Light Sisters

di MaryLouise
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I. Partenze ***
Capitolo 3: *** I.2 ***
Capitolo 4: *** I.3 ***
Capitolo 5: *** I.4 ***
Capitolo 6: *** I.5 ***
Capitolo 7: *** I.6 ***
Capitolo 8: *** I.7 ***
Capitolo 9: *** I.8 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



Light Sisters

In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.

Dio disse: «Sia luce!». E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno.

GENESI 1, 1-5

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Capitolo 2
*** I. Partenze ***


I. Partenze

Yvonne si sdraiò sulla calda sabbia dorata. Ascoltò il rumore della risacca del mare e chiuse gli occhi. Le poche nuvole, bianche e soffici, si scostarono e gli ultimi raggi di sole le illuminarono la pelle color cioccolato, producendo sfumature nocciola. Essa era liscia e morbida, senza alcuna imperfezione. Sciolse i capelli color ebano, liberandoli nella calda sabbia africana.

Rimase in quella posizione per alcuni minuti. Adorava Moonlight Beach, vi andava ogni volta che voleva stare sola. Lì rifletteva, in compagnia del mare. La spiaggia era una piccola baia sabbiosa sulla costa della Guinea-Bissau, affacciata sull’Oceano Atlantico. Era a cinquecento metri dal villaggio; situato a pochi chilometri da Bolama, città principale della regione omonima. Una minuscola mezzaluna, lunga circa venti metri. Il mare era limpido, azzurro tendente al blu sempre più scuro, mano a mano che ci si allontanava dalla terra ferma. La sabbia era tiepida e dorata, scottava solo nelle ore più calde del giorno. Era formata da minuscoli granelli e da piccoli frammenti di conchiglie, che la marea portava a riva. Un piccolo gruppo di rocce formava un modesto promontorio, di circa cinque metri. Un leggero muschio era cresciuto sulle pareti rocciose bagnate dal mare e non illuminate dalla luce solare. Verde e viscido. Era l’unica cosa che non le andava a genio, in quell’incredibile spiaggetta. Negli scogli si erano formate delle pozze d’acqua stagna. Yvonne le adorava. Ad ogni marea andava lì e vi trovava sempre qualcosa di nuovo ed interessante. Una stella marina, un piccolo pesce, un mollusco, una conchiglia mai vista. Quando poi l’acqua delle pozze evaporava, lasciava sempre un residuo di sale attorno alle pareti rocciose. Molte persone del suo villaggio andavano lì per raccoglierlo ed usarlo per cucinare pietanze squisite. Una delle sue preferite era lo Zighinì; spezzatino di carne piccante cotta con cipolla e pomodoro.

Le piaceva molto anche quando, con i suoi amici, si radunavano in spiaggia. Cantavano, ballavano e mangiavano pesce appena pescato, cotto alla trappeur. La legna di quella spiaggia prendeva fuoco in fretta. Era totalmente sbiancata e levigata dall’acqua del mare, cosicché, quando ardeva, produceva fiamme dal colore bluastro. Le sfumature variavano spesso, molto più di un fuoco normale; andavano dal verde chiaro per poi sfumare: verde, verde bottiglia, verde scuro, blu scuro, blu, blu chiaro, indaco, azzurro cielo, azzurro chiaro. Il fuoco. Si ricordò di quando era piccola. Aveva circa otto anni ed insieme agli altri bambini raggiungeva il Saggio sotto il grande baobab. Lì, l’anziano signore raccontava storie ogni sera. Erano moltissime, andavano dalla creazione del villaggio alle fiabe per bambini. La preferita di Yvy era la leggenda delle Creazione della Luce. Uthomep, il grande Dio Supremo, aveva creato il mondo. Ma il pianeta era circondato dalle tenebre più assolute, così un giorno, maneggiando il fuoco, una scintilla schizzò sul polpastrello di Uthomep producendo una luce forte e allo stesso tempo fievole. Il Dio Supremo allora, moltiplicò quella scintilla magica, e fuse quelle minuscole lucine insieme, formando una grande stella, il Sole. Il sole portò la luce sul pianeta Terra e tutti gli uomini ne furono felici. Uthomep affidò dunque la luce al figlio Masak e le tenebre al figlio Demek. Da allora, sono loro che regolano l’equilibrio tra Luce e Buio. Yvy aveva sempre avuto una passione per la Luce. Amava soprattutto gli elementi naturali che producevano luce, come il sole, la luna e le stelle. Le sue preferite erano da sempre le stelle. Puntini luminosi così minuscoli, era strano che tutti vi ci si affidassero i propri desideri. Producevano una luce soffusa, di color argenteo e formavano costellazioni che lei conosceva a memoria da quando aveva cinque anni. Era stato il Saggio ed insegnargliele.

