La Morte non piange di Esteliel (/viewuser.php?uid=2773)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un affare da discutere ***
Capitolo 2: *** Il gioco ha inizio ***
Capitolo 3: *** La trappola ***
Capitolo 4: *** Una scacchiera imperfetta ***
Capitolo 5: *** L'ombra della Morte ***
Capitolo 6: *** La Morte non piange ***
Capitolo 7: *** Una vita per una vita ***
Capitolo 8: *** Alter Ego ***
Capitolo 1 *** Un affare da discutere ***
Nota:
Questa storia è presente anche su altri siti, sotto nick
diversi (Alex il più frequente). Sono sempre io. Nonostante
non sia una storia recente, ho pensato di ripubblicarla
per raccogliere opinioni, consigli e così via!
CAPITOLO 1
Un affare da discutere
Pioveva da giorni. Nei brevi momenti di quiete della bufera, il viscido
manto stradale era invaso da una cortina di nebbia ghiacciata. La
natura faceva il suo corso. Non esisteva giorno di fine estate che non
fosse accolto dalla pioggia. Non a Londra. La gente era così
abituata
che girava per le strade anche con quel tempo. La scapestrata
gioventù
dei quartieri meno eleganti della città non rinunciava alla
sua vita
notturna per qualche lacrima d’acqua.
Soho era il luogo di ritrovo
ideale, una zona da cui la stessa polizia avrebbe gradito girare al
largo. Le macchine della guardia notturna la attraversavano solo per
onorare il loro forte senso del dovere, ma si limitavano a pattugliare
le vie principali e si convincevano che, tutto sommato, era un
quartiere a posto. Escludendo i locali di spogliarello che permettevano
l’uso della merce esposta oltre alla sua visione; escludendo
gli
innocui banchetti di spacciatori che si sistemavano negli angoli bui
dei crocicchi minori e i covi in cui gente di ogni età ed
etnia sedeva
a piccoli tavoli rotondi, trattando di omicidi e ricettazioni fra un
bicchiere di whisky e una partita a poker.
In uno di questi circoli, dall’innocente nome di Alter
Ego,
gruppetti di uomini che non avevano nulla da fare e nulla da perdere si
erano ritrovati quella sera dannatamente piovosa e umida. Due di questi
uomini erano ancora in attesa della persona con cui avrebbero dovuto
discutere il loro piccolo affare. Un’attesa che si stava
prolungando
più del dovuto.
«Non verrà» sentenziò uno dei
due, mescolando un mazzo di carte.
Le mani gli tremavano così tanto che le carte gli caddero
ben due volte
durante l’operazione. Teneva la testa china e gli occhi fissi
sulle sue
mani in concitata attività. Il sudore gli imperlava la
fronte alta e
gli colava fino alla punta del lungo naso.
«Lo hai già detto dieci minuti fa, Jeff»
replicò l’uomo di fronte a lui.
Si raddrizzò sulla sedia, sprofondando le spalle larghe
contro il suo
schienale. Si sforzava in tutti i modi di mantenere
un’apparenza di
calma, sebbene i suoi occhi di un azzurro molto scuro lanciassero
frequenti occhiate alla porta di ingresso.
«Avevano detto che era preciso» insisté
Jeff, senza sollevare lo sguardo dalle carte sparse sul tavolo.
«Avrà avuto un contrattempo. Ora asciugati quella
faccia, sembri un maiale sudato.»
Jeff lasciò le carte e si frugò nella tasca dei
pantaloni, in cerca del
suo fazzoletto. Se lo passò frettolosamente sul viso.
«Sei certo che accetterà, Steve?»
«Come faccio ad esserne sicuro, pezzo di idiota!»
sbottò Steve.
«Qualcuno ha riferito al capo che è un
professionista, non fa domande e
scompare a lavoro fatto. Mi è sembrato che valesse la pena
provare.»
Raccolse le carte e se le rigirò fra le mani, disgustato.
«A volte sei davvero schifoso. Tieni, distribuiscile
tu.» Mollò le carte umide di sudore nelle mani
malferme dell’altro.
L’orologio dietro il bancone batté le undici, ma
l’Alter Ego
non accennava a svuotarsi. A differenza di altri, non era un locale
particolarmente osceno. I tavoli erano occupati per la maggior parte da
elementi maschili solo perché la sera era solitamente
consacrata ai
giochi di carte e agli “affari”. Le poche signore
presenti erano
accompagnatrici o cameriere. L’arredamento era essenziale, ma
le luci
soffuse attaccate alle pareti e la sua reputazione conferivano a quel
posto l’aria di un vecchio Saloon.
«E se l’avessero preso?»
domandò ancora Jeff in un soffio agitato.
Steve parve ignorarlo. Prese due delle cinque carte che aveva in mano e
le sbatté sul tavolo. Barba e baffi gli fremettero di
collera.
«Chiudi il becco e dammi due carte.»
Jeff obbedì, stropicciando un po’ le carte in cima
al mazzo per riuscire a staccarle.
«Credo che prenderò dell’altro
gin.»
«Io credo di no» lo ammonì Steve.
«Dobbiamo essere entrambi sobri, quando
arriverà.»
Jeff aprì la bocca per protestare, ma la richiuse subito.
Avrebbe
voluto dire “se arriverà” o
“ormai non verrà più”, ma le
rughe di
irritazione che avevano iniziato a solcare la fronte del compare lo
convinsero a desistere.
Kevin, il barista, tornava in quel momento
dal retrobottega. Raggiunse il suo posto dietro il bancone e depose a
terra una cassa di birre, sbuffando. Qualche minuto dopo alcune note
leggere risuonarono nel locale e molte teste si girarono di scatto in
contemporanea verso l’angolo dove era situato il piccolo
palco. Alcuni
infilarono meccanicamente una mano all’interno della giacca.
Jeff saltò
sulla sedia, facendo cadere a terra il suo tris di dieci.
Nessuno
si era accorto che una figura era salita silenziosamente sul palco e
aveva imbracciato la chitarra appoggiata contro il muro. Tutti gli
sguardi erano ora puntati su quell’uomo, che in
verità non aveva nulla
di eccezionale. Aveva abbandonato il suo cappotto
all’estremità del
bancone, da cui aveva presto in prestito uno sgabello per trascinarlo
fin sul palco. Rimasto in jeans e maniche di camicia,
appoggiò una
scarpa sullo sgabello e iniziò a pizzicare con indolenza le
corde dello
strumento. Un ciuffo di capelli neri gli copriva gli occhi, le sue
spalle massicce erano piegate in avanti. Dopo i primi accordi, scosse
la testa e raddrizzò la schiena. Ora che i suoi occhi erano
liberi
dalla chioma, si poteva notare che li teneva chiusi. Le sue mani
dall’aspetto duro si muovevano con sicurezza. Una melodia
malinconica
prese a vibrare nell’aria. Strideva veramente tanto con quel
posto, ma
i presenti la accolsero con un misto di indifferenza e
curiosità.
Steve sollevò un sopracciglio e fissò la sua
attenzione altrove. Molti
degli astanti fecero altrettanto, ripiombando nelle loro precedenti
attività. Fu solo quando lo sconosciuto iniziò a
cantare che
l’attenzione di tutti fu nuovamente e definitivamente
calamitata su di
lui.
Una voce bassa e profonda quanto le viscere della terra, rassicurante e
terribile.
Death doesn’t cry.
Get rid of trouble and ignore pain.
Unexpected come and strike,
unpitifully,
unremorsefully.
Take your life and turn back
into shadows,
his Realm.*
Al ritornello si susseguirono lunghe strofe che cantavano
l’azione
liberatrice e crudele della Morte. Di tanto in tanto una nota
improvvisa rompeva il ritmo dimesso della canzone e colpiva i presenti
come un colpo di frusta, come il soffio stesso della morte. Molti
rabbrividirono senza riuscire a distogliere le orecchie da quella voce.
Le mani di Jeff tremavano più che mai e persino Steve teneva
gli occhi
chiusi con forza. I volti delle poche donne presenti guardavano
adoranti verso il palco.
Il sedicente cantante non volse lo sguardo
alla sua platea nemmeno una volta. Sembrava quasi che si crogiolasse
nell’atmosfera rapita e terrorizzata che causavano le sue
note. La sua
voce si spense su un’ultima nota e la musica tacque.
Nell’istante
in cui le parole cessarono, Kevin camuffò un sospiro con un
colpo di
tosse e riempì un bicchiere con del liquido trasparente, dal
quale si
sprigionò subito una densa nuvola di vapore. Lo
lasciò sul bancone,
accanto al cappotto, e tornò alle sue faccende, aprendo la
cassa di
birra il più rumorosamente possibile. Il cozzare del vetro
delle
bottiglie riscosse i gentiluomini presenti, che voltarono le spalle al
palco con una serie di borbottii irritati.
«Allora, metti giù le tue carte, sì o
no?» brontolò Steve.
Jeff lasciò cadere le sue carte come se si fosse scottato e
poi si
portò una mano al taschino, estraendo un pacchetto di
sigarette che
aveva tutta l’aria di essere stato compresso da una mano
nervosa.
Mentre lui estraeva a fatica una sigaretta dal pacchetto malmenato,
Steve girò la sua misera coppia di regine e
imprecò ad alta voce. Chinò
la testa ed iniziò a mischiare le carte con gesti talmente
stizziti che
sembrava che ognuna di esse gli avesse fatto un torto personale. Jeff,
invece, si era appoggiato contro lo schienale alto della sedia; era
appena riuscito a portarsi una sigaretta alla bocca, quando i suoi
nervi vennero messi nuovamente alla prova dall’entrata nel
suo campo
visivo di un cappotto, che qualcuno aveva lanciato sulla spalliera
della sedia libera tra lui e Steve.
Un secondo dopo una mano
portava un accendino all’altezza del naso di Jeff e ne faceva
scattare
la pietra focaia. Colto alla sprovvista, il poveretto si ritrasse sulla
sedia, riuscendo a trattenere la sigaretta con i denti.
Steve alzò la testa di colpo e si ritrovò, suo
malgrado, a sgranare gli occhi.
«Sei il tizio della canzone.»
Non aveva notato per niente i suoi spostamenti.
«Sono il tizio della canzone» confermò
il nuovo venuto.
Appoggiò con cautela il suo bicchiere, che teneva dal bordo,
poiché
evidentemente la bevanda, qualsiasi cosa fosse, doveva essere molto
calda. L’altra mano reggeva ancora l’accendino, la
cui fiamma stava
ormai per estinguersi.
Steve sollevò un sopracciglio, scoccando poi
a Jeff un’occhiata severa. Il compare la
intercettò e annuì, come se si
stesse imponendo da solo di darsi una calmata. Dopo aver deglutito a
forza, trattenne la sigaretta con la mano, si avvicinò e
aspettò che lo
sconosciuto facesse scattare nuovamente la pietra focaia. Appena uno
sbuffo di fumo segnalò l’accensione del tabacco,
Jeff si ritirò. La
sorpresa gli aveva attaccato la lingua al palato, cosicché
non poté
neanche ringraziare, se mai avesse avuto intenzione di farlo.
L’uomo non parve offeso. Conservò
l’accendino nella tasca dei jeans e
si accomodò sulla sedia dove giaceva il suo cappotto. Con
tutta la
calma di questo mondo prese il suo bicchiere e iniziò a
sorseggiare.
«Questo posto è occupato» lo
avvertì Steve.
«Lo era» rispose l’uomo, riappoggiando il
bicchiere sul tavolo senza produrre il minimo rumore. «Per
me.»
Steve aggrottò la fronte, fissandolo accigliato per diversi
istanti,
prima di capire che quello era l’uomo che lui e Jeff avevano
aspettato
per tutta la sera. Si esibì in un cauto
«Oh» e mise via le carte in un
angolo del tavolo. Jeff iniziò a tossire, ma nessuno dei due
gli prestò
attenzione. Steve era impegnato a studiare il volto dell’uomo
accanto a
lui. Il suo viso, come le sue mani, aveva qualcosa di duro e aggraziato
allo stesso tempo. La sua nuca era nascosta da folti capelli neri, un
ciuffo dei quali gli ricadeva sulla fronte. I suoi occhi erano
d’un
castano molto chiaro, ma né il suo sguardo né
l’espressione ferma del
suo volto emanavano calore. Le guance erano ruvide di barba non rasata.
Steve gli poté dare tra i trenta e i quarant’anni,
senza tuttavia
riuscire a decidere se fosse più vicino agli uni o agli
altri.
Guardandolo intensamente, si aveva la vivida ed inquietante impressione
di trovarsi faccia a faccia con una tigre che scruta da lontano la sua
preda.
«Ho saputo che volevate parlarmi.»
Solo allora Steve
si rese conto che lo stava fissando come un idiota. Emise un lieve
colpo di tosse per darsi un contegno. Durante l’attesa aveva
pensato a
qualche commento stizzito da riservare al loro ritardatario ospite, ma
in quel momento tutte le frasi che gli si formavano nelle mente
scivolavano via un attimo dopo. Deglutì a vuoto, decidendo
di andare
subito al sodo.
«Abbiamo un affare da affidarti.»
Scoccò
una nuova occhiata a Jeff, che appoggiò la sigaretta quasi
integra sul
posacenere al centro del tavolo e annuì un paio di volte.
«C-ci hanno detto che sei un professionista.»
Il loro interlocutore non sembrò aver niente da ribattere.
«È il genere di lavoro cui sei abituato»
proseguì Steve. «Ecco, questo è
lui.»
Tirò fuori dall’interno della giacca una
fotografia piegata in due, la
appoggiò sul tavolo e la fece strisciare sulla sua
superficie, in
direzione dell’uomo. Questi non la degnò neanche
di uno sguardo,
continuando a tenere i suoi occhi felini fissi su Steve.
«Abita al 312 di Humpty High. Ma la casa è super
protetta. Potresti…»
«Lascia risolvere a me questo problema» lo
interruppe l’uomo.
