Light Sisters di MaryLouise (/viewuser.php?uid=92673)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I. Partenze ***
Capitolo 3: *** I.2 ***
Capitolo 4: *** I.3 ***
Capitolo 5: *** I.4 ***
Capitolo 6: *** I.5 ***
Capitolo 7: *** I.6 ***
Capitolo 8: *** I.7 ***
Capitolo 9: *** I.8 ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Light
Sisters
In
principio Dio creò il cielo e la
terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano
l’abisso e lo
spirito di Dio aleggiava sulle acque.
Dio disse:
«Sia luce!». E la luce fu. Dio
vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle
tenebre e chiamò la luce
giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno.
GENESI 1, 1-5
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Capitolo 2 *** I. Partenze ***
I.
Partenze
Yvonne si sdraiò sulla
calda
sabbia dorata. Ascoltò il rumore della risacca del mare e
chiuse gli occhi. Le
poche nuvole, bianche e soffici, si scostarono e gli ultimi raggi di
sole le
illuminarono la pelle color cioccolato, producendo sfumature nocciola.
Essa era
liscia e morbida, senza alcuna imperfezione. Sciolse i capelli color
ebano,
liberandoli nella calda sabbia africana.
Rimase in quella posizione
per alcuni minuti. Adorava Moonlight Beach, vi andava ogni volta che
voleva
stare sola. Lì rifletteva, in compagnia del mare. La
spiaggia era una piccola
baia sabbiosa sulla costa della Guinea-Bissau, affacciata
sull’Oceano
Atlantico. Era a cinquecento metri dal villaggio; situato a pochi
chilometri da
Bolama, città principale della regione omonima. Una
minuscola mezzaluna, lunga
circa venti metri. Il mare era limpido, azzurro tendente al blu sempre
più
scuro, mano a mano che ci si allontanava dalla terra ferma. La sabbia
era
tiepida e dorata, scottava solo nelle ore più calde del
giorno. Era formata da
minuscoli granelli e da piccoli frammenti di conchiglie, che la marea
portava a
riva. Un piccolo gruppo di rocce formava un modesto promontorio, di
circa
cinque metri. Un leggero muschio era cresciuto sulle pareti rocciose
bagnate
dal mare e non illuminate dalla luce solare. Verde e viscido. Era
l’unica cosa
che non le andava a genio, in quell’incredibile spiaggetta.
Negli scogli si
erano formate delle pozze d’acqua stagna. Yvonne le adorava.
Ad ogni marea
andava lì e vi trovava sempre qualcosa di nuovo ed
interessante. Una stella
marina, un piccolo pesce, un mollusco, una conchiglia mai vista. Quando
poi
l’acqua delle pozze evaporava, lasciava sempre un residuo di
sale attorno alle
pareti rocciose. Molte persone del suo villaggio andavano lì
per raccoglierlo
ed usarlo per cucinare pietanze squisite. Una delle sue preferite era
lo Zighinì;
spezzatino di carne piccante cotta con cipolla e pomodoro.
Le piaceva molto anche
quando, con i suoi amici, si radunavano in spiaggia. Cantavano,
ballavano e
mangiavano pesce appena pescato, cotto alla trappeur. La legna di
quella
spiaggia prendeva fuoco in fretta. Era totalmente sbiancata e levigata
dall’acqua del mare, cosicché, quando ardeva,
produceva fiamme dal colore
bluastro. Le sfumature variavano spesso, molto più di un
fuoco normale;
andavano dal verde chiaro per poi sfumare: verde, verde bottiglia,
verde scuro,
blu scuro, blu, blu chiaro, indaco, azzurro cielo, azzurro chiaro. Il
fuoco. Si
ricordò di quando era piccola. Aveva circa otto anni ed
insieme agli altri
bambini raggiungeva il Saggio sotto il grande baobab. Lì,
l’anziano signore
raccontava storie ogni sera. Erano moltissime, andavano dalla creazione
del
villaggio alle fiabe per bambini. La preferita di Yvy era la leggenda
delle
Creazione della Luce. Uthomep, il grande Dio Supremo, aveva creato il
mondo. Ma
il pianeta era circondato dalle tenebre più assolute,
così un giorno,
maneggiando il fuoco, una scintilla schizzò sul polpastrello
di Uthomep
producendo una luce forte e allo stesso tempo fievole. Il Dio Supremo
allora,
moltiplicò quella scintilla magica, e fuse quelle minuscole
lucine insieme,
formando una grande stella, il Sole. Il sole portò la luce
sul pianeta Terra e
tutti gli uomini ne furono felici. Uthomep affidò dunque la
luce al figlio
Masak e le tenebre al figlio Demek. Da allora, sono loro che regolano
l’equilibrio tra Luce e Buio. Yvy aveva sempre avuto una
passione per la Luce. Amava
soprattutto gli
elementi naturali che producevano luce, come il sole, la luna e le
stelle. Le
sue preferite erano da sempre le stelle. Puntini luminosi
così minuscoli, era
strano che tutti vi ci si affidassero i propri desideri. Producevano
una luce
soffusa, di color argenteo e formavano costellazioni che lei conosceva
a
memoria da quando aveva cinque anni. Era stato il Saggio ed
insegnargliele.