Si mise a sedere, agitando i folti capelli mossi per liberarli dalla sabbia. Gli ultimi secondi di luce stavano svanendo. Il cielo era color ocra e le nuvole sfumavano dal rosa pallido al violetto. Sorrise amaramente. Era difficile separarsi dall’Africa. Avrebbe voluto rimanere lì, nella sua terra natale, ma come le aveva già spiegato sua madre, c’era in ballo il suo futuro. Era sempre stata la miglior studentessa di tutta la Guinea-Bissau. Sua madre e lei avevano lavorato duramente per mettere da parte qualche soldo per l’università. Poi Yvy aveva ricevuto la borsa di studio e si era iscritta ad Oxford. In Inghilterra! Le sembrava un sogno. Lei voleva diventare veterinaria. Aveva sempre amato gli animali e poi al suo villaggio avevano bisogno d’un veterinario. Yvonne Kanay sarebbe stata una delle poche ragazze africane ad andare alla Oxford University! Le sembrava impossibile, ma era la pura realtà. Eppure era così difficile separarsi dall’Africa. Dalla Guinea-Bissau, dal suo villaggio, da sua madre, dai suoi amici, dal vecchio Saggio ed il suo baobab e anche da Moonlight Beach.

Si sentì in lontananza un lontano rullo di tamburi. Poi il rumore lento e regolare della musica di inizio cerimonia. La festa d’addio del suo villaggio stava per cominciare. Si sistemò la camicia a rete di lino grezzo. Il costume marrone era a posto. Si rassettò i capelli e sistemò i suoi pantaloni color mogano a sbuffo. Poi corse via, al villaggio.

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Capitolo 3
*** I.2 ***



Erano le otto del mattino. Ad Oxford non si muoveva una foglia. O meglio, si muoveva, mossa dal vento impetuoso e dalla pioggia scrosciante. Lore correva nell’erba del parco, a piedi nudi. I ciuffi verdi e umidi le solleticavano la pianta del piede, mentre i goccioloni d’acqua le scivolavano lungo i contorni del suo corpo spigoloso.

Si fermò, scuotendo la testa per liberarsi dell’acqua che le impregnava i capelli castani. Si specchiò in una grossa pozzanghera ai suoi piedi. Capelli castani e spettinati, occhi verdi. Zigomi alti e mento leggermente triangolare. Corpo magrissimo dai contorni marcati e spigolosi. Questa era Lore, questa era lei. Le gocce di pioggia infrangevano la limpidità dell’acqua stagnante, facendo prendere alla sua figura riflessa forme stranissime. Sorrise e riprese a correre.

Arrivò a casa in dieci minuti, concludendo il suo giro di corsa quotidiano. Entrò in casa, gocciolante.

«Lorelain Hoods! ».

La sua sofisticata madre comparve sulla soglia della cucina. Capelli biondi e immancabilmente cotonati, occhi verdi come i suoi. Era bassa e rotondetta, tutto il contrario della figlia.

«Ciao mamma», salutò lei, seccata.

