Il sogno di un sogno: Our Future

di _Pulse_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1.1 ***
Capitolo 3: *** 1.2 ***
Capitolo 4: *** 1.3 ***
Capitolo 5: *** 1.4 ***
Capitolo 6: *** 1.5 ***
Capitolo 7: *** 1.6 ***
Capitolo 8: *** Runaway with my heart ***
Capitolo 9: *** Vending machine's boy ***
Capitolo 10: *** I want to fall in love! (Part I) ***
Capitolo 11: *** I want to fall in love! (Parte II) ***
Capitolo 12: *** Loneliness kills ***
Capitolo 13: *** It’s always (a) life ***
Capitolo 14: *** Someone new ***
Capitolo 15: *** Something wrong ***
Capitolo 16: *** Look's fight ***
Capitolo 17: *** Choices ***
Capitolo 18: *** My melody ***
Capitolo 19: *** Parents & Sisters ***
Capitolo 20: *** The bunch ***
Capitolo 21: *** Happy new year... ***
Capitolo 22: *** Together we'll make it ***
Capitolo 23: *** Freedom to love you ***
Capitolo 24: *** Maybe, friends ***
Capitolo 25: *** Houses ***
Capitolo 26: *** Always happy ***
Capitolo 27: *** Contradiction. Perfect. ***
Capitolo 28: *** Alone ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


It’s a damn cold night
Trying to figure out this life
Wont to take me by the hand
Take me somewhere new
I don’t know who you are
But I’m…
I’m with you

( I’m with you – Avril Lavigne )

 

Prologo

 

Finalmente il mio giorno libero. Ero seduta sul divano, tranquilla, che leggevo. La mia tranquillità venne però interrotta quando sentii qualcuno correre giù per le scale.

«Stefan! Quante volte ti ho detto che non devi non correre sulle scale!»

Stefan, con la cartella in spalla, sbuffò: «E dai mamma!» Corse in cucina, dove c’era Sharon, che stava facendo colazione. «Ciao Shary! Tutto a posto?»   

«Sì. Alex?»   

«È ancora di sopra. Cerca sempre di farsi i capelli come me, ma è una causa persa.»

Sharon rise e si alzò per mettere la tazza nel lavandino, poi si appoggiò al ripiano della cucina. Stefan, mentre mangiava, iniziò a gridare ad Alex: «Alex! Muoviti! Sempre a fare il perfettino!»

Dal piano di sopra si sentì la voce di Alex: «Non mi chiamare perfettino!» E poco dopo scese anche lui. «Eccomi, sono a posto i capelli?»

«Beh, meglio del solito.»    

«Grazie, sempre gentile. Menomale che sei mio fratello! Ma io dico, mamma sei sicura che questo coso sia mio fratello gemello? Non c’è stato, per un tragico errore, uno scambio di gemelli, una roba del genere?»  

«Nessuno scambio di gemelli. Quello è tuo fratello, anche se non sembra.»    

«Ah ah, anche tu mamma ci vai pesante quando vuoi!»    

«Certo Stefan, avrai preso da qualcuno.»   

«Va bè, la vinci sempre tu.» Si avvicinò e mi baciò sulla guancia, abbracciandomi da dietro, come faceva sempre suo padre.

«Vado. A te ti aspetto fuori! E muoviti una buona volta!», gridò riferendosi al fratello.

«Arrivo Ste!», urlò Alex mentre squadrava Sharon. «Sei più carina del solito oggi. Che hai fatto?»

Sharon arrossì e abbassò lo sguardo. «Niente. Comunque grazie.»  

«Prego.»

Lei alzò la testa e guardò l’orologio alla parete. «Muoviti che è tardi.»

Lo guardò anche Alex: «Ah già! Allora ciao!» Corse alla porta.

«Lo zaino Alex! Ma dove hai la testa?!»

Tornò indietro e prese lo zaino. «Sì, grazie mamma. Ciao!», e uscì.

«Ah, i miei bambini stanno diventando grandi. Vero Sharon?» Mi alzai e andai in cucina.

«Sì, forse.»    

«C’è qualcosa che non va? Ti vedo un po’ giù.»    

«No zia, non ti preoccupare.»    

«Ok. Beh, pensa che ieri Alex mi ha detto che oggi doveva uscire con una ragazza, una sua compagna di scuola, e ha anche detto che non lo dovevamo aspettare per cena. Sono così felice per lui, tu no?» La guardai, aveva una faccia strana.

«Ah, una ragazza. Boh.»

Si alzò in fretta e corse su in camera sua: poster dappertutto, il letto gigante, rotondo e con le coperte fucsia, e il muro sopra il letto ricoperto di foto, una sua grande passione.

Si era appassionata alla fotografia quando suo padre, Bill, l’aveva portata ad una sua sfilata di moda, da lì in poi, ogni volta che poteva scattava foto, poi con un modello come suo padre era a posto.

Bill, infatti, oltre che alla musica, da qualche anno si era deciso a fare una sua linea di vestiti ed ora era anche uno stilista di successo. Tom era molto fiero di lui ed era presente a tutte le sue sfilate, come noi.

Al muro c’erano appese una marea di foto, con soggetti sempre diversi: le sue amiche, le foto delle sfilate che Bill le faceva scattare volentieri, quelle dei concerti, visto che era appassionata anche di musica, ce l’aveva nel sangue, e molte foto di lei con Stefan e Alex.

Quei tre erano legatissimi: ne avevano passate veramente tante assieme e ormai erano come fratelli, non riuscivano a stare molto tempo gli uni lontani dagli altri.

Entrai in camera: Sharon era seduta sul letto e stava preparando la cartella. Andava abbastanza bene a scuola, anche se aveva sempre la testa tra le nuvole. Il suo grande sogno era di diventare fotografa, anche se stava imparando a suonare professionalmente il basso, il suo strumento preferito, oltre che a prendere lezioni di canto, sia da suo padre che in una scuola di musica. Ovviamente, il canto lo aveva preso da Bill e la passione per il basso, invece, da zio Georg. Da piccola restava incantata a guardarlo suonare ai concerti, era innamorata di quello strumento.

A casa in pratica non c’era mai, per un impegno o per l’altro era sempre fuori, era molto difficile vederla a far niente.

Prese la cartella e se la mise in spalla. Aveva la faccia triste e io me ne accorgevo sempre e subito se le succedeva qualcosa.

«È successo qualcosa Sharon?»

Lei si girò spaventata e con una mano al cuore sorrise e mi rispose che non c’era niente che non andava, ma io non ero convinta.

«Ne sei sicura?»    

«Sìììì, non ti preoccupare.»  

«Non ne vuoi parlare?»   

«Se ti ho detto che non ho niente, di cosa devo parlare?»   

«Mmh, ok.» Mi girai e mi avviai verso le scale: era inutile insistere, sapevo bene che così non facevo altro che ottenere l’effetto contrario.

«Zia!», mi chiamo all’improvviso.

«Sì?»   

«È successo qualcosa, ma non ne voglio parlare. Sono ancora confusa. Forse più avanti. Comunque grazie.»    

«Prego piccolina. Se vuoi parlare sai dove trovarmi.»    

«Sì, grazie.»

Corse giù in sala superandomi e incontrò suo padre e suo zio, Tom, che stavano per uscire.

«Ehi! Aspettate!»

Bill tenne la porta aperta e lei uscì correndo, passando sotto il suo braccio.

«Prego, eh?!»

Lei corse fino al cancello e poi tornò indietro. Diede un bacio sulla guancia a suo padre e lo salutò: «Ciao papà! Ci vediamo dopo.» Poi corse via di nuovo.

«Sì, ciao! Fai la brava!»  

«Sìììì, ciao! Ciao zio!»  

«Ciao!»

Scesi giù e vidi Tom già fuori dalla porta. «Te ne vai senza salutarmi?»

Si girò e mi venne incontro, facendo una corsetta: «Amore mio bello!», gridò prendendomi in braccio e facendomi cadere sul divano, fra le risate.

«Tom!», scoppiai a ridere ai suoi baci. «Non cambi mai!»

«Certo che no», sussurrò prima di donarmi un ultimo bacio e di uscire dalla porta con Bill, che sorrideva scuotendo la testa.

«Ciao!»

Ripresi il mio amato libro, abbandonato sul divano, aperto nella pagina in cui mi ero fermata a causa di quella peste di Stefan, mio figlio, insieme ad Alex, suo fratello gemello. Che coincidenza, eh? Biondi come Tom e con gli occhi uguali ai miei, per fortuna: alla fine a qualcuno li avevo passati.

E poi c’era Sarah, la piccola della casa, di tre anni, che avevamo voluto sia per nostalgia dei vecchi tempi sia perché veder crescere Sharon mi aveva resa desiderosa di avere una figlia femmina anch’io. Lei era totalmente uguale a me, a parte per la forma delle labbra, che era quella di quelle di Tom, così dicevano.

Era passato così tanto tempo, eppure sembrava che non fosse cambiato nulla, a parte i figli e i legami più stretti.

Appoggiai il libro sul divano, di nuovo. La voglia di leggere mi era passata, ora volevo solo rileggere i miei ricordi.

 

___________________________________________

 

 

Tadadadaaaan *-*
Ladies and gentleman, ho l’onore di presentarvi il sequel de Il sogno di un sogno. L’avete aspettato per così tanto tempo, ora è qui! Non mi sembra possibile, ma è proprio così. Alla fine ce l’ho fatta xD

Scusate per il capitolo corto, ma è solo il Prologo ed è un modo per incuriosirvi, oltre che per ritrovarvi. Spero solo che vi sia piaciuto un pochino! :D

Spero tanto di non deludere le aspettative, davvero ): E di non rovinare il buon nome de Il sogno di un sogno.

Con questo è tutto, fatevi sentire! Ringrazio in anticipo chi ha letto e chi lascerà una piccola recensione e sfrutto l’occasione per ringraziare Utopy per la recensione all’ultimo capitolo del Behind!

Al prossimo aggiornamento ( sarà sempre di lunedì, così è stato deciso xD ), un bacio grande a tutti e ancora grazie! Con affetto, vostra

_Pulse_

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Capitolo 2
*** 1.1 ***


1.1

 

Antonia avrebbe smesso definitivamente di chiamarmi La piccolina di casa? Forse no, ma per quel giorno sì. Ora avevo vent’anni ed eravamo pari.

Ero di fronte alla finestra della nostra camera e guardavo fuori: diluviava. Era una giornata come le altre, però pioveva; pioveva da quella notte e sembrava non volesse più smettere.

Peccato che il mio compleanno fosse in un giorno di pioggia, mi era sempre piaciuto di più il sole. Forse però non era un caso. Anche quella volta, cinque anni prima, quando avevo fatto i miei quindici anni diluviava.

Tom si avvicinò al letto e si sedette di fianco a me.

«Che ci fai qui da sola? È il tuo compleanno, vieni di là. Stanno aspettando tutti te», mi abbracciò. Mise la mani sul mio pancione e lo accarezzò.

«Anche voi, ditelo alla mamma: non può stare qua da sola il giorno del suo compleanno, o no?», mi guardò e sorrise.

«Arrivo subito», dissi regalandogli un sorriso.  

«Ok», mi baciò sulla guancia e uscì dalla camera.

Io, Tom, Anto e Bill avevamo preso una casa assieme e vivevamo tutti in armonia, come piaceva dire a Bill. Poche volte litigavamo, raramente. Ma questo già da quando ci eravamo sposati io e Tom.

Appoggiai la mano sulla pancia. Non avevamo ancora pensato ad un nome, anzi, due. Non potevo ancora credere che quei due angioletti che dovevano nascere, erano miei e di Tom, era troppo strano da pensare, da immaginare.

Il bello della gravidanza era che tutti si prendevano cura di te, perciò, anche se non mi serviva nulla veramente, dicevo qualcosa e quella cosa magicamente arrivava. Tutti si offrivano sempre di fare le cose al posto mio, io cercavo di non sfruttare troppo la situazione, ma c’era sempre quella forte tentazione.

Mi alzai dal letto e andai alla finestra, Micio saltò giù dalle mie gambe: anche lui era cresciuto. Guardai per un’ultima volta fuori, la pioggia che cadeva incessantemente, poi raggiunsi gli altri in sala.

C’erano proprio tutti: Bill, Anto, Tom, Gustav, Giulia, Georg e Nicole. Era come tornare indietro nel tempo.

«Ary! Auguri!», incorarono le voci femminili presenti nella stanza.

Salutai tutti con baci, abbracci e un carico enorme di sorrisi, poi mi andai a sedere sul divano di fianco a Tom, che mi mise il braccio intorno alle spalle.

«Allora dai, è un po’ che non ci vediamo. Racconta un po’, tutto a posto?»  

«Sì, sì», misi la mano sulla pancia. «Tutto normale.»   

«Ancora non riesco a credere che siano due gemelli!», disse Giulia.     

«Ebbene sì, due maschietti. Ironia della sorte, ne?»

Tom mi guardò e sorrise, poi guardò Bill. Dal giorno in cui gliel’avevo detto, Bill continuava a pensare a quando avrebbero preso il loro posto sulla scena musicale, voleva che seguissero la loro carriera da musicisti.

«Che tenera, Ary sarà mamma», squittì Nicole sorridendo dolce come solo lei sapeva fare.

«Avete già pensato a dei nomi?», chiese Gustav.

Io e Tom ci guardammo imbarazzati. Tom si mise una mano dietro la testa e rispose anche per me.

«In verità no, non ci abbiamo ancora pensato.»   

«E cosa state aspettando?»   

«Non lo so. È che ancora devo realizzare che sarò padre! Non posso già pensare ai nomi!»  

«Infatti, tu, padre», Bill lo guardò e sorrise. «Io, invece, sarò zio! Non vedo l’ora.» Neanche Tom aveva così tanta fretta, lui che era il padre! «Peccato però, avrei preferito una femmina.»

«Ma sei scemo?! No, no. Le femmine sono più difficili da crescere. Te lo dico io che sono una femmina!», dissi lanciando uno sguardo di intesa a Tom. Ci misimo tutti a ridere.

La serata passò piacevolmente e quando si fece tardi Gustav, Georg e compagne tornarono a casa. Fu allora, quando le loro macchine si allontanarono, che decisi di andare dritta a letto. Era stancante avere quei due pesi in pancia e la sera la mia schiena era completamente a pezzi.

Mi sdraiai sul letto e Tom venne a stendersi di fianco a me. Avevo lo sguardo perso nel vuoto e mi accarezzavo la pancia soprappensiero, mentre Tom mi guardava e mi vedeva un po’ più strana del solito.

«C’è qualcosa che non va?», mi chiese, io scossi la testa. «Sicura?»

Lo guardai negli occhi e sorrisi. Era sempre così premuroso e protettivo nei miei confronti, che un semplice ringraziamento non bastava mai.

«Sì, è tutto ok. Sono solo stanca, come sempre.»  

Sorrise e mi diede un bacio tenero sulle labbra.

«Senti, sta storia dei nomi… Io pensavo che fosse presto.»

«Tom!», dissi tenendogli il viso tra le mani. «Possiamo deciderli quando vogliamo i nomi. Basta che ci muoviamo prima che nascano.»

«Tu hai già qualche idea?»  

«Beh», guardai il soffitto, poi i suoi occhi castani. «Mi piacerebbe Alex, tu che ne dici? È carino, no?» 

«Sì, non è male.»  

«Ok, ora sta a te scegliere il secondo. Tu hai qualche idea?»

«In verità, un’idea ce l’avrei, ma solo se per te va bene.»

«Cioè? Quale sarebbe questa idea?»

«Davide.»

Trattenni il respiro e guardai il soffitto bianco. Davvero voleva chiamare nostro figlio come il mio fratellino scomparso in mare all’età di undici anni?

«No», dissi.

«Non vuoi?»

Scossi la testa e chiusi gli occhi alle lacrime. Tom mi abbracciò e nascose il mio viso nel petto, cullandomi nel mio momento di debolezza.

«Ok, non fa niente. Mi dispiace.»

«No invece, hai fatto bene. Se volevi chiamarlo così, è giusto che tu me l’abbia detto.»

«Ma ti ho detto anche che sarebbe andato bene a me se fosse andato bene a te.»

«Scusami Tom, ma non me la sento.»

«Ok, non importa! Ci sono milioni di nomi al mondo, dai.»

Alzai lo sguardo e gli sorrisi, era troppo bravo con me, riusciva sempre a farmi passare tutto.

«Adesso dormi», mi passò una mano sul viso e mi baciò le labbra e poi la fronte prima di spegnere la luce.

Il giorno seguente sarebbe stata un’altra monotona giornata: niente lavoro, niente da fare. Per me era straziante, a parte quando stavo male ovviamente; in quelle occasioni non volevo altro che starmene a letto a dormire. Ma quando stavo bene mi annoiavo moltissimo.

La mattina mi svegliavo, mi lavavo e facevo colazione con tutti; poi incominciavano ad andarsene, prima Bill e Tom, che andavano alla Universal e poi Anto, che mi lasciava da sola con Micio.

Lei lavorava come parrucchiera in un negozio di cui era a capo e se avesse voluto sarebbe potuta restare a casa con me, ma lei no. Per lei era un semplice passatempo. Faceva solo mezza giornata, però mi annoiavo lo stesso nel tempo in cui non c’era.

Pranzavo e dopo, di solito, mi sdraiavo sul divano a guardare la tv. Quasi sempre mi addormentavo e dormivo fino alle sei, sei e mezza, quando tornavano Bill e Tom. Anto tornava prima, ma non mi svegliava mai perché sapeva che durante la notte non dormivo niente e quindi avevo sonno.

Quando arrivavano Bill e Tom, quest’ultimo mi veniva vicino e mi baciava sulla guancia, dopo andava in cucina. Allora io mi svegliavo e la giornata si concludeva con il racconto di Bill su quello che avevano fatto quel giorno, mentre cenavamo. Ecco, le mie giornate erano così.

Tutti avrebbero pagato oro per essere al mio posto, ma a me non piaceva. Io ero attiva, eppure non potevo fare niente. Mi sentivo prigioniera dei miei figli, anche se quando ci pensavo scoppiavo sempre a ridere. Loro mi avrebbero donato la più grande gioia delle mia vita.

D’altro canto, Tom era un marito eccezionale. Era sempre premuroso e mi faceva sempre le coccole. Ero molto felice della mia vita. Dopo tutti quei problemi nella mia adolescenza, ora ero felice, non potevo chiedere di meglio. A volte mi fermavo a pensare a quando ero piccola e sognavo tutto quello: un marito che mi amava, dei figli, una famiglia mia. Ora quei sogni li stavo vivendo sul serio e anche meglio! Ero così piccola, così ingenua, così piena di sogni e di speranze. Il mio sogno più grande, quello di avere una famiglia tutta mia, si era realizzato.

Ne avevamo passate così tante assieme, io e Tom, non me lo sarei mai immaginato. Mi ricordavo benissimo quando mi aveva lasciata, di quanto ci ero rimasta male… Mi ero vista crollare il mondo addosso, quel sogno era svanito, distrutto. Di quanto avevo sofferto. Ma non ci dovevo più pensare, ora ero lì con lui e con lui sarei andata avanti.

 

***

 

La pancia sembrava che dovesse esplodere da un momento all’altro, era enorme. Mi accompagnarono in ospedale tutti e tre, Bill, Anto e Tom.

Nei giorni precedenti io e Anto avevamo preparato la mia borsa, con dentro tutte le cose possibili immaginabili per i gemelli, tra quelle comprate da me e quelle regalate qua e là.

L’infermiera mi accompagnò in camera mia e mi fece vedere tutto, per iniziare ad ambientarmi.

«Bene, adesso voi altri potete stare qui ancora per un po’ e poi verrà la dottoressa per la visita, ok?»

«Dottoressa?», chiesi preoccupata.

«Sì, la dottoressa», ripeté l’infermiera come se fossi scema. 

«Io intendevo dire: dov’è Mattia? Cioè… il dottor Stevens?»

«Oh, è in sala operatoria.»

«Ah, perfetto», dissi a bassa voce. «Ahm, grazie comunque.»

«Prego, a dopo.» L’infermiera uscì e mi sedetti sul letto.

«Uffa, io lo sapevo che qualcosa sarebbe andato storto. C’è sempre stato Mattia e adesso si presenta questa dottoressa?»

«Ma è in sala operatoria», mi disse Tom prendendomi per le spalle dolcemente.

«Non mi importa, io voglio tornare a casa, Tom!», ero un pochino nervosa e perciò mi lagnavo in continuazione. E poi non mi erano mai piaciuti gli ospedali.

«Calmati Ary», si sedette di fianco a me sul letto e mi strinse la mano. Se la portò alle labbra e la baciò. «Non puoi tornare a casa, rilassati, andrà tutto bene.» I suoi tentativi di rassicurarmi ebbero l’effetto contrario, infatti iniziai a tremare.

«No, no. Ho paura!», poggiai la testa sulla sua spalla.

Mi accarezzò i capelli e con voce rassicurante continuò: «Ma di cosa hai paura? Andrà tutto bene, non ti preoccupare.» 

«Su Ary, andrà bene.»

Mi tirai su e guardai Bill. Feci due respiri profondi e sorrisi. «Ok, andrà tutto bene. Ci provo.»

Bill si sedette su una sedia, di fianco alla porta e si mise le mani sulle ginocchia. «Non sto più nella pelle.»

«Per cosa Bill?» 

«Per i bambini, ma ci pensi? Io zio!»   

«Ah, comunque quando siamo nati noi non avevi tutta questa fretta, infatti sono nato prima io.» 

«Ma che c’entra?! Quando nasceranno voglio prenderne uno io in braccio.»

«Forse, e dico forse, vorremmo tenerli prima noi. Sai, siamo noi i loro genitori, non per dire», dissi guardandolo male. Ero davvero nervosa, mi arrabbiavo molto facilmente. Peggio di una leonessa con i suoi cuccioli.

«Ok sì, questo è ovvio. Scusa, non volevo.»

Solo che mi accorsi di come gli avevo risposto, in modo veramente scontroso. «No, scusami tu Bill, è che sono nervosa.»   

«Fa niente, è normale. È normale?», chiese, noi scoppiammo a ridere. 

Qualcuno bussò alla porta ed entrò senza nemmeno aspettare la risposta: doveva essere per forza la dottoressa, con l’infermiera. Infatti.

«Buona sera, allora, come sta?» Già la odiavo.  

«Salve, bene.»  

«Ok, allora come stanno i gemelli?»

«Spero bene.» Guardai Bill e Anto: «Volete vederli dal vivo? Dai, mi fate compagnia.»

«Sei sicura?», avevano un sorriso a trentadue denti, dubitavo che se gli avessi detto di no se ne sarebbero andati. Annuii con la testa.

«Ok, allora possiamo fare l’ecografia.»

Durante l’ecografia, sul monitor, videro uno dei gemelli mettersi il dito in bocca. Una rarità, era la prima volta anche per noi. Bill era eccitatissimo solo al pensiero di averlo visto. Quello era ciò che io chiamavo fortuna. Nonostante il fatto, ero molto più nervosa del solito: stringevo la mano di Tom e non la volevo più lasciare.

«Ok, è tutto a posto, credo che nasceranno tra un paio di giorni. Beh, comunque tu devi stare qui per altri controlli.»  

«Ne è sicura? Dico, è sicura che nasceranno tra un paio di giorni?»  

«Sì, perché si devono ancora girare, perciò non possono nascere ancora.»   

«Ah, ok.» Tom mi strinse la mano e sorrise.

«Va bene. Allora io vado, tornerò domani mattina. Se hai bisogno Arianna chiama pure l’infermiera, d’accordo?»   

«Sì, certo, arrivederci e grazie.»

Quando uscì, Bill e Anto non facevano altro che parlare ancora del gemellino, era diventato l’evento del giorno. In quel momento mi arrivò un calcio tremendo. Era sempre da quella parte che mi arrivavano i calci più dolorosi, tra i due bambini, quello che stava lì era il più rompiscatole.

«Ahia!», mi toccai il punto colpito sulla pancia. «Sempre tu a tirarmi i calci!» Bill mi guardò come se fossi scema e poi sorrise.

«Digli qualcosa Tom!», dissi.

«Non tirate i calci alla mamma.»  

«Grazie. Scusa se ti sfrutto, però si calmano solo con te! Ma io non lo so, ascoltano te e non me, possibile?!» 

«Che cos’è sta storia?», chiese un Bill divertito.

«Vedi Bill, quando Alex e Stefan sentono la voce di Tom si calmano subito e diventano degli agnellini. Invece, quando sentono la mia, non succede niente e continuano!» 

«Che forza.»

«Certo, troppa.»    

Rimasero fino a sera tardi. Verso mezzanotte Bill e Tom si addormentarono con la testa sul letto, io e Anto eravamo le uniche a non dormire. Lei era appoggiata con la schiena alla finestra. Tom mi stringeva ancora la mano e sorrisi guardandolo.

«Tom? Tom, svegliati», ci provai.

«Sono già nati?», mugugnò facendomi ridere.

«Ma no! Mi chiedevo solo se non è meglio per voi se andate a casa, siete stanchi.››  

«Sei sicura?»  

«Sì, tanto non dovrebbero nascere, tornate domani.»  

«Va bene.» Si alzò e scosse Bill, che si svegliò di colpo. Si guardò in giro e tornò alla realtà stiracchiandosi le braccia.

«Mi raccomando, cerca di dormire. E voi fate i bravi. Ci vediamo domani.» 

«Sì», risposi sia per me che per i gemelli.   

«Buonanotte amore mio, ti amo.»   

«Buonanotte, ti amo anch’io.»

Mi baciò piano sulle labbra e poi uscì. Bill mi baciò sulla guancia e mentre stava per uscire anche lui, Anto gli disse: «E io chi sono, scusa?»

Bill sorrise e la andò a baciare. «Scusa, mi ero dimenticato di te.»

«Ma bravo!» Risero e poi Bill uscì.  

 

Il telefono di casa nostra suonò nella notte. Tom si alzò nell’oscurità, barcollando. Guardò l’orologio: cinque e cinquantasei. Chi poteva essere a quell’ora? Rispose al telefono con la voce ancora assonnata, da mezzo addormentato com’era.

«Pronto. Cosa?! Oh no, e menomale che non dovevano nascere! Ok, arrivo. Grazie Anto.»

Tornò di sopra e buttò Bill giù dal letto, nel vero senso della parola.

«Muoviti, alzati!», gli gridò. Lui si svegliò, la faccia assonnatissima.

«Ehi, che è quella faccia? E perché mi devo alzare?», mugolò Bill cercando di scandire il meglio possibile le parole.

«Perché sono nati, ecco perché.»

Bill si mise seduto di scatto: «E che ci facciamo ancora qui?!» 

Bill e Tom arrivarono correndo all’ospedale e videro Mattia parlare con un’infermiera. Appena anche lui li vide, lasciò andare l’infermiera e corse da loro.

«Ciao Tom, ciao Bill!», li salutò abbracciandoli. «Ah, congratulazioni Tom, sono bellissimi.»

«Tu li hai già visti?», chiese Tom incredulo.

«Beh, li ho fatti nascere, è ovvio che li ho visti! Ma ora andiamo, magari fai ancora in tempo a prenderli in braccio.» Li prese per i gomiti e li accompagnò verso la mia camera.

«È andato tutto benissimo, Ary è stata molto brava», disse Mattia sorridendo soddisfatto. «Solo che appena li ha visti è scoppiata a ridere perché ti assomigliano tanto.»

«E allora si è messa a ridere?», chiese Tom divertito.

«Sì, ma vuol dire che è andato tutto bene: di solito dopo un parto gemellare le donne sono distrutte, invece lei continuava a ridere. Era al settimo cielo.»

«Sì, è fatta proprio così la mia Ary.»  

Mattia gli aprì la porta sorridendo ed entrò assieme a loro. Io ero sdraiata nel letto, con in braccio quello che era Alex; di fianco a me c’era Anto, con in braccio Stefan.

Tom fece qualche passo, lentamente, come se avesse paura, e vide Anto alzarsi e porgergli Stefan, con un sorrisone a trentadue denti.

«Piano, attento alla testa.»

Tom lo prese delicatamente e lo tenne in braccio. Aveva gli occhi lucidi da quanto era felice, e poi si era accorto che davvero somigliava moltissimo a lui, ma riusciva anche a vedere me guardandolo.

«Ciao», mormorò, intanto mi guardò in cerca di un nome. In effetti non sapeva chi fosse l’esserino che aveva in braccio.

«Oh, quello è Stefan: il più grande. Sei minuti più grande.»  

«Ciao Stefan, sei bellissimo.» Mise il dito nella minuscola manina di Stefan e lui lo strinse facendo quasi piangere di gioia Tom, che era ancora incredulo. «Stefan, mio figlio.»   

«Ohi, e questo chi è? Figlio di nessuno?», gli feci vedere Alex, che avevo in braccio io.

Tom mi guardò e sorrise. Si venne a sedere sulla sedia di fianco al letto. Bill entrò del tutto spinto da Mattia, che chiuse la porta. Anche lui era incredulo: continuava a guardare Tom con Stefan in braccio. Sul serio, non ci poteva credere!

«Saluta anche Alex, neopapà», glielo feci vedere.

Guardò Stefan e poi ritornò su Alex. «Beh, ciao Alex. In fondo è solo il nome che cambia», disse ridendo, visto che erano identici.

Bill era ancora immobile, l’unica cosa che per fortuna faceva era respirare.

«Su Bill, vieni. Mica mordono, almeno, non ancora!»

Fece qualche passo verso di me sorridendo, e quando fu vicino mi misi seduta meglio.

«Non avevi detto che volevi prenderne uno in braccio? Tieni, questo è Alex.»

Bill lo prese e lo tenne benissimo, meglio di Tom, ma solo perché Tom era troppo emozionato. Anto gli andò di fianco e guardò Alex insieme a lui.

«Ciao cucciolo, io sono Bill.» Gli luccicavano gli occhi.

«Tenero», Anto lo accarezzò sulla guancia.

Tom stava prendendosi ancora cura di Stefan. Lo guardai e mi appoggiai al cuscino, sorridendo: era proprio carino con i bimbi in braccio, infatti, come quando erano nella pancia, sentendolo parlare, erano molto tranquilli. Tom gli trasmetteva sicurezza.

«Sono proprio stupendi, complimenti Ary», disse Bill con un sorriso enorme.

«Beh, diciamolo, è anche merito di Tom. Guardandoli bene, gli assomigliano molto.»

Tom sorrise molto soddisfatto.

Dopo entrò l’infermiera, con le culle di Stefan e Alex. Era già l’ora di portarli di là e lasciarli dormire.

«Buongiorno! Alex, Stefan, forza. Lasciamo riposare la mamma.» 

«Di già?», disse Tom incredulo.

«Adesso me ne occupo io», disse Mattia. «Lascia pure qui, li porto io.»

«Come preferisce, dottore.» L’infermiera uscì dalla stanza e io sorrisi a Mattia, tirando le braccia in avanti. Non mi risparmiò un suo abbraccio e io gli accarezzai i capelli sussurrandogli: «Grazie, dottore.»

«Prego sorellina», disse affettuoso baciandomi sui capelli.

«Però adesso devono proprio andare», disse tirandosi su e ricomponendosi nel suo ruolo.

Salutai Stefan e Alex e Anto aiutò Mattia a sistemarli nelle loro culle.

«Ehi Ary, non ti dispiace se andiamo con i gemelli, vero?» Anto mi fece un sorriso e si aggrappò al braccio di Mattia.

«Ok, ma non ci provare con il mio fratellone, sia chiaro», la rimproverai. Bill diventò rosso di gelosia. Lei rise sottovoce e andò da Bill a scompigliargli i capelli durante un bacio.

«Ok, noi andiamo allora», disse Bill ammaliato dalla sua musa.  

Io e Tom rimasimo finalmente da soli in quella stanza di ospedale. Sorrisimo, non c’era niente da dire. Eravamo talmente contenti che non avevamo bisogno di parole per capirci. Mi baciò accarezzandomi i capelli.

«Bill e Anto ci snobbano per i nostri figli!», disse scandalizzato.

«E per Mattia, soprattutto Anto», gli feci notare.

«Sì, riflettendoci bene, hai ragione.» Rise. «Mattia mi ha detto che non la smettevi più di ridere, eh? È un buon segno. Non sei stanca?»

«Un po’, ma mi sento anche così vuota…», andai a cercare la pancia che non c’era più e chiusi gli occhi.

«Sì, però…», mi prese le mani e se le portò alle labbra per baciarle una alla volta.

«Però cosa?»

«Però sono nati i nostri bellissimi angioletti. Ne è valsa la pena. Tante notti li ho sognati e… non sono come me li immaginavo.»

«Sì, anch’io non me li immaginavo così belli, sono proprio belli come te.» Gli accarezzai le guance e lo baciai sulle labbra.

«E te», sussurrò.

«Forse», sorrisi. «Comunque, d’accordo che sono bellissimi, ma non sono degli angioletti.»

«E perché? Sono stati impeccabili.»

«Con te! Prima è accaduta la stessa cosa che accadeva quando erano in pancia. Con te sono dei veri angeli, invece prima che arrivassi tu non la smettevano di piangere! Ma come fai? Mi sveli il tuo segreto? Giuro che non lo dico a nessuno.»

«Non lo so, sarà lo stesso che uso con le ragazze.»

Lo guardai storcendo il naso: «Non è vero, di solito le ragazze quando ti vedono si mettono ad urlare. Ti ho fregato, eh?» Rise e mi baciò ancora.

Mi accarezzò la fronte spostandomi i capelli di lato e mi sorrise amaro, un velo di tristezza avvolse i suoi occhi sempre così allegri.

«Mi dispiace», disse.  

«E di che cosa?»  

«Di non essere stato con te.»

Gli misi un dito sulle labbra: «Ah ah ah, zitto. Non importa, quello che conta è che tu sia qui con me adesso. E comunque è colpa della dottoressa. Sai cosa mi ha detto?! “Oh perbacco, i bambini si sono girati durante la notte e ora vogliono uscire”! Ma ti pare?! Poi è arrivato Mattia e ci ha pensato lui.» Avevo persino imitato la voce da gallina della dottoressa. «Però è stata dura, c’era Alex che non voleva più uscire! Sei minuti sono stati lunghissimi! Pensa tua madre, dieci minuti solo per Bill, povera.»

Tom rise di gusto e aggiunse: «Dai, l’importante è che stiano bene, no?» 

«Sì, ma li hai visti?! Sono identici!» 

«Sì è vero, ma io non ci credo ancora. Sei sicura che sono figli nostri?» 

«Sì!», gridai di gioia e scoppiando a ridere. Lo presi e lo abbracciai, poi mi lasciai andare sul letto, aggrappata ancora lui. Mi si chiudevano gli occhi dalla stanchezza, ma non volevo perdermi nemmeno un secondo dei miei bambini, non volevo perdere tempo a dormire.    

«Ary? Ary?», mi chiamò Tom.

«Eh?», mormorai in un dormiveglia.

Tom sorrise e mi baciò sulla guancia, si tolse le mie braccia da intorno al collo e mi accarezzò il viso prima di uscire e di lasciarmi al mio sonno.

In fondo al corridoio Tom vide Bill e Anto, che stavano guardando aldilà del vetro Stefan e Alex.

«Ehi», disse raggiungendoli.

«Tom!» Anto lo abbracciò e lo baciò sulla guancia. «Non avevo ancora fatto in tempo a congratularmi con te. Ti assomigliano molto.»

«Grazie», disse leggermente imbarazzato. «In verità io non ci riesco ancora a credere. Sono i nostri figli, miei e di Ary, e mi sembra così strano…»  

«Eh già, ma vedrai che con il tempo ti abituerai.»

Tom si gettò sul fratello, lo strinse forte e Bill gli diede qualche pacca sulla schiena, poi si separarono e si guardarono negli occhi pieni di gioia.

«Avete chiamato Georg e Gustav?», disse Tom preoccupato.

«Sì, stai calmo. Stanno già arrivando, dovevi sentirteli, erano tutti agitati! Per non parlare poi di Giulia e Nicole, ho dovuto tenere il cellulare a distanza di sicurezza per non diventare sordo!»  

«Immagino.»

«Anche il padre di Ary sta arrivando con Lilian», aggiunse Anto.

Tom sorrise e annuì con la testa: «Bene.» 

«Ary dorme?», chiese Anto in cerca di una conferma.

«Sì, si è addormentata mentre mi abbracciava, pensa quant’era stanca.»

Tom si girò e si mise a guardare gli altri bambini nella sala: tra tutti i nostri erano i più carini, sicuramente. Erano piccolini, con le guance morbide ed erano biondi scuri come Tom, bellissimi come lui.

«Sai chi mi ricordano, Bill?», chiese Tom sorridendo.

«Chi?»

«Noi due da piccoli.»

Bill guardò oltre il vetro: era verissimo. Entrambi biondi scuri e entrambi gemelli identici. Si guardarono e sorrisero.

Chi se lo sarebbe mai immaginato che un giorno, quel giorno così vicino, Tom sarebbe diventato padre di due bellissimi bimbi. Bill no. Sì, a volte ci aveva pensato, ma non credeva che quel giorno sarebbe arrivato così presto.

Rimasero a guardarli fino a quando arrivarono Gustav e Giulia e Georg e Nicole. La prima cosa che fecero tutti fu quella di saltare addosso a Tom e di abbracciarlo, poi di guardare i bambini. Volarono complimenti a non finire.

«Ciao ragazzi! Quanto tempo!» 

«Ciao Tom! Auguri!»   

«Grazie.»

«Sono quei due, vero?», chiese Nicole indicando i gemellini.

«Beh, non è difficile: sono i più belli e somigliano a me», disse Tom.  

«Se, ma se sono uguali ad Ary?!», disse Georg.  

«Non è vero», mormorò Tom imbronciato.

Gustav lo prese per le spalle e gli disse: «Tom, non iniziare a fare il vanitoso, che qui c’è anche il merito di qualcun altro.»

«Come sei gentile», disse ancora Tom facendo una smorfia.

«Ma guarda come sono piccoli! Sono degli amori!», disse Giulia saltellando.   

 

Mi svegliai e sentii la voglia irrefrenabile di vedere Stefan e Alex, erano come delle calamite per me. Ne sentivo già la mancanza, anche se avevo dormito solo per due ore e non avevo riacquistato del tutto le forze. Io dovevo vederli.

Bevvi un bicchiere d’acqua guardandomi allo specchio e pettinandomi un po’ i capelli arruffati sulla testa, mi infilai l’accappatoio sopra l’orribile vestito dell’ospedale, - un camice bianco a pallini azzurri - e uscii dalla stanza.

Non fu difficile localizzare Tom e gli altri, visto che erano il gruppo più numeroso di fronte alle vetrate.  

Nessuno parve accorgersi della mia presenza fin quando non abbracciai Tom da dietro e gettai un occhiata ai miei piccoli tesori.

«Ehi, che ci fai già in piedi tu!?», mi disse Tom sollevandomi da terra.

«Dovevo vedere i miei bambini!», dissi come una bambina gelosa dei propri giochi. Il bello era che loro non erano dei giochi, ma la cosa più bella che mi fosse mai capitata; ormai li sentivo, erano parte integrante del mio cuore, della mia anima, della mia vita, nulla mi avrebbe potuto separare da loro.

«Ary, ciao! Come stai?», mi chiesero subito tutti i nuovi arrivati.

«Sto bene, grazie. Ciao a tutti.»

Giulia, Gustav, Nicole e Georg mi abbracciarono facendomi gli auguri, come tanti altri avevano fatto in quelle ore.

«Complimenti! Guarda, sono tutti uguali a te.» Tom, dietro di loro, fece una smorfia strana e risi.

«No, diciamo che hanno preso un po’ da entrambi.» Tom fece una faccia compiaciuta per la mia risposta. Lo guardai, sorrisi e poi continuai: «Spero solo una cosa, che abbiano i miei occhi, solo questo.» Tom sorrise e mi abbracciò.

«Ah, Bill. Hai già chiamato mamma?», chiese lui.

«Sì, ha detto che la devi richiamare tu perché vuole parlare proprio con te, il papà. E poi con Ary, si vuole congratulare.»

Proprio a proposito di madri, pensai alla mia: mi aveva fatta solo star male, ma in quel momento avrei voluto che entrasse dalle porte vetrate dell’ospedale e che mi abbracciasse, che mi dicesse che mi voleva bene e che i miei figli erano bellissimi e che assomigliavano a me, anche se non era del tutto vero.

Mi chiesi perché volevo che accadesse, che tornasse e che sistemasse le cose. Lo spirito materno era anche quello? Perdonare dopo che una persona ti aveva fatta soffrire?

Appoggiai una mano sul vetro, in corrispondenza a Stefan e Alex e mi morsi il labbro. Era così indispensabile la sua presenza? Perché sentivo un vuoto dentro di me? Forse quel vuoto era solo derivato dalla mancanza di Davide, lui sarebbe stato orgoglioso della mia vita, della mia famiglia. E se davvero Davide era dentro di me, se mi stava accanto ogni giorno, forse era lui che mi aveva attaccato quella mancanza improvvisa di affetto materno.

Mamma sarebbe stata capace di vedere come vedevo io i miei figli? Perché lei non aveva visto me in quel modo? Con quell’amore infinito, da sacrificare pure la vita per il bene di quelle due piccole vite. Lei aveva mai capito cosa voleva dire amare davvero? Sì, con Davide. Con me no. Io ero stata privata di quell’amore così grande.

Io non avrei fatto gli stessi errori di mia madre; non avrei escluso nessuno, né Alex né Stefan, li avrei amati allo stesso modo e infinitamente, come avevo promesso a Tom qualche tempo prima.

Alzai lo sguardo e vidi Mattia togliersi la mascherina che aveva sulla bocca e indicarmi di entrare.

«Uh Ary! Ce li fai vedere da più vicino se puoi?», mi supplicò Giulia.

«Sì, ci proverò. Ma tanto ho il dottore dalla mia parte», sorrisi e le feci l’occhiolino.

Tom mi passò una mano sulla guancia e sorrise sussurrandomi: «Davide sarebbe stato orgoglioso di te.»

Ricambiai il sorriso ed entrai dai miei piccolini, prima però mi fecero mettere un camice verde per evitare il contatto di batteri con i fragili sistemi immunitari dei bambini.

«Ary, come stai?», mi chiese Mattia appena gli fui accanto.

«Bene, tu?»

«Alla grande.»

Vidi Stefan muoversi nella culla e stendere un pochino le braccia verso di me, verso la mia voce che aveva riconosciuto. Subito alzai la testa e guardai fuori dal vetro Giulia che quasi ci era spiaccicata, intenerita in una maniera assurda, quasi piangeva.

«Posso avvicinarmi al vetro con i bambini?», chiesi.

«Sì, chi vuoi tenere?»

«Mat, non puoi farmi questa domanda!»

«Giusto. Vedo che lo spirito materno si è manifestato bene in te, eh?», sorrise e prese Alex, ancora addormentato. Io di conseguenza presi Stefan.

Insieme ci avvicinammo al vetro e sentii un calore profondo quando la manina di Stefan si mise sul mio collo e con il viso andava a cercare da mangiare, poi sorrisi e guardai Tom dall’altra parte della vetrata, che sorrideva dolce.

Quel calore era troppo bello per privarmene, quindi nessuno mai mi avrebbe portato via anche quella sensazione.

 

***

 

Pochi giorni dopo tornammo a casa. Fu un vero sollievo perché non mi piaceva stare in ospedale. Mi era mancata tanto la nostra casetta. Oddio, casetta non era proprio il termine adatto: era una villetta a due piani, non contando la soffitta, con la piscina e il garage. Al piano terra c’erano la cucina, il salotto e un bagno. Di sopra c’erano la camera di Bill e Anto, con bagno interno; la cameretta di Stefan e Alex, accuratamente pitturata da me in blu e azzurro, anche se sarebbero stati sempre vicini a noi per ogni evenienza; la camera da letto mia e di Tom; e un altro bagno. Poi all’ultimo piano la soffitta, piena di roba. Non sapevo nemmeno io di preciso che cosa ci fosse.

Tornammo a casa e come prima cosa io e Tom fecimo addormentare i piccoli, il che non fu difficile, visto che già sonnecchiavano.

Bill e Anto si erano già fiondati in cucina a vedere se c’era qualcosa da mangiare, come se non avessero mai mangiato in vita loro. Cercarono dappertutto e la loro caccia terminò quando trovarono patatine e popcorn. Mi stupivo sempre di come mangiassero sano quei due.

Risi e mi sedetti sul divano con un album da disegno e una matita, anche se non ero proprio in ottima forma per mettermi a disegnare. Ero ancora scombussolata, ma l’energia che avevo la dovevo tutta a Stefan e Alex: i loro piccoli cuoricini che battevano quasi in sincronia mi davano così tanta felicità che si trasformava in forza, anche fisica.

Appena iniziai a scarabocchiare il minuscolo sorriso che una volta Alex mi aveva fatto, molto probabilmente inconsciamente, mi diedi un colpo in fronte.

«Tom!», gridai piano per non svegliare i gemelli che dormivano nelle loro culle messe momentaneamente lì vicino, così se si fossero svegliati li avremmo raggiunti subito.

«Che c’è?», mi chiese dalla cucina.

«Dai da mangiare a Micio, sarà affamato.»

«No, prima di venire da te in ospedale gli avevo riempito la vaschetta, e ce n’è ancora», disse controllando.

Poco dopo vidi Micio zampettare giù dalle scale e venire a sedersi al mio fianco, pronto per le coccole. Era un po’ che non ci vedevamo ed era un suo diritto riceverle.

Quando si stancò e andò a raggomitolarsi vicino al calorifero, anch’io mi sentivo stanca, così lasciai perdere il designo e mi sdraiai sul divano con il viso tra i cuscini morbidi. Notai che il divano era molto più comodo del letto in ospedale.

«Ary, così prendi freddo però.» Tom mi mise addosso la mia coperta e si mise seduto di fianco a me.

Intorpidita dal calore della coperta e dalla sua mano che mi accarezzava docilmente i capelli, lo cercai e usai la sua gamba come cuscino, appoggiandoci sopra la testa.

Sentivo Bill e Anto scherzare in cucina, ma sembravano lontani anni luce, le loro voci non mi arrivavano chiaramente e mi ci voleva un certo sforzo per capire bene cosa dicevano.

Poco dopo la voce di Bill si avvicinò e sentii la sua mano sfiorarmi il viso e le sue parole sussurrate al fratello. Poi il rumore della televisione che veniva accesa con il volume al minimo per non disturbarmi, e le luci si spensero. Volevano proprio che mi addormentassi e che mi levassi dalle scatole!

«Certo che ne è passato di tempo», disse piano Bill.

«Già», Tom mi massaggiò il braccio e immaginai il suo sorriso magnifico impadronirsi delle sue labbra.

«Sì, ma questi cinque anni mi sono serviti.»

«Sono serviti a tutti, Bill.»

«Però non credevo che sarebbe successo tutto così in fretta. Vi siete sposati e adesso avete due figli. Non è troppo presto?»

«Bill, io non vedevo l’ora di dare ad Ary ciò che non ha mai avuto veramente. Hai visto come guardava Stefan e Alex? Sarà una mamma e una moglie perfetta, come mi ha promesso.»

Mi girai sulla sua gamba e strinsi tra i pugni il bordo della sua maglietta per fargli vedere il mio sorriso felice e realizzato.

 

 

___________________________________________

 

Ciao a tutti!

Il primo flashback! *-* Vi è piaciuto? Spero tanto di sì e che abbiate un minuto di tempo per lasciare una recensione, anche minuscola!
Ora ringrazio Utopy, per la recensione allo scorso capitolo ( Menomale che ci sei tu, ammmoremmmioooo!! Luv yaa <3 ) e ringrazio infinitamente chi ha già messo questa storia fra le seguite e le preferite, davvero mi fa molto piacere! ^-^
Ringrazio anche tutti quei timidoni che leggono senza recensire, su xD
Alla prossima, grazie a tutti! Ciao! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 3
*** 1.2 ***


1.2

 

Bill e Tom erano partiti per un’altra tournèe. Senza di loro la casa sembrava così vuota, però io avevo Stefan, Alex e anche Micio, ma lui era come se non ci fosse, e mi tenevano compagnia durante la loro assenza. Anto cercava di tenersi sempre occupata, o andava a lavorare o metteva in ordine la casa, oppure mi aiutava con Stefan e Alex. Ci mancava poco che mi annoiassi io! Finché un giorno anche Anto capì che sarebbe cambiato qualcosa…

«Cavolo, mi gira ancora la testa», disse sbuffando.

«Che cos’hai?», chiese Chiara, una sua collega.

Nel negozio non c’era nessuno, stranamente sembrava una giornata in cui tutti avevano i capelli perfetti. Si appoggiò al lavandino e la guardò seduta su una poltroncina.

«Ma non lo so, mi continua a girare la testa. Però va e viene, non riesco a capire.»

«Non sarai mica incinta, vero?»

Anto girò piano la testa e guardò il viso abbronzato di Chiara, sorpreso e ansioso allo stesso tempo.

Quella notte, presa dall’insonnia, si alzò e tirò fuori dalla borsa il test di gravidanza. Come supponeva Chiara, era incinta. Piangendo e ridendo contenta prese il cellulare e chiamò Bill, doveva assolutamente sentirlo per dargli la notizia.

 

Il cellulare di Bill continuava a suonare e tutti si svegliarono nel pullman, tranne lui.

«Bill! Spegni sto cazzo di telefono!», urlò Tom dal suo letto.

Bill si svegliò di colpo e anche lui sentì il suo cellulare intonare la sua canzone preferita. Si ributtò con la testa dentro al cuscino. «Con calma, ne? Tanto ormai ci hai già svegliati tutti. Ma chi è che ti chiama a quest’ora?»

Ci volle un po’ prima che i suoi occhi si abituassero allo schermo luminoso del cellulare, riuscendo a leggere il nome di chi lo aveva svegliato alle quattro di notte.

«È Anto», biascicò.  

«Grazie per avercelo detto, ma ti muovi a rispondere?!»

Bill seguì il consiglio del fratello e pigiò il tastino verde.

«Bill?»

Bill si svegliò del tutto e ascoltò la voce di Anto al cellulare, nel buio più totale di quel pullman. Intanto anche tutti gli altri ascoltavano incuriositi, tanto ormai si erano svegliati.

«Bill, ma sei sveglio?»   

«Sì, sono sveglio. Che c’è?» Bill era esausto, come gli altri, e non era il massimo. Avevano avuto il concerto quella sera e si erano appena addormentati.

«Ehm…»   

«Anto? Devi dirmi qualcosa? Perché se non è così io torno a dormire.»  

«No, no. Aspetta. È una cosa seria.»   

«Allora sbrigati.»

«Aspetto un bambino», sussurrò tra le lacrime. Fece un respiro profondo: gliel’aveva detto, e si sentiva estremamente orgogliosa di sé stessa.

Bill si sedette di colpo sul letto e voleva tanto urlare di gioia. «Sul serio?! È stupendo!»

«Lo so!», urlò lei saltellando per la stanza.

«Oddio, non ci posso credere!»

«Nemmeno io ci credo, Bill!»

Gli altri lo guardavano confusi, scambiandosi degli sguardi tra loro.

«Che cazzo sta dicendo?»

Tom alzò le spalle: «Ah, non chiedete a me. Io sono quello che lo capisce di meno in questo momento.»

Bill sbuffò agli altri e mise il vivavoce: «Anto, ripeti. Io potrei svenire a dirlo, in questo momento.»

Anto rise. «Ok, ma lo dico una volta sola: ragazzi, aspetto un bambino!»

Tom urlò ad Anto: «Giura?!»

«Sì, lo giuro! Oddio Tom, non l’ho ancora detto ad Ary! Volevo che lo sapesse per primo Bill.»

«Appena lo saprà farà i salti di gioia per te», ridacchiò.

«Sì, già me la vedo.»

Bill tolse il vivavoce e si mise il cellulare all’orecchio per parlare da solo con lei.

«Anto, ti amo», le sussurrò mettendosi sotto le coperte.

«Anch’io Bill. Ma sarai stanco, no? Forse è meglio se ti lascio dormire, ci sentiamo meglio domani, dopo che l’ho detto anche ad Ary.»

«Ok, va bene. Buona notte Anto, ti amo tanto. Mi manchi.»

«Oh Bill, anche tu mi manchi tantissimo e ti amo ancora di più. Buona notte.»

Bill spense il telefono e guardò suo fratello Tom con le lacrime agli occhi.

«Bill, non piangere! Devi essere contento!», saltò giù dal letto e gli saltò addosso, abbracciandolo e sfregandogli i capelli. «E così anche tu padre, eh? Cosa fai, mi copi?»

Bill rise e si fece abbracciare anche da Gustav e Georg. Erano tutti e tre addosso a lui, semisdraiati sul suo letto.

«Bill, ti giuro che se non era una cosa così seria ti prendevo a calci!», disse Georg.

«Giusto, ne è valsa la pena di svegliarci alle quattro di notte», concordò Gustav.

«Sì, però ancora non riesco a capire di come tu possa darti da fare così, quando io prima l’ho sposata Ary!», disse Tom portandosi le braccia strette al petto. «Quindi ti tocca sposare Anto, perché se no non vale!»

«Sposarla?», Bill deglutì rumorosamente.

«Ovviamente! Guarda che è molto meno complesso sposarti che accudire un bambino. Fai le cose con ordine, ti prego. Tanto non cambia assolutamente niente sposati o no, l’unica differenza è che è scritto nero su bianco e… questa», gli fece vedere la fede sorridendo.

Quando tutti ritornarono nel proprio letto e si addormentarono, Bill era ancora sdraiato, che non riusciva più a dormire. In quel momento pensava solo a lui, ad Anto e al loro futuro bimbo. Era al settimo cielo, aveva voglia di urlare a squarciagola. Cercò di dormire, ma l’euforia era tale che non riuscì a chiudere occhio.

Però era anche spaventato dal matrimonio, qualcosa lo rendeva ostile a quella cerimonia, forse perché aveva avuto dei genitori separati e non voleva che accadesse, ma quelle erano paure solamente molto stupide.

 

La mattina dopo, mi svegliai e andai in cucina. Stavo bevendo, quando sentii saltare giù dalle scale Anto.

«Ary, sono incinta!», gridò facendomi quasi strozzare. Non poteva dirmi quelle cose di prima mattina e così all’improvviso!

«Sul serio?!» Anto agitò la testa per confermare al settimo cielo e io le corsi incontro per stringerla forte.

«Congratulazioni! Da quanto lo sai? Lo hai già detto a Bill? Che cosa ha detto?»  

«Calma, calma! Allora, l’ho già detto a Bill, ieri notte, ed era contentissimo! Come gli altri. Ha messo il vivavoce! Tom mi aveva già detto che tu avresti fatto i salti di gioia per noi.»   

«Tom ci azzecca sempre, mi conosce troppo bene! Oddio, ma adesso vuol dire che vi sposerete! Per forza!»

«Oddio, non ci avevo pensato!» Scoppiò a piangere dalla gioia e io la abbracciai ancora, non potevo trovare un modo migliore per partecipare alla sua felicità.

Sentii un rumore dietro di noi e vidi i due biberon di Stefan e Alex, seduti sul seggiolone con un sorrisetto furbo sul viso, a terra, il pavimento completamente inondato di latte.

«Siete proprio come vostro padre: volete sempre essere al centro dell’attenzione!»

 

***

 

«Non ce la farò mai», tremolò a sé stessa guardandosi allo specchio. «Ora capisco come si sentiva Ary, cavolo!»

«Anto, tutto bene?», le chiesi, dall’altra parte della porta.

«No, non va affatto tutto bene! Me lo sento, sarà un disastro totale! Si metterà a piovere, inciamperò, cadrò a terra, il vestito si sporcherà e tutti scoppieranno a ridere.»

«Sì, e Alex e Stefan si metteranno a piangere durante il sì, vero?»

«Giusto, non ci avevo pensato. Oddio Ary!»

«Fammi entrare, su.»

Mi aprì la porta del bagno e appena la vidi rimasi senza parole: era magnifica! Ovviamente Bill non aveva voluto un matrimonio convenzionale ed io ero contentissima per loro.

«Sei… sei uno spettacolo», le dissi, sistemandomi meglio Stefan fra le braccia, Alex era con suo padre, nella camera di suo fratello, lo sposo.

«A chi vuoi darla a bere!»

«Non sto scherzando Anto, Bill come minimo sviene!»

«Sì, sviene e il matrimonio salta, lo sapevo!»

«Ma la smetti di essere così negativa?»

Non potevo fare a meno di guardare il suo vestito bianco tempestato da preziosi che andavano dal viola al nero, la schiena nuda e la sua pelle bianca ricoperta di brillantini.

«Ary, non ce la farò mai», sussurrò, coprendosi il viso con le mani.

«Se piangi ti tiro una testata, ci hai messo secoli a truccarti e non voglio stare qui ancora, sennò divento vecchia e i miei figli adolescenti.»

Bussarono alla porta e Anto sobbalzò, io la rassicurai e andai ad aprire. Vidi subito il faccino felice di Alex e poi, percorrendo le braccia che lo reggevano saldamente, vidi quello di Tom, che appena mi vide mi stampò un bacio sulle labbra ed entrò, chiedendo della sposa.

«Non so se riuscirà mai ad uscire dal bagno, si è convinta che andrà tutto male. Bill com’è messo?» Speravo che almeno lui fosse a buon punto, eravamo già in ritardo.

«È in preda ad una crisi isterica», sospirò, sedendosi sul letto della camera d’hotel a cinque stelle, dalle finestre si vedeva il mare terso di New York.

Avevano deciso di fare le cose in grande ma avevano invitato solo le persone più vicine a loro, e avevano tenuto il matrimonio in segreto, nessuno sapeva niente, strano ma vero: erano ancora tutti concentrati su me, Tom e i nostri figli per badare anche agli altri.

«E questo che vuol dire?», sgranai gli occhi.

«Continua a dire che sarà un disastro, che il suo vestito non era ancora pronto e che doveva lavorarci di più.»

«Cioè tu mi stai dicendo che prima era tutto soddisfatto e ora vorrebbe disfare tutto?»

«Esattamente», annuì.

«Sono assurdi questi due, si sono proprio trovati», dissi sorridendo, abbastanza forte così che Anto potesse sentirmi.

«Non è colpa mia se faccio schifo!», gridò Anto uscendo dal bagno e puntandosi le mani ai fianchi, di fronte a noi.

Tom rimase senza fiato a guardarla e quasi si dimenticò di avere Alex fra le braccia.

«Ti pare la reazione di qualcuno che crede che fai schifo?», le chiesi, chiudendo la bocca a Tom.

«No», sospirò, accennando un sorriso. «Ma questo è il giorno più importante della mia vita, voglio che sia perfetto.»

«Facendo così te lo stai rovinando da sola», la informai, lei sbiancò e poi prese colore sulle guance. «Fai la persona matura, c’è una limousine che ci aspetta di sotto», le sorrisi e lei annuì, abbracciandoci a turno.

 

«Ragazzi!», gridò Bill agitatissimo, aggrappandosi al braccio del fratello, gli occhi lucidi.

«Non mi traumatizzare Alex con le tue crisi da primadonna. Bill ti devi sposare, fai la persona seria.»

«Peccato che è proprio perché mi devo sposare che sono così agitato! Gustav, Georg, è tutto pronto?!»

«Prontissimo!»

«Anto sta arrivando, è già scesa dalla macchina!», disse Georg chiudendo le grandi porte della villa in mezzo al verde e di fronte al mare.

«Oddio, sto per morire!», gridò Bill, mentre schizzava via, ma Andreas, Giulia e Nicole lo fermarono e lo immobilizzarono.

«Bill, la vuoi piantare?!»

Tutti si girarono e guardarono Simone in un bel vestito chiaro che contrastava con i suoi capelli rossicci e la pelle leggermente abbronzata, abbracciata a Gordon.

«Mamma», disse Bill, abbassando lo sguardo.

«Che uomo sei?»

«Sono nervoso», ammise. Sembrava un bambino beccato a fare una marachella, pentito.

«Ho capito, ma pensa che avrai un bambino. Non puoi comportarti così.»

«Tua madre ha ragione, devi smetterla», disse Gordon, anche se sorridendo.

«Mostra chi sei ai genitori della sposa, sono appena arrivati dall’Italia», Simone sorrise con gli occhi brillanti e abbracciò il figlio, stringendolo forte. «Come crescete in fretta… Tom, dammi mio nipote!»

Tom roteò gli occhi al cielo, sorridendo, e salutò Alex, non l’avrebbe visto per molto tempo da quando lo avrebbe dato a sua madre.

«Forza Bill, ce la puoi fare», disse Giulia, mentre gli invitati iniziavano a prendere posto, tra cui anche i genitori e le sorelle di Anto.

Alexia com’era cresciuta! Aveva i capelli corvini e ricci raccolti in una fascia e si vestiva in modo molto punk, con pantaloni stracciati, trucco pesante e borchie. Era cambiata.

I loro sguardi si incontrarono e Alexia sorrise, mentre si alzava e lo raggiungeva.

«Cavolo come sei cambiata», disse Bill abbracciandola.

«Sì, lo so. È parecchio che non ci si vede. Non farai scenate se sono venuta vestita così al vostro matrimonio, vero?»

«Io no, forse tua sorella sì», ridacchiò.

«Vabbè, lei è un caso a parte. Trattamela bene, ok?»

«Certamente», le sorrise e Alexia tornò a sedersi.

Il padre di Anto gli lanciò un’occhiata, non sembrava così contento di quell’unione, ma almeno era venuto.

«Il padre di Anto mi odia ancora di più ora che la sto per sposare, non è così?», chiese al fratello.

«Na, non ti odia… Come ogni padre è in pensiero per la sua piccola, vedrai che gli passerà.»

«Se lo dici tu.»

«Mi sta venendo fame, ci muoviamo?», chiesi scendendo dalle scale e mettendomi accanto a Giulia. Insieme saremmo state le testimoni di Anto.

Il padre di Anto salì le scale e Bill tremò, è da lì che Anto sarebbe scesa e l’avrebbe vista nel vestito che per tradizione non aveva potuto fare lui. Era nervoso, ma d’altra parte non stava più nella pelle.

«Ci siamo!», disse Tom, sistemandosi con Andreas al fianco di Bill. Loro erano i suoi testimoni, Georg e Gustav li avevamo soprannominati scherzosamente I Madamigelli d’Onore.

Loro, assieme a Nicole andarono ai loro posti in prima fila e vidimo Anto scendere dalle scale accompagnata da Alexia che si era messa dietro il piano a suonare, un sorriso imbarazzato e già gli occhi lucidi, le guance rosse.

«Oh my God», sibilò Mattia, seduto accanto a Lilian e mio padre.

Anto raggiunse Bill senza cadere né niente e suo padre andò a sedersi, l’espressione leggermente imbronciata. Si guardarono negli occhi e sorrisero.

La cerimonia fu relativamente breve, Bill e Anto firmarono le carte e poi arrivò Jim, il tatuatore di fiducia di Bill, che li condusse nell’altra stanza. Tutti gli invitati si spostarono con loro e li guardammo mentre fra le lacrime e i sorrisi si lasciavano incidere sulla pelle una fede composta solamente dal nome dell’altra persona, intorno all’anulare della mano sinistra. Una fede convenzionale ovviamente non andava bene, un tatuaggio durava per sempre.

Quando le fedi furono indossate… cioè, tatuate, tutti andammo nel giardino sul retro, dove era stata imbandita un’intera tavolata e al centro c’era un’enorme torta. Appena Anto la vide le brillarono gli occhi, poi si guardò il pancino appena evidente sotto il vestito e Bill posò le mani sulle sue sorridendo, abbracciandola da dietro e baciandola sulla tempia.

«Ci credi a tutto questo?», le sussurrò.

«Uhm, fammici pensare… no!», rise e si girò improvvisando il lancio del bouquet, che finì fra le braccia di Lilian, che diventò tutta rossa.

«Evvai, Lilian e papà si sposano!», gridai, Mattia mi fece l’occhiolino quando i due interessati si guardavano imbarazzati.

«Non abbiamo tirato il riso, mannaggia!», gridò Georg, tirando fuori dalla schiena un intero secchio di riso bianco, che svuotò sulla testa di Bill, che si mise a gridare, e Anto a ridere.

«Non ti preoccupare Anto, ce n’è anche per te!», gridò Gustav, prima di riservarle lo stesso trattamento.

Tutti scoppiammo a ridere di fronte alla sua espressione scandalizzata, lei guardò Bill e gli avvolse il collo con le braccia prima di baciarlo.

«Viva gli sposi!», gridò Giulia.

«E al piccolino!», aggiunse Nicole, già con un bicchiere di vino bianco in mano.

La mamma di Anto cadde a terra svenuta e nel giro di tre secondi eravamo tutti lì intorno a farle aria e a darle un bicchier d’acqua sperando che si riprendesse.

«Non gliel’hai ancora detto?!», sussurrai alla mia migliore amica.

«No! Già c’è il matrimonio, pensa poi…»

«Spero che la tua amica sia solo ubriaca!», disse il padre di Anto, tenendo sua madre per la schiena.

Lei rimase a bocca aperta, io le tirai una gomitata fra le costole, incitandola a dire qualcosa di dignitoso per difendere lei, Bill e il suo bambino.

«No papà, io aspetto sul serio un bambino», disse Anto fiera, portandosi le mani sui fianchi. «E se non ti sta bene, è un affar tuo», concluse, chiudendo gli occhi e lasciandosi abbracciare da Bill, che sorrideva a trentadue denti.

Marco, in pochissimo tempo, raggiunse sua moglie, svenendo.

«Siamo a posto», ridacchiò Tom.

«Quindi io sarò zia?», chiese Alexia felice come una pasqua.

«Sì sorellina, avrai presto un bel nipotino.»

«O nipotina», la corresse Bill, prima di baciarla sulle labbra.

 

________________________________

 

 

Ciao a tutti! ^______^
Capitolo un po’ cortino, ma siamo in fase di flashback a go-go, quindi è concesso su u.u Spero vi sia piaciuto comunque *-* Fatemi sapere cosa ne pensate in tanti, mi raccomando!

Ringrazio:

Utopy: Aleeeeeeeeeeeeeeeeeeees!! *-* 
I gemellini sono miei ù.u 
Ary ti sta antipatica? O.O Mi hai traumatizzata dicendomelo, speriamo che cambi idea in fretta! xD
Grazie per l’appello, davvero xD Sono d’accordo con te u.u
Grazie mille per i complimenti, so che me li merito *-* ( XDDD ) Ti voglio troppo bene, MIA sposina ( xD ) Ales trottolina amorosa dududadada! © 

svampy1996: Grazie mille!! *-* Alla prossima!

Ringrazio anche chi ha messo questa FF fra le preferite e le seguite e chi legge soltanto. Grazie a tutti!
A lunedì prossimo, ciao! Con affetto, vostra

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Capitolo 4
*** 1.3 ***


1.3

 

Mi misi seduta sotto il piccolo porticato, chiusi gli occhi per un istante, respirai l’aria di mare e sorrisi. Quando riaprii gli occhi, vidi il cielo azzurro, quell’azzurro intenso, bellissimo. Mancava ormai poco al tramonto e una leggera sfumatura di rosa colorava quel cielo magnifico.

Il cellulare sul tavolino cominciò a suonare. Lo presi e risposi, già con il sorriso sulle labbra.

«Ma ciao, ci si diverte lì?»

«Tantissimo. Ciao tesoro, come stai?»

«Bene, cioè… se fossi al mare con la mia famiglia starei meglio, ma non mi lamento.»

«Lo so, anche a noi manchi tanto, però stiamo bene, siamo appena tornati dalla spiaggia. Ci sono i tuoi figli che sono già abbronzati, come fanno lo sanno solo loro.»

«Sì? Allora devo recuperarli!»

«Vuoi che te li passi?»

«Sì dai, chi mi passi?»

«Chi vuoi tu.»

«Non posso scegliere, chi vuole parlare.»

«Stefan! Alex! C’è papà al telefono! Chi lo vuole sentire?», li chiamai e le risposte non tardarono ad arrivare. 

«Io, io!»

«No, io!»

«Vediamo chi arriva prima?», chiesi scherzosamente a Tom.

«Sì, ora sono curioso.»

Arrivò prima Alex, che mi strappò il telefono dall’orecchio e se lo portò al suo. Suo fratello era un po’ più indietro e aveva in mano una macchinina.

«Uffa, ma non vale!», sbuffò appoggiandosi anche con la testa allo stipite della porta a vetro.

«Chi sono?», chiese al telefono Alex, ridacchiando.

«Uhm… Sei Stefan!»

«No, sono Alex!», gridò scoppiando a ridere. «Papà, sbagli sempre!»

«Hai ragione, sono proprio senza speranze! Ciao piccolo, come stai? Ma lo sai che mi mancate tanto?»

«Ciao papà! Bene, bene! Anche tu ci manchi tanto! La mamma si lamenta sempre quando tu non ci sei.»

«Davvero? Dai, reggetela ancora per qualche ora.»

«Qualche ora? Stai arrivando?! Che bello!»

«Sì piccolo, tra poco arrivo, e arriva anche zio Bill.»

«Che bello, che bello!»

«Sì, che bello davvero. Così vi rivedo.»

«Per quanto resti poi?»

«Non lo so ancora, spero il più possibile. Allora vi divertite?»

«Sì!»

«Bene, mi fa piacere. Ora passami Stefan, così lo saluto, ok? Ciao, bacioni!»

«Ok, ciao!» Il piccolo schioccò un bacio al telefono e poi lo passò al trepidante Stefan, che gli saltellava accanto con le mani stese.

Mentre Stefan parlava al cellulare con suo padre, Antonia uscì e si mise seduta di fianco a me, guardandomi e sorridendo.

«Chi è, Tom?» Io annuii con la testa, sorridendo. «Allora dopo chiedigli se mi fa parlare con Bill già che c’è.»

«Certo. Tutto bene?»

«Sì, tutto ok.» Si mise le mani sul pancione e sorrise, accarezzandolo. «Ah, dov’è che sono?»

«Stanno aspettando l’aereo. Un paio d’ore e sono qui.»

«Bene.»

 

Sentimmo un clacson e tutti ci guardammo e sorrisimo. Stefan e Alex si alzarono e corsero subito fuori in giardino ridendo. Li raggiunsimo e vidimo Bill e Tom scendere dalla macchina e corrergli incontro.

Tom si abbassò e li abbracciò tutti e due, ridendo a sua volta. «Ciao piccoli!»

Bill gli accarezzò i capelli e sorrise. Solo dopo, alzarono lo sguardo e ci videro sulla porta.

Bill corse dentro e abbracciò Anto, tenendola a sé. «Ciao, come stai?»

«Sto bene. Tu?»

«Anche io. Che bello rivederti.»

«Anche a me fa piacere.»

Li lasciai sotto il portico e raggiunsi Tom vicino alla macchina. Lui mi sorrise, mentre sia Stefan che Alex gli dicevano un mucchio di cose tutte assieme. Li guardò e gli accarezzò le guance sorridendo.

Si alzò in piedi e si avvicinò a me, mi guardò, accarezzò anche a me le guance sorridendo. Io avevo gli occhi lucidi, gli misi le braccia intorno al collo e lo abbracciai. Lui mi strinse a sé, baciandomi sulla guancia, mentre rideva e sorrideva.

«Ciao, tutto bene?»

Io mossi la testa, annuendo.

«Non dirmi che stai piangendo…»

«No, non sto piangendo.»

«Mmm… fa vedere?» Mi prese il viso tra le mani e mi guardò. «No, hai ragione. Non stai piangendo.»

«E io che ti avevo detto?»

«Mi sei mancata tanto.» Mi diede più baci sulle labbra, sorridendo.

«Anche tu mi sei mancato.»

«Adesso sai che faccio? Mi sdraio sul letto e non mi muovo da lì fino a domani mattina. Ok?» Risimo assieme, anche con i gemellini, che poi Tom prese in braccio e coccolò ancora un po’.

 

***

 

«I Puffi sanno che un tesoro c’è, nel fiore accanto a te…»

Mi svegliai con la sigla de I Puffi proveniente dalla cucina. Strinsi gli occhi e focalizzai l’ambiente intorno a me. Ero a letto, sotto le lenzuola, con Tom di fianco, girato dall’altra parte, che mi dava le spalle. Era già mattina da quanto si poteva vedere dalla luce che entrava dalla finestra.

Mi alzai e andai in cucina, dove c’erano Stefan e Alex sdraiati uno sopra l’altro sul divano.

«Ma che ci fate già svegli?», chiesi con quel poco di voce che avevo. Loro mi guardarono e sbadigliarono.

«Non riuscivamo a dormire. E poi io avevo anche fame.»

Sorrisi. Stefan, era sempre il solito. Chissà, ma chissà, da chi aveva preso. Questa domanda era così difficile…

Preparai il latte ai bimbi e mi misi seduta al tavolo con la mia tazza di caffè in mano. Qualcuno mi passò la mano sulle spalle, passandomi accanto. Mi girai, era Tom.

«Mi hai fatto spaventare.»

«Scusa. Ciao», mi baciò sulle labbra e sorrise. «Ma vi alzate sempre così presto voi?», chiese alle pesti.

«A volte. Con mamma andiamo presto in spiaggia, quando riesce a svegliarci.»

«E stamattina siete stati voi a svegliare me», dissi bevendo ancora dalla mia tazza. «Tu che fai Tom? Te ne torni a letto?»

«No, vengo con voi. È un sacco che non venivo qui, voglio vedere se è cambiato qualcosa.»

«Non è cambiato proprio niente, è tutto uguale.»

Ci guardammo e sorrisimo: quel luogo era pieno di ricordi per noi, sia che belli che dolorosi, ma non era affatto doloroso vivere giorni splendidi con i nostri figli, anche se qualche ricordo triste ogni tanto tornava a galla.

«Meglio così.»

 

«Mamma giochiamo?»

«Prima ci mettiamo la crema e poi giochiamo. Dai, venite qui.»

Stefan e Alex vennero a rapporto davanti a me. Mi misi in ginocchio e presi Alex, gli spalmai giocando la crema su tutta la pancia, ridendo assieme a lui. Tom mi prese la bottiglietta dalla mano e fece lo stesso con Stefan. Io rimasi a guardarlo: ero felice che si occupasse di loro da bravo papà, quello sì, era un bravo papà.

«Fatto? Ora giochiamo?»

Sorrisi e mi rialzai da terra, guardando Stefan che mi assillava da circa dieci minuti.

«A cosa?», chiese Tom.

«Con la sabbia, papà!», dissero assieme i bimbi, come se lui venisse da un altro pianeta.

«Giusto! Come ho fatto a non pensarci prima!», disse ridendo.

Stefan e Alex gli presero la mano, uno da una parte e l’altro dall’altra, e lo portarono a riva. Tom li lasciò andare a sentire l’acqua, guardandoli e sorridendo.

«Non è cambiato nulla sul serio», disse prendendomi per le spalle e baciandomi sulla tempia.

«No, nulla.»

Ci misimo seduti sulla sabbia, davanti avevamo il mare e Stefan e Alex che guardavano dentro l’acqua limpida.

«Più li guardo, più mi accorgo che ti assomigliano tantissimo, sai?», dissi guardando Tom.

«Davvero? Non so che dire, solo che hanno i tuoi splendidi occhi. Quell’azzurro che mi fa impazzire.» Io risi e baciai Tom sulla guancia.

«Ma lo sai che… non so come dire, sono delle calamite per le bambine. Fanno più conquiste di dieci ragazzi messi assieme. Hanno preso da te?»

«Mmh, probabile.»

«Ti giuro, a volte devo andare a salvarli da tutte le bambine che hanno attorno.» Risimo e poi vidimo Stefan avvicinarsi a me e darmi il secchiello.

«Me lo riempi, per favore?»

«Ma certo amore.»

Mi alzai e andai a riempire il secchiello d’acqua, prendendola dal mare. Tornai a riva e lo misi sulla sabbia, di fianco a dove erano seduti i gemellini.

«Ecco. Che cosa fate oggi, scultori?»

«Una buca, e poi ci mettiamo dentro papà!», disse Alex scherzando. Risimo tutti assieme mentre Tom raggiungeva Alex a gattoni sulla sabbia. Lo prese in braccio e lo fece girare, facendolo ridere da matti.

«Molto divertente Alex, mi sa che metto te dentro!»

«Invece di pensare a chi mettere dentro, perché non incominciate a farla, la buca?», dissi.

«Giusto, giusto. Allora ci mettiamo dentro la mamma», disse Tom prendendo una paletta e toccandomi piano la testa, sorridendo.

Scavando, io e Tom parlavamo un po’ di quello che avevamo fatto in quel periodo di lontananza, e a volte si aggiungevano anche Stefan e Alex.

«Allora avete raccontato a papà di tutti i bagni che fate?»

«No. Papà lo sai che facciamo tanti bagni con la mamma? Dice che anche lei da piccolina ne faceva tanti come noi, ma io non ci credo.»

«E perché no? Ma lo sai che la mamma è brava a nuotare? Ha vinto anche dei premi, non lo sapevi?»

«No, non lo sapevo!»

«E sì.» Io e Tom ci guardammo e sorridemmo.

«Ma sanno nuotare?», mi chiese.

«No, ancora no. Ma non hanno mai avuto paura dell’acqua, già il primo giorno si sono tuffati.»

«Beh, se hanno preso da te è ovvio che non hanno paura, o mi sbaglio?»

«Non ti sbagli.»

«Bambini, abbiamo trovato l’acqua», annunciò vittorioso Tom.

«Sì! È vero!»

Stefan non perse tempo e ci mise una mano dentro, prese un misto tra sabbia e acqua, una specie di fanghiglia. La guardò e sorrise, anche se era un po’ schifato.

«Bill e Anto ci raggiungono dopo?», mi chiese Tom.

«Sì, sì. Arrivano dopo.»

Stefan mise la poltiglia sul petto del fratello, ridendo. Alex si guardò e rise anche lui. Il mio sorriso e quello di Tom si incontrarono quando pensammo la stessa identica cosa.

«Sai che mi ricorda?»

«Magari centra Zimmer 483?», dissi io.

«Esattamente.»

«Tutto quel fango… eri tremendamente sexy, sai?»

«Lo immaginavo», disse chiudendo gli occhi.

«Ma stai zitto va!», lo spinsi appena sul braccio.

Risimo assieme, mentre i gemelli erano ormai completamente coperti di sabbia e acqua. Li guardammo e poi ci guardammo, sorridendo. Io presi Stefan e Tom Alex, li misimo in acqua, togliendogli la bandana dalla testa, tenendoli per le braccia. Mentre li pucciavamo dentro l’acqua come biscotti nel latte, per pulirli, loro ridevano felici e alla fine, contagiati, finimmo tutti e quattro dentro.

«Che bello, un bagno collettivo», disse Tom guardandomi.

Si mise meglio Alex a cavalcioni e lo tenne tra le sue braccia. Io lasciai Stefan nell’acqua, tanto toccava e mi bagnai i capelli, immergendomi. Tornai su e ancora Alex era in braccio a Tom.

«Dai Alex, scendi. Guarda che tocchi.» Tom lo lasciò e il fratellino minore raggiunse il maggiore.

«Adesso tieni me?», dissi mettendogli le braccia intorno al collo.

«Ma guardala! Hai fatto scendere Alex solo perché mi volevi tutto per te, vero?»

«E anche se fosse? È giusto», lo baciai sulle labbra.

«Egocentrica», sussurrò malizioso.

«Sì… lo so.»

«Mamma, papà, usciamo? Ho freddo», disse Alex stringendosi da solo nelle braccia.

«Sì, amore.»

 

«Ciao, ciao. Siamo arrivati», disse Bill tenendo Anto per un fianco. Io e Tom alzammo la testa e li guardammo.

«Ciao!», li salutammo.

«Mamma andiamo sui giochi?», chiese Alex.

«Dai vai, adesso arrivo.»

«No, vengo io. Tu stai qui», mi disse Tom aiutandosi ad alzarsi dalla sabbia appoggiandosi alla mia spalla.

«Come? No, te lo scordi. E io che faccio?»

«Ti ho detto che devi stare qui. Che ne so, rilassati, prendi il sole, fai quello che vuoi, ma con i bimbi ci sto io.»

Ero a dir poco a bocca aperta. Mi misi gli occhiali da sole sulla testa, ma ricaddero quasi subito sul viso.

«Ma io…», balbettai inutilmente.

«Ancora? Smettila. Anto falla restare qui, mi raccomando.»

Raggiunse Stefan e Alex ai giochi e rimase con loro. Io guardai Anto e lei mi sorrise, alzando le spalle. Le alzai pure io e mi misi a posto gli occhiali.

Ero sdraiata su un telo, disteso sulla sabbia, sotto il sole caldo del pomeriggio. In mano avevo la matita e davanti avevo un block notes dove facevo qualche schizzo. Ero intenta a disegnare Stefan e Alex prima dell’arrivo di Bill e Anto, mentre Tom giocava con loro all’ombra.

«Allora che avete fatto?»

«Il solito. Appena arrivati si sono messi a giocare con la sabbia a riva e nemmeno dieci minuti dopo stavamo già facendo il bagno insieme. Che tipetti che sono, tutti loro padre.»

«Concordo perfettamente», disse Anto ridendo e mettendosi seduta sul suo lettino, sotto l’ombrellone, di fianco a me. Alzai la testa e guardai Tom con Alex in braccio, che rideva.

«Non ce la fai proprio a resistere, ne?», disse Bill notando che ogni occasione era buona per controllare.

«No, non ce la faccio. È più forte di me.»

«Io non ti capisco. Sfrutta l’occasione, no?», disse Anto sdraiandosi di lato, con la mano sotto la testa, verso di me.

«È che… mi sembra così strano… Di solito sto sempre io con loro. Devo abituarmi a Tom che si offre per giocarci assieme.»

Mi tirai su e presi l’asciugamano dalla sabbia. Il mio sguardo ricadde ancora su Tom e sui gemellini. Stava andando tutto bene, però continuavo a controllare.

«Adesso basta.»

Scossi la testa e tirai fuori l’iPod dalla mia borsa. Mi sdraiai sul lettino a pancia in giù, mettendo un asciugamano sul ripiano sopra la mia testa, per coprire il viso dal sole.

Dovevo essermi addormentata in quanto non mi ero accorta che Stefan e Alex si erano messi a giocare di fianco a me, con le palette e le formine. Sentii la mano di Tom sul mio fianco e poi vidi la sua testa mettersi vicina alla mia, sotto l’asciugamano.

«Ciao, ti sei addormentata?»

«Mi sa di sì», dissi chiudendo gli occhi.

Tom mi accarezzò la guancia e sorrise. Io gli misi la mano sul collo, poi mi avvicinai a lui e chiusi gli occhi. Mi baciò sulle labbra, poi anche sulla guancia, poi sul collo, sulla spalla. Misi una gamba sulla sua, ridendo. Ci continuammo a baciare sulle labbra, non rinunciando anche a qualche gioco di lingue.

«Andiamo a fare il bagno? Solo noi due… che ne dici? Potrebbe accadere di tutto…», disse con un tono eccitante, da far sciogliere chiunque alla prima parola. Fece scorrere due dita sul mio braccio, accarezzandolo, andando su e giù, lentamente.

«Sì, potrebbe accadere di tutto a Stefan e Alex se li lasciamo da soli», dissi.

«Ma non li lasciamo da soli, c’è Bill.»

«Che cosa?!», rispose prontamente Bill, il che stava a significare che stava ascoltando tranquillamente i nostri discorsi.

«E dai fratellino, lo fai per me? Sì, che lo fai.»

«Ma io non li ho mai tenuti da solo!»

Uscimmo da sotto l’asciugamano e guardammo Bill. Io ero tutta rossa in faccia, non so per quale motivo, e Tom guardava le pesti di fianco a lui.

«Se noi andiamo a fare il bagno voi due promettete di stare qui buoni con lo zio?», chiese Tom.

«Ok, papà.»

«Visto? Che ci voleva?»

Mi accorsi che Anto, sdraiata sul lettino dietro Bill, dormiva beatamente, con una mano sulla pancia.

«Andiamo?», mi chiese prendendomi il braccio e alzandosi in piedi. Io sorrisi e presi la sua mano anche con l’altra, non feci in tempo a dire niente ai bambini che Tom mi stava già trascinando via.

«Certo che quando ti ci metti sei peggio di un bambino!»

«E certo!», disse strappandomi un bacio.

Camminammo in silenzio, sapendo dove andare. Solo le nostre mani unite, intrecciate, rendevano meno faticoso quel percorso.

Mi strinsi nelle spalle e Tom mi passò una mano sul capo mentre chiudevo gli occhi e respiravo l’aria di salsedine trasportata dal vento che mi scompigliava i capelli.

Con un flash ricordai il funerale di Davide, le poche briciole di terra fredda che ero riuscita a far cadere sulla sua tomba, con il vento e la pioggia che frustavano il mio viso rigato dalle lacrime.

«Te l’ho detto che non era cambiato assolutamente nulla», dissi piano, come se non si dovesse parlare in quel luogo.

«E avevi ragione», disse ancora più piano.

Si girò e mi passò la mano sul braccio avviandosi verso gli scogli che dividevano la baia segreta, la nostra, la mia, la sua, dalla spiaggia affollata.

Feci un respiro profondo guardandomi ancora intorno e poi lo raggiunsi, molto semplicemente, senza pensare troppo.

Il vento soffiava e se ti mettevi nella posizione giusta poteva anche farti il favore di spostarti i capelli dal viso. Il mare, di conseguenza, era invaso dalle onde e il suo respiro era forte ad ogni onda infranta sulla riva e sulle rocce. L’acqua inizialmente pareva fredda, ma appena ti ambientavi era stupenda, proprio giusta, ti riparava da quel vento che in confronto sembrava gelido.

Tom mi sorrise e con la mano mi schizzò la schiena.

«No scemo!», urlai cercando di spostarmi dalla sua traiettoria.

Risimo assieme schizzandoci a vicenda. Tom mi prese e mi trascinò dentro assieme a lui, continuando a ridere. Ci guardammo, con l’acqua fino al collo.

«Ma non pensi che sia un po’ fredda l’acqua?», chiese stringendosi le spalle.

«No, ma che dici? È giustissima!»

«Mmm… a me non sembra. Non è che mi riscalderesti un po’?» Si avvicinò a me con il sorriso nascosto nell’acqua.

«Ah, ora capisco tutto», dissi abbracciandolo e aggrappandomi a lui mettendogli le braccia intorno al collo e le gambe intorno alla schiena.

«Tom mi dici una cosa?»

«Certo, cosa?»

«Ci pensi mai a noi due tra trenta, quarant’anni?» Lui mi guardò negli occhi e rise. «Ma che hai da ridere? È una cosa seria!», dissi schizzandolo in faccia.

«Ok, ok. No, non ci avevo mai pensato! Ma tu come mai ci pensi?»

«Boh, mi è venuto in mente ora. Guarda quei due lì.»

Tom si girò e guardò due signori abbastanza anziani entrare nell’acqua chiacchierando.

«Beh, ora che ci penso, saresti una bella vecchietta.»

«Ma grazie! Anche tu», risi e lo schizzai ancora. Lui fece lo stesso, lasciandomi e facendomi andare sotto. Quando ritornai su, mi spostai i capelli dal viso e mi riappoggiai a lui.

«Però anche da quando sono nati Stefan e Alex ho perso un po’ del mio fisico.»

«Ma che dici! Sei una mamma bellissima», mi baciò sulle labbra salate. «Cambiando argomento, non posso credere che Bill e Anto abbiano deciso di non sapere se è maschio o femmina. Visto il curioso che è Bill mi chiedo: per quanto resisterà?»

«Beh, ormai manca poco. E poi scusa, è una loro scelta. Però io lo so.»

«Che cosa? Lo sai?»

«Sì, ero curiosa e così ho chiesto a Mattia. Lo sai che per queste cose non so resistere.»

«Dai allora! Spara! Maschio o femmina?»

«Mmm… non so se dirtelo. Tu te lo faresti scappare e così rovineresti tutto.»

«Dai, prometto che non mi uscirà di bocca, lo prometto. Me lo dici?»

Lo guardai ancora incerta. «Ok, se me lo prometti te lo dico.»

Si portò una mano al petto: «Te lo giuro.»

«È una femminuccia.»

«Non ci posso credere! Bill, avrà una femmina?!»

«Eh sì, a quanto pare lo vedremo intento con vestitini e fiocchi rosa. Ma te lo vedi? Io sì!»

«Sì, ce lo vedo pure io.»

Restammo ancora un po’ in acqua a giocare e a farci gli scherzi, ma anche alternando dei momenti di baci e coccole. Usciti, tornammo all’ombrellone.

«Dai, non ci credo!»

«Sì, credici che è vero!»

«Ma, Bill, è vero?»

Bill ci guardò confuso, mentre prendevamo i teli per asciugarci. Io presi quello di Tom, ovviamente, perché era più grande.

«Oh scema, quello è mio.»

«Sì, lo so che è tuo. Ma ciò che è tuo è mio, e ciò che è mio è tuo, l’abbiamo detto quando ci siamo sposati, non ricordi? Dai, vieni qui.» Tom si avvolse nel telo con me, abbracciandomi.

«Che cosa è vero? Qualsiasi cosa ti abbia detto Tom è una cavolata, lo sai che non devi credere a tutto quello che dice», disse Bill tenendo Stefan tra le sue gambe, appoggiato al suo ginocchio con la schiena.

«Oh sì invece che è vero! Quella volta che mi sei venuto addosso mentre suonavamo. Dimmi se non è vero!»

Bill diventò tutto rosso. «Per forza! Sei sempre in mezzo! Non è colpa mia se quando camminavo tu mi sei passato dietro! Io come facevo a vederti?!»

«Va bè. E poi che è successo?», chiesi incuriosita.

«Ma niente, abbiamo riso assieme ai fans dopo che la canzone era finita, senza interruzioni per fortuna», disse Bill sorridendo a Stefan. Ora che lo guardavo bene, era tutto sporco di gelato intorno alla bocca. E così pure suo fratello Alex.

«Ma cos’avete combinato!? Voi non avete mangiato il gelato, ci avete fatto la guerra!», dissi sorridendo addolcita da quelle due pesti che potevano sembrare angeli.

«Ma Anto dov’è?», chiesi guardandomi in giro.

«Eccomi qua!», disse arrivandomi da dietro e appoggiandomi la bottiglia d’acqua ghiacciata sulla schiena.

«Ah, scema!», saltai e mi aggrappai al braccio di Tom quando lei e Bill ridevano.

Si mise seduta di fianco a suo marito, sorridendo. Guardai ancora i musetti di Stefan e Alex, sorrisi e li presi per mano:

«Andiamo a darci una sciacquata va’.»

 

Rimboccai le coperte a Stefan e Alex, con la luce del comodino accesa. Sorrisi e gli accarezzai le guance.

«Buona notte.» Spensi la lucina e raggiunsi Tom sulla porta.

«Papà, vieni qui un attimo?»

La vocina di Alex ci fece girare e lo guardammo. Riaccese la luce sul comodino e si mise seduto sul letto, batté due colpi di fianco a lui. Tom e io ci guardammo incuriositi e sorridemmo. Tom si mise seduto sul lettino di Alex, lo guardò.

«Mmh? Che c’è?»

Alex mi guardò per un attimo, mentre andavo dietro a Tom e gli mettevo le mani sulle spalle.

«Tu e mamma vi volete bene?»

Tom mi guardò e poi rispose: «Certo, certo che ci vogliamo bene. Perché?»

«Non vi lascerete mai? Come i genitori di un bambino che abbiamo conosciuto ieri, che i suoi genitori non stanno assieme… uno sta in un’altra casa. Non ci lascerete mai, vero?»

«No, staremo assieme a voi, sempre. Per qualsiasi cosa, noi ci saremo.»

Alex sospirò e sorrise. Abbracciò Tom, poi mi fece unire all’abbraccio. Lo guardammo e sorrisimo.

Tom gli prese il viso e lo baciò sulla fronte, chiudendo gli occhi.

«Adesso dormi e non pensarci più», disse sorridendogli.

Alex si mise sotto il lenzuolo e spense la luce, dicendo: «Notte.»

«Buona notte», rispondemmo assieme io e Tom.

Uscimmo dalla loro camera e andammo fuori, in giardino, sotto il portico. Ci sedemmo su due sedie vicine. Ci guardammo, sorrisimo.

«Lo sai che Alex è tutto uguale a te?», disse Tom prendendomi la mano.

«Sì, lo so.»

«Fa dei ragionamenti troppo da grandi.»

«È perspicace.»

«Proprio come la mamma.»

Tom mi prese il viso e mi baciò, mi riempì di baci. Risi e mi riappoggiai allo schienale della mia sedia.

«Domani siamo solo noi, Anto va in ospedale con Bill», dissi.

«Ah è vero, me ne ero dimenticato.»

«Allora oggi ti sei divertito?»

«Tantissimo.»

«Sei stanco?»

«Tantissimo.»

«Perciò?»

«Perciò domani voglio stancarmi e divertirmi ancora di più!»

Risimo. Ci stampammo ancora dei baci sulle labbra, sorridendo, sotto la luce della luna e delle stelle.

«Sai, questa è la vacanza più bella della mia vita», disse accarezzandomi la guancia.

«Perché?»

«Perché stare insieme alle persone che ami è la vacanza migliore, non trovi?»

 

_____________________________________

 

Buonasera a tutti! ^_____^

Siamo al terzo flashback! Questo è uno di quelli che preferisco, spero che sia piaciuto anche a voi! *-*

Ringrazio di cuore Utopy ( mi viene da ridere, ormai xD ) Ti voglio tantissimo bene ( una quantità da impresa multinazionale xD ) e lo dico al mondo, ecchekaulitz ù.u La tua farfallinaaaaaaa *_________*

Ringrazio anche chi ha solo letto, ma una recensione ogni tanto toglie il medico di torno! XD

Alla prossima, ciao! Vostra,

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Capitolo 5
*** 1.4 ***


Buonaseraaaa ^___^ Ecco il quarto flashback!
Ringrazio Utopy per la recensione all'ultimo capitolo. L'hai dovuta addirittura rimandare, hai proprio una santa pazienza *-* Grazie, grazie, grazie. Senza di te sarebbe triste xD Non ti preoccupare che Ary te la farò tornare simpatica, ecchekaulitz >.< Ti voglio tantissimo bene, ranocchietta *-*
Buona lettura! :D

 

___________________________

 

1.4

 

«Mamma! Stefan non mi lascia in pace!»

«Stefan lascia stare tuo fratello.»

«Ma mamma! È Alex che non mi lascia giocare!»

Raggiunsi quelle due pesti di gemelli, mi misi le mani sui fianchi e dissi: «Piantatela tutti e due. Stefan lascia in pace Alex e Alex lascia giocare Stefan. Ok?»

Loro si guardarono, poi guardarono me, facendo la faccina triste.

«Sì, mamma», dissero insieme.

Io tornai nel locale lavanderia a prendere le magliette di quei due demoni. Le misi una sopra l’altra, piegandole. Quel giorno avevo la luna storta, in più avevo un sacco di cose da fare e non mi andava che Tom non mi aiutasse.

«Tom dove sei?»

«Sono di sopra!»

«E cosa stai facendo?»

«Sto… sto lavorando.»

Salii di sopra e lo vidi sdraiato sul letto che guardava la tv.

«E questo lo chiami lavoro?», indicai la tv. Quando mi vide saltò giù dal letto e spense la tv.

«Certo che no tesoro. È che… mi ero preso una pausa.»

«Potresti anche aiutarmi, allora. Non devo fare sempre tutto io!»

«Cosa? Non è vero che fai sempre tutto tu! E poi io ho il mio lavoro, tu il tuo.»

«E quale sarebbe il mio lavoro? La schiava?»

«Tom! Sei un idiota!», gridò Anto dalla camera accanto. «Cosa urli, hai svegliato Sharon!»

Alla fine era nata lei, Sharon, una bellissima bambina, dopo il tanto temuto matrimonio. Bill e Anto non avevano voluto sapere in anticipo di che sesso era e così, il giorno della sua nascita, fu tutta una sorpresa.

Bill era arrivato di corsa in ospedale e l’infermiera gli aveva dato Sharon in braccio. «Congratulazioni, è una femminuccia.» Così gliel’aveva detto. Bill non aveva parole, l’unica cosa che disse fu: «Allora è una femmina.» Era contentissimo. 

«No, la schiava è eccessivo. Però io ho bisogno di rilassarmi ogni tanto, sono sempre impegnato. Quindi…», disse più piano.

«Mamma!»

Chiusi gli occhi e lasciai scendere le braccia lungo fianchi. Scesi giù, tornai dai bambini, li raggiunsi sul tappeto

«Che cosa c’è?»

«Io ho fatto come hai detto tu, ma Stefan ora mi ha preso tutti i giochi e non mi lascia giocare!», stava già assumendo la faccia da pianto, e subito suo fratello si mise a prenderlo in giro.

«Alex è una femminuccia, Alex è una femminuccia…»

«Stefan, perché dici così? Ma non potete giocare assieme?»

Stefan si fece improvvisamente più serio, guardò il fratellino quasi in lacrime e lo abbracciò teneramente: infondo anche lui era un tenerone, come suo padre.

«Scusa fratellino, non lo faccio più.»

«Va bene, pace.»

«Pace.»

Sorrisero e si misero a giocare assieme, felici. Sorrisi anch’io e li baciai sulla testa, poi andai verso la cucina. Ma, prima che ci arrivassi, sentii Anto scendere dalle scale con Sharon in braccio.

«Ehi Ary, cos’è successo?», mi chiese.

I gemellini guardarono verso le scale e si alzarono, incominciarono a saltellare da quanto erano contenti di vedere Sharon. Anche lei saltellava nella braccia della mamma. Lei sorrise e la fece scendere, per farla andare a giocare con i bambini, che la accolsero come una principessa.

«Ma niente, non è successo niente», dissi andando in cucina.

«Invece no, se Tom urlava così forte da svegliare Sharon.»

«Ma niente, gli avevo chiesto se mi aiutava, ma… non importa», alzai le spalle e sorrisi appoggiando la testa sulla spalla.

«Sicura che non importa?»

«Sì. Piuttosto, Bill? Non doveva tornare?», gettai un’occhiata all’orologio.

«No, è dovuto restare ancora. Questa sfilata gli sta togliendo il respiro, è agitatissimo, te ne sarai accorta.»

«Sì, vero.»

 

Tom entrò in camera, mi trovò sul letto, già sotto le coperte, intenta a leggere e a scarabocchiare con la matita sui bordi delle pagine fin troppo bianchi con una matita. Lo guardai per un attimo, lui mi sorrise e chiuse la porta. Si avvicinò al letto, si mise di fianco a me appoggiandosi con un gomito al materasso.

«Piccola, mi dispiace per oggi. Ci ho pensato su e non è giusto. So che fai tante cose per noi. Senza di te come faremmo? Sarebbe la fine del mondo!»

«Sarebbe così grave?»

«Sì! Tu non puoi nemmeno immaginare. Ma mi vedi da solo con quelle due personificazioni del diavolo? Perciò… scusami. Cercherò di aiutarti per quello che posso. Questo è poco ma sicuro. Allora, credi di potermi perdonare?»

«Mmm… non so… vedremo…», dissi sorridendo. Tom sorrise e mi abbracciò, iniziò a baciarmi il collo.

«E dai, non fare così, lo so che mi perdoni», disse ridendo e baciandomi. Io risi, perché mi faceva il solletico. Mi agitai nel letto cercando di togliermelo di dosso, ma lui non si staccava, quella testa dura.

«Ok, ok! Ti prego basta! Ti perdono.»

«Brava la mia piccolina», mi baciò le labbra.

«Dai Tom, è meglio se andiamo a dormire, no?» Lui scosse la testa schioccando la lingua in senso di negazione.

«Papà? Mamma? Che cosa state facendo?», chiesero Stefan e Alex, entrati in camera come fantasmi, né io né Tom li avevamo visti, e sembravano anche abbastanza spaesati.

«Piccolini, che ci fate ancora in piedi?», chiesi togliendomi di dosso Tom.

«Non riesco a dormire», dissero tutti e due. Loro si guardarono e si fecero la linguaccia. Saltarono sul letto e arrivarono da noi a quattro zampe, veloci. Io e Tom ci guardammo e sorridemmo.

«E va bene, ma solo per questa sera», disse Tom facendoli mettere in mezzo a noi. Accarezzò i capelli biondi di quei due diavoletti travestiti da angeli, spostandoli dalla fronte, prima dell’uno e dopo dell’altro. Era sempre così affettuoso con loro, un papà da dieci e lode; era la versione marito che a volte faceva le bizze. Ma non importava molto, tornavamo sempre sul binario giusto, insieme.

«Mamma, papà, perché prima eravate così?» Stefan abbracciò il fratello, ma non lo baciò sulla bocca, fece finta. Io e Tom risimo, mente Alex cercava di liberarsi da quel piccolo maniaco.

«Perché quando due persone, una ragazza e un ragazzo, si vogliono bene, fanno così. Si abbracciano e si baciano, si dice così», spiegò Tom. Come la sapeva lunga su quell’argomento.

«Ma… allora vuol dire che devo baciare Sharon?», chiese Alex ancora perplesso.

«No, lei è tua cugina. Quando crescerai capirai meglio, è difficile da spiegare.» I due annuirono con la testa.

«Allora voi fate sempre così?», chiese ancora Stefan.

«Sì», dissi annuendo vivacemente con la testa.

«Fa un po’ schifo», disse Alex.

«No, ma perché? Invece è bello. Ve l’ho già detto, da grandi capirete», disse Tom.

«Mmh, se lo dici tu.»

Alex si accucciò di fianco a Tom; Stefan fece lo stesso, però con me, trovandosi schiena contro schiena con il gemello. Quella posizione mi ricordò quando erano nella pancia che a volte si giravano così, forse in un loro lato inconscio si ricordavano e stavano bene in quel modo.

«Ah, quasi mi dimenticavo, mi è venuta in mente una cosa», esordì Tom.

«Wow, è già la seconda volta che usi il cervello oggi!», dissi scherzando. Alex e Stefan fecero una risatina.

«Piccola ingrata!», scatenò una battaglia di solletico e me li ritrovai tutti e tre addosso. Rischiavo di morire dal ridere e sicuramente non ci sarebbe stata morte migliore: quanto amavo i miei tre uomini, erano tutta la mia vita.

«Non riesco a respirare!», dissi con il fiato mozzato, le lacrime agli occhi. «Ma vi amo.»

«Anche noi ti amiamo, mamma!», incorarono Stefan e Alex, abbracciandomi per il collo e stampandomi tanti baci sulle guance, facendomi sentire in paradiso. In più, la mano di Tom si strinse intorno alla mia e lessi nel suo sguardo e nel suo sorriso la sua risposta molto più che affermativa.   

«Comunque, pensavo che sabato potrebbero venire anche loro al concerto, così magari…»

 Stefan e Alex saltarono in ginocchio sul letto prendendo la maglietta di Tom, gridando contenti:

«Davvero? Davvero, davvero? Davvero, davvero, davvero? Sì papà! Possiamo? Eh, possiamo? Possiamo?»

Tom sorrise e li fece calmare, mettendoli di nuovo seduti sul letto.

«Calmatevi piccole pesti. Dobbiamo prima vedere che dice mamma», disse. Così me li ritrovai aggrappati alla mia di maglia.

«Dai mamma! Dai, possiamo? Ti prego!»

Parlavano benissimo assieme, ma lo facevano così bene che sembrava che parlasse uno solo: le loro voci si univano perfettamente, anche perché erano molto simili. In effetti, riuscivi a distinguerli solo dopo averli conosciuti bene, dal carattere, completamente differente.

«Io non saprei… Siete ancora piccoli per tutto quel casino.»

«Ma mamma! Uffa.»

«E va bene! Per me va bene», dissi sconfitta. Stefan e Alex mi saltarono addosso e mi abbracciarono entusiasti. Tom rise e mi guardò sorridere, mentre coccolavo quei cucciolotti, i nostri cucciolotti. 

«Però adesso tutti a nanna.»

«Sì», dissero i gemellini. Si misero ancora schiena contro schiena, sotto le coperte, in mezzo a me e a Tom.

«Buona notte», disse Tom spegnendo la luce.

«Buona notte», dissero i bimbi.

«Buona notte», dissi io dopo aver rubato un bacio a Tom, che sorrise.

«Lo avete fatto ancora! Che schifo», disse Stefan. 

«Fatti gli affari tuoi», dissi mettendomi di fianco a lui.

«Ok, notte.»

«Notte.»

Quella notte feci un sogno bellissimo. Io e Tom eravamo sdraiati sull’erba fresca, all’alba, guardavamo il cielo, in verità non lo guardavamo perché avevamo gli occhi chiusi, ma era stupendo. Non parlavamo, ma era come se lo facessimo, ogni tanto sorridevamo cercandoci le mani a vicenda, e ce le stringevamo forte prima di sorridere di nuovo.

Nonostante la tranquillità, la serenità e la bellezza di quel sogno, mi svegliai con tutti dei dolori alla schiena. Ero sul bordo del letto, ancora qualche centimetro e mi ritrovavo a terra, e avevo un braccio di Stefan addosso. Alex non era tanto meglio, era tutto addosso a suo padre, lasciando il mezzo del letto completamente vuoto, in quanto anche Tom tra poco cadeva. Tra tutti e tre non sapevo chi fosse il peggiore.

Spostai delicatamente il braccio di Stefan e mi alzai, li coprii e misi meglio Stefan e Alex. Quando tolsi Alex da Tom, lui riprese a respirare.

«Grazie mille», sussurrò.

Stese le braccia richiedendo un abbraccio e l’ottenne, poi si alzò assieme a me. Andammo in cucina, dove ci saremmo risvegliati del tutto con una bella dose di caffeina.

Mi toccai le spalle abbassando la testa, mentre la macchina del caffè faceva il suo dovere. Tom si avvicinò e mi prese le spalle.

«Anche io uguale. Mi chiedo solo quanto riuscirò a resistere», disse ridendo.

Mi appoggiai a lui, mentre mi massaggiava le spalle. Chiusi gli occhi e mi lascia andare. Anche lui doveva essersi appoggiato a qualcosa, aveva una presa un po’ troppo solida per essere solo mattina.

«Dormito?», chiesi parlando a bassa voce.

«Qualche ora, nulla di più.»

«Anche io. Avevo Stefan sempre addosso e si agitava da morire. Volevo andarmene sul divano, però non avevo la forza e la voglia necessarie per alzarmi.»

«Io invece non riuscivo perché avevo paura di, uno, cadere dal letto; e due, di far male ad Alex, anche lui era sempre appiccicato a me, se non addirittura sopra.»

«Sono i rischi del mestiere.»

«Il mestiere del genitore, quello più duro del mondo.»

«Proprio così, ma noi ce la caviamo bene. Facciamo cambio?», gli chiesi.

«Sì, ti prego.» Mi misi dietro di lui a massaggiarlo. «Che poi se mi fanno male le spalle è un casino… senza come faccio a suonare?», disse sbuffando.

«Lo so», dissi confortandolo. «Siediti che riesco meglio.» Lui si mise seduto sulla sedia di fronte a sé, appoggiandosi con la testa in mezzo alle braccia sul tavolo, chiudendo gli occhi.

«Però, ammettilo: che vita sarebbe senza di loro?»

«Una noia mortale», disse sorridendo.

«Lo puoi ben dire.» Accennammo entrambi una risata.

Mi allontanai un secondo per prendere il caffè. Gli misi la tazza davanti, baciandolo sulla guancia, poi mi misi seduta di fronte a lui, presi la tazza con entrambe le mani e ci guardai per un attimo dentro.

«Ma Bill fa la mia stessa vita?», chiese. «Nel senso…», bevve un sorso del suo caffè. «Anche lui ha a che fare con due presenze malefiche come quelle che dormono nel nostro letto?»

Trattenni un sorriso. «Non credo. Però devo ammettere che anche lui ha le sue fatiche. Ora che è anche stilista non è facile. Prima c’era solo la musica, ora pure la moda, poi ci sono sempre Antonia e Sharon, non che siano un peso. Però è dura anche per lui.»

«Non reggerebbe un giorno con Stefan e Alex», disse dopo aver bevuto a lungo.

«Può darsi. Ma secondo me, dietro quella faccia angelica, anche Sharon dev’essere un peperino. Se ha preso dalla madre, che assomiglia alla sottoscritta, dev’esserlo per forza.»

«Dici?»

«Secondo me sì. Mi ricordo ancora quando da piccola ne combinavo di tutte i colori. Una volta mi sono messa a colorare, solo che il foglio non mi bastava, così ho fatto un bel murales in salotto. Papà ha dovuto far ridipingere quella parete», dissi ricordando una parte della mia infanzia felice, quella minima parte.

«Allora eri un demone pure tu!»

«Scommetto che anche tu lo eri.»

«Hai vinto la scommessa, non era così difficile da intuire. Io e Bill ne facevamo davvero di tutti i colori, ma soprattutto usavamo l’inchiostro nero con i professori. Che spasso.»

«Ecco. Abbiamo creato due piccoli mostri a nostra immagine e somiglianza.»

«Ne sono poco orgoglioso su questo aspetto.»

«Eh, in effetti… però sono nostri, è questo che conta no? Gli voglio bene lo stesso, anche se facessero un bel murales con l’inchiostro nero sul muro del salotto.»

«Hai fatto un misto!»

«Ciò che è stato mio, ciò che è stato tuo, ora è loro. Loro sono un misto di noi due.»

«Oh mamma, noi due non dobbiamo fonderci mai più!», disse Tom sorridendo.

«Tom.»

«Eh?»

«Ti ricordi che giorno è vero?», chiesi seria.

«Perché? Che giorno è? Il tuo compleanno non è, nemmeno il nostro anniversario. Che giorno è oggi?» Aveva pensato anche all’anniversario della morte di Davide, ma non lo disse, era certo che non fosse quel giorno.

«Tom, la sfilata.»

Tom si mise le mani in faccia. «Oggi, la sfilata. È vero, che scemo. Non me ne sono ricordato per niente. Menomale che ci sei tu.»

«Eh, senza di me come faresti? Ora me lo chiedo pure io», dissi andando al lavandino.

«Merda, la sfilata. E io sono a pezzi. E dopodomani c’è il concerto. Senza contare che domani ci sono le prove generali. Oh merda, che casino.»

«Visto? E pensa se dovessi organizzarla tu la sfilata. Saresti morto. Perciò Bill ne ha eccome di fatiche.»

«Sì, vero. Hai ragione. Quand’è?»

«Alle cinque.»

«E Stefan e Alex?»

«Lo sai come la penso. Dovranno venire con noi per forza.»

«Sì, giusto. Perciò abbiamo ancora tutto il giorno, ma dovremo uscire prima, visto che Bill va lì prima, dovremo esserci anche noi, perciò abbiamo solo la mattinata. Ora che prepariamo Stefan e Alex, e poi noi…»

Abbracciai Tom da dietro e lo baciai sulla guancia. «Tesoro, calmati, non agitarti. Andrà tutto come al solito, non preoccuparti. Ora vai a farti una doccia e ti rilassi, ok? A Stefan e Alex ci penso io.»

«Ok, grazie. Sai che ti amo?»

«Sì che lo so», lo baciai.  

 

Dopo la sfilata eravamo tutti distrutti, così tornammo tutti a casa: io, Tom, i gemelli, Bill, Anto e Sharon.

«Bill, complimenti. Sei stato bravissimo, come al solito. Gli abiti, l’organizzazione…», dissi anche se più che altro dormivo semisdraiata sul divano, accanto a Tom.  

«Le modelle», mugugnò Tom con il sorriso sulle labbra e gli occhi chiusi.

«Tu spera che Stefan e Alex non abbiano preso da te, se no ti appendo a testa in giù e ti lascio lì», tentai di colpirlo con il braccio, ma era tutto inutile, ogni singolo muscolo si opponeva.

«Sono condannato.»

«Pensa che nel backstage, c’erano anche Christin e Anne e loro due erano gli unici maschietti: i beati fra le donne. Mi ha fatto piacere incontrare Gustav e Georg, con mogli al seguito e bambine. Ma solo noi ce li siamo beccati i maschi, Tom?»

«A quanto pare.»

Bill, intrappolato felicemente nei milioni dei complimenti che aveva ricevuto quel giorno, sorrise e chiuse gli occhi passando la mano tra i capelli sciolti di Anto, che rise e si lasciò accarezzare.

Stefan e Alex erano calmissimi, sia per fattore sonno che per fattore Sharon, sempre quando c’era lei nei paraggi lo erano.

«Comunque, Bill, abbiamo deciso», disse Tom.

«Deciso cosa?»

Eravamo tutti con un piede nel mondo dei sogni, lo si poteva facilmente notare anche da come parlavamo lenti e da come capissimo poco alla volta, eravamo come delle radio che a volte prendevano e a volte no, andavamo ad intermittenza.

