene schiavizzato da Shichan, che me ne presta i servigi quando ne necessito XD perciò: grazie Shichan.

 

 

Monday

 

Eric

It’s a glass cage, so I can’t pretend...

 

 

 

Sembrava monotono e altresì comune, ma avrebbe potuto giurare che il lunedì fosse il giorno che odiava di più.

Motivazioni? Diverse.

Per definizione è il primo giorno della settimana. Il tedio di alzarsi presto la mattina cominciava a percepirsi sin dalla sera prima e sentire l’insistente “bip bip” come primo suono appena svegli era decisamente debilitante.

Inoltre, la sua famiglia. Anche se quello era un problema di tutti i giorni, non solo del lunedì.

Suo padre era un uomo all’antica, già. Per lui i pasti - colazione compresa, dunque - erano i momenti di maggiore importanza della giornata, e oltre a costringerli tutti ad ingoiare vitamine e proteine pretendeva che tutta la famiglia fosse presente e riunita.

Questo progetto prevedeva l’alzarsi mezz’ora prima del necessario: minuti di sonno che nessuno gli avrebbe ridato mai.

Anche quel giorno nulla variò. La sveglia suonò alle sei come sempre, dovette litigarsi il bagno con il fratello come sempre, finì per arrivare ultimo come sempre. E, come sempre…

« Sei in ritardo ».

La voce severa del padre giunse come il brontolio di un drago a digiuno dalla cucina, dove lui e Alex avevano appena interrotto una conversazione sicuramente incentrata sul basket.

E nessuno andrebbe ad accarezzare un drago a digiuno, ammettiamolo.

« Buongiorno anche a te, papà » salutò lui, con palese ironia, sistemandosi meglio la maglia nera e gettando zaino e borsone contro il muro prima di entrare in cucina. Spettinò i capelli del fratellino, diede un piccolo bacio sulla guancia alla madre e si andò a posizionare alla destra del padre, facendo stridere la sedia nello spostarla.

L’uomo gli scoccò un’occhiataccia che lui ignorò.

« Allora ragazzi, cosa farete oggi? » cominciò la madre, posando davanti ai due un piatto con uova strapazzate e pancetta. Ignorando lo stomaco che si contorceva con disappunto, si versò un bicchiere di succo d’arancia.

« Scuola » rispose Alex allegramente: « poi allenamento. Io e papà vogliamo provare con Rick la nuova finta che abbiamo sperimentato ieri pomeriggio, dovremo riuscire a vincere contro i Pidgeons se riusciamo a coordinarci bene e a metterla in pratica al tempo giusto » terminò quasi raggiante, infilzando con la forchetta un po’ di uovo.

Il suo stomaco si rivoltò come un calzino, ma per l’ennesima volta non vi badò; preferì armarsi di coltello e cominciare a sbocconcellare la sua fetta di pancetta.

« Bene, divertiti » rispose cortese la madre, sedendosi alla sinistra del padre, seduto a capotavola. « E tu Eric? » chiese poi, osservandolo con lo stesso sorriso che aveva appena riservato al figlio più piccolo.

Eric si bloccò con la forchetta a mezz’aria, guardandola appena. « Oggi ho lezione, poi vado a pranzo con McFarland. Nel pomeriggio sto in biblioteca, devo preparare un elaborato; dopo ho allenamento » terminò, riassumendo.

Ovviamente non poteva essere abbastanza, per quella mattina. Se Eric non metteva piede fuori di casa con l’umore tendente al nero, suo padre non si considerarava realizzato.

« Quanto hai intenzione di stare in piscina? » chiese, con l’evidente tono di chi disprezza dalla prima all’ultima lettera della frase che ha appena pronunciato.

« Al solito » ribatté lui, cercando di mantenere lo status quo solo per non infognarsi nell’ennesima discussione senza senso con colui che si professava suo genitore: « finisco alle otto e mezza. Come tutta la scorsa settimana e da un anno a questa parte » commentò, ingoiando a fatica un po’ d’uovo che subito annaffiò con del succo di frutta.

Trent aggrottò le sopracciglia. « Non mi piace il tuo tono, ragazzo ».

“Ragazzo”. Come se lui non fosse suo padre, ma suo nonno o suo zio. Qualcuno di più distante, nell’albero genealogico della famiglia Everald; qualcuno tagliato fuori solo perché non rincorreva una palla arancione per farla passare in una rete sospesa a mezz’aria.

Non rispose alla provocazione. Non ne valeva la pena di avvelenarsi il sangue.

Guardò in basso, invece, dove le uova lo stavano implorando di mangiarle ma il suo stomaco aveva deciso di non collaborare. Si arrese ben presto all’evidenza che non avrebbe toccato oltre la sua colazione.

« Scusatemi » sussurrò con faticosa cortesia, alzandosi velocemente. Per evitare che suo padre, finito il boccone, cominciasse la sua paternale di “quando ci si alza dal tavolo” e “si esce di casa tutti insieme”.

Gli faceva venire da vomitare, il fatto che suo padre lo considerasse a parole membro della famiglia e lo escludesse dal concetto con i gesti e con l’atteggiamento che gli dimostrava.

Uscì dalla porta con un frettoloso saluto, udendo la voce dell’uomo solo quando ormai era a cavallo della mountain bike.

 

La scuola non gli era mai piaciuta.

Era sempre stato un tipo molto movimentato, amante della vita all’aria aperta, e passare tutti i giorni sei ore seduto ad un banco non era esattamente la sua idea di “libertà”.

Tuttavia all’epoca giocava a basket, di conseguenza andava d’accordo con il padre. Fu quando decise di andare per una vita tutta sua che i ruoli si invertirono: casa era una specie di carcere di massima sicurezza mentre il college era divenuto la sua nuova boccata d’aria fresca.

Forse era per quello che passava fuori casa la maggior parte del tempo. E, al contempo, forse era per quello che il lunedì mattina a scuola non assumeva contorni così tanto traumatici.

« Ev! » sentì esclamare, appena prima che McFarland gli piombasse addosso travolgendolo con la sua incredibile allegria sin dal primo mattino: « come hai passato queste ventiquattro ore lunghissime che ci hanno separato nel week end? » scherzò ad alta voce, attirando le occhiate di parecchia gente nei paraggi.

« Le più belle della mia vita » rispose a tono Eric con un sorrisetto, scrollandoselo di dosso.

« Crudele » ribatté l’altro: « bisognerebbe avvertire tutte quelle poverette che ti fanno il filo, potrebbero rimanere veramente ferite da questo tuo comportamento anti-sociale » esplicò con improvvisa eloquenza, camminando al suo fianco in direzione del dipartimento di Letteratura.

Il castano ridacchiò, guardandosi intorno senza rispondergli. Non erano pochi gli studenti che non avevano lezione presto al lunedì mattina, e non era strano vederli chiacchierare seduti in cerchio sull’erba del campus. Soprattutto se era una giornata niente male e il tempo prometteva bene.

Non fu difficile individuare chi, in realtà, si era ritrovato a cercare con lo sguardo. Occhi come quelli, una volta registrati bene in mente, saltano all’attenzione fin troppo velocemente: più o meno come gli oggetti di segrete ossessioni.

E non poteva non ammettere a se stesso che la sua fissazione non lo stesse diventando.

Archer stava seduto su una panchina del parco, tranquillo, nessuno intorno. Leggeva, da quello che sembrava a lui, un libretto piccolo e dalla copertina piuttosto consunta dal titolo in lettere d’oro che non riusciva a leggere. Indossava un paio di pantaloni neri e una semplice maglietta bianca, ma anche nella più assurda semplicità di vestiario quell’abbigliamento gli si incollava addosso come una seconda pelle, cadendogli perfettamente, quasi fosse stato disegnato appositamente per lui e poi messo in commercio.

Si rese conto di essersi fermato a guardarlo solo quando la voce perennemente su di giri di Jonathan lo riscosse dal suo improvviso torpore.

« Ev, chi cavolo stai guardando? » chiese, incuriosito più che stizzito, appoggiandosi sulle sue spalle e cercando a sua volta l’oggetto dello sguardo di Eric.

Per fortuna aveva una capacità spiccata di non dare a vedere l’imbarazzo e di avere quasi sempre la risposta pronta:

« Archer » rispose con una perfettamente recitata calma: « lo conosci? ».

« E chi non lo conosce? » ribatté quello, assottigliando lo sguardo come se stesse guardando un nemico... o un rivale, più che altro. « Joshua Archer, Fisica, classe del professor Wayne » continuò: « è qui da quanto? Due giorni? Forse tre. E sembra già che la metà delle ragazze di questa stramaledetta università si siano innamorate pazzamente di lui. Non so quante dichiarazioni o quanti atti di deliberata seduzione abbia già subito, ma da quello che ho capito non si è messo con nessuna e non ha la ragazza. E’ il fottuto playboy di origine ignota » biascicò a denti stretti, togliendosi da sopra le sue spalle per riprendere a camminare in direzione della facoltà. Anche Eric gli andò dietro, costringendosi a scostare lo sguardo da Joshua.

Prese fiato per parlare, ma decise di non farlo. Con l’incazzatura che si era fatto venire Jonathan, se gli diceva cose come “io l’ho conosciuto e non mi sembra male” poteva tranquillamente ritrovarsi in uno dei fossi dietro la scuola con un pugnale piantato nello stomaco; McFarland era in grado di farlo, oh sì.

Optò dunque per un approccio più idiota: « cioè, fammi capire: una persona ti chiede informazioni su uno nuovo e la prima cosa che gli dici è la sua vita sentimentale e il suo grado di popolarità nella sfera femminile? » ironizzò, ridacchiando in sua direzione con una finta aria scioccata.

L’altro lo fulminò, salvo poi togliere da lui lo sguardo con un leggero rossore sulle guance: « e cos’altro ti devo dire? Ho sentito solo questo in giro » si giustificò.

« Hai sentito solo questo perché ti interessava solo questo, e di conseguenza hai ascoltato solo questo » lo corresse Eric, colpendo direttamente il nervo scoperto: « possibile che tutta la tua esistenza giri intorno al sesso e alle ragazze, McFarland? » domandò falsamente lamentoso, anche se la risposta già la conosceva.

« Ovvio, su cos’altro dovrebbe girare, scusa? » rispose l’altro, sgranando gli occhi come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Eh già, su cos’altro?

 

« Noterete che l’inglese usato è diverso da quello contemporaneo » stava spiegando il giovane professore, indicando sulla lavagna alcuni pronomi personali scritti in bella grafia: « “thou”, per esempio, è una forma arcaica di “you”. Lo utilizzava Shakespeare e, se non avete sbagliato aula andando a biologia, saprete sicuramente che il caro William visse nella seconda metà del sedicesimo secolo ».

Una lieve risata si sollevò dagli studenti in ascolto, sicuramente più numerosi rispetto a molti altri corsi.

Il professor Wallacy sorrise a sua volta, voltandosi nuovamente verso alla lavagna ad indicare la forma possessiva del pronome appena menzionato.

Eric, come altri, trovava che Elliot Wallacy avesse una marcia in più rispetto agli altri professori. E non solo per l’aspetto fisico, che lo faceva assomigliare molto da vicino ad una specie di essere angelico sceso da una qualche parte del paradiso, ma soprattutto per la passione e la gioia con cui insegnava la sua materia: Letteratura Inglese.

Aveva i capelli mossi e biondi, corti a sfiorare il collo, e un paio d’occhi azzurro cielo sempre solcati da un’allegria contagiosa. Ventisei anni, giovanissimo rispetto allo standard dei professori, eppure era già un associato e con una classe tutta sua. Record d’età battuto solo dal suo collega Daniel Wayne, insegnante di Fisica Meccanica, ex bambino prodigio ora ventiquattrenne.

Si appoggiò con il mento alla mano destra, il cui relativo gomito era puntato sulla plastica rigida del poggia libri della sedia. Osservò con cipiglio distratto il professore, seguendone i lineamenti delle dita affusolate solo per l’improponibile scopo di pensare a tutt’altro e perdersi la rimanente parte della lezione.

Non ne poteva veramente più.

Ogni volta che suo padre apriva bocca si sentiva come la pecora nera nell’ovile di quelle bianche.

Non meritevole, non degno. Solo perché aveva scelto la sua strada, e perché quella strada andava contro i suoi voleri e valori.

Perché non poteva essere un padre come tutti gli altri? Perché non poteva semplicemente dirgli “vai, Eric, vai con Dio”? Perché doveva essere sempre così terribilmente, pesantemente stressante? Perché doveva comandare a bacchetta ogni aspetto della sua giornata per sentirsi soddisfatto?

Sospirò, socchiudendo gli occhi per non permettere al nervosismo di salire a galla. Erano tutte domande che non avrebbero mai trovato risposta, e lui lo sapeva benissimo, ma non poteva fare a meno di ripetersele in un lento ritornello senza fine.

E non poteva nemmeno impedire alla rabbia di comparire, di chiudergli lo stomaco trasformandosi in frustrazione, di fargli accelerare il cuore finché non si rendeva conto di stare per impazzire, come un moccioso, un fottuto bambino che si trova da solo quando ha paura del buio.

Scosse appena il capo, tornando ad osservare la lavagna. Ma la concentrazione evidentemente aveva smesso di essergli amica, perché le parole del professor Wallacy scivolavano sulla sua mente come una coperta di seta, troppo liscia e morbida per rimanere su di lui a lungo.

La campanella di fine lezioni lo salvò da una sicura crisi di nervosismo.

Non si preoccupò nemmeno di aspettare o salutare McFarland: raccolse le sue cose in fretta e furia per poi uscire dall’aula come un fulmine, spintonando e dribblando chi camminava troppo lentamente.

Aveva bisogno di aria. Sentiva di non riuscire più a respirare al chiuso, intrappolato fra mura e persone.

Si diresse a grandi passi verso l’uscita, incredibilmente più lontana di quello che immaginava di ricordare. Persino il corridoio sembrava più lungo, e tutte le volte che osservava una delle persone che sorpassava correndo, quella dopo sembrava avere gli stessi vestiti, gli stessi capelli... magari essere la stessa persona che aveva superato pochi passi prima.

Stava male. Si sentiva il torace come stretto in una morsa.

Aria. Aria!

Finalmente raggiunse la porta e, spalancandola di malagrazia, corse per cinque passi oltre al viale, in mezzo ai giardini. Alcuni ragazzi si girarono a guardarlo, straniti.

Respirò a fondo molte volte prima di rendersi conto di stare ansimando. Il sangue sembrava non trovare più la strada per arrivare al cervello mentre il surplus di ossigeno che inspirava si traduceva tutto in un offuscamento generale della  vista. Notò con uno sprazzo di lucidità che il cuore sembrava uscirgli di petto da quanto batteva forte e veloce, manco avesse nuotato i quattrocento metri stile libero battendo il record mondiale.

Portò il polso sinistro, con l’orologio da polso, davanti agli occhi mentre poggiava due dita della destra sulla carotide. Sotto la pelle l’arteria sembrava un martello. Batteva contro i suoi polpastrelli come se dovesse uscire dalla gola entro pochi secondi.

Cercò di calmarsi, trattenendo il fiato in modo da regolarizzare i respiri ed immettere nei polmoni la giusta quantità di ossigeno. Nel frattempo, Prese a contare i battiti.

Uno, due, tre, quattro... quando superarono gli otto ogni cinque secondi, fece un veloce calcolo. Era vicino ai cento battiti al minuto, e decisamente non era colpa della corsetta che aveva compiuto per uscire dall’edificio.

Che cosa cavolo stava succedendo?

Aspetta... non era il suo cuore che impazziva, vero? Non gli stava giocando un brutto scherzo alla sua età, vero?

In un moto di lucidità (o di follia?) fece una rapida scorsa mentale di chi in famiglia aveva avuto problemi di cuore. Nessuno, a quanto ne sapeva.

Ma giusto, lui che ne sapeva? Magari un suo lontano parente da parte di madre era cardiopatico e lui nemmeno lo sapeva. Un cugino che non aveva mai conosciuto, o uno zio segreto di Philadelphia.

Tutte quelle congetture non facevano altro che agitarlo, e l’agitazione gli faceva schizzare il cuore a livelli da tachicardia. Si accorse di essere quasi piegato in due, da come le sue mani stavano aggrappate alle ginocchia, reggendo probabilmente il tronco in procinto di piegarsi ancora di più.

Fu probabilmente per quello, che non lo vide arrivare...

« Ehi, ti senti bene? »

Se non fosse stato piegato in due in quello che cominciava a considerare come un principio d’infarto, probabilmente avrebbe riconosciuto la voce. Ma la domanda improvvisa, la posizione retrostante e il tocco della mano sulla spalla ebbero il brutto risultato di farlo reagire d’impulso; si voltò di scatto, scostando con uno schiaffo la mano del povero malcapitato che lo voleva aiutare.

Malcapitato con degli stranissimi, quanto bellissimi, occhi di cristallo azzurro.

« Ar... cher? » ansimò Eric, rendendosi improvvisamente conto di non riuscire nemmeno a parlare coerentemente.

L’altro sembrò stupito, inizialmente; poi un lampo di preoccupazione gli attraversò lo sguardo... o forse no? Era ansia, quella? Sembrava la faccia di uno che si trova davanti ad una situazione completamente imprevista, non calcolata.

Beh, magari uno studente in preda ad un infarto lo era, imprevisto, no?

« Everald, datti una calmata » disse poi, sfoggiando la sua caratteristica calma: « e siediti, sei pallido come un lenzuolo » aggiunse.

Ah! La faceva facile, lui. Non era mica semplice come prestargli una matita!

Ma decise di fidarsi. Se Joshua sapeva cosa cavolo fare in situazioni come quella, magari per scongiurare l’infarto che – ormai ne era sicuro! – stava per stroncargli la carriera agonistica appena iniziata, ben venisse!

Lo sentì appoggiargli le mani sulle braccia, accompagnandolo ad una vicina panchina in legno. « Stenditi e piega le gambe » gli sentì dire, e non ebbe la forza di chiedere spiegazioni o di rifiutarsi di farlo; sotto lo sguardo di passanti un po’ curiosi, si stese con la schiena sul legno e piegò le ginocchia.

Già meglio. Almeno la testa stava ferma al suo posto, ora.

« Cosa ti senti? » gli chiese Joshua, e si domandò mentalmente come cavolo aveva fatto a non riconoscere prima quel tono particolarmente pacato e quel modo suadente di parlare.

« E’... un infarto. Lo so. Lo sen... to » ansimò, portando l’avambraccio a coprirsi gli occhi. Nonostante fossero all’ombra se li sentiva umidi.

« Se fosse un infarto a quest’ora saresti su un’ambulanza » rispose pacatamente l’altro. Un fruscio di abiti gli rivelò che si era chinato al suo fianco, appena prima che un paio di dita fredde si posassero sul suo collo, sentendo la carotide proprio nell’esatto punto in cui prima se l’era ascoltata lui stesso.

Scostò il braccio, osservandolo. Il viso dai lineamenti delicati ma mascolini era concentrato sulla lancetta dei secondi del suo orologio da polso, uno vecchio Swatch di almeno una decina d’anni prima con il cinturino in pelle un po’ consunto.

Non parlò, lasciando che gli prendesse il battito. Se lo sentiva rimbombare nel petto ancora velocemente, ma non tanto quanto prima.

« Quanti caffè hai bevuto oggi? » domandò all’improvviso l’altro, senza spostare la mano dal suo collo.

Ed Eric cominciava a sperare che non lo facesse mai: era piacevolmente fresca e sembrava non scaldarsi nemmeno a contatto con il calore emanato dal suo corpo.

« Due » ammise: « prima di entrare in aula. McFarland ha lasciato lì il suo, l’ho bevuto io » riuscì a dire, stranamente senza interrompersi per ansimare.

Joshua sbuffò. « Cos’hai mangiato a colazione? » chiese poi, apparentemente seccato.

“Mangiato” non era il termine adatto. Quel pezzo infinitesimale di uovo e quel boccone di pancetta non valevano quanto una vera colazione. « Quasi nulla » rispose dunque, anche se non capiva esattamente il senso delle domande.

Gli fu rivelato molto presto, con tanto di buffetto sulla fronte: « il tuo problema si chiama tachicardia, genio del male, e sono sicuro che la tua iniezione masochistica di caffeina in tazza a stomaco vuoto ne sia la causa » lo riprese, alzandosi per andare a sedersi sul pezzo libero di panchina.

Maledì il caffè. Gli sembrava la prima cosa che andava assolutamente fatta. Di seguito, compatì se stesso e la sua idiotissima figura di merda.

Cercò di recuperare, in un qualche modo: « “Eric” va bene » se ne uscì, incredibile ma vero, in un discorso tutto suo che non c’entrava niente con il contesto in cui erano.

« Cosa? » chiese infatti l’altro, voltandosi con il capo in sua direzione. Non sembrava più seccato, adesso.

« Puoi chiamarmi Eric, va bene lo stesso » chiarì. Lo aveva chiamato “Everald” prima; nonostante il trambusto se ne era accorto.

L’altro sembrò pensarci sopra. « Allora è “Joshua”, per te » ribatté in seguito, tornando con gli occhi ad un punto indefinito del cortile.

« Va bene anche “Josh”? » chiese il castano ridacchiando, puntando gli occhi nocciola su quelli freddi ma stranamente affascinanti dell’altro.

« Come vuoi » fu la tiepida risposta, che però non era un rifiuto.

Eric sospirò, rilassandosi. Doveva ancora chiarire come una semplice chiacchierata con quel ragazzo spuntato dal nulla riuscisse a calmargli non solo gli istinti omicidi, ma persino il cuore impazzito in avanzata rapida.

Ora che la tranquillità aveva preso il posto del terrore, si rese conto di avere avuto veramente paura, anche se per alcuni istanti apparentemente interminabili.

« Credevo di morire... » sussurrò, una risata vuota ad accompagnare i suoi occhi chiusi.

« Non ancora » rispose velocemente Joshua, forse troppo. Salvo poi aggiungere: « ...a quanto pare ».

Fra loro calò il silenzio. Eric sentiva rallentare pian piano il suo battito cardiaco e ben presto ebbe abbastanza controllo su se stesso da riuscire a mettersi seduto.

« Meglio? » domandò Joshua pacatamente, incurvando appena le labbra in un sorriso.

Il castano annuì.

« Ti converrebbe mangiare qualcosa » aggiunse poi il moro: « possibilmente senza caffè » ironizzò lievemente.

« Non toccherò una tazza di caffè per il prossimo mese, cavolo. Ho le selezioni per i nazionali la prossima settimana, non posso rischiare di stramazzare in vasca con il cuore a mille » rivelò, entusiasta.

L’espressione di Joshua non variò. Nemmeno un po’. Si limitava ad osservarlo con quel sorriso gentile ma vuoto, come se gli fosse stato dipinto addosso e lì rimasto invariato.

Non parlò nemmeno, probabilmente perso in pensieri suoi. Scostò solo lo sguardo, impercettibilmente, ma Eric avrebbe giurato che non stesse più guardando lui; piuttosto qualcosa in lontananza appena sopra la sua spalla.

Stava evitando il suo sguardo?

Si sentì in dovere di riparare a quella frattura invisibile: « sei libero per pranzo? » domandò, mascherando l’improvvisa ansia con un ben pianificato sorriso allegro.

L’attenzione di Joshua fu nuovamente sua.

« Sì, a dire il vero » ammise con un mezzo sorriso.

« Ora non più » si intromise lui, alzandosi in piedi con un balzo che aveva quasi dell’infantile: « sei prenotato. Anche se ci dovremo accontentare della mensa, perché non è che io conosca l’ubicazione dell’albero dei soldi, e ho solo quelli necessari alla convezione studenti del campus » se ne uscì con ritrovata contentezza, mettendosi le mani in tasca e fermandosi per aspettarlo.

Joshua lo seguì con lo sguardo, annuendo piano. « Aggiudicato, allora. Vado pazzo per l’insalata di cartapesta della mensa, non potrei mai farne a meno » scherzò, dando però l’aria di uno che non racconta una cavolata nei riguardi della cartapesta.

Si incamminarono dunque verso l’edificio, camminando l’uno di fianco all’altro e chiacchierando amichevolmente. Sembrava si conoscessero non da qualche giorno, sporadicamente, ma da un certo tempo. Se entravano in discorso con la letteratura, poi, gli argomenti di cui discutere saltavano fuori come funghi.

Arrivarono al self service che Joshua stava elencando punto per punto gli atteggiamenti della Alice di Lewis Carroll che non sopportava. L’aveva definita – poverina! – una “scassa palle patentata” mentre si serviva effettivamente dell’insalata mista al banco dei contorni.

« Povera Alice » fu il semplice commento di Eric fra le risate.

Non era ancora riuscito a definire come si esprimesse realmente quel ragazzo; cambiava registro a seconda del momento e dell’occasione. Prima formale come un damerino, poi informale e rozzo. Aveva raramente una via di mezzo fra i due e, se la utilizzava, lui non era mai stato presente.

Si servì di un filetto di vitello che sembrava stranamente mangiabile – salvo il contorno di carotine lesse, che avrebbe puntigliosamente scartato a lato del piatto – e di patatine fritte. Afferrò una coca dal frigorifero accanto alla frutta, da cui Joshua prese dell’acqua naturale, e si diressero entrambi alla cassa.

Sorvolò con un moto di stizza sul fatto che la cassiera, che poteva tranquillamente essere sua madre, guardasse Archer come se fosse stato un pacchetto di cracker da scartare e mangiare... o un commesso particolarmente attraente di un sexy shop. Non aveva voglia di farsi passare la fame proprio mentre stava pagando il pranzo. Riservò alla donna un’occhiata particolarmente scazzata e, ritirato lo scontrino, si avviò dietro Joshua con il vassoio fra le mani.

« Ma fai quell’effetto a tutti? » chiese, curioso di sapere se tutta la sua vita si svolgesse fra sguardi assatanati di donne in preda a recessi ormonali da adolescenti schizzate.

« Quale effetto? » chiese l’altro, ma era palese che faceva il finto tonto.

« Quale effetto?! » esclamò il castano, adocchiando un tavolo da sei con una buona metà libera: « quello di una fabbrica ambulante di ferormoni, per Dio! » aggiunse scandalizzato.

Joshua si sedette, ridacchiando come uno che la sa lunga: « sì, ogni tanto, lo ammetto » disse, sfilando velocemente le posate dell’involucro di carta.

« Ogni tanto... » gli fece il verso il castano con tono risentito: « e intanto fai mister perfettino, capelli in ordine e abiti perfettamente in taglia. Persino il pranzo è calcolato, vero? Verdura mista e acqua minerale, come le ragazzine fissate con la dieta e i salutisti ».

« o come i vegetariani » intervenne il moro con un sorrisetto sornione.

Eric interruppe la sua rassegna stampa sulle tendenze comportamentali della società giovanile. « Sei vegetariano? » chiese con un sopracciglio alzato.

« Bingo » affermò Joshua.

« Ma... non vale! » sbottò l’altro, ignorando con un broncio l’ennesima risatina di vittoria di Archer: « non posso prenderti per il culo sul tuo mangiare verdura se sei vegetariano! » obiettò.

« Se proprio ci tieni provaci comunque » suggerì l’altro: « sono sicuro che gli appigli non ti mancano ».

« No, ha perso di attrattiva adesso » rispose a sua volta, fingendo professionalmente un broncio risentito.

Si allungò sul tavolo per raggiungere il ketchup a centro tavola, afferrandolo per poi metterne una generosa quantità sulle patatine. Quando fu soddisfatto dell’aspetto del suo rinato pranzo, posò la bottiglietta da parte e si dedicò ad inforcare le prime due listarelle.

Per quello che ne sapeva lui, era ormai sicuro che il ketchup potesse dare sapore anche alla plastica.

Fu proprio mentre Joshua si dedicava a spargere un filo poco consistente d’olio sulla sua insalata che un grido concitato provenne dall’entrata della mensa, confuso in un vociare di sottofondo: « Everald! ».

Si voltò quasi istantaneamente, per istinto. Non c’era persona che non lo conoscesse - anche solo di vista - in quell’università, ed era abituato a sentirsi chiamare dalle persone più disparate.

Quando l’espressione decisamente stupita di McFarland lo fulminò, si rese conto che per l’altro non era assolutamente normale vederlo pranzare con persone che aveva conosciuto da poco o che , come effettivamente doveva pensare Jonathan stando al discorso di quella stessa mattina, che aveva appena conosciuto.

E i mali non vengono mai soli.

Jonathan era solito portarsi appresso uno stuolo di ragazze dalle altre facoltà, ma quando lei compariva nel gruppo, Eric aveva sempre la sensazione che nemmeno su Marte avrebbe avuto scampo dalla presenza costante di quell’essere umano.

« Eric! » urlò quella: un tifone boccolato biondo con quattro dita di matita nera intorno agli occhi – approfondiva lo sguardo, diceva – di nome Sarah Wilkinson.

La sua pseudo-anima gemella barra promessa-sessuale made by McFarland Industries.

Se le sue parole avessero potuto trasformarsi in qualcosa a contatto con l’aria, sarebbero molto probabilmente diventare cuoricini.

 « Oddio... » sibilò il castano, girandosi di fretta verso Joshua e fingendo inutilmente di non averli visti. « Cosa fanno, cosa stanno facendo? » chiese con un filo di panico nella voce, fingendo (male) di tagliare in micro quadratini la sua fetta di vitello.

« Stanno guardando da questa parte » rispose semplicemente l’altro, portandosi alla bocca una foglia di insalata: « puoi andare con loro, non mi offendo » aggiunse poi.

« Nemmeno per idea » rispose subito Eric, masticando la carne: « non quando McFarland si porta dietro quella sottospecie di gossip girl ossigenata sperando che io ci vada a letto insieme! » esclamò, riducendo la voce ad uno stridio monocorde.

Archer si fece sfuggire un ghigno. « E non ti piacerebbe? » domandò, come divertito dalla situazione.

« Merda, no! » esclamò il castano, schifato dall’idea come lo sarebbe stato davanti ad una vasca piena di fango: « l’hai vista? Sembra uscita adesso dal set di Beautiful! » commentò.

Joshua allargò il ghigno fino a farlo sembrare un sorrisetto sbieco. « E allora ignorali, stanno per andare a sedersi » li informò successivamente, continuando a mangiare la sua verdura come se il fatto non fosse suo.

E, effettivamente, non erano affatto affari suoi. Ma poteva mostrare almeno un po’ d’empatia per un coetaneo, no?

Eric fu per lunghi istanti indeciso se riprenderlo a voce o limitarsi a lasciar passare. Quello che più lo preoccupava, però, a dir la verità era proprio McFarland. Aveva la fama di uno che non porta rancore, ma non sapeva esattamente come avrebbe preso quel suo comportamento alquanto fuori dall’ordinario una volta che si fossero rivisti a lezione.

Pensandoci, nemmeno lui sapeva perché improvvisamente andava a pranzo con ragazzi in maggior parte sconosciuti, con seri problemi di alimentazione – suvvia, sei un americano adolescente! Non puoi per legge naturale essere vegetariano! – e con lo sguardo di ghiaccio.

Il suddetto sembrò leggergli nel pensiero.

« Non avrai problemi con il tuo amico? » domandò infatti, bruciando in un istante tutti i suoi residui di incredulità. Eric cominciò a  pensare che la verdura fornisse superpoteri, ma per il bene della sua immagine pubblica ebbe la lucidità di non dirlo ad alta voce.

Rimase silenzioso, senza rispondere. Stava cercando a sua volta una sottospecie di premonizione per la quale potesse rispondere che sì, era tutto a posto. Non la trovò.

E se ne infischiò altamente.

« Non lo so, ma non fa nulla » fece spallucce, indaffarandosi di nuovo sul pranzo: « ci manca solo che un essere umano non possa invitare a pranzo un altro essere umano per fare conoscenza » borbottò risoluto, masticando altre due patatine.

Joshua sorrise alla frase, ma il castano non lo notò.

 

Passarono insieme il resto del pomeriggio, nella biblioteca del campus. Eric scoprì con un certo timore che a Joshua piaceva sul serio leggere libri, e non libri qualunque: quando tornò al loro tavolo con un manuale sulla programmazione in linguaggio PHP per pagine internet dinamiche, capì che la mente del ragazzo era una di quelle poliedriche, adatte per una conoscenza di tutto su tutto. Il classico tuttologo, con l’unica differenza che non aveva occhiali da vista e calvizia incipiente.

Anzi.

Per la maggior parte del tempo, comunque, uno si limitò a leggere e l’altro a redigere il saggio in programma per la settimana successiva. A volte chiacchieravano, fecero una pausa caffè più o meno verso le quattro – nella quale lui si limitò ad un disgustoso decaffeinato – e ripresero con lo studio fino alle sei, ora in cui Eric aveva allenamento in piscina.

Luogo in cui invitò anche Joshua che, caso strano, accettò.

Non sapeva cosa ci trovasse a vedere venti persone fare avanti e indietro per due ore in una vasca da venticinque metri. E, sinceramente, si stupiva di se stesso per avergli chiesto di sottostare a quella tortura.

Ma, a vederlo dalla vasca durante le pause fra una serie e l’altra, Joshua sembrava tutto fuorché annoiato.

Leggeva il libricino consunto che quella mattina gli aveva visto fra le mani, oppure chiacchierava con la solita espressione cortese con la signora al suo fianco – sicuramente madre di uno dei bambini dei corsi di nuoto – che creava qualcosa di rosso con quello che sembrava un uncinetto.

Quello che più lo incuriosiva, era proprio quella sua insana tendenza a non arrabbiarsi o agitarsi mai. Insomma, due ore in tribuna con ventotto gradi costanti lasciano anche sui più pazienti qualche segno di nervosismo; su di lui, invece, nulla.

Non poteva essere solo infinitamente paziente, no. Nascondeva qualcosa.

Era l’impressione che continuava a ronzargli in testa da un po’.

« Ottimo tempo Everald » commentò l’allenatore dal muretto sopra di lui, distraendolo dalle sue elucubrazioni. Regolarizzando il respiro affannato, annuì allegro. « Grazie coach » disse, togliendosi gli occhialini dagli occhi per assicurarseli bene sulla fronte coperta dalla plastica della cuffia.

L’uomo segnò un paio di tempi sulla cartelletta con aria decisamente soddisfatta, picchiettando con la punta della penna sui numeri appena segnati. « Se continui di questo passo, sono sicuro che l’oro nazionale per la staffetta mista è nostro » considerò, probabilmente più rivolto a se stesso che a lui. Satler, dalla corsia a fianco, roteò gli occhi con l’aria di chi vorrebbe essere ovunque tranne che lì.

Cominciò uno sproloquio sui tempi limite delle altre squadre in gara che lui evitò con la scusa di un crampo, allungandosi sull’acqua per fare duecento metri in scioltezza. Timoty invece se la sorbì tutta, ma lui ci era anche abituato, dati i tempi più che buoni con cui era consono gestire le sue gare.

Una volta terminato lo scioglimento, ebbero tutti il beneplacito di tornare a casa. L’orologio sopra le tribune segnava le otto e trenta spaccate.

Uscì dall’acqua issandosi sul muretto, scrollandosi i capelli bagnati nello stesso istante in cui si toglieva la cuffia. Recuperò le ciabatte e, camminando con aria stanca verso le tribune, notò Joshua alzarsi dal suo posto e avvicinarsi alla ringhiera.

« Ottimi tempi davvero » commentò il ragazzo una volta avvicinatosi, appoggiandosi con i gomiti e piegando il corpo in una posa che dire sessualmente attraente era un gentile pseudonimo.

Il suo cervello non prese nemmeno in considerazione quel suo ultimo pensiero: si rifiutò e basta.

« Onorato. Tu non ti sei rotto? » domandò, alzandosi il cappuccio dell’accappatoio sulla testa per non raffreddarsi il collo.

Joshua negò con il capo. « Vai a cambiarti, ti aspetto nell’atrio » tagliò corto, occhieggiando molto discretamente alcuni dei suoi compagni guardarli in modo insistente.

Anche se, e di questo Eric ne era convinto, era più la curiosità di vederlo parlare con il nuovo divo dell’università che l’interesse per la loro chiacchierata.

In ogni caso si limitò ad annuire, entrando negli spogliatoi a sua volta.

Non passò nemmeno dal borsone, deviando subito per le docce. Non aveva voglia di andare a prendere il suo bagnoschiuma: ne avrebbe chiesto uno in prestito per risparmiare tempo, e la famigliare confusione nelle docce gli diceva che almeno la metà della sua squadra stava per dare il via ad una battaglia a cuffiate di acqua gelida.

Pace, avrebbe corso il rischio.

Entrò dunque nel locale vaporoso, in cui almeno sette ragazzi dai fisici prestanti – erano nuotatori, dopotutto – trovavano di un interesse spropositato palleggiare con una bottiglia vuota di shampoo, sfidandosi a chi ne riusciva a fare di più senza farla cadere. Il record sul momento era 1.

Tentò a sua volta qualche palleggio, fallendo miseramente, prima di infilarsi sotto il primo getto libero e bearsi dell’acqua calda sulla sua schiena. Sentì i muscoli sciogliersi all’istante e si convinse, per l’ennesima volta, che non ci sarebbe mai stato nulla di più rilassante.

Ma quella pace non era destinata a durare a lungo.

« Ehi Eric, ci vuoi dire come accidenti fai a conoscere Archer? » domandò Dean Spencer dal cubicolo di fronte, facendo spuntare la testa insaponata dall’anta azzurra.

Bruscamente riportato alla realtà, rispose con un’espressione interrogativa che riassumeva il senso nullo che attribuiva a quella domanda.

« Sì, infatti » aggiunse però Matt Felton, tenendo miracolosamente in equilibrio la bottiglietta vuota di shampoo sul piede destro. « Sarei veramente curioso di sapere come cavolo hai fatto a parlare con una persona che non ti caga pari nemmeno se ti presenti » aggiunse. Solo allora Eric ebbe un vago ricordo di quando Matt si era presentato a lui, quasi un anno prima, e aveva espresso la sua intenzione – poi pienamente realizzata – di entrare alla facoltà di Fisica.

Dunque erano compagni di corso, in definitiva, lui e Josh. E non lo aveva considerato nemmeno di striscio?

Quel ragazzo dagli occhi indicibili cominciava a dipingere una strana idea di sé.

« Casualmente, a dire il vero » rispose, soddisfacendo quella curiosità collettiva: « la prima volta in un pub, la seconda alla festa di una confraternita del campus. Poi al parco domenica. E oggi abbiamo pranzato insieme » disse, come se parlasse del tempo o di quel nuovo film uscito da poco.

Argomento che per lui non si allontanava molto dal livello d’importanza dato alle previsioni meteo, ma che a tutti gli altri pareva essere fondamentale per passare una notte priva di incubi.

« In poche parole vi siete visti assiduamente negli ultimi due giorni » notò infatti un terzo, Jared Walker (secondo anno, Architettura), notando l’unica cosa che nemmeno lui aveva ancora preso in considerazione.

Ovvero che Joshua Archer gli fosse stato appiccicato, più o meno, per due giorni; che passavano a tre se contavano quello stesso lunedì in procinto di finire.

Lo considerò importante per circa due secondi, poi declassò l’informazione. Poteva essere, ed era sicuramente, il caso. Dopotutto, stentava a credere che l’incontro ai giardini non fosse frutto di una coincidenza.

Rispose a quella folla assurdamente ficcanaso con un’alzata di spalle. Non che il discorso lo entusiasmasse quanto pareva mandare gli altri su di giri. Chissà poi perché.

Dopo una rapida doccia si congedò dalla folla schiamazzante, infilandosi l’accappatoio e andando a vestirsi. Nonostante le temperature non fossero esattamente miti la sera non si asciugò i capelli, optando per pettinarli e lasciarli cadere umidi sul collo e sulla fronte.

Salutò i ritardatari e, mettendosi il borsone in spalla, uscì dallo spogliatoio a passo veloce.

Magari avrebbe invitato Joshua a cena. Non era educato lasciarlo andare via così dopo che aveva passato con lui tutto il santo giorno; e poi era da un pezzo che non portava qualcuno a casa. Da quando i suoi amici erano diventati degli spostati, probabilmente.

Certo, avrebbe dovuto chiamare sua madre con almeno un po’ d’anticipo. Fu per questo che arrivò con la mano alla tasca del borsone in cerca del cellulare. Avrebbe chiesto subito a Josh se era libero, e poi gli avrebbe fatto subire la tortura della cena con i suoi genitori.

Si sentiva un infame, in realtà. Se c’erano ospiti a cena (che non fossero di famiglia) suo padre probabilmente non lo avrebbe tartassato con battutine e allusioni, e lui avrebbe passato una sera che fosse una in santa pace.

Chiese scusa mentalmente ad Archer, ridacchiando. Si prospettava una serata migliore del solito.

I suoi piani si frantumarono nello stesso istante in cui alzò lo sguardo dal cellulare.

Ebbe la fugace immagine dell’atrio completamente fermo, immobile, come se il tempo si fosse bloccato su un solo minuto e lo ripetesse all’infinito. L’espressione imbarazzata della receptionist, che incrociò il suo sguardo per poi distoglierlo velocemente. Le facce a dir poco sconvolte di alcuni suoi compagni di squadra, i cellulari in mano ma lo sguardo che non li sfiorava neanche, bloccato su altro. Joshua appoggiato ad una parete con le braccia incrociate, lo sguardo serio che squadrava probabilmente la stessa cose che stavano osservando tutti.

E suo padre. Suo padre, in tuta da allenamento, che urlava, inveiva, contro il suo coach parole che non aveva ancora avuto la rapidità di afferrare.

Non si diede nemmeno il tempo di farlo; l’istinto che fosse qualcosa che non gli sarebbe piaciuto vinse sul raziocino, e si ritrovò a sbottare a sua volta, ansioso: « papà, cosa ci fai qui? ».

L’uomo si interruppe, girandosi in sua direzione insieme a molte altre teste. Aggrottò le sopracciglia e sogghignò, in un modo che gli aveva già visto addosso ma che non ricordava bene dove e quando.

« Sto dicendo al tuo allenatore che può anche cancellare il tuo nome dalla lista dei suoi atleti, così come da quella delle selezioni nazionali. Non metterai più nemmeno un dito in vasca, tu torni a fare basket » disse, quasi gioendo delle sue stesse parole.

Non ne fu sicuro, ma sentì qualcosa, da qualche parte dentro di lui, rompersi e cadere in pezzi.

La sorpresa lo investì e avvertì il cuore sobbalzare. Poi arrivò l’incredulità, che gli mozzò il respiro in gola. Infine, facendogli sembrare gli occhi che lo fissavano come fari di un palcoscenico, una profonda vergogna lo invase.

Lo aveva fatto davvero.

Davanti a tutti. Davanti a tutti.

Compagni di nuoto, amici, segretarie e normali passanti. Persino il suo coach.

Si introduceva nella sua vita, penetrandovi con violenza e senza ritegno, pretendendo di cambiare a forza ciò che non gli stava bene. Pretendendo di portare tutto sotto il suo controllo, di riportare lui fra le sue mani, legato ai fili da marionetta che Eric aveva fatto tanta fatica a tagliare già una volta.

Era pazzo. No, peggio, era un pezzo di merda. Ed era suo padre, Cristo, suo padre...

« No... » riuscì solo a sussurrare, guardandolo come se la persona davanti a lui fosse un estraneo troppo invadente.

« Sì invece » ribatté serafico il padre, scostando lo sguardo sull’allenatore, sbalordito più o meno come tutti gli altri.

Non ignorarmi, bastardo, pensò con rabbia. Non osare trattarmi come una marionetta del Mangiafuoco.

« NO! » esclamò dunque, gustando quella sensazione che, inconsapevolmente, più di tutte aveva aspettato: l’ira.

E l’adrenalina infettare come veleno il suo sangue, filtrare nei muscoli ed ingigantire il coraggio a dismisura.

Il silenzio era pesate come piombo, ma non ci badava. Nella sua testa volavano solo pensieri inconcludenti che portavano appresso una furiosa vergogna.

Suo padre lo squadrò, e nei suoi occhi Eric poté vedere chiaramente la goccia che fece traboccare il vaso.

« Tu non hai il potere di disobbedirmi, Eric. Io sono tuo padre! » sbottò, riversando su di lui la frustrazione trattenuta nell’ultimo anno, tramutandola in pura furia dalla prima all’ultima stilla.

« E io sono un essere umano, cazzo! Maggiorenne per di più! » urlò lui a sua volta. Non gli interessava se le conseguenze sarebbero state un disastro, se si fosse ritrovato con la porta di casa chiusa in faccia o con una mezza faccia livida. Non era più un bambino e non accettava di essere ancora proprietà di qualcuno!

« Sei sempre mio figlio e a me va l’ultima parola! »

« TU NON PUOI PERMETTERTI DI DECIDERE PER ME LA MIA VITA! » urlò, gridò, dando fondo a tutta la sua voce finché la gola non bruciò nello sforzo di alzare ancora di più il tono, già al suo limite.

Si sentiva deluso, schiacciato dal peso di un’autorità temuta ed odiata... ma, più di tutto, sentiva sulla pelle tutta l’ingiustizia di quel comportamento ignobile da parte del padre.

Si sentiva schiacciato dall’impotenza. La combatteva, la graffiava con le unghie e ne mordeva la superficie, ma essa non si spostava da sopra di lui, premendolo a terra con sempre più forza.

Le parole di suo padre aggiungevano quel peso invisibile che lo teneva ancorato al terreno.

« IO DECIDO QUELLO CHE VOGLIO! E se dico che tornerai al basket, tu prenderai in mano una palla arancione e ti allenerai nei tiri da tre fino a che non sputerai sangue! » sbottò il suo ordine, perentorio e minaccioso, avvicinandosi di qualche passo a lui, che non si mosse.

Non resistette più.

Poteva difendersi solo in un modo, conosceva solo quello.

Dunque urlò con più foga. « FOTTITI BASTARDO! »

Fu un istante.

Non vide la mano del padre sollevarsi in aria con l’intenzione palese di colpirlo. No, non la vide proprio.

Era troppo occupato a racimolare la voce per insultarlo.

Ma vide un lampo azzurro prima che la sua vista fosse completamente coperta da un paio di braccia spuntate dietro di lui, che lo spostarono all’indietro a forza, sbilanciandolo.

Poi, nient’altro che silenzio.

Quando riuscì a liberarsi notò la mano del padre sollevata per aria in procinto di schiaffeggiarlo, bloccata da quella sicuramente più forte del suo allenatore. Davanti a lui, come scudo fra loro, Joshua si era spostato dal muro così velocemente che poteva dire di non averlo visto nemmeno muoversi. Gli dava le spalle, guardando Trent, ed Eric poté solo immaginare l’effetto di quegli occhi color del ghiaccio puntati su quelli marroni nel padre, nel tentativo di sondargli l’anima per trovare lo sporco che la incrostava.

Dietro di lui, infine, Timoty era colui che lo aveva strattonato, probabilmente nel tentativo di scostarlo dalla traiettoria del colpo.

Intorno a loro, solo un silenzioso sbalordimento.

« Janette » pronunciò poi la voce profonda del coach: « chiami il 911 ».

La receptionist sollevò subito il ricevitore del telefono al suo fianco.

Si aspettava una nuova scenata isterica dal padre, a quella minaccia. Era coerente con il suo fottuto carattere, talmente prevedibile da essere quasi scritta a chiare lettere nel copione del prossimo futuro.

Ma quel momento non arrivò mai. Trent stava guardando con puro terrore il viso di Joshua, ed era divenuto talmente pallido che sembrava sul punto di svenire.

« Smetti di guardarmi... » sussurrò impaurito, tentando inutilmente di liberare la propria mano dalla presa dell’uomo alle sue spalle, che non lo lasciava e non aveva intenzione di farlo.

Perché ora faceva così? Eppure il ragazzo non parlava, non lo si sentiva nemmeno respirare.

Ma Trent non sembrava calmarsi, e Joshua continuava a rimanere in silenzio.

« Smetti di fissarmi! » esclamò poi, la voce più alta. Tentò con più forza di liberarsi, ma l’istruttore era molto più forte e lo tenne fermo.

Poi un passo. Vide Joshua avvicinarsi lentamente a suo padre fino ad accostare le labbra al suo orecchio, la mano destra portata a sfiorare appena la guancia dell’uomo. Un tocco così effimero da non sembrare nemmeno reale, ma Trent vi si ritirò come se quelle dita fossero fatte di braci ardenti.

« Vattene, Eric » sentì poi dire al suo orecchio, la voce di Timoty calma ma guardinga: « Vai da qualche amico a dormire; sparisci, per stasera » concluse.

Nel caos che si era scatenato nel suo cervello, quella gli sembrò la soluzione migliore. Anzi, l’unica.

Non si diede nemmeno peso di parlare, o dire qualcosa. Annuì, un gesto appena accennato, uscendo a passo svelto.

All’aria aperta, avvertì subito il famigliare nodo allo stomaco attorcigliargli le viscere. Gli mancò il fiato e, per istinto, si portò una mano alla bocca. Gli occhi presero a bruciare, e un insano bisogno di piangere lo invase improvvisamente e con una violenza inaudita.