«Guarda quant’acqua! Il mio povero parquet nuovo! S’imbarcherà di sicuro!», si lamentò.

Lorelain sbuffò, alzando gli occhi al cielo, «Sono quattro gocce in croce, mamma... Prendi la spugna e vedi che andranno via».

«Potevi asciugarti prima di venire in casa! Potresti prenderti un malanno! ».

«Mamma... Non ho un raffreddore da quando avevo dieci anni, sai che ho una salute di ferro! ».

«Dicono tutti così», commentò l’altra, «Comunque potresti dormire di più, fa bene alla pelle; la rende luminosa».

Lore sospirò; sua madre e i suoi odiosi consigli di bellezza, «Chi dorme non piglia pesci mammina», sbottò.

«Sei proprio un maschiaccio... A che ora ti sei svegliata oggi? », cambiò discorso, rimproverandola.

«Sei e mezza», rispose la figlia, fiera.

«Ma è domenica! Alla tua età mi svegliavo a mezzodì! », la rimproverò la madre.

«Ma tu vivevi nella Preistoria», si lasciò scappare.

La madre la guardò torva. Lore non la sopportava quando faceva così. Aveva cinquant’anni e si considerava ancora una ragazzina. Cercò di sorridere, impacciata, per celare la sua espressione compassionevole verso la madre.

«Vai a lavarti, su! », ordinò l’altra.

In effetti, era un ammasso d’acqua e fango. Ridacchiò sotto i baffi, «Heil Hitler! », esclamò, facendo il saluto nazista.

«Perché ho una figlia così? », borbottò sua madre, tornando in cucina.

Un odore di frittura la travolse a metà scala. Non se n’era ancora accorta, sua madre stava cucinando fish and chips.

«Fish and Chips! », esclamò correndo in cucina.

Sua madre la guardò stupefatta, mentre lei le schioccava un bacio sulla guancia.

«Dai... Vai a lavarti», le sussurrò leggermente imbarazzata.

Lei obbedì, fiondandosi in bagno.

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Capitolo 4
*** I.3 ***


«Buongiorno oxfordiani! Sono le dieci di domenica 31 agosto! E’ una bellissima giornata ed io vi aiuterò a svegliarvi con la musica di Radio Ox!», la voce squillante dello speaker entrò nei padiglioni auricolari della povera ed assonnata Kim.

«Mmm...», si lamentò con voce impastata.

La canzone risuonò nella camera. La ragazza diede un colpo alla sveglia, «Stupida radio», commentò, «Che caspian di nome è Radio Ox?»

Sua madre probabilmente aveva spolverato il suo comodino, impostando per sbaglio la sveglia. Si mise a sedere, massaggiandosi la nuca con movimenti circolari. Si alzò, spostandosi in bagno. Si armò di spazzola e pettinò gli arruffati capelli biondi che si sistemarono, formando un semplice ma splendido caschetto dorato. Dopodiché rassettò il suo intimo. Era il suo preferito. Era lilla, in seta con inserti in raso viola. Sistemò anche il suo ciondolo, che durante la notte si attorcigliava sempre con il resto della collana. Lo aveva dalla nascita, poiché gliel’aveva regalato la nonna. Era un piccolo medaglione, formato da complicati intrecci d’argento con al centro una minuscola pietra bianca, simile ad un diamante. Era un diamante? Strinse le spalle. Si lavò accuratamente la faccia e scese in cucina.

Sua madre era ai fornelli, come sempre. Era una donna alta, magra e slanciata, proprio come la figlia. I capelli erano un po’ più lunghi dei suoi, biondi e mossi mentre gli occhi erano verdi. Gli occhi di Kimberly invece, erano azzurro cielo, come quelli del padre.

«Buongiorno dormigliona», la salutò.

«E’ colpa tua se mi sono svegliata», l’accusò la figlia, insofferente.

Sua madre la guardò sorpresa, «Perché?».

