Il sogno di un sogno: Our Future di _Pulse_ (/viewuser.php?uid=71330)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1.1 ***
Capitolo 3: *** 1.2 ***
Capitolo 4: *** 1.3 ***
Capitolo 5: *** 1.4 ***
Capitolo 6: *** 1.5 ***
Capitolo 7: *** 1.6 ***
Capitolo 8: *** Runaway with my heart ***
Capitolo 9: *** Vending machine's boy ***
Capitolo 10: *** I want to fall in love! (Part I) ***
Capitolo 11: *** I want to fall in love! (Parte II) ***
Capitolo 12: *** Loneliness kills ***
Capitolo 13: *** It’s always (a) life ***
Capitolo 14: *** Someone new ***
Capitolo 15: *** Something wrong ***
Capitolo 16: *** Look's fight ***
Capitolo 17: *** Choices ***
Capitolo 18: *** My melody ***
Capitolo 19: *** Parents & Sisters ***
Capitolo 20: *** The bunch ***
Capitolo 21: *** Happy new year... ***
Capitolo 22: *** Together we'll make it ***
Capitolo 23: *** Freedom to love you ***
Capitolo 24: *** Maybe, friends ***
Capitolo 25: *** Houses ***
Capitolo 26: *** Always happy ***
Capitolo 27: *** Contradiction. Perfect. ***
Capitolo 28: *** Alone ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
It’s
a damn cold night
Trying to
figure out this life
Wont to take
me by the hand
Take me
somewhere new
I don’t know
who you are
But I’m…
I’m with you
(
I’m with you
– Avril Lavigne )
Prologo
Finalmente il mio giorno
libero.
Ero seduta sul divano, tranquilla, che leggevo. La mia
tranquillità venne però
interrotta quando sentii qualcuno correre giù per le scale.
«Stefan!
Quante volte ti ho detto
che non devi non correre sulle scale!»
Stefan, con la cartella
in
spalla, sbuffò: «E dai mamma!» Corse in
cucina, dove c’era Sharon, che stava
facendo colazione. «Ciao Shary! Tutto a posto?»
«Sì.
Alex?»
«È
ancora di sopra. Cerca sempre
di farsi i capelli come me, ma è una causa persa.»
Sharon rise e si
alzò per mettere
la tazza nel lavandino, poi si appoggiò al ripiano della
cucina. Stefan, mentre
mangiava, iniziò a gridare ad Alex: «Alex!
Muoviti! Sempre a fare il
perfettino!»
Dal piano di sopra si
sentì la
voce di Alex: «Non mi chiamare perfettino!»
E poco dopo scese anche lui. «Eccomi, sono a posto i
capelli?»
«Beh, meglio
del solito.»
«Grazie,
sempre gentile. Menomale
che sei mio fratello! Ma io dico, mamma sei sicura che questo coso
sia mio fratello gemello? Non c’è
stato, per un tragico errore, uno scambio di gemelli, una roba del
genere?»
«Nessuno
scambio di gemelli.
Quello è tuo fratello, anche se non sembra.»
«Ah ah, anche
tu mamma ci vai
pesante quando vuoi!»
«Certo Stefan,
avrai preso da
qualcuno.»
«Va
bè, la vinci sempre tu.» Si
avvicinò e mi baciò sulla guancia, abbracciandomi
da dietro, come faceva sempre
suo padre.
«Vado. A te ti
aspetto fuori! E
muoviti una buona volta!», gridò riferendosi al
fratello.
«Arrivo
Ste!», urlò Alex mentre
squadrava Sharon. «Sei più carina del solito oggi.
Che hai fatto?»
Sharon
arrossì e abbassò lo
sguardo. «Niente. Comunque grazie.»
«Prego.»
Lei alzò la
testa e guardò
l’orologio alla parete. «Muoviti che è
tardi.»
Lo guardò
anche Alex: «Ah già! Allora
ciao!» Corse alla porta.
«Lo zaino
Alex! Ma dove hai la
testa?!»
Tornò
indietro e prese lo zaino.
«Sì, grazie mamma. Ciao!», e
uscì.
«Ah, i miei
bambini stanno
diventando grandi. Vero Sharon?» Mi alzai e andai in cucina.
«Sì,
forse.»
«C’è
qualcosa che non va? Ti vedo
un po’ giù.»
«No zia, non
ti preoccupare.»
«Ok. Beh,
pensa che ieri Alex mi
ha detto che oggi doveva uscire con una ragazza, una sua compagna di
scuola, e
ha anche detto che non lo dovevamo aspettare per cena. Sono
così felice per
lui, tu no?» La guardai, aveva una faccia strana.
«Ah, una
ragazza. Boh.»
Si alzò in
fretta e corse su in
camera sua: poster dappertutto, il letto gigante, rotondo e con le
coperte
fucsia, e il muro sopra il letto ricoperto di foto, una sua grande
passione.
Si era appassionata alla
fotografia quando suo padre, Bill, l’aveva portata ad una sua
sfilata di moda,
da lì in poi, ogni volta che poteva scattava foto, poi con
un modello come suo
padre era a posto.
Bill, infatti, oltre che
alla
musica, da qualche anno si era deciso a fare una sua linea di vestiti
ed ora
era anche uno stilista di successo. Tom era molto fiero di lui ed era
presente
a tutte le sue sfilate, come noi.
Al muro
c’erano appese una marea
di foto, con soggetti sempre diversi: le sue amiche, le foto delle
sfilate che
Bill le faceva scattare volentieri, quelle dei concerti, visto che era
appassionata anche di musica, ce l’aveva nel sangue, e molte
foto di lei con
Stefan e Alex.
Quei tre erano
legatissimi: ne
avevano passate veramente tante assieme e ormai erano come fratelli,
non
riuscivano a stare molto tempo gli uni lontani dagli altri.
Entrai in camera: Sharon
era
seduta sul letto e stava preparando la cartella. Andava abbastanza bene
a
scuola, anche se aveva sempre la testa tra le nuvole. Il suo grande
sogno era
di diventare fotografa, anche se stava imparando a suonare
professionalmente il
basso, il suo strumento preferito, oltre che a prendere lezioni di
canto, sia
da suo padre che in una scuola di musica. Ovviamente, il canto lo aveva
preso
da Bill e la passione per il basso, invece, da zio Georg. Da piccola
restava
incantata a guardarlo suonare ai concerti, era innamorata di quello
strumento.
A casa in pratica non
c’era mai,
per un impegno o per l’altro era sempre fuori, era molto
difficile vederla a
far niente.
Prese la cartella e se
la mise in
spalla. Aveva la faccia triste e io me ne accorgevo sempre e subito se
le
succedeva qualcosa.
«È
successo qualcosa Sharon?»
Lei si girò
spaventata e con una
mano al cuore sorrise e mi rispose che non c’era niente che
non andava, ma io
non ero convinta.
«Ne sei
sicura?»
«Sìììì,
non ti preoccupare.»
«Non ne vuoi
parlare?»
«Se ti ho
detto che non ho
niente, di cosa devo parlare?»
«Mmh,
ok.» Mi girai e mi avviai
verso le scale: era inutile insistere, sapevo bene che così
non facevo altro
che ottenere l’effetto contrario.
«Zia!»,
mi chiamo all’improvviso.
«Sì?»
«È
successo qualcosa, ma non ne
voglio parlare. Sono ancora confusa. Forse più avanti.
Comunque grazie.»
«Prego
piccolina. Se vuoi parlare
sai dove trovarmi.»
«Sì,
grazie.»
Corse giù in
sala superandomi e incontrò
suo padre e suo zio, Tom, che stavano per uscire.
«Ehi!
Aspettate!»
Bill tenne la porta
aperta e lei
uscì correndo, passando sotto il suo braccio.
«Prego,
eh?!»
Lei corse fino al
cancello e poi
tornò indietro. Diede un bacio sulla guancia a suo padre e
lo salutò: «Ciao
papà! Ci vediamo dopo.» Poi corse via di nuovo.
«Sì,
ciao! Fai la brava!»
«Sìììì,
ciao! Ciao zio!»
«Ciao!»
Scesi giù e
vidi Tom già fuori
dalla porta. «Te ne vai senza salutarmi?»
Si girò e mi
venne incontro,
facendo una corsetta: «Amore mio bello!»,
gridò prendendomi in braccio e
facendomi cadere sul divano, fra le risate.
«Tom!»,
scoppiai a ridere ai suoi
baci. «Non cambi mai!»
«Certo che
no», sussurrò prima di
donarmi un ultimo bacio e di uscire dalla porta con Bill, che sorrideva
scuotendo la testa.
«Ciao!»
Ripresi il mio amato
libro,
abbandonato sul divano, aperto nella pagina in cui mi ero fermata a
causa di
quella peste di Stefan, mio figlio, insieme ad Alex, suo fratello
gemello. Che
coincidenza, eh? Biondi come Tom e con gli occhi uguali ai miei, per
fortuna: alla
fine a qualcuno li avevo passati.
E poi c’era
Sarah, la piccola della
casa, di tre anni, che avevamo voluto sia per nostalgia dei vecchi
tempi sia
perché veder crescere Sharon mi aveva resa desiderosa di
avere una figlia
femmina anch’io. Lei era totalmente uguale a me, a parte per
la forma delle
labbra, che era quella di quelle di Tom, così dicevano.
Era passato
così tanto tempo,
eppure sembrava che non fosse cambiato nulla, a parte i figli e i
legami più
stretti.
Appoggiai il libro sul
divano, di
nuovo. La voglia di leggere mi era passata, ora volevo solo rileggere i
miei ricordi.
___________________________________________
Tadadadaaaan
*-*
Ladies and gentleman, ho l’onore di presentarvi il sequel de
Il
sogno di un sogno.
L’avete aspettato per così tanto tempo, ora
è qui! Non mi
sembra possibile, ma è proprio così. Alla fine ce
l’ho fatta xD
Scusate
per il capitolo corto, ma è solo il Prologo ed è
un
modo per incuriosirvi, oltre che per ritrovarvi. Spero solo che vi sia
piaciuto
un pochino! :D
Spero
tanto di non deludere le aspettative, davvero ): E di non rovinare il
buon nome de Il sogno di un sogno.
Con
questo è tutto, fatevi sentire! Ringrazio in anticipo chi ha
letto e chi
lascerà una piccola recensione e sfrutto
l’occasione per ringraziare Utopy
per la recensione all’ultimo
capitolo del Behind!
Al
prossimo aggiornamento ( sarà sempre di lunedì,
così è
stato deciso xD ), un bacio grande a tutti e ancora grazie! Con
affetto, vostra
_Pulse_
|
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Capitolo 2 *** 1.1 ***
1.1
Antonia avrebbe smesso definitivamente di
chiamarmi La piccolina di
casa? Forse no,
ma per quel giorno sì. Ora
avevo vent’anni ed eravamo pari.
Ero di fronte alla finestra della nostra
camera e guardavo fuori: diluviava.
Era una giornata come le altre, però pioveva; pioveva da
quella notte e
sembrava non volesse più smettere.
Peccato che il mio compleanno fosse in un
giorno di pioggia, mi era
sempre piaciuto di più il sole. Forse però non
era un caso. Anche quella volta,
cinque anni prima, quando avevo fatto i miei quindici anni diluviava.
Tom si avvicinò al letto e si
sedette di fianco a me.
«Che ci fai qui da sola?
È il tuo compleanno, vieni di là. Stanno
aspettando
tutti te», mi abbracciò. Mise la mani sul mio
pancione e lo accarezzò.
«Anche voi, ditelo alla mamma: non
può stare qua da sola il giorno del
suo compleanno, o no?», mi guardò e sorrise.
«Arrivo subito», dissi
regalandogli un sorriso.
«Ok», mi
baciò sulla guancia e uscì dalla camera.
Io, Tom, Anto e Bill avevamo preso una casa
assieme e vivevamo tutti in
armonia, come piaceva dire a Bill. Poche volte litigavamo, raramente.
Ma questo
già da quando ci eravamo sposati io e Tom.
Appoggiai la mano sulla pancia. Non avevamo
ancora pensato ad un nome,
anzi, due. Non potevo ancora credere che quei due angioletti che
dovevano
nascere, erano miei e di Tom, era troppo strano da pensare, da
immaginare.
Il bello della gravidanza era che tutti si
prendevano cura di te,
perciò, anche se non mi serviva nulla veramente, dicevo
qualcosa e quella cosa
magicamente arrivava. Tutti si offrivano sempre di fare le cose al
posto mio, io
cercavo di non sfruttare troppo la situazione, ma c’era
sempre quella forte
tentazione.
Mi alzai dal letto e andai alla finestra,
Micio saltò giù dalle mie
gambe: anche lui era cresciuto. Guardai per un’ultima volta
fuori, la pioggia
che cadeva incessantemente, poi raggiunsi gli altri in sala.
C’erano proprio tutti: Bill, Anto,
Tom, Gustav, Giulia, Georg e Nicole.
Era come tornare indietro nel tempo.
«Ary! Auguri!»,
incorarono le voci femminili presenti nella stanza.
Salutai tutti con baci, abbracci e un carico
enorme di sorrisi, poi mi
andai a sedere sul divano di fianco a Tom, che mi mise il braccio
intorno alle
spalle.
«Allora dai, è un
po’ che non ci vediamo. Racconta un po’, tutto a
posto?»
«Sì,
sì», misi la mano sulla pancia. «Tutto
normale.»
«Ancora non riesco a credere che
siano due gemelli!», disse Giulia.
«Ebbene sì, due
maschietti. Ironia della sorte, ne?»
Tom mi guardò e sorrise, poi
guardò Bill. Dal giorno in cui gliel’avevo
detto, Bill continuava a pensare a quando avrebbero preso il loro posto
sulla scena
musicale, voleva che seguissero la loro carriera da musicisti.
«Che tenera, Ary sarà
mamma», squittì Nicole sorridendo dolce come solo
lei sapeva fare.
«Avete già pensato a
dei nomi?», chiese Gustav.
Io e Tom ci guardammo imbarazzati. Tom si
mise una mano dietro la testa
e rispose anche per me.
«In verità no, non ci
abbiamo ancora pensato.»
«E cosa state
aspettando?»
«Non lo so. È che
ancora devo realizzare che sarò padre! Non posso
già
pensare ai nomi!»
«Infatti, tu, padre»,
Bill lo guardò e sorrise. «Io, invece,
sarò zio!
Non vedo l’ora.» Neanche Tom aveva così
tanta fretta, lui che era il padre! «Peccato
però, avrei preferito una femmina.»
«Ma sei scemo?! No, no. Le femmine
sono più difficili da crescere. Te
lo dico io che sono una femmina!», dissi lanciando uno
sguardo di intesa a Tom.
Ci misimo tutti a ridere.
La serata passò piacevolmente e
quando si fece tardi Gustav, Georg e
compagne tornarono a casa. Fu allora, quando le loro macchine si
allontanarono,
che decisi di andare dritta a letto. Era stancante avere quei due pesi
in
pancia e la sera la mia schiena era completamente a pezzi.
Mi sdraiai sul letto e Tom venne a stendersi
di fianco a me. Avevo lo
sguardo perso nel vuoto e mi accarezzavo la pancia soprappensiero,
mentre Tom
mi guardava e mi vedeva un po’ più strana del
solito.
«C’è qualcosa
che non va?», mi chiese, io scossi la testa.
«Sicura?»
Lo guardai negli occhi e sorrisi. Era sempre
così premuroso e
protettivo nei miei confronti, che un semplice ringraziamento non
bastava mai.
«Sì, è tutto
ok. Sono solo stanca, come sempre.»
Sorrise e mi diede un bacio tenero sulle
labbra.
«Senti, sta storia dei
nomi… Io pensavo che fosse presto.»
«Tom!», dissi tenendogli
il viso tra le mani. «Possiamo deciderli
quando vogliamo i nomi. Basta che ci muoviamo prima che
nascano.»
«Tu hai già qualche
idea?»
«Beh», guardai il
soffitto, poi i suoi occhi castani. «Mi piacerebbe
Alex, tu che ne dici? È carino, no?»
«Sì, non è
male.»
«Ok, ora sta a te scegliere il
secondo. Tu hai qualche idea?»
«In verità,
un’idea ce l’avrei, ma solo se per te va
bene.»
«Cioè? Quale sarebbe
questa idea?»
«Davide.»
Trattenni il respiro e guardai il soffitto
bianco. Davvero voleva
chiamare nostro figlio come il mio fratellino scomparso in mare
all’età di
undici anni?
«No», dissi.
«Non vuoi?»
Scossi la testa e chiusi gli occhi alle
lacrime. Tom mi abbracciò e
nascose il mio viso nel petto, cullandomi nel mio momento di debolezza.
«Ok, non fa niente. Mi
dispiace.»
«No invece, hai fatto bene. Se
volevi chiamarlo così, è giusto che tu
me l’abbia detto.»
«Ma ti ho detto anche che sarebbe
andato bene a me se fosse andato bene
a te.»
«Scusami Tom, ma non me la
sento.»
«Ok, non importa! Ci sono milioni
di nomi al mondo, dai.»
Alzai lo sguardo e gli sorrisi, era troppo
bravo con me, riusciva
sempre a farmi passare tutto.
«Adesso dormi», mi
passò una mano sul viso e mi baciò le labbra e
poi
la fronte prima di spegnere la luce.
Il giorno seguente sarebbe stata
un’altra monotona giornata: niente
lavoro, niente da fare. Per me era straziante, a parte quando stavo
male
ovviamente; in quelle occasioni non volevo altro che starmene a letto a
dormire. Ma quando stavo bene mi annoiavo moltissimo.
La mattina mi svegliavo, mi lavavo e facevo
colazione con tutti; poi
incominciavano ad andarsene, prima Bill e Tom, che andavano alla
Universal e
poi Anto, che mi lasciava da sola con Micio.
Lei lavorava come parrucchiera in un negozio
di cui era a capo e se
avesse voluto sarebbe potuta restare a casa con me, ma lei no. Per lei
era un
semplice passatempo. Faceva solo mezza giornata, però mi
annoiavo lo stesso nel
tempo in cui non c’era.
Pranzavo e dopo, di solito, mi sdraiavo sul
divano a guardare la tv.
Quasi sempre mi addormentavo e dormivo fino alle sei, sei e mezza,
quando
tornavano Bill e Tom. Anto tornava prima, ma non mi svegliava mai
perché sapeva
che durante la notte non dormivo niente e quindi avevo sonno.
Quando arrivavano Bill e Tom,
quest’ultimo mi veniva vicino e mi
baciava sulla guancia, dopo andava in cucina. Allora io mi svegliavo e
la
giornata si concludeva con il racconto di Bill su quello che avevano
fatto quel
giorno, mentre cenavamo. Ecco, le mie giornate erano così.
Tutti avrebbero pagato oro per essere al mio
posto, ma a me non
piaceva. Io ero attiva, eppure non potevo fare niente. Mi sentivo
prigioniera
dei miei figli, anche se quando ci pensavo scoppiavo sempre a ridere.
Loro mi
avrebbero donato la più grande gioia delle mia vita.
D’altro canto, Tom era un marito
eccezionale. Era sempre premuroso e mi
faceva sempre le coccole. Ero molto felice della mia vita. Dopo tutti
quei
problemi nella mia adolescenza, ora ero felice, non potevo chiedere di
meglio.
A volte mi fermavo a pensare a quando ero piccola e sognavo tutto
quello: un
marito che mi amava, dei figli, una famiglia mia. Ora quei sogni li
stavo
vivendo sul serio e anche meglio! Ero così piccola,
così ingenua, così piena di
sogni e di speranze. Il mio sogno più grande, quello di
avere una famiglia tutta
mia, si era realizzato.
Ne avevamo passate così tante
assieme, io e Tom, non me lo sarei mai
immaginato. Mi ricordavo benissimo quando mi aveva lasciata, di quanto
ci ero
rimasta male… Mi ero vista crollare il mondo addosso, quel
sogno era svanito,
distrutto. Di quanto avevo sofferto. Ma non ci dovevo più
pensare, ora ero lì
con lui e con lui sarei andata avanti.
***
La pancia sembrava che dovesse esplodere da
un momento all’altro, era
enorme. Mi accompagnarono in ospedale tutti e tre, Bill, Anto e Tom.
Nei giorni precedenti io e Anto avevamo
preparato la mia borsa, con
dentro tutte le cose possibili immaginabili per i gemelli, tra quelle
comprate
da me e quelle regalate qua e là.
L’infermiera mi
accompagnò in camera mia e mi fece vedere tutto, per
iniziare
ad ambientarmi.
«Bene, adesso voi altri potete
stare qui ancora per un po’ e poi verrà
la dottoressa per la visita, ok?»
«Dottoressa?», chiesi
preoccupata.
«Sì, la
dottoressa», ripeté l’infermiera come se
fossi scema.
«Io intendevo dire:
dov’è Mattia? Cioè… il
dottor Stevens?»
«Oh, è in sala
operatoria.»
«Ah, perfetto», dissi a
bassa voce. «Ahm, grazie comunque.»
«Prego, a dopo.»
L’infermiera uscì e mi sedetti sul letto.
«Uffa, io lo sapevo che qualcosa
sarebbe andato storto. C’è sempre stato
Mattia e adesso si presenta questa dottoressa?»
«Ma è in sala
operatoria», mi disse Tom prendendomi per le spalle
dolcemente.
«Non mi importa, io voglio tornare
a casa, Tom!», ero un pochino
nervosa e perciò mi lagnavo in continuazione. E poi non mi
erano mai piaciuti
gli ospedali.
«Calmati Ary», si
sedette di fianco a me sul letto e mi strinse la mano.
Se la portò alle labbra e la baciò.
«Non puoi tornare a casa, rilassati, andrà
tutto bene.» I suoi tentativi di rassicurarmi ebbero
l’effetto contrario,
infatti iniziai a tremare.
«No, no. Ho paura!»,
poggiai la testa sulla sua spalla.
Mi accarezzò i capelli e con voce
rassicurante continuò: «Ma di cosa
hai paura? Andrà tutto bene, non ti preoccupare.»
«Su Ary, andrà
bene.»
Mi tirai su e guardai Bill. Feci due respiri
profondi e sorrisi. «Ok,
andrà tutto bene. Ci provo.»
Bill si sedette su una sedia, di fianco alla
porta e si mise le mani
sulle ginocchia. «Non sto più nella
pelle.»
«Per cosa Bill?»
«Per i bambini, ma ci pensi? Io
zio!»
«Ah, comunque quando siamo nati
noi non avevi tutta questa fretta,
infatti sono nato prima io.»
«Ma che c’entra?! Quando
nasceranno voglio prenderne uno io in
braccio.»
«Forse, e dico forse, vorremmo
tenerli prima noi. Sai, siamo noi i loro
genitori, non per dire», dissi guardandolo male. Ero davvero
nervosa, mi
arrabbiavo molto facilmente. Peggio di una leonessa con i suoi
cuccioli.
«Ok sì, questo
è ovvio. Scusa, non volevo.»
Solo che mi accorsi di come gli avevo
risposto, in modo veramente
scontroso. «No, scusami tu Bill, è che sono
nervosa.»
«Fa niente, è normale.
È normale?», chiese, noi scoppiammo a
ridere.
Qualcuno bussò alla porta ed
entrò senza nemmeno aspettare la risposta:
doveva essere per forza la dottoressa, con l’infermiera.
Infatti.
«Buona sera, allora, come
sta?» Già la odiavo.
«Salve, bene.»
«Ok, allora come stanno i
gemelli?»
«Spero bene.» Guardai
Bill e Anto: «Volete vederli dal vivo? Dai, mi
fate compagnia.»
«Sei sicura?», avevano
un sorriso a trentadue denti, dubitavo che se gli
avessi detto di no se ne sarebbero andati. Annuii con la testa.
«Ok, allora possiamo fare
l’ecografia.»
Durante l’ecografia, sul monitor,
videro uno dei gemelli mettersi il
dito in bocca. Una rarità, era la prima volta anche per noi.
Bill era eccitatissimo
solo al pensiero di averlo visto. Quello era ciò che io
chiamavo fortuna.
Nonostante il fatto, ero molto più nervosa del solito:
stringevo la mano di Tom
e non la volevo più lasciare.
«Ok, è tutto a posto,
credo che nasceranno tra un paio di giorni. Beh,
comunque tu devi stare qui per altri controlli.»
«Ne è sicura? Dico,
è sicura che nasceranno tra un paio di giorni?»
«Sì, perché
si devono ancora girare, perciò non possono nascere
ancora.»
«Ah, ok.» Tom mi strinse
la mano e sorrise.
«Va bene. Allora io vado,
tornerò domani mattina. Se hai bisogno
Arianna chiama pure l’infermiera,
d’accordo?»
«Sì, certo, arrivederci
e grazie.»
Quando uscì, Bill e Anto non
facevano altro che parlare ancora del
gemellino, era diventato l’evento del giorno. In quel momento
mi arrivò un
calcio tremendo. Era sempre da quella parte che mi arrivavano i calci
più
dolorosi, tra i due bambini, quello che stava lì era il
più rompiscatole.
«Ahia!», mi toccai il
punto colpito sulla pancia. «Sempre tu a tirarmi
i calci!» Bill mi guardò come se fossi scema e poi
sorrise.
«Digli qualcosa Tom!»,
dissi.
«Non tirate i calci alla
mamma.»
«Grazie. Scusa se ti sfrutto,
però si calmano solo con te! Ma io non lo
so, ascoltano te e non me, possibile?!»
«Che cos’è
sta storia?», chiese un Bill divertito.
«Vedi Bill, quando Alex e Stefan
sentono la voce di Tom si calmano
subito e diventano degli agnellini. Invece, quando sentono la mia, non
succede
niente e continuano!»
«Che forza.»
«Certo, troppa.»
Rimasero fino a sera tardi. Verso mezzanotte
Bill e Tom si
addormentarono con la testa sul letto, io e Anto eravamo le uniche a
non
dormire. Lei era appoggiata con la schiena alla finestra. Tom mi
stringeva
ancora la mano e sorrisi guardandolo.
«Tom? Tom, svegliati»,
ci provai.
«Sono già
nati?», mugugnò facendomi ridere.
«Ma no! Mi chiedevo solo se non
è meglio per voi se andate a casa,
siete stanchi.››
«Sei sicura?»
«Sì, tanto non
dovrebbero nascere, tornate domani.»
«Va bene.» Si
alzò e scosse Bill, che si svegliò di colpo. Si
guardò in
giro e tornò alla realtà stiracchiandosi le
braccia.
«Mi raccomando, cerca di dormire.
E voi fate i bravi. Ci vediamo
domani.»
«Sì», risposi
sia per me che per i gemelli.
«Buonanotte amore mio, ti
amo.»
«Buonanotte, ti amo
anch’io.»
Mi baciò piano sulle labbra e poi
uscì. Bill mi baciò sulla guancia e
mentre stava per uscire anche lui, Anto gli disse: «E io chi
sono, scusa?»
Bill sorrise e la andò a baciare.
«Scusa, mi ero dimenticato di te.»
«Ma bravo!» Risero e poi
Bill uscì.
Il telefono di casa nostra suonò
nella notte. Tom si alzò
nell’oscurità, barcollando. Guardò
l’orologio: cinque e cinquantasei. Chi
poteva essere a quell’ora? Rispose al telefono con la voce
ancora assonnata, da
mezzo addormentato com’era.
«Pronto. Cosa?! Oh no, e menomale
che non dovevano nascere! Ok, arrivo.
Grazie Anto.»
Tornò di sopra e buttò
Bill giù dal letto, nel vero senso della parola.
«Muoviti, alzati!», gli
gridò. Lui si svegliò, la faccia
assonnatissima.
«Ehi, che è quella
faccia? E perché mi devo alzare?»,
mugolò Bill
cercando di scandire il meglio possibile le parole.
«Perché sono nati, ecco
perché.»
Bill si mise seduto di scatto: «E
che ci facciamo ancora qui?!»
Bill e Tom arrivarono correndo
all’ospedale e videro Mattia parlare con
un’infermiera. Appena anche lui li vide, lasciò
andare l’infermiera e corse da
loro.
«Ciao Tom, ciao Bill!»,
li salutò abbracciandoli. «Ah, congratulazioni
Tom, sono bellissimi.»
«Tu li hai già
visti?», chiese Tom incredulo.
«Beh, li ho fatti nascere,
è ovvio che li ho visti! Ma ora andiamo,
magari fai ancora in tempo a prenderli in braccio.» Li prese
per i gomiti e li
accompagnò verso la mia camera.
«È andato tutto
benissimo, Ary è stata molto brava», disse Mattia
sorridendo soddisfatto. «Solo che appena li ha visti
è scoppiata a ridere
perché ti assomigliano tanto.»
«E allora si è messa a
ridere?», chiese Tom divertito.
«Sì, ma vuol dire che
è andato tutto bene: di solito dopo un parto
gemellare le donne sono distrutte, invece lei continuava a ridere. Era
al
settimo cielo.»
«Sì, è fatta
proprio così la mia Ary.»
Mattia gli aprì la porta
sorridendo ed entrò assieme a loro. Io ero sdraiata
nel letto, con in braccio quello che era Alex; di fianco a me
c’era Anto, con
in braccio Stefan.
Tom fece qualche passo, lentamente, come se
avesse paura, e vide Anto
alzarsi e porgergli Stefan, con un sorrisone a trentadue denti.
«Piano, attento alla
testa.»
Tom lo prese delicatamente e lo tenne in
braccio. Aveva gli occhi
lucidi da quanto era felice, e poi si era accorto che davvero
somigliava
moltissimo a lui, ma riusciva anche a vedere me guardandolo.
«Ciao»,
mormorò, intanto mi guardò in cerca di un nome.
In effetti non
sapeva chi fosse l’esserino che aveva in braccio.
«Oh, quello è Stefan:
il più grande. Sei minuti più grande.»
«Ciao Stefan, sei
bellissimo.» Mise il dito nella minuscola manina di
Stefan e lui lo strinse facendo quasi piangere di gioia Tom, che era
ancora
incredulo. «Stefan, mio figlio.»
«Ohi, e questo chi è?
Figlio di nessuno?», gli feci vedere Alex, che
avevo in braccio io.
Tom mi guardò e sorrise. Si venne
a sedere sulla sedia di fianco al
letto. Bill entrò del tutto spinto da Mattia, che chiuse la
porta. Anche lui
era incredulo: continuava a guardare Tom con Stefan in braccio. Sul
serio, non
ci poteva credere!
«Saluta anche Alex,
neopapà», glielo feci vedere.
Guardò Stefan e poi
ritornò su Alex. «Beh, ciao Alex. In fondo
è solo
il nome che cambia», disse ridendo, visto che erano identici.
Bill era ancora immobile, l’unica
cosa che per fortuna faceva era
respirare.
«Su Bill, vieni. Mica mordono,
almeno, non ancora!»
Fece qualche passo verso di me sorridendo, e
quando fu vicino mi misi
seduta meglio.
«Non avevi detto che volevi
prenderne uno in braccio? Tieni, questo è
Alex.»
Bill lo prese e lo tenne benissimo, meglio
di Tom, ma solo perché Tom
era troppo emozionato. Anto gli andò di fianco e
guardò Alex insieme a lui.
«Ciao cucciolo, io sono
Bill.» Gli luccicavano gli occhi.
«Tenero», Anto lo
accarezzò sulla guancia.
Tom stava prendendosi ancora cura di Stefan.
Lo guardai e mi appoggiai
al cuscino, sorridendo: era proprio carino con i bimbi in braccio,
infatti,
come quando erano nella pancia, sentendolo parlare, erano molto
tranquilli. Tom
gli trasmetteva sicurezza.
«Sono proprio stupendi,
complimenti Ary», disse Bill con un sorriso
enorme.
«Beh, diciamolo, è
anche merito di Tom. Guardandoli bene, gli
assomigliano molto.»
Tom sorrise molto soddisfatto.
Dopo entrò
l’infermiera, con le culle di Stefan e Alex. Era
già l’ora
di portarli di là e lasciarli dormire.
«Buongiorno! Alex, Stefan, forza.
Lasciamo riposare la mamma.»
«Di già?»,
disse Tom incredulo.
«Adesso me ne occupo
io», disse Mattia. «Lascia pure qui, li porto
io.»
«Come preferisce,
dottore.» L’infermiera uscì dalla stanza
e io sorrisi
a Mattia, tirando le braccia in avanti. Non mi risparmiò un
suo abbraccio e io
gli accarezzai i capelli sussurrandogli: «Grazie,
dottore.»
«Prego sorellina», disse
affettuoso baciandomi sui capelli.
«Però adesso devono
proprio andare», disse tirandosi su e
ricomponendosi nel suo ruolo.
Salutai Stefan e Alex e Anto
aiutò Mattia a sistemarli nelle loro
culle.
«Ehi Ary, non ti dispiace se
andiamo con i gemelli, vero?» Anto mi fece
un sorriso e si aggrappò al braccio di Mattia.
«Ok, ma non ci provare con il mio
fratellone, sia chiaro», la
rimproverai. Bill diventò rosso di gelosia. Lei rise
sottovoce e andò da Bill a
scompigliargli i capelli durante un bacio.
«Ok, noi andiamo
allora», disse Bill ammaliato dalla sua musa.
Io e Tom rimasimo finalmente da soli in
quella stanza di ospedale. Sorrisimo,
non c’era niente da dire. Eravamo talmente contenti che non
avevamo bisogno di
parole per capirci. Mi baciò accarezzandomi i capelli.
«Bill e Anto ci snobbano per i
nostri figli!», disse scandalizzato.
«E per Mattia, soprattutto
Anto», gli feci notare.
«Sì, riflettendoci
bene, hai ragione.» Rise. «Mattia mi ha detto che
non la smettevi più di ridere, eh? È un buon
segno. Non sei stanca?»
«Un po’, ma mi sento
anche così vuota…», andai a cercare la
pancia che
non c’era più e chiusi gli occhi.
«Sì,
però…», mi prese le mani e se le
portò alle labbra per baciarle
una alla volta.
«Però cosa?»
«Però sono nati i
nostri bellissimi angioletti. Ne è valsa la pena.
Tante notti li ho sognati e… non sono come me li
immaginavo.»
«Sì, anch’io
non me li immaginavo così belli, sono proprio belli come
te.» Gli accarezzai le guance e lo baciai sulle labbra.
«E te»,
sussurrò.
«Forse», sorrisi.
«Comunque, d’accordo che sono bellissimi, ma non
sono
degli angioletti.»
«E perché? Sono stati
impeccabili.»
«Con te! Prima è
accaduta la stessa cosa che accadeva quando erano in
pancia. Con te sono dei veri angeli, invece prima che arrivassi tu non
la
smettevano di piangere! Ma come fai? Mi sveli il tuo segreto? Giuro che
non lo
dico a nessuno.»
«Non lo so, sarà lo
stesso che uso con le ragazze.»
Lo guardai storcendo il naso: «Non
è vero, di solito le ragazze quando
ti vedono si mettono ad urlare. Ti ho fregato, eh?» Rise e mi
baciò ancora.
Mi accarezzò la fronte
spostandomi i capelli di lato e mi sorrise
amaro, un velo di tristezza avvolse i suoi occhi sempre così
allegri.
«Mi dispiace», disse.
«E di che cosa?»
«Di non essere stato con
te.»
Gli misi un dito sulle labbra: «Ah
ah ah, zitto. Non importa, quello
che conta è che tu sia qui con me adesso. E comunque
è colpa della dottoressa.
Sai cosa mi ha detto?! “Oh
perbacco, i bambini si sono girati durante la
notte e ora vogliono uscire”! Ma ti
pare?! Poi è arrivato Mattia e ci ha pensato lui.»
Avevo persino imitato la
voce da gallina della dottoressa. «Però
è stata dura, c’era Alex che non voleva
più uscire! Sei minuti sono stati lunghissimi! Pensa tua
madre, dieci minuti
solo per Bill, povera.»
Tom rise di gusto e aggiunse:
«Dai, l’importante è che stiano bene,
no?»
«Sì, ma li hai visti?!
Sono identici!»
«Sì è vero,
ma io non ci credo ancora. Sei sicura che sono figli
nostri?»
«Sì!», gridai
di gioia e scoppiando a ridere. Lo presi e lo abbracciai,
poi mi lasciai andare sul letto, aggrappata ancora lui. Mi si
chiudevano gli
occhi dalla stanchezza, ma non volevo perdermi nemmeno un secondo dei
miei
bambini, non volevo perdere tempo a dormire.
«Ary? Ary?», mi
chiamò Tom.
«Eh?», mormorai in un
dormiveglia.
Tom sorrise e mi baciò sulla
guancia, si tolse le mie braccia da
intorno al collo e mi accarezzò il viso prima di uscire e di
lasciarmi al mio
sonno.
In fondo al corridoio Tom vide Bill e Anto,
che stavano guardando
aldilà del vetro Stefan e Alex.
«Ehi», disse
raggiungendoli.
«Tom!» Anto lo
abbracciò e lo baciò sulla guancia.
«Non avevo ancora
fatto in tempo a congratularmi con te. Ti assomigliano
molto.»
«Grazie», disse
leggermente imbarazzato. «In verità io non ci
riesco
ancora a credere. Sono i nostri figli, miei e di Ary, e mi sembra
così strano…»
«Eh già, ma vedrai che
con il tempo ti abituerai.»
Tom si gettò sul fratello, lo
strinse forte e Bill gli diede qualche
pacca sulla schiena, poi si separarono e si guardarono negli occhi
pieni di
gioia.
«Avete chiamato Georg e
Gustav?», disse Tom preoccupato.
«Sì, stai calmo. Stanno
già arrivando, dovevi sentirteli, erano tutti
agitati! Per non parlare poi di Giulia e Nicole, ho dovuto tenere il
cellulare
a distanza di sicurezza per non diventare sordo!»
«Immagino.»
«Anche il padre di Ary sta
arrivando con Lilian», aggiunse Anto.
Tom sorrise e annuì con la testa:
«Bene.»
«Ary dorme?», chiese
Anto in cerca di una conferma.
«Sì, si è
addormentata mentre mi abbracciava, pensa quant’era
stanca.»
Tom si girò e si mise a guardare
gli altri bambini nella sala: tra
tutti i nostri erano i più carini, sicuramente. Erano
piccolini, con le guance
morbide ed erano biondi scuri come Tom, bellissimi come lui.
«Sai chi mi ricordano,
Bill?», chiese Tom sorridendo.
«Chi?»
«Noi due da piccoli.»
Bill guardò oltre il vetro: era
verissimo. Entrambi biondi scuri e
entrambi gemelli identici. Si guardarono e sorrisero.
Chi se lo sarebbe mai immaginato che un
giorno, quel giorno così
vicino, Tom sarebbe diventato padre di due bellissimi bimbi. Bill no.
Sì, a
volte ci aveva pensato, ma non credeva che quel giorno sarebbe arrivato
così
presto.
Rimasero a guardarli fino a quando
arrivarono Gustav e Giulia e Georg e
Nicole. La prima cosa che fecero tutti fu quella di saltare addosso a
Tom e di
abbracciarlo, poi di guardare i bambini. Volarono complimenti a non
finire.
«Ciao ragazzi! Quanto
tempo!»
«Ciao Tom! Auguri!»
«Grazie.»
«Sono quei due, vero?»,
chiese Nicole indicando i gemellini.
«Beh, non è difficile:
sono i più belli e somigliano a me», disse Tom.
«Se, ma se sono uguali ad
Ary?!», disse Georg.
«Non è vero»,
mormorò Tom imbronciato.
Gustav lo prese per le spalle e gli disse:
«Tom, non iniziare a fare il
vanitoso, che qui c’è anche il merito di qualcun
altro.»
«Come sei gentile»,
disse ancora Tom facendo una smorfia.
«Ma guarda come sono piccoli! Sono
degli amori!», disse Giulia
saltellando.
Mi svegliai e sentii la voglia irrefrenabile
di vedere Stefan e Alex,
erano come delle calamite per me. Ne sentivo già la
mancanza, anche se avevo
dormito solo per due ore e non avevo riacquistato del tutto le forze.
Io dovevo vederli.
Bevvi un bicchiere d’acqua
guardandomi allo specchio e pettinandomi un
po’ i capelli arruffati sulla testa, mi infilai
l’accappatoio sopra l’orribile
vestito dell’ospedale, - un camice bianco a pallini azzurri -
e uscii dalla
stanza.
Non fu difficile localizzare Tom e gli
altri, visto che erano il gruppo
più numeroso di fronte alle vetrate.
Nessuno parve accorgersi della mia presenza
fin quando non abbracciai Tom
da dietro e gettai un occhiata ai miei piccoli tesori.
«Ehi, che ci fai già in
piedi tu!?», mi disse Tom sollevandomi da
terra.
«Dovevo vedere i miei
bambini!», dissi come una bambina gelosa dei
propri giochi. Il bello era che loro non erano dei giochi, ma la cosa
più bella
che mi fosse mai capitata; ormai li sentivo, erano parte integrante del
mio
cuore, della mia anima, della mia vita, nulla mi avrebbe potuto
separare da
loro.
«Ary, ciao! Come stai?»,
mi chiesero subito tutti i nuovi arrivati.
«Sto bene, grazie. Ciao a
tutti.»
Giulia, Gustav, Nicole e Georg mi
abbracciarono facendomi gli auguri,
come tanti altri avevano fatto in quelle ore.
«Complimenti! Guarda, sono tutti
uguali a te.» Tom, dietro di loro, fece
una smorfia strana e risi.
«No, diciamo che hanno preso un
po’ da entrambi.» Tom fece una faccia
compiaciuta per la mia risposta. Lo guardai, sorrisi e poi continuai:
«Spero
solo una cosa, che abbiano i miei occhi, solo questo.» Tom
sorrise e mi
abbracciò.
«Ah, Bill. Hai già
chiamato mamma?», chiese lui.
«Sì, ha detto che la
devi richiamare tu perché vuole parlare proprio
con te, il papà. E poi con Ary, si vuole
congratulare.»
Proprio a proposito di madri, pensai alla
mia: mi aveva fatta solo star
male, ma in quel momento avrei voluto che entrasse dalle porte vetrate
dell’ospedale e che mi abbracciasse, che mi dicesse che mi
voleva bene e che i
miei figli erano bellissimi e che assomigliavano a me, anche se non era
del
tutto vero.
Mi chiesi perché volevo che
accadesse, che tornasse e che sistemasse le
cose. Lo spirito materno era anche quello? Perdonare dopo che una
persona ti
aveva fatta soffrire?
Appoggiai una mano sul vetro, in
corrispondenza a Stefan e Alex e mi
morsi il labbro. Era così indispensabile la sua presenza?
Perché sentivo un
vuoto dentro di me? Forse quel vuoto era solo derivato dalla mancanza
di
Davide, lui sarebbe stato orgoglioso della mia vita, della mia
famiglia. E se
davvero Davide era dentro di me, se mi stava accanto ogni giorno, forse
era lui
che mi aveva attaccato quella mancanza improvvisa di affetto materno.
Mamma sarebbe stata capace di vedere come
vedevo io i miei figli?
Perché lei non aveva visto me in quel modo? Con
quell’amore infinito, da
sacrificare pure la vita per il bene di quelle due piccole vite. Lei
aveva mai
capito cosa voleva dire amare davvero? Sì, con Davide. Con
me no. Io ero stata
privata di quell’amore così grande.
Io non avrei fatto gli stessi errori di mia
madre; non avrei escluso
nessuno, né Alex né Stefan, li avrei amati allo
stesso modo e infinitamente,
come avevo promesso a Tom qualche tempo prima.
Alzai lo sguardo e vidi Mattia togliersi la
mascherina che aveva sulla
bocca e indicarmi di entrare.
«Uh Ary! Ce li fai vedere da
più vicino se puoi?», mi supplicò
Giulia.
«Sì, ci
proverò. Ma tanto ho il dottore dalla mia parte»,
sorrisi e le
feci l’occhiolino.
Tom mi passò una mano sulla
guancia e sorrise sussurrandomi: «Davide
sarebbe stato orgoglioso di te.»
Ricambiai il sorriso ed entrai dai miei
piccolini, prima però mi fecero
mettere un camice verde per evitare il contatto di batteri con i
fragili
sistemi immunitari dei bambini.
«Ary, come stai?», mi
chiese Mattia appena gli fui accanto.
«Bene, tu?»
«Alla grande.»
Vidi Stefan muoversi nella culla e stendere
un pochino le braccia verso
di me, verso la mia voce che aveva riconosciuto. Subito alzai la testa
e
guardai fuori dal vetro Giulia che quasi ci era spiaccicata, intenerita
in una
maniera assurda, quasi piangeva.
«Posso avvicinarmi al vetro con i
bambini?», chiesi.
«Sì, chi vuoi
tenere?»
«Mat, non puoi farmi questa
domanda!»
«Giusto. Vedo che lo spirito
materno si è manifestato bene in te, eh?»,
sorrise e prese Alex, ancora addormentato. Io di conseguenza presi
Stefan.
Insieme ci avvicinammo al vetro e sentii un
calore profondo quando la
manina di Stefan si mise sul mio collo e con il viso andava a cercare
da
mangiare, poi sorrisi e guardai Tom dall’altra parte della
vetrata, che
sorrideva dolce.
Quel calore era troppo bello per privarmene,
quindi nessuno mai mi
avrebbe portato via anche quella sensazione.
***
Pochi giorni dopo tornammo a casa. Fu un
vero sollievo perché non mi
piaceva stare in ospedale. Mi era mancata tanto la nostra casetta.
Oddio, casetta non era proprio il termine adatto: era una
villetta a due piani, non contando la soffitta, con la piscina e il
garage. Al
piano terra c’erano la cucina, il salotto e un bagno. Di
sopra c’erano la
camera di Bill e Anto, con bagno interno; la cameretta di Stefan e
Alex,
accuratamente pitturata da me in blu e azzurro, anche se sarebbero
stati sempre
vicini a noi per ogni evenienza; la camera da letto mia e di Tom; e un
altro
bagno. Poi all’ultimo piano la soffitta, piena di roba. Non
sapevo nemmeno io
di preciso che cosa ci fosse.
Tornammo a casa e come prima cosa io e Tom
fecimo addormentare i
piccoli, il che non fu difficile, visto che già
sonnecchiavano.
Bill e Anto si erano già fiondati
in cucina a vedere se c’era qualcosa
da mangiare, come se non avessero mai mangiato in vita loro. Cercarono
dappertutto e la loro caccia terminò quando trovarono
patatine e popcorn. Mi
stupivo sempre di come mangiassero sano quei due.
Risi e mi sedetti sul divano con un album da
disegno e una matita,
anche se non ero proprio in ottima forma per mettermi a disegnare. Ero
ancora
scombussolata, ma l’energia che avevo la dovevo tutta a
Stefan e Alex: i loro
piccoli cuoricini che battevano quasi in sincronia mi davano
così tanta
felicità che si trasformava in forza, anche fisica.
Appena iniziai a scarabocchiare il minuscolo
sorriso che una volta Alex
mi aveva fatto, molto probabilmente inconsciamente, mi diedi un colpo
in
fronte.
«Tom!», gridai piano per
non svegliare i gemelli che dormivano nelle
loro culle messe momentaneamente lì vicino, così
se si fossero svegliati li
avremmo raggiunti subito.
«Che
c’è?», mi chiese dalla cucina.
«Dai da mangiare a Micio,
sarà affamato.»
«No, prima di venire da te in
ospedale gli avevo riempito la vaschetta,
e ce n’è ancora», disse controllando.
Poco dopo vidi Micio zampettare
giù dalle scale e venire a sedersi al
mio fianco, pronto per le coccole. Era un po’ che non ci
vedevamo ed era un suo
diritto riceverle.
Quando si stancò e
andò a raggomitolarsi vicino al calorifero,
anch’io
mi sentivo stanca, così lasciai perdere il designo e mi
sdraiai sul divano con
il viso tra i cuscini morbidi. Notai che il divano era molto
più comodo del
letto in ospedale.
«Ary, così prendi
freddo però.» Tom mi mise addosso la mia coperta e
si
mise seduto di fianco a me.
Intorpidita dal calore della coperta e dalla
sua mano che mi
accarezzava docilmente i capelli, lo cercai e usai la sua gamba come
cuscino,
appoggiandoci sopra la testa.
Sentivo Bill e Anto scherzare in cucina, ma
sembravano lontani anni
luce, le loro voci non mi arrivavano chiaramente e mi ci voleva un
certo sforzo
per capire bene cosa dicevano.
Poco dopo la voce di Bill si
avvicinò e sentii la sua mano sfiorarmi il
viso e le sue parole sussurrate al fratello. Poi il rumore della
televisione
che veniva accesa con il volume al minimo per non disturbarmi, e le
luci si
spensero. Volevano proprio che mi addormentassi e che mi levassi dalle
scatole!
«Certo che ne è passato
di tempo», disse piano Bill.
«Già», Tom mi
massaggiò il braccio e immaginai il suo sorriso magnifico
impadronirsi delle sue labbra.
«Sì, ma questi cinque
anni mi sono serviti.»
«Sono serviti a tutti,
Bill.»
«Però non credevo che
sarebbe successo tutto così in fretta. Vi siete
sposati e adesso avete due figli. Non è troppo
presto?»
«Bill, io non vedevo
l’ora di dare ad Ary ciò che non ha mai avuto
veramente. Hai visto come guardava Stefan e Alex? Sarà una
mamma e una moglie perfetta,
come mi ha promesso.»
Mi girai sulla sua gamba e strinsi tra i
pugni il bordo della sua
maglietta per fargli vedere il mio sorriso felice e realizzato.
___________________________________________
Ciao a tutti!
Il primo flashback! *-*
Vi è
piaciuto? Spero tanto di sì e che abbiate un minuto di tempo
per lasciare una
recensione, anche minuscola!
Ora ringrazio Utopy,
per la recensione allo scorso
capitolo ( Menomale che ci sei tu, ammmoremmmioooo!! Luv yaa <3
) e
ringrazio infinitamente chi ha già messo questa storia fra
le seguite e le
preferite, davvero mi fa molto piacere! ^-^
Ringrazio anche tutti quei
timidoni che leggono senza recensire, su xD
Alla prossima, grazie a tutti!
Ciao! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 3 *** 1.2 ***
1.2
Bill e Tom erano partiti per
un’altra tournèe. Senza di loro la casa
sembrava così vuota, però io avevo Stefan, Alex e
anche Micio, ma lui era come
se non ci fosse, e mi tenevano compagnia durante la loro assenza. Anto
cercava
di tenersi sempre occupata, o andava a lavorare o metteva in ordine la
casa,
oppure mi aiutava con Stefan e Alex. Ci mancava poco che mi annoiassi
io!
Finché un giorno anche Anto capì che sarebbe
cambiato qualcosa…
«Cavolo, mi gira ancora la
testa», disse sbuffando.
«Che
cos’hai?», chiese Chiara, una sua collega.
Nel negozio non c’era nessuno,
stranamente sembrava una giornata in cui
tutti avevano i capelli perfetti. Si appoggiò al lavandino e
la guardò seduta
su una poltroncina.
«Ma non lo so, mi continua a
girare la testa. Però va e viene, non
riesco a capire.»
«Non sarai mica incinta,
vero?»
Anto girò piano la testa e
guardò il viso abbronzato di Chiara,
sorpreso e ansioso allo stesso tempo.
Quella notte, presa dall’insonnia,
si alzò e tirò fuori dalla borsa il
test di gravidanza. Come supponeva Chiara, era incinta. Piangendo e
ridendo
contenta prese il cellulare e chiamò Bill, doveva
assolutamente sentirlo per
dargli la notizia.
Il cellulare di Bill continuava a suonare e
tutti si svegliarono nel
pullman, tranne lui.
«Bill! Spegni sto cazzo di
telefono!», urlò Tom dal suo letto.
Bill si svegliò di colpo e anche
lui sentì il suo cellulare intonare la
sua canzone preferita. Si ributtò con la testa dentro al
cuscino. «Con calma,
ne? Tanto ormai ci hai già svegliati tutti. Ma chi
è che ti chiama a
quest’ora?»
Ci volle un po’ prima che i suoi
occhi si abituassero allo schermo
luminoso del cellulare, riuscendo a leggere il nome di chi lo aveva
svegliato
alle quattro di notte.
«È Anto»,
biascicò.
«Grazie per avercelo detto, ma ti
muovi a rispondere?!»
Bill seguì il consiglio del
fratello e pigiò il tastino verde.
«Bill?»
Bill si svegliò del tutto e
ascoltò la voce di Anto al cellulare, nel
buio più totale di quel pullman. Intanto anche tutti gli
altri ascoltavano
incuriositi, tanto ormai si erano svegliati.
«Bill, ma sei sveglio?»
«Sì, sono sveglio. Che
c’è?» Bill era esausto, come gli altri,
e non
era il massimo. Avevano avuto il concerto quella sera e si erano appena
addormentati.
«Ehm…»
«Anto? Devi dirmi qualcosa?
Perché se non è così io torno a
dormire.»
«No, no. Aspetta. È una
cosa seria.»
«Allora sbrigati.»
«Aspetto un bambino»,
sussurrò tra le lacrime. Fece un respiro
profondo: gliel’aveva detto, e si sentiva estremamente
orgogliosa di sé stessa.
Bill si sedette di colpo sul letto e voleva
tanto urlare di gioia. «Sul
serio?! È stupendo!»
«Lo so!»,
urlò lei saltellando per la stanza.
«Oddio, non ci posso
credere!»
«Nemmeno io ci credo,
Bill!»
Gli altri lo guardavano confusi,
scambiandosi degli sguardi tra loro.
«Che cazzo sta dicendo?»
Tom alzò le spalle:
«Ah, non chiedete a me. Io sono quello che lo capisce
di meno in questo momento.»
Bill sbuffò agli altri e mise il
vivavoce: «Anto, ripeti. Io potrei svenire
a dirlo, in questo momento.»
Anto rise. «Ok, ma lo dico una
volta sola: ragazzi, aspetto un
bambino!»
Tom urlò ad Anto:
«Giura?!»
«Sì, lo giuro! Oddio
Tom, non l’ho ancora detto ad Ary! Volevo che lo
sapesse per primo Bill.»
«Appena lo saprà
farà i salti di gioia per te»,
ridacchiò.
«Sì, già me
la vedo.»
Bill tolse il vivavoce e si mise il
cellulare all’orecchio per parlare
da solo con lei.
«Anto, ti amo», le
sussurrò mettendosi sotto le coperte.
«Anch’io Bill. Ma sarai
stanco, no? Forse è meglio se ti lascio
dormire, ci sentiamo meglio domani, dopo che l’ho detto anche
ad Ary.»
«Ok, va bene. Buona notte Anto, ti
amo tanto. Mi manchi.»
«Oh Bill, anche tu mi manchi
tantissimo e ti amo ancora di più. Buona
notte.»
Bill spense il telefono e guardò
suo fratello Tom con le lacrime agli
occhi.
«Bill, non piangere! Devi essere
contento!», saltò giù dal letto e gli
saltò addosso, abbracciandolo e sfregandogli i capelli.
«E così anche tu padre,
eh? Cosa fai, mi copi?»
Bill rise e si fece abbracciare anche da
Gustav e Georg. Erano tutti e
tre addosso a lui, semisdraiati sul suo letto.
«Bill, ti giuro che se non era una
cosa così seria ti prendevo a
calci!», disse Georg.
«Giusto, ne è valsa la
pena di svegliarci alle quattro di notte»,
concordò Gustav.
«Sì, però
ancora non riesco a capire di come tu possa darti da fare
così, quando io prima l’ho sposata
Ary!», disse Tom portandosi le braccia
strette al petto. «Quindi ti tocca sposare Anto,
perché se no non vale!»
«Sposarla?», Bill
deglutì rumorosamente.
«Ovviamente! Guarda che
è molto meno complesso sposarti che accudire un
bambino. Fai le cose con ordine, ti prego. Tanto non cambia
assolutamente
niente sposati o no, l’unica differenza è che
è scritto nero su bianco e…
questa», gli fece vedere la fede sorridendo.
Quando tutti ritornarono nel proprio letto e
si addormentarono, Bill
era ancora sdraiato, che non riusciva più a dormire. In quel
momento pensava
solo a lui, ad Anto e al loro futuro bimbo. Era al settimo cielo, aveva
voglia
di urlare a squarciagola. Cercò di dormire, ma
l’euforia era tale che non
riuscì a chiudere occhio.
Però era anche spaventato dal
matrimonio, qualcosa lo rendeva ostile a
quella cerimonia, forse perché aveva avuto dei genitori
separati e non voleva
che accadesse, ma quelle erano paure solamente molto stupide.
La mattina dopo, mi svegliai e andai in
cucina. Stavo bevendo, quando
sentii saltare giù dalle scale Anto.
«Ary, sono incinta!»,
gridò facendomi quasi strozzare. Non poteva dirmi
quelle cose di prima mattina e così
all’improvviso!
«Sul serio?!» Anto
agitò la testa per confermare al settimo cielo e io
le corsi incontro per stringerla forte.
«Congratulazioni! Da quanto lo
sai? Lo hai già detto a Bill? Che cosa
ha detto?»
«Calma, calma! Allora,
l’ho già detto a Bill, ieri notte, ed era
contentissimo! Come gli altri. Ha messo il vivavoce! Tom mi aveva
già detto che
tu avresti fatto i salti di gioia per noi.»
«Tom ci azzecca sempre, mi conosce
troppo bene! Oddio, ma adesso vuol
dire che vi sposerete! Per forza!»
«Oddio, non ci avevo
pensato!» Scoppiò a piangere dalla gioia e io la
abbracciai ancora, non potevo trovare un modo migliore per partecipare
alla sua
felicità.
Sentii un rumore dietro di noi e vidi i due
biberon di Stefan e Alex,
seduti sul seggiolone con un sorrisetto furbo sul viso, a terra, il
pavimento
completamente inondato di latte.
«Siete
proprio come vostro
padre: volete sempre essere al centro
dell’attenzione!»
***
«Non ce la farò
mai», tremolò a sé stessa guardandosi
allo specchio. «Ora
capisco come si sentiva Ary, cavolo!»
«Anto, tutto bene?», le
chiesi, dall’altra parte della porta.
«No, non va affatto tutto bene! Me
lo sento, sarà un disastro totale!
Si metterà a piovere, inciamperò,
cadrò a terra, il vestito si sporcherà e
tutti scoppieranno a ridere.»
«Sì, e Alex e Stefan si
metteranno a piangere durante il sì, vero?»
«Giusto, non ci avevo pensato.
Oddio Ary!»
«Fammi entrare, su.»
Mi aprì la porta del bagno e
appena la vidi rimasi senza parole: era
magnifica! Ovviamente Bill non aveva voluto un matrimonio convenzionale
ed io
ero contentissima per loro.
«Sei… sei uno
spettacolo», le dissi, sistemandomi meglio Stefan fra le
braccia, Alex era con suo padre, nella camera di suo fratello, lo sposo.
«A chi vuoi darla a
bere!»
«Non sto scherzando Anto, Bill
come minimo sviene!»
«Sì, sviene e il
matrimonio salta, lo sapevo!»
«Ma la smetti di essere
così negativa?»
Non potevo fare a meno di guardare il suo
vestito bianco tempestato da
preziosi che andavano dal viola al nero, la schiena nuda e la sua pelle
bianca
ricoperta di brillantini.
«Ary, non ce la farò
mai», sussurrò, coprendosi il viso con le mani.
«Se piangi ti tiro una testata, ci
hai messo secoli a truccarti e non
voglio stare qui ancora, sennò divento vecchia e i miei
figli adolescenti.»
Bussarono alla porta e Anto
sobbalzò, io la rassicurai e andai ad
aprire. Vidi subito il faccino felice di Alex e poi, percorrendo le
braccia che
lo reggevano saldamente, vidi quello di Tom, che appena mi vide mi
stampò un
bacio sulle labbra ed entrò, chiedendo della sposa.
«Non so se riuscirà mai
ad uscire dal bagno, si è convinta che andrà
tutto male. Bill com’è messo?» Speravo
che almeno lui fosse a buon punto,
eravamo già in ritardo.
«È in preda ad una
crisi isterica», sospirò, sedendosi sul letto
della
camera d’hotel a cinque stelle, dalle finestre si vedeva il
mare terso di New
York.
Avevano deciso di fare le cose in grande ma
avevano invitato solo le
persone più vicine a loro, e avevano tenuto il matrimonio in
segreto, nessuno
sapeva niente, strano ma vero: erano ancora tutti concentrati su me,
Tom e i
nostri figli per badare anche agli altri.
«E questo che vuol
dire?», sgranai gli occhi.
«Continua a dire che
sarà un disastro, che il suo vestito non era
ancora pronto e che doveva lavorarci di più.»
«Cioè tu mi stai
dicendo che prima era tutto soddisfatto e ora vorrebbe
disfare tutto?»
«Esattamente»,
annuì.
«Sono assurdi questi due, si sono
proprio trovati», dissi sorridendo, abbastanza
forte così che Anto potesse sentirmi.
«Non è colpa mia se
faccio schifo!», gridò Anto uscendo dal bagno e
puntandosi le mani ai fianchi, di fronte a noi.
Tom rimase senza fiato a guardarla e quasi
si dimenticò di avere Alex
fra le braccia.
«Ti pare la reazione di qualcuno
che crede che fai schifo?», le chiesi,
chiudendo la bocca a Tom.
«No»,
sospirò, accennando un sorriso. «Ma questo
è il giorno più
importante della mia vita, voglio che sia perfetto.»
«Facendo così te lo
stai rovinando da sola», la informai, lei sbiancò
e
poi prese colore sulle guance. «Fai la persona matura,
c’è una limousine che ci
aspetta di sotto», le sorrisi e lei annuì,
abbracciandoci a turno.
«Ragazzi!»,
gridò Bill agitatissimo, aggrappandosi al braccio del
fratello, gli occhi lucidi.
«Non mi traumatizzare Alex con le
tue crisi da primadonna. Bill ti devi
sposare, fai la persona seria.»
«Peccato che è proprio
perché mi devo sposare che sono così agitato!
Gustav, Georg, è tutto pronto?!»
«Prontissimo!»
«Anto sta arrivando, è
già scesa dalla macchina!», disse Georg
chiudendo le grandi porte della villa in mezzo al verde e di fronte al
mare.
«Oddio, sto per
morire!», gridò Bill, mentre schizzava via, ma
Andreas,
Giulia e Nicole lo fermarono e lo immobilizzarono.
«Bill, la vuoi
piantare?!»
Tutti si girarono e guardarono Simone in un
bel vestito chiaro che
contrastava con i suoi capelli rossicci e la pelle leggermente
abbronzata,
abbracciata a Gordon.
«Mamma», disse Bill,
abbassando lo sguardo.
«Che uomo sei?»
«Sono nervoso», ammise.
Sembrava un bambino beccato a fare una
marachella, pentito.
«Ho capito, ma pensa che avrai un
bambino. Non puoi comportarti così.»
«Tua madre ha ragione, devi
smetterla», disse Gordon, anche se
sorridendo.
«Mostra chi sei ai genitori della
sposa, sono appena arrivati
dall’Italia», Simone sorrise con gli occhi
brillanti e abbracciò il figlio,
stringendolo forte. «Come crescete in fretta… Tom,
dammi mio nipote!»
Tom roteò gli occhi al cielo,
sorridendo, e salutò Alex, non l’avrebbe
visto per molto tempo da quando lo avrebbe dato a sua madre.
«Forza Bill, ce la puoi
fare», disse Giulia, mentre gli invitati
iniziavano a prendere posto, tra cui anche i genitori e le sorelle di
Anto.
Alexia com’era cresciuta! Aveva i
capelli corvini e ricci raccolti in
una fascia e si vestiva in modo molto punk, con pantaloni stracciati,
trucco
pesante e borchie. Era cambiata.
I loro sguardi si incontrarono e Alexia
sorrise, mentre si alzava e lo
raggiungeva.
«Cavolo come sei
cambiata», disse Bill abbracciandola.
«Sì, lo so.
È parecchio che non ci si vede. Non farai scenate se sono
venuta vestita così al vostro matrimonio, vero?»
«Io no, forse tua sorella
sì», ridacchiò.
«Vabbè, lei
è un caso a parte. Trattamela bene, ok?»
«Certamente», le sorrise
e Alexia tornò a sedersi.
Il padre di Anto gli lanciò
un’occhiata, non sembrava così contento di
quell’unione, ma almeno era venuto.
«Il padre di Anto mi odia ancora
di più ora che la sto per sposare, non
è così?», chiese al fratello.
«Na, non ti odia… Come
ogni padre è in pensiero per la sua piccola,
vedrai che gli passerà.»
«Se lo dici tu.»
«Mi sta venendo fame, ci
muoviamo?», chiesi scendendo dalle scale e
mettendomi accanto a Giulia. Insieme saremmo state le testimoni di Anto.
Il padre di Anto salì le scale e
Bill tremò, è da lì che Anto sarebbe
scesa e l’avrebbe vista nel vestito che per tradizione non
aveva potuto fare
lui. Era nervoso, ma d’altra parte non stava più
nella pelle.
«Ci siamo!», disse Tom,
sistemandosi con Andreas al fianco di Bill.
Loro erano i suoi testimoni, Georg e Gustav li avevamo soprannominati
scherzosamente I Madamigelli d’Onore.
Loro, assieme a Nicole andarono ai loro
posti in prima fila e vidimo
Anto scendere dalle scale accompagnata da Alexia che si era messa
dietro il
piano a suonare, un sorriso imbarazzato e già gli occhi
lucidi, le guance
rosse.
«Oh my God»,
sibilò Mattia, seduto accanto a Lilian e mio padre.
Anto raggiunse Bill senza cadere
né niente e suo padre andò a sedersi,
l’espressione leggermente imbronciata. Si guardarono negli
occhi e sorrisero.
La cerimonia fu relativamente breve, Bill e
Anto firmarono le carte e
poi arrivò Jim, il tatuatore di fiducia di Bill, che li
condusse nell’altra
stanza. Tutti gli invitati si spostarono con loro e li guardammo mentre
fra le
lacrime e i sorrisi si lasciavano incidere sulla pelle una fede
composta
solamente dal nome dell’altra persona, intorno
all’anulare della mano sinistra.
Una fede convenzionale ovviamente non andava bene, un tatuaggio durava
per
sempre.
Quando le fedi furono indossate…
cioè, tatuate, tutti andammo nel
giardino sul retro, dove era stata imbandita un’intera
tavolata e al centro
c’era un’enorme torta. Appena Anto la vide le
brillarono gli occhi, poi si
guardò il pancino appena evidente sotto il vestito e Bill
posò le mani sulle
sue sorridendo, abbracciandola da dietro e baciandola sulla tempia.
«Ci credi a tutto
questo?», le sussurrò.
«Uhm, fammici pensare…
no!», rise e si girò improvvisando il lancio del
bouquet, che finì fra le braccia di Lilian, che
diventò tutta rossa.
«Evvai, Lilian e papà
si sposano!», gridai, Mattia mi fece l’occhiolino
quando i due interessati si guardavano imbarazzati.
«Non abbiamo tirato il riso,
mannaggia!», gridò Georg, tirando fuori
dalla schiena un intero secchio di riso bianco, che svuotò
sulla testa di Bill,
che si mise a gridare, e Anto a ridere.
«Non ti preoccupare Anto, ce
n’è anche per te!», gridò
Gustav, prima di
riservarle lo stesso trattamento.
Tutti scoppiammo a ridere di fronte alla sua
espressione scandalizzata,
lei guardò Bill e gli avvolse il collo con le braccia prima
di baciarlo.
«Viva gli sposi!»,
gridò Giulia.
«E al piccolino!»,
aggiunse Nicole, già con un bicchiere di vino bianco
in mano.
La mamma di Anto cadde a terra svenuta e nel
giro di tre secondi
eravamo tutti lì intorno a farle aria e a darle un bicchier
d’acqua sperando
che si riprendesse.
«Non gliel’hai ancora
detto?!», sussurrai alla mia migliore amica.
«No! Già
c’è il matrimonio, pensa poi…»
«Spero che la tua amica sia solo
ubriaca!», disse il padre di Anto,
tenendo sua madre per la schiena.
Lei rimase a bocca aperta, io le tirai una
gomitata fra le costole,
incitandola a dire qualcosa di dignitoso per difendere lei, Bill e il
suo
bambino.
«No papà, io aspetto
sul serio un bambino», disse Anto fiera,
portandosi le mani sui fianchi. «E se non ti sta bene,
è un affar tuo»,
concluse, chiudendo gli occhi e lasciandosi abbracciare da Bill, che
sorrideva
a trentadue denti.
Marco, in pochissimo tempo, raggiunse sua
moglie, svenendo.
«Siamo a posto»,
ridacchiò Tom.
«Quindi io sarò
zia?», chiese Alexia felice come una pasqua.
«Sì sorellina, avrai
presto un bel nipotino.»
«O nipotina», la
corresse Bill, prima di baciarla sulle labbra.
________________________________
Ciao a tutti! ^______^
Capitolo un po’ cortino, ma siamo
in fase di flashback a go-go, quindi è concesso su u.u Spero
vi sia piaciuto
comunque *-* Fatemi sapere cosa ne pensate in tanti, mi raccomando!
Ringrazio:
Utopy:
Aleeeeeeeeeeeeeeeeeeees!! *-*
I gemellini sono miei ù.u
Ary
ti sta antipatica? O.O Mi hai traumatizzata dicendomelo, speriamo che
cambi
idea in fretta! xD
Grazie per l’appello, davvero xD
Sono d’accordo con te u.u
Grazie mille per i complimenti,
so che me li merito *-* ( XDDD ) Ti voglio troppo bene, MIA sposina (
xD )
Ales trottolina
amorosa dududadada! ©
svampy1996:
Grazie mille!! *-* Alla prossima!
Ringrazio anche chi ha
messo
questa FF fra le preferite e le seguite e chi legge soltanto. Grazie a
tutti!
A lunedì prossimo, ciao! Con
affetto, vostra
_Pulse_
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Capitolo 4 *** 1.3 ***
1.3
Mi misi seduta sotto il piccolo porticato,
chiusi gli occhi per un
istante, respirai l’aria di mare e sorrisi. Quando riaprii
gli occhi, vidi il
cielo azzurro, quell’azzurro intenso, bellissimo. Mancava
ormai poco al
tramonto e una leggera sfumatura di rosa colorava quel cielo magnifico.
Il cellulare sul tavolino
cominciò a suonare. Lo presi e risposi, già
con il sorriso sulle labbra.
«Ma ciao, ci si diverte
lì?»
«Tantissimo. Ciao tesoro, come
stai?»
«Bene, cioè…
se fossi al mare con la mia famiglia starei meglio, ma non
mi lamento.»
«Lo so, anche a noi manchi tanto,
però stiamo bene, siamo appena
tornati dalla spiaggia. Ci sono i tuoi figli che sono già
abbronzati, come
fanno lo sanno solo loro.»
«Sì? Allora devo
recuperarli!»
«Vuoi che te li passi?»
«Sì dai, chi mi
passi?»
«Chi vuoi tu.»
«Non posso scegliere, chi vuole
parlare.»
«Stefan! Alex!
C’è papà al telefono! Chi lo vuole
sentire?», li chiamai
e le risposte non tardarono ad arrivare.
«Io, io!»
«No, io!»
«Vediamo chi arriva
prima?», chiesi scherzosamente a Tom.
«Sì, ora sono
curioso.»
Arrivò prima Alex, che mi
strappò il telefono dall’orecchio e se lo
portò al suo. Suo fratello era un po’
più indietro e aveva in mano una
macchinina.
«Uffa, ma non vale!»,
sbuffò appoggiandosi anche con la testa allo
stipite della porta a vetro.
«Chi sono?», chiese al
telefono Alex, ridacchiando.
«Uhm…
Sei Stefan!»
«No,
sono Alex!», gridò
scoppiando a ridere. «Papà, sbagli
sempre!»
«Hai ragione, sono proprio senza
speranze! Ciao piccolo, come stai? Ma
lo sai che mi mancate tanto?»
«Ciao papà! Bene, bene!
Anche tu ci manchi tanto! La mamma si lamenta
sempre quando tu non ci sei.»
«Davvero? Dai, reggetela ancora
per qualche ora.»
«Qualche ora? Stai arrivando?! Che
bello!»
«Sì piccolo, tra poco
arrivo, e arriva anche zio Bill.»
«Che bello, che bello!»
«Sì, che bello davvero.
Così vi rivedo.»
«Per quanto resti poi?»
«Non lo so ancora, spero il
più possibile. Allora vi divertite?»
«Sì!»
«Bene, mi fa piacere. Ora passami
Stefan, così lo saluto, ok? Ciao,
bacioni!»
«Ok, ciao!» Il piccolo
schioccò un bacio al telefono e poi lo passò al
trepidante Stefan, che gli saltellava accanto con le mani stese.
Mentre Stefan parlava al cellulare con suo
padre, Antonia uscì e si
mise seduta di fianco a me, guardandomi e sorridendo.
«Chi è, Tom?»
Io annuii con la testa, sorridendo. «Allora dopo
chiedigli se mi fa parlare con Bill già che
c’è.»
«Certo. Tutto bene?»
«Sì, tutto
ok.» Si mise le mani sul pancione e sorrise, accarezzandolo.
«Ah, dov’è che sono?»
«Stanno aspettando
l’aereo. Un paio d’ore e sono qui.»
«Bene.»
Sentimmo un clacson e tutti ci guardammo e
sorrisimo. Stefan e Alex si
alzarono e corsero subito fuori in giardino ridendo. Li raggiunsimo e
vidimo
Bill e Tom scendere dalla macchina e corrergli incontro.
Tom si abbassò e li
abbracciò tutti e due, ridendo a sua volta. «Ciao
piccoli!»
Bill gli accarezzò i capelli e
sorrise. Solo dopo, alzarono lo sguardo
e ci videro sulla porta.
Bill corse dentro e abbracciò
Anto, tenendola a sé. «Ciao, come stai?»
«Sto bene. Tu?»
«Anche io. Che bello
rivederti.»
«Anche a me fa piacere.»
Li lasciai sotto il portico e raggiunsi Tom
vicino alla macchina. Lui mi
sorrise, mentre sia Stefan che Alex gli dicevano un mucchio di cose
tutte
assieme. Li guardò e gli accarezzò le guance
sorridendo.
Si alzò in piedi e si
avvicinò a me, mi guardò, accarezzò
anche a me le
guance sorridendo. Io avevo gli occhi lucidi, gli misi le braccia
intorno al
collo e lo abbracciai. Lui mi strinse a sé, baciandomi sulla
guancia, mentre
rideva e sorrideva.
«Ciao, tutto bene?»
Io mossi la testa, annuendo.
«Non dirmi che stai
piangendo…»
«No, non sto piangendo.»
«Mmm… fa
vedere?» Mi prese il viso tra le mani e mi guardò.
«No, hai
ragione. Non stai piangendo.»
«E io che ti avevo
detto?»
«Mi sei mancata tanto.»
Mi diede più baci sulle labbra, sorridendo.
«Anche tu mi sei
mancato.»
«Adesso sai che faccio? Mi sdraio
sul letto e non mi muovo da lì fino a
domani mattina. Ok?» Risimo assieme, anche con i gemellini,
che poi Tom prese
in braccio e coccolò ancora un po’.
***
«I
Puffi sanno che un tesoro c’è, nel fiore accanto a
te…»
Mi svegliai con la sigla de I
Puffi
proveniente dalla cucina. Strinsi gli occhi e focalizzai
l’ambiente
intorno a me. Ero a letto, sotto le lenzuola, con Tom di fianco, girato
dall’altra parte, che mi dava le spalle. Era già
mattina da quanto si poteva
vedere dalla luce che entrava dalla finestra.
Mi alzai e andai in cucina, dove
c’erano Stefan e Alex sdraiati uno
sopra l’altro sul divano.
«Ma che ci fate già
svegli?», chiesi con quel poco di voce che avevo.
Loro mi guardarono e sbadigliarono.
«Non riuscivamo a dormire. E poi
io avevo anche fame.»
Sorrisi. Stefan, era sempre il solito.
Chissà, ma chissà, da chi aveva
preso. Questa domanda era così difficile…
Preparai il latte ai bimbi e mi misi seduta
al tavolo con la mia tazza
di caffè in mano. Qualcuno mi passò la mano sulle
spalle, passandomi accanto.
Mi girai, era Tom.
«Mi hai fatto
spaventare.»
«Scusa. Ciao», mi
baciò sulle labbra e sorrise. «Ma vi alzate sempre
così presto voi?», chiese alle pesti.
«A volte. Con mamma andiamo presto
in spiaggia, quando riesce a
svegliarci.»
«E stamattina siete stati voi a
svegliare me», dissi bevendo ancora dalla
mia tazza. «Tu che fai Tom? Te ne torni a letto?»
«No, vengo con voi. È
un sacco che non venivo qui, voglio vedere se è
cambiato qualcosa.»
«Non è cambiato proprio
niente, è tutto uguale.»
Ci guardammo e sorrisimo: quel luogo era
pieno di ricordi per noi, sia
che belli che dolorosi, ma non era affatto doloroso vivere giorni
splendidi con
i nostri figli, anche se qualche ricordo triste ogni tanto tornava a
galla.
«Meglio così.»
«Mamma giochiamo?»
«Prima ci mettiamo la crema e poi
giochiamo. Dai, venite qui.»
Stefan e Alex vennero a rapporto davanti a
me. Mi misi in ginocchio e
presi Alex, gli spalmai giocando la crema su tutta la pancia, ridendo
assieme a
lui. Tom mi prese la bottiglietta dalla mano e fece lo stesso con
Stefan. Io
rimasi a guardarlo: ero felice che si occupasse di loro da bravo
papà, quello
sì, era un bravo papà.
«Fatto? Ora giochiamo?»
Sorrisi e mi rialzai da terra, guardando
Stefan che mi assillava da
circa dieci minuti.
«A cosa?», chiese Tom.
«Con la sabbia,
papà!», dissero assieme i bimbi, come se lui
venisse da
un altro pianeta.
«Giusto! Come ho fatto a non
pensarci prima!», disse ridendo.
Stefan e Alex gli presero la mano, uno da
una parte e l’altro
dall’altra, e lo portarono a riva. Tom li lasciò
andare a sentire l’acqua,
guardandoli e sorridendo.
«Non è cambiato nulla
sul serio», disse prendendomi per le spalle e
baciandomi sulla tempia.
«No, nulla.»
Ci misimo seduti sulla sabbia, davanti
avevamo il mare e Stefan e Alex
che guardavano dentro l’acqua limpida.
«Più li guardo,
più mi accorgo che ti assomigliano tantissimo,
sai?»,
dissi guardando Tom.
«Davvero? Non so che dire, solo
che hanno i tuoi splendidi occhi. Quell’azzurro
che mi fa impazzire.» Io risi e baciai Tom sulla guancia.
«Ma lo sai che… non so
come dire, sono delle calamite per le bambine. Fanno più conquiste di dieci ragazzi
messi assieme. Hanno
preso da te?»
«Mmh, probabile.»
«Ti giuro, a volte devo andare a
salvarli da tutte le bambine che hanno
attorno.» Risimo e poi vidimo Stefan avvicinarsi a me e darmi
il secchiello.
«Me lo riempi, per
favore?»
«Ma certo amore.»
Mi alzai e andai a riempire il secchiello
d’acqua, prendendola dal
mare. Tornai a riva e lo misi sulla sabbia, di fianco a dove erano
seduti i
gemellini.
«Ecco. Che cosa fate oggi,
scultori?»
«Una buca, e poi ci mettiamo
dentro papà!», disse Alex scherzando.
Risimo tutti assieme mentre Tom raggiungeva Alex a gattoni sulla
sabbia. Lo
prese in braccio e lo fece girare, facendolo ridere da matti.
«Molto divertente Alex, mi sa che
metto te dentro!»
«Invece di pensare a chi mettere
dentro, perché non incominciate a
farla, la buca?», dissi.
«Giusto, giusto. Allora ci
mettiamo dentro la mamma», disse Tom
prendendo una paletta e toccandomi piano la testa, sorridendo.
Scavando, io e Tom parlavamo un
po’ di quello che avevamo fatto in quel
periodo di lontananza, e a volte si aggiungevano anche Stefan e Alex.
«Allora avete raccontato a
papà di tutti i bagni che fate?»
«No. Papà lo sai che
facciamo tanti bagni con la mamma? Dice che anche
lei da piccolina ne faceva tanti come noi, ma io non ci
credo.»
«E perché no? Ma lo sai
che la mamma è brava a nuotare? Ha vinto anche
dei premi, non lo sapevi?»
«No, non lo sapevo!»
«E sì.» Io e
Tom ci guardammo e sorridemmo.
«Ma sanno nuotare?», mi
chiese.
«No, ancora no. Ma non hanno mai
avuto paura dell’acqua, già il primo
giorno si sono tuffati.»
«Beh, se hanno preso da te
è ovvio che non hanno paura, o mi sbaglio?»
«Non ti sbagli.»
«Bambini, abbiamo trovato
l’acqua», annunciò vittorioso Tom.
«Sì! È
vero!»
Stefan non perse tempo e ci mise una mano
dentro, prese un misto tra
sabbia e acqua, una specie di fanghiglia. La guardò e
sorrise, anche se era un
po’ schifato.
«Bill e Anto ci raggiungono
dopo?», mi chiese Tom.
«Sì, sì.
Arrivano dopo.»
Stefan mise la poltiglia sul petto del
fratello, ridendo. Alex si
guardò e rise anche lui. Il mio sorriso e quello di Tom si
incontrarono quando
pensammo la stessa identica cosa.
«Sai che mi ricorda?»
«Magari centra Zimmer
483?»,
dissi io.
«Esattamente.»
«Tutto quel fango… eri
tremendamente sexy, sai?»
«Lo immaginavo», disse
chiudendo gli occhi.
«Ma stai zitto va!», lo
spinsi appena sul braccio.
Risimo assieme, mentre i gemelli erano ormai
completamente coperti di
sabbia e acqua. Li guardammo e poi ci guardammo, sorridendo. Io presi
Stefan e
Tom Alex, li misimo in acqua, togliendogli la bandana dalla testa,
tenendoli
per le braccia. Mentre li pucciavamo dentro l’acqua come
biscotti nel latte,
per pulirli, loro ridevano felici e alla fine, contagiati, finimmo
tutti e
quattro dentro.
«Che bello, un bagno
collettivo», disse Tom guardandomi.
Si mise meglio Alex a cavalcioni e lo tenne
tra le sue braccia. Io
lasciai Stefan nell’acqua, tanto toccava e mi bagnai i
capelli, immergendomi.
Tornai su e ancora Alex era in braccio a Tom.
«Dai Alex, scendi. Guarda che
tocchi.» Tom lo lasciò e il fratellino
minore raggiunse il maggiore.
«Adesso tieni me?»,
dissi mettendogli le braccia intorno al collo.
«Ma guardala! Hai fatto scendere
Alex solo perché mi volevi tutto per
te, vero?»
«E anche se fosse? È
giusto», lo baciai sulle labbra.
«Egocentrica»,
sussurrò malizioso.
«Sì… lo
so.»
«Mamma, papà, usciamo?
Ho freddo», disse Alex stringendosi da solo
nelle braccia.
«Sì, amore.»
«Ciao, ciao. Siamo
arrivati», disse Bill tenendo Anto per un fianco. Io
e Tom alzammo la testa e li guardammo.
«Ciao!», li salutammo.
«Mamma andiamo sui
giochi?», chiese Alex.
«Dai vai, adesso
arrivo.»
«No, vengo io. Tu stai
qui», mi disse Tom aiutandosi ad alzarsi dalla sabbia
appoggiandosi alla mia spalla.
«Come? No, te lo scordi. E io che
faccio?»
«Ti ho detto che devi stare qui.
Che ne so, rilassati, prendi il sole,
fai quello che vuoi, ma con i bimbi ci sto io.»
Ero a dir poco a bocca aperta. Mi misi gli
occhiali da sole sulla
testa, ma ricaddero quasi subito sul viso.
«Ma io…»,
balbettai inutilmente.
«Ancora? Smettila. Anto falla
restare qui, mi raccomando.»
Raggiunse Stefan e Alex ai giochi e rimase
con loro. Io guardai Anto e
lei mi sorrise, alzando le spalle. Le alzai pure io e mi misi a posto
gli
occhiali.
Ero sdraiata su un telo, disteso sulla
sabbia, sotto il sole caldo del
pomeriggio. In mano avevo la matita e davanti avevo un block notes dove
facevo
qualche schizzo. Ero intenta a disegnare Stefan e Alex prima
dell’arrivo di
Bill e Anto, mentre Tom giocava con loro all’ombra.
«Allora che avete
fatto?»
«Il solito. Appena arrivati si
sono messi a giocare con la sabbia a
riva e nemmeno dieci minuti dopo stavamo già facendo il
bagno insieme. Che
tipetti che sono, tutti loro padre.»
«Concordo
perfettamente», disse Anto ridendo e mettendosi seduta sul
suo lettino, sotto l’ombrellone, di fianco a me. Alzai la
testa e guardai Tom
con Alex in braccio, che rideva.
«Non ce la fai proprio a
resistere, ne?», disse Bill notando che ogni
occasione era buona per controllare.
«No, non ce la faccio.
È più forte di me.»
«Io non ti capisco. Sfrutta
l’occasione, no?», disse Anto sdraiandosi
di lato, con la mano sotto la testa, verso di me.
«È che… mi
sembra così strano… Di solito sto sempre io con
loro. Devo
abituarmi a Tom che si offre per giocarci assieme.»
Mi tirai su e presi l’asciugamano
dalla sabbia. Il mio sguardo ricadde
ancora su Tom e sui gemellini. Stava andando tutto bene,
però continuavo a
controllare.
«Adesso basta.»
Scossi la testa e tirai fuori
l’iPod dalla mia borsa. Mi sdraiai sul
lettino a pancia in giù, mettendo un asciugamano sul ripiano
sopra la mia
testa, per coprire il viso dal sole.
Dovevo essermi addormentata in quanto non mi
ero accorta che Stefan e
Alex si erano messi a giocare di fianco a me, con le palette e le
formine.
Sentii la mano di Tom sul mio fianco e poi vidi la sua testa mettersi
vicina alla
mia, sotto l’asciugamano.
«Ciao, ti sei
addormentata?»
«Mi sa di
sì», dissi chiudendo gli occhi.
Tom mi accarezzò la guancia e
sorrise. Io gli misi la mano sul collo,
poi mi avvicinai a lui e chiusi gli occhi. Mi baciò sulle
labbra, poi anche
sulla guancia, poi sul collo, sulla spalla. Misi una gamba sulla sua,
ridendo.
Ci continuammo a baciare sulle labbra, non rinunciando anche a qualche
gioco di
lingue.
«Andiamo a fare il bagno? Solo noi
due… che ne dici? Potrebbe accadere
di tutto…», disse con un tono eccitante, da far
sciogliere chiunque alla prima
parola. Fece scorrere due dita sul mio braccio, accarezzandolo, andando
su e
giù, lentamente.
«Sì, potrebbe accadere
di tutto a Stefan e Alex se li lasciamo da
soli», dissi.
«Ma non li lasciamo da soli,
c’è Bill.»
«Che cosa?!», rispose
prontamente Bill, il che stava a significare che
stava ascoltando tranquillamente i nostri discorsi.
«E dai fratellino, lo fai per me?
Sì, che lo fai.»
«Ma io non li ho mai tenuti da
solo!»
Uscimmo da sotto l’asciugamano e
guardammo Bill. Io ero tutta rossa in
faccia, non so per quale motivo, e Tom guardava le pesti di fianco a
lui.
«Se noi andiamo a fare il bagno
voi due promettete di stare qui buoni
con lo zio?», chiese Tom.
«Ok, papà.»
«Visto? Che ci voleva?»
Mi accorsi che Anto, sdraiata sul lettino
dietro Bill, dormiva beatamente,
con una mano sulla pancia.
«Andiamo?», mi chiese
prendendomi il braccio e alzandosi in piedi. Io
sorrisi e presi la sua mano anche con l’altra, non feci in
tempo a dire niente
ai bambini che Tom mi stava già trascinando via.
«Certo che quando ti ci metti sei
peggio di un bambino!»
«E certo!», disse
strappandomi un bacio.
Camminammo in silenzio, sapendo dove andare.
Solo le nostre mani unite,
intrecciate, rendevano meno faticoso quel percorso.
Mi strinsi nelle spalle e Tom mi
passò una mano sul capo mentre
chiudevo gli occhi e respiravo l’aria di salsedine
trasportata dal vento che mi
scompigliava i capelli.
Con un flash ricordai il funerale di Davide,
le poche briciole di terra
fredda che ero riuscita a far cadere sulla sua tomba, con il vento e la
pioggia
che frustavano il mio viso rigato dalle lacrime.
«Te l’ho detto che non
era cambiato assolutamente nulla», dissi piano,
come se non si dovesse parlare in quel luogo.
«E avevi ragione», disse
ancora più piano.
Si girò e mi passò la
mano sul braccio avviandosi verso gli scogli che
dividevano la baia segreta, la nostra, la mia, la sua, dalla spiaggia affollata.
Feci un respiro profondo guardandomi ancora
intorno e poi lo raggiunsi,
molto semplicemente, senza pensare troppo.
Il vento soffiava e se ti mettevi nella
posizione giusta poteva anche
farti il favore di spostarti i capelli dal viso. Il mare, di
conseguenza, era
invaso dalle onde e il suo respiro era forte ad ogni onda infranta
sulla riva e
sulle rocce. L’acqua inizialmente pareva fredda, ma appena ti
ambientavi era
stupenda, proprio giusta, ti riparava da quel vento che in confronto
sembrava
gelido.
Tom mi sorrise e con la mano mi
schizzò la schiena.
«No scemo!», urlai
cercando di spostarmi dalla sua traiettoria.
Risimo assieme schizzandoci a vicenda. Tom
mi prese e mi trascinò
dentro assieme a lui, continuando a ridere. Ci guardammo, con
l’acqua fino al
collo.
«Ma non pensi che sia un
po’ fredda l’acqua?», chiese stringendosi
le
spalle.
«No, ma che dici? È
giustissima!»
«Mmm… a me non sembra.
Non è che mi riscalderesti un po’?» Si
avvicinò
a me con il sorriso nascosto nell’acqua.
«Ah, ora capisco tutto»,
dissi abbracciandolo e aggrappandomi a lui
mettendogli le braccia intorno al collo e le gambe intorno alla
schiena.
«Tom mi dici una cosa?»
«Certo, cosa?»
«Ci pensi mai a noi due tra
trenta, quarant’anni?» Lui mi guardò
negli
occhi e rise. «Ma che hai da ridere? È una cosa
seria!», dissi schizzandolo in
faccia.
«Ok, ok. No, non ci avevo mai
pensato! Ma tu come mai ci pensi?»
«Boh, mi è venuto in
mente ora. Guarda quei due lì.»
Tom si girò e guardò
due signori abbastanza anziani entrare nell’acqua
chiacchierando.
«Beh, ora che ci penso, saresti
una bella vecchietta.»
«Ma grazie! Anche tu»,
risi e lo schizzai ancora. Lui fece lo stesso,
lasciandomi e facendomi andare sotto. Quando ritornai su, mi spostai i
capelli
dal viso e mi riappoggiai a lui.
«Però anche da quando
sono nati Stefan e Alex ho perso un po’ del mio
fisico.»
«Ma che dici! Sei una mamma
bellissima», mi baciò sulle labbra salate.
«Cambiando
argomento, non posso credere che Bill e Anto abbiano deciso di non
sapere se è
maschio o femmina. Visto il curioso che è Bill mi chiedo:
per quanto
resisterà?»
«Beh, ormai manca poco. E poi
scusa, è una loro scelta. Però io lo
so.»
«Che cosa? Lo sai?»
«Sì, ero curiosa e
così ho chiesto a Mattia. Lo sai che per queste cose
non so resistere.»
«Dai allora! Spara! Maschio o
femmina?»
«Mmm… non so se
dirtelo. Tu te lo faresti scappare e così rovineresti
tutto.»
«Dai, prometto che non mi
uscirà di bocca, lo prometto. Me lo dici?»
Lo guardai ancora incerta. «Ok, se
me lo prometti te lo dico.»
Si portò una mano al petto:
«Te lo giuro.»
«È una
femminuccia.»
«Non ci posso credere! Bill,
avrà una femmina?!»
«Eh sì, a quanto pare
lo vedremo intento con vestitini e fiocchi rosa.
Ma te lo vedi? Io sì!»
«Sì, ce lo vedo pure
io.»
Restammo ancora un po’ in acqua a
giocare e a farci gli scherzi, ma
anche alternando dei momenti di baci e coccole. Usciti, tornammo
all’ombrellone.
«Dai, non ci credo!»
«Sì, credici che
è vero!»
«Ma, Bill, è
vero?»
Bill ci guardò confuso, mentre
prendevamo i teli per asciugarci. Io
presi quello di Tom, ovviamente, perché era più
grande.
«Oh scema, quello è
mio.»
«Sì, lo so che
è tuo. Ma ciò che è tuo è
mio, e ciò che è mio è tuo,
l’abbiamo detto quando ci siamo sposati, non ricordi? Dai,
vieni qui.» Tom si
avvolse nel telo con me, abbracciandomi.
«Che cosa è vero?
Qualsiasi cosa ti abbia detto Tom è una cavolata, lo
sai che non devi credere a tutto quello che dice», disse Bill
tenendo Stefan tra
le sue gambe, appoggiato al suo ginocchio con la schiena.
«Oh sì invece che
è vero! Quella volta che mi sei venuto addosso mentre
suonavamo. Dimmi se non è vero!»
Bill diventò tutto rosso.
«Per forza! Sei sempre in mezzo! Non è colpa
mia se quando camminavo tu mi sei passato dietro! Io come facevo a
vederti?!»
«Va bè. E poi che
è successo?», chiesi incuriosita.
«Ma niente, abbiamo riso assieme
ai fans dopo che la canzone era
finita, senza interruzioni per fortuna», disse Bill
sorridendo a Stefan. Ora che
lo guardavo bene, era tutto sporco di gelato intorno alla bocca. E
così pure
suo fratello Alex.
«Ma cos’avete
combinato!? Voi non avete mangiato il gelato, ci avete
fatto la guerra!», dissi sorridendo addolcita da quelle due
pesti che potevano
sembrare angeli.
«Ma Anto
dov’è?», chiesi guardandomi in giro.
«Eccomi qua!», disse
arrivandomi da dietro e appoggiandomi la bottiglia
d’acqua ghiacciata sulla schiena.
«Ah, scema!», saltai e
mi aggrappai al braccio di Tom quando lei e Bill
ridevano.
Si mise seduta di fianco a suo marito,
sorridendo. Guardai ancora i
musetti di Stefan e Alex, sorrisi e li presi per mano:
«Andiamo a darci una sciacquata
va’.»
Rimboccai le coperte a Stefan e Alex, con la
luce del comodino accesa.
Sorrisi e gli accarezzai le guance.
«Buona notte.» Spensi la
lucina e raggiunsi Tom sulla porta.
«Papà, vieni qui un
attimo?»
La vocina di Alex ci fece girare e lo
guardammo. Riaccese la luce sul
comodino e si mise seduto sul letto, batté due colpi di
fianco a lui. Tom e io
ci guardammo incuriositi e sorridemmo. Tom si mise seduto sul lettino
di Alex,
lo guardò.
«Mmh? Che
c’è?»
Alex mi guardò per un attimo,
mentre andavo dietro a Tom e gli mettevo
le mani sulle spalle.
«Tu e mamma vi volete
bene?»
Tom mi guardò e poi rispose:
«Certo, certo che ci vogliamo bene.
Perché?»
«Non vi lascerete mai? Come i
genitori di un bambino che abbiamo
conosciuto ieri, che i suoi genitori non stanno assieme… uno
sta in un’altra
casa. Non ci lascerete mai, vero?»
«No, staremo assieme a voi,
sempre. Per qualsiasi cosa, noi ci saremo.»
Alex sospirò e sorrise.
Abbracciò Tom, poi mi fece unire all’abbraccio.
Lo guardammo e sorrisimo.
Tom gli prese il viso e lo baciò
sulla fronte, chiudendo gli occhi.
«Adesso dormi e non pensarci
più», disse sorridendogli.
Alex si mise sotto il lenzuolo e spense la
luce, dicendo: «Notte.»
«Buona notte»,
rispondemmo assieme io e Tom.
Uscimmo dalla loro camera e andammo fuori,
in giardino, sotto il
portico. Ci sedemmo su due sedie vicine. Ci guardammo, sorrisimo.
«Lo sai che Alex è
tutto uguale a te?», disse Tom prendendomi la mano.
«Sì, lo so.»
«Fa dei ragionamenti troppo da
grandi.»
«È
perspicace.»
«Proprio come la mamma.»
Tom mi prese il viso e mi baciò,
mi riempì di baci. Risi e mi
riappoggiai allo schienale della mia sedia.
«Domani siamo solo noi, Anto va in
ospedale con Bill», dissi.
«Ah è vero, me ne ero
dimenticato.»
«Allora oggi ti sei
divertito?»
«Tantissimo.»
«Sei stanco?»
«Tantissimo.»
«Perciò?»
«Perciò domani voglio
stancarmi e divertirmi ancora di più!»
Risimo. Ci stampammo ancora dei baci sulle
labbra, sorridendo, sotto la
luce della luna e delle stelle.
«Sai, questa è la
vacanza più bella della mia vita», disse
accarezzandomi
la guancia.
«Perché?»
«Perché stare insieme
alle persone che ami è la vacanza migliore, non
trovi?»
_____________________________________
Buonasera a tutti!
^_____^
Siamo al terzo
flashback! Questo
è uno di quelli che preferisco, spero che sia piaciuto anche
a voi! *-*
Ringrazio di cuore Utopy
( mi viene da ridere, ormai xD )
Ti voglio tantissimo bene ( una quantità da impresa
multinazionale xD ) e lo
dico al mondo, ecchekaulitz ù.u La tua farfallinaaaaaaa
*_________*
Ringrazio
anche chi ha solo
letto, ma una recensione ogni tanto toglie il medico di torno! XD
Alla prossima, ciao!
Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 5 *** 1.4 ***
Buonaseraaaa ^___^ Ecco
il quarto
flashback!
Ringrazio Utopy
per la recensione all'ultimo
capitolo. L'hai dovuta addirittura rimandare, hai proprio una santa
pazienza *-* Grazie, grazie, grazie. Senza di te sarebbe triste xD Non
ti preoccupare che Ary te la farò tornare simpatica,
ecchekaulitz >.< Ti voglio tantissimo bene, ranocchietta
*-*
Buona lettura! :D
___________________________
1.4
«Mamma! Stefan non mi lascia in
pace!»
«Stefan lascia stare tuo
fratello.»
«Ma mamma! È Alex che
non mi lascia giocare!»
Raggiunsi quelle due pesti di gemelli, mi
misi le mani sui fianchi e
dissi: «Piantatela tutti e due. Stefan lascia in pace Alex e
Alex lascia
giocare Stefan. Ok?»
Loro si guardarono, poi guardarono me,
facendo la faccina triste.
«Sì, mamma»,
dissero insieme.
Io tornai nel locale lavanderia a prendere
le magliette di quei due
demoni. Le misi una sopra l’altra, piegandole. Quel giorno
avevo la luna
storta, in più avevo un sacco di cose da fare e non mi
andava che Tom non mi
aiutasse.
«Tom dove sei?»
«Sono di sopra!»
«E cosa stai facendo?»
«Sto… sto
lavorando.»
Salii di sopra e lo vidi sdraiato sul letto
che guardava la tv.
«E questo lo chiami
lavoro?», indicai la tv. Quando mi vide saltò
giù
dal letto e spense la tv.
«Certo che no tesoro. È
che… mi ero preso una pausa.»
«Potresti anche aiutarmi, allora.
Non devo fare sempre tutto io!»
«Cosa? Non è vero che
fai sempre tutto tu! E poi io ho il mio lavoro,
tu il tuo.»
«E quale sarebbe il mio lavoro? La
schiava?»
«Tom! Sei un idiota!»,
gridò Anto dalla camera accanto. «Cosa urli, hai
svegliato Sharon!»
Alla fine era nata lei, Sharon, una
bellissima bambina, dopo il tanto
temuto matrimonio. Bill e Anto non avevano voluto sapere in anticipo di
che
sesso era e così, il giorno della sua nascita, fu tutta una
sorpresa.
Bill era arrivato di corsa in ospedale e
l’infermiera gli aveva dato
Sharon in braccio. «Congratulazioni, è una
femminuccia.» Così gliel’aveva
detto. Bill non aveva parole, l’unica cosa che disse fu:
«Allora è una
femmina.» Era contentissimo.
«No, la schiava è
eccessivo. Però io ho bisogno di rilassarmi ogni
tanto, sono sempre impegnato. Quindi…», disse
più piano.
«Mamma!»
Chiusi gli occhi e lasciai scendere le
braccia lungo fianchi. Scesi
giù, tornai dai bambini, li raggiunsi sul tappeto
«Che cosa
c’è?»
«Io ho fatto come hai detto tu, ma
Stefan ora mi ha preso tutti i giochi
e non mi lascia giocare!», stava già assumendo la
faccia da pianto, e subito
suo fratello si mise a prenderlo in giro.
«Alex è una
femminuccia, Alex è una femminuccia…»
«Stefan, perché dici
così? Ma non potete giocare assieme?»
Stefan si fece improvvisamente
più serio, guardò il fratellino quasi in
lacrime e lo abbracciò teneramente: infondo anche lui era un
tenerone, come suo
padre.
«Scusa fratellino, non lo faccio
più.»
«Va bene, pace.»
«Pace.»
Sorrisero e si misero a giocare assieme,
felici. Sorrisi anch’io e li
baciai sulla testa, poi andai verso la cucina. Ma, prima che ci
arrivassi,
sentii Anto scendere dalle scale con Sharon in braccio.
«Ehi Ary,
cos’è successo?», mi chiese.
I gemellini guardarono verso le scale e si
alzarono, incominciarono a
saltellare da quanto erano contenti di vedere Sharon. Anche lei
saltellava
nella braccia della mamma. Lei sorrise e la fece scendere, per farla
andare a
giocare con i bambini, che la accolsero come una principessa.
«Ma niente, non è
successo niente», dissi andando in cucina.
«Invece no, se Tom urlava
così forte da svegliare Sharon.»
«Ma niente, gli avevo chiesto se
mi aiutava, ma… non importa», alzai le
spalle e sorrisi appoggiando la testa sulla spalla.
«Sicura che non importa?»
«Sì. Piuttosto, Bill?
Non doveva tornare?», gettai un’occhiata
all’orologio.
«No, è dovuto restare
ancora. Questa sfilata gli sta togliendo il
respiro, è agitatissimo, te ne sarai accorta.»
«Sì, vero.»
Tom entrò in camera, mi
trovò sul letto, già sotto le coperte, intenta
a leggere e a scarabocchiare con la matita sui bordi delle pagine fin
troppo
bianchi con una matita. Lo guardai per un attimo, lui mi sorrise e
chiuse la
porta. Si avvicinò al letto, si mise di fianco a me
appoggiandosi con un gomito
al materasso.
«Piccola, mi dispiace per oggi. Ci
ho pensato su e non è giusto. So che
fai tante cose per noi. Senza di te come faremmo? Sarebbe la fine del
mondo!»
«Sarebbe così
grave?»
«Sì! Tu non puoi
nemmeno immaginare. Ma mi vedi da solo con quelle due
personificazioni del diavolo? Perciò… scusami.
Cercherò di aiutarti per quello
che posso. Questo è poco ma sicuro. Allora, credi di potermi
perdonare?»
«Mmm… non
so… vedremo…», dissi sorridendo. Tom
sorrise e mi abbracciò,
iniziò a baciarmi il collo.
«E dai, non fare così,
lo so che mi perdoni», disse ridendo e
baciandomi. Io risi, perché mi faceva il solletico. Mi
agitai nel letto
cercando di togliermelo di dosso, ma lui non si staccava, quella testa
dura.
«Ok, ok! Ti prego basta! Ti
perdono.»
«Brava la mia
piccolina», mi baciò le labbra.
«Dai Tom, è meglio se
andiamo a dormire, no?» Lui scosse la testa
schioccando la lingua in senso di negazione.
«Papà? Mamma? Che cosa
state facendo?», chiesero Stefan e Alex, entrati
in camera come fantasmi, né io né Tom li avevamo
visti, e sembravano anche
abbastanza spaesati.
«Piccolini, che ci fate ancora in
piedi?», chiesi togliendomi di dosso
Tom.
«Non riesco a dormire»,
dissero tutti e due. Loro si guardarono e si
fecero la linguaccia. Saltarono sul letto e arrivarono da noi a quattro
zampe,
veloci. Io e Tom ci guardammo e sorridemmo.
«E va bene, ma solo per questa
sera», disse Tom facendoli mettere in
mezzo a noi. Accarezzò i capelli biondi di quei due
diavoletti travestiti da
angeli, spostandoli dalla fronte, prima dell’uno e dopo
dell’altro. Era
sempre così affettuoso con loro, un papà da dieci
e lode; era la versione marito che a
volte faceva le bizze. Ma non importava molto, tornavamo sempre sul
binario
giusto, insieme.
«Mamma, papà,
perché prima eravate così?» Stefan
abbracciò il fratello,
ma non lo baciò sulla bocca, fece finta. Io e Tom risimo,
mente Alex cercava di
liberarsi da quel piccolo maniaco.
«Perché quando due
persone, una ragazza e un ragazzo, si vogliono bene,
fanno così. Si abbracciano e si baciano, si dice
così», spiegò Tom. Come la
sapeva lunga su quell’argomento.
«Ma… allora vuol dire
che devo baciare Sharon?», chiese Alex ancora
perplesso.
«No, lei è tua cugina.
Quando crescerai capirai meglio, è difficile da
spiegare.» I due annuirono con la testa.
«Allora voi fate sempre
così?», chiese ancora Stefan.
«Sì», dissi
annuendo vivacemente con la testa.
«Fa un po’
schifo», disse Alex.
«No, ma perché? Invece
è bello. Ve l’ho già detto, da grandi
capirete»,
disse Tom.
«Mmh, se lo dici tu.»
Alex si accucciò di fianco a Tom;
Stefan fece lo stesso, però con me,
trovandosi schiena contro schiena con il gemello. Quella posizione mi
ricordò
quando erano nella pancia che a volte si giravano così,
forse in un loro lato
inconscio si ricordavano e stavano bene in quel modo.
«Ah, quasi mi dimenticavo, mi
è venuta in mente una cosa», esordì Tom.
«Wow, è già
la seconda volta che usi il cervello oggi!», dissi
scherzando. Alex e Stefan fecero una risatina.
«Piccola
ingrata!», scatenò una battaglia di solletico e me
li ritrovai
tutti e tre addosso. Rischiavo di morire dal ridere e sicuramente non
ci
sarebbe stata morte migliore: quanto amavo i miei tre uomini, erano
tutta la
mia vita.
«Non riesco a
respirare!», dissi con il fiato mozzato, le lacrime agli
occhi. «Ma vi amo.»
«Anche noi ti amiamo,
mamma!», incorarono Stefan e Alex, abbracciandomi
per il collo e stampandomi tanti baci sulle guance, facendomi sentire
in
paradiso. In più, la mano di Tom si strinse intorno alla mia
e lessi nel suo
sguardo e nel suo sorriso la sua risposta molto più che
affermativa.
«Comunque,
pensavo che
sabato potrebbero venire anche loro al concerto, così
magari…»
Stefan e Alex saltarono in
ginocchio sul letto prendendo la maglietta
di Tom, gridando contenti:
«Davvero? Davvero, davvero?
Davvero, davvero, davvero? Sì papà! Possiamo?
Eh, possiamo? Possiamo?»
Tom sorrise e li fece calmare, mettendoli di
nuovo seduti sul letto.
«Calmatevi piccole pesti. Dobbiamo
prima vedere che dice mamma», disse.
Così me li ritrovai aggrappati alla mia di maglia.
«Dai mamma! Dai, possiamo? Ti
prego!»
Parlavano benissimo assieme, ma lo facevano
così bene che sembrava che
parlasse uno solo: le loro voci si univano perfettamente, anche
perché erano
molto simili. In effetti, riuscivi a distinguerli solo dopo averli
conosciuti
bene, dal carattere, completamente differente.
«Io non saprei… Siete
ancora piccoli per tutto quel casino.»
«Ma mamma! Uffa.»
«E va bene! Per me va
bene», dissi sconfitta. Stefan e Alex mi saltarono
addosso e mi abbracciarono entusiasti. Tom rise e mi guardò
sorridere, mentre
coccolavo quei cucciolotti, i nostri cucciolotti.
«Però adesso tutti a
nanna.»
«Sì», dissero
i gemellini. Si misero ancora schiena contro schiena,
sotto le coperte, in mezzo a me e a Tom.
«Buona notte», disse Tom
spegnendo la luce.
«Buona notte», dissero i
bimbi.
«Buona notte», dissi io
dopo aver rubato un bacio a Tom, che sorrise.
«Lo avete fatto ancora! Che
schifo», disse Stefan.
«Fatti gli affari tuoi»,
dissi mettendomi di fianco a lui.
«Ok, notte.»
«Notte.»
Quella notte feci un sogno bellissimo. Io e
Tom eravamo sdraiati
sull’erba fresca, all’alba, guardavamo il cielo, in
verità non lo guardavamo
perché avevamo gli occhi chiusi, ma era stupendo. Non
parlavamo, ma era come se
lo facessimo, ogni tanto sorridevamo cercandoci le mani a vicenda, e ce
le
stringevamo forte prima di sorridere di nuovo.
Nonostante la tranquillità, la
serenità e la bellezza di quel sogno, mi
svegliai con tutti dei dolori alla schiena. Ero sul bordo del letto,
ancora
qualche centimetro e mi ritrovavo a terra, e avevo un braccio di Stefan
addosso. Alex non era tanto meglio, era tutto addosso a suo padre,
lasciando il
mezzo del letto completamente vuoto, in quanto anche Tom tra poco
cadeva. Tra
tutti e tre non sapevo chi fosse il peggiore.
Spostai delicatamente il braccio di Stefan e
mi alzai, li coprii e misi
meglio Stefan e Alex. Quando tolsi Alex da Tom, lui riprese a
respirare.
«Grazie mille»,
sussurrò.
Stese le braccia richiedendo un abbraccio e
l’ottenne, poi si alzò
assieme a me. Andammo in cucina, dove ci saremmo risvegliati del tutto
con una
bella dose di caffeina.
Mi toccai le spalle abbassando la testa,
mentre la macchina del caffè
faceva il suo dovere. Tom si avvicinò e mi prese le spalle.
«Anche io uguale. Mi chiedo solo
quanto riuscirò a resistere», disse
ridendo.
Mi appoggiai a lui, mentre mi massaggiava le
spalle. Chiusi gli occhi e
mi lascia andare. Anche lui doveva essersi appoggiato a qualcosa, aveva
una
presa un po’ troppo solida per essere solo mattina.
«Dormito?», chiesi
parlando a bassa voce.
«Qualche ora, nulla di
più.»
«Anche io. Avevo Stefan sempre
addosso e si agitava da morire. Volevo andarmene
sul divano, però non avevo la forza e la voglia necessarie
per alzarmi.»
«Io invece non riuscivo
perché avevo paura di, uno, cadere dal letto; e
due, di far male ad Alex, anche lui era sempre appiccicato a me, se non
addirittura sopra.»
«Sono i rischi del
mestiere.»
«Il mestiere del genitore, quello
più duro del mondo.»
«Proprio così, ma noi
ce la caviamo bene. Facciamo cambio?», gli
chiesi.
«Sì, ti
prego.» Mi misi dietro di lui a massaggiarlo. «Che
poi se mi
fanno male le spalle è un casino… senza come
faccio a suonare?», disse
sbuffando.
«Lo so», dissi
confortandolo. «Siediti che riesco meglio.» Lui si
mise
seduto sulla sedia di fronte a sé, appoggiandosi con la
testa in mezzo alle
braccia sul tavolo, chiudendo gli occhi.
«Però, ammettilo: che
vita sarebbe senza di loro?»
«Una noia mortale»,
disse sorridendo.
«Lo puoi ben dire.»
Accennammo entrambi una risata.
Mi allontanai un secondo per prendere il
caffè. Gli misi la tazza davanti,
baciandolo sulla guancia, poi mi misi seduta di fronte a lui, presi la
tazza
con entrambe le mani e ci guardai per un attimo dentro.
«Ma Bill fa la mia stessa
vita?», chiese. «Nel senso…»,
bevve un sorso
del suo caffè. «Anche lui ha a che fare con due
presenze malefiche come quelle
che dormono nel nostro letto?»
Trattenni un sorriso. «Non credo.
Però devo ammettere che anche lui ha
le sue fatiche. Ora che è anche stilista non è
facile. Prima c’era solo la
musica, ora pure la moda, poi ci sono sempre Antonia e Sharon, non che
siano un
peso. Però è dura anche per lui.»
«Non reggerebbe un giorno con
Stefan e Alex», disse dopo aver bevuto a
lungo.
«Può darsi. Ma secondo
me, dietro quella faccia angelica, anche Sharon
dev’essere un peperino. Se ha preso dalla madre, che
assomiglia alla sottoscritta,
dev’esserlo per forza.»
«Dici?»
«Secondo me sì. Mi
ricordo ancora quando da piccola ne combinavo di
tutte i colori. Una volta mi sono messa a colorare, solo che il foglio
non mi
bastava, così ho fatto un bel murales in salotto.
Papà ha dovuto far
ridipingere quella parete», dissi ricordando una parte della
mia infanzia
felice, quella minima parte.
«Allora eri un demone pure
tu!»
«Scommetto che anche tu lo
eri.»
«Hai vinto la scommessa, non era
così difficile da intuire. Io e Bill
ne facevamo davvero di tutti i colori, ma soprattutto usavamo
l’inchiostro nero
con i professori. Che spasso.»
«Ecco. Abbiamo creato due piccoli
mostri a nostra immagine e
somiglianza.»
«Ne sono poco orgoglioso su questo
aspetto.»
«Eh, in effetti…
però sono nostri, è questo che conta no? Gli
voglio
bene lo stesso, anche se facessero un bel murales con
l’inchiostro nero sul
muro del salotto.»
«Hai fatto un misto!»
«Ciò che è
stato mio, ciò che è stato tuo, ora è
loro. Loro sono un
misto di noi due.»
«Oh mamma, noi due non dobbiamo
fonderci mai più!», disse Tom
sorridendo.
«Tom.»
«Eh?»
«Ti ricordi che giorno
è vero?», chiesi seria.
«Perché? Che giorno
è? Il tuo compleanno non è, nemmeno il nostro
anniversario. Che giorno è oggi?» Aveva pensato
anche all’anniversario della
morte di Davide, ma non lo disse, era certo che non fosse quel giorno.
«Tom, la sfilata.»
Tom si mise le mani in faccia.
«Oggi, la sfilata. È vero, che scemo.
Non me ne sono ricordato per niente. Menomale che ci sei tu.»
«Eh, senza di me come faresti? Ora
me lo chiedo pure io», dissi andando
al lavandino.
«Merda, la sfilata. E io sono a
pezzi. E dopodomani c’è il concerto. Senza
contare che domani ci sono le prove generali. Oh merda, che
casino.»
«Visto? E pensa se dovessi
organizzarla tu la sfilata. Saresti morto.
Perciò Bill ne ha eccome di fatiche.»
«Sì, vero. Hai ragione.
Quand’è?»
«Alle cinque.»
«E Stefan e Alex?»
«Lo sai come la penso. Dovranno
venire con noi per forza.»
«Sì, giusto.
Perciò abbiamo ancora tutto il giorno, ma dovremo uscire
prima, visto che Bill va lì prima, dovremo esserci anche
noi, perciò abbiamo
solo la mattinata. Ora che prepariamo Stefan e Alex, e poi
noi…»
Abbracciai Tom da dietro e lo baciai sulla
guancia. «Tesoro, calmati, non
agitarti. Andrà tutto come al solito, non preoccuparti. Ora
vai a farti una
doccia e ti rilassi, ok? A Stefan e Alex ci penso io.»
«Ok, grazie. Sai che ti
amo?»
«Sì che lo
so», lo baciai.
Dopo la sfilata eravamo tutti distrutti,
così tornammo tutti a casa:
io, Tom, i gemelli, Bill, Anto e Sharon.
«Bill, complimenti. Sei stato
bravissimo, come al solito. Gli abiti,
l’organizzazione…», dissi anche se
più che altro dormivo semisdraiata sul
divano, accanto a Tom.
«Le modelle»,
mugugnò Tom con il sorriso sulle labbra e gli occhi
chiusi.
«Tu spera che Stefan e Alex non
abbiano preso da te, se no ti appendo a
testa in giù e ti lascio lì», tentai di
colpirlo con il braccio, ma era tutto
inutile, ogni singolo muscolo si opponeva.
«Sono condannato.»
«Pensa che nel backstage,
c’erano anche Christin e Anne e loro due
erano gli unici maschietti: i beati fra le donne. Mi ha fatto piacere
incontrare Gustav e Georg, con mogli al seguito e bambine. Ma solo noi
ce li
siamo beccati i maschi, Tom?»
«A quanto pare.»
Bill, intrappolato felicemente nei milioni
dei complimenti che aveva
ricevuto quel giorno, sorrise e chiuse gli occhi passando la mano tra i
capelli
sciolti di Anto, che rise e si lasciò accarezzare.
Stefan e Alex erano calmissimi, sia per
fattore sonno che per fattore
Sharon, sempre quando c’era lei nei paraggi lo erano.
«Comunque, Bill, abbiamo
deciso», disse Tom.
«Deciso cosa?»
Eravamo tutti con un piede nel mondo dei
sogni, lo si poteva facilmente
notare anche da come parlavamo lenti e da come capissimo poco alla
volta,
eravamo come delle radio che a volte prendevano e a volte no, andavamo
ad
intermittenza.
«Verranno con noi a vederci,
Stefan e Alex.»
«Sul serio? Allora avremo un
pubblico da far tremare le ginocchia! Non
è vero, piccole pesti?»
«Sì, non vedo
l’ora», disse Stefan. Se non fosse stato
già attaccato da
Morfeo avrebbe iniziato a saltellare e a gridare, cosa che non fece.
«Sono troppo calmi,
eh?», disse Anto facendomi l’occhiolino.
«Sì, tra un
po’ si addormentano. Peccato che siano così solo
quando
hanno sonno.»
***
«Bambini andate a
dormire.»
«Ma mamma non abbiamo
sonno!»
«Guardate che se non andate a
dormire, domani non reggete.»
Era finalmente arrivato il momento,
l’indomani ci sarebbe stato il
concerto, il primo concerto a cui avrebbero assistito Stefan e Alex.
Ero tesa e
allo stesso tempo emozionata come se fosse anche la mia prima volta.
«Giusto bambini, ascoltate la
mamma. Anche noi andiamo a dormire
adesso», disse Tom prendendo in braccio Stefan, che
baciò sulla guancia, mentre
quest’ultimo rideva.
«Ok, papà, va
bene», disse Alex sconfitto.