Boccheggiante, iniziò a correre.

Ormai era buio e del parco si poteva vedere solo fin dove la luce dell’edificio riusciva ad illuminare.

Fu appena oltre questo ventaglio luminoso che si fermò, attaccandosi con la schiena al tronco di un ippocastano particolarmente grosso.

Cercò di resistere. Si disse di doverlo fare per i suoi diciannove anni compiuti, di non poter scoppiare in lacrime come un moccioso in preda ad una crisi post-litigata con i genitori, quando si sente che la vita è ingiusta a prescindere e le persone che si vorrebbero più vicine sono in realtà quelle che ti fanno più male.

Ma la vita era veramente ingiusta. Sul serio le persone che avrebbe voluto vicine non c’erano, o erano quelle che gli procuravano le ferite più profonde.

Si sentiva esattamente così.

E stava per esplodere e mandare a fanculo il poco orgoglio che sopravviveva in lui.

Scivolò con la schiena contro la corteccia ruvida, che sfregò contro la pelle al di sotto della felpa nonostante lo spessore del tessuto. Si lascò andare finché non fu seduto a terra e, piegando le ginocchia, poté appoggiarci le braccia e nascondere il volto in esse.

Si morse il labbro, resistendo all’impulso. Non voleva frignare come un fottuto moccioso.

Nel silenzio, udì dei passi. Erano lievi, attutiti dall’erba, e si avvicinavano.

Non li ignorò, ma nemmeno diede segno dell’opposto. Non aveva la forza di fare né l’uno, né l’altro.

Rimase in silenzio, ascoltandoli, fino a che il rumore non fu così vicino che fu chiara la presenza di un’altra persona al suo fianco. Sentì una mano appoggiarsi appena sulla sua spalla sinistra, stringerla lievemente, prima che una voce gradita come non mai riempisse il silenzio.

« Puoi piangere, se vuoi. Va tutto bene... io non guardo ».

Trattenne il respiro in un singhiozzo; e le parole di Joshua divennero realtà.

 

 

_____________________________________________________________________________________

 

Finito. Correggerlo è stata un’agonia peggiore dello scriverlo, davvero.

Faccio alcune precisazioni prima dei ringraziamenti. La parte su Lewis Carrol mi è stata ispirata da un’altra fic, lo ammetto, ma giuro che non è un cortese tentativo di plagio. La persona che l’ha utilizzata legger la fic (anzi, è quella a cui è dedicata) dunque vuole essere solo un tributo XD.

E ora, ringraziamenti. Ovviamente ringrazio tutti coloro che leggono e commentano. In particolare Shichan, che mi ha commentato il precedente capitolo. Spero che stavolta le descrizioni siano meno pesanti e, ehi, ci vorrebbe un santo per sopportare Trent Everald.

Dopo questo capitolo sono sicura che lo odieranno tutti in massa.

Saluto tutti gli intrepidi che sono arrivati fino a qui <3

Alla prossima!

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Capitolo 5
*** Tuesday ***


Tuesday

Tuesday

 

Abrahel

Beyond the threshold

 

 

Non si preoccupò dell’ora, quando suonò il campanello di casa Everald. Nonostante le cinque del mattino non fossero un orario adatto per le visite, aveva motivo di credere che nessuno della famiglia stesse dormendo.

Le luci accese al piano terra lo rendevano palese; dunque attese sulla porta, paziente.

Era una cosa che andava fatta, anche solo per scrupolo. Un uomo in divisa era rassicurante fino ad un certo punto, e dopo il fermo scattato su Trent Everald si era pian piano convinto che parlare con la madre di Eric fosse una mossa necessaria.

Per sicurezza e tranquillità. L’ultima cosa che voleva, in quell’incarico sempre più intricato, era dover avere a che fare con le forze dell’ordine. Il dipartimento di polizia era abbastanza facile da prendere per il culo, ma i servizi sociali e gli investigatori privati no.

E solo Dio sapeva se, dopo lo scandalo che sicuramente sarebbe esploso, non avrebbe visto le facce di qualche agente in borghese aggirarsi nei dintorni del campus. Si trattava pur sempre di un allenatore di una squadra di basket di ragazzi; tutti adolescenti che la maggiore età la vedevano ancora con il binocolo... l’opinione pubblica ci avrebbe ricamato sopra le più incredibili dicerie.

E stava già accadendo, in realtà. Perché non era concepibile pensare che la storia si potesse limitare ai presenti in piscina, no: ormai quasi tutti gli studenti dell’università lo sapevano e sparlavano, ciarlavano come se non ci fosse niente di più interessante da dirsi. Persino gente che non si incontrava da anni all’improvviso si telefonava per perpetrare la leggenda dell’accaduto.

Schifosi umani.

Sospirò rassegnato, suonando di nuovo.

Aveva passato l’ultima ora in giro, seguendo e ascoltando le conversazioni di chiunque avesse a che fare con la vicenda, anche da semplice informatore amatoriale. Ciò, in poche parole, era equivalso a pedinare mezza città.

Ma alla fine aveva ottenuto quello che si aspettava: dell’accaduto esistevano già quattro versioni, una più fantasiosa dell’altra. Si stava trasformando in una diceria che sarebbe stata ben presto dimenticata, e lui non poteva esserne più sollevato.

Un rumore di passi poté sentirsi dall’altra parte della porta, finché questa non si aprì appena. Gli occhi cerchiati della signora Everald lo scrutarono intrisi di speranza, che si spense lentamente quando si rese conto che non era il marito di ritorno, né tantomeno il figlio che ricompariva.

Tuttavia, nonostante la situazione in cui si ritrovava – e che lui poteva solo sforzarsi di immaginare – mantenne un certo decoro nel rivolgergli la parola. « Sì? » domandò, il tono sfibrato di chi non ha chiuso occhio.

« Buongiorno signora Everald, perdoni l’ora » cominciò lui. Ponderò bene l’espressione del volto, evitando sorrisi, così come credeva fosse il caso in certi momenti. « Sono Joshua Archer, un amico di Eric. Volevo avvertirla che... »

« Sai dov’è? » lo interruppe però lei, aprendo del tutto la porta e precipitandosi fuori.

Joshua non indietreggiò, ma nemmeno si aspettava una reazione simile. Magari era normale, rifletté poi, guardando gli occhi della donna ritrovare un briciolo di quella speranza persa in precedenza.

Dopotutto lei era una madre. Una madre che non vedeva il figlio da ventiquattrore buone, che non lo aveva visto rientrare a casa e che aveva sentito del comportamento del merito da un uomo in divisa, in una di quelle situazioni sopra citate in cui di rassicurante, quella divisa, non aveva proprio niente.

Come la prenderà quando lo ucciderai, suo figlio, Abrahel?

Ignorò quel pensiero nell’istante medesimo in cui nacque.

« A casa mia » le rispose pacato; lei gli donò un leggero e quasi invisibile sorriso. Di sollievo.

« Grazie a Dio... » le sentì sussurrare, la mani che andarono a chiudersi sulla camicetta a livello del cuore. « Ma prego, entra pure. Fa freschino qua fuori... » si prodigò, come se si fosse ricordata solo in quell’istante le regole della buona educazione.

E forse era proprio così.

Ringraziò, seguendo la donna dentro casa. Non l’aveva ancora mai vista se non da fuori, ma non poteva di certo dire che non avesse l’apparenza accogliente e calorosa.

Il salotto, visibile sulla destra appena dentro dalla porta, era dipinto di un rossiccio gradevole, affiancato da mobili in ciliegio – legno dal naturale colore marron-rosso – e da tendaggi rosa antico. Un vaso di fiori secchi troneggiava su un mobile sommerso di cornici e portafoto, mentre al centro della stanza vi era un divano ad angolo, anch’esso di un colore tendente al rosa salmone.

Seduto su di esso, in pigiama e con l’aria di un altro che ha passato la notte in bianco, il fratello minore di Eric lo osservò sorpreso, togliendo gli occhi stanchi e gonfi dallo schermo del televisore. Il volume era così basso, che praticamente dall’apparecchio si potevano vedere solo le immagini.

« Chi è lui? » chiese il ragazzino, e dal tono di voce poté supporre che non avesse più di quattordici anni.

Abrahel non rispose, preferendo lasciare la parola alla donna. Non apprezzava particolarmente parlare così facilmente con persone che non conosceva, a meno che non ne fosse costretto.

« Lui è Joshua, Alex. E’ un amico di Eric. Adesso è a casa sua, è venuto ad avvisarci... » spiegò lei con tono dolce, forse sollevato dalle buone notizie che lei stessa stava ripetendo a voce alta.

Non seppe riconoscere se l’espressione di Alex Everald fosse di sollievo o di disprezzo. Probabilmente era entrambe. Ma la cosa che non poté mancare di notare fu la totale assenza di una risposta, e l’ostinazione con cui puntò il suo sguardo su di lui senza più distoglierlo.

Abrahel, per tutta risposta, si rivolse alla donna: « mi scusi ancora per l’ora, ma avrei bisogno di parlarle » cominciò, assicurandosi la sua attenzione. « Data la situazione... pensavo che potrei ospitare Eric ancora per un po’. Ero venuto a chiederle che cosa ne pensava » disse, continuando ad ignorare lo sguardo di Alex su di sé.

La donna sobbalzò, ma fu veloce a riprendersi. Probabilmente non le piaceva l’idea di separarsi per molto tempo dal figlio maggiore, ma Abrahel fu sicuro che fosse arrivata alla sua stessa conclusione: il fermo amministrativo della polizia durava ventiquattr’ore, ciò voleva dire che entro sera Trent Everald sarebbe ritornato a casa. A situazione corrente, e senza sapere se aveva o no calmato i bollori, non era consigliabile far sì che l’uomo rivedesse il figlio.

Chiudendo arrendevolmente gli occhi, la signora annuì. « Sì, sono convinta che sia la soluzione migliore » ammise, per poi continuare: « vado in camera di Eric a prendere dei cambi di biancheria, e i suoi libri magari... così può continuare ad andare a lezione, se... » non terminò la frase. Non ce la fece.

Lo shinigami la osservò salire velocemente le scale, riservandosi uno sbuffo seccato non appena fu sparita nel pianerottolo.

Non era neanche in grado di fare la madre e pensare con lucidità. Eppure pensava che certe facoltà venissero istintive, quando si era in ansia per i figli e per i mariti.

Evidentemente non li capiva proprio, gli esseri umani.

Annoiato, si guardò intorno. La ricerca di qualcosa su cui e con cui scrivere non gli portò via troppo tempo, in quanto rintracciò nel blocchetto di fogli accanto al telefono tutto ciò di cui aveva bisogno.

Face qualche passo indietro, dunque, avvicinandosi all’apparecchio per poi prendere la penna nera che giaceva lì accanto. Dal tappo mangiato e dagli scarabocchi nell’angolo in alto della prima pagina ne dedusse che la signora Everald aveva passato una discreta nottataccia accanto al telefono, aspettando una telefonata sola per riceverne migliaia da amici e parenti, man mano che la notizia si espandeva a macchia d’olio.

Ignorò la strana conformazione del tappo, cominciando a scribacchiare sullo stesso foglietto già scarabocchiato.

« Cosa stai facendo? » chiese dal divano Alex, in un misto fra curiosità e durezza. Probabilmente si sentiva lui l’uomo di casa, ora che il padre e il fratello maggiore non c’erano.

Oppure, più semplicemente, Alex Everald vedeva in suo fratello la causa per cui suo padre era trattenuto al distretto di polizia, e incarnava in Joshua una sorta di alleato di Eric.

Evitandosi una risposta secca coerente con i pensieri del più giovane – perché sì, era sicuro che Alex stesse pensando esattamente quelle cose – si limitò alla dovuta replica per la domanda postagli: « scrivo il mio indirizzo e il mio numero di telefono, nel caso serva. E comunque per far sapere a tua madre dov’è tuo fratello ».

Il ragazzino non rispose, non subito almeno. Si limitava a guardarlo scrivere e, proprio come chi cerca di essere adulto quando non lo è ancora, attese che avesse finito prima di parlare.

« E’ stata colpa di Eric, vero? » chiese, come se sapesse già la risposta e stesse cercando solo una conferma.

Abrahel non poté non ammettere con se stesso di non essersela aspettata.

« Parli come se sapessi già tutto... » buttò lì, più disinteressato che altro. Non gli interessava intrattenersi con un ragazzino, soprattutto se dimostrava di essere così simile a quel padre che aveva visto con i suoi occhi comportarsi come uno spostato davanti a dei ragazzi.

Alex accusò il colpo. « Lo fa sempre. Papà si arrabbia sempre per colpa di Eric, è sempre stata colpa sua. Mio fratello non capisce un cazzo, altrimenti tornerebbe a fare basket e farebbe contento nostro padre » sputò, velenoso e ignorante.

Lo shinigami lo squadrò, e poté notare con un certo diletto di aver fatto sobbalzare quel piccolo saputello.

« Tu affermi di sapere, e dai a tuo fratello dell’ignorante mentre idolatri tuo padre. Ma io mi chiedo... » fece una pausa, un ghigno si formò sulle sue labbra: « perché una persona che non era nemmeno presente sul luogo dell’accaduto si riserva di mettere bocca in cose che non sa? Non è, allora, questa persona quella non solo più ignorante, ma anche più cafona di tutte? » domandò retoricamente, mascherando puri e semplici insulti con la retorica di un filosofo improvvisato.

Alex sembrò pensarci, ma a rispondere non fece in tempo: la madre stava ridiscendendo le scale con un mano un borsone nero di piccole dimensioni, in cui doveva aver stipato l’essenziale per il figlio.

Non parlarono più. Capiva che la donna non ne era in grado, e Alex non ne aveva il coraggio.

Si congedò con un ringraziamento, venendo gentilmente riaccompagnato alla porta. Una volta fuori respirò l’aria pulita a grandi boccate.

Come se fosse appena uscito da una discarica.

 

L’appartamento che gli era stato indicato da Zerachiel era in una posizione davvero comoda.

Consisteva in due enormi stanze al piano più alto di un vecchio palazzo, uno dei pochi rimasti in quella zona della città, e Abrahel aveva subito pensato che Zerachiel avesse preso in considerazione il suo preferire luoghi un po’ antiquati, rispetto alle architetture puramente moderne.

Era stata una buona considerazione. Mandare qualcuno che si è perso gli ultimi duecento anni dentro un abitato completamente edificato nel ventunesimo secolo equivaleva a metterlo in difficoltà già da subito.

Tuttavia non significava che il suo alloggio fosse un covo medievale. Anzi, aveva tutto quello di cui aveva bisogno per indossare bene la sua parte di essere umano normale.

All’affittuario era stato detto che gli Archer – la famiglia fittizia della sua altrettanto fittizia identità – erano una coppia di buoni diavoli, proprietari di un fazzoletto di terra nell’Idaho che coltivavano da più di quarant’anni. Avevano insistito che il figlio (unico) Joshua si facesse la cultura che il padre non aveva avuto occasione di farsi; così avevano tenuto da parte una buona somma per mandarlo all’università.

Nulla di così assurdo, insomma. Niente traumi o liti famigliari, nessun abbandono, nessun problema. Al massimo ci si poteva chiedere come avesse fatto una misera fattoria dell’Idaho a crescere un asociale, ma a quello poneva rimedio con la sua quasi perenne facciata da buono studente.

Con la chiave apposita aprì il portone d’ingresso, lasciando che si richiudesse alle sue spalle sulla città che cominciava a prendere vita. Notò il portiere, mezzo assonnato nella sua postazione appena oltre la soglia, e con un piccolo cenno della mano indicò la rampa di scale giusto oltre le buchette della posta. Quello annuì.

Cominciò a salire le scale, cercando di non sbattere ovunque la sportina di plastica bianca che si portava dietro da una mezz’ora.

Perché sì, sulla strada aveva considerato che Eric avrebbe dovuto almeno mangiare qualcosa al risveglio. E il fatto che lui (per la maggior parte) non mangiasse, e che dunque frigorifero e dispensa fossero vuoti, poteva essere un intralcio alla sua copertura.

Perciò, spesa. Era più facile alle sei del mattino, dato che non c’era nessuno nel raggio di cinquanta metri da ogni lato.

Facendo tintinnare il mazzo di chiavi prese fra le dita una delle più piccole, infilandola nella toppa della porta all’ultimo piano. Girò due volte verso destra, e quando sentì la serratura scattare, la spinse.

Il suo appartamento non era grande, ma di certo non minuscolo.

La porta principale dava sulla prima delle due stanze, la più grande, coperta di moquette beije e adibita a salotto. Uno schermo piatto era appeso sulla parete di fronte ad un tavolino di vetro basso, un divano e una poltrona in pelle dello stesso colore della moquette.

Dietro ad essi, a qualche metro, un tavolo di legno di noce dalle venature chiare e quattro sedie.

Ancora oltre un muretto bianco divideva il salotto dall’angolo cucina, sufficientemente spazioso da permettere al cuoco di turno di muoversi liberamente fra fornelli e ripiani.

Dall’altra parte dell’appartamento, invece, due porte davano una sul bagno, l’altra sulla camera da letto.

Non era enorme, ma come la cucina era grande abbastanza da oltrepassare lo standard.

Un letto matrimoniale occupava la parete accanto alla porta, in legno chiaro, a cui aveva rimediato con delle lenzuola scure. Accanto al letto una finestra a parete dava una luminosità quasi eccessiva alla stanza, dando su un piccolo balcone utile solo per stenderci l’eventuale bucato (che non faceva). Di fronte al letto vi era un mobile a muro in legno scuro, con un ripiano in marmo grigio perla su cui, teoricamente, andava appoggiato un computer, o un’altra televisione; cose che non aveva e che non si preoccupava nemmeno di procurarsi. L’armadio a muro occupava poi il rimanente spazio non occupato.

Sospirando si diresse in cucina, appoggiando la sporta sul ripiano e il borsone sul pavimento vicino al primo muro a portata.

Aveva appreso da parecchi libri di cucina che gli americani facevano colazione con uova e bacon, dunque quelli aveva comprato; mise entrambi nel frigorifero a fare compagnia all’acqua (unica cosa che ingeriva), a cui seguirono i cartoni del latte e del succo d’arancia.

Il ripiano sopra il lavello era occupato da pentole, piatti e bicchieri; così mise i biscotti, le fette biscottate, i crackers, tè e caffè nel ripiano accanto, facendo attenzione a non sbattere troppo violentemente le ante.

Una volta finito, osservò per un attimo la porta della camera da letto, dove al momento dormiva Eric.

Aveva passato una nottata schifosa.  Questo anche lui poteva capirlo.

Non aveva fatto altro che piangere a intermittenza fino alle quattro del mattino, alternando lacrime silenziose a interi quarti d’ora passati a fissare un punto morto della parete, o del pavimento, o del televisore che passava programmi notturni che nemmeno guardava. Seduto sul divano, così, semplicemente.

C’era mancato poco che non lo muovesse a pietà. Solo il pensiero che sarebbe dovuto morire – che avrebbe dovuto ucciderlo – era stato sufficiente a permettergli di non sedersi al suo fianco, magari porgendogli la tanto famigerata spalla su cui piangere.

Si era limitato a rimanere seduto sulla poltrona, guardandolo di tanto in tanto, sforzandosi di ignorarlo e combattendo contro la voglia di alzare il volume del televisore per distrarsi.

Si rendeva conto di essere stato prettamente cafone, ma non poteva farci nulla. L’ordine era imperativo assoluto: affezionarsi avrebbe solo portato a casini incredibilmente grandi, a problemi ancora più grossi e a conseguenze intrattabili. Se poi ci si metteva in mezzo l’ordinamento di vita e morte sulla Terra, la cosa diventava troppo grande per essere trattata con la razionalità e la calma che pretendeva.

Scosse il capo, distogliendo lo sguardo. Stava giungendo a conclusioni di cui non si erano ancora nemmeno manifestati i sintomi... poteva quasi passare per una persona maniacale.

Raggiungendo di nuovo le buste ne estrasse il resto – qualcosa per il pranzo, dato che sicuramente non sarebbero andati all’università – e mise nel frigorifero la verdura e il sugo, la pasta finì nello stesso scaffale del caffè.

Nel frattempo, ponderava cosa fare. Lui non aveva bisogno di dormire, dunque avrebbe passato il tempo leggendo. Si poteva notare, dai molti volumi appoggiati distrattamente su ogni superficie piana, che era divenuto il suo passatempo umano preferito.

A dire il vero aveva provato anche ad ascoltare musica. Si era reso conto che molti ragazzi di quell’età e anche più giovani passavano giornate intere con gli auricolari saldamente piantati nelle orecchie; il chiasso assordante di batterie e house music tenute a volume troppo alto si poteva sentire anche a diversi metri di distanza, se la stanza era silenziosa abbastanza.

Non aveva apprezzato, nonostante alcune canzoni non fossero poi così male. Aveva una predilezione naturale per il silenzio.

Nell’istante stesso in cui terminò di sistemare tutta la spesa, con un sonoro “click” la maniglia della camera da letto scattò, facendo si che la porta si aprisse silenziosamente.

Dall’altra parte, un Eric distrutto, assonnato e per nulla in forma si fermò sulla porta, osservando l’interno attraverso gli occhi socchiusi e ancora particolarmente gonfi.

Si trattenne da commenti poco cortesi.

« Scusa, ti ho svegliato? » domandò invece, facendosi uscire un tono di voce basso e non particolarmente concitato. Nemmeno particolarmente dispiaciuto, ma era quasi certo che Eric non lo avrebbe notato.

Quello scosse il capo, silenzioso. Non aggiunse nulla al gesto, limitandosi ad occhieggiare ciò che indossava.

« Questo è tuo? » chiese poi, con un filo di voce roca e forzata, prendendo fra le dita un lembo della maglietta nera in coordinato con relativi pantaloncini.

Joshua annuì, affaccendandosi attorno alla teiera. « Tranquillo, è pulito » aggiunse con un sorrisetto.

« No, mica per quello... » ribatté l’altro con una lieve nota di imbarazzo: « è che non ho mai visto nessuno dormire con il pigiama nero, tutto qui » aggiunse, camminando silenziosamente verso il divano e sedendovisi di malagrazia.

« C’è sempre una prima volta » fu il commento alquanto serafico di Joshua, la mano già chiusa attorno ad una delle scatole comprate appena un’ora prima.

Camomilla. I libri di botanica la davano come un sonnifero blando ma efficace.

Alzò la fiamma del fornello, portando l’acqua ad ebollizione in tempi più brevi.

Fu Eric ad interromperlo, spezzando quel silenzio distratto che aveva ricoperto l’ambiente come un lenzuolo di seta. La sua voce sembrava distratta, distante, e con sole due ore di sonno Abrahel non faticava a capirne il motivo.

« grazie... per l’ospitalità » borbottò, seduto a gambe incrociate sulla parte sinistra del divano.

« Figurati » fu la risposta, scontata e banale, che diede.

Si era più volte domandato per quale motivo Everald avesse chiesto proprio a lui di ospitarlo. Certo, questo facilitava di parecchio il suo lavoro, ma non aveva potuto fare a meno di considerare che nella vita di Eric gravitassero persone conosciute da più tempo; le quali, logica permettendo, sarebbero state più adatte di lui come porto franco in tempi d’emergenza.

Vide l’acqua cominciare a sobbollire e con un certo distaccamento aprì la confezione di camomilla, estraendone due bustine.

Forse lo aveva fatto perché era presente al momento dello scatto di collera del padre. O forse perché lo aveva seguito successivamente per il parco.

Si era guadagnato la sua fiducia, probabilmente; quella conclusione era la più razionale a cui poteva giungere con le informazioni in suo possesso.

Non era male, no. Ma avrebbe ricambiato tale fiducia?

Scosse il capo, cancellando quel pensiero impertinente. Il suo compito non era farsi amico la persona che avrebbe dovuto accompagnare nell’aldilà.

Chiuse gli occhi, recuperando la calma obiettiva che il suo “lavoro” prevedeva di mantenere perennemente.

Sarebbe andato tutto bene. Avrebbe fatto il lavoro, accontentato Enma e passato altri duecento anni della sua pseudo-esistenza a fare ciò che preferiva: annullarsi.

Aprì le cartine, estraendone i filtri per poi immergerle nell’acqua bollente. Cominciò a prendere un colorito giallastro non appena le mosse con il cucchiaio.

Non resistette. « Posso farti una domanda? » se ne uscì, richiudendo il coperchietto metallico e raggiungendo con la mano destra una tazza in ceramica sulla mensola.

« Spara » ironizzò appena Eric, non riuscendoci in modo credibile nemmeno di striscio.

Rimase silenzioso il tempo necessario a versare la camomilla. « Perché io? » domandò schietto, prendendo la tazza per il manico e dirigendosi nel salottino.

Eric non sembrò capire subito la domanda, e appena gli fu visibile si limitò ad osservarlo con un cipiglio confuso sul volto distrutto dalla nottata appena trascorsa.

Abrahel sorrise di riflesso, passandogli la tazza e sedendosi sulla poltrona: « intendo dire come ospitalità. Non hai pochi amici, da quello che mi è sembrato di capire... » buttò lì. Ammetteva che era per fare conversazione – forse un blando tentativo di rimediare al comportamento della notte scorsa? – ma per una buona percentuale era sinceramente curioso di capire come pensava la mente di Eric Everald.

Quello storse il naso sulla camomilla, evitando però lo sguardo dello shinigami. Si morse il labbro, un tic probabilmente, per poi cominciare a parlare: « non che non mi fidi di loro, o che non voglia loro bene. Ma... andiamo. Doug e Rob sono più le volte in cui sono fatti che quelle in cui capiscono attivamente una frase di senso compiuto, e senza offesa per McFarland, ma ha la brutta caratteristica di avere una famiglia insopportabile e tre fratelli più piccoli tra i dieci e i quattro anni » spiegò brevemente, per poi riprendere: « sì, forse potevo telefonare a mia zia, oppure chiedere ad un compagno di corso... ma i parenti ne avrebbero fatto una tragedia e non ho compagni così fidati a cui chiedere una notte d’ospitalità »

« E cosa ti fa credere che io lo sia? » lo interruppe Joshua, uscendosene con un tono serio abbastanza fuori luogo. Non poté controllarlo però, contro le sue aspettative, e decise di dare più peso alla risposta che avrebbe ottenuto che alle sue inconcludenti turbe mentali.

« Direi... istinto » fu la risposta che ottenne, completamente illogica.

« ...non ha molto senso » commentò il moro.

« No, è vero. Ma niente è mai troppo logico o troppo illogico » fu la risposta pronta.

Dire che si sentiva confuso, ora, era come usare un sinonimo in una frase che suonava particolarmente male.

Alla sua consueta incomprensione degli esseri umani si era unito qualcos’altro, una specie di disturbo di fondo che non riusciva a distinguere e a nominare. Come l’incontro di due onde della stessa lunghezza che impediva il corretto funzionamento delle ricezioni audio.

Lo infastidiva, ma solo perché non capiva cos’era.

Lo guardò a lungo mentre arricciava il naso nel sentire l’odore della camomilla. Proprio come un bambino che non vuole bere una cosa che non gli piace ma è consapevole che gli farebbe bene.

Trattenne un sorriso nato dal nulla.

« Questa mattina sono stato a casa tua » esordì poi, chiudendo gli occhi nel futile tentativo di riprendere un certo controllo su se stesso. Gli stava sfuggendo di mano la situazione.

Eric si bloccò ancora prima di inclinare la tazza per bere un sorso. Restò con gli occhi puntati sul tavolino, probabilmente cercando di convincersi ad avere solo immaginato quelle parole, e ovviamente non rispose.

Così, Abrahel continuò per conto suo.

« Ho avvertito tua madre che eri qui, e che forse saresti rimasto un paio di giorni. Ti ha mandato degli indumenti e i libri di scuola » spiegò: « e i suoi saluti » aggiunse all’ultimo istante; stava quasi per dimenticarseli.

Everald non si mosse, né diede cenno di aver capito il senso delle parole appena sentite. Solo dopo un minuto buono di silenzio ed immobilità distaccò le labbra dalla ceramica, tenendo la tazza fra le mani e fissandola.

« Mio padre? » chiese poi, con un filo di voce appena udibile.

Avrebbe risposto subito, Joshua, se non fosse stato attento ad ogni minimo movimento dell’altro. Lui, che in teoria non avrebbe dovuto capire le emozioni che potevano sconvolgere un animo umano, aveva quasi percepito la fatica con cui Eric aveva fatto quella domanda.

Perché, pur essendo un padre che non merita tale appellativo, il castano ancora gli voleva bene. Lo rispettava, persino. E si leggeva in quegli occhi gonfi e troppo stanchi fissi sul bordo della tazza fra le sue mani.

Era quella la tristezza? Quella che ora il volto di Eric stava riflettendo?

E lui provava... compassione? Pietà?

No, era un controsenso. Lui non poteva provare pietà. Per definizione la morte non può provare pietà.

Eppure...

Non seppe se seguì un istinto che in teoria non avrebbe dovuto possedere, o se il gesto di alzarsi dalla poltrona e sedersi sul divano lo avesse letto in uno dei tanti romanzi che si era divorato in quei pochi giorni.

Però lo fece. Per la prima volta, qualcosa oltre la razionalità lo mosse.

Affetto, forse. Un affetto che non avrebbe potuto e dovuto avere.

Ma non sapeva quale altro nome dare a quella sensazione di dispiacere nei confronti di Eric che continuava a sentire.

Non sarebbe riuscito a rimanere distaccato, ormai ne era cosciente. Non sarebbe più riuscito ad ignorare i suoi problemi, a guardare il tempo rimasto con occhio critico e mente libera da pensieri.

Avrebbe reso a se stesso quegli ultimi giorni un vero Inferno.

...e lui che pensava di averlo anche già visto, l’Inferno.

Gli appoggiò una mano sulla spalla prima di riprendere a parlare: « è stato arrestato, ora è alla centrale di polizia. Ha un fermo di ventiquattr’ore, però: questa sera sarà nuovamente a casa » riportò, ma non seppe dire se quelle considerazioni fossero per l’altro un sollievo o una maledizione.

Lo sentì trattenere il respiro. Le sue spalle sobbalzarono per un momento mentre un tremore diffuso faceva vacillare la tazza e la camomilla al suo interno.

Joshua si affrettò ad afferrarla, togliendola dalle sue mani per appoggiarla sul tavolinetto. Notò le mani di Eric tremare.

« che cosa... si dice qualcosa... su di lui? » domandò Eric balbettando, probabilmente trattenendo l’ennesima crisi di pianto nervoso, dovuto più alla notte insonne che al resto.

Era indeciso, Abrahel. Avrebbe potuto dirgli tutte e quattro le versioni che giravano al momento, ma dubitò che anche solo la più lieve di esse avrebbe potuto fare del bene ai nervi già provati di Eric.

Si limitò ad una risposta vaga, così come gli venne in mente sul momento: « è probabile... » mormorò, cercando di non darsi una particolare inflessione di voce al di fuori di quel moto di compatimento che sfuggiva al suo controllo: « ma non credo porterà a conseguenze gravi. Può succedere a tutti, un attimo di collera... »

Anche se lui non credeva fosse così. Semplicemente, aveva ipotizzato che il signor Trent Everald fosse una persona a cui piace avere tutto sotto controllo e le mani in pasta in ogni cosa riguardi parenti o congiunti. La vita di suo figlio maggiore si era improvvisamente allontanata da quello che l’uomo aveva programmato per lui, e il simbolo chiave di quella silenziosa rivolta era il nuoto.

Indovinare come avesse funzionato la mente del signor Everald non era difficile, una volta fornite queste basi: il nuoto era l’ostacolo che gli impediva di riavere Eric sotto il suo controllo, dunque era necessario eliminare il nuoto dalla vita del figlio.

Semplice.

« Mi sono rotto il cazzo della sua rabbia immotivata... non fa altro che urlare, e guardarmi male, come se fossi ciò che rovina la sua altrimenti perfetta vita » si lamentò il castano in risposta; le mani si chiusero a pugno fino a far sbiancare le nocche. « Che cazzo ho fatto nella mia fottuta esistenza per avere un padre simile? Porca puttana, stava quasi per menarmi... porco cazzo... » mugugnò: « ...davanti a tutti... » aggiunse in un sussurrò scioccato.

La sua presa sulla spalla si rafforzò maggiormente, come se, con quel gesto, volesse impedire al cervello dell’altro di portarlo in lidi sicuramente poco adatti al momento.

Ma non aggiunse nulla a voce, troppo inadatto a situazioni simili per poter anche solo pensare a qualcosa di sensato da dire che non apparisse terribilmente fuori luogo.

Voleva evitargli altre lacrime inutili, ma non sapeva come. Non gli era mai capitato di dover consolare qualcuno in tutta la sua esistenza.

Poi, da qualche parte dentro di lui, qualcosa decise: sempre meglio parlare e passare per incompetenti che stare zitti ed esserlo davvero.

« Ehi » chiamò, un tono molto colloquiale e privo della sua solita formalità: « passerà. Tuo padre si renderà conto di avere sbagliato i calcoli e ti chiederà scusa, in linea con l’uomo adulto e responsabile che dimostra di essere. Ha solo bisogno... »

Di sbattere la testa contro un muro chiamato “buon senso” pensò.

« ...di tempo » concluse però, e si stupì di quanto la sua voce poteva suonare dolce. E non si stava nemmeno impegnando.

Contrariamente alle sue previsioni, però, Eric ridacchiò. « Si vede che non hai la minima idea di com’è messo mio padre... » pronunciò, spegnendo la risata nel nulla da cui era nata.

Non rispose. No, infatti: non lo sapeva. Lui aveva considerato i comportamenti più giusti che gli esseri umani avrebbero dovuto tenere con altri della loro specie, per formulare quella risposta... se Trent Everald usciva dagli schemi, lui automaticamente non aveva basi su cui sviluppare un’ipotesi comportamentale.

Considerò che, magari, era meglio troncare il discorso prima che si fosse trasformato in qualcosa di più deprimente di quello che già era.

« Eric, dovresti dormire » intervenne dunque: « hai riposato solo due ore, non è sufficiente nemmeno per sbaglio » aggiunse, alzandosi dal divano nel tentativo di guidarlo verso la camera da letto.

« Ti secca se dormo qui? » domandò però l’altro, rimanendo seduto ed indicando il divano.

Joshua lo guardò un po’ accigliato. « No, puoi stare dove preferisci » acconsentì poi.

« Grazie » ringraziò l’altro, stendendosi sul divano senza nemmeno posizionarsi bene i cuscini sotto la testa. Si vedeva dai movimenti che non aveva la forza necessaria e che Morfeo richiedeva ancora la sua presenza nel suo mondo.

Abrahel sospirò, arrivando velocemente in camera da letto per recuperare una coperta. Tornando in salotto la distese sopra Eric, coprendolo alla bene e meglio.

Fece per tornare in cucina, ma la mano del castano si chiuse velocemente sul suo polso, trattenendolo.

« Resti nei paraggi? » chiese biasciando, la voce già impastata.

Di nuovo, lo shinigami non poté evitarsi di piegare le labbra in un sorrisetto lieve. « Non vado da nessuna parte » assicurò, tornando sui suoi passi e sedendosi sul tappeto ai piedi del divano, la schiena appoggiata ad esso.

Non ci volle molto – giusto qualche minuto – perché l’altro di addormentasse di nuovo.

Prese uno dei libri a portata di mano e cominciò a leggere, in silenzio.

 

Da quella posizione non si mosse mai.

Eric dormì per tutta la mattina e per buona parte del pomeriggio. Quando riaprì gli occhi erano ormai le quattro e il sole al di là delle tende era ancora alto. C’era bel tempo, e il vociare degli studenti radunati al vicino campus universitario si poteva sentire molto bene, dato il silenzio che regnava nella camera.

Lui aveva passato tutto il tempo leggendo. Prima un trattato scientifico sull’ultima teorizzazione del tempo dentro ai buchi neri, poi un romanzo poliziesco che aveva l’aria di non essere molto serio, ma che alla fine aveva apprezzato. Almeno dipingeva la vita per quello che era: senza lieto fine.

Leggere lo aveva distratto a sufficienza, così aveva evitato furbescamente di porsi le domande del caso in relazione al suo comportamento del tutto fuori dagli schemi.

E di sicuro non cominciò dopo che il castano riaprì gli occhi.

Parlarono. Di tutto, per la verità.

Eric non aveva intenzione di sollevarsi dal divano e, d’altro canto, lo shinigami nemmeno glielo chiese. Anzi, neanche lui si spostò da quella posizione, che aveva tenuto per quasi dieci ore di seguito.

Eric gli chiese molte cose, quasi tutte senza un senso logico a cui fare appello. Gli domandò se aveva dormito (« un po’ nel pomeriggio, ma sono abituato a dormire poco »), perché avesse scelto Fisica (perché è l’unica cosa che non cambia a distanza di secoli... pensò, ma rispose tutt’altro, ovviamente) e se era sempre stato un suo hobby leggere così tanto (« i miei genitori sono contadini, in campagna ci si annoia se non si hanno lavori da sbrigare »).

Non toccarono mai il discorso “Trent Everald”. Almeno non fino a cena, in cui Joshua espresse le sue qualità di tentato cuoco preparando ad Eric un piatto di pasta al pomodoro e un filetto di vitello con verdure. Lui si limitò alla sua insalata-copertura.

« Penso che tornerò a casa, domani mattina » confidò il castano ad un certo punto, fissando con un sorriso spento il rimanente pezzo tagliuzzato di carne.

Joshua evitò di mettersi in bocca l’ennesima, insapore forchettata di insalata, drizzando le orecchie. « Non sei costretto » commentò poi, riscoprendosi contrariato dalla sua scelta.

« Lo so » gli rispose Eric, abbandonando definitivamente i tentativi di mangiare anche quel misero pezzetto di carne che gli avanzava nel piatto. « Però non è giusto per la mamma. E poi è casa mia... devo tornare. Non posso comportarmi come un moccioso in preda ad una crisi esistenziale che scappa di casa dopo una sculacciata del padre » spiegò.

Le sopracciglia di Joshua scattarono brevemente, invisibili allo sguardo basso di Eric.

Certo, se paragonare il manrovescio spacca-denti che aveva intenzione di tirargli il padre ad una sculacciata era un esempio corretto...

Chiuse gli occhi un istante, facendo per alzarsi dal tavolo. « La scelta è tua » liquidò velocemente, raccogliendo i piatti per poi dirigersi al lavello.

Non parlarono per tutto il resto della serata.

 

Eric si era addormentato di nuovo verso le undici, proprio quando la sua pazienza stava per giungere a quel limite che segnava il confine di non ritorno.

Aveva fame. Mangiare cibi umani non nutriva veramente il suo corpo; era un po’ come l’acqua: disseta ma non è fonte di sostentamento . E stare vicino ad un’anima candida non era di certo un bel modo per placare l’appetito.

Aveva cominciato a percepirne il leggero odore dolce intorno alle nove. E, di conseguenza, aveva trascorso le successive due ore a trattenere il fiato ad alternanza, cercando di non pensare all’acquolina che la presenza dell’anima di Eric sembrava scatenargli.

Lui non era abituato alle anime candide. Era come fare annusare del cioccolato a qualcuno che vive solo di sesamo.

Così fu costretto ad uscire.

Aspettò mezz’ora prima di aprire la porta – così da essere sicuro che Eric dormisse veramente – e si diresse a passo svelto verso Heaven’s Park.

Trovò quasi subito la persona che faceva al caso suo: un uomo solitario che si aggirava pensieroso fra i viottoli della parte orientale del parco, accanto alle fontane. Sembrava un uomo d’affari a giudicare dalla cravatta di seta e dalla ventiquattrore in cuoio, ma non ci badò molto. Lo avvicinò con una scusa e, senza la minima fatica, gli sottrasse il minimo dell’energia vitale necessaria a sfamarlo.

Lo lasciò stordito sul bordo della fontana, ma non se ne preoccupò molto: entro un’ora si sarebbe ripreso e, comunque, lungo tutto il parco vegliavano già ronde di sorveglianti notturni in divisa.

Sicuramente rifocillato, uscì dal parco e si diresse verso nord.

A nord di Heaven’s Park c’era un cimitero. Il campo dall’erba accuratamente rasata era puntellato di lapidi in marmo, che risplendevano biancastre nel riflettere la luce della mezzaluna di quella notte.

Il posto ideale per un dio della morte, osò pensare. E, in effetti, era come mettere piede dentro un carcere i cui occupanti ce li hai spediti tutti tu.

La cosa bella era che, di sicuro, non potevano parlare.

E poi il cimitero aveva effetti benefici sui suoi nervi.

Magari era proprio il luogo. Morte attira morte, una cosa del genere... ma di sicuro quello era il posto più adatto per mettersi a riflettere senza fretta, mettendo in ordine pensieri impilati da qualche parte nel cervello e lì lasciati a fare polvere.

L’importante era non scavare troppo a fondo. Pensieri di cento anni erano tutt’uno con le ragnatele, ormai, e toglierle tutte era sconsigliabile oltre che difficile, per uno come lui con la tendenza alla depressione.

Così si limitò a considerare quelli relativi alla giornata.

Non poteva fingere con se stesso di non avere provato alcuna sensazione, passando tutto quel tempo a stretto contatto con Eric. Lo avevano colpito più cose di lui in due ore che in tre giorni interi.

Come la sua speranza incrollabile, o il suo ottimismo. La sua rabbia verso il padre e poi la successiva preoccupazione, sempre per quel padre che pochi istanti prima stava insultando.

Segno che non lo faceva davvero. O, se veramente voleva sbeffeggiarlo, tutti gli improperi che gli rivolgeva non li pensava seriamente.

Sbuffò. Era caratteristica peculiare delle anime candide questa inarrestabile speranza; una cosa che avrebbe detestato, se solo avesse potuto arrivare oltre al fastidio. Se avesse potuto provare sentimenti forti come l’odio, per esempio.

Ma gli shinigami non potevano. Loro non provavano sensazioni forti.

Solo lievi ombre delle stesse.

Ecco dunque che la rabbia pura e semplice di trasformava in irritazione, l’odio spiccato in pressante fastidio, la felicità in sollievo, la gioia in lieve contentezza. Altre volte, semplicemente, il sentimenti non venivano nemmeno riconosciuti e finivano per mescolarsi a tutti gli altri in un’accozzaglia senza capo né coda.

Sospirò, stendendosi di schiena sulla base quadrata di una scultura in pietra levigata: un angelo donna dalle ali spiegate, distese sulle lapidi come se fossero tutte sotto la sua protezione.

Sghignazzò. Ironico, quantomeno, che si fosse messo proprio lì sotto.

« Un dio della morte in un cimitero ha un po’ il senso del macabro » sentì dire da qualche parte alla sua destra, il tono di voce vellutato che aveva già udito in precedenza senza un’inflessione particolare di tono, se non quella punta di sbeffeggio e ironia tipica degli eterni giovani.

Voltò pigramente il capo in quella direzione, incontrando la figura del vampiro conosciuto due notti prima. Il modo in cui quei capelli e quegli occhi dannatamente chiari riflettevano la luna era così particolare da rimanere impresso, anche contro la volontà.

Non rispose alla provocazione, tornando a chiudere gli occhi e lasciando che la creatura si avvicinasse. Non era particolarmente desideroso di avere compagnia, ma nemmeno così impaziente di liberarsene.

Lo sentì camminare in sua direzione, poi salire sulla base della statua e appoggiarsi con la schiena a quella della donna scolpita, la testa semi nascosta dalle ali di pietra.

Rimasero in silenzio entrambi, assorti nei più diversi pensieri. Finché non fu, contrariamente alle aspettative, Abrahel a stancarsi di quel pesante silenzio che solo nei cimiteri si poteva avere.

« Tu sei in giro ogni notte? » chiese, conscio anche senza aprire gli occhi che il vampiro lo stava ascoltando.

« In qualche modo mi devo nutrire, se non voglio azzannare la famiglia che mi ospita » spiegò apatico; anche se Abrahel si convinse che forse non gli sarebbe dispiaciuto troppo, piazzare i denti nella giugulare di qualcuno della sua “famiglia”.

« Potresti farlo e basta » ribatté di nuovo, particolarmente pessimista.

« Sì certo, e poi chi li sente quei rinsecchiti degli anziani? No grazie, voglio vivere il resto della mia immortalità senza rotture di palle varie » ribatté Marcus – si chiamava così? – tranquillo nonostante il vocabolario da orco delle montagne.

Lo shinigami ghignò. Come loro, anche i vampiri erano legati a leggi antiche che prevedevano una cosa innanzi tutto: la segretezza. Entrambe le loro razze, per il mondo, esistevano solo sottoforma di miti e leggende.

« Posso sapere cosa ci fai sul Mediano? » domandò poi il vampiro, probabilmente approfittando della conversazione appena iniziata.

Sembrava di buon’umore, quella notte.

« Lavoro » rispose lui, sinteticamente.

« Qualcuno che conosco? » chiese l’altro.

« Everald... Eric » si ritrovò a dire lo shinigami, dimentico della clausola sulla segretezza della vittima prescelta dal fato.

Beh, poco male. Non era come rivelare al mondo la loro esistenza; e poi non era sicuro che una particolarità simile fosse valida anche per altre creature oscure come i vampiri.

Tuttavia, Marcus rimase in silenzio. Per troppo.

Abrahel aprì un occhio, guardandolo di sbieco. « Lo conosci » considerò, e non era una domanda.

« Non io » disse subito l’altro, puntando lo sguardo da qualche parte nella semi oscurità: « Noah » rivelò.

« Un tuo amico? » domandò Abrahel.

« Il mio fratellastro » corresse l’altro.

« Vampiro? » chiese di nuovo.

« Umano » specificò l’altro, di nuovo.

Abrahel si lasciò sfuggire un ghigno particolarmente ironico. « Quanti ne hai già avuti? » esordì, ancora ghignando.

« Quattro » disse Marcus: « ma questo sarà l’ultimo ».

Abrahel non ricordava dove aveva già sentito un’inclinazione di voce talmente decisa, ma era sicuramente qualcuno che bazzicava nelle alte sfere dell’aldilà. Tuttavia non ci diede molto peso, mettendosi seduto per osservare Marcus senza avere le ali di pietra come impiccio. « Spiegati » ordinò poi, improvvisamente perentorio.

L’occhiata che gli riservò il vampiro, quelle iridi rosse di chi ha appena consumato un pasto abbondante, era quanto di più minaccioso esistesse sul Mediano. La sfortuna dell’essere era che lui aveva visto di peggio; per quello non si lasciò smuovere.

Marcus non replicò, ma qualcosa dentro quegli occhi fornì comunque ad Abrahel la risposta che cercava. Capire gli esseri notturni era complicato, sì, ma non quando si trattava di emozioni umane facilmente intuibili.

« Vuoi trasformarlo » notò, e anche quella non suonava come una domanda.

« Non lo so ancora » si difese l’essere, improvvisamente sulla difensiva.

« Vuoi sottrarlo alla morte » proseguì però Abrahel: « perché? » chiese.

Gli occhi carmini volarono nuovamente su di lui, e li rimasero. « Perché è importante. Per quale altro cazzo di motivo, secondo te? » sbottò l’altro sgarbatamente, senza però alzare troppo la voce.

“Importante”. Strano il significato profondo che poteva avere una semplice parola.

Il dio della morte lo scrutò a lungo, provando a setacciare  l’anima del vampiro attraverso quegli occhi innaturalmente rossi. Non vi riuscì, ma intuì comunque quale fosse l’importanza che attribuiva a quell’umano.

« E’ il tuo amante, vero? Tu lo ami » asserì, troppo sicuro di se stesso per considerare la presenza di qualche dubbio.

Marcus ghignò. « La legge mi impone di dire “donatore” » commentò e no, quella non era una negazione.

« Tu lo ami! Un umano! » esclamò, l’ombra di una fuggevole indignazione nelle iridi così innaturalmente chiare.

Per uno come lui, che degli umani disprezzava persino l’aria che respiravano, pensare uno come Marcus accanto uno di loro era un errore sistematico, qualcosa di sbagliato.

Il vampiro però non la pensò uguale e non condivise l’indignazione. Si limitò a scendere dalla scultura, mettendosi le mani nelle tasche dei pantaloni neri.

Prima di andarsene, il suo sguardo color rubino si posò ancora una volta su quello di ghiaccio dello shinigami.

« E’ vero, è umano. E forse non dovrei nemmeno imbarcarmi in una cagata colossale come questa sottospecie di relazione amorosa, ne sono pienamente consapevole. Non puoi sapere la quantità immonda di tare mentali che mi sono sparato nel cervello da quando è cominciata fino a qualche ora fa » disse: « ma fidati quando ti dico che piuttosto che ridurmi come te, che l’amore non lo puoi nemmeno provare... preferisco rischiare di fare del male alla persona che amo » concluse, sparendo così velocemente che Abrahel fece appena in tempo a seguirne la scia.