Si mise a sedere, agitando i
folti capelli mossi per liberarli dalla sabbia. Gli ultimi secondi di luce
stavano svanendo. Il cielo era color ocra e le nuvole sfumavano dal
rosa
pallido al violetto. Sorrise amaramente. Era difficile separarsi
dall’Africa. Avrebbe
voluto rimanere lì, nella sua terra natale, ma come le aveva
già spiegato sua
madre, c’era in ballo il suo futuro. Era sempre stata la
miglior studentessa di
tutta la Guinea-Bissau. Sua madre e lei avevano lavorato duramente per
mettere
da parte qualche soldo per l’università. Poi Yvy
aveva ricevuto la borsa di
studio e si era iscritta ad Oxford. In Inghilterra! Le sembrava un
sogno. Lei
voleva diventare veterinaria. Aveva sempre amato gli animali e poi al
suo
villaggio avevano bisogno d’un veterinario. Yvonne Kanay
sarebbe stata una
delle poche ragazze africane ad andare alla Oxford University! Le
sembrava
impossibile, ma era la pura realtà. Eppure era
così difficile separarsi
dall’Africa. Dalla Guinea-Bissau, dal suo villaggio, da sua
madre, dai suoi
amici, dal vecchio Saggio ed il suo baobab e anche da Moonlight Beach.
Si sentì in
lontananza un
lontano rullo di tamburi. Poi il rumore lento e regolare della musica
di inizio
cerimonia. La festa d’addio del suo villaggio stava per
cominciare. Si sistemò
la camicia a rete di lino grezzo. Il costume marrone era a posto. Si
rassettò i
capelli e sistemò i suoi pantaloni color mogano a sbuffo.
Poi corse via, al
villaggio.
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Capitolo 3 *** I.2 ***
Erano le otto del mattino. Ad
Oxford non si muoveva una foglia. O meglio, si muoveva, mossa dal vento
impetuoso e dalla pioggia scrosciante. Lore correva nell’erba
del parco, a
piedi nudi. I ciuffi verdi e umidi le solleticavano la pianta del
piede, mentre
i goccioloni d’acqua le scivolavano lungo i contorni del suo
corpo spigoloso.
Si fermò, scuotendo la
testa
per liberarsi dell’acqua che le impregnava i capelli castani.
Si specchiò in
una grossa pozzanghera ai suoi piedi. Capelli castani e spettinati,
occhi
verdi. Zigomi alti e mento leggermente triangolare. Corpo magrissimo
dai
contorni marcati e spigolosi. Questa era Lore, questa era lei. Le gocce
di
pioggia infrangevano la limpidità dell’acqua
stagnante, facendo prendere alla
sua figura riflessa forme stranissime. Sorrise e riprese a correre.
Arrivò a casa in dieci
minuti, concludendo il suo giro di corsa quotidiano. Entrò
in casa,
gocciolante.
«Lorelain Hoods!
».
La sua sofisticata madre
comparve sulla soglia della cucina. Capelli biondi e immancabilmente
cotonati,
occhi verdi come i suoi. Era bassa e rotondetta, tutto il contrario
della
figlia.