Aprì pigramente la foto e la osservò per qualche
istante, prima di
richiuderla e rimetterla sul tavolo. Steve e Jeff attesero in silenzio,
quasi trattenendo il respiro.
«Walter J. Coughly» sentenziò infine
l’uomo, sollevando lo sguardo dalla foto per posarlo a turno
sui due,
che annuirono contemporaneamente.
Steve aveva la risposta pronta.
Se l’uomo gli avesse chiesto altre informazioni o, peggio, il
motivo,
lui avrebbe dovuto scartarlo. E scartarlo avrebbe implicato di
conseguenza la sua sparizione. Jeff aveva iniziato a tamburellare con
le dita sul tavolo e ora anche la fronte di Steve luccicava di una
patina di sudore.
Il loro ospite allungò una mano verso il suo
bicchiere e bevve lentamente un altro sorso. Sembrava divertirsi a
creare tensione. Si rigirò il bicchiere fra le mani, con lo
sguardo sul
liquido trasparente all’interno. Dopo un paio di minuti di
riflessione,
inclinò la testa in avanti, in un tacito assenso.
Steve si sentì
spiazzato. Quell’uomo aveva riconosciuto Walter Coughly, non
poteva
ignorare che si trattava di un pezzo grosso. Avrebbe dovuto sapere che
era protetto ventiquattr’ore su ventiquattro e che anche solo
avvicinarlo si sarebbe rivelato molto rischioso. Gli sovvenne
l’improvviso dubbio che quell’uomo fosse pazzo; ma
gli avevano
assicurato che era in gamba nel suo mestiere, perciò
cercò di scacciare
quel pensiero. Si disse che, anche se fosse stato realmente pazzo, per
lui non contava. L’importante era che avesse accettato
l’incarico e lo
portasse a buon fine. La questione era talmente urgente che non poteva
nemmeno permettersi di discutere il prezzo.
«Ottocento sterline» mormorò
l’uomo, con l’aria di chi fa una gran concessione.
Steve deglutì, ignorando Jeff, la cui bocca si era
spalancata in maniera a dir poco comica.
«Quasi tutti i giorni va al White Rose Garden. Mai da solo.
Si
intrattiene a parlare con chiunque incontra»
riferì precipitosamente
Steve, quasi temesse che l’altro potesse cambiare idea.
Al contrario, emise un verso indecifrabile e continuò a
rigirare il bicchiere tra le mani.
«Avrai un anticipo, naturalmente» si
affrettò ad assicurargli Steve,
non sapendo come interpretare il suo apparente disinteresse.
L’uomo
sorseggiò un altro po’ del liquido trasparente che
aveva nel bicchiere
e lo posò sul tavolo. Sembrava talmente immerso nei suoi
pensieri che
Steve temette che non lo avesse udito.
«Trecento sterline» ribatté invece,
alzando lo sguardo.
«È andata» rispose immediatamente Steve,
trattenendo a stento un
sospiro di sollievo. «Li lascerò a Kevin. Lui ci
fa da contatto.»
Il loro ospite si alzò, si infilò il cappotto e
si aggiustò le maniche.
Dopodichè prese la fotografia, la piegò
un’altra volta e se la infilò
in una tasca. Stava per voltare loro le spalle, quando Steve lo
richiamò e Jeff mugolò il suo disappunto.
«Come dobbiamo chiamarti?»
L’uomo si sollevò il colletto del cappotto e
rimise sotto il tavolo la
sedia che aveva usato con una lentezza che Steve trovò
irritante. «La
gente» - replicò in tono atono, con
un’ultima occhiata ai due - «mi
chiama Thanatos.»
Senza aggiungere altro, si infilò le mani in tasca e
puntò verso la porta del locale.
«Thanatos?» ripeté Jeff, dopo essersi
assicurato di averlo visto uscire. «Che razza di nome
è?»
Steve si strinse nelle spalle e si adagiò sulla sedia con un
verso
stanco. Jeff guardò tristemente la sua sigaretta ormai
consumata e poi
afferrò il bicchiere mezzo pieno che Thanatos aveva
lasciato,
portandoselo con avidità alle labbra. Ne aveva bevuto appena
un sorso,
quando iniziò a sputacchiare.
«Questa è acqua calda!»
protestò.
Steve sollevò su di lui uno sguardo vacuo e stupito.
*
La Morte non piange. / Elimina le pene e ignora il dolore. / Giunge
all’improvviso e colpisce, / senza pietà, / senza
rimorso. / Prende la
tua vita e torna / nelle ombre, / suo Reame.
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Capitolo 2 *** Il gioco ha inizio ***
Il White Rose Garden
era un piccolo parco nel modesto quartiere di Hire’s. Sui due
lati era
fiancheggiato da una serie di edifici tutti uguali, divisi in
appartamenti a malapena decenti. Era un posto tranquillo, la gente
onesta che vi abitava tendeva a badare solo ai fatti propri. Walter
Jasper Coughly era particolarmente legato a quel parco. Quando era
piccolo, andava spesso lì a giocare con i suoi amici: questo
era ciò
che rispondeva alle insistenti raccomandazioni dei suoi assistenti. Un
uomo importante, lui, ammirato dalla maggioranza dei londinesi e odiato
da quella parte che, invece, trafficava nell’ombra. Negli
anni in cui
era stato capo di Scotland Yard era riuscito a dare del filo da torcere
persino ai pezzi grossi della criminalità, che orbitavano
nei vari
quartieri di Londra.
Costretto ad andare in pensione a causa di
una difficoltà di deambulazione, non aveva smesso di offrire
il suo
aiuto alla città che tanto amava. Il suo braccio, come
quello del
peggiore dei boss, arrivava dappertutto. Un patrimonio non indifferente
gli garantiva ora una casa lussuosa e la protezione di un manipolo di
guardie del corpo. Il “vecchio generale”, come era
affettuosamente
chiamato, manteneva il carisma di sempre. Tuttavia, il trascorrere
degli anni e le fatiche di un lavoro a continuo contatto con la morte
l’avevano segnato.
Mentre camminava per i viottoli del suo parco
prediletto, appoggiato ad un pesante bastone e accompagnato da vicino
da una guardia e da un occhialuto assistente, si guardava intorno con
un sorriso gioviale. Diversi passanti lo salutavano con calore e
qualcuno di loro si fermava a fare due chiacchiere. I loro sguardi
nervosi si riflettevano negli occhiali a specchio della guardia del
corpo, che si manteneva a due, massimo tre passi di distanza da Coughly.
Il cielo aveva concesso una tregua all’umida Londra e un sole
pallido
si stava innalzando piano sulla linea dell’orizzonte. Il
riverbero
della luce si soffermava a giocare tra le fronde degli alberi del parco
e colorava i volti della gente di un leggero verde bottiglia. Quei
primi giorni di settembre stavano ormai celebrando la fine
dell’estate
con frequenti raffiche di vento frizzante.
Walter Coughly si era
tolto l’impermeabile all’entrata del parco e ora lo
portava ripiegato
sul braccio libero, mentre con l’altro impugnava il bastone.
La sua
presa era talmente salda che avrebbe potuto spaventare un eventuale
assalitore solo brandendo in aria il suo appoggio.
Questo pensiero
fece sorridere Thanatos. Era seduto a terra, con la schiena appoggiata
al tronco di una grande quercia e le ginocchia, su cui era posato un
taccuino, ripiegate verso il petto. Accanto a lui giaceva il suo
cappotto. Sulla pagina del taccuino si intravedeva uno schizzo del
volto di Coughly; non come lo si vedeva ora, ma molto più
giovane. In
un angolo del foglio erano appuntate una decina di note musicali e, al
di sotto, alcune iniziali:
W.J.C.
T. D.
La mano che reggeva la matita era sospesa a mezz’aria, gli
occhi del
suo proprietario guizzavano da Coughly all’uomo seduto in
panchina poco
oltre il punto dove lui si era fermato. Il suo sguardo era fisso, non
scorreva sul giornale che teneva aperto al di sotto della linea del suo
naso. Thanatos aggiunse qualche tratto al volto disegnato e poi
sollevò
nuovamente lo sguardo, puntandolo su una coppia abbracciata che
ridacchiava presso un albero ad un centinaio di metri da Coughly. Lei
non faceva altro che guardare oltre le spalle del suo compagno, verso
l’ex-capo della polizia.
Il sorriso spuntò di nuovo. Un sorriso
tirato, quasi compassionevole. Quasi triste. Sotto al volto sul
taccuino appuntò un piccolo quattro.
«Dobbiamo ringraziare solo lei
se ora i negozianti di questo quartiere possono finalmente fare in pace
il loro onesto lavoro» sentenziò un ometto che
aveva bloccato Coughly
qualche minuto prima e ora gli stava stringendo la mano.
«È il mio lavoro, amico mio. Anzi, lo era
» rispose Coughly con una risata un po’ amara.
«Certo, certo» riprese l’uomo,
sventolando la mano con fare noncurante.
«Ma lei l’ha fatto bene il suo lavoro, ecco.
Qualcun altro se ne
sarebbe lavato le mani.»
«Lei è molto gentile», Coughly si
esibì in
un mezzo inchino di ringraziamento. «Ma confido che la
polizia fa del
suo meglio, sempre.»
Il suo interlocutore sembrava essere di
tutt’altro parere, ma ebbe il buon gusto di restare zitto.
Strinse
un’ultima volta la mano di Coughly e gli augurò
ogni bene, prima di
allontanarsi.
Coughly continuò la sua passeggiata, inoltrandosi in
una macchia di alberi. Poco dopo la sua voce e quella del suo
assistente si affievolirono. La coppietta si divise e lo
seguì da due
direzioni opposte. L’uomo seduto in panchina
ripiegò il suo giornale e
sollevò una mano verso la tempia per ravviarsi i capelli.
Thanatos
rimase seduto presso la quercia. Chiuse il taccuino e lo
posò sul
cappotto. Poi si portò le mani dietro la testa e
inarcò la schiena
contro il tronco. Socchiuse gli occhi, continuando a perquisire i
dintorni attraverso il sottile varco tra le palpebre. Esattamente di
fronte a lui c’era un palazzotto non troppo alto;
poté contare quattro
piani. La facciata esterna era di un color biscotto con qualche
striscia più scura, là dove la pioggia aveva
creato depositi di
umidità. Le sue mani scivolarono verso il taccuino dove
appuntò quel
dettaglio, sulla stessa pagina del disegno.
Da dove si trovava,
però, non riusciva a leggere il numero civico del palazzo.
Così si
alzò, raccolse il suo cappotto e si incamminò
verso l’uscita del parco.
Percorse un tratto di marciapiede su Armory Street
all’esterno del
parco, per tornare al punto preciso in cui si trovava. Voltò
il capo
per individuare la grande quercia. Il semaforo non era funzionante,
all’interno della sua lanterna lampeggiava il pedone giallo.
Thanatos
lanciò un’occhiata alla strada trafficata e si
posizionò sul bordo del
marciapiede, in paziente attesa. Teneva il cappotto dietro la schiena,
reggendolo con le dita della mano destra, la sinistra stringeva il
taccuino.
Il rumore e i gas di scarico delle automobili sembravano
avere un alto potere stordente. I veicoli sfilavano nelle loro corsie.
Thanatos inclinò lo sguardo alla sua sinistra per pochi
istanti, prima
di riposarlo sulla strada.
Una ragazzina di circa dieci anni, che
gli arrivava a malapena al gomito, si torceva le mani, impaziente di
attraversare. I suoi capelli biondi erano costretti in
un’unica, severa
treccia. Sulle spalle reggeva uno zainetto sormontato dalla testa di un
cagnolino. Lanciò un’occhiata di traverso a
Thanatos, aspettando che
lui iniziasse l’attraversamento, per poterlo seguire. Dopo
una ventina
di secondi dovette decidere che aveva atteso abbastanza,
perchè sbuffò
e si apprestò a tentare l’impresa da sola.
Un solo passo. Il
braccio sinistro di Thanatos scattò di lato e il taccuino
che teneva in
mano urtò contro il naso della bambina, oscurandole la
vista. Un
battito di ciglia dopo, un improvviso spostamento d’aria
riportò la
piccola sul marciapiede.
Una moto di grossa cilindrata era appena
passata nel punto in cui si sarebbe dovuta trovare la bambina,
sfrecciando ad alta velocità. Il passeggero che viaggiava
dietro
rivolse un gesto volgare alle proprie spalle, prima di essere
inghiottito dalla nube grigia causata dallo scarico.
All’incrocio
successivo la moto svoltò. Si udì una brusca
frenata e un rumore di
vetri infranti.
Il traffico sulla strada cominciò ad intasarsi. La
bambina, pietrificata dallo spavento, aveva gli occhi sgranati e
lucidi. Senza degnarla di uno sguardo, quasi si fosse dimenticato della
sua presenza, Thanatos attraversò la strada, zigzagando tra
le macchine
ferme. La bambina seguì il suo esempio un minuto dopo e,
raggiunto il
marciapiede opposto, scappò via.
Thanatos, ora fermo davanti al
portone dell’edificio che aveva osservato dal parco,
sollevò gli occhi
verso la targhetta scrostata che segnava il numero 37. Si
infilò il
cappotto, tirò fuori la matita dalla tasca in cui
l’aveva riposta e
appuntò il numero sul taccuino. Senza troppe cerimonie,
spinse il
portone di vetro ed entrò nell’atrio. A distanza
di mezzo metro
dall’entrata partivano le scale. Sulla destra, di fronte alle
cassette
per la posta, c’era una porta che conduceva alla portineria.
Dall’interno proveniva un vocio concitato che Thanatos decise
di
ignorare. Si avvicinò invece alle cassette delle lettere,
per poter
guardare i vari nomi con attenzione.
Li aveva già letti tutti due
volte, quando le voci in portineria si fecero più forti e
lui, pur
continuando a rivolgere la propria attenzione alle cassette, si mise in
ascolto.
«Ti dico che quello stupido aggeggio non funziona! Il
bagno di un pinguino sarebbe più caldo!» stava
gridando una voce
maschile.