«Verranno con noi a vederci, Stefan e Alex.»

«Sul serio? Allora avremo un pubblico da far tremare le ginocchia! Non è vero, piccole pesti?»

«Sì, non vedo l’ora», disse Stefan. Se non fosse stato già attaccato da Morfeo avrebbe iniziato a saltellare e a gridare, cosa che non fece.

«Sono troppo calmi, eh?», disse Anto facendomi l’occhiolino.

«Sì, tra un po’ si addormentano. Peccato che siano così solo quando hanno sonno.»

 

***

 

«Bambini andate a dormire.»

«Ma mamma non abbiamo sonno!»

«Guardate che se non andate a dormire, domani non reggete.»

Era finalmente arrivato il momento, l’indomani ci sarebbe stato il concerto, il primo concerto a cui avrebbero assistito Stefan e Alex. Ero tesa e allo stesso tempo emozionata come se fosse anche la mia prima volta.

«Giusto bambini, ascoltate la mamma. Anche noi andiamo a dormire adesso», disse Tom prendendo in braccio Stefan, che baciò sulla guancia, mentre quest’ultimo rideva. 

«Ok, papà, va bene», disse Alex sconfitto.

Lo presi in braccio e li portammo tutti e due in camera loro. Li misimo nei loro bei lettini e gli rimboccammo le coperte, com’eravamo soliti fare tutte le sere. Tom guardò Stefan, già partito, poi guardò Alex, che lo guardava a sua volta.

«Che cosa c’è Alex?», chiese mettendosi seduto di fianco a lui sul letto. Alex si mise seduto e allungò le braccia. Tom si avvicinò, si lasciò abbracciare e anche lui abbracciò il piccolo corpicino di Alex.

«Papà, ti voglio tanto bene.»

«Anche io te ne voglio tanto, ma te ne vorrei di più se adesso ti mettessi a dormire», disse scherzando.

«Idiota», mormorai tirandogli un colpetto sulla spalla; Alex rise e si rimise sdraiato nel letto.

«Buona notte.»

«Buona notte papà, buona notte mamma.»

 

***

 

«Quando inizia, mamma? Io sono stufo di aspettare!»

«Un po’ di pazienza Stefan! Ecco, ecco papà.»

Uscirono dalla stanza in cui erano rintanati da più o meno mezz’ora e si fermarono davanti a noi. Alex e Stefan si attaccarono uno per gamba a Tom. Lui sorrise e mi guardò, sorrisi anch’io.

«Ma ciao cuccioli! Anche voi qui?»

«Sì, papà ha detto che potevamo venire.»

«Ma non devi credere a tutto quello che dice papà.»

«Zitto Georg! Cosa gli insegni?!», rispose Tom spingendolo.

I due risero e poi Tom si mise in ginocchio sul pavimento, di fronte a Stefan e Alex, gli accarezzò i capelli e sorrise.

«Mi raccomando, fate i bravi.» Li baciò sulla testa, mi stampò un bacio veloce sulle labbra e sorridendo raggiunse Bill, già in testa a tutti, mettendosi la chitarra al collo.

«Dai bambini, adesso inizia e noi abbiamo i posti d’onore.» Sorrisi e loro corsero verso di me, anzi, corsimo assieme a vedere il concerto.

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Capitolo 6
*** 1.5 ***


1.5

 

«È tutto pronto?», chiesi guardando Tom che girava per la stanza facendo mente locale di ciò che aveva messo nelle cinque valige sparse sul pavimento: cosa poteva averci dentro lo sapeva solo lui.

«Ehm… sì, dovrei avere tutto.»                 

Mi avvicinai, guardandolo comprensiva, un debole sorriso sulle labbra: «Sei sicuro di voler venire? Cioè… ce la fai ad arrivare in tempo?», gli sistemai la felpa sulle spalle e il colletto. Fece un sorriso e mi stampò un bacio sulle labbra.

«Non perderei mai questo momento. E per il resto, non ti preoccupare, in qualche modo ce la farò, vedrai.»

«Va bene.» Lo guardai negli occhi, cercando di nascondere quella malinconia che mi aveva assalita come sempre ogni volta che doveva andare via per un po’. Ormai mi conosceva troppo bene per non riuscire a leggermi dentro con un solo sguardo.

«Dai, vieni qui.» Mi abbracciò sorridendo, tenendomi forte a sé, dondolando piano da una parte all’altra. Strinsi i pugni sulla sua schiena, tenendogli la felpa, nascondendo il viso nel suo petto.

«Sempre la stessa, eh? Non cambi mai. Dai Ary, sono solo tre settimane, forza.»

«La fai sempre troppo semplice tu. Sono pur sempre tre settimane. E che ci posso fare: se mi manchi, mi manchi. Mi raccomando.» Lo guardai seria, prima di baciarlo.

E ogni volta che lo baciavo? Oh, era sempre la solita scossa elettrica, come se fosse la prima volta, come se ci fossimo appena conosciuti.

Eppure il tempo era passato, ora eravamo genitori, avevamo importanti responsabilità sulle spalle, ma nonostante tutto la nostra passione, il nostro amore incondizionato l’uno verso l’altro non svaniva mai, anzi sembrava sempre più rafforzarsi.

«Ok, anche tu.» Ci strinsimo ancora forte. «Dai, meglio svegliarli.»

«Sì, sarà il caso. Stefan, Alex, sveglia.»

Erano sdraiati di traverso l’uno sopra l’altro nel lettone, mezzi coperti e mezzi no. Quando erano così, mi ricordavano un sacco Tom. Lui si mise seduto sul letto, fra i gemelli.

«Ti ricordi quando sono venuti al concerto?», ridacchiò passando delicatamente la mano fra i capelli di Stefan. «Li hai persi di vista un attimo e sono corsi in mezzo al palco.»

«Per raggiungere il loro papà e vederlo da vicino», continuai sorridendo, sedendomi al suo fianco e appoggiandomi a lui, che mi massaggiò il braccio. «È stato divertentissimo.»

«Puoi scommetterci.» Si sporse su di me e mi baciò delicato le labbra, accarezzandomi il viso con la mano. «Mi mancherete tantissimo, come sempre.»

Stiracchiai un sorriso e gli presi il viso fra le mani ricambiando il bacio con un po’ di passione in più. Tre settimane intere senza di lui… Avevo passato mesi senza vederlo, eppure quel tempo che ci avrebbe separato colpiva con violenza il mio cuore facendolo sussultare. Sapevo che con Stefan e Alex sarebbe passato in fretta, ma non potevo… non riuscivo a scacciare via quella paura che mi assaliva ogni volta che Tom se ne andava per gli impegni con la band. La mia paura, la stessa che si accaniva sempre dentro di me da quando erano nati i gemelli.

«Andrà tutto bene, Ary. Non ti preoccupare, sei una mamma perfetta! Non ti stanchi mai di sentirtelo dire?»

«La paura di comportarmi come mia madre è irrazionale, prende sempre il sopravvento, Tomi.»

«Scacciala via, quella bestia di paura. Tu sei più forte.»

Sorrisi e annuii. «So di esserlo. Solo che mi sento meno potente senza di te.»

«Se potessi ti metterei in valigia con questi due», sfregò il naso con il mio e mi fece ridere.

«Tom, posso chiederti una cosa?»

«Dimmi.»

«Trovi che io sia cambiata, in questi anni?»

«Cambiata? In che senso?»

«Da quando sono nati Stefan e Alex. Che ne so, a volte mi sembra di non riuscire più a rilassarmi con loro, troppo impegnata a gestire la mia paura di fallire come madre, tanto da sembrare rigida… Potrei risultare anche antipatica, magari.»

«Che cosa? Tu non sei antipatica! Chiunque sia il pazzo o la pazza che ti ha messo questa pulce nell’orecchio non è assolutamente vero. Tu sei una mamma perfetta e prendi sul serio il tuo ruolo quanto basta, quanto devi. Non sei per niente cambiata, sei sempre la solita ragazzina… solo che sei più matura e con delle responsabilità in più», sussurrò prima di baciarmi ancora, sorridente; riuscì perfettamente a rassicurarmi, come solo lui sapeva fare, e a farmi sospirare di sollievo.

Quanto lo amavo non lo sapeva nemmeno Dio.

«Ora è meglio se li svegli davvero, Tom. O faremo tardi», ridacchiai indicando i gemelli che ancora dormivano al nostro fianco.

«Sì», rise. «Piccole pesti, sveglia, che chi dorme non piglia pesci.»

La peste più tranquilla, Alex, si rigirò nel letto mugolando, mentre il fratello sembrava ancora del tutto addormentato.

«Ehi?», li chiamò ancora Tom baciandoli sulle guance di continuo, sorridendo. Anche loro sorrisero, il sorriso identico a quello del padre, e lo abbracciarono per il collo, trattenendolo vicino a loro.

Tom si lasciò andare e appoggiò la testa sul cuscino, in mezzo a loro, con le lacrime agli occhi, sentendo quel calore e quel profumo ancora così da bambini.

«Papà, piangi?», chiese Stefan.

«Eh? No, non piango.» Tom sorrise e guardò i gemelli nel letto, vicini e sorridenti. «Pazzesco. Crescete così in fretta… Sembra ieri il giorno in cui siete nati.»

In effetti era così. Non sembrava nemmeno passato tutto quel tempo, eppure passavano gli anni e non ce ne rendevamo conto.

«Sì papà, lo dici sempre», ridacchiò Alex.

«Sì, lo so. Allora muovetevi ad andare di là, perché sto per dirlo di nuovo.»

I gemelli sorrisero e si alzarono dal letto correndo, andando in giro per la casa. Sentimmo le voci di Bill, Anto e la tenera vocina di Sharon, in cucina, che li salutavano. Io e Tom ci guardammo e sorrisimo.

«Possibile? Già a scuola?», mi chiese lui appoggiando i palmi delle mani l’uno sopra l’altro.

«Eh sì, sei anni, caro mio. Ma anche a me vengono questi dubbi, è normale.» Risimo e raggiungemmo gli altri.

 

«Allora, qui è tutto pronto. Adesso entriamo, e poi…»

«Bill, rilassati. È tutto a posto, mmh?»

«Ok Tom, l’hai vinta tu.» Bill guardò la piccola Sharon fra le proprie braccia, sorridente. «Ciao amore, ma come sei bella!», la baciò sulla guancia facendola ridere.

«Papà», disse prendendo una ciocca dei suoi capelli scuri e tenendola fra le dita. «Perché dovete partire?» Sharon guardò gli occhi del padre, un po’ triste.

«Perché dobbiamo andare a suonare, assieme a Gustav, a Georg… E non è vicinissimo il posto. Per questo dobbiamo.»

«Ma io non voglio che vai via», abbracciò Bill mettendogli le braccia intorno al collo affettuosamente. Bill le sistemò il vestitino viola che aveva addosso, sorridendo con amarezza.

«Amore, ma papà torna presto, non ti lascia.»

«Me lo prometti?»

«Certo! Non lascerei mai la mia bambina!», rise e le baciò ancora la guancia facendo lo stupido.

«Allora, andiamo?», li invitai ad entrare prendendo Stefan e Alex per le spalle e sorridendo.

«La tortura comincia, ragazzi.»

«Tom! Non dire così!»

Tom sogghignò e si beccò una pacca sul braccio da parte mia.

Entrammo nel grande salone della scuola, dove già c’era il pieno di bambini e i loro genitori.

«Come mai tutta sta gente? Siamo in ritardo?», mi chiese Tom guardandosi intorno.

«No, siamo in orario.»

Dovevano smistare tutti i bambini nelle classi, facendo una specie di estrazione, perciò non sapevamo nemmeno se i gemelli sarebbero rimasti assieme oppure divisi e messi in due classi differenti.

Tom guardò l’orologio e poi guardò Stefan e Alex, seduti per terra nelle prime file, che aspettavano l’annuncio dei propri nomi.

«Uffa, ma quanto ci mettono?»

«Tom, calmati. Sono tanti bambini, ma vedrai che ce la fai.»

«E se non ce la faccio?»

«Pazienza, ti farai raccontare.»

«Ma una cosa è vederli, un’altra è farselo raccontare.»

«Lo so Tom, lo so. Ma che ci vuoi fare? Dai, tranquillo», gli sorrisi e gli strinsi la mano mettendo il braccio intorno al suo.

«Tom, dobbiamo andare», sussurrò Bill al fratello, amareggiato. «Che cosa? Di già?»

«La macchina è già fuori che ci aspetta.»

«Ma… ma adesso tocca a loro! Un secondo.»

Tom fece in tempo a vedere i gemelli alzarsi in piedi e raggiungere sorridenti i loro nuovi compagni di scuola, davanti a tutti i genitori. Tom mi stampò veloce un bacio sulle labbra e lo stesso fece Bill, solo sulla guancia, dopo aver baciato moglie e figlia. Salutarono con la mano i gemelli, soffiandogli dei baci e poi scapparono via.

Che ci potevano fare? Era la loro vita.

 

***

 

«Mamma, quando torna papà?», si lamentò.

Sfregai la testa ad Alex per spargergli lo shampoo. Erano tutti e due nella vasca da bagno, che appunto stavano facendo il bagno. Alex era tutto pieno di schiuma, dappertutto, persino sul naso; Stefan continuava a schizzare il fratello e a ridere come un matto. Quella risata così simile a quella di suo padre.

«Vi manca proprio tanto, vero?», dissi sciacquandomi le mani nell’acqua calda, con un sorriso amaro sulla bocca.

«Sììììììì! Anche zio.»

«Immagino. Pensate, io ho passato mesi senza vederli, quando ero più piccola. Ormai ci ho fatto l’abitudine, però mancano tanto anche a me, ogni volta come se fosse la prima. Dai, vieni qua che ti sciacquo.»

Lavai la schiuma ad Alex e li tirai fuori dalla vasca, mettendogli i piccoli accappatoi azzurri. Si misero in piedi sul letto, a saltare e a scherzare assieme, facendo una specie di lotta in mutande.

Li guardai sorridendo e mi chiesi come sarebbe la mia vita se loro non fossero nati. Era così difficile da immaginare che ridacchiai e mi unii alla loro lotta senza pensarci, incominciando a fargli il solletico che soffrivano esattamente come me.

«Mamma, ci leggi una storia prima di andare a dormire?», chiese Alex dopo aver ripreso fiato. Io ancora ridevo, paonazza, come Stefan. Eravamo tutti e tre sdraiati sul letto a pancia in su, felici, anche se sentivamo la mancanza di Tom.  

«Quale?»

«Che domande, la solita!»

«Ma ormai la sapete a memoria!»

«Fa niente, noi vogliamo quella. E dai mamma, ti prego.» Stefan si mise in ginocchio sul letto, con le mani unite. Io sorrisi e lo bacia sulla testa, sui capelli biondi ancora umidi.

«E va bene, ma a patto che vi vestiate. Non voglio mica due bambini raffreddati in casa.»

«Ok.» Mi abbracciarono contemporaneamente e mi stamparono un bacio sulla guancia a testa, facendomi sentire la donna più felice del mondo; ciò che ero, dopotutto.

Si vestirono e ci misimo tutti sul lettone, io in mezzo ai gemelli, con le loro teste sulle braccia, che guardavano le figure sul libro.

«Mamma, sei la migliore a fare le voci dei personaggi! Li imiti bene! Fai ridere!»

«Grazie, ma anche papà è bravo! Quando ve lo legge lui non fate altro che ridere!»

«Sì, ridi pure tu!»

«Vero.»

«Buona sera, si può?» Tom sorrise, aprendo la porta giusto quello che bastava per entrare.

«Papà!» I gemelli si alzarono di corsa dal letto e lo abbracciarono.

«Ciao piccoli!»

«Tom! Ma tu… qui?», mi alzai anch’io e lo abbracciai. Eravamo tutti e tre attaccati a lui.

«Mi mancavano gli abbracci collettivi», rise. «Sì, siamo tornati prima. Contenti? Sono qui con voi!» Si inginocchiò e abbracciò meglio Stefan e Alex.

«Sì!», saltellarono nelle sue braccia.

«Che stavate facendo?», chiese tirandosi su di nuovo, tenendo i fratellini per le spalle.

«Mamma ci stava leggendo una storia.»

«Ma davvero? Suppongo che sia sempre la solita, ci ho azzeccato?», mi sorrise e mi stampò un bacio sulle labbra.

«Sì, papà! Continui tu?» Stefan salì a gattoni sul letto e prese il libro, che poi diede a Tom.

«Stefan, papà sarà stanco…», dissi guardandolo.

«No, no, fa niente.» Tom sorrise e saltò sul letto. Si sdraiò e aprì il libro dove eravamo arrivati noi. «Allora… Ah sì.»

Stava iniziando a leggere, con ai lati i gemelli, quando mi vide in piedi, ancora vicina alla porta.

«Dai, vieni qua.»

Batté due colpi di fianco a Stefan. Sorrisi e li raggiunsi sul letto. Stefan mi salì sopra, sdraiato fra le mie braccia, così che riuscissi a vedere anch’io: quando si trattava di queste cose ero quasi più bambina io di loro.

 

Tom chiuse il libro e si guardò intorno, appoggiandolo al petto. Soffocò una risata, ma non il sorriso che gli comparve sulle labbra. Si tirò su seduto sul letto e ci guardò dormire, felice. Come al solito lui doveva andare a dormire nella camera di Stefan e Alex, chiaramente. Ma non gli importava, era bello essere di nuovo a casa.

Ci mise sotto le coperte, coprendoci con cura, guardando quella che era una parte della sua stupenda famiglia, tutto ciò che lo rendeva felice, tutto ciò che trovava dopo un concerto, un tour; l’amore di cui aveva assoluto bisogno, la sua dipendenza.

Si alzò dal letto e spense la luce del comodino. Stava per uscire dalla stanza, quando alzai un po’ la testa e lo chiamai: «Tom, dove vai?»

«A dormire.» Mi raggiunse di nuovo e si mise seduto accanto a me, rimboccandomi meglio la coperta fin sotto al mento. «Dormi, buona notte.» Mi diede un bacio sorridendo e poi si alzò di nuovo. Io gli presi la mano, mi guardò e io sorrisi.

«Ti vogliamo bene. Notte.»

«Certamente, lo so, non ne ho mai dubitato. Notte.»

 

___________________________________________

 

Buonasera a tutti!

Siamo al 5 flashback, il prossimo sarà l’ultimo e poi si torna al presente, gente! (:
Allora, allora, allora. Non ho molto da dire xD Passo subito ai ringraziamenti, è meglio!

Utopy: No, tu non scherzi a dire che Ary ti sta antipatica e questo mi rende triste ç_ç Ma non mi arrendo, sai?! Guarda che ti ho combinato in questo capitolo xD Ary chiede a Tom se è antipatica! Ora ti sta simpatica? No? ç_ç Beh, prima o poi ti starà simpatica! .-.
Guarda, solo per te ho aggiunto il dialoghino sulla corsa dei gemellini in mezzo al palco al concerto xD Così sai pure cos’è successo *-*
Grazie, grazie, grazie! Grazie fatina di bosco, ti voglio tantissimissimo bene! Un bacio grande come un castello? xD *______* ©

niky94: Uuuuh, ciao! *-* Sei tornata! Beh, meglio tardi che mai! ;D Grazie mille per la recensione!

Ringrazio tantissimo anche chi legge soltanto e chi ha messo questa ff fra le preferite e le seguite! ;D
Alla prossima! Con affetto, vostra

_Pulse_

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Capitolo 7
*** 1.6 ***


1.6

 

«Eccovi qua! Ciao amori!», li baciai sulle guance, prima l’uno, poi l’altro.

«Ciao mamma.»

«Ciao mamma!», ricambiò gioioso Stefan, con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia.

«Che è successo? Come mai così contento?», chiesi sorridendo curiosa.

«No, niente.»

«Ehi, a chi la vuoi dare a bere?», dissi accarezzandogli la guancia.

«Mamma…»

«Ah, ok, è vero scusa.»

Ne avevamo già parlato: rispetto della privacy. Oddio, ero pur sempre loro madre! Però mi sarei incavolata parecchio con la mia se mi avesse fatto tutte quelle domande. Con lei non c’erano mai stati problemi di quel genere, visto che non mi degnava mai di attenzioni. Era anche per questo che ne avevamo parlato con loro, non volevo fare come mia madre, noi avevamo fatto un patto e lo avrei mantenuto.

«Sicuro che non me ne vuoi parlare?»

Stefan sorrise e mi abbracciò. Io gli accarezzai i capelli biondi, arruffandoglieli un po’.

«Forse più tardi, ok?»

«Ok, benissimo. Sai che sono curiosa!» 

«Sì, lo so mamma. Sharon?»

«È di sopra.»

Alex prese il succo dal frigo e se ne versò un po’ nel bicchiere, poi fece la stessa cosa con un altro bicchiere.

Stefan si avvicinò e bevve il suo succo. Si capivano al volo, proprio come Bill e Tom: era proprio vera la storia sui gemelli.

«Com’è andata a scuola?»

Vidi ancora quel sorrisetto comparire sulle labbra di Stefan, mi ricordò molto Tom: quei due erano tali e quali.

«Tutto bene. Ho preso il punteggio massimo in matematica!», disse Alex saltellando sul posto. Mi chiesi che cosa c’era dentro quel succo.

«Davvero? Bravissimo!» Si avvicinò e si lasciò abbracciare e baciare sulla testa.

«Ah, mamma, piuttosto», Stefan si girò sul posto e mi guardò negli occhi, identici ai miei.

«Sì, dimmi.»

«Papà ha già chiamato?»

«No, ancora no, perché?»

«Così. Va bene, andrò a fare i compiti.»

Che cosa? Stefan che faceva i compiti? C’era qualcosa che non andava.

«Alex, mi dai una mano con matematica?»

Che cosa? Stefan che chiedeva aiuto a suo fratello per fare i compiti, di matematica per giunta? C’era sicuramente qualcosa che non andava.

Li guardai salire di sopra allibita, chiedendomi sul serio che cosa fosse successo. Potevo pensare a mille cose, ma nessuna mi convinceva. Il telefono mi distrasse.

«Pronto?»

«Ciao piccola! Come stai? E i gemelli? Anto, Sharon?»

«Ciao Tom! Tutto bene, stiamo tutti alla grande. Solo che Stefan mi preoc–» Proprio lui mi fregò il telefono dalla mano, strappandomelo quasi via. Se lo mise all’orecchio e urlò:

«Papà!»

«Ciao Ste! Come va?»

«Benissimo papà, devo dirti una cosa.» Stefan mi guardò e mi fece segno di uscire dalla cucina. Io sorrisi e me ne andai in salotto, sul divano.

«Ah, ok, dimmi tutto.»

«Sì… io… esco con una ragazza.»

«Davvero? Ma è bellissimo!»

«Sì, lo so. È bellissima lei.»

«Quando ci esci?»

«Stasera. Tu ci sei vero, per quell’ora?»

«Sta… stasera hai detto?»

«Sì, stasera. Non ti ricordi che mi avevi detto che saresti tornato oggi pomeriggio? Dove sei, in aeroporto?»

Tom fece un respiro profondo. «Sì, mi ricordo. Cucciolo, mi dispiace tanto, ma… non ci sarò stasera, torniamo tra una settimana. Mi dispiace, lo so che te l’avevo detto, ma sono state aggiunte altre date, non lo sapevamo neppure noi.»

«Papà, stai scherzando, vero?»

«No Stefan, scusami. Non volevo.»

«Papà, me l’avevi promesso! Me l’avevi promesso!»

Mi girai e guardai gridare Stefan al telefono, tutto rosso in viso. Mi alzai e lo raggiunsi, cercai di accarezzargli la guancia, ma lui si spostò e mi allontanò la mano bruscamente.

«Lo so Stefan, mi devi perdonare!»

«No, papà! Tu mi hai mentito, me l’avevi promesso!»

«Stefan, io…»

Stefan non lo lasciò nemmeno finire di parlare, sbattè il telefono sul marmo della cucina e corse fuori trattenendo le lacrime e nascondendo gli occhi dietro la frangia bionda. Almeno non gli aveva sbattuto il telefono in faccia…

Fuori dalla cucina si scontrò violentemente con la povera Sharon che passava di lì anche un po’ per caso, saltellando con le cuffiette dell’iPod nelle orecchie. Lei si tirò su da terra e mi guardò togliendosi una cuffia, come per dire: Ma che è successo?

Presi il telefono: «Tom, ma che è successo?»

Sharon si era avvicinata e mi aveva messo una mano sul braccio, come per confortarmi, ma non ero io quella che doveva essere confortata.

«Un casino, è successo un casino.»

«C’era Stefan che urlava come un matto, dicendo: Tu mi hai mentito, me l’avevi promesso.»

«Sì, gli avevo promesso di tornare oggi, e così doveva essere! Ma David, ieri, ci ha detto che hanno aggiunto altre date, quindi torneremo la settimana prossima!»

«Ah, ho capito. Però Tom, sai com’è il tuo lavoro, e sai come sono Stefan e Alex, non devi promettere se sai che poi magari non puoi mantenere.»

«Sì, lo so benissimo Ary, è inutile che ti metti pure tu a farmi le prediche.»

«Tom, non ti sto facendo nessuna predica. L’unica cosa che ti voglio far capire che ora Stefan è deluso, aveva bisogno di te. Penso.» Tom rimase un po’ in silenzio dall’altra parte. «Tom, hai capito?»

«Sì, ho capito. Scusa Ary, non volevo arrabbiarmi con te, è che… mi sento così stupido.»

«Che farai adesso?»

«Non lo so, adesso ci penso. Vedrò di risolvere la situazione.»

«Va bene. Tom, non ti preoccupare, andrà tutto a posto. Sono cose che capitano, si superano.»

«Ok. Ah, Ary…»

«Dimmi.»

«Non smetterò mai di ringraziare il cielo per averti mandata giù da me, ti amo.» E così, attaccò, non lasciandomi nemmeno il tempo di rispondergli, di ricambiare, di dirgli qualsiasi cosa.

Guardai felicemente ma non molto sorpresa il telefono e mi portai una mano al cuore. Perché Tom era così, sapeva essere tenero e romantico come e quando voleva, bastava solo che lo volesse.

«Zia, che ha detto?», mi chiese Sharon con quella faccia ancora così da bambina.

Le sorrisi e le stampai un bacio sulla fronte, poi lasciai il telefono sul tavolo e salii le scale per andare da Stefan, per vedere come stava. Era chiuso in camera sua, da solo. Aveva cacciato pure Alex, il povero Alex che si stava facendo i fatti suoi.

«Stefan! Fammi entrare! Questa non è solo camera tua, è anche mia! Non puoi lasciarmi fuori!»

Presi Alex per le spalle e lo spostai dalla porta, avevo paura che la buttasse giù a calci.

«Calmati Alex, Stefan non sta tanto bene, lascialo in pace.»

«Che gli è successo?»

«Ha avuto una discussione con papà.»

 

***

 

Lo sapeva, ci avrebbe scommesso. Lui e le sue scuse. Anche se gli avesse detto la verità, non gli importava. Non era più importante lui? Forse no.

Lanciò la pallina da tennis sul muro di fronte al letto, dove era sdraiato lui, con tutta la forza e la rabbia che aveva in corpo. Aveva bisogno di lui e lui non c’era.

Guardò la pallina cadere a terra e allontanarsi verso la scrivania. Non aveva la minima voglia di alzarsi, quindi la lasciò rotolare via. Non aveva praticamente voglia di far niente.

Sentì il cellulare suonare al suo fianco. Lo guardò un attimo, giusto il tempo di leggere Papà sul display. Si girò dall’altra parte e lo lasciò suonare. Non aveva nemmeno voglia di sentirlo, lo aveva tradito.

Quando finì di squillare, gli arrivò un messaggio. Sta volta prese il cellulare in mano e lo lesse:

 

Scusa Stefan, mi devi perdonare, ma non è colpa mia, è il mio lavoro.

 

Certo, perché il suo lavoro era più importante di lui?

Lanciò il cellulare contro il muro, senza paura che si rompesse. Aveva tentato in mille modi di farlo fuori, di spaccarlo in due per averne un altro più bello, ma inutilmente, sembrava stregato: non si rompeva mai. Quindi non c’era pericolo.

Soffocò un urlo nel cuscino e si agitò sul letto in preda ad una crisi di rabbia, poi sentì qualcuno bussare alla porta.

«Stefan, per piacere, mi apri?»

«No.»

«Ma dai Stefan, dovresti saperlo: sono cose che possono capitare, sai com’è il lavoro di tuo papà.»

«Mamma, lasciami in pace!»

«No, voglio parlarne con te, come abbiamo sempre fatto. Non fuggire, piuttosto sfogati. Però voglio vederti in faccia, quindi aprimi.»

Stefan fece un respiro profondo e si alzò dal letto, arrivò alla porta e la aprì. Vide anche Alex accanto a me, appoggiato alla ringhiera che dava sul salotto al piano di sotto. Mi indicò di entrare e io in silenzio entrai nella stanza. Quando richiuse la porta, mi girai e lo guardai.

«Stefan…»

Raccolse la pallina da terra e si mise sulla sedia girevole della scrivania, a gambe aperte, posizione molto da Tom. Stefan era la sua copia, se non fosse stato per gli occhi azzurri, sarebbero stati identici: stessi atteggiamenti, stessi modi di fare, stesso modo di parlare, stesso sorriso. Aveva preso molto da lui, molto più di Alex. Fece un giro sulla sedia, lo sguardo assente. Mi misi seduta sul letto.

«Io ti capisco, più di quanto tu credi.»

«Davvero?»

«Sì, davvero. Anch’io ci sono passata, e prima era peggio.»

«Peggio?»

«Proprio così. Passavano settimane, se non mesi, prima di rivederci. Tu hai tredici anni, io ne avevo quindici, ma ci siamo. Facevano molti più concerti, erano sempre in giro per il mondo. Io non potevo seguirli, avevo la scuola, la mia vita… Ci sentivamo solo per telefono, e non era il massimo. Quindi stai pur certo che so cosa si prova, come ci si sente. Sembra che tutto il resto sia più importante di te, vero?» Stefan annuì piano con la testa. «Ma non è così, non è affatto così. Tom, vostro papà vi vuole un bene dell’anima, farebbe di tutto per voi, ma non può sempre fare i salti mortali, devi capirlo Stefan. Non è facile da accettare, ma è così. Non c’è momento in cui lui non vi pensi, me lo dice, ve lo dice sempre. Stefan, lo sai questo, no?» Ancora un leggero movimento con la testa. «Vieni qui, cucciolo.»

Stefan si alzò a testa bassa e si tuffò tra le mie braccia. «Volevo che papà ci fosse: è la prima volta che esco con una ragazza che mi piace sul serio.»

«Ah, allora è per una ragazza! Chi meglio di Tom può darti una mano?» Ci misimo a ridere e io gli arruffai i capelli biondi sulla testa. «Vedrai, andrà bene comunque. Sei bellissimo così anche senza l’aiuto di papà, le conquisti tutte!»

Si mise ancora a ridere e mi abbracciò per il collo. «Grazie mamma, ti voglio bene.»

«Prego tesoro, anch’io te ne voglio tanto.» Mi alzai dal letto e prima di uscire lo guardai e sorrisi.

 

Continuava ad andare su e giù per la cucina, teso. Si controllava nelle tasche: il cellulare indistruttibile, le chiavi di casa, il portafoglio… Mancava qualcosa, ne era certo. Quando gli venne in mente si diede un colpo in fronte e corse su in camera sua. Raggiunse il suo comodino e si mise seduto sul letto. Aprì il primo cassetto e sorrise vedendolo lì: il suo portafortuna, un plettro nero e rosso che gli aveva regalato suo papà. Se lo mise in tasca e scese di sotto di nuovo correndo. Era davvero emozionato. Non pensava di farcela senza di lui.

«Sbaglio o è teso al massimo?», mi sussurrò Anto mentre le passavo i piatti.

«Sì, abbastanza.»

Alex e Sharon erano ancora seduti al tavolo, che stavano giocando con un paio di dadi che avevano trovato infondo ad uno dei cassetti della cucina.

Mentre ognuno stava facendo qualcosa, chi emozionato e chi no, sentimmo un clacson molto familiare suonare. Tutti ci guardammo in faccia, anche Stefan che si era catapultato in cucina. Lo presi per le spalle e corsimo alla porta. Vidimo la macchina scura di Tom fuori dal cancello, lui dentro che continuava a suonare.

«Stefan muoviti! O non ci vai più all’appuntamento?», gli gridò abbassando il finestrino.

«Papà?»

«Dai Stefan, muoviti! E divertiti!», lo spinsi sorridendo e lui corse alla macchina, sulla quale saltò su in un batter d’occhio.

Tornai dentro e guardai gli altri in salotto.

«Beh?», mi disse Alex.

«Beh, avete un papà mitico.»

 

***

«Papà! Ma che ci fai qui?!», lo abbracciò e lo strinse forte. Tom sorrise e ricambiò la stretta, chiudendo gli occhi e sentendosi felice.

«Ehi, ma hai messo il mio profumo?» Stefan rise e annuì. «Bravo, ottima scelta. Allora, dove devo portarti?»

«Aspetta! Non mi hai risposto!»

«A che cosa?»

«Che ci fai qui?»

«Come che ci faccio qui? Sono venuto per te! Ho sbagliato a prometterti che sarei tornato, non dovevo farlo. Non posso mai sapere se posso mantenere le promesse con il lavoro che faccio. Mi dispiace Stefan.»

«Fa niente papà!» Lo abbracciò di nuovo, non voleva più staccarcisi. «Ma adesso come farai? Cioè… non avevate altri concerti?», lo guardò in faccia.

«Stefan», gli accarezzò la guancia fresca e morbida. «Per voi questo ed altro, non mi importa. Ho preso il primo volo e per tornare farò esattamente la stessa cosa! Non ti preoccupare. Quindi? Dove ti devo portare? Voglio proprio vederla questa ragazza!» Stefan sorrise e lo abbracciò ancora. Tom rise piano e gli diede un colpetto sulla schiena. «Dai, allora?»

«Cinema!», disse Stefan allacciandosi la cintura.

«Cinema? Uff, sempre negli stessi posti. Ma, in fondo, siete ancora bambini, ci sta! Andiamo!» Tom mise in moto e andarono diretti al cinema.

Scesero dalla macchina e si appoggiarono al cofano.

«A che ora dovevate incontrarvi?», chiese Tom guardando l’orologio.

«Alle otto e mezza.»

«Ah, allora c’è tempo.» Guardò il figlio e sorrise. «Com’è questa ragazza che tanto ti fa disperare?»

«Disperare? Io non mi dispero certo per una ragazza!»

«Sì, vabbè», sventolò la mano. «Com’è?»

«È… mora, ha gli occhi castani, è… è bella, papà!»

«Uhm. Bravo, vedo che stai crescendo.»

«In che senso?»

«Che inizi già ad uscire con delle belle ragazze, proprio come me alla tua età!» Si guardarono negli occhi e risero.

«Papà, posso chiederti una cosa?»

«Certo.»

«Prima, in macchina, quando hai detto del cinema, degli stessi posti… Che intendevi?»

«Intendevo che quando si cresce, si va anche lontano per la persona che si ama.»

«E tu con la mamma?»

«La mamma?», rimase a guardare il cielo sorridendo, ricordando.

«Sì, la mamma dove l’hai portata?»

«Beh, visto che spesso ero in viaggio con la band, non ci sono stati dei veri e propri appuntamenti, delle uscite. Era più lei che seguiva me. Ecco. Non abbiamo mai avuto delle cose programmate, capitava così. È stato bello quando siamo andati in Francia, oppure a Los Angeles. Sì, è stato uno spasso!»

«Ah, ho capito. E al cinema non siete mai andati?»

«Al cinema? Al cinema… sì e no», sogghignò pensando che comunque le poche volte che ci eravamo andati non avevamo mai visto la fine di un film. «Di solito prendevamo i film e li guardavamo la sera in albergo, sempre se io non ero troppo stanco e crollavo!»

«Wow. Siete forti, tu e la mamma.»

«Eh già. Ma allora la tua amica arriva? Sono le nove meno un quarto!», disse Tom guardando incredulo l’orologio al polso. Stefan sgranò gli occhi e tirò fuori il cellulare.

«È vero! Papà, credi sia in ritardo? La provo a chiamare?»

«Tentar non nuoce.»

Stefan la chiamò, ma non rispose la prima volta; alla seconda aveva il cellulare spento.

«Ok, è ufficiale Stefan.»

«Che cosa?»

«Questa è la tua prima volta in cui in una ragazza ti da buca! Batti il cinque!»

«E c’è da rallegrarsi? Mi sento uno schifo.»

Tom lo prese per le spalle e sorrise. «Ma che schifo e schifo! Non sa che si è persa, peggio per lei! Ancora non sa che sarai il ragazzo più adorato e figo quando diventerai un po’ più grande!»

«Lo dici solo per farmi sentire meglio.»

«Ma figurati! È la pura verità! Lo so perché sei mio figlio, sei come me! Basta piangerci su, tanto quella non ti sarebbe piaciuta, me lo sento. Era il vostro primo appuntamento?» Stefan annuì. «Ecco, quelle che danno buca al primo appuntamento sono solo senza cervello, ecco cosa sono! E adesso muoviti.» Lo prese per il polso e se lo portò dietro.

«Ma dove andiamo?»

«Al cinema! Ci vediamo un film io e te, che ne dici?»

Stefan lo guardò e sorrise: «La trovo un’idea super!»

Entrarono insieme nel cinema e rimasero a guardare i titoli dei vari film che scorrevano sul monitor.

«Allora? Quale ci vediamo?», chiese Tom.

«Quello», indicò Stefan.

«Quello? Ma sei sicuro? Non fa troppa paura per te?»

«Per me? Ma per chi mi hai preso papà? Per un bambino? Paura a me, ma per favore.»

Entrarono e si misero nell’ultima fila, con popcorn e Coca Cola alla mano. C’era qualcosa di migliore nel vedere un padre e il proprio figlio assieme al cinema? Magari dopo che il figlio era stato penosamente scaricato in silenzio? Proprio no!

Alla fine del film tornarono a casa e Stefan si infilò subito a letto. Tom si mise seduto accanto a lui.

«Che cosa c’è, Stefan?»

«Volevo dirti grazie, per essere venuto, per essere stato un po’ con me.»

«Oh, di niente cucciolo», lo abbracciò e lo tenne stretto a sé anche mentre parlavano.

«Adesso te ne vai di nuovo?», gli chiese Stefan.

«Purtroppo devo.»

«Mi mancherai papà.»

«Anche tu mi mancherai tanto. Come farò senza i miei…»

«Non dire cuccioli, non siamo più piccoli!»

«Ok, va bene. Come farò senza di voi?»

«Non ci sei abituato?»

«Dovrei, ma non ci riesco mica sempre.»

«Mamma dice che ci assomigliamo tanto.»

«E non è forse vero?» Si guardarono in faccia e un secondo dopo Stefan si nascose di nuovo nell’incavo della spalla di Tom, stringendogli forte i pugni sulla schiena.

«Stefan, non fare così. Sei grande ormai, o no?»

Stefan tirò su con il naso e si asciugò gli occhi. «Ok papà.»

«Bravo. Ti voglio bene. Adesso dormi, buona notte. Ci sentiamo domani mattina.» Tom si alzò e gli diede un bacio sulla guancia, poi si girò e lo diede ad Alex che già dormiva nel suo letto.

«Mi raccomando, fate i bravi con la mamma. Quando io e Bill non ci siamo siete voi i capo branco.»

«Ok, papà», ridacchiò. «Buona notte.»

Stefan si mise sotto le coperte, ma Tom dovette intervenire per disincastrarlo. Era una scena comica in piena regola. Sorrise e gli accarezzò i capelli biondi, guardò quegli occhi azzurri e quel sorriso birichino.

«Uguali a vostra mamma», disse piano Tom ridendo fra sé.

Si avvicinò alla porta e stava per spegnere la luce in corridoio, quando Stefan richiamò la sua attenzione: «Papà?»

«Dimmi.»

«Puoi lasciare acceso?»

Tom sorrise e scosse la testa: «Io te l’avevo detto che quel film faceva troppa paura per te.»

«Continua a crederlo papà, sarai perfetto!» Stefan rise piano per non svegliare il fratello e salutò il padre: «Buona notte.»

«Buona notte Stefan, salutami Alex. Vi voglio bene.»

Tom lasciò la porta un po’ aperta, giusto per far entrare nella camera un filo di luce. Si girò e mi vide appoggiata allo stipite della nostra camera.

«Ehi, ancora sveglia?» Mi abbracciò e mi baciò sulle labbra.

«Sì, dovevo salutarti.» Lo presi per mano e sorrisi ancora sulle sue labbra, poi scesimo di sotto. Davanti alla porta gli sistemai il colletto della felpa e dopo averlo guardato negli occhi lo abbracciai mettendogli le braccia intorno al collo.

 

«Ehi Alex! Ehi! Svegliati!»

«Uhm, che cosa vuoi?»

«Muoviti, vieni.»

Lo strattonò per il pigiama e lo buttò giù dal letto, trascinandoselo dietro. Lo portò in corridoio, vicino alla ringhiera delle scale da cui si poteva vedere di sotto. Rimasero in silenzio a guardarci davanti alla porta.

«Hai fatto una cosa bellissima oggi, davvero. Sono fortunati ad avere un papà come te.»

«A volte mi sembra di perdermi così tanto di loro, mi sembra quasi di fargli un torto non standogli vicino tutti i giorni.»

Gli accarezzai la guancia. «Tom, ma cosa dici? Sei un papà fantastico, tu fai di tutto per loro, sei molto più presente tu che viaggi per lavoro che molti papà che sono sempre a casa, davvero.»

Tom sorrise accarezzandomi le guance e mi portò il viso vicino al suo, esitò un attimo, poi chiuse gli occhi e mi baciò.

«Tom, adesso che farai?» Lui non mi rispose, sorrise e continuò a baciarmi. «Tom! È una cosa seria!», risi.

«Uhm, ancora non lo so. Prendo il primo aereo per Madrid e raggiungo gli altri. L’importante è che li raggiungo.» Mi abbracciò e si appoggiò con il mento alla mia spalla, chiudendo gli occhi. Ci cullammo un po’ così, dondolando da una parte all’altra lentamente.

«Hai visto come si fa con le donne, Alex?», disse Stefan a bassa voce dando una gomitata al fratello, che subito si lamentò e si massaggiò il braccio.

«Sì, lo so. Intanto a te stasera ti hanno dato buca, quindi…»

«Ma ho visto un film fighissimo con papà, eh. Te lo dimentichi? È stata una delle sere più belle della mia vita. Per ora…»

I gemelli risero piano e si appoggiarono con le spalle alla parete, poi ritornarono a guardare.

«Allora vai?», gli dissi. Lui prese la maniglia della porta.

«Sì, ci vediamo fra una settimana, ok? Non te lo prometto però!»

«Bravo, non devi illudermi», risi e lo bacia ancora sulle labbra.

«Mi aspetti?», mi chiese sorridendo.

«Ovviamente. Fai buon viaggio, mi raccomando stai attento. E…»

«Sì, domani mattina chiamo. Lo so, lo so, non ti preoccupare. Ciao, ci sentiamo.»

«Mm-mm», annuii. «Ti amo.»

«Anch’io.» Mi baciò un’ultima volta e uscì.

Salì in macchina e lo guardai andare via nella notte, stringendo il ciondolo con la chitarra nera che avevo al collo. Sorrisi alzando il viso verso le stelle e la luna e rientrai in casa. Mi sistemai i capelli su un’unica spalla e salii le scale. Vidi Stefan e Alex che stavano per entrare in camera loro in punta di piedi.

«E voi che ci fate ancora in piedi?», dissi.

«Ehm…»

«È stato Stefan, io dormivo, è lui che mi ha svegliato, è colpa sua.»

«Ma grazie Alex! Direi che sei un fratello che mi copre sempre! E menomale che siamo gemelli!»

«Ma che c’entra? Se siamo gemelli non vuol dire che mi devi coinvolgere sempre nelle tue cose!»

«Ok, ragazzi, ragazzi», mi misi in mezzo e li divisi. «La colpa non è di nessuno. Adesso filate a letto, che è tardissimo.»

«Ok mamma.» Mi baciarono sulle guance e li guardai ritornare nei loro letti dalla porta. «Buona notte.»

«Ah, mamma.» Mi girai e li guardai. «Papà bacia bene?»

Io sorrisi a Stefan e piegai la testa sulla spalla. «Tu non sai quanto. Buona notte.» Spensi la luce.

 

____________________________________________

 

Eccoci qua! Buon pomeriggio a tutti. Allora, allora… Questo capitolo come vi è sembrato? *-* E’ l’ultimo della serie flashback, dal prossimo lunedì saranno più o meno tutti concentrati sul presente, ripartendo da dove ci eravamo lasciati all’epilogo :)

Spero vi sia piaciuto, Tom è davvero tenero con i suoi “cuccioli”, farebbe di tutto per loro! *ç*
E anche Ary, diciamolo, è tenera! U_U Chi non vorrebbe una mamma così? Che rispetta la privacy xD e che va a parlare e a confortare quando ce n’è bisogno, in un rapporto d’uguaglianza e non di superiorità e di tirannia ù.u

Bene, detto questo mi ritiro xD Anzi, prima ringrazio le squisite persone che hanno commentato lo scorso capitolo, rendendomi felicemente felice *-*

niky94: In effetti qui ha nevicato o.o XD Grazie mille, bacio!

Utopy: Tu mi rendi infelice e inconcludente ç_ç Io metto tutto il mio impegno per farla divertente, simpatica, ma sei una testa di cocco, eh? >.< Vorrei proprio sapere che cos’ha fatto questa poveretta per starti antipatica quando prima era il tuo mito ù.ù Bah, sarà xD Comunque, a parte questo imperdonabile… imperdonabile xD non posso non volerti bene! Va oltre ogni mia capacità u__u 
Beh, almeno ti stanno simpatici tutti gli altri xD A discapito della povera Ary, la pecora nera xD Magari non finisse mai ç__ç Beh, sicuramente non finirà, perché finirà soltanto quando chi legge smetterà di ricordare questa storia *-* Spero proprio mai!
Ti voglio tantissimissimo bene, fedele! You’re the best u.u ©  

Tokietta86: Esatto, meglio tardi che mai! *-* Grazie mille per tutti i complimenti, sono contenta che tu abbia deciso di recensire e poi che ovviamente ti piaccia :D Spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto! A presto!

Ringrazio anche chi ha messo questa storia fra le preferite e le seguite e chi ha letto soltanto!
Alla prossima, con affetto, vostra

_Pulse_

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Capitolo 8
*** Runaway with my heart ***


Runaway with my heart
Runaway with my hope
Runaway with my love

 
( Wherever you will go - The Calling )

 

 

Capitolo 2
Runaway with my heart

 

Per la strada, guardando le vetrine, vidi dei vestiti da neonati carinissimi. Era un peccato che i nostri figli fossero cresciuti così in fretta, mi mancavano quelle cose. Ormai erano già autonomi e ogni attenzione in più riservata a loro la prendevano come un’offesa, per così dire, come se fossero ancora bambini. Io mi sarei sentita uguale a loro. Per fortuna c’era Sarah che voleva sempre più coccole di quelle che riceveva, non le bastavano mai.

Stefan era il tipico ragazzo bello che le conquistava tutte: non studiava molto, si curava il look, era simpatico ed era un gran figo. Caratterialmente, come tutto del resto, era uguale a suo padre.

Alex invece era il suo opposto: un ragazzo sensibile, che andava bene a scuola, timido con le ragazze, ma comunque bello come suo fratello, anche lui aveva un certo fascino, quello dell’innocente. Identico a me.

Mi venne da sorridere quando un altro flashback mi colpii in pieno: era così nitido da poterlo scambiare per la realtà.

Eravamo sul divano, io, Tom e i bambini. Giocavamo ricoprendoli di baci e loro ridacchiavano.

«Tom, ormai non dovrebbero parlare? Hanno già sette mesi! Alex dì mamma, mam-ma.»

«Piantala Ary, quando parleranno parleranno. Non vedo perché dobbiamo farci 'sti problemi. Tanto diranno prima papà. Papà, Stefan, papà. Dillo, e dai.»

Lo guardai a bocca aperta: «E menomale che non dovevamo farci questi problemi.»

Tom rise, risi anch’io. Vedendoci, Stefan e Alex iniziarono a saltare sulle nostre gambe, ridacchiando come solo loro sapevano fare.

«Ma che belli i miei amori!» Mangiai con un bacio la pancia ad Alex, facendogli il solletico. Lui ridacchiò ancora e più forte di prima. Lo misi sdraiato sul divano e andai un attimo in cucina.

«Mam-ma», balbettò quando guardandosi intorno non mi vide.

Tom scattò in piedi e lo guardò, io corsi di nuovo in sala, sentendo la parola magica.

«Ha detto mamma! Ha detto mamma! Non ci posso credere!»

Tom mi abbracciò, con Stefan in braccio: «Sì, l’ha detto!»

Presi Alex in braccio e lo baciai sulla guancia un po’ di volte. «Amore!»

Andai di sopra da Bill e Anto, li guardai felicissima. «Indovinate? Alex ha detto mamma

Corsero ad abbracciarlo, Bill lo prese in braccio.

«Ma che bravo!»

Quella fu la prima parola di Alex, e Tom che era tanto sicuro che avrebbe detto papà. Però ci era andato vicino, infatti lo disse come prima parola Stefan. Tom era andato in giro per la casa saltellando con Stefan fra le braccia. Non capivo chi era il più bambino tra i due. Era stato davvero bello, come quando i gemelli mossero i loro primi passi: avevano circa un anno.

Ero sul tappeto in sala, con i bambini. Vidi Stefan, il più intraprendente, tutto suo padre, tirarsi su aggrappandosi al divano e fare qualche passo da solo.

«Tom, oddio Tom corri a vedere! Muoviti!»

Tom corse da me, seguito anche da Bill e Anto. Vide Stefan camminare verso di lui. Quando arrivò alla sua gamba, Tom scoppiò a ridere e lo prese in braccio.

«Ma quanto sei bravo! Alex, tu che fai?»

Lo misi in piedi, lui ci rimase per qualche secondo, ma poi cadde di nuovo con il culo sul tappeto. Risi coprendomi la bocca.

«Niente, hanno tempi diversi.»

Entrai in casa con Sarah fra le braccia circa dieci minuti prima che tornassero da scuola Stefan e Sharon, senza Alex. Non vedendolo, all’inizio mi spaventai, ma poi mi ricordai che doveva uscire con la famosa ragazza. Sharon aveva ancora la faccia triste di quella mattina. Io non sapevo come comportarmi, aveva detto che non ne voleva parlare, ma non riuscivo a starmene con le mani in mano.

«Ciao ragazzi, com’è andata a scuola?»    

«Bene.»    

«Oggi siete di molte parole, vero?»    

«Mamma, siamo appena tornati da scuola, non puoi pretendere di parlare di scuola.»   

«Beh, allora parlate di qualcos’altro.»

Sharon si diresse verso il frigo, lasciando la cartella in mezzo alla porta della cucina. Prese il succo di frutta e se lo versò nel bicchiere.

«Oh mamma, te l’ho mai detto che Alex non ci sa fare con le ragazze?», prese Sarah e se la mise sulle gambe.  

Sharon si stava per strozzare, ma si riprese in fretta per non farlo notare.

«Sì, un sacco di volte, ma io non ci credo. In fondo è sempre figlio di Tom!»   

«Prima o poi ti farò ricredere. Per esempio, oggi l’ho visto con la tipa, a scuola, e si tenevano per mano. Ma che teneri, dirai, invece no! Quella ragazza si sentiva in imbarazzo a tenergli la mano in corridoio! Li guardavano tutti! Che ridere.»    

«Non ti sarai messo a ridere di fronte a tuo fratello, vero Stefan Kaulitz?!»    

«No, mamma. Io li spiavo soltanto dalla mia classe.» Lo fulminai con lo sguardo. «Ma scherzavo mamma! Li ho visti per caso, non gli ho detto niente.»

Sharon era diventata ancora più triste, anche Stefan se ne era accorto. Fece finta di niente e cambiò argomento.

«Ah, Sharon! Zio mi ha detto che domani c’è la sua sfilata e che devi venire per fare le foto.»
Sharon aveva la testa chissà dove. Quando faceva così era tale quale a suo padre.
«Uhuh? Sharon? Dove sei? Torna tra noi!»

Sharon lo guardò e tornò sulla terra. «Eh? Sì, ok. No! Non va bene! Domani doveva venire lo zio Georg! Doveva farmi vedere delle nuove cose con il basso!» 

«Ci ha già parlato zio con lui: ha rimandato tutto a dopodomani.»  

«Ah, allora ok.» 

«Va bene.»

Stefan non riusciva a vedere Sharon in quello stato, sembrava in depressione! Così cercò di tirarla un po’ su di morale con una delle sue battute cretine.

«Stefan, mi sembri tuo padre quando fai così», dissi.

«Non so che fare! Dai Sharon, sorridi un po’!»

Lasciò Sarah seduta sulla sedia e prese in braccio Sharon e la portò in giro per casa a testa in giù; lei che continuava a gridare: «Stefan! Lasciami!» E rideva. «Sei un idiota!»

Dopo averla lasciata le porse la cartella. «Tieni, vai a studiare.»   

«Sarebbe ora che lo facessi anche tu, vero signorino?!»  

«Mamma! Non mi chiamare signorino! Fa schifo!»    

«Io ti chiamo come voglio. E poi, com’è andata la verifica di matematica?»

Stefan guardò Sharon impaurito e poi corse su in camera sua gridando il solito: «Non mi ricordo!»

Io sorrisi e guardai Sharon: c’era qualcosa che non andava, ne ero certa; le era tornata la faccia triste.

Prese il suo zaino e andò anche lei di sopra. Lo buttò per terra e si tuffò sul letto. Si perse nei suoi ricordi, guardando le foto con Stefan e Alex, pensò a tutti i bellissimi momenti passati con loro. Prese la foto secondo lei più bella di tutte e la guardò per un’infinità di secondi. Piangeva e rideva allo stesso tempo. Lanciò la foto dall’altra parte del letto e si mise un cuscino in faccia, per continuare a piangere senza che nessuno se ne potesse accorgere.

Finito lo sfogo, prese il basso e iniziò a fare qualche nota. Iniziò a comporre una melodia senza nemmeno rendersene conto, ma dopo la prima strofa, prese un foglio e iniziò ad appuntarsela. Continuò fino a tardi, fino a quando non decise di inventarsi delle parole, solo allora si concentrò anche sul testo, che le venne fuori quasi da solo. Ogni tanto si fermava, suonava e cantava la strofa e poi continuava.

Verso le undici di sera aveva finito tutto, ma la canzone non era bella solo con il basso, però decise di registrarsi lo stesso. Prese il cellulare e registrò la prima strofa della sua canzone. Era la prima volta che ne faceva una, era particolare anche il momento in cui l’aveva scritta: il suo cuore era in conflitto con la razionalità del suo cervello. Si era presa una cotta per Alex, suo cugino, e solo a pensare che aveva la ragazza la faceva soffrire. Quel suo male interiore, in un certo senso, lo aveva fatto uscire con quella canzone.
Stava per iniziare la seconda strofa, quando in camera sua entrò Bill.

«Ehi piccola, è molto che ti sei barricata qui... Hai anche saltato la cena... Che fai?»

Sentendolo, si spaventò e si gettò sugli spartiti che aveva appena scritto, non pensando al testo che era caduto per terra, di fianco al letto. Lo vide troppo tardi, suo padre lo aveva già preso in mano e lo stava già leggendo.
Bill si fermò e sollevò lo sguardo su una Sharon già in lacrime.

«Non dovevi vederlo. Non dovevi!» Glielo strappò dalle mani e corse giù, con il basso e gli spartiti.

Passò accanto un po’ a tutti e corse fuori in giardino. Si mise seduta di fronte alla piscina e rimase lì a piangere.

«Non è giusto. Questa cosa è totalmente illogica! Non può essere, è assurdo!»

Prese in mano gli spartiti e li guardò. Si asciugò gli occhi e prese la penna che aveva in tasca. Si mise il tappo in bocca e fece delle modifiche qua e là: le era impossibile non finire la canzone, l’attrazione era troppo forte.

 

«Bill, ma cosa è successo? Abbiamo visto Sharon correre fuori piangendo.»

Bill era sceso giù in sala e ora Anto gli stava chiedendo il perché del comportamento di Sharon. Deviò le domande, l’unica cosa che gli interessava era sua figlia, perciò uscì fuori anche lui.
La vide al di là della piscina, che stava suonando e cantando a bassa voce. Si avvicinò e si mise seduto di fianco a lei. La ascoltò suonare e la guardò mentre scriveva sui fogli.

«Che c’è?», si asciugò ancora gli occhi.

«Niente.»

Sharon si fermò e mise il basso appoggiato sull’erba. Guardò suo padre.

«Mi dispiace per prima, non volevo. Comunque non ci posso credere, hai scritto veramente tu quel testo?», chiese lui a dir poco incredulo.

«Sì e ci ho fatto anche l’accompagnamento.» Gli diede i fogli e glieli mostrò, il testo e la musica.

«Wow, ma da quando…», non riusciva nemmeno a comporre una frase di senso compiuto.   

«Da oggi pomeriggio.»    

«Wow.»  

«Di cosa ti stupisci? Ho preso da te.»

Bill la abbracciò e le sussurrò: «È una canzone stupenda, complimenti.»    

«Grazie.»    

«Me la faresti sentire?» 

«Io non credo che…» Bill la guardò con un sorriso a cui non si poteva dire di no e fu costretta a cedere: «Solo a te però.»   

«Va bene.»

Sharon prese il basso e iniziò a suonare e a cantare, già alla seconda strofa si aggiunse Bill, che cantò assieme a lei. Alla fine della canzone Bill e Sharon si guardarono e si abbracciarono.

«Ti voglio bene, papà.»    

«Anch’io te ne voglio.»  

«Che ne dici se metteste questa canzone nel vostro prossimo album?»   

«Dici sul serio?»    

«Sì, io non voglio fare questo mestiere. Per me è solo un hobby come tanti.»

«Ah», gli si erano spenti gli occhi. Non aveva mai voluto altro che almeno lei seguisse le sue orme, eppure si trovava di fronte alla dura realtà: forse a lei non interessava come poteva interessare a lui.

«Ne sei rimasto deluso?» 

«Un po’.» Un po’ tanto. «Ma allora cosa vorresti fare da grande?»

«La fotografa, che domande.»   

«Sul serio?»    

«Sì, immortalare per l’eternità un emozione, questo sarà il mio lavoro.»

Si creò uno strano silenzio, i loro sguardi erano distanti, così Sharon si schiarì la voce.

«Allora, dici che si potrebbe fare? Dico, mettere la canzone nell’album?»  

«Sì, si potrebbe fare. Ma prima, devi dirmi che significato c’è dietro questa canzone.»

L’entusiasmo che dentro l’aveva assalita per un attimo si volatilizzò in fretta: come poteva spiegarglielo?  

«Oh, credo che questo non te lo possa dire.»    

«E perché?»

«Sul serio papà, non so come spiegarlo.»  

«Non ti credo nemmeno un po’, però non importa.»

Sharon tirò un sospiro di sollievo: se l’era cavata piuttosto bene. Bill la baciò sulla testa e la lasciò sola.

Si sdraiò sull’erba e pensò ad Alex. Il cuore non si poteva controllare, se uno si innamorava non ci poteva fare niente, la pensava così lei.
Sentì il cancello chiudersi dietro di sé, incrociò le dita, ma era proprio lui: Alex. Perché ogni volta che lo pensava se lo ritrovava davanti? Ma lui non la vide neanche, corse diretto alla porta di casa, la aprì e la chiuse sbattendola forte.

Stava quasi per fare i salti di gioia: forse Alex era così di cattivo umore perché aveva litigato con la tipa. Però si rese conto anche che non doveva essere così contenta, perché non sarebbe mai successo nulla tra loro.

 

***

 

Era chiaro e allo stesso tempo complicatissimo: le ragazze erano tutte uguali – Chiaro, no? –, eppure non le avrebbe mai capite.

Si buttò sul suo letto, con le mani dietro alla testa. Ripensò all’appuntamento, certo, sarebbe meglio dire al fallimento.

Erano in discoteca, a parlare sopra la musica.

«Alex, mi dispiace, però così non mi va. Mi metti sempre in imbarazzo e sembri ancora così bambino. Sei un ragazzino. Ecco, lo vedi quello?», indicò un ragazzo, un bestione, largo il doppio di lui. «Quello si che è maturo!»

«No, quello non è maturo! Ha solo dieci anni più di te.»

«Pensa quello che ti pare, ma tra noi è finita. Ciao», lo liquidò arrabbiata andando a ballare con quel tizio.

Tutto sommato era stato meglio così, però gli aveva dato davvero fastidio il fatto che lo avesse chiamato bambino e ragazzino. Chi cavolo si credeva di essere? Miss Universo? Era solo una stronza.

Stefan entrò in camera e vide il fratello sul letto, lo sguardo rivolto verso il soffitto: conosceva bene quell’espressione.

«Ehi, che è successo?»

«Niente, la stronza mi ha mollato.»

«Ah, bene. Dai, vedrai che te ne trovi una migliore di quella. Io lo sapevo che era una stronza.» Si mise seduto sul suo letto.

«Ma chi ci pensa più a quella. È solo che mi ha chiamato ragazzino. Ragazzino, io?!»

«Ma sì, lasciala perdere.»  

 

***

 

Il giorno della sfilata tutti eravamo pronti per uscire, tranne Sharon.

«Ma dov’è?» 

«Vado a vedere io.»

Andai di sopra ed entrai in camera sua: era seduta sul letto a guardare sempre la solita foto.

«Sharon, siamo tutti pronti, manchi solo tu.»   

«Arrivo, un attimo.»    

«Sharon, sono tre giorni che ti vedo così. Non ce la faccio più. Vuoi parlarne con me, per favore?»

Si girò e mi guardò: c’era qualcosa di diverso nei suoi occhi, come una sofferenza repressa nel tempo, erano stanchi.

«E va bene, vieni qui.» Mi indicò con la mano il letto e io mi misi lì vicina a lei. «Mi sono innamorata.»   

«Sul serio? E chi è il fortunato?»   

«Alex.» Si alzò e prese la macchina fotografica, poi scese le scale, come se non fosse successo niente.

Io la raggiunsi, ma ero sconvolta. Non era possibile, non poteva essere il mio Alex. Era un altro, vero? Se no sarebbe stato un amore impossibile il suo!

Alla sfilata io e Sharon non ci eravamo dette una parola, ed era molto strano. Lei faceva le foto, come una vera professionista, e io continuavo a pensare all’assurda verità: Sharon si era innamorata del mio Alex, di suo cugino, era totalmente senza senso.

«Ehi, c’è qualcosa che ti turba, lo sento. Che cosa? Me lo dici?», mi chiese Tom donandomi un abbraccio impedito dalla presenza di Sarah che ne richiedeva l’attenzione tirandogli i pizzicotti sul collo che lui non sentiva nemmeno più talmente ci era abituato.    

«Ho scoperto perché Sharon è sempre così triste, anzi, me l’ha detto lei.»    

«Perché?»

Mi girai fra le sue braccia per guardarlo negli occhi. «Tom, io te lo dico, ma, per favore, non lo dire a nessun altro, ok? Mi fido di te, e da sola non posso farcela.»   

«Non sarà mica incinta, vero?»  

«No. È ancora più complicato. Insomma lei…»

«Lei cosa?»

«Si è presa una cotta per Alex.»

Trattenne il respiro e sgranò gli occhi. Reazione prevedibile, anche io ero rimasta più o meno così.

«Alex… Alex…», si indicò balbettando.

«Sì, lui, il nostro!», dissi aggrappandomi alla sua felpa.

«Ma è… assurdo!»

«Lo so! Cosa dobbiamo fare? Per favore, non dirlo a Bill, nemmeno ad Anto. Magari è una cosa passeggera.»

«Lo spero!»

In quel momento comparve Bill come dal nulla, tutto agitato, che non riusciva a fare a meno di muoversi. Anto di fianco a lui era già pronta per sfilare, con un bellissimo vestito nero addosso.

«Oh Tom!», disse sconvolto.

Io e Tom ci guardammo impauriti, pensando che avesse sentito, ma tirammo subito un sospiro di sollievo, non era così grave.

«Mi manca una modella!»

«Idiota, mi hai fatto prendere un colpo!», disse Tom portandosi una mano sul cuore.

«Devo trovare una sostituta, ma dove?!»

Tutti e tre mi guardarono, anche Sarah a dir la verità, quindi erano quattro paia di occhi puntati su di me, ma io non ci feci caso, ero troppo occupata a pensare ad altro. Quando mi accorsi che mi stavano fissando, capii subito tutto.

«No, no ragazzi. Avete capito male, io non farò mai e poi mai…»

Un minuto dopo mi trovai truccata e vestita per sfilare.

«… la modella.»

Io e Anto eravamo le più vecchie tra tutte le modelle, infatti Stefan era già a parlare con quelle più carine. Io mi sentivo in imbarazzo ed agitata, ma c’erano Tom e Sarah a confortarmi.

«Sei stupenda.»

«È vero mamma, sei bellissima.» 

«Io mi sento in imbarazzo.»   

«Ma se sembri una ragazzina! Tu le batti tutte queste.»  

«Sì. Intanto guarda tuo figlio Stefan come ci prova.»

Lo guardammo flirtare con una ragazza bionda, occhi verdi.

«Eh già, questo l’ha preso da me», disse ridacchiando. Riusciva bene a nascondere la preoccupazione per il segreto.

«Ary! Vieni! Dobbiamo andare!», mi gridò Anto. 

Appena Stefan, Alex e Sharon mi videro sulla passerella, mi applaudirono fortissimo e si misero a gridare. Anche Bill mi applaudiva e quando tornai dentro volarono complimenti sprecati da parte sua, ma comunque ben accetti.

«Ary! Sei stata bravissima! Complimenti! Sei sicura di non aver mai fatto la modella?!»  

«No, non l’ho mai fatta, il massimo che ho fatto in questo campo è stato di aiutare mio padre a montare i led alle pareti, però guardavo sempre le sfilate e ho imparato a camminare in fretta, è semplice.»  

«Wow. Beh, allora vatti a cambiare, ti aspettano altri quattro vestiti.»   

«Ok, odio fare la modella. Lo faccio solo per te, ricordatelo.»    

«Sì, ti devo un favore. Grazie!»

Mi fecero cambiare e poi tornai sulla passerella. Sharon mi guardava incantata e continuava a farmi foto, ma d’altronde, la classe non era acqua.

Alla fine della sfilata, Bill salì sulla passerella a fare i ringraziamenti: «Innanzitutto, vorrei ringraziare tutte le splendide modelle che hanno indossato i miei abiti, in particolare mia moglie, vieni.» La chiamò sulla passerella e lì volarono miliardi di flash. «Che ha sostituito una modella e anche un’altra modella, Arianna. Anche lei ha sostituito una modella che non è potuta venire, grazie.» Fece salire anche me e ci prese tutte e due per i fianchi. «Grazie. Senza di voi non ce l’avrei fatta.» Altri flash, compresi quelli di Sharon. «Poi, vorrei ringraziare mio fratello Tom, che mi sostiene ed è sempre presente, grazie. E anche la mia fotografa personale, Sharon!» Lei si alzò in piedi e fece un piccolo inchino.

Dietro le quinte, Bill si fermò a fare le foto con tutte le modelle e io e Anto ritornammo subito vestite normali. Comunque, prima, Bill volle fare una foto anche con noi. E Sharon si divertiva come una pazza a fare tutte quelle foto.

«Sì, ma adesso spostatevi, voglio fare io una foto con papà!», si appiccicò a lui. Fecero due foto: una normale e una mentre gli dava un bacio sulla guancia. 
Lei era legatissima a suo padre, molto di più di sua mamma, e a volte Anto si sentiva anche un po’ esclusa.

«Ti sei divertita?»   

«Sì! Grazie papà! Ti voglio bene!», gli saltò in braccio.

Per esempio, lei non era mai così con Anto, non le diceva mai un ti voglio bene, non le dava mai un bacio, niente di niente e per questo lei ci stava male, non sapeva se fosse per colpa sua, pensava che forse non era una brava mamma, perché vedeva anche il comportamento di Stefan e Alex nei miei confronti, che mi volevano bene, ogni occasione era buona per un abbraccio, un bacio e così era per Tom. Ma perché allora Sharon stava sempre con suo padre? Forse era davvero colpa sua. In effetti, lei era molto più affezionata a me che non a sua madre. La cosa era molto strana, ci stava veramente male. Ora, a guardare quella scena, soffriva dentro di sé e come sua migliore amica me ne ero accorta subito. Dovevo intervenire in qualche modo.

«Sharon, fai una foto anche con tua mamma, dai.»

Sharon guardò sua mamma. Si allontanò da suo papà e prese la macchina fotografica in mano, la guardò e disse: «Ora non mi va.»

Andò a fare delle altre foto della passerella, mentre i tecnici smontavano tutto. Più esplicito di così poteva essere solo: Con te non la voglio fare. Bill guardò Anto, si girò e andò dritto verso Sharon, era arrabbiatissimo, glielo si leggeva in faccia. La vide di fianco alla passerella.

«Allora signorina?! Ti devi comportare così con tua madre?! Eh? Mi guardi in faccia quando ti parlo?!» Lei si girò e lo guardò. «Sono molto arrabbiato con te. Perché con tua madre ti comporti così?! Non riesco ad accettarlo! Va bene fare quello bravo, buono, ma quando fai così c’è bisogno di rimproverarti. E io odio rimproverarti, e lo sai.»    

«Va bene, mi dispiace. Sei contento?»

Bill non era capace ad essere arrabbiato con lei, cercava di fare il duro, ma poi tornava sempre il solito Bill comprensivo con sua figlia.

«Ma perché fai così? Adesso tu vai di là e chiedi scusa a tua madre, poi fai anche la foto. Va bene?»

Sharon sbuffò e tornò da noi, con Bill dietro, guardò sua madre e disse, in tono molto da prendere a schiaffi: «Scusa mamma, vuoi fare la foto?», in modo molto annoiato, come se fosse una scocciatura.

Si avvicinò a lei e si fecero la foto, solo che la macchina non andava. Sharon guardò la macchina e si accorse che era finito il rullino. Con il sorriso sulle labbra disse: «Ma quanto mi dispiace, è finito il rullino.»

«Dio, Sharon! Sei così stupida!», esplosi.

Non potevo credere che fosse così impertinente, con sua madre poi, che faceva di tutto per lei. Invece di ringraziarla tutte le volte che poteva, si comportava proprio da stupida. Ma lei non sapeva nulla di quello che avevo passato, in certi aspetti era meglio, in certi proprio peggio.

Rimase in silenzio, rossa in viso, a guardami senza parole.

«Ary…», disse Anto, ma non la ascoltai nemmeno, mi girai senza guardare nessuno e uscii, li avrei aspettati in macchina.

Sharon si guardò intorno con le lacrime agli occhi, si mise la macchina fotografica al collo e uscì fuori anche lei di corsa.

 

Scese lentamente le scale, vide sua madre e suo padre sul divano abbracciati, lei con il viso nascosto nel suo petto e lui che le sussurrava qualcosa all’orecchio massaggiandole la schiena con la mano.

«Ehi, zio!», lo chiamò sottovoce per non farsi sentire dai suoi.

«Che cosa c’è?», disse raggiungendola a metà scale.

«Posso parlare con zia?»

«E lo chiedi a me?»

«Sì, lo so, ma…», guardò di sfuggita suo padre e sua madre sul divano.

«Ok, ho capito, te la chiamo», sbuffò.

Tom mi passò le mani sulle spalle e mi sussurrò all’orecchio, baciandomi anche sul collo per addolcirmi un po’, ormai sapevo riconoscere tutte le sue tattiche, solo che non sapevo come combatterle, era tutto inutile.

«C’è Sharon che ti vuole parlare.»

«Perché non è venuta lei?»

«Perché ha paura di affrontare Bill, penso.»

«Non è più una bambina, Tom.»

Mi girò e mi accarezzò il viso con le mani, baciandomi morbido sulle labbra. «Sì, lei lo è, senza offesa. È uguale a Bill, rimarrà sempre un po’ bambina.»

Riuscii a strappargli ancora due baci prima che mi spostasse sorridendo e mi indicasse di andare. Mai una volta che non riuscisse a convincermi.

Sharon era sul letto, sdraiata a pancia in giù, che soffocava i singhiozzi nel cuscino. Mi misi seduta accanto a lei, senza parlare.

«Mamma non mi sta mai vicina, non la sento presente come papà. Forse anche a causa del suo lavoro, non lo so. Però non mi coccola mai come fa papà. È anche per colpa sua se io sono così, non mi degna mai di attenzioni, per lei non esisto!», disse facendo lunghe pause per riprendere fiato tra i singhiozzi.

«Non dire così, per lei esisti, sei la cosa a cui tiene di più al mondo, solo che non riesce a dirtelo. Lei è fatta così, prima di dire a Bill che lo amava ci ha messo un po’, ha bisogno dei suoi tempi, ma sei davvero importantissima per lei, ti vuole un bene enorme. E, più o meno, anche tu non la degni mai di attenzione, ti allontani, non la cerchi. Siete nella stessa situazione.»

«Davvero?», tremolò.

«Sì, nessuna delle due riesce a fare la prima mossa per paura della reazione dell’altra. Forse, se ne parlate risolvete la cosa, no?» Le spostai i capelli dal viso e le accarezzai la guancia prima di baciarla. «Cavolo, tu non sai quanto sei fortunata. Hai dei genitori splendidi, fidati.»

Annuì e diede due colpi sul materasso, accanto a lei. Mi sdraiai sorridendo e chiusi gli occhi stringendola a me.

«Adesso cosa farai?», chiesi.

«Vado a parlare con mamma e le chiedo scusa.»

«Brava.»

«Grazie zia.»

«E di cosa, piccolina? Non c’è di che. Già che ci siamo, ti va di parlare della storia di Alex?»

«Dobbiamo proprio?»

«Sì, per forza; la mia era una domanda retorica. Sharon, è davvero necessario.» Le feci incrociare i miei occhi che si specchiarono nei suoi. «Lo so che l’amore è cieco, ma così è troppo cieco! Tu e Alex siete cugini! Non potrebbe mai funzionare!»

«Lo so zia! È per quello che ci sto male! Io ne sono innamorata e non posso farci niente! Non è colpa mia! È colpa sua che è così…»  

«Unico? Lo so, però è un amore impossibile. Lo devi capire e accettare, purtroppo è la triste realtà. Secondo me ti sei innamorata di lui, perché sei in piena fase adolescenziale: vuoi avere una relazione e il ragazzo perfetto è Alex per te. Ci credo! Guarda, lo avrei scelto anch’io. Però non può funzionare, questo l’hai capito vero?»   

«Sì.»  

«Sai, un giorno incontrerai il ragazzo dei tuoi sogni, e allora vivrai felice e contenta, come nelle favole, piccolina.» La abbracciai e le asciugai le lacrime. «Adesso basta piangere, su. Si tratta solo di avere un po’ di pazienza, l’anima gemella arriverà. Non c’è niente e nessuno che possa metterti fretta.»  

«Va bene zia. Ti posso chiedere una cosa?»    

«Che cosa?»  

«Come hai conosciuto zio? Da quello che mi dice Stefan, ho capito che era un playboy con la fissa del sesso. O sbaglio?»

«Le persone cambiano», dissi sorridendo e toccandole il naso. «Per amore.»

«Ti prego, mi racconti?»

«Ok. Allora, tutto successe in Germania, dopo un concerto dei Tokio. Tuo zio, come tuo padre, era un gran figo. Va bè, lo incontrai in hotel.»    

«E come?»

«Beh, ci siamo scontrati.»   

«In che senso scontrati  

«Così, scontrati. Io venivo da una parte, lui dall’altra, non ci siamo visti e così ci siamo scontrati, e io sono caduta a terra.» 

«Sul serio?!»   

«Sì, te lo giuro! Che figuraccia.»

Si mise a ridere, in quel momento mi sembrò di vedere Anto da piccola: aveva la sua stessa risata.

«Non c’è niente da ridere!»

Da sotto, arrivò la voce di Tom: «Ehi, pettegole! Venite giù! È pronto!»

«Spero solo che non abbia cucinato Tom», dissi mentre scendevamo dalle scale.

«Povero zio», scosse la testa Sharon.

Tutti erano seduti intorno al tavolo e stavano aspettando noi.

«Alleluia! Siete arrivate! Ma dove eravate?», chiese Tom. Fu come se non avesse detto niente.

«Mamma, puoi venire un attimo con me? Ti devo parlare», disse Sharon abbassando lo sguardo intimidita.   

«Ok.» Si alzò e andò con Sharon in sala, sedute sul divano.

«Scusami per oggi, mamma. È che, secondo me, tu non mi dedichi abbastanza tempo. Per questo mi comporto così, hai capito? Non è che non ti voglio bene, anzi, te ne voglio, e tanto.»  

«Oh Sharon, ti voglio bene anch’io.» Si abbracciarono. Sharon si mise a piangere.

«Mi dispiace tanto, non avrei mai voluto farti soffrire. Mi perdoni?»    

«Certo amore mio, però anche io mi devo impegnare a dedicarti più tempo, ho sbagliato pure io.» 

«Grazie mamma, ti voglio tanto bene.»    

«Anch’io. Dai, ora andiamo di là. Ci sono Alex e Stefan, soprattutto, che stanno morendo di fame.»

Si asciugò le lacrime sorridendo ed entrambe si alzarono.

«Aspetta mamma, mi abbracci ancora?»    

«Certo!», la abbracciò di nuovo.

Sharon non si era mai sentita così felice come allora, era una sensazione unica per lei, non c’era nulla di più bello degli abbracci di sua madre.

Quando tornarono in cucina con due sorrisi splendidi ed unici, solo loro, stampati sul volto, sorrisi e feci l’occhiolino a Sharon. Quando voleva quella ragazza sapeva affrontare di tutto.

Si avvicinò a Bill, che faceva ancora l’incazzato, e lo abbracciò da dietro. «Scusami papà, non lo farò più.»

«Va bene, per questa volta.»

«Ma piantala per favore!››, dissimo tutti in coro.

«Sì, non riesco a fare l’arrabbiato», disse sorridendo.

Finalmente ci misimo tutti a tavola. Ero felice che tutto si fosse messo a posto, l’aria che si respirava era solo felice.

«Tom?», chiesi guardando il piatto.    

«Eh?»  

«Hai cucinato tu? Devo preoccuparmi?»

«Simpatica. Ancora che non ti fidi delle mie incredibili doti culinarie?»

«Ehm… sì.»

«Viva la sincerità.»

«Sì, quella soprattutto.»

«Hai finito di fare il teatrino? Mangia, dai.»

«Ok, non ti scaldare. Tanto lo so che ha cucinato Bill, lo si vede solo dall’aspetto.»

Tom guardò il gemello che sorrideva a bocca aperta. «Bill, Ary mi insulta! Fai qualcosa!»

«Sei grande ormai, Tomi», scherzò Bill stando al gioco. 

«Ok, come hai fatto a scoprirlo?», mi chiese.

«A me non mi frega nessuno, proprio nessuno», dissi prima di mettere in bocca il boccone.

Bill incominciò a ridere e così anche Tom. Poi Sharon li interruppe, ricordandosi di quello che le avevo detto di sopra.

«Ah! Zio, ma è vero che tu e zia vi siete incontrati in hotel e vi siete scontrati?»

«Certo cara!»  

«Io non ci credo.»

«Credici! Se lui è nato così cretino, ci deve essere un motivo! Mamma ha preso una botta ed è nato così. A volte mi fa un po’ pena», disse Alex rivolto a suo fratello Stefan.

«Ma che simpatico!», replicò Stefan.

«Piantatela voi due! E poi che cos’è successo zio? Racconta!»

«Ho incontrato tua zia ed è stato un colpo di fulmine.»

Mi appoggiai al tavolo e lo ascoltai, tutti lo ascoltavano con attenzione: era bello sapere la sua versione dei fatti.

«Ci siamo guardati negli occhi e lì, boh, non so che cosa è successo. Però di una cosa sono certo: lei, da quel momento, non se ne è mai andata dal mio cuore.» Era proprio dolce.

«Sì dai pa’, vai al sodo», disse Stefan, il solito.

«In pratica, l’ho portata al bar dell’hotel, io ho ordinato due birre, però a lei non andava bene e così si è fatta portare un Bacardi alla pesca, me lo ricordo bene. Ah sì, vi dico che quando l’ho incontrata aveva solo quattordici anni.»   

«Quattordici?!», disse Sharon incredula.

«Sì, aveva la tua età, e io ne avevo diciotto, era una bella differenza. Ma non per noi.»   

«Che vuol dire?»

«Non ce ne importava dell’età, noi saremmo rimasti assieme comunque, contro tutti.»

«E poi? E poi cos’è successo?»

«L’ho accompagnata in camera e…»    

«E?», disse Sharon.

«E?», dissero tutti in coro.

«E mi ha baciato.»

«Come? Ti ha baciato lei? La nostra mammina? Eri sul serio così?», mi chiese Stefan con un sorriso sbarazzino.    

«Era la mia unica occasione, non potevo farmela sfuggire.»

Sharon era completamente rapita dal discorso, seguiva tutto senza perdersi nemmeno una parola.

«E come l’hai baciato? Con la lingua?»

Possibile che non si facesse mai gli affaracci suoi? Tom gli diede uno scappellotto, come se mi avesse letta nel pensiero.

«No, cretino! Ma che lingua e lingua! Un bacio normale!»    

«E tu mamma? Come hai conosciuto papà?», chiese Sharon, curiosissima.

«Grazie ad Ary. Quella sera era sparita con Tom e io ero andata a cercarla, solo che avevo lasciato in camera la chiave della stanza, e così sono rimasta chiusa fuori. Bill mi vide fuori dalla porta e…» 

«Mi innamorai subito», intervenne lui.   

«Wow», disse Sharon incantata.     

Io guardai l’orologio alla parete: era quasi mezzanotte. Per quanto tempo eravamo rimasti a parlare? Infatti Sarah si era già addormentata da un pezzo e aveva saltato la cena proprio per quello.

«Vorrei tanto continuare questo discorso, ma si sta facendo un po’ tardi. Forza, tutti a letto che domani avete scuola.»

«Ok, ma domani ne riparliamo!», disse Sharon su di giri. 

«Va bene», Anto le diede un bacio sulla guancia e lei andò su a dormire seguita da Alex e Stefan.

«È stato un colpo di fulmine, ne Tom?», lo abbracciai.

«Perché non lo è stato?» 

«Sì che lo è stato», lo baciai.

«Ho sonno, domani dobbiamo andare da qualche parte Bill?»    

«No, domani siamo a casa tutto il giorno.»   

«Oh, che bello, un po’ a casa. Che ne dici, li lasciamo dormire domani i ragazzi?»    

«E come mai?»    

«Di solito non siamo mai a casa, allora vorrei stare un po’ con loro, che ne dici?»    

«Sì, per me va bene.» Che padre eccezionale che era.

 

***

 

Il giorno dopo restammo tutti a casa, con grande sorpresa di Alex e di suo fratello Stefan, al settimo cielo.

«Ciao a tutti!», dissi scendendo dalle scale.

«Ciao Ary.» Tom mi diede un bacio e Bill mi chiese di Sharon: «Ma dorme ancora?» 

«Mi sa di sì, ma se ha preso da te stanne certo!»

«Che qualcuno vada a svegliarla, se no stanotte non dorme», disse Bill. Stefan si alzò di scatto e corse su, con dietro Alex, urlando: «La sveglio io!», correndo per le scale.

Io guardai Tom: «Verrà il giorno che si faranno male, e allora io riderò.» Tom mi abbracciò, tenendo le mani sui miei fianchi. Risi, mentre mi baciava.

«Comunque sono cretini come te.»  

«Credevo che avessero preso da te questa qualità.»  

«Se, credici!» Scoppiammo tutti a ridere.

Intanto, Stefan e Alex erano corsi su in camera di Sharon. Era totalmente sotto le coperte, per coprirsi dal sole che entrava dalla finestra, che dormiva ancora. Saltarono sul suo letto e Stefan iniziò a chiamarla: «Sha… Shary… Sharon! Svegliati!»    

«Dai Stefan! Non fare il cretino, non la svegliare così.» Alex spostò il fratello e si mise di fianco a Sharon. Si avvicinò al suo orecchio e sussurrò: «Sha, svegliati. È tardi.»

«Alex», mugugnò.     

«Eh?»

«Ciao, ma che ore sono? Dobbiamo andare a scuola?»    

«No, per favore! Oggi zio e pa’ sono rimasti a casa e hanno deciso di non farci andare a scuola.»   

«Sul serio?! Bene! Allora oggi posso suonare un po’.»  

«Sì, però muoviti. Ci hanno mandato a chiamarti perché sembravi un ghiro!»

Lei rise, ancora un po’ assonnata, e diede una piccola spinta al braccio di Stefan.

 

«Papà! Vieni qua un attimo?»    

«Arrivo Sharon.»

Bill prese i fogli su cui stava disegnando dei nuovi modelli e se li mise sotto il braccio, prese la matita e si tolse gli occhiali. Raggiunse Sharon in sala, dov’era tutta occupata a suonare le note della canzone che aveva scritto, però al piano. Infatti, oltre che a suonare il basso, era anche bravissima con il pianoforte; quello era un suo talento naturale, scoperto pian piano nel tempo.

«Che c’è?»   

«Ascolta e dimmi se va bene.»

Erano note dolci, allo stesso tempo tristi e malinconiche, proprio come il tema della canzone. Bill la ascoltò attentamente, era molto che non suonava il piano da quando aveva fatto quel corso qualche anno precedente.

«Allora? Com’è?»  

«Secondo me bisogna cambiare qualcosa. Però le basi ci sono. Aspetta.» Appoggiò i fogli sul piano. Si mise seduto di fianco a lei e suonò il brano, indicandole i passaggi che magari poteva migliorare. «Così come ti sembra?»  

«È bello!»   

Era sempre stata orgogliosa di avere un padre musicista, la aiutava sempre in quel campo.

Dopo un po’, sentendo il pianoforte, arrivò anche Antonia, che si mise ad ascoltarli. Sharon la vide e chiese anche un suo parere. «Che te ne pare mamma? Papà mi ha già dato un consiglio, tu che dici?»

Anto si sentì al settimo cielo vedendo la faccia felice della figlia che le chiedeva un suo parere.

«È bella, però…»   

«Però cosa?», chiese Sharon curiosa.

«Fammi sedere, Bill.»   

Bill si alzò e fece sedere Anto, poi si appoggiò al piano, per vedere quello che faceva.

«Guarda, e se fai così?» Fece il pezzo con altri miglioramenti e poi guardò la figlia.

Sharon non sapeva che sapesse suonare il pianoforte e ne rimase completamente sbalordita, poi lo suonava veramente bene.

«Mamma?»    

«Sì?»    

«Io non sapevo che suonassi il piano, ma da quando?»    

«Se non mi sbaglio, da quando ero piccola, però non l’ho mai studiato seriamente.»    

«Davvero? Allora può darsi che abbia preso da te.» 

«Probabile.»  

«Comunque il pezzo come l’hai fatto tu è stupendo, poi con i consigli di papà sarà ancora più bello. Grazie mamma!», la abbracciò.

Anto si alzò e si mise di fianco a Bill, gli prese la mano e la intrecciò alla sua.

«Siete perfetti assieme», disse Sharon sorridendo.    

«Sì, lo sappiamo.»    

«Che modestia!»   

«Colpa di Tom, con gli anni ci ha contagiati.»

«Sharon!», la chiamai dal piano di sopra.

Staccò le dita dal piano e urlò anche lei: «Che c’è?!»  

«Puoi venire un attimo? Ti devo far vedere delle cose.»    

«Arrivo!», si alzò e corse su da me. Sharon salì su in camera mia ed entrò.

Ero seduta per terra, di fianco al letto. Lei si avvicinò e si mise seduta di fianco a me. Tirai fuori, da sotto il letto, uno scatolone.

«Che cos’è zia?» 

«Adesso vedrai. Aiutami a portarlo in camera tua.»    

«Ok.»

Lo prese e lo portò su da lei. Lo appoggiò sul letto e lo aprì, tutta incuriosita.

«Guarda.»

Lo aprì del tutto e ci frugò dentro: c’erano una marea di poster, foto, diari, cd. Il tutto dei Tokio Hotel e sui Tokio Hotel. Mi guardò con gli occhi che le brillavano, senza riuscire a dire una parola, da quanto era emozionata.

«Pensa che queste cose non le ho fatte vedere nemmeno a Stefan e Alex. Te le faccio vedere a te perché tu te ne intendi, però devi anche tenerle per me. Va bene?»

Lei annuì con la testa, senza dire nulla. Tirò fuori dalla scatola dei poster. Ne aprì uno, lo stese per terra e rimase ad osservarlo per un fracco di tempo, senza fiato. Indicò suo padre, Bill, e mi guardò. Non riusciva a dire una parola, tanto ne era rimasta sbalordita.

«Sha, dimmi qualcosa. Capisco che tuo padre era un gran figo, però devi dirmi qualcosa anche sugli altri!»    

«Sì, ehm… che posso dire? Ma sei sicura che questo è mio padre?!»   

«Certo! Hai visto che bello che era? Beh, è bello anche adesso, però allora era tanto diverso. Vero?»     

«Non ci posso credere, non può essere lui. E non dirmi che questo pezzo di figo è zio! E poi Georg, e anche Gustav! Guardali! Sono stupendi!»  

«Certo. Hai ragione, sono bellissimi.» 

«Ma tu ti sei innamorata di zio dall’inizio, oppure solo perché era così famoso?»   

«No, mi sono sul serio innamorata di lui, dal primo momento che l’ho visto di persona, mi ha proprio conquistata.»    

«E c’è mai stato un momento in cui non sentivi questo amore per lui?»    

«No, mai.»

«Wow. E, invece, quando… è morto zio… non è successo?»   

Mi ricordai di Davide, era molto tempo ormai che non ci pensavo più, ma quella domanda…

«No, anzi, mi è stato ancora più vicino e mi ha aiutato a superare il trauma», mi stavano per venire le lacrime agli occhi. Quanto tempo era passato.

Sharon riprese di nuovo a parlare, facendomi tornare alla realtà.

«Ah, beh allora vi amavate tanto.»   

«Ci amiamo ancora tanto e non smetteremo mai.» 

«Che bello. Anch’io voglio vivere una storia come la tua! Perché io no? In fondo, tu avevi quattordici anni quando hai incontrato zio, io ho la tua stessa età!»

Le andai di fianco e la abbracciai. «Piccolina, hai tutto il tempo per trovare il ragazzo dei tuoi sogni, non devi avere fretta. E quando lo troverai sarai felice come me quando ho trovato Tom, capito? Non è una questione di età. Quando succede, succede. Io sono stata molto fortunata, tutto qui.»     

«Va bene zia, aspetterò. Quando lo troverò te lo dirò subito, ok?»    

«Certo! Ci conto.»   

«Va bene», rise.

Mi alzai e scesi giù da Tom. Sharon rimase in camera sua a guardare nella scatola. Trovò una foto di quella epoca, era veramente stupenda secondo lei e così la mise sul muro delle foto: era una foto con me e Tom, alla fine di un loro concerto, che mi dava un bacio sulla guancia, lui con ancora la chitarra al collo, e io facevo la faccia sorpresa. Sharon più guardava quella foto, più voleva tornare indietro nel tempo, per vivere quei momenti meravigliosi con me e i giovani TH. Avrebbe tanto voluto conoscere da giovane suo padre Bill e anche suo zio Tom e tutti gli altri, comprese anche me e Anto, sua madre. Sorrise e rimise tutte le cose nella scatola, poi la mise sotto al suo letto. Andò nella sua camera oscura personale, per sviluppare le foto scattate alla sfilata. Ne tirò fuori dall’acqua alcune. Prese quella con me, sua madre e suo padre, mentre facevamo l’inchino, alla fine della sfilata, al momento dei ringraziamenti. Io e sua madre che ridevamo e Bill che sorrideva ai flash. Eravamo proprio belli in quella foto, tanto che Sharon corse giù e ce la fece vedere, tutta raggiante.

 

Entrò in camera di Stefan e Alex. Uno era al computer, rivolto verso l’altro, sul letto. In pratica, parlavano, ma non facevano nulla di concreto.

«Ragazzi, guardatevi. Siete il disonore della famiglia. No, sapete che scherzo.»

«Che vuoi?», disse Stefan annoiato.

«Che vuoi? lo dici a qualcun altro, non a me. Comunque, non ne volete sapere di chitarra? Musica in generale?»

«Ora no», dissero contemporaneamente guardandosi.

Tom cercava in tutti i modi di invogliarli a suonare, di talento ne avevano da vendere, ma la risposta era sempre un no bello deciso, detto in maniera soft. Improvvisamente si ricordò di quando, per Natale, Stefan aveva chiesto, supplicato, la sua prima chitarra. Ma non ne voleva una qualsiasi, ne voleva una ben precisa, vista in un negozio un pomeriggio d’estate, mentre facevamo una passeggiata. L’aveva desiderata tanto, e ora, era lì, appoggiata al muro, abbandonata da chissà quanto tempo. Aveva appena sei anni. E Alex, Alex non aveva mai dimostrato un grande interesse verso questo campo, però era bravo, forse più del fratello.

A Tom, in fondo, mancava il periodo dell’infanzia di Alex e Stefan. Dovevano essere riempiti di attenzioni, d’affetto. Ora chi li vedeva più a casa? Erano sempre fuori.

«Stefan! Alex! Potete venire qui? Portate le chitarre.»

Sharon, che aveva assistito a parte del discorso, curiosona com’era (come suo padre e sua madre, forse di più), aveva deciso di intervenire.

Stefan e Alex si guardarono ancora negli occhi. Come la maggior parte dei gemelli, riuscivano a capirsi perfettamente solo con uno sguardo: potevano dirsi tutte le cose che volevano, senza che noi capissimo.

«Beh? Muovetevi, no?», disse Tom.

Loro alzarono le spalle e presero le chitarre. Tom sentì il cuore riempirsi di gioia. Salirono su da Sharon.

«Che dobbiamo fare con le chitarre? Ce lo spieghi?»

Sharon era già con il basso al collo, pronta a suonare il suo pezzo.

«Dai, aiutatemi. La canzone non viene bene solo con il basso, servono delle chitarre.»

Loro sollevarono le spalle e si misero le chitarre al collo, sorridendo.

 

 

_________________________________________

 

 

Buoooonasera a tutti ^-^
Sono stanca e domain c’è il copito di matematica, ho una fifa blu xD Speriamo vada bene, Dio dammi un segno della tua presenza ù.u
Tornando a questioni ben più serie xD Questo capitolo come vi è sembrato? Siamo tornati al presente ma sempre con un accenno al passato. Infondo, il passato conta e non possiamo separarcene, che noi lo vogliamo oppure no…
Fatemi sapere se vi è piaciuto, spero tanto di sì! *-*
Per le recensioni allo scorso capitolo, ringrazio:

niky94: Grazie! :) Bacio.

Utopy: Non parlo di Ary .__. Tu ormai l’hai presa in antipatia, ogni mia speranza di fartela piacere è sparita. Chi ti capisce è bravo xD
Almeno ti piacciono Stefan e Tom, in quel capitolo sono davvero belli carini e coccolosi *-* Grazie mille Ales, tu ci sei sempre! Forever and ever xD Ti voglio tantissimo davverissimo beneee! <3 Sei la Mond della mia vita xD Luv ya!
Tua, Sonne :D Nonché Aria. (Notato, io sono tutte le cose vitali u.u L’aria, il sole… *-* Sono vitaleeeeee! xD Okay me ne vado xD)

Tokietta86: Infatti, fossero così tutte le mamme! Soprattutto la mia!
E anche tutti i papà! *-* Ma del mio non mi posso lamentare, no no :D
Sono contenta che quel capitolo ti sia piaciuto, spero che anche questo non sia da meno! Grazie mille, bacioni.

Poi ringrazio anche chi ha messo questa ff fra le preferite, le seguite e le ricordate *-* Grazie mille di cuore anche a chi legge solamente!
Alla prossima, con affetto vostra,

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Capitolo 9
*** Vending machine's boy ***


Capitolo 3
Vending machine’s boy

 

E così, un giorno qualunque, di un mese qualunque, di un anno qualunque, divenne il giorno più importante della sua vita.

 

«Ciao a tutti.»

Sharon entrò nella stanza, dove trovò suo padre, zio Tom, Gustav e Georg. Diede un bacio sulla guancia a Bill, abbastanza sorpreso di vederla. 

«E tu che ci fai qui?», le chiese.

«Ah, grazie. Se disturbo vado a casa.» Si rigirò e fece per uscire, quando il padre la fermò.

«Ma dai, non te la prendere. Chiedevo soltanto. Mamma sa che sei qui?»

«Certo che lo sa. Sono venuta qui perché non avevo voglia di stare a casa a rompermi. Stefan è da qualche parte a fare strage di cuori, come suo solito. Alex, non ne parliamo, è andato ad uno di quei corsi extra a scuola. Ma che ci trova di tanto divertente a studiare? Proprio non lo capisco, mah. Poi, dicevo? Ah sì, loro due non ci sono e mamma, zia e Sarah sono da qualche parte, non lo so. Perciò… eccomi qui.»

«Ahm… sì, capito poco e niente da come parlavi in fretta, però… bene. Ciao Sharon, come stai?», disse Tom sorridendo.

«Bene zio, grazie. Voi? Che stavate facendo?» Sharon appoggiò lo zaino a tracolla per terra, in un angolo.

«Tutto ok. Non stavamo facendo niente di concreto.»

«Ah, allora è questo ciò che intende papà quando dice che ha sempre un mucchio di lavoro da fare? Hai capito? Io mi sbatto e lui non fa niente.»

«Non è assolutamente vero, ci siamo solo presi una pausa. Adesso andiamo a registrare, vero?»

«Sì, ha ragione lui. Tu avrai sicuramente qualcosa da fare, quindi stai qui buona.»

«Va bene zio, non mi muoverò da qui.» Prese un libro dallo zaino e si mise seduta intorno al piccolo tavolino bianco, con una matita in mano.

«A scuola tutto bene?»

«Mm-mm. Ah, quasi mi dimenticavo, oggi mi hanno interrogata, a sorpresa.»

«Oddio, quanto odiavo le interrogazioni a sorpresa!», disse Tom mettendosi le mani in faccia. «Com’è andata?»

«Bene. Avevo letto la pagina poco prima della lezione, per fortuna. Devi firmarmi il voto.» Sharon diede il diario e una penna a Bill.

«Non è male, visto che l’avevi solo letta.»

«Ma papà! È più delle sufficienza! Cosa vuoi di più dalla vita?»

«Niente, solo che puoi fare di meglio.»

«Mai una volta che ti accontenti, vero fratellino?» Tom gli diede una pacca sulla spalla. Bill fece un sorriso obliquo e firmò il diario della figlia, poi la guardò. Lei sorrise e in quel momento gli sembrò di vedere Anto in lei, in quel suo sorriso felice.

«Ehi, papà? Che c’è? Perché mi guardi così?»

«No, niente.»

«Ma sai che abbiamo una nuova professoressa? È giovane, l’età di mamma. Quando ha letto il mio cognome, Kaulitz, per poco sveniva! Ha iniziato a farmi domande su domande… Ma sei davvero la figlia di Bill?, Ma come sta?, Quando torneranno a suonare?, e io a subire. Mi ha detto che era ed è tutt’ora una vostra fan.»

«Che cosa buffa. Però è bella, no?», sorrise.

«Sì, chi se lo sarebbe mai immaginato», ridacchiò Georg. «La vita è una sorpresa!»

«Ora è meglio se andiamo però.» Si alzarono tutti e uscirono dalla stanza, salutando Sharon.

«Ciao, buon lavoro», li salutò lei con la mano, sorridendo.

«Anche a te, e mi raccomando studia.»

«Sì, non vi preoccupate.»

Ci aveva provato, a stare un po’ sui libri, ma non c’era stato nulla da fare: non aveva proprio voglia di studiare. Così uscì e fece un giro per le enormi sale della Universal, salutando tutti quelli che incontrava. Ormai era di casa lì, erano abituati a vederla gironzolare da quelle parti. Si fermò alle macchinette e rimase ad osservare le varie bibite.

«Indecisa?»

Una voce maschile la fece voltare: si trovò accanto un ragazzo, occhi scuri profondi, capelli neri e in piedi sulla testa, un sorriso dolce sulle labbra. Era rimasta completamente senza parole, il suo cuore aveva iniziato a battere velocemente, e come se tutto questo non bastasse, si sentiva percossa dai brividi.

La cotta per Alex era passata da un pezzo, e si vedeva. In quel momento più che mai se ne accorse, perché se ancora avesse provato quell’affetto così grande per lui, vedere quel ragazzo non l’avrebbe nemmeno toccata un po’.

«Ahm… eh… sì», balbettò riprendendo il controllo. «Fai prima tu.» Si spostò e lasciò fare al ragazzo, che andò sicuro ai tasti della macchinetta.

Quel ragazzo le ricordava qualcuno, ma non sapeva chi fosse, né se lo aveva visto da qualche altra parte. In quel momento nella testa di Sharon c’era il nero più assoluto, ma tanta voglia di scoprire chi fosse il ragazzo misterioso. Aveva preso una lattina di Coca Cola.

Prevedibile, pensò Sharon accennando un sorriso.

Dopo quell’imbarazzo iniziale, gli sorrise e prese lei da bere: una lattina di thè al limone.

«Non…» Sharon si guardò intorno e si interruppe, il ragazzo non c’era più, sparito nel nulla con la sua lattina di Coca Cola. Eppure era lì fino a pochi secondi prima! Si girò più volte, cercandolo, ma non c’era nessuno nelle vicinanze.

Aveva una voglia incontrollabile di scoprire chi fosse, non sapeva nemmeno il suo nome. Sapeva solo che aveva una bella voce, calda e con una pronuncia dolce del tedesco, ma ciò nonostante stupenda. Fece un giro per la Universal, correndo, cercando disperatamente quel ragazzo.

«Sharon, dove corri?», le chiese la segretaria, ormai sua amica, dietro il bancone della reception, nella hall.

«Samantha, forse tu mi puoi aiutare.» Le corse incontro e appoggiò entrambe le mani al bancone bianco, respirando velocemente. «Hai per caso visto un ragazzo? Con i capelli neri, occhi scuri; portava una maglietta nera e un paio di jeans a vita bassa. Non l’hai visto? Ti prego dimmi di sì.»

Samantha la guardò un attimo, mettendosi una mano sotto il mento, cercando di ricordare. Improvvisamente un sorriso balenò sul suo viso.

«Ma sì! Certo! Ora ricordo! È appena salito di sopra.»

«Di sopra? Sei sicura?»

«Sì, doveva essere lui per forza. Aveva una lattina di Coca Cola in mano?»

«Sì! Dev’essere per forza lui! Grazie Samantha, ti adoro!»

Corse sulle scale, con la sua lattina di thè ancora chiusa in mano.

«Prego!» Ma lei era già andata.

Alla fine della rampa guardò sia a destra che a sinistra del corridoio, non vedendo nessuno. Non rimase troppo a pensare dove andare, girò a sinistra. Camminando velocemente, sorpassando decine di porte di uffici da entrambi i lati, sbirciava nelle stanze, ma senza vedere chi stava cercando. Ad ogni passo si demoralizzava, credeva di non vederlo mai più, di avere solo un suo ricordo sfuocato.

Improvvisamente, vide un ragazzo uscire da una delle ultime porte del corridoio. Lo vide di spalle, perciò non era del tutto sicura che fosse lui, ma aveva una maglietta nera e dei jeans a vita bassa, perciò si mise a correre più velocemente per raggiungerlo.

«Ehi!», lo chiamò.

Il ragazzo si girò e la guardò un po’ spaesato. Solo vedendolo in faccia, Sharon si accorse che non era lui. Ci rimase veramente male, credeva di averlo ritrovato, invece no.

«Sì? Posso esserti utile?», le chiese. Anche la voce era sensibilmente diversa, era quasi acuta.

«No, niente.»

Il ragazzo fece spallucce e si girò.

«Anzi, sì!», disse ancora Sharon. Il ragazzo si rigirò, paziente. «Hai per caso visto passare di qui un ragazzo?», gli chiese.

«No, mi dispiace.»

«Ah, va bè, fa niente.»

Sharon si rigirò sconfitta, scendendo mogia le scale, lentamente. Arrivata di sotto, vide di sfuggita uscire un ragazzo molto simile a quello delle macchinette dalle porte vetrate. Il ragazzo si girò un attimo, prima di salire in macchina, e Sharon ebbe la possibilità di vederne il viso: era lui. Ma ormai era troppo tardi.

Chiuse la portiera e l’auto partì, lasciandosi dietro tutto il resto, compresa la povera Sharon, che era rimasta a guardare la scena impietrita, vicina alla pianta dalle foglie smeraldine accanto al bancone della reception.

«Ehi Sharon, l’hai trovato il ragazzo che cercavi?», le chiese Samantha sporgendosi sul bancone.

«No, è andato via», disse Sharon decisa, quasi incazzata perché l’aveva perso per un soffio, andando spedita a riprendersi lo zaino per tornare a casa, dove si sarebbe messa a studiare, tanto per distrarsi. Chissà quando l’avrebbe rivisto e se l’avrebbe rivisto, soprattutto.

 

***

 

«Mamma, allora me lo prendete il motorino?»

«Stefan, ancora con sta storia? Ti abbiamo già detto che è tutto da vedere.»

«Ma mamma! Perché?»

«Perché vedremo come andrà quest’anno: a scuola non sei una meraviglia, è già tanto se passi. Poi fai sempre quello che vuoi tu e quando vuoi tu. Non puoi pretendere di comportarti in questo modo e poi di ricevere pure qualcosa. Troppo semplice.»

«Ma… Papà, vero che tu sei dalla mia parte?»

«No, tua madre ha ragione. Non venire a chiedermi niente.»

«Tu? Almeno tu, Alex, sei con me?»

«Per niente.»

«Uffa! Ma ce l’avete tutti con me?! Sarah, piccolina, tu sei d’accordo con me?»

«Mamma ha detto di no, non si discute.»

Adoravo quel diavoletto biondo, tanto desiderato sia da me che da Tom. Quando ci era stato detto che era una femmina avevamo fatto i salti di gioia, talmente eravamo contenti.

Eravamo tutti a cena, io e Tom contro Stefan che voleva il motorino, Sarah era sempre attenta a tutto e suo fratello Alex era tranquillissimo e sembrava del tutto estraneo alla discussione. Anche Bill e Anto erano un po’ in disparte, ma Sharon totalmente, non stava nemmeno seguendo, pensava decisamente ai fatti suoi. Anche perché ormai con Stefan erano sempre gli stessi discorsi, perciò la solfa la sapeva già.

Sharon infilzò con violenza un pezzo di carne, come se stesse pugnalando qualcuno.

Era passata una settimana. Una stramaledetta settimana e ancora non sapeva chi fosse. Aveva passato tutta la settimana facendo scuola-Universal-casa, ma non si era visto. Non sapeva nemmeno il suo nome! Per fortuna il giorno dopo sarebbe tornata a scuola; non era che l’adorava, però almeno si distraeva. C’era quello della 3° C che le andava dietro… Ma non riusciva a non pensare al Ragazzo delle Macchinette, non ci riusciva.

«Sapete che è arrivata una ragazza nuova da noi? Dall’Universal in Italia. Collaborerà un po’ con questa qui, in Germania», disse Bill, cambiando discorso. 

«Sul serio? Forte. Ma è tanto giovane o… È carina?»

«Mi sembra abbia un figlio della tua età.»

«Ah.» Stefan ci era rimasto un po’ male, ma si rallegrò pensando alle vittime del giorno.

Sharon era ancora intenta a tagliuzzare la carne come un chirurgo in sala operatoria, non seguendo per niente quello che dicevamo, era come se non esistessimo proprio. Ma non avrebbe mai pensato che quella ragazza nuova, con il figlio…

«Sharon, ma che hai stasera? Sembri strana», disse Alex un po’ per tutti, in quanto il suo comportamento insolito non passava inosservato.

«Uhm?», disse Sharon nemmeno alzando lo sguardo dal piatto.

«Calma! Non tutto questo entusiasmo, eh!», scherzò Stefan.

«Dimmi», disse ancora lei guardando Alex un po’ più attenta.

«Beh, c’è briciolo di entusiasmo in più.»

«C’è qualcosa che non va, Shary?», ripropose la domanda Alex.

«No, niente.»

«Le mummie sono più vivaci», disse Stefan tra sé.

«Solo che non ho fame, tutto qui», continuò Sharon.

«Ma non hai mangiato niente», le disse Bill.

«Te l’ho detto, non ho fame.»

«Ma…»

«Papà smettila! Non. Ho. Fame. Punto. Non continuare ad insistere!» Sharon si fermò improvvisamente, rendendosi conto della scenata che aveva fatto per nessun motivo apparentemente logico. Scosse la testa e si alzò dal tavolo, mormorando un semplice: «Scusate.»

Corse su in camera sua, senza guardarsi indietro sbatté la porta e si chiuse dentro. Si abbandonò al soffice materasso e chiuse gli occhi.

Ma che aveva fatto di male per meritarsi tutto quello? Si era innamorata di un ragazzo di cui non sapeva nemmeno il nome, introvabile e irraggiungibile da ogni punto di vista. Quanto odiava essere innamorata.

Prima mio cugino Alex, ora questo mezzo sconosciuto! Non me ne va bene una, uffa! Si agitò sul letto, prendendolo a calci e pugni a casaccio, soffocando le grida di rabbia nel cuscino.

«Allora la situazione è davvero grave. Chiamate il manicomio!», scherzò suo zio, Tom, vedendola così sul letto.

Lei si mise seduta di colpo, arrossì per aver dato spettacolo in un suo momento no, tenendosi ancora il cuscino stretto al petto.

«Sharon, Sharon, Sharon», canticchiò avvicinandosi a lei e sedendosi sul suo letto.

«Giuro, avrei immaginato di tutto, ma non che tu venissi a consolarmi e a chiedermi che cosa non andava», disse Sharon con un sorrisetto sulle labbra.

«Che cosa?» Suo zio le fu addosso, facendole il solletico e ridendo con lei. «Mi dici che cosa c’è che non va?», ritornò serio, e seduto bene.

Sharon guardò per la stanza, evitando gli occhi di Tom, così identici a quelli di suo padre, che riuscivano a farle dire ogni cosa, anche quella più segreta e nascosta nel suo cuore.

«Si tratta di una mia amica», inventò una balla, una balla costruita bene per esporre il suo problema senza mettersi in mezzo. Almeno, lei pensava che fosse andata così.

«Non sono mica nato ieri. Una tua amica?» Perfetto, l’aveva già scoperta.

«No, ehm, sul serio! Si tratta di una mia amica!»

«Mmh, va bene. Che ha fatto questa tua amica da farti preoccupare in questo modo?»

«Beh…» Cosa doveva fare? Dirglielo o non dirglielo? Ma tanto sapeva che era lei la sua amica, che glielo diceva a fare? Per fare quattro chiacchiere?

«Stefan… Stefan l’ha lasciata dopo nemmeno un’ora. È distrutta poverina.» Che poteva dirgli? Sapeva già che gliel’avrebbe fatta pagare.

«Che ha fatto Stefan, scusa?»

Tom era allibito, nemmeno lui faceva cose del genere. Le storie che aveva ai tempi duravano minimo una notte, non un’ora o due. «Ehm…» Sharon strinse le spalle e i denti, recitando veramente bene, facendo reggere la storia della sua amica.

Tom si alzò e corse al piano di sotto, seguito dalla povera Sharon che avrebbe dovuto mettere a posto la camera di Stefan per almeno tre mesi, lo sapeva già.

«Stefan! In piedi, subito», disse in maniera pacata Tom, ma senza nascondere la sua faccia arrabbiata.

Stefan, seduto comodamente sulla sedia girevole davanti al pc, guardò il fratello, non capendo l’atteggiamento del padre nei suoi confronti.

«Che cosa hai combinato sta volta?», gli chiese il gemello sconfitto, perché avrebbe dovuto prendere le sue difese ancora una volta, magari condividendo qualche punizione, che subito dopo io avrei annullato, ma comunque sarebbe dovuto intervenire in favore del fratello, e di immischiarsi non ne aveva una gran voglia.

«Non ho fatto niente!», si difese guardando Alex, sdraiato sul letto con una cuffia sì e una no.

«Ah no?», disse Tom mettendosi le mani sui fianchi.

In quel momento Stefan vide Sharon dietro di lui, che si stava già scusando, unendo le mani e parlando con gli occhi. Solo allora Stefan capì tutto: era stato messo in mezzo da lei. Già pensava a cosa farle fare per ottenere il suo perdono.