Lo presi in braccio e li portammo tutti e
due in camera loro. Li misimo
nei loro bei lettini e gli rimboccammo le coperte,
com’eravamo soliti fare
tutte le sere. Tom guardò Stefan, già partito,
poi guardò Alex, che lo guardava
a sua volta.
«Che cosa c’è
Alex?», chiese mettendosi seduto di fianco a lui sul
letto. Alex si mise seduto e allungò le braccia. Tom si
avvicinò, si lasciò
abbracciare e anche lui abbracciò il piccolo corpicino di
Alex.
«Papà, ti voglio tanto
bene.»
«Anche io te ne voglio tanto, ma
te ne vorrei di più se adesso ti
mettessi a dormire», disse scherzando.
«Idiota», mormorai
tirandogli un colpetto sulla spalla; Alex rise e si
rimise sdraiato nel letto.
«Buona notte.»
«Buona notte papà,
buona notte mamma.»
***
«Quando inizia, mamma? Io sono
stufo di aspettare!»
«Un po’ di pazienza
Stefan! Ecco, ecco papà.»
Uscirono dalla stanza in cui erano rintanati
da più o meno mezz’ora e
si fermarono davanti a noi. Alex e Stefan si attaccarono uno per gamba
a Tom.
Lui sorrise e mi guardò, sorrisi anch’io.
«Ma ciao cuccioli! Anche voi
qui?»
«Sì, papà ha
detto che potevamo venire.»
«Ma non devi credere a tutto
quello che dice papà.»
«Zitto Georg! Cosa gli
insegni?!», rispose Tom spingendolo.
I due risero e poi Tom si mise in ginocchio
sul pavimento, di fronte a
Stefan e Alex, gli accarezzò i capelli e sorrise.
«Mi raccomando,
fate i bravi.» Li baciò sulla testa, mi
stampò un bacio
veloce sulle labbra e sorridendo raggiunse Bill, già in
testa a tutti,
mettendosi la chitarra al collo.
«Dai
bambini, adesso inizia
e noi abbiamo i posti d’onore.» Sorrisi e loro
corsero verso di me, anzi,
corsimo assieme a vedere il concerto.
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Capitolo 6 *** 1.5 ***
1.5
«È tutto
pronto?», chiesi guardando Tom che girava per la stanza
facendo mente locale di ciò che aveva messo nelle cinque
valige sparse sul
pavimento: cosa poteva averci dentro lo sapeva solo lui.
«Ehm… sì,
dovrei avere tutto.»
Mi avvicinai, guardandolo comprensiva, un
debole sorriso sulle labbra:
«Sei sicuro di voler venire? Cioè… ce
la fai ad arrivare in tempo?», gli sistemai
la felpa sulle spalle e il colletto. Fece un sorriso e mi
stampò un bacio sulle
labbra.
«Non perderei mai questo momento.
E per il resto, non ti preoccupare,
in qualche modo ce la farò, vedrai.»
«Va bene.» Lo guardai
negli occhi, cercando di nascondere quella
malinconia che mi aveva assalita come sempre ogni volta che doveva
andare via
per un po’. Ormai mi conosceva troppo bene per non riuscire a
leggermi dentro
con un solo sguardo.
«Dai, vieni qui.» Mi
abbracciò sorridendo, tenendomi forte a sé,
dondolando piano da una parte all’altra. Strinsi i pugni
sulla sua schiena,
tenendogli la felpa, nascondendo il viso nel suo petto.
«Sempre la stessa, eh? Non cambi
mai. Dai Ary, sono solo tre settimane,
forza.»
«La fai sempre troppo semplice tu.
Sono pur sempre tre settimane. E che
ci posso fare: se mi manchi, mi manchi. Mi raccomando.» Lo
guardai seria, prima
di baciarlo.
E ogni volta che lo baciavo? Oh, era sempre
la solita scossa elettrica,
come se fosse la prima volta, come se ci fossimo appena conosciuti.
Eppure il tempo era passato, ora eravamo
genitori, avevamo importanti
responsabilità sulle spalle, ma nonostante tutto la nostra
passione, il nostro
amore incondizionato l’uno verso l’altro non
svaniva mai, anzi sembrava sempre
più rafforzarsi.
«Ok, anche tu.» Ci
strinsimo ancora forte. «Dai, meglio svegliarli.»
«Sì, sarà il
caso. Stefan, Alex, sveglia.»
Erano sdraiati di traverso l’uno
sopra l’altro nel lettone, mezzi
coperti e mezzi no. Quando erano così, mi ricordavano un
sacco Tom. Lui si mise
seduto sul letto, fra i gemelli.
«Ti ricordi quando sono venuti al
concerto?», ridacchiò passando
delicatamente la mano fra i capelli di Stefan. «Li hai persi
di vista un attimo
e sono corsi in mezzo al palco.»
«Per raggiungere il loro
papà e vederlo da vicino», continuai
sorridendo, sedendomi al suo fianco e appoggiandomi a lui, che mi
massaggiò il
braccio. «È stato divertentissimo.»
«Puoi scommetterci.» Si
sporse su di me e mi baciò delicato le labbra,
accarezzandomi il viso con la mano. «Mi mancherete
tantissimo, come sempre.»
Stiracchiai un sorriso e gli presi il viso
fra le mani ricambiando il
bacio con un po’ di passione in più. Tre settimane
intere senza di lui… Avevo
passato mesi senza vederlo, eppure quel tempo che ci avrebbe separato
colpiva con
violenza il mio cuore facendolo sussultare. Sapevo che con Stefan e
Alex
sarebbe passato in fretta, ma non potevo… non riuscivo a
scacciare via quella
paura che mi assaliva ogni volta che Tom se ne andava per gli impegni
con la
band. La mia paura, la stessa che si accaniva sempre dentro di me da
quando
erano nati i gemelli.
«Andrà tutto bene, Ary.
Non ti preoccupare, sei una mamma perfetta! Non
ti stanchi mai di sentirtelo dire?»
«La paura di comportarmi come mia
madre è irrazionale, prende sempre il
sopravvento, Tomi.»
«Scacciala via, quella bestia di
paura. Tu sei più forte.»
Sorrisi e annuii. «So di esserlo.
Solo che mi sento meno potente senza
di te.»
«Se potessi ti metterei in valigia
con questi due», sfregò il naso con
il mio e mi fece ridere.
«Tom, posso chiederti una
cosa?»
«Dimmi.»
«Trovi che io sia cambiata, in
questi anni?»
«Cambiata? In che senso?»
«Da quando sono nati Stefan e
Alex. Che ne so, a volte mi sembra di non
riuscire più a rilassarmi con loro, troppo impegnata a
gestire la mia paura di
fallire come madre, tanto da sembrare rigida… Potrei
risultare anche
antipatica, magari.»
«Che cosa? Tu non sei antipatica!
Chiunque sia il pazzo o la pazza che
ti ha messo questa pulce nell’orecchio non è
assolutamente vero. Tu sei una
mamma perfetta e prendi sul serio il tuo ruolo quanto basta, quanto
devi. Non
sei per niente cambiata, sei sempre la solita ragazzina…
solo che sei più
matura e con delle responsabilità in
più», sussurrò prima di baciarmi
ancora,
sorridente; riuscì perfettamente a rassicurarmi, come solo
lui sapeva fare, e a
farmi sospirare di sollievo.
Quanto lo amavo non lo sapeva nemmeno Dio.
«Ora è meglio se li
svegli davvero, Tom. O faremo tardi», ridacchiai
indicando i gemelli che ancora dormivano al nostro fianco.
«Sì», rise.
«Piccole pesti, sveglia, che chi dorme non piglia
pesci.»
La peste più tranquilla, Alex, si
rigirò nel letto mugolando, mentre il
fratello sembrava ancora del tutto addormentato.
«Ehi?», li
chiamò ancora Tom baciandoli sulle guance di continuo,
sorridendo. Anche loro sorrisero, il sorriso identico a quello del
padre, e lo
abbracciarono per il collo, trattenendolo vicino a loro.
Tom si lasciò andare e
appoggiò la testa sul cuscino, in mezzo a loro,
con le lacrime agli occhi, sentendo quel calore e quel profumo ancora
così da
bambini.
«Papà,
piangi?», chiese Stefan.
«Eh? No, non piango.»
Tom sorrise e guardò i gemelli nel letto, vicini
e sorridenti. «Pazzesco. Crescete così in
fretta… Sembra ieri il giorno in cui
siete nati.»
In effetti era così. Non sembrava
nemmeno passato tutto quel tempo,
eppure passavano gli anni e non ce ne rendevamo conto.
«Sì papà, lo
dici sempre», ridacchiò Alex.
«Sì, lo so. Allora
muovetevi ad andare di là, perché sto per dirlo
di
nuovo.»
I gemelli sorrisero e si alzarono dal letto
correndo, andando in giro
per la casa. Sentimmo le voci di Bill, Anto e la tenera vocina di
Sharon, in
cucina, che li salutavano. Io e Tom ci guardammo e sorrisimo.
«Possibile? Già a
scuola?», mi chiese lui appoggiando i palmi delle
mani l’uno sopra l’altro.
«Eh sì, sei anni, caro
mio. Ma anche a me vengono questi dubbi, è
normale.» Risimo e raggiungemmo gli altri.
«Allora, qui è tutto
pronto. Adesso entriamo, e poi…»
«Bill, rilassati. È
tutto a posto, mmh?»
«Ok Tom, l’hai vinta
tu.» Bill guardò la piccola Sharon fra le proprie
braccia, sorridente. «Ciao amore, ma come sei
bella!», la baciò sulla guancia
facendola ridere.
«Papà», disse
prendendo una ciocca dei suoi capelli scuri e tenendola
fra le dita. «Perché dovete partire?»
Sharon guardò gli occhi del padre, un po’
triste.
«Perché dobbiamo andare
a suonare, assieme a Gustav, a Georg… E non è
vicinissimo il posto. Per questo dobbiamo.»
«Ma io non voglio che vai
via», abbracciò Bill mettendogli le braccia
intorno al collo affettuosamente. Bill le sistemò il
vestitino viola che aveva
addosso, sorridendo con amarezza.
«Amore, ma papà torna
presto, non ti lascia.»
«Me lo prometti?»
«Certo! Non lascerei mai la mia
bambina!», rise e le baciò ancora la
guancia facendo lo stupido.
«Allora, andiamo?», li
invitai ad entrare prendendo Stefan e Alex per
le spalle e sorridendo.
«La tortura comincia,
ragazzi.»
«Tom! Non dire
così!»
Tom sogghignò e si
beccò una pacca sul braccio da parte mia.
Entrammo nel grande salone della scuola,
dove già c’era il pieno di
bambini e i loro genitori.
«Come mai tutta sta gente? Siamo
in ritardo?», mi chiese Tom
guardandosi intorno.
«No, siamo in orario.»
Dovevano smistare tutti i bambini nelle
classi, facendo una specie di
estrazione, perciò non sapevamo nemmeno se i gemelli
sarebbero rimasti assieme
oppure divisi e messi in due classi differenti.
Tom guardò l’orologio e
poi guardò Stefan e Alex, seduti per terra
nelle prime file, che aspettavano l’annuncio dei propri nomi.
«Uffa, ma quanto ci
mettono?»
«Tom, calmati. Sono tanti bambini,
ma vedrai che ce la fai.»
«E se non ce la faccio?»
«Pazienza, ti farai
raccontare.»
«Ma una cosa è vederli,
un’altra è farselo raccontare.»
«Lo so Tom, lo so. Ma che ci vuoi
fare? Dai, tranquillo», gli sorrisi e
gli strinsi la mano mettendo il braccio intorno al suo.
«Tom, dobbiamo andare»,
sussurrò Bill al fratello, amareggiato. «Che
cosa? Di già?»
«La macchina è
già fuori che ci aspetta.»
«Ma… ma adesso tocca a
loro! Un secondo.»
Tom fece in tempo a vedere i gemelli alzarsi
in piedi e raggiungere
sorridenti i loro nuovi compagni di scuola, davanti a tutti i genitori.
Tom mi
stampò veloce un bacio sulle labbra e lo stesso fece Bill,
solo sulla guancia,
dopo aver baciato moglie e figlia. Salutarono con la mano i gemelli,
soffiandogli
dei baci e poi scapparono via.
Che ci potevano fare? Era la loro vita.
***
«Mamma, quando torna
papà?», si lamentò.
Sfregai la testa ad Alex per spargergli lo
shampoo. Erano tutti e due nella
vasca da bagno, che appunto stavano facendo il bagno. Alex era tutto
pieno di
schiuma, dappertutto, persino sul naso; Stefan continuava a schizzare
il
fratello e a ridere come un matto. Quella risata così simile
a quella di suo
padre.
«Vi manca proprio tanto,
vero?», dissi sciacquandomi le mani nell’acqua
calda, con un sorriso amaro sulla bocca.
«Sììììììì!
Anche zio.»
«Immagino. Pensate, io ho passato
mesi senza vederli, quando ero più
piccola. Ormai ci ho fatto l’abitudine, però
mancano tanto anche a me, ogni
volta come se fosse la prima. Dai, vieni qua che ti
sciacquo.»
Lavai la schiuma ad Alex e li tirai fuori
dalla vasca, mettendogli i
piccoli accappatoi azzurri. Si misero in piedi sul letto, a saltare e a
scherzare assieme, facendo una specie di lotta in mutande.
Li guardai sorridendo e mi chiesi come
sarebbe la mia vita se loro non
fossero nati. Era così difficile da immaginare che
ridacchiai e mi unii alla
loro lotta senza pensarci, incominciando a fargli il solletico che
soffrivano
esattamente come me.
«Mamma, ci leggi una storia prima
di andare a dormire?», chiese Alex
dopo aver ripreso fiato. Io ancora ridevo, paonazza, come Stefan.
Eravamo tutti
e tre sdraiati sul letto a pancia in su, felici, anche se sentivamo la
mancanza
di Tom.
«Quale?»
«Che domande, la
solita!»
«Ma ormai la sapete a
memoria!»
«Fa niente, noi vogliamo quella. E
dai mamma, ti prego.» Stefan si mise
in ginocchio sul letto, con le mani unite. Io sorrisi e lo bacia sulla
testa,
sui capelli biondi ancora umidi.
«E va bene, ma a patto che vi
vestiate. Non voglio mica due bambini
raffreddati in casa.»
«Ok.» Mi abbracciarono
contemporaneamente e mi stamparono un bacio
sulla guancia a testa, facendomi sentire la donna più felice
del mondo; ciò che
ero, dopotutto.
Si vestirono e ci misimo tutti sul lettone,
io in mezzo ai gemelli, con
le loro teste sulle braccia, che guardavano le figure sul libro.
«Mamma, sei la migliore a fare le
voci dei personaggi! Li imiti bene!
Fai ridere!»
«Grazie, ma anche papà
è bravo! Quando ve lo legge lui non fate altro
che ridere!»
«Sì, ridi pure
tu!»
«Vero.»
«Buona sera, si
può?» Tom sorrise, aprendo la porta giusto quello
che
bastava per entrare.
«Papà!» I
gemelli si alzarono di corsa dal letto e lo abbracciarono.
«Ciao piccoli!»
«Tom! Ma tu…
qui?», mi alzai anch’io e lo abbracciai. Eravamo
tutti e
tre attaccati a lui.
«Mi mancavano gli abbracci
collettivi», rise. «Sì, siamo tornati
prima.
Contenti? Sono qui con voi!» Si inginocchiò e
abbracciò meglio Stefan e Alex.
«Sì!»,
saltellarono nelle sue braccia.
«Che stavate facendo?»,
chiese tirandosi su di nuovo, tenendo i
fratellini per le spalle.
«Mamma ci stava leggendo una
storia.»
«Ma davvero? Suppongo che sia
sempre la solita, ci ho azzeccato?», mi
sorrise e mi stampò un bacio sulle labbra.
«Sì, papà!
Continui tu?» Stefan salì a gattoni sul letto e
prese il
libro, che poi diede a Tom.
«Stefan, papà
sarà stanco…», dissi guardandolo.
«No, no, fa niente.» Tom
sorrise e saltò sul letto. Si sdraiò e
aprì il
libro dove eravamo arrivati noi. «Allora… Ah
sì.»
Stava iniziando a leggere, con ai lati i
gemelli, quando mi vide in
piedi, ancora vicina alla porta.
«Dai, vieni qua.»
Batté due colpi di fianco a
Stefan. Sorrisi e li raggiunsi sul letto.
Stefan mi salì sopra, sdraiato fra le mie braccia,
così che riuscissi a vedere
anch’io: quando si trattava di queste cose ero quasi
più bambina io di loro.
Tom chiuse il libro e si guardò
intorno, appoggiandolo al petto.
Soffocò una risata, ma non il sorriso che gli comparve sulle
labbra. Si tirò su
seduto sul letto e ci guardò dormire, felice. Come al solito
lui doveva andare
a dormire nella camera di Stefan e Alex, chiaramente. Ma non gli
importava, era
bello essere di nuovo a casa.
Ci mise sotto le coperte, coprendoci con
cura, guardando quella che era
una parte della sua stupenda famiglia, tutto ciò che lo
rendeva felice, tutto
ciò che trovava dopo un concerto, un tour; l’amore
di cui aveva assoluto
bisogno, la sua dipendenza.
Si alzò dal letto e spense la
luce del comodino. Stava per uscire dalla
stanza, quando alzai un po’ la testa e lo chiamai:
«Tom, dove vai?»
«A dormire.» Mi
raggiunse di nuovo e si mise seduto accanto a me,
rimboccandomi meglio la coperta fin sotto al mento. «Dormi,
buona notte.» Mi
diede un bacio sorridendo e poi si alzò di nuovo. Io gli
presi la mano, mi
guardò e io sorrisi.
«Ti vogliamo bene.
Notte.»
«Certamente, lo so, non ne ho mai
dubitato. Notte.»
___________________________________________
Buonasera
a tutti!
Siamo
al 5 flashback, il prossimo sarà l’ultimo e poi si
torna al presente, gente! (:
Allora, allora, allora. Non ho molto da dire xD Passo subito
ai ringraziamenti, è meglio!
Utopy:
No, tu non
scherzi a dire che Ary ti sta antipatica e questo mi rende triste
ç_ç Ma non mi
arrendo, sai?! Guarda che ti ho combinato in questo capitolo xD Ary
chiede a
Tom se è antipatica! Ora ti sta simpatica? No?
ç_ç Beh, prima o poi ti starà
simpatica! .-.
Guarda, solo per te ho aggiunto il dialoghino sulla corsa
dei gemellini in mezzo al palco al concerto xD Così sai pure
cos’è successo *-*
Grazie, grazie, grazie! Grazie fatina di bosco, ti voglio
tantissimissimo bene! Un bacio grande come un castello? xD *______* ©
niky94:
Uuuuh,
ciao! *-* Sei tornata! Beh, meglio tardi che mai! ;D Grazie mille per
la
recensione!
Ringrazio
tantissimo anche chi legge soltanto e chi ha messo
questa ff fra le preferite e le seguite! ;D
Alla prossima! Con affetto, vostra
_Pulse_
|
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Capitolo 7 *** 1.6 ***
1.6
«Eccovi qua! Ciao
amori!», li baciai sulle guance, prima l’uno, poi
l’altro.
«Ciao mamma.»
«Ciao mamma!»,
ricambiò gioioso Stefan, con un sorriso a trentadue
denti stampato in faccia.
«Che è successo? Come
mai così contento?», chiesi sorridendo curiosa.
«No, niente.»
«Ehi, a chi la vuoi dare a
bere?», dissi accarezzandogli la guancia.
«Mamma…»
«Ah, ok, è vero
scusa.»
Ne avevamo già parlato: rispetto
della privacy. Oddio, ero pur sempre
loro madre! Però mi sarei incavolata parecchio con la mia se
mi avesse fatto
tutte quelle domande. Con lei non c’erano mai stati problemi
di quel genere, visto
che non mi degnava mai di attenzioni. Era anche per questo che ne
avevamo
parlato con loro, non volevo fare come mia madre, noi avevamo fatto un
patto e
lo avrei mantenuto.
«Sicuro che non me ne vuoi
parlare?»
Stefan sorrise e mi abbracciò. Io
gli accarezzai i capelli biondi,
arruffandoglieli un po’.
«Forse più tardi,
ok?»
«Ok, benissimo. Sai che sono
curiosa!»
«Sì, lo so mamma.
Sharon?»
«È di sopra.»
Alex prese il succo dal frigo e se ne
versò un po’ nel bicchiere, poi
fece la stessa cosa con un altro bicchiere.
Stefan si avvicinò e bevve il suo
succo. Si capivano al volo, proprio
come Bill e Tom: era proprio vera la storia sui gemelli.
«Com’è andata
a scuola?»
Vidi ancora quel sorrisetto comparire sulle
labbra di Stefan, mi
ricordò molto Tom: quei due erano tali e quali.
«Tutto bene. Ho preso il punteggio
massimo in matematica!», disse Alex
saltellando sul posto. Mi chiesi che cosa c’era dentro quel
succo.
«Davvero? Bravissimo!»
Si avvicinò e si lasciò abbracciare e baciare
sulla testa.
«Ah, mamma, piuttosto»,
Stefan si girò sul posto e mi guardò negli
occhi, identici ai miei.
«Sì, dimmi.»
«Papà ha già
chiamato?»
«No, ancora no,
perché?»
«Così. Va bene,
andrò a fare i compiti.»
Che cosa? Stefan che faceva i compiti?
C’era qualcosa che non andava.
«Alex, mi dai una mano con
matematica?»
Che cosa? Stefan che chiedeva aiuto a suo
fratello per fare i compiti,
di matematica per giunta? C’era sicuramente qualcosa che non
andava.
Li guardai salire di sopra allibita,
chiedendomi sul serio che cosa
fosse successo. Potevo pensare a mille cose, ma nessuna mi convinceva.
Il
telefono mi distrasse.
«Pronto?»
«Ciao piccola! Come stai? E i
gemelli? Anto, Sharon?»
«Ciao Tom! Tutto bene, stiamo
tutti alla grande. Solo che Stefan mi
preoc–» Proprio lui mi fregò il telefono
dalla mano, strappandomelo quasi via.
Se lo mise all’orecchio e urlò:
«Papà!»
«Ciao Ste! Come va?»
«Benissimo papà, devo
dirti una cosa.» Stefan mi guardò e mi fece segno
di uscire dalla cucina. Io sorrisi e me ne andai in salotto, sul
divano.
«Ah, ok, dimmi tutto.»
«Sì…
io… esco con una ragazza.»
«Davvero? Ma è
bellissimo!»
«Sì, lo so.
È bellissima lei.»
«Quando ci esci?»
«Stasera. Tu ci sei vero, per
quell’ora?»
«Sta… stasera hai
detto?»
«Sì, stasera. Non ti
ricordi che mi avevi detto che saresti tornato
oggi pomeriggio? Dove sei, in aeroporto?»
Tom fece un respiro profondo.
«Sì, mi ricordo. Cucciolo, mi dispiace
tanto, ma… non ci sarò stasera, torniamo tra una
settimana. Mi dispiace, lo so
che te l’avevo detto, ma sono state aggiunte altre date, non
lo sapevamo
neppure noi.»
«Papà, stai scherzando,
vero?»
«No Stefan, scusami. Non
volevo.»
«Papà, me
l’avevi promesso! Me l’avevi promesso!»
Mi girai e guardai gridare Stefan al
telefono, tutto rosso in viso. Mi
alzai e lo raggiunsi, cercai di accarezzargli la guancia, ma lui si
spostò e mi
allontanò la mano bruscamente.
«Lo so Stefan, mi devi
perdonare!»
«No, papà! Tu mi hai
mentito, me l’avevi promesso!»
«Stefan, io…»
Stefan non lo lasciò nemmeno
finire di parlare, sbattè il telefono sul
marmo della cucina e corse fuori trattenendo le lacrime e nascondendo
gli occhi
dietro la frangia bionda. Almeno non gli aveva sbattuto il telefono in
faccia…
Fuori dalla cucina si scontrò
violentemente con la povera Sharon che
passava di lì anche un po’ per caso, saltellando
con le cuffiette dell’iPod nelle
orecchie. Lei si tirò su da terra e mi guardò
togliendosi una cuffia, come per
dire: Ma che è
successo?
Presi il telefono: «Tom, ma che
è successo?»
Sharon si era avvicinata e mi aveva messo
una mano sul braccio, come
per confortarmi, ma non ero io quella che doveva essere confortata.
«Un casino, è successo
un casino.»
«C’era Stefan che urlava
come un matto, dicendo: Tu mi
hai mentito,
me l’avevi promesso.»
«Sì, gli avevo promesso
di tornare oggi, e così doveva essere! Ma David,
ieri, ci ha detto che hanno aggiunto altre date, quindi torneremo la
settimana
prossima!»
«Ah, ho capito. Però
Tom, sai com’è il tuo lavoro, e sai come sono
Stefan e Alex, non devi promettere se sai che poi magari non puoi
mantenere.»
«Sì, lo so benissimo
Ary, è inutile che ti metti pure tu a farmi le
prediche.»
«Tom, non ti sto facendo nessuna
predica. L’unica cosa che ti voglio
far capire che ora Stefan è deluso, aveva bisogno di te.
Penso.» Tom rimase un
po’ in silenzio dall’altra parte. «Tom,
hai capito?»
«Sì, ho capito. Scusa
Ary, non volevo arrabbiarmi con te, è che… mi
sento così stupido.»
«Che farai adesso?»
«Non lo so, adesso ci penso.
Vedrò di risolvere la situazione.»
«Va bene. Tom, non ti preoccupare,
andrà tutto a posto. Sono cose che
capitano, si superano.»
«Ok. Ah,
Ary…»
«Dimmi.»
«Non smetterò mai di
ringraziare il cielo per averti mandata giù da me,
ti amo.» E così, attaccò, non
lasciandomi nemmeno il tempo di rispondergli, di
ricambiare, di dirgli qualsiasi cosa.
Guardai felicemente ma non molto sorpresa il
telefono e mi portai una
mano al cuore. Perché Tom era così, sapeva essere
tenero e romantico come e
quando voleva, bastava solo che lo volesse.
«Zia, che ha detto?», mi
chiese Sharon con quella faccia ancora così da
bambina.
Le sorrisi e le stampai un bacio sulla
fronte, poi lasciai il telefono
sul tavolo e salii le scale per andare da Stefan, per vedere come
stava. Era
chiuso in camera sua, da solo. Aveva cacciato pure Alex, il povero Alex
che si
stava facendo i fatti suoi.
«Stefan! Fammi entrare! Questa non
è solo camera tua, è anche mia! Non
puoi lasciarmi fuori!»
Presi Alex per le spalle e lo spostai dalla
porta, avevo paura che la
buttasse giù a calci.
«Calmati Alex, Stefan non sta
tanto bene, lascialo in pace.»
«Che gli è
successo?»
«Ha avuto una discussione con
papà.»
***
Lo sapeva, ci avrebbe scommesso. Lui e le
sue scuse. Anche se gli
avesse detto la verità, non gli importava. Non era
più importante lui? Forse
no.
Lanciò la pallina da tennis sul
muro di fronte al letto, dove era
sdraiato lui, con tutta la forza e la rabbia che aveva in corpo. Aveva
bisogno
di lui e lui non c’era.
Guardò la pallina cadere a terra
e allontanarsi verso la scrivania. Non
aveva la minima voglia di alzarsi, quindi la lasciò rotolare
via. Non aveva praticamente
voglia di far niente.
Sentì il cellulare suonare al suo
fianco. Lo guardò un attimo, giusto
il tempo di leggere Papà sul display.
Si girò dall’altra parte e lo lasciò
suonare. Non aveva nemmeno voglia di
sentirlo, lo aveva tradito.
Quando finì di squillare, gli
arrivò un messaggio. Sta volta prese il
cellulare in mano e lo lesse:
Scusa
Stefan, mi devi perdonare, ma non è colpa mia, è
il
mio lavoro.
Certo, perché il suo lavoro era
più importante di lui?
Lanciò il cellulare contro il
muro, senza paura che si rompesse. Aveva
tentato in mille modi di farlo fuori, di spaccarlo in due per averne un
altro
più bello, ma inutilmente, sembrava stregato: non si rompeva
mai. Quindi non
c’era pericolo.
Soffocò un urlo nel cuscino e si
agitò sul letto in preda ad una crisi
di rabbia, poi sentì qualcuno bussare alla porta.
«Stefan, per piacere, mi
apri?»
«No.»
«Ma dai Stefan, dovresti saperlo:
sono cose che possono capitare, sai
com’è il lavoro di tuo papà.»
«Mamma, lasciami in
pace!»
«No, voglio parlarne con te, come
abbiamo sempre fatto. Non fuggire,
piuttosto sfogati. Però voglio vederti in faccia, quindi
aprimi.»
Stefan fece un respiro profondo e si
alzò dal letto, arrivò alla porta
e la aprì. Vide anche Alex accanto a me, appoggiato alla
ringhiera che dava sul
salotto al piano di sotto. Mi indicò di entrare e io in
silenzio entrai nella
stanza. Quando richiuse la porta, mi girai e lo guardai.
«Stefan…»
Raccolse la pallina da terra e si mise sulla
sedia girevole della
scrivania, a gambe aperte, posizione molto da Tom. Stefan era la sua
copia, se
non fosse stato per gli occhi azzurri, sarebbero stati identici: stessi
atteggiamenti, stessi modi di fare, stesso modo di parlare, stesso
sorriso.
Aveva preso molto da lui, molto più di Alex. Fece un giro
sulla sedia, lo
sguardo assente. Mi misi seduta sul letto.
«Io ti capisco, più di
quanto tu credi.»
«Davvero?»
«Sì, davvero.
Anch’io ci sono passata, e prima era peggio.»
«Peggio?»
«Proprio così.
Passavano settimane, se non mesi, prima di rivederci. Tu
hai tredici anni, io ne avevo quindici, ma ci siamo. Facevano molti
più
concerti, erano sempre in giro per il mondo. Io non potevo seguirli,
avevo la
scuola, la mia vita… Ci sentivamo solo per telefono, e non
era il massimo.
Quindi stai pur certo che so cosa si prova, come ci si sente. Sembra
che tutto
il resto sia più importante di te, vero?» Stefan
annuì piano con la testa. «Ma
non è così, non è affatto
così. Tom, vostro papà vi vuole un bene
dell’anima,
farebbe di tutto per voi, ma non può sempre fare i salti
mortali, devi capirlo
Stefan. Non è facile da accettare, ma è
così. Non c’è momento in cui lui non vi
pensi, me lo dice, ve lo dice sempre. Stefan, lo sai questo,
no?» Ancora un
leggero movimento con la testa. «Vieni qui,
cucciolo.»
Stefan si alzò a testa bassa e si
tuffò tra le mie braccia. «Volevo che
papà ci fosse: è la prima volta che esco con una
ragazza che mi piace sul
serio.»
«Ah, allora è per una
ragazza! Chi meglio di Tom può darti una mano?»
Ci misimo a ridere e io gli arruffai i capelli biondi sulla testa.
«Vedrai,
andrà bene comunque. Sei bellissimo così anche
senza l’aiuto di papà, le
conquisti tutte!»
Si mise ancora a ridere e mi
abbracciò per il collo. «Grazie mamma, ti
voglio bene.»
«Prego tesoro, anch’io
te ne voglio tanto.» Mi alzai dal letto e prima di
uscire lo guardai e sorrisi.
Continuava ad andare su e giù per
la cucina, teso. Si controllava nelle
tasche: il cellulare indistruttibile, le chiavi di casa, il
portafoglio…
Mancava qualcosa, ne era certo. Quando gli venne in mente si diede un
colpo in
fronte e corse su in camera sua. Raggiunse il suo comodino e si mise
seduto sul
letto. Aprì il primo cassetto e sorrise vedendolo
lì: il suo portafortuna, un
plettro nero e rosso che gli aveva regalato suo papà. Se lo
mise in tasca e
scese di sotto di nuovo correndo. Era davvero emozionato. Non pensava
di
farcela senza di lui.
«Sbaglio o è teso al
massimo?», mi sussurrò Anto mentre le passavo i
piatti.
«Sì,
abbastanza.»
Alex e Sharon erano ancora seduti al tavolo,
che stavano giocando con
un paio di dadi che avevano trovato infondo ad uno dei cassetti della
cucina.
Mentre ognuno stava facendo qualcosa, chi
emozionato e chi no, sentimmo
un clacson molto familiare suonare. Tutti ci guardammo in faccia, anche
Stefan
che si era catapultato in cucina. Lo presi per le spalle e corsimo alla
porta.
Vidimo la macchina scura di Tom fuori dal cancello, lui dentro che
continuava a
suonare.
«Stefan muoviti! O non ci vai
più all’appuntamento?», gli
gridò
abbassando il finestrino.
«Papà?»
«Dai Stefan, muoviti! E
divertiti!», lo spinsi sorridendo e lui corse
alla macchina, sulla quale saltò su in un batter
d’occhio.
Tornai dentro e guardai gli altri in
salotto.
«Beh?», mi disse Alex.
«Beh, avete un papà
mitico.»
***
«Papà! Ma che ci fai
qui?!», lo abbracciò e lo strinse forte. Tom
sorrise e ricambiò la stretta, chiudendo gli occhi e
sentendosi felice.
«Ehi, ma hai messo il mio
profumo?» Stefan rise e annuì. «Bravo,
ottima
scelta. Allora, dove devo portarti?»
«Aspetta! Non mi hai
risposto!»
«A che cosa?»
«Che ci fai qui?»
«Come che ci faccio qui? Sono
venuto per te! Ho sbagliato a prometterti
che sarei tornato, non dovevo farlo. Non posso mai sapere se posso
mantenere le
promesse con il lavoro che faccio. Mi dispiace Stefan.»
«Fa niente
papà!» Lo abbracciò di nuovo, non
voleva più staccarcisi.
«Ma adesso come farai? Cioè… non
avevate altri concerti?», lo guardò in faccia.
«Stefan», gli
accarezzò la guancia fresca e morbida. «Per voi
questo ed
altro, non mi importa. Ho preso il primo volo e per tornare
farò esattamente la
stessa cosa! Non ti preoccupare. Quindi? Dove ti devo portare? Voglio
proprio
vederla questa ragazza!» Stefan sorrise e lo
abbracciò ancora. Tom rise piano e
gli diede un colpetto sulla schiena. «Dai, allora?»
«Cinema!», disse Stefan
allacciandosi la cintura.
«Cinema? Uff, sempre negli stessi
posti. Ma, in fondo, siete ancora
bambini, ci sta! Andiamo!» Tom mise in moto e andarono
diretti al cinema.
Scesero dalla macchina e si appoggiarono al
cofano.
«A che ora dovevate
incontrarvi?», chiese Tom guardando l’orologio.
«Alle otto e mezza.»
«Ah, allora
c’è tempo.» Guardò il figlio
e sorrise. «Com’è questa
ragazza che tanto ti fa disperare?»
«Disperare? Io non mi dispero
certo per una ragazza!»
«Sì,
vabbè», sventolò la mano.
«Com’è?»
«È… mora, ha
gli occhi castani, è… è bella,
papà!»
«Uhm. Bravo, vedo che stai
crescendo.»
«In che senso?»
«Che inizi già ad
uscire con delle belle ragazze, proprio come me alla
tua età!» Si guardarono negli occhi e risero.
«Papà, posso chiederti
una cosa?»
«Certo.»
«Prima, in macchina, quando hai
detto del cinema, degli stessi posti…
Che intendevi?»
«Intendevo che quando si cresce,
si va anche lontano per la persona che
si ama.»
«E tu con la mamma?»
«La mamma?», rimase a
guardare il cielo sorridendo, ricordando.
«Sì, la mamma dove
l’hai portata?»
«Beh, visto che spesso ero in
viaggio con la band, non ci sono stati
dei veri e propri appuntamenti, delle uscite. Era più lei
che seguiva me. Ecco.
Non abbiamo mai avuto delle cose programmate, capitava così.
È stato bello
quando siamo andati in Francia, oppure a Los Angeles. Sì,
è stato uno spasso!»
«Ah, ho capito. E al cinema non
siete mai andati?»
«Al cinema? Al cinema…
sì e no», sogghignò pensando che
comunque le
poche volte che ci eravamo andati non avevamo mai visto la fine di un
film. «Di
solito prendevamo i film e li guardavamo la sera in albergo, sempre se
io non
ero troppo stanco e crollavo!»
«Wow. Siete forti, tu e la
mamma.»
«Eh già. Ma allora la
tua amica arriva? Sono le nove meno un quarto!»,
disse Tom guardando incredulo l’orologio al polso. Stefan
sgranò gli occhi e
tirò fuori il cellulare.
«È vero!
Papà, credi sia in ritardo? La provo a chiamare?»
«Tentar non nuoce.»
Stefan la chiamò, ma non rispose
la prima volta; alla seconda aveva il
cellulare spento.
«Ok, è ufficiale
Stefan.»
«Che cosa?»
«Questa è la tua prima
volta in cui in una ragazza ti da buca! Batti il
cinque!»
«E c’è da
rallegrarsi? Mi sento uno schifo.»
Tom lo prese per le spalle e sorrise.
«Ma che schifo e schifo! Non sa
che si è persa, peggio per lei! Ancora non sa che sarai il
ragazzo più adorato
e figo quando diventerai un po’ più
grande!»
«Lo dici solo per farmi sentire
meglio.»
«Ma figurati! È la pura
verità! Lo so perché sei mio figlio, sei come
me! Basta piangerci su, tanto quella non ti sarebbe piaciuta, me lo
sento. Era
il vostro primo appuntamento?» Stefan annuì.
«Ecco, quelle che danno buca al
primo appuntamento sono solo senza cervello, ecco cosa sono! E adesso
muoviti.»
Lo prese per il polso e se lo portò dietro.
«Ma dove andiamo?»
«Al cinema! Ci vediamo un film io
e te, che ne dici?»
Stefan lo guardò e sorrise:
«La trovo un’idea super!»
Entrarono insieme nel cinema e rimasero a
guardare i titoli dei vari
film che scorrevano sul monitor.
«Allora? Quale ci
vediamo?», chiese Tom.
«Quello»,
indicò Stefan.
«Quello? Ma sei sicuro? Non fa
troppa paura per te?»
«Per me? Ma per chi mi hai preso
papà? Per un bambino? Paura a me, ma
per favore.»
Entrarono e si misero nell’ultima
fila, con popcorn e Coca Cola alla
mano. C’era qualcosa di migliore nel vedere un padre e il
proprio figlio
assieme al cinema? Magari dopo che il figlio era stato penosamente
scaricato in
silenzio? Proprio no!
Alla fine del film tornarono a casa e Stefan
si infilò subito a letto.
Tom si mise seduto accanto a lui.
«Che cosa
c’è, Stefan?»
«Volevo dirti grazie, per essere
venuto, per essere stato un po’ con
me.»
«Oh, di niente
cucciolo», lo abbracciò e lo tenne stretto a
sé anche
mentre parlavano.
«Adesso te ne vai di
nuovo?», gli chiese Stefan.
«Purtroppo devo.»
«Mi mancherai
papà.»
«Anche tu mi mancherai tanto. Come
farò senza i miei…»
«Non dire cuccioli, non siamo
più piccoli!»
«Ok, va bene. Come farò
senza di voi?»
«Non ci sei abituato?»
«Dovrei, ma non ci riesco mica
sempre.»
«Mamma dice che ci assomigliamo
tanto.»
«E non è forse
vero?» Si guardarono in faccia e un secondo dopo Stefan
si nascose di nuovo nell’incavo della spalla di Tom,
stringendogli forte i
pugni sulla schiena.
«Stefan, non fare così.
Sei grande ormai, o no?»
Stefan tirò su con il naso e si
asciugò gli occhi. «Ok papà.»
«Bravo. Ti voglio bene. Adesso
dormi, buona notte. Ci sentiamo domani
mattina.» Tom si alzò e gli diede un bacio sulla
guancia, poi si girò e lo
diede ad Alex che già dormiva nel suo letto.
«Mi raccomando, fate i bravi con
la mamma. Quando io e Bill non ci
siamo siete voi i capo branco.»
«Ok, papà»,
ridacchiò. «Buona notte.»
Stefan si mise sotto le coperte, ma Tom
dovette intervenire per
disincastrarlo. Era una scena comica in piena regola. Sorrise e gli
accarezzò i
capelli biondi, guardò quegli occhi azzurri e quel sorriso
birichino.
«Uguali a vostra mamma»,
disse piano Tom ridendo fra sé.
Si avvicinò alla porta e stava
per spegnere la luce in corridoio,
quando Stefan richiamò la sua attenzione:
«Papà?»
«Dimmi.»
«Puoi lasciare acceso?»
Tom sorrise e scosse la testa: «Io
te l’avevo detto che quel film
faceva troppa paura per te.»
«Continua a crederlo
papà, sarai perfetto!» Stefan rise piano per non
svegliare il fratello e salutò il padre: «Buona
notte.»
«Buona notte Stefan, salutami
Alex. Vi voglio bene.»
Tom lasciò la porta un
po’ aperta, giusto per far entrare nella camera
un filo di luce. Si girò e mi vide appoggiata allo stipite
della nostra camera.
«Ehi, ancora sveglia?»
Mi abbracciò e mi baciò sulle labbra.
«Sì, dovevo
salutarti.» Lo presi per mano e sorrisi ancora sulle sue
labbra, poi scesimo di sotto. Davanti alla porta gli sistemai il
colletto della
felpa e dopo averlo guardato negli occhi lo abbracciai mettendogli le
braccia
intorno al collo.
«Ehi Alex! Ehi!
Svegliati!»
«Uhm, che cosa vuoi?»
«Muoviti, vieni.»
Lo strattonò per il pigiama e lo
buttò giù dal letto, trascinandoselo
dietro. Lo portò in corridoio, vicino alla ringhiera delle
scale da cui si
poteva vedere di sotto. Rimasero in silenzio a guardarci davanti alla
porta.
«Hai fatto una cosa bellissima
oggi, davvero. Sono fortunati ad avere
un papà come te.»
«A volte mi sembra di perdermi
così tanto di loro, mi sembra quasi di
fargli un torto non standogli vicino tutti i giorni.»
Gli accarezzai la guancia. «Tom,
ma cosa dici? Sei un papà fantastico,
tu fai di tutto per loro, sei molto più presente tu che
viaggi per lavoro che
molti papà che sono sempre a casa, davvero.»
Tom sorrise accarezzandomi le guance e mi
portò il viso vicino al suo,
esitò un attimo, poi chiuse gli occhi e mi baciò.
«Tom, adesso che farai?»
Lui non mi rispose, sorrise e continuò a
baciarmi. «Tom! È una cosa seria!»,
risi.
«Uhm, ancora non lo so. Prendo il
primo aereo per Madrid e raggiungo
gli altri. L’importante è che li
raggiungo.» Mi abbracciò e si appoggiò
con il
mento alla mia spalla, chiudendo gli occhi. Ci cullammo un
po’ così, dondolando
da una parte all’altra lentamente.
«Hai visto come si fa con le
donne, Alex?», disse Stefan a bassa voce
dando una gomitata al fratello, che subito si lamentò e si
massaggiò il
braccio.
«Sì, lo so. Intanto a
te stasera ti hanno dato buca, quindi…»
«Ma ho visto un film fighissimo
con papà, eh. Te lo dimentichi? È stata
una delle sere più belle della mia vita. Per
ora…»
I gemelli risero piano e si appoggiarono con
le spalle alla parete, poi
ritornarono a guardare.
«Allora vai?», gli
dissi. Lui prese la maniglia della porta.
«Sì, ci vediamo fra una
settimana, ok? Non te lo prometto però!»
«Bravo, non devi
illudermi», risi e lo bacia ancora sulle labbra.
«Mi aspetti?», mi chiese
sorridendo.
«Ovviamente. Fai buon viaggio, mi
raccomando stai attento. E…»
«Sì, domani mattina
chiamo. Lo so, lo so, non ti preoccupare. Ciao, ci
sentiamo.»
«Mm-mm», annuii.
«Ti amo.»
«Anch’io.» Mi
baciò un’ultima volta e uscì.
Salì in macchina e lo guardai
andare via nella notte, stringendo il
ciondolo con la chitarra nera che avevo al collo. Sorrisi alzando il
viso verso
le stelle e la luna e rientrai in casa. Mi sistemai i capelli su
un’unica
spalla e salii le scale. Vidi Stefan e Alex che stavano per entrare in
camera
loro in punta di piedi.
«E voi che ci fate ancora in
piedi?», dissi.
«Ehm…»
«È stato Stefan, io
dormivo, è lui che mi ha svegliato, è colpa
sua.»
«Ma grazie Alex! Direi che sei un
fratello che mi copre sempre! E menomale
che siamo gemelli!»
«Ma che c’entra? Se
siamo gemelli non vuol dire che mi devi coinvolgere
sempre nelle tue cose!»
«Ok, ragazzi, ragazzi»,
mi misi in mezzo e li divisi. «La colpa non è
di nessuno. Adesso filate a letto, che è
tardissimo.»
«Ok mamma.» Mi baciarono
sulle guance e li guardai ritornare nei loro
letti dalla porta. «Buona notte.»
«Ah, mamma.» Mi girai e
li guardai. «Papà bacia bene?»
Io sorrisi a Stefan e piegai la testa sulla
spalla. «Tu non sai quanto.
Buona notte.» Spensi la luce.
____________________________________________
Eccoci qua!
Buon pomeriggio a tutti. Allora,
allora… Questo capitolo come vi è
sembrato? *-* E’ l’ultimo della serie flashback,
dal prossimo lunedì saranno
più o meno tutti concentrati sul presente, ripartendo da
dove ci eravamo
lasciati all’epilogo :)
Spero
vi sia piaciuto, Tom è davvero tenero con i suoi
“cuccioli”,
farebbe di tutto per loro! *ç*
E anche Ary, diciamolo, è tenera! U_U Chi non vorrebbe una
mamma così? Che rispetta la privacy xD e che va a parlare e
a confortare quando
ce n’è bisogno, in un rapporto
d’uguaglianza e non di superiorità e di tirannia
ù.u
Bene,
detto questo mi ritiro xD Anzi, prima ringrazio le
squisite persone che hanno commentato lo scorso capitolo, rendendomi
felicemente felice *-*
niky94:
In
effetti qui ha nevicato o.o XD Grazie mille, bacio!
Utopy:
Tu mi rendi
infelice e inconcludente ç_ç Io metto tutto il
mio impegno per farla
divertente, simpatica, ma sei una testa di cocco, eh? >.<
Vorrei proprio
sapere che cos’ha fatto questa poveretta per starti
antipatica quando prima era
il tuo mito ù.ù Bah, sarà xD Comunque,
a parte questo imperdonabile…
imperdonabile xD non posso non volerti bene! Va oltre ogni mia
capacità u__u
Beh, almeno ti stanno simpatici tutti gli altri xD A discapito della
povera
Ary, la pecora nera xD Magari non finisse mai
ç__ç Beh, sicuramente non finirà,
perché finirà soltanto quando chi legge
smetterà di ricordare questa storia *-*
Spero proprio mai!
Ti voglio tantissimissimo bene, fedele! You’re the
best u.u ©
Tokietta86:
Esatto,
meglio tardi che mai! *-* Grazie mille per tutti i complimenti, sono
contenta
che tu abbia deciso di recensire e poi che ovviamente ti piaccia :D
Spero che
anche questo capitolo ti sia piaciuto! A presto!
Ringrazio
anche chi ha messo questa storia fra le preferite
e le seguite e chi ha letto soltanto!
Alla prossima, con affetto, vostra
_Pulse_
|
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Capitolo 8 *** Runaway with my heart ***
Runaway
with
my heart
Runaway with my hope
Runaway with my love
(
Wherever you will go - The
Calling
)
Capitolo 2
Runaway
with my heart
Per la strada, guardando
le
vetrine, vidi dei vestiti da neonati carinissimi. Era un peccato che i
nostri
figli fossero cresciuti così in fretta, mi mancavano quelle
cose. Ormai erano
già autonomi e ogni attenzione in più riservata a
loro la prendevano come
un’offesa, per così dire, come se fossero ancora
bambini. Io mi sarei sentita
uguale a loro. Per fortuna c’era Sarah che voleva sempre
più coccole di quelle
che riceveva, non le bastavano mai.
Stefan era il tipico
ragazzo
bello che le conquistava tutte: non studiava molto, si curava il look,
era
simpatico ed era un gran figo. Caratterialmente, come tutto del resto,
era
uguale a suo padre.
Alex invece era il suo
opposto:
un ragazzo sensibile, che andava bene a scuola, timido con le ragazze,
ma
comunque bello come suo fratello, anche lui aveva un certo fascino,
quello
dell’innocente. Identico a me.
Mi venne da sorridere
quando un
altro flashback mi colpii in pieno: era così nitido da
poterlo scambiare per la
realtà.
Eravamo sul divano, io, Tom e i bambini.
Giocavamo ricoprendoli di baci
e loro ridacchiavano.
«Tom, ormai non dovrebbero
parlare? Hanno già sette mesi! Alex dì
mamma, mam-ma.»
«Piantala Ary, quando parleranno
parleranno. Non vedo perché dobbiamo
farci 'sti problemi. Tanto diranno prima papà.
Papà, Stefan, papà. Dillo, e
dai.»
Lo guardai a bocca aperta: «E
menomale che non dovevamo farci questi
problemi.»
Tom rise, risi anch’io. Vedendoci,
Stefan e Alex iniziarono a saltare
sulle nostre gambe, ridacchiando come solo loro sapevano fare.
«Ma che belli i miei
amori!» Mangiai con un bacio la pancia ad Alex,
facendogli il solletico. Lui ridacchiò ancora e
più forte di prima. Lo misi
sdraiato sul divano e andai un attimo in cucina.
«Mam-ma»,
balbettò quando guardandosi intorno non mi vide.
Tom scattò in piedi e lo
guardò, io corsi di nuovo in sala, sentendo la
parola magica.
«Ha detto mamma! Ha detto mamma! Non ci posso credere!»
Tom mi abbracciò, con Stefan in
braccio: «Sì, l’ha detto!»
Presi Alex in braccio e lo baciai sulla
guancia un po’ di volte.
«Amore!»
Andai di sopra da Bill e Anto, li guardai
felicissima. «Indovinate?
Alex ha detto mamma!»
Corsero ad abbracciarlo, Bill lo prese in
braccio.
«Ma che bravo!»
Quella fu la prima
parola di
Alex, e Tom che era tanto sicuro che avrebbe detto papà.
Però ci era andato vicino, infatti lo disse come prima
parola
Stefan. Tom era andato in giro per la casa saltellando con Stefan fra
le
braccia. Non capivo chi era il più bambino tra i due. Era
stato davvero bello,
come quando i gemelli mossero i loro primi passi: avevano circa un anno.
Ero sul tappeto in sala, con i bambini. Vidi
Stefan, il più
intraprendente, tutto suo padre, tirarsi su aggrappandosi al divano e
fare
qualche passo da solo.
«Tom, oddio Tom corri a vedere!
Muoviti!»
Tom corse da me, seguito anche da Bill e
Anto. Vide Stefan camminare
verso di lui. Quando arrivò alla sua gamba, Tom
scoppiò a ridere e lo prese in
braccio.
«Ma quanto sei bravo! Alex, tu che
fai?»
Lo misi in piedi, lui ci rimase per qualche
secondo, ma poi cadde di
nuovo con il culo sul tappeto. Risi coprendomi la bocca.
«Niente, hanno tempi
diversi.»
Entrai in casa con Sarah
fra le
braccia circa dieci minuti prima che tornassero da scuola Stefan e
Sharon,
senza Alex. Non vedendolo, all’inizio mi spaventai, ma poi mi
ricordai che
doveva uscire con la famosa ragazza. Sharon aveva ancora la faccia
triste di
quella mattina. Io non sapevo come comportarmi, aveva detto che non ne
voleva
parlare, ma non riuscivo a starmene con le mani in mano.
«Ciao ragazzi,
com’è andata a
scuola?»
«Bene.»
«Oggi siete di
molte parole,
vero?»
«Mamma, siamo
appena tornati da
scuola, non puoi pretendere di parlare di scuola.»
«Beh, allora
parlate di
qualcos’altro.»
Sharon si diresse verso
il frigo,
lasciando la cartella in mezzo alla porta della cucina. Prese il succo
di
frutta e se lo versò nel bicchiere.
«Oh mamma, te
l’ho mai detto che
Alex non ci sa fare con le ragazze?», prese Sarah e se la
mise sulle gambe.
Sharon si stava per
strozzare, ma
si riprese in fretta per non farlo notare.
«Sì,
un sacco di volte, ma io non
ci credo. In fondo è sempre figlio di Tom!»
«Prima o poi
ti farò ricredere.
Per esempio, oggi l’ho visto con la tipa, a scuola, e si
tenevano per mano. Ma
che teneri, dirai, invece no!
Quella
ragazza si sentiva in imbarazzo a tenergli la mano in corridoio! Li
guardavano
tutti! Che ridere.»
«Non ti sarai
messo a ridere di
fronte a tuo fratello, vero Stefan Kaulitz?!»
«No, mamma. Io
li spiavo soltanto
dalla mia classe.» Lo fulminai con lo sguardo. «Ma
scherzavo mamma! Li ho visti
per caso, non gli ho detto niente.»
Sharon era diventata
ancora più
triste, anche Stefan se ne era accorto. Fece finta di niente e
cambiò
argomento.
«Ah, Sharon!
Zio mi ha detto che
domani c’è la sua sfilata e che devi venire per
fare le foto.»
Sharon aveva la testa chissà
dove. Quando faceva così era tale quale a suo padre.
«Uhuh? Sharon? Dove sei? Torna
tra noi!»
Sharon lo
guardò e tornò sulla
terra. «Eh? Sì, ok. No! Non va bene! Domani doveva
venire lo zio Georg! Doveva
farmi vedere delle nuove cose con il basso!»
«Ci ha
già parlato zio con lui:
ha rimandato tutto a dopodomani.»
«Ah, allora
ok.»
«Va
bene.»
Stefan non riusciva a
vedere
Sharon in quello stato, sembrava in depressione! Così
cercò di tirarla un po’
su di morale con una delle sue battute cretine.
«Stefan, mi
sembri tuo padre
quando fai così», dissi.
«Non so che
fare! Dai Sharon,
sorridi un po’!»
Lasciò Sarah
seduta sulla sedia e
prese in braccio Sharon e la portò in giro per casa a testa
in giù; lei che
continuava a gridare: «Stefan! Lasciami!» E rideva.
«Sei un idiota!»
Dopo averla lasciata le
porse la
cartella. «Tieni, vai a studiare.»
«Sarebbe ora
che lo facessi anche
tu, vero signorino?!»
«Mamma! Non mi
chiamare signorino!
Fa schifo!»
«Io ti chiamo
come voglio. E poi,
com’è andata la verifica di matematica?»
Stefan guardò
Sharon impaurito e
poi corse su in camera sua gridando il solito: «Non mi
ricordo!»
Io sorrisi e guardai
Sharon: c’era
qualcosa che non andava, ne ero certa; le era tornata la faccia triste.
Prese il suo zaino e
andò anche
lei di sopra. Lo buttò per terra e si tuffò sul
letto. Si perse nei suoi
ricordi, guardando le foto con Stefan e Alex, pensò a tutti
i bellissimi
momenti passati con loro. Prese la foto secondo lei più
bella di tutte e la
guardò per un’infinità di secondi.
Piangeva e rideva allo stesso tempo. Lanciò
la foto dall’altra parte del letto e si mise un cuscino in
faccia, per
continuare a piangere senza che nessuno se ne potesse accorgere.
Finito lo sfogo, prese
il basso e
iniziò a fare qualche nota. Iniziò a comporre una
melodia senza nemmeno
rendersene conto, ma dopo la prima strofa, prese un foglio e
iniziò ad
appuntarsela. Continuò fino a tardi, fino a quando non
decise di
inventarsi delle parole, solo allora si concentrò anche sul
testo, che le venne fuori quasi da solo. Ogni tanto si fermava, suonava
e cantava la strofa
e poi continuava.
Verso le undici di sera
aveva
finito tutto, ma la canzone non era bella solo con il basso,
però decise di
registrarsi lo stesso. Prese il cellulare e registrò la
prima strofa della sua
canzone. Era la prima volta che ne faceva una, era particolare anche il
momento
in cui l’aveva scritta: il suo cuore era in conflitto con la
razionalità del
suo cervello. Si era presa una cotta per Alex, suo cugino, e solo a
pensare che
aveva la ragazza la faceva soffrire. Quel suo male interiore, in un
certo
senso, lo aveva fatto uscire con quella canzone.
Stava per iniziare la seconda
strofa, quando in camera sua entrò Bill.
«Ehi piccola,
è molto che ti sei barricata qui... Hai anche saltato la
cena... Che fai?»
Sentendolo, si
spaventò e si
gettò sugli spartiti che aveva appena scritto, non pensando
al testo che era
caduto per terra, di fianco al letto. Lo vide troppo tardi, suo padre
lo aveva
già preso in mano e lo stava già leggendo.
Bill si fermò e sollevò lo
sguardo su una Sharon già in lacrime.
«Non dovevi
vederlo. Non dovevi!»
Glielo strappò dalle mani e corse giù, con il
basso e gli spartiti.
Passò accanto
un po’ a tutti e
corse fuori in giardino. Si mise seduta di fronte alla piscina e rimase
lì a
piangere.
«Non
è giusto. Questa cosa è
totalmente illogica! Non può essere, è
assurdo!»
Prese in mano gli
spartiti e li
guardò. Si asciugò gli occhi e prese la penna che
aveva in tasca. Si mise il
tappo in bocca e fece delle modifiche qua e là: le era
impossibile non finire
la canzone, l’attrazione era troppo forte.
«Bill, ma cosa
è successo?
Abbiamo visto Sharon correre fuori piangendo.»
Bill era sceso
giù in sala e ora
Anto gli stava chiedendo il perché del comportamento di
Sharon. Deviò le
domande, l’unica cosa che gli interessava era sua figlia,
perciò uscì fuori
anche lui.
La vide al di là della piscina,
che stava suonando e cantando a bassa voce. Si avvicinò e si
mise seduto di
fianco a lei. La ascoltò suonare e la guardò
mentre scriveva sui fogli.
«Che
c’è?», si asciugò ancora gli
occhi.
«Niente.»
Sharon si
fermò e mise il basso
appoggiato sull’erba. Guardò suo padre.
«Mi dispiace
per prima, non
volevo. Comunque non ci posso credere, hai scritto veramente tu quel
testo?»,
chiese lui a dir poco incredulo.
«Sì
e ci ho fatto anche
l’accompagnamento.» Gli diede i fogli e glieli
mostrò, il testo e la musica.
«Wow, ma da
quando…», non
riusciva nemmeno a comporre una frase di senso compiuto.
«Da oggi
pomeriggio.»
«Wow.»
«Di cosa ti
stupisci? Ho preso da
te.»
Bill la
abbracciò e le sussurrò:
«È una canzone stupenda, complimenti.»
«Grazie.»
«Me la faresti
sentire?»
«Io non credo
che…» Bill la
guardò con un sorriso a cui non si poteva dire di no e fu
costretta a cedere:
«Solo a te però.»
«Va
bene.»
Sharon prese il basso e
iniziò a
suonare e a cantare, già alla seconda strofa si aggiunse
Bill, che cantò
assieme a lei. Alla fine della canzone Bill e Sharon si guardarono e si
abbracciarono.
«Ti voglio
bene, papà.»
«Anch’io
te ne voglio.»
«Che ne dici
se metteste questa
canzone nel vostro prossimo album?»
«Dici sul
serio?»
«Sì,
io non voglio fare questo
mestiere. Per me è solo un hobby come tanti.»
«Ah»,
gli si erano spenti gli
occhi. Non aveva mai voluto altro che almeno lei seguisse le sue orme,
eppure
si trovava di fronte alla dura realtà: forse a lei non
interessava come poteva
interessare a lui.
«Ne sei
rimasto deluso?»
«Un
po’.» Un
po’ tanto.
«Ma allora cosa vorresti fare da grande?»
«La
fotografa, che domande.»
«Sul
serio?»
«Sì,
immortalare per l’eternità
un emozione, questo sarà il mio lavoro.»
Si creò uno
strano silenzio, i
loro sguardi erano distanti, così Sharon si
schiarì la voce.
«Allora, dici
che si potrebbe
fare? Dico, mettere la canzone nell’album?»
«Sì,
si potrebbe fare. Ma prima,
devi dirmi che significato c’è dietro questa
canzone.»
L’entusiasmo
che dentro l’aveva
assalita per un attimo si volatilizzò in fretta: come poteva
spiegarglielo?
«Oh, credo che
questo non te lo
possa dire.»
«E
perché?»
«Sul serio
papà, non so come
spiegarlo.»
«Non ti credo
nemmeno un po’,
però non importa.»
Sharon tirò
un sospiro di
sollievo: se l’era cavata piuttosto bene. Bill la
baciò sulla testa e la lasciò
sola.
Si sdraiò
sull’erba e pensò ad
Alex. Il cuore non si poteva controllare, se uno si innamorava non ci
poteva
fare niente, la pensava così lei.
Sentì il cancello chiudersi
dietro di sé, incrociò le dita, ma era proprio
lui: Alex. Perché ogni volta che
lo pensava se lo ritrovava davanti? Ma lui non la vide neanche, corse
diretto
alla porta di casa, la aprì e la chiuse sbattendola forte.
Stava quasi per fare i
salti di
gioia: forse Alex era così di cattivo umore
perché aveva litigato con la tipa.
Però si rese conto anche che non doveva essere
così contenta, perché non
sarebbe mai successo nulla tra loro.
***
Era chiaro e allo stesso
tempo
complicatissimo: le ragazze erano tutte uguali – Chiaro, no?
–, eppure non le
avrebbe mai capite.
Si buttò sul
suo letto, con le
mani dietro alla testa. Ripensò all’appuntamento,
certo, sarebbe meglio dire al
fallimento.
Erano
in discoteca, a parlare
sopra la musica.
«Alex, mi
dispiace, però così non
mi va. Mi metti sempre in imbarazzo e sembri ancora così bambino.
Sei
un ragazzino. Ecco, lo vedi quello?», indicò un
ragazzo, un bestione, largo il doppio di lui. «Quello si che
è maturo!»
«No, quello non
è maturo! Ha solo
dieci anni più di te.»
«Pensa
quello che ti pare, ma tra
noi è finita. Ciao», lo liquidò
arrabbiata andando a ballare con quel tizio.
Tutto sommato era stato
meglio
così, però gli aveva dato davvero fastidio il
fatto che lo avesse chiamato bambino
e ragazzino.
Chi cavolo si credeva di essere? Miss Universo? Era solo
una stronza.
Stefan entrò
in camera e vide il
fratello sul letto, lo sguardo rivolto verso il soffitto: conosceva
bene
quell’espressione.
«Ehi, che
è successo?»
«Niente, la
stronza mi ha
mollato.»
«Ah, bene.
Dai, vedrai che te ne
trovi una migliore di quella. Io lo sapevo che era una
stronza.» Si mise seduto
sul suo letto.
«Ma chi ci
pensa più a quella. È
solo che mi ha chiamato ragazzino.
Ragazzino,
io?!»
«Ma
sì, lasciala perdere.»
***
Il giorno della sfilata
tutti
eravamo pronti per uscire, tranne Sharon.
«Ma
dov’è?»
«Vado a vedere
io.»
Andai di sopra ed entrai
in
camera sua: era seduta sul letto a guardare sempre la solita foto.
«Sharon, siamo
tutti pronti, manchi
solo tu.»
«Arrivo, un
attimo.»
«Sharon, sono
tre giorni che ti vedo
così. Non ce la faccio più. Vuoi parlarne con me,
per favore?»
Si girò e mi
guardò: c’era
qualcosa di diverso nei suoi occhi, come una sofferenza repressa nel
tempo,
erano stanchi.
«E va bene,
vieni qui.» Mi indicò
con la mano il letto e io mi misi lì vicina a lei.
«Mi sono innamorata.»
«Sul serio? E
chi è il fortunato?»
«Alex.»
Si alzò e prese la
macchina fotografica, poi scese le scale, come se non fosse successo
niente.
Io la raggiunsi, ma ero
sconvolta. Non era possibile, non poteva essere il mio Alex. Era un
altro,
vero? Se no sarebbe stato un amore impossibile il suo!
Alla sfilata io e Sharon
non ci
eravamo dette una parola, ed era molto strano. Lei faceva le foto, come
una
vera professionista, e io continuavo a pensare all’assurda
verità: Sharon si
era innamorata del mio Alex, di suo cugino, era totalmente senza senso.
«Ehi,
c’è qualcosa che ti turba,
lo sento. Che cosa? Me lo dici?», mi chiese Tom donandomi un
abbraccio impedito
dalla presenza di Sarah che ne richiedeva l’attenzione
tirandogli i pizzicotti
sul collo che lui non sentiva nemmeno più talmente ci era
abituato.
«Ho scoperto
perché Sharon è
sempre così triste, anzi, me l’ha detto
lei.»
«Perché?»
Mi girai fra le sue
braccia per
guardarlo negli occhi. «Tom, io te lo dico, ma, per favore,
non lo dire a
nessun altro, ok? Mi fido di te, e da sola non posso
farcela.»
«Non
sarà mica incinta, vero?»
«No.
È ancora più complicato.
Insomma lei…»
«Lei
cosa?»
«Si
è presa una cotta per Alex.»
Trattenne il respiro e
sgranò gli
occhi. Reazione prevedibile, anche io ero rimasta più o meno
così.
«Alex…
Alex…», si indicò
balbettando.
«Sì,
lui, il nostro!», dissi
aggrappandomi alla sua felpa.
«Ma
è… assurdo!»
«Lo so! Cosa
dobbiamo fare? Per
favore, non dirlo a Bill, nemmeno ad Anto. Magari è una cosa
passeggera.»
«Lo
spero!»
In quel momento comparve
Bill
come dal nulla, tutto agitato, che non riusciva a fare a meno di
muoversi. Anto
di fianco a lui era già pronta per sfilare, con un
bellissimo vestito nero
addosso.
«Oh
Tom!», disse sconvolto.
Io e Tom ci guardammo
impauriti,
pensando che avesse sentito, ma tirammo subito un sospiro di sollievo,
non era
così grave.
«Mi manca una
modella!»
«Idiota, mi
hai fatto prendere un
colpo!», disse Tom portandosi una mano sul cuore.
«Devo trovare
una sostituta, ma
dove?!»
Tutti e tre mi
guardarono, anche
Sarah a dir la verità, quindi erano quattro paia di occhi
puntati su di me, ma
io non ci feci caso, ero troppo occupata a pensare ad altro. Quando mi
accorsi
che mi stavano fissando, capii subito tutto.
«No, no
ragazzi. Avete capito
male, io non farò mai e poi mai…»
Un minuto dopo mi trovai
truccata
e vestita per sfilare.
«…
la modella.»
Io e Anto eravamo le
più vecchie
tra tutte le modelle, infatti Stefan era già a parlare con
quelle più carine. Io
mi sentivo in imbarazzo ed agitata, ma c’erano Tom e Sarah a
confortarmi.
«Sei
stupenda.»
«È
vero mamma, sei bellissima.»
«Io mi sento
in imbarazzo.»
«Ma se sembri
una ragazzina! Tu
le batti tutte queste.»
«Sì.
Intanto guarda tuo figlio
Stefan come ci prova.»
Lo guardammo flirtare
con una
ragazza bionda, occhi verdi.
«Eh
già, questo l’ha preso da
me», disse ridacchiando. Riusciva bene a nascondere la
preoccupazione per il
segreto.
«Ary! Vieni!
Dobbiamo andare!», mi
gridò Anto.
Appena Stefan, Alex e
Sharon mi
videro sulla passerella, mi applaudirono fortissimo e si misero a
gridare. Anche
Bill mi applaudiva e quando tornai dentro volarono complimenti sprecati
da
parte sua, ma comunque ben accetti.
«Ary! Sei
stata bravissima!
Complimenti! Sei sicura di non aver mai fatto la modella?!»
«No, non
l’ho mai fatta, il
massimo che ho fatto in questo campo è stato di aiutare mio
padre a montare i
led alle pareti, però guardavo sempre le sfilate e ho
imparato a camminare in
fretta, è semplice.»
«Wow. Beh,
allora vatti a
cambiare, ti aspettano altri quattro vestiti.»
«Ok, odio fare
la modella. Lo
faccio solo per te, ricordatelo.»
«Sì,
ti devo un favore. Grazie!»
Mi fecero cambiare e poi
tornai
sulla passerella. Sharon mi guardava incantata e continuava a farmi
foto, ma
d’altronde, la classe non era acqua.
Alla fine della sfilata,
Bill
salì sulla passerella a fare i ringraziamenti:
«Innanzitutto, vorrei
ringraziare tutte le splendide modelle che hanno indossato i miei
abiti, in
particolare mia moglie, vieni.» La chiamò sulla
passerella e lì volarono
miliardi di flash. «Che ha sostituito una modella e anche
un’altra modella,
Arianna. Anche lei ha sostituito una modella che non è
potuta venire, grazie.»
Fece salire anche me e ci prese tutte e due per i fianchi.
«Grazie. Senza di
voi non ce l’avrei fatta.» Altri flash, compresi
quelli di Sharon. «Poi, vorrei
ringraziare mio fratello Tom, che mi sostiene ed è sempre
presente, grazie. E anche
la mia fotografa personale, Sharon!» Lei si alzò
in piedi e fece un piccolo inchino.
Dietro le quinte, Bill
si fermò a
fare le foto con tutte le modelle e io e Anto ritornammo subito vestite
normali. Comunque, prima, Bill volle fare una foto anche con noi. E
Sharon si
divertiva come una pazza a fare tutte quelle foto.
«Sì,
ma adesso spostatevi, voglio
fare io una foto con papà!», si
appiccicò a lui. Fecero due foto: una normale e
una mentre gli dava un bacio sulla guancia.
Lei era legatissima a suo padre,
molto di più di sua mamma, e a volte Anto si sentiva anche
un po’ esclusa.
«Ti sei
divertita?»
«Sì!
Grazie papà! Ti voglio bene!»,
gli saltò in braccio.
Per esempio, lei non era
mai così
con Anto, non le diceva mai un ti
voglio
bene, non
le dava mai un bacio,
niente di niente e per questo lei ci stava male, non sapeva se fosse
per colpa
sua, pensava che forse non era una brava mamma, perché
vedeva anche il
comportamento di Stefan e Alex nei miei confronti, che mi volevano
bene, ogni
occasione era buona per un abbraccio, un bacio e così era
per Tom. Ma perché
allora Sharon stava sempre con suo padre? Forse era davvero colpa sua.
In
effetti, lei era molto più affezionata a me che non a sua
madre. La cosa era
molto strana, ci stava veramente male. Ora, a guardare quella scena,
soffriva
dentro di sé e come sua migliore amica me ne ero accorta
subito. Dovevo
intervenire in qualche modo.
«Sharon, fai
una foto anche con
tua mamma, dai.»
Sharon guardò
sua mamma. Si
allontanò da suo papà e prese la macchina
fotografica in mano, la guardò e
disse: «Ora non mi va.»
Andò a fare
delle altre foto
della passerella, mentre i tecnici smontavano tutto. Più
esplicito di così
poteva essere solo: Con
te non la voglio
fare. Bill guardò
Anto, si girò e andò dritto verso Sharon, era
arrabbiatissimo, glielo si leggeva in faccia. La vide di fianco alla
passerella.
«Allora
signorina?! Ti devi comportare
così con tua madre?! Eh? Mi guardi in faccia quando ti
parlo?!» Lei si girò e
lo guardò. «Sono molto arrabbiato con te.
Perché con tua madre ti comporti
così?! Non riesco ad accettarlo! Va bene fare quello bravo,
buono, ma quando
fai così c’è bisogno di rimproverarti.
E io odio rimproverarti, e lo sai.»
«Va bene, mi
dispiace. Sei
contento?»
Bill non era capace ad
essere
arrabbiato con lei, cercava di fare il duro, ma poi tornava sempre il
solito
Bill comprensivo con sua figlia.
«Ma
perché fai così? Adesso tu
vai di là e chiedi scusa a tua madre, poi fai anche la foto.
Va bene?»
Sharon sbuffò
e tornò da noi, con
Bill dietro, guardò sua madre e disse, in tono molto da prendere a schiaffi:
«Scusa mamma, vuoi fare la foto?», in modo
molto annoiato, come se fosse una scocciatura.
Si avvicinò a
lei e si fecero la
foto, solo che la macchina non andava. Sharon guardò la
macchina e si accorse
che era finito il rullino. Con il sorriso sulle labbra disse:
«Ma quanto mi dispiace,
è finito il rullino.»
«Dio, Sharon!
Sei così stupida!»,
esplosi.
Non potevo credere che
fosse così
impertinente, con sua madre poi, che faceva di tutto per lei. Invece di
ringraziarla tutte le volte che poteva, si comportava proprio da
stupida. Ma
lei non sapeva nulla di quello che avevo passato, in certi aspetti era
meglio,
in certi proprio peggio.
Rimase in silenzio,
rossa in
viso, a guardami senza parole.
«Ary…»,
disse Anto, ma non la
ascoltai nemmeno, mi girai senza guardare nessuno e uscii, li avrei
aspettati
in macchina.
Sharon si
guardò intorno con le
lacrime agli occhi, si mise la macchina fotografica al collo e
uscì fuori anche
lei di corsa.
Scese lentamente le
scale, vide sua
madre e suo padre sul divano abbracciati, lei con il viso nascosto nel
suo
petto e lui che le sussurrava qualcosa all’orecchio
massaggiandole la schiena
con la mano.
«Ehi,
zio!», lo chiamò sottovoce
per non farsi sentire dai suoi.
«Che cosa
c’è?», disse
raggiungendola a metà scale.
«Posso parlare
con zia?»
«E lo chiedi a
me?»
«Sì,
lo so, ma…», guardò di
sfuggita suo padre e sua madre sul divano.
«Ok, ho
capito, te la chiamo»,
sbuffò.
Tom mi passò
le mani sulle spalle
e mi sussurrò all’orecchio, baciandomi anche sul
collo per addolcirmi un po’,
ormai sapevo riconoscere tutte le sue tattiche, solo che non sapevo
come
combatterle, era tutto inutile.
«C’è
Sharon che ti vuole
parlare.»
«Perché
non è venuta lei?»
«Perché
ha paura di affrontare
Bill, penso.»
«Non
è più una bambina, Tom.»
Mi girò e mi
accarezzò il viso
con le mani, baciandomi morbido sulle labbra. «Sì,
lei lo è, senza offesa. È
uguale a Bill, rimarrà sempre un po’
bambina.»
Riuscii a strappargli
ancora due
baci prima che mi spostasse sorridendo e mi indicasse di andare. Mai
una volta
che non riuscisse a convincermi.
Sharon era sul letto,
sdraiata a
pancia in giù, che soffocava i singhiozzi nel cuscino. Mi
misi seduta accanto a
lei, senza parlare.
«Mamma non mi
sta mai vicina, non
la sento presente come papà. Forse anche a causa del suo
lavoro, non lo so.
Però non mi coccola mai come fa papà.
È anche per colpa sua se io sono così,
non mi degna mai di attenzioni, per lei non esisto!», disse
facendo lunghe
pause per riprendere fiato tra i singhiozzi.
«Non dire
così, per lei esisti,
sei la cosa a cui tiene di più al mondo, solo che non riesce
a dirtelo. Lei è
fatta così, prima di dire a Bill che lo amava ci ha messo un
po’, ha bisogno
dei suoi tempi, ma sei davvero importantissima per lei, ti vuole un
bene
enorme. E, più o meno, anche tu non la degni mai di
attenzione, ti allontani,
non la cerchi. Siete nella stessa situazione.»
«Davvero?»,
tremolò.
«Sì,
nessuna delle due riesce a
fare la prima mossa per paura della reazione dell’altra.
Forse, se ne parlate
risolvete la cosa, no?» Le spostai i capelli dal viso e le
accarezzai la
guancia prima di baciarla. «Cavolo, tu non sai quanto sei
fortunata. Hai dei
genitori splendidi, fidati.»
Annuì e diede
due colpi sul
materasso, accanto a lei. Mi sdraiai sorridendo e chiusi gli occhi
stringendola
a me.
«Adesso cosa
farai?», chiesi.
«Vado a
parlare con mamma e le
chiedo scusa.»
«Brava.»
«Grazie
zia.»
«E di cosa,
piccolina? Non c’è di
che. Già che ci siamo, ti va di parlare della storia di
Alex?»
«Dobbiamo
proprio?»
«Sì,
per forza; la mia era una
domanda retorica. Sharon, è davvero necessario.»
Le feci incrociare i miei
occhi che si specchiarono nei suoi. «Lo so che
l’amore è cieco, ma così è
troppo cieco! Tu e Alex siete cugini! Non potrebbe mai
funzionare!»
«Lo so zia!
È per quello che ci
sto male! Io ne sono innamorata e non posso farci niente! Non
è colpa mia! È
colpa sua che è così…»
«Unico? Lo so,
però è un amore
impossibile. Lo devi capire e accettare, purtroppo è la
triste realtà. Secondo
me ti sei innamorata
di lui, perché sei
in piena fase adolescenziale: vuoi avere una relazione e il ragazzo
perfetto è
Alex per te. Ci credo! Guarda, lo avrei scelto anch’io.
Però non può
funzionare, questo l’hai capito vero?»
«Sì.»
«Sai, un
giorno incontrerai il
ragazzo dei tuoi sogni, e allora vivrai felice e contenta, come nelle
favole,
piccolina.» La abbracciai e le asciugai le lacrime.
«Adesso basta piangere, su.
Si tratta solo di avere un po’ di pazienza, l’anima
gemella arriverà. Non c’è
niente e nessuno che possa metterti fretta.»
«Va bene zia.
Ti posso chiedere
una cosa?»
«Che
cosa?»
«Come hai
conosciuto zio? Da
quello che mi dice Stefan, ho capito che era un playboy con la fissa
del sesso.
O sbaglio?»
«Le persone
cambiano», dissi
sorridendo e toccandole il naso. «Per amore.»
«Ti prego, mi
racconti?»
«Ok. Allora,
tutto successe in
Germania, dopo un concerto dei Tokio. Tuo zio, come tuo padre, era un
gran
figo. Va bè, lo incontrai in hotel.»
«E
come?»
«Beh, ci siamo
scontrati.»
«In che senso scontrati?»
«Così,
scontrati. Io venivo da
una parte, lui dall’altra, non ci siamo visti e
così ci siamo scontrati, e io
sono caduta a terra.»
«Sul
serio?!»
«Sì,
te lo giuro! Che
figuraccia.»
Si mise a ridere, in
quel momento
mi sembrò di vedere Anto da piccola: aveva la sua stessa
risata.
«Non
c’è niente da ridere!»
Da sotto,
arrivò la voce di Tom: «Ehi,
pettegole! Venite giù! È pronto!»
«Spero solo
che non abbia cucinato
Tom», dissi mentre scendevamo dalle scale.
«Povero
zio», scosse la testa
Sharon.
Tutti erano seduti
intorno al tavolo
e stavano aspettando noi.
«Alleluia!
Siete arrivate! Ma
dove eravate?», chiese Tom. Fu come se non avesse detto
niente.
«Mamma, puoi
venire un attimo con
me? Ti devo parlare», disse Sharon abbassando lo sguardo
intimidita.
«Ok.»
Si alzò e andò con Sharon
in sala, sedute sul divano.
«Scusami per
oggi, mamma. È che,
secondo me, tu non mi dedichi abbastanza tempo. Per questo mi comporto
così,
hai capito? Non è che non ti voglio bene, anzi, te ne
voglio, e tanto.»
«Oh Sharon, ti
voglio bene
anch’io.» Si abbracciarono. Sharon si mise a
piangere.
«Mi dispiace
tanto, non avrei mai
voluto farti soffrire. Mi perdoni?»
«Certo amore
mio, però anche io
mi devo impegnare a dedicarti più tempo, ho sbagliato pure
io.»
«Grazie mamma,
ti voglio tanto
bene.»
«Anch’io.
Dai, ora andiamo di là.
Ci sono Alex e Stefan, soprattutto, che stanno morendo di
fame.»
Si asciugò le
lacrime sorridendo
ed entrambe si alzarono.
«Aspetta
mamma, mi abbracci
ancora?»
«Certo!»,
la abbracciò di nuovo.
Sharon non si era mai
sentita
così felice come allora, era una sensazione unica per lei,
non c’era nulla di
più bello degli abbracci di sua madre.
Quando tornarono in
cucina con
due sorrisi splendidi ed unici, solo loro, stampati sul volto, sorrisi
e feci
l’occhiolino a Sharon. Quando voleva quella ragazza sapeva
affrontare di tutto.
Si avvicinò a
Bill, che faceva
ancora l’incazzato, e lo abbracciò da dietro.
«Scusami papà, non lo farò
più.»
«Va bene, per
questa volta.»
«Ma piantala
per favore!››,
dissimo tutti in coro.
«Sì,
non riesco a fare
l’arrabbiato», disse sorridendo.
Finalmente ci misimo
tutti a
tavola. Ero felice che tutto si fosse messo a posto, l’aria
che si respirava
era solo felice.
«Tom?»,
chiesi guardando il
piatto.
«Eh?»
«Hai cucinato
tu? Devo
preoccuparmi?»
«Simpatica.
Ancora che non ti
fidi delle mie incredibili doti culinarie?»
«Ehm…
sì.»
«Viva la
sincerità.»
«Sì,
quella soprattutto.»
«Hai finito di
fare il teatrino?
Mangia, dai.»
«Ok, non ti
scaldare. Tanto lo so
che ha cucinato Bill, lo si vede solo
dall’aspetto.»
Tom guardò il
gemello che
sorrideva a bocca aperta. «Bill, Ary mi insulta! Fai
qualcosa!»
«Sei grande
ormai, Tomi», scherzò
Bill stando al gioco.
«Ok, come hai
fatto a scoprirlo?»,
mi chiese.
«A me non mi
frega nessuno,
proprio nessuno», dissi prima di mettere in bocca il boccone.
Bill
incominciò a ridere e così
anche Tom. Poi Sharon li interruppe, ricordandosi di quello che le
avevo detto
di sopra.
«Ah! Zio, ma
è vero che tu e zia
vi siete incontrati in hotel e vi siete scontrati?»
«Certo
cara!»
«Io non ci
credo.»
«Credici! Se
lui è nato così
cretino, ci deve essere un motivo! Mamma ha preso una botta ed
è nato così. A
volte mi fa un po’ pena», disse Alex rivolto a suo
fratello Stefan.
«Ma che
simpatico!», replicò
Stefan.
«Piantatela
voi due! E poi che
cos’è successo zio? Racconta!»
«Ho incontrato
tua zia ed è stato
un colpo di fulmine.»
Mi appoggiai al tavolo e
lo
ascoltai, tutti lo ascoltavano con attenzione: era bello sapere la sua
versione
dei fatti.
«Ci siamo
guardati negli occhi e
lì, boh, non so che cosa è successo.
Però di una cosa sono certo: lei, da quel
momento, non se ne è mai andata dal mio cuore.»
Era proprio dolce.
«Sì
dai pa’, vai al sodo», disse
Stefan, il solito.
«In pratica,
l’ho portata al bar
dell’hotel, io ho ordinato due birre, però a lei
non andava bene e così si è
fatta portare un Bacardi alla pesca, me lo ricordo bene. Ah
sì, vi dico che
quando l’ho incontrata aveva solo quattordici
anni.»
«Quattordici?!»,
disse Sharon
incredula.
«Sì,
aveva la tua età, e io ne
avevo diciotto, era una bella differenza. Ma non per noi.»
«Che vuol
dire?»
«Non ce ne
importava dell’età,
noi saremmo rimasti assieme comunque, contro tutti.»
«E poi? E poi
cos’è successo?»
«L’ho
accompagnata in camera e…»
«E?»,
disse Sharon.
«E?»,
dissero tutti in coro.
«E mi ha
baciato.»
«Come? Ti ha
baciato lei? La
nostra mammina? Eri sul serio così?», mi chiese
Stefan con un sorriso
sbarazzino.
«Era la mia
unica occasione, non
potevo farmela sfuggire.»
Sharon era completamente
rapita
dal discorso, seguiva tutto senza perdersi nemmeno una parola.
«E come
l’hai baciato? Con la
lingua?»
Possibile che non si
facesse mai
gli affaracci suoi? Tom gli diede uno scappellotto, come se mi avesse
letta nel
pensiero.
«No, cretino!
Ma che lingua e
lingua! Un bacio normale!»
«E tu mamma?
Come hai conosciuto
papà?», chiese Sharon, curiosissima.
«Grazie ad
Ary. Quella sera era
sparita con Tom e io ero andata a cercarla, solo che avevo lasciato in
camera
la chiave della stanza, e così sono rimasta chiusa fuori.
Bill mi vide fuori
dalla porta e…»
«Mi innamorai
subito», intervenne
lui.
«Wow»,
disse Sharon incantata.
Io guardai
l’orologio alla parete:
era quasi mezzanotte. Per quanto tempo eravamo rimasti a parlare?
Infatti Sarah
si era già addormentata da un pezzo e aveva saltato la cena
proprio per quello.
«Vorrei tanto
continuare questo
discorso, ma si sta facendo un po’ tardi. Forza, tutti a
letto che domani avete
scuola.»
«Ok, ma domani
ne riparliamo!»,
disse Sharon su di giri.
«Va
bene», Anto le diede un bacio
sulla guancia e lei andò su a dormire seguita da Alex e
Stefan.
«È stato un colpo di fulmine,
ne Tom?», lo abbracciai.
«Perché
non lo è stato?»
«Sì
che lo è stato», lo baciai.
«Ho sonno,
domani dobbiamo andare
da qualche parte Bill?»
«No, domani
siamo a casa tutto il
giorno.»
«Oh, che
bello, un po’ a casa.
Che ne dici, li lasciamo dormire domani i ragazzi?»
«E come
mai?»
«Di solito non
siamo mai a casa,
allora vorrei stare un po’ con loro, che ne dici?»
«Sì,
per me va bene.» Che padre
eccezionale che era.
***
Il giorno dopo restammo
tutti a
casa, con grande sorpresa di Alex e di suo fratello Stefan, al settimo
cielo.
«Ciao a
tutti!», dissi scendendo
dalle scale.
«Ciao
Ary.» Tom mi diede un bacio
e Bill mi chiese di Sharon: «Ma dorme ancora?»
«Mi sa di
sì, ma se ha preso da
te stanne certo!»
«Che qualcuno
vada a svegliarla,
se no stanotte non dorme», disse Bill. Stefan si
alzò di scatto e corse su, con
dietro Alex, urlando: «La sveglio io!», correndo
per le scale.
Io guardai Tom:
«Verrà il giorno
che si faranno male, e allora io riderò.» Tom mi
abbracciò, tenendo le mani sui
miei fianchi. Risi, mentre mi baciava.
«Comunque sono
cretini come te.»
«Credevo che
avessero preso da te
questa qualità.»
«Se,
credici!» Scoppiammo tutti a
ridere.
Intanto, Stefan e Alex
erano corsi
su in camera di Sharon. Era totalmente sotto le coperte, per coprirsi
dal sole
che entrava dalla finestra, che dormiva ancora. Saltarono sul suo letto
e Stefan
iniziò a chiamarla: «Sha…
Shary… Sharon! Svegliati!»
«Dai Stefan!
Non fare il cretino,
non la svegliare così.» Alex spostò il
fratello e si mise di fianco a Sharon.
Si avvicinò al suo orecchio e sussurrò:
«Sha, svegliati. È tardi.»
«Alex»,
mugugnò.
«Eh?»
«Ciao, ma che
ore sono? Dobbiamo
andare a scuola?»
«No, per
favore! Oggi zio e pa’
sono rimasti a casa e hanno deciso di non farci andare a
scuola.»
«Sul serio?!
Bene! Allora oggi
posso suonare un po’.»
«Sì,
però muoviti. Ci hanno
mandato a chiamarti perché sembravi un ghiro!»
Lei rise, ancora un
po’
assonnata, e diede una piccola spinta al braccio di Stefan.
«Papà!
Vieni qua un attimo?»
«Arrivo
Sharon.»
Bill prese i fogli su
cui stava
disegnando dei nuovi modelli e se li mise sotto il braccio, prese la
matita e
si tolse gli occhiali. Raggiunse Sharon in sala, dov’era
tutta occupata a
suonare le note della canzone che aveva scritto, però al
piano. Infatti, oltre
che a suonare il basso, era anche bravissima con il pianoforte; quello
era un
suo talento naturale, scoperto pian piano nel tempo.
«Che
c’è?»
«Ascolta e
dimmi se va bene.»
Erano note dolci, allo
stesso
tempo tristi e malinconiche, proprio come il tema della canzone. Bill
la
ascoltò attentamente, era molto che non suonava il piano da
quando aveva fatto
quel corso qualche anno precedente.
«Allora?
Com’è?»
«Secondo me
bisogna cambiare
qualcosa. Però le basi ci sono. Aspetta.»
Appoggiò i fogli sul piano. Si mise
seduto di fianco a lei e suonò il brano, indicandole i
passaggi che magari
poteva migliorare. «Così come ti sembra?»
«È
bello!»
Era sempre stata
orgogliosa di
avere un padre musicista, la aiutava sempre in quel campo.
Dopo un po’,
sentendo il
pianoforte, arrivò anche Antonia, che si mise ad ascoltarli.
Sharon la vide e
chiese anche un suo parere. «Che te ne pare mamma?
Papà mi ha già dato un
consiglio, tu che dici?»
Anto si sentì
al settimo cielo
vedendo la faccia felice della figlia che le chiedeva un suo parere.
«È
bella, però…»
«Però
cosa?», chiese Sharon
curiosa.
«Fammi sedere,
Bill.»
Bill si alzò
e fece sedere Anto,
poi si appoggiò al piano, per vedere quello che faceva.
«Guarda, e se
fai così?» Fece il
pezzo con altri miglioramenti e poi guardò la figlia.
Sharon non sapeva che
sapesse
suonare il pianoforte e ne rimase completamente sbalordita, poi lo
suonava
veramente bene.
«Mamma?»
«Sì?»
«Io non sapevo
che suonassi il
piano, ma da quando?»
«Se non mi
sbaglio, da quando ero
piccola, però non l’ho mai studiato
seriamente.»
«Davvero?
Allora può darsi che
abbia preso da te.»
«Probabile.»
«Comunque il
pezzo come l’hai
fatto tu è stupendo, poi con i consigli di papà
sarà ancora più bello. Grazie
mamma!», la abbracciò.
Anto si alzò
e si mise di fianco
a Bill, gli prese la mano e la intrecciò alla sua.
«Siete
perfetti assieme», disse
Sharon sorridendo.
«Sì,
lo sappiamo.»
«Che
modestia!»
«Colpa di Tom,
con gli anni ci ha
contagiati.»
«Sharon!»,
la chiamai dal piano
di sopra.
Staccò le
dita dal piano e urlò
anche lei: «Che c’è?!»
«Puoi venire
un attimo? Ti devo
far vedere delle cose.»
«Arrivo!»,
si alzò e corse su da
me. Sharon salì su in camera mia ed entrò.
Ero seduta per terra, di
fianco
al letto. Lei si avvicinò e si mise seduta di fianco a me.
Tirai fuori, da
sotto il letto, uno scatolone.
«Che
cos’è zia?»
«Adesso
vedrai. Aiutami a
portarlo in camera tua.»
«Ok.»
Lo prese e lo
portò su da lei. Lo
appoggiò sul letto e lo aprì, tutta incuriosita.
«Guarda.»
Lo aprì del
tutto e ci frugò
dentro: c’erano una marea di poster, foto, diari, cd. Il
tutto dei Tokio Hotel
e sui Tokio Hotel. Mi guardò con gli occhi che le
brillavano, senza riuscire a
dire una parola, da quanto era emozionata.
«Pensa che
queste cose non le ho
fatte vedere nemmeno a Stefan e Alex. Te le faccio vedere a te
perché tu te ne
intendi, però devi anche tenerle per me. Va bene?»
Lei annuì con
la testa, senza
dire nulla. Tirò fuori dalla scatola dei poster. Ne
aprì uno, lo stese per terra
e rimase ad osservarlo per un fracco di tempo, senza fiato.
Indicò suo padre,
Bill, e mi guardò. Non riusciva a dire una parola, tanto ne
era rimasta
sbalordita.
«Sha, dimmi
qualcosa. Capisco che
tuo padre era un gran figo, però devi dirmi qualcosa anche
sugli altri!»
«Sì,
ehm… che posso dire? Ma sei
sicura che questo è mio padre?!»
«Certo! Hai
visto che bello che
era? Beh, è bello anche adesso, però allora era
tanto diverso. Vero?»
«Non ci posso
credere, non può
essere lui. E non dirmi che questo pezzo di figo è zio! E
poi Georg, e anche
Gustav! Guardali! Sono stupendi!»
«Certo. Hai
ragione, sono
bellissimi.»
«Ma tu ti sei
innamorata di zio
dall’inizio, oppure solo perché era
così famoso?»
«No, mi sono
sul serio innamorata
di lui, dal primo momento che l’ho visto di persona, mi ha
proprio
conquistata.»
«E
c’è mai stato un momento in
cui non sentivi questo amore per lui?»
«No,
mai.»
«Wow. E,
invece, quando… è morto
zio… non è successo?»
Mi ricordai di Davide,
era molto
tempo ormai che non ci pensavo più, ma quella
domanda…
«No, anzi, mi
è stato ancora più
vicino e mi ha aiutato a superare il trauma», mi stavano per
venire le lacrime
agli occhi. Quanto tempo era passato.
Sharon riprese di nuovo
a parlare,
facendomi tornare alla realtà.
«Ah, beh
allora vi amavate
tanto.»
«Ci amiamo
ancora tanto e non
smetteremo mai.»
«Che bello.
Anch’io voglio vivere
una storia come la tua! Perché io no? In fondo, tu avevi
quattordici anni
quando hai incontrato zio, io ho la tua stessa
età!»
Le andai di fianco e la
abbracciai. «Piccolina, hai tutto il tempo per trovare il
ragazzo dei tuoi
sogni, non devi avere fretta. E quando lo troverai sarai felice come me
quando
ho trovato Tom, capito? Non è una questione di
età. Quando succede, succede. Io
sono stata molto fortunata, tutto qui.»
«Va bene zia,
aspetterò. Quando
lo troverò te lo dirò subito, ok?»
«Certo! Ci
conto.»
«Va
bene», rise.
Mi alzai e scesi
giù da Tom.
Sharon rimase in camera sua a guardare nella scatola. Trovò
una foto di quella
epoca, era veramente stupenda secondo lei e così la mise sul
muro delle foto:
era una foto con me e Tom, alla fine di un loro concerto, che mi dava
un bacio
sulla guancia, lui con ancora la chitarra al collo, e io facevo la
faccia
sorpresa. Sharon più guardava quella foto, più
voleva tornare indietro nel
tempo, per vivere quei momenti meravigliosi con me e i giovani
TH. Avrebbe tanto voluto conoscere da giovane suo padre
Bill e anche suo zio Tom e tutti gli altri, comprese anche me e Anto,
sua
madre. Sorrise e rimise tutte le cose nella scatola, poi la mise sotto
al suo
letto. Andò nella sua camera oscura personale, per
sviluppare le foto scattate
alla sfilata. Ne tirò fuori dall’acqua alcune.
Prese quella con me, sua madre e
suo padre, mentre facevamo l’inchino, alla fine della
sfilata, al momento dei
ringraziamenti. Io e sua madre che ridevamo e Bill che sorrideva ai
flash.
Eravamo proprio belli in quella foto, tanto che Sharon corse
giù e ce la fece
vedere, tutta raggiante.
Entrò in
camera di Stefan e Alex.
Uno era al computer, rivolto verso l’altro, sul letto. In
pratica, parlavano,
ma non facevano nulla di concreto.
«Ragazzi,
guardatevi. Siete il
disonore della famiglia. No, sapete che scherzo.»
«Che
vuoi?», disse Stefan
annoiato.
«Che vuoi?
lo dici a qualcun altro, non a me. Comunque, non ne
volete sapere di chitarra? Musica in generale?»
«Ora
no», dissero
contemporaneamente guardandosi.
Tom cercava in tutti i
modi di
invogliarli a suonare, di talento ne avevano da vendere, ma la risposta
era
sempre un no
bello deciso, detto in
maniera soft. Improvvisamente si ricordò di quando, per
Natale, Stefan aveva
chiesto, supplicato, la sua prima chitarra. Ma non ne voleva una
qualsiasi, ne
voleva una ben precisa, vista in un negozio un pomeriggio
d’estate, mentre
facevamo una passeggiata. L’aveva desiderata tanto, e ora,
era lì, appoggiata
al muro, abbandonata da chissà quanto tempo. Aveva appena
sei anni. E Alex,
Alex non aveva mai dimostrato un grande interesse verso questo campo,
però era
bravo, forse più del fratello.
A Tom, in fondo, mancava
il
periodo dell’infanzia di Alex e Stefan. Dovevano essere
riempiti di attenzioni,
d’affetto. Ora chi li vedeva più a casa? Erano
sempre fuori.
«Stefan! Alex!
Potete venire qui?
Portate le chitarre.»
Sharon, che aveva
assistito a
parte del discorso, curiosona com’era (come suo padre e sua
madre, forse di
più), aveva deciso di intervenire.
Stefan e Alex si
guardarono
ancora negli occhi. Come la maggior parte dei gemelli, riuscivano a
capirsi
perfettamente solo con uno sguardo: potevano dirsi tutte le cose che
volevano,
senza che noi capissimo.
«Beh?
Muovetevi, no?», disse Tom.
Loro alzarono le spalle
e presero
le chitarre. Tom sentì il cuore riempirsi di gioia. Salirono
su da Sharon.
«Che dobbiamo
fare con le
chitarre? Ce lo spieghi?»
Sharon era
già con il basso al
collo, pronta a suonare il suo pezzo.
«Dai,
aiutatemi. La canzone non
viene bene solo con il basso, servono delle chitarre.»
Loro sollevarono le
spalle e si
misero le chitarre al collo, sorridendo.
_________________________________________
Buoooonasera a tutti ^-^
Sono stanca e domain c’è il
copito di matematica, ho una fifa blu xD Speriamo vada bene, Dio dammi
un segno
della tua presenza ù.u
Tornando a questioni ben più
serie xD Questo capitolo come vi è sembrato? Siamo tornati
al presente ma
sempre con un accenno al passato. Infondo, il passato conta e non
possiamo
separarcene, che noi lo vogliamo oppure no…
Fatemi sapere se vi è piaciuto, spero
tanto di sì! *-*
Per le recensioni allo scorso
capitolo, ringrazio:
niky94:
Grazie! :) Bacio.
Utopy:
Non parlo di Ary .__. Tu ormai l’hai presa in antipatia,
ogni mia speranza di fartela piacere è sparita. Chi ti
capisce è bravo xD
Almeno ti piacciono Stefan e Tom,
in quel capitolo sono davvero belli carini e coccolosi *-* Grazie mille
Ales,
tu ci sei sempre! Forever and ever xD Ti voglio tantissimo davverissimo
beneee!
<3 Sei la Mond
della mia vita xD Luv ya!
Tua, Sonne :D Nonché Aria. (Notato,
io sono tutte le cose vitali u.u L’aria, il sole…
*-* Sono vitaleeeeee! xD Okay
me ne vado xD)
Tokietta86:
Infatti, fossero così tutte le mamme! Soprattutto la
mia!
E anche tutti i papà! *-* Ma del
mio non mi posso lamentare, no no :D
Sono contenta che quel capitolo
ti sia piaciuto, spero che anche questo non sia da meno! Grazie mille,
bacioni.
Poi ringrazio anche chi
ha messo
questa ff fra le preferite, le seguite e le ricordate *-* Grazie mille
di cuore
anche a chi legge solamente!
Alla prossima, con affetto
vostra,
_Pulse_
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Capitolo 9 *** Vending machine's boy ***
Capitolo 3
Vending machine’s boy
E così, un giorno qualunque, di
un mese qualunque, di un anno
qualunque, divenne il giorno più importante della sua vita.
«Ciao a
tutti.»
Sharon entrò
nella stanza, dove
trovò suo padre, zio Tom, Gustav e Georg. Diede un bacio
sulla guancia a Bill,
abbastanza sorpreso di vederla.
«E tu che ci
fai qui?», le
chiese.
«Ah, grazie.
Se disturbo vado a
casa.» Si rigirò e fece per uscire, quando il
padre la fermò.
«Ma dai, non
te la prendere.
Chiedevo soltanto. Mamma sa che sei qui?»
«Certo che lo
sa. Sono venuta qui
perché non avevo voglia di stare a casa a rompermi. Stefan
è da qualche parte a
fare strage di cuori, come suo solito. Alex, non ne parliamo,
è andato ad uno
di quei corsi extra a scuola. Ma che ci trova di tanto divertente a
studiare?
Proprio non lo capisco, mah. Poi, dicevo? Ah sì, loro due
non ci sono e mamma,
zia e Sarah sono da qualche parte, non lo so.
Perciò… eccomi qui.»
«Ahm…
sì, capito poco e niente da
come parlavi in fretta, però… bene. Ciao Sharon,
come stai?», disse Tom
sorridendo.
«Bene zio,
grazie. Voi? Che
stavate facendo?» Sharon appoggiò lo zaino a
tracolla per terra, in un angolo.
«Tutto ok. Non
stavamo facendo
niente di concreto.»
«Ah, allora
è questo ciò che
intende papà quando dice che ha sempre un mucchio di lavoro
da fare? Hai
capito? Io mi sbatto e lui non fa niente.»
«Non
è assolutamente vero, ci
siamo solo presi una pausa. Adesso andiamo a registrare,
vero?»
«Sì,
ha ragione lui. Tu avrai
sicuramente qualcosa da fare, quindi stai qui buona.»
«Va bene zio,
non mi muoverò da
qui.» Prese un libro dallo zaino e si mise seduta intorno al
piccolo tavolino
bianco, con una matita in mano.
«A scuola
tutto bene?»
«Mm-mm. Ah,
quasi mi dimenticavo,
oggi mi hanno interrogata, a sorpresa.»
«Oddio, quanto
odiavo le
interrogazioni a sorpresa!», disse Tom mettendosi le mani in
faccia. «Com’è
andata?»
«Bene. Avevo
letto la pagina poco
prima della lezione, per fortuna. Devi firmarmi il voto.»
Sharon diede il
diario e una penna a Bill.
«Non
è male, visto che l’avevi
solo letta.»
«Ma
papà! È più delle
sufficienza! Cosa vuoi di più dalla vita?»
«Niente, solo
che puoi fare di
meglio.»
«Mai una volta
che ti accontenti,
vero fratellino?» Tom gli diede una pacca sulla spalla. Bill
fece un sorriso
obliquo e firmò il diario della figlia, poi la
guardò. Lei sorrise e in quel
momento gli sembrò di vedere Anto in lei, in quel suo
sorriso felice.
«Ehi,
papà? Che c’è? Perché mi
guardi così?»
«No,
niente.»
«Ma sai che
abbiamo una nuova
professoressa? È giovane, l’età di
mamma. Quando ha letto il mio cognome,
Kaulitz, per poco sveniva! Ha iniziato a farmi domande su
domande… Ma
sei davvero la figlia di Bill?, Ma come sta?,
Quando
torneranno a suonare?, e io a
subire. Mi ha detto che era ed
è tutt’ora una vostra fan.»
«Che cosa
buffa. Però è bella,
no?», sorrise.
«Sì,
chi se lo sarebbe mai
immaginato», ridacchiò Georg. «La vita
è una sorpresa!»
«Ora
è meglio se andiamo però.»
Si alzarono tutti e uscirono dalla stanza, salutando Sharon.
«Ciao, buon
lavoro», li salutò
lei con la mano, sorridendo.
«Anche a te, e
mi raccomando
studia.»
«Sì,
non vi preoccupate.»
Ci aveva provato, a
stare un po’
sui libri, ma non c’era stato nulla da fare: non aveva
proprio voglia di
studiare. Così uscì e fece un giro per le enormi
sale della Universal,
salutando tutti quelli che incontrava. Ormai era di casa lì,
erano abituati a
vederla gironzolare da quelle parti. Si fermò alle
macchinette e rimase ad
osservare le varie bibite.
«Indecisa?»
Una voce maschile la
fece
voltare: si trovò accanto un ragazzo, occhi scuri profondi,
capelli neri e in
piedi sulla testa, un sorriso dolce sulle labbra. Era rimasta
completamente
senza parole, il suo cuore aveva iniziato a battere velocemente, e come
se
tutto questo non bastasse, si sentiva percossa dai brividi.
La cotta per Alex era
passata da
un pezzo, e si vedeva. In quel momento più che mai se ne
accorse, perché se
ancora avesse provato quell’affetto così grande
per lui, vedere quel ragazzo
non l’avrebbe nemmeno toccata un po’.
«Ahm…
eh… sì», balbettò
riprendendo il controllo. «Fai prima tu.» Si
spostò e lasciò fare al ragazzo,
che andò sicuro ai tasti della macchinetta.
Quel ragazzo le
ricordava
qualcuno, ma non sapeva chi fosse, né se lo aveva visto da
qualche altra parte.
In quel momento nella testa di Sharon c’era il nero
più assoluto, ma tanta
voglia di scoprire chi fosse il ragazzo misterioso. Aveva preso una
lattina di
Coca Cola.
Prevedibile,
pensò Sharon accennando un sorriso.
Dopo
quell’imbarazzo iniziale,
gli sorrise e prese lei da bere: una lattina di thè al
limone.
«Non…»
Sharon si guardò intorno e
si interruppe, il ragazzo non c’era più, sparito
nel nulla con la sua lattina
di Coca Cola. Eppure era lì fino a pochi secondi prima! Si
girò più volte,
cercandolo, ma non c’era nessuno nelle vicinanze.
Aveva una voglia
incontrollabile
di scoprire chi fosse, non sapeva nemmeno il suo nome. Sapeva solo che
aveva
una bella voce, calda e con una pronuncia dolce del tedesco, ma
ciò nonostante
stupenda. Fece un giro per la Universal,
correndo, cercando disperatamente quel ragazzo.
«Sharon, dove
corri?», le chiese
la segretaria, ormai sua amica, dietro il bancone
della reception, nella hall.
«Samantha,
forse tu mi puoi aiutare.» Le corse incontro e
appoggiò entrambe le mani al
bancone bianco, respirando velocemente. «Hai per caso visto
un ragazzo? Con i
capelli neri, occhi scuri; portava una maglietta nera e un paio di
jeans a vita
bassa. Non l’hai visto? Ti prego dimmi di
sì.»
Samantha
la guardò un attimo, mettendosi una mano sotto il mento,
cercando di ricordare.
Improvvisamente un sorriso balenò sul suo viso.
«Ma sì!
Certo! Ora ricordo! È appena salito di sopra.»
«Di
sopra? Sei sicura?»
«Sì,
doveva essere lui per forza. Aveva una lattina di Coca Cola in
mano?»
«Sì!
Dev’essere per forza lui! Grazie Samantha, ti
adoro!»
Corse
sulle scale, con la sua lattina di thè ancora chiusa in
mano.
«Prego!»
Ma lei era già andata.
Alla
fine della rampa guardò sia a destra che a sinistra del
corridoio, non vedendo
nessuno. Non rimase troppo a pensare dove andare, girò a
sinistra. Camminando
velocemente, sorpassando decine di porte di uffici da entrambi i lati,
sbirciava nelle stanze, ma senza vedere chi stava cercando. Ad ogni
passo si
demoralizzava, credeva di non vederlo mai più, di avere solo
un suo ricordo
sfuocato.
Improvvisamente,
vide un ragazzo uscire da una delle ultime porte del corridoio. Lo vide
di
spalle, perciò non era del tutto sicura che fosse lui, ma
aveva una maglietta
nera e dei jeans a vita bassa, perciò si mise a correre
più velocemente per
raggiungerlo.
«Ehi!»,
lo chiamò.
Il
ragazzo si girò e la guardò un po’
spaesato. Solo vedendolo in faccia, Sharon
si accorse che non era lui. Ci rimase veramente male, credeva di averlo
ritrovato, invece no.
«Sì?
Posso esserti utile?», le chiese. Anche la voce era
sensibilmente diversa, era
quasi acuta.
«No,
niente.»
Il
ragazzo fece spallucce e si girò.
«Anzi,
sì!», disse ancora Sharon. Il ragazzo si
rigirò, paziente. «Hai per caso visto
passare di qui un ragazzo?», gli chiese.
«No, mi
dispiace.»
«Ah, va
bè, fa niente.»
Sharon
si rigirò sconfitta, scendendo mogia le scale, lentamente.
Arrivata di sotto,
vide di sfuggita uscire un ragazzo molto simile a quello delle
macchinette
dalle porte vetrate. Il ragazzo si girò un attimo, prima di
salire in macchina,
e Sharon ebbe la possibilità di vederne il viso: era lui. Ma
ormai era troppo
tardi.
Chiuse
la portiera e l’auto partì, lasciandosi dietro
tutto il resto, compresa la
povera Sharon, che era rimasta a guardare la scena impietrita, vicina
alla
pianta dalle foglie smeraldine accanto al bancone della reception.
«Ehi
Sharon, l’hai trovato il ragazzo che cercavi?», le
chiese Samantha sporgendosi
sul bancone.
«No, è
andato via», disse Sharon decisa, quasi incazzata
perché l’aveva perso per un
soffio, andando spedita a riprendersi lo zaino per tornare a casa, dove
si
sarebbe messa a studiare, tanto per distrarsi. Chissà quando
l’avrebbe rivisto
e se l’avrebbe rivisto, soprattutto.
***
«Mamma,
allora me lo prendete il motorino?»
«Stefan,
ancora con sta storia? Ti abbiamo già detto che è
tutto da vedere.»
«Ma
mamma! Perché?»
«Perché
vedremo come andrà quest’anno: a scuola non sei
una meraviglia, è già tanto se
passi. Poi fai sempre quello che vuoi tu e quando vuoi tu. Non puoi
pretendere
di comportarti in questo modo e poi di ricevere pure qualcosa. Troppo
semplice.»
«Ma…
Papà, vero che tu sei dalla mia parte?»
«No,
tua madre ha ragione. Non venire a chiedermi niente.»
«Tu?
Almeno tu, Alex, sei con me?»
«Per
niente.»
«Uffa!
Ma ce l’avete tutti con me?! Sarah, piccolina, tu sei
d’accordo con me?»
«Mamma ha
detto di no, non si
discute.»
Adoravo quel diavoletto
biondo,
tanto desiderato sia da me che da Tom. Quando ci era stato detto che
era una
femmina avevamo fatto i salti di gioia, talmente eravamo contenti.
Eravamo
tutti a cena, io e Tom contro Stefan che voleva il motorino, Sarah era
sempre
attenta a tutto e suo fratello Alex era tranquillissimo e sembrava del
tutto
estraneo alla discussione. Anche Bill e Anto erano un po’ in
disparte, ma
Sharon totalmente, non stava nemmeno seguendo, pensava decisamente ai
fatti
suoi. Anche perché ormai con Stefan erano sempre gli stessi
discorsi, perciò la
solfa la sapeva già.
Sharon
infilzò con violenza un pezzo di carne, come se stesse
pugnalando qualcuno.
Era
passata una settimana. Una stramaledetta settimana e ancora non sapeva
chi
fosse. Aveva passato tutta la settimana facendo scuola-Universal-casa,
ma non
si era visto. Non sapeva nemmeno il suo nome! Per fortuna il giorno
dopo
sarebbe tornata a scuola; non era che l’adorava,
però almeno si distraeva.
C’era quello della 3° C che le andava
dietro… Ma non riusciva a non pensare al Ragazzo delle Macchinette,
non ci
riusciva.
«Sapete
che è arrivata una ragazza nuova da noi?
Dall’Universal in Italia. Collaborerà
un po’ con questa qui, in Germania», disse Bill,
cambiando discorso.
«Sul
serio? Forte. Ma è tanto giovane o… È
carina?»
«Mi
sembra abbia un figlio della tua età.»
«Ah.»
Stefan ci era rimasto un po’ male, ma si rallegrò
pensando alle vittime
del giorno.
Sharon
era ancora intenta a tagliuzzare la carne come un chirurgo in sala
operatoria,
non seguendo per niente quello che dicevamo, era come se non
esistessimo
proprio. Ma non avrebbe mai pensato che quella ragazza nuova, con il
figlio…
«Sharon,
ma che hai stasera? Sembri strana», disse Alex un
po’ per tutti, in quanto il
suo comportamento insolito non passava inosservato.
«Uhm?»,
disse Sharon nemmeno alzando lo sguardo dal piatto.
«Calma!
Non tutto questo entusiasmo, eh!», scherzò Stefan.
«Dimmi»,
disse ancora lei guardando Alex un po’ più
attenta.
«Beh,
c’è briciolo di entusiasmo in
più.»
«C’è
qualcosa che non va, Shary?», ripropose la domanda Alex.
«No,
niente.»
«Le
mummie sono più vivaci», disse Stefan tra
sé.
«Solo
che non ho fame, tutto qui», continuò Sharon.
«Ma non
hai mangiato niente», le disse Bill.
«Te
l’ho detto, non ho fame.»
«Ma…»
«Papà
smettila! Non. Ho. Fame. Punto. Non continuare ad insistere!»
Sharon si fermò
improvvisamente, rendendosi conto della scenata che aveva fatto per
nessun
motivo apparentemente logico. Scosse la testa e si alzò dal
tavolo, mormorando
un semplice: «Scusate.»
Corse
su in camera sua, senza guardarsi indietro sbatté la porta e
si chiuse dentro.
Si abbandonò al soffice materasso e chiuse gli occhi.
Ma che
aveva fatto di male per meritarsi tutto quello? Si era innamorata di un
ragazzo
di cui non sapeva nemmeno il nome, introvabile e irraggiungibile da
ogni punto
di vista. Quanto odiava essere innamorata.
Prima mio cugino Alex, ora
questo mezzo
sconosciuto! Non me ne va bene una, uffa! Si
agitò sul letto, prendendolo a calci e pugni a casaccio,
soffocando le grida di
rabbia nel cuscino.
«Allora
la situazione è davvero grave. Chiamate il
manicomio!», scherzò suo zio, Tom,
vedendola così sul letto.
Lei si
mise seduta di colpo, arrossì per aver dato spettacolo in un
suo momento no,
tenendosi ancora il cuscino stretto al petto.
«Sharon,
Sharon, Sharon», canticchiò avvicinandosi a lei e
sedendosi sul suo letto.
«Giuro,
avrei immaginato di tutto, ma non che tu venissi a consolarmi e a
chiedermi che
cosa non andava», disse Sharon con un sorrisetto sulle
labbra.
«Che
cosa?» Suo zio le fu addosso, facendole il solletico e
ridendo con lei. «Mi
dici che cosa c’è che non va?»,
ritornò serio, e seduto bene.
Sharon
guardò per la stanza, evitando gli occhi di Tom,
così identici a quelli di suo
padre, che riuscivano a farle dire ogni cosa, anche quella
più segreta e
nascosta nel suo cuore.
«Si
tratta di una mia amica», inventò una balla, una
balla costruita bene per
esporre il suo problema senza mettersi in mezzo. Almeno, lei pensava
che fosse
andata così.
«Non
sono mica nato ieri. Una
tua amica?»
Perfetto, l’aveva già scoperta.
«No,
ehm, sul serio! Si tratta di una mia amica!»
«Mmh,
va bene. Che ha fatto questa tua
amica
da farti preoccupare in questo modo?»
«Beh…»
Cosa doveva fare? Dirglielo o non dirglielo? Ma tanto sapeva che era
lei la sua
amica, che glielo diceva a fare?
Per
fare quattro chiacchiere?
«Stefan…
Stefan l’ha lasciata dopo nemmeno un’ora.
È distrutta poverina.» Che poteva
dirgli? Sapeva già che gliel’avrebbe fatta pagare.
«Che ha
fatto Stefan, scusa?»
Tom era
allibito, nemmeno lui faceva cose del genere. Le storie che aveva ai
tempi
duravano minimo una notte, non un’ora o due.
«Ehm…» Sharon strinse le spalle e
i denti, recitando veramente bene, facendo reggere la storia della sua amica.
Tom si
alzò e corse al piano di sotto, seguito dalla povera Sharon
che avrebbe dovuto
mettere a posto la camera di Stefan per almeno tre mesi, lo sapeva
già.
«Stefan!
In piedi, subito», disse in maniera pacata Tom, ma senza
nascondere la sua
faccia arrabbiata.
Stefan,
seduto comodamente sulla sedia girevole davanti al pc,
guardò il fratello, non capendo
l’atteggiamento del padre nei suoi confronti.
«Che
cosa hai combinato sta volta?», gli chiese il gemello
sconfitto, perché avrebbe
dovuto prendere le sue difese ancora una volta, magari condividendo
qualche
punizione, che subito dopo io avrei annullato, ma comunque sarebbe
dovuto
intervenire in favore del fratello, e di immischiarsi non ne aveva una
gran
voglia.
«Non ho
fatto niente!», si difese guardando Alex, sdraiato sul letto
con una cuffia sì
e una no.
«Ah
no?», disse Tom mettendosi le mani sui fianchi.
In quel
momento Stefan vide Sharon dietro di lui, che si stava già
scusando, unendo le
mani e parlando con gli occhi. Solo allora Stefan capì
tutto: era stato messo
in mezzo da lei. Già pensava a cosa farle fare per ottenere
il suo perdono.
Il
padre continuò inarrestabile: «E che mi dici di
quella povera ragazza che hai
scaricato dopo nemmeno un’ora? Eh? Non hai fatto nulla, vero?
Questo lo chiami nulla?»
Stefan
rimase senza parole: lui, che faceva una cosa del genere ad una
ragazza?
Inaudito. Pensò subito che Sharon non sapeva affatto
inventare balle e che
aveva poca fantasia. Menomale che non c’era nessuno dei suoi
compagni, se no il
suo buon nome si sarebbe infangato dopo la scoperta di un atto
così poco
cavalleresco, che di solito aveva col gentil sesso.
«Che
cosa ripugnante da dire… ma è la
verità. Sì, mi prendo le mie
responsabilità,
solo che l’avresti fatto pure tu, papà, se te la
fossi ritrovata davanti. Mi
vergognavo ad andare in giro con una così!»
«E
allora non la illudevi neppure! Dicevi che non volevi avere nulla a che
farci,
ma non che la fai contenta per pietà e dopo la scarichi,
così la fai stare
ancora più male!»
I
cosiddetti Consigli
da padre ex-playboy a
figlio giovane-playboy.
«Giusto
papà, hai perfettamente ragione.» Stefan
lanciò una berciata a Sharon, la quale
quasi si metteva in ginocchio per chiedere perdono. «Non
accadrà mai più.»
«Me lo
auguro.»
Dopo di
ché, Tom uscì dalla stanza dei gemelli e
tornò di sotto. Sharon era rimasta lì,
sulla porta, ferma immobile, attendendo una qualsiasi reazione del
gemello più
grande. Eccola: la prese per il braccio, la trascinò in
camera, chiuse la porta
e si piazzò davanti a lei.
«Mi hai
fatto fare una figura di merda con papà! Perché?