Sembrava appartenere ad una persona anziana, aveva un
tono a dir poco indisponente. Un’altra voce tentava
inutilmente di
farlo ragionare.
«Signor Dwight, la prego… La prego, si calmi!
Abbiamo mandato la manutenzione del condominio appena due settimane fa,
non c’è assolutamente niente che non va.»
«Non c’è niente che non va,
dici?»
«Ma certo, le assicuro che... »
«ASSICURALO ALLE MIE CHIAPPE!»
«La prego, abbassi la voce… Gli altri
inquilini...»
«Non me ne importa un accidente! È il mio
fondoschiena quello che gela, non il loro!»
Si udì uno scalpiccio di passi e un uomo
sull’ottantina uscì dalla
portineria con aria marziale. La mascella priva di denti era contratta
per la rabbia e i suoi occhi erano puntati sul pavimento. Sembrava
zoppicare un po’ senza l’appoggio di un bastone e
si sorreggeva ai
muri. Ad ogni passo il suo viso si contraeva in una smorfia.
Passò
oltre Thanatos, che gli dava la schiena e salì il primo
gradino. Il
portinaio lo seguiva, il viso infiammato dall’imbarazzo.
«Levati di
torno, Ralph. Chiamerò qualcuno con un po’ di
cervello che sia in grado
di riparare la mia stupida caldaia!» strillò
un’ultima volta il signor
Dwight.
Continuò a salire le scale, appendendosi al corrimano, con
Ralph, il portinaio, alle calcagna. Nessuno dei due aveva prestato la
minima attenzione a Thanatos, che al contrario aveva seguito la scena
con crescente interesse. Rimase fermo vicino alle cassette della posta
per qualche istante, taccuino e matita premuti contro il petto. Non
riusciva più a distinguere le parole che i due si stavano
scambiando
sulle scale. Lo raggiunse il rumore di alcune porte che si aprivano.
Rigirandosi il taccuino fra le mani, si voltò, trovandosi di
fronte
alla portineria. Sulla parte di scrivania che si intravedeva
dall’esterno c’erano dei registri aperti. Un
vecchio schedario di ferro
occupava metà della parete alla sinistra della scrivania.
Uno dei
cassetti scorrevoli era aperto.
Alzò lo sguardo verso le scale. Ora
non si sentiva nulla. Era possibile che Ralph avesse convinto
l’iroso
signor Dwight a farlo entrare in casa, per discutere in maniera
più
civile e silenziosa. Un orologio in portineria batté le
dieci. Nel
momento in cui il decimo rintocco echeggiava nell’aria
viziata della
stanza, Thanatos, piazzatosi dinanzi al cassetto aperto dello
schedario, iniziò a sfogliare le intestazioni delle
cartelle. Le sue
dita si muovevano veloci e sicure fra le cartelle. Gli incartamenti
conservati in quel cassetto riguardavano i contatori d’acqua
del
condominio e le varie spese per i singoli appartamenti.
Inaspettatamente c’era un discreto ordine e le cartelle dei
vari
inquilini erano aggiornate. Verso la fine del cassetto, tanto in fondo
che Thanatos dovette tirarlo fuori quasi completamente e posizionarsi
di lato per continuare la sua ricerca, c’era un unico foglio
raggrinzito. La parte inferiore era diventata simile ad una fisarmonica
cartacea, poiché il foglio era stato spinto sempre
più dietro con
l’inserimento forzato di altre cartelle. Thanatos
infilò a forza la
mano e lo estrasse. Era un semplice dattiloscritto con un elenco di
nomi e cognomi. Non gli fu difficile riconoscerli: erano quelli che
aveva letto poco prima sulle cassette per la posta. Accanto ad ogni
cognome c’era il piano corrispondente e il numero degli
abitanti
dell’appartamento. Thanatos cercò di appiattire la
parte inferiore del
foglio per scorrere l’elenco nella sua interezza. Accanto ad
ogni nome
battuto dalla macchina c’erano delle aggiunte a mano.
Sembravano
promemoria non ufficiali, tracciati in fretta con una grafia nervosa.
Ricorreva spesso il termine “Famiglia”, un paio di
volte si leggeva
“Single” e solo una “Studenti”.
Ralph doveva essere un tipo preciso,
oltre che molto sospettoso. Forse aveva anche il compito di assicurarsi
dell’identità degli inquilini o forse era solo un
gran ficcanaso.
Thanatos piegò in due il foglio e lo intascò,
richiudendo piano il
cassetto fino a riportarlo alla posizione in cui l’aveva
trovato. Senza
soffermarsi a guardare oltre la stanza, sollevò la testa e
tese
l’orecchio. I suoi occhi si spostarono nella direzione in
cui,
all’esterno della portineria, c’erano le scale.
Rimase immobile così
per qualche secondo, come se potesse vederle attraverso la parete. Dei
passi affrettati echeggiarono sulle scale di lì a poco.
Thanatos
affondò le mani nelle tasche e uscì dalla
portineria.
Quando Ralph
raggiunse l’atrio, lo trovò deserto. Il portone di
vetro ondeggiava
appena, ma lui non lo notò, occupato com’era a
tergersi il sudore
freddo dalla fronte. Il telefono si mise a squillare con selvaggia
tenacia e l’uomo si precipitò in portineria per
rispondere.
«Ralph?» gracchiò dall’altra
parte la voce del signor Dwight. «Hai chiamato il
tecnico?»
«Ma signor Dwight, sono appena sceso...»
«Muoviti, scansafatiche che non sei altro!» fu la
risposta del vecchio, che riattaccò subito dopo.
Ralph imprecò contro la cornetta muta e si lasciò
cadere sulla sedia
dietro alla sua scrivania. All’esterno
dell’edificio, appoggiato al
muro con il viso rivolto verso il cielo, Thanatos sorrise.
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Capitolo 3 *** La trappola ***
I raggi di sole della mattina si
erano smarriti
nella cappa grigia che annuncia il vespro.
L’oscurità pareva gravida
dell’umidità portata dalla pioggia interminabile
dei giorni precedenti.
L’angusta stanzetta era surriscaldata dalla piccola stufa
posta al lato
di quella che il padrone del motel aveva osato definire scrivania, un
piccolo tavolo quadrato dalla superficie corrosa e le gambe malferme.
Il vetro dell’unica finestra era appannato e opaco.
Il tavolo era
completamente sgombro, fatta eccezione per un taccuino, un foglio
stropicciato e una matita. Una lampadina priva di supporto era
posizionata in alto, in cima ad uno specchio, che era stato attaccato
al muro appena al di sopra della linea del tavolo. Il volto di Thanatos
fissava di rimando la sua immagine riflessa. La luce cruda evidenziava
le piccole rughe intorno alle labbra e le imperfezioni della pelle. Le
sue mani dure erano appoggiate ai lati del foglio, le maniche
rimboccate della camicia stringevano i muscoli del braccio, come un
cappio di stoffa. Alcuni ciuffi di capelli neri gli ricadevano ribelli
sulla fronte.
I suoi occhi castano chiaro scrutarono le profondità
dello specchio per qualche altro istante, prima di abbassarsi sul
foglio rinvenuto nella portineria del palazzo. Scorse i vari nomi,
saltando a priori quelli che recavano accanto la scritta
“Famiglia”. A
metà elenco si fermò, portandosi la mano sinistra
a sfiorare la barba
ispida sulle guance.
Terzo piano. Stacy Davidson, Camille Sinclair.
Accanto ai nomi delle due era scribacchiata la parola
“Studenti”. Le
lettere erano talmente appiccicate le une alle altre che si poteva
supporre fossero state vergate con una certa riluttanza. Probabilmente
per Ralph quella singola parola era sinonimo di “Occhi aperti
e numero
della polizia sottomano”. Pregiudizi dei piccoli quartieri.
Per
qualche secondo Thanatos rimase a fissare quei due nomi, storcendo
appena la bocca. Sollevò gli occhi sullo specchio, restando
immobile a
contemplare la propria fronte aggrottata. Lo sguardo gli
scivolò sulla
linea severa delle sopracciglia, prima di ritornare sul foglio.
Lanciò
un’occhiata obliqua alla matita accanto alla sua mano destra,
come se
si aspettasse un consiglio da lei. Poi la afferrò e
tracciò una marcata
linea di cancellazione.
Preferì non rischiare. Se qualcosa fosse
andato storto, avrebbe compromesso il suo lavoro. Nessuna donna era mai
riuscita a metterlo nel sacco, fino a quel momento. D’altra
parte, non
c’era riuscito neanche alcun uomo.
Scrollando le spalle, tornò ad
esaminare il suo elenco, la mano con la matita tenuta sospesa a
mezz’aria sul foglio. Puntellò il gomito sul
piano, appoggiando il
mento sul dorso della mano libera.
La malridotta televisione dietro
di lui diede finalmente segni di vita, dopo un’ora
dall’accensione. Un
telegiornale stava trasmettendo le ultime notizie della giornata.
«É
stato reso noto che la settimana scorsa Walter Coughly, ex capo di
Scotland Yard e gran difensore della legge nella nostra
città, ha
offerto la sua collaborazione per fare chiarezza sui casi di violenza e
prevaricazione che si stanno moltiplicando nei quartieri più
poveri.
Sembra che dietro ci sia una banda armata, ma c’è
la probabilità che si
tratti di un’associazione molto organizzata che…»,
l’apparecchio emise un forte ronzio e la voce del giornalista
si perse per diversi minuti.
Thanatos lo ignorò e tirò un’altra riga
sull’appartamento di un single
che abitava al secondo piano. La matita altalenava fra indice e
pollice, ma il suo sguardo continuava a studiare attentamente quel
pezzo di carta. Qualcosa catturò la sua attenzione. Sotto al
nome che
aveva appena cancellato c’era quello del suo vicino di
pianerottolo.
Secondo piano. Terence Dwight.
Anche qui era appuntata la parola “Single”, ma
Thanatos trovò che
quella fosse un’informazione superflua. Ricordò il
vecchio bisbetico e
le sue proteste circa il suo fondoschiena congelato. Inclinò
la testa
di lato, piegando la schiena in avanti sulla scrivania.
Quell’uomo era
una testa dura, autoritario e probabilmente sospettoso. Ma forse quello
che gli altri inquilini vedevano era solo un vecchio pazzo. Thanatos
non era dello stesso avviso. Il signor Dwight era più lucido
di Ralph.
E poteva anche avere ragione. Avvicinò il taccuino e ne
sfogliò le
pagine fino a ritrovare l’annotazione che cercava.
Chiazze di umidità, secondo piano.
Era possibile che le ossa sensibili di un vecchio ne risentissero in
maniera particolare, specialmente in presenza di un apparato termico
mal funzionante. Forse nessuno se n’era accorto o non aveva
dato molto
peso alla cosa. Ecco la causa delle sentite proteste del signor Dwight.
Thanatos rimase per lunghi istanti a fissare quelle due parole. Terence
Dwight. Mentre la punta della matita calava sul foglio, la televisione
emise un altro gemito.
«Un uomo straordinario, a cui questa
città deve davvero molto. Il nostro servizio finisce qui,
grazie dell’attenzione.»
Thanatos si girò in tempo per vedere la faccia di Walter
Coughly
balenare sullo schermo, che un secondo dopo si riempì di
righe bianche.
Dopo un ultimo, acuto ronzio, l’apparecchio si
rassegnò alla sua fine e
si assestò su un quadro d’un grigio uniforme. Lo
schermo lucido trasse
il riflesso della sagoma di Thanatos che gli voltava la schiena. La
matita cadde inesorabile sul nome del signor Dwight e lo
intrappolò in
un cerchio nero.
ΩΩΩ
Il rumore sordo della porta del bagno che sbatteva si ripercosse
attraverso l’intera casa. Il silenzio fu ripristinato per
qualche
minuto, finché non si udì una specie di
cantilena. L’anziano signor
Dwight arrancava verso la cucina, borbottando ininterrottamente.
Indossava un paio di pantaloni felpati che avevano l’aria di
essere
molto caldi, sopra una camicia d’un rosa pallido si era
gettato un
maglione a giacca del colore del legno giovane. Il volto sembrava
atteggiato in una smorfia perenne, la mascella contratta. In cucina
cominciò ad armeggiare con una vecchia teiera.
L’aveva appena infilata
sotto il rubinetto per riempirne la caldaia, quando il campanello
tintinnò. Maledicendo persino quel povero mezzo di richiamo
dell’attenzione, il signor Dwight lasciò cadere la
teiera e attraversò
un piccolo ingresso per andare ad aprire la porta. Non
guardò dallo
spioncino, nonostante potesse arrivarci con una piccola tensione del
collo.
«Chi è?» abbaiò.
«Sono qui per la sua caldaia» rispose una voce
cordiale dall’esterno.
Senza pensarci due volte, il signor Dwight tolse la catenella ed
aprì la porta, accogliendo il nuovo venuto con un
«Era ora!»
Thanatos si limitò a chinare leggermente la testa in un
educato gesto
di scuse. Indossava i soliti jeans, ma aveva sostituito il cappotto con
un corto e goffo giaccone grigio ferro. I capelli neri erano costretti
sotto un cappello da manovale dello stesso colore. Appena il signor
Dwight si scostò di lato, lui fece il suo ingresso nel
piccolo
appartamento, premurandosi di chiudere la porta senza far rumore.
Quando si voltò verso il vecchio, vide che lo stava fissando
con una
certa ostinazione.
Thanatos si soffermò per qualche attimo a
studiare quello strano individuo, che sembrava volerlo trapassare con
lo sguardo, tanto che non sbatteva neanche le palpebre.
«Potrebbe mostrarmi il punto in cui il suo impianto termico
non funziona?»
Il signor Dwight non trovò niente da ribattere a tanta
cortesia, così
fece cenno di seguirlo e si avviò verso il suo bagno.
Arrivato alla
porta, indicò la stanza con un dito, ma non
accennò a voler entrare.
Incrociò le braccia sotto il maglione e puntò gli
occhi su Thanatos, in
attesa.