«Ciao mamma»,
salutò lei,
seccata.
«Guarda
quant’acqua! Il mio
povero parquet nuovo! S’imbarcherà di
sicuro!», si lamentò.
Lorelain sbuffò, alzando
gli
occhi al cielo, «Sono quattro gocce in croce, mamma... Prendi
la spugna e vedi
che andranno via».
«Potevi asciugarti prima
di
venire in casa! Potresti prenderti un malanno! ».
«Mamma... Non ho un
raffreddore da quando avevo dieci anni, sai che ho una salute di ferro!
».
«Dicono tutti
così», commentò
l’altra, «Comunque potresti dormire di
più, fa bene alla pelle; la rende
luminosa».
Lore sospirò; sua madre
e i
suoi odiosi consigli di bellezza, «Chi dorme non piglia pesci
mammina», sbottò.
«Sei proprio un
maschiaccio... A che ora ti sei svegliata oggi? »,
cambiò discorso, rimproverandola.
«Sei e mezza»,
rispose la
figlia, fiera.
«Ma è
domenica! Alla tua età
mi svegliavo a mezzodì! », la
rimproverò la madre.
«Ma tu vivevi nella
Preistoria», si lasciò scappare.
La madre la guardò
torva.
Lore non la sopportava quando faceva così. Aveva
cinquant’anni e si considerava
ancora una ragazzina. Cercò di sorridere, impacciata, per
celare la sua
espressione compassionevole verso la madre.
«Vai a lavarti, su!
», ordinò
l’altra.
In effetti, era un ammasso
d’acqua e fango. Ridacchiò sotto i baffi,
«Heil Hitler! », esclamò, facendo il
saluto nazista.
«Perché ho una
figlia così? »,
borbottò sua madre, tornando in cucina.
Un odore di frittura la
travolse a metà scala. Non se n’era ancora
accorta, sua madre stava cucinando
fish and chips.
«Fish and Chips!
», esclamò
correndo in cucina.
Sua madre la guardò
stupefatta, mentre lei le schioccava un bacio sulla guancia.
«Dai... Vai a
lavarti», le
sussurrò leggermente imbarazzata.
Lei obbedì,
fiondandosi in
bagno.
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Capitolo 4 *** I.3 ***
«Buongiorno oxfordiani!
Sono
le dieci di domenica 31 agosto! E’ una bellissima giornata ed
io vi aiuterò a
svegliarvi con la musica di Radio Ox!», la voce squillante
dello speaker entrò
nei padiglioni auricolari della povera ed assonnata Kim.
«Mmm...», si
lamentò con voce
impastata.
La canzone risuonò nella
camera. La ragazza diede un colpo alla sveglia, «Stupida
radio», commentò, «Che
caspian di nome è Radio Ox?»
Sua madre probabilmente aveva
spolverato il suo comodino, impostando per sbaglio la sveglia. Si mise
a
sedere, massaggiandosi la nuca con movimenti circolari. Si
alzò, spostandosi in
bagno. Si armò di spazzola e pettinò gli
arruffati capelli biondi che si sistemarono,
formando un semplice ma splendido caschetto dorato.
Dopodiché rassettò il suo
intimo. Era il suo preferito. Era lilla, in seta con inserti in raso
viola.
Sistemò anche il suo ciondolo, che durante la notte si
attorcigliava sempre con
il resto della collana. Lo aveva dalla nascita, poiché
gliel’aveva regalato la
nonna. Era un piccolo medaglione, formato da complicati intrecci
d’argento con
al centro una minuscola pietra bianca, simile ad un diamante. Era un
diamante?
Strinse le spalle. Si lavò accuratamente la faccia e scese
in cucina.
Sua madre era ai fornelli,
come sempre. Era una donna alta, magra e slanciata, proprio come la
figlia. I
capelli erano un po’ più lunghi dei suoi, biondi e
mossi mentre gli occhi erano
verdi. Gli occhi di Kimberly invece, erano azzurro cielo, come quelli
del
padre.
«Buongiorno
dormigliona», la
salutò.
«E’ colpa tua
se mi sono
svegliata», l’accusò la figlia,
insofferente.