Il padre continuò inarrestabile: «E che mi dici di quella povera ragazza che hai scaricato dopo nemmeno un’ora? Eh? Non hai fatto nulla, vero? Questo lo chiami nulla

Stefan rimase senza parole: lui, che faceva una cosa del genere ad una ragazza? Inaudito. Pensò subito che Sharon non sapeva affatto inventare balle e che aveva poca fantasia. Menomale che non c’era nessuno dei suoi compagni, se no il suo buon nome si sarebbe infangato dopo la scoperta di un atto così poco cavalleresco, che di solito aveva col gentil sesso.

«Che cosa ripugnante da dire… ma è la verità. Sì, mi prendo le mie responsabilità, solo che l’avresti fatto pure tu, papà, se te la fossi ritrovata davanti. Mi vergognavo ad andare in giro con una così!»

«E allora non la illudevi neppure! Dicevi che non volevi avere nulla a che farci, ma non che la fai contenta per pietà e dopo la scarichi, così la fai stare ancora più male!»

I cosiddetti Consigli da padre ex-playboy a figlio giovane-playboy.

«Giusto papà, hai perfettamente ragione.» Stefan lanciò una berciata a Sharon, la quale quasi si metteva in ginocchio per chiedere perdono. «Non accadrà mai più.»

«Me lo auguro.»

Dopo di ché, Tom uscì dalla stanza dei gemelli e tornò di sotto. Sharon era rimasta lì, sulla porta, ferma immobile, attendendo una qualsiasi reazione del gemello più grande. Eccola: la prese per il braccio, la trascinò in camera, chiuse la porta e si piazzò davanti a lei.

«Mi hai fatto fare una figura di merda con papà! Perché? Perché l’hai fatto? Spero solo che ci sia un motivo più che valido.»

«Beh… Io… Scusa Stefan, non succederà più.» Sharon uscì a testa bassa e silenziosa dalla stanza, profondamente dispiaciuta.

Alex, l’unico che era rimasto zitto per tutto il tempo, si rallegrò: «Non sono dovuto intervenire per salvarti il culo, buon per me!» In cambio ricevette dal gemello un’occhiataccia. «Scusa. Sto zitto.»

 

La mattina dopo, Sharon si svegliò presto, forse un po’ troppo presto, e rimase a crogiolare nel letto, aspettando il suono della sveglia. Pensò molto al ragazzo delle macchinette, cercando di capire perché gli ricordava qualcuno. Sapeva di averlo già visto, ma… dove? Bella domanda.

Allungò la mano e spense la sveglia, ormai non c’era più pericolo che ricascasse nel mondo dei sogni. Si alzò e prese il cellulare, guardò gli ultimi messaggi: nulla di particolare. Lo rificcò nella borsa e andò in bagno, dopo aver aperto le tende per far entrare un po’ di luce. Si lavò la faccia e si guardò allo specchio, mentre si asciugava.

Forza, esistono milioni di ragazzi al mondo, non solo lui, si disse.

Sorrise convinta e andò all’armadio. Tirò fuori una maglietta lunga, come un mini-vestito, con la gonna in fondo, di un bel verde. Si infilò un paio di pantacollant a jeans e un paio di scarpe bianche perfette, sembravano nuove. Tornò di nuovo in bagno, dove si fece una coda alta, lasciando giusto scendere qualche ciocca dei suoi capelli neri sulle spalle, e si truccò: un po’ di matita nera all’interno con delle sfumature all’esterno e diversi tipi di ombretto verde, sfumato dal chiaro allo scuro. Si mise un paio di orecchini a cuore d’argento e una collana lunga di perle annodata alla fine.

Scese di sotto ottimista, sorridendo e galoppando sulle scale, con lo zaino a tracolla sulla spalla.

«Ciao a tutti!», disse entrando in cucina.

Bill, Tom e io, ci guardammo e poi guardammo Sharon. Rimasimo tutti e tre a bocca aperta. Io la guardai dall’alto verso il basso e viceversa, rimanendo senza fiato.

«Sha-Sharon?», balbettò Bill.

«Sì papà, sono io. Ciao», sorrise e lo baciò sulla guancia tenendogli il viso tra le mani, le unghie lunghe e curate laccate di verde in tinta con la maglietta.

«Credo che stamattina esagererò: un bacio anche a me», disse Tom sorridendo a Sharon e porgendole la guancia. Lei ricambiò radiosa e stampò un bacio anche a suo zio.

Sarah era ancora mezza addormentata e si stropicciava gli occhi, però aveva mormorato «Bella» pure lei.

«‘Giorno», disse Anto entrando in cucina. Non notare l’abbigliamento di Sharon era impossibile: «Accidenti! Sembri uscita da una casa di moda, tesoro. Stai veramente bene», disse alla figlia, la quale la ringraziò con un altro dei suoi splendidi sorrisi, identici a quelli della madre.

«È la tua copia. Cavolo se lo è», dissi io sorridendo e scuotendo la testa, riferendomi ad Anto.

«Ah beh, sicuramente non ho preso da papà», scherzò Sharon baciando la madre che si era avvicinata.

«Pensa che da piccola eri identica a tuo papà, non sembravi nemmeno mia figlia», disse Anto sorridendo a Bill.

«Ma Stefan e Alex? Ancora che se la dormono?»

«No, splendore, siamo qui», dissero simultaneamente i gemelli, sporgendosi sorridenti in cucina con la testa.

«Splendore a chi?», disse lei sorridendo divertita prima di bere dalla sua tazza.

«A te, principessa

Bill e Anto si guardarono e sorrisero: Bill chiamava sempre Anto principessa da quando l’aveva conosciuta, e ora sentirlo dire a sua figlia era bello.

«Pronti?», chiesi ai ragazzi e a Sharon.

«Perché? Pronti per cosa?»

«Vi accompagna lei oggi», disse Tom. «Così questo scricciolo è tutto mio!», accarezzò Sarah sulla testa, lei sorrise.

«Ah, ok, io sì», rispose prendendo la sua borsa a tracolla e mettendosela sulla spalla. Anche i gemelli annuirono e poi si guardarono, pensando la stessa identica cosa.

«Ferma principessa, non si stanchi a camminare.» Stefan e Alex la presero, uno da una parte e l’altro dall’altra, da sotto le gambe e sulla schiena, lei che si teneva con le braccia intorno alle loro spalle.

«Siete due dementi! Ecco cosa siete!», gridò anche se divertita.

Uscirono dalla cucina portandola in braccio, lasciandoci a guardarci sorridenti.       

In macchina, c’era uno strano silenzio. Al mio fianco avevo Sharon, dietro c’erano Stefan e Alex, che ascoltavano l’iPod con una cuffia a testa.

«Credete di restare in silenzio ancora per molto? Di solito non fate che parlare e parlare, e parlare», dissi guardando la strada.

Sharon mi guardò e sorrise, poi si rigirò verso il finestrino. Mentre gli alberi, la strada, sembravano spostarsi con noi, Sharon non poté non pensare a quel ragazzo misterioso.

Ma chi era? Chi era per farla stare in quel modo? Non riusciva a capire. Ma perché le situazioni complicate le andava a cercare sempre lei?

«Mamma quanto rompi quando ti ci metti, Se non abbiamo nulla da dire che cosa ti diciamo?», disse Stefan, o meglio borbottò.

Mi feci più sulla destra e inchiodai. Misi un braccio davanti a Sharon per sicurezza, le sorrisi e le feci l’occhiolino. Anche lei sorrise, mentre i gemelli si riprendevano dallo spavento.

«Ma dico, sei impazzita?! Stavo per andare a sbattere!», disse ancora Stefan menandola più del previsto perché in fondo non avevo fatto nemmeno tanto forte.

«Scendi», dissi guardando dietro, il maggiore.

«Che cosa?», chiese lui allibito.

«Ho detto che devi scendere.» Ero molto tranquilla, come se fosse normale.

«Davvero mi lasci a piedi?» Stefan era ancora incredulo.

«Sì. Ste, dai scendi.»

Prese lo zaino dal tappetino e se lo mise sulle gambe, guardò Alex sghignazzare al suo fianco, trattenendosi a stento.

«Me la pagherai, fratello. Ricordati queste parole.» Indicò i suoi occhi e poi quelli del gemello, per due volte, Alex che non la finiva più di ridere. Anche Sharon si gustava divertita la scena. Stefan stava per scendere quando invitai pure Alex a fare la stessa cosa.

«Cosa?! Io?! Ma perché?! Io non ho fatto nulla!», si difese Alex acuendo la voce in un modo che mi ricordò molto Bill quando strillava non sapendo cosa mettersi.

«Certo che voi due, il sostegno reciproco… eppure siete gemelli! Dai, fai compagnia a tuo fratello, che poi si sente solo.» Alex sbuffò e scese dall’altra parte.

«Sei troppo una grande mamma!», mi urlò Stefan prendendo per le spalle il gemello contrariato.

«Sì, sì, mi raccomando, dritti a scuola!»

«Ok mamma!»

«Alex, mi fido di te. Mmh?», sorrisi e Alex chiuse la portiera, voglia zero.

Io e Sharon, le uniche in macchina, restammo in silenzio ancora per qualche minuto, dopo essere ripartite. La guardai persa fuori dal finestrino, mi chiedevo davvero a che pensasse, visto che sembrava così assente.

«Ehm», mi schiarii la voce ottenendo la sua attenzione e i suoi occhi verdi su di me. «Tutto bene Sharon?»

Sfoderò uno dei suoi più bei sorrisi, uno di quelli che aveva acquisito dal padre: dolce e innocente.

«Certo zia. Come mai questa domanda? So che sei sempre premurosa, ma… davvero, non ce n’è bisogno, sto bene.» Con quelle parole mi aveva spiazzata.

«Sembri decisa.»

«Oh sì. Bisogna essere decisi nella vita, seguire i propri sogni senza mai arrendersi. Parole di…»

«Tuo padre. Sì, lo so.» Risi pensando a Bill che me lo ripeteva fino alla nausea quando ero piccola, magari perché c’era qualcosa che non andava e mi buttavo giù.

«Esattamente», disse Sharon girandosi ancora verso il finestrino sorridendo.

«Tu come interpreti questa frase?», le chiesi.

Lei si girò e aggrottò la fronte, mi ricordò molto ancora una volta Bill. «In che senso, scusa?»

«Nel senso…»

Eravamo arrivate a scuola, si sentivano gli schiamazzi dei ragazzi nel grande cortile pure da dentro la macchina. Ci guardavamo in faccia girate con il busto sui sedili. Appoggiai un braccio allo schienale per essere più comoda.

«Nel senso che bisogna essere così determinati per tutto nella vita. Non solo per le cose, come dire, normali: lavoro, la scuola… anche nelle cose più semplici. Non bisogna mai prendere le cose con troppa superficialità. Mi segui?»

«Sì, credo di sì.» Dalla faccia non sembrava proprio convintissima.

«Sharon, fidati di me. Pensa alle cose che ti ho detto, okay?», le misi una mano sulla spalla e lei la guardò, poi mi guardò di nuovo in faccia e le regalai un sorriso incoraggiante. «Ora vai, dai. Buona giornata.»

Sharon sorrise e sperai con tutto il cuore che avesse capito il senso delle mie parole. Mi stampò veloce un bacio sulla guancia e prese il suo zaino dal tappetino.

«Va bene. Grazie zia, ci vediamo dopo.» Scese dalla macchina e la guardai raggiungere Stefan e Alex, arrivati anche loro.

«Ve la siete fatta la passeggiatina, ne?», scherzò Sharon stando in mezzo i gemelli.

«Molto divertente», replicò Alex camminando molle sulle gambe.

«Piantala di fare la scena, non abbiamo camminato mica un chilometro e mezzo!», gli disse il fratello appena prima di salutare ammiccante un paio di ragazze appoggiate ad un motorino rosa e luccicante.

«Ciao Stefan!», avevano squittito maliziosamente tutte insieme, per poi rivolgersi sguardi fulminanti tra loro.

Stefan rise piano e tornò alla semiconversazione con la cugina e il gemello. Notò che Sharon lo stava guardando sorridendo.

«Che c’è?», le chiese.

«Nulla, pensavo che sono fortunata ad avere un cugino così carino. Quelle lì per averti devono fare i salti mortali, invece io ti posso coccolare quanto voglio!», si aggrappò al suo braccio appoggiandocisi.

Alex guardò la scena e rivolse gli occhi al cielo, guardando dall’altra parte.

«E io come al solito non esisto… Chissà perché. Eppure sono uguale a lui, che ha lui che io non ho?», borbottò.

Sharon prese improvvisamente a braccetto anche lui e lo baciò sulla guancia.

«Non volevo escluderti, scusami Alex. Tu sei il mio preferito, lo sai», gli sussurrò all’orecchio, sempre più rosso come il suo viso.

«Ehm, mamma che ti ha detto? Ho visto che ti parlava», cercò di deviare l’argomento imbarazzo al più tardi possibile.

«Sì, ma non capireste», tagliò corto Sharon, in quanto aveva visto Krista seduta sul muretto di fianco ad uno dei leoni ai lati della scalinata.

«Come? Cosa? Sharon aspetta!»

Troppo tardi, era già corsa dall’amica. Stefan e Alex si guardarono e sorrisero, scrollando le spalle.

«Ciao Krista!», la salutò felice. Dentro sentiva che la giornata sarebbe andata bene, bastava prenderla con il piede giusto e trarne solo gli aspetti positivi.

«Oh, ciao Sha.» Le diede un pugno contro il pugno, masticando la cicca.

Poteva essere una tipa bizzarra, ma era la sua migliore amica, e le voleva bene così com’era, nulla di più e nulla di meno, semplicemente se stessa. Aveva i capelli viola a ciocche più lunghe e più corte, una sfilza di piercing sull’orecchio sinistro e uno sulla lingua, e si vestiva quasi totalmente di nero, diversi polsini e braccialetti al polso.

«Come ti vanno le cose?»

Poteva essere strana, tutto quello che volete, ma era davvero un’amica: se c’era da ascoltare, da tirare su di morale, lei era quella da cui andava sempre Sharon e sempre Krista riusciva nel suo intento, con la sua sincerità spiazzante e il suo arrivare dritto al punto.

«Ah, direi bene.»

«Mmm, non me la racconti giusta. Con il tipo delle macchinette? Ancora nulla?», le sorrise fraterna.

«No, non l’ho più visto da quella volta. Sparito nel nulla. Non so nemmeno come si chiama, fai un po’ tu.» Sharon sembrava davvero a terra in tema ragazzi.

«Dai, non ti demoralizzare. Non esiste solo lui, guardati intorno. Sei una ragazza stupenda, tutti ti vorrebbero.»

Sharon la guardò e sorrise addolcita, inclinando la testa. «Sai sempre che dire, eh? Grazie.» Batté un pugno sulla mano e lo guardò, «Hai ragione, non esiste solo lui. Non sa che si perde. Non ci devo pensare.»

«Brava! Così mi piaci!», la incoraggiò ancora Krista agitando il pugno e facendo tintinnare tutti i braccialetti. Si guardarono e risero. «E poi oggi sei uno schianto, amore! Chi non ti sbaverebbe dietro? Uhm?»

«Nessuno!» Lezione di autostima parte uno.

Si guardarono ancora e scappò un’altra risata ad entrambe. Sharon sentì improvvisamente una goccia sul naso. Si asciugò e guardò prima la sua mano, poi il cielo nuvoloso.

«Oh-oh», dissero assieme, poi scapparono sotto il portico giusto in tempo, un pelo dopo e si sarebbero bagnate come più o meno tutti nel cortile, compresi Stefan e Alex, il primo che odiava l’acqua piovana classificandola una vera e propria catastrofe per la sua cresta appuntita sulla testa.

Anche durante l’ultima ora la pioggia non dava tregua. Non si vedeva un’acqua così da un sacco di tempo, in quelle condizioni sembrava il diluvio universale.

Si erano riunite la prima e inspiegabilmente la terza del corso B, proprio quello di Sharon, Krista e Alex, che si ritrovarono tutti e tre nell’aula magna a vedere un film, le luci spente e le tende alle finestre. I tuoni a volte rendevano più interessante il film che era davvero uno strazio: sembrava che l’unico interessato fosse il prof, seduto in prima fila dando le spalle alla classe.

Sharon si sentì beccare in testa da qualcosa. Si toccò la nuca e si girò dicendo: «Ahio!», in labbiale.

Era Alex, seduto nelle ultime file, che al buio le indicava di guardare a terra. C’era una pallina di carta. Ecco svelato il mistero del colpo in testa.

Sharon si chinò a raccoglierla e, aprendo il foglietto, lesse ciò che c’era scritto:

 

Quando la campanella ci salverà da questo autolesionismo, vado a prendere Stefan e poi ci vediamo tutti fuori, sotto il portico, ok?

 

Sharon si girò e guardò il cugino, sorrise e annuì, poi però gli sussurrò: «Potevi anche evitare, mi hai fatto male!», si toccò la nuca e chiuse gli occhi.

Alex stava per risponderle quando il vecchio prof di storia disse, senza nemmeno girarsi sul suo posto, di fare silenzio. Su una cosa non c’erano dubbi: quel prof o aveva l’udito molto sviluppato oppure era un alieno, ipotesi non escludibile e forse più probabile.

Sharon si girò e vide l’amica al suo fianco guardare ancora in direzione di Alex, completamente incantata. Lei sorrise e la scosse per il braccio, stoppandole, come in un film, l’immaginazione.

«Perché non glielo dici?», le sussurrò avvicinandosi al suo orecchio. Ormai che lei avesse una cotta per Alex era nota a Sharon, lo capiva solo guardandola.

«Dire che cosa?», si difese Krista guardando verso il televisore, schivando il suo sguardo ed evitando così di arrossire, anche se sapeva che era già diventata rossa, anzi viola, talmente si sentiva la faccia pulsare e bruciare. Cercò di farsi vento con la mano.

«Non fare la finta tonta, guarda che l’ho capito che ti piace Alex. Penso che dovresti dirglielo.»

«Sharon, ho paura!», le confessò terrorizzata Krista.

«Tu? Paura? Fa un po’ ridere, sai?»

Krista la fulminò con lo sguardo, forse non lo trovava molto divertente.

«Scusa», disse subito seria Sharon, stringendo i denti e rivolgendosi un attimo verso il televisore. Tornò a guardare l’amica.

«Ma di che hai paura?», le chiese.

«Beh, lui… lui non ricambia i miei sentimenti», disse amareggiata.

«Non è detto.» Sharon si mise a braccia incrociate appoggiate al tavolino, sorridendo davanti a sé. Un barlume di speranza si accese nel cuore di Krista.

«Davvero? Tu credi?»

«Non è detto che ti ama, però nemmeno che non ti amerà mai. Vi conoscete da tanto ormai, avete un buon rapporto, Alex ti vuole bene, ma se tu non gli dici che cosa provi davvero, come fa a ricambiare?»

«Davvero? Davvero Alex mi vuole bene?» Aveva un sorriso a trentadue denti, gli occhi scuri contornati da trucco nero e pesante sgranati.

«Sì.»

«Evviva!» Non si era nemmeno accorta di avere alzato la voce e di aver gridato la sua gioia a tutti quanti, incluso il prof che per la prima volta si girò e la mandò fuori. Ma lei era troppo felice e uscì dall’aula saltellando.

Sharon era sotto al portico, mentre fuori diluviava ancora, che aspettava Stefan e Alex, da sola. Pure Krista l’aveva abbandonata, era venuto a prenderla suo padre e lei doveva rimanere lì inchiodata ad aspettare quei dementi che si ritrovava per cugini.

In quegli istanti in cui il rumore della pioggia azzittiva tutto il resto, ebbe modo di pensare alle mie parole, di rifletterci, ma non trovava un vero senso. Lei lo sapeva già in fondo che nella vita bisognava essere determinati, in tutto, ma allora perché glielo avevo ripetuto? Questo non se lo spiegava.

Stufa di aspettare, entrò di nuovo a scuola e salì al piano superiore, attraversò il corridoio largo e lungo con ai lati file e file di armadietti, raggiunse l’aula di Stefan e sbirciò dentro: un gruppetto di oche starnazzanti che spettegolavano e dall’altra parte dell’aula Stefan, ovviamente, con Alex e un altro ragazzo che sinceramente non conosceva e poi era girato di spalle, perciò l’impresa di riconoscimento era ancora più complessa. Lasciò scorrere quel particolare e chiamò i gemelli.

«Eccovi! Allora vi muovete?»

I tre si girarono e Sharon ebbe un tuffo al cuore vedendo che il ragazzo sconosciuto era lo stesso di quello delle macchinette. Lo aveva trovato, finalmente! Si sentii esplodere di gioia e allo stesso tempo tremava.

«Ah già! Mi ero dimenticato di te, scusa! Arriviamo!» Alex prese per il braccio Stefan e lo portò fuori, accanto a lei.

«Ciao! Se vuoi qualche sera ci vediamo, ok?», aveva salutato il ragazzo Stefan, con un gesto della mano e un sorriso sulle labbra. Alex prese anche il braccio di Sharon e fecero qualche passo per il corridoio, allontanandosi dall’aula. Sharon non faceva altro che guardare indietro, per vedere ancora il ragazzo.

«Aspetta!», disse fermandosi e tenendo con sé i gemelli.

«Che c’è? Perché ti sei fermata?», le chiese Alex.

«Perché… Stefan come si chiama quello?», disse Sharon nascondendo nelle tasche dei jeans le mani che non volevano smettere di tremare.

Stefan la guardò e capì tutto, un ghigno accompagnò la sua risposta: «Perché non glielo vai a chiedere tu?»

«Che cosa? Ma che sei scemo?! Dai, come si chiama?»

«Vaglielo a chiedere.»

«Ti prego Stefan! Ti supplico! Mi vergogno», ammise infine.

«Ma di che cosa? Dai, vai!» La spinse di nuovo verso la classe.

Sharon si fece coraggio e fece un respiro profondo. Si mise meglio la maglietta sui fianchi e si sistemò la borsa a tracolla sulla spalla. Sulla soglia della porta si trovò davanti al ragazzo. Per un attimo i loro sguardi si incrociarono e lei non fu più in grado di aprir bocca, la voce l’aveva abbandonata, e oltretutto diventò rossa.

«Ehi! Ma tu sei…», la indicò il ragazzo sorridendo sorpreso.

«Sì, so cosa stai pensando: la figlia di Bill Kaulitz, il cantante dei Tokio Hotel… Sì, sì, sono io.» Era abituata a quelle cose e perciò preveniva sempre tutti. Non la prendevano quasi mai, eccezione ad esempio era stata Krista, per ciò che era, cioè Sharon, ma per la figlia di uno dei TH. Non lo sopportava.

Si accorse improvvisamente che tutta la timidezza era sparita e aveva pure parlato. Si sorprese di sé stessa.

«Ma no, non intendevo quello! Sai che me ne frega… Volevo dire che tu sei la ragazza delle macchinette, alla Universal! Scusa se sono scappato quella volta, ma dovevo proprio andare.»

Sharon si sentì morire di fronte al suo sorriso e alla sua mano che si allungava verso la sua.

«Io sono Derek, piacere.» Un altro sorriso gli illuminò il viso e lei non poté non diventare rossa ancora.

«Ahm… io sono Sharon, piacere mio», gli strinse la mano e sorrise a sua volta, mettendoci tutta la sua buona volontà per non perdere il controllo.

Il suo angelo custode la salvò appena in tempo: «Sharon, ora dobbiamo proprio andare. Ci vediamo Derek!» Stefan le prese la mano e la portò via, salvandola da un altro imbarazzo. La giornata stava andando alla grande.

Arrivata a casa, aveva voglia di urlare al mondo tutta la sua felicità per il Ritrovamento del Ragazzo delle Macchinette Scomparso, o, più semplicemente, Derek.

Che nome stupendo. Che sorriso stupendo. Che sguardo stupendo. Che voce stupenda. Era stupendo lui!

Ma visto che c’era anche suo padre quel pomeriggio, non voleva che incominciasse a fare le scenate di gelosia per la sua bambina e che la tempestasse di domande, manco fosse in un telefilm poliziesco e lui fosse il poliziotto cattivo.

«Ciao a tutti! Siamo a casa!», urlò Sharon salendo sulle pattine con le scarpe bagnate, se no sarebbe stata sua madre a farle la scenata perché aveva portato acqua dappertutto.

«Ciao ragazzi», disse Tom scendendo dalle scale e vedendoli più bagnati che asciutti. «Come mai siete così bagnati?», chiese aprendo il frigo.

«Papà, hai notato che fuori diluvia?», disse Stefan lasciandosi cadere su una sedia del tavolo della cucina.

«Ora che ci penso… Eh già.» Rise e guardò il figlio sistemarsi inutilmente i capelli.

«Che avete fatto oggi?», chiese guardando Alex.

«Il solito. E in più ci siamo subiti un film noiosissimo sulla conquista dell’America. Però c’era anche la classe di Sharon, allora ci siamo divertiti un po’. Vero Sha?»

Lei entrò tutta contenta in cucina, canticchiando e muovendo la testa da una spalla all’altra, saltellando. Annuì, dopo di ché baciò suo zio sulla guancia e prese un succo dal frigo.

«Ah, e Sharon è uscita di testa», disse Stefan appoggiandosi con le braccia al tavolo, sorridendo.

Sharon lo guardò e gli disse solo con lo sguardo di stare zitto con qualsiasi parente di suo padre. Stefan alzò le mani e scosse la testa come per dire che non aveva colpe.

«È successo qualcosa di bello, Sharon?», le chiese suo zio. «Che ne so, magari… un ragazzo…»

Sharon si stava per strozzare con il succo all’albicocca. Alex intervenne e le tirò due pacche sulla schiena. Lei era diventata a dir poco bordeaux, ma ci era quasi abituata, capitava spesso in quel periodo. Respirò velocemente, evitando di guardare Tom.

«Ma che dici, papà. Se solo zio venisse a scoprire che alla sua bambina interessano i ragazzi, come per altro ad ogni ragazza della sua età, non la farebbe uscire per mesi di casa. Sai meglio di noi com’è, no? È solo che ha preso un bel voto nella verifica di matematica, non ci sperava proprio. Non è così Sharon?»

Lei ringraziò il cielo per averle dato un cugino furbo e intelligente come Alex.

«Sì, proprio così.» Si era salvata per il rotto della cuffia. Ringraziò il cugino con uno sguardo. Lui sorrise e guardò il padre.

«Non parlatemi di matematica, che oggi è stato un incubo!», disse Stefan mettendo la testa sul tavolo. «Almeno voi non avete fatto espressioni per due ore. Beati voi.»

Tom sorrise e appoggiò il bicchiere nel lavello. «Sì, ricordo che pure io odiavo matematica.»

«Pure io!», dissi alzando la mano entrando in cucina.

«Ciao piccola», Tom mi stampò un bacio sulle labbra.

«Mi chiami ancora piccola? Non credi che non sia più il caso? Non sono più piccola.»

Tom mi prese per i fianchi e mi avvicinò a lui, sorridendo. «Fa niente, le buone abitudini non passano mai.» Un altro bacio, ridendo.

«Che carini», disse Sharon sciogliendosi sulla sedia accanto a Stefan.

«Dici? Eh sì. Sai come ho lottato per tenermelo stretto?», dissi guardando Tom e sorridendo.

Solo allora Sharon capì il senso di ciò che le avevo detto quella mattina, in macchina. Si alzò e corse fuori dalla cucina, incontrando anche suo padre.

«Ma dove vai così di fretta?», le chiese Bill mentre la guardava prendere la cartella e salire di corsa le scale.

«Ciao papà», gli stampò veloce un bacio sulla guancia tornando indietro, «Sono di fretta.»

Ma dovette riscendere di corsa poco dopo, in quanto Krista era alla porta e stava suonando il campanello. Spostò di peso Stefan, che stava aprendo, e aprì lei la porta. Doveva dire subito di Derek a Krista.

«Ciao Krista!», la salutò saltandole quasi in braccio.

Non si era nemmeno accorta che fuori aveva smesso di piovere e tra le nuvole bianche spuntava un timido sole.

«Ehi calmati pazza! Cos’è tutto questo entusiasmo? Che è successo?» La fece entrare di corsa e la prese per le spalle guardandosi bene intorno.

«L’ho visto!», le gridò sussurrando facendo i salti di gioia.

«Chi? Chi hai visto?» Le fece segno di abbassare la voce con la mano.

«Lui, il ragazzo delle macchinette! È in classe di Stefan, è un suo amico!»

«Wow! Magnifico! Hai ritrovato il tuo principe azzurro caduto da cavallo! Complimenti!», la abbracciò felice saltando con lei.

«Ciao Krista, qual buon vento?», disse Bill scendendo dalle scale con dei fogli sotto braccio. Krista gli si precipitò dinnanzi, abbracciandolo per il braccio.

«Salve», si sciolse, guardando quegli occhi nocciola profondi che la mandavano in estasi. Sharon le voleva bene comunque, anche se aveva un debole per suo padre ed ogni volta che c’era lui diventava una caramellina.

«Beh, Krista? Per cosa eri venuta?», chiese Sharon.

Krista si staccò dal braccio di Bill e prese l’amica per le spalle, entusiasta. «Indovina?!»

«Cosa?», chiese Sharon.

«Indovina!»

«Che cosa devo indovinare?! Non lo so! Dimmelo tu!»

«Sabato suoniamo alla festa della scuola!»

Assieme a Krista, avevano creato una specie di band, in cui Krista suonava la batteria. Sharon cantava, assieme ai gemelli che facevano i cori, e suonava il basso; invece i gemelli la chitarra.

«Ah. Fantastico.»

«Non sei felice?! Ci esibiremo davanti all’intera scuola!» Le prese l’orecchio e le sussurrò: «Anche davanti al tipo che ti piace. Come hai detto che si chiama? Derek? Ci sarà anche lui.»

Sharon fece un salto con il pugno in aria: «Mettiamoci subito al lavoro! Abbiamo solo tre giorni e ce la dobbiamo fare!»

«Brava Sharon, così di fa», disse suo padre, che non si era perso nulla (a parte quello che Krista le aveva sussurrato all’orecchio, ovviamente), avvicinandosi alle due.

«Credo abbiate molto da fare, perciò… Krista, ti fermi a cena?» Lei si aggrappò ancora al braccio di Bill.

«Sììììììì», disse reggendosi in piedi per miracolo.

«Ok, va bene. Dillo a tua madre però.»

«Sììììììì», un altro sospiro sorridente, incantato.

Tutto cambiò appena vide Alex uscire con il fratello dalla cucina. Si staccò dal braccio di Bill e andò di fianco all’amica.

«Oh, ciao Krista. Quando sei arrivata?», chiese Alex.

«Ahm…» Sembrava che anche a lei nei momenti di imbarazzo la voce la lasciasse; diventò perfino rossa.

«Adesso, è arrivata adesso. Dobbiamo andare a provare, sabato dobbiamo suonare alla festa della scuola, sapete? E abbiamo solo tre giorni, dobbiamo dare il massimo, ok?», disse Sharon aiutando l’amica.

«Ok, va bene», disse Stefan.

«Allora andiamo di sopra, dai Krista.» Alex le prese la mano e la portò di sopra, anche se lei conosceva a memoria quella casa. Si sentì bruciare la faccia ancora una volta quando la sua mano venne presa dal ragazzo. Sharon guardò suo padre e alzò le spalle sorridendo.

«Che ci vuoi fare, è la mia migliore amica.» Corse di sopra anche lei. 

 

***

 

Il giorno della festa era agitatissima, tremava e lo stomaco le si contorceva. Si era vestita anche per l’occasione: un vestito lungo fino alle ginocchia rosa shocking e nero, le donava molto sul suo fisico snello e alto, e delle All Star nere. I capelli erano ricci sulle spalle e sugli occhi quel filo di matita nera che la rendeva più intrigante.

Rilassati Sharon, andrà tutto bene, se lo ripeteva all’infinito.

Era accanto al palco, in pratica dietro le quinte, dove c’eravamo anche io, Tom, Sarah, Bill e Anto, assieme a Stefan, Alex e Krista, lei con le bacchette nere in mano.

«Ma Gustav e Georg?», chiese Bill guardandosi intorno.

«Non so, dovrebbero arrivare a momenti. Ah, eccoli là!»

Tom indicò le macchine di Georg e Gustav, da cui scesero assieme a mogli e figlie. Anne e Christin, rispettivamente figlie di Gustav e Georg, avevano due e un anno in meno di Sharon, ma sembravano molto più grandi.

«Ciao, tutto ok?»

Le due ragazzine salutarono tutti e poi guardarono la gente che c’era davanti al palco.

«C’è proprio tutta la scuola, ne?», sogghignò Christin.

«Piantala Christin! Non vedi com’è tesa Sharon? Smettila», disse Anne incominciando una litigata con Christin, come al solito.

Sarah saltellava tra le due per cercare di farle smettere, ma non aveva speranze, poverina. Per la sua sanità mentale, Tom la tirò via di lì e se la strinse al petto protettivo.

Sharon non era impegnata a guardarle e nemmeno ad ascoltarle se era per quello, piuttosto cercava Derek in mezzo a tutta quella gente. La cosa la mandava fuori di testa. Se non c’era, allora tutti gli sforzi che aveva fatto per lo show sarebbero risultati inutili.

«L’hai trovato?», le chiese all’improvviso Stefan, sussurrandole all’orecchio. Lei si spaventò e si girò verso di lui con le mani sopra i fianchi.

«Spaventata? Scusa.» Stefan ridacchiò e prese Sharon per le spalle. «Allora, l’hai trovato il tuo Derek?»

«D-Derek? E perché dovrei trovarlo?»

«Così. Dai, si vede che ti piace. Ma vi conoscevate già?» Sharon sospirò e spiegò tutta la storia al cugino, facendo molte pause. «Ah, allora è andata così. Ma lo sai che gli piaci?»

«Che cosa?» Sharon era senza parole, il cuore le batteva a mille.

«Proprio così. Quando ha scoperto che eri mia cugina non ci credeva, giuro. Non ti sto prendendo in giro. Sharon, adesso devi concentrarti solo a cantare e a suonare, tutto il resto non conta, capito?», le sorrise e la baciò sulla guancia. «Sono contento che ti piaccia Derek, è un bravo ragazzo, e poi lo posso sempre tenere sotto controllo. Non gli permetterei mai di fare del male alla mia cuginetta preferita.»

«Grazie Stefan. Allora, pronto?»

«Io sì, ma c’è un certo gemello e una certa batterista che… non credo, sai?», si girò e gli indicò Krista e Alex che si parlavano sottovoce, sorridendo, tenendosi le mani, isolati da tutti gli altri, appoggiati ad un albero, e ogni tanto si scambiavano teneri baci sulle labbra.

«Io lo sapevo che quei due si piacevano! Lo sapevo, lo sapevo!»

Anche io e Tom ci eravamo accorti di loro, ma non ci facevamo troppo caso.

«Ma quello è Alex?», mi aveva chiesto Tom.

«Sì, perché?»

«Perché non l’avevo mai visto all’opera.»

«All’opera? Ma Tom!»

«Che c’è? Beh, comunque ti assomiglia tanto.»

«Perché fa il tenero? Anche tu facevi il tenero a volte», gli accarezzai la guancia sorridendo.

«Sì, ma tu lo sei sempre stata. E io il tenero lo faccio quando voglio, sai? Ti amo, sai anche questo?»

«Sì», lo baciai sulle labbra. Vidimo correrci accanto Sharon, per mano a Stefan, che andavano verso Alex e Krista.

«Ehi voi due! Farete i piccioncini dopo, ok? Ora dobbiamo andare», disse spiccio Stefan, prendendoli e trascinandoseli dietro.

«Siete pronti?», chiese Bill sorridendo.

«Certo!», disse Krista tirando fuori le bacchette dalla tasca dietro dei suoi jeans scuri.

«Bene, date il massimo! Mi raccomando Sharon», la prese per le spalle e la guardò negli occhi: «Fammi divertire, ok?», le sorrise e la baciò sulla guancia, sull’osso della mandibola, proprio sotto l’orecchio. Sharon sorrise e si infilò il basso al collo.

«Farò del mio meglio, dimmi buona fortuna.»

«Ah, non ti serve la fortuna per fare bene.»

Sharon guardò ancora il padre e gli fece una linguaccia, poi salì sul palco, quando già i gemelli e Krista erano ai loro posti. Si scambiarono tutti uno sguardo e mentre i ragazzi incominciavano ad acclamarli, si accesero le luci sul palco.

Alex guardò Krista e poi il gemello, infine Sharon, tutti sorridevano contenti. Partì con la prima canzone Krista accompagnata da Stefan e la voce di Sharon.

Durante quella canzone non aveva suonato il basso, aveva solo cantato e mentre cantava guardava sorridendo Stefan, tenendo il microfono in due mani, muovendosi sul palco e incitando gli altri. C’era molta complicità tra tutti.

Alla terza canzone aveva tirato fuori tutto il suo spirito punk, imitando egregiamente la mitica Avril Lavigne.

Quei tre brani erano stati un vero successo. Ci avevano messo l’anima e ne era valsa la pena.

«Ehi! Non vi sento molto, sapete? Fate un po’ casino, dai!», sporse il microfono verso il pubblico. Si espanse un boato di urla. «Wow!» Sharon sorrise e prese una bottiglietta d’acqua e bevve, guardando Stefan.

«Forse dovrei presentarvi i miei compagni d’avventura, forse di sventura, vedremo se sarete abbastanza cool!», disse guardando i ragazzi. Sul palco sembrava un’altra persona, ci sapeva fare.

«Incominciamo da qui», andò accanto a Stefan. «Alla prima chitarra, Stefan!»

Tutte le ragazze presenti gli fecero una vera e propria ovazione, gridando come matte.

«Grazie!», disse Stefan alzando un braccio e salutando, facendo poi un piccolo inchino con la testa.

«Bene, poi vediamo. Alla seconda chitarra, Alex!» Anche per lui tutte le ragazze gridarono, cosa che lo lasciò abbastanza perplesso. «Non so che dire, grazie», disse intimidito, mentre Krista gli lanciava sguardi di gelosia.

«Per ultima, ma non meno importante… Krista! Alla batteria!» Lei si alzò in piedi con le bacchette nei pugni.

«E poi ovviamente ci sono io. Spero che la serata continui così! Siete forti!»

Rimise il microfono sull’asta e scambiò qualche parola con Stefan, che annuiva. Tornò con tre sgabelli, che mise in mezzo al palco, davanti alla batteria. Sharon si mise seduta in mezzo e sorrise ai gemelli, con le chitarre acustiche in grembo, ai suoi fianchi.

«Bene, la prossima canzone è una canzone particolare, ha un significato particolare più che altro. È stata la colonna sonora di un’intera vita di due miei cari, e così… gliela vorrei dedicare. Grazie.» Diede l’attacco e Stefan e Alex iniziarono a suonare.

«Ma questa…» Io e Tom ci guardammo e ci abbracciammo, emozionati.

«La nostra canzone Tom», dissi con un filo di voce, gli occhi lucidi, il mento appoggiato alla sua spalla.

«Sì, la nostra canzone. Sembra passato così tanto tempo.»

«Ma è passato tanto tempo, siamo noi che non siamo mai cambiati. Ne abbiamo passate tante, insieme, non è vero?»

«Proprio tante. E ne passeremo ancora tante insieme?»

«Certo.»

«Mamma, papà, anch’io voglio abbracciarvi!»

Guardammo Sarah e ci sorridemmo. La sollevai e ci abbracciammo tutti e tre con in sottofondo la mia canzone preferita, quella che aveva accompagnato tutta la nostra vita assieme, mia e di Tom, come aveva detto bene Sharon.

Tornati sul palco per cantare le ultime canzoni dopo una breve pausa, ancora con l’adrenalina in corpo, Sharon andò dritta al microfono guardando a terra, sorridente. Alzò lo sguardo e solo allora si accorse che infondo al giardino, dove c’erano tutti i motorini, c’era Derek, che appena si accorse di lei corse e si fece spazio di tutti, per vederla dalla prima fila. Lui sorrise e lei ricambiò, arrossendo leggermente sulle guance.

Forse servivano anche un po’ a quello le canzoni: a esprimere i propri sentimenti. Cantando quelle parole dolci, di una canzone che aveva scritto lei, guardava intensamente Derek, come se gli stesse parlando, come se gli dicesse senza musica quelle parole. E Derek sorrideva, ricambiava i suoi sentimenti.

Finita la canzone, Sharon, Stefan, Alex e Krista si guardarono sorridendo, ridendo, da quanto erano felici. In più c’era da aggiungere per Sharon che aveva trovato il suo principe.

«Sharon, vuoi stare con me?», urlò Derek diventando leggermente rosso sulle guance. Stefan e Alex guardarono la piccola Sharon a bocca aperta e sorrisero. Così Krista, che si alzò e la spinse giù dal palco, tra le sue braccia.

«Ehm… ciao», lo salutò sorridendo. Lui le sorrise e la baciò sulle labbra, conquistando gli applausi di tutti.

«Yuppie!», gridò Krista raggiungendo Alex e stampandogli un bacio pure lei.

«Ma cos’è tutto questo casino?», chiese Bill, poi sbirciò sul palco e ne rimase paralizzato. La sua piccola Sharon si stava baciando con un ragazzo. Stava per imperversare sul momento quando prima una mano, poi dieci lo presero e lo strattonarono via, trattenendolo lì con la forza.

«Lasciala vivere Bill», gli disse Tom sorridendo.

Bill si scrollò e si mise a braccia incrociate. «Ma che succederà se…»

«Bill, pazienza! Si impara sbagliando, no? Lasciala vivere, Tom ha ragione. E poi quel ragazzo lo conosciamo!», dissi prendendo la mano di Tom nel frattempo.

«Ah sì? E chi è?», chiese Bill ancora non capendo.

«Sai quella nuova, quella che è venuta da voi dall’Italia? È suo figlio!»

«O mamma, ma è vero!», sbirciò ancora sul palco.

«Quindi, lasciala vivere, poverina. Sei possessivo e geloso peggio di… non ce n’è peggio di te!», dissi ancora io in coro ad Anto, sorridendo.

«Ok, ok. Le lascerò i propri spazi d’ora in poi, va bene?»

«Perfetto!», dissimo tutti in coro.

Derek la aiutò a salire di nuovo sul palco e le fece un sorriso. Le canzoni erano finite, ma Sharon aveva ancora voglia di cantare dalla gioia. Le venne un’idea. Radunò Stefan e Alex alla batteria, con Krista, e gli propose un ultimo pezzo. Tutti la trovarono una grande idea.

«Bene! Questa è l’ultima canzone, personalmente è una delle mie canzoni preferite. Spero piaccia anche a voi! Grazie! Grazie per essere stati con noi, davvero! È stato bello! Grazie mille!»

Sharon si mise il basso al collo e il microfono sull’asta scura. «Vai Ste! Vai Alex!», aveva gridato, dandogli l’attacco, poi partì lei con il basso, dopo Krista e infine ancora Sharon con la voce. Inconfondibile quella melodia, quelle parole. I TH rimasero a guardare commossi, onorati ed orgogliosi i ragazzi che suonavano, cantavano, davano tutto con quella canzone: Wir sterben niemals aus. 

 

E così, un giorno qualunque, di un mese qualunque, di un anno qualunque, divenne il giorno più importante della sua vita.

 

_____________________________________

 

 

Buongiorno a tutti! ^-^ Come state? Spero bene!
Come vi è sembrato questo capitolo? Si parla soprattutto di Sharon e del suo primo amore vero, dopo la mezza cotta di Alex xD
Spero vi sia piaciuto! *-*

Ringrazio niky94, Tokietta86 (Qualcosa con Sarah ci sarà, anzi è un personaggio importante *-* ed è uno dei miei preferiti! Metterò qualche flashback, non so quando però sì xD) e Utopy (Luv ya ©)che hanno recensito lo scorso capitolo; e tutte le persone che leggono soltanto :)

Grazie a tutti, alla prossima! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 10
*** I want to fall in love! (Part I) ***


 

Capitolo 4

I want to fall in love! (Part I)

 

Stefan guardò Alex abbracciato a Krista, ridere, scherzare e fare l’affettuoso con lei, coccolarla e poi baciarla.

«Stefan? Ehi Stefan?» Sharon gli diede un colpo sul braccio per farlo rinvenire.

«Eh, che c’è?», le chiese.

«Non lo so, che c’hai tu! A che stavi pensando?»

«A niente.»

«Sei sicuro?»

Evitò di guardarla negli occhi, non avrebbe resistito a confessarle tutto, anzi, sarebbe stata lei a cavargli le parole di bocca, senza che nemmeno lui se ne rendesse conto. Erano molto legati, quindi non riusciva nemmeno a mentirle. Bel problema. La campanella lo salvò.

«Beh, ne parliamo a casa», disse Sharon baciandolo sulla guancia, facendo crescere dell’invidia in alcune ragazze smorfiose che da sempre andavano dietro a Stefan, il ragazzo forse più bello della scuola, ma che lui non calcolava nemmeno.

Gli sarebbe piaciuto innamorarsi sul serio. Avrebbe voluto, ma poi si accorgeva che lui poteva avere tutto quello che voleva, che di ragazze ne poteva avere quante ne voleva, allora non si scomodava molto a cercare, era annoiato dalle stesse ragazze che frequentava, perché erano così perennemente ai suoi piedi che non c’era gusto. Non aveva mai dovuto sudare per una ragazza, conquistarla per averla, a lui era sempre semplicemente bastato guardare il suo cellulare che conteneva più o meno tutti i numeri delle ragazze della sua scuola, e oltre, e chiamarne una quando aveva voglia o tempo libero. Era un passatempo, ecco. Non si era mai innamorato veramente. Vedendo suo fratello, però, così felice, così preso da Krista, veniva pure a lui la voglia di innamorarsi. Ma l’amore non si cercava, lo sapeva pure lui, l’amore ti doveva trovare e ti doveva sconvolgere dentro, se no non era amore vero. Lui voleva innamorarsi e non sapeva quando sarebbe successo, non riusciva a darsi pace.

Si mise seduto al suo banco, ultima fila accanto alla finestra, ben lontano dai professori. Nascose la faccia tra le braccia, in preda ad un momento di depressione.

Ma lo troverò mai io l’amore?, si chiese.

Gli venne in mente suo padre, in una conversazione che avevano fatto un po’ di tempo prima: «Tutti, prima o poi, si innamorano. Almeno, così la penso io. Ma è logico. L’amore però è una cosa complicata: non va cercato, ma va aspettato. Io non mi facevo molti problemi, mi godevo la mia vita, la mia fama. Fino a quando, quel bellissimo giorno, ho incontrato la donna della mia vita, tua madre. Lei sì che mi ha trovato e mi ha rapito il cuore. Ma tutto è successo per purissimo caso. Chiamala fortuna, chiamalo destino, chiamalo come vuoi, ma ho trovato la mia metà. Vedrai, succederà anche a te. Devi solo saper aspettare.» Ok, ma forse lui non era così paziente.

«Allora ragazzi, un po’ d’attenzione.»

Stefan alzò la testa e si decise ad ascoltare il professore tanto per distrarsi.

«Dovrete fare, per la settimana prossima, un lavoro a coppie.»

Si innalzarono diversi cori, ma tutti che confermavano quanto fosse… divertente e… simpatico fare un lavoro a coppie durante il week end, rimanendo tappati in casa: ci sarebbe stato più entusiasmo in un cimitero.

Stefan era rimasto indifferente, avrebbe lasciato fare tutto al suo compagno o compagna che fosse. Sì, perché era ammirato anche dai ragazzi, che lo trattavano più o meno come un re. Gli unici maschi che lo prendevano sul serio come un ragazzo normale, con i suoi bei difetti, erano suo padre, che quando discutevano si sentiva pure dall’altra parte del mondo visto che avevano lo stesso identico carattere; suo zio; e suo fratello gemello Alex, con il quale aveva vissuto tutta la vita, che lo conosceva meglio di chiunque altro e, cosa più importante, lo prendeva così com’era.

«Silenzio, per favore. Dicevo. Dovrete fare un lavoro a coppie su uno Stato, una Nazione alla quale tenete particolarmente, o che vi piace, vi interessa. Tutto chiaro? Qualche domanda? Nessuna, bene. Allora procediamo con l’estrazione delle coppie.»

La mora tutta curve davanti a lui si girò e lo guardò ammiccante: «Spero di capitare con te, tesoro.» Gli soffiò un bacio e Stefan ripiombò con la testa fra le braccia. Lui sperava di no, perché con il cervello da gallina che si ritrovava, per non prendere un altro voto negativo, avrebbe dovuto sgobbare lui stesso.

Il professore tirò fuori la busta con i numerini che di solito si usava per le interrogazioni, ma che andava benissimo anche in quel caso. Si iniziarono a formare le coppie e finalmente toccò a Stefan.

«14, Kaulitz.» Stefan si alzò in piedi appena sentì chiamato il suo nome. Guardò il professore estrarre un altro numerino. «23, Stuart.»

Michelle Stuart, primo banco, prima della classe, odio istintivo verso gli sfrontati e i palloni gonfiati e un odio particolare verso Stefan Kaulitz. Non le aveva fatto nulla di male in fondo, a parte tormentarla sin dalle elementari appellandole nominativi come Quattrocchi oppure Secchiona.

Ma proprio con lei dovevo capitare? Pure Stefan la odiava e non poco, il motivo era semplicemente perché lei era forse l’unica che gli rispondeva sempre, in qualsiasi modo, e perché non gli sbavava dietro come le altre. Avrebbe preferito una gallina senza cervello, anche se si sarebbe dovuto ammazzare di lavoro, piuttosto che lavorare con quella. Non si potevano vedere.

Michelle fece una smorfia e roteò gli occhi, pregando qualcuno lassù che quello fosse solo un incubo. Anche Stefan stava pregando in effetti. Ma, no, quella era la realtà e avrebbe dovuto lavorare con lei. L’unica consolazione era forse quella che con lei avrebbe preso di sicuro un bel voto, cosa che sarebbe giovata molto alla sua situazione.

Al suono della campanella, alla fine delle lezioni, quando rimasero soli in classe, Stefan andò da Michelle per chiarire alcune cose. «Noi dobbiamo parlare», disse duro appoggiando entrambe le mani sul suo banco. Lei alzò lo sguardo e si tirò su gli occhiali.

«Non ci sono dubbi», disse lei in un modo che veramente lo infastidì parecchio. Cercò di farsi forza e di non cedere, quindi fece un respiro profondo e continuò.

«Dobbiamo fare questa cosa assieme, no?»

«Sì.»

«Quindi, non pretendere chissà che cosa da me. Io mi limiterò a firmare infondo ai fogli.»

«Non penso proprio! Il lavoro, se si chiama a coppie, vuol dire che ci devono lavorare due persone, comprendi? In poche parole, ci lavori anche tu, come me.»

«Te lo puoi anche scordare! Io ho ben altro da fare!»

«E io no?» Michelle si alzò in piedi di scatto e raccattò i due libri che aveva sul banco, portandoseli al petto.

«Tu, qualcosa da fare? Cosa avrà mai da fare una secchiona come te?»

«Qualcosa di idealmente costruttivo, non certo le cose che fai tu. Anche se parlare con te è peggio che parlare con un babbuino, loro sono più intelligenti.»

«Certo. Ascolta, carina, questo era il primo punto. Secondo: che Stato si fa? Tanto per sapere.»

«Inghilterra, ovviamente, la mia seconda patria.»

«Ma figurati. Si farà l’Italia, la mia di seconda patria.»

«L’Italia? Ma tu sei tutto matto! Si farà l’Inghilterra, punto.» Prese la sua borsa e se la mise sulla spalla, quasi con rabbia.

«No, sei matta tu! Si farà l’Italia.»  

«Inghilterra!»

«Italia!»

«Inghilterra!»

«Ok, testa o croce?» Stefan prese una moneta dalla tasca dei jeans.

«Niente di meglio di una bella dose di fortuna, eh? Testa.»

«Allora io dico croce. Dovresti ringraziarmi, ti ho fatto scegliere per prima.»

«Manco morta!»

Stefan lanciò la moneta e la riprese in mano al volo, la mostrò a Michelle. «Croce. Vedi? Con la gentilezza si ottiene tutto.»

«Questo gioco è basato totalmente sulla fortuna, c’è un cinquanta percento di possibilità per entrambe le facce della moneta, quindi…»

«Quindi si fa l’Italia, è deciso.» Stefan fece per andare, ma Michelle lo prese per un braccio.

«Fermo, dove credi di andare? Manca un punto su cui discutere, perché so già che si discuterà.»

«Con te è normale discutere. Allora, qual è questo punto?»

«Quando ci vediamo e dove?»

«Ahm… dimmi tu un giorno, non ci sono problemi.»

«Mercoledì.»

«Sicura? Non hai qualche gara di matematica, un raduno di cervelloni, una lettura della bibbia, no?» 

«No, simpaticone. Ma quando crescerai?»

«No, sei tu che sei infantile. Io sono cresciuto da un pezzo.»

«Va bene, l’importante è esserne convinti. Allora mercoledì pomeriggio a casa mia?»

«A casa tua?! Ma stai scherzando vero? Non se ne parla! A casa mia.»

«No, non ricominciamo a discutere. Tu hai deciso lo Stato, adesso tu vieni a casa mia.» Era testarda come nessun’altra ragazza che conosceva.

«Vedo che non ci capiamo proprio noi due. Bene, ricorreremo ancora alla moneta.»

«Sì, almeno forse ci liberiamo della presenza dell’altro.»

«Era quello che stavo pensando io.»

«Sei capace anche di pensare? Wow, non lo sapevo!»

«Acida come sempre, eh? Testa o croce? Non so come mai, ma voglio farti decidere ancora a te.»

«Grazie, gentilissimo. Sempre testa.»

«Ok, sempre croce.» Lanciò ancora la moneta e Michelle guardò nella sua mano, poi il suo sorrisetto soddisfatto sulle labbra.

«Come vedi, la fortuna non mi abbandona», disse Stefan, visto che era uscita di nuovo croce.

«Sì, certo», disse Michelle a denti stretti.

«Bene, siamo arrivati ad un accordo, finalmente! Mercoledì pomeriggio a casa mia», disse Stefan. «Mi dai il tuo numero? Così se c’è qualche problema ti chiamo.»

«Tu quali problemi seri potresti avere? Mah. Va bè, tieni.» Gli diede il numero e Stefan le diede il suo, anche se per puri fini scolastici, nulla più.

«Ok, fino a mercoledì non ci saranno più discussioni!», disse Stefan abbandonandosi alla sedia.

«Sicuramente, visto che discuto solo con te quando si presenta l’occasione. Ciao.» Michelle girò i tacchi e se ne andò a passo sicuro, senza guardarsi mai indietro.

Quanto non la sopportava. Stefan si mise meglio lo zaino sulla spalla e uscì anche lui dall’aula silenziosa, raggiungendo Alex, Krista e Sharon fuori da scuola che aspettavano solo lui. Però non avrebbe detto niente, non gli andava proprio. Pensarla lo rendeva nervoso e incazzato con tutti, solo pensarla! 

Durante tutto il tragitto scuola-casa era stato uno strazio: vedeva continuamente Alex e Krista abbracciati o che si tenevano per mano, che si parlavano a bassa voce e che sorridevano guardandosi negli occhi, proprio come due piccioncini. Non vedeva l’ora di tornare a casa e chiudersi in camera sua fino all’ora di cena, anche se di mangiare non ne aveva la minima voglia. Michelle gli aveva fatto passare l’appetito.

Michelle. Non poteva farci niente, continuava a pensarla, e più la pensava, più si incazzava. Ma non riusciva a non pensarla: lei, con quegli occhiali fini e di un fucsia metallizzato; lei, con il suo modo di vestire un po’ stravagante, ma con un suo stile; lei, con quei capelli castani sempre raccolti sulla nuca con un mollettone; lei, con quegli occhi scuri che lo fissavano un po’ infastiditi; lei, con le sue battutine così irritanti sempre pronte; lei, che riusciva sempre a tenergli testa ed uscire sconfitta con stile; lei, che per niente al mondo si sarebbe messa con uno come lui. Stefan si sentiva strano, sempre di più. Evitò di pensarci ancora, e così fu per la bellezza di dieci minuti in cui aveva intrapreso un discorso dei loro con Alex.

«Stefan, ma non lo capisci che la scuola è importante?!»

Andavano avanti così, botta e risposta, da dieci minuti. Stefan gli avrebbe piazzato volentieri un pugno sul naso, ma non avrebbe potuto, quello era Alex, suo fratello gemello, parte di lui e della sua anima, forse quella più riflessiva ed intelligente.

«Vedi di impegnarti in questo lavoro a coppie. Se prendi un’altra insufficienza chi la sente mamma. Non riusciresti più a recuperare le tue lacune.»

Lacune. Ma quando imparerà a parlare come un ragazzo della sua età?

«A proposito, con chi dovrai lavorare?»

Lo sapeva che gliel’avrebbe chiesto. «Con una.»

«Cos’è, non me lo vuoi dire?»

Fu Krista sta volta a salvarlo. «Alex, io devo girare di qui, ricordi? Ci sentiamo dopo?»

Alex si girò e guardò la sua Krista. «Sì, certo! Ciao», la baciò morbido sulle labbra e Stefan si sentì ribollire il sangue nelle vene. Alex sì, lui no, perché?

Krista sorrise e si avviò verso casa sua, separandosi dal gruppo. Alex parve essersi dimenticato del lavoro a coppie e di tutto il resto, ma in Stefan aveva fatto ritornare il pensiero di Michelle.

Ma dai Stefan, cercò di ragionare. Non poteva essersi innamorato di una così. Cioè, erano totalmente diversi, non poteva essere. No, non poteva essere. Ma continuava a sentirsi strano. Ci passò sopra un’altra volta.

Appena entrato in casa, anche lì, mi sentì ridere in cucina, poi la voce di suo padre aggiungersi alla mia. Si affacciò con gli altri alla cucina e vide me e Tom abbracciati, che guardavamo Sarah disegnare una delle sue opere d’arte pasticciate. Tutti felici, tutti che si amavano… non ne poteva più.

«Ciao! Cucciolina, come stai?», chiese Alex entrando in cucina, mollando lo zaino sulla porta, come poco dopo fece Sharon, e catapultandosi da Sarah per baciarle a fronte.

«Sto bene, ho solo un po’ di tosse», sorrise.  

«Mannaggia questa tosse che non va via!», le scompigliò i capelli.

«Allora, com’è andata oggi?», chiese Tom.

«Una vera merda», disse piano Stefan lanciando lo zaino sul divano e poi lanciandosi lui. Si mise le mani sul viso e fece un respiro profondo.

«Perché, cos’è successo?», chiesi.

«Ma niente, ha la luna storta oggi, tutto qui», intervenne Alex facendogli un grosso favore.

«Sicuro Stefan?» Mi avvicinai al divano e mi misi seduta accanto a lui. Gli spostai i capelli dalla fronte e gli accarezzai la guancia. «Sicuro che sia solo per quello?», gli chiesi ancora abbassando un po’ la voce.

«Sì mamma, è che sono solo stanco.»

«Stefan, non mi convinci affatto. Non ne vuoi parlare?»

«No mamma, non mi va.»

«Guarda che è meglio se ne parli con qualcuno, sfogati dai.»

«No mamma, ho detto di no. Basta, lasciami in pace.» Si alzò bruscamente, prese lo zaino e corse di sopra in camera sua. Mi girai sul divano e guardai Tom.

«Cavolo quanto ti assomiglia», dissi.

«Eh già, identico», disse lui annuendo. Chiusimo tutti gli occhi quando la porta della sua camera venne sbattuta forte.

«Sì, proprio identico.»

 

Stefan lanciò di nuovo lo zaino, ma senza una traiettoria ben precisa, infatti finì contro il cestino spargendo tutte le cartacce a terra. Perfetto. Stefan non si pose nemmeno il problema e si tuffò sul suo letto. Avrebbe voluto dormire, per far passare il tempo e far sì che quella giornata di merda finisse, ma non aveva sonno, quindi era destinato ad aspettare l’alba del giorno seguente senza trucchi.

Gli capitò di pensare ancora a Michelle, sentendosi ancora più strano. Che cavolo gli stava succedendo? Prese il suo cellulare per distrarsi, ma inconsciamente andò in rubrica a cercare il numero di Michelle. Rimase a fissarlo senza sapere che fare. Scosse la testa come per ripigliarsi, chiuse il cellulare e lo mise sul comodino. Si sistemò meglio sul letto e chiuse gli occhi al soffitto. Li riaprì di colpo dopo aver visto nella sua testa la figura di Michelle. Iniziava a preoccuparsi. Si alzò dal letto e fece un giro per stanza, scalciando via tutto quello che trovava, anche se era roba sua.

Basta, adesso basta Stefan. Ti stai comportando come un bambino. Adesso ti calmi, ti sdrai, ti ascolti la musica, ti rilassi, e non ci pensi più, ok? Ok.

Prese le grandi cuffie di suo fratello e si rituffò sul letto con una pila di cd in mano, pronti per essere ascoltati tutti, dal primo all’ultimo, senza interruzioni. Si lasciò andare alla musica e chiuse gli occhi, non sentendo altro che quella, non pensando ad altro che alle parole, cantandole a squarcia gola quando sapeva una strofa per intero. Purtroppo non andò tutto secondo i piani, visto che piombò in camera sua Sharon, che lo guardò con le mani ai fianchi.

«Che cosa vuoi?», le chiese annoiato, sapendo già in realtà cosa volesse sapere e sentire da lui, togliendosi le cuffie dalle orecchie e mettendosele intorno al collo.

«Che cosa voglio? Lo sai benissimo che cosa voglio. Ma che ti prende Stefan, è tutto giorno che stai così!»

«Sono stanco, ho la luna storta… Ti vanno bene come spiegazioni?»

«Vedi come fai? No, non mi vanno bene perché non è la verità. Stefan, noi ci siamo sempre detti tutto, perché ora…»

«Senti, ma non hai altro da fare tu che rompere a me? Che ne so, dov’è Derek?»

«È a casa malato, te l’ho detto stamattina e oggi a scuola non c’era. Non te ne sei accorto?»

«Va bè, fa niente. Perché non lo vai a trovare?»

«Perché preferisco mille volte stare con mio cugino che ha un problema e magari aiutarlo in qualche modo, se posso.»

«Evidentemente non puoi, ok? Adesso mi lasci in pace?»

Sharon lo guardò e uscì dalla camera sbattendo la porta. Stefan fece un altro respiro profondo e si immerse di nuovo nella musica, alzando anche un po’ il volume.

 

«Allora?», chiesi a Sharon appena arrivò in salotto.

Alex era sdraiato sul divano a leggere, il cellulare sulla pancia, pronto a rispondere; Tom era sulla poltrona e io in piedi che vagavo preoccupata nel salotto, facendo avanti e indietro.

«Allora che cosa? Non vuole parlarne neppure con me!», disse Sharon versandosi dell’acqua in un bicchiere, in cucina. Sbuffai e mi misi le mani sui fianchi.

«È inutile, dovete lasciarlo stare», disse Alex.

«Non ce la faccio a vederlo così», dissi mettendomi una mano sulla fronte.

«Ary non ti preoccupare, adesso ci vado a parlare io, ok? Ci provo.» Tom mi fece sedere al suo posto e salì di sopra.

 

Bussarono ancora alla porta. E adesso chi era che rompeva?

«Stefan, posso entrare?» Tom aprì la porta e lo guardò sdraiato sul letto. «Ciao.» Dopo aver chiuso la porta, si avvicinò al letto e si mise seduto di fronte a lui, sulla sedia girevole. «Allora? Che ti prende? Stai facendo preoccupare tua madre.»

«Digli pure che non ha nulla di cui preoccuparsi.»

«Sarà fatto. Ma voglio sapere lo stesso che ti succede.»

«Senti papà, per favore, voglio stare da solo, non voglia di parlarne con nessuno. Quando sarà il momento, magari…»

«Io e te siamo uguali. No, dico sul serio. Me ne sto accorgendo adesso più che mai. Anch’io ero intrattabile quando c’era qualcosa che non andava.»

«Cos’è, una specie di… complimento?»

«Non so, se lo vuoi prendere come un complimento, fai pure, la cosa non mi importa. Quello che importa, è che io sbagliavo, e tu stai sbagliando. Io non ne parlavo mai con nessuno, volevo stare da solo, ma poi c’era sempre Bill che in qualche modo mi faceva parlare, sai com’è. Tu, stai facendo la stessa identica cosa. Bisogna parlarne, sfogarsi con qualcuno. Basta che tu lo faccia.»

«Non mi va di sfogarmi e di parlarne, sarebbe peggio. E comunque non penso che noi due siamo tanto uguali.»

«Lo pensi davvero? Perché?»

«Perché tu hai sempre avuto quello che volevi.»

«Non mi sembra che per te la cosa sia differente.»

«Invece sì. Tu hai detto, un po’ di tempo fa, che l’amore non va cercato ma ti trova lui. Ok, ma tu l’hai trovato e non ne avevi realmente bisogno. Insomma, se tu non avessi incontrato mamma, quel giorno, non ti saresti fatto problemi, tutto sarebbe continuato normalmente.»

«Quindi tu stai dicendo che hai bisogno di innamorarti?»

«No! Io… non so nemmeno io quello che sto dicendo. Lascia perdere tutto, fai finta che non ti abbia detto nulla.» Si girò sul fianco.

«No, aspetta un secondo. Se io non avessi incontrato tua madre, voi a quest’ora può darsi che non c’eravate. Non credi?»

«Intanto tu hai avuto la fortuna di incontrarla.»

«Sì, sono stato molto fortunato, lo ammetto.» Si alzò e andò verso la porta. «Va bene Stefan, pensaci un po’ su, poi mi spiegherai.» Tom uscì e si chiuse la porta alle spalle, lasciandolo finalmente solo.

 

«Allora, allora?», dissi alzandomi in piedi.

Tom sorrise e mi rimise seduta: «Stai tranquilla, è tutto a posto.»

«Davvero?»

«Sì, è solo oggi che gli gira così, non ha niente.»

«Speriamo.»

Il cellulare di Alex suonò sul suo stomaco. Era Stefan che gli aveva fatto uno squillo. Sorrise e si alzò dal divano. Salì di sopra ed entrò in camera.

«Stefan, più o meno sono venuti tutti a chiederti cosa non va», disse sedendosi sulla sedia girevole di fronte alla scrivania.

«Sì. Tu non mi chiedi niente, vero?»

«Niente. Ti conosco.» Sorrise e si girò un po’.

Adorava suo fratello gemello in queste situazioni, riusciva sempre a capirlo nel miglior modo possibile. Non gli chiedeva niente, sarebbe stato lui a parlare se avesse voluto, gli offriva solo la sua compagnia, il suo sostegno morale, anche stando in silenzio, ma stando vicino a lui. Questo era l’aspetto bello dell’essere gemelli: capirsi senza l’uso di parole, conoscersi così bene da sapere ciò che pensa l’altro in qualsiasi momento, solo con uno sguardo, tutto il sostegno e la fiducia che si davano e che avevano l’uno nell’altro.

«Grazie Alex.»

«Di niente fratello.»

 

***

 

Passarono i giorni e mercoledì arrivò presto. Non poteva non essere teso, nervoso. Aveva pensato a lei per tutti quei giorni, anche a scuola non faceva altro che guardarla, provando qualcosa che non aveva capito ancora che cos’era. Si rifiutava di credere che si fosse innamorato di una così, continuava a ripetersi che non era affatto possibile, che era una cosa contro ogni legge della natura. Comunque, non riusciva a levarsela dalla testa.

Fuori c’era un bel sole caldo, anche se ormai era pieno autunno. Stefan non faceva altro che andare avanti e indietro per la cucina. Non aveva preparato nulla per la ricerca, anche se aveva due italiane in casa, me e sua zia. Non aveva la più pallida idea da dove cominciare e poi non aveva avuto un solo istante libero tra lo studio di registrazione, le prove, i primi concerti che si avvicinavano… Non si era dato tregua, il tutto forse anche per non pensare a lei.

Non c’era nessuno in casa quel pomeriggio, lo trovò un bene, perché se ci fosse stato qualcuno, a parte suo fratello, avrebbero iniziato a fargli milioni e milioni di domande su di lei, e non sarebbe stato altrettanto un bene.

La casa era silenziosa e luminosa con i raggi del sole riflessi sul pavimento lucido. Stefan continuava a guardare l’orologio ogni volta che poteva, non riusciva ad aspettare; ne sentiva stranamente la mancanza, cosa che lo aveva reso molto più confuso e che l’aveva fatto sentire molto più strano. Sentì suonare il cellulare sul tavolo, si girò e quasi ci si buttò sopra: «Pronto!»

«Stefan! Che urli, ti sei rincretinito?»

«Ah, papà, sei tu.»

«E chi volevi che fossi, scusa? Una ragazza?»

«Eh, magari.»

«Cosa?»

«No, niente. Che c’è?»

«Ho chiamato solo per dirti che Sharon mi ha detto di dirti che dopo avete le prove.»

«È di nuovo senza soldi sul cellulare, vero?»

«Indovinato. In verità mi ha detto anche di dirti se potevi farle la ricarica, già che c’eri.»

«Sì, certo. Sicuramente.»

«No, Stefan, sul serio. Falle la ricarica perché se no si arrabbia con me.»

«Papà, hai paura di una ragazzina di quindici anni?»

«Guarda che quando si arrabbia diventa il diavolo in persona! Dai, devo andare adesso. Mi raccomando, eh. Ciao, ci vediamo dopo.»

«Sì, sì, ok, ciao.»

Stefan chiuse il cellulare e lo rimise sul tavolo, deluso. Sentì il rumore di un motorino per strada. Si affacciò alla finestra della cucina e la vide, in sella al suo motorino rosa pallido, con il casco sulla testa. Ecco un altro motivo per odiarla: lei aveva il motorino e lui no. Che nervoso.

La guardò scendere dal motorino con la sua borsa a tracolla già in spalla e levarsi il casco. Stefan andò alla porta e aspettò che suonasse al citofono per aprirle. Michelle gli fece fuori i timpani, visto che si era messo proprio vicino al citofono. Stefan si tappò le orecchie e si affrettò ad aprirle, poi aprì la porta. La guardò camminare nel vialetto guardandosi intorno.

«Ehi, credevo ti fossi persa!», disse Stefan.

«È praticamente impossibile confondere casa tua.»

«E con questo cosa vuoi dire?», la fece entrare.

«Che è enorme! Non ho mai visto una casa più grande di questa!» Si guardava intorno davvero meravigliata.

«Sì, forse. Ma ti faccio presente che ci abitiamo in otto.»

«Otto?»

Stefan si girò e la guardò sgranando gli occhi, questa volta era lui quello sorpreso. Possibile che non lo sapesse? Era l’unica in tutta la scuola?

«Sì, beh… Io, mamma, papà, mio fratello, mia sorella, mio zio, mia zia e mia cugina.»

«Ah, non sapevo vivessi con tutta questa gente.» Parlare con una che non conoscesse la sua famiglia, tra cui Bill e Tom Kaulitz dei Tokio Hotel, gli sembrava davvero strano, insolito. Lei era davvero l’unica che non lo sapeva.

Michelle si avvicinò ad una teca e guardò alcuni dei numerosissimi premi che avevano ricevuto i TH nella loro carriera musicale, ancora attiva per giunta.

«Ma… tuo padre…»

«Tom Kaulitz, proprio lui, chitarrista dei Tokio Hotel.» Parlare con lei le sembrava pure piacevole se mettevano da parte la rivalità e l’odio reciproco.

«Wow. Com’è che io non lo sapevo?»

«Beh, allora non sei poi così secchiona se non lo sapevi. Prendilo pure come un complimento.»

«Quindi abiti con tuo zio che è… Bill Kaulitz?»

«Sì, il cantante bla, bla, bla… quella storia lì, insomma.»

«Ah. Dev’essere bello avere dei parenti così famosi.» Lo raggiunse in cucina e lo guardò versare del succo d’albicocca in due bicchieri.

«Non è che poi cambi tanto. Mio padre mi tratta come tutti i padri del mondo, non mi vuole nemmeno comprare il motorino, pensa un po’ te!» Michelle prese il bicchiere offertogli da Stefan e rise.

«Davvero?», gli chiese divertita.

«Sì, giuro, non sto scherzando! Ma mi farò rifare: ai diciott’anni pretendo la macchina.» Si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere tutti e due.

Michelle guardò di lato e poi bevve dal suo bicchiere. Stefan non riusciva a fare altro che guardarla, era come incantato su di lei.

«Stefan? Oh? Allora, vai a prendere la roba che iniziamo a fare questo lavoro?»

Stefan si riprese e annuì. «Sì, un attimo, che è di sopra.» Stefan corse in camera sua, a prendere cosa poi? Non aveva fatto niente! Prese un paio di quaderni a caso, l’astuccio e corse di nuovo giù.

«Eccomi, scusa.» Michelle era già seduta al tavolo.

«Tu che chiedi scusa a me?», disse lei indicandosi con il dito.

«Sì, io di solito non faccio aspettare le ragazze, sono un cavaliere.»

Michelle sorrise e abbassò la testa per non farsi vedere. Stefan si mise seduto di fronte a lei, appoggiando la roba su tavolo. La guardò scrivere su un quaderno, con la sua calligrafia pulita e lineare. Come faceva a dirglielo?

«Ehm… Michelle…»

«Mmh?», lei alzò la testa e poi si accorse che quella era la prima volta che l’aveva chiamata per nome e non con uno di quegli appellativi antipatici. «Mi… mi hai chiamata per nome…»

«Sì, Michelle, vero?»

Lei annuì diventando leggermente più rossa sulle guance. Stefan lo notò e sorrise appiattendosi i capelli sulla testa, visto che quel giorno non era riuscito per ragioni di tempo e di nervosismo a farsi una cresta decente.

«Beh io… devo confessarti una cosa», disse Stefan.

«Scommetto che non hai fatto un bel tubo per oggi, vero?», disse lei, molto più seria. Si sarebbe messa male, se lo sentiva: avrebbero iniziato a discutere come sempre. Era un peccato perché stava andando così bene!

«Sì, esatto.»

«Ecco, io lo sapevo!», sbatté le mani sul tavolo della cucina. «Tocca fare tutto a me, come sempre! Ma no, non te la caverai così, perché io… sai che faccio? Lo dirò al professore e mostrerò il mio lavoro, dicendo che l’ho fatto da sola. Così io ci guadagno, tu… non proprio.»

«No, non puoi farlo!»

«Oh sì che posso!»

«Invece no! Perché non sono io che non ho voluto farlo, ma è che non ho avuto tempo!»

«Sì, certo, dicono tutti così.» Si alzò e prese tutti i suoi libri e li rificcò nella borsa, il viso serio. Stefan si passò una mano sulla fronte e si spostò i capelli.

«Ok, facciamo così. Tu dammi un’altra possibilità, solo una, e farò la mia parte, promesso.» Stefan si alzò e si mise una mano sul cuore: «Parola mia, o se no non mi chiamo più Kaulitz.»

Michelle lo guardò pensandoci su, un po’ incerta. «Dimmi solo sì o no: mi devo fidare?»

«Sì.»

Michelle lo guardò ed accennò un sorriso: «Ok, mi fido. Ma iniziamo subito.»

«Perfetto! Allora forza, internet ci aspetta!» Stefan le prese il braccio e la trascinò di sopra, in camera sua, di fronte al computer. «Allora… Italia. Ecco qua! Grande penisola… Perfetto, no?», disse Stefan guardando Michelle accanto a sé.

«Sì, inizia a scaricare, va’.»

«Agli ordini.» Mentre lui scaricava roba su roba, Michelle si guardò attorno e notò due chitarre, appoggiate alla parete.

«Ma… la storia che dicevi che non hai avuto tempo, è vera?»

«Verissima. Siamo stati tutto il tempo in studio di registrazione e a suonare e quindi non ho proprio avuto tempo, nemmeno di scaricare due robe, fai un po’ tu.»

«Ah, quindi non stavi mentendo.»

«No, perché avrei dovuto?» Si guardarono negli occhi e ancora Michelle guardò qualcos’altro per la stanza; ritornò alle chitarre. «Suoni la chitarra?»

«Sì, anche Alex.»

«Mmh. Vi ha insegnato vostro padre?»

«Sì, dobbiamo tutto a lui. Tra un po’ faremo anche dei concerti, beh, una specie: apriremo i loro. Chi se lo aspettava: fino a poco tempo fa eravamo dei ragazzi normali, ora si stanno aprendo di fronte a noi delle porte che non immaginavamo neanche. Sharon, mia cugina, non voleva nemmeno diventare una musicista! E nemmeno io e mio fratello a dirla tutta. Eppure siamo stati travolti da questa passione e… ti sto annoiando, scusa.»

«No, no, anzi!», sorrise. «Mi interessa molto! Avete un nome?»

«Un nome? Avevamo mezza idea di chiamarci Devilish, come il nome all’inizio dei Tokio Hotel, sarebbe l’opzione migliore perché noi siamo i loro successori. E siamo, Sharon, mia cugina, Alex, mio fratello, Krista, la migliore amica di Sharon nonché ragazza di Alex, e io.»

«E tu sei solo?»

«Sì, non ho ancora trovato il grande amore.» I loro sguardi si incontrarono di nuovo e sta volta Michelle non poté sfuggire all’azzurro dei suoi occhi.

«Da chi li hai presi gli occhi?», chiese lei cercando di sorridere.

«Da mia mamma.» Stefan si girò verso il computer e poi guardò di nuovo Michelle. «Lei è Italiana, di Milano; come mia zia. Invece, suppongo che sia tuo papà originario dell’Inghilterra.»

«Sì, mio papà.»

Stefan annuì e guardò ancora il monitor. «Idea! Sai che cosa potremmo fare?», disse a Michelle, così forte da farle prendere quasi uno spavento.

«No, che cosa?»

«Potemmo cercare di trovare qualcosa in comune tra l’Italia e l’Inghilterra, così parliamo sia dell’una che dell’altra, così siamo d’accordo tutti e due. Che te ne pare?»

«Ahm… sì, bell’idea. Davvero bella.»

«Ok, inizio a cercare.» Stefan si mise mani alla tastiera e ogni tanto usava il mouse, tutto concentrato e preso dall’argomento. Michelle lo guardò di profilo e sorrise, era proprio bello e simpatico ora che lo conosceva meglio, riuscivano persino a parlare senza discutere ogni tre secondi come accadeva di solito a scuola.

«Sai Stefan, non credevo tu fossi così», disse.

Stefan la guardò e sorrise, uno di quei sorrisi che mandavano in estasi milioni di ragazze in un colpo solo, compresa Michelle, che però si era sempre dimostrata distante e insofferente verso di lui, tanto da far sembrare che lo odiasse. Ma in realtà, faceva così solo perché le piaceva e credeva che mai uno come lui desse retta a una come lei.

«Beh, prima di giudicare le persone bisogna conoscerle, no?»

Rimasero in silenzio a guardarsi negli occhi. Il cuore di Stefan batteva a mille e non sapeva bene che fare, ma poi si decise e avvicinò la mano al viso di lei, le accarezzò la guancia e i capelli, si avvicinò con le labbra alle sue e dopo un po’ di esitazione le baciò. Sentì un misto di sentimenti dentro di lui, molto confusi, ma, proprio quella confusione, la trovò un’esperienza fantastica. Non si era mai sentito confuso o insicuro con una ragazza, era la prima volta in assoluto. Aveva un buon profumo e le sue labbra erano morbide e dolci, e Stefan si sentì felice come mai. Su quello era sicuro: era felice.

Michelle gli mise le mani sul petto e si scostò. Lo guardò negli occhi ad una distanza ravvicinata e poi si alzò di scatto dalla sedia, prese la borsa e uscì di corsa dalla stanza. Stefan la rincorse giù per le scale.

«Michelle! Michelle dove vai?» Era già sulla porta quando le prese il braccio e le fece guardare i suoi occhi.

«Senti Stefan, io…»

«Tu?»

«È meglio se continuiamo il lavoro ognuno per conto suo, mi sembra la soluzione migliore. Poi uniremo le due ricerche e sarà fatta, ok? Adesso devo andare.»

Stefan le lasciò il braccio e lei corse fuori, salì in sella al suo motorino, si infilò il casco e sparì alla sua vista. Stefan chiuse la porta e si lasciò cadere a terra, steso, non gli importava se il pavimento era freddo, non gli importava niente, si sentiva uno schifo. Era anche la prima volta che una ragazza scappava così da lui. Ci sarebbe stato da sudare questa volta, lo sapeva, ma avrebbe sudato per una giusta causa, ne sarebbe stato soddisfatto alla fine, ne era convinto.

«Anfetamine, tanta pazienza, tanta forza di volontà: queste sono le tre cose fondamentali per conquistare una donna complicata.» Ma chi l’aveva detta quella cazzata? Avevano dimenticato forse la cosa più importante: l’amore.

«Per amore si fa di tutto.» Quella se la ricordava, era di suo padre. E pensava che fosse la frase più giusta al mondo.

 

 

_________________________________________

 

 

Buongiorno a tutti! ^-^ Come state?
Non ho molto da dire, spero che questo capitolo ( la prima parte di questo capitolo) vi sia piaciuto!

Ringraziamenti:

Tokietta86: Sono contenta che ti piaccia Sharon, è il misto perfetto fra Bill e Anto. Sì, il mondo è piccolo xD Stefan è la copia di Tom! XD Sono contenta che ti faccia ridere, anche a me fa sempre divertire e adesso, in preda ad una strana “voglia”, quella d’innamorarsi, ne fa delle belle xD Alex invece è molto più simile ad Ary, ma c’è del Tom anche il lui! Grazie mille per la recensione, alla prossima! Bacio.

Utopy: Ahhhmmm okay xD Ti sei innamorata di Aleeeex! *-* Che cariniii. Comunque, NO -.- Ary e Tom insieme for ever u.u
Ti voglio tantissimo bene Mond! *-* <33

Ringrazio anche chi ha solo letto!
Al prossimo capitolo, vostra

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Capitolo 11
*** I want to fall in love! (Parte II) ***


Capitolo 4
I want to fall in love! (Parte II)

 

Nel compito ci mise l’anima, rapendomi anche da lavoro per completarlo il prima possibile, utilizzando anche le pause che avevano in studio di registrazione scavallando Samantha dalla sua postazione alla reception per cercare su internet. Non si era fermato un attimo e quando ebbe finito era distrutto, ma felice e soddisfatto.

«Ho finitooooooooooooooooooo!», sentimmo gridare dal piano di sopra.

«Ste ha finito di fare l’idiota?», mi chiese Tom.

«Ma smettila», gli tirai un colpo sul braccio.

«Ma scherzavo!»

Alex che ci guardava sorridente dall’altra parte del divano. Trovava più interessanti i nostri battibecchi da bambini che la televisione. Sentimmo Stefan correre giù per le scale e saltare gli ultimi quattro gradini.

«Mamma ho finito! Guarda, guarda!» Mi piazzò sulle gambe una ventina di fogli stampati a computer, ordinati e con le parole più importanti in grassetto. C’erano molte immagini e persino delle mie citazioni.

«Che te ne pare?», mi chiese speranzoso.

Io lo abbracciai e lo strinsi forte a me. «Hai fatto un ottimo lavoro, complimenti.»

«Grazie mamma! Ti voglio bene.»

«Anch’io.»

«Anche a me mi vuoi bene?», gli chiese Sarah con il faccino da angelo.

«Sì, a te più di tutti», le fece l’occhiolino e Sarah batté le mani contenta.  

 

All’ora di cena Stefan scese in cucina con un dubbio. «Mamma?»

«Dimmi, sono qui.» Si avvicinò e si mise seduto sul ripiano della cucina, accanto a me che stavo preparando da mangiare.

«Posso chiederti una cosa?»

«Certo.»

«Ok. Com’è che… si fa a capire quando si è innamorati?»

«Basta guardare tuo fratello, è innamorato cotto lui.» Ci girammo verso la porta della cucina, che dava sul salotto, e vidimo Alex andare in giro appunto per il salotto con il cellulare all’orecchio, che parlava amorevolmente con Krista. Stefan mi guardò e mi sorrise.

«Beh, come fai a capire quando sei innamorato? Lo senti dentro. Ti dirò, è un sentimento molto complicato quello dell’amore. Ancora oggi mi chiedo: chissà come mai io mi sono innamorata di uno come Tom? Oppure, perché lui si è innamorato di una come me? Poteva avere tutte le ragazze del mondo e invece proprio me. Ancora ci penso e mi viene da ridere.»

«Da ridere?»

«Sì, perché non riesco a darmi una risposta! L’amore è così, ti colpisce e basta.»

«Ok, grazie della spiegazione mamma. Ti voglio bene!»

Scese dal ripiano e corse in salotto, diede una spinta ridendo a suo fratello, beccandosi pure un insulto, ma non ci pensò, continuò a correre e a ridere, stranamente felice. Andò nello studio, dove trovò suo padre intento a suonare qualcosa alla chitarra. Bussò alla porta anche se ormai era già entrato.

«Posso?»

Tom alzò la testa dalla sua amata chitarra e sorrise al figlio. «Sì, ormai…»

«Papà posso chiederti una cosa seria?»

«No, se è seria no. Ma certo! Dai, spara figlio.»

Stefan si mise seduto sul tavolo e guardò il padre con la chitarra ancora in braccio.

«Come si fa a capire quando si è innamorati?», chiese, più sciolto di prima. Tom lo guardò per diversi secondi in silenzio.

«Non pensavo fossi capace di fare domande così serie! Mi metti in serie difficoltà!», disse scherzosamente Tom, alzandosi per mettere via la chitarra.

«No papà, sul serio, mi devi rispondere.»

«Ok, vediamo, come posso spiegarti… Io ho capito di essermi innamorato di tua madre perché ogni volta che la vedevo mi batteva in un modo assurdo il cuore nel petto, ti giuro, faceva quello che voleva! Poi ogni volta che partivo mi mancava, la pensavo sempre… Non avevo occhi che per lei. Quando stavo con lei, quando magari tornavo per un po’, non volevo mai che il tempo passasse, non volevo partire di nuovo per non vederla per mesi… Insomma Stefan, cose così! Poi, quando si è innamorati lo si sente», gli toccò il petto con un dito. «E lo si sente forte qui.» Si guardarono negli occhi e sorrisero.

«Hai gli occhi identici a quelli di tua madre», disse Tom, accarezzandogli la guancia.

«Ahm… si, ma non è che mi baci adesso, vero?»

«Ma stai scherzando?!», gli tirò uno schiaffettino sulla guancia, ridendo. «Adesso mi hai fatto venire la voglia di baciare Ary.»

«È strano sentire chiamare la mamma Ary

«E che c’è di strano, scusa? È il suo nome!» Tom rise e uscì dallo studio, seguito da Stefan. Guardò suo padre prendermi quasi in braccio e baciarmi sulle labbra.

«Tom! Lasciami giù!», gridai ridendo.

«Ecco cosa vuol dire essere innamorati!», disse Stefan scappando di nuovo via, su per le scale. Io e Tom ci guardammo e risimo ancora.

«Ehi Alex!», disse Stefan appena entrato in camera.

«Ehi Stefan.» Si diedero il cinque e poi Stefan si tuffò sul suo letto.

«Sei felice», disse Alex, girandosi verso di lui sulla sedia girevole. «Posso sapere il perché?»

«Tu sei innamorato?»

Alex diventò rosso sulle guance e si girò verso il computer. «Non so… penso di sì…»

«Come fai a saperlo?»

«Boh, che ne so, lo sento. Krista è l’unica. Perché, anche tu ti sei innamorato?»

«Mi sa di sì.»

Alex si girò e lo guardò: «Davvero?»

«Perché me lo chiedi così, con quella faccia come se non ci credessi? Credi che io non possa innamorarmi come tutti?»

«No, no, ti credo, solo che è un po’ strano, tu che ti innamori. Mi devo un attimo abituare. Chi è?»

«Vuoi sapere chi è?»

«Sì. Stefan, rimane tra noi, come sempre. Siamo fratelli, no?»

«Sì, anche gemelli.»

«Quindi, non ci sono problemi. Dai, dimmi chi è.»

«Michelle.»

«Michelle Böhn? La bionda mozzafiato della seconda?»

«Ehi, attento a come parli che lo dico a Krista!»

«Non puoi, patto tra gemelli, ricordi?»

«Ah già, è vero, che ingiustizia! Ah, comunque non è lei. È la Stuart», disse coprendosi il viso con le mani.

«Michelle Stuart? La prima della tua classe?»

Lo guardò facendo scivolare le mani sul naso e sulla bocca: «Proprio lei. Vi conoscete?»

«Certo che ci conosciamo! Abbiamo fatto alcuni corsi insieme! E tutte le volte mi diceva che era impossibile che io fossi il tuo fratello gemello, siamo troppo diversi.»

«Lo so, è un po’ così. Ma sai che cosa voglio fare? La voglio conquistare. Sarà una sfida, me lo sento. Però c’è stato già qualcosa.»

«Che cosa?»

«L’altro giorno, è venuta qui perché dovevamo fare assieme quella ricerca, no? Solo che io non avevo fatto niente, quindi si è arrabbiata, poi abbiamo fatto pace, è salita in camera e ci siamo messi a cercare su internet. Abbiamo iniziato a parlare e… ci siamo baciati, cioè… io l’ho baciata.»

«No, non ci posso credere! Davvero?»

«Sì, davvero. Solo che lei se l’è presa e mi ha detto che dovevamo fare il lavoro per conto nostro e che poi avremmo unito le due cose. Poi è scappata via. Cavolo, mi sento così strano. È la prima volta che provo tutto questo.»

«E ti credo! E poi con una come lei. Insomma, con tutte le ragazze che hai ai piedi, ti dovevi innamorare di quella più complicata che esiste?»

«Lo so, ma che ci posso fare? È l’amore. E poi mi piacciono le sfide, non mi tirerò indietro.»

«Va bene, ma ti avviso: preparati al peggio. Davvero, in bocca al lupo. Ah, lo sai che suoniamo per la festa di Halloween?»

«La festa di Halloween? Oddio, è vero! La festa di Halloween a scuola!»

«Eh già. La inviterai?»

«Penso di sì. Tu vai con Krista?»

«Si, e Sharon con Derek. Stefan, ricordati che dobbiamo suonare, non andare a finire nei guai, ok?»

«Ok. Grazie fratellino, senza di te me ne sarei proprio scordato!», si alzò e lo baciò sulla fronte.

«Ma che schifo!», gridò Alex pulendosi. Stefan rise e corse giù dalle scale.

«Stefan! Grazie per la ricarica, eh!», disse Sharon dalle scale, che l’aveva visto correre giù come un fulmine.

«Di niente!» Stefan prese la giacca e andò di corsa alla porta.

«Stefan, ma dove vai?», gli dissi uscendo dalla cucina.

«Ah, stasera non mangio mamma! Torno presto, ok?»

«Sì, ma…»

«Ciaociao, ti voglio bene!», sorrise, aprì la porta e corse ancora via, senza lasciarmi il tempo di dirgli niente.

«Ma dov’è andato?», disse Tom dal divano, seduto accanto a Bill che stavano parlando dei prossimi concerti dei ragazzi.

«Boh! Ah, gli uomini. Dai che è pronto.»

«Hai cucinato tu?», chiese Tom.

«Abbiamo cucinato assieme io e Anto.»

«Alex, almeno tu, vieni o vai a fare compagnia a tuo fratello?», urlai io da sotto.

«No, io resto. Non so nemmeno io dove andava.»

«Ah no? Mi stupisce!», disse Sharon incavolata mentre scendeva le scale superandolo.

«E dai Sharon, non fare così.»

«Io faccio come mi pare.» Si mise seduta al tavolo accanto a suo papà, come sempre, con accanto sua mamma. Guardò il posto vuoto davanti a sé, quello di Stefan.

«Hai ragione zia, a dire che gli uomini sono strani. Cavolo se lo sono! Prima quello, poi quell’altro…»

«Chi, Derek?», chiese Alex prima di mettere il boccone in bocca. «Sì! Giuro, a volte non li capisco. Adesso mi devi spiegare che ha Stefan, ti avrà pur detto qualcosa! Perché non mi dice niente a me?»

«Sharon, anche se volessi, non potrei dirti niente. Sai com’è, patto tra gemelli…»

«Sì, patto tra gemelli. Io lo voglio sapere. Noi ci dicevamo tutto un tempo! Più crescono più diventano stupidi!»

«Sharon», disse Anto, toccandola sul braccio. «Tuo cugino magari non ne vuole parlare, basta. Sarà lui a parlare quando vorrà, non arrabbiarti con lui.» Sharon guardò Alex e poi guardò in basso. Anto le sorrise e le massaggiò il braccio.

«Non ti preoccupare, gli passerà, come sempre», disse Tom prima di bere.

«Non mi va di mangiare, mamma», disse Sharon, poi si alzò e andò in camera sua.

«Poi, chi vuole andarsene? Prego, faccia pure», dissi.

«Ce ne andiamo noi mamma, dai», propose Alex, sorridendomi.

«Posso venire anch’io?», alzò la mano Sarah.

«Si, certo! Io, te e Sarah, verso l’infinito e oltre.»

«Questa l’ho già sentita… era in un cartone o mi sbaglio: Verso l’infinito e oltre?», chiese Bill.

«Sì, era il suo cartone preferito», dissi indicando Alex.

«E tu, ti avviso, fai la brava. Da grande non fare come Sharon che ogni tanto è un po’ fuori, ha preso dalla mamma, sai com’è. Però, anche dal papà già che ci penso…», dissi a Sarah. Lei annuì sorridendo.

Alzai la testa e risi guardando le facce di Bill e Anto, che dicevano proprio: Ma chi, noi?

Il cellulare di Alex prese a suonare nella sua tasca. Lo tirò fuori e guardò il display.

«Chi è, Krista?», chiese Tom.

«No, è Stefan.» Aprì il telefono e rispose: «Ehi, ma dove sei? Qui Sharon se l’è presa perché non ci sei, non le dici mai niente… tutte quelle menate. Mi sto preoccupando, sai? Allora, dove sei?»

«Alex, devi venire subito, ti supplico. Non fare le domande, vieni e basta. Ti spiegherò tutto poi. Sono al solito posto, ti aspetto.» Alex si alzò da tavola e andò sulle scale a parlare. «Stefan, che ti prende? Oh, ma ti è successo qualcosa? Guarda che mi fai preoccupare.»

«No scemo, non mi è successo niente, se no l’avresti sentito, no? Dai muoviti, ho bisogno di te.» Stefan buttò giù e Alex rimase a guardare il suo cellulare, ma fu solo un attimo: il suo gemello aveva bisogno di lui e lui doveva correre.

«Alex? Che è successo? Che ti ha detto?»

«Non ti preoccupare mamma, torno presto.»

«No, Alex, anche tu no!» Troppo tardi, era già uscito e corso fuori nel buio della sera. Mi rimisi al mio posto e guardai Tom.

«Ary, posso dirti una cosa?», disse Anto. Mi girai e la guardai tenendo stretta la mano di Tom. «Non per dire, ma queste fughe le facevi anche tu. Di notte, soprattutto. Arrivavi a casa mia verso le due e mi costringevi a seguirti. Ricordi?»

Sorrisi e mi rilassai. «Sì, fa parte della crescita.»

«E tu avevi appena dodici anni. Loro ne hanno sedici, sono grandi. Non ti preoccupare, sanno badare a loro stessi.»

«Sì, giusto. Comunque dimmi tu se non ci divertivamo!»

«Alle due di notte a suonare i campanelli e poi a correre via? Sì, da matti!» Io e Anto scoppiammo a ridere e Bill e Tom si guardarono e sorrisero, semplicemente.

 

***

 

Gli tirò il cuscino addosso. Stefan si girò e lo guardò sdraiato sul letto, un sorriso sulle labbra. Sorrise e si rigirò verso lo specchio.

«Certo che sei proprio fuori. Erano tutti preoccupati per te e poi mi metti in mezzo. Per cosa poi? Per niente! E poi Sharon… Oh Sharon! Se l’è presa perché non le dici più niente. Te l’ho già detto, vero?»

«Diciassette volte.»

«Credevo ventitré.»

Stefan lo guardò accanto a lui riflesso nello specchio, si sorrisero.

«Che hai intenzione di fare ora?», gli chiese, più serio.

«Boh. Ma io la voglio invitare alla festa di Halloween. Voglio che venga con me. Ci deve venire con me a quella festa», disse Stefan sistemandosi ancora la cresta.

«Sembri deciso», disse Alex ritrovando quel sorriso.

«Sì, sono sicuro. Ma per prima cosa…»

«Che cosa?»

«Parlerò un po’ con Sharon, mi aiuterà lei.»

«Bravo, così si fa.» Gli diede una pacca sulla spalla e poi lo abbracciò. Stefan rimase un attimo senza fare niente, ma poi strinse il gemello a sé.

«Ti voglio bene, Ste.»

«Anch’io ti voglio bene, Alex.»

«Ok.»

Si staccarono e Stefan sentì come un vuoto dentro, una voglia improvvisa di abbracciarlo di nuovo. Gli mise le braccia intorno al collo e sorrise respirando sulla sua pelle.

«Grazie fratellino», disse piano, come per non rompere quel silenzio così pieno di parole.

«Non devi ringraziare me, ma…»

«Ma qualcuno lassù che ha voluto che nascessimo in due. Sì, lo so.» Stefan scompigliò i capelli già ribelli di loro al più piccolo, ridendo insieme a lui che cercava di divincolarsi.

«Ok, sarà meglio scendere, va’. Se no chi ce la fa a raccontare tutto, ma tutto quello che è successo a Sharon?» Diede una pacca sul braccio ad Alex e uscì dalla camera con il suo zaino in spalla. Scese in cucina e la trovò seduta al tavolo che beveva il suo latte, da sola. Appoggiò lo zaino a terra e si mise seduto davanti a lei. «Ciao Sharon!», la salutò.

«Ciao.»

«Faccio colazione con te, ti disturbo?» Le fregò il bicchiere di succo d’arancia e il biscotto che aveva in mano. «Cioè, faccio colazione da te.» Stefan sorrise e addentò il biscotto.

Sharon lo guardò un po’ perplessa. «E da quando tu fai colazione?», gli chiese.

«È un abitudine che devo prendere di nuovo, mamma lo dice sempre. Allora mi sono detto, perché non incominciare oggi visto che c’è Sharon che mi da il buon esempio e mi offre parte della sua perché io non ho voglia di prepararmela?» Bevve un po’ di succo e Sharon si trattenne dal ridere. «No, a parte questo Sharon, seriamente. Noi due dobbiamo parlare, devo dirti milioni di cose che tu non sai. E mi dispiace di non avertele dette prima, ma anche con Alex è successa la stessa cosa. Prima dovevo capire io, scusami. Comunque te l’avrei detto, prima o poi. Bene, vado?»

«Dove vai?»

«Non fare la spiritosa con me, ok? Nel senso, parto?»

«Dai, raccontami tutto che non sto più nella pelle!» Si sorrisero e Stefan iniziò a raccontare di Michelle, del lavoro a coppie, delle loro litigate, del loro incontro, del loro primo ed unico bacio fino ad allora, della sua voglia di portarla alla festa di Halloween…

«Ah, ora ho capito tutto! Beh, potevi dirmelo subito!» Sharon rise e finì il suo latte.

«Sì, lo so. Potrai mai perdonarmi?»

«Sììììììììììì! Ma solo a patto che mi perdoni anche tu.»

«Io, perdonarti? Perché, che hai fatto tu?»

«Anch’io non ti ho detto una cosa. Ho litigato con Derek, e ci sto malissimo.» Sharon si appoggiò alla spalla di Stefan sull’orlo del pianto e lo abbracciò con un braccio.

«No, Shary, non piangere. Vedrai, andrà tutto a finire bene. Quant’è che non vi sentite?»

«Tre giorni infiniti, infinitamente troppi. Non ce la faccio più, ho bisogno di lui.»

«Beh, alla festa vai da lui e parlaci. Fate pace e pace fatta! Dai, non ti preoccupare! Quello è innamorato perso di te, quasi come tu di lui. Vedrete, superete tutto.» Stefan le accarezzò le guance con le mani e fece finta di baciarla sulle labbra, ridendo e abbracciandola con forza.

«Stefan, Stefan smettila! Sei mio cugino, e quello più stupido tra l’altro, e che cavolo!» Risero assieme e poi Stefan le chiese, ritornando a Michelle, eccetera.

«Hai qualche consiglio da darmi per conquistarla? Tu sei una ragazza, quindi ne capisci anche di più…»

«Tu, playboy come nessun altro che conosco, vieni a chiedere consiglio a me, la tua povera cugina quindicenne?»

«Sì, perché tu sei la mia cugina quindicenne favorita, speciale e che soprattutto porta bene! Michelle è diversa, è diversa da tutte le altre, non so se mi capisci.»

«Sì, ho capito, ti sei innamorato. Dai, so io, non ti preoccupare! Ho già in mente delle idee… Ma dobbiamo uscire subito!» Lo prese per il braccio, gli prese lo zaino, glielo spinse contro al petto e poi prese la sua borsa a tracolla enorme con funzione di zaino. Scese in quel momento Alex dalle scale che si aggiunse ai due.

«Famiglia, noi andiamo!», gridò Sharon, e non aspettò nemmeno la risposta, li trascinò direttamente fuori, correndo.

«Ehi, ma che succede?!», chiese Alex al gemello guardandolo trascinato come lui da quel tornado di cugina.

«Ti spiego dopo, che è meglio!», gridò Stefan prima di lasciarsi trasportare di più da Sharon. Però, che famiglia.

 

«Ma sei sicura che funzioni?»

«Sicurissima! Non ti preoccupare Stefan, andrà tutto secondo i piani.»

«Va bene, se lo dici tu.» Si sporsero ancora un po’ sul corridoio.

«Oh, eccola che arriva!», disse Sharon sottovoce a Stefan, di fianco a lei.

«Sì, l’ho vista grazie.»

Michelle si avvicinò al suo armadietto e lo aprì.

«Ah, a proposito. Ma come facevi tu a sapere la combinazione dell’armadietto di Michelle, scusa?», chiese Stefan.

«Beh… Mi ha dato una mano Krista.»

«Ah già che lei è la favorita del bidello. Se l’è fatta dire, vero?»

«Esattamente. Non so con quale scusa. Ma ora guarda Stefan!», gli indicò, da dove erano nascosti loro, dietro l’angolo, Michelle che tirava fuori dall’armadietto, sorpresa, un mazzo di fiori (che Sharon aveva costretto Stefan a comprare perché secondo lei erano la tattica migliore per conquistarla) e il lavoro sull’Italia di Stefan, da aggiungere alla parte di Michelle.

Michelle sorrise vedendo quei fiori, chiedendosi chi fosse il mittente, ma lo capì appena vide la parte di lavoro sull’Italia di Stefan e poi quando lesse il biglietto attaccato ai fiori:

 

Michelle, spero tanto che nessuno ti abbia invitato alla festa di Halloween, perché… Ci vuoi venire con me?

Stefan

 

Michelle rimase a leggere quel biglietto per ben tre volte, poi lo chiuse e lo mise nella borsa. I fiori li lasciò nell’armadietto, ma prese la ricerca e la sfogliò. Era un lavoro eccezionale, mai vista una cosa così, poi da uno come Stefan, figuriamoci. Lo infilò velocemente nella borsa e chiuse l’armadietto.

«Dai Stefan, vai, è il tuo momento!» Sharon lo buttò nel corridoio e fece pollice in alto con tutte e due le mani accompagnato da un sorriso di incoraggiamento per Stefan. Lui annuì e fece finta di passare di lì per puro caso.

«Michelle, ciao! Ma che ci fai da queste parti?» Che ci fai da queste parti? Ma è lì che ha l’armadietto, idiota!

«Stefan, questo è il mio armadietto, non ci arrivi da solo?» Michelle si sistemò la borsa sulla spalla e si girò. Stefan si girò verso l’angolo dietro il quale era Sharon, che gli fece segno di andare. Lui raggiunse Michelle e camminò insieme a lei standole accanto.

«Allora… che mi racconti di bello?», le chiese più impacciato di prima.

Michelle si fermò improvvisamente e lo guardò negli occhi: «Senti un po’, tu. Ma mi stai per caso prendendo in giro? Stai facendo la carità per caso?»

«Nulla è per caso», disse furbamente Stefan, rilassandosi e sorridendo. «E comunque non mi sembra di aver fatto la carità in nessun modo e a nessuno, soprattutto.»

«Ah no? E allora perché i fiori, perché l’invito alla festa di Halloween? Cos’è, vuoi sfigurare di fronte a tutta la scuola allora?»

«No, ma che cosa stai dicendo?! E perché dici questo scusa?»

«Perché… Uff!» Michelle si girò di nuovo e camminò spedita e a passo svelto verso l’aula.

«Michelle, ascoltami. Ti prego fermati!» Stefan la prese per il braccio e le fece guardare i suoi occhi. «L’unico motivo per cui ti ho mandato i fiori, mi sono messo d’impegno per fare la mia parte nel nostro lavoro, per il quale ti ho invitata alla festa, è perché voglio andarci con te a questa stramaledetta festa! Te lo giuro.» La guardò intensamente negli occhi, sentendosi spoglio di tutta la sua solita sicurezza, di tutte le sue certezze; si sentì più nudo che mai riflesso nei suoi occhi.

«Ma non capisco perché tu voglia venirci con me!», gridò Michelle. «E nemmeno perché tu mi hai baciata», disse più piano, visto che c’era gente che passava per il corridoio.

«Perché io…», iniziò a balbettare Stefan, ma la campanella lo mise ancora più in difficoltà.

«Devo andare in classe», disse Michelle liberandosi docilmente dalla sua stretta e camminando verso l’aula.

Stefan si passò le mani sul viso, e quasi voleva urlare dalla rabbia perché non era riuscito a dire quelle cavolo di parole. Che però non aveva mai detto in vita sua.

No, no, no, no! Stefan sei un disastro!, si disse, autolesionandosi moralmente.

Sentì la mano di qualcuno sulla spalla. «Com’è andata?»

Guardò la cugina accanto a sé e la abbracciò mettendole le braccia intorno al collo, non gli importava se c’era altra gente, aveva bisogno di conforto e lei era l’unica in quel momento che potesse darglielo, visto che non c’era Alex.

«Ehi!» Alex arrivò di corsa e si buttò addosso a Stefan, abbracciandolo, rubandolo a Sharon.

«Alex, che ci fai qui?», sussurrò Stefan stringendo il gemello, una mano fra i suoi capelli biondi sulla nuca.

«Ho sentito che c’era qualcosa che non andava e sono corso da te!», disse Alex.

«Grazie», disse Stefan.

«Di niente, ma ora vai in classe. E non ti preoccupare per niente. Comunque dopo mi racconti.»

Stefan andò verso la sua classe e Alex gli sorrise prima di andare nella sua. Sharon rimase a guardare i due gemelli per un istante, poi corse verso la sua classe, sorridente per quell’unione, quel legame così forte che avevano solo loro due.

 

«Ah, capito. Cavolo, che casino! Vedi? Io te l’avevo detto! Quella è troppo complicata! Ma come fa a dire di no a uno come te?», disse Alex seduto sul letto.

«Non ha detto di no! Non ha detto niente, è questo che mi ha mandato a terra. Cioè… poteva anche dirmi qualcosa!»

«E quindi ci proverai lì, no?»

«Sì, vediamo se mi ascolta almeno!» Stefan sbuffò e si incazzò con il papillon che non si voleva aggiustare. «Cazzo, sono nervosissimo! Mamma!» Uscì dalla camera e scese di sotto.

«Mamma!», gridò ancora una volta.

«È su da Sharon», disse Tom uscendo dalla cucina con la testa. «Ok. Papà, mi dai una mano tu?» Stefan si avvicinò a Tom.

«Io non ho mai messo una cosa del genere, vai da Ary.»

«Da mamma», lo corresse Stefan.

«Sì, da mamma», sventolò la mano.

«Cioè, non hai mai messo uno di questi?», disse Stefan indicando il papillon nero.

«No, mai. È già tanto se mi sono vestito con la camicia al matrimonio!», disse il padre ricordando e ridendo. «Però Ary diceva che stavo bene, me lo ricordo. Eccome se me lo ricordo, è impossibile da dimenticare.»

«Mmh.» Stefan si guardò e si tolse il papillon, si sbottonò un bottone della camicia bianca e si scompigliò i capelli ancora lisci sulla testa. «Così come vado?» Fece un giro su sé stesso. Aveva un completo nero elegante, tipo uno smoking: giacca e pantaloni neri e camicia bianca; per finire le scarpe da ginnastica bianche ben pulite, firmate DC.

«Così vai molto meglio! Ma…»

«Ma che cosa?»

«Ti manca qualcosa.» Tom uscì dalla cucina portandosi dietro Stefan. Salirono in camera mia e di Tom e lui aprì il suo armadio. Mostrò a Stefan la pila di cappellini: «Scegline uno.»

«Che cosa? Ma questi sono…»

«Sì, lo so, ma è arrivata anche l’ora che li usi qualcuno! Mi fa tristezza vederli qui a prendere polvere. Dai, scegli. Ti consiglio il nero.»

«Ok.» Stefan sorrise al padre e poi guardò i cappellini con attenzione. Ne prese uno nero con il marchio NY in rosso. «Questo.» Se lo mise in testa e si guardò allo specchio. Tom lo raggiunse e glielo sistemò meglio di lato. Lo fece girare di nuovo verso lo specchio e annuì, con il sorriso sulle labbra.

«Si vede che sei mio figlio», disse fiero.

Stefan provò un SSR (Sorriso Stendi Ragazze) con indosso quel cappellino. Tom rise e disse: «Pronto a fare una strage!»

«Sì, ma la strage vorrei farla ad un’unica ragazza», ammise Stefan guardando il padre riflesso nello specchio.

«Ah sì? Non lo sapevo!»

«Sì… è… Michelle, non so se hai presente.»

«Michelle… Stuart?»

«Esattamente! Ma come fai a conoscerla?»

«Beh, l’ho vista ad una tua riunione di classe. È la rappresentante da te, vero?»

Ma come, mica non lo conosceva mio padre?

«Sì, è lei.»

«Mmh. Non sembra una che cada facilmente, ma ce la puoi fare, non ti demoralizzare.»

«Va bene, grazie di tutto papà.»

«Prego, fai buon uso del cappello. Buona fortuna.»

«Grazie!»

Uscì dalla stanza più forte e determinato di prima. Salì di corsa le scale e arrivò in camera di Sharon, dove trovò anche il fratello gemello, me, Anto e Bill. Appena lo vidimo, a testa bassa, il sorriso sulle labbra e il cappellino che copriva e ombrava buona parte del viso, io e Bill ci guardammo subito sgranando gli occhi, pensando a Tom. Ma quando Stefan alzò la testa e salutò Sharon con un cenno del capo lo riconoscemmo, ma rimasimo comunque sbalorditi dalla sua somiglianza con Tom.

«Non ci posso credere», dissi quasi sottovoce guardandolo a bocca aperta.

«Ma che figo… Peccato che sei mio cugino. Ma porca miseria!», disse Sharon agitandosi sulla sedia.

«Sharon stai ferma!», disse Anto con la piastra in mano che le stava stirando i capelli. Stefan fece un giro su sé stesso e sorrise di nuovo: possibile che gli somigliasse così tanto?

«Allora dici che vado bene?», chiese Stefan a Sharon.

«Vai benissimo! Michelle non potrà dirti di no!»

Tutti ci girammo e guardammo Sharon: «Michelle?»

«Chi è questa Michelle?», gli chiesi.

Lui sbuffò guardando Sharon ma poi sorrise. Si mise sdraiato sul letto tenendo il cappellino sullo stomaco. Si passò una mano fra i capelli, scompigliandoli ancora di più.

«Va bene, me lo dirai un’altra volta», dissi accarezzandogli la guancia.

«Grazie mamma», sorrise.

«Dio, ma come assomigli a Tom!», gridò Bill. Era ancora rimasto a quel punto! Stefan sorrise per l’ennesima volta e guardò il gemello.

«Ehi, ma ti sei fatto la cresta!», disse alzandosi in piedi di scatto. Prese il gemello per le spalle e gli guardò i capelli. «Te la sei fatta da solo?»

«Sì, perché?»

«Perché stai migliorando!» Gli mise comunque le mani in testa e la migliorò ulteriormente. «Ora va meglio. Ah, Sharon, a che ora iniziamo a suonare?»

Sharon lo guardò male e si mise a braccia incrociate. «Aspetta che mamma abbia finito, poi devi solo iniziare a correre. Te l’ho già detto tre volte oggi!»

Stefan guardò Alex, che gli suggerì che dovevano suonare alle dieci meno un quarto. Stefan guardò l’orologio e si sentì mancare l’aria: nove. Ora che arrivavano, che si preparavano, che accordavano gli strumenti, il tempo sarebbe volato e così pure la possibilità di chiarire con Michelle.