Sospirando, si lasciò andare di nuovo con la schiena contro la pietra.

Non faticava a credergli. Nessuno voleva essere come la Morte.

Neanche la Morte.

 

Quando rientrò nell’appartamento, buio e silenzioso esattamente come lo aveva lasciato, aprì la porta della camera da letto e si soffermò sulla soglia a guardare Eric.

Dormiva placidamente girato su un fianco, le lenzuola scure a coprirgli il corpo fino alla vita.

Osservandolo comprese davvero il significato delle parole del vampiro, dopo quasi tre ore che ci rifletteva sopra. Così come gli balenò in testa una delle possibili interpretazioni della parola “importante”.

Non poteva affermare di amarlo, come Marcus nei confronti di Noah... ma, nonostante la sua impossibilità di provare sentimenti, comprendeva che Eric era importante per lui come mai nessuno era arrivato ad essere in tutta la sua esistenza.

Senso di protezione, forse. Affetto. Non superava quelle sensazioni, ma anch’esse erano comprese all’interno di “importante”, e tanto bastava.

Avrebbe potuto avvicinarsi e accarezzargli il volto senza la paura che potesse essere d’intralcio alla missione. Dopotutto, un intralcio a se stesso lo era già diventato, praticamente dal momento in cui aveva cercato di proteggere Eric dal ceffone del padre; dal momento in cui si era messo in mezzo, decretando inconsciamente di volerlo proteggere.

Poteva oltrepassare quella porta e decidere; decidere di lasciarsi andare... oppure tornare indietro, e decidere di rinunciare.

Rimase su quella soglia fino all’alba.

 

 

__________________________________________________________________

 

Il capitolo più noioso che abbia mai scritto. Mi sono stancata solo ad idearlo, santi numi...

By the way: prima dei consueti ringraziamenti, un avviso. E’ probabile che il prossimo capitolo di Untill arriverà un po’ in ritardo.

Ho in programma una shot su Hetalia, e alcuni utenti su un altro fandom aspettano un aggiornamento che ritarda da due mesi. L’ispirazione non aiuta molto, in questo periodo.

Ok, ora che ho dato il pretesto base per farmi linciare: risposte!

 

Shichan: non posso assicurarti che Trent soffrirà le pene dell’inferno, perché ancora non lo so nemmeno io (^^’’’) però farò del mio meglio. Ti ringrazio molto sulle opinioni riguardanti i personaggi e il modo di scrittura, ma dato che di solito ne parliamo ampiamente in separata sede, ancora mi chiedo perché sto a risponderti qui XP.

Ma sappi che me gode del fatto che ti piaccia Eric, a dire il vero ci speravo XD

 

angel15: complimenti che sono molto apprezzati: il mio ego ringrazia di cuore. Sono felice che ti piaccia la storia, davvero; fa sempre piacere sapere che le trame folli che mi sparo di tanto in tanto siano abbastanza originali da piacere XD

Grazie mille per la recensione!

 

Mikayla: eh sì, la teoria di Yuuko di xxxHolic ha un suo perché. Ode all’hitsuzen.

Ti confesso che quando leggo recensioni come le tue mi viene quasi da saltellare. Il mio ego non vede confini.

Ma la contentezza che mi provoca vedere che il mio stile di scrittura, la trama e la caratterizzazione che do ai personaggi non annoia non ha eguali. Sono complimenti che tutte le ficwriter vorrebbero sentirsi dire, credo, e io non faccio eccezioni.

Perciò ti ringrazio (e complimenti per il vocabolario XD) sia per i complimenti che per la recensione. Piacerebbe anche a me incontrare Timoty in giro per l’università, se non fosse che pure io vivo in Italia e Timoty non esiste XD.

 

dea73: sì, quel povero shinigami è un po’ lento di comprendonio. Più che altro è tarlato con l’idea di essere in mezzo ad un branco di esseri inferiori... poverino, dobbiamo cercare di capirlo XD.

No, beh, in realtà il dolorino non c’entra niente XD la tachicardia è una cosa che capita abbastanza spesso quando si è molto stressati e si fa incetta di caffeina, al liceo mi capitò un paio di volte... ho semplicemente preso ad esempio. Il ruolo di Eric... beh... a dire il vero ci sto ancora pensando, avrei una scelta da fare su due finali diversi... vedrò, comunque.

Ti ringrazio comunque molto per la recensione e i complimenti sulla scrittura, fanno sempre piacere U___u.

 

Fine del mondo. No, scherzo! XP

Alla prossima dunque!

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Capitolo 6
*** Wednesday ***


Wednesday

Wednesday

 

Eric

What Lies Behind

 

 

Aveva creduto che fosse la cosa migliore da fare.

Per diversi motivi, molti ripensamenti e altrettanti sensi di colpa.

Non era giusto lasciare da sola sua madre, si era detto. Anche se Joshua l’aveva avvertita, conoscendola doveva essere comunque molto preoccupata.

Per quello non si era fatto troppi problemi nel prendere la sua roba, ringraziare Joshua alle cinque del mattino seguente – ma quel ragazzo non dormiva mai? – e tornarsene a casa.

Ma ora, chiuso in camera sua con le serrande abbassate a fissare il soffitto, non era più così tanto sicuro della sua benevola pensata.

La prima persona che aveva visto, al contrario di ogni aspettativa, era stato suo padre. E le cose non erano andate come si aspettava.

Gli aveva aperto la porta, sì, gentile da parte sua. Lo aveva guardato... poi, senza dire una parola, aveva girato i tacchi lasciando la porta aperta ed era tornato in cucina.

Niente saluti, niente parole d’apprensione, niente scuse. Niente di niente.

Solo sua madre era corsa ad abbracciarlo mentre suo fratello, chissà perché già in piedi, lo guardava come se dovesse bruciare su un rogo.

In quei momenti... non poté far altro che chiedersi come fosse finita così. Che strada avevano intrapreso per far sì che una cosa simile succedesse?

Si morse il labbro inferiore, portandosi l’avambraccio sugli occhi. C’era penombra nella camera, e improvvisamente anche quella pochissima luce sembrava disturbarlo.

Non sarebbe andato a lezione nemmeno quel giorno. Nessuno della famiglia era uscito di casa, dunque anche Alex saltava scuola, probabilmente.

Magari avevano da fare a casa; tipo rispondere alle incessanti telefonate che suo padre riceveva da ormai due ore, spiegando a buona parte di quelli che chiamavano della sua “reazione allo stress accumulato”, causa ufficiosa del suo comportamento poco adeguato ad un adulto.

Ma Eric aveva pensato subito che quella fosse una balla bene architettata per non mandare a picco l’importantissima, vitalissima squadra di basket giovanile di suo padre. Si dovevano rassicurare i genitori in un qualche modo, ed effettivamente lo stress è una delle cause più comuni di un gran numero di comportamenti inconsulti.

Ma la realtà dei fatti era una sola: suo padre aveva intenzione di fare esattamente quello che aveva fatto.

Anzi, se avesse potuto si sarebbe spinto oltre.

A quel pensiero un brivido gli scese lungo la schiena. Aveva frammentari ricordi del braccio alzato del padre, levato come per colpirlo, e di Joshua che si frapponeva tra lui e quel colpo.

Joshua, che aveva sibilato parole che suo padre aveva temuto. Ma quali? Cosa gli aveva sussurrato all’orecchio?

Non lo sapeva. Non riusciva nemmeno ad immaginare cosa avesse spaventato così tanto suo padre, in quel frangente.

A pensarci bene... era da un po’ che rifletteva sul ragazzo. Non era la prima volta che pensava di qualcuno che fosse strano, o diverso dagli altri... ma Joshua Archer scatenava in lui una sorta di istinto represso, che a tratti gli consigliava di stargli lontani, altre volte invece ne sembrava follemente attratto.

Soprattutto per i suoi occhi. Sembravano saper incantare chi li osservava troppo a lungo.

E non si comportava nemmeno come gli altri ragazzi della loro età.

Posato, tranquillo, gentile. Magari si sforzava di assumere un comportamento comune, ma in rari momenti non gli riusciva affatto.

Lui non lo aveva toccato. Mai. Nemmeno per sbaglio. Per tutto il tempo in cui erano rimasti insieme nel suo appartamento, Joshua gli era stato sì vicino, ma mai abbastanza per sfiorare o essere sfiorato, anche inavvertitamente.

Così vicino da sentirne il profumo, particolare e incomparabile anche al più gradevole degli odori, ma mai abbastanza.

Si ritrovò d’improvviso a pensare come fosse al tatto la sua pelle.

Sapeva che era fredda. Se lo ricordava da quando l’altro gli aveva appoggiato la mano sulla fronte, in facoltà... ma non sapeva altro.

Più che altro perché non ci aveva mai pensato. Più che altro perché non ci doveva nemmeno pensare, santi numi! Joshua era un ragazzo! Non si fanno certe considerazioni su un coetaneo maschio, per Dio!

Però...

Già. Non poteva non ammettere che tutti i suoi pensieri finivano per vorticare intorno ad Archer. Sempre e comunque, Joshua era il fine ultimo di ogni ragionamento che cominciava. Aveva attirato la sua attenzione come solo il nuoto era riuscito a fare.

Era un maledetto fissato, doveva ammetterlo con se stesso.

Fu un rumore consuetudinario ad attirare la sua attenzione, distraendolo dal filo di pensieri che aveva cominciato a popolargli la mente. Dei passi, per la precisione, pesanti e cadenzati.

Qualcuno saliva le scale. Ed era sicuro di chi fosse, dato il rumore che faceva.

Si preparò psicologicamente, sospirando pacato e togliendosi il braccio dagli occhi; fu questione di pochi istanti prima che, bussando, Trent non si presentasse sulla porta della sua camera.

Nessuno dei due disse nulla. L’uomo si limitava a fissare un punto qualsiasi del parquet della camera mentre Eric aspettava che l’altro parlasse, che dicesse qualcosa. Lui aveva bussato, dopotutto.

Quando finalmente Trent si decise, erano passati talmente tanti minuti che sentire la sua voce fu una sorta di sorpresa.

« Eric... » chiamò, tuttavia senza ancora guardarlo.

Oh, wow... si ricordava persino il suo nome.

« Mi dispiace. E’ stato un comportamento... beh, non dovevo farlo » aggiunse, cercando parole che, a giudicare dall’instabilità della voce, non trovava.

Tacque, ed Eric non poté fare a meno di rispondere ciò che il padre si aspettava.

Nonostante non credesse al suo pentimento - pensò che fosse un’insistente trovata di sua madre – non riuscì a dire altro che quello.

« Va bene, non preoccuparti ».

Non era quello che avrebbe voluto dire. Avrebbe preferito domandare perché lo avesse fatto, o perché fosse così spudorato nel mentirgli a quel modo. O anche se era diventato uso comune, quello di malmenare i propri figli in pubblico.

Ma qualcosa gli diceva che comunque il padre non avrebbe risposto e, anzi, con quelle parole non avrebbe fatto altro che farlo arrabbiare.

« Bene » pronunciò l’uomo, girandosi nell’evidente intenzione di lasciare la stanza. Ma si fermò con la mano sulla maniglia e un piede sulla porta, proprio in procinto di uscire.

« Conosci da molto quel ragazzo? Joshua... Archer? » domandò poi, e la variazione del tono faceva intuire che la recita era finita, e adesso agiva solo per se stesso.

Eric ne fu sorpreso solo perché non si aspettava un approccio così diretto a quell’argomento.

« Da un po’ » fu la semplice risposta che fornì. Non sapeva come avrebbe reagito suo padre, praticamente il ritratto della serietà e del rispetto delle regole, se gli diceva di avere passato la notte da una persona conosciuta sì e no settantadue ore prima.

Trent sembrò pensieroso per un qualche istante, ma si girò finalmente a guardarlo quando si rese conto che la sua risposta era prettamente insoddisfacente. Però non commentò, né si preoccupò di farglielo notare con il suo solito tono saccente. Anzi, rimase in silenzio.

« Non mi piace » esordì poi: « preferirei che non lo frequentassi » disse, e la sua voce aveva l’intonazione di un ordine ben nascosto nonostante le parole fintamente cordiali.

Non rispose, preferendo di nuovo il silenzio al mare di insulti che si sentiva sulla punta della lingua, pronti ad uscire.

« Eric » chiamò di nuovo l’uomo, fermamente: « non devi frequentare quel ragazzo » chiarì, facendo risuonare l’imposizione per ciò che era.

Non seppe se fu il ficcare il naso nella sua vita privata quello che lo fece innervosire, oppure il pensiero di evitare Joshua da lì in avanti. Non riusciva a sopportare né l’uno né l’altro, e la cosa non lo aiutò a tenere la bocca chiusa e ad ignorarlo come si era prefissato di fare.

« Non sapevo che il mio giro di amicizie fosse improvvisamente affar tuo » disse ironicamente, distogliendo per la prima volta completamente lo sguardo dal soffitto per fissarlo sul volto del padre. Poteva vedere la rabbia inasprirgli i lineamenti del volto, ma anche il tentativo ostinato di non infuriarsi ancora.

Dal canto suo, Eric non riusciva a capire cos’era quell’ostilità nei confronti di Joshua.

Era di sicuro il più serio e il più posato di tutte le persone che conosceva, e l’unica cosa particolare che aveva visto fargli era stato fumare una sigaretta, la prima sera che lo aveva incontrato fuori dal Rock Theatre. Era meglio di tutti i suoi amici messi insieme, persino responsabile nel venire ad avvisare sua madre su dove si trovasse, e questa nuova fissazione di suo padre trovava che fosse priva di fondamento.

Al suo silenzio, Trent ripeté di nuovo il suo ordine: « non voglio che lo frequenti. Viene nella tua stessa università e non puoi di certo non incontrarlo, ma evitarlo sì » continuò: « fallo » concluse infine.

Continuò a non rispondere. Nonstante stesse per esplodere di rabbia non voleva provocarlo, no, era l’ultima cosa che voleva. Per rispetto a sua madre, che doveva essere distrutta nonostante si sforzasse di riportare tutto alla normalità, e per suo fratello.

Forse Trent prese il suo silenzio come un assenso. Fatto sta che sembrò soddisfatto, per il momento, e prima di uscire gli comunicò l’orario del pranzo.

Quando la porta si fu richiusa, e l’uomo tornò rumorosamente al piano di sotto, Eric si rese improvvisamente conto che non sarebbe rimasto in quella casa una notte di più.

Guardò l’orologio sul comodino: le dieci e mezzo del mattino. Robert probabilmente era all’università – ancora non riusciva a capire come riuscisse a frequentare, con tutti i neuroni che la cocaina gli fotteva – ma Doug lavorava in un’officina meccanica, e probabilmente era reperibile.

Allungò malamente la mano sul comodino, afferrando il cellulare ed aprendolo con un rapido gesto della mano. Subito scorse i numeri in rubrica, non faticando a trovare “Douglas” in mezzo a tutti gli altri.

Spinse il tasto verde e si attaccò l’oggetto all’orecchio, ascoltandolo squillare. Fu solamente al sesto squillo che dall’altra parte qualcuno rispose, urlando un “pronto?” per sovrastare il rumore di un motore al massimo dei giri in sottofondo.

« Doug, sono Eric » disse lui, alzando la voce per farsi sentire.

« Pronto? » ripeté l’altro.

« SONO ERIC! » sbottò dunque, quasi urlando a sua volta.

« Ah, Er! » rispose infine l’altro, come al solito fin troppo entusiasta: « che fine avevi fatto, è una mezza esistenza che non ti sento! »

« Venerdì sera non è una mezza esistenza, Doug » precisò lui, ghignando anche se l’altro non poteva di certo vederlo.

« Sono solo dettagli! » ribatté il ragazzo, allontanandosi dal motore in revisione a giudicare dal progressivo scemare del rumore. « Allora, cosa posso fare per te? » chiese poi.

Eric sospirò. « Volevo sapere se avete qualcosa in programma per stasera » chiese poi, rimanendo attentamente in ascolto.

Chiedere a loro dei loro programmi voleva dire posti ambigui con fiumi di alcool e polvere  bianca spacciata quasi in libera vendita. Ma, si disse, probabilmente era proprio quello che gli serviva.

Ci fu della reticenza da parte di Douglas, e poteva chiaramente sentirsi dalla sua risposta tutt’altro che rapida come al solito.

« E’ mercoledì, Er » si lamentò poi, ma si sentiva dal tono che era una sorta di cover story: « io lavoro domani e Rob ha lezione » aggiunse.

Cominciava a seccarsi. Ma con chi credeva di parlare, con un idiota? « Non mi pare che sia mai stato un problema per voi uscire fra settimana. Dunque perché non mi dici la verità ed eviti di farmi incazzare, Doug? Te ne sarei grato, dato che ultimamente non mi gira molto bene » sbottò, iracondo nonostante volesse evitarlo con tutto se stesso.

« ...ho sentito » disse poi Douglas dopo un istante di silenzio: « tu stai bene? » domandò dunque.

A volte dimenticava di questo lato di Douglas. Ovvero quello che sapeva preoccuparsi degli altri, quando non era assopito dal livello d’alcool disciolto nel suo sangue.

Sospirò. « Ho bisogno di uscire di qui » disse semplicemente, racchiudendo in quella frase il suo stato d’animo attuale. Era ormai da qualche minuto che si era pentito di aver lasciato il silenzioso appartamento di Joshua per tornare a ficcare il piede della tana dei leoni.

Dall’altro capo del telefono udì Douglas sospirare, forse ponderando una sua decisione. Infine parlò: « io e Rob non volevamo dirtelo, dato la situazione che hai a casa. Ma abbiamo trovato un locale che vorremo vedere e avevamo in programma di andarci stasera » disse infine.

« Io non guido, ho bisogno di alcool » rivelò, arrendendosi all’evidenza di avere la necessità impellente di una sbronza fatta per bene.

« Non guida nessuno » esordì però Douglas, riuscendo a sorprenderlo: « non è lontano, andiamo a piedi. Ma ti avverto che è un po’... particolare, ecco » tentò di spiegarsi.

Eric, ovviamente, non capì un accidente. « In che senso? » domandò infatti.

« E’ molto libero, mi segui? » commentò, e dal tono Eric si immaginò un ghigno sadica stampato su quella faccia a luna d’agosto.

« No cazzo, non ti seguo » ribatté lui seccato.

Dall’altra parte provenne un suono di disappunto che sembrava un ringhio. « Santo Dio come sei ignorante quando vuoi » commentò Doug, ma non gli diede il tempo di rispondergli per le rime: « è molto riservato, ok? Rob ci ha messo mesi per farsi il giro giusto che ci permettesse di entrare in quel pub. Ci va la gente che vuole... svagarsi senza impegni, capisci ora? Che vuole divertirsi e non gli importa con chi o dove » tentò di fargli capire.

Ci mise poco, questa volta, a collegare tutti i pezzi di puzzle.

« Un bordello?! » sbottò, tappandosi subito la bocca con la mano sperando che dal piano di sotto non lo avessero sentito. Ma i rumori soffusi dello padellare della madre ancora arrivava alle sue orecchie, segno che non si erano fermati ad ascoltare, e che dunque non lo avevano sentito. « Un bordello! Ma siete deficienti?! » sbottò, effettivamente incredulo davanti a ciò che quei due potevano arrivare a fare. Giocare agli alcolizzati e ai cocainomani spacciatori non era abbastanza? Ora anche sul sesso dovevano buttarsi?

« Non è esattamente un bordello! » esclamò a sua volta Douglas, premurandosi di tenere bassa la voce nel caso i suoi colleghi avessero le orecchie troppo sensitive: « è un pub, ok? Tu puoi entrare e limitarti a bere e a ballare. Dico solo che se non sei interessato alla musica, c’è anche la possibilità di un altro tipo di intrattenimento, ok? Ma non è gente del locale. Chi ne ha voglia lo fa con chi vuole, punto, e tutti vengono da fuori. Non è un covo di puttane e non è un bordello, è solo... un servizio in più » spiegò, parlando come se dovesse cospirare chissà quale attentato terroristico.

Ci pensò sopra. La descrizione di un posto simile non lo attirava affatto, ma ancor meno lo faceva l’idea di dover passare almeno altre venti ore facendo finta che fra lui e suo padre non fosse successo niente.

Sentiva di non farcela a fingere di non capire le sue frecciatine, di non vedere la sua espressione disgustata quando lo guardava e a non accorgersi delle sue plateali finte in favore dello status quo.

« Ci sono » decretò ad alta voce: « quanto ci vuole? » chiese poi, sperando di avere abbastanza soldi da parte.

« Quaranta bigliettoni » rispose lui. « Ma, Eric... tutti vanno con tutti, ok? Non ti garantisco che sia una cosa integralmente eterosessuale... o di coppia. Dicono che sia quello il bello del locale » rivelò.

« Immagino » fu il suo semplice commento. Al momento non gliene fragava niente, voleva solo uscire di li.

Ci avrebbe pensato poi, alle conseguenze della sua scelta.

 

Non era un posto che attirava tanto l’attenzione.

Una facciata normalissima e un’insegna anonima, il Scarlet Moonlight aveva tutto quello che si doveva ad un pub e al contempo non aveva niente a che fare con gli altri locali.

Non si sentiva la musica dell’interno, ad esempio; non c’erano spazi all’aperto e nessuno fuori a fumare. C’era solo un’insegna sopra ad una porta anonima, incassata in un muro più che normale, con un mastino di minimo un quintale a fare la guardia fuori dalla porta.

Se l’insegna non avesse specificato “pub” sotto al nome, lo avrebbe volentieri scambiato per un covo di mafiosi.

« Ci siamo, ci siamo! » esclamò Robert esaltato con un sorriso da orecchio ad orecchio. Douglas annuì con la stessa felicità mentre Eric si limitò ad un sorrisetto poco convinto. Stava considerando che non fosse stata un’idea geniale, ma ormai era troppo tardi, e non avrebbe fatto la figura dello stupido dicendo ai suoi amici che se ne tornava a casa.

Così si arrese all’evidenza che sì, avrebbe aspettato al bancone che Douglas si facesse qualsiasi essere deambulante nel locale e Robert spacciasse la roba che si era portato dietro. Figurati se in un locale del genere ti controllavano prima di lasciarti entrare...

Arrivarono all’ingresso in pochi istanti, e subito il buttafuori ebbe la cortezza di squadrarli da capo a piedi.

« Nome? » chiese, minaccioso.

« Lista Wang » rispose subito Robert: « Robert e due amici » precisò.

L’armadio si girò verso una cartelletta attaccata al muro, osservandone i nomi per qualche istante. Quando arrivò a quello pronunciato da Robert, fece un rapido accenno con il capo e gli aprì la porta.

« Wang? » domandò Eric una volta all’interno, dove furono accolti dalla ragazza della biglietteria e dal suo ghigno compiaciuto.

« Oppiomane » spiegò brevemente Robert: « è lo spacciatore più quotato di questo posto, ci ho messo settimane per convincerlo a metterci in lista » completò, estraendo i quaranta dollari dalla tasca dei jeans e passandoli alla ragazza, che gli stampò un timbro sulla mano destra.

Eric non stette a guardare cosa rappresentava il timbro; era deciso a ricordare meno roba possibile di quel posto e non voleva altro che raggiungere il bancone, ordinare il drink più alcolico in menù e sedersi.

Evitò con cura lo sguardo affamato della ragazza, seguendo gli amici giù per una lunga scalinata. Sembrava che la sala vera e propria fosse nel semi-interrato, o addirittura in una sorta di cantina; forse era per quel motivo che la musica, da fuori, non si sentiva.

Cominciò a sentirla a metà delle scale, e una volta arrivato alla loro fine si trovò davanti il locale più stravagante che avesse mai visto.

Assomigliava tantissimo ad un ritrovo di vampiri degli action movie che guardava con Alex quando non aveva niente da fare. Era in penombra, con luci soffuse a volte rosse altre bianche, disseminato di corpi che si muovevano a ritmo di musica. Niente sedie o tavoli, solo divanetti che ovunque si guardasse erano occupati da persone intente a fare di tutto fuorché prestare attenzione al mondo attorno a loro. Fra loro, un uomo in completo elegante aveva inginocchiato fra le gambe un giovane in convers e jeans impegnato con la bocca a fare qualcosa di così ovvio, che Eric non ebbe nemmeno lo stimolo di rimanerci male.

« Bel posto... » sussurrò ironico, individuando con gli occhi la porta di un privè. Beh, almeno i rapporti sessuali veri e propri si riservavano di non farli davanti a tutti gli altri, nonostante non si prestasse una generale attenzione alla “zona divanetti”.

Non ascoltò la risposta degli altri, limitandosi a passare in rassegna la stanza. Individuò il bancone, ma nel farlo incrociò lo sguardo di una donna – probabilmente sulla trentina a giudicare dal volto – così eloquentemente diretto a lui che improvvisamente si pentì di avere indossato quella camicia bianca quasi trasparente e quei jeans chiari un po’ stracciati. Era un abbigliamento fin tropo sexi per un posto in cui attiravi l’attenzione anche con un cappotto addosso.

« Vado al bar » decise poi, dicendolo ad alta voce per avvertire gli amici. Senza aspettare le loro risposte – e lo loro raccomandazioni, si disse – si diresse a passo svelto verso il bancone senza più incrociare nemmeno uno sguardo; fissò le piastrelle per tutto il tragitto finché non si fu seduto.

Ordinò un Long Island. Non era uno dei drink più alcolici, ma considerato il suo grado di resistenza era più che sufficiente.

Solo quando ebbe il bicchiere fra le mani – e ne ebbe bevuto tre quarti come fosse acqua – alzò lo sguardo, puntandolo sulle persone in pista.

Non poteva non ammettere di essere affascinato dal loro strusciarsi sincopato. Alcuni seguivano semplicemente la musica, ignari del mondo e delle persone contro cui andavano inevitabilmente a sbattere; ma alcuni di loro erano intenti ad esplorare i corpi d’altri con le mani, facendole scivolare lentamente sotto le magliette, o all’interno delle vertiginose minigonne. Notò un paio di ragazze guardarsi con espressione particolarmente languida, poi decidere con un cenno del capo di dileguarsi in direzione dei privè.

Ordinò un altro Long Island, finendo in un unico sorso quel poco rimasto nel bicchiere. Cominciò molto presto a sentire il famigliare effetto di leggerezza portato dall’alcool, unito al calore diffuso lungo tutto il corpo. Bevve ancora.

Aveva sentito molte volte la frase “bere per dimenticare”, ma non ci aveva mai creduto. L’alcool dava effettivamente un primo momento di sollievo, come se i problemi scomparissero in una nube di fumo, ma non si potevano evitare per sempre. Era quando quel senso di leggerezza svaniva che essi ripiombavano fra capo e collo più pesanti di prima.

Lui aveva la brutta abitudine di saltare tutta la prima parte. Forse perché pensava troppo.

Era sempre preda di quelle che si chiamavano “sbronze tristi”, in cui avrebbe avuto voglia di pensare e ripensare continuamente a tutto ciò che lo atterriva per far sì che potesse sotterrarlo nella depressione ancora di più.

Il barman gli portò la seconda ordinazione, e lui ne bevve un’altra metà senza nemmeno prendere fiato. Sentiva che stava per dargli alla testa, ma non si sarebbe comunque fermato. Aveva deciso di ubriacarsi per bene, a costo di stare una merda la mattina dopo, ma voleva disperatamente avere qualche ora di sollievo per dimenticarsi di tutto e tutti.

Di suo padre, per esempio. Dei suoi scatti d’ira e delle bugie che gli rifilava come sante verità.

Sentì un moto di disgusto e bevve di nuovo, finendo il bicchiere.

Non ci volle molto prima che l’effetto dell’etanolo di facesse sentire appieno, facendogli provare la sensazione di galleggiare in mezzo ad una piscina. Quasi sorrise a se stesso; nonostante non fosse esattamente ubriaco, e riuscisse ancora a fare ragionamenti abbastanza coerenti, riusciva a sentire l’euforia tipica di un’overdose alcolica.

Ordinò un terzo drink e, nell’attesa, tornò con lo sguardo alla pista.

Ora tutti quei corpi, quello strusciarsi e quei toccamenti avevano un effetto completamente diverso. L’inibizione stava finalmente andando per altri lidi e riusciva a trovare quei movimenti sensuali stranamente eccitanti.

Per quel motivo non evitò le occhiate decisamente invadenti che un ragazzo, un biondo con i capelli a spazzola e una camicia nera aperta per metà su un petto ben allenato, gli lanciava.

Prima sporadicamente, poi sempre più insistentemente finché non guardò lui e solo lui.

Poteva rifiutarlo, pensò. Poteva semplicemente smettere di guardarlo come se fosse la cosa più interessante in quel posto e l’altro se ne sarebbe fatto un motivo, scegliendo qualcun altro per il suo palese gioco di seduzione.

Invece no, continuò a fissarlo. E fece scattare, negli occhi dell’altro, quell’ingranaggio che decretava la differenza fra predatore e preda. E di certo era Eric la preda, tra i due.

Poco male.

Bevve qualche sorso del terzo drink, cedendo fin troppo facilmente al cenno del capo del biondo, che gli indicava un divanetto libero dall’altro lato dell’enorme stanza. Robert e Douglas non erano già più in vista, e questo gli diede quel pizzico di coraggio necessario ad annuire, alzandosi dallo sgabello del bancone.

Stava facendo una cazzata, e il suo cervello glielo stava urlando in svariate lingue. Ma al contempo ne era consapevole e, anzi, non vedeva l’ora.

Si sentiva improvvisamente in grado di fare sesso con un ragazzo, uno sconosciuto, in un locale dalla fama ambigua con almeno un 30% di alcool nel sangue. Non era minorenne, non ci sarebbe stata alcuna violenza... ma la soddisfazione di presentarsi davanti a suo padre e descrivere punto per punto quell’esperienza era divenuta in pochissimi istanti una prospettiva fantastica.

La speranza che a Trent prendesse un infarto sul momento era un ottimo incentivo per perseguire lo scopo. Cosa che fece, raggiungendo l’altro in poco tempo.

« Ti ho notato, al bar... » attaccò subito quello, scostando lo sguardo lungo tutto il suo corpo. Lo studiava, si vedeva, e si leccò le labbra quando arrivò in zona glutei. « Non sei male, veramente. Anzi... » aggiunse, prendendo posizione sul divanetto e invitandolo ad accomodarsi al suo fianco.

Sorvolò sul gesto. Fosse stato per lui, in quel momento poteva anche decidere di spogliarlo e farselo davanti a tutti che non gli sarebbe cambiato il mondo. Meglio: più testimoni a confermare la storia a suo padre, che sarebbe veramente schiattato con un attacco di cuore in piena regola.

« Onorato » rispose ai complimenti, prendendo posto accanto a lui. Aveva gli occhi scuri, notò.

« Senti, mettiamo subito le cose in chiaro dolcezza, ok? » esordì l’altro, avvicinandosi talmente tanto che nell’aria aleggiò per un istante l’odore forte di fumo di sigaretta: « tu mi sembri un tipo che va al sodo, dunque sarò sincero. Ho la ragazza, ma mi piace scopare anche uomini. Stanotte ho scelto te » disse, piegando le labbra in un sorrisetto malizioso. « Niente pippe di nessun tipo, del tuo nome non me ne può fregare di meno. Staremo qui cinque minuti, giusto per galanteria, poi ho tutta l’intenzione di farti arrivare in una delle camere di quel privè. Se ci stai ripensando sei in ritardo, dovevi rifletterci meglio prima » terminò, anticipando nel suo egocentrico discorso tutto quello che voleva dire.

Da quella mania di comparare le persone a giocattoli, poteva quasi intuire che fosse qualche figlio di papà troppo annoiato dalla vita facoltosa che faceva, per divertirsi con film e pop-corn.

Ghignò, in rimando alla sua uscita. Il pensiero di non voler trovarsi lì gli sfiorò la coscienza per un attimo, ma poi si perse nella nebbia con cui i Long Island avevano contribuito a formare nel suo cervello.

« E’ un peccato... » sussurrò, fissando il biondo direttamente negli occhi: « avevo calcolato di trovarmi nudo in tre minuti. Beh, vorrà dire che porterò pazienza » pronunciò.

Lo stava sfidando. Lo stava fottutamente sfidando a fare di lui quello che più gli aggradava.

Era un idiota, si stava comportando come un imbecille patentato. Ma è difficile controllarsi quando una porcheria alcolica te la fa sembrare un’idea meravigliosa.

La risatina che il ragazzo si lasciò sfuggire aveva un qualcosa di malefico... o malato. Ma ovviamente non era abbastanza vigile per dare importanza a quel fatto.

« Ho fatto un’ottima scelta, davvero... » sussurrò, più a se stesso che ad Eric, non perdendo tempo in ulteriori chiacchiere: la sua mano arrivò velocemente sul suo collo, cominciando a scendere lungo il busto da sopra la stoffa della camicia bianca, saggiando ogni centimetro di pelle che riusciva a finire sotto il suo tocco.

Fu un ragionamento malsano, il suo, ma non riuscì ad impedirselo. Mentre la mano dello sconosciuto scivolava più in basso, posandosi con energia sulla patta dei suoi jeans, Eric cominciò a pensare a come sarebbe stato, se quella mano che lo toccava così impudentemente fosse stata di Joshua.

E non riuscì a stupirsi del fatto che lo trovasse... piacevole.

Certo, probabilmente sarebbe stato diverso.

Innanzi tutto più gentile. Il moro non aveva l’aria di essere un tipo irruento o frettoloso, lui non sarebbe arrivato a toccarlo subito; era quasi convinto che avrebbe preso tempo, mettendo in atto tutti quei preliminari che di solito si fanno, anche con le donne.

Sì, aveva proprio quell’impressione.

E poi, la temperatura della sua pelle. L’unica cosa che sapeva con certezza, era che Joshua aveva la pelle fredda. Le sue mani lungo il torace dovevano essere come acqua fredda, e sarebbero scese sempre più in basso, sempre più oltre...

« Hai già avuto altre esperienze? » fu quella la voce che lo riportò alla realtà.

La risposta, chissà perché, fu però abbastanza veloce: « solo con delle donne » ribatté sincero.

« Ooooh... » esclamò il biondo, estasiato da quella rivelazione: « non avendo avuto prima rapporti con altri uomini, questo ti rende un verginello... non posso credere a così tanta fortuna » disse, scivolando distrattamente con la mano sul suo interno coscia per poi tornare su, saggiandogli le labbra con il pollice: « spero mi permetterai di baciarti » domandò retorico.

« Perché, ti serve chiedere? » ribatté Eric, il tono scocciato sia per il nomignolo affibbiatogli che per l’interruzione che era stato obbligato a subire.

L’altro non fece altro che ghignare, leccandosi di nuovo le labbra: « Sai, credo che raggiungeremo un luogo più appartato in meno tempo del previsto... »

« Io credo di no ».

Se Eric non fosse stato convinto di esserselo solamente immaginato, probabilmente sarebbe sobbalzato per la sorpresa. Certo, avrebbe riconosciuto la voce di Joshua ovunque; ma pensare che comparisse improvvisamente in un locale simile era fuori discussione persino per il suo cervello in stand-by.

Ma quando il ragazzo che lo aveva adescato si voltò verso destra con l’espressione scocciata di chi è stato interrotto – la stessa che aveva assunto lui qualche istante prima – capì che quella voce che aveva sentito, la sua, non era frutto di un’allucinazione uditiva.

In piedi accanto a loro c’era veramente Joshua Archer, fasciato in tutta la sua letale bellezza da un paio di jeans neri e una camicia di seta del medesimo colore. Accostati ai capelli corvini, poi, i suoi occhi color del ghiaccio risaltavano ancora di più.

« Scusa, tu saresti? » domandò il ragazzo, fissando il moro come se dovesse prenderlo a pugni a seconda della risposta che avesse fornito.

Ma fu nell’istante in cui Joshua voltò lo sguardo in sua direzione, fissandolo con quegli occhi che solo Dio sa come glieli abbia dati, che il biondo tacque e ritirò le mani da Eric.

E un brivido scese lungo la spina dorsale di quest’ultimo, svegliandolo da quella sorta di trance.

Stava per farsi scopare da un uomo appena incontrato. E, allo stesso tempo, stava pensando che non sarebbe stato male se fosse stato Joshua, invece, l’autore dell’atto.

Se si vergognò come un cane non seppe dirlo; era troppo impegnato a fronteggiare lo sguardo apparentemente scocciato - o deluso? - di Archer, che sembrava chiedere mutualmente a lui cosa stesse facendo e bruciare vivo con gli occhi il biondo adescatore contemporaneamente.

« Andiamo » fu il suo semplice ordine, unito alla sua mano fredda che si stringeva sul polso e lo trascinava lontano da quei divanetti rossi.

 

Tempo due minuti, e l’aria fresca della notte gli investì il viso. Gli sembrava di essere appena uscito da un forno, e col senno di poi la metafora non era affatto sbagliata.

Camminarono per un po’, in silenzio, percorrendo un marciapiede stranamente poco affollato. Quella strada correva quasi parallela ad Heaven’s Park, dunque in lontananza potevano vedersi le ombre frondose degli ippocastani del sentiero a ovest del parco.

Joshua non parlava, non si girava a guardarlo, non faceva assolutamente nulla. Camminava di qualche passo avanti ad Eric, che ogni tanto faticava a tenere un’andatura diritta.

« Hai intenzione di evitare di parlarmi per tutta la sera? » sbottò il castano d’improvviso, fermandosi in mezzo al marciapiede.

Odiava dover stare al fianco di una persona che conosceva senza riuscire nemmeno a parlarci, e il testardo mutismo di Joshua non lo stava assolutamente aiutando.

A sua volta, il moro si fermò. Si girò in sua direzione non con il solito sguardo cortesemente gentile, ma con l’espressione seria di chi ha visto fare qualcosa che non è di suo gusto e nessuno vi ha ancora posto rimedio. Esattamente come se fosse un nobile deluso dal comportamento di uno dei suoi servi.

Eric si sentì in colpa, per un istante.

« Cosa c’è? » disse poi: « non sono affari tuoi dove passo la serata e cosa faccio » completò, anticipando o inuendo dallo sguardo a cosa Joshua stesse pensando. Glii sembrava di stare parlando con suo padre, e quella era un’immagine che più di molte altre non voleva accostare a Joshua.

Archer non rispose subito, rimanendo semplicemente fermo a guardarlo. Non sembrava particolarmente arrabbiato, così non appariva toccato dalle parole appena sentite; ma c’era come un’ombra di dubbio sul suo volto, e la sua mente sembrava occupata a sbrigliare qualche intricato pensiero di chissà quale tipo.

Dopo altri istanti di silenzio, alla fine Eric riuscì a sentire la sua voce: « è vero » gli concesse: « ma stai attento a dove porti il culo, prima di pentirti di quello che fai » lo avvertì, ma nella voce non aveva il tono di un genitore apprensivo, o quello preoccupato di un amico fidato. Era un avvertimento puro e semplice, disinteressato, come quelli dei poliziotti o dei professori.

Per un qualche motivo che non riuscì ad inquadrare, si sentì uno stupido.

All’improvviso si era reso conto che Joshua non aveva particolari considerazioni per lui. E, in tutta sincerità, non sapeva nemmeno cosa si aspettasse lui.

Che cosa voleva che fosse? Cosa desiderava che facesse? Che fosse suo amico dopo solo alcuni giorni che si conoscevano? Che gli volesse bene, magari?

Non poteva illudersi così. Stava solamente cercando doppi significati dietro ad un gesto, come quello di tirarlo fuori da quel locale, che non ne aveva.

Jshua Archer non sarebbe stato niente più di Joshua Archer. Per chiunque.

E lui era... disperatamente affezionato. E non se ne era nemmeno accorto.

« Vattene a fanculo... » sibilò ferito, abbassando lo sguardo e oltrepassandolo con il passo più stabile che fu capace di racimolare. Non sentì Joshua chiamarlo – perché se lo stava aspettando, allora? – fermarlo in un qualche modo. Semplicemente, quando si girò vinto dalla curiosità, l’altro non c’era più.

Sparito.

Per qualche minuto, guardò una piastrella particolarmente normale sotto la luce del più vicino dei lampioni. Non pensava a nulla, solo al silenzio, ma non riusciva a muovere un solo passo per andarsene da quel luogo.

Forse sperava di vederlo riapparire. Forse voleva che lo facesse.

Forse perché vedeva in Joshua il solo aiuto possibile per passare lontano da casa ancora qualche ora, prolungando il suo vagare notturno per non dover guardare ancora negli occhi suo padre e affrontare la situazione in cui era finito. La mano bianca del moro era l’unica tesa in sua direzione, l’unica che aveva già afferrato una volta, e ora non riusciva a vederne altre se non quella.

Voleva afferrarla ancora. E voleva che Joshua tenesse stretta la sua.

Perché era rassicurante e... perché era un maledetto egoista.

Chiuse gli occhi, dandosi mentalmente del ridicolo. Tanto valeva tornare a casa, dato che altri quaranta dollari per rientrare al locale non aveva motivo di spenderli.

Ma da qualche parte il destino si era riservato qualcosa di particolare, per quella sera.

« Oh, finalmente ti ripesco, dolcezza » sentì da poco distante, e solo il pronunciare dell’ultima parola fu sufficiente a fargli venire alla mente con chi aveva a che fare.

Non era possibile che fosse incappato in un fissato...

I suoi occhi si posarono su quelli scuri del ragazzo biondo incontrato al locale, a loro volta fissi sui suoi. Un sorrisetto strano incurvava le labbra sottili, e adesso era sufficientemente vigile per riuscire a percepire la pericolosità di quell’espressione.

Non si era arreso, glielo si poteva leggere in faccia.

Voleva lui.

Ghignò, chissà perché spinto dal suo istinto. Per la seconda volta si ritrovava a sfidare quel ragazzo, e per un qualche strano motivo si divertiva anche. « Com’è piccolo il mondo » disse dunque, senza però muoversi di un passo.

Era deciso a parlarci civilmente. Erano esseri umani, se gli spiegava che gli era passata la mania di protagonismo si sarebbe risolto tutto in pochi istanti.

Ma ovviamente una visione talmente ottimista non poteva essere nemmeno lontanamente possibile...

« Piccolissimo, infatti » rispose l’altro, avvicinandosi a lui in pochi passi finchè non gli fu ad una distanza decisamente troppo ravvicinata, per i suoi gusti. « Spero che tu non abbia intenzione di lasciare in sospeso il nostro “discorso” » gli disse, sorridendo malizioso: « cominciavo a divertirmi, sei un tipino interessante... » sussurrò, abbassando la voce man mano che anche la sua mano ricominciava a scendere lungo il suo corpo.

Eric la fermò prima che potesse avvicinarsi alla cintura.

« Desolato, ma mi sono ricordato di avere altri impegni » ribatté: « sarebbe un peccato se i miei amici non mi vedessero arrivare per colpa di una scopata... e poi il locale è pieno di gente, no? Sono sicuro che... »

« Tu non hai capito, ragazzino » lo interruppe però il ragazzo, distogliendo la mano dalla sua presa e afferrandogli il mento: « sono io che faccio le regole qui, e se decido di fottermi qualcuno non lo lascio scappare. Tu sarai sotto di me stanotte, volente o nolente » concluse, stringendo la sua mascella con la mano.

Aveva molta forza, ma non era paragonabile alla sua. Il nuoto lo aveva fortificato, e il basket aveva limato i suoi muscoli.

Fu facile liberarsi con uno strattone.

« Spiacente, dovrai scoparti qualcun altro » decretò, la voce ferma e decisa nel rifiutarlo di nuovo.

Ma il biondo non sembrò particolarmente deluso, anzi. Il suo sorriso prese una nota di sadico divertimento mentre faceva un cenno a qualcuno alle sue spalle, nascosto nell’ombra del lampione.

Spuntarono fuori altre tre persone, ed Eric sentì all’improvviso la sensazione di essere veramente nei guai.

« Ti presento i miei amici, dolcezza » gongolò il biondo, incrociando le braccia al petto: « sono persone con gusti molto particolari, sai... per le violenze sessuali vanno matti ».

Ebbe quasi la sensazione di aver sentito il proprio cuore mancare di un battito nello stesso istante in cui la paura gli bloccava la bocca dello stomaco. Non riusciva esattamente a vedere i volti dei suoi tre “amici”, ma di sicuro vedeva le loro spalle robuste e i loro bicipiti decisamente troppo grossi per stare nelle magliette che portavano.

Nonostante anche lui non fosse messo male a forza, non arrivava a quel livello; e comunque, tre contro uno era una prova troppo grande per le sue minime esperienze di street fight.

Senza accorgersene, cominciò a respirare più velocemente. Cominciava ad avere sinceramente paura.

Non si mosse mentre i tre gli si avvicinavano, coprendogli buona parte della visuale. Avrebbe potuto correre, sicuramente sarebbe stato più veloce di loro... ma dietro di lui c’era il parco, e nemmeno nei suoi più masochistici pensieri si sarebbe infilato in un parco così grande inseguito da un maniaco sessuale figlio di papà e i suoi tre scagnozzi. Era come invitarli a cena con te stesso come portata principale.

Eppure non aveva altre possibilità. Combattere con loro voleva dire farsi sbattere a terra nel giro di venti secondi.

E allora addio fichi.

Si mise in posizione di difesa, i pugni alti come gli aveva insegnato suo padre quando tiravano arie migliori. Li vide ridere di lui, ma non si demoralizzò.

Quando il primo di loro gli prese il polso con forza, la sua reazione istintiva fu quella di tirargli un dritto direttamente sul naso. Ci mise tutta la forza di cui era capace, lanciando in avanti con il pugno anche la spalla, ed effettivamente l’uomo lo sentì, perché lo lasciò andare coprendosi il naso con la mano. Ma subito il secondo gli fu addosso, e nonostante fosse riuscito con una certa difficoltà a liberarsi anche di lui non vide il terzo, la cui mano scattò veloce andando a colpirlo allo stomaco con un pugno.

Gli mancò il respiro e sentì in pochi secondi un dolore sordo concentrato nel punto in cui era stato colpito.

Tossì e, privo di fiato, si piegò su se stesso finchè non fu inginocchiato a terra; lì fu poi bloccato, disteso sul cemento finché le spalle non furono a pieno contatto con esso e immobilizzato a dovere con le mani sopra il capo.

« Ottimo lavoro » ridacchiò il biondo, che in tutta l’azione era rimasto in disparte: « e non avete colpito il viso, siete stati molto bravi... ora tenetelo... » ordinò in un sussurrò borioso, mostrando in un istante la sua faccia dilaniata dal desiderio di chinarsi e usarlo come meglio preferiva.

Tentò di liberarsi ma fu inutile, i tre che lo trattenevano erano come catene, forti del loro vantaggio numerico.

Stava per essere violentato come un ragazzino imbecille. Stava per essere... non riusciva nemmeno a pensarlo.

Tutto perché voleva fare il fenomeno. Tutto perché non aveva dato ascolto all’istinto e aveva deciso di spegnere il suo cervello versandoci sopra dell’alcool.

Tremò, si morse il labbro inferiore... ma non diede la soddisfazione al biondo, ormai sopra di lui, di piangere.

Non sapeva più quantificare quanta paura provasse ma mai, mai avrebbe dato la soddisfazione a qualcuno come quel figlio di puttana di vederlo piangere.

E lui sorrideva, da quella posizione dominante in cui si sentiva sicuramente così bene. Ghignava sadico, famelico, probabilmente pregustandosi il momento. Erano in mezzo ad una strada ma in giro non c’era nessuno... non era possibile che fosse così sfigato...

Ripensò a Joshua. Se ne era andato perché lui non voleva ammettere la ragione delle sue parole. Non aveva niente da spartire con uno che aveva conosciuto si e no da qualche giorno, così se ne era andato. Magari aveva controllato che riuscisse a reggersi in piedi... e se ne era andato.

Strinse i denti a sentire le dita rudi del ragazzo slacciargli uno ad uno i bottoni della camicia, infilarsi sotto la cintola dei jeans e carezzare la pelle del bassoventre...

Chiuse gli occhi, aspettandosi il peggio.

Ma il peggio non arrivò.

Sentì i respiri trattenuti delle persone che ancora lo tenevano fermo, una sorta di rantolo e la sensazione che l’aria attorno a lui si fosse fatta improvvisamente più fredda. Poi le tre persone lo lasciarono andare, gridando, e scapparono via.

Quando riaprì gli occhi, una delle scene più strane e rivoltanti gli si presentò nuda e cruda davanti agli occhi.

Joshua era in piedi alle spalle del ragazzo dai capelli biondi, ancora a cavalcioni sopra di lui. Una delle sue mani era conficcata nella schiena dell’altro, che aveva sul volto un’espressione a metà fra il più orribile dei dolori e l’incoscienza: i suoi occhi scuri erano vitrei nonostante la smorfia della bocca facesse presagire un urlo nascosto in gola.

Eric rimase letteralmente paralizzato dal terrore.