Sua madre la guardò
sorpresa,
«Perché?».
«Lascia
perdere», con un
gesto, Kim liquidò la faccenda.
Si sedette al piccolo
tavolino in formica, aspettando pazientemente che sua madre le servisse
la
colazione. Puntualmente, la servì, con qualche biscotto al
cioccolato e una
tazza di latte fumante.
Giocando con una ciocca dei
suoi capelli dorati, immerse svogliatamente il primo biscotto nel
liquido
bianco e tiepido. Continuò a rigirarsi i capelli tra
l’indice, aiutandosi con
il pollice, immersa nei suoi pensieri. La cucina sprofondò
nel silenzio più
assoluto, rotto solo dal soffuso girare di un cucchiaio di legno lungo
la
superficie di vetro di una ciotola. Sua madre stava facendo una torta.
«Buongiorno!»,
la porta
s’aprì, lasciando intravedere Casey,
l’esuberante sorella quindicenne di
Kimberly. Aveva lunghi capelli biondi, raccolti in una spettinata coda di cavallo ed occhi
verdi, come la
madre. Era molto più piccola della sorella, che alla sua
età aveva superato il
metro e settanta.
Kim sussultò, ed il
biscotto
le cadde nella tazza, colma di latte.
«’Azzo»,
imprecò sottovoce,
mentre il povero biscotto tondo s’impregnava di liquido e
sprofondava negli
abissi lattiferi della tazza. La ragazza immerse sgraziatamente le dita
nel
latte caldo, per salvare il disgraziato biscottino.
Sua sorella
s’avvicinò
saltellando al tavolo.
«Per colpa tua
dovrò fare la
rianimazione bocca a bocca a questo sciagurato»,
accusò.
Casey ridacchiò,
«Ah sì? E
come pensi di farla?»
Kim si ficcò in bocca il
biscotto intero, «’Osì!»,
disse a bocca piena, tra le risate della sorella
minore.
La maggiore
s’alzò dal tavolo,
poggiando la tazza sporca nel lavandino. Strascicava i piedi, era
stanca,
nonostante si fosse appena alzata. Probabilmente, sebbene si fosse
lavata, la
sua faccia sembrava quella di uno zombie. Sicuramente, pesanti occhiaie
le
contornavano gli occhi, accentuate da grosse borse. Erano mesi che le
aveva.
Non riusciva a dormire bene. Era agitata, perché sapeva che
sarebbe andata
all’Università di Oxford, esattamente il giorno
successivo. La tensione era
palpabile. Casey la guardò incuriosita, inclinando la testa
da un lato, proprio
come un cagnolino.
«Ci siamo svegliate con
il
piede sbagliato stamattina?»
Kim le lanciò
un’occhiata
truce, con i suoi occhi azzurri.
«Correre fa bene alla
salute,
mette il buonumore e fa sparire quelle orribili occhiaie... Dovresti
farlo
anche tu», notò la sorella.
«Taci nanetta»,
borbottò Kim,
in preda ad un improvviso sbalzo d’umore.
Fingendosi offesa, Casey
salì
atleticamente le scale, diretta in camera sua.
«Nessuno corre
più alla
mattina nella società moderna... Non si ha
tempo!», mormorò tra sé,
contrariata.
La giornata che era appena
iniziata non era delle migliori.
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Capitolo 5 *** I.4 ***
Le solleticava il palmo della
mano. Sei delicate zampine le strusciavano la pelle con delicatezza.
Erano i
piedini di una coccinella. Fin da piccola Abby avrebbe voluto essere
una
coccinella. Così semplici e delicate. Con ali leggere e
rossicce, quasi
trasparenti in controluce, da apparire fragili. Le coccinelle
sembravano
fragili. In effetti, con una ditata potevi schiacciarle, ma con un
fremito
d’ali potevano librarsi in aria e volarsene via. Erano molto
sensibili,
percepivano anche il minimo movimento d’aria.
Soffiò delicatamente sul piccolo
insetto ed esso volò elegantemente via.
Sospirò, sdraiandosi
nell’erba tiepida. Non riusciva a pensare a Farm Cottage
senza di lei. Quella
fattoria era un pezzo di anima. Lei era nata e cresciuta lì.