Lui entrò senza esitazione, appoggiando a terra un anonimo
borsone nero che si era portato dietro. Nel luogo, un bagno piuttosto
angusto, come il resto dell’appartamento, poté
effettivamente percepire
il sentore dell’umidità, nonché una
temperatura diversa rispetto al
resto della casa. Si guardò intorno con finta indifferenza,
fino a
quando il suo sguardo non fu catturato dalla caldaia collegata alla
parete. A pochi centimetri da essa c’era una finestrella.
Puntando in
quella direzione, Thanatos lanciò un’occhiata
all’esterno e annuì in
modo impercettibile. Quella era la finestra che lui aveva visto dal
parco. Un sole pallido era tornato per allietare il mattino dei
londinesi, ma l’aria era ancora frizzante, tanto che sotto il
vetro
della finestra chiusa era stato posto un vecchio straccio, per evitare
l’infiltrazione di fastidiosi spifferi.
«Allora?» incalzò il signor Dwight,
impalato sulla soglia.
«Avrò bisogno di aprirla per vedere cosa non
funziona.»
L’unico danno visibile sulla caldaia era uno strato di
vernice
scrostata. Gli indicatori esterni di temperatura sembravano
funzionanti, anche se i vetrini erano coperti da una leggera patina
grigiastra.
«La lascio lavorare, allora» sentenziò
il vecchio con fare burbero e fece ritorno in cucina.
Quando udì lo scroscio dell’acqua che scorreva dal
rubinetto nella
teiera, Thanatos sollevò il vetro della finestrella e
tornò verso il
suo borsone. Era una fortuna per lui che il signor Dwight producesse
così tanti rumori nei suoi movimenti. Tendendo
l’orecchio per
assicurarsi che non tornasse, tirò la cerniera che chiudeva
il borsone
ed estrasse le due parti di un lucido fucile di precisione. Con calma
misurata le montò insieme, caricò i proiettili in
canna e sollevò il
mirino. Avvitò poi il silenziatore
all’estremità e trascinò un basso
sgabello verso la finestra. Vi appoggiò il ginocchio
sinistro e piegò
un po’ in avanti la spalla corrispondente, caricandosi il
fucile
sull’altra. La mano sinistra scivolò lungo la
canna, fermando la presa
poco prima dell’apparecchio silenziatore.
Rimase immobile in quella
posizione per diverso tempo, gli occhi fissi sull’entrata del
parco,
come un predatore in agguato. Altri rumori provenienti dalla cucina
segnalavano che il signor Dwight si stava dando da fare per mettere in
ordine. Un tintinnio di bicchieri lasciò presto il posto al
basso
frusciare delle setole di una scopa sul pavimento. Suoni strascicati
indicavano i suoi spostamenti da una stanza all’altra.
Thanatos
inarcò un po’ la schiena e voltò la
testa di lato. La porta del bagno
era rimasta aperta, ma lui non parve allarmato. La sua fronte si
corrugò quando ricordò le parole di Steve.
«Quasi tutti i giorni va al White Rose Garden.»
Quasi tutti i giorni.
Il suo volto si contrasse, mentre lui staccava la mano sinistra dal
fucile e la infilava in una piccola tasca del giaccone, per estrarne la
cassa di un vecchio orologio. L’ora era quella giusta,
perciò era
probabile che il suo obiettivo avesse deciso di rinunciare per un
giorno alle sue preziose passeggiate. Emise un sospiro seccato,
lanciando un’occhiata in tralice al cielo, mentre si
apprestava a
smontare la sua arma. Non imprecò, né si
adirò. Non faceva parte del
suo stile. Se l’avesse saputo, Walter Coughly si sarebbe
reputato un
uomo molto fortunato. Oppure no.
Thanatos emise uno sbuffo,
rassegnandosi a richiudere il borsone nero. Sembrava un uomo qualsiasi
che avesse perso la metropolitana per un soffio e si accingesse ad
attendere il passaggio successivo. Quasi distrattamente si
avvicinò
alla caldaia e aprì lo sportello inferiore, dove erano
situati i
pulsanti per l’accensione e lo spegnimento manuale della
fiamma. Non
c’era nulla di strano. Tuttavia, con una piccola torsione del
collo,
poté constatare che la suddetta fiammella era spenta.
Tirò fuori dalla
tasca una piccola chiave inglese e la appoggiò sul davanzale
della
finestra, armeggiando con il pulsante dell’accensione. Dal
rumore
prodotto si poteva arguire che la scintilla scoccava, ma non riusciva a
tenere accesa la fiamma a lungo. Con un verso inarticolato, Thanatos
afferrò la chiave inglese e cominciò ad allentare
i bulloni che
chiudevano il pannello interno.
Tre dei quattro bulloni giacevano
già sul davanzale della finestra, quando avvertì
un formicolio dietro
la nuca. Trattenendo il pannello con una mano, si voltò
verso la porta.
Incorniciato sulla soglia c’era il signor Dwight, una borsa
d’acqua
calda stretta tra le braccia.
Thanatos strinse gli occhi,
continuando a trattenere l’impugnatura della chiave inglese
nella mano
libera. Non l’aveva neanche sentito arrivare. Un qualsiasi
altro uomo
sarebbe stato assalito da una strana inquietudine. Lui, invece, non
disse una parola; si voltò verso la caldaia e
staccò il quarto bullone,
reggendo il pannello, prima che questo cadesse verso
l’esterno.
«È
riuscito a capire cosa c’è che non va?»
domandò il signor Dwight,
adoperando, pare a malincuore, un tono appena più gentile.
«La fiamma non regge» spiegò Thanatos,
l’attenzione rivolta all’interno del pannello.
«Lo dicevo io.»
«È probabile che una resistenza non funzioni a
dovere.»
Il signor Dwight non replicò, limitandosi a rafforzare la
presa sulla borsa dell’acqua calda.
«Temo che dovrò incomodarla un’altra
volta.»
«Come?»
«Deve lasciarmi il tempo di procurarmi il pezzo da
sostituire» chiarì
Thanatos, suscitando un verso di comprensione da parte del vecchio.
«Non si preoccupi» lo tranquillizzò,
issandosi il borsone nero sulla
schiena. «Domani finisco il lavoro.»
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Capitolo 4 *** Una scacchiera imperfetta ***
La cassa dell’orologio da polso
appoggiata sul davanzale segnava le dieci e tredici minuti. Il parco al
di sotto della finestrella era inondato dal sole del mattino. I suoi
raggi tiepidi traevano riflessi dalle carrozzerie delle macchine e dai
vetri delle finestre.
Una gran seccatura - pensò Thanatos,
rimettendo al loro posto i bulloni che chiudevano la parete interna
della caldaia. Richiuse lo sportellino e intascò la chiave
inglese, sfregandosi le mani e lanciando un’occhiata alla
porta semiaperta. Il ronzio sommesso di una radio, unito alle parole
indistinte che fuoriuscivano dall’apparecchio, giungeva alle
sue orecchie da oltre un’ora, ma dei soliti rumori che il
signor Dwight produceva nei suoi spostamenti non si udiva nulla.
Probabilmente si era addormentato sulla poltrona, ascoltando le notizie
del giorno.
Thanatos cacciò una mano in tasca e ne tirò fuori
un paio di occhiali dalle lenti giallo ambra; li inforcò e
imbracciò il fucile, che lo aspettava già
montato, appoggiato con cura contro il muro sotto la finestra.
La particolare tonalità delle lenti
colorava le sue iridi in modo inquietante, tanto da farle assomigliare
sempre di più a quelle gialle di un grosso felino. I raggi
obliqui del sole che battevano sul suo volto contribuivano a rafforzare
la somiglianza, divertendosi a giocare con le pupille
dell’uomo, facendole sembrare più sottili del
normale. La sua attenzione era puntata verso l’entrata del
parco, come il giorno precedente. Era concentrato a tal punto che
sembrava non aver bisogno di sbattere le palpebre o di cambiare
posizione di tanto in tanto. Il suo viso immobile dava
l’impressione di una statua vivente; le sue mani serrate
intorno al fucile non erano scosse dal minimo tremito.
Come una tigre drizza le orecchie appena avvista
la sua preda, così Thanatos si mise in allarme, quando un
uomo imbacuccato in un impermeabile decisamente fuori stagione fece il
suo ingresso nel parco e si sedette sulla panchina di fronte alla
grande quercia, aprendo un giornale spiegazzato.
Il primo è dentro.
Ricordando il piccolo quattro che aveva appuntato
sul suo taccuino, Thanatos tornò con lo sguardo ai cancelli
del parco, che furono attraversati qualche istante dopo da un paio di
ragazzi con gli zaini gettati sulle spalle. Il cambio della coppia del
giorno prima.
Siamo a quota tre.
Passarono circa quindici minuti, prima che anche
la preda prestabilita giungesse nel parco. Walter Coughly, stavolta
senza assistente, era accompagnato dal solito gorilla con gli occhiali
a specchio, che lo seguiva dappresso come un’ombra
particolarmente irritante.
Tutti i pezzi sono sulla scacchiera.
Quella mattina il White Rose Garden non era molto
affollato. Gruppetti sparuti di ragazzini si rincorrevano sul grande
spazio erboso al centro, un paio di signore spingevano i loro
carrozzini sul viale principale. Tutto perfettamente normale.
Tranne per un particolare.
Dietro la grande quercia Thanatos aveva colto un
movimento con la coda dell’occhio. Poiché Coughly
aveva rallentato il passo, si azzardò a perderlo di vista,
per gettare uno sguardo nella direzione sospetta.
Niente. Forse era stato solo un riverbero di quel
dannato sole.
Riportò in un battibaleno la sua
attenzione su Coughly, deciso a non lasciarsi distrarre per nessun
motivo al mondo. Ma qualcun altro non era d’accordo.
Nell’istante in cui Thanatos chiudeva l’occhio
destro, guardando nel mirino ad ingrandimento con il sinistro, la radio
nell’altra stanza tacque. La sua mano destra, sempre
più vicina al grilletto del fucile di precisione, si
irrigidì.
Walter Coughly si era fermato quasi di fronte
all’uomo con il giornale, per riprendere fiato. Thanatos lo
vide agitare una mano in direzione della guardia del corpo, che forse
gli aveva appena chiesto se si sentisse bene. Approfittando di quella
pausa, nonostante la tensione rischiasse di spezzarsi da un momento
all’altro, Thanatos girò la testa verso la porta,
costringendo il collo ad una piccola torsione.
Le sue spalle si rilassarono quando
appurò che, contrariamente a quanto aveva sospettato, il
signor Dwight non era apparso nel vano della porta. Pochi secondi dopo
lo sentì ciabattare nell’altra stanza, forse in
cucina. Sentiva di avere poco tempo. Sicuramente l’impazienza
del vecchio aumentava ad ogni minuto. Doveva farla finita in fretta.
Tornò a voltarsi verso la finestra,
scoprendo con non poco sollievo che l’ex capo di Scotland
Yard era ancora fermo nei pressi della grande quercia.
Sollevò un po’ la spalla sinistra e si
concentrò sul suo obiettivo, ritrovando la mira e sfiorando
il grilletto con l’indice della mano destra. La croce del
mirino si era già sovrapposta completamente sulla testa di
Coughly, il dito aveva già iniziato a premere il grilletto.
Ancora quel movimento.
Il dito di Thanatos si staccò dal
grilletto, lui deglutì senza volerlo. Era irritato.
Servendosi del mirino del proprio fucile, mise a fuoco
l’oggetto che si intravedeva appena dietro il tronco
dell’albero. La canna metallica di una pistola.
«Mettiti in coda, questo qui
è mio» borbottò tra i denti,
infastidito.
Come se l’avesse udito, la canna della
pistola scomparve per qualche secondo dietro il tronco
dell’albero. Un’ombra si disegnò sul
prato, non appena il proprietario dell’arma si fu messo in
posizione, pronto per sparare.
La guardia del corpo pareva troppo impegnata a
guardare al di sopra del proprio naso per accorgersi di quanto stava
accadendo. Il signor Coughly gli aveva appena detto di aver intenzione
di tornare a casa prima del solito. Quelle passeggiate lo stancavano
sempre di più.
«Rientriamo» ordinò
l’austera guardia del corpo, aumentando il tono della voce
quel tanto che bastava per assicurarsi di essere udito
dall’uomo in impermeabile seduto sulla panchina.
«Non essere precipitoso, David. Ancora
qualche minuto» protestò il signor Coughly,
raddrizzando la schiena per convincere il suo accompagnatore che non
era ancora del tutto stremato.
Thanatos non poteva udire le loro parole, ma la
sosta prolungata doveva essere il segno che Coughly stava decidendo se
proseguire o ritirarsi decorosamente, prima di essere costretto a
chiedere appoggio alla sua guardia del corpo.
In un’altra stanza della casa i piedi di
una sedia grattarono il pavimento. Seguì un grugnito e il
rumore di qualcuno che si lasciava cadere su un cuscino. La mano
sinistra di Thanatos strinse con irritazione la canna del fucile, la
destra tornò ad appoggiarsi leggermente sul grilletto.
La canna del rivale fece capolino da dietro la
quercia, nel momento in cui la guardia del corpo era distratta con
Coughly. Entro pochi secondi si sarebbe scatenato il finimondo, non
c’era tempo da perdere.
Storcendo gli angoli della bocca, chiaramente
seccato per il contrattempo, Thanatos puntò ancora una volta
il mirino in corrispondenza della testa dell’ex capo di
Scotland Yard, che si era già voltato verso
l’ingresso del parco, titubante a rinunciare in partenza alla
sua passeggiata.
Stavolta il grilletto era già premuto
per metà, quando la voce rauca del signor Dwight fece
sussultare Thanatos, che per fortuna riuscì a bloccarsi in
tempo, prima di sparare a vuoto.
«Se ha quasi finito, posso preparare del
the» gridò il vecchio dall’altra stanza.
Il labbro superiore di Thanatos si
sollevò a mostrare parzialmente i denti. Chiuse gli occhi
per qualche secondo, per riprendere la concentrazione.