«Ma è tardissimo!», disse tuffandosi sul letto accanto a Sarah che lo osservava da un po’ e prendendo il cappellino.

«Ecco, finito.» Sharon si alzò dalla sedia e si specchiò, guardandosi i capelli appena lisciati dalla madre. «Wow. Ma sono bellissimi!», disse entusiasta.

«Ma tu sei bellissima!», disse Alex. Sharon sorrise e si sistemò il vestito sui fianchi.

«Sono tesa. È la prima volta che cantiamo un repertorio solo di nostre canzoni!», disse gettandosi su Alex. Lui la prese, per fortuna, e la tenne sollevata da terra.

«Sì, sì, siamo tutti molto tesi, ma ora possiamo andare?», chiese Stefan pregando fratello e cugina. Loro lo guardarono e annuirono.

«Ok, noi andiamo.» Sharon prese la borsa nera e prese a braccetto Stefan.

«Mi raccomando, comportatevi bene, suonate bene e a mezzanotte vi voglio a casa», disse Bill alzandosi dal letto e indicando soprattutto Sharon. Lei annuì controvoglia e scesero di sotto quasi correndo.

Che quella festa avrebbe dato inizio a qualcosa di importante? Probabilmente.

 

«S’è vista?», chiese Alex a Stefan.

Erano già sul palco, nascosti da un tendone nero. Era tutto versione Halloween, tutto scuro, luci non troppo luminose, cocktail strani ma analcolici, costumi e molto altro. E Michelle non si era ancora fatta viva. Stefan non stava più nella pelle. Dovevano incominciare tra poco, ma anche Sharon sembrava sparita nel nulla.

«No, non ancora.»

 

Sharon si fece spazio tra la folla, cercando qualcuno, lui. Lo vide in un angolo, accanto ad un po’ di palloncini arancioni e neri. Lo raggiunse quasi di corsa e gli si mise di fronte.

«Ciao», disse arrossendo già sulle guance.

Derek le sorrise dolce e le prese le mani. «Ciao, mi sei mancata tanto. Ma perché non ci siamo più sentiti? Non facevo altro che pensarti giorno e notte! Non posso stare senza te.»

Sharon lo abbracciò teneramente, ancora così bambina, mettendogli le braccia al collo.

«Non lo so perché. Mi sei mancato tanto anche tu, e mi dispiace per la litigata. Io non voglio litigare più con te, non voglio urlare cose inutili. Voglio solo urlare che ti amo.»

Derek la guardò appoggiata alla sua spalla, le spostò i capelli dalla guancia e la baciò sulle labbra, tenendola stretta a sé.

«Ehi, ma non devi suonare tu?», le chiese Derek dopo una serie di lunghi baci.

Sharon si riprese dal coinvolgimento da bacio e si mise una mano sulla fronte. «Oddio è vero!»

Derek scosse la testa e le pizzicò la guancia con un morso. «Dai vai, canta per me.»

Sharon rise e prima di correre via lo baciò morbida, stampandogli un sorriso.

 

Stefan guardò ancora una volta l’entrata, spiando da dietro il tendone, sperando l’atteso arrivo di Michelle.

«E come se non bastasse è sparita pure Sharon. Come facciamo senza cantante?!»

«Non ti preoccupare Ste, sono qui!» Sharon si infilò il basso e provò alcune note, poi guardò i gemelli. «Che c’è, perché mi guardate così?»

Arrivò Krista dietro di lei, con le sue ciocche viola, e la prese per il collo come se la volesse sgozzare: «Dimmi che è successo con Derek!»

«Ecco, appunto», dissero insieme i gemelli.

«Ah, per quello? Niente, tutto a posto, tutto come prima, abbiamo fatto pace.»

«Oh, bene, sono contenta per te! E tu Stefan? Guarda che ho visto Michelle poco fa.»

Stefan guardò Krista come se avesse appena visto un fantasma, sbiancò totalmente e si tuffò fuori dal tendone, mollando la chitarra in mano al gemello. Saltò giù dal palco, incurante del pericolo di cadere male e magari prendersi una storta, che prese, e corse mezzo zoppicante in cerca di Michelle, tra tutta quella gente di cui, sinceramente, gli importava poco o niente.

Vide Michelle nel suo vestito azzurro, con i capelli sciolti sulle spalle, lisci perfetti e la frangia appena sopra gli occhi, truccati e con le lenti a contatto. Era davvero stupenda, non l’aveva mai vista più bella. Non pensò più al dolore alla caviglia e corse più forte per raggiungerla, manco stesse per finire il mondo. Ma, sfortunatamente, incontrò sulla sua strada la così definita mora tutta curve nel banco davanti al suo a scuola, che lo fermò e gli si avvicinò sinuosa, accarezzandogli il petto con un dito.

«Ma ciao», gli disse con la sua voce sensuale, ma che Stefan odiò a tal punto di voler fuggire via. Provava schifo verso di lei, anche se l’aveva trovata una buona fino a non molto tempo prima. Non gli interessava nessun’altra oltre Michelle.

«Che ci fai qui, tutto solo…»

«Ehi Clarissa! Ma tu non eri con me?», gridò un ragazzo, doveva essere il suo accompagnatore.

«Tu non mi interessi, sparisci!», gli gridò contro facendolo ammutolire con un cane bastonato. Guardò maliziosa Stefan e gli mise una mano sul collo dicendo quasi a bassa voce: «Io voglio te.»

Stefan le scoppiò a ridere in faccia. Tutta la gente lì intorno non capì il comportamento di Stefan, e così nemmeno Clarissa di fronte a lui.

«Perché ridi? Perché ridi?!», sembrava irritata.

Stefan guardò per un attimo Michelle e i loro sguardi si incontrarono. «Perché mi fa ridere. Tu mi vuoi, ma non mi avrai mai. Io appartengo già ad una persona, il mio cuore appartiene ad un’altra persona. Con permesso.» Stefan spostò la sconvolta Clarissa e andò deciso da Michelle, che era abbastanza vicina da aver sentito tutto. Lo guardò in silenzio, senza sapere che dire.

«Noi due abbiamo in sospeso una questione», disse Stefan prendendole la mano, mentre la ancora più incredula Clarissa guardava la scena. Michelle, sentendo la sua mano dentro quella di Stefan, sentì il batticuore. E non poteva dare una spiegazione logica a quel fenomeno. Beh, forse sì.

Alex e Sharon annuirono sorridendo e si diedero l’attacco. Dolci note di chitarra e successivamente la voce di Sharon. Era una delle loro canzoni, forse quella più romantica, Stefan non poteva non riconoscerla. Sorrise pensando ai quei due che facevano tutto quello solo per lui, per loro. Non poteva fallire.

«Vedi, potrai credermi un falso, un bugiardo per tutta la vita, potrai non credermi mai, ma il fatto è questo e dentro di me non cambia: Michelle, io… mi sono innamorato di te. Credo.»

Michelle sta volta si sentì mancare l’ossigeno e il cuore le si bloccò completamente. Stefan notò le sue guance diventare rosse come niente, sorrise e le prese anche l’altra mano.

«Beh? Niente da dire? Ok, se vuoi posso aspettare, posso aspettare anche tutta la vita, basta che tu me lo dica qui e adesso.»

Intanto Sharon e Alex suonavano ancora quella canzone, da dietro il telo, nascosti da tutti. Avevano attratto molta attenzione verso il palco, erano tutti girati, nessuno guardava più Stefan e Michelle, ed era un bene. Michelle sorrise e quel sorriso disse tutto a Stefan, che ricambiò e la baciò. Michelle gli mise le mani sul petto e lo allontanò di qualche centimetro dal suo viso. Lei sorrideva ancora, era tutta rossa, ma se ne fregava.

«Stefan, devi sapere una cosa. Anch’io ti sono sempre venuta dietro come le altre, lo sai? Ma facevo finta di niente proprio perché credevo che tu non ti saresti mai interessato ad una come me. E cercavo di litigare in tutti i modi con te perché volevo arrivare ad odiarti, così da dimenticarti per sempre. Ma vedo che tutto questo non è servito a niente.»

Stefan poggiò la fronte alla sua e in penombra le sussurrò: «Sì, è servito a molto invece. Se tu fossi stata come le altre non ti avrei mai notata. Bisogna distinguersi dalla massa, non credi? Allora… tu che provi?»

«Io? Io ti voglio bene, tanto.» Lo abbracciò e lo baciò lei sta volta, sorprendendolo ma rendendolo felicissimo.

«Din don. Stefan Kaulitz è pregato di muoversi, perché non possiamo fargli da colonna sonora per tutta la sera. Din don», disse sua cugina Sharon con il microfono nascosta dietro il tendone, con il tono di una cassiera annoiata. Stefan si girò verso il palco, poi guardò Michelle e sorrise.

«Il dovere mi chiama! Devo andare se no mi linciano.» Si girò e fece per andare, ma poi si girò e le fece un’altra domanda: «Ma quindi noi…»

«Sì», disse Michelle annuendo, un sorriso lungo un chilometro e mezzo.

Stefan tornò indietro, la baciò veloce sulle labbra e poi corse sul palco con gli amici, a scatenarsi e a divertirsi come un pazzo, ora che finalmente era tutto a posto e non poteva andare meglio.

Il cappello di suo padre aveva portato bene!

 

 

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Buoooooongiornooooo u.u
Sono stanca, però ne è valsa più che la pena!
Il concerto di ieri, a Milano, è stato fantasmagorico!! *____*
Okay, tornando al capitolo, seconda parte!! Vi è piaciuto? Spero di sì, dai u.u
Non sono molto in vena di ringraziamenti, aggiorno perché sono in ritardo xDD
Sapete già che vi voglio un mondo di bene :D
Tokietta86, Utopy, dovrebbero farvi sante subito u.u Grazie milleeeee *-*
Al prossimo capitolo, grazie di cuore a tutti, anche a chi legge soltanto e a chi mette la storia fra preferiti, seguite e varie xD Danke schoooooon!
Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 12
*** Loneliness kills ***


Capitolo 5
Loneliness
kills

 

«Vado io!»

«Ok, non mi muovo», dissi lasciandomi superare dal tornado Sharon.

Aprì la porta in fibrillazione e salutò Derek in modo tale che in tutta la casa si sentisse. E come sempre, dopo tre secondi esatti, sentii Bill scendere di corsa dalle scale, superprotettivo con la sua figlioletta.

Sharon si avvicinò per baciarlo sulle labbra, ma lui la spostò e la baciò appena sulla guancia, appoggiandocisi con la propria.

«Che cosa c’è?», chiese Sharon prendendogli le mani, da cui lui si liberò.

Chiuse la porta e tutti rimasimo in silenzio ad ascoltare: Bill, Tom, Stefan e Alex erano al piano di sopra che guardavano dalla scalinata e io ero in cucina assieme ad Anto.

Derek la spinse indietro e la fece mettere seduta sul divano, lui si sistemò un po’ più lontano, senza sfiorarla.

«Sharon, mi dispiace», sussurrò.

«Ti dispiace per cosa?»

«Per tutto. Ti giuro, mi dispiace.» Le accarezzò il viso con le mani e le lasciò sul cuscino del divano una busta bianca, poi la baciò sulla fronte e se ne andò, lasciando un clima gelido dietro di sé.

Sharon rimase qualche minuto in silenzio. Non riusciva a capire, cosa c’era che non andava?

Anto ebbe l’imput di alzarsi, ma la trattenni per il braccio.

Strappò con violenza la busta e lesse la lettera che le aveva lasciato Derek.

 

Sharon, mi dispiace da morire.
Mia madre ha deciso di tornare in Italia e io non posso contraddirla, devo andare con lei. Non me la sento di stare con te senza vederci mai, è assurdo. E poi… Sharon, io non ti amo più. A questo punto non so nemmeno se ti ho mai amata, forse era solo un capriccio: tu eri una delle più belle della scuola e io volevo solo brillare al tuo fianco. Mi dispiace tanto, sono uno stronzo, lo so perfettamente e mi faccio schifo. Tu non crederai a nessuna di queste mie parole, ma non ti costringo a crederci, io non esisterò più per te, non ti meriti tutto questo male. È meglio così, soprattutto per te. Forse io non troverò mai più una come te, ma me ne farò una ragione, se avessi imparato ad essere corretto con te fin dal primo giorno, forse si sarebbe salvato qualcosa.
Non so cosa tu provi per me, ma spero che tu non soffra, non te lo meriti. Sei una ragazza stupenda, spero che riuscirai a trovare un ragazzo che ti meriti veramente. Per me resterai sempre la bellissima e innocente Sharon, la dea che ha sbagliato a darmi l’opportunità. Mi dispiace tantissimo, te lo giuro e te lo ripeto.
Ti vorrò sempre e comunque bene e ti ricorderò.
Perdonami.

Derek

 

«No, non può essere», mormorò mentre grosse lacrime le tracciavano il viso. «Non può essere!», gridò con tutto il fiato che aveva in gola.

La sua storia da favola era finita… Il suo principe l’aveva lasciata… Stefan non l’aveva controllato abbastanza perché lui le stava facendo del male… Non era lui l’anima gemella che credeva di aver trovato…

«Tienimi», mi disse Anto stringendo la presa sul mio braccio. «Dammi il via se vuoi.»

«No, lasciala.»

Si alzò dal divano e lasciò lì la lettera, si aggirò per il salotto con le mani tra i capelli e singhiozzando, ma nessuno interveniva, probabilmente Tom tratteneva Bill e i suoi figli come io trattenevo Anto.

«È finita, è finita, è finita», continuava a ripetere, ogni volta con intonazioni diverse, una volta sembrava pure felice, ma era solo disperazione.

Corse alla porta e uscì prendendo una giacca al volo, infatti sbagliò e prese quella di Stefan.

«Sharon!», gridò Bill, ma lei era già a chilometri di distanza con la testa.

«Ma perché l’hai lasciata andare?!», mi gridò in faccia Bill. Chiusi gli occhi e strinsi i pugni indietreggiando.

«Bill!», gridò Anto in mia difesa.

«Io non avrei voluto che qualcuno mi trattenesse, l’avrei odiato. So come ci si sente, non puoi nemmeno immaginarlo. Davide non mi ha mai…» Il suo nome salì a galla come una bolla d’ossigeno trattenuta troppo a lungo e fece male, come se quella bolla fosse l’ultima e fossi rimasta senza aria.

«Devo andare a prendere Sarah all’asilo», dissi con gli occhi velati dalle lacrime.

«Ary, non volevo», disse Bill prendendomi per il braccio.

«Non importa.» Ma le lacrime bagnavano già il mio viso: non era il giorno giusto per nessuno.

«Mamma, non piangere ti prego», mi supplicò Alex.

«Vado a prendere Sarah e torno.» Tirai su col naso e mi asciugai le lacrime con fare distratto, mentre prendevo la giacca.

«Prendi il cellulare, per favore», disse Tom. Annuii e lo infilai in tasca accennando un sorriso.

«E non tenerlo spento», disse ancora. Come aveva previsto, era spento. Lo accesi e poi cercai le chiavi della macchina.

«Non le trovo», dissi a bassa voce con la voce spezzata.

«Le avrai lasciate di nuovo in macchina.»

«Giusto. Allora a dopo.» Guardai Tom negli occhi e dissi, quasi lo dissi a me stessa: «Non farò cavolate, te lo prometto.» Annuì e mi lasciò andare.

Arrivai alla macchina fuori dal garage e mi accorsi solo quando un fiocco di neve mi punse il naso che stava nevicando. La portiera era aperta, Tom ci azzeccava sempre. Dentro, al posto del passeggero trovai Sharon raggomitolata e singhiozzante. Le chiavi erano nel cruscotto e l’aria calda era già accesa, lì faceva un bel calduccio. Lo trovai un luogo perfetto per piangere un po’, mentre la neve cadeva fuori dal nostro rifugio.

«Zia, perché piangi?», mi chiese tremando.

«Ricordi, piccola, ricordi.»

La abbracciai e lei mi strinse con una stretta che se non avessi saputo che era lei l’avrei confusa con quella di sua madre. Mi vidi nei panni di una mia madre mai esistita e vidi me piangere fra le sue braccia come stava facendo lei: così sarebbe dovuto essere, invece le uniche braccia che avevo visto nei momenti difficili erano state quelle di Davide, fino a quando anche lui non diventò uno dei miei momenti più difficili, e quelle di Tom, di Bill, di Anto, di Georg, di Gustav, di mio padre e di Mattia.

Quando io smisi di piangere, quando mi imposi di non fare più la bambina, misi in moto e ci dirigemmo all’asilo.

C’era un silenzio perfetto, a volte sentivo ancora Sharon singhiozzare senza lacrime, era a pezzi e mi identificavo bene nel suo dolore, era come rivivere una parte della mia vita.

«Zia, perché non mi chiedi niente?», mi chiese.

«Che cosa dovrei chiederti?» Mi sfregai gli occhi con un gesto veloce e misi la freccia al semaforo.

«Non so, perché piango?»

La guardai e sorrisi. «Ma lo so perché piangi.»

«Non ci vuole un genio per capirlo, eh?»

«No, so come ti senti. Non te ne ho mai parlato.»

«Di cosa?»

«Di quando un ragazzo mi ha lasciata con il cuore infranto.»

«E chi?»

«Tuo zio.»

«Cosa? Zio? Ma com’è possibile? Voi siete così perfetti assieme!»

«Sì, ma ne abbiamo passate tante prima di arrivare a questo punto. Non siamo sempre stati felici.»

«Puoi… raccontarmi cos’è successo?»

«Quando io e Tom ci siamo conosciuti…» Il semaforo verde scattò e misi di nuovo in moto. «Non credevo che la nostra storia si evolvesse così tanto, pensavo che mi avrebbe lasciata subito. Forse a quel tempo sarebbe stato meglio, però non lo fece. Rimasimo insieme per tre giorni, ero molto… presa da lui, e gli dissi che lo amavo. Lui non me lo disse in quei giorni. Sta di fatto che dopo i tre giorni lui doveva partire di nuovo e mi lasciò, un po’ per la distanza forzata per il lavoro, un po’ perché non aveva ancora capito che mi amava. È stato il periodo più brutto della mia… della nostra vita.»

«E come avete fatto a rimettervi assieme?»

«Non dimenticando. Io non ho mai smesso di amarlo, così lui non aveva mai smesso di amare me. È successo perché doveva succedere, ci amavamo, non potevamo stare lontani l’uno dall’altro.»

«Derek non tornerà però», disse triste.

«Mi dispiace, ma non posso dirti che passerà, almeno non così in fretta. Tu… tu che provi per lui?»

«Non lo so.»

«Allora lo capirai.»

«Grazie zia.»

«Di cosa?»

«Di avermi parlato della tua infanzia.»

«Infanzia? Quella non era infanzia, sono cresciuta di più in quei due mesi in cui Tom non c’era che in tutta la mia vita. La dimensione del dolore ti fa riflettere molto.»

«Ma è brutto soffrire.»

«Quando non hai niente a cui aggrapparti, il dolore è l’unica alternativa.»

«Zia, stai piangendo di nuovo.»

Non me n’ero accorta. Mi passai una mano sul viso e tornai a guardare la strada, avevo promesso a Tom che non avrei fatto cavolate.

«Perché non mi hai fermata quando sono uscita di casa?»

«Non saresti andata lontano. E poi, io non avrei voluto che qualcuno mi fermasse, l’ho detto pure a tuo padre. Anto e Bill sono molto preoccupati per te.»

«Non mi importa.»

Inchiodai nel parcheggio e le tirai uno schiaffo, anche se bruciò più a me che a lei. «E non dirò che mi dispiace», sussurrai. Lei tirò su col naso, ma non versò nemmeno una lacrima.

«Vuoi che ti spieghi il perché della sberla?», chiesi con gli occhi accesi di rabbia.

«Lo chiederò a mamma», disse.

«Brava, lei saprà cosa dirti. Adesso che fai, resti qui o entri con me a prendere Sarah?»

«Ti aspetto qui.»

«Bene.»

Uscii dalla macchina e sbattei la portiera quando la chiusi. La neve era fresca e si stava già attaccando al cemento. Adoravo la neve, ma mi portava sempre amari ricordi. Io e Davide giocavamo sempre a palle di neve quando vivevamo ancora nell’appartamento vecchio, sul terrazzo. E ci divertivamo come matti.

Mi strinsi nelle spalle mordendomi il labbro che tremava e entrai nella struttura. Venni travolta da una folata di aria calda: si moriva dal caldo rispetto a fuori. C’era profumo di bambino e mi piaceva, mi sembrava di rivivere altri episodi felici della mia infanzia. Guardai tra tutti i bambini e vidi Sarah alzare la testa e sorridermi anche con i suoi occhietti azzurri come i miei. Mi corse incontro un po’ barcollante, i suoi riccioli biondi ondeggiavano sulle sue spalle e il suo vestitino rosa, che gli aveva comprato Anto, mi sembrò così inutile in confronto alla sua semplice bellezza. Tom diceva sempre che eravamo belle uguali, ma io pensavo che lei fosse ancora più bella, perché aveva tratti anche di Tom, non solo miei. Come Stefan e Alex, tra l’altro.

«Amore!», gridai prendendola in braccio e facendola girare.

«Ciao mamma!», mi salutò stampandomi un bacino sulla guancia fredda. Rabbrividì, ma non mi risparmiò un abbraccio stretto.

Ritrovai subito la serenità: la gioia che mi dava era immensa, volevo dare tutto a lei, tutto quello che mia madre non aveva dato a me, come avevo fatto anche per Stefan e Alex.

«Salve, come sta?», mi chiese la ragazza che si occupava del gruppo di bambini tra cui faceva parte anche Sarah.

«Buongiorno, tutto bene», dissi stringendole la mano.

«Sarah è stata bravissima oggi, ha fatto un disegno bellissimo, vero?»

«Sì», annuì la piccolina.

«La mia piccola artista», sorrisi accarezzandole i capelli. «Poi a casa me lo fai vedere con calma, eh?», dissi.

«Eccolo.» La ragazza me lo passò e ci lanciai uno sguardo veloce, ma a casa lo avrei contemplato per ore.

«Wow Sarah, è bellissimo!», dissi baciandola.

«Poi ha mangiato tutto…», continuò la ragazza entusiasta.

Ci lasciò andare solo dopo altri cinque minuti ininterrotti della condotta perfetta di Sarah. Strano, non aveva preso niente da me e Tom, casinisti e ribelli. Ma mi ripetevo sempre che era ancora presto per giudicare.

Me la strinsi al petto e le coprii la testa con il cappuccio del suo cappottino nero, disegnato da Bill. La neve cadeva più fitta e si attaccava a tutto, ma era bello sentire il gelo sul viso.

Sharon aveva la guancia che avevo schiaffeggiato leggermente più rossa dell’altra e aveva lo sguardo perso fuori dal parabrezza. Quando entrammo il macchina prese di nuovo vita e salutò Sarah con tanti di quei baci che non riuscii più a contarli ad un certo punto: lei portava allegria nei cuori di tutti.

La sistemai nel seggiolino e anche Sharon passò nei sedili dietro per starle vicino, aveva ritrovato il sorriso grazie a quel piccolo angelo che faceva miracoli.

In macchina Sharon non parlò con me per tutto il tragitto, ma non avevo paura che si fosse arrabbiata, le sarebbe comunque passata prima o poi. Noi eravamo come amiche e a volte capitava anche a noi di litigare.

Sharon prese lo zainetto di Sarah e il disegno che aveva fatto all’asilo, lo aprì prima di entrare in casa e lo guardò in silenzio. C’erano tutti quanti: Anto, Bill, Sharon, Stefan, Alex, io e Tom, poi c’era scritto: La mia famiglia, Sarah.

Lo guardai con lei e gli indicai tutte le persone presenti: «Io non avevo tutte queste persone che mi volevano bene accanto, ricordatene la prossima volta, prima di dire qualche altra fesseria.» Dopodiché entrai in casa con in braccio Sarah e appena mi videro tutti quanti si alzarono dal divano e dalle poltrone e mi guardarono.

«Ciao a tutti, tornate!», dissi salutando con la mano di Sarah.

Stefan e Alex mi sorrisero e presero subito in braccio Sarah, era il loro tesoro, l’adoravano, e iniziarono a coccolarla.

Dietro di me comparve Sharon e poggiò lo zainetto e il disegno me lo diede a me, per poi rifugiarsi tra le braccia di Anto, che le accarezzò il viso.

«Sei tornata», le sussurrò baciandola sulla fronte. Mi guardò riconoscente, ma io scossi la testa e alzai le mani, non ero stata io a trovare lei, ma lei era venuta da me.

«Ma che cos’hai fatto alla guancia?», chiese Bill sfiorandole il rossore.

«Colpa mia, scusa», dissi.

«L’hai… l’hai presa a schiaffi?», chiese Anto stupita.

«Se lo meritava», dissi, e Sharon annuì guardando gli occhi preoccupati della madre.

«Tom, devo chiederti un favore», dissi avvicinandomi.

«Dimmi», mi abbracciò e mi strinse a sé cullandomi.

«Posso dormire fuori?»

«Che cosa?», mi staccò bruscamente e mi guardò negli occhi. «Che cosa stai farneticando?» Sembrava isterico.

Gli gettai le braccia al collo e lo baciai. Subito Stefan e Alex girarono la testa dall’altra parte e coprirono gli occhi a Sarah imbarazzati, Bill ridacchiò e Anto e Sharon rimasero a guardare come se nulla fosse.

«Tom, stai calmo», dissi accarezzandogli le guance.

«No, non sto calmo per niente! Che vuol dire che mi chiedi se puoi dormire fuori? È assurdo! Perché?»

«Ho bisogno di stare un po’ da sola, vado da papà.»

«Ma perché!?», urlò, tale e quale ad un bambino.

Gli misi un dito sulle labbra e sorrisi. «Ne parliamo di là?», chiesi.

Annuì controvoglia e andammo in camera nostra a parlare.

In salotto erano rimasti tutti un po’ sorpresi dalla mia proposta, Sharon era passata in fretta in secondo piano, ma appena me ne fui andata, tutti gli sguardi si puntarono su di lei.

«Che cos’è successo?», chiese Anto.

«Che io sappia, nulla», si difese lei.

«Sul serio, di cosa avete parlato», insistette Bill. 

«Papà, ho fatto qualcosa di sbagliato? È colpa mia?»

«No, non ti preoccupare Sharon, non è colpa tua.» Anto la tranquillizzò e la fece sedere sul divano. Si misero seduti al suo fianco e Bill le accarezzò le mani.

«Allora, raccontaci che cosa vi siete dette.»

Stefan e Alex misero Sarah sul tappeto di fronte a loro e si misero a giocare distrattamente con lei con i cubetti di legno per formare delle figure. Erano interessati più alle cose da grandi che ai cubetti.

«Mi ha raccontato di quando lei e zio si sono lasciati.»

Anto schioccò la lingua e guardò il pavimento per un istante, rabbrividì e poi tornò a guardare la figlia.

«Poi… poi mi ha tirato lo schiaffo perché lei aveva detto che eravate preoccupati per me e io le ho risposto che non mi importava. Lo so, ho sbagliato, ha fatto bene. Mi perdonate?» Bill e Anto annuirono, ma volevano sapere il resto. «Poi abbiamo parlato del disegno.»

«Quale disegno?», chiese Anto.

Sharon si alzò e prese il disegno fatto da Sarah, lo mostrò ai suoi genitori e tutti capirono il perché del mio comportamento.

«Ora è tutto chiaro», dissero in coro.

«Che cosa è chiaro?»

«Che cosa ti ha detto riguardo a questo?»

«Che ero stata stupida a dire che non mi importava, perché lei non aveva mai avuto tutto questo. Mamma, che cosa aveva zia da piccola?»

«Da piccola? Davide e me.»

Sharon si sentì morire. «Solo?», chiese senza fiato.

«Solo», annuì amaramente Anto. «Capisci perché si è arrabbiata così tanto? Lei non aveva niente di ciò che hai tu.»

«Come facevo a saperlo, non me l’ha mai detto.»

«E tu gliel’hai mai chiesto?»

Sharon abbassò lo sguardo e si pestò un piede. «No», disse a malapena.

«E quando è morto Davide, che cos’ha avuto?», chiese Stefan.

«Aveva noi, per fortuna», disse Bill.

«E sua madre, suo padre?», chiese Sharon.

«Sua madre era come se non ci fosse, suo padre non sapeva come fare a starle vicino, fino a quando non si sono trovati assieme per forza, uniti dalla tragedia.»

«È orribile», commentò Alex stringendo Sarah fra le braccia.

«Lo so», disse Anto.

Sentirono la voce di Tom provenire da sopra le scale: «Ti prego, stai attenta. Per qualsiasi cosa chiamami che ti vengo a prendere.»

«Ok, va bene, non ti preoccupare.»

«Lo sai che mi preoccuperò lo stesso.»

«E io mi preoccuperò per Sarah, soprattutto. Stefan e Alex sono grandi ormai. Non impazzire senza di me, mi raccomando», ridacchiai.

«Sì, scherza, scherza, io vado fuori di testa sul serio. Non puoi capire. Mi stai facendo del male.»

«Mi dispiace Tom, te lo giuro. Ti fidi di me?»

«Sì, ma mi fido sempre un po’ troppo di te.»

«Dai, so che puoi farcela.»

«E tu, puoi farcela?»

«Sì, ce la farò. Semmai ti chiamo e mi vieni a prendere.»

«Brava, hai afferrato il concetto.»

Stefan, Alex, Anto, Bill e Sharon si guardarono e Anto annuì leggendo nel pensiero di tutti.

«Allora va davvero», sussurrò Sharon con lo sguardo spiritato.

«Sì, ma non ti preoccupare, torna.»

Scesi le scale con la borsa in spalla e vidi tutti che mi fissavano tristi.

«Non puoi andartene», disse Sharon sull’orlo delle lacrime.

«Io non me ne vado», dissi. «Non me ne andrò mai.»

«E allora perché vuoi varcare quella soglia?», indicò la porta con il dito, le lacrime scorrevano libere sul suo viso.

«Sharon, tu sai?», chiesi.

«Sì, lei sa», disse Anto.

«Gliel’avete detto?», mi aspettavo tanto un no.

«Non avevamo altra scelta.»

«Basta che non resti in pena per me, non ne ho bisogno. Dai Shary, smettila di piangere.»

«Anche zio ha pianto», disse tremando.

«Non è vero!», si difese Tom, ma si vedeva benissimo dai suoi occhi rossi.

«Qui qualcuno non ha capito che io amo questa vita, non me ne andrei mai, io vado solo a trovare mio padre: sono mesi che non lo vedo. Non vi lascerei mai e poi mai, non sono come una certa persona che mi ha fatto del male, io ci sarò. Io sono moglie, sono mamma, sono amica, sono… cognata – contento Bill? –, sono zia. Non me ne andrò mai! Voi siete tutto per me, non dimenticatelo mai.»

Mi voltai e presi veloce le chiavi della macchina. Baciai Stefan, Alex, Sarah, facendogli l’unica raccomandazione di non stare in pensiero per me, ci sarebbe stato abbastanza Tom. Salutai Bill e Anto e al momento di Sharon lei mi guardò con gli occhi pieni di lacrime. 

«Non andare, ti prego», sussurrò.

«Devo», risposi impassibile.

«Ti odio.» E corse di sopra in camera sua.

«Sharon!», gridò Bill.

«Lasciala andare.»

«Ma Ary!»

«Lasciala. Me lo merito. Odiatemi pure voi.» Presi la maniglia della porta e la aprii, sentii il gelo riempirmi i polmoni.

«Io non ti odio», disse Tom.

«Questo lo sapevo», dissi ridendo. «Beh, per una volta provaci. L’hai detto tu che ti sto facendo del male.»

«Ma non ci riesco.»

«So pure questo. Nemmeno io ci riuscirei, non ci sono mai riuscita. Torno presto, fate i bravi. Ti amo Tom.»

«Questo lo so da sempre», disse lui con un sorriso. E mi chiusi la porta alle spalle.

Non mi piaceva guidare, ma in quel caso mi fece sentire stranamente libera, anche se sentivo già la mancanza della mia famiglia. Non potevo tornare indietro.

Feci un lungo respiro e pensai a cosa dire a mio padre quando mi avrebbe chiesto che cosa ero andata lì a fare da sola. Ero andata a ritrovare me stessa, una parte di me, quella più debole e fragile, la bambina che c’era nel mio profondo, che avevo tenuto nascosta troppo a lungo. Volevo riabbracciare mio padre e riscoprire con lui le fasi della mia triste infanzia sbiadita dal tempo. La mia memoria non era perfetta e volevo che ritornasse lucida, volevo di nuovo essere consapevole di quello che avevamo passato assieme.

La solitudine che sentivo dentro mi faceva star male, inoltre non c’era nessuno a quell’ora tra le strade di solito sempre affollate. Il mio era un viaggio solitario verso la solitudine. Odiavo la solitudine, ma ci dovevo passare per ritrovare la compagnia e la serenità che invece adoravo.

Parcheggiai di fronte a casa di papà e spensi i fari, rimasi un attimo a riflettere in macchina e vidi delle ombre dietro la finestra della cucina, probabilmente stavano per mangiare. In effetti avevo anch’io un certo languorino.

Scesi e mi misi la borsa sulla spalla, bussai e attesi che qualcuno mi venisse ad aprire. Era strano non avere le chiavi di quella casa, anche se ero sempre la benvenuta.

«Tesoro!»

«Ciao Lilian, come stai?»

«Bene, ma… che ci fai qui a quest’ora? E come mai sei da sola?»

«Vi spiegherò tutto più tardi.»

La baciai sulle guance regalandole un sorriso e poi mi diressi verso la cucina, dove trovai papà e anche Mattia seduti al tavolo che mangiavano uno dei buonissimi piatti cucinati da Lilian, la seconda moglie di mio padre. Alla fine si erano sposati.

«Bambina mia!», gridò mio padre appena mi vide. Si alzò lasciando la forchetta nel piatto e mi abbracciò con decisione. Mi era mancata quella stretta. Ricambiai e chiusi gli occhi, respirando a pieni polmoni il suo profumo.

«Come stai papà?», chiesi.

«Ma chissene frega di come sto io! Come stai tu?!»

«Io sto bene, non preoccuparti.»

Mi prese il viso tra le mani e mi baciò la fronte, com’era solito fare. «Sembri stanca invece», mi sussurrò.

«Non è vero.»

Mattia si alzò e fu il suo turno per i baci e gli abbracci.

«Ciao sorellina.»

«Ciao Mattia, come stai?»

«Bene. È stata una fortuna venire qui proprio oggi. Perché non ci hai detto che venivi?»

«Perchè non lo sapevo, non era una cosa organizzata. Non vedi che Tom e i bambini… i ragazzi e Sarah non ci sono?» Ero ancora abituata a dire bambini, quando invece Stefan e Alex ormai erano grandi.

«Sì, ma adesso siediti e mangia qualcosa con noi.» Papà mi prese per le spalle e mi fece mettere accanto a Mattia, per vedermi bene in viso.

«Allora, a casa tutto bene? Come stanno gli altri?»

«Tutto bene, è solo che Sharon sta crescendo, è nel suo periodo di ribellione. Mi ha fatto riflettere. Papà, possiamo parlare un po’ da soli? Vorrei chiederti alcune cose. E poi devo tornare a casa, sai com’è Tom, si preoccupa molto.»

«Ok, va bene.»

Assaggiai solo un boccone di pasta e come sempre dissi a Lilian che era ottima, poi mi diressi assieme a mio padre verso la cantina al piano di sotto.

«Mi spieghi che cosa stai combinando?», mi chiese.

«Papà, voglio ricordare.»

Ci fermammo sulle scale buie e ci guardammo negli occhi grazie solo alla luce che proveniva dal corridoio. Nei suoi vidi un bagliore argentato: lacrime. Lo strinsi e lo lasciai singhiozzare sulla mia spalla, ma anch’io avrei voluto piangere. Quel giorno c’erano state fin troppe lacrime.

«Prendi tutto quello che vuoi», disse tremante. «È tutto in quella scatola.» Me ne indicò una abbastanza grande, con la scritta Fragile su un lato.

«Grazie papà.»

Annuì e si accinse a risalire di nuovo le scale in silenzio, asciugandosi le guance.

«Ah, papà aspetta. Un’ultima cosa.» Si girò e rimase in silenzio. «Che fine ha fatto mamma?»

 

***

 

«MAMMA!»

«Ma Sarah… Papà!»

«Che cosa c’è?» Prese Sarah in braccio e la cullò tentando di farla smettere di piangere e di urlare. I suoi singhiozzi lo facevano stare male il doppio perché la causa ero io, non avrebbe mai voluto che fosse così.

«Sarah, mamma torna presto. È andata a trovare il nonno.»

«Mamma», singhiozzò ancora.

«Anch’io la voglio», sussurrò Tom. Guardò i gemelli e con lo sguardo gli disse di andare a letto, loro si alzarono dal tappeto e obbedirono.

«Sarah, vuoi che ti preparo il latte?», le chiese dirigendosi verso la cucina. La piccolina annuì con la testa. «Ok, allora adesso ci beviamo il latte e andiamo a fare la nanna.»

In cucina c’era Anto che aveva già messo il latte a scaldare, facendo un favore a Tom, che la ringraziò. Si mise seduto al tavolo con Sarah fra le braccia e chiuse gli occhi respirando il suo profumo, così simile al mio.

«Bill che fine ha fatto?», chiese all’improvviso.

«È andato a parlare con Sharon. Non posso crederci che le abbia detto ti odio

«È una ragazzina Anto, non sapeva cosa diceva.»

«Sì, ma loro due sono così attaccate… Per lei Ary è come una migliore amica.»

«Ary non ti ha mai detto ti odio

«No, non si è mai permessa. Ma l’ho fatto io.»

«Allora è un vizio di famiglia», scherzò Tom.

Anto diede il biberon con il latte a Sarah dopo aver provato la temperatura sul polso e si mise seduta accanto al cognato.

«Perché Ary se n’è andata?», chiese sottovoce.

«Doveva recuperare della roba a casa di suo padre, dovrebbe tornare domattina.»

Sarah si agitò fra le braccia di Tom con gli occhi gonfi di lacrime, voleva ancora piangere la sua mamma che non c’era.

«No Sarah, mamma torna presto, non ti preoccupare. Non lo vuoi più?»

Sarah si tolse il biberon dalla bocca e lo diede a Tom strofinandosi gli occhi umidi con una manina.

«Tu hai sonno», disse Tom. «Andiamo a fare la nanna. Anto, la accompagno su, ci vediamo dopo.»

«Ok. Ma Stefan e Alex, come l’hanno presa?»

«Abbastanza bene, si fidano di lei.»

«E tu?»

«Anch’io mi fido di lei, sono solo tremendamente in pensiero. Starle lontano quando non devo mi mette in ansia.»

«Lo so», Anto gli sorrise e lo abbracciò, per quanto poteva essere di conforto.

 

***

 

Strinsi i pugni sulle coperte e guardai il soffitto scuro, attraversato solo da un filo di luce lunare proveniente dalla finestra. Quella camera non mi era familiare, mi trovavo a disagio e volevo tornare a casa, dalla mia famiglia. Così mi alzai, mi rivestii in fretta e lasciai un biglietto sul frigo a papà e Lilian, ringraziandoli, poi uscii di casa.

Il cielo era ricoperto di nuvole e nuovi fiocchi di neve si prestavano a scendere e a rinfrescarmi il viso. Il silenzio che c’era si accompagnava bene a ciò che sentivo dentro. Se chiudevo gli occhi riuscivo ad immaginare un cimitero sconosciuto, tra le cui lapidi c’era la sua, semplice, con la foto che la ritraeva ancora sorridente e la data della sua nascita e della sua morte, senza alcuna frase ad accompagnare il suo addio.

In auto, mentre guidavo sulla strada illuminata solo dai fari della mia macchina, una Mini azzurra, e le lacrime scivolavano sulle mie guance che erano un piacere a contatto con l’aria gelida che entrava dal finestrino, la mia mente venne investita da così tanti pensieri contemporaneamente che mi fu impossibile non pensare a niente. Mi scoppiava la testa e volevo solo fuggire via, anzi no, volevo tornare a casa.

Un pensiero però prevalse su gli altri. Io e mia madre eravamo sempre state identiche su due cose: la solitudine che a volte ci catturava e ci allontanava da tutto il resto e la sofferenza che avevamo provato nel corso della nostra vita. Quanto dolore e quanta solitudine. Io ero stata più fortunata però. Avevo trovato una persona speciale come Tom che mi aveva aiutato nei momenti difficili, poi accanto avevo le migliori persone che conoscevo al mondo. Loro mi avevano dato la forza per andare avanti, per non arrendermi mai, invece lei si era subito arresa. Papà aveva tentato di salvarla, ma era in una situazione troppo disperata per guarire. Si era lasciata andare troppo presto e la solitudine l’aveva uccisa.

Mi tenni stretta al pensiero di Tom, Stefan, Alex, Sarah, Bill, Anto, Sharon, Gustav, Georg, Nicole, Giulia, Anne, Christin, papà, Lilian, Mattia… Pensai a tutte quelle persone che mi stavano a cuore e che mi volevano bene e arrivai a casa più attaccata che mai alla mia vita, alla mia voglia di vivere. Io non mi sarei mai e poi mai arresa, avrei lottato fino alla fine dei miei giorni.

La luce chiara del sole all’alba mi riportò il ricordo di Davide che mi abbagliava con il suo bellissimo sorriso nei giorni assolati d’estate, nonostante nevicasse e fosse pieno inverno. Mi sentii immersa in una strana pace interiore e capii che Davide mi era accanto e che era lui ad aiutarmi più di tutti in quel mio lungo viaggio.

Sorrisi e scesi dalla macchina asciugandomi il viso. Presi lo scatolone dai sedili posteriori ed entrai in casa senza fare rumore. 

Mi levai la giacca in fretta e la lanciai sul divano, mi misi seduta a gambe incrociate sul tappeto del salotto e aprii la scatola. Con immensa gioia trovai il mio pupazzo preferito, che però era passato a Davide quando io ero diventata troppo grande. Me lo strinsi al petto e ritornai un po’ bambina. C’erano un sacco di filmini e di foto di me e Davide, ma soprattutto di lui. Infilai una di quelle cassette nel registratore e partì un video che aveva il mio caro fratellino come protagonista. Restai a guardare il suo bel viso senza parole, mentre ridevamo e ci tiravamo palle di neve sul terrazzo di casa.

Gettai un’ultima occhiata allo scatolone e sul fondo intravidi un diario. Mi venne un colpo al cuore. Lo presi fra le mani con delicatezza e una sensazione di malessere interiore mi avvolse. Da sempre avevo odiato quel diario, ma avevo una strana voglia di stringere pure quello al petto. Lo sfogliai e l’odore di inchiostro sulle pagine mi riportò alla notte di troppi anni prima in cui l’avevo letto, senza riuscire più a dormire. Sull’ultima pagina, c’era una foto rarissima: eravamo io e mia madre, strette in un abbraccio. Io sorridevo e lei era ancora in sé, in quella foto sembrava anche volermi bene. La girai e lessi la frase che aveva scritto di fretta, con la sua calligrafia simile alla mia:

 

Il più bel errore della mia vita, ma l’ho capito troppo tardi. L’avevo già perso. 

 

La data coincideva ad una settimana prima della sua morte.

Quella sì che la strinsi al petto, e scoppiai pure a piangere e a singhiozzare forte, non avevo paura di farmi sentire. Le risate mie e di Davide continuavano ad esserci in quel momento di tristezza, il mio cuore scoppiava nella cassa toracica e mi sentivo tremendamente in colpa. Forse eravamo simili in un’altra cosa: ci facevamo del male da sole.

«Ary», sussurrò Tom prima di correre giù dalle scale e di stringermi forte al suo petto. «Ary, cosa ti è successo?»

Scossi la testa e mi strinsi a lui, lasciando sul tappeto la foto, che lui prese, guardò e ne lesse il retro sottovoce.

«Ary, ti prego, non piangere. Mi spieghi cos’è successo?»

«È morta», sussurrai, ero senza voce. «Si è… si è suicidata.»

«Cosa? Ary, mi dispiace tanto. Ma quando è successo?»

«Sei mesi dopo il nostro ultimo incontro in America», singhiozzai.

«Amore…»

«Sono stanca», sussurrai.

Mi aiutò ad alzarmi e mi accompagnò in camera, trovai Sarah sdraiata al mio posto tra le coperte. Mi accucciai accanto a lei e le accarezzai i capelli con dolcezza, poi feci sedere Tom al mio fianco. 

«Resta qui, ti prego», lo supplicai.

«Certo che resto qui.» Mise Sarah fra le mie braccia sorridendo e si mise sdraiato accanto a me, io nelle sue braccia.

Quando mi abbracciò mi sentii estremamente protetta e non fu difficile per me addormentarmi.  

 

 

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Buongiorno a tutti!
Capito un po’ tristino, devo ammetterlo ç_ç Fra Derek che lascia Sharon e la mamma di Ary… Ah, finalmente si è venuto a sapere che fine aveva fatto quest’ultima dopo il loro ultimo incontro a Los Angeles…
Spero che vi sia piaciuto, è uno dei miei preferiti! :)
Ringrazio di cuore le due fans affiatate di questa FF, ossia Tokietta86 e Utopy che non mancano mai! Grazie ragazze, davvero *-*
Grazie anche a chi legge soltanto, un bacio. Alla prossima settimana, vostra

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Capitolo 13
*** It’s always (a) life ***


Capitolo 6
It’s
always (a) life

 

«Mi dai un passaggio fino in studio?», chiese fissando gli occhi di suo zio.

Era rimasta scioccata sapendo di mia madre, in quei due giorni aveva scoperto più di me in tutti e sedici i suoi anni. Il dolore per Derek era stato spazzato via, ma appena la situazione si era ristabilizzata era riaffiorato più forte di prima, anche se ancora non era riuscita a capire fino in fondo perché proprio a lei fosse capitata una cosa del genere. Aveva voglia di sfogarsi e una canzone era ciò che ci voleva, a volte era proprio l’unico modo.

Scesi dalle scale e vidi la scatola in un angolo, ancora non avevo deciso dove metterla, e sull’ultimo gradino c’era Sarah che giocava con il mio ex pupazzo, un orsacchiotto spelacchiato da quanto era stato usato, sia da me che da Davide. All’inizio volevo dirle di stare attenta a non rovinarlo, ma appena se lo strinse al petto baciandone il pelo chiaro, mi venne naturale sorridere e mettermi seduta accanto a lei. Mi guardò e sorrise mostrandomi le sue tenerissime fossette sulle guance, mi abbracciò stringendomi una ciocca di capelli nella mano e mi baciò sulla guancia, facendomi ridere felice. Era possibile che solo la sua presenza, il suo amore, mi rendesse così infinitamente felice? Sì, era più che possibile.

Tom non badò all’insistenza di Sharon e si sporse sul tavolo per vedere fuori dalla cucina: vide me e Sarah strette in un abbraccio, io con il sorriso sulle labbra.

«Perché non chiedi ad Ary? Lei deve andare al lavoro adesso», disse tornando con lo sguardo su di lei.

«Non penso sia una buona idea», sbottò la ragazza mettendosi le braccia al petto.

«Beh, allora credo proprio che resterai qui.»

«Vado con la bici.» Era già pronta a scattare, ma Tom le prese il polso e la fece girare ancora verso di lui.

«Ascoltami», le disse ad una distanza paurosa dal suo viso. «Perché non la smetti di fare la bambina?»

«Non sto facendo la bambina

«Ah no? Allora perché non ti decidi a far pace con lei? Senti. Ary non lo fa vedere, ma le manchi. Ok? Ce ne siamo accorti tutti che manca pure a te, ma sei cocciuta peggio di Bill. Quindi… mi faresti questo piacere?»

Parve pensarci su, ma la risposta fu solamente deludente: «Non farò pace con lei solo perché mi fa pena.»

«Non devi far pace con lei perché ti fa pena!», gridò a mezza voce. Non poteva credere che avesse intuito una simile stupidaggine dalle sue parole. «Ma perché non è vero che la odi, la verità è che ti manca e che le vuoi bene.»

Sharon si morse nervosamente il labbro e sospirò quando suo zio sorrise e uscì dalla cucina.

«Ary!», mi chiamò anche se era a pochi metri da me.

«Sì, che c’è?», chiesi e vidi spuntare da dietro di lui Sharon, con lo sguardo basso.

Anche Sarah sentiva che c’era qualcosa che non andava nella cugina, ma io sapevo anche il motivo, e quel motivo ero io.

«Accompagneresti Sharon in studio?»

«Ahm, sì, certo.» Mi alzai e quasi ebbi paura di stare sola con lei, ma passò subito. Mi sistemai la maglietta addosso e sorrisi a Sarah che si era stretta ancora al petto il pupazzo.

«Dove vai?», mi chiese con la sua voce dolce.

«Accompagno Sharon in studio e poi vado al lavoro, ci vediamo dopo, torno presto.» Le accarezzai la guancia e la baciai sulla fronte. «Ehi, ma come sei calda!» La baciai ancora spostandole i capelli dal viso facendo più attenzione alla temperatura: in effetti era più calda del solito.

«Tom, mi sa che ha la febbre», dissi prendendola in braccio.

Lui me la prese dalle braccia e la misurò anche lui, io intanto guardai Sharon, che appena incrociò il mio sguardo si girò verso Tom e Sarah.

«Sì, forse un po’. Ma vai, semmai ti chiamo, tranquilla.» Mi fece un buffetto sulla guancia e salì di sopra con Sarah in braccio, lasciandoci sole.

Ci guardammo e lei subito fuggì, così io feci un respiro profondo e andai a prendere la giacca. Non poteva continuare così!

Aspettai che anche Sharon prese la sua borsa e si mise il cappotto, poi uscimmo e salimmo in macchina.

Il silenzio tra noi era imbarazzante e freddo, sarei congelata, così tirai fuori un argomento a caso.

«Ho letto che in questi anni l’inquinamento atmosferico è aumentato ancora del trenta percento.» Me ne pentii subito: quello poteva essere davvero un argomento con il quale riprendere a parlare con una sedicenne? Volevo tirarmi uno schiaffo in fronte, ma la sua risata mi fece voltare verso di lei.

«Oh sì, e se continuiamo così va a finire che dovremmo andare in giro con le bombole d’ossigeno attaccate alla schiena.»

Incredibile, ma aveva funzionato. Solo per poco purtroppo. Mi arresi al silenzio, forse non era ancora il momento giusto per riprendere a parlare, ma a me mancava tanto la mia dolce nipotina, con cui condividere tutto e parlare di ragazzi a colazione, pranzo e cena. Tutti i nostri segreti mi mancavano, tutte le piccole cose, le gioie di ogni giorno dovute a lei mi mancavano.

Sharon si schiarì la gola e si sistemò meglio sul sedile mettendo un braccio accanto al finestrino, che reggeva la testa.

«Senti zia», balbettò.

«Sì, che c’è?», quasi gridai di gioia, magari quel momento era arrivato. Lei sorrise e poi rise, contagiandomi.

«Zia, mi sei mancata così tanto… Mi dispiace.»

«E di cosa?»

«Per averti detto che ti odio, lo sai che non è vero. Sono stata una stupida.»

«Non fa niente tesoro, lo sapevo benissimo che non l’avevi detto con la testa, eri solo arrabbiata e facevi bene ad esserlo. Non dovevo andarmene via così, io.»

«Io avrei fatto la stessa cosa se fossi stata in te. Zia, mi dispiace anche per…», mimò qualcosa per non dire quelle parole.

«Per cosa, Sharon?»

«Per tua mamma», sussurrò con gli occhi persi sulla strada.

«Ah. Sì, dispiace pure a me. Mamma ti ha raccontato la storia?»

«Sì, mi dispiace tantissimo. Dimmi solo una cosa.»

«Quale?»

«Credi che ti avrebbe fatto più male se nonno te lo avesse detto subito?»

Era tale e quale a sua madre, quando doveva dire qualcosa la diceva e basta, senza pensare ai sentimenti altrui. Ma Anto con me era sempre stata un caso a parte, mi conosceva bene. Invece Sharon no, non c’era quel legame magico che c’era tra me e sua madre, la sua sincerità faceva male e bene allo stesso tempo.

Sorrisi amara mentre parcheggiavo di fronte alla sede della Universal e spegnevo il motore.

«Sai Sharon», mi gira sul sedile e la guardai negli occhi. «Credo che sarebbe stato lo stesso. Forse avrei reagito in modo diverso, forse sarei andata in isolamento a fare skate o farmi una bella nuotata in piscina, invece che piangere e piangere tra le braccia di Tom. Comunque lui ci sarebbe stato, come tuo padre, e tua madre. Sarebbero stati sempre al mio fianco. Ma è sempre stato così. E papà… credo che l’abbia fatto solo per il mio bene, pensava che quell’altro dolore, pur sempre inferiore, non mi avrebbe fatto bene. Quindi, credo proprio che sarebbe stato uguale.»

Sharon annuì e mi fece un piccolo sorriso stendendo le braccia verso il mio collo, che cinse dolcemente in un abbraccio.

«Ti voglio bene, zia.»

«Anch’io te ne voglio tanto, piccolina.»

Ci guardammo negli occhi e sorridemmo. Ero contenta come una bambina che tutto si fosse sistemato in modo così veloce.

«Zia, non ho più voglia di chiudermi in studio, posso venire al lavoro con te?»

«Certo, andiamo.»

Misi in moto e non feci nemmeno in tempo a mettere la retromarcia che suonò il mio cellulare, Sharon frugò nella mia borsa e me lo passò.

«Pronto», risposi.

«Ciao Ary, ha chiamato Mattia e gli ho accennato la febbre di Sarah, ha voluto vederla. Siamo in ospedale, ci raggiungi?»

«Ovviamente! Arrivo subito Tom.»

«Va bene, a tra poco.»

Chiusi il cellulare e guardai Sharon al mio fianco. «Sono cambiati i programmi.»

 

Poco dopo arrivammo in ospedale e incontrammo subito Mattia che stava andando a controllare la mia piccola Sarah.

«Ehi, ciao sorellina», mi baciò sulla testa e ci portò al suo studio.

«Buongiorno a tutti», disse entrando e chiudendosi la porta alle spalle.

«Ciao Tom, ciao ragazzi, ciao piccola.» C’erano anche Stefan e Alex, quest’ultimo aveva una faccia triste, ma non me ne preoccupai molto perché Sarah non faceva altro che agitarsi e piagnucolare.

«Ehi cucciola, che cosa c’è?», chiese Mat prendendola in braccio e portandola sul lettino.

«Dici che è grave?», chiesi preoccupata.

«Ary, rilassati, non ho ancora iniziato!»

«Sì, scusa.» Mi grattai la nuca imbarazzata e andai a sedermi accanto a Tom, che mi prese la mano. Sharon si mise seduta su una gamba di Stefan, accanto ad un Alex completamente assente, aveva la testa da tutt’altra parte.

«Allora, vediamo un po’ cos’ha questa bella bambina. Da quanto ha la febbre?», chiese a Tom.

«Ce ne siamo accorti stamattina.»

«Mmm», le tastò il collo in diversi punti e Sarah ogni tanto si agitava cercando di spostarsi.

«Ti fa male la gola?», le chiese. Prese una lucina e le fece aprire la bocca per controllarla.

«Ha delle placche e dei linfonodi sul collo, uniti alla febbre, sono tutti sintomi della mononucleosi, più comunemente detta Malattia del bacio

«Malattia del bacio?», chiese Tom a bocca aperta.

«Sì, tra i bambini si propaga soprattutto attraverso la saliva. Quando vanno all’asilo è molto comune.»

Sorrise a Sarah e dalla scrivania le prese un lecca lecca, glielo porse. «Tieni piccola», le accarezzò i capelli sulla testa.

«Quindi, cosa dobbiamo fare?», chiesi.

«Beh, niente.»

«Come niente

«Sì, contro la mononucleosi non vi sono cure specifiche e gli antibiotici non servono a nulla. Le uniche cose consigliate da fare sono il risposo a letto fino alla scomparsa della febbre, e bisogna evitare attività fisica pesante per uno due mesi, ma visto che Sarah è piccola, basta che riposi.»

«E non le succederà niente?»

«No, assolutamente niente. Il decorso naturale è benigno.»

«Adesso non è più infettiva?»

Mattia guardò Sarah leccare lo zucchero con il sorriso sulle labbra e le accarezzò la guancia mentre rispondeva.

«No, non dovrebbe. Ma per precauzione evitate di bere dagli stessi bicchieri e di usare le stesse posate. Per il resto dovete solo stare tranquilli.»

«Ok, va bene. Grazie Mattia», dissi alzandomi.

«Di niente, figurati.» Prese Sarah in braccio e la fece scendere dal lettino. Lei andò sicura a prendere la mano di suo fratello Alex, che per un attimo parve riprendersi quando le sorrise, ma poi tornò con la stessa aria triste di quel pomeriggio.

Stavamo per uscire dallo studio, quando Mat mi prese la spalla e mi chiese di parlare un attimo con lui da sola.

«Ahm, ok», dissi guardando Tom che mi aveva dato il permesso sorridendo.

Mattia chiuse di nuovo la porta e mi fece sedere su una delle due poltrone di pelle rossa di fronte alla sua scrivania.

«Di che cosa dobbiamo parlare?», chiesi quando anche lui si fu seduto di fronte a me, con le mani unite sul tavolo.

«Mi dispiace molto per tua madre.»

«Tu lo sapevi?»

«No, ce l’ha detto tuo padre, a me e a Lilian, dopo che tu te ne sei andata, quella sera.»

«Ah.»

«Come ti senti?»

«Come dovrei sentirmi?», sospirai appoggiando le braccia alla scrivania. «Mi sento come se l’avessi uccisa io. Ovviamente, è stata tutta colpa mia.»

«Ma cosa stai dicendo?», si alzò e si mise seduto accanto a me per abbracciarmi. «Tu non centri proprio niente, non è colpa tua.»

«Invece sì, è tutta colpa mia. Se le fossi stata più vicina, se l’avessi perdonata al posto di rinfacciarle ogni giorno che mi aveva trattata da schifo forse… forse sarebbe ancora qui.»

«Ary non devi perdonare nessuno se nei tuoi confronti non sono stati altrettanto gentili. Tu non puoi essere sempre quella brava.»

«Mattia, ti prego. Qui si tratta di una vita, una vita che grazie a me poteva non spegnersi. La vita va avanti, lo so benissimo da me, però non dirmi che io non centro nulla e che non potevo farci niente. No, perché mi stai mentendo.»

Mi alzai e mi lasciai accompagnare da lui alla porta, me la aprì da vero cavaliere e mi fece uscire in silenzio. Quando mi girai mi sorrise nel modo tanto angelico che conoscevo bene.

«Ci vediamo», dissi alzando la mano. «E grazie.»

«Di nulla.»

Vidi quel pezzo della mia famiglia seduta non lontano da lì e sorrisi vedendo Sharon in piedi che raccontava qualcosa con grandi gesti e l’eccitazione nella gola.

«Ehi, di che si parla?», chiesi raggiungendoli.

«Raccontavo di come abbiamo fatto pace, è stato troppo divertente!», rise Sharon.

Tom mi guardò e strinse al petto Sarah baciandola sui capelli e sorridendomi malizioso.

«Guarda che non sono gelosa di mia figlia», dissi mettendomi le mani sui fianchi.

«Ah no? Allora non ci sono problemi se la porto io in macchina.»

«Ma così non vale! E va bene, allora io prendo Stefan, Alex e Sharon.»

«Anche tu sei scorretta! Non puoi prenderne tre!»

«E chi lo dice? Forza, andiamo scemo.» 

Si alzarono e ci dirigemmo assieme verso l’uscita, Sharon abbracciata di traverso ad Alex. Tutti sapevano che cosa gli prendeva tranne io oppure nessuno lo sapeva e tutti cercavano di tirarlo su di morale?

«Comunque tu scemo non mi chiami, capito?», mi rimproverò Tom tirandomi un pizzicotto ed incominciando a correre.

«Ecco, corri perché se ti prendo vedi!», riuscii a strappare un sorriso al mio Alex.  

 

 

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Buonasera a tutti! ^-^
Questo capitolo è corto, d’ora in poi saranno più o meno tutti così, non so perché XP
Dunque, niente di grave la febbre di Sarah e finalmente Ary e Sharon hanno fatto pace :) Per quanto riguarda Alex, si capirà meglio nel prossimo capitolo! Spero che almeno un pochino vi sia piaciuto u.u
Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, ossia:

svampy1996 : Grazie mille :D

Tokietta86 : Come vedi, hanno già fatto pace e per Derek le passerà, prima o poi ;) Sarah è la mia bimbaaaaaa *-* Amo quella creaturina. Sì, penso anch’io che Tom sia un bravo papà, per come ha cresciuto anche Stefan e Alex u.u La scena di Davide è una delle mie preferite, anzi tutto il capitolo è uno dei miei preferiti, ma quel punto… *-* Sì, Ary ce la farà! Grazie per i tuoi poemi, sono sempre più che graditi! Alla prossima, un bacio!

Utopy : Purtroppo per te, no, Ary resterà fra noi fin quando non deciderò che deve crepareeeeee xD (Intanto ho perso le speranze a fartela piacere x°D) Sì, per sua mamma… insomma, era la sua fine u.u Sì, in effetti sono passati anni da quando la mamma di Ary è morta e suo papà non le ha detto niente, ma perché, in questo capitolo credo di averlo scritto (xD), innanzitutto lei non se n’è poi tanto interessata e poi perché suo papà non voleva che soffrisse ulteriormente. Insomma, gliel’ha tenuto nascosto e fine della storia xD Sono un assassina? Tu uccidi il mio cuoricino ogni volta che dici che non sopporti Ary :’( Okay basta con il sarcasmo xD Grazie per la tua onorevole recensione, mi garba che sommariamente ti sia piaciuto anche questo capitolo e che ti sia scesa la lacrimuccia u.u …. Ti voglio tantissimo bene Mond! *__________* Tua, Sonne.

Ringrazio anche tutti quelli che leggono e non commentano *-*
Alla prossima, un bacio! Vostra,

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Capitolo 14
*** Someone new ***


Sie sehen, sie fühlen, verstehen
genau wie wir
Sie lachen und weinen, wollen leben
genau wie wir

(Vergessene Kinder – Tokio Hotel)




Capitolo 7
Someone
new

 

Cercò di fare piano, ma non ci riuscì: sbattè la porta e svegliò il fratello, il che era un record visto il sonno pesante di Stefan.

«Alex, ma sei scemo?», biascicò senza mettere a fuoco nulla intorno a lui.

Improvvisamente una scarica elettrica lo percosse: era il segnale che qualcosa non andava nel fratello gemello. Infatti c’erano due cose che non andavano: il colore dei capelli, solitamente biondi come i suoi e ora neri come la pece, e lo stato del suo viso. Era distrutto, aveva pianto e anche solo guardandolo riusciva a capire che stava male, gli era successo qualcosa di veramente grave.

«Alex, cosa ti è successo?», disse catapultandosi fuori dal letto e gettandosi addosso al corpo fragile del fratello per stringerlo in un abbraccio. Caddero entrambi sul letto e Alex nascose le lacrime nel suo petto.
«Alex, non piangere ti prego, dimmi che cosa ti è successo», sussurrò Stefan passando le dita tra i capelli scuri e così insoliti della persona a cui teneva di più al mondo.

«Stefan, mi dispiace», disse in qualche modo. «Mi dispiace tantissimo, io non volevo.»

«Alex, calmati, spiegami che cos’è successo, non ci sto capendo niente.»

«Sono andato a letto con un’altra», strinse i pugni sulla schiena di Stefan. «Ciò vuol dire che ho tradito Krista. Mi faccio schifo!»

«Dio Alex, ma come… Ecco perché eri così strano! Perché non me l’hai detto subito?! E… Oh Dio. Ed è per questo che ti sei tinto i capelli?» 
Alex annuì: si vergognava così tanto da dover pure cambiare per non odiarsi vedendosi davanti allo specchio.

«Fratellino, ti sei cacciato in un brutta situazione, ma non ti preoccupare, io sono qui, ci sarò sempre per te, e troveremo una soluzione, ok?»

«Ok», tremolò. «Ma non dirlo a nessuno.»

«Ma è impossibile Alex, lo sai anche tu.»

«Tu non aprire bocca, ti scongiuro. Me lo prometti?»

«Ok, te lo prometto», sospirò.

Lo baciò sulla fronte e lo strinse ancora di più fra le sue braccia. Pian piano iniziò a cullarlo e a cantare una delle loro canzoni, finché Alex, esausto e distrutto dentro, non si addormentò. Stefan non per questo lo lasciò e infatti si addormentò assieme a lui.

La mattina dopo si svegliò tutto indolenzito, ma non gliene importava, sapeva di aver fatto la cosa giusta per il suo fratello gemello.

Alex si girò fra le sue braccia e si liberò per andare in bagno a farsi una bella doccia.

«Ehi Alex», lo chiamò Stefan stiracchiandosi nel letto. «Come stai?»

«Una merda», disse con la bocca impastata di sonno e lacrime.

«Perché non stai a casa?»

«Perché devo parlare con Krista.»

«Cosa? Hai intenzione di dirglielo?»

«Sì, come potrei tenerglielo nascosto?»

«Ma vai incontro ad una fine certa!»

«A questo punto, fa bene a lasciarmi. Io ho sbagliato e mi devo assumere tutte le responsabilità.»

«Fai come vuoi. Ah, preparati a mamma e a Sharon che vorranno sapere del tuo colore di capelli.»

«Ah, già», si grattò la testa arruffando di più i capelli già ribelli. «Però tu non gli dirai niente, vero?»

Stefan sorrise e lo guardò negli occhi mettendogli le mani sulle spalle. «Te l’ho promesso, non gli dirò nulla.» Lo baciò sulla fronte e poi si allontanò per cambiarsi.

«Grazie», sussurrò Alex con le lacrime agli occhi.

«Prego fratellino.»

 

***

 

«Sharon! Alzati, o farai tardi!», gridò Bill dalla cucina.

Bevvi un sorso di caffè e sorrisi a Tom al mio fianco, che nello stesso tempo controllava Sarah con la ciotola dei cerali. Ma cosa voleva controllare? Lei non era come i suoi fratelli che appena ti giravi rovesciavano tutto a terra, lei era tranquilla e dolce. Ancora non sapevamo da chi avesse preso.

Il telefono di Bill suonò e lui rispose ridendo, mettendo il vivavoce: «Sharon? Perché mi chiami al cellulare se siamo nella stessa casa?»

«Papà, non ho voglia di andare a scuola oggi», disse ancora mezza addormentata.

«Non mi pare un buon motivo per saltare un giorno di scuola.»

Io guardai Tom e gli feci l’occhiolino mentre prevedevo la prossima frase di Bill: «Anch’io non ho voglia di fare un sacco di cose, eppure le faccio.»

«Anch’io non ho voglia di fare un sacco di cose, eppure le faccio», disse Bill, uguale identico a come avevo predetto.

Tom mi applaudì in silenzio e io chinai un po’ il capo per ringraziarlo, mentre Sarah se la ridacchiava per la nostra scenetta.

«Ma papà!», si lamentò Sharon affondando la faccia nel cuscino.

«Niente ma, signorina. Forza che il tempo scorre.» Attaccò e si girò verso di noi.

Ci trattenemmo dal ridere e Sarah ci indicò con il dito, ridacchiando e masticando i cereali.

«Sei proprio una brava bambina, Sarah», le disse Bill accarezzandole i capelli. «E voi due, vi ho visti, sapete?»

«Sarah a preso da te a fare la spia», mi sussurrò Tom all’orecchio. Io annuii e risi contagiando tutta la cucina.

«Ehi, perché ridete?», chiese Anto entrando in cucina con Sharon per il polso. Avevo paura che l’avesse tirata giù dal letto e trascinata giù dalle scale con la forza da quanto barcollava.

«Nostra figlia fa la spia contro di noi, nulla di grave», dissi alzando le spalle.

«Ary, ha preso da te?» Anto mi fece la linguaccia e baciò Bill prendendolo per i fianchi.

«Sì, può darsi. Uhm… Sharon? Ci sei? Sei tra noi? Vuoi un po’ di caffè così ti svegli?»

Si lasciò cadere sulla sedia di fronte a me e nascose il viso tra le braccia. Il pigiama che indossava era grande due volte lei e le mani quella mattina erano nascoste interamente dalle maniche.

«Non sono l’unica. Dove sono Stefan e Alex?», mugugnò.

«Io sono qui», disse Stefan prendendo Sharon per le spalle e scuotendola. Sembrava svenuta da quanto non opponeva resistenza, si lasciava scuotere come un pupazzo senza vita.

«So io quello che ti ci vuole», disse Stefan facendola girare e baciandola sulle guance, sulla fronte, sul naso, sul mento, sulla gola.

«Ti prego Stefan, smettila!», gridò Sharon prendendo vita e lottando animatamente tra le braccia del cugino per liberarsi.

«Visto, che avevo detto? Si è svegliata subito.»

Stefan prese il succo d’arancia dal frigo e se lo versò in un bicchiere per poi pucciarci dentro un biscotto.

«Fai schifo Stefan!», gridò Sharon nascondendo ancora il viso tra le braccia.

Alex scese dalle scale passandosi la mano tra i capelli scuri e lisciandoli lateralmente sulla fronte. Ma del look gliene fregava ben poco in quel momento, si sentiva lo schifo più assoluto.

Fece un respiro profondo e si sporse in cucina, dove neanche farlo apposta c’erano tutti.

«Stefan, non trovo il mio cellulare, tu l’hai visto?», chiese.

Trattenni il respiro e restai immobile di fronte alla figura di mio figlio con i capelli neri e le occhiaie sotto gli occhi.

«No, l’avrai lasciato nei jeans che hai messo a lavare.»

«Probabile.»

Era un incubo? Mio figlio si era tinto davvero i suoi bellissimi capelli biondi?

«Alex, ma cosa hai fatto ai capelli?!», gridò Sharon alzandosi in piedi di scatto.

Alex lasciò andare le spalle e abbassò lo sguardo mettendo le dita sul setto nasale. Tutti si fermavano all’aspetto esteriore, non capivano che lui stava male dentro? La sua anima non era così trasparente come lo era per Stefan?

Incrociai i suoi occhi e riuscii a leggere tutta la sofferenza che realmente provava. Quella sensazione la conoscevo bene e mi era impossibile non riconoscerla, figurarsi negli occhi di mio figlio.

Mi alzai e andai da lui. Quando vide che andavo proprio da lui fece qualche passo indietro e poi chiuse gli occhi stringendo i pugni lungo i fianchi, pronto a ricevere qualche ramanzina.

Lo presi e lo abbracciai, sussurrandogli: «Mi dispiace Alex, se vuoi parlarne sai dove trovarmi.»

Si staccò bruscamente da me e guardò con gli occhi pieni d’ira il fratello. «Me l’avevi promesso!»

«Non mi ha detto niente, se è quello che stai pensando. Solo che… mi sono vista nei tuoi occhi», sussurrai. «Gli occhi sono lo specchio dell’anima, ho letto che soffri. Mi dispiace Alex, davvero, qualsiasi cosa sia successa. Se hai bisogno di me, io ci sarò», gli sussurrai a pochi centimetri dal suo viso.

Mi girai e guardai la faccia impassibile di Tom, in quel caso non riuscivo a capire cosa potesse pensare.

«Tom, li accompagni tu a scuola? Io sto a casa con Sarah, deve riposare. Ricordi che ha detto Mattia?»

«Uhm?», chiese scuotendo la testa. «Ah, sì, certo, li accompagno io. Sharon muoviti, sei ancora in pigiama.»

Si alzò e mi baciò prima di uscire dalla cucina, dopo aver dato un pugno amichevole alla spalla di Alex.

Io presi Sarah e quando passammo accanto ad Alex, lei piagnucolò per andare fra le sue braccia.

«Alex, vuole te», dissi porgendogliela.

Lui le fece un sorriso e la prese in braccio, si lasciò baciare sul collo e accarezzare i capelli diversi dalla sua manina, guardò il suo sorriso e i suoi occhi brillanti e capì che forse Stefan non era l’unico che riusciva a leggerlo dentro. Aveva una famiglia speciale, doveva ammetterlo.

«Dai piccola, Alex deve andare a scuola e tu devi riposarti un po’ finché non ti scende la febbre, ok?»

Non obbiettò e si lasciò prendere di nuovo. Salutò sorridente i fratelli e la cugina e io la portai di sopra.

«Ahm… Allora Sharon, ti muovi? Arriverai in ritardo», disse Anto.

«Sì, mamma ha ragione», aggiunse Bill superfluo.

Passarono accanto ad Alex, impalato ancora di fianco allo stipite della porta, e salutarono i ragazzi augurandogli una buona giornata. In verità quella giornata si presentava nera per qualcuno.

«Stai bene Alex con i capelli neri, ti risaltano gli occhi», disse Bill regalandogli un sorriso.

E non tutti nella sua famiglia potevano essere perfetti. Ma sorrise comunque e accettò il complimento, in fondo quella era la sua famiglia e la adorava per la sua semplice unicità.

 

***

 

Il momento fatidico era arrivato, non aveva aspettato altro per tutte e tre le ore prima dell’intervallo e mancavano pochi minuti ormai al solito arrivo di Krista al suo armadietto. Le avrebbe detto tutto pentendosi di quello che aveva fatto, perché era vero: era pentito sul serio e, anche se sapeva che sarebbe finita, voleva essere onesto con lei. Lei era stata importante, per lui era stata tutto per quasi un anno, ma quella sera aveva fatto la cazzata e ne doveva pagare le conseguenze.

La vide arrivare con Sharon, il suo sorriso sempre e costantemente presente sulle sue belle labbra, labbra che ne avevano viste di tutte i colori sulle sue. Già rimpiangeva i loro baci ferma cuore. 

La vide ridere e già rimpiangeva tutte le loro risate; la vide fare una faccia buffa e già rimpiangeva tutti i pomeriggi passati assieme a suonare ma anche da soli in giro per Amburgo; la vide raccontare qualcosa a Sharon mimando con le mani e già rimpiangeva le sue mani su di lui che lo accarezzavano e lo facevano volare alto nel cielo; la vide fermarsi di fronte a sé e salutarlo e si chiese se almeno qualcosa di loro si sarebbe salvato.

«Ciao Alex!», lo salutò felice. «Ma che hai fatto ai capelli? Comunque stai bene!» Si avvicinò per baciarlo, ma Alex si spostò e tese le mani in avanti.

«No», disse scuotendo la testa.

Sharon l’aveva già vissuta quella scena, con Derek, così si affrettò a salutare Krista e ad andarsene velocemente da quei ricordi ancora dolorosi dentro lei.

«Ma che c’è? Perché no? Ti vergogni?», gli chiese accarezzandogli il collo con la punta delle dita, facendo le fusa accanto a lui.

«No, è che mi faccio schifo», ammise Alex.

«Che cosa? Ma perché dici questo?»

«Krista, mi dispiace tanto, te lo giuro. Io non so cosa mi sia preso, sono stato un completo idiota, non trovo una spiegazione al mio comportamento. Sono un coglione, dillo pure, tanto è vero.»

«Alex! Ma cosa stai dicendo? Non ci sto capendo niente? Perché dici tutto questo?»

«Krista, ti ho tradita con un’altra», disse con le lacrime agli occhi.

«Che cosa?», sussurrò Krista a bocca aperta.

Alex abbassò lo sguardo, si sentiva ancora più uno schifo. Tante volte aveva pensato alla reazione di Krista e a come si sarebbe sentito, ma la realtà faceva molto più male.

«Stai… stai scherzando, vero? Perchè è impossibile, tu non puoi… Alex… Perché?» Le sue guance erano già rigate dalle lacrime, non sarebbe riuscita a smettere se nemmeno lo avesse voluto.

Tutti nel corridoio li stavano più o meno guardando, magari non lo facevano notare, ma era così. Ad Alex non interessava il giudizio dei suoi compagni, non gli sarebbe importato se Krista lo avesse umiliato di fronte a tutti, a lui importava solo che lei facesse qualcosa, che non stesse ferma a guardarlo e a piangere.

«Ti prego dì qualcosa», disse piano Alex prendendole le mani.

«Non mi toccare!», gridò liberandosi e battendo i piedi per terra. «Io credevo che tu fossi diverso, ma voi maschi siete tutti uguali! Mi fai schifo! Sei un idiota, un coglione! Alex, io credevo… Credevo solo ad un sacco di menzogne! È finita Alex», disse a pochi centimetri dal suo viso.

«Non volevo che andasse a finire così», cercò di difendersi Alex, ma la furia di Krista era molto più superiore a lui, oltre che giustificata.

«Non me ne importa! Tu l’hai fatto! Addio Alex.» Si sistemò la borsa sulla spalla e si diresse prima camminando, poi correndo, verso i bagni.

Credeva che dopo la confessione si sarebbe sentito meglio, invece si sentiva peggio di prima, ma sapeva che di certo aveva fatto la cosa giusta non nascondendoglielo, le avrebbe fatto solo più male non saperlo direttamente e subito da lui.

Vagò quasi di corsa per i corridoi dell’intera scuola alla ricerca del fratello, e quando lo trovò era sulle scalinate all’entrata, seduto su un gradino accanto a Sharon.

«Stefan», disse ancora con le lacrime agli occhi, che non era riuscito a liberare di fronte a Krista. «Gliel’ho detto, mi ha lasciato e mi sento uno schifo più di prima!» Si accasciò tra le sue braccia e pianse come un bambino, tanto non gli importava di niente e di nessuno.

«Che cos’è successo?», chiese Sharon. «Tu e Krista vi siete lasciati?»

Stefan annuì per conto del gemello e Sharon si unì all’abbraccio, ma per ogni cosa Alex sentiva di non meritarsela. Stava male come mai. L’amore riusciva a fare cose incredibili ed incredibilmente dolorose.

 

***

 

Suonò la campanella e Sharon dovette correre per arrivare in tempo alla sua aula. Aveva deciso di proporsi come fotografa al giornalino della scuola ed era eccitatissima, ma la storia di Alex e Krista l’aveva un po’ buttata giù di morale. Che cosa sarebbe successo alla band? Che cosa avrebbe fatto? Non poteva certo dividersi in due parti, una per Alex e una per Krista, ma nemmeno poteva scegliere con chi stare. Che doveva fare?

«Scusate il ritardo, ho avuto un contrattempo», si scusò imbarazzata entrando nell’aula.

«Ah, Sharon, ciao! Aspettavamo proprio te!» La caporedattrice la tirò a sé e le mise un braccio intorno al collo.

«Ragazzi, un po’ d’attenzione», disse calma. Quando tutti si girarono verso di lei continuò: «Da oggi avremmo una nuova fotografa, ve la presento: il suo nome è Sharon ed è in 3° B. Vediamo di essere carini con lei e di spiegarle come funzionano le cose, ok? Grazie. Vieni Sharon, ti faccio vedere dove starai.»

«Ehi, aspetta un attimo! Perché? Perché la prendiamo così, senza nemmeno vedere se è brava? Insomma, qualcuno ha visto delle sue foto?»

«La prendiamo perché lo decido io, ok?», disse senza ascoltare il ragazzo biondo platino che era intervenuto.

Aveva degli occhi di un colore grigio misto a un azzurro chiaro che catturavano con un solo sguardo, come era capitato a Sharon, solo che quello sguardo non era proprio uno dei più amichevoli.

«Ah, allora se lo decidi tu noi non possiamo dire niente? Non ci sei solo tu qui, ma anche noi! Dovremmo prendere assieme le decisioni, non solo tu.»

«Sì da il caso che io ho visto delle foto di Sharon e sono bellissime, quindi il problema è risolto, Nicolas.»

Nicolas. Aveva pure un bel nome e il suono della sua voce era apprezzabile, se solo non avesse detto solo cose contro di lei.

«No, non è risolto! Perché sarà sempre così! Tu deciderai e noi non potremmo fare niente! Tu senza di noi non sei niente, siamo noi quelli che si smazzano qui, che potrebbero benissimo comandarti a bacchetta, o no?» Si guardò intorno e nessuno fiatò, erano tutti dalla parte della ragazza.

«Mi sa che qui sei tu dalla parte del torto, Nicolas. Quindi, se hai qualche problema con Sharon, puoi anche andartene.»

«Non sarà certo una ragazzina viziata a togliermi di mezzo», disse risedendosi al suo posto dietro il computer.

«Ragazzina viziata?», squittì Sharon. Ma come si permetteva? Poteva pure essere carino, ma iniziava a darle veramente sui nervi.

«Non lo ascoltare Sharon», le disse all’orecchio la ragazza. «Però dovrai sopportarlo.»

La accompagnò al suo posto, proprio di fronte a Nicolas, che faceva finta di scrivere qualcosa al computer, ma che intanto guardava Sharon ad occhi stretti.

«Ok, inizia ad ambientarti», disse la caporedattrice e si allontanò.

Sharon fece un giro sulla sua sedia e si guardò intorno. Un’occhiatina cadde anche su Nicolas. Si accorse che la stava guardando e così girò subito il viso imbarazzata.

Aprì un cassetto della scrivania e ci guardò dentro: era pieno di vecchie edizioni del giornale e ne prese una per sfogliarlo, ma qualcosa la colpì sulla guancia e fu costretta a fermarsi. Aveva paura e odiava gli insetti, pensava che fosse stato qualcosa del genere. Non era difficile capire da chi aveva preso.

Sentì Nicolas sghignazzare da dietro il suo computer e lo vide con una cannuccia in mano.

«Sei stato tu!», disse.

Nicolas rispose con un’altra pallina di carta e saliva.

«Ma che schifo!», si lamentò Sharon riparandosi dietro il suo computer.

«Sei solo una ragazzina viziata! Perché non vai a strimpellare con il tuo gruppetto di amici al posto di stare qui?», disse arrogante il ragazzo.

Era la seconda volta che la chiamava in quel modo e non poteva sentir dire da qualcuno che lei e gli altri componenti della band strimpellavano, si incavolava come una bestia. Ma evidentemente Nicolas no lo sapeva. Peccato.

«Senti, smettila, ok? Non mi conosci nemmeno, non ti permetto di insultare me e soprattutto la nostra musica.»

«Oh, mi dispiace tanto. E adesso che farai? Chiamerai il tuo paparino e gli dirai che ci sono io che ti do fastidio?»

«E cosa peggiore, non permetterti ma i più a parlare così di mio padre. So cavarmela benissimo da sola.»

«Vedremo.»

«Cosa vuoi dire?»

«Che lo vedremo chi si alzerà per primo da qui esaurito.»

«Vivo con altri tre maschi oltre mio padre, e tu sei un moscerino in confronto.»

«Vuoi proprio bene alla tua famiglia!», disse alzando il sopracciglio in un modo che fece ammutolire Sharon dallo stupore. Era più che carino, era davvero bello. Ma insopportabile.

Gli tenne il broncio e non parlò più per un po’, forse era proprio il silenzio l’arma più potente che aveva Sharon per combatterlo.

«Che c’è? Il gatto ti ha morso la lingua?», chiese Nicolas.

Sharon sorrise senza farsi vedere: la sua tecnica stava funzionando. Senza qualcuno che lo stava ad ascoltare a e rispondergli si spazientiva.

 

Nicolas non riusciva più a controllarsi, non poteva e forse non voleva farlo. Era molto bella, non riusciva a staccarle gli occhi di dosso per più di due minuti. E i suoi silenzi lo innervosivano parecchio, non c’era voluto poi molto per capire il suo punto debole.

La sbirciò sporgendosi sulla sedia e la vide mentre sfogliava uno dei vecchi giornalini, assorta nella lettura. Era bella pure mentre leggeva.

La campanella suonò, l’ora era praticamente volata, e Nicolas seguì Sharon nei suoi movimenti: il modo con cui teneva la borsa sulla spalla era diverso dal solito e continuava a crescere in lui la convinzione che quella ragazza, oltre che ad essere una ragazzina viziata, era strana ed anche intrigante.

La raggiunse fuori dall’aula, nel corridoio, e le mise una mano sulla spalla. «Ehi, non te la sarai mica presa, vero?»

Sharon si girò e lo guardò, non le era mai stato così vicino ed era davvero bellissimo, sembrava un angelo con i suoi occhi grigi-azzurri tutti particolari. Era più alto di lei di qualche centimetro, quindi per fissarlo negli occhi doveva tenere il viso leggermente alzato.

«No, era solo un modo per farti stare zitto. E ci sono riuscita.»

«Sei malefica», disse sorridendo e camminandole accanto.

«Quindi la smetterai di chiamarmi in quel modo?»

«Come, ragazzina viziata

«Sì, in quel modo.»

«Certo che no.»

«Tu sei insopportabile.» Vide Stefan scendere dalle scale. «Oh, c’è mio cugino, devo andare. Ci si vede.»

«Ok, ciao, ma non è detto che ci vedremo con piacere.»

Lei gli fece la linguaccia e raggiunse il cugino. Nicolas la guardò con il sorriso sulle labbra e poi uscì dalle porte vetrate. Qualcosa sarebbe cambiato.

«Ehi Sharon! Alex, dov’è?»

«Ancora non l’ho incontrato.»

«Ok, io vado da lui. Vieni con me?»

«Certo.»

I due si avviarono per i corridori controcorrente e Sharon intravide Krista passare con lo sguardo basso. Non aveva ancora parlato con lei da quando l’aveva vista all’intervallo, prima che lei e Alex si lasciassero. Le corse incontro e la abbracciò, la strinse forse a sé, ma Krista non disse niente, era impassibile.

«Va bene se ci vediamo stasera?», le chiese solo.

«Certo, certo che va bene.»

«Ok, allora… a stasera, resti a dormire da me.»

«Va bene, ciao», la baciò leggera sulla guancia sfregandole la schiena e accarezzandole i capelli. «Mi dispiace.»

Krista non rispose e si divincolò per uscire svelta assieme a tutti gli altri ragazzi che non vedevano l’ora di andarsene.

 

***

 

«Ehi ciao», mi baciò sulla testa e entrammo mano nella mano in ospedale.

«Ci si rivede», ci salutò Mattia quando ci raggiunse prendendoci alle spalle.

«Sì, che cos’è successo?», chiesi preoccupata. «Ho lasciato Sarah a casa con Stefan e Sharon, Alex è uscito.»

«Non ti preoccupare. Che io sappia non è successo niente, però è una questione delicata. Forza, andiamo.»

Vidimo Anto e Bill di fronte ad una vetrata, che guardavano oltre di essa tenendosi per mano. Bill accarezzò Anto sulla schiena e le baciò la tempia, sussurrandole qualcosa.

«Che cos’è successo?», chiese Tom appena fummo lì accanto.

Guardai oltre la vetrata e vidi un bambino che sfogliava un libro seduto per terra accanto ad un infermiera.

«Forse è meglio se ci sediamo», consigliò Mattia mettendomi una mano sulla schiena.

Non riuscivo a staccare gli occhi di dosso a quel bambino, somigliava fin troppo a Davide quand’era piccolo. Tom mi mise seduta con la forza e mi strinse a sé, ma io non c’ero in quel momento, ero su un altro pianeta.

«Allora, adesso ci spiegate?», chiese ancora Tom innervosito. Bill si mise seduto accanto a lui e Anto si appollaiò lì vicino, tenendo con forza la sua mano.

«Dai Anto», le sussurrò cercando di tranquillizzarla.

«È successo quando sono uscita dal lavoro, l’ho trovato seduto per terra, all’ombra e da solo. Doveva essere lì da giorni, teneva a fatica gli occhi aperti ed era tutto sporco.» Si alzò di scatto e andò ancora alla vetrata per poggiarci la mano. «L’ho portato subito qui, ma non sappiamo nulla su di lui, non parla.»

«E quindi?»

«Quindi io… io non voglio che stia solo, vorrei che venisse a casa con noi.»

«Cioè lo vuoi adottare?», chiesi riprendendomi. Tutti, compresa lei, si girarono verso di me e guardarono la mia espressione impassibile.

«Sì», annuì impercettibilmente guardando di sfuggita Bill.

«Ne abbiamo parlato, io sono d’accordo. Volevamo sapere che cosa ne pensavate voi.»

«Non siamo noi che dobbiamo decidere, è una scelta vostra. Noi non centriamo nulla», disse Tom.

«Ma per te andrebbe bene?»

«Si, non ho nulla in contrario.»

A quel punto toccava a me, infatti mi ritrovai con tutti gli sguardi puntati addosso. Come potevo decidere lì, su due piedi, se accettare un bambino senza casa nella mia? Potevo benissimo, sapevo come ci si sentiva, anche se in minima parte. L’abbandono si poteva vivere in più modi, ma la sensazione era la stessa.

Mi alzai e andai accanto ad Anto, le misi una mano sulla spalla. «Sei sicura? Non è che adesso ti fa pena? Non è un capriccio? Guarda che non è un giocattolo.»

«Lo so! Certo che lo so, ma cosa credi… Ne sono sicura al cento per cento.» Ci guardammo negli occhi e lei sorrise sfiorandomi le guance.

«Sharon cosa dirà?»

«Ci parleremo il più presto possibile, stasera.»

«Mmh.» Guardai ancora il bambino sorridere appena incrociando il mio sguardo: la sua somiglianza con Davide era a dir poco assurda.

«Allora Ary?», mi chiese Bill.

«Sì, sì che sono d’accordo. È talmente ovvio che non dovevate nemmeno chiedermelo.»

Tom sorrise e mi abbracciò da dietro mettendomi le braccia intorno al collo. Mi baciò sulla guancia e sorrise di nuovo sulla mia pelle.

«Ti amo, amore mio», mi sussurrò.

«Anch’io.»

 

_____________________________________

 

 

Buongiorno! ^-^
Finalmente abbiamo scoperto cos’è successo ad Alex ç.ç Inoltre, si sono aggiunti due nuovi personaggi *-* Nicolas, il ragazzo che non ha preso molto il simpatia Sharon… E il bambino che Anto ha trovato. Quest’ultimo chissà se entrerà davvero a far parte della famiglia :D
Ringrazio di cuore Tokietta86 (Non ti preoccupare, adoro quando le persone si fanno i viaggi mentali *-*) e Utopy che hanno recensito lo scorso capitolo. Ve ne sono davvero grata, spero che questo capitolo vi sia piaciuto! :)
Ringrazio anche chi ha letto soltanto!
Alla prossima, vostra,

_Pulse_

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Capitolo 15
*** Something wrong ***


And I don’t know how to be fine when I’m not
‘cause I don’t know how to make feeling stop

(Just so you know – Jesse McCartney)

 


Capitolo 8
Something wrong

 

Sfogava tutta la rabbia che provava verso se stesso tirando pugni a non finire, non gli importava se gli facevano male le mani, se piccole gocce di sudore gli scivolavano sulla fronte e lungo il collo, se i suoi capelli scuri si appiccicavano e se aveva caldo, semplicemente prendeva a pugni il sacco appeso al soffitto, di fronte a lui.

Si molleggiò sulle gambe e fece qualche respiro profondo prima di ricominciare. Fu in quel momento che notò una ragazza passare accanto a lui, in canottiera bianca e pantaloncini corti.

Lasciò correre e riprese a colpire il sacco con più foga, spendendo tutte le sue energie. La sua rabbia era infinita.

Quella sera tutto era andato maledettamente storto, più riviveva quei momenti più se ne rendeva conto.

«Dai Alex, vieni qui.»

Sorrise e raggiunse Krista sul suo letto, la baciò e le accarezzò il viso stando sopra di lei. La sua pelle candida e soffice era il paradiso, il semplice e splendente sogno di Alex, ma doveva andare.

«Krista, devo andare. Se i tuoi mi beccano sono guai.»

«Dai Alex, resta ancora un po’ qua con me», lo trascinò di nuovo su di lei e lo baciò infilando le dita tra i suoi capelli dorati.

«Krista», sussurrò volendola come non mai, ma non poteva, non poteva per il suo stesso bene, non voleva che venisse messa in castigo per colpa sua. Il coprifuoco dei suoi genitori era già scaduto da un pezzo e se lo avessero trovato ancora lì ci sarebbe andata nei casini lei, casini che sarebbero ricaduti inevitabilmente anche su di lui.

«Krista devo andare, mi dispiace.» Si alzò e si rimise la maglietta.

«Ok, va bene, sei libero. Per questa notte.»

Risero piano e si baciarono ancora prima di separarsi. Alex non poteva essere più felice, lei era tutto.

Fece attenzione a non farsi scoprire dai suoi genitori e sgattaiolò silenzioso fuori dalla porta.

L’aria era fredda e si strinse nelle spalle con le mani nelle tasche. Camminava lentamente. Non aveva fretta di ritornare a casa, aveva solo voglia di Krista, di ritornare indietro e di stare con lei per l’intera notte, finché non sarebbero crollati sul letto stanchi ma felici. Un sorriso si impadronì del suo viso a quel pensiero e non si accorse nemmeno che un ragazzo fuori da un pub lo stava chiamando. Solo quando se lo ritrovò davanti si chiese che cosa volesse da lui.

«Alex!»

«Sì? Ah, ciao.»

«Vieni con noi a bere qualcosa?»

«Non è il caso, devo tornare a casa.»

«Ma che dici! Dai, forza!»

Alex gettò uno sguardo al gruppo di ragazzi che li aspettavano e una ragazza in minigonna e top gli fece l’occhiolino e sorrise. Ora sì che Alex se ne doveva andare di corsa, ma non lo fece. Entrò con i ragazzi nel bar e si fecero prima una, poi due, tre, quattro, cinque birre, tanto che alla fine Alex non si reggeva nemmeno in piedi. La ragazza più nuda che vestita lo aveva trascinato da qualche parte, non aveva focalizzato bene intorno da quanto era sbronzo, e avevano fatto sesso fin quando l’effetto della birra svanì e diede un briciolo di lucidità in più ad Alex, che si sentì morire. Aveva la nausea, un po’ per la sbornia e la maggior parte per quanto si faceva schifo.

Aveva tradito Krista e l’unica cosa che riusciva a fare era ripudiarsi totalmente e piangere. Piangeva e camminava barcollante verso casa, anche se si sentiva peggio di un verme spiaccicato sul cemento umido.

Pensò a Krista e alle loro ultime parole, ai loro ultimi baci, al suo tentativo di tenerlo ancora con sé. Forse sapeva cosa avrebbe fatto il coglione che in quel momento piangeva come un bambino.

Alex tirò un pugno forte sul sacco e si passò un braccio sulla fronte imperlata di sudore. Non voleva nemmeno pensare alla stanchezza, non era nulla in confronto alla sua rabbia.

Intanto sul ring, al suono della campanella, iniziò un incontro.

Non sapeva bene come gli era venuto in mente di tingersi i capelli di nero, ma non si sentiva più se stesso dopo quello che aveva fatto e non poteva vedersi come si vedeva prima di aver compiuto quell’atto orribile verso la ragazza che amava.

Focalizzò se stesso al posto del sacco e colpì con tutte le forze che aveva, l’ultimo colpo decisivo, anche se non sarebbe mai stato l’ultimo, la rabbia era troppa.

«Ehi moro!» Non era abituato a sentirsi chiamare così, infatti non si girò né la prima né la seconda volta.

«Se continui così lo sfascerai!», gridò ancora la ragazza che era sul ring. Lui si girò e notò che lei lo stava guardando, così capì che era lui il moro in questione.

«Perché non vieni qui e ti batti un po’ con me?»

«Mi dispiace, ma non mi batto con le donne», disse Alex alzando le spalle e girandosi di nuovo verso il sacco rosso e blu.

«Che cosa? Mi stai prendendo in giro?»

La palestra era abbastanza piccola e poco illuminata, in verità era illuminato solo il ring, il resto era visibile solo grazie a delle piccole luci. Si accorse che erano rimasti solo loro due.

Si avvicinò al ring e guardò quella ragazza magra, gambe forti e guantoni neri sulle mani, capelli castani e lisci raccolti sulla nuca e qualche ciuffo ribelle che le ricadeva sul viso.

«Non penso sia una buona idea. Io non so combattere e, a dirla tutta, proprio perché non sono capace, ho paura di farti male.»

«Beh, io sono capace, quindi so difendermi. Muoviti e sali.»

Alex sbuffò arreso e salì sul ring abbassando le corde. Vide la ragazza tagliare l’aria con due pugni veloci, molleggiandosi sulle gambe.

«Forza, fatti sotto», gli disse sogghignando. «Fammi vedere che sai fare.»

Alex si avvicinò e girarono in tondo studiandosi, occhi negli occhi, occhi azzurri contro occhi verdi chiaro. Più si guardavano, più Alex provava fastidio verso se stesso: come poteva guardare una ragazza pensando che fosse carina subito dopo essersi lasciato con Krista? Era solo un’idiota. Forse la ragazza non aveva avuto tutti i torti a farlo salire sul ring, ne avrebbe prese così tante sul serio che forse si sarebbe sentito a posto in minima parte.

La ragazza si avvicinò e scattò in avanti piazzandogli un destro che però Alex riuscì a schivare spostando la testa e proteggendosi lo stomaco con le braccia come se le avesse letto nel pensiero, evitando di beccarsi un sinistro.

«Ehi! Non vale!», si lagnò la ragazza mettendosi i pugni sui fianchi.

«Che cosa non vale?», chiese Alex abbassando le braccia. Lei ne approfittò e lo colpì piano sulla guancia, come un avvertimento.

«Mai abbassare la guardia», gli sussurrò all’orecchio, prima di spostarsi e di scendere dal ring con il suo asciugamano intorno al collo.

Alex guardò di fronte a sé e scosse il viso non capendo. Non conosceva nemmeno quella ragazza, eppure sembravano così in sintonia… tanto da scherzare quando lei avrebbe potuto tranquillamente metterlo al tappeto.

Scese rapidamente dal ring e si affrettò a prendere il suo borsone. Fece appena in tempo a raggiungere la ragazza fuori dalla palestra e la fermò mettendole una mano sulla spalla.

«Non mi hai detto come ti chiami», disse levando subito la mano.

«Ahm… Beatrice, Bea per gli amici.»

«Piacere, io sono Alex.» Si strinsero la mano e si sorrisero prima di prendere ognuno la sua strada.

Insomma, era strano. E troppo semplice. Possibile che subito dopo essersi lasciati con una persona davvero speciale, te ne trovavi un’altra di fronte, su un ring?

Si mise meglio la borsa sulla spalla nel buio della sera, passando sotto i lampioni de marciapiede, senza badare alle macchine e al frastuono intorno a lui, ma solo a pensare.

Krista era stata tutto per lui, ma con quella ragazza, Bea, era risultato talmente semplice accantonarla in un angolo della memoria, pur sempre ricordandola con sofferenza, che si chiese se davvero quello che provava per lei era stato amore allo stato puro. Forse no, forse si era sbagliato. Forse era stato tutto così bello ma anche così finto. Forse aveva creduto di essere innamorato, se n’era anche convinto, ma in realtà non era così. Ma allora, come poteva capire quando si sarebbe innamorato davvero?

Arrivò di fronte a casa e guardò da fuori la sua vita: poteva avere tutto, anzi, aveva molto più di quello che forse si meritava, forse non ricambiava nulla, ma sentiva che quella situazione non poteva influire anche sui suoi familiari, loro non centravano nulla.

Aprì il cancello ed entrò, ed ecco che, mentre camminava per il vialetto, vide la porta aprirsi e uscire la cugina con una faccia confusa e disorientata.

«Sharon», disse mettendole una mano sulla guancia. «Che cos’è successo?»

«Ahm… credo che avrò un fratello», disse incontrando gli occhi chiari di Alex.

Non riusciva ancora a realizzare la cosa. Lei, un fratello? Lei che era abituata a tutti i vizi possibili e inimmaginabili? Doveva dividere tutto con un bambino più piccolo? Non riusciva proprio a vedersi nel ruolo di sorella maggiore, sarebbe stato un fallimento, già lo sapeva.

«Cosa? Zia è incinta?»

«No, ma che dici. No, no. Vai dentro, ti spiegheranno tutto loro. Io ancora non riesco a crederci, sembra irreale.»

«Ok, ma dove vai tu con la borsa?»

«Vado… ehm… vado…» Cosa doveva fare? Dirglielo o non dirglielo? Si morse il labbro nervosamente, nel buio della sera.

«Vai da Krista?», chiese Alex abbassando lo sguardo.

«Sì. Alex, io… mi dispiace», gli mise una mano sul braccio.

«No, non importa. Adesso che ci siamo lasciati non puoi certamente non vederla, è pur sempre la tua migliore amica.»

«Però io non voglio che per questo tra noi…»

«No, non cambierà assolutamente nulla. Tu sei libera di vedere chi vuoi, ok?», le sorrise e la baciò sulla fronte abbracciandola. Aveva uno strano bisogno di affetto.

Notò come solo il nome di Krista aveva riportato a galla tutto quel dolore. Forse non era vero che non si era innamorato. Forse era stato veramente innamorato di lei, solo che forse non ci si innamorava una volta soltanto nella vita, come dicevano tutti. A meno che lui non fosse l’eccezione alla regola.

 

Sharon si allontanò sorridendo leggermente, gli occhi velati da un sottile velo di lacrime che grazie al buio della sera Alex non vide.

Per arrivare a casa di Krista non ci voleva molto, poteva benissimo fare la strada a piedi, ma quella sera decise di prendere l’autobus. Non era in vena di camminare ed era fin troppo buio.

Quando arrivò dall’amica, si salutarono baciandosi sulle guance, ma senza l’ombra di un sorriso, c’era preoccupazione sul volto di entrambe, ma per diversi motivi.

Sharon poggiò la borsa per terra e si tuffò sul letto di Krista a pancia in su, con gli occhi puntati al soffitto.

«Come stai?», le chiese senza staccare gli occhi dal viola chiaro del soffitto.

Krista si accucciò al suo fianco e le mise un braccio intorno alla vita, stringendola a sé.

«Come dovrei stare? Mi ha tradita, è orribile.»

«Mi dispiace.» La guardò e le accarezzò i capelli sulla nuca, lasciando finalmente libere le lacrime assieme a lei.

«Perché piangi?», le chiese Krista tra i singhiozzi.

«Cosa succederà ora? Io non voglio dividermi tra te e lui.» Ma non era solo quello il problema, se così si poteva definire.

«Infatti non dovrai. Tra noi resterà tutto uguale, però…»

«Però cosa?»

«Però non posso stare ancora nella band. È stata una decisione difficile e sofferta, ma è meglio così.»

«Cosa?»

«Sharon, io…»

«Krista non puoi lasciarci!»

«E allora che lasci la band tuo cugino.»

Era la prima volta che chiamava così Alex, era strano persino da sentire. Sharon non ci badò molto, saltò giù dal letto asciugandosi le lacrime con rabbia. Non poteva credere alle suo orecchie. Sbagliava oppure pochi istanti prima Krista aveva detto che tra loro non sarebbe cambiato niente? Andarsene dalla band era un cambiamento non proprio da niente.

«Ti rendi conto di cosa stai dicendo? Avevi detto che non sarebbe cambiato niente!»

«Sharon, mettiti nei miei panni! Se Derek ti avesse tradita, tu non avresti voluto vederlo mai più! Come posso io stare con lui a scuola, a casa tua, e anche a suonare? È impossibile.»

Una fitta al cuore colpì in pieno petto Sharon quando Krista pronunciò il nome di Derek, ma strinse i denti e continuò a lottare la sua battaglia: la band era la cosa più importante in quel momento. Non poteva nemmeno immaginare una band senza di lei, la loro batterista.

«Invece no, Krista! Alex ha sbagliato, lo so, lo sa perfettamente anche lui, anche lui ci sta male, quindi potresti anche perdonarlo.»

«Non ce la faccio, non ci riesco.»

«Quindi è questa la tua decisione definitiva? Ci lasci? Non vuoi nemmeno pensarci ancora un po’?»

Sperava con tutto il cuore che Krista ci ripensasse, ma lo vedeva nei suoi occhi, la decisione l’aveva già presa e non sarebbe tornata indietro.

«Bene, perfetto», ringhiò raccattando la sua borsa da terra.

«Cosa… E adesso dove vai?», le chiese con la bocca semiaperta e gli occhi umidi.

«Vado a casa mia, scusami.»

«No, Sharon!», le gridò dietro, ma non lei non l’ascoltò, si chiuse la porta alle spalle e corse via in lacrime.

Nulla poteva fermala, nulla poteva fermare quel suo dolore. Era già tesa per la storia del nuovo fratello, in più ci si era messa Krista, con la sua stupida idea di lasciare la band: non riusciva a crederci.

Correva a perdifiato Sharon, tra le vie di Amburgo, illuminata a tratti dalla luce dei lampioni e dai fari delle macchine ignare che le passavano accanto.

Non le importava di mostrare le lacrime, ciò che sentiva, se il mondo la voleva, doveva accettarla nel bene e nel male.

Era una situazione molto delicata: non si sentiva pronta ad avere un fratello. Come si sarebbe comportata? Avrebbe dovuto dividere tutte le attenzioni che di solito aveva per sé con lui, ce l’avrebbe fatta? Sarebbe stata in grado di essere una brava sorella maggiore, l’esempio da seguire?

Come aveva potuto farle una cosa del genere, Krista, la sua migliore amica? Perché per loro due doveva andarci di mezzo tutta la band? Era ingiusto.

Nella mente di Sharon i due pensieri principali, quelli che la preoccupavano di più, erano uniti, come due canzoni nella stessa stanza, convivevano eppure si odiavano. Quando un pensiero cercava di imporsi sull’altro, gridando più forte, l’altro ribatteva, finché non sentì solo urla confuse nella sua testa.

Ci mise un po’ prima di trovare le chiavi di casa nella borsa e a trovare quella giusta, soprattutto: con gli occhi così pieni di lacrime non riusciva a distinguerle. Entrata e sbattutasi il cancello alle spalle corse per il vialetto e si fiondò addosso alla porta sperando che fosse aperta, perché se no si sarebbe ribaltata.

«Mamma», disse con la voce interrotta dal pianto, appoggiata alla porta con la schiena.

«Sharon!», gridò Anto preoccupata alzandosi dal divano e raggiungendo la figlia per stringerla a sé.

«Che cos’è successo?», chiese Bill anche lui vicino a lei.

«Krista», disse piano Sharon. Non aveva voce, il dolore era come se le avesse bloccato tutto. A quel nome vidi Alex alzare la testa e passarsi una mano fra i capelli, gli occhi lucidi.

«Allora, cos’è successo?»

«Krista ha lasciato la band», riuscì a dire abbandonandosi tra le braccia del padre.

«Che cosa?!», gridò Stefan spaventando Sarah fra le sue braccia, che stese subito le mani verso di me.

«È assurdo! Alex, fai qualcosa!», si alzò in piedi e guardò il fratello dall’alto.

Sharon si scansò un po’ per vedere Alex: il suo viso era impassibile, ma dagli occhi si capiva tutto.

Tom mi mise una mano sulla spalla, mi avvicinò a lui e strinse fra le braccia sia me che Sarah. Forse anche lui riusciva a leggerci dentro, come me.

«Non ci posso credere! Tu… tu lo sapevi!», disse Sharon con le lacrime che scivolavano ancora sulle sue guance.

Alex abbassò lo sguardo e se ne andò con le mani in tasca, senza fretta. Ci stava malissimo, eccome.

«Cosa?», chiese Stefan dividendo gli sguardi tra la cugina e il fratello. Ma l’istinto poi lo guidò verso Alex, già al piano di sopra.

Sharon rimase immobile, solo le lacrime scivolavano lente, e in silenzio, assoluto silenzio. Tutto si era fermato e quel silenzio era insopportabile, per me più di tutti, ma non mossi un muscolo nemmeno io, tutto si era cristallizzato.

«Ah, vaffanculo a tutti», sbottò Sharon tra i denti asciugandosi le lacrime con il dorso della mano, prima di salire a passi pesanti sulle scale e raggiungere la sua camera, da dove non sarebbe uscita fino alla mattina dopo.

 

Si sbattè la porta alle spalle e si tuffò sul letto, affondando il viso nel cuscino, in modo tale da nascondere le lacrime e soffocare i singhiozzi che le dilaniavano il petto.

Sentì vibrare la propria gamba e dovette tirar fuori il proprio cellulare dalla tasca dei jeans. Lesse il nome di Krista sul display e rifiutò la chiamata: non aveva voglia di parlare con lei, non in quel momento.

Aveva appena ricacciato la faccia contro la federa ormai umida, quando il cellulare le vibrò di nuovo. Con un ringhio frustato lo agguantò e stava per spegnerlo, quando notò che non era più l’amica a chiamarla, ma qualcuno che non si sarebbe mai aspettata di sentire. Tentennò, ma poi si portò l’apparecchio all’orecchio, tirando su col naso.

«Nicolas, come fai ad avere il mio numero?», gli chiese subito, con voce nasale.

«Beh, potrei chiederti la stessa cosa. Anzi, è quello che farò: come fai ad avere il mio numero, tu?»

Sharon sbuffò, irritata. «La caporedattrice mi ha dato i numeri di tutti quelli che lavorano al giornale, quindi anche il tuo. Tu, invece, come fai ad avere il mio?»

«Ho ricattato la caporedattrice dicendole che se non mi avesse dato il tuo numero di cellulare avrei fatto pubblicare delle foto, come dire… incriminanti con il miglior giocatore di basket della squadra rivale alla nostra, sulla prima pagina. La odiano tutti, al giornale, non sarebbe stato difficile fare una cosa del genere. Ha ceduto.»

Cadde il silenzio e Sharon scoprì di star sorridendo involontariamente, tanto che appena se ne accorse arricciò le labbra e disse:

«Perché mi hai chiamato?»

«Volevo sentire la tua splendida voce», rispose in tono smielato. «Ma… Sharon, c’è qualcosa che non va? Sembra… hai pianto?»

«No. No, sto benissimo!» Tirò su col naso, sfregandosi gli occhi.

«Sharon… io scherzo sempre, è vero, ma so anche essere serio, se voglio. Ne vuoi parlare?»

«No, io… Perché ti interessa tanto ciò che ho?!»

«Ok, non ne vuoi parlare. Ci vediamo domani a scuola.»

Sharon si strinse di più il cellulare all’orecchio, respirando irregolarmente. «No!» Non sapeva perché, ma non voleva che riattaccasse. «Non riattaccare, per favore», gli sussurrò.

Nicolas, al di là dell’apparecchio, ridacchiò. «Sono qui.»

 

***

 

Riprovò a chiamarla sul cellulare, non demordendo: aveva già provato diverse volte, ma con scarsi risultati. Se lo portò all’orecchio ed aspettò che la sua migliore amica rispondesse, anche se non trovava un motivo valido per cui lei avesse dovuto farlo: l’aveva abbandonata, aveva abbandonato la band a causa di Alex…

Se solo ripensava a lui le veniva voglia di piangere, di gridare e di darsi della stupida per quello che aveva creduto di fare con lui, per quello che aveva pensato, per quello che aveva fatto.

Alex era stato il suo primo vero ragazzo, del quale si era follemente innamorata già dal primo sguardo, quando da bambina era andata a casa di Sharon dopo scuola e l’aveva visto giocare alla playstation con il gemello. Da quel giorno non aveva guardato più nessun altro, c’era solo lui nei suoi pensieri, eppure… aveva aspettato, aveva fatto di tutto per non rovinare la loro amicizia, quando poi era stato proprio lui ad iniziare con lei.

Ricordava tutto perfettamente: quando lui l’aveva portata in camera per provare, quando l’aveva baciata quasi a tradimento, scusandosi subito dopo; quando poco prima del concerto alla festa di Halloween si era avvicinato a lei e le aveva chiesto di parlare in privato, quando lui – sorprendendola – si era dichiarato.

«Sì, insomma, Krista… È… è da un po’ che te lo volevo dire ma non ho mai avuto il coraggio necessario: io… insomma… tu mi piaci. Tanto, direi.»

Quello era il suo Alex, quello timido, quello dolce, quello che l’aveva amata, l’aveva coccolata, l’aveva rassicurata, le aveva promesso che sarebbero stati sempre insieme.

E da quel giorno si era dedicata solamente a lui, aveva avuto occhi solo per lui ancora di più – lasciando persino perdere il padre di Sharon – gli aveva dato tutto, con quali risultati? Era stata tradita da lui, Alex si era bellamente dato alla pazza gioia con un’altra e come se non bastasse aveva fatto quella scenata di fronte a lei, di fronte a tutti, nel corridoio della scuola. Si era messo a piangere davanti a mezzo mondo chiedendole chissà cosa e… e la verità era che le mancava. Stava lontana da lui da poche ore, eppure le mancava già da morire.

Le aveva detto che non avrebbe voluto che finisse in quel modo, le aveva detto che gli dispiaceva, ma… come poteva perdonarlo? Sentiva dentro di sé una voragine che la stava risucchiando, ma non poteva tornare indietro, non poteva mostrarsi debole di fronte a lui. Forse la cosa migliore da fare era dimenticare e ricominciare da capo.

