La fine e l'inizio

di Dark Magician
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I ***
Capitolo 2: *** Parte II ***
Capitolo 3: *** Parte III ***



Capitolo 1
*** Parte I ***


Salve a tutti xD no, non sono morta, non ancora… so che è tantissimo che non pubblico un nuovo capitolo di TEWoM, per questo ora vi allieterò con altro xD

Salve a tutti xD no, non sono morta, non ancora… so che è tantissimo che non pubblico un nuovo capitolo di TEWoM, per questo ora vi allieterò con altro xD

Ho scritto queste trenta pagine di fic per un concorso (e sono arrivata seconda pari merito, uhuh ^w^) in un impeto di masochismo. È divisa in tre parti, ne posterò una a settimana.

Per chi stesse leggendo TEWoM… è spoiler. Molto. Troppo. Pur essendo ambientata in un altro mondo xD

Ma dato che TEWoM di ‘sto passo non la finirò mai e questa storiella è caruccia… ecco a voi.

E speriamo che il Caos non me ne voglia xD

 

~PARTE I~

 

«Batuffolo sta male».

Il bambino allungò le dita paffute fra le sbarre delle gabbietta, sfiorando il pelo bianco e morbido del coniglio.

Il corpicino rotondo scosso da spasmi, Batuffolo non diede segno d’aver percepito il contatto.

«Batuffolo sta male», ripeté il bambino «Mamma, perché fa così?».

«Dopo lo portiamo dal dottore, Till», lo rassicurò la donna, passandogli una mano fra i capelli scuri «Vieni, siamo in ritardo».

Till girò attorno al tavolino su cui stava la gabbietta, in modo da poter fissare gli occhi rossi di Batuffolo. Erano chiusi.

«Non avere paura», rassicurò il coniglio «Torno fra poco».

Batuffolo continuò a tremare.

 

Batuffolo tremò tutto il giorno successivo, e tremava ancora quando il veterinario lo esaminò.

Tremava fra le braccia di Till, la sera dopo la visita, e il bambino lo confortava con carezze impacciate.

Sua madre lo raggiunse e gli si sedette accanto, sul divano.

«Mamma» la voce di Till tremò «Perché Batuffolo non guarisce?».

«Tesoro mio…».

La donna lo abbracciò con delicatezza, e con l’altra mano carezzò il coniglio.

«Batuffolo sta male, tanto male».

«Ma ci sono le medicine».

«Sta troppo male per guarire, tesoro mio. E soffre molto».

Till sollevò di scatto la testa, puntando le iridi color pece in quelle scure della madre.

«No!», esclamò «Le medicine funzionano sempre!».

«In questo caso no, piccolo mio. L’unica cosa-».

«E se prego la Trinità di guarire Batuffolo?», la interruppe, tornando a fissare il coniglio.

«La Trinità è troppo impegnata a proteggerci tutti. Non ha tempo per curare gli animali».

La donna baciò la fronte del bambino e gli alzò delicatamente il capo, in modo da vederlo in viso.

«L’unica cosa che possiamo fare per Batuffolo… è far sì che non soffra più così tanto».

«E come?».

«Il dottore gli farà una piccola puntura e Batuffolo si… addormenterà per sempre. Vedrai come sarà felice nello Heva dei conigli!».

«Ma io non voglio!», strillò Till, gli occhi pieni di lacrime «Io gli voglio bene! Non voglio che muoia!».

«Till, tesoro mio…» la donna sorrise e gli carezzò i capelli «È appunto perché lo ami che devi farlo. Non vuoi che stia male, no?».

«No che non voglio! Però…».

Till tirò su col naso ed osservò il coniglio.

«È il regalo migliore che puoi fargli. Davvero».

«Devo ucciderlo perché lo amo», borbottò Till, confuso «Mi sembra così strano, mamma».

La donna non rispose. Si limitò a baciargli una guancia.

 

Aaron odiava la linea autobus 6b. Oltre a lasciarlo a più di mezzo chilometro da scuola – mezzo chilometro terribile per il suo ginocchio destro – lo costringeva ad un percorso obbligato.

Doveva passare davanti all’Achre, e lui odiava l’Achre.

Al di là dell’alto muro di cinta, l’imponente edificio cubico svettava contro il cielo grigio, silenzioso.

Aaron alzò lo sguardo verso le piccole finestre del lato posteriore, cercando di scorgere un qualche movimento, ma non vide assolutamente niente.

Rabbrividì, e sollevò il colletto della felpa a coprirsi il mento.

Tutta quella immobilità era inquietante. Non si avvertiva nemmeno un uccellino, nonostante l’edifico fosse circondato da un vasto giardino.

«Chissà come sta Zane», borbottò, ed avvertì un brivido freddo percorrergli la colonna vertebrale.

Odiava l’Achre perché bastava la sua vista a riportargli in mente suo fratello, nonostante tutti gli sforzi che faceva per non pensare a lui.

Riprese a camminare a passo spedito, ma non aveva percorso che quattro o cinque metri quando il ginocchio gli cedette.

Cadde sull’asfalto con un gemito, e rimase a terra per un paio di minuti.

«Ginocchio di merda!», sbottò. Ora era costretto ad aspettare che il dolore gli passasse.

Sarebbe arrivato in ritardo, sicuro.

«Schiacci un pisolino?», chiese una voce acuta sopra di lui, e Aaron alzò gli occhi azzurri verso la sommità del muro. Le iridi nere di un ragazzo dai capelli bianchi ricambiarono lo sguardo.

Aaron si sentì immediatamente di malumore.

Capelli bianchi, quindi Sacerdote della Trinità.

L’altro motivo per cui odiava l’Achre era perché odiava i Sacerdoti e loro vivevano lì.

«Il gatto ti ha mangiato la lingua?», chiese ancora il ragazzo, dopo qualche secondo di silenzio.

Aaron lo fulminò con lo sguardo. Il ginocchio gli doleva ancora, ma piuttosto che stare in presenza di un Sacerdote si sforzò di rimettersi in piedi. Provò allora un passo, ma il dolore che avvertì poggiando il piede fu tanto intenso da mozzargli il respiro e costringerlo a sostenersi al muro.

Il muro. Doveva essere alto tre, forse quattro metri.

Alzò lo sguardo di scatto, verso il ragazzo che lo fissava incuriosito.

«Sei su una scala?», gli chiese, e questi rise e scosse la testa.

«Magiiia», aggiunse, e gli rivolse un sorriso enigmatico «Come ti chiami?».

«Non si dà confidenza agli estranei».

«Carino. E il cognome?».

«Ma che spiritoso…», sbuffò Aaron. Si lasciò scivolare a terra e massaggiò il ginocchio dolorante.

«Aaron Reid», gli rispose «Tu, invece?».

«Non si dà confidenza agli estranei!», ribatté il ragazzo, e rise di nuovo «Scherzo. Mi chiamo Till».

«Dimmi una cosa, Till. Conosci un ragazzo di nome Zane Reid? Dovrebbe avere… diciannove anni, ora».

«È un tuo parente?».

«Mio fratello».

Till ci pensò su qualche istante.

«No, mai sentito».

 

«Ciao».

Till volse lo sguardo verso il bambino che sedeva accanto a lui, nella piccola stanza azzurrina.

«Parli con me?», gli chiese, e lui annuì.

Aveva folti capelli castani appena mossi e occhi color del mare, e Till decise che quel bambino gli piaceva.

Gli altri bambini presenti – almeno una trentina – facevano un gran chiasso, e dovette alzare la voce per farsi sentire.

«Ciao! Tu chi sei?».

«Mi chiamo Zane. Tu?».

«Till», rispose, ed allungò una manina. Zane gliela strinse e gli sorrise.

 

«Peccato», borbottò Aaron. Si passò una mano fra i capelli color pece e chiuse gli occhi, tentando di rilassarsi.

Erano anni che non sentiva Zane. Continuava a sperare che fosse vivo e in salute, ma non ne avrebbe mai avuta la certezza.

I Sacerdoti non lasciavano trapelare informazioni, mai. Nemmeno ai familiari.

«Posso provare a chiedere in giro, se ti va», disse Till «Anche se sono solo un novizio, non mi dicono mai molto».

Aaron lo ringraziò con un gesto del capo, e rimasero entrambi in silenzio per diversi minuti.

«Dove vai di bello?», gli chiese infine Till, issandosi sul muretto e sedendovisi sopra «Scuola?».

«In teoria. Stupido ginocchio».

«Hai già fatto colazione?».

Aaron alzò lo sguardo, perplesso «Non ancora. Perché?».

«C’è una caffetteria carina, dietro l’angolo. Ti va di farmi compagnia? Offro io».

Prima che gli giungesse una risposta, Till batté una mano sul lato esterno del muro. Al suo tocco comparvero delle sporgenze, come degli scalini, e le sfruttò per scendere.

«Credevo che voi Sacerdoti poteste abbandonare l’Achre solo per le funzioni religiose e le emergenze», osservò Aaron, e Till gli sorrise candidamente.

«La mensa dei novizi fa schifo. Questa è un’emergenza», gli rispose, coprendosi i capelli col cappuccio della felpa grigia che indossava.

Ora che lo vedeva da vicino, Aaron poté constatare che Till aveva tratti insoliti. Insolitamente androgini, come un po’ tutti i Sacerdoti. Sua sorella l’avrebbe trovato bello, forse.

«Allora? Vieni con me o giochi al barbone ancora un po’?».

«Perché no?», sorrise Aaron, e si alzò in piedi.

Il ginocchio gli faceva ora un po’ meno male.

 

«Che hai fatto alla gamba?», gli chiese Till non appena si furono seduti ad un tavolino in un angolo ed ebbero ordinato.

L’interno della caffetteria era deliziosamente caldo ed accogliente; Aaron si sentì confortato.

«Mi sono rotto il ginocchio», gli rispose, scrollando le spalle «Due anni fa. Un incidente. Quando il tempo è brutto mi fa male».

«Capisco», annuì Till. Incrociò le dita sotto al mento e gli sorrise.

Aaron distolse lo sguardo, imbarazzato.

«Ma dimmi qualcosa su di te», disse, cercando di sciogliere la tensione che avvertiva «Da quant’è che vivi nell’Achre? Quanto ti manca per diventare Sacerdote?».

«Faccio i vent’anni fra qualche mese», rispose Till, alzando gli occhi a fissare il soffitto, e Aaron pensò che vent’anni non li dimostrava.

E che anche Zane avrebbe compiuto vent’anni nel giro di un paio di mesi.

«E sono entrato nei novizi aaa… sette anni, mi pare».

«Anche Zane», borbottò Aaron perplesso «Sei sicuro di non conoscerlo?».

Till annuì «Sono l’unico della mia età. Magari l’hanno trasferito in un’altra città».

 

«Ti manca la tua famiglia?», gli chiese Zane, rivolgendogli un sorriso dolce.

«Mamma non era tanto triste», rispose Till, e lanciò uno sguardo cupido al peluche a forma di gatto che l’altro bambino stringeva tra le braccia «Quando papà è andato via è diventata strana. Mi manca la mamma di prima».

«Oh», borbottò Zane. Come sentendosi in colpa, si grattò la testa e gli porse l’animale di pezza «Tieni. Tanto io sono grande per questi».

Till lo ringraziò con un sorriso luminoso «Quanti anni hai?».

«Sette».

«Anch’io».

Si voltarono entrambi ad osservare gli altri bambini, intenti a rincorrersi o a chiacchierare.

 

«Mi spiace», disse Till, e rivolse ad Aaron un sorriso gentile.

 

«E a te manca la tua famiglia?».

«Mamma e papà sì. Mio fratello e mia sorella per niente, piangevano tutto il tempo! Mio fratello, in particolare, che scatole mi faceva sempre! Voleva giocare con me ma ogni volta si faceva male!».

«Dev’essere bello avere dei fratelli», commentò Till, ma Zane dissentì scuotendo la testa.

«Non quanto credi».

 

Aaron scrollò le spalle «Non importa».

In quel momento arrivò la cameriera, che posò sul tavolo due tazze di the ed una brioche. Till afferrò la pasta e cominciò a mangiarla a piccoli morsi.

«Come mai mi hai offerto la colazione?», chiese Aaron, soffiando sul the per raffreddarlo.

Till si leccò le dita sporche di marmellata e gli sorrise.

«Così», disse, facendo spallucce «Mi piace parlare con qualcuno della mia età, di tanto in tanto. Il più vecchio fra i novizi ha undici anni, e i Sacerdoti vivono in un’altra ala» scosse la testa «È una noia».

Bevvero poi le loro bevande, in silenzio.

Aaron finse di concentrarsi sul the, ma in realtà di tanto in tanto lanciava qualche occhiata all’altro ragazzo.

Poter parlare con un Sacerdote – o, per lo meno, con qualcuno destinato a diventarlo a breve – era un’occasione unica, visto che i loro rapporti col mondo esterno erano ridotti al minimo.

Sarebbe stato un peccato sprecarla, chissà quando gli sarebbe ricapita–

«Facciamo così», disse improvvisamente Till, interrompendo i suoi pensieri «Se il ginocchio non ti fa male, fai questa strada anche domani. E il giorno dopo, se non mi vedi, c’è il caso che mi mettano in punizione. Io mi informerò su tuo fratello, va bene?».

Il viso di Aaron si illuminò «Sarebbe… perfetto».

«Così possiamo chiacchierare ancora».

Till gli sorrise dolcemente, e si cacciò in bocca lo spicchio di limone che giaceva sul fondo della tazza. Posò poi i soldi sul tavolo e si alzò in piedi.

«È stato un piacere conoscerti, Aaron Reid», lo salutò, e si avviò fuori dal locale.

Aaron rimase seduto ancora qualche istante, a riflettere.

Che botta di culo stratosferica, pensò, ma gli sovvenne poi che un colpo di fortuna ogni tanto lo si poteva anche avere.

 

«Cosa leggi?».

Zane alzò lo sguardo dal libro che teneva poggiato sulle ginocchia «Un mito. Vuoi leggere anche tu?».

Till lo raggiunse e gli si sedette accanto, sul tappeto al centro della camera di Zane.

Osservò le pagine per qualche secondo, poi scosse la testa. Non c’erano libri per bimbi, all’interno dell’Achre, e tutte quelle parole gli sembravano molto complicate.

«Faccio fatica», pigolò, ma Zane, invece di deriderlo come si aspettava, gli sorrise e mise il libro in mezzo.

«Allora segui il mio dito, leggo anche per te».