«Lascia perdere», con un gesto, Kim liquidò la faccenda.

Si sedette al piccolo tavolino in formica, aspettando pazientemente che sua madre le servisse la colazione. Puntualmente, la servì, con qualche biscotto al cioccolato e una tazza di latte fumante.

Giocando con una ciocca dei suoi capelli dorati, immerse svogliatamente il primo biscotto nel liquido bianco e tiepido. Continuò a rigirarsi i capelli tra l’indice, aiutandosi con il pollice, immersa nei suoi pensieri. La cucina sprofondò nel silenzio più assoluto, rotto solo dal soffuso girare di un cucchiaio di legno lungo la superficie di vetro di una ciotola. Sua madre stava facendo una torta.

«Buongiorno!», la porta s’aprì, lasciando intravedere Casey, l’esuberante sorella quindicenne di Kimberly. Aveva lunghi capelli biondi, raccolti in una spettinata  coda di cavallo ed occhi verdi, come la madre. Era molto più piccola della sorella, che alla sua età aveva superato il metro e settanta.

Kim sussultò, ed il biscotto le cadde nella tazza, colma di latte.

«’Azzo», imprecò sottovoce, mentre il povero biscotto tondo s’impregnava di liquido e sprofondava negli abissi lattiferi della tazza. La ragazza immerse sgraziatamente le dita nel latte caldo, per salvare il disgraziato biscottino.

Sua sorella s’avvicinò saltellando al tavolo.

«Per colpa tua dovrò fare la rianimazione bocca a bocca a questo sciagurato», accusò.

Casey ridacchiò, «Ah sì? E come pensi di farla?»

Kim si ficcò in bocca il biscotto intero, «’Osì!», disse a bocca piena, tra le risate della sorella minore.

La maggiore s’alzò dal tavolo, poggiando la tazza sporca nel lavandino. Strascicava i piedi, era stanca, nonostante si fosse appena alzata. Probabilmente, sebbene si fosse lavata, la sua faccia sembrava quella di uno zombie. Sicuramente, pesanti occhiaie le contornavano gli occhi, accentuate da grosse borse. Erano mesi che le aveva. Non riusciva a dormire bene. Era agitata, perché sapeva che sarebbe andata all’Università di Oxford, esattamente il giorno successivo. La tensione era palpabile. Casey la guardò incuriosita, inclinando la testa da un lato, proprio come un cagnolino.

«Ci siamo svegliate con il piede sbagliato stamattina?»

Kim le lanciò un’occhiata truce, con i suoi occhi azzurri.

«Correre fa bene alla salute, mette il buonumore e fa sparire quelle orribili occhiaie... Dovresti farlo anche tu», notò la sorella.

«Taci nanetta», borbottò Kim, in preda ad un improvviso sbalzo d’umore.

Fingendosi offesa, Casey salì atleticamente le scale, diretta in camera sua.

«Nessuno corre più alla mattina nella società moderna... Non si ha tempo!», mormorò tra sé, contrariata.

La giornata che era appena iniziata non era delle migliori.

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Capitolo 5
*** I.4 ***


Le solleticava il palmo della mano. Sei delicate zampine le strusciavano la pelle con delicatezza. Erano i piedini di una coccinella. Fin da piccola Abby avrebbe voluto essere una coccinella. Così semplici e delicate. Con ali leggere e rossicce, quasi trasparenti in controluce, da apparire fragili. Le coccinelle sembravano fragili. In effetti, con una ditata potevi schiacciarle, ma con un fremito d’ali potevano librarsi in aria e volarsene via. Erano molto sensibili, percepivano anche il minimo movimento d’aria. Soffiò delicatamente sul piccolo insetto ed esso volò elegantemente via.