Perché l’hai fatto? Spero solo
che ci sia un motivo più che valido.»
«Beh…
Io… Scusa Stefan, non succederà
più.» Sharon uscì a testa bassa e
silenziosa
dalla stanza, profondamente dispiaciuta.
Alex,
l’unico che era rimasto zitto per tutto il tempo, si
rallegrò: «Non sono dovuto
intervenire per salvarti il culo, buon per me!» In cambio
ricevette dal gemello
un’occhiataccia. «Scusa. Sto zitto.»
La
mattina dopo, Sharon si svegliò presto, forse un
po’ troppo presto, e rimase a
crogiolare nel letto, aspettando il suono della sveglia.
Pensò molto al ragazzo
delle macchinette, cercando di capire perché gli ricordava
qualcuno. Sapeva di
averlo già visto, ma… dove? Bella domanda.
Allungò
la mano e spense la sveglia, ormai non c’era più
pericolo che ricascasse nel
mondo dei sogni. Si alzò e prese il cellulare,
guardò gli ultimi messaggi:
nulla di particolare. Lo rificcò nella borsa e
andò in bagno, dopo aver aperto
le tende per far entrare un po’ di luce. Si lavò
la faccia e si guardò allo
specchio, mentre si asciugava.
Forza, esistono milioni di
ragazzi al mondo,
non solo lui, si disse.
Sorrise
convinta e andò all’armadio. Tirò fuori
una maglietta lunga, come un
mini-vestito, con la gonna in fondo, di un bel verde. Si
infilò un paio di
pantacollant a jeans e un paio di scarpe bianche perfette, sembravano
nuove. Tornò
di nuovo in bagno, dove si fece una coda alta, lasciando giusto
scendere
qualche ciocca dei suoi capelli neri sulle spalle, e si
truccò: un po’ di
matita nera all’interno con delle sfumature
all’esterno e diversi tipi di
ombretto verde, sfumato dal chiaro allo scuro. Si mise un paio di
orecchini a
cuore d’argento e una collana lunga di perle annodata alla
fine.
Scese
di sotto ottimista, sorridendo e galoppando sulle scale, con lo zaino a
tracolla sulla spalla.
«Ciao a
tutti!», disse entrando in cucina.
Bill,
Tom e io, ci guardammo e poi guardammo Sharon. Rimasimo tutti e tre a
bocca
aperta. Io la guardai dall’alto verso il basso e viceversa,
rimanendo senza
fiato.
«Sha-Sharon?»,
balbettò Bill.
«Sì
papà, sono io. Ciao», sorrise e lo
baciò sulla guancia tenendogli il viso tra
le mani, le unghie lunghe e curate laccate di verde in tinta con la
maglietta.
«Credo
che stamattina esagererò: un bacio anche a me»,
disse Tom sorridendo a Sharon e
porgendole la guancia. Lei ricambiò radiosa e
stampò un bacio anche a suo zio.
Sarah
era ancora mezza addormentata e si stropicciava gli occhi,
però aveva mormorato
«Bella»
pure lei.
«‘Giorno»,
disse Anto entrando in cucina. Non notare l’abbigliamento di
Sharon era
impossibile: «Accidenti! Sembri uscita da una casa di moda,
tesoro. Stai
veramente bene», disse alla figlia, la quale la
ringraziò con un altro dei suoi
splendidi sorrisi, identici a quelli della madre.
«È la
tua copia. Cavolo se lo è», dissi io sorridendo e
scuotendo la testa,
riferendomi ad Anto.
«Ah
beh, sicuramente non ho preso da papà»,
scherzò Sharon baciando la madre che si
era avvicinata.
«Pensa
che da piccola eri identica a tuo papà, non sembravi nemmeno
mia figlia», disse
Anto sorridendo a Bill.
«Ma
Stefan e Alex? Ancora che se la dormono?»
«No, splendore,
siamo qui», dissero
simultaneamente i gemelli, sporgendosi sorridenti in cucina con la
testa.
«Splendore
a chi?», disse lei sorridendo
divertita prima di bere dalla sua tazza.
«A te, principessa.»
Bill e Anto
si guardarono e sorrisero: Bill chiamava sempre Anto principessa
da quando l’aveva conosciuta, e ora sentirlo dire a sua
figlia era bello.
«Pronti?»,
chiesi ai ragazzi e a Sharon.
«Perché?
Pronti
per cosa?»
«Vi
accompagna lei oggi», disse Tom. «Così
questo scricciolo è tutto mio!»,
accarezzò Sarah sulla testa, lei sorrise.
«Ah,
ok, io sì», rispose prendendo la sua borsa a
tracolla e mettendosela sulla
spalla. Anche i gemelli annuirono e poi si guardarono, pensando la
stessa
identica cosa.
«Ferma principessa,
non si stanchi a
camminare.» Stefan e Alex la presero, uno da una parte e
l’altro dall’altra, da
sotto le gambe e sulla schiena, lei che si teneva con le braccia
intorno alle
loro spalle.
«Siete
due dementi! Ecco cosa siete!», gridò anche se
divertita.
Uscirono
dalla cucina portandola in braccio, lasciandoci a guardarci sorridenti.
In
macchina, c’era uno strano silenzio. Al mio fianco avevo
Sharon, dietro c’erano
Stefan e Alex, che ascoltavano l’iPod con una cuffia a testa.
«Credete
di restare in silenzio ancora per molto? Di solito non fate che parlare
e
parlare, e parlare», dissi guardando la strada.
Sharon
mi guardò e sorrise, poi si rigirò verso il
finestrino. Mentre gli alberi, la
strada, sembravano spostarsi con noi, Sharon non poté non
pensare a quel ragazzo
misterioso.
Ma chi
era? Chi era per farla stare in quel modo? Non riusciva a capire. Ma
perché le
situazioni complicate le andava a cercare sempre lei?
«Mamma quanto
rompi quando ti ci
metti, Se non abbiamo nulla da dire che cosa ti diciamo?»,
disse Stefan, o
meglio borbottò.
Mi feci più
sulla destra e
inchiodai. Misi un braccio davanti a Sharon per sicurezza, le sorrisi e
le feci
l’occhiolino. Anche lei sorrise, mentre i gemelli si
riprendevano dallo
spavento.
«Ma dico, sei
impazzita?! Stavo
per andare a sbattere!», disse ancora Stefan menandola
più del previsto perché
in fondo non avevo fatto nemmeno tanto forte.
«Scendi»,
dissi guardando dietro,
il maggiore.
«Che
cosa?», chiese lui allibito.
«Ho detto che
devi scendere.» Ero
molto tranquilla, come se fosse normale.
«Davvero mi
lasci a piedi?» Stefan era ancora incredulo.
«Sì.
Ste, dai scendi.»
Prese lo zaino dal
tappetino e se
lo mise sulle gambe, guardò Alex sghignazzare al suo fianco,
trattenendosi a
stento.
«Me la
pagherai, fratello. Ricordati
queste parole.» Indicò i suoi occhi e poi quelli
del gemello, per due volte,
Alex che non la finiva più di ridere. Anche Sharon si
gustava divertita la
scena. Stefan stava per scendere quando invitai pure Alex a fare la
stessa
cosa.
«Cosa?! Io?!
Ma perché?! Io non
ho fatto nulla!», si difese Alex acuendo la voce in un modo
che mi ricordò
molto Bill quando strillava non sapendo cosa mettersi.
«Certo che voi
due, il sostegno
reciproco… eppure siete gemelli! Dai, fai compagnia a tuo
fratello, che poi si
sente solo.» Alex sbuffò e scese
dall’altra parte.
«Sei troppo
una grande mamma!»,
mi urlò Stefan prendendo per le spalle il gemello
contrariato.
«Sì,
sì, mi raccomando, dritti a
scuola!»
«Ok
mamma!»
«Alex, mi fido
di te. Mmh?»,
sorrisi e Alex chiuse la portiera, voglia zero.
Io e Sharon, le uniche
in
macchina, restammo in silenzio ancora per qualche minuto, dopo essere
ripartite. La guardai persa fuori dal finestrino, mi chiedevo davvero a
che
pensasse, visto che sembrava così assente.
«Ehm»,
mi schiarii la voce
ottenendo la sua attenzione e i suoi occhi verdi su di me.
«Tutto bene Sharon?»
Sfoderò uno
dei suoi più bei
sorrisi, uno di quelli che aveva acquisito dal padre: dolce e
innocente.
«Certo zia.
Come mai questa
domanda? So che sei sempre premurosa, ma… davvero, non ce
n’è bisogno, sto
bene.» Con quelle parole mi aveva spiazzata.
«Sembri
decisa.»
«Oh
sì. Bisogna
essere decisi nella vita, seguire i propri sogni senza mai
arrendersi. Parole
di…»
«Tuo padre.
Sì, lo so.» Risi
pensando a Bill che me lo ripeteva fino alla nausea quando ero piccola,
magari perché
c’era qualcosa che non andava e mi buttavo giù.
«Esattamente»,
disse Sharon
girandosi ancora verso il finestrino sorridendo.
«Tu come
interpreti questa
frase?», le chiesi.
Lei si girò e
aggrottò la fronte,
mi ricordò molto ancora una volta Bill. «In che
senso, scusa?»
«Nel
senso…»
Eravamo arrivate a
scuola, si
sentivano gli schiamazzi dei ragazzi nel grande cortile pure da dentro
la
macchina. Ci guardavamo in faccia girate con il busto sui sedili.
Appoggiai un
braccio allo schienale per essere più comoda.
«Nel senso che
bisogna essere
così determinati per tutto nella vita. Non solo per le cose,
come dire,
normali: lavoro, la scuola… anche nelle cose più
semplici. Non bisogna mai prendere
le cose con troppa superficialità. Mi segui?»
«Sì,
credo di sì.» Dalla faccia
non sembrava proprio convintissima.
«Sharon,
fidati di me. Pensa alle
cose che ti ho detto, okay?», le misi una mano sulla spalla e
lei la guardò,
poi mi guardò di nuovo in faccia e le regalai un sorriso
incoraggiante. «Ora
vai, dai. Buona giornata.»
Sharon sorrise e sperai
con tutto
il cuore che avesse capito il senso delle mie parole. Mi
stampò veloce un bacio
sulla guancia e prese il suo zaino dal tappetino.
«Va bene.
Grazie zia, ci vediamo
dopo.» Scese dalla macchina e la guardai raggiungere Stefan e
Alex, arrivati
anche loro.
«Ve la siete
fatta la
passeggiatina, ne?», scherzò Sharon stando in
mezzo i gemelli.
«Molto
divertente», replicò Alex
camminando molle sulle gambe.
«Piantala di
fare la scena, non
abbiamo camminato mica un chilometro e mezzo!», gli disse il
fratello appena
prima di salutare ammiccante un paio di ragazze appoggiate ad un
motorino rosa
e luccicante.
«Ciao
Stefan!», avevano squittito
maliziosamente tutte insieme, per poi rivolgersi sguardi fulminanti tra
loro.
Stefan rise piano e
tornò alla
semiconversazione con la cugina e il gemello. Notò che
Sharon lo stava
guardando sorridendo.
«Che
c’è?», le chiese.
«Nulla,
pensavo che sono
fortunata ad avere un cugino così carino. Quelle
lì per averti devono fare i
salti mortali, invece io ti posso coccolare quanto voglio!»,
si aggrappò al suo
braccio appoggiandocisi.
Alex guardò
la scena e rivolse
gli occhi al cielo, guardando dall’altra parte.
«E io come al
solito non esisto…
Chissà perché. Eppure sono uguale a lui, che ha
lui che io non ho?», borbottò.
Sharon prese
improvvisamente a
braccetto anche lui e lo baciò sulla guancia.
«Non volevo
escluderti, scusami
Alex. Tu sei il mio preferito, lo sai», gli
sussurrò all’orecchio, sempre più
rosso come il suo viso.
«Ehm, mamma
che ti ha detto? Ho
visto che ti parlava», cercò di deviare
l’argomento imbarazzo al più tardi
possibile.
«Sì,
ma non capireste», tagliò
corto Sharon, in quanto aveva visto Krista seduta sul muretto di fianco
ad uno
dei leoni ai lati della scalinata.
«Come? Cosa?
Sharon aspetta!»
Troppo tardi, era
già corsa
dall’amica. Stefan e Alex si guardarono e sorrisero,
scrollando le spalle.
«Ciao
Krista!», la salutò felice.
Dentro sentiva che la giornata sarebbe andata bene, bastava prenderla
con il
piede giusto e trarne solo gli aspetti positivi.
«Oh, ciao
Sha.» Le diede un pugno
contro il pugno, masticando la cicca.
Poteva essere una tipa
bizzarra,
ma era la sua migliore amica, e le voleva bene così
com’era, nulla di più e
nulla di meno, semplicemente se stessa. Aveva i capelli viola a ciocche
più
lunghe e più corte, una sfilza di piercing
sull’orecchio sinistro e uno sulla
lingua, e si vestiva quasi totalmente di nero, diversi polsini e
braccialetti
al polso.
«Come ti vanno
le cose?»
Poteva essere strana,
tutto
quello che volete, ma era davvero un’amica: se
c’era da ascoltare, da tirare su
di morale, lei era quella da cui andava sempre Sharon e sempre Krista
riusciva
nel suo intento, con la sua sincerità spiazzante e il suo
arrivare dritto al
punto.
«Ah, direi
bene.»
«Mmm, non me
la racconti giusta.
Con il tipo delle macchinette? Ancora nulla?», le sorrise
fraterna.
«No, non
l’ho più visto da quella
volta. Sparito nel nulla. Non so nemmeno come si chiama, fai un
po’ tu.» Sharon
sembrava davvero a terra in tema ragazzi.
«Dai, non ti
demoralizzare. Non
esiste solo lui, guardati intorno. Sei una ragazza stupenda, tutti ti
vorrebbero.»
Sharon la
guardò e sorrise
addolcita, inclinando la testa. «Sai sempre che dire, eh?
Grazie.» Batté un
pugno sulla mano e lo guardò, «Hai ragione, non
esiste solo lui. Non sa che si
perde. Non ci devo pensare.»
«Brava!
Così mi piaci!», la
incoraggiò ancora Krista agitando il pugno e facendo
tintinnare tutti i
braccialetti. Si guardarono e risero. «E poi oggi sei uno
schianto, amore! Chi
non ti sbaverebbe dietro? Uhm?»
«Nessuno!»
Lezione di autostima
parte uno.
Si guardarono ancora e
scappò
un’altra risata ad entrambe. Sharon sentì
improvvisamente una goccia sul naso.
Si asciugò e guardò prima la sua mano, poi il
cielo nuvoloso.
«Oh-oh»,
dissero assieme, poi
scapparono sotto il portico giusto in tempo, un pelo dopo e si
sarebbero
bagnate come più o meno tutti nel cortile, compresi Stefan e
Alex, il primo che
odiava l’acqua piovana classificandola una vera e propria
catastrofe per la sua
cresta appuntita sulla testa.
Anche durante
l’ultima ora la
pioggia non dava tregua. Non si vedeva un’acqua
così da un sacco di tempo, in
quelle condizioni sembrava il diluvio universale.
Si erano riunite la
prima e
inspiegabilmente la terza del corso B, proprio quello di Sharon, Krista
e Alex,
che si ritrovarono tutti e tre nell’aula magna a vedere un
film, le luci spente
e le tende alle finestre. I tuoni a volte rendevano più
interessante il film
che era davvero uno strazio: sembrava che l’unico interessato
fosse il prof,
seduto in prima fila dando le spalle alla classe.
Sharon si
sentì beccare in testa
da qualcosa. Si toccò la nuca e si girò dicendo:
«Ahio!», in labbiale.
Era Alex, seduto nelle
ultime
file, che al buio le indicava di guardare a terra. C’era una
pallina di carta. Ecco
svelato il mistero del colpo in testa.
Sharon si
chinò a raccoglierla e,
aprendo il foglietto, lesse ciò che c’era scritto:
Quando
la campanella ci salverà da questo
autolesionismo, vado a prendere Stefan e poi ci vediamo tutti fuori,
sotto il
portico, ok?
Sharon si
girò e guardò il
cugino, sorrise e annuì, poi però gli
sussurrò: «Potevi anche evitare, mi hai
fatto male!», si toccò la nuca e chiuse gli occhi.
Alex stava per
risponderle quando
il vecchio prof di storia disse, senza nemmeno girarsi sul suo posto,
di fare
silenzio. Su una cosa non c’erano dubbi: quel prof o aveva
l’udito molto
sviluppato oppure era un alieno, ipotesi non escludibile e forse
più probabile.
Sharon si
girò e vide l’amica al
suo fianco guardare ancora in direzione di Alex, completamente
incantata. Lei
sorrise e la scosse per il braccio, stoppandole, come in un film,
l’immaginazione.
«Perché
non glielo dici?», le
sussurrò avvicinandosi al suo orecchio. Ormai che lei avesse
una cotta per Alex
era nota a Sharon, lo capiva solo guardandola.
«Dire che
cosa?», si difese
Krista guardando verso il televisore, schivando il suo sguardo ed
evitando così
di arrossire, anche se sapeva che era già diventata rossa,
anzi viola, talmente
si sentiva la faccia pulsare e bruciare. Cercò di farsi
vento con la mano.
«Non fare la
finta tonta, guarda
che l’ho capito che ti piace Alex. Penso che dovresti
dirglielo.»
«Sharon, ho
paura!», le confessò
terrorizzata Krista.
«Tu? Paura? Fa
un po’ ridere,
sai?»
Krista la
fulminò con lo sguardo,
forse non lo trovava molto divertente.
«Scusa»,
disse subito seria
Sharon, stringendo i denti e rivolgendosi un attimo verso il
televisore. Tornò
a guardare l’amica.
«Ma di che hai
paura?», le
chiese.
«Beh,
lui… lui non ricambia i
miei sentimenti», disse amareggiata.
«Non
è detto.» Sharon si mise a
braccia incrociate appoggiate al tavolino, sorridendo davanti a
sé. Un barlume
di speranza si accese nel cuore di Krista.
«Davvero? Tu
credi?»
«Non
è detto che ti ama, però
nemmeno che non ti amerà mai. Vi conoscete da tanto ormai,
avete un buon
rapporto, Alex ti vuole bene, ma se tu non gli dici che cosa provi
davvero,
come fa a ricambiare?»
«Davvero?
Davvero Alex mi vuole
bene?» Aveva un sorriso a trentadue denti, gli occhi scuri
contornati da trucco
nero e pesante sgranati.
«Sì.»
«Evviva!»
Non si era nemmeno
accorta di avere alzato la voce e di aver gridato la sua gioia a tutti
quanti,
incluso il prof che per la prima volta si girò e la
mandò fuori. Ma lei era
troppo felice e uscì dall’aula saltellando.
Sharon era sotto al
portico,
mentre fuori diluviava ancora, che aspettava Stefan e Alex, da sola.
Pure
Krista l’aveva abbandonata, era venuto a prenderla suo padre
e lei doveva
rimanere lì inchiodata ad aspettare quei dementi che si
ritrovava per cugini.
In quegli istanti in cui
il
rumore della pioggia azzittiva tutto il resto, ebbe modo di pensare
alle mie
parole, di rifletterci, ma non trovava un vero senso. Lei lo sapeva
già in
fondo che nella vita bisognava essere determinati, in tutto, ma allora
perché
glielo avevo ripetuto? Questo non se lo spiegava.
Stufa di aspettare,
entrò di
nuovo a scuola e salì al piano superiore,
attraversò il corridoio largo e lungo
con ai lati file e file di armadietti, raggiunse l’aula di
Stefan e sbirciò
dentro: un gruppetto di oche starnazzanti che spettegolavano e
dall’altra parte
dell’aula Stefan, ovviamente, con Alex e un altro ragazzo che
sinceramente non
conosceva e poi era girato di spalle, perciò
l’impresa di riconoscimento era
ancora più complessa. Lasciò scorrere quel
particolare e chiamò i gemelli.
«Eccovi!
Allora vi muovete?»
I tre si girarono e
Sharon ebbe
un tuffo al cuore vedendo che il ragazzo sconosciuto era lo stesso di
quello
delle macchinette. Lo aveva trovato, finalmente! Si sentii esplodere di
gioia e
allo stesso tempo tremava.
«Ah
già! Mi ero dimenticato di
te, scusa! Arriviamo!» Alex prese per il braccio Stefan e lo
portò fuori,
accanto a lei.
«Ciao! Se vuoi
qualche sera ci
vediamo, ok?», aveva salutato il ragazzo Stefan, con un gesto
della mano e un
sorriso sulle labbra. Alex prese anche il braccio di Sharon e fecero
qualche
passo per il corridoio, allontanandosi dall’aula. Sharon non
faceva altro che
guardare indietro, per vedere ancora il ragazzo.
«Aspetta!»,
disse fermandosi e
tenendo con sé i gemelli.
«Che
c’è? Perché ti sei fermata?»,
le chiese Alex.
«Perché…
Stefan come si chiama
quello?», disse Sharon nascondendo nelle tasche dei jeans le
mani che non
volevano smettere di tremare.
Stefan la
guardò e capì tutto, un
ghigno accompagnò la sua risposta:
«Perché non glielo vai a chiedere tu?»
«Che cosa? Ma
che sei scemo?!
Dai, come si chiama?»
«Vaglielo a
chiedere.»
«Ti prego
Stefan! Ti supplico! Mi
vergogno», ammise infine.
«Ma di che
cosa? Dai, vai!» La
spinse di nuovo verso la classe.
Sharon si fece coraggio
e fece un
respiro profondo. Si mise meglio la maglietta sui fianchi e si
sistemò la borsa
a tracolla sulla spalla. Sulla soglia della porta si trovò
davanti al ragazzo.
Per un attimo i loro sguardi si incrociarono e lei non fu
più in grado di aprir
bocca, la voce l’aveva abbandonata, e oltretutto
diventò rossa.
«Ehi! Ma tu
sei…», la indicò il
ragazzo sorridendo sorpreso.
«Sì,
so cosa stai pensando: la
figlia di Bill Kaulitz, il cantante dei Tokio Hotel…
Sì, sì, sono io.» Era
abituata a quelle cose e perciò preveniva sempre tutti. Non
la prendevano quasi
mai, eccezione ad esempio era stata Krista, per ciò che era,
cioè Sharon, ma
per la figlia di uno dei TH. Non lo sopportava.
Si accorse
improvvisamente che
tutta la timidezza era sparita e aveva pure parlato. Si sorprese di
sé stessa.
«Ma no, non
intendevo quello! Sai
che me ne frega… Volevo dire che tu sei la ragazza delle
macchinette, alla
Universal! Scusa se sono scappato quella volta, ma dovevo proprio
andare.»
Sharon si
sentì morire di fronte
al suo sorriso e alla sua mano che si allungava verso la sua.
«Io sono
Derek, piacere.» Un
altro sorriso gli illuminò il viso e lei non poté
non diventare rossa ancora.
«Ahm…
io sono Sharon, piacere
mio», gli strinse la mano e sorrise a sua volta, mettendoci
tutta la sua buona
volontà per non perdere il controllo.
Il suo angelo custode la
salvò
appena in tempo: «Sharon, ora dobbiamo proprio andare. Ci
vediamo Derek!»
Stefan le prese la mano e la portò via, salvandola da un
altro imbarazzo. La
giornata stava andando alla grande.
Arrivata a casa, aveva
voglia di
urlare al mondo tutta la sua felicità per il Ritrovamento del Ragazzo delle Macchinette
Scomparso, o, più
semplicemente, Derek.
Che nome stupendo. Che
sorriso
stupendo. Che sguardo stupendo. Che voce stupenda. Era stupendo lui!
Ma visto che
c’era anche suo
padre quel pomeriggio, non voleva che incominciasse a fare le scenate
di
gelosia per la sua bambina
e che la
tempestasse di domande, manco fosse in un telefilm poliziesco e lui
fosse il
poliziotto cattivo.
«Ciao a tutti!
Siamo a casa!»,
urlò Sharon salendo sulle pattine con le scarpe bagnate, se
no sarebbe stata
sua madre a farle la scenata perché aveva portato acqua
dappertutto.
«Ciao
ragazzi», disse Tom
scendendo dalle scale e vedendoli più bagnati che asciutti.
«Come mai siete
così bagnati?», chiese aprendo il frigo.
«Papà,
hai notato che fuori
diluvia?», disse Stefan lasciandosi cadere su una sedia del
tavolo della
cucina.
«Ora che ci
penso… Eh già.» Rise
e guardò il figlio sistemarsi inutilmente i capelli.
«Che avete
fatto oggi?», chiese
guardando Alex.
«Il solito. E
in più ci siamo subiti
un film noiosissimo sulla conquista
dell’America. Però c’era anche la classe
di Sharon, allora ci siamo divertiti
un po’. Vero Sha?»
Lei entrò
tutta contenta in
cucina, canticchiando e muovendo la testa da una spalla
all’altra, saltellando.
Annuì, dopo di ché baciò suo zio sulla
guancia e prese un succo dal frigo.
«Ah, e Sharon
è uscita di testa»,
disse Stefan appoggiandosi con le braccia al tavolo, sorridendo.
Sharon lo
guardò e gli disse solo
con lo sguardo di stare zitto con qualsiasi parente di suo padre.
Stefan alzò
le mani e scosse la testa come per dire che non aveva colpe.
«È
successo qualcosa di bello,
Sharon?», le chiese suo zio. «Che ne so,
magari… un ragazzo…»
Sharon si stava per
strozzare con
il succo all’albicocca. Alex intervenne e le tirò
due pacche sulla schiena. Lei
era diventata a dir poco bordeaux, ma ci era quasi abituata, capitava
spesso in
quel periodo. Respirò velocemente, evitando di guardare Tom.
«Ma che dici,
papà. Se solo zio
venisse a scoprire che alla sua bambina
interessano i ragazzi, come per altro ad ogni ragazza della sua
età, non la
farebbe uscire per mesi di casa. Sai meglio di noi
com’è, no? È solo che ha
preso un bel voto nella verifica di matematica, non ci sperava proprio.
Non è
così Sharon?»
Lei ringraziò
il cielo per averle
dato un cugino furbo e intelligente come Alex.
«Sì,
proprio così.» Si era
salvata per il rotto della cuffia. Ringraziò il cugino con
uno sguardo. Lui
sorrise e guardò il padre.
«Non parlatemi
di matematica, che
oggi è stato un incubo!», disse Stefan mettendo la
testa sul tavolo. «Almeno
voi non avete fatto espressioni per due ore. Beati voi.»
Tom sorrise e
appoggiò il
bicchiere nel lavello. «Sì, ricordo che pure io
odiavo matematica.»
«Pure
io!», dissi alzando la mano
entrando in cucina.
«Ciao
piccola», Tom mi stampò un
bacio sulle labbra.
«Mi chiami
ancora piccola?
Non credi che non sia più il
caso? Non sono più piccola.»
Tom mi prese per i
fianchi e mi
avvicinò a lui, sorridendo. «Fa niente, le buone
abitudini non passano mai.» Un
altro bacio, ridendo.
«Che
carini», disse Sharon
sciogliendosi sulla sedia accanto a Stefan.
«Dici? Eh
sì. Sai come ho lottato
per tenermelo stretto?», dissi guardando Tom e sorridendo.
Solo allora Sharon
capì il senso
di ciò che le avevo detto quella mattina, in macchina. Si
alzò e corse fuori
dalla cucina, incontrando anche suo padre.
«Ma dove vai
così di fretta?», le
chiese Bill mentre la guardava prendere la cartella e salire di corsa
le scale.
«Ciao
papà», gli stampò veloce un
bacio sulla guancia tornando indietro, «Sono di
fretta.»
Ma dovette riscendere di
corsa
poco dopo, in quanto Krista era alla porta e stava suonando il
campanello.
Spostò di peso Stefan, che stava aprendo, e aprì
lei la porta. Doveva dire
subito di Derek a Krista.
«Ciao
Krista!», la salutò
saltandole quasi in braccio.
Non si era nemmeno
accorta che
fuori aveva smesso di piovere e tra le nuvole bianche spuntava un
timido sole.
«Ehi calmati
pazza! Cos’è tutto
questo entusiasmo? Che è successo?» La fece
entrare di corsa e la prese per le
spalle guardandosi bene intorno.
«L’ho
visto!», le gridò
sussurrando facendo i salti di gioia.
«Chi? Chi hai
visto?» Le fece
segno di abbassare la voce con la mano.
«Lui, il
ragazzo delle
macchinette! È in classe di Stefan, è un suo
amico!»
«Wow!
Magnifico! Hai ritrovato il
tuo principe azzurro caduto da cavallo! Complimenti!», la
abbracciò felice
saltando con lei.
«Ciao Krista,
qual buon vento?»,
disse Bill scendendo dalle scale con dei fogli sotto braccio. Krista
gli si
precipitò dinnanzi, abbracciandolo per il braccio.
«Salve»,
si sciolse, guardando
quegli occhi nocciola profondi che la mandavano in estasi. Sharon le
voleva
bene comunque, anche se aveva un debole per suo padre ed ogni volta che
c’era
lui diventava una caramellina.
«Beh, Krista?
Per cosa eri
venuta?», chiese Sharon.
Krista si
staccò dal braccio di
Bill e prese l’amica per le spalle, entusiasta.
«Indovina?!»
«Cosa?»,
chiese Sharon.
«Indovina!»
«Che cosa devo
indovinare?! Non
lo so! Dimmelo tu!»
«Sabato
suoniamo alla festa della
scuola!»
Assieme a Krista,
avevano creato
una specie di band, in cui Krista suonava la batteria. Sharon cantava,
assieme
ai gemelli che facevano i cori, e suonava il basso; invece i gemelli la
chitarra.
«Ah.
Fantastico.»
«Non sei
felice?! Ci esibiremo
davanti all’intera scuola!» Le prese
l’orecchio e le sussurrò: «Anche davanti
al tipo che ti piace. Come hai detto che si chiama? Derek? Ci
sarà anche lui.»
Sharon fece un salto con
il pugno
in aria: «Mettiamoci subito al lavoro! Abbiamo solo tre
giorni e ce la dobbiamo
fare!»
«Brava Sharon,
così di fa», disse
suo padre, che non si era perso nulla (a parte quello che Krista le
aveva sussurrato
all’orecchio, ovviamente), avvicinandosi alle due.
«Credo abbiate
molto da fare,
perciò… Krista, ti fermi a cena?» Lei
si aggrappò ancora al braccio di Bill.
«Sììììììì»,
disse reggendosi in
piedi per miracolo.
«Ok, va bene.
Dillo a tua madre
però.»
«Sììììììì»,
un altro sospiro
sorridente, incantato.
Tutto cambiò
appena vide Alex
uscire con il fratello dalla cucina. Si staccò dal braccio
di Bill e andò di
fianco all’amica.
«Oh, ciao
Krista. Quando sei
arrivata?», chiese Alex.
«Ahm…»
Sembrava che anche a lei
nei momenti di imbarazzo la voce la lasciasse; diventò
perfino rossa.
«Adesso,
è arrivata adesso.
Dobbiamo andare a provare, sabato dobbiamo suonare alla festa della
scuola,
sapete? E abbiamo solo tre giorni, dobbiamo dare il massimo,
ok?», disse Sharon
aiutando l’amica.
«Ok, va
bene», disse Stefan.
«Allora
andiamo di sopra, dai
Krista.» Alex le prese la mano e la portò di
sopra, anche se lei conosceva a
memoria quella casa. Si sentì bruciare la faccia ancora una
volta quando la sua
mano venne presa dal ragazzo. Sharon guardò suo padre e
alzò le spalle
sorridendo.
«Che ci vuoi
fare, è la mia
migliore amica.» Corse di sopra anche lei.
***
Il giorno della festa
era
agitatissima, tremava e lo stomaco le si contorceva. Si era vestita
anche per
l’occasione: un vestito lungo fino alle ginocchia rosa
shocking e nero, le
donava molto sul suo fisico snello e alto, e delle All Star nere. I
capelli
erano ricci sulle spalle e sugli occhi quel filo di matita nera che la
rendeva
più intrigante.
Rilassati Sharon, andrà tutto bene,
se lo ripeteva all’infinito.
Era accanto al palco, in
pratica
dietro le quinte, dove c’eravamo anche io, Tom, Sarah, Bill e
Anto, assieme a
Stefan, Alex e Krista, lei con le bacchette nere in mano.
«Ma Gustav e
Georg?», chiese Bill
guardandosi intorno.
«Non so,
dovrebbero arrivare a
momenti. Ah, eccoli là!»
Tom indicò le
macchine di Georg e
Gustav, da cui scesero assieme a mogli e figlie. Anne e Christin,
rispettivamente figlie di Gustav e Georg, avevano due e un anno in meno
di
Sharon, ma sembravano molto più grandi.
«Ciao, tutto
ok?»
Le due ragazzine
salutarono tutti
e poi guardarono la gente che c’era davanti al palco.
«C’è
proprio tutta la scuola,
ne?», sogghignò Christin.
«Piantala
Christin! Non vedi
com’è tesa Sharon? Smettila», disse Anne
incominciando una litigata con
Christin, come al solito.
Sarah saltellava tra le
due per
cercare di farle smettere, ma non aveva speranze, poverina. Per la sua
sanità
mentale, Tom la tirò via di lì e se la strinse al
petto protettivo.
Sharon non era impegnata
a
guardarle e nemmeno ad ascoltarle se era per quello, piuttosto cercava
Derek in
mezzo a tutta quella gente. La cosa la mandava fuori di testa. Se non
c’era,
allora tutti gli sforzi che aveva fatto per lo show sarebbero risultati
inutili.
«L’hai
trovato?», le chiese
all’improvviso Stefan, sussurrandole all’orecchio.
Lei si spaventò e si girò
verso di lui con le mani sopra i fianchi.
«Spaventata?
Scusa.» Stefan
ridacchiò e prese Sharon per le spalle. «Allora,
l’hai trovato il tuo Derek?»
«D-Derek? E
perché dovrei
trovarlo?»
«Così.
Dai, si vede che ti piace.
Ma vi conoscevate già?» Sharon sospirò
e spiegò tutta la storia al cugino,
facendo molte pause. «Ah, allora è andata
così. Ma lo sai che gli piaci?»
«Che
cosa?» Sharon era senza
parole, il cuore le batteva a mille.
«Proprio
così. Quando ha scoperto
che eri mia cugina non ci credeva, giuro. Non ti sto prendendo in giro.
Sharon,
adesso devi concentrarti solo a cantare e a suonare, tutto il resto non
conta,
capito?», le sorrise e la baciò sulla guancia.
«Sono contento che ti piaccia
Derek, è un bravo ragazzo, e poi lo posso sempre tenere
sotto controllo. Non gli
permetterei mai di fare del male alla mia cuginetta
preferita.»
«Grazie
Stefan. Allora, pronto?»
«Io
sì, ma c’è un certo gemello e
una certa batterista che… non credo, sai?», si
girò e gli indicò Krista e Alex
che si parlavano sottovoce, sorridendo, tenendosi le mani, isolati da
tutti gli
altri, appoggiati ad un albero, e ogni tanto si scambiavano teneri baci
sulle
labbra.
«Io lo sapevo
che quei due si
piacevano! Lo sapevo, lo sapevo!»
Anche io e Tom ci
eravamo accorti
di loro, ma non ci facevamo troppo caso.
«Ma quello
è Alex?», mi aveva
chiesto Tom.
«Sì,
perché?»
«Perché
non l’avevo mai visto
all’opera.»
«All’opera?
Ma Tom!»
«Che
c’è? Beh, comunque ti
assomiglia tanto.»
«Perché
fa il tenero? Anche tu
facevi il tenero a volte», gli accarezzai la guancia
sorridendo.
«Sì,
ma tu lo sei sempre stata. E
io il tenero lo faccio quando voglio, sai? Ti amo, sai anche
questo?»
«Sì»,
lo baciai sulle labbra.
Vidimo correrci accanto Sharon, per mano a Stefan, che andavano verso
Alex e
Krista.
«Ehi voi due!
Farete i
piccioncini dopo, ok? Ora dobbiamo andare», disse spiccio
Stefan, prendendoli e
trascinandoseli dietro.
«Siete
pronti?», chiese Bill
sorridendo.
«Certo!»,
disse Krista tirando
fuori le bacchette dalla tasca dietro dei suoi jeans scuri.
«Bene, date il
massimo! Mi
raccomando Sharon», la prese per le spalle e la
guardò negli occhi: «Fammi
divertire, ok?», le sorrise e la baciò sulla
guancia, sull’osso della
mandibola, proprio sotto l’orecchio. Sharon sorrise e si
infilò il basso al
collo.
«Farò
del mio meglio, dimmi buona
fortuna.»
«Ah, non ti
serve la fortuna per
fare bene.»
Sharon guardò
ancora il padre e
gli fece una linguaccia, poi salì sul palco, quando
già i gemelli e Krista
erano ai loro posti. Si scambiarono tutti uno sguardo e mentre i
ragazzi
incominciavano ad acclamarli, si accesero le luci sul palco.
Alex guardò
Krista e poi il
gemello, infine Sharon, tutti sorridevano contenti. Partì
con la prima canzone
Krista accompagnata da Stefan e la voce di Sharon.
Durante
quella canzone non aveva suonato il basso, aveva
solo cantato e mentre cantava guardava sorridendo Stefan, tenendo il
microfono
in due mani, muovendosi sul palco e incitando gli altri.
C’era molta complicità
tra tutti.
Alla terza canzone aveva
tirato
fuori tutto il suo spirito punk, imitando egregiamente la mitica Avril
Lavigne.
Quei tre brani erano
stati un
vero successo. Ci avevano messo l’anima e ne era valsa la
pena.
«Ehi! Non vi
sento molto, sapete?
Fate un po’ casino, dai!», sporse il microfono
verso il pubblico. Si espanse un
boato di urla. «Wow!» Sharon sorrise e prese una
bottiglietta d’acqua e bevve,
guardando Stefan.
«Forse dovrei
presentarvi i miei
compagni d’avventura, forse di sventura,
vedremo se sarete abbastanza cool!», disse guardando i
ragazzi. Sul palco sembrava
un’altra persona, ci sapeva fare.
«Incominciamo
da qui», andò
accanto a Stefan. «Alla prima chitarra, Stefan!»
Tutte le ragazze
presenti gli
fecero una vera e propria ovazione, gridando come matte.
«Grazie!»,
disse Stefan alzando
un braccio e salutando, facendo poi un piccolo inchino con la testa.
«Bene, poi
vediamo. Alla seconda
chitarra, Alex!» Anche per lui tutte le ragazze gridarono,
cosa che lo lasciò
abbastanza perplesso. «Non so che dire, grazie»,
disse intimidito, mentre
Krista gli lanciava sguardi di gelosia.
«Per ultima,
ma non meno
importante… Krista! Alla batteria!» Lei si
alzò in piedi con le bacchette nei
pugni.
«E poi
ovviamente ci sono io. Spero
che la serata continui così! Siete forti!»
Rimise il microfono
sull’asta e
scambiò qualche parola con Stefan, che annuiva.
Tornò con tre sgabelli, che
mise in mezzo al palco, davanti alla batteria. Sharon si mise seduta in
mezzo e
sorrise ai gemelli, con le chitarre acustiche in grembo, ai suoi
fianchi.
«Bene, la
prossima canzone è una
canzone particolare, ha un significato particolare più che
altro. È stata la colonna
sonora di un’intera vita di due miei cari, e
così… gliela vorrei dedicare.
Grazie.» Diede l’attacco e Stefan e Alex iniziarono
a suonare.
«Ma
questa…» Io e Tom ci guardammo
e ci abbracciammo, emozionati.
«La nostra
canzone Tom», dissi
con un filo di voce, gli occhi lucidi, il mento appoggiato alla sua
spalla.
«Sì,
la nostra canzone. Sembra
passato così tanto tempo.»
«Ma
è passato tanto tempo, siamo
noi che non siamo mai cambiati. Ne abbiamo passate tante, insieme, non
è vero?»
«Proprio
tante. E ne passeremo
ancora tante insieme?»
«Certo.»
«Mamma,
papà, anch’io voglio
abbracciarvi!»
Guardammo Sarah e ci
sorridemmo.
La sollevai e ci abbracciammo tutti e tre con in sottofondo la mia
canzone
preferita, quella che aveva accompagnato tutta la nostra vita assieme,
mia e di
Tom, come aveva detto bene Sharon.
Tornati sul palco per
cantare le
ultime canzoni dopo una breve pausa, ancora con l’adrenalina
in corpo, Sharon
andò dritta al microfono guardando a terra, sorridente.
Alzò lo sguardo e solo
allora si accorse che infondo al giardino, dove c’erano tutti
i motorini, c’era
Derek, che appena si accorse di lei corse e si fece spazio di tutti,
per
vederla dalla prima fila. Lui sorrise e lei ricambiò,
arrossendo leggermente
sulle guance.
Forse servivano anche un
po’ a
quello le canzoni: a esprimere i propri sentimenti. Cantando quelle
parole
dolci, di una canzone che aveva scritto lei, guardava intensamente
Derek, come
se gli stesse parlando, come se gli dicesse senza musica quelle parole.
E Derek
sorrideva, ricambiava i suoi sentimenti.
Finita la canzone,
Sharon,
Stefan, Alex e Krista si guardarono sorridendo, ridendo, da quanto
erano
felici. In più c’era da aggiungere per Sharon che
aveva trovato il suo
principe.
«Sharon, vuoi
stare con me?»,
urlò Derek diventando leggermente rosso sulle guance. Stefan
e Alex guardarono
la piccola Sharon a bocca aperta e sorrisero. Così Krista,
che si alzò e la
spinse giù dal palco, tra le sue braccia.
«Ehm…
ciao», lo salutò
sorridendo. Lui le sorrise e la baciò sulle labbra,
conquistando gli applausi
di tutti.
«Yuppie!»,
gridò Krista
raggiungendo Alex e stampandogli un bacio pure lei.
«Ma
cos’è tutto questo casino?»,
chiese Bill, poi sbirciò sul palco e ne rimase paralizzato.
La sua piccola
Sharon si stava baciando con un ragazzo. Stava per imperversare sul
momento
quando prima una mano, poi dieci lo presero e lo strattonarono via,
trattenendolo lì con la forza.
«Lasciala
vivere Bill», gli disse
Tom sorridendo.
Bill si
scrollò e si mise a
braccia incrociate. «Ma che succederà
se…»
«Bill,
pazienza! Si impara
sbagliando, no? Lasciala vivere, Tom ha ragione. E poi quel ragazzo lo
conosciamo!», dissi prendendo la mano di Tom nel frattempo.
«Ah
sì? E chi è?», chiese Bill
ancora non capendo.
«Sai quella
nuova, quella che è
venuta da voi dall’Italia? È suo
figlio!»
«O mamma, ma
è vero!», sbirciò
ancora sul palco.
«Quindi,
lasciala vivere,
poverina. Sei possessivo e geloso peggio di… non ce
n’è peggio di te!», dissi
ancora io in coro ad Anto, sorridendo.
«Ok, ok. Le
lascerò i propri
spazi d’ora in poi, va bene?»
«Perfetto!»,
dissimo tutti in
coro.
Derek la
aiutò a salire di nuovo
sul palco e le fece un sorriso. Le canzoni erano finite, ma Sharon
aveva ancora
voglia di cantare dalla gioia. Le venne un’idea.
Radunò Stefan e Alex alla
batteria, con Krista, e gli propose un ultimo pezzo. Tutti la trovarono
una
grande idea.
«Bene! Questa
è l’ultima canzone,
personalmente è una delle mie canzoni preferite. Spero
piaccia anche a voi!
Grazie! Grazie per essere stati con noi, davvero! È stato
bello! Grazie mille!»
Sharon si mise il basso
al collo
e il microfono sull’asta scura. «Vai Ste! Vai
Alex!», aveva gridato, dandogli
l’attacco, poi partì lei con il basso, dopo Krista
e infine ancora Sharon con
la voce. Inconfondibile quella melodia, quelle parole. I TH rimasero a
guardare
commossi, onorati ed orgogliosi i ragazzi che suonavano, cantavano,
davano
tutto con quella canzone: Wir
sterben
niemals aus.
E così, un giorno qualunque, di
un mese qualunque, di un anno
qualunque, divenne il giorno più importante della sua vita.
_____________________________________
Buongiorno a tutti! ^-^
Come state? Spero
bene!
Come vi è sembrato questo
capitolo? Si parla soprattutto di Sharon e del suo primo amore vero,
dopo la
mezza cotta di Alex xD
Spero vi sia piaciuto! *-*
Ringrazio niky94,
Tokietta86
(Qualcosa
con Sarah ci sarà, anzi è un personaggio
importante *-* ed è uno dei miei
preferiti! Metterò qualche flashback, non so quando
però sì xD) e Utopy
(Luv ya ©)che
hanno recensito lo
scorso capitolo; e tutte le persone che leggono soltanto :)
Grazie a tutti, alla
prossima! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 10 *** I want to fall in love! (Part I) ***
Capitolo 4
I want to fall in
love! (Part I)
Stefan guardò
Alex abbracciato a
Krista, ridere, scherzare e fare l’affettuoso con lei,
coccolarla e poi baciarla.
«Stefan? Ehi
Stefan?» Sharon gli
diede un colpo sul braccio per farlo rinvenire.
«Eh, che
c’è?», le chiese.
«Non lo so,
che c’hai tu! A che
stavi pensando?»
«A
niente.»
«Sei
sicuro?»
Evitò di
guardarla negli occhi,
non avrebbe resistito a confessarle tutto, anzi, sarebbe stata lei a
cavargli
le parole di bocca, senza che nemmeno lui se ne rendesse conto. Erano
molto
legati, quindi non riusciva nemmeno a mentirle. Bel problema. La
campanella lo
salvò.
«Beh, ne
parliamo a casa», disse
Sharon baciandolo sulla guancia, facendo crescere
dell’invidia in alcune
ragazze smorfiose che da sempre andavano dietro a Stefan, il ragazzo
forse più
bello della scuola, ma che lui non calcolava nemmeno.
Gli sarebbe piaciuto
innamorarsi
sul serio. Avrebbe voluto, ma poi si accorgeva che lui poteva avere
tutto
quello che voleva, che di ragazze ne poteva avere quante ne voleva,
allora non
si scomodava molto a cercare, era annoiato dalle stesse ragazze che
frequentava, perché erano così perennemente ai
suoi piedi che non c’era gusto.
Non aveva mai dovuto sudare per una ragazza, conquistarla per averla, a
lui era
sempre semplicemente bastato guardare il suo cellulare che conteneva
più o meno
tutti i numeri delle ragazze della sua scuola, e oltre, e chiamarne una
quando
aveva voglia o tempo libero. Era un passatempo, ecco. Non si era mai
innamorato
veramente. Vedendo suo fratello, però, così
felice, così preso da Krista,
veniva pure a lui la voglia di innamorarsi. Ma l’amore non si
cercava, lo
sapeva pure lui, l’amore ti doveva trovare e ti doveva
sconvolgere dentro, se
no non era amore vero. Lui voleva innamorarsi e non sapeva quando
sarebbe
successo, non riusciva a darsi pace.
Si mise seduto al suo
banco,
ultima fila accanto alla finestra, ben lontano dai professori. Nascose
la
faccia tra le braccia, in preda ad un momento di depressione.
Ma lo troverò mai io
l’amore?, si chiese.
Gli venne in mente suo
padre, in
una conversazione che avevano fatto un po’ di tempo prima:
«Tutti,
prima o poi, si innamorano. Almeno,
così la penso io. Ma è logico. L’amore
però è una cosa complicata: non va
cercato, ma va aspettato. Io non mi facevo molti problemi, mi godevo la
mia
vita, la mia fama. Fino a quando, quel bellissimo giorno, ho incontrato
la
donna della mia vita, tua madre. Lei sì che mi ha trovato e
mi ha rapito il
cuore. Ma tutto è successo per purissimo caso. Chiamala
fortuna, chiamalo
destino, chiamalo come vuoi, ma ho trovato la mia metà.
Vedrai, succederà anche
a te. Devi solo saper aspettare.»
Ok, ma forse lui non era così paziente.
«Allora
ragazzi, un po’
d’attenzione.»
Stefan alzò
la testa e si decise
ad ascoltare il professore tanto per distrarsi.
«Dovrete fare,
per la settimana
prossima, un lavoro a coppie.»
Si innalzarono diversi
cori, ma
tutti che confermavano quanto fosse… divertente
e… simpatico
fare un lavoro a coppie
durante il week end, rimanendo tappati in casa: ci sarebbe stato
più entusiasmo
in un cimitero.
Stefan era rimasto
indifferente,
avrebbe lasciato fare tutto al suo compagno o compagna che fosse.
Sì, perché
era ammirato anche dai ragazzi, che lo trattavano più o meno
come un re. Gli
unici maschi che lo prendevano sul serio come un ragazzo normale, con i
suoi
bei difetti, erano suo padre, che quando discutevano si sentiva pure
dall’altra
parte del mondo visto che avevano lo stesso identico carattere; suo
zio; e suo
fratello gemello Alex, con il quale aveva vissuto tutta la vita, che lo
conosceva meglio di chiunque altro e, cosa più importante,
lo prendeva così
com’era.
«Silenzio, per
favore. Dicevo.
Dovrete fare un lavoro a coppie su uno Stato, una Nazione alla quale
tenete
particolarmente, o che vi piace, vi interessa. Tutto chiaro? Qualche
domanda?
Nessuna, bene. Allora procediamo con l’estrazione delle
coppie.»
La mora tutta curve
davanti a lui
si girò e lo guardò ammiccante: «Spero
di capitare con te, tesoro.» Gli soffiò
un bacio e Stefan ripiombò con la testa fra le braccia. Lui
sperava di no,
perché con il cervello da gallina che si ritrovava, per non
prendere un altro
voto negativo, avrebbe dovuto sgobbare lui stesso.
Il professore
tirò fuori la busta
con i numerini che di solito si usava per le interrogazioni, ma che
andava
benissimo anche in quel caso. Si iniziarono a formare le coppie e
finalmente
toccò a Stefan.
«14,
Kaulitz.» Stefan si alzò in
piedi appena sentì chiamato il suo nome. Guardò
il professore estrarre un altro
numerino. «23, Stuart.»
Michelle Stuart, primo
banco,
prima della classe, odio istintivo verso gli sfrontati e i palloni
gonfiati e
un odio particolare verso Stefan Kaulitz. Non le aveva fatto nulla di
male in
fondo, a parte tormentarla sin dalle elementari appellandole nominativi
come Quattrocchi
oppure Secchiona.
Ma proprio con lei dovevo capitare? Pure
Stefan la odiava e non
poco, il motivo era semplicemente perché lei era forse
l’unica che gli
rispondeva sempre, in qualsiasi modo, e perché non gli
sbavava dietro come le
altre. Avrebbe preferito una gallina senza cervello, anche se si
sarebbe dovuto
ammazzare di lavoro, piuttosto che lavorare con quella. Non si potevano
vedere.
Michelle fece una
smorfia e roteò
gli occhi, pregando qualcuno lassù che quello fosse solo un
incubo. Anche
Stefan stava pregando in effetti. Ma, no, quella era la
realtà e avrebbe dovuto
lavorare con lei. L’unica consolazione era forse quella che
con lei avrebbe
preso di sicuro un bel voto, cosa che sarebbe giovata molto alla sua
situazione.
Al suono della
campanella, alla
fine delle lezioni, quando rimasero soli in classe, Stefan
andò da Michelle per
chiarire alcune cose. «Noi dobbiamo parlare», disse
duro appoggiando entrambe
le mani sul suo banco. Lei alzò lo sguardo e si
tirò su gli occhiali.
«Non ci sono
dubbi», disse lei in
un modo che veramente lo infastidì parecchio.
Cercò di farsi forza e di non
cedere, quindi fece un respiro profondo e continuò.
«Dobbiamo fare
questa cosa
assieme, no?»
«Sì.»
«Quindi, non
pretendere chissà
che cosa da me. Io mi limiterò a firmare infondo ai
fogli.»
«Non penso
proprio! Il lavoro, se
si chiama a
coppie, vuol dire che ci
devono lavorare due
persone, comprendi?
In poche parole, ci lavori anche tu, come me.»
«Te lo puoi
anche scordare! Io ho
ben altro da fare!»
«E io
no?» Michelle si alzò in
piedi di scatto e raccattò i due libri che aveva sul banco,
portandoseli al
petto.
«Tu, qualcosa
da fare? Cosa avrà
mai da fare una secchiona come te?»
«Qualcosa di
idealmente
costruttivo, non certo le cose che fai tu. Anche se parlare con te
è peggio che
parlare con un babbuino, loro sono più
intelligenti.»
«Certo.
Ascolta, carina,
questo era il primo punto. Secondo:
che Stato si fa? Tanto per sapere.»
«Inghilterra,
ovviamente, la mia
seconda patria.»
«Ma figurati.
Si farà l’Italia,
la mia di seconda patria.»
«L’Italia?
Ma tu sei tutto matto!
Si farà l’Inghilterra, punto.» Prese la
sua borsa e se la mise sulla spalla,
quasi con rabbia.
«No, sei matta
tu! Si farà l’Italia.»
«Inghilterra!»
«Italia!»
«Inghilterra!»
«Ok, testa o
croce?» Stefan prese
una moneta dalla tasca dei jeans.
«Niente di
meglio di una bella
dose di fortuna, eh? Testa.»
«Allora io
dico croce. Dovresti
ringraziarmi, ti ho fatto scegliere per prima.»
«Manco
morta!»
Stefan lanciò
la moneta e la
riprese in mano al volo, la mostrò a Michelle.
«Croce. Vedi? Con la gentilezza
si ottiene tutto.»
«Questo gioco
è basato totalmente
sulla fortuna, c’è un cinquanta percento di
possibilità per entrambe le facce
della moneta, quindi…»
«Quindi si fa
l’Italia, è
deciso.» Stefan fece per andare, ma Michelle lo prese per un
braccio.
«Fermo, dove
credi di andare?
Manca un punto su cui discutere, perché so già
che si discuterà.»
«Con te
è normale discutere.
Allora, qual è questo punto?»
«Quando ci
vediamo e dove?»
«Ahm…
dimmi tu un giorno, non ci
sono problemi.»
«Mercoledì.»
«Sicura? Non
hai qualche gara di
matematica, un raduno di cervelloni, una lettura della bibbia,
no?»
«No, simpaticone.
Ma quando crescerai?»
«No, sei tu
che sei infantile. Io
sono cresciuto da un pezzo.»
«Va bene,
l’importante è esserne
convinti. Allora mercoledì pomeriggio a casa mia?»
«A casa tua?!
Ma stai scherzando
vero? Non se ne parla! A casa mia.»
«No, non
ricominciamo a
discutere. Tu hai deciso lo Stato, adesso tu vieni a casa
mia.» Era testarda
come nessun’altra ragazza che conosceva.
«Vedo che non
ci capiamo proprio
noi due. Bene, ricorreremo ancora alla moneta.»
«Sì,
almeno forse ci liberiamo
della presenza dell’altro.»
«Era quello
che stavo pensando
io.»
«Sei capace
anche di pensare?
Wow, non lo sapevo!»
«Acida come
sempre, eh? Testa o
croce? Non so come mai, ma voglio farti decidere ancora a
te.»
«Grazie,
gentilissimo. Sempre
testa.»
«Ok, sempre
croce.» Lanciò ancora
la moneta e Michelle guardò nella sua mano, poi il suo
sorrisetto soddisfatto
sulle labbra.
«Come vedi, la
fortuna non mi
abbandona», disse Stefan, visto che era uscita di nuovo
croce.
«Sì,
certo», disse Michelle a
denti stretti.
«Bene, siamo
arrivati ad un
accordo, finalmente! Mercoledì pomeriggio a casa
mia», disse Stefan. «Mi dai il
tuo numero? Così se c’è qualche
problema ti chiamo.»
«Tu quali
problemi seri potresti
avere? Mah. Va bè, tieni.» Gli diede il numero e
Stefan le diede il suo, anche
se per puri fini scolastici, nulla più.
«Ok, fino a
mercoledì non ci
saranno più discussioni!», disse Stefan
abbandonandosi alla sedia.
«Sicuramente,
visto che discuto
solo con te quando si presenta l’occasione. Ciao.»
Michelle girò i tacchi e se
ne andò a passo sicuro, senza guardarsi mai indietro.
Quanto non la
sopportava. Stefan
si mise meglio lo zaino sulla spalla e uscì anche lui
dall’aula silenziosa,
raggiungendo Alex, Krista e Sharon fuori da scuola che aspettavano solo
lui.
Però non avrebbe detto niente, non gli andava proprio.
Pensarla lo rendeva
nervoso e incazzato con tutti, solo pensarla!
Durante tutto il
tragitto
scuola-casa era stato uno strazio: vedeva continuamente Alex e Krista
abbracciati
o che si tenevano per mano, che si parlavano a bassa voce e che
sorridevano
guardandosi negli occhi, proprio come due piccioncini. Non vedeva
l’ora di
tornare a casa e chiudersi in camera sua fino all’ora di
cena, anche se di
mangiare non ne aveva la minima voglia. Michelle gli aveva fatto
passare
l’appetito.
Michelle. Non poteva
farci
niente, continuava a pensarla, e più la pensava,
più si incazzava. Ma non
riusciva a non pensarla: lei, con quegli occhiali fini e di un fucsia
metallizzato; lei, con il suo modo di vestire un po’
stravagante, ma con un suo
stile; lei, con quei capelli castani sempre raccolti sulla nuca con un
mollettone; lei, con quegli occhi scuri che lo fissavano un
po’ infastiditi;
lei, con le sue battutine così irritanti sempre pronte; lei,
che riusciva
sempre a tenergli testa ed uscire sconfitta con stile; lei, che per
niente al
mondo si sarebbe messa con uno come lui. Stefan si sentiva strano,
sempre di
più. Evitò di pensarci ancora, e così
fu per la bellezza di dieci minuti in cui
aveva intrapreso un discorso dei loro con Alex.
«Stefan, ma
non lo capisci che la
scuola è importante?!»
Andavano avanti
così, botta e
risposta, da dieci minuti. Stefan gli avrebbe piazzato volentieri un
pugno sul
naso, ma non avrebbe potuto, quello era Alex, suo fratello gemello,
parte di
lui e della sua anima, forse quella più riflessiva ed
intelligente.
«Vedi di
impegnarti in questo
lavoro a coppie. Se prendi un’altra insufficienza chi la
sente mamma. Non
riusciresti più a recuperare le tue lacune.»
Lacune. Ma quando imparerà a parlare come
un ragazzo della sua età?
«A proposito,
con chi dovrai
lavorare?»
Lo sapeva che
gliel’avrebbe
chiesto. «Con una.»
«Cos’è,
non me lo vuoi dire?»
Fu Krista sta volta a
salvarlo.
«Alex, io devo girare di qui, ricordi? Ci sentiamo
dopo?»
Alex si girò
e guardò la sua
Krista. «Sì, certo! Ciao», la
baciò morbido sulle labbra e Stefan si sentì
ribollire il sangue nelle vene. Alex sì, lui no,
perché?
Krista sorrise e si
avviò verso
casa sua, separandosi dal gruppo. Alex parve essersi dimenticato del
lavoro a
coppie e di tutto il resto, ma in Stefan aveva fatto ritornare il
pensiero di
Michelle.
Ma dai Stefan,
cercò di ragionare. Non poteva essersi innamorato di
una così. Cioè, erano totalmente diversi, non
poteva essere. No, non poteva
essere. Ma
continuava a sentirsi
strano. Ci passò sopra un’altra volta.
Appena entrato in casa,
anche lì,
mi sentì ridere in cucina, poi la voce di suo padre
aggiungersi alla mia. Si
affacciò con gli altri alla cucina e vide me e Tom
abbracciati, che guardavamo
Sarah disegnare una delle sue opere d’arte pasticciate. Tutti
felici, tutti che
si amavano… non ne poteva più.
«Ciao!
Cucciolina, come stai?»,
chiese Alex entrando in cucina, mollando lo zaino sulla porta, come
poco dopo
fece Sharon, e catapultandosi da Sarah per baciarle a fronte.
«Sto bene, ho
solo un po’ di
tosse», sorrise.
«Mannaggia
questa tosse che non
va via!», le scompigliò i capelli.
«Allora,
com’è andata oggi?»,
chiese Tom.
«Una vera
merda», disse piano
Stefan lanciando lo zaino sul divano e poi lanciandosi lui. Si mise le
mani sul
viso e fece un respiro profondo.
«Perché,
cos’è successo?»,
chiesi.
«Ma niente, ha
la luna storta oggi,
tutto qui», intervenne Alex facendogli un grosso favore.
«Sicuro
Stefan?» Mi avvicinai al
divano e mi misi seduta accanto a lui. Gli spostai i capelli dalla
fronte e gli
accarezzai la guancia. «Sicuro che sia solo per
quello?», gli chiesi ancora
abbassando un po’ la voce.
«Sì
mamma, è che sono solo
stanco.»
«Stefan, non
mi convinci affatto.
Non ne vuoi parlare?»
«No mamma, non
mi va.»
«Guarda che
è meglio se ne parli
con qualcuno, sfogati dai.»
«No mamma, ho
detto di no. Basta,
lasciami in pace.» Si alzò bruscamente, prese lo
zaino e corse di sopra in
camera sua. Mi girai sul divano e guardai Tom.
«Cavolo quanto
ti assomiglia»,
dissi.
«Eh
già, identico», disse lui
annuendo. Chiusimo tutti gli occhi quando la porta della sua camera
venne
sbattuta forte.
«Sì,
proprio identico.»
Stefan lanciò
di nuovo lo zaino,
ma senza una traiettoria ben precisa, infatti finì contro il
cestino spargendo
tutte le cartacce a terra. Perfetto. Stefan non si pose nemmeno il
problema e
si tuffò sul suo letto. Avrebbe voluto dormire, per far
passare il tempo e far
sì che quella giornata di merda finisse, ma non aveva sonno,
quindi era
destinato ad aspettare l’alba del giorno seguente senza
trucchi.
Gli capitò di
pensare ancora a
Michelle, sentendosi ancora più strano. Che cavolo gli stava
succedendo? Prese
il suo cellulare per distrarsi, ma inconsciamente andò in
rubrica a cercare il
numero di Michelle. Rimase a fissarlo senza sapere che fare. Scosse la
testa
come per ripigliarsi, chiuse il cellulare e lo mise sul comodino. Si
sistemò
meglio sul letto e chiuse gli occhi al soffitto. Li riaprì
di colpo dopo aver
visto nella sua testa la figura di Michelle. Iniziava a preoccuparsi.
Si alzò
dal letto e fece un giro per stanza, scalciando via tutto quello che
trovava,
anche se era roba sua.
Basta, adesso basta Stefan. Ti stai
comportando come un bambino. Adesso
ti calmi, ti sdrai, ti ascolti la musica, ti rilassi, e non ci pensi
più, ok?
Ok.
Prese le grandi cuffie
di suo
fratello e si rituffò sul letto con una pila di cd in mano,
pronti per essere
ascoltati tutti, dal primo all’ultimo, senza interruzioni. Si
lasciò andare
alla musica e chiuse gli occhi, non sentendo altro che quella, non
pensando ad
altro che alle parole, cantandole a squarcia gola quando sapeva una
strofa per
intero. Purtroppo non andò tutto secondo i piani, visto che
piombò in camera
sua Sharon, che lo guardò con le mani ai fianchi.
«Che cosa
vuoi?», le chiese
annoiato, sapendo già in realtà cosa volesse
sapere e sentire da lui,
togliendosi le cuffie dalle orecchie e mettendosele intorno al collo.
«Che cosa
voglio? Lo sai
benissimo che cosa voglio. Ma che ti prende Stefan, è tutto
giorno che stai
così!»
«Sono stanco,
ho la luna storta…
Ti vanno bene come spiegazioni?»
«Vedi come
fai? No, non mi vanno
bene perché non è la verità. Stefan,
noi ci siamo sempre detti tutto, perché
ora…»
«Senti, ma non
hai altro da fare
tu che rompere a me? Che ne so, dov’è
Derek?»
«È
a casa malato, te l’ho detto
stamattina e oggi a scuola non c’era. Non te ne sei
accorto?»
«Va
bè, fa niente. Perché non lo
vai a trovare?»
«Perché
preferisco mille volte
stare con mio cugino che ha un problema e magari aiutarlo in qualche
modo, se
posso.»
«Evidentemente
non puoi, ok?
Adesso mi lasci in pace?»
Sharon lo
guardò e uscì dalla
camera sbattendo la porta. Stefan fece un altro respiro profondo e si
immerse
di nuovo nella musica, alzando anche un po’ il volume.
«Allora?»,
chiesi a Sharon appena
arrivò in salotto.
Alex era sdraiato sul
divano a
leggere, il cellulare sulla pancia, pronto a rispondere; Tom era sulla
poltrona
e io in piedi che vagavo preoccupata nel salotto, facendo avanti e
indietro.
«Allora che
cosa? Non vuole
parlarne neppure con me!», disse Sharon versandosi
dell’acqua in un bicchiere,
in cucina. Sbuffai e mi misi le mani sui fianchi.
«È
inutile, dovete lasciarlo
stare», disse Alex.
«Non ce la
faccio a vederlo
così», dissi mettendomi una mano sulla fronte.
«Ary non ti
preoccupare, adesso
ci vado a parlare io, ok? Ci provo.» Tom mi fece sedere al
suo posto e salì di
sopra.
Bussarono ancora alla
porta. E
adesso chi era che rompeva?
«Stefan, posso
entrare?» Tom aprì
la porta e lo guardò sdraiato sul letto.
«Ciao.» Dopo aver chiuso la porta, si
avvicinò al letto e si mise seduto di fronte a lui, sulla
sedia girevole.
«Allora? Che ti prende? Stai facendo preoccupare tua
madre.»
«Digli pure
che non ha nulla di
cui preoccuparsi.»
«Sarà
fatto. Ma voglio sapere lo
stesso che ti succede.»
«Senti
papà, per favore, voglio
stare da solo, non voglia di parlarne con nessuno. Quando
sarà il momento,
magari…»
«Io e te siamo
uguali. No, dico
sul serio. Me ne sto accorgendo adesso più che mai.
Anch’io ero intrattabile
quando c’era qualcosa che non andava.»
«Cos’è,
una specie di…
complimento?»
«Non so, se lo
vuoi prendere come
un complimento, fai pure, la cosa non mi importa. Quello che importa,
è che io
sbagliavo, e tu stai sbagliando. Io non ne parlavo mai con nessuno,
volevo
stare da solo, ma poi c’era sempre Bill che in qualche modo
mi faceva parlare,
sai com’è. Tu, stai facendo la stessa identica
cosa. Bisogna parlarne, sfogarsi
con qualcuno. Basta che tu lo faccia.»
«Non mi va di
sfogarmi e di
parlarne, sarebbe peggio. E comunque non penso che noi due siamo tanto
uguali.»
«Lo pensi
davvero? Perché?»
«Perché
tu hai sempre avuto
quello che volevi.»
«Non mi sembra
che per te la cosa
sia differente.»
«Invece
sì. Tu hai detto, un po’
di tempo fa, che l’amore non va cercato ma ti trova lui. Ok,
ma tu l’hai
trovato e non ne avevi realmente bisogno. Insomma, se tu non avessi
incontrato
mamma, quel giorno, non ti saresti fatto problemi, tutto sarebbe
continuato normalmente.»
«Quindi tu
stai dicendo che hai
bisogno di innamorarti?»
«No!
Io… non so nemmeno io quello
che sto dicendo. Lascia perdere tutto, fai finta che non ti abbia detto
nulla.»
Si girò sul fianco.
«No, aspetta
un secondo. Se io
non avessi incontrato tua madre, voi a quest’ora
può darsi che non c’eravate.
Non credi?»
«Intanto tu
hai avuto la fortuna
di incontrarla.»
«Sì,
sono stato molto fortunato,
lo ammetto.» Si alzò e andò verso la
porta. «Va bene Stefan, pensaci un po’ su,
poi mi spiegherai.» Tom uscì e si chiuse la porta
alle spalle, lasciandolo
finalmente solo.
«Allora,
allora?», dissi
alzandomi in piedi.
Tom sorrise e mi rimise
seduta:
«Stai tranquilla, è tutto a posto.»
«Davvero?»
«Sì,
è solo oggi che gli gira
così, non ha niente.»
«Speriamo.»
Il cellulare di Alex
suonò sul
suo stomaco. Era Stefan che gli aveva fatto uno squillo. Sorrise e si
alzò dal
divano. Salì di sopra ed entrò in camera.
«Stefan,
più o meno sono venuti
tutti a chiederti cosa non va», disse sedendosi sulla sedia
girevole di fronte
alla scrivania.
«Sì.
Tu non mi chiedi niente,
vero?»
«Niente. Ti
conosco.» Sorrise e
si girò un po’.
Adorava suo fratello
gemello in
queste situazioni, riusciva sempre a capirlo nel miglior modo
possibile. Non
gli chiedeva niente, sarebbe stato lui a parlare se avesse voluto, gli
offriva
solo la sua compagnia, il suo sostegno morale, anche stando in
silenzio, ma
stando vicino a lui. Questo era l’aspetto bello
dell’essere gemelli: capirsi
senza l’uso di parole, conoscersi così bene da
sapere ciò che pensa l’altro in
qualsiasi momento, solo con uno sguardo, tutto il sostegno e la fiducia
che si
davano e che avevano l’uno nell’altro.
«Grazie
Alex.»
«Di niente
fratello.»
***
Passarono i giorni e
mercoledì
arrivò presto. Non poteva non essere teso, nervoso. Aveva
pensato a lei per
tutti quei giorni, anche a scuola non faceva altro che guardarla,
provando
qualcosa che non aveva capito ancora che cos’era. Si
rifiutava di credere che
si fosse innamorato di una così, continuava a ripetersi che
non era affatto
possibile, che era una cosa contro ogni legge della natura. Comunque,
non
riusciva a levarsela dalla testa.
Fuori c’era un
bel sole caldo,
anche se ormai era pieno autunno. Stefan non faceva altro che andare
avanti e
indietro per la cucina. Non aveva preparato nulla per la ricerca, anche
se aveva
due italiane in casa, me e sua zia. Non aveva la più pallida
idea da dove
cominciare e poi non aveva avuto un solo istante libero tra lo studio
di
registrazione, le prove, i primi concerti che si
avvicinavano… Non si era dato
tregua, il tutto forse anche per non pensare a lei.
Non c’era
nessuno in casa quel
pomeriggio, lo trovò un bene, perché se ci fosse
stato qualcuno, a parte suo
fratello, avrebbero iniziato a fargli milioni e milioni di domande su
di lei, e
non sarebbe stato altrettanto un bene.
La casa era silenziosa e
luminosa
con i raggi del sole riflessi sul pavimento lucido. Stefan continuava a
guardare l’orologio ogni volta che poteva, non riusciva ad
aspettare; ne
sentiva stranamente la mancanza, cosa che lo aveva reso molto
più confuso e che
l’aveva fatto sentire molto più strano.
Sentì suonare il cellulare sul tavolo,
si girò e quasi ci si buttò sopra:
«Pronto!»
«Stefan! Che
urli, ti sei
rincretinito?»
«Ah,
papà, sei tu.»
«E chi volevi
che fossi, scusa?
Una ragazza?»
«Eh,
magari.»
«Cosa?»
«No, niente.
Che c’è?»
«Ho chiamato
solo per dirti che
Sharon mi ha detto di dirti che dopo avete le prove.»
«È
di nuovo senza soldi sul
cellulare, vero?»
«Indovinato.
In verità mi ha
detto anche di dirti se potevi farle la ricarica, già che
c’eri.»
«Sì,
certo. Sicuramente.»
«No, Stefan,
sul serio. Falle la
ricarica perché se no si arrabbia con me.»
«Papà,
hai paura di una ragazzina
di quindici anni?»
«Guarda che
quando si arrabbia
diventa il diavolo in persona! Dai, devo andare adesso. Mi raccomando,
eh.
Ciao, ci vediamo dopo.»
«Sì,
sì, ok, ciao.»
Stefan chiuse il
cellulare e lo
rimise sul tavolo, deluso. Sentì il rumore di un motorino
per strada. Si
affacciò alla finestra della cucina e la vide, in sella al
suo motorino rosa
pallido, con il casco sulla testa. Ecco un altro motivo per odiarla:
lei aveva
il motorino e lui no. Che nervoso.
La guardò
scendere dal motorino
con la sua borsa a tracolla già in spalla e levarsi il
casco. Stefan andò alla
porta e aspettò che suonasse al citofono per aprirle.
Michelle gli fece fuori i
timpani, visto che si era messo proprio vicino al citofono. Stefan si
tappò le
orecchie e si affrettò ad aprirle, poi aprì la
porta. La guardò camminare nel
vialetto guardandosi intorno.
«Ehi, credevo
ti fossi persa!»,
disse Stefan.
«È
praticamente impossibile
confondere casa tua.»
«E con questo
cosa vuoi dire?»,
la fece entrare.
«Che
è enorme! Non ho mai visto
una casa più grande di questa!» Si guardava
intorno davvero meravigliata.
«Sì,
forse. Ma ti faccio presente
che ci abitiamo in otto.»
«Otto?»
Stefan si
girò e la guardò
sgranando gli occhi, questa volta era lui quello sorpreso. Possibile
che non lo
sapesse? Era l’unica in tutta la scuola?
«Sì,
beh… Io, mamma, papà, mio
fratello, mia sorella, mio zio, mia zia e mia cugina.»
«Ah, non
sapevo vivessi con tutta
questa gente.» Parlare con una che non conoscesse la sua
famiglia, tra cui Bill
e Tom Kaulitz dei Tokio Hotel, gli sembrava davvero strano, insolito.
Lei era
davvero l’unica che non lo sapeva.
Michelle si
avvicinò ad una teca
e guardò alcuni dei numerosissimi premi che avevano ricevuto
i TH nella loro
carriera musicale, ancora attiva per giunta.
«Ma…
tuo padre…»
«Tom Kaulitz,
proprio lui,
chitarrista dei Tokio Hotel.» Parlare con lei le sembrava
pure piacevole se
mettevano da parte la rivalità e l’odio reciproco.
«Wow.
Com’è che io non lo
sapevo?»
«Beh, allora
non sei poi così
secchiona se non lo sapevi. Prendilo pure come un
complimento.»
«Quindi abiti
con tuo zio che è…
Bill Kaulitz?»
«Sì,
il cantante bla, bla, bla…
quella storia lì, insomma.»
«Ah.
Dev’essere bello avere dei
parenti così famosi.» Lo raggiunse in cucina e lo
guardò versare del succo
d’albicocca in due bicchieri.
«Non
è che poi cambi tanto. Mio
padre mi tratta come tutti i padri del mondo, non mi vuole nemmeno
comprare il
motorino, pensa un po’ te!» Michelle prese il
bicchiere offertogli da Stefan e
rise.
«Davvero?»,
gli chiese divertita.
«Sì,
giuro, non sto scherzando!
Ma mi farò rifare: ai diciott’anni pretendo la
macchina.» Si guardarono negli
occhi e scoppiarono a ridere tutti e due.
Michelle
guardò di lato e poi
bevve dal suo bicchiere. Stefan non riusciva a fare altro che
guardarla, era
come incantato su di lei.
«Stefan? Oh?
Allora, vai a
prendere la roba che iniziamo a fare questo lavoro?»
Stefan si riprese e
annuì. «Sì,
un attimo, che è di sopra.» Stefan corse in camera
sua, a prendere cosa poi?
Non aveva fatto niente! Prese un paio di quaderni a caso,
l’astuccio e corse di
nuovo giù.
«Eccomi,
scusa.» Michelle era già
seduta al tavolo.
«Tu che chiedi
scusa a me?»,
disse lei indicandosi con il dito.
«Sì,
io di solito non faccio
aspettare le ragazze, sono un cavaliere.»
Michelle sorrise e
abbassò la
testa per non farsi vedere. Stefan si mise seduto di fronte a lei,
appoggiando
la roba su tavolo. La guardò scrivere su un quaderno, con la
sua calligrafia
pulita e lineare. Come faceva a dirglielo?
«Ehm…
Michelle…»
«Mmh?»,
lei alzò la testa e poi
si accorse che quella era la prima volta che l’aveva chiamata
per nome e non
con uno di quegli appellativi antipatici. «Mi… mi
hai chiamata per nome…»
«Sì,
Michelle, vero?»
Lei annuì
diventando leggermente
più rossa sulle guance. Stefan lo notò e sorrise
appiattendosi i capelli sulla
testa, visto che quel giorno non era riuscito per ragioni di tempo e di
nervosismo a farsi una cresta decente.
«Beh
io… devo confessarti una
cosa», disse Stefan.
«Scommetto che
non hai fatto un
bel tubo per oggi, vero?», disse lei, molto più
seria. Si sarebbe messa male,
se lo sentiva: avrebbero iniziato a discutere come sempre. Era un
peccato
perché stava andando così bene!
«Sì,
esatto.»
«Ecco, io lo
sapevo!», sbatté le
mani sul tavolo della cucina. «Tocca fare tutto a me, come
sempre! Ma no, non te
la caverai così, perché io… sai che
faccio? Lo dirò al professore e mostrerò il
mio lavoro, dicendo che l’ho fatto da sola. Così
io ci guadagno, tu… non
proprio.»
«No, non puoi
farlo!»
«Oh
sì che posso!»
«Invece no!
Perché non sono io
che non ho voluto farlo, ma è che non ho avuto
tempo!»
«Sì,
certo, dicono tutti così.»
Si alzò e prese tutti i suoi libri e li rificcò
nella borsa, il viso serio.
Stefan si passò una mano sulla fronte e si spostò
i capelli.
«Ok, facciamo
così. Tu dammi
un’altra possibilità, solo una, e farò
la mia parte, promesso.» Stefan si alzò
e si mise una mano sul cuore: «Parola mia, o se no non mi
chiamo più Kaulitz.»
Michelle lo
guardò pensandoci su,
un po’ incerta. «Dimmi solo sì o no: mi
devo fidare?»
«Sì.»
Michelle lo
guardò ed accennò un
sorriso: «Ok, mi fido. Ma iniziamo subito.»
«Perfetto!
Allora forza, internet
ci aspetta!» Stefan le prese il braccio e la
trascinò di sopra, in camera sua,
di fronte al computer. «Allora… Italia. Ecco qua!
Grande penisola… Perfetto,
no?», disse Stefan guardando Michelle accanto a
sé.
«Sì,
inizia a scaricare, va’.»
«Agli
ordini.» Mentre lui
scaricava roba su roba, Michelle si guardò attorno e
notò due chitarre,
appoggiate alla parete.
«Ma…
la storia che dicevi che non
hai avuto tempo, è vera?»
«Verissima.
Siamo stati tutto il
tempo in studio di registrazione e a suonare e quindi non ho proprio
avuto
tempo, nemmeno di scaricare due robe, fai un po’
tu.»
«Ah, quindi
non stavi mentendo.»
«No,
perché avrei dovuto?» Si
guardarono negli occhi e ancora Michelle guardò
qualcos’altro per la stanza;
ritornò alle chitarre. «Suoni la
chitarra?»
«Sì,
anche Alex.»
«Mmh. Vi ha
insegnato vostro
padre?»
«Sì,
dobbiamo tutto a lui. Tra un
po’ faremo anche dei concerti, beh, una specie: apriremo i
loro. Chi se lo
aspettava: fino a poco tempo fa eravamo dei ragazzi normali, ora si
stanno
aprendo di fronte a noi delle porte che non immaginavamo neanche.
Sharon, mia
cugina, non voleva nemmeno diventare una musicista! E nemmeno io e mio
fratello
a dirla tutta. Eppure siamo stati travolti da questa passione
e… ti sto
annoiando, scusa.»
«No, no,
anzi!», sorrise. «Mi
interessa molto! Avete un nome?»
«Un nome?
Avevamo mezza idea di
chiamarci Devilish,
come il nome
all’inizio dei Tokio Hotel, sarebbe l’opzione
migliore perché noi siamo i loro
successori. E siamo, Sharon, mia cugina, Alex, mio fratello, Krista, la
migliore amica di Sharon nonché ragazza di Alex, e
io.»
«E tu sei
solo?»
«Sì,
non ho ancora trovato il
grande amore.» I loro sguardi si incontrarono di nuovo e sta
volta Michelle non
poté sfuggire all’azzurro dei suoi occhi.
«Da chi li hai
presi gli occhi?»,
chiese lei cercando di sorridere.
«Da mia
mamma.» Stefan si girò
verso il computer e poi guardò di nuovo Michelle.
«Lei è Italiana, di Milano;
come mia zia. Invece, suppongo che sia tuo papà originario
dell’Inghilterra.»
«Sì,
mio papà.»
Stefan annuì
e guardò ancora il
monitor. «Idea! Sai che cosa potremmo fare?», disse
a Michelle, così forte da
farle prendere quasi uno spavento.
«No, che
cosa?»
«Potemmo
cercare di trovare
qualcosa in comune tra l’Italia e l’Inghilterra,
così parliamo sia dell’una che
dell’altra, così siamo d’accordo tutti e
due. Che te ne pare?»
«Ahm…
sì, bell’idea. Davvero
bella.»
«Ok, inizio a
cercare.» Stefan si
mise mani alla tastiera e ogni tanto usava il mouse, tutto concentrato
e preso
dall’argomento. Michelle lo guardò di profilo e
sorrise, era proprio bello e
simpatico ora che lo conosceva meglio, riuscivano persino a parlare
senza
discutere ogni tre secondi come accadeva di solito a scuola.
«Sai Stefan,
non credevo tu fossi
così», disse.
Stefan la
guardò e sorrise, uno
di quei sorrisi che mandavano in estasi milioni di ragazze in un colpo
solo,
compresa Michelle, che però si era sempre dimostrata
distante e insofferente
verso di lui, tanto da far sembrare che lo odiasse. Ma in
realtà, faceva così
solo perché le piaceva e credeva che mai uno come lui desse
retta a una come
lei.
«Beh, prima di
giudicare le
persone bisogna conoscerle, no?»
Rimasero in silenzio a
guardarsi
negli occhi. Il cuore di Stefan batteva a mille e non sapeva bene che
fare, ma
poi si decise e avvicinò la mano al viso di lei, le
accarezzò la guancia e i
capelli, si avvicinò con le labbra alle sue e dopo un
po’ di esitazione le
baciò. Sentì un misto di sentimenti dentro di
lui, molto confusi, ma, proprio
quella confusione, la trovò un’esperienza
fantastica. Non si era mai sentito
confuso o insicuro con una ragazza, era la prima volta in assoluto.
Aveva un
buon profumo e le sue labbra erano morbide e dolci, e Stefan si
sentì felice
come mai. Su quello era sicuro: era felice.
Michelle gli mise le
mani sul
petto e si scostò. Lo guardò negli occhi ad una
distanza ravvicinata e poi si
alzò di scatto dalla sedia, prese la borsa e uscì
di corsa dalla stanza. Stefan
la rincorse giù per le scale.
«Michelle!
Michelle dove vai?»
Era già sulla porta quando le prese il braccio e le fece
guardare i suoi occhi.
«Senti Stefan,
io…»
«Tu?»
«È
meglio se continuiamo il
lavoro ognuno per conto suo, mi sembra la soluzione migliore. Poi
uniremo le
due ricerche e sarà fatta, ok? Adesso devo
andare.»
Stefan le
lasciò il braccio e lei
corse fuori, salì in sella al suo motorino, si
infilò il casco e sparì alla sua
vista. Stefan chiuse la porta e si lasciò cadere a terra,
steso, non gli
importava se il pavimento era freddo, non gli importava niente, si
sentiva uno
schifo. Era anche la prima volta che una ragazza scappava
così da lui. Ci
sarebbe stato da sudare questa volta, lo sapeva, ma avrebbe sudato per
una
giusta causa, ne sarebbe stato soddisfatto alla fine, ne era convinto.
«Anfetamine, tanta pazienza, tanta forza di
volontà: queste sono le tre
cose fondamentali per conquistare una donna complicata.»
Ma chi l’aveva
detta quella cazzata? Avevano dimenticato forse la cosa più
importante:
l’amore.
«Per amore si fa di tutto.»
Quella se la ricordava, era di suo
padre. E pensava che fosse la frase più giusta al mondo.
_________________________________________
Buongiorno
a tutti! ^-^ Come state?
Non ho molto da dire, spero che questo capitolo ( la prima
parte di questo capitolo) vi sia piaciuto!
Ringraziamenti:
Tokietta86:
Sono
contenta che ti piaccia Sharon, è il misto perfetto fra Bill
e Anto. Sì, il
mondo è piccolo xD Stefan è la copia di Tom! XD
Sono contenta che ti faccia
ridere, anche a me fa sempre divertire e adesso, in preda ad una strana
“voglia”,
quella d’innamorarsi, ne fa delle belle xD Alex invece
è molto più simile ad
Ary, ma c’è del Tom anche il lui! Grazie mille per
la recensione, alla
prossima! Bacio.
Utopy:
Ahhhmmm
okay xD Ti sei innamorata di Aleeeex! *-* Che cariniii. Comunque, NO
-.- Ary e
Tom insieme for ever u.u
Ti voglio tantissimo bene Mond! *-* <33
Ringrazio
anche chi ha solo letto!
Al prossimo capitolo, vostra
_Pulse_
|
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Capitolo 11 *** I want to fall in love! (Parte II) ***
Capitolo 4
I
want to fall in
love! (Parte II)
Nel compito ci mise
l’anima,
rapendomi anche da lavoro per completarlo il prima possibile,
utilizzando anche
le pause che avevano in studio di registrazione scavallando Samantha
dalla sua
postazione alla reception per cercare su internet. Non si era fermato
un attimo
e quando ebbe finito era distrutto, ma felice e soddisfatto.
«Ho
finitooooooooooooooooooo!»,
sentimmo gridare dal piano di sopra.
«Ste ha finito
di fare
l’idiota?», mi chiese Tom.
«Ma
smettila», gli tirai un colpo
sul braccio.
«Ma
scherzavo!»
Alex che ci guardava
sorridente
dall’altra parte del divano. Trovava più
interessanti i nostri battibecchi da
bambini che la televisione. Sentimmo Stefan correre giù per
le scale e saltare
gli ultimi quattro gradini.
«Mamma ho
finito! Guarda,
guarda!» Mi piazzò sulle gambe una ventina di fogli
stampati a computer, ordinati
e con le parole più importanti in grassetto.
C’erano molte immagini e persino
delle mie citazioni.
«Che te ne
pare?», mi chiese
speranzoso.
Io lo abbracciai e lo
strinsi
forte a me. «Hai fatto un ottimo lavoro,
complimenti.»
«Grazie mamma!
Ti voglio bene.»
«Anch’io.»
«Anche a me mi
vuoi bene?», gli chiese
Sarah con il faccino da angelo.
«Sì,
a te più di tutti», le fece
l’occhiolino e Sarah batté le mani contenta.
All’ora di
cena Stefan scese in
cucina con un dubbio. «Mamma?»
«Dimmi, sono
qui.» Si avvicinò e
si mise seduto sul ripiano della cucina, accanto a me che stavo
preparando da
mangiare.
«Posso
chiederti una cosa?»
«Certo.»
«Ok.
Com’è che… si fa a capire
quando si è innamorati?»
«Basta
guardare tuo fratello, è
innamorato cotto lui.» Ci girammo verso la porta della
cucina, che dava sul
salotto, e vidimo Alex andare in giro appunto per il salotto con il
cellulare
all’orecchio, che parlava amorevolmente con Krista. Stefan mi
guardò e mi
sorrise.
«Beh, come fai
a capire quando
sei innamorato? Lo senti dentro. Ti dirò, è un
sentimento molto complicato
quello dell’amore. Ancora oggi mi chiedo: chissà
come mai io mi sono innamorata
di uno come Tom? Oppure, perché lui si è
innamorato di una come me? Poteva
avere tutte le ragazze del mondo e invece proprio me. Ancora ci penso e
mi
viene da ridere.»
«Da
ridere?»
«Sì,
perché non riesco a darmi
una risposta! L’amore è così, ti
colpisce e basta.»
«Ok, grazie
della spiegazione
mamma. Ti voglio bene!»
Scese dal ripiano e
corse in
salotto, diede una spinta ridendo a suo fratello, beccandosi pure un
insulto,
ma non ci pensò, continuò a correre e a ridere,
stranamente felice. Andò nello
studio, dove trovò suo padre intento a suonare qualcosa alla
chitarra. Bussò
alla porta anche se ormai era già entrato.
«Posso?»
Tom alzò la
testa dalla sua amata
chitarra e sorrise al figlio. «Sì,
ormai…»
«Papà
posso chiederti una cosa
seria?»
«No, se
è seria no. Ma certo!
Dai, spara figlio.»
Stefan si mise seduto
sul tavolo
e guardò il padre con la chitarra ancora in braccio.
«Come si fa a
capire quando si è
innamorati?», chiese, più sciolto di prima. Tom lo
guardò per diversi secondi
in silenzio.
«Non pensavo
fossi capace di fare
domande così serie! Mi metti in serie
difficoltà!», disse scherzosamente Tom, alzandosi
per mettere via la chitarra.
«No
papà, sul serio, mi devi
rispondere.»
«Ok, vediamo,
come posso
spiegarti… Io ho capito di essermi innamorato di tua madre
perché ogni volta
che la vedevo mi batteva in un modo assurdo il cuore nel petto, ti
giuro,
faceva quello che voleva! Poi ogni volta che partivo mi mancava, la
pensavo
sempre… Non avevo occhi che per lei. Quando stavo con lei,
quando magari
tornavo per un po’, non volevo mai che il tempo passasse, non
volevo partire di
nuovo per non vederla per mesi… Insomma Stefan, cose
così! Poi, quando si è
innamorati lo si sente», gli toccò il petto con un
dito. «E lo si sente forte
qui.» Si guardarono negli occhi e sorrisero.
«Hai gli occhi
identici a quelli
di tua madre», disse Tom, accarezzandogli la guancia.
«Ahm…
si, ma non è che mi baci
adesso, vero?»
«Ma stai
scherzando?!», gli tirò
uno schiaffettino sulla guancia, ridendo. «Adesso mi hai
fatto venire la voglia
di baciare Ary.»
«È
strano sentire chiamare la
mamma Ary.»
«E che
c’è di strano, scusa? È il
suo nome!» Tom rise e uscì dallo studio, seguito
da Stefan. Guardò suo padre
prendermi quasi in braccio e baciarmi sulle labbra.
«Tom! Lasciami
giù!», gridai
ridendo.
«Ecco cosa
vuol dire essere
innamorati!», disse Stefan scappando di nuovo via, su per le
scale. Io e Tom ci
guardammo e risimo ancora.
«Ehi
Alex!», disse Stefan appena
entrato in camera.
«Ehi
Stefan.» Si diedero il
cinque e poi Stefan si tuffò sul suo letto.
«Sei
felice», disse Alex,
girandosi verso di lui sulla sedia girevole. «Posso sapere il
perché?»
«Tu sei
innamorato?»
Alex diventò
rosso sulle guance e
si girò verso il computer. «Non so…
penso di sì…»
«Come fai a
saperlo?»
«Boh, che ne
so, lo sento. Krista
è l’unica. Perché, anche tu ti sei
innamorato?»
«Mi sa di
sì.»
Alex si girò
e lo guardò:
«Davvero?»
«Perché
me lo chiedi così, con
quella faccia come se non ci credessi? Credi che io non possa
innamorarmi come
tutti?»
«No, no, ti
credo, solo che è un
po’ strano, tu che ti innamori. Mi devo un attimo abituare.
Chi è?»
«Vuoi sapere
chi è?»
«Sì.
Stefan, rimane tra noi, come
sempre. Siamo fratelli, no?»
«Sì,
anche gemelli.»
«Quindi, non
ci sono problemi.
Dai, dimmi chi è.»
«Michelle.»
«Michelle
Böhn? La bionda
mozzafiato della seconda?»
«Ehi, attento
a come parli che lo
dico a Krista!»
«Non puoi,
patto tra gemelli,
ricordi?»
«Ah
già, è vero, che ingiustizia!
Ah, comunque non è lei. È la Stuart»,
disse coprendosi il viso con le mani.
«Michelle Stuart?
La prima della tua classe?»
Lo guardò
facendo scivolare le
mani sul naso e sulla bocca: «Proprio lei. Vi
conoscete?»
«Certo che ci
conosciamo! Abbiamo
fatto alcuni corsi insieme! E tutte le volte mi diceva che era
impossibile che
io fossi il tuo fratello gemello, siamo troppo diversi.»
«Lo so,
è un po’ così. Ma sai che
cosa voglio fare? La voglio conquistare. Sarà una sfida, me
lo sento. Però c’è
stato già qualcosa.»
«Che
cosa?»
«L’altro
giorno, è venuta qui
perché dovevamo fare assieme quella ricerca, no? Solo che io
non avevo fatto
niente, quindi si è arrabbiata, poi abbiamo fatto pace,
è salita in camera e ci
siamo messi a cercare su internet. Abbiamo iniziato a parlare
e… ci siamo
baciati, cioè… io l’ho
baciata.»
«No, non ci
posso credere!
Davvero?»
«Sì,
davvero. Solo che lei se l’è
presa e mi ha detto che dovevamo fare il lavoro per conto nostro e che
poi
avremmo unito le due cose. Poi è scappata via. Cavolo, mi
sento così strano. È
la prima volta che provo tutto questo.»
«E ti credo! E
poi con una come
lei. Insomma, con tutte le ragazze che hai ai piedi, ti dovevi
innamorare di
quella più complicata che esiste?»
«Lo so, ma che
ci posso fare? È
l’amore. E poi mi piacciono le sfide, non mi
tirerò indietro.»
«Va bene, ma
ti avviso: preparati
al peggio. Davvero, in bocca al lupo. Ah, lo sai che suoniamo per la
festa di Halloween?»
«La festa di
Halloween? Oddio, è
vero! La festa di Halloween a scuola!»
«Eh
già. La inviterai?»
«Penso di
sì. Tu vai con Krista?»
«Si, e Sharon
con Derek. Stefan,
ricordati che dobbiamo suonare, non andare a finire nei guai,
ok?»
«Ok. Grazie
fratellino, senza di
te me ne sarei proprio scordato!», si alzò e lo
baciò sulla fronte.
«Ma che
schifo!», gridò Alex
pulendosi. Stefan rise e corse giù dalle scale.
«Stefan!
Grazie per la ricarica,
eh!», disse Sharon dalle scale, che l’aveva visto
correre giù come un fulmine.
«Di
niente!» Stefan prese la
giacca e andò di corsa alla porta.
«Stefan, ma
dove vai?», gli dissi
uscendo dalla cucina.
«Ah, stasera
non mangio mamma!
Torno presto, ok?»
«Sì,
ma…»
«Ciaociao, ti
voglio bene!»,
sorrise, aprì la porta e corse ancora via, senza lasciarmi
il tempo di dirgli
niente.
«Ma
dov’è andato?», disse Tom dal
divano, seduto accanto a Bill che stavano parlando dei prossimi
concerti dei
ragazzi.
«Boh! Ah, gli
uomini. Dai che è
pronto.»
«Hai cucinato
tu?», chiese Tom.
«Abbiamo
cucinato assieme io e
Anto.»
«Alex, almeno
tu, vieni o vai a
fare compagnia a tuo fratello?», urlai io da sotto.
«No, io resto.
Non so nemmeno io
dove andava.»
«Ah no? Mi
stupisce!», disse
Sharon incavolata mentre scendeva le scale superandolo.
«E dai Sharon,
non fare così.»
«Io faccio
come mi pare.» Si mise
seduta al tavolo accanto a suo papà, come sempre, con
accanto sua mamma. Guardò
il posto vuoto davanti a sé, quello di Stefan.
«Hai ragione
zia, a dire che gli
uomini sono strani. Cavolo se lo sono! Prima quello, poi
quell’altro…»
«Chi,
Derek?», chiese Alex prima
di mettere il boccone in bocca. «Sì! Giuro, a
volte non li capisco. Adesso mi
devi spiegare che ha Stefan, ti avrà pur detto qualcosa!
Perché non mi dice
niente a me?»
«Sharon, anche
se volessi, non
potrei dirti niente. Sai com’è, patto tra
gemelli…»
«Sì,
patto tra gemelli. Io lo
voglio sapere. Noi ci dicevamo tutto un tempo! Più crescono
più diventano
stupidi!»
«Sharon»,
disse Anto, toccandola
sul braccio. «Tuo cugino magari non ne vuole parlare, basta.
Sarà lui a parlare
quando vorrà, non arrabbiarti con lui.» Sharon
guardò Alex e poi guardò in
basso. Anto le sorrise e le massaggiò il braccio.
«Non ti
preoccupare, gli passerà,
come sempre», disse Tom prima di bere.
«Non mi va di
mangiare, mamma»,
disse Sharon, poi si alzò e andò in camera sua.
«Poi, chi
vuole andarsene? Prego,
faccia pure», dissi.
«Ce ne andiamo
noi mamma, dai»,
propose Alex, sorridendomi.
«Posso venire
anch’io?», alzò la
mano Sarah.
«Si, certo!
Io, te e Sarah, verso
l’infinito e oltre.»
«Questa
l’ho già sentita… era in
un cartone o mi sbaglio: Verso
l’infinito
e oltre?», chiese
Bill.
«Sì,
era il suo cartone
preferito», dissi indicando Alex.
«E tu, ti
avviso, fai la brava. Da
grande non fare come Sharon che ogni tanto è un
po’ fuori, ha preso dalla
mamma, sai com’è. Però, anche dal
papà già che ci penso…»,
dissi a Sarah. Lei
annuì sorridendo.
Alzai la testa e risi
guardando
le facce di Bill e Anto, che dicevano proprio: Ma chi, noi?
Il cellulare di Alex
prese a
suonare nella sua tasca. Lo tirò fuori e guardò
il display.
«Chi
è, Krista?», chiese Tom.
«No,
è Stefan.» Aprì il telefono
e rispose: «Ehi, ma dove sei? Qui Sharon se
l’è presa perché non ci sei, non le
dici mai niente… tutte quelle menate. Mi sto preoccupando,
sai? Allora, dove
sei?»
«Alex, devi
venire subito, ti
supplico. Non fare le domande, vieni e basta. Ti spiegherò
tutto poi. Sono al
solito posto, ti aspetto.» Alex si alzò da tavola
e andò sulle scale a parlare.
«Stefan, che ti prende? Oh, ma ti è successo
qualcosa? Guarda che mi fai
preoccupare.»
«No scemo, non
mi è successo
niente, se no l’avresti sentito, no? Dai muoviti, ho bisogno
di te.» Stefan
buttò giù e Alex rimase a guardare il suo
cellulare, ma fu solo un attimo: il suo
gemello aveva bisogno di lui e lui doveva correre.
«Alex? Che
è successo? Che ti ha
detto?»
«Non ti
preoccupare mamma, torno
presto.»
«No, Alex,
anche tu no!» Troppo
tardi, era già uscito e corso fuori nel buio della sera. Mi
rimisi al mio posto
e guardai Tom.
«Ary, posso
dirti una cosa?»,
disse Anto. Mi girai e la guardai tenendo stretta la mano di Tom.
«Non per
dire, ma queste fughe le facevi anche tu. Di notte, soprattutto.
Arrivavi a
casa mia verso le due e mi costringevi a seguirti. Ricordi?»
Sorrisi e mi rilassai.
«Sì, fa
parte della crescita.»
«E tu avevi
appena dodici anni.
Loro ne hanno sedici, sono grandi. Non ti preoccupare, sanno badare a
loro
stessi.»
«Sì,
giusto. Comunque dimmi tu se
non ci divertivamo!»
«Alle due di
notte a suonare i campanelli
e poi a correre via? Sì, da matti!» Io e Anto
scoppiammo a ridere e Bill e Tom
si guardarono e sorrisero, semplicemente.
***
Gli tirò il
cuscino addosso.
Stefan si girò e lo guardò sdraiato sul letto, un
sorriso sulle labbra. Sorrise
e si rigirò verso lo specchio.
«Certo che sei
proprio fuori.
Erano tutti preoccupati per te e poi mi metti in mezzo. Per cosa poi?
Per
niente! E poi Sharon… Oh Sharon! Se l’è
presa perché non le dici più niente. Te
l’ho già detto, vero?»
«Diciassette
volte.»
«Credevo
ventitré.»
Stefan lo
guardò accanto a lui
riflesso nello specchio, si sorrisero.
«Che hai
intenzione di fare
ora?», gli chiese, più serio.
«Boh. Ma io la
voglio invitare
alla festa di Halloween. Voglio che venga con me. Ci deve venire con me
a
quella festa», disse Stefan sistemandosi ancora la cresta.
«Sembri
deciso», disse Alex
ritrovando quel sorriso.
«Sì,
sono sicuro. Ma per prima
cosa…»
«Che
cosa?»
«Parlerò
un po’ con Sharon, mi
aiuterà lei.»
«Bravo,
così si fa.» Gli diede
una pacca sulla spalla e poi lo abbracciò. Stefan rimase un
attimo senza fare
niente, ma poi strinse il gemello a sé.
«Ti voglio
bene, Ste.»
«Anch’io
ti voglio bene, Alex.»
«Ok.»
Si staccarono e Stefan
sentì come
un vuoto dentro, una voglia improvvisa di abbracciarlo di nuovo. Gli
mise le
braccia intorno al collo e sorrise respirando sulla sua pelle.
«Grazie
fratellino», disse piano,
come per non rompere quel silenzio così pieno di parole.
«Non devi
ringraziare me, ma…»
«Ma qualcuno
lassù che ha voluto
che nascessimo in due. Sì, lo so.» Stefan
scompigliò i capelli già ribelli di
loro al più piccolo, ridendo insieme a lui che cercava di
divincolarsi.
«Ok,
sarà meglio scendere, va’.
Se no chi ce la fa a raccontare tutto, ma tutto quello che è
successo a
Sharon?» Diede una pacca sul braccio ad Alex e
uscì dalla camera con il suo
zaino in spalla. Scese in cucina e la trovò seduta al tavolo
che beveva il suo
latte, da sola. Appoggiò lo zaino a terra e si mise seduto
davanti a lei. «Ciao
Sharon!», la salutò.
«Ciao.»
«Faccio
colazione con te, ti
disturbo?» Le fregò il bicchiere di succo
d’arancia e il biscotto che aveva in
mano. «Cioè, faccio colazione da te.»
Stefan sorrise e addentò il biscotto.
Sharon lo
guardò un po’
perplessa. «E da quando tu fai colazione?», gli
chiese.
«È
un abitudine che devo prendere
di nuovo, mamma lo dice sempre. Allora mi sono detto, perché
non incominciare
oggi visto che c’è Sharon che mi da il buon
esempio e mi offre parte della sua
perché io non ho voglia di prepararmela?» Bevve un
po’ di succo e Sharon si
trattenne dal ridere. «No, a parte questo Sharon, seriamente.
Noi due dobbiamo
parlare, devo dirti milioni di cose che tu non sai. E mi dispiace di
non
avertele dette prima, ma anche con Alex è successa la stessa
cosa. Prima dovevo
capire io, scusami. Comunque te l’avrei detto, prima o poi.
Bene, vado?»
«Dove
vai?»
«Non fare la
spiritosa con me,
ok? Nel senso, parto?»
«Dai,
raccontami tutto che non
sto più nella pelle!» Si sorrisero e Stefan
iniziò a raccontare di Michelle,
del lavoro a coppie, delle loro litigate, del loro incontro, del loro
primo ed
unico bacio fino ad allora, della sua voglia di portarla alla festa di
Halloween…
«Ah, ora ho
capito tutto! Beh,
potevi dirmelo subito!» Sharon rise e finì il suo
latte.
«Sì,
lo so. Potrai mai
perdonarmi?»
«Sììììììììììì!
Ma solo a patto
che mi perdoni anche tu.»
«Io,
perdonarti? Perché, che hai
fatto tu?»
«Anch’io
non ti ho detto una
cosa. Ho litigato con Derek, e ci sto malissimo.» Sharon si
appoggiò alla
spalla di Stefan sull’orlo del pianto e lo
abbracciò con un braccio.
«No, Shary,
non piangere. Vedrai,
andrà tutto a finire bene. Quant’è che
non vi sentite?»
«Tre giorni
infiniti,
infinitamente troppi. Non ce la faccio più, ho bisogno di
lui.»
«Beh, alla
festa vai da lui e
parlaci. Fate pace e pace fatta! Dai, non ti preoccupare! Quello
è innamorato
perso di te, quasi come tu di lui. Vedrete, superete tutto.»
Stefan le
accarezzò le guance con le mani e fece finta di baciarla
sulle labbra, ridendo
e abbracciandola con forza.
«Stefan,
Stefan smettila! Sei mio
cugino, e quello più stupido tra l’altro, e che
cavolo!» Risero assieme e poi
Stefan le chiese, ritornando a Michelle, eccetera.
«Hai qualche
consiglio da darmi
per conquistarla? Tu sei una ragazza, quindi ne capisci anche di
più…»
«Tu, playboy
come nessun altro
che conosco, vieni a chiedere consiglio a me, la tua povera cugina
quindicenne?»
«Sì,
perché tu sei la mia cugina
quindicenne favorita, speciale e che soprattutto porta bene! Michelle
è
diversa, è diversa da tutte le altre, non so se mi
capisci.»
«Sì,
ho capito, ti sei
innamorato. Dai, so io, non ti preoccupare! Ho già in mente
delle idee… Ma
dobbiamo uscire subito!» Lo prese per il braccio, gli prese
lo zaino, glielo
spinse contro al petto e poi prese la sua borsa a tracolla enorme con
funzione
di zaino. Scese in quel momento Alex dalle scale che si aggiunse ai
due.
«Famiglia, noi
andiamo!», gridò
Sharon, e non aspettò nemmeno la risposta, li
trascinò direttamente fuori,
correndo.
«Ehi, ma che
succede?!», chiese
Alex al gemello guardandolo trascinato come lui da quel tornado di
cugina.
«Ti spiego
dopo, che è meglio!»,
gridò Stefan prima di lasciarsi trasportare di
più da Sharon. Però, che
famiglia.
«Ma sei sicura
che funzioni?»
«Sicurissima!
Non ti preoccupare
Stefan, andrà tutto secondo i piani.»
«Va bene, se
lo dici tu.» Si
sporsero ancora un po’ sul corridoio.
«Oh, eccola
che arriva!», disse
Sharon sottovoce a Stefan, di fianco a lei.
«Sì,
l’ho vista grazie.»
Michelle si
avvicinò al suo
armadietto e lo aprì.
«Ah, a
proposito. Ma come facevi
tu a sapere la combinazione dell’armadietto di Michelle,
scusa?», chiese
Stefan.
«Beh…
Mi ha dato una mano
Krista.»
«Ah
già che lei è la favorita del
bidello. Se l’è fatta dire, vero?»
«Esattamente.
Non so con quale scusa.
Ma ora guarda Stefan!», gli indicò, da dove erano
nascosti loro, dietro
l’angolo, Michelle che tirava fuori
dall’armadietto, sorpresa, un mazzo di
fiori (che Sharon aveva costretto Stefan a comprare perché
secondo lei erano la
tattica migliore per conquistarla) e il lavoro sull’Italia di
Stefan, da
aggiungere alla parte di Michelle.
Michelle sorrise vedendo
quei
fiori, chiedendosi chi fosse il mittente, ma lo capì appena
vide la parte di
lavoro sull’Italia di Stefan e poi quando lesse il biglietto
attaccato ai
fiori:
Michelle,
spero tanto che nessuno ti abbia invitato alla festa di Halloween,
perché… Ci
vuoi venire con me?
Stefan
Michelle rimase a
leggere quel
biglietto per ben tre volte, poi lo chiuse e lo mise nella borsa. I
fiori li
lasciò nell’armadietto, ma prese la ricerca e la
sfogliò. Era un lavoro
eccezionale, mai vista una cosa così, poi da uno come
Stefan, figuriamoci. Lo
infilò velocemente nella borsa e chiuse
l’armadietto.
«Dai Stefan,
vai, è il tuo
momento!» Sharon lo buttò nel corridoio e fece
pollice in alto con tutte e due
le mani accompagnato da un sorriso di incoraggiamento per Stefan. Lui
annuì e
fece finta di passare di lì per puro caso.
«Michelle,
ciao! Ma che ci fai da
queste parti?» Che
ci fai da queste
parti? Ma è lì che ha l’armadietto,
idiota!
«Stefan,
questo è il mio
armadietto, non ci arrivi da solo?» Michelle si
sistemò la borsa sulla spalla e
si girò. Stefan si girò verso l’angolo
dietro il quale era Sharon, che gli fece
segno di andare. Lui raggiunse Michelle e camminò insieme a
lei standole
accanto.
«Allora…
che mi racconti di
bello?», le chiese più impacciato di prima.
Michelle si
fermò improvvisamente
e lo guardò negli occhi: «Senti un po’,
tu. Ma mi stai per caso prendendo in
giro? Stai facendo la carità per caso?»
«Nulla
è per caso», disse
furbamente Stefan, rilassandosi e sorridendo. «E comunque non
mi sembra di aver
fatto la carità in nessun modo e a nessuno,
soprattutto.»
«Ah no? E
allora perché i fiori,
perché l’invito alla festa di Halloween?
Cos’è, vuoi sfigurare di fronte a
tutta la scuola allora?»
«No, ma che
cosa stai dicendo?! E
perché dici questo scusa?»
«Perché…
Uff!» Michelle si girò
di nuovo e camminò spedita e a passo svelto verso
l’aula.
«Michelle,
ascoltami. Ti prego
fermati!» Stefan la prese per il braccio e le fece guardare i
suoi occhi.
«L’unico motivo per cui ti ho mandato i fiori, mi
sono messo d’impegno per fare
la mia parte nel nostro
lavoro, per
il quale ti ho invitata alla festa, è perché
voglio andarci con te a questa
stramaledetta festa! Te lo giuro.» La guardò
intensamente negli occhi,
sentendosi spoglio di tutta la sua solita sicurezza, di tutte le sue
certezze;
si sentì più nudo che mai riflesso nei suoi
occhi.
«Ma non
capisco perché tu voglia
venirci con me!», gridò Michelle. «E
nemmeno perché tu mi hai baciata», disse
più piano, visto che c’era gente che passava per
il corridoio.
«Perché
io…», iniziò a balbettare
Stefan, ma la campanella lo mise ancora più in
difficoltà.
«Devo andare
in classe», disse
Michelle liberandosi docilmente dalla sua stretta e camminando verso
l’aula.
Stefan si
passò le mani sul viso,
e quasi voleva urlare dalla rabbia perché non era riuscito a
dire quelle cavolo
di parole. Che però non aveva mai detto in vita sua.
No, no, no, no! Stefan sei un disastro!,
si disse, autolesionandosi
moralmente.
Sentì la mano
di qualcuno sulla
spalla. «Com’è andata?»
Guardò la
cugina accanto a sé e
la abbracciò mettendole le braccia intorno al collo, non gli
importava se c’era
altra gente, aveva bisogno di conforto e lei era l’unica in
quel momento che
potesse darglielo, visto che non c’era Alex.
«Ehi!»
Alex arrivò di corsa e si
buttò addosso a Stefan, abbracciandolo, rubandolo a Sharon.
«Alex, che ci
fai qui?», sussurrò
Stefan stringendo il gemello, una mano fra i suoi capelli biondi sulla
nuca.
«Ho sentito
che c’era qualcosa
che non andava e sono corso da te!», disse Alex.
«Grazie»,
disse Stefan.
«Di niente, ma
ora vai in classe.
E non ti preoccupare per niente. Comunque dopo mi racconti.»
Stefan andò
verso la sua classe e
Alex gli sorrise prima di andare nella sua. Sharon rimase a guardare i
due
gemelli per un istante, poi corse verso la sua classe, sorridente per
quell’unione, quel legame così forte che avevano
solo loro due.
«Ah, capito.
Cavolo, che casino!
Vedi? Io te l’avevo detto! Quella è troppo
complicata! Ma come fa a dire di no
a uno come te?», disse Alex seduto sul letto.
«Non ha detto
di no! Non ha detto
niente, è questo che mi ha mandato a terra.
Cioè… poteva anche dirmi qualcosa!»
«E quindi ci
proverai lì, no?»
«Sì,
vediamo se mi ascolta
almeno!» Stefan sbuffò e si incazzò con
il papillon che non si voleva
aggiustare. «Cazzo, sono nervosissimo! Mamma!»
Uscì dalla camera e scese di
sotto.
«Mamma!»,
gridò ancora una volta.
«È
su da Sharon», disse Tom
uscendo dalla cucina con la testa. «Ok. Papà, mi
dai una mano tu?» Stefan si
avvicinò a Tom.
«Io non ho mai
messo una cosa del
genere, vai da Ary.»
«Da
mamma», lo corresse Stefan.
«Sì,
da mamma», sventolò la mano.
«Cioè,
non hai mai messo uno di questi?»,
disse Stefan indicando il papillon nero.
«No, mai.
È già tanto se mi sono
vestito con la camicia al matrimonio!», disse il padre
ricordando e ridendo.
«Però Ary diceva che stavo bene, me lo ricordo.
Eccome se me lo ricordo, è
impossibile da dimenticare.»
«Mmh.»
Stefan si guardò e si
tolse il papillon, si sbottonò un bottone della camicia
bianca e si scompigliò
i capelli ancora lisci sulla testa. «Così come
vado?» Fece un giro su sé
stesso. Aveva un completo nero elegante, tipo uno smoking: giacca e
pantaloni
neri e camicia bianca; per finire le scarpe da ginnastica bianche ben
pulite,
firmate DC.
«Così
vai molto meglio! Ma…»
«Ma che
cosa?»
«Ti manca
qualcosa.» Tom uscì
dalla cucina portandosi dietro Stefan. Salirono in camera mia e di Tom
e lui
aprì il suo armadio. Mostrò a Stefan la pila di
cappellini: «Scegline uno.»
«Che cosa? Ma
questi sono…»
«Sì,
lo so, ma è arrivata anche
l’ora che li usi qualcuno! Mi fa tristezza vederli qui a
prendere polvere. Dai,
scegli. Ti consiglio il nero.»
«Ok.»
Stefan sorrise al padre e
poi guardò i cappellini con attenzione. Ne prese uno nero
con il marchio NY in
rosso. «Questo.» Se lo mise in testa e si
guardò allo specchio. Tom lo
raggiunse e glielo sistemò meglio di lato. Lo fece girare di
nuovo verso lo specchio
e annuì, con il sorriso sulle labbra.
«Si vede che
sei mio figlio»,
disse fiero.
Stefan provò
un SSR (Sorriso
Stendi Ragazze) con indosso quel cappellino. Tom rise e disse:
«Pronto a fare
una strage!»
«Sì,
ma la strage vorrei farla ad
un’unica ragazza», ammise Stefan guardando il padre
riflesso nello specchio.
«Ah
sì? Non lo sapevo!»
«Sì…
è… Michelle, non so se hai
presente.»
«Michelle…
Stuart?»
«Esattamente!
Ma come fai a
conoscerla?»
«Beh,
l’ho vista ad una tua
riunione di classe. È la rappresentante da te,
vero?»
Ma come, mica non lo conosceva mio padre?
«Sì,
è lei.»
«Mmh. Non
sembra una che cada
facilmente, ma ce la puoi fare, non ti demoralizzare.»
«Va bene,
grazie di tutto papà.»
«Prego, fai
buon uso del
cappello. Buona fortuna.»
«Grazie!»
Uscì dalla
stanza più forte e
determinato di prima. Salì di corsa le scale e
arrivò in camera di Sharon, dove
trovò anche il fratello gemello, me, Anto e Bill. Appena lo
vidimo, a testa
bassa, il sorriso sulle labbra e il cappellino che copriva e ombrava
buona
parte del viso, io e Bill ci guardammo subito sgranando gli occhi,
pensando a
Tom. Ma quando Stefan alzò la testa e salutò
Sharon con un cenno del capo lo
riconoscemmo, ma rimasimo comunque sbalorditi dalla sua somiglianza con
Tom.
«Non ci posso
credere», dissi
quasi sottovoce guardandolo a bocca aperta.
«Ma che
figo… Peccato che sei mio
cugino. Ma porca miseria!», disse Sharon agitandosi sulla
sedia.
«Sharon stai
ferma!», disse Anto
con la piastra in mano che le stava stirando i capelli. Stefan fece un
giro su
sé stesso e sorrise di nuovo: possibile che gli somigliasse
così tanto?
«Allora dici
che vado bene?»,
chiese Stefan a Sharon.
«Vai
benissimo! Michelle non
potrà dirti di no!»
Tutti ci girammo e
guardammo
Sharon: «Michelle?»
«Chi
è questa Michelle?», gli
chiesi.
Lui sbuffò
guardando Sharon ma
poi sorrise. Si mise sdraiato sul letto tenendo il cappellino sullo
stomaco. Si
passò una mano fra i capelli, scompigliandoli ancora di
più.
«Va bene, me
lo dirai un’altra
volta», dissi accarezzandogli la guancia.
«Grazie
mamma», sorrise.
«Dio, ma come
assomigli a Tom!»,
gridò Bill. Era ancora rimasto a quel punto! Stefan sorrise
per l’ennesima
volta e guardò il gemello.
«Ehi, ma ti
sei fatto la
cresta!», disse alzandosi in piedi di scatto. Prese il
gemello per le spalle e
gli guardò i capelli. «Te la sei fatta da
solo?»
«Sì,
perché?»
«Perché
stai migliorando!» Gli
mise comunque le mani in testa e la migliorò ulteriormente.
«Ora va meglio. Ah,
Sharon, a che ora iniziamo a suonare?»
Sharon lo
guardò male e si mise a
braccia incrociate. «Aspetta che mamma abbia finito, poi devi
solo iniziare a
correre. Te l’ho già detto tre volte
oggi!»
Stefan guardò
Alex, che gli
suggerì che dovevano suonare alle dieci meno un quarto.
Stefan guardò l’orologio
e si sentì mancare l’aria: nove. Ora che
arrivavano, che si preparavano, che
accordavano gli strumenti, il tempo sarebbe volato e così
pure la possibilità
di chiarire con Michelle.
«Ma
è tardissimo!», disse
tuffandosi sul letto accanto a Sarah che lo osservava da un
po’ e prendendo il
cappellino.
«Ecco,
finito.» Sharon si alzò
dalla sedia e si specchiò, guardandosi i capelli appena
lisciati dalla madre.
«Wow. Ma sono bellissimi!», disse entusiasta.
«Ma tu sei
bellissima!», disse
Alex. Sharon sorrise e si sistemò il vestito sui fianchi.
«Sono tesa.
È la prima volta che
cantiamo un repertorio solo di nostre canzoni!», disse
gettandosi su Alex. Lui
la prese, per fortuna, e la tenne sollevata da terra.
«Sì,
sì, siamo tutti molto tesi,
ma ora possiamo andare?», chiese Stefan pregando fratello e
cugina. Loro lo
guardarono e annuirono.
«Ok, noi
andiamo.» Sharon prese
la borsa nera e prese a braccetto Stefan.
«Mi
raccomando, comportatevi
bene, suonate bene e a mezzanotte vi voglio a casa», disse
Bill alzandosi dal
letto e indicando soprattutto Sharon. Lei annuì controvoglia
e scesero di sotto
quasi correndo.