Scostò lo sguardo su Joshua, cercando in esso una qualsiasi spiegazione, ma non ne ottenne. Anzi... notò con orrore che gli occhi del ragazzo non erano più del particolarissimo colore azzurro chiaro che tanto lo aveva attirato, no. Erano proprio... bianchi. Erano bianchi.

Osservava la sua stessa mano affondare dentro il torace del ragazzo senza la minima inflessione emotiva. Non sorrideva, non ne era disgustato, non... faceva niente. Era come se quella fosse prassi, abitudine, e si sa: la normalità non da altro che noia.

« E’ a causa di gente come te che gli esseri umani mi fanno schifo » pronunciò poi, alzando appena il capo e guardando la testa bionda della sua vittima – perché altro non poteva essere! – dall’alto in basso. Voltò poi lo sguardo in direzione di Eric... e il contatto diretto con quegli occhi così anormali provocò in lui una nuova scarica di puro terrore.

Ogni fibra del suo corpo gli diceva di scappare, di nascondersi da Joshua, o da qualunque accidenti di cosa fosse. Perché, dai! Quell’affare non era umano!

Joshua non disse nulla, però. Si limitò a lanciargli una semplice occhiata prima di tornare alla nuca della sua vittima. « Non ho mai strappato un’anima da un corpo con le mani, le nostre regole ce lo vietano... sono proprio curioso di vedere se fa veramente male come dicono » spiegò incolore, come se il ragazzo biondo potesse sentirlo.

E probabilmente poteva: perché deformò la bocca in un’espressione strana nonostante i suoi occhi fossero comunque vuoti ed inespressivi.

Ma non fiatò. Probabilmente non aveva più la voce necessaria per farlo.

Il cervello di Eric non riuscì a pensare a niente, al contempo. Vedeva solo la faccia contorta dal dolore della persona che stava per violentarlo, e la persona a cui si sentiva assurdamente più affezionato guardarlo come un Dio che per gli uomini prova solo puro disprezzo.

Non collegò il cervello quando, girando la mano, l’urlo del ragazzo finalmente proruppe fra le sue labbra. Non si curò di dare peso alle parole appena sentite, quando Joshua prese ad estrarre con lentezza la mano dal suo corpo, come se ne tirasse fuori qualcosa.

“Gli sta strappando il cuore con le mani”, pensò per assurdo. Ma non c’era sangue, e l’altro non sarebbe stato ancora vivo, se veramente fosse stato così.

No, non era il cuore... ma qualcosa sì.

Qualcosa di oscuro, che riluceva paradossalmente di una luce nera. Aveva la forma di un cristallo al cui centro stava una piccola scintilla luminosa che brillava di nero.

La mano di Joshua non era insanguinata, sulla schiena del ragazzo non vi erano ferite. Ma lui l’aveva tirata fuori dal suo corpo, lo aveva visto farlo.

Il corpo del biondo divenne improvvisamente rigido, cadde al suo fianco e... non si rialzò più. Era morto, e nonostante lui non avesse mai visto dei cadaveri non si faticava a crederlo.

Spaventato, terrorizzato a morte, guardò Joshua ancora una volta: fissava il cristallo scuro con l’aria di chi non ha visto altro per l’intera vita e odia con tutto se stesso l’oggetto che tiene fra le mani.

L’altro si voltò poi in sua direzione.

Eric sobbalzò, facendosi istintivamente più indietro con i gomiti sull’asfalto.

Probabilmente il moro notò la sua espressione, che doveva essere decisamente impaurita. Forse fu una punta di tristezza quella che gli attraversò gli occhi – erano bianchi davvero! – in quel momento... ma, se anche era stato, Eric lo ignorò e Joshua tentò di non darlo a vedere.

Però parlò. Un consiglio sussurrato come se fosse un incentivo di rassegnazione.

« Torna a casa ».

Un modo più gentile per dire “fuggi e salvati la vita”.

Eric non se lo fece ripetere due volte e, dando finalmente sfogo all’istinto, si allontanò il più possibile da Joshua Archer.

 

Corse così veloce che non guardò nemmeno dove si stava dirigendo. Così, dopo cinque minuti di corsa sfrenata, si ritrovò suo malgrado a sei isolati da casa.

Troppo sconvolto per pensare ad altre possibili tappe, decise di farvi ritorno.

Aveva bisogno di pensare, di riflettere. Perché quello che aveva visto fare a Joshua non poteva essere vero... qualunque cosa fosse.

Era stato sicuramente un sogno, o un’allucinazione. Poteva avere immaginato tutto in preda ad una sbronza epica, perché no?

Ma non ci credeva nemmeno lui. Sentiva ancora il dolore nel punto in cui era stato colpito, e anche considerando la sua poca resistenza alle bevande alcoliche con tre Long Island non si arrivava a sbronze da allucinazione.

No. Quello che aveva visto era... vero. O almeno lo sembrava.

Non c’erano prove a dimostrare il contrario.

Si portò una mano alla bocca, appoggiandosi con le spalle al primo muro disponibile. Se veramente no si era immaginato tutto... Joshua aveva... ucciso un uomo.

Era un assassino. Lo era... davvero?

Non c’era sangue, non c’era niente; e l’altro poteva essere solo svenuto, no? Era talmente spaventato che poteva aver visto male, dopotutto.

Però... era prettamente sicuro di quello che aveva visto. Il biondo era morto davvero, non respirava neppure.

E cos’era quella cosa che aveva in mano Joshua? Cos’era quella luce nera?

Gli tornarono improvvisamente in mente le sue parole prima di estrarre il cristallo, e rimase a bocca aperta nel contemplare quell’assurdità.

Aveva parlato di anima.

Anima? Com’era possibile?

Non poteva essere.

... o sì? Esistevano esseri umani in grado di staccare l’anima dal corpo?

Ma... Joshua era un essere umano?

« Non è possibile » pronunciò a se stesso ad alta voce, riprendendo a camminare in direzione di casa.

Ovviamente non era possibile. Doveva essere stato tutto uno scherzo.

...ma chi era così malato dei suoi amici da organizzare un tiro simile? Chiedendo la partecipazione di Joshua, persino! Proprio di quel ragazzo che, a parte lui, l’intera università ancora non aveva avvicinato!

Non sembrava possibile nemmeno con una considerevole dose di creatività.

Scosse il capo, ormai in vista di casa sua. Era così scosso, che al momento aveva solamente la necessità di farsi una doccia e infilarsi sotto le coperte, a dormire. A schiarire i neuroni dall’alcool, magari, così che domani mattina avrebbe potuto ragionare meglio sull’accaduto.

Sì, sì... avrebbe fatto proprio così. Avrebbe aspettato la mattina.

Una volta all’ingresso prese la chiave di scorta da sotto il vaso sulla destra. La infilò nella toppa, girò un paio di volte e fece scattare la maniglia. Ma si accorse troppo tardi che la luce della cucina era accesa, segno che i suoi genitori non erano ancora andati a dormire.

Strano. Erano le undici e quarantacinque; solitamente andavano in camera non più tardi delle dieci e mezzo.

Cercando di calmare il proprio cuore impazzito, tolse la chiave dalla toppa, portandola in casa con sé. Non aveva la forza di rimetterla a posto, adesso.

Richiudendosi la porta alle spalle, però, ebbe l’impressione di non essere al sicuro quando suo padre si presentò sulla porta.

Quello sguardo non gli piaceva.

Dietro di lui sua madre, racchiusa tremante nella sua vestaglia, e Alex in pigiama che lo guardava in piedi a fianco della donna.

Ma Eric sorrise, vedendoli. Sorrise come da molto non faceva, sorrise con gratitudine. Perché si era reso conto di avere una famiglia da cui tornare, e questo era quanto.

Perché poteva succedergli di tutto, la fuori, ma lui avrebbe sempre avuto un padre, una madre e un fratello minore al suo fianco. Genitori che magari non lo accoglievano in casa con un sorriso, o con uno scherzo, ma che comunque non gli avrebbero mai fatto del male.

« Papà, io... » cominciò, deciso a raccontargli tutto. Magari poteva consigliargli cosa fare.

« Dove sei stato? » lo interruppe però l’uomo, il tono duro e severo, ruvido come granito.

Eric perse il filo, inquietato dagli occhi iracondi del padre. « Io... » balbettò: « fuori con Robert e Douglas » rispose poi, sorpreso di tutta quell’agitazione.

« Ah sì? » ironizzò Trent: « e avevi intenzione di dircelo quando, domani mattina? » domandò di nuovo, la voce che cominciava a palesare l’irritazione che sicuramente provava.

Se possibile, Eric rimase ancora più spiazzato da quelle parole.

« Io l’ho detto ad Alex » si difese, spostando lo sguardo dal padre al fratello minore: « voi due eravate usciti ed io l’ho detto ad Alex! » esclamò, fissando ora lo sguardo sul fratellino.

« Strano, perché lui non lo sapeva » infierì il padre ed Eric, con suo grande disappunto, vide formarsi un sorrisetto sulle labbra di Alex.

Lo aveva fatto apposta. Non glielo aveva comunicato di proposito.

Per cos’era quella punizione, ora? Che cosa gli aveva fatto?

Sentì il panico crescere in lui. In circostanze normali sarebbe riuscito a mantenere la calma, ma quella sera i suoi nervi avevano avuto un sovraccarico e non ci riusciva, a fare il serafico.

Osservò il padre con un moto di panico negli occhi, ripetendo inutilmente la sua difesa: « Ma è vero! Io gliel’ho detto, lui ha mentito! » esclamò.

« VILE! » sbottò di colpo suo padre, e quello che non successe in piscina ebbe luogo fra le mura domestiche.

Lo colpì.

Un manrovescio di una forza di cui non lo credeva in grado, che bruciò sulla pelle come se fosse stata una lingua di fuoco incandescente a colpirgli la guancia.

Avvertì appena sua madre trattenere rumorosamente il respiro, mentre l’espressione di Alex passava dal gaudio alla sorpresa.

« VILE! » ripeté il padre: « NON SCARICARE LA COLPA SU TUO FRATELLO! »

« Non sto mentendo! » cercò di difendersi, ma il risultato fu quello di avere una replica del colpo precedente.

E anche quello bruciò come l’Inferno.

« TRENT! » urlò sua madre, ma la sua voce impaurita e distrutta non fu sufficiente a fermare la furia del marito, che afferrò Eric per il colletto della camicia e avvicinò il viso del figlio al suo.

« Puzzi d’alcool » constatò: « che vergogna... non credevo di avere cresciuto una persona così cafona ed irresponsabile... » considerò amaramente, lasciandolo andare senza riguardo.

Eric stava per aggiungere qualcosa, qualsiasi. Voleva difendersi, ripetere per l’ennesima volta che lui non centrava nulla in tutto quello, che era stata un’idea di Alex e che aveva... passato la serata più schifosa della sua esistenza.

Avrebbe voluto pregarlo almeno di starlo a sentire... ma le parole che udì dopo gli bloccarono il fiato e la voce in gola.

« A volte mi chiedo per quale sfortunata serie di eventi Dio mi abbia punito con un figlio come te. Alex bastava e avanzava ».

Fu sicuro di aver sentito qualcosa rompersi, da qualche parte.

Forse era un cristallo come quello che Joshua aveva estratto dal corpo del ragazzo biondo... forse ne aveva uno anche lui, e si era rotto...

Non capì più nulla. Non sentì le urla della madre, o del fratello che finalmente faceva la sua mossa per risolvere quella situazione caduta nell’assurdo.

Tutto quello che vide fu la porta, la sua mano che l’apriva e la notte.

Per il resto, i suoi piedi lo portarono il più lontano possibile.

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

Capitolo super lungo… *si accascia a suolo in trauma post-correzione*.

Vi do il permesso di linciare Trent Everald.

Bene, siccome non ho nulla da aggiungere passiamo alle risposte per le recensioni!

 

Shichan: I tuoi rapporti drammatici con le descrizioni sono anche i miei, dunque sì, lo so XD e per quanto riguarda Marcus, io te e Gioielle dovremo formare un fanclub. Questo capitolo è stato decisamente più movimentato, ma siccome tutte le mie impressioni sul caso te le ho comunicate in separata sede, non mi ripeterò.

Dico solo che Alex mi sta peggiorando. Poverino, e all’inizio mi stava anche simpatico (il classico esempio di persona che si flasha anche quanti nei ha un suo personaggio).

Spero che sia stato di tuo gradimento, al limite della decenza XP.

 

angel15: Se quello era un capitolo avvincente, io potevo tranquillamente farmi suora XD anzi, meno male che ti è piaciuto, altrimenti sai che spreco di tempo?

In ogni caso, ti ringrazio molto per il commento; eh sì, Joshua/Abrahel comincia a farsi prendere un po’ la mano… chissà, magari scopriremo che negli shinigami si celano emozioni come in tutto il resto del genere umano (come se non si fosse già capito).

 

Gioielle: Shichan mi fa pubblicità XD e che recensione lunga =ç= *gode immensamente* …vediamo di rispondere a tutto con calma.

Allora, intanto i personaggi. Sono felice che Abrahel ti piaccia, davvero XD solitamente i personaggi così negativi non hanno molto seguito. E se sei fan della coppia è una cosa buona e giusta, prosegui dritto lungo la via U____U.

Ebbene sì, Marcus fa la sua uscita anche qui XD ce l’avevo lì che non faceva niente, poverino, ho pensato di utilizzarlo. Così avrai più sfaccettature per visualizzarti il personaggio anche su Rinnega, no?

Infine, ti ringrazio (mi sto ripentendo, vero?) anche per i vari apprezzamenti sullo stile. Ho una paura sacrosanta di peggiorare, ora ç____ç …farò del mio meglio.

P.S. mi dispiace di averti tenuto sveglia fino a tardi X°DDDD

 

E con questo si chiude anche questo capitolo: meno tre alla fine!

Alla prossima <3

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Capitolo 7
*** Thursday - parte 1 ***


Thursday

Thursday

Parte 1

 

Abrahel

Human I want to be

 

 

 

Era stato così semplice… quasi come respirare.

Le anime degli umani, sia quelle bianche che quelle nere, erano così fragili che bastava anche solo la buona volontà per estirparle dal corpo come le erbacce da un campo.

Il regolamento degli Shinigami parlava chiaro, però. Un infinito controsenso di regole che mirava a rendere più grosso un libro per cui sarebbe bastata una sola pagina.

Anzi, una sola frase: non stravolgere l’ordinamento delle cose.

Quello era l’importante, il fulcro, il succo della cosa. Tutte le altre regole, come quella di non “strappare con le mani” l’anima di un umano a causa dell’immenso dolore che esso proverebbe, erano solo un contorno inutile.

In altre parole: potevano essere infrante, raggirate e scartate senza riguardi.

Ma lui, quella notte, era andato oltre.

Avrebbe potuto evitarlo. Poteva semplicemente stordirlo, o fargli perdere conoscenza. Poteva mandarlo a sbattere: aveva la forza per farlo - figurarsi - e l’altro non si sarebbe comunque ricordato cosa lo aveva incassato di venti centimetri in un muro.

Invece no. Lui aveva deliberatamente ignorato l’unica regola fondamentale che uno Shinigami non deve mai ignorare: quella dell’ordinamento naturale.

Aveva ucciso un uomo che non doveva morire.

E stava cominciando… a pagarne le conseguenze.

Non sapeva nemmeno come ci era arrivato a casa, dopo aver letteralmente divorato l’anima oscura di quel ragazzo. Per tutto il cammino si era sentito come febbricitante e la testa non smetteva un attimo di girare, facendogli perdere molte volte il senso dell’orientamento.

Aveva aperto il portone nel quadruplo del tempo necessario a causa del suo cuore, che prima batteva freneticamente e successivamente rallentava sempre più, fino a quasi fermarsi.

Una volta dentro, si era lasciato cadere a terra. Faticava ad alzarsi e, anzi, non ce la fece. Dovette gattonare, strisciare quasi, per arrivare almeno alla vetrata oltre il divano, sedendosi con la schiena appoggiata al vetro e lo sguardo alla porta.

Aveva la sensazione di avere i sudori freddi, ma la sua pelle era perfettamente liscia e asciutta. Si sentiva come se delle tenaglie gli stessero premendo la cassa toracica, ma non era vero.

Ansimava inutilmente come se avesse corso per chilometri quando aveva fatto si e no quattrocento metri, camminando lentamente e appoggiandosi ad ogni muro disponibile.

Sentiva fitte allo stomaco che diventavano sempre più pungenti e violente.

Erano sensazioni umane… quelle?

« Schifosi esseri… umani… » ansimò, tenendosi lo stomaco e piegando le ginocchia al petto più che poté.

Moltissime altre volte si era nutrito di anime oscure - alcune ancora più nere di quella del porco che aveva ucciso quella sera! - ma nessuna gli aveva mai causato questi sintomi.

Solitamente, la cosa si risolveva in un semplice e diffuso malumore che durava si e no qualche giorno.

Ma c’era da precisare… che di solito non si nutriva di tutta l’anima. Solo dell’energia vitale, dato che lo spirito vero e proprio lo accompagnava nell’aldilà.

Invece questa volta aveva ingoiato tutto. Aveva fatto sparire tutto.

E provava una certa soddisfazione.

« Nh! Cazzo! » si lasciò sfuggire ad una fitta più forte delle altre, che gli fece mancare il battito cardiaco per qualche istante. Socchiuse gli occhi e, con sua sgradita sorpresa, gli cadde lo sguardo sulle mani e i polsi: la pelle si stava riempiendo di macchie nere e sentiva le dita tremendamente intirizzite, come se il sangue non arrivasse più fin lì.

Era quello il limite dei corpi umani, dunque? Era quello il dolore che si provava quando si stava male, per malattie o ferite?

Erano veramente così deboli, vulnerabili? Come facevano ad affrontare una natura così spietata con un corpo che sembrava fatto di vetro, da quanto era fragile?

Non riusciva nemmeno a sopportare un’anima nera… o forse non era per quello?

Magari era proprio perché aveva rotto l’ordinamento naturale delle cose…

…non gli importava. Per quanto poteva sforzarsi di far credere a se stesso di aver agito per se stesso, in realtà non era vero.

Se avesse agito per se stesso, avrebbe sterminato l’intera razza umana. Se avesse agito per se stesso, avrebbe lasciato perdere e sarebbe tornato all’interno della sua cappa di silenziosa e solitaria oscurità.

Aveva agito per Eric. Aveva fatto tutto per salvare Eric. Per salvare la persona che avrebbe dovuto uccidere.

Mai, nella sua esistenza, si era lasciato prendere dalle emozioni umane. Mai ne aveva provate di così forti.

Era stata… rabbia? Gelosia? Possessività?

Forse tutte, o forse sbagliava.

Non lo sapeva.

Di suo, sapeva solo che faceva tremendamente male. Tutto faceva male.

Sia le emozioni che quel dolore sgradito che gli intorpidiva i muscoli e incrinava le ossa. Come se ci fosse una mano attorno all’ulna e stesse stringendo e attorcigliando l’avambraccio per rompergliela nel peggior modo possibile.

E aumentava, saliva di intensità senza fermarsi.

Strinse i denti ma non urlò. Peccava d’orgoglio, forse, ora che lo aveva scoperto.

« Stupidi… maledetti… esseri umani! »

« Non sono loro, purtroppo, il maggiore esempio di stupidità in questo mondo » esordì una voce da una parte indistinta dell’appartamento, come se fosse l’aria stessa a parlare: « in questa stanza ce n’è uno di gran lunga più grande, e giuro che non sono io » completò, ironico nonostante la voce risuonasse per lo più piatta.

La riconobbe solo quando, osservando di fronte a se, vide gli strascichi di un kimono nero punteggiato di gigli ragno* scarlatti come sangue.

Non dovette alzare oltre lo sguardo per riconoscere Enma.

Rise. Con tutta la macabra ironia che poté inserire nella sua risata.

« Quale onore, il capo… degli Shinigami in carne e… ossa » ansimò, sciogliendo la posizione a allungando le gambe sul pavimento. Anche la piccola porzione di caviglia che si intravedeva dai pantaloni sembrava livida, e non faticava a credere che tutti i suoi arti si stessero riempiendo di macchie nere.

Sembrava…

« Più in spirito che altro » lo corresse Enma, scostandosi dal volto pallido una lunga ciocca di capelli corvini: « ti stai decomponendo, hai notato? » osservò con semplicità, posando di malagrazia il piede sulla caviglia destra di Abrahel.

Sentì una scossa di dolore attraversargli il corpo come aghi, ma non gli sfuggì dalle labbra altro che un piccolo gemito. Ridacchiò nuovamente, ignorando il sapore ferroso in bocca del sangue proveniente dal labbro che si era appena morso: « ho visto… » rispose con tranquillità, ostentando un controllo che faticava a mantenere.

Enma sbuffò, tremendamente annoiato. « A volte mi chiedo cosa dovrei farci con te, Abrahel » cominciò, premendo volontariamente più forte il piede sulla caviglia dell’altro.

Lo Shinigami resistette stoicamente.

« Scommetto che stai cominciando a chiederti per quale motivo riesci a provare sensazioni umane » continuò Enma: « sai, è normale. Tu fai sempre come ti pare, e io per non giocarmi i tuoi servigi molte volte lascio correre... non è mica facile trovare qualcuno che raccolga le anime impure al giorno d’oggi » divagò, perso in un filo logico che sembrava conoscere solo lui.

« Si può sapere cosa c’entra? » domandò bruscamente Abrahel, ma fu obbligato molto presto a pentirsi del suo tono: il piede di Enma si fece più pesante sulla sua caviglia, provocandogli altro dolore.

« Non usare quel tono con me » lo riprese quasi bonariamente, esprimendo con la voce tutto l’opposto di ciò che mostrava a gesti. « Te lo spiego subito cosa c’entra. Mentre tu giochi a fare il disperato dall’esistenza, passando secoli in quel tuo buco nero e solitario, gli altri Shinigami lavorano; e sono sicuro che il verbo “lavorare” non ti suona nuovo nonostante la tua incostanza professionale » spiegò, a metà fra l’accusatorio e l’ironico: « il fatto sta tutto qui: quando io ti mando sul mondo degli umani per un incarico, tu non segui mai le regole. Non passi con la persona designata la settimana prevista, come fanno tutti gli altri, così che ti capita di rimanere influenzato dagli umani quando ci passi troppo tempo insieme. E’ come se tu fossi l’unico ad esserti beccato il raffreddore perché i tuoi colleghi hanno gli anticorpi! » spiegò, la voce contenta di chi non vedeva l’ora di svelare quel piccolo mistero.

Abrahel non ribatté nulla.

Ora capiva l’utilità di tutte quelle regole senza senso che gli dei della morte si erano auto-imposti. Capiva cosa si nascondeva dietro la settimana di tempo, la necessità di conoscere le proprie vittime, il bisogno di stare sul Mediano più tempo del necessario.

Serviva per essere neutrali.

Dopo anni in cui si accompagnano anime di persone conosciute nell’aldilà si comincia a capire che è inutile, affezionarsi. Si comincia a perdere interesse nelle proprie vittime.

Si guadagna indifferenza e, con essa, la neutralità perfetta.

Lui non era preparato. Si era sempre rifiutato di seguire quelle regole reputate inutili più d’una volta, non aveva mai lasciato trascorrere una settimana. Aveva disprezzato talmente tanto gli esseri umani da non voler nemmeno prendere in considerazione di passare con uno di loro più del tempo necessario e, appoggiato dal silenzioso assenso di Enma, non aveva mai prestato attenzione alla verità che si celava dietro quelle leggi di convivenza fra Shinigami e umani.

E, come risultato di tutto ciò, per capriccio – per rabbia – era arrivato ad infrangere le leggi di natura, uccidendo qualcuno che non doveva morire per salvare colui che avrebbe comunque dovuto uccidere.

Si sentiva uno sciocco di dimensioni bibliche.

Non guardò Enma in volto, ma fu sicuro che un sorrisetto beffardo giacesse su quel viso dai lineamenti perfetti, mentre lo osservava dall’alto in basso.

« Il tuo silenzio è una risposta soddisfacente » osservò, alzando la mano sinistra per puntarla in sua direzione: « e ora, se permetti, devo riprendermi un’anima ».

Non fu totalmente sicuro di ciò che sentì, ma un brivido gelido gli immobilizzò il corpo all’improvviso. Enma stava usando i suoi poteri – poteva sentire sulla pelle quell’aura potente e temibile – e seguendo i movimenti della sua mano la sua energia spirituale prendeva forma, seppur invisibile, chiudendosi intorno al suo collo come un cappio.

Gli mancò presto il respiro, quando la stretta si fece più violenta, e pian piano si sentì sollevare per il collo fino a che non si ritrovò prima in piedi, poi sollevato da terra.

Non poteva di certo morire, ma la sensazione di soffocamento era fastidiosa. Così come non poteva perire sotto le fitte di dolore che gli scivolavano su tutto il corpo, ma percepiva quel male fisico fin troppo bene.

Era quella la sensazione più fastidiosa degli esseri umani? Era quello ciò che sentivano quando si ferivano, o venivano feriti?

Pensavano di morire, sotto l’effetto di quel dolore?

Gli sfuggì una smorfia che poteva essere interpretata come un sorrisetto sarcastico.

Per lui, pensare alla morte era l’apoteosi del paradosso.

« Cosa c’è di così divertente? » domandò Enma, trattenendolo sollevato in aria senza apparente difficoltà.

« Proprio niente... » rispose Abrahel con un filo di voce, sprecando in quelle due parole il poco fiato che aveva trattenuto. Nuove ondate di dolore proruppero dai suoi muscoli, tirati come se si dovessero spezzare da un momento all’altro.

« Bene, appunto » sorrise il demone: « perché io ho da fare. Non posso lasciare che tu assimili un’anima non destinata alla morte, anche se penso che ormai quel poveretto non potrà più essere riportato alla vita... sarebbe di certo strano, anche se ilare, se si sollevasse dal tavolino dell’obitorio sul quale i suoi genitori stanno piangendo » gongolò, per poi aggiungere: « se la vedranno nell’aldilà con la sua anima. Ma dato che tu te la sei ingoiata con tanto affetto, e hai fatto confusione come un fenomeno da baraccone... ho deciso di farti provare quello che ha sentito quel ragazzo alcuni istanti prima della sua morte! » esclamò.

Joshua non ebbe nemmeno il tempo di decifrare tutto il suo discorso, che si trovò la mano di Enma completamente inserita nel petto. Rimase qualche istante a guardarla prima che sentisse la reazione del suo corpo: un dolore sordo che con le fitte sentite fino a quel momento non aveva niente a che fare. Sembravano carezze, anzi.

Non urlò, però. Non si concesse la vergogna di reagire come un comune umano.

Lui era un dio della morte. E se quella era la punizione per avere infranto l’ordine naturale, l’avrebbe affrontata a testa alta.

Enma sogghignò. « Testardo come sempre... » sussurrò divertito.

Abrahel sostenne lo sguardo, ma dovette mordersi le labbra per non gridare quando la mano all’interno del suo petto cominciò a muoversi, alla ricerca dell’anima oscura di quel ragazzo biondo.

E lo faceva apposta, Enma, a non estrarla subito. Lo faceva apposta e si vedeva dagli occhi.

« Ah! Trovata! » gongolò dopo qualche istante, in cui il dolore per Joshua era diventato così forte da fargli fischiare le orecchie.

La estrasse con un colpo secco, ma quando essa abbandonò il suo corpo gli sembrò che non il cuore, ma qualcosa di più profondo gli fosse stato strappato via. Come se Enma avesse attraversato le vertebre della spina dorsale, afferrato i fasci di nervi nel midollo spinale e tirato con forza fino a strapparli, facendoli passare dalla cassa toracica.

Questa volta dovette urlare. Ed Enma non poté esserne più che soddisfatto.

« Male, eh? » sfotté: « e pensa che non è nemmeno la tua anima... ovviamente, dato che quelli come noi non ne sono provvisti. Se fosse stata tua sarebbe stato anche peggio » spiegò, rimirando il cristallo corvino mezzo rotto che si era ritrovato in mano.

Lo lasciò andare e lui cadde a terra, rimanendo riverso sulla moquette. Riprese a respirare, ansimando, senza però trovare la forza di alzarsi, o di mettersi anche solo seduto.

« Ti riprenderai in un paio d’ore. Ma tu guarda com’è messa quest’anima, porca miseria... » disse.

Si immaginava il suo sguardo ilare che lo fissava dall’alto della sua potenza, compiaciuto della vista di lui a terra, inerme.

Non che comunque avrebbe avuto molte possibilità, contro Enma.

« Voglio che finisci il lavoro, capito? » riprese dopo qualche istante di silenzio: « porta quell’anima nell’aldilà e vedremo di chiudere un occhio sul tuo errore di questa notte. Tanto passerai come minimo altri due secoli a compiangerti cercando di cancellarti, dunque non credo che ti tocchi molto da vicino questa faccenda » disse, incamminandosi a piccoli passi verso un punto imprecisato della stanza.

Non lo seguì con lo sguardo, ma parlò.

« Non voglio più avere niente a che fare con Eric Everald » pronunciò, deciso nonostante il dolore al petto non fosse ancora passato, anzi.

Enma si fermò. I tonfi sordi dei suoi passi sulla moquette cessarono di colpo.

« A quanto pare non hai sentito quello che ti ho detto ».

« Ho sentito » confermò però Abrahel: « e io ti rispondo che non voglio più avere niente a che farci. Manda un altro Shinigami, io ho chiuso » decise.

Era meglio così. Se per quell’essere umano era arrivato persino ad uccidere qualcuno il cui tempo non era ancora scaduto, era meglio così.

Per lui Eric non era nessuno! Nessuno di così essenziale da andare contro ogni legge e sputare in faccia al destino. Se nel fato era scritto che dovesse venire stuprato, allora sarebbe dovuto accadere. Lui – loro, gli Shinigami – erano al di fuori degli schemi del destino, per quello amministravano la morte!

Non avrebbe dovuto salvarlo. Non avrebbe dovuto uccidere nessuno per lui.

Eric Everald non era niente, per lui.

Ma suonava tanto come un’auto-convincimento bello e buono.

Il demone fece qualche passo indietro, piegandosi sulle gambe per essere più vicino al suo volto, ancora attaccato al pavimento.

« Parlerò chiaramente, Abrahel » premise, il tono tranquillo e rilassato di chi parla del tempo, o di una nuova notizia sul giornale: « non me ne frega niente se provi qualcosa per quell’essere umano, sai? Anzi, sono convinto che un altro po’ di tuo tormento interiore mi ripagherà per il casino che hai combinato nei piani del Destino con la tua improvvisa bravata. Nessuno prima di te si era approfittato così tanto della sua astensione dalle leggi del Fato, e ancora spero vivamente che questo non comporti guai in merito. Premesso ciò... » una piccola pausa, un sospiro non troppo rassegnato: « stai incollato a quell’anima fino a venerdì notte, portala nell’aldilà e non provare nemmeno a disobbedire al mio ordine, chiaro? Altrimenti giuro che troverò il modo di consumare la tua inutile eternità in uno degli ultimi gironi dell’Inferno » concluse.

Si alzò di nuovo per poi sparire nel silenzio.

Abrahel sospirò, chiudendo gli occhi.

 

 

Le ore non furono due, ma quattro. Erano ormai le cinque del mattino quando riuscì a sentire le gambe come nuovamente parte del suo corpo; il sole all’esterno stava per sorgere e un lieve chiarore dorato illuminava fievolmente la stanza.

A fatica si sollevò da terra, aiutandosi con le braccia per mettersi nuovamente in piedi. I dolori erano spariti del tutto, così come i lividi su braccia e gambe, ma di essi rimaneva il ricordo.

Aveva scoperto non potersi nutrire di anime intere. Probabilmente, l’anima di un essere umano in un corpo sprovvisto di essa ma completamente diverso da quello di partenza non era compatibile.

Come un parassita, l’anima estranea divorava la forza vitale del corpo che la ospitava. E nonostante lui fosse uno Shinigami, la cosa non faceva differenza.

Non si fidò di se stesso nel muovere un passo verso il tavolo, ma il corpo resse perfettamente; era finalmente tornato tutto alla normalità.

Si sedette, non sapendo cos’altro fare. In realtà avrebbe dovuto uscire e cercare Eric... ma disse a se stesso di non muovere un solo passo se in mente aveva quell’obiettivo.

Sì, avrebbe concluso il suo lavoro. Ma questo non voleva dire che dovesse ancora seguire i movimenti di Everald passo dopo passo.

Si sarebbe limitato a stargli lontano, presentandosi da lui a tempo debito. Mancavano ancora due giorni, se si prendeva in considerazione che il giovedì era cominciato da appena cinque ore, dunque non avrebbe dovuto sopportare per molto quel maledettissimo soggiorno sul Mediano.

Ne aveva abbastanza dei sentimenti.

Fu però in quel momento che, spezzando il silenzio del primo mattino, due colpi secchi alla porta lo bloccarono completamente.

Osservò l’ingresso senza rispondere, poiché non era difficile passare in rassegna chi fosse alla porta.

Non conosceva nessun altro che sarebbe venuto a bussare a quell’ora del mattino. Anzi, si poteva dire che non conoscesse nessun altro e basta.

« Joshua? » sentì, e il suo nome pronunciato da quella voce fu sufficiente.

Si alzò, raggiungendo la porta in pochi passi; afferrò la maniglia con decisione, aprendo quel tanto che bastava a poter vedere chi vi fosse dall’altra parte.

Occhi e capelli castani, viso pulito, espressione di chi ha passato l’ennesima notte in bianco. Eric Everald, ovviamente.

La realizzazione dell’unica eventualità che sembrava così assurda da non poter essere presa nemmeno in considerazione.

« Quale stupido correrebbe dritto per dritto nella tana del lupo, se non tu? » considerò ad alta voce, lasciando la porta aperta e tornando sui suoi passi. Gli sembrava totalmente inutile, ora, essere ospitale e cortese; così come non aveva senso correre a mettersi le lenti a contatto per coprire le iridi bianche.

Sentì Eric entrare e poi chiudersi la porta alle spalle. Tuttavia, mentre Joshua si risiedeva sulla sedia precedentemente occupata, l’altro non si sostò dalla soglia.

Lo guardava fisso, aggrottando le sopracciglia come se stesse trattenendo il respiro dal momento in cui aveva messo piede dentro quella casa.

E Joshua cominciava veramente a spazientirsi. « Cosa sei venuto a fare? » domandò rude, puntandogli addosso gli occhi candidi senza nemmeno provare a trattenere la seccatura che sentiva.

Quarantotto ore e sarebbe tutto finito. Doveva solo resistere e non concludere il lavoro prima.

Sempre che ci fosse riuscito, ovviamente.

Scosse appena il capo, come per cancellare quel pensiero sfuggito al suo precario controllo. « Allora? » incalzò.

Eric deglutì, cercando forse il coraggio di spiccicare finalmente parola.

Aveva una guancia molto arrossata, osservò.

« Quello che hai fatto... » cominciò poi l’altro, rimanendo di schiena alla porta ma trovando la forza di guardarlo fisso negli occhi: « ...tu l’hai... cioè, lui è... »

« Morto » concluse lui con naturalezza: « Sì, lo è » precisò.

Lo vide sobbalzare appena, ma la sua decisione sembrò non vacillare di molto. Probabilmente si era preparato bene, prima di presentarsi da lui. « E quello che hai preso... era... »

« L’anima » concluse lui ancora una volta, pacatamente.

Gli sembrava inutile fingere, ormai. Sia per una questione di tempo sia per credibilità.

Lo aveva visto fare quello che aveva fatto, e lo stesso Eric doveva aver considerato di non esserselo immaginato, altrimenti non si sarebbe presentato da lui con il dubbio di fare la figura del deficiente.

Eric credeva in se stesso... dunque perché non poteva crederci anche lui?

Il castano deglutì, scostando lo sguardo sul pavimento. « Tu cosa... sei? » chiese poi.

« Dovresti esserci arrivato da solo » intervenne però Abrahel: « coraggio, prova ad ipotizzare » lo sfidò, in bocca il sapore dell’ilarità.

Eric era evidentemente in difficoltà, ma si vedeva che aveva capito qualcosa. Però non scappava, non fuggiva lontano da quella casa.

Perché?

« Sei una specie di dio... della morte » rispose il castano con voce incerta, ma tuttavia decisa.

Joshua spense il suo sorriso in una smorfia, annuendo con il capo. « In oriente ci chiamano Shinigami » rivelò, osservandolo attentamente per tutto il seguito della rivelazione: « fra noi usiamo spesso questo appellativo » concluse brevemente, senza distogliere gli occhi dal volto basso di Eric.

Non sapeva cosa si celava al di là del suo sguardo, puntato testardamente verso il basso a fissare il pavimento. Sperava paura, in cuor suo, ma qualcosa gli diceva che Eric non era quel tipo di persona che si lasciava spaventare due volte dalla stessa cosa.

Come se fosse qualcuno che si scottava e si ricordava l’accaduto non per evitare la prossima ustione, ma per evitare di urlare quando avrebbe risentito quel dolore.

Fu quando il castano sollevò lo sguardo, guardandolo dritto negli occhi, che Joshua si convinse di aver visto giusto.

« Non mi interessa » pronunciò e, per qualche assurdo motivo, ad Abrahel venne da ridere.

Sorrise, in effetti, accomodandosi meglio sulla sedia nonostante fosse di per sé abbastanza scomoda. « Non ti interessa... » sussurrò a se stesso: « dovresti pensare più volte a ciò che dici » intervenne, nascondendo l’irritazione in quel ghigno icredulo.

« Ci ho pensato bene » intervenne subito Eric.

« Certo, certo... »

« Non darmi il contentino! » sbottò poi, battendo rumorosamente un pugno contro la porta. Il gesto fece in modo che Joshua tornasse a guardarlo, questa volta però senza sorridere.

Lo squadrò letteralmente.

« Dici di aver capito, vediamo allora se hai capito » lo sfidò, alzandosi in piedi senza però avvicinarsi: « sono un dio della morte nel mondo degli umani; secondo te cosa ci sono venuto a fare? » domandò, ancora sulle labbra quell’aria di sfida che non riusciva a scrollarsi di dosso.

Odiava le persone che usavano il verbo “capire” con troppa leggerezza. Nessuno capiva mai veramente. Mai.

Eric affrontò i suoi occhi per qualche istante, ma poi fu costretto a rimirare di nuovo i listelli del parquet. « Lo so... » aggiunse poi, sussurrando come se stesse rivelando un segreto: « è per... me? » chiese poi, ma aveva tutto il sapore di una domanda retorica.

Abrahel non ribatté subito. « Se l’hai capito cosa ci fai qui? » domandò di nuovo, talmente incredulo da essere quasi arrabbiato.

Non poteva essere veramente così stupido da buttarsi nell’agguato del lupo di sua spontanea volontà.

Non poteva essere così... disperato.

L’altro temporeggiò, evitando una risposta per più tempo poté. Trovò la forza di rispondere solamente dopo qualche istante di silenzio, in cui Abrahel si era quasi deciso a chiudere il discorso e a chiedergli di uscire.

« Ho solo te » uscì dalle labbra di Eric, e Joshua sperò vivamente di aver sentito male.

« Prego? » se ne uscì, sarcasticamente incredulo.

« Hai sentito! » esclamò l’altro risentito: « smettila di trattarmi come se fossi un povero pazzo! »

« Tu sei pazzo Everald, è quella la differenza! » sbottò lo shinigami a sua volta, alzando la voce per la prima volta in non ricordava nemmeno quanti secoli. O forse non l’aveva mai fatto, semplicemente.

« No invece! » si difese Eric, a corto di argomenti con cui ribattere.

E Joshua lo notò. Non sapeva nemmeno lui di preciso per quale motivo si era presentato a casa sua, lo si vedeva dagli occhi.

Sospirò. Maledetto Enma e i suoi incarichi con le anime pure!

Sentì i suoi nervi calmarsi, e provò al contempo una poco famigliare sensazione di insoddisfazione. Non fu lui però, questa volta, a riprendere parola.

« Senti... » cominciò Eric, facendosi avanti di un passo. La luce del sole si era rafforzata, ed era abbastanza potente da illuminare bene il suo volto.

Sembrava stravolto; probabilmente lo era. E aveva visto bene in precedenza, una guancia era arrossata.

« Io non so perché sono qui, va bene? So solo che mio padre mi ritiene uno scarto della natura e non mi è venuto in mente nessun altro posto dove poter andare. Sono ore che vago ad Heaven’s Park rimuginando su ciò che ti ho visto fare, ma nonostante io sappia che dovrei dipingerti come un mostro portatore di morte, io... non ci riesco » spiegò velocemente, la decisione negli occhi che a tratti si trasformava in dubbio: « non so più... dove sbattere la testa, ok? Dovrei scappare? Non vedo il perché. Se il tuo obiettivo è uccidermi... – un tremito nella voce lo tradì - ...lo farai comunque, no? Anche se fuggo. Io non voglio andarmene, perché nonostante tutto non... ti sento come un pericolo » terminò, calando il volume della voce man mano che la frase andava finendo.

Abrahel non seppe come o cosa rispondere. Poteva affermare che Eric Everald era di gran lunga la creatura più strana che avesse mai incrociato lungo il proprio cammino, e che qualcosa in quel ragazzo decisamente non funzionava a dovere: l’istinto gli diceva “vai, diventagli amico” anche quando, svelata la sua natura e il suo scopo, avrebbe dovuto urlargli “scappa il più lontano possibile e vedi di non farti trovare nemmeno dalle formiche”.

Era sbalordito, stupito ma, in percentuale minore, persino... sollevato.

Forse contento di quella novità.

Si rese conto di non riuscire a tollerare il pensiero di fargli del male nell’esatto momento in cui abbandonò inconsciamente il suo sguardo burbero, avvicinandoglisi.

Inizialmente gli si fermò semplicemente di fronte, come se dovesse avvicinare un animale impaurito.

Eric non si mosse, nonostante non si perdesse nessun suo movimento.

Poi sollevò il braccio sinistro, portando con una lentezza spropositata la mano a sfiorare la guancia lesa del castano.

Sobbalzò appena al tocco, ma ancora non si spostò.

Abrahel si lasciò sfuggire un lieve sorriso. « E’ stato lui? » domandò poi, sfiorando la pelle con il dorso delle dita.

Sentì Eric sospirare, per poi appoggiarsi con il viso alla mano: « sì » disse solo, non avendo forse nient’altro da aggiungere.

Fu il castano a fare la mossa successiva. La tensione fra loro sembrava essere d’un tratto sparita, ed Abrahel capì improvvisamente quanto forte poteva essere il significato di un gesto a dispetto delle parole.

Eric coprì la distanza che li separava con un passo, appoggiando la fronte sulla sua spalla e le mani sulla sua schiena.

Un abbraccio che teoricamente non aveva niente di particolare, ma che riuscì a lasciare perplesso Joshua per un po’; finché il suo corpo non rispose al posto del suo cervello, per lo meno, ricambiando il gesto.

« Grazie » mormorò Eric: « mi hai salvato la vita... anche se non so quanto mi è convenuto » ironizzò, o cercò di farlo.

« Già » ribatté Abrahel: « forse avrei dovuto lasciar correre. Ma non potevo, non ce l’ho fatta » spiegò a voce bassa, limitandosi ad appoggiare la guancia sul capo di Eric, che di spostarsi non aveva la minima intenzione.

Ci vollero alcuni secondi prima che Eric esponesse la domanda successiva, quasi sicuramente serviti per elaborarla e accettarla come reale: « quanto tempo mi rimane? » domandò, e questa volta la voce non tremò.

« Una settimana dalla prima volta che ci siamo incontrati » rispose automaticamente Joshua.

« Sabato... » sussurrò il castano, aumentando di un poco la stretta.

« Venerdì a mezzanotte... » corresse lui, sussurrando a sua volta, come se temesse quelle parole. Come se fossero state lame acuminate puntate contro l’anima di Eric, fatta di puro cristallo bianco. Come se avessero potuto scheggiarla, o romperla, o scurirla.

Ancora attimi di silenzio, ancora una domanda: « farà male? » domandò, e Joshua considerò un bene che il castano non lo stesse guardando direttamente.

Aveva appena scoperto di avere degli scrupoli, e non erano mai i compagni ideali di un dio della morte.

« No » disse infine: « a dire il vero è abbastanza ironico, è come un bacio » disse, portando distrattamente la mano destra a carezzare i capelli sulla nuca dell’altro.

« Il bacio della morte... poetico » ci scherzò sopra Eric, cercando con tutto se stesso di sembrare convincente... anche se non ci riuscì. Un leggero tremore delle spalle rivelò la sua paura, normale e dovuta dato l’argomento trattato.

Non rispose. Non si sentiva in diritto di commentare o di aggiungere qualcosa; non desiderava cercare di consolarlo se per sbaglio poteva ferirlo con parole scelte male.

Dopotutto non era umano, nonostante cominciasse a sentirsi tale; ed era l’assassino, soprattutto.

Dovette però interrompere quel silenzio, così come l’abbraccio; con delicatezza lo afferrò per le spalle, spostandolo da sé il tanto necessario per poterlo guardare negli occhi. Fu irrimediabilmente contento quando non mostrò insicurezze, alla vista dei suoi occhi anormali.

« Dovresti passare il tempo che ti rimane con qualcun altro » disse poi: « magari tentare di tornare dalla tua famiglia, di sistemare le cose... » ipotizzò, ma Eric scosse il capo.

« Non metterò piede in quella casa se non sarà strettamente necessario » affermò con decisione.

« Senza offesa per la franchezza, ma stai per morire, mi sembra che sia strettamente necessario » ribatté.

« Decido io se è o meno strettamente necessario » rispose l’altro: « è adesso non lo è. La mia priorità è passare del tempo in un posto in cui posso stare tranquillo e a mio agio, e che tu ci creda o meno, è questo » aggiunse, osservandolo con occhi che non ammettevano repliche di nessun genere.

Si trattenne dallo sorridere di nuovo, nonostante quelle sue affermazioni gli facessero effettivamente piacere. Ancora si sorprendeva di come riuscisse a considerarsi un pericolo e, al contempo, ad essere lusingato delle parole che Eric gli rivolgeva.

Guardandolo, sfiorandolo... pareva sentire, da qualche parte dentro di sé, l’affetto che aveva disperatamente tentato di zittire. Per la prima volta si lasciò andare, dando via libera ai sentimenti che sembravano averlo invaso, passati dal castano a lui come i virus di una malattia infettiva.

E considerò che essere simili agli umani non era così... malvagio. Che loro non erano quei mostri che per millenni aveva dipinto nella propria mente e nei propri pensieri, esternati spesso con parole tutto fuorché benevole.

Scostò con lentezza la mano dalla spalla alla gota dell’altro, sfiorando la pelle del viso come se fosse la prima volta, o come se stesse seguendo i lineamenti di una scultura di valore. Passò con le dita sulla gota, poi sulle labbra, dove si soffermò per un attimo, osservandole.

Eric sorrise lievemente. « Vorresti baciarmi? » buttò lì con ironia, senza però scostarsi dal tocco di Joshua.

« Ti ucciderei, non posso » rispose sinceramente, senza riflettere; era troppo concentrato su quelle labbra per fare attenzione a ciò che diceva.

« Non hai detto che non vuoi, però... » notò furbamente l’altro, sogghignando.

Finalmente, gli occhi bianchi di Joshua tornarono su quelli castani di Eric. « Ciò che voglio e che posso fare di solito difficilmente combacia » osservò seriamente; non sapeva con esattezza come gli fosse arrivato così vicino da notare la lieve sfumatura azzurra che avevano le sue iridi alla luce del sole, ormai quasi completamente sorto, ma al momento sembrava non interessargli troppo.

Occhi che si socchiusero, mentre il volto si allungava in direzione del suo, ormai fin troppo vicino: « non ci sono solo le labbra a disposizione... » alluse Eric in un sussurro smodatamente voglioso.

Un ghignò si disegnò sulle labbra sottili di Joshua, rapito dal castano come se al mondo non esistesse altro di più prezioso: « è come assaggiare una torta senza poter mangiare la ciliegina » osservò, scherzoso e malizioso al contempo.

Qualcosa, nel più profondo di lui, si stava agitando. Sentiva il bisogno di baciare quelle labbra, nonostante fosse consapevole di non poterlo fare, e di continuare assaggiando il sapore della sua pelle e del suo corpo. Attrazione, forse desiderio; di quelli malati che mettono la ragione al chiodo e denudano l’istinto.

Un istinto troppo giovane il lui, neonato si potrebbe dire, e dunque talmente imponente da lasciarlo completamente in propria balia, escludendo la razionalità da ogni sua conseguente azione.

Se si sarebbe o meno pentito, se fosse stato giusto o meno, se avrebbe o no incontrato dei guai dopo... non sapeva dirlo, o considerarlo.

Tutto ciò che vedeva era Eric Everald.

« Potrei prenderti in parola, fa attenzione » ironizzò, scostando con le dita i capelli dal suo collo, accorgendosi improvvisamente di quanto sembrasse delicato nonostante i tanti anni di sport.