Si schiarì la voce con un colpetto di tosse, poi indicò con l’indice un punto in mezzo alla pagina e cominciò: «“Per tre giorni e tre notti, senza concedersi riposo, Mahadev, la Vista, girò il mondo alla ricerca del Caos. I suoi occhi erano migliori di quelli del più acuto dei falchi, eppure Esso continuava a sfuggirgli. E Mahadev, la Vista, si sentiva sempre più stanco, e sempre più stanco avanzava per il mondo. Finché, all’alba del quarto giorno, sua sorella Izdihaar, la Mente, ebbe compassione di lui e lo soccorse. Ripresero il cammino uniti, e passarono altre tre notti ed altri tre giorni”».

«Aspetta!», lo interruppe Till, illuminandosi «Ho capito! È quello di cui ha parlato il maestro di dottrina l’altro giorno, vero? Quello in cui il Caos uccide tutti gli Dei ma poi la Trinità lo ferma e lo caccia dal mondo?».

Zane annuì «Era una delle storie preferite da mio fratello. Ormai la so a memoria. Vuoi sentire la parte che mi piace di più?».

«Qual è?».

Zane scorse velocemente le pagine, finché non trovò quella che cercava «Eccola! È quando il Caos si mostra alla Trinità. In genere a questo punto mio fratello si metteva a piangere».

«“Quando ritrasse la spada, Chlomo, lo Spirito, nonostante il coraggio fosse il suo miglior pregio, non poté che tremare come una foglia scossa dal vento. L’armatura di tenebra del Caos si crepò, frantumò ed infine dissolse, cadendo al suolo come sabbia scura. E finalmente il Caos si rivelò nel suo essere, e gli occhi di Mahadev, la Vista, rimasero abbagliati, e la ragione di Izdihaar, la Mente, si oscurò, e la forza di Chlomo, lo Spirito, si affievolì.

Il Caos sorrise, e i suoi denti aguzzi come lame scintillarono sotto il sole. La sua carnagione era chiara, come se mai avesse visto la luce, simile quasi a quella dei morti, e i suoi occhi due orbite vuote, dentro cui potevano scorgersi i segreti del Tutto.

Ma i suoi capelli, i suoi capelli! Fili di seta del colore del cielo”».

«Del colore del cielo…», ripeté Till, assaporando lentamente le parole «Ma del cielo con il bel tempo o con le nuvole?».

Zane scoppiò a ridere.

«Bel tempo, credo».

«Non capisco perché fa un giro di parole così per dire solo che ha i capelli azzurri», osservò Till crucciato, e Zane rise di nuovo.

Capelli azzurri… certo che dovevano essere belli.

Osservò i capelli di Zane. All’inizio credevano entrambi che le esposizioni al Potere della Trinità non avessero effetto, ma dopo un anno potevano scorgere i primi cambiamenti fisici.

I loro capelli stavano lentamente diventando bianchi, come il pelo di Batuffolo.

 

«Lo sai che il Caos ha i capelli azzurri?».

Aaron alzò lo sguardo verso Till, disteso sul muro dell’Achre con un braccio a penzoloni.

«Cosa c’entra?».

Till si strinse nelle spalle «Niente, era per fare conversazione».

Si issò a sedere e si voltò verso l’altro, che lo osservava perplesso.

«Com’è andata la scuola, ieri?».

«Benissimo. Tu ti sei fatto beccare?».

«Può darsi, ma me le fanno sempre passare», rispose Till con sufficienza. Si guardò poi attorno e qualcosa parve disturbarlo, perché sul suo volto comparve un’espressione crucciata.

«Dato che potrebbe vederci qualcuno, facciamo così. A che ora esci da scuola?».

«Alle due».

«Benissimo. Torna qui, così ti faccio entrare e chiacchieriamo con tutta calma, ok?».

«Ma io non voglio entrare nell’Achre!», esclamò Aaron sgranando gli occhi «Questo posto mi fa schifo! E mi fate schifo pure voi Sacerdoti».

«Quanto sei prevenuto», borbottò Till, poi gli sorrise.

Aaron sentì cedere parte delle proprie convinzioni, davanti a quel sorriso. Era tanto ingenuo, dolce, delicato…

A me non piacciono i maschi, osservò mentalmente, e questa constatazione lo riscosse.

«Ho informazioni su Zane», disse Till, e scomparve dietro il muro con uno scatto fulmineo.

Impietrito, Aaron non riuscì neanche ad offenderlo.

 

Till aprì la porta della propria stanza lentamente e mise fuori la testa, circospetto.

Il lungo corridoio era vuoto e silenzioso, illuminato solo dalla debole luce della luna che entrava dalla finestrella in fondo. Insomma, non vedeva niente.

Si lanciò qualche altra occhiata attorno, poi uscì e richiuse attentamente la porta. Camminando rasente il muro, lasciò scivolare la mano all’altezza delle maniglie e alla quarta si fermò.

Aprì allora la porta con delicatezza e si intrufolò nella stanza.

«Zane?», squittì, stringendo le braccine al petto.

Avrebbe voluto un peluche, da abbracciare, ma non era loro permesso avere giocattoli.

Raggiunse velocemente il letto di Zane e vi si affiancò, mentre lui si tirava su a sedere e si stropicciava gli occhi.

«Ho paura», disse Till, gli occhi pieni di lacrime. Zane gli sorrise e gli fece posto, invitandolo sotto le coperte.

«Come fai ad essere così rilassato, tu?».

Zane tirò su il piumone in modo da coprirli entrambi.

«Non lo sono», gli rispose, lasciando scappare una risatina nervosa «È che cerco di non pensarci».

«Io non voglio fare l’operazione!», piagnucolò Till. Si strofinò un braccio sugli occhi bagnati ed aggiunse: «Non voglio, è una brutta cosa!».

«Non preoccuparti troppo», tentò di rassicurarlo Zane «Tocca a tutti. Non sentirai niente».

Gli passò un braccio attorno alla vita e lo trasse a sé.

«Io non smetterò certo di volerti bene».

«Nemmeno io!», si affrettò a precisare Till. Si accoccolò poi contro di lui e lo abbracciò, ed immediatamente si sentì confortato.

Non c’era nulla che doveva spaventarlo. Zane ci sarebbe stato sempre.

«Non lasciarmi mai», lo implorò, sollevando il capo per fissarlo negli occhi.

Zane gli sorrise.

«Non lo farò finché non sarai tu a lasciarmi».

 

La matita scivolò di mano ad Aaron, rotolando sotto la sedia della sua compagna di banco.

Quando suo fratello era stato scelto per diventare Sacerdote lui aveva solo cinque anni, quindi non lo ricordava molto bene, ma c’erano tre cose di Zane che non aveva dimenticato: che amava il personaggio del Caos, nei miti della Trinità, che adorava un po’ troppo i peluche e che aveva un modo tutto suo di sorridere – e sorrideva pure un sacco.

Ecco, all’improvviso gli era venuto spontaneo sovrapporre i sorrisi di suo fratello a quelli di Till.

Si chinò a raccogliere la matita e si premurò pure di lanciare una lunga occhiata al sedere della compagna di banco, lasciato semiscoperto dai jeans a vita bassa.

No, decisamente i maschi non mi piacciono.

I sorrisi di Till gli ricordavano quelli di Zane, ecco perché lo scioglievano.

Sospirò sollevato.

Ora aveva tutto un senso!

 

«Till?».

«Dimmi».

«Hai visto che qui non c’è neanche una bambina?».

Till aprì gli occhi, e si ritrovò a fissare quelli azzurri di Zane. La luce era sì poca, ma bastava per illuminarli.

«Credi sia per via dell’operazione?».

Zane si strinse nelle spalle «Forse. Non ti rattrista pensare che non avrai mai una fidanzatina?».

«E che me ne faccio?», sbottò Till serio «Le donne fanno solo guai. Finché siamo solo io e te è meglio. E poi…».

Fece una breve pausa, tornando a chiudere gli occhi.

«Io voglio stare con te. Ti ho mai detto che avevo un coniglio che si chiamava Batuffolo?».

«Sì», rispose Zane, con un tono di voce insolitamente basso «Ma raccontamelo di nuovo, mi piace la storia del tuo coniglio».

E gli posò un lieve bacio sulla fronte.

 

«Io non voglio entrare», si oppose debolmente Aaron.

Till aveva già fatto apparire gli scalini e lo fissava con aria ingenua, dall’alto del muro.

«Non voglio».

«Quanti anni hai, cinque?», borbottò il novizio «Fa come ti pare. O entri o non ti dico niente», e scomparve dal campo visivo di Aaron.

Il ragazzo sospirò.

«Che palle, non vale», sbottò, e s’arrampicò. Dall’altra parte del muro trovò una scala a pioli.

«Ma allora ce l’avevi sul serio la scala!».

Till, seduto a terra con la schiena contro i mattoni, gli rivolse un sorriso divertito.

 

«Cosa stai scrivendo?», chiese Till, sbirciando da sopra la spalla di Zane. Tentò per qualche secondo di decifrare l’orribile grafia dell’amico, ma non riuscì a cogliere che qualche parola qua e là «Certo che scrivi proprio da schifo, eh».

Zane gli fece una linguaccia. Si guardò poi attorno, scrutando il resto della biblioteca, e Till lo imitò.

«Non c’è nessuno», lo rassicurò «Cosa scrivi?».

«Una lettera».

Till inarcò un sopracciglio, perplesso «Ma non ce le fanno spedire».

«Troverò un modo per farla uscire da qui», replicò Zane, e si strinse nelle spalle.

 

Aaron scese velocemente i pioli, lanciandosi attorno qualche occhiata furtiva.

Il giardino che circondava l’Achre non era poi così grande come sembrava da fuori.

«Cazzo, se mi beccano qua dentro mi arrestano!», sbottò, ma Till gli fece segno di sedersi accanto a lui.

«Non esce mai nessuno, non preoccuparti. E poi, al massimo...».

Gli rivolse un sorriso fra il malizioso e il divertito, ma Aaron lo trovò agghiacciante.

Ci sta provando. Ci sta provando veramente.

«Non mi piacciono i maschi», si sentì in dovere di puntualizzare, e Till rise.

«Perché ridi?».

«Perché il problema non sussiste».

Sollevato, Aaron si diede mentalmente dello stupido. Non doveva esagerare, se Till non aveva mai a che fare con suoi coetanei era logico che si comportasse in maniera strana.

Era logico, sì.

Logicissimo.

«Bene, ora dimmi ciò che hai scoperto che me ne vado», disse, dopo essersi auto-convinto che era tutto normale e razionale «Questo posto mi fa venire la pelle d’oca».

E pure tu, aggiunse mentalmente, ma preferì tacere.

Till raccolse le ginocchia al petto e tacque qualche istante, prima di parlare.

«Ho sbirciato negli archivi», disse, fissando l’erba che cominciava a rinverdire «Ho trovato qualche traccia di un certo Zane, ma ignoro se si tratti di tuo fratello o meno. E comunque... tutte le notizie si interrompono all’incirca sette anni fa».

«Sette anni fa? Significa che è-».

«Morto?», lo precedette Till «Non ne ho idea. È possibile che lo abbiano trasferito. Qui nell’Achre di Meena c’è un tale via vai di persone...! Magari si trova in una delle province qui accanto».

Aaron scosse la testa. Non sapeva che fare, se sperare che il fratello fosse vivo o accettare che probabilmente era morto.

Quel che era certo era che non l’avrebbe più rivisto.

«Ma com’è possibile che tu non l’abbia mai conosciuto? Ne sei sicuro?».

Till si strinse nelle spalle «Magari l’ho dimenticato».

 

Zane aprì con le forbici la copertina di tessuto ruvido del libro su uno dei bordi, vi infilò dentro la lettera e poi richiuse il taglio con la colla.

Till osservò attentamente l’operazione seduto sul letto dell’amico, sul viso un misto fra eccitazione e scetticismo.

«Non funzionerà», gli disse, scuotendo la testa.

«Io dico di sì», replicò Zane. Attese qualche istante e rimise al libro la sovraccoperta «Ecco! Ti sfido a notare la differenza!».

«E ora? Come la farai avere alla tua famiglia?».

«Ci penserò. Intanto sono sicuro che anche se ci faranno il lavaggio del cervello non dimenticheremo niente».

Till sospirò «Di certo l’operazione non rischiamo di dimenticarla».

Zane poggiò il libro sulla scrivania e raggiunse l’amico sul letto, sedendoglisi accanto.

«Mancano venti mesi alla Prima Cerimonia», disse con un tono di voce più basso del solito. Till ormai aveva imparato ad interpretarlo, significava che Zane era vicino al pianto.

«Sono tanti».

Zane sorrise e gli accarezzò i capelli «Passeranno anche troppo in fretta. E se poi...».

Lasciò cadere la frase, e Till non volle concludere il discorso. Era meglio così, non pensarci.

«Till?».

«Mh?».

Si fissarono qualche istante negli occhi, finché Zane non distolse lo sguardo e saltò giù dal letto.

«Non importa. Accompagnami in biblioteca».

 

«C’è altro?», chiese Aaron, impaziente di andarsene da lì «Rischio di perdere l’autobus».

«No», sospirò Till. Sembrava quasi dispiaciuto.

«Bene, allora vado. Mi fai riapparire i gradini?».

Till batté una mano sul muretto, e Aaron risalì la scala a pioli. Giunto in cima rimase fermo qualche secondo, saggiando le condizioni del ginocchio. Se gli avesse ceduto mentre scendeva per quegli strani gradini…

Mentre rifletteva, un gatto dal pelo bianchissimo gli si avvicinò e lo salutò con un miagolio.

«Ciao, micio», disse Aaron, e rispose al saluto del felino con una grattatina sulla testa. Si voltò poi verso Till, ed aggiunse: «Senti, grazie per quel poco che hai scoperto. Non è tanto, maa… meglio di niente».

«Figurati».

Aaron fece al gatto un’altra carezza, poi scese. Appena i suoi piedi ebbero toccato terra, notò che Till era tornato sul muretto.

Per guardarlo?

Perché mi guarda?

«Allora, ehm… ciao».

Mosse un passo, ma la voce chiara di Till lo richiamò.

«Aaron?».

Il ragazzo si voltò «Sì?».

«Perché non passi di qui anche nei prossimi giorni? Potremmo… fare due chiacchiere».

Aaron rimase in silenzio, non riuscendo a capire se Till ci stesse provando sul serio o si sentisse soltanto molto solo.

Lo scrutò per qualche secondo e decise che sì, doveva essere la seconda. E doveva smettere di farsi trip mentali inutili.