Che quella festa avrebbe
dato
inizio a qualcosa di importante? Probabilmente.
«S’è
vista?», chiese Alex a
Stefan.
Erano già sul
palco, nascosti da un
tendone nero. Era tutto versione Halloween, tutto scuro, luci non
troppo
luminose, cocktail strani ma analcolici, costumi e molto altro. E
Michelle non
si era ancora fatta viva. Stefan non stava più nella pelle.
Dovevano
incominciare tra poco, ma anche Sharon sembrava sparita nel nulla.
«No, non
ancora.»
Sharon si fece spazio
tra la
folla, cercando qualcuno, lui. Lo vide in un angolo, accanto ad un
po’ di
palloncini arancioni e neri. Lo raggiunse quasi di corsa e gli si mise
di
fronte.
«Ciao»,
disse arrossendo già
sulle guance.
Derek le sorrise dolce e
le prese
le mani. «Ciao, mi sei mancata tanto. Ma perché
non ci siamo più sentiti? Non
facevo altro che pensarti giorno e notte! Non posso stare senza
te.»
Sharon lo
abbracciò teneramente,
ancora così bambina, mettendogli le braccia al collo.
«Non lo so
perché. Mi sei mancato
tanto anche tu, e mi dispiace per la litigata. Io non voglio litigare
più con
te, non voglio urlare cose inutili. Voglio solo urlare che ti
amo.»
Derek la
guardò appoggiata alla
sua spalla, le spostò i capelli dalla guancia e la
baciò sulle labbra,
tenendola stretta a sé.
«Ehi, ma non
devi suonare tu?»,
le chiese Derek dopo una serie di lunghi baci.
Sharon si riprese dal coinvolgimento da bacio
e si mise una
mano sulla fronte. «Oddio è vero!»
Derek scosse la testa e
le
pizzicò la guancia con un morso. «Dai vai, canta
per me.»
Sharon rise e prima di
correre
via lo baciò morbida, stampandogli un sorriso.
Stefan guardò
ancora una volta
l’entrata, spiando da dietro il tendone, sperando
l’atteso arrivo di Michelle.
«E come se non
bastasse è sparita
pure Sharon. Come facciamo senza cantante?!»
«Non ti
preoccupare Ste, sono
qui!» Sharon si infilò il basso e provò
alcune note, poi guardò i gemelli. «Che
c’è, perché mi guardate
così?»
Arrivò Krista
dietro di lei, con
le sue ciocche viola, e la prese per il collo come se la volesse
sgozzare: «Dimmi
che è successo con Derek!»
«Ecco, appunto»,
dissero insieme i gemelli.
«Ah, per
quello? Niente, tutto a
posto, tutto come prima, abbiamo fatto pace.»
«Oh, bene,
sono contenta per te!
E tu Stefan? Guarda che ho visto Michelle poco fa.»
Stefan guardò
Krista come se
avesse appena visto un fantasma, sbiancò totalmente e si
tuffò fuori dal
tendone, mollando la chitarra in mano al gemello. Saltò
giù dal palco,
incurante del pericolo di cadere male e magari prendersi una storta,
che prese,
e corse mezzo zoppicante in cerca di Michelle, tra tutta quella gente
di cui,
sinceramente, gli importava poco o niente.
Vide Michelle nel suo
vestito
azzurro, con i capelli sciolti sulle spalle, lisci perfetti e la
frangia appena
sopra gli occhi, truccati e con le lenti a contatto. Era davvero
stupenda, non
l’aveva mai vista più bella. Non pensò
più al dolore alla caviglia e corse più
forte per raggiungerla, manco stesse per finire il mondo. Ma,
sfortunatamente,
incontrò sulla sua strada la così definita mora
tutta curve nel banco davanti
al suo a scuola, che lo fermò e gli si
avvicinò sinuosa, accarezzandogli il petto con un dito.
«Ma
ciao», gli disse con la sua
voce sensuale, ma che Stefan odiò a tal punto di voler
fuggire via. Provava
schifo verso di lei, anche se l’aveva trovata una buona
fino a non molto tempo prima. Non gli interessava
nessun’altra oltre Michelle.
«Che ci fai
qui, tutto solo…»
«Ehi Clarissa!
Ma tu non eri con
me?», gridò un ragazzo, doveva essere il suo
accompagnatore.
«Tu non mi
interessi, sparisci!»,
gli gridò contro facendolo ammutolire con un cane bastonato.
Guardò maliziosa
Stefan e gli mise una mano sul collo dicendo quasi a bassa voce:
«Io voglio
te.»
Stefan le
scoppiò a ridere in
faccia. Tutta la gente lì intorno non capì il
comportamento di Stefan, e così
nemmeno Clarissa di fronte a lui.
«Perché
ridi? Perché ridi?!»,
sembrava irritata.
Stefan guardò
per un attimo
Michelle e i loro sguardi si incontrarono. «Perché
mi fa ridere. Tu mi vuoi, ma
non mi avrai mai. Io appartengo già ad una persona, il mio
cuore appartiene ad
un’altra persona. Con permesso.» Stefan
spostò la sconvolta Clarissa e andò
deciso da Michelle, che era abbastanza vicina da aver sentito tutto. Lo
guardò
in silenzio, senza sapere che dire.
«Noi due
abbiamo in sospeso una
questione», disse Stefan prendendole la mano, mentre la
ancora più incredula
Clarissa guardava la scena. Michelle, sentendo la sua mano dentro
quella di
Stefan, sentì il batticuore. E non poteva dare una
spiegazione logica a quel
fenomeno. Beh, forse sì.
Alex e Sharon annuirono
sorridendo e si diedero l’attacco. Dolci note di chitarra e
successivamente la
voce di Sharon. Era una delle loro canzoni, forse quella più
romantica, Stefan
non poteva non riconoscerla. Sorrise pensando ai quei due che facevano
tutto
quello solo per lui, per loro. Non poteva fallire.
«Vedi, potrai
credermi un falso,
un bugiardo per tutta la vita, potrai non credermi mai, ma il fatto
è questo e
dentro di me non cambia: Michelle, io… mi sono innamorato di
te. Credo.»
Michelle sta volta si
sentì
mancare l’ossigeno e il cuore le si bloccò
completamente. Stefan notò le sue
guance diventare rosse come niente, sorrise e le prese anche
l’altra mano.
«Beh? Niente
da dire? Ok, se vuoi
posso aspettare, posso aspettare anche tutta la vita, basta che tu me
lo dica
qui e adesso.»
Intanto Sharon e Alex
suonavano
ancora quella canzone, da dietro il telo, nascosti da tutti. Avevano
attratto
molta attenzione verso il palco, erano tutti girati, nessuno guardava
più
Stefan e Michelle, ed era un bene. Michelle sorrise e quel sorriso
disse tutto
a Stefan, che ricambiò e la baciò. Michelle gli
mise le mani sul petto e lo
allontanò di qualche centimetro dal suo viso. Lei sorrideva
ancora, era tutta
rossa, ma se ne fregava.
«Stefan, devi
sapere una cosa.
Anch’io ti sono sempre venuta dietro come le altre, lo sai?
Ma facevo finta di
niente proprio perché credevo che tu non ti saresti mai
interessato ad una come
me. E cercavo di litigare in tutti i modi con te perché
volevo arrivare ad
odiarti, così da dimenticarti per sempre. Ma vedo che tutto
questo non è
servito a niente.»
Stefan poggiò
la fronte alla sua
e in penombra le sussurrò: «Sì,
è servito a molto invece. Se tu fossi stata
come le altre non ti avrei mai notata. Bisogna distinguersi dalla
massa, non
credi? Allora… tu che provi?»
«Io? Io ti
voglio bene, tanto.»
Lo abbracciò e lo baciò lei sta volta,
sorprendendolo ma rendendolo felicissimo.
«Din don.
Stefan Kaulitz è
pregato di muoversi, perché non possiamo fargli da colonna
sonora per tutta la
sera. Din don», disse sua cugina Sharon con il microfono
nascosta dietro il
tendone, con il tono di una cassiera annoiata. Stefan si
girò verso il palco,
poi guardò Michelle e sorrise.
«Il dovere mi
chiama! Devo andare
se no mi linciano.» Si girò e fece per andare, ma
poi si girò e le fece
un’altra domanda: «Ma quindi
noi…»
«Sì»,
disse Michelle annuendo, un
sorriso lungo un chilometro e mezzo.
Stefan tornò
indietro, la baciò
veloce sulle labbra e poi corse sul palco con gli amici, a scatenarsi e
a
divertirsi come un pazzo, ora che finalmente era tutto a posto e non
poteva
andare meglio.
Il cappello di suo padre
aveva
portato bene!
________________________________________________
Buoooooongiornooooo
u.u
Sono stanca, però
ne è valsa più che la pena! Il
concerto di ieri, a Milano, è stato fantasmagorico!!
*____*
Okay, tornando al capitolo, seconda parte!! Vi è piaciuto?
Spero di sì, dai u.u
Non sono molto in vena di ringraziamenti, aggiorno perché
sono
in ritardo xDD
Sapete già che vi voglio un mondo di bene :D
Tokietta86,
Utopy,
dovrebbero farvi sante subito u.u Grazie
milleeeee *-*
Al prossimo capitolo, grazie di cuore a tutti, anche a chi
legge soltanto e a chi mette la storia fra preferiti, seguite e varie
xD Danke
schoooooon!
Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 12 *** Loneliness kills ***
Capitolo 5
Loneliness kills
«Vado
io!»
«Ok, non mi
muovo», dissi
lasciandomi superare dal tornado Sharon.
Aprì la porta
in fibrillazione e
salutò Derek in modo tale che in tutta la casa si sentisse.
E come sempre, dopo
tre secondi esatti, sentii Bill scendere di corsa dalle scale,
superprotettivo
con la sua figlioletta.
Sharon si
avvicinò per baciarlo
sulle labbra, ma lui la spostò e la baciò appena
sulla guancia, appoggiandocisi
con la propria.
«Che cosa
c’è?», chiese Sharon
prendendogli le mani, da cui lui si liberò.
Chiuse la porta e tutti
rimasimo
in silenzio ad ascoltare: Bill, Tom, Stefan e Alex erano al piano di
sopra che
guardavano dalla scalinata e io ero in cucina assieme ad Anto.
Derek la spinse indietro
e la
fece mettere seduta sul divano, lui si sistemò un
po’ più lontano, senza
sfiorarla.
«Sharon, mi
dispiace», sussurrò.
«Ti dispiace
per cosa?»
«Per tutto. Ti
giuro, mi
dispiace.» Le accarezzò il viso con le mani e le
lasciò sul cuscino del divano
una busta bianca, poi la baciò sulla fronte e se ne
andò, lasciando un clima
gelido dietro di sé.
Sharon rimase qualche
minuto in
silenzio. Non riusciva a capire, cosa c’era che non andava?
Anto ebbe
l’imput di alzarsi, ma
la trattenni per il braccio.
Strappò con
violenza la busta e
lesse la lettera che le aveva lasciato Derek.
Sharon,
mi dispiace da morire.
Mia
madre ha deciso di tornare in Italia e io non posso contraddirla, devo
andare
con lei. Non me la sento di stare con te senza vederci mai,
è assurdo. E poi…
Sharon, io non ti amo più. A questo punto non so nemmeno se
ti ho mai amata,
forse era solo un capriccio: tu eri una delle più belle
della scuola e io
volevo solo brillare al tuo fianco. Mi dispiace tanto, sono uno
stronzo, lo so
perfettamente e mi faccio schifo. Tu non crederai a nessuna di queste
mie
parole, ma non ti costringo a crederci, io non esisterò
più per te, non ti
meriti tutto questo male. È meglio così,
soprattutto per te. Forse io non
troverò mai più una come te, ma me ne
farò una ragione, se avessi imparato ad
essere corretto con te fin dal primo giorno, forse si sarebbe salvato
qualcosa.
Non
so cosa tu provi per me, ma spero che tu non soffra, non te lo meriti.
Sei una
ragazza stupenda, spero che riuscirai a trovare un ragazzo che ti
meriti
veramente. Per me resterai sempre la bellissima e innocente Sharon, la
dea che
ha sbagliato a darmi l’opportunità. Mi dispiace
tantissimo, te lo giuro e te lo
ripeto.
Ti
vorrò sempre e comunque bene e ti ricorderò.
Perdonami.
Derek
«No, non
può essere», mormorò
mentre grosse lacrime le tracciavano il viso. «Non
può essere!», gridò con
tutto il fiato che aveva in gola.
La sua storia da favola
era
finita… Il suo principe l’aveva
lasciata… Stefan non l’aveva controllato
abbastanza perché lui le stava facendo del male…
Non era lui l’anima gemella
che credeva di aver trovato…
«Tienimi»,
mi disse Anto
stringendo la presa sul mio braccio. «Dammi il via se
vuoi.»
«No,
lasciala.»
Si alzò dal
divano e lasciò lì la
lettera, si aggirò per il salotto con le mani tra i capelli
e singhiozzando, ma
nessuno interveniva, probabilmente Tom tratteneva Bill e i suoi figli
come io
trattenevo Anto.
«È
finita, è finita, è finita»,
continuava a ripetere, ogni volta con intonazioni diverse, una volta
sembrava
pure felice, ma era solo disperazione.
Corse alla porta e
uscì prendendo
una giacca al volo, infatti sbagliò e prese quella di Stefan.
«Sharon!»,
gridò Bill, ma lei era
già a chilometri di distanza con la testa.
«Ma
perché l’hai lasciata
andare?!», mi gridò in faccia Bill. Chiusi gli
occhi e strinsi i pugni indietreggiando.
«Bill!»,
gridò Anto in mia
difesa.
«Io non avrei
voluto che qualcuno
mi trattenesse, l’avrei odiato. So come ci si sente, non puoi
nemmeno
immaginarlo. Davide non mi ha mai…» Il suo nome
salì a galla come una bolla
d’ossigeno trattenuta troppo a lungo e fece male, come se
quella bolla fosse
l’ultima e fossi rimasta senza aria.
«Devo andare a
prendere Sarah
all’asilo», dissi con gli occhi velati dalle
lacrime.
«Ary, non
volevo», disse Bill
prendendomi per il braccio.
«Non
importa.» Ma le lacrime bagnavano
già il mio viso: non era il giorno giusto per nessuno.
«Mamma, non
piangere ti prego»,
mi supplicò Alex.
«Vado a
prendere Sarah e torno.»
Tirai su col naso e mi asciugai le lacrime con fare distratto, mentre
prendevo
la giacca.
«Prendi il
cellulare, per
favore», disse Tom. Annuii e lo infilai in tasca accennando
un sorriso.
«E non tenerlo
spento», disse
ancora. Come aveva previsto, era spento. Lo accesi e poi cercai le
chiavi della
macchina.
«Non le
trovo», dissi a bassa
voce con la voce spezzata.
«Le avrai
lasciate di nuovo in
macchina.»
«Giusto.
Allora a dopo.» Guardai
Tom negli occhi e dissi, quasi lo dissi a me stessa: «Non
farò cavolate, te lo
prometto.» Annuì e mi lasciò andare.
Arrivai alla macchina
fuori dal
garage e mi accorsi solo quando un fiocco di neve mi punse il naso che
stava
nevicando. La portiera era aperta, Tom ci azzeccava sempre. Dentro, al
posto
del passeggero trovai Sharon raggomitolata e singhiozzante. Le chiavi
erano nel
cruscotto e l’aria calda era già accesa,
lì faceva un bel calduccio. Lo trovai
un luogo perfetto per piangere un po’, mentre la neve cadeva
fuori dal nostro
rifugio.
«Zia,
perché piangi?», mi chiese
tremando.
«Ricordi,
piccola, ricordi.»
La abbracciai e lei mi
strinse
con una stretta che se non avessi saputo che era lei l’avrei
confusa con quella
di sua madre. Mi vidi nei panni di una mia madre mai esistita e vidi me
piangere fra le sue braccia come stava facendo lei: così
sarebbe dovuto essere,
invece le uniche braccia che avevo visto nei momenti difficili erano
state
quelle di Davide, fino a quando anche lui non diventò uno
dei miei momenti più
difficili, e quelle di Tom, di Bill, di Anto, di Georg, di Gustav, di
mio padre
e di Mattia.
Quando io smisi di
piangere,
quando mi imposi di non fare più la bambina, misi in moto e
ci dirigemmo
all’asilo.
C’era un
silenzio perfetto, a
volte sentivo ancora Sharon singhiozzare senza lacrime, era a pezzi e
mi
identificavo bene nel suo dolore, era come rivivere una parte della mia
vita.
«Zia,
perché non mi chiedi
niente?», mi chiese.
«Che cosa
dovrei chiederti?» Mi
sfregai gli occhi con un gesto veloce e misi la freccia al semaforo.
«Non so,
perché piango?»
La guardai e sorrisi.
«Ma lo so
perché piangi.»
«Non ci vuole
un genio per
capirlo, eh?»
«No, so come
ti senti. Non te ne
ho mai parlato.»
«Di
cosa?»
«Di quando un
ragazzo mi ha
lasciata con il cuore infranto.»
«E
chi?»
«Tuo
zio.»
«Cosa? Zio? Ma
com’è possibile?
Voi siete così perfetti assieme!»
«Sì,
ma ne abbiamo passate tante
prima di arrivare a questo punto. Non siamo sempre stati
felici.»
«Puoi…
raccontarmi cos’è
successo?»
«Quando io e
Tom ci siamo
conosciuti…» Il semaforo verde scattò e
misi di nuovo in moto. «Non credevo che
la nostra storia si evolvesse così tanto, pensavo che mi
avrebbe lasciata subito.
Forse a quel tempo sarebbe stato meglio, però non lo fece.
Rimasimo insieme per
tre giorni, ero molto… presa da lui, e gli dissi che lo
amavo. Lui non me lo
disse in quei giorni. Sta di fatto che dopo i tre giorni lui doveva
partire di
nuovo e mi lasciò, un po’ per la distanza forzata
per il lavoro, un po’ perché
non aveva ancora capito che mi amava. È stato il periodo
più brutto della mia…
della nostra vita.»
«E come avete
fatto a rimettervi
assieme?»
«Non
dimenticando. Io non ho mai
smesso di amarlo, così lui non aveva mai smesso di amare me.
È successo perché
doveva succedere, ci amavamo, non potevamo stare lontani
l’uno dall’altro.»
«Derek non
tornerà però», disse
triste.
«Mi dispiace,
ma non posso dirti
che passerà, almeno non così in fretta.
Tu… tu che provi per lui?»
«Non lo
so.»
«Allora lo
capirai.»
«Grazie
zia.»
«Di
cosa?»
«Di avermi
parlato della tua
infanzia.»
«Infanzia?
Quella non era
infanzia, sono cresciuta di più in quei due mesi in cui Tom
non c’era che in
tutta la mia vita. La dimensione del dolore ti fa riflettere
molto.»
«Ma
è brutto soffrire.»
«Quando non
hai niente a cui
aggrapparti, il dolore è l’unica
alternativa.»
«Zia, stai
piangendo di nuovo.»
Non me n’ero
accorta. Mi passai
una mano sul viso e tornai a guardare la strada, avevo promesso a Tom
che non
avrei fatto cavolate.
«Perché
non mi hai fermata quando
sono uscita di casa?»
«Non saresti
andata lontano. E
poi, io non avrei voluto che qualcuno mi fermasse, l’ho detto
pure a tuo padre.
Anto e Bill sono molto preoccupati per te.»
«Non mi
importa.»
Inchiodai nel parcheggio
e le
tirai uno schiaffo, anche se bruciò più a me che
a lei. «E non dirò che mi
dispiace», sussurrai. Lei tirò su col naso, ma non
versò nemmeno una lacrima.
«Vuoi che ti
spieghi il perché
della sberla?», chiesi con gli occhi accesi di rabbia.
«Lo
chiederò a mamma», disse.
«Brava, lei
saprà cosa dirti.
Adesso che fai, resti qui o entri con me a prendere Sarah?»
«Ti aspetto
qui.»
«Bene.»
Uscii dalla macchina e
sbattei la
portiera quando la chiusi. La neve era fresca e si stava già
attaccando al
cemento. Adoravo la neve, ma mi portava sempre amari ricordi. Io e
Davide
giocavamo sempre a palle di neve quando vivevamo ancora
nell’appartamento
vecchio, sul terrazzo. E ci divertivamo come matti.
Mi strinsi nelle spalle
mordendomi il labbro che tremava e entrai nella struttura. Venni
travolta da
una folata di aria calda: si moriva dal caldo rispetto a fuori.
C’era profumo
di bambino e mi piaceva, mi sembrava di rivivere altri episodi felici
della mia
infanzia. Guardai tra tutti i bambini e vidi Sarah alzare la testa e
sorridermi
anche con i suoi occhietti azzurri come i miei. Mi corse incontro un
po’
barcollante, i suoi riccioli biondi ondeggiavano sulle sue spalle e il
suo
vestitino rosa, che gli aveva comprato Anto, mi sembrò
così inutile in
confronto alla sua semplice bellezza. Tom diceva sempre che eravamo
belle
uguali, ma io pensavo che lei fosse ancora più bella,
perché aveva tratti anche
di Tom, non solo miei. Come Stefan e Alex, tra l’altro.
«Amore!»,
gridai prendendola in
braccio e facendola girare.
«Ciao
mamma!», mi salutò
stampandomi un bacino sulla guancia fredda. Rabbrividì, ma
non mi risparmiò un
abbraccio stretto.
Ritrovai subito la
serenità: la
gioia che mi dava era immensa, volevo dare tutto a lei, tutto quello
che mia
madre non aveva dato a me, come avevo fatto anche per Stefan e Alex.
«Salve, come
sta?», mi chiese la
ragazza che si occupava del gruppo di bambini tra cui faceva parte
anche Sarah.
«Buongiorno,
tutto bene», dissi
stringendole la mano.
«Sarah
è stata bravissima oggi,
ha fatto un disegno bellissimo, vero?»
«Sì»,
annuì la piccolina.
«La mia
piccola artista», sorrisi
accarezzandole i capelli. «Poi a casa me lo fai vedere con
calma, eh?», dissi.
«Eccolo.»
La ragazza me lo passò
e ci lanciai uno sguardo veloce, ma a casa lo avrei contemplato per
ore.
«Wow Sarah,
è bellissimo!», dissi
baciandola.
«Poi ha
mangiato tutto…»,
continuò la ragazza entusiasta.
Ci lasciò
andare solo dopo altri
cinque minuti ininterrotti della condotta perfetta di Sarah. Strano,
non aveva
preso niente da me e Tom, casinisti e ribelli. Ma mi ripetevo sempre
che era
ancora presto per giudicare.
Me la strinsi al petto e
le
coprii la testa con il cappuccio del suo cappottino nero, disegnato da
Bill. La
neve cadeva più fitta e si attaccava a tutto, ma era bello
sentire il gelo sul
viso.
Sharon aveva la guancia
che avevo
schiaffeggiato leggermente più rossa dell’altra e
aveva lo sguardo perso fuori
dal parabrezza. Quando entrammo il macchina prese di nuovo vita e
salutò Sarah
con tanti di quei baci che non riuscii più a contarli ad un
certo punto: lei
portava allegria nei cuori di tutti.
La sistemai nel
seggiolino e
anche Sharon passò nei sedili dietro per starle vicino,
aveva ritrovato il
sorriso grazie a quel piccolo angelo che faceva miracoli.
In macchina Sharon non
parlò con
me per tutto il tragitto, ma non avevo paura che si fosse arrabbiata,
le
sarebbe comunque passata prima o poi. Noi eravamo come amiche e a volte
capitava anche a noi di litigare.
Sharon prese lo zainetto
di Sarah
e il disegno che aveva fatto all’asilo, lo aprì
prima di entrare in casa e lo
guardò in silenzio. C’erano tutti quanti: Anto,
Bill, Sharon, Stefan, Alex, io
e Tom, poi c’era scritto: La mia
famiglia, Sarah.
Lo guardai con lei e gli
indicai
tutte le persone presenti: «Io non avevo tutte queste persone
che mi volevano
bene accanto, ricordatene la prossima volta, prima di dire qualche
altra
fesseria.» Dopodiché entrai in casa con in braccio
Sarah e appena mi videro
tutti quanti si alzarono dal divano e dalle poltrone e mi guardarono.
«Ciao a tutti,
tornate!», dissi
salutando con la mano di Sarah.
Stefan e Alex mi
sorrisero e
presero subito in braccio Sarah, era il loro tesoro,
l’adoravano, e iniziarono
a coccolarla.
Dietro di me comparve
Sharon e
poggiò lo zainetto e il disegno me lo diede a me, per poi
rifugiarsi tra le
braccia di Anto, che le accarezzò il viso.
«Sei
tornata», le sussurrò
baciandola sulla fronte. Mi guardò riconoscente, ma io
scossi la testa e alzai
le mani, non ero stata io a trovare lei, ma lei era venuta da me.
«Ma che
cos’hai fatto alla
guancia?», chiese Bill sfiorandole il rossore.
«Colpa mia,
scusa», dissi.
«L’hai…
l’hai presa a schiaffi?»,
chiese Anto stupita.
«Se lo
meritava», dissi, e Sharon
annuì guardando gli occhi preoccupati della madre.
«Tom, devo
chiederti un favore»,
dissi avvicinandomi.
«Dimmi»,
mi abbracciò e mi
strinse a sé cullandomi.
«Posso dormire
fuori?»
«Che
cosa?», mi staccò
bruscamente e mi guardò negli occhi. «Che cosa
stai farneticando?» Sembrava
isterico.
Gli gettai le braccia al
collo e
lo baciai. Subito Stefan e Alex girarono la testa dall’altra
parte e coprirono
gli occhi a Sarah imbarazzati, Bill ridacchiò e Anto e
Sharon rimasero a
guardare come se nulla fosse.
«Tom, stai
calmo», dissi
accarezzandogli le guance.
«No, non sto
calmo per niente!
Che vuol dire che mi chiedi se puoi dormire fuori? È
assurdo! Perché?»
«Ho bisogno di
stare un po’ da
sola, vado da papà.»
«Ma
perché!?», urlò, tale e quale
ad un bambino.
Gli misi un dito sulle
labbra e
sorrisi. «Ne parliamo di là?», chiesi.
Annuì
controvoglia e andammo in
camera nostra a parlare.
In salotto erano rimasti
tutti un
po’ sorpresi dalla mia proposta, Sharon era passata in fretta
in secondo piano,
ma appena me ne fui andata, tutti gli sguardi si puntarono su di lei.
«Che
cos’è successo?», chiese
Anto.
«Che io
sappia, nulla», si difese
lei.
«Sul serio, di
cosa avete
parlato», insistette Bill.
«Papà,
ho fatto qualcosa di
sbagliato? È colpa mia?»
«No, non ti
preoccupare Sharon,
non è colpa tua.» Anto la tranquillizzò
e la fece sedere sul divano. Si misero
seduti al suo fianco e Bill le accarezzò le mani.
«Allora,
raccontaci che cosa vi
siete dette.»
Stefan e Alex misero
Sarah sul
tappeto di fronte a loro e si misero a giocare distrattamente con lei
con i
cubetti di legno per formare delle figure. Erano interessati
più alle cose da
grandi che ai cubetti.
«Mi ha
raccontato di quando lei e
zio si sono lasciati.»
Anto schioccò
la lingua e guardò
il pavimento per un istante, rabbrividì e poi
tornò a guardare la figlia.
«Poi…
poi mi ha tirato lo
schiaffo perché lei aveva detto che eravate preoccupati per
me e io le ho
risposto che non mi importava. Lo so, ho sbagliato, ha fatto bene. Mi
perdonate?» Bill e Anto annuirono, ma volevano sapere il
resto. «Poi abbiamo
parlato del disegno.»
«Quale
disegno?», chiese Anto.
Sharon si
alzò e prese il disegno
fatto da Sarah, lo mostrò ai suoi genitori e tutti capirono
il perché del mio
comportamento.
«Ora
è tutto chiaro», dissero in
coro.
«Che cosa
è chiaro?»
«Che cosa ti
ha detto riguardo a
questo?»
«Che ero stata
stupida a dire che
non mi importava, perché lei non aveva mai avuto tutto
questo. Mamma, che cosa
aveva zia da piccola?»
«Da piccola?
Davide e me.»
Sharon si
sentì morire. «Solo?»,
chiese senza fiato.
«Solo»,
annuì amaramente Anto.
«Capisci perché si è arrabbiata
così tanto? Lei non aveva niente di ciò che hai
tu.»
«Come facevo a
saperlo, non me
l’ha mai detto.»
«E tu
gliel’hai mai chiesto?»
Sharon
abbassò lo sguardo e si
pestò un piede. «No», disse a malapena.
«E quando
è morto Davide, che
cos’ha avuto?», chiese Stefan.
«Aveva noi,
per fortuna», disse
Bill.
«E sua madre,
suo padre?», chiese
Sharon.
«Sua madre era
come se non ci
fosse, suo padre non sapeva come fare a starle vicino, fino a quando
non si
sono trovati assieme per forza, uniti dalla tragedia.»
«È
orribile», commentò Alex
stringendo Sarah fra le braccia.
«Lo
so», disse Anto.
Sentirono la voce di Tom
provenire da sopra le scale: «Ti prego, stai attenta. Per
qualsiasi cosa
chiamami che ti vengo a prendere.»
«Ok, va bene,
non ti
preoccupare.»
«Lo sai che mi
preoccuperò lo
stesso.»
«E io mi
preoccuperò per Sarah,
soprattutto. Stefan e Alex sono grandi ormai. Non impazzire senza di
me, mi
raccomando», ridacchiai.
«Sì,
scherza, scherza, io vado
fuori di testa sul serio. Non puoi capire. Mi stai facendo del
male.»
«Mi dispiace
Tom, te lo giuro. Ti
fidi di me?»
«Sì,
ma mi fido sempre un po’
troppo di te.»
«Dai, so che
puoi farcela.»
«E tu, puoi
farcela?»
«Sì,
ce la farò. Semmai ti chiamo
e mi vieni a prendere.»
«Brava, hai
afferrato il
concetto.»
Stefan, Alex, Anto, Bill
e Sharon
si guardarono e Anto annuì leggendo nel pensiero di tutti.
«Allora va
davvero», sussurrò
Sharon con lo sguardo spiritato.
«Sì,
ma non ti preoccupare,
torna.»
Scesi le scale con la
borsa in
spalla e vidi tutti che mi fissavano tristi.
«Non puoi
andartene», disse
Sharon sull’orlo delle lacrime.
«Io non me ne
vado», dissi. «Non
me ne andrò mai.»
«E allora
perché vuoi varcare
quella soglia?», indicò la porta con il dito, le
lacrime scorrevano libere sul
suo viso.
«Sharon, tu
sai?», chiesi.
«Sì,
lei sa», disse Anto.
«Gliel’avete
detto?», mi
aspettavo tanto un no.
«Non avevamo
altra scelta.»
«Basta che non
resti in pena per
me, non ne ho bisogno. Dai Shary, smettila di piangere.»
«Anche zio ha
pianto», disse
tremando.
«Non
è vero!», si difese Tom, ma
si vedeva benissimo dai suoi occhi rossi.
«Qui qualcuno
non ha capito che
io amo questa vita, non me ne andrei mai, io vado solo a trovare mio
padre: sono
mesi che non lo vedo. Non vi lascerei mai e poi mai, non sono come una
certa
persona che mi ha fatto del male, io ci sarò. Io sono
moglie, sono mamma, sono
amica, sono… cognata – contento Bill? –,
sono zia. Non me ne andrò mai! Voi
siete tutto per me, non dimenticatelo mai.»
Mi voltai e presi veloce
le
chiavi della macchina. Baciai Stefan, Alex, Sarah, facendogli
l’unica
raccomandazione di non stare in pensiero per me, ci sarebbe stato
abbastanza
Tom. Salutai Bill e Anto e al momento di Sharon lei mi
guardò con gli occhi
pieni di lacrime.
«Non andare,
ti prego», sussurrò.
«Devo»,
risposi impassibile.
«Ti
odio.» E corse di sopra in
camera sua.
«Sharon!»,
gridò Bill.
«Lasciala
andare.»
«Ma
Ary!»
«Lasciala. Me
lo merito. Odiatemi
pure voi.» Presi la maniglia della porta e la aprii, sentii
il gelo riempirmi i
polmoni.
«Io non ti
odio», disse Tom.
«Questo lo
sapevo», dissi
ridendo. «Beh, per una volta provaci. L’hai detto
tu che ti sto facendo del
male.»
«Ma non ci
riesco.»
«So pure
questo. Nemmeno io ci
riuscirei, non ci sono mai riuscita. Torno presto, fate i bravi. Ti amo
Tom.»
«Questo lo so
da sempre», disse
lui con un sorriso. E mi chiusi la porta alle spalle.
Non mi piaceva guidare,
ma in
quel caso mi fece sentire stranamente libera, anche se sentivo
già la mancanza
della mia famiglia. Non potevo tornare indietro.
Feci un lungo respiro e
pensai a
cosa dire a mio padre quando mi avrebbe chiesto che cosa ero andata
lì a fare
da sola. Ero andata a ritrovare me stessa, una parte di me, quella
più debole e
fragile, la bambina che c’era nel mio profondo, che avevo
tenuto nascosta
troppo a lungo. Volevo riabbracciare mio padre e riscoprire con lui le
fasi
della mia triste infanzia sbiadita dal tempo. La mia memoria non era
perfetta e
volevo che ritornasse lucida, volevo di nuovo essere consapevole di
quello che
avevamo passato assieme.
La solitudine che
sentivo dentro
mi faceva star male, inoltre non c’era nessuno a
quell’ora tra le strade di
solito sempre affollate. Il mio era un viaggio solitario verso la
solitudine.
Odiavo la solitudine, ma ci dovevo passare per ritrovare la compagnia e
la
serenità che invece adoravo.
Parcheggiai di fronte a
casa di
papà e spensi i fari, rimasi un attimo a riflettere in
macchina e vidi delle
ombre dietro la finestra della cucina, probabilmente stavano per
mangiare. In
effetti avevo anch’io un certo languorino.
Scesi e mi misi la borsa
sulla
spalla, bussai e attesi che qualcuno mi venisse ad aprire. Era strano
non avere
le chiavi di quella casa, anche se ero sempre la benvenuta.
«Tesoro!»
«Ciao Lilian,
come stai?»
«Bene,
ma… che ci fai qui a
quest’ora? E come mai sei da sola?»
«Vi
spiegherò tutto più tardi.»
La baciai sulle guance
regalandole un sorriso e poi mi diressi verso la cucina, dove trovai
papà e
anche Mattia seduti al tavolo che mangiavano uno dei buonissimi piatti
cucinati
da Lilian, la seconda moglie di mio padre. Alla fine si erano sposati.
«Bambina
mia!», gridò mio padre
appena mi vide. Si alzò lasciando la forchetta nel piatto e
mi abbracciò con
decisione. Mi era mancata quella stretta. Ricambiai e chiusi gli occhi,
respirando
a pieni polmoni il suo profumo.
«Come stai
papà?», chiesi.
«Ma chissene
frega di come sto
io! Come stai tu?!»
«Io sto bene,
non preoccuparti.»
Mi prese il viso tra le
mani e mi
baciò la fronte, com’era solito fare.
«Sembri stanca invece», mi sussurrò.
«Non
è vero.»
Mattia si
alzò e fu il suo turno
per i baci e gli abbracci.
«Ciao
sorellina.»
«Ciao Mattia,
come stai?»
«Bene.
È stata una fortuna venire
qui proprio oggi. Perché non ci hai detto che
venivi?»
«Perchè
non lo sapevo, non era
una cosa organizzata. Non vedi che Tom e i bambini… i
ragazzi e Sarah non ci
sono?» Ero ancora abituata a dire bambini, quando invece
Stefan e Alex ormai
erano grandi.
«Sì,
ma adesso siediti e mangia
qualcosa con noi.» Papà mi prese per le spalle e
mi fece mettere accanto a
Mattia, per vedermi bene in viso.
«Allora, a
casa tutto bene? Come
stanno gli altri?»
«Tutto bene,
è solo che Sharon
sta crescendo, è nel suo periodo di ribellione. Mi ha fatto
riflettere. Papà,
possiamo parlare un po’ da soli? Vorrei chiederti alcune
cose. E poi devo
tornare a casa, sai com’è Tom, si preoccupa
molto.»
«Ok, va
bene.»
Assaggiai solo un
boccone di
pasta e come sempre dissi a Lilian che era ottima, poi mi diressi
assieme a mio
padre verso la cantina al piano di sotto.
«Mi spieghi
che cosa stai
combinando?», mi chiese.
«Papà,
voglio ricordare.»
Ci fermammo sulle scale
buie e ci
guardammo negli occhi grazie solo alla luce che proveniva dal
corridoio. Nei
suoi vidi un bagliore argentato: lacrime. Lo strinsi e lo lasciai
singhiozzare
sulla mia spalla, ma anch’io avrei voluto piangere. Quel
giorno c’erano state
fin troppe lacrime.
«Prendi tutto
quello che vuoi»,
disse tremante. «È tutto in quella
scatola.» Me ne indicò una abbastanza
grande, con la scritta Fragile
su un
lato.
«Grazie
papà.»
Annuì e si
accinse a risalire di
nuovo le scale in silenzio, asciugandosi le guance.
«Ah,
papà aspetta. Un’ultima cosa.»
Si girò e rimase in silenzio. «Che fine ha fatto
mamma?»
***
«MAMMA!»
«Ma
Sarah… Papà!»
«Che cosa
c’è?» Prese Sarah in
braccio e la cullò tentando di farla smettere di piangere e
di urlare. I suoi
singhiozzi lo facevano stare male il doppio perché la causa
ero io, non avrebbe
mai voluto che fosse così.
«Sarah, mamma
torna presto. È
andata a trovare il nonno.»
«Mamma»,
singhiozzò ancora.
«Anch’io
la voglio», sussurrò
Tom. Guardò i gemelli e con lo sguardo gli disse di andare a
letto, loro si
alzarono dal tappeto e obbedirono.
«Sarah, vuoi
che ti preparo il
latte?», le chiese dirigendosi verso la cucina. La piccolina
annuì con la
testa. «Ok, allora adesso ci beviamo il latte e andiamo a
fare la nanna.»
In cucina
c’era Anto che aveva
già messo il latte a scaldare, facendo un favore a Tom, che
la ringraziò. Si
mise seduto al tavolo con Sarah fra le braccia e chiuse gli occhi
respirando il
suo profumo, così simile al mio.
«Bill che fine
ha fatto?», chiese
all’improvviso.
«È
andato a parlare con Sharon.
Non posso crederci che le abbia detto ti
odio.»
«È
una ragazzina Anto, non sapeva
cosa diceva.»
«Sì,
ma loro due sono così
attaccate… Per lei Ary è come una migliore
amica.»
«Ary non ti ha
mai detto ti
odio?»
«No, non si
è mai permessa. Ma
l’ho fatto io.»
«Allora
è un vizio di famiglia»,
scherzò Tom.
Anto diede il biberon
con il
latte a Sarah dopo aver provato la temperatura sul polso e si mise
seduta
accanto al cognato.
«Perché
Ary se n’è andata?»,
chiese sottovoce.
«Doveva
recuperare della roba a
casa di suo padre, dovrebbe tornare domattina.»
Sarah si
agitò fra le braccia di
Tom con gli occhi gonfi di lacrime, voleva ancora piangere la sua mamma
che non
c’era.
«No Sarah,
mamma torna presto,
non ti preoccupare. Non lo vuoi più?»
Sarah si tolse il
biberon dalla
bocca e lo diede a Tom strofinandosi gli occhi umidi con una manina.
«Tu hai
sonno», disse Tom.
«Andiamo a fare la nanna. Anto, la accompagno su, ci vediamo
dopo.»
«Ok. Ma Stefan
e Alex, come
l’hanno presa?»
«Abbastanza
bene, si fidano di
lei.»
«E
tu?»
«Anch’io
mi fido di lei, sono
solo tremendamente in pensiero. Starle lontano quando non devo mi mette
in ansia.»
«Lo
so», Anto gli sorrise e lo
abbracciò, per quanto poteva essere di conforto.
***
Strinsi i pugni sulle
coperte e
guardai il soffitto scuro, attraversato solo da un filo di luce lunare
proveniente dalla finestra. Quella camera non mi era familiare, mi
trovavo a
disagio e volevo tornare a casa, dalla mia famiglia. Così mi
alzai, mi rivestii
in fretta e lasciai un biglietto sul frigo a papà e Lilian,
ringraziandoli, poi
uscii di casa.
Il cielo era ricoperto
di nuvole
e nuovi fiocchi di neve si prestavano a scendere e a rinfrescarmi il
viso. Il
silenzio che c’era si accompagnava bene a ciò che
sentivo dentro. Se chiudevo gli
occhi riuscivo ad immaginare un cimitero sconosciuto, tra le cui lapidi
c’era la
sua, semplice, con la foto che la ritraeva ancora sorridente e la data
della
sua nascita e della sua morte, senza alcuna frase ad accompagnare il
suo addio.
In auto, mentre guidavo
sulla
strada illuminata solo dai fari della mia macchina, una Mini azzurra, e
le
lacrime scivolavano sulle mie guance che erano un piacere a contatto
con l’aria
gelida che entrava dal finestrino, la mia mente venne investita da
così tanti
pensieri contemporaneamente che mi fu impossibile non pensare a niente.
Mi
scoppiava la testa e volevo solo fuggire via, anzi no, volevo tornare a
casa.
Un pensiero
però prevalse su gli
altri. Io e mia madre eravamo sempre state identiche su due cose: la
solitudine
che a volte ci catturava e ci allontanava da tutto il resto e la
sofferenza che
avevamo provato nel corso della nostra vita. Quanto dolore e quanta
solitudine.
Io ero stata più fortunata però. Avevo trovato
una persona speciale come Tom
che mi aveva aiutato nei momenti difficili, poi accanto avevo le
migliori
persone che conoscevo al mondo. Loro mi avevano dato la forza per
andare
avanti, per non arrendermi mai, invece lei si era subito arresa.
Papà aveva
tentato di salvarla, ma era in una situazione troppo disperata per
guarire. Si
era lasciata andare troppo presto e la solitudine l’aveva
uccisa.
Mi tenni stretta al
pensiero di
Tom, Stefan, Alex, Sarah, Bill, Anto, Sharon, Gustav, Georg, Nicole,
Giulia,
Anne, Christin, papà, Lilian, Mattia… Pensai a
tutte quelle persone che mi
stavano a cuore e che mi volevano bene e arrivai a casa più
attaccata che mai
alla mia vita, alla mia voglia di vivere. Io non mi sarei mai e poi mai
arresa,
avrei lottato fino alla fine dei miei giorni.
La luce chiara del sole
all’alba
mi riportò il ricordo di Davide che mi abbagliava con il suo
bellissimo sorriso
nei giorni assolati d’estate, nonostante nevicasse e fosse
pieno inverno. Mi
sentii immersa in una strana pace interiore e capii che Davide mi era
accanto e
che era lui ad aiutarmi più di tutti in quel mio lungo
viaggio.
Sorrisi e scesi dalla
macchina
asciugandomi il viso. Presi lo scatolone dai sedili posteriori ed
entrai in
casa senza fare rumore.
Mi levai la giacca in
fretta e la
lanciai sul divano, mi misi seduta a gambe incrociate sul tappeto del
salotto e
aprii la scatola. Con immensa gioia trovai il mio pupazzo preferito,
che però
era passato a Davide quando io ero diventata troppo grande. Me lo
strinsi al
petto e ritornai un po’ bambina. C’erano un sacco
di filmini e di foto di me e
Davide, ma soprattutto di lui. Infilai una di quelle cassette nel
registratore
e partì un video che aveva il mio caro fratellino come
protagonista. Restai a
guardare il suo bel viso senza parole, mentre ridevamo e ci tiravamo
palle di
neve sul terrazzo di casa.
Gettai
un’ultima occhiata allo
scatolone e sul fondo intravidi un diario. Mi venne un colpo al cuore.
Lo presi
fra le mani con delicatezza e una sensazione di malessere interiore mi
avvolse.
Da sempre avevo odiato quel diario, ma avevo una strana voglia di
stringere
pure quello al petto. Lo sfogliai e l’odore di inchiostro
sulle pagine mi
riportò alla notte di troppi anni prima in cui
l’avevo letto, senza riuscire
più a dormire. Sull’ultima pagina, c’era
una foto rarissima: eravamo io e mia
madre, strette in un abbraccio. Io sorridevo e lei era ancora in
sé, in quella
foto sembrava anche volermi bene. La girai e lessi la frase che aveva
scritto
di fretta, con la sua calligrafia simile alla mia:
Il
più bel errore della mia vita, ma l’ho capito
troppo tardi. L’avevo già perso.
La data coincideva ad
una
settimana prima della sua morte.
Quella sì che
la strinsi al
petto, e scoppiai pure a piangere e a singhiozzare forte, non avevo
paura di
farmi sentire. Le risate mie e di Davide continuavano ad esserci in
quel
momento di tristezza, il mio cuore scoppiava nella cassa toracica e mi
sentivo
tremendamente in colpa. Forse eravamo simili in un’altra
cosa: ci facevamo del
male da sole.
«Ary»,
sussurrò Tom prima di
correre giù dalle scale e di stringermi forte al suo petto.
«Ary, cosa ti è
successo?»
Scossi la testa e mi
strinsi a
lui, lasciando sul tappeto la foto, che lui prese, guardò e
ne lesse il retro
sottovoce.
«Ary, ti
prego, non piangere. Mi
spieghi cos’è successo?»
«È
morta», sussurrai, ero senza
voce. «Si è… si è
suicidata.»
«Cosa? Ary, mi
dispiace tanto. Ma
quando è successo?»
«Sei mesi dopo
il nostro ultimo
incontro in America», singhiozzai.
«Amore…»
«Sono
stanca», sussurrai.
Mi aiutò ad
alzarmi e mi
accompagnò in camera, trovai Sarah sdraiata al mio posto tra
le coperte. Mi
accucciai accanto a lei e le accarezzai i capelli con dolcezza, poi
feci sedere
Tom al mio fianco.
«Resta qui, ti
prego», lo
supplicai.
«Certo che
resto qui.» Mise Sarah
fra le mie braccia sorridendo e si mise sdraiato accanto a me, io nelle
sue
braccia.
Quando mi
abbracciò mi sentii
estremamente protetta e non fu difficile per me addormentarmi.
_________________________________________
Buongiorno
a tutti!
Capito un po’ tristino, devo ammetterlo
ç_ç Fra Derek che
lascia Sharon e la mamma di Ary… Ah, finalmente si
è venuto a sapere che fine
aveva fatto quest’ultima dopo il loro ultimo incontro a Los
Angeles…
Spero che vi sia piaciuto, è uno dei miei preferiti! :)
Ringrazio di cuore le due fans affiatate di questa FF, ossia
Tokietta86
e Utopy
che non mancano mai! Grazie ragazze, davvero *-*
Grazie anche a chi legge soltanto, un bacio. Alla prossima
settimana, vostra
_Pulse_
|
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Capitolo 13 *** It’s always (a) life ***
Capitolo 6
It’s always
(a) life
«Mi dai un
passaggio fino in
studio?», chiese fissando gli occhi di suo zio.
Era rimasta scioccata
sapendo di
mia madre, in quei due giorni aveva scoperto più di me in
tutti e sedici i suoi
anni. Il dolore per Derek era stato spazzato via, ma appena la
situazione si era
ristabilizzata era riaffiorato più forte di prima, anche se
ancora non era
riuscita a capire fino in fondo perché proprio a lei fosse
capitata una cosa
del genere. Aveva voglia di sfogarsi e una canzone era ciò
che ci voleva, a
volte era proprio l’unico modo.
Scesi dalle scale e vidi
la
scatola in un angolo, ancora non avevo deciso dove metterla, e
sull’ultimo
gradino c’era Sarah che giocava con il mio ex pupazzo, un
orsacchiotto
spelacchiato da quanto era stato usato, sia da me che da Davide.
All’inizio
volevo dirle di stare attenta a non rovinarlo, ma appena se lo strinse
al petto
baciandone il pelo chiaro, mi venne naturale sorridere e mettermi
seduta
accanto a lei. Mi guardò e sorrise mostrandomi le sue
tenerissime fossette
sulle guance, mi abbracciò stringendomi una ciocca di
capelli nella mano e mi
baciò sulla guancia, facendomi ridere felice. Era possibile
che solo la sua
presenza, il suo amore, mi rendesse così infinitamente
felice? Sì, era più che
possibile.
Tom non badò
all’insistenza di
Sharon e si sporse sul tavolo per vedere fuori dalla cucina: vide me e
Sarah
strette in un abbraccio, io con il sorriso sulle labbra.
«Perché
non chiedi ad Ary? Lei
deve andare al lavoro adesso», disse tornando con lo sguardo
su di lei.
«Non penso sia
una buona idea»,
sbottò la ragazza mettendosi le braccia al petto.
«Beh, allora
credo proprio che
resterai qui.»
«Vado con la
bici.» Era già
pronta a scattare, ma Tom le prese il polso e la fece girare ancora
verso di
lui.
«Ascoltami»,
le disse ad una
distanza paurosa dal suo viso. «Perché non la
smetti di fare la bambina?»
«Non sto
facendo la bambina.»
«Ah no? Allora
perché non ti
decidi a far pace con lei? Senti. Ary non lo fa vedere, ma le manchi.
Ok? Ce ne
siamo accorti tutti che manca pure a te, ma sei cocciuta peggio di
Bill.
Quindi… mi faresti questo piacere?»
Parve pensarci su, ma la
risposta
fu solamente deludente: «Non farò pace con lei
solo perché mi fa pena.»
«Non devi far
pace con lei perché
ti fa pena!», gridò a mezza voce. Non poteva
credere che avesse intuito una
simile stupidaggine dalle sue parole. «Ma perché
non è vero che la odi, la
verità è che ti manca e che le vuoi
bene.»
Sharon si morse
nervosamente il
labbro e sospirò quando suo zio sorrise e uscì
dalla cucina.
«Ary!»,
mi chiamò anche se era a
pochi metri da me.
«Sì,
che c’è?», chiesi e vidi
spuntare da dietro di lui Sharon, con lo sguardo basso.
Anche Sarah sentiva che
c’era
qualcosa che non andava nella cugina, ma io sapevo anche il motivo, e
quel
motivo ero io.
«Accompagneresti
Sharon in studio?»
«Ahm,
sì, certo.» Mi alzai e
quasi ebbi paura di stare sola con lei, ma passò subito. Mi
sistemai la
maglietta addosso e sorrisi a Sarah che si era stretta ancora al petto
il
pupazzo.
«Dove
vai?», mi chiese con la sua
voce dolce.
«Accompagno
Sharon in studio e
poi vado al lavoro, ci vediamo dopo, torno presto.» Le
accarezzai la guancia e
la baciai sulla fronte. «Ehi, ma come sei calda!»
La baciai ancora spostandole
i capelli dal viso facendo più attenzione alla temperatura:
in effetti era più
calda del solito.
«Tom, mi sa
che ha la febbre»,
dissi prendendola in braccio.
Lui me la prese dalle
braccia e
la misurò anche lui, io intanto guardai Sharon, che appena
incrociò il mio
sguardo si girò verso Tom e Sarah.
«Sì,
forse un po’. Ma vai, semmai
ti chiamo, tranquilla.» Mi fece un buffetto sulla guancia e
salì di sopra con
Sarah in braccio, lasciandoci sole.
Ci guardammo e lei
subito fuggì,
così io feci un respiro profondo e andai a prendere la
giacca. Non poteva
continuare così!
Aspettai che anche
Sharon prese
la sua borsa e si mise il cappotto, poi uscimmo e salimmo in macchina.
Il silenzio tra noi era
imbarazzante e freddo, sarei congelata, così tirai fuori un
argomento a caso.
«Ho letto che
in questi anni
l’inquinamento atmosferico è aumentato ancora del
trenta percento.» Me ne
pentii subito: quello poteva essere davvero un argomento con il quale
riprendere a parlare con una sedicenne? Volevo tirarmi uno schiaffo in
fronte,
ma la sua risata mi fece voltare verso di lei.
«Oh
sì, e se continuiamo così va
a finire che dovremmo andare in giro con le bombole
d’ossigeno attaccate alla
schiena.»
Incredibile, ma aveva
funzionato.
Solo per poco purtroppo. Mi arresi al silenzio, forse non era ancora il
momento
giusto per riprendere a parlare, ma a me mancava tanto la mia dolce
nipotina,
con cui condividere tutto e parlare di ragazzi a colazione, pranzo e
cena.
Tutti i nostri segreti mi mancavano, tutte le piccole cose, le gioie di
ogni
giorno dovute a lei mi mancavano.
Sharon si
schiarì la gola e si
sistemò meglio sul sedile mettendo un braccio accanto al
finestrino, che
reggeva la testa.
«Senti
zia», balbettò.
«Sì,
che c’è?», quasi gridai di
gioia, magari quel momento era arrivato. Lei sorrise e poi rise,
contagiandomi.
«Zia, mi sei
mancata così tanto…
Mi dispiace.»
«E di
cosa?»
«Per averti
detto che ti odio, lo
sai che non è vero. Sono stata una stupida.»
«Non fa niente
tesoro, lo sapevo
benissimo che non l’avevi detto con la testa, eri solo
arrabbiata e facevi bene
ad esserlo. Non dovevo andarmene via così, io.»
«Io avrei
fatto la stessa cosa se
fossi stata in te. Zia, mi dispiace anche per…»,
mimò qualcosa per non dire
quelle parole.
«Per cosa,
Sharon?»
«Per tua
mamma», sussurrò con gli
occhi persi sulla strada.
«Ah.
Sì, dispiace pure a me.
Mamma ti ha raccontato la storia?»
«Sì,
mi dispiace tantissimo.
Dimmi solo una cosa.»
«Quale?»
«Credi che ti
avrebbe fatto più
male se nonno te lo avesse detto subito?»
Era tale e quale a sua
madre,
quando doveva dire qualcosa la diceva e basta, senza pensare ai
sentimenti
altrui. Ma Anto con me era sempre stata un caso a parte, mi conosceva
bene.
Invece Sharon no, non c’era quel legame magico che
c’era tra me e sua madre, la
sua sincerità faceva male e bene allo stesso tempo.
Sorrisi amara mentre
parcheggiavo
di fronte alla sede della Universal e spegnevo il motore.
«Sai
Sharon», mi gira sul sedile
e la guardai negli occhi. «Credo che sarebbe stato lo stesso.
Forse avrei
reagito in modo diverso, forse sarei andata in isolamento a fare skate
o farmi
una bella nuotata in piscina, invece che piangere e piangere tra le
braccia di
Tom. Comunque lui ci sarebbe stato, come tuo padre, e tua madre.
Sarebbero
stati sempre al mio fianco. Ma è sempre stato
così. E papà… credo che
l’abbia
fatto solo per il mio bene, pensava che quell’altro dolore,
pur sempre
inferiore, non mi avrebbe fatto bene. Quindi, credo proprio che sarebbe
stato
uguale.»
Sharon annuì
e mi fece un piccolo
sorriso stendendo le braccia verso il mio collo, che cinse dolcemente
in un
abbraccio.
«Ti voglio
bene, zia.»
«Anch’io
te ne voglio tanto,
piccolina.»
Ci guardammo negli occhi
e
sorridemmo. Ero contenta come una bambina che tutto si fosse sistemato
in modo
così veloce.
«Zia, non ho
più voglia di
chiudermi in studio, posso venire al lavoro con te?»
«Certo,
andiamo.»
Misi in moto e non feci
nemmeno
in tempo a mettere la retromarcia che suonò il mio
cellulare, Sharon frugò
nella mia borsa e me lo passò.
«Pronto»,
risposi.
«Ciao Ary, ha
chiamato Mattia e
gli ho accennato la febbre di Sarah, ha voluto vederla. Siamo in
ospedale, ci
raggiungi?»
«Ovviamente!
Arrivo subito Tom.»
«Va bene, a
tra poco.»
Chiusi il cellulare e
guardai
Sharon al mio fianco. «Sono cambiati i programmi.»
Poco dopo arrivammo in
ospedale e
incontrammo subito Mattia che stava andando a controllare la mia
piccola Sarah.
«Ehi, ciao
sorellina», mi baciò
sulla testa e ci portò al suo studio.
«Buongiorno a
tutti», disse
entrando e chiudendosi la porta alle spalle.
«Ciao Tom,
ciao ragazzi, ciao
piccola.» C’erano anche Stefan e Alex,
quest’ultimo aveva una faccia triste, ma
non me ne preoccupai molto perché Sarah non faceva altro che
agitarsi e
piagnucolare.
«Ehi cucciola,
che cosa c’è?»,
chiese Mat prendendola in braccio e portandola sul lettino.
«Dici che
è grave?», chiesi
preoccupata.
«Ary,
rilassati, non ho ancora
iniziato!»
«Sì,
scusa.» Mi grattai la nuca
imbarazzata e andai a sedermi accanto a Tom, che mi prese la mano.
Sharon si
mise seduta su una gamba di Stefan, accanto ad un Alex completamente
assente,
aveva la testa da tutt’altra parte.
«Allora,
vediamo un po’ cos’ha
questa bella bambina. Da quanto ha la febbre?», chiese a Tom.
«Ce ne siamo
accorti stamattina.»
«Mmm»,
le tastò il collo in
diversi punti e Sarah ogni tanto si agitava cercando di spostarsi.
«Ti fa male la
gola?», le chiese.
Prese una lucina e le fece aprire la bocca per controllarla.
«Ha delle
placche e dei linfonodi
sul collo, uniti alla febbre, sono tutti sintomi della mononucleosi,
più
comunemente detta Malattia
del bacio.»
«Malattia del bacio?»,
chiese Tom a bocca aperta.
«Sì,
tra i bambini si propaga
soprattutto attraverso la saliva. Quando vanno all’asilo
è molto comune.»
Sorrise a Sarah e dalla
scrivania
le prese un lecca lecca, glielo porse. «Tieni
piccola», le accarezzò i capelli
sulla testa.
«Quindi, cosa
dobbiamo fare?»,
chiesi.
«Beh,
niente.»
«Come niente?»
«Sì,
contro la mononucleosi non
vi sono cure specifiche e gli antibiotici non servono a nulla. Le
uniche cose
consigliate da fare sono il risposo a letto fino alla scomparsa della
febbre, e
bisogna evitare attività fisica pesante per uno due mesi, ma
visto che Sarah è
piccola, basta che riposi.»
«E non le
succederà niente?»
«No,
assolutamente niente. Il
decorso naturale è benigno.»
«Adesso non
è più infettiva?»
Mattia guardò
Sarah leccare lo
zucchero con il sorriso sulle labbra e le accarezzò la
guancia mentre
rispondeva.
«No, non
dovrebbe. Ma per
precauzione evitate di bere dagli stessi bicchieri e di usare le stesse
posate.
Per il resto dovete solo stare tranquilli.»
«Ok, va bene.
Grazie Mattia»,
dissi alzandomi.
«Di niente,
figurati.» Prese
Sarah in braccio e la fece scendere dal lettino. Lei andò
sicura a prendere la
mano di suo fratello Alex, che per un attimo parve riprendersi quando
le
sorrise, ma poi tornò con la stessa aria triste di quel
pomeriggio.
Stavamo per uscire dallo
studio,
quando Mat mi prese la spalla e mi chiese di parlare un attimo con lui
da sola.
«Ahm,
ok», dissi guardando Tom
che mi aveva dato il permesso sorridendo.
Mattia chiuse di nuovo
la porta e
mi fece sedere su una delle due poltrone di pelle rossa di fronte alla
sua
scrivania.
«Di che cosa
dobbiamo parlare?»,
chiesi quando anche lui si fu seduto di fronte a me, con le mani unite
sul
tavolo.
«Mi dispiace
molto per tua
madre.»
«Tu lo
sapevi?»
«No, ce
l’ha detto tuo padre, a
me e a Lilian, dopo che tu te ne sei andata, quella sera.»
«Ah.»
«Come ti
senti?»
«Come dovrei
sentirmi?», sospirai
appoggiando le braccia alla scrivania. «Mi sento come se
l’avessi uccisa io.
Ovviamente, è stata tutta colpa mia.»
«Ma cosa stai
dicendo?», si alzò
e si mise seduto accanto a me per abbracciarmi. «Tu non
centri proprio niente,
non è colpa tua.»
«Invece
sì, è tutta colpa mia. Se
le fossi stata più vicina, se l’avessi perdonata
al posto di rinfacciarle ogni
giorno che mi aveva trattata da schifo forse… forse sarebbe
ancora qui.»
«Ary non devi
perdonare nessuno
se nei tuoi confronti non sono stati altrettanto gentili. Tu non puoi
essere
sempre quella brava.»
«Mattia, ti
prego. Qui si tratta
di una vita, una vita che grazie a me poteva non spegnersi. La vita va
avanti,
lo so benissimo da me, però non dirmi che io non centro
nulla e che non potevo
farci niente. No, perché mi stai mentendo.»
Mi alzai e mi lasciai
accompagnare da lui alla porta, me la aprì da vero cavaliere
e mi fece uscire
in silenzio. Quando mi girai mi sorrise nel modo tanto angelico che
conoscevo
bene.
«Ci
vediamo», dissi alzando la
mano. «E grazie.»
«Di
nulla.»
Vidi quel pezzo della
mia
famiglia seduta non lontano da lì e sorrisi vedendo Sharon
in piedi che
raccontava qualcosa con grandi gesti e l’eccitazione nella
gola.
«Ehi, di che
si parla?», chiesi
raggiungendoli.
«Raccontavo di
come abbiamo fatto
pace, è stato troppo divertente!», rise Sharon.
Tom mi guardò
e strinse al petto
Sarah baciandola sui capelli e sorridendomi malizioso.
«Guarda che
non sono gelosa di mia
figlia», dissi
mettendomi le mani
sui fianchi.
«Ah no? Allora
non ci sono
problemi se la porto io in macchina.»
«Ma
così non vale! E va bene,
allora io prendo Stefan, Alex e Sharon.»
«Anche tu sei
scorretta! Non puoi
prenderne tre!»
«E chi lo
dice? Forza, andiamo
scemo.»
Si alzarono e ci
dirigemmo
assieme verso l’uscita, Sharon abbracciata di traverso ad
Alex. Tutti sapevano
che cosa gli prendeva tranne io oppure nessuno lo sapeva e tutti
cercavano di
tirarlo su di morale?
«Comunque tu scemo
non mi chiami, capito?», mi rimproverò Tom
tirandomi un
pizzicotto ed incominciando a correre.
«Ecco, corri
perché se ti prendo
vedi!», riuscii a strappare un sorriso al mio Alex.
_____________________________________________
Buonasera a tutti! ^-^
Questo capitolo è corto, d’ora in
poi saranno più o meno tutti così, non so
perché XP
Dunque, niente di grave la febbre
di Sarah e finalmente Ary e Sharon hanno fatto pace :) Per quanto
riguarda
Alex, si capirà meglio nel prossimo capitolo! Spero che
almeno un pochino vi
sia piaciuto u.u
Ringrazio di cuore chi ha
recensito lo scorso capitolo, ossia:
svampy1996 :
Grazie mille :D
Tokietta86 :
Come vedi, hanno già fatto pace e per Derek le
passerà, prima o poi ;) Sarah è la mia bimbaaaaaa
*-* Amo quella creaturina. Sì,
penso anch’io che Tom sia un bravo papà, per come
ha cresciuto anche Stefan e
Alex u.u La scena di Davide è una delle mie preferite, anzi
tutto il capitolo è
uno dei miei preferiti, ma quel punto… *-* Sì,
Ary ce la farà! Grazie per i
tuoi poemi,
sono sempre più che
graditi! Alla prossima, un bacio!
Utopy :
Purtroppo per te, no, Ary resterà fra noi fin quando non
deciderò che deve crepareeeeee xD (Intanto ho perso le
speranze a fartela piacere
x°D) Sì, per sua mamma… insomma, era la
sua fine u.u Sì, in effetti sono
passati anni da quando la mamma di Ary è morta e suo
papà non le ha detto
niente, ma perché, in questo capitolo credo di averlo
scritto (xD), innanzitutto
lei non se n’è poi tanto interessata e poi
perché suo papà non voleva che
soffrisse ulteriormente. Insomma, gliel’ha tenuto nascosto e
fine della storia
xD Sono un assassina? Tu uccidi il mio cuoricino ogni volta che dici
che non
sopporti Ary :’( Okay basta con il sarcasmo xD Grazie per la
tua onorevole
recensione, mi garba che sommariamente ti sia piaciuto anche questo
capitolo e
che ti sia scesa la lacrimuccia u.u …. Ti voglio tantissimo
bene Mond!
*__________* Tua, Sonne.
Ringrazio
anche tutti quelli che
leggono e non commentano *-*
Alla prossima, un bacio! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 14 *** Someone new ***
Sie
sehen, sie
fühlen, verstehen
genau wie wir
Sie lachen und
weinen, wollen leben
genau wie wir
(Vergessene
Kinder – Tokio Hotel)
Capitolo 7
Someone new
Cercò di fare
piano, ma non ci
riuscì: sbattè la porta e svegliò il
fratello, il che era un record visto il
sonno pesante di Stefan.
«Alex, ma sei
scemo?», biascicò
senza mettere a fuoco nulla intorno a lui.
Improvvisamente una
scarica
elettrica lo percosse: era il segnale che qualcosa non andava nel
fratello
gemello. Infatti c’erano due cose che non andavano: il colore
dei capelli,
solitamente biondi come i suoi e ora neri come la pece, e lo stato del
suo
viso. Era distrutto, aveva pianto e anche solo guardandolo riusciva a
capire
che stava male, gli era successo qualcosa di veramente grave.
«Alex, cosa ti
è successo?»,
disse catapultandosi fuori dal letto e gettandosi addosso al corpo
fragile del
fratello per stringerlo in un abbraccio. Caddero entrambi sul letto e
Alex
nascose le lacrime nel suo petto.
«Alex, non piangere ti prego,
dimmi che cosa ti è successo», sussurrò
Stefan passando le dita tra i capelli
scuri e così insoliti della persona a cui teneva di
più al mondo.
«Stefan, mi
dispiace», disse in
qualche modo. «Mi dispiace tantissimo, io non
volevo.»
«Alex,
calmati, spiegami che
cos’è successo, non ci sto capendo
niente.»
«Sono andato a
letto con
un’altra», strinse i pugni sulla schiena di Stefan.
«Ciò vuol dire che ho
tradito Krista. Mi faccio schifo!»
«Dio Alex, ma
come… Ecco perché
eri così strano! Perché non me l’hai
detto subito?! E… Oh Dio. Ed è per questo
che ti sei tinto i capelli?»
Alex annuì: si vergognava così tanto da dover
pure
cambiare per non odiarsi vedendosi davanti allo specchio.
«Fratellino,
ti sei cacciato in
un brutta situazione, ma non ti preoccupare, io sono qui, ci
sarò sempre per
te, e troveremo una soluzione, ok?»
«Ok»,
tremolò. «Ma non dirlo a
nessuno.»
«Ma
è impossibile Alex, lo sai
anche tu.»
«Tu non aprire
bocca, ti
scongiuro. Me lo prometti?»
«Ok, te lo
prometto», sospirò.
Lo baciò
sulla fronte e lo
strinse ancora di più fra le sue braccia. Pian piano
iniziò a cullarlo e a
cantare una delle loro canzoni, finché Alex, esausto e
distrutto dentro, non si
addormentò. Stefan non per questo lo lasciò e
infatti si addormentò assieme a
lui.
La mattina dopo si
svegliò tutto
indolenzito, ma non gliene importava, sapeva di aver fatto la cosa
giusta per
il suo fratello gemello.
Alex si girò
fra le sue braccia e
si liberò per andare in bagno a farsi una bella doccia.
«Ehi
Alex», lo chiamò Stefan
stiracchiandosi nel letto. «Come stai?»
«Una
merda», disse con la bocca
impastata di sonno e lacrime.
«Perché
non stai a casa?»
«Perché
devo parlare con Krista.»
«Cosa? Hai
intenzione di
dirglielo?»
«Sì,
come potrei tenerglielo
nascosto?»
«Ma vai
incontro ad una fine
certa!»
«A questo
punto, fa bene a
lasciarmi. Io ho sbagliato e mi devo assumere tutte le
responsabilità.»
«Fai come
vuoi. Ah, preparati a
mamma e a Sharon che vorranno sapere del tuo colore di
capelli.»
«Ah,
già», si grattò la testa
arruffando di più i capelli già ribelli.
«Però tu non gli dirai niente, vero?»
Stefan sorrise e lo
guardò negli
occhi mettendogli le mani sulle spalle. «Te l’ho
promesso, non gli dirò nulla.»
Lo baciò sulla fronte e poi si allontanò per
cambiarsi.
«Grazie»,
sussurrò Alex con le
lacrime agli occhi.
«Prego
fratellino.»
***
«Sharon!
Alzati, o farai tardi!»,
gridò Bill dalla cucina.
Bevvi un sorso di
caffè e sorrisi
a Tom al mio fianco, che nello stesso tempo controllava Sarah con la
ciotola
dei cerali. Ma cosa voleva controllare? Lei non era come i suoi
fratelli che
appena ti giravi rovesciavano tutto a terra, lei era tranquilla e
dolce. Ancora
non sapevamo da chi avesse preso.
Il telefono di Bill
suonò e lui
rispose ridendo, mettendo il vivavoce: «Sharon?
Perché mi chiami al cellulare
se siamo nella stessa casa?»
«Papà,
non ho voglia di andare a
scuola oggi», disse ancora mezza addormentata.
«Non mi pare
un buon motivo per
saltare un giorno di scuola.»
Io guardai Tom e gli
feci
l’occhiolino mentre prevedevo la prossima frase di Bill:
«Anch’io
non ho voglia di fare un sacco di cose, eppure le faccio.»
«Anch’io
non ho voglia di fare un
sacco di cose, eppure le faccio», disse Bill, uguale identico
a come avevo
predetto.
Tom mi
applaudì in silenzio e io
chinai un po’ il capo per ringraziarlo, mentre Sarah se la
ridacchiava per la
nostra scenetta.
«Ma
papà!», si lamentò Sharon
affondando la faccia nel cuscino.
«Niente ma,
signorina. Forza che il tempo scorre.» Attaccò e
si girò verso
di noi.
Ci trattenemmo dal
ridere e Sarah
ci indicò con il dito, ridacchiando e masticando i cereali.
«Sei proprio
una brava bambina,
Sarah», le disse Bill accarezzandole i capelli. «E
voi due, vi ho visti,
sapete?»
«Sarah a preso
da te a fare la
spia», mi sussurrò Tom all’orecchio. Io
annuii e risi contagiando tutta la
cucina.
«Ehi,
perché ridete?», chiese
Anto entrando in cucina con Sharon per il polso. Avevo paura che
l’avesse
tirata giù dal letto e trascinata giù dalle scale
con la forza da quanto
barcollava.
«Nostra figlia
fa la spia contro
di noi, nulla di grave», dissi alzando le spalle.
«Ary, ha preso
da te?» Anto mi
fece la linguaccia e baciò Bill prendendolo per i fianchi.
«Sì,
può darsi. Uhm… Sharon? Ci
sei? Sei tra noi? Vuoi un po’ di caffè
così ti svegli?»
Si lasciò
cadere sulla sedia di
fronte a me e nascose il viso tra le braccia. Il pigiama che indossava
era
grande due volte lei e le mani quella mattina erano nascoste
interamente dalle
maniche.
«Non sono
l’unica. Dove sono
Stefan e Alex?», mugugnò.
«Io sono
qui», disse Stefan
prendendo Sharon per le spalle e scuotendola. Sembrava svenuta da
quanto non
opponeva resistenza, si lasciava scuotere come un pupazzo senza vita.
«So io quello
che ti ci vuole»,
disse Stefan facendola girare e baciandola sulle guance, sulla fronte,
sul
naso, sul mento, sulla gola.
«Ti prego
Stefan, smettila!»,
gridò Sharon prendendo vita e lottando animatamente tra le
braccia del cugino
per liberarsi.
«Visto, che
avevo detto? Si è
svegliata subito.»
Stefan prese il succo
d’arancia
dal frigo e se lo versò in un bicchiere per poi pucciarci
dentro un biscotto.
«Fai schifo
Stefan!», gridò
Sharon nascondendo ancora il viso tra le braccia.
Alex scese dalle scale
passandosi
la mano tra i capelli scuri e lisciandoli lateralmente sulla fronte. Ma
del
look gliene fregava ben poco in quel momento, si sentiva lo schifo
più
assoluto.
Fece un respiro profondo
e si
sporse in cucina, dove neanche farlo apposta c’erano tutti.
«Stefan, non
trovo il mio
cellulare, tu l’hai visto?», chiese.
Trattenni il respiro e
restai
immobile di fronte alla figura di mio figlio con i capelli neri e le
occhiaie
sotto gli occhi.
«No,
l’avrai lasciato nei jeans
che hai messo a lavare.»
«Probabile.»
Era un incubo? Mio
figlio si era
tinto davvero i suoi bellissimi capelli biondi?
«Alex, ma cosa
hai fatto ai
capelli?!», gridò Sharon alzandosi in piedi di
scatto.
Alex lasciò
andare le spalle e
abbassò lo sguardo mettendo le dita sul setto nasale. Tutti
si fermavano
all’aspetto esteriore, non capivano che lui stava male
dentro? La sua anima non
era così trasparente come lo era per Stefan?
Incrociai i suoi occhi e
riuscii
a leggere tutta la sofferenza che realmente provava. Quella sensazione
la
conoscevo bene e mi era impossibile non riconoscerla, figurarsi negli
occhi di
mio figlio.
Mi alzai e andai da lui.
Quando
vide che andavo proprio da lui fece qualche passo indietro e poi chiuse
gli
occhi stringendo i pugni lungo i fianchi, pronto a ricevere qualche
ramanzina.
Lo presi e lo
abbracciai,
sussurrandogli: «Mi dispiace Alex, se vuoi parlarne sai dove
trovarmi.»
Si staccò
bruscamente da me e
guardò con gli occhi pieni d’ira il fratello.
«Me l’avevi promesso!»
«Non mi ha
detto niente, se è
quello che stai pensando. Solo che… mi sono vista nei tuoi
occhi», sussurrai.
«Gli occhi sono lo specchio dell’anima, ho letto
che soffri. Mi dispiace Alex,
davvero, qualsiasi cosa sia successa. Se hai bisogno di me, io ci
sarò», gli
sussurrai a pochi centimetri dal suo viso.
Mi girai e guardai la
faccia
impassibile di Tom, in quel caso non riuscivo a capire cosa potesse
pensare.
«Tom, li
accompagni tu a scuola?
Io sto a casa con Sarah, deve riposare. Ricordi che ha detto
Mattia?»
«Uhm?»,
chiese scuotendo la
testa. «Ah, sì, certo, li accompagno io. Sharon
muoviti, sei ancora in
pigiama.»
Si alzò e mi
baciò prima di
uscire dalla cucina, dopo aver dato un pugno amichevole alla spalla di
Alex.
Io presi Sarah e quando
passammo
accanto ad Alex, lei piagnucolò per andare fra le sue
braccia.
«Alex, vuole
te», dissi
porgendogliela.
Lui le fece un sorriso e
la prese
in braccio, si lasciò baciare sul collo e accarezzare i
capelli diversi dalla
sua manina, guardò il suo sorriso e i suoi occhi brillanti e
capì che forse
Stefan non era l’unico che riusciva a leggerlo dentro. Aveva
una famiglia
speciale, doveva ammetterlo.
«Dai piccola,
Alex deve andare a
scuola e tu devi riposarti un po’ finché non ti
scende la febbre, ok?»
Non obbiettò
e si lasciò prendere
di nuovo. Salutò sorridente i fratelli e la cugina e io la
portai di sopra.
«Ahm…
Allora Sharon, ti muovi?
Arriverai in ritardo», disse Anto.
«Sì,
mamma ha ragione», aggiunse
Bill superfluo.
Passarono accanto ad
Alex, impalato
ancora di fianco allo stipite della porta, e salutarono i ragazzi
augurandogli
una buona giornata. In verità quella giornata si presentava
nera per qualcuno.
«Stai bene
Alex con i capelli
neri, ti risaltano gli occhi», disse Bill regalandogli un
sorriso.
E non tutti nella sua
famiglia
potevano essere perfetti. Ma sorrise comunque e accettò il
complimento, in
fondo quella era la sua famiglia e la adorava per la sua semplice
unicità.
***
Il momento fatidico era
arrivato,
non aveva aspettato altro per tutte e tre le ore prima
dell’intervallo e
mancavano pochi minuti ormai al solito arrivo di Krista al suo
armadietto. Le
avrebbe detto tutto pentendosi di quello che aveva fatto,
perché era vero: era
pentito sul serio e, anche se sapeva che sarebbe finita, voleva essere
onesto
con lei. Lei era stata importante, per lui era stata tutto per quasi un
anno,
ma quella sera aveva fatto la cazzata e ne doveva pagare le
conseguenze.
La vide arrivare con
Sharon, il
suo sorriso sempre e costantemente presente sulle sue belle labbra,
labbra che
ne avevano viste di tutte i colori sulle sue. Già
rimpiangeva i loro baci ferma
cuore.
La vide ridere e
già rimpiangeva
tutte le loro risate; la vide fare una faccia buffa e già
rimpiangeva tutti i
pomeriggi passati assieme a suonare ma anche da soli in giro per
Amburgo; la
vide raccontare qualcosa a Sharon mimando con le mani e già
rimpiangeva le sue
mani su di lui che lo accarezzavano e lo facevano volare alto nel
cielo; la
vide fermarsi di fronte a sé e salutarlo e si chiese se
almeno qualcosa di loro
si sarebbe salvato.
«Ciao
Alex!», lo salutò felice.
«Ma che hai fatto ai capelli? Comunque stai bene!»
Si avvicinò per baciarlo, ma
Alex si spostò e tese le mani in avanti.
«No»,
disse scuotendo la testa.
Sharon l’aveva
già vissuta quella
scena, con Derek, così si affrettò a salutare
Krista e ad andarsene velocemente
da quei ricordi ancora dolorosi dentro lei.
«Ma che
c’è? Perché no? Ti
vergogni?», gli chiese accarezzandogli il collo con la punta
delle dita,
facendo le fusa accanto a lui.
«No,
è che mi faccio schifo»,
ammise Alex.
«Che cosa? Ma
perché dici
questo?»
«Krista, mi
dispiace tanto, te lo
giuro. Io non so cosa mi sia preso, sono stato un completo idiota, non
trovo
una spiegazione al mio comportamento. Sono un coglione, dillo pure,
tanto è
vero.»
«Alex! Ma cosa
stai dicendo? Non
ci sto capendo niente? Perché dici tutto questo?»
«Krista, ti ho
tradita con
un’altra», disse con le lacrime agli occhi.
«Che
cosa?», sussurrò Krista a
bocca aperta.
Alex abbassò
lo sguardo, si
sentiva ancora più uno schifo. Tante volte aveva pensato
alla reazione di
Krista e a come si sarebbe sentito, ma la realtà faceva
molto più male.
«Stai…
stai scherzando, vero?
Perchè è impossibile, tu non puoi…
Alex… Perché?» Le sue guance erano
già
rigate dalle lacrime, non sarebbe riuscita a smettere se nemmeno lo
avesse
voluto.
Tutti nel corridoio li
stavano
più o meno guardando, magari non lo facevano notare, ma era
così. Ad Alex non
interessava il giudizio dei suoi compagni, non gli sarebbe importato se
Krista
lo avesse umiliato di fronte a tutti, a lui importava solo che lei
facesse
qualcosa, che non stesse ferma a guardarlo e a piangere.
«Ti prego
dì qualcosa», disse
piano Alex prendendole le mani.
«Non mi
toccare!», gridò
liberandosi e battendo i piedi per terra. «Io credevo che tu
fossi diverso, ma
voi maschi siete tutti uguali! Mi fai schifo! Sei un idiota, un
coglione! Alex,
io credevo… Credevo solo ad un sacco di menzogne!
È finita Alex», disse a pochi
centimetri dal suo viso.
«Non volevo
che andasse a finire
così», cercò di difendersi Alex, ma la
furia di Krista era molto più superiore
a lui, oltre che giustificata.
«Non me ne
importa! Tu l’hai
fatto! Addio Alex.» Si sistemò la borsa sulla
spalla e si diresse prima
camminando, poi correndo, verso i bagni.
Credeva che dopo la
confessione
si sarebbe sentito meglio, invece si sentiva peggio di prima, ma sapeva
che di
certo aveva fatto la cosa giusta non nascondendoglielo, le avrebbe
fatto solo
più male non saperlo direttamente e subito da lui.
Vagò quasi di
corsa per i
corridoi dell’intera scuola alla ricerca del fratello, e
quando lo trovò era
sulle scalinate all’entrata, seduto su un gradino accanto a
Sharon.
«Stefan»,
disse ancora con le
lacrime agli occhi, che non era riuscito a liberare di fronte a Krista.
«Gliel’ho detto, mi ha lasciato e mi sento uno
schifo più di prima!» Si
accasciò tra le sue braccia e pianse come un bambino, tanto
non gli importava
di niente e di nessuno.
«Che
cos’è successo?», chiese
Sharon. «Tu e Krista vi siete lasciati?»
Stefan annuì
per conto del
gemello e Sharon si unì all’abbraccio, ma per ogni
cosa Alex sentiva di non
meritarsela. Stava male come mai. L’amore riusciva a fare
cose incredibili ed
incredibilmente dolorose.
***
Suonò la
campanella e Sharon
dovette correre per arrivare in tempo alla sua aula. Aveva deciso di
proporsi
come fotografa al giornalino della scuola ed era eccitatissima, ma la
storia di
Alex e Krista l’aveva un po’ buttata giù
di morale. Che cosa sarebbe successo
alla band? Che cosa avrebbe fatto? Non poteva certo dividersi in due
parti, una
per Alex e una per Krista, ma nemmeno poteva scegliere con chi stare.
Che
doveva fare?
«Scusate il
ritardo, ho avuto un
contrattempo», si scusò imbarazzata entrando
nell’aula.
«Ah, Sharon,
ciao! Aspettavamo
proprio te!» La caporedattrice la tirò a
sé e le mise un braccio intorno al
collo.
«Ragazzi, un
po’ d’attenzione»,
disse calma. Quando tutti si girarono verso di lei continuò:
«Da oggi avremmo
una nuova fotografa, ve la presento: il suo nome è Sharon ed
è in 3° B. Vediamo
di essere carini con lei e di spiegarle come funzionano le cose, ok?
Grazie.
Vieni Sharon, ti faccio vedere dove starai.»
«Ehi, aspetta
un attimo! Perché?
Perché la prendiamo così, senza nemmeno vedere se
è brava? Insomma, qualcuno ha
visto delle sue foto?»
«La prendiamo
perché lo decido
io, ok?», disse senza ascoltare il ragazzo biondo platino che
era intervenuto.
Aveva degli occhi di un
colore
grigio misto a un azzurro chiaro che catturavano con un solo sguardo,
come era
capitato a Sharon, solo che quello sguardo non era proprio uno dei
più
amichevoli.
«Ah, allora se
lo decidi tu noi
non possiamo dire niente? Non ci sei solo tu qui, ma anche noi!
Dovremmo
prendere assieme le decisioni, non solo tu.»
«Sì
da il caso che io ho visto
delle foto di Sharon e sono bellissime, quindi il problema è
risolto, Nicolas.»
Nicolas. Aveva pure un
bel nome e
il suono della sua voce era apprezzabile, se solo non avesse detto solo
cose
contro di lei.
«No, non
è risolto! Perché sarà
sempre così! Tu deciderai e noi non potremmo fare niente! Tu
senza di noi non
sei niente, siamo noi quelli che si smazzano qui, che potrebbero
benissimo
comandarti a bacchetta, o no?» Si guardò intorno e
nessuno fiatò, erano tutti
dalla parte della ragazza.
«Mi sa che qui
sei tu dalla parte
del torto, Nicolas. Quindi, se hai qualche problema con Sharon, puoi
anche
andartene.»
«Non
sarà certo una ragazzina
viziata a togliermi di mezzo», disse risedendosi al suo posto
dietro il
computer.
«Ragazzina viziata?»,
squittì Sharon. Ma come si permetteva? Poteva
pure essere carino, ma iniziava a darle veramente sui nervi.
«Non lo
ascoltare Sharon», le
disse all’orecchio la ragazza. «Però
dovrai sopportarlo.»
La accompagnò
al suo posto,
proprio di fronte a Nicolas, che faceva finta di scrivere qualcosa al
computer,
ma che intanto guardava Sharon ad occhi stretti.
«Ok, inizia ad
ambientarti»,
disse la caporedattrice e si allontanò.
Sharon fece un giro
sulla sua
sedia e si guardò intorno. Un’occhiatina cadde
anche su Nicolas. Si accorse che
la stava guardando e così girò subito il viso
imbarazzata.
Aprì un
cassetto della scrivania
e ci guardò dentro: era pieno di vecchie edizioni del
giornale e ne prese una
per sfogliarlo, ma qualcosa la colpì sulla guancia e fu
costretta a fermarsi.
Aveva paura e odiava gli insetti, pensava che fosse stato qualcosa del
genere.
Non era difficile capire da chi aveva preso.
Sentì Nicolas
sghignazzare da
dietro il suo computer e lo vide con una cannuccia in mano.
«Sei stato
tu!», disse.
Nicolas rispose con
un’altra
pallina di carta e saliva.
«Ma che
schifo!», si lamentò
Sharon riparandosi dietro il suo computer.
«Sei solo una
ragazzina viziata!
Perché non vai a strimpellare con il tuo gruppetto di amici
al posto di stare
qui?», disse arrogante il ragazzo.
Era la seconda volta che
la
chiamava in quel modo e non poteva sentir dire da qualcuno che lei e
gli altri
componenti della band strimpellavano,
si incavolava come una bestia. Ma evidentemente Nicolas no lo sapeva.
Peccato.
«Senti,
smettila, ok? Non mi
conosci nemmeno, non ti permetto di insultare me e soprattutto la
nostra
musica.»
«Oh, mi
dispiace tanto. E adesso
che farai? Chiamerai il tuo paparino e gli dirai che ci sono io che ti
do
fastidio?»
«E cosa
peggiore, non permetterti
ma i più a parlare così di mio padre. So
cavarmela benissimo da sola.»
«Vedremo.»
«Cosa vuoi
dire?»
«Che lo
vedremo chi si alzerà per
primo da qui esaurito.»
«Vivo con
altri tre maschi oltre
mio padre, e tu sei un moscerino in confronto.»
«Vuoi proprio
bene alla tua
famiglia!», disse alzando il sopracciglio in un modo che fece
ammutolire Sharon
dallo stupore. Era più che carino, era davvero bello. Ma
insopportabile.
Gli tenne il broncio e
non parlò
più per un po’, forse era proprio il silenzio
l’arma più potente che aveva
Sharon per combatterlo.
«Che
c’è? Il gatto ti ha morso la
lingua?», chiese Nicolas.
Sharon sorrise senza
farsi
vedere: la sua tecnica stava funzionando. Senza qualcuno che lo stava
ad
ascoltare a e rispondergli si spazientiva.
Nicolas non riusciva
più a
controllarsi, non poteva e forse non voleva farlo. Era molto bella, non
riusciva a staccarle gli occhi di dosso per più di due
minuti. E i suoi silenzi
lo innervosivano parecchio, non c’era voluto poi molto per
capire il suo punto
debole.
La sbirciò
sporgendosi sulla
sedia e la vide mentre sfogliava uno dei vecchi giornalini, assorta
nella
lettura. Era bella pure mentre leggeva.
La campanella
suonò, l’ora era
praticamente volata, e Nicolas seguì Sharon nei suoi
movimenti: il modo con cui
teneva la borsa sulla spalla era diverso dal solito e continuava a
crescere in
lui la convinzione che quella ragazza, oltre che ad essere una
ragazzina
viziata, era strana ed anche intrigante.
La raggiunse fuori
dall’aula, nel
corridoio, e le mise una mano sulla spalla. «Ehi, non te la
sarai mica presa,
vero?»
Sharon si
girò e lo guardò, non
le era mai stato così vicino ed era davvero bellissimo,
sembrava un angelo con
i suoi occhi grigi-azzurri tutti particolari. Era più alto
di lei di qualche
centimetro, quindi per fissarlo negli occhi doveva tenere il viso
leggermente
alzato.
«No, era solo
un modo per farti
stare zitto. E ci sono riuscita.»
«Sei
malefica», disse sorridendo
e camminandole accanto.
«Quindi la
smetterai di chiamarmi
in quel modo?»
«Come, ragazzina viziata?»
«Sì,
in quel modo.»
«Certo che
no.»
«Tu sei
insopportabile.» Vide
Stefan scendere dalle scale. «Oh, c’è
mio cugino, devo andare. Ci si vede.»
«Ok, ciao, ma
non è detto che ci
vedremo con piacere.»
Lei gli fece la
linguaccia e
raggiunse il cugino. Nicolas la guardò con il sorriso sulle
labbra e poi uscì
dalle porte vetrate. Qualcosa sarebbe cambiato.
«Ehi Sharon!
Alex, dov’è?»
«Ancora non
l’ho incontrato.»
«Ok, io vado
da lui. Vieni con
me?»
«Certo.»
I due si avviarono per i
corridori controcorrente e Sharon intravide Krista passare con lo
sguardo
basso. Non aveva ancora parlato con lei da quando l’aveva
vista all’intervallo,
prima che lei e Alex si lasciassero. Le corse incontro e la
abbracciò, la
strinse forse a sé, ma Krista non disse niente, era
impassibile.
«Va bene se ci
vediamo stasera?»,
le chiese solo.
«Certo, certo
che va bene.»
«Ok,
allora… a stasera, resti a
dormire da me.»
«Va bene,
ciao», la baciò leggera
sulla guancia sfregandole la schiena e accarezzandole i capelli.
«Mi dispiace.»
Krista non rispose e si
divincolò
per uscire svelta assieme a tutti gli altri ragazzi che non vedevano
l’ora di
andarsene.
***
«Ehi
ciao», mi baciò sulla testa
e entrammo mano nella mano in ospedale.
«Ci si
rivede», ci salutò Mattia
quando ci raggiunse prendendoci alle spalle.
«Sì,
che cos’è successo?», chiesi
preoccupata. «Ho lasciato Sarah a casa con Stefan e Sharon,
Alex è uscito.»
«Non ti
preoccupare. Che io
sappia non è successo niente, però è
una questione delicata. Forza, andiamo.»
Vidimo Anto e Bill di
fronte ad
una vetrata, che guardavano oltre di essa tenendosi per mano. Bill
accarezzò
Anto sulla schiena e le baciò la tempia, sussurrandole
qualcosa.
«Che
cos’è successo?», chiese Tom
appena fummo lì accanto.
Guardai oltre la vetrata
e vidi
un bambino che sfogliava un libro seduto per terra accanto ad un
infermiera.
«Forse
è meglio se ci sediamo»,
consigliò Mattia mettendomi una mano sulla schiena.
Non riuscivo a staccare
gli occhi
di dosso a quel bambino, somigliava fin troppo a Davide
quand’era piccolo. Tom
mi mise seduta con la forza e mi strinse a sé, ma io non
c’ero in quel momento,
ero su un altro pianeta.
«Allora,
adesso ci spiegate?»,
chiese ancora Tom innervosito. Bill si mise seduto accanto a lui e Anto
si
appollaiò lì vicino, tenendo con forza la sua
mano.
«Dai
Anto», le sussurrò cercando
di tranquillizzarla.
«È
successo quando sono uscita
dal lavoro, l’ho trovato seduto per terra,
all’ombra e da solo. Doveva essere
lì da giorni, teneva a fatica gli occhi aperti ed era tutto
sporco.» Si alzò di
scatto e andò ancora alla vetrata per poggiarci la mano.
«L’ho portato subito
qui, ma non sappiamo nulla su di lui, non parla.»
«E
quindi?»
«Quindi
io… io non voglio che
stia solo, vorrei che venisse a casa con noi.»
«Cioè
lo vuoi adottare?», chiesi
riprendendomi. Tutti, compresa lei, si girarono verso di me e
guardarono la mia
espressione impassibile.
«Sì»,
annuì impercettibilmente
guardando di sfuggita Bill.
«Ne abbiamo
parlato, io sono
d’accordo. Volevamo sapere che cosa ne pensavate
voi.»
«Non siamo noi
che dobbiamo
decidere, è una scelta vostra. Noi non centriamo
nulla», disse Tom.
«Ma per te
andrebbe bene?»
«Si, non ho
nulla in contrario.»
A quel punto toccava a
me,
infatti mi ritrovai con tutti gli sguardi puntati addosso. Come potevo
decidere
lì, su due piedi, se accettare un bambino senza casa nella
mia? Potevo
benissimo, sapevo come ci si sentiva, anche se in minima parte.
L’abbandono si
poteva vivere in più modi, ma la sensazione era la stessa.
Mi alzai e andai accanto
ad Anto,
le misi una mano sulla spalla. «Sei sicura? Non è
che adesso ti fa pena? Non è
un capriccio? Guarda che non è un giocattolo.»
«Lo so! Certo
che lo so, ma cosa
credi… Ne sono sicura al cento per cento.» Ci
guardammo negli occhi e lei
sorrise sfiorandomi le guance.
«Sharon cosa
dirà?»
«Ci parleremo
il più presto
possibile, stasera.»
«Mmh.»
Guardai ancora il bambino
sorridere appena incrociando il mio sguardo: la sua somiglianza con
Davide era
a dir poco assurda.
«Allora
Ary?», mi chiese Bill.
«Sì,
sì che sono d’accordo. È
talmente ovvio che non dovevate nemmeno chiedermelo.»
Tom sorrise e mi
abbracciò da
dietro mettendomi le braccia intorno al collo. Mi baciò
sulla guancia e sorrise
di nuovo sulla mia pelle.
«Ti amo, amore
mio», mi sussurrò.
«Anch’io.»
_____________________________________
Buongiorno! ^-^
Finalmente abbiamo scoperto cos’è
successo ad Alex ç.ç Inoltre, si sono aggiunti
due nuovi personaggi *-*
Nicolas, il ragazzo che non ha preso molto il simpatia
Sharon… E il bambino che
Anto ha trovato. Quest’ultimo chissà se
entrerà davvero a far parte della
famiglia :D
Ringrazio di cuore Tokietta86
(Non ti preoccupare, adoro
quando le persone si fanno i viaggi mentali *-*) e Utopy
che hanno recensito lo scorso capitolo. Ve ne sono davvero
grata, spero che questo capitolo vi sia piaciuto! :)
Ringrazio anche chi ha letto
soltanto!
Alla prossima, vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 15 *** Something wrong ***
And
I don’t
know how to be fine when I’m not
‘cause I
don’t know how to make feeling stop
(Just
so
you know – Jesse McCartney)
Capitolo 8
Something wrong
Sfogava tutta la rabbia
che
provava verso se stesso tirando pugni a non finire, non gli importava
se gli
facevano male le mani, se piccole gocce di sudore gli scivolavano sulla
fronte
e lungo il collo, se i suoi capelli scuri si appiccicavano e se aveva
caldo,
semplicemente prendeva a pugni il sacco appeso al soffitto, di fronte a
lui.
Si molleggiò
sulle gambe e fece
qualche respiro profondo prima di ricominciare. Fu in quel momento che
notò una
ragazza passare accanto a lui, in canottiera bianca e pantaloncini
corti.
Lasciò
correre e riprese a
colpire il sacco con più foga, spendendo tutte le sue
energie. La sua rabbia
era infinita.
Quella sera tutto era
andato
maledettamente storto, più riviveva quei momenti
più se ne rendeva conto.
«Dai Alex, vieni qui.»
Sorrise e raggiunse Krista sul suo letto, la
baciò e le accarezzò il
viso stando sopra di lei. La sua pelle candida e soffice era il
paradiso, il
semplice e splendente sogno di Alex, ma doveva andare.
«Krista, devo andare. Se i tuoi mi
beccano sono guai.»
«Dai Alex, resta ancora un
po’ qua con me», lo trascinò di nuovo su
di
lei e lo baciò infilando le dita tra i suoi capelli dorati.
«Krista»,
sussurrò volendola come non mai, ma non poteva, non poteva
per il suo stesso bene, non voleva che venisse messa in castigo per
colpa sua.
Il coprifuoco dei suoi genitori era già scaduto da un pezzo
e se lo avessero
trovato ancora lì ci sarebbe andata nei casini lei, casini
che sarebbero
ricaduti inevitabilmente anche su di lui.
«Krista devo andare, mi
dispiace.» Si alzò e si rimise la maglietta.
«Ok, va bene, sei libero. Per
questa notte.»
Risero piano e si baciarono ancora prima di
separarsi. Alex non poteva
essere più felice, lei era tutto.
Fece attenzione a non farsi scoprire dai
suoi genitori e sgattaiolò
silenzioso fuori dalla porta.
L’aria era fredda e si strinse
nelle spalle con le mani nelle tasche.
Camminava lentamente. Non aveva fretta di ritornare a casa, aveva solo
voglia
di Krista, di ritornare indietro e di stare con lei per
l’intera notte, finché
non sarebbero crollati sul letto stanchi ma felici. Un sorriso si
impadronì del
suo viso a quel pensiero e non si accorse nemmeno che un ragazzo fuori
da un
pub lo stava chiamando. Solo quando se lo ritrovò davanti si
chiese che cosa
volesse da lui.
«Alex!»
«Sì? Ah,
ciao.»
«Vieni con noi a bere
qualcosa?»
«Non è il caso, devo
tornare a casa.»
«Ma che dici! Dai,
forza!»
Alex gettò uno sguardo al gruppo
di ragazzi che li aspettavano e una
ragazza in minigonna e top gli fece l’occhiolino e sorrise.
Ora sì che Alex se
ne doveva andare di corsa, ma non lo fece. Entrò con i
ragazzi nel bar e si
fecero prima una, poi due, tre, quattro, cinque birre, tanto che alla
fine Alex
non si reggeva nemmeno in piedi. La ragazza più nuda che
vestita lo aveva
trascinato da qualche parte, non aveva focalizzato bene intorno da
quanto era
sbronzo, e avevano fatto sesso fin quando l’effetto della
birra svanì e diede
un briciolo di lucidità in più ad Alex, che si
sentì morire. Aveva la nausea,
un po’ per la sbornia e la maggior parte per quanto si faceva
schifo.
Aveva tradito Krista e l’unica
cosa che riusciva a fare era ripudiarsi
totalmente e piangere. Piangeva e camminava barcollante verso casa,
anche se si
sentiva peggio di un verme spiaccicato sul cemento umido.
Pensò a Krista e alle loro ultime
parole, ai loro ultimi baci, al suo
tentativo di tenerlo ancora con sé. Forse sapeva cosa
avrebbe fatto il coglione
che in quel momento piangeva come un bambino.
Alex tirò un
pugno forte sul
sacco e si passò un braccio sulla fronte imperlata di
sudore. Non voleva
nemmeno pensare alla stanchezza, non era nulla in confronto alla sua
rabbia.
Intanto sul ring, al
suono della
campanella, iniziò un incontro.
Non sapeva bene come gli
era
venuto in mente di tingersi i capelli di nero, ma non si sentiva
più se stesso
dopo quello che aveva fatto e non poteva vedersi come si vedeva prima
di aver
compiuto quell’atto orribile verso la ragazza che amava.
Focalizzò se
stesso al posto del
sacco e colpì con tutte le forze che aveva,
l’ultimo colpo decisivo, anche se
non sarebbe mai stato l’ultimo, la rabbia era troppa.
«Ehi
moro!» Non era abituato a
sentirsi chiamare così, infatti non si girò
né la prima né la seconda volta.
«Se continui
così lo sfascerai!»,
gridò ancora la ragazza che era sul ring. Lui si
girò e notò che lei lo stava
guardando, così capì che era lui il moro
in questione.
«Perché
non vieni qui e ti batti
un po’ con me?»
«Mi dispiace,
ma non mi batto con
le donne», disse Alex alzando le spalle e girandosi di nuovo
verso il sacco
rosso e blu.
«Che cosa? Mi
stai prendendo in
giro?»
La palestra era
abbastanza
piccola e poco illuminata, in verità era illuminato solo il
ring, il resto era
visibile solo grazie a delle piccole luci. Si accorse che erano rimasti
solo
loro due.
Si avvicinò
al ring e guardò
quella ragazza magra, gambe forti e guantoni neri sulle mani, capelli
castani e
lisci raccolti sulla nuca e qualche ciuffo ribelle che le ricadeva sul
viso.
«Non penso sia
una buona idea. Io
non so combattere e, a dirla tutta, proprio perché non sono
capace, ho paura di
farti male.»
«Beh, io sono
capace, quindi so
difendermi. Muoviti e sali.»
Alex sbuffò
arreso e salì sul
ring abbassando le corde. Vide la ragazza tagliare l’aria con
due pugni veloci,
molleggiandosi sulle gambe.
«Forza, fatti
sotto», gli disse
sogghignando. «Fammi vedere che sai fare.»
Alex si
avvicinò e girarono in tondo
studiandosi, occhi negli occhi, occhi azzurri contro occhi verdi
chiaro. Più si
guardavano, più Alex provava fastidio verso se stesso: come
poteva guardare una
ragazza pensando che fosse carina subito dopo essersi lasciato con
Krista? Era
solo un’idiota. Forse la ragazza non aveva avuto tutti i
torti a farlo salire
sul ring, ne avrebbe prese così tante sul serio che forse si
sarebbe sentito a
posto in minima parte.
La ragazza si
avvicinò e scattò
in avanti piazzandogli un destro che però Alex
riuscì a schivare spostando la
testa e proteggendosi lo stomaco con le braccia come se le avesse letto
nel
pensiero, evitando di beccarsi un sinistro.
«Ehi! Non
vale!», si lagnò la
ragazza mettendosi i pugni sui fianchi.
«Che cosa non
vale?», chiese Alex
abbassando le braccia. Lei ne approfittò e lo
colpì piano sulla guancia, come
un avvertimento.
«Mai abbassare
la guardia», gli
sussurrò all’orecchio, prima di spostarsi e di
scendere dal ring con il suo
asciugamano intorno al collo.
Alex guardò
di fronte a sé e
scosse il viso non capendo. Non conosceva nemmeno quella ragazza,
eppure
sembravano così in sintonia… tanto da scherzare
quando lei avrebbe potuto
tranquillamente metterlo al tappeto.
Scese rapidamente dal
ring e si
affrettò a prendere il suo borsone. Fece appena in tempo a
raggiungere la
ragazza fuori dalla palestra e la fermò mettendole una mano
sulla spalla.
«Non mi hai
detto come ti
chiami», disse levando subito la mano.
«Ahm…
Beatrice, Bea per gli amici.»
«Piacere, io
sono Alex.» Si
strinsero la mano e si sorrisero prima di prendere ognuno la sua
strada.
Insomma, era strano. E
troppo
semplice. Possibile che subito dopo essersi lasciati con una persona
davvero
speciale, te ne trovavi un’altra di fronte, su un ring?
Si mise meglio la borsa
sulla
spalla nel buio della sera, passando sotto i lampioni de marciapiede,
senza
badare alle macchine e al frastuono intorno a lui, ma solo a pensare.
Krista era stata tutto
per lui,
ma con quella ragazza, Bea, era risultato talmente semplice
accantonarla in un
angolo della memoria, pur sempre ricordandola con sofferenza, che si
chiese se
davvero quello che provava per lei era stato amore allo stato puro.
Forse no,
forse si era sbagliato. Forse era stato tutto così bello ma
anche così finto.
Forse aveva creduto di essere innamorato, se n’era anche
convinto, ma in realtà
non era così. Ma allora, come poteva capire quando si
sarebbe innamorato
davvero?
Arrivò di
fronte a casa e guardò
da fuori la sua vita: poteva avere tutto, anzi, aveva molto
più di quello che
forse si meritava, forse non ricambiava nulla, ma sentiva che quella
situazione
non poteva influire anche sui suoi familiari, loro non centravano
nulla.
Aprì il
cancello ed entrò, ed
ecco che, mentre camminava per il vialetto, vide la porta aprirsi e
uscire la
cugina con una faccia confusa e disorientata.
«Sharon»,
disse mettendole una
mano sulla guancia. «Che cos’è
successo?»
«Ahm…
credo che avrò un
fratello», disse incontrando gli occhi chiari di Alex.
Non riusciva ancora a
realizzare
la cosa. Lei, un fratello? Lei che era abituata a tutti i vizi
possibili e
inimmaginabili? Doveva dividere tutto con un bambino più
piccolo? Non riusciva
proprio a vedersi nel ruolo di sorella maggiore, sarebbe stato un
fallimento, già
lo sapeva.
«Cosa? Zia
è incinta?»
«No, ma che
dici. No, no. Vai
dentro, ti spiegheranno tutto loro. Io ancora non riesco a crederci,
sembra
irreale.»
«Ok, ma dove
vai tu con la
borsa?»
«Vado…
ehm… vado…» Cosa doveva
fare? Dirglielo o non dirglielo? Si morse il labbro nervosamente, nel
buio
della sera.
«Vai da
Krista?», chiese Alex
abbassando lo sguardo.
«Sì.
Alex, io… mi dispiace», gli
mise una mano sul braccio.
«No, non
importa. Adesso che ci
siamo lasciati non puoi certamente non vederla, è pur sempre
la tua migliore
amica.»
«Però
io non voglio che per
questo tra noi…»
«No, non
cambierà assolutamente
nulla. Tu sei libera di vedere chi vuoi, ok?», le sorrise e
la baciò sulla
fronte abbracciandola. Aveva uno strano bisogno di affetto.
Notò come
solo il nome di Krista
aveva riportato a galla tutto quel dolore. Forse non era vero che non
si era
innamorato. Forse era stato veramente innamorato di lei, solo che forse
non ci
si innamorava una volta soltanto nella vita, come dicevano tutti. A
meno che
lui non fosse l’eccezione alla regola.
Sharon si
allontanò sorridendo
leggermente, gli occhi velati da un sottile velo di lacrime che grazie
al buio
della sera Alex non vide.
Per arrivare a casa di
Krista non
ci voleva molto, poteva benissimo fare la strada a piedi, ma quella
sera decise
di prendere l’autobus. Non era in vena di camminare ed era
fin troppo buio.
Quando arrivò
dall’amica, si
salutarono baciandosi sulle guance, ma senza l’ombra di un
sorriso, c’era
preoccupazione sul volto di entrambe, ma per diversi motivi.
Sharon poggiò
la borsa per terra
e si tuffò sul letto di Krista a pancia in su, con gli occhi
puntati al
soffitto.
«Come
stai?», le chiese senza
staccare gli occhi dal viola chiaro del soffitto.
Krista si
accucciò al suo fianco
e le mise un braccio intorno alla vita, stringendola a sé.
«Come dovrei
stare? Mi ha
tradita, è orribile.»
«Mi
dispiace.» La guardò e le
accarezzò i capelli sulla nuca, lasciando finalmente libere
le lacrime assieme
a lei.
«Perché
piangi?», le chiese
Krista tra i singhiozzi.
«Cosa
succederà ora? Io non
voglio dividermi tra te e lui.» Ma non era solo quello il
problema, se così si
poteva definire.
«Infatti non
dovrai. Tra noi
resterà tutto uguale, però…»
«Però
cosa?»
«Però
non posso stare ancora
nella band. È stata una decisione difficile e sofferta, ma
è meglio così.»
«Cosa?»
«Sharon,
io…»
«Krista non
puoi lasciarci!»
«E allora che
lasci la band tuo
cugino.»
Era la prima volta che
chiamava
così Alex, era strano persino da sentire. Sharon non ci
badò molto, saltò giù dal
letto asciugandosi le lacrime con rabbia. Non poteva credere alle suo
orecchie.
Sbagliava oppure pochi istanti prima Krista aveva detto che tra loro
non
sarebbe cambiato niente? Andarsene dalla band era un cambiamento non
proprio da
niente.
«Ti rendi
conto di cosa stai
dicendo? Avevi detto che non sarebbe cambiato niente!»
«Sharon,
mettiti nei miei panni!
Se Derek ti avesse tradita, tu non avresti voluto vederlo mai
più! Come posso
io stare con lui a scuola, a casa tua, e anche a suonare? È
impossibile.»
Una fitta al cuore
colpì in pieno
petto Sharon quando Krista pronunciò il nome di Derek, ma
strinse i denti e
continuò a lottare la sua battaglia: la band era la cosa
più importante in quel
momento. Non poteva nemmeno immaginare una band senza di lei, la loro
batterista.
«Invece no,
Krista! Alex ha
sbagliato, lo so, lo sa perfettamente anche lui, anche lui ci sta male,
quindi
potresti anche perdonarlo.»
«Non ce la
faccio, non ci
riesco.»
«Quindi
è questa la tua decisione
definitiva? Ci lasci? Non vuoi nemmeno pensarci ancora un
po’?»
Sperava con tutto il
cuore che
Krista ci ripensasse, ma lo vedeva nei suoi occhi, la decisione
l’aveva già
presa e non sarebbe tornata indietro.
«Bene,
perfetto», ringhiò
raccattando la sua borsa da terra.
«Cosa…
E adesso dove vai?», le
chiese con la bocca semiaperta e gli occhi umidi.
«Vado a casa
mia, scusami.»
«No,
Sharon!», le gridò dietro,
ma non lei non l’ascoltò, si chiuse la porta alle
spalle e corse via in
lacrime.
Nulla poteva fermala,
nulla
poteva fermare quel suo dolore. Era già tesa per la storia
del nuovo fratello,
in più ci si era messa Krista, con la sua stupida idea di
lasciare la band: non
riusciva a crederci.
Correva a perdifiato
Sharon, tra
le vie di Amburgo, illuminata a tratti dalla luce dei lampioni e dai
fari delle
macchine ignare che le passavano accanto.
Non le importava di
mostrare le
lacrime, ciò che sentiva, se il mondo la voleva, doveva
accettarla nel bene e
nel male.
Era una situazione molto
delicata: non si sentiva pronta ad avere un fratello. Come si sarebbe
comportata? Avrebbe dovuto dividere tutte le attenzioni che di solito
aveva per
sé con lui, ce l’avrebbe fatta? Sarebbe stata in
grado di essere una brava
sorella maggiore, l’esempio da seguire?
Come aveva potuto farle
una cosa
del genere, Krista, la sua migliore amica? Perché per loro
due doveva andarci
di mezzo tutta la band? Era ingiusto.
Nella mente di Sharon i
due
pensieri principali, quelli che la preoccupavano di più,
erano uniti, come due
canzoni nella stessa stanza, convivevano eppure si odiavano. Quando un
pensiero
cercava di imporsi sull’altro, gridando più forte,
l’altro ribatteva, finché
non sentì solo urla confuse nella sua testa.
Ci mise un po’
prima di trovare
le chiavi di casa nella borsa e a trovare quella giusta, soprattutto:
con gli
occhi così pieni di lacrime non riusciva a distinguerle.
Entrata e sbattutasi
il cancello alle spalle corse per il vialetto e si fiondò
addosso alla porta
sperando che fosse aperta, perché se no si sarebbe
ribaltata.
«Mamma»,
disse con la voce
interrotta dal pianto, appoggiata alla porta con la schiena.
«Sharon!»,
gridò Anto preoccupata
alzandosi dal divano e raggiungendo la figlia per stringerla a
sé.
«Che
cos’è successo?», chiese
Bill anche lui vicino a lei.
«Krista»,
disse piano Sharon. Non
aveva voce, il dolore era come se le avesse bloccato tutto. A quel nome
vidi
Alex alzare la testa e passarsi una mano fra i capelli, gli occhi
lucidi.
«Allora,
cos’è successo?»
«Krista ha
lasciato la band»,
riuscì a dire abbandonandosi tra le braccia del padre.
«Che
cosa?!», gridò Stefan
spaventando Sarah fra le sue braccia, che stese subito le mani verso di
me.
«È
assurdo! Alex, fai qualcosa!»,
si alzò in piedi e guardò il fratello
dall’alto.
Sharon si
scansò un po’ per
vedere Alex: il suo viso era impassibile, ma dagli occhi si capiva
tutto.
Tom mi mise una mano
sulla
spalla, mi avvicinò a lui e strinse fra le braccia sia me
che Sarah. Forse
anche lui riusciva a leggerci dentro, come me.
«Non ci posso
credere! Tu… tu lo
sapevi!», disse Sharon con le lacrime che scivolavano ancora
sulle sue guance.
Alex abbassò
lo sguardo e se ne
andò con le mani in tasca, senza fretta. Ci stava malissimo,
eccome.
«Cosa?»,
chiese Stefan dividendo
gli sguardi tra la cugina e il fratello. Ma l’istinto poi lo
guidò verso Alex,
già al piano di sopra.
Sharon rimase immobile,
solo le
lacrime scivolavano lente, e in silenzio, assoluto silenzio. Tutto si
era
fermato e quel silenzio era insopportabile, per me più di
tutti, ma non mossi
un muscolo nemmeno io, tutto si era cristallizzato.
«Ah,
vaffanculo a tutti», sbottò
Sharon tra i denti asciugandosi le lacrime con il dorso della mano,
prima di
salire a passi pesanti sulle scale e raggiungere la sua camera, da dove
non
sarebbe uscita fino alla mattina dopo.
Si sbattè la
porta alle spalle e
si tuffò sul letto, affondando il viso nel cuscino, in modo
tale da nascondere
le lacrime e soffocare i singhiozzi che le dilaniavano il petto.
Sentì vibrare
la propria gamba e
dovette tirar fuori il proprio cellulare dalla tasca dei jeans. Lesse
il nome
di Krista sul display e rifiutò la chiamata: non aveva
voglia di parlare con
lei, non in quel momento.
Aveva appena ricacciato
la faccia
contro la federa ormai umida, quando il cellulare le vibrò
di nuovo. Con un
ringhio frustato lo agguantò e stava per spegnerlo, quando
notò che non era più
l’amica a chiamarla, ma qualcuno che non si sarebbe mai
aspettata di sentire.
Tentennò, ma poi si portò l’apparecchio
all’orecchio, tirando su col naso.
«Nicolas, come
fai ad avere il
mio numero?», gli chiese subito, con voce nasale.
«Beh, potrei
chiederti la stessa
cosa. Anzi, è quello che farò: come fai ad avere
il mio numero, tu?»
Sharon
sbuffò, irritata. «La
caporedattrice mi ha dato i numeri di tutti quelli che lavorano al
giornale,
quindi anche il tuo. Tu, invece, come fai ad avere il mio?»
«Ho ricattato
la caporedattrice
dicendole che se non mi avesse dato il tuo numero di cellulare avrei
fatto
pubblicare delle foto, come dire… incriminanti con il
miglior giocatore di
basket della squadra rivale alla nostra, sulla prima pagina. La odiano
tutti,
al giornale, non sarebbe stato difficile fare una cosa del genere. Ha
ceduto.»
Cadde il silenzio e
Sharon scoprì
di star sorridendo involontariamente, tanto che appena se ne accorse
arricciò
le labbra e disse:
«Perché
mi hai chiamato?»
«Volevo
sentire la tua splendida
voce», rispose in tono smielato. «Ma…
Sharon, c’è qualcosa che non va?
Sembra…
hai pianto?»
«No. No, sto
benissimo!» Tirò su
col naso, sfregandosi gli occhi.
«Sharon…
io scherzo sempre, è vero,
ma so anche essere serio, se voglio. Ne vuoi parlare?»
«No,
io… Perché ti interessa
tanto ciò che ho?!»
«Ok, non ne
vuoi parlare. Ci
vediamo domani a scuola.»
Sharon si strinse di
più il
cellulare all’orecchio, respirando irregolarmente.
«No!» Non sapeva perché, ma
non voleva che riattaccasse. «Non riattaccare, per
favore», gli sussurrò.
Nicolas, al di
là
dell’apparecchio, ridacchiò. «Sono
qui.»
***
Riprovò a
chiamarla sul
cellulare, non demordendo: aveva già provato diverse volte,
ma con scarsi risultati.
Se lo portò all’orecchio ed aspettò che
la sua migliore amica rispondesse,
anche se non trovava un motivo valido per cui lei avesse dovuto farlo:
l’aveva
abbandonata, aveva abbandonato la band a causa di Alex…
Se solo ripensava a lui
le veniva
voglia di piangere, di gridare e di darsi della stupida per quello che
aveva
creduto di fare con lui, per quello che aveva pensato, per quello che
aveva
fatto.
Alex era stato il suo
primo vero
ragazzo, del quale si era follemente innamorata già dal
primo sguardo, quando
da bambina era andata a casa di Sharon dopo scuola e l’aveva
visto giocare alla
playstation con il gemello. Da quel giorno non aveva guardato
più nessun altro,
c’era solo lui nei suoi pensieri, eppure… aveva
aspettato, aveva fatto di tutto
per non rovinare la loro amicizia, quando poi era stato proprio lui ad
iniziare
con lei.
Ricordava tutto
perfettamente:
quando lui l’aveva portata in camera per provare, quando
l’aveva baciata quasi
a tradimento, scusandosi subito dopo; quando poco prima del concerto
alla festa
di Halloween si era avvicinato a lei e le aveva chiesto di parlare in
privato,
quando lui – sorprendendola – si era dichiarato.
«Sì, insomma,
Krista… È… è da un
po’ che te lo volevo dire ma non ho
mai avuto il coraggio necessario: io… insomma… tu
mi piaci. Tanto, direi.»
Quello era il suo Alex,
quello
timido, quello dolce, quello che l’aveva amata,
l’aveva coccolata, l’aveva
rassicurata, le aveva promesso che sarebbero stati sempre insieme.
E da quel giorno si era
dedicata
solamente a lui, aveva avuto occhi solo per lui ancora di
più – lasciando
persino perdere il padre di Sharon – gli aveva dato tutto,
con quali risultati?
Era stata tradita da lui, Alex si era bellamente dato alla pazza gioia
con
un’altra e come se non bastasse aveva fatto quella scenata di
fronte a lei, di
fronte a tutti, nel corridoio della scuola. Si era messo a piangere
davanti a
mezzo mondo chiedendole chissà cosa e… e la
verità era che le mancava. Stava
lontana da lui da poche ore, eppure le mancava già da morire.
Le aveva detto che non
avrebbe
voluto che finisse in quel modo, le aveva detto che gli dispiaceva,
ma… come
poteva perdonarlo? Sentiva dentro di sé una voragine che la
stava risucchiando,
ma non poteva tornare indietro, non poteva mostrarsi debole di fronte a
lui.
Forse la cosa migliore da fare era dimenticare e ricominciare da capo.
Come poteva dimenticare?
E
ricominciare? Tantomeno. Non avrebbe mai potuto, perché
nonostante tutto
l’amore che provava per lui non si sarebbe volatilizzato:
sarebbe sempre rimasto
lì, ad osservarla, e lei avrebbe cercato Lui in tutti gli
altri, non trovandolo
mai. Era in vicolo cieco, un circolo vizioso dal quale non poteva
uscire, anche
se lo avesse voluto con tutte le sue forze. Alex sarebbe rimasto in
lei,
incancellabile, che lei lo volesse oppure no.