«Certo, cominci a scaldare
l’acqua.»
Coughly aveva voltato le spalle alla quercia e
stava annuendo sconsolato in direzione della sua guardia del corpo.
L’uomo con il giornale si avvicinò ai due,
preoccupato, ma la guardia del corpo gli rivolse un gesto ammonitore.
La canna metallica dietro la quercia
fuoriuscì ancora un po’ e si sollevò,
pronta a fare fuoco.
Odio i contrattempi – pensò
Thanatos, quando il riflesso del sole sulla canna rivale giunse fino ai
suoi occhi.
Tutto accadde in una manciata di secondi.
Il colpo partito dal fucile a silenziatore non si
udì, ma fendette l’aria con un fischio,
passò oltre la testa di Coughly e colpì la canna
della pistola, deviandone la traiettoria, pochi secondi prima che
questa esplodesse il suo rumoroso colpo.
Una serie di urla echeggiò per il
parco, un paio di signore si chinarono istintivamente sui passeggini e
un gruppetto di ragazzini si addossarono l’uno
all’altro, come conigli spaventati. L’uomo con
l’impermeabile barcollò e lasciò cadere
il giornale, la guardia del corpo digrignò i denti e si
gettò su un confuso Coughly, coprendolo del tutto alla
vista. Ripresosi dalla sorpresa, l’uomo con
l’impermeabile urlò qualcosa nella propria manica
e due giovani sbucarono di corsa da un sentiero nascosto dai cespugli.
Una ragazzina particolarmente audace
indicò qualcosa dietro la quercia e i due giovani si
precipitarono in quella direzione, estraendo le pistole. Il killer, che
si era appostato dietro alla grande quercia, lasciò cadere
di colpo la sua pistola e corse nella direzione opposta. Ancora
intontito dal rumore vicino dello sparo e dall’abbaiare di
alcuni cani, Coughly barcollò sotto il peso della sua
guardia del corpo. Questi non perse tempo, afferrò il suo
superiore e lo trascinò verso l’uscita del parco.
Una macchina era rimasta lì ad aspettarli, così
Coughly fu spinto all’interno e l’auto
partì a tutta velocità.
Thanatos osservava tutta la scena dalla sua
posizione privilegiata nel bagno del signor Dwight. Il fucile era
appoggiato sotto la finestra, mentre lui assisteva rassegnato alla fuga
della sua preda e del suo rivale.
«Scacco» sentenziò
ad alta voce, seguendo con gli occhi l’inseguimento dei
poliziotti in borghese.
I due, nonostante la giovane età, non
riuscirono a guadagnare subito terreno, ma non si arresero, continuando
il loro inseguimento lungo la pista ciclabile che circondava tutto il
parco. Il killer, un uomo dai capelli rasati a zero, con gli occhi
dilatati per la tensione e la paura, correva a perdifiato per salvarsi
la pelle. Il sudore cominciò a colargli negli occhi e lui fu
costretto a passarsi la manica sul volto, oscurando la propria vista
per alcuni secondi. Quello che doveva fare era raggiungere
l’ingresso est del parco, dove aveva lasciato una moto di
grossa cilindrata, fornitagli dal suo mandante per la fuga. Ma quel
killer non aveva calcolato che qualcuno potesse sparare a lui. Doveva
sparire, farsi fare un passaporto falso e togliersi dalla circolazione.
Ormai era in vista dell’ingresso e già intravedeva
la carrozzeria grigia della moto. I suoi progetti andarono in fumo
quando, con un colpo al cuore, udì avvicinarsi le sirene
delle volanti della polizia.
Imprecò con rabbia e deviò
con un movimento repentino, abbandonando la pista ciclabile
nell’istante in cui alcuni agenti uscivano dalle auto, con le
pistole in pugno. Una voce distante gli intimò
l’Alt, ma l’uomo non vi prestò la minima
attenzione. Raggiunto un alberello che cresceva in un punto a ridosso
del cancello del parco, vi si arrampicò goffamente ma in
fretta, scavalcò la sommità del cancello e si
lasciò cadere dall’altra parte. Uno dei due
giovani in borghese fece lo stesso ma, quando anch’egli
ricadde dall’altra parte, vide sfrecciare davanti a
sé una metro di superficie.
Del killer nessuna traccia.
Thanatos si allontanò dalla finestra.
Era riuscito a contemplare l’inseguimento fino ad un certo
punto della pista ciclabile, poi un filare di alberi gli aveva impedito
di vederne la fine. Smontò con calma il suo fucile e rimise
tutti i pezzi nel borsone. Intascò orologio e occhiali e
recuperò il suo cappello da manovale appoggiato sul bordo
del lavandino.
«Allora, viene?» lo raggiunse
la voce del signor Dwight dalla cucina.
Servirà un’altra scacchiera
– pensò Thanatos, mentre appoggiava il suo borsone
nell’ingresso.
La cucina si apriva subito dopo il piccolo
ingresso. Era piccola ma stranamente ordinata. Sebbene sui mobili bassi
ci fosse un leggero filo di polvere, tutti gli oggetti erano al loro
posto. Accanto al fornello di una piccola cucina a gas c’era
una presina logora. Il signor Dwight era in piedi al lato del tavolo,
su cui aveva appoggiato un sottopentola di legno e il bollitore con
l’acqua calda. Accanto ad essi c’era un cartone da
mezzo litro di latte, la zuccheriera e una tazza sbiadita, filata su un
bordo. In mano teneva un’altra tazza dal bordino colorato,
integra.
La tese verso Thanatos, contraendo ancora di
più la mascella, un gesto dovuto più alla
mancanza di qualche dente che ad un’espressione ostile.
«Mi dica se devo pagare qualcosa. Mentre
lei beve il the, vado a prendere i soldi.»
Aveva tentato di mascherare la sua reticenza a
sborsare quattrini. Non si mosse, continuando a tendere la tazza verso
Thanatos.
«Non mi deve niente» rispose
lui a bassa voce.
Inclinò lo sguardo sulla pistola che
reggeva nella mano destra, alla cui estremità aveva montato
un altro micro silenziatore.
Il signor Dwight ritirò la tazzina e la
trattenne tra le mani, gli occhi fissi sul volto dell’uomo
davanti a sé. Thanatos lasciò scorrere lo sguardo
sulla camicia sbiadita del vecchio, sulle sue pantofole troppo grandi e
sulla nuca stempiata. Lentamente ma con gesto risoluto
sollevò la pistola e la puntò verso il signor
Dwight, sulla fronte. Gli occhi del vecchio gli si impressero nella
mente.
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Capitolo 5 *** L'ombra della Morte ***
Mezzo quartiere di Humpty High era stato messo in subbuglio.
La
casa al 312 era letteralmente blindata. I peggiori timori degli
assistenti di Coughly si erano concretizzati nell’attentato
alla sua
vita, avvenuto appena due giorni prima. Stavolta il servizio di
sicurezza non aveva sentito ragioni: l’ex capo di Scotland
Yard era
stato segregato nella sua stessa dimora. Il sistema d’allarme
era stato
controllato già tre volte, peraltro inutilmente,
poiché era uno dei più
efficienti che esistessero sul mercato. E come se telecamere a circuiti
chiusi e guardie notturne non bastassero, un’ allarmata
domestica aveva
proposto di installare dei tiratori scelti sui balconi più
alti, mentre
l’anziano lattaio, reduce della Seconda Guerra Mondiale,
aveva
suggerito l’uso del filo spinato.
Nonostante l’assurdità di
quei consigli, Coughly non aveva ritenuto di commentare, richiudendosi
invece in un silenzio meditabondo e impaurito. Aveva trascorso un
giorno intero senza svolgere alcuna attività particolare,
rifiutandosi
persino di rispondere al telefono. Domestici e assistenti si chiedevano
il motivo di quello strano atteggiamento, così diverso da
quella che
solitamente sarebbe stata la reazione del “vecchio
generale”. Che la
vecchiaia avesse davvero portato con sé rassegnazione e
senso di
inutilità? Molte altre volte aveva rischiato di morire, ma i
suoi nervi
non erano mai crollati in quel modo.
Quello che tutti gli
altri non riuscivano a capire era che stavolta la situazione era
diversa. Coughly aveva la netta impressione di essere particolarmente
vulnerabile. Era consapevole del fatto che un’altra mente
aveva
freddamente progettato la sua morte, puntando la pistola contro la sua
testa nel momento in cui lui si sentiva più al sicuro.
Questo pensiero
non poteva che dargli i brividi, a dispetto della sua lunga esperienza
tra assassini e morti violente. Ora, rinchiuso nelle sue stanze, si
sentiva come una preda, cacciata fin nella sua tana. Nonostante le
rassicurazioni delle numerose persone al suo servizio, lui sapeva
che chiunque si fosse proposto di ucciderlo non si sarebbe fatto
scoraggiare da alcun tipo di barriera. Sarebbe andato fino in fondo.
Il secondo giorno di reclusione i suoi timori non accennarono a
placarsi. Trascorse molte ore nel suo studio privato, tra promemoria e
appunti di vecchi casi. Non nutriva la speranza di scoprire
l’identità
di chi gli aveva sparato, ma occuparsi di qualcosa, qualsiasi cosa,
distraeva la sua mente da pensieri inquietanti. Solo al calar della
sera una strana sensazione di pace si impadronì di lui,
tanto che
riuscì a riposare per qualche ora. Quando si
risvegliò, intorno alla
mezzanotte, rimase disteso a letto, fissando il soffitto.
L’unica luce
proveniva dai lampioni in strada e, penetrando attraverso i vetri della
finestra, formava una tenue pozza di luce ai piedi del letto.
Coughly socchiuse gli occhi, nel tentativo di riprendere sonno, ma
qualcosa glieli fece spalancare di colpo. Per alcuni secondi il
riverbero della luce esterna era stato oscurato, come se una grande
ombra vi fosse passata davanti. L’uomo si sollevò
il più in fretta che
poté, aggrappandosi con una mano alla sponda del letto. Non
riuscì a
distinguere nulla nella semioscurità; tuttavia, aveva
l’orribile
sensazione di cogliere qualcosa con la coda dell’occhio ogni
qual volta
girava la testa dall’altra parte. Con il respiro affannoso,
si protese
verso il comodino e trovò alla cieca l’accensione
della lampada. Quando
la luce elettrica scaturì dal bulbo, inondò una
stanza deserta.
Coughly rilassò la schiena contro la testata del letto,
inspirando
profondamente. Poi, come se un balsamo gli fosse sceso nel petto,
iniziò a sentirsi meglio, vigile ma non più
spaventato. Nella sua testa
si era formato un piacevole vuoto; nessuna paura, nessuna
preoccupazione.
Decise che voleva una tazza del suo the
preferito. Si alzò dal letto e mandò la guardia
che si era posizionata
nel corridoio a riferire alla cameriera di mettere su il bollitore e
portare tutto l’occorrente nel suo studio. La guardia
sgranò gli occhi
alla richiesta, ma non fiatò, allontanandosi lungo il
corridoio e
portando il messaggio al collega che si trovava in fondo. Coughly
rimase nella sua stanza da letto, finché non udì
il ticchettio dei
tacchi della sua cameriera. Solo allora si affacciò nel
corridoio e la
vide uscire dal suo studio, la cui porta era ora sorvegliata da altre
due guardie. Entrambe gli rivolsero un cenno rispettoso non appena lui,
in camicia da notte e vestaglia, si avvicinò. I due uomini
furono del
tutto sorpresi alla vista del sorriso disteso che aleggiava sul volto
scavato di Coughly. Quando la porta dello studio si fu richiusa alle
spalle del suo proprietario, le due guardie si lanciarono
un’occhiata
interrogativa e sollevarono le spalle quasi in contemporanea.
Una volta all’interno, Coughly si ritrovò a
socchiudere gli occhi per
la troppa luce. La cameriera aveva acceso non solo la luce centrale ma
anche il lume da scrivania e le lampade alogene che si trovavano sugli
scaffali delle librerie. Con un sorriso indulgente, Coughly
passò a
spegnerle, zoppicando senza il suo bastone. Lasciò solo il
lume sulla
scrivania, che descriveva un cono luminoso sulla sua superficie lignea.
Un vassoio ovale, contenente una tazza d’acqua bollente,
zuccheriera,
bricco di latte, bustine di the e un piatto di biscotti fin troppo
abbondante per una persona sola, era appoggiato su un angolo. Solo
quando si fu seduto sulla sedia dalla spalliera imbottita, sopprimendo
un lamento, Coughly notò con stupore che
sull’angolo opposto della
scrivania era stato appoggiato un vaso di vetro, riempito con un folto
mazzo di anemoni rossi.
Era probabile che fosse stata la sua
cameriera a portarli, per ravvivare un po’
l’ambiente. Coughly aggrottò
la fronte e allungò una mano per arrivare al pulsante
dell’apparecchio
di comunicazione, ma non lo premette, lasciando il dito sospeso sopra
di esso. Con l’altra mano sfiorò uno dei fiori
rossi, giocherellandoci
con le dita. Lasciò perdere il pulsante di comunicazione e
iniziò a
fissare con decisione gli anemoni, senza quasi riuscire a distogliere
lo sguardo, come catturato da un potere ipnotico.
Il cono di
luce fu attraversato da un’ombra, ma questa volta Coughly non
si
allarmò. Il suo sguardo lasciò i fiori, per
posarsi sulla pila di
pratiche che aveva abbandonato sulla scrivania. Una serie di vecchi
casi brillantemente risolti, casi che non avevano certo potuto
sradicare l’intera criminalità di Londra, ma
almeno avevano reso la
Giustizia qualcosa di più concreto. Il ricordo di
ciò che era riuscito
a fare per la sua città lo riempì di una
commozione profonda. E fu in
quel momento che capì che era stato in grado di fare
qualcosa per cui
sarebbe stato ricordato.
Prese una semplice penna a biro dal
portapenne di pelle e si avvicinò un blocchetto a righe,
dove era
solito prendere appunti. Senza sapere come gli fossero venute in mente,
vergò sulla carta poche parole:
Non omnis moriar*
Lasciò la biro sul blocchetto, si
appoggiò all’indietro contro lo schienale e
sollevò lo sguardo.