Till non ci stava provando. No.

«Fra quanti mesi diventerai sacerdote?», gli chiese, e l’altro alzò cinque dita.

Allora Aaron sorrise e si strinse nelle spalle «Beh, perché no? Ci vediamo, allora. Ciao, micio».

Lo salutò con un gesto della mano e si allontanò.

Che palle, sono troppo buono, pensò mentre voltava l’angolo, Dovrei farmi dare lezioni di stronzaggine da mia sorella.

 

«“Perché non passi nei prossimi giorni”?», ripeté il gatto, emettendo poi un suono simile ad una risata sommessa.

Till si voltò verso l’animale, sgranando gli occhi.

«Till, Till» con eleganza, il felino si leccò placido una zampa e se la passò sul musetto. Aprì poi gli occhietti e fissò le iridi grigie in quelle color pece del ragazzo «Ma che combini?».

Till corrucciò la fronte e distolse lo sguardo, senza rispondere.

 

La porta si aprì senza il minimo rumore, e Till scivolò silenzioso nella stanza.

Seduto alla scrivania, l’ingresso alle spalle, Zane canticchiava fra sé e sé a mezza voce; o ciò su cui stava pastrocchiando – aveva una scatola di pastelli a portata di mano – lo distraeva o Till era diventato più abile nel non farsi sentire, non si accorse della presenza dell’amico finché questi non gli coprì gli occhi con le mani.

«Buh!».

«Till!», esclamò Zane. Si liberò dalla presa e si voltò verso l’altro, avvampando «Che… che ci fai qui?».

«Il maestro di matematica è caduto e si è rotto una gamba, quindi niente ripetizioni oggi. Che fai di bello?».

«Niente!», strillò Zane, e si affrettò ad infilare i fogli in un cassetto «Niente, niente!».

Till lo squadrò, perplesso dalla reazione.

«Stai male? Che disegnavi?», gli chiese, e tentò di aprire il cassetto. Con sua grande sorpresa, Zane glielo impedì.

«Cosa fai?», sbottò Till, infastidito dal gesto «Non devono esserci segreti fra noi, no?».

«Sì, però», tentò di ribattere Zane, ma l’altro lo ignorò.

Tirò allora fuori un pacco di fogli disegnati – o meglio scarabocchiati – e lanciò all’amico un’occhiata interrogativa.

«Cosa non dovevo vedere?», gli chiese «Questo di te e tuo fratello che giocate a palla?».

Ridacchiò e passò a quello dopo.

Rappresentava due bambini dai capelli a chiazze che si tenevano per mano.

«Questi siamo noi, direi», disse divertito lanciando uno sguardo alla capigliatura di Zane, ormai castana a ciocche bianche. Si soffiò via un ciuffo di capelli dagli occhi e passò al disegno successivo.

Zane si coprì gli occhi con una mano.

«Questo…» Till avvertì lo stomaco fargli una capriola ed alzò gli occhi verso l’amico «Siamo sempre io e te?».

Mentre gliela porgeva, non poté che sentirsi disgustato dall’inutilità di quella domanda. Certo che erano loro, con capelli simili.

Tornò a fissare il piccolo Zane del disegno, che dava un bacetto al piccolo Till. Ma non un bacio sulla fronte o sulle guance, come quelli che gli dava la mattina per salutarlo o la sera per augurargli la buonanotte; era un bacio sulle labbra, di quelli che si danno i grandi.

Till rimase in silenzio, la mente che saltava da un pensiero sconnesso all’altro ed una strana sensazione allo stomaco.

Gli sembrava quasi una di quelle storie che leggeva prima di addormentarsi.

Sorrise, ed osservò Zane di sottecchi. Ancora si copriva la faccia, paonazzo.

«Zane», lo chiamò, calibrando attentamente il tono della voce in modo da essere il più neutrale possibile «C’è mica qualcosa che devi dirmi?».

E quando vide che Zane lo fissava, fra le fessure delle dita, distese le labbra in un sorriso fra il dolce ed il malizioso che non credeva avrebbe mai potuto fare.

 

«Mamma» Aaron poggiò i piatti di ceramica sul tavolo ed alzò lo sguardo verso la madre, in piedi ai fornelli «Secondo te Zane come sta?».

Le esili spalle della donna ebbero un fremito.

«Che domande mi fai, tesoro?», borbottò senza voltarsi «Non c’è gioia maggiore che servire la Trinità».

«Ma secondo te è felice?», chiese ancora Aaron.

«Ovviamente».

Perplesso, il ragazzo aggrottò le sopracciglia.

 

«“Il Caos distese le labbra violacee in un sorriso gelido come l’inverno, e mai paragone fu più appropriato, poiché l’intera sua figura richiamava il freddo ed il gelo. E Mahadev, la Vista, stesso avvertì il freddo invadergli l’intero corpo, e le gambe gli impedirono di muoversi”.»

Zane voltò pagina ed osservò per qualche istante l’illustrazione del Caos senza armatura che vi troneggiava al centro.

«Ti prego, continua», lo implorò eccitato Till «Io amo questa scena. Leggi!».

«Allora...», Zane si schiarì la voce con un colpetto di tosse e riprese «“Dalla sua disumana altezza il Caos lo sovrastava, e forse era la visione a paralizzarlo, o forse un qualche misterioso incantesimo del Caos, ma Mahadev, la Vista, non riusciva a sottrarsi al suo fascino velenoso. Disperato come un animale in trappola, Mahadev, la Vista, commise l’errore di alzare i due occhi umani, e quando questi rimasero incatenati alle orbite vuote del Caos fu troppo tardi.

“Tu sei chiamato ‘la Vista’”, lo apostrofò il Caos, e si carezzò i denti con la lingua violacea “Ma se io dovessi privarti degli occhi… saresti costretto a mutare appellativo?”. Mahadev, la Vista, tremò, ma prima che potesse anche solo muovere un passo, più rapido del lampo il Caos gli conficcò gli artigli nelle orbite.”».

«Me-ra-vi-glio-sa», sillabò Till, e rotolando su stesso si girò a fissare il soffitto.

Zane, seduto sul letto accanto a lui, chiuse il libro e gli sorrise «È ora di cena, signorino. Continuiamo dopo».

«Nooo, non mi va di riunirmi agli altri!», si lamentò Till, dirigendo lo sguardo verso Zane «Fanno troppo casino».

«Vuoi morire di fame?», gli chiese ironico l’altro.

«Mh, perché no. Anticipo i tempi».

Zane aggrottò le sopracciglia.

«Non dirlo più», borbottò, chinandosi crucciato su di lui «Non pensarlo neanche».

Till non rispose. Con un sorriso stiracchiato, Zane gli diede un lieve bacio a fior di labbra.

«Alzati, su, andiamo a mangiare».

«Non ho fame. Zane?».

«Mh?».

«Ti amo. Non morire».

Zane gli sorrise dolcemente.

 

«Aaron!», lo salutò Beth, la sua compagna di banco, grande appassionata di vestitini succinti «Oggi sei in anticipo, come mai?».

«Non ho perso l’autobus», rispose lui abbandonandosi sulla propria sedia. Si portò poi una mano al ginocchio e lo massaggiò «Cazzo, che male».

Gli erano bastati i duecento metri a piedi fino alla fermata dell’autobus per farlo zoppicare, con quel diluvio in corso.

Il rombo di un tuono fece tremare i vetri delle finestre, e Beth lanciò un urletto.

Mi spiace per Till, ma non posso proprio fare tutta quella strada tutti i giorni, osservò, fissandosi l’articolazione dolente.

Un poco si sentì in colpa, in fondo Till doveva essere molto solo… ma il ginocchio gli faceva troppo male per pensarci.

«Hai impegni domani sera?», gli chiese Beth, e Aaron scosse la testa «Allora tieniti libero, Michael, Liz e Robert pensavano di andare a…».

Aaron osservò la sua bocca aprirsi e chiudersi, annuendo di tanto in tanto per farle credere di starla seguendo.

Volente o nolente, la mente continuava a tornargli a Till.

 

«Mi sa che oggi… niente», borbottò Till, spiando la strada da dietro al muro «Peccato».

Mosse un po’ le dita per sgranchirle. Ormai teneva il palmo puntato verso l’alto da un’ora e cominciava a dolergli, ma non poteva fare altrimenti o la barriera sarebbe svanita e lui si sarebbe annegato, con tutta quell’acqua.

Non si sarebbe ammalato manco volendo, ma gli scocciava infradiciarsi.

Una bambina di forse sei o sette anni, vestita con uno sgargiante grembiulino rosa, percorse l’intera strada di corsa, saltellando da una pozzanghera all’altra con i suoi stivali di gomma gialli.

Till la osservò perplesso. Non passava mai molta gente per quella strada, e una bimba così piccola tutta sola…

La bambina alzò lo sguardo verso di lui e lo salutò agitando l’ombrellino rosa, e Till avvertì la barriera dissolversi senza che lui l’avesse voluto.

«Mi tieni sotto controllo?!», esclamò, issandosi sul muro mentre la pioggia lo investiva. Una mano gli scivolò e quasi cadde dall’altra parte.

La bambina batté i grandi occhi scuri e lo fissò perplessa.

«Parli con me, signore?», chiese, indicandosi con l’indice paffuto.

«Oh» Till inarcò le sopracciglia, confuso «Scusa, forse mi sono-», ma non poté finire la frase, perché la bimba lo interruppe con una risata.

«Non ho resistito. Peccato, mi sono giocato la copertura. Giocato, giocata… perché la vostra lingua del cazzo non ha il neutro?».

Till sospirò e rivolse nuovamente il palmo verso l’alto, a formare una seconda barriera.

«Che ci fai qui?», chiese alla bambina. Lei distese le labbra in un sorrisetto furbo e si carezzò i denti con la lingua.

«L’amichetto oggi non è venuto?».

«No».

«Oh, gliel’hai detto?».

Lo sguardo rivolto allo strato di nubi scure, Till scosse la testa e sospirò ancora.

«Ma perché non glielo racconti? È divertente quella parte».

«Non meriti nemmeno una riposta», sbottò il ragazzo, e la sua aria infastidita parve divertire la piccola.

«Certo che hai avuto un bel culo ad incontrare proprio il fratellino di Zane».

«Sei una bambina, potresti moderare il linguaggio? Mi urti».

«Non cambiare discorso», lo riproverò lei agitando l’indice «Dicevo… hai avuto proprio culo. Il caso è simpatico. C’è un dio del caso? O era fra quelli crepati?».

«Smettila di prendermi in giro», sibilò Till, e tornò nel giardino dell’Achre.

Ci fu qualche attimo di silenzio, poi la voce acuta della bambina superò lo scrosciare della pioggia.

«Fossi in te ne approfitterei per assaggiare i piaceri della carne, Till caro! Ma magari prima drogalo, così non rischi che ti respinga perché gli fai schifo. O perché è etero. No, è etero sicuramente, ho visto come ti guarda. Ma non è che tu abbia poi tutte queste possibilità di scelta, eh?».

Till non rispose, e si diresse verso l’Achre senza voltarsi indietro.

 

Till si destò di scatto e si rizzò a sedere, la fronte madida di sudore.

Accanto a lui Zane dormiva tranquillo, dandogli la schiena, e il bambino rimase ad osservarlo per qualche secondo.

Voleva svegliarlo. Disperatamente.

«Zane», pigolò con voce tremante «Dormi?».

In risposta gli giunse solo un mugolio assonnato. Avrebbe potuto insistere, ma davvero se la sentiva di svegliarlo?

L’indomani sarebbe stato un giorno pesante.

“Pesante”...

«Zane!», ripeté alzando la voce. Lanciò poi un’occhiata all’orologio digitale appeso al muro, proprio sopra l’ingresso: segnava le tre.

Avevano meno di sette ore di vita, ancora.

«Zane!», lo chiamò per la terza volta, e scoppiò in singhiozzi.

«Mmh… Till…», mugolò l’altro, la voce impastata dal sonno. Si stropicciò gli occhi e si mise a sedere, accompagnando al gesto un sonoro sbadiglio.

Si voltò poi a fissare il compagno, e il suo viso assunse un’espressione preoccupata «Till, che succede? Hai avuto un incubo?».

Till annuì, asciugando le lacrime con una manica del pigiama «Ho… fatto un sogno stranissimo».

«Raccontamelo», lo incoraggiò Zane con voce dolce. Gli prese una mano e gli baciò le dita, per rassicurarlo «Che succedeva?».

«C’era... il mio coniglio. Cioè, non era proprio lui, ma per me era Batuffolo».

Zane gli sorrise «Era un po’ che non lo nominavi. E poi?».

«Era dentro la gabbietta, con gli occhi chiusi. Non respirava, però quando ho aperto la porticina è saltato fuori».

Tacque qualche istante, cercando di richiamare alla mente le immagini più nitide.

«Allora ho cercato di prenderlo... e lui mi ha guardato e mi ha parlato. Non aveva gli occhi rossi, erano... diversi».

«Cosa ti ha detto?».

Till scosse la testa, e si lasciò ricadere contro Zane «Non me lo ricordo. Zero. Però aveva una voce molto triste».

«Beh, non mi sembra un sogno tanto terribile», commentò Zane baciandogli dolcemente i capelli, ma l’altro sollevò una mano.

«Non è finita qui. C’era una seconda parte, che non mi ricordo tanto bene... ma mi sembra morissimo tutti e due».

«Allora ci hai allungato la vita!», ironizzò Zane «O almeno così si dice».

«Sì, però...», tentò di ribattere Till, ma si interruppe.

Non aveva senso passare le probabili ultime ore di vita angustiandosi.

«Zane... rimaniamo svegli», propose,  ed alzò lo sguardo verso di lui «Facciamo qualcosa».

«Qualcosa... tipo?».

Till si strinse nelle spalle «Boh. Coccole?».

Zane rise e gli prese il viso fra le mani.

«Per me va bene», mormorò, posandogli un lieve bacio sul naso «Domani saremo un po’ stanchi, però».

«Tanto domani moriremo», borbottò Till serio.

«Non dire così, non è vero».

Till aprì la bocca per ribattere, ma Zane non gliene diede il tempo e gliela chiuse con un bacio.

Mentre ricambiava e gli stringeva le braccia attorno alla vita, Till non poté evitare di pensare quanto sarebbe stato bello poter amare Zane come tutte le persone normali.

 

 

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Capitolo 2
*** Parte II ***


~PARTE II~

~PARTE II~

 

«Mmh... ciao. È un po’ che non ci si vede», borbottò Aaron imbarazzato. Mentalmente si rimproverò, perché davvero non aveva alcun motivo per esserlo.