Però, si era
imposta di provare a
dimenticare, per quanto sapesse che sarebbe risultato tutto inutile, e
aveva
deciso, subito dopo la sua confessione, che avrebbe lasciato la band.
Quella stessa band che
l’aveva
accolta, che l’aveva fatta sentire viva, che
l’aveva protetta, che l’aveva
fatta sentire bene come se fosse la sua famiglia, quella vera. Quella
band che
era un pezzo di lei, della quale doveva separarsi, per dimenticare,
nonostante
in essa ci fosse più o meno tutta la sua vita.
Come avrebbe fatto senza
le ore
passate a suonare, a ridere, a scherzare, a vivere, non solo con Alex,
ma anche
con Stefan e Sharon?
Sharon, la sua migliore
amica che
non aveva ancora risposto ad una delle sue numerose chiamate.
«Rispondi, ti
prego, rispondi!»,
mormorò stringendo i pugni e affondando il viso nel cuscino.
Trovò
occupato e lanciò il
cellulare dall’altra parte del letto, agitando le gambe sul
letto in presi ad
una crisi isterica.
«Bambina, che
succede?», le
chiese sua madre, entrando in camera e sedendosi al suo fianco.
«Niente,
mamma.»
«Non mi
sembra… Si tratta di
Sharon, avete litigato?»
«Peggio…
Ho lasciato la band.»
«Che cosa?
Perché l’hai fatto?»
Krista non rispose,
faceva ancora
troppo male.
«Tu ami
suonare, tu tieni
tantissimo alla band…»
«Sì»,
mugugnò.
«Come faranno
senza di te? Hanno
bisogno di te… Alex che ha detto?»
«Niente, non
ha detto niente.
Ora… sono stanca, voglio dormire.»
Sua madre
annuì ed uscì dalla
stanza, allora Krista soffocò altre lacrime nel cuscino, al
buio.
___________________________________
Buongiorno!
Non ho molto da dire, so
che
questo capitolo non è il massimo, ma spero che sia piaciuto
almeno un pochino. Ringrazio
di cuore Utopy
e Tokietta86
per la loro recensione: sono
contenta che vi piaccia, almeno a voi… In questo capitolo si
capisce il motivo
del tradimento di Alex, ma non lo giustifica, ed entra in ballo un
nuovo
personaggio che però non starà in scena per molto
xD Bea. Nicolas è un bel
tipo, e chissà… Qui è stato carino,
no? *-* Per il bambino bisogna aspettare
ancora un pochino, poi si vedrà! Grazie davvero di cuore,
siete la mia gioia
per questa ff xD
Ringrazio anche chi
legge
soltanto. Alla prossima, vostra
_Pulse_
|
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Capitolo 16 *** Look's fight ***
What
am I
supposed to do when the best part of me was always you
And what am I supposed to say when I'm all choked up that you're ok
I'm falling to pieces
I'm falling to pieces
(Breakeven
– The Script)
Capitolo 9
Look’s
fight
«Quest’anno
che si fa?»
«In che
senso?», sorrisi
baciandolo sul collo.
«Natale
tedesco oppure italiano?»
Mise le mani suoi miei
fianchi e
mi baciò sulle labbra, facendomi finire contro al
frigorifero con la schiena.
«Ovviamente
italiano,
scherziamo?», disse Sharon entrando in cucina.
«Zia, sai che fine ha fatto
Alex? È uscito?»
«Cosa? Ma
quando?»
«Sì,
è uscito!», urlò Stefan dal
salotto.
Sharon annuì
e guardò il
frigorifero con la testa sulla spalla. Aveva sete, ma aveva qualche
problema,
visto che Tom non aveva intenzione di lasciare liberi né me
né il frigo.
«Ehm…
io dovrei…», disse con un
sorriso impacciato.
«Tom, ci
arrivi che deve aprire
il frigo? Ti vuoi levare?», dissi ridendo e alzando gli occhi
al cielo, tra le
sue braccia.
«No, non
voglio», mugugnò, ma poi
mi lasciò e potei tornare alla mia occupazione,
cioè a scrivere la lista della
spesa. Interessante.
«Zio, tu hai
mai tradito una
ragazza?», chiese versandosi della Coca Cola nel bicchiere.
Tossii leggermente e
guardai con
la coda dell’occhio Tom che ridacchiava: sapeva che avrei
avuto quella
reazione, e lo faceva ridere.
«Certo che
no», disse.
«Nemmeno con
una ragazza… prima
di zia, dico.»
«No.
Cioè… prima di tua zia non
avevo mai avuto una ragazza seriamente! Perché?»
Alzò le
spalle e si mise seduta
al tavolo, tra le mani il bicchiere. Ogni tanto se lo rigirava e lo
guardava
perdendosi nei suoi pensieri.
«È
questo che è successo ad
Alex?», chiese Tom.
«Già»,
ammise con poca voce.
«Cosa?
Aspetta, aspetta. Non ho
capito bene. Alex ha tradito Krista?»
«Sì,
ma non voleva.»
«Certo,
perché andare a letto con
un’altra è contro la tua
volontà.»
«Tom,
smettila, non era in lui»,
dissi io, che ero già a conoscenza, molto sommariamente, dei
fatti.
«Sì,
aveva bevuto.»
«Bevuto?!»
Mi girai e mi misi
seduta sul
ripiano della cucina, le mani unite. «Era successo qualcosa
con Krista?»,
chiesi.
«Non lo
so.» Rimase in silenzio a
bagnare ancora le labbra con la bevanda. «Ma la cosa che mi
preoccupa è
un’altra. Non per fare la figura della sfrontata egoista,
ma… cioè, questa è una
cosa che devono risolvere da soli. Perché mettere in mezzo
la band? Come
facciamo senza batterista?» Si raccolse la testa fra le mani.
«È
difficile, Sharon. Ed è
delicato. Io penso che Krista abbia paura anche solo di fidarsi in
questo
senso, ormai ha perso tutta la fiducia che aveva in lui.»
«Ma di noi si
fida, non può
lasciarci solo per lui.»
«Te
l’ho detto, è delicato.»
Rimase in silenzio e
disegnò con
il dito sulla superficie lucida del tavolo: avrei dato di tutto per
sapere a
cosa stava pensando.
Sentimmo ridere Sarah
assieme a
Stefan, che l’aveva presa in braccio e la faceva volare come
un aereo girando
per il salotto.
Sharon si
rigirò e mi guardò in
silenzio, voleva parlare ma aveva paura di ferirmi, quella era la
tipica
espressione che aveva in quei casi.
«C’è
un’altra cosa che mi
preoccupa», disse.
«Cosa?»,
chiese Tom, ma gli occhi
di Sharon non si schiodarono dai miei.
«Cosa
dovrò fare quando mi
troverò quel bambino davanti?»
Era stato un
procedimento lungo e
complesso, ma alla fine si era arrivati ad una svolta, quella
desiderata e
sospirata per qualcuno e ansiosa per qualcun altro. Nessuno da quel
giorno si
era fatto vivo all’ospedale per quel bambino, così
si era dato il via alle
procedure d’adozione.
Anto era strafelice,
Sharon un
po’ meno perché non sapeva come comportarsi.
Più che altro non sapeva come si
sarebbe sentita a dividere i suoi genitori con qualcun altro. La
verità era che
aveva anche un po’ di paura.
Di quel bambino non si
sapeva
molto, appena parlava, ma non aveva problemi o subito traumi, era
proprio così
di sua natura. Era silenzioso e tranquillo, fin troppo. Le uniche cose
che si
sapevano erano il suo nome, Juri, trovato scritto per caso
sull’etichetta della
maglia che portava addosso, e la sua età: non poteva avere
più di cinque o sei
anni.
Sinceramente, sentire
quella
frase fu come buttare giù un boccone amaro: lei aveva
trovato un fratello, io
l’avevo perso, senza considerare che poi avevo avuto Mattia
al mio fianco.
«Cioè…
cosa… come devo
comportarmi? Cosa devo dirgli? Non sono in grado di…
È tutto così complicato…»
«Andrai
benissimo Sharon, non ti
preoccupare», disse Tom passandole una mano sulla testa.
«Devi solo fare quello
che ti senti di fare. Ed accoglierlo, ovviamente.»
«E se fossi un
fallimento?»
«Non sarai un
fallimento, ne sono
certo. In teoria sembra difficile, ma in pratica è molto
più semplice. Stai
tranquilla.»
«Ok, ci
proverò.»
«Brava.»
Scesi dal ripiano della
cucina in
silenzio, pensando alle coincidenze della vita. Mai e poi mai trovarsi
in casa
un bambino sconosciuto per fratello sarebbe stato più
doloroso di perdere il
proprio, di fratello.
«Ary, tutto
ok?», mi chiese Tom.
Mi fermai sulla porta,
cosa
dovevo dire non lo sapevo: non sapevo bene come mi sentivo. Non
c’era tanto
dolore nel suo ricordo, non come all’inizio, ma quella
malinconia mi prendeva
sempre e comunque.
«Sto
bene», dissi. «Piuttosto,
qualcuno mi fa il piacere di dirmi dov’è andato a
finire Alex?»
«Non si
sa», disse Stefan. «Ma non
ti preoccupare, mi ha promesso che non farà altre
cavolate.»
«Ok, speriamo
solo che non si
deprima troppo. Mi fa male vederlo in quello stato.»
«Già,
anche Krista stava da
schifo», mormorò Sharon, tanto piano che non la
sentì nessuno. Stava male per
lei, ma quello che aveva fatto, ritirarsi dalla band, l’aveva
profondamente
delusa.
«Quando
arrivano papà e mamma?»,
chiese girandosi sulla sedia.
«Tra poco.
Sharon», mi avvicinai
e le misi le mani sulle spalle guardandola dritta negli occhi,
«sarai
bravissima, e poi ci saremo noi ad aiutarti, per ogni cosa. Posso farti
una domanda?»
«Quale?»
«Come ti
senti?»
«Come mi
sento?»
«Sì.
Avrai un fratello, come ti
senti?»
«Beh…
a dir la verità… un po’
preoccupata.»
«Ma sei
contenta?»
Silenzio, silenzio,
silenzio,
silenzio, silenzio…
«Non
importa.» Le lasciai le
spalle e andai in salotto, dove iniziai a giocare con Sarah e Stefan.
«Mi
dispiace», sussurrò a suo
zio.
«Lo ha detto
anche lei, non
importa», le sorrise.
Din don. Suonarono il
campanello.
«Oddio!»,
gridò Sharon alzandosi
di scatto e salendo in fretta le scale, rischiando anche di cadere.
Arrivò appena
alla fine della rampa, io avevo già aperto la porta.
«Dio,
quant’è bello», disse senza
nemmeno pensarci.
Tutti gli sguardi si
puntarono su
di lei, persino Juri aveva alzato la testa e l’aveva
guardata, certo per un
nanosecondo, però l’aveva guardata anche lui. Era
tutto così nuovo per lui,
pensai che forse era anche spaventoso: essere catapultati in un mondo
completamente diverso, senza nessuna preparazione precisa per
affrontare
quell’onda alta quindici metri di novità, non
doveva essere poi così semplice.
«Siamo
arrivati, questa è casa
nostra, ora anche tua», disse Anto passandogli dolce la mano
sui capelli color biondo
platino.
I suoi occhietti verdi
accesi
vagavano per tutta la porzione di casa che poteva cogliere, sembrava
che stesse
facendo un’ispezione dettagliata memorizzando tutto, stando
semplicemente fermo
sulla porta.
Bill sorrise alla figlia
a bocca
aperta sulle scale e poi spinse delicatamente il bambino
all’interno, per
chiudersi alle spalle il freddo dell’inverno. Aveva iniziato
di nuovo a
nevicare.
Si accovacciò
al suo fianco e lo
guardò negli occhi mettendo un dito sotto al suo piccolo
mento.
«Allora Juri,
tutto bene?», gli
chiese.
Io non sarei riuscita a
rispondere. Chissà come ci si sentiva. Più ci
pensavo, più mi convincevo che
non sarei riuscita mai a spiegarmelo, doveva essere strano, quello era
certo.
Juri sorrise e
improvvisamente
una fitta al cuore mi fece chiudere gli occhi, ma li riaprii subito. Ci
mancava
solo che si preoccupassero di non far sorridere più quel
bambino. Non era colpa
sua se somigliava così tanto a Davide. Quel problema
era solo mio.
«Bene. La vedi
quella ragazza
lassù?», gli chiese sorridendo a Sharon e
indicandola con il dito. «Lei è tua
sorella, si chiama Sharon. Sharon, potresti venire qui?», la
invitò. Il suo
sorriso non voleva proprio separarsi dalle sue labbra.
Sharon fece un respiro
profondo e
scese lentamente dalle scale. Gli occhi di Juri la percorsero tutta,
lentamente, accompagnati dalla sua espressione docile.
Si mise in ginocchio
come suo
padre e gli porse la mano: «Ciao, io sono Sharon, piacere di
conoscerti… Juri.»
Il bambino
guardò la sua mano
senza fiatare, poi avvicinò la sua e le strinse due dita,
senza alzare lo
sguardo. Non si capiva se era imbarazzato o che cosa.
Lasciata la mano della
Sharon,
confusa tanto quanto lui, Bill si mise a presentare tutti gli altri
componenti
della famiglia.
«Lui
è Stefan, tuo cugino. Lei è
Sarah, la tua cuginetta, ha un anno in meno di te, sai? Poi
c’è zio Tom e lei è
zia Ary.»
Mi chiesi se
già si ricordava
tutti i nostri nomi: improbabile.
Mi avvicinai e lo
guardai da
vicino: la sua somiglianza era davvero una cosa pazzesca, era la sua
copia.
«Ciao
Juri», dissi. «Sai, tu mi
ricordi molto qualcuno.»
Juri mi
guardò intensamente negli
occhi e pian piano sorrise, mettendomi una mano sulla guancia.
«Anche
tu», disse con un accento
tedesco quasi perfetto: pure la sua voce dolce era similissima alla
sua.
Credevo nella
reincarnazione, e
in quel momento più che mai mi sorgeva spontanea
l’idea di Davide all’interno
di quel corpicino. Allontanai subito quel pensiero dalla mia testa per
non
soffrirne e mi allontanai lentamente, giusto per non dare
l’impressione che la
cosa mi avesse davvero scossa dentro. Tanto ero sicura che almeno tre
persone
se ne fossero accorte: Bill, Anto e Tom.
***
Era tutta una questione
di
sguardi: chi abbassava la testa per primo perdeva, non
c’erano scusanti. Così
sul ring.
Quel pomeriggio era
stato
doloroso e bello allo stesso tempo: in pratica, strano. Non si poteva
dire che
un misto di quelle sensazioni non fosse strano.
Sapeva che a casa
sarebbe
arrivato Juri, ma non era in vena, quindi era sgattaiolato via senza
farsi
vedere. Si era rifugiato in palestra, dove aveva trovato Bea, capelli
legati,
canottiera e pantaloncini corti, che lo aspettava seduta su una
panchina
accanto agli attrezzi sui quali di solito lui si allenava.
«Ehi, sei
arrivato finalmente»,
l’aveva accolto sorridendo.
«Mi
aspettavi?»
«In
verità… sì.»
Si guardarono negli
occhi, intensamente.
Non sapeva come spiegarlo Alex, era difficile descrivere quel modo
di guardarsi negli occhi. Bello e temuto.
«Ah»,
perse la battaglia
abbassando lo sguardo per primo.
«Sai
perché?», gli chiese la
ragazza.
«No.»
«Lo vuoi
sapere?»
Si passò la
mano fra i capelli
cercando di stare calmo e si girò a guardarla. Era
più vicina di quanto si
immaginasse. Non si era accorto che si era alzata ed era andata dietro
di lui.
Era un po’
più piccola rispetto a
lui, ma ci mancava poco. I suoi occhi di colore verde chiaro lo
mettevano in
ansia, stranamente.
«In
verità… no», imitò la sua
voce.
«L’altro
giorno sembravi
piuttosto giù di morale», disse senza fare un
piega al pessimo tentativo di
Alex di deviare l’argomento.
«Ti ho detto
che non lo voglio
sapere!»
Si sdraiò
sulla panca per fare un
po’ di addominali. Non voleva pensare di nuovo a Krista, ma
sembrava proprio
l’obbiettivo di quella ragazza che si era trovato in mezzo
alla sua vita.
«E volevo
chiederti come mai, se
avevi voglia di parlarne. Sai, molti vengono qui a fare boxe e quelli
che
conosco di solito lo fanno per scaricare la rabbia. Non vorrei che
finissi per
farti ammazzare di botte da uno il doppio di te.»
Quella ragazza oltre che
essere
un’impicciona era anche determinata, ma conosceva bene quella
qualità, o
difetto, era così anche lui se voleva.
«Sì,
credo che domani mi farò
rompere il naso da qualcuno. Poi il giorno dopo le braccia, e poi il
giorno
dopo ancora…»
«Smettila.»
Era fin troppo seria
per non essere interessata veramente a lui. Alex ne sarebbe stato
onorato, ma
quella volta no, ancora non riusciva a vedersi con un’altra
ragazza oltre a
Krista.
«Ok? Smettila,
è una cosa seria.»
«Non ti
conosco nemmeno, non puoi
dirmi di fare o di non fare qualcosa. Se voglio andare a farmi rompere
le
braccia posso farlo.»
Bea si mise sdraiata
sulla
panchina accanto, quella per fare sollevamento pesi. Lo
guardò alzarsi e
abbassarsi con le mani dietro la testa, respirando regolarmente.
«Si tratta di
una ragazza?», gli
chiese piano.
Alex sbuffò e
rimase sdraiato
sulla pelle nera, gli occhi chiusi alla luce che gli arrivava dritta in
faccia.
«Ci ho
azzeccato, non è vero?»
Il suo sorriso lo
sorprese: tutte
le cose brutte che aveva nella testa, pronte a uscire in meno di due
secondi,
con quel sorriso si volatilizzarono; rimase come incantato. Era un
sorriso
vero, dolce, ma anche un po’ amaro.
«Anch’io
sono uscita da una
brutta storia, è successo un casino», si mise
seduta a gambe incrociate e
abbassò lo sguardo.
«Non
sarà mai più grave del
casino che ho fatto io», ammise Alex cercando di tirarla su
di morale.
«Che
cos’hai fatto?»
«Non ne voglio
parlare», sbottò
prima di riprendere a fare gli esercizi con foga, mentre gli occhi gli
pizzicavano.
«Il mio
ragazzo era partito per
ritornare un po’ a casa sua e… una sera mi ha
chiamata e mi ha detto che non
sarebbe più tornato, che aveva messo incinta
un’altra e che… voleva stare con
lei perché… perché l’amava.
Io non so tra tutto quello che mi ha detto cosa sia
vero e cosa falso.»
«Non vi siete
più sentiti da
allora?», chiese senza staccare lo sguardo dal muro di fronte
a sé. Aveva paura
di vedere l’espressione di quella ragazza tradita, avrebbe
visto il viso di
Krista.
«Cosa?»
«Non vi siete
più sentiti da
allora?»
«Oh, no. Non
ce l’ho fatta.
Quindi… credi ancora che tu abbia combinato un casino
più grande di questo?»
«Beh, per me
è imperdonabile.»
«Sei piuttosto
duro con te
stesso.»
«Sono duro
quel che serve.»
«Puoi dirmi
che cos’è successo?»
Alex si mise seduto e la
guardò
negli occhi: erano improvvisamente cambiati, celavano a malapena la
tristezza.
«Ho tradito la
mia ragazza, e mi
dispiace da morire.» Bea rimase in silenzio. «Avevo
bevuto, in pratica ha fatto
tutto quella ragazza. È stato orribile quando mi sono
accorto di quello che
stavamo facendo. E quando l’ho detto a lei… Si
chiama Krista, è bellissima. E
io l’ho tradita come se fosse… Lei era importante
per me, davvero. Ma adesso…
mi ha lasciato, giustamente. Mi manca.»
Bea rimase ancora in
silenzio.
Aveva ascoltato quasi senza fiatare, lui non capiva se era
scandalizzata oppure
se lo capiva. Dubitava fortemente della seconda opzione.
«Capita a
tutti di sbagliare»,
disse dopo un po’.
«Ma lei non ha
nemmeno voluto
sapere che cos’era successo.»
«Pretendi un
po’ troppo.»
«Almeno poteva
ascoltarmi.»
«Cosa sarebbe
cambiato? Non
avresti dovuto bere, comunque.»
Fu Alex a rimanere in
silenzio
quella volta. Aveva colto nel segno: lui aveva sbagliato lo stesso, era
solo
colpa sua, in ogni caso.
«Mi
dispiace», disse Bea
alzandosi e mettendogli la mano sulla spalla. «Che ti serva
da lezione, per non
fare gli stessi errori in futuro. Posso capire sia ciò che
prova lei, sia
quello che provi tu, davvero.»
«Impossibile
che tu riesca a
capire come sto.»
«Beh, lo vedo.
Se ci fossi io al
posto di Krista, vedendoti così sarei tornata subito da te.
Si vede che lei non
tiene a te come tu tieni a lei. Potrebbe essere, ma non è
detto. A volte si è
così… insicuri… tutto ti crolla
addosso e non ti fidi più di niente e di
nessuno. Mi dispiace Alex, sul serio, mi dispiace per te.»
Bea si
allontanò e andò a
prendere la sua borsa. Si infilò il giubbotto e
uscì dalla palestra, ma prima
salutò Alex con un sorriso che aveva cercato di rendere il
meno triste
possibile e con un cenno della mano.
Quel pomeriggio era
stato strano
perché non gli era mai capitato di aprirsi con qualcuno che
non fosse suo
fratello su Krista. Bello, perché si era sentito bene dopo
aver parlato con
lei, come alleggerito di un peso troppo pesante. Doloroso,
perché ricordare
Krista gli aveva fatto male comunque.
Camminava lentamente per
tornare
a casa, pensando a quel pomeriggio. C’era poca gente in giro,
e uno strano
silenzio.
«No! Lasciami!
Lasciami andare!»
«Stai
zitta!»
Alex conosceva quella
voce, come
poteva confonderla? Arrivò al vicolo di corsa, intravide
nell’oscurità due sagome,
un ragazzo e una ragazza, quest’ultima che lottava per
liberarsi, gridando con
tutta la voce che aveva in gola.
Corse e raggiunse i due,
si mise
in mezzo e sferrò un pugno sulla guancia del ragazzo
ruggendo: «Lasciala
stare!»
Bea finì a
terra, contro il muro,
spaventata e con il fiato mozzato.
«Non ti
mettere in mezzo!», gridò
l’altro ragazzo colpendo Alex come aveva fatto lui prima.
Alex
barcollò, era più forte, e
in quell’attimo di distrazione subì un altro pugno
nello stomaco.
«Alex!»,
gridò Bea.
Alex si tirò
su e colpì con nuova
forza il ragazzo con un gancio destro e poi con una ginocchiata in
mezzo alle
gambe.
Il ragazzo cadde a terra
dolorante, Alex si appoggiò al muro accanto a Bea.
«Alex, oddio,
Alex!» Prese il
cellulare e chiamò subito la polizia.
***
«Non ci posso
credere! È la terza
volta che ci vediamo in così poco tempo!», dissi
con le guance rigate dalle
lacrime entrando in ospedale.
«Non ti
preoccupare, Ary. Va
tutto bene», mi disse Tom stringendomi a sé.
«Sì,
non è successo nulla di
grave», mi rassicurò Mattia.
«Alex!»,
disse Stefan,
preoccupatissimo, entrando per primo nella sua stanza.
«Ahia»,
disse Alex, seduto su un
lettino d’ospedale con l’infermiera accanto che gli
metteva i punti al
sopracciglio. Seduta sul suo letto, che gli stringeva la mano,
c’era una
ragazza.
«Che
cos’è successo?», chiese
Tom.
«Papà,
calmati», disse piano Alex
chiudendo gli occhi. «Mamma, non piangere, ti
prego.»
«Alex, mi hai
fatto tanto
preoccupare!», lo abbracciai delicatamente, stringendomi a
lui.
Mattia prese la ragazza
e le aprì
gli occhi, ci guardò dentro con una lucetta: «Come
va, tutto bene?»
«Sì,
sì! Io sto bene! Lui come
sta!?»
«Sta bene,
rilassati. Fatti
disinfettare questa ferita.»
«No, no! Non
voglio! Guardi lui
prima!», scostò la mano di Mattia dalla sua
fronte.
«Ma…»
«Niente ma!
La prego!» Si sarebbe messa pure in ginocchio per raggiungere
il suo scopo.
«Bea,
smettila, ti prego. Fatti
vedere, io sto benissimo», disse Alex; riusciva a malapena a
tenere gli occhi
aperti.
Bea, quella ragazza, si
calmò e
si lasciò disinfettare la ferita sulla fronte.
«Allora, mi
spiegate che cos’è
successo?»
«Appunto, Bea,
che cos’è
successo?», le chiese debole Alex.
«Non te lo
ricordi?», chiese
preoccupata.
«No, io volevo
sapere chi era
quello.»
«Se lo
sapessi! Quello stronzo,
ma l’hanno preso, vero?» Era piena di rabbia.
«Allora, la
smettete?! Voglio sapere
che cos’è successo!», gridò
Tom, mentre io mi lasciavo andare alla poltroncina
dietro di me.
«Sono uscita
dalla palestra»,
iniziò a raccontare Bea. «Stavo facendo la solita
strada per tornare a casa e…
non so da dove è arrivato… mi ha preso e
io… non so cosa voleva farmi…»,
scoppiò a piangere, ma non si fermò.
«Poi è arrivato Alex, si sono presi a
botte e… ne è uscito lui. Alex, mi
dispiace.» Teneva i pugni stretti sulle
gambe, il viso basso.
«Ah, ma per
favore», sbuffò Alex.
«Non devi nemmeno dirlo. L’importante è
che stai bene. Smettila di piangere.»
Bea annuì, si
asciugò le guance e
tirò su con il naso.
«Sono
orgoglioso di te», disse
Tom sorridendogli.
«Bene, qui
abbiamo finito», disse
l’infermiera rimirando l’opera appena finita.
«Ok,
grazie», disse Mattia
liquidandola.
Dal suo sguardo capii
che aveva
una cotta per lui. E chi non ce l’aveva in
quell’ospedale? Uscì dalla stanza.
«Sarà
meglio se usciamo anche
noi, forza», ci invitò Mattia.
«Ok.
Alex», mi guardò, «non
avresti potuto fare di meglio.» Sorrisi e uscii assieme a Tom
e a Stefan.
Nella camera restarono
solo Alex
e Bea. Lei si alzò e andò a sedersi al suo
fianco, sul suo letto.
«Alex, mi
dispiace così tanto»,
disse abbassando il viso.
«Non
devi», le prese la mano e la
accarezzò. «Sto bene, no? Un po’
ammaccato, ma sto bene», sorrise.
Fece sorridere anche
Bea, ma per
poco. «Se non fossi arrivato tu… io ti devo la
vita.»
«Tu non mi
devi proprio niente,
hai capito?», le prese il viso fra le mani, la
guardò da vicino negli occhi.
I loro respiri si
scontravano,
Alex aveva dei lividi sul viso, ma era bello ugualmente. Bea si
sentì bruciare,
sia dentro che fuori. Alex si avvicinò piano e la
baciò delicato sulle labbra,
poggiandole appena sulle sue. Bea gli prese il viso tra le mani,
attenta a non
fargli male, e contraccambiò il bacio, ad occhi chiusi. Poi
si staccò
velocemente, allontanandosi anche da lui.
«Scusa»,
mormorò.
«No, scusami
tu, è colpa mia.»
Alex si alzò e guardò Bea negli occhi:
«Dai, andiamo. Ti accompagno a casa.»
«Ho…
ho già chiamato i miei.»
«Ah.
Allora… usciamo da qui.»
Bea annuì e
seguì Alex fuori
dalla stanza. Appena lo vidi uscire corsi subito ad abbracciarlo
assieme a
Sharon, che dopo un po’ ebbe la meglio.
«Alex, mi hai
fatto prendere un
colpo!»
«Bea, lei
è mia cugina, Sharon»,
fece le presentazioni.
«Ciao»,
la salutò Bea abbassando
lo sguardo.
Perdevano prima uno e
poi l’altro
quella sera, sembrava una lotta, fatta solo di sguardi.
Alex notò un
bambino in braccio a
Bill, si chiese se era Juri, così si avvicinò e
gli porse la mano.
«Ciao, sei
Juri vero? Io mi
chiamo Alex. Non ti preoccupare, non faccio sempre a botte con la
gente.»
«Bea! Oddio,
Bea!» Una signora
correva per il corridoio e quando raggiunse la ragazza la
abbracciò forte.
«Stai bene, tesoro? Cosa ti sei fatta?»
«Niente,
mamma, non mi sono fatta
niente», disse.
Gli sguardi di Bea e
Alex si
incontrarono e persero entrambi, abbassando gli occhi al pavimento.
_________________________________
Buon pomeriggio!
Ho appena finito di studiare
storia e sono stravolta e già affranta, poiché
sono a conoscenza del fatto che
nella verifica di domani non ci sarà niente di quello che ho
studiato D: Sempre
così con quella donna .__.
Comunque, pensiamo al capitolo
che è meglio xD Finalmente Juri, il bambino che ha trovato
Anto, è diventato
ufficialmente parte della famiglia e Ary è rimasta un
po’, come dire… sconvolta
xD perché somiglia molto a Davide, il suo fratellino.
Sharon sarà in grado di essere
una buona sorella maggiore? È quello che anche lei spera ;)
Per quanto riguarda il nostro
Alex, invece, ha salvato quell’impertinente e intrigante
ragazza di nome Bea. E
si sono pure baciati ò.ò Mi sorprendo di
ciò che scrivo xD Beh, vedremo come
andrà a finire!
Ah, sì -.-“ Lo dico adesso, a
titolo informativo: sono consapevole del fatto di star trascurando la
coppia Stefan/Michelle,
non me ne vogliate, ma ai tempi (ho scritto un sacco di tempo fa tutti
questi
capitoli xD) avevo altri progetti per loro e dunque sono un
po’ in secondo
piano, se non del tutto assenti. Mi dispiace molto lasciarvi sulle
spine, ma vi
prometto che avranno anche loro il loro spazio, in futuro n.n
Spero che almeno a voi sia
piaciuto un po’ e ringrazio di cuore le due fedelissime de Il sogno,
ossia:
Utopy
: Krista la batterista. Ovvio che fa rima, l’ho chiamata
così
apposta u.u xDD Anche secondo me non doveva abbandonare la band e pure
a me sta
antipatica Bea xD Vedremo che ruolo avrà nella vicendaaaa XD
Sharon quando ci
si mette è paggio di Bill sisi u.u Beh, è un
misto fra lui ed Anto, quindi fai
un po’ tu xD Stefan e Michelle li ho abbandonati xD Ma
torneranno, prima o poi…
o.o E’ arrivato Juriii, hai vistoo *-* Io amo quel bimbo
sìsì :D
Grazie Mond, ma io non mi ritengo
affatto brava :( Non mi piaceeeeee! Ma se piace a voi, vabbene
così xD Ti
voglio tantissimo bene anch’io! *-* Tua, Sonne.
Tokietta86
: Sì, hai ragione, Alex doveva fermarsi prima, ma non
pensava davvero di arrivare a quel punto u.u A tutti sta antipatica
Bea, chissà
come mai *ç* Chissà, magari Krista
deciderà di tornare… boh, vedremo :)
Sì, per
Sharon è un periodo un po’ così, pora
vedremo se riuscirà ad essere una brava
sorella maggiore! Nicolas… *Q* No comment xD
Grazie per i tuoi poemi *-* Sono
contenta che questa storia sia la number one xD A lunedì, un
abbraccio! :D
In ultimo, ringrazio
anche chi
legge soltanto! :D Alla prossima, un bacio!
_Pulse_
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Capitolo 17 *** Choices ***
Capitolo
10
Choices
Com’era strano
vedere quel
bambino tra noi. Non eravamo preparati. Di solito quando doveva
arrivare un
nuovo componente in famiglia avevamo più tempo per metterci
in testa l’idea di
quel cambiamento: circa nove mesi. Invece quella volta era accaduto
troppo in
fretta, nemmeno un mese. E in più, ci eravamo trovati con
accanto un bambino di
cinque anni e mezzo, cioè già capace di intendere
e di volere.
Sharon fu quella
più scossa dalla
novità, aveva ancora bisogno di tempo per abituarsi, ma lui
era già lì.
«Io vado a
dormire», disse Sharon
a piedi nudi di fianco al divano, già dentro al suo pigiama.
«Ok, buona
notte tesoro», disse
Anto baciandola sulla guancia.
Era strano soprattutto
vederlo in
silenzio a sfogliare libri e libri di fronte al camino, con le luci
dell’albero
di Natale che si riflettevano sul pavimento. Non riuscivo a capire se
guardava
le figure oppure se effettivamente leggeva: era ancora più
strano, visto che
aveva solo cinque anni e mezzo.
«Sì,
adesso andiamo anche noi»,
disse Tom. Mi prese la mano e si alzò sorridendo.
«Buona
notte», dissi, poi mi
alzai e seguii Tom in camera.
Mi accoccolai al suo
fianco e lo
abbracciai, chiusi gli occhi.
«Mi
dispiace», dissi.
«Di
cosa?», mi strinse e mi baciò
leggero sulla fronte.
«Ti trascuro
troppo.»
«Non
è vero. E poi anche io ti
trascuro. Ma lo sai perché?»
«Perché?»
«Perché
ci impegniamo a crescere
tre parti di noi. E lo facciamo davvero bene, se posso dirlo.»
Risi a bassa voce e lo
baciai
sulle labbra. Era troppo che non ci dedicavamo del tempo, volevo stare
solo con
lui quella notte. Volevo esistere solo con lui, per lui.
***
Sharon rimase per
minuti, minuti
che sembravano ore, di fronte alla finestra di camera sua, guardando la
strada
silenziosa. A volte passavano delle macchine, ma raramente, e filavano
via
silenziose. Quella notte era fin troppo silenziosa.
C’era Juri che
dormiva nel suo
lettino, dall’altra parte della stanza, ma anche lui
respirava in silenzio.
Sembrava addirittura che non ci fosse.
Quella notte pure il
sonno di
Sharon se n’era andato, silenzioso. Silenziosa come la neve
leggera che cadeva
fuori dalla finestra e silenziosa si posava sulle strade. Silenziosa
come il
respiro di Juri. Silenziosa come quella notte.
Arrivò un
rumore, a rompere quel
silenzio. Una moto passò di fronte alla casa di Sharon e
parve allontanarsi, ma
il rumore tornò di nuovo e la moto si fermò di
fronte alla finestra di Sharon.
Il ragazzo si tolse il
casco e
sorrise a Sharon, facendole l’occhiolino. Sharon rise piano,
tappandosi la
bocca. Seppure scuotendo la testa, si vestì in fretta e
uscì di casa senza fare
rumore.
«Nicolas, che
ci fai qui?», disse
stringendosi nella giacca.
«Passavo di
qui…», le sorrise. «Beh,
che fai?»
«Cosa?»
«Che fai,
vieni con me oppure
no?»
«Con te? E
dove dovremmo andare?»
«Dove vuoi.
Anche a casa mia, se
ti va.»
«A casa tua?
Ma tu sei tutto
matto!»
A scuola le settimane
erano
passate tranquille, Sharon aveva avuto modo di parlare un po’
con Nicolas e,
oltre ad essere bello, sapeva essere simpatico, ma solo quando voleva.
Nascondeva qualcosa, Sharon l’aveva capito, un dolore
lontano, celato dai suoi
occhi magnifici ed imperscrutabili.
«Perché?»
Quando faceva quella
faccia da
cucciolo era adorabile, se una ragazza era tanto sprovveduta da non
conoscerlo
gli sarebbe caduta ai piedi, ma conoscendolo non ce n’erano
di così coraggiose.
Ma non era per il suo carattere un po’ scontroso, anche un
pizzico antipatico,
ma per il suo segreto. C’erano momenti in cui si isolava da
tutti e sembrava
stare davvero male, era quella tristezza che spaventava. Lui e Sharon
in quel
periodo avevano molto in comune, forse era per quello che stavano bene
assieme.
«Perché?
Ma cosa vengo a fare a casa tua? E poi, ti rendi conto di
che ore sono? Se i miei mi beccano, se mio
padre mi becca sai che mi
fa?»
«E dai! Io
l’ho sempre detto che
sei una fifona.»
«Non sono una
fifona! E poi
domani sera ho anche un concerto.»
«Per favore,
Sharon. Vieni con
me.»
Ecco, quando faceva
quella faccia
dolce, invece, lo odiava perché riusciva sempre a farla
cedere. Sarebbe
riuscito pure a farla buttare giù da un dirupo, e questo la
spaventava.
Guardò dietro
di sé e poi Nicolas
dietro la recinzione. Sbuffò e aprì il cancello.
Uscì e si mise dietro di lui
sulla moto.
«Sapevo che
non eri una fifona»,
disse a bassa voce togliendosi il casco e infilandolo a Sharon.
«Ehi, che
fai?!»
«Ti metto il
casco?»
«E
tu?»
«La guido io
la moto, la
responsabilità è mia. Quindi meglio se non ti fai
male tu, anche se è impossibile
che tu ti faccia male: sono troppo bravo a guidare.»
«Che modestia,
cavolo.» Si
allacciò il casco sotto il mento e sistemò la
visiera sopra gli occhi.
«Tieniti»,
le disse facendo
ripartire il motore.
Sharon
ringraziò il casco per
coprirle il rossore che si era impadronito del suo viso. Si strinse
forte a
Nicolas e lui, con il sorriso sulle labbra, partì.
***
«Che ne pensi
di Juri?»
Mi accarezzò
la guancia con le
labbra e scese fino al collo: il suo respiro sulla pelle calda era
piacevolissimo.
«Solo a te
può venire in mente di
parlare di un bambino dopo aver fatto l’amore»,
sussurrò.
«Il fatto
è che… non è un bambino
qualunque.»
«Cosa vorresti
dire?», mi
accarezzò il viso con entrambe le mani e mi
stampò un bacio sulle labbra.
«Cavolo, te ne
sarai accorto
anche tu che è… è la sua
copia.»
Si appoggiò
con il gomito al
materasso e mi guardò in silenzio. Non volevo guardarlo,
sarei scoppiata a
piangere, così guardai il soffitto sperando che mi dicesse
qualcosa, ma rimase
in silenzio.
«E
quando… quando ci siamo
conosciuti, e gli ho detto che mi ricordava una persona, quando lui mia
ha
detto Anche tu,
io… Tom, non l’ho mai
pensato così tanto in questi anni come in questo
periodo», tirai su col naso.
«Ovvio, non
puoi impedirti di non
pensarlo», disse tagliente. Si sdraiò sul fianco,
con un braccio sotto la
testa, mi accarezzò la guancia con il dorso delle dita.
«Scusami», mormorò.
«No, non
importa. Ascolta… tu
credi nella reincarnazione?»
«Che
cosa?»
«Io ho pensato
che… cavolo, sono
così simili che mi è venuto da pensare che forse
lui è rinato in quel bambino.
E… e noi l’abbiamo trovato. Ci credi?»
Silenzio. «Ti prego, rispondi.»
«No, mi
dispiace.»
Mi girai e lo guardai
con gli
occhi gonfi di lacrime.
«Non ti
illudere», disse.
Mi baciò
morbido sulla fronte e
mi sorrise mettendosi con il viso accanto al mio petto, stringendomi
fra le sue
braccia. Infondo aveva ragione, non dovevo illudermi così.
«Grazie,
Tom», mormorai prima di
addormentarmi.
***
«Perché
mi hai portata qui? Sul
serio. Dimmelo, Nicolas.»
Si girò e la
vide ancora ferma
sulla soglia, la luce del corridoio alle spalle, di fronte solo buio e
lui.
«È
difficile da spiegare», disse.
«Provaci.»
Nicolas la raggiunse, si
mise
esattamente di fronte a lei, pochi centimetri li dividevano
l’uno dall’altro. Le
accarezzò i capelli e si avvicinò alle sue
labbra.
«Credo di aver
capito perché»,
disse Sharon.
«E
tu…»
«Io?»
«Sì,
insomma… io non so cosa
provo, speravo che tu potessi aiutarmi.»
«Oh, Nicolas.
Che cosa vorresti
fare con me?»
«L’amore?»
Lo colpì sul
braccio con un mezzo
pugno, coordinato pure male. «Non sei per niente
romantico.»
«Non ho mai
detto che voglio esserlo.»
Sharon rise a bassa voce
e si
spostò da lui, entrò e si guardò
intorno fra l’oscurità. Pareva più una
camera
d’albergo che un appartamento da quanto era piccolo. Non
c’erano nemmeno i muri
tra le diverse stanze, tranne per il bagno.
Si girò e si
ritrovò appiccicata
a Nicolas. Si guardarono negli occhi e fu Sharon a mettergli le braccia
intorno
al collo. Nicolas la strinse a sé, soffocò i
respiri fra i suoi capelli e ne
respirò tutto il profumo, invadendosi.
«Io sono
vergine», disse piano
Sharon.
«C’è
sempre una prima volta.»
Nicolas la guardò intensamente e la baciò
delicato sulle labbra: una piuma
sulle labbra.
«Sul serio,
Nicolas, non sono
pronta. E poi, ti conosco da così poco! Ma che ci sono
venuta a fare io,
qui?!», gridò improvvisamente.
Si tuffò sul
letto lì di fianco e
strinse il cuscino. C’era impresso il profumo di Nicolas, lo
annusò e non volle
più staccarcesene.
«Sharon, ok,
va bene», la
raggiunse sul letto e si mise sdraiato quasi su di lei.
Quando si
girò si ritrovò
completamente sotto di lui. Rimase senza parole, senza capire cosa
fare.
Nicolas le prese le mani e le portò ai bordi della propria
maglietta, Sharon, aiutata
da chissà quale voce nella sua testa, capì che
doveva togliergliela. Lo fece
quasi tramando, ma ci riuscì e rimase proprio senza fiato.
Non ci volle molto
prima che Nicolas la tolse a lei.
«Nicolas, ma
che cazzo stiamo
facendo?!»
«Come sei fine
stasera,
complimenti.»
«Ok. Nicolas,
puoi spiegarmi
gentilmente ciò che stiamo facendo?!»
«Così
va meglio. Comunque credo che
ci stiamo spogliando.»
«Ma
perché?!»
«Ti
vergogni?»
«Sì…
No! Tu mi confondi!»
«Sì,
capita spesso.»
«Cosa? Pure
spesso fai così?!» Si
alzò di colpo e notò che aveva i jeans abbassati
fino alle ginocchia. «Nicolas!
Mentre ero impegnata a litigare con te, tu mi spogliavi?!»
Non se n’era proprio
accorta.
«Scusa, ma non
mi piacciono i
litigi.»
«Ah,
vaffanculo!» Fece per
rimettersi la maglietta andando verso alla poltrona sulla quale aveva
appoggiato la giacca, ma Nicolas la fermò prendendole il
braccio e trascinandola
a sé.
«No, Sharon,
ti prego, non te ne
andare.»
«Nicolas,
capisci una cosa: io
non sono una di quelle che ti fanno passare una bella serata per farti
dimenticare i cazzi tuoi, ok?»
«Non ho nessun
altro modo per
dirti quanto tengo a te!», gridò.
«Insomma! Prima di conoscerti ti credevo
super viziata, una ragazzina.» Lei roteò gli
occhi, sbuffando. «Ma poi… poi ho
scoperto che sbagliavo e tu… tu sei perfetta, in
tutto.»
Sharon rimase in
silenzio, a
guardarlo negli occhi più che stupita spaventata. Quante
bugie Derek le aveva
detto, quante ancora doveva scoprirne? Anche quella poteva benissimo
essere una
bugia.
«Sharon,
credimi. Io non so… come
potrei dirti che ti voglio bene? Io sono tuo, fai quel che vuoi di
me», si
lasciò cadere sul letto a braccia aperte e chiuse gli occhi.
Sharon lasciò
la giacca, si tolse
la maglietta, si tolse i jeans, scivolò piano su Nicolas e
gli accarezzò i
capelli, lo baciò in viso: sulle guance, sulle palpebre
chiuse, sulle labbra.
Sentì il sapore della sua pelle e il calore del suo corpo
sotto al suo. Ogni
spostamento su di lui era una scarica elettrica.
Deglutì e gli
slacciò i jeans,
Nicolas la fermò.
«No, non
sarebbe vero», disse.
«Posso fare ciò che tu hai fatto a me a
te?», sorrise.
«C’è
sotto qualcosa, lo sento»,
disse Sharon ridacchiando.
«Con
un’unica eccezione.»
«Ecco, lo
sapevo.»
«Andiamo a
farci un bagno.»
«Che
cosa?»
«Dai Sharon,
non è così
scandaloso.»
«Per te! Io
non sono mai stata
nuda con un ragazzo.»
«Non
preoccuparti, non guarderò.»
Sharon alzò
il sopracciglio
destro come aveva ereditato da suo padre: «Non ci credo
nemmeno un po’.»
«Ok,
sarà dura che io non lo
faccia, ma ci proverò. Devi apprezzare lo sforzo.»
Si sorrisero. «Vado prima io
o prima tu?»
«Vado prima
io», disse Sharon. «Così
sono sicura che non mi guardi.»
«Dillo che in
verità vuoi
guardare me.»
«Non ci penso
nemmeno.»
Risero, Nicolas la
baciò sulle
labbra e si alzò.
«Vado a
preparare l’acqua.»
«Ok, io ti
aspetto qui.
Chiamami.»
Nicolas andò
in bagno, Sharon ne
approfittò per guardarsi intorno. Nessuna foto, niente di
niente che
testimoniasse la presenza dei suoi genitori, della sua infanzia.
Nessuno
conosceva il suo passato, forse Sharon era l’unica che se ne
interessasse.
«Sharon!»
«Eh?»
«Vieni
sì o no?»
«Arrivo.»
Sharon
continuò a guardarsi intorno
anche mentre andava in bagno, ma era tutto inutile: non c’era
niente. Aprì la
porta ed entrò: c’era Nicolas già nella
vasca, sotto una marea di schiuma
bianca.
«Nicolas!»,
gridò. «Dovevo andare
prima io!»
«Tu non
arrivavi più!», sorrise
malizioso.
Sharon era rimasta
ancora con la
mano sul pomello della porta, più nuda che vestita (non era
mai stata così nuda
con un ragazzo in tutta la sua vita), senza sapere dove guardare.
«Allora?»,
la invitò ancora.
«Chiudi gli
occhi.»
«E dai
Sharon!»
«Chiudi gli
occhi, se no non
entro.»
Nicolas
sbuffò e chiuse gli
occhi, immergendosi fino al mento dell’acqua, il viso rivolto
verso il
soffitto.
Sharon si
slacciò il reggiseno e
lo lasciò cadere a terra, accanto agli slip. Si mise
silenziosa nella vasca e si
coprì meglio che poté con la schiuma.
«Adesso posso
aprire gli occhi?»,
chiese Nicolas.
«Sì,
se mi levi la mano dalla
gamba.»
Nicolas rise e fece
scorrere la
mano sulla gamba di Sharon, sorridendo, nell’acqua calda e
profumata.
«Che
c’è di così sbagliato?»,
chiese sottovoce.
«Tutto. Tutto
è sbagliato. Non
sarei mai dovuta venire. Ti rendi conto che per colpa tua potrei
restare chiusa
in casa per tutta la vita? E poi… è
così assurdo… nemmeno con Derek ho fatto
queste cose!» Si ritrovò con le lacrime agli occhi
pensando a Derek.
«Non sapeva
cosa si perdeva. E se
ti ha lasciata, non sa cosa si è perso. Sei una ragazza
stupenda, in tutti i
sensi.»
«Ti prego,
basta», singhiozzò.
Nicolas aprì
gli occhi e guardò
le lacrime che tracciavano il viso chiaro di Sharon, contornato dai
capelli
neri e lunghi che ne accentuavano la bellezza.
«Sharon…»,
le prese il viso fra
le mani e la appoggiò alla sua spalla, raccogliendo le sue
lacrime su di sé. La
strinse al suo petto, senza badare ai suoi singhiozzi soffocati.
«Sharon, non
piangere. Non sei tu che ne devi soffrire.»
«Che ne sai
tu?»
«Se vuoi, puoi
spiegarmi com’è
andata.»
«Perché
dovrei? Tu non mi
racconti mai nulla di te.»
Nicolas chiuse gli occhi
e serrò
la mascella, lei lo sentì sulla sua spalla. Era rigido, come
se quelle parole l’avessero
pietrificato.
«Forse proprio
perché tento di
dimenticare il mio passato.»
Afferrò un
asciugamano e uscì
dalla vasca, chiudendosi la porta alle spalle. Sharon rimase da sola in
bagno,
non sentiva nemmeno che faceva in camera. Era stata una bambina, una
vera
bambina.
«Nicolas!»,
gridò.
«Che
c’è?», disse piano aprendo
la porta: nel suo viso si leggeva solo tristezza. Aveva dei pantaloni
di una
tuta e il petto chiaro nudo, mostrando i muscoli definiti
sull’addome.
«L’asciugamano
è lì. Se vuoi
infilati quella», le indicò una camicia azzurra
sul mobile. Sharon scosse la
testa. «Allora cosa c’è?
Parla.»
Sharon gli fece segno di
avvicinarsi con la mano, aveva ancora le lacrime agli occhi. Nicolas
andò da
lei, si inginocchiò accanto alla vasca da bagno e la
guardò negli occhi.
«Mi dispiace
tanto, non volevo
ferirti», mormorò Sharon.
Nicolas fece un piccolo
sorriso e
le sistemò i capelli dietro le orecchie. «Non hai
nessuna colpa tu, sono io che
non dovevo reagire in quel modo. Davvero, non importa. Hai
capito?»
Sharon annuì
abbassando lo
sguardo e poi lo alzò lasciandosi baciare. Era davvero
dolce: anche se aveva
dei segreti dolorosi, se li teneva dentro per non far soffrire gli
altri.
Quando Nicolas
uscì di nuovo, lei
uscì dall’acqua e si avvolse
nell’asciugamano. Si guardò allo specchio, si
sistemò i capelli che non si erano bagnati poi tanto, poi si
rivestì in fretta,
coprendosi anche con la camicia che le aveva indicato Nicolas. Le era
grandissima, ma aveva un buon profumo, e poi le piaceva.
Uscì dal
bagno e vide Nicolas
sdraiato sul letto, occhi al soffitto e mani sul petto.
«Ehi»,
disse piano Sharon
raggiungendolo sul letto a gattoni.
«Ehi»,
le accarezzò i capelli
baciandola appena.
Lei si mise sdraiata al
suo fianco
e intrecciò la mano alla sua. Era strano ciò che
provava, ma di certo sapeva
meglio che teneva a lui. Non sapeva se era amore, ma qualcosa di molto
simile.
Rimasero in silenzio,
tutti e due
ascoltavano il respiro dell’altro, pensando a due cose
totalmente differenti.
«Io sono
scappato di casa», disse
ad un certo punto lui, mettendo un braccio attorno a Sharon,
stringendola a sé.
«Perché?»,
chiese Sharon, ma
aveva paura di scatenare in lui una reazione come quella precedente.
«La mia era
una famiglia perfetta,
troppo
perfetta. I miei genitori
volevano tutto al suo posto, vivevano di una felicità finta.
Stavano assieme
per abitudine, più che per amore, ma a loro andava bene
così, perché così
doveva essere, perché in una famiglia felice doveva essere
così. Io non ero
fatto per quella vita. Mi hanno sempre dato tutto, ma non capivano che
io avevo
anche altri interessi oltre alla chiesa e la scuola; non capivano che
avevo
altri sogni: non volevo diventare un avvocato, o un dottore; non
capivano quali
erano i miei veri bisogni. Così ho preso e me ne sono
andato, ho cambiato vita.
Questa è la vita che ho sempre voluto: sono
libero.»
«A volte non
mi sembri così
felice, però.»
«A volte mi
chiedo se ho fatto
bene ad abbandonarli così, se sono in pensiero per me,
ma… davvero, io non ero
fatto per stare lì con loro. Dev’esserci stato
qualche sbaglio, qualche scambio
di neonati», sorrise.
Sharon
ricambiò: le faceva
piacere vederlo sereno, aveva abbandonato quella maschera di tristezza
che lo
rendeva anche meno affascinante, nonostante fosse bellissimo in
entrambi gli
stati d’animo. Si appoggiò con la testa alla sua
spalla, le labbra che
sfioravano il suo collo.
«E, dimmi una
cosa», sussurrò
sorridente. «Io ero uno dei tuoi sogni?»
Dopotutto, non era lei
che doveva
soffrire per Derek, Nicolas aveva perfettamente ragione: non doveva
soffrire
per uno così, che si era perso il meglio. E, a dirla tutta,
stando con lui, il
dolore causato dall’ex arrivava leggero, come sotto dosi
elevate di morfina.
«Innamorarmi
della persona che
volevo io, certo, era ed è tutt’ora un mio sogno.
Spero solo di essermi
innamorato di te, perché sei esattamente come la mia ragazza
ideale.»
Sharon
arrossì e lo baciò
delicata sul collo, prima di chiudere gli occhi e lasciarsi andare al
sonno che,
finalmente, in quella sera silenziosa, tornò.
***
Nicolas aveva appena
compiuto i
diciott’anni e in teoria viveva con sua zia, ma in pratica
era da solo perché lei
abitava nell’appartamento accanto. Era lei che pagava tutto,
fin quando lui non
si sarebbe trovato un lavoro part-time dopo la scuola, così
da guadagnare
qualcosa.
Quella notte si era
aperto con
Sharon, le aveva raccontato cose del suo passato che in pochi sapevano,
davvero
in pochi. Ma Sharon era diversa, Sharon era speciale, Sharon era
Sharon.
«Cavolo
Nicolas! Prega solo che
non si sia svegliato nessuno! E, guarda! Si mette pure a
piovere!»
Sharon, anche se era
incline ad
incazzarsi spesso e volentieri con lui, era tutto quello che poteva
volere.
Aveva tutte le carte in regola per diventare il suo grande amore, dal
suo punto
di vista, in più, cosa più importante, le voleva
davvero bene.
«Non ti
preoccupare, rilassati»,
le accarezzò la guancia e la baciò piano. Le
passò il casco e tirò fuori dal
piccolo garage la moto.
«Ma se andiamo
in moto ci
bagneremo tutti!»
Fini gocce di pioggia
scendevano
dal cielo, posandosi sulla neve già ghiacciata ai bordi
delle strade e sugli
alberi.
«Sharon,
è anche l’unico modo per
arrivare in fretta a casa tua! L’hai detto tu che se i tuoi
ti scoprono sono guai.»
«Giusto, hai
ragione. Ma è tutta
colpa tua! Perché non mi hai svegliata prima?!»
«Sai, ieri
notte non ho pensato a
mettere la sveglia! Comunque potevi pensarci benissimo pure
tu.»
Si guardarono negli
occhi che
erano diventati due fessure e poi risero assieme, salendo in fretta
sulla moto.
«Ma non
sarà ghiacciata la
strada, Niki?»
«Aspetta un
secondo. Da quando mi
chiami in quel modo?»
«Come,
Niki?»
«Esattamente.
Sai, ha qualcosa di
vagamente femminile.»
«Ma
va’! Allora come vuoi che ti
chiami?»
«Uhm…
semplicemente Nicolas no,
eh?»
«No, troppo
lungo.»
«Allora
Nico.»
«Ok, non mi fa
impazzire, ma mi
abituerò. Oddio, com’è tardi!
Muoviti!»
«Sei tu che ti
sei messa a
parlare del mio soprannome!»
«Muoviti!»
Nicolas rise e
partì sotto la
pioggia.
Faceva abbastanza
freddo, ma
Sharon si teneva aggrappata forte alla schiena di Nicolas e si sentiva
protetta. Grazie a ciò riusciva pure a dimenticare il
freddo.
Ci avrebbe messo
sicuramente di
meno se si fosse lasciata accompagnare direttamente al cancello, ma
Sharon lo
fece fermare all’incrocio, perché il rumore della
moto di fronte a casa sua
avrebbe incuriosito e per lei non era un bene.
«Ma ci
metterai molto di più!»
«È
solo per precauzione.»
Sharon si tolse il casco
e lo
porse a Nicolas, che lo tenne tra le gambe mentre la baciava sotto la
pioggia.
«Grazie,
anatroccolo», le
sussurrò all’orecchio.
«Cosa?
Perché mi hai chiamato
così?»
«È
il tuo soprannome.»
«E proprio anatroccolo
doveva essere?»
«Sì,
un giorno ti spiegherò
perché», sorrise e si infilò il casco.
«Ci
vediamo», disse Sharon.
«Grazie di tutto.»
Nicolas fece un
inversione ad U e
si allontanò lasciandosi dietro Sharon, che rimase a
guardarlo fin quando non
sparì dietro il muro di pioggia e ghiaccio.
Sharon corse verso casa,
pensando
e ripensando alla serata, bellissima e indimenticabile, anche
perché era la
prima volta che sentiva quell’adrenalina addosso. Mai con
Derek, quando avevano
fatto qualche pazzia, si era sentita così felice.
Continuava a sentire su
di sé le
sue mani, i suoi tocchi delicati che sembravano produrre il suono di un
pianoforte: ogni punto che toccava produceva una nota diversa.
Solo ora che ci pensava
si era resa
conto di quanto era stato in realtà romantico. Si chiese se
non fosse stato un
caso quello di passare sotto casa sua. Sorrise sperando di no e
entrò
silenziosamente in casa. Per fortuna non si era svegliato nessuno.
Raggiunse
camera sua a passo felpato, dove si accorse che si sbagliava: qualcuno
era
sveglio.
«Ti prego, non
dire nulla a mamma
e a papà», sussurrò.
Juri sorrise e
annuì, Sharon lo
ringraziò e si tolse la giacca, la lanciò sul
letto e poi si lanciò lei,
ovviamente senza fare rumore.
Juri era ancora seduto
sul suo
letto che la guardava, con le mani unite sulle gambe incrociate. Che
strano
bambino.
«A proposito,
che ci fai già in
piedi?», gli chiese in un dormiveglia.
Si sentiva stanchissima,
in
effetti. Aveva dormito sì e no qualche ora, e in
più quella sera ci sarebbe
stato un concerto, quindi doveva sfruttare al massimo la mattinata e
riposarsi
bene.
Aprì un
occhio per vedere Juri,
ricordandosi che non parlava molto, soprattutto con lei. Aveva detto,
in una
settimana, un massimo di venti parole.
«Juri, posso
chiederti una cosa?»
Il bambino annuì muovendo la testa. «Dove sono i
tuoi genitori?»
Juri si
guardò intorno, poi tornò
a guardare Sharon. Disse, con quella sua voce a dir poco celestiale:
«Non mi
ricordo.»
«Oh.»
Si tirò su e si grattò la
nuca imbarazzata. «Avrai qualche parente, te ne ricorderai
almeno uno.» Juri fece
cenno di sì con la testa, ma non proferì parola.
«Ma da dove vieni?»
Era più
un’affermazione che una
domanda vera e propria, in verità. Non si aspettava una
risposta, anche perché
sapeva che gliel’avevano già fatta in molti quella
domanda.
Cadde di nuovo sdraiata
sul letto
e chiuse gli occhi al soffitto. La stanchezza la stava facendo
riaddormentare
piacevolmente, quando Juri rispose a
quell’affermazione-domanda.
«Dall’Estonia»,
disse, poi intonò
una canzone che di certo non era in tedesco.
«Quindi, i
tuoi genitori sono
lì?», chiese Sharon riprendendosi.
«Non lo
so.»
«Ma quando
sfogli i libri, guardi
solo le figure, vero?»
Juri prese il libro
illustrato
che c’era di fianco al suo letto, lo sfogliò, si
fermò in un punto e incominciò
a leggere: Sharon era senza parole; così piccolo, eppure
sapeva già leggere.
Assieme a principi e
principesse,
regni incantati e draghi, e la voce melodiosa di Juri, Sharon si
addormentò
come una bambina.
Fu solo per poco
però. Infatti, un’ora
e mezza dopo, suo padre la chiamò e la fece alzare dal letto
contro la sua
volontà.
Vide Juri seduto al
solito posto
di fronte al camino, con un altro libro tra le mani. Sorrise e Juri
ricambiò.
Si mise seduta al tavolo
della
cucina e mescolò il latte caldo che sua madre le aveva messo
subito davanti.
Guardò me e Tom mentre versava i cereali nella tazza.
«Mi dispiace
per ieri sera,
comunque», dissi.
«E per cosa? A
me sembra che sia
andato tutto bene», disse Anto girata verso la credenza.
Tom scoppiò a
ridere, io la
guardai con una smorfia fra il divertito e l’offeso.
«Mi sono persa
qualcosa?», chiese
Sharon. Connesse dopo che lei era uscita quella notte, e che non
c’era stata.
Si morse la lingua sperando che nessuno avesse fatto caso a lei.
«Perché,
dov’eri Sharon? Non hai
sentito?», ci si mise pure Tom.
«Smettila,
idiota!», gli tirai un
pugno sul braccio, cercando di trattenere inutilmente le risate.
«Vai mamma,
sei la migliore!»,
gridò Stefan accanto a Sharon.
«Sì,
la prossima volta ti do una
mano anch’io», si aggiunse Alex sorridendo.
«No, tu hai
fatto a botte già
troppe volte», dissi scherzando.
Sharon fece un sospiro
di
sollievo, ma aveva sudato freddo. Non voleva nemmeno immaginare quello
che le
avrebbe fatto suo padre se avesse scoperto che era uscita di nascosto.
«No, dai,
perché ti dispiace?»,
mi chiese Tom prendendomi il mento tra le dita.
«Perché
non era il caso che
dicessi quelle cose, in quel momento.»
«Non importa
amore», mi baciò
sulle labbra.
«A te non
importa mai niente,
vero Tom? A te basta che lei sia felice. Ti trascuri un po’
troppo», disse Anto
sorridendo.
«Uh, che
tenero il nostro papà»,
disse Stefan facendo la voce da bambino.
«Se lei
è felice lo sono anch’io,
quindi è quello che devo ottenere, non mi trascuro affatto.
Se la faccio felice
è solo per il mio interesse»,
sogghignò.
«Dimmi una
cosa, Tom. In questi
anni, quante volte ti ho detto ce sei un idiota?»
«Tante. Ho
perso il conto a
duemilatrecentosettanta.»
Scoppiammo tutti a
ridere. Nello
stesso momento, suonarono al citofono. Tom andò alla
finestra e guardò dopo il
vialetto.
«Mi sa che ci
sono visite per te,
Alex», sorrise.
«Chi
è?»
«La ragazza
che hai salvato, come
si chiama? Bea.»
«Bea
è solo per gli amici, papà.
Tu non puoi chiamarla così.»
Tale e quale a suo
padre.
Sorrisero e Alex uscì dopo aver raccattato la sua giacca.
«Ciao»,
la salutò.
«Ciao Alex,
come va?»
«Abbastanza
bene.»
I lividi sul viso di
Alex c’erano
ancora, ma non erano più così evidenti, si stava
riprendendo bene.
«Cavolo, se ci
penso ancora… mi
dispiace così tanto.»
«Sì,
non riuscirai mai a lasciar
perdere», sorrise. «Come mai da queste
parti?»
«Volevo dirti
che parto.»
«Parti? E dove
vai?»
«Dai miei
parenti a Monaco. Ci
starò una settimana.»
«Bene,
divertiti.»
«Non…
non ti dispiace nemmeno un
po’?»
«Che
cosa?»
«Che
io… Va bè, lascia perdere.»
Bea si girò e fece per andarsene.
«Certo che mi
dispiace», ammise
Alex. «Solo che non posso tenerti qui con la forza.»
Bea si girò e
lo guardò
sorridendo. Lo abbracciò e rimase un po’ fra le
sue braccia, le braccia che
l’avevano salvata quella sera.
«Mi mancherai,
Alex.»
«Anche tu,
solo che la cosa è un
po’ più problematica.»
«Cioè?»
Le accarezzò
i capelli sulla nuca
e la baciò sulle labbra, con una mano sulla sua schiena.
«Non so cosa
provo per te, sono
confuso», disse dopo il bacio. «Anche quella volta
in ospedale. Non riuscivo a
capire se ero felice oppure qualcos’altro.»
«Ancora che
pensi a Krista?»
«Penso di
sì.»
«Devo
ammettere che anche io sono
messa come te, ma in qualche modo dovremo pure andare
avanti… Non possiamo
pensare al passato in eterno. Io ci sto provando. Potremmo provarci
assieme.»
«Bea, tu mi
piaci, ma ancora… non
me la sento, scusami. Non sono ancora pronto ad una cosa
seria.»
«Nemmeno io ad
una cosa seria»,
gli accarezzò i capelli neri sulla fronte, sorridendo amara.
«Facciamo così: io
parto, ci pensiamo e poi quando torno si vedrà. Ok? Non
importa se non se ne
farà niente.»
«Invece
sì che importa», le prese
il viso fra le mani e scese sul collo, baciandola ancora sulle labbra,
ad occhi
chiusi. «Perché io non voglio che tu soffra. Ci
tengo a te, solo che non so se
sei solo un’amica oppure qualcosa di più, tutto
qui.»
«E
perché mi continui a baciare,
allora?»
«Perché
è bello baciarti», disse.
«A te non piace? Posso anche…»
Bea gli mise le braccia
intorno
al collo e lo baciò, facendolo stare zitto. Le sensazioni
contrastanti che
provavano dentro erano imparagonabili: niente li aveva mai fatti
sentire così
confusi. Forse era davvero meglio che passassero quella settimana
separati per
schiarirsi le idee. Tra loro c’era qualcosa: se stavano
vicini non potevano
rinunciare a baciarsi, ad avere qualsiasi tipo di contatto fisico,
anche minimo,
come una carezza; quando invece erano lontani pensavano al passato e a
quell’amore che li aveva feriti.
«Basta,
davvero», disse Bea
ridendo. «Giuro che non lo faccio più»,
si promise. Nemmeno dieci secondi dopo,
era bastato uno sguardo, si era ritrovata ancora fra le sue braccia, a
mordere
dolcemente le sue labbra.
«Ok,
basta», disse Alex.
«L’ultimo»,
supplicò Bea ridendo.
«Ok,
l’ultimo», ricambiò Alex.
«Ce
l’hai il mio numero? No,
forse è meglio se non ci sentiamo.»
«Giusto.»
«Pensiamo e
basta, ok?»
«Ok.»
«Ciao
Alex.»
«Ciao Bea, fai
buon viaggio,
divertiti.»
«Grazie. Tu
divertiti stasera.»
«Come facevi a
sapere che ho un
concerto stasera?»
«Una mia amica
è una vostra fan,
verrà a vedervi.»
«Ah, ok. Dalle
questo», tirò
fuori dalla tasca un bigliettino da visita della palestra che si era
ritrovato
nella giacca e lo firmò.
«Grazie, ne
sarà entusiasta.»
«Non
c’è di che, salutamela
quando la vedi.»
«Ok, va bene.
Ciao Alex.»
«Ciao.»
Avevano cercato di
rimandare il
loro arrivederci, ma quella volta Bea andò davvero, non
aveva più scuse per
restare, e Alex rientrò in casa, dove lo aspettava suo padre
che, contro ogni
mio rimprovero, aveva guardato tutto dalla finestra.
«Alex, mi
piace quella ragazza»,
disse subito.
«Papà,
ti prego.»
«No,
davvero!»
«Krista non ti
piaceva?», gridò.
Ecco, ecco la prova che
quando
erano lontani emergeva sempre quel dolore e quel ricordo.
«Sì,
ma… credevo…»
«Tu non
credevi proprio niente.»
Girò i tacchi e si rifugiò in camera sua,
sbattendosi la porta alle spalle.
«Papà»,
disse Stefan unendo le
mani. «Perché non te ne stai zitto qualche volta?
Senza offesa. Di ragazze non ne
dovete nemmeno parlare con lui, non fa altro che piangersi addosso; sta
ancora male.»
«Mi dispiace,
non volevo.»
«Ve
bè, ormai è fatta. Gli
passerà. Ma, sbaglio o quello è il già
il secondo libro?», indicò Juri che
andava a risedersi dopo aver preso il secondo libro.
«Mamma,
dov’è papà?», chiese
Sharon.
«È
andato alla Universal,
perché?»
«Ho parlato
con Juri,
stamattina.»
«Davvero? Che
ti ha detto?»
«Abbassa la
voce!», sussurrò
muovendo la mano.
«Che cosa ti
ha detto?», ripeté a
bassa voce, mettendosi seduta al suo fianco.
«Non mi ha
detto nulla dei suoi
genitori; penso che l’abbiano mandato qui da piccolo, che
l’abbiano lasciato da
qualcuno, non lo so.»
«Che vuol
dire?», chiese Tom.
«Sai la
domanda: Ma da
dove vieni? Quella che gli avete
fatto in centomila e lui non ha mai risposto?»
«Sì,
e allora?»
«Beh,
gliel’ho fatta pure io.»
«E ti ha
risposto? Non ci credo.»
«Nemmeno
io.»
«E da dove
viene?», chiesi e mi
sporsi sul tavolo.
«Dall’Estonia.»
«Che cosa?
Dall’Estonia? Non ci
posso credere.»
«Sì.»
Si appoggiò allo schienale
della sedia con le mani sullo stomaco. «E non è
tutto.»
«Che altro
c’è?»
«Mi ha cantato
una canzone, ma
non ci ho capito niente. Credo sia nella sua lingua. Era pure
bella.»
«E
basta?»
«No, gli ho
chiesto se guarda le
figure dei libri oppure se sa leggere.»
«Non dirmi che
sa leggere!»,
disse Stefan.
«Sì»,
annuì muovendo la testa.
«Mi ha letto un paragrafo intero.»
«Assurdo»,
disse ancora Stefan.
«Già»,
annuì.
Si alzò e
salì di sopra, passando
ad accarezzare i capelli di Juri nel tragitto, sorridendogli.
Arrivò di fronte
alla camera di Stefan ed Alex e sbirciò
all’interno, trovando Alex sdraiato sul
letto con lo sguardo rivolto al soffitto, meditabondo.
«Ehi»,
lo salutò alzando la mano.
«Ciao
Sharon», fece un lieve
sorriso. «Vieni, vieni», diede dei colpetti sul
letto, accanto a lui. Sharon lo
raggiunse e si mise sdraiata al suo fianco, la testa sul suo petto.
«Come
va?», le chiese sfiorandole
i capelli. «È un po’ che non parliamo,
io e te.»
«Sì,
è vero. Va tutto bene, non
ti preoccupare.»
«Anche…
anche per la storia di
Derek è tutto a posto?»
«Beh…
Sì.»
«Davvero?»,
corrugò la fronte,
sorpreso.
«Credo di
essermi presa una cotta
per un altro ragazzo.»
«Da quando?
Non me l’hai detto!»
«L’hai
detto anche tu che è da un
po’ che non parliamo, io e te.»
«Giusto. Chi
è? Lo conosco?»
«Ho detto che
mi sono presa una
cotta, non che ci sto assieme e ci sposeremo!»
«Che
c’entra? Io voglio saperlo
lo stesso! Sei la mia cuginetta, no?»
«Uff, tanto
non lo conosci.»
«Che ne sai
tu?»
«Dai Alex,
smettila!», gridò,
arrossendo. «Tu mi devi raccontare molte cose.»
«A proposito
di che?»
«Non
so… Chi è Bea? Che c’è fra
voi?»
«Bea?
È lei che ti preoccupa?»,
sorrise amaro.
«Non mi
preoccupa… volevo solo capire
se è solo una ragazza così, per cercare di
dimenticare Krista oppure…»
«Come sei
delicata», sospirò,
ridacchiando. «Non so cosa sia per me. Adesso parte per
Monaco e vedremo.
Comunque penso che non potrà mai essere come
Krista… Mi manca tanto.»
«Lo so Alex,
lo so», mormorò
abbracciandolo.
«Mi dispiace
che abbia lasciato
la band per colpa mia.»
«Non ti
preoccupare, Alex. Vedrai
che tornerà, ne sono certa. Deve
tornare.»
«Lei come
sta?»
«Sta…
sta così», sollevò le
spalle, grattandosi la testa. «Non so bene. Ora è
meglio se vado a cambiarmi,
ci vediamo dopo Alex», lo baciò leggera sulla
guancia e si alzò dal letto.
«Ok, a
dopo.»
Sharon salì
in camera sua, si
cambiò e poi si mise seduta sul letto, le mani sul collo, a
riflettere su tutto
quello che era successo in quei due giorni. Sentiva la testa
scoppiarle, così
decise di non pensare più a niente, quando il suo cellulare
suonò accanto a lei
e rispose senza guardare nemmeno chi fosse:
«Pronto?»
«Ciao
Sharon.»
«Oh, Krista.
Ciao.»
«Come…
come stai?»
«Bene.»
«Sei tesa per
il concerto di
stasera?»
«No.»
E tu non ci
sarai.
«Sharon…
mi dispiace tanto, ma…
prova a capirmi, a metterti nei miei panni!»
«In questo
momento non ce la
faccio, scusa. Tu come stai?»
«Così.
Che mi racconti?»
«Nulla di
che...», si alzò, si
chiuse nella sua camera oscura e si mise seduta per terra, le spalle
alla
porta, per parlare più liberamente. «Stasera sono
uscita di nascosto.»
«Davvero? E
dove sei andata?»
«A casa di
Nicolas.»
«Quel
Nicolas?»
«Esatto, quel
Nicolas.»
«E che cosa
è successo? Devi
raccontarmi tutto!»
«Adesso non
posso, te lo
spiegherò a scuola con calma.»
«Nah! Mi fai
stare sulle spine
così! Vabbè, allora ci vediamo a
scuola!»
«Sì,
certo. Ciao Krista.»
«Ciao Sharon.
Buona fortuna per
stasera. Ti voglio bene.»
Chiuse la chiamata
sospirando,
scuotendo la testa, e scese di nuovo in salotto, dove si mise seduta
sul
divano, a guardare un po’ di tv tanto per passare il tempo.
Suonarono al campanello
e nessuno
andò ad aprire, così si dovette alzare lei. Si
trascinò alla porta, ma appena
vide chi c’era dietro di essa la chiuse di colpo e ci si
appoggiò con il cuore
in gola.
«Sharon, chi
era?», le chiese sua
madre dalla cucina.
«Il
postino.» Faceva pure fatica
a parlare.
«Il postino?
Ma se è venuto due
ore fa.»
«Boh,
avrà dimenticato qualcosa.»
«Mah.»
Sharon si
girò lentamente e aprì di
un poco la porta, quel che bastava per guardare. Non si era sbagliata,
era
proprio lui!
«C’era
il cancello aperto», le sussurrò.
«Che cazzo ci
fai qui?!», gridò
sottovoce.
«Mi
mancavi», alzò le spalle.
«Direi che sei
dolcissimo, ma se
ti vedono qui sei fritto. Sai, mio padre non è proprio uno
che se ne frega di
chi sta con me. Anzi, se fosse per lui, deciderebbe lui chi devo
sposare.»
«Come i
miei», disse fra i denti.
«Sharon, fregatene.»
«Ma
è mio padre!»
«Non puoi non
stare con la
persona che ami solo perché tuo padre non vuole!»
«Tu mi
ami?», chiese strabuzzando
gli occhi.
«Potremmo
parlarne dentro? Fa un
certo freddo, sono stato in giro con la moto fino ad adesso.»
«Perché
sei scemo. Dai, muoviti.
Mio padre non c’è adesso, sei fortunato.»
Lo fece entrare e senza
farsi
beccare da sua madre in cucina, salirono mano nella mano in camera sua.
Ovviamente, fece attenzione a non farsi scoprire anche da tutti gli
altri.
Forse l’unico che l’aveva visto era stato Juri, ma
era così preso da quel libro
che ne dubitava. E poi non avrebbe detto nulla a nessuno.
«Ok, adesso mi
spieghi che ci fai
qui?»
«Hai una casa
grandissima», disse
guardandosi intorno nella camera di Sharon.
Strano come in due
giorni tutti e
due erano stati nella casa dell’altro. Con Derek, Sharon ci
aveva messo un
mese.
«Non deviare
l’argomento! Che ci
fai qui?»
«Te
l’ho già detto! Senti, non
sono bravo con le parole, non sono né un poeta né
so fare il romantico: accetta
le semplici parole, ok? Mi mancavi.»
«Oh. E prima,
quando hai detto… mi
ami?»
«Questo non lo
so, è presto per
dirlo. Però sento che c’è qualcosa
verso di te.»
«Se io dovessi
partire, adesso, e
non tornare mai più?»
«Che cosa?!
No, non puoi!»
«Ok,
c’è qualcosa verso di me»,
confermò Sharon.
«Ma parti
davvero?»
«Ma stai
scherzando? Certo che
no!»
«Ah,
menomale», le sorrise. Si
avvicinò a lei e la baciò sulle labbra,
prendendole le mani. «So che forse mi
dirai che non sei pronta, ma voglio chiedertelo lo stesso. Sharon, vuoi
stare
con me?», le sussurrò a pochi centimetri dal suo
viso, guardandola dritta negli
occhi.
Sharon infilò
le dita fra i suoi
capelli e sorrise appoggiando la fronte alla sua: «Lo sai che
non sono pronta.»
«Di cosa hai
paura?», la strinse
tenendola per la schiena.
«Di
innamorarmi per davvero e di
essere scaricata con una cazzo di lettera.»
«Se posso
dirlo, Derek è un
coglione.»
«Sì,
lo penso pure io.»
«Allora stai
con me, ti prego.»
«Non ci posso
nemmeno pensare?»
«Che senso ha?
Se mi vuoi ora, mi
vorrai anche dopo, no?»
«Ma se non ti
voglio ora,
pensandoci, potrei cambiare idea.»
«Carpe
Diem.»
«Cogli
l’attimo? È il motto di
mio zio.»
«Tuo zio la
pensa come me. Ha
incontrato la persona giusta?»
«Direi di
sì. Stanno insieme da quando
avevano quindici e diciannove anni.»
«Quasi come
noi. E lui l’ha colto
l’attimo?»
«Direi che
l’ha colto più mia
zia: ci è andata a letto la sera stessa dopo averlo
conosciuto.»
«Mi sa proprio
di sì allora. Io
non ti chiedo di venire a letto con me. Oddio, magari,
però…»
Sharon rise sottovoce.
«Però?»
«Però
quello che conta è sapere
che tu sei mia.»
«Nicolas,
tutto questo mi
imbarazza.»
«Stare nuda di
fronte a me no?»
«Non contando
quello,
ovviamente.»
«Devo
confessarti che mi sono
stupito di me: non ti ho guardata veramente. Questa è la
prova di quanto ti
voglio bene. Sharon, ti prego», la baciò sulle
labbra piegando la testa a
sinistra.
«Nicolas, ti
prego pure io.»
«Sharon, ma
non hai notato che
non ho detto che ti amo? Anch’io sono incerto su quello che
provo per te, ma io
voglio provarci. So che tu ne vali la pena.»
«Il mio
problema è che non mi
fido più di voi maschi.»
«Non
è che arriva un deficiente e
devi generalizzare. Io non sono come lui, posso giurarlo.»
«Come faccio a
fidarmi? Ho
paura.»
«Sharon,
affronta la paura. O non
andrai da nessuna parte, te lo garantisco.»
Sharon lo
guardò negli occhi e
sorrise con gli occhi lucidi.
«Quindi?»,
chiese Nicolas sfiorando
le labbra di lei.
«Quindi, ci
proviamo. Nicolas,
non farmi del male, ti prego. Me lo prometti?»
«Te lo
prometto, Sharon.»
Lo spinse sul letto e lo
baciò
stando sopra di lui, accarezzandogli i capelli biondo platino. La
sensazione
delle sue mani non se l’era inventata, era vera: ogni tocco,
ogni volta che le
sfiorava la pelle, c’era una nota diversa nella mente di
Sharon. Aveva sempre
creduto che l’amore e la musica fossero uniti nella sua
percezione di vedere le
cose, ma non credeva fino a quel punto!
Era una melodia dolce,
serena,
senza punti oscuri, era limpida e semplicemente felice. Quando stava
con Derek
non aveva mai sentito nessuna melodia nella testa. Tutte quelle piccole
cose,
definivano le differenze tra lui e Derek.
Nicolas non aveva tutti
i torti:
doveva affrontare le sue paure, in qualche modo. Facendosi male,
bruciandosi,
ma vivendo e senza fare gli stessi errori possibilmente.
«Sharon! Hai
dimenticato… Oh.»
«Mamma!»,
gridò Sharon alzandosi
subito da lui. Guardò prima Nicolas e poi sua madre, poi
ancora Nicolas e sua
madre.
«Piacere, sono
Nicolas», si
presentò lui sorridendo e alzando la mano.
«Piacere, io
sono la mamma di
Sharon.»
«Vi
assomigliate.»
«Che cosa
c’è?», chiese Sharon
cercando di liberarsi da quella situazione imbarazzante. Sua madre
aveva già
conosciuto Nicolas: loro due assieme erano due fulmini!
«Niente, hai
dimenticato il
plettro nei jeans che hai messo a lavare.»
«Oddio, eccolo
dov’era! Grazie
mamma.»
«Prego.»
Si avvicinò alla figlia
e le sussurrò all’orecchio: «Veramente
carino. Ah, sta tornando tuo padre,
dovresti sbrigarti.»
«Davvero?
Grazie mamma, non so
come farei senza di te. Nicolas, te ne devi andare, sta ritornando mio
padre.»
«Ok»,
sospirò. «Arrivederci, è
stato un piacere conoscerla», la salutò lui.
Sharon lo
accompagnò di sotto
mano nella mano e quando furono di fronte alla porta, questa si
aprì e per poco
non arrivò in faccia a Sharon. Entrò suo padre,
quello che aveva cercato in
tutti i modi di evitare. O erano due sfortunati da morire, oppure
quello era
segno che insieme non sarebbero mai andati da nessuna parte.
«Papà!»,
gridò strozzata Sharon.
«Sharon?»,
guardò sia lei che il
ragazzo alle sue spalle. «Sharon, chi è?»
«Chi,
lui?», indicò dietro di sé.
«Sì,
lui.» Chiuse la porta e non
si tolse neppure la giacca, era troppo impegnato a lanciare occhiate
fulminanti
a Nicolas.
«È…
è…»
«Sono il suo
ragazzo, piacere»,
porse la mano.
Bill la
guardò e poi guardò la
figlia. «Non me l’avevi detto.»
«Stiamo
insieme da poco», la
difese Nicolas.
«Sto parlando
con mia figlia, non
con te. Allora, mi spieghi cos’è sta storia? Da
quando tu porti i ragazzi a
casa così, senza dire niente a nessuno?»
«Sono venuto
io.»
«Sto parlando
con lei!»
Ero sul divano con Tom e
Stefan,
che guardavamo la scena senza fiatare. Pure Alex era uscito da camera
sua
richiamato dalle urla di Bill, e guardava dalla scalinata.
Cavolo, il ragazzo che
teneva
Sharon per mano era stupendo, senza più e senza meno.
«Non
c’è bisogno di urlare»,
disse Nicolas.
«Io urlo
quanto voglio, ok? È
casa mia.»
«Bill, vieni
qui», lo chiamò
Anto, ma fu tutto inutile, non la sentì neppure.
«Papà,
te l’avrei detto», cercò
di difendersi Sharon, ma niente e nessuno sembrava capace di fermarlo.
«Quando? Sarei
stato l’ultimo,
come sempre!»
«Se fa sempre
queste scenate, ci
credo», disse Nicolas con lo sguardo al cielo.
«Scusa?»,
si rivolse a lui per la
prima vera volta.
«Ho detto che
se lei fa sempre
queste scenate, ci credo che è sempre l’ultimo a
sapere.»
«Nicolas!»,
gridò Sharon a bassa
voce, girandosi verso il ragazzo.
«Ma come ti
permetti?», disse
Bill rosso di rabbia.
«Dico solo
quello che penso: la
libertà di pensiero è un diritto. Sharon, devo
andare, si è fatto tardi. Vieni
con me?», le chiese sorridendo, come se non fosse successo
proprio niente.
Sharon guardò di sfuggita Bill e chiuse gli occhi.
«Se ci
provi…», disse Bill tra i
denti.
«Se ci prova
che fa?», ribatté
Nicolas.
«Allora,
mettiamo in chiaro una
cosa: non fare l’arrogante con me, io sono più
grande di te e devi portare
rispetto.»
«Mi pare di
averle sempre dato
del lei.»
Quel ragazzo ci sapeva
fare a
dare sui nervi; in più Bill non era uno che sopportava
molto, soprattutto
quando si trattava di Sharon e ragazzi.
«Sharon,
guardami», la prese per
le spalle e inchiodò gli occhi nei suoi. «Chi
scegli tra me e lui?»
«Bill, non
puoi!», gridai.
«Stai zitta
Ary, ci manca solo
che ti ci metti pure tu. Allora Sharon?»
Si trovò in
mezzo a lui e a
Nicolas. Come poteva scegliere? Con che criteri? Erano importanti tutti
e due,
non poteva scegliere. Pensò alle parole di Nicolas: «Non puoi non stare con la persona
che ami solo perché tuo padre non
vuole!» Poi si
ricordò della sua promessa, così, sperando che la
mantenesse
e che capisse, si avvicinò di un passo a suo padre. Due
passi, tre, fino a
prendergli il braccio.
Bill sorrise
soddisfatto, e per
la prima volta, lo detestai veramente.
Nicolas nascose un
sorriso che in
realtà voleva essere una risata verso quel comportamento
infantile e poi guardò
Sharon. Si guardarono e Nicolas le accarezzò la guancia, poi
uscì in silenzio,
senza guardare nessuno.
Sharon avrebbe voluto
gridargli:
«Ricordati la promessa!», ma le parole le si
strozzarono in gola quando Bill
chiuse la porta. Rimase a guardare il bianco della porta, senza fiato.
«Bill, ma sei
impazzito?», dissi.
«No,
è tutto a posto. Ora.»
«Bill, tu hai
sbagliato tutto. Non
hai capito proprio niente.»
«Cosa?»
«Per prima
cosa, non ti
permettere mai più di dirle Stai zitta
in quel modo», intervenne Tom.
«No, Tom,
fammi finire. Tu hai
sbagliato tutto. Come hai potuto pensare di farle scegliere tra te e
lui?», gli
chiesi.
«L’ho
fatto, quindi ho potuto.
Ary, tu cosa avresti fatto?!»
«Nulla,
proprio nulla.»
«Dai, ti
prego! Sharon ha fatto
la scelta giusta, ha scelto me invece di quel ragazzino
maleducato.»
«Non era
quello il modo!»
«Tu chi
avresti scelto?!»
«Vuoi
smetterla di usare quel
modo?! Non dovevi chiedergli di scegliere, è
impossibile!»
«Invece
sì! È talmente ovvio,
doveva scegliere me! Mettiamo caso, tu chi avresti scelto,
coraggio!»
«Per me era
una cosa diversa! Se
ci fosse stato mio padre e Tom, avrei scelto Tom senza nemmeno
pensarci! E
l’avrei rifatto mille e mille altre volte ancora! E sai
perché? Perché un padre
non lo perdi, mai! Invece un ragazzo, un ragazzo forse sì.
Questo tu non l’hai
mai capito! Sharon ti vuole bene, come è giusto che sia, mai
nessun ragazzo
potrà portartela via, ma tu continui ad insistere e ad
essere superprotettivo
quando non serve! È grande, devi lasciarla scegliere, non
puoi decidere tu
della sua vita!»
«Ary, si
tratta di mia
figlia! Io faccio quello che
credo
meglio per lei!
Tu farai come ti pare
con Stefan e Alex! Io non ti ho mai giudicata!»
Mi alzai e gli andai di
fronte,
profondamente colpita dal suo atteggiamento: non me lo sarei mai
immaginato!
«Un’altra cosa che tu non hai mai capito
è che non ci sei solo tu, non è solo
figlia tua, ok? C’è anche Anto. E ha un parere
come ce l’hai tu. E poi, forse,
dico forse, quello che credi è sbagliato.»
«Ma che
cos’hai, Ary? E menomale
che sei la mia migliore amica.»
Sharon si
girò e ci guardò,
impietrita e con il cuore le batteva furiosamente nel petto. Stava
facendo
litigare me e suo padre, da sempre legatissimi… Non sapeva
che si sbagliava,
che non era a causa sua.
«Per quale
motivo credi che ti
stia dicendo tutto questo?! Proprio perché sono la tua
migliore amica!»,
ribattei.
«Non mi pare
un comportamento da
migliore amica. E adesso basta.» Si diresse verso le scale.
«Sì,
continua a tenere gli occhi
chiusi. Continua a non accettare il fatto che a volte sbagli, come
tutti. Tutto
questo, un giorno, ti ricadrà addosso e poi verrai a
piangere da me.»
«Non penso
proprio. Non più.
Andrò a piangere da qualcun altro, se
dovrò.»
Mi lasciò a
bocca aperta.
Immediatamente pensai alle mie parole e mi presi parte della colpa,
forse un
po’ avevo esagerato, ma pensavo sul serio che stesse
sbagliando. Guardai Tom,
anche lui era mezzo sconvolto, e mi accorsi che stava ancora guardava
verso le
scale, come se ci fosse la scia di Bill.
«Cos’ho
combinato», disse Sharon
con gli occhi gonfi di lacrime, per diversi motivi, ma tutti validi.
Corse in camera sua in
lacrime e
si tuffò sul letto a piangere. Prese il cellulare e
chiamò Nicolas, ma non le
rispose.
_________________________________
Utopy
: Anche a me piace un sacchissimo Jurii *-*
Alex e Bea sono una coppia
orribile, ma mi serviva la terza xD Krista e Mini Kaulitz together,
claro u.u
Grazie Mond, ti voglio tantissimo
bene anch’io. Tua, Sonne.
Tokietta86
: Sì, sono certa che il dolore per la perdita di Davide
non finirà mai, ma c’è un motivo se
Juri ha detto ad Ary che gli ricorda
qualcuno… Lo scopriremo solo vivendo ;)
Bea è fatta apposta per essere
odiata sìì xD Chssà se Alex
tornerà con la nostra batterista… (Anche io
faccio
il tifo per loro!)
Grazie mille, alla prossima!
Baci.
_Pulse_
|
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Capitolo 18 *** My melody ***
I
love you too much
It shows
All my emotions go
Out of control
Good for you bad for me
When I can hardly see
From the tears that flow
(Breathe
slow – Alesha
Dixon)
Capitolo 11
My melody
«Pronti?»
«Pronti, ma
dov’è Sharon?»
«Vado a vedere
io», disse Anto
lasciandomi il braccio.
Si diresse verso il
camerino e
bussò, nessuno le rispose, ma entrò comunque.
Vide Sharon passarsi una mano fra
i capelli, seduta di fronte allo specchio, con le tracce che avrebbero
suonato
quella sera di fronte a quindicimila persone.
«Tesoro»,
la prese dietro le
spalle e la baciò sul capo. «Ti stanno aspettando
tutti.»
«Non credo di
essere pronta.»
«Che cosa
c’è che non va?»
«Tutto non va,
tutto», si tenne
la testa fra le mani.
«Non dire
così. Ary e papà hanno
fatto pace, lo sai?»
«Ci sono
andati giù pesante oggi,
tutto per colpa mia.»
«Non lo
pensare nemmeno, non è
colpa tua.»
«Per favore
mamma, è vero.»
«Sei cocciuta.
Va bè.»
«Hanno fatto
pace, però?»
«Però…
tuo papà non smetterà di
controllarti giorno e notte. Ary ha cercato di dirglielo in tutti i
modi, ma
sai com’è.»
«Capito.
Mamma?»
«Dimmi.»
«Che cosa vuol
dire se un ragazzo
ti chiama anatroccolo?»
Sorrise, Sharon la vide
nello
specchio: «Gli anatroccoli sono destinati a diventare dei
cigni bellissimi. Non
importa come siano fuori, se soffrono, è il loro
destino.»
«Oh.»
«Te
l’ha detto lui? Nicolas?»
Annuì e
appoggiò il viso al
grembo della madre, stringendola mentre calde lacrime le tracciavano il
viso.
«Ti
manca?»
«Tanto.»
Solo in quella
situazione si era
resa conto di quanto gli volesse bene in realtà, la ferita
che sentiva era
dieci volte più forte di quella provocata da Derek.
«Forza Sharon,
devi essere forte.
Non puoi deludere tutta la gente che è venuta qui per voi
stasera. Vai lì fuori
e falli divertire.» Le asciugò le lacrime e le
sorrise baciandola sulla fronte.
Sharon uscì
dal camerino poco
dopo, dopo essersi sfogata un po’ senza Anto. Si
sistemò gli auricolari a bordo
palco e guardò le luci soffuse in alto. La folla gridava e
acclamava i quattro,
anzi i tre. Senza Krista era tutta un’altra cosa.
In quel periodo andava
tutto
male, non se lo spiegava.
La batteria
l’avrebbe suonata un
altro, quella sera, uno che conoscevano appena. In più, suo
padre non le
rivolgeva la parola. Era lì, ma non era lì.
Chiuse gli occhi alle
lacrime e
fece due respiri profondi. Se si concentrava riusciva ad escludere
tutto il
rumore, tutta la tensione del concerto, anche il dolore se proprio si
impegnava, ma quella melodia, quella dei tocchi di Nicolas…
quella no. Suonava
chiara e limpida, impossibile da cancellare.
Si sentì
stringere e si lasciò
andare a quella presa forte.
«Stendili
tutti», le sussurrò
all’orecchio.
«Non lo
sostituirai mai, non ci
assomigli per niente.»
«Forse»,
ridacchiò Tom. «Non sei
la prima che lo dice. Ma su una cosa siamo uguali.»
«Che
cosa?»
«Ti vogliamo
bene tutti e due.
Anzi, credo che lui ti voglia più bene di me.»
«E allora
perché si comporta
così?»
«È
facile: lui vuole sempre
averla vinta. È stupido, ma è
così.»
«Devo
andare», si liberò e salì
sul palco.
Stare di fronte a
così tanta
gente a cantare e a suonare, all’inizio la spaventava. Era
sempre stato un po’
così, ma quella sera non aveva spazio a sufficienza per
pensare anche alla
paura dell’esibizione. Semplicemente diede il massimo, come
mai aveva fatto,
per distrarsi da tutto. Le riuscì in parte,
perché quando le luci si abbassarono
tutte le preoccupazioni e i dolori le ricaddero addosso, tutti insieme
e troppo
velocemente per riuscire a sopportarli.
Si tolse il basso dal
collo e lo
lasciò ad un tecnico, salì di nuovo sul palco,
sorprendendo tutti, e si mise
dietro al pianoforte. Non ce la faceva più, doveva liberarsi
di quella
maledetta melodia. Era stupenda, ma la faceva stare troppo male.
«E adesso cosa
fa?», chiese
Stefan.
«Boh.»
Sharon levò
il microfono dal
bocca per dare spazio solo alle note armoniose di quella canzone.
Poteva
considerarsi drammaticamente la loro. Posò le mani sulla
tastiera e iniziò a
suonare. Non l’aveva mai provata, era come se qualcosa le
dicesse le note, come
se avesse lo spartito stampato in fronte.
«Ma sta
piangendo», sussurrò
Alex.
Sharon non fece caso
alle
lacrime, continuò a seguire quello spartito trasparente e a
suonare,
lasciandosi guidare dal cuore. Era sia per Nicolas che per suo padre.
Le due
persone più importanti per lei in quel momento, con le quali
si erano creati
dei problemi.
Nella sala
c’era un silenzio
malinconico, quasi un quarto delle quindicimila persone presenti si era
unito a
Sharon nel suo pianto silenzioso, alla tristezza. Non volevano rovinare
quel
momento, anche se era estremamente doloroso vedere quella ragazza che
suonava e
piangeva.
Sharon alzò
lo sguardo e vide sua
madre e suo padre, dietro le quinte, assieme a tutti gli altri, che
parlavano
sottovoce e lui scuoteva la testa, gli occhi chiusi. Anto la
indicò senza farci
caso e rimase in silenzio ad ascoltare Bill che diceva qualcosa. Sharon
non
poteva sentire, ma vedeva benissimo, e tutto quello che faceva suo
padre era
una fitta al suo cuore già a brandelli.
Si morse il labbro con
forza
perché la melodia si era infranta, senza trovare una fine
adeguata a quella
bellezza strana. Sbattè i pugni sui tasti stonando
violentemente e attirando
l’attenzione di tutti. Anche suo padre la guardò,
ma non riconosceva quello
sguardo.
Si alzò e
guardò il pubblico.
Camminò sulla passerella e saltò giù
dal palco, corse all’uscita passando attraverso
le urla che si intensificavano e le mani che si sporgevano per
sfiorarla,
abbattendo anche i muri dei body guard. Continuava a piangere, tutto
quello che
aveva intorno non le interessava più, era come se non ci
fosse.
***
«Ma
dov’è andata finire?! Se solo
non fossi stato così stupido! È tutta colpa
mia!»
Ero convinta che prima o
poi,
passando, avrebbe tirato qualche testata al muro.
Anto era seduta sul
divano, con
la testa sulla mia spalla, vuota, era come se le avessero strappato una
parte
di lei dentro.
«La troveremo,
vedrai», dissi
accarezzandole i capelli.
Erano passate due ore,
era ormai
notte fonda, ma di Sharon nessuna traccia. Eravamo tutti
preoccupatissimi, solo
che c’era chi non capiva ciò che succedeva, come
Sarah e Juri, chi manteneva la
calma, come me e Tom, chi era in uno stato di preoccupazione diciamo normale,
come Alex e Stefan, e chi si
disperava, come Anto e Bill. Preoccupazioni diverse, ma sempre
preoccupazioni.
«Non
è che magari è andata da
Krista?», disse Alex prendendo subito il cellulare con lo
sguardo di chi aveva
fatto una scoperta geniale.
Aveva ancora il suo
numero
salvato nelle chiamate, non ci mise molto a recuperarlo. Ma appena
connesse che
si erano lasciati, che l’aveva tradita, e tutte le altre
cose, si trovò a
tremare.
«Pronto?»,
disse Krista.
«Ciao, Krista.
Sono Alex.»
«Sì,
lo so. Ciao. Che cosa c’è?»
Avevano voci sofferenti
entrambi,
aghi invisibili trafiggevano i loro cuori.
«Sharon
è da te?»
«Cosa? No,
perché?»
«Perché
è sparita, non riusciamo
a trovarla da nessuna parte. Tu sai dove potrebbe essere andata?
Qualsiasi
cosa, ti prego Krista.»
«Oddio, sparita?!
Merda. Ci sono tantissimi posti dove potrebbe essere,
Amburgo è grande!»
«Un luogo
particolare in cui magari
vi incontravate, qualcosa che magari ti ha detto…
niente?»
«Secondo me
è andata da Nicolas»,
dissi alzando le mani.
«Nicolas! Io
lo sapevo! C’è
sempre di mezzo lui!», gridò Bill stringendo i
pugni.
«Bill, non
ricominciare, ti
prego!», gridò Anto risvegliandosi da quel coma.
Avrebbe fatto di tutto per
Sharon, pure litigare con il suo amore.
«Ehi, Krista.
Tu sai dove abita
Nicolas?»
«Nicolas? Che
c’entra Nicolas
adesso?»
«Pensiamo sia
andato da lui.
Allora, sai dove abita?»
«Penso che
abiti in periferia… ma
l’indirizzo preciso non lo so. Alex, posso venire a cercarla
con voi?»
«Certo che
sì! Ci servirà più
aiuto possibile. Grazie Krista.»
«Di niente, ci
vediamo lì tra
poco.»
Alex guardò
il cellulare con una
nuova gioia scaturita dal più profondo del cuore. Poi, il
ricordo di Bea, gli
fece mettere le mani sulla faccia e imprecare.
«Alex!»,
lo rimproverai. «C’è
Sarah!»
«Che
situazione di…» Lo guardai
torva. «Cacca. Che situazione di cacca!»
«Sharon mi
odierà, ma è per il
suo bene», Anto si alzò e corse di sopra.
Tornò giù con il diario di Sharon fra
le mani.
Si mise seduta accanto a
me e lo
aprì: l’ultima pagina scritta era del giorno
prima.
Caro
diario,
queste
sono cose che non dovrei scrivere nemmeno qui. Succederebbe un casino
se, per
caso, mio padre, curioso ed ossessivo come nessun altro al mondo per
proteggere
la sua “piccolina”, che comunque vorrebbe tanto
dirgli che è abbastanza grande
da riuscire a badare a se stessa, le leggesse. Correrò
questo rischio e mi
fiderò di lui.
Questa
notte sono stata da Nicolas…
«No, non
può essere!», gridò
Bill, così forte che lo sentirono pure nella casa accanto.
«Bill, stai
zitto, ok?!», gridò
di rimando Anto, con le lacrime agli occhi.
È
stato stranissimo! Non mi ero mai sentita così bene dopo che
io e Derek… va bè,
quella roba lì. Mi sono sentita desiderata davvero, dopo
tanto tempo. Nicolas
voleva fare l’amore con me, ma io gli ho detto di no. Ahahah.
Pensandoci bene,
sono stata una stupida. Però avevo paura! Cose da femmine.
Non
mi aspettavo che Nicolas fosse così…
Così tutta una sorpresa. È stato tenero,
dolce… Sono stata veramente bene. Certo, abbiamo litigato
quasi tutto il tempo,
però mentre eravamo a fare il bagno (Ah, è stato
bravissimo perché ha mantenuto
la promessa e non mi ha guardata mentre mi spogliavo…) mi
è venuto in mente
ancora lui, Derek. Ma si può essere così
stupidi?! Ero con un ragazzo
bellissimo, che mi trattava come una specie di principessa senza
gioielli, e io
che facevo? Pensavo a Derek. Va bè. Comunque lui mi ha detto
che dovevo dimenticarlo
(cosa che mi dicono tutti) e che non dovevo starci male io. Io gli ho
risposto
male, gli ho detto: “Perché dovrei? Tu non mi
racconti nulla di te.” Se l’è
presa, gli ho aperto una ferita. Se ne è andato e mi ha
lasciata da sola nella
vasca. Poi mi ha raccontato cos’è successo, mi ha
svelato il suo segreto: è
scappato di casa. La sua era una famiglia troppo perfetta, diceva. A
lui non
piaceva, non era il posto per lui. Si è creato la vita che
ha sempre voluto. E
voleva me nella sua vita. Mi sono sentita lusingata, ma non sapevo se
fidarmi,
visto i precedenti episodi. Ha detto che avrebbe voluto innamorarsi
della
ragazza che voleva lui, non una decisa dai suoi. Sì,
anch’io vorrei. Non capisco
proprio perché papà si ostini a comportarsi in
questo modo con me. Sento che ci
stiamo allontanando per questo, e mi fa male.
Nicolas
ora abita da solo, in un appartamento accanto a sua zia. Se non mi
sbaglio
dovrebbe essere un paio di isolati dopo il negozio di mamma, in un
palazzo
giallino. Non ne sono certa perché in moto quello corre come
un pazzo, anche se
c’è il ghiaccio sulla strada! Va bè, i
maschi.
Per
concludere, anch’io vorrei avere il coraggio che ha avuto
lui, scappare,
fuggire via, poi tornare, quando papà sarà
cresciuto abbastanza da capirmi. Adesso
sembra un ragazzino. Amo la mia famiglia, ma ci sono momenti nei quali
vorrei
proprio andarmene e vivere la mia vita da sogno.
Sharon
«Bene, se non
altro sappiamo dove
andare a cercare», dissi alzando le spalle.
Non c’era
scritto nulla di così
scandaloso infondo, solo la pura verità. Forse era anche per
quello che io non
avevo mai avuto un diario: avevo paura di scrivere la
realtà, di trovarmela
scritta di fronte.
«Sì,
andiamo.» Anto si alzò e
prese la giacca.
Uscimmo, lasciando a
casa Sarah e
Juri con Stefan, che si era offerto volontario per badare a loro:
sapeva che
l’avremmo trovata.
«Che cavolo
è successo?!», gridò
Krista arrivando di corsa da casa sua.
«Sharon
è scappata dopo il
concerto, adesso andiamo a vedere se è da Nicolas. Spero di
sì. Comunque ciao
Krista, come stai?»
«Non
è proprio il momento adatto
per fare dell’amabile conversazione, ok Alex? Ne parleremo
un’altra volta di
come sto. Adesso cerchiamo Sharon. Possibile che vada sempre a
cacciarsi nei
guai?!»
Salì in
macchina e si ritrovò
accanto ad Alex. Cercava di concentrarsi totalmente su Sharon, si
ripeteva che
doveva trovarla, che per lei sarebbe stata pure nello stesso letto con
Alex:
anche se ciò avrebbe significato un dolore intenso in mezzo
al petto, per lei
lo avrebbe fatto.
Tom continuava a fare
supposizioni su supposizioni, come un detective incapace
però. Poi ebbe la
brillante idea di chiedere a me con una semplicità che mi
sconvolse.
«Ary, dove
potrebbe essere andata
Sharon?»
«Che cosa ne
so io?»
«Tu sei
scappata di casa una
volta, dove sei andata?»
Mi portai una mano sulla
fronte.
«Grazie di avermi ricordato quest’episodio triste
della mia vita, grazie.»
«Non
l’avrei mai fatto se non
fosse per Sharon, dobbiamo trovarla.»
«I miei non si
erano poi messi
così di impegno come stiamo facendo noi per Sharon per
trovarmi», notai
pensando ad alta voce. «Ho fatto tutta la notte in pullman,
fino ad arrivare in
un paesino sperduto, ho fatto l’autostop e poi sono andata a
casa dei miei
nonni. Sono stati zitti per una settimana, poi hanno detto ai miei che
ero lì e
loro sono venuti a prendermi.»
«Oddio, non
voglio nemmeno
pensare alla possibilità che Sharon abbia preso un
pullman», disse Bill con le
mani nei capelli. Menomale che guidava Tom.
Arrivammo sotto casa di
Nicolas e
scesero solo Bill e Anto. Salirono in fretta le scale e a suonare al
campanello, ininterrottamente per un minuto, fu Bill. Non gli andava
per niente
di litigare con quel ragazzino, ma doveva farlo per amore di sua
figlia.
Nicolas aprì
assonnato, in boxer
e maglietta. Appena vide Bill strabuzzò gli occhi e
tirò un piccolo urlo.
«E lei che ci
fa qui a quest’ora
di notte?!»
«Voglio mia
figlia.»
«Perché,
l’ha persa?»
«Non ho voglia
di scherzare, è
qui?»
«Ma
cos’è, un incubo?»
«No, non
è un incubo, ma lo sarà
per te se non mi dici dov’è Sharon.»
«Che cosa?! Io
non lo so!»
Bill lo prese per il
colletto
della maglietta e lo guardò fisso negli occhi respirando
forte dal naso, come
un toro abbastanza arrabbiato.
«Bill, Bill,
per favore!», disse Anto
separandoli. Nicolas lo guardò pieno d’odio e si
sistemò la maglietta.
«Stiamo calmi.
Allora, Nicolas»,
prese la situazione in mano lei. «Ti prego Nicolas, sai
dov’è Sharon?»
«La prego io
adesso: mi spiegate
che cosa sta succedendo?»
«Sharon,
è sparita. Ci chiedevamo
se era qui da te.»
«Che
cosa?», disse in un
sussurro, bianco di paura. «Oh porca puttana.»
Entrò
velocemente
nell’appartamento, si vestì in fretta e
uscì senza nemmeno chiudere a chiave.
«Dove avete
già guardato?»,
chiese correndo davanti a loro.
«A casa di una
sua amica e qui.»
«Da quanto
è sparita?»
«Due ore,
circa.»
«Che cosa
avete fatto per tutto
questo tempo?!»
«Credevamo
sarebbe tornata!»,
ringhiò Bill tenuto da Anto.
«Avete idea di
dove possa essere
andata?»
«Dopo te,
nessuna», disse Anto.
«L’avete
chiamata?»
«Certo che
l’abbiamo chiamata,
che domande! Ha il telefono spento!», gridò Bill.
Nicolas prese la moto
dal garage
e si infilò il casco. «Ok, io controllo qui in
giro, voi controllate dall’altra
parte. Se scoprite qualcosa, qualsiasi cosa, chiamatemi.»
«Non
è qui, vero?», chiesi appena
li vidi tornare con Nicolas e la sua moto.
«No»,
ringhiò Bill lanciando uno
sguardo fulminante a Nicolas che non ci badò nemmeno.
Mise in moto e
sgommò
sull’asfalto prima di fare un’impennata e correre a
tutta velocità per le
strade deserte.
«E pensare che
Sharon è stata con
lui su quella moto! È impazzita!», urlò
ancora Bill entrando in macchina.
***
Girò per una
buona mezz’ora, ma
non si sarebbe arreso mai. Aveva il cuore che batteva
all’impazzata, l’ansia
che ogni minuto che passava aumentava. Quando l’avrebbe
trovata, perché era
certo che l’avrebbe trovata, gliel’avrebbe fatta
vedere lui. Le avrebbe fatto
un discorsetto che nemmeno suo padre sarebbe stato in grado di farle.
Non
sapeva che paura gli stava facendo provare.
Si strinse forte al
pensiero di
Sharon che lo abbracciava e che lo baciava nella penombra del suo
appartamento,
fra le lenzuola candide del suo letto.
Passò per la
terza volta di
fronte al parco che non era molto distante dall’arena dove
avevano suonato
quella sera Sharon e il suo gruppo, e avrebbe tirato dritto se non
fosse stato
proprio quel dettaglio a farlo inchiodare in mezzo alla strada e
scendere dalla
moto.
Scavalcò la
bassa recinzione e
raggiunse un piccolo laghetto, di fronte ad un prato d’erba e
fiori. Dei cigni
bianchi lo attraversavano e lasciavano delle scie sull’acqua,
illuminata dalla
luna che si rifletteva come su uno specchio facendolo brillare.
«Sharon!»
La vide seduta
sull’erba, che
lanciava dei sassolini nell’acqua. Anche la sua pelle chiara
brillava ai raggi
lunari.
Nicolas corse da lei e
la
abbracciò facendola cadere sdraiata sull’erba,
stringendola così forte da farla
lamentare.
«Non sai che
spavento mi hai fatto
prendere!», le disse riempiendola di baci.
«Me
l’avevi promesso», mormorò
lei ad occhi chiusi.
«Non dovevi
soffrire per me,
semplicemente. Sharon, hai fatto la scelta giusta a scegliere tuo
padre. È
sempre tuo padre, appunto. Non devi seguire me solo perché
io mi sono
comportato così. La tua famiglia è speciale. Non
sai com’erano in pensiero per
te!»
«Perché
non mi hai risposto
quando ti ho chiamato?»
«Ho lasciato
il cellulare nei
jeans che ho messo a lavare, è finito in lavatrice. Devo
abituarmi a togliere
le cose dalle tasche prima di fare il bucato.»
Riuscì a strappare un sorriso a
Sharon. Le accarezzò i capelli baciandola sulle labbra,
piano. «Ho visto che mi
hai chiamato solo quando ha finito la centrifuga.»
«Funziona
ancora?», chiese lei
sorpresa.
«Certo, il mio
cellulare della
preistoria non si scassa mai. Per me è un bene, se no dovrei
cambiarne uno ogni
mese a furia di gettarli in lavatrice!»
Risero e si rotolarono
sull’erba,
baciandosi. Anche Sharon sorrideva e lo stringeva a sé
tenendogli le mani fra i
capelli biondo platino.
«Dovremmo
avvisare i tuoi che ti
ho trovata», mormorò Nicolas tra un bacio e
un’altro.
Erano talmente
avvinghiati che
riuscivano appena a muoversi. Sharon scosse la testa e lo
baciò ancora con
passione. Non voleva più staccarsi da lui, ne aveva troppa
voglia, era l’unica
cosa che c’era nei suoi pensieri.
«Dovevo
capirlo subito che eri
qui», sussurrò lui.
«Perché?»
«È
il tuo habitat, anatroccolo
mio.»
Sharon sorrise e lo
avvicinò di
nuovo a sé. «Nicolas, ti amo»,
sussurrò.
«Anche io,
finalmente l’ho
capito, posso dirtelo con certezza. Ma ora andiamo a casa»,
la tirò su e la
portò alla moto che per fortuna era ancora lì:
non aveva badato a chiuderla con
la catena, nemmeno aveva messo il cavalletto, l’aveva
lasciata appoggiata alla
recinzione. Controllò che non si fosse graffiata e poi
salì, passando il casco
a Sharon e lasciandosi stringere forte.
Arrivarono
all’appartamento di
Nicolas e Sharon appena entrò lo attirò a
sé e lo fece cadere sul letto, lo
spogliò, si spogliò e quella notte, silenziosa
come molte altre, esplose di
suoni: i loro cuori che rimbombavano nel petto, i loro sospiri, i loro
baci, quella
melodia, le loro risate, il loro piacere. Il loro amore.
Nessuno li
disturbò quella notte,
quella notte era la loro notte. Nulla poteva rovinarla, nulla poteva
portargliela via.
Quella notte Sharon
cambiò,
Sharon si innamorò, Sharon capì cosa voleva dire
essere legati così tanto ad
una persona da desiderare più di ogni altra cosa di farci
l’amore. Non sesso,
amore.
Nicolas strinse il corpo
addormentato di Sharon fra le sue braccia, guardando il debole sole
dell’alba
brillare sulla sua pelle candida, nascosta solo dal piumone. Rimase ad
osservare la curva delle sue labbra, delle sue guance, il taglio dei
suoi occhi
chiusi, adorandola come una dea in forma umana. L’amava, era
vero, non si era
mai sbagliato. La sua vita poteva considerarsi perfetta, come
l’aveva sempre
sognata. Aveva sofferto tanto, ma alla fine aveva ottenuto
ciò che voleva, come
succedeva sempre nelle fiabe. Quello era il suo lieto fine.
Strinse ancora il suo
anatroccolo
con amore, pensando a quella notte bellissima che aveva passato con
lei, anche
se a casa sua tutti la stavano aspettando preoccupati. Magari sua madre
aveva
pure pianto. Si sentì un po’ in colpa, ma
bastò vedere il sorriso e gli occhi
verdi svegli e attenti di Sharon per far passare tutto.
«Che stai
facendo?», gli chiese.
«Pensavo a te,
anche se sei
accanto a me.»
Sharon sorrise e chiuse
gli occhi
riappoggiandosi con la testa al suo petto.
«Tutto
ok?», le chiese Nicolas.
Sharon annuì
con la testa: fra le
sue braccia si sentiva da dio, non si era mai sentita così;
le piaceva troppo.
Nicolas rise e la
coprì con cura,
quando il suo sguardo cadde sul proprio cellulare fra le coperte, come
un segno
del destino che stava a significare che era arrivato il momento di
riportarla a
casa.
Ci volle un bel
po’ per
convincerla, ma ci riuscì, era quello che contava. Era
sempre stato bravo a
convincere le persone, ma con Sharon era più difficile a
causa della sua
testardaggine. Era una gara all’ultimo sangue tra lei e suo
padre.
Sharon si
infilò il casco e
tornarono a casa di lei con le luci dell’alba alle spalle.
Di fronte a casa Sharon
ebbe
un’ondata improvvisa di paura, tanto da non volersi staccare
dalla schiena di
Nicolas, che dovette scollarsela di dosso con la forza.
«Sharon, sei
grande, no?», la
prese per le spalle e la guardò negli occhi.
«Sì.»
«E allora non
scappare, affronta
il problema: è l’unico modo per
risolverlo.»
«Hai ragione,
ok. Ma tu mi
aiuterai, vero?»
«Certo. Sono
sempre pronto a far
innervosire tuo padre.»
«Dai,
perché? Guarda che è una
persona stupenda dopo che la conosci.»
«Mi ricorda
fin troppo mio padre,
fino ad adesso.»
«Fino ad adesso.
Vedrai che cambierai idea.» Gli accarezzò il collo
e lo baciò alzandosi sulle punte dei piedi.
Attraversarono il
vialetto
tenendosi per mano, poi Sharon, con un po’ paura,
suonò il campanello. Aprì suo
padre, quasi subito, come se fosse stato lì accanto per
tutta la notte.
«Sharon!»,
gridò stringendola a
sé e baciandole i capelli.
«Ciao
papà», mormorò lei con gli
occhi lucidi. Abbracciò il padre e lo strinse, nascondendo
il viso nel suo
petto.
«Non sai
quanto mi dispiace…
Davvero, Sharon mi hai fatto preoccupare moltissimo, non facevo altro
che
pensare che fosse colpa mia.»
«No,
papà. Cioè… sì, in
parte.»
«Allora…
mi perdoni?»
Sharon annuì
e strinse di più le
braccia intorno alle sue, tenendo tra i pugni la sua maglietta.
«Dai, entra.
Fa un freddo cane»,
disse Bill facendola entrare.
Rimase un attimo a
guardare
Nicolas in silenzio, senza dire niente, mentre sua figlia baciava sua
madre
ancora addormentata sul divano.
«Grazie»,
disse schietto.
«Ho fatto solo
ciò che era meglio
per lei», disse Nicolas alzando le spalle e annuendo, con un
sorrisetto
soddisfatto sulle labbra.
«Nicolas,
vieni!», lo chiamò
Sharon. Nicolas sorrise ed entrò, seguito da Bill.
Ci eravamo svegliati
più o meno
tutti: Krista era inquieta di fianco ad Alex; Stefan aveva in braccio
Sarah,
che ancora dormiva invece.
«Grazie»,
disse Anto a Nicolas,
stringendo Sharon al suo petto.
«Di
niente», disse Nicolas
chinando leggermente il capo. Lui e Sharon si scambiarono un sorriso e
un’occhiata di intesa.
«Dove
l’hai trovata?», chiese
Bill.
«Non ci
interessa», lo fulminò Anto.
«L’importante è che stia
bene», le accarezzò i capelli.
«Giusto»,
concordò Nicolas.
«Sharon, come
stai?», chiese
Krista.
«Sono contenta
che tu sia qui»,
le disse piano.
«Sì.
Adesso devo andare, mamma e
papà mi staranno aspettando.»
Si alzò dal
divano come se fosse
da molto che lo premeditava: non vedeva l’ora di togliersi da
quella situazione
imbarazzante, voleva solo fuggire via da lui. Non si erano rivolti
più di una
parola che non fosse inerente a Sharon, e quello la faceva star male,
nonostante fosse la prima a non volerci più avere nulla a
che fare. La ferita
bruciava ancora dentro lei.
Sharon si
alzò e la raggiunse
trascinando i piedi sul pavimento, lottando contro la stanchezza.
«Ti prego
Krista, aspetta», la
fermò prendendola per un braccio e la guardò
negli occhi supplichevole. Krista
la spinse in cucina, verso di sé, quasi non se la
trovò in braccio.
«Ti rendi
conto di quello che mi
hai fatto passare?», le gridò a bassa voce.
«Non
volevo», disse Sharon.
«Io non avevo
nessuna intenzione
di rivederlo.»
«È
impossibile che tu non lo
riveda mai più, è mio cugino!»
Krista si morse il
labbro
nervosamente, stringendo i pugni nelle tasche dei jeans.