Come poteva dimenticare? E ricominciare? Tantomeno. Non avrebbe mai potuto, perché nonostante tutto l’amore che provava per lui non si sarebbe volatilizzato: sarebbe sempre rimasto lì, ad osservarla, e lei avrebbe cercato Lui in tutti gli altri, non trovandolo mai. Era in vicolo cieco, un circolo vizioso dal quale non poteva uscire, anche se lo avesse voluto con tutte le sue forze. Alex sarebbe rimasto in lei, incancellabile, che lei lo volesse oppure no.

Però, si era imposta di provare a dimenticare, per quanto sapesse che sarebbe risultato tutto inutile, e aveva deciso, subito dopo la sua confessione, che avrebbe lasciato la band.

Quella stessa band che l’aveva accolta, che l’aveva fatta sentire viva, che l’aveva protetta, che l’aveva fatta sentire bene come se fosse la sua famiglia, quella vera. Quella band che era un pezzo di lei, della quale doveva separarsi, per dimenticare, nonostante in essa ci fosse più o meno tutta la sua vita.

Come avrebbe fatto senza le ore passate a suonare, a ridere, a scherzare, a vivere, non solo con Alex, ma anche con Stefan e Sharon?

Sharon, la sua migliore amica che non aveva ancora risposto ad una delle sue numerose chiamate.

«Rispondi, ti prego, rispondi!», mormorò stringendo i pugni e affondando il viso nel cuscino.

Trovò occupato e lanciò il cellulare dall’altra parte del letto, agitando le gambe sul letto in presi ad una crisi isterica.

«Bambina, che succede?», le chiese sua madre, entrando in camera e sedendosi al suo fianco.

«Niente, mamma.»

«Non mi sembra… Si tratta di Sharon, avete litigato?»

«Peggio… Ho lasciato la band.»

«Che cosa? Perché l’hai fatto?»

Krista non rispose, faceva ancora troppo male.

«Tu ami suonare, tu tieni tantissimo alla band…»

«Sì», mugugnò.

«Come faranno senza di te? Hanno bisogno di te… Alex che ha detto?»

«Niente, non ha detto niente. Ora… sono stanca, voglio dormire.»

Sua madre annuì ed uscì dalla stanza, allora Krista soffocò altre lacrime nel cuscino, al buio.

 

 

___________________________________

 

 

Buongiorno!

Non ho molto da dire, so che questo capitolo non è il massimo, ma spero che sia piaciuto almeno un pochino. Ringrazio di cuore Utopy e Tokietta86 per la loro recensione: sono contenta che vi piaccia, almeno a voi… In questo capitolo si capisce il motivo del tradimento di Alex, ma non lo giustifica, ed entra in ballo un nuovo personaggio che però non starà in scena per molto xD Bea. Nicolas è un bel tipo, e chissà… Qui è stato carino, no? *-* Per il bambino bisogna aspettare ancora un pochino, poi si vedrà! Grazie davvero di cuore, siete la mia gioia per questa ff xD

Ringrazio anche chi legge soltanto. Alla prossima, vostra

_Pulse_

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Capitolo 16
*** Look's fight ***


What am I supposed to do when the best part of me was always you
And what am I supposed to say when I'm all choked up that you're ok
I'm falling to pieces
I'm falling to pieces

(Breakeven – The Script)

 


Capitolo 9
Look’s fight

 

«Quest’anno che si fa?»

«In che senso?», sorrisi baciandolo sul collo.

«Natale tedesco oppure italiano?»

Mise le mani suoi miei fianchi e mi baciò sulle labbra, facendomi finire contro al frigorifero con la schiena.

«Ovviamente italiano, scherziamo?», disse Sharon entrando in cucina. «Zia, sai che fine ha fatto Alex? È uscito?»

«Cosa? Ma quando?»

«Sì, è uscito!», urlò Stefan dal salotto.

Sharon annuì e guardò il frigorifero con la testa sulla spalla. Aveva sete, ma aveva qualche problema, visto che Tom non aveva intenzione di lasciare liberi né me né il frigo.

«Ehm… io dovrei…», disse con un sorriso impacciato.

«Tom, ci arrivi che deve aprire il frigo? Ti vuoi levare?», dissi ridendo e alzando gli occhi al cielo, tra le sue braccia.

«No, non voglio», mugugnò, ma poi mi lasciò e potei tornare alla mia occupazione, cioè a scrivere la lista della spesa. Interessante.

«Zio, tu hai mai tradito una ragazza?», chiese versandosi della Coca Cola nel bicchiere.

Tossii leggermente e guardai con la coda dell’occhio Tom che ridacchiava: sapeva che avrei avuto quella reazione, e lo faceva ridere.

«Certo che no», disse.

«Nemmeno con una ragazza… prima di zia, dico.»

«No. Cioè… prima di tua zia non avevo mai avuto una ragazza seriamente! Perché?»

Alzò le spalle e si mise seduta al tavolo, tra le mani il bicchiere. Ogni tanto se lo rigirava e lo guardava perdendosi nei suoi pensieri.

«È questo che è successo ad Alex?», chiese Tom.

«Già», ammise con poca voce.

«Cosa? Aspetta, aspetta. Non ho capito bene. Alex ha tradito Krista?»

«Sì, ma non voleva.»

«Certo, perché andare a letto con un’altra è contro la tua volontà.»

«Tom, smettila, non era in lui», dissi io, che ero già a conoscenza, molto sommariamente, dei fatti.

«Sì, aveva bevuto.»

«Bevuto?!»

Mi girai e mi misi seduta sul ripiano della cucina, le mani unite. «Era successo qualcosa con Krista?», chiesi.

«Non lo so.» Rimase in silenzio a bagnare ancora le labbra con la bevanda. «Ma la cosa che mi preoccupa è un’altra. Non per fare la figura della sfrontata egoista, ma… cioè, questa è una cosa che devono risolvere da soli. Perché mettere in mezzo la band? Come facciamo senza batterista?» Si raccolse la testa fra le mani.

«È difficile, Sharon. Ed è delicato. Io penso che Krista abbia paura anche solo di fidarsi in questo senso, ormai ha perso tutta la fiducia che aveva in lui.»

«Ma di noi si fida, non può lasciarci solo per lui.»

«Te l’ho detto, è delicato.»

Rimase in silenzio e disegnò con il dito sulla superficie lucida del tavolo: avrei dato di tutto per sapere a cosa stava pensando.

Sentimmo ridere Sarah assieme a Stefan, che l’aveva presa in braccio e la faceva volare come un aereo girando per il salotto.

Sharon si rigirò e mi guardò in silenzio, voleva parlare ma aveva paura di ferirmi, quella era la tipica espressione che aveva in quei casi.

«C’è un’altra cosa che mi preoccupa», disse.

«Cosa?», chiese Tom, ma gli occhi di Sharon non si schiodarono dai miei.

«Cosa dovrò fare quando mi troverò quel bambino davanti?»

Era stato un procedimento lungo e complesso, ma alla fine si era arrivati ad una svolta, quella desiderata e sospirata per qualcuno e ansiosa per qualcun altro. Nessuno da quel giorno si era fatto vivo all’ospedale per quel bambino, così si era dato il via alle procedure d’adozione.

Anto era strafelice, Sharon un po’ meno perché non sapeva come comportarsi. Più che altro non sapeva come si sarebbe sentita a dividere i suoi genitori con qualcun altro. La verità era che aveva anche un po’ di paura.

Di quel bambino non si sapeva molto, appena parlava, ma non aveva problemi o subito traumi, era proprio così di sua natura. Era silenzioso e tranquillo, fin troppo. Le uniche cose che si sapevano erano il suo nome, Juri, trovato scritto per caso sull’etichetta della maglia che portava addosso, e la sua età: non poteva avere più di cinque o sei anni.

Sinceramente, sentire quella frase fu come buttare giù un boccone amaro: lei aveva trovato un fratello, io l’avevo perso, senza considerare che poi avevo avuto Mattia al mio fianco.

«Cioè… cosa… come devo comportarmi? Cosa devo dirgli? Non sono in grado di… È tutto così complicato…»

«Andrai benissimo Sharon, non ti preoccupare», disse Tom passandole una mano sulla testa. «Devi solo fare quello che ti senti di fare. Ed accoglierlo, ovviamente.»

«E se fossi un fallimento?»

«Non sarai un fallimento, ne sono certo. In teoria sembra difficile, ma in pratica è molto più semplice. Stai tranquilla.»

«Ok, ci proverò.»

«Brava.»

Scesi dal ripiano della cucina in silenzio, pensando alle coincidenze della vita. Mai e poi mai trovarsi in casa un bambino sconosciuto per fratello sarebbe stato più doloroso di perdere il proprio, di fratello.

«Ary, tutto ok?», mi chiese Tom.

Mi fermai sulla porta, cosa dovevo dire non lo sapevo: non sapevo bene come mi sentivo. Non c’era tanto dolore nel suo ricordo, non come all’inizio, ma quella malinconia mi prendeva sempre e comunque.

«Sto bene», dissi. «Piuttosto, qualcuno mi fa il piacere di dirmi dov’è andato a finire Alex?»

«Non si sa», disse Stefan. «Ma non ti preoccupare, mi ha promesso che non farà altre cavolate.»

«Ok, speriamo solo che non si deprima troppo. Mi fa male vederlo in quello stato.»

«Già, anche Krista stava da schifo», mormorò Sharon, tanto piano che non la sentì nessuno. Stava male per lei, ma quello che aveva fatto, ritirarsi dalla band, l’aveva profondamente delusa.

«Quando arrivano papà e mamma?», chiese girandosi sulla sedia.

«Tra poco. Sharon», mi avvicinai e le misi le mani sulle spalle guardandola dritta negli occhi, «sarai bravissima, e poi ci saremo noi ad aiutarti, per ogni cosa. Posso farti una domanda?»

«Quale?»

«Come ti senti?»

«Come mi sento?»

«Sì. Avrai un fratello, come ti senti?»

«Beh… a dir la verità… un po’ preoccupata.»

«Ma sei contenta?»

Silenzio, silenzio, silenzio, silenzio, silenzio…

«Non importa.» Le lasciai le spalle e andai in salotto, dove iniziai a giocare con Sarah e Stefan.

«Mi dispiace», sussurrò a suo zio.

«Lo ha detto anche lei, non importa», le sorrise.

Din don. Suonarono il campanello.

«Oddio!», gridò Sharon alzandosi di scatto e salendo in fretta le scale, rischiando anche di cadere. Arrivò appena alla fine della rampa, io avevo già aperto la porta.

«Dio, quant’è bello», disse senza nemmeno pensarci.

Tutti gli sguardi si puntarono su di lei, persino Juri aveva alzato la testa e l’aveva guardata, certo per un nanosecondo, però l’aveva guardata anche lui. Era tutto così nuovo per lui, pensai che forse era anche spaventoso: essere catapultati in un mondo completamente diverso, senza nessuna preparazione precisa per affrontare quell’onda alta quindici metri di novità, non doveva essere poi così semplice.

«Siamo arrivati, questa è casa nostra, ora anche tua», disse Anto passandogli dolce la mano sui capelli color biondo platino.

I suoi occhietti verdi accesi vagavano per tutta la porzione di casa che poteva cogliere, sembrava che stesse facendo un’ispezione dettagliata memorizzando tutto, stando semplicemente fermo sulla porta.

Bill sorrise alla figlia a bocca aperta sulle scale e poi spinse delicatamente il bambino all’interno, per chiudersi alle spalle il freddo dell’inverno. Aveva iniziato di nuovo a nevicare.

Si accovacciò al suo fianco e lo guardò negli occhi mettendo un dito sotto al suo piccolo mento.

«Allora Juri, tutto bene?», gli chiese.

Io non sarei riuscita a rispondere. Chissà come ci si sentiva. Più ci pensavo, più mi convincevo che non sarei riuscita mai a spiegarmelo, doveva essere strano, quello era certo.

Juri sorrise e improvvisamente una fitta al cuore mi fece chiudere gli occhi, ma li riaprii subito. Ci mancava solo che si preoccupassero di non far sorridere più quel bambino. Non era colpa sua se somigliava così tanto a Davide. Quel problema era solo mio.

«Bene. La vedi quella ragazza lassù?», gli chiese sorridendo a Sharon e indicandola con il dito. «Lei è tua sorella, si chiama Sharon. Sharon, potresti venire qui?», la invitò. Il suo sorriso non voleva proprio separarsi dalle sue labbra.

Sharon fece un respiro profondo e scese lentamente dalle scale. Gli occhi di Juri la percorsero tutta, lentamente, accompagnati dalla sua espressione docile.

Si mise in ginocchio come suo padre e gli porse la mano: «Ciao, io sono Sharon, piacere di conoscerti… Juri.»

Il bambino guardò la sua mano senza fiatare, poi avvicinò la sua e le strinse due dita, senza alzare lo sguardo. Non si capiva se era imbarazzato o che cosa.

Lasciata la mano della Sharon, confusa tanto quanto lui, Bill si mise a presentare tutti gli altri componenti della famiglia.

«Lui è Stefan, tuo cugino. Lei è Sarah, la tua cuginetta, ha un anno in meno di te, sai? Poi c’è zio Tom e lei è zia Ary.»

Mi chiesi se già si ricordava tutti i nostri nomi: improbabile.

Mi avvicinai e lo guardai da vicino: la sua somiglianza era davvero una cosa pazzesca, era la sua copia.

«Ciao Juri», dissi. «Sai, tu mi ricordi molto qualcuno.»

Juri mi guardò intensamente negli occhi e pian piano sorrise, mettendomi una mano sulla guancia.

«Anche tu», disse con un accento tedesco quasi perfetto: pure la sua voce dolce era similissima alla sua.

Credevo nella reincarnazione, e in quel momento più che mai mi sorgeva spontanea l’idea di Davide all’interno di quel corpicino. Allontanai subito quel pensiero dalla mia testa per non soffrirne e mi allontanai lentamente, giusto per non dare l’impressione che la cosa mi avesse davvero scossa dentro. Tanto ero sicura che almeno tre persone se ne fossero accorte: Bill, Anto e Tom.

 

***

 

Era tutta una questione di sguardi: chi abbassava la testa per primo perdeva, non c’erano scusanti. Così sul ring.

Quel pomeriggio era stato doloroso e bello allo stesso tempo: in pratica, strano. Non si poteva dire che un misto di quelle sensazioni non fosse strano.

Sapeva che a casa sarebbe arrivato Juri, ma non era in vena, quindi era sgattaiolato via senza farsi vedere. Si era rifugiato in palestra, dove aveva trovato Bea, capelli legati, canottiera e pantaloncini corti, che lo aspettava seduta su una panchina accanto agli attrezzi sui quali di solito lui si allenava.

«Ehi, sei arrivato finalmente», l’aveva accolto sorridendo.

«Mi aspettavi?»

«In verità… sì.»

Si guardarono negli occhi, intensamente. Non sapeva come spiegarlo Alex, era difficile descrivere quel modo di guardarsi negli occhi. Bello e temuto.

«Ah», perse la battaglia abbassando lo sguardo per primo.

«Sai perché?», gli chiese la ragazza.

«No.»

«Lo vuoi sapere?»

Si passò la mano fra i capelli cercando di stare calmo e si girò a guardarla. Era più vicina di quanto si immaginasse. Non si era accorto che si era alzata ed era andata dietro di lui.

Era un po’ più piccola rispetto a lui, ma ci mancava poco. I suoi occhi di colore verde chiaro lo mettevano in ansia, stranamente.

«In verità… no», imitò la sua voce.

«L’altro giorno sembravi piuttosto giù di morale», disse senza fare un piega al pessimo tentativo di Alex di deviare l’argomento.

«Ti ho detto che non lo voglio sapere!»

Si sdraiò sulla panca per fare un po’ di addominali. Non voleva pensare di nuovo a Krista, ma sembrava proprio l’obbiettivo di quella ragazza che si era trovato in mezzo alla sua vita.

«E volevo chiederti come mai, se avevi voglia di parlarne. Sai, molti vengono qui a fare boxe e quelli che conosco di solito lo fanno per scaricare la rabbia. Non vorrei che finissi per farti ammazzare di botte da uno il doppio di te.»

Quella ragazza oltre che essere un’impicciona era anche determinata, ma conosceva bene quella qualità, o difetto, era così anche lui se voleva.

«Sì, credo che domani mi farò rompere il naso da qualcuno. Poi il giorno dopo le braccia, e poi il giorno dopo ancora…»

«Smettila.» Era fin troppo seria per non essere interessata veramente a lui. Alex ne sarebbe stato onorato, ma quella volta no, ancora non riusciva a vedersi con un’altra ragazza oltre a Krista. 

«Ok? Smettila, è una cosa seria.»

«Non ti conosco nemmeno, non puoi dirmi di fare o di non fare qualcosa. Se voglio andare a farmi rompere le braccia posso farlo.»

Bea si mise sdraiata sulla panchina accanto, quella per fare sollevamento pesi. Lo guardò alzarsi e abbassarsi con le mani dietro la testa, respirando regolarmente.

«Si tratta di una ragazza?», gli chiese piano.

Alex sbuffò e rimase sdraiato sulla pelle nera, gli occhi chiusi alla luce che gli arrivava dritta in faccia.

«Ci ho azzeccato, non è vero?»

Il suo sorriso lo sorprese: tutte le cose brutte che aveva nella testa, pronte a uscire in meno di due secondi, con quel sorriso si volatilizzarono; rimase come incantato. Era un sorriso vero, dolce, ma anche un po’ amaro. 

«Anch’io sono uscita da una brutta storia, è successo un casino», si mise seduta a gambe incrociate e abbassò lo sguardo.

«Non sarà mai più grave del casino che ho fatto io», ammise Alex cercando di tirarla su di morale.

«Che cos’hai fatto?»

«Non ne voglio parlare», sbottò prima di riprendere a fare gli esercizi con foga, mentre gli occhi gli pizzicavano.

«Il mio ragazzo era partito per ritornare un po’ a casa sua e… una sera mi ha chiamata e mi ha detto che non sarebbe più tornato, che aveva messo incinta un’altra e che… voleva stare con lei perché… perché l’amava. Io non so tra tutto quello che mi ha detto cosa sia vero e cosa falso.»

«Non vi siete più sentiti da allora?», chiese senza staccare lo sguardo dal muro di fronte a sé. Aveva paura di vedere l’espressione di quella ragazza tradita, avrebbe visto il viso di Krista.

«Cosa?»

«Non vi siete più sentiti da allora?»

«Oh, no. Non ce l’ho fatta. Quindi… credi ancora che tu abbia combinato un casino più grande di questo?»

«Beh, per me è imperdonabile.»

«Sei piuttosto duro con te stesso.»

«Sono duro quel che serve.»

«Puoi dirmi che cos’è successo?»

Alex si mise seduto e la guardò negli occhi: erano improvvisamente cambiati, celavano a malapena la tristezza.

«Ho tradito la mia ragazza, e mi dispiace da morire.» Bea rimase in silenzio. «Avevo bevuto, in pratica ha fatto tutto quella ragazza. È stato orribile quando mi sono accorto di quello che stavamo facendo. E quando l’ho detto a lei… Si chiama Krista, è bellissima. E io l’ho tradita come se fosse… Lei era importante per me, davvero. Ma adesso… mi ha lasciato, giustamente. Mi manca.»

Bea rimase ancora in silenzio. Aveva ascoltato quasi senza fiatare, lui non capiva se era scandalizzata oppure se lo capiva. Dubitava fortemente della seconda opzione.

«Capita a tutti di sbagliare», disse dopo un po’.

«Ma lei non ha nemmeno voluto sapere che cos’era successo.»

«Pretendi un po’ troppo.»

«Almeno poteva ascoltarmi.»

«Cosa sarebbe cambiato? Non avresti dovuto bere, comunque.»

Fu Alex a rimanere in silenzio quella volta. Aveva colto nel segno: lui aveva sbagliato lo stesso, era solo colpa sua, in ogni caso.

«Mi dispiace», disse Bea alzandosi e mettendogli la mano sulla spalla. «Che ti serva da lezione, per non fare gli stessi errori in futuro. Posso capire sia ciò che prova lei, sia quello che provi tu, davvero.»

«Impossibile che tu riesca a capire come sto.»

«Beh, lo vedo. Se ci fossi io al posto di Krista, vedendoti così sarei tornata subito da te. Si vede che lei non tiene a te come tu tieni a lei. Potrebbe essere, ma non è detto. A volte si è così… insicuri… tutto ti crolla addosso e non ti fidi più di niente e di nessuno. Mi dispiace Alex, sul serio, mi dispiace per te.»

Bea si allontanò e andò a prendere la sua borsa. Si infilò il giubbotto e uscì dalla palestra, ma prima salutò Alex con un sorriso che aveva cercato di rendere il meno triste possibile e con un cenno della mano.

Quel pomeriggio era stato strano perché non gli era mai capitato di aprirsi con qualcuno che non fosse suo fratello su Krista. Bello, perché si era sentito bene dopo aver parlato con lei, come alleggerito di un peso troppo pesante. Doloroso, perché ricordare Krista gli aveva fatto male comunque.

Camminava lentamente per tornare a casa, pensando a quel pomeriggio. C’era poca gente in giro, e uno strano silenzio.

«No! Lasciami! Lasciami andare!»

«Stai zitta!»

Alex conosceva quella voce, come poteva confonderla? Arrivò al vicolo di corsa, intravide nell’oscurità due sagome, un ragazzo e una ragazza, quest’ultima che lottava per liberarsi, gridando con tutta la voce che aveva in gola.

Corse e raggiunse i due, si mise in mezzo e sferrò un pugno sulla guancia del ragazzo ruggendo: «Lasciala stare!»

Bea finì a terra, contro il muro, spaventata e con il fiato mozzato.

«Non ti mettere in mezzo!», gridò l’altro ragazzo colpendo Alex come aveva fatto lui prima.

Alex barcollò, era più forte, e in quell’attimo di distrazione subì un altro pugno nello stomaco.

«Alex!», gridò Bea.

Alex si tirò su e colpì con nuova forza il ragazzo con un gancio destro e poi con una ginocchiata in mezzo alle gambe.

Il ragazzo cadde a terra dolorante, Alex si appoggiò al muro accanto a Bea.

«Alex, oddio, Alex!» Prese il cellulare e chiamò subito la polizia.

 

***

 

«Non ci posso credere! È la terza volta che ci vediamo in così poco tempo!», dissi con le guance rigate dalle lacrime entrando in ospedale.

«Non ti preoccupare, Ary. Va tutto bene», mi disse Tom stringendomi a sé.

«Sì, non è successo nulla di grave», mi rassicurò Mattia.

«Alex!», disse Stefan, preoccupatissimo, entrando per primo nella sua stanza.

«Ahia», disse Alex, seduto su un lettino d’ospedale con l’infermiera accanto che gli metteva i punti al sopracciglio. Seduta sul suo letto, che gli stringeva la mano, c’era una ragazza.

«Che cos’è successo?», chiese Tom.

«Papà, calmati», disse piano Alex chiudendo gli occhi. «Mamma, non piangere, ti prego.»

«Alex, mi hai fatto tanto preoccupare!», lo abbracciai delicatamente, stringendomi a lui.

Mattia prese la ragazza e le aprì gli occhi, ci guardò dentro con una lucetta: «Come va, tutto bene?»

«Sì, sì! Io sto bene! Lui come sta!?»

«Sta bene, rilassati. Fatti disinfettare questa ferita.»

«No, no! Non voglio! Guardi lui prima!», scostò la mano di Mattia dalla sua fronte.

«Ma…»

«Niente ma! La prego!» Si sarebbe messa pure in ginocchio per raggiungere il suo scopo.

«Bea, smettila, ti prego. Fatti vedere, io sto benissimo», disse Alex; riusciva a malapena a tenere gli occhi aperti.

Bea, quella ragazza, si calmò e si lasciò disinfettare la ferita sulla fronte.

«Allora, mi spiegate che cos’è successo?»

«Appunto, Bea, che cos’è successo?», le chiese debole Alex.

«Non te lo ricordi?», chiese preoccupata.

«No, io volevo sapere chi era quello.»

«Se lo sapessi! Quello stronzo, ma l’hanno preso, vero?» Era piena di rabbia.

«Allora, la smettete?! Voglio sapere che cos’è successo!», gridò Tom, mentre io mi lasciavo andare alla poltroncina dietro di me.

«Sono uscita dalla palestra», iniziò a raccontare Bea. «Stavo facendo la solita strada per tornare a casa e… non so da dove è arrivato… mi ha preso e io… non so cosa voleva farmi…», scoppiò a piangere, ma non si fermò. «Poi è arrivato Alex, si sono presi a botte e… ne è uscito lui. Alex, mi dispiace.» Teneva i pugni stretti sulle gambe, il viso basso.

«Ah, ma per favore», sbuffò Alex. «Non devi nemmeno dirlo. L’importante è che stai bene. Smettila di piangere.»

Bea annuì, si asciugò le guance e tirò su con il naso.

«Sono orgoglioso di te», disse Tom sorridendogli.

«Bene, qui abbiamo finito», disse l’infermiera rimirando l’opera appena finita.

«Ok, grazie», disse Mattia liquidandola.

Dal suo sguardo capii che aveva una cotta per lui. E chi non ce l’aveva in quell’ospedale? Uscì dalla stanza.

«Sarà meglio se usciamo anche noi, forza», ci invitò Mattia.

«Ok. Alex», mi guardò, «non avresti potuto fare di meglio.» Sorrisi e uscii assieme a Tom e a Stefan.

Nella camera restarono solo Alex e Bea. Lei si alzò e andò a sedersi al suo fianco, sul suo letto.

«Alex, mi dispiace così tanto», disse abbassando il viso.

«Non devi», le prese la mano e la accarezzò. «Sto bene, no? Un po’ ammaccato, ma sto bene», sorrise.

Fece sorridere anche Bea, ma per poco. «Se non fossi arrivato tu… io ti devo la vita.»

«Tu non mi devi proprio niente, hai capito?», le prese il viso fra le mani, la guardò da vicino negli occhi.

I loro respiri si scontravano, Alex aveva dei lividi sul viso, ma era bello ugualmente. Bea si sentì bruciare, sia dentro che fuori. Alex si avvicinò piano e la baciò delicato sulle labbra, poggiandole appena sulle sue. Bea gli prese il viso tra le mani, attenta a non fargli male, e contraccambiò il bacio, ad occhi chiusi. Poi si staccò velocemente, allontanandosi anche da lui.

«Scusa», mormorò.

«No, scusami tu, è colpa mia.» Alex si alzò e guardò Bea negli occhi: «Dai, andiamo. Ti accompagno a casa.»

«Ho… ho già chiamato i miei.»

«Ah. Allora… usciamo da qui.»

Bea annuì e seguì Alex fuori dalla stanza. Appena lo vidi uscire corsi subito ad abbracciarlo assieme a Sharon, che dopo un po’ ebbe la meglio.

«Alex, mi hai fatto prendere un colpo!»

«Bea, lei è mia cugina, Sharon», fece le presentazioni.

«Ciao», la salutò Bea abbassando lo sguardo.

Perdevano prima uno e poi l’altro quella sera, sembrava una lotta, fatta solo di sguardi. 

Alex notò un bambino in braccio a Bill, si chiese se era Juri, così si avvicinò e gli porse la mano.

«Ciao, sei Juri vero? Io mi chiamo Alex. Non ti preoccupare, non faccio sempre a botte con la gente.»

«Bea! Oddio, Bea!» Una signora correva per il corridoio e quando raggiunse la ragazza la abbracciò forte. «Stai bene, tesoro? Cosa ti sei fatta?»

«Niente, mamma, non mi sono fatta niente», disse.

Gli sguardi di Bea e Alex si incontrarono e persero entrambi, abbassando gli occhi al pavimento.

 

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Buon pomeriggio!
Ho appena finito di studiare storia e sono stravolta e già affranta, poiché sono a conoscenza del fatto che nella verifica di domani non ci sarà niente di quello che ho studiato D: Sempre così con quella donna .__.
Comunque, pensiamo al capitolo che è meglio xD Finalmente Juri, il bambino che ha trovato Anto, è diventato ufficialmente parte della famiglia e Ary è rimasta un po’, come dire… sconvolta xD perché somiglia molto a Davide, il suo fratellino.
Sharon sarà in grado di essere una buona sorella maggiore? È quello che anche lei spera ;)
Per quanto riguarda il nostro Alex, invece, ha salvato quell’impertinente e intrigante ragazza di nome Bea. E si sono pure baciati ò.ò Mi sorprendo di ciò che scrivo xD Beh, vedremo come andrà a finire!
Ah, sì -.-“ Lo dico adesso, a titolo informativo: sono consapevole del fatto di star trascurando la coppia Stefan/Michelle, non me ne vogliate, ma ai tempi (ho scritto un sacco di tempo fa tutti questi capitoli xD) avevo altri progetti per loro e dunque sono un po’ in secondo piano, se non del tutto assenti. Mi dispiace molto lasciarvi sulle spine, ma vi prometto che avranno anche loro il loro spazio, in futuro n.n
Spero che almeno a voi sia piaciuto un po’ e ringrazio di cuore le due fedelissime de Il sogno, ossia:

Utopy : Krista la batterista. Ovvio che fa rima, l’ho chiamata così apposta u.u xDD Anche secondo me non doveva abbandonare la band e pure a me sta antipatica Bea xD Vedremo che ruolo avrà nella vicendaaaa XD Sharon quando ci si mette è paggio di Bill sisi u.u Beh, è un misto fra lui ed Anto, quindi fai un po’ tu xD Stefan e Michelle li ho abbandonati xD Ma torneranno, prima o poi… o.o E’ arrivato Juriii, hai vistoo *-* Io amo quel bimbo sìsì :D
Grazie Mond, ma io non mi ritengo affatto brava :( Non mi piaceeeeee! Ma se piace a voi, vabbene così xD Ti voglio tantissimo bene anch’io! *-* Tua, Sonne.

Tokietta86 : Sì, hai ragione, Alex doveva fermarsi prima, ma non pensava davvero di arrivare a quel punto u.u A tutti sta antipatica Bea, chissà come mai *ç* Chissà, magari Krista deciderà di tornare… boh, vedremo :) Sì, per Sharon è un periodo un po’ così, pora vedremo se riuscirà ad essere una brava sorella maggiore! Nicolas… *Q* No comment xD
Grazie per i tuoi poemi *-* Sono contenta che questa storia sia la number one xD A lunedì, un abbraccio! :D

In ultimo, ringrazio anche chi legge soltanto! :D Alla prossima, un bacio!

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Capitolo 17
*** Choices ***


Capitolo 10
Choices

 

Com’era strano vedere quel bambino tra noi. Non eravamo preparati. Di solito quando doveva arrivare un nuovo componente in famiglia avevamo più tempo per metterci in testa l’idea di quel cambiamento: circa nove mesi. Invece quella volta era accaduto troppo in fretta, nemmeno un mese. E in più, ci eravamo trovati con accanto un bambino di cinque anni e mezzo, cioè già capace di intendere e di volere.

Sharon fu quella più scossa dalla novità, aveva ancora bisogno di tempo per abituarsi, ma lui era già lì.

«Io vado a dormire», disse Sharon a piedi nudi di fianco al divano, già dentro al suo pigiama.

«Ok, buona notte tesoro», disse Anto baciandola sulla guancia.

Era strano soprattutto vederlo in silenzio a sfogliare libri e libri di fronte al camino, con le luci dell’albero di Natale che si riflettevano sul pavimento. Non riuscivo a capire se guardava le figure oppure se effettivamente leggeva: era ancora più strano, visto che aveva solo cinque anni e mezzo.

«Sì, adesso andiamo anche noi», disse Tom. Mi prese la mano e si alzò sorridendo.

«Buona notte», dissi, poi mi alzai e seguii Tom in camera.

Mi accoccolai al suo fianco e lo abbracciai, chiusi gli occhi.

«Mi dispiace», dissi.

«Di cosa?», mi strinse e mi baciò leggero sulla fronte.

«Ti trascuro troppo.»

«Non è vero. E poi anche io ti trascuro. Ma lo sai perché?»

«Perché?»

«Perché ci impegniamo a crescere tre parti di noi. E lo facciamo davvero bene, se posso dirlo.»

Risi a bassa voce e lo baciai sulle labbra. Era troppo che non ci dedicavamo del tempo, volevo stare solo con lui quella notte. Volevo esistere solo con lui, per lui.

 

***

 

Sharon rimase per minuti, minuti che sembravano ore, di fronte alla finestra di camera sua, guardando la strada silenziosa. A volte passavano delle macchine, ma raramente, e filavano via silenziose. Quella notte era fin troppo silenziosa.

C’era Juri che dormiva nel suo lettino, dall’altra parte della stanza, ma anche lui respirava in silenzio. Sembrava addirittura che non ci fosse.

Quella notte pure il sonno di Sharon se n’era andato, silenzioso. Silenziosa come la neve leggera che cadeva fuori dalla finestra e silenziosa si posava sulle strade. Silenziosa come il respiro di Juri. Silenziosa come quella notte.

Arrivò un rumore, a rompere quel silenzio. Una moto passò di fronte alla casa di Sharon e parve allontanarsi, ma il rumore tornò di nuovo e la moto si fermò di fronte alla finestra di Sharon.

Il ragazzo si tolse il casco e sorrise a Sharon, facendole l’occhiolino. Sharon rise piano, tappandosi la bocca. Seppure scuotendo la testa, si vestì in fretta e uscì di casa senza fare rumore.

«Nicolas, che ci fai qui?», disse stringendosi nella giacca.

«Passavo di qui…», le sorrise. «Beh, che fai?»

«Cosa?»

«Che fai, vieni con me oppure no?»

«Con te? E dove dovremmo andare?»

«Dove vuoi. Anche a casa mia, se ti va.»

«A casa tua? Ma tu sei tutto matto!»

A scuola le settimane erano passate tranquille, Sharon aveva avuto modo di parlare un po’ con Nicolas e, oltre ad essere bello, sapeva essere simpatico, ma solo quando voleva. Nascondeva qualcosa, Sharon l’aveva capito, un dolore lontano, celato dai suoi occhi magnifici ed imperscrutabili.

«Perché?»

Quando faceva quella faccia da cucciolo era adorabile, se una ragazza era tanto sprovveduta da non conoscerlo gli sarebbe caduta ai piedi, ma conoscendolo non ce n’erano di così coraggiose. Ma non era per il suo carattere un po’ scontroso, anche un pizzico antipatico, ma per il suo segreto. C’erano momenti in cui si isolava da tutti e sembrava stare davvero male, era quella tristezza che spaventava. Lui e Sharon in quel periodo avevano molto in comune, forse era per quello che stavano bene assieme.

«Perché? Ma cosa vengo a fare a casa tua? E poi, ti rendi conto di che ore sono? Se i miei mi beccano, se mio padre mi becca sai che mi fa?»

«E dai! Io l’ho sempre detto che sei una fifona.»

«Non sono una fifona! E poi domani sera ho anche un concerto.»

«Per favore, Sharon. Vieni con me.»

Ecco, quando faceva quella faccia dolce, invece, lo odiava perché riusciva sempre a farla cedere. Sarebbe riuscito pure a farla buttare giù da un dirupo, e questo la spaventava.

Guardò dietro di sé e poi Nicolas dietro la recinzione. Sbuffò e aprì il cancello. Uscì e si mise dietro di lui sulla moto.

«Sapevo che non eri una fifona», disse a bassa voce togliendosi il casco e infilandolo a Sharon.

«Ehi, che fai?!»

«Ti metto il casco?»

«E tu?»

«La guido io la moto, la responsabilità è mia. Quindi meglio se non ti fai male tu, anche se è impossibile che tu ti faccia male: sono troppo bravo a guidare.»

«Che modestia, cavolo.» Si allacciò il casco sotto il mento e sistemò la visiera sopra gli occhi.

«Tieniti», le disse facendo ripartire il motore.

Sharon ringraziò il casco per coprirle il rossore che si era impadronito del suo viso. Si strinse forte a Nicolas e lui, con il sorriso sulle labbra, partì.

 

***

 

«Che ne pensi di Juri?»

Mi accarezzò la guancia con le labbra e scese fino al collo: il suo respiro sulla pelle calda era piacevolissimo.

«Solo a te può venire in mente di parlare di un bambino dopo aver fatto l’amore», sussurrò.

«Il fatto è che… non è un bambino qualunque.»

«Cosa vorresti dire?», mi accarezzò il viso con entrambe le mani e mi stampò un bacio sulle labbra.

«Cavolo, te ne sarai accorto anche tu che è… è la sua copia.»

Si appoggiò con il gomito al materasso e mi guardò in silenzio. Non volevo guardarlo, sarei scoppiata a piangere, così guardai il soffitto sperando che mi dicesse qualcosa, ma rimase in silenzio.

«E quando… quando ci siamo conosciuti, e gli ho detto che mi ricordava una persona, quando lui mia ha detto Anche tu, io… Tom, non l’ho mai pensato così tanto in questi anni come in questo periodo», tirai su col naso.

«Ovvio, non puoi impedirti di non pensarlo», disse tagliente. Si sdraiò sul fianco, con un braccio sotto la testa, mi accarezzò la guancia con il dorso delle dita. «Scusami», mormorò.

«No, non importa. Ascolta… tu credi nella reincarnazione?»

«Che cosa?»

«Io ho pensato che… cavolo, sono così simili che mi è venuto da pensare che forse lui è rinato in quel bambino. E… e noi l’abbiamo trovato. Ci credi?» Silenzio. «Ti prego, rispondi.»

«No, mi dispiace.»

Mi girai e lo guardai con gli occhi gonfi di lacrime.

«Non ti illudere», disse.

Mi baciò morbido sulla fronte e mi sorrise mettendosi con il viso accanto al mio petto, stringendomi fra le sue braccia. Infondo aveva ragione, non dovevo illudermi così.

«Grazie, Tom», mormorai prima di addormentarmi.

 

***

 

«Perché mi hai portata qui? Sul serio. Dimmelo, Nicolas.»

Si girò e la vide ancora ferma sulla soglia, la luce del corridoio alle spalle, di fronte solo buio e lui.

«È difficile da spiegare», disse.

«Provaci.»

Nicolas la raggiunse, si mise esattamente di fronte a lei, pochi centimetri li dividevano l’uno dall’altro. Le accarezzò i capelli e si avvicinò alle sue labbra.

«Credo di aver capito perché», disse Sharon.

«E tu…»

«Io?»

«Sì, insomma… io non so cosa provo, speravo che tu potessi aiutarmi.»

«Oh, Nicolas. Che cosa vorresti fare con me?»

«L’amore?»

Lo colpì sul braccio con un mezzo pugno, coordinato pure male. «Non sei per niente romantico.»

«Non ho mai detto che voglio esserlo.»

Sharon rise a bassa voce e si spostò da lui, entrò e si guardò intorno fra l’oscurità. Pareva più una camera d’albergo che un appartamento da quanto era piccolo. Non c’erano nemmeno i muri tra le diverse stanze, tranne per il bagno.

Si girò e si ritrovò appiccicata a Nicolas. Si guardarono negli occhi e fu Sharon a mettergli le braccia intorno al collo. Nicolas la strinse a sé, soffocò i respiri fra i suoi capelli e ne respirò tutto il profumo, invadendosi.

«Io sono vergine», disse piano Sharon.

«C’è sempre una prima volta.» Nicolas la guardò intensamente e la baciò delicato sulle labbra: una piuma sulle labbra.

«Sul serio, Nicolas, non sono pronta. E poi, ti conosco da così poco! Ma che ci sono venuta a fare io, qui?!», gridò improvvisamente.

Si tuffò sul letto lì di fianco e strinse il cuscino. C’era impresso il profumo di Nicolas, lo annusò e non volle più staccarcesene.

«Sharon, ok, va bene», la raggiunse sul letto e si mise sdraiato quasi su di lei.

Quando si girò si ritrovò completamente sotto di lui. Rimase senza parole, senza capire cosa fare. Nicolas le prese le mani e le portò ai bordi della propria maglietta, Sharon, aiutata da chissà quale voce nella sua testa, capì che doveva togliergliela. Lo fece quasi tramando, ma ci riuscì e rimase proprio senza fiato. Non ci volle molto prima che Nicolas la tolse a lei.

«Nicolas, ma che cazzo stiamo facendo?!»

«Come sei fine stasera, complimenti.»

«Ok. Nicolas, puoi spiegarmi gentilmente ciò che stiamo facendo?!»

«Così va meglio. Comunque credo che ci stiamo spogliando.»

«Ma perché?!»

«Ti vergogni?»

«Sì… No! Tu mi confondi!»

«Sì, capita spesso.»

«Cosa? Pure spesso fai così?!» Si alzò di colpo e notò che aveva i jeans abbassati fino alle ginocchia. «Nicolas! Mentre ero impegnata a litigare con te, tu mi spogliavi?!» Non se n’era proprio accorta.

«Scusa, ma non mi piacciono i litigi.»

«Ah, vaffanculo!» Fece per rimettersi la maglietta andando verso alla poltrona sulla quale aveva appoggiato la giacca, ma Nicolas la fermò prendendole il braccio e trascinandola a sé.

«No, Sharon, ti prego, non te ne andare.»

«Nicolas, capisci una cosa: io non sono una di quelle che ti fanno passare una bella serata per farti dimenticare i cazzi tuoi, ok?»

«Non ho nessun altro modo per dirti quanto tengo a te!», gridò. «Insomma! Prima di conoscerti ti credevo super viziata, una ragazzina.» Lei roteò gli occhi, sbuffando. «Ma poi… poi ho scoperto che sbagliavo e tu… tu sei perfetta, in tutto.»

Sharon rimase in silenzio, a guardarlo negli occhi più che stupita spaventata. Quante bugie Derek le aveva detto, quante ancora doveva scoprirne? Anche quella poteva benissimo essere una bugia.

«Sharon, credimi. Io non so… come potrei dirti che ti voglio bene? Io sono tuo, fai quel che vuoi di me», si lasciò cadere sul letto a braccia aperte e chiuse gli occhi.

Sharon lasciò la giacca, si tolse la maglietta, si tolse i jeans, scivolò piano su Nicolas e gli accarezzò i capelli, lo baciò in viso: sulle guance, sulle palpebre chiuse, sulle labbra. Sentì il sapore della sua pelle e il calore del suo corpo sotto al suo. Ogni spostamento su di lui era una scarica elettrica.

Deglutì e gli slacciò i jeans, Nicolas la fermò.

«No, non sarebbe vero», disse. «Posso fare ciò che tu hai fatto a me a te?», sorrise.

«C’è sotto qualcosa, lo sento», disse Sharon ridacchiando.

«Con un’unica eccezione.»

«Ecco, lo sapevo.»

«Andiamo a farci un bagno.»

«Che cosa?»

«Dai Sharon, non è così scandaloso.»

«Per te! Io non sono mai stata nuda con un ragazzo.»

«Non preoccuparti, non guarderò.»

Sharon alzò il sopracciglio destro come aveva ereditato da suo padre: «Non ci credo nemmeno un po’.»

«Ok, sarà dura che io non lo faccia, ma ci proverò. Devi apprezzare lo sforzo.» Si sorrisero. «Vado prima io o prima tu?»

«Vado prima io», disse Sharon. «Così sono sicura che non mi guardi.»

«Dillo che in verità vuoi guardare me.»

«Non ci penso nemmeno.»

Risero, Nicolas la baciò sulle labbra e si alzò.

«Vado a preparare l’acqua.»

«Ok, io ti aspetto qui. Chiamami.»

Nicolas andò in bagno, Sharon ne approfittò per guardarsi intorno. Nessuna foto, niente di niente che testimoniasse la presenza dei suoi genitori, della sua infanzia. Nessuno conosceva il suo passato, forse Sharon era l’unica che se ne interessasse.

«Sharon!»

«Eh?»

«Vieni sì o no?»

«Arrivo.»

Sharon continuò a guardarsi intorno anche mentre andava in bagno, ma era tutto inutile: non c’era niente. Aprì la porta ed entrò: c’era Nicolas già nella vasca, sotto una marea di schiuma bianca.

«Nicolas!», gridò. «Dovevo andare prima io!»

«Tu non arrivavi più!», sorrise malizioso.

Sharon era rimasta ancora con la mano sul pomello della porta, più nuda che vestita (non era mai stata così nuda con un ragazzo in tutta la sua vita), senza sapere dove guardare.

«Allora?», la invitò ancora.

«Chiudi gli occhi.»

«E dai Sharon!»

«Chiudi gli occhi, se no non entro.»

Nicolas sbuffò e chiuse gli occhi, immergendosi fino al mento dell’acqua, il viso rivolto verso il soffitto.

Sharon si slacciò il reggiseno e lo lasciò cadere a terra, accanto agli slip. Si mise silenziosa nella vasca e si coprì meglio che poté con la schiuma.

«Adesso posso aprire gli occhi?», chiese Nicolas.

«Sì, se mi levi la mano dalla gamba.»

Nicolas rise e fece scorrere la mano sulla gamba di Sharon, sorridendo, nell’acqua calda e profumata.

«Che c’è di così sbagliato?», chiese sottovoce.

«Tutto. Tutto è sbagliato. Non sarei mai dovuta venire. Ti rendi conto che per colpa tua potrei restare chiusa in casa per tutta la vita? E poi… è così assurdo… nemmeno con Derek ho fatto queste cose!» Si ritrovò con le lacrime agli occhi pensando a Derek.

«Non sapeva cosa si perdeva. E se ti ha lasciata, non sa cosa si è perso. Sei una ragazza stupenda, in tutti i sensi.»

«Ti prego, basta», singhiozzò.

Nicolas aprì gli occhi e guardò le lacrime che tracciavano il viso chiaro di Sharon, contornato dai capelli neri e lunghi che ne accentuavano la bellezza.

«Sharon…», le prese il viso fra le mani e la appoggiò alla sua spalla, raccogliendo le sue lacrime su di sé. La strinse al suo petto, senza badare ai suoi singhiozzi soffocati. «Sharon, non piangere. Non sei tu che ne devi soffrire.»

«Che ne sai tu?»

«Se vuoi, puoi spiegarmi com’è andata.»

«Perché dovrei? Tu non mi racconti mai nulla di te.»

Nicolas chiuse gli occhi e serrò la mascella, lei lo sentì sulla sua spalla. Era rigido, come se quelle parole l’avessero pietrificato.

«Forse proprio perché tento di dimenticare il mio passato.»

Afferrò un asciugamano e uscì dalla vasca, chiudendosi la porta alle spalle. Sharon rimase da sola in bagno, non sentiva nemmeno che faceva in camera. Era stata una bambina, una vera bambina.

«Nicolas!», gridò.

«Che c’è?», disse piano aprendo la porta: nel suo viso si leggeva solo tristezza. Aveva dei pantaloni di una tuta e il petto chiaro nudo, mostrando i muscoli definiti sull’addome.

«L’asciugamano è lì. Se vuoi infilati quella», le indicò una camicia azzurra sul mobile. Sharon scosse la testa. «Allora cosa c’è? Parla.»

Sharon gli fece segno di avvicinarsi con la mano, aveva ancora le lacrime agli occhi. Nicolas andò da lei, si inginocchiò accanto alla vasca da bagno e la guardò negli occhi.

«Mi dispiace tanto, non volevo ferirti», mormorò Sharon.

Nicolas fece un piccolo sorriso e le sistemò i capelli dietro le orecchie. «Non hai nessuna colpa tu, sono io che non dovevo reagire in quel modo. Davvero, non importa. Hai capito?»

Sharon annuì abbassando lo sguardo e poi lo alzò lasciandosi baciare. Era davvero dolce: anche se aveva dei segreti dolorosi, se li teneva dentro per non far soffrire gli altri. 

Quando Nicolas uscì di nuovo, lei uscì dall’acqua e si avvolse nell’asciugamano. Si guardò allo specchio, si sistemò i capelli che non si erano bagnati poi tanto, poi si rivestì in fretta, coprendosi anche con la camicia che le aveva indicato Nicolas. Le era grandissima, ma aveva un buon profumo, e poi le piaceva.

Uscì dal bagno e vide Nicolas sdraiato sul letto, occhi al soffitto e mani sul petto.

«Ehi», disse piano Sharon raggiungendolo sul letto a gattoni.

«Ehi», le accarezzò i capelli baciandola appena.

Lei si mise sdraiata al suo fianco e intrecciò la mano alla sua. Era strano ciò che provava, ma di certo sapeva meglio che teneva a lui. Non sapeva se era amore, ma qualcosa di molto simile.

Rimasero in silenzio, tutti e due ascoltavano il respiro dell’altro, pensando a due cose totalmente differenti.

«Io sono scappato di casa», disse ad un certo punto lui, mettendo un braccio attorno a Sharon, stringendola a sé.

«Perché?», chiese Sharon, ma aveva paura di scatenare in lui una reazione come quella precedente.

«La mia era una famiglia perfetta, troppo perfetta. I miei genitori volevano tutto al suo posto, vivevano di una felicità finta. Stavano assieme per abitudine, più che per amore, ma a loro andava bene così, perché così doveva essere, perché in una famiglia felice doveva essere così. Io non ero fatto per quella vita. Mi hanno sempre dato tutto, ma non capivano che io avevo anche altri interessi oltre alla chiesa e la scuola; non capivano che avevo altri sogni: non volevo diventare un avvocato, o un dottore; non capivano quali erano i miei veri bisogni. Così ho preso e me ne sono andato, ho cambiato vita. Questa è la vita che ho sempre voluto: sono libero.»

«A volte non mi sembri così felice, però.»

«A volte mi chiedo se ho fatto bene ad abbandonarli così, se sono in pensiero per me, ma… davvero, io non ero fatto per stare lì con loro. Dev’esserci stato qualche sbaglio, qualche scambio di neonati», sorrise.

Sharon ricambiò: le faceva piacere vederlo sereno, aveva abbandonato quella maschera di tristezza che lo rendeva anche meno affascinante, nonostante fosse bellissimo in entrambi gli stati d’animo. Si appoggiò con la testa alla sua spalla, le labbra che sfioravano il suo collo.

«E, dimmi una cosa», sussurrò sorridente. «Io ero uno dei tuoi sogni?»

Dopotutto, non era lei che doveva soffrire per Derek, Nicolas aveva perfettamente ragione: non doveva soffrire per uno così, che si era perso il meglio. E, a dirla tutta, stando con lui, il dolore causato dall’ex arrivava leggero, come sotto dosi elevate di morfina.

«Innamorarmi della persona che volevo io, certo, era ed è tutt’ora un mio sogno. Spero solo di essermi innamorato di te, perché sei esattamente come la mia ragazza ideale.»

Sharon arrossì e lo baciò delicata sul collo, prima di chiudere gli occhi e lasciarsi andare al sonno che, finalmente, in quella sera silenziosa, tornò.

 

***

 

Nicolas aveva appena compiuto i diciott’anni e in teoria viveva con sua zia, ma in pratica era da solo perché lei abitava nell’appartamento accanto. Era lei che pagava tutto, fin quando lui non si sarebbe trovato un lavoro part-time dopo la scuola, così da guadagnare qualcosa.

Quella notte si era aperto con Sharon, le aveva raccontato cose del suo passato che in pochi sapevano, davvero in pochi. Ma Sharon era diversa, Sharon era speciale, Sharon era Sharon.

«Cavolo Nicolas! Prega solo che non si sia svegliato nessuno! E, guarda! Si mette pure a piovere!»

Sharon, anche se era incline ad incazzarsi spesso e volentieri con lui, era tutto quello che poteva volere. Aveva tutte le carte in regola per diventare il suo grande amore, dal suo punto di vista, in più, cosa più importante, le voleva davvero bene. 

«Non ti preoccupare, rilassati», le accarezzò la guancia e la baciò piano. Le passò il casco e tirò fuori dal piccolo garage la moto.

«Ma se andiamo in moto ci bagneremo tutti!»

Fini gocce di pioggia scendevano dal cielo, posandosi sulla neve già ghiacciata ai bordi delle strade e sugli alberi.

«Sharon, è anche l’unico modo per arrivare in fretta a casa tua! L’hai detto tu che se i tuoi ti scoprono sono guai.»

«Giusto, hai ragione. Ma è tutta colpa tua! Perché non mi hai svegliata prima?!»

«Sai, ieri notte non ho pensato a mettere la sveglia! Comunque potevi pensarci benissimo pure tu.»

Si guardarono negli occhi che erano diventati due fessure e poi risero assieme, salendo in fretta sulla moto.

«Ma non sarà ghiacciata la strada, Niki?»

«Aspetta un secondo. Da quando mi chiami in quel modo?»

«Come, Niki?»

«Esattamente. Sai, ha qualcosa di vagamente femminile.»

«Ma va’! Allora come vuoi che ti chiami?»

«Uhm… semplicemente Nicolas no, eh?»

«No, troppo lungo.»

«Allora Nico.»

«Ok, non mi fa impazzire, ma mi abituerò. Oddio, com’è tardi! Muoviti!»

«Sei tu che ti sei messa a parlare del mio soprannome!»

«Muoviti!»

Nicolas rise e partì sotto la pioggia.

Faceva abbastanza freddo, ma Sharon si teneva aggrappata forte alla schiena di Nicolas e si sentiva protetta. Grazie a ciò riusciva pure a dimenticare il freddo.

Ci avrebbe messo sicuramente di meno se si fosse lasciata accompagnare direttamente al cancello, ma Sharon lo fece fermare all’incrocio, perché il rumore della moto di fronte a casa sua avrebbe incuriosito e per lei non era un bene.

«Ma ci metterai molto di più!»

«È solo per precauzione.»

Sharon si tolse il casco e lo porse a Nicolas, che lo tenne tra le gambe mentre la baciava sotto la pioggia.

«Grazie, anatroccolo», le sussurrò all’orecchio.

«Cosa? Perché mi hai chiamato così?»

«È il tuo soprannome.»

«E proprio anatroccolo doveva essere?»

«Sì, un giorno ti spiegherò perché», sorrise e si infilò il casco.

«Ci vediamo», disse Sharon. «Grazie di tutto.»

Nicolas fece un inversione ad U e si allontanò lasciandosi dietro Sharon, che rimase a guardarlo fin quando non sparì dietro il muro di pioggia e ghiaccio.

Sharon corse verso casa, pensando e ripensando alla serata, bellissima e indimenticabile, anche perché era la prima volta che sentiva quell’adrenalina addosso. Mai con Derek, quando avevano fatto qualche pazzia, si era sentita così felice.

Continuava a sentire su di sé le sue mani, i suoi tocchi delicati che sembravano produrre il suono di un pianoforte: ogni punto che toccava produceva una nota diversa.

Solo ora che ci pensava si era resa conto di quanto era stato in realtà romantico. Si chiese se non fosse stato un caso quello di passare sotto casa sua. Sorrise sperando di no e entrò silenziosamente in casa. Per fortuna non si era svegliato nessuno. Raggiunse camera sua a passo felpato, dove si accorse che si sbagliava: qualcuno era sveglio.

«Ti prego, non dire nulla a mamma e a papà», sussurrò.

Juri sorrise e annuì, Sharon lo ringraziò e si tolse la giacca, la lanciò sul letto e poi si lanciò lei, ovviamente senza fare rumore.

Juri era ancora seduto sul suo letto che la guardava, con le mani unite sulle gambe incrociate. Che strano bambino.

«A proposito, che ci fai già in piedi?», gli chiese in un dormiveglia.

Si sentiva stanchissima, in effetti. Aveva dormito sì e no qualche ora, e in più quella sera ci sarebbe stato un concerto, quindi doveva sfruttare al massimo la mattinata e riposarsi bene.

Aprì un occhio per vedere Juri, ricordandosi che non parlava molto, soprattutto con lei. Aveva detto, in una settimana, un massimo di venti parole.

«Juri, posso chiederti una cosa?» Il bambino annuì muovendo la testa. «Dove sono i tuoi genitori?»

Juri si guardò intorno, poi tornò a guardare Sharon. Disse, con quella sua voce a dir poco celestiale: «Non mi ricordo.»

«Oh.» Si tirò su e si grattò la nuca imbarazzata. «Avrai qualche parente, te ne ricorderai almeno uno.» Juri fece cenno di sì con la testa, ma non proferì parola. «Ma da dove vieni?»

Era più un’affermazione che una domanda vera e propria, in verità. Non si aspettava una risposta, anche perché sapeva che gliel’avevano già fatta in molti quella domanda.

Cadde di nuovo sdraiata sul letto e chiuse gli occhi al soffitto. La stanchezza la stava facendo riaddormentare piacevolmente, quando Juri rispose a quell’affermazione-domanda.

«Dall’Estonia», disse, poi intonò una canzone che di certo non era in tedesco.

«Quindi, i tuoi genitori sono lì?», chiese Sharon riprendendosi.

«Non lo so.»

«Ma quando sfogli i libri, guardi solo le figure, vero?»

Juri prese il libro illustrato che c’era di fianco al suo letto, lo sfogliò, si fermò in un punto e incominciò a leggere: Sharon era senza parole; così piccolo, eppure sapeva già leggere.

Assieme a principi e principesse, regni incantati e draghi, e la voce melodiosa di Juri, Sharon si addormentò come una bambina.

Fu solo per poco però. Infatti, un’ora e mezza dopo, suo padre la chiamò e la fece alzare dal letto contro la sua volontà.

Vide Juri seduto al solito posto di fronte al camino, con un altro libro tra le mani. Sorrise e Juri ricambiò.

Si mise seduta al tavolo della cucina e mescolò il latte caldo che sua madre le aveva messo subito davanti. Guardò me e Tom mentre versava i cereali nella tazza.

«Mi dispiace per ieri sera, comunque», dissi.

«E per cosa? A me sembra che sia andato tutto bene», disse Anto girata verso la credenza.

Tom scoppiò a ridere, io la guardai con una smorfia fra il divertito e l’offeso.

«Mi sono persa qualcosa?», chiese Sharon. Connesse dopo che lei era uscita quella notte, e che non c’era stata. Si morse la lingua sperando che nessuno avesse fatto caso a lei.

«Perché, dov’eri Sharon? Non hai sentito?», ci si mise pure Tom.

«Smettila, idiota!», gli tirai un pugno sul braccio, cercando di trattenere inutilmente le risate.

«Vai mamma, sei la migliore!», gridò Stefan accanto a Sharon.

«Sì, la prossima volta ti do una mano anch’io», si aggiunse Alex sorridendo.

«No, tu hai fatto a botte già troppe volte», dissi scherzando.

Sharon fece un sospiro di sollievo, ma aveva sudato freddo. Non voleva nemmeno immaginare quello che le avrebbe fatto suo padre se avesse scoperto che era uscita di nascosto.

«No, dai, perché ti dispiace?», mi chiese Tom prendendomi il mento tra le dita.

«Perché non era il caso che dicessi quelle cose, in quel momento.»

«Non importa amore», mi baciò sulle labbra.

«A te non importa mai niente, vero Tom? A te basta che lei sia felice. Ti trascuri un po’ troppo», disse Anto sorridendo.

«Uh, che tenero il nostro papà», disse Stefan facendo la voce da bambino.

«Se lei è felice lo sono anch’io, quindi è quello che devo ottenere, non mi trascuro affatto. Se la faccio felice è solo per il mio interesse», sogghignò.

«Dimmi una cosa, Tom. In questi anni, quante volte ti ho detto ce sei un idiota?»

«Tante. Ho perso il conto a duemilatrecentosettanta.»

Scoppiammo tutti a ridere. Nello stesso momento, suonarono al citofono. Tom andò alla finestra e guardò dopo il vialetto.

«Mi sa che ci sono visite per te, Alex», sorrise.

«Chi è?»

«La ragazza che hai salvato, come si chiama? Bea.»

«Bea è solo per gli amici, papà. Tu non puoi chiamarla così.»

Tale e quale a suo padre. Sorrisero e Alex uscì dopo aver raccattato la sua giacca.

«Ciao», la salutò.

«Ciao Alex, come va?»

«Abbastanza bene.»

I lividi sul viso di Alex c’erano ancora, ma non erano più così evidenti, si stava riprendendo bene.

«Cavolo, se ci penso ancora… mi dispiace così tanto.»

«Sì, non riuscirai mai a lasciar perdere», sorrise. «Come mai da queste parti?»

«Volevo dirti che parto.»

«Parti? E dove vai?»

«Dai miei parenti a Monaco. Ci starò una settimana.»

«Bene, divertiti.»

«Non… non ti dispiace nemmeno un po’?»

«Che cosa?»

«Che io… Va bè, lascia perdere.» Bea si girò e fece per andarsene.

«Certo che mi dispiace», ammise Alex. «Solo che non posso tenerti qui con la forza.»

Bea si girò e lo guardò sorridendo. Lo abbracciò e rimase un po’ fra le sue braccia, le braccia che l’avevano salvata quella sera.

«Mi mancherai, Alex.»

«Anche tu, solo che la cosa è un po’ più problematica.»

«Cioè?»

Le accarezzò i capelli sulla nuca e la baciò sulle labbra, con una mano sulla sua schiena.

«Non so cosa provo per te, sono confuso», disse dopo il bacio. «Anche quella volta in ospedale. Non riuscivo a capire se ero felice oppure qualcos’altro.»

«Ancora che pensi a Krista?»

«Penso di sì.»

«Devo ammettere che anche io sono messa come te, ma in qualche modo dovremo pure andare avanti… Non possiamo pensare al passato in eterno. Io ci sto provando. Potremmo provarci assieme.»

«Bea, tu mi piaci, ma ancora… non me la sento, scusami. Non sono ancora pronto ad una cosa seria.»

«Nemmeno io ad una cosa seria», gli accarezzò i capelli neri sulla fronte, sorridendo amara. «Facciamo così: io parto, ci pensiamo e poi quando torno si vedrà. Ok? Non importa se non se ne farà niente.»

«Invece sì che importa», le prese il viso fra le mani e scese sul collo, baciandola ancora sulle labbra, ad occhi chiusi. «Perché io non voglio che tu soffra. Ci tengo a te, solo che non so se sei solo un’amica oppure qualcosa di più, tutto qui.»

«E perché mi continui a baciare, allora?»

«Perché è bello baciarti», disse. «A te non piace? Posso anche…»

Bea gli mise le braccia intorno al collo e lo baciò, facendolo stare zitto. Le sensazioni contrastanti che provavano dentro erano imparagonabili: niente li aveva mai fatti sentire così confusi. Forse era davvero meglio che passassero quella settimana separati per schiarirsi le idee. Tra loro c’era qualcosa: se stavano vicini non potevano rinunciare a baciarsi, ad avere qualsiasi tipo di contatto fisico, anche minimo, come una carezza; quando invece erano lontani pensavano al passato e a quell’amore che li aveva feriti.

«Basta, davvero», disse Bea ridendo. «Giuro che non lo faccio più», si promise. Nemmeno dieci secondi dopo, era bastato uno sguardo, si era ritrovata ancora fra le sue braccia, a mordere dolcemente le sue labbra.

«Ok, basta», disse Alex.

«L’ultimo», supplicò Bea ridendo.

«Ok, l’ultimo», ricambiò Alex.

«Ce l’hai il mio numero? No, forse è meglio se non ci sentiamo.»

«Giusto.»

«Pensiamo e basta, ok?»

«Ok.»

«Ciao Alex.»

«Ciao Bea, fai buon viaggio, divertiti.»

«Grazie. Tu divertiti stasera.»

«Come facevi a sapere che ho un concerto stasera?»

«Una mia amica è una vostra fan, verrà a vedervi.»

«Ah, ok. Dalle questo», tirò fuori dalla tasca un bigliettino da visita della palestra che si era ritrovato nella giacca e lo firmò.

«Grazie, ne sarà entusiasta.»

«Non c’è di che, salutamela quando la vedi.»

«Ok, va bene. Ciao Alex.»

«Ciao.»

Avevano cercato di rimandare il loro arrivederci, ma quella volta Bea andò davvero, non aveva più scuse per restare, e Alex rientrò in casa, dove lo aspettava suo padre che, contro ogni mio rimprovero, aveva guardato tutto dalla finestra.

«Alex, mi piace quella ragazza», disse subito.

«Papà, ti prego.»

«No, davvero!»

«Krista non ti piaceva?», gridò.

Ecco, ecco la prova che quando erano lontani emergeva sempre quel dolore e quel ricordo.

«Sì, ma… credevo…»

«Tu non credevi proprio niente.» Girò i tacchi e si rifugiò in camera sua, sbattendosi la porta alle spalle.

«Papà», disse Stefan unendo le mani. «Perché non te ne stai zitto qualche volta? Senza offesa. Di ragazze non ne dovete nemmeno parlare con lui, non fa altro che piangersi addosso; sta ancora male.»

«Mi dispiace, non volevo.»

«Ve bè, ormai è fatta. Gli passerà. Ma, sbaglio o quello è il già il secondo libro?», indicò Juri che andava a risedersi dopo aver preso il secondo libro.

«Mamma, dov’è papà?», chiese Sharon.

«È andato alla Universal, perché?»

«Ho parlato con Juri, stamattina.»

«Davvero? Che ti ha detto?»

«Abbassa la voce!», sussurrò muovendo la mano.

«Che cosa ti ha detto?», ripeté a bassa voce, mettendosi seduta al suo fianco.

«Non mi ha detto nulla dei suoi genitori; penso che l’abbiano mandato qui da piccolo, che l’abbiano lasciato da qualcuno, non lo so.»

«Che vuol dire?», chiese Tom.

«Sai la domanda: Ma da dove vieni? Quella che gli avete fatto in centomila e lui non ha mai risposto?»

«Sì, e allora?»

«Beh, gliel’ho fatta pure io.»

«E ti ha risposto? Non ci credo.»

«Nemmeno io.»

«E da dove viene?», chiesi e mi sporsi sul tavolo.

«Dall’Estonia.»

«Che cosa? Dall’Estonia? Non ci posso credere.»

«Sì.» Si appoggiò allo schienale della sedia con le mani sullo stomaco. «E non è tutto.»

«Che altro c’è?»

«Mi ha cantato una canzone, ma non ci ho capito niente. Credo sia nella sua lingua. Era pure bella.»

«E basta?»

«No, gli ho chiesto se guarda le figure dei libri oppure se sa leggere.»

«Non dirmi che sa leggere!», disse Stefan.

«Sì», annuì muovendo la testa. «Mi ha letto un paragrafo intero.»

«Assurdo», disse ancora Stefan.

«Già», annuì.

Si alzò e salì di sopra, passando ad accarezzare i capelli di Juri nel tragitto, sorridendogli. Arrivò di fronte alla camera di Stefan ed Alex e sbirciò all’interno, trovando Alex sdraiato sul letto con lo sguardo rivolto al soffitto, meditabondo.

«Ehi», lo salutò alzando la mano.

«Ciao Sharon», fece un lieve sorriso. «Vieni, vieni», diede dei colpetti sul letto, accanto a lui. Sharon lo raggiunse e si mise sdraiata al suo fianco, la testa sul suo petto.

«Come va?», le chiese sfiorandole i capelli. «È un po’ che non parliamo, io e te.»

«Sì, è vero. Va tutto bene, non ti preoccupare.»

«Anche… anche per la storia di Derek è tutto a posto?»

«Beh… Sì.»

«Davvero?», corrugò la fronte, sorpreso.

«Credo di essermi presa una cotta per un altro ragazzo.»

«Da quando? Non me l’hai detto!»

«L’hai detto anche tu che è da un po’ che non parliamo, io e te.»

«Giusto. Chi è? Lo conosco?»

«Ho detto che mi sono presa una cotta, non che ci sto assieme e ci sposeremo!»

«Che c’entra? Io voglio saperlo lo stesso! Sei la mia cuginetta, no?»

«Uff, tanto non lo conosci.»

«Che ne sai tu?»

«Dai Alex, smettila!», gridò, arrossendo. «Tu mi devi raccontare molte cose.»

«A proposito di che?»

«Non so… Chi è Bea? Che c’è fra voi?»

«Bea? È lei che ti preoccupa?», sorrise amaro.

«Non mi preoccupa… volevo solo capire se è solo una ragazza così, per cercare di dimenticare Krista oppure…»

«Come sei delicata», sospirò, ridacchiando. «Non so cosa sia per me. Adesso parte per Monaco e vedremo. Comunque penso che non potrà mai essere come Krista… Mi manca tanto.»

«Lo so Alex, lo so», mormorò abbracciandolo.

«Mi dispiace che abbia lasciato la band per colpa mia.»

«Non ti preoccupare, Alex. Vedrai che tornerà, ne sono certa. Deve tornare.»

«Lei come sta?»

«Sta… sta così», sollevò le spalle, grattandosi la testa. «Non so bene. Ora è meglio se vado a cambiarmi, ci vediamo dopo Alex», lo baciò leggera sulla guancia e si alzò dal letto.

«Ok, a dopo.»

Sharon salì in camera sua, si cambiò e poi si mise seduta sul letto, le mani sul collo, a riflettere su tutto quello che era successo in quei due giorni. Sentiva la testa scoppiarle, così decise di non pensare più a niente, quando il suo cellulare suonò accanto a lei e rispose senza guardare nemmeno chi fosse:

«Pronto?»

«Ciao Sharon.»

«Oh, Krista. Ciao.»

«Come… come stai?»

«Bene.»

«Sei tesa per il concerto di stasera?»

«No.» E tu non ci sarai.

«Sharon… mi dispiace tanto, ma… prova a capirmi, a metterti nei miei panni!»

«In questo momento non ce la faccio, scusa. Tu come stai?»

«Così. Che mi racconti?»

«Nulla di che...», si alzò, si chiuse nella sua camera oscura e si mise seduta per terra, le spalle alla porta, per parlare più liberamente. «Stasera sono uscita di nascosto.»

«Davvero? E dove sei andata?»

«A casa di Nicolas.»

«Quel Nicolas?»

«Esatto, quel Nicolas.»

«E che cosa è successo? Devi raccontarmi tutto!»

«Adesso non posso, te lo spiegherò a scuola con calma.»

«Nah! Mi fai stare sulle spine così! Vabbè, allora ci vediamo a scuola!»

«Sì, certo. Ciao Krista.»

«Ciao Sharon. Buona fortuna per stasera. Ti voglio bene.»

Chiuse la chiamata sospirando, scuotendo la testa, e scese di nuovo in salotto, dove si mise seduta sul divano, a guardare un po’ di tv tanto per passare il tempo.

Suonarono al campanello e nessuno andò ad aprire, così si dovette alzare lei. Si trascinò alla porta, ma appena vide chi c’era dietro di essa la chiuse di colpo e ci si appoggiò con il cuore in gola.

«Sharon, chi era?», le chiese sua madre dalla cucina.

«Il postino.» Faceva pure fatica a parlare.

«Il postino? Ma se è venuto due ore fa.»

«Boh, avrà dimenticato qualcosa.»

«Mah.»

Sharon si girò lentamente e aprì di un poco la porta, quel che bastava per guardare. Non si era sbagliata, era proprio lui!

«C’era il cancello aperto», le sussurrò.

«Che cazzo ci fai qui?!», gridò sottovoce.

«Mi mancavi», alzò le spalle.

«Direi che sei dolcissimo, ma se ti vedono qui sei fritto. Sai, mio padre non è proprio uno che se ne frega di chi sta con me. Anzi, se fosse per lui, deciderebbe lui chi devo sposare.»

«Come i miei», disse fra i denti. «Sharon, fregatene.»

«Ma è mio padre!»

«Non puoi non stare con la persona che ami solo perché tuo padre non vuole!»

«Tu mi ami?», chiese strabuzzando gli occhi.

«Potremmo parlarne dentro? Fa un certo freddo, sono stato in giro con la moto fino ad adesso.»

«Perché sei scemo. Dai, muoviti. Mio padre non c’è adesso, sei fortunato.»

Lo fece entrare e senza farsi beccare da sua madre in cucina, salirono mano nella mano in camera sua. Ovviamente, fece attenzione a non farsi scoprire anche da tutti gli altri. Forse l’unico che l’aveva visto era stato Juri, ma era così preso da quel libro che ne dubitava. E poi non avrebbe detto nulla a nessuno.

«Ok, adesso mi spieghi che ci fai qui?»

«Hai una casa grandissima», disse guardandosi intorno nella camera di Sharon.

Strano come in due giorni tutti e due erano stati nella casa dell’altro. Con Derek, Sharon ci aveva messo un mese.

«Non deviare l’argomento! Che ci fai qui?»

«Te l’ho già detto! Senti, non sono bravo con le parole, non sono né un poeta né so fare il romantico: accetta le semplici parole, ok? Mi mancavi.»

«Oh. E prima, quando hai detto… mi ami?»

«Questo non lo so, è presto per dirlo. Però sento che c’è qualcosa verso di te.»

«Se io dovessi partire, adesso, e non tornare mai più?»

«Che cosa?! No, non puoi!»

«Ok, c’è qualcosa verso di me», confermò Sharon.

«Ma parti davvero?»

«Ma stai scherzando? Certo che no!»

«Ah, menomale», le sorrise. Si avvicinò a lei e la baciò sulle labbra, prendendole le mani. «So che forse mi dirai che non sei pronta, ma voglio chiedertelo lo stesso. Sharon, vuoi stare con me?», le sussurrò a pochi centimetri dal suo viso, guardandola dritta negli occhi.

Sharon infilò le dita fra i suoi capelli e sorrise appoggiando la fronte alla sua: «Lo sai che non sono pronta.»

«Di cosa hai paura?», la strinse tenendola per la schiena.

«Di innamorarmi per davvero e di essere scaricata con una cazzo di lettera.»

«Se posso dirlo, Derek è un coglione.»

«Sì, lo penso pure io.»

«Allora stai con me, ti prego.»

«Non ci posso nemmeno pensare?»

«Che senso ha? Se mi vuoi ora, mi vorrai anche dopo, no?»

«Ma se non ti voglio ora, pensandoci, potrei cambiare idea.»

«Carpe Diem.»

«Cogli l’attimo? È il motto di mio zio.»

«Tuo zio la pensa come me. Ha incontrato la persona giusta?»

«Direi di sì. Stanno insieme da quando avevano quindici e diciannove anni.»

«Quasi come noi. E lui l’ha colto l’attimo?»

«Direi che l’ha colto più mia zia: ci è andata a letto la sera stessa dopo averlo conosciuto.»

«Mi sa proprio di sì allora. Io non ti chiedo di venire a letto con me. Oddio, magari, però…»

Sharon rise sottovoce. «Però?»

«Però quello che conta è sapere che tu sei mia.»

«Nicolas, tutto questo mi imbarazza.»

«Stare nuda di fronte a me no?»

«Non contando quello, ovviamente.»

«Devo confessarti che mi sono stupito di me: non ti ho guardata veramente. Questa è la prova di quanto ti voglio bene. Sharon, ti prego», la baciò sulle labbra piegando la testa a sinistra.

«Nicolas, ti prego pure io.»

«Sharon, ma non hai notato che non ho detto che ti amo? Anch’io sono incerto su quello che provo per te, ma io voglio provarci. So che tu ne vali la pena.»

«Il mio problema è che non mi fido più di voi maschi.»

«Non è che arriva un deficiente e devi generalizzare. Io non sono come lui, posso giurarlo.»

«Come faccio a fidarmi? Ho paura.»

«Sharon, affronta la paura. O non andrai da nessuna parte, te lo garantisco.»

Sharon lo guardò negli occhi e sorrise con gli occhi lucidi.

«Quindi?», chiese Nicolas sfiorando le labbra di lei.

«Quindi, ci proviamo. Nicolas, non farmi del male, ti prego. Me lo prometti?»

«Te lo prometto, Sharon.»

Lo spinse sul letto e lo baciò stando sopra di lui, accarezzandogli i capelli biondo platino. La sensazione delle sue mani non se l’era inventata, era vera: ogni tocco, ogni volta che le sfiorava la pelle, c’era una nota diversa nella mente di Sharon. Aveva sempre creduto che l’amore e la musica fossero uniti nella sua percezione di vedere le cose, ma non credeva fino a quel punto!

Era una melodia dolce, serena, senza punti oscuri, era limpida e semplicemente felice. Quando stava con Derek non aveva mai sentito nessuna melodia nella testa. Tutte quelle piccole cose, definivano le differenze tra lui e Derek.

Nicolas non aveva tutti i torti: doveva affrontare le sue paure, in qualche modo. Facendosi male, bruciandosi, ma vivendo e senza fare gli stessi errori possibilmente.

«Sharon! Hai dimenticato… Oh.»

«Mamma!», gridò Sharon alzandosi subito da lui. Guardò prima Nicolas e poi sua madre, poi ancora Nicolas e sua madre.

«Piacere, sono Nicolas», si presentò lui sorridendo e alzando la mano.

«Piacere, io sono la mamma di Sharon.»

«Vi assomigliate.»

«Che cosa c’è?», chiese Sharon cercando di liberarsi da quella situazione imbarazzante. Sua madre aveva già conosciuto Nicolas: loro due assieme erano due fulmini!

«Niente, hai dimenticato il plettro nei jeans che hai messo a lavare.»

«Oddio, eccolo dov’era! Grazie mamma.»

«Prego.» Si avvicinò alla figlia e le sussurrò all’orecchio: «Veramente carino. Ah, sta tornando tuo padre, dovresti sbrigarti.»

«Davvero? Grazie mamma, non so come farei senza di te. Nicolas, te ne devi andare, sta ritornando mio padre.»

«Ok», sospirò. «Arrivederci, è stato un piacere conoscerla», la salutò lui.

Sharon lo accompagnò di sotto mano nella mano e quando furono di fronte alla porta, questa si aprì e per poco non arrivò in faccia a Sharon. Entrò suo padre, quello che aveva cercato in tutti i modi di evitare. O erano due sfortunati da morire, oppure quello era segno che insieme non sarebbero mai andati da nessuna parte.

«Papà!», gridò strozzata Sharon.

«Sharon?», guardò sia lei che il ragazzo alle sue spalle. «Sharon, chi è?»

«Chi, lui?», indicò dietro di sé.

«Sì, lui.» Chiuse la porta e non si tolse neppure la giacca, era troppo impegnato a lanciare occhiate fulminanti a Nicolas.

«È… è…»

«Sono il suo ragazzo, piacere», porse la mano.

Bill la guardò e poi guardò la figlia. «Non me l’avevi detto.»

«Stiamo insieme da poco», la difese Nicolas.

«Sto parlando con mia figlia, non con te. Allora, mi spieghi cos’è sta storia? Da quando tu porti i ragazzi a casa così, senza dire niente a nessuno?»

«Sono venuto io.»

«Sto parlando con lei!»

Ero sul divano con Tom e Stefan, che guardavamo la scena senza fiatare. Pure Alex era uscito da camera sua richiamato dalle urla di Bill, e guardava dalla scalinata.

Cavolo, il ragazzo che teneva Sharon per mano era stupendo, senza più e senza meno.  

«Non c’è bisogno di urlare», disse Nicolas.

«Io urlo quanto voglio, ok? È casa mia.»

«Bill, vieni qui», lo chiamò Anto, ma fu tutto inutile, non la sentì neppure.

«Papà, te l’avrei detto», cercò di difendersi Sharon, ma niente e nessuno sembrava capace di fermarlo.

«Quando? Sarei stato l’ultimo, come sempre!»

«Se fa sempre queste scenate, ci credo», disse Nicolas con lo sguardo al cielo.

«Scusa?», si rivolse a lui per la prima vera volta.

«Ho detto che se lei fa sempre queste scenate, ci credo che è sempre l’ultimo a sapere.»

«Nicolas!», gridò Sharon a bassa voce, girandosi verso il ragazzo.

«Ma come ti permetti?», disse Bill rosso di rabbia.

«Dico solo quello che penso: la libertà di pensiero è un diritto. Sharon, devo andare, si è fatto tardi. Vieni con me?», le chiese sorridendo, come se non fosse successo proprio niente. Sharon guardò di sfuggita Bill e chiuse gli occhi.

«Se ci provi…», disse Bill tra i denti.

«Se ci prova che fa?», ribatté Nicolas.

«Allora, mettiamo in chiaro una cosa: non fare l’arrogante con me, io sono più grande di te e devi portare rispetto.»

«Mi pare di averle sempre dato del lei.»

Quel ragazzo ci sapeva fare a dare sui nervi; in più Bill non era uno che sopportava molto, soprattutto quando si trattava di Sharon e ragazzi.

«Sharon, guardami», la prese per le spalle e inchiodò gli occhi nei suoi. «Chi scegli tra me e lui?»

«Bill, non puoi!», gridai.

«Stai zitta Ary, ci manca solo che ti ci metti pure tu. Allora Sharon?»

Si trovò in mezzo a lui e a Nicolas. Come poteva scegliere? Con che criteri? Erano importanti tutti e due, non poteva scegliere. Pensò alle parole di Nicolas: «Non puoi non stare con la persona che ami solo perché tuo padre non vuole!» Poi si ricordò della sua promessa, così, sperando che la mantenesse e che capisse, si avvicinò di un passo a suo padre. Due passi, tre, fino a prendergli il braccio.

Bill sorrise soddisfatto, e per la prima volta, lo detestai veramente.

Nicolas nascose un sorriso che in realtà voleva essere una risata verso quel comportamento infantile e poi guardò Sharon. Si guardarono e Nicolas le accarezzò la guancia, poi uscì in silenzio, senza guardare nessuno.

Sharon avrebbe voluto gridargli: «Ricordati la promessa!», ma le parole le si strozzarono in gola quando Bill chiuse la porta. Rimase a guardare il bianco della porta, senza fiato.

«Bill, ma sei impazzito?», dissi.

«No, è tutto a posto. Ora.»

«Bill, tu hai sbagliato tutto. Non hai capito proprio niente.»

«Cosa?»

«Per prima cosa, non ti permettere mai più di dirle Stai zitta in quel modo», intervenne Tom.

«No, Tom, fammi finire. Tu hai sbagliato tutto. Come hai potuto pensare di farle scegliere tra te e lui?», gli chiesi.

«L’ho fatto, quindi ho potuto. Ary, tu cosa avresti fatto?!»

«Nulla, proprio nulla.»

«Dai, ti prego! Sharon ha fatto la scelta giusta, ha scelto me invece di quel ragazzino maleducato.»

«Non era quello il modo!»

«Tu chi avresti scelto?!»

«Vuoi smetterla di usare quel modo?! Non dovevi chiedergli di scegliere, è impossibile!»

«Invece sì! È talmente ovvio, doveva scegliere me! Mettiamo caso, tu chi avresti scelto, coraggio!»

«Per me era una cosa diversa! Se ci fosse stato mio padre e Tom, avrei scelto Tom senza nemmeno pensarci! E l’avrei rifatto mille e mille altre volte ancora! E sai perché? Perché un padre non lo perdi, mai! Invece un ragazzo, un ragazzo forse sì. Questo tu non l’hai mai capito! Sharon ti vuole bene, come è giusto che sia, mai nessun ragazzo potrà portartela via, ma tu continui ad insistere e ad essere superprotettivo quando non serve! È grande, devi lasciarla scegliere, non puoi decidere tu della sua vita!»

«Ary, si tratta di mia figlia! Io faccio quello che credo meglio per lei! Tu farai come ti pare con Stefan e Alex! Io non ti ho mai giudicata!»

Mi alzai e gli andai di fronte, profondamente colpita dal suo atteggiamento: non me lo sarei mai immaginato! «Un’altra cosa che tu non hai mai capito è che non ci sei solo tu, non è solo figlia tua, ok? C’è anche Anto. E ha un parere come ce l’hai tu. E poi, forse, dico forse, quello che credi è sbagliato

«Ma che cos’hai, Ary? E menomale che sei la mia migliore amica.»

Sharon si girò e ci guardò, impietrita e con il cuore le batteva furiosamente nel petto. Stava facendo litigare me e suo padre, da sempre legatissimi… Non sapeva che si sbagliava, che non era a causa sua.

«Per quale motivo credi che ti stia dicendo tutto questo?! Proprio perché sono la tua migliore amica!», ribattei.

«Non mi pare un comportamento da migliore amica. E adesso basta.» Si diresse verso le scale.

«Sì, continua a tenere gli occhi chiusi. Continua a non accettare il fatto che a volte sbagli, come tutti. Tutto questo, un giorno, ti ricadrà addosso e poi verrai a piangere da me.»

«Non penso proprio. Non più. Andrò a piangere da qualcun altro, se dovrò.»

Mi lasciò a bocca aperta. Immediatamente pensai alle mie parole e mi presi parte della colpa, forse un po’ avevo esagerato, ma pensavo sul serio che stesse sbagliando. Guardai Tom, anche lui era mezzo sconvolto, e mi accorsi che stava ancora guardava verso le scale, come se ci fosse la scia di Bill.

«Cos’ho combinato», disse Sharon con gli occhi gonfi di lacrime, per diversi motivi, ma tutti validi.

Corse in camera sua in lacrime e si tuffò sul letto a piangere. Prese il cellulare e chiamò Nicolas, ma non le rispose.

 

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Utopy : Anche a me piace un sacchissimo Jurii *-*
Alex e Bea sono una coppia orribile, ma mi serviva la terza xD Krista e Mini Kaulitz together, claro u.u
Grazie Mond, ti voglio tantissimo bene anch’io. Tua, Sonne.

Tokietta86 : Sì, sono certa che il dolore per la perdita di Davide non finirà mai, ma c’è un motivo se Juri ha detto ad Ary che gli ricorda qualcuno… Lo scopriremo solo vivendo ;)
Bea è fatta apposta per essere odiata sìì xD Chssà se Alex tornerà con la nostra batterista… (Anche io faccio il tifo per loro!)
Grazie mille, alla prossima! Baci.

 

_Pulse_

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Capitolo 18
*** My melody ***


I love you too much
It shows
All my emotions go
Out of control
Good for you bad for me
When I can hardly see
From the tears that flow

(Breathe slow – Alesha Dixon)


Capitolo 11
My melody

 

«Pronti?»

«Pronti, ma dov’è Sharon?»

«Vado a vedere io», disse Anto lasciandomi il braccio.

Si diresse verso il camerino e bussò, nessuno le rispose, ma entrò comunque. Vide Sharon passarsi una mano fra i capelli, seduta di fronte allo specchio, con le tracce che avrebbero suonato quella sera di fronte a quindicimila persone.

«Tesoro», la prese dietro le spalle e la baciò sul capo. «Ti stanno aspettando tutti.»

«Non credo di essere pronta.»

«Che cosa c’è che non va?»

«Tutto non va, tutto», si tenne la testa fra le mani.

«Non dire così. Ary e papà hanno fatto pace, lo sai?»

«Ci sono andati giù pesante oggi, tutto per colpa mia.»

«Non lo pensare nemmeno, non è colpa tua.»

«Per favore mamma, è vero.»

«Sei cocciuta. Va bè.»

«Hanno fatto pace, però?»

«Però… tuo papà non smetterà di controllarti giorno e notte. Ary ha cercato di dirglielo in tutti i modi, ma sai com’è.»

«Capito. Mamma?»

«Dimmi.»

«Che cosa vuol dire se un ragazzo ti chiama anatroccolo

Sorrise, Sharon la vide nello specchio: «Gli anatroccoli sono destinati a diventare dei cigni bellissimi. Non importa come siano fuori, se soffrono, è il loro destino.»

«Oh.»

«Te l’ha detto lui? Nicolas?»

Annuì e appoggiò il viso al grembo della madre, stringendola mentre calde lacrime le tracciavano il viso.

«Ti manca?»

«Tanto.»

Solo in quella situazione si era resa conto di quanto gli volesse bene in realtà, la ferita che sentiva era dieci volte più forte di quella provocata da Derek.

«Forza Sharon, devi essere forte. Non puoi deludere tutta la gente che è venuta qui per voi stasera. Vai lì fuori e falli divertire.» Le asciugò le lacrime e le sorrise baciandola sulla fronte.

Sharon uscì dal camerino poco dopo, dopo essersi sfogata un po’ senza Anto. Si sistemò gli auricolari a bordo palco e guardò le luci soffuse in alto. La folla gridava e acclamava i quattro, anzi i tre. Senza Krista era tutta un’altra cosa.

In quel periodo andava tutto male, non se lo spiegava.

La batteria l’avrebbe suonata un altro, quella sera, uno che conoscevano appena. In più, suo padre non le rivolgeva la parola. Era lì, ma non era lì.

Chiuse gli occhi alle lacrime e fece due respiri profondi. Se si concentrava riusciva ad escludere tutto il rumore, tutta la tensione del concerto, anche il dolore se proprio si impegnava, ma quella melodia, quella dei tocchi di Nicolas… quella no. Suonava chiara e limpida, impossibile da cancellare.

Si sentì stringere e si lasciò andare a quella presa forte.

«Stendili tutti», le sussurrò all’orecchio.

«Non lo sostituirai mai, non ci assomigli per niente.»

«Forse», ridacchiò Tom. «Non sei la prima che lo dice. Ma su una cosa siamo uguali.»

«Che cosa?»

«Ti vogliamo bene tutti e due. Anzi, credo che lui ti voglia più bene di me.»

«E allora perché si comporta così?»

«È facile: lui vuole sempre averla vinta. È stupido, ma è così.»

«Devo andare», si liberò e salì sul palco.

Stare di fronte a così tanta gente a cantare e a suonare, all’inizio la spaventava. Era sempre stato un po’ così, ma quella sera non aveva spazio a sufficienza per pensare anche alla paura dell’esibizione. Semplicemente diede il massimo, come mai aveva fatto, per distrarsi da tutto. Le riuscì in parte, perché quando le luci si abbassarono tutte le preoccupazioni e i dolori le ricaddero addosso, tutti insieme e troppo velocemente per riuscire a sopportarli.

Si tolse il basso dal collo e lo lasciò ad un tecnico, salì di nuovo sul palco, sorprendendo tutti, e si mise dietro al pianoforte. Non ce la faceva più, doveva liberarsi di quella maledetta melodia. Era stupenda, ma la faceva stare troppo male.

«E adesso cosa fa?», chiese Stefan.

«Boh.»

Sharon levò il microfono dal bocca per dare spazio solo alle note armoniose di quella canzone. Poteva considerarsi drammaticamente la loro. Posò le mani sulla tastiera e iniziò a suonare. Non l’aveva mai provata, era come se qualcosa le dicesse le note, come se avesse lo spartito stampato in fronte.

«Ma sta piangendo», sussurrò Alex.

Sharon non fece caso alle lacrime, continuò a seguire quello spartito trasparente e a suonare, lasciandosi guidare dal cuore. Era sia per Nicolas che per suo padre. Le due persone più importanti per lei in quel momento, con le quali si erano creati dei problemi.

Nella sala c’era un silenzio malinconico, quasi un quarto delle quindicimila persone presenti si era unito a Sharon nel suo pianto silenzioso, alla tristezza. Non volevano rovinare quel momento, anche se era estremamente doloroso vedere quella ragazza che suonava e piangeva.

Sharon alzò lo sguardo e vide sua madre e suo padre, dietro le quinte, assieme a tutti gli altri, che parlavano sottovoce e lui scuoteva la testa, gli occhi chiusi. Anto la indicò senza farci caso e rimase in silenzio ad ascoltare Bill che diceva qualcosa. Sharon non poteva sentire, ma vedeva benissimo, e tutto quello che faceva suo padre era una fitta al suo cuore già a brandelli.

Si morse il labbro con forza perché la melodia si era infranta, senza trovare una fine adeguata a quella bellezza strana. Sbattè i pugni sui tasti stonando violentemente e attirando l’attenzione di tutti. Anche suo padre la guardò, ma non riconosceva quello sguardo.

Si alzò e guardò il pubblico. Camminò sulla passerella e saltò giù dal palco, corse all’uscita passando attraverso le urla che si intensificavano e le mani che si sporgevano per sfiorarla, abbattendo anche i muri dei body guard. Continuava a piangere, tutto quello che aveva intorno non le interessava più, era come se non ci fosse.

 

***

 

«Ma dov’è andata finire?! Se solo non fossi stato così stupido! È tutta colpa mia!»

Ero convinta che prima o poi, passando, avrebbe tirato qualche testata al muro.

Anto era seduta sul divano, con la testa sulla mia spalla, vuota, era come se le avessero strappato una parte di lei dentro.

«La troveremo, vedrai», dissi accarezzandole i capelli.

Erano passate due ore, era ormai notte fonda, ma di Sharon nessuna traccia. Eravamo tutti preoccupatissimi, solo che c’era chi non capiva ciò che succedeva, come Sarah e Juri, chi manteneva la calma, come me e Tom, chi era in uno stato di preoccupazione diciamo normale, come Alex e Stefan, e chi si disperava, come Anto e Bill. Preoccupazioni diverse, ma sempre preoccupazioni.

«Non è che magari è andata da Krista?», disse Alex prendendo subito il cellulare con lo sguardo di chi aveva fatto una scoperta geniale.

Aveva ancora il suo numero salvato nelle chiamate, non ci mise molto a recuperarlo. Ma appena connesse che si erano lasciati, che l’aveva tradita, e tutte le altre cose, si trovò a tremare.

«Pronto?», disse Krista.

«Ciao, Krista. Sono Alex.»

«Sì, lo so. Ciao. Che cosa c’è?»

Avevano voci sofferenti entrambi, aghi invisibili trafiggevano i loro cuori.

«Sharon è da te?»

«Cosa? No, perché?»

«Perché è sparita, non riusciamo a trovarla da nessuna parte. Tu sai dove potrebbe essere andata? Qualsiasi cosa, ti prego Krista.»

«Oddio, sparita?! Merda. Ci sono tantissimi posti dove potrebbe essere, Amburgo è grande!»

«Un luogo particolare in cui magari vi incontravate, qualcosa che magari ti ha detto… niente?»

«Secondo me è andata da Nicolas», dissi alzando le mani.

«Nicolas! Io lo sapevo! C’è sempre di mezzo lui!», gridò Bill stringendo i pugni.

«Bill, non ricominciare, ti prego!», gridò Anto risvegliandosi da quel coma. Avrebbe fatto di tutto per Sharon, pure litigare con il suo amore.

«Ehi, Krista. Tu sai dove abita Nicolas?»

«Nicolas? Che c’entra Nicolas adesso?»

«Pensiamo sia andato da lui. Allora, sai dove abita?»

«Penso che abiti in periferia… ma l’indirizzo preciso non lo so. Alex, posso venire a cercarla con voi?»

«Certo che sì! Ci servirà più aiuto possibile. Grazie Krista.»

«Di niente, ci vediamo lì tra poco.»

Alex guardò il cellulare con una nuova gioia scaturita dal più profondo del cuore. Poi, il ricordo di Bea, gli fece mettere le mani sulla faccia e imprecare.

«Alex!», lo rimproverai. «C’è Sarah!»

«Che situazione di…» Lo guardai torva. «Cacca. Che situazione di cacca!»

«Sharon mi odierà, ma è per il suo bene», Anto si alzò e corse di sopra. Tornò giù con il diario di Sharon fra le mani.

Si mise seduta accanto a me e lo aprì: l’ultima pagina scritta era del giorno prima.

 

Caro diario,

queste sono cose che non dovrei scrivere nemmeno qui. Succederebbe un casino se, per caso, mio padre, curioso ed ossessivo come nessun altro al mondo per proteggere la sua “piccolina”, che comunque vorrebbe tanto dirgli che è abbastanza grande da riuscire a badare a se stessa, le leggesse. Correrò questo rischio e mi fiderò di lui.

Questa notte sono stata da Nicolas…  

 

«No, non può essere!», gridò Bill, così forte che lo sentirono pure nella casa accanto.

«Bill, stai zitto, ok?!», gridò di rimando Anto, con le lacrime agli occhi.

 

È stato stranissimo! Non mi ero mai sentita così bene dopo che io e Derek… va bè, quella roba lì. Mi sono sentita desiderata davvero, dopo tanto tempo. Nicolas voleva fare l’amore con me, ma io gli ho detto di no. Ahahah. Pensandoci bene, sono stata una stupida. Però avevo paura! Cose da femmine.

Non mi aspettavo che Nicolas fosse così… Così tutta una sorpresa. È stato tenero, dolce… Sono stata veramente bene. Certo, abbiamo litigato quasi tutto il tempo, però mentre eravamo a fare il bagno (Ah, è stato bravissimo perché ha mantenuto la promessa e non mi ha guardata mentre mi spogliavo…) mi è venuto in mente ancora lui, Derek. Ma si può essere così stupidi?! Ero con un ragazzo bellissimo, che mi trattava come una specie di principessa senza gioielli, e io che facevo? Pensavo a Derek. Va bè. Comunque lui mi ha detto che dovevo dimenticarlo (cosa che mi dicono tutti) e che non dovevo starci male io. Io gli ho risposto male, gli ho detto: “Perché dovrei? Tu non mi racconti nulla di te.” Se l’è presa, gli ho aperto una ferita. Se ne è andato e mi ha lasciata da sola nella vasca. Poi mi ha raccontato cos’è successo, mi ha svelato il suo segreto: è scappato di casa. La sua era una famiglia troppo perfetta, diceva. A lui non piaceva, non era il posto per lui. Si è creato la vita che ha sempre voluto. E voleva me nella sua vita. Mi sono sentita lusingata, ma non sapevo se fidarmi, visto i precedenti episodi. Ha detto che avrebbe voluto innamorarsi della ragazza che voleva lui, non una decisa dai suoi. Sì, anch’io vorrei. Non capisco proprio perché papà si ostini a comportarsi in questo modo con me. Sento che ci stiamo allontanando per questo, e mi fa male.

Nicolas ora abita da solo, in un appartamento accanto a sua zia. Se non mi sbaglio dovrebbe essere un paio di isolati dopo il negozio di mamma, in un palazzo giallino. Non ne sono certa perché in moto quello corre come un pazzo, anche se c’è il ghiaccio sulla strada! Va bè, i maschi.

Per concludere, anch’io vorrei avere il coraggio che ha avuto lui, scappare, fuggire via, poi tornare, quando papà sarà cresciuto abbastanza da capirmi. Adesso sembra un ragazzino. Amo la mia famiglia, ma ci sono momenti nei quali vorrei proprio andarmene e vivere la mia vita da sogno.

Sharon   

 

«Bene, se non altro sappiamo dove andare a cercare», dissi alzando le spalle.

Non c’era scritto nulla di così scandaloso infondo, solo la pura verità. Forse era anche per quello che io non avevo mai avuto un diario: avevo paura di scrivere la realtà, di trovarmela scritta di fronte.

«Sì, andiamo.» Anto si alzò e prese la giacca.

Uscimmo, lasciando a casa Sarah e Juri con Stefan, che si era offerto volontario per badare a loro: sapeva che l’avremmo trovata.

«Che cavolo è successo?!», gridò Krista arrivando di corsa da casa sua.

«Sharon è scappata dopo il concerto, adesso andiamo a vedere se è da Nicolas. Spero di sì. Comunque ciao Krista, come stai?»

«Non è proprio il momento adatto per fare dell’amabile conversazione, ok Alex? Ne parleremo un’altra volta di come sto. Adesso cerchiamo Sharon. Possibile che vada sempre a cacciarsi nei guai?!»

Salì in macchina e si ritrovò accanto ad Alex. Cercava di concentrarsi totalmente su Sharon, si ripeteva che doveva trovarla, che per lei sarebbe stata pure nello stesso letto con Alex: anche se ciò avrebbe significato un dolore intenso in mezzo al petto, per lei lo avrebbe fatto.

Tom continuava a fare supposizioni su supposizioni, come un detective incapace però. Poi ebbe la brillante idea di chiedere a me con una semplicità che mi sconvolse.

«Ary, dove potrebbe essere andata Sharon?»

«Che cosa ne so io?»

«Tu sei scappata di casa una volta, dove sei andata?»

Mi portai una mano sulla fronte. «Grazie di avermi ricordato quest’episodio triste della mia vita, grazie.»

«Non l’avrei mai fatto se non fosse per Sharon, dobbiamo trovarla.»

«I miei non si erano poi messi così di impegno come stiamo facendo noi per Sharon per trovarmi», notai pensando ad alta voce. «Ho fatto tutta la notte in pullman, fino ad arrivare in un paesino sperduto, ho fatto l’autostop e poi sono andata a casa dei miei nonni. Sono stati zitti per una settimana, poi hanno detto ai miei che ero lì e loro sono venuti a prendermi.»

«Oddio, non voglio nemmeno pensare alla possibilità che Sharon abbia preso un pullman», disse Bill con le mani nei capelli. Menomale che guidava Tom.

Arrivammo sotto casa di Nicolas e scesero solo Bill e Anto. Salirono in fretta le scale e a suonare al campanello, ininterrottamente per un minuto, fu Bill. Non gli andava per niente di litigare con quel ragazzino, ma doveva farlo per amore di sua figlia.

Nicolas aprì assonnato, in boxer e maglietta. Appena vide Bill strabuzzò gli occhi e tirò un piccolo urlo.

«E lei che ci fa qui a quest’ora di notte?!»

«Voglio mia figlia.»

«Perché, l’ha persa?»

«Non ho voglia di scherzare, è qui?»

«Ma cos’è, un incubo?»

«No, non è un incubo, ma lo sarà per te se non mi dici dov’è Sharon.»

«Che cosa?! Io non lo so!»

Bill lo prese per il colletto della maglietta e lo guardò fisso negli occhi respirando forte dal naso, come un toro abbastanza arrabbiato.

«Bill, Bill, per favore!», disse Anto separandoli. Nicolas lo guardò pieno d’odio e si sistemò la maglietta.

«Stiamo calmi. Allora, Nicolas», prese la situazione in mano lei. «Ti prego Nicolas, sai dov’è Sharon?»

«La prego io adesso: mi spiegate che cosa sta succedendo?»

«Sharon, è sparita. Ci chiedevamo se era qui da te.»

«Che cosa?», disse in un sussurro, bianco di paura. «Oh porca puttana.»

Entrò velocemente nell’appartamento, si vestì in fretta e uscì senza nemmeno chiudere a chiave.

«Dove avete già guardato?», chiese correndo davanti a loro.

«A casa di una sua amica e qui.»

«Da quanto è sparita?»

«Due ore, circa.»

«Che cosa avete fatto per tutto questo tempo?!»

«Credevamo sarebbe tornata!», ringhiò Bill tenuto da Anto.

«Avete idea di dove possa essere andata?»

«Dopo te, nessuna», disse Anto.

«L’avete chiamata?»

«Certo che l’abbiamo chiamata, che domande! Ha il telefono spento!», gridò Bill.

Nicolas prese la moto dal garage e si infilò il casco. «Ok, io controllo qui in giro, voi controllate dall’altra parte. Se scoprite qualcosa, qualsiasi cosa, chiamatemi.»

«Non è qui, vero?», chiesi appena li vidi tornare con Nicolas e la sua moto.

«No», ringhiò Bill lanciando uno sguardo fulminante a Nicolas che non ci badò nemmeno.

Mise in moto e sgommò sull’asfalto prima di fare un’impennata e correre a tutta velocità per le strade deserte.

«E pensare che Sharon è stata con lui su quella moto! È impazzita!», urlò ancora Bill entrando in macchina.

 

***

 

Girò per una buona mezz’ora, ma non si sarebbe arreso mai. Aveva il cuore che batteva all’impazzata, l’ansia che ogni minuto che passava aumentava. Quando l’avrebbe trovata, perché era certo che l’avrebbe trovata, gliel’avrebbe fatta vedere lui. Le avrebbe fatto un discorsetto che nemmeno suo padre sarebbe stato in grado di farle. Non sapeva che paura gli stava facendo provare.

Si strinse forte al pensiero di Sharon che lo abbracciava e che lo baciava nella penombra del suo appartamento, fra le lenzuola candide del suo letto.

Passò per la terza volta di fronte al parco che non era molto distante dall’arena dove avevano suonato quella sera Sharon e il suo gruppo, e avrebbe tirato dritto se non fosse stato proprio quel dettaglio a farlo inchiodare in mezzo alla strada e scendere dalla moto.

Scavalcò la bassa recinzione e raggiunse un piccolo laghetto, di fronte ad un prato d’erba e fiori. Dei cigni bianchi lo attraversavano e lasciavano delle scie sull’acqua, illuminata dalla luna che si rifletteva come su uno specchio facendolo brillare.

«Sharon!»

La vide seduta sull’erba, che lanciava dei sassolini nell’acqua. Anche la sua pelle chiara brillava ai raggi lunari.

Nicolas corse da lei e la abbracciò facendola cadere sdraiata sull’erba, stringendola così forte da farla lamentare.

«Non sai che spavento mi hai fatto prendere!», le disse riempiendola di baci.

«Me l’avevi promesso», mormorò lei ad occhi chiusi.

«Non dovevi soffrire per me, semplicemente. Sharon, hai fatto la scelta giusta a scegliere tuo padre. È sempre tuo padre, appunto. Non devi seguire me solo perché io mi sono comportato così. La tua famiglia è speciale. Non sai com’erano in pensiero per te!»

«Perché non mi hai risposto quando ti ho chiamato?»

«Ho lasciato il cellulare nei jeans che ho messo a lavare, è finito in lavatrice. Devo abituarmi a togliere le cose dalle tasche prima di fare il bucato.» Riuscì a strappare un sorriso a Sharon. Le accarezzò i capelli baciandola sulle labbra, piano. «Ho visto che mi hai chiamato solo quando ha finito la centrifuga.»

«Funziona ancora?», chiese lei sorpresa.

«Certo, il mio cellulare della preistoria non si scassa mai. Per me è un bene, se no dovrei cambiarne uno ogni mese a furia di gettarli in lavatrice!»

Risero e si rotolarono sull’erba, baciandosi. Anche Sharon sorrideva e lo stringeva a sé tenendogli le mani fra i capelli biondo platino.

«Dovremmo avvisare i tuoi che ti ho trovata», mormorò Nicolas tra un bacio e un’altro.

Erano talmente avvinghiati che riuscivano appena a muoversi. Sharon scosse la testa e lo baciò ancora con passione. Non voleva più staccarsi da lui, ne aveva troppa voglia, era l’unica cosa che c’era nei suoi pensieri.

«Dovevo capirlo subito che eri qui», sussurrò lui.

«Perché?»

«È il tuo habitat, anatroccolo mio.»

Sharon sorrise e lo avvicinò di nuovo a sé. «Nicolas, ti amo», sussurrò.

«Anche io, finalmente l’ho capito, posso dirtelo con certezza. Ma ora andiamo a casa», la tirò su e la portò alla moto che per fortuna era ancora lì: non aveva badato a chiuderla con la catena, nemmeno aveva messo il cavalletto, l’aveva lasciata appoggiata alla recinzione. Controllò che non si fosse graffiata e poi salì, passando il casco a Sharon e lasciandosi stringere forte.

Arrivarono all’appartamento di Nicolas e Sharon appena entrò lo attirò a sé e lo fece cadere sul letto, lo spogliò, si spogliò e quella notte, silenziosa come molte altre, esplose di suoni: i loro cuori che rimbombavano nel petto, i loro sospiri, i loro baci, quella melodia, le loro risate, il loro piacere. Il loro amore.

Nessuno li disturbò quella notte, quella notte era la loro notte. Nulla poteva rovinarla, nulla poteva portargliela via.

Quella notte Sharon cambiò, Sharon si innamorò, Sharon capì cosa voleva dire essere legati così tanto ad una persona da desiderare più di ogni altra cosa di farci l’amore. Non sesso, amore.

Nicolas strinse il corpo addormentato di Sharon fra le sue braccia, guardando il debole sole dell’alba brillare sulla sua pelle candida, nascosta solo dal piumone. Rimase ad osservare la curva delle sue labbra, delle sue guance, il taglio dei suoi occhi chiusi, adorandola come una dea in forma umana. L’amava, era vero, non si era mai sbagliato. La sua vita poteva considerarsi perfetta, come l’aveva sempre sognata. Aveva sofferto tanto, ma alla fine aveva ottenuto ciò che voleva, come succedeva sempre nelle fiabe. Quello era il suo lieto fine.

Strinse ancora il suo anatroccolo con amore, pensando a quella notte bellissima che aveva passato con lei, anche se a casa sua tutti la stavano aspettando preoccupati. Magari sua madre aveva pure pianto. Si sentì un po’ in colpa, ma bastò vedere il sorriso e gli occhi verdi svegli e attenti di Sharon per far passare tutto.

«Che stai facendo?», gli chiese.

«Pensavo a te, anche se sei accanto a me.»

Sharon sorrise e chiuse gli occhi riappoggiandosi con la testa al suo petto.

«Tutto ok?», le chiese Nicolas.

Sharon annuì con la testa: fra le sue braccia si sentiva da dio, non si era mai sentita così; le piaceva troppo.

Nicolas rise e la coprì con cura, quando il suo sguardo cadde sul proprio cellulare fra le coperte, come un segno del destino che stava a significare che era arrivato il momento di riportarla a casa.

Ci volle un bel po’ per convincerla, ma ci riuscì, era quello che contava. Era sempre stato bravo a convincere le persone, ma con Sharon era più difficile a causa della sua testardaggine. Era una gara all’ultimo sangue tra lei e suo padre.

Sharon si infilò il casco e tornarono a casa di lei con le luci dell’alba alle spalle.

Di fronte a casa Sharon ebbe un’ondata improvvisa di paura, tanto da non volersi staccare dalla schiena di Nicolas, che dovette scollarsela di dosso con la forza.

«Sharon, sei grande, no?», la prese per le spalle e la guardò negli occhi.

«Sì.»

«E allora non scappare, affronta il problema: è l’unico modo per risolverlo.»

«Hai ragione, ok. Ma tu mi aiuterai, vero?»

«Certo. Sono sempre pronto a far innervosire tuo padre.»

«Dai, perché? Guarda che è una persona stupenda dopo che la conosci.»

«Mi ricorda fin troppo mio padre, fino ad adesso.»

«Fino ad adesso. Vedrai che cambierai idea.» Gli accarezzò il collo e lo baciò alzandosi sulle punte dei piedi.

Attraversarono il vialetto tenendosi per mano, poi Sharon, con un po’ paura, suonò il campanello. Aprì suo padre, quasi subito, come se fosse stato lì accanto per tutta la notte.

«Sharon!», gridò stringendola a sé e baciandole i capelli.

«Ciao papà», mormorò lei con gli occhi lucidi. Abbracciò il padre e lo strinse, nascondendo il viso nel suo petto.

«Non sai quanto mi dispiace… Davvero, Sharon mi hai fatto preoccupare moltissimo, non facevo altro che pensare che fosse colpa mia.»

«No, papà. Cioè… sì, in parte.»

«Allora… mi perdoni?»

Sharon annuì e strinse di più le braccia intorno alle sue, tenendo tra i pugni la sua maglietta.

«Dai, entra. Fa un freddo cane», disse Bill facendola entrare.

Rimase un attimo a guardare Nicolas in silenzio, senza dire niente, mentre sua figlia baciava sua madre ancora addormentata sul divano.

«Grazie», disse schietto.

«Ho fatto solo ciò che era meglio per lei», disse Nicolas alzando le spalle e annuendo, con un sorrisetto soddisfatto sulle labbra.

«Nicolas, vieni!», lo chiamò Sharon. Nicolas sorrise ed entrò, seguito da Bill.

Ci eravamo svegliati più o meno tutti: Krista era inquieta di fianco ad Alex; Stefan aveva in braccio Sarah, che ancora dormiva invece.

«Grazie», disse Anto a Nicolas, stringendo Sharon al suo petto.

«Di niente», disse Nicolas chinando leggermente il capo. Lui e Sharon si scambiarono un sorriso e un’occhiata di intesa.

«Dove l’hai trovata?», chiese Bill.

«Non ci interessa», lo fulminò Anto. «L’importante è che stia bene», le accarezzò i capelli.

«Giusto», concordò Nicolas.

«Sharon, come stai?», chiese Krista.

«Sono contenta che tu sia qui», le disse piano.

«Sì. Adesso devo andare, mamma e papà mi staranno aspettando.»

Si alzò dal divano come se fosse da molto che lo premeditava: non vedeva l’ora di togliersi da quella situazione imbarazzante, voleva solo fuggire via da lui. Non si erano rivolti più di una parola che non fosse inerente a Sharon, e quello la faceva star male, nonostante fosse la prima a non volerci più avere nulla a che fare. La ferita bruciava ancora dentro lei.

Sharon si alzò e la raggiunse trascinando i piedi sul pavimento, lottando contro la stanchezza.

«Ti prego Krista, aspetta», la fermò prendendola per un braccio e la guardò negli occhi supplichevole. Krista la spinse in cucina, verso di sé, quasi non se la trovò in braccio.

«Ti rendi conto di quello che mi hai fatto passare?», le gridò a bassa voce.

«Non volevo», disse Sharon.

«Io non avevo nessuna intenzione di rivederlo.»

«È impossibile che tu non lo riveda mai più, è mio cugino!»

Krista si morse il labbro nervosamente, stringendo i pugni nelle tasche dei jeans.

«Sono contenta che tu stia bene, adesso vado.» Con le lacrime agli occhi si diresse spedita verso la porta ed uscì in silenzio.