Aveva avuto di meglio da fare e il ginocchio gli faceva male. E non doveva niente a Till, niente.

L’altro lo osservò in silenzio.

«Eh... come va?», chiese Aaron, cercando di instaurare un dialogo. Peggio ancora, ora si sentiva in colpa.

«Sono ventisei giorni che non ti vedo», borbottò Till piatto, ma poi il suo viso inespressivo si sciolse in un sorriso sollevato «Temevo che ti fosse successo qualcosa. Stai bene, meno male».

Aaron avvertì lo stomaco fargli una capriola. Era passato dal sentirsi in colpa al sentirsi una merda.

«Proprio ventisei, eh? Ehm, li hai contati precisamente...».

Till gli rivolse una smorfietta fra il triste ed il dolce che gli rivoltò di nuovo lo stomaco.

«Immagino avrai avuto molto impegni...».

«Mi faceva male il ginocchio!», esclamò Aaron. Una frazione di secondo dopo, dentro di sé inorridì.

Perché cazzo mi sto giustificando?, si chiese infastidito, ma come vide il viso di Till illuminarsi decise che forse poteva fare lo sforzo di rendere contento quel poveretto.

Zane l’avrebbe fatto. Era sempre buono e gentile con tutti.

«Quel ginocchio deve darti proprio tanti problemi», osservò Till, e Aaron annuì.

«E se ti risolvessi il problema... poi riusciresti a venire tutti i giorni?».

Aaron rise «Non prendermi per il culo, dai».

«Non sto scherzando», disse Till serio, e facendo apparire i gradini lo invitò tacitamente ad entrare.

 

Il pavimento di pietra grigia era freddo, freddissimo contro la sua schiena nuda. E Zane non era nel suo campo visivo.

«Oggi è un giorno importante per voi, piccoli miei», disse il Capo Sacerdote con voce allegra «Una dura prova vi attende, ma se avrete fede riuscirete a superarla».

 

«Voi Sacerdoti avete pure poteri curativi?», chiese Aaron scettico, poggiando cautamente i piedi a terra. Il cielo era privo di nubi, era una buona giornata.

«Mh... una specie», borbottò Till «Levati i pantaloni. No, non guardarmi così, non voglio abusare di te».

Aaron lo fissò torvo.

«Non potrei neanche se volessi», ridacchiò Till «Non fare lo sciocco, devo toccarti il ginocchio. Ma se riesci a tirarti su i jeans... o preferisci che prenda le forbici?».

«E se ci vede qualcuno?».

«Non ci vedrà nessuno, fidati».

Rassicurato dall’espressione tranquilla di Till, Aaron fece come gli era stato chiesto. Seduto a terra mentre l’altro gli tastava il ginocchio pensieroso, non poté fare a meno di notare che Till aveva mani caldissime.

«Credo di potercela fare», borbottò Till «Tu bada solo a non interrompermi», e cominciò a mormorare qualcosa in una lingua che l’altro non conosceva.

Peccato non sia una ragazza, si ritrovò a pensare Aaron, e la riflessione lo turbò.

Till era tanto androgino che con una parrucca, un po’ di trucco e una protesi sul davanti sarebbe passato comodamente per una donna. Bella.

Si portò una mano agli occhi e scosse la testa per scacciare il pensiero.

 

«È necessario, piccoli miei, che apriate la vostra mente ed il vostro cuore», continuò il Sacerdote camminando su e giù fra i bambini, distesi a terra in file ordinate.

La Sala delle Celebrazioni dell’Achre era gelida, tanto che Till quasi non si sentiva più le dita.

«Siete le creature che più si avvicinano alla perfezione della Trinità. Spalancate i cancelli della vostra anima e scacciate ogni dubbio ed ogni timore, poiché dubbi e timori portano con sé il Caos».

Till sollevò appena la testa, ma fra tutti quei capelli bianchi riconoscere Zane era impossibile. Un Sacerdote lo avvicinò e gli spinse il capo a terra.

«Sarà doloroso, piccoli miei, non ve lo nascondo. Ma questo dolore è necessario, perché solo tramite la sofferenza potrete compiere la completa purificazione che vi avvicinerà agli Dei. È necessario che piangiate, perché sarà tramite le vostre lacrime che gli Dei potranno misurare la vostra purezza. E quando le vostre lacrime assumeranno il colore del sangue...».

Il Sacerdote fece una pausa, e concluse con enfasi: «Allora, allora sarete degni del potere divino e potrete celebrare ed onorare la Trinità!».

Fra i bambini corse un debole mormorio spaventato.

«È ovvio», continuò il Sacerdote con un tono di voce ora neutro «Che fra voi qualcuno non riuscirà a superare la prova. Quando il potere della Trinità entrerà in voi il vostro corpo umano lo rigetterà, e comincerà la Corruzione. Ma se avrete fede, con le lacrime rosse la Corruzione si fermerà e si ritirerà senza lasciar traccia».

Till si morse un labbro, il cuore che sembrava volergli sfondare il petto.

Gli veniva da piangere.

Avvertì il Sacerdote allontanarsi ed esclamare, poco dopo: «Compagni, possiamo dare inizio al rituale!».

I Sacerdoti iniziarono a cantare un salmo dalla melodia triste, ed il coro di voci che si levò quasi fece piangere Till. Riusciva a cogliere qualche frase della preghiera, qua e là.

“Divina Trinità, penetra nel corpo dei tuoi figli”, “allontana e distruggi il Caos”, “scegli chi ritieni degno”.

Il bambino strinse i denti e riuscì a rivolgere un ultimo pensiero a Zane, prima che un’ondata di energia gli attraversasse il corpo. Inarcò la schiena e sgranò gli occhi.

Faceva male. Tanto, troppo per un bambino di dodici anni.

Boccheggiò, incapace persino di gridare. O forse stava già gridando di dolore, ma non riusciva a distinguere la propria voce dalle altre?

Gli sembrava di andare a fuoco.

Avvertì un dolore atroce al polso destro, che gli ricordò quando, alcuni anni prima, si era ustionato con l’acqua bollente. Solo che questo era decine di volte più intenso.

Contorcendosi, i muscoli attraversati da nuove ondate d’energia, riuscì a sollevare il polso all’altezza degli occhi, e vi scorse una macchia nerastra.

Per quanto sarebbe andato avanti tutto questo?

 

Aaron spiccò un balzò e lanciò la palla dentro la porta. Il portiere tentò di afferrarla, ma gli passò fra le mani e colpì il muro dietro di lui.

«Punto!», gridò il ragazzo eccitato, e portò istintivamente una mano al ginocchio.

Non doleva. Nemmeno un pochettino.

Quasi gli vennero i goccioloni.

 

«Till! Till, allora facevi sul serio!», esclamò Aaron, raggiungendo il solito punto di corsa.

Seduto sul muro, l’altro piegò la testa di lato.

«Facevo sul serio?».

«Sì, con il mio ginocchio! Cioè... oggi ho fatto educazione fisica e non mi ha fatto male nemmeno un secondo!».

«Mi fa piacere», disse Till, e gli sorrise.

Aaron si grattò la testa, imbarazzato «Quindi pensavo... cioè... che mi dovrei sdebitare. Mi permetti di offrirti il pranzo?».

Il viso di Till si illuminò.

«Volentieri», rispose allegro, e fece apparire i soliti gradini.

Aaron saltellava sul posto, raggiante, ma parte dell’entusiasmo mutò in perplessità quando notò la lentezza con cui Till stava scendendo. Sembrava metterci un’insolita cautela.

Gli mancavano due scalini quando un’espressione di dolore gli attraversò il viso, e cadde a terra.

«Ehi, ti sei fatto male?», gli chiese Aaron aiutandolo a rialzarsi «Che hai?».

«Tutto a posto», tentò di rassicurarlo Till, ma all’altro bastò un’occhiata per capire che aveva un problema ad una gamba. La destra.

Aaron impallidì.

«Non fare quella faccia», borbottò Till, poggiandosi a lui per non cadere «Con la vita di merda che faccio, avere un ginocchio sano o meno non mi cambia di una virgola».

 

Steso nel giardino dell’Achre a godersi il sole primaverile, Till chiuse gli occhi e non poté trattenere un sorrisetto. Era da un po’ che non si sentiva tanto a posto con se stesso.

«Cos’è quell’aria cretina?», chiese una vocetta stridula. Till scattò a sedere e si guardò attorno senza scorgere niente.

«Vieni fuori, non ti vedo», disse, e pochi secondi dopo una colomba bianca gli planò davanti.

«Giochi ai fidanzatini?», gli chiese l’uccello, ma Till lo ignorò.

«Una colomba? Tu? Ma la colomba non dovrebbe essere simbolo di purezza e menate varie?».

L’uccello emise un verso che parve di disappunto.

«E poi la vuoi smettere di cambiare aspetto? Mi disorienti».

«Tu ti lamenti? E io che dovrei dire?», ribatté piccata la colomba «Ma la nana di merda s’è fatta furba. Quasi mi ha beccato, l’altro giorno».

«Nana di merda?».

«Izdy. La nana di merda. È un soprannome».

Till alzò gli occhi al cielo «Va bene, non voglio sapere altro. Senti, almeno oggi puoi evitare di scocciarmi? È una bella giornata».

«Mocciosetto noioso», sbottò la colomba e si alzò in volo «Mancano meno di due mesi, ormai».

«Lo so», mormorò Till, e le sorrise «Non vedo l’ora».

 

Till aprì gli occhi, e per diversi minuti percepì solo immagini sfocate e confuse.

Non riusciva a capire quanto tempo fosse passato dalla cerimonia, ma era certo di essere svenuto e rinvenuto più volte mentre lo portavano da qualche parte.

Il dolore si era un poco acquietato, per lo meno quello che interessava l’intero corpo. Non appena fu in grado di scorgere immagini nitide, sollevò il polso destro ed osservò la macchia nerastra, che ora glielo avvolgeva tutto.

Singhiozzò per il dolore e forzando i muscoli indolenziti si mise a sedere.

Sentiva bruciare anche la gamba destra, e dopo essersi sfilato i pantaloni poté appurare che lo stinco e la coscia erano ricoperti da numerose macchioline nerastre non più grandi di una moneta.

“Ce la posso fare”, si disse asciugandosi le lacrime “Sarò forte. Resisterò”.

Se la camera fosse stata insonorizzata, forse ci avrebbe creduto.

Se non gli fossero giunte alle orecchie strazianti grida di dolore, forse sarebbe riuscito a convincersi che non era una prova poi tanto difficile.

 

«‘Cazzo c’hai oggi?», chiese Annet, osservando il fratello dalla soglia della camera «È la quinta volta che la tua fidanzatina ti chiama, mi sono rotta. Rispondi, cazzo!».

Aaron, steso sul letto con un libro di scuola davanti, sbuffò.

«Dille... dille che ho mal di testa, toh. E non scocciarmi, sto studiando».

«Sììì, studiando», borbottò lei, ed abbandonò la stanza sbattendo la porta.

Non appena fu scomparsa, Aaron chiuse il libro e lo buttò da una parte. Era inutile tentare di concentrarsi, tanto continuava a pensare al gesto di Till.

Till, Till, Till. Cominciava ad ossessionarlo.

«Ma a me piacciono le fe–».

S’interruppe. Gli piacevano le ragazze, e Till effettivamente lo sembrava.

Ed era bello. Neanche poco.

E poi era talmente gentile...

«Dei santissimi!», esclamò, tuffando la testa nel cuscino.

Questo poteva essere un problema.

 

Alla Corruzione bastarono poco più di sei ore per estendersi a tutto il braccio destro. Giunta all’altezza della spalla si arrestò, ed iniziarono ad allargarsi le macchie nere sulla gamba.

Till le osservava preoccupato, ansimando e piagnucolando ad ogni centimetro che la Corruzione guadagnava.

Il braccio destro gli ciondolava immobile lungo il fianco. Aveva cercato di muovere le dita, quando ancora l’avambraccio non gli era diventato del tutto nero, ma ora non vi riusciva più, e solo il tentativo gli causava dolorose fitte che preferiva evitare.

Uno dei medici gli aveva portato una pallina di gomma morbida, e Till la massacrava senza sosta con la mano sinistra. Un po’ lo distraeva dal dolore.

Osservò l’anello nero che si era formato da poche ore attorno alla caviglia. Voleva vedere Zane. Doveva vederlo. Ed era necessario che lo facesse prima di perdere l’uso della gamba.

Mise i piedi giù dal letto, ma prima che potesse scendere la porta si aprì e fece il suo ingresso un uomo dal camice azzurrognolo. Un medico.

«Numero 18, Till Crown», disse questi, scribacchiando qualcosa su una cartellina «Mh,mi pare che le tue condizioni siano buone!».

«..Buone?», ripeté Till, soffocando un singhiozzo, ma il medico lo ignorò. Gli si avvicinò e lo osservò attentamente.

«Vediamo un po’... il braccio destro è corrotto, la gamba destra è in pieno processo, ma entrambi solo in superficie, a quanto pare. Per il resto... mi sembra tutto a posto!».

«Tutto a posto?», ripeté ancora Till «Come può... essere “tutto a posto”?».

«Hai una macchiolina sotto l’occhio destro. Ma che ti ha fatto la destra, si può sapere?», disse il medico, e rise «Bene, tornerò a vedere come stai fra qualche ora. Ora stenditi e mettiti tranquillo».

Till lo osservò allontanarsi, basito. Come poteva quell’uomo essere così allegro? Erano tutti fuori di testa, lì dentro?

Aspettò che la porta si fosse richiusa e scese dal letto. Come i suoi piedi toccarono terra, gli sembrò quasi di stare calpestando del vetro.

«Fa male», piagnucolò, ma il desiderio di vedere Zane era più intenso del dolore. Si rimise i pantaloni ed uscì, poggiandosi al muro per aiutarsi.

Ogni passo era un tormento. Gli sembrava quasi che gli stessero pugnalando il piede destro, ed ogni volta che lo posava a terra sentiva lo stomaco rivoltarsi.

Dubitava di riuscire a raggiungere la camera di Zane senza vomitare.

Lasciando scivolare la mano sana contro il muro, contò le maniglie ed aprì la quarta. O forse era la terza, o la quinta, o magari non si era mosso di un passo.

Magari era ancora in camera sua e stava sognando.

Non capiva più niente.