Sospirò, sdraiandosi nell’erba tiepida. Non riusciva a pensare a Farm Cottage senza di lei. Quella fattoria era un pezzo di anima. Lei era nata e cresciuta lì. Non riusciva a capacitarsene; ma tra pochi minuti se ne sarebbe andata. Aveva compiuto diciotto anni da qualche mese ed era stata accettata all’Università di Oxford. Le sembrava un miracolo, eppure i suoi sforzi erano stati ricompensati. Alzò gli occhi verso i rami del grande salice piangente del giardino. Respirava lentamente, movimenti impercettibili muovevano il suo ventre. Osservò attentamente le foglie verdi illuminate dal sole, mentre filtravano la luce calda. Amava il sole. Sua madre le aveva raccontato che quando era nata era uno dei rari giorni in cui l’enorme stella splendeva indisturbata, senza nessuna nuvola intorno. Una giornata come quella. Ma del resto, la campagna gallese non era famosa per le sue giornate di sole. Chiuse gli occhi, lasciandosi trasportare dal fresco venticello del Mar d’Irlanda. Abitava a Little Haven, una minuscola cittadina nella campagna gallese, a pochi chilometri da Haverfordwest.

«Abby!», la squillante voce di suo fratello James interruppe i suoi pensieri.

«Arrivo!», gli urlò in risposta.

Si alzò svogliatamente e attraverso i campi, diretta verso la casa che tanto temeva d’abbandonare.

Giunse sotto lo stretto portico in legno, costruito da suo padre. Era un muscoloso uomo bruno sulla cinquantina.

«E’ arrivato il pullmino, Abigail», la informò sua madre, l’unica che si ostinava a chiamarla con il suo nome di battesimo. Era una donna minuta e rotondetta ma molto graziosa, bionda con gli occhi castano dorati come la figlia.

«La valigia?», chiese parlando al singolare. Non aveva molte cose da portare con sé, né molte cose da lasciare a casa. Avrebbe portato via i suoi pochi vestiti e libri e lì avrebbe lasciato il suo cuore.

«Tuo padre l’ha già caricata», sua madre era una donna forte, ma si notavano gli occhi lucidi, era impossibile trattenere il pianto in quella situazione.

«Mi... Mancherete ragazzi», sospirò Ab, abbracciando i due fratelli minori.

«Anche tu ci mancherai», dissero senz’esitazione. Abigail arrossì violentemente. Affiorarono i sensi di colpa, come al solito. Litigava con i suoi fratelli quindicenni per delle assurdità. Ma in fondo, gli voleva bene.

Si girò e fissò ansiosa il pullmino blu metallizzato, che l’avrebbe portata ad Oxford.

Sospirò e salì le scale. Si sedette nell’unico posto libero rimasto, in fondo, contro il finestrino. Rispose ai saluti dei suoi familiari con un lieve sorriso che nascondeva molta tristezza e malinconia. L’autista piegò verso il basso il freno a mano, appoggiò il piede sul pedale dell’acceleratore e il mezzo partì, sbuffando.

Ciao vita vecchia, benvenuta vita nuova.


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Capitolo 6
*** I.5 ***


Erano le cinque del mattino; aveva viaggiato tutta notte.

Yvy uscì dal Terminal 1, stizzita. L’aeroporto era molto affollato e... puzzava. Ovunque Yvonne percepiva odore di sudore, di chiuso e di sporco.

Si precipitò fuori dall’edificio, verso il parcheggio. Inspirò a pieni polmoni l’aria fredda. Non le andò meglio; era puzzolente e umida. L’umidità le si attaccava addosso, sotto forma di piccole goccioline. Quella non era come la secca, pulita e profumata aria africana.

Chiamò a gran voce un taxi ma il guidatore non la degnò di uno sguardo. Ad Oxford erano pure dei grandissimi maleducati!

Si sedette sconsolata sul marciapiede. Un ragazzo le si avvicinò.

«Posso aiutarti?», chiese.

Lei indietreggiò, cercando di nascondere il suo nervosismo e terrore, «Non parlo con gli estranei».