Sharon tornò in sala passandosi una mano sul viso, era distrutta. Incontrò lo sguardo di Alex e abbassò il viso, camminò lentamente verso il divano, trapassando quel silenzio che non si aspettava visto che c‘erano Nicolas e suo padre nello stesso luogo.

«Dov’è Juri?», chiese debolmente.

«Dorme ancora», le rispose Bill.

«Ok. Alex…»

«Dopo», le fece segno con la mano, girandola a pugno e con l’indice steso.

«Devi riposare», disse Anto.

«Sì, ha perfettamente ragione», concordò Nicolas. Si piacevano a vicenda, almeno loro due. «Sarà meglio che vada.» Si alzò e subito Sharon gli si aggrappò al braccio.

«No, non andare», gli disse.

«Sharon», le sorrise trattenendo una risata.

«Che c’è da ridere?!»

«Dai Sharon, lasciami.»

«No.»

Tom sorrise, aveva già intuito tutto. Dietro ogni frase di Nicolas c’era nascosto il vero significato: Non siamo già stati abbastanza insieme? In più, notò che Sharon aveva saltato un passante della cintura. Poteva anche non significare niente, però tutto gli stava facendo pensare che avessero fatto quello che avevano fatto.

Ricordò che anche io avevo le stesse reazioni quando lui doveva andare via, anche solo per un’ora, soprattutto dopo un’intera notte passata a fare l’amore.

«Ma… Sharon…»

«Nicolas, papà vuole, non ti preoccupare. Vero papà?», lo guardò sorridendo.

«Non se ne parla nemmeno», rispose Bill stridulo.

«Ok, è a posto. Ah, il mio diario», lo prese dal tavolino accanto al divano e rise. «Vi è piaciuto? Forza, andiamo.»

Sharon e Nicolas, trascinato da lei, salirono in camera sua e si sdraiarono sul letto. Sharon appoggiò il viso al suo petto e chiuse gli occhi, come quella mattina. Nicolas le accarezzò dolcemente i capelli.

«Che cosa c’era scritto sul diario?», le chiese curioso.

«Nulla. Solo tutto quello che abbiamo fatto quella notte in cui mi hai rapita.»

«Tuo padre sarà andato su tutte le furie, già me lo immagino.»

«Probabilmente. Nicolas…»

«Eh.»

«Non sono più vergine.»

«Lo so, c’ero.»

«Eccome se c’eri.»

«Com’è stato?»

«Bellissimo.»

«Ti è passata tutta la paura?»

«Non ci ho nemmeno pensato, ti volevo troppo.»

«Mmh, è un bene.»

Gli accarezzò i capelli sulla fronte e lo baciò sulle labbra, senza riuscire più a smettere. Sorrise sentendo di nuovo la magica melodia nella sua testa: suonò per tutto il tempo in cui si stringevano l’uno all’altra, incastrandosi e respirando velocemente, fino ad arrivare alla fine. Finalmente era riuscita a sentirne la fine: dolce e perfetta come tutto il resto della canzone. Chiuse gli occhi nascosta su quel corpo che era convinta fosse suo e solo suo, stretta e al riparo, e si addormentò con l’ultima nota di piano.

 

_________________________________

 

Oh, che carini *-* Vero?
Finalmente Sharon e Nicolas si sono ritrovati e sembra davvero un lieto fine il loro… Chissà se Bill gli rovinerà la festa xD Per ora, sembra aver accettato il ragazzo di sua figlia, ma sarà solo perché l’avrà riportata a casa sana e salva? U.U Bah, staremo a vedere!
Per quanto riguarda Krista, ancora nessuna intenzione di perdonare Alex :(
Che altro dire… Spero che questo capitolo vi sia piaciuto! :D

Ringrazio le due sante che hanno recensito lo scorso capitolo:

Tokietta86 : Sono contenta che lo scorso capitolo ti sia piaciuto e ti ringrazio davvero tanto, leggere le tue recensioni è sempre bello :)
Alla fine Sharon e Nicolas ce l’hanno fatta e Bill ha all’incirca accettato il ragazzo. Vedremo come andrà a finire xD Nicolas è semplicemente the best u.u
Tom e Ary sono veramente dolci, sìì *-* Come Ary e Bill, infondo, che essendo migliori amici non potrebbero mai stare molto tempo imbronciati l’uno con l’altra.
Per quanto riguarda Juri, invece, vedremo nel prossimo capitolo…
Grazie, grazie, grazie! Alla prossima, un abbraccio! :)

Utopy : Tu mi hai resa la sempina più felice della Terra! *-* Eri d’accordo con Ary! *-* Che soddisfazione! *-* Okay, mi ricompongo u.u
Sharon e Nicolas sono fatti apposta per stare insieme, si completano! :D Anche lei è una lagna, mi assomiglia xDD E hai scoperto perché lui la chiama “anatroccolo”. Dolce, no? *-*
Nel prossimo capitolo succederanno taaante, taaante cosucce simpatiche u.u Tra cui scopriremo anche di Juri. Non tutto, ma almeno qualcosina… xD E ritornerà anche la tua fantastica amica Bea xDD Non vedo l’ora di leggere di nuovo i tuoi scleri su di lei xD
Grazie mille, Mond! Ti voglio tantissimo bene assaiii *-* Tua, Sonne.

E ringrazio anche chi legge soltanto!
Alla prossima! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 19
*** Parents & Sisters ***


I think there’s something more
Life’s worth living for

Who knows what could happen
Do what you do
Just keep on laughing
One thing’s true
There’s always a brand new day
I’m gonna live today like it’s my last day

(Who knows – Avril Lavigne)

 

Capitolo 12
Parents & Sisters

 

[PDV Tom]

 

Come dei flash, poco illuminati, vidi distintamente il suo viso e poi il mio sorriso, tanto distintamente da farmi chiedere da quale prospettiva stessi vedendo quel sogno. Era un sogno, eppure la realtà. Il suo viso era illuminato dalla luna, deboli raggi che entravano attraverso la finestra.

La scena cambiò, lasciandomi basito. Volevo ancora vedere quella notte che avevamo passato assieme, nella quale c’eravamo solo noi due. Ma purtroppo mi trovavo in cucina, nella cucina di casa sua, quella stessa casa in cui c’era anche suo padre. Sorrisi pensando che quella notte avevamo fatto l’amore e suo padre non se lo sarebbe mai aspettato. Non mi dava né fastidio né piacere se lui lo avesse saputo, Ary gliel’avrebbe detto quando lei sarebbe stata pronta.

Mi aggirai per la cucina: mai una volta che mi ricordassi dove fossero i cereali. Tentai per due volte, non trovandoli. Quando mi arresi sentii una voce provenire da fuori la cucina.

«Secondo armadietto a sinistra», miagolò. Mi girai con un sorriso raggiante sulle labbra, andandole incontro quasi correndo.

«Ehi!», gridò ancora assonnata sentendosi sollevata da terra.

«Ciao amore mio», le sussurrai all’orecchio.

Le faceva piacere quand’ero così felice, ma come facevo a non esserlo quando c’era lei al mio fianco? La rimisi a terra e la baciai sulle labbra, stringendola a me con le mani sui suoi fianchi.

«Ehi, voi due, piantatela», disse suo padre affacciandosi sulla cucina. «E tu, copriti», le disse.

«No», mi scappò. Suo padre mi fulminò con lo sguardo. «Cioè… no che non voglio che si prenda qualcosa.» Mi salvai in corner, feci un sospiro di sollievo.

Ary era troppo bella per coprirsi, lei poteva girare nuda quanto voleva, per me. Addosso aveva solo una maglietta che notai come mia, che le scendeva lungo la spalla, scoprendola, e le arrivava fino a metà coscia.

Suo padre andò a prendere la giacca e le strappai un altro bacio controllando che fosse di spalle. Ary rise sulle mie labbra, in modo molto soffocato.

«Vi lascio la macchina?», chiese suo padre, così io mi staccai subito facendo il bravo.

«Sì, magari!», disse Ary.

«Ok. Trattamela bene, Tom», si raccomandò.

«Certo», risposi incerto: non avevo capito se si riferiva ad Ary o alla macchina.

«Ciao, a stasera.»

«Buona giornata papà», lo salutò con la mano, sorridendo.

Suo padre sembrava di cattivo umore, come se vedere noi così perdutamente innamorati della nostra felicità dovuta al nostro amore lo avesse infastidito.

«Dici che si è arrabbiato perché ci ha visti mentre ti baciavo?», le chiesi lasciandola andare, ma lei non si scollò dal mio petto.

«No, è un po’ che è così. Non mi vuole dire cos’è successo.»

Mi avvolse la vita con le braccia e nascose il viso nel mio petto, io appoggiai il mento alla sua testa abbracciandola.

«Sei triste?», le chiesi sospirando.

«No, ho la faccia di una che è triste?», mi guardò negli occhi con un sorriso abbagliante.

«Credo proprio di no», sorrisi e la baciai ancora, senza riuscire più a staccarmi. Le sue labbra erano troppo invitanti per resistere.

«I cereali sono nel secondo armadietto a sinistra», mi ricordò quasi in ultrasuoni, talmente le facevano piacere i miei baci sul collo.

«Sì, me lo ricorderò.»

«Tom, mi farai impazzire», mi staccò da lei e mi baciò gettandomi le braccia intorno al collo, così all’improvviso e con forza che feci due passi indietro, andando ad urtare il tavolo.

«Tu di più», dissi.

«Non scherziamo, dai.»

Le sue mani su di me erano le chiavi del paradiso, ne ero certo, anche se erano la tentazione più vera che avessi mai provato.

Rimasi ad occhi chiusi, e lei sparì con una risata, alzandosi sulle punte per raggiungere i cereali nel famoso armadietto.

La guardai sorridendo. Non c’era nulla di più bello di lei, e della sua risata, chiara e limpida. Sembrava il suono dolce di una chitarra. La chitarra era la mia anima, il suo suono era la perfezione, normale che lo paragonassi a lei, alla sua risata.

«Ecco qua», me li passò e si mise seduta al tavolo, prendendo i biscotti e allungandosi per prendere il cartone di latte.

Mi misi seduto accanto a lei e versai i cereali nella tazza, per poi innaffiarli con il latte.

«Che facciamo oggi?», mi chiese.

«Strano che tu me lo chieda. Di solito non vuoi mai saperlo.»

«Oggi sì. Allora, che si fa?»

«Ho voglia di andare in palestra.»

«Ad esibire i tuoi muscoli a qualche ragazza per farmi ingelosire?», ammiccò.

«Certo», annuii con la testa.

«Dove vado io in piscina c’è anche la palestra, potremmo andarci: tu mostri il tuo fisico scolpito», mi sfiorò l’addome con un dito, «e io potrei nuotare un po’.»

«Ok, perfetto.»

«Chiediamo a Bill e Anto? Se non hanno da fare vengono con noi!»

La guardai appoggiando la testa sulla spalla, cercando di imitare Bill e di fare i suoi famosi occhi da cerbiatto.

«Come sei tenero», disse baciandomi sulla guancia.

«Credi che Bill sia disposto ad andare in palestra?»

«Perché, Anto?»

Scoppiammo a ridere, lasciando i cucchiaini nelle tazze.

«No, no, ridi ancora», sussurrai prendendole il viso fra le mani, guardandola quasi supplichevole.

«Perchè?», chiese.

«Perché la tua risata è bellissima.»

Un leggero rossore si impadronì delle sue guance e la adorai, non riuscii a non baciarla. Finimmo sdraiati per terra, sul pavimento freddo. Ok, io l’avevo trascinata, ma lei non si era opposta, mi aveva lasciato fare.

«Che stai facendo?», mi chiese inarcando la schiena ai miei baci infuocati. Avevo seri dubbi però che fosse la sua pelle a bruciare, o forse entrambi.

Le infilai una mano tra i capelli, accarezzandola sotto alla maglietta con l’altra. Ogni tanto aveva piccoli brividi, anche se pareva che stessimo bruciando.

Me la stavo godendo, sapevo a dove saremmo arrivati, ma il sogno saltò facendomi imprecare di nuovo. Speravo solo che non stessi parlando nel sonno.

Mi alzai da terra mettendomi a posto i jeans, il volto accaldato. In verità mi sentivo tutto accaldato, come lei d’altro canto, ancora sdraiata a terra. Respirava velocemente e sorridendo, con le guance rosse. Le tesi la mano e lei si alzò, si sistemò i vestiti.

«Mi chiedo perché tu voglia andare in palestra, te la cavi pure sul pavimento della cucina», disse grattandosi la nuca.

L’abbracciai e la baciai facendola piegare in un casquè. Non riuscivo a stare lontano da lei per una distanza superiore ai tre millimetri.

Il sogno saltò di nuovo. Non doveva essere accaduto nulla di particolare, pensai, perché tutte quelle interruzioni iniziavano a darmi sui nervi.

Salimmo in macchina. Lei era ancora bellissima, con i capelli lunghi e biondi legati sulla nuca e alcuni ciuffi più corti che le accarezzavano il viso e il collo, e una tuta azzurra.

Ero più teso del solito: quella mattina suo padre mi aveva messo in ansia, con quella faccia da arrabbiato che non avevo mai visto. Guardai Ary con la coda dell’occhio mentre guardava all’interno del porta cd in cerca di qualcosa da mettere.

«Ehi, che ci fa il vostro cd, cioè il mio, qui?», chiese tirando fuori Zimmer 483.

«Tuo padre ha un debole per noi?», feci un’ipotesi.

«Non è da escludere, ma ne dubito», mi regalò un ampio sorriso. «Va bè», lo tenne sulle gambe e ne cercò altri.

Si fermò e con lentezza tirò fuori un cd in una custodia trasparente e gialla, con le canzoni scritte a mano in un foglietto posato all’interno. Lo guardò come ipnotizzata per un po’, in completo silenzio, non riuscivo nemmeno a sentirla respirare.

«Ary?», le chiesi.

«Questo è…», disse non superando di molto i suoi tanto amati ultrasuoni. «Sono passati così tanti anni», fece una risata amara.

«Che cos’è?»

«Il cd che io e Davide gli regalammo per la festa del papà, un po’ d’anni fa.»

A sentire quel nome mi sentii stringere il cuore. Dovevo controllarmi, anche per lei, ma mi era difficile: la sua scomparsa aveva fatto a pezzettini anche il mio di cuore, sebbene senza quella violenza che aveva subito quello di lei.

Deglutii e restai ad ascoltare lei che sfilava il cd dalla custodia e lo infilava dentro al lettore cd. Avevo paura di scoprire quale traccia avrebbe scelto, e perché.

Chiuse gli occhi e si lasciò andare allo schienale ascoltando la canzone che si diffondeva all’interno dell’abitacolo. Guardava fuori dal finestrino canticchiando distrattamente le parole della canzone.

«Boulevard of broken dreams», disse alla fine del ritornello. Mi guardò e sorrise. «La preferita di Davide.»

Ecco perché era finita in mezzo alla compilation da regalare ad un padre.

«È bella», dissi.

«Sì.»

Il nostro discorso si stava pian piano congelando. Non sapevo che fare, come sempre in quelle situazioni. Presi un respiro profondo.

«Immagino ci sia I’m with you, quindi», dissi con il cuore che batteva a tremila.

«Ovviamente.»

Non era andata poi così male, aveva sorriso. Quel sorriso mi rassicurò nel procedere più tranquillamente, dirigendomi però in altri discorsi, ben lontani da suo fratello. Ad un certo punto Ary tolse il cd e lo rimise a posto.

«Perché l’hai tolto? Quella canzone mi piaceva», mi lamentai. Ary sorrise indicando il centro sportivo che stavo quasi superando.

Mi fermai e parcheggiai perfettamente dentro le righe, suo padre mi avrebbe riempito di parolacce in privato se l’avesse trovata solo con un graffio.

Ary scese dall’auto recuperando il suo borsone dai sedili posteriori e io la raggiunsi.

«Comunque anche quella canzone l’aveva scelta lui. Avete gusti piuttosto simili», notò con un sorriso. «Avevate», si incupì.

Le misi un braccio intorno alle spalle. «Li abbiamo ancora, non ti preoccupare», dissi sorridendo al cielo azzurro.

Entrammo in palestra e lei andò a mettersi il costume, io mi aggirai per la palestra semideserta per controllare gli attrezzi. Poi passai alla piscina. Anche quella non era poi così frequentata, c’erano solo alcune ragazze che curavano alcuni bambini nella vasca più piccola e un istruttore gironzolava proprio come stavo facendo io.

«Non ti sei ancora messo all’opera?», mi chiese prendendomi alle spalle.

«No, mi guardavo in giro. Ma credo che mi concentrerò qui.»

La guardai avido, mettendole le mani sul collo per poi scendere sulle spalle e sui fianchi.

«Ci sono dei giorni in cui tu ti svegli già con gli ormoni a mille o mi sbaglio?», disse avvicinandosi e coprendomi.

Non me n’ero nemmeno accorto. Quella mattina bastava solo una parola detta in un certo modo, una sua carezza con le unghie sul collo prima di baciarmi per eccitarmi. Interessante. Avevamo fatto l’amore due volte nel giro di poche ore, c’era qualcosa che piacevolmente non andava.

«Cos’è, il ciclo maschile? E io non ne so niente?», disse puntando il nasino all’insù, offesa.

«Possibile», le accarezzai la mandibola con un dito.

«Allora non vale», imbronciò il viso.

«Perché?»

«Perché a voi porta vantaggi, invece a noi svantaggi, se questa teoria è esatta», mi puntò il dito sul petto.

Risi e la baciai sulla fronte spostandomi e andando verso gli attrezzi in palestra.

«Ci vediamo dopo», disse andando anche lei incontro a quella vasca di blu.

Ci volle un’oretta buona di esercizi prima che la vedessi tornare avvolta in un asciugamano bianco e i capelli umidi.

«Ehi, come procede qui?», chiese.

«Bene, penso.» La feci ridere. Non capii cosa ci fosse tanto da ridere, ma fui semplicemente felice di averle sparso un briciolo di felicità sul viso.

Senza trucco riusciva ad essere sempre e comunque bella. Nessuna ragazza fino ad allora era stata tanto bella da farmi pensare che fosse più bella di Ary. Il che spiegava tutto, volendo.

«Mi chiedevo una cosa», disse sedendosi accanto alla panca dove stavo io a fare gli addominali. Iniziavano ad essere tesi, ma non ne avevo ancora abbastanza. Appoggiò i gomiti sulle gambe chiuse e si tenne la testa sulle mani.

«Quanto dura il vostro ciclo?», rise di gusto e quella volta ero certo che fosse per la mia espressione quasi scioccata.

Il ragazzo, l’unico, che c’era qualche attrezzo dopo, ci guardò in un modo strano, poi si dedicò totalmente agli esercizi.

«Ma che domande sono? Come posso saperlo?»

«Beh, pensavo all’idea di poter sfruttare al massimo questo periodo. Così mi chiedevo quanto durasse, più o meno. Tu sai quanto dura il mio, di ciclo. E sai anche che finché non mi passa non si può fare nulla.»

«Sì, che scocciatura», sbuffai.

«Appunto.»

«Boh, non so. Ary, è la prima volta.»

«Davvero? Uh, sei diventato un ometto», scherzò. Aveva pure la faccia tosta di scherzare.

«Sì, tu quando hai avuto il ciclo per la prima volta?», feci una smorfia.

«Tardi, molto tardi rispetto a tutte le mie amiche. Infatti credevo che ci fosse qualcosa che non andasse, ma poi sono arrivate. Estate dopo la fine della terza media.»

«Cazzo!», gridai dimenticandomi del ragazzo che ci guardò ancora male. Non ci feci troppo caso, quella notizia mi aveva sconvolto. «Non è passato poi così tanto prima che noi… Cioè… tu hai fatto sesso per la prima volta l’estate dopo! È breve come periodo, no?»

«Sì, ma che importa? Vuoi sapere quando le avute Anto?»

«Sì, da morire. Per favore, cosa vuoi che me ne importi?»

«Dieci anni», disse senza badare a me.

«Cazzo!», mi scappò di nuovo. «Così presto?»

«Te l’ho detto. Eppure lei non l’ha ancora fatto. E poi dopo che ti viene il ciclo smetti di crescere, così dicono. Ma non è vero, io sono cresciuta ancora.»

«Dove?», chiesi divertito.

«Simpaticone», mi tirò uno schiaffo sulla spalla.

«Tom?», disse dopo un attimo di silenzio, in cui si erano sentiti solo i miei respiri semiaffaticati e il rumore dell’attrezzo che usava l’altro ragazzo.

«Eh?»

«Sei cambiato.»

Lasciai perdere gli addominali e rimasi sdraiato sulla panca. La guardai, ma come non mi aspettavo era serena, sorrideva.

«In che senso?», mi tirai seduto e le andai accanto per accarezzarle i capelli sulla nuca.

«Cioè, guardati. Sei cambiato radicalmente da qualche anno fa.»

«Tipo?»

«Non avevi idea di cosa significasse amare davvero una persona, tipo.»

In effetti non aveva tutti i torti, l’avevo pure lasciata pensando che fosse una come tante, mischiandola con le nullità, diamante in mezzo a sabbia.

«Utilizzavi le ragazze solo come strumenti», elencò ancora. «Non conoscevi la dolcezza, ecco, come stai facendo adesso.»

«Come, così?», le accarezzai ancora i capelli.

«Sì», chiuse gli occhi, poi li aprì per guardare i miei. «Quante volte avevi accarezzato così una ragazza?»

Mai, mi venne da rispondere, ma non dissi niente.

«Vedi? Sei cambiato.»

«No, mi sono innamorato, è diverso.»

Mi guardò addolcendosi, mi abbracciò e mi baciò simpaticamente sul naso. «Sei un pinguino quando fai così il tenero.»

«Ma è la verità», alzai le spalle. Mi guadagnai un altro bacio, però vissuto, sulle labbra.

«Sarà meglio che vada a cambiarmi. Ci vediamo fuori.»

Si alzò e io la guardai completamente rapito, senza sapere bene dove guardare dopotutto, visto che era bella a modo suo, cioè bella e basta, ovunque.

«Oh, hai capito?» Si era fermata a metà strada e mi guardava interrogativa. «Che ti passava per la testa?», ora curiosa.

«Nulla», sorrisi.

«Come al solito», lasciò cadere la braccia lungo i fianchi e rise uscendo dalla palestra.

Non ci avevo nemmeno pensato. Ero uscito di casa bello fresco, senza pensare che magari avrei attirato paparazzi e fans senza la dovuta protezione, visto che ero uscito senza fascia né cappello, come piaceva ad Ary. Invece, fortunatamente, non successe niente, lei aveva fatto il miracolo portandoci in un posto sconosciuto a mangiare, così non avevamo incontrato nessuno.

Eravamo rimasti fuori per tutto il pomeriggio, non badando al tempo che trascorreva. Tornammo a casa sua solo verso le sette.

«Nella vita si cambia», dissi. Lei, davanti alla porta di casa che cercava le chiavi nella borsa, alzò lo sguardo per vedermi in viso.

«Stai parlando ancora del fatto che sei cambiato?»

«Sì. Nella vita si cambia, e sono contento di essere cambiato. Nessuna ragazza prima di te mi aveva dato la spinta e la voglia per cambiare davvero, per questo io… Ti amo da impazzire, lo sai?»

Sorrise dolce e mi mise le mani sul collo. «Lo so», sussurrò appoggiando la fronte alla mia per guardarmi meglio negli occhi.

La strinsi a me e la baciai, le sfiorai la pelle calda sotto il giubbino e la felpa, sorrisi giocando a mordere le sue labbra. Lei sue labbra erano uniche, non c’erano paragoni. Eppure ne avevo baciate tante, ma le sue erano totalmente diverse. Lei era stata l’unica e l’unica sarebbe stata. Mi aveva rubato il cuore come nessuna prima aveva mai fatto, sarebbe stato suo per sempre.

Qualcuno aprì la porta e ci staccammo subito, come un elastico tirato troppo a lungo. Era suo padre. Possibile che ci beccasse sempre? Ci guardò malissimo, mi vennero i brividi, ma fu per poco, infatti ci sbattè la porta in faccia, lasciandoci fuori.

Ary rimase senza parole, al mio fianco, poi si catapultò addosso alla porta, la aprì ed entrò.

«Papà, che c’è?!», gridò.

Lui continuò a salire le scale, senza badarci. In salotto vidi che c’erano tutti: Bill, Anto, Georg e Gustav, e sul tavolo un po’ di cartoni di pizza chiusi e una bottiglia di Coca Cola e una di acqua.

«Noi due dobbiamo fare un discorso», le disse non degnandola di uno sguardo. La sua voce era dura, arrabbiata.

«Bene, facciamolo.»

«Quando torno.»

«Certo, è sempre la stessa storia! Dobbiamo fare questo discorso da mesi, eppure lo rimandi sempre! Perché non lo facciamo adesso, eh?»

Suo padre si girò e la guardò, fermo in mezzo alle scale. Non si era nemmeno tolta la giacca, e aveva ancora il borsone sulla spalla.

«Che cosa c’è che non va?», gli chiese calma e dolce.

«Tutto non va, e tu non mi aiuti per niente.»

«Che cosa stai dicendo?»

«Sembra che tu ci abbia messo poco a ricominciare», disse duro gettandomi un’occhiata.

«Tu non sai quello che stai dicendo», ringhiò stringendo i pugni e arrossandosi in viso.

«Ah no? Mi era sembrato.»

«Senti, puoi toccarmi tutto, ma non Tom.»

«Sì, certo, e poi? Vuoi anche andare a vivere a casa sua?»

«Per favore papà, non dire stronzate.»

«No, va bè, se è così vai pure. Tanto.»

«Ma smettila.»

Fabian scese di corsa le scale e le passò accanto per andare a prendere la giacca.

«E adesso dove vai?», gli chiese arresa.

«A puttane.»

«La tua fissazione.»

Si girò lentamente, la guardò sgranando gli occhi. «Che cosa stai cercando di dire?»

«Le puttane, sono una tua fissa.»

«Cosa?»

«Mamma era ed è tutt’ora una puttana!»

Non l’avevo mai vista così piena d’odio, davvero, non sapevo che avesse tutto quello dentro. Mi chiesi quanto in realtà riuscissi ad aiutarla se aveva tutto quel rancore nascosto.

Scambiai uno sguardo con Bill e Anto, seduti sul divano con Georg e Gustav, che più o meno erano nella mia stessa situazione di confusione.

«Non azzardarti a dirlo di nuovo.»

«E perché? Non è così?»

«No!»

«No?»

«No, quello è stato solo un errore!»

«Certo, un errore. Mi chiedo se io sia stata un errore di un altro.»

«Ary, non…»

«Guardati, guardami. Non ci assomigliamo per niente! Chi mi dice che io sia davvero figlia tua?!»

«Tu sei mia figlia!»

«Hai mai fatto il test di paternità?!»

Suo padre rimase in silenzio, guardandola con gli occhi lucidi. Non riuscivo a credere a nessuna di quelle parole, doveva essere un incubo e non vedevo l’ora di svegliarmi.

«Smettila, mi hai stufato», disse infilandosi la giacca.

«Sì, anch’io mi sono stufata.»

«Di cosa?»

«Di quanto tu non riesca ad aprire gli occhi e ad accettare la verità.»

«Basta», aprì la porta e uscì sbattendosela alle spalle.

Ary chiuse gli occhi, aprendo i pugni per riattivare la circolazione.

«Ci mancava solo la scenata di fronte a tutti», sussurrò, ma io la sentii.

«Ne vuoi parlare?», chiesi sfiorandole il gomito.

Si sistemò la borsa sulla spalla e mi guardò, solo allora vidi la lacrima che le tracciava la guancia, silenziosa.

«Non c’è niente di cui parlare», tremò. «Voi iniziate a mangiare, vado a cambiarmi.»

Si girò e uscì dal salotto passando per le porte vetrate, lo sguardo basso, per raggiungere la sua stanza. Stavo per andarle dietro, quando Anto mi prese per mano e mi portò seduto accanto a lei.

«Lasciala stare un po’», alzò le spalle sorridendo debole. «Le passerà.»

«Cavolo, se ne sono dette di pesanti», disse Georg abbandonandosi allo schienale.

«Sì, Ary mi aveva detto che i loro litigi, quando avvenivano, erano pesanti, ma non ne avevo mai visto uno dal vivo. Non avrei mai voluto», disse Anto.

«Ma diceva sul serio suo padre?», chiese Bill.

«Quando?»

«Quando diceva che andava a puttane. Lo diceva così per dire, vero?»

Anto scosse la testa. «No, dice sempre così, ma in verità va a lavorare.»

«A quest’ora?»

«Sì, c’è in allestimento l’arena dove suonate voi domani, se ne sta occupando lui.»

«Ah beh, perfetto. Ha l’occasione giusta per farmi cadere addosso un led intero», dissi sbuffando. «Cavolo, è tutta colpa mia.»

«Non è vero», mi difese prontamente Bill.

«Sì, è un po’ che non sopporta vedere che la bacio.»

«Si sente minacciato», disse Anto.

«Minacciato?», dissimo in coro io e Bill.  

«Da me?», mi indicai con una mano sul petto. Ero a dir poco sbalordito.

«Sì. Ary è tutto ciò che gli è rimasto, ha paura che tu gliela porti via. È stupido. Ma tutte le paure sono stupide, se ci pensi.»

«È veramente stupido», scossi la testa. «Non gliela porterei mai via, e poi lei non me lo permetterebbe. Sono troppo legati.»

«Da come si sono scannati non mi sembra», disse Gustav.

«Ary è solo preoccupata per lui, è per questo che l’ha attaccato così. A volte è lei a fare la grande. Lei vede tutto, soffrendoci di più ovviamente, invece lui preferisce non vedere», spiegò Anto. «Ary, nonostante ne sia terrorizzata, non si tira mai indietro di fronte alla verità, la prende di petto, anche se sa che farà male, ne è consapevole. Invece lui no.»

«Mi ricorda te», incrociai lo sguardo di Bill. «Anche tu fuggi di fronte al dolore.»

«Hai ragione», annuì.

«Ora posso andare da lei?», chiesi guardando Anto.

«Aspetta, sarà lei a venire. Tanto, se si sta facendo la doccia, se se la prende comoda ci mette un quarto d’ora.»

«È rapida quasi quanto te», notò Georg sorridendomi.

«Noi siamo rapidi, ma sappiamo anche andare lenti», dissi ammiccando.

«Ma si può sapere di che cosa state parlando?»

Mi girai e vidi Ary alle porte vetrate, con l’asciugamano in mano e i capelli bagnati.

«Della nostra rapidità a fare le cose», dissi sorridendo. Lei rise, e mi fece piacere, le era passata piuttosto in fretta, ma non avevo voglia di rischiare, per il momento non ci saremmo tornati sopra.

«Cioè?», chiese.

«Per esempio il fatto che siamo veloci a farci la doccia.»

«Quando la facciamo separatamente?», sorrise maliziosa.

«Sì, perché se no se la facciamo assieme ci mettiamo ore ed ore.»

«Esattamente.» Scavalcò lo schienale del divano e si mise seduta quasi in braccio a me. «Ma non avete ancora iniziato?», indicò le pizze ancora dentro ai cartoni.

«No, ti abbiamo aspettato.»

«Beh, peggio per voi. Qual è la mia?» Sorrise e aprì tutte le pizze, finché non trovò quella con le patatine fritte, la sua per eccellenza.

«Tanto lo sappiamo tutti che tu mangi come un bue», disse Anto facendo una smorfia.

«Nessuno mi batte», addentò un pezzo di pizza. «Apri la bocca», mi disse e mi fece mangiare una patatina.

«Occhio a sporcare il divano eh, se no chi lo sente papà», raccomandò buttando giù un lungo sorso d’acqua.

Parlava di suo padre come se non fosse successo niente, con il sorriso sulle labbra, quel sorriso che c’era stato tutto il giorno, a parte durante il loro litigio.

«Scusa, avrei dovuto difenderti», dissi.

«A chi, a me?», mi chiese.

«Sì.»

«Nah, hai fatto bene a non intervenire. È un po’ come voi due: mai mettersi fra i gemelli Kaulitz. Stessa identica cosa: Mai mettersi fra me e papà, potresti non uscirne», sorrise.

«Direi anche voi due siete peggio di loro», Gustav ci adocchiò.

«Sì, probabile. È raro che litighiamo, ma quando lo facciamo, lo facciamo in modo pesante. Scusate se abbiamo dato spettacolo.»

«Non ti preoccupare», Bill le sorrise in quel modo speciale, solo per lei, che mi faceva sempre un po’ ingelosire.

«Tua madre è una puttana?», le chiese diretta Anto, con una serietà che non mi sarei mai aspettato da lei.

«Beh…», si pulì le mani su un tovagliolo e si passò la lingua fra le labbra. «Non è stata proprio una santa di donna.»

«Sii più precisa.»

«Prima che incontrasse papà, lo era.»

Lo disse con la massima semplicità, senza tristezza nella voce e negli occhi. Era vero che proprio non le interessava, era come un’estranea per lei.

Lei non si era scomposta di un millimetro, tutti noi invece sì: Bill era rimasto con una fetta di pizza tra le mani, senza riuscire più a masticare, a Georg quasi cadeva la mandibola, Gustav la guardava ad occhi sgranati e io ero a dir poco in un silenzio tombale fuori, ma dentro c’erano milioni di voci che parlavano tutte assieme. L’unica che ancora non si era scomposta era Anto, doveva essere abituata ad uscite di quel genere.

«Non me l’avevi mai detto», disse incrociando le braccia al petto.

«Non pensavo ti sarebbe interessato», alzò le spalle.

«Quindi a questo punto non sai nemmeno se tuo padre è il tuo vero padre.»

«Aspetta, aspetta. Mamma e papà si sono sposati prima che nascessi io, però non è da evitare il fatto che lei a volte si concedesse qualche serata di svago, diciamo. Quindi… potrebbe anche essere. Ma non è questo il punto, capisci? Lui è mio papà. Potrebbe anche non essere lui l’uomo che ha messo incinta mia madre, ma è lui che mi ha allevata fin da piccola, si è sempre preso cura di me. Sarà sempre lui mio papà, non mi importa se non è il mio padre biologico. Quell’uomo, sempre che esista, sarebbe un estraneo.»

«E perché gli hai rinfacciato che tua madre è una puttana?»

«Perché non vuole vedere! Sì, lo vede, lo sa, lo ha sempre saputo, ma non ha mai aperto bocca. È uno che soffre in silenzio.»

«Come te, se non ti tiro le parole fuori dalla bocca», dissi appoggiando il viso alla sua spalla. Profumava di vaniglia, come il suo shampoo preferito.

«Sì, è che comunque non ci riuscirei. Quanti sanno ciò che sapete voi?»

«Nessuno», disse Anto.

«Perché non riesco a confidarmi con chiunque, è semplice. Voi siete speciali.»

A Bill si allargò un sorriso che mise in risalto i suoi occhi felici per il complimento. Era facile farlo felice, Ary lo sapeva.

«Basta? Non avete più domande? Peccato, ero in vena di confessioni», disse prendendo un’altra fetta di pizza.

«Dove siete stati tutto il giorno?», piazzò lì Bill, ritornando pieno di vita e curioso dopo la storia triste.

«A fare della sana attività fisica.»

Tutti ci guardarono sospettosi. Sapevo che sarebbe andata a finire in quel modo.

«Ary, pensano male se dici così», le feci notare.

«Ma no, che avete capito! Siamo andati in palestra! Io ho nuotato e lui non mi ha fatto ingelosire nemmeno un po’.»

«Non c’era nessuna ragazza, a parte te, ovviamente.»

«E poi?»

«Cosa vuoi sapere, Bill?», chiesi esasperato.

«Due volte», disse Ary.

«Cosa?», chiese Bill.

Io tirai un colpo ad Ary, facendola stare zitta.

«Ah, io ho capito», disse Anto stiracchiandosi con un sorriso che la sapeva lunga.

«Oggi era –», le tappai la bocca ancora, era pericolosa. Era troppo in vena di confessioni, decisamente.

«Mi sa che ho capito pure io», disse Georg con gli occhi brillanti. Gustav l’aveva capito subito, ma non aveva detto nulla, aveva solo sorriso.

«Io no!», si lamentò Bill. «Cosa due volte?»

«Una volta in cucina!», riuscì a liberarsi Ary.

«Ma sei scema oggi? Il cloro ti fa male!», gridai mettendole le mani sulla bocca, tutte e due. A me non importava molto, mi sembrava solo strano che fosse lei a parlarne, perché di solito era lei che mi tappava sempre la bocca.

«Uffa, non ho capito», Bill incrociò le braccia e tenne il broncio.

«In cucina? Non sul tavolo, vero?», chiese Anto quasi schifata.

«No, non sul tavolo», dissi.

«Ahia, Ary eri comoda? Non è duro il pavimento?»

«Basta, mi arrendo», dissi lasciandola andare, ma invece di parlare a raffica come credevo avesse fatto, rimase in silenzio e un leggero rossore si impadronì delle sue guance.

«Bill, sei troppo piccolo, non puoi capire queste cose», lo rincuorò Gustav.

«Uffa, ma io volevo saperlo!» Bill era proprio un bambino quando ci si metteva.

Passammo una serata piacevole, e, rimasti da soli, mi gettai sul letto morbido e strinsi il cuscino sotto alla testa togliendomi le scarpe con i piedi.

«È stata una giornata piuttosto strana», dissi.

«Partita con il piede giusto, no?», rise.

«Sì, ma di te non ne ho mai abbastanza, lo sai.»

«Me ne compiaccio.» Uscì dal bagno in pigiama, grigio e viola, e si mise seduta accanto a me a gambe incrociate, le mani unite e i gomiti sulle ginocchia.

«Non voglio che tu smetta di fare ciò che hai sempre fatto con me solo perché a lui non sta bene. Su questo non me ne frega niente, lo sai, non può impedirmi di fare quello che mi sento di fare, e così dev’essere con te. Sei la cosa più bella che ho.» L’aveva sussurrata l’ultima frase, abbassando lo sguardo e mettendosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Mi piaceva tanto quando faceva la timida. Mi piaceva in tutti i modi a dir la verità, ma quel modo particolarmente.

«Ti amo», si sporse e mi baciò.

«Anch’io… tantissimo.» Avevo esitato, mi era venuto naturale pensare di dirle: da morire, ma poi ripensandoci non era il caso, tutte le parole riguardanti a quel tema non le usavamo più da tempo, noi due.

«Sai una cosa, Tom?»

«No, cosa?»

«Vorrei tornare indietro nel tempo.»

«E da quando vorresti ripartire?»

«Dal 16 luglio di quest’estate.»

Ci guardammo negli occhi: sorridevamo ma dentro piangevamo, era una sensazione strana, un misto tra quei due sentimenti opposti che eppure a volte sapevano unirsi, creando una strana ma piacevole confusione.

Si appoggiò con il viso alla mia spalla e mi strinse con l’altro braccio, singhiozzando appena.

«È tutto così difficile…» Era un pianto silenzioso, se non avessi visto le sue lacrime non me ne sarei mai accorto.

«Piccola… Lo so, o perlomeno lo posso immaginare.» Mi girai e nascose il viso nel mio petto, io le accarezzai le guance tirandola su. «Amore.» Continuò a piangere, tenendo le mie mani con le sue. «Amore, basta piangere.» Si passò le mani sul viso e mi fece un piccolo sorriso, poi si mise sdraiata su di me, accucciandosi più che poteva, sembrava davvero una bambina.

«Tutto me lo ricorda, tutto», sussurrò. Mi accarezzò distrattamente una treccina, pensava ad altro.

«Lo so.»

Il suo respiro, pian piano, si regolarizzò e chiuse gli occhi cullata dalle mie braccia. Stava quasi per addormentarsi, quando qualcuno bussò sul vetro della porta.

«È papà», disse mezza addormentata, e si alzò barcollante.

Aprì la porta e si strinse con le braccia, doveva far freddo fuori. Suo padre era appoggiato con un braccio al legno della porta, la mano sulla fronte e gli occhi chiusi, appena la vide li aprì e la guardò.

«Mi dispiace», disse con la voce roca, come se avesse appena pianto.

«E di cosa?»

«Per tutto. Ti voglio bene.»

«Anch’io», lo abbracciò e mi commossi guardando quella scena d’amore tra padre e figlia. Io e lei eravamo molto simili: i nostri genitori si erano separati, ma lei aveva sofferto molto di più di me, aveva perso un fratello, io no; avrei voluto regalarle tutta la felicità del mondo, gliel’avevo anche detto, e lei mi aveva risposto: «Ma io ho tutta la felicità che voglio, ho te.» Ero rimasto senza parole, e ogni volta che ci pensavo ancora non ne avevo.

«Scusa Tom.»

«Che cosa?»

Ero rimasto un bel po’ a riflettere, mi ero perso qualcosa. Suo padre mi stava guardando di nuovo con il sorriso sulle labbra. Aprì le braccia e immediatamente mi alzai e lo abbracciai, senza pensarci minimamente. Certo non era come abbracciare Ary, ma era piacevole, più di quanto mi aspettassi. Io non avevo un rapporto bello come ce l’aveva Ary con suo padre, bensì ce l’avevo con mia madre. Eravamo uguali ma opposti, ecco. Però l’affetto paterno un po’ mi mancava, e suo padre ormai lo vedevo un po’ anche come mio padre, così come lei vedeva mia madre come sua. 

«Non ce l’avevo con te», disse.

«Lo so, non ti preoccupare.»

«Ok, bene. Sei in gamba, ragazzo», mi sorrise e mi diede un pugno amichevole sul braccio.

«Buona notte», baciò Ary sulla testa e ritornò dentro, passando per il salotto.

Ary chiuse la porta con un brivido e con un sorriso radioso sulle labbra; le lacrime che avevano tracciato il suo viso non si vedevano più, erano state spazzate via grazie all’amore di suo padre, oltre che al mio.

Si girò nel letto e mi guardò, da sotto le coperte, iniziò a ridere, ma proprio forte, con spontaneità. Adoravo la sua risata, l’avrei confermato e riconfermato per l’eternità.

«Perché ridi?», le chiesi contagiato.

«Sei in gamba, ragazzo», imitò la voce di suo padre, tirandomi lo stesso pugno amichevole, ma senza forze, non riusciva a smettere di ridere e di tenersi la pancia.

«Che stupida che sei!»

«Grazie, lo prendo come un complimento.»

 

[PDV Ary]

 

Si svegliò e si guardò intorno, aprendo e chiudendo gli occhi, sembrava confuso.

«Tom, che c’è?», gli chiesi.

Si girò e mi guardò tirandosi su seduto sul letto. Sembrava disorientato, più che confuso.

«Ho fatto un sogno stranissimo!»

«Cioè?»

«Sai quando sogni, però è la realtà? Ti ricordi quella volta in cui hai litigato con tuo padre, davanti a tutti?»

«Sì, certo che me lo ricordo!»

«Ho sognato tutta quella giornata! Ma sembrava così vero!»

«Cavolo. È stato un sogno intenso…», lo baciai sulle labbra.

«Sì. Anzi, ho parlato nel sonno?»

«No, mi sembra di no. Io dormivo.»

«Meglio così», alzò le spalle e si alzò.

«Tom?»

«Eh?», si girò e mi guardò, ancora sotto le coperte.

«Non noti nulla di diverso?»

Guardò per tutta la stanza, poi si avvicinò e alzò le coperte, poi le lasciò ricadere giù di nuovo.

«No, che c’è?»

«Sarah, ha dormito tutta la notte nel suo letto. E ancora sta dormendo.»

«Finalmente! Ha quattro anni e ancora veniva qui!», disse sorridendo.

«Ma smettila!», mi alzai apposta per picchiarlo, ma lui mi prese in contropiede e mi sollevò da terra senza grossi problemi.

«Tom, mettimi giù!» Mi lasciò andare solo in prossimità del letto, dove caddimo assieme.

«Ho fame», disse e rise correndo giù in cucina.

«Non pensare di cavartela così!», lo rincorsi e lo raggiunsi in cucina, gli presi il viso tra le mani e lo baciai. Sembrava lo strano replay di quella mattina, ora che ci pensavo.

Ci sedemmo al tavolo a fare colazione, come ogni mattina. Non si era svegliato nessuno altre noi. O forse no.

Sentimmo qualcuno scendere dalle scale e ci girammo contemporaneamente, facendoci sorridere, per vedere chi fosse. Era Stefan, con il piumone e il cuscino sotto braccio, uno zombie, non aveva nemmeno gli occhi aperti.

«Che ci fai qui, Stefan?», gli chiese. Lui non rispose, lanciò il cuscino sul divano e poi si tuffò lui, con il viso nascosto sotto il piumone.

«Stefan, rispondi sì o no?»

«Alex russa», mugugnò. Tom si mise a ridere, io con lui.

«Già che sei qui, parliamo un po’», propose Tom. «Come vanno le cose con Michelle?»

Stefan si alzò a fatica e si mise seduto, con le braccia incrociate sullo schienale, il viso rivolto verso di noi in cucina.

«Bene», aveva ancora la voce d’addormentato. «Alla vigilia vado da lei, lo sapete, no?»

«Sì, ce l’avevi accennato.»

«Insiste per farmi conoscere i suoi, visto che voi la conoscete.»

«Io la trovo una bella idea», dissi.

«Sì, il problema è che non ho uno straccio di idea per il suo regalo di Natale.»

«Eh, bella storia. I regali sono la nostra rogna», Tom mi fece l’occhiolino.

«Quindi le cose vanno bene.»

«Sì, bene.»

«E… sai qualcosa di Alex?»

«È sempre così, piange sul latte versato… Di questo passo non se ne farà mai una ragione.»

«Porca di quella… Mamma!», sentimmo gridare dal piano superiore.

«Alex! Che cosa ti prende?», mi alzai e raggiunsi il salotto, dove lo vidi già con il cellulare in mano.

Si catapultò in cucina, superandomi, e si mise seduto accanto a suo padre. «Mi ha chiamato Bea.»

«E quindi?»

«E quindi non doveva. Lei è a Monaco, avevamo deciso di non sentirci per pensare su cosa dovevamo fare, ma lei mi ha chiamato lo stesso, ieri sera, solo che non le ho risposto e ora…»

«Ok, calmati. Chiamala e senti che cosa vuole», disse Stefan, sedendosi dall’altra parte. Io mi misi lì di fronte, ormai era una cosa di famiglia. Mi faceva piacere che per tutto, anche per le ragazze, i nostri figli venissero a parlarne con noi, eravamo molto aperti a tutto.

Alex la chiamò e mise il vivavoce, così che tutti potessimo sentire.

«Pronto?», disse la voce assonnata di una ragazza, Bea.

«Bea, ciao, sono Alex.»

«Alex? Oddio, Alex! Ma ti rendi conto di che ore sono?»

«Tu mi hai chiamato, ieri sera.»

«Sì, vero.»

«E non dovevamo non sentirci?»

«Lo so, è che… non ho potuto resistere. Mi manchi.»

Tutti lo guardammo, lui scosse la testa e continuò la conversazione. C’era un silenzio tombale intorno a lui, eravamo intenti a non perderci nemmeno una parola.

«Davvero? Davvero ti manco?»

«Sì.»

«Non so se mi fa piacere oppure no.»

«Perché, che cos’è successo? In effetti sembri giù.»

«Ho rivisto Krista, un po’ di tempo fa.»

«Ah. E… com’è andata?»

«Credo di essere ancora innamorato di lei.»

Stefan rimase in silenzio, anche se la sua espressione diceva tutto. Non era convinto per niente di quello che stesse dicendo il fratello, lui era sicuro che stesse solo perdendo tempo con quella storia, Krista non sarebbe più tornata e comunque non sarebbe più stata la stessa cosa.

«Oh. Anch’io devo confessarti una cosa.»

«Che cosa?»

«Anch’io ho rivisto il mio ex.»

Alex diventò rosso di botto, strinse le mani nei pugni e guardò il telefono con rabbia; temevo che l’avesse disintegrato con lo sguardo. Stefan passò una mano sulla sua schiena e con l’altra gli distese le mani, tranquillizzandolo un po’.

«Che cosa? Tu non puoi.»

«Non posso che cosa?»

«Rivedere il tuo ex!»

«E perché? Tu hai rivisto Krista.»

«La mia situazione è diversa.»

«Certo. Com’è che tu puoi e io no? Per favore, Alex. E comunque era con sua figlia, e sua moglie. Si sono sposati.»

«Ah. Scusa.»

«Non importa. Sono stata una stupida a telefonarti, ieri. Forse era davvero meglio se non ci sentivamo.»

«No, Bea. Non riattaccare.»

«Alex, io non… tu sei ancora innamorato di lei, l’ho sempre saputo, si vedeva quanto stavi male.»

«E perché allora non riuscivamo più a staccarci, quando sei venuta a salutarmi?»

«Attrazione fisica, nient’altro.»

«Tutte cavolate.»

«Cosa intendi dire, che sei innamorato di due ragazze?»

Sgranai gli occhi quando Alex tentennò sulla risposta da dare. Tutto era possibile, ma non riuscivo a capacitarmene. Com’era possibile che fosse innamorato di due ragazze nello stesso momento? Tom non si scandalizzò troppo, poteva anche essere un ragionamento logico per lui.

«Se fosse?»

«Se fosse, devi scegliere, non puoi certo stare con due ragazze.»

«Tu hai fatto la tua scelta?», le chiese.

«No.»

«Come no? E perché mi hai chiamato, allora?!»

«Perché mi mancavi! Non ho detto che ti amo! Mi mancavi, magari solo come amico, magari come qualcosa di più, ancora non lo so!»

«Quando torni?»

«Dopo Natale, perché?»

«Dobbiamo parlarne faccia a faccia.»

«Non penso sia affatto una buona idea, sai come va a finire ogni volta che non siamo a dieci chilometri di distanza di sicurezza!»

«La prima volta mi hai baciato tu!»

«E quindi la colpa sarebbe mia?!»

«Non ti ho dato la colpa!»

«Allora che cosa… Alex, non ti capisco.»

«Dico solo che dovremmo parlarne di persona, possibilmente senza saltarci addosso.»

«Una parola!»

Sia Stefan che Tom sghignazzarono sottovoce, immaginandosi la scena. Io la immaginai, e mi venne da sorridere, ma non era un bene se due persone non riuscivano a decidere una cosa così seria perché sentivano un impulso fortissimo di saltarsi addosso a vicenda.

«Ah, Bea! Dovremo trovare un modo!»

«Sono d’accordo che dobbiamo parlarne di persona, ma non ho nessun’idea per far sì che tu non mi salti addosso!»

«Io?! Guarda che sei tu che mi salti addosso!»

«Non è vero! Sei un bugiardo!»

«Non è vero, lo sei tu!»

«Vaffanculo Alex, vai a farti spaccare le braccia!»

«Vaffanculo Bea, spero che qualcuno ti aggredisca!»

Dovevano riattaccare, uno dei due, ma nessuno dei due era intenzionato a farlo. Ascoltavano i loro respiri, ascoltavano i loro cuori, senza trovare la forza di chiudere la chiamata.

«Alex?»

«Che c’è?»

«Perché non spegni tu?»

«Mi chiedevo la stessa cosa.»

«Tu mi hai chiamata, tu spegni.»

«Non ci penso minimamente. Tu mi hai chiamata ieri, è per questo che io ti ho richiamata, quindi spetta a te spegnere.»

«Ciao Alex.»

«Ciao Bea.»

«Ci vediamo quando torno.»

«Ok, va bene.»

«Baci.»

«Anche a te.»

«Ciao.»

Fu Alex alla fine a spegnere, schiacciando il tasto rosso del suo cellulare.

«Sai che non ho capito qual è stata la conclusione?», disse Tom.

«Sì, noi non arriviamo mai ad una conclusione», disse sconfitto Alex. «Siamo sempre punto a capo.»

«Prima vi siete sbranati a vicenda e poi vi siete salutati con Baci

«Vedi? Non capirò mai cos’è meglio. Krista è… c’è ancora.»

«Krista non ne vuole più sapere di te, te l’ha detto pure Sharon. Ha chiesto pure che tu te ne vada dalla band, per tornare!», disse Stefan.

«Questo non lo sapevo», dissi. «Davvero voleva che Alex se ne andasse?»

«Sì, non lo vuole nemmeno vedere. Io te l’ho detto, stai solo perdendo tempo.»

«Forse hai ragione, sto perdendo tempo.»

«E con questo dove vorresti arrivare?»

«Da nessuna parte», si alzò e tornò a dormire.

Erano nel pieno delle vacanze, mancavano pochi giorni prima di Natale, tutti sentivamo quella strana euforia nell’aria, lo spirito del Natale. Forse non proprio tutti, visto che Alex era sempre in camera sua, nascosto sotto due strati di piumoni, a dormire. Non aveva nulla da fare, non andava nemmeno più in palestra.

Sharon sfruttava quel tempo per scrivere, suonare e poi con Nicolas. Il loro amore diventava ogni giorno più grande, anche se a piccolissimi passi insicuri, diventava sempre più forte e Sharon ci sperava davvero, perché non aveva mai provato nulla del genere per un ragazzo.

Anto si era presa una lunga vacanza da lavoro per stare più tempo con noi, Sharon ne era entusiasta, e per stare un po’ con Juri, di cui si sapeva così poco.

Sharon era attratta da quel bambino, soprattutto da quella canzone che le aveva cantato una volta, che l’aveva completamente conquistata. Solo che Juri ricordava a malapena la sua lingua, non era in grado né di scriverla e di conseguenza nemmeno di tradurla. Sapeva a memoria quella canzone, ma non il suo significato.

Sharon scese in pigiama dalla scale e si mise a suonare il piano. Sembrava piuttosto sveglia, nonostante si fosse alzata da così poco. Di solito prima che si riprendesse dal trauma ci volevano almeno due ore buone.  

«È bella quella canzone», disse Anto dalla cucina.

«Lo penso anch’io», disse Sharon continuando a suonare quella che era la canzone di Nicolas, quella che sentiva nella testa quando stava con lui, la sua colonna sonora personale.

Con la coda dell’occhio vide suo padre scendere dalle scale e lo fermò gridando il suo nome, facendo un ampio sorriso.

«Papà! Siediti, papà, forza.»

«Che cosa? Sharon, mi fai paura quando fai quella faccia.»

«Dobbiamo fare un certo discorso, noi due. Siediti», gli indicò il divano. Bill si sedette, titubante: quando faceva così, c’era da preoccuparsi. E poi aveva uno strano presentimento.

«Allora…», si mise accanto a lui e gli sorrise. Appoggiò un braccio alla sua spalla, come se dovesse parlargli all’orecchio.

«Di cosa dobbiamo parlare, Sharon?»

«Di sesso.»

«Che cosa?!», gridò acuto, deglutendo. «Non dovrei iniziare io questo discorso?»

«Tu non lo inizi mai, così io ho pensato che se forse lo iniziavo io l’avremmo fatto.»

«E perché vorresti parlarne ora

«Papà, ho sedici anni.»

«E allora?»

«Non credi sia il momento di affrontare questo argomento?»

«Aspetta un attimo.» Si allontanò e si diresse in cucina, prese Anto senza dire niente e la portò di sopra, in camera nostra, dove c’eravamo io e Tom.

«Bill, mi vuoi spiegare che succede? Ma io non so, ne succede sempre una in questa casa? Non si può mai restare un attimo tranquilli!», disse Anto liberandosi dalla stretta di Bill.

Si chiuse a porta alle spalle e ci si appoggiò, con gli occhi spalancati più che poteva, sembrava che avesse visto un fantasma.

«Allora, che è successo?», chiese Tom scordandosi completamente che avevo appena rifatto il letto, infatti ci saltò sopra per sdraiarsi. Sorrisi e mi misi seduta accanto a lui.

«Si tratta di…», aveva persino perso la voce; se la schiarì. «Di Sharon. Ragazzi, non potete capire! È arrivata lì, mi ha fatto sedere sul divano e mi ha chiesto di parlare di sesso! Che cosa devo fare? Perché vuole parlarne adesso?»

«Noi ne abbiamo parlato con Stefan e Alex quando avevano quattordici anni», disse Tom tranquillo.

«Sì, ma quello che mi chiedo è: perché proprio in questo momento? Insomma, ha conosciuto Nicolas, sembra persa… Sul suo diario c’era pure scritto che era stata la notte con lui, che avevano fatto il bagno insieme! Ve ne rendete conto?! E poi, quand’era sparita, stranamente, è tornata la mattina dopo! Secondo me Nicolas l’ha trovata molto prima di quell’ora, se no l’avrebbe riportata subito!» Parlava a raffica, a malapena si capiva ciò che diceva, si mangiava le parole tanto da sembrare ubriaco.

«Bill, ti vuoi calmare? Che cosa sarà mai! Ha fatto sesso con Nicolas, e allora? A me sembra felice.»

Tom conosceva suo fratello, ma non credevo che fosse così stupido da dirgli direttamente che sua figlia aveva fatto sesso con un ragazzo. Voleva proprio fargli venire un infarto!

Bill, infatti, come avevo previsto, era diventato bianco come un lenzuolo.

«Bill, siediti.» Anto lo condusse verso il letto e lo fece sedere.

«Tu non hai proprio tatto», dissi fulminando Tom con lo sguardo.

«Ma che c’è di così scandaloso! È l’età, anche Stefan…»

«Stefan è Stefan, Sharon è Sharon!», gridò Bill.

«Ma è grande ormai, Bill! Devi capirlo, ok? Lei non è più una bambina, e tu non puoi essere così possessivo nei suoi confronti. Ha una vita, lei; non è la tua bambola personale. E se proprio devo dirtela tutta, tu sei stato il primo da cui è andata per parlare di sesso. Le ragazze non dovrebbero chiedere alle mamme? Invece lei è venuta da te, perché ti vuole bene. Però se ti comporti così da bambino è ovvio che poi non verrà più da te, ti terrà sempre alla larga, non ti dirà più niente, tu ti incazzerai, litigherete… Insomma, Bill, stalla ad ascoltare, non farti troppi complessi, è tua figlia. So quanto ci tieni a lei, quanto tu abbia paura che si possa far del male, ma è la vita, non puoi far sì che non si bruci mai, basta che impari. Anche Alex, ha sbagliato, e ha pagato caro la sua cazzata. Adesso non farà più errori del genere, è cresciuto. Se tu non la lasci sbagliare non crescerà mai.»

Però sapeva parlare bene, sapeva sicuramente toccare i suo punti deboli e portarli a suo favore.

«Sì, hai ragione», abbassò lo sguardo.

«Ovvio che ho ragione!», rise appena. «Adesso vai e parlate di sano sesso, ok?»

«Aspetta, tu come fai ad essere così certo che Sharon ha fatto sesso con Nicolas?», gli chiesi io. 

«Vuoi che non mi accorga di come sono le ragazze dopo aver fatto sesso? Per favore, siete tutte uguali: con la testa fra le nuvole e un sorriso lungo chilometri.»

Qualcuno bussò alla porta e ci girammo tutti verso di essa mentre si apriva e sbucava la figura di Sharon, un po’ sorpresa di ritrovarci tutti lì.

«Cos’è, una riunione di famiglia?», chiese alzando il sopracciglio come sapeva fare solo Bill.

«Sì», rispose lui senza scomporsi.

Sharon sbuffò appena e lasciò andare le braccia lungo i fianchi. Conoscevo quell’espressione afflitta, quello che non sapevo era che cosa potesse essere accaduto di così grave da averla sbattuta fuori dalla sua bolla euforica da tipica ragazza innamorata.

«Di sotto c’è un ragazza che dice di essere la sorella di Juri», disse flebile, con le lacrime agli occhi. «Non ce lo porterà via, vero?»

Come potevi rispondere a quella domanda, stando di fronte ad una ragazza quasi in lacrime che mai e poi mai avresti creduto che si fosse così perdutamente affezionata al suo fratellino adottato?

Raccolsi tutte le forze che avevo in corpo, mi alzai e andai ad abbracciarla, accarezzandole i capelli. Nessuno aveva mai dubitato che io fossi forte, lo ero sempre stata probabilmente, ed ero decisamente la persona adatta.

«Non ti preoccupare, le cose si sistemeranno.»

Però non ero in grado di fare promesse se c’era la probabilità che non potessi mantenerle.

«Zia, non voglio che se ne vada», singhiozzò.

«Piccola, faremo il possibile.»

Una piccola manina, poi tutto il corpo, entrò attraverso la porta semi aperta, e guardò tutti stranito.

«Che succede?», chiese Sarah che teneva per mano Juri. Erano una strana coppia, ma comunque dolcissimi.

«Niente amore», Tom si alzò e la prese in braccio.

«Juri, c’è una persona che vorrebbe vederti», disse Anto.

Lui annuì e prese per mano Sharon. Lei si asciugò le lacrime e lo guardò sorridendo. Il rapporto che si era creato tra loro, anche se minimo, iniziava ad essere davvero speciale.

La ragazza che aspettava in salotto non si sarebbe mai immaginata tutta quella gente scendere per incontrarla. Tutta la famiglia al completo, anche Stefan e Alex.

«Ciao», dissi sorridendo. «Tu sei…?»

Ma lei parve non ascoltarmi nemmeno, guardava impietrita Juri scendere dalle scale mano nella mano con Sharon.

Tom mi diede una leggera gomitata e mi sussurrò all’orecchio: «Svelato il mistero.»

«Quale mistero?», sussurrai.

«Perché Juri ti ha detto che gli ricordavi qualcuno», sorrise dolce, quella dolcezza che era sempre stata riservata a pochissime persone. Lui non se ne rendeva nemmeno conto, probabilmente.

Mi girai lentamente e guardai la ragazza in piedi in mezzo al salotto, non ci avevo fatto caso, ma era molto simile a me: capelli lunghi e biondi, occhi azzurri, pelle chiara e corporatura esile. L’unica differenza era che aveva dieci anni meno di me.

«Juri», sussurrò lei con le lacrime agli occhi, quando se lo ritrovò davanti. Si inginocchiò e aprì le braccia, ma Juri non si mosse, anzi, si nascose dietro le gambe di Sharon, che guardava la sconosciuta con la rabbia di una leonessa a cui venivano toccati i cuccioli.

«Non ti ricordi di me?», gli chiese con la voce che tremava, una strana rassegnazione nella voce triste. Aveva un accento quasi perfetto del tedesco, non come Juri che aveva imparato solo quella come lingua.

La ragazza iniziò a cantare una canzone alla quale sia Juri che Sharon risposero alla stessa maniera, sobbalzando e aprendo la bocca.

«È quella la voce», disse Juri tirando la manica ad una Sharon inerme.

«La nostra ninna nanna te la ricordi, eh?», un’ombra di sorriso veleggiò sul viso della ragazza. «Juri, sono io, Katrina, tua sorella, quella che ti cantava sempre quella canzone.»

Juri scosse la testa, gli occhi sgranati. Si nascose ancora di più alle spalle di Sharon e le abbracciò una gamba, chiudendo gli occhi.

«Lei è mia sorella», mormorò.

«Cosa? No!», gridò inorridita la ragazza, scattando in piedi.

«Ok, ok, calmiamoci», si intromise Anto. Chissà come mai era sempre lei la paladina della pace in quella casa.

«Adesso ci sediamo e ne discutiamo, va bene? Alex, Stefan, portate di sopra Sarah e Juri.» I gemelli annuirono e presero i bambini per mano, avviandosi verso le scale. «Sharon, tu resta qui.»

«Ma… io…», balbettò guardando Juri.

«No, devi restare.»

Sharon guardò acida la ragazza e si mise seduta imbronciata sul divano, le braccia strette al petto.

Le cose non sarebbero state facili, ci avrei scommesso.

 

____________________________________

 

 

Vi sorprendo sempre, eh? xD
Innanzitutto, buon pomeriggio! ^-^ Tutto bene? Io sto bene, la scuola sta per finire e siamo tutti contenti xD
Aaaaaallora u.u Capitolo corto ma pieno zeppo di cosine. Prima cosa, il sogno/realtà di Tom! Veramente ridicolo XD Però non mi andava di cancellarlo, quindi l’ho lasciato xD Poi, la simpatica Bea che chiama Alex e non concludono mai un tubo e per finire l’arrivo della sorella di Juri. Eggià, ha una sorella! xD
Vedremo che cosa succederà ora! n.n

Ringrazio chi ha commentato lo scorso capitolo (le mie due sante *-*):

Tokietta86 : Io amo Nicolas, seriamente! *-* Sono invidiosa di Sharon xD Sì, è vero, per i papà siamo sempre piccole e penso che sia un bene, ma troppo è eccessivo… Vedremo se Bill riuscirà ad accettare definitivamente che la sua bambina è cresciuta! Per quanto riguarda Krista… ancora niente con Alex :( Chissà se riuscirà mai a perdonarlo e a tornare nella band! Beh, ovvio che Tom sia una volpe… xP Lui ne sa u.u xDD
Grazi mille, sono contenta che lo scorso capitolo ti sia piaciuto! Un abbraccio, alla prossima!

Utopy : Uhm… secondo me ce ne vuole prima che Bill la finisca di fare il cretino xD Nicolas non si tocca, è della sottoscritta u.u XDD Il triangolo Bea/Krista/Alex ci sarà ancora per un po’, giusto per odiare la terza ancora di più xDD Allora, Juri? *-*
Ti voglio tantissimo bene anch’io, Mond! *-* Tua, Sonne.

Ringrazio anche chi ha semplicemente letto!
Alla prossima, vostra

_Pulse_

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Capitolo 20
*** The bunch ***


Do you know where your heart is?
Do you think you can find it?
Or did you trade it for something, somewhere, better just to have it?
Do you know where your love is?
Do you think that you lost it?
You felt it so strong, but nothing’s turned out how you want it

(Say (All I need) – One Republic)

 

Capitolo 13
The bunch

 

Era pur sempre la Vigilia di Natale, e a Natale bisognava essere tutti più buoni, anche un minimo.

Avevamo concesso a Juri e a sua sorella, Katrina, di passare qualche ora assieme, anche se Sharon si era subito opposta all’idea, definendola insensata. Secondo me alla fine non era così insensata, era pur sempre sua sorella, ma non glielo dissi.

Quella stessa Sharon era seduta sul divano, che guardava il fuoco acceso nel camino con le braccia strette al petto e una coperta sulle spalle. Sarah era beatamente sdraiata accanto a lei che sonnecchiava con Whiskey, così aveva deciso di chiamare il famoso orsetto di peluche. Il motivo di quel nome era semplice: era così trasandato da sembrare ubriaco, ma gli voleva bene comunque. Mi era sembrato un nome un po’ triste, ma ora che lo guardavo bene gli calzava a pennello.

«Sharon, tira via quel broncio, è Natale», la rimproverò Tom. Sharon lo guardò e poi guardò l’orologio appeso sopra al camino.

«In verità manca ancora un’ora al 25 di dicembre», disse.

«Tale e quale a Bill, solo che lui è più facile da corrompere: basta una caramella gommosa, una fetta di torta… Basta, ci rinuncio.»

Sharon sorrise soddisfatta e guardò Sarah cambiare posizione e mettersi il pollice in bocca: sembrava un angioletto.

Vide Alex scendere dalle scale, mezzo addormentato, e si girò di scatto richiamando la sua attenzione.

«Alex, possiamo parlare un attimo?»

Alex la guardò con espressione confusa, chiedendosi che cosa avesse intenzione di dirgli, ma poi si ricordò di quando lei era scappata e della fuga di Krista appena l’aveva vista viva.

«Si tratta di Krista?», chiese abbassando lo sguardo.

«Sì, possiamo parlarne?»

«Ok.»

Raggiunse la cugina sul divano e si mise sotto alla coperta con lei, la testa appoggiata comodamente sul suo stomaco. Si lasciò accarezzare i capelli neri, leggermente scoloriti dai lavaggi, con gli occhi chiusi di fronte alle calde lingue di fuoco.

«Come va?», chiese sottovoce Sharon. Alex si strinse nelle spalle e sospirò.

«Situazione complicata», disse.

«Molto?»

«Abbastanza.»

«Insomma… Krista…»

«Krista è una cosa. Bea è un’altra.»

«Non possono stare assieme.»

«Esatto. E non riesco a scegliere, non ora.»

«Senti Alex, mi dispiace per… Io…»

Alex si girò e le mise un dito sulle labbra, guardandola negli occhi. Le sorrise dolce e si riappoggiò con il viso al suo stomaco, cingendola dolcemente in vita.

«Non è colpa tua», le disse. «E mi ha fatto piacere vederla, anche se mi ha fatto male. Mi ha aiutato a capire che lei… ci sarà sempre un posto speciale per lei nel mio cuore.»

«E Bea?»

«Lo so che è brutto da dire, ma è l’unica che riesce a non farmela pensare. A volte la cercherei apposta.»

Sharon lo guardò in silenzio, senza sapere più cosa dire. Era una situazione davvero complicata, non riusciva a ragionarci su. Alex la guardò, incuriosito da quel silenzio così prolungato e le sfiorò la fronte increspata, segno che stava riflettendo.

«Sharon, non voglio che ti fai problemi per me», le disse con tutta la sincerità che aveva in corpo.

«È ovvio che mi faccio problemi per te, sei mio cugino!»

«Ma non devi, davvero. È inutile, è una cosa che dobbiamo risolvere solo noi e io per primo.»

«Ma…»

«Niente ma», le pizzicò il naso.

Bill entrò in casa con Juri addormentato in braccio, seguito da Anto e da Katrina.

«Oh santo cielo… e lei che ci fa qui?», sussurrò ad Alex, lanciandole subito uno sguardo sprezzante.

«Ciao», salutò Anto, mentre Bill portava di sopra Juri.

«Ciao, tutto bene?», chiesi. Lei si affacciò in cucina e sorrise.

«Sì, tutto ok.» Si voltò verso alla ragazza e le chiese: «Ti unisci a noi, stasera?»

«Ahm…», sembrò esitare.

Sharon borbottava tra sé che non ne poteva più e aveva la nausea di lei e dei suoi capelli così biondi e dei suoi occhi così azzurri. Incrociò il mio sguardo e si tappò la bocca. Mi sorrise impacciata e tentò di gesticolare che non voleva offendere me, io semplicemente sorrisi scherzosa. Sapevo che era la verità, e poi non me la prendevo per quelle cose.

«No, preferisco di no», disse la ragazza negando con la mano.

«Perché? Guarda che non dai fastidio», disse Alex, che per quello si beccò uno scappellotto da parte di Sharon, infuriata.

«No, davvero.»

«E… dov’è che stai tu, di preciso?», chiese Tom con quell’aria da indagatore che mi faceva sempre ridere a crepapelle.

«Da… da una mia amica.»

«Ah. Sei sicura di non voler restare?» Sembrava persino preoccupato dall’espressione e dal tono di voce che aveva.

In effetti Katrina non era proprio un fiore in quel periodo. Aveva pesanti ombre scure intorno agli occhi, i capelli sciupati e quando l’avevo vista la prima volta non era così magra. Sarebbe stata davvero bellissima se fosse ingrassata di qualche chilo e se avesse dormito qualche ora di più.

«Sì!», quasi urlò, poi si ricompose. «Sì, grazie di tutto.» Si infilò la giacca che teneva in mano e uscì in silenzio, con lo sguardo basso.

Io e Tom ci guardammo, lui fece un respiro profondo e si tenne la testa fra le mani.

«Quella ragazza ci nasconde qualcosa», disse.

«Ma dai, non me n’ero accorta.» Ci guardammo negli occhi e scoppiammo a ridere, come sempre e come avrei voluto che sarebbe sempre stato.

«Dov’è andata?», chiese Bill una volta sceso di sotto, guardandosi in giro.

«Chi, Katrina? Se n’è andata.»

«Ah.» Si girò e alzò le spalle, di certo non voleva domandarsi perché quella ragazza fosse così sfuggente. Vide Sharon seduta sul divano, che lo guardava esitante.

In realtà aveva molto da dirgli, però non ci riusciva: la spontaneità che c’era sempre stata fra loro si era un po’ incrinata per diversi motivi, da quelli più stupidi a quelli più seri. O era solo una percezione di Sharon? 

«Sharon, ciao», la salutò mandandole un bacio con la mano.

«Ciao», disse lei abbassando lo sguardo.

Le era pure difficile guardarlo negli occhi, qualcosa era davvero cambiato dentro lei, eppure non voleva che fosse così, voleva che suo papà restasse sempre il suo amato papà e che ridessero ancora assieme, come una volta.

«Che cosa c’è?», le chiese.

«Niente.»

«Non è vero, non dirmi le bugie.»

Sharon sorrise appena, ricordando tutte le volte che lei faceva finta di mentirgli e assieme ridevano perché lui riusciva sempre a cacciarle fuori dalla bocca la verità.

«Si tratta di Nicolas? È successo qualcosa?»

Si trovò ad arrossire e un’ondata di stupore la travolse. Si era immaginata di tutto, ma non che suo padre cercasse un problema proprio nella relazione tra lei e Nicolas, visto che fino a pochi giorni prima era Nicolas il problema, e che fosse lì a parlarne così tranquillamente con lei, come se fosse normale parlare di ragazzi tra loro. Però, d’altro canto, quando aveva sentito il suo nome il suo cuore aveva avuto uno di quegli strani effetti collaterali imprevedibili e una punta di amarezza le era comparsa negli occhi.

«Non lo vedi da ieri e già ti manca?», chiese Bill divertito, in piedi di fronte a lei, causa Sarah addormentata e Alex quasi. Sharon lo guardò sempre più rossa e trovò un sorriso ad accogliere la sua espressione smarrita.

«Che cosa faceva lui per Natale?»

«Nulla che io sappia», disse Sharon senza nemmeno rendersi conto che la sua voce se n’era quasi del tutto andata.

«Vuoi farlo venire qui?»

Gliel’aveva chiesto, ce l’aveva fatta. Si sentì sia orgoglioso dei propri progressi che afflitto. Sapeva che quando Nicolas sarebbe entrato da quella porta poi lui sarebbe stato invisibile agli occhi della figlia. Era per quello che si ostinava ad allontanarla il più possibile dagli ormoni maschili, perché sapeva, e gli era persino capitato, che questi attirassero potentemente l’attenzione delle ragazze e i genitori venissero messi da parte. Era geloso di sua figlia, non aveva problemi ad ammetterlo, anzi, ne era anche un tantino fiero.

«E tu… vorresti?», deglutì.

Bill guardò Anto, me e Tom in cucina, che annuivamo con le mani unite di fronte al viso. Gli scappò una leggera risata e poi guardò ancora la figlia. «È Natale», sospirò annuendo.

«Se non fosse Natale la tua risposta sarebbe stata negativa?», alzò il sopracciglio, anche se aveva un sorriso lungo almeno tutto il perimetro della Germania e in parte quello dell’Italia e gli occhi che le brillavano dalla gioia.

«Ma che domanda è?»

«È una domanda più che sensata, invece. E pretendo una risposta, per giunta.»

Rimase in silenzio e gettò un’altra occhiata verso di noi, che guardavamo la scena come se fossimo al cinema, totalmente presi. Sospirò pensando a che stramba famiglia si era ritrovato.

«Io voglio solo che tu sia felice, e se Nicolas ti rende felice, non posso che volerlo per te», ammise. «Quindi, se ti avessi vista in queste condizioni e se fosse stato un normalissimo giorno, è ovvio che ti avrei risposto allo stesso modo.»

«Oh, papà…» Si alzò e gli gettò le braccia al collo, stringendolo e sentendo che finalmente tutto stava andando per il verso giusto. Le era solo mancato il chiarimento, con lui, dei sani abbracci e tutto l’affetto di cui era sempre stata viziata.

Sharon si affrettò a prendere la giacca e ad uscire di casa, sapeva dove trovarlo, pure in una notte gelida come quella.

Il periodo natalizio era sempre stato quello che preferiva, anche da bambina. La affascinavano le luci nelle case, le decorazioni nei centri commerciali, l’insana allegria da cui tutti venivano travolti, chi più chi meno, il raccoglimento e l’affetto della sua famiglia, per quanto strana potesse essere.

Quella sera, mentre candidi fiocchi di neve scendevano leggeri e il vento freddo le frustrava il viso e le scompigliava i capelli, si rese conto di quanto fosse fortunata.

Come aveva previsto, lo trovò in riva al loro laghetto, con lo sguardo perso sull’acqua ghiacciata, un lembo della sciarpa nera che si muoveva col vento. 

«Ehi», lo salutò prendendolo per il braccio.

«E tu che ci fai qui?»

«Semmai, che ci fai tu, qui.»

Nicolas si arrese e sorrise, la baciò sulle labbra e tornò a contemplare la natura gelata al suo cospetto, abbracciato stretto a lei.

«Allora, che ci fai qui?», gli chiese lei.

«Niente, ti pensavo.»

«Perché non vieni da noi, invece di stare qui come un lupo solitario?»

«Lo sai che tuo padre non…»

Sharon gli mise un dito sulle labbra e non resistette a baciarlo ancora, con le braccia intorno al suo collo, in punta di piedi.

«Papà mi ha visto triste sul divano e mi ha detto di venirti a prendere e di tirarmi su di morale», gli sussurrò.

«Mi stai prendendo in giro?»

«No, è la verità!» Si guardarono negli occhi e Nicolas le accarezzò il viso con le mani, soffermandosi con le dita sulle sue labbra piene e morbide, immaginando il loro sapore che ogni giorno di più sentiva suo.

«Ciò vuol dire che ha abbandonato l’ascia di guerra e si è arreso al mio fascino?»

«Che stupido che sei!»

«Non posso credere che renda tutto così semplice. Magari se ne sta già pentendo. Forse è solo perché è Natale, ecco.»

«Nico, perché non accetti solo che oggi gli stai simpatico? Domani si vedrà, e il giorno dopo ancora, e giorno dopo ancora… insieme. Ce la faremo, vedrai», gli sorrise e lo fece incontrare con il suo in un bacio.

«Sharon?»

«Uhm?»

«Ho chiamato i miei, oggi.»

Sharon lo guardò in viso e notò un leggerissimo velo di tristezza nei suoi occhi: se non fosse stata per la grande affinità che avevano non se ne sarebbe mai accorta. Rimase in silenzio e lo ascoltò parlare.

«Erano anni che non li sentivo. A volte zia mi diceva come stavano, sì, però… sentirli di persona è stato… emozionante. Non mi sono mai sentito così fragile in tutto questo tempo come oggi.»

«Che cosa ti hanno detto?», gli chiese in un sussurro.

«Mi hanno chiesto di tornare a casa, a Francoforte.»

Non ebbe nemmeno il tempo di dirgli che non sapeva che prima abitasse lì, che il panico la bloccò letteralmente, portandole alla mente il ricordo di Derek che nella lettera le diceva che sua madre voleva tornare in Italia che lui doveva seguirla, e quindi lasciarla.

«No!», scoppiò a piangere quando il panico raggiunse persino le punte dei suoi capelli. «No, no, no! Non puoi lasciarmi! No, Nicolas!»

Lui le prese le mani e le portò sul suo petto, la strinse e la cullò, lasciandola sfogare e piangere ancora per un po’. Era la reazione che si aspettava, soprattutto sapendo che lei aveva già vissuto una situazione simile.

«Sharon, calmati, ti prego. Non me ne vado, tranquilla.»

«Cosa?»

Nicolas sorrise dolcemente, le posò le mani sulle guance e con i pollici spazzò via le lacrime, delicato come solo con lei era capace di essere. «Hai capito bene, non me ne vado. Sharon, credevi davvero che ti avrei lasciata? Ti devo ricordare che sono stato io quello che se n’è andato di casa? E non me ne sono andato per una ragazza. Anche se… se non mi fossi trasferito qui non ti avrei mai incontrata.»

«Davvero non mi lasci?», tirò su col naso.

«Certo che no! Sarei un pazzo.»

«Nicolas, mi hai fatto così spaventare…», sussurrò riaffondando il viso nel suo petto, abbracciandolo con tutta la forza che aveva.

«Mi dispiace, scusa. Sharon sei così scandalosamente perfetta… anche quando piangi… Starei male anche al solo pensiero di lasciarti.»

Sharon alzò il viso con un sorriso e incontrò il suo, si lasciò baciare e nulla, nulla più, se non per ragioni veramente serie, l’avrebbe fatta piangere.

Alla fine Nicolas si era lasciato convincere e raggiunsero in fretta, con la moto di lui, la casa di Sharon, dove già avvenivano i festeggiamenti.

«Ehi, avete iniziato senza di noi!», gridò Sharon appena entrata, vedendo tutti in salotto con un bicchiere di spumante a testa.

«Sì, non arrivavate più! Così imparate», disse Bill. Le fece l’occhiolino e sorrise dolce, salutando con la mano pure Nicolas. Lui e Sharon si scambiarono uno sguardo contento e solo dopo lei si accorse di un’altra presenza, in mezzo alla sua famiglia.

«Krista!», raggiunse l’amica e l’abbracciò. «Che bello vederti! Come mai anche tu qui?»

«Volevo portarvi il mio regalo di Natale di persona.»

«Solo per questo? Beh, potevi anche…»

«Sharon, torno nella band.»

«Aspetta, fammi finire! Dicevo che potevi anche darcelo…»

«Sharon, torno nella band, hai capito?!»

«Tu che cosa?!»

«Ma sei scema o che cosa? Ho detto che torno nella band! Mi vergogno di me stessa, ma devo ammettere che mi mancavate troppo, branco di scemi che non siete altro.»

«Krista! Sei... Senza di te mancava il quarto scemo del branco!» Le saltò quasi in braccio, in lacrime di gioia. Dopo le lacrime di tristezza e di panico, erano arrivate quelle della gioia.

Sentiva che quel Natale sarebbe stato il più bel Natale di tutta la sua vita, ne era sicura.

 

***

 

Il mattino dopo era stato come un ritorno al passato, come accadeva ogni anno. Era una monotonia bellissima però, una tradizione senza la quale tutto sarebbe stato triste.

Sarah si era svegliata all’alba e si era fiondata nella nostra camera a svegliarci, saltando sul letto e gridando che era Natale. Tom, in un primo momento, le avrebbe voluto tappare la bocca volentieri, però poi venne anche lui contagiato quando mi alzai e corsi di sotto con lei per scartare i regali.

Stefan e Alex ovviamente non si erano risparmiati i loro trucchetti, cioè svegliarsi prima di tutti e riappisolarsi sul divano per dimostrare che erano stati i primi, anche se Stefan era esausto dopo l’intera serata passata a casa di Michelle con i suoi genitori e i suoi fratellini scatenati.

Invece Sharon aveva svegliato Juri, il quale non ne aveva mai passato uno di Natale decente. Per lui quel giorno che per regola era speciale, lo era ancora più.

Alla fine dell’operazione Scartamento Regali, il salotto era completamente sommerso di carta da regalo di tutti i tipi. Per Sarah era una pacchia, perché si divertiva a raccogliere tutto e ad aiutarci, cosa che Stefan e Alex non avevano mai fatto in vita loro.

Bill e Anto erano stati gli ultimi a scendere e come punizione, assieme alla volenterosissima Sarah, avevano dovuto buttare tutte le carte e prepararci una colazione degna di un re.

Il giorno di Natale era sempre stato un po’ caotico, ma era una passeggiata per Bill e Tom e per me e Anto che avevamo  già alle nostre spalle l’esperienza che avevamo ottenuto seguendoli durante i loro tour, nei quali erano sempre sommersi di lavoro, per un motivo o per l’altro.

Dopo aver fatto colazione e testato tutti, ma proprio tutti, i regali, dai giochi della playstation alle Barbie, eravamo andati a casa di Bill e Tom, a trovare Simone e Gordon. Avevamo pranzato con loro e il pomeriggio ci eravamo divisi: io, Tom, Stefan, Alex e Sarah eravamo andati da mio padre, Lilian e Mattia; invece Bill, Anto, Sharon e il nuovo arrivato tra loro, Juri, erano rimasti a casa di Simone perché i genitori di Anto erano in Italia e quindi erano un po’ più complicati da raggiungere. Ci sarebbero andati prima della fine delle vacanze.

E a sera, per finire, ci sarebbe stata una cena a cui avremmo partecipato noi (le due famiglie Kaulitz); la famiglia Listing, cioè Georg, Nicole e Christin; la famiglia Schäfer, quindi Gustav, Giulia, Anne e il piccolissimo Harry, nato giusto poche settimane prima; e anche Mattia, il mio fratellone acquisito. Come se fosse un ritorno al passato, con i componenti dei Tokio Hotel al completo e le loro famiglie. In più, Sharon aveva voluto a tutti i costi Nicolas al suo fianco, che non aveva resistito ai suoi occhioni dolci e aveva ceduto.

Eravamo una ventina, ma il ristorante a cui avevamo prenotato aveva accettato subito le condizioni e ci aveva persino riservato un’ala privata del locale, così da non essere disturbati. Essere circondati da delle star non era poi così male, noi lo sapevamo.

Mi piacevano un sacco quelle “riunioni”, perché tutti ci vedevamo ed era davvero divertente. Forse era per quello che non aspettavo altro che le festività.

Così, quella sera ci trovammo tutti uniti intorno ad un tavolo, in uno dei ristoranti più belli di Amburgo, ma nemmeno uno dei più esclusivi, in quanto era uno dei più belli solamente per i miei gusti personali: sia nell’arredamento che nell’accoglienza che nel cibo era impeccabile.

Sarah era eccitatissima tra me e Tom e saltellava sulla sedia, costretta da Bill ad indossare un vestitino viola pieno di ricami e di sfarzi tanto da sembrare una bambola. Sinceramente avevo paura per la fine di quel vestito fatto su misura per lei, ma non volevo nemmeno saperne: era stato Bill a volerglielo vedere addosso e lui se la sarebbe vista con le macchie.

Eravamo una bella tavolata, non c’era che dire, ma le vere star quella sera erano Juri, che tutti trovavano adorabile quasi come il piccolissimo Harry, super coccolato a turno, e Nicolas, che aveva attirato l’attenzione, oltre che di Sharon che gli era sempre appiccicata gelosamente, di Anne, anche se lo guardava in modo incerto, seduta accanto a Christin.

Io ero sempre stata dell’idea che quel ragazzo fosse bellissimo e ne avevo avuta la piena conferma, però lui non ne sembrava molto consapevole o forse semplicemente non gli interessava. Infondo era un tipo riservato e tutte quelle attenzioni lo infastidivano.

«Mamma, quando si mangia? Io ho fame!», disse Sarah tirandomi la manica del vestito di seta blu, fatto anche quello dalle mani di Bill.

«Appena il nostro carissimo Bill si deciderà ad arrivare», spiegò Tom, smettendo un attimo di parlare con Georg, seduto in diagonale con lui. Solo lui riusciva a seguire due conversioni contemporaneamente, non mi spiegavo come facesse.

«E quando arriva?»

Tom le passò una mano sulla testa, sfiorando dolcemente i suoi riccioli biondi: «Probabilmente quando deciderà cosa mettersi. Sai, prima ha vestito voi – io personalmente non mi faccio abbindolare da lui – e ora è nel caos perché non sa come essere all’altezza dei suoi stessi abiti.»

Sarah lo guardò inarcando le sopracciglia, in un modo veramente tenero. «Mamma, che cos’ha detto? Non ho capito niente», mi confessò preoccupata. Georg e Gustav risero di gusto.

«Sì, Tom non è mai stato bravo a parlare. Lui agisce

«Certo Georg, certo», mosse la mano Tom, sorridendo. «Infatti guarda che cos’è uscito», sussurrò indicando Sarah e avvicinandosela a sé.

«In pratica ha detto che tuo zio deve ancora vestirsi», fece da traduttore Gustav.

«Ah, ok, grazie zio Gus!», disse Sarah con quel sorriso impagabile sulle labbra. Era adorabile in tutto e per tutto.

 

***

 

«Christin, smettila», disse fra i denti, sentendo la mano della sua migliore amica scivolare sulla sua coscia ed accarezzarla, tanto da farle venire i brividi.

«Che c’è, adesso non posso nemmeno toccarti?», sussurrò sogghignando.

«Detto in poche parole: no.»

«Come vuoi», annuì portandosi le braccia strette al petto e non rivolgendole più lo sguardo, fingendosi persino più interessata ai discorsi di suo padre e di Tom.

«Adesso fa la permalosa.» Anne roteò gli occhi al cielo, sospirando. Christin fece finta di non sentirla, rise ad una battuta di Tom che non era nemmeno divertente a parere di Anne, facendola innervosire parecchio.

«Ti odio quando fai così», le disse all’orecchio, ottenendo soltanto un gesto distratto della sua mano.

«Non vedi che sto ascoltando papà e zio Tom?», le disse qualche secondo dopo, per poi girarsi nuovamente, dandole le spalle.

«Senti, Christin», sussurrò fra i denti, voltandola e attirando la sua attenzione. Ma tutta la sua sicurezza, di fronte ai suoi occhi verdi come quelli il padre, svanì in un secondo e fu costretta ad abbassare lo sguardo.

«Sì?», la spronò l’amica, sogghignando: la sua dolce, timida ed insicura Anne.

«Non è che non puoi proprio, è che ora non è il momento né il luogo. E poi, sai che ci devo pensare e non devi mettermi fretta.»

Anne deglutì di fronte a quei pozzi verdi che la fissavano intensamente e si immobilizzò quando le spostò i capelli biondi dall’orecchio, delicatamente, e sorridendo le sussurrò:

«Un giorno mi stancherò di aspettare.»

 

***

 

Anto sospirò per l’ennesima volta seduta sul bordo del letto, di fronte alle enormi ante a specchio dell’armadio.

«Bill, hai finito?», chiese.

«Quasi!»

Sospirò ancora, con i gomiti appoggiati alle gambe ricoperte da un sottilissimo strato di collant neri, le mani sotto al mento.

Indossava un abito confezionato da Bill per lei, nero con dei minuscoli brillanti intorno alla scollatura e le maniche lunghe di stoffa quasi trasparente nera, morbida come seta.

Si alzò in piedi per controllare l’ora sulla sveglia sul comodino e per sgranchirsi le gambe: era mezz’ora che se ne stava lì seduta ad aspettarlo.

«Possibile che tu sia sempre l’ultimo?», si appoggiò con la spalla allo stipite della porta del bagno, a guardarlo mentre si spruzzava il profumo sul collo.

«Le star si fanno attendere.»

«Sì, invece le altre star ti sbraneranno, soprattutto Tom.»

«Ma va’, Tomi mi vuole bene», sorrise allo specchio. Si girò verso di lei soddisfatto. «Ok, possiamo andare.»

«Davvero? Wow, che notizia strepitosa. Muoviamoci, se no sarò io a sbranarti, sto morendo di fame.»

Salirono in macchina e si diressero verso il ristorante. Lo stomaco di Anto che non faceva altro che brontolare; per non sentirlo, e non solo, iniziò una conversazione impegnativa con Bill, che guidava fischiettando al suo fianco.

«Bill, che ne pensi di Katrina?»

«La sorella di Juri?»

«Sì. Insomma, quando è stata con lui, ieri, sembrava così…»

«Mamma.»

«Esatto. Io credo che…»

«No, è impossibile. Non può essere sua madre.»

«Beh, perché no? Hai visto come si somigliano.»

«Sinceramente lei somiglia più ad Ary che a Juri.»

«Ma si vedeva che aveva proprio quell’istinto materno, era protettiva… e quella luce che aveva negli occhi…»

«Credi davvero che abbiano avuto qualcuno, al di fuori di loro stessi? Probabilmente hanno vissuto insieme, per quello che hanno potuto.»

«Io invece credo che… potrebbe essere.»

«Ma ha appena diciannove anni!»

«Bill, adesso, non per dire che l’Estonia è un brutto paese, però non è proprio il primo al mondo in fatto di legalità. Le persone vengono sfruttate ovunque, non esiste il paese perfetto. E poi, che ne sai, potrebbe anche essere che è rimasta incinta per sbaglio. Avrebbe avuto quattordici anni, circa. E non è nuovo il fatto che si inizi così presto ad avere questi rapporti.»

«Quindi, ne sei proprio convinta?»

«Non ne sono convinta, però ho il forte sospetto che sia così.»

«E allora perché ci ha detto che era sua sorella, scusa?»

Anto lo guardò per qualche secondo. La strada proseguiva scura nella notte, pochi lampioni costeggiavano le vie e più avanti si vedevano i grattacieli illuminati, definendo il confine tra quei quartieri poveri e il lusso della città.

«Bill, ma che strada hai preso?», chiese Anto.

«Ho seguito il navigatore, perché?»

«Non mi sembra questa. Quando sono andata con Ary, per la prenotazione, non abbiamo fatto questa strada.»

«Vuoi dire che ci siamo persi? Che questo navigatore di ultima generazione ha sbagliato? Stupida tecnologia.»

«Mi sa proprio di sì, a meno che non sia una strada più veloce…»

«Una specie di scorciatoia?»

«Oh mamma.»

«Che c’è?» Bill guardò nella stessa direzione di Anto e notò un fuocherello acceso in un bidone, con intorno un gruppo di ragazze più o meno giovani più nude che vestite, che cercavano di riscaldarsi in quella notte gelida. Cercò di focalizzare i visi di quelle prostitute, ma non notava niente che potesse averla fatta impallidire così.

«Quella è… quella è Katrina», sussurrò lei indicando una bionda con un minuscolo vestito nero e blu, le gambe coperte solo da delle calze a rete sgualcite, che si teneva stretta nella sua giacchetta di pelle. Accanto a lei c’era una donna, molto più vecchia di lei, che adocchiava la loro macchina che sia avvicinava e le dava amorevoli pacche sulla spalla. Che c’era d’amorevole in tutto quello dovevano ancora capirlo.

Senza nemmeno pensarci, arrivato accanto a lei, Bill si fermò e tirò giù il finestrino dalla parte di Anto.

«Vai, tocca a te», le disse la donna prima di spingerla verso la macchina. Lei traballò sui tacchi e sobbalzò impaurita quando vide Anto nel posto del passeggero.

«E voi…», sussurrò, con gli occhi pieni di lacrime.

«Katrina! Sei proprio tu!»

«Forza, salta su», disse Bill, sorridendole.

«Ma, io…», cercò di obbiettare lei, guardandosi alle spalle.

«Sbrigati.»

Il tono di Bill era cambiato così tanto da intimorirla, quindi chiuse la bocca e aprì la portiera. Si mise seduta sui sedili posteriori e cercò di trarre conforto stringendosi ancora di più nella giacca, ma dentro all’auto si stava bene, era calda ed era come un salvavita per lei che stava congelando.

«Dove mi portate?», chiese la ragazza, esitante.

«Tranquilla, vieni con noi al ristorante.»

«Che cosa? No, io…»

«Sì, tu verrai, e senza fare storie.»

«Non voglio che Juri mi veda così», tremò.

«Sono certo che capirà. Ma prima, fai capire anche noi.»

«Katrina, tu… ecco perché sembravi così stanca in questi giorni. Perché lo fai?», chiese Anto, disperata come se fosse sua figlia.

«Per stare qui! Per vedere Juri!»

«Ma tu lo sai che puoi vedere Juri tutte le volte che vuoi.»

«Ma se non vivo come faccio a vederlo?!», singhiozzò. «Lui è tutto ciò che ho… non voglio perderlo. Sarei disposta a tutto per lui, perché viva come ogni bambino: felice.»

«Tu non sei sua sorella, vero?», Anto la guardò dallo specchietto retrovisore, con tutta la serietà di cui era capace. Katrina mosse appena il capo in segno di negazione si coprì il viso con le mani, piangendo a dirotto.

«Come immaginavo», mormorò.

Anto guardò con la coda dell’occhio verso Bill: era serio e teso in viso, quasi nervoso. Gli prese la mano sul cambio e la strinse, rassicurandolo con un leggero sorriso che lui ricambiò facendo un lungo respiro.

Arrivarono al ristorante e prima di raggiungerci al piano di sopra, nella nostra zona riservata, tutti i presenti non videro di buon grado Katrina trascinata da Bill per il polso, e avevano iniziato a borbottare. Nessuno se ne curò troppo e salirono le scale. Anzi, forse non li avevano nemmeno sentiti, erano troppo sconvolti tutti e due anche solo per notare che tutta l’attenzione era rivolta a loro, e non perché Bill era Bill Kaulitz, cantante dei Tokio Hotel e stilista di successo, ma perché erano accompagnati da una puttana.

Quando li vidimo arrivare rimasimo un po’ tutti sbigottiti per la loro ospite, ma sorvolammo di buon grado per non creare tensioni, soprattutto fra i più piccoli.

«Finalmente siete arrivati! Qui stavamo per diventare cannibali!», scherzò Tom per alleggerire l’atmosfera, e ci riuscì benissimo.

«Wow, come siamo eleganti…», schioccai un bacio a Bill con la mano, facendogli un occhiolino che lui ricambiò estasiato.

«Mamma, perché è vestita così?», mi chiese Sarah angelica, indicando con il dito Katrina che si sedeva impacciata accanto a Giulia, sorridente e socievole come sempre, anche se era impegnata con Harry.

Non avevo ancora controllato l’espressione di Sharon, ma non doveva essere stata molto contenta nell’averla vista scortata dai suoi genitori.

«Perché, non ti piace il suo vestito? È molto alternativo», sorrisi di sottecchi a Katrina, che diventò subito paonazza.

«No, è bello!», disse entusiasta Sarah, saltando sulla sedia. «Posso andare a salutarla con Juri?»

«Certo tesoro. Tu da mangiare vuoi gli spaghetti al sugo, vero?»

«Sì, grazie mamma», mi baciò sulla guancia e poi scese dalla sedia per far tappa prima da Juri e poi da Katrina.

Quando Katrina vide Juri al suo fianco le si illuminarono gli occhi e lo prese in braccio abbracciandolo forte, poi fece salire anche Sarah, sulla gamba libera. E mentre lei si lasciava accarezzare i capelli come una bambola dalla piccola, Anto, che era proprio di fronte a me, mi prese la mano e mi guardò.

«Che c’è?», chiesi. Lei abbassò lo sguardo e mi lasciò la mano, riportandola vicina all’altra sotto al tavolo. «Anto, non dovevi sentirti in dovere di portarla qui per mia madre…», dissi a bassa voce, ma non troppo, visto che sia Tom che Bill si erano girati.

«Non mi sono sentita in dovere di farlo», disse in una fase di accesa convinzione. Era davvero una cosa seria, glielo si leggeva negli occhi. «Ma perché ormai… le voglio bene», si strinse nelle spalle sorridendo. «E poi perché non voglio impedirle di vedere Juri.»

«Giusto, è pur sempre sua sorella», dissi annuendo.

«Beh, di questo sarebbe meglio parlarne a casa con calma», disse Bill con la mano di Anto intrecciata alla sua.

«Che cosa vorresti dire? Lei non è… Porca miseria!», esclamò Tom fissando a bocca aperta Juri e Katrina.

«Tom, è una situazione delicata», disse Anto.

«Sì, scusa, è che… Porca miseria!»

«Ok, sei sconvolto, però evita», consigliai. Lui si mise una mano sulla bocca e si concentrò soltanto su di noi.

«Io pensavo… beh, se voi eravate d’accordo…», balbettò Anto, sempre più rossa.

«Sì?»

«Non è che potrebbe venire ad abitare da noi?», completò Bill al posto suo.

«Ah, beh, io…», disse Tom, ma qualcun altro si intromise e scavalcò la sua voce.

«Sì, sì certo che può venire. Anzi, deve.»

Quel qualcun altro era Sharon. Non ce lo saremmo mai immaginato, ma era stata proprio lei, in piedi accanto a noi, con Nicolas per mano. Non centrava nulla lui, però lei non voleva lasciarlo un attimo, era come se le desse forza.

«Sharon, sei sicura?»

«Sì, sicurissima.»

Mi guardai intorno e notai che tutti, compresa Katrina e i bambini in braccio a lei, avevano seguito la scena, e lei era a dir poco a bocca aperta, stupita e commossa allo stesso tempo, anche un po’ impaurita.

«Ma, Sharon… tu la odiavi!»

«Ho capito molte cose, adesso», guardò Katrina con un sorriso. Si sfilò la felpa e gliela porse.

«Non posso», sussurrò Katrina.

«Sì che puoi, invece!», gliela lanciò addosso e rise guardando l’espressione buffa che aveva fatto, come Sarah e Juri.

«Sono stata una stupida», si rivolse ancora una volta a noi. «Ho giudicato il libro dalla copertina, senza capire davvero quale storia meravigliosa fosse, in realtà.»

Quel paragone era azzeccato, Juri lo capì meglio di tutti. Chissà se era stata sua madre ad insegnargli a leggere e ad appassionarlo ai libri in quel modo.

«Scusami, Katrina. Mi potrai mai perdonare?»

Katrina sorrise e annuì con il capo, le lacrime che brillavano agli angoli degli occhi.

«Perfetto! Allora propongo un brindisi a Katrina, una nuova componente della famiglia», disse Tom alzandosi con il bicchiere in mano.

Certo che quel Natale era proprio strano, non c’era momento in cui non ci sorprendesse con qualche nuova notizia, eppure così bello che solo in un sogno poteva essere così. Nel nostro sogno, la nostra vita. Uniti per sempre, nel bene e nel male.

«Allora signori, volete ordinare?», chiese un cameriere vestito di tutto punto, cortese come solo un cameriere poteva essere; pure il suo viso esprimeva cortesia.

Katrina provò per la prima volta ciò che voleva dire avere Sarah in braccio, che quando si trattava di cibo si scatenava peggio di Stefan e Alex messi assieme da bambini.

Almeno su questo ci assomiglia, sorrisi piena d’affetto.

«Sì, io, io! Voglio gli spaghetti al sugo!», gridò.

«Subito signorina», le sorrise.

Infondo Sharon non aveva tutti i torti: era uno dei Natali più belli anche della mia vita. Avevo i miei amici, la mia famiglia… Tutti noi messi insieme eravamo una grande famiglia, unita per l’eternità. Non potevo volere di meglio.

Quel giorno, per la prima volta, tornai a credere in Babbo Natale.

 

 

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Buonasera :)
Scusatemi se lo scorso lunedì non ho postato il capitolo, ma ero in vacanza xD Una bellissima vacanza che già mi rammarico che sia finita così in fretta ç_ç E mi sono dimenticata di avvisarvi, ecco u.u
Beh, ecco a voi il capitolo che vi spetta. Mi piace, spero piaccia anche a voi *-*
Il titolo significa "Il branco" xD Le due famiglie Kaulitz, insieme, alla fine sono un branco, talmente tanti sono i loro componenti, non trovate? xD 
Ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo:

Tokietta86 : Non ci credo che il sogno/realtà ti sia piaciuto, però vabbè xD (Veramente ridicolo o.o) Sì, è stato difficile un po’ per tutti dopo la morte di Davide…
Bea non sta simpatica nemmeno a me, come te tifo per Krista xD Sarà un segno che non combinano niente Alex e costei? U.U xD
Bill è il padre supergeloso e la tirerà lunga u.u Qui traiamo un sospiro di sollievo, ma non c’è da star tranquilli xD
La sorella di Juri si è rivelata sua madre ed è un bel casino ora, chissà che cosa accadrà! xD A Sharon non le andava giù, ovviamente, perché non si è presa cura di Juri abbastanza, ma adesso ha capito e chissà, magari diventeranno amiche :)
Grazie mille, alla prossima, un bacio!

Utopy : Ahh, tu sei la mia vacanzaaa *-* Buonasera xD Chissà quando leggerai questi ringraziamenti, forse stasera (Dai il computer anche a Edo, poverino xD), forse addirittura non va (a parte msn xD) e quindi boh o.o Insomma, già mi manchi e voglio già sentirti ç__ç Voglio ringraziarti ancora una volta per la bellissima settimana, mi raccomando non essere troppo triste che poi io lo percepisco :’( Ti voglio un bene dell’anima Mond, tanto tanto! <3 (Salutami Caffèlatte, quando rifai pace con Luca e vai a trovare il mio cucciolino *-* Salutami anche Panna, dai u.u xDD)
Okay, ho scritto troppo o.o Grazie per la recensione allo scorso capitolo xD Ridicolo, ridicolo il ciclo maschile >/////< Georg e Gustav ci sono, sììì xD Oggi li hai visti, c’è stata una nuova rimpatriata per Natale xD
La “sorella” di Juri è la mamma! Okay sì, Anto ha dei poteri speciali e si accorge di tutto u.u Ma a parte questo xD Perché ti sta sulle balleeee, ma uffaaaaa xD Io l’adoro *-* E poi non si conosce ancora niente di lei, sono sicura che ti piacerà più avanti u.u
Bea. Lasciamo stare xD
Bene, ho finito o.o Wow. xD Ti voglio tantissimo bene anche io Mond! *-* Tua, forevveeeer, Sonne.

freency : xDDD Ero in vancanza xDDD Accontentata, spero ti sia piaciuto :)

Grazie anche a chi ha letto soltanto!
Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 21
*** Happy new year... ***


Buonasera!
È una serata fiacca, non sono di buon umore .___. Ma visto che ero già in ritardo (dovevo postare ieri, scusatemi xD), ho deciso di dare un senso a questa serata.
Dunque, dunque… che dire di questo capitolo? A voi la spiegazione di quel che è successo in quello precedente fra Anne e Christin. Qualcuno di voi se n’è già accorto ;)
Tra cui anche freency, che ringrazio infinitamente per aver recensito! (P.S. Eh, Nicolas è proprietà privata xD). E ringrazio anche Tokietta86, sempre presente :D Grazie, un abbraccio!
Un grazie anche ad Utopy, che anche se non ha commentato c’è. (Acciderbolina se mi manchi ç___ç Ce la possiamo fare xD).
Ora vi lascio, buona lettura!
Vostra,

_Pulse_

 

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Ti brucerai, piccola stella senza cielo
Ti mostrerai, ci incanteremo mentre scoppi in volo
Ti scioglierai, dietro a una scia, un soffio, un velo
Ti staccherai, perché ti tiene su soltanto un filo, sai

(Piccola stella senza cielo – Ligabue)

 


Capitolo 14
Happy new year…

 

«Piccola? Piccola mia

«Dio, quanto mi dai i nervi!»

«Ma dai, Anne!», aprì le braccia sorridendo. «È solo un modo affettuoso per chiamarti!»

«Sai che lo odio. E sai anche che in pubblico non voglio che mi chiami in modo affettuoso o fai qualcosa di fraintendibile. Mettitelo bene in testa, una volta per tutte», sbuffò.

«E allora perché sei diventata rossa?», sussurrò avvicinandosi al suo viso e accarezzandole la guancia con il dito. «Mia piccola stella senza cielo

«Christin… Ti ho detto… Ahm…», sospirò massaggiandosi le tempie e scosse la testa sgusciando via da lei e alzandosi dal divanetto, diretta verso i bagni.

«Anne!», gridò Christin furiosa, alzandosi e guardandola truce. «È capodanno, vedi di divertirti una buona volta!»

Parlare è facile, pensò abbassando lo sguardo e voltandosi, dandole le spalle.

Entrò in bagno e si guardò nello specchio, come un’altra ragazza accanto a lei, che si stava ripassando il rossetto bordeaux sulle labbra. La osservò da lontano e notò che aveva dei bei capelli, leggermente ondulati e brillanti, e anche un bel fisico… Scosse la testa e chiuse gli occhi guardando la propria immagine riflessa: Christin la stava influenzando!

«Bella festa», disse la ragazza, accennando un sorriso e guardandola con la coda dell’occhio.

«Sì, vero», annuì distrattamente.

«La ragazza che sta con te… è la tua ragazza?»

Diventò rossa all’improvviso e la guardò, scoprendo un sorrisetto malizioso sulle sue labbra carnose: che cosa stava pensando? Si vedeva così tanto che tra loro due…

«Chiedo perché non vorrei mettermi in mezzo. È una bella ragazza», annuì con gli occhi al soffitto, meditabonda.

«S-sì, stiamo insieme», balbettò Anne, portando le mani ai fianchi e annuendo con la testa, gli occhi chiusi.

«Oh, che peccato», sbuffò. «Vabbè, ci si vede!», la salutò vivace con la mano e uscì dal bagno, lasciandola da sola.

Anne sospirò portandosi una mano al petto e si guardò di nuovo allo specchio, si accarezzò i capelli biondi che le arrivavano appena alle spalle, lo sguardo assente.

Non era vero che Christin e lei stavano insieme, però… quasi. Insomma, lei non voleva che qualcun’altra si mettesse in mezzo, perché lei stava riflettendo da un po’ su quella cosa, da quando la sua migliore amica gliel’aveva detto.

Iniziò tutto quando Edgard, il suo migliore amico, le confessò di essersi preso una cotta per lei. Da quel giorno tutto le era sfuggito dalle mani, facendola a dir poco impazzire.

«Ehm… Io non dico che devi rispondermi subito, solo… pensaci.»

«È ovvio che ci penserò, Edgard. Solo che… non me l’aspettavo. Sei il mio migliore amico!»

«Era da un po’ che provo questi sentimenti per te, solo che non ho mai avuto il coraggio di dirtelo.»

«Oh, ok. E se non dovesse funzionare?», chiese con gli occhi tristi, abbassando lo sguardo.

«Ci ho pensato tanto anch’io, Anne.» Lo sguardo della ragazza era perso fuori dalla finestra, malinconico, e lui odiava vederla in quello stato, come se fosse su un pianeta tutto suo. «Ma non ce la facevo più a stare zitto. Io tengo davvero molto a te, non voglio prenderti in giro.»

Si era preso proprio una bella cotta per lei, nonostante fossero migliori amici da sempre. Anne si era sentita lusingata, ma anche sbigottita: pensare ad Edgard come qualcosa di più di un amico non le era semplice. Provava ad immaginarsi accanto a lui, come sua ragazza, ma ogni sforzo era vano, sfumavano nell’aria come le nuvolette di vapore del proprio respiro al freddo.

Anne aveva un carattere introverso, spesso preferiva stare da sola nel suo mondo, ed Edgard era una delle poche persone che erano entrate a far parte della sua vita, una presenza silenziosa della quale non avrebbe mai fatto a meno. Ma ora le cose stavano cambiando, e in modo radicale.

Le sue esperienze con i ragazzi erano state poche e deludenti, anche a causa del suo carattere chiuso, e non voleva buttarsi in quel modo in una storia, con il suo migliore amico tantomeno.

Lei voleva bene ad Edgard, ma… gli voleva bene semplicemente come amico o c’era un vero e proprio interesse verso di lui? E se c’era un interesse, era curiosità oppure amore? Non aveva mai pensato a tutto quello seriamente, e con Edgard le cose si facevano ancora più complicate. Non era scattato niente a prima vista, quando lo aveva conosciuto, nonostante fosse così carino, dolce e gentile con lei, un vero amico. Sarebbe potuto scattare provandoci? Avrebbe dovuto rischiare la sua amicizia oppure lasciare perdere direttamente?

«Non cambierebbe niente, se non dovesse andare oppure se io ti dicessi di no?», gli chiese a bassa voce.

«Io… io non lo so, Anne», abbassò lo sguardo. «Penso che, comunque sia, io non potrei più essere tuo amico in questo modo. Sicuramente le cose cambierebbero, perché ora che ti ho aperto il mio cuore… Per esempio non potrei sopportare di vederti con un altro e tu non potresti parlarmi del ragazzo che ti piace come hai sempre fatto.»

Anne annuì, con gli occhi lucidi, stringendo convulsamente la matita nella mano: «Quindi ti perderei.»

«Non ho detto questo. Ho detto solamente che non sarebbe più come prima.»

«E non ti sembra abbastanza?», mormorò con la voce spezzata, guardandolo per la prima volta negli occhi. «Io non voglio che le cose cambino, Edgard.»

«Sono già cambiate, Anne, che tu lo voglia o no», le accarezzò la guancia, quando la campanella decretò la fine dell’ora di supplenza, durante la quale non avevano fatto niente, e Anne schizzò fuori dalla classe, rifugiandosi nei bagni.

Si mise seduta sul cesso, nel bagno che aveva la finestra perché dava sulla facciata laterale dell’edificio, e si strinse le gambe al petto, mentre guardava distrattamente fuori la neve cadere leggera attaccandosi al cemento, e asciugandosi la lacrima che silenziosa le aveva rigato la guancia.

Rimase lì per minuti, sprecando il suo intervallo nonostante i morsi della fame, con la testa svuotata da qualsiasi pensiero: non aveva voglia di pensare, meglio rimandare, anche se prima o poi avrebbe dovuto tornarci sopra.

Qualcuno bussò alla porta e lei si schiarì la voce, prima di dire che era occupato e che non si sarebbe liberato presto.

«Attacco di diarrea?», ridacchiò Christin.

Anne chiuse gli occhi e aprì la porta: la sua migliore amica era lì, in piedi di fronte a lei, con una focaccia in mano, che le sorrideva sorniona.

«Che è successo?», le chiese chiudendosi la porta alle spalle e sedendosi sul ripiano della finestra, guardandola dolce come solo lei sapeva fare.

«Edgard… mi ha detto che si è preso una cotta per me e mi ha chiesto se voglio diventare la sua ragazza», sussurrò.