Abbassò lo sguardo e vide ai propri piedi una massa di pelo bianca e tondeggiante, e un sorriso eccitato gli si dipinse sul viso.

«Batuffolo!», esclamò, ma un istante dopo il coniglio non c’era più.

Scosse la testa ed aprì lentamente la porta.

«Zane?», chiamò, mettendo dentro la testa «Come ti sen-».

Ma la visione lo paralizzò.

Steso nel letto, attaccato a sacche di liquido trasparente e ad una macchina per respirare, stava un... non avrebbe nemmeno saputo definirlo. Un qualcosa.

Il qualcosa era d’un colore fra il nero ed il viola scuro, tolto qualche sparuto ciuffo di capelli bianchi. Gli arti, il busto, il viso erano sottili e consumati, quasi come quei vecchi cadaveri che aveva visto in televisione da piccolo, quelli che trovavano gli archeologi ed erano tutti secchi e magrissimi.

I suoi occhi, al contrario, erano tanto gonfi che parevano sul punto di scoppiare.

«Dimmi che non sei Zane», pregò Till, e cominciò a piangere tanto che per qualche minuto gli si annebbiò la vista. Si avvicinò con estrema lentezza, tanto sconvolto da non avvertire quasi più il dolore fisico, e notò con sollievo che la disposizione dei mobili era diversa da quella della camera di Zane. Spostò allora lo sguardo al povero qualcosa, cercando di seguire il movimento ininterrotto delle sue labbra.

«Vuoi... vuoi dirmi qualcosa?», gli chiese, ma non ottenne risposta.

Till osservò allora il proprio braccio.

Sarebbe diventato così anche lui, se la Corruzione non si fosse ritirata.

Le labbra tremanti e il petto squassato dal respiro troppo rapido, indietreggiò e abbandonò la stanza.

 

Aaron poggiò la testa sul banco, accompagnando al gesto un sospiro.

Il professore di storia parlava, parlava, parlava, ma lui non sentiva neanche una parola.

«Che hai?», sussurrò Alice, la sua nuova compagna di banco – Beth aveva preferito cambiar posto, sentendosi offesa dal suo comportamento.

Il ragazzo scosse la testa «Niente­».

«Sì, niente, come no», rispose lei, e lo punzecchiò ancora «Guarda che ti ho visto, sono due settimane che sei strano. Che ti è preso? E poi credevo che Beth ti piacesse un po’ da sempre».

«Ho solo... qualche problema. Niente di grave».

Niente di grave... eccome se lo era.

Till, Till, Till... continuava a pensare a lui.

 

Uscito nel corridoio, Till mosse ancora qualche passo indietro per avere una visione globale.

Nella confusione doveva aver contato la propria maniglia, e si tuffò letteralmente nella stanza dopo.

«Zane!», gridò, e l’altro lo fissò dal letto.

Si scambiarono un largo sorriso, poi Till lo raggiunse di corsa – per il sollievo non sentiva quasi il dolore al piede – e lo abbracciò col braccio sano.

«Zane, Zane! Non immagini che paura mi sono preso!», esclamò, scoppiando nuovamente in lacrime. Zane gli prese il viso fra le mani e lo fissò negli occhi.

«Non dirlo a me. È da stamattina che ti penso sempre», gli disse, e lo baciò «Come ti senti?».

«Ora meglio», sospirò Till «Se ti vedo il male passa in secondo piano. Ma... la tua faccia...».

Till alzò il braccio sano a scostargli i ciuffetti del frangia, e scoprì una macchia nera sulla fronte del compagno. Ne aveva un’altra, più piccola, sul mento.

«La faccia è a posto. Sono... le gambe», borbottò Zane, e sollevò la coperta.

La Corruzione lo aveva colpito dal ginocchio in giù, fino alla punta dei piedi.

«Zane, ho paura», piagnucolò Till. L’altro gli rivolse una sorta di sorriso d’incoraggiamento, ma  non fu abbastanza convincente da calmarlo del tutto.

«Mi prometti che non morirai?», lo implorò Till, e Zane annuì.

«Lo giuro. E tu?».

«Lo giuro anch’io!».

«Bene, abbiamo una promessa, allora».

Till annuì e lo baciò nuovamente.

 

«Fammi entrare, dobbiamo parlare», disse Aaron torvo.

Till obbedì, sul viso un’espressione fra il perplesso e il preoccupato, ed aprì bocca solo quando l’altro fu seduto davanti a lui, nel giardino.

«Che succede?», borbottò.

«Succede che... non capisco più niente, ecco».

Aaron incrociò le braccia ed abbassò lo sguardo, incapace di fissare Till.

«Cosa non capisci? Spiegati».

«Non capisco... tutto. Perché sembri una donna? Mi disorienti!».

Till aprì la bocca, ma prima che potesse dire qualcosa Aaron ricominciò a parlare.

«Insomma, cazzo! A me piacciono le femmine! Non i maschi!», esclamò, e si prese la testa fra le mani «Uffa».

«Aaron», mormorò Till. Gli si avvicinò ed afferrandogli le mani lo costrinse a guardarlo «Te l’ho detto una delle prime volte che ci siamo visti. Il problema non sussiste».

«Invece sì che sussiste! Perché tu sei un maschio! Ma sembri una femmina, cazzo».

Till scosse la testa e si lasciò sfuggire una risatina «Non credo mi si possa considerare un maschio. Lo sai, Aaron, cosa fanno ai bambini per... “permettere” loro di “purificarsi”?».

«No. Cosa?».

Till gli prese una mano e se la portò all’altezza dell’inguine.

«Ma che cazz...!», tentò di opporsi Aaron, ma quando le sue dita sfiorarono il bassoventre di Till gli si mozzò il respiro.

Niente. Non c’era niente.

«Credo... credo di voler vomitare», balbettò.

Till gli baciò una guancia e si allontanò da lui.

 

Zane si portò le mani alla testa, stringendo i capelli bianchi fra le dita.

«Tutto bene?», gli chiese Till preoccupato, alzando lo sguardo dal libro che stavano leggendo.

Zane tentò di annuire, ma a contraddirlo bastò l’espressione sofferente del suo viso.

Allarmato, Till chiuse il libro e lo lasciò cadere dal letto.

«La Corruzione è ricominciata? Non si era fermata?».

«Si era», mormorò Zane, lasciandosi scivolare contro il cuscino. Strinse i denti, ma non riuscì a trattenere i singhiozzi.

«Dei, che male...!».

«Aspetta qui, vado a chiamare qualcuno!», esclamò Till, e scese dal letto con cautela. Dall’inizio della Corruzione la gamba destra non era più peggiorata, e ormai al dolore s’era abituato.

Anche il braccio gli faceva un po’ meno male; non da piangere tutto il tempo, almeno.

Abbandonò la stanza e si incamminò lungo il corridoio parlottando fra sé e sé, in modo da ignorare i rumori che provenivano dalle altre stanze.

Ma quando passò davanti ad una delle ultime porte non avvertì alcun suono.

«Uno in meno?», si chiese, accostando l’orecchio alla superficie di legno. Non sentì niente di niente, nemmeno il bip bip delle macchine per respirare. Aprì allora la porta, e dentro trovò tutto in perfetto ordine e vuoto.

«Uno in meno», confermò, appuntandosi il dato mentalmente.

I medici non gli dicevano niente, allora aveva fatto da solo un calcolo approssimativo: le stanze occupate prima erano trentadue, ed ora, a due giorni dalla cerimonia, solo da ventotto di esse provenivano pianti, urletti o bip bip di vario tipo.

Richiuse la porta e riprese a camminare; arrivato alla rampa delle scale, approfittò della finestra in cima agli scalini per lanciare un’occhiata fuori.

Diluviava, il cielo era nero ed il vetro gli rimandò indietro la sua immagine.

Till si portò una mano alla guancia destra, osservando con aria triste la macchia nera attorno all’occhio. Riusciva a tenerlo aperto, ma quasi non ci vedeva più.

«Come sono brutto», borbottò, e scosse la testa «Chissà come fa Zane ad amarmi, brutto come sono. Ehi, Batuffolo!».

Si voltò ed osservò il coniglio, seduto sulla ringhiera delle scale.

«Sono tanto tanto brutto?», gli chiese, ma il coniglio non gli rispose perché un istante dopo non c’era più.

Till si batté una mano sulla fronte.

Stava impazzendo, ed erano tutta quella morte e quella sofferenza attorno a lui a farlo uscire di testa.

 

«E così ora sei in vacanza», osservò Till, e Aaron annuì.

Erano seduti su una panchina, davanti al laghetto dell’ampio parco cittadino.

«L’estate... effettivamente non l’avevo considerata. Peccato, vorrà dire che mi toccherà rinunciare alla tua compagnia».

«Chissà», borbottò Aaron «Quanti giorni mancano alla cerimonia?».

Till li contò velocemente «Quarantadue, se non erro. Non tanti».

«E da Sacerdote... potrai ancora filartela come fai ora?».

Till non rispose subito. Lasciò vagare lo sguardo davanti a sé a lungo, carezzando con le dita il bordo dell’orribile ed enorme capello da pescatore che indossava – era brutto, ma i capelli li copriva tutti.

«È relativo», disse infine, e Aaron inarcò un sopracciglio.

«Relativo?».

«Possiamo cambiare discorso, per favore? Non mi va di parlarne. Al momento vorrei non pensarci».

«Cosa ti infastidisce?», gli chiese Aaron, e Till scosse la testa.

«Non mi piacciono i cambiamenti radicali».

Aaron non capì cosa l’altro intendesse, ma rispettò la sua richiesta e non indagò oltre.

«Ma tu non fai niente tutto il giorno?», gli domandò allora.

Till rise e si volse a guardarlo con aria divertita «L’hai notato, eh? Te l’ho detto che la vita da novizio è una palla. Cioè... in teoria dovrei passare le mie ore a pregare, ma...».

«Che vita di merda», borbottò Aaron serio «Mamma dice che non c’è gioia maggiore che servire la Trinità... me ne ero convinto anch’io, ma credo d’aver cambiato idea».

Till gli sorrise. Per una frazione di secondo, un’unica frazione di secondo, Aaron scorse un’ombra sul suo volto. Aveva come l’impressione che Till volesse parlargli di qualcosa ma non trovasse il coraggio.

«E... mh... com’è la vita senza...?», borbottò Aaron lanciandogli occhiate allusive.

Erano due settimane che ci pensava. Ci aveva provato, ma non riusciva proprio ad immaginare una vita senza sesso.

«Guarda, è la mia ultima preoccupazione», rispose Till, e scoppiò a ridere.

«Non è... giusto, però», borbottò Aaron. L’altro si strinse nelle spalle, senza aggiungere niente.

Un passerotto planò a pochi passi di distanza dalla panchina, ed entrambi lo osservarono in silenzio mentre beccava il suolo.

Poi volò via, e Aaron si voltò verso Till.

«Dimmi una cosa», gli chiese «Se potessi esprimere un desiderio... cosa chiederesti?».

Per un attimo il voltò di Till cambiò espressione, come aveva fatto poco prima; sempre la stessa sensazione che volesse dirgli qualcosa ma non ne avesse il coraggio.

«Credo... che mi piacerebbe possedere i poteri del Caos, anche solo per un’ora».

«Non è proprio un pensiero da Sacerdote», osservò Aaron «Perché non quelli della Trinità?».

«Perché il Caos è più potente».

Aaron inarcò un sopracciglio «Sai che diceva così anche mio fratello?».

 

«Till!», gridò Zane. Si contorse nel letto, portandosi le mani al viso.

«Sono qui, sono qui», tentò di tranquillizzarlo l’altro. Si sedette accanto a lui sul materasso e gli carezzò i capelli «Resisti, so che puoi».

Zane rotolò sulla pancia ed affondò il viso nel cuscino, mordendolo tanto forte da strapparlo.

Scoppiò a piangere, e Till non poté far altro che carezzargli amorevole la schiena.

«Zane...», mormorò, e gli baciò la testa.

Parlare gli faceva un male cane, con l’intera parte destra del viso divorata dalla Corruzione, ma non aveva il diritto di lamentarsi.

«Fatti coraggio. I dottori sono ottimisti, sai?».

Non era vero per niente. Li aveva sentiti, la sera prima, parlottare fra di loro; dicevano che, se metà dei bambini era morta nei primi cinque giorni, l’altra metà l’avrebbe seguita nella settimana successiva.

“Però i numeri 18 e 26 rispondono bene”, aveva fatto notare uno di loro, e gli altri si erano detti d’accordo.

Till non era del tutto convinto che un procedere della Corruzione più lento della media fosse un “rispondere bene”. L’avrebbe definito piuttosto “una agonia prolungata”.

Zane soffocò un urlo nel cuscino.

Till continuò a coccolarlo e a baciarlo con dolcezza, cercando di non piangere pure lui.

Manco a dirlo, il numero 26 era Zane.

 

Aaron si alzò e mosse qualche passo verso il laghetto.

«Till... secondo te, dopo che sarai diventato Sacerdote potremo vederci ancora?».

«Se con “vedersi” intendi “intravedersi di lontano durante una funzione”, è possibile», rispose Till, e Aaron gli lanciò un’occhiataccia.

«Non lo so», disse allora, serio «Ma ti ho già detto che non mi va di parlarne. Certo che tutto questo interesse da parte tua... wow, non me lo sarei mai aspettato».

Aaron non rispose. Si limitò a stringersi nelle spalle, e calciò un sasso nel laghetto.

«Credo sia meglio che torni all’Achre», disse Till alzandosi «Comincia a essere tardi. Non posso allontanarmi troppo a lungo».

«Perché non scappi, se la vita da Sacerdote non ti piace?», gli chiese Aaron «Non dovrebbe essere così difficile, no?».

«Ormai è tardi, sono... vincolato».

«Da cosa?».

Till si mordicchiò un labbro e scosse la testa.

«Tu non me la racconti giusta», sbottò Aaron. Lo raggiunse e gli puntò l’indice al petto «Cosa mi nascondi?».

«Niente di importante», sospirò Till, e distolse lo sguardo.

 

Il volto rigato dalle lacrime, Zane si fissò le braccia nere ormai fino al gomito.

«Till, ho paura», mormorò «Non voglio morire!».

«Non morirai», disse Till, posandogli la mano sana su una spalla «E nemmeno io. Non preoccuparti».

«Non è vero! Non hai sentito quant’è calato il rumore?! Stiamo morendo tutti!».

«Noi no», ribadì Till, e lo abbracciò. Gli baciò via le lacrime, evitando di sfiorargli le zone corrotte del viso «Devi crederci».