ΩΩΩ
La notte fonda di Hire’s era più
tranquilla che mai. Le strade erano
completamente sgombre da automobili e non un’anima camminava
sui
marciapiedi. I semafori erano tutti spenti, tranne uno, che manteneva
un giallo intermittente. I rari lampioni emettevano una luce opaca,
quasi sporca.
L’ululato di un cane in lontananza strappò a
Ralph un grugnito di fastidio. Pur appollaiato in una posizione scomoda
sulla sedia della portineria, era riuscito ad addormentarsi. Aveva
portato entrambe le ginocchia all’altezza del mento,
puntellando in
qualche modo le piante dei piedi sui bordi esterni della sedia. Il
piccolo televisore sulla scrivania era tenuto a basso volume, tanto che
le parole si distinguevano a malapena nel ronzare di sottofondo.
Incastrato com’era nella sedia, Ralph sollevò il
capo con l’inerzia del
sonno e fissò istupidito le immagini sfocate della
televisione. Lanciò
un’occhiata al telecomando rotto, abbandonato
nell’angolo di un
cassetto aperto, e sbuffò. Contorse il braccio e lo
allungò verso il
pomello di spegnimento posto sull’apparecchio stesso; lo
stirò fino ad
arrivare a qualche centimetro dalla sua meta, raschiando
l’aria con le
unghie. Inarcando un altro po’ la schiena ce
l’avrebbe fatta. Ma,
proprio mentre prendeva lo slancio per sollevarsi, un trillo acuto lo
fece sobbalzare.
La sorpresa gli fece perdere tutta la
concentrazione. Cadde dalla sedia, rimanendovi incastrato solo con la
caviglia della gamba sinistra. Nella sua testa il ronzio della
televisione e lo squillo del telefono creavano possenti boati. Ci mise
una buona decina di minuti per liberare la caviglia e fece il tutto con
estrema lentezza, sperando che il telefono tacesse. Così
accadde.
Ralph tirò un lungo sospiro, stiracchiandosi e guardando
l’orologio.
Era la sua serata sfortunata. Il suo programma televisivo era stato
interrotto per problemi tecnici e lui si era addormentato
lì, in attesa
che riprendesse.
Imprecò tra i denti, colpendo il pomello del
televisore con un gesto stizzito. Il ronzio cessò e
l’apparecchio si
spense con un sibilo di sollievo. Il portinaio si stiracchiò
ancora,
passandosi una mano sulla testa stempiata e cominciò a
controllare che
fosse tutto al suo posto, pronto a lasciare la portineria per
raggiungere il suo letto.
Aveva già quasi chiuso la porta,
quando il telefono squillò ancora. Alzò le mani
al cielo in un gesto
esasperato e si affrettò a rispondere, sperando di risolvere
la
questione al più presto.
«Ralph, finalmente!» si sentì esclamare
all’altro capo della cornetta.
Tale padre, tale figlio – pensò
Ralph, sopprimendo un sospiro.
«È molto tardi, signor Dwight» si
sentì in dovere di puntualizzare. «Come posso
esserle utile?»
«Lo so, mi dispiace molto», la voce
dell’uomo dall’altra parte era
molto più stanca di quella di Ralph. «Ho provato a
chiamare ogni
mezz’ora, ma non risponde. Non volevo disturbarla, ma ho
staccato solo
ora e...»
«Suo padre non risponde?» lo interruppe Ralph, ora
più vigile, gli occhi bene aperti.
«No, non risponde al telefono» confermò
l’uomo. Ora nella sua voce era evidente una nota di panico.
La bocca di Ralph era diventata improvvisamente secca. Il vecchio
Dwight non rispondeva al telefono. Che gli fosse successo qualcosa? Il
portinaio riaccostò l’orecchio al ricevitore,
deglutendo a vuoto.
«Ralph, per favore, può andare a
controllare?» giunse la richiesta ansiosa del suo
interlocutore.
Le mani di Ralph ebbero un tremito e la cornetta del telefono gli
sbatté contro l’orecchio.
«Certo, io… Sì, vado subito a
controllare.»
Abbassò subito la cornetta, senza neanche udire il
“grazie” dall’altra parte.
Nei primi secondi fu colto anch’egli dal panico. Aveva una
gran brutta
sensazione. Vedeva se stesso salire le scale, arrivare davanti alla
porta dell’anziano signor Dwight. Si vedeva entrare e
trovarlo lì,
riverso sul pavimento. Era piuttosto vecchio, questo era il punto. Se
si fosse sentito male e non avesse fatto in tempo a chiedere aiuto? E,
soprattutto, se davvero gli era successo qualcosa, lui, Ralph, sarebbe
stato considerato responsabile? Preoccupazione meschina, la sua. Ma
perfino il figlio del signor Dwight aveva capito che Ralph non poteva
certo essere considerato un modello di umanità.
Un nuovo
ululato lo distrasse dai suoi pensieri. Doveva andare a controllare.
Chiuse la portineria, lasciando la luce accesa, e si diresse verso le
scale. Ogni singolo passo sembrava costargli una buona parte di fegato.
Raggiunse il primo piano e lo superò, giungendo sul
pianerottolo del
secondo, prima di aver programmato come comportarsi. Tirò un
respiro
profondo, fissando gli occhi sulla porta del signor Dwight come se
fosse un nemico da abbattere. Quando si avvicinò,
udì distintamente dei
rumori all’interno. Il suo sollievo durò poco,
poiché si accorse subito
che provenivano da un apparecchio elettronico; si ricordò
che il signor
Dwight era solito ascoltare la radio.
Brutto segno - pensò con un brivido. Era
strano che il vecchio stesse ascoltando la radio a quell’ora.
Il volume, poi, era troppo basso.
La mano che Ralph allungò per bussare tremava a vista
d’occhio. La sua
fronte sudata luccicava e i suoi occhi erano sbarrati. Con movimento
improvviso e nervoso, colpì la porta più volte ad
intervalli brevi.
Ritirò in fretta la mano e rimase in attesa, il cuore
all’altezza della
gola.
Nessuna risposta dall’interno. Né una sedia
trascinata, né un suono ovattato di pantofole in
avvicinamento. Niente di niente.
Ralph deglutì ancora, il viso esangue e gli occhi ora umidi
per la
paura. Sollevò nuovamente il pugno e bussò
ancora, più forte.
Nessuna risposta.
Era davvero una serata sfortunata.
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Capitolo 6 *** La Morte non piange ***
Una timida aurora colorava la volta del cielo di leggere tinte rosate, ma la terra era ancora ammantata di tenebra. La pioggia sottile attraversava le ombre grigie del primo mattino, producendo un ticchettio sonoro sul battuto delle strade deserte nei dintorni di Humpty High. Le luci dei lampioni cominciavano già ad impallidire man mano che l’aria si rischiarava del colore del giorno; il silenzio della notte tardava ad animarsi di voci e rumori, indugiando sulla soglia del mondo. Il quartiere stesso sembrava smorto, come un volto cereo sospeso nel nulla, incatenato nell’ora che precede il risveglio dell’astro solare.
In quella cornice desolante sostava Thanatos, immobile di fronte alla casa silenziosa di Walter Coughly. Le mani callose erano sprofondate nelle tasche del cappotto. I capelli, grondanti d’acqua, formavano ciocche umide, incollate sulla fronte e sulla nuca. I suoi occhi, simili a quelli di un grande predatore, guardavano dritto davanti a sé, senza tuttavia vedere veramente gli alteri cancelli delle case, gli alberi di un verde spento e i viali ordinati e puliti. Sui lineamenti duri del suo viso era modellata una maschera di tristezza; una tristezza profonda e ineluttabile.
Appena i primi raggi solari si affacciarono oltre l’orizzonte, echeggiarono i segnali di precoci attività mattutine: finestre che si aprivano verso la quieta aria esterna, il rombo lontano di un’automobile che veniva messa in moto. La luce si infiltrava tra le case e i giardini, scacciava i vuoti oscuri, si soffermava a giocare sulle cancellate lucide di pioggia.
Gli eventi della notte erano rimasti celati agli occhi degli uomini. Ma, nonostante la complicità delle ombre fosse ormai svanita, Thanatos indugiava, al pari di una statua che inquieta tutti coloro che vi passano innanzi. La tristezza sul suo volto persisteva, impalpabile, non ravvisabile in segni esterni, quale una fronte aggrottata o le gote contratte.
La pioggia aumentò d’intensità, formando una cortina fumosa e abbracciando in un velo le facciate delle case ancora sonnolente. La figura di Thanatos si riusciva a malapena a distinguere tra i torrenti di acqua scrosciante. Le sue parole si persero nella furia degli elementi.
«Una vita» - bisbigliò, schiudendo leggermente la bocca – «per una vita.» Socchiuse gli occhi, lanciando un ultimo sguardo verso la dimora al 312. Poi, lentamente, gli voltò le spalle, avanzando tra le cascate d’acqua che il cielo riversava sulla terra. Mentre si allontanava, scomparendo a poco a poco nella cortina luccicante d’acqua, una miriade di fili di pioggia gli percorreva le guance, scivolando fino alle labbra e sotto il mento. Innumerevoli rivoli sottili e trasparenti, simili a lacrime sul volto della Morte. ΩΩΩ Le nuvole di pioggia erano state spazzate via da un vento fresco, che aveva liberato un sole caldo e accogliente. La gente sciamava spensierata per le vie più affollate di Londra, fermandosi davanti alle vetrine che annunciavano i saldi di fine stagione o sostando nei piccoli giardini che punteggiavano i quartieri più ricchi. Fra la folla che gremiva uno degli ampi marciapiedi di Statelan’s Street svettava un uomo alto, con un abito elegante d’un tenue color panna. Indossava un soprabito di una tinta leggermente più scura, che s’intonava con le costose scarpe di camoscio che portava ai piedi. Al suo braccio sinistro, piegato verso il bacino, era ancorato un lungo ombrello. Gli zigomi erano piuttosto cascanti e la pelle olivastra del viso rovinata e spenta. I suoi occhi, tuttavia, dardeggiavano da un lato all’altro della strada, luccicanti d’astuzia. Con la mano destra infilata nella tasca, procedeva lungo il marciapiede con una sorta di sciatta eleganza. Sembrava non fare molto caso a quello che gli accadeva intorno. Camminava spedito, come chi ha un luogo preciso da raggiungere. Giunto ad un angolo, si scoprì il polso sinistro per controllare l’ora. Emise un verso soddisfatto e rallentò il passo, concedendosi qualche occhiata ai negozi più vicini. Si fermò di fronte ad una vetrina di abbigliamento, guardando con noncuranza il cartellino che indicava il prezzo esorbitante di un pullover firmato. Incassato tra quel negozio e un altro più grande di elettronica vi era un minuscolo tugurio, che ospitava un antiquario. L’uomo vi passò davanti senza degnarlo di uno sguardo, lanciando un’occhiata veloce all’enorme negozio di elettronica che si trovava subito dopo. Qualcosa attrasse la sua attenzione e lui si affrettò a farsi quanto più vicino possibile. Cinque dei sette televisori esposti in vetrina erano sintonizzati sul medesimo telegiornale, ma il volume era troppo basso perché la voce del cronista si potesse sentire al di là del vetro. L’uomo rivolse la sua attenzione allo schermo centrale, il più grande; le sue guance butterate si gonfiarono in segno di collera. Nonostante non potesse udire la notizia, sapeva già di cosa si trattava. Il volto di Walter Coughly faceva mostra di sé, all’interno della pagina del telegiornale, in due diverse foto. Una lo rappresentava quando era più giovane, il cappello da poliziotto calcato in testa e un’espressione compita sul volto. L’altra era più recente, scattata durante un’intervista tenutasi appena un mese prima; mostrava una massa di capelli bianchi e un numero maggiore di rughe, nonché una cicatrice sul mento, ricordo di un pugno di ferro. Fra le due fotografie campeggiava in bianco la scritta “Attentato fallito”. L’uomo dalla pelle scura fissò quelle parole con evidente ostilità, la mano nella sua tasca si serrò per la rabbia, disegnando un bozzo nella stoffa. Le immagini di Coughly erano ancora inquadrate nella pagina del telegiornale, quando la porta del negozio si aprì e ne uscì un ragazzo, trasportando un televisore imballato. Nello stesso istante due signore si incrociarono sulla porta che si stava per chiudere e la tennero aperta, fermandosi sulla soglia per scambiare qualche chiacchiera. Al di sopra delle loro voci, giunsero dall’interno le parole del telegiornale. «La polizia non è riuscita a catturare il killer, che è fuggito subito dopo aver sparato. La pistola ritrovata sul luogo dell’attentato non aveva un regolare numero di serie e non ha potuto fornire altri indizi. Sul posto c’erano molti testimoni, che hanno potuto fornire un identikit, anche se parziale» gracchiava la voce del cronista, distorta dall’apparecchio. Alle sue parole seguì sullo schermo il disegno di un uomo, l’identikit del killer che era riuscito a seminare i poliziotti in borghese. La testa rasata rendeva ancora più rozza la sua faccia piatta e rabbuiata. Molti dettagli erano imprecisi; il naso si distingueva appena e gli occhi erano infossati. L’uomo all’esterno della vetrina aggrottò la fronte. Estrasse la mano dalla tasca e si strofinò il mento con fare pensieroso, fissando il volto sconosciuto sullo schermo. «Un momento, pare che ci sia un aggiornamento» riprese il cronista, guardando un punto dietro le telecamere che lo riprendevano. In quel momento le due signore si salutarono e la porta si richiuse, cancellando ancora una volta i rumori provenienti dai televisori. L’uomo sbuffò leggermente, continuando a fissare il cronista, che aveva appena sollevato in diretta il telefono di comunicazione interna. Ma non vide l’espressione terrorizzata che gli invadeva il volto, poiché un improvviso e insistente suono di sirene della polizia lo fece voltare verso la carreggiata. Le altre auto si spostarono il più velocemente possibile