Lui sorrise, mostrando i denti bianchissimi, «L’hai appena fatto».

Le labbra di Yvonne si curvarono in una smorfia.

Lui sorrise ancora, tendendo la mano destra, «Piacere, io sono Riyon».

«Vattene», disse Yvy con tono piatto.

«Perché?», chiese lui, «Voglio solo aiutarti».

«Ah sì? E poi dove mi porterai e cosa mi farai?».

Lui la guardò sorpreso e la ragazza non poté fare a meno di notare il colore dei suoi occhi. Erano grigio perla, con lievi sfumature d’indaco. Il suo viso aveva una forma leggermente ovale, la sua bocca era piccola con labbra sottili. I suoi capelli erano tagliati molto corti ed a spazzola, il sole produceva delle sfumature dal nero al grigio scuro sulle punte. La pelle era abbronzata e lievemente ambrata. Sembrava di nazionalità indiana, o giù di lì.

Il suo viso s’aprì in un sorriso cordiale. Yvy spostò lo sguardo sui suoi piedi, imbarazzata.

«Come vuoi, ti chiamo un taxi», il suo poderoso braccio s’alzò.

Una vettura nera, tipicamente inglese, s’avvicinò.

Perché a lui prestavano attenzione? Yvonne sentì un leggero brivido di fastidio percorrerle la schiena.

Riyon prese le sue valige e le caricò nel baule, poi elegantemente le aprì la porta, «Prego, Miss Sconosciuta».

Lei salì sui morbidi sedili di pelle del taxi e chiuse il portellone nero e lucido.

Sussurrò velocemente la sua direzione al taxista e partì, lasciando Riyon sul marciapiede bollente, deluso.

 

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Capitolo 7
*** I.6 ***


Abby si sistemò meglio sul rigido sedile del pullman.

Mancava ancora qualche ora al suo arrivo ad Oxford. Era un’intera notte che viaggiava da Welshpool, nella campagna gallese, ad Oxford.

Osservò il paesaggio gallese scomparirle sotto gli occhi mentre attraversava il confine tra Galles ed Inghilterra.

Il sole all’alba illuminava i dolci contorni delle verdi colline inglesi ed una leggera nebbia intaccava i finestrini. Abigail cercò di toglierla, seccata. Ma la nebbia veniva dall’esterno, così alla bionda ragazza non restò che rassegnarsi e guardare il paesaggio collinare che le appariva sfocato, di cui riusciva a distinguere soltanto i versanti.

 

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Capitolo 8
*** I.7 ***


Erano le undici del mattino quando Lore giunse all’Università di Oxford. Era un complesso d’una decina d’edifici in stile moderno, alti e robusti.

Avrebbe dormito in un piccolo dormitorio con altre tre ragazze e quattro ragazzi.. una ragazza normale avrebbe sperato che i ragazzi fossero carini, ma lei no.

Lei non pensava a queste cose, lei era libera, libera come il vento.

Abbracciò la madre ed entrò all’interno dell’edificio. Al piano terra c’erano la cucina ed il salotto, mentre al primo ed al secondo piano le camere delle ragazze e dei ragazzi.

Il salotto era molto semplice, arredato con qualche divano in stoffa, qualche tappeto colorato ed un vecchio caminetto.

Su una poltrona in un angolo era seduta una ragazza dalla pelle color cioccolato. Aveva lo sguardo assente, quasi perso nel vuoto. I riccioli neri le ricadevano sulle spalle, incorniciandole il viso.

«Ciao», sussurrò Lorelain

Lei alzò la testa. Aveva gli occhi neri e le labbra carnose. La pelle scura aveva sfumature dorate. La fronte era alta e liscia, coperta da qualche sottile ciuffo arricciato.

«Piacere sono Lorelain Hoods, ma chiamami Lore»

Lei la guardò, quasi confusa, poi improvvisamente tese la mano, «Yvonne Kanay, piacere», disse piano.