Gli sorrise, cercando di essere il più convincente possibile, e Zane doveva essere così stanco che gli credette subito. O forse non aveva solo voglia di ribattere.

«Io... ci credo», borbottò «Ma... non posso nemmeno più abbracciarti...! Non è giusto».

«Quando saremo guariti mi abbraccerai tutto il tempo che vorrai», gli disse dolcemente, e lo baciò «Buonanotte, Zane. Ti amo».

Zane accennò una sorta di sorriso «Anch’io. Dormi bene».

Till scese dal letto ed abbandonò la stanza. Percorse il tratto fino alla propria camera alla massima velocità che la gamba gli consentiva, e solo quando vi fu giunto ed ebbe chiuso la porta si concesse di scoppiare a piangere.

Un po’ perché la gamba era peggiorata e ad ogni passo gli veniva da vomitare, ma soprattutto perché Zane stava morendo, e lo faceva più velocemente di lui.

Ad una settimana dalla cerimonia, erano rimasti solo in sei. Era ormai questione di giorni.

Till si gettò in ginocchio ai piedi del letto, congiungendo le mani con uno sforzo immenso.

«Somma Trinità, perché dobbiamo morire?», singhiozzò, ma non gli giunse alcuna risposta.

Il braccio destro gli doleva tanto che dovette abbandonare la posizione, e il nuovo movimento gli ribaltò lo stomaco.

Raggiunse a fatica il cestino e vomitò. Quando rialzò lo sguardo, vide Batuffolo che ruminava in silenzio.

«Di nuovo? Non la gamba, ti scongiuro», pregò, perché ormai aveva notato che ad ogni allucinazione in cui appariva il coniglio defunto seguiva un peggioramento della Corruzione.

 

La notte non riuscì a dormire che pochi minuti.

Se la Corruzione alla pelle faceva un male terribile, quando questa cominciò a divorargli i muscoli della coscia destra avrebbe preferito staccarsi la gamba a morsi.

 

«Beh, ci vediamo», disse Till. Rivolse ad Aaron un sorrisetto e batté una mano sul muro per far apparire i gradini «Magari passami a trovare, prima della cerimonia».

Aaron annuì, lo sguardo basso.

«Senti...», borbottò «Io... non so cosa fare con te. La cosa migliore forse sarebbe non vederti più, tanto fra poco più di un mese non ti vedrò più comunque, però... insomma...».

«Ma dai, ti ho turbato così tanto?», rise Till «Scusami, non volevo. Oddei, forse un po’ sì, lo ammetto».

«Stronzo», sbottò Aaron. Scosse la testa, e senza pensarci troppo su lo prese per le spalle e lo baciò.

 

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Capitolo 3
*** Parte III ***


~PARTE III~

~PARTE III~

 

«Till, sei tu?», chiese Zane, sentendo la porta aprirsi.

Till la calciò con la gamba sana ed entrò con la carrozzella.

«Sono io­. Come vanno gli occhi, oggi?».

Zane scosse la testa sconsolato «Niente. Vedo tutto nero».

Cercò a tentoni la bacinella d’acqua sul comodino e vi immerse un fazzoletto di stoffa, che si passò poi sul viso.

«Aspetta», disse Till. Raggiunse il letto e vi si issò sopra «Faccio io».

«Non è giusto», singhiozzò Zane mentre l’altro gli rinfrescava le zone corrotte «Non posso toccarti, non posso vederti, e secondo i medici nel giro di due o tre giorni al massimo la Corruzione mi giungerà alle corde vocali e quindi non potrò più nemmeno parlarti! Perché la Trinità mi sta togliendo l’unica cosa che mi dà conforto?».

«Andrà tutto bene», disse piatto Till, e una lacrima gli rotolò su una guancia «Finché la Corruzione non ti attacca gli organi importanti è tutto a posto».

«Non è tutto a posto!», gridò Zane. Riuscì a sollevare un braccio e colpì debolmente la mano di Till «Mi imboccano, devo usare il pannolone perché non riesco più a muovermi, e fra poco non potrò nemmeno comunicare con chi mi sta attorno! Come fai a dire che è tutto a posto?!».

Till scoppiò a piangere.

Lo sapeva che non era tutto a posto. L’aveva anche ammesso a se stesso, eppure voleva ancora convincersi che ci fosse qualche speranza.

«Perdonami», mormorò Zane dispiaciuto. Alzò a fatica una mano e cercò il viso di Till «Perdonami, non volevo alzare la voce. Come ti senti oggi?».

Forzando il braccio corrotto, Till lo abbracciò con foga.

Singhiozzava troppo per riuscire a rispondere.

 

Era la mattina del decimo giorno, e Till notò che una nuova porta era del tutto silenziosa.

Erano rimasti in cinque, e qualcosa gli diceva che il numero si sarebbe ridotto molto presto, perché dalle altre tre camere provenivano solo dei bip bip.

 

«Hai deciso di seguire il mio consiglio, quindi?».

Till aprì gli occhi e si mise a sedere.

Non vedeva nessuno, lì attorno. Con che aspetto gli si sarebbe presentato, questa volta?

«Vieni fuori», borbottò, e quando sentì dei passi alle proprie spalle si girò.

Un ragazzo all’incirca della sua età con capelli castani ed occhi azzurri gli rivolse un sorriso divertito.

«Somigli ad Aaron», osservò Till, e l’altro rise.

«Non è un caso. Il tuo amichetto defunto avrebbe questa faccia, se non avesse fatto la fine che ha fatto. Non male, eh?».

Till impallidì. Distolse lo sguardo e si alzò in piedi, dirigendosi verso l’Achre.

«Scappi?».

«Cambia subito aspetto», sibilò Till, e il ragazzo rise.

«Ma che ti importa? Tanto giochi ai fidanzatini col suo fratellino...!».

«Fallo!», gridò Till senza voltarsi.

Il ragazzo sbuffò.

«Ma quanto sei palloso. Va bene, va bene, ti accontento, mocciosetto viziato».

Till attese qualche istante prima di voltarsi, e quando lo fece si trovò davanti una ragazzina mora.

«Mi sto annoiando tanto, Till caro», piagnucolò lei «Non vedo l’ora che passino queste tre luuunghe settimane».

«Fino ad allora lasciami in pace, okay?», la pregò Till, e lei distese le labbra in un largo sorriso.

Si passò la lingua sui denti e annuì.

«In cambio che mi dai?».

«Niente. Non posso offrirti niente», rispose Till, e si strinse nelle spalle.

La ragazzina gonfiò le guance, come offesa.

«Non ho davvero niente, lo sai».

«Che noia», borbottò lei. Gli diede le spalle e si diresse verso il muro saltellando.

«Dimmi una cosa, Till caro. Hai intenzione di raccontare al tuo nuovo fidanzatino che fine ha fatto suo fratello? Se non te la senti posso farlo io. Adoro questo genere di cose!».

«Lo farò», affermò Till, abbassando poi lo sguardo «Ma non ora».

«Sììì, bravo, rimanda...!».

La ragazzina spiccò un balzo troppo alto per un umano, e quando atterrò in cima al muro aveva l’aspetto di un gatto bianco.

«Non vedo l’ora, Till caro», disse, e si passò la lingua sul muso.

 

«Ciao, Zane», mormorò Till, muovendo la carrozzella fino al letto «Scusa se oggi ho fatto un po’ più tardi del solito, ma il libro che volevo era in alto e ho fatto una gran fatica a prenderlo».

Tacque  e lanciò qualche occhiata a Zane, immobile sul letto.

Sentì gli occhi riempirsi di lacrime.

«Ho... ho preso il libro che ti piace tanto», gli disse, cercando di trattenere il tremolio della voce. Si spostò sul letto e carezzò la testa di Zane.

«Se mi senti... fa... fa qualcosa», balbettò, e l’altro gli rispose con un lieve movimento delle labbra.

Una lacrima gli scivolò dagli occhi socchiusi, e Till si morse un labbro.

«Pensavo... che potrei leggerti qualche mito», gli disse, aprendo il libro «Di quelli che ti piacciono tanto. Sei d’accordo?».

Passò la mano sana sul busto di Zane, unica parte del corpo non corrotta, e continuò ad accarezzarlo a lungo, senza smettere di parlargli.

«Sai che è un po’ che Batuffolo non mi compare più? E i medici hanno visto che la Corruzione non continua... dicono che è una buona cosa. Dicono anche che c’è ancora la possibilità che tu riesca a riprenderti, dato che non sei attaccato alle macchine. Io... voglio crederci, insomma.

La speranza è l’ultima a morire, no?».

Gli sorrise debolmente e gli passò la mano fra i capelli.

«Mi hanno detto di bambini che erano messi ancora peggio ma poi si sono ripresi. Dicono che è tutta questione di fede e che non».

Terrorizzato, si interruppe ed osservò la ciocca di capelli bianchi che gli era rimasta tra le dita.

Per il suo fragile autocontrollo fu troppo. Scoppiò a piangere, e continuò a singhiozzare a lungo.

Non voleva perdere Zane, non voleva. Ma non c’era niente che potesse fare.

Non riusciva ad immaginare la vita senza di lui; l’unica consolazione che gli rimaneva era che non avrebbe tardato troppo a raggiungerlo.

 

Till aprì la copertina del libro con le forbici e tirò fuori la lettera che Zane aveva scritto anni prima.

La rilesse attentamente, e quando ebbe appurato che Zane non lo nominava neanche una volta se la mise in tasca.

Non aveva ancora intenzione di raccontare ad Aaron tutta la storia, ma quella almeno poteva dargliela. Gli avrebbe poi detto che l’aveva trovata per caso, sfogliando un vecchio volume.

 

Aaron lo aspettava fuori dal giardino.

Quando vide Till scendere il muro, gli rivolse un sorriso dolce e si avvicinò per aiutarlo.

«Oggi ti porto in un posto divertente», gli disse, spingendogli l’orrendo cappello sulla testa «Non ci passa mai nessuno...».

«Devo pensar male?», rise Till. Gli posò un lieve bacio sulle labbra, poi estrasse dei fogli dalla tasca «Piuttosto, ho trovato questi, ieri. Credo potrebbero interessarti».

 

«Molto, molto bene!», esclamò il medico, battendo le mani eccitato.

Till assottigliò l’occhio sano – l’altro era tanto gonfio da rimanere chiuso da solo – e lo fissò torvo.

«“Molto bene” cosa significa, nel suo linguaggio? Che sto finalmente per farla finita con tutto questo male o che dovrò sopportare ancora a lungo?».

«Non essere così pessimista», rispose il medico con un’espressione crucciata tanto sciocca che a Till venne quasi voglia di colpirlo con un calcio «Non stai migliorando, ma neanche peggiorando!».

«Questo lo vedo», sbottò Till «Ma non ce la faccio più. Preferirei si decidesse a muoversi, a questo punto».

«Immagino tu ti senta solo, ora che il tuo amico è in quello stato», disse il medico, e scosse il capo «Povero, povero ragazzo. Quella è davvero una brutta situazione».

«Perché?», chiese Till, mentre una morsa gelida gli attanagliava lo stomaco «Qual è il problema?».

«Con la velocità a cui la Corruzione lo divora ora, potrebbe averne anche per un mese. Ma non disperare, fino alla fine non è detto niente. Pensa, ho conosciuto un Sacerdote che...»

Ma Till non lo ascoltava più.

Un mese? Un mese? Dalla cerimonia erano passati nemmeno quindici giorni, e già gli pareva fossero trascorsi anni.

Silenziosamente si sciolse in lacrime, e il medico si interruppe per fissarlo.

«Bravo, bravo, piangi il più possibile! Più piangi, più possibilità hai che le lacrime diventino rosse!».

«Stia zitto, per favore», lo implorò Till, e raccolse le ginocchia al petto.

 

«Povero Zane», borbottò Aaron «Spero che stia bene».

Incrociò le braccia dietro la testa e sospirò, godendosi la frescura dell’ombra degli alberi.

Erano in un parchetto poco frequentato all’interno della città, e si erano sistemati in un boschetto di piante sempreverdi che Aaron non riconosceva.

Till non disse niente. Rimase seduto a fissare i tronchi davanti a sé finché Aaron non lo afferrò per la maglietta.

«Tu hai la minima idea di quanto io mi senta cretino, mh?», gli chiese.

«Perché mai?», rise Till, voltandosi a fissarlo.

«Perché sì», rispose Aaron. Gli sorrise e lo trasse a sé per baciarlo.

 

«“... il Caos leccò il proprio sangue del colore della pece che gli tingeva le labbra. Alzò lo sguardo nell’ultimo, disperato tentativo di catturare la Trinità col proprio fascino velenoso, ma né Izdihaar, la Mente, abbassò gli occhi, né Chlomo, lo Spirito, lo degnò d’attenzione, né Mahadev, la Vista, aprì il terzo occhio. E così il Caos crollò al suolo; il suo involucro di carne e sangue divenne sabbia, il suo potere si dissolse nell’aria fresca; ed il mondo conobbe finalmente la pace”. Fine».

Till chiuse il libro e rimase a fissare la copertina per qualche istante, poi alzò lo sguardo sul volto scavato di Zane e gli carezzò i pochi capelli rimasti.

«Sai, non mi è mai piaciuto questo finale. E poi... sono convinto che il Caos non sia stato veramente distrutto. Magari l’hanno solo... che ne so, limitato. L’ordine senza disordine non avrebbe tanto senso, no?».

Rimase in silenzio per alcuni minuti, alzando di tanto in tanto gli occhi a controllare il livello delle flebo.

«Chissà se mi senti, Zane», sussurrò, la voce incrinata «L’unica cosa che fai è piangere. Se potessi parlare, grideresti tutto il tempo?».

Riportò la mano sul libro e la passò sulla copertina.

«Ti ho letto tutte le tue storie preferite. Le hai sentite, Zane? Ora cosa ti posso leggere? Cosa posso fare, se non leggerti le storie che ti piacciono?».

Una lacrima gli scivolò fuori dall’occhio sano, gli rotolò sulla guancia e cadde sul libro.

«Ci ho pensato tantissimo in questi giorni, sai? Io ti amo così tanto... e non posso aiutarti. Vomito in continuazione da quanto questo mi fa star male».

Seguirono altre lacrime, e mentre lasciava cadere il libro a terra gli sorrise.

«Ti racconto una storia che so che ti piace tanto, dato che ormai le altre sono finite. Quando ero ancora un bimbo normale, per il mio compleanno mamma mi regalò un coniglio. Era un coniglio bellissimo, tutto bianco e morbido, e gli volevo un gran bene. Però poi si è ammalato».