Non riusciva a
capacitarsene; ma tra pochi minuti se ne sarebbe andata. Aveva compiuto
diciotto anni da qualche mese ed era stata accettata
all’Università di Oxford.
Le sembrava un miracolo, eppure i suoi sforzi erano stati ricompensati.
Alzò
gli occhi verso i rami del grande salice piangente del giardino.
Respirava
lentamente, movimenti impercettibili muovevano il suo ventre.
Osservò
attentamente le foglie verdi illuminate dal sole, mentre filtravano la
luce
calda. Amava il sole. Sua madre le aveva raccontato che quando era nata
era uno
dei rari giorni in cui l’enorme stella splendeva
indisturbata, senza nessuna
nuvola intorno. Una giornata come quella. Ma del resto, la campagna
gallese non
era famosa per le sue giornate di sole. Chiuse gli occhi, lasciandosi
trasportare dal fresco venticello del Mar d’Irlanda. Abitava
a Little Haven,
una minuscola cittadina nella campagna gallese, a pochi chilometri da
Haverfordwest.
«Abby!», la
squillante voce
di suo fratello James interruppe i suoi pensieri.
«Arrivo!», gli
urlò in
risposta.
Si alzò svogliatamente e
attraverso i campi, diretta verso la casa che tanto temeva
d’abbandonare.
Giunse sotto lo stretto
portico in legno, costruito da suo padre. Era un muscoloso uomo bruno
sulla
cinquantina.
«E’ arrivato il
pullmino,
Abigail», la informò sua madre, l’unica
che si ostinava a chiamarla con il suo
nome di battesimo. Era una donna minuta e rotondetta ma molto graziosa,
bionda
con gli occhi castano dorati come la figlia.
«La valigia?»,
chiese
parlando al singolare. Non aveva molte cose da portare con
sé, né molte cose da
lasciare a casa. Avrebbe portato via i suoi pochi vestiti e libri e
lì avrebbe
lasciato il suo cuore.
«Tuo padre l’ha
già caricata»,
sua madre era una donna forte, ma si notavano gli occhi lucidi, era
impossibile
trattenere il pianto in quella situazione.
«Mi... Mancherete
ragazzi»,
sospirò Ab, abbracciando i due fratelli minori.
«Anche tu ci
mancherai»,
dissero senz’esitazione. Abigail arrossì
violentemente. Affiorarono i sensi di
colpa, come al solito. Litigava con i suoi fratelli quindicenni per
delle
assurdità. Ma in fondo, gli voleva bene.
Si girò e
fissò ansiosa il
pullmino blu metallizzato, che l’avrebbe portata ad Oxford.
Sospirò e
salì le scale. Si
sedette nell’unico posto libero rimasto, in fondo, contro il
finestrino.
Rispose ai saluti dei suoi familiari con un lieve sorriso che
nascondeva molta
tristezza e malinconia. L’autista piegò verso il
basso il freno a mano,
appoggiò il piede sul pedale dell’acceleratore e
il mezzo partì, sbuffando.
Ciao vita vecchia, benvenuta
vita nuova.
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Capitolo 6 *** I.5 ***
Erano le cinque del mattino;
aveva viaggiato tutta notte.
Yvy uscì dal Terminal 1,
stizzita. L’aeroporto era molto affollato e... puzzava.
Ovunque Yvonne
percepiva odore di sudore, di chiuso e di sporco.
Si precipitò fuori
dall’edificio, verso il parcheggio. Inspirò a
pieni polmoni l’aria fredda. Non
le andò meglio; era puzzolente e umida.
L’umidità le si attaccava addosso,
sotto forma di piccole goccioline. Quella non era come la secca, pulita
e
profumata aria africana.
Chiamò a gran voce un
taxi ma
il guidatore non la degnò di uno sguardo. Ad Oxford erano
pure dei grandissimi
maleducati!
Si sedette sconsolata sul
marciapiede. Un ragazzo le si avvicinò.
«Posso
aiutarti?», chiese.
Lei indietreggiò,
cercando di
nascondere il suo nervosismo e terrore, «Non parlo con gli
estranei».