« Secondo te perché sono ancora qui? » domandò retorico il ragazzo, portando la propria mano a toccare la guancia dello shinigami, che non si mosse.

« Perché sei un masochista » fu la risposta schietta.

Eric ridacchiò, sinceramente divertito: « forse » disse: « prendilo come l’ultimo desiderio, ad un condannato si concede sempre » aggiunse poi.

« Hai desideri particolari, per un condannato » mormorò Joshua, chinandosi a baciargli il collo al di sotto della mandibola, scendendo man mano che le mani risalivano sulla sua schiena, alla ricerca del metodo più breve per liberarsi della leggera camicia bianca.

Eric si lascò toccare, inclinando di lato il collo senza impedire a Joshua di poggiarci sopra le labbra.

« Non sono diversi da quelli di tutti gli umani... » riuscì a pronunciare prima di chiudere gli occhi, e lasciarsi andare.

 

Non ci volle molto perché arrivassero in camera, più in penombra rispetto al salotto a causa delle serrande ancora abbassate. Il letto era ancora sfatto dalla mattina precedente, ma non fu un problema per Joshua spingere Eric ad adagiarvisi sopra; la camicia ormai completamente sbottonata sotto di lui, disteso supino sulle lenzuola.

Rimase ad osservarlo per qualche istante, passando al contempo le dita della mano destra lungo tutto il torace e il ventre, fino alla cintura dei jeans ancora allacciati.

Non sentiva il bisogno di andare di fretta, così come il castano non pareva fargliene; lo guardava ad occhi socchiusi, trattenendo il respiro quando le dita passavano in punti più sensibili, lasciandogli fare ciò che preferiva.

Dal canto suo, lo shinigami era intento ad esplorare le reazioni dell’altro ai suoi tocchi, alle sue carezze e ai suoi baci. Voleva scoprire quali punti del suo corpo fossero più recettivi, così dedicava interi minuti a baciare e mordicchiare, utilizzando al contempo le dita per saggiare quelle zone in cui con le labbra non era ancora giunto.

Sembrava esasperante, ed Eric glielo disse ripetutamente fra un sospiro e l’altro. Ma nonostante le lamentele notò che il castano tratteneva sempre più spesso il respiro, stringeva le mani sul lenzuolo e mugugnava, chiudendo gli occhi. Sospinse il ventre verso le sue labbra quando ve le passò sopra, istintivamente forse, ma Joshua non poteva essere più soddisfatto di quelle reazioni silenziose.

Più volte Eric lo riprese a voce, dandogli del bastardo per il modo in cui lo stava torturando. Le sue risposte erano fatte solo di sorrisetti e risatine maliziose, che si spensero lentamente man mano che Joshua si concentrava solo sulla pelle di Eric, e quest’ultimo sostituiva le parole con sospiri e mugugni eccitati.

Sospiri che divennero gemiti, quando anche i jeans furono abbassati e accantonati insieme alla biancheria intima. Aumentavano regolarmente allo scorrere delle sue mani sulle gambe nude del castano, facendole rientrare in carezze languide ma decise e ferme, sensuali nella loro lentezza come poteva essere una danza fatta di sguardi e sfiorar di labbra.

Labbra che non persero tutto quel tempo impiegato ad esplorare la sua pelle, quando arrivarono al centro stesso dell’eccitazione del castano. Ed Eric, d’altro canto, non mancò di far sentire la sua voce e di inarcare appena la schiena, stringendo più forte il lenzuolo ormai del tutto stropicciato.

Joshua muoveva la lingua, le labbra, le mani. Cercava ogni dettaglio, ogni minimo accorgimento che potesse dare piacere ad Eric; scovava ogni suo punto debole, mettendolo a nudo e sfruttandolo infidamente, sentendosi soddisfatto di se stesso quando Eric rispondeva con un gemito un po’ più alto o una parolaccia borbottata.

Lo portò fin sull’orlo dell’eccitazione prima di abbandonarlo brevemente, con il solo proposito di sollevarsi e guardarlo.

Il volto arrossato faceva da strana cornice alle labbra socchiuse, ma di certo non era una visione negativa. Ansimante, Eric sembrava il ritratto del godimento, e i pugni spasmodicamente chiusi sul cotone delle lenzuola gli facevano capire che si stava trattenendo, probabilmente dal lasciarsi andare completamente all’ondata d’eccitazione che doveva attraversarlo in quel momento.

Eccitazione che provava anche lui... ma non solo.

Soddisfazione, emozione, malizia, gola, avarizia e uno smodato desiderio. Possessività, al pensiero di farlo suo in modo che non potesse essere di nessun altro. Arroganza ed egoismo associati a quello stesso pensiero.

Poteva trovare tanti termini per descrivere le sensazioni che provava, nessuna delle quali provata nella sua pienezza prima di quel momento.

Se era questo il significato, l’essenza dell’essere umano, allora era quell’essere umano che voleva essere.

Anche solo per una notte, anche solo per quel momento. Un’esistenza capace di provare emozioni come quelle, così forti e travolgenti da annebbiare la ragione e la logica della sua vera natura.

Un’esistenza capace di... amare.

Sorrise quando gli occhi castani di Eric si posarono sui suoi, piegando le labbra in un lieve quanto infinitamente dolce sorriso. Il suo primo vero.

Si chinò su di lui, facendosi più avanti con il bacino dopo aver sbottonato e tolto i pantaloni che ancora indossava intoccati.

Non sentiva il bisogno di chiedere consensi o ricevere assensi. I suoi occhi parlavano, dicevano tutto quello che a Joshua serviva sapere, e non c’era bisogno di inutili parole, ridondanti suoni in una stanza che era già satura di gemiti e sospiri e respiri interrotti.

Avvicinandosi al suo volto, portò la mano sinistra sopra quella dell’altro e la destra ad insinuarsi – quasi casualmente – fra le natiche del castano.

Le loro labbra rimasero a qualche centimetro di distanza per un tempo che parve fermo, per quanto poteva sembrare lungo, finché un dito di Abrahel non scivolò all’interno di Eric, che trattenne il fiato mordendosi il labbro inferiore.

Per la prima volta, provò l’insoddisfazione di non poterlo baciare. Di non poter intrecciare la lingua con la sua, danzare con essa, sfidarla ad un duello all’ultimo fiato.

Ma non poteva. L’avrebbe ucciso. Sentiva già l’odore dolce e fresco della sua anima candida scivolare fra quelle labbra sottili e arrossate, e lo stava letteralmente inebriando. E lui provava troppe emozioni, troppe, per sperare di potersi trattenere.

La prova che non era, e non sarebbe stato mai, abbastanza umano. Il dio della morte, la fame che era in lui, fremeva ad ogni respiro corto e veloce di Eric; così come faceva l’uomo in lui, che lo desiderava totalmente.

Diviso a metà fra un puro appagamento fisico, un bisogno spirituale rappresentato dal bacio che non sarebbe riuscito ad avere, è la morbosa mania di quella parte di lui che desiderava la sua anima.

Cancellò quei pensieri dalla mente nel momento in cui la mano di Eric sotto la sua si aprì, e sentì il castano intrecciare le proprie dita con le sue.

Lo guardò, ebano nel candido, scrutando quasi i suoi pensieri con occhi lucidi e socchiusi.

« Probabilmente farà male... » sussurrò lui, cercando di essere rassicurante nonostante smaniasse di farlo suo.

Si era lasciato completamente travolgere dalle emozioni.

« Fregatene » fu la risposta di Eric, sussurrata in un sospiro, poco prima che allacciasse le gambe alla sua vita e premesse con il bacino contro le sue dita, facendole entrare ancora di più.

Appoggiò le labbra al suo collo, percependo con esse il battito accelerato del cuore dell’altro, prima di sostituire se stesso alle dita, spingendosi finalmente dentro di lui.

 

 

 

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*i gigli ragno sono fiori appartenenti al genere dei lilium, rossi con petali molto sottili (simili a zampe di ragno, per l’appunto). Vengono chiamati anche “fiori della morte” per l’usanza orientale di posarli accanto alle tombe nei cimiteri.

 

Capitolo in due parti. Mi sono resa conto che era un po’ lungo (e che mi servivano entrambi i punti di vista...) così ho deciso di dividerlo.

Finalmente, nonostante la mia quasi totale incapacità di essere volgare quanto vorrei nello scriverle (XP), in questo capitolo c’è il motivo per cui quel “yaoi” appare fra gli avvisi ad inizio fanfic: presenza di lemon, signore e signori, anche se a scriverle mi sento un’incapace.

Qualcuno dirà che era anche ora, magari.

Ma bando alle ciance e passiamo alle risposte alle recensioni, che è meglio.

 

Gioielle: che bella la recensione papiro <3 è un piacere degli occhi e del cuore leggerle.

Oooooh, vedo che ti ho attaccato Looking Glass! Bene bene *annuisce* e di nuovo, scusa per l’orario indecente in cui hai letto (anche se, a quanto ho capito, è stato tutto a tua discrezione).

Per andare con ordine: come faccio a renderlo reale? …perché, lo è? O___o Io non lo so; mi impegno solo a fare una cosa credibile, punto. Sarà perché sto più attenta alla grammatica che al resto, oppure perché sulle cose che scrivo di mio pugno ci sento il pathos di un comodino… però se me lo dici tu mi fido XD dunque grazie, mi fa piacere.

Sì, non sei l’unica che mi ha detto che tende ad osservare molto i comportamenti di Joshua tramite Eric. Sarà forse perché è uno shinigami e ci si aspetta che faccia cose diverse dagli umani? In effetti ha un senso. Comunque sono sollevata nel sapere che Joshua/Abrahel piaccia, solitamente personaggi con incipit negativo fanno un brutto effetto.

Tralasciamo la parentesi Trent Everald. E’ un classico cliché degli scontri padre-figlio, ma sto cominciando a detestarlo io che l’ho creato, quindi figurati =____=

Per concludere, ti ringrazio molto della recensione <3 spero che questo capitolo *indica in alto* non sia stata una delusione ^^’’

 

angel15: Un capitolo drammatico? E pensa che andrà anche peggio! XD No dai, non tanto… solo un po’. Alex sì, vorrei picchiarlo anche io *annuisce* però verso la fine dovrebbe migliorare un po’ il loro rapporto, se non cambio (di nuovo) l’idea base.

Purtroppo, Trent è un cliché. Proprio perché nella realtà esistono certe situazioni mi spiace averla inserita, ma ormai non posso modificare il loro rapporto.

Anche a te grazie mille per la recensione, sono felice che la fic ti piaccia ^___^

 

dea73: Marcus ha una parte molto marginale, ma comparirà ancora una volta (forse, non lo so nemmeno io °___°). E Alex… sì, forse è da odiare, ma per quanto ci provo non ci riesco. Mi fa solo pena, è l’anima della persona stupida ma non è malvagio dentro. Grazie mille anche a te per la recensione e per la dedizione alla lettura XD spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto.

 

Lirith: noi due ci siamo dette il mondo per e-mail, ma mi sembrava giusto aggiungerti anche qui XD Grazie per tutte le mail e per avermi recensito la fic <3

 

Shichan: stessa cosa, le nostre elucubrazioni in separata sede sono sufficienti U___u finalmente la lemon, visto? XD

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Capitolo 8
*** Thursday - parte 2 ***


Thursday
Parte 2
 
Eric
Human I want to be
 
 
C’era qualcosa che lo teneva stretto, dolcemente protetto in un abbraccio gentile.
Così si svegliò quel giovedì pomeriggio, quando ormai l’orologio sul mobile segnava le tre e cinque; con la schiena unita al petto di Joshua che, dietro di lui, aveva la fronte appoggiata alla sua nuca e un braccio intorno alla sua vita.
Era fresca, la sua pelle. Esattamente come l’aveva immaginata la sera prima, e sentita quella mattina. Ma nonostante ciò non provava fastidio, così come non sentiva freddo e non ne aveva sentito.
Era stato... bello. Non sapeva come altro definirlo.
La calma e la gentilezza con cui Joshua lo aveva toccato, sfiorando con le mani ogni centimetro di pelle su cui potesse posare sguardo, era stato talmente eccitante e delicato da creare un contrasto particolare.
Qualcosa che non aveva mai sentito, un’eccitazione che non aveva mai provato.
Quelle mani fresche su tutto il corpo, la sua bocca a baciare la pelle sottile del collo e la lingua a saggiare quella del ventre... le sue labbra avevano pienamente sopperito all’impossibilità di baciarsi, dedicandosi con attenzione ad ogni suo piccolo desiderio, quasi come fossero state create solo per quel motivo.
La lentezza, e l’aspettativa... un misto di sensazioni incredibile, sentire il fuoco nelle vene ma il silenzio nelle orecchie, interrotto solo ogni tanto (e sempre più spesso) da gemiti che si accorse solo dopo essere suoi.
Joshua aveva sfiorato, e carezzato, e toccato, e morso, e graffiato... ogni parte di lui, ogni suo segreto, finché non si erano finalmente uniti, dando sfogo all’eccitazione e all’impetuosità che quella passione aveva pian piano fatto nascere in lui, disinibendo ogni suo controllo.
Il moro era scivolato dentro di lui con calma, quasi avesse paura di fargli del male. E il dolore vi era stato, sì, ma solo per un attimo prima che fosse sostituito dal piacere. Prima che lui fosse attratto non più dal male, ma dal ritmo crescente delle spinte, e dall’espressione presa di Joshua; le labbra schiuse e ansimanti dallo sforzo, le gote arrossate... una visione che non si sarebbe mai dimenticato, quella dell’altro che chiude gli occhi lasciandosi andare alla pura eccitazione fisica, che intreccia le dita delle loro mani, che si china per baciargli la fronte, non potendo baciare le labbra...
Tutte cose che non aveva mai sentito, prima. Sensazioni che non avrebbe potuto percepire durante un rapporto normale, con uomo o donna che fosse, avuto semplicemente per gioco o per convenienza.
Invece no. Stranamente, l’unica entità (si poteva definire uno Shinigami “persona”?) che degli esseri umani non avrebbe dovuto conoscere nulla, in realtà aveva dimostrato di saper amare meglio di quegli stessi umani.
E adesso, stretto al suo corpo con le gambe intrappolate in un groviglio di lenzuola, sentiva che per nulla al mondo avrebbe rimpianto il momento in cui aveva deciso di mettere piede in quella casa.
O, nonostante la fine a cui era destinato – un brivido lo scosse al pensiero – non avrebbe mai smesso di ringraziare chi di dovere per avergli permesso di incontrare Joshua.
Anche se non era normale. Anche se non sarebbe durata.
« Sei sveglio? »
Fu proprio la voce del moro a distrarlo dai suoi pensieri, facendolo sorridere tristemente. Il bello dell’essere voltati di schiena, pensò incoerentemente, era quello che l’altro non poteva vederlo in viso.
Non voleva mostrargli la paura, o la preoccupazione per ciò che sarebbe avvenuto dopo. Anche se poteva sembrare un controsenso pensarlo, era quasi convinto che l’altro avrebbe vacillato sin troppo se lo avesse visto preoccupato, o impaurito solo la metà di quanto lo era davvero alla prospettiva di chiudere gli occhi e di non aprirli mai più.
Prese un respiro, rispondendo: « Sì. E tu da quanto sei sveglio? » domandò.
« Io non dormo » ribatté il moro, sussurrando con le labbra attaccate alla pelle del suo collo, che si premurò di baciare.
Eric arrossì appena, improvvisamente imbarazzato del gesto. Che enorme controsenso, dopo quello che c’era stato tra loro...
O forse era proprio per quello?
« Chissà che noia » commentò. Ormai non riusciva più a stupirsi per cose che riguardavano Joshua.
« Relativamente » rispose ancora il moro: « russi, lo sai? » aggiunse, sempre in un sussurro data la vicinanza fra loro.
« No, non è vero » ribatté scuro Eric, portando la mano sopra quella di Joshua ed intrecciandone le dita.
Sentì le labbra dell’altro stirarsi in un sorriso sulla propria pelle: « e come fai ad esserne sicuro? » domandò strafottente, posando un nuovo bacio appena sotto l’orecchio.
« Lo so e basta! » esclamò il castano, girandosi di scatto quando il gioco prese il sopravvento sul suo autocontrollo.
E si ritrovarono fin troppo vicini, perché le loro menti non fossero attraversate contemporaneamente dallo stesso pensiero.
Un bacio. Uno solo. Ne avevano bisogno, lui più dell’altro.
Era incredibile quanto il loro piccolo mondo andasse a rovescio rispetto alla realtà; solitamente è il rapporto, l’unione fisica, ciò che si aspetta con ansia.
Invece per loro no, era l’opposto. Per loro era il bacio, era il proibito sfiorarsi di labbra l’oggetto della mancanza.
E dal sorriso di Joshua vide che anche per l’altro valevano le stesse identiche cose.
« Non è consigliabile per te venirmi così vicino... » disse, e Dio solo sapeva quanto sentire il fiato sulle proprie labbra non spingesse Eric a fregarsene, e a baciarlo in quel momento esatto.
L’autocontrollo vinse... almeno quella volta.
Si morse il labbro inferiore, portando lo sguardo da quelle labbra sottili ai suoi occhi nivei: « lo sai che è una tortura, vero? » sussurrò appena, sicuro che comunque Joshua lo avrebbe sentito.
Il moro annuì, portando la mano destra a carezzargli la guancia. Non aggiunse altro però, preferendo tacere su ciò che entrambi loro conoscevano perfettamente.
Perché ormai tutti e due sapevano a cosa avrebbe portato il bacio che prima o poi si sarebbero sicuramente scambiati. La mezzanotte di venerdì, in cui avrebbero finalmente unito le loro labbra, sarebbe stata anche l’ultima.
Tutte le volte in cui ci pensava, un brivido freddo non poteva evitare di scivolargli lungo la schiena. Aveva paura, non poteva evitarselo, e l’idea sembrava diventare ogni volta un peso sempre più grande.
Colto in fallo da quelle stesse sensazioni, chiuse gli occhi. Portò la mano a cercare quella di Joshua, ancora sulla sua gota, stringendola fra le sue. Sentì quella mano chiudersi sulla sua prima di essere attirato contro il petto dell’altro in un abbraccio, caldo e rassicurante nonostante la temperatura corporea del moro non superasse i trenta gradi.
Gli si fece incontro, sospirando. Quanto doveva essere strana la sua vita, se trovava pace fra le braccia di colui che, in un modo o nell’altro, era motivo e causa dei suoi guai?
Era Joshua l’incaricato di ucciderlo, era Joshua che lo avrebbe fatto. Eppure lui non fuggiva, non cercava di salvarsi.
No, lui... lo abbracciava. E ci faceva l’amore insieme, e ci parlava, e si fidava. Lo amava.
Era possibile amare la Morte.
Di quell’amore che provano gli amanti... quello era ciò che sentiva per Joshua, per quel ragazzo non umano che era entrato nella sua vita nemmeno una settimana prima e l’aveva rubata, con l’intenzione letterale di portarsela via.
« Eric » si sentì poi chiamare, e per dare prova di stare sentendo mosse appena il viso contro il suo collo. « Non ci pensare ora » aggiunse il moro, portando le dita fra i capelli in una carezza sulla sua nuca.
Possibile che fosse un libro aperto?
« Una cosa facile, eh? » ironizzò il castano, ma cercò seriamente di seguire il suo consiglio. Quello che voleva, al dì là di tutto, era rendere indimenticabili gli ultimi due giorni (ormai uno e mezzo) che aveva rimasto da vivere.
« Josh? » questa volta fu lui a chiamarlo.
« Mh? » rispose l’altro, senza lasciarlo.
« Tu... puoi amare? » domandò.
Si potevano leggere molte cose fra le righe di quella domanda. Palesi e non, ma c’era molto di più sotto quel semplice quesito.
E suonava quasi egoista, da parte sua. Così come poteva essere un riflesso di ciò che provava lui, nonostante fosse passato così poco tempo da quando lo aveva conosciuto, e dell’altro non sapesse granché.
Joshua non rispose subito. Passò alcuni istanti in silenzio, ponderando probabilmente la risposta da dargli.
« Non lo so » esordì poi.
Fu quasi sicuro che il suo cuore avesse dolorosamente mancato un battito.
« Non fraintendermi » aggiunse però subito: « non ho detto che non ti amo. Ma non ho nessun punto di riferimento per fare un confronto. Io... » una pausa, un altro pensiero fugace: « non sono abituato, ad essere umano. Non credo di riuscire a capire cosa sia l’amore » disse.
Eric si sentì quasi sollevato, nel sentire quelle parole.
« Io credo che nemmeno gli esseri umani capiscano realmente cosa sia l’amore. Non sei diverso da noi » rispose lui, sorridendo lievemente ad un pensiero tutto suo.
Joshua era tutt’altro che l’entità maligna che veniva dipinta nei libri di storia e folklore. Se poteva provare affezione per qualcuno – e i suoi gesti, a dispetto delle parole, lo dimostravano ampiamente – allora non era cattivo... non credeva che potesse esserlo.
 
Un piacevole odore di pancetta e uova si diffuse nell’aria dopo la doccia, ricordandogli che, effettivamente, sembrava passata un’eternità dall’ultima volta che aveva mangiato qualcosa.
Infilandosi gli abiti della sera prima – solo quelli aveva a disposizione al momento - uscì dal bagno attraversando la sala e dirigendosi al cucinotto; Joshua, di spalle rispetto a lui, stava probabilmente rigirando le uova di cui sentiva solamente lo sfrigolare nella padella.
« Dove hai imparato a cucinare se passi così poco tempo nel nostro mondo? » domandò retorico, raggiungendolo e appoggiandosi di schiena al ripiano di fianco al fornello.
« Non ci vuole una laurea per cuocere due uova » fu la risposta dell’altro, che sorrise appena a sentire la sua risatina divertita.
Lo osservò per un attimo, soffermandosi particolarmente sulla quantità di cibo che aveva cotto: « suppongo che tu non mangerai » esordì poi, tornando con gli occhi su quelli dell’altro, di nuovo color del ghiaccio grazie alla magia delle lenti a contatto.
« Più tardi » rispose quello con un sorriso cortese, che ormai Eric aveva imparato a decifrare come “è roba da Shinigami e credimi, non ti piacerebbe saperlo”.
Scostò con la paletta le uova in un piatto, aspettando che anche la pancetta si rosolasse ben bene. L’odore che emanava era fin troppo buono per Eric, che si sentiva l’acquolina in bocca.
Si accorse che Joshua lo stava osservando solo quando i suoi occhi tornarono sul viso del moro. « Che c’è? » chiese curioso, sorridendogli.
Vide il moro alzare una mano in direzione della sua guancia destra, sfiorando con le nocche la pelle fresca. « Non si vede più nulla » osservò: « fa ancora male? » domandò poi, gentilmente.
Eric negò con il capo, ricordandosi solo in quel momento degli schiaffi ricevuti dal padre solo la sera prima... anche se ormai sembrava quasi un’eternità.
L’altro annuì appena con il capo, togliendo anche la pancetta dal fuoco per poi porgergli il piatto. « Le posate sono sul tavolo » integrò, indicando dietro di sé con un cenno del capo.
Il castano andò a sedersi, cominciando lentamente a mangiare. Joshua aveva ragione: non serve una licenza speciale per cuocere due uova e una striscia di pancetta... ma, ora che sapeva, persino il cibo prendeva un sapore diverso, quasi più buono del solito.
Già... le sue ultime uova e pancetta.
Cercò di non pensarci, sospirando appena. Aveva delle cose da fare prima che fosse l’ora, e doveva farle quel pomeriggio. Aveva tutta l’intenzione di passare la giornata di venerdì con Joshua... e poi quella sera era l’occasione migliore di rinfacciare a suo padre tutto ciò che l’uomo aveva sempre rinfacciato a lui.
Sì, non poteva aspettare oltre.
« Josh » chiamò dunque, attirando l’attenzione dell’altro.
« Mh? » si fece sentire il moro, ancora impegnato a sistemare le varie cose usate per cucinare.
« Oggi pomeriggio ho bisogno di qualche ora. Devo... fare dei giri » disse, quasi aspettandosi di sentire una negazione provenire dall’altro. Magari una qualche regola che impediva alle vittime di stare lontane dallo Shinigami assegnato nelle quarantotto ore prima del bacio, che ne sapeva?
Ma l’altro non disse nulla del genere. « Puoi andare dove vuoi » gli comunicò solamente, non aggiungendo altro.
Era normale, pensò poi Eric; se il dio della morte sapeva sempre e comunque come rintracciarlo, che gli fosse stato lontano o vicino non faceva differenza.
« Grazie » ringraziò lui: « se non ti secca, vieni stasera intorno alle nove al Palazzetto dello Sport in centro. Sarò lì... poi tornerò a casa con te » aggiunse, smettendo di mangiare per sentire l’eventuale risposta.
« Non mi secca » rispose l’altro, appoggiandogli una mano sulla testa: « fai quello che devi, stasera ci sarò » disse, con un tono che sembrava una pacata promessa.
Chissà perché, ma Eric aveva l’impressione che, al di là del suo “lavoro”, le promesse di Joshua fossero di quelle - rare - che valevano veramente qualcosa.
 
 
Rientrare a casa non fu difficile a quell’ora del pomeriggio, in cui nessuno avrebbe dovuto esserci. Suo padre al lavoro, sua madre a far spesa e suo fratello al doposcuola; la situazione ideale per lui, dato che non avrebbe incontrato verosimilmente nessuno di loro.
Si chinò a prendere la chiave di scorta sotto al vaso, ritrovandola al solito posto di sempre. Infilandola nella toppa, e girando due volte, essa si aprì senza sforzo.
Strano che suo padre non avesse già provveduto a sostituire le serrature.
Beh, magari non aveva ancora avuto tempo, ecco.
Appoggiò la chiave sul mobile all’entrata, richiudendosi la porta alle spalle. Attraversò il salotto a passo svelto, salendo rapidamente le scale fino ad arrivare in camera sua, disordinata esattamente come l’aveva lasciata il pomeriggio precedente. Si tolse jeans e camicia gettandoli da qualche parte sul letto, estraendo dal cassetto dell’armadio biancheria pulita e vestiti più comodi: un altro paio di jeans, questa volta scuri, maglietta di cotone e una delle sue felpe a cerniera. Raggiunse il borsone della piscina, svuotandolo dell’occorrente per il nuoto per poi cominciare a riempirlo con abiti a caso.
Non gli sarebbero serviti a molto, ma credeva fosse molto meglio che a casa pensassero che se ne fosse andato. Se avesse lasciato tutti i vestiti in camera, probabilmente avrebbero pensato che non fosse poi molto lontano, o che avesse intenzione di ritornare.
Cosa che non sarebbe comunque mai successa.
Perciò non voleva dare false speranze almeno a sua madre, obiettivo di quella piccola recita.
Nella foga che mise nel riempire il borsone con tutto quello che gli capitava sotto mano, improvvisamente la mano afferrò il portafoto sul comodino, in cui era incorniciata la foro di famiglia di quasi sei anni prima.
Si fermò, pensieroso, aggrottando le sopracciglia.
Cosa stava... facendo?
Alzò lo sguardo alla parete sopra al letto, osservando le varie foto incorniciate sulla mensola. Vi si avvicinò, osservandole una per una.
La squadra di basket di quando era ancora bambino, la prima volta che giocò in campionato. Le divise rosse con lo stemma davanti, le facce sorridenti, il pallone in mano al playmaker... e suo padre, là nell’angolo del gruppo, con una mano appoggiata alla sua spalla, in piedi lì di fianco.
Quella dopo: la fotografia di gruppo della squadra di nuoto. Il coach in piedi al centro della fila posteriore, con un braccio intorno alle spalle di Satler al suo fianco, e lui inginocchiato appena sotto di loro, accanto ai suoi compagni.
La terza, infine, scattata in un pub con Robert e Douglas quando ancora il loro gruppo era numeroso ed includeva altri compagni delle scuole superiori.
Strano come sembrasse lontano quel periodo, nonostante non fosse stato più in là di tre anni. Non riusciva quasi più a ricordare i loro caratteri, o anche i loro volti al di là dalle espressioni sorridenti della foto.
Sospirando mestamente, lasciò perdere. Non era il caso di farsi il sangue amaro per niente, e comunque non in quel momento.
Fu nel dare un’ulteriore occhiata sommaria alla stanza che lo sguardo gli capitò sulla porta, sulla quale una persona stava in piedi, ferma ed in silenzio. Suo fratello Alex, per essere precisi.
Lo guardò a sua volta, ma proprio mentre stava per pronunciare il suo nome, anche solo come saluto, si trattenne.
Ciò che gli aveva fatto la sera prima meritava anche solo un saluto, dopotutto?
No.
Si limitò dunque alle domande di rito, tornando con una ben recitata noncuranza a scegliere sommariamente i vestiti da mettere in borsa, facendo una selezione prettamente casuale e disinteressata.
« Non dovevi essere a scuola? » chiese dunque, tono di sufficienza.
Alex non rispose, e con la coda dell’occhio Eric appurò che seguiva ogni suo movimento. Aveva uno sguardo indeciso, le sopracciglia non proprio arcuate, la fronte leggermente aggrottata.
« Te ne stai andando? » domandò infine il fratello minore, tenendo le braccia dritte come fusi lungo i fianchi e i pugni chiusi.
Eric sospirò, lasciando scivolare la mano sulla stoffa dell’ennesima maglietta senza afferrarla. Perché non riusciva mai ad ignorare nessuno, lui? Perché doveva interessarsi ad ogni essere umano che arrivava con la vocina rotta e un’espressione sulla soglia delle lacrime?
Non era un santo... ma forse era uno stupido.
Ritornò con gli occhi a quelli del fratello, scoprendo le carte in tavola. Era inutile tenere sul volto la maschera del cattivo ragazzo menefreghista, se in realtà non lo era nemmeno da lontano e con tanta fantasia. «» rispose perciò, semplicemente.
Negli occhi di Alex passò l’ombra di quella sensazione di inadeguatezza che si prova quando si viene feriti. Sembrava nel panico anche se gli occhi non lasciavano mai i suoi, ed Eric si aspettava quasi che scappasse giù per le scale come quando erano piccoli e l’altro perdeva a carte.
Non scappò... ma nonostante i suoi quattordici anni non riuscì a non piagnucolare: « è colpa mia... se tu e papà avete litigato è colpa mia! » esclamò, e le lacrime furono troppe per poterle trattenere.
Scoppiò a piangere in un modo che sarebbe sembrato quasi ridicolo, se il discorso trattato non fosse stato così schifosamente serio.
Il castano sospirò, coprendo con calma i pochi passi che lo separavano dal fratello. Si avvicinò finché non poté appoggiargli una mano sulla testa e attirarla a sé, facendo sì che appoggiasse la fronte alla sua spalla.
Alex gli cinse la vita con le braccia, aggrappandosi con le mani alla stoffa della felpa, singhiozzando più forte. Eric gli accarezzava i capelli lentamente, cercando di tranquillizzarlo, ma dentro di sé si sentiva quasi... colpevole.
Odiava vedere le persone piangere, e suo fratello non faceva di certo eccezione. Molte volte era una carogna, ma questo non significava che dovesse – o volesse – odiarlo. Era solo uno dei tanti fratelli minori.
« Alex, non è colpa tua se io e papà litighiamo » gli disse quando sembrò che il pianto si fosse un po’ calmato: « a dire il vero, credo che non sia colpa di nessuno » aggiunse, appoggiandosi affettuosamente con la guancia sulla testa del fratello, il cui volto era ancora nascosto nell’incavo fra la sua spalla e il collo.
« Però... » piagnucolò l’altro, rimanendo però abbracciato al maggiore: « io non ti ho aiutato, non gli ho detto che eri uscito, e... è solo che fai sempre arrabbiare papà, e dopo lui è sempre agitato, e se la prende con la squadra... » balbettò, cercando inutilmente di spiegare il perché avesse taciuto, mettendo Eric nei guai. « Non pensavo che ti avrebbe picchiato, scusami! » esclamò d’un tratto, riprendendo a singhiozzare.
Eric sorrise, cingendogli le spalle con l’altro braccio. Per quanto ne dicesse, o per quanto cercasse di dimostrarsi forte e adulto, Alex rimaneva un mocciosetto di quattordici anni che andava in crisi con un nonnulla.
« Non mi ha fatto niente, ok? Vedi? » domandò retoricamente, scostando il fratello dalla propria spalla per potergli mostrare la guancia colpita la sera precedente. Nulla si vedeva, come Joshua aveva detto qualche ora prima, a parte un piccolo alone rossastro.
Alex la guardò con gli occhi lucidi e la punta del naso rossa. Annuì appena in risposta al fratello, passandosi la manica della maglietta sugli occhi per asciugarseli.
Eric gli spettinò i capelli, sorridendo gentilmente. Pian piano però il sorriso si spense, lasciando posto ad una sorta di espressione malinconica.
« Alex... » chiamò poi, cercando di stirare le labbra in un sorriso non propriamente convincente. Non doveva dirglielo, non doveva. Non avrebbe dovuto proprio.
L’attenzione del fratello minore era tutta per lui.
Non seppe trattenersi: « a te piace giocare a basket? » domandò, consapevole che all’altro sembrasse una domanda saltata fuori dal nulla.
Cosa che non era, nella sua testa.
«» rispose infatti Alex: « perché? » chiese subito dopo.
« E lo fai volentieri? » domandò nuovamente, guardandolo negli occhi con sguardo gentile.
Sperava solo che non arrivasse subito al significato nascosto di quelle parole. Così come sperava di non dare troppo a vedere che, dopo quei pochi minuti che avrebbero ancora passato insieme, probabilmente non lo avrebbe rivisto mai più.
Ma doveva essere sicuro che Alex non diventasse per loro padre il nuovo “Eric”. Doveva accertarsi delle intenzioni del fratellino, e lasciare tutti i consigli che poteva nel breve tempo che gli rimaneva.
Il minore sembrò pensarci sopra per un momento, prima di dargli la sua risposta. Annuì, racchiudendo il tutto nella frase: « a papà fa piacere, e a me piace ».
Eric sospirò, decisamente sollevato. Se Alex lo faceva volentieri, allora era tutto a posto. Avrebbe vissuto un’adolescenza meno stressante della sua di sicuro.
« Bene, ora mi sento meglio con me stesso » gli rivelò quasi allegramente, tornando all’armadio per prendere l’ultima cosa, l’unica che gli sarebbe servita veramente.
Da sotto un telo di plastica da lavanderia, appesa ad una crocetta di ferro, la sua divisa della squadra di basket rivide la luce dopo un anno in cui aveva respirato solo plastica e anti-tarme.
La osservò, sfiorando con le dita il tessuto in cotone e lycra intrecciati di cui erano composte le sue maglie. Il rosso, colore della squadra locale, con il cognome “Everald” sulla schiena sopra al 23, il suo numero da sempre.
Il primo numero di Michael Jordan, guardia tiratrice proprio come lui.
Non la indossava da un anno, e non gli mancava. C’era un motivo se aveva preferito il nuoto al basket, e nonostante suo padre ne avesse fatto fin dall’inizio una questione personale non c’entrava assolutamente niente con l’uomo.
Voleva gareggiare da solo. Voleva vedere un mondo in cui non esistevano urla, o incitazioni, o musica, o balletti da cheer leader, o mascotte, o tamburi, o sudore...
La vasca era un paradiso ovattato di rumori lontani solo vagamente percepibili da sotto la cuffia di lattice. Un mondo in cui il termine “squadra” era una parola vana, utilizzata solo per portare i colori della città di provenienza.
Ma una volta in acqua, sei da solo. Una volta tuffato non c’e nessuno che ti sospinge, o ti tira verso la fine della corsia. Dal tuffo all’arrivo, se tu contro te stesso.
E non hai responsabilità se non per te stesso.
Il basket non avrebbe mai potuto essere così. Mai.
« A cosa ti serve quella? » domandò Alex con un sussurro, ancora sulla porta.
Eric sorrise. « Mi serve » rispose solo, riponendola nello zaino.
 
 
Lasciare suo fratello si era rivelata una cosa particolarmente difficoltosa da fare, alla fine.
Avrebbe volentieri ammesso che fosse tutto a causa delle lacrime di Alex, riprese poco prima che lui arrivasse alla porta d’ingresso; oppure dell’abbraccio in cui lo aveva bloccato, o delle preghiere imploranti che gli aveva rivolto... ma la realtà era che lui non si era tirato indietro.
Era solo che... aveva pensato improvvisamente che quella era l’ultima volta. Che entro qualche minuto sarebbe uscito dalla porta di casa e non l’avrebbe mai più riaperta. Che non avrebbe mai più rivisto Alex, o sua madre, o le foto di famiglia in sala, o i fiori finti sul tavolinetto in salotto...
E si era sentito perso. Come se galleggiasse in un vuoto che non poteva colmare nemmeno con i propri pensieri, così persistenti e consistenti da poter riempire anche il silenzio delle notti in cui non riusciva a dormire.
Era come stare in piedi sulla cima di un burrone di cui non vedeva il fondo, mano nella mano con Joshua, sapendo che sarebbe stato proprio l’altro a dargli la spinta che lo avrebbe fatto precipitare.
Per la prima volta, aveva preso in considerazione l’idea di fuggire. Di cercare di salvarsi.
Ma aveva cancellato subito quel pensiero, calmando il suo cuore mentre cercava di lenire il pianto del fratello attaccato nuovamente alla sua felpa.
Non voleva essere un codardo, così come non voleva essere un traditore. Aveva dato la sua parola, promettendo a Joshua che sarebbe tornato indietro, e da lui sarebbe effettivamente andato.
Aveva perciò baciato la fronte di suo fratello, spettinandogli affettuosamente i capelli. Si era voltato e aveva varcato la porta di casa, camminando lungo il vialetto senza mai voltarsi indietro.
Aveva sentito subito lo stomaco chiudersi, e gli occhi riempirsi di lacrime. Aveva resistito stoicamente fino ad Heaven Park, che ora stava attraversando a passo svelto, diretto verso l’università.
Il borsone lo aveva nascosto in garage. Nessuno si sarebbe mai accorto che era lì, almeno per un po’ di tempo.
A lui non serviva tutta quella roba. Il cambio d’abiti e di biancheria che aveva nello zaino insieme alla divisa erano più che sufficienti, per un giorno.
Arrivò nei giardini della facoltà in breve tempo, dirigendosi quasi subito in verso il centro sportivo. Erano ormai le cinque del pomeriggio... se non aveva fatto male i suoi conti, probabilmente avrebbe trovato Timoty in vasca.
Aveva pensato molte volte che Timoty Satler non avesse una vita sociale. Si allenava al mattino prima delle lezioni, Nuotava alla sera prima dell’allenamento collettivo, partecipava a quest’ultimo e molte volte si tratteneva anche dopo.
Quando non era in piscina, era quasi sicuramente in biblioteca.
Non aveva mai capito perché la sua vita fosse per la maggior parte racchiusa all’interno delle mura universitarie. Cioè, comprendeva che fosse un ottimo nuotatore, e che magari avesse tutte le possibilità per arrivare a gare di livello abbastanza alto... ma tutti hanno bisogno di amici, o di mettere piede fuori dalla piscina in luoghi che non fossero pieni di libri di testo.
Poi, con il tempo, probabilmente aveva capito il perché del suo comportamento.
Satler era un ragazzo cordiale, ma in pratica non esprimeva nulla all’infuori di quella stessa, fredda cordialità con cui si rivolgeva a tutti quelli che gli stavano intorno. Non parlava se non interpellato, non esprimeva la propria opinione se non gli veniva esplicitamente chiesto, non chiedeva mai ad altri di uscire, o di unirsi ad essi quando erano loro che organizzavano un’uscita di gruppo.
Aveva capito che non era che Timoty Satler fosse solo; Timoty Satler voleva rimanere solo.
Per quel motivo, adesso che poteva, desiderava chiedergli il perché. Per lui, Timoty era un compagno di squadra sempre disponibile, che lo aveva aiutato parecchio nei primi momenti, quando ancora non aveva legato con nessuno e passava il suo tempo a provare e riprovare virate e tuffi.
E non voleva credere... che nella sua esistenza l’altro non avesse nulla d’importante per cui valesse la pena vivere, e non limitarsi a sopravvivere.
Glielo avrebbe chiesto. Come regalo d’addio che faceva a s stesso, avrebbe sciolto l’intricato mistero che si celava dietro quei vuoti occhi blu.
Arrivò in piscina poco dopo e, con un cenno del capo alla receptionist, si diresse verso le tribune. Subito il classico caldo afoso della vasca lo investì, togliendogli il respiro per un attimo, ma molto presto l’abitudine prese il sopravvento sulla sensazione di soffocamento.
Non si passano sei giorni su sette in piscina se non ci si può acclimatare in pochi secondi al clima amazzonico che regna là dentro.
Si fermò in fondo alle tribune, appoggiando le mani sulla balaustra in metallo e sporgendosi verso la vasca. Lo scrosciare dell’acqua sui bordi era un ottimo compagno per l’odore pressante di cloro di cui tutto l’ambiente era intriso, e in mezzo a tutte quelle braccia che si muovevano nell’acqua fu inizialmente difficile individuare Satler... ma non impossibile.
C’era, infatti: stava nuotando a dorso in corsia cinque, una di quelle più vicine alle tribune, e dopo una virata perfetta stava ora per completare i cinquanta metri in velocità.
Eric aspettò che arrivasse in fondo, prima di alzare una mano in sua direzione e farsi notare. Non si disturba un nuotatore mentre nuota... si è persi completamente in un mondo proprio, è traumatico quanto risvegliare un sonnambulo.
Timoty lo notò solo dopo qualche istante, osservandolo quasi stranito per qualche secondo. Si tolse poi gli occhialini, guardando bene in sua direzione, prima di stirare le labbra in un sorriso cordiale e avvicinarsi alla scaletta.
Salì, mettendo in mostra il suo fisico asciutto bagnato dall’acqua... che subito Eric, involontariamente, associò a quello di Joshua per un confronto.
Magari era una decisione deviata dai sentimenti, ma lui preferiva quello del dio della morte – senza nulla togliere al rosso, che comunque non se la cavava affatto male.
Scosse il capo velocemente, attendendo che il ragazzo mettesse l’accappatoio e si avvicinasse a lui. I capelli rossi erano completamente bagnati nonostante la cuffia e si attaccavano come tentacoli al collo bianco e sottile dell’altro.
« Everald » salutò Timoty, asciugandosi una guancia con la manica dell’accappatoio blu: « ti avevamo dato per disperso » ironizzò galantemente, non aggiungendo toni di pesante ironia o anche solo di scherzosità nella voce.
Era, sì... come parlare ad un robot che simula la cortesia umana.
 Lo notava bene solo ora.
« Già, sono stato impegnato » rispose il castano sfoggiando un sorrisetto colpevole.
Se per “impegnato” veniva sottointeso “mi hanno quasi stuprato, mio padre mi ha cacciato da casa e mi sono innamorato di un dio della morte che ha il compito di uccidermi”...
Timoty perse subito il sorriso, acquistando un cipiglio serio che Eric riconobbe come una delle rare espressioni genuine del rosso. « Come va con tuo padre? » chiese di seguito, abbassando la voce di un’ottava, probabilmente in modo molto inconsapevole.
Che bisogno c’era di abbassare la voce se ogni singola persona che passava dall’università, anche per caso, sapeva quello che era accaduto nell’atrio del centro sportivo?
Si sforzò di continuare a sorridere, ma gli occhi raccontavano sempre di più del voluto. « Beh, che vuoi... ci sono alti e bassi » rimase sul vago, fissando qualcosa altrove per qualche istante.
Non riusciva a guardare le persone negli occhi quando queste gli ponevano domande serie. Era uno dei talloni di Achille che si era accorto di avere un giorno, così, e che nonostante la sua consapevolezza non era mai stato in grado di correggere.
« Mi dispiace » ribatté Timoty, ed Eric fu totalmente sicuro di aver sentito la voce dell’altro tornare a vibrare sulla lunghezza d’onda della pacata gentilezza.
Ormai ne era sicuro: era tutta una maschera.
« Scusa se ti ho disturbato durante i tuoi esercizi pre-allenamento... » cominciò dunque, riempiendo un silenzio imbarazzante che sembrava alle porte: « ma devo chiederti un favore... e farti una domanda » concluse, tornando con gli occhi su di lui in attesa di una qualsiasi risposta.
Timoty lo osservò per qualche istante, indeciso probabilmente su come doveva prendere il tono con cui Eric aveva pronunciato quella strana richiesta. Ma alla fine annuì, facendo sì che la sua cortesia vincesse sull’istinto.
Eric annuì a sua volta riconoscente, deglutendo. Andava fatto. Avrebbe comunque rinunciato a quel sogno, in un modo o nell’altro, e preferiva farlo con una scusa piuttosto che nel silenzio.
« Devi dire al coach che io non posso più partecipare alle selezioni. E che non potrò più presenziare agli allenamenti... nemmeno far parte della squadra » disse a fatica, chiudendo gli occhi durante quel discorso per poi riaprirli alla fine.
Satler non mosse un muscolo, fissandolo solo. Non sembrava né sorpreso, né turbato, né... niente. Lo guardava e basta, come si guarda un treno passare sui binari della stazione ferroviaria.
Poi, finalmente, fece risentire la sua voce: « c’è qualcosa sotto, non è vero? Tuo padre non c’entra » esordì e sì, Eric ci rimase malissimo.
« Come hai...? »
« Ti si legge in faccia » ribatté: « hai degli occhi sin troppo sinceri ».
Il castano non seppe esattamente come accogliere quell’improvvisa affermazione da parte del compagno di squadra.
Certo, anche Joshua gli aveva detto che i suoi occhi esprimevano molto più di ciò che pensava... ma non credeva fosse così facile leggerci dentro qualcosa.
Doveva essere allenato a farlo, allora. Solo chi ha una capacità d’osservazione elevata può riuscire a dire esattamente quanto e quanto in fondo riesce a leggerti l’animo attraverso gli occhi.
Joshua era un dio della morte, e magari era normale... ma Timoty?
Decise di scoprirlo: « se sempre stato così bravo a “leggere” le persone? » domandò, e la serietà ironica con cui lo disse fece intuire all’altro che il tono della conversazione era improvvisamente cambiato.
Dopotutto, era stato proprio il rosso il primo a portarlo su un livello più privato.
Il rosso annuì appena, lentamente, nobilmente. Sembrava decisamente lo stesso Timoty di sempre, eppure c’era qualcosa di diverso in quel modo di porsi che ora aveva assunto nei suoi confronti.
Si stava difendendo. Da qualche parte, la mente del rosso aveva alzato un muro a difesa dei suoi pensieri e delle sue emozioni. Poteva quasi vederlo nella staticità dei gesti dell’altro, in piedi immobile davanti a lui.
Era giunto il momento della domanda.
« Tu hai sempre... »
« Non andare oltre » lo interruppe però il nuotatore, alzando la mano destra in sua direzione e chiudendo nuovamente gli occhi. « Tu sei una persona attenta Everald, sin troppo, e non sono sorpreso che tu abbia notato qualcosa di me che non ti torna » cominciò a dire, riaprendo gli occhi. Nelle iridi blu brillava ora una luce diversa, sicura, che dava per la prima volta una certa inquietudine a quello sguardo.
« Ma non risponderai alla mia domanda » continuò per lui Eric.
« ...scusami » disse il rosso: « ma spiegarlo a te vorrebbe dire fidarmi... e io non voglio. Non sono più capace di fare queste cose » aggiunse, senza che la voce tremasse, o venisse a mancare.
Eric rimase stupito per un momento, ma poi annuì con un sorriso. Lungi da lui essere pedante e ficcare il naso.
« Conosco un’altra persona che non si fida degli altri » esordì lui, ridacchiando appena al pensiero dello sguardo burbero di Joshua che insultava la razza umana: « anche se credo che il suo sia proprio un problema di mal sopportazione dell’intera specie umana. Chissà, magari è un trauma infantile » scherzò, per alleggerire la tensione.
« Ha tutta la mia stima » rispose a sua volta Timoty, ritornando al solito tono cortese che sembrava fatto di vetro.
Ad essere sincero con sé stesso, ancora non riusciva a capire il perché Satler avesse deciso di stare rinchiuso nella sua solitudine. Potevano, chissà, una delusione, o un passato lugubre, minare così tanto una persona da impedirle la minima fiducia nell’altro?
Era solitudine anche quella. Una solitudine fatta di vetro. Poteva quasi vedere Timoty rinchiuso dentro una bolla trasparente, attraverso la quale vedeva gli altri senza poter essere visto. Una visione simile aveva, in un qualche modo, il sentore asettico dell’impersonale stanza di un ospedale.
Sentiva di... compatirlo.
O forse lo faceva solo perché lui, ora, aveva qualcuno da definire “importante”. Ora la sua vita, per quanto breve l’avesse riscoperta, sembrava essere meno vuota, meno... asettica, per l’appunto.
E non capiva come una persona potesse decidere liberamente di rimanere chiusa in un ambiente completamente privo di stimoli e stare lì, immobile, lasciando passare il tempo senza provare a viverlo.
Probabilmente il suo volto espresse chiaramente i suoi pensieri, o semplicemente ci pensarono solo i suoi occhi; ma fu comunque sufficiente per Timoty e per la sua acutezza.
« Tu non mi capisci » affermò, prendendolo in una sorta di contropiede: « ma è normale. Anzi, ti auguro di non arrivare mai a capirmi, Everlad » aggiunse, sorridendo in sua direzione.
Non poteva dire di aver compreso l’augurio nella sua interezza, ma in un certo senso poteva percepire la profondità insita in quelle pochissime parole.
Erano le frasi di chi vedeva la sua vita già ad una fine, e che non faceva nulla per cambiarla.
Era così ingiusto... chi aveva ancora a disposizione il tempo di un’intera esistenza si considerava già morto.
« Ok, Satler, per me è il momento di andare » aveva un’altra cosa da fare. L’ultima, e poi sarebbe tornato da Joshua a passare con lui gli ultimi momenti che gli rimanevano: « salutami il coach e gli altri » aggiunse completando il saluto.
Il rosso non rispose subito. Rimase per qualche istante a guardarlo negli occhi, prima di parlare di nuovo: « ho come l’impressione che non ti rivedrò più, perciò sappi che vincerò quella medaglia d’oro » pronunciò con una sorta di solennità nello sguardo; serietà che non gli aveva mai visto prima.
Che fosse riuscito a far breccia, in un qualche modo insolito, nella perfetta corazza adamantina di Timoty Satler?
Ridacchiò allegro. « Ci conto » ribatté solamente, avviandosi a passo lento oltre la tribuna.
Gli rimaneva un solo posto, e poi avrebbe potuto sentirsi soddisfatto.
 