Si sporse in avanti e prese il cuscino poggiato sulla carrozzella. Lo strinse al petto col braccio sano, poggiandovi il mento.

«Dovevi vederlo, poverino, tremava tutto e non mangiava più niente. E perdeva pure il pelo a ciuffi, verso la fine. Io gli volevo così bene... ma non potevo fare niente. E allora mamma l’ha portato dal dottore, che gli ha fatto una puntura e l’ha… “fatto addormentare”, come mi disse mia madre. Mi disse anche che era l’unica cosa che potevamo fare per lui. Che dovevamo farlo, se lo amavamo».

Sorrise fra le lacrime, e si sporse in avanti.

 «Zane, non puoi neanche immaginare quanto ti amo. Ti ho amato fino all’ultima parola che mi hai detto, e continuo ad amarti anche ora che non mi parli più. Però...!».

Singhiozzò e si morse un labbro.

«Mi perdonerai, Zane? Quando ci incontreremo nello Heva, mi sgriderai o mi sorriderai e mi dirai che mi ami? Mi odierai?».

Gli posò un bacio sulle labbra e soffocò un singhiozzo, mentre forzava la mano destra e la portava a reggere il cuscino.

«Io quella cosa del “devi uccidere il coniglio perché lo ami” non l’ho mai capita troppo bene. Mi è sempre sembrata una cosa assurda. Però ora... Zane, ti amo. Perdonami».

E con uno slancio gli premette il cuscino sulla faccia, gettandovisi sopra con tutto il corpo.

Il corpo di Zane fremette appena, ma era troppo debole e troppo consumato per tentare d’opporsi.

Till spinse il cuscino con tutte le forze che aveva, gridando e singhiozzando disperato, e continuò anche dopo che il petto di Zane smise d’alzarsi e d’abbassarsi.

Rimase in quella posizione a lungo, incapace di muoversi.

Quando finalmente riuscì a rialzarsi, notò che il cuscino era sporco di sangue. Si portò una mano alla guancia sinistra, confuso.

Era sporca di rosso.

Per un attimo ebbe come la sensazione che il cuore gli si fosse di colpo fermato.

«Che cosa triste», commentò una voce, e Till si raggelò.

 

«Ultimo giorno di libertà», mormorò Till.

Aaron leccò il proprio gelato e gli lanciò un’occhiata perplessa.

«Ma la cerimonia non è dopodomani?».

«Sì», confermò Till «Domani però ci sono le prove. Non potrò filarmela».

«Peccato», borbottò Aaron, e si dedicò in silenzio al gelato.

Till sospirò «È stato bello, finché è durato».

Camminarono in silenzio per i freschi sentierini del parco per diversi minuti, finché Aaron non riuscì più a sopportare quell’aria deprimente. Afferrò Till per un braccio e lo costrinse a fermarsi.

«Cosa vuoi fare oggi?», gli chiese, cacciandosi in bocca gli ultimi residui di cialda «Scegli tu. Qualsiasi cosa. E mangia il gelato, che si scioglie».

Till ridacchiò e passò il dolce all’altra mano, per leccarsi le dita sporche di crema.

«Qualsiasi cosa... sei un po’ vago».

«Ho detto qualsiasi e qualsiasi sarà», ribatté Aaron, stringendosi nelle spalle. Fingendo di osservare le folte chiome degli alberi, distolse lo sguardo ed arrossì «Idee?».

«Mh, fammici pensare».

Aaron si mordicchiò un labbro e gli lanciò un’occhiata di sottecchi. Sembrava più pallido e nervoso del solito.

Chissà quanto doveva turbarlo la cerimonia.

«...Non mi viene in mente niente!», esclamò Till «Potremmo... non so... tu pensavi a qualcosa in particolare?».

«Come sei noioso», sbottò Aaron. Sbuffò e lo distanziò di qualche passo «Manchi di inventiva. Non c’è niente che desideri particolarmente fare prima di rinchiuderti a vita in quel posto di merda?».

Till distolse lo sguardo.

«Ti senti bene? Mi stai preoccupando, oggi», mormorò Aaron tornandogli vicino «Cosa c’è che non va?».

«È un brutto momento, Zane. Dovrei dirti un sacco di cose, ma–».

Un’espressione terrorizzata sul volto, Till si interruppe. Sgranò gli occhi e si portò una mano alla fronte, poggiando l’altra contro il tronco di un albero.

Aaron aggrottò le sopracciglia, perplesso.

«... Com’è che mi hai chiamato?», gli chiese, mentre avvertiva il cuore aumentargli i battiti.

Till si lasciò sfuggire un debole “cazzo”.

«Till», lo chiamò Aaron. Boccheggiò, cercando di dire qualcosa.

«Till, perché mi hai chiamato “Zane”?», gli chiese ancora. Lo afferrò per le spalle, costringendolo a voltarsi «Tu... conoscevi mio fratello?».

L’altro annuì debolmente, poi scosse la testa.

«Cazzo, io volevo dirtelo, ma farlo venire fuori così...», borbottò sconsolato. Indietreggiò di un paio di passi, per sottrarsi alla presa di Aaron, e solo allora alzò lo sguardo.

Aveva un’aria tanto stravolta che Aaron non riuscì ad aprir bocca.

«Ti dirò tutto, te lo giuro. Ma ora...» Till scosse nuovamente la testa, e si allontanò ancora «Perdonami, Aaron. Non volevo mentirti, però... non ce la faccio».

E senza aggiungere altro si allontanò alla massima velocità che il ginocchio malandato poteva concedergli.

Aaron avrebbe potuto raggiungerlo e bloccarlo senza difficoltà. Avrebbe potuto obbligarlo a dirgli tutto subito, ma non lo fece.

Era tanto sconvolto per il fatto che Till gli avesse mentito su una cosa così importante che gli si erano paralizzate le ginocchia.

Si mordicchiò ripetutamente la guancia, lo stomaco sconquassato da una miriade di emozioni che andavano dalla rabbia alla sorpresa alla delusione.

Delusione, sì, soprattutto quella. Perché, in fondo, Till gli piaceva sul serio.

 

Till voltò il capo lentamente.

Poggiato con la schiena alla porta d’ingresso, stava un Sacerdote che non aveva mai visto prima di allora. Sempre se fosse stato un Sacerdote, ma i lunghi capelli bianchi e i tratti androgini accreditavano l’ipotesi.

«Chi... chi sei?», singhiozzò, il corpo ancora sconvolto dal pianto disperato «Sei... di questo Achre?».

«Nnnah», rispose lui, incrociando le iridi grigie con quelle color pece di Till «Diciamo che... vengo da fuori. Molto da fuori. Da fuori... lontano, toh», ed accompagnò le parole roteando una mano.

«Ti osservavo».

«Cosa vuoi?», pigolò Till. Si asciugò il viso con la manica del braccio sano, e la tinse tutta di rosso.

L’uomo incrociò le braccia dietro la schiena in una posizione che a Till parve assurdamente scomoda e si avvicinò.

«Mi annoio. Perché non facciamo un patto?».

«Un... patto?», ripeté Till spaventato «Perché dovrei? Cosa vuoi tu da me?!».

«Uffaaa, te l’ho detto. Mi annoio. Hai mai provato la noia? È una cosa terribile, ti prende il cervello e te lo rivolta tutto».

Till lo fissò senza proferir parola, continuando a singhiozzare.

«No, eh? Quanto odio i bambini, non capite mai un cazzo alla prima. Devo farti uno schemino?».

«Vattene o chiamo qualcuno», sibilò Till, e l’uomo sospirò.

«Mettiamola così... Io mi annoio tanto, tantissimo, e visto che suono buono e generoso...» rise, e dopo essersi schiarito la voce con un colpetto di tosse continuò: «Dicevo, dato che sono buono e generoso, ti voglio offrire uno scambio equo. Ho visto ciò che ti frulla nella testolina, bimbo caro, anche se tu forse non te ne rendi ancora conto».

Till si portò la mano sana alla bocca. Ad un certo punto i singhiozzi ed il dolore avevano lasciato spazio ad una soffocante sensazione di terrore, e se ne accorgeva solo ora.

«Chi... chi sei?», balbettò, e l’uomo gli sorrise.

«Vediamo, com’è che dite voi...?», disse, carezzandosi i denti con la lingua «Era qualcosa tipo “la fine e l’inizio di tutto”, se non ricordo male. E poi qualche altro epiteto poco carino».

Till si sentì raggelare.

«Oooh, scusa tanto se non ho la faccia che voi pezzenti vi aspettate», sbottò l’uomo con aria offesa, come leggendogli nel pensiero «Ma ti pare che possa andarmene in giro col costumino? Ci mancherebbe, la nanetta non aspetta altro».

Poi sorrise, e si passò nuovamente la lingua sui denti.

 

Aaron si rivoltò nel letto senza riuscire a prender sonno. Lanciò uno sguardo alla sveglia digitale sul comodino, e faceva sempre lo stesso orario di mezzo minuto prima.

Era l’una passata, e la cerimonia di Till doveva essere cominciata da poco.

In quel giorno e mezzo trascorso senza vederlo, Aaron aveva notato che le emozioni provate tutte nello stesso istante al parco si erano poi succedute una per volta nelle ore seguenti.

Era stato arrabbiato, anzi furioso per tutte quelle bugie, poi la rabbia di era acquietata ed aveva ceduto il posto ad una terribile tristezza, seguita subito dopo dalla sensazione di delusione che l’aveva ridotto ad una pezza da piedi per ore. Ora, dopo aver attraversato almeno quindici stati d’animo diversi, l’unica cosa che avvertiva era un’insana voglia di vedere Till, farsi spiegare tutto e nel caso di motivi convincenti dargli una seconda possibilità. Lo desiderava con tutto il cuore.

Un rumore sordo lo riscosse. Si mise a sedere, scrutandosi attorno per capire da dove provenisse, e quando si ripeté capì che veniva dalla finestra.

Qualcuno la stava tempestando di sassolini, e gli parve tanto una scena di film che per un attimo credette di stare sognando.

Si alzò in piedi e la spalancò completamente, lanciando larghe occhiate fuori.

Non c’era nessuno.

Stava per richiudere, quando un gatto bianco balzò sul davanzale e lo richiamò con un miagolio.

«Ciao, micio», borbottò Aaron perplesso «Siamo al primo piano, come hai fatto a saltare quassù?».

«Vieni con me», disse il gatto, e balzò via.

Aaron lo osservò basito. Rimase fermo alla finestra qualche istante, poi si infilò in fretta e furia un paio di jeans e corse a mettersi le scarpe.

 

In strada non trovò il gatto ad attenderlo, ma un giovane uomo dall’aspetto singolare. Era piuttosto alto – almeno un metro e novanta – ed aveva lunghi capelli color avorio e tratti androgini.

Ed era bello, molto.

Un Sacerdote, osservò mentalmente Aaron. L’uomo sollevò gli occhialetti da sole che portava sul naso e lo fissò torvo.

«Ma ci mancherebbe!», esclamò, come leggendogli nel pensiero «Io uno di quei mentecatti esaltati! Lo so che non sono tanto macho, ma non sono castrato! Cioè, non così, almeno».

«Mi... mi scusi», borbottò Aaron «Ma lei cosa...».

«Seguimi, ragazzino. Andiamo in gita!», disse allegro l’uomo. Si spostò alle spalle di Aaron e lo spinse in avanti «Andiamo a trovare Till caro. Certo, gli avevo promesso che non l’avrei fatto, peròòò...».

«Lei è pazzo», sbottò Aaron spostandosi di lato «Non sarei dovuto uscire. Anche se quel gatto...».

«Ma insomma, perché dovete fare sempre tutte queste storie? Aaah, i bei tempi andati, in cui la gente si fidava subito e non faceva troppe domande noiose! Ora tutti vogliono essere convinti, e non è divertente se hai fretta. Che rottura voi umani, chiedete sempre a sproposito».

«Non la seguo», disse Aaron «Cosa vuole da me?».

«Te l’ho già detto, insomma! Andiamo da Till! Non volevi forse vederlo?».

«E lei come lo sa?», chiese il ragazzo, confuso. Si portò una mano alla testa, massaggiandosi una tempia.

Non ci stava capendo più niente.

«Mettiamola così», disse l’uomo, incrociando le braccia dietro la schiena ed ignorando la domanda «Se non mi segui ora, perderai l’unica occasione che hai per rivedere Till e farti dire la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità. Certo, potrei raccontarti tutto io... ma vedere Till caro che si tormenta è molto più divertente. Però...».

Piroettò su se stesso e diede le spalle ad Aaron.

«... Dipende anche dalle condizioni in cui è. Sono piuttosto curioso».

«Dalle sue condizioni?», ripeté Aaron «Potrebbe essere messo male?».

L’uomo si strinse nelle spalle «Chissà, forse. Deciditi in fretta, comincio ad annoiarmi a non far niente. E poi la strada è luuunga...».

Cosa devo fare?, pensò Aaron turbato. Quello strano individuo lo inquietava – poteva essere un pazzo assassino, e seguirlo non sarebbe stato molto saggio.

Però sembrava conoscere Till sul serio.

Rifletté ancora qualche istante, e alla fine decise di rischiare.

«Va bene, vengo».

«Mi sono venute in mente almeno quindici battutine volgari», disse l’uomo, rivolgendogli un sorriso divertito «Ma per questa volta te le risparmio. Seguimi, da qui all’Achre sono minimo minimo otto chilometri, ci metteremo almeno un paio d’ore. Cerca di tenere il passo, Aaron caro».

L’uomo si incamminò, le braccia sempre incrociate dietro la schiena in quel modo scomodo, e Aaron lo affiancò.

«Dimmi una cosa, tizio strano», gli disse, e l’altro gli sorrise.

«Prego».

«Conosci Till, sai chi sono io... ma tu chi sei?».

L’uomo si passò la lingua sui denti, sulle labbra un sorrisetto beffardo, e ad Aaron la mossa parve molto familiare.

«Non posso dirtelo. Poi scappi via e la nana di merda mi scopre, e noi non vogliamo questo, giusto?».

«La... “nana di merda”?», ripeté Aaron, e l’uomo annuì «E chi sarebbe?».

Con un’espressione innocente sul viso, l’uomo puntò un indice verso il cielo.

«La... la somma Izdihaar?», chiese Aaron, sgranando gli occhi «E lei la chiama “nana di merda”?».

«È alta un metro e quaranta, come la devo chiamare? “Pertica”?».