«Sono contenta
che tu stia bene,
adesso vado.» Con le lacrime agli occhi si diresse spedita
verso la porta ed
uscì in silenzio.
Sharon tornò
in sala passandosi
una mano sul viso, era distrutta. Incontrò lo sguardo di
Alex e abbassò il
viso, camminò lentamente verso il divano, trapassando quel
silenzio che non si
aspettava visto che c‘erano Nicolas e suo padre nello stesso
luogo.
«Dov’è
Juri?», chiese debolmente.
«Dorme
ancora», le rispose Bill.
«Ok.
Alex…»
«Dopo»,
le fece segno con la mano,
girandola a pugno e con l’indice steso.
«Devi
riposare», disse Anto.
«Sì,
ha perfettamente ragione»,
concordò Nicolas. Si piacevano a vicenda, almeno loro due.
«Sarà meglio che
vada.» Si alzò e subito Sharon gli si
aggrappò al braccio.
«No, non
andare», gli disse.
«Sharon»,
le sorrise trattenendo
una risata.
«Che
c’è da ridere?!»
«Dai Sharon,
lasciami.»
«No.»
Tom sorrise, aveva
già intuito
tutto. Dietro ogni frase di Nicolas c’era nascosto il vero
significato: Non
siamo già stati abbastanza insieme?
In più, notò che Sharon aveva saltato un passante
della cintura. Poteva anche
non significare niente, però tutto gli stava facendo pensare
che avessero fatto
quello che avevano fatto.
Ricordò che
anche io avevo le
stesse reazioni quando lui doveva andare via, anche solo per
un’ora,
soprattutto dopo un’intera notte passata a fare
l’amore.
«Ma…
Sharon…»
«Nicolas,
papà vuole, non ti
preoccupare. Vero papà?», lo guardò
sorridendo.
«Non se ne
parla nemmeno»,
rispose Bill stridulo.
«Ok,
è a posto. Ah, il mio
diario», lo prese dal tavolino accanto al divano e rise.
«Vi è piaciuto? Forza,
andiamo.»
Sharon e Nicolas,
trascinato da
lei, salirono in camera sua e si sdraiarono sul letto. Sharon
appoggiò il viso
al suo petto e chiuse gli occhi, come quella mattina. Nicolas le
accarezzò
dolcemente i capelli.
«Che cosa
c’era scritto sul
diario?», le chiese curioso.
«Nulla. Solo
tutto quello che
abbiamo fatto quella notte in cui mi hai rapita.»
«Tuo padre
sarà andato su tutte
le furie, già me lo immagino.»
«Probabilmente.
Nicolas…»
«Eh.»
«Non sono
più vergine.»
«Lo so,
c’ero.»
«Eccome se
c’eri.»
«Com’è
stato?»
«Bellissimo.»
«Ti
è passata tutta la paura?»
«Non ci ho
nemmeno pensato, ti
volevo troppo.»
«Mmh,
è un bene.»
Gli accarezzò
i capelli sulla
fronte e lo baciò sulle labbra, senza riuscire
più a smettere. Sorrise sentendo
di nuovo la magica melodia nella sua testa: suonò per tutto
il tempo in cui si
stringevano l’uno all’altra, incastrandosi e
respirando velocemente, fino ad
arrivare alla fine. Finalmente era riuscita a sentirne la fine: dolce e
perfetta come tutto il resto della canzone. Chiuse gli occhi nascosta
su quel
corpo che era convinta fosse suo e solo suo, stretta e al riparo, e si
addormentò con l’ultima nota di piano.
_________________________________
Oh, che carini *-* Vero?
Finalmente Sharon e Nicolas si
sono ritrovati e sembra davvero un lieto fine il loro…
Chissà se Bill gli
rovinerà la festa xD Per ora, sembra aver accettato il
ragazzo di sua figlia,
ma sarà solo perché l’avrà
riportata a casa sana e salva? U.U Bah, staremo a
vedere!
Per quanto riguarda Krista,
ancora nessuna intenzione di perdonare Alex :(
Che altro dire… Spero che questo
capitolo vi sia piaciuto! :D
Ringrazio le due sante
che hanno
recensito lo scorso capitolo:
Tokietta86
: Sono contenta che lo scorso capitolo ti sia piaciuto e
ti ringrazio davvero tanto, leggere le tue recensioni è
sempre bello :)
Alla fine Sharon e Nicolas ce l’hanno
fatta e Bill ha all’incirca accettato il ragazzo. Vedremo
come andrà a finire
xD Nicolas è semplicemente the best u.u
Tom e Ary sono veramente dolci,
sìì *-* Come Ary e Bill, infondo, che essendo
migliori amici non potrebbero mai
stare molto tempo imbronciati l’uno con l’altra.
Per quanto riguarda Juri, invece,
vedremo nel prossimo capitolo…
Grazie, grazie, grazie! Alla
prossima, un abbraccio! :)
Utopy
: Tu mi hai resa la sempina più felice della Terra! *-* Eri
d’accordo
con Ary! *-* Che soddisfazione! *-* Okay, mi ricompongo u.u
Sharon e Nicolas sono fatti
apposta per stare insieme, si completano! :D Anche lei è una
lagna, mi
assomiglia xDD E hai scoperto perché lui la chiama
“anatroccolo”. Dolce, no?
*-*
Nel prossimo capitolo
succederanno taaante, taaante cosucce simpatiche u.u Tra cui scopriremo
anche
di Juri. Non tutto, ma almeno qualcosina… xD E
ritornerà anche la tua
fantastica amica Bea xDD Non vedo l’ora di leggere di nuovo i
tuoi scleri su di
lei xD
Grazie mille, Mond! Ti voglio
tantissimo bene assaiii *-* Tua, Sonne.
E ringrazio anche chi
legge
soltanto!
Alla prossima! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 19 *** Parents & Sisters ***
I think
there’s
something more
Life’s worth living for
Who
knows what could happen
Do what you do
Just keep on laughing
One thing’s true
There’s always a brand new day
I’m gonna live today like it’s my last day
(Who
knows
– Avril Lavigne)
Capitolo
12
Parents
& Sisters
[PDV Tom]
Come dei flash, poco illuminati, vidi
distintamente il suo viso e poi
il mio sorriso, tanto distintamente da farmi chiedere da quale
prospettiva
stessi vedendo quel sogno. Era un sogno, eppure la realtà.
Il suo viso era
illuminato dalla luna, deboli raggi che entravano attraverso la
finestra.
La scena cambiò, lasciandomi
basito. Volevo ancora vedere quella notte
che avevamo passato assieme, nella quale c’eravamo solo noi
due. Ma purtroppo
mi trovavo in cucina, nella cucina di casa sua, quella stessa casa in
cui c’era
anche suo padre. Sorrisi pensando che quella notte avevamo fatto
l’amore e suo
padre non se lo sarebbe mai aspettato. Non mi dava né
fastidio né piacere se
lui lo avesse saputo, Ary gliel’avrebbe detto quando lei
sarebbe stata pronta.
Mi aggirai per la cucina: mai una volta che
mi ricordassi dove fossero
i cereali. Tentai per due volte, non trovandoli. Quando mi arresi
sentii una
voce provenire da fuori la cucina.
«Secondo armadietto a
sinistra», miagolò. Mi girai con un sorriso
raggiante sulle labbra, andandole incontro quasi correndo.
«Ehi!», gridò
ancora assonnata sentendosi sollevata da terra.
«Ciao amore mio», le
sussurrai all’orecchio.
Le faceva piacere quand’ero
così felice, ma come facevo a non esserlo
quando c’era lei al mio fianco? La rimisi a terra e la baciai
sulle labbra,
stringendola a me con le mani sui suoi fianchi.
«Ehi, voi due,
piantatela», disse suo padre affacciandosi sulla cucina.
«E tu, copriti», le disse.
«No», mi
scappò. Suo padre mi fulminò con lo sguardo.
«Cioè… no che non
voglio che si prenda qualcosa.» Mi salvai in corner, feci un
sospiro di
sollievo.
Ary era troppo bella per coprirsi, lei
poteva girare nuda quanto
voleva, per me. Addosso aveva solo una maglietta che notai come mia,
che le
scendeva lungo la spalla, scoprendola, e le arrivava fino a
metà coscia.
Suo padre andò a prendere la
giacca e le strappai un altro bacio
controllando che fosse di spalle. Ary rise sulle mie labbra, in modo
molto
soffocato.
«Vi lascio la
macchina?», chiese suo padre, così io mi staccai
subito
facendo il bravo.
«Sì,
magari!», disse Ary.
«Ok. Trattamela bene,
Tom», si raccomandò.
«Certo», risposi
incerto: non avevo capito se si riferiva ad Ary o alla
macchina.
«Ciao, a stasera.»
«Buona giornata
papà», lo salutò con la mano,
sorridendo.
Suo padre sembrava di cattivo umore, come se
vedere noi così
perdutamente innamorati della nostra felicità dovuta al
nostro amore lo avesse
infastidito.
«Dici che si è
arrabbiato perché ci ha visti mentre ti baciavo?»,
le
chiesi lasciandola andare, ma lei non si scollò dal mio
petto.
«No, è un po’
che è così. Non mi vuole dire
cos’è successo.»
Mi avvolse la vita con le braccia e nascose
il viso nel mio petto, io
appoggiai il mento alla sua testa abbracciandola.
«Sei triste?», le chiesi
sospirando.
«No, ho la faccia di una che
è triste?», mi guardò negli occhi con
un
sorriso abbagliante.
«Credo proprio di no»,
sorrisi e la baciai ancora, senza riuscire più a
staccarmi. Le sue labbra erano troppo invitanti per resistere.
«I cereali sono nel secondo
armadietto a sinistra», mi ricordò quasi in
ultrasuoni, talmente le facevano piacere i miei baci sul collo.
«Sì, me lo
ricorderò.»
«Tom, mi farai
impazzire», mi staccò da lei e mi baciò
gettandomi le
braccia intorno al collo, così all’improvviso e
con forza che feci due passi
indietro, andando ad urtare il tavolo.
«Tu di più»,
dissi.
«Non scherziamo, dai.»
Le sue mani su di me erano le chiavi del
paradiso, ne ero certo, anche
se erano la tentazione più vera che avessi mai provato.
Rimasi ad occhi chiusi, e lei
sparì con una risata, alzandosi sulle
punte per raggiungere i cereali nel famoso armadietto.
La guardai sorridendo. Non c’era
nulla di più bello di lei, e della sua
risata, chiara e limpida. Sembrava il suono dolce di una chitarra. La
chitarra
era la mia anima, il suo suono era la perfezione, normale che lo
paragonassi a
lei, alla sua risata.
«Ecco qua», me li
passò e si mise seduta al tavolo, prendendo i
biscotti e allungandosi per prendere il cartone di latte.
Mi misi seduto accanto a lei e versai i
cereali nella tazza, per poi
innaffiarli con il latte.
«Che facciamo oggi?», mi
chiese.
«Strano che tu me lo chieda. Di
solito non vuoi mai saperlo.»
«Oggi sì. Allora, che
si fa?»
«Ho voglia di andare in
palestra.»
«Ad esibire i tuoi muscoli a
qualche ragazza per farmi ingelosire?»,
ammiccò.
«Certo», annuii con la
testa.
«Dove vado io in piscina
c’è anche la palestra, potremmo andarci: tu
mostri il tuo fisico scolpito», mi sfiorò
l’addome con un dito, «e io potrei
nuotare un po’.»
«Ok, perfetto.»
«Chiediamo a Bill e Anto? Se non
hanno da fare vengono con noi!»
La guardai appoggiando la testa sulla
spalla, cercando di imitare Bill
e di fare i suoi famosi occhi da cerbiatto.
«Come sei tenero», disse
baciandomi sulla guancia.
«Credi che Bill sia disposto ad
andare in palestra?»
«Perché,
Anto?»
Scoppiammo a ridere, lasciando i cucchiaini
nelle tazze.
«No, no, ridi ancora»,
sussurrai prendendole il viso fra le mani,
guardandola quasi supplichevole.
«Perchè?»,
chiese.
«Perché la tua risata
è bellissima.»
Un leggero rossore si impadronì
delle sue guance e la adorai, non
riuscii a non baciarla. Finimmo sdraiati per terra, sul pavimento
freddo. Ok,
io l’avevo trascinata, ma lei non si era opposta, mi aveva
lasciato fare.
«Che stai facendo?», mi
chiese inarcando la schiena ai miei baci
infuocati. Avevo seri dubbi però che fosse la sua pelle a
bruciare, o forse
entrambi.
Le infilai una mano tra i capelli,
accarezzandola sotto alla maglietta
con l’altra. Ogni tanto aveva piccoli brividi, anche se
pareva che stessimo
bruciando.
Me la stavo godendo, sapevo a dove saremmo
arrivati, ma il sogno saltò
facendomi imprecare di nuovo. Speravo solo che non stessi parlando nel
sonno.
Mi alzai da terra mettendomi a posto i
jeans, il volto accaldato. In
verità mi sentivo tutto accaldato, come lei
d’altro canto, ancora sdraiata a
terra. Respirava velocemente e sorridendo, con le guance rosse. Le tesi
la mano
e lei si alzò, si sistemò i vestiti.
«Mi chiedo perché tu
voglia andare in palestra, te la cavi pure sul
pavimento della cucina», disse grattandosi la nuca.
L’abbracciai e la baciai facendola
piegare in un casquè.
Non riuscivo a stare lontano da lei per una distanza superiore ai tre
millimetri.
Il sogno saltò di nuovo. Non
doveva essere accaduto nulla di particolare,
pensai, perché tutte quelle interruzioni iniziavano a darmi
sui nervi.
Salimmo in macchina. Lei era ancora
bellissima, con i capelli lunghi e
biondi legati sulla nuca e alcuni ciuffi più corti che le
accarezzavano il viso
e il collo, e una tuta azzurra.
Ero più teso del solito: quella
mattina suo padre mi aveva messo in
ansia, con quella faccia da arrabbiato che non avevo mai visto. Guardai
Ary con
la coda dell’occhio mentre guardava all’interno del
porta cd in cerca di
qualcosa da mettere.
«Ehi, che ci fa il vostro cd,
cioè il mio, qui?», chiese tirando fuori Zimmer
483.
«Tuo padre ha un debole per
noi?», feci un’ipotesi.
«Non è da escludere, ma
ne dubito», mi regalò un ampio sorriso.
«Va
bè», lo tenne sulle gambe e ne cercò
altri.
Si fermò e con lentezza
tirò fuori un cd in una custodia trasparente e
gialla, con le canzoni scritte a mano in un foglietto posato
all’interno. Lo guardò
come ipnotizzata per un po’, in completo silenzio, non
riuscivo nemmeno a
sentirla respirare.
«Ary?», le chiesi.
«Questo
è…», disse non superando di molto i
suoi tanto amati
ultrasuoni. «Sono passati così tanti
anni», fece una risata amara.
«Che
cos’è?»
«Il cd che io e Davide gli
regalammo per la festa del papà, un po’
d’anni
fa.»
A sentire quel nome mi sentii stringere il
cuore. Dovevo controllarmi,
anche per lei, ma mi era difficile: la sua scomparsa aveva fatto a
pezzettini
anche il mio di cuore, sebbene senza quella violenza che aveva subito
quello di
lei.
Deglutii e restai ad ascoltare lei che
sfilava il cd dalla custodia e
lo infilava dentro al lettore cd. Avevo paura di scoprire quale traccia
avrebbe
scelto, e perché.
Chiuse gli occhi e si lasciò
andare allo schienale ascoltando la
canzone che si diffondeva all’interno
dell’abitacolo. Guardava fuori dal
finestrino canticchiando distrattamente le parole della canzone.
«Boulevard
of broken dreams»,
disse alla fine del ritornello. Mi guardò e sorrise.
«La preferita di Davide.»
Ecco perché era finita in mezzo
alla compilation da regalare ad un
padre.
«È bella»,
dissi.
«Sì.»
Il nostro discorso si stava pian piano
congelando. Non sapevo che fare,
come sempre in quelle situazioni. Presi un respiro profondo.
«Immagino ci sia I’m
with you,
quindi», dissi con il cuore che batteva a tremila.
«Ovviamente.»
Non era andata poi così male,
aveva sorriso. Quel sorriso mi rassicurò
nel procedere più tranquillamente, dirigendomi
però in altri discorsi, ben lontani
da suo fratello. Ad un certo punto Ary tolse il cd e lo rimise a posto.
«Perché l’hai
tolto? Quella canzone mi piaceva», mi lamentai. Ary
sorrise indicando il centro sportivo che stavo quasi superando.
Mi fermai e parcheggiai perfettamente dentro
le righe, suo padre mi
avrebbe riempito di parolacce in privato se l’avesse trovata
solo con un
graffio.
Ary scese dall’auto recuperando il
suo borsone dai sedili posteriori e
io la raggiunsi.
«Comunque anche quella canzone
l’aveva scelta lui. Avete gusti piuttosto
simili», notò con un sorriso. «Avevate»,
si incupì.
Le misi un braccio intorno alle spalle.
«Li abbiamo ancora, non ti
preoccupare», dissi sorridendo al cielo azzurro.
Entrammo in palestra e lei andò a
mettersi il costume, io mi aggirai
per la palestra semideserta per controllare gli attrezzi. Poi passai
alla
piscina. Anche quella non era poi così frequentata,
c’erano solo alcune ragazze
che curavano alcuni bambini nella vasca più piccola e un
istruttore gironzolava
proprio come stavo facendo io.
«Non ti sei ancora messo
all’opera?», mi chiese prendendomi alle
spalle.
«No, mi guardavo in giro. Ma credo
che mi concentrerò qui.»
La guardai avido, mettendole le mani sul
collo per poi scendere sulle
spalle e sui fianchi.
«Ci sono dei giorni in cui tu ti
svegli già con gli ormoni a mille o mi
sbaglio?», disse avvicinandosi e coprendomi.
Non me n’ero nemmeno accorto.
Quella mattina bastava solo una parola
detta in un certo modo, una sua carezza con le unghie sul collo prima
di
baciarmi per eccitarmi. Interessante. Avevamo fatto l’amore
due volte nel giro
di poche ore, c’era qualcosa che piacevolmente non andava.
«Cos’è, il
ciclo maschile? E io non ne so niente?», disse puntando il
nasino all’insù, offesa.
«Possibile», le
accarezzai la mandibola con un dito.
«Allora non vale»,
imbronciò il viso.
«Perché?»
«Perché a voi porta
vantaggi, invece a noi svantaggi, se questa teoria
è esatta», mi puntò il dito sul petto.
Risi e la baciai sulla fronte spostandomi e
andando verso gli attrezzi
in palestra.
«Ci vediamo dopo», disse
andando anche lei incontro a quella vasca di
blu.
Ci volle un’oretta buona di
esercizi prima che la vedessi tornare
avvolta in un asciugamano bianco e i capelli umidi.
«Ehi, come procede
qui?», chiese.
«Bene, penso.» La feci
ridere. Non capii cosa ci fosse tanto da ridere,
ma fui semplicemente felice di averle sparso un briciolo di
felicità sul viso.
Senza trucco riusciva ad essere sempre e
comunque bella. Nessuna
ragazza fino ad allora era stata tanto bella da farmi pensare che fosse
più
bella di Ary. Il che spiegava tutto, volendo.
«Mi chiedevo una cosa»,
disse sedendosi accanto alla panca dove stavo
io a fare gli addominali. Iniziavano ad essere tesi, ma non ne avevo
ancora
abbastanza. Appoggiò i gomiti sulle gambe chiuse e si tenne
la testa sulle
mani.
«Quanto dura il vostro
ciclo?», rise di gusto e quella volta ero certo
che fosse per la mia espressione quasi scioccata.
Il ragazzo, l’unico, che
c’era qualche attrezzo dopo, ci guardò in un
modo strano, poi si dedicò totalmente agli esercizi.
«Ma che domande sono? Come posso
saperlo?»
«Beh, pensavo all’idea
di poter sfruttare al massimo questo periodo.
Così mi chiedevo quanto durasse, più o meno. Tu
sai quanto dura il mio, di
ciclo. E sai anche che finché non mi passa non si
può fare nulla.»
«Sì, che
scocciatura», sbuffai.
«Appunto.»
«Boh, non so. Ary, è la
prima volta.»
«Davvero? Uh, sei diventato un
ometto», scherzò. Aveva pure la faccia
tosta di scherzare.
«Sì, tu quando hai
avuto il ciclo per la prima volta?», feci una smorfia.
«Tardi, molto tardi rispetto a
tutte le mie amiche. Infatti credevo che
ci fosse qualcosa che non andasse, ma poi sono arrivate. Estate dopo la
fine
della terza media.»
«Cazzo!», gridai
dimenticandomi del ragazzo che ci guardò ancora male.
Non ci feci troppo caso, quella notizia mi aveva sconvolto.
«Non è passato poi
così tanto prima che noi…
Cioè… tu hai fatto sesso per la prima volta
l’estate
dopo! È breve come periodo, no?»
«Sì, ma che importa?
Vuoi sapere quando le avute Anto?»
«Sì, da morire. Per
favore, cosa vuoi che me ne importi?»
«Dieci anni», disse
senza badare a me.
«Cazzo!», mi
scappò di nuovo. «Così
presto?»
«Te l’ho detto. Eppure
lei non l’ha ancora fatto. E poi dopo che ti
viene il ciclo smetti di crescere, così dicono. Ma non
è vero, io sono
cresciuta ancora.»
«Dove?», chiesi
divertito.
«Simpaticone», mi
tirò uno schiaffo sulla spalla.
«Tom?», disse dopo un
attimo di silenzio, in cui si erano sentiti solo
i miei respiri semiaffaticati e il rumore dell’attrezzo che
usava l’altro ragazzo.
«Eh?»
«Sei cambiato.»
Lasciai perdere gli addominali e rimasi
sdraiato sulla panca. La
guardai, ma come non mi aspettavo era serena, sorrideva.
«In che senso?», mi
tirai seduto e le andai accanto per accarezzarle i
capelli sulla nuca.
«Cioè, guardati. Sei
cambiato radicalmente da qualche anno fa.»
«Tipo?»
«Non avevi idea di cosa
significasse amare davvero una persona, tipo.»
In effetti non aveva tutti i torti,
l’avevo pure lasciata pensando che
fosse una come tante, mischiandola con le nullità, diamante
in mezzo a sabbia.
«Utilizzavi le ragazze solo come
strumenti», elencò ancora. «Non
conoscevi la dolcezza, ecco, come stai facendo adesso.»
«Come,
così?», le accarezzai ancora i capelli.
«Sì», chiuse
gli occhi, poi li aprì per guardare i miei.
«Quante volte
avevi accarezzato così una ragazza?»
Mai, mi venne da rispondere, ma non dissi
niente.
«Vedi? Sei cambiato.»
«No, mi sono innamorato,
è diverso.»
Mi guardò addolcendosi, mi
abbracciò e mi baciò simpaticamente sul
naso. «Sei un pinguino quando fai così il
tenero.»
«Ma è la
verità», alzai le spalle. Mi guadagnai un altro
bacio, però
vissuto, sulle labbra.
«Sarà meglio che vada a
cambiarmi. Ci vediamo fuori.»
Si alzò e io la guardai
completamente rapito, senza sapere bene dove
guardare dopotutto, visto che era bella a modo suo, cioè
bella e basta,
ovunque.
«Oh, hai capito?» Si era
fermata a metà strada e mi guardava
interrogativa. «Che ti passava per la testa?», ora
curiosa.
«Nulla», sorrisi.
«Come al solito»,
lasciò cadere la braccia lungo i fianchi e rise
uscendo dalla palestra.
Non ci avevo nemmeno pensato. Ero uscito di
casa bello fresco, senza
pensare che magari avrei attirato paparazzi e fans senza la dovuta
protezione,
visto che ero uscito senza fascia né cappello, come piaceva
ad Ary. Invece,
fortunatamente, non successe niente, lei aveva fatto il miracolo
portandoci in
un posto sconosciuto a mangiare, così non avevamo incontrato
nessuno.
Eravamo rimasti fuori per tutto il
pomeriggio, non badando al tempo che
trascorreva. Tornammo a casa sua solo verso le sette.
«Nella vita si cambia»,
dissi. Lei, davanti alla porta di casa che
cercava le chiavi nella borsa, alzò lo sguardo per vedermi
in viso.
«Stai parlando ancora del fatto
che sei cambiato?»
«Sì. Nella vita si
cambia, e sono contento di essere cambiato. Nessuna
ragazza prima di te mi aveva dato la spinta e la voglia per cambiare
davvero,
per questo io… Ti amo da impazzire, lo sai?»
Sorrise dolce e mi mise le mani sul collo.
«Lo so», sussurrò
appoggiando la fronte alla mia per guardarmi meglio negli occhi.
La strinsi a me e la baciai, le sfiorai la
pelle calda sotto il
giubbino e la felpa, sorrisi giocando a mordere le sue labbra. Lei sue
labbra
erano uniche, non c’erano paragoni. Eppure ne avevo baciate
tante, ma le sue
erano totalmente diverse. Lei era stata l’unica e
l’unica sarebbe stata. Mi
aveva rubato il cuore come nessuna prima aveva mai fatto, sarebbe stato
suo per
sempre.
Qualcuno aprì la porta e ci
staccammo subito, come un elastico tirato
troppo a lungo. Era suo padre. Possibile che ci beccasse sempre? Ci
guardò
malissimo, mi vennero i brividi, ma fu per poco, infatti ci
sbattè la porta in
faccia, lasciandoci fuori.
Ary rimase senza parole, al mio fianco, poi
si catapultò addosso alla
porta, la aprì ed entrò.
«Papà, che
c’è?!», gridò.
Lui continuò a salire le scale,
senza badarci. In salotto vidi che
c’erano tutti: Bill, Anto, Georg e Gustav, e sul tavolo un
po’ di cartoni di
pizza chiusi e una bottiglia di Coca Cola e una di acqua.
«Noi due dobbiamo fare un
discorso», le disse non degnandola di uno
sguardo. La sua voce era dura, arrabbiata.
«Bene, facciamolo.»
«Quando torno.»
«Certo, è sempre la
stessa storia! Dobbiamo fare questo discorso da
mesi, eppure lo rimandi sempre! Perché non lo facciamo
adesso, eh?»
Suo padre si girò e la
guardò, fermo in mezzo alle scale. Non si era
nemmeno tolta la giacca, e aveva ancora il borsone sulla spalla.
«Che cosa c’è
che non va?», gli chiese calma e dolce.
«Tutto non va, e tu non mi aiuti
per niente.»
«Che cosa stai dicendo?»
«Sembra che tu ci abbia messo poco
a ricominciare», disse duro
gettandomi un’occhiata.
«Tu non sai quello che stai
dicendo», ringhiò stringendo i pugni e
arrossandosi in viso.
«Ah no? Mi era sembrato.»
«Senti, puoi toccarmi tutto, ma
non Tom.»
«Sì, certo, e poi? Vuoi
anche andare a vivere a casa sua?»
«Per favore papà, non
dire stronzate.»
«No, va bè, se
è così vai pure. Tanto.»
«Ma smettila.»
Fabian scese di corsa le scale e le
passò accanto per andare a prendere
la giacca.
«E adesso dove vai?»,
gli chiese arresa.
«A puttane.»
«La tua fissazione.»
Si girò lentamente, la
guardò sgranando gli occhi. «Che cosa stai
cercando di dire?»
«Le puttane, sono una tua
fissa.»
«Cosa?»
«Mamma era ed è
tutt’ora una puttana!»
Non l’avevo mai vista
così piena d’odio, davvero, non sapevo che avesse
tutto quello dentro. Mi chiesi quanto in realtà riuscissi ad
aiutarla se aveva
tutto quel rancore nascosto.
Scambiai uno sguardo con Bill e Anto, seduti
sul divano con Georg e
Gustav, che più o meno erano nella mia stessa situazione di
confusione.
«Non azzardarti a dirlo di
nuovo.»
«E perché? Non
è così?»
«No!»
«No?»
«No, quello è stato
solo un errore!»
«Certo, un errore. Mi chiedo se io
sia stata un errore di un altro.»
«Ary, non…»
«Guardati, guardami. Non ci
assomigliamo per niente! Chi mi dice che io
sia davvero figlia tua?!»
«Tu sei mia figlia!»
«Hai mai fatto il test di
paternità?!»
Suo padre rimase in silenzio, guardandola
con gli occhi lucidi. Non
riuscivo a credere a nessuna di quelle parole, doveva essere un incubo
e non
vedevo l’ora di svegliarmi.
«Smettila, mi hai
stufato», disse infilandosi la giacca.
«Sì, anch’io
mi sono stufata.»
«Di cosa?»
«Di quanto tu non riesca ad aprire
gli occhi e ad accettare la verità.»
«Basta», aprì
la porta e uscì sbattendosela alle spalle.
Ary chiuse gli occhi, aprendo i pugni per
riattivare la circolazione.
«Ci mancava solo la scenata di
fronte a tutti», sussurrò, ma io la
sentii.
«Ne vuoi parlare?»,
chiesi sfiorandole il gomito.
Si sistemò la borsa sulla spalla
e mi guardò, solo allora vidi la lacrima
che le tracciava la guancia, silenziosa.
«Non c’è
niente di cui parlare», tremò. «Voi
iniziate a mangiare, vado
a cambiarmi.»
Si girò e uscì dal
salotto passando per le porte vetrate, lo sguardo
basso, per raggiungere la sua stanza. Stavo per andarle dietro, quando
Anto mi
prese per mano e mi portò seduto accanto a lei.
«Lasciala stare un
po’», alzò le spalle sorridendo debole.
«Le
passerà.»
«Cavolo, se ne sono dette di
pesanti», disse Georg abbandonandosi allo
schienale.
«Sì, Ary mi aveva detto
che i loro litigi, quando avvenivano, erano
pesanti, ma non ne avevo mai visto uno dal vivo. Non avrei mai
voluto», disse
Anto.
«Ma diceva sul serio suo
padre?», chiese Bill.
«Quando?»
«Quando diceva che andava a
puttane. Lo diceva così per dire, vero?»
Anto scosse la testa. «No, dice
sempre così, ma in verità va a
lavorare.»
«A quest’ora?»
«Sì,
c’è in allestimento l’arena dove suonate
voi domani, se ne sta
occupando lui.»
«Ah beh, perfetto. Ha
l’occasione giusta per farmi cadere addosso un
led intero», dissi sbuffando. «Cavolo, è
tutta colpa mia.»
«Non è vero»,
mi difese prontamente Bill.
«Sì, è un
po’ che non sopporta vedere che la bacio.»
«Si sente minacciato»,
disse Anto.
«Minacciato?», dissimo
in coro io e Bill.
«Da me?», mi indicai con
una mano sul petto. Ero a dir poco sbalordito.
«Sì. Ary è
tutto ciò che gli è rimasto, ha paura che tu
gliela porti
via. È stupido. Ma tutte le paure sono stupide, se ci
pensi.»
«È veramente
stupido», scossi la testa. «Non gliela porterei mai
via, e
poi lei non me lo permetterebbe. Sono troppo legati.»
«Da come si sono scannati non mi
sembra», disse Gustav.
«Ary è solo preoccupata
per lui, è per questo che l’ha attaccato
così.
A volte è lei a fare la grande. Lei vede tutto, soffrendoci
di più ovviamente,
invece lui preferisce non vedere», spiegò Anto.
«Ary, nonostante ne sia
terrorizzata, non si tira mai indietro di fronte alla
verità, la prende di
petto, anche se sa che farà male, ne è
consapevole. Invece lui no.»
«Mi ricorda te»,
incrociai lo sguardo di Bill. «Anche tu fuggi di
fronte al dolore.»
«Hai ragione»,
annuì.
«Ora posso andare da
lei?», chiesi guardando Anto.
«Aspetta, sarà lei a
venire. Tanto, se si sta facendo la doccia, se se
la prende comoda ci mette un quarto d’ora.»
«È rapida quasi quanto
te», notò Georg sorridendomi.
«Noi siamo rapidi, ma sappiamo
anche andare lenti», dissi ammiccando.
«Ma si può sapere di
che cosa state parlando?»
Mi girai e vidi Ary alle porte vetrate, con
l’asciugamano in mano e i
capelli bagnati.
«Della nostra rapidità
a fare le cose», dissi sorridendo. Lei rise, e
mi fece piacere, le era passata piuttosto in fretta, ma non avevo
voglia di
rischiare, per il momento non ci saremmo tornati sopra.
«Cioè?»,
chiese.
«Per esempio il fatto che siamo
veloci a farci la doccia.»
«Quando la facciamo
separatamente?», sorrise maliziosa.
«Sì, perché
se no se la facciamo assieme ci mettiamo ore ed ore.»
«Esattamente.»
Scavalcò lo schienale del divano e si mise seduta quasi
in braccio a me. «Ma non avete ancora iniziato?»,
indicò le pizze ancora dentro
ai cartoni.
«No, ti abbiamo
aspettato.»
«Beh, peggio per voi. Qual
è la mia?» Sorrise e aprì tutte le
pizze,
finché non trovò quella con le patatine fritte,
la sua per eccellenza.
«Tanto lo sappiamo tutti che tu
mangi come un bue», disse Anto facendo
una smorfia.
«Nessuno mi batte»,
addentò un pezzo di pizza. «Apri la
bocca», mi
disse e mi fece mangiare una patatina.
«Occhio a sporcare il divano eh,
se no chi lo sente papà», raccomandò
buttando giù un lungo sorso d’acqua.
Parlava di suo padre come se non fosse
successo niente, con il sorriso
sulle labbra, quel sorriso che c’era stato tutto il giorno, a
parte durante il
loro litigio.
«Scusa, avrei dovuto
difenderti», dissi.
«A chi, a me?», mi
chiese.
«Sì.»
«Nah, hai fatto bene a non
intervenire. È un po’ come voi due: mai
mettersi fra i gemelli Kaulitz. Stessa identica cosa: Mai mettersi fra
me e
papà, potresti non uscirne», sorrise.
«Direi anche voi due siete peggio
di loro», Gustav ci adocchiò.
«Sì, probabile.
È raro che litighiamo, ma quando lo facciamo, lo
facciamo in modo pesante. Scusate se abbiamo dato spettacolo.»
«Non ti preoccupare»,
Bill le sorrise in quel modo speciale, solo per
lei, che mi faceva sempre un po’ ingelosire.
«Tua madre è una
puttana?», le chiese diretta Anto, con una serietà
che
non mi sarei mai aspettato da lei.
«Beh…», si
pulì le mani su un tovagliolo e si passò la
lingua fra le
labbra. «Non è stata proprio una santa di
donna.»
«Sii più
precisa.»
«Prima che incontrasse
papà, lo era.»
Lo disse con la massima
semplicità, senza tristezza nella voce e negli
occhi. Era vero che proprio non le interessava, era come
un’estranea per lei.
Lei non si era scomposta di un millimetro,
tutti noi invece sì: Bill
era rimasto con una fetta di pizza tra le mani, senza riuscire
più a masticare,
a Georg quasi cadeva la mandibola, Gustav la guardava ad occhi sgranati
e io
ero a dir poco in un silenzio tombale fuori, ma dentro
c’erano milioni di voci
che parlavano tutte assieme. L’unica che ancora non si era
scomposta era Anto,
doveva essere abituata ad uscite di quel genere.
«Non me l’avevi mai
detto», disse incrociando le braccia al petto.
«Non pensavo ti sarebbe
interessato», alzò le spalle.
«Quindi a questo punto non sai
nemmeno se tuo padre è il tuo vero
padre.»
«Aspetta, aspetta. Mamma e
papà si sono sposati prima che nascessi io,
però non è da evitare il fatto che lei a volte si
concedesse qualche serata di
svago, diciamo. Quindi… potrebbe anche essere. Ma non
è questo il punto,
capisci? Lui è mio papà. Potrebbe anche non
essere lui l’uomo che ha messo
incinta mia madre, ma è lui che mi ha allevata fin da
piccola, si è sempre
preso cura di me. Sarà sempre lui mio papà, non
mi importa se non è il mio
padre biologico. Quell’uomo, sempre che esista, sarebbe un
estraneo.»
«E perché gli hai
rinfacciato che tua madre è una puttana?»
«Perché non vuole
vedere! Sì, lo vede, lo sa, lo ha sempre saputo, ma
non ha mai aperto bocca. È uno che soffre in
silenzio.»
«Come te, se non ti tiro le parole
fuori dalla bocca», dissi
appoggiando il viso alla sua spalla. Profumava di vaniglia, come il suo
shampoo
preferito.
«Sì, è che
comunque non ci riuscirei. Quanti sanno ciò che sapete
voi?»
«Nessuno», disse Anto.
«Perché non riesco a
confidarmi con chiunque, è semplice. Voi siete
speciali.»
A Bill si allargò un sorriso che
mise in risalto i suoi occhi felici
per il complimento. Era facile farlo felice, Ary lo sapeva.
«Basta? Non avete più
domande? Peccato, ero in vena di confessioni»,
disse prendendo un’altra fetta di pizza.
«Dove siete stati tutto il
giorno?», piazzò lì Bill, ritornando
pieno
di vita e curioso dopo la storia triste.
«A fare della sana
attività fisica.»
Tutti ci guardarono sospettosi. Sapevo che
sarebbe andata a finire in
quel modo.
«Ary, pensano male se dici
così», le feci notare.
«Ma no, che avete capito! Siamo
andati in palestra! Io ho nuotato e lui
non mi ha fatto ingelosire nemmeno un po’.»
«Non c’era nessuna
ragazza, a parte te, ovviamente.»
«E poi?»
«Cosa vuoi sapere,
Bill?», chiesi esasperato.
«Due volte», disse Ary.
«Cosa?», chiese Bill.
Io tirai un colpo ad Ary, facendola stare
zitta.
«Ah, io ho capito»,
disse Anto stiracchiandosi con un sorriso che la
sapeva lunga.
«Oggi era –»,
le tappai la bocca ancora, era pericolosa. Era troppo in
vena di confessioni, decisamente.
«Mi sa che ho capito pure
io», disse Georg con gli occhi brillanti.
Gustav l’aveva capito subito, ma non aveva detto nulla, aveva
solo sorriso.
«Io no!», si
lamentò Bill. «Cosa due volte?»
«Una volta in cucina!»,
riuscì a liberarsi Ary.
«Ma sei scema oggi? Il cloro ti fa
male!», gridai mettendole le mani
sulla bocca, tutte e due. A me non importava molto, mi sembrava solo
strano che
fosse lei a parlarne, perché di solito era lei che mi
tappava sempre la bocca.
«Uffa, non ho capito»,
Bill incrociò le braccia e tenne il broncio.
«In cucina? Non sul tavolo,
vero?», chiese Anto quasi schifata.
«No, non sul tavolo»,
dissi.
«Ahia, Ary eri comoda? Non
è duro il pavimento?»
«Basta, mi arrendo»,
dissi lasciandola andare, ma invece di parlare a
raffica come credevo avesse fatto, rimase in silenzio e un leggero
rossore si
impadronì delle sue guance.
«Bill, sei troppo piccolo, non
puoi capire queste cose», lo rincuorò
Gustav.
«Uffa, ma io volevo
saperlo!» Bill era proprio un bambino quando ci si
metteva.
Passammo una serata piacevole, e, rimasti da
soli, mi gettai sul letto
morbido e strinsi il cuscino sotto alla testa togliendomi le scarpe con
i
piedi.
«È stata una giornata
piuttosto strana», dissi.
«Partita con il piede giusto,
no?», rise.
«Sì, ma di te non ne ho
mai abbastanza, lo sai.»
«Me ne compiaccio.»
Uscì dal bagno in pigiama, grigio e viola, e si
mise seduta accanto a me a gambe incrociate, le mani unite e i gomiti
sulle
ginocchia.
«Non voglio che tu smetta di fare
ciò che hai sempre fatto con me solo
perché a lui non sta bene. Su questo non me ne frega niente,
lo sai, non può
impedirmi di fare quello che mi sento di fare, e così
dev’essere con te. Sei la
cosa più bella che ho.» L’aveva
sussurrata l’ultima frase, abbassando lo
sguardo e mettendosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Mi piaceva tanto
quando faceva la timida. Mi piaceva in tutti i modi a dir la
verità, ma quel
modo particolarmente.
«Ti amo», si sporse e mi
baciò.
«Anch’io…
tantissimo.» Avevo esitato, mi era venuto naturale pensare di
dirle: da morire, ma poi ripensandoci non era il caso, tutte le parole
riguardanti a quel tema non le usavamo più da tempo, noi
due.
«Sai una cosa, Tom?»
«No, cosa?»
«Vorrei tornare indietro nel
tempo.»
«E da quando vorresti
ripartire?»
«Dal 16 luglio di
quest’estate.»
Ci guardammo negli occhi: sorridevamo ma
dentro piangevamo, era una
sensazione strana, un misto tra quei due sentimenti opposti che eppure
a volte
sapevano unirsi, creando una strana ma piacevole confusione.
Si appoggiò con il viso alla mia
spalla e mi strinse con l’altro
braccio, singhiozzando appena.
«È tutto
così difficile…» Era un pianto
silenzioso, se non avessi visto
le sue lacrime non me ne sarei mai accorto.
«Piccola… Lo so, o
perlomeno lo posso immaginare.» Mi girai e nascose
il viso nel mio petto, io le accarezzai le guance tirandola su.
«Amore.»
Continuò a piangere, tenendo le mie mani con le sue.
«Amore, basta piangere.»
Si passò le mani sul viso e mi fece un piccolo sorriso, poi
si mise sdraiata su
di me, accucciandosi più che poteva, sembrava davvero una
bambina.
«Tutto me lo ricorda,
tutto», sussurrò. Mi accarezzò
distrattamente una
treccina, pensava ad altro.
«Lo so.»
Il suo respiro, pian piano, si
regolarizzò e chiuse gli occhi cullata
dalle mie braccia. Stava quasi per addormentarsi, quando qualcuno
bussò sul
vetro della porta.
«È
papà», disse mezza addormentata, e si
alzò barcollante.
Aprì la porta e si strinse con le
braccia, doveva far freddo fuori. Suo
padre era appoggiato con un braccio al legno della porta, la mano sulla
fronte
e gli occhi chiusi, appena la vide li aprì e la
guardò.
«Mi dispiace», disse con
la voce roca, come se avesse appena pianto.
«E di cosa?»
«Per tutto. Ti voglio
bene.»
«Anch’io», lo
abbracciò e mi commossi guardando quella scena
d’amore
tra padre e figlia. Io e lei eravamo molto simili: i nostri genitori si
erano
separati, ma lei aveva sofferto molto di più di me, aveva
perso un fratello, io
no; avrei voluto regalarle tutta la felicità del mondo,
gliel’avevo anche
detto, e lei mi aveva risposto: «Ma io ho tutta la
felicità che voglio, ho te.»
Ero rimasto senza parole, e ogni volta che ci pensavo ancora non ne
avevo.
«Scusa Tom.»
«Che cosa?»
Ero rimasto un bel po’ a
riflettere, mi ero perso qualcosa. Suo padre
mi stava guardando di nuovo con il sorriso sulle labbra.
Aprì le braccia e
immediatamente mi alzai e lo abbracciai, senza pensarci minimamente.
Certo non
era come abbracciare Ary, ma era piacevole, più di quanto mi
aspettassi. Io non
avevo un rapporto bello come ce l’aveva Ary con suo padre,
bensì ce l’avevo con
mia madre. Eravamo uguali ma opposti, ecco. Però
l’affetto paterno un po’ mi
mancava, e suo padre ormai lo vedevo un po’ anche come mio
padre, così come lei
vedeva mia madre come sua.
«Non ce l’avevo con
te», disse.
«Lo so, non ti
preoccupare.»
«Ok, bene. Sei in gamba,
ragazzo», mi sorrise e mi diede un pugno
amichevole sul braccio.
«Buona notte»,
baciò Ary sulla testa e ritornò dentro, passando
per il
salotto.
Ary chiuse la porta con un brivido e con un
sorriso radioso sulle
labbra; le lacrime che avevano tracciato il suo viso non si vedevano
più, erano
state spazzate via grazie all’amore di suo padre, oltre che
al mio.
Si girò nel letto e mi
guardò, da sotto le coperte, iniziò a ridere, ma
proprio forte, con spontaneità. Adoravo la sua risata,
l’avrei confermato e
riconfermato per l’eternità.
«Perché
ridi?», le chiesi contagiato.
«Sei in gamba, ragazzo»,
imitò la voce di suo padre, tirandomi lo
stesso pugno amichevole, ma senza forze, non riusciva a smettere di
ridere e di
tenersi la pancia.
«Che stupida che sei!»
«Grazie, lo prendo come un
complimento.»
[PDV
Ary]
Si svegliò e
si guardò intorno,
aprendo e chiudendo gli occhi, sembrava confuso.
«Tom, che
c’è?», gli chiesi.
Si girò e mi
guardò tirandosi su
seduto sul letto. Sembrava disorientato, più che confuso.
«Ho fatto un
sogno stranissimo!»
«Cioè?»
«Sai quando
sogni, però è la
realtà? Ti ricordi quella volta in cui hai litigato con tuo
padre, davanti a
tutti?»
«Sì,
certo che me lo ricordo!»
«Ho sognato
tutta quella
giornata! Ma sembrava così vero!»
«Cavolo.
È stato un sogno
intenso…», lo baciai sulle labbra.
«Sì.
Anzi, ho parlato nel sonno?»
«No, mi sembra
di no. Io
dormivo.»
«Meglio
così», alzò le spalle e
si alzò.
«Tom?»
«Eh?»,
si girò e mi guardò,
ancora sotto le coperte.
«Non noti
nulla di diverso?»
Guardò per
tutta la stanza, poi
si avvicinò e alzò le coperte, poi le
lasciò ricadere giù di nuovo.
«No, che
c’è?»
«Sarah, ha
dormito tutta la notte
nel suo letto. E ancora sta dormendo.»
«Finalmente!
Ha quattro anni e ancora
veniva qui!», disse sorridendo.
«Ma
smettila!», mi alzai apposta
per picchiarlo, ma lui mi prese in contropiede e mi sollevò
da terra senza
grossi problemi.
«Tom, mettimi
giù!» Mi lasciò
andare solo in prossimità del letto, dove caddimo assieme.
«Ho
fame», disse e rise correndo
giù in cucina.
«Non pensare
di cavartela così!»,
lo rincorsi e lo raggiunsi in cucina, gli presi il viso tra le mani e
lo
baciai. Sembrava lo strano replay di quella mattina, ora che ci
pensavo.
Ci sedemmo al tavolo a
fare
colazione, come ogni mattina. Non si era svegliato nessuno altre noi. O
forse
no.
Sentimmo qualcuno
scendere dalle
scale e ci girammo contemporaneamente, facendoci sorridere, per vedere
chi
fosse. Era Stefan, con il piumone e il cuscino sotto braccio, uno
zombie, non
aveva nemmeno gli occhi aperti.
«Che ci fai
qui, Stefan?», gli
chiese. Lui non rispose, lanciò il cuscino sul divano e poi
si tuffò lui, con
il viso nascosto sotto il piumone.
«Stefan,
rispondi sì o no?»
«Alex
russa», mugugnò. Tom si
mise a ridere, io con lui.
«Già
che sei qui, parliamo un
po’», propose Tom. «Come vanno le cose
con Michelle?»
Stefan si
alzò a fatica e si mise
seduto, con le braccia incrociate sullo schienale, il viso rivolto
verso di noi
in cucina.
«Bene»,
aveva ancora la voce
d’addormentato. «Alla vigilia vado da lei, lo
sapete, no?»
«Sì,
ce l’avevi accennato.»
«Insiste per
farmi conoscere i
suoi, visto che voi la conoscete.»
«Io la trovo
una bella idea»,
dissi.
«Sì,
il problema è che non ho uno
straccio di idea per il suo regalo di Natale.»
«Eh, bella
storia. I regali sono
la nostra rogna», Tom mi fece l’occhiolino.
«Quindi le
cose vanno bene.»
«Sì,
bene.»
«E…
sai qualcosa di Alex?»
«È
sempre così, piange sul latte
versato… Di questo passo non se ne farà mai una
ragione.»
«Porca di
quella… Mamma!»,
sentimmo gridare dal piano superiore.
«Alex! Che
cosa ti prende?», mi
alzai e raggiunsi il salotto, dove lo vidi già con il
cellulare in mano.
Si catapultò
in cucina,
superandomi, e si mise seduto accanto a suo padre. «Mi ha
chiamato Bea.»
«E
quindi?»
«E quindi non
doveva. Lei è a
Monaco, avevamo deciso di non sentirci per pensare su cosa dovevamo
fare, ma
lei mi ha chiamato lo stesso, ieri sera, solo che non le ho risposto e
ora…»
«Ok, calmati.
Chiamala e senti
che cosa vuole», disse Stefan, sedendosi dall’altra
parte. Io mi misi lì di
fronte, ormai era una cosa di famiglia. Mi faceva piacere che per
tutto, anche
per le ragazze, i nostri figli venissero a parlarne con noi, eravamo
molto
aperti a tutto.
Alex la
chiamò e mise il
vivavoce, così che tutti potessimo sentire.
«Pronto?»,
disse la voce
assonnata di una ragazza, Bea.
«Bea, ciao,
sono Alex.»
«Alex? Oddio,
Alex! Ma ti rendi
conto di che ore sono?»
«Tu mi hai
chiamato, ieri sera.»
«Sì,
vero.»
«E non
dovevamo non sentirci?»
«Lo so,
è che… non ho potuto
resistere. Mi manchi.»
Tutti lo guardammo, lui
scosse la
testa e continuò la conversazione. C’era un
silenzio tombale intorno a lui,
eravamo intenti a non perderci nemmeno una parola.
«Davvero?
Davvero ti manco?»
«Sì.»
«Non so se mi
fa piacere oppure
no.»
«Perché,
che cos’è successo? In
effetti sembri giù.»
«Ho rivisto
Krista, un po’ di
tempo fa.»
«Ah.
E… com’è andata?»
«Credo di
essere ancora
innamorato di lei.»
Stefan rimase in
silenzio, anche
se la sua espressione diceva tutto. Non era convinto per niente di
quello che
stesse dicendo il fratello, lui era sicuro che stesse solo perdendo
tempo con
quella storia, Krista non sarebbe più tornata e comunque non
sarebbe più stata
la stessa cosa.
«Oh.
Anch’io devo confessarti una
cosa.»
«Che
cosa?»
«Anch’io
ho rivisto il mio ex.»
Alex diventò
rosso di botto,
strinse le mani nei pugni e guardò il telefono con rabbia;
temevo che l’avesse
disintegrato con lo sguardo. Stefan passò una mano sulla sua
schiena e con
l’altra gli distese le mani, tranquillizzandolo un
po’.
«Che cosa? Tu
non puoi.»
«Non posso che
cosa?»
«Rivedere il
tuo ex!»
«E
perché? Tu hai rivisto
Krista.»
«La mia
situazione è diversa.»
«Certo.
Com’è che tu puoi e io
no? Per favore, Alex. E comunque era con sua figlia, e sua moglie. Si
sono
sposati.»
«Ah.
Scusa.»
«Non importa.
Sono stata una
stupida a telefonarti, ieri. Forse era davvero meglio se non ci
sentivamo.»
«No, Bea. Non
riattaccare.»
«Alex, io
non… tu sei ancora
innamorato di lei, l’ho sempre saputo, si vedeva quanto stavi
male.»
«E
perché allora non riuscivamo
più a staccarci, quando sei venuta a salutarmi?»
«Attrazione
fisica, nient’altro.»
«Tutte
cavolate.»
«Cosa intendi
dire, che sei
innamorato di due ragazze?»
Sgranai gli occhi quando
Alex
tentennò sulla risposta da dare. Tutto era possibile, ma non
riuscivo a
capacitarmene. Com’era possibile che fosse innamorato di due
ragazze nello
stesso momento? Tom non si scandalizzò troppo, poteva anche
essere un
ragionamento logico per lui.
«Se
fosse?»
«Se fosse,
devi scegliere, non puoi certo stare con due ragazze.»
«Tu hai fatto
la tua scelta?», le
chiese.
«No.»
«Come no? E
perché mi hai
chiamato, allora?!»
«Perché
mi mancavi! Non ho detto
che ti amo! Mi mancavi, magari solo come amico, magari come qualcosa di
più,
ancora non lo so!»
«Quando
torni?»
«Dopo Natale,
perché?»
«Dobbiamo
parlarne faccia a
faccia.»
«Non penso sia
affatto una buona
idea, sai come va a finire ogni volta che non siamo a dieci chilometri
di
distanza di sicurezza!»
«La prima
volta mi hai baciato
tu!»
«E quindi la
colpa sarebbe mia?!»
«Non ti ho
dato la colpa!»
«Allora che
cosa… Alex, non ti
capisco.»
«Dico solo che
dovremmo parlarne
di persona, possibilmente senza saltarci addosso.»
«Una
parola!»
Sia Stefan che Tom
sghignazzarono
sottovoce, immaginandosi la scena. Io la immaginai, e mi venne da
sorridere, ma
non era un bene se due persone non riuscivano a decidere una cosa
così seria
perché sentivano un impulso fortissimo di saltarsi addosso a
vicenda.
«Ah, Bea!
Dovremo trovare un
modo!»
«Sono
d’accordo che dobbiamo
parlarne di persona, ma non ho nessun’idea per far
sì che tu non mi salti
addosso!»
«Io?! Guarda
che sei tu che mi
salti addosso!»
«Non
è vero! Sei un bugiardo!»
«Non
è vero, lo sei tu!»
«Vaffanculo
Alex, vai a farti
spaccare le braccia!»
«Vaffanculo
Bea, spero che
qualcuno ti aggredisca!»
Dovevano riattaccare,
uno dei
due, ma nessuno dei due era intenzionato a farlo. Ascoltavano i loro
respiri, ascoltavano
i loro cuori, senza trovare la forza di chiudere la chiamata.
«Alex?»
«Che
c’è?»
«Perché
non spegni tu?»
«Mi chiedevo
la stessa cosa.»
«Tu mi hai
chiamata, tu spegni.»
«Non ci penso
minimamente. Tu mi
hai chiamata ieri, è per questo che io ti ho richiamata,
quindi spetta a te
spegnere.»
«Ciao
Alex.»
«Ciao
Bea.»
«Ci vediamo
quando torno.»
«Ok, va
bene.»
«Baci.»
«Anche a
te.»
«Ciao.»
Fu Alex alla fine a
spegnere,
schiacciando il tasto rosso del suo cellulare.
«Sai che non
ho capito qual è
stata la conclusione?», disse Tom.
«Sì,
noi non arriviamo mai ad una
conclusione», disse sconfitto Alex. «Siamo sempre
punto a capo.»
«Prima vi
siete sbranati a
vicenda e poi vi siete salutati con Baci.»
«Vedi? Non
capirò mai cos’è
meglio. Krista è… c’è
ancora.»
«Krista non ne
vuole più sapere
di te, te l’ha detto pure Sharon. Ha chiesto pure che tu te
ne vada dalla band,
per tornare!», disse Stefan.
«Questo non lo
sapevo», dissi.
«Davvero voleva che Alex se ne andasse?»
«Sì,
non lo vuole nemmeno vedere.
Io te l’ho detto, stai solo perdendo tempo.»
«Forse hai
ragione, sto perdendo
tempo.»
«E con questo
dove vorresti
arrivare?»
«Da nessuna
parte», si alzò e
tornò a dormire.
Erano nel pieno delle
vacanze,
mancavano pochi giorni prima di Natale, tutti sentivamo quella strana
euforia
nell’aria, lo spirito del Natale. Forse non proprio tutti,
visto che Alex era
sempre in camera sua, nascosto sotto due strati di piumoni, a dormire.
Non
aveva nulla da fare, non andava nemmeno più in palestra.
Sharon sfruttava quel
tempo per
scrivere, suonare e poi con Nicolas. Il loro amore diventava ogni
giorno più
grande, anche se a piccolissimi passi insicuri, diventava sempre
più forte e
Sharon ci sperava davvero, perché non aveva mai provato
nulla del genere per un
ragazzo.
Anto si era presa una
lunga
vacanza da lavoro per stare più tempo con noi, Sharon ne era
entusiasta, e per
stare un po’ con Juri, di cui si sapeva così poco.
Sharon era attratta da
quel
bambino, soprattutto da quella canzone che le aveva cantato una volta,
che
l’aveva completamente conquistata. Solo che Juri ricordava a
malapena la sua
lingua, non era in grado né di scriverla e di conseguenza
nemmeno di tradurla.
Sapeva a memoria quella canzone, ma non il suo significato.
Sharon scese in pigiama
dalla
scale e si mise a suonare il piano. Sembrava piuttosto sveglia,
nonostante si
fosse alzata da così poco. Di solito prima che si
riprendesse dal trauma ci
volevano almeno due ore buone.
«È
bella quella canzone», disse
Anto dalla cucina.
«Lo penso
anch’io», disse Sharon
continuando a suonare quella che era la canzone di Nicolas, quella che
sentiva
nella testa quando stava con lui, la sua colonna sonora personale.
Con la coda
dell’occhio vide suo
padre scendere dalle scale e lo fermò gridando il suo nome,
facendo un ampio
sorriso.
«Papà!
Siediti, papà, forza.»
«Che cosa?
Sharon, mi fai paura
quando fai quella faccia.»
«Dobbiamo fare
un certo discorso,
noi due. Siediti», gli indicò il divano. Bill si
sedette, titubante: quando
faceva così, c’era da preoccuparsi. E poi aveva
uno strano presentimento.
«Allora…»,
si mise accanto a lui
e gli sorrise. Appoggiò un braccio alla sua spalla, come se
dovesse parlargli
all’orecchio.
«Di cosa
dobbiamo parlare,
Sharon?»
«Di
sesso.»
«Che
cosa?!», gridò acuto,
deglutendo. «Non dovrei iniziare io questo
discorso?»
«Tu non lo
inizi mai, così io ho
pensato che se forse lo iniziavo io l’avremmo
fatto.»
«E
perché vorresti parlarne ora?»
«Papà,
ho sedici anni.»
«E
allora?»
«Non credi sia
il momento di
affrontare questo argomento?»
«Aspetta un
attimo.» Si allontanò
e si diresse in cucina, prese Anto senza dire niente e la
portò di sopra, in
camera nostra, dove c’eravamo io e Tom.
«Bill, mi vuoi
spiegare che
succede? Ma io non so, ne succede sempre una in questa casa? Non si
può mai
restare un attimo tranquilli!», disse Anto liberandosi dalla
stretta di Bill.
Si chiuse a porta alle
spalle e
ci si appoggiò, con gli occhi spalancati più che
poteva, sembrava che avesse
visto un fantasma.
«Allora, che
è successo?», chiese
Tom scordandosi completamente che avevo appena rifatto il letto,
infatti ci
saltò sopra per sdraiarsi. Sorrisi e mi misi seduta accanto
a lui.
«Si tratta
di…», aveva persino
perso la voce; se la schiarì. «Di Sharon. Ragazzi,
non potete capire! È
arrivata lì, mi ha fatto sedere sul divano e mi ha chiesto
di parlare di sesso!
Che cosa devo fare? Perché vuole parlarne adesso?»
«Noi ne
abbiamo parlato con
Stefan e Alex quando avevano quattordici anni», disse Tom
tranquillo.
«Sì,
ma quello che mi chiedo è:
perché proprio in questo momento? Insomma, ha conosciuto
Nicolas, sembra persa…
Sul suo diario c’era pure scritto che era stata la notte con
lui, che avevano
fatto il bagno insieme! Ve ne rendete conto?! E poi,
quand’era sparita,
stranamente, è tornata la mattina dopo! Secondo me Nicolas
l’ha trovata molto
prima di quell’ora, se no l’avrebbe riportata
subito!» Parlava a raffica, a
malapena si capiva ciò che diceva, si mangiava le parole
tanto da sembrare
ubriaco.
«Bill, ti vuoi
calmare? Che cosa
sarà mai! Ha fatto sesso con Nicolas, e allora? A me sembra
felice.»
Tom conosceva suo
fratello, ma
non credevo che fosse così stupido da dirgli direttamente
che sua figlia aveva
fatto sesso con un ragazzo. Voleva proprio fargli venire un infarto!
Bill, infatti, come
avevo
previsto, era diventato bianco come un lenzuolo.
«Bill,
siediti.» Anto lo condusse
verso il letto e lo fece sedere.
«Tu non hai
proprio tatto», dissi
fulminando Tom con lo sguardo.
«Ma che
c’è di così scandaloso! È
l’età, anche Stefan…»
«Stefan
è Stefan, Sharon è
Sharon!», gridò Bill.
«Ma
è grande ormai, Bill! Devi
capirlo, ok? Lei non è più una bambina, e tu non
puoi essere così possessivo
nei suoi confronti. Ha una vita, lei; non è la tua bambola
personale. E se
proprio devo dirtela tutta, tu sei stato il primo da cui è
andata per parlare
di sesso. Le ragazze non dovrebbero chiedere alle mamme? Invece lei
è venuta da
te, perché ti vuole bene. Però se ti comporti
così da bambino è ovvio che poi
non verrà più da te, ti terrà sempre
alla larga, non ti dirà più niente, tu ti
incazzerai, litigherete… Insomma, Bill, stalla ad ascoltare,
non farti troppi
complessi, è tua figlia. So quanto ci tieni a lei, quanto tu
abbia paura che si
possa far del male, ma è la vita, non puoi far sì
che non si bruci mai, basta
che impari. Anche Alex, ha sbagliato, e ha pagato caro la sua cazzata.
Adesso
non farà più errori del genere, è
cresciuto. Se tu non la lasci sbagliare non
crescerà mai.»
Però sapeva
parlare bene, sapeva
sicuramente toccare i suo punti deboli e portarli a suo favore.
«Sì,
hai ragione», abbassò lo
sguardo.
«Ovvio che ho
ragione!», rise
appena. «Adesso vai e parlate di sano sesso, ok?»
«Aspetta, tu
come fai ad essere
così certo che Sharon ha fatto sesso con
Nicolas?», gli chiesi io.
«Vuoi che non
mi accorga di come
sono le ragazze dopo aver fatto sesso? Per favore, siete tutte uguali:
con la
testa fra le nuvole e un sorriso lungo chilometri.»
Qualcuno
bussò alla porta e ci
girammo tutti verso di essa mentre si apriva e sbucava la figura di
Sharon, un
po’ sorpresa di ritrovarci tutti lì.
«Cos’è,
una riunione di
famiglia?», chiese alzando il sopracciglio come sapeva fare
solo Bill.
«Sì»,
rispose lui senza
scomporsi.
Sharon sbuffò
appena e lasciò
andare le braccia lungo i fianchi. Conoscevo
quell’espressione afflitta, quello
che non sapevo era che cosa potesse essere accaduto di così
grave da averla
sbattuta fuori dalla sua bolla euforica da tipica ragazza innamorata.
«Di sotto
c’è un ragazza che dice
di essere la sorella di Juri», disse flebile, con le lacrime
agli occhi. «Non
ce lo porterà via, vero?»
Come potevi rispondere a
quella
domanda, stando di fronte ad una ragazza quasi in lacrime che mai e poi
mai
avresti creduto che si fosse così perdutamente affezionata
al suo fratellino
adottato?
Raccolsi tutte le forze
che avevo
in corpo, mi alzai e andai ad abbracciarla, accarezzandole i capelli.
Nessuno
aveva mai dubitato che io fossi forte, lo ero sempre stata
probabilmente, ed
ero decisamente la persona adatta.
«Non ti
preoccupare, le cose si
sistemeranno.»
Però non ero
in grado di fare
promesse se c’era la probabilità che non potessi
mantenerle.
«Zia, non
voglio che se ne vada»,
singhiozzò.
«Piccola,
faremo il possibile.»
Una piccola manina, poi
tutto il
corpo, entrò attraverso la porta semi aperta, e
guardò tutti stranito.
«Che
succede?», chiese Sarah che
teneva per mano Juri. Erano una strana coppia, ma comunque dolcissimi.
«Niente
amore», Tom si alzò e la
prese in braccio.
«Juri,
c’è una persona che
vorrebbe vederti», disse Anto.
Lui annuì e
prese per mano
Sharon. Lei si asciugò le lacrime e lo guardò
sorridendo. Il rapporto che si
era creato tra loro, anche se minimo, iniziava ad essere davvero
speciale.
La ragazza che aspettava
in
salotto non si sarebbe mai immaginata tutta quella gente scendere per
incontrarla. Tutta la famiglia al completo, anche Stefan e Alex.
«Ciao»,
dissi sorridendo. «Tu sei…?»
Ma lei parve non
ascoltarmi
nemmeno, guardava impietrita Juri scendere dalle scale mano nella mano
con
Sharon.
Tom mi diede una leggera
gomitata
e mi sussurrò all’orecchio: «Svelato il
mistero.»
«Quale
mistero?», sussurrai.
«Perché
Juri ti ha detto che gli
ricordavi qualcuno», sorrise dolce, quella dolcezza che era
sempre stata
riservata a pochissime persone. Lui non se ne rendeva nemmeno conto,
probabilmente.
Mi girai lentamente e
guardai la
ragazza in piedi in mezzo al salotto, non ci avevo fatto caso, ma era
molto
simile a me: capelli lunghi e biondi, occhi azzurri, pelle chiara e
corporatura
esile. L’unica differenza era che aveva dieci anni meno di
me.
«Juri»,
sussurrò lei con le
lacrime agli occhi, quando se lo ritrovò davanti. Si
inginocchiò e aprì le
braccia, ma Juri non si mosse, anzi, si nascose dietro le gambe di
Sharon, che
guardava la sconosciuta con la rabbia di una leonessa a cui venivano
toccati i
cuccioli.
«Non ti
ricordi di me?», gli
chiese con la voce che tremava, una strana rassegnazione nella voce
triste.
Aveva un accento quasi perfetto del tedesco, non come Juri che aveva
imparato
solo quella come lingua.
La ragazza
iniziò a cantare una
canzone alla quale sia Juri che Sharon risposero alla stessa maniera,
sobbalzando e aprendo la bocca.
«È
quella la voce», disse Juri
tirando la manica ad una Sharon inerme.
«La nostra
ninna nanna te la
ricordi, eh?», un’ombra di sorriso
veleggiò sul viso della ragazza. «Juri, sono
io, Katrina, tua sorella, quella che ti cantava sempre quella
canzone.»
Juri scosse la testa,
gli occhi
sgranati. Si nascose ancora di più alle spalle di Sharon e
le abbracciò una
gamba, chiudendo gli occhi.
«Lei
è mia sorella», mormorò.
«Cosa?
No!», gridò inorridita la
ragazza, scattando in piedi.
«Ok, ok,
calmiamoci», si
intromise Anto. Chissà come mai era sempre lei la paladina
della pace in quella
casa.
«Adesso ci
sediamo e ne
discutiamo, va bene? Alex, Stefan, portate di sopra Sarah e
Juri.» I gemelli
annuirono e presero i bambini per mano, avviandosi verso le scale.
«Sharon, tu
resta qui.»
«Ma…
io…», balbettò guardando
Juri.
«No, devi
restare.»
Sharon guardò
acida la ragazza e
si mise seduta imbronciata sul divano, le braccia strette al petto.
Le cose non sarebbero
state
facili, ci avrei scommesso.
____________________________________
Vi sorprendo sempre, eh?
xD
Innanzitutto,
buon pomeriggio! ^-^ Tutto
bene? Io sto bene, la scuola sta per finire e siamo tutti contenti xD
Aaaaaallora u.u Capitolo corto ma
pieno zeppo di cosine. Prima cosa, il sogno/realtà di Tom!
Veramente ridicolo
XD Però non mi andava di cancellarlo, quindi l’ho
lasciato xD Poi, la simpatica
Bea che chiama Alex e non concludono mai un tubo e per finire
l’arrivo della
sorella di Juri. Eggià, ha una
sorella! xD
Vedremo che cosa succederà ora! n.n
Ringrazio chi ha
commentato lo
scorso capitolo (le mie due sante *-*):
Tokietta86
: Io amo Nicolas, seriamente! *-* Sono invidiosa di
Sharon xD Sì, è vero, per i papà siamo
sempre piccole e penso che sia un bene,
ma troppo è eccessivo… Vedremo se Bill
riuscirà ad accettare definitivamente
che la sua bambina è cresciuta! Per quanto riguarda
Krista… ancora niente con
Alex :( Chissà se riuscirà mai a perdonarlo e a
tornare nella band! Beh, ovvio
che Tom sia una volpe… xP Lui ne sa u.u xDD
Grazi mille, sono contenta che lo
scorso capitolo ti sia piaciuto! Un abbraccio, alla prossima!
Utopy
: Uhm… secondo me ce ne vuole prima che Bill la finisca di
fare il cretino xD Nicolas non si tocca, è della
sottoscritta u.u XDD Il
triangolo Bea/Krista/Alex ci sarà ancora per un
po’, giusto per odiare la terza
ancora di più xDD Allora, Juri? *-*
Ti voglio tantissimo bene anch’io,
Mond! *-* Tua, Sonne.
Ringrazio anche chi ha
semplicemente letto!
Alla prossima, vostra
_Pulse_
|
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Capitolo 20 *** The bunch ***
Do
you know where your heart is?
Do
you think you can find it?
Or did you trade it for something, somewhere, better just to have it?
Do you know where your love is?
Do you think that you lost it?
You felt it so strong, but nothing’s turned out how you want
it
(Say
(All I
need) – One Republic)
Capitolo 13
The bunch
Era pur sempre la
Vigilia di
Natale, e a Natale bisognava essere tutti più buoni, anche
un minimo.
Avevamo concesso a Juri
e a sua
sorella, Katrina, di passare qualche ora assieme, anche se Sharon si
era subito
opposta all’idea, definendola insensata. Secondo me alla fine
non era così
insensata, era pur sempre sua sorella, ma non glielo dissi.
Quella stessa Sharon era
seduta
sul divano, che guardava il fuoco acceso nel camino con le braccia
strette al
petto e una coperta sulle spalle. Sarah era beatamente sdraiata accanto
a lei
che sonnecchiava con Whiskey, così aveva deciso di chiamare
il famoso orsetto
di peluche. Il motivo di quel nome era semplice: era così
trasandato da
sembrare ubriaco, ma gli voleva bene comunque. Mi era sembrato un nome
un po’
triste, ma ora che lo guardavo bene gli calzava a pennello.
«Sharon, tira
via quel broncio, è
Natale», la rimproverò Tom. Sharon lo
guardò e poi guardò l’orologio appeso
sopra al camino.
«In
verità manca ancora un’ora al
25 di dicembre», disse.
«Tale e quale
a Bill, solo che
lui è più facile da corrompere: basta una
caramella gommosa, una fetta di
torta… Basta, ci rinuncio.»
Sharon sorrise
soddisfatta e
guardò Sarah cambiare posizione e mettersi il pollice in
bocca: sembrava un
angioletto.
Vide Alex scendere dalle
scale,
mezzo addormentato, e si girò di scatto richiamando la sua
attenzione.
«Alex,
possiamo parlare un
attimo?»
Alex la
guardò con espressione
confusa, chiedendosi che cosa avesse intenzione di dirgli, ma poi si
ricordò di
quando lei era scappata e della fuga di Krista appena l’aveva
vista viva.
«Si tratta di
Krista?», chiese
abbassando lo sguardo.
«Sì,
possiamo parlarne?»
«Ok.»
Raggiunse la cugina sul
divano e
si mise sotto alla coperta con lei, la testa appoggiata comodamente sul
suo
stomaco. Si lasciò accarezzare i capelli neri, leggermente
scoloriti dai
lavaggi, con gli occhi chiusi di fronte alle calde lingue di fuoco.
«Come
va?», chiese sottovoce
Sharon. Alex si strinse nelle spalle e sospirò.
«Situazione
complicata», disse.
«Molto?»
«Abbastanza.»
«Insomma…
Krista…»
«Krista
è una cosa. Bea è
un’altra.»
«Non possono
stare assieme.»
«Esatto. E non
riesco a
scegliere, non ora.»
«Senti Alex,
mi dispiace per… Io…»
Alex si girò
e le mise un dito
sulle labbra, guardandola negli occhi. Le sorrise dolce e si
riappoggiò con il
viso al suo stomaco, cingendola dolcemente in vita.
«Non
è colpa tua», le disse. «E
mi ha fatto piacere vederla, anche se mi ha fatto male. Mi ha aiutato a
capire
che lei… ci sarà sempre un posto speciale per lei
nel mio cuore.»
«E
Bea?»
«Lo so che
è brutto da dire, ma è
l’unica che riesce a non farmela pensare. A volte la
cercherei apposta.»
Sharon lo
guardò in silenzio,
senza sapere più cosa dire. Era una situazione davvero
complicata, non riusciva
a ragionarci su. Alex la guardò, incuriosito da quel
silenzio così prolungato e
le sfiorò la fronte increspata, segno che stava riflettendo.
«Sharon, non
voglio che ti fai
problemi per me», le disse con tutta la sincerità
che aveva in corpo.
«È
ovvio che mi faccio problemi
per te, sei mio cugino!»
«Ma non devi,
davvero. È inutile,
è una cosa che dobbiamo risolvere solo noi e io per
primo.»
«Ma…»
«Niente ma»,
le pizzicò il naso.
Bill entrò in
casa con Juri
addormentato in braccio, seguito da Anto e da Katrina.
«Oh santo
cielo… e lei che ci fa
qui?», sussurrò ad Alex, lanciandole subito uno
sguardo sprezzante.
«Ciao»,
salutò Anto, mentre Bill
portava di sopra Juri.
«Ciao, tutto
bene?», chiesi. Lei
si affacciò in cucina e sorrise.
«Sì,
tutto ok.» Si voltò verso
alla ragazza e le chiese: «Ti unisci a noi,
stasera?»
«Ahm…»,
sembrò esitare.
Sharon borbottava tra
sé che non
ne poteva più e aveva la nausea di lei e dei suoi capelli
così biondi e dei
suoi occhi così azzurri. Incrociò il mio sguardo
e si tappò la bocca. Mi
sorrise impacciata e tentò di gesticolare che non voleva
offendere me, io
semplicemente sorrisi scherzosa. Sapevo che era la verità, e
poi non me la
prendevo per quelle cose.
«No,
preferisco di no», disse la
ragazza negando con la mano.
«Perché?
Guarda che non dai
fastidio», disse Alex, che per quello si beccò uno
scappellotto da parte di
Sharon, infuriata.
«No,
davvero.»
«E…
dov’è che stai tu, di
preciso?», chiese Tom con quell’aria da indagatore
che mi faceva sempre ridere
a crepapelle.
«Da…
da una mia amica.»
«Ah. Sei
sicura di non voler restare?»
Sembrava persino preoccupato dall’espressione e dal tono di
voce che aveva.
In effetti Katrina non
era
proprio un fiore in quel periodo. Aveva pesanti ombre scure intorno
agli occhi,
i capelli sciupati e quando l’avevo vista la prima volta non
era così magra.
Sarebbe stata davvero bellissima se fosse ingrassata di qualche chilo e
se
avesse dormito qualche ora di più.
«Sì!»,
quasi urlò, poi si
ricompose. «Sì, grazie di tutto.» Si
infilò la giacca che teneva in mano e uscì
in silenzio, con lo sguardo basso.
Io e Tom ci guardammo,
lui fece
un respiro profondo e si tenne la testa fra le mani.
«Quella
ragazza ci nasconde
qualcosa», disse.
«Ma dai, non
me n’ero accorta.»
Ci guardammo negli occhi e scoppiammo a ridere, come sempre e come
avrei voluto
che sarebbe sempre stato.
«Dov’è
andata?», chiese Bill una
volta sceso di sotto, guardandosi in giro.
«Chi, Katrina?
Se n’è andata.»
«Ah.»
Si girò e alzò le spalle,
di certo non voleva domandarsi perché quella ragazza fosse
così sfuggente. Vide
Sharon seduta sul divano, che lo guardava esitante.
In realtà
aveva molto da dirgli,
però non ci riusciva: la spontaneità che
c’era sempre stata fra loro si era un
po’ incrinata per diversi motivi, da quelli più
stupidi a quelli più seri. O
era solo una percezione di Sharon?
«Sharon,
ciao», la salutò
mandandole un bacio con la mano.
«Ciao»,
disse lei abbassando lo
sguardo.
Le era pure difficile
guardarlo
negli occhi, qualcosa era davvero cambiato dentro lei, eppure non
voleva che
fosse così, voleva che suo papà restasse sempre
il suo amato papà e che
ridessero ancora assieme, come una volta.
«Che cosa
c’è?», le chiese.
«Niente.»
«Non
è vero, non dirmi le bugie.»
Sharon sorrise appena,
ricordando
tutte le volte che lei faceva finta di mentirgli e assieme ridevano
perché lui
riusciva sempre a cacciarle fuori dalla bocca la verità.
«Si tratta di
Nicolas? È successo
qualcosa?»
Si trovò ad
arrossire e un’ondata
di stupore la travolse. Si era immaginata di tutto, ma non che suo
padre
cercasse un problema proprio nella relazione tra lei e Nicolas, visto
che fino
a pochi giorni prima era Nicolas il problema, e che fosse lì
a parlarne così
tranquillamente con lei, come se fosse normale parlare di ragazzi tra
loro.
Però, d’altro canto, quando aveva sentito il suo
nome il suo cuore aveva avuto
uno di quegli strani effetti collaterali imprevedibili e una punta di
amarezza
le era comparsa negli occhi.
«Non lo vedi
da ieri e già ti
manca?», chiese Bill divertito, in piedi di fronte a lei,
causa Sarah
addormentata e Alex quasi. Sharon lo guardò sempre
più rossa e trovò un sorriso
ad accogliere la sua espressione smarrita.
«Che cosa
faceva lui per Natale?»
«Nulla che io
sappia», disse
Sharon senza nemmeno rendersi conto che la sua voce se n’era
quasi del tutto
andata.
«Vuoi farlo
venire qui?»
Gliel’aveva
chiesto, ce l’aveva
fatta. Si sentì sia orgoglioso dei propri progressi che
afflitto. Sapeva che
quando Nicolas sarebbe entrato da quella porta poi lui sarebbe stato
invisibile
agli occhi della figlia. Era per quello che si ostinava ad allontanarla
il più
possibile dagli ormoni maschili, perché sapeva, e gli era
persino capitato, che
questi attirassero potentemente l’attenzione delle ragazze e
i genitori
venissero messi da parte. Era geloso di sua figlia, non aveva problemi
ad
ammetterlo, anzi, ne era anche un tantino fiero.
«E
tu… vorresti?», deglutì.
Bill guardò
Anto, me e Tom in
cucina, che annuivamo con le mani unite di fronte al viso. Gli
scappò una
leggera risata e poi guardò ancora la figlia.
«È Natale», sospirò annuendo.
«Se non fosse
Natale la tua
risposta sarebbe stata negativa?», alzò il
sopracciglio, anche se aveva un
sorriso lungo almeno tutto il perimetro della Germania e in parte
quello
dell’Italia e gli occhi che le brillavano dalla gioia.
«Ma che
domanda è?»
«È
una domanda più che sensata,
invece. E pretendo una risposta, per giunta.»
Rimase in silenzio e
gettò
un’altra occhiata verso di noi, che guardavamo la scena come
se fossimo al
cinema, totalmente presi. Sospirò pensando a che stramba
famiglia si era
ritrovato.
«Io voglio
solo che tu sia
felice, e se Nicolas ti rende felice, non posso che volerlo per
te», ammise.
«Quindi, se ti avessi vista in queste condizioni e se fosse
stato un
normalissimo giorno, è ovvio che ti avrei risposto allo
stesso modo.»
«Oh,
papà…» Si alzò e gli
gettò
le braccia al collo, stringendolo e sentendo che finalmente tutto stava
andando
per il verso giusto. Le era solo mancato il chiarimento, con lui, dei
sani
abbracci e tutto l’affetto di cui era sempre stata viziata.
Sharon si
affrettò a prendere la
giacca e ad uscire di casa, sapeva dove trovarlo, pure in una notte
gelida come
quella.
Il periodo natalizio era
sempre
stato quello che preferiva, anche da bambina. La affascinavano le luci
nelle
case, le decorazioni nei centri commerciali, l’insana
allegria da cui tutti
venivano travolti, chi più chi meno, il raccoglimento e
l’affetto della sua
famiglia, per quanto strana potesse essere.
Quella sera, mentre
candidi
fiocchi di neve scendevano leggeri e il vento freddo le frustrava il
viso e le
scompigliava i capelli, si rese conto di quanto fosse fortunata.
Come aveva previsto, lo
trovò in
riva al loro laghetto, con lo sguardo perso sull’acqua
ghiacciata, un lembo
della sciarpa nera che si muoveva col vento.
«Ehi»,
lo salutò prendendolo per
il braccio.
«E tu che ci
fai qui?»
«Semmai, che
ci fai tu, qui.»
Nicolas si arrese e
sorrise, la
baciò sulle labbra e tornò a contemplare la
natura gelata al suo cospetto,
abbracciato stretto a lei.
«Allora, che
ci fai qui?», gli
chiese lei.
«Niente, ti
pensavo.»
«Perché
non vieni da noi, invece
di stare qui come un lupo solitario?»
«Lo sai che
tuo padre non…»
Sharon gli mise un dito
sulle
labbra e non resistette a baciarlo ancora, con le braccia intorno al
suo collo,
in punta di piedi.
«Papà
mi ha visto triste sul
divano e mi ha detto di venirti a prendere e di tirarmi su di
morale», gli
sussurrò.
«Mi stai
prendendo in giro?»
«No,
è la verità!» Si guardarono
negli occhi e Nicolas le accarezzò il viso con le mani,
soffermandosi con le
dita sulle sue labbra piene e morbide, immaginando il loro sapore che
ogni
giorno di più sentiva suo.
«Ciò
vuol dire che ha abbandonato
l’ascia di guerra e si è arreso al mio
fascino?»
«Che stupido
che sei!»
«Non posso
credere che renda
tutto così semplice. Magari se ne sta già
pentendo. Forse è solo perché è
Natale, ecco.»
«Nico,
perché non accetti solo
che oggi gli stai simpatico? Domani si vedrà, e il giorno
dopo ancora, e giorno
dopo ancora… insieme. Ce la faremo, vedrai», gli
sorrise e lo fece incontrare
con il suo in un bacio.
«Sharon?»
«Uhm?»
«Ho chiamato i
miei, oggi.»
Sharon lo
guardò in viso e notò
un leggerissimo velo di tristezza nei suoi occhi: se non fosse stata
per la
grande affinità che avevano non se ne sarebbe mai accorta.
Rimase in silenzio e
lo ascoltò parlare.
«Erano anni
che non li sentivo. A
volte zia mi diceva come stavano, sì,
però… sentirli di persona è
stato…
emozionante. Non mi sono mai sentito così fragile in tutto
questo tempo come
oggi.»
«Che cosa ti
hanno detto?», gli
chiese in un sussurro.
«Mi hanno
chiesto di tornare a
casa, a Francoforte.»
Non ebbe nemmeno il
tempo di
dirgli che non sapeva che prima abitasse lì, che il panico
la bloccò
letteralmente, portandole alla mente il ricordo di Derek che nella
lettera le
diceva che sua madre voleva tornare in Italia che lui doveva seguirla,
e quindi
lasciarla.
«No!»,
scoppiò a piangere quando
il panico raggiunse persino le punte dei suoi capelli. «No,
no, no! Non puoi
lasciarmi! No, Nicolas!»
Lui le prese le mani e
le portò
sul suo petto, la strinse e la cullò, lasciandola sfogare e
piangere ancora per
un po’. Era la reazione che si aspettava, soprattutto sapendo
che lei aveva già
vissuto una situazione simile.
«Sharon,
calmati, ti prego. Non
me ne vado, tranquilla.»
«Cosa?»
Nicolas sorrise
dolcemente, le
posò le mani sulle guance e con i pollici spazzò
via le lacrime, delicato come
solo con lei era capace di essere. «Hai capito bene, non me
ne vado. Sharon,
credevi davvero che ti avrei lasciata? Ti devo ricordare che sono stato
io
quello che se n’è andato di casa? E non me ne sono
andato per una ragazza.
Anche se… se non mi fossi trasferito qui non ti avrei mai
incontrata.»
«Davvero non
mi lasci?», tirò su
col naso.
«Certo che no!
Sarei un pazzo.»
«Nicolas, mi
hai fatto così
spaventare…», sussurrò riaffondando il
viso nel suo petto, abbracciandolo con
tutta la forza che aveva.
«Mi dispiace,
scusa. Sharon sei
così scandalosamente perfetta… anche quando
piangi… Starei male anche al solo
pensiero di lasciarti.»
Sharon alzò
il viso con un
sorriso e incontrò il suo, si lasciò baciare e
nulla, nulla più, se non per
ragioni veramente serie, l’avrebbe fatta piangere.
Alla fine Nicolas si era
lasciato
convincere e raggiunsero in fretta, con la moto di lui, la casa di
Sharon, dove
già avvenivano i festeggiamenti.
«Ehi, avete
iniziato senza di
noi!», gridò Sharon appena entrata, vedendo tutti
in salotto con un bicchiere
di spumante a testa.
«Sì,
non arrivavate più! Così
imparate», disse Bill. Le fece l’occhiolino e
sorrise dolce, salutando con la
mano pure Nicolas. Lui e Sharon si scambiarono uno sguardo contento e
solo dopo
lei si accorse di un’altra presenza, in mezzo alla sua
famiglia.
«Krista!»,
raggiunse l’amica e
l’abbracciò. «Che bello vederti! Come
mai anche tu qui?»
«Volevo
portarvi il mio regalo di
Natale di persona.»
«Solo per
questo? Beh, potevi
anche…»
«Sharon, torno
nella band.»
«Aspetta,
fammi finire! Dicevo
che potevi anche darcelo…»
«Sharon, torno
nella band, hai
capito?!»
«Tu che cosa?!»
«Ma sei scema
o che cosa? Ho
detto che torno nella band! Mi vergogno di me stessa, ma devo ammettere
che mi
mancavate troppo, branco di scemi che non siete altro.»
«Krista!
Sei... Senza di te
mancava il quarto scemo del branco!» Le saltò
quasi in braccio, in lacrime di
gioia. Dopo le lacrime di tristezza e di panico, erano arrivate quelle
della
gioia.
Sentiva che quel Natale
sarebbe
stato il più bel Natale di tutta la sua vita, ne era sicura.
***
Il mattino dopo era
stato come un
ritorno al passato, come accadeva ogni anno. Era una monotonia
bellissima però,
una tradizione senza la quale tutto sarebbe stato triste.
Sarah si era svegliata
all’alba e
si era fiondata nella nostra camera a svegliarci, saltando sul letto e
gridando
che era Natale. Tom, in un primo momento, le avrebbe voluto tappare la
bocca
volentieri, però poi venne anche lui contagiato quando mi
alzai e corsi di
sotto con lei per scartare i regali.
Stefan e Alex ovviamente
non si
erano risparmiati i loro trucchetti, cioè svegliarsi prima
di tutti e
riappisolarsi sul divano per dimostrare che erano stati i primi, anche
se
Stefan era esausto dopo l’intera serata passata a casa di
Michelle con i suoi
genitori e i suoi fratellini scatenati.
Invece Sharon aveva
svegliato
Juri, il quale non ne aveva mai passato uno di Natale decente. Per lui
quel
giorno che per regola era speciale, lo era ancora più.
Alla fine
dell’operazione
Scartamento Regali, il salotto era completamente sommerso di carta da
regalo di
tutti i tipi. Per Sarah era una pacchia, perché si divertiva
a raccogliere
tutto e ad aiutarci, cosa che Stefan e Alex non avevano mai fatto in
vita loro.
Bill e Anto erano stati
gli
ultimi a scendere e come punizione, assieme alla volenterosissima
Sarah,
avevano dovuto buttare tutte le carte e prepararci una colazione degna
di un re.
Il giorno di Natale era
sempre
stato un po’ caotico, ma era una passeggiata per Bill e Tom e
per me e Anto che
avevamo già
alle nostre spalle
l’esperienza che avevamo ottenuto seguendoli durante i loro
tour, nei quali
erano sempre sommersi di lavoro, per un motivo o per l’altro.
Dopo aver fatto
colazione e
testato tutti, ma proprio tutti, i regali, dai giochi della playstation
alle
Barbie, eravamo andati a casa di Bill e Tom, a trovare Simone e Gordon.
Avevamo
pranzato con loro e il pomeriggio ci eravamo divisi: io, Tom, Stefan,
Alex e
Sarah eravamo andati da mio padre, Lilian e Mattia; invece Bill, Anto,
Sharon e
il nuovo arrivato tra loro, Juri, erano rimasti a casa di Simone
perché i
genitori di Anto erano in Italia e quindi erano un po’
più complicati da
raggiungere. Ci sarebbero andati prima della fine delle vacanze.
E a sera, per finire, ci
sarebbe
stata una cena a cui avremmo partecipato noi (le due famiglie Kaulitz);
la
famiglia Listing, cioè Georg, Nicole e Christin; la famiglia
Schäfer, quindi
Gustav, Giulia, Anne e il piccolissimo Harry, nato giusto poche
settimane
prima; e anche Mattia, il mio fratellone acquisito. Come se fosse un
ritorno al
passato, con i componenti dei Tokio Hotel al completo e le loro
famiglie. In
più, Sharon aveva voluto a tutti i costi Nicolas al suo
fianco, che non aveva
resistito ai suoi occhioni dolci e aveva ceduto.
Eravamo una ventina, ma
il
ristorante a cui avevamo prenotato aveva accettato subito le condizioni
e ci
aveva persino riservato un’ala privata del locale,
così da non essere
disturbati. Essere circondati da delle star non era poi così
male, noi lo
sapevamo.
Mi piacevano un sacco
quelle “riunioni”,
perché tutti ci vedevamo ed era davvero divertente. Forse
era per quello che
non aspettavo altro che le festività.
Così, quella
sera ci trovammo
tutti uniti intorno ad un tavolo, in uno dei ristoranti più
belli di Amburgo,
ma nemmeno uno dei più esclusivi, in quanto era uno dei
più belli solamente per
i miei gusti personali: sia nell’arredamento che
nell’accoglienza che nel cibo
era impeccabile.
Sarah era eccitatissima
tra me e
Tom e saltellava sulla sedia, costretta da Bill ad indossare un
vestitino viola
pieno di ricami e di sfarzi tanto da sembrare una bambola. Sinceramente
avevo
paura per la fine di quel vestito fatto su misura per lei, ma non
volevo
nemmeno saperne: era stato Bill a volerglielo vedere addosso e lui se
la
sarebbe vista con le macchie.
Eravamo una bella
tavolata, non
c’era che dire, ma le vere star quella sera erano Juri, che
tutti trovavano
adorabile quasi come il piccolissimo Harry, super coccolato a turno, e
Nicolas,
che aveva attirato l’attenzione, oltre che di Sharon che gli
era sempre
appiccicata gelosamente, di Anne, anche se lo guardava in modo incerto,
seduta
accanto a Christin.
Io ero sempre stata
dell’idea che
quel ragazzo fosse bellissimo e ne avevo avuta la piena conferma,
però lui non
ne sembrava molto consapevole o forse semplicemente non gli
interessava.
Infondo era un tipo riservato e tutte quelle attenzioni lo
infastidivano.
«Mamma, quando
si mangia? Io ho
fame!», disse Sarah tirandomi la manica del vestito di seta
blu, fatto anche
quello dalle mani di Bill.
«Appena il
nostro carissimo Bill
si deciderà ad arrivare», spiegò Tom,
smettendo un attimo di parlare con Georg,
seduto in diagonale con lui. Solo lui riusciva a seguire due
conversioni
contemporaneamente, non mi spiegavo come facesse.
«E quando
arriva?»
Tom le passò
una mano sulla
testa, sfiorando dolcemente i suoi riccioli biondi:
«Probabilmente quando
deciderà cosa mettersi. Sai, prima ha vestito voi
– io personalmente non mi
faccio abbindolare da lui – e ora è nel caos
perché non sa come essere
all’altezza dei suoi stessi abiti.»
Sarah lo
guardò inarcando le
sopracciglia, in un modo veramente tenero. «Mamma, che
cos’ha detto? Non ho
capito niente», mi confessò preoccupata. Georg e
Gustav risero di gusto.
«Sì,
Tom non è mai stato bravo a
parlare. Lui agisce.»
«Certo Georg,
certo», mosse la
mano Tom, sorridendo. «Infatti guarda che
cos’è uscito», sussurrò
indicando
Sarah e avvicinandosela a sé.
«In pratica ha
detto che tuo zio
deve ancora vestirsi», fece da traduttore Gustav.
«Ah, ok,
grazie zio Gus!», disse Sarah
con quel sorriso impagabile sulle labbra. Era adorabile in tutto e per
tutto.
***
«Christin,
smettila», disse fra i
denti, sentendo la mano della sua migliore amica scivolare sulla sua
coscia ed
accarezzarla, tanto da farle venire i brividi.
«Che
c’è, adesso non posso
nemmeno toccarti?», sussurrò sogghignando.
«Detto in
poche parole: no.»
«Come
vuoi», annuì portandosi le
braccia strette al petto e non rivolgendole più lo sguardo,
fingendosi persino
più interessata ai discorsi di suo padre e di Tom.
«Adesso fa la
permalosa.» Anne
roteò gli occhi al cielo, sospirando. Christin fece finta di
non sentirla, rise
ad una battuta di Tom che non era nemmeno divertente a parere di Anne,
facendola innervosire parecchio.
«Ti odio
quando fai così», le
disse all’orecchio, ottenendo soltanto un gesto distratto
della sua mano.
«Non vedi che
sto ascoltando papà
e zio Tom?», le disse qualche secondo dopo, per poi girarsi
nuovamente, dandole
le spalle.
«Senti,
Christin», sussurrò fra i
denti, voltandola e attirando la sua attenzione. Ma tutta la sua
sicurezza, di
fronte ai suoi occhi verdi come quelli il padre, svanì in un
secondo e fu
costretta ad abbassare lo sguardo.
«Sì?»,
la spronò l’amica,
sogghignando: la sua dolce, timida ed insicura Anne.
«Non
è che non puoi proprio, è
che ora non è il momento né il luogo. E poi, sai
che ci devo pensare e non devi
mettermi fretta.»
Anne deglutì
di fronte a quei
pozzi verdi che la fissavano intensamente e si immobilizzò
quando le spostò i
capelli biondi dall’orecchio, delicatamente, e sorridendo le
sussurrò:
«Un giorno mi
stancherò di
aspettare.»
***
Anto sospirò
per l’ennesima volta
seduta sul bordo del letto, di fronte alle enormi ante a specchio
dell’armadio.
«Bill, hai
finito?», chiese.
«Quasi!»
Sospirò
ancora, con i gomiti
appoggiati alle gambe ricoperte da un sottilissimo strato di collant
neri, le
mani sotto al mento.
Indossava un abito
confezionato
da Bill per lei, nero con dei minuscoli brillanti intorno alla
scollatura e le
maniche lunghe di stoffa quasi trasparente nera, morbida come seta.
Si alzò in
piedi per controllare
l’ora sulla sveglia sul comodino e per sgranchirsi le gambe:
era mezz’ora che
se ne stava lì seduta ad aspettarlo.
«Possibile che
tu sia sempre
l’ultimo?», si appoggiò con la spalla
allo stipite della porta del bagno, a
guardarlo mentre si spruzzava il profumo sul collo.
«Le star si
fanno attendere.»
«Sì,
invece le altre star
ti sbraneranno, soprattutto Tom.»
«Ma
va’, Tomi mi vuole bene», sorrise
allo specchio. Si girò verso di lei soddisfatto.
«Ok, possiamo andare.»
«Davvero? Wow,
che notizia
strepitosa. Muoviamoci, se no sarò io a sbranarti, sto
morendo di fame.»
Salirono in macchina e
si
diressero verso il ristorante. Lo stomaco di Anto che non faceva altro
che
brontolare; per non sentirlo, e non solo, iniziò una
conversazione impegnativa
con Bill, che guidava fischiettando al suo fianco.
«Bill, che ne
pensi di Katrina?»
«La sorella di
Juri?»
«Sì.
Insomma, quando è stata con
lui, ieri, sembrava così…»
«Mamma.»
«Esatto. Io
credo che…»
«No,
è impossibile. Non può
essere sua madre.»
«Beh,
perché no? Hai visto come
si somigliano.»
«Sinceramente
lei somiglia più ad
Ary che a Juri.»
«Ma si vedeva
che aveva proprio
quell’istinto materno, era protettiva… e quella
luce che aveva negli occhi…»
«Credi davvero
che abbiano avuto
qualcuno, al di fuori di loro stessi? Probabilmente hanno vissuto
insieme, per
quello che hanno potuto.»
«Io invece
credo che… potrebbe
essere.»
«Ma ha appena
diciannove anni!»
«Bill, adesso,
non per dire che
l’Estonia è un brutto paese, però non
è proprio il primo al mondo in fatto di
legalità. Le persone vengono sfruttate ovunque, non esiste
il paese perfetto. E
poi, che ne sai, potrebbe anche essere che è rimasta incinta
per sbaglio.
Avrebbe avuto quattordici anni, circa. E non è nuovo il
fatto che si inizi così
presto ad avere questi rapporti.»
«Quindi, ne
sei proprio
convinta?»
«Non ne sono convinta,
però ho il forte sospetto che sia così.»
«E allora
perché ci ha detto che
era sua sorella, scusa?»
Anto lo
guardò per qualche
secondo. La strada proseguiva scura nella notte, pochi lampioni
costeggiavano
le vie e più avanti si vedevano i grattacieli illuminati,
definendo il confine
tra quei quartieri poveri e il lusso della città.
«Bill, ma che
strada hai preso?»,
chiese Anto.
«Ho seguito il
navigatore,
perché?»
«Non mi sembra
questa. Quando
sono andata con Ary, per la prenotazione, non abbiamo fatto questa
strada.»
«Vuoi dire che
ci siamo persi?
Che questo navigatore di ultima generazione ha sbagliato? Stupida
tecnologia.»
«Mi sa proprio
di sì, a meno che
non sia una strada più veloce…»
«Una specie di
scorciatoia?»
«Oh
mamma.»
«Che
c’è?» Bill guardò nella
stessa direzione di Anto e notò un fuocherello acceso in un
bidone, con intorno
un gruppo di ragazze più o meno giovani più nude
che vestite, che cercavano di
riscaldarsi in quella notte gelida. Cercò di focalizzare i
visi di quelle
prostitute, ma non notava niente che potesse averla fatta impallidire
così.
«Quella
è… quella è Katrina»,
sussurrò lei indicando una bionda con un minuscolo vestito
nero e blu, le gambe
coperte solo da delle calze a rete sgualcite, che si teneva stretta
nella sua
giacchetta di pelle. Accanto a lei c’era una donna, molto
più vecchia di lei,
che adocchiava la loro macchina che sia avvicinava e le dava amorevoli
pacche
sulla spalla. Che c’era d’amorevole in tutto quello
dovevano ancora capirlo.
Senza nemmeno pensarci,
arrivato
accanto a lei, Bill si fermò e tirò
giù il finestrino dalla parte di Anto.
«Vai, tocca a
te», le disse la
donna prima di spingerla verso la macchina. Lei traballò sui
tacchi e sobbalzò
impaurita quando vide Anto nel posto del passeggero.
«E
voi…», sussurrò, con gli occhi
pieni di lacrime.
«Katrina! Sei
proprio tu!»
«Forza, salta
su», disse Bill,
sorridendole.
«Ma,
io…», cercò di obbiettare
lei, guardandosi alle spalle.
«Sbrigati.»
Il tono di Bill era
cambiato così
tanto da intimorirla, quindi chiuse la bocca e aprì la
portiera. Si mise seduta
sui sedili posteriori e cercò di trarre conforto
stringendosi ancora di più
nella giacca, ma dentro all’auto si stava bene, era calda ed
era come un
salvavita per lei che stava congelando.
«Dove mi
portate?», chiese la
ragazza, esitante.
«Tranquilla,
vieni con noi al
ristorante.»
«Che cosa? No,
io…»
«Sì,
tu verrai, e senza fare
storie.»
«Non voglio
che Juri mi veda
così», tremò.
«Sono certo
che capirà. Ma prima,
fai capire anche noi.»
«Katrina,
tu… ecco perché
sembravi così stanca in questi giorni. Perché lo
fai?», chiese Anto, disperata come
se fosse sua figlia.
«Per stare
qui! Per vedere Juri!»
«Ma tu lo sai
che puoi vedere
Juri tutte le volte che vuoi.»
«Ma se non
vivo come faccio a
vederlo?!», singhiozzò. «Lui
è tutto ciò che ho… non voglio
perderlo. Sarei
disposta a tutto per lui, perché viva come ogni bambino:
felice.»
«Tu non sei
sua sorella, vero?»,
Anto la guardò dallo specchietto retrovisore, con tutta la
serietà di cui era
capace. Katrina mosse appena il capo in segno di negazione si
coprì il viso con
le mani, piangendo a dirotto.
«Come
immaginavo», mormorò.
Anto guardò
con la coda
dell’occhio verso Bill: era serio e teso in viso, quasi
nervoso. Gli prese la
mano sul cambio e la strinse, rassicurandolo con un leggero sorriso che
lui
ricambiò facendo un lungo respiro.
Arrivarono al ristorante
e prima
di raggiungerci al piano di sopra, nella nostra zona riservata, tutti i
presenti non videro di buon grado Katrina trascinata da Bill per il
polso, e
avevano iniziato a borbottare. Nessuno se ne curò troppo e
salirono le scale.
Anzi, forse non li avevano nemmeno sentiti, erano troppo sconvolti
tutti e due
anche solo per notare che tutta l’attenzione era rivolta a
loro, e non perché
Bill era Bill Kaulitz, cantante dei Tokio Hotel e stilista di successo,
ma
perché erano accompagnati da una puttana.
Quando li vidimo
arrivare
rimasimo un po’ tutti sbigottiti per la loro ospite, ma
sorvolammo di buon
grado per non creare tensioni, soprattutto fra i più
piccoli.
«Finalmente
siete arrivati! Qui
stavamo per diventare cannibali!», scherzò Tom per
alleggerire l’atmosfera, e
ci riuscì benissimo.
«Wow, come
siamo eleganti…»,
schioccai un bacio a Bill con la mano, facendogli un occhiolino che lui
ricambiò estasiato.
«Mamma,
perché è vestita così?»,
mi chiese Sarah angelica, indicando con il dito Katrina che si sedeva
impacciata accanto a Giulia, sorridente e socievole come sempre, anche
se era
impegnata con Harry.
Non avevo ancora
controllato
l’espressione di Sharon, ma non doveva essere stata molto
contenta nell’averla
vista scortata dai suoi genitori.
«Perché,
non ti piace il suo
vestito? È molto alternativo», sorrisi di
sottecchi a Katrina, che diventò
subito paonazza.
«No,
è bello!», disse entusiasta
Sarah, saltando sulla sedia. «Posso andare a salutarla con
Juri?»
«Certo tesoro.
Tu da mangiare
vuoi gli spaghetti al sugo, vero?»
«Sì,
grazie mamma», mi baciò
sulla guancia e poi scese dalla sedia per far tappa prima da Juri e poi
da
Katrina.
Quando Katrina vide Juri
al suo
fianco le si illuminarono gli occhi e lo prese in braccio
abbracciandolo forte,
poi fece salire anche Sarah, sulla gamba libera. E mentre lei si
lasciava
accarezzare i capelli come una bambola dalla piccola, Anto, che era
proprio di
fronte a me, mi prese la mano e mi guardò.
«Che
c’è?», chiesi. Lei abbassò
lo sguardo e mi lasciò la mano, riportandola vicina
all’altra sotto al tavolo.
«Anto, non dovevi sentirti in dovere di portarla qui per mia
madre…», dissi a
bassa voce, ma non troppo, visto che sia Tom che Bill si erano girati.
«Non mi sono
sentita in dovere
di farlo», disse in una fase di
accesa convinzione. Era davvero una cosa seria, glielo si leggeva negli
occhi.
«Ma perché ormai… le voglio
bene», si strinse nelle spalle sorridendo. «E poi
perché non voglio impedirle di vedere Juri.»
«Giusto,
è pur sempre sua
sorella», dissi annuendo.
«Beh, di
questo sarebbe meglio
parlarne a casa con calma», disse Bill con la mano di Anto
intrecciata alla
sua.
«Che cosa
vorresti dire? Lei non
è… Porca miseria!», esclamò
Tom fissando a bocca aperta Juri e Katrina.
«Tom,
è una situazione delicata»,
disse Anto.
«Sì,
scusa, è che… Porca
miseria!»
«Ok, sei
sconvolto, però evita»,
consigliai. Lui si mise una mano sulla bocca e si concentrò
soltanto su di noi.
«Io
pensavo… beh, se voi eravate
d’accordo…», balbettò Anto,
sempre più rossa.
«Sì?»
«Non
è che potrebbe venire ad
abitare da noi?», completò Bill al posto suo.
«Ah, beh,
io…», disse Tom, ma
qualcun altro si intromise e scavalcò la sua voce.
«Sì,
sì certo che può venire.
Anzi, deve.»
Quel qualcun altro
era Sharon. Non ce lo saremmo mai immaginato, ma era
stata proprio lei, in piedi accanto a noi, con Nicolas per mano. Non
centrava
nulla lui, però lei non voleva lasciarlo un attimo, era come
se le desse forza.
«Sharon, sei
sicura?»
«Sì,
sicurissima.»
Mi guardai intorno e
notai che tutti,
compresa Katrina e i bambini in braccio a lei, avevano seguito la
scena, e lei
era a dir poco a bocca aperta, stupita e commossa allo stesso tempo,
anche un
po’ impaurita.
«Ma,
Sharon… tu la odiavi!»
«Ho capito
molte cose, adesso»,
guardò Katrina con un sorriso. Si sfilò la felpa
e gliela porse.
«Non
posso», sussurrò Katrina.
«Sì
che puoi, invece!», gliela
lanciò addosso e rise guardando l’espressione
buffa che aveva fatto, come Sarah
e Juri.
«Sono stata
una stupida», si
rivolse ancora una volta a noi. «Ho giudicato il libro dalla
copertina, senza
capire davvero quale storia meravigliosa fosse, in
realtà.»
Quel paragone era
azzeccato, Juri
lo capì meglio di tutti. Chissà se era stata sua
madre ad insegnargli a leggere
e ad appassionarlo ai libri in quel modo.
«Scusami,
Katrina. Mi potrai mai
perdonare?»
Katrina sorrise e
annuì con il
capo, le lacrime che brillavano agli angoli degli occhi.
«Perfetto!
Allora propongo un
brindisi a Katrina, una nuova componente della famiglia»,
disse Tom alzandosi con
il bicchiere in mano.
Certo che quel Natale
era proprio
strano, non c’era momento in cui non ci sorprendesse con
qualche nuova notizia,
eppure così bello che solo in un sogno poteva essere
così. Nel nostro sogno, la
nostra vita. Uniti per sempre, nel bene e nel male.
«Allora
signori, volete
ordinare?», chiese un cameriere vestito di tutto punto,
cortese come solo un
cameriere poteva essere; pure il suo viso esprimeva cortesia.
Katrina provò
per la prima volta
ciò che voleva dire avere Sarah in braccio, che quando si
trattava di cibo si
scatenava peggio di Stefan e Alex messi assieme da bambini.
Almeno su questo ci assomiglia,
sorrisi piena d’affetto.
«Sì,
io, io! Voglio gli spaghetti
al sugo!», gridò.
«Subito
signorina», le sorrise.
Infondo Sharon non aveva
tutti i
torti: era uno dei Natali più belli anche della mia vita.
Avevo i miei amici,
la mia famiglia… Tutti noi messi insieme eravamo una grande
famiglia, unita per
l’eternità. Non potevo volere di meglio.
Quel giorno, per la
prima volta,
tornai a credere in Babbo Natale.
______________________________
Buonasera :)
Scusatemi se lo scorso lunedì non
ho postato il capitolo, ma ero in vacanza xD Una bellissima vacanza che
già mi
rammarico che sia finita così in fretta
ç_ç E mi sono dimenticata di avvisarvi, ecco u.u
Beh, ecco a voi il capitolo che
vi spetta. Mi piace, spero piaccia anche a voi *-*
Il titolo significa "Il branco" xD Le due famiglie Kaulitz, insieme,
alla fine sono un branco, talmente tanti sono i loro componenti, non
trovate? xD
Ringrazio chi ha recensito lo
scorso capitolo:
Tokietta86
: Non ci credo che il sogno/realtà ti sia piaciuto,
però
vabbè xD (Veramente ridicolo o.o) Sì,
è stato difficile un po’ per tutti dopo
la morte di Davide…
Bea non sta simpatica nemmeno a
me, come te tifo per Krista xD Sarà un segno che non
combinano niente Alex e
costei? U.U xD
Bill è il padre supergeloso e la
tirerà lunga u.u Qui traiamo un sospiro di sollievo, ma non
c’è da star
tranquilli xD
La sorella di Juri si è rivelata
sua madre ed è un bel casino ora, chissà che cosa
accadrà! xD A Sharon non le
andava giù, ovviamente, perché non si
è presa cura di Juri abbastanza, ma
adesso ha capito e chissà, magari diventeranno amiche :)
Grazie mille, alla prossima, un
bacio!
Utopy
: Ahh, tu sei la mia vacanzaaa *-* Buonasera xD Chissà
quando
leggerai questi ringraziamenti, forse stasera (Dai il computer anche a
Edo,
poverino xD), forse addirittura non va (a parte msn xD) e quindi boh
o.o Insomma, già mi manchi
e voglio già sentirti ç__ç Voglio
ringraziarti ancora una volta per la
bellissima settimana, mi raccomando non essere troppo triste che poi io
lo
percepisco :’( Ti voglio un bene dell’anima Mond,
tanto tanto! <3 (Salutami
Caffèlatte, quando rifai pace con Luca e vai a trovare il
mio cucciolino *-*
Salutami anche Panna, dai u.u xDD)
Okay, ho scritto troppo o.o
Grazie per la recensione allo scorso capitolo xD Ridicolo, ridicolo il
ciclo
maschile >/////< Georg e Gustav ci sono,
sììì xD Oggi li hai visti,
c’è
stata una nuova rimpatriata per Natale xD
La “sorella” di Juri è la mamma! Okay
sì, Anto ha dei poteri speciali e si accorge di tutto u.u Ma
a parte questo xD Perché
ti sta sulle balleeee, ma uffaaaaa xD Io l’adoro *-* E poi
non si conosce
ancora niente di lei, sono sicura che ti piacerà
più avanti u.u
Bea. Lasciamo stare xD
Bene, ho finito o.o Wow. xD Ti
voglio tantissimo bene anche io Mond! *-* Tua, forevveeeer, Sonne.
freency
: xDDD Ero in vancanza xDDD Accontentata, spero ti sia
piaciuto :)
Grazie
anche a chi ha letto
soltanto!
Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 21 *** Happy new year... ***
Buonasera!
È una serata fiacca, non sono di buon umore .___. Ma visto
che ero già in ritardo (dovevo postare ieri, scusatemi xD),
ho deciso di dare
un senso a questa serata.
Dunque, dunque… che dire di questo capitolo? A voi la
spiegazione
di quel che è successo in quello precedente fra Anne e
Christin. Qualcuno di
voi se n’è già accorto ;)
Tra cui anche freency,
che ringrazio infinitamente per aver recensito! (P.S. Eh, Nicolas
è proprietà
privata xD). E ringrazio anche Tokietta86,
sempre presente :D Grazie, un abbraccio!
Un grazie anche ad Utopy,
che anche se non ha commentato c’è. (Acciderbolina
se mi manchi ç___ç Ce la
possiamo fare xD).
Ora vi lascio, buona lettura!
Vostra,
_Pulse_
______________________________________
Ti
brucerai, piccola stella senza
cielo
Ti mostrerai, ci incanteremo mentre scoppi in volo
Ti scioglierai, dietro a una scia, un soffio, un velo
Ti staccherai, perché ti tiene su soltanto un filo, sai
(Piccola
stella senza cielo –
Ligabue)
Capitolo 14
Happy new year…
«Piccola? Piccola mia?»
«Dio, quanto
mi dai i nervi!»
«Ma dai,
Anne!», aprì le braccia
sorridendo. «È solo un modo affettuoso per
chiamarti!»
«Sai che lo
odio. E sai anche che
in pubblico non voglio che mi chiami in modo affettuoso o fai qualcosa
di
fraintendibile. Mettitelo bene in testa, una volta per
tutte», sbuffò.
«E allora
perché sei diventata
rossa?», sussurrò avvicinandosi al suo viso e
accarezzandole la guancia con il
dito. «Mia
piccola stella senza cielo?»
«Christin…
Ti ho detto… Ahm…»,
sospirò massaggiandosi le tempie e scosse la testa
sgusciando via da lei e
alzandosi dal divanetto, diretta verso i bagni.
«Anne!»,
gridò Christin furiosa,
alzandosi e guardandola truce. «È capodanno, vedi
di divertirti una buona
volta!»
Parlare è facile,
pensò abbassando lo sguardo e voltandosi, dandole
le spalle.
Entrò in
bagno e si guardò nello
specchio, come un’altra ragazza accanto a lei, che si stava
ripassando il
rossetto bordeaux sulle labbra. La osservò da lontano e
notò che aveva dei bei
capelli, leggermente ondulati e brillanti, e anche un bel
fisico… Scosse la
testa e chiuse gli occhi guardando la propria immagine riflessa:
Christin la
stava influenzando!
«Bella
festa», disse la ragazza,
accennando un sorriso e guardandola con la coda dell’occhio.
«Sì,
vero», annuì distrattamente.
«La ragazza
che sta con te… è la
tua ragazza?»
Diventò rossa
all’improvviso e la
guardò, scoprendo un sorrisetto malizioso sulle sue labbra
carnose: che cosa
stava pensando? Si vedeva così tanto che tra loro
due…
«Chiedo
perché non vorrei
mettermi in mezzo. È una bella ragazza»,
annuì con gli occhi al soffitto,
meditabonda.
«S-sì,
stiamo insieme», balbettò
Anne, portando le mani ai fianchi e annuendo con la testa, gli occhi
chiusi.
«Oh, che
peccato», sbuffò.
«Vabbè, ci si vede!», la
salutò vivace con la mano e uscì dal bagno,
lasciandola da sola.
Anne sospirò
portandosi una mano
al petto e si guardò di nuovo allo specchio, si
accarezzò i capelli biondi che
le arrivavano appena alle spalle, lo sguardo assente.
Non era vero che
Christin e lei
stavano insieme, però… quasi. Insomma, lei non
voleva che qualcun’altra si
mettesse in mezzo, perché lei stava riflettendo da un
po’ su quella cosa, da
quando la sua migliore amica gliel’aveva detto.
Iniziò tutto
quando Edgard, il
suo migliore amico, le confessò di essersi preso una cotta
per lei. Da quel
giorno tutto le era sfuggito dalle mani, facendola a dir poco impazzire.
«Ehm… Io non dico che
devi rispondermi subito, solo… pensaci.»
«È ovvio che ci
penserò, Edgard. Solo che… non me
l’aspettavo. Sei il
mio migliore amico!»
«Era da un po’ che provo
questi sentimenti per te, solo che non ho mai
avuto il coraggio di dirtelo.»
«Oh, ok. E se non dovesse
funzionare?», chiese con gli occhi tristi,
abbassando lo sguardo.
«Ci ho pensato tanto
anch’io, Anne.» Lo sguardo della ragazza era perso
fuori dalla finestra, malinconico, e lui odiava vederla in quello
stato, come
se fosse su un pianeta tutto suo. «Ma non ce la facevo
più a stare zitto. Io
tengo davvero molto a te, non voglio prenderti in giro.»
Si era preso proprio una bella cotta per
lei, nonostante fossero
migliori amici da sempre. Anne si era sentita lusingata, ma anche
sbigottita:
pensare ad Edgard come qualcosa di più di un amico non le
era semplice. Provava
ad immaginarsi accanto a lui, come sua ragazza, ma ogni sforzo era
vano,
sfumavano nell’aria come le nuvolette di vapore del proprio
respiro al freddo.
Anne aveva un carattere introverso, spesso
preferiva stare da sola nel
suo mondo, ed Edgard era una delle poche persone che erano entrate a
far parte
della sua vita, una presenza silenziosa della quale non avrebbe mai
fatto a
meno. Ma ora le cose stavano cambiando, e in modo radicale.
Le sue esperienze con i ragazzi erano state
poche e deludenti, anche a
causa del suo carattere chiuso, e non voleva buttarsi in quel modo in
una
storia, con il suo migliore amico tantomeno.
Lei voleva bene ad Edgard, ma…
gli voleva bene semplicemente come amico
o c’era un vero e proprio interesse verso di lui? E se
c’era un interesse, era
curiosità oppure amore? Non aveva mai pensato a tutto quello
seriamente, e con
Edgard le cose si facevano ancora più complicate. Non era
scattato niente a
prima vista, quando lo aveva conosciuto, nonostante fosse
così carino, dolce e
gentile con lei, un vero amico. Sarebbe potuto scattare provandoci?
Avrebbe
dovuto rischiare la sua amicizia oppure lasciare perdere direttamente?
«Non cambierebbe niente, se non
dovesse andare oppure se io ti dicessi
di no?», gli chiese a bassa voce.
«Io… io non lo so,
Anne», abbassò lo sguardo. «Penso che,
comunque sia,
io non potrei più essere tuo amico in questo modo.
Sicuramente le cose
cambierebbero, perché ora che ti ho aperto il mio
cuore… Per esempio non potrei
sopportare di vederti con un altro e tu non potresti parlarmi del
ragazzo che
ti piace come hai sempre fatto.»
Anne annuì, con gli occhi lucidi,
stringendo convulsamente la matita
nella mano: «Quindi ti perderei.»
«Non ho detto questo. Ho
detto solamente che non sarebbe più come prima.»
«E non ti sembra
abbastanza?», mormorò con la voce spezzata,
guardandolo per la prima volta negli occhi. «Io non voglio
che le cose cambino,
Edgard.»
«Sono già cambiate,
Anne, che tu lo voglia o no», le accarezzò la
guancia, quando la campanella decretò la fine
dell’ora di supplenza, durante la
quale non avevano fatto niente, e Anne schizzò fuori dalla
classe, rifugiandosi
nei bagni.
Si mise seduta sul cesso, nel bagno che
aveva la finestra perché dava
sulla facciata laterale dell’edificio, e si strinse le gambe
al petto, mentre
guardava distrattamente fuori la neve cadere leggera attaccandosi al
cemento, e
asciugandosi la lacrima che silenziosa le aveva rigato la guancia.
Rimase lì per minuti, sprecando
il suo intervallo nonostante i morsi
della fame, con la testa svuotata da qualsiasi pensiero: non aveva
voglia di
pensare, meglio rimandare, anche se prima o poi avrebbe dovuto tornarci
sopra.
Qualcuno bussò alla porta e lei
si schiarì la voce, prima di dire che
era occupato e che non si sarebbe liberato presto.
«Attacco di diarrea?»,
ridacchiò Christin.
Anne chiuse gli occhi e aprì la
porta: la sua migliore amica era lì, in
piedi di fronte a lei, con una focaccia in mano, che le sorrideva
sorniona.