 
Il Palazzetto dello Sport non era mai stato facilmente accessibile.
Era in un altro quartiere rispetto a quello in cui abitavano, o rispetto all’università, e non era poi così raro che dovesse prendere l’autobus per arrivarci.
Accadde anche quella volta.
Avrebbe potuto andare a piedi, e sprecare mezz’ora di viaggio... ma era più che convinto che l’ora più opportuna per presentarsi in campo era a partita iniziata, e non poteva rischiare di arrivare quando stava per concludersi.
Aveva bisogno di tempo, per il suo piano.
Forunatamente, a giudicare dai fischi e dal tifo da stadio che già da fuori si poteva sentire non era arrivato in ritardo rispetto ai suoi piani. Un momentaneo sguardo all’orologio da polso gli rivelò di essere in perfetto orario, così percorse a passo svelto l’ingresso, entrando direttamente negli spogliatoi.
Da lì poteva sentire il tifo delle tribune sopra di lui, così come i ritmici rimbalzi della palla arancione di cuoio e lo stridere delle suole delle scarpe contro il parquet. Se si concentrava, al di sopra delle urla della gente la voce di suo padre sembrava quasi riconoscibile; il tono arrabbiato con cui urlava alla sua squadra di marcare bene, oppure al playmaker di passare all’ala.
Sorrise sornione, aprendo lo zaino con una veloce tirata di zip.
Era ormai abituale che suo padre giocasse con la squadra di prima divisione il giovedì sera. Era sempre stata una persona amante della pianificazione, e il giovedì era uno dei due giorni in cui la squadra non aveva allenamento.
Tuttavia, nonostante stagioni brillanti in cui avevano sfiorato la vittoria del campionato per due volte consecutive, quell’anno la prima divisione non se la stava cavando bene. E, chissò perché – sì, in senso ironico – suo padre attribuiva questo disequilibrio della squadra al fatto che lui se ne fosse andato.
Il che, di base, non sussisteva. Lui se ne era andato già l’anno prima, e i risultati non erano stati terribili.
Ma era lì per un altro motivo, quella sera. Ed infilandosi la tuta rossa poté chiaramente sentirsi nel sangue la sfrontatezza necessaria per fare quello che andava fatto.
Suo padre credeva di non avere bisogno di lui. Si era convinto di essere schifosamente superiore alle cavolate come i legami famigliari per ammettere semplicemente che gli manca, avere lui in squadra.
Sì, si era sempre voluto illudere che fosse così. Ma ora si era ricreduto.
Il basket, per Trent Everald, era un ottimo effetto placebo per compensare la mancanza di altre qualità che lo rendessero un buon padre. O, in definitiva, un padre e basta.
Lui non aveva mai fatto per lui quelle cose che di solito un padre fa. Come allearsi con lui contro le sgridate della madre,  dargli consigli sulle ragazze.
Tutto quello che lui ricordava di Trent, indietro nell’infanzia, non erano altro che una serie di fermo immagine nei cui fotogrammi compariva sempre e comunque una palla da basket.
E tutto ciò faceva... male. Un male fottuto.
Avrebbe pagato, però. Lui non voleva vendetta, no, non era caduto così in basso... voleva solo che il padre si rendesse conto del suo valore, che lo riconoscesse come qualcuno degno di essere trattato come un essere umano ogni tanto, non come un cane ammaestrato che si rifiuta di dare la zampa al comando del padrone.
Sospirando profondamente, uscì dallo spogliatoio.
 
Le luci dal campo da gioco non erano mai state così luminose. E probabilmente il motivo era che non si era mai fatto presente di quanto possano essere forti, puntate addosso ad una persona.
Dietro di lui la confusione del pubblico, davanti a lui il lucido parquet del campo. Due squadre di due diversi colori si fronteggiavano, mescolandosi in corsa, gemendo per la fatica e ringhiando per la frustrazione di non essere riusciti a prendere bene il canestro.
Respirò profondamente, ritrovando una serie di odori che pensava di aver finalmente dimenticato. Così come i fischi, le indicazioni urlate da entrambi gli allenatori, la trepidazione di chi seguiva il gioco dalla panchina...
Tutte cose che nel nuoto non aveva, ma questo non voleva dire che provasse nostalgia per esse. Il Palazzetto dello Sport era per lui come una casa, ed era questa forma di insano attaccamento che aveva cercato di combattere.
Lui ce l’aveva una casa, aveva pensato ad un certo punto: e non era un campo da pallacanestro.
Si voltò alla sua sinistra, posando prima lo sguardo sul tabellone, poi su suo padre.
Poteva capire perché fosse così agitato ed incazzoso: stavano perdendo. Dai Pidgeons. La squadra che per due anni aveva loro impedito di vincere la coppa di campionato, facendo sì che arrivassero costantemente secondi.
Erano sotto di otto punti, con ancora quindici minuti di gioco. Poco male.
Quando finalmente suo padre incrociò il suo sguardo, avrebbe potuto dire che fosse preda di un infarto. Oppure che pensasse di essere vittima di un’allucinazione, dato lo sguardo da pesce lesso che aveva assunto.
Probabilmente, vederlo con indosso il buon vecchio 23 gli aveva fatto un certo effetto. Così come lo fece ai compagni di squadra seduti in panchina, improvvisamente ammutoliti ed affetti da una paralisi facciale che li aveva bloccati con la bocca spalancata.
Internamente, cercò di calmare il battito impazzito del suo cuore con un sospiro. Da qualche parte sentiva la pressante sensazione di voler fare retro-front ed uscire di lì, ma la ragione gli diceva che era troppo tardi.
Ormai era in ballo, conveniva ballare.
A passo appositamente moderato, si avvicinò lentamente alla propria panchina – anche se non era proprio parte della squadra, ma erano insignificanti dettagli tecnici – fermandosi esattamente davanti al padre.
L’uomo non ebbe nemmeno la reazione psicologica di argomentare una qualche forma di saluto, o di domanda. Lo fissava semplicemente, probabilmente cercando di decretare se quello poteva considerarsi il giorno più felice della sua vita o una qualche sorta di scherzo di cattivo gusto.
Spiacente papà, purtroppo per te è la seconda pensò interiormente, fissando il padre dritto negli occhi.
« Fammi entrare » disse, sicuro di sé come mai avrebbe pensato di essere: « ti mostrerò che la “sfortunata serie di eventi” non è accaduta quando mi avete messo al mondo, ma quando hai deciso di perdermi » completò, attendendo.
Non si stupì troppo quando Trent non rispose. Era sempre stato una persona che preferisce agire prima di pensare a quello che fa, e forse era per quello che era venuto su così. Esattamente per quel motivo, senza una parola, Trent Everald chiamò il cambio della sua guardia tiratrice, indicando all’arbitro che sarebbe salito lui al posto del numero 13 che ora scendeva, richiamato in panchina.
Lo squadrarono tutti, dal primo all’ultimo genitore in panchina come dal primo all’ultimo giocatore in squadra. Fortunatamente, erano tutti suoi ex compagni. La cosa da un cero punto di vista lo mise quasi a suo agio.
« Eric? » domandò stupito il capitano in campo, attuale playmaker.
« Dylan » rispose lui in saluto.
« Cosa cavolo ci fai qui? » domandò l’ala destra, Curt, arrivando di corsa come il resto degli altri giocatori.
Sorrise inconsapevolmente a quella domanda. « Ho fatto un breve ritorno sulle scene » decise di rispondere, senza però lasciare il tempo a nessun altro di porre domande inutili: il tempo scorreva e non era il momento di giocare al rimpatrio.
Si girò in direzione del capitano: « ehi, ricordate qualcuno dei vecchi schemi? » domandò ansioso, esibendosi in un sorrisetto colpevole. D’altronde gli stava scombinano tutta la partita, con quella sua apparizione...
« Scherzi? » rispose con un sorriso Dylan, porgendogli la mano in un cinque: « praticamente giochiamo solo su quelli! » rivelò scherzoso.
Eric accettò il cinque, ricambiandolo con forza. Dylan era diventato capitano proprio per la sua capacità di non mollare mai e poi mai, e di trovare il lato positivo ad ogni cosa. A lui non interessava se un vecchio compagno rispuntava dal nulla pronto a portare scompiglio nello schema di gioco; si dimostrava più che disponibile ad adattare il game al nuovo arrivato, se era una persona di cui si fidava: « Dimmi Eric, con che schema vuoi che ti faccio volare a canestro? » domandò poi, e la sua esagerata fiducia contagiò anche i rimanenti compagni di squadra, tutti con un ghigno compiaciuto stampato in faccia.
Eric non poté fare a meno di assumere un sorrisetto simile. Era quella la complicità che aveva lasciato, e nonostante fosse scappato anche da loro sentiva la nostalgia per momenti come quello che stava rivivendo.
« A tua scelta, Dylan » ribatté lui, stirandosi appena le braccia come se dovesse prepararsi alla battaglia.
« Ok ragazzi, andiamo con il B12. Fate arrivare sotto canestro Everald senza rotture di scatole e glieli mettiamo in culo quegli otto punti! » sentì dire a Dylan, seguito dalle risatine sarcastiche del resto del team.
L’arbitro fischiò la ripresa, e come per magia la contesa della palla finì subito favorevole a loro.
Vedeva la palla passare di mano in mano fra le ali ed il playmaker, mentre i difensori si mantenevano dietro di loro nel caso avessero perso il possesso di palla. Sfilavano fra le divise grigie dei Pidgeons scivolando a destra e a sinistra come topi che gabbano il gatto passandogli fra le zampe.
Erano bravi, dovette notare; migliorati moltissimo da quando giocava lui. O forse era semplicemente che loro ancora si allenavano su schemi e passaggi tutte le sere mentre lui cercava di tenere i 400 metri misti senza farsi venire un’aritmia.
Non fu però così difficile arrivare sotto canestro; una volta che gli altri si furono posizionati dove dovevano, lui mise in pratica quello che ricordava e penetrò da sinistra, trovandosi il canestro proprio nella posizione favorita.
Fu a quel punto che, fedele ai vecchi schemi, Dylan fece una finta che mandò in pappa il cervello del difensore intenzionato a marcarlo, e gli passò la palla.
Tutto era perfetto intorno a lui, ogni uomo marcato a dovere. La sua possibilità di andare a canestro poteva essere interrotta solo da un atleta di salto in alto che avesse fermato il tiro prendendo la palla al volo, cosa che verosimilmente non sarebbe successa.
Si avvicinò di un passo poi, mettendosi velocemente in posizione, tirò. La palla picchiò sul lato interno del cerchio, ma andò dentro facilmente.
I sui primi due punti della partita vennero aggiunti al tabellone, e la palla subito rimessa in campo. I compagni gli diedero pacche sulle spalle, alcuni addirittura gli diedero il bentornato (« non sono tornato! »)... ma quello che più lo rese felice, in un certo senso, fu rivedere il sorriso di suo padre rivolto a lui.
Cercò di ignorarlo. Evidentemente, lui poteva andare bene in quel mondo solo con una palla in mano.
Il gioco riprese velocemente, più volte, e più volte lui andò a canestro seguendo gli schemi che il playmaker decideva. Segnò altri due punti, poi altri due Dylan, e infine due Curt, l’ala piccola.
Quando mancavano ormai cinque minuti alla fine, suo padre chiamò il time out dalla panchina.
« Bravi ragazzi, bravi! » esclamò Trent, battendo pacche sulle spalle a tutti quelli che gli capitavano sotto mano. Eric si assicurò di non andargli troppo vicino. « Ancora poco e possiamo dire di essere ancora in gara col campionato. Rimanete concentrati, concentrati! » li spronò, ripetendo sempre le stesse parole che Eric aveva sentito per anni.
Quando a giocare si divertiva, possiamo dire.
« Coach, ma da dove l’ha tirato fuori suo figlio? » esordì però Dylan, prendendo un lungo sorso d’acqua dalla sua borraccia per poi passarla ad Eric: « lo teneva sotto tormalina per occasioni come queste? » rise.
Lui e suo padre si guardarono negli occhi, muti. Per parecchio entrambi loro avevano evitato quel contatto così diretto, capace di mandare nel panico Eric.
La quadra si ammutolì. Probabilmente Dylan aveva dimenticato anche solo per in istante le voci che erano circolate negli ultimi giorni, ma in partita succede, l’adrenalina di quando si sta per vincere cancella ogni altra cosa... tuttavia gli altri erano ancora ben consapevoli del rapporto che c’era fra loro, altrimenti non sapeva come spiegarsi quell’improvviso e pesante silenzio.
Ma fu un quel frangente che Trent riuscì a stupirlo. Allungò una mano sulla sua testa, poggiandogliela sui capelli, e con un tono misto fra orgoglio e dolcezza pronunciò un « ben fatto, figliolo ».
Non seppe cosa fece più male.
Se il fatto di sentirlo pronunciare “figliolo” quando solo ventiquattro ore prima lo aveva chiamato “vile”, oppure che quel complimento fosse sempre e comunque collegato al basket. Forse a bruciare era la consapevolezza che, al di fuori del campo di gioco, per Trent Everald lui non sarebbe mai valso nulla.
La sua reazione arrivò di conseguenza. Si spostò dalla mano del padre, facendo due passi indietro.
« Finiamo questa partita, comincia a venirmi fame » borbottò appena, e fu veramente grato del fatto che Dylan non fosse una cima d’intelligenza quando si trattava leggere l’atmosfera. Il playmaker infatti stette al gioco, rallegrando il resto della squadra, e molto presto l’attenzione generale si spostò sul prossimo schema di gioco piuttosto che su loro due.
Basta, voleva andarsene da lì. In fretta. Avrebbe messo la giusta distanza fra la loro squadra e i Pidgeons con un tiro da tre punti, in modo che non potessero più recuperare nei pochi minuti che rimanevano.
L’arbitro fischiò la fine del time out, e dopo l’urlo ritornarono in campo.
Si poteva chiaramente sentire la tensione, e non appena il gioco riprese tutti si accorsero che i Pidgeons erano corsi ai ripari; marcavano molto più stretto ed Eric se ne trovò addosso addirittura due.
Così era impossibile.
Anche Curt se ne accorse, e con una mossa alquanto sfrontata mandò la palla fuori gioco. Ci vollero alcuni istanti perché gli arbitri ne prendessero un’altra dal tavolo della giuria, così che Dylan ebbe il tempo di avvicinarsi a lui.
« Andiamo con la Luna nel Pozzo » gli rivelò all’orecchio, stringendogli la spalla con la mano.
Non poté dire di esserci rimasto male, ma leggermente sorpreso sì. La Luna nel Pozzo era uno schema di gioco decisamente poco consigliabile: impegnava tutta la squadra in attacco, e la strategia stava nel non tenere la palla per più dei tre rimbalzi necessari, continuando a passarsela in uno schema a mezzaluna che avrebbe man mano chiuso tutta la difesa avversaria sotto il proprio canestro. A quel punto, aspettandosi l’entrata all’interno per un tiro da due, gli avversari si sarebbero trovati fuori tempo quando la palla sarebbe stata passata all’esterno dell’area di tiro, dove il giocatore designato avrebbe tentato il tiro da tre.
Ma era rischioso, perché se anche uno solo degli altri si accorgeva della cadenza dello schema di gioco poteva recuperare la palla e partire in contropiede, mossa che gli avrebbe permesso di tirare indisturbato.
« Non avevamo ancora finito di provarla la Luna nel Pozzo » dissentì Eric con calma, pensando che su tutti i lati quella non era affatto una buona idea.
« Noi sì » ribatté complice Dylan – cosa aveva mai da essere sempre così schifosamente allegro?! – prestando relativa attenzione all’arbitro che tornava con la palla: « tu fatti trovare nel punto giusto per il tiro, al resto pensiamo noi » esordì, lasciandolo in piedi come uno stoccafisso.
Non ci fu tempo per commentare, o cercare di fargli cambiare idea: la palla tornò rapidamente in gioco e lui poté solo fidarsi dei suoi compagni di squadra.
Procedette tutto bene, nonostante pensasse che quella fosse una pazzia: dopo un breve possesso di palla da parte dei Pidgeons uno di loro riuscì a recuperarla, e velocemente si mise in azione lo schema. Si passavano fra loro la palla così velocemente che lo speaker non riusciva a stare dietro all’azione, sbagliando a più riprese i nomi di chi aveva in mano la palla. La squadra avversaria sembrava disorientata quanto bastava perché non si accorgesse di essere chiusa mentre dalle panchine, si accorse con un tuffo al cuore, suo padre stava incitando a gran voce tutti loro.
Nel momento in cui si trovò al suo posto, e vide la palla arrivare a lui dalla “mezzaluna”, tutto sembrò rallentare. Percepì la sorpresa dei Pidgeons finalmente consapevoli della rete in cui erano caduti, così come li vide scattare in sua direzione anche se marcati stretti da tutti gli altri. Lui era libero, lo schema aveva funzionato, e il poco tempo rimanente gli dava tempo sufficiente per in solo tiro.
Si concentrò. Era stato nominato guardia tiratrice perché aveva il miglior score di tiri di tutta la squadra, non poteva sbagliare un semplice lancio da tre. Non poteva fallire, ne andava del suo orgoglio nel far capire a suo padre chi stesse perdendo.
Saltò da fermo, alzando le braccia mentre la palla si staccava dalle sue mani in direzione del canestro. Entrò diritta, linearmente, muovendo la rete e rimbalzando a terra.
I tre punti vennero attribuiti alla sua squadra poco prima che la sirena suonasse, decretando la fine della partita.
Avevano vinto.
La folla esplose. Magliette e sciarpe rosse volarono per tutto lo stadio, così come tutti i suoi ex compagni si riversarono su di lui in un’ammucchiata. Sentiva urla di gioia da ogni parte, nemmeno avessero già il campionato in tasca – anche se ne erano ben lontani – e subito le cheerleaders attaccarono con il balletto della vittoria, muovendo all’aria i pon pon rossi.
Alzò lo sguardo sulle tribune, cercando con lo sguardo gli occhi che aveva così tanto desiderio di incrociare. Li trovò accanto alle scale, ed un sorriso gli comparve istintivamente in volto.
Joshua era venuto. Aveva mantenuto la promessa.
Lo salutò con la mano, lievemente, senza rendere eclatante il gesto. Fu sicuro che bastò anche solo quel piccolo movimento quando Joshua piegò l’angolo della bocca in un lieve sorriso, indicando con il capo le scale.
Lui annuii, dando segno di aver capito il messaggio. Probabilmente al moro non piaceva la confusione, per quel motivo lo avrebbe aspettato fuori.
Lo seguii con gli occhi mentre scompariva lungo le scale della tribuna, tornando poi con lo sguardo al padre.
Lo stava guardando. Solo che sembrava indeciso, non sapeva se sorridere o no.
Gli riservò il ghigno migliore che potesse ponderare di dipingersi in faccia. Una volta lasciatolo nel più profondo dei dubbi, poi, si diresse a passo calmo verso gli spogliatoi, intenzionato a tutto fuorché festeggiare quella vittoria.
Non era sua, dopotutto. Aveva utilizzato quella partita come mero vicolo per stoccare suo padre, non si sentiva in grado di festeggiare con gli altri compagni di squadra.
Fu per questo che approfittò della confusione per sgattaiolare negli spogliatoi, lasciando le festività ai propri compagni. Conoscendoli, sarebbero rimasti in palestra anche dopo che tutti se ne fossero andati. E poi solitamente la squadra vincente faceva una fotografia a fine partita per i giornali locali, amanti di ogni cosa potesse riempire le pagine dedicate allo sport dei loro quotidiani.
Si cambiò velocemente, abbandonando la sua divisa sulla panchina senza nemmeno prendere in considerazione di portarla con sé. Aveva finito il suo compito, e il legame affettivo era stato ampiamente surclassato dal comportamento non esattamente costante del padre.
Lo aveva letteralmente schifato, ecco.
Una volta rivestitosi chiuse lo zaino energicamente, ignorando i capelli ancora umidi di sudore così come la pelle del collo e della schiena. Avrebbe approfittato di nuovo della doccia a casa di Joshua; al momento voleva solo mettere una notevole distanza fra lui e il Palazzetto dello Sport.
Uscì dallo spogliatoio intenzionato a raggiungere subito l’esterno dell’edificio. Sentiva ancora parecchia confusione in campo e sugli spalti, il che probabilmente significava che i festeggiamenti per la vittoria non erano ancora giunti al termine... aveva abbastanza tempo per confondersi fra la massa ed uscire, mettendo finalmente fine alle cose che si era ripromesso di fare prima di... beh... prima di venerdì notte.
Ma, ovviamente, i suoi piani non andarono per niente come aveva pensato che andassero. Non lo fecero perché suo padre, che era tutt’altro che stupido, riuscì ad intercettarlo proprio mentre stava richiudendo la porta dello spogliatoio.
Si guardarono.
L’uomo aveva in volto una sorta di sguardo perso, come se si stesse sforzando di capire le intenzioni del figlio senza chiedere a lui direttamente.
Eric, dal canto suo, si limitava a guardarlo pacatamente, cercando dentro di sé la tranquillità necessaria a mantenere un disinteressato stoicismo.
« Sei stato bravo, oggi » commentò poi l’uomo, ed Eric non poté fare a meno di lasciarsi scappare uno sbuffo deluso. Non era quella la prima cosa che avrebbe desiderato sentire, nonostante il tono profondo del padre fosse calmo e quelle parole avessero un complimento, nascosto in esse.
« Già, a quanto pare ricordo ancora come si fa » fu la sua conseguente risposta, decisamente stizzita in confronto alle sue buone intenzioni di mantenere fredde le animosità.
Seguì un istante di pesante silenzio. Eric non aggiunse nulla e, vedendo che anche suo padre non ne aveva intenzione, fece retro-front e cominciò ad incamminarsi verso l’uscita lungo il corridoio in penombra.
Ma Trent non gradì il gesto, Eric lo capì dal tono in cui gli chiese dove stesse andando.
Il ragazzo non rispose, dandogli le spalle. Non aveva nemmeno il minimo desiderio di informare il padre sui suoi spostamenti, nemmeno di metterlo al corrente di dove avrebbe passato la notte o di cosa avrebbe fatto il giorno dopo. La base di tutto ciò era una: a casa non sarebbe tornato; ma Trent Everald avrebbe dovuto capirlo da solo, quando tornando per cena avrebbe trovato la camera del figlio maggiore mezza vuota.
Per trovare tracce di lui, avrebbe come minimo dovuto mettere a soqquadro la casa. O girarsi a piedi mezza città.
« Eric » sbottò suo padre, e il castano riuscì a riconoscere in quel tono l’ira che ormai da un anno caratterizzava tutti i loro discorsi.
Si voltò, sfidandolo apertamente. Fortunatamente il corridoio era vuoto, ma era convinto che suo padre avesse calcolato anche questo. Non avrebbe mai più fatto l’errore di rivolgersi a lui con cattiveria in un luogo pubblico, se non potevano garantirsi una sorta di privacy da orecchie indiscrete o passanti casuali.
Rimase zitto, però, fissandolo.
Voleva che capisse. Voleva veramente che capisse.
Desiderava fargli comprendere che sarebbe bastata una parola, uno “scusami” detto in modo sincero, e sarebbe tornato a casa con lui. Avrebbe passato le poche ore che gli rimanevano con loro, con la sua famiglia, perché nel profondo del cuore sentiva che era lì che doveva stare.
Per non lasciarli troppo... soli.
Ma Trent non capì, il suo sguardo non cambiò.
Poteva quasi sentire il suo stesso cuore perdere un altro frammento. Anche se Joshua era riuscito, chissà come, a tenerlo insieme, la freddezza che il padre sembrava dimostrargli aveva la potenza distruttiva di un uragano.
Si girò di nuovo, sempre muto nei confronti dell’uomo. E sperò vivamente di riuscire a scappare, questa volta.
Cosa che non successe.
Trent coprì la distanza che li separava in due falcate; lo prese per il polso, strattonandolo finché non se lo ritrovò davanti al volto. Eric cercò di liberarsi, ma era inutile: il padre era sempre stato più forte fisicamente, e non perdeva occasione per sfruttare quella forza a suo vantaggio.
Lo osservò direttamente negli occhi, uguali ai suoi se non per la rabbia che riflettevano, parlandogli talmente vicino che il castano poteva sentire il suo fiato sul viso.
« Dove credi di andare? » sibilò.
Eric percepì un brivido scivolare freddo lungo la schiena. Era sempre suo padre, dopotutto... non avrebbe smesso di fargli paura quando faceva così.
Ma resistette stoicamente, impuntandosi. Non aveva più dieci anni, delle minacce non se ne faceva niente.
« Ovunque tranne che qui » fu infatti la risposta che diede, soffiando a sua volta.
Ma mentre il padre sembrava una tigre a digiuno Eric poteva al massimo sembrare un gatto randagio fra le grinfie dell'acchiappa-animali.
Trent lo osservò in silenzio, la stretta al polso che non si indeboliva. Faceva male, ma Eric non se ne lamentò per orgoglio, continuando imperterrito a rispondere allo sguardo del padre.
« Stai da lui, vero? » disse poi l’uomo: « Archer » aggiunse, pronunciando quel nome quasi come se ringhiasse. « Ti ho già detto che non mi sta bene! » aggiunse sgarbato, scotendogli il polso con veemenza.
Il castano digrignò i denti sotto le labbra.
« Perché, c'è qualcosa della mia vita che ti sta bene? » non poté esimersi dal ribattere, soffiando fra i denti e inclinando le labbra in un sorrisetto sghembo.
Imposizioni insensate come quella non smettevano mai di farlo incazzare. Al diavolo lo status quo.
Il corridoio degli spogliatoi era vuoto, e in lontananza la musica delle cheerleaders riempiva ancora lo stadio.
« Lui no » fu però la risposta del padre: « ha qualcosa... di strano. Lo sai cosa mi ha detto in piscina? Che saresti stato suo. Ma l'ha detto in un modo che non presagiva niente di buono e mi dispiace, ma non lascerò che la tua stupidità ti spinga nei guai » disse d'un fiato il padre, aumentando la presa sul suo polso man mano che la sua rabbia cresceva.
Oh, se lo immaginava... quasi riusciva a vedere cosa aveva visto suo padre negli occhi di Joshua, fin troppo strani nonostante l'aiuto delle lenti a contatto. Una luce di cattiveria, un brillio di sfida incastonato in quelle iridi color del ghiaccio, fin troppo inquietanti per non sentire almeno una briciola di paura nel cuore. E poi il sussurro, le sue parole... "Suo figlio sarà mio"... poteva quasi sentirlo mormorare al suo fianco mentre se lo immaginava, la voce profonda e il tono maliziosamente minaccioso.
Sorrise beffardo, socchiudendo gli occhi. « Papà, io sono già suo » pronunciò chiaramente, senza però perdere la nota di sfida con cui aveva intriso il suo tono di voce.
Trent trattenne il fiato, colpito se non sorpreso dalle parole del figlio, e fu quello il momento in cui finalmente Eric riuscì a liberarsi della sua presa con un secco strattone. « Addio papà » sussurrò infine, girandosi finalmente per l’ultima volta e abbandonando gli spogliatoi.
 
Quando finalmente riuscì ad uscire, facendo slalom fra la massa di parenti che attendevano l’uscita dei figli, poté finalmente godersi la frescura dell’aria sul viso ancora accaldato.
Il cuore gli batteva all’impazzata e, per una qualche confusione di motivi che ancora non riusciva a mettere esattamente in ordine, percepiva il bisogno fisico di piangere.
Era stress, oppure nervosismo. Anche tristezza, e sentiva da qualche parte persino la rabbia e l’insoddisfazione.
Ma si trattenne. Era un uomo ormai, non si sarebbe messo a frignare.
Alzò lo sguardo quel tanto che bastava per individuare Joshua, appoggiato di schiena al muro del caseggiato di fronte, e con viso basso gli passò velocemente a fianco, incamminandosi senza dire una parola.
Si sentiva veramente sull’orlo delle lacrime, e non voleva che Joshua lo vedesse così. Non sapeva perché, ma non voleva.
Forse desiderava apparire forte. Forse aveva paura che l’altro lo avrebbe preso in giro, o si fosse stancato di lui, nel vederlo così dannatamente... debole.
Ma il dio della morte non disse nulla, limitando ad incamminarsi dietro di lui e a seguirlo, a qualche passo di distanza.
Un distanziamento che Eric ebbe il coraggio di mantenere appena per qualche minuto.
Si fermò poi sul marciapiede vuoto, ormai inghiottito dalla notte, aspettando.
Joshua, il suo passo sempre pacato e tranquillo, lo oltrepassò con calma e si fermò un passo avanti a lui. Rimase girato di schiena, le mani nelle tasche del cappotto nero, e l’unica cosa che Eric poté sentire da quel momento fu la sua voce: « puoi piangere, se vuoi. Io non guardo ».
Era la seconda volta che sentiva quelle parole provenire dal moro. Era la seconda volte che si accorgeva, con sua sorpresa, che chissà perché nei momenti difficili Joshua era sempre lì, a dirgli che poteva piangere e che lui non si sarebbe girato a guardarlo.
Non si trattenne più. Pianse, lasciando che le lacrime salate scivolassero lungo le sue guance e che il respiro si rompesse in silenziosi singhiozzi e sospiri. « Puoi... guardare » acconsentì poi, borbottando come un bambino che tenta inutilmente di dimostrarsi grande e di non piangere di fronte alle difficoltà.
Lo vide voltarsi, poi osservarlo. Lo vide avvicinarsi piano, poi, finché non fu abbastanza vicino da permettergli di appoggiare la fronte sulla sua spalla, e di stringere fra le mani la stoffa del suo cappotto.
Non sapeva con certezza per cosa piangesse, ma la cosa non importava. Joshua non diceva nulla e stava semplicemente lì, in silenzio, non facendogli sentire altro che la propria presenza... preziosa, più importante di parole randomiche buttate al vento.
Come faceva a dire di non essere umano, se era capace di così tanto? Come riusciva ad essere più sensibile di qualsiasi altro? Come faceva un suo abbraccio ad essere così protettivo, se era stato mandato sulla terra per ucciderlo?
Era un controsenso.
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Capitolo a dir poco lungo. Dovrei smetterla, dato che poi correggerli è una faticaccia.
Chiedo oltremodo scusa per l’immane ritardo dell’aggiornamento; purtroppo riprendere l’università mi sballa gli orari, e cercare di incastrare il tempo necessario per scrivere si fa un po’ complicato. In ogni caso eccomi di ritorno, e... -2 capitoli alla fine!
Ora qualche risposta ai commenti, poi vi lascio riprendere l’uso della vista XD
Alla prossima!
 
Shichan: il fatto che io trovi abbastanza semplice muovere Eric ogni tanto mi inquieta. Soprattutto se assomiglia così tanto allo standard di “anima candida” (e, a sentire dalle recensioni, ci assomiglia proprio XD). Enma... Enma si ama SOLO per il sadismo, suvvia! Mi sono divertita da matti a scrivere quelle scene X°DDDD
E beh, la lemon è la lemon U.u anche se sono ancora convinta che poteva venirmi meglio. Quei due, se non ci sto attenta, cadrebbero in un livello di pucchosità fuori dal comune... e già nel prossimo capitolo saranno melensi, figurati se perdo la stretta.
Spero che ti sia piaciuto anche questo =*
 
Dea73: grazie ç___ç ero convinta che, per come l’ho scritta, la lemon fosse avvincente quanto un mattone *una persona incapace di scrivere lemon volgari*. Per quanto riguarda l’atmosfera, beh... direi che dipende anche molto dalla piega che sta prendendo in carattere di Joshua/Abrahel. Anche se ogni tanto mi sfugge di mano ^^’’’
Ti ringrazio molto per la recensione, e anche per i complimenti sullo stile di scrittura ^^ mi fa piacere che si legga bene.
 
Gioielle: tralasciando gli orari a cui scrivi i commenti, sappi che tutte le volte che trovo il tuo papiro mi diverto troppo XD
Allora, andiamo con ordine: sono felice che Enma ti piaccia, davvero XD quel poveretto è sottovalutato. Così come sono felice che Joshua sia uno dei tuoi personaggi preferiti °____° poverino, nella mia immaginazione non gode di molta simpatia, purtroppo. Eric... Eric è adorabile, dopo aver letto qualche commento mi tocca ammetterlo.
Lungi da me far si di interrompere il sonno di tua sorella! X°DDD e, mi ripeto, sono felice che la lemon ti piaccia. Non riuscendo a scriverle volgari quanto vorrei mi sembrano sempre troppo “soft”... anche se per questi due, forse, effettivamente stava meglio così.
Infine grazie molte per i commenti sullo stile, sui pg... beh, su tutto, dato che praticamente mi hai scritto una valanga di complimenti >//< spero che questo capitolo non ti abbia annoiata troppo <3

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Capitolo 9
*** Friday ***


Il personaggio di Noah Keynes non è di mia proprietà, ma è una creazione di Shichan. Non lo uso contro il suo volere, mi ha dato il permesso U.u
Questo penultimo capitolo mi è stato ispirato da un duetto di Jordin Sparks e Chris Brown, che però io ho ascoltato cantato dal cast del telefilm “Glee”. Il titolo è “No Air”, e la consiglio a tutti, perché è veramente bella.
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Friday

Abrahel & Eric
Midnight

 

{Abrahel}

Gli carezzava i capelli, lentamente.
Solamente con la punta delle dita, in un gesto divenuto automatico dopo solo qualche istante, passando i polpastrelli fra i morbidi fili castani ancora umidi dalla doccia.
Era incredibilmente... semplice, quel movimento.
Non era niente, a ben vedere: una piccola carezza, una banale dimostrazione d’affetto.
Eppure, anche solo così, si sentiva bene. In pace con se stesso, e in pace con il mondo per la prima volta da molto, molto tempo.

Pace. Una parola che per lui non aveva significato mai nulla se non una specie di utopia irraggiungibile.
Si era sforzato, di tendere le mani verso quell’illusione. Talmente tante volte che aveva perso il conto, e con esso anche la voglia di rincorrere quella “pace” che ogni volta sfuggiva via, sempre un passo avanti a lui.
Finché non si era arreso all’evidenza che non avrebbe mai sfiorato quel bellissimo sogno. Fino a pensare di non esserne destinato, nonostante per lui il fato fosse un concetto molto relativo.
Abbassò lo sguardo su Eric, disteso sul letto fra le sue gambe, girato sul fianco sinistro. Sentiva il dolce peso della sua testa sul petto, così come il calore della sua pelle attraverso il tessuto dell’accappatoio bianco che indossava come unico indumento; similmente percepiva il fastidio della testata del letto piantata sulla propria schiena, ma non vi badò assolutamente.
Non si sarebbe mosso mai, di lì. Se avesse potuto farlo, non avrebbe nemmeno respirato pur di non far spostare Eric da quella posizione, così tranquilla ma tuttavia così intima.
Era così vicina, la pace. A qualche passo, qualche metro più in basso rispetto all’aldilà.
Aveva i capelli castani e gli occhi della tonalità del caldo legno. Aveva un’anima talmente candida da far impallidire i santi, e una sensibilità fragile come il cristallo, degna di ogni protezione.
Si chiamava Eric Everald, la “pace”, e stava riposando fra le sue braccia.
Aggrottò la fronte, fermando d’istinto la mano.
Lui non poteva proteggerlo. Da nulla. Tantomeno da lui stesso.
Lo avrebbe ucciso quella notte. Lo avrebbe ucciso stringendolo fra le braccia proprio come in quel momento; avrebbe visto la luce spegnersi, i suoi occhi velarsi e poi chiudersi, il suo sorriso svanire pian piano.
Ma in quel momento, in quel lieve battito di cuore che a malapena percepiva attraverso gli abiti e la pelle, percepiva la propria esistenza come vera vita. Non sopravviveva in quel momento, no... stava vivendo, e c’era un abisso a dividere i significati delle due parole.
Ma con essa, sopraggiunse la consapevolezza di non potersi più privare di lui. Di non poter più portare a termine il compito che gli era stato assegnato.
Non ne aveva più... il coraggio.

« Joshua? » sussurrò Eric, attirando la sua attenzione: « cosa c’è? » domandò poi, alzando lo sguardo.
La voce era ancora flebile, gli occhi rossi. L’espressione era decisamente stanca, quasi sfibrata, e la colpa era quasi sicuramente di tutte le lacrime che aveva versato nel tragitto verso casa, poi sotto la doccia, poi di nuovo fra le sue braccia. Consumate finché ne aveva, finché i suoi occhi ne ebbero abbastanza.
Piangere... chissà com’era. Chissà se faceva... male.
Sorrise, e non dovette sforzarsi più di tanto. Non voleva far pesare nient’altro sulle spalle del castano, tanto meno i propri pensieri egoistici nei suoi confronti.

« Nulla » sussurrò a sua volta, come per rispetto al tranquillo silenzio che li avvolgeva: « stai meglio? » domandò poi, passando con delicatezza il pollice sulla gota dell’altro, sentendola ancora umida.
Il castano annuì contro la sua maglia.
« Mi fanno male gli occhi » disse solamente, il tono appena strascicato.
« Non fatico a crederlo... » rispose lui, distaccando la schiena dalla testata del letto nel tentativo di alzarsi: « vado a prenderti un po’ di ghiaccio, magari si sgonfiano un po’ » aggiunse nel mentre.
Eric annuì di nuovo, lasciando che si alzasse e uscisse dalla camera. Abrahel – no, Joshua, ormai. Solo Joshua – percorse lentamente l’appartamento, sentendo solamente il rimbombo dei suoi piedi sul parquet.
Si concentrò per non pensare, bloccando qualsiasi suo pensiero per la prima volta in millenni.
Non voleva... vedere l’ovvietà.
Sarebbe successo. Girarci attorno non serviva.
L’attesa, ora, era il suo chiodo, la sua spada di Damocle. Ventiquattro ore.
Anzi, ormai ventitre e mezzo.
Un giorno. Che per lui era un intero giorno, mentre per Eric solo un giorno.
Einstein non si era sbagliato, parlando di relativismo. Le cose erano veramente relative ai diversi punti di vista da cui venivano esaminate.
Aprì il freezer, estraendone il contenitore in plastica per il ghiaccio. Le sue mani non provarono dolore al freddo pungente, così come non reagirono quando i polpastrelli delle dita toccarono in ghiaccio stesso, rimanendovi attaccate.
Poteva fingersi umano, ma non lo sarebbe mai stato. Così come poteva fingere di voler portare a termine il suo lavoro sapendo che non ne aveva più la minima intenzione.
Sapendo che avrebbe mandato a fanculo il mondo senza tanti complimenti, per salvare lui.
Nell’aprire l’acqua del lavello, aggrottò la fronte affranto dai suoi stessi pensieri.
Era “amore”, quello? Beh... se era l’amore, faceva un male fottuto.

Tornò in camera qualche minuto dopo, tenendo in mano un asciugamano in cui aveva avvolto il sacchetto di plastica contenente il ghiaccio.
Non sarebbe stato un ottimo rimedio, ma almeno sperava che avrebbe sgonfiato un po’ i suoi occhi. Faticava a tenerli aperti da quanto erano stati bistrattati, e a giudicare dal rossore dovevano anche bruciare.
Si sedette sul letto al suo fianco, passandogli l’involucro con la parte fresca girata verso il basso. Eric lo afferrò, in silenzio, e sempre silenziosamente se lo appoggiò sugli occhi chiusi.
Un solo sospiro prima di vederlo cadere di schiena sul materasso. Abrahel lo seguì con lo sguardo ma non fece e disse nulla.
Semplicemente, non sapeva che dire. Qualsiasi parola suonava ipocrita, anche se il silenzio sembrava piombo dal quanto era pesante.
Decise per la cosa più semplice, e la più idiota.
« Stai meglio? » domandò cauto, cercando di nascondere l’ansia provocatagli dai suoi continui ed inconcludenti pensieri.
Lo osservò annuire appena sotto il manipolo di tessuto bianco.
« Meglio, sì... » sussurrò, anche se non sembrava esattamente convincente.
Tuttavia si fidò, credendogli sulla parola. Si limitò a scostare lo sguardo da lui, puntandolo su un angolo qualsiasi della moquette. Solamente una settimana prima, se Dio in persona gli si fosse presentato davanti dicendogli che si sarebbe... innamorato – suonava ancora strana quella parola associata a se stesso – probabilmente gli avrebbe riso in faccia. A Dio. Sì, anche a Lui.
Ma era successo, stava succedendo anche in quel momento. Ed era combattuto, lacerato dal risentimento verso se stesso, e verso Enma, e verso il Destino, e verso tutti, tutti, nessuno escluso.
No, tranne Eric. Tutti tranne Eric, che di male non aveva fatto nulla se non avere sfortuna.
La sfortuna di avere incontrato uno come lui.
Chiuse gli occhi, massaggiandoseli con la mano destra. Sentì un fruscio alle sue spalle ma, prima che potesse voltare il capo per vedere se Eric aveva bisogno di qualcos’altro, le mani dell’altro si aggrapparono alla sua maglia e percepì la sua fronte appoggiata fra le scapole.

« Josh, cosa c’è che non va? » domandò Eric a voce bassa, come se fosse la cosa più importante del momento.
Quel ragazzo doveva rivedere la lista delle sue priorità.
Girò appena il capo in sua direzione, rimanendo in silenzio qualche istante ancora.
« Non voglio... ucciderti » non poté esimersi dal rivelare, corroso dal tormento che quella decisione stava comportando.
Eric rimase silenzioso dietro di lui, le mani sempre strette alla stoffa sulla sua schiena.
Un fremito, indecisione.
« Ti metti nei guai se non lo fai? » domandò poi, mormorando lentamente quelle parole.
Non avrebbe dovuto dargli una speranza inesistente. Non avrebbe dovuto illuderlo a quel modo.
Decise di mentirgli, però. Perché da qualche parte dentro di sé sapeva che Eric avrebbe reagito male, se avesse risposto un “sì, ci affogherei, nei guai”; ovvero se avesse detto la verità.
Anche se non lo sapeva con esattezza cosa capitasse, a chi si rifiutasse di uccidere. Nessun Shinigami si era mai tirato indietro da che il mondo esisteva, dunque non aveva precedenti con cui avere anche solo un minimo raffronto.
In ogni caso, non era niente di bello. Almeno quello era chiaro.

« No » rispose dunque, mentendo. Ma non ci credeva nemmeno lui, alla sua menzogna.
« E’... una bugia? » chiese infatti Eric, il tono di voce sempre più basso. Più triste.
Esitò:
« ...no » rispose, rendendo palese l’inganno.
Non era più capace di raggirarlo. Non poteva sopportare di farlo.
...Incredibile quanto i sentimenti potessero averlo cambiato.
Si sentì abbracciare; le mani di Eric passarono in avanti dai suoi fianchi, posandosi con gentilezza sul suo petto. Percepì la schiena a contatto con il petto dell’altro, i battiti del cuore che rimbombavano nel suo torace vuoto riempiendolo di vita.
Lo sentì respirare, e si concentrò su quel respiro. A volte veniva trattenuto, altre rilasciato in lungi sospiri, ma tutto sommato era tranquillo e... piacevole, sentire il suo fiato sulla nuca.
Prese fiato – poté sentirlo – e sussurrò:
« non mentirmi ».
Abrahel chiuse gli occhi, portando la sinistra ad afferrare una delle mani di Eric sul proprio petto. Non si scusò, né smentì, ma quel gesto conteneva tutti i significati del caso e non c’era niente da aggiungere.
Rimasero così in silenzio per un tempo che sembrò infinito, anche se forse passarono solamente pochi minuti. Fu poi di nuovo il castano ad interrompere quella specie di stallo.
Lo sentì allentare la presa fino a sciogliere l’abbraccio, portando nuovamente le mani dietro di lui. Poté catturare con l’udito un fruscio, probabilmente l’accappatoio che veniva slacciato ed abbandonato da qualche parte sul letto, poi la mano si posò sulla sua spalla facendo una lieve pressione, chiedendogli silenziosamente di girarsi.
Obbedì. Se non altro perché era una richiesta di Eric, anche se non espressa verbalmente.
La pelle nuda della sue spalle sembrava essere compatibile con la luce della luna, che la sfiorava come fosse morbida seta. Facendola sembrare tale, per di più.
E lui sapeva che era vero, che la Luna non esagerava a farla apparire tale. Perché l’aveva accarezzata, e baciata, e sfiorata con le labbra e le mani fino ad ubriacarsi, di quella pelle.
Non poté trattenersi dall’allungare la mano, saggiando solo con i polpastrelli quella morbidezza; lasciandoli scivolare sulla clavicola, lievemente, lentamente, in un tocco a malapena accennato.
L’accappatoio era abbandonato sulla sue gambe, completamente slacciato, e copriva solamente in parte il suo corpo nudo. Abrahel poté vedere i muscoli delle gambe piegate, osservarne rapito la consistenza quasi violenta in contrasto con le forme armoniche delle braccia e dei fianchi, ma soprattutto delle mani.
Portò lo sguardo al volto di Eric, cogliendone la leggera nota rossastra sulle gote. Imbarazzo; sembrava un sentimento che caratterizzava i rapporti intimi dell’altro, mostrandolo a chi gli stava vicino illuminato come da una luce soffusa che faceva tenerezza.
Teneva lo sguardo basso, Eric. Non si lasciava scrutare per paura di mostrare le sue debolezze quando, con la morte fatta persona davanti, non ve ne era nemmeno bisogno.
Quando Abrahel aveva imparato a memoria ogni sua reazione, ed espressione. Ogni suo respiro, o sospiro, e sbuffare seccato. Quando aveva ascoltato persino il più roco dei suoi gemiti e percepito il piacere in ogni suo muscolo riflesso nel proprio corpo, catturato dalla sua vita e ad essa incatenato.
Conosceva ogni cosa... persino come dovevano sembrare quegli occhi che ora li teneva nascosti facendo un torto al mondo.
Ma non parlò. Lasciò il tempo al castano di esprimersi come meglio preferiva, di dire le parole che preferiva quando gli era più congeniale.
Lasciando scorrere istanti che sembravano ore in quel silenzio, in quei respiri.

« Josh, potresti... » cominciò Eric, sottovoce: « ...vorresti... » si corresse, indeciso: « ...fare l’amore con me? » domandò infine, pronunciando quelle ultime parole lentamente nonostante l’imbarazzo tangibile di cui era venata la sua voce.
Sorrise, Abrahel, nel sentire quella richiesta. Malinconicamente, sorrise.
Ma non era come lo voleva.