verso il ciglio, per fare largo alle volanti. Un’auto nera, un po’ più lunga del normale, ebbe qualche difficoltà nelle manovre, ma alla fine riuscì ad accostarsi al marciapiede, proprio di fronte alla vetrina con i televisori. La maggior parte dei passanti guardò quella macchina di sottecchi, con riluttanza, come se ci fosse qualcosa di sbagliato nel guardare. Alcuni si precipitarono sul marciapiede opposto con passo sostenuto ma dignitoso. Disinteressandosi del telegiornale alle sue spalle, l’uomo serrò le labbra, lo sguardo ora fisso sul carro funebre a pochi metri da lui. Sentiva sulle braccia un principio di pelle d’oca. Si stupì di quella reazione e, per un gesto scaramantico o per semplice curiosità, si chinò, inclinando le spalle in avanti e guardando all’interno. Era vuoto, non c’era nessuna bara. Ecco il motivo per cui i londinesi più superstiziosi avevano saggiamente pensato di evitare una visione prolungata dell’automobile nera. L’uomo si ritrovò a rabbrividire, senza volerlo. Viveva una vita troppo materialista per credere a certe cose. Anzi, pensava di potersi vantare di prendere spesso il the con la Morte. Questo pensiero gli ricordò che aveva un appuntamento, seppur poco gradito, con uno dei rappresentanti della concorrenza. Accennò un’ultima occhiata al carro funebre, come per una macabra volontà di ricordare a se stesso i rischi del suo mestiere, e si voltò, sorpassando il negozio di elettronica, senza più badare agli schermi in esposizione. Con una mano nuovamente sprofondata nella tasca, procedette a passo spedito lungo il marciapiede, ora meno affollato. L’ombrello cominciò a sbatacchiargli contro il fianco, costringendolo a disancorarlo dal braccio e trattenerne l’impugnatura con la mano, muovendolo davanti a sé come se fosse un bastone da passeggio. Giunto ad un angolo, svoltò con sicurezza, ritrovandosi su un marciapiede altrettanto ampio ma occupato in parte da una serie di tavolini, posti all’esterno dei numerosi bar che punteggiavano quella traversa. Nonostante cominciasse ad avvertire la gola secca, l’uomo non sostò presso nessuno di quei bar, tirando dritto per la propria strada, fino a quando non incrociò quello che stava cercando. Il Giglio Nero non sembrava diverso da tutti gli altri bar nelle vicinanze. Stessi tavolini lustri all’esterno, stessa doppia entrata a vetri, una simile esposizione di dolci in vetrina. Ma l’uomo in abito panna si fermò esattamente dinanzi ad esso, allungando la mano verso il maniglione di legno e spingendolo, per far aprire una delle due ante di vetro. All’interno risuonava il ronzio dell’aria condizionata, appena udibile attraverso il chiacchiericcio dei pochi presenti e il tintinnio dei bicchieri sui vassoi dei camerieri. Lasciata andare l’anta alle sue spalle, l’uomo tirò un profondo respiro, lieto di trovarsi in un ambiente fresco. Con un cenno della mano richiamò l’attenzione di una giovane donna dietro al banco, che si riassettò il grembiule e si affrettò a raggiungerlo. «Buongiorno, signor Delgado» lo accolse con un ampio sorriso deferente. «Vuole accomodarsi nella sala da the al…» «Ho un appuntamento con una persona» la interruppe il signor Delgado, voltandosi verso la sala al piano terra e ispezionandola con lo sguardo. «Non è ancora arrivata?» La sua voce raschiante aveva un perfetto accento inglese, appena più stretto rispetto alla dizione di Londra ma ugualmente corretto. «Oh sì, un signore ha chiesto di lei» replicò la donna, trattenendo a stento il suo sorriso cortese. «La sta aspettando nella saletta privata.» Si voltò di tre quarti, indicando una porticina al lato del bancone, seminascosta da un separè in stile orientale. Delgado emise un mugugno soddisfatto e tese l’ombrello alla donna, che lo prese e lo infilò nel portaombrelli lì accanto, sebbene non rientrasse tra i suoi compiti di barista. «Le faccio portare qualcosa?» domandò educatamente, lisciandosi ancora una volta il grembiule, dove erano stampigliate le iniziali del bar, sopra il disegno sinuoso di un fiore. «Il solito.» Delgado sollevò il mento con fare arrogante, sistemandosi il colletto della camicia. La giovane donna si allontanò, tornando dietro al bancone e facendo segno ad un giovane di accompagnare il cliente nella saletta privata. Questi si fece precedere dal cameriere, nonostante conoscesse già la strada, e attese che gli venisse aperta la porta. Il cameriere lo introdusse nella stanza e si congedò con un silenzioso cenno del capo. Nella saletta circolava una corrente fredda, che sollevò un commento stizzito da parte di Delgado. «L’aria condizionata è troppo alta.» Si sfilò subito la giacca e la appese al guardaroba accanto alla porta. Dalla finestra decorata la luce entrava a fiotti, spiccandosi in fasci allungati e colorando la superficie del tavolino ovale, circondato su tre lati da un sedile. Un uomo sedeva all’estremità del sedile, volgendo le spalle alla porta, le mani incrociate e appoggiate sul tavolo. Dinanzi ad esse era appoggiato un bicchiere pieno di un liquido trasparente, da cui si innalzava un’opaca nuvola di vapore. All’ingresso di Delgado, l’uomo seduto non si voltò a guardarlo. Sciolse le proprie dita, afferrò il bicchiere con la mano destra e ne trasse un lungo sorso, riponendolo poi al suo posto. Delgado aggrottò la fronte, infastidito da quell’atteggiamento, e raggiunse il tavolino. Sedutosi di fronte a lui, sollevò lo sguardo e socchiuse la bocca per lo stupore. Non era l’uomo che stava aspettando ed era quasi impossibile che uno sconosciuto fosse a conoscenza di quell’incontro. La mente di Delgado si mise in moto per decidere in fretta la sua prossima mossa, ma il tempo a sua disposizione era scaduto. La sua sorpresa crebbe e si mescolò al terrore, quando riuscì finalmente a vedere cosa l’altro teneva nella mano sinistra. In una frazione di secondo Delgado fissò gli occhi in quelli della persona che aveva di fronte, impallidendo fino alla punta delle orecchie. Gli occhi castani del predatore gli restituirono lo sguardo indifferente della sua condanna. Lo sparo fece sussultare la giovane donna dietro il bancone del bar. Il bicchiere di cocktail che teneva in mano le sfuggì e piombò ad infrangersi sul pavimento, inondandolo di rosso. |
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Capitolo 7 *** Una vita per una vita ***
La fronte di Ralph continuava a grondare sudore; le sue mani, in preda ad una serie di tremiti nervosi, serravano con forza la tazza di the. Il portinaio sedeva in modo rigido su una delle sedie ricolme di cuscini nella cucina del signor Dwight. Le finestre, tutte ermeticamente chiuse, gli provocavano un senso di soffocamento, aggravato dai postumi dello spavento. L’uomo accanto a lui gli assestò qualche leggero colpetto sulla spalla, per fargli coraggio. Ralph sussultò, roteando gli occhi verso di lui con aria sconvolta. Gocce di sudore freddo gli scivolarono lungo il naso. Dall’altro lato del tavolo si udivano una serie di mugugni irritati. Ralph cercò di ignorarli e si portò la tazza di the alle labbra, ottenendo solo il risultato di farla tintinnare contro i denti e versare buona parte del contenuto sulla propria camicia, che gli si era appiccicata addosso. «Sei un maledetto uccello del malaugurio, Ralph» gracchiò la voce del vecchio signor Dwight, sprofondato su una poltrona dall’altra parte del tavolo. Ralph represse un singhiozzo, ingoiando le parole irate che gli erano salite alle labbra. La tazza di the tintinnò ancora fra le sue mani malferme. «Papà» lo ammonì suo figlio, seduto accanto al portinaio. «Ralph era solo preoccupato per te.» «Un corno» replicò il padre. «E tu, vedi di non rompere niente!» strillò in direzione di Ralph. «Non mi piace per niente il rumore che sento.» La mascella del signor Dwight si protese verso l’esterno, facendolo somigliare ad un bulldog pronto a scattare all'attacco. Suo figlio sospirò, alzando gli occhi al cielo. Tuttavia, sentiva che quella diversione faceva bene a tutti e tre. Anche lui, come Ralph, aveva temuto il peggio. Gli era sembrato di sentire il proprio cuore riprendere i suoi battiti, quando era arrivato nell’appartamento del padre e l’aveva trovato intento a minacciare Ralph di prenderlo a padellate. «Era preoccupato per il suo collo, non per il mio.» «Devi capirlo» tentò suo figlio. «Ricevere la mia telefonata nel cuore della notte l’ha fatto cadere nel panico.» Ralph annuì un paio di volte, stirando le labbra e ricompensando l’uomo di uno sguardo grato. «Nel panico, ah!» esclamò ancora il vecchio, spalancando la bocca quasi sdentata. «Gli sarà dispiaciuto tanto lasciare la TV per venire qua a vedere se ero davvero stecchito!» «Papà!» lo redarguì suo figlio, impallidendo di colpo. «L- la radio e- e- era a basso v-volume» biascicò Ralph in una debole protesta. «E allora?» saltò su il signor Dwight. «Dopo che è andato via il tecnico, mi sono addormentato sulla poltrona e quella dannata radio è rimasta accesa.» «Quale tecnico?» s’intromise suo figlio, prima che Ralph avesse il tempo di proseguire nella perorazione della propria causa. «Quello della caldaia» rispose burberamente suo padre, sistemandosi meglio sulla poltrona. Suo figlio lanciò uno sguardo dubbioso al portinaio, per scoprire con somma sorpresa che sul suo volto cianotico era spuntata una smorfia, vagamente somigliante ad un sorriso. «Sicuramente si sbaglia» farfugliò. «Come hai detto?» abbaiò il signor Dwight. «Non è v-venuto nessun tecnico» spiegò Ralph, asciugandosi la fronte con la manica. «L’avrei notato» aggiunse, in un tentativo di recuperare la sua dignità ferita. «E invece è venuto» lo contraddisse il signor Dwight con aria di sfida. «Ma non è possibile! Io non l’avevo ancora…» iniziò Ralph, bloccandosi immediatamente nel momento in cui capì che si stava mettendo il cappio al collo con le proprie mani. «Non avevi ancora cosa?» lo incalzò il signor Dwight, la voce colma di sospetto. Suo figlio fece scorrere gli occhi dal volto contorto del padre a quello pallido di Ralph. «È probabile che le sia sfuggito» interloquì, rivolgendo al portinaio un’occhiata eloquente. Per nulla convinto, il signor Dwight sospinse ancora di più la mascella verso l’esterno, ma non replicò. Per alcuni istanti l’unico suono fu quello della tazza che tintinnava fra le mani di Ralph. Il signor Dwight volse il capo verso di lui e gli puntò addosso uno sguardo ostile. Il portinaio non poté fare a meno di sussultare, nonostante sapesse bene che quegli occhi non potevano più vedere. D’un grigio uniforme e innaturale, erano ciechi da svariati anni; tanto che il vecchio si era abituato a distinguere il più piccolo rumore, aveva imparato a muoversi da solo nel suo appartamento e a salire le scale, unicamente ascoltando l’eco dei propri passi e sentendo la materialità dei gradini e del passamano. «Figliolo, per favore» chiamò il signor Dwight, sollevando una mano nella direzione da cui aveva sentito provenire la sua voce. Il tono si era fatto dimesso, a dimostrazione di quanto in realtà anche lui si fosse spaventato della reazione di Ralph. Suo figlio si alzò e lo raggiunse, chiudendo fra le sue la mano che il padre gli tendeva. «Aggiustami il cuscino qui, dietro alla spalla» lo pregò, sollevando la schiena con un lamento. «Io non riesco proprio ad arrivarci.» Sotto lo sguardo rammaricato di Ralph, il figlio aiutò l’anziano genitore a sistemare i due cuscini sulla poltrona. Durante l’operazione, il suo sguardo cadde su altre due tazze da the, appoggiate sul lavandino. «Hai avuto ospiti?» «Te l’ho detto che è venuto un tecnico a riparare la caldaia» ripeté suo padre, spazientito. Il figlio scoccò un’occhiata interrogativa al portinaio, che si limitò a stringersi nelle spalle. «E avete preso il the insieme?» «Proprio così» replicò suo padre, tendendo la mano verso l’alto e colpendo la guancia del figlio con un buffetto affettuoso. «Quel ragazzo era molto silenzioso.» «Era giovane?» si informò Ralph, chiedendosi chi mai potesse essere questo tecnico che lui non aveva mai chiamato. «Non lo so» ammise il signor Dwight, aggrottando la fronte. «Ma non ha voluto niente» aggiunse, puntando gli occhi ciechi su Ralph, il cui volto avvampò. «È stato molto gentile» intervenne suo figlio. « È l’ora della radiocronaca del mattino.» «Bene, riaccendi la radio» lo esortò il padre, voltandosi verso l’angolo dove era sistemato l’apparecchio. Sapendo quanto ascoltare le notizie confortasse l’anziano padre, dato che aveva ben poche fonti di svago, il figlio sorrise e andò a girare il pomello della vecchia radio, già sintonizzata sulla frequenza della radiocronaca. Si udì un suono metallico, seguito da un paio di scariche. Poi la voce del cronista, perfettamente udibile nonostante le condizioni precarie dell’apparecchio, riempì la stanza. Ralph trattenne uno sbadiglio, ben conscio del fatto che il vecchio l’avrebbe sicuramente sentito. «Il primo mattino di Londra si è tinto di rosso» stava annunciando il cronista, con voce grave. «Ben due omicidi sono stati scoperti nelle prime ore. Entrambi hanno gettato la popolazione della città in uno stato di somma sorpresa.» «Sempre cattive notizie» sospirò il figlio del signor Dwight, trascinando la sedia accanto alla poltrona di