«Ah.» Christin corrugò la fronte, guardando il soffitto.

«Ah. È tutto quello che hai da dire?», le chiese, il mento fra le braccia sulle gambe. Christin la guardò e sorridendo le offrì la focaccia, che Anne prese senza esitazione.

«Penso che abbia fatto bene a dirtelo: pensa che sofferenza per lui se se lo fosse tenuto dentro e tu lo avessi trattato come sempre, ossia solo come il tuo migliore amico. E poi, penso che tu non debba piangere», le passò una mano sulla guancia. «Sei brutta quando piangi.» Le strappò un sorriso.

«Che cosa devo fare, Christin?», mugugnò.

«Quello che ti senti», sollevò le spalle. «Anche se io non sarei d’accordo se tu ti mettessi con lui.»

«E perché?»

«Non è il tipo giusto per te.»

«In che senso?»

«Troppo timido, troppo casto, troppo pappamolle…»

«Ehi! È sempre il mio migliore amico!», le tirò il sacchetto di carta della focaccia il testa.

«Scusa», sollevò le mani, ridacchiando. «Tu hai bisogno di qualcuno di forte, qualcuno che ti sappia far smuovere, che ti liberi della tua timidezza, che ti rassicuri, che ti conforti, che ti faccia sentire importante, che ti difenda e che ti domini, anche.»

«Illuminami», sospirò, anche se era ad occhi sgranati.

«Una come me», sogghignò.

«Molto divertente», ridacchiò.

«Sai, mi sono lasciata con Lizzie», le disse, sistemandosi i capelli lunghi dietro le spalle e il collare borchiato che portava al collo, giochicchiando con uno degli spuntoni argentati con le unghie laccate di viola scuro.

Ammirava la sua migliore amica, la ammirava davvero perché lei era dura, proprio come sembrava all’esterno, ma sapeva anche essere dolce e provare dei sentimenti come tutti, e con lei era di una tenerezza smisurata. Era una grande testarda, determinata e che otteneva tutto quello che voleva se lo desiderava: come convincere i suoi genitori a lasciarle tingere i capelli di nero con i riflessi blu, a lasciarle fare il piercing al naso e al labbro, a lasciarla libera di vivere la sua vita come voleva, vestendosi come voleva e sentendosi ciò che voleva. A volte persino la invidiava, pensando ai suoi genitori e ai loro no alle sue richieste.

E l’ammirava anche perché Christin, in confronto a lei, non aveva paura del giudizio della gente: lei era lesbica, eppure non l’aveva mai nascosto e non si era fatta mettere i piedi in testa da nessuno; era sempre riuscita a farsi rispettare ed Anne non sapeva se lei ne sarebbe mai stata in grado.

«Come mai?», le chiese.

«Così… Non eravamo fatte l’una per l’altra, penso. Le cose tra noi non andavano più bene e credo di essere… infatuata di un’altra persona, al momento. Cioè, è da un po’ che lo sono, ma non gliel’ho mai detto.»

«Chi è, la tua migliore amica?», ridacchiò. «Che poi sarei io, tra l’altro.»

«E se fosse?», sussurrò Christin, avvicinandosi a lei con un sorrisetto sulle labbra.

«Oh no. Christin, dimmi che stai scherzando. Ho già un migliore amico che è in questa situazione, non puoi anche tu… Non è divertente, Christin!»

«Non ti preoccupare, Anne», le disse carezzevole, prendendola per la nuca e avvicinandola più a sé.

«Io… io mi preoccupo invece, accidenti! Io non sono come te!»

Christin sogghignò, la frangia che le copriva gli occhi verdi, e sfiorò le labbra di Anne con le proprie: non importava se era giusto o sbagliato, non importava nulla in quel momento; lei sentiva di doverlo fare e lo stava facendo, seguendo il suo istinto, come sempre.

«E chi te l’ha detto, che non sei come me?», sussurrò Christin sorridendo, scostandosi poco prima che la campanella suonasse, lasciandola da sola e ancora più confusa in quel bagno.

Si sciacquò il viso con l’acqua fredda e si appoggiò al lavandino con le mani, gocciolando.

Da quel giorno tutto era cambiato in lei: non sapeva più chi era, che cosa voleva, verso chi provava delle emozioni. Il bacio di Christin l’aveva sconvolta e l’aveva fatta ragionare tanto da farsi venire il mal di testa: chi le diceva che non era come lei, infondo? Lei aveva ragione, però… ancora non era riuscita a darsi una risposta.

Però, qualche giorno dopo, era arrivata alla conclusione che, Christin o meno, fra lei ed Edgard non sarebbe mai potuto nascere niente: lui era solo il suo migliore amico. Aveva parlato con lui e si era sentita un vero schifo quando aveva visto scomparire dai suoi occhi quella luce che li rendevano belli e così allegri.

Lui era uscito silenzioso dalla sua vita come ci era entrato, ma non poteva né arrabbiarsi né piangere, perché oltre ad essere colpa sua, se lo doveva aspettare: come poteva essere ancora suo amico, dopo quella carognata? Come avrebbe fatto anche lei stessa a rivolgergli la parola come se non fosse successo niente, con che faccia tosta?

Con Christin le cose erano sempre diventate più complicate, ogni giorno che passava. Non voleva perdere anche lei come amica, non lo avrebbe mai voluto, e lei l’aveva messa in una situazione assai difficile, rivelandole che provava qualcosa per lei.

«Sì, io provo qualcosa per te, e allora?»

«E allora? Ma ti rendi conto? Io… io non sono come te, no.»

«Io non ti capisco. Chi te l’ha detta questa cazzata? Tu puoi essere chi vuoi, quando vuoi. Non penso che tu abbia schifo di me solo perché mi piacciono le ragazze, no?»

«No, questo no, è ovvio!», si mise seduta sul letto, sospirando.

«Non mi è ovvio, Anne», sussurrò sedendosi al suo fianco e prendendole le mani fra le sue. «È per l’opinione che potrebbe avere di te la gente? È questo che ti spaventa? Oppure ti spaventa come potrebbero prenderla i tuoi genitori?»

«Entrambe», abbassò lo sguardo.

«Ti fai sempre di quei problemi inutili», le accarezzò la guancia, avvicinandosi.

Anne la osservò in viso, guardò quegli occhi verdi truccati di nero, guardò le sue labbra rosse e bellissime avvicinarsi; ricordò il sapore di esse e la sensazione che aveva provato sentendo il suo piercing freddo sulle proprie labbra: era stato strano, ma allo stesso tempo… bello; si era sentita libera, si era sentita bene come mai era stata eppure aveva avuto anche timore, di tutto e di niente.

Scosse la testa, come se fosse stata ipnotizzata, e si scostò, alzandosi dal letto e grattandosi la nuca.

«È inutile scappare in questo modo, Anne, lo sai», la rimbeccò Christin, sospirando.

«Io… io non voglio perdere anche te, non voglio.»

«Non mi perderai mai, Anne.»

«Ma come farò a guardarti in faccia? Mi verrà sempre in mente… questo.»

«Vedi, tu ti fai troppe seghe mentali», ridacchiò. «Devi imparare a rilassarti, a vivere i momenti, perché così ti rovini solo la vita, con i tuoi complessi.»

«E poi io ho bisogno di tempo. Fin’ora mi sono sempre piaciuti i ragazzi, non puoi arrivare tu con un cavolo di bacio e confondermi in questo modo.»

«Se un semplice bacio ti ha confusa in questo modo, vuol dire che magari è venuto a galla un aspetto di te che hai sempre tenuto nascosto. Perché se tu non fossi stata come me o qualcosa di simile, il mio bacio non ti avrebbe fatto…», si avvicinò e le spostò i capelli dall’orecchio: «… niente di niente», sussurrò. Si scostò e sorrise. «Anzi, ti saresti arrabbiata e mi avresti presa a schiaffi, che ne so. Ma non l’hai fatto, chissà come mai.»

«Non dire idiozie, dai», sorrise nervosamente.

«Pensaci, Anne, e ti accorgerai che queste non sono “idiozie”, anzi. E comunque aspetterò, se è questo che vuoi. Quanto?»

«Non… io non lo so! Devo avere anche una scadenza?»

«Rilassati, chiedevo soltanto. Ora devo andare a casa, ci vediamo.»

«Sì, ci vediamo.»

Forse Christin aveva ragione: con i suoi complessi si rovinava la vita e se n’era accorta spesso, perché da quel giorno, da quando lei l’aveva baciata e aveva esternato in quel modo tutto quello che si teneva dentro, non era riuscita più a vivere i semplici momenti, troppo impegnata a pensare, a riflettere su quello che stava succedendo dentro di lei.

Aveva tanta paura, paura vera di star bene con Christin, di essere come lei o qualcosa di simile… Cosa avrebbero detto i suoi genitori, i suoi amici? L’avrebbe accettata comunque?

Si era fatta molte volte quella domanda, fino a quando non le era venuto in mente che anche Christin non l’aveva detto ai suoi genitori. Aveva chiesto spiegazioni e la sua risposta, detta ridendo, era stata che non gliel’aveva detto perché avevano già i loro problemi a cui pensare; non le andava di mettersi in mezzo ulteriormente, non perché aveva paura della loro reazione: lei non aveva paura di niente.

Con il passare del tempo, aveva anche scoperto che era diventata gelosa di Christin: quando la vedeva chiacchierare con altre ragazze della sua classe, quando la vedeva ridere e sorridere senza di lei, sentiva la rabbia ribollirle nelle vene senza una spiegazione, se non per gelosia.

L’aveva dimostrato persino in quel momento, con quella ragazza che le aveva chiesto se era la sua ragazza. Lei aveva detto sì, ovviamente, anche se non era propriamente vero.

Come doveva interpretare tutto quello? Provava veramente qualcosa per lei? Che cosa doveva fare?

Sospirò e si portò le mani alle tempie, sentendo un cerchio stringerle la testa in una morsa.

«Anne.»

Sobbalzò, colta alla sprovvista, e si portò una mano sul cuore, respirando velocemente. Si girò verso l’entrata del bagno e vide Christin, nel suo minivestito nero con la gonna a balze e i guanti senza dita a righe nere e viola che le prendevano tutte le braccia. Quella sera era davvero bellissima, e i suoi occhi contornati di nero e di viola erano spettacolari, ancora più magnetici di quello che erano già.

«Tutto bene?», le chiese dolcemente, avvicinandosi.

«S-sì, tutto a posto», annuì frettolosamente, prendendo un po’ di carta e asciugandosi il viso. Christin sospirò e si appoggiò al lavandino accanto al suo, le braccia strette al petto.

«Mi dispiace per prima, non volevo risponderti in quel modo, solo che… io non ce la faccio più ad aspettare, Anne», abbassò lo sguardo, nascondendo gli occhi dietro la frangia nera. «Tu… tu non mi basti più ed è difficile guardarti e trattenermi dal baciarti, dal toccarti. Io sono tanto forte, ma anche io ho un cuore e tu… tu non ti stai comportando bene con lui.»

«Mi… mi dispiace, Christin, davvero», mormorò, gli occhi lucidi. «Non ci posso fare niente, io non so se… Prova a capirmi.»

«E tu prova a capire me, una buona volta, invece di pensare solo ed esclusivamente a te stessa.» Girò i tacchi e si avviò verso la porta, per ritornare nella festa, quando Anne la prese per il polso e la guardò negli occhi.

«Mi dispiace», mormorò, prima di abbracciarla. Christin ricambiò l’abbraccio e la strinse forte, affondando il viso fra i suoi capelli, posandole un delicato bacio sul collo.

«Christin, ti prego», mormorò Anne, scostandosi o almeno provandoci.

«È quasi mezzanotte», disse Christin. «Meno tre», le diede un bacio leggero sulle labbra, «due», un altro, «uno», un altro ancora. «Buon anno», le sussurrò, mentre dietro la porta del bagno esplodevano tappi di spumanti, la festa si animava e si scambiavano gli auguri.

«Buon anno anche a te», balbettò. Christin fece un lieve sorriso e la baciò ancora sulle labbra: fu per la prima volta un bacio vero ed appassionato, che rese la decisione di Anne ancora più lontana: che cosa doveva fare?

«Christin, ti prego, ti supplico», disse Anne riuscendo a staccarsi dalle sue labbra e a guardarla negli occhi.

«E ora che cosa c’è?!», sbraitò. «Cosa c’è questa volta?!»

«Dammi… dammi ancora un po’ di tempo, per favore.»

«Quello che mi stai chiedendo è… non trovo le parole per descriverlo! Sei una stronza!» Anne abbassò lo sguardo, stringendo i pugni, ferita da quelle parole. «Ma… ma per te aspetterei anche tutta la vita», concluse Christin, accarezzandole la guancia e mostrando un piccolo sorriso, nonostante gli occhi lucidi.

«Io non voglio farti soffrire, Christin.»

«Lo so, piccola, lo so», sussurrò abbracciandola.

«Ah! Eccovi qua voi due!» Sobbalzarono e si girarono, trovandosi di fronte Georg. «Che è successo?»

«Papà, questo è il bagno delle ragazze!», sbottò Christin.

«Lo so, che credi? Non tornavate più!»

«Adesso non possiamo più avere nemmeno un po’ di privacy in bagno», mormorò, guardando la sua mano intrecciata a quella di Anne, che subito si liberò da quella stretta.

«Che cos’hai detto?»

«Niente, niente», fece un cenno con la mano; Georg sollevò le spalle.

«Sbrigatevi, che andiamo a casa.»

«Di già?»

«Sì.»

«Come mai?»

«Sharon, Stefan, Alex e Krista devono riposare perché in questo periodo hanno diversi concerti e così vanno a casa, con Tom e Bill. Rimaniamo a fare che cosa?»

«Ok, ho capito, ma non ti arrabbiare.»

«Non mi sono arrabbiato.»

«Mi sembrava. Mi hai risposto con quella faccia!»

«Quale faccia?»

«Ah, lasciamo perdere.» Georg sparì dietro la porta e Christin lo seguì facendo echeggiare i tacchi dei suoi stivaletti neri di pelle sulle mattonelle del bagno, sotto lo sguardo di Anne che la percorse con lo sguardo.

«Anne, ti muovi? O prima devi farmi una radiografia completa?», ridacchiò e uscì dal bagno vedendola rossa di vergogna.

Anne scosse la testa, maledicendo il suo stesso sguardo, e uscì, raggiungendola. La adocchiò subito al bancone del bar, aldilà della pista da ballo illuminata e gremita di gente, dove si erano radunati anche tutti gli altri. Non molto distante vide anche la ragazza che aveva incontrato in bagno e notò che stava radiografando anche lei Christin, girata di spalle, con un sorrisetto malizioso sulle labbra, mentre sorseggiava il suo cocktail.

Oh no carina, te lo puoi scordare! Lei…

Lei cosa? Lei era sua? Nah, non lo era affatto, per colpa sua. Nonostante tutto, serrò la mascella, un’espressione indecifrabile, e si fece spazio fra la gente, creandosi un varco, e raggiunse Christin, che abbracciò da dietro, affondando il viso nei suoi capelli.

Sto sbagliando tutto così, però…

Però cosa? Doveva assolutamente fare qualcosa, doveva assolutamente fare chiarezza dentro di sé.

«Anne?», ridacchiò Christin, girandosi e guardandola giocosa negli occhi.

«Sì… Io… Ecco…», si grattò la nuca, mentre le sue guance prendevano colore. «Allora andiamo?»

«Sì», sorrise annuendo e la porse la mano, ma Anne la rifiutò facendo finta di non averla vista, anche se oltre a sentirsi in colpa si sentiva anche… male, come se qualcosa le si fosse conficcato in mezzo al cuore.

Uscirono dal locale nel quale erano andati per festeggiare quel capodanno e le varie famiglie si salutarono, promettendosi che si sarebbero visti presto.

«Ah, Anne! Salutaci tuo papa e tua mamma e auguragli buon anno da parte nostra, anche se li abbiamo sentiti per telefono», disse Tom con un ampio sorriso.

I suoi genitori non erano andati perché con Harry a cui badare sua madre non si era voluta schiodare di casa, e così Gustav aveva deciso di stare con lei, anche perché non era mai stato un tipo da feste.

«Sì, certo», rispose ricambiando e salutandoli con la mano.

Dopodiché si avviò assieme a Christin e i suoi genitori verso la loro macchina: l’avrebbero accompagnata loro a casa. Si mise seduta nei sedili posteriori, accanto alla sua migliore amica, e si allacciò la cintura, per poi puntare il suo sguardo fuori dal finestrino, in quella notte buia.

Nessuno fiatava, c’era tanto silenzio: gli unici rumori udibili erano le ruote che solcavano la strada e i deboli sospiri di Nicole, la mamma di Christin, con lo sguardo veramente perso fuori dal finestrino. E anche se Anne faceva finta di niente, se n’era accorta da un pezzo di quella tensione che aleggiava nell’aria e si sentiva vagamente in ansia.

Ad un tratto sentì la mano di Christin posarsi sulla sua, sul sedile, e stringerla; sobbalzò e la guardò con la coda dell’occhio, arrossendo, notando che invece lei si mordicchiava il labbro inferiore guardando di fronte a sé. Anne chiuse gli occhi stringendo i denti e si liberò della sua stretta, portando la mano in grembo, stringendosi. Non osò girarsi per vedere l’espressione dell’amica dal vivo, le bastò lo specchietto retrovisore a conficcarle un colpo in mezzo al petto.

Non si era nemmeno accorta di essere arrivata di fronte a casa, troppo presa dai rimorsi per il gesto che aveva fatto, e dovette ricordarglielo Georg, sorridendo dolcemente.

«Ah, sì», annuì frettolosamente, togliendosi la cintura senza sollevare lo sguardo su Christin. «Grazie per il passaggio.»

«Di niente Anne, salutaci Gustav e Giulia e dai un bacio ad Harry», le disse la signora Listing, sorridendo, mentre lei apriva la portiera, lasciando che il freddo invernale le sfregasse il viso e le gambe, protette solo da un paio di pantacollant neri.

«Sarà fatto.»

Scese dall’auto e non riuscì più a resistere: si chino e guardò all’interno, muovendo la mano in direzione di Christin, un timido sorriso sulle labbra. Ma la freddezza dei suoi occhi la pietrificò e quando chiuse la portiera e vide luccicare quella lacrima silenziosa sulla sua guancia pallida… sentì gli occhi inumidirsi e la ferita al suo cuore allargarsi sempre di più, bruciando.

Guardò la macchina allontanarsi, tirò su col naso congelato, come le orecchie, gli occhi ancora umidi, quando sparì dietro l’angolo e si incamminò verso la porta della sua villetta, passando per il vialetto ciottolato ancora innevato. Cercò le chiavi nelle tasche del suo cappottino nero ed entrò in casa, scoprendola buia e silenziosa, al contrario della sua testa: piena di pensieri, rumorosa, e di voci che la tormentavano con le solite domande di cui non sapeva le risposte, senza darle un attimo di pace.

Salì in camera sua, si spogliò in fretta, si infilò nel suo pigiama con una grande pecora sopra – lei amava le pecore – e si infilò in bagno per lavarsi i denti, tentando di non pensare a niente per qualche minuto, ma non fece in tempo a godersi quella pace che bussarono sul legno della porta aperta, facendola sobbalzare.

«Papà», biascicò, prima di sputare il dentifricio nel lavandino e di sciacquarsi la bocca. «Mi hai fatto spaventare. Che ci fai ancora sveglio?»

«Scusa», ridacchiò. «Volevo sapere com’è andata la festa. Ti sei divertita?»

«Ah, sì… sì», rispose, facendosi forza, e annuì passandosi l’asciugamano sulle labbra.

«Sicura? Va tutto bene?»

«Sì, perché?», tirò un sorriso.

«Hai una faccia… Non avrai mica bevuto, vero?»

«No, no! Io non bevo, lo sai papà.» A parte quella volta con Christin… Il suo nome salì a galla e scoppiò come una bolla nella sua testa, facendole male per un istante.

«Sarà meglio per te», la indicò, sorridendo.

«Ti salutano Tom, Bill, Georg e tutti gli altri», gli disse. «E ti fanno gli auguri di buon anno.»

«Oh, grazie. Buon anno anche a te, bambina», aggiunse, abbracciandola dolcemente.

«Non sono una bambina», mugugnò.

«Non sono io quello che dorme ancora con i pupazzi», ridacchiò passandole una mano fra i capelli.

«Ma che c’entra», ridacchiò e sventolò la mano. «Buona notte papà, grazie.»

«Buonanotte.»

Uscì dal bagno e una volta in camera sua, illuminata solo dalle luci di Natale fuori dalla sua finestra, si gettò sul letto, esausta: l’unica cosa che voleva fare fino alla mattina seguente era dormire.

Si rigirò nel letto, mettendosi sotto le coperte, e abbracciò il suo pupazzo preferito, non a caso una pecora di morbida lana bianca che le aveva regalato…

Christin, sospirò, accarezzando il pupazzo e stringendoselo forte al petto, gli occhi che le pizzicavano e la testa che le scoppiava a quelle domande: Che cosa doveva fare? Per quanto avrebbe dovuto continuare a soffrire? A privarsi di qualcosa che… la faceva stare bene – che lei lo volesse oppure no? Perché sì, i baci di Christin le piacevano, e non poco, e la facevano stare bene.

Il sonno, che sarebbe stato comunque agitato, la stava per travolgere, quando sentì il suo fratellino piangere stridulo nella stanza accanto alla sua e si ritrovò con gli occhi di nuovo spalancati rivolti al soffitto.

Che bell’inizio d’anno.

Si portò il cuscino sopra la faccia e trattenne un grido, scalciando.

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Capitolo 22
*** Together we'll make it ***


Hear me when I say, when I say I believe
Nothing’s gonna change, nothing’s gonna change destiny
Wh
atever’s meant to be will work out perfectly

(Keep holding on – Avril Lavigne)

 

 


Capitolo 15
Together we’ll make it

 

Un altro anno era passato, tra lacrime e sorrisi, ma avevamo superato tutto, insieme.

Ed era passata anche una settimana dal trasferimento ufficiale di Katrina a casa nostra: ormai era pienamente parte della famiglia.

Scese in cucina e trovò Sharon seduta al tavolo, una tazza di tè fumante fra le mani.

«Buongiorno», la salutò Katrina con non molta convinzione. «Come mai già in piedi?»

«Non riuscivo a dormire, sono già tesa per il concerto di dopodomani», si massaggiò le tempie.

«Posso venire a vederti?»

«I biglietti sono esauriti da settimane. È la prima volta che facciamo un sold-out. Forse è per questo che sono così agitata.»

Dopo l’annuncio del ritorno di Krista nella band c’era stato un boom nelle vendite dei concerti, tanto da fare il tutto esaurito in pochissimo tempo. Tutto quell’aumento improvviso però aveva sguinzagliato le malelingue dei mass media, che avevano interpretato la separazione del gruppo solo come una mossa mediatica per attirare l’attenzione delle stampa, per poi ritornare insieme. Ma loro non sapevano nulla di quello che era successo in realtà. 

«Oh.»

«Ma per i parenti c’è sempre posto.»

Katrina si girò e si appoggiò al ripiano della cucina, sorpresa. «Parenti

«Beh, fino a prova contraria Juri è mio fratello adottivo, quindi anche tu fai parte della famiglia.»

Cercò di distrarsi cercando il caffè solubile negli armadietti sopra la cucina, dandole le spalle.

«Mamma ci ha detto chi sei, veramente.»

Sharon lasciò il cucchiaino nella tazza e si alzò per metterla nel lavandino. Si appoggiò accanto a lei, paralizzata da quelle parole.

«Perché l’ha fatto?», chiese in un sussurro.

«Perché avevamo diritto di sapere, non credi? Hai intenzione di dirglielo? A Juri, intendo.»

Katrina rimase in silenzio, abbandonò l’idea di fare colazione e si sbrigò a salire le scale, ma Sharon non cedette così facilmente, le andò dietro fino alla sua camera, un tempo quella degli ospiti, dove entrò senza scrupoli.

«Perché gli hai detto di essere sua sorella?», le chiese ancora mentre lei si accingeva a sistemare il letto.

«Perché avevo paura», sussurrò. «Ero così piccola…»

Si sedette sul letto, sospirando arrendevole, e tirò fuori dal comodino delle foto, che sfogliò con un leggero sorriso sulle labbra. Sharon la raggiunse mettendosi seduta a gambe incrociate al suo fianco, in silenzio.

«Questa ce l’hanno fatta all’ospedale», le mostrò una foto.

Katrina era davvero piccola, ancora una bambina, ma aveva già dato alla luce quel bambino bellissimo stretto in una copertina azzurra: il piccolo Juri.

«Ma i vostri… i tuoi genitori?», le portò una mano sulla spalla, come incoraggiamento e sostegno.

«Non li ho mai conosciuti. Io vivevo in un orfanatrofio. Appena mi sono accorta di essere incinta sono scappata, sapevo che me l’avrebbero portato via. In qualche modo sono riuscita a venire qui, dov’è nato. Non ho mai voluto che imparasse la nostra lingua, però, quando non riuscivo a farlo addormentare, gli cantavo quella ninna nanna. È l’unico frammento delle nostre origini presente in lui.»

«Mi dispiace», disse Sharon. «Non pensavo… E suo padre?»

«Non so che fine abbia fatto, era anche lui dell’orfanatrofio, aveva qualche anno in più di me, si chiamava Juri.»

«Hai dato… il suo nome a tuo figlio?»

«Sì, io… l’amavo, in qualche strano modo. Non ha fatto altro che farmi soffrire, però mi ha donato anche il mio piccolo bambino. Gli assomiglia molto, ha preso tutto da lui.»

«È una storia…»

«Triste?», sorrideva lei. «È passato ormai, non mi importa. Quello che conta è che Juri stia bene. Vi devo ringraziare di cuore, per tutto quello che avete fatto per lui.»

«Di niente. Piuttosto, tu? Come mai così mattiniera?»

«Devo andare a cercarmi un lavoro, un lavoro vero.»

«Vuoi che venga con te?»

«No, non ti disturbare.»

«Nessun disturbo! Mi fa piacere. Allora, posso?»

Katrina sorrise e annuì, la abbracciò. «Grazie.»

«Prego. Adesso vado a cambiarmi e dopo andiamo.»

«Ok.»

Sharon si alzò e corse camera sua facendo non poco rumore. Era contenta che Katrina si fosse aperta con lei, iniziava a volerle bene come se lei fosse veramente sua sorella maggiore.

 

***

 

Tom, per colpa della grazia di Sharon, si svegliò e non riuscì più a riaddormentarsi. Così si alzò e andò in bagno barcollando, con le mani sopra gli occhi per proteggersi dalla luce che entrava dalle finestre spoglie delle tende scure. Ciò voleva dire solo una cosa: io ero già sveglia. Infatti, ero in bagno, seduta sul bordo della vasca.

«Buongiorno», mugugnò Tom entrando e mettendosi di fronte al lavandino per sciacquarsi il viso.

«Tom, non vedi che ci sono io?»

«Dove?»

«Qui, in bagno!»

«Ary, non ti ha mai dato fastidio che io entrassi in bagno quando ci sei tu, tranne quando…», si girò e mi guardò ad occhi e bocca spalancati. «Ancora!»

«Non mi guardare così, non è colpa mia!»

«Cioè sarebbe mia, la cosiddetta colpa?!»

«Infatti colpa non sarebbe la parola più appropriata, però… sì, cavolo, è colpa tua!»

«Guarda che quella incinta sei tu, non io!»

Rimasi in silenzio e mi alzai, gli andai di fronte e gli feci vedere il test. Rise appena guardando l’esito positivo e poi guardò me, con gli occhi lucidi.

«Preoccupata?»

«No… solo sorpresa.»

Scoppiammo a ridere e ci abbracciammo saltando come due scemi dalla gioia incontenibile che sentivamo dentro.

«Sai come lo chiamo io, questo?», mi asciugò le lacrime sulle guance, la fronte appoggiata alla mia. Scossi la testa. «Segno del destino.»

«E cosa vorrebbe il destino dalla mia sanità mentale?»

«Io te l’avevo detto che uno dei nostri figli doveva chiamarsi Davide», sussurrò.

Non riuscii più a staccare gli occhi dai suoi, le labbra serrate assieme alla gola chiusa in un fastidioso nodo e le lacrime che silenziose scivolavano sulle mie guance e fra le sue dita.

«E rimarrai incinta fin quando…»

«Tom, per favore», mormorai sottraendomi al suo abbraccio, dandogli le spalle e incrociando le braccia al petto.

«Ok, come vuoi», disse afflitto tornando in camera da letto.

«No, Tom, ascolta», lo raggiunsi e mi misi seduta al suo fianco sul letto, abbracciata a lui, la testa sulla sua spalla. «Anch’io vorrei, però… ho paura che sia troppo difficile. Chiamare tutti i giorni un bambino, nostro figlio, come lui… Non so se…»

«Amore, io sarei orgoglioso di chiamare mio figlio come lui. Non devi preoccuparti, se sarà difficile, come tutto, insieme sarà più semplice. Non credi?»

«Ho paura.»

«Non hai nulla da temere, io sono qui», mi prese il mento fra le dita e mi sorrise prima di baciarmi. «Andiamo a dirlo agli altri, forza.» Io annuii e mi lasciai trascinare da lui. Era un tornado d’allegria, e non potevo esserne più felice.

Incontrammo Sharon e Katrina che scendevano le scale, parlando come due vecchie amiche. La cosa mi sorprese, ma mai come l’eccessiva euforia di Tom: sembrava che l’avesse fatto apposta, che quasi se lo aspettava. Mi fermai aggrappandomi al corrimano delle scale. Lui mi guardò, con quell’emozione ancora sul viso.

«Che c’è?», mi chiese.

«Tu… tu l’hai fatto apposta!»

«Io… Cosa?»

«Non fare quella faccia da santarellino, tu l’hai fatto apposta! Mi hai messa incinta di proposito! Dio, Tom, non ci posso credere!»

«Nemmeno io! Cavolo, di nuovo?!», gridò Bill uscendo di corsa dalla cucina, con Anto a bocca aperta accanto.

«Ma cosa vi prende a voi due? Vi sentite minacciati perché la nostra famiglia si sta allargando e allora anche voi vi date da fare per raggiungere il record dei Kaulitz?», Bill sembrava arrabbiato, ma sorrideva ed era contento, proprio come Anto. «Auguri», disse dolce, aprendo le braccia.

«Aspetta un attimo», misi la mano avanti, tornando a guardare Tom. «Allora, l’hai fatto apposta?»

«Beh… e se fosse?»

«Perché non me l’hai detto, scemo?», sorrisi e risi, abbracciandolo per il collo e lasciandomi sollevare da terra, parte integrante della sua gioia.

«Amore mio, ti amo», mi sussurrò.

«Anch’io.»

«Ok, avete finito? Adesso possiamo sbaciucchiare la mamma per la sua terza gravidanza?»

Scesi dalla scale e mi lasciai sbaciucchiare da Bill, stretta fra le sue braccia da fratello inseparabile che per me era diventato.

«E adesso dove credete di metterlo?», chiese Anto.

Stefan, Alex e Sharon non avevano ancora fiatato dallo stupore, e io riuscivo a capirli benissimo: era così ridicola la cosa da sembrare surreale persino a me. Gli ignari Sarah e Juri, e Katrina che non aveva per niente la faccia di una sorpresa, continuarono a fare quello che stavano facendo, al contrario degli altri, completamente immobili come statue.

«In garage?» Spiritosa la mia migliore amica, quella mattina.

«Mmh, potrebbe essere un’idea», disse Tom sorridendo, una mano sotto al mento. «Potrei iniziare a valutarla.»

«No, dai, sul serio», disse Bill, sembrava persino un tantino preoccupato.

«Perché quelle facce? È… è un bambino, troveremo un posto», dissi, non capendo nulla, non ero sulle loro frequenze, e nemmeno Tom, pareva, ma ci arrivò molto prima di me.

«Appunto, è un bambino, Ary. Avrà bisogno dei suoi spazi, e qui di spazio non ce n’è più. Tra un po’ dovremo uscire noi per lasciare dentro i nostri figli!»

«Cosa… cosa stai tentando di dire?»

Iniziavo pure io a preoccuparmi. Un pensiero mi era balenato in testa come un fulmine, ma quello era di sicuro un fulmine a ciel sereno, non poteva essere, non esisteva proprio, nemmeno nel più remoto dei sogni.

«Pensavo che… potremmo sfruttare l’occasione, visto che c’è in arrivo questo bambino, di cambiare casa. Katrina non può stare nella camera degli ospiti.»

«Chiamiamola Camera di Katrina, allora.»

Sudavo freddo, sentivo che le mie gambe non potevano reggermi a lungo, e la mia testa era attraversata da così tanti pensieri che mi faceva male.

«Ary, so che ti sembra impossibile, so quanto ci tieni a questa casa, ma…»

«Niente ma, allora! Non ci pensare nemmeno, io non me ne andrò mai da qui!»

Presi il braccio di Tom per reggermi in piedi, quello che aveva detto Anto mi aveva distrutta dentro. Come poteva anche solo aver pensato che sarei riuscita a lasciare quella casa, nella quale avevo cresciuto i miei figli, avevo passato giorni d’inferno e giorni bellissimi con la mia famiglia? Quello era il luogo fisico sicuro che per tanto avevo cercato e che mi ero costruita accanto alla mia famiglia, sempre più grande. Eravamo partiti in quattro, da lì. E ora ci trovavamo in dieci, ancora nove mesi in undici. Mi resi conto che eravamo davvero in tanti, ma fu solo per un attimo: non volevo andarmene da lì e non lo avrei fatto molto facilmente dopo tutto il lavoro che avevamo fatto.

«Ary, Anto ha ragione», disse Tom.

«Cosa? No. No! No, che non ha ragione!»

«Sì, invece. È vero, qui dentro ci stiamo a malapena.»

«Non mi pare, invece! Se non avete detto niente fino a questo momento, vuol dire che non ce n’era realmente bisogno!»

«Fino a questo momento, hai detto bene», disse Bill. «Se adesso arriva un altro bambino…»

«Quindi è solo per lui?!»

«Ary…», tentò di calmarmi Tom, ma mi liberai dalla sua stretta. «No, è colpa di questo bambino allora se dovremo cambiare casa!»

Tutti rimasero in silenzio, con il fiato sospeso, io stessa, in più con il cuore infranto perché avevo detto una cosa orribile. Per la prima volta in vita mia, e sperai anche per l’ultima, mi sentii uguale a mia madre. Mi misi una mano sulla bocca, gli occhi gonfi di lacrime, tanto da appannarmi la vista.

«Che cosa ho detto…», mormorai. Portai la mano sul ventre, senza nemmeno accorgermene. «Io non volevo, lo giuro.»

«Ary, lo so», Tom mi attirò a sé e mi strinse, mi chiuse in un abbraccio di ferro, che mi diede una sicurezza certa, come lo era sempre stato lui per me.

«Ti prego, scusami. Io non lo pensavo davvero», dissi tra i singhiozzi.

«Lo so, lo so, calmati», mi passò le mani sulle guance, come troppe volte aveva fatto.

Quante volte l’avevo fatto io per lui? Forse una, due volte? Mi vergognai profondamente. Lui era forte, io ero debole. Lui mi asciugava le lacrime e io me le lasciavo asciugare. Lui mi difendeva e io restavo a guardare. Davide mi aveva sempre detto di essere forte, ma non era una delle mie qualità, evidentemente.

«Vieni, andiamo di sopra», mi sussurrò e mi scortò in camera.

Di sotto, rinchiusi in una bolla di silenzio perfetto, persino i bambini erano diventati muti, si sentì perfettamente una moto avvicinarsi e fermarsi proprio di fronte a casa.

«Ci mancava solo questa», disse Bill portandosi una mano sulla fronte.

Attese che suonasse al citofono e gli aprì senza dire niente, poi gli aprì la porta, aspettandolo lì.

«Salve!», salutò allegro Nicolas.

«Ciao Nicolas, che cosa vuoi? Facciamo in fretta.»

«Ero venuto apposta per lei, lieto di darle fastidio.»

«Nicolas, non è giornata», disse Sharon facendosi spazio tra lui e suo padre, che guardò annuendo.

«Ci parlo io», gli disse.

«Ok, grazie Sharon.» Bill tornò dentro e si sedette sul divano, accompagnato dolcemente da Anto, che si mise appollaiata vicino a lui.

«Che è successo?», chiese Nicolas preoccupato. «Tuo padre… non mi ha risposto per le rime, è incredibile!»

«Nicolas, ti ho detto che non è giornata», ripeté severa.

«Ma mi spieghi che è successo?»

«È una cosa complicata che qui su due piedi non so spiegarti. Una specie di… lite familiare?» Non era sicura che fosse stata una lite, ma era il primo termine che gli era venuto in mente non sapendo come definire quello strano fenomeno che si era verificato.

«Se non lo sai tu. Ma per causa tua?»

«No, io non sono l’unica che crea litigi, sai.»

«Non intendevo dire questo.»

«Non importa. Allora, che cosa c’è? Perché sei venuto? Non credo che tu ti sia preso il disturbo solo per dare fastidio a mio padre.»

«No, infatti. Volevo chiedervi, a te e anche a lui, se era d’accordo, se potevamo uscire, domani sera.»

«C-che cosa?»

«Sì, nulla di speciale, solo un’uscita… io e te.»

«Davvero? Davvero sei venuto qui solo per questo?»

Nicolas alzò le spalle, un sorrisino divertito dipinto sul volto, che nascondeva un briciolo di timidezza.

«Non penso sia il momento adatto per chiederglielo», Sharon gettò un’occhiata dentro, a suo padre stranamente giù di morale, che si faceva accarezzare inerme da Anto.

«Lo credo anch’io.»

«Ma per me è un sì.»

«Ok, bene. Ehm… a che ora ti passo a prendere? Sempre se… se la situazione si risolve, se no… sarà per un’altra volta, non importa.»

«Nicolas, sei così dolce a volte. Grazie, davvero, ma non ti devi preoccupare. Sono sicura che si metterà tutto a posto.»

«Ok. Allora, quando?»

«Verso le sette, va bene?»

«Ok, benissimo. Allora ci vediamo domani sera.»

«Va bene, ok. Ciao.»

Nicolas le diede un veloce bacio sulle labbra e le sorrise girandosi mentre tornava alla sua moto. Sharon chiuse la porta con il sorriso sulle labbra, ma quando si ritrovò di fronte quel silenzio tombale e suo padre ridotto in quello stato, il sorriso le scomparve e al suo posto si presentò una strana tristezza a pesarle sul cuore.

«Che voleva?», chiese Bill flebilmente.

«Meglio se… te lo dico dopo.»

«Fidati, è meglio se me lo dici adesso. È per l’integrità della tua persona, adesso non sarei in grado di mordere.» Un debole sorriso da parte sua, che fece star meglio pure Sharon.

«Mi ha chiesto se potevamo uscire, domani sera. Era venuto qui per chiedertelo di persona.»

«Carino come gesto», disse sua madre sorridendo.

«Allora credi che io possa…», non completò nemmeno la frase, talmente aveva paura di una sua reazione impulsiva e incontrollata. 

«Sì, va bene.»

«Cosa, scusa?»

«Ho detto di sì, che puoi andare. E adesso sparisci, prima che cambi idea», mosse la mano sorridendole.

«Ok, grazie papà. Ti voglio bene.»

«Anch’io.»

Sharon passò di fianco a Katrina: si era completamente dimenticata che le aveva detto che l’accompagnava a cercarsi un lavoro. In quel momento non le pareva il caso, però forse sarebbe stato un bene uscire un po’ e distrarsi da quella situazione del cacchio in cui si sentiva intrappolata. Sapeva che chi davvero ci stava male in quel momento erano altre persone, vedi suo padre, ma si sentiva partecipe anche lei come noi.

La nostra è sempre stata una famiglia unita, si disse, forse è per questo che mi sento così tirata in ballo.

Ed era vero, non c’era mai stato minuto in cui non avevamo vissuto qualcosa separatamente, eravamo uniti in tutto e per tutto.

Rabbrividì al pensiero assurdo che tutto d’un tratto quell’unità si potesse spezzare, senza che lei nemmeno se ne accorgesse. Era un’assurdità bella e buona.

«Katrina, un attimo solo», le disse.

Lei annuì e con lo sguardo le fece capire che non doveva preoccuparsi. La ringraziò in silenzio e salì in fretta le scale per raggiungere la sua stanza, non sapeva bene a fare che cosa, ma doveva stare un po’ da sola a riflettere, anche un secondo sarebbe bastato, ma da sola.

Passò di fronte alla nostra camera e andò dritta, ma poi tornò indietro, spinta dalla curiosità e dall’affetto che provava verso di me, così profondo da farla preoccupare come se fosse stata Anto.

«Sono stata una stupida. Ho detto una frase degna di mia madre.»

«Ary, smettila, lo sappiamo tutti che non lo pensavi davvero.»

«Non dovevo nemmeno dirle quelle parole.»

«Capita di sbagliare. Ti sei accorta del tuo errore, è tutto ok.»

«Tom… non voglio andare via da qui.»

«È necessario», mi sfiorò la pancia con la mano. «Fallo per lui.»

«E così ce ne andremo davvero?»

«Beh, se proprio non vuoi andartene… una soluzione ci sarebbe.»

«Non se ne parla neanche. Non dividerò mai la mia famiglia, non se ne parla. Bill e Anto restano con noi, fine.»

«E allora penso proprio che sarà così.»

Sharon si scostò dalla porta e si appoggiò al muro, scivolò a terra e rimase a fissare il pavimento di fronte a sé, a pensare non proprio a qualcosa, ma a tutto ciò che le passava per la testa. Questo la convinse che uscire un po’ non le avrebbe fatto che bene.

 

***

  

Doveva riconoscere che Katrina era una ragazza simpatica, anche se molto introversa. Preferiva non ricordare il suo passato, ma se proprio doveva lo faceva con il sorriso sulle labbra, senza nessun rimpianto. Anche Sharon avrebbe voluto essere come lei, invece di continuare a soffrire pensando ad un passato ormai morto e sepolto. E non solo lei avrebbe voluto essere esattamente così. 

Quel pomeriggio era passato in fretta, girovagando per i negozi e facendo acquisti di tutti i tipi per il guardaroba di Katrina. Non era proprio il massimo in eleganza e moda, ma aveva qualche speranza se avesse seguito i suoi consigli. Aveva capito subito che era una che preferiva le cose semplici e comode, un po’ come lei, ma pure nelle cose semplici bisognava avere un minimo di stile, come le aveva insegnato suo padre.

In più era riuscita a distrarsi e a svagare un po’ la mente dall’eccessivo carico di stress. Non che lei ne avesse tanto, di stress, però in quel periodo, e soprattutto durante quella mattinata, aveva raggiunto dei livelli notevoli, che sperava vivamente di riuscire ad abbassare prima di rientrare in casa e di verificare di persona cosa fosse successo.

Aveva pensato a Nicolas e si era trovata nel panico quando aveva realizzato che sarebbero usciti, la sera successiva, e non aveva uno straccio di idea di come vestirsi. Dava molti consigli a Katrina, ma quando doveva pensare a se stessa era un disastro totale. Non era brava come suo padre, infondo, che riusciva a fare entrambe le cose egregiamente.

Quella sarebbe stata la loro prima uscita ufficiale ed era facile notare in lei un certo nervosismo, nervosismo che si accumulava a quello portatole dal concerto. Per sua sfortuna non era ancora riuscita a farlo sbollire del tutto. Ma andava bene così. Suo zio diceva sempre che il nervosismo faceva rendere di più una band, perché spronava a dare il massimo, avendo paura di fare un disastro.

Mentre Katrina parlava all’interno dell’ennesimo negozio e chiedeva se magari serviva un aiutante, qualsiasi cosa, lei se ne stava seduta su una panchina di legno, dando le spalle ad una piccola palma che le sfiorava con la punta di una foglia la nuca, un milk-shake alla fragola in mano.

Giocherellava con la cannuccia, quando si era trovata di fronte due ragazzi che parlavano decisamente a tono alto, ma lei non li ascoltava molto, era ancora nella fase post-rimuginazione sulla sua vita. Aveva solo afferrato che erano due fan e che sarebbero stati al concerto, e che ci avevano messo un sacco di tempo per trovare i biglietti, ma che alla fine ce l’avevano fatta. Lei sorrideva appena, guardandoli ma non sentendo cosa dicevano.

Si chiese se a volte capitava pure agli altri della band, soprattutto a Stefan, che doveva sempre sorbirsi le moine di ragazze decisamente troppo finte tutti i santi giorni. Doveva farsi dare qualche consiglio da lui, lo avrebbe fatto appena sarebbe tornata a casa. Sempre se la sua casa era ancora in piedi. Chissà cos’era successo, e cosa stava ancora succedendo, mentre lei era lì a sorbirsi quei due ragazzi sperando che Katrina avesse finito, o che almeno fosse a buon punto.

«Sharon, possiamo fare una foto?», le chiese uno dei ragazzi. Non si ricordava nemmeno i loro nomi.

Lei annuì senza nemmeno pensarci e si mise in posa con lui, cercando di fare uno dei suoi sorrisi migliori di fronte alla fotocamera del cellulare dell’altro ragazzo.

«Grazie, sei mitica!»

«Prego, non c’è di che.»

«Hai sentito quello che si sono inventati i mass media? Dicono che la separazione di Krista sia stata solo una mossa mediatica! Stronzate!»

Erano seduti accanto a lei, uno da una parte e uno dall’altra, che le tenevano compagnia parlando del più e del meno e della band, ma lei non aveva voglia di parlare con loro, però doveva per il bene stesso della band, per dare una buona impressione di fronte ai fan. A lei non piaceva mentire, c’erano giorni in cui sarebbe voluta essere semplicemente Sharon, però doveva farlo per i suoi fan, che li avevano sempre sostenuti con così tanto affetto. Senza di loro non avrebbe vissuto felice come stava facendo, con la sua musica.

«Tu che dici, Sharon?»

«Sì, tutte cavolate. Le malelingue si sprecano, si sono inventati un sacco di balle. Ragazzi, posso chiedervi un consiglio?»

«A chi, a noi?»

«Sì, a voi.»

«Sì, certo!»

«Come potrei vestirmi per uscire con il mio ragazzo?», chiese esasperata, mettendosi le mani nei capelli. Non pensava ad altro, ormai.

«Hai il ragazzo?»

«Sì.»

«Beato lui.»

«Sì, vorrei tanto essere al suo posto.»

O quei due erano fratelli, oppure avevano idee chiare e pressoché identiche.

«Sono una ragazza come tante, alla fine», si strinse nelle spalle imbarazzata.

«Beh, su questo si potrebbe stare a discutere per ore, ma non mi sembra in caso. Come ti potresti vestire? Come sempre! Sei bella sempre e comunque, tu.»

«Grazie ragazzi, siete troppo gentili.»

«Ma è la verità!», le sorrisero.

Sharon vide Katrina uscire saltellando felice dal negozio e si alzò raccogliendo le borse a suo fianco.

«Ciao ragazzi, adesso devo andare», li salutò.

«Ok, ciao Sharon, è stato un piacere conoscerti.»

«Già, grazie.»

«Prego», sorrise e si avviò con Katrina verso l’uscita del centro commerciale.

«E quelli chi erano?», le chiese lei.

«Due fan che mi hanno braccata per più di dieci minuti. Ma quanto ci hai messo?»

«Un po’. Però ho ottenuto il posto!»

«Davvero? Ma è fantastico!»

«Sì, inizio lunedì.»

«Perfetto! È davvero bello, complimenti.»

«Grazie, anche per avermi accompagnata.»

«Di nulla», gettò il milk-shake in un cestino.

«Erano carini, però», sorrise maliziosa.

«Katrina!»

«Che c’è?»

«Devo ricordarti che hai un figlio?»

«Ho un figlio, ma non un ragazzo. Dev’essere bello avere tutti questi fan.»

«A volte non è così piacevole, vorresti essere invisibile.»

«Siete bravi a suonare, ecco perché siete così ammirati. Sai, Juri suonava.»

«Davvero?»

«Sì, il violino. È grazie alla sua musica che l’ho conosciuto. Stavo ore ad ascoltarlo, anche se era proibito nell’orfanatrofio.»

«Ed andavi contro alle regole per lui?»

«Sì, adoravo sentirlo suonare. Lui lavorava in cucina, e di notte si nascondeva lì per suonare. Una sera mi scoprì e fu in quell’occasione che ci conoscemmo. Però, diciamo che… non era proprio buono, di carattere. Lui era un tipo schivo e anche sfruttatore. Non sapeva che cosa voleva dire amare gratuitamente. E quindi mi disse che lui non avrebbe detto nulla se io… fossi diventata la sua ragazza.»

«Bel modo per dirti che voleva stare con te», disse Sharon amareggiata.

«Lui non intendeva quello che intendi tu per ragazza

«Cioè vuoi dire…»

«Era solo per sfruttarmi. Lo fece una sola volta, però. E quella volta rimasi incinta di Juri, appunto.»

«Tu hai detto che lo amavi in un modo strano, vero? Eri innamorata più della sua musica che di lui.»

«Sì, è vero. È proprio così. In confronto a lui, la sua musica era così dolce, così piena d’amore, malinconica… Sì, ero innamorata della sua musica.»

«Capisco. E lui cos’ha fatto quando ha scoperto che eri incinta?»

«Non gliel’ho mai detto.»

«Ah. E non avevi delle amiche, all’orfanatrofio, a cui l’hai detto?»

«No, ero piuttosto solitaria anch’io.»

«E quindi, non lo sa nessuno?»

«No, a parte voi.»

Si sorrisero e si accorsero di essere arrivate di fronte a casa. Il racconto di Katrina era stato così appassionante a tratti che Sharon non si era nemmeno resa conto del tempo che passava.

Venne travolta da un senso di disagio quando ricordò quello che era successo quella mattina. Aveva una strana paura di entrare e di vedere cos’era successo nel frattempo.

Fece un respiro profondo ed entrò dopo Katrina, pregando qualcuno che le cose fossero tornate alla normalità. Chiuse gli occhi e li riaprì quando sentì tutti i rumori tipici della sera a casa sua: i piatti spostati dalla lavastoviglie alla tavola, Stefan e Alex che bisticciavano per qualcosa di stupido, la televisione accesa, Sarah che giocava con Juri e le risate che le riempivano il cuore di gioia, quelle della sua famiglia speciale.

Si catapultò in cucina seguendo quelle risate e vide me e Tom abbracciati, suo padre e sua madre che scherzavano mentre si passavano i piatti.

«Ciao Sharon, com’è andata?», chiesi.

«È tutto… come prima!», saltò di gioia, aggrappandosi al mio collo e baciandomi la guancia.

«Perché, cosa credevi fosse cambiato?», chiese Anto.

«Niente», sorrise Sharon.

«Avete fatto shopping?», Tom indicò le borse che Sharon aveva lasciato all’entrata della cucina.

«Ah, sì! Stefan, capita anche a te di essere trattenuto dai fan?»

«Sì! Vengo assalito da branchi di ragazzine!», fece una pausa dal litigio con Alex, ma riprese subito dopo.

«E cosa fai in quei casi?»

«Le assecondo e dopo corro!»

«Sei stata assalita dai fan? Sharon, come stai?», Bill le prese il viso fra le mani e la guardò attentamente, assicurandosi che stesse bene.

«Papà! Sono tutta intera! E poi erano solo due. Sono stati gentilissimi, abbiamo fatto qualche foto. Solo che non ci stavo con la testa, con Nicolas che mi ha chiesto di uscire e quello che era successo… Mi hanno aiutato a distrarmi, direi.»

«Nicolas ti ha chiesto di uscire?», chiesi. «Quand’è successo? Me lo sono persa.»

«Sì, quando sei andata di sopra con Tom», disse Anto.

«E mi sono persa la scenata di Bill? Accidenti!»

«Non ti sei persa niente, te l’assicuro», disse Bill alzando il sopracciglio. «Quel ragazzo è stato fortunato. Non ero in vena di litigare con lui, stamattina.»

«Non ha fatto una piega e ha detto che posso uscire!», saltellò Sharon, difendendosi il viso con le braccia, il sorriso nascosto anche negli occhi brillanti.

«Dai, è bellissimo! Dove ti porta?», chiesi.

«Non lo so, non me l’ha detto.»

«Uh, una cosa a sorpresa… Bello.»

«Sì, ma non so come vestirmi.»

«Maglione pesante, jeans e scarpe da ginnastica», disse Bill.

«Dai Bill!», lo spinse Anto.

«Che c’è?!»

«E poi vuoi che si faccia suora?», chiese Tom sedendosi al tavolo, sentendo il timer del forno suonare.

«Come sei spiritoso. Ragazzi, è pronto!», chiamò Bill.

In meno di trenta secondi tutti erano seduti intorno al tavolo a rubare le patatine fritte dal piatto al centro della tavola. La povera Sarah non ci arrivava perché aveva le braccia corte e aveva iniziato a lamentarsi. Tom aveva sorriso e gliene aveva date più degli altri, facendole fare i salti di gioia.

Juri si era voluto mettere in braccio a Katrina, e lei aveva sorriso con le lacrime agli occhi. Era come se Juri sapesse che in realtà era la sua mamma, e non sua sorella.

«Allora Katrina, ti sei divertita oggi?», chiese Anto.

«Sì, Sharon è stata…», la guardò e Sharon tossì imbarazzata. «È unica.»

«Grazie», biascicò.

«State diventando amiche, allora.» Le due sorrisero e annuirono.

«Ah, ha trovato il lavoro», disse Sharon.

«Davvero? È magnifico! Hai fatto in fretta!»

«Dove?»

«Al centro commerciale, in un negozio di abbigliamento.»

«Sono fiera di te», disse Anto.

«Grazie.»

«Beh? Voi due non avete niente da dire?», chiese Tom ad Alex e Stefan, che stavano in silenzio seduti l’uno di fronte all’altro. Si squadrarono con rabbia, ma poi non riuscirono a non ridere. Tra loro era sempre così, come tra Bill e Tom. I gemelli avevano sempre una marcia in più, me n’ero accorta col tempo.

«Sai mamma, Bea dev’essere tornata da un pezzo ormai, ma non si è fatta sentire», disse Alex.

«E ti manca?», versai l’acqua nel bicchiere di Sarah, seduta accanto a me sopra tre cuscini per dargli qualche centimetro in più.

«Domanda difficile, non so risponderti.»

«Guarda che lo senti se ti manca», lo punzecchiò ancora Stefan. Chissà se avrebbero ricominciato a litigare, visto che avevano iniziato proprio per quel motivo.

«Quando penso a lei non penso a Krista. Quando penso a Krista non penso a Bea. Come faccio a capire se mi mancano tutte e due?»

Si guardarono acidi per un po’, poi Stefan sbuffò e ritornò a mangiare. Sapeva che con lui era una causa persa, alla fine.    

«Scusa, Krista e Bea che cosa provano per te? Tanto vale vedere chi ti vuole di più, no?», disse Katrina.

«Comunque, anche se una mi vorrebbe più dell’altra, io non so chi voglio di più.»

«Allora c’è un’unica cosa da fare.»

«Cioè?»

«Tagliare i ponti con una e vedere che succede con l’altra. Capirai presto chi vuoi davvero.»

«Ok… grazie.»

Katrina era sempre una novità, ogni giorno rivelava un po’ di sé, con calma. Per quanto sarebbe riuscita a sorprenderci?

 

______________________________________

 

Ciao a tutti! :) 
Ehm... non so come dirvelo, ma... mi sono dimenticata di postare la scorsa volta! >///< Ero sicura di aver postato, ed invece... no xD Perdonatemi infinitamente.
E dopo essermi messa con le ginocchia sui ceci, parliamo di questo capitolo! A casa Kaulitz riprende la normale routine, dopo le festività, e… surprise! Un nuovo arrivo in casa Kaulitz! C’è davvero bisogno di una casa più grande, anche se Ary è molto affezionata a questa.
Sono una famiglia molto unita, in questo capitolo si è visto particolarmente, ma riescono sempre a risolvere qualsiasi problema! :D
Abbiamo scoperto un po’ di più su Katrina, sulla sua triste storia e sul padre di Juri… E inoltre pare che lei e Sharon stiano diventando sempre più amiche, sempre più sorelle! :)
Alex invece è ancora un po’ confuso, chissà, magari con Krista di nuovo nella band si smuoverà qualcosa? Staremo a vedere! ;)

Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo:

freency : Ciao! Sono contenta che lo scorso capitolo ti sia piaciuto! :) Hai ragione, ci voleva una specie di stacco per non appesantire troppo e anche io tifo per Anne e Christin, anche se non è affatto semplice. Comunque, spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto! Grazie, alla prossima!

Tokietta86 : Ciao! Sono contenta che ti sia piaciuto lo scorso capitolo! :) La situazione è davvero un po’ complicata e sono pienamente d’accordo con te con tutto quello che hai scritto, la pensiamo allo stesso modo ;) [Mi piacciono i tuoi papiri, non ti preoccupare! xD] Spero che anche questo capitolo sia stato di tuo gradimento! Grazie mille, alla prossima! Un abbraccio!

marty sweet princess : Ciao! Abbastanza bene, tu? :) La mia mente lavora giorno e notte per trovare nuove situazioni da scrivere xD Chissà come andrà a finire… Grazie mille, un bacio!

Utopy : (Menomale che ci sei tuuuu xD) Pensavi di trovarti fra i piedi Ary, e invece… taac! Capitolo Anne e Christin xD Beh, Ary ha recuperato in questo *-* Spero tu non l’abbia odiata tanto ç_ç Comunque sia, la situazione delle due giovincelle è complessa assai u.u E, no, non poteva essere un’altra ragazza perchè io sono perfida! xDD Sì, Christin non sta passando un bel periodo, ma pare che nessuno ancora si sia accorto di niente… xD Lo scopriremo solo vivendo u.u Ti voglio un bene immenso, Mond! *-* Tua, Sonne.

Ringrazio anche chi ha letto soltanto! Grazie, alla prossima!
Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 23
*** Freedom to love you ***


Your arms are my castle,
your heart is my sky
They wipe away tears that I cry
The good and the bad times we’ve been through them all
You make me rise when I fall…

(Every time we touch – Cascada)

 

 

 

Capitolo 16
Freedom to love you

 

Sharon era agitatissima, nemmeno i tre quarti d’ora passati sotto l’acqua calda della doccia erano riusciti a calmarla.

Aveva iniziato a prepararsi quel pomeriggio, verso le cinque, e alle sette meno un quarto era ancora indecisa su cosa mettersi. Girava per la stanza con le mani nei capelli, già malridotti perché non se li era stirati. Faceva pena: era ciò che pensava guardandosi allo specchio in reggiseno e slip.

Non c’era nulla che le andasse a genio. Aveva milioni e milioni di vestiti bellissimi, eppure niente, nessuno l’attirava davvero.

Iniziò almeno a mettersi la matita nera, per guadagnare un po’ di tempo mentre pensava a cosa indossare, ma rischiò di accecarsi. Era meglio essere concentrati a fare una cosa per volta, anche se era in uno scandaloso ritardo.

«Sharon, posso entrare?»

«Ehm… sì, sì, entra pure.»

Katrina entrò in camera di Sharon e si guardò intorno disorientata: era peggio di un campo minato lì dentro. Non aveva mai visto così tanti vestiti, e così tremendamente belli, in tutta la sua vita.

«Ma che è successo?», chiese stando attenta a non calpestare nulla per raggiungerla.

La trovò davanti allo specchio del bagno, quasi nuda e con un’espressione sofferente sul viso.

«Sarà un completo disastro, ne sono convinta.»

«Che cosa stai dicendo?»

«Guardami! Tra poco Nicolas sarà qui e io ancora non ho deciso cosa mettermi!»

«E questo sarebbe il problema?»

«Beh… sì!»

Katrina sbuffò sorridente e mosse la mano, poi ritornò in camera da letto, seguita da una Sharon quasi del tutto disperata.

«Io non ho mai avuto così tanti vestiti», le disse.

«Sei fortunata, non sei mai indecisa.»

«Che dici? Sharon, rilassati, andate solo a cena fuori! E saresti bellissima anche con degli stracci, se posso dirtelo.»

Sharon arrossì e si piegò a raccogliere un vestito, sul quale stava per inciampare, per nascondere un po’ di quell’imbarazzo.

«Questo non va bene?», le mostrò un vestito nero con le rifiniture di pizzo azzurre sul corpetto e sull’orlo della gonna.

«No, troppo provocante. Pensavo di metterlo al concerto.»

«Certo, provocante. È per questo che lo metti al concerto e non di fronte al tuo ragazzo, che ne avrebbe il pieno diritto?»

«Per favore Katrina, aiutami tu!»

«Ok, ma non fare la melodrammatica. Vedrai che andrà tutto per il meglio. Almeno spero.»

«Ecco, è questo che mi spaventa.»

«Oh, Sharon, io non ho tutta quest’esperienza con i ragazzi! Magari potresti darmi tu qualche consiglio! Di sicuro ne sai più di me.»

«Perché?»

«Io non ho mai avuto un ragazzo oltre Juri. Quando l’ho conosciuto avevo tredici anni, e poi è nato Juri… la sai la storia.»

«Ah. Davvero?»

Katrina annuì e poggiò sul letto una minima parte dell’armadio di Sharon disseminato per la stanza.

«Perché non ti vesti normalmente? Penso che se Nicolas ti vuole bene non baderà ai tuoi vestiti, o no?»

«Sì, hai ragione», sussurrò arrossendo di nuovo. Si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Grazie.»

«Di niente. Credi di riuscire a cavartela da sola, d’ora in poi?»

«Sì, grazie di tutto.»

Katrina le sorrise e uscì dalla camera, rischiando per altro la vita in un vestito rosso e nero simile a quello delle Barbie delle feste.

Scese di sotto e sentì il campanello suonare, così si affrettò ad andare alla porta urlando: «Apro io!»

Bill non era proprio di buon umore, ma si era abituato alla presenza fastidiosa di quel ragazzo per amore di sua figlia. Ancora gli venivano le crisi pensando che lui avesse sfiorato il fragile corpo di Sharon. Per fortuna erano crisi interne di cui solo la sua mente percepiva l’entità e i danni, ovviamente.

«Ciao, tu sei Katrina, vero? Piacere di conoscerti, io sono Nicolas», si presentò lui.

«Piacere mio», lei sorrise e gli strinse la mano.

«Buonasera, come sta?», chiese Nicolas una volta entrato, rivolto a Bill seduto sul divano, in allerta come un gatto.

«Potrebbe andare meglio, grazie», rispose acido.

«Deduco che andrebbe meglio se non ci fossi?», sorrise sfrontato.

«Non pensavo fossi così arguto.»

«Io sono molto più arguto di quanto lei possa credere.»

Bill sbuffò irritato, portandosi le braccia al petto: quanto gli dava sui nervi. Il bello era che piaceva a tutti, tranne che a lui. 

«Ciao Nicolas! Come stai?», gli chiese Anto baciandolo sulle guance.

«Benissimo, grazie!»

«Mi fa piacere. Uh, e quello?», indicò il casco viola con delle righe fucsia al centro che teneva sottobraccio.

«Cosa, questo? È per Sharon.»

«Che cosa?», gridò Bill alzandosi in piedi.

Tom ridacchiò e mi diede una leggera gomitata. Eravamo in cucina che ci godevamo lo spettacolo, e avevamo scommesso dopo quanto Bill avrebbe iniziato a gridare come una gallina: non erano passati nemmeno cinque minuti, aveva vinto lui.

«Che cosa, cosa?», chiese Nicolas.

«Cioè… tu vorresti dirmi che Sharon… era venuta con te in moto senza casco?!»

«No, assolutamente no! Ovviamente lei usava il mio.»

«Ed eri tu ad andare senza?», chiesi.

«Sì, la responsabilità era mia, quindi…»

«Sei stato davvero un cavaliere. Ma non provarci mai più, chiaro?», lo minacciò Anto.

«È per questo che le ho portato questo», indicò il casco, raggiante. «A proposito, dov’è Sharon?»

«Sono… sono qui, arrivo!»

Arrivò trafelata dopo aver sceso due rampe di scale di corsa. Vide Nicolas alla fine della terza e ne rimase affascinata, era veramente bellissimo, splendente come non l’aveva mai visto. I capelli chiari sembravano quasi brillare, come i suoi occhi attenti e il suo sorriso smagliante che non aspettava altro che il suo.

Sotto la giacca indossava una camicia celeste che riconobbe subito: era quella che aveva indossato lei la notte che era stata da lui. Quel ricordo la fece arrossire e abbassare lo sguardo verso i suoi piedi. Si vergognò delle sue All Star storiche, vecchie di anni, che ne avevano viste di tutti i colori. Le aveva scelte anche un po’ per quello, perché sperava che le portassero fortuna, ma in quel momento avrebbe voluto avere le scarpe col tacco nere nuove di zecca. Se non si intonavano con il resto non importava.

«Cavolo, cuginetta, sei proprio uno schianto stasera», disse Stefan stravaccato sul divano accanto ad Alex, che in cambio venne fulminato con lo sguardo da Bill.

Alla fine aveva seguito il consiglio di Katrina, non si era messa nulla di particolare: un paio di pantaloni di un grigio brillante e un maglione a strisce nere e viola. Per il trucco si era solo messa un po’ di matita nera, nulla di più.

Sharon scese le scale e si trovò di fronte a Nicolas. In confronto si sentiva una nullità: l’umile umana di fronte al dio.

«Ciao Sharon, sei stupenda», sussurrò Nicolas.

«Grazie», mormorò lei torturandosi il labbro inferiore.

«Ok, direi che possiamo andare.»

Nicolas si diresse verso l’attaccapanni e prese il cappotto di Sharon, glielo infilò con gentilezza, lei sempre più rossa, e le porse il casco, che lei prese in mano quasi in trans.

«Passate una bella serata», li salutò Anto sulla porta.

«Vedi di tornare presto! Domani avete le prove, l’intervista e il concerto, ricordatelo!», raccomandò invece Bill.

Era strano notare come sua figlia crescesse in fretta, e che anche con un semplicissimo maglione e un paio di pantaloni era stupenda, come sua madre.

«Sì, sì», sbuffò Sharon incamminandosi verso la moto di Nicolas.

Bill urlò ancora per un po’, ma non lo stette neppure ad ascoltare. Si infilò il casco, si mise dietro a Nicolas e si aggrappò forte alla sua schiena quando partì.

Quando furono ormai lontani e il rumore della moto sparito, solo allora, Bill entrò in casa e si fiondò dritto in cucina. Si accasciò sulla sedia accanto a Sarah e nascose il viso fra le braccia incrociate sul tavolo.

«Che cosa c’è zio? Dimmi tutto», disse Sarah annoiata.

«Non puoi capire, Sarah. Sharon è troppo piccola, non può stare con uno… uno così!»

«A me Nicolas piace.»

«Vedi? Te l’ho detto che non puoi capire. Quello ti inganna con il suo visino da angelo e poi… track, sei fottuto.»

«Papà, cosa vuol dire fottuto

«Niente Sarah, niente. Tuo zio si inventa le parole.» Tom, con un solo sguardo, trucidò Bill, che non era in grado di intendere e di volere in quel momento.

Sarah stava disegnando qualcosa su un foglio, non c’erano dubbi che era la sua passione, utilizzando tutti i colori possibili e anche tutta la superficie del tavolo grazie all’aiuto di Whiskey sempre al suo fianco.

«È una bella parola. Posso dirla anch’io, papà?»

«Certo che no.»

«Uffa. Zio, perché Nicolas non ti piace?»

«Te l’ho già detto. Per prima cosa, è troppo grande per lei.»

«Sono solo due fottutissimi anni, Bill! Io e Ary, come tu e Anto, ne abbiamo quattro di differenza!»

«Non è giusto papà! Perché tu puoi usare quella parola e io no?» Era una bambina intelligentissima e molto precoce, non si perdeva mai niente.

«Scusa piccola, ho sbagliato. Prometto che non la dirò più neanche io», riparò. Io sorrisi e continuai a separare l’insalata e a sciacquarla nel lavandino.

«E poi?», chiese Sarah.

«E poi… mi fa paura la sua moto, ecco.»

«La sua moto è bella, invece.»

«Tutt’apparenza, visto?»

«Bill, ce l’ho pure io la moto», disse Anto appoggiandosi accanto a Tom al ripiano della cucina. «E mi pare che ne abbia una anche tu. O mi sbaglio?»

«Ma che c’entra? Chi mi dice che sa guidare?»

«La sua patente, magari?»

«Di questi tempi la patente si prende così, non ci sono più gli esaminatori di una volta.»

«Zio, io credo che tu ti stai solo arrampicando sui vetri perché credi che Sharon preferisce lui a te.»

«Il proverbio è Arrampicarsi sugli specchi, e non sui vetri, Sarah. Senza contare gli errori nel coniugare i verbi, ma quelli te li concedo», la corresse Stefan che si era messo di fronte a lei a scarabocchiare su un foglio con un pennarello.

«Glieli concedi perché li sbagli anche tu tutt’ora?», sogghignò Alex mettendosi al suo fianco, beccandosi un pugno sul braccio.

«Sì, va bè, non importa!», ridacchiò Sarah, poi tornò seria a guardare suo zio Bill. «Allora, ho ragione?»

Bill alzò lo sguardo su me, Tom e Anto, quasi spaventato da quella bambina che non aveva nulla di bambina: era un alieno. O forse, più semplicemente, l’aveva capito anche lei che quella era la verità.

«Posso aiutarti?», mi chiese Katrina mentre Juri si metteva seduto accanto a Sarah, dall’altra parte.

«Qui ho finito, ma grazie comunque. Sarah, leva tutta quella roba che apparecchiamo.»

«Ok, mamma.»

Sarah raccolse tutti i pennarelli e i suoi fogli con l’aiuto di suo fratello Stefan e li portarono in sala, Anto prese la tovaglia e la stese sul tavolo, parlando con Tom.

«Allora venerdì andiamo a vedere se c’è qualche bella casa?», gli chiese.

«Sì, penso di sì. Bill?»

«Sì, è uguale.»

«Ehi, e a me non lo chiedete?», mi girai e li guardai uno per uno, le mani sui fianchi.

«In verità… ecco… pensavamo che sarebbe stato meglio se tu…»

«Fidati, è meglio se non vieni.»

«Cosa? E perché?»

«Sei troppo legata a questa casa, diresti che tutte le altre non sono belle come questa e sprecheremmo un’intera giornata per niente.»

«Io dico quello che è vero: se ce ne sarà una più bella di questa…»

«Ma per te non ce ne sarà mai una più bella di questa.»

«Credete che io sia così infantile? So distinguere il bello e il brutto.» Tom, Bill e Anto si guardarono indecisi. «Prometto che sarò molto oggettiva e non mi farò influenzare dall’affetto che nutro per questa casa, ok?»

«Ok, va bene, l’hai promesso», mi sorrise lei.

Dovevo arrivare alle promesse per poter andare con loro a cercare una casa in cui per altro ci avrei abitato anch’io. Roba da matti.

«Ma perché dobbiamo cambiare casa?», chiese Sarah sedendosi al suo posto a tavola.

«Lo sai che avrai un fratellino? O una sorellina, ancora non si sa.» Tom si mise seduto a capotavola, al suo fianco, e le accarezzò i capelli sulla testa sorridendo.

«Davvero avrò un fratellino o una sorellina?», aveva gli occhi che le brillavano, una gioia profonda mi addolcii e mi fece dimenticare il ricatto che avevo dovuto subire.

«Sì, davvero. E sai come si chiamerà se sarà un maschietto?»

«Avete già deciso il nome? Non ci credo», disse Anto.

«No, come?»

«Davide.»

Io per prima mi bloccai, poi tutti gli altri. Sembrava il gioco Un due tre stella, solo che non c’era nulla di divertente. Bill e Anto si guardarono, poi guardarono Tom.

«Davvero?», sussurrò Bill.

«È un bel nome! Mamma, non ti piace?» Sarah si girò sulla sedia e mi guardò le spalle, non avevo intenzione di girarmi, e anche se avessi voluto non ci sarei riuscita.

«Ahm… sì, è un bel nome», deglutii.

«Visto?», Tom le fece l’occhiolino e le batté il cinque.

«Tom, avevo detto che ci avrei pensato. È… è troppo presto.»

Tirai fuori i piatti dalla credenza, poi li passai ad Anto, che mi sorrise e li sistemò sulla tovaglia. Lo stesso con i bicchieri, le posate e i tovaglioli, il tutto nel più perfetto dei silenzi.

«Papà, perché sei triste?», chiese Sarah all’improvviso, non con la solita voce allegra, ma come se anche lei fosse triste. Tom alzò lo sguardo e le sorrise.

«Non sono triste.»

«Sì, invece», allungò le braccia e Tom la strinse, lasciandosi avvolgere il collo.

Mi girai e guardai la scena spaventata: l’avevo fatto ancora. Per l’ennesima volta avevo pensato solo a me e per niente a Tom, che nel suo piccolo soffriva come me, ma che, al contrario, voleva chiamare nostro figlio come lui. Tom mi sorrise, ma non mi rincuorò per niente.

Durante la cena, Stefan ci stava aggiornando su Michelle e ci raccontava episodi inediti di quella sera in cui lui era stato da lei, alla Vigilia di Natale, quando, di punto in bianco, Sarah se ne uscì con un’altra delle sue.

«Come nascono i bambini?», chiese lasciando da parte la pasta che aveva ancora nel piatto. Guardava Bill, e lui si guardò intorno e poi sorrise imbarazzato.

«Chiedilo a tuo papà», le disse.

«Grazie Bill, molto gentile.»

Sarah si rivolse verso di lui e aspettò una risposta, senza insistere, semplicemente guardandolo.

«Dall’amore di mamma e di papà», rispose ad un certo punto.

Stefan e Alex sghignazzavano, Katrina aveva un sorriso a metà tra il nostalgico e il divertito, e anche Juri pareva interessato all’argomento.

«Cioè?»

«Cioè… adesso mamma ti spiega.»

Ovviamente. Come tutte le volte, il compito di finire il discorso toccava a me. Mi lasciava sempre la parte più difficoltosa. Lasciai il tovagliolo accanto al piatto e guardai Sarah.

«Il seme della mamma incontra quello del papà e, fondendosi insieme, danno vita ad un unico seme che poi cresce e diventa il bambino appena nato.» Ormai quella frase l’avevo imparata a memoria, perché, oltre che ad Alex e Stefan, avevano chiamato me pure quando lo chiese la piccola Sharon, e non mi imbarazzava nemmeno più. Quindi, presi il bicchiere e bevvi un sorso d’acqua.

«Ma non si usa più raccontare la storia della cicogna?», chiese Bill.

«Perché mentire? Sono bambini, mica stupidi. O no, Bill? Tua mamma ti ha confuso per uno stupido?», risi.

«Sicuramente ha confuso pure Tom.»

«Ehi!»

«E perché il bambino è nella pancia della mamma?», si mise in mezzo al battibecco Sarah, con il suo visino angelico ed ingenuo.

«Perché noi siamo più brave», le pizzicai il naso.

«Non è colpa nostra se madre natura ha deciso che solo le femmine possono procreare», intervenì Stefan. Tutti lo guardammo e la stessa domanda ci sorse spontanea.

«A proposito, Stefan… tu e Michelle…», incominciò Tom.

«No, non ancora», disse alzando le spalle.

«Adesso assumeranno tutti la faccia da Oh mio Dio, non ci credo!», disse Alex beccandosi una gomitata nel fianco da parte del gemello.

«Questo mi stupisce davvero, Stefan», disse Tom.

«Sì, è una situazione strana.»

«Che intendi dire?»

«Lei vuole farlo dopo il matrimonio. Io ho cercato in mille modi di farle cambiare idea, ma è cocciuta.»

«Dopo che cosa?», gridò Tom scandalizzato.

«Il matrimonio. Sì, pure Ary era di quell’idea, ma l’ha abbandonata presto», disse Anto. A quel punto, come previsto, tutti alzarono lo sguardo su di me.

«Chi vuole ancora pasta?», chiesi sorridendo e alzandomi.

«Nessuno. Adesso stai qui e mi spieghi un po’ cos’è sta storia», sorrise maligno Tom. Mi prese per il polso e mi fece mettere seduta sulla sua gamba.

«Ma sì, insomma… in verità mi aveva convinta papà ad abbracciare quella filosofia», ci pensai su e ricordai quel giorno, ma era meglio non parlarne, faceva troppo ridere, mi avrebbero presa in giro a vita.

«E poi hai cambiato idea.»

«Sì, ho avuto una strana… illuminazione, se così si può dire.»

Sorrisi e mi alzai. Presi i piatti vuoti, anche quello di Sarah era vuoto, c’era sicuramente lo zampino di Alex, e li misi nel lavandino.

«Sì, illuminazione è il termine esatto», ammiccò Tom. «Anto, tu non eri di quell’idea?»

«No, io no», disse.

«Però hai aspettato.»

«Sì, io sono prudente, non come qualcun altro qui», rise e venni contagiata pure io.

«Shhh, guardate», Bill indicò Sarah addormentata con la testa sulla spalla, sembrava un angioletto.

«Alex, portala di sopra», sussurrai.

Lui si alzò e, facendo attenzione a non svegliarla, la portò in camera sua. Nello stesso momento, il campanello trillò e fu Stefan a correre alla porta, dicendo che probabilmente era Michelle. Infatti, era lei.

«Ciao!», la salutò e poi l’abbracciò, baciandola sulle labbra.

«Ciao Ste», ricambiò il saluto con il sorriso sul volto.

Entrò in casa per salutare e sicuramente per me non era il momento migliore, poiché avevo visto Tom alzarsi ed andare in sala per posizionarsi sul divano, di fronte alla tv, iniziando a scanalare. Conoscendolo, non riusciva a trovare nulla di interessante perché non era realmente interessato a qualcosa, ma quello era stato semplicemente un modo per scappare via, per rifugiarsi.

«Buonasera», disse Michelle. «Vi rubo Stefan questa sera.»

«Fai pure, tanto qui è inutile», rispose Anto con un sorrisetto sfrontato.

«Divertente, zia.» Lui ridacchiò e lei pure, soffiandogli un bacio con la mano.

«Allora andiamo, a dopo!», salutarono.

«Ciao, divertitevi!», accennai un sorriso e, quando furono fuori di casa, incominciai a mettere i piatti sporchi nella lavastoviglie.

«Ary, vai, ci pensiamo noi qui.» Anto mi prese il piatto di mano e mi spinse verso l’uscita dalla cucina.

Andai da Tom e mi misi seduta al suo fianco, lo feci appoggiare al mio grembo con la testa e lui appoggiò una mano sul mio ventre.

«Piangi un po’», sussurrai.

«Perché dovrei?»

«È tanto che non piangi.»

«Meglio, no?»

«Non esattamente.»

Ci guardammo negli occhi e mi baciò sulla guancia prima di stringermi a sé e di mettersi a piangere come da troppo tempo non faceva. Gli accarezzai i capelli sulla nuca e chiusi gli occhi sulla pelle del suo collo.

«Mi manca», disse soffocando un altro singhiozzo.

«È scontato se lo dico pure io?»

Rise piano e mi accarezzò le guance, io gli sorrisi e gli asciugai le lacrime.

«Amore mio», sussurrai.

«Sì?»

«Lo chiamiamo Davide?»

Mi guardò senza parole e mi abbracciò di nuovo, felice. Quell’abbraccio diceva tutto.

«E se nasce femmina?», chiese preoccupato.

«Alessandra ti piace?»

«Come… come tua madre?» Sollevai le spalle, annuendo, con un lieve sorriso sulle labbra. «Va bene. Tanto nascerà Davide, ne sono sicuro», mi sorrise e tornò con l’orecchio sul mio ventre, anche se sapeva che non avrebbe sentito praticamente niente, era bello anche immaginarsi i suoni di quella minuscola vita dentro me.

 

***

 

Il posto era veramente carino, Nicolas aveva azzeccato subito i gusti di Sharon. Anche se poteva sembrare una ragazza superficiale ed abituata al lusso, aveva sempre preferito la semplicità e l’intimità, e lui aveva fatto in modo che niente e nessuno rovinasse la loro serata, nemmeno il fan più timido e riservato che lei potesse avere.

Sedevano vicini e mentre mangiavano capitava che ogni tanto si sfiorassero i gomiti e Sharon diventava sempre rossa come un peperone. Sperava che lui non se ne accorgesse, ma aveva il forte presentimento che se ne fosse sempre reso conto e non le avesse detto niente perché avrebbe ottenuto l’effetto contrario.

Avevano parlato del più e del meno, ma anche della famiglia e dei delicati rapporti che Nicolas aveva con la sua, e poi Sharon gli aveva accennato la possibilità del trasferimento. Non ne era rimasto entusiasta, però non l’aveva nemmeno presa male.

Quella serata era passata in un lampo, Sharon non se n’era nemmeno accorta quasi, e avrebbe tanto voluto che il tempo tornasse indietro e soprattutto evitare tutta quell’ansia che l’aveva accompagnata per l’intero pomeriggio.

A Sharon piaceva moltissimo stare abbracciata a Nicolas e sfrecciare nel vento con la sua moto nonostante facesse un freddo cane. Adesso capiva come si sentiva sua madre quando suo padre la portava a fare i giri: era meraviglioso.

Il cielo era limpido e le stelle luminose, come la luna che brillava perfetta nel suo semicerchio.

«Posso dirti che stasera sei davvero carina?», si passò una mano nei capelli, quel sorriso che riusciva sempre a farla arrossire e a farle pensare a cose non proprio puritane.

«Carina? Stefan ha detto che sono uno schianto.»

«Stefan lo fa apposta per farti arrossire, ma è vero. Quindi io tento di non farti arrossire e di farti un complimento allo stesso tempo.»

«Ah, grazie», si morse il labbro.

Sharon era appoggiata alla moto, di fronte a casa sua. Sapeva che era fin troppo presto per rientrare, o forse non voleva e basta, voleva stare ancora con lui. Nicolas sorrise e si avvicinò a lei, si appoggiò al suo bacino con il proprio e le cinse i fianchi, poi la baciò sulle labbra.

«Pensavo ad una cosa», le disse.

«A cosa?»

«Mi chiedevo se… non era troppo presto dirti che ti amo.»

«Che cosa? Ti tiri indietro?»

«Non sto dicendo questo.»

«Allora cosa stai dicendo?»

«Che se te l’avessi detto quella volta oppure adesso, sarebbe stato uguale, perché è quello che sento.»

Sharon boccheggiò, lui le accarezzò le guance e la baciò di nuovo, stringendola fra le sue braccia.

«Ti amo», disse sulle sue labbra.

«Anch’io», sorrise Sharon. «Però…»

«Però cosa?»

«Lo sai che non sarà facile?»

«Non capisco dove vuoi arrivare.»

«Nicolas, io ho un’amante», gli prese il viso fra le mani.

«E chi sarebbe?»

«Si chiama Musica.»

Si guardarono intensamente negli occhi e Nicolas sospirò sollevato, però il suo sorriso diminuì d’intensità.

«E ti porterà lontano da me, prima o poi», annuì amareggiato.

«Già. Sarà allora che capiremo davvero se ci amiamo.»

«Ne sei sicura?»

«La distanza fa male e allo stesso tempo guarisce. A noi farà chiarezza.»

«Io ti amo, nessuna distanza mi farà cambiare idea. Tu… hai bisogno di chiarezza?»

«No. No, Nicolas.»

«Allora volevi arrivare alla questione, volevi dirmi che succederà.»

«Sì, hai diritto di sapere.»

«Ok, va bene. Adesso ti senti meglio?»

«Cosa?»

«Ti sei levata questo peso dallo stomaco?»

Sharon rise e si appoggiò al suo petto con la fronte, tenendo i pugni ai lati della testa. «È stato difficile dirtelo. Come… sarà difficile stare lontano da te.»

«Ce la faremo, lo sai.»

«Ne sono sicura. Mamma e papà ce l’hanno fatta, e così anche zio e zia. Ho tanti buoni spunti per sperare.»

«Sperare? Io non spero, io ho la certezza che ce la faremo.»

«Scusami, io non sono sicura come te.»

«Ma mi ami.»

«Ero certa anche di amare Derek. Lo so che è assurdo, ma…»

«Non è assurdo, Sharon. La tua paura è… normale.»

«E cosa dovrei fare per fidarmi totalmente di te?»

«Devi solo fidarti di te», le mise una mano sul petto, «del tuo cuore. Ci vorrà del tempo, ma vedrai che ce la farai, ne sono sicuro. Io mi fido di te.»

Aveva le lacrime agli occhi, ma cercò comunque il suo sguardo e gli sorrise. Nicolas la baciò sulle labbra, portando le mani fra i suoi capelli mossi che le contornavano il viso dolcemente.

«Come vorrei che non passasse mai questa notte», mormorò lei accarezzandogli il collo con le dita fredde.

Nicolas si staccò dolcemente e sorridendo si tolse un braccialetto d’argento che Sharon riconobbe come quello che indossava sempre, non se ne separava mai. Lo accarezzò e poi glielo infilò al polso, senza dire niente.

«E questo cosa vorrebbe dire?», sussurrò lei.

«Non vuoi sapere che storia c’è dietro questo braccialetto? Tu sei curiosa, perché non me lo chiedi?» Sharon sorrise. «Questo è il braccialetto che mi sono comprato quando ho cambiato vita, quando sono scappato di casa e ho avuto la mia libertà.»

«Quindi questo simboleggia la tua libertà?»

«Esattamente. Tu sei la mia libertà, perché io sono libero di amarti, non mi hai mica obbligato. Voglio che tu lo prenda, per ricordarti di me, per ricordarti che ti amo da impazzire.»

«Come se avessi bisogno di pensarti più delle ventiquattro ore standard.»

Si guardarono negli occhi e sorrisero, in principio, poi scoppiarono a ridere l’uno nelle braccia dell’altra.

«Grazie Nicolas, è bellissimo.»

«Trattamela bene.»

«Il braccialetto non è maschile?»

«La mia libertà di amarti.»

Sharon lo guardò e lo baciò stringendosi a lui, le braccia intorno al suo collo e le mani che accarezzavano piano i suoi capelli biondi.

«Adesso devi andare», disse Nicolas controvoglia. «Domani hai un po’ d’impegni, da quel che ho capito.»

«Non m’importa.»

«Forza Sharon, fai la brava.»

Sharon si staccò e si allontanò di qualche passo. Nicolas si toccò il polso e lei sorrise indicando il braccialetto che ormai si sentiva suo, caldo come la sua pelle.

Entrò in casa in punta di piedi, tutte le luci erano spente e dedusse che tutti erano andati a dormire, così fece ancora più piano. Quando fu in camera sua e si rilassò pensando a Nicolas, cadde rovinosamente a terra inciampando in un vestito superstite di quel pomeriggio. Si rialzò controllando che Juri non si fosse svegliato e si spogliò in fretta per entrare in slip e reggiseno fra le coperte fredde. Sorrise e poi sbuffò ricordando gli impegni della giornata successiva: sarebbe stata veramente impegnativa. Ma poi vide il braccialetto di Nicolas al suo polso e si addormentò con il sorriso sulle labbra.

 

___________________________________________

 

 

Ciao a tutti!
Ecco un nuovo capitolo, a voi. Spero che vi sia piaciuto ^-^
Sharon e Nicolas sono usciti e sono davvero molto dolci *-* E’ ricomparsa anche Michelle (Non è morta, evvai xD), anche se brevemente, e abbiamo scoperto la sua mentalità differente rispetto a quella di Stefan e di un Kaulitz in particolare u-u xD E per concludere Ary si è decisa ed è stata lei stessa a proporre a Tom di chiamare il bambino come il suo fratellino.

Ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo:

Tokietta86 : Ciao! ^-^ La frase: “Quei due fanno figli come conigli” mi è piaciuta xD Sì, ma è tutta un’idea di Tom, anche se Ary ne è felice e finalmente si è lasciata andare :) Forse anche perché non voleva sfornare la squadra di calcio, è possibile xDD No, lo voleva davvero e se nasce femmina ha già pronto il nome, come quello della sua mamma…
Sì, ora Katrina e Sharon vanno d’accordo e anche se Katrina ha avuto un’infanzia difficile ora non è sola, ha una famiglia che la ama :)
Anche a me fanno morire Nicolas e Bill, questa volta il papà di Sharon ha avuto una vera crisi e chi l’ha psicoanalizzato? xD Sarah xD Anche questa bambina la amo *-*
Grazie mille per i complimenti e grazie per la recensione, alla prossima! :) Un bacio!

freency : Non ti preoccupare, la casa la trovano :) E sei forse l’unica che tifa per Bea o.o xD Staremo a vedere come andrà a finire ;) No, non mi dimentico più xD Grazie per la recensione, alla prossima!

Utopy : Adesso Katrina ti sta simpatica, eh? *-* Lo sapevo! E’ impossibile odiarla, come Ary… u-u xDD Comunque, la sua storia è davvero triste e Juri senior è stato proprio uno stronzo, diciamolo u-u Io sono molto egocentrica, sì u-u xDD
Bea, Bea, Bea… non mi ricordo quando sparirà, ma sparirà, stai tranquilla u-u xD Per quanto riguarda Anne e Christin dobbiamo aspettare e così ancora per Michelle, anche se in questo capitolo è ricomparsa xD Te l’avevo detto che questo sequel non mi era venuto bene, è troppo spezzettato -.- Farò il possibile per rimediare.
Grazie Mond, I love you so much *-* <3 Tua, Sonne.

Ringrazio anche chi ha letto soltanto :)
Alla prossima settimana! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 24
*** Maybe, friends ***


I loved you with a fire red, now it’s turning blue
And you say
Sorry like an angel, heavens not the thing for you,
But I’m afraid

It’s too late to apologize, it’s too late
I said it’s too late to apologizes, it’s too late

(Apologize – One Republic)

 

Capitolo 17
Maybe, friends

 

Sarebbe stata una lunga ed intensa giornata, ma Sharon non si era tirata indietro e aveva vissuto tutto con il sorriso sulle labbra. Tutti potevamo capire bene il perché: l’amore faceva miracoli.

Si era alzata di buon’ora, spontaneamente, sorprendendoci, e si era mostrata in una forma smagliante; aveva risposto a tutte le nostre domande curiose con imbarazzo ed eccitazione allo stesso tempo, anche se dopo avrebbe avuto un’altra pesante intervista, una vera. 
Nessuno però le aveva chiesto di quel braccialetto nuovo che portava al polso. Il suo comportamento verso quell’oggetto era insolitamente dolce, perché lo proteggeva quando qualcuno lo fissava troppo a lungo e ogni tanto lo accarezzava sognante.
Bill era a dir poco nauseato da tutto ciò, ed era restio a parlare con lei, anche se ciò gli procurava immensa fatica.

L’intervistatrice quella mattina era arrivata con venti minuti di ritardo e aveva usato la scusa del traffico, nonostante si vedesse benissimo che aveva la camicetta allacciata male sotto alla giacca. 
Gustav, diventato il loro manager ufficiale, si era imbestialito perché avevano dovuto aspettare lei invece di fare cose molto più importanti. Non vedevo un’incazzatura così perfetta dai tempi di David e Benjamin.

Per fortuna l’avevano fatta prima delle prove, perché allora sarebbe stato un vero disastro. I ragazzi erano tesissimi già di loro e un’intervista snervante prima di un concerto non era il massimo.

Si erano sistemati nel backstage, sotto la supervisione di Gustav, e la donna, sui trentacinque anni, capelli cotonati biondi e la famosa camicetta, aveva iniziato subito con le domande, come per recuperare un po’ del tempo che avevano perso.

B-MAG: Allora ragazzi, siete tesi per il concerto di stasera?

L’ovvietà e anche la stupidità delle domande a volte era imbarazzante, ma ci erano abituati.

DEVILISH: Eh già.

B-MAG: Immagino, sì, sì… Ci sono delle voci che dicono che la separazione momentanea del gruppo sia stata solo una tattica per attirare i mass media, sapete?

DEVILISH (SHARON): Sì, le voci girano. Ne abbiamo sentito parlare.

B-MAG: E che ne dite?

DEVILISH (SHARON): Cosa potremmo dire? È ovvio che ci dispiace, non era questo il nostro intento. Se è successo è perché c’era qualcosa di grosso in ballo.

B-MAG: Cioè?

DEVILISH (KRISTA): Spiego io, visto che sono la diretta interessata. Mi sono presa un po’ di tempo per riflettere, ne avevo bisogno. Ma alla fine mi sono resa conto che mi mancavano tanto e sono ritornata.

B-MAG: Tutti quanti? Ci sono delle altre voci, che circolano in rete, che direbbero che tu e Alex siete una coppia. È ancora così?

DEVILISH (ALEX): Non vedo come questo possa entrare nel contesto dell’intervista. Siamo qui per parlare della nostra musica, non per parlare di gossip e di svelare parti della nostra privacy.

A Gustav brillarono gli occhi per la risposta diabolicamente azzeccata, ma passò in fretta perché sapeva che quella parte sarebbe stata sicuramente tagliata oppure, ancora peggio, sarebbe stata manipolata a piacimento dalla rivista per indurre a credere qualcosa invece che un’altra.

B-MAG: Andiamo avanti, forse è meglio. Sharon, vorrei sapere che cos’è successo all’ultimo concerto e che cos’era quel brano che hai suonato da sola, con il pianoforte, piangendo oltretutto.

DEVILISH (SHARON): Oh, quello. È stato un momento… strano. Avevo litigato con delle persone e… a volte la musica serve anche a scaricare la tensione e la rabbia. È un brano che non conosceva nessuno, neppure i miei compagni di avventura – Sorrise – perché in verità non volevo che qualcuno lo sentisse, ma in quel momento è stato spontaneo.

B-MAG: Capisco.

Davvero? Gustav non ci credeva nemmeno un po’: un’oca come quella non poteva aver capito il vero significato che si celava in quelle parole.

B-MAG: Voi andate ancora a scuola e contemporaneamente suonate e fate concerti. Come fate? Non sarebbe più semplice lasciare la scuola e concentrarsi solo sulla musica, come molti altri hanno fatto? Anche i vostri genitori hanno fatto così, mi sembra.

DEVILISH (ALEX): I nostri genitori ci hanno influenzato musicalmente, ma siamo una cosa completamente diversa da loro, anche se in certi aspetti siamo molto simili. E poi non vediamo la necessità di lasciare la scuola. Non è ancora capitato che all’interno della nostra scuola fossimo assaliti dai giornalisti o dalle fan, è tutto normale - tra virgolette. Per noi è come vivere due vite: a volte è traumatico, ma altre volte è un sollievo rifugiarsi in una quando l’altra fa schifo.

DEVILISH (STEFAN): Sì, e poi io e Alex stiamo per finire, quest’anno abbiamo la maturità, non ha senso lasciare proprio adesso, dopo tutta la fatica che abbiamo fatto!

B-MAG: Che progetti avete dopo la scuola?

DEVILISH (STEFAN): L’unica cosa in cui voglio impegnarmi è la musica.

DEVILISH (ALEX): A me piacerebbe frequentare l’università, ma è solo un’idea. Si vedrà.

B-MAG: Invece voi? Manca ancora un po’, però avete già qualche idea?

DEVILISH (SHARON): Io vorrei frequentare una scuola di fotografia, è un sogno che ho da quando sono bambina.

B-MAG: Credevo fosse la musica, il tuo sogno.

DEVILISH (SHARON): Ne ho talmente tanti di sogni! E quello della musica lo ritengo già in parte realizzato: suonare di fronte a tutta questa gente, alla nostra età, è bellissimo.

DEVILISH (KRISTA): Anche per me come Stefan. Non mi vedrei a fare nient’altro, oltre a suonare.

B-MAG: E i vostri genitori che ne pensano delle strade che volete intraprendere?

DEVILISH (SHARON): Sono fieri di noi.

DEVILISH (STEFAN): Vogliono solo la nostra felicità, non ci obbligano a suonare o a studiare, come nel caso di Alex.

DEVILISH (ALEX): Deficiente – Rise e gli tirò una gomitata sul fianco –, non è vero.

B-MAG: Sembrate un gruppo molto affiatato, non vi avevo mai conosciuti di persona e solo ora me ne rendo conto. C’entra qualcosa il fatto che siete sempre cresciuti assieme?

DEVILISH (STEFAN): E che siamo fratelli gemelli io e lui? – Mise un braccio intorno alle spalle di Alex – Potrebbe essere. Per una band la cosa fondamentale è l’amicizia: non saremmo nessuno se non fossimo amici, prima di tutto. Noi non siamo stati costruiti a tavolino, siamo solo frutto della nostra passione per la musica.

DEVILISH (ALEX): Parole profonde, fratello. Dove le hai lette? – Rise – No, scherzo. Sono pienamente d’accordo con lui.

DEVILISH (KRISTA): Anche se a volte litighiamo, è normale. Basta che dopo ci sia il chiarimento.

DEVILISH (SHARON): Già.

Buffo che proprio Krista avesse parlato di chiarimenti, visto che con Alex ancora non ci aveva parlato.

B-MAG: Progetti per il futuro da musicisti?

DEVILISH (STEFAN): Non possiamo svelare niente, mi spiace.

Quel ragazzo è ogni giorno di più uguale a suo padre, con un retrogusto dolce di Ary, pensò Gustav guardandolo. E, guardando l’intero gruppo, si vedeva proprio che erano legati, nel bene e nel male, e che credevano davvero in quello che facevano, non per soldi e per fama, ma per amore della musica allo stato puro.

Finita l’intervista Gustav si congratulò con loro e dopo un pranzo veloce e un’ora di tempo libero per giocare un po’ a ping pong e a biliardino, ci furono le prove.

Il concerto di quella sera doveva essere a dir poco perfetto ed indimenticabile sia per loro che per i fan e tutti si stavano dando da fare per far sì che fosse così, ma con Krista alla batteria sarebbe stato un successo, sicuramente meglio di quando era stata rimpiazzata da quell’incompetente.

«Bravi ragazzi, siete in forma smagliante! Non vi preoccupate per stasera, andrà tutto bene se suonerete come avete suonato adesso.»

«Speriamo», disse Sharon.

«Ne sono sicuro, vedrai. Ah, prima che mi dimentichi! Sharon e Stefan, potete venire qui un attimo, devo discutere di una questione con voi due.»

«Posso venire pure io?», chiese Krista.

«No.»

«E perché no? Perché solo loro due?»

«L’ho detto, devo discutere di una questione con loro due, in privato. E poi mi serviva la cantante e Stefan… Stefan è il più grande del gruppo.»

«Stupidi sei minuti», borbottò Alex, ma non poteva essere più felice della scelta di Gustav: li aveva fatti rimanere da soli per chiarire, finalmente.

Alex si tolse la chitarra dal collo e guardò Krista seduta dietro la sua batteria, le bacchette nervosamente strette fra le dita: aveva voglia di scappare, ma non poteva rimandare quel momento in eterno, prima ne parlavano e meglio sarebbe stato, anche per la tensione che si creava all’interno della band, ma aveva paura. 

«Credo che Gustav l’abbia fatto apposta a lasciarci da soli», disse lei prima che lui potesse aprire bocca.

«Lo credo anch’io.» Si mise seduto al suo fianco e Krista sospirò chiudendo gli occhi.

«Scusami, mi dispiace da morire», disse.

«È troppo tardi per chiedere scusa, Alex.»

«Lo so, lo so. Volevo solo farti sapere e farti capire che è quello che dico è la verità. Lo so che non si può tornare indietro e non sarà mai più uguale a prima, però volevo che tu sapessi che sono mortificato.»

Krista lo guardò negli occhi e fece una smorfia quando vide che i suoi occhi erano lucidi e tristi.
«Non è da Kaulitz piangere», gli disse.  

«Per il Kaulitz in questione è normale piangere per te.»

«Non ti dirò che mi dispiace!», rise.

«Non voglio che tu lo dica!», rise anche lui.

«Allora come credi che… si svilupperà la situazione?»

«Per oggi il nostro obbiettivo è suonare e dare il massimo, poi si vedrà», si passò una mano sugli occhi umidi e sorrise.

«Ma cosa… siamo noi?»

«Spero vivamente amici. All’intervistatrice abbiamo detto questo, non possiamo mentire ai nostri fan.»

Krista sorrise. «Amici.»

«Ok, bene. Potrei avere un abbraccio da amico?»

«Accordato», si alzò e lo abbracciò con tutte le sue forze, le era mancato veramente tanto, più come amico che come fidanzato, però le era mancato.

«Krista, posso dirti una cosa?»

«Che cosa?»

«So che non è il momento adatto e forse che è troppo presto, ma non voglio nasconderti le cose e… volevo dirti che mi sono visto con una ragazza, un paio di volte.»

«Di già?», era quasi sbalordita, ma si ricordò che doveva fare l’amica e non l’incazzata.

«Più che altro è stata una prova per vedere se senza di te riuscivo a stare.»

Krista si fermò e lo guardò a bocca dischiusa, l’aveva colta di sorpresa.
«Sono così… importante, per te?»

«Cavolo se lo sei.»

«E per quale cazzo di motivo allora hai combinato tutto questo casino?»

«Ero ubriaco e… la ragazza con cui è successo non si è mai più fatta viva.»

«Tu sei scemo!»

«Sì, lo so. Ma questo non cambierà nulla, vero?»

«No. Allora sei uscito con questa ragazza e?»

«E niente, volevo sapere che ne pensavi.»

«Che ne penso? Se dopo così poco tu ti frequenti con un’altra non so davvero che pensare!», esclamò con gli occhi leggermente sgranati, aprendo le braccia.

«Dimentichi il motivo. Se non posso avere te, perché ho sbagliato e hai ragione, almeno lasciami stare con una che sa affievolire il dolore provocato dalla tua assenza.»

«Vorrei tanto sapere come fa», scosse il capo.

«Ci è passata anche lei: il suo ragazzo l’ha tradita con un’altra e l’ha messa incinta, quindi si è trasferito da lei perché l’amava. Lei mi capisce, vuole dimenticare, e stiamo bene insieme.»

Stava dicendo più cose a se stesso che a Krista. L’enorme banco di nuvole nere che veleggiavano su di lui si stava diradando e gli stava mostrando la verità, ciò che lui non era mai riuscito a capire di quello strano rapporto che aveva con Bea.

«Poverina, mi dispiace tanto. Vedi quanto soffre?»

«Sì, è per questo che ho voluto chiarire con te, invece che andarmene felice e contento dicendoti le cose alla cazzo e al cellulare.»

«Grazie Alex.»

«Dovere», la strinse e chiuse gli occhi sereno, sapendo cosa fare.

Quella sera l’eccitazione e la tensione erano a mille e si alternavano disordinatamente; i fan urlavano e aspettavano solo loro; noi eravamo lì fra loro e sentivamo nell’aria quell’emozione che contagiava un po’ anche noi.

«Ragazzi, siete forti! Andrà benissimo!», gridò Gustav, manco stessero andando a boxare contro un tipo alto e largo il quintuplo di loro.

Ma Gustav aveva avuto ragione, erano andati benissimo, il concerto era stato stupefacente ed era sembrato un sogno quando erano stati sommersi dagli applausi e dalle urla di tutte quelle persone che erano accorse solo per loro, aspettando ore al freddo e contro ogni altro tipo di intemperie.

Avevano mostrato chi erano davvero, quello che valevano, e cosa potevano dare stimolati da così tanta gente. Quello sarebbe stato il loro trampolino di lancio nel mondo della musica, anche se ci erano dentro da un bel pezzo grazie alla potenza di Internet e dei loro ammiratori in rete. Ma le decisioni sarebbero state prese assieme, non voleva costringere nessuno lui, tantomeno quei ragazzi che aveva visto crescere come suoi figli, ne avrebbero parlato e avrebbero deciso se intraprendere quell’idea del tour.

Appena finito il concerto, Sharon tornò dietro le quinte e vide suo padre sorridere raggiante.

«Piccola, sei stata fenomenale!», la abbracciò e la baciò sulla fronte con le mani sulle sue spalle.

«Grazie.»
Sharon sorrise imbarazzata e abbassò lo sguardo verso il braccialetto che teneva stretto al polso, lo accarezzò con l’unghia e guardò suo padre con un sorriso più aperto, veramente felice.

«Dimmi un po’, te l’ha regalato Nicolas quello?», le chiese.

Non era certo la persona che ci aspettavamo che glielo chiedesse, ma forse avevamo aspettato solo quel momento. Era l’unico che in verità poteva chiederglielo, interessarsi così della sua felicità e capirla.

«Sì, questo è… suo, in verità.»

«Ma ti vergogni di parlare con me?», le accarezzò le guance rosse.

«No, cioè… un po’.»

«Ti piace proprio tanto, eh?»

Sharon sorrise e annuì con la testa, allungando ancora le braccia verso il collo di suo padre.

«Non chiedo che tu sia zitella a vita, ma single almeno per adesso… quando sarai più grande allora…»

«Papà, cosa stai dicendo? Io lo amo.»

«Ma io…»

«Tu sarai sempre mio papà, a nessuno vorrò bene allo stesso modo in cui voglio bene a te. Capito?»

Bill annuì e la strinse. 
Io guardai la scena con Tom e Anto e facemmo tutti un coro per la loro tenerezza.

«Non vorrei disturbare questa scena commovente, ma qui fuori ho trovato qualcuno che vorrebbe vedere Sharon.»

Alle parole di Gustav ci girammo tutti e Sharon urlò di gioia quando vide Nicolas dietro di lui e gli saltò in braccio.

Bill si accorse che rispetto a prima, si sentiva meno geloso di sua figlia. Forse dopo aver avuto da lei la certezza che non l’avrebbe mai persa a causa di un ragazzo era cambiato qualcosa nel suo modo di vedere le cose. Pensò che anche lui aveva vissuto quell’esperienza con il padre di Anto e che si era ripromesso che non si sarebbe mai comportato in quel modo dopo aver provato sulla propria pelle quella sensazione, ma invece con sua figlia aveva attuato lo stesso metodo di veduta, scoprendosi cieco di fronte all’amore che brillava negli occhi di quel ragazzo come brillava nei suoi occhi quando vedeva Anto nonostante suo padre non approvasse con piacere.

Sorrise e si avvicinò per parlare con Nicolas e con gli altri, perché dopo molto tempo si era accorto che quel ragazzo doveva ancora conoscerlo, e voleva iniziare subito.

 

___________________________________________

 

Ciao a tutti! (:
Questo capitolo è persino più corto del solito, però si sono "risolte" alcune questioni e altre sembrano migliorare. Prima di tutto, Alex e Krista. Sembrano essersi riappacificati e lui le ha persino raccontato di Bea; Krista non ha fatto i salti di gioia alla notizia, ma non ha reagito nemmeno troppo male... Chissà che cosa avrà capito Alex dopo la chiacchierata con la nostra batterista ;)
Poi è tornata la questione che ormai ci portiamo appresso da sempre xD : la gelosia di Bill! E' davvero altalenante, la mattina non riusciva nemmeno a guardare Sharon con quell'aria felice e ora sembra volersi aprire con Nicolas ed iniziare a conoscerlo. Ma chissà... u-u Bill è peggio di una donna incinta, con i suoi sbalzi d'umore xD
Bona, credo di aver detto tutto xD Spero che questo capitolo vi sia piaciuto almeno un pochetto (:
Ringrazio infinitamente Tokietta86, freency e Utopy, per le recensioni allo scorso capitolo e ringrazio anche chi legge soltanto (:
Alla prossima! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 25
*** Houses ***


I know sometimes it’s gonna rain
But baby, can we make up now
‘cause I can’t sleep through the pain
(can’t sleep through the pain)

Girl, I don’t wanna go to bad
(mad at you)
And I don’t want you to go to bad
(mad at me)

(Mad – Ne Yo)

  

 

 

Capitolo 18
Houses

 

Mi avevano chiesto se ero sicura di voler andare con loro come minimo trenta volte, all’ultima (avevo perso già il conto da un po’) gli avevo risposto che sarebbero stati loro a farmi venire la nausea, non la gravidanza, se avessero continuato e alla fine ce l’avevo fatta.

Eravamo usciti quella mattina dopo che i ragazzi erano andati a scuola e dopo aver accompagnato Sarah all’asilo, e avevamo raggiunto la signora dell’agenzia immobiliare che ci avrebbe mostrato alcune case. Era una donna sulla quarantina, la voce irritante e il sorriso maligno che non sopportavo quasi quanto il suo tallieur bordeaux e beige e la ricrescita nera sotto alla tinta rossa.

«Questa è l’ultima», mi sussurrò Bill mentre la tipa apriva la porta.

«E quindi?»

«Sei stata fin troppo tranquilla, chissà quante cose brutte hai pensato senza dirle.»

Sorrisi e gli tirai la guancia: ci prendeva sempre, con gli anni ero diventata un libro aperto per tutti.

Quella era la sesta casa che vedevamo e tutte quelle precedenti non mi erano piaciute per niente, avevo giudicato tutto per filo e per segno nella mia testa pur di non dire che le altre case non erano belle come la nostra, come avevo promesso, anche perché sapevo che se non avessi fatto in quel modo mi avrebbero mandata via a calci.

«Eccoci qua», disse Eliza, così mi sembrava che si chiamasse la tizia, facendoci entrare in un salotto immacolato con il pavimento con le piastrelle così lucide che potevamo rispecchiarci su di esse.

Mi guardai in giro e tenni la bocca chiusa per non urlare dallo stupore. Era davvero meravigliosa, non era nulla di quello che avevamo visto fino ad allora, così semplice e così stupenda.

«Sono due piani senza contare la soffitta», indicò le scale nascoste dietro una porta scorrevole. «Di sopra ci sono le camere da letto e un balcone più piccolo rispetto alla terrazza che c’è in cucina.»

«Quante sono le camere?», chiese Anto.

«Uhm… otto, mi sembra, più la camera degli ospiti.»

«Cavolo, è enorme!»

Tom mi prese per mano e mi portò in cucina, grande il doppio della nostra, lucida e splendente come se fosse un luogo celestiale.

Il salotto era molto più ampio e spazioso e c’era un’intera parete di vetro dalla quale si poteva vedere tutt’Amburgo, visto che la casa che stavamo visitando in realtà era un attico all’ultimo piano di un palazzo altissimo, uno dei più esclusivi della città.

«Andiamo a vedere di sopra?»

«Sì, andiamo.»

Salimmo le scale guidati da Eliza e tutto era così bianco, così perfetto… non mi sembrava vero.

Le stanze erano bellissime, però non avevano i bagni interni, in compenso però ce n’erano quattro sparsi per tutto l’appartamento, abbastanza per soddisfare tutte le esigenze di Bill e Sharon, che potevano starci delle ore per truccarsi, e le nostre esigenze da comuni mortali.

«Di qui c’è la terrazza», indicò, una volta tornati di sotto, due altre porte scorrevoli a vetro che si affacciavano all’altra parte di Amburgo.

Anche se faceva freddo e non era proprio la stagione per utilizzare al meglio una terrazza, uscimmo e la signora ci disse che oltre a tutto quello spazio avevamo anche una cantina e tre garage, quindi il posto per sei macchine, al piano terra.

Mentre spiegava tutte le cose tecniche di cui io non mi sarei mai interessata, mi sporsi a vedere il panorama. Era davvero altissimo, per fortuna che non soffrivo di vertigini.

«Ehi, a che pensi?» Tom mi mise un braccio intorno alle spalle e mi baciò morbido la tempia.

«A nulla, perché?»

«Non lo so, non hai mai detto una parola fino ad adesso.»

«Questa casa è l’unica che mi piace fra tutte quelle che abbiamo visto.»

«È veramente bella.»  

«Pensi che piacerebbe pure agli altri?»

«Certo, perché no? E poi verranno pure loro a vederla, non ti preoccupare.»

«Ok.»

Arricciai il naso e guardai oltre Tom: Eliza stava scrivendo qualcosa sul suo palmare e fra le dita teneva una sigaretta.

«Mi scusi, potrebbe evitare?», mi strinsi nelle spalle e indicai la sigaretta, «Sono incinta.»

Quant’era bello accampare quella scusa per qualsiasi cosa, ma quella volta era vero, l’odore del fumo mi infastidiva il doppio.

«Oh, sì, certo, scusa», la spense nel posacenere che c’era sulla mensola del caminetto al lato della terrazza. Mi appuntai mentalmente di levarlo subito se quella fosse stata la casa giusta.

«Da quanto?», mi chiese.

«Oh, l’ho scoperto da poco», posai una mano sul ventre sorridendo compiaciuta.

«È il primo?»

Iniziava a farsi un po’ troppo gli affari degli altri, ma quella domanda mi rese felice perché voleva dire che non si vedeva per niente che avevo una certa età e che avevo già tre figli a carico.

«In verità questo è il quarto!», sprizzai di gioia. Anto scosse la testa e Bill, sorridente, alzò gli occhi al cielo ricoperto di nuvole grigie e bianche.

«Non mi stai prendendo in giro, vero?»

«No, è vero.»