« Guardami negli occhi » disse solamente, aspettandosi la reazione.
Le spalle di Eric si irrigidirono, e il dio della morte poteva quasi leggere i pensieri che vorticavano in quella mente tutta particolare: stava paragonando quella richiesta ad una sorta di rifiuto, oppure al fatto che non volesse più ripetere l’esperienza. Per quello non si mosse, probabilmente.
Ma Abrahel non si scompose, se lo era aspettato. Con la voce più tranquilla, ripeté la richiesta:
« Eric, guardami negli occhi » sussurrò divertito, immobile mentre aspettava.
Eric alzò il capo, puntando le iridi castane sulle sue bianche. Riflettevano imbarazzo, sì, ma mescolato ad esso c’era un mare di altri sentimenti, sensazioni che un essere come lui non poteva descrivere.
Ma sapeva che c’erano. Vedeva che erano lì nascoste; in fondo all’anima, in fondo al cuore.
Sorrise; un evanescente incurvarsi di labbra.
« Ora, chiedimelo di nuovo » esordì mormorando piano.
Vide il panico serpeggiare in quegli occhi. Poi una sorta di vergogna, mescolata al tentativo blando di cambiare idea e lasciar perdere.
Lui aspettava, attendeva. Sapeva che la richiesta era sincera -  lo aveva sentito chiaramente dalla voce e dal modo tutto suo di frapporre il silenzio alle parole – ma voleva che anche i suoi occhi glielo domandassero.
Voleva scrutare dentro di essi, con occhi da umano, la bianca luce della sua anima riflettersi in quel desiderio.
Il castano prese fiato una volta, due volte... e alla fine esalò la sua richiesta:
« ti andrebbe... di fare l’amore con me? » chiese, resistendo all’istinto di abbassare lo sguardo ed interrompere il contatto fra i loro occhi.
Per una sorta di ridicolo pudore, pensò Abrahel. Un pudore beffardo, che gli impediva di avere quegli specchi d’anima solo per sé.
Il moro alzò la mano destra, adagio, sfiorando con il pollice le labbra di Eric per poi scendere lungo il collo; e proseguire sulla gola, lungo lo sterno, sullo stomaco. Saggiando in quell’effimero contatto la pelle, i brividi, i respiri.

« Eric, la mia vita non vale niente » cominciò a dire in un filo di voce, il necessario perché risuonasse forte e chiaro: « sono un servo del Destino, una delle tante mani della Morte, e per tale motivo non credo che la mia si possa effettivamente definire “vita”. Il significato stesso del vocabolo, improntato su uno come me, causa un controsenso di fondo » una pausa, breve. Un momento sufficiente per far sì che gli occhi castani di Eric si posassero su di lui, attenti, desiderosi di interromperlo per dissentire.
Ma Abrahel continuò comunque. C’erano cose che sentiva fosse giusto dire.
Allungandosi verso di lui posò le sue labbra sulla spalla, succhiando appena la pelle sottile di quel punto. Era sufficientemente vicino da far sì che potesse semplicemente sussurrare, per farsi sentire.

« Non valgo nulla, su questo mondo. E non capisco ancora molte cose, ma... » una pausa, un altro bacio: « ...per le prossime ventiquattro ore, la mia esistenza ti appartiene » bisbigliò.
Sentì Eric trattenere il respiro, sussultare appena. Avvertì la sua mano farsi strada sotto la maglia, cercando la pelle, il contatto diretto. Deglutì, sospirando piano, come se avesse paura che  tutto fosse sparito se solo avesse soffiato un po’ più forte.
Le labbra di Abrahel ripresero a danzare sulla sua pelle, le dita a toccare punti strategici, nascosti a chiunque tranne che a lui. Lo sospinse all’indietro ed Eric, chiudendo gli occhi, seguì docilmente quel movimento, concedendosi a lui totalmente, anima e corpo e fiato e pensieri.
Uniti nel tutto, uniti nell’uno.

{Eric}

Giocava con la sua mano, intrecciando e sciogliendo le loro dita, carezzandone il dorso con il pollice.
Lui sorrideva di quel gesto, non riuscendo ad evitarselo.
L’acqua della vasca era calda, e i vapori di quel calore aleggiavano ancora per il bagno come una fine foschia, appannando lo specchio sopra il lavandino e rendendo opache di condensa le manopole argentate.
Ogni tanto, una goccia cadeva nell’acqua infrangendo il silenzio.
Che non era vero silenzio. Perché c’erano i loro respiri, le loro mute risate, i fruscii delle loro pelli a riempirlo.
Era tutto un insieme di percezioni. Un sovraccarico di sensazioni che proveniva da ognuno dei cinque sensi.
Il tatto percepiva il tempore del petto di Joshua contro la sua schiena, la sue gambe piegate contro le proprie, il fiato dei suoi lenti respiri sul collo. Poteva percepire i propri capelli bagnati aderire alla nuca, così come avvertiva il solletico causato da quelli di Joshua quando si chinava a baciargli il collo, lievemente, dolcemente.
La vista vedeva le loro mani congiunte, e i giochi, e le carezze delle loro dita le une sulle altre. Vedeva l’acqua arrivare appena sopra le sue spalle, lasciando scoperte quelle del moro dietro di lui, che però non aveva freddo.
L’udito percepiva il silenzio imperfetto ed i piccoli rumori che lo riempivano. Così come sentiva i sospiri lievi del ragazzo dietro di lui, e le sue brevi risate fatte solo di respiri.
Il gusto era rimasto immobile in un tempo ormai trascorso, fermo a quella notte. Aveva ancora sulla lingua il sapore della sua pelle, delle proprie lacrime, del loro sudore.
L’olfatto era stuzzicato dall’odore di sapone disciolto nell’acqua, galleggiante nell’aria. Profumo di pulito, lo stesso che avevano i capelli di Joshua.

Un’overdose.
E quella notte non era stato diverso. Tutto aveva avuto senso in quella dolce confusione, nell’ebbrezza, nell’eccitazione.
Il piacere che aveva provato e tutto ciò che aveva sentito... aveva percepito Joshua veramente, interiormente, completamente. Lo aveva accolto dentro di sé fino a sciogliersi per poi fondersi con lui, nel più recondito dei significati; si erano divorati l’un l’altro fino a far scontrare le loro ossa le une contro le altre.
Nonostante l’altro non avesse mai sfiorato le sue labbra. Nonostante fosse il sapore del suo bacio, quello che ancora mancava per completare il quadro.
Era come dover dipingere la neve senza il bianco.
Decisamente... sfibrante.

« Cosa intendi fare oggi? » la voce del dio della morte gli arrivò dolce alle orecchie, svogliata, come se nemmeno lui avesse voluto interrompere quella magia.
Eric, la testa appoggiata sulla spalla dell’altro, mugugnò appena.
Non ci aveva pensato.
Molte volte, o almeno una nel corso della vita, ci si chiede cosa si farebbe se la fine fosse vicina.
Se si cercherebbero di esaudire i desideri, o i propri sogni. C’è chi sceglierebbe il tepore della famiglia, e chi il calore di una donna.
Lui... sì, se lo era chiesto, un giorno. Inconsciamente forse, si era domandato cosa avrebbe voluto fare nei suoi ultimi giorni.
Ma la domanda era scivolata via come acqua dal suo cervello, perdendosi in qualche cassetto della memoria che poi era stato chiuso e la chiave gettata via.
Cosa si fa, l’ultimo giorno di vita? Come si vive, cosa si pensa, quali sono i rimpianti che affollano la mente?

« Voglio un appuntamento » esordì all’improvviso, facendo così tabula rasa della sua mente.
Nessun rimorso, nessun ripensamento. Basta. Solo Joshua, solo lui, perché era la cosa più bella e la più dolorosa al contempo. E la più calma, la più pacata, la più tranquilla.
Voleva ubriacarsi di lui, perché non ne aveva ancora abbastanza. Voleva dimenticare se stesso, in lui.

« Mh... » lo sentì mugugnare: « ti devo confessare che non so cosa sia » disse poi, la voce calma che scivolava lenta sulla sua pelle, facendogli nascere una risatina spontanea.
« E’ una giornata che passi in compagnia della persona che ti piace. Si fanno diverse cose, si passeggia, si pranza, si va al cinema... è un giorno normale » spiegò brevemente, guardandolo con la coda dell’occhio.
Lo vide inclinare appena il capo, fissando con le iridi candide un punto qualsiasi delle piastrelle.
« Va bene » acconsentì poi: « accetto la sfida » scherzò lievemente, sbeffeggiando la sua stessa ignoranza.
Eric sorrise allegro.
« Da dove possiamo iniziare? » cominciò poi, lanciandosi con la mente a programmare la giornata.
Non voleva niente di banale, ma non sapeva cosa uno come Joshua avrebbe potuto definire “banale”. Non aveva raffronti, né misure, né esempi per poter fare confronti.
Si rese conto improvvisamente che del moro sapeva tutto, ma al contempo non sapeva nulla.

« Mi sono appena reso conto che non so cosa ti piace fare... » sussurrò, fissando una mattonella con la fronte aggrottata: « anzi, che so pochissimo di te » aggiunse, quasi contrariato da quella sua stessa lacuna.
Dietro di lui, Joshua sospirò piano.
« Non c’è da sapere molto più di quello che sai già » giocò con le parole.
Eric lo guardò con la coda dell’occhio, curioso: il moro aveva puntato le iridi sulle loro mani ancora intrecciate e appariva concentrato esclusivamente su di esse.
Aveva tutto il sapore di una risposta elusiva.

« Ma c’è » sentenziò lui, insistendo. Non era una di quelle persone che mollano la pezza. « Per esempio, cosa fai di solito? » chiese distrattamente, andando a disegnare con la mente trame inesistenti nei disegni della tenda di plastica appesa sopra la vasca.
Fu per quella distrazione, forse, che la risposta di Joshua gli gelò il sangue nelle vene.

« Cerco di annullarmi » disse il moro, il tono piatto ed inespressivo; vero.
Staccandosi dal suo petto si girò per poterlo vedere bene negli occhi.
Erano sinceri. No, non mentiva.

« Cosa... vuol dire? » domandò controvoglia, sapendo in cuor suo che avrebbe fatto volentieri a meno di conoscere quella risposta. Che non gli sarebbe piaciuta.
Joshua lo guardò per un istante, in silenzio, ed Eric capì che anche il moro aveva pensato la stessa cosa. Tuttavia rispose comunque, come se lo stesse assecondando apposta. Come se lo stesse facendo solo perché... perché era l’ultimo giorno.

« Noi Shinigami scompariamo, se non assimiliamo energia vitale per un po’ di tempo. Io semplicemente aspetto. Dormo un sonno privo di sogni, immerso nelle tenebre di un luogo cosparso di nulla, e aspetto » spiegò.
Per un qualche motivo che ancora doveva riconoscere, il castano si sentì pesantemente seccato. No... offeso.

« Quindi tu vuoi... morire? » chiese nuovamente, assottigliando gli occhi.
Il moro lo guardò distrattamente, poi negò appena con il capo. Il sollievo per Eric, però, durò fin troppo poco:
« si può dire così, ma non è la stessa cosa. Noi non moriamo... scompariamo totalmente. Ci addormentiamo e poco dopo di noi non rimane niente, nemmeno la polvere. Forse solo il ricordo » precisò ligio e accondiscendente.
Era la stessa cosa.
La morte non era annullamento? La morte non era scomparsa? Anche di lui sarebbe rimasto solo il ricordo, quando il suo corpo sarebbe stato sepolto sei piedi sotto terra a marcire insieme ai vermi in una cassa di legno foderata di seta!
E lui veniva a dirgli di voler morire, lui?! Lui che lo avrebbe ucciso, lui che avrebbe interrotto la vita a cui stava cercando di tenersi aggrappato da quando era nato, lui che non sapeva niente di cosa volesse dire vivere nel significato più recondito del termine?
La voglia di fargli del male, di scaricare la rabbia, fu troppo forte. Lo colpì, facendo vibrare lo schiaffo nell’aria immobile della stanza, espandendone il rumore acuto lungo i muri.
Non seppe se Joshua se lo stesse aspettando o fosse riuscito a coglierlo totalmente di sorpresa; semplicemente lo ignorò altamente.

« Ipocrita » sputò velenoso, arrabbiato, tradito: « proprio tu vieni a dirmi di voler morire quando non puoi nemmeno farlo... e me lo dici quando io sto per morire, io che non voglio morire! IO NON VOGLIO MORIRE, PORCA PUTTANA! » urlò, lasciando che la sua voce rimbombasse per la stanza e ferisse i timpani.
Un silenzio pesante calò fra loro dopo quello sfogo, questa volta totale e completo. Nemmeno i suoi respiri accelerati sembravano abbastanza rumorosi da poterlo riempire e spezzare.
Il dio della morte non si mosse. Stette semplicemente immobile a guardarlo serio, la guancia pallida che si stava pian piano tingendo di un rosso spento. Chiuse poi gli occhi in un sospiro e fu proprio in quell’istante che Eric si pentì del gesto.
Non era colpa di Joshua. Non era colpa sua. Ognuno desidera ciò che vuole, e...
Stava per dire qualcosa, ma il moro si alzò e uscì dalla vasca. Il corpo decisamente troppo attraente fu velocemente rinchiuso in un accappatoio e, senza dire niente, uscì dal bagno richiudendosi la porta alle spalle.
Era uno stupido.
Si alzò a sua volta, afferrando in fretta il secondo accappatoio e uscendo fuori a sua volta. Una rapida occhiata all’appartamento gli fece rendere conto che l’altro era in camera da letto; vi entrò, trovandolo di fatti intento ad abbottonarsi una camicia nera a mezze maniche, i jeans scuri appena infilati ancora slacciati.
Gli dava le spalle. Si sentì in colpa.

« Joshua... » chiamò da sulla soglia, piano. « Mi dispiace, io non volevo dire... sono solo... »
« Io sono stanco, Eric » lo interruppe il moro, la voce profonda. « Esausto. Stanco di veder mutare questo mondo in peggio ad intervalli regolari. Stanco di svegliarmi dal nulla per cadere in un altro tipo di nulla, stanco della consapevolezza di dover uccidere per continuare ad esistere anche se la mia esistenza non vale niente. Stanco... stanco di stringere fra le mani qualcosa illudendomi che durerà, per poi perderla inevitabilmente » disse, girandosi piano. Il suo sguardo esprimeva un tormento talmente grande, quegli occhi bianchi così addolorati, che il castano credette di non aver mai visto nulla del genere sul volto di nessuno.
Quelli erano occhi millenari. Non vi era altro termine per descriverli.

« Da quanto...? » domandò Eric, facendo due passi avanti: « da quanto esisti? » completò la domanda sottovoce.
Evitò il verbo “vivere” per una sorta di sottile rispetto.
Gli occhi di Joshua si chiusero, e sembrarono quelli di un vecchio reduce di guerra che rivive ancora una volta il suo combattimento sul campo.

« Non me lo ricordo. E’ passato troppo tempo, credo » rispose, afflitto. Ma era un tipo di afflizione stanca, provata, così antica da aver perso ogni traccia di dolore.
Il castano deglutì, ricoprendo velocemente la distanza che li separava fino ad abbracciarlo, affondando il volto nell’incavo fra la spalla e il collo. Joshua rispose al gesto, stringendolo a sé.

« Scusami... » gli sussurrò Eric all’orecchio, ma venne anticipato.
« Perdonami » si scusò Joshua, mormorando piano. « Non avrei dovuto parlare di queste cose, non era il caso. Non volevo farti arrabbiare » soffiò.
Eric si strinse di più a lui, chiudendo le mani sulla stoffa della camicia nera finché non gli fecero male le dita. Perché non prima? Perché non aveva potuto incontrarlo in un’altra situazione, in un altro tempo, in un altro modo?
Dipendere dal suo carnefice senza che fosse tale. Amarlo senza che ciò significasse desiderare la Morte. Avere quelle piccole gioie di cui si era privato, come vederlo dormire, o sentirlo sognare. Assaggiare le sue labbra senza che gli fosse proibito; passare le serate così, solo baciandosi, ridacchiando a qualche battuta idiota o sorridendo alla pace che sicuramente quei momenti avrebbero avuto.
Stare con lui senza l’inquietudine, l’ombra della mezzanotte a gravare su di loro.
Su di lui.

« Vestiti » gli sussurrò il dio della morte, posandogli un leggero bacio sulla tempia: « vado a prepararti qualcosa per colazione » aggiunse, sciogliendosi dall’abbraccio per dirigersi in cucina.
Eric annuì, guardandolo uscire con la coda dell’occhio.
Se solo fosse stato un essere umano...

{Abrahel}

Lui non amava particolarmente la folla.
Per una questione sì di sopportazione, ma anche per problemi tecnici legati alla sua natura di Shinigami.
Vedeva le anime della gente che gli passava accanto, sul viale principale della città; e questo significava essere circondati da un manipolo di luci di varie tonalità di grigio. Una cosa decisamente deprimente.
Solamente l’anima di Eric, al suo fianco, brillava candida e calda. Poteva sentire la lieve energia che emanava anche senza impegnarsi, semplicemente sulla pelle, percependone l’onda gentile.
Una sensazione che era aumentata pian piano, col tempo. Era quasi sicuro, adesso, che avrebbe potuto avvertire l’energia vitale di Eric anche a grande distanza.
Magari era “colpa” del loro rapporto, sia fisico che sentimentale. Poteva essere che, affezionandosi a lui in quel modo oltre misura, fosse diventato sensibile ad ogni cosa che lo riguardava. E questo, ovviamene, comprendeva anche l’anima.
Lo osservò di sottecchi, facendo attenzione a non essere visto dal castano.
Non sapeva cosa provava. Non riusciva a... capirsi.
Per lui era una cosa complicata, nuova. Sentiva il bisogno di proteggerlo; e nonostante sapesse che la minaccia più grave da cui avrebbe dovuto salvaguardarlo era proprio se stesso, non sentiva il coraggio per staccarsi da lui e lasciarlo perdere.
Ma non era una cosa che riguardava Enma, o la punizione che spetta agli dei della morte che non portano a compimento un incarico – qualunque essa fosse. Era piuttosto una sorta di... nostalgia.
Sentiva che gli sarebbe imploso il cuore, se si fosse separato da Eric. Il cuore che non aveva, ma che sembrava essere presente dal momento in cui aveva incontrato Eric fuori da quella discoteca di periferia.
Che aveva cominciato a battere piano, sottovoce, per poi farsi sentire man mano che si avvicinava al castano. Per poi esplodere nel momento in cui si erano uniti, in mezzo alle lenzuola stropicciate del letto nel suo appartamento, e aveva sentito di non poter essere più nessuno, senza l’altro. Nemmeno l’esistenza vuota e silenziosa che era sempre stato dal momento in cui era stato creato fino ad una settimana prima.
Ridacchiò sommessamente, chiudendo gli occhi dietro le lenti scure degli occhiali da sole. Patetico.
Era diventato un umano nel corpo di uno Shinigami.

« Cosa c’è? » domandò l’oggetto dei suoi pensieri, osservandolo con un cipiglio a metà fra il curioso e... il malinconico.
Abrahel lo guardò meglio, approfittando biecamente delle lenti scure per soffermarsi sui suoi occhi. C’era un’ombra nel suo sguardo che ne oscurava la luce... un pensiero, forse?
Oppure...
Chiuse gli occhi in un sospiro, non credendo a se stesso quando sentì il proprio cuore stringersi per l’aver notato quel piccolo particolare.
« Pensavo » disse semplicemente, cercando di chiudere il discorso senza planare sul torbido.
Ma era un illuso nel credere che Eric avrebbe lasciato perdere.
« E a cosa pensavi? » domandò infatti, nascondendo la sua curiosità in un tono scherzoso.
A mali estremi, estremi rimedi.
« Potrei chiederti la stessa cosa, suppongo » rispose direttamente, lanciando la freccetta esattamente al centro del bersaglio che aveva puntato.
Lo vide abbassare appena lo sguardo, un sorriso spento ad incurvargli le labbra.
« Si vede così tanto? » chiese poi, auto-ironico.
« No » replicò Joshua, tornando per un momento sulla folla intorno a lui: « solo per chi sa vederlo » chiarì, lievemente ironico a sua volta senza però suonare canzonatorio.
Eric rimase silenzioso per qualche istante, impegnato in ragionamenti tutti suoi. Dal canto suo, Abrahel non spostò mai lo sguardo dalla folla finché l’altro non si decise a rispondere.

« Pensavo a te » rivelò il castano, facendo istintivamente sorridere il moro.
« Sono un chiodo fisso? » ci scherzò sopra, facendo ridacchiare anche Eric.
« Più o meno » rispose quello, mordendosi il labbro: « mi stavo solo... chiedendo... come sarebbe stato se tu fossi un semplice umano » rivelò poi, tenendo gli occhi puntati a terra e stando bene attento a non sollevarli.
Abrahel non rispose subito. Era difficile per lui poter dire cosa potesse essere diverso, e cosa sarebbe rimasto uguale anche nell’ipotesi che lui non fosse un dio della morte. E c’erano tante, moltissime risposte a questo quesito, primo fra tutti l’assenza dell’ovvio finale.

« Sarebbe stato esattamente così » rispose invece, tornando a guardarlo: « tu ed io, per la strada, fianco a fianco. Come amici o come amanti non ha importanza, è sempre e comunque “insieme” » disse, suonando convinto di se stesso in un modo che spaventò anche lui.
Non era probabile una cosa del genere, e non era nemmeno possibile. Ma sentiva il bisogno di poter credere che lo fosse. Anche se era una bugia, un illusione con fondamenta evanescenti... in una menzogna si poteva credere comunque.
Vide Eric sorridere, e ne fu subito rincuorato. Poi girò il volto in sua direzione, con lo sguardo sereno.
« Io credo che... sarebbe diverso » mormorò: « per un semplice motivo: non mi godrei ogni istante di questa giornata. Mi sono reso conto come sia incredibile, che le persone che non sanno vivano la giornata pensando sempre a quello che faranno dopo. Anche io ero così » una piccola pausa, uno sguardo al cielo azzurro e soleggiato: « una donna cammina per strada e pensa a cosa dovrà prendere al supermercato per cena, un uomo esce dall’ufficio e pensa subito al programma di lavoro per il giorno successivo, una segretaria archivia una pratica e già la sua mente si sposta su quella successiva. Tutti inseguono il dopo come se il futuro fosse certezza, anche se solo di pochi minuti o al massimo di qualche ora ».
Un altro lieve incurvarsi di labbra, il suo avvicinarsi modesto fino a far sfiorare le loro spalle, le nocche delle loro mani abbandonate lungo i fianchi.

« Sapere, mi ha aperto gli occhi... » continuò Eric con la voce ridotta ad un mormorio fievole, che Abrahel comunque sentiva: « ...se fossimo persone normali, e se io non fossi condannato... non mi godrei ogni attimo che passo in tua compagnia. Non sarebbe così... »
« Profondo » concluse Abrahel al suo posto, incontrando l’assenso del castano al suo fianco. Allungando la mano catturò quella di Eric, così vicina, unendone i palmi e lasciandone intrecciare le dita.
Il castano non rifuggì il contatto, rendendo anzi la presa più salda.
« Ci guarderanno tutti... » sussurrò preoccupato, guardandosi intorno guardingo.
« Lascia che guardino » rispose il moro: « magari impareranno a soffermarsi sul presente ».

« Josh, è tutto ok? » gli chiese Eric con aria preoccupata, posandogli una mano sulla spalla.
Sotto al suo sedere, la panchina su cui si era seduto dopo quella diavoleria pareva l’unica cosa ferma dell’ambiente circostante.
« Non ne sono molto sicuro » bofonchiò quindi, aumentando appena la stretta sulle assi di legno a lato dei suoi fianchi.
« Può vomitare uno Shinigami? » domandò l’altro con cipiglio curioso.
« Non credo di volerlo scoprire, Eric » ribatté prontamente Abrahel, chiudendo gli occhi e riaprendoli come se, con quella mossa, il mondo potesse finalmente fermarsi.
«
Mi dispiace... » bofonchiò il ragazzo, appoggiandogli la bottiglietta dell’acqua fresca al collo: « non credevo che soffrissi le montagne russe ».
« Già. Beh, nemmeno io » schernì lui, afferrando con la mano la bottiglia e posandosela sulla fronte. « Perché gli esseri umani se non inventano di queste cose non sono felici? Cosa c’è di bello nell’andare su e giù e girare in tondo come dentro ad una centrifuga? » si lamentò, decisamente contrariato questo sviluppo inutile di tecnologia da parte della razza umana. A cosa serviva quell’affare, oggettivamente parlando?
Al suo fianco, sentì Eric ridere di gusto.
« Cos’ho detto di così divertente? » borbottò offeso, restituendogli la bottiglia. In un qualche modo, sembrava che il mondo fosse un po’ più stabile sotto i piedi.
« Sei unico, davvero! » esclamò il castano, tenendosi le stomaco per non piegarsi in due dal ridere: « sembri un vecchietto che se la prende con la generazione giovanile! » aggiunse, osservandolo di sottecchi fra le lacrime delle risate.
Abrahel assottigliò gli occhi nella sua migliore espressione omicida. Ma con Eric, si rese conto presto, non funzionava; anzi, a dire la verità non riusciva a guardarlo in quel modo nemmeno sforzandosi.

« Un vecchietto molto longevo » ironizzò poi, restituendogli la bottiglietta d’acqua con un gesto elegante.
« Beh, li porta magnificamente, signore » scherzò a sua volta Eric, assumendo un tono suadente che non si preoccupò di celare poi così tanto.
Abrahel rispose con un sorrisetto complice, avvicinandosi appena con il volto a quello dell’altro:
« non dovrebbe flirtare in questo modo sfacciato con gli anziani, giovanotto » rimase al gioco: « potrebbe incontrarne uno particolarmente spudorato da rispondere positivamente alle avances » rispose, fissandolo direttamente negli occhi con un sorrisetto malizioso.
Sorriso a cui Eric rispondeva ad arte.
« Dipenderebbe tutto da come l’anziano in questione avrebbe intenzione di trattarmi... » lasciò cadere appositamente, facendosi a sua volta un po’ più vicino ad Abrahel.
« Gentilmente. Ma il vecchietto è puntiglioso, e un corpo giovane sotto mano va esplorato con la dovuta cura e... lentezza. Estenuante lentezza, oserei dire » ipotizzò scherzosamente, arrivandogli abbastanza vicino da far scivolare “inavvertitamente” un dito lungo il profilo della sua coscia, da sopra i jeans.
Lo vide deglutire mentre seguiva con lo sguardo il percorso del dito.
« Mh... in questo caso... »
« Eric Everald?! » sentirono da qualche parte in mezzo alla folla del luna park, e la loro reazione fu simultanea nel girare la testa verso di essa.
L’unica differenza fra loro, era che lo sguardo di Eric non prometteva l’auto combustione spontanea.

« Noah? » mormorò Eric al suo fianco, puntando gli occhi su un ragazzo dalla zazzera rossiccia che salutava dalla fontana, sbracciandosi in loro direzione. Rispose al saluto con un sorriso, alzandosi.
Abrahel lo seguì.
« Chi è? » domandò poi, modulando il tono per non farlo sembrare seccato. Inutilmente.
« Noah Keynes » rispose l’altro, attirando la sua attenzione: « abitava vicino a noi prima che i suoi genitori si separassero. Quando la madre se ne andò lui e suo padre cambiarono casa » alzò nuovamente il braccio in direzione del rosso, che a sua volta si era alzato dal bordo della fontana e camminava verso di loro. « Abbiamo giocato insieme praticamente sempre, da bambini. Anche se era più piccolo di quattro anni ci divertivamo lo stesso come matti » spiegò, correndo per coprire gli ultimi metri.
Abrahel squadrò bene il ragazzo dai capelli rossi, facendosi tornare finalmente alla memoria il perché quel nome gli suonasse famigliare. Corporatura normale, occhi castani. Un viso rotondo e sorridente, un modo di parlare spigliato e gioviale, uno sguardo sincero e... un’anima candida simile a quella di Eric.
Sospirò, avvicinandosi con le mani in tasca. Due anime bianche in una settimana... roba da non credere.

« Noah! » esclamò il castano una volta abbracciato l’altro, che gli diede qualche pacca sulla spalla: « è da un’esistenza che non ci vediamo! Come va? »
« Al solito, niente di che » disse il ragazzo in risposta, osservandoli entrambi: « vi ho disturbati? » domandò poi assumendo un’espressione lievemente colpevole.
Abrahel represse l’istinto di rispondere un “perspicace” che sicuramente avrebbe fatto arrabbiare Eric. E poi, se si conoscevano non era poi così male: aveva un messaggio da consegnare.

« Lui è Joshua Archer, si è trasferito qui da poco » lo presentò il castano, indicandolo con un gesto della mano. All’allungarsi della mano del rosso, lui la strinse con un « piacere » abbastanza neutrale.
« Piacere mio » rispose l’altro con un sorriso gentile. « Cosa ci fate qui in giro raga? Niente lezioni? » domandò poi con un ghigno furbo sulle labbra.
Eric negò con il capo:
« saltate » rispose con la stessa furbizia: « e tu? Niente scuola? » chiese a sua volta.
Anche Noah negò con un sospiro:
« saltata anche io. La fidanzata di papà è tornata da poco e hanno organizzato una sorta di “uscita famigliare” o roba simile » spiegò velocemente, infilandosi le mani nelle tasche.
« Tuo padre si è trovato un’altra donna? » chiese Eric, abbassando il tono di un’ottava. Probabilmente cercava di usare del tatto, non sapendo cosa pensasse l’altro della propria situazione.
Abrahel rimase ad ascoltare, in silenzio.

« Sì, da un po’. Ma lei è archeologa, dunque non è a casa spesso » spiegò paziente: « ho un fratellastro però, più grande di me di un anno » aggiunse con un nuovo sorriso sulle labbra. Più dolce.
Anche di un secolo, pensò Abrahel sorridendo sotto i baffi. Avrebbe volentieri scoperto le carte in tavola, rivelando a Noah di conoscere Marcus, anche solo per vedere la reazione che avrebbe avuto; ma preferì lasciar perdere e continuare ad ascoltare.
Eric sorrise cortese. Non doveva essere molto ferrato sul come prendere di petto gli argomenti famigliari; in quello almeno si somigliavano.
« Andate d’accordo? » domandò infatti, rimanendo su una sorta di conversazione neutra che non andasse a parare sulla relazione di suo padre. Solitamente l’oggetto di astio era la nuova compagna del padre, non l’eventuale fratellastro.
Noah ridacchiò allegro, però, e la cosa faceva ben sperare.
« All’inizio no, mi odiava » rivelò con un sorriso divertito: « però adesso sì. Siamo... molto uniti » mormorò, abbassando lo sguardo come se dire quelle parole gli causasse imbarazzo. Il sorriso che gli piegò le labbra aveva quel sentore.
Abrahel cominciò a pensare che la trasparenza fosse una caratteristica comune delle anime bianche. Soprattutto l’imbarazzo era facilmente individuabile nei tratti delle persone – il leggero rossore, l’abbassarsi degli occhi, il tono di voce che diveniva un sussurro – ma sia Noah che Eric avevano occhi sinceri, dentro ai quali si potevano leggere molte cose.

« Beh, ora mi sa che devo andare » intervenne il rosso, indicando con il pollice la fontana: « ho promesso a mio padre che ci saremmo incontrati alla fontana, se non mi vede va in panico ».
« Va bene, divertiti allora » rispose Eric sorridendo allegro: « fatti... sentire ogni tanto » esitò un momento, per un breve istante.
Ma Noah non sembrò accorgersene.
« Certamente! » ribatté, e stava già per allontanarsi quando fu Abrahel a fermarlo. « Keynes! » chiamò, la voce ferma.
Il rosso si girò in sua direzione.
« Potresti portare un messaggio a Marcus da parte mia? » gli domandò, osservandolo con pacatezza. Noah sembrò dapprima sorpreso poi dubbioso, ma alla fine annuì con il capo.
« Digli che ora so cosa vuol dire “importante”. Lui capirà » disse, gentile.
Noah annuì di nuovo, salutando e tornando a sedersi sul bordo della fontana. Nel frattempo, loro due cominciarono ad incamminarsi in direzione dell’uscita.

« Come fai a conoscere suo fratello? » domandò Eric curioso, osservandolo di sbieco.
Abrahel sogghignò.
« L’ho conosciuto per caso » rispose poi, guardando dritto davanti a sé con ancora il ghigno sulle labbra: « i vampiri sono e saranno sempre esseri intrattabili ».

{Eric}

L'espressione "giornata normale" prevedeva anche il tipico pranzo americano: il fast food.
Nonstante Eric non fosse esattamente sicuro che Joshua avesse mai messo piede dentro un McDonald, decise comunque di tentare la sorte e di portarcelo. Non sapeva a base di cosa fosse la dieta degli Shinigami, ma almeno una volta lo aveva visto mangiare dell'insalata, dunque supponeva potesse cibarsi anche di alimenti umani.
Chissà perché riteneva Joshua una persona abbastanza schizzinosa, in fatto di cibo. E magari, pensò una volta in fila alla cassa, portare un dio della morte vegetariano in un posto in cui si vendeva solo roba a base di carne non era stata una grande idea.
L'espressione poco convinta che assunse il moro guardando i tabelloni con il menù fu una sorta di prova del nove.

« Josh, possiamo anche cambiare posto... » mormorò al ragazzo, in fila alla cassa di fianco alla sua.
« No, va benissimo » rispose quello, probabilmente troppo assorto nella sua mania di assecondarlo per mettere in primo posto i suoi bisogni alimentari.
Eric sospirò rassegnato.
« Mi sembrava di averti detto di non assecondarmi per ogni cosa! Se ti dicessi che il sogno della mia vita è vederti volare da un grattacielo di trenta piani ti butteresti dall'Empire State Building? » domandò ironico, fissandolo decisamente male.
« Tanto non morirei » fu la risposta disinteressata che ottenne.
« Lo so che non moriresti! » non era quello il punto! « E' solo che... »
« Eric » lo interruppe però Joshua, girandosi in sua direzione con un'espressione che non ammetteva repliche: « se ti ho detto che va bene vuol dire che va bene, e che ho trovato comunque qualcosa da mangiare. Perciò rilassati, ok? Non ti sto assecondando apposta » spiegò, tornando con gli occhi al menù.
Eric sospirò rassegnato.
« Ci rinuncio » borbottò a se stesso, ripassando mentalmente la propria ordinazione prima di arrivare davanti al cassiere.
« Prego? » disse quello, in attesa.
« Un menù tre, coca media, con ketchup » disse brevemente, abituato a quel tipo di ordinazioni. Con Rob e Doug non si mangiava altro quando organizzavano serate "cena, cinema e night club".
Il cassiere annuì, selezionando i prezzi sul dispaly e mandando in stampa lo scontrino; si allontanò poi dietro al bancone per recuperare il suo hamburger e il resto dell'ordinazione.
Nel frattempo, al suo fianco, Joshua arrivò alla cassa. Aveva l'aria di uno che aveva preso una decisione significativa della sua esistenza, e il suo sguardo risoluto - e a dir poco inquietante - trapassò la cassiera da parte a parte, facendola balbettare nel chiedere cosa volesse.
Joshua la fissò, e lui fissò Joshua con la coda dell'occhio. Una lista di possibilità scorse nella sua mente, come quella che vedeva l'altro ordinare un Big Mac. Con dentro ben DUE hamburger. La rivoluzione della carne made in Joshua Archer.
Deglutì, attendendo con trepidazione. Finalmente vide il moro prendere fiato, aprire la bocca...

« Un milk shake alla fragola ».
Se avesse potuto prendere il vassoio e sbatterselo in fronte, probabilmente lo avrebbe fatto. Solo, non voleva rovesciare le patatine.
Una volta ritirato il vassoio (Joshua non poté esimersi dal far notare che non c’era bisogno di un vassoio per la sua ordinazione alla cassiera che pendeva dalle sue labbra), si andarono a sedere in sala, cercando un tavolo che non fosse in un punto troppo affollato.

« Cazzo, l’hai fatto di nuovo! » esclamò una volta sedutosi, riservando all’altro un’occhiata a dir poco pungente.
Joshua, che sembrava a suo agio in qualsiasi luogo andasse, trasse dubbioso un sorso di milk shake dalla cannuccia, alzando gli occhi su di lui proprio mentre ne considerava il gusto.
« E’ schifosamente dolce » commentò, per poi aggiungere: « cosa? » in risposta, un sorriso sghembo ad incrinargli le labbra.
« La cassiera! » fece notare lui, non potendo non considerare però quanto amasse vedere quel sorrisetto sornione sul volto dell’altro. « Era ai tuoi piedi, hai notato? Ti ha persino chiesto se volevi il ketchup per tenerti alla cassa qualche minuto in più! A te che le patatine nemmeno le hai prese! » continuò lamentoso, scartando l’hamburger e sbattendone l’involucro sul tavolo.
Il moro ridacchiò divertito, appoggiandosi allo schienale della sedia.
« A me è sembrato che facesse il suo lavoro » esordì, prendendo un altro zuccheroso sorso di milk shake.
« Seh, te lo dico io che lavoro faceva quella... altro che cassiera » borbottò lui in risposta, azzannando il panino.
Per tutto il tempo in cui masticò il boccone, Joshua lo guardò con un ghigno inquietantemente compiaciuto sul volto. Solo quando si decise a parlare – ovvero quando Eric aveva finito di masticare e quindi poteva rispondergli – il castano capì che Joshua adorava fin troppo sfotterlo.

« E sei geloso? » domandò infatti, quel ghigno irritante ancora dipinto sulle labbra.
Eric sussultò appena, osservandolo da sotto le ciglia:
« perché, non posso? » domandò, bevendo un sorso di coca per avere la scusa di distogliere lo sguardo da quello dell’altro: « tu sei roba mia, insomma... » borbottò impacciato.
Vide il moro ridacchiare di gusto, e per assurdo si sentì offeso. Cos’è, si era sbagliato? Insomma, erano stati insieme e tutto il resto, era solo normale che gli girassero le palle ad elica se una cassiera random faceva la prima donna con il suo uomo!
...ok, ora era lui a sembrare una ragazzina.
Si fece scivolare sulla panca, imbarazzato, cercando di diventare tutt’uno con il pavimento.

« Ehi » chiamò però Joshua, appoggiando i gomiti sulla superficie di legno laccato e avvicinandosi a lui con il volto: « te l’ho già detto, la mia esistenza è tua. E credo di essere anche abbastanza fedele » ironizzò appena, sorridendo sbieco con lo sguardo di uno che si sta divertendo un mondo.
Eric sentì il proprio volto accaldato, e sperò in cuor suo di non essere arrossito come una ragazzina.
« Smetti di dire cose imbarazzanti... » mugugnò appena, puntando gli occhi su di una crepa improvvisamente interessante.
Sentì Joshua ridacchiare e, a sua volta, non poté trattenere un sorriso.

Non avrebbe potuto sperare in un giorno più tranquillo e piacevole di quello.
Dopo pranzo erano andati al cinema, a vedere una replica di un vecchio film in bianco e nero. Non che la pellicola fosse importante, comunque; praticamente avevano passato il tempo nell’ultima fila laterale, quella da cui non vedi quasi nulla, parlottando a bassa voce e ridacchiando per delle scemenze.
Al mercatino di china town, Eric aveva piacevolmente scoperto che Joshua conosceva la maggior parte dei rimedi farmaceutici cinesi. Sapeva le proprietà curative delle radici e di alcuni tipi di funghi, così tanto che si intrattenne almeno dieci minuti a discutere con il vecchio proprietario di un negozietto di spezie e rimedi curativi.
Allo stesso tempo, vederlo in un centro commerciale a tre piani fu la cosa più divertente della sua vita.
Ok, magari poteva risparmiarsi di portare una persona intollerante alla razza umana nel posto più incasinato per eccellenza, ma la reazione che Joshua aveva alla folla era impagabile. Anche se, ad un certo punto, aveva veramente pensato che avrebbe incenerito un bambino troppo piagnucoloso con lo sguardo.
Si fece perdonare con la biblioteca. Quello era un luogo che piaceva ad entrambi; a lui perché studiava letteratura, all’altro per l’amore considerevole che aveva per la lettura – anche se era puramente a scopo informativo, gli spiegò; li usava per conoscere ciò che si perdeva del mondo fra un “sonno” e l’altro.
Quando si fece buio, si fermarono a mangiare. Questa volta non in un fast food, per tranquillità di entrambi, anche se comunque Joshua prese un’insalata e una macedonia a confronto della sua pizza a doppia farcitura.
Usciti dalla pizzeria, presero un autobus per ritornare nei pressi del campus. Su sua richiesta deviarono dalla strada di ritorno, imboccando il viale che portava a casa Everald.
Voleva solo... vederli. Da fuori, da lontano. Magari attraverso la finestra del salone.
Ma quando arrivarono, tutte le luci erano spente. Non c’era nessuno per strada nonostante fossero solo le dieci di sera – o forse erano già le dieci – e anche le luci delle case affianco alla sua non trasparivano dalle finestre.
Avvertì Joshua afferrargli gentilmente la mano solo dopo qualche minuto, in cui era rimasto fermo ed in silenzio a guardare la casa immersa nell’immobile oscurità.
« Vuoi andare a cercarli? » domandò a bassa voce, voltando appena il capo in sua direzione.
Eric scosse il capo, chiudendo gli occhi.
« Credo non farei... in tempo » rivelò in un sussurrò, sospirando affranto.

{Abrahel & Eric}

 La città all’esterno delle vetrate brillava di colori accesi; piccole lucciole colorate confuse nel buio.
Il silenzio della sala, la cui luce non era nemmeno stata accesa per lasciare campo libero a quella fievole esterna, veniva interrotto solo dai loro respiri e dal ticchettio insistente della pendola.
Dal ricordo del tempo che correva senza fermarsi.

« Non manca molto... vero? » la voce di Eric era flebile nello sforzo di rimanere sereno, di non cedere alla paura.
Un paio d’occhi candidi guardarono di sfuggita l’ora, tornando subito dopo sulla città.
« No » fu la semplice risposta, granitica, fuori luogo.
Perché fuori luogo erano i pensieri e i dubbi. I ripensamenti come i sentimenti stessi.
Eric cercò la mano di Joshua, che non si tirò indietro nel frasi trovare. Le dita si intrecciarono, i palmi si sfiorarono l’un l’altro in un muto contratto.

« Dimmi a cosa stai pensando » il sussurro di Eric era udibile come se fosse stato pronunciato ad alta voce; la fredda calma di cui la stanza era pregna fungeva da amplificatore di ogni minimo rumore, quasi anche del battito del cuore.
Joshua rimase in silenzio, pensieroso.
« Non ti piacerebbe » rispose poi, cupo.
« Non puoi dirlo se non ci provi » ribatté il castano, girando appena il viso per vedere bene il compagno.
Il moro, notando il movimento, lo replicò.
« Non voglio ucciderti, Eric » e sembrò più una preghiera, che una rivelazione.
Il castano chiuse gli occhi, pacato.
« Ciò che vuoi e ciò che devi fare non sempre coincidono » pronunciò, riaprendo gli occhi per immergerli nuovamente in quelli di Joshua.
Avvolgendoli, cullandoli. Rassicurandolo, quasi.
Il moro si lasciò sfuggire un mezzo sorriso.
« Ha tutta l’aria di una citazione » ironizzò appena, amaramente, dando alla leggerezza statica di quella stanza un sapore sgradevole di stantio.

 
Intanto la pendola rintoccava, rumorosa.
Mezzanotte meno cinque minuti.


Il fruscio dei loro vestiti fu ciò che infranse il silenzio, depositandosi in esso come un sedimento. I movimenti del tutto volontari di avvicinarsi all’unisono, di abbracciarsi dolcemente.
I loro visi a pochissima distanza l’uno da quello dell’altro; i loro nasi che si sfiorano appena, le loro bocche divise in attesa di unirsi, di assaggiarsi. Finalmente.
Abrahel osservò quegli occhi castani come se rappresentassero la salvezza. Come se fossero la via per tutte le risposte ai suoi dubbi, e alle sue molteplici domande. Come se potessero guidarlo perché scegliesse, finalmente, cosa fare.
Erano rimasti dieci minuti. Il tempo stava scadendo.

« Josh... » mormorò Eric, piegando le labbra in un’ombra di sorriso gentile: « non preoccuparti. Se sei tu, va bene così ».
Parole che, nel rappresentare la risposta cercata, pesavano come macigni su un cuore fatto di nulla.

 
Esisteva Eric, ed Eric soltanto.
Così come c’era Joshua, e Joshua soltanto.
Due essenze all’unisono.
Quattro minuti.


« Abrahel ».
Gli occhi castani si assottigliarono, lo sguardo confuso al suono di quella parola.

« Il mio vero nome » chiarì allora lo shinigami, sorridendo malinconico.
Anche Eric sorrise; un lieve segno di divertimento in quella sua voce fatta di musica:
« ho letto la tua storia su di un libro, l’anno scorso... » disse appena, portando il naso a sfregare quello del moro.
« E’ probabile » annuì Joshua: « Abrahel è un dogma, per voi. Qualcosa che esiste solo perché qualcuno ha detto così ».
« Ma Joshua è reale » lo contraddisse il castano: « io posso toccarti, e vederti, e... » una lieve pausa, un silenzio infinitesimale ma al contempo infinito: « ...amarti. Sei qui, adesso. Ti sento. E non nelle polverose pagine di un libro, sottoforma di inchiostro e carta » spiegò, sfiorando al contempo la schiena dell’altro con le dita.
Il dio della morte portò una mano alla gota del castano, carezzandola con le nocche.
« Per te è una sfortuna che io sia qui... » mormorò affranto, cercando di nascondere la malinconia con un sorriso scontato.
Eric negò.
« Ringrazierei ogni giorno chi ha deciso di far sì che ci incontrassimo » sentenziò con sicurezza.
« E’ la morte che ha deciso » ribatté Abrahel con amarezza.
« E allora ringrazio la morte ».

 
L’aroma dolce di un’anima candida.
L’aspettativa ansiosa dell’unione sperata.
Desideri che si sfiorano timorosi.
Tre minuti.

 
Il castano alzò una mano, passando il polpastrello dell’indice sulle labbra di Joshua. Ne osservò lo sguardo, solo e completamente suo, facendo pian piano scomparire il leggero e dolce sorriso che ancora piegava le sue labbra.
« Cosa farai dopo? » domandò poi, colto all’improvviso da quel dubbio senza importanza.
Joshua sospirò, chiudendo gli occhi. Non rispose, e il suo silenzio non fece altro che alimentare i dubbi di Eric.

« Josh... » chiamò di nuovo.
« Cosa pensi che farò? » eluse allora Abrahel, riaprendo gli occhi per specchiarsi di nuovo in quelli castani dell’altro, così vicini ai suoi.
Eric sembrò voler rispondere, ma prese aria senza riuscire a parlare. Dovette prendere fiato una seconda volta, prima di lasciare che le parole uscissero:
« la speranza, è che tu ritorni al tuo lavoro. Il presentimento, è che cercherai di seguirmi... a modo tuo » esalò, combattuto nel rivelare quel pensiero.
Lo shinigami ghignò:
« non puoi chiedermi di far finta che non sia successo niente, ti pare? ».

 
Calore, protezione, sicurezza.
Fra le braccia dell’assassino, la sua vittima.
Perfetta utopia.
Due minuti.

 
Un sospiro da parte di Eric, la sua fronte che si posa sulla spalla del moro.
« Non riuscirò a convincerti a lasciar perdere, vero? » domandò mormorando, stringendosi all’altro ancora di più.
« No, non ci riuscirai » ribatté Abrahel, posandogli un bacio sulla tempia.
Qualche istante di silenzio, un brivido lungo la schiena dell’umano ma percepito anche dal dio della morte.
Abrahel chiuse gli occhi, stringendo a sé Eric come se dovesse rassicurarlo. Anche se non avrebbe dovuto farlo.
Anche se non aveva senso, fatto da lui.

« Non temere... » sussurrò amaro, sofferente: « sarà come svegliarsi da un incubo » pronunciò accanto al suo orecchio, piegandosi su di lui nell’assurdo tentativo di proteggerlo da qualcosa in arrivo.
Avrebbe dovuto proteggerlo da se stesso, e avrebbe dovuto farlo andandosene. Rinunciando. Sacrificando il mondo che odiava per la persona che amava.

« No... » rispose però Eric, aggrappandosi a lui nel medesimo modo. Il fiato corto non poté non rivelare le sue lacrime, dettate più dall’agitazione che dalla paura, ma pur sempre lacrime. « Sarà come riaddormentarsi dopo un sogno » aggiunse, in un soffio sofferto.

 La fine fa sentire i suoi passi.
Il sacrificio di chi si ama per la salvezza di ciò che si odia.
Vita e morte in un solo abbraccio.
Un minuto.

Si separarono lentamente, delicatamente.
Si guardarono negli occhi, l’uno scrutando quelli dell’altro, ancora. Come se non ne avessero mai abbastanza.

« Ci rivedremo? » domandò Eric in un soffio, sussurrando quella domanda come se fosse una preghiera.
Abrahel sorrise.
No. Non si sarebbero rivisti. La vita non funzionava così, così come la non-vita.
Il lieto fine non esiste.
Tuttavia si sforzò di continuare a sorridere, per non contagiare con l’amarezza anche quell’ultimo istante.

«» disse dunque: « Sì. Ci rivedremo, un giorno ».
Il primo rintocco sopraggiunse, e nel silenzio si spense.
Eric trattenne le lacrime, cercando di credere con tutto se stesso che sarebbe stato possibile. Come ultimo regalo: la speranza.

« Ti avevo detto di non mentirmi... » sussurrò tuttavia, lasciando scivolare le gocce salate all’angolo degli occhi, lungo le gote.
Era tempo.

Mezzanotte.
Un rintocco per battito di cuore.


Unirono le loro labbra.