Sconvolto, Aaron tacque, e l’uomo cominciò a monologare su qualcosa che aveva a che fare con le stagioni e i cambiamenti climatici.

 

L’uomo continuò a parlottare – più a se stesso che ad Aaron – per tutto il tragitto. Il ragazzo tentò in qualche momento di seguirlo, ma lo strano tizio sembrava avere l’innata capacità di mettere in fila frasi completamente disconnesse, e ad Aaron bastavano pochi minuti per perdere il filo del discorso.

Solo quando giunsero presso il muro esterno dell’Achre l’uomo tacque. Fece segno ad Aaron di seguirlo e si diresse verso un piccolo ingresso posteriore, lanciandosi di tanto in tanto qualche occhiata attorno.

«Non passa nessuno», disse Aaron, e l’uomo scosse la testa.

«Occhi Belli osserva sempre tutto. Magari si starà chiedendo perché un ragazzino si aggira tutto solo attorno all’Achre in piena notte».

«Ma io non sono “tutto solo”», osservò Aaron. L’uomo rise ed esaminò la serratura dell’alto cancelletto nero.

«Occhi Belli è troppo stupido per vedermi», rispose, e posò un indice sulla toppa. Fece poi un passetto indietro, e colpì il cancello con un calcio all’altezza della serratura.

Questa si ruppe, e l’uomo indietreggiò ancora.

«Prego».

Aaron entrò e l’altro lo seguì, accostando il cancello dietro di sé.

«Spero che Till caro abbia concluso. Sarebbe fastidioso irrompere».

«Concluso cosa?», chiese Aaron «Vuole degnarsi di spiegarmi cosa succede?».

«Eeh, calmino. Ora vedi», rispose l’uomo. Si diresse verso una piccola porta e l’aprì «Toh, stavolta non c’è bisogno di trucchetti. Dimmi, ragazzino, lo sai che gli Achre sono insonorizzati?».

«Avevo sentito qualcosa del genere. C’è una sorta di incantesimo, no?».

«Eggià». Entrò, e rimase qualche minuto ad annusare l’aria con espressione estasiata.

«Ma che buon profumino!».

Aaron mise dentro la testa, ma non sentì nessun odore.

 

Un odore strano lo avvertì però mano a mano che lui e il tizio pazzo si addentravano nell’Achre.

«Questa è la Sala delle Cerimonie», gli spiegò l’uomo, indicando un ampio portone «Cos’è quella faccia?».

Aaron si portò una mano alla bocca, cercando di trattenere i conati.

«Questa puzza… è terribile! Sembra sangue!».

L’uomo sorrise e si carezzò i denti con la lingua.

«Non è sangue, vero?», chiese Aaron inquietato. Si lanciò qualche occhiata attorno ed aggiunse: «E perché non abbiamo incontrato nessuno?».

«Sono tutti lì dentro, ovvio», rispose l’uomo, e spalancò il portone.

Il tanfo di sangue investì Aaron con tanta violenza da farlo vomitare. Cercando di farsi forza alzò lo sguardo e si lanciò rapide occhiate attorno.

Non c’erano cadaveri come dall’odore si sarebbe aspettato, solo sangue. Sangue ricopriva le pareti e il pavimento della lunga sala rettangolare, sangue ricopriva le panche, sangue ricopriva i tendaggi, i candelabri, l’altare in fondo alla stanza.

«C’è una sorta di buongusto in tutto ciò…», commentò l’uomo, saltando una pozzanghera scarlatta. Si guardò attorno e rise.

«Ora sì che la nana malefica s’incazza».

«Cosa... cos’è successo qui? Till sta bene?», mormorò Aaron, e a rispondergli fu una voce alle sue spalle.

«Io sto benissimo».

Aaron si voltò di scatto, e si trovò davanti Till. Indossava la tunica bianca e oro dei Sacerdoti, e tolti pochi centimetri in basso era perfettamente linda; ma non fu quella a sconvolgere Aaron.

Il viso di Till era diverso. L’occhio sinistro era diventato d’una tonalità purpurea, e il lato destro del viso era di un colore fra il nero e il viola che gli ricordò quasi la cancrena.

«Till!», esclamò, e gli poggiò le mani sulle braccia «Che ti è successo?».

Till lo trafisse con un’occhiata tanto gelida che Aaron sentì gli organi interni rivoltarsi.

Non gli sorrise come aveva sempre fatto, né lo trattò con quell’intimità che avevano raggiunto nell’ultimo periodo.

«Cosa ci fai tu qui?», gli chiese, il viso inespressivo, e Aaron sussultò.

«Mi... mi ci ha portato lui».

Till mosse appena la testa per guardare oltre Aaron e mormorò, quasi scocciato: «Ti avevo chiesto di non farlo. Ma ormai, per quel che vale...».

Distese le labbra in un sorrisetto divertito.

«Allontanati», disse, ma Aaron non si spostò.

«Cosa ti è successo?», gli chiese, sforzandosi di ignorare il groppo che gli bloccava la gola «Non... non mi sembri... non sei...».

«Allontanati», ripeté Till, e lo spinse di lato. Questa volta Aaron non oppose resistenza, era troppo sconvolto per riuscire a fare qualcosa.

Chi era quello?

«Wow», commentò l’uomo, in piedi poggiato ad una panca «Dritta dritta al cervello, questa volta. Non ti è andata liscia».

Till si strinse nelle spalle ed avanzò verso l’altare zoppicando.

«Ma quindi», continuò l’uomo, lanciando ad Aaron occhiatine divertite «Non hai più intenzione di dirgli tutto?».

«Se vuoi farlo tu...», rispose Till.

«Zanuccio che penserebbe di te, ora? Non credi sarebbe arrabbiato?», lo provocò l’uomo, ma Till parve non sentirlo neanche.

«Cazzo, mi spiegate che sta succedendo?!», esclamò Aaron, portandosi le mani alla testa. Gli veniva da piangere, ma non aveva intenzione di lasciarsi andare «Che c’entra mio fratello? Perché Till è... è...».

Tacque, incapace di continuare.

«Oh, è una storia divertente», disse l’uomo, incrociando le mani dietro la schiena «Anche se raccontandotela io si perde la metà del divertimento – ossia la reazione di Till caro, ma a quanto pare ormai è andato...».

«Ti prego, arriva subito al punto!», esclamò Aaron, sul viso un’espressione disperata «Smettetela di prendermi in giro!».

«Uh, che impaziente. Allora senti un po’: Till e il tuo fratellino caro si conoscevano. Bene, molto bene».

«Questo l’avevo capito», mormorò Aaron, e l’uomo rise.

«Si conoscevano talmente bene che ad un certo punto si sono pure messi a fare i piccioncini! Roba da diabete, davvero».

Aaron sgranò gli occhi. Tentò di dire qualcosa, ma dalla bocca non gli uscì nemmeno una frase di senso compiuto.

«Solo che – poveri, poveri piccoli – ad un certo punto Zane si è ridotto male, tanto tanto male. E Till caro...».

«L’ho ucciso», concluse Till. Prese il bastone di legno poggiato sull’altare e si voltò «Purtroppo non c’era altro da fare».

Aaron si sentì svuotare. Scivolò in ginocchio, cercando con tutte le proprie forze di raccogliere le idee ed affrontarle, ma gli turbinavano in testa tanto violente da non riuscire a focalizzarle, ed era come se non ci fosse stato niente.

L’unica cosa che riuscì a fare fu scuotere la testa.

«Mi spiace averti mentito. Cioè, forse», disse Till avvicinandosi. Il suo tono di voce era tanto piatto e gelido che Aaron non riuscì più a trattenersi.

Si portò una mano alla bocca e singhiozzò.

«Che... che cosa ti è successo, Till? Perché ora fai così?».

Il ragazzo si strinse nelle spalle «Forse sono davvero ad uno stadio superiore di conoscenza, o forse la Corruzione mi ha mangiato il cervello» fissò il tizio pazzo e gli rivolse un sorrisetto cinico «Forse avrei dovuto scegliere qualcos’altro, ma mi sono divertito».

«Oh, pure io», rispose l’uomo, e Aaron rivolse lo sguardo verso di lui.

«Ma tu chi-», cercò di chiedergli per l’ennesima volta, ma si interruppe.

L’uomo vestiva ora un’armatura dai colori scuri ed aveva lunghi, lunghissimi capelli azzurri.

Aaron cominciò a scuotere la testa freneticamente. Cercò di risollevarsi, ma scivolò e cadde indietro.

«Te l’avevo detto che avresti fatto così», rise il Caos, e si passò la lingua sui denti affilati.

«Tu... tu non puoi esistere davvero», balbettò Aaron «La Trinità ti ha... cioè... Till, perché hai...».

Till si strinse nelle spalle.

«Non puoi capire, Aaron. E a dire il vero non lo capisco tanto nemmeno io, ora».

Lo raggiunse e gli porse una mano, rivolgendogli un sorriso malinconico che per un attimo gli ricordò il Till di prima.

Aaron accettò l’aiuto e si rialzò, senza riuscire ancora a smettere di piangere.

«Te l’avevo detto che non ci saremmo più potuti vedere», gli sussurrò Till, e si voltò verso il Caos «Quanto mi costerebbe chiederti di risparmiarlo? In fondo l’hai trascinato tu in questa storia».

«Te lo concedo», rise il Caos «Vedrò di accontentarmi».

Si avvicinò lentamente, e ad ogni passo Aaron si rendeva conto di stringere un po’ più forte le braccia di Till.

«Tranquillinooo, non ti faccio niente. Ma non darmi fastidio, o la nana di merda arriva prima e allora son cazzi».

Si chinò su di lui, sovrastandolo – ora doveva essere alto più di due metri – e gli prese il mento fra le dita.

«Cosa vuoi farmi?», singhiozzò Aaron, e con l’altra mano il Caos si sfilò l’elmo.

Aveva davvero occhi vuoti. Aaron ebbe come l’impressione che sarebbe riuscito ad infilarvi due dita per tutta la loro lunghezza senza riuscire a toccar niente.

Il Caos gli posò le labbra gelide sulla fronte, poi si ritrasse.

«Fatto. Ora perdonatemi se vi abbandono sul più bello – quanto adoooro gli addii strappalacrime, rido quasi più che alle mie battute – ma vorrei far dannare la nana ancora un pochetto, se permettete. Oh, e Aaron...!» gli sorrise e si portò l’indice all’altezza del naso «Ssh, acqua in bocca. Lo dico per te, se il trio di buffoni ti scopre... poi son cazzi amari».

Accennò un saluto con una mano e scomparve, ed in quel momento Aaron si sentì come liberato da un peso.

Volse lo sguardo verso Till e gli sfiorò la guancia sana con una mano.

«Non è giusto», sussurrò, e Till si strinse nelle spalle.

«L’ho pensato un sacco di volte. Vorrei potesse dispiacermi per te, ma in questo momento proprio non mi riesce».

«È così... improvviso, io non...» Aaron si passò una mano sulla faccia, cercando di fermare le lacrime, ma queste non obbedirono alla sua volontà «Che cosa hai fatto, Till?».

«Ricordi quella cosa che mi hai chiesto l’altro giorno? Se avessi potuto esprimere un desiderio, cos’avrei chiesto?».

Aaron annuì «Il potere del Caos».

«Esatto. Purtroppo pare che noi umani non siamo fatti per portare in noi il potere di una qualche creatura superiore senza pagare un prezzo. Però...» distese le labbra in un sorriso cinico, e Aaron si morse un labbro «... Però è entusiasmante».

«Ma perché tutto questo?!», esclamò Aaron allargando le braccia «Perché hai fatto tutto questo?!».

«Un “perché sì” immagino non valga come risposta, mh?».

«No».

«Beh, accontentati. Non hai visto ciò che ho visto io, non puoi capire. E, ad essere sincero, nemmeno io lo capisco più tanto bene».

«Till...», sussurrò Aaron, poi tacque.

Non aveva senso continuare, non c’era più niente da aggiungere.

Si sentiva tanto male da non riuscire quasi a respirare.

«Dimenticami», gli sussurrò Till, e dopo essere indietreggiato compì col bastone uno strano simbolo a mezz’aria.

Per un attimo Aaron non vide niente, e l’immagine successiva fu quella del bagno di casa sua.

Si fissò allo specchio, ritrovandosi più sporco di sangue di quel che credeva. Chiuse a chiave la porta, riempì la vasca d’acqua e nel frattempo si svestì, la mente tanto vuota da impedirgli anche di piangere.

Fu quando si fu immerso nell’acqua bollente che i pensieri tornarono tutti insieme e lo sovrastarono.

Raccolse le gambe al petto e ricominciò a piangere in silenzio.

 

Somewhere in time I will find you and haunt you again
Like the wind sweeps the earth
Somewhere in time when no virtues are left to defend
You've fallen deep

 

I was a liar in every debate
I drew the forces that fueled your hate
When the cold in my heart leaves, it comes to an end
Quietly now go to sleep

 

Al telegiornale trasmettevano immagini della facciata dell’Achre.

Una giornalista dai capelli scuri parlava animatamente, ma Aaron portava una cucchiaiata di cerali dopo l’altra alla bocca senza nemmeno sentirla.

Annet lo fissò quasi preoccupata.

«Ehi, che hai?», gli chiese, cercando di buttarla sul ridere «Ti ha mollato la ragazza?».

«Non è il momento, Annet», borbottò lui, fissando il latte con aria mogia.

«Fidati di me, ne troverai migliaia molto meglio. Ma dove hai sbattuto la testa? Lo sai che alle donne i maschi goffi non piacciono, vero?»

«Sbattuto la testa?», ripeté Aaron, e Annet annuì.

«Hai un livido, lì in mezzo alla fronte. Che hai fatto ieri sera, bevuto come una spugna? Si spiegherebbe la faccia che hai oggi, in effetti».

Aaron si alzò e raggiunse il bagno per specchiarsi. Sua sorella aveva ragione, aveva una macchietta violacea sulla fronte di non più di due o tre centimetri di diametro.

Istintivamente abbassò lo sguardo sul ginocchio destro.

Qualcosa, dentro di lui, gli diceva che non sarebbe finito tutto lì.

 

Somewhere in time I will find you and love you again
Like the wind sweeps the earth
Somewhere in time when no virtues are left to defend
You've fallen deep

I was a liar in every debate
I rule the forces that fueled your hate
When the cold in my heart leaves, it comes to an end
Quietly I'll go to sleep

 

[Kamelot, “The Haunting (Somewhere in Time)”]

 

 

 

 

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