Lui sorrise, mostrando i
denti bianchissimi, «L’hai appena fatto».
Le labbra di Yvonne si
curvarono in una smorfia.
Lui sorrise ancora, tendendo
la mano destra, «Piacere, io sono Riyon».
«Vattene»,
disse Yvy con tono
piatto.
«Perché?»,
chiese lui, «Voglio
solo aiutarti».
«Ah sì? E poi
dove mi
porterai e cosa mi farai?».
Lui la guardò sorpreso e
la
ragazza non poté fare a meno di notare il colore dei suoi
occhi. Erano grigio
perla, con lievi sfumature d’indaco. Il suo viso aveva una
forma leggermente
ovale, la sua bocca era piccola con labbra sottili. I suoi capelli
erano
tagliati molto corti ed a spazzola, il sole produceva delle sfumature
dal nero
al grigio scuro sulle punte. La pelle era abbronzata e lievemente
ambrata.
Sembrava di nazionalità indiana, o giù di
lì.
Il suo viso
s’aprì in un
sorriso cordiale. Yvy spostò lo sguardo sui suoi piedi,
imbarazzata.
«Come vuoi, ti chiamo un
taxi»,
il suo poderoso braccio s’alzò.
Una vettura nera, tipicamente
inglese, s’avvicinò.
Perché a lui prestavano
attenzione? Yvonne sentì un leggero brivido di fastidio
percorrerle la schiena.
Riyon prese le sue valige e
le caricò nel baule, poi elegantemente le aprì la
porta, «Prego, Miss
Sconosciuta».
Lei salì sui morbidi
sedili
di pelle del taxi e chiuse il portellone nero e lucido.
Sussurrò velocemente la
sua
direzione al taxista e partì, lasciando Riyon sul
marciapiede bollente, deluso.
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Capitolo 7 *** I.6 ***
Abby si sistemò
meglio sul
rigido sedile del pullman.
Mancava ancora qualche ora al
suo arrivo ad Oxford. Era un’intera notte che viaggiava da
Welshpool, nella
campagna gallese, ad Oxford.
Osservò il paesaggio
gallese
scomparirle sotto gli occhi mentre attraversava il confine tra Galles
ed
Inghilterra.
Il sole all’alba
illuminava i
dolci contorni delle verdi colline inglesi ed una leggera nebbia
intaccava i
finestrini. Abigail cercò di toglierla, seccata. Ma la
nebbia veniva
dall’esterno, così alla bionda ragazza non
restò che rassegnarsi e guardare il
paesaggio collinare che le appariva sfocato, di cui riusciva a
distinguere
soltanto i versanti.
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Capitolo 8 *** I.7 ***
Erano le undici del mattino
quando Lore giunse all’Università di Oxford. Era
un complesso d’una decina d’edifici
in stile moderno, alti e robusti.
Avrebbe dormito in un piccolo
dormitorio con altre tre ragazze e quattro ragazzi.. una ragazza
normale
avrebbe sperato che i ragazzi fossero carini, ma lei no.
Lei non pensava a queste
cose, lei era libera, libera come il vento.
Abbracciò la madre ed
entrò
all’interno dell’edificio. Al piano terra
c’erano la cucina ed il salotto,
mentre al primo ed al secondo piano le camere delle ragazze e dei
ragazzi.
Il salotto era molto
semplice, arredato con qualche divano in stoffa, qualche tappeto
colorato ed un
vecchio caminetto.
Su una poltrona in un angolo
era seduta una ragazza dalla pelle color cioccolato. Aveva lo sguardo
assente,
quasi perso nel vuoto. I riccioli neri le ricadevano sulle spalle,
incorniciandole il viso.
«Ciao»,
sussurrò Lorelain
Lei alzò la testa. Aveva
gli
occhi neri e le labbra carnose. La pelle scura aveva sfumature dorate.
La
fronte era alta e liscia, coperta da qualche sottile ciuffo arricciato.
«Piacere sono Lorelain
Hoods,
ma chiamami Lore»
Lei la guardò, quasi
confusa,
poi improvvisamente tese la mano, «Yvonne Kanay,
piacere», disse piano.