«Che è
successo?», le chiese chiudendosi la porta alle spalle e
sedendosi sul ripiano della finestra, guardandola dolce come solo lei
sapeva
fare.
«Edgard… mi ha detto
che si è preso una cotta per me e mi ha chiesto se
voglio diventare la sua ragazza», sussurrò.
«Ah.» Christin
corrugò la fronte, guardando il soffitto.
«Ah. È tutto quello che hai
da dire?», le chiese, il mento fra le braccia sulle gambe.
Christin la guardò e
sorridendo le offrì la focaccia, che Anne prese senza
esitazione.
«Penso che abbia fatto bene a
dirtelo: pensa che sofferenza per lui se
se lo fosse tenuto dentro e tu lo avessi trattato come sempre, ossia
solo come
il tuo migliore amico. E poi, penso che tu non debba
piangere», le passò una
mano sulla guancia. «Sei brutta quando piangi.» Le
strappò un sorriso.
«Che cosa devo fare,
Christin?», mugugnò.
«Quello che ti senti»,
sollevò le spalle. «Anche se io non sarei
d’accordo se tu ti mettessi con lui.»
«E perché?»
«Non è il tipo giusto
per te.»
«In che senso?»
«Troppo timido, troppo casto,
troppo pappamolle…»
«Ehi! È sempre il mio
migliore amico!», le tirò il sacchetto di carta
della focaccia il testa.
«Scusa»,
sollevò le mani, ridacchiando. «Tu hai bisogno di
qualcuno di
forte, qualcuno che ti sappia far smuovere, che ti liberi della tua
timidezza,
che ti rassicuri, che ti conforti, che ti faccia sentire importante,
che ti
difenda e che ti domini, anche.»
«Illuminami»,
sospirò, anche se era ad occhi sgranati.
«Una come me»,
sogghignò.
«Molto divertente»,
ridacchiò.
«Sai, mi sono lasciata con Lizzie»,
le disse,
sistemandosi i capelli lunghi dietro le spalle e il collare borchiato
che
portava al collo, giochicchiando con uno degli spuntoni argentati con
le unghie
laccate di viola scuro.
Ammirava la sua migliore amica, la ammirava
davvero perché lei era
dura, proprio come sembrava all’esterno, ma sapeva anche
essere dolce e provare
dei sentimenti come tutti, e con lei era di una tenerezza smisurata.
Era una
grande testarda, determinata e che otteneva tutto quello che voleva se
lo
desiderava: come convincere i suoi genitori a lasciarle tingere i
capelli di
nero con i riflessi blu, a lasciarle fare il piercing al naso e al
labbro, a
lasciarla libera di vivere la sua vita come voleva, vestendosi come
voleva e
sentendosi ciò che voleva. A volte persino la invidiava,
pensando ai suoi
genitori e ai loro no alle sue richieste.
E l’ammirava anche
perché Christin, in confronto a lei, non aveva paura
del giudizio della gente: lei era lesbica, eppure non l’aveva
mai nascosto e
non si era fatta mettere i piedi in testa da nessuno; era sempre
riuscita a
farsi rispettare ed Anne non sapeva se lei ne sarebbe mai stata in
grado.
«Come mai?», le chiese.
«Così… Non
eravamo fatte l’una per l’altra, penso. Le cose tra
noi non
andavano più bene e credo di essere… infatuata di
un’altra persona, al momento.
Cioè, è da un po’ che lo sono, ma non
gliel’ho mai detto.»
«Chi è, la tua migliore
amica?», ridacchiò. «Che poi sarei io,
tra
l’altro.»
«E se fosse?»,
sussurrò Christin, avvicinandosi a lei con un sorrisetto
sulle labbra.
«Oh no. Christin, dimmi che stai
scherzando. Ho già un migliore amico che è in questa
situazione,
non puoi anche tu… Non è divertente, Christin!»
«Non ti preoccupare,
Anne», le disse carezzevole, prendendola per la
nuca e avvicinandola più a sé.
«Io… io mi preoccupo
invece, accidenti! Io non sono come te!»
Christin sogghignò, la frangia
che le copriva gli occhi verdi, e sfiorò
le labbra di Anne con le proprie: non importava se era giusto o
sbagliato, non
importava nulla in quel momento; lei sentiva di doverlo fare e lo stava
facendo, seguendo il suo istinto, come sempre.
«E chi te l’ha detto,
che non sei come me?», sussurrò Christin
sorridendo, scostandosi poco prima che la campanella suonasse,
lasciandola da
sola e ancora più confusa in quel bagno.
Si sciacquò
il viso con l’acqua
fredda e si appoggiò al lavandino con le mani, gocciolando.
Da quel giorno tutto era
cambiato
in lei: non sapeva più chi era, che cosa voleva, verso chi
provava delle
emozioni. Il bacio di Christin l’aveva sconvolta e
l’aveva fatta ragionare
tanto da farsi venire il mal di testa: chi le diceva che non era come
lei,
infondo? Lei aveva ragione, però… ancora non era
riuscita a darsi una risposta.
Però, qualche
giorno dopo, era
arrivata alla conclusione che, Christin o meno, fra lei ed Edgard non
sarebbe
mai potuto nascere niente: lui era solo il suo migliore amico. Aveva
parlato
con lui e si era sentita un vero schifo quando aveva visto scomparire
dai suoi
occhi quella luce che li rendevano belli e così allegri.
Lui era uscito
silenzioso dalla
sua vita come ci era entrato, ma non poteva né arrabbiarsi
né piangere, perché
oltre ad essere colpa sua, se lo doveva aspettare: come poteva essere
ancora
suo amico, dopo quella carognata? Come avrebbe fatto anche lei stessa a
rivolgergli la parola come se non fosse successo niente, con che faccia
tosta?
Con Christin le cose
erano sempre
diventate più complicate, ogni giorno che passava. Non
voleva perdere anche lei
come amica, non lo avrebbe mai voluto, e lei l’aveva messa in
una situazione
assai difficile, rivelandole che provava qualcosa per lei.
«Sì, io provo qualcosa
per te, e allora?»
«E allora? Ma
ti rendi conto? Io… io non sono come te, no.»
«Io non ti
capisco. Chi
te l’ha detta questa cazzata? Tu puoi essere chi vuoi,
quando vuoi. Non penso che tu abbia schifo di me solo perché
mi piacciono le
ragazze, no?»
«No, questo no, è
ovvio!», si mise seduta sul letto, sospirando.
«Non mi è ovvio,
Anne», sussurrò sedendosi al suo fianco e
prendendole
le mani fra le sue. «È per l’opinione
che potrebbe avere di te la gente? È
questo che ti spaventa? Oppure ti spaventa come potrebbero prenderla i
tuoi
genitori?»
«Entrambe»,
abbassò lo sguardo.
«Ti fai sempre di quei problemi
inutili», le accarezzò la guancia,
avvicinandosi.
Anne la osservò in viso,
guardò quegli occhi verdi truccati di nero,
guardò le sue labbra rosse e bellissime avvicinarsi;
ricordò il sapore di esse
e la sensazione che aveva provato sentendo il suo piercing freddo sulle
proprie
labbra: era stato strano, ma allo stesso tempo… bello; si
era sentita libera,
si era sentita bene come mai era stata eppure aveva avuto anche timore,
di
tutto e di niente.
Scosse la testa, come se fosse stata
ipnotizzata, e si scostò,
alzandosi dal letto e grattandosi la nuca.
«È inutile scappare in
questo modo, Anne, lo sai», la rimbeccò
Christin, sospirando.
«Io… io non voglio
perdere anche te, non voglio.»
«Non mi perderai mai,
Anne.»
«Ma come farò a
guardarti in faccia? Mi verrà sempre in mente…
questo.»
«Vedi, tu ti fai troppe seghe
mentali», ridacchiò. «Devi imparare a
rilassarti, a vivere i momenti, perché così ti
rovini solo la vita, con i tuoi
complessi.»
«E poi io ho bisogno di tempo.
Fin’ora mi sono sempre piaciuti i
ragazzi, non puoi arrivare tu con un cavolo di bacio e confondermi in
questo modo.»
«Se un semplice bacio ti ha
confusa in questo modo, vuol dire che
magari è venuto a galla un aspetto di te che hai sempre
tenuto nascosto. Perché
se tu non fossi stata come me o qualcosa di simile, il mio bacio non ti
avrebbe
fatto…», si avvicinò e le
spostò i capelli dall’orecchio:
«… niente di niente»,
sussurrò. Si scostò e sorrise. «Anzi,
ti saresti arrabbiata e mi avresti presa
a schiaffi, che ne so. Ma non l’hai fatto, chissà
come mai.»
«Non dire idiozie, dai»,
sorrise nervosamente.
«Pensaci, Anne, e ti accorgerai
che queste non sono “idiozie”, anzi. E
comunque aspetterò, se è questo che vuoi.
Quanto?»
«Non… io non lo so!
Devo avere anche una scadenza?»
«Rilassati, chiedevo soltanto. Ora
devo andare a casa, ci vediamo.»
«Sì, ci
vediamo.»
Forse Christin aveva
ragione: con
i suoi complessi si rovinava la vita e se n’era accorta
spesso, perché da quel
giorno, da quando lei l’aveva baciata e aveva esternato in
quel modo tutto
quello che si teneva dentro, non era riuscita più a vivere i
semplici momenti,
troppo impegnata a pensare, a riflettere su quello che stava succedendo
dentro
di lei.
Aveva tanta paura, paura
vera di
star bene con Christin, di essere come lei o qualcosa di
simile… Cosa avrebbero
detto i suoi genitori, i suoi amici? L’avrebbe accettata
comunque?
Si era fatta molte volte
quella
domanda, fino a quando non le era venuto in mente che anche Christin
non
l’aveva detto ai suoi genitori. Aveva chiesto spiegazioni e
la sua risposta,
detta ridendo, era stata che non gliel’aveva detto
perché avevano già i loro
problemi a cui pensare; non le andava di mettersi in mezzo
ulteriormente, non
perché aveva paura della loro reazione: lei non aveva paura
di niente.
Con il passare del
tempo, aveva
anche scoperto che era diventata gelosa di Christin: quando la vedeva
chiacchierare con altre ragazze della sua classe, quando la vedeva
ridere e
sorridere senza di lei, sentiva la rabbia ribollirle nelle vene senza
una
spiegazione, se non per gelosia.
L’aveva
dimostrato persino in
quel momento, con quella ragazza che le aveva chiesto se era la sua
ragazza.
Lei aveva detto sì, ovviamente, anche se non era
propriamente vero.
Come doveva interpretare
tutto
quello? Provava veramente qualcosa per lei? Che cosa doveva fare?
Sospirò e si
portò le mani alle
tempie, sentendo un cerchio stringerle la testa in una morsa.
«Anne.»
Sobbalzò,
colta alla sprovvista,
e si portò una mano sul cuore, respirando velocemente. Si
girò verso l’entrata
del bagno e vide Christin, nel suo minivestito nero con la gonna a
balze e i
guanti senza dita a righe nere e viola che le prendevano tutte le
braccia.
Quella sera era davvero bellissima, e i suoi occhi contornati di nero e
di
viola erano spettacolari, ancora più magnetici di quello che
erano già.
«Tutto
bene?», le chiese
dolcemente, avvicinandosi.
«S-sì,
tutto a posto», annuì
frettolosamente, prendendo un po’ di carta e asciugandosi il
viso. Christin
sospirò e si appoggiò al lavandino accanto al
suo, le braccia strette al petto.
«Mi dispiace
per prima, non
volevo risponderti in quel modo, solo che… io non ce la
faccio più ad
aspettare, Anne», abbassò lo sguardo, nascondendo
gli occhi dietro la frangia
nera. «Tu… tu non mi basti più ed
è difficile guardarti e trattenermi dal
baciarti, dal toccarti. Io sono tanto forte, ma anche io ho un cuore e
tu… tu
non ti stai comportando bene con lui.»
«Mi…
mi dispiace, Christin, davvero»,
mormorò, gli occhi lucidi. «Non ci posso fare
niente, io non so se… Prova a
capirmi.»
«E tu prova a
capire me, una
buona volta, invece di pensare solo ed esclusivamente a te
stessa.» Girò i
tacchi e si avviò verso la porta, per ritornare nella festa,
quando Anne la
prese per il polso e la guardò negli occhi.
«Mi
dispiace», mormorò, prima di
abbracciarla. Christin ricambiò l’abbraccio e la
strinse forte, affondando il
viso fra i suoi capelli, posandole un delicato bacio sul collo.
«Christin, ti
prego», mormorò
Anne, scostandosi o almeno provandoci.
«È
quasi mezzanotte», disse
Christin. «Meno tre», le diede un bacio leggero
sulle labbra, «due», un altro,
«uno»,
un altro ancora. «Buon anno», le
sussurrò, mentre dietro la porta del bagno
esplodevano tappi di spumanti, la festa si animava e si scambiavano gli
auguri.
«Buon anno
anche a te», balbettò.
Christin fece un lieve sorriso e la baciò ancora sulle
labbra: fu per la prima volta
un bacio vero ed appassionato, che rese la decisione di Anne ancora
più
lontana: che cosa doveva fare?
«Christin, ti
prego, ti supplico»,
disse Anne riuscendo a staccarsi dalle sue labbra e a guardarla negli
occhi.
«E ora che
cosa c’è?!», sbraitò.
«Cosa
c’è questa volta?!»
«Dammi…
dammi ancora un po’ di
tempo, per favore.»
«Quello che mi
stai chiedendo è…
non trovo le parole per descriverlo! Sei una stronza!» Anne
abbassò lo sguardo,
stringendo i pugni, ferita da quelle parole. «Ma…
ma per te aspetterei anche
tutta la vita», concluse Christin, accarezzandole la guancia
e mostrando un
piccolo sorriso, nonostante gli occhi lucidi.
«Io non voglio
farti soffrire,
Christin.»
«Lo so,
piccola, lo so», sussurrò
abbracciandola.
«Ah! Eccovi
qua voi due!» Sobbalzarono
e si girarono,
trovandosi di fronte Georg. «Che è
successo?»
«Papà,
questo è il bagno delle
ragazze!», sbottò Christin.
«Lo so, che credi? Non tornavate
più!»
«Adesso non
possiamo più avere
nemmeno un po’ di privacy in bagno»,
mormorò, guardando la sua mano intrecciata
a quella di Anne, che subito si liberò da quella stretta.
«Che
cos’hai detto?»
«Niente,
niente», fece un cenno
con la mano; Georg sollevò le spalle.
«Sbrigatevi,
che andiamo a casa.»
«Di
già?»
«Sì.»
«Come
mai?»
«Sharon,
Stefan, Alex e Krista
devono riposare perché in questo periodo hanno diversi
concerti e così vanno a
casa, con Tom e Bill. Rimaniamo a fare che cosa?»
«Ok, ho
capito, ma non ti
arrabbiare.»
«Non mi sono
arrabbiato.»
«Mi sembrava. Mi
hai risposto con quella faccia!»
«Quale
faccia?»
«Ah, lasciamo
perdere.» Georg
sparì dietro la porta e Christin lo seguì facendo
echeggiare i tacchi dei suoi
stivaletti neri di pelle sulle mattonelle del bagno, sotto lo sguardo
di Anne
che la percorse con lo sguardo.
«Anne, ti muovi? O
prima devi farmi una radiografia completa?»,
ridacchiò e uscì dal bagno
vedendola rossa di vergogna.
Anne scosse la testa,
maledicendo
il suo stesso sguardo, e uscì, raggiungendola. La
adocchiò subito al bancone
del bar, aldilà della pista da ballo illuminata e gremita di
gente, dove si
erano radunati anche tutti gli altri. Non molto distante vide anche la
ragazza
che aveva incontrato in bagno e notò che stava radiografando
anche lei Christin, girata di spalle, con un
sorrisetto malizioso sulle labbra, mentre sorseggiava il suo cocktail.
Oh no carina, te lo puoi scordare! Lei…
Lei cosa? Lei era sua? Nah,
non lo era affatto, per colpa sua.
Nonostante tutto, serrò la mascella,
un’espressione indecifrabile, e si fece
spazio fra la gente, creandosi un varco, e raggiunse Christin, che
abbracciò da
dietro, affondando il viso nei suoi capelli.
Sto sbagliando tutto così,
però…
Però cosa?
Doveva assolutamente
fare qualcosa, doveva assolutamente fare chiarezza dentro di
sé.
«Anne?»,
ridacchiò Christin,
girandosi e guardandola giocosa negli occhi.
«Sì…
Io… Ecco…», si grattò la
nuca, mentre le sue guance prendevano colore. «Allora
andiamo?»
«Sì»,
sorrise annuendo e la porse
la mano, ma Anne la rifiutò facendo finta di non averla
vista, anche se oltre a
sentirsi in colpa si sentiva anche… male, come se qualcosa
le si fosse
conficcato in mezzo al cuore.
Uscirono dal locale nel
quale
erano andati per festeggiare quel capodanno e le varie famiglie si
salutarono,
promettendosi che si sarebbero visti presto.
«Ah, Anne! Salutaci
tuo papa e tua mamma
e auguragli buon anno da parte nostra, anche se li abbiamo sentiti per
telefono», disse Tom con un ampio sorriso.
I suoi genitori non
erano andati
perché con Harry a cui badare sua madre non si era voluta
schiodare di casa, e
così Gustav aveva deciso di stare con lei, anche
perché non era mai stato un
tipo da feste.
«Sì,
certo», rispose ricambiando
e salutandoli con la mano.
Dopodiché si
avviò assieme a
Christin e i suoi genitori verso la loro macchina:
l’avrebbero accompagnata
loro a casa. Si mise seduta nei sedili posteriori, accanto alla sua
migliore
amica, e si allacciò la cintura, per poi puntare il suo
sguardo fuori dal
finestrino, in quella notte buia.
Nessuno fiatava,
c’era tanto
silenzio: gli unici rumori udibili erano le ruote che solcavano la
strada e i
deboli sospiri di Nicole, la mamma di Christin, con lo sguardo
veramente perso
fuori dal finestrino. E anche se Anne faceva finta di niente, se
n’era accorta
da un pezzo di quella tensione che aleggiava nell’aria e si
sentiva vagamente
in ansia.
Ad un tratto
sentì la mano di
Christin posarsi sulla sua, sul sedile, e stringerla;
sobbalzò e la guardò con
la coda dell’occhio, arrossendo, notando che invece lei si
mordicchiava il
labbro inferiore guardando di fronte a sé. Anne chiuse gli
occhi stringendo i
denti e si liberò della sua stretta, portando la mano in
grembo, stringendosi.
Non osò girarsi per vedere l’espressione
dell’amica dal vivo, le bastò lo
specchietto retrovisore a conficcarle un colpo in mezzo al petto.
Non si era nemmeno
accorta di
essere arrivata di fronte a casa, troppo presa dai rimorsi per il gesto
che
aveva fatto, e dovette ricordarglielo Georg, sorridendo dolcemente.
«Ah,
sì», annuì frettolosamente,
togliendosi la cintura senza sollevare lo sguardo su Christin.
«Grazie per il
passaggio.»
«Di niente
Anne, salutaci Gustav
e Giulia e dai un bacio ad Harry», le disse la signora
Listing, sorridendo,
mentre lei apriva la portiera, lasciando che il freddo invernale le
sfregasse
il viso e le gambe, protette solo da un paio di pantacollant neri.
«Sarà
fatto.»
Scese
dall’auto e non riuscì più
a resistere: si chino e guardò all’interno,
muovendo la mano in direzione di
Christin, un timido sorriso sulle labbra. Ma la freddezza dei suoi
occhi la
pietrificò e quando chiuse la portiera e vide luccicare
quella lacrima
silenziosa sulla sua guancia pallida… sentì gli
occhi inumidirsi e la ferita al
suo cuore allargarsi sempre di più, bruciando.
Guardò la
macchina allontanarsi,
tirò su col naso congelato, come le orecchie, gli occhi
ancora umidi, quando
sparì dietro l’angolo e si incamminò
verso la porta della sua villetta,
passando per il vialetto ciottolato ancora innevato. Cercò
le chiavi nelle
tasche del suo cappottino nero ed entrò in casa, scoprendola
buia e silenziosa,
al contrario della sua testa: piena di pensieri, rumorosa, e di voci
che la
tormentavano con le solite domande di cui non sapeva le risposte, senza
darle
un attimo di pace.
Salì in
camera sua, si spogliò in
fretta, si infilò nel suo pigiama con una grande pecora
sopra – lei amava le
pecore – e si infilò in bagno per lavarsi i denti,
tentando di non pensare a
niente per qualche minuto, ma non fece in tempo a godersi quella pace
che
bussarono sul legno della porta aperta, facendola sobbalzare.
«Papà»,
biascicò, prima di
sputare il dentifricio nel lavandino e di sciacquarsi la bocca.
«Mi hai fatto spaventare.
Che ci fai ancora sveglio?»
«Scusa»,
ridacchiò. «Volevo
sapere com’è andata la festa. Ti sei
divertita?»
«Ah,
sì… sì», rispose, facendosi
forza, e annuì passandosi l’asciugamano sulle
labbra.
«Sicura? Va tutto bene?»
«Sì,
perché?», tirò un sorriso.
«Hai una
faccia… Non avrai mica
bevuto, vero?»
«No, no! Io
non bevo, lo sai papà.» A parte quella volta con
Christin… Il
suo nome salì a galla e scoppiò come una bolla
nella sua testa, facendole male
per un istante.
«Sarà
meglio per te», la indicò,
sorridendo.
«Ti salutano
Tom, Bill, Georg e
tutti gli altri», gli disse. «E ti fanno gli auguri
di buon anno.»
«Oh, grazie. Buon
anno anche a te,
bambina», aggiunse, abbracciandola dolcemente.
«Non sono una
bambina», mugugnò.
«Non sono io
quello che dorme
ancora con i pupazzi», ridacchiò passandole una
mano fra i capelli.
«Ma che
c’entra», ridacchiò e
sventolò la mano. «Buona notte papà,
grazie.»
«Buonanotte.»
Uscì dal
bagno e una volta in
camera sua, illuminata solo dalle luci di Natale fuori dalla sua
finestra, si
gettò sul letto, esausta: l’unica cosa che voleva
fare fino alla mattina
seguente era dormire.
Si rigirò nel
letto, mettendosi
sotto le coperte, e abbracciò il suo pupazzo preferito, non
a caso una pecora di
morbida lana bianca che le aveva regalato…
Christin,
sospirò, accarezzando il pupazzo e stringendoselo forte
al petto, gli occhi che le pizzicavano e la testa che le scoppiava a
quelle
domande: Che cosa doveva fare? Per quanto avrebbe dovuto continuare a
soffrire?
A privarsi di qualcosa che… la faceva stare bene –
che lei lo volesse oppure
no? Perché sì, i baci di Christin le piacevano, e
non poco, e la facevano stare
bene.
Il sonno, che sarebbe
stato
comunque agitato, la stava per travolgere, quando sentì il
suo fratellino
piangere stridulo nella stanza accanto alla sua e si ritrovò
con gli occhi di
nuovo spalancati rivolti al soffitto.
Che bell’inizio d’anno.
Si
portò il cuscino sopra la faccia e trattenne un grido,
scalciando.
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Capitolo 22 *** Together we'll make it ***
Hear me
when I say, when I say I
believe
Nothing’s
gonna change, nothing’s gonna change destiny
Whatever’s
meant to be will work out perfectly
(Keep
holding on – Avril Lavigne)
Capitolo 15
Together we’ll make it
Un altro anno era
passato, tra
lacrime e sorrisi, ma avevamo superato tutto, insieme.
Ed era passata anche una
settimana dal trasferimento ufficiale di Katrina a casa nostra: ormai
era
pienamente parte della famiglia.
Scese in cucina e
trovò Sharon
seduta al tavolo, una tazza di tè fumante fra le mani.
«Buongiorno»,
la salutò Katrina
con non molta convinzione. «Come mai già in
piedi?»
«Non riuscivo
a dormire, sono già
tesa per il concerto di dopodomani», si massaggiò
le tempie.
«Posso venire
a vederti?»
«I biglietti
sono esauriti da
settimane. È la prima volta che facciamo un sold-out. Forse
è per questo che
sono così agitata.»
Dopo
l’annuncio del ritorno di
Krista nella band c’era stato un boom nelle vendite dei
concerti, tanto da fare
il tutto esaurito in pochissimo tempo. Tutto quell’aumento
improvviso però
aveva sguinzagliato le malelingue dei mass media, che avevano
interpretato la
separazione del gruppo solo come una mossa mediatica per attirare
l’attenzione
delle stampa, per poi ritornare insieme. Ma loro non sapevano nulla di
quello
che era successo in realtà.
«Oh.»
«Ma per i
parenti c’è sempre
posto.»
Katrina si
girò e si appoggiò al
ripiano della cucina, sorpresa. «Parenti?»
«Beh, fino a
prova contraria Juri
è mio fratello adottivo, quindi anche tu fai parte della
famiglia.»
Cercò di
distrarsi cercando il
caffè solubile negli armadietti sopra la cucina, dandole le
spalle.
«Mamma ci ha
detto chi sei,
veramente.»
Sharon lasciò
il cucchiaino nella
tazza e si alzò per metterla nel lavandino. Si
appoggiò accanto a lei,
paralizzata da quelle parole.
«Perché
l’ha fatto?», chiese in
un sussurro.
«Perché
avevamo diritto di
sapere, non credi? Hai intenzione di dirglielo? A Juri,
intendo.»
Katrina rimase in
silenzio,
abbandonò l’idea di fare colazione e si
sbrigò a salire le scale, ma Sharon non
cedette così facilmente, le andò dietro fino alla
sua camera, un tempo quella
degli ospiti, dove entrò senza scrupoli.
«Perché
gli hai detto di essere
sua sorella?», le chiese ancora mentre lei si accingeva a
sistemare il letto.
«Perché
avevo paura», sussurrò.
«Ero così piccola…»
Si sedette sul letto,
sospirando
arrendevole, e tirò fuori dal comodino delle foto, che
sfogliò con un leggero
sorriso sulle labbra. Sharon la raggiunse mettendosi seduta a gambe
incrociate
al suo fianco, in silenzio.
«Questa ce
l’hanno fatta
all’ospedale», le mostrò una foto.
Katrina era davvero
piccola,
ancora una bambina, ma aveva già dato alla luce quel bambino
bellissimo stretto
in una copertina azzurra: il piccolo Juri.
«Ma i
vostri… i tuoi
genitori?», le portò una mano sulla
spalla, come incoraggiamento e sostegno.
«Non li ho mai
conosciuti. Io
vivevo in un orfanatrofio. Appena mi sono accorta di essere incinta
sono
scappata, sapevo che me l’avrebbero portato via. In qualche
modo sono riuscita
a venire qui, dov’è nato. Non ho mai voluto che
imparasse la nostra lingua,
però, quando non riuscivo a farlo addormentare, gli cantavo
quella ninna nanna.
È l’unico frammento delle nostre origini presente
in lui.»
«Mi
dispiace», disse Sharon. «Non
pensavo… E suo padre?»
«Non so che
fine abbia fatto, era
anche lui dell’orfanatrofio, aveva qualche anno in
più di me, si chiamava
Juri.»
«Hai
dato… il suo nome a tuo
figlio?»
«Sì,
io… l’amavo, in qualche
strano modo. Non ha fatto altro che farmi soffrire, però mi
ha donato anche il
mio piccolo bambino. Gli assomiglia molto, ha preso tutto da
lui.»
«È
una storia…»
«Triste?»,
sorrideva lei. «È
passato ormai, non mi importa. Quello che conta è che Juri
stia bene. Vi devo
ringraziare di cuore, per tutto quello che avete fatto per
lui.»
«Di niente.
Piuttosto, tu? Come
mai così mattiniera?»
«Devo andare a
cercarmi un
lavoro, un lavoro vero.»
«Vuoi che
venga con te?»
«No, non ti
disturbare.»
«Nessun
disturbo! Mi fa piacere.
Allora, posso?»
Katrina sorrise e
annuì, la abbracciò.
«Grazie.»
«Prego. Adesso
vado a cambiarmi e
dopo andiamo.»
«Ok.»
Sharon si
alzò e corse camera sua
facendo non poco rumore. Era contenta che Katrina si fosse aperta con
lei,
iniziava a volerle bene come se lei fosse veramente sua sorella
maggiore.
***
Tom, per colpa della
grazia di
Sharon, si svegliò e non riuscì più a
riaddormentarsi. Così si alzò e andò
in
bagno barcollando, con le mani sopra gli occhi per proteggersi dalla
luce che
entrava dalle finestre spoglie delle tende scure. Ciò voleva
dire solo una
cosa: io ero già sveglia. Infatti, ero in bagno, seduta sul
bordo della vasca.
«Buongiorno»,
mugugnò Tom
entrando e mettendosi di fronte al lavandino per sciacquarsi il viso.
«Tom, non vedi
che ci sono io?»
«Dove?»
«Qui, in
bagno!»
«Ary, non ti
ha mai dato fastidio
che io entrassi in bagno quando ci sei tu, tranne
quando…», si girò e mi
guardò
ad occhi e bocca spalancati. «Ancora!»
«Non mi
guardare così, non è
colpa mia!»
«Cioè
sarebbe mia, la cosiddetta colpa?!»
«Infatti colpa
non sarebbe la parola più appropriata,
però… sì, cavolo, è
colpa tua!»
«Guarda che
quella incinta sei
tu, non io!»
Rimasi in silenzio e mi
alzai,
gli andai di fronte e gli feci vedere il test. Rise appena guardando
l’esito
positivo e poi guardò me, con gli occhi lucidi.
«Preoccupata?»
«No…
solo sorpresa.»
Scoppiammo a ridere e ci
abbracciammo
saltando come due scemi dalla gioia incontenibile che sentivamo dentro.
«Sai come lo
chiamo io, questo?»,
mi asciugò le lacrime sulle guance, la fronte appoggiata
alla mia. Scossi la
testa. «Segno del destino.»
«E cosa
vorrebbe il destino dalla
mia sanità mentale?»
«Io te
l’avevo detto che uno dei
nostri figli doveva chiamarsi Davide», sussurrò.
Non riuscii
più a staccare gli
occhi dai suoi, le labbra serrate assieme alla gola chiusa in un
fastidioso
nodo e le lacrime che silenziose scivolavano sulle mie guance e fra le
sue
dita.
«E rimarrai
incinta fin quando…»
«Tom, per
favore», mormorai sottraendomi
al suo abbraccio, dandogli le spalle e incrociando le braccia al petto.
«Ok, come
vuoi», disse afflitto
tornando in camera da letto.
«No, Tom,
ascolta», lo raggiunsi
e mi misi seduta al suo fianco sul letto, abbracciata a lui, la testa
sulla sua
spalla. «Anch’io vorrei,
però… ho paura che sia troppo difficile. Chiamare
tutti i giorni un bambino, nostro figlio, come lui… Non so
se…»
«Amore, io
sarei orgoglioso di chiamare
mio figlio come lui. Non devi preoccuparti, se sarà
difficile, come tutto,
insieme sarà più semplice. Non credi?»
«Ho
paura.»
«Non hai nulla
da temere, io sono
qui», mi prese il mento fra le dita e mi sorrise prima di
baciarmi. «Andiamo a
dirlo agli altri, forza.» Io annuii e mi lasciai trascinare
da lui. Era un
tornado d’allegria, e non potevo esserne più
felice.
Incontrammo Sharon e
Katrina che
scendevano le scale, parlando come due vecchie amiche. La cosa mi
sorprese, ma
mai come l’eccessiva euforia di Tom: sembrava che
l’avesse fatto apposta, che
quasi se lo aspettava. Mi fermai aggrappandomi al corrimano delle
scale. Lui mi
guardò, con quell’emozione ancora sul viso.
«Che
c’è?», mi chiese.
«Tu…
tu l’hai fatto apposta!»
«Io…
Cosa?»
«Non fare
quella faccia da
santarellino, tu l’hai fatto apposta! Mi hai messa incinta di
proposito! Dio,
Tom, non ci posso credere!»
«Nemmeno io!
Cavolo, di nuovo?!»,
gridò Bill uscendo di corsa dalla cucina, con Anto a bocca
aperta accanto.
«Ma cosa vi
prende a voi due? Vi
sentite minacciati perché la nostra famiglia si sta
allargando e allora anche
voi vi date da fare per raggiungere il record dei Kaulitz?»,
Bill sembrava
arrabbiato, ma sorrideva ed era contento, proprio come Anto.
«Auguri», disse
dolce, aprendo le braccia.
«Aspetta un
attimo», misi la mano
avanti, tornando a guardare Tom. «Allora, l’hai
fatto apposta?»
«Beh…
e se fosse?»
«Perché
non me l’hai detto,
scemo?», sorrisi e risi, abbracciandolo per il collo e
lasciandomi sollevare da
terra, parte integrante della sua gioia.
«Amore mio, ti
amo», mi sussurrò.
«Anch’io.»
«Ok, avete
finito? Adesso
possiamo sbaciucchiare la mamma per la sua terza gravidanza?»
Scesi dalla scale e mi
lasciai sbaciucchiare
da Bill, stretta fra le
sue braccia da fratello inseparabile che per me era diventato.
«E adesso dove
credete di
metterlo?», chiese Anto.
Stefan, Alex e Sharon
non avevano
ancora fiatato dallo stupore, e io riuscivo a capirli benissimo: era
così
ridicola la cosa da sembrare surreale persino a me. Gli ignari Sarah e
Juri, e
Katrina che non aveva per niente la faccia di una sorpresa,
continuarono a fare
quello che stavano facendo, al contrario degli altri, completamente
immobili
come statue.
«In
garage?» Spiritosa la mia
migliore amica, quella mattina.
«Mmh, potrebbe
essere un’idea»,
disse Tom sorridendo, una mano sotto al mento. «Potrei
iniziare a valutarla.»
«No, dai, sul
serio», disse Bill,
sembrava persino un tantino preoccupato.
«Perché
quelle facce? È… è un
bambino, troveremo un posto», dissi, non capendo nulla, non
ero sulle loro
frequenze, e nemmeno Tom, pareva, ma ci arrivò molto prima
di me.
«Appunto,
è un bambino, Ary. Avrà
bisogno dei suoi spazi, e qui di spazio non ce n’è
più. Tra un po’ dovremo
uscire noi per lasciare dentro i nostri figli!»
«Cosa…
cosa stai tentando di
dire?»
Iniziavo pure io a
preoccuparmi.
Un pensiero mi era balenato in testa come un fulmine, ma quello era di
sicuro
un fulmine a ciel sereno, non poteva essere, non esisteva proprio,
nemmeno nel
più remoto dei sogni.
«Pensavo
che… potremmo sfruttare
l’occasione, visto che c’è in arrivo
questo bambino, di cambiare casa. Katrina
non può stare nella camera degli ospiti.»
«Chiamiamola Camera di Katrina,
allora.»
Sudavo freddo, sentivo
che le mie
gambe non potevano reggermi a lungo, e la mia testa era attraversata da
così
tanti pensieri che mi faceva male.
«Ary, so che
ti sembra
impossibile, so quanto ci tieni a questa casa, ma…»
«Niente ma,
allora! Non ci pensare nemmeno, io non me ne andrò mai da
qui!»
Presi il braccio di Tom
per
reggermi in piedi, quello che aveva detto Anto mi aveva distrutta
dentro. Come
poteva anche solo aver pensato che sarei riuscita a lasciare quella
casa, nella
quale avevo cresciuto i miei figli, avevo passato giorni
d’inferno e giorni
bellissimi con la mia famiglia? Quello era il luogo fisico sicuro che
per tanto
avevo cercato e che mi ero costruita accanto alla mia famiglia, sempre
più
grande. Eravamo partiti in quattro, da lì. E ora ci
trovavamo in dieci, ancora
nove mesi in undici. Mi resi conto che eravamo davvero in tanti, ma fu
solo per
un attimo: non volevo andarmene da lì e non lo avrei fatto
molto facilmente
dopo tutto il lavoro che avevamo fatto.
«Ary, Anto ha
ragione», disse
Tom.
«Cosa? No. No!
No, che non ha
ragione!»
«Sì,
invece. È vero, qui dentro
ci stiamo a malapena.»
«Non mi pare,
invece! Se non
avete detto niente fino a questo momento, vuol dire che non ce
n’era realmente
bisogno!»
«Fino a questo
momento, hai detto
bene», disse Bill. «Se adesso arriva un altro
bambino…»
«Quindi
è solo per lui?!»
«Ary…»,
tentò di calmarmi Tom, ma
mi liberai dalla sua stretta. «No, è colpa di
questo bambino allora se dovremo
cambiare casa!»
Tutti rimasero in
silenzio, con
il fiato sospeso, io stessa, in più con il cuore infranto
perché avevo detto
una cosa orribile. Per la prima volta in vita mia, e sperai anche per
l’ultima,
mi sentii uguale a mia madre. Mi misi una mano sulla bocca, gli occhi
gonfi di
lacrime, tanto da appannarmi la vista.
«Che cosa ho
detto…», mormorai.
Portai la mano sul ventre, senza nemmeno accorgermene. «Io
non volevo, lo
giuro.»
«Ary, lo
so», Tom mi attirò a sé
e mi strinse, mi chiuse in un abbraccio di ferro, che mi diede una
sicurezza
certa, come lo era sempre stato lui per me.
«Ti prego,
scusami. Io non lo
pensavo davvero», dissi tra i singhiozzi.
«Lo so, lo so,
calmati», mi passò
le mani sulle guance, come troppe volte aveva fatto.
Quante volte
l’avevo fatto io per
lui? Forse una, due volte? Mi vergognai profondamente. Lui era forte,
io ero
debole. Lui mi asciugava le lacrime e io me le lasciavo asciugare. Lui
mi
difendeva e io restavo a guardare. Davide mi aveva sempre detto di
essere
forte, ma non era una delle mie qualità, evidentemente.
«Vieni,
andiamo di sopra», mi
sussurrò e mi scortò in camera.
Di sotto, rinchiusi in
una bolla
di silenzio perfetto, persino i bambini erano diventati muti, si
sentì perfettamente
una moto avvicinarsi e fermarsi proprio di fronte a casa.
«Ci mancava
solo questa», disse
Bill portandosi una mano sulla fronte.
Attese che suonasse al
citofono e
gli aprì senza dire niente, poi gli aprì la
porta, aspettandolo lì.
«Salve!»,
salutò allegro Nicolas.
«Ciao Nicolas,
che cosa vuoi?
Facciamo in fretta.»
«Ero venuto
apposta per lei,
lieto di darle fastidio.»
«Nicolas, non
è giornata», disse
Sharon facendosi spazio tra lui e suo padre, che guardò
annuendo.
«Ci parlo
io», gli disse.
«Ok, grazie
Sharon.» Bill tornò
dentro e si sedette sul divano, accompagnato dolcemente da Anto, che si
mise
appollaiata vicino a lui.
«Che
è successo?», chiese Nicolas
preoccupato. «Tuo padre… non mi ha risposto per le
rime, è incredibile!»
«Nicolas, ti
ho detto che non è
giornata», ripeté severa.
«Ma mi spieghi
che è successo?»
«È
una cosa complicata che qui su
due piedi non so spiegarti. Una specie di… lite
familiare?» Non era sicura che
fosse stata una lite, ma era il primo termine che gli era venuto in
mente non
sapendo come definire quello strano fenomeno che si era verificato.
«Se non lo sai
tu. Ma per causa
tua?»
«No, io non
sono l’unica che crea
litigi, sai.»
«Non intendevo
dire questo.»
«Non importa.
Allora, che cosa
c’è? Perché sei venuto? Non credo che
tu ti sia preso il disturbo solo per dare
fastidio a mio padre.»
«No, infatti.
Volevo chiedervi, a
te e anche a lui, se era d’accordo, se potevamo uscire,
domani sera.»
«C-che
cosa?»
«Sì,
nulla di speciale, solo
un’uscita… io e te.»
«Davvero?
Davvero sei venuto qui
solo per questo?»
Nicolas alzò
le spalle, un
sorrisino divertito dipinto sul volto, che nascondeva un briciolo di
timidezza.
«Non penso sia
il momento adatto
per chiederglielo», Sharon gettò
un’occhiata dentro, a suo padre stranamente giù
di morale, che si faceva accarezzare inerme da Anto.
«Lo credo
anch’io.»
«Ma per me
è un sì.»
«Ok, bene.
Ehm… a che ora ti
passo a prendere? Sempre se… se la situazione si risolve, se
no… sarà per
un’altra volta, non importa.»
«Nicolas, sei
così dolce a volte.
Grazie, davvero, ma non ti devi preoccupare. Sono sicura che si
metterà tutto a
posto.»
«Ok. Allora,
quando?»
«Verso le
sette, va bene?»
«Ok,
benissimo. Allora ci vediamo
domani sera.»
«Va bene, ok.
Ciao.»
Nicolas le diede un
veloce bacio
sulle labbra e le sorrise girandosi mentre tornava alla sua moto.
Sharon chiuse
la porta con il sorriso sulle labbra, ma quando si ritrovò
di fronte quel
silenzio tombale e suo padre ridotto in quello stato, il sorriso le
scomparve e
al suo posto si presentò una strana tristezza a pesarle sul
cuore.
«Che
voleva?», chiese Bill
flebilmente.
«Meglio
se… te lo dico dopo.»
«Fidati,
è meglio se me lo dici
adesso. È per l’integrità della tua
persona, adesso non sarei in grado di
mordere.» Un debole sorriso da parte sua, che fece star
meglio pure Sharon.
«Mi ha chiesto
se potevamo
uscire, domani sera. Era venuto qui per chiedertelo di
persona.»
«Carino come
gesto», disse sua
madre sorridendo.
«Allora credi
che io possa…», non
completò nemmeno la frase, talmente aveva paura di una sua
reazione impulsiva e
incontrollata.
«Sì,
va bene.»
«Cosa,
scusa?»
«Ho detto di
sì, che puoi andare.
E adesso sparisci, prima che cambi idea», mosse la mano
sorridendole.
«Ok, grazie
papà. Ti voglio
bene.»
«Anch’io.»
Sharon passò
di fianco a Katrina:
si era completamente dimenticata che le aveva detto che
l’accompagnava a
cercarsi un lavoro. In quel momento non le pareva il caso,
però forse sarebbe
stato un bene uscire un po’ e distrarsi da quella situazione
del cacchio in cui
si sentiva intrappolata. Sapeva che chi davvero ci stava male in quel
momento
erano altre persone, vedi suo padre, ma si sentiva partecipe anche lei
come
noi.
La nostra è sempre stata una
famiglia unita, si disse, forse è per questo che mi sento
così tirata
in ballo.
Ed era vero, non
c’era mai stato
minuto in cui non avevamo vissuto qualcosa separatamente, eravamo uniti
in
tutto e per tutto.
Rabbrividì al
pensiero assurdo
che tutto d’un tratto quell’unità si
potesse spezzare, senza che lei nemmeno se
ne accorgesse. Era un’assurdità bella e buona.
«Katrina, un
attimo solo», le
disse.
Lei annuì e
con lo sguardo le
fece capire che non doveva preoccuparsi. La ringraziò in
silenzio e salì in
fretta le scale per raggiungere la sua stanza, non sapeva bene a fare
che cosa,
ma doveva stare un po’ da sola a riflettere, anche un secondo
sarebbe bastato,
ma da sola.
Passò di
fronte alla nostra
camera e andò dritta, ma poi tornò indietro,
spinta dalla curiosità e
dall’affetto che provava verso di me, così
profondo da farla preoccupare come se
fosse stata Anto.
«Sono stata
una stupida. Ho detto
una frase degna di mia madre.»
«Ary,
smettila, lo sappiamo tutti
che non lo pensavi davvero.»
«Non dovevo
nemmeno dirle quelle
parole.»
«Capita di
sbagliare. Ti sei
accorta del tuo errore, è tutto ok.»
«Tom…
non voglio andare via da
qui.»
«È
necessario», mi sfiorò la
pancia con la mano. «Fallo per lui.»
«E
così ce ne andremo davvero?»
«Beh, se
proprio non vuoi
andartene… una soluzione ci sarebbe.»
«Non se ne
parla neanche. Non
dividerò mai la mia famiglia, non se ne parla. Bill e Anto
restano con noi,
fine.»
«E allora
penso proprio che sarà
così.»
Sharon si
scostò dalla porta e si
appoggiò al muro, scivolò a terra e rimase a
fissare il pavimento di fronte a
sé, a pensare non proprio a qualcosa, ma a tutto
ciò che le passava per la
testa. Questo la convinse che uscire un po’ non le avrebbe
fatto che bene.
***
Doveva riconoscere che
Katrina
era una ragazza simpatica, anche se molto introversa. Preferiva non
ricordare
il suo passato, ma se proprio doveva lo faceva con il sorriso sulle
labbra,
senza nessun rimpianto. Anche Sharon avrebbe voluto essere come lei,
invece di
continuare a soffrire pensando ad un passato ormai morto e sepolto. E
non solo
lei avrebbe voluto essere esattamente così.
Quel pomeriggio era
passato in
fretta, girovagando per i negozi e facendo acquisti di tutti i tipi per
il
guardaroba di Katrina. Non era proprio il massimo in eleganza e moda,
ma aveva
qualche speranza se avesse seguito i suoi consigli. Aveva capito subito
che era
una che preferiva le cose semplici e comode, un po’ come lei,
ma pure nelle
cose semplici bisognava avere un minimo di stile, come le aveva
insegnato suo
padre.
In più era
riuscita a distrarsi e
a svagare un po’ la mente dall’eccessivo carico di
stress. Non che lei ne
avesse tanto, di stress, però in quel periodo, e soprattutto
durante quella
mattinata, aveva raggiunto dei livelli notevoli, che sperava vivamente
di
riuscire ad abbassare prima di rientrare in casa e di verificare di
persona
cosa fosse successo.
Aveva pensato a Nicolas
e si era
trovata nel panico quando aveva realizzato che sarebbero usciti, la
sera
successiva, e non aveva uno straccio di idea di come vestirsi. Dava
molti
consigli a Katrina, ma quando doveva pensare a se stessa era un
disastro
totale. Non era brava come suo padre, infondo, che riusciva a fare
entrambe le
cose egregiamente.
Quella sarebbe stata la
loro
prima uscita ufficiale ed era facile notare in lei un certo nervosismo,
nervosismo che si accumulava a quello portatole dal concerto. Per sua
sfortuna
non era ancora riuscita a farlo sbollire del tutto. Ma andava bene
così. Suo
zio diceva sempre che il nervosismo faceva rendere di più
una band, perché
spronava a dare il massimo, avendo paura di fare un disastro.
Mentre Katrina parlava
all’interno dell’ennesimo negozio e chiedeva se
magari serviva un aiutante,
qualsiasi cosa, lei se ne stava seduta su una panchina di legno, dando
le
spalle ad una piccola palma che le sfiorava con la punta di una foglia
la nuca,
un milk-shake alla fragola in mano.
Giocherellava con la
cannuccia,
quando si era trovata di fronte due ragazzi che parlavano decisamente a
tono
alto, ma lei non li ascoltava molto, era ancora nella fase
post-rimuginazione
sulla sua vita. Aveva solo afferrato che erano due fan e che sarebbero
stati al
concerto, e che ci avevano messo un sacco di tempo per trovare i
biglietti, ma
che alla fine ce l’avevano fatta. Lei sorrideva appena,
guardandoli ma non
sentendo cosa dicevano.
Si chiese se a volte
capitava
pure agli altri della band, soprattutto a Stefan, che doveva sempre
sorbirsi le
moine di ragazze decisamente troppo finte tutti i santi giorni. Doveva
farsi
dare qualche consiglio da lui, lo avrebbe fatto appena sarebbe tornata
a casa.
Sempre se la sua casa era ancora in piedi. Chissà
cos’era successo, e cosa
stava ancora succedendo, mentre lei era lì a sorbirsi quei
due ragazzi sperando
che Katrina avesse finito, o che almeno fosse a buon punto.
«Sharon,
possiamo fare una
foto?», le chiese uno dei ragazzi. Non si ricordava nemmeno i
loro nomi.
Lei annuì
senza nemmeno pensarci
e si mise in posa con lui, cercando di fare uno dei suoi sorrisi
migliori di
fronte alla fotocamera del cellulare dell’altro ragazzo.
«Grazie, sei
mitica!»
«Prego, non
c’è di che.»
«Hai sentito
quello che si sono
inventati i mass media? Dicono che la separazione di Krista sia stata
solo una
mossa mediatica! Stronzate!»
Erano seduti accanto a
lei, uno
da una parte e uno dall’altra, che le tenevano compagnia
parlando del più e del
meno e della band, ma lei non aveva voglia di parlare con loro,
però doveva per
il bene stesso della band, per dare una buona impressione di fronte ai
fan. A
lei non piaceva mentire, c’erano giorni in cui sarebbe voluta
essere
semplicemente Sharon, però doveva farlo per i suoi fan, che
li avevano sempre
sostenuti con così tanto affetto. Senza di loro non avrebbe
vissuto felice come
stava facendo, con la sua musica.
«Tu che dici,
Sharon?»
«Sì,
tutte cavolate. Le
malelingue si sprecano, si sono inventati un sacco di balle. Ragazzi,
posso
chiedervi un consiglio?»
«A chi, a
noi?»
«Sì,
a voi.»
«Sì,
certo!»
«Come potrei
vestirmi per uscire
con il mio ragazzo?», chiese esasperata, mettendosi le mani
nei capelli. Non
pensava ad altro, ormai.
«Hai il
ragazzo?»
«Sì.»
«Beato
lui.»
«Sì,
vorrei tanto essere al suo
posto.»
O quei due erano
fratelli, oppure
avevano idee chiare e pressoché identiche.
«Sono una
ragazza come tante,
alla fine», si strinse nelle spalle imbarazzata.
«Beh, su
questo si potrebbe stare
a discutere per ore, ma non mi sembra in caso. Come ti potresti
vestire? Come
sempre! Sei bella sempre e comunque, tu.»
«Grazie
ragazzi, siete troppo
gentili.»
«Ma
è la verità!», le sorrisero.
Sharon vide Katrina
uscire
saltellando felice dal negozio e si alzò raccogliendo le
borse a suo fianco.
«Ciao ragazzi,
adesso devo
andare», li salutò.
«Ok, ciao
Sharon, è stato un
piacere conoscerti.»
«Già,
grazie.»
«Prego»,
sorrise e si avviò con
Katrina verso l’uscita del centro commerciale.
«E quelli chi
erano?», le chiese
lei.
«Due fan che
mi hanno braccata
per più di dieci minuti. Ma quanto ci hai messo?»
«Un
po’. Però ho ottenuto il
posto!»
«Davvero? Ma
è fantastico!»
«Sì,
inizio lunedì.»
«Perfetto!
È davvero bello,
complimenti.»
«Grazie, anche
per avermi
accompagnata.»
«Di
nulla», gettò il milk-shake
in un cestino.
«Erano carini,
però», sorrise
maliziosa.
«Katrina!»
«Che
c’è?»
«Devo
ricordarti che hai un
figlio?»
«Ho un figlio,
ma non un ragazzo.
Dev’essere bello avere tutti questi fan.»
«A volte non
è così piacevole,
vorresti essere invisibile.»
«Siete bravi a
suonare, ecco
perché siete così ammirati. Sai, Juri
suonava.»
«Davvero?»
«Sì,
il violino. È grazie alla
sua musica che l’ho conosciuto. Stavo ore ad ascoltarlo,
anche se era proibito
nell’orfanatrofio.»
«Ed andavi
contro alle regole per
lui?»
«Sì,
adoravo sentirlo suonare.
Lui lavorava in cucina, e di notte si nascondeva lì per
suonare. Una sera mi
scoprì e fu in quell’occasione che ci conoscemmo.
Però, diciamo che… non era
proprio buono, di carattere. Lui era un tipo schivo e anche
sfruttatore. Non
sapeva che cosa voleva dire amare gratuitamente. E quindi mi disse che
lui non
avrebbe detto nulla se io… fossi diventata la sua
ragazza.»
«Bel modo per
dirti che voleva
stare con te», disse Sharon amareggiata.
«Lui non
intendeva quello che
intendi tu per ragazza.»
«Cioè
vuoi dire…»
«Era solo per
sfruttarmi. Lo fece
una sola volta, però. E quella volta rimasi incinta di Juri,
appunto.»
«Tu hai detto
che lo amavi in un
modo strano, vero? Eri innamorata più della sua musica che
di lui.»
«Sì,
è vero. È proprio così. In
confronto a lui, la sua musica era così dolce,
così piena d’amore, malinconica…
Sì, ero innamorata della sua musica.»
«Capisco. E
lui cos’ha fatto
quando ha scoperto che eri incinta?»
«Non
gliel’ho mai detto.»
«Ah. E non
avevi delle amiche,
all’orfanatrofio, a cui l’hai detto?»
«No, ero
piuttosto solitaria
anch’io.»
«E quindi, non
lo sa nessuno?»
«No, a parte
voi.»
Si sorrisero e si
accorsero di
essere arrivate di fronte a casa. Il racconto di Katrina era stato
così appassionante
a tratti che Sharon non si era nemmeno resa conto del tempo che passava.
Venne travolta da un
senso di
disagio quando ricordò quello che era successo quella
mattina. Aveva una strana
paura di entrare e di vedere cos’era successo nel frattempo.
Fece un respiro profondo
ed entrò
dopo Katrina, pregando qualcuno che le cose fossero tornate alla
normalità. Chiuse
gli occhi e li riaprì quando sentì tutti i rumori
tipici della sera a casa sua:
i piatti spostati dalla lavastoviglie alla tavola, Stefan e Alex che
bisticciavano per qualcosa di stupido, la televisione accesa, Sarah che
giocava
con Juri e le risate che le riempivano il cuore di gioia, quelle della
sua
famiglia speciale.
Si catapultò
in cucina seguendo
quelle risate e vide me e Tom abbracciati, suo padre e sua madre che
scherzavano mentre si passavano i piatti.
«Ciao Sharon,
com’è andata?»,
chiesi.
«È
tutto… come prima!», saltò di
gioia, aggrappandosi al mio collo e baciandomi la guancia.
«Perché,
cosa credevi fosse
cambiato?», chiese Anto.
«Niente»,
sorrise Sharon.
«Avete fatto
shopping?», Tom
indicò le borse che Sharon aveva lasciato
all’entrata della cucina.
«Ah,
sì! Stefan, capita anche a
te di essere trattenuto dai fan?»
«Sì!
Vengo assalito da branchi di
ragazzine!», fece una pausa dal litigio con Alex, ma riprese
subito dopo.
«E cosa fai in
quei casi?»
«Le assecondo
e dopo corro!»
«Sei stata
assalita dai fan?
Sharon, come stai?», Bill le prese il viso fra le mani e la
guardò attentamente,
assicurandosi che stesse bene.
«Papà!
Sono tutta intera! E poi
erano solo due. Sono stati gentilissimi, abbiamo fatto qualche foto.
Solo che
non ci stavo con la testa, con Nicolas che mi ha chiesto di uscire e
quello che
era successo… Mi hanno aiutato a distrarmi, direi.»
«Nicolas ti ha
chiesto di
uscire?», chiesi. «Quand’è
successo? Me lo sono persa.»
«Sì,
quando sei andata di sopra
con Tom», disse Anto.
«E mi sono
persa la scenata di
Bill? Accidenti!»
«Non ti sei
persa niente, te
l’assicuro», disse Bill alzando il sopracciglio.
«Quel ragazzo è stato
fortunato. Non ero in vena di litigare con lui, stamattina.»
«Non ha fatto
una piega e ha
detto che posso uscire!», saltellò Sharon,
difendendosi il viso con le braccia,
il sorriso nascosto anche negli occhi brillanti.
«Dai,
è bellissimo! Dove ti porta?»,
chiesi.
«Non lo so,
non me l’ha detto.»
«Uh, una cosa
a sorpresa… Bello.»
«Sì,
ma non so come vestirmi.»
«Maglione
pesante, jeans e scarpe
da ginnastica», disse Bill.
«Dai
Bill!», lo spinse Anto.
«Che
c’è?!»
«E poi vuoi
che si faccia
suora?», chiese Tom sedendosi al tavolo, sentendo il timer
del forno suonare.
«Come sei
spiritoso. Ragazzi, è
pronto!», chiamò Bill.
In meno di trenta
secondi tutti
erano seduti intorno al tavolo a rubare le patatine fritte dal piatto
al centro
della tavola. La povera Sarah non ci arrivava perché aveva
le braccia corte e aveva
iniziato a lamentarsi. Tom aveva sorriso e gliene aveva date
più degli altri,
facendole fare i salti di gioia.
Juri si era voluto
mettere in
braccio a Katrina, e lei aveva sorriso con le lacrime agli occhi. Era
come se
Juri sapesse che in realtà era la sua mamma, e non sua
sorella.
«Allora
Katrina, ti sei divertita
oggi?», chiese Anto.
«Sì,
Sharon è stata…», la guardò
e Sharon tossì imbarazzata. «È
unica.»
«Grazie»,
biascicò.
«State
diventando amiche,
allora.» Le due sorrisero e annuirono.
«Ah, ha
trovato il lavoro», disse
Sharon.
«Davvero?
È magnifico! Hai fatto
in fretta!»
«Dove?»
«Al centro
commerciale, in un
negozio di abbigliamento.»
«Sono fiera di
te», disse Anto.
«Grazie.»
«Beh? Voi due
non avete niente da
dire?», chiese Tom ad Alex e Stefan, che stavano in silenzio
seduti l’uno di
fronte all’altro. Si squadrarono con rabbia, ma poi non
riuscirono a non
ridere. Tra loro era sempre così, come tra Bill e Tom. I
gemelli avevano sempre
una marcia in più, me n’ero accorta col tempo.
«Sai mamma,
Bea dev’essere
tornata da un pezzo ormai, ma non si è fatta
sentire», disse Alex.
«E ti
manca?», versai l’acqua nel
bicchiere di Sarah, seduta accanto a me sopra tre cuscini per dargli
qualche centimetro
in più.
«Domanda
difficile, non so
risponderti.»
«Guarda che lo
senti se ti
manca», lo punzecchiò ancora Stefan.
Chissà se avrebbero ricominciato a
litigare, visto che avevano iniziato proprio per quel motivo.
«Quando penso
a lei non penso a
Krista. Quando penso a Krista non penso a Bea. Come faccio a capire se
mi
mancano tutte e due?»
Si guardarono acidi per
un po’,
poi Stefan sbuffò e ritornò a mangiare. Sapeva
che con lui era una causa persa,
alla fine.
«Scusa, Krista
e Bea che cosa
provano per te? Tanto vale vedere chi ti vuole di più,
no?», disse Katrina.
«Comunque,
anche se una mi
vorrebbe più dell’altra, io non so chi voglio di
più.»
«Allora
c’è un’unica cosa da
fare.»
«Cioè?»
«Tagliare i
ponti con una e
vedere che succede con l’altra. Capirai presto chi vuoi
davvero.»
«Ok…
grazie.»
Katrina era sempre una
novità,
ogni giorno rivelava un po’ di sé, con calma. Per
quanto sarebbe riuscita a
sorprenderci?
______________________________________
Ciao a tutti!
:)
Ehm... non so come dirvelo, ma... mi sono dimenticata di postare la
scorsa volta! >///< Ero sicura di aver postato, ed
invece... no xD Perdonatemi infinitamente.
E dopo essermi messa con le ginocchia sui ceci, parliamo di questo
capitolo! A casa Kaulitz riprende la normale routine, dopo
le festività, e… surprise! Un nuovo arrivo in
casa Kaulitz! C’è davvero bisogno
di una casa più grande, anche se Ary è molto
affezionata a questa.
Sono una famiglia molto unita, in
questo capitolo si è visto particolarmente, ma riescono
sempre a risolvere
qualsiasi problema! :D
Abbiamo scoperto un po’ di più su
Katrina, sulla sua triste storia e sul padre di Juri… E
inoltre pare che lei e
Sharon stiano diventando sempre più amiche, sempre
più sorelle! :)
Alex invece è ancora un po’
confuso, chissà, magari con Krista di nuovo nella band si
smuoverà qualcosa?
Staremo a vedere! ;)
Ringrazio di cuore chi
ha
recensito lo scorso capitolo:
freency
: Ciao! Sono contenta che lo scorso capitolo ti sia
piaciuto! :) Hai ragione, ci voleva una specie di stacco per non
appesantire
troppo e anche io tifo per Anne e Christin, anche se non è
affatto semplice.
Comunque, spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto! Grazie, alla
prossima!
Tokietta86
: Ciao! Sono contenta che ti sia piaciuto lo scorso
capitolo! :) La situazione è davvero un po’
complicata e sono pienamente
d’accordo con te con tutto quello che hai scritto, la
pensiamo allo stesso modo
;) [Mi piacciono i tuoi papiri, non ti preoccupare! xD] Spero che anche
questo
capitolo sia stato di tuo gradimento! Grazie mille, alla prossima! Un
abbraccio!
marty sweet princess
: Ciao! Abbastanza bene, tu? :) La mia mente
lavora giorno e notte per trovare nuove situazioni da scrivere xD
Chissà come
andrà a finire… Grazie mille,
un bacio!
Utopy : (Menomale che ci sei
tuuuu xD) Pensavi di trovarti fra i piedi
Ary, e invece… taac! Capitolo
Anne e Christin xD Beh, Ary ha recuperato
in questo *-* Spero tu non l’abbia odiata tanto
ç_ç Comunque sia, la situazione
delle due giovincelle è complessa assai u.u E, no, non
poteva essere un’altra
ragazza perchè io sono perfida! xDD Sì, Christin
non sta passando un bel
periodo, ma pare che nessuno ancora si sia accorto di
niente… xD Lo scopriremo
solo vivendo u.u
Ti voglio un bene immenso, Mond! *-* Tua, Sonne.
Ringrazio
anche chi ha letto soltanto! Grazie, alla prossima!
Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 23 *** Freedom to love you ***
Your
arms are my castle,
your heart is my sky
They wipe away tears that I cry
The good and the bad times we’ve been through them all
You make me rise when I fall…
(Every
time we touch – Cascada)
Capitolo 16
Freedom to love you
Sharon era agitatissima, nemmeno i
tre quarti d’ora passati sotto l’acqua calda della
doccia erano riusciti a calmarla.
Aveva iniziato a prepararsi quel
pomeriggio, verso le cinque, e alle sette meno un quarto era ancora
indecisa su cosa mettersi. Girava per la stanza con le mani nei
capelli, già malridotti perché non se li era
stirati. Faceva pena: era ciò che pensava guardandosi allo
specchio in reggiseno e slip.
Non c’era nulla che le
andasse a genio. Aveva milioni e milioni di vestiti bellissimi, eppure
niente, nessuno l’attirava davvero.
Iniziò almeno a mettersi
la matita nera, per guadagnare un po’ di tempo mentre pensava
a cosa indossare, ma rischiò di accecarsi. Era meglio essere
concentrati a fare una cosa per volta, anche se era in uno scandaloso
ritardo.
«Sharon, posso
entrare?»
«Ehm…
sì, sì, entra pure.»
Katrina entrò in camera
di Sharon e si guardò intorno disorientata: era peggio di un
campo minato lì dentro. Non aveva mai visto così
tanti vestiti, e così tremendamente belli, in tutta la sua
vita.
«Ma che è
successo?», chiese stando attenta a non calpestare nulla per
raggiungerla.
La trovò davanti allo
specchio del bagno, quasi nuda e con un’espressione
sofferente sul viso.
«Sarà un
completo disastro, ne sono convinta.»
«Che cosa stai
dicendo?»
«Guardami! Tra poco
Nicolas sarà qui e io ancora non ho deciso cosa
mettermi!»
«E questo sarebbe il
problema?»
«Beh…
sì!»
Katrina sbuffò
sorridente e mosse la mano, poi ritornò in camera da letto,
seguita da una Sharon quasi del tutto disperata.
«Io non ho mai avuto
così tanti vestiti», le disse.
«Sei fortunata, non sei
mai indecisa.»
«Che dici? Sharon,
rilassati, andate solo a cena fuori! E saresti bellissima anche con
degli stracci, se posso dirtelo.»
Sharon arrossì e si
piegò a raccogliere un vestito, sul quale stava per
inciampare, per nascondere un po’ di
quell’imbarazzo.
«Questo non va
bene?», le mostrò un vestito nero con le
rifiniture di pizzo azzurre sul corpetto e sull’orlo della
gonna.
«No, troppo provocante.
Pensavo di metterlo al concerto.»
«Certo, provocante.
È per questo che lo metti al concerto e non di fronte al tuo
ragazzo, che ne avrebbe il pieno diritto?»
«Per favore Katrina,
aiutami tu!»
«Ok, ma non fare la
melodrammatica. Vedrai che andrà tutto per il meglio. Almeno
spero.»
«Ecco, è
questo che mi spaventa.»
«Oh, Sharon, io non ho
tutta quest’esperienza con i ragazzi! Magari potresti darmi
tu qualche consiglio! Di sicuro ne sai più di me.»
«Perché?»
«Io non ho mai avuto un
ragazzo oltre Juri. Quando l’ho conosciuto avevo tredici
anni, e poi è nato Juri… la sai la
storia.»
«Ah. Davvero?»
Katrina annuì e
poggiò sul letto una minima parte dell’armadio di
Sharon disseminato per la stanza.
«Perché non ti
vesti normalmente? Penso che se Nicolas ti vuole bene non
baderà ai tuoi vestiti, o no?»
«Sì, hai
ragione», sussurrò arrossendo di nuovo. Si
sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Grazie.»
«Di niente. Credi di
riuscire a cavartela da sola, d’ora in poi?»
«Sì, grazie di
tutto.»
Katrina le sorrise e
uscì dalla camera, rischiando per altro la vita in un
vestito rosso e nero simile a quello delle Barbie
delle feste.
Scese di sotto e sentì
il campanello suonare, così si affrettò ad andare
alla porta urlando: «Apro io!»
Bill non era proprio di buon umore,
ma si era abituato alla presenza fastidiosa di quel ragazzo per amore
di sua figlia. Ancora gli venivano le crisi pensando che lui avesse
sfiorato il fragile corpo di Sharon. Per fortuna erano crisi interne di
cui solo la sua mente percepiva l’entità e i
danni, ovviamente.
«Ciao, tu sei Katrina,
vero? Piacere di conoscerti, io sono Nicolas», si
presentò lui.
«Piacere mio»,
lei sorrise e gli strinse la mano.
«Buonasera, come
sta?», chiese Nicolas una volta entrato, rivolto a Bill
seduto sul divano, in allerta come un gatto.
«Potrebbe andare meglio,
grazie», rispose acido.
«Deduco che andrebbe
meglio se non ci fossi?», sorrise sfrontato.
«Non pensavo fossi
così arguto.»
«Io sono molto
più arguto
di quanto lei possa credere.»
Bill sbuffò irritato,
portandosi le braccia al petto: quanto gli dava sui nervi. Il bello era
che piaceva a tutti, tranne che a lui.
«Ciao Nicolas! Come
stai?», gli chiese Anto baciandolo sulle guance.
«Benissimo,
grazie!»
«Mi fa piacere. Uh, e
quello?», indicò il casco viola con delle righe
fucsia al centro che teneva sottobraccio.
«Cosa, questo?
È per Sharon.»
«Che cosa?»,
gridò Bill alzandosi in piedi.
Tom ridacchiò e mi diede
una leggera gomitata. Eravamo in cucina che ci godevamo lo spettacolo,
e avevamo scommesso dopo quanto Bill avrebbe iniziato a gridare come
una gallina: non erano passati nemmeno cinque minuti, aveva vinto lui.
«Che
cosa, cosa?», chiese
Nicolas.
«Cioè…
tu vorresti dirmi che Sharon… era venuta con te in moto
senza casco?!»
«No, assolutamente no!
Ovviamente lei usava il mio.»
«Ed eri tu ad andare
senza?», chiesi.
«Sì, la
responsabilità era mia, quindi…»
«Sei stato davvero un
cavaliere. Ma non provarci mai più, chiaro?», lo
minacciò Anto.
«È per questo
che le ho portato questo», indicò il casco,
raggiante. «A proposito, dov’è
Sharon?»
«Sono… sono
qui, arrivo!»
Arrivò trafelata dopo
aver sceso due rampe di scale di corsa. Vide Nicolas alla fine della
terza e ne rimase affascinata, era veramente bellissimo, splendente
come non l’aveva mai visto. I capelli chiari sembravano quasi
brillare, come i suoi occhi attenti e il suo sorriso smagliante che non
aspettava altro che il suo.
Sotto la giacca indossava una
camicia celeste che riconobbe subito: era quella che aveva indossato
lei la notte che era stata da lui. Quel ricordo la fece arrossire e
abbassare lo sguardo verso i suoi piedi. Si vergognò delle
sue All Star storiche, vecchie di anni, che ne avevano viste di tutti i
colori. Le aveva scelte anche un po’ per quello,
perché sperava che le portassero fortuna, ma in quel momento
avrebbe voluto avere le scarpe col tacco nere nuove di zecca. Se non si
intonavano con il resto non importava.
«Cavolo, cuginetta, sei
proprio uno schianto stasera», disse Stefan stravaccato sul
divano accanto ad Alex, che in cambio venne fulminato con lo sguardo da
Bill.
Alla fine aveva seguito il
consiglio di Katrina, non si era messa nulla di particolare: un paio di
pantaloni di un grigio brillante e un maglione a strisce nere e viola.
Per il trucco si era solo messa un po’ di matita nera, nulla
di più.
Sharon scese le scale e si
trovò di fronte a Nicolas. In confronto si sentiva una
nullità: l’umile umana di fronte al dio.
«Ciao Sharon, sei
stupenda», sussurrò Nicolas.
«Grazie»,
mormorò lei torturandosi il labbro inferiore.
«Ok, direi che possiamo
andare.»
Nicolas si diresse verso
l’attaccapanni e prese il cappotto di Sharon, glielo
infilò con gentilezza, lei sempre più rossa, e le
porse il casco, che lei prese in mano quasi in trans.
«Passate una bella
serata», li salutò Anto sulla porta.
«Vedi di tornare presto!
Domani avete le prove, l’intervista e il concerto,
ricordatelo!», raccomandò invece Bill.
Era strano notare come sua figlia
crescesse in fretta, e che anche con un semplicissimo maglione e un
paio di pantaloni era stupenda, come sua madre.
«Sì,
sì», sbuffò Sharon incamminandosi verso
la moto di Nicolas.
Bill urlò ancora per un
po’, ma non lo stette neppure ad ascoltare. Si
infilò il casco, si mise dietro a Nicolas e si
aggrappò forte alla sua schiena quando partì.
Quando furono ormai lontani e il
rumore della moto sparito, solo allora, Bill entrò in casa e
si fiondò dritto in cucina. Si accasciò sulla
sedia accanto a Sarah e nascose il viso fra le braccia incrociate sul
tavolo.
«Che cosa
c’è zio? Dimmi tutto», disse Sarah
annoiata.
«Non puoi capire, Sarah.
Sharon è troppo piccola, non può stare con
uno… uno così!»
«A me Nicolas
piace.»
«Vedi? Te l’ho
detto che non puoi capire. Quello ti inganna con il suo visino da
angelo e poi… track, sei fottuto.»
«Papà, cosa
vuol dire fottuto?»
«Niente Sarah, niente.
Tuo zio si inventa le parole.» Tom, con un solo sguardo,
trucidò Bill, che non era in grado di intendere e di volere
in quel momento.
Sarah stava disegnando qualcosa su
un foglio, non c’erano dubbi che era la sua passione,
utilizzando tutti i colori possibili e anche tutta la superficie del
tavolo grazie all’aiuto di Whiskey sempre al suo fianco.
«È una bella
parola. Posso dirla anch’io, papà?»
«Certo che no.»
«Uffa. Zio,
perché Nicolas non ti piace?»
«Te l’ho
già detto. Per prima cosa, è troppo grande per
lei.»
«Sono solo due
fottutissimi anni, Bill! Io e Ary, come tu e Anto, ne abbiamo quattro
di differenza!»
«Non è giusto
papà! Perché tu puoi usare quella parola e io
no?» Era una bambina intelligentissima e molto precoce, non
si perdeva mai niente.
«Scusa piccola, ho
sbagliato. Prometto che non la dirò più neanche
io», riparò. Io sorrisi e continuai a separare
l’insalata e a sciacquarla nel lavandino.
«E poi?»,
chiese Sarah.
«E poi… mi fa
paura la sua moto, ecco.»
«La sua moto è
bella, invece.»
«Tutt’apparenza,
visto?»
«Bill, ce l’ho
pure io la moto», disse Anto appoggiandosi accanto a Tom al
ripiano della cucina. «E mi pare che ne abbia una anche tu. O
mi sbaglio?»
«Ma che
c’entra? Chi mi dice che sa guidare?»
«La sua patente,
magari?»
«Di questi tempi la
patente si prende così, non ci sono più gli
esaminatori di una volta.»
«Zio, io credo che tu ti
stai solo arrampicando sui vetri perché credi che Sharon
preferisce lui a te.»
«Il proverbio
è Arrampicarsi
sugli specchi, e non sui vetri,
Sarah. Senza contare gli errori nel coniugare i verbi, ma quelli te li
concedo», la corresse Stefan che si era messo di fronte a lei
a scarabocchiare su un foglio con un pennarello.
«Glieli concedi
perché li sbagli anche tu tutt’ora?»,
sogghignò Alex mettendosi al suo fianco, beccandosi un pugno
sul braccio.
«Sì, va
bè, non importa!», ridacchiò Sarah, poi
tornò seria a guardare suo zio Bill. «Allora, ho
ragione?»
Bill alzò lo sguardo su
me, Tom e Anto, quasi spaventato da quella bambina che non aveva nulla
di bambina: era un alieno. O forse, più semplicemente,
l’aveva capito anche lei che quella era la verità.
«Posso
aiutarti?», mi chiese Katrina mentre Juri si metteva seduto
accanto a Sarah, dall’altra parte.
«Qui ho finito, ma grazie
comunque. Sarah, leva tutta quella roba che apparecchiamo.»
«Ok, mamma.»
Sarah raccolse tutti i pennarelli e
i suoi fogli con l’aiuto di suo fratello Stefan e li
portarono in sala, Anto prese la tovaglia e la stese sul tavolo,
parlando con Tom.
«Allora
venerdì andiamo a vedere se c’è qualche
bella casa?», gli chiese.
«Sì, penso di
sì. Bill?»
«Sì,
è uguale.»
«Ehi, e a me non lo
chiedete?», mi girai e li guardai uno per uno, le mani sui
fianchi.
«In
verità… ecco… pensavamo che sarebbe
stato meglio se tu…»
«Fidati, è
meglio se non vieni.»
«Cosa? E
perché?»
«Sei troppo legata a
questa casa, diresti che tutte le altre non sono belle come questa e
sprecheremmo un’intera giornata per niente.»
«Io dico quello che
è vero: se ce ne sarà una più bella di
questa…»
«Ma per
te non ce ne sarà mai
una più bella di questa.»
«Credete che io sia
così infantile? So distinguere il bello e il
brutto.» Tom, Bill e Anto si guardarono indecisi.
«Prometto che sarò molto oggettiva e non mi
farò influenzare dall’affetto che nutro per questa
casa, ok?»
«Ok, va bene,
l’hai promesso», mi sorrise lei.
Dovevo arrivare alle promesse per
poter andare con loro a cercare una casa in cui per altro ci avrei
abitato anch’io. Roba da matti.
«Ma perché
dobbiamo cambiare casa?», chiese Sarah sedendosi al suo posto
a tavola.
«Lo sai che avrai un
fratellino? O una sorellina, ancora non si sa.» Tom si mise
seduto a capotavola, al suo fianco, e le accarezzò i capelli
sulla testa sorridendo.
«Davvero avrò
un fratellino o una sorellina?», aveva gli occhi che le
brillavano, una gioia profonda mi addolcii e mi fece dimenticare il
ricatto che avevo dovuto subire.
«Sì, davvero.
E sai come si chiamerà se sarà un
maschietto?»
«Avete già
deciso il nome? Non ci credo», disse Anto.
«No, come?»
«Davide.»
Io per prima mi bloccai, poi tutti
gli altri. Sembrava il gioco Un
due tre stella, solo che non
c’era nulla di divertente. Bill e Anto si guardarono, poi
guardarono Tom.
«Davvero?»,
sussurrò Bill.
«È un bel
nome! Mamma, non ti piace?» Sarah si girò sulla
sedia e mi guardò le spalle, non avevo intenzione di
girarmi, e anche se avessi voluto non ci sarei riuscita.
«Ahm…
sì, è un bel nome», deglutii.
«Visto?», Tom
le fece l’occhiolino e le batté il cinque.
«Tom, avevo detto che ci
avrei pensato. È… è troppo
presto.»
Tirai fuori i piatti dalla
credenza, poi li passai ad Anto, che mi sorrise e li sistemò
sulla tovaglia. Lo stesso con i bicchieri, le posate e i tovaglioli, il
tutto nel più perfetto dei silenzi.
«Papà,
perché sei triste?», chiese Sarah
all’improvviso, non con la solita voce allegra, ma come se
anche lei fosse triste. Tom alzò lo sguardo e le sorrise.
«Non sono
triste.»
«Sì,
invece», allungò le braccia e Tom la strinse,
lasciandosi avvolgere il collo.
Mi girai e guardai la scena
spaventata: l’avevo fatto ancora. Per l’ennesima
volta avevo pensato solo a me e per niente a Tom, che nel suo piccolo
soffriva come me, ma che, al contrario, voleva chiamare nostro figlio
come lui.
Tom mi sorrise, ma non mi rincuorò per niente.
Durante la cena, Stefan ci stava
aggiornando su Michelle e ci raccontava episodi inediti di quella sera
in cui lui era stato da lei, alla Vigilia di Natale, quando, di punto
in bianco, Sarah se ne uscì con un’altra delle sue.
«Come nascono i
bambini?», chiese lasciando da parte la pasta che aveva
ancora nel piatto. Guardava Bill, e lui si guardò intorno e
poi sorrise imbarazzato.
«Chiedilo a tuo
papà», le disse.
«Grazie Bill, molto
gentile.»
Sarah si rivolse verso di lui e
aspettò una risposta, senza insistere, semplicemente
guardandolo.
«Dall’amore di
mamma e di papà», rispose ad un certo punto.
Stefan e Alex sghignazzavano,
Katrina aveva un sorriso a metà tra il nostalgico e il
divertito, e anche Juri pareva interessato all’argomento.
«Cioè?»
«Cioè…
adesso mamma ti spiega.»
Ovviamente. Come tutte le volte, il
compito di finire il discorso toccava a me. Mi lasciava sempre la parte
più difficoltosa. Lasciai il tovagliolo accanto al piatto e
guardai Sarah.
«Il seme della mamma
incontra quello del papà e, fondendosi insieme, danno vita
ad un unico seme che poi cresce e diventa il bambino appena
nato.» Ormai quella frase l’avevo imparata a
memoria, perché, oltre che ad Alex e Stefan, avevano
chiamato me pure quando lo chiese la piccola Sharon, e non mi
imbarazzava nemmeno più. Quindi, presi il bicchiere e bevvi
un sorso d’acqua.
«Ma non si usa
più raccontare la storia della cicogna?», chiese
Bill.
«Perché
mentire? Sono bambini, mica stupidi. O no, Bill? Tua mamma ti ha
confuso per uno stupido?», risi.
«Sicuramente ha confuso
pure Tom.»
«Ehi!»
«E perché il
bambino è nella pancia della mamma?», si mise in
mezzo al battibecco Sarah, con il suo visino angelico ed ingenuo.
«Perché noi
siamo più brave», le pizzicai il naso.
«Non è colpa
nostra se madre natura ha deciso che solo le femmine possono
procreare», intervenì Stefan. Tutti lo guardammo e
la stessa domanda ci sorse spontanea.
«A proposito,
Stefan… tu e Michelle…»,
incominciò Tom.
«No, non
ancora», disse alzando le spalle.
«Adesso assumeranno tutti
la faccia da Oh mio Dio, non
ci credo!», disse Alex
beccandosi una gomitata nel fianco da parte del gemello.
«Questo mi stupisce
davvero, Stefan», disse Tom.
«Sì,
è una situazione strana.»
«Che intendi
dire?»
«Lei vuole farlo dopo il
matrimonio. Io ho cercato in mille modi di farle cambiare idea, ma
è cocciuta.»
«Dopo che
cosa?»,
gridò Tom scandalizzato.
«Il matrimonio.
Sì, pure Ary era di quell’idea, ma l’ha
abbandonata presto», disse Anto. A quel punto, come previsto,
tutti alzarono lo sguardo su di me.
«Chi vuole ancora
pasta?», chiesi sorridendo e alzandomi.
«Nessuno. Adesso stai qui
e mi spieghi un po’ cos’è sta
storia», sorrise maligno Tom. Mi prese per il polso e mi fece
mettere seduta sulla sua gamba.
«Ma sì,
insomma… in verità mi aveva convinta
papà ad abbracciare quella filosofia», ci pensai
su e ricordai quel giorno, ma era meglio non parlarne, faceva troppo
ridere, mi avrebbero presa in giro a vita.
«E poi hai cambiato
idea.»
«Sì, ho avuto
una strana… illuminazione,
se così si può dire.»
Sorrisi e mi alzai. Presi i piatti
vuoti, anche quello di Sarah era vuoto, c’era sicuramente lo
zampino di Alex, e li misi nel lavandino.
«Sì, illuminazione
è il termine esatto», ammiccò Tom.
«Anto, tu non eri di quell’idea?»
«No, io no»,
disse.
«Però hai
aspettato.»
«Sì, io sono
prudente, non come qualcun altro qui», rise e venni
contagiata pure io.
«Shhh,
guardate», Bill indicò Sarah addormentata con la
testa sulla spalla, sembrava un angioletto.
«Alex, portala di
sopra», sussurrai.
Lui si alzò e, facendo
attenzione a non svegliarla, la portò in camera sua. Nello
stesso momento, il campanello trillò e fu Stefan a correre
alla porta, dicendo che probabilmente era Michelle. Infatti, era lei.
«Ciao!», la
salutò e poi l’abbracciò, baciandola
sulle labbra.
«Ciao Ste»,
ricambiò il saluto con il sorriso sul volto.
Entrò in casa per
salutare e sicuramente per me non era il momento migliore,
poiché avevo visto Tom alzarsi ed andare in sala per
posizionarsi sul divano, di fronte alla tv, iniziando a scanalare.
Conoscendolo, non riusciva a trovare nulla di interessante
perché non era realmente interessato a qualcosa, ma quello
era stato semplicemente un modo per scappare via, per rifugiarsi.
«Buonasera»,
disse Michelle. «Vi rubo Stefan questa sera.»
«Fai pure, tanto qui
è inutile», rispose Anto con un sorrisetto
sfrontato.
«Divertente,
zia.» Lui ridacchiò e lei pure, soffiandogli un
bacio con la mano.
«Allora andiamo, a
dopo!», salutarono.
«Ciao,
divertitevi!», accennai un sorriso e, quando furono fuori di
casa, incominciai a mettere i piatti sporchi nella lavastoviglie.
«Ary, vai, ci pensiamo
noi qui.» Anto mi prese il piatto di mano e mi spinse verso
l’uscita dalla cucina.
Andai da Tom e mi misi seduta al
suo fianco, lo feci appoggiare al mio grembo con la testa e lui
appoggiò una mano sul mio ventre.
«Piangi un
po’», sussurrai.
«Perché
dovrei?»
«È tanto che
non piangi.»
«Meglio, no?»
«Non
esattamente.»
Ci guardammo negli occhi e mi
baciò sulla guancia prima di stringermi a sé e di
mettersi a piangere come da troppo tempo non faceva. Gli accarezzai i
capelli sulla nuca e chiusi gli occhi sulla pelle del suo collo.
«Mi manca»,
disse soffocando un altro singhiozzo.
«È scontato se
lo dico pure io?»
Rise piano e mi
accarezzò le guance, io gli sorrisi e gli asciugai le
lacrime.
«Amore mio»,
sussurrai.
«Sì?»
«Lo chiamiamo
Davide?»
Mi guardò senza parole e
mi abbracciò di nuovo, felice. Quell’abbraccio
diceva tutto.
«E se nasce
femmina?», chiese preoccupato.
«Alessandra ti
piace?»
«Come… come
tua madre?» Sollevai le spalle, annuendo, con un lieve
sorriso sulle labbra. «Va bene. Tanto nascerà
Davide, ne sono sicuro», mi sorrise e tornò con
l’orecchio sul mio ventre, anche se sapeva che non avrebbe
sentito praticamente niente, era bello anche immaginarsi i suoni di
quella minuscola vita dentro me.
***
Il posto era veramente carino,
Nicolas aveva azzeccato subito i gusti di Sharon. Anche se poteva
sembrare una ragazza superficiale ed abituata al lusso, aveva sempre
preferito la semplicità e l’intimità, e
lui aveva fatto in modo che niente e nessuno rovinasse la loro serata,
nemmeno il fan più timido e riservato che lei potesse avere.
Sedevano vicini e mentre mangiavano
capitava che ogni tanto si sfiorassero i gomiti e Sharon diventava
sempre rossa come un peperone. Sperava che lui non se ne accorgesse, ma
aveva il forte presentimento che se ne fosse sempre reso conto e non le
avesse detto niente perché avrebbe ottenuto
l’effetto contrario.
Avevano parlato del più
e del meno, ma anche della famiglia e dei delicati rapporti che Nicolas
aveva con la sua, e poi Sharon gli aveva accennato la
possibilità del trasferimento. Non ne era rimasto
entusiasta, però non l’aveva nemmeno presa male.
Quella serata era passata in un
lampo, Sharon non se n’era nemmeno accorta quasi, e avrebbe
tanto voluto che il tempo tornasse indietro e soprattutto evitare tutta
quell’ansia che l’aveva accompagnata per
l’intero pomeriggio.
A Sharon piaceva moltissimo stare
abbracciata a Nicolas e sfrecciare nel vento con la sua moto nonostante
facesse un freddo cane. Adesso capiva come si sentiva sua madre quando
suo padre la portava a fare i giri: era meraviglioso.
Il cielo era limpido e le stelle
luminose, come la luna che brillava perfetta nel suo semicerchio.
«Posso dirti che stasera
sei davvero carina?», si passò una mano nei
capelli, quel sorriso che riusciva sempre a farla arrossire e a farle
pensare a cose non proprio puritane.
«Carina?
Stefan ha detto che sono uno schianto.»
«Stefan lo fa apposta per
farti arrossire, ma è vero. Quindi io tento di non farti
arrossire e di farti un complimento allo stesso tempo.»
«Ah, grazie»,
si morse il labbro.
Sharon era appoggiata alla moto, di
fronte a casa sua. Sapeva che era fin troppo presto per rientrare, o
forse non voleva e basta, voleva stare ancora con lui. Nicolas sorrise
e si avvicinò a lei, si appoggiò al suo bacino
con il proprio e le cinse i fianchi, poi la baciò sulle
labbra.
«Pensavo ad una
cosa», le disse.
«A cosa?»
«Mi chiedevo
se… non era troppo presto dirti che ti amo.»
«Che cosa? Ti tiri
indietro?»
«Non sto dicendo
questo.»
«Allora cosa stai
dicendo?»
«Che se te
l’avessi detto quella volta oppure adesso, sarebbe stato
uguale, perché è quello che sento.»
Sharon boccheggiò, lui
le accarezzò le guance e la baciò di nuovo,
stringendola fra le sue braccia.
«Ti amo», disse
sulle sue labbra.
«Anch’io»,
sorrise Sharon. «Però…»
«Però
cosa?»
«Lo sai che non
sarà facile?»
«Non capisco dove vuoi
arrivare.»
«Nicolas, io ho
un’amante», gli prese il viso fra le mani.
«E chi sarebbe?»
«Si chiama
Musica.»
Si guardarono intensamente negli
occhi e Nicolas sospirò sollevato, però il suo
sorriso diminuì d’intensità.
«E ti porterà
lontano da me, prima o poi», annuì amareggiato.
«Già.
Sarà allora che capiremo davvero se ci amiamo.»
«Ne sei sicura?»
«La distanza fa male e
allo stesso tempo guarisce. A noi farà chiarezza.»
«Io ti amo, nessuna
distanza mi farà cambiare idea. Tu… hai bisogno
di chiarezza?»
«No. No,
Nicolas.»
«Allora volevi arrivare
alla questione, volevi dirmi che succederà.»
«Sì, hai
diritto di sapere.»
«Ok, va bene. Adesso ti
senti meglio?»
«Cosa?»
«Ti sei levata questo
peso dallo stomaco?»
Sharon rise e si
appoggiò al suo petto con la fronte, tenendo i pugni ai lati
della testa. «È stato difficile dirtelo.
Come… sarà difficile stare lontano da
te.»
«Ce la faremo, lo
sai.»
«Ne sono sicura. Mamma e
papà ce l’hanno fatta, e così anche zio
e zia. Ho tanti buoni spunti per sperare.»
«Sperare?
Io non spero, io ho la certezza che ce la faremo.»
«Scusami, io non sono
sicura come te.»
«Ma mi ami.»
«Ero certa anche di amare
Derek. Lo so che è assurdo, ma…»
«Non è
assurdo, Sharon. La tua paura è…
normale.»
«E cosa dovrei fare per
fidarmi totalmente di te?»
«Devi solo fidarti di
te», le mise una mano sul petto, «del tuo cuore. Ci
vorrà del tempo, ma vedrai che ce la farai, ne sono sicuro.
Io mi fido di te.»
Aveva le lacrime agli occhi, ma
cercò comunque il suo sguardo e gli sorrise. Nicolas la
baciò sulle labbra, portando le mani fra i suoi capelli
mossi che le contornavano il viso dolcemente.
«Come vorrei che non
passasse mai questa notte», mormorò lei
accarezzandogli il collo con le dita fredde.
Nicolas si staccò
dolcemente e sorridendo si tolse un braccialetto d’argento
che Sharon riconobbe come quello che indossava sempre, non se ne
separava mai. Lo accarezzò e poi glielo infilò al
polso, senza dire niente.
«E questo cosa vorrebbe
dire?», sussurrò lei.
«Non vuoi sapere che
storia c’è dietro questo braccialetto? Tu sei
curiosa, perché non me lo chiedi?» Sharon sorrise.
«Questo è il braccialetto che mi sono comprato
quando ho cambiato vita, quando sono scappato di casa e ho avuto la mia
libertà.»
«Quindi questo
simboleggia la tua libertà?»
«Esattamente. Tu sei la
mia libertà, perché io sono libero di amarti, non
mi hai mica obbligato. Voglio che tu lo prenda, per ricordarti di me,
per ricordarti che ti amo da impazzire.»
«Come se avessi bisogno
di pensarti più delle ventiquattro ore standard.»
Si guardarono negli occhi e
sorrisero, in principio, poi scoppiarono a ridere l’uno nelle
braccia dell’altra.
«Grazie Nicolas,
è bellissimo.»
«Trattamela
bene.»
«Il braccialetto non
è maschile?»
«La mia
libertà di amarti.»
Sharon lo guardò e lo
baciò stringendosi a lui, le braccia intorno al suo collo e
le mani che accarezzavano piano i suoi capelli biondi.
«Adesso devi
andare», disse Nicolas controvoglia. «Domani hai un
po’ d’impegni, da quel che ho capito.»
«Non
m’importa.»
«Forza Sharon, fai la
brava.»
Sharon si staccò e si
allontanò di qualche passo. Nicolas si toccò il
polso e lei sorrise indicando il braccialetto che ormai si sentiva suo,
caldo come la sua pelle.
Entrò in casa in punta
di piedi, tutte le luci erano spente e dedusse che tutti erano andati a
dormire, così fece ancora più piano. Quando fu in
camera sua e si rilassò pensando a Nicolas, cadde
rovinosamente a terra inciampando in un vestito superstite di quel
pomeriggio. Si rialzò controllando che Juri non si fosse
svegliato e si spogliò in fretta per entrare in slip e
reggiseno fra le coperte fredde. Sorrise e poi sbuffò
ricordando gli impegni della giornata successiva: sarebbe stata
veramente impegnativa. Ma poi vide il braccialetto di Nicolas al suo
polso e si addormentò con il sorriso sulle labbra.
___________________________________________
Ciao a tutti!
Ecco un nuovo capitolo, a voi. Spero che vi sia piaciuto ^-^
Sharon e Nicolas sono usciti e sono davvero molto dolci *-*
E’ ricomparsa anche Michelle (Non è morta, evvai
xD), anche se brevemente, e abbiamo scoperto la sua
mentalità differente rispetto a quella di Stefan e di un
Kaulitz in particolare u-u xD E per concludere Ary si è
decisa ed è stata lei stessa a proporre a Tom di chiamare il
bambino come il suo fratellino.
Ringrazio chi ha recensito lo
scorso capitolo:
Tokietta86
: Ciao! ^-^ La frase: “Quei due fanno figli come
conigli” mi è piaciuta xD Sì, ma
è tutta un’idea di Tom, anche se Ary ne
è felice e finalmente si è lasciata andare :)
Forse anche perché non voleva sfornare la squadra di calcio,
è possibile xDD No, lo voleva davvero e se nasce femmina ha
già pronto il nome, come quello della sua mamma…
Sì, ora Katrina e Sharon vanno d’accordo e anche
se Katrina ha avuto un’infanzia difficile ora non
è sola, ha una famiglia che la ama :)
Anche a me fanno morire Nicolas e Bill, questa volta il papà
di Sharon ha avuto una vera crisi e chi l’ha psicoanalizzato?
xD Sarah xD Anche questa bambina la amo *-*
Grazie mille per i complimenti e grazie per la recensione, alla
prossima! :) Un bacio!
freency
: Non ti preoccupare, la casa la trovano :) E sei forse
l’unica che tifa per Bea o.o xD Staremo a vedere come
andrà a finire ;) No, non mi dimentico più xD
Grazie per la recensione, alla prossima!
Utopy
: Adesso Katrina ti sta simpatica, eh? *-* Lo sapevo! E’
impossibile odiarla, come Ary… u-u xDD Comunque, la sua
storia è davvero triste e Juri senior è stato
proprio uno stronzo, diciamolo u-u Io sono molto egocentrica,
sì u-u xDD
Bea, Bea, Bea… non mi ricordo quando sparirà, ma
sparirà, stai tranquilla u-u xD Per quanto riguarda Anne e
Christin dobbiamo aspettare e così ancora per Michelle,
anche se in questo capitolo è ricomparsa xD Te
l’avevo detto che questo sequel non mi era venuto bene,
è troppo spezzettato -.- Farò il possibile per
rimediare.
Grazie Mond, I love you so much *-* <3 Tua, Sonne.
Ringrazio anche chi ha letto
soltanto :)
Alla prossima settimana! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 24 *** Maybe, friends ***
I
loved you with a fire red, now it’s turning blue
And you say
Sorry like an angel, heavens not the thing for you,
But I’m afraid
It’s
too late to apologize, it’s too late
I said it’s too late to apologizes, it’s too late
(Apologize
– One Republic)
Capitolo
17
Maybe, friends
Sarebbe stata una lunga ed intensa
giornata, ma Sharon non si era tirata indietro e aveva vissuto tutto
con il sorriso sulle labbra. Tutti potevamo capire bene il
perché: l’amore faceva miracoli.
Si era alzata di
buon’ora, spontaneamente, sorprendendoci, e si era mostrata
in una forma smagliante; aveva risposto a tutte le nostre domande
curiose con imbarazzo ed eccitazione allo stesso tempo, anche se dopo
avrebbe avuto un’altra pesante intervista, una vera.
Nessuno però le aveva chiesto di quel braccialetto nuovo che
portava al polso. Il suo comportamento verso quell’oggetto
era insolitamente dolce, perché lo proteggeva quando
qualcuno lo fissava troppo a lungo e ogni tanto lo accarezzava sognante.
Bill era a dir poco nauseato da tutto ciò, ed era restio a
parlare con lei, anche se ciò gli procurava immensa fatica.
L’intervistatrice quella
mattina era arrivata con venti minuti di ritardo e aveva usato la scusa
del traffico, nonostante si vedesse benissimo che aveva la camicetta
allacciata male sotto alla giacca.
Gustav, diventato il loro manager ufficiale, si era imbestialito
perché avevano dovuto aspettare lei invece di fare cose
molto più importanti. Non vedevo un’incazzatura
così perfetta dai tempi di David e Benjamin.
Per fortuna l’avevano
fatta prima delle prove, perché allora sarebbe stato un vero
disastro. I ragazzi erano tesissimi già di loro e
un’intervista snervante prima di un concerto non era il
massimo.
Si erano sistemati nel backstage,
sotto la supervisione di Gustav, e la donna, sui trentacinque anni,
capelli cotonati biondi e la famosa camicetta, aveva iniziato subito
con le domande, come per recuperare un po’ del tempo che
avevano perso.
B-MAG: Allora
ragazzi, siete tesi per il concerto di stasera?
L’ovvietà e
anche la stupidità delle domande a volte era imbarazzante,
ma ci erano abituati.
DEVILISH: Eh
già.
B-MAG: Immagino,
sì, sì… Ci sono delle voci che dicono
che la separazione momentanea del gruppo sia stata solo una tattica per
attirare i mass media, sapete?
DEVILISH (SHARON): Sì,
le voci girano. Ne abbiamo sentito parlare.
B-MAG: E
che ne dite?
DEVILISH (SHARON): Cosa
potremmo dire? È ovvio che ci dispiace, non era questo il
nostro intento. Se è successo è perché
c’era qualcosa di grosso in ballo.
B-MAG: Cioè?
DEVILISH (KRISTA): Spiego
io, visto che sono la diretta interessata. Mi sono presa un
po’ di tempo per riflettere, ne avevo bisogno. Ma alla fine
mi sono resa conto che mi mancavano tanto e sono ritornata.
B-MAG: Tutti
quanti? Ci sono delle altre voci, che circolano in rete, che direbbero
che tu e Alex siete una coppia. È ancora così?
DEVILISH (ALEX): Non
vedo come questo possa entrare nel contesto dell’intervista.
Siamo qui per parlare della nostra musica, non per parlare di gossip e
di svelare parti della nostra privacy.
A Gustav brillarono gli occhi per
la risposta diabolicamente azzeccata, ma passò in fretta
perché sapeva che quella parte sarebbe stata sicuramente
tagliata oppure, ancora peggio, sarebbe stata manipolata a piacimento
dalla rivista per indurre a credere qualcosa invece che
un’altra.
B-MAG: Andiamo
avanti, forse è meglio. Sharon, vorrei sapere che
cos’è successo all’ultimo concerto e che
cos’era quel brano che hai suonato da sola, con il
pianoforte, piangendo oltretutto.
DEVILISH (SHARON): Oh,
quello. È stato un momento… strano. Avevo
litigato con delle persone e… a volte la musica serve anche
a scaricare la tensione e la rabbia. È un brano che non
conosceva nessuno, neppure i miei compagni di avventura
– Sorrise – perché
in verità non volevo che qualcuno lo sentisse, ma in quel
momento è stato spontaneo.
B-MAG: Capisco.
Davvero? Gustav non ci credeva
nemmeno un po’: un’oca come quella non poteva aver
capito il vero significato che si celava in quelle parole.
B-MAG: Voi
andate ancora a scuola e contemporaneamente suonate e fate concerti.
Come fate? Non sarebbe più semplice lasciare la scuola e
concentrarsi solo sulla musica, come molti altri hanno fatto? Anche i
vostri genitori hanno fatto così, mi sembra.
DEVILISH (ALEX): I
nostri genitori ci hanno influenzato musicalmente, ma siamo una cosa
completamente diversa da loro, anche se in certi aspetti siamo molto
simili. E poi non vediamo la necessità di lasciare la
scuola. Non è ancora capitato che all’interno
della nostra scuola fossimo assaliti dai giornalisti o dalle fan,
è tutto normale - tra virgolette. Per noi è come
vivere due vite: a volte è traumatico, ma altre volte
è un sollievo rifugiarsi in una quando l’altra fa
schifo.
DEVILISH (STEFAN): Sì,
e poi io e Alex stiamo per finire, quest’anno abbiamo la
maturità, non ha senso lasciare proprio adesso, dopo tutta
la fatica che abbiamo fatto!
B-MAG: Che
progetti avete dopo la scuola?
DEVILISH (STEFAN): L’unica
cosa in cui voglio impegnarmi è la musica.
DEVILISH (ALEX): A
me piacerebbe frequentare l’università, ma
è solo un’idea. Si vedrà.
B-MAG: Invece
voi? Manca ancora un po’, però avete
già qualche idea?
DEVILISH (SHARON): Io
vorrei frequentare una scuola di fotografia, è un sogno che
ho da quando sono bambina.
B-MAG: Credevo
fosse la musica, il tuo sogno.
DEVILISH (SHARON): Ne
ho talmente tanti di sogni! E quello della musica lo ritengo
già in parte realizzato: suonare di fronte a tutta questa
gente, alla nostra età, è bellissimo.
DEVILISH (KRISTA): Anche
per me come Stefan. Non mi vedrei a fare nient’altro, oltre a
suonare.
B-MAG: E
i vostri genitori che ne pensano delle strade che volete intraprendere?
DEVILISH (SHARON): Sono
fieri di noi.
DEVILISH (STEFAN): Vogliono
solo la nostra felicità, non ci obbligano a suonare o a
studiare, come nel caso di Alex.
DEVILISH (ALEX): Deficiente
– Rise e gli tirò una gomitata sul fianco
–, non è
vero.
B-MAG: Sembrate
un gruppo molto affiatato, non vi avevo mai conosciuti di persona e
solo ora me ne rendo conto. C’entra qualcosa il fatto che
siete sempre cresciuti assieme?
DEVILISH (STEFAN): E
che siamo fratelli gemelli io e lui?
– Mise un braccio intorno alle spalle di Alex – Potrebbe
essere. Per una band la cosa fondamentale è
l’amicizia: non saremmo nessuno se non fossimo amici, prima
di tutto. Noi non siamo stati costruiti a tavolino, siamo solo frutto
della nostra passione per la musica.
DEVILISH (ALEX): Parole
profonde, fratello. Dove le hai lette?
– Rise – No,
scherzo. Sono pienamente d’accordo con lui.
DEVILISH (KRISTA): Anche
se a volte litighiamo, è normale. Basta che dopo ci sia il
chiarimento.
DEVILISH (SHARON): Già.
Buffo che proprio Krista avesse
parlato di chiarimenti, visto che con Alex ancora non ci aveva parlato.
B-MAG: Progetti
per il futuro da musicisti?
DEVILISH (STEFAN): Non
possiamo svelare niente, mi spiace.
Quel
ragazzo è ogni giorno di più uguale a suo padre,
con un retrogusto dolce di Ary,
pensò Gustav guardandolo. E, guardando l’intero
gruppo, si vedeva proprio che erano legati, nel bene e nel male, e che
credevano davvero in quello che facevano, non per soldi e per fama, ma
per amore della musica allo stato puro.
Finita l’intervista
Gustav si congratulò con loro e dopo un pranzo veloce e
un’ora di tempo libero per giocare un po’ a ping
pong e a biliardino, ci furono le prove.
Il concerto di quella sera doveva
essere a dir poco perfetto ed indimenticabile sia per loro che per i
fan e tutti si stavano dando da fare per far sì che fosse
così, ma con Krista alla batteria sarebbe stato un successo,
sicuramente meglio di quando era stata rimpiazzata da
quell’incompetente.
«Bravi ragazzi, siete in
forma smagliante! Non vi preoccupate per stasera, andrà
tutto bene se suonerete come avete suonato adesso.»
«Speriamo»,
disse Sharon.
«Ne sono sicuro, vedrai.
Ah, prima che mi dimentichi! Sharon e Stefan, potete venire qui un
attimo, devo discutere di una questione con voi due.»
«Posso venire pure
io?», chiese Krista.
«No.»
«E perché no?
Perché solo loro due?»
«L’ho detto,
devo discutere di una questione con loro due, in privato. E poi mi
serviva la cantante e Stefan… Stefan è il
più grande del gruppo.»
«Stupidi sei
minuti», borbottò Alex, ma non poteva essere
più felice della scelta di Gustav: li aveva fatti rimanere
da soli per chiarire, finalmente.
Alex si tolse la chitarra dal collo
e guardò Krista seduta dietro la sua batteria, le bacchette
nervosamente strette fra le dita: aveva voglia di scappare, ma non
poteva rimandare quel momento in eterno, prima ne parlavano e meglio
sarebbe stato, anche per la tensione che si creava
all’interno della band, ma aveva paura.
«Credo che Gustav
l’abbia fatto apposta a lasciarci da soli», disse
lei prima che lui potesse aprire bocca.
«Lo credo
anch’io.» Si mise seduto al suo fianco e Krista
sospirò chiudendo gli occhi.
«Scusami, mi dispiace da
morire», disse.
«È troppo
tardi per chiedere scusa, Alex.»
«Lo so, lo so. Volevo
solo farti sapere e farti capire che è quello che dico
è la verità. Lo so che non si può
tornare indietro e non sarà mai più uguale a
prima, però volevo che tu sapessi che sono
mortificato.»
Krista lo guardò negli
occhi e fece una smorfia quando vide che i suoi occhi erano lucidi e
tristi.
«Non è da Kaulitz piangere», gli disse.
«Per il Kaulitz in
questione è normale piangere per te.»
«Non ti dirò
che mi dispiace!», rise.
«Non voglio che tu lo
dica!», rise anche lui.
«Allora come credi
che… si svilupperà la situazione?»
«Per oggi il nostro
obbiettivo è suonare e dare il massimo, poi si
vedrà», si passò una mano sugli occhi
umidi e sorrise.
«Ma cosa…
siamo noi?»
«Spero vivamente amici.
All’intervistatrice abbiamo detto questo, non possiamo
mentire ai nostri fan.»
Krista sorrise.
«Amici.»
«Ok, bene. Potrei avere
un abbraccio da amico?»
«Accordato», si
alzò e lo abbracciò con tutte le sue forze, le
era mancato veramente tanto, più come amico che come
fidanzato, però le era mancato.
«Krista, posso dirti una
cosa?»
«Che cosa?»
«So che non è
il momento adatto e forse che è troppo presto, ma non voglio
nasconderti le cose e… volevo dirti che mi sono visto con
una ragazza, un paio di volte.»
«Di
già?», era quasi sbalordita, ma si
ricordò che doveva fare l’amica e non
l’incazzata.
«Più che altro
è stata una prova per vedere se senza di te riuscivo a
stare.»
Krista si fermò e lo
guardò a bocca dischiusa, l’aveva colta di
sorpresa.
«Sono così… importante, per
te?»
«Cavolo se lo
sei.»
«E per quale cazzo di
motivo allora hai combinato tutto questo casino?»
«Ero ubriaco
e… la ragazza con cui è successo non si
è mai più fatta viva.»
«Tu sei scemo!»
«Sì, lo so. Ma
questo non cambierà nulla, vero?»
«No. Allora sei uscito
con questa ragazza e?»
«E niente, volevo sapere
che ne pensavi.»
«Che ne penso? Se dopo
così poco tu ti frequenti con un’altra non so
davvero che pensare!», esclamò con gli occhi
leggermente sgranati, aprendo le braccia.
«Dimentichi il motivo. Se
non posso avere te, perché ho sbagliato e hai ragione,
almeno lasciami stare con una che sa affievolire il dolore provocato
dalla tua assenza.»
«Vorrei tanto sapere come
fa», scosse il capo.
«Ci è passata
anche lei: il suo ragazzo l’ha tradita con un’altra
e l’ha messa incinta, quindi si è trasferito da
lei perché l’amava. Lei mi capisce, vuole
dimenticare, e stiamo bene insieme.»
Stava dicendo più cose a
se stesso che a Krista. L’enorme banco di nuvole nere che
veleggiavano su di lui si stava diradando e gli stava mostrando la
verità, ciò che lui non era mai riuscito a capire
di quello strano rapporto che aveva con Bea.
«Poverina, mi dispiace
tanto. Vedi quanto soffre?»
«Sì,
è per questo che ho voluto chiarire con te, invece che
andarmene felice e contento dicendoti le cose alla cazzo e al
cellulare.»
«Grazie Alex.»
«Dovere», la
strinse e chiuse gli occhi sereno, sapendo cosa fare.
Quella sera l’eccitazione
e la tensione erano a mille e si alternavano disordinatamente; i fan
urlavano e aspettavano solo loro; noi eravamo lì fra loro e
sentivamo nell’aria quell’emozione che contagiava
un po’ anche noi.
«Ragazzi, siete forti!
Andrà benissimo!», gridò Gustav, manco
stessero andando a boxare contro un tipo alto e largo il quintuplo di
loro.
Ma Gustav aveva avuto ragione,
erano andati benissimo, il concerto era stato stupefacente ed era
sembrato un sogno quando erano stati sommersi dagli applausi e dalle
urla di tutte quelle persone che erano accorse solo per loro,
aspettando ore al freddo e contro ogni altro tipo di intemperie.
Avevano mostrato chi erano davvero,
quello che valevano, e cosa potevano dare stimolati da così
tanta gente. Quello sarebbe stato il loro trampolino di lancio nel
mondo della musica, anche se ci erano dentro da un bel pezzo grazie
alla potenza di Internet e dei loro ammiratori in rete. Ma le decisioni
sarebbero state prese assieme, non voleva costringere nessuno lui,
tantomeno quei ragazzi che aveva visto crescere come suoi figli, ne
avrebbero parlato e avrebbero deciso se intraprendere
quell’idea del tour.
Appena finito il concerto, Sharon
tornò dietro le quinte e vide suo padre sorridere raggiante.
«Piccola, sei stata
fenomenale!», la abbracciò e la baciò
sulla fronte con le mani sulle sue spalle.
«Grazie.»
Sharon sorrise imbarazzata e abbassò lo sguardo verso il
braccialetto che teneva stretto al polso, lo accarezzò con
l’unghia e guardò suo padre con un sorriso
più aperto, veramente felice.
«Dimmi un po’,
te l’ha regalato Nicolas quello?», le chiese.
Non era certo la persona che ci
aspettavamo che glielo chiedesse, ma forse avevamo aspettato solo quel
momento. Era l’unico che in verità poteva
chiederglielo, interessarsi così della sua
felicità e capirla.
«Sì, questo
è… suo, in verità.»
«Ma ti vergogni di
parlare con me?», le accarezzò le guance rosse.
«No,
cioè… un po’.»
«Ti piace proprio tanto,
eh?»
Sharon sorrise e annuì
con la testa, allungando ancora le braccia verso il collo di suo padre.
«Non chiedo che tu sia
zitella a vita, ma single almeno per adesso… quando sarai
più grande allora…»
«Papà, cosa
stai dicendo? Io lo amo.»
«Ma
io…»
«Tu sarai sempre mio
papà, a nessuno vorrò bene allo stesso modo in
cui voglio bene a te. Capito?»
Bill annuì e la
strinse.
Io guardai la scena con Tom e Anto e facemmo tutti un coro per la loro
tenerezza.
«Non vorrei disturbare
questa scena commovente, ma qui fuori ho trovato qualcuno che vorrebbe
vedere Sharon.»
Alle parole di Gustav ci girammo
tutti e Sharon urlò di gioia quando vide Nicolas dietro di
lui e gli saltò in braccio.
Bill si accorse che rispetto a
prima, si sentiva meno geloso di sua figlia. Forse dopo aver avuto da
lei la certezza che non l’avrebbe mai persa a causa di un
ragazzo era cambiato qualcosa nel suo modo di vedere le cose.
Pensò che anche lui aveva vissuto quell’esperienza
con il padre di Anto e che si era ripromesso che non si sarebbe mai
comportato in quel modo dopo aver provato sulla propria pelle quella
sensazione, ma invece con sua figlia aveva attuato lo stesso metodo di
veduta, scoprendosi cieco di fronte all’amore che brillava
negli occhi di quel ragazzo come brillava nei suoi occhi quando vedeva
Anto nonostante suo padre non approvasse con piacere.
Sorrise e si avvicinò
per parlare con Nicolas e con gli altri, perché dopo molto
tempo si era accorto che quel ragazzo doveva ancora conoscerlo, e
voleva iniziare subito.
___________________________________________
Ciao a tutti! (:
Questo capitolo è persino più corto del solito,
però si sono "risolte" alcune questioni e altre sembrano
migliorare. Prima di tutto, Alex e Krista. Sembrano essersi
riappacificati e lui le ha persino raccontato di Bea; Krista non ha
fatto i salti di gioia alla notizia, ma non ha reagito nemmeno troppo
male... Chissà che cosa avrà capito Alex dopo la
chiacchierata con la nostra batterista ;)
Poi è tornata la questione che ormai ci portiamo appresso da
sempre xD : la gelosia di Bill! E' davvero altalenante, la mattina non
riusciva nemmeno a guardare Sharon con quell'aria felice e ora sembra
volersi aprire con Nicolas ed iniziare a conoscerlo. Ma
chissà... u-u Bill è peggio di una donna incinta,
con i suoi sbalzi d'umore xD
Bona, credo di aver detto tutto xD Spero che questo capitolo vi sia
piaciuto almeno un pochetto (:
Ringrazio infinitamente Tokietta86,
freency
e Utopy,
per le recensioni allo scorso capitolo e ringrazio anche chi legge
soltanto (:
Alla prossima! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 25 *** Houses ***
I
know sometimes it’s gonna rain
But baby, can we make up now
‘cause I can’t sleep through the pain
(can’t sleep through the pain)
Girl,
I don’t wanna go to bad
(mad at you)
And I don’t want you to go to bad
(mad at me)
(Mad
– Ne Yo)
Capitolo
18
Houses
Mi avevano chiesto se ero sicura di
voler andare con loro come minimo trenta volte, all’ultima
(avevo perso già il conto da un po’) gli avevo
risposto che sarebbero stati loro a farmi venire la nausea, non la
gravidanza, se avessero continuato e alla fine ce l’avevo
fatta.
Eravamo usciti quella mattina dopo
che i ragazzi erano andati a scuola e dopo aver accompagnato Sarah
all’asilo, e avevamo raggiunto la signora
dell’agenzia immobiliare che ci avrebbe mostrato alcune case.
Era una donna sulla quarantina, la voce irritante e il sorriso maligno
che non sopportavo quasi quanto il suo tallieur bordeaux e beige e la
ricrescita nera sotto alla tinta rossa.
«Questa è
l’ultima», mi sussurrò Bill mentre la
tipa apriva la porta.
«E quindi?»
«Sei stata fin troppo
tranquilla, chissà quante cose brutte hai pensato senza
dirle.»
Sorrisi e gli tirai la guancia: ci
prendeva sempre, con gli anni ero diventata un libro aperto per tutti.
Quella era la sesta casa che
vedevamo e tutte quelle precedenti non mi erano piaciute per niente,
avevo giudicato tutto per filo e per segno nella mia testa pur di non
dire che le altre case non erano belle come la nostra, come avevo
promesso, anche perché sapevo che se non avessi fatto in
quel modo mi avrebbero mandata via a calci.
«Eccoci qua»,
disse Eliza, così mi sembrava che si chiamasse la tizia,
facendoci entrare in un salotto immacolato con il pavimento con le
piastrelle così lucide che potevamo rispecchiarci su di esse.
Mi guardai in giro e tenni la bocca
chiusa per non urlare dallo stupore. Era davvero meravigliosa, non era
nulla di quello che avevamo visto fino ad allora, così
semplice e così stupenda.
«Sono due piani senza
contare la soffitta», indicò le scale nascoste
dietro una porta scorrevole. «Di sopra ci sono le camere da
letto e un balcone più piccolo rispetto alla terrazza che
c’è in cucina.»
«Quante sono le
camere?», chiese Anto.
«Uhm… otto, mi
sembra, più la camera degli ospiti.»
«Cavolo, è
enorme!»
Tom mi prese per mano e mi
portò in cucina, grande il doppio della nostra, lucida e
splendente come se fosse un luogo celestiale.
Il salotto era molto più
ampio e spazioso e c’era un’intera parete di vetro
dalla quale si poteva vedere tutt’Amburgo, visto che la casa
che stavamo visitando in realtà era un attico
all’ultimo piano di un palazzo altissimo, uno dei
più esclusivi della città.
«Andiamo a vedere di
sopra?»
«Sì,
andiamo.»
Salimmo le scale guidati da Eliza e
tutto era così bianco, così perfetto…
non mi sembrava vero.
Le stanze erano bellissime,
però non avevano i bagni interni, in compenso
però ce n’erano quattro sparsi per tutto
l’appartamento, abbastanza per soddisfare tutte le esigenze
di Bill e Sharon, che potevano starci delle ore per truccarsi, e le
nostre esigenze da comuni mortali.
«Di qui
c’è la terrazza», indicò, una
volta tornati di sotto, due altre porte scorrevoli a vetro che si
affacciavano all’altra parte di Amburgo.
Anche se faceva freddo e non era
proprio la stagione per utilizzare al meglio una terrazza, uscimmo e la
signora ci disse che oltre a tutto quello spazio avevamo anche una
cantina e tre garage, quindi il posto per sei macchine, al piano terra.
Mentre spiegava tutte le cose
tecniche di cui io non mi sarei mai interessata, mi sporsi a vedere il
panorama. Era davvero altissimo, per fortuna che non soffrivo di
vertigini.
«Ehi, a che
pensi?» Tom mi mise un braccio intorno alle spalle e mi
baciò morbido la tempia.
«A nulla,
perché?»
«Non lo so, non hai mai
detto una parola fino ad adesso.»
«Questa casa è
l’unica che mi piace fra tutte quelle che abbiamo
visto.»
«È veramente
bella.»
«Pensi che piacerebbe
pure agli altri?»
«Certo, perché
no? E poi verranno pure loro a vederla, non ti preoccupare.»
«Ok.»
Arricciai il naso e guardai oltre
Tom: Eliza stava scrivendo qualcosa sul suo palmare e fra le dita
teneva una sigaretta.
«Mi scusi, potrebbe
evitare?», mi strinsi nelle spalle e indicai la sigaretta,
«Sono incinta.»
Quant’era bello accampare
quella scusa per qualsiasi cosa, ma quella volta era vero,
l’odore del fumo mi infastidiva il doppio.
«Oh, sì,
certo, scusa», la spense nel posacenere che c’era
sulla mensola del caminetto al lato della terrazza. Mi appuntai
mentalmente di levarlo subito se quella fosse stata la casa giusta.
«Da quanto?»,
mi chiese.
«Oh, l’ho
scoperto da poco», posai una mano sul ventre sorridendo
compiaciuta.
«È il
primo?»
Iniziava a farsi un po’
troppo gli affari degli altri, ma quella domanda mi rese felice
perché voleva dire che non si vedeva per niente che avevo
una certa età e che avevo già tre figli a carico.
«In verità
questo è il quarto!», sprizzai di gioia. Anto
scosse la testa e Bill, sorridente, alzò gli occhi al cielo
ricoperto di nuvole grigie e bianche.
«Non mi stai prendendo in
giro, vero?»
«No, è
vero.»
«Congratulazioni! Vorrei
proprio sapere come fai, io non ce la farei mai.»
«Beh, io disegno fumetti
e posso portarmi il lavoro a casa, quindi ho molto tempo libero da
dedicare ai miei figli.»