suo padre. «Questa mattina l’ex capo di Scotland Yard, Walter Jasper Coughly, è stato trovato assassinato nella sua abitazione. Un unico proiettile lo ha raggiunto alla fronte, provocando la morte istantanea. Le guardie non sanno spiegare come possa essere accaduto, poiché nessuno sarebbe stato in grado di entrare nella casa blindata. Ascoltiamo la dichiarazione del suo assistente...» «Walter Coughly!» esclamò il figlio, sbalordito. «Pover’uomo» commentò il vecchio signor Dwight, abbassando gli occhi ciechi sulle proprie mani. «Avevano già cercato di farlo fuori qualche giorno fa» continuò, coprendo per qualche istante le parole del cronista. «L’ho sentito alla radio.» «Signore Iddio» mormorò Ralph. «Sssst» lo zittì il signor Dwight, puntando un dito verso l’apparecchio radiofonico. «Una magra consolazione, quella della notizia della cattura dell’uomo che, due giorni fa, ha attentato alla vita di Walter Coughly presso il White Rose Garden.» All’udire il nome del White Rose Garden, Ralph sussultò violentemente, coprendosi la bocca con la mano. Stavolta il signor Dwight e suo figlio lo zittirono all’unisono. «L’uomo, di cui era stato fornito un identikit a tutti i giornali e le televisioni appena ieri, è stato fermato, mentre cercava di raggiungere l’aeroporto di Gatwick. Pare che l’identificazione al comando di polizia sia avvenuta grazie ad una bambina del quartiere di Hire’s, di cui non forniamo i dati per la sicurezza…» «Incredibile, è successo proprio qui» bisbigliò il figlio del signor Dwight, senza riuscire a celare un certo nervosismo. Ralph, ancora più pallido di prima, aveva finito quasi per rannicchiarsi sulla sedia, le pupille dilatate e lucide. Teneva le braccia strette intorno a sé e si dondolava piano avanti e indietro. «Il nostro bel quartiere» balbettò con tono piagnucoloso. «Cosa ti aspettavi?» sbottò il vecchio, colpendosi il ginocchio con una mano. «Credi di poter tenere lontana la morte grazie ad un paio di pavimenti lucidi?» Ralph non trovò la forza di replicare, limitandosi ad un lamento soffocato. Il figlio del signor Dwight guardò il padre con un misto di sorpresa e sgomento. La piega che stava prendendo il discorso non gli piaceva affatto. Fu con sollievo che accolse la seconda parte della radiocronaca. «Il secondo giallo della giornata si è aperto in Statelan’s Street. Verso le dieci di questa mattina, i camerieri del Giglio Nero hanno udito uno sparo. Ancora una volta, un uomo assassinato con un colpo alla fronte. L’uomo in questione, Trevor Delgado, è noto per il suo coinvolgimento in una delle bande criminali più influenti della città. Secondo le prime ipotesi, si è trattato di un regolamento di conti. L’unica persona che ha visto l’uomo che era con lui si trova ora in stato di shock e pare non essere in grado di fornire una descrizione.» «Trevor Delgado?» ripeté il figlio del signor Dwight, aggrottando la fronte. «Ho già sentito questo nome.» Ralph scosse la testa con violenza e allungò le braccia davanti a sé, come se non volesse essere in nessun modo coinvolto in faccende di morte e criminalità. Si alzò di scatto dalla sedia, torcendosi le mani. «Io torno giù» annunciò, secco. Senza aspettare risposta, si precipitò verso la porta. Il signor Dwight emise un verso sdegnoso, scuotendo la testa. Suo figlio restò pensieroso per qualche istante, mentre la radio proseguiva con le notizie del giorno. «Una vita per una vita» sentenziò il vecchio, con tono di amara soddisfazione. «Come?» domandò suo figlio, confuso. «Non l’hai notato?» gli chiese a sua volta il padre, posando lo sguardo cieco sul tavolo. «Due vite votate a due differenti cause» spiegò, mentre nella sua voce si andava insinuando una nota malinconica. «Si può dire che abbia concluso la partita in parità.» «Chi?» insisté il figlio, una vena di inquietudine ora ben evidente nel tono calmo della voce. Il signor Dwight emise un profondo sospiro, appoggiando la schiena all’indietro contro lo schienale. «La Morte» replicò in un sussurro roco. |
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Capitolo 8 *** Alter Ego ***
La mattinata così colma di raccapriccianti scoperte si era presto stemperata in un pomeriggio umido e grigio. Nonostante il generale shock e la diffusa mestizia che la morte di Walter Coughly aveva portato con sé, le strade di Londra erano ancora trafficate. Automobili e persone filavano da una parte all’altra della città, ansiose di vedere presto la fine di quel giorno funesto. La vita avrebbe temporaneamente abbandonato le arterie della città solo al momento del funerale solenne a Westminster, fissato per il giorno seguente. Un’insolita quiete, tuttavia, aleggiava nei quartieri e, persino dove sarebbe stato prevedibile registrare una qualche nota di trionfo, si potevano notare visi lunghi e preoccupati. Il quartiere di Soho non faceva differenza. I volti che si incontravano per le strade erano cupi e accigliati, pochi uomini si riunivano in gruppetti per parlottare a bassa voce. Alcuni locali erano spenti, le porte sbarrate in attesa degli orari di apertura serale. La porta a vetri dell’Alter Ego era chiusa dall’interno, i tavoli deserti sembravano lapidi silenziose nella penombra interna. Le uniche luci erano quella proveniente dal retro, che filtrava attraverso la porta aperta per metà, e il neon dietro il bancone, il cui riflesso si moltiplicava sui corpi delle bottiglie messe in fila alle spalle della postazione del barista. Quelle stesse luci risplendevano opache sui volti dei due uomini seduti agli sgabelli, entrambi con la schiena piegata in avanti e le palme appoggiate sul bancone. Uno di loro stringeva tra le mani un pacchetto di sigarette vuoto e a tratti lo strizzava con gesti nervosi. Kevin, dal lato interno del bancone, sollevò gli occhi su di lui, senza dire nulla. L’altro uomo emise un grugnito di disapprovazione, incassando la testa fra le spalle. «Jeff, piantala» borbottò, senza voltarsi a guardare il compare. Jeff quasi si strozzò nel tentativo di reprimere un singhiozzo. Kevin, mosso a compassione dall’aspetto pallido e malaticcio del suo volto, infilò una mano sotto il bancone e ne estrasse un paio di sigarette stropicciate, tendendole verso di lui. Jeff gli scoccò un’occhiata colma di gratitudine e ne prese una, portandosela alla bocca con mani tremanti. «Steve?» lo chiamò Kevin, tendendogli l’altra sigaretta. Steve si volse verso di lui, mostrando un paio di profonde occhiaie e un’espressione sconfitta. Scosse la testa in risposta all’offerta di Kevin, e abbassò gli occhi verso un giornale appoggiato sullo sgabello alla sua destra. Esattamente al centro della pagina campeggiava il titolo in nero “Morto il boss Trevor Delgado. Assassinato in un bar su Statelan’s Street”. «Era un gran bastardo» sentenziò Steve a bassa voce. Jeff annuì un paio di volte, accendendosi la sigaretta con un fiammifero. Kevin, invece, si strinse nelle spalle. «Ma la sua morte ci ha lasciato disoccupati» proseguì Steve con profonda amarezza. Jeff camuffò un altro singhiozzo con un colpo di tosse e Kevin socchiuse la bocca, sorpreso. Appoggiò entrambe le mani sul bancone e si chinò verso i due con fare cospiratorio. «Quindi era lui che…» iniziò, inclinando la testa verso destra e poi verso sinistra, senza riuscire a trovare le parole per esprimere ciò che aveva intuito. «Insomma, lavoravate per lui.» Steve annuì, con un profondo sospiro. Jeff allungò una mano per avvicinarsi un posacenere, passandosi l’altra sulla fronte madida di sudore. Kevin li studiò per lunghi istanti e poi aprì lentamente la bocca per dire qualcosa. Ma, intercettata l’occhiata ammonitrice di Steve, la richiuse. «Capisco» si limitò a dire, con tono di rammarico. Non era mai entrato troppo nei loro affari, perché ne conosceva bene la natura. Lui non faceva domande e loro non gli fornivano risposte. Era solo un tramite e nient’altro. Perciò, nonostante la curiosità di sapere se i due omicidi di quella mattina fossero collegati, non si arrischiò a formulare la domanda. «Coughly è morto» risuonò la voce di Steve, quasi avesse compreso i suoi pensieri. «L’ho sentito» replicò Kevin, cauto. «I-in casa sua» balbettò Jeff, il capo chino e l’attenzione concentrata sulla sigaretta mezza consumata che stringeva tra le mani malferme. «Notevole» ammise Steve in un sussurro quasi impercettibile. «Ma hanno già preso il killer» aggiunse Kevin. Steve alzò di nuovo lo sguardo, fino ad incrociare quello di Kevin che, al contrario, fece finta di nulla, sollevando la schiena e passandosi sbrigativamente le mani sui jeans grigi e troppo larghi. Le sue dita toccarono una busta che teneva conservata in tasca. La sua mano si fermò su di essa e lui deglutì a vuoto, aggrottando la fronte. Quando riportò lo sguardo su Jeff e Steve, notò che entrambi erano immersi nei propri pensieri e non lo degnavano di attenzione alcuna. A disagio, il barista passò da un piede all’altro, tentando in quel modo di attirare la loro attenzione. Lo sguardo di Steve era appuntato sul giornale accanto a lui. Jeff si tolse di bocca il mozzicone di sigaretta e tentò di stropicciarlo nel posacenere, per spegnerlo. Le mani gli tremavano tanto che riuscì nell’intento solo al secondo tentativo, dove aver sparso cenere sul bancone. Kevin estrasse meccanicamente uno straccio da sotto il bancone e lavò via la cenere, interpretando il mormorio seccato di Jeff come una richiesta di scuse. Jeff fissò la sua cenere che veniva spazzata via con un paio di colpi di straccio e piegò ancora di più la schiena in avanti. «Quell’uomo dell’altra sera» iniziò, rivolgendosi a Kevin con fare incerto. «Quell’uomo che… Hai capito, no? È poi venuto a prendere i soldi?» Si volse verso Steve, come per chiedere il suo consenso. Steve distolse lo sguardo dal giornale per puntarlo sul soffitto con un sospiro sommesso. La mano di Kevin si serrò con forza sulla tasca che conteneva la busta. «Il pomeriggio dopo il vostro incontro è venuto a prendere l’anticipo» rispose, tentando di mascherare la fretta con cui aveva pronunciato quella frase. «Credevo di aver chiuso la porta e invece me lo sono ritrovato alle spalle, mentre sistemavo i tavoli.» Il palmo della mano stretta sulla sua tasca stava iniziando a sudare. «Era un tipo strano» commentò Steve, chinandosi sul bancone fino ad appoggiarvi i gomiti. «Puoi dirlo forte» concordò Jeff, lanciando un’occhiata di desiderio alle bottiglie alle spalle di Kevin. «Perciò quel pomeriggio ha preso subito l’anticipo» proseguì Kevin, stavolta più lentamente, come se facesse fatica a scegliere le parole. «E poi…» E poi un bel niente. Non c’era stato nessun “poi”. Quell’uomo non si era più fatto vivo per reclamare il resto dei soldi. Pur riluttante a tenere per sé soldi di dubbia provenienza, Kevin si era ritrovato in una situazione complicata. Strinse le labbra, studiando con attenzione Jeff e Steve, soffermandosi sui loro abiti eleganti e sulle loro scarpe pulite. Un nuovo balbettio di Jeff lo riportò alla realtà. «E poi è passato a prendere il resto?» chiese Jeff, una luce avida scintillava nei suoi occhi slavati. Le labbra di Kevin si serrarono ancora di più, la mano sulla tasca tremava. «Lui…» «Che cosa importa?» sbottò Steve. «Delgado è morto, quindi non credo proprio gli importi più dei suoi soldi.» Jeff parve deluso. Abbassò lo sguardo sul bancone e iniziò a rigirare il mozzicone di sigaretta spento nel posacenere. Kevin socchiuse la bocca, mentre un fiotto di sollievo gli scivolava nel petto. Spostò la mano dalla tasca, lasciandola ricadere lungo il fianco. «Allora, Kevin» chiamò Steve a gran voce. «Che ne dici di un goccio di whisky?» Jeff si riscosse e fece scattare in alto la testa, sciogliendosi in un largo sorriso. Kevin si illuminò e si voltò, afferrando una bottiglia tozza e un paio di bicchieri. Mentre versava il liquido ambrato nei due bicchieri, le spalle di Jeff si afflosciarono ancora. «Però, cinquecento sterline» sospirò, occhieggiando con affetto il suo bicchiere. «Tu cosa faresti con cinquecento sterline, Kev?» Kevin finì di riempire i bicchieri e sollevò le spalle, appoggiando entrambe le palme delle mani sul bancone. «Probabilmente le userei per comprare a mio padre un appartamento più decente di quello in cui vive ora» replicò, serio in volto. «O potrei far allargare il mio, quassù. Così non sarebbe più costretto a stare da solo.» «E dove abita ora?» domandò Steve, iniziando a sorseggiare il suo whisky. «Al 37 di Armory Street» rispose Kevin con un piccola smorfia. «Quei buchi che chiamano appartamenti, di fronte al White Rose Garden. Avete presente il posto?» Il sorso di whisky andò di traverso a Jeff, costringendolo a tossire rumorosamente. Steve, al contrario, riuscì a controllarsi. Appoggiò con cautela il bicchiere, continuando a tenerlo fra le mani. «Ne ho sentito parlare» rispose con un filo di voce, turbato. I lampioni in strada ammiccarono per qualche secondo, prima di accendersi definitivamente. La luce intermittente proiettò una fugace ombra sulla porta dell’Alter Ego.
FINE
Nota di chiusura: Ringrazio molto Psyker per aver seguito e commentato questa storia. Se avete altri commenti o impressioni, scrivetemi pure! |
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