«Congratulazioni! Vorrei proprio sapere come fai, io non ce la farei mai.»

«Beh, io disegno fumetti e posso portarmi il lavoro a casa, quindi ho molto tempo libero da dedicare ai miei figli.»

«No, dicevo come fai ad essere ancora così in forma!»

Sorrisi imbarazzata e mi spostai i capelli su un’unica spalla, quando il mio cellulare prese a vibrare nella tasca dei jeans.

«È Alex», dissi guardando il display. «Pronto?»

«Ciao mamma, dove siete?»

«A vedere l’ultima casa, perché?»

«Perché mi sono deciso, vado da Bea. Se lei non si fa vedere, mi farò vedere io.»

Guardai Tom e rientrai in casa per parlare con più libertà con Alex.

«Ma siete già a casa?»

«No, solo io. Oggi uscivo un’ora prima, ricordi?»

«Ah, sì, me l’avevi detto. Aspetta un attimo… ma tu non mi hai ancora raccontato cos’è successo con Krista!»

«Sul serio?», ridacchiò.

«Non sviare l’argomento, devi dirmi tutto quello che è successo. È grazie a lei che hai capito che devi farti avanti con Bea?»

«Più che altro lei sembrava… irritata da questo fatto. Credo sia gelosa di Bea.»

«E se è così sai cosa vuol dire?»

«Potrei avere un’idea, ma non voglio. Lei ha detto che tra noi non ci sarà più niente, è inutile che mi illudo.»

Mi appoggiai al divano e mi controllai le unghie colorate di rosa sospirando. «Noi ragazze siamo così, Alex. E Krista non è diversa dalle altre: è gelosa perché non vuole che tu ti scorda così facilmente di lei. E se forse è ancora legata a te in qualche modo, non vuole tornare sui suoi passi e ammettere che le manchi per orgoglio. Anch’io mi sono comportata così, ma ho ceduto subito.»

«Io l’ho sempre detto che voi ragazze siete troppo complicate.»

«Già. Alex, tu fai solo quello che ti senti di fare, senza ferire i sentimenti altrui, possibilmente, ma qualcuno ci rimarrà scottato per forza. Capito?»

«Sì, ho capito. Ma mi hai mandato ancora più in confusione. Adesso cosa devo fare, aspettare che Krista si decida oppure andare da Bea?»

«Beh, questo devi saperlo tu. Che cosa vuoi veramente?»

Alzai lo sguardo e vidi Eliza guardare Tom in un modo che mi insospettì, e quando gli fece l’occhiolino e rise in modo falso mi convinsi che era il caso di tornare o mi avrebbe rovinato il matrimonio e non avremmo mai comprato quella casa.

«Alex, devo andare, ne parliamo a casa, ok? Ciao, ciao.»

Raggiunsi Tom quasi di corsa, lo presi per il braccio, per delimitare il mio territorio e ciò che era di mio possesso di diritto, e guardai in cagnesco Eliza, che fece una smorfia. Prima aveva fatto tutta la carina e la gentile e dopo tentava di fottermi il marito, molto professionale.

«Andiamo Tom? Non mi sento tanto bene.»

«Ok, andiamo. Allora ci sentiamo per decidere quale casa…»

«Sì, sì, certo! Il mio numero ce l’ha.»

«Ok, perfetto, la contatteremo», dissi fra i denti tirando Tom dietro di me.

Arrivati alla macchina, lontani da Eliza, Anto scoppiò a ridere e io mi misi a braccia incrociate, profondamente offesa.

«Non c’è niente da ridere», sbuffai.

«Ary, come stai?», mi chiese premuroso Tom. Allontanai la sua mano con un gesto e sbuffai.

«Sta benissimo, Tom», disse Bill.

L’unico che non aveva capito era lui? Possibile che non si fosse accorto dei tentativi di Eliza di abbordarlo?

«Non posso crederci, quella ci stava provando con te!», gridai.

«Allora avevo notato giusto! Vuol dire che ho ancora un certo fascino.»

«E tu sarai padre di nuovo e ti fai corteggiare così?! Che bell’esempio che dai ai tuoi figli!»

«Ma cucciola, tu sai che…»

«Lasciami in pace, sono nervosa perché sono incinta.»

«Sei arrabbiata con me?»

«No, è praticamente impossibile essere arrabbiati con te. Però se non fossi intervenuta io vorrei proprio sapere cos’avresti combinato.»

«Ehi, ci sarei stata io a tirare due ceffoni a quella. Non può toccare mio cognato!», disse Anto.

«Menomale che ci sei tu, va’.»

«Ah, chi era al telefono?», mi chiese Bill.

«Alex.»

«Che ha detto?»

«Che è confuso e non sa chi scegliere fra Krista e Bea.»

«Ma con Krista mica…»

«Krista lo evita perché lo vuole, anche se in fondo ha paura di essere tradita di nuovo. Alex non sa che fare e come comportarsi, con entrambe. Va bè, vedremo come andrà a finire. Tu, Bill, con Nicolas, come va?»

«Bene, è un bravo ragazzo.»

«Vi siete conosciuti meglio, finalmente.»

«Sì, riesce pure a sembrare simpatico.»

«Ma alla fine tu e Sharon avete parlato?», chiese Tom con un sogghigno, guardando il fratello nello specchietto retrovisore.

«Di cosa?»

«Di quello di cui dovevate parlare.»

«E sarebbe? Mi sfugge…», si grattò nervosamente la nuca.

«Inizia per s e finisce per esso, ti dice qualcosa?»

«Ahm… in verità…»

«Non ne avete ancora parlato! Bill, guarda che…»

Sentimmo il rumore di una moto superarci e riconoscemmo con delle risate soffocate Sharon aggrappata a Nicolas, mentre Bill aveva iniziato ad urlare bestemmie a non finire.

«Beh, che ti devo dire? Scoprirà da sola ciò che tu non le hai spiegato, a tuo rischio e pericolo. A meno che non l’abbia già fatto, si intende.»

«E adesso dove vanno?! Io lo uccido! Quel ragazzo lo uccido! Deve solo provare a toccarla che io… Che nervi! Tom, seguiamoli!»

«Ma sei scemo? Io non mi metto a seguirli.»

«Tom, si tratta di tua nipote! Non ti sta a cuore nemmeno un po’?», supplicò Bill.

«È ovvio che mi sta a cuore, ed è proprio per questo che non li seguo.»

«Magari la sta solo riportando a casa, la loro scuola in effetti è di là», indicai dietro di noi.

«Che la porti a casa, se no gliela farò pagare.»

«Bill, sembri mio padre ai tempi d’oro», disse Anto annoiata, con il braccio accanto al finestrino e la testa retta dalla mano.

Bill si fermò a riflettere: non poteva far a meno di essere sempre così in pensiero per lei, non riusciva a non inasprirsi vedendo che Sharon dedicava così tanto tempo a Nicolas… Non riusciva a fare mai niente che soddisfacesse lei, lui e chi gli stava attorno allo stesso tempo, in poche parole.

«Mi dispiace», mormorò, i pugni stretti sulle gambe e lo sguardo basso.

«Non te ne devi dispiacere, Bill. È bello che tu ti preoccupi di tua figlia, ma è un po’ troppo, non credi? Sharon a volte si sente in trappola.»

«È più forte di me.»

«Devi saper controllarti.»

«Non è così semplice.»

«Nulla è semplice.»

Tom girò a sinistra e ci fermammo di fronte a casa, perché io, la testona, avevo lasciato la macchina fuori dal garage.

C’era la moto di Nicolas, lì di fronte e Anto si fermò a guardarla, con il luccichio che aveva negli occhi ogni qualvolta vedeva una moto degna del suo sguardo, cioè la maggior parte delle volte.

Entrammo in casa e la prima cosa che vidi fu Sarah gridare e corrermi incontro.

«Ciao mamma!»

«Ciao piccola! Che cosa c’è? Sei fin troppo contenta. Ma tu che ci fai qui?»

«Sono andato a prenderla io all’asilo, ho usato la tua macchina», disse Stefan, il patentato fra i due gemelli.

«Ah, vedi che non l’avevo lasciata io la macchina lì», feci una linguaccia a Tom che mi rispose con la stessa moneta, facendo ridere Sarah fra le mie braccia.

«Mamma, sono contenta perché Alex è uscito con una ragazza davvero carina e li ho visti.»

«Li hai visti?», chiesi.

«Sì», annuì eccitata. Si avvicinò al mio orecchio e mi sussurrò: «Si baciavano.»

Trattenni il respiro. Mi ero completamente dimenticata di Alex e di Bea e che gli avevo detto che ne avremmo parlato a casa. Allora perché se n’era andato prima del nostro arrivo?

«Ma come hai fatto a vederli? È venuta lei qui?»

«Sì, alla fine sì», rispose per lei Stefan.

«E cos’è successo, cosa si sono detti?»

«Non lo so, sono rimasti fuori a parlare.»

«Eh, io li ho visti dalla finestra!», saltellò Sarah. «Stefan stava parlando al telefono con Michelle e io li ho visti dalla finestra della cucina, sono salita sulla sedia.»

«Piccola peste che non sei altro!», disse Tom sfregandole la testa.

«Ma dov’è Sharon?»

Bill era preoccupato ma sapeva anche che doveva controllarsi, era una lotta fra le due sensazioni e non era sicuro sul risultato.

«Di sopra con Nicolas.»

«Di… di sopra?», tremò.

Stefan non fece nemmeno in tempo a confermare che lui era già schizzato su con me dietro, dopo che io ebbi lasciato Sarah a terra. Lo fermai solo quando eravamo a un passò dalla porta di Sharon, da dove potevamo sentire benissimo tutto ciò che si dicevano.

«Sharon, è meglio che vada adesso.»

«Di già? No, Nico, resta.»

«Devo andare al lavoro.»

«Hai trovato un lavoro? E quando me l’avresti detto?»

«Te lo sto dicendo.»

«Stupido. Dove lavori?»

«Mi hanno preso in prova per un mese alla redazione di un piccolo giornale.»

«Wow, complimenti!»

«Sì, in pratica devo fare le fotocopie e portare il caffè, bello. Se mi va bene posso sbirciare quello che fanno. Comunque mi pagano bene, è quello che conta. Adesso devo andare, prima che mi licenzino prima di avermi assunto.»

«Ok, ciao, ci vediamo domani a scuola.»

«Sì, ciao. Ti amo.»

«Anch’io.»

Nicolas uscì dalla camera di Sharon e si trovò Bill davanti, io ero appoggiata con la spalla al muro, che guardavo storto il mio migliore amico. Nicolas salutò con un cenno del capo, era di fretta, e scese le scale. Io guardai Bill e sorrisi.

«Bravo Bill, bella figura di merda.»

«Cosa?»

«Hai proprio un talento a ficcarti in queste situazioni. Devi fidarti di lei, ecco cosa.»

Gli lasciai il tempo per dire qualcosa, ma dopo due minuti di silenzio abbassai lo sguardo nascondendo un sorriso e scesi anch’io: anche lui era il mio libro aperto, ormai.

Bill deglutì e chiuse gli occhi, poi fece un respiro profondo. Era vero, forse doveva solo imparare a fidarsi completamente di lei. Se gli aveva detto che sarebbe stato sempre lo stesso il suo affetto per lui, sarebbe stato così.

Fece un respiro profondo ed entrò nella sua camera. La vide sdraiata sul letto, che stringeva il braccialetto con le dita, il sorriso sulle labbra e gli occhi chiusi.

«Ciao», la salutò. Lei aprì gli occhi brillanti e mosse la mano in segno di saluto. Bill si mise seduto accanto a lei e unì le mani sulle gambe.

«C’è qualcosa che devi dirmi, papà?», si mise seduta a gambe incrociate e si strinse un cuscino al petto.

«Volevo solo sapere come va con Nicolas.»

«Bene. Gli ho detto che probabilmente, un giorno, saremo costretti a non vederci molto per la musica.»

«E come l’ha presa?»

«Bene, direi.» Bill annuì e fissò un punto sul copriletto. «Non era questo di cui volevi parlare, non è vero? Papà, perché non ci diciamo più tutto?»

«Perché tu sei cresciuta, sei una donna ormai, e certe cose, una donna, soprattutto se è timida come te, non le viene di certo a dire ad un uomo, che per di più è suo padre.»

«Ed è proprio per questo che dovremmo parlare chiari tutti e due: sei mio padre, io non voglio mentirti e nasconderti le cose.»

«Cosa vorresti dirmi?»

«Papà, che cosa dovresti chiedermi tu, che muori dalla voglia di sapere?»

«Avrei dovuto parlarti del sesso prima che tu lo facessi, lo sai?»

«E chi ti ha detto…»

«Sharon, non sono cieco e nemmeno stupido.»

«Sei arrabbiato con me?»

«No, non lo sono», le accarezzò la guancia e le mise i capelli dietro l’orecchio, sorridendole dolce. «Se vuoi parlare con me, di qualsiasi cosa… più o meno, sai dove trovarmi.»

«L’abbiamo fatto solo una volta, e lui non mi ha mai…»

«Non ti ha mai più chiesto di farlo?»

«Credi sia per causa mia?»

«No, ma perché ti rispetta.»

«Dici sul serio?»

«Sì, certo. Vuol dire che ci tiene a te, e che non è solo il sesso che conta.»

«Io sono ancora così insicura di noi due… vorrei essere come lui: riuscire a dimenticare il passato.»

«Non si può dimenticare il passato, lo sai. Sharon, da qualche parte dovrai pur cominciare, ma devi sentirti sicura tu.»

«Io lo amo, sono sicura, ma certe volte penso ancora a Derek e… so che Nicolas è completamente diverso da lui e che non mi farebbe mai del male, però…»

«E allora cosa ti preoccupa?»

«Ho paura che si stanchi di me, credo. Che un giorno, quando sarò lontana per la musica, lui non approvi più e allora…»

«Tale e quale a tua madre, eh? Avete l’insicurezza nel sangue. Se davvero ti ama, Nicolas ti aspetterà, anche in eterno, e saprà convivere con il fatto che tu hai anche la musica da seguire», le sollevò il mento e la guardò negli occhi, il sorriso stampato sul volto. «Ti amerà come sei, e non ti chiederà di cambiare per lui. Piccolina, sei così determinata sul palco e nella vita reale così fragile… Non capisco.»

«Sono le scariche di adrenalina.»

Si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere.

 

***

 

Sarah si stava quasi addormentando abbracciata a Whiskey, quindi mi alzai e spensi la lampada colorata sul suo comodino, ma lei mi prese il polso e mi fece rimettere seduta accanto a lei.

«Che cosa c’è, Sarah?»

«Papà sta qui, vero?»

Era più nel mondo dei sogni che lì, però le sue parole nascondevano la tristezza di una bambina davvero intelligente.

«Certo che sta qui, cucciola», le sfiorai i riccioli biondi spostandoli dalla sua guancia. «Come mai questa domanda?»

«Ho sentito che parlavate di un tour.»

«Oh. No, non ti preoccupare, papà resta qui.»

«Io voglio che restiamo insieme sempre sempre», si mise seduta sul letto con gli occhi lucidi.

Somigliava così tanto a me quando stava male per qualcosa… La fronte increspata, gli occhi stracolmi di lacrime e le labbra serrate per non farle tremare.

«Sarah, amore», la abbracciai e lei si mise a piangere fra le mie braccia, stringendo fra i pugni la mia maglietta. «Non piangere, amore.» Le passai le mani sulle guance morbide e le baciai la fronte. «Sai che cosa dice una canzone vecchia ma molto bella di papà, di zio Bill, zio Gus e zio Georg?»

Tirò su col naso. «Che cosa?»

«Non importa lontano o vicino, io sono al tuo fianco.»

Lei accennò un sorriso e si rinfilò fra le coperte. Rimasi ancora un po’ con lei, nel buio della stanza, a guardarla prendere sonno e respirare regolarmente, in silenzio, poi le sussurrai la buona notte e scesi di sotto.

Erano le dieci, ma di Alex ancora nulla. Era stato tutto il pomeriggio fuori e il giorno dopo avrebbe avuto scuola, volevo tanto sapere dove si fosse cacciato. Sapeva che rendermi ansiosa non faceva bene né a me né al bambino.

Mi venne da ridere, ma mi tappai la bocca perché non volevo rovinare quella scena dolcissima. Stefan e Sharon erano sdraiati sul divano, abbracciati e addormentati come due bambini davanti alla televisione accesa.

Sicuramente Sharon non avrebbe sofferto per la mancanza di affetto in tour, però non credevo fosse pronta ad affrontare tutto quello stress. Era ancora così piccola, per intraprendere un viaggio del genere…

Mi affacciai alla cucina e vidi Tom con due tazze fumanti in mano, che poi sistemò sul tavolo.

«Ah, eccoti, cercavo proprio te.»

«Davvero? Non sembravi intento a cercarmi.»

«L’avrei fatto se tu non ti fossi presentata da sola», mi sorrise. «Dai, vieni qui.»

Mi misi seduta al suo fianco e presi la mia tazza di cioccolata calda, ne bevvi un sorso. Alle fine papà aveva acconsentito perché io gli rivelassi la nostra ricetta segreta.

«Che è quella faccia?» Lo guardai interrogativa, non sapendo che faccia avevo. «Sembri… È successo qualcosa mentre eri su con Sarah?»

«Mi ha chiesto se tu dovevi partire per un tour, ci ha sentiti mentre ne parlavamo.»

«Ma lei sente tutto quello che diciamo! Non è possibile.»

«È sensibile come me quando si tratta di affetti, aveva paura che tu te ne andassi.»

«E tu che le hai detto?»

«Le ho detto che tu non te ne andrai da nessuna parte, l’ho rassicurata. Pensi che soffrirà molto, se Sharon, Stefan e Alex partiranno per il tour?»

«Conoscendola, molto probabilmente sì. Ma è forte ed intelligente, capirà. Adesso dorme?»

Annuii. «Ma Alex che fine a fatto?»

«Oddio, un’idea ce l’avrei…», disse, sorridendo maliziosamente.

«E quale sarebbe?»

«Se centra Bea, dovresti arrivarci.»

«Dici che è ancora con lei?»

«Secondo me sì, ma può darsi che mi sbaglio. Ah, Ary, chiami tu Eliza, quella dell’agenzia?»

«Sì, va bene. Ci manca solo che la chiami tu.»

Rise sommessamente e sentimmo la porta di casa aprirsi dopo un giro di chiave. Colui che era entrato, Alex, trascinò i piedi verso le scale e ci notò all’interno della cucina, seduti intorno al tavolo.

«Alex! Ma dove diavolo sei stato?»

Aveva la faccia assonnata, ma stava bene tutto sommato, ciò voleva dire che non aveva combattuto con nessuno per quell’elemento facilmente stuprabile di nome Bea.

«Ciao, anche io sono felice di vedervi», sorrise.

«È ovvio che siamo felici di vederti, ci hai fatto preoccupare.»

«Ormai sono grande, sapete?»

«Questo non ti autorizza a sparire.»

«Avete ragione, chiedo umilmente perdono.»

«Solo se mi racconti per filo e per segno tutto quello che hai fatto», sogghignai mentre lui alzava gli occhi al cielo. «Anche i dettagli.»

Alex si trascinò in cucina e si abbandonò alla sedia più vicina a lui, si passò una mano fra i capelli schiariti, quasi castani, riordinando le idee.

«Allora. Bea si è presentata qui, dicendomi che io non mi facevo sentire.»

«E fin qui c’eravamo. Sarah ha detto che vi ha visti mentre vi baciavate. Certo che se ti fai beccare da una bambina di quattro anni…»

«Papà, è Sarah che si fa sempre gli affari di tutti. Anche se fossimo andati in garage lei ci avrebbe scoperti.»

«E quindi? Vi siete baciati. Qual è la motivazione?»

«La motivazione è molto banale: ci eravamo mancati.»

«Ah, gli amici si baciano?»

«Noi non siamo amici. Siamo… conoscenti.»

«Due conoscenti si baciano, allora?»

«Mamma, ti prego, la situazione è già abbastanza complicata senza che tu me la incasini, ok? Allora. Dopo siamo andati a fare un giro e siamo finiti a casa sua.»

«Io lo sapevo», disse Tom. «Che è successo?»

«Non ci crederai, ma non è successo niente. C’eravamo quasi, ma io mi sono fermato, ancora non… Ho appena messo in chiaro con Krista e io non…»

«Hai fatto bene, Alex. Io avrei fatto lo stesso al posto tuo», gli misi una mano sul braccio.

«E allora che cos’avete fatto fino ad adesso?»

«Ve l’ho detto, abbiamo parlato di tante cose e poi lei ha insistito perché mangiassi da lei: cucina bene.»

«Ma abita da sola?»

«No, con due sue amiche. Dividono l’affitto. Ma non c’erano oggi, quindi eravamo solo noi due.»

«Nella tana delle femmine, intrigante.»

«Per favore, Tom. Ecco perché i nostri figli nascono già con i neuroni prefissati per… hai capito, no? Se ti ascoltano quando sono nella pancia siamo messi male.» Mi sfiorai la pancia: «Non ascoltarlo, tutte cavolate.» Tom sorrise e scosse la testa. «Va bè, dicevi, prima che tuo padre interrompesse?»

«Niente, che è brava a cucinare e… adesso sono qui e voglio andare a dormire.»

«Già, domani hai scuola.»

«Merda, avevo anche da fare una tesina per domani! Sono fottuto. Quella ragazza è un male, e me la pagherà.»

«Buona notte Alex, sempre che tu riesca a finire quel compito entro domani mattina», scherzò Tom.

«Grazie, molto gentile. Buona notte mamma, dormi bene», mi baciò la guancia e salì facendo un gestaccio a Tom, che rise.

Era il loro modo speciale per dirsi che si volevano bene: i maschi e il loro universo tutto anomalo.

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Ciao a tutti!
Ehm.... è passato un sacco di tempo dall'ultimo aggiornamento e chiedo umilmente perdono, perché non sono riuscita ad avvisarvi che non avrei postato perché andavo in vacanza ._.
Comunque, adesso sono di nuovo qui, malgrado i ritardi (scusate anche per quelli) e questo è il nuovo capitolo. Uhm... spero vi sia piaciuto :)
Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, ovvero:

freency : Ciao! No, perché non ti piace Krista!? xD Solo a te sta simpatica Bea, sai? xD Staremo a vedere, comunque u_u Il rapporto fra Bill e Sharon è bello, anche se lui è un po' infantile a volte.
Per quanto riguarda l'età dei ragazzuoli... Alex e Stefan hanno appena compiuto diciotto anni, Sharon ne ha sedici e Sarah quattro. :)
Grazie, alla prossima!

Tokietta86 : Ciao! Sì, Alex è sempre stato sincerto con la sua Krista e anche in questo caso non si è smentito... Chissà, magari torneranno insieme per davvero :)
Non cantimo vittoria per Nicolas. Povero quel ragazzo, solo soletto contro Bill Kaulitz xD Staremo a vedere se Bill si è convinto del tutto... Speriamo per quella coppia, perchè davvero non se ne può più xD
Bill e Tom sono contenti che i ragazzi abbiano deciso di scegliere il loro stesso mestiere, ma credo che sarebbero stati contenti comunque, qualsiasi lavoro avessero scelto di fare u_u erano liberi di scegliere, dopotutto :)
Grazie mille! Alla prossima, un abbraccio!

Ringrazio anche chi ha letto soltanto! Alla prossima!
Vostra,
_Pulse_

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Capitolo 26
*** Always happy ***


Ciao a tutti! :)
Okay questa storia la sto un po’ abbandonando, ma è stato un periodo molto pieno e non ho potuto aggiornare per due settimane, oltre al fatto che devo ammetterlo, non mi soddisfa più come ff :(
Comunque sia, non posso lasciarla a metà, è una cosa che mi sono promessa di non fare mai, quindi troverò di nuovo la voglia e la farò piacere a me per prima :)
Spero che questo capitolo vi piaccia, anche se è un po’ cortino xD
Ci vediamo dopo con i ringraziamenti. Vi auguro buona lettura! ;)

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Because angels fall down
And we are and we are
Just to damn its’ souls,
but it's heaven where we lie
Into night

(Down on you – Tokio Hotel)

 


Capitolo 19
Always happy

 

Faceva ancora freddo e in più ci si era messa pure la pioggia, come se non bastasse. Quel giorno, oltre ad essere nervosa di mio, ero pure meteoropatica.

«Oggi Michelle si incontrava con Stefan.»

«Dove?»

«Non lo so, non avevano ancora deciso.»

«Mmh.»

C’era un laghetto, nel giardino dell’ospedale, con alcuni pesci rossi all’interno, grande attrattiva per i bambini. Anche Sarah si fermava sempre lì a guardarli, era più forte di lei.

Sorrisi a quel ricordo e guardai le gocce d’acqua formare dei cerchi sulla superficie del laghetto, una dopo l’altra, facendo incrociare gli anelli in una grande catena.

L’erba congelata e bagnata brillava ogni tanto e mi venne in mente un pomeriggio nuvoloso durante il quale eravamo andati all’oratorio perché Gustav fremeva di nascosto all’idea di vedere Giulia, e l’avevamo accontentato.

Arrivati all’oratorio, ci misimo seduti sugli spalti di cemento di fronte al campo da calcio, nel quale da una parte stavano facendo gli allenamenti dei ragazzi e dall’altra dei bambini. Tom mi accarezzò la guancia e sorrise, poi mi strinse a sé con un braccio attorno alle mie spalle.

Vidi un ragazzo dall’aria familiare prendere con le mani il pallone – e non era il portiere – e correre verso di noi. Quando raggiunse il bordo del campo lo riconobbi e lui fece un sorrisetto malizioso.

«E così sei uscita alla luce del sole?», chiese.

«Tappati quella bocca, stronzo», ringhiai con affetto.

«Onorato di essere al tuo cospetto, regina della finezza», disse con un mezzo inchino.

«Ok, ti do il permesso di aprire la bocca per dire solo dov’è Giulia.»

«A cambiarsi, dovrebbe arrivare a momenti. Tu che fai?», mi lanciò il pallone e io lo presi dopo un rimbalzo.

«Cosa dovrei fare?», gli rilanciai il pallone con le mani.

«Non so, entri di tua spontanea volontà o aspetti che arrivi Giulia?»

«Aspetto lei.»

«E come credi che ti trascinerà, questa volta?»

«O con il piano A o col piano B.»

«Il piano A è quello delle parole e gli occhi dolci? Sicuramente userà il piano B, quello A non funziona con te.»

«Quindi mi porterà a giocare con la forza?»

«Esattamente.» Tom si schiarì la voce e mi toccò il braccio. «Oh, lui è Mick, un mio amico. Mick, loro sono Tom, Bill, Georg e Gustav.»

«Piacere di conoscervi», disse schietto.

«Non so se è un piacere conoscerti», rispose Tom quasi con stizza, mentre mi stringeva a lui.

«Gelosetto, eh?», scherzò Mick facendomi l’occhiolino.

«Non hai di che temere, Tom. Passeranno secoli prima che io mi abbassi ai suoi livelli.»

«Certo, certo… come no.»

«Allora, come va qui?», chiesi.

«Ci manchi. Manchi ai bambini, a dire il vero. Perché non ti prendi definitivamente l’incarico?»

«Gliel’ho chiesto pure io, ma non mi ascolta», disse Anto con un’alzata di spalle.

«Potrò decidere io sì o no? E che cavolo.»

«Ok, scusa, è che mi sembra un talento sprecato.»

«Non sono tutto questo talento», mormorai.

«Giulia dice che potresti entrare nella squadra anche subito.»

«Giulia non è obbiettiva in certe cose.»

«No, infatti… So che Giulia te l’ha già fatto questo discorso, devo rifartelo anch’io?»

Alzai lo sguardo e notai nei suoi occhi scuri una scintilla di rabbia e determinazione, mai come l’avevo avuta io.

«Quale discorso?», chiese Bill.

«Non ce n’è bisogno, grazie», dissi a denti stretti.

«E allora…»

«Allora niente, non voglio e basta», incrociai le braccia.

«Ok, come vuoi, mi arrendo.»

«Tu, che ti arrendi? Non ci credo. È solo per non litigare con lei: odi litigare con lei», disse Anto.

«Lo odio perché è una causa persa, non per altro.»

«Come se io non sapessi che hai una cotta per lei dalla quinta elementare», sbuffò. Mick diventò tutto rosso e le fece una linguaccia, poi si mise a guardare i bambini giocare con un mezzo sorriso divertito.

«Tanto l’ha detto pure lei: non starebbe mai con me», disse.

«Noto con piacere che quando parlo vengo ascoltata», dissi. Strinsi la mano di Tom nella mia e gli sorrisi sulla guancia.

Un bambino corse da Mick e gli tirò il bordo della maglietta. Lui si girò e per poco non scoppiò a ridere.

«Ma che cavolo hai combinato?», gli chiese.

«Sono caduto.»

Era infangato ed infreddolito, le guance piene rosse dallo sforzo e dalla corsa. Conoscevo quel bambino, e anche bene, però da quando Davide se n’era andato si era sempre tenuto un po’ a distanza, come era capitato anche con la sorella di Anto, fin quando non ne avevamo parlato. Era il fratello di Mick e giocava nella stessa squadra di Davide, era uno dei suoi migliori amici.

«Non si saluta?», lo intimò il fratello.

Il bambino mi guardò e mosse la mano, poi guardò Mick e si affrettò ad andare negli spogliatoi per farsi una doccia calda.

«Scusalo», disse Mick con gli occhi tristi.

«Non importa.»

«Perché dici che non importa se non è vero?», quasi gridò, ma Giulia gli tappò la bocca con la mano e gli girò il viso verso sinistra. Ci guardò uno per uno sorridente, già nella sua tuta da ginnastica per giocare a calcio.

«Ciao ragazzi! Che bello vedervi!»

Per prima cosa si buttò al collo di Gustav e se lo strapazzò tutto per bene, poi toccò a noi.

«Ma che ci fate tutti qui?», chiese.

«Gustav», risposimo tutti assieme indicandolo.

Ci vollero sì e no due secondi prima che il suo viso diventasse rosso come mai lo avevamo visto e che Giulia gli tirasse le guance ridendo.

«Ok, basta blaterare, andiamo a giocare! Ary, muoviti», mi tirò per il polso e feci solo in tempo a prendere l’elastico prima che mi trascinasse all’interno del campo.

Mick ci raggiunse e mi tirò un coppino, e io lo rincorsi quasi per tutto il campo, finché lui non cadde sull’erba.

L’erba era congelata e ancora bagnata come quella mattina.

«Posso sapere a cosa stai pensando?», mi chiese Tom.

Mi girai e lasciai che la tenda chiara ricoprisse la finestra che dava sul giardino dell’ospedale.  

Andai a sedermi sulla poltrona accanto alla sua e non feci in tempo a dire niente che la porta si aprì ed entrò la stessa infermiera che ci aveva avvisati che il dottor Stevens, per me e Tom semplicemente Mattia, avrebbe fatto ritardo.

«Scusate per il ritardo, ma c’è stata un’emergenza e il dottor Stevens è stato chiamato d’urgenza in sala operatoria. Dovrebbe arrivare a minuti, comunque.»

«Ok, grazie.»

Infatti, qualche minuto dopo, entrò Mattia con una faccia a dir poco sconvolta, mascherata bene da quella professionale, e i capelli arruffati con classe sulla testa.

«Eccomi qua, scusate», disse debolmente.

«Non c’è problema, Mat», dissi.

L’infermiera si avvicinò a lui e parlarono sottovoce, ma non sapevano che io avevo un udito finissimo. Forse iniziavo ad intuire da chi avesse preso Sarah.

«Com’è andata?», gli chiese. Mattia si limitò a scuotere la testa ad occhi chiusi.

«Vuole che mandi un altro dottore, qualsiasi cosa…»

«No, lascia stare, grazie.»

«Come preferisce. Arrivederci.»

Mattia sospirò firmando su una cartelletta e dopo ci guardò e sorrise meglio che poté, ma si vedeva che era davvero stanchissimo.

«Mat, capita», dissi piano.

«Non doveva capitare, non doveva.»

«Me l’hai sempre detto tu che bisogna andare avanti lasciandosi alle spalle gli errori.»

«Ho fatto tutto il possibile, ma non doveva finire così, era così piccolo…»

«Era un bambino?»

Lui annuì e sistemò la cartelletta, poi mi fece cenno di alzarmi e mi fece sdraiare sul lettino.

«Sembri stanchissimo», sussurrai guardando le occhiaie violacee che aveva sotto agli occhi. «Da quant’è che non dormi un’intera nottata?»

«Da un po’.»

Accese il monitor al suo fianco e mi sparse sul ventre quella crema trasparente e sempre freddissima, che a me fece tremare e a lui sorridere. Iniziò a controllare sullo schermo e quando noi non vedevamo nulla, lui vedeva tutto.

«Procede bene», esordì sorridendo.

Io ricambiai il sorriso. «Perfetto. E a te, come procede?»

«Lo vedi pure tu come procede.»

«Credo che tu debba prenderti una pausa.»

«Magari una bella vacanza ai tropici, che ne dici?», propose Tom.

«Sarebbe bello, però non credo sia la cosa migliore per l’ospedale. Mancano molte persone in questo periodo, è per questo che sono sempre qui.»

«Non devi prenderti tu tutte le responsabilità, sei un essere umano!»

«Sono il capo reparto, Ary.»

«Ma anche tu hai diritto ad una vita oltre al lavoro», constatò Tom.

«Appunto. Per esempio, hai diritto ad avere una donna. O hai intenzione di rimanere scapolo per tutta la vita?»

«Ehi, questa è un’altra storia.»

«Va bè, già che ci siamo… parliamone, no? Allora, l’hai trovata?»

«No.»

«L’infermiera di prima era carina», disse Tom.

«Ha vent’anni in meno di me.»

«E quella della reception, che ne dici?»

«Quella ne ha dieci in più di me, ed è antipatica.»

«Invece sembrava così gentile…»

«Tutta apparenza. Comunque avete tralasciato un aspetto importante: io non voglio avere una relazione all’interno dell’ospedale. Complicano soltanto le cose.»

«Io in verità l’avevo calcolato, visto che ti ho detto che hai diritto ad una vita fuori dall’ospedale.»

«Hai già la nausea?», mi chiese.

«Qualche volta. E non cercare di cambiare argomento.»

«Ary, cosa ti devo dire? Il lavoro che faccio, purtroppo, mi deve rendere sempre reperibile e non mi lascia molto tempo libero a disposizione. Anche se trovassi questa benedetta donna, alla fine si sentirebbe trascurata e così e cosà, so come va a finire.»

«Alle ragazze piacciono molto i dottori.»

«E ti sei mai chiesta perché?»

«Perché sono orgogliose che il loro fidanzato salvi vite?»

«No, perché i dottori possono essere facilmente traditi.»

«E questo chi lo dice?»

«Almeno due dottori su tre in questo ospedale vengono traditi dalle mogli o fidanzate che siano.»

«Allora non è amore.»

«Infatti. Non è facile trovarlo, appunto. Ci vuole tempo, non ti arriva davanti all’improvviso, e si da il caso che io di tempo non ne abbia.»

Scambiai un’occhiata con Tom ed entrambi sorridemmo.

«Noi due siamo la prova vivente che l’amore ti arriva davanti», disse lui.

«Io non sono tanto fortunato», ridacchiò.

Mi alzai e mi sistemai la maglietta, poi mi infilai la giacca. Tom mi mise un braccio intorno alla vita e mi appoggiò a lui.

«Ci vediamo tra un po’, allora», disse Mattia.

«Ok, ciao», gli baciai la guancia e Tom lo salutò con un abbraccio. «Grazie di tutto.»

Uscimmo tutti e tre dalla stanza ed incontrammo la stessa infermiera di prima che passava per il corridoio con una pila di cartellette fra le mani.

«Dottore, c’è una paziente che dev’essere operata di appendicite, se ne occupa lei?», gli porse la cartelletta.

Stava per prenderla, ma io gli tirai una gomitata nel fianco.

«In verità io ho finito per oggi», disse in modo molto forzato. Non avrebbe mai sfondato nel mondo della recitazione, anche per quello era diventato dottore.

«Non c’è nessun altro, sono tutti impegnati», continuò, passandosi una mano fra i capelli. Anche lei sembrava scombussolata dalla nottata passata in bianco.

«Ok, me ne occupo io», sospirò.

«Grazie.»

L’infermiera si allontanò e io sbuffai incrociando le braccia.

«Che c’è adesso? Non c’era nessuno!», tentò quasi di giustificarsi Mattia, avviandosi. Ma in realtà non doveva giustificarsi, sapevo che amava il suo lavoro, che era la sua vita; io volevo il meglio per lui, solo il meglio, e anche se non potevo fare i miracoli volevo almeno provare a spronarlo ad uscire ogni tanto da quell’edificio.

Facemmo la strada assieme e vedemmo anche la paziente, una ragazzina sui tredici anni, già sdraiata sul lettino, pronta ad essere portata in sala operatoria. La donna che era seduta al suo fianco, sulla trentina, occhi scuri e capelli castani mossi, si alzò e guardò ansiosa il dottore. Era davvero bella, anche se era in pensiero per la ragazzina al suo fianco.

«Salve, lei è la madre di… Miriam?», chiese Mattia dopo aver controllato il nome sulla cartelletta, porgendo la mano alla donna.

«Sì, sì, sono io, salve.»

«Si rilassi, è un’operazione di routine, non si preoccupi», le sorrise.

Lei arrossì e abbassò lo sguardo, mentre sua figlia era quasi nauseata da quella scenetta.

«Mi chiamo Rachel», si presentò allora, timidamente.

Menomale che poco prima Mattia aveva detto che l’amore non ti arrivava davanti: da come si guardavano non sembrava proprio così.

«Mamma, allora!», disse Miriam.

«Ah, sì, scusami tesoro!»

«Non diciamogli niente, sgattaioliamo via», sussurrai a Tom, che acconsentì e mi prese per mano per uscire dall’ospedale.

Arrivati a casa, Tom aprì la porta e trovammo Stefan e Michelle in pose troppo statiche, nervose, soprattutto quella di lei. Immaginai che forse avevano sentito le chiavi girare nella toppa e avevano interrotto in fretta e furia quello che stavano facendo.

«Ciao Michelle», salutai.

«Salve signora, tutto bene?»

«Sì, grazie. Tu?»

«Bene, bene. Ehm… allora io andrei…»

«No, non importa. Tanto qui entra sempre un sacco di gente, non ti preoccupare», disse Tom.

Michelle lo guardò confusa e gettò uno sguardo anche a Stefan, del tutto assente alla conversazione.

«Intendeva dire che sei libera di venire quando vuoi», precisai con un sorriso.

«Ah, ok, grazie. Ma adesso devo proprio andare, devo curare i miei fratellini.»

Intuii che dovevano essere venuti a casa subito dopo scuola, perché quando si alzò andò a raccogliere la propria cartella abbandonata all’ingresso. Salutò Stefan con un bacio sulla guancia ed uscì.

«Tutto ok?», chiese Tom sedendosi al fianco di quello strano Stefan, diverso dal solito.

Si vedeva subito che era strano: se ne stava seduto fermo immobile a guardare il tappeto, la testa chissà dove.

«Stefan, sto parlando con te», riprese e gli mise una mano sulla spalla.

«Posso andare io a prendere Sarah? Ho bisogno di schiarirmi un po’ le idee», rispose in tono piatto.

«Prendi la mia macchina», dissi prima che Tom potesse dire altro e gli lanciai le chiavi.

Tom provò a ribattere, ma inutilmente, perché scossi la testa e mossi la mano in segno di lasciar perdere e così fece.

Stefan si infilò la giacca ed uscì fuori, non gli importava il tasso d’umidità e se i suoi capelli si fossero rovinati, in quel momento non erano una priorità.

Aprì la Mini azzurra con il telecomando e ci si infilò dentro. Rimase per un attimo a guardare le gocce di pioggia cadere sul parabrezza, sovrappensiero, poi fece la retro e uscì dal cancello, pronto ad iniettarsi nel traffico scorrevole del primo pomeriggio in città.

Gli piaceva guidare quanto me, però era affascinato dal fatto che ora fosse lui a guidare e non uno dei suoi genitori, come era sempre stato abituato a vedere. Si percepiva autonomo, più grande, anche se sapeva che in realtà quello non c’entrava nulla.

Fermo ad un semaforo, si mise a guardare distrattamente lo schermo di una televisione accesa al di là della vetrina del negozio di elettrodomestici che stava costeggiando. Ancora pensava a quello che era successo con Michelle, non era in grado di concentrarsi su qualcos’altro, se non sulla guida.

Aveva accettato entusiasta l’idea di trascorrere un pomeriggio intero con Stefan ed erano andati direttamente a casa sua. Si erano messi sul divano e parlando un po’, come sempre, avevano finito per baciarsi. Ma era andata sempre oltre, Stefan le aveva infilato le mani sotto la maglietta, stando sopra di lei, l’eccitazione fra le gambe. Michelle si era subito spostata, imbarazzata ed intimorita.

«Stefan, te l’ho già detto», disse sistemandosi i capelli.

«Oh, ma dai Michelle, è una cosa assurda!»

«No, invece non lo è! Non per me.»

«Credi che cambi qualcosa se lo facciamo adesso o dopo il matrimonio?!»

«Sì, cambia!»

«E cosa, esattamente?»

Michelle si mordicchiò il labbro inferiore e fissò le sue scarpe, riflettendo su una risposta adeguata, ma non ne trovava.

«Visto?! Michelle…»

«Beh, anche tu dovresti spiegarmi che cosa cambia!»

«Prima di sposarmi devo verificare se sto bene con una ragazza in tutti i sensi», disse deciso il ragazzo.

«Cosa? Ah, questo lo trovo assurdo! Per favore, è meglio che vada.»

Subito dopo avevano sentito la porta aprirsi e il discorso era rimasto in sospeso, come sempre.

Non riusciva davvero a spiegarsi il motivo delle sue stupide fissazioni e credeva che non l’avrebbe mai capito, se non affrontavano l’argomento una volta per tutte. Lui le voleva bene, anzi era certo di amarla, però, per lui, non averla fisicamente era come un impedimento alla loro unione definitiva. Quello che intendeva Michelle per unione solida, invece, era il matrimonio.

Arrivò all’asilo di Sarah e scese dall’auto. Corse all’interno e aspettò che la sua amata sorellina si vestisse in modo adeguato e che si sistemasse lo zainetto sulle spalle.

«Ciao Stefan, come mai sei venuto a prendermi tu?», gli chiese sorridendogli e stendendo le braccia per essere presa in braccio.

«Perché, non sei contenta di vedermi?»

«Sì che sono contenta!», gli baciò la guancia e rimase con le braccia strette al suo collo.

«C’è qualcosa che non va?», gli chiese preoccupata.

«No, piccola, nulla che non va.»

«Non è vero, dimmi la verità.»

Sorrise di fronte a quell’angioletto acuto e la sistemò sul suo seggiolino, nei sedili posteriori dell’auto.

«Hai litigato con Michelle?»

«Hai centrato in pieno.»

«E perché?»

«Oh, beh… sei troppo piccola per capire.»

«Non è vero, io sono grande!»

«Ok, sei grandissima!» Risero assieme e poi Sarah si stampò un broncio sul viso. Era buffa, perché ancora non era brava come sua cugina Sharon.

«Abbiamo due opinioni diverse», disse Stefan.

«Dovete trovare un punto in comune, mamma lo dice sempre. Ma cosa vuol dire?»

«Tu fai il pappagallo senza sapere cosa significano le cose?»

«Io non faccio il pappagallo!»

«No, assolutamente. Sarah, trovare un punto in comune vuol dire trovare una soluzione che vada bene a tutti e due.»

«Ah! E allora quale potrebbe essere una soluzione che va bene a tutti e due?»

«Non lo so, non l’abbiamo ancora trovata.»

«È per questo che sei triste?»

«Già.»

«Non essere triste, fratellone! Vedrai che troverete un punto in comune!»

Stefan sorrise e la guardò nello specchietto retrovisore: era davvero la bambina più adorabile che avesse mai visto, in più era sua sorella. Era il suo orgoglio, dopo Alex, la sua metà, che non poteva non amare, anche se ogni tanto faceva qualche casino.

«Grazie Sarah, mi sento già meglio.»

«Bene!», batté le mani contenta.  

«Tu che mi racconti? Che cos’hai fatto oggi all’asilo?»

«Niente, siamo stati tutto il giorno dentro perché non c’era bel tempo. Stefan, perché a volte c’è il sole e a volte la pioggia? Sarebbe più bello se ci fosse sempre il sole!»

«Credevo ti piacesse la pioggia.»

«Sì, ma oggi no, non so perché.»

«Mmh. Lo sai che alcuni dicono che quando piove vuol dire che gli angeli piangono?»

«Davvero? E perché dovrebbero piangere gli angeli?»

«Non so, forse perché sono tristi.»

«Dici? Allora non mi piace più.»

«E perché? Nella vita si è certe volte tristi e certe volte felici, non si può essere sempre felici.»

«Però sarebbe bello, vero? Se tutti fossero sempre felici.»

«Già, sarebbe bello.»

 

_____________________________________________

 

tikappa : Ti ringrazio di cuore, scusa se ti faccio sempre aspettare :)

Tokietta86 : Ciao! Grazie di cuore davvero, le tue recensioni sono sempre bellissime *.*
Io sono sicura che Tom sarà un bel pezzo d’uomo anche da vecchio u.u Proprio ci metterei la mano sul fuoco! xD
Sarah sta simpatica a tutti e ne sono molto felice *.* Almeno lei! xD E sì, ha le antenne paraboliche al posto delle orecchie xD (Mah, chissà Tom come reagirebbe al posto di Bill… Bella domanda! ;D). Sicuramente Sarah soffrirà comunque la partenza dei suoi fratelli e di sua cugina, ma le passerà :) E poi mica è detto che vanno in tour! u.u Muahmuahmuah xD
Bill è il solito gelosone, sì… Ma Nicolas è un bravo ragazzo, direi ottimo, non ha di che temere :) Ma questo non vuol dire che fra lui e Sharon non ci saranno problemi… infondo sono una coppia normale! u.u xDD
Krista è gelosa e orgogliosa, ma chissà come andrà a finire… magari nel prossimo capitolo… xD
Grazie mille ancora *.* Alla prossima, un abbraccio!

Utopy : Vabbè, ormai Ary la odi, almeno mi levo il pensiero… Ma anche Alex no, eh! ò.ò Che già sono in crisi esistenziale con sta storia, poi se ti sta antipatico pure Alex .__. Per fortuna che c’è Sarah, va’… Almeno lei ti piace :)
Ti voglio tantissimo bene anche io, Mond! *.*

Grazie anche a chi ha letto soltanto e a chi ha messo questa ff fra le seguite e le preferite. Spero continuate a seguirla e a spronarmi a continuare, ne avrei davvero bisogno in questo momento :)
Con affetto, vostra

_Pulse_

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Capitolo 27
*** Contradiction. Perfect. ***


Ciao a tutti! Mi scuso per il ritardo, ma in questo periodo non sono riuscita a postare nulla :(
Ringrazio di cuore coloro che hanno recensito lo scorso capitolo: Tomminakaulitz, Tokietta86 e freency. Grazie davvero per il vostro supporto :)

Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento. Buona lettura!

_____________________________________

È inutile che ormai ti ostini a dire no,
negando un fatto ovvio
Tu necessiti di me nello stesso modo che anche io di te

(Un fatto ovvio – Laura Pausini)

 


Capitolo 20
Contradiction. Perfect.

 

«Tom?»

«Oh, sono qui.»

Lo raggiunsi in cucina e misi il telefono al suo posto. Lo guardai mentre sceglieva attentamente se mangiare patatine o pop-corn.

«Si può sapere che stai facendo?», chiesi divertita.

«Meglio questo o questo?», indicò i due pacchetti sul tavolo.

«Patatine», annuii. Lui confermò con un sorriso e sistemò l’altro pacchetto nello scaffale.

«Beh, che c’è?»

«Oh, sì, giusto. Ho chiamato l’agenzia.»

«Mmh, Eliza?», ridacchiò.

«No, Anthony», sorrisi soddisfatta. Lui quasi non si strozzò.

«Che cosa?! Eliza che fine ha fatto?!»

«Geloso, eh?», ammiccai mettendo la mano dentro l’enorme sacchetto. Misi in bocca qualche patatina. «Eliza era malata, poveretta. Ah, le sta bene, così la prossima volta non ci prova con mio marito!»

«Le hai, per caso, mandato il malocchio?»

«No, per niente. So solo che Dio esiste!»

«Che stupida che sei, non cambi mai.»

«Grazie!»

«Comunque, c’era Anthony e…»

«Oh, sì. È tutto a posto, la casa è ufficialmente nostra ed è agibile da subito.»

«Ok, bene, perché sono stufo di tutti questi scatoloni sparsi per casa. L’altro giorno sono inciampato e stavo cadendo!»

«Davvero?», portai una mano sulla bocca e risi piano.

«Sì, e non è divertente!»

«In verità è molto divertente!»

Tom si alzò e mi venne incontro con un sorriso obliquo, mentre io non riuscivo a smettere di ridere. Mi abbracciò e mi baciò sulle labbra un po’ di volte. Neppure i suoi tentativi di mettermi a tacere erano andati a buon fine.

Sentimmo la porta di casa aprirsi ed entrò Bill, con un’irruenza che quasi mi spaventò. Era entrato un uragano, non Bill!

«Bill, che cosa ti prende?», gli chiese Tom.

«Dov’è Anto?»

«Qui, perché?»

Era appena uscita dalla doccia e aveva un asciugamano avvolto a turbante sulla testa, ma era comunque bellissima.

«Indovina un po’?!»

«Che cosa?»

«Tua figlia!»

«Che è anche tua.»

«Nostra figlia!»

«Che cos’ha fatto di tanto scandaloso?»

«Si baciava con Nicolas di fronte a tutti!»

«E quindi?», chiesi.

«E quindi, Ary non capisci!»

«Io capisco bene, invece», disse Anto. «Quei due sono innamorati ed è ovvio che si bacino! Che cosa c’è che non va? A parte che tu sei geloso peggio di… nessuno?»

«Molto divertente, davvero!», sbuffò e si abbandonò al divano, chiudendo gli occhi.

«Aspetta un attimo, ma tu come fai sapere che si baciavano di fronte a tutti?»

«Ehm…»

«Non mi dire che li spiavi, perché sarebbe il colmo!»

«Passavo di lì, io…»

«Bill, tu li spiavi!» Anto era quasi scandalizzata. «Non ci posso credere!»

«Chi è che spiava papà?», chiese Sharon entrando in casa accompagnata dai cugini Stefan e Alex e da Krista.

«Nessuno!», disse Bill saltando in piedi. «Ary, vado a prenderla io Sarah!»

«Ok, fai come vuoi», dissi io, conoscendolo fin troppo bene: si sentiva in imbarazzo e non voleva litigare ancora con Sharon per Nicolas e le manifestazioni d’affetto che quei due si facevano a vicenda, così preferiva andarsene, calmarsi e poi tornare sereno e pronto, quasi, a ragionare.

«Perché papà è scappato via così?», chiese Sharon entrando in cucina dietro a sua madre.

«Non so. Ciao Krista, qual buon vento?», disse Tom sorridendo.

«Ah, ma voi non lo sapete!»

«Cosa?»

«La nostra classe e quella di Nicolas, guarda che fortuna, hanno vinto un concorso, e domani andiamo in gita assieme!»

«Che fortuna sfacciata!», gridò Stefan dal salotto.

«Dove andate di bello?»

«Berlino.»

«Wow, che bello.»

«Già. E allora visto dobbiamo partire domani mattina presto e Krista non ha nessuno che la può accompagnare ho pensato che magari poteva dormire qui e l’accompagnavamo noi.»

«Certo, non c’è problema», disse Anto.

Vedemmo passare Alex per il salotto e anche lui rimase a fissare Krista, l’aria nostalgica, la mano sullo stipite della porta. Lei si girò piano e guardò Alex, poi lui se ne andò abbassando lo sguardo.

«Dici che…», mi sussurrò Tom.

«Non lo so», sospirai.

«Beh, grazie», disse Krista ad Anto, abbassando il capo.

«Di niente.»

«Tanto dormirà nel mio letto, non c’è problema», Sharon le avvolse le spalle con un braccio.

Entrarono in cucina anche Katrina e Juri, per mano, e lui corse da Sharon, che lo sollevò da terra abbracciandolo.

«Ciao piccolo!», gli stampò un bacio sulla guancia. «Come stai?»

«Bene. E tu?»

«Benissimo!»

Juri si mise seduto al tavolo e rubò un foglio e una matita colorata dal set da disegno di Sarah ed iniziò a dare libero sfogo alla sua fantasia.

Katrina mi sorrise e si mise accanto a me, mentre parlavamo del più e del meno e del suo nuovo lavoro.

«Mamma?», chiamò Juri.

«Eh?», risposero contemporaneamente Anto e Katrina. Quest’ultima guardò Juri preoccupata e si tappò la bocca, diventando rossa.

«Che c’è?», balbettò Anto per cercare di deviare l’attenzione del bambino dalla sua presunta sorella.

«Mi… mi si è… rotta la punta», disse con la fronte corrugata. Scese dalla sedia e poi corse via, nascondendosi da qualche parte al piano di sopra.

In cucina era calato un silenzio inquietante, che venne rotto dalla stessa Katrina che sospirò e si coprì il viso con le mani.

«Che situazione complicata, accidenti», disse Krista.

«Mi dispiace», sussurrò Katrina guardando Anto.

«Non è colpa tua, non dev’essere facile…»

«Ma perché non glielo dici, porca paletta!», si intromise Sharon, prendendola per le spalle.

«Non so come la prenderebbe.»

«Come qualsiasi bambino.»

«Cioè male.»

«Non è detto, Juri non è un bambino qualsiasi.»

«Sharon, è così complicato… Non so se riesci davvero a capire.»

«Non lo capirò perfettamente, ok, ma vedo che così non si può andare avanti. Pensa a Juri, che dovrebbe pensare? Magari ci sta pure soffrendo in questo momento! Non sa chi è la sua mamma!»

«Gli ho mentito per tutto questo tempo…», era quasi in lacrime.

«E allora smettila di mentirgli, ora.»

Sharon e la ragazza si guardarono intensamente negli occhi e poi si abbracciarono.

«Ehm… scusate, ma io… io esco», disse Stefan entrando per metà nella cucina sovraffollata.

«E dove vai?», gli chiesi. «Da Michelle?»

«Ahm… sì», annuì grattandosi la nuca.

«Ok, fai il bravo», sorrisi.

«Sì, ok», mormorò girandosi e infilandosi la giacca prima di uscire.

Quando si chiuse la porta alle spalle, guardai Tom e poco dopo entrò in scena Alex, che mi guardò a sua volta.

«Non andava da Michelle», dissimo in coro, sospirando.

«Ma che cosa sta succedendo a quei due?»

«Le cose non vanno bene.» Alex si appropriò di una sedia e unì le braccia sul tavolo.

«Perché?»

«Sempre per i soliti motivi… Stefan ha l’ossessione di volerlo fare con Michelle e Michelle non vuole perché ha questa ossessione del matrimonio.»

«Sono due ossessionati, in pratica», disse Tom scherzandoci su. «Ossessionati da due cose molto diverse, ma pur sempre ossessionati.»

«Già. Ma perché deve buttare all’aria un così bel rapporto per una cosa tanto assurda?!», disse Anto incrociando le braccia al petto.

«Non è assurda, Anto, se ci pensi non è assurda. Che significa che lei non vuole fare sesso con lui perché prima si devono sposare? Non ha senso! Se vuole vedersi la fede al dito allora non è vero amore, secondo me.»

«Beh, se la guardi da questo punto di vista non ha senso, ma guardala dagli occhi di Michelle, che ci crede davvero. Se lei è attaccata a questa sua idea per lei sarebbe la stessa cosa, crederebbe che fare sesso con Stefan sia una cosa assurda e senza senso perché lui non sa aspettare.»

Ci mettemmo tutti a riflettere, in silenzio, poi alzai lo sguardo spaventata e guardai Alex: «Ma quindi ora dove andava?!»

 

***

 

Aveva preso il primo pullman che era passato e si era abbandonato al sedile, chiudendo gli occhi e riflettendo su quella situazione di merda in cui si era ficcato con le sue stesse mani.

Era sceso alla penultima fermata, ricordandosi perfettamente, oltre ogni sua previsione, dove abitasse. Raggiunse il suo appartamento e bussò alla porta finché non venne ad aprirgli, cioè dopo circa cinque minuti.

«Stefan, che ci fai qui?»

«Ciao Celeste.»

Minuta, capelli neri, pelle chiara e occhi guarda caso azzurri da spezzare il fiato: in poche parole, una fra le sue tante ex.

«Come te la passi?»

«Io bene, tu?», rispose al suo sguardo seducente, incrociando le braccia al petto, coperto solo da un maglioncino bianco scollato.

«Mica tanto.»

«Che cosa c’è?», sospirò.

«Che ne dici di un po’ di sano sesso?»

«Che cosa? Ma tu non stavi mica con Michelle?»

«Sì, ma… Michelle e il sesso vanno su due binari differenti, purtroppo.»

«Senti, Stefan, che cosa vuoi da me?»

«Te l’ho detto, del sano e selvaggio sesso.»

La ragazza non poté dire nient’altro, Stefan la strinse fra le braccia e la baciò senza sentimento, appropriandosi del suo corpo mentre chiudeva la porta con il chiavistello.

 

***

 

La cena era andata piuttosto bene, anche se a volte c’erano stati dei silenzi imbarazzanti a causa di Krista ed Alex che si guardavano senza dire niente, gli occhi tristi, e che subito dopo si giravano cercando di evitarsi. Ma era praticamente impossibile, visto che erano l’uno di fronte all’altra. Infatti Krista era seduta al posto di Stefan, che si era volatilizzato senza dare notizie di alcun genere a nessuno. E poi, a dirla tutta, nessuno era andato a cercarlo veramente, sapevamo che era un periodo un po’ così e avevamo preferito lasciarlo stare, anche se io prima di tutti ero preoccupata.

Ora Sharon si stava infilando fra le lenzuola del letto dopo essersi lavata i denti, le luci già spente e Juri che dormiva nel lettino infondo alla stanza.

«Odio le lenzuola quando sono così fredde», sbuffò. «Menomale che ci sei tu, Krista!», la abbracciò scherzosamente, baciandole insistentemente la guancia.

«Non mi prendere per Nicolas, ti prego!»

«Sarebbe anche un po’ impossibile: lui è trenta volte più bello di te!»

«Ingrata che non sei altro, te la faccio vedere io adesso!»

Dopo una battaglia di pizzicotti e solletico si calmarono e il silenzio tornò sovrano nella stanza.

«Krista?»

«Uhm?»

«Le opzioni sono due: o tornate amici come prima oppure vi rimettete insieme, perché la band ne risente, davvero.»

«Sharon, ti prego, anche tu…»

«Fallo per la band, ti prego!»

«Non mi va di fingere! Se sentirò che tra noi si potrà anche instaurare un’amicizia allora ok, ma se no… credo proprio che dovrai accontentarti, mi dispiace.»

«Ok, come vuoi», sospirò e si girò dall’altra parte, dandole le spalle, mettendosi meglio il cuscino sotto alla testa.

«E non fare l’offesa.»

«Non sto facendo l’offesa.»

«Vallo a raccontare a qualcun altro, per favore.»

«Krista, davvero, non sto facendo l’offesa. Io penso solo alla band.»

«Menomale che avevi sempre detto che questo era solo un hobby, che non volevi che diventasse il tuo lavoro.»

«Beh, ho cambiato idea. E poi anche tu nell’intervista hai detto che non ti vedevi a fare nient’altro oltre che a suonare. Quindi… se tieni così poco alla nostra band solo perché la storia fra voi due è andata male… non so che dirti.»

«Vorrei vedere te nella mia situazione, è già tanto che sono qui. Tu forse non te ne rendi conto, quanto mi faccia male stare al suo fianco…»

«E a lui ci pensi? Anche lui sta come te. Non capisco, tra un po’ vi amate alla follia e vi costringete a stare lontani.»

«Lui ha sbagliato, mi ha tradita!»

«E ti ha chiesto scusa, tu perdonalo! Credi che sia tanto stupido da rifarlo?!»

Sharon si girò e guardò Krista negli occhi. Fra loro era così: si scannavano, ma restavano sempre amiche. Quando litigavano non sapevano nemmeno di farlo, talmente era normale avere quei battibecchi fra le loro chiacchierate.

Krista abbassò lo sguardo, poi si alzò e scese di sotto senza fare rumore. Aveva bisogno di schiarirsi le idee da sola, senza l’aiuto di Sharon, perché sapeva che lei non ci sarebbe potuta essere sempre, e doveva imparare a cavarsela anche da sola, e non correre sempre da lei per ogni cosa, anche la più stupida del mondo.

Si mise seduta sul tavolo, accanto alla bottiglia d’acqua fresca che aveva preso dal frigo, il bicchiere mezzo pieno fra le mani.

Che doveva fare? Non lo sapeva nemmeno lei. Alex le mancava così tanto… eppure, no, non poteva tornare da lui. Era lui che doveva tornare da lei. Ma si rese conto che l’aveva già fatto, già due volte. E lei aveva sempre girato il viso dall’altra parte.

Sospirò e si passò le mani sugli occhi stanchi. Sentiva che stava per piangere, ma cercò di trattenersi, anche perché aveva sentito dei rumori. Non si era sbagliata, infatti poco dopo entrò in cucina Alex, in maglietta intima e boxer azzurri.

Sobbalzarono prima lui e poi lei vedendosi e poi rimasero a fissarsi, senza sapere che dire. Alex si guardò e sorrise imbarazzato, ma nemmeno troppo.

«Scusa, ma… ti sembra normale andare in giro così?», gli chiese lei ad un certo punto, cercando di non abbassare lo sguardo, anche se la tentazione era forte.

«Non pensavo ci fossi tu», le rispose.

La sua voce ancora mezza addormentata era roca e sensuale, tanto da farle venire i brividi di freddo su per la schiena, riportandole alla mente lontani ricordi.

«Appunto… appunto che ci sono io in casa ti saresti dovuto vestire di più, non potevi saperlo.»

«Krista, ti da fastidio vedermi in boxer?»

«No, però…», arrossì sulle guance mentre si torturava le mani.

«E allora?»

Si guardarono e Alex sorrise, spostandosi un ciuffo di capelli ormai quasi di nuovo biondi che gli cadeva ribelle sul viso. Prese un bicchiere dalla credenza e si versò un po’ d’acqua, sfiorando Krista per recuperare la bottiglia. Bevve e lei non riuscì a non notare il suo pomo d’Adamo, sexy come niente secondo il suo punto di vista, e a non leccarsi le labbra.

«Krista?»

«Sì? Eh? Io…»

«Non ce la faccio più», sussurrò con le lacrime agli occhi, le mani appoggiate sul tavolo, di fianco alle gambe di Krista, il viso vicinissimo al suo.

«A… a fare che cosa?»

«A stare senza te.»

Krista sospirò chiudendo gli occhi e quando li riaprì fissò quelli di Alex, così pieni di tristezza e così comunque bellissimi. Gli sfiorò la fronte con le dita, spostandogli i capelli, e Alex chiuse gli occhi appoggiandosi anche con il bacino al tavolo, fra le sue gambe.

«Alex, sei stato così maledettamente stupido…»

«Già, me ne sono accorto.»

«Chi mi dice che non lo farai ancora?»

«Io.»

«Tu. Ed io come faccio a fidarmi di te, dopo…»

«Krista, ho sbagliato, lo so, ma ti prometto che non riaccadrà, io non sono così, quella sera era tutto così confuso… ed ero pure ubriaco.»

«Essere ubriaco non ti giustifica.»

«Lo so, Krista, lo so. Solo che… non posso stare senza te, mi manchi da morire, io amo te.»

«E quella… ragazza che frequentavi?»

«Potrò sembrare stronzo, ma non è davvero nulla in confronto a te. Ti prego Krista, ti scongiuro, io non ce la faccio senza te.»

Si guardarono ancora negli occhi e Krista strinse le gambe intorno al bacino di lui, provocando brividi ad entrambi, avvicinandolo a sé. Con le mani fra i suoi capelli lo baciò sulle labbra, desiderando profondamente quel bacio, vivendolo e gustandolo fino in fondo.

Quante volte aveva sognato di ribaciarlo? Quante di stringerlo così forte anche da soffocarlo? Quante di accarezzargli i capelli e quante ancora di farci l’amore ancora una volta? Quanto l’aveva desiderato, ancora?

«Alex, mi sono innamorata di te, porca puttana, e non ci posso fare niente», disse con il fiato corto, non riuscendo a staccarsi da quelle labbra fin troppo agogniate da sempre.

«Mi ero dimenticato di quanto potessi essere fine, a volte», ridacchiò morsicandole il labbro inferiore, prendendola per la schiena e sollevandola dal tavolo per portarla chissà dove.

Ridacchiarono assieme baciandosi avidamente. Se fosse stato per loro non avrebbero nemmeno ripreso fiato.

Alex ringraziò suo fratello perché non c’era ed avevano tutta la camera per loro, e poi ringraziò qualcun altro perché aveva fatto sì che la sua stanza fosse l’ultima del corridoio, quella più isolata da tutti, quindi nessuno avrebbe sentito niente quella notte. 

Caddero sul letto e Krista lo spogliò velocemente, lo baciò, lo morse, lo assaporò, avendo la prova che non si era dimenticata quanto fosse bello baciarlo e quanto fosse bella la sensazione di averlo solo per sé.

Alex fece più o meno lo stesso, ma dolcemente, senza tutta quella foga che aveva avuto Krista, perché quella notte era speciale e non voleva farla scorrere troppo velocemente.

«Alex, muoviti, non ce la faccio più», sussurrò al limite, sentendosi leccare intorno all’ombelico.

Gli lanciò un preservativo che aveva trovato nel suo comodino e lui se lo infilò, la strinse a sé mentre lei inarcava la schiena e iniziò la loro danza, con voglia e passione, senza pensare a nient’altro che a lei e a quanto fosse bella, a quanto gli fossero mancati i suoi baci, le sue mani, la pelle calda e soffice di lei a contatto con la propria e i suoi capelli che lo sfioravano quando si spostava su di lui.

Nonostante l’irruenza con la quale avevano iniziato la fine fu dolce e quasi romantica, con un sorriso felice e diversi baci prima di addormentarsi l’uno nelle braccia dell’altra e viceversa.

 

***

 

Krista si stropicciò gli occhi e si accorse di non essere accanto a Sharon, bensì accanto ad Alex.

«Che cosa?!», sussurrò terrorizzata, mettendosi seduta sul letto, tenendosi il lenzuolo addosso.

Guardò Alex e gli girò il viso per vedere se ancora dormiva, ed era così, solo dopo si mise a pensare. Si accorse che allora quello strano sogno, che tanto strano non era visto che era ormai un abitudine per lei, era stata la realtà: aveva davvero fatto l’amore con lui.

Alla notizia si sentì sia felice che preoccupata. La sera prima aveva fatto tutto quel bel discorso a Sharon, dicendole che non se la sentiva nemmeno di diventare di nuovo sua amica per davvero, e adesso si trovava lì, nel suo letto, la mattina dopo aver fatto l’amore.

Però era felice, perché Alex le era mancato da morire e finalmente l’aveva riavuto, aveva riavuto ciò che era suo di diritto, e non poteva sentirsi più entusiasta di ciò.

Ma come avrebbe fatto a mettere da parte il suo orgoglio e a dire a Sharon che era tornata con lui? Si sarebbe sentita la contraddizione in persona, ma in quel momento non ci pensò troppo. Era fatta così: agiva e poi pensava, e rimandava sempre quell’operazione in cui si doveva usare il cervello, rischiando anche di farsi male sul serio.

«Cucciola?», mugugnò Alex ad occhi chiusi.

«Stai parlando con me?», si indicò Krista.

«E con chi se no?»

«Oh, era… da tanto che non mi chiamavi così.»

«Non sapevo se avresti fatto i salti di gioia.»

«Direi di no.»

«Appunto.»

Krista si mise di nuovo al suo fianco e si strinse al suo petto, chiudendo gli occhi e respirando il buon profumo della sua pelle.

«Che cosa… cioè, noi…», balbettò Krista.

«Se vuoi aspettare io aspetterò, non ti preoccupare», le accarezzò i capelli a ciocche viola sistemandoglieli dietro l’orecchio, liberando il suo bel viso chiaro e baciandole la fronte.

«No, io voglio stare con te», gli sussurrò.

«Questo mi fa piacere», le sorrise e la strinse di più, chiudendo gli occhi sereno.

«Mi chiedo solo come la prenderanno gli altri, e Sharon, soprattutto.»

«Ne sarà entusiasta, vedrai.»

«E… Bea?»

«Vuoi che le parli?»

«Chiarisci la situazione con lei e dille che tu sei solo mio», lo soffocò in una stretta d’acciaio e lo baciò sulla gola, facendolo sorridere.

«Dov’è l’atto di proprietà?», chiese scherzosamente il quasi ormai biondo.

«Dovrà farsi bastare la parola. A meno che tu non voglia il mio nome tatuato sul culo», scoppiò a ridere, trascinandolo con sé. «Mi sei mancata così tanto…»

«Anche tu», si baciarono ancora affettuosamente e si sorrisero, prima che Krista fu costretta ad alzarsi a causa di una gita.

Lei odiava le gite e visto che sarebbe dovuta stare lontana da Alex aveva un motivo in più per odiarle, quella in particolare.

 

***

 

Krista raccattò la sua roba, si vestì in fretta, rinfilandosi il pigiama come se avesse dormito per tutta la notte, e scese di sotto senza farsi vedere mentre usciva dalla camera di Alex.

«Buon giorno», disse appena entrata in cucina.

«Buon giorno, Krista.»

«Sì, buon giorno», disse Sharon che la squadrava da capo a piedi, gli occhi stretti in due fessure.

Krista la guardò e con lo sguardo le fece capire che non era il momento per le domande, ma Sharon sorrise maligna e lei si arrese: in quella casa un segreto non riusciva nemmeno ad avere quel nome, talmente in fretta lo si conosceva.

«Allora, carissima Krista, vieni a sederti by my side.»

«Uhm?»

Sia Tom che Bill alzarono la testa dai loro caffè giganti – ne erano quasi dipendenti – poi si guardarono e sorrisero prima di scoppiare a ridere.

Krista andò di malavoglia accanto all’amica e sbuffò sedendosi, Sharon le avvolse le spalle con un braccio e le sorrise stando pericolosamente vicina al suo viso, con quel ghigno stampato sulle labbra.

«Dormito, Krista?», le chiese, pura incarnazione del male.

«Humpf, dormito è una parola grossa, tu russi così forte che mi chiedo come fate a dormire in questa casa.»

«Fai la seria!», le tirò un coppino e Krista piegò la testa in avanti da quanto era stato forte.

«Ma che hai, sei rincoglionita per caso stamattina?! Non lo so, tua mamma ti ha messo la cocaina al posto dello zucchero nel latte?!»

«Ci manca solo quello», ridacchiò Anto.

«Krista, ti prego, fai la persona seria e dimmi perché non hai dormito con me!», si lagnò come una bambina.

Krista boccheggiò e si guardò intorno, in cerca di una scusa da accampare, ma nella sua testa in quel momento non c’era nemmeno un filo di vento, tutte le sue brillanti idee se n’erano andate.

«Sono fottuta», disse reggendosi la testa con una mano.

«Io so dove sei andata», sogghignò Sharon, spostandole una ciocca viola dal viso.

«Ma dai! A meno che non sia andata a dormire con i tuoi genitori o con i genitori di Stefan e Alex perché avevo paura, non so da chi potrei essere andata! Sono andata da Alex, ok, sei contenta adesso?! Abbiamo fatto pace e…», arrossì e si tappò la bocca.

«Sì, ora sono contenta!», saltellò sulla sedia abbracciandola.

«Eh, sarebbe anche il minimo!»

«Che cosa vi siete detti?», chiese emozionata e curiosa.

«Non è che ci siamo detti molto… ehm», si grattò la nuca sempre più rossa, cercando di evitare gli sguardi di tutti.

«Subito al sodo, eh?», sogghignò Tom prima di bere dalla sua tazza. «Sarei curioso di sapere com’è Alex, visto che non parliamo mai di queste cose», disse ancora, più a se stesso che a lei.

«Sono molto più bravo di quanto tu creda», disse il diretto interessato entrando in cucina, i jeans strappati e una maglietta grigia attillata che ne definiva i muscoli che a dirla tutta erano aumentati da quando faceva palestra.

«Dio se sono fottuta», disse ancora Krista, sempre più disperata e con le mani nei capelli.

«No che sei fottuta, è una cosa bella invece!», disse Sharon.

«Lei ha ragione», disse Alex facendole l’occhiolino e stampandole un bacio in fronte.

«Ma…», balbettò Krista, ma dopo uno sguardo occhi negli occhi con lui si abbandonò ad un sorriso perdutamente innamorato e si lasciò baciare leggera sulle labbra.

«Io vado, ciao!», salutò con la mano Alex, uscendo dalla cucina.

«Ah, è così al settimo cielo», sospirai contenta. «Era da tanto che non lo vedevo così felice.»

«Se questa testa di cocco si svegliava prima, magari!», batté le nocche sulla testa di Krista e rise di fronte alla sua reazione abbastanza incazzata.

Ma anche Krista era felice, lo si vedeva, lo si notava in tutte le cose che faceva, persino il suo viso sembrava più luminoso e bello.

«Ma gliel’hai chiesto tu o te l’ha chiesto lui?», chiese Bill.

«Di comune accordo stamattina», disse lei, immergendo il cucchiaino fra i suoi cereali, finalmente. «No, forse gliel’ho chiesto io… Non mi ricordo bene.»

«Come fai a non ricordarti queste cose, Krista!», sbuffò Sharon.

«Perché tu ti ricordi se te l’ha chiesto Nicolas oppure se gliel’hai chiesto tu?», alzò il sopracciglio.

«Ovviamente! Me l’ha chiesto lui!»

«Che cosa romantica…», dissi. «Anche a me l’ha chiesto Tom.»

«Ovvio, tu non ci avevi nemmeno pensato!», mi rispose lui portandomi la sua tazza da lavare, assieme al cucchiaino.

«Forse perché pensavo che non ci sarebbe stato nient’altro oltre quella follia.»

«Beh, pensavi male. Hai visto dove siamo ora?»

«Eh già.»

Mi stampò un bacio sulle labbra e rise guardando Anto che faceva le facce buffe dietro di me, imitando le mie seghe mentali di allora quando me l’aveva chiesto.

«Ehi!», le diedi uno schiaffo sul braccio, ma non so come persi l’equilibrio e fui costretta a tenermi al ripiano della cucina, portandomi istintivamente una mano sul ventre.

«Ary, che c’è?», mi chiese Tom preoccupato, prendendomi per le braccia.

«Niente, solo… un giramento. Forse è meglio se vado a sdraiarmi.»

«Sì, forse è meglio.»

Lasciai lì tutto e andai di sopra. Non avevo nemmeno finito di fare la rampa di scale che sentii la porta di casa aprirsi e chiudersi, poi qualcuno gettarsi pesantemente sul divano.

«Stefan!», urlai dimenticandomi del giramento. Mi misi seduta sullo scalino, le braccia intorno alla pancia, e lo guardai. «Posso sapere dove sei stato tutta la notte?»

Anche Tom, Bill e Anto uscirono dalla cucina e guardarono sia me che Stefan, sdraiato sul divano con gli occhi chiusi.

«Alex è già uscito?», chiese.

«Sì. Che cos’hai?»

«Non ho niente.»

«Te lo si legge in faccia che hai qualcosa, quindi…»

«Senti mamma, non ne voglio parlare, ok? Adesso prendo lo zaino e vado a scuola», si alzò e salì le scale.

Quando mi passò accanto, mi guardò scontroso e mi sentii male a quello sguardo: mai mi aveva guardata in quel modo e una strana fitta al cuore mi fece chiudere gli occhi. Riconobbi nei suoi occhi la rabbia che sentivo io quando guardavo mia madre, e sentirmi come lei non fece bene alla mia situazione.

La testa ora faceva decisamente più male e a malapena riuscii ad alzarmi e a rifugiarmi in camera, dove mi abbandonai con la faccia nel cuscino e nonostante la mia non più giovanissima età mi misi a piangere come una bambina, chiedendomi se anche mia madre soffriva così tanto quando io mi comportavo in quel modo, cioè sempre. 

Anto sospirò ed entrò di nuovo in cucina, le mani unite in grembo, torturandosi le unghie non sapendo cosa fare.

«Cos’è successo, mamma?», le chiese Sharon. Altro sospiro da parte di Anto, che si mise di nuovo all’opera per finire i panini che avrebbero portato via Sharon e Krista, per la gita.

«Stefan si comporta in modo strano, non è mai stato così con sua madre. Quando si farà vivo se la vedrà con me, lo sa che lei sta male per qualsiasi cosa!», gridò Tom sbattendo un pugno sul ripiano in marmo della cucina, seguito da Bill come se fosse la sua ombra.

«Ma Tomi, mica lo ha fatto apposta…»

«Non doveva farlo e basta, punto.»

«Zio, calmati. Se vuoi ci parlo io con Stefan», propose Sharon.

«Non ho niente da dire», disse lui schietto, aprendo la porta e sbattendosela alle spalle prima che suo padre potesse aggiungere qualsiasi cosa.

«È tale quale a me, porca miseria!», sbraitò ancora.

«Già», annuì il fratello.

«Che cosa succede?», chiese assonnata Sarah, comparendo sulla soglia della cucina in pigiama e con Whiskey appresso.

«Niente amore», Tom la prese in braccio e si addolcì solo a quel contatto, cullandola per farla dormire ancora un po’.

«Ragazze, tenete», disse Anto porgendogli a testa un sacchetto. «Non pensate a niente, divertitevi e basta, ok?»

«Non ci riuscirò comunque», disse Sharon scuotendo la testa, gli occhi tristi.

«Come no, passerai un intera giornata con Nicolas senza tuo padre fra le scatole!»

«Anto!», la ammonì lui, ma si misero subito a ridere.

«È vero, hai ragione», tornò il buon umore a Sharon.

«Uffa però, così non vale. Tu hai ragazzo in gita, io no», sbuffò Krista con le braccia strette al petto.

«Perché, non sei stata abbastanza con lui questa notte?», sogghignò.

«Ah, vai a farti fottere Sharon.»

«Papà, quella parola va di moda, perché non la posso dire anch’io?», chiese Sarah stropicciandosi gli occhi.

«Non va di moda, è che siamo tutti degli ignoranti primitivi senza finezza. Tu non sei così, vero?»

«Non siete degli ignoranti primit-mi-ti-vi…», incespicò su quella parola tremendamente difficile e scosse il capo, arrendendosi.

«Primitivi, Sarah, primitivi», le suggerì dolcemente Bill.

«Ma che vuol dire?»

«Che non devi dire quella parola, fine.»

«Ok, se lo dici tu», sbadigliò ancora prima di riappoggiarsi alla spalla del papà e di chiudere gli occhi. 

 

***

 

Tom portò l’ennesimo scatolone nel loft e mi sorrise mettendolo accanto agli altri. Venne a sedersi accanto a me, sull’enorme divano a doppia L del salotto, e mi rubò un bacio.

«Tu fatichi e io non faccio un bel niente», sorrisi accarezzandolo sotto al mento.

«Sì, ma ne vale la pena: vedere Bill faticare è una grande gratificazione.»

«A proposito, dove l’hai lasciato quel poveretto?»

«Sono qui, aiuto», soffiò incastrandosi con uno scatolone piuttosto grande nella porta. Tom ridacchiò ed andò ad aiutarlo.

«Uffa, non ce la faccio più! Sono finiti?»

«Stai scherzando, Bill?», chiese Anto entrando dopo di lui e depositando un altro scatolone. Sembrava un cantiere più che un appartamento, in quelle condizioni.

«Ne mancano ancora tantissimi, e la maggior parte sono tuoi vestiti!»

«Se io ho tanti vestiti non me ne devi fare una colpa.»

«Mamma che bello!», disse Sarah saltando sul divano con Whiskey per mano, sprizzando gioia da tutti i pori.

«Che cosa?», le chiesi dolce.

«Si vede tutta la città dal vetro!»

«Hai paura, Sarah?», le chiese Juri che era con le mani sul vetro, a guardare davanti e sotto di lui.

«No che non ho paura», si pavoneggiò lei in un modo molto tenero, le mani sui fianchi e il sorrisetto fiero di Tom sulle labbra.

Si avvicinò a lui, convinta in tutto e per tutto di non aver paura, ma quando vide l’altezza paurosa e il vuoto sotto di lei urlò e tornò sul divano stringendomi forte.

«Io lo sapevo», rise Juri, sedendosi lì di fianco.

«Mamma, Juri mi prende in giro perché ho paura!»

La guardai negli occhi annuendo, ma l’unica cosa che mi veniva da fare era ridere, e dopo Tom attaccai anch’io, contagiando la piccola peste.

«Come mai si ride?», chiese Katrina, rossa in viso, mentre appoggiava anche lei uno scatolone con scritto Fragile sul lato.

«Mi sa che facevamo prima a chiamare una ditta di trasporti», disse Bill passandosi una mano sulla fronte.

«Se tu sei uno sfaticato non è colpa mia!», gli gridò Tom, spingendolo per poi ridere ancora.

«Scusate, è permesso?»

Ci girammo tutti verso la porta e vidimo Alex e Stefan, tornati da scuola, che guardavano all’interno sorpresi, quasi a bocca aperta.

«Deduco che vi piace», dissi.

«Cavolo, è a dir poco meravigliosa», disse Alex.

«Sì, concordo pienamente con lui.»

Stefan incrociò il mio sguardo e sorrise amareggiato, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. Guardò anche suo padre, a braccia incrociate, e fece un lungo respiro prima di incominciare a parlare.

«Mi dispiace per stamattina, non volevo. Ho fatto una scenata inutile che potevo risparmiarmi e voi non c’entravate niente, scusatemi.»

«Stefan, sei perdonato!», dissi allungando le braccia. Lui venne da me e mi abbracciò, baciandomi sulla guancia.

«Non aspettava altro da questa mattina», commentò Tom a Bill, che annuì.

«Scusami anche tu se ti ho chiesto dov’eri stato in quel modo, solo che mi hai fatto preoccupare.»

«Non fa niente, mamma, poi ti spiegherò.»

«Ok, va bene. Perché adesso non vai ad aiutare tuo padre?»

«Sfruttatrice», mi sorrise prima di baciarmi di nuovo, ma sulla fronte.

«Già, lo so», risi.

Tom prese Stefan per le spalle e con Anto e Bill andarono a prendere altri scatoloni in macchina, mentre Katrina, Juri e Sarah si misero a giocare assieme sul tappeto con Whiskey e il pupazzo preferito di Juri, una tartaruga insolitamente viola e nera.

Alex fece un altro giretto per la casa, non risparmiandosi i commenti, ovviamente tutti positivi, e poi si sistemò sul divano esausto, manco avesse fatto i mille metri.

«Allora con Krista…», gli fece l’occhiolino, lui rise a bassa voce, chiudendo gli occhi con la testa abbandonata allo schienale basso del divano.

«Sì, è tutto come prima. Ora mi sento… bene, sì, è tutto perfetto.»

«E Bea?»

«Oh, Bea… eh, Bea è un bel casino ora. Io non voglio ferirla, ma non stavamo nemmeno assieme, non devo preoccuparmi così tanto.»

«Io te l’avevo detto che qualcuno comunque si sarebbe scottato, se non Krista, Bea.»

«Mi dispiace, ma…»

«Non devi dispiacerti, perché comunque, Alex, questo è ciò che vuoi, è di Krista che sei innamorato, e lei non può farci niente, deve solo accettare la realtà.»

Qualcuno suonò al campanello, anche se la porta era aperta. Ci girammo e vidimo proprio Bea che sbirciava all’interno, che, incontrando lo sguardo di Alex, sorrise raggiante.

«È meglio dire: Si parla del diavolo e spuntano le corna, oppure Che Dio ce la mandi buona?», mi sussurrò lui.

«Tutte e due, Alex, tutte e due», gli diedi una pacca sulla spalle e si alzò facendo un respiro profondo.

«Ciao Bea, entra.»

«Ciao Alex.»

Anche lei si guardò intorno mezza sconvolta, stando possibilmente attenta a non inciampare in uno scatolone e a non cadere.

Alex la condusse verso la cucina e parlarono lì, visto che in terrazza faceva ancora abbastanza freddo.

«Allora, cosa mi racconti? Sembri piuttosto silenzioso», gli disse.

«Sì, ehm, ecco…»

«Alex, c’è qualcosa che devi dirmi?»

«In verità sì.»

«Che cosa? Dai, parla, mica ti mangio!»

«Io… io e Krista siamo tornati assieme.»

Dopo un momento di stupore, a bocca aperta, Bea sorrise e lo spinse su una spalla, ridendo nervosamente.

«Sempre a scherzare stai.»

«No, Bea, davvero. Io e Krista siamo tornati assieme veramente.»

«Che cosa?!», si infiammò di rabbia. Era quello che Alex temeva. «Ma come hai potuto?!»

«Eh? Guarda che io e te non stavamo assieme, e io amo Krista, quindi…»

«Quindi mi hai solo usata per dimenticarla!»

«No, Bea, non è così.» O forse sì? «Non dire simili cretinate.»

«Alex, almeno sii onesto!»

«Bea, non piangere, per favore…», le sfiorò la guancia con la mano per asciugarle le lacrime, ma Bea gliela schiaffeggiò via e iniziò a riempirlo di pugni sul petto, senza forze però, tanto che ad Alex sembravano carezze.

«Ti odio, ti odio, ti odio! Sei un lurido sfruttatore! Io ci credevo davvero a noi!»

«Bea, mi dispiace, io…»

«A te non dispiace, Alex!»

«Ma sì invece, non mi piace vederti piangere, sei una mia amica!»

«Oh, certo, una tua amica!», gli tirò l’ultimo pugno sugli addominali, coordinato pure male, e poi si lasciò abbracciare senza forze, nascondendo il viso nel suo petto, celando le lacrime.

«Bea, io ti voglio bene, ma non è come ciò che provo per Krista, mi dispiace», le sussurrò.

«Già, avrei dovuto… Non avrei dovuto illudermi.»

«Mi dispiace se ti ho ferita, non volevo, sul serio.»

«Non importa, Alex», si asciugò il viso con le mani e fece un piccolo sorriso, tirando su col naso.

«Sicura?»

«Sì, ho detto di sì.»

«Allora, ehm… amici?»

«Amici. Voglio tanto conoscerla questa Krista, che ti fa impazzire così tanto.»

«Vi conoscerete presto, Krista sarà felice di conoscere chi è la ragazza con cui uscivo subito dopo la fine della nostra storia.»

«Gliel’hai detto?», chiese sbalordita.

«Certo, per forza. È difficile nascondere qualcosa alla batterista number one», sorrise.

«Oh Alex, sei davvero un bravo ragazzo. Peccato, un vero peccato. Spero solo che Krista sappia ciò che ha.»

«Sì, e io so cos’ho io.»

Bea annuì e si congedò poco dopo, salutandolo con abbraccio breve ma significativo.

«E anche questa è andata», disse Alex sorridendomi e passandosi una mano sulla fronte. 

 

***

 

Ormai sera, dopo aver fatto una cena a base di pizza a causa del vuoto che regnava sovrano fra gli scaffali della nuova cucina, Bill, un po’ preoccupato per Sharon, che doveva già essere a casa da un’ora, la chiamò.

«Pronto, Sharon?»

«Oh, ciao papà!»

«Ciao. Ma che fine hai fatto? Dovevi essere casa un’ora fa!»

«Sì, lo so. Ehm…»

«Che c’è?»

«Mi prometti di non avere crisi isteriche e di non dire cose di cui potresti pentirtene e/o dire cose assurde?»

«Non ti prometto un bel niente io!»

«Ok», sospirò. «C’è stato un guasto al pullman, siamo fermi qui, per fortuna eravamo in autogrill.»

«Che cosa?! Sharon, piccolina, ti vengo a prendere!»

«Ecco, questa era una delle cose assurde. Dai papà, per favore, mi metteresti solo in imbarazzo! Dai, lascia perdere. Arriviamo domattina! E poi i professori hanno detto che possiamo stare a casa domani a causa dell’inconveniente.»

«Sharon, sei sicura?»

«Sicurissima! Non hai niente di cui preoccuparti, sono qui con Krista, Nicolas…»

«A causa di quest’ultimo mi preoccupo!»

«Papà, ancora?! Credevo avessi superato questa fase! Credevo ti piacesse!»

«La prospettiva di lasciarti da sola con lui per troppo tempo non mi fa impazzire di gioia.»

«Papà, ma di che hai paura ancora? È un santo, porca miseria!»

«Mai giudicare all’apparenza, dietro quel santo si nasconde un diavolo, io lo so.» Visto che anche lui infondo era così.

«Sì, sì. Mi passi qualcuno? Anzi, passami zia, la voglio salutare. Saluta tutti gli altri, dai un bacio alla mamma da parte mia.»

«Ok, te la passo. Ciao, Sharon, se hai bisogno di qualcosa, di qualsiasi cosa, io…»

«Sì, sì, ciao!»

Guardò il telefono quasi scioccato: la sua bambina stava proprio diventando grande. Si trascinò in camera mia, dove c’eravamo io e Stefan, che mi aveva appena finito di raccontare quello che era successo nelle ultime ore.

«È Sharon», bofonchiò porgendomi il telefono.

«Che è quella faccia?»

«Arrivano domattina, il pullman ha avuto un guasto.»

«Oh, ora capisco», sorrisi annuendo, inquadrando perfettamente la situazione.

«Ok, mamma, allora io vado», disse piano Stefan, baciandomi la guancia e uscendo dalla stanza in contemporanea con Bill.

Tom era di sotto con Anto, probabilmente in terrazza assieme ad Alex, che discutevano su un possibile tour dei Devilish e tutte le altre cose; invece Katrina e Juri, da quel che sapevo erano già andati a dormire, perché lei la mattina dopo sarebbe dovuta andare presto al lavoro e lui era praticamente crollato fra le sue braccia. Sarah si era direttamente addormentata sul mio letto mentre ascoltava Stefan parlare. E menomale che ci teneva tanto a sapere di Michelle! Quella bambina era tale e quale a me.

«Ciao Sharon, ho saputo del guasto!»

«Sì, papà è tanto arrabbiato?»

«Mmm… no, non più del solito.»

«Beh, è già qualcosa. Allora, che mi racconti? Cosa mi sono persa di interessante?»

«Più che altro direi che sei stata fortunata, visto che oggi abbiamo ufficialmente traslocato nella nuova casa e non hai dovuto faticare per niente.»

«Oh, che bello!»

«E poi, che dire? Ah! Alex e Bea stavano per inaugurare la cucina con un incontro di boxe!»

«Sì! Krista me l’ha detto!»

Tirò giù le grandi cuffie all’amica, che rimase sbigottita guardandosele sul petto. Krista le fece una linguaccia e si stravaccò sul sedile, appoggiando la testa alla spalla di Sharon, chiudendo gli occhi alla musica, di nuovo nel suo mondo.

«Davvero? È bello che si dicano tutto.»

«Già. Ora devo andare zia, ci vediamo domani.»

«Ok, mi raccomando fai la brava.»

«Sì, non ti preoccupare. Buona notte.»

Sharon chiuse la chiamata e guardò Krista sdraiata su di lei. Se la scrollò di dosso e si alzò, così lei cadde sul sedile tirando un piccolo urlo. Si guardarono ancora male e poi sorrisero, come sempre.

«Vado a vedere dove si è cacciato Nicolas», disse quando le luci sul pullman si spensero, ad indicare che era ora di dormire.

«Ok», sbadigliò Krista chiudendo di nuovo gli occhi e sistemandosi la felpa addosso, come una coperta.

Sharon uscì dal pullman, senza farsi beccare dai prof che erano lì fuori a chiacchierare con un bicchiere fumante in mano, e notò Nicolas seduto sull’erba, in pendenza, che stava fissando sotto di lui l’autostrada e sopra di lui il chiarore della luna che faceva splendere ancora di più i suoi capelli chiari.

«Perché fai sempre il lupo solitario?»

Nicolas si girò e guardò Sharon con un sorriso, porgendole la mano, che lei accettò. Si sedette al suo fianco, abbracciata a lui, e guardarono assieme i fari delle macchine che scorrevano in strada, ascoltando il rumore delle ruote sull’asfalto e dei motori.

«Stai attenta, c’è la luna piena, potrei trasformarmi in un lupo mannaro», scherzò lui mordendole il collo dolcemente.

Sharon inclinò la testa all’indietro e si lasciò baciare, stendendosi pian piano sull’erba fredda, Nicolas su di lei.

«Credi sia stato il destino a volere che ci fermassimo qui?», chiese in un sussurro, infilando le dita fra i capelli di lui.

«Non so, non credo molto nel destino: siamo noi che influiamo sulla nostra stessa vita.»

«Potrebbe essere. Com’è il fatto che ci troviamo sempre in luoghi aperti prima di farlo?», sorrise.

«Noi non lo stiamo facendo.»

«Ma lo stiamo per fare», lo baciò, mentre con le mani andava a cercare la chiusura dei suoi jeans per stuzzicarne il bottone.

«Sharon», mugolò Nicolas, combattuto fra desiderio e senso di responsabilità. «E se ci scoprono?»

«Chissene frega, Nicolas. Chissene frega.»

Lui, convinto e anche un po’ costretto dalla voglia di averla quasi insopportabile, la baciò, poi senza badare più a nessun altro le abbassò i jeans e fu tutto naturale, così complici e così uniti, avvolti dalla passione, anche se era la loro seconda volta. 

Dopo aver ripreso un po’ di fiato decisero che era proprio l’ora di alzarsi e di tornare sul pullman, prima che li chiudessero definitivamente fuori.

«È stato bello. Ma quando non è bello con te?», gli sorrise maliziosa, rubandogli un altro bacio.

«Ragazzi, forza, a dormire!», disse una prof cacciandoli ai loro posti.

Sharon sbuffò e guardò Krista addormentata anche sul suo sedile. La tirò su a fatica e si mise con la testa appoggiata al finestrino, freddo contro il calore delle sue guance ancora rosse, e sorrise alla luna, pensando che… sì, la sua vita era lo spettacolo che aveva sempre immaginato, sopra e sotto il palco.

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Capitolo 28
*** Alone ***


I hear the ticking of the clock
I’m lying here the room’s pitch dark
I wonder where you are tonight
No answer on the telephone
And the night goes by so very slow
Oh, I hope that it won’t end though
Alone

(Alone – Celine Dion)

 


Capitolo 21
Alone

 

Sharon arrivò a casa e, inaspettatamente, fra quelle mura a cui non era ancora abituata, si sentì piena di energie. Andò in cucina per mangiare qualcosa, seguita con lo sguardo da suo padre, e si mise al tavolo con suo zio a fare colazione.

Tom la guardò per qualche secondo, poi sorrise e si lasciò andare ad una fragorosa risata, che stordì Sharon. Andava bene che era piene di energie, ma certe cose di prima mattina non le capiva proprio, come le risate insensate di suo zio.

«Perché ridi, zio?», chiese.

«Hai scritto in faccia: Sono innamoratissima e questa notte ho fatto sesso con Nicolas!»

Sharon arrossì e lasciò sul tavolo la propria tazza di latte, presa in contropiede.

«Si nota così tanto?», sussurrò imbarazzata.

«Abbastanza», annuì sorridendo.

«Sharon…» Tom si guardò intorno e dopo essersi accertato che Bill non fosse nei paraggi, si sporse sul tavolo e le indicò di avvicinarsi. Un po’ titubante, Sharon si avvicinò a lui e parlarono a bassa voce, occhi negli occhi, anche se lui la metteva un po’ in soggezione, visto che aveva gli occhi identici a quelli di suo padre. «Tu e Nicolas… usate tutte le precauzioni, vero?»

«Sì… Ma-ma… perché me lo chiedi?»

«Con Bill non ne hai mai parlato seriamente, no? Sono cose che devi sapere, anche per il tuo stesso bene.»

«O-ok.»

«Non essere imbarazzata, è una cosa normale.»

«Ma mi imbarazzo lo stesso», si portò le mani sulle guance rosse, sorridendo leggermente.

«Sai che se ci dovessero essere dei problemi, di qualsiasi tipo, potrai benissimo venire da noi a parlarne, vero?»

«Sì, mamma me l’ha detto.»

«Bene!», le fece un ampio sorriso e le scompigliò i capelli sulla testa affettuosamente, per poi tornare al suo caffè.

Alex entrò canticchiando in cucina, una maglietta arancione e un paio di jeans stretti a vita bassa, scarpe a collo alto tipo giocatore di basket ma con più stile.

«Buon giorno», salutò pimpante, dando un bacio sulla guancia a sua cugina.

«Ah!», disse Tom, facendo spaventare entrambi, che si girarono verso di lui. «Anche tu, Alex, vedi di usare la testa che non voglio ritrovarmi già nonno.»

«Stai tranquillo papà!»

«Bravo figliolo.»

«Figliolo a nessuno!», disse quasi scandalizzato. «Questi termini arcaici li puoi usare solo con mamma e io non ci devo essere.»

«Come preferisci, figliolo

Si guardarono e scoppiarono a ridere, proprio mentre Stefan e Sarah, lei in una tenerissima salopette e maglietta blu, facevano capolino in cucina con me dietro, i capelli tenuti raccolti sulla nuca da un mollettone.

«Ciao papà!», salutò lei, pretendendo di salire sulle sue gambe, arrampicandosi sulla sedia come una scimmia.

«Ciao piccola!»

«Oggi vieni all’asilo con me, vero?», gli chiese con gli occhi luccicanti.

«Perché dovrei?» Bastò un’occhiataccia da parte mia per fargli tornare la memoria. «Oh, sì! Oggi devo venire all’asilo con te perché il papà di ogni bambino deve presentare il proprio lavoro!»

«Sicuro di voler andare?», gli chiesi, prima di bere dalla mia tazza.

«Sì, sì, perché no?»

«Allora ricordati la chitarra.»

«Devo dare pure la dimostrazione di saper fare il mio lavoro?»

«Sì papà, ti prego! Dai, dai! Suona!», saltellò Sarah sulle sue gambe, già tutta emozionata.

«Ok, ok, frena l’entusiasmo!», le disse sorridendo, baciandola ancora sulla sua guancia, stringendola al petto.

«Ragazzi, set fotografico nel pomeriggio!», gridò Bill dal salotto, il telefono ancora in mano dopo una chiamata di Gustav.

«Oh, no…», mugugnò Stefan con una delle sue facce da finto depresso, lasciandosi cadere su una sedia. «Perché?»

«Ci dev’essere un perché?», chiese Bill.
La sua frase epica per spiegare che alcune cose, anche se non avevano voglia di farle, dovevano essere fatte per forza, senza lamentarsi né discutere.

Stefan sospirò, coprendosi il viso con le mani, rifiutando pure l’avanzo di colazione di Alex, il che era molto strano.

«Da quant’è che non senti Michelle?», gli chiesi.

«Non mi ricordo.»

«Dovrai parlarci prima o poi.»

«Più tardi è, meglio è.»

«Come vuoi tu, ma non potrai fuggire per sempre. Prenditi le tue responsabilità: se è il sesso che ti manca, diglielo, credo che capirà.»

«Non capisce e non capirà mai», sentenziò nervoso, guardandomi con la coda dell’occhio.

«Aspettate un secondo!», disse Tom, alzando la mano ed ottenendo la nostra attenzione. «Tu e Michelle vi siete lasciati?»

«No, solo che… sono andato a letto con un’altra.»

«Pure tu?», chiese ironicamente Tom, nascondendo un po’ di delusione.

«Dimmelo pure che sono stupido.»

«Sei stupido, Stefan. Ma che vi prende a voi due?! Va bene che state crescendo e tutto, ma tutti e due avete tradito la vostra ragazza! Cos’è, un virus? Adesso pure Sharon tradirà Nicolas?»

«Oh!», gridò Sharon, unendo le braccia al petto.

«Non volevo dire nulla di offensivo, Sharon. Solo che… non capisco! Non vi ho mai insegnato di fare così!»

«Sono cose che succedono, Tom», dissi.

«Non li difendere, Ary, sono grandi ormai. E poi anche tu la pensi come me.»

«Sì, ma ormai è inutile rimproverarli. Hai visto anche tu che Alex ha capito il suo errore, adesso spero solo che anche Stefan…»

«Gli errori non sono solo miei», disse lui a sua difesa.

«Tu hai tradito Michelle, fino a prova contraria», continuò duro Tom, con uno sguardo talmente severo da spaventare Sarah, che si rifugiò fra le mie braccia.

«Sì, ma Michelle…»

«Michelle ha solo un’idea diversa dalla tua. E se tu non sei in grado di accettare una sua scelta è un problema tuo, solamente tuo.»

«Hai ragione, è vero.»

«Io non voglio dire che sei una persona cattiva e che ha dei problemi nell’accettare le idee altrui, però questa volta… hai sbagliato.»

«Sì, è vero.»

«Non per questo devi sminuire il tuo valore come persona, perché vali davvero, io so che vali e che hai una testa per ragionare e per fare le scelte giuste.»

«Grazie», mormorò prima di alzarsi e andare di sopra.

«A che ora è il set fotografico?», chiese a suo zio quando fu di nuovo giù, con lo zaino su una spalla.

«Alle quattro.»

«Ok, ci sarò.»

Salutò distrattamente, per poi chiudersi la porta alle spalle e scendere le scale in silenzio, evitando apposta l’ascensore: doveva scaricarsi perché aveva davvero sbagliato di grosso e non poteva più tornare indietro.

 

***

 

Tom e Sarah cantavano Wir sterben niemals aus in macchina, mentre facevano la strada per raggiungere Bill e i ragazzi al set fotografico.

Sua figlia era un portento, una bambina che oltre ad essere bellissima era anche molto intelligente ed acuta per la sua età: tutta uguale a sua madre.

Tom sorrise e scosse la testa al suo pensiero, poi venne travolto ancora dalla sua voce che cantava: «Wir bleiben immer, schreiben uns in die Ewigkeit. Ich weiß das immer, irgendwo was bleibt.»

Quella mattina con Stefan era stato duro, ma sapeva di aver fatto la cosa giusta: a volte qualche litigata costruttiva ci voleva; anche coi suoi figli che comunque avevano la testa sulle spalle, molto di più rispetto a quella che aveva lui alla loro età.

Era molto soddisfatto del nostro lavoro di genitori e si era reso conto, durante quella giornata, che avevamo fatto davvero un bel lavoro a crescere ed educare i nostri figli, anche se a volte sbagliavano.

Aveva visto genitori, dei papà soprattutto, all’asilo di Sarah, che erano degli incapaci e che appena vedevano il loro bambino piangere si lasciavano prendere dal panico.

A lui era successo solo una volta, quando ancora non aveva escogitato la sua tecnica segreta, cioè il gioco di chi riusciva a non distogliere lo sguardo dagli occhi dell’altro. E funzionava sempre, perché sia Stefan che Alex (con Sarah non era nemmeno servito fino ad allora) smettevano subito di piangere. Senza contare che lui aveva quella dote che io non avevo mai avuto, cioè quella di renderli docili, prevalentemente da piccoli, con l’uso della voce.

Guardò Sarah nello specchietto retrovisore e sorrise incrociando il suo sguardo, sveglio ed attento a tutto quello che le succedeva attorno.

«A cosa stai pensando, papà?», gli chiese allegra. «Non canti più.»

«Stavo pensando… Sono bravo come papà?»

«Sì, sei il papà migliore del mondo!»

«E quanto mi vuoi bene?»

«Tanto così!», allargò le braccia più che poteva, per indicare la quantità enorme del bene che gli voleva.

«Anche io te ne voglio tanto, piccola mia.»

«Sei stato bravissimo a suonare!»

«Grazie. Però tu potevi anche evitare di vantarti in quel modo, mi sono trovato contro tutti gli altri papà!»

«Io posso vantarmi! Non tutti hanno un papà speciale come te!»

«Grazie, amore!» Tutte quelle lusinghe lo mandavano fuori di testa.

«Ma perché oggi ti sei arrabbiato con Stefan?», gli chiese cambiando discorso.

«Perché non si è comportato bene con Michelle.»

«E cosa ha fatto?»

«Eh… bella domanda. Diciamo che si è visto con un’altra ragazza, cosa che non doveva fare.»

«Oh… Ma poi fate la pace, vero?»

«Chi, io e lui? Ma certo!»

«Ah, menomale. Non mi piace quando litigate.»

«Lo so, ma a volte serve. Bene, siamo arrivati.»

«Posso fare anche io le foto?»

«Vedremo», ridacchiò.

Scese dalla macchina e la prese il braccio, coccolandosela tutta: quegli erano gli ultimi momenti in cui stavano insieme, dopo sarebbe stata sicuramente rapita da qualcuno, se non da sua cugina o dai suoi fratelli, da Bill, quindi era meglio tenersela stretta finché l’aveva.

Appena entrarono nella villa ottocentesca in cui i Devilish stavano facendo le foto per l’album che sarebbe uscito a breve, videro Krista in forma smagliante, vestita in modo impeccabile, ma mai come Sharon che aveva un vestito stile principessina del rock, nero e rosso con orli di pizzo e lacci dietro la schiena, e degli anfibi di pelle con le borchie argentate.

«Ciao Krista!», la salutarono assieme. Krista sorrise e baciò la piccola su una guancia.

«Ciao! Scappo perché non ne posso più, ho bisogno di una pausa!»

Lei aveva fatto abbastanza, ora stavano fotografando Sharon, la diva del gruppo, bella quanto i suoi cugini con il fascino degli angeli. Lei era lo sfondo, scuro e misterioso. Ma le piaceva così, era proprio una batterista nata lei, non si perdeva per quelle cose.

Si diresse verso l’uscita ed incontrò Michelle che si guardava intorno titubante. Sentiva che sarebbe successo qualcosa, aveva come un presentimento negativo.

«Ciao Michelle», la salutò.

«Oh, ciao Krista.»

«Che ci fai da queste parti?»

«Ehm… devo parlare con Stefan…», abbassò lo sguardo triste.

«Problemi?»

Michelle non rispose, ma a quel punto non serviva nemmeno: la risposta era così chiara che non c’erano bisogno di parole.

«Senti, ma tu e Alex…», disse invece, un po’ imbarazzata, unendo le mani sulla gonna abbinata al dolcevita marrone che portava. «Cioè… avete già…»

«Oh, quello! Sì, ovviamente», sorrise.

Krista si volle tirare un ceffone in fronte: cosa voleva dire ovviamente? Non era ovvio che una ragazza della sua età facesse già sesso. E soprattutto non doveva dire così ad una che credeva fortemente nel sesso dopo il matrimonio.

«Intendevo dire che noi ci amiamo, penso, e quindi… perché no?»

«Ma come fai a sapere che vi amate davvero?»

«Michelle, non c’è bisogno di un matrimonio per sapere se si ama una persona e per farci l’amore.» Si morse la lingua. Ma sarebbe riuscita a dire una cosa giusta e in un certo modo giusto? «Io non voglio offenderti, so quello che pensi e non sto dicendo che è sbagliato credere in una cosa, però forse… è un po’ troppo esagerato per dei ragazzi della nostra età», tentò di salvare, ma sapeva che non sarebbe servito a nulla.

Era già un miracolo che fossero lì a parlare, di solito non lo facevano mai. Per forza, erano l’una l’opposto dell’altra: la scura e la chiara, ma non per forza la sbagliata e la giusta.

«Va bene, io allora… andrei. Ciao Krista.»

«Ciao Michelle.»

Ed ognuna andò per la sua strada. Michelle continuò a camminare per il grande corridoio fino ad arrivare alla sala in cui stavano facendo il set fotografico.

Vide subito Stefan, bellissimo come sempre, mentre faceva una posa da irraggiungibile e meraviglioso condannato, con un’espressione malinconica e persa su un punto non ben definito alla sua destra, i capelli biondi che gli sfioravano la fronte perché non li aveva alzati quella mattina.

«Stefan, sei perfetto!», disse il fotografo complimentandosi, e lui ritornò in se stesso, ma un po’ di quella tristezza negli occhi gli rimase.

«Stefan», lo chiamò avvicinandosi.

«Michelle, che ci fai tu qui?», chiese sorpreso, abbandonando anche quella minima traccia di sorriso dal viso. Quel momento era arrivato, ed era troppo presto, ma se proprio doveva andare così, l’avrebbe accettato.

«Dovresti saperlo, però.»

«È probabile che io lo sappia», annuì sconsolato. «Dai, andiamo di là.»

La condusse nella sala accanto, si misero seduti sugli scalini ricoperti da moquette rossa di una grandissima scalinata di marmo con tanto di corrimano dorato, e rimasero per un attimo in silenzio, poi lei tirò fuori dalla borsa un giornalino che Stefan associò ad uno che leggeva spesso la sorella della sua ragazza. Michelle cercò una pagina precisa e poi glielo sbattè sulle gambe.

«Oh, perfetto», mormorò Stefan, osservando con attenzione le foto che lo ritraevano con Celeste, sulla soglia del portone del suo palazzo, abbracciati e che si baciavano. Era stato uno stupido a svalutare la potenza dei paparazzi: non voleva che lo scoprisse in quel modo.

«L’ha visto mia sorella», disse Michelle. «Non volevo crederci quando me l’ha detto, ma le foto lo dimostrano, Stefan.»

«Mi dispiace, Michelle.»

«Di cosa ti dispiace?»

«Mi dispiace che tu l’abbia saputo in questo modo.»

«Il bello è che io non so proprio niente, e non so se mi va di saperlo.»

«Ci sono andato a letto», ammise, seppure a testa bassa, le mani unite con i gomiti sulle ginocchia.

«Tu… tu ci sei andato a letto?», sussurrò incredula.

«Proprio così.»

«Quindi, non ti dispiace averlo fatto? Ti dispiace solo che io l’abbia saputo così! Oh, sì, che cavaliere che sei!»

«Michelle, non fare così.»

«E cosa dovrei fare, scusa?! Dirti che sei stato bravo, per caso?!»

«No, però… Insomma, non saremmo qui se ti fossi lasciata andare a quello che sentivi!»

«Non mi sono lasciata andare perché credo in quello che penso, non faccio ciò in cui non credo!»

«Questo significa che non credi in noi, nel nostro amore? Io ci credevo, ora… non lo so.»

«Non è possibile, dovrei essere io quella arrabbiata, invece hai girato la frittata dalla tua parte!»

«Michelle, abbiamo sbagliato tutti e due. Se vuoi chiuderla qui è… ok.»

«Tu non vedevi l’ora di chiuderla con quella che non vuole fare sesso, ti rovina la reputazione! Bello stronzo.»

«Ma che reputazione, Michelle!», si alzò in piedi e si mise di fronte a lei. «Sono cose che ti stai inventando adesso, perché non me ne fotte un cazzo della reputazione! Ma ti rendi conto di quello che… è demoralizzante, soprattutto per me, va bene, però sentirsi dire sempre che non vuoi fare sesso con me è… demoralizzante, perché non credi in noi!»

«Non è che non credo in noi, anzi, ci credevo più di quello che pensi, solo che pure per me è demoralizzante sentirsi sempre dire che la mia è un’idea assurda, vuol dire che non credi a noi in un futuro! E se non sai aspettare, allora… addio Stefan.»

«Addio Michelle, trovati il tuo principe azzurro, spero lo troverai presto. E spero vi sposerete presto.»

«Vaffanculo Stefan!», gridò quasi in lacrime.

Si sentì una vera merda guardandola andare via di corsa, ferita e delusa da quell’amore che credeva potesse durare davvero.

Stefan tornò nell’altra sala per vedere se dovevano fare qualche altro scatto, ma quello che trovò furono solo gli sguardi di tutti addosso.

«Stefan…», disse Sharon, ma lui la fermò al nascere, con un gesto della mano.

«Abbiamo finito qui?», chiese a Gustav, che annuì docilmente. «Ok, io me ne vado a casa.»

Prima di uscire incontrò lo sguardo di suo padre e abbassò la testa, deluso da se stesso più che altro. Non ne faceva mai una giusta: perché lui non riusciva a sentirsi importante per suo padre, tanto da renderlo orgoglioso?

Prese la giacca e se ne andò, né più e né meno, come doveva essere. Lui non aveva bisogno di consolazioni, ma si ritrovò con diverse gocce salate sul viso mentre camminava per la strada per ritornare a casa, da solo.

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Buonaseraaa (:
Mi scuso enormemente per il ritardo con tutte le persone che aspettavano con impazienza questo capitolo.
Spero che sia stato di vostro gradimento!
Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, ossia Tokietta86 xD Grazie mille **
Alla prossima, un bacio!
Vostra,
_Pulse_

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