«Vivrai qui?», chiese Lorelain.

Lei annuì.

«Che corso frequenterai?».

Yvonne rispose pronta, «Medicina veterinaria, tu?».

«E’ un corso abbastanza lungo! Io frequenterò Ragioneria».

«Nah, non fa per me, al mio villaggio abbiamo bisogno di veterinari e... ».

«Vieni dall’Africa? ».

Yvonne annuì, «Sono della Guinea-Bissau».

«Com’è là?».

«Bellissimo, siamo sulla costa atlantica», descrisse la ragazza, sognante.

«Carino», commentò Lore senza convinzione.

Yvonne sorrise, «Vieni, ti faccio vedere la tua camera».

Lore la seguì al primo piano. Al centro del pianerottolo vi era un piccolo salottino per studiare, mentre ai lati vi erano quattro stanzette.

«Se ti va bene, questa sarebbe la tua stanza», Yvonne le mostrò la camera di fronte alla sua.

Era piccola, arredata con un letto in legno, un armadio ed una scrivania. Lore estrasse  il suo PC portatile e lo appoggiò sulla superficie liscia e massiccia della scrivania.

«E’ perfetta, grazie», rispose.

Yvonne sorrise, scomparendo dalla soglia.

«Yvonne? », chiamò ancora Lore.

«Sì?».

«I ragazzi sono già arrivati? »>>.

L’altra la guardò maliziosamente, «Solo due, un italiano di nome Leonardo Rossi e uno scozzese di nome Luke Andersen».

Lore sbuffò contrariata e Yvonne ridacchiò.

«Yvonne?».

«Sì?».

«Posso chiamarti Yvy?».

La ragazza dalla pelle color cioccolato s’illuminò in un sorriso, «Ma certo».

 

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Capitolo 9
*** I.8 ***


Yvy rientrò in camera sua. Quella ragazza era proprio simpatica, era certa che sarebbero diventate grandi amiche. Si sdraiò sul letto. Lo zaino stava ai suoi piedi, ma Yvonne non aveva voglia di disfarlo.

Si stiracchiò e qualcuno bussò alla porta.

Sorrise, magari era ancora Lorelain.

Aprì la porta. Erano Leo e Luke. Uffa.

«Ciao Yvonne!», Leo le sorrise allegramente.

«Avete bisogno?», chiese.

«No, ti volevamo solo presentare il nuovo arrivato».

Il NUOVO arrivato. Un altro ragazzo. Uffa.

Luke si scostò, «Lui è... Riyon!».

Capelli neri, pelle abbronzata, occhi grigio azzurri... Il ragazzo dell’aeroporto!  Yvy si lasciò sfuggire un gemito.

«Ciao Miss Sconosciuta!», ridacchiò lui.

Leo li guardò confuso, «Voi vi conoscete?».

«No», ringhiò Yvonne.

«Riyon, lei è Yvonne Kanay».

La ragazza fulmino Luke con lo sguardo.

«Così ti chiami Yvonne... Bel nome!».

«Lui è...», Leo indugiò un po’, «Riyon Share».

«Piacere, ciao!», Yvonne gli sbatté la porta in faccia, seccata.

«Ehi!», protestò Luke.

Lei rimase appoggiata alla porta per qualche istante, trattenendo il fiato. Quando sentì dei passi soffocati dalla moquette allontanarsi, si ricordò di respirare.

Si gettò sul letto, sfinita. Le molle della rete scricchiolarono nonostante il suo peso fosse leggero. Non era come la comoda amaca che aveva in camera sua in Guinea-Bissau.

Sospirò. La Guinea-Bissau. L’Africa. Quanto le mancavano.

Angolo Autrice


Vorrei ringraziare tutti quello che seguono la mia storia, in particolare Liuby e Nessie.
Desidererei che chi legge commentasse, mi piacerebbe sapere il suo parere in merito al mio racconto.
Bacioni a tutti

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