«No, dicevo come fai ad
essere ancora così in forma!»
Sorrisi imbarazzata e mi spostai i
capelli su un’unica spalla, quando il mio cellulare prese a
vibrare nella tasca dei jeans.
«È
Alex», dissi guardando il display.
«Pronto?»
«Ciao mamma, dove
siete?»
«A vedere
l’ultima casa, perché?»
«Perché mi
sono deciso, vado da Bea. Se lei non si fa vedere, mi farò
vedere io.»
Guardai Tom e rientrai in casa per
parlare con più libertà con Alex.
«Ma siete già
a casa?»
«No, solo io. Oggi uscivo
un’ora prima, ricordi?»
«Ah, sì, me
l’avevi detto. Aspetta un attimo… ma tu non mi hai
ancora raccontato cos’è successo con
Krista!»
«Sul serio?»,
ridacchiò.
«Non sviare
l’argomento, devi dirmi tutto quello che è
successo. È grazie a lei che hai capito che devi farti
avanti con Bea?»
«Più che altro
lei sembrava… irritata da questo fatto. Credo sia gelosa di
Bea.»
«E se è
così sai cosa vuol dire?»
«Potrei avere
un’idea, ma non voglio. Lei ha detto che tra noi non ci
sarà più niente, è inutile che mi
illudo.»
Mi appoggiai al divano e mi
controllai le unghie colorate di rosa sospirando. «Noi
ragazze siamo così, Alex. E Krista non è diversa
dalle altre: è gelosa perché non vuole che tu ti
scorda così facilmente di lei. E se forse è
ancora legata a te in qualche modo, non vuole tornare sui suoi passi e
ammettere che le manchi per orgoglio. Anch’io mi sono
comportata così, ma ho ceduto subito.»
«Io l’ho sempre
detto che voi ragazze siete troppo complicate.»
«Già. Alex, tu
fai solo quello che ti senti di fare, senza ferire i sentimenti altrui,
possibilmente, ma qualcuno ci rimarrà scottato per forza.
Capito?»
«Sì, ho
capito. Ma mi hai mandato ancora più in confusione. Adesso
cosa devo fare, aspettare che Krista si decida oppure andare da
Bea?»
«Beh, questo devi saperlo
tu. Che cosa vuoi veramente?»
Alzai lo sguardo e vidi Eliza
guardare Tom in un modo che mi insospettì, e quando gli fece
l’occhiolino e rise in modo falso mi convinsi che era il caso
di tornare o mi avrebbe rovinato il matrimonio e non avremmo mai
comprato quella casa.
«Alex, devo andare, ne
parliamo a casa, ok? Ciao, ciao.»
Raggiunsi Tom quasi di corsa, lo
presi per il braccio, per delimitare il mio territorio e ciò
che era di mio possesso di diritto, e guardai in cagnesco Eliza, che
fece una smorfia. Prima aveva fatto tutta la carina e la gentile e dopo
tentava di fottermi il marito, molto professionale.
«Andiamo Tom? Non mi
sento tanto bene.»
«Ok, andiamo. Allora ci
sentiamo per decidere quale casa…»
«Sì,
sì, certo! Il mio numero ce l’ha.»
«Ok, perfetto, la
contatteremo», dissi fra i denti tirando Tom dietro di me.
Arrivati alla macchina, lontani da
Eliza, Anto scoppiò a ridere e io mi misi a braccia
incrociate, profondamente offesa.
«Non
c’è niente da ridere», sbuffai.
«Ary, come
stai?», mi chiese premuroso Tom. Allontanai la sua mano con
un gesto e sbuffai.
«Sta benissimo,
Tom», disse Bill.
L’unico che non aveva
capito era lui? Possibile che non si fosse accorto dei tentativi di
Eliza di abbordarlo?
«Non posso crederci,
quella ci stava provando con te!», gridai.
«Allora avevo notato
giusto! Vuol dire che ho ancora un certo fascino.»
«E tu sarai padre di
nuovo e ti fai corteggiare così?! Che bell’esempio
che dai ai tuoi figli!»
«Ma cucciola, tu sai
che…»
«Lasciami in pace, sono
nervosa perché sono incinta.»
«Sei arrabbiata con
me?»
«No, è
praticamente impossibile essere arrabbiati con te. Però se
non fossi intervenuta io vorrei proprio sapere cos’avresti
combinato.»
«Ehi, ci sarei stata io a
tirare due ceffoni a quella. Non può toccare mio
cognato!», disse Anto.
«Menomale che ci sei tu,
va’.»
«Ah, chi era al
telefono?», mi chiese Bill.
«Alex.»
«Che ha detto?»
«Che è confuso
e non sa chi scegliere fra Krista e Bea.»
«Ma con Krista
mica…»
«Krista lo evita
perché lo vuole, anche se in fondo ha paura di essere
tradita di nuovo. Alex non sa che fare e come comportarsi, con
entrambe. Va bè, vedremo come andrà a finire. Tu,
Bill, con Nicolas, come va?»
«Bene, è un
bravo ragazzo.»
«Vi siete conosciuti
meglio, finalmente.»
«Sì, riesce
pure a sembrare simpatico.»
«Ma alla fine tu e Sharon
avete parlato?», chiese Tom con un sogghigno, guardando il
fratello nello specchietto retrovisore.
«Di cosa?»
«Di quello di cui
dovevate parlare.»
«E sarebbe? Mi
sfugge…», si grattò nervosamente la
nuca.
«Inizia per s
e finisce per esso,
ti dice qualcosa?»
«Ahm… in
verità…»
«Non ne avete ancora
parlato! Bill, guarda che…»
Sentimmo il rumore di una moto
superarci e riconoscemmo con delle risate soffocate Sharon aggrappata a
Nicolas, mentre Bill aveva iniziato ad urlare bestemmie a non finire.
«Beh, che ti devo dire?
Scoprirà da sola ciò che tu non le hai spiegato,
a tuo rischio e pericolo. A meno che non l’abbia
già fatto, si intende.»
«E adesso dove vanno?! Io
lo uccido! Quel ragazzo lo uccido! Deve solo provare a toccarla che
io… Che nervi! Tom, seguiamoli!»
«Ma sei scemo? Io non mi
metto a seguirli.»
«Tom, si tratta di tua
nipote! Non ti sta a cuore nemmeno un po’?»,
supplicò Bill.
«È ovvio che
mi sta a cuore, ed è proprio per questo che non li
seguo.»
«Magari la sta solo
riportando a casa, la loro scuola in effetti è di
là», indicai dietro di noi.
«Che la porti a casa, se
no gliela farò pagare.»
«Bill, sembri mio padre
ai tempi d’oro», disse Anto annoiata, con il
braccio accanto al finestrino e la testa retta dalla mano.
Bill si fermò a
riflettere: non poteva far a meno di essere sempre così in
pensiero per lei, non riusciva a non inasprirsi vedendo che Sharon
dedicava così tanto tempo a Nicolas… Non riusciva
a fare mai niente che soddisfacesse lei, lui e chi gli stava attorno
allo stesso tempo, in poche parole.
«Mi dispiace»,
mormorò, i pugni stretti sulle gambe e lo sguardo basso.
«Non te ne devi
dispiacere, Bill. È bello che tu ti preoccupi di tua figlia,
ma è un po’ troppo, non credi? Sharon a volte si
sente in trappola.»
«È
più forte di me.»
«Devi saper
controllarti.»
«Non è
così semplice.»
«Nulla è
semplice.»
Tom girò a sinistra e ci
fermammo di fronte a casa, perché io, la testona, avevo
lasciato la macchina fuori dal garage.
C’era la moto di Nicolas,
lì di fronte e Anto si fermò a guardarla, con il
luccichio che aveva negli occhi ogni qualvolta vedeva una moto degna
del suo sguardo, cioè la maggior parte delle volte.
Entrammo in casa e la prima cosa
che vidi fu Sarah gridare e corrermi incontro.
«Ciao mamma!»
«Ciao piccola! Che cosa
c’è? Sei fin troppo contenta. Ma tu che ci fai
qui?»
«Sono andato a prenderla
io all’asilo, ho usato la tua macchina», disse
Stefan, il patentato fra i due gemelli.
«Ah, vedi che non
l’avevo lasciata io la macchina lì»,
feci una linguaccia a Tom che mi rispose con la stessa moneta, facendo
ridere Sarah fra le mie braccia.
«Mamma, sono contenta
perché Alex è uscito con una ragazza davvero
carina e li ho visti.»
«Li hai
visti?», chiesi.
«Sì»,
annuì eccitata. Si avvicinò al mio orecchio e mi
sussurrò: «Si baciavano.»
Trattenni il respiro. Mi ero
completamente dimenticata di Alex e di Bea e che gli avevo detto che ne
avremmo parlato a casa. Allora perché se n’era
andato prima del nostro arrivo?
«Ma come hai fatto a
vederli? È venuta lei qui?»
«Sì, alla fine
sì», rispose per lei Stefan.
«E
cos’è successo, cosa si sono detti?»
«Non lo so, sono rimasti
fuori a parlare.»
«Eh, io li ho visti dalla
finestra!», saltellò Sarah. «Stefan
stava parlando al telefono con Michelle e io li ho visti dalla finestra
della cucina, sono salita sulla sedia.»
«Piccola peste che non
sei altro!», disse Tom sfregandole la testa.
«Ma
dov’è Sharon?»
Bill era preoccupato ma sapeva
anche che doveva controllarsi, era una lotta fra le due sensazioni e
non era sicuro sul risultato.
«Di sopra con
Nicolas.»
«Di… di
sopra?», tremò.
Stefan non fece nemmeno in tempo a
confermare che lui era già schizzato su con me dietro, dopo
che io ebbi lasciato Sarah a terra. Lo fermai solo quando eravamo a un
passò dalla porta di Sharon, da dove potevamo sentire
benissimo tutto ciò che si dicevano.
«Sharon, è
meglio che vada adesso.»
«Di già? No,
Nico, resta.»
«Devo andare al
lavoro.»
«Hai trovato un lavoro? E
quando me l’avresti detto?»
«Te lo sto
dicendo.»
«Stupido. Dove
lavori?»
«Mi hanno preso in prova
per un mese alla redazione di un piccolo giornale.»
«Wow,
complimenti!»
«Sì, in
pratica devo fare le fotocopie e portare il caffè, bello. Se
mi va bene posso sbirciare quello che fanno. Comunque mi pagano bene,
è quello che conta. Adesso devo andare, prima che mi
licenzino prima di avermi assunto.»
«Ok, ciao, ci vediamo
domani a scuola.»
«Sì, ciao. Ti
amo.»
«Anch’io.»
Nicolas uscì dalla
camera di Sharon e si trovò Bill davanti, io ero appoggiata
con la spalla al muro, che guardavo storto il mio migliore amico.
Nicolas salutò con un cenno del capo, era di fretta, e scese
le scale. Io guardai Bill e sorrisi.
«Bravo Bill, bella figura
di merda.»
«Cosa?»
«Hai proprio un talento a
ficcarti in queste situazioni. Devi fidarti di lei, ecco
cosa.»
Gli lasciai il tempo per dire
qualcosa, ma dopo due minuti di silenzio abbassai lo sguardo
nascondendo un sorriso e scesi anch’io: anche lui era il mio
libro aperto, ormai.
Bill deglutì e chiuse
gli occhi, poi fece un respiro profondo. Era vero, forse doveva solo
imparare a fidarsi completamente di lei. Se gli aveva detto che sarebbe
stato sempre lo stesso il suo affetto per lui, sarebbe stato
così.
Fece un respiro profondo ed
entrò nella sua camera. La vide sdraiata sul letto, che
stringeva il braccialetto con le dita, il sorriso sulle labbra e gli
occhi chiusi.
«Ciao», la
salutò. Lei aprì gli occhi brillanti e mosse la
mano in segno di saluto. Bill si mise seduto accanto a lei e
unì le mani sulle gambe.
«C’è
qualcosa che devi dirmi, papà?», si mise seduta a
gambe incrociate e si strinse un cuscino al petto.
«Volevo solo sapere come
va con Nicolas.»
«Bene. Gli ho detto che
probabilmente, un giorno, saremo costretti a non vederci molto per la
musica.»
«E come l’ha
presa?»
«Bene, direi.»
Bill annuì e fissò un punto sul copriletto.
«Non era questo di cui volevi parlare, non è vero?
Papà, perché non ci diciamo più
tutto?»
«Perché tu sei
cresciuta, sei una donna ormai, e certe cose, una donna, soprattutto se
è timida come te, non le viene di certo a dire ad un uomo,
che per di più è suo padre.»
«Ed è proprio
per questo che dovremmo parlare chiari tutti e due: sei mio padre, io
non voglio mentirti e nasconderti le cose.»
«Cosa vorresti
dirmi?»
«Papà, che
cosa dovresti chiedermi tu,
che muori dalla voglia di sapere?»
«Avrei dovuto parlarti
del sesso prima che tu lo facessi, lo sai?»
«E chi ti ha
detto…»
«Sharon, non sono cieco e
nemmeno stupido.»
«Sei arrabbiato con
me?»
«No, non lo
sono», le accarezzò la guancia e le mise i capelli
dietro l’orecchio, sorridendole dolce. «Se vuoi
parlare con me, di qualsiasi cosa… più o meno,
sai dove trovarmi.»
«L’abbiamo
fatto solo una volta, e lui non mi ha mai…»
«Non ti ha mai
più chiesto di farlo?»
«Credi sia per causa
mia?»
«No, ma perché
ti rispetta.»
«Dici sul
serio?»
«Sì, certo.
Vuol dire che ci tiene a te, e che non è solo il sesso che
conta.»
«Io sono ancora
così insicura di noi due… vorrei essere come lui:
riuscire a dimenticare il passato.»
«Non si può
dimenticare il passato, lo sai. Sharon, da qualche parte dovrai pur
cominciare, ma devi sentirti sicura tu.»
«Io lo amo, sono sicura,
ma certe volte penso ancora a Derek e… so che Nicolas
è completamente diverso da lui e che non mi farebbe mai del
male, però…»
«E allora cosa ti
preoccupa?»
«Ho paura che si stanchi
di me, credo. Che un giorno, quando sarò lontana per la
musica, lui non approvi più e allora…»
«Tale e quale a tua
madre, eh? Avete l’insicurezza nel sangue. Se davvero ti ama,
Nicolas ti aspetterà, anche in eterno, e saprà
convivere con il fatto che tu hai anche la musica da
seguire», le sollevò il mento e la
guardò negli occhi, il sorriso stampato sul volto.
«Ti amerà come sei, e non ti chiederà
di cambiare per lui. Piccolina, sei così determinata sul
palco e nella vita reale così fragile… Non
capisco.»
«Sono le scariche di
adrenalina.»
Si guardarono negli occhi e
scoppiarono a ridere.
***
Sarah si stava quasi addormentando
abbracciata a Whiskey, quindi mi alzai e spensi la lampada colorata sul
suo comodino, ma lei mi prese il polso e mi fece rimettere seduta
accanto a lei.
«Che cosa
c’è, Sarah?»
«Papà sta qui,
vero?»
Era più nel mondo dei
sogni che lì, però le sue parole nascondevano la
tristezza di una bambina davvero intelligente.
«Certo che sta qui,
cucciola», le sfiorai i riccioli biondi spostandoli dalla sua
guancia. «Come mai questa domanda?»
«Ho sentito che parlavate
di un tour.»
«Oh. No, non ti
preoccupare, papà resta qui.»
«Io voglio che restiamo
insieme sempre sempre», si mise seduta sul letto con gli
occhi lucidi.
Somigliava così tanto a
me quando stava male per qualcosa… La fronte increspata, gli
occhi stracolmi di lacrime e le labbra serrate per non farle tremare.
«Sarah, amore»,
la abbracciai e lei si mise a piangere fra le mie braccia, stringendo
fra i pugni la mia maglietta. «Non piangere,
amore.» Le passai le mani sulle guance morbide e le baciai la
fronte. «Sai che cosa dice una canzone vecchia ma molto bella
di papà, di zio Bill, zio Gus e zio Georg?»
Tirò su col naso.
«Che cosa?»
«Non
importa lontano o vicino, io sono al tuo fianco.»
Lei accennò un sorriso e
si rinfilò fra le coperte. Rimasi ancora un po’
con lei, nel buio della stanza, a guardarla prendere sonno e respirare
regolarmente, in silenzio, poi le sussurrai la buona notte e scesi di
sotto.
Erano le dieci, ma di Alex ancora
nulla. Era stato tutto il pomeriggio fuori e il giorno dopo avrebbe
avuto scuola, volevo tanto sapere dove si fosse cacciato. Sapeva che
rendermi ansiosa non faceva bene né a me né al
bambino.
Mi venne da ridere, ma mi tappai la
bocca perché non volevo rovinare quella scena dolcissima.
Stefan e Sharon erano sdraiati sul divano, abbracciati e addormentati
come due bambini davanti alla televisione accesa.
Sicuramente Sharon non avrebbe
sofferto per la mancanza di affetto in tour, però non
credevo fosse pronta ad affrontare tutto quello stress. Era ancora
così piccola, per intraprendere un viaggio del
genere…
Mi affacciai alla cucina e vidi Tom
con due tazze fumanti in mano, che poi sistemò sul tavolo.
«Ah, eccoti, cercavo
proprio te.»
«Davvero? Non sembravi
intento a cercarmi.»
«L’avrei fatto
se tu non ti fossi presentata da sola», mi sorrise.
«Dai, vieni qui.»
Mi misi seduta al suo fianco e
presi la mia tazza di cioccolata calda, ne bevvi un sorso. Alle fine
papà aveva acconsentito perché io gli rivelassi
la nostra ricetta segreta.
«Che è quella
faccia?» Lo guardai interrogativa, non sapendo che faccia
avevo. «Sembri… È successo qualcosa
mentre eri su con Sarah?»
«Mi ha chiesto se tu
dovevi partire per un tour, ci ha sentiti mentre ne
parlavamo.»
«Ma lei sente tutto
quello che diciamo! Non è possibile.»
«È sensibile
come me quando si tratta di affetti, aveva paura che tu te ne
andassi.»
«E tu che le hai
detto?»
«Le ho detto che tu non
te ne andrai da nessuna parte, l’ho rassicurata. Pensi che
soffrirà molto, se Sharon, Stefan e Alex partiranno per il
tour?»
«Conoscendola, molto
probabilmente sì. Ma è forte ed intelligente,
capirà. Adesso dorme?»
Annuii. «Ma Alex che fine
a fatto?»
«Oddio, un’idea
ce l’avrei…», disse, sorridendo
maliziosamente.
«E quale
sarebbe?»
«Se centra Bea, dovresti
arrivarci.»
«Dici che è
ancora con lei?»
«Secondo me
sì, ma può darsi che mi sbaglio. Ah, Ary, chiami
tu Eliza, quella dell’agenzia?»
«Sì, va bene.
Ci manca solo che la chiami tu.»
Rise sommessamente e sentimmo la
porta di casa aprirsi dopo un giro di chiave. Colui che era entrato,
Alex, trascinò i piedi verso le scale e ci notò
all’interno della cucina, seduti intorno al tavolo.
«Alex! Ma dove diavolo
sei stato?»
Aveva la faccia assonnata, ma stava
bene tutto sommato, ciò voleva dire che non aveva combattuto
con nessuno per quell’elemento facilmente stuprabile di nome
Bea.
«Ciao, anche io sono
felice di vedervi», sorrise.
«È ovvio che
siamo felici di vederti, ci hai fatto preoccupare.»
«Ormai sono grande,
sapete?»
«Questo non ti autorizza
a sparire.»
«Avete ragione, chiedo
umilmente perdono.»
«Solo se mi racconti per
filo e per segno tutto quello che hai fatto», sogghignai
mentre lui alzava gli occhi al cielo. «Anche i
dettagli.»
Alex si trascinò in
cucina e si abbandonò alla sedia più vicina a
lui, si passò una mano fra i capelli schiariti, quasi
castani, riordinando le idee.
«Allora. Bea si
è presentata qui, dicendomi che io non mi facevo
sentire.»
«E fin qui
c’eravamo. Sarah ha detto che vi ha visti mentre vi
baciavate. Certo che se ti fai beccare da una bambina di quattro
anni…»
«Papà,
è Sarah che si fa sempre gli affari di tutti. Anche se
fossimo andati in garage lei ci avrebbe scoperti.»
«E quindi? Vi siete
baciati. Qual è la motivazione?»
«La motivazione
è molto banale: ci eravamo mancati.»
«Ah, gli amici si
baciano?»
«Noi non siamo amici.
Siamo… conoscenti.»
«Due conoscenti si
baciano, allora?»
«Mamma, ti prego, la
situazione è già abbastanza complicata senza che
tu me la incasini, ok? Allora. Dopo siamo andati a fare un giro e siamo
finiti a casa sua.»
«Io lo sapevo»,
disse Tom. «Che è successo?»
«Non ci crederai, ma non
è successo niente. C’eravamo quasi, ma io mi sono
fermato, ancora non… Ho appena messo in chiaro con Krista e
io non…»
«Hai fatto bene, Alex. Io
avrei fatto lo stesso al posto tuo», gli misi una mano sul
braccio.
«E allora che
cos’avete fatto fino ad adesso?»
«Ve l’ho detto,
abbiamo parlato di tante cose e poi lei ha insistito perché
mangiassi da lei: cucina bene.»
«Ma abita da
sola?»
«No, con due sue amiche.
Dividono l’affitto. Ma non c’erano oggi, quindi
eravamo solo noi due.»
«Nella tana delle
femmine, intrigante.»
«Per favore, Tom. Ecco
perché i nostri figli nascono già con i neuroni
prefissati per… hai capito, no? Se ti ascoltano quando sono
nella pancia siamo messi male.» Mi sfiorai la pancia:
«Non ascoltarlo, tutte cavolate.» Tom sorrise e
scosse la testa. «Va bè, dicevi, prima che tuo
padre interrompesse?»
«Niente, che è
brava a cucinare e… adesso sono qui e voglio andare a
dormire.»
«Già, domani
hai scuola.»
«Merda, avevo anche da
fare una tesina per domani! Sono fottuto. Quella ragazza è
un male, e me la pagherà.»
«Buona notte Alex, sempre
che tu riesca a finire quel compito entro domani mattina»,
scherzò Tom.
«Grazie, molto gentile.
Buona notte mamma, dormi bene», mi baciò la
guancia e salì facendo un gestaccio a Tom, che rise.
Era il loro modo speciale per dirsi
che si volevano bene: i maschi e il loro universo tutto anomalo.
________________________________
Ciao
a tutti!
Ehm.... è passato un sacco di tempo dall'ultimo
aggiornamento e chiedo umilmente perdono, perché non sono
riuscita ad avvisarvi che non avrei postato perché andavo in
vacanza ._.
Comunque, adesso sono di nuovo qui, malgrado i ritardi (scusate anche
per quelli)
e questo è il nuovo capitolo. Uhm... spero vi sia piaciuto :)
Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, ovvero:
freency
: Ciao! No, perché non ti piace Krista!? xD Solo a te sta
simpatica Bea, sai? xD Staremo a vedere, comunque u_u Il rapporto fra
Bill e Sharon è bello, anche se lui è un po'
infantile a volte.
Per quanto riguarda l'età dei ragazzuoli... Alex e Stefan
hanno appena compiuto diciotto anni, Sharon ne ha sedici e Sarah
quattro. :)
Grazie, alla prossima!
Tokietta86
: Ciao! Sì, Alex è sempre stato sincerto con la
sua Krista e anche in questo caso non si è smentito...
Chissà, magari torneranno insieme per davvero :)
Non cantimo vittoria per Nicolas. Povero quel ragazzo, solo soletto
contro Bill Kaulitz xD Staremo a vedere se Bill si è
convinto del tutto... Speriamo per quella coppia, perchè
davvero non se ne può più xD
Bill e Tom sono contenti che i ragazzi abbiano deciso di scegliere il
loro stesso mestiere, ma credo che sarebbero stati contenti comunque,
qualsiasi lavoro avessero scelto di fare u_u erano liberi di scegliere,
dopotutto :)
Grazie mille! Alla prossima, un abbraccio!
Ringrazio anche chi ha letto soltanto! Alla prossima!
Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 26 *** Always happy ***
Ciao a tutti! :)
Okay questa storia la sto un po’
abbandonando, ma è stato un periodo molto pieno e non ho
potuto aggiornare per
due settimane, oltre al fatto che devo ammetterlo, non mi soddisfa
più come ff :(
Comunque sia, non posso lasciarla
a metà, è una cosa che mi sono promessa di non
fare mai, quindi troverò di
nuovo la voglia e la farò piacere a me per prima :)
Spero che questo capitolo vi
piaccia, anche se è un po’ cortino xD
Ci vediamo dopo con i
ringraziamenti. Vi auguro
buona lettura! ;)
____________________________________________
Because
angels fall down
And we are and we are
Just to damn its’ souls,
but it's
heaven where we lie
Into night
(Down
on
you – Tokio Hotel)
Capitolo 19
Always happy
Faceva ancora freddo e
in più ci
si era messa pure la pioggia, come se non bastasse. Quel giorno, oltre
ad
essere nervosa di mio, ero pure meteoropatica.
«Oggi Michelle
si incontrava con
Stefan.»
«Dove?»
«Non lo so,
non avevano ancora
deciso.»
«Mmh.»
C’era un
laghetto, nel giardino
dell’ospedale, con alcuni pesci rossi all’interno,
grande attrattiva per i
bambini. Anche Sarah si fermava sempre lì a guardarli, era
più forte di lei.
Sorrisi a quel ricordo e
guardai
le gocce d’acqua formare dei cerchi sulla superficie del
laghetto, una dopo
l’altra, facendo incrociare gli anelli in una grande catena.
L’erba
congelata e bagnata
brillava ogni tanto e mi venne in mente un pomeriggio nuvoloso durante
il quale
eravamo andati all’oratorio perché Gustav fremeva
di nascosto all’idea di
vedere Giulia, e l’avevamo accontentato.
Arrivati all’oratorio, ci misimo
seduti sugli spalti di cemento di
fronte al campo da calcio, nel quale da una parte stavano facendo gli
allenamenti dei ragazzi e dall’altra dei bambini. Tom mi
accarezzò la guancia e
sorrise, poi mi strinse a sé con un braccio attorno alle mie
spalle.
Vidi un ragazzo dall’aria
familiare prendere con le mani il pallone – e
non era il portiere – e correre verso di noi. Quando
raggiunse il bordo del
campo lo riconobbi e lui fece un sorrisetto malizioso.
«E così sei uscita alla
luce del sole?», chiese.
«Tappati quella bocca,
stronzo», ringhiai con affetto.
«Onorato di essere al tuo
cospetto, regina della finezza», disse con un
mezzo inchino.
«Ok, ti do il permesso di aprire
la bocca per dire solo dov’è Giulia.»
«A cambiarsi, dovrebbe arrivare a
momenti. Tu che fai?», mi lanciò il
pallone e io lo presi dopo un rimbalzo.
«Cosa dovrei fare?», gli
rilanciai il pallone con le mani.
«Non so, entri di tua spontanea
volontà o aspetti che arrivi Giulia?»
«Aspetto lei.»
«E come credi che ti
trascinerà, questa volta?»
«O con il piano A o col piano
B.»
«Il piano A è quello
delle parole e gli occhi dolci? Sicuramente userà
il piano B, quello A non funziona con te.»
«Quindi mi porterà a
giocare con la forza?»
«Esattamente.» Tom si
schiarì la voce e mi toccò il braccio.
«Oh, lui è
Mick, un mio amico. Mick, loro sono Tom, Bill, Georg e
Gustav.»
«Piacere di conoscervi»,
disse schietto.
«Non so se è un piacere
conoscerti», rispose Tom quasi con stizza, mentre
mi stringeva a lui.
«Gelosetto, eh?»,
scherzò Mick facendomi l’occhiolino.
«Non hai di che temere, Tom.
Passeranno secoli prima che io mi abbassi
ai suoi livelli.»
«Certo, certo… come
no.»
«Allora, come va qui?»,
chiesi.
«Ci manchi. Manchi ai bambini, a
dire il vero. Perché non ti prendi
definitivamente l’incarico?»
«Gliel’ho chiesto pure
io, ma non mi ascolta», disse Anto con un’alzata
di spalle.
«Potrò decidere io
sì o no? E che cavolo.»
«Ok, scusa, è che mi
sembra un talento sprecato.»
«Non sono tutto questo
talento», mormorai.
«Giulia dice che potresti entrare
nella squadra anche subito.»
«Giulia non è
obbiettiva in certe cose.»
«No, infatti… So che
Giulia te l’ha già fatto questo discorso, devo
rifartelo anch’io?»
Alzai lo sguardo e notai nei suoi occhi
scuri una scintilla di rabbia e
determinazione, mai come l’avevo avuta io.
«Quale discorso?»,
chiese Bill.
«Non ce n’è
bisogno, grazie», dissi a denti stretti.
«E allora…»
«Allora niente, non voglio e
basta», incrociai le braccia.
«Ok, come vuoi, mi
arrendo.»
«Tu, che ti arrendi? Non ci credo.
È solo per non litigare con lei: odi
litigare con lei», disse Anto.
«Lo odio perché
è una causa persa, non per altro.»
«Come se io non sapessi che hai
una cotta per lei dalla quinta
elementare», sbuffò. Mick diventò tutto
rosso e le fece una linguaccia, poi si
mise a guardare i bambini giocare con un mezzo sorriso divertito.
«Tanto l’ha detto pure
lei: non starebbe mai con me», disse.
«Noto con piacere che quando parlo
vengo ascoltata», dissi. Strinsi la
mano di Tom nella mia e gli sorrisi sulla guancia.
Un bambino corse da Mick e gli
tirò il bordo della maglietta. Lui si
girò e per poco non scoppiò a ridere.
«Ma che cavolo hai
combinato?», gli chiese.
«Sono caduto.»
Era infangato ed infreddolito, le guance
piene rosse dallo sforzo e dalla
corsa. Conoscevo quel bambino, e anche bene, però da quando
Davide se n’era
andato si era sempre tenuto un po’ a distanza, come era
capitato anche con la
sorella di Anto, fin quando non ne avevamo parlato. Era il fratello di
Mick e
giocava nella stessa squadra di Davide, era uno dei suoi migliori
amici.
«Non si saluta?», lo
intimò il fratello.
Il bambino mi guardò e mosse la
mano, poi guardò Mick e si affrettò ad
andare negli spogliatoi per farsi una doccia calda.
«Scusalo», disse Mick
con gli occhi tristi.
«Non importa.»
«Perché dici che non
importa se non è vero?», quasi gridò,
ma Giulia
gli tappò la bocca con la mano e gli girò il viso
verso sinistra. Ci guardò uno
per uno sorridente, già nella sua tuta da ginnastica per
giocare a calcio.
«Ciao ragazzi! Che bello
vedervi!»
Per prima cosa si buttò al collo
di Gustav e se lo strapazzò tutto per
bene, poi toccò a noi.
«Ma che ci fate tutti
qui?», chiese.
«Gustav», risposimo
tutti assieme indicandolo.
Ci vollero sì e no due secondi
prima che il suo viso diventasse rosso
come mai lo avevamo visto e che Giulia gli tirasse le guance ridendo.
«Ok, basta blaterare, andiamo a
giocare! Ary, muoviti», mi tirò per il
polso e feci solo in tempo a prendere l’elastico prima che mi
trascinasse
all’interno del campo.
Mick ci raggiunse e mi tirò un
coppino, e io lo rincorsi quasi per
tutto il campo, finché lui non cadde sull’erba.
L’erba era
congelata e ancora
bagnata come quella mattina.
«Posso sapere
a cosa stai
pensando?», mi chiese Tom.
Mi girai e lasciai che
la tenda
chiara ricoprisse la finestra che dava sul giardino
dell’ospedale.
Andai a sedermi sulla
poltrona
accanto alla sua e non feci in tempo a dire niente che la porta si
aprì ed
entrò la stessa infermiera che ci aveva avvisati che il
dottor Stevens, per me
e Tom semplicemente Mattia, avrebbe fatto ritardo.
«Scusate per
il ritardo, ma c’è
stata un’emergenza e il dottor Stevens è stato
chiamato d’urgenza in sala
operatoria. Dovrebbe arrivare a minuti, comunque.»
«Ok,
grazie.»
Infatti, qualche minuto
dopo,
entrò Mattia con una faccia a dir poco sconvolta, mascherata
bene da quella
professionale, e i capelli arruffati con classe sulla testa.
«Eccomi qua,
scusate», disse
debolmente.
«Non
c’è problema, Mat», dissi.
L’infermiera
si avvicinò a lui e
parlarono sottovoce, ma non sapevano che io avevo un udito finissimo.
Forse
iniziavo ad intuire da chi avesse preso Sarah.
«Com’è
andata?», gli chiese.
Mattia si limitò a scuotere la testa ad occhi chiusi.
«Vuole che
mandi un altro
dottore, qualsiasi cosa…»
«No, lascia
stare, grazie.»
«Come
preferisce. Arrivederci.»
Mattia
sospirò firmando su una
cartelletta e dopo ci guardò e sorrise meglio che
poté, ma si vedeva che era
davvero stanchissimo.
«Mat,
capita», dissi piano.
«Non doveva
capitare, non
doveva.»
«Me
l’hai sempre detto tu che
bisogna andare avanti lasciandosi alle spalle gli errori.»
«Ho fatto
tutto il possibile, ma
non doveva finire così, era così
piccolo…»
«Era un
bambino?»
Lui annuì e
sistemò la
cartelletta, poi mi fece cenno di alzarmi e mi fece sdraiare sul
lettino.
«Sembri
stanchissimo», sussurrai
guardando le occhiaie violacee che aveva sotto agli occhi.
«Da quant’è che non
dormi un’intera nottata?»
«Da un
po’.»
Accese il monitor al suo
fianco e
mi sparse sul ventre quella crema trasparente e sempre freddissima, che
a me
fece tremare e a lui sorridere. Iniziò a controllare sullo
schermo e quando noi
non vedevamo nulla, lui vedeva tutto.
«Procede
bene», esordì sorridendo.
Io ricambiai il sorriso.
«Perfetto.
E a te, come procede?»
«Lo vedi pure
tu come procede.»
«Credo che tu
debba prenderti una
pausa.»
«Magari una
bella vacanza ai
tropici, che ne dici?», propose Tom.
«Sarebbe
bello, però non credo
sia la cosa migliore per l’ospedale. Mancano molte persone in
questo periodo, è
per questo che sono sempre qui.»
«Non devi
prenderti tu tutte le
responsabilità, sei un essere umano!»
«Sono il capo
reparto, Ary.»
«Ma anche tu
hai diritto ad una
vita oltre al lavoro», constatò Tom.
«Appunto. Per
esempio, hai
diritto ad avere una donna. O hai intenzione di rimanere scapolo per
tutta la
vita?»
«Ehi, questa
è un’altra storia.»
«Va
bè, già che ci siamo…
parliamone, no? Allora, l’hai trovata?»
«No.»
«L’infermiera
di prima era
carina», disse Tom.
«Ha
vent’anni in meno di me.»
«E quella
della reception, che ne
dici?»
«Quella ne ha
dieci in più di me,
ed è antipatica.»
«Invece
sembrava così gentile…»
«Tutta
apparenza. Comunque avete
tralasciato un aspetto importante: io non voglio avere una relazione
all’interno dell’ospedale. Complicano soltanto le
cose.»
«Io in
verità l’avevo calcolato,
visto che ti ho detto che hai diritto ad una vita fuori
dall’ospedale.»
«Hai
già la nausea?», mi chiese.
«Qualche
volta. E non cercare di
cambiare argomento.»
«Ary, cosa ti
devo dire? Il
lavoro che faccio, purtroppo, mi deve rendere sempre reperibile e non
mi lascia
molto tempo libero a disposizione. Anche se trovassi questa benedetta
donna,
alla fine si sentirebbe trascurata e così e cosà,
so come va a finire.»
«Alle ragazze
piacciono molto i
dottori.»
«E ti sei mai
chiesta perché?»
«Perché
sono orgogliose che il
loro fidanzato salvi vite?»
«No,
perché i dottori possono
essere facilmente traditi.»
«E questo chi
lo dice?»
«Almeno due
dottori su tre in
questo ospedale vengono traditi dalle mogli o fidanzate che
siano.»
«Allora non
è amore.»
«Infatti. Non
è facile trovarlo,
appunto. Ci vuole tempo, non ti arriva davanti
all’improvviso, e si da il caso
che io di tempo non ne abbia.»
Scambiai
un’occhiata con Tom ed
entrambi sorridemmo.
«Noi due siamo
la prova vivente
che l’amore ti arriva davanti», disse lui.
«Io non sono
tanto fortunato»,
ridacchiò.
Mi alzai e mi sistemai
la
maglietta, poi mi infilai la giacca. Tom mi mise un braccio intorno
alla vita e
mi appoggiò a lui.
«Ci vediamo
tra un po’, allora»,
disse Mattia.
«Ok,
ciao», gli baciai la guancia
e Tom lo salutò con un abbraccio. «Grazie di
tutto.»
Uscimmo tutti e tre
dalla stanza
ed incontrammo la stessa infermiera di prima che passava per il
corridoio con
una pila di cartellette fra le mani.
«Dottore,
c’è una paziente che
dev’essere operata di appendicite, se ne occupa
lei?», gli porse la
cartelletta.
Stava per prenderla, ma
io gli
tirai una gomitata nel fianco.
«In
verità io ho finito per
oggi», disse in modo molto forzato. Non avrebbe mai sfondato
nel mondo della
recitazione, anche per quello era diventato dottore.
«Non
c’è nessun altro, sono tutti
impegnati», continuò, passandosi una mano fra i
capelli. Anche lei sembrava
scombussolata dalla nottata passata in bianco.
«Ok, me ne
occupo io», sospirò.
«Grazie.»
L’infermiera
si allontanò e io
sbuffai incrociando le braccia.
«Che
c’è adesso? Non c’era
nessuno!», tentò quasi di giustificarsi Mattia,
avviandosi. Ma in realtà non
doveva giustificarsi, sapevo che amava il suo lavoro, che era la sua
vita; io
volevo il meglio per lui, solo il meglio, e anche se non potevo fare i
miracoli
volevo almeno provare a spronarlo ad uscire ogni tanto da
quell’edificio.
Facemmo la strada
assieme e vedemmo
anche la paziente, una ragazzina sui tredici anni, già
sdraiata sul lettino,
pronta ad essere portata in sala operatoria. La donna che era seduta al
suo
fianco, sulla trentina, occhi scuri e capelli castani mossi, si
alzò e guardò
ansiosa il dottore. Era davvero bella, anche se era in pensiero per la
ragazzina al suo fianco.
«Salve, lei
è la madre di… Miriam?»,
chiese Mattia dopo aver controllato il nome sulla cartelletta, porgendo
la mano
alla donna.
«Sì,
sì, sono io, salve.»
«Si rilassi,
è un’operazione di
routine, non si preoccupi», le sorrise.
Lei arrossì e
abbassò lo sguardo,
mentre sua figlia era quasi nauseata da quella scenetta.
«Mi chiamo
Rachel», si presentò
allora, timidamente.
Menomale che poco prima
Mattia
aveva detto che l’amore non ti arrivava davanti: da come si
guardavano non
sembrava proprio così.
«Mamma,
allora!», disse Miriam.
«Ah,
sì, scusami tesoro!»
«Non
diciamogli niente,
sgattaioliamo via», sussurrai a Tom, che
acconsentì e mi prese per mano per
uscire dall’ospedale.
Arrivati a casa, Tom
aprì la
porta e trovammo Stefan e Michelle in pose troppo statiche, nervose,
soprattutto quella di lei. Immaginai che forse avevano sentito le
chiavi girare
nella toppa e avevano interrotto in fretta e furia quello che stavano
facendo.
«Ciao
Michelle», salutai.
«Salve
signora, tutto bene?»
«Sì,
grazie. Tu?»
«Bene, bene.
Ehm… allora io
andrei…»
«No, non
importa. Tanto qui entra
sempre un sacco di gente, non ti preoccupare», disse Tom.
Michelle lo
guardò confusa e
gettò uno sguardo anche a Stefan, del tutto assente alla
conversazione.
«Intendeva
dire che sei libera di
venire quando vuoi», precisai con un sorriso.
«Ah, ok,
grazie. Ma adesso devo
proprio andare, devo curare i miei fratellini.»
Intuii che dovevano
essere venuti
a casa subito dopo scuola, perché quando si alzò
andò a raccogliere la propria
cartella abbandonata all’ingresso. Salutò Stefan
con un bacio sulla guancia ed
uscì.
«Tutto
ok?», chiese Tom sedendosi
al fianco di quello strano Stefan, diverso dal solito.
Si vedeva subito che era
strano: se
ne stava seduto fermo immobile a guardare il tappeto, la testa
chissà dove.
«Stefan, sto
parlando con te», riprese
e gli mise una mano sulla spalla.
«Posso andare
io a prendere
Sarah? Ho bisogno di schiarirmi un po’ le idee»,
rispose in tono piatto.
«Prendi la mia
macchina», dissi
prima che Tom potesse dire altro e gli lanciai le chiavi.
Tom provò a
ribattere, ma
inutilmente, perché scossi la testa e mossi la mano in segno
di lasciar perdere
e così fece.
Stefan si
infilò la giacca ed
uscì fuori, non gli importava il tasso
d’umidità e se i suoi capelli si fossero
rovinati, in quel momento non erano una priorità.
Aprì la Mini
azzurra con il
telecomando e ci si infilò dentro. Rimase per un attimo a
guardare le gocce di
pioggia cadere sul parabrezza, sovrappensiero, poi fece la retro e
uscì dal
cancello, pronto ad iniettarsi nel traffico scorrevole del primo
pomeriggio in
città.
Gli piaceva guidare
quanto me,
però era affascinato dal fatto che ora fosse lui a guidare e
non uno dei suoi
genitori, come era sempre stato abituato a vedere. Si percepiva
autonomo, più grande,
anche se sapeva che in realtà quello non c’entrava
nulla.
Fermo ad un semaforo, si
mise a
guardare distrattamente lo schermo di una televisione accesa al di
là della
vetrina del negozio di elettrodomestici che stava costeggiando. Ancora
pensava
a quello che era successo con Michelle, non era in grado di
concentrarsi su
qualcos’altro, se non sulla guida.
Aveva accettato
entusiasta l’idea
di trascorrere un pomeriggio intero con Stefan ed erano andati
direttamente a
casa sua. Si erano messi sul divano e parlando un po’, come
sempre, avevano finito
per baciarsi. Ma era andata sempre oltre, Stefan le aveva infilato le
mani
sotto la maglietta, stando sopra di lei, l’eccitazione fra le
gambe. Michelle
si era subito spostata, imbarazzata ed intimorita.
«Stefan, te
l’ho già detto»,
disse sistemandosi i capelli.
«Oh, ma dai
Michelle, è una cosa
assurda!»
«No, invece
non lo è! Non per
me.»
«Credi che
cambi qualcosa se lo
facciamo adesso o dopo il matrimonio?!»
«Sì,
cambia!»
«E cosa,
esattamente?»
Michelle si
mordicchiò il labbro
inferiore e fissò le sue scarpe, riflettendo su una risposta
adeguata, ma non
ne trovava.
«Visto?!
Michelle…»
«Beh, anche tu
dovresti spiegarmi
che cosa cambia!»
«Prima di
sposarmi devo
verificare se sto bene con una ragazza in tutti i sensi»,
disse deciso il
ragazzo.
«Cosa? Ah,
questo lo trovo
assurdo! Per favore, è meglio che vada.»
Subito dopo avevano
sentito la
porta aprirsi e il discorso era rimasto in sospeso, come sempre.
Non riusciva davvero a
spiegarsi
il motivo delle sue stupide fissazioni e credeva che non
l’avrebbe mai capito,
se non affrontavano l’argomento una volta per tutte. Lui le
voleva bene, anzi
era certo di amarla, però, per lui, non averla fisicamente
era come un
impedimento alla loro unione definitiva. Quello che intendeva Michelle
per
unione solida, invece, era il matrimonio.
Arrivò
all’asilo di Sarah e scese
dall’auto. Corse all’interno e aspettò
che la sua amata sorellina si vestisse
in modo adeguato e che si sistemasse lo zainetto sulle spalle.
«Ciao Stefan,
come mai sei venuto
a prendermi tu?», gli chiese sorridendogli e stendendo le
braccia per essere
presa in braccio.
«Perché,
non sei contenta di
vedermi?»
«Sì
che sono contenta!», gli
baciò la guancia e rimase con le braccia strette al suo
collo.
«C’è
qualcosa che non va?», gli
chiese preoccupata.
«No, piccola,
nulla che non va.»
«Non
è vero, dimmi la verità.»
Sorrise di fronte a
quell’angioletto acuto e la sistemò sul suo
seggiolino, nei sedili posteriori
dell’auto.
«Hai litigato
con Michelle?»
«Hai centrato
in pieno.»
«E
perché?»
«Oh,
beh… sei troppo piccola per
capire.»
«Non
è vero, io sono grande!»
«Ok, sei
grandissima!» Risero
assieme e poi Sarah si stampò un broncio sul viso. Era
buffa, perché ancora non
era brava come sua cugina Sharon.
«Abbiamo due
opinioni diverse»,
disse Stefan.
«Dovete
trovare un punto in
comune, mamma lo dice sempre. Ma cosa vuol dire?»
«Tu fai il
pappagallo senza
sapere cosa significano le cose?»
«Io non faccio
il pappagallo!»
«No,
assolutamente. Sarah,
trovare un punto in comune vuol dire trovare una soluzione che vada
bene a
tutti e due.»
«Ah! E allora
quale potrebbe
essere una soluzione che va bene a tutti e due?»
«Non lo so,
non l’abbiamo ancora
trovata.»
«È
per questo che sei triste?»
«Già.»
«Non essere
triste, fratellone!
Vedrai che troverete un punto in comune!»
Stefan sorrise e la
guardò nello
specchietto retrovisore: era davvero la bambina più
adorabile che avesse mai
visto, in più era sua sorella. Era il suo orgoglio, dopo
Alex, la sua metà, che
non poteva non amare, anche se ogni tanto faceva qualche casino.
«Grazie Sarah,
mi sento già
meglio.»
«Bene!»,
batté le mani contenta.
«Tu che mi
racconti? Che cos’hai
fatto oggi all’asilo?»
«Niente, siamo
stati tutto il
giorno dentro perché non c’era bel tempo. Stefan,
perché a volte c’è il sole e
a volte la pioggia? Sarebbe più bello se ci fosse sempre il
sole!»
«Credevo ti
piacesse la pioggia.»
«Sì,
ma oggi no, non so perché.»
«Mmh. Lo sai
che alcuni dicono
che quando piove vuol dire che gli angeli piangono?»
«Davvero? E
perché dovrebbero
piangere gli angeli?»
«Non so, forse
perché sono
tristi.»
«Dici? Allora
non mi piace più.»
«E
perché? Nella vita si è certe
volte tristi e certe volte felici, non si può essere sempre
felici.»
«Però
sarebbe bello, vero? Se
tutti fossero sempre felici.»
«Già,
sarebbe bello.»
_____________________________________________
tikappa
: Ti ringrazio di cuore, scusa se ti faccio sempre
aspettare :)
Tokietta86
: Ciao! Grazie di cuore davvero, le tue recensioni sono
sempre bellissime *.*
Io sono sicura che Tom sarà un
bel pezzo d’uomo anche da vecchio u.u Proprio ci metterei la
mano sul fuoco! xD
Sarah sta simpatica a tutti e ne
sono molto felice *.* Almeno lei! xD E sì, ha le antenne
paraboliche al posto
delle orecchie xD (Mah, chissà Tom come reagirebbe al posto
di Bill… Bella
domanda! ;D). Sicuramente Sarah soffrirà comunque la
partenza dei suoi fratelli
e di sua cugina, ma le passerà :) E poi mica è
detto che vanno in tour! u.u Muahmuahmuah
xD
Bill è il solito gelosone, sì… Ma
Nicolas è un bravo ragazzo, direi ottimo, non ha di che
temere :) Ma questo non
vuol dire che fra lui e Sharon non ci saranno problemi…
infondo sono una coppia
normale! u.u xDD
Krista è gelosa e orgogliosa, ma
chissà come andrà a finire… magari nel
prossimo capitolo… xD
Grazie mille ancora *.* Alla
prossima, un abbraccio!
Utopy
: Vabbè, ormai Ary la odi, almeno mi levo il
pensiero… Ma
anche Alex no, eh! ò.ò Che già sono in
crisi esistenziale con sta storia, poi
se ti sta antipatico pure Alex .__. Per fortuna che
c’è Sarah, va’… Almeno lei
ti piace :)
Ti voglio tantissimo bene anche
io, Mond! *.*
Grazie anche a chi ha
letto
soltanto e a chi ha messo questa ff fra le seguite e le preferite.
Spero
continuate a seguirla e a spronarmi a continuare, ne avrei davvero
bisogno in
questo momento :)
Con affetto, vostra
_Pulse_
|
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Capitolo 27 *** Contradiction. Perfect. ***
Ciao a tutti! Mi scuso per il ritardo, ma in questo periodo non sono
riuscita a postare nulla :(
Ringrazio di cuore coloro che hanno recensito lo scorso capitolo: Tomminakaulitz,
Tokietta86
e freency.
Grazie davvero per il vostro supporto :)
Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento. Buona lettura!
_____________________________________
È
inutile che ormai ti ostini a dire
no,
negando un fatto ovvio
Tu necessiti di me nello stesso modo
che anche io di te
(Un
fatto ovvio – Laura Pausini)
Capitolo 20
Contradiction.
Perfect.
«Tom?»
«Oh, sono
qui.»
Lo raggiunsi in cucina e
misi il
telefono al suo posto. Lo guardai mentre sceglieva attentamente se
mangiare
patatine o pop-corn.
«Si
può sapere che stai
facendo?», chiesi divertita.
«Meglio questo
o questo?», indicò
i due pacchetti sul tavolo.
«Patatine»,
annuii. Lui confermò
con un sorriso e sistemò l’altro pacchetto nello
scaffale.
«Beh, che
c’è?»
«Oh,
sì, giusto. Ho chiamato l’agenzia.»
«Mmh,
Eliza?», ridacchiò.
«No,
Anthony», sorrisi soddisfatta.
Lui quasi non si strozzò.
«Che cosa?!
Eliza che fine ha
fatto?!»
«Geloso,
eh?», ammiccai mettendo
la mano dentro l’enorme sacchetto. Misi in bocca qualche
patatina. «Eliza era
malata, poveretta. Ah, le sta bene, così la prossima volta
non ci prova con mio
marito!»
«Le hai, per
caso, mandato il
malocchio?»
«No, per
niente. So solo che Dio
esiste!»
«Che stupida
che sei, non cambi
mai.»
«Grazie!»
«Comunque,
c’era Anthony e…»
«Oh,
sì. È tutto a posto, la casa
è ufficialmente nostra ed è agibile da
subito.»
«Ok, bene,
perché sono stufo di
tutti questi scatoloni sparsi per casa. L’altro giorno sono
inciampato e stavo
cadendo!»
«Davvero?»,
portai una mano sulla
bocca e risi piano.
«Sì,
e non è divertente!»
«In
verità è molto divertente!»
Tom si alzò e
mi venne incontro
con un sorriso obliquo, mentre io non riuscivo a smettere di ridere. Mi
abbracciò e mi baciò sulle labbra un
po’ di volte. Neppure i suoi tentativi di
mettermi a tacere erano andati a buon fine.
Sentimmo la porta di
casa aprirsi
ed entrò Bill, con un’irruenza che quasi mi
spaventò. Era entrato un uragano,
non Bill!
«Bill, che
cosa ti prende?», gli
chiese Tom.
«Dov’è
Anto?»
«Qui,
perché?»
Era appena uscita dalla
doccia e
aveva un asciugamano avvolto a turbante sulla testa, ma era comunque
bellissima.
«Indovina un
po’?!»
«Che
cosa?»
«Tua
figlia!»
«Che
è anche tua.»
«Nostra
figlia!»
«Che
cos’ha fatto di tanto
scandaloso?»
«Si baciava
con Nicolas di fronte
a tutti!»
«E
quindi?», chiesi.
«E quindi, Ary
non capisci!»
«Io capisco
bene, invece», disse
Anto. «Quei due sono innamorati ed è ovvio che si
bacino! Che cosa c’è che non
va? A parte che tu sei geloso peggio di… nessuno?»
«Molto
divertente, davvero!»,
sbuffò e si abbandonò al divano, chiudendo gli
occhi.
«Aspetta un
attimo, ma tu come
fai sapere che si baciavano di fronte a tutti?»
«Ehm…»
«Non mi dire
che li spiavi,
perché sarebbe il colmo!»
«Passavo di
lì, io…»
«Bill, tu li
spiavi!» Anto era
quasi scandalizzata. «Non ci posso credere!»
«Chi
è che spiava papà?», chiese
Sharon entrando in casa accompagnata dai cugini Stefan e Alex e da
Krista.
«Nessuno!»,
disse Bill saltando
in piedi. «Ary, vado a prenderla io Sarah!»
«Ok, fai come
vuoi», dissi io,
conoscendolo fin troppo bene: si sentiva in imbarazzo e non voleva
litigare
ancora con Sharon per Nicolas e le manifestazioni d’affetto
che quei due si
facevano a vicenda, così preferiva andarsene, calmarsi e poi
tornare sereno e
pronto, quasi, a ragionare.
«Perché
papà è scappato via così?»,
chiese Sharon entrando in cucina dietro a sua madre.
«Non so. Ciao
Krista, qual buon
vento?», disse Tom sorridendo.
«Ah, ma voi
non lo sapete!»
«Cosa?»
«La nostra
classe e quella di
Nicolas, guarda che fortuna, hanno vinto un concorso, e domani andiamo
in gita
assieme!»
«Che fortuna
sfacciata!», gridò
Stefan dal salotto.
«Dove andate
di bello?»
«Berlino.»
«Wow, che
bello.»
«Già.
E allora visto dobbiamo
partire domani mattina presto e Krista non ha nessuno che la
può accompagnare
ho pensato che magari poteva dormire qui e l’accompagnavamo
noi.»
«Certo, non
c’è problema», disse
Anto.
Vedemmo passare Alex per
il
salotto e anche lui rimase a fissare Krista, l’aria
nostalgica, la mano sullo
stipite della porta. Lei si girò piano e guardò
Alex, poi lui se ne andò
abbassando lo sguardo.
«Dici
che…», mi sussurrò Tom.
«Non lo
so», sospirai.
«Beh,
grazie», disse Krista ad
Anto, abbassando il capo.
«Di
niente.»
«Tanto
dormirà nel mio letto, non
c’è problema», Sharon le avvolse le
spalle con un braccio.
Entrarono in cucina
anche Katrina
e Juri, per mano, e lui corse da Sharon, che lo sollevò da
terra
abbracciandolo.
«Ciao
piccolo!», gli stampò un
bacio sulla guancia. «Come stai?»
«Bene. E
tu?»
«Benissimo!»
Juri si mise seduto al
tavolo e
rubò un foglio e una matita colorata dal set da disegno di
Sarah ed iniziò a
dare libero sfogo alla sua fantasia.
Katrina mi sorrise e si
mise
accanto a me, mentre parlavamo del più e del meno e del suo
nuovo lavoro.
«Mamma?»,
chiamò Juri.
«Eh?»,
risposero
contemporaneamente Anto e Katrina. Quest’ultima
guardò Juri preoccupata e si tappò
la bocca, diventando rossa.
«Che
c’è?», balbettò Anto per
cercare di deviare l’attenzione del bambino dalla sua
presunta sorella.
«Mi…
mi si è… rotta la punta»,
disse con la fronte corrugata. Scese dalla sedia e poi corse via,
nascondendosi
da qualche parte al piano di sopra.
In cucina era calato un
silenzio
inquietante, che venne rotto dalla stessa Katrina che
sospirò e si coprì il
viso con le mani.
«Che
situazione complicata,
accidenti», disse Krista.
«Mi
dispiace», sussurrò Katrina
guardando Anto.
«Non
è colpa tua, non dev’essere
facile…»
«Ma
perché non glielo dici, porca
paletta!», si intromise Sharon, prendendola per le spalle.
«Non so come
la prenderebbe.»
«Come
qualsiasi bambino.»
«Cioè
male.»
«Non
è detto, Juri non è un
bambino qualsiasi.»
«Sharon,
è così complicato… Non
so se riesci davvero a capire.»
«Non lo
capirò perfettamente, ok,
ma vedo che così non si può andare avanti. Pensa
a Juri, che dovrebbe pensare?
Magari ci sta pure soffrendo in questo momento! Non sa chi è
la sua mamma!»
«Gli ho
mentito per tutto questo
tempo…», era quasi in lacrime.
«E allora
smettila di mentirgli,
ora.»
Sharon e la ragazza si
guardarono
intensamente negli occhi e poi si abbracciarono.
«Ehm…
scusate, ma io… io esco»,
disse Stefan entrando per metà nella cucina sovraffollata.
«E dove
vai?», gli chiesi. «Da
Michelle?»
«Ahm…
sì», annuì grattandosi la
nuca.
«Ok, fai il
bravo», sorrisi.
«Sì,
ok», mormorò girandosi e
infilandosi la giacca prima di uscire.
Quando si chiuse la
porta alle
spalle, guardai Tom e poco dopo entrò in scena Alex, che mi
guardò a sua volta.
«Non andava da
Michelle», dissimo
in coro, sospirando.
«Ma che cosa
sta succedendo a
quei due?»
«Le cose non
vanno bene.» Alex si
appropriò di una sedia e unì le braccia sul
tavolo.
«Perché?»
«Sempre per i
soliti motivi…
Stefan ha l’ossessione di volerlo fare con Michelle e
Michelle non vuole perché
ha questa ossessione del matrimonio.»
«Sono due
ossessionati, in
pratica», disse Tom scherzandoci su. «Ossessionati
da due cose molto diverse,
ma pur sempre ossessionati.»
«Già.
Ma perché deve buttare
all’aria un così bel rapporto per una cosa tanto
assurda?!», disse Anto
incrociando le braccia al petto.
«Non
è assurda, Anto, se ci pensi
non è assurda. Che significa che lei non vuole fare sesso
con lui perché prima
si devono sposare? Non ha senso! Se vuole vedersi la fede al dito
allora non è
vero amore, secondo me.»
«Beh, se la
guardi da questo
punto di vista non ha senso, ma guardala dagli occhi di Michelle, che
ci crede
davvero. Se lei è attaccata a questa sua idea per lei
sarebbe la stessa cosa,
crederebbe che fare sesso con Stefan sia una cosa assurda e senza senso
perché
lui non sa aspettare.»
Ci mettemmo tutti a
riflettere,
in silenzio, poi alzai lo sguardo spaventata e guardai Alex:
«Ma quindi ora
dove andava?!»
***
Aveva preso il primo
pullman che
era passato e si era abbandonato al sedile, chiudendo gli occhi e
riflettendo
su quella situazione di merda in cui si era ficcato con le sue stesse
mani.
Era sceso alla penultima
fermata,
ricordandosi perfettamente, oltre ogni sua previsione, dove abitasse.
Raggiunse
il suo appartamento e bussò alla porta finché non
venne ad aprirgli, cioè dopo
circa cinque minuti.
«Stefan, che
ci fai qui?»
«Ciao
Celeste.»
Minuta, capelli neri,
pelle
chiara e occhi guarda caso azzurri da spezzare il fiato: in poche
parole, una
fra le sue tante ex.
«Come te la
passi?»
«Io bene,
tu?», rispose al suo
sguardo seducente, incrociando le braccia al petto, coperto solo da un
maglioncino bianco scollato.
«Mica
tanto.»
«Che cosa
c’è?», sospirò.
«Che ne dici
di un po’ di sano
sesso?»
«Che cosa? Ma
tu non stavi mica
con Michelle?»
«Sì,
ma… Michelle e il sesso
vanno su due binari differenti, purtroppo.»
«Senti,
Stefan, che cosa vuoi da
me?»
«Te
l’ho detto, del sano e
selvaggio sesso.»
La ragazza non
poté dire
nient’altro, Stefan la strinse fra le braccia e la
baciò senza sentimento, appropriandosi
del suo corpo mentre chiudeva la porta con il chiavistello.
***
La cena era andata
piuttosto
bene, anche se a volte c’erano stati dei silenzi imbarazzanti
a causa di Krista
ed Alex che si guardavano senza dire niente, gli occhi tristi, e che
subito
dopo si giravano cercando di evitarsi. Ma era praticamente impossibile,
visto
che erano l’uno di fronte all’altra. Infatti Krista
era seduta al posto di
Stefan, che si era volatilizzato senza dare notizie di alcun genere a
nessuno.
E poi, a dirla tutta, nessuno era andato a cercarlo veramente, sapevamo
che era
un periodo un po’ così e avevamo preferito
lasciarlo stare, anche se io prima
di tutti ero preoccupata.
Ora Sharon si stava
infilando fra
le lenzuola del letto dopo essersi lavata i denti, le luci
già spente e Juri
che dormiva nel lettino infondo alla stanza.
«Odio le
lenzuola quando sono
così fredde», sbuffò.
«Menomale che ci sei tu, Krista!», la
abbracciò
scherzosamente, baciandole insistentemente la guancia.
«Non mi
prendere per Nicolas, ti
prego!»
«Sarebbe anche
un po’
impossibile: lui è trenta volte più bello di
te!»
«Ingrata che
non sei altro, te la
faccio vedere io adesso!»
Dopo una battaglia di
pizzicotti
e solletico si calmarono e il silenzio tornò sovrano nella
stanza.
«Krista?»
«Uhm?»
«Le opzioni
sono due: o tornate
amici come prima oppure vi rimettete insieme, perché la band
ne risente,
davvero.»
«Sharon, ti
prego, anche tu…»
«Fallo per la
band, ti prego!»
«Non mi va di
fingere! Se sentirò
che tra noi si potrà anche instaurare un’amicizia
allora ok, ma se no… credo
proprio che dovrai accontentarti, mi dispiace.»
«Ok, come
vuoi», sospirò e si
girò dall’altra parte, dandole le spalle,
mettendosi meglio il cuscino sotto
alla testa.
«E non fare
l’offesa.»
«Non sto
facendo l’offesa.»
«Vallo a
raccontare a qualcun
altro, per favore.»
«Krista,
davvero, non sto facendo
l’offesa. Io penso solo alla band.»
«Menomale che
avevi sempre detto
che questo era solo un hobby, che non volevi che diventasse il tuo
lavoro.»
«Beh, ho
cambiato idea. E poi
anche tu nell’intervista hai detto che non ti vedevi a fare
nient’altro oltre
che a suonare. Quindi… se tieni così poco alla
nostra band solo perché la
storia fra voi due è andata male… non so che
dirti.»
«Vorrei vedere
te nella mia
situazione, è già tanto che sono qui. Tu forse
non te ne rendi conto, quanto mi
faccia male stare al suo fianco…»
«E a lui ci
pensi? Anche lui sta
come te. Non capisco, tra un po’ vi amate alla follia e vi
costringete a stare
lontani.»
«Lui ha
sbagliato, mi ha
tradita!»
«E ti ha
chiesto scusa, tu
perdonalo! Credi che sia tanto stupido da rifarlo?!»
Sharon si
girò e guardò Krista
negli occhi. Fra loro era così: si scannavano, ma restavano
sempre amiche.
Quando litigavano non sapevano nemmeno di farlo, talmente era normale
avere
quei battibecchi fra le loro chiacchierate.
Krista
abbassò lo sguardo, poi si
alzò e scese di sotto senza fare rumore. Aveva bisogno di
schiarirsi le idee da
sola, senza l’aiuto di Sharon, perché sapeva che
lei non ci sarebbe potuta
essere sempre, e doveva imparare a cavarsela anche da sola, e non
correre
sempre da lei per ogni cosa, anche la più stupida del mondo.
Si mise seduta sul
tavolo, accanto
alla bottiglia d’acqua fresca che aveva preso dal frigo, il
bicchiere mezzo
pieno fra le mani.
Che doveva fare? Non lo
sapeva
nemmeno lei. Alex le mancava così tanto… eppure,
no, non poteva tornare da lui.
Era lui che doveva tornare da lei. Ma si rese conto che
l’aveva già fatto, già
due volte. E lei aveva sempre girato il viso dall’altra
parte.
Sospirò e si
passò le mani sugli
occhi stanchi. Sentiva che stava per piangere, ma cercò di
trattenersi, anche
perché aveva sentito dei rumori. Non si era sbagliata,
infatti poco dopo entrò
in cucina Alex, in maglietta intima e boxer azzurri.
Sobbalzarono prima lui e
poi lei
vedendosi e poi rimasero a fissarsi, senza sapere che dire. Alex si
guardò e
sorrise imbarazzato, ma nemmeno troppo.
«Scusa,
ma… ti sembra normale
andare in giro così?», gli chiese lei ad un certo
punto, cercando di non
abbassare lo sguardo, anche se la tentazione era forte.
«Non pensavo
ci fossi tu», le
rispose.
La sua voce ancora mezza
addormentata era roca e sensuale, tanto da farle venire i brividi di
freddo su
per la schiena, riportandole alla mente lontani ricordi.
«Appunto…
appunto che ci sono io
in casa ti saresti dovuto vestire di più, non potevi
saperlo.»
«Krista, ti da
fastidio vedermi
in boxer?»
«No,
però…», arrossì sulle guance
mentre si torturava le mani.
«E
allora?»
Si guardarono e Alex
sorrise,
spostandosi un ciuffo di capelli ormai quasi di nuovo biondi che gli
cadeva
ribelle sul viso. Prese un bicchiere dalla credenza e si
versò un po’ d’acqua,
sfiorando Krista per recuperare la bottiglia. Bevve e lei non
riuscì a non
notare il suo pomo d’Adamo, sexy come niente secondo il suo
punto di vista, e a
non leccarsi le labbra.
«Krista?»
«Sì?
Eh? Io…»
«Non ce la
faccio più», sussurrò
con le lacrime agli occhi, le mani appoggiate sul tavolo, di fianco
alle gambe
di Krista, il viso vicinissimo al suo.
«A…
a fare che cosa?»
«A stare senza
te.»
Krista
sospirò chiudendo gli
occhi e quando li riaprì fissò quelli di Alex,
così pieni di tristezza e così
comunque bellissimi. Gli sfiorò la fronte con le dita,
spostandogli i capelli,
e Alex chiuse gli occhi appoggiandosi anche con il bacino al tavolo,
fra le sue
gambe.
«Alex, sei
stato così
maledettamente stupido…»
«Già,
me ne sono accorto.»
«Chi mi dice
che non lo farai
ancora?»
«Io.»
«Tu. Ed io
come faccio a fidarmi
di te, dopo…»
«Krista, ho
sbagliato, lo so, ma
ti prometto che non riaccadrà, io non sono così,
quella sera era tutto così
confuso… ed ero pure ubriaco.»
«Essere
ubriaco non ti
giustifica.»
«Lo so,
Krista, lo so. Solo che…
non posso stare senza te, mi manchi da morire, io amo te.»
«E
quella… ragazza che
frequentavi?»
«Potrò
sembrare stronzo, ma non è
davvero nulla in confronto a te. Ti prego Krista, ti scongiuro, io non
ce la
faccio senza te.»
Si guardarono ancora
negli occhi
e Krista strinse le gambe intorno al bacino di lui, provocando brividi
ad entrambi,
avvicinandolo a sé. Con le mani fra i suoi capelli lo
baciò sulle labbra,
desiderando profondamente quel bacio, vivendolo e gustandolo fino in
fondo.
Quante volte aveva
sognato di
ribaciarlo? Quante di stringerlo così forte anche da
soffocarlo? Quante di
accarezzargli i capelli e quante ancora di farci l’amore
ancora una volta?
Quanto l’aveva desiderato, ancora?
«Alex, mi sono
innamorata di te,
porca puttana, e non ci posso fare niente», disse con il
fiato corto, non
riuscendo a staccarsi da quelle labbra fin troppo agogniate da sempre.
«Mi ero
dimenticato di quanto
potessi essere fine, a volte», ridacchiò
morsicandole il labbro inferiore,
prendendola per la schiena e sollevandola dal tavolo per portarla
chissà dove.
Ridacchiarono assieme
baciandosi
avidamente. Se fosse stato per loro non avrebbero nemmeno ripreso
fiato.
Alex
ringraziò suo fratello
perché non c’era ed avevano tutta la camera per
loro, e poi ringraziò qualcun altro
perché aveva fatto sì che la sua stanza fosse
l’ultima del corridoio, quella
più isolata da tutti, quindi nessuno avrebbe sentito niente
quella notte.
Caddero sul letto e
Krista lo
spogliò velocemente, lo baciò, lo morse, lo
assaporò, avendo la prova che non
si era dimenticata quanto fosse bello baciarlo e quanto fosse bella la
sensazione di averlo solo per sé.
Alex fece più
o meno lo stesso,
ma dolcemente, senza tutta quella foga che aveva avuto Krista,
perché quella
notte era speciale e non voleva farla scorrere troppo velocemente.
«Alex,
muoviti, non ce la faccio
più», sussurrò al limite, sentendosi
leccare intorno all’ombelico.
Gli lanciò un
preservativo che
aveva trovato nel suo comodino e lui se lo infilò, la
strinse a sé mentre lei
inarcava la schiena e iniziò la loro danza, con voglia e
passione, senza
pensare a nient’altro che a lei e a quanto fosse bella, a
quanto gli fossero
mancati i suoi baci, le sue mani, la pelle calda e soffice di lei a
contatto
con la propria e i suoi capelli che lo sfioravano quando si spostava su
di lui.
Nonostante
l’irruenza con la
quale avevano iniziato la fine fu dolce e quasi romantica, con un
sorriso
felice e diversi baci prima di addormentarsi l’uno nelle
braccia dell’altra e
viceversa.
***
Krista si
stropicciò gli occhi e
si accorse di non essere accanto a Sharon, bensì accanto ad
Alex.
«Che
cosa?!», sussurrò
terrorizzata, mettendosi seduta sul letto, tenendosi il lenzuolo
addosso.
Guardò Alex e
gli girò il viso
per vedere se ancora dormiva, ed era così, solo dopo si mise
a pensare. Si
accorse che allora quello strano sogno, che tanto strano non era visto
che era
ormai un abitudine per lei, era stata la realtà: aveva davvero
fatto l’amore con lui.
Alla notizia si
sentì sia felice
che preoccupata. La sera prima aveva fatto tutto quel bel discorso a
Sharon,
dicendole che non se la sentiva nemmeno di diventare di nuovo sua amica
per
davvero, e adesso si trovava lì, nel suo letto, la mattina
dopo aver fatto
l’amore.
Però era
felice, perché Alex le
era mancato da morire e finalmente l’aveva riavuto, aveva
riavuto ciò che era
suo di diritto, e non poteva sentirsi più entusiasta di
ciò.
Ma come avrebbe fatto a
mettere
da parte il suo orgoglio e a dire a Sharon che era tornata con lui? Si
sarebbe
sentita la contraddizione in persona, ma in quel momento non ci
pensò troppo.
Era fatta così: agiva e poi pensava, e rimandava sempre
quell’operazione in cui
si doveva usare il cervello, rischiando anche di farsi male sul serio.
«Cucciola?»,
mugugnò Alex ad
occhi chiusi.
«Stai parlando
con me?», si
indicò Krista.
«E con chi se
no?»
«Oh,
era… da tanto che non mi
chiamavi così.»
«Non sapevo se
avresti fatto i
salti di gioia.»
«Direi di
no.»
«Appunto.»
Krista si mise di nuovo
al suo
fianco e si strinse al suo petto, chiudendo gli occhi e respirando il
buon
profumo della sua pelle.
«Che
cosa… cioè, noi…»,
balbettò
Krista.
«Se vuoi
aspettare io aspetterò,
non ti preoccupare», le accarezzò i capelli a
ciocche viola sistemandoglieli
dietro l’orecchio, liberando il suo bel viso chiaro e
baciandole la fronte.
«No, io voglio
stare con te», gli
sussurrò.
«Questo mi fa
piacere», le
sorrise e la strinse di più, chiudendo gli occhi sereno.
«Mi chiedo
solo come la
prenderanno gli altri, e Sharon, soprattutto.»
«Ne
sarà entusiasta, vedrai.»
«E…
Bea?»
«Vuoi che le
parli?»
«Chiarisci la
situazione con lei
e dille che tu sei solo mio», lo soffocò in una
stretta d’acciaio e lo baciò
sulla gola, facendolo sorridere.
«Dov’è
l’atto di proprietà?»,
chiese scherzosamente il quasi ormai biondo.
«Dovrà
farsi bastare la parola. A
meno che tu non voglia il mio nome tatuato sul culo»,
scoppiò a ridere,
trascinandolo con sé. «Mi sei mancata
così tanto…»
«Anche
tu», si baciarono ancora
affettuosamente e si sorrisero, prima che Krista fu costretta ad
alzarsi a
causa di una gita.
Lei odiava le gite e
visto che
sarebbe dovuta stare lontana da Alex aveva un motivo in più
per odiarle, quella
in particolare.
***
Krista
raccattò la sua roba, si
vestì in fretta, rinfilandosi il pigiama come se avesse
dormito per tutta la
notte, e scese di sotto senza farsi vedere mentre usciva dalla camera
di Alex.
«Buon
giorno», disse appena
entrata in cucina.
«Buon giorno,
Krista.»
«Sì,
buon giorno», disse Sharon
che la squadrava da capo a piedi, gli occhi stretti in due fessure.
Krista la
guardò e con lo sguardo
le fece capire che non era il momento per le domande, ma Sharon sorrise
maligna
e lei si arrese: in quella casa un segreto non riusciva nemmeno ad
avere quel
nome, talmente in fretta lo si conosceva.
«Allora,
carissima Krista, vieni
a sederti by my side.»
«Uhm?»
Sia Tom che Bill
alzarono la
testa dai loro caffè giganti – ne erano quasi
dipendenti – poi si guardarono e
sorrisero prima di scoppiare a ridere.
Krista andò
di malavoglia accanto
all’amica e sbuffò sedendosi, Sharon le avvolse le
spalle con un braccio e le
sorrise stando pericolosamente vicina al suo viso, con quel ghigno
stampato
sulle labbra.
«Dormito,
Krista?», le chiese,
pura incarnazione del male.
«Humpf, dormito
è una parola grossa, tu russi così forte che mi
chiedo come
fate a dormire in questa casa.»
«Fai la
seria!», le tirò un
coppino e Krista piegò la testa in avanti da quanto era
stato forte.
«Ma che hai,
sei rincoglionita
per caso stamattina?! Non lo so, tua mamma ti ha messo la cocaina al
posto
dello zucchero nel latte?!»
«Ci manca solo
quello», ridacchiò
Anto.
«Krista, ti
prego, fai la persona
seria e dimmi perché non hai dormito con me!», si
lagnò come una bambina.
Krista
boccheggiò e si guardò
intorno, in cerca di una scusa da accampare, ma nella sua testa in quel
momento
non c’era nemmeno un filo di vento, tutte le sue brillanti
idee se n’erano
andate.
«Sono
fottuta», disse reggendosi
la testa con una mano.
«Io so dove
sei andata»,
sogghignò Sharon, spostandole una ciocca viola dal viso.
«Ma dai! A
meno che non sia
andata a dormire con i tuoi genitori o con i genitori di Stefan e Alex
perché
avevo paura, non so da chi potrei essere andata! Sono andata da Alex,
ok, sei
contenta adesso?! Abbiamo fatto pace e…»,
arrossì e si tappò la bocca.
«Sì,
ora sono contenta!»,
saltellò sulla sedia abbracciandola.
«Eh, sarebbe
anche il minimo!»
«Che cosa vi
siete detti?»,
chiese emozionata e curiosa.
«Non
è che ci siamo detti molto…
ehm», si grattò la nuca sempre più
rossa, cercando di evitare gli sguardi di
tutti.
«Subito al
sodo, eh?», sogghignò
Tom prima di bere dalla sua tazza. «Sarei curioso di sapere
com’è Alex, visto
che non parliamo mai di queste cose», disse ancora,
più a se stesso che a lei.
«Sono molto
più bravo di quanto
tu creda», disse il diretto interessato entrando in cucina, i
jeans strappati e
una maglietta grigia attillata che ne definiva i muscoli che a dirla
tutta
erano aumentati da quando faceva palestra.
«Dio se sono
fottuta», disse
ancora Krista, sempre più disperata e con le mani nei
capelli.
«No che sei
fottuta, è una cosa
bella invece!», disse Sharon.
«Lei ha
ragione», disse Alex
facendole l’occhiolino e stampandole un bacio in fronte.
«Ma…»,
balbettò Krista, ma dopo
uno sguardo occhi negli occhi con lui si abbandonò ad un
sorriso perdutamente
innamorato e si lasciò baciare leggera sulle labbra.
«Io vado,
ciao!», salutò con la
mano Alex, uscendo dalla cucina.
«Ah,
è così al settimo cielo»,
sospirai contenta. «Era da tanto che non lo vedevo
così felice.»
«Se questa
testa di cocco si
svegliava prima, magari!», batté le nocche sulla
testa di Krista e rise di
fronte alla sua reazione abbastanza incazzata.
Ma anche Krista era
felice, lo si
vedeva, lo si notava in tutte le cose che faceva, persino il suo viso
sembrava
più luminoso e bello.
«Ma
gliel’hai chiesto tu o te
l’ha chiesto lui?», chiese Bill.
«Di comune
accordo stamattina»,
disse lei, immergendo il cucchiaino fra i suoi cereali, finalmente.
«No, forse
gliel’ho chiesto io… Non mi ricordo
bene.»
«Come fai a
non ricordarti queste
cose, Krista!», sbuffò Sharon.
«Perché
tu ti ricordi se te l’ha
chiesto Nicolas oppure se gliel’hai chiesto tu?»,
alzò il sopracciglio.
«Ovviamente!
Me l’ha chiesto
lui!»
«Che cosa
romantica…», dissi.
«Anche a me l’ha chiesto Tom.»
«Ovvio, tu non
ci avevi nemmeno
pensato!», mi rispose lui portandomi la sua tazza da lavare,
assieme al
cucchiaino.
«Forse
perché pensavo che non ci
sarebbe stato nient’altro oltre quella follia.»
«Beh, pensavi
male. Hai visto
dove siamo ora?»
«Eh
già.»
Mi stampò un
bacio sulle labbra e
rise guardando Anto che faceva le facce buffe dietro di me, imitando le
mie
seghe mentali di allora quando me l’aveva chiesto.
«Ehi!»,
le diedi uno schiaffo sul
braccio, ma non so come persi l’equilibrio e fui costretta a
tenermi al ripiano
della cucina, portandomi istintivamente una mano sul ventre.
«Ary, che
c’è?», mi chiese Tom
preoccupato, prendendomi per le braccia.
«Niente,
solo… un giramento.
Forse è meglio se vado a sdraiarmi.»
«Sì,
forse è meglio.»
Lasciai lì
tutto e andai di
sopra. Non avevo nemmeno finito di fare la rampa di scale che sentii la
porta
di casa aprirsi e chiudersi, poi qualcuno gettarsi pesantemente sul
divano.
«Stefan!»,
urlai dimenticandomi
del giramento. Mi misi seduta sullo scalino, le braccia intorno alla
pancia, e
lo guardai. «Posso sapere dove sei stato tutta la
notte?»
Anche Tom, Bill e Anto
uscirono
dalla cucina e guardarono sia me che Stefan, sdraiato sul divano con
gli occhi
chiusi.
«Alex
è già uscito?», chiese.
«Sì.
Che cos’hai?»
«Non ho
niente.»
«Te lo si
legge in faccia che hai
qualcosa, quindi…»
«Senti mamma,
non ne voglio
parlare, ok? Adesso prendo lo zaino e vado a scuola», si
alzò e salì le scale.
Quando mi
passò accanto, mi guardò
scontroso e mi sentii male a quello sguardo: mai mi aveva guardata in
quel modo
e una strana fitta al cuore mi fece chiudere gli occhi. Riconobbi nei
suoi
occhi la rabbia che sentivo io quando guardavo mia madre, e sentirmi
come lei
non fece bene alla mia situazione.
La testa ora faceva
decisamente
più male e a malapena riuscii ad alzarmi e a rifugiarmi in
camera, dove mi
abbandonai con la faccia nel cuscino e nonostante la mia non
più giovanissima
età mi misi a piangere come una bambina, chiedendomi se
anche mia madre
soffriva così tanto quando io mi comportavo in quel modo,
cioè sempre.
Anto sospirò
ed entrò di nuovo in
cucina, le mani unite in grembo, torturandosi le unghie non sapendo
cosa fare.
«Cos’è
successo, mamma?», le
chiese Sharon. Altro sospiro da parte di Anto, che si mise di nuovo
all’opera
per finire i panini che avrebbero portato via Sharon e Krista, per la
gita.
«Stefan si
comporta in modo
strano, non è mai stato così con sua madre.
Quando si farà vivo se la vedrà con
me, lo sa che lei sta male per qualsiasi cosa!»,
gridò Tom sbattendo un pugno
sul ripiano in marmo della cucina, seguito da Bill come se fosse la sua
ombra.
«Ma Tomi, mica
lo ha fatto
apposta…»
«Non doveva
farlo e basta,
punto.»
«Zio, calmati.
Se vuoi ci parlo
io con Stefan», propose Sharon.
«Non ho niente
da dire», disse lui
schietto, aprendo la porta e sbattendosela alle spalle prima che suo
padre
potesse aggiungere qualsiasi cosa.
«È
tale quale a me, porca
miseria!», sbraitò ancora.
«Già»,
annuì il fratello.
«Che cosa
succede?», chiese
assonnata Sarah, comparendo sulla soglia della cucina in pigiama e con
Whiskey
appresso.
«Niente
amore», Tom la prese in
braccio e si addolcì solo a quel contatto, cullandola per
farla dormire ancora
un po’.
«Ragazze,
tenete», disse Anto
porgendogli a testa un sacchetto. «Non pensate a niente,
divertitevi e basta,
ok?»
«Non ci
riuscirò comunque», disse
Sharon scuotendo la testa, gli occhi tristi.
«Come no,
passerai un intera
giornata con Nicolas senza tuo padre fra le scatole!»
«Anto!»,
la ammonì lui, ma si
misero subito a ridere.
«È
vero, hai ragione», tornò il
buon umore a Sharon.
«Uffa
però, così non vale. Tu hai
ragazzo in gita, io no», sbuffò Krista con le
braccia strette al petto.
«Perché,
non sei stata abbastanza
con lui questa notte?», sogghignò.
«Ah, vai a
farti fottere Sharon.»
«Papà,
quella parola va di moda,
perché non la posso dire anch’io?»,
chiese Sarah stropicciandosi gli occhi.
«Non va di
moda, è che siamo
tutti degli ignoranti primitivi senza finezza. Tu non sei
così, vero?»
«Non siete
degli ignoranti
primit-mi-ti-vi…», incespicò su quella
parola tremendamente difficile e scosse
il capo, arrendendosi.
«Primitivi,
Sarah, primitivi», le
suggerì dolcemente Bill.
«Ma che vuol
dire?»
«Che non devi
dire quella parola,
fine.»
«Ok, se lo
dici tu», sbadigliò
ancora prima di riappoggiarsi alla spalla del papà e di
chiudere gli
occhi.
***
Tom portò
l’ennesimo scatolone nel
loft e mi sorrise mettendolo accanto agli altri. Venne a sedersi
accanto a me,
sull’enorme divano a doppia L del salotto, e mi
rubò un bacio.
«Tu fatichi e
io non faccio un
bel niente», sorrisi accarezzandolo sotto al mento.
«Sì,
ma ne vale la pena: vedere
Bill faticare è una grande gratificazione.»
«A proposito,
dove l’hai lasciato
quel poveretto?»
«Sono qui,
aiuto», soffiò
incastrandosi con uno scatolone piuttosto grande nella porta. Tom
ridacchiò ed
andò ad aiutarlo.
«Uffa, non ce
la faccio più! Sono
finiti?»
«Stai
scherzando, Bill?», chiese
Anto entrando dopo di lui e depositando un altro scatolone. Sembrava un
cantiere più che un appartamento, in quelle condizioni.
«Ne mancano
ancora tantissimi, e
la maggior parte sono tuoi vestiti!»
«Se io ho
tanti vestiti non me ne
devi fare una colpa.»
«Mamma che
bello!», disse Sarah
saltando sul divano con Whiskey per mano, sprizzando gioia da tutti i
pori.
«Che
cosa?», le chiesi dolce.
«Si vede tutta
la città dal
vetro!»
«Hai paura,
Sarah?», le chiese
Juri che era con le mani sul vetro, a guardare davanti e sotto di lui.
«No che non ho
paura», si
pavoneggiò lei in un modo molto tenero, le mani sui fianchi
e il sorrisetto
fiero di Tom sulle labbra.
Si avvicinò a
lui, convinta in
tutto e per tutto di non aver paura, ma quando vide l’altezza
paurosa e il
vuoto sotto di lei urlò e tornò sul divano
stringendomi forte.
«Io lo
sapevo», rise Juri,
sedendosi lì di fianco.
«Mamma, Juri
mi prende in giro
perché ho paura!»
La guardai negli occhi
annuendo,
ma l’unica cosa che mi veniva da fare era ridere, e dopo Tom
attaccai anch’io,
contagiando la piccola peste.
«Come mai si
ride?», chiese
Katrina, rossa in viso, mentre appoggiava anche lei uno scatolone con
scritto Fragile
sul lato.
«Mi sa che
facevamo prima a
chiamare una ditta di trasporti», disse Bill passandosi una
mano sulla fronte.
«Se tu sei uno
sfaticato non è
colpa mia!», gli gridò Tom, spingendolo per poi
ridere ancora.
«Scusate,
è permesso?»
Ci girammo tutti verso
la porta e
vidimo Alex e Stefan, tornati da scuola, che guardavano
all’interno sorpresi,
quasi a bocca aperta.
«Deduco che vi
piace», dissi.
«Cavolo,
è a dir poco
meravigliosa», disse Alex.
«Sì,
concordo pienamente con
lui.»
Stefan
incrociò il mio sguardo e
sorrise amareggiato, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi.
Guardò anche
suo padre, a braccia incrociate, e fece un lungo respiro prima di
incominciare
a parlare.
«Mi dispiace
per stamattina, non
volevo. Ho fatto una scenata inutile che potevo risparmiarmi e voi non
c’entravate niente, scusatemi.»
«Stefan, sei
perdonato!», dissi
allungando le braccia. Lui venne da me e mi abbracciò,
baciandomi sulla
guancia.
«Non aspettava
altro da questa
mattina», commentò Tom a Bill, che
annuì.
«Scusami anche
tu se ti ho
chiesto dov’eri stato in quel modo, solo che mi hai fatto
preoccupare.»
«Non fa
niente, mamma, poi ti
spiegherò.»
«Ok, va bene.
Perché adesso non
vai ad aiutare tuo padre?»
«Sfruttatrice»,
mi sorrise prima
di baciarmi di nuovo, ma sulla fronte.
«Già,
lo so», risi.
Tom prese Stefan per le
spalle e con
Anto e Bill andarono a prendere altri scatoloni in macchina, mentre
Katrina,
Juri e Sarah si misero a giocare assieme sul tappeto con Whiskey e il
pupazzo
preferito di Juri, una tartaruga insolitamente viola e nera.
Alex fece un altro
giretto per la
casa, non risparmiandosi i commenti, ovviamente tutti positivi, e poi
si
sistemò sul divano esausto, manco avesse fatto i mille
metri.
«Allora con
Krista…», gli fece
l’occhiolino, lui rise a bassa voce, chiudendo gli occhi con
la testa
abbandonata allo schienale basso del divano.
«Sì,
è tutto come prima. Ora mi
sento… bene, sì, è tutto
perfetto.»
«E
Bea?»
«Oh,
Bea… eh, Bea è un bel casino
ora. Io non voglio ferirla, ma non stavamo nemmeno assieme, non devo
preoccuparmi così tanto.»
«Io te
l’avevo detto che qualcuno
comunque si sarebbe scottato, se non Krista, Bea.»
«Mi dispiace,
ma…»
«Non devi
dispiacerti, perché
comunque, Alex, questo è ciò che vuoi,
è di Krista che sei innamorato, e lei
non può farci niente, deve solo accettare la
realtà.»
Qualcuno
suonò al campanello,
anche se la porta era aperta. Ci girammo e vidimo proprio Bea che
sbirciava
all’interno, che, incontrando lo sguardo di Alex, sorrise
raggiante.
«È
meglio dire: Si
parla del diavolo e spuntano le corna,
oppure Che Dio
ce la mandi buona?»,
mi sussurrò lui.
«Tutte e due,
Alex, tutte e due»,
gli diedi una pacca sulla spalle e si alzò facendo un
respiro profondo.
«Ciao Bea,
entra.»
«Ciao
Alex.»
Anche lei si
guardò intorno mezza
sconvolta, stando possibilmente attenta a non inciampare in uno
scatolone e a
non cadere.
Alex la condusse verso
la cucina
e parlarono lì, visto che in terrazza faceva ancora
abbastanza freddo.
«Allora, cosa
mi racconti? Sembri
piuttosto silenzioso», gli disse.
«Sì,
ehm, ecco…»
«Alex,
c’è qualcosa che devi
dirmi?»
«In
verità sì.»
«Che cosa?
Dai, parla, mica ti
mangio!»
«Io…
io e Krista siamo tornati
assieme.»
Dopo un momento di
stupore, a
bocca aperta, Bea sorrise e lo spinse su una spalla, ridendo
nervosamente.
«Sempre a
scherzare stai.»
«No, Bea,
davvero. Io e Krista
siamo tornati assieme veramente.»
«Che
cosa?!», si infiammò di
rabbia. Era quello che Alex temeva. «Ma come hai
potuto?!»
«Eh? Guarda
che io e te non
stavamo assieme, e io amo Krista, quindi…»
«Quindi mi hai
solo usata per
dimenticarla!»
«No, Bea, non
è così.» O forse sì?
«Non dire simili cretinate.»
«Alex, almeno
sii onesto!»
«Bea, non
piangere, per favore…»,
le sfiorò la guancia con la mano per asciugarle le lacrime,
ma Bea gliela
schiaffeggiò via e iniziò a riempirlo di pugni
sul petto, senza forze però,
tanto che ad Alex sembravano carezze.
«Ti odio, ti
odio, ti odio! Sei
un lurido sfruttatore! Io ci credevo davvero a noi!»
«Bea, mi
dispiace, io…»
«A te non
dispiace, Alex!»
«Ma
sì invece, non mi piace
vederti piangere, sei una mia amica!»
«Oh, certo,
una tua amica!», gli
tirò l’ultimo pugno sugli addominali, coordinato
pure male, e poi si lasciò
abbracciare senza forze, nascondendo il viso nel suo petto, celando le
lacrime.
«Bea, io ti
voglio bene, ma non è
come ciò che provo per Krista, mi dispiace», le
sussurrò.
«Già,
avrei dovuto… Non avrei
dovuto illudermi.»
«Mi dispiace
se ti ho ferita, non
volevo, sul serio.»
«Non importa,
Alex», si asciugò
il viso con le mani e fece un piccolo sorriso, tirando su col naso.
«Sicura?»
«Sì,
ho detto di sì.»
«Allora,
ehm… amici?»
«Amici. Voglio
tanto conoscerla
questa Krista, che ti fa impazzire così tanto.»
«Vi
conoscerete presto, Krista
sarà felice di conoscere chi è la ragazza con cui
uscivo subito dopo la fine
della nostra storia.»
«Gliel’hai
detto?», chiese
sbalordita.
«Certo, per
forza. È difficile
nascondere qualcosa alla batterista number one», sorrise.
«Oh Alex, sei
davvero un bravo
ragazzo. Peccato, un vero peccato. Spero solo che Krista sappia
ciò che ha.»
«Sì,
e io so cos’ho io.»
Bea annuì e
si congedò poco dopo,
salutandolo con abbraccio breve ma significativo.
«E anche
questa è andata», disse
Alex sorridendomi e passandosi una mano sulla fronte.
***
Ormai sera, dopo aver
fatto una
cena a base di pizza a causa del vuoto che regnava sovrano fra gli
scaffali
della nuova cucina, Bill, un po’ preoccupato per Sharon, che
doveva già essere
a casa da un’ora, la chiamò.
«Pronto,
Sharon?»
«Oh, ciao
papà!»
«Ciao. Ma che
fine hai fatto?
Dovevi essere casa un’ora fa!»
«Sì,
lo so. Ehm…»
«Che
c’è?»
«Mi prometti
di non avere crisi
isteriche e di non dire cose di cui potresti pentirtene e/o dire cose
assurde?»
«Non ti
prometto un bel niente
io!»
«Ok»,
sospirò. «C’è stato un
guasto al pullman, siamo fermi qui, per fortuna eravamo in
autogrill.»
«Che cosa?!
Sharon, piccolina, ti
vengo a prendere!»
«Ecco, questa
era una delle cose
assurde. Dai papà,
per favore, mi
metteresti solo in imbarazzo! Dai, lascia perdere. Arriviamo domattina!
E poi i
professori hanno detto che possiamo stare a casa domani a causa
dell’inconveniente.»
«Sharon, sei
sicura?»
«Sicurissima!
Non hai niente di
cui preoccuparti, sono qui con Krista, Nicolas…»
«A causa di
quest’ultimo mi preoccupo!»
«Papà,
ancora?! Credevo avessi
superato questa fase! Credevo ti piacesse!»
«La
prospettiva di lasciarti da
sola con lui per troppo tempo non mi fa impazzire di gioia.»
«Papà,
ma di che hai paura
ancora? È un santo, porca miseria!»
«Mai giudicare
all’apparenza,
dietro quel santo si nasconde un diavolo, io lo so.» Visto
che anche lui
infondo era così.
«Sì,
sì. Mi passi qualcuno? Anzi,
passami zia, la voglio salutare. Saluta tutti gli altri, dai un bacio
alla
mamma da parte mia.»
«Ok, te la
passo. Ciao, Sharon,
se hai bisogno di qualcosa, di qualsiasi cosa, io…»
«Sì,
sì, ciao!»
Guardò il
telefono quasi
scioccato: la sua bambina stava proprio diventando grande. Si
trascinò in
camera mia, dove c’eravamo io e Stefan, che mi aveva appena
finito di raccontare
quello che era successo nelle ultime ore.
«È
Sharon», bofonchiò porgendomi
il telefono.
«Che
è quella faccia?»
«Arrivano
domattina, il pullman
ha avuto un guasto.»
«Oh, ora
capisco», sorrisi
annuendo, inquadrando perfettamente la situazione.
«Ok, mamma,
allora io vado»,
disse piano Stefan, baciandomi la guancia e uscendo dalla stanza in
contemporanea con Bill.
Tom era di sotto con
Anto,
probabilmente in terrazza assieme ad Alex, che discutevano su un
possibile tour
dei Devilish e tutte le altre cose; invece Katrina e Juri, da quel che
sapevo
erano già andati a dormire, perché lei la mattina
dopo sarebbe dovuta andare
presto al lavoro e lui era praticamente crollato fra le sue braccia.
Sarah si
era direttamente addormentata sul mio letto mentre ascoltava Stefan
parlare. E
menomale che ci teneva tanto a sapere di Michelle! Quella bambina era
tale e
quale a me.
«Ciao Sharon,
ho saputo del
guasto!»
«Sì,
papà è tanto arrabbiato?»
«Mmm…
no, non più del solito.»
«Beh,
è già qualcosa. Allora, che
mi racconti? Cosa mi sono persa di interessante?»
«Più
che altro direi che sei
stata fortunata, visto che oggi abbiamo ufficialmente traslocato nella
nuova
casa e non hai dovuto faticare per niente.»
«Oh, che
bello!»
«E poi, che
dire? Ah! Alex e Bea
stavano per inaugurare la cucina con un incontro di boxe!»
«Sì!
Krista me l’ha detto!»
Tirò
giù le grandi cuffie
all’amica, che rimase sbigottita guardandosele sul petto.
Krista le fece una
linguaccia e si stravaccò sul sedile, appoggiando la testa
alla spalla di
Sharon, chiudendo gli occhi alla musica, di nuovo nel suo mondo.
«Davvero?
È bello che si dicano
tutto.»
«Già.
Ora devo andare zia, ci
vediamo domani.»
«Ok, mi
raccomando fai la brava.»
«Sì,
non ti preoccupare. Buona notte.»
Sharon chiuse la
chiamata e
guardò Krista sdraiata su di lei. Se la scrollò
di dosso e si alzò, così lei
cadde sul sedile tirando un piccolo urlo. Si guardarono ancora male e
poi
sorrisero, come sempre.
«Vado a vedere
dove si è cacciato
Nicolas», disse quando le luci sul pullman si spensero, ad
indicare che era ora
di dormire.
«Ok»,
sbadigliò Krista chiudendo
di nuovo gli occhi e sistemandosi la felpa addosso, come una coperta.
Sharon uscì
dal pullman, senza
farsi beccare dai prof che erano lì fuori a chiacchierare
con un bicchiere
fumante in mano, e notò Nicolas seduto sull’erba,
in pendenza, che stava fissando
sotto di lui l’autostrada e sopra di lui il chiarore della
luna che faceva
splendere ancora di più i suoi capelli chiari.
«Perché
fai sempre il lupo
solitario?»
Nicolas si
girò e guardò Sharon
con un sorriso, porgendole la mano, che lei accettò. Si
sedette al suo fianco,
abbracciata a lui, e guardarono assieme i fari delle macchine che
scorrevano in
strada, ascoltando il rumore delle ruote sull’asfalto e dei
motori.
«Stai attenta,
c’è la luna piena,
potrei trasformarmi in un lupo mannaro», scherzò
lui mordendole il collo
dolcemente.
Sharon
inclinò la testa
all’indietro e si lasciò baciare, stendendosi pian
piano sull’erba fredda,
Nicolas su di lei.
«Credi sia
stato il destino a
volere che ci fermassimo qui?», chiese in un sussurro,
infilando le dita fra i
capelli di lui.
«Non so, non
credo molto nel
destino: siamo noi che influiamo sulla nostra stessa vita.»
«Potrebbe
essere. Com’è il fatto
che ci troviamo sempre in luoghi aperti prima di farlo?»,
sorrise.
«Noi non lo
stiamo facendo.»
«Ma lo stiamo
per fare», lo
baciò, mentre con le mani andava a cercare la chiusura dei
suoi jeans per
stuzzicarne il bottone.
«Sharon»,
mugolò Nicolas,
combattuto fra desiderio e senso di responsabilità.
«E se ci scoprono?»
«Chissene
frega, Nicolas.
Chissene frega.»
Lui, convinto e anche un
po’
costretto dalla voglia di averla quasi insopportabile, la
baciò, poi senza
badare più a nessun altro le abbassò i jeans e fu
tutto naturale, così complici
e così uniti, avvolti dalla passione, anche se era la loro
seconda volta.
Dopo aver ripreso un
po’ di fiato
decisero che era proprio l’ora di alzarsi e di tornare sul
pullman, prima che
li chiudessero definitivamente fuori.
«È
stato bello. Ma quando non è
bello con te?», gli sorrise maliziosa, rubandogli un altro
bacio.
«Ragazzi,
forza, a dormire!»,
disse una prof cacciandoli ai loro posti.
Sharon
sbuffò e guardò Krista addormentata anche sul suo
sedile. La tirò
su a fatica e si mise con la testa appoggiata al finestrino, freddo
contro il
calore delle sue guance ancora rosse, e sorrise alla luna, pensando
che… sì, la
sua vita era lo spettacolo che aveva sempre immaginato, sopra e sotto
il palco.
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Capitolo 28 *** Alone ***
I
hear the ticking of the clock
I’m lying here the room’s pitch dark
I wonder where you are tonight
No answer on the telephone
And the night goes by so very slow
Oh, I hope that it won’t end though
Alone
(Alone
– Celine Dion)
Capitolo 21
Alone
Sharon arrivò
a casa e,
inaspettatamente, fra quelle mura a cui non era ancora abituata, si
sentì piena
di energie. Andò in cucina per mangiare qualcosa, seguita
con lo sguardo da suo
padre, e si mise al tavolo con suo zio a fare colazione.
Tom la guardò
per qualche
secondo, poi sorrise e si lasciò andare ad una fragorosa
risata, che stordì
Sharon. Andava bene che era piene di energie, ma certe cose di prima
mattina
non le capiva proprio, come le risate insensate di suo zio.
«Perché
ridi, zio?», chiese.
«Hai scritto
in faccia: Sono
innamoratissima e questa notte ho fatto
sesso con Nicolas!»
Sharon
arrossì e lasciò sul
tavolo la propria tazza di latte, presa in contropiede.
«Si nota
così tanto?», sussurrò
imbarazzata.
«Abbastanza»,
annuì sorridendo.
«Sharon…»
Tom si guardò intorno e
dopo essersi accertato che Bill non fosse nei paraggi, si sporse sul
tavolo e
le indicò di avvicinarsi. Un po’ titubante, Sharon
si avvicinò a lui e
parlarono a bassa voce, occhi negli occhi, anche se lui la metteva un
po’ in
soggezione, visto che aveva gli occhi identici a quelli di suo padre.
«Tu e
Nicolas… usate tutte le precauzioni, vero?»
«Sì…
Ma-ma… perché me lo chiedi?»
«Con Bill non
ne hai mai parlato
seriamente, no? Sono cose che devi sapere, anche per il tuo stesso
bene.»
«O-ok.»
«Non essere
imbarazzata, è una
cosa normale.»
«Ma mi
imbarazzo lo stesso», si
portò le mani sulle guance rosse, sorridendo leggermente.
«Sai che se ci
dovessero essere
dei problemi, di qualsiasi tipo, potrai benissimo venire da noi a
parlarne,
vero?»
«Sì,
mamma me l’ha detto.»
«Bene!»,
le fece un ampio sorriso
e le scompigliò i capelli sulla testa affettuosamente, per
poi tornare al suo
caffè.
Alex entrò
canticchiando in
cucina, una maglietta arancione e un paio di jeans stretti a vita
bassa, scarpe
a collo alto tipo giocatore di basket ma con più stile.
«Buon
giorno», salutò pimpante, dando
un bacio sulla guancia a sua cugina.
«Ah!»,
disse Tom, facendo
spaventare entrambi, che si girarono verso di lui. «Anche tu,
Alex, vedi di
usare la testa che non voglio ritrovarmi già
nonno.»
«Stai
tranquillo papà!»
«Bravo
figliolo.»
«Figliolo
a nessuno!», disse quasi scandalizzato. «Questi
termini
arcaici li puoi usare solo con mamma e io non ci devo essere.»
«Come
preferisci, figliolo.»
Si guardarono e
scoppiarono a
ridere, proprio mentre Stefan e Sarah, lei in una tenerissima salopette
e
maglietta blu, facevano capolino in cucina con me dietro, i capelli
tenuti raccolti
sulla nuca da un mollettone.
«Ciao
papà!», salutò lei,
pretendendo di salire sulle sue gambe, arrampicandosi sulla sedia come
una
scimmia.
«Ciao
piccola!»
«Oggi vieni
all’asilo con me,
vero?», gli chiese con gli occhi luccicanti.
«Perché
dovrei?» Bastò
un’occhiataccia da parte mia per fargli tornare la memoria.
«Oh, sì! Oggi devo
venire all’asilo con te perché il papà
di ogni bambino deve presentare il
proprio lavoro!»
«Sicuro di
voler andare?», gli
chiesi, prima di bere dalla mia tazza.
«Sì,
sì, perché no?»
«Allora
ricordati la chitarra.»
«Devo dare
pure la dimostrazione
di saper fare il mio lavoro?»
«Sì
papà, ti prego! Dai, dai!
Suona!», saltellò Sarah sulle sue gambe,
già tutta emozionata.
«Ok, ok, frena
l’entusiasmo!», le
disse sorridendo, baciandola ancora sulla sua guancia, stringendola al
petto.
«Ragazzi, set
fotografico nel
pomeriggio!», gridò Bill dal salotto, il telefono
ancora in mano dopo una
chiamata di Gustav.
«Oh,
no…», mugugnò Stefan con una
delle sue facce da finto depresso, lasciandosi cadere su una sedia.
«Perché?»
«Ci
dev’essere un perché?»,
chiese Bill.
La sua frase epica per spiegare che
alcune cose, anche se non avevano voglia di farle, dovevano essere
fatte per
forza, senza lamentarsi né discutere.
Stefan
sospirò, coprendosi il
viso con le mani, rifiutando pure l’avanzo di colazione di
Alex, il che era
molto strano.
«Da
quant’è che non senti
Michelle?», gli chiesi.
«Non mi
ricordo.»
«Dovrai
parlarci prima o poi.»
«Più
tardi è, meglio è.»
«Come vuoi tu,
ma non potrai
fuggire per sempre. Prenditi le tue responsabilità: se
è il sesso che ti manca,
diglielo, credo che capirà.»
«Non capisce e
non capirà mai»,
sentenziò nervoso, guardandomi con la coda
dell’occhio.
«Aspettate un
secondo!», disse
Tom, alzando la mano ed ottenendo la nostra attenzione. «Tu e
Michelle vi siete
lasciati?»
«No, solo
che… sono andato a
letto con un’altra.»
«Pure
tu?», chiese ironicamente
Tom, nascondendo un po’ di delusione.
«Dimmelo pure
che sono stupido.»
«Sei stupido,
Stefan. Ma che vi
prende a voi due?! Va bene che state crescendo e tutto, ma tutti e due
avete
tradito la vostra ragazza! Cos’è, un virus? Adesso
pure Sharon tradirà
Nicolas?»
«Oh!»,
gridò Sharon, unendo le
braccia al petto.
«Non volevo
dire nulla di
offensivo, Sharon. Solo che… non capisco! Non vi ho mai
insegnato di fare
così!»
«Sono cose che
succedono, Tom»,
dissi.
«Non li
difendere, Ary, sono
grandi ormai. E poi anche tu la pensi come me.»
«Sì,
ma ormai è inutile
rimproverarli. Hai visto anche tu che Alex ha capito il suo errore,
adesso
spero solo che anche Stefan…»
«Gli errori
non sono solo miei»,
disse lui a sua difesa.
«Tu hai
tradito Michelle, fino a
prova contraria», continuò duro Tom, con uno
sguardo talmente severo da
spaventare Sarah, che si rifugiò fra le mie braccia.
«Sì,
ma Michelle…»
«Michelle ha
solo un’idea diversa
dalla tua. E se tu non sei in grado di accettare una sua scelta
è un problema
tuo, solamente tuo.»
«Hai ragione,
è vero.»
«Io non voglio
dire che sei una
persona cattiva e che ha dei problemi nell’accettare le idee
altrui, però
questa volta… hai sbagliato.»
«Sì,
è vero.»
«Non per
questo devi sminuire il
tuo valore come persona, perché vali davvero, io so che vali
e che hai una
testa per ragionare e per fare le scelte giuste.»
«Grazie»,
mormorò prima di
alzarsi e andare di sopra.
«A che ora
è il set
fotografico?», chiese a suo zio quando fu di nuovo
giù, con lo zaino su una
spalla.
«Alle
quattro.»
«Ok, ci
sarò.»
Salutò
distrattamente, per poi
chiudersi la porta alle spalle e scendere le scale in silenzio,
evitando
apposta l’ascensore: doveva scaricarsi perché
aveva davvero sbagliato di grosso
e non poteva più tornare indietro.
***
Tom e Sarah cantavano Wir sterben
niemals aus in
macchina, mentre facevano la strada per raggiungere Bill e i ragazzi al
set
fotografico.
Sua figlia era un
portento, una
bambina che oltre ad essere bellissima era anche molto intelligente ed
acuta
per la sua età: tutta uguale a sua madre.
Tom sorrise e scosse la
testa al
suo pensiero, poi venne travolto ancora dalla sua voce che cantava:
«Wir
bleiben immer, schreiben uns in die
Ewigkeit. Ich weiß das immer, irgendwo was bleibt.»
Quella mattina con
Stefan era
stato duro, ma sapeva di aver fatto la cosa giusta: a volte qualche
litigata
costruttiva ci voleva; anche coi suoi figli che comunque avevano la
testa sulle
spalle, molto di più rispetto a quella che aveva lui alla
loro età.
Era molto soddisfatto
del nostro
lavoro di genitori e si era reso conto, durante quella giornata, che
avevamo
fatto davvero un bel lavoro a crescere ed educare i nostri figli, anche
se a
volte sbagliavano.
Aveva visto genitori,
dei papà
soprattutto, all’asilo di Sarah, che erano degli incapaci e
che appena vedevano
il loro bambino piangere si lasciavano prendere dal panico.
A lui era successo solo
una
volta, quando ancora non aveva escogitato la sua tecnica segreta,
cioè il gioco
di chi riusciva a non distogliere lo sguardo dagli occhi
dell’altro. E
funzionava sempre, perché sia Stefan che Alex (con Sarah non
era nemmeno
servito fino ad allora) smettevano subito di piangere. Senza contare
che lui
aveva quella dote che io non avevo mai avuto, cioè quella di
renderli docili,
prevalentemente da piccoli, con l’uso della voce.
Guardò Sarah
nello specchietto
retrovisore e sorrise incrociando il suo sguardo, sveglio ed attento a
tutto
quello che le succedeva attorno.
«A cosa stai
pensando, papà?»,
gli chiese allegra. «Non canti più.»
«Stavo
pensando… Sono bravo come
papà?»
«Sì,
sei il papà migliore del
mondo!»
«E quanto mi
vuoi bene?»
«Tanto
così!», allargò le braccia
più che poteva, per indicare la quantità enorme
del bene che gli voleva.
«Anche io te
ne voglio tanto,
piccola mia.»
«Sei stato
bravissimo a suonare!»
«Grazie.
Però tu potevi anche
evitare di vantarti in quel modo, mi sono trovato contro tutti gli
altri papà!»
«Io posso
vantarmi! Non tutti
hanno un papà speciale come te!»
«Grazie,
amore!» Tutte quelle
lusinghe lo mandavano fuori di testa.
«Ma
perché oggi ti sei arrabbiato
con Stefan?», gli chiese cambiando discorso.
«Perché
non si è comportato bene
con Michelle.»
«E cosa ha
fatto?»
«Eh…
bella domanda. Diciamo che
si è visto con un’altra ragazza, cosa che non
doveva fare.»
«Oh…
Ma poi fate la pace, vero?»
«Chi, io e
lui? Ma certo!»
«Ah, menomale.
Non mi piace
quando litigate.»
«Lo so, ma a
volte serve. Bene,
siamo arrivati.»
«Posso fare
anche io le foto?»
«Vedremo»,
ridacchiò.
Scese dalla macchina e
la prese
il braccio, coccolandosela tutta: quegli erano gli ultimi momenti in
cui
stavano insieme, dopo sarebbe stata sicuramente rapita da qualcuno, se
non da
sua cugina o dai suoi fratelli, da Bill, quindi era meglio tenersela
stretta
finché l’aveva.
Appena entrarono nella
villa
ottocentesca in cui i Devilish stavano facendo le foto per
l’album che sarebbe
uscito a breve, videro Krista in forma smagliante, vestita in modo
impeccabile,
ma mai come Sharon che aveva un vestito stile principessina del rock,
nero e
rosso con orli di pizzo e lacci dietro la schiena, e degli anfibi di
pelle con
le borchie argentate.
«Ciao
Krista!», la salutarono
assieme. Krista sorrise e baciò la piccola su una guancia.
«Ciao! Scappo
perché non ne posso
più, ho bisogno di una pausa!»
Lei aveva fatto
abbastanza, ora
stavano fotografando Sharon, la diva del gruppo, bella quanto i suoi
cugini con
il fascino degli angeli. Lei era lo sfondo, scuro e misterioso. Ma le
piaceva
così, era proprio una batterista nata lei, non si perdeva
per quelle cose.
Si diresse verso
l’uscita ed
incontrò Michelle che si guardava intorno titubante. Sentiva
che sarebbe
successo qualcosa, aveva come un presentimento negativo.
«Ciao
Michelle», la salutò.
«Oh, ciao
Krista.»
«Che ci fai da
queste parti?»
«Ehm…
devo parlare con Stefan…»,
abbassò lo sguardo triste.
«Problemi?»
Michelle non rispose, ma
a quel
punto non serviva nemmeno: la risposta era così chiara che
non c’erano bisogno
di parole.
«Senti, ma tu
e Alex…», disse
invece, un po’ imbarazzata, unendo le mani sulla gonna
abbinata al dolcevita
marrone che portava. «Cioè… avete
già…»
«Oh, quello!
Sì, ovviamente»,
sorrise.
Krista si volle tirare
un ceffone
in fronte: cosa voleva dire ovviamente?
Non era ovvio
che una ragazza della
sua età facesse già sesso. E soprattutto non
doveva dire così ad una che
credeva fortemente nel sesso dopo il matrimonio.
«Intendevo
dire che noi ci
amiamo, penso, e quindi… perché no?»
«Ma come fai a
sapere che vi
amate davvero?»
«Michelle, non
c’è bisogno di un
matrimonio per sapere se si ama una persona e per farci
l’amore.» Si morse la
lingua. Ma sarebbe riuscita a dire una cosa giusta e in un certo modo
giusto? «Io
non voglio offenderti, so quello che pensi e non sto dicendo che
è sbagliato
credere in una cosa, però forse… è un
po’ troppo esagerato per dei ragazzi
della nostra età», tentò di salvare, ma
sapeva che non sarebbe servito a nulla.
Era già un
miracolo che fossero
lì a parlare, di solito non lo facevano mai. Per forza,
erano l’una l’opposto
dell’altra: la scura e la chiara, ma non per forza la
sbagliata e la giusta.
«Va bene, io
allora… andrei. Ciao
Krista.»
«Ciao
Michelle.»
Ed ognuna
andò per la sua strada.
Michelle continuò a camminare per il grande corridoio fino
ad arrivare alla
sala in cui stavano facendo il set fotografico.
Vide subito Stefan,
bellissimo
come sempre, mentre faceva una posa da irraggiungibile e meraviglioso
condannato, con un’espressione malinconica e persa su un
punto non ben definito
alla sua destra, i capelli biondi che gli sfioravano la fronte
perché non li
aveva alzati quella mattina.
«Stefan, sei
perfetto!», disse il
fotografo complimentandosi, e lui ritornò in se stesso, ma
un po’ di quella
tristezza negli occhi gli rimase.
«Stefan»,
lo chiamò
avvicinandosi.
«Michelle, che
ci fai tu qui?»,
chiese sorpreso, abbandonando anche quella minima traccia di sorriso
dal viso.
Quel momento era arrivato, ed era troppo presto, ma se proprio doveva
andare
così, l’avrebbe accettato.
«Dovresti
saperlo, però.»
«È
probabile che io lo sappia»,
annuì sconsolato. «Dai, andiamo di
là.»
La condusse nella sala
accanto,
si misero seduti sugli scalini ricoperti da moquette rossa di una
grandissima
scalinata di marmo con tanto di corrimano dorato, e rimasero per un
attimo in
silenzio, poi lei tirò fuori dalla borsa un giornalino che
Stefan associò ad
uno che leggeva spesso la sorella della sua ragazza. Michelle
cercò una pagina
precisa e poi glielo sbattè sulle gambe.
«Oh,
perfetto», mormorò Stefan,
osservando con attenzione le foto che lo ritraevano con Celeste, sulla
soglia
del portone del suo palazzo, abbracciati e che si baciavano. Era stato
uno
stupido a svalutare la potenza dei paparazzi: non voleva che lo
scoprisse in
quel modo.
«L’ha
visto mia sorella», disse
Michelle. «Non volevo crederci quando me l’ha
detto, ma le foto lo dimostrano,
Stefan.»
«Mi dispiace,
Michelle.»
«Di cosa ti
dispiace?»
«Mi dispiace
che tu l’abbia
saputo in questo modo.»
«Il bello
è che io non so proprio
niente, e non so se mi va di saperlo.»
«Ci sono
andato a letto», ammise,
seppure a testa bassa, le mani unite con i gomiti sulle ginocchia.
«Tu…
tu ci sei andato a letto?»,
sussurrò incredula.
«Proprio
così.»
«Quindi, non
ti dispiace averlo
fatto? Ti dispiace solo che io l’abbia saputo
così! Oh, sì, che cavaliere che
sei!»
«Michelle, non
fare così.»
«E cosa dovrei
fare, scusa?!
Dirti che sei stato bravo, per caso?!»
«No,
però… Insomma, non saremmo
qui se ti fossi lasciata andare a quello che sentivi!»
«Non mi sono lasciata andare
perché credo in quello che penso, non faccio ciò
in
cui non credo!»
«Questo
significa che non credi
in noi, nel nostro amore? Io ci credevo, ora… non lo
so.»
«Non
è possibile, dovrei essere
io quella arrabbiata, invece hai girato la frittata dalla tua
parte!»
«Michelle,
abbiamo sbagliato
tutti e due. Se vuoi chiuderla qui è…
ok.»
«Tu non vedevi
l’ora di chiuderla
con quella che non vuole fare sesso, ti rovina la reputazione! Bello
stronzo.»
«Ma che
reputazione, Michelle!»,
si alzò in piedi e si mise di fronte a lei. «Sono
cose che ti stai inventando
adesso, perché non me ne fotte un cazzo della reputazione!
Ma ti rendi conto di
quello che… è demoralizzante, soprattutto per me,
va bene, però sentirsi dire
sempre che non vuoi fare sesso con me è…
demoralizzante, perché non credi in
noi!»
«Non
è che non credo in noi,
anzi, ci credevo più di quello che pensi, solo che pure per
me è demoralizzante
sentirsi sempre dire che la mia è un’idea assurda,
vuol dire che non credi a
noi in un futuro! E se non sai aspettare, allora… addio
Stefan.»
«Addio
Michelle, trovati il tuo
principe azzurro, spero lo troverai presto. E spero vi sposerete
presto.»
«Vaffanculo
Stefan!», gridò quasi
in lacrime.
Si sentì una
vera merda
guardandola andare via di corsa, ferita e delusa da
quell’amore che credeva
potesse durare davvero.
Stefan tornò
nell’altra sala per
vedere se dovevano fare qualche altro scatto, ma quello che
trovò furono solo
gli sguardi di tutti addosso.
«Stefan…»,
disse Sharon, ma lui
la fermò al nascere, con un gesto della mano.
«Abbiamo
finito qui?», chiese a
Gustav, che annuì docilmente. «Ok, io me ne vado a
casa.»
Prima di uscire
incontrò lo
sguardo di suo padre e abbassò la testa, deluso da se stesso
più che altro. Non
ne faceva mai una giusta: perché lui non riusciva a sentirsi
importante per suo
padre, tanto da renderlo orgoglioso?
Prese
la giacca e se ne andò, né più e
né meno, come doveva essere. Lui
non aveva bisogno di consolazioni, ma si ritrovò con diverse
gocce salate sul
viso mentre camminava per la strada per ritornare a casa, da solo.
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Buonaseraaa (:
Mi scuso enormemente per il ritardo con tutte le persone che
aspettavano con impazienza questo capitolo.
Spero che sia stato di vostro gradimento!
Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, ossia Tokietta86
xD Grazie mille **
Alla prossima, un bacio!
Vostra,
_Pulse_
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