Nel momento in cui il corpo di Eric scivolò fra le sue braccia, e lui lo seguì inginocchiandosi al suolo...
Nell’istante in cui il candido cristallo prese forma fra le sue mani, luminoso come una stella, lasciandogli fra le labbra il dolce sapore dell’anima di Eric, diverso da qualsiasi altra cosa esistente...
Nell’attimo in cui si accorse che il sapore salato che sentiva come retrogusto era quello delle proprie lacrime, che gli impedivano di tenere persino gli occhi aperti... capì.
Non sarebbe mai più potuto tornare ad essere quello di prima. Il cambiamento era stato troppo profondo.
Strinse quel corpo esanime a sé, ignorando il mondo inginocchiato su quella moquette. Nascose il viso sul suo collo, singhiozzando in silenzio.
Sì... piangere faceva male.

 

 

____________________________________________________________________________________

Non so nemmeno io come definire questo capitolo, purtroppo. Non lo so davvero.
Credo sia uscito la metà di quello che speravo, sia come sensazioni che come profondità del testo. Colpa, forse, di alcuni cambiamenti che ho dovuto apportare per questioni di lunghezza... spero solo che sia piaciuto.
Anche se non è la fine (purtroppo per voi XP). L’ultimo capitolo, l’epilogo, verrà pubblicato – spero - in tempi brevi. E con esso i dovuti ringraziamenti.
Intanto, comincio con il ringraziare le persone che hanno letto e recensito il capitolo precedente. E anche coloro che, ovviamente, si sono sorbite questo penultimo capitolo e tutta la sua sconclusionata confusione (XP)

Shichan: che me lo ha betato e che dunque me l’ha commentato in presa diretta XD Io e te ci diciamo il mondo in separata sede, in ogni caso ti ringrazio comunque per le belle parole sullo stile e il lessico. Sai che sono pignola e non ci credo, però grazie lo stesso U___u (XP)

GreedFan: Mi pareva di aver letto il tuo nick anche da qualche altra parte XD Grazie mille per tutti i complimenti, e anche per aver recensito. Prima o poi giungerà ad una fine anche St. Michael Gakuen, non la lascio alla burrasca. Spero che il capitolo sia stato di tuo gradimento, nonostante sia un tantino deprimente.

Gioielle: rileggere i tuoi papiri è sempre un piacere, sai? XD In ogni caso... sei una delle poche persone (almeno, per quello che ho sentito io) a cui piace Alex. E sì, magari avere tutte le sorelle che hai è incisivo a questo proposito XD purtroppo sì, niente sequel; all’inizio non avevo nemmeno programmato l’incontro tra i due, ma non potevo lasciare che Alex sparisse così, soprattutto dopo che si era pentito... ad un certo punto ho capito che avrei dovuto inserirlo, e così ho fatto. Anche se la sequenza non mi aveva convinta fino alla fine, e devo dire che mi fa piacere che sia piaciuta (il gioco di parole non è voluto XP).
Timoty. Eh... *sospira* Timoty purtroppo è uno di quei personaggi creati per altre cose e biecamente usati come “side characters”. Sì, si può dire che ha una storia alle spalle e, come hai detto tu, un motivo per tutti i comportamenti che mostra e tutto ciò che fa. Ma con questa storia non centrava nulla, così non mi sono spinta nell’introspezione, Magari un giorno mi butterò su qualcosa che lo riguardi... non saprei. Sono tuttavia felice che sia piaciuto, nonostante tutto XD non è un personaggio molto positivo... ma da una fan di Abrahel, suppongo di non potermi aspettare altro X°D.
La parte di Trent ho penato, per scriverla. Tutta la partita. Non solo perché di basket non ci capisco un tubo, più che altro perché dovevo trattenermi dal sistemare il rapporto fra loro e far scusare l’uomo. Mi è balenato per la mente, ma non potevo: Trent avrà un suo ruolo nell’epilogo. Però sì: è stronzo. Sono d’accordo.
Infine, tanti grazie per i complimenti sullo stile. Fa sempre piacere sentirseli dire, anche se a volte è quasi imbarazzante >//>.
Spero che questo capitolo non ti abbia delusa <3 Grazie ancora per la recensione!

Angel09: Grazie mille anche a te, anche se con tutti ‘sti “grazie” sembro ripetitiva XP sono felice che la storia ti sia piaciuta (ho visto le altre recensioni negli altri capitoli XD) e spero che il finale non ti deluderà.

CloudRibbon: è un complotto delle recensioni contro di noi, Cloud, anche se devo ammettere che si sono rimasta un attimo sorpresa, a leggere il tuo nome fra i recensori. Non ti aspettavo, a dire il vero >___> non mi capita spesso che le stesse persone leggano roba mia su diversi fandom.
Però mi fa piacere, non azzardarti a pensare il contrario °____°
Cominciamo con calma. Io... non credo di essere migliorata troppo nello stile. Nel senso, io vado molto a periodi, e dipende soprattutto quanto mi influenza ciò che sto leggendo, che sia un libro o una fanfic. Ho alti e bassi come tutti, e forse è per quello che io non vedo mai i miei miglioramenti (sempre che ce ne siano)... ma se me lo dici tu, mi fido.
Anche perché la stessa cosa che ti facevi notare per i personaggi vale anche per la scorrevolezza. Essendo personaggi miei, ho meno problemi a mantenerli IC, e non mi devo fermare ogni dieci righe a pensare se Tizio e Caio mantengano il carattere e possano o non possano dire quella determinata cosa. Da un certo punto di vista, è più facile XD
Ti ringrazio, poi, per il tuo apprezzamento sui personaggi stessi. Mi impegno per dare loro una forma senza essere troppo descrittiva e... da quello che dici, sembra che abbia raggiunto l’intento ^^’’’’ ne sono felice.
Oddio, non esageriamo... non credo di essere a livello di pubblicazione al di fuori di EFP, il mio stile non è ancora abbastanza maturo... e comunque credo sia una cosa che non farò mai ^^’’’ ci ho pensato, ma alla fine è meglio di no. Ti ringrazio comunque per il sostegno XD
Ancora tanti ringraziamenti (non finisco più >___>) per la recensione. Baci <3

 I miei migliori auguri di Natale a tutti voi!
Al prossimo capitolo <3

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Capitolo 10
*** Epilogo ***


Epilogo

Epilogo

 

Abrahel

The eternity of those who never die

 

 

Non possedeva la forza, di muoversi da lì.

Aveva a malapena dato credito a Remiel quando gli aveva tolto dalle mani l’anima di Eric, garbatamente, con rispetto. Quando l’aveva afferrata con gentilezza, sussurrando parole che non aveva capito nel tono melodioso degli angeli; forse promettendogli che l’avrebbe trattata bene, forse rassicurandolo, forse scusandosi...

Non lo sapeva. Ricordava solo il corpo freddo di Eric fra le braccia, i suoi occhi chiusi, le labbra ancora socchiuse per il bacio che si erano scambiati. Ricordava l’alba, le mani di Remiel sull’anima di Eric, quelle di Zerachiel sulle sue spalle... null’altro.

Sembrava non avere registrato nient’altro, nella mente.

Almeno fino a quel momento.

Il funerale non era nulla di speciale. Solo... doloroso.

Cosparso di un manto di disperazione talmente denso da sembrare tangibile.

Il cielo era punteggiato a tratti dalle nubi, e una luce grigia illuminava il cimitero. La lapide era stata posizionata sulla collinetta, poco distante dalla statua dell’angelo, nella parte vecchia del campo santo.

Marmo bianco venato di grigio perla, lettere d’oro. Poteva vederle brillare, nonostante la distanza. Nascosto tra gli alberi della parte di Heaven’s Park che sconfinava nel cimitero, all’ombra, come sempre.

Attorno alla fossa c’era un tappeto rosso, e sedie pieghevoli di legno. Sulle sedie persone vestite di nero, dietro di esse altre persone nere, in piedi, ammassate le une sulle altre.

Poi la bara. Legno dalle colorazioni rossastre, lucida, quasi importante. Un cuscino di fiori bianchi – gigli... sì, erano gigli e rose, quelli – spiccava in mezzo ai formali abiti scuri, sul coperchio della cassa chiusa.

Una cornice d’argento, con dentro una foto che non poteva vedere. Ma che sicuramente non rendeva giustizia alla persona racchiusa fra quelle quattro assi di legno finemente lavorate.

E la gente arrivava. E piangeva. E guardava fisso la bara senza potersi capacitare di nulla.

C’erano Robert e Douglas, i suoi amici del sabato sera. E McFarland con la compagnia di persone superficiali di cui si circondava solitamente.

Riconobbe Timoty Satler, composto nel suo abito elegante, i capelli rossi raccolti in una coda bassa sulla nuca. Chiuse gli occhi in una preghiera, posò sulla bara una medaglia d’oro.

Poi i suoi compagni della squadra di basket, tutti in gruppo, che in un manipolo di mani depositarono sul legno lucido la maglia rossa numero 23. Piangevano, stringendosi l’un l’altro, dandosi pacche sulle spalle.

Vide Alex, seduto con lo sguardo basso accanto a sua madre, in una delle sedie più vicine alla tomba. Stringeva le mani sui pantaloni, le nocche bianche dallo sforzo, e la sua schiena sobbalzava in singhiozzi malcelati.

La madre, con lo sguardo fisso sulla fotografia, sembrava faticasse persino a rendersi conto di dove fosse.

Vide Trent Everald, e provò pietà.

Per la prima volta nella sua esistenza; e ne fu disgustato.

Inginocchiato di fianco alla bara, le mani sopra di essa e il viso nascosto fra le braccia. Piangeva, disperato, ripetendo litanie inconcludenti di parole come “scusami” o “perché proprio lui”.

Dolore. Era tutto ciò che si poteva provare nel vederlo lì, inerme, devastato. Incredulo e, al contempo, lacerato dai sensi di colpa che sicuramente lo stavano dilaniando lentamente, corrodendolo dall’interno.

Un’eco di quel dolore lo raggiunse, e lo sommerse. Sentì nuovamente il senso di vuoto che lo aveva avvinghiato quella notte, e dovette trarre due grossi respiri per mantenersi quantomeno cosciente.

Per non ricadere in quell’apatia in cui non dava ragion d’essere a niente e a nessuno.

Riportò lo sguardo sulla folla, scorrendo i volti. Alcuni li conosceva, altri no, altri li aveva solamente visti di sfuggita... ma intravide Noah fra i tanti, stretto fra le braccia di quello che doveva sicuramente essere suo padre, che piangeva senza ritegno, lasciando scivolare le lacrime sulle gote dell’espressione addolorata dipinta in viso.

Per ovvi motivi, Marcus non era presente.

Si appoggiò con un sospiro al tronco dell’albero, puntando gli occhi sulla tonaca rossa e bianca del sacerdote che presiedeva il rito funebre. Stava parlando, probabilmente elogiando le qualità di Eric senza nemmeno conoscerlo – non veramente, non profondamente – ma lui non riusciva a cogliere le parole che diceva. Venivano coperte dal vento, che soffiava mite ma continuo, sferzando il parco e portando i primi freddi d’autunno.

Si posizionò con gli occhi sui fiori ma, in quel momento, sentì una presenza al suo fianco.

« Cazzo. Lo avevo sentito dire, ma non ci ho voluto credere » avvertì una voce. Conosciuta.

« Moloch » mormorò rauco, osservandolo di sbieco. « Cosa ci sei venuto a fare? » chiese, malevolo e diretto, assottigliando gli occhi in una minaccia convincente nonostante l’aspetto sicuramente irriconoscibile.

L’ultimo specchio a cui aveva avuto modo di specchiarsi, gli aveva rimandato l’immagine di un essere pallido, con le occhiaie e gli occhi rossi; e lo sguardo di chi non crede più in niente.

Aveva visto il dolore dell’umano negli occhi dello shinigami. Il tormento di Joshua nel cuore di Abrahel.

L’altro, sistemandosi la veste nera – uguale alla sua, che indossava anche lui, e che stava odiando con tutto se stesso – lo fissò con noncuranza. « Calma, calma collega » cercò di abbassare i toni, squadrandolo con sguardo critico da capo a piedi: « dall’altra parte girano voci strane, così sono venuto a vedere se sono vere. E vedo che lo sono » commentò, arricciando un po’ il naso al suo aspetto: « ma dico, ti sei visto? Fai quasi schifo » disse diretto, portando una mano fra le pieghe della veste nera ed estraendone un accendino seguito da un pacchetto di sigarette.

« Detto da te poi... » sussurrò Abrahel piano, rivolto per di più a se stesso nonostante la pungente ironia. Continuò poi, riportando lo sguardo sul manipolo di persone attorno alla bara: « smetti di raccontarmi balle e dimmi chi ti ha mandato. Enma? Pietro? Oppure quel ficcanaso di Zerachiel, sempre in vena di dare lezioni sulla vita e sulla morte? » sibilò amaramente, lasciando che i ciuffi corvini gli calassero sugli occhi senza che li spostasse.

Moloch sospirò, portandosi con calma una paglia fra le labbra e accendendola. Aspirò ed espirò il fumo, godendoselo in silenzio per qualche istante. « Non disprezzare Zerachiel, Abrahel » disse poi: « non vuole insegnare il mestiere a nessuno, è semplicemente preoccupato per te ».

« Sono commosso » sputò sarcastico, portando gli occhi candidi su quelli totalmente simili dell’altro. « Non ho bisogno delle sue belle parole, o della tue. Non ho bisogno di comprensione o di qualsiasi altra cazzata da angelo che Zerachiel ti abbia convinto a dirmi. Voglio solo stare per i cazzi miei, è abbastanza chiaro come concetto? » precisò iracondo, dovendo però schiarirsi la voce al termine della frase.

L’altro shinigami non rispose subito, traendo un’altra boccata di fumo. « Mi piacerebbe tanto sapere come hai fatto ad innamorarti. Solo l’amore può averti ridotto così » disse, soprapensiero nonostante si rivolgesse a lui, lo sguardo puntato sul funerale. « Era così importante per te quell’umano? » domandò poi, calmo.

Abrahel sospirò, chiudendo gli occhi e massaggiandoseli con una mano. « Anche se provassi a spiegartelo, probabilmente non lo capiresti » rispose.

« Non era altro che un essere umano come tanti altri » considerò Moloch con leggerezza.

« Per quello non capiresti » chiuse il discorso Abrahel, tornando a riaprire gli occhi.

Alcuni minuti di silenzio trascorsero, riempiti solo dai respiri di Moloch che espirava il fumo della sigaretta in nuvole grigie.

« Senti... » prese poi, rigirandosi quello che era ormai un mozzicone fra le dita: « io lo devo dire ad Enma, se tu non torni di là. E vorrei veramente che mi risparmiassi questa cosa. Lui non vede molto di buon occhio questa tua mania di fare quello che ti tira, anche se non lo dimostra ».

« Ad Enma non frega niente di quello che faccio, Moloch » ribatté l’altro, sfinito: « mi pare sia abbastanza palese ».

« Solo per te » insistette però il collega. « Questa storia gli sta parecchio sullo stomaco, ultimamente » rivelò, la voce profonda di chi parla sul serio.

Abrahel aggrottò le sopracciglia, fissando insistentemente il funerale davanti a lui. Nessuno sembrava fare caso a loro, così come nessuno aveva mai voltato lo sguardo in direzioni diverse dal prete.

Enma poteva anche tirare giù il mondo a parolacce, per quello che lo riguardava; poteva minacciare tutti i Santi e chiunque gli capitasse a tiro. Lui non si sarebbe mosso di lì, mai.

Perché di Eric rimaneva solo un ricordo, e quel ricordo era simboleggiato dal suo nome su quella lapide. E Abrahel ci sarebbe rimasto aggrappato come un naufrago ad un pezzo di legno; per tutti i secoli dei secoli, se necessario.

Almeno finché non sarebbe scomparso anche lui.

« No » rispose dunque, non aggiungendo nient’altro. Bastava così.

Sentì Moloch sospirare – scocciato, forse – e percepì con la coda nell’occhio il suo buttare il mozzicone a terra per poi pestarlo con il piede. « Senti » prese poi a dire, pronto per tornare nell’aldilà: « io sono uno stronzo, ok? Sono addetto alle anime dei bambini, devo esserlo. E non capisco un cazzo dell’amore, o di qualsiasi altra cagata spirituale che ti sta scombussolando il cervello in questo momento » una pausa, calcolata: « e riconosco che, per cambiare uno come te così radicalmente, quest’umano doveva essere qualcosa. Tuttavia devi guardare in faccia la realtà dei fatti: un umano e un dio della morte è contro natura » terminò, sollevando appena la mano in saluto e sparendo nell’ombra, diretto da Enma.

Abrahel si lasciò scivolare contro il tronco, improvvisamente esausto.

Davanti a sé, l’eternità di chi non può morire.

 

 

Tagliò il bocciolo di una rosa bianca, lasciandolo cadere vagamente a terra. Sull’erba soffice dell’aldilà, il bocciolo si trasformò prima in marcio, poi in nuovo nettare per la pianta.

Decomposizione. I morti che nutrono i vivi in un cerchio continuo, efficace, perfetto.

Madre Natura sapeva il fatto suo.

Enma sospirò arrabbiato, indugiando con le forbici d’argento cesellato sul sottile gambo di un altro bocciolo. La ragazza bionda poco dietro di lui, intenta a carezzare con le dita sottili i petali di una rosa in piena fioritura, smise di canticchiare la sua canzone melodiosa.

« Quanto tempo è passato? » domandò Enma, quasi ringhiando. Di chi parlassero era ormai evidente anche senza le specificazioni del caso.

Selene non l’aveva mai sentito parlare d’altro con lei, dopotutto.

« Due anni, credo » disse infatti, legandosi i boccoli biondo cenere con un nastro di seta rosa spento. « O forse tre. Ammetto che la concezione del tempo da questa parte è un tantino differente da quella del mondo dei vivi » disse tranquillamente, tornando all’ammirazione dei fiori.

Enma sospirò un ringhio. « Ripetimi ancora che bisogno c’era di mandare in brodo di giuggiole il cervello del mio unico Shinigami valido! » ruggì poi, lanciando rabbioso le forbici contro il terreno.

Si piantarono ai suoi piedi affondando fino all’impugnatura.

Selene sorrise serafica. « Era necessario » rispose semplicemente.

Enma storse il naso. In millenni mai, mai gli era capitato di perdere la sua infallibile calma. « E perché? » chiese allora, cercando di ritornare perfettamente cosciente di sé. Adocchiò le forbici e, al pensiero di chinarsi e raccoglierle, schifò se stesso. Mosse la mano in un mezzo circolo nell’aria, facendone semplicemente apparire dal nulla un altro paio.

« Lo sai già il perché » ribatté la santa con voce melodica.

« Lo voglio sentire di nuovo » rispose però il capo degli dei della morte, modulando la voce senza riuscire però a togliervi la nervatura di rabbia di cui era intrisa.

Selene sospirò, puntando finalmente lo sguardo sulla schiena dell’altro. « Doveva imparare ad amare, Enma. E’ una lezione che deve essere impartita, in un modo o nell’altro, per quanto brutale possa essere » rispiegò per l’ennesima volta, pacatamente.

« Agli shinigami non serve amare » fece notare Enma con un ghigno sul volto: « loro devono uccidere, non amare. Devono portare avanti e indietro le anime dal Mediano al mondo dei morti, se le amano non fanno il loro lavoro, è un controsenso! » esclamò, cercando inutilmente di dare un contegno alla propria agitazione.

Selene sospirò di nuovo, esausta di quel discorso che continuava ormai da anni. Potevano passare diversamente dal mondo mortale, quello era vero, ma erano pur sempre anni. « Ogni essere si merita l’amore, Enma. Che sia umano o meno » spiegò per l’ennesima volta.

Enma fece una smorfia. « Mi sembra di sentire il tuo superiore durante una delle Sue omelie sull’amore in Paradiso-visione » borbottò cupo, tagliando finalmente anche l’altro bocciolo di rosa.

Rimase in silenzio poi, contemplando il lavoro svolto. Abrahel era il più valido dei suoi shinigami solo perché non amava, non considerava niente al di fuori del lavoro, non si affezionava a nulla ed era formalmente disilluso su ogni cosa non fosse il suo desiderio intrinseco di porre fine alla sua esistenza. Era facilmente controllabile, anche se difficilmente sottomettibile, perché bastava lasciarlo in pace per qualche secolo a crogiolarsi nella sua stessa auto-commiserazione da quattro soldi... almeno fino a che non rischiava di annullarsi, allora mandarlo in missione sul Mediano e permettergli di continuare ad esistere.

Era un’esistenza antica, e proprio per questo non avrebbe mai creduto che si sarebbe infatuato di un semplice umano; un’esistenza breve e temporanea destinata a svanire in quello che per loro era la durata un soffio di vento.

Sospirò, affranto.

Forse... era il momento di lasciarlo andare.

« L’amore è una seccatura. Inutili umani... sempre a far danni » borbottò nuovamente, intascandosi le forbici e dirigendosi a passo lento verso l’uscita del giardino.

Selene, dall’alto della sua preveggenza, sorrise. « Dove stai andando? » domandò lieve, quasi scherzosa.

Enma si fermò in un fruscio di stoffa e seta. « A parlare con il Vecchio(*) » rispose semplicemente, sparendo in uno sbuffo di nebbia, silenzioso.

 

 

Quanti anni erano passati?

Novanta. Cento. O forse duecento.

Non lo sapeva.

Vedeva semplicemente le cose invecchiare, e pian piano marcire e morire. Sentiva il suo corpo perdere man mano forza e controllo.

Era passato molto tempo, prima che avvertisse i primi cambiamenti. Trent’anni, prima che le braccia smettessero di alzarsi oltre le spalle. Quaranta, prima che le gambe divenissero pesanti come pietra.

Dopo le prime settimane si era abituato al continuo senso di fame, che gli faceva percepire odori di anime anche a grandissima distanza. Col tempo, anche il richiamo del cibo era diventato sordo alle sue orecchie.

Rimaneva lì. Seduto con la schiena alla lapide di Eric, bianca e pulita finché della gente la visitava.

Poi, venne a sapere, la sua famiglia si era trasferita. Alex aveva vinto una borsa di studio per una qualche università famosa di cui si era dimenticato il nome in meno di un minuto, così avevano cambiato città per stare vicini al figlio minore – unico, ormai.

Trent Everald aveva continuato a visitare il cimitero ogni domenica per tutti e dieci gli anni. E anche in seguito, nell’anniversario della morte del figlio era presente.

Abrahel si nascondeva nell’ombra non appena vedeva arrivare qualcuno. Non era un bene per lui che lo vedessero lì, soprattutto perché risultava indagato per l’omicidio di Eric. Nessuno aveva creduto che fosse morto per cause naturali, anche perché l’autopsia non aveva rilevato tracce di malattie genetiche o problemi di altro tipo.

Si era ipotizzata la droga, o il veleno. L’omicidio, comunque, perché nessuno riusciva a credere che Eric potesse essersi suicidato.

Nemmeno Abrahel ci avrebbe creduto, sentendolo.

Poi, il giorno del trasloco, Trent aveva trovato il borsone nascosto nel garage. E tutti avevano cambiato idea.

Timoty Satler visitò saltuariamente la tomba, portando sempre poche ma essenziali notizie. Saluti, domande inutili del tipo “come stai?” anche se era ovvio che non potessero ricevere risposta, notizie sulle sue gare e sulle medaglie che vinceva. Era stato selezionato per la nazionale olimpica, ma per qualche motivo non accettò.

Poi, anche lui smise di andare a far visita.

Douglas e Robert, così come McFarland, passavano solo durante le feste natalizie. Loro rimasero in città, si sposarono ed ebbero diversi figli. Dopo una ventina d’anni non rivide più nemmeno loro.

Una notte, ricevette la visita di Marcus e Noah. Erano entrambi vestiti di nero, ed entrambi avevano gli occhi tendenti ad un rosso amaranto quasi fascinoso. Intuire il perché non fu difficile: Marcus lo aveva trasformato, alla fine.

Parlarono un poco. Gli dissero che ormai dovevano trasferirsi, perché non era più fattibile per loro rimanere in quella città. Nonostante uscissero solo di sera – obbligatoriamente - la gente cominciava a chiedere che fine avesse fatto Noah, ed era pericoloso per loro. Si sarebbero trasferiti più a nord.

Abrahel provò invidia, per Marcus. Almeno lui poteva scegliere una via che non prevedesse la perdita della persona amata.

Ma li salutò comunque con un sorriso, alzando la mano con molta fatica. Anche i muscoli delle braccia cominciavano ad essere rigidi, e pesanti come piombo.

Ad un certo punto, il cimitero venne chiuso. Le voci parlavano di un problema con la falda acquifera sottostante al camposanto, ma trasferire le tombe già presenti era impossibile. Inutile dire che, nonostante le misure di sicurezza, non successe nulla se non l’incremento del degrado.

Da quel momento, fu un semplice susseguirsi di estati afose ed inverni gelidi. La neve e la pioggia, unite alle altre intemperie, cancellarono pian piano il placcaggio dorato delle lettere in ottone, che pian piano ossidarono divenendo verdastre. Il marmo si sporcò di nero in più punti, e un rampicante d’edera vi si arrampicò sopra, ricoprendola quasi per metà.

Intanto lui esisteva. Continuava a vegliare.

Arrivò al punto in cui scomparvero le mezze stagioni, e le piogge acide distrussero la maggior parte della tomba di marmo a cui ancora faceva da guardiano. Il suo corpo non si muoveva nonostante non risentisse del freddo o del caldo, della pioggia o della neve; nonostante non invecchiasse, non si ammalasse, non... morisse.

Steso al fianco di quella lapide, sull’erba che ormai aveva perso ogni traccia di vita, alternava a momenti di coscienza piena altri di coscienza lieve.

Attendeva che il tempo passasse.

Finché l’udito si affievolì, e perse il gusto e l’olfatto. Non era sicuro di possedere ancora la facoltà di parola, dato che non parlava con nessuno da secoli forse; ma sicuramente aveva perso la cognizione del tempo.

Percepiva solo i piccoli cambiamenti che immancabilmente avevano luogo.

E sperava mancasse poco, alla fine. Alla sua fine, sottoforma di sparizione rapida, indolore, insapore.

Il non poter nemmeno dormire era un tormento.

Finché un giorno, al tramonto, dei passi lo distrassero dai ricordi con cui amava distruggersi.

Erano leggeri e lievi, conosciuti in un qualche angolo recondito della sua mente. Quando vide i lembi di un abito di seta pura nera, con ricami di fiori di camelia scarlatti, alzò lo sguardo.

Enma, dall’alto della sua tranquilla pacatezza, lo osservava.

Storse le labbra in quello che doveva essere un sorriso, ma non fu sicuro che risultò tale. Aprì la bocca per dirgli qualcosa, ma l’unica cosa che gli uscì fu un rantolio senza consonanti.

« Non credere di poter parlare dopo tutto questo tempo » gli sentì dire, e nonostante Enma avesse usato tono normale, Abrahel lo sentì come se glielo dicesse dal fondo di una galleria.

Lo vide chinarsi sulle ginocchia, attento a non sporcare i lembi della veste con le erbacce che erano cresciute e marcite tutte intorno. Si scostò una ciocca di lunghi capelli corvini dal volto pallido, scoprendo per la prima volta le sue iridi dorate dalla pupilla allungata.

Si diceva che Enma potesse trasformarsi in corvo, se voleva. Quegli occhi dimostravano che era vero.

« Sai quanto tempo è passato? » domandò poi il capo degli shinigami, osservandolo con un misto di noia e quella che sembrava seccatura.

O almeno, così sembrava ad Abrahel.

Cercò di muovere il capo in un cenno negativo, riuscendoci solo fino ad un certo punto.

« Trecentoquarantasette anni. Giorno più, giorno meno » continuò comunque l’altro, posando uno sguardo critico sul paesaggio circostante. « Questo posto fa schifo... » considerò a bassa voce, arricciando il naso in una smorfia disgustata. Tornò poi con lo sguardo su di lui, che ancora lo guardava con la risoluzione di chiedergli cosa volesse da lui. Stava cercando di articolarlo a parole, a dire il vero, ma proprio parlare non gli era più possibile.

« Smetti di fare quei versi, sono inquietanti » lo apostrofò Enma, senza però stamparsi il solito ghigno di scherno sul volto. Lanciò uno sguardo alla lapide e, senza scostare gli occhi da essa, continuò: « ammetto di aver passato degli anni, cercando di capire quale incantesimo ti avesse fatto questo umano per fotterti in quel modo il cervello. Perché non si conquista, non si sottomette uno come Abrahel, che il mondo lo distruggerebbe in un batter di ciglia se solo a me venisse voglia di ordinarglielo » fece un po’ di scena, prendendo una breve pausa: « ma ti sei fatto fregare comunque. Allora ho pensato a cosa potesse averti fatto provare di così bello da trattenerti ancorato qui per i secoli dei secoli, da solo, riducendoti ad una sorta di cadavere che respira... ma non sono riuscito a capirlo ».

Chiuse gli occhi, si massaggiò stancamente le tempie. Riaprendoli, poi, riprese il discorso: « Mi è impossibile comprendere l’amore, Abrahel. Io e te siamo nati così. Ma tu no, tu hai dovuto innamorarti, stravolgere le regole magari anche inconsciamente... e questo presuppone che ti lasci qui ad aspettare e che io, di riflesso, attenda che tu scompaia per farmene una ragione e cercarmi un altro demone da trasformare in shinigami » terminò, l’espressione contrita da qualcosa di interiore che probabilmente lo disturbava.

Accidenti. Non ditegli ora che Enma aveva pure una coscienza, da qualche parte.

Abrahel lo osservò di rimando, in grado praticamente di fare solo quello. Se era venuto fin lì non aveva semplicemente bisogno di gongolare, altrimenti non si sarebbe nemmeno disturbato. No... doveva esserci sotto qualcosa.

Enma prese fiato, guardandolo con piena serietà per la prima volta da quando si conoscevano. « Tu sai che non potrai rivederlo mai più, vero? » domandò, la voce profonda.

Anche dopo tutto quel tempo, Abrahel poté sentire l’ormai famigliare stretta a cuore. Quella domanda faceva male, di per sé, nel rendere concreto l’evidente.

Chiuse gli occhi, respirando profondamente.

Enma lo prese come un’affermazione. « Lo sapevi anche prima. Per la rinascita serve un’anima, per essere ammessi nell’aldilà serve un’anima. Per tutto ciò che riguarda la morte serve un’anima, e noi l’anima non ce l’abbiamo » rivelò scontatamente, osservandolo con cipiglio curioso riaprire gli occhi.

Sì, lo sapeva. Lo sapeva anche prima di baciarlo, di... ucciderlo. Gli aveva mentito dicendo di sì ma lo sapeva, che non lo avrebbe rivisto mai più.

Per lui era impossibile stare vicino ad Eric per più di quel breve periodo che avevano già trascorso insieme.

Perciò annuì, sospirando piano nel tentativo di non riaprire quelle famigliari ferite vecchie di secoli.

Enma arricciò il naso in una smorfia disgustata. « Spero veramente di aver fatto la scelta giusta, anche se ti trasformerà in un rimbecillito... » mormorò scocciato al suo fianco, infilando la mano dentro la veste per estrarne un cristallo.

Abrahel lo guardò, studiandolo attentamente, ma senza capire. Aveva la famigliare forma di un’anima, ma non risplendeva di nessuna luce. Sembrava semplicemente un involucro vuoto, inutile, tuttavia nuovo di zecca e senza nemmeno una piccola scheggiatura.

Stava per chiedere spiegazioni – o almeno provare ad articolarle – quando l’altro lo anticipò.

« Ho parlato con il Vecchio » rivelò, sbuffando come uno che ha dovuto cercare in sé tutta la pazienza di cui era capace: « noi non possiamo violare le regole del mondo, perciò non potevo fare qualcosa... per te » disse, frapponendo una pausa prima delle ultime parole, che pronunciò con un’espressione profondamente disgustata.

Enma che faceva qualcosa per qualcuno... il mondo sarebbe potuto finire anche subito, per quanto gli riguardava: da quel momento affermava con cognizione di causa di aver visto tutto.

Lo ascoltò continuare il suo discorso: « ho chiesto al Vecchio. Lui può tutto, il mondo l’ha creato lui e bla, bla, bla... » cantilenò con una smorfia, chiudendo gli occhi un istante e tornando a guardarlo: « non è stato facile, Abrahel. Lui è particolarmente affezionato alle sue regole e non era ben disposto... in tutti i sensi. Ma... » una pausa, ancora, calcolata. Un sorrisetto quasi incredulo a piegare le labbra sottili: « da qualche parte, un’anima in lista per la reincarnazione faceva i capricci. Il che è strano, dato che le anime non hanno coscienza; eppure questa non aveva intenzione di tornare sul Mediano. Sembrava che aspettasse, e che dovesse farlo per forza... » lasciò cadere, lanciandogli un’occhiata carica di significato.

Abrahel capì, e di nuovo gli si strinse il cuore.

Non era possibile. Come aveva appena fatto notare Enma, le anime distaccate dai loro corpi non hanno una coscienza, così come non hanno memorie e ricordi.

...di solito.

Provò ad alzare un braccio, spinto da quelle emozioni di cui si era drogato per tutto quel tempo tramite i suoi ricordi. Gemette quando ogni singola articolazione gli mandò una scarica di dolore lungo tutto il corpo, radicandosi persino nelle ossa, ma cercò comunque di portare la mano a sfiorare i lembi della veste di Enma.

Di raggiungerlo, in un qualche modo. Di chiedergli silenziosamente di smettere di mentirgli, perché non era uno scherzo divertente, quello.

L’altro, però, evitò facilmente quel contatto. « Non insozzarmi i vestiti » disse, lisciandosi con la mano una piega immaginaria sulla sua tunica di tessuto purissimo.

Abrahel lasciò ricadere il braccio a terra, senza più la forza di tenderlo. Guardava Enma con gli occhi di qualcuno che sta subendo una tortura psicologica non indifferente, e il capo degli Shinigami si espresse in un ghigno schifato a quella vista.

Sembrava una barzelletta che non faceva ridere, forse, vedere il proprio miglior Shinigami preda della speranza.

Scosse il capo, riprendendo da dove si era interrotto: « in ogni caso è stato deciso di prendere provvedimenti. Non possiamo rimanere bloccati con il ciclo di morte e resurrezione, i motivi mi sembrano ovvi. Perciò... » un altro sguardo, un sorrisetto che esprimeva profonda soddisfazione di sé stessi nonostante la situazione: « saluta il tuo nuovo futuro da comune mortale, Abrahel. Anzi no... Joshua » disse, tenendo fra due dita quel cristallo d’anima vuoto.

La sua chiave per rivederlo, capì.

Quella era...

« Questa è la struttura base di un’anima. Quando le anime vengono reincarnate, la loro luce viene trasferita dal cristallo precedente ad uno nuovo: questo » mosse appena l’oggetto, per poi continuare: « ne ho recuperato uno dal Vecchio. Non chiedermi come cavolo farà a farti reincarnare, non lo so nemmeno io. Credo sia una di quelle cose che sa fare solo Lui, sai no? Come si chiamano... “dogma”, ecco » spiegò per completezza, annoiato.

Ma Abrahel non lo stava più ascoltando. Non più, da quando aveva capito che una possibilità esisteva, alla fine.

Una. Una sola.

Ed era sua.

Il sorriso gli nacque spontaneo, sulle labbra. Non poté farne a meno.

Avrebbe riso, se solo avesse potuto farlo senza rimanere completamente senza fiato. Se solo i suoi polmoni non fossero quasi atrofizzati, a causa del tempo che era passato dall’ultima volta che aveva anche solo sorriso in quel modo così genuino.

Così... umano.

L’espressione schifata di Enma peggiorò nel momento in cui gli occhi candidi di Abrahel si posarono sui suoi, cercando di esprimere quello che la voce non poteva.

« Cos’è quella, gratitudine? » sputò: « per favore risparmiatela; queste dimostrazioni di umanità mi fanno venire bruciore di stomaco » si lamentò poi, rialzandosi in piedi e appoggiando il cristallo vuoto accanto allo Shinigami.

Si guardarono per l’ultima volta, questa volta seriamente.

« Sarai ciò che odi, lo sai? » domandò, la voce profonda.

Il dio della morte, chiudendo gli occhi, annuì.

« ...continua a non avere senso, per me » lo sentì sussurrare, prima di udire anche un lieve: « buona fortuna ».

E che Enma, così com’era arrivato, sparisse.

Ora, doveva solo aspettare… ancora un po’.

 

Infine, il momento arrivò.

Chiudendo gli occhi definitivamente, il nero sbiadì i colori. Il cuore non rallentò il battito, così come il suo corpo non incontrò la morte.

Semplicemente, la sua coscienza si spense. Semplicemente, si addormentò.

E pian piano, in un respiro un po’ più debole... scomparve.

 

Erano passati tre secoli, cinquantacinque anni, ottantadue giorni e tredici ore.

 

L’eternità di chi non muore mai.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Esosfera terrestre: anello orbitante geostazionario “Circle

Anno domini 2386

 

Puntando le sue iridi di ghiaccio sul proprio nome in graduatoria, comparsa da poco in quella specie di schermo olografico di dimensione aeroportuale, le sue labbra si storsero in un ghigno a metà fra lo schifato e l’orripilato.

« Ricerca e sviluppo » sussurrò, incredulo. « Ricerca e sviluppo! » sputò poi, calcando sulle uniche due parole che si era riservato di dire da quando aveva letto i risultati degli esami d’ammissione.

Il ragazzo al suo fianco alzò un sopracciglio. « E ti lamenti pure? » borbottò risentito, puntando a sua volta gli occhi sul nome dell’altro: « questo viene selezionato per il più importante gruppo lavorativo che la NASA abbia mai finanziato per la ricerca nello spazio... e si lamenta! » esclamò contrariato, sbattendosi sconcertato le mani lungo i fianchi: « Josh, mia madre ti prenderebbe a schiaffi ».

« Tua madre è un utero di plastica, Ethan » rimbeccò scorbutico l’altro, fissando il proprio nome come se dovesse prendere fuoco.

« Ok, allora tua madre ti prenderebbe a schiaffi » rispose il moro.

Joshua posò lo sguardo sul ragazzo al suo fianco, incontrandone gli occhi dorati: « ...e tuo padre un codice a barre » rincarò la dose, vendicativo, girando i tacchi ed incamminandosi lontano dalla folla.

« Anche noi umani artificialmente prodotti abbiamo un cuore, sai?! » sbottò Ethan, affrettandosi però a seguirlo. « Oh, avanti Josh! Da quanto ci conosciamo, da undici anni? » chiese poi retorico.

« Purtroppo » borbottò Joshua, camminando mani nelle tasche.

« E pensavi davvero che dopo esserti fatto il culo in Fisica Applicata ed Ingegneria Robotica Aerospaziale ti mettessero a pilotare uno Spaceshuttle? » domandò però ironico l’altro, ignorando la poco sottile frecciatina nei suoi confronti.

Joshua si fermò, fissandolo con astio: « sì, se è per un posto da pilota che ho fatto domanda! » palesò, tornando a camminare a passo di marcia lungo i corridoi. « Se sapevo che sarei finito chiuso in un laboratorio a riparare AI(*) mal funzionanti sarei rimasto in Illinois a coltivare pannocchie... » aggiunse mugugnando.

Al suo fianco, Sparrow sospirò rassegnato.

Joshua non se lo lasciò sfuggire. « Perché, tu sei contento? » soffiò: « “Armamenti” ti rende soddisfatto? » domandò pungente.

« Certo, e che cavolo! » esclamò però Ethan: « Ho studiato apposta per entrare in Armamenti, nel caso te lo fossi dimenticato » puntualizzò con scrupolo.

Archer, deluso nel profondo dalla poca empatia dell’amico, roteò gli occhi. « Contento tu... » sentenziò con sufficienza.

Ethan arricciò il naso, contrariato. « Si può sapere cosa ti ha fatto di male il mio settore? Ne parli come se dovessi andare a fare il benzinaio » argomentò con testardaggine, cominciando ad essere profondamente seccato dal comportamento dell’altro.

« Stare chiuso a sviluppare un nuovo cannone a particelle che ci permetta di distruggere ciò che rimane di Urano non mi sembra una prospettiva più rosea di una stazione di servizio » replicò Joshua, incontrando poi un silenzio stizzito da parte di Ethan.

In realtà non le pensava davvero, quelle cose. Credeva che Armamenti fosse un ottimo impiego, così come lo era anche Ricerca e Sviluppo, da un punto di vista oggettivo.

Ma non era ciò che voleva.

Per tutta la vita si era sentito come se stesse cercando qualcosa, là fuori. Da qualche parte.

Si sentiva ansioso, nervoso ogni volta che rimaneva in silenzio e ci pensava, prima di dormire.

Aspettava e al contempo cercava. Si sentiva poi, a sua volta, atteso e ricercato al contempo.

Era una sensazione che non lo aveva mai abbandonato da quando ne aveva preso coscienza.

Per quello voleva fare il pilota. Viaggiare nello spazio, magari, lo avrebbe portato a trovare quel qualcosa che, sapeva, doveva trovare.

Perché era... importante, farlo.

Perché significava qualcosa di fondamentale.

Voltò lo sguardo verso le vetrate alla sua destra, osservando rapito i loro riflessi in semi trasparenza. Dietro di essi, lo spazio profondo e la sua infinita oscurità.

La sua infinita tranquillità.

Sarebbe volentieri vissuto sempre là, se questo fosse servito a liberarlo da quel senso senza fine di ansia e aspettativa dell’ignoto. Di qualcosa che poteva anche non esistere, per quanto ne sapeva.

Forse fu per il suo viaggio nell’inconscio, che non si accorse della curva a sinistra. E, non accorgendosene, non la fece nemmeno.

Forse fu una coincidenza, oppure più probabilmente il destino. Il fato, per chi ci crede, o il caso, per chi non lo fa.

Fatto sta che nei corridoi non si corre, ma questa regola universalmente e storicamente nota puntualmente aveva la sua stupenda e turbolenta eccezione.

Eccezione che si schiantò contro di lui a testa bassa, gettandolo a terra con forza e facendogli compagnia con una caduta altrettanto rumorosa (e dolorosa, supponeva).

Joshua trattenne le imprecazioni per un suo profondo e radicato senso etico dell’educazione. O semplicemente perché non voleva sembrare troppo ciò che era: un contadinotto cresciuto nelle campagne dell’Illinois.

Ma la rabbia, oh... quella non gliela toglieva nessuno. Soprattutto con le premesse da cui partiva.

« Tua madre non te l’ha insegnato che nei corridoi non si corre?! » esclamò irritato – a dire il vero molto vicino ad una crisi di nervi.

Alzò lo sguardo e, nel farlo, sembrò che il mondo avesse improvvisamente smesso di girare.

Quelli che lo stavano guardando con sorpresa, erano un paio d’occhi dal caldo colore castano. Ciuffi di capelli dello stesso tono sfioravano appena le gote arrossate dalla corsa e il suo sguardo – gli occhi sgranati e la bocca aperta in respiri pesanti derivati dalla fatica – si poteva dire decisamente attonito.

Come, del resto, doveva esserlo il suo.

« Eric! » sentirono poi chiamare da lontano, lungo il corridoio di sinistra: « tutto ok, ti sei fatto male? » domandò un ragazzo in avvicinamento, a sua volta di corsa.
A sentire il nome, sembrò che una mano gli avesse stretto il cuore. Lo mimò con le labbra, senza un motivo, solo per assaporare la sensazione che dava farlo.

Quasi contemporaneamente, Ethan fu al suo fianco. « Ohi Josh, tutto al suo posto? » domandò, porgendogli la mano per aiutarlo a rialzarsi.

Mano che afferrò più per prontezza di riflessi che per vero volere. Gli occhi erano ancora incatenati in quelli castani dell’altro che, dal canto suo, sembrava non avere intenzione di staccare i propri dai suoi.

Lo vide trattenere il respiro al suono del suo nome, e muovere le labbra come se anche lui, silenziosamente, lo avesse ripetuto.

Solamente quando anche l’amico del castano gli fu al fianco, e lo aiutò a rialzarsi, sembrarono ritrovare entrambi la buona educazione temporaneamente resettata dai rispettivi cervelli.

« Mi dispiace, andavo di fretta... » si scusò quell’Eric, tendendogli la mano: « non ho ancora visto le graduatorie e... comunque sono Eric. Eric Everald » si presentò, cordiale.

Normalmente non avrebbe risposto alla stretta di mano. Non quando l’interlocutore del caso gli veniva addosso con la scusa patetica di andare a vedere una graduatoria che rimaneva sui tabelloni per tutto il pomeriggio.

Già, normalmente. Ma qualcosa dentro di lui gli diceva che quell’incontro, quel momento, era tutt’altro che normale.

Alla scetticità di Ethan al suo fianco che si esprimeva in una smorfia preoccupata – la faceva ogni volta che si aspettava da lui un’uscita sgarbata e anti-sociale – lui rispose ricambiando il gesto.

E dal momento che le loro mani si incontrarono, qualcosa cambiò.

No, anzi...

« Joshua Archer » rispose brevemente, prolungando la stretta di mano più del necessario.

Cosa che fece anche Eric, d’altronde.

« Senti... » cominciò poi Eric, aggrottando appena le sopracciglia nell’osservarlo bene: « ti sembrerà strano ma... noi per caso... »

« Ci siamo già visti da qualche parte? » concluse però Joshua, anticipandolo sulla domanda che probabilmente anche il castano voleva fare.

Aveva come un senso di deja-vu che gli scorreva irrequieto sotto la pelle.

La mano che stringeva nella sua, in quel saluto convenzionale durato più del dovuto, era calda e... familiare.

Troppo familiare.

« Non... lo so » balbettò Eric, stranito.

Uno schiarirsi di voci portò le loro mani a separarsi, richiamati all’ordine che le convenzioni sociali volevano per gli sconosciuti incontrati per la prima volta. Sempre secondo la stessa logica, si presentarono anche gli altri due, prima fra loro poi con lui ed Eric.

Ma sempre, per tutto il tempo... anche quando il castano e l’amico si congedarono – il primo più dubbiosamente, più controvoglia – la sensazione che ci fosse qualcosa di diverso non lo abbandonava.

Accorgersi che lo aveva seguito sempre con lo sguardo, poi, fu decisamente insolito.

Si girò, ma non appena stava per riprendere la camminata si sentì richiamare.

« Archer! » esclamò Eric a qualche metro di distanza: « sei occupato per pranzo? » domandò.

Gli sfuggì un sorriso. « No! » rispose, soddisfatto per cosa non sapeva.

« Allora sei prenotato! » ribatté il castano, sorridendo a sua volta.

Da qualche parte, qualcosa era cambiato.

No, anzi...

Da qualche parte, qualcosa... era ritornata al suo posto.

 

 

 

~ Owari.

 

 

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* Con “Vecchio” Enma si riferisce a Dio.

* “AI” sta per Artificial Intelligence, ovvero Intelligenza Artificiale.

* Remiel: nel libro di Enoch è il sesto arcangelo, responsabile della speranza nel mondo. Uno dei suoi campiti è trasportare le anime dei fedeli in paradiso.

* Moloch: sono diverse le interpretazioni di questo personaggio, e cambiano a seconda della cultura e del popolo considerato, partendo dai Fenici. La maggior parte delle interpretazioni, tuttavia, lo vede come un demone che si fa sacrificare bambini (spesso primogeniti) tramite il fuoco. Mi collego a questa versione e, cambiandola un pelo con un poco di libertà artistica, in questa fanfic viene trasformato in uno shinigami addetto alle anime dei bambini.

 

 

E’ finita.

Mi sembra impossibile poterlo dire, ma è finita. Io che ho la fobia degli ultimi capitoli, lo ammetto, sono quasi orgogliosa di me stessa...

...anche se è venuto tutto l’opposto di quello che doveva venire. Pazienza, è finita, e questo è l’importante.

 

Siccome è l’ultimo capitolo, non mi dilungherò molto sulle risposte ad personam. Risponderò in separata sede a coloro che hanno commentato e che, se ne hanno voglia, commenteranno anche l’epilogo.

Qui, invece, ringrazio chi ha recensito il capitolo precedente: angel15, dea73, Gioielle, Angel09 e CloudRibbon. Le vostre recensioni mi hanno aiutata molto a superare le crisi del “finale-che-non-deve-venire-banale-ma-che-sarà-così” XD

Ringrazio inoltre, e rinnovo la dedica a, Shichan per le varie consulenze, i betaggi, la sopportazione e tutto quel resto che ad elencarlo non finirei più. O peggio, cadrei sul melenso, e allora sì che Enma avrebbe bisogno di uno psichiatra (XP).

Infine, ringrazio tutti coloro che hanno recensito la fanfic nei capitoli precedenti, che l’hanno letta anche solo senza farlo e che l’hanno inserita nei loro preferiti.

 

Con la speranza di non avervi deluso con questo finale, (se vorrete) alla prossima.

Ja ne! <3

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