«Vivrai qui?»,
chiese
Lorelain.
Lei annuì.
«Che corso
frequenterai?».
Yvonne rispose pronta,
«Medicina
veterinaria, tu?».
«E’ un corso
abbastanza
lungo! Io frequenterò Ragioneria».
«Nah, non fa per me, al
mio
villaggio abbiamo bisogno di veterinari e... ».
«Vieni
dall’Africa? ».
Yvonne annuì,
«Sono della
Guinea-Bissau».
«Com’è
là?».
«Bellissimo, siamo sulla
costa atlantica», descrisse la ragazza, sognante.
«Carino»,
commentò Lore senza
convinzione.
Yvonne sorrise, «Vieni,
ti
faccio vedere la tua camera».
Lore la seguì al primo
piano.
Al centro del pianerottolo vi era un piccolo salottino per studiare,
mentre ai
lati vi erano quattro stanzette.
«Se ti va bene, questa
sarebbe la tua stanza», Yvonne le mostrò la camera
di fronte alla sua.
Era piccola, arredata con un
letto in legno, un armadio ed una scrivania. Lore estrasse il suo PC portatile e lo
appoggiò sulla
superficie liscia e massiccia della scrivania.
«E’ perfetta,
grazie»,
rispose.
Yvonne sorrise, scomparendo
dalla soglia.
«Yvonne? »,
chiamò ancora
Lore.
«Sì?».
«I ragazzi sono
già arrivati?
»>>.
L’altra la
guardò
maliziosamente, «Solo due, un italiano di nome Leonardo Rossi
e uno scozzese di
nome Luke Andersen».
Lore sbuffò contrariata
e
Yvonne ridacchiò.
«Yvonne?».
«Sì?».
«Posso chiamarti
Yvy?».
La ragazza dalla pelle color
cioccolato s’illuminò in un sorriso, «Ma
certo».
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Capitolo 9 *** I.8 ***
Yvy rientrò in camera
sua.
Quella ragazza era proprio simpatica, era certa che sarebbero diventate
grandi
amiche. Si sdraiò sul letto. Lo zaino stava ai suoi piedi,
ma Yvonne non aveva
voglia di disfarlo.
Si stiracchiò e qualcuno
bussò alla porta.
Sorrise, magari era ancora
Lorelain.
Aprì la porta. Erano Leo
e
Luke. Uffa.
«Ciao Yvonne!»,
Leo le
sorrise allegramente.
«Avete
bisogno?», chiese.
«No, ti volevamo solo
presentare il nuovo arrivato».
Il NUOVO arrivato. Un altro
ragazzo. Uffa.
Luke si scostò,
«Lui è...
Riyon!».
Capelli neri, pelle
abbronzata, occhi grigio azzurri... Il ragazzo dell’aeroporto! Yvy si lasciò
sfuggire un gemito.
«Ciao Miss
Sconosciuta!»,
ridacchiò lui.
Leo li guardò confuso,
«Voi
vi conoscete?».
«No»,
ringhiò Yvonne.
«Riyon, lei è
Yvonne Kanay».
La ragazza fulmino Luke con
lo sguardo.
«Così ti
chiami Yvonne... Bel
nome!».
«Lui
è...», Leo indugiò un
po’, «Riyon Share».
«Piacere,
ciao!», Yvonne gli sbatté
la porta in faccia, seccata.
«Ehi!»,
protestò Luke.
Lei rimase appoggiata alla
porta per qualche istante, trattenendo il fiato. Quando
sentì dei passi
soffocati dalla moquette allontanarsi, si ricordò di
respirare.
Si gettò sul letto,
sfinita.
Le molle della rete scricchiolarono nonostante il suo peso fosse
leggero. Non
era come la comoda amaca che aveva in camera sua in Guinea-Bissau.
Sospirò. La
Guinea-Bissau.
L’Africa. Quanto le mancavano.
Angolo
Autrice
Vorrei ringraziare tutti quello che seguono la mia storia, in
particolare Liuby e Nessie.
Desidererei che chi legge commentasse, mi piacerebbe
sapere il suo parere in merito al mio racconto.
Bacioni a tutti
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