It's better to burn

di Briseide
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***



Capitolo 1
*** I ***


It's better to burn





E' meglio bruciare, che spegnersi lentamente.
[Neil Young]



Mettiamo subito in chiaro una cosa.
Se c’è una cosa che non sopporto, quella è sicuramente mischiarmi alla gente, così volgarmente comune, peggio ancora se devo farlo per le vie di Diagon Alley.
Non è un luogo comune, o un generalizzare, o un pensiero spocchioso da ragazza di ricca famiglia come tutti trovano più semplice affermare, ma semplicemente la verità, chiunque potrebbe considerarlo: in quella strada si verificano tutte le situazioni più improponibili e assurde che possano accadere. Come ad esempio il dover assistere ad una folla di gente in preda a follie omicide pur di arrivare per primi a toccare una vetrina con la punta del naso. O penosi quadretti famigliari mamma-papà e figlio che camminano serenamente per la strada, solitamente al centro per far ammirare a tutti quanto è felice quella famiglia. Il tutto assume toni ancora più patetici quando la madre aspetta un altro bambino.
Che io mi ricordi, non sono mai andata in giro per Diagon Alley dando la mano a mia madre, e camminando al fianco di mio padre, che con le mani in tasca sorride ad un conoscente e stringe la mano ad un amico, incontrato per caso, anche lui lì con la sua allegra famiglia.
Mia madre mette piede fuori di casa solo per entrare in quella di altri, in occasioni di ricevimenti o false riunioni tra vecchi amici, che stranamente si svolgono in saloni insonorizzati o in scantinati adibiti a Sala Riunioni, con tappeti pregiati, mobili antichi e comodi divani.
Ho smesso di credere a quella storia a dieci anni. È un po’ inusuale che durante una riunione di vecchi amici uno di loro esca dalla stanza riverso su un lettino, con la camicia sbottonata e la schiena forata da chissà quale incantesimo, non è vero?
Quello è stato il primo cadavere che ho visto, e francamente, mi aspettavo di peggio. Ad altri non è andata così bene la prima volta, ma non ho voglia di parlarne.
Tutto questo era solo per sottolineare quanto fosse snervante per una come me passeggiare per Diagon Alley. Ma sempre perché secondo la regola Non C’è Mai Fine Al Peggio, dovevo farlo affiancata alla persona più sinceramente insopportabile con la quale abbia mai avuto a che fare. È un altro modo per dire che è mia amica, ma che ho perso di vista le poche ragioni per le quali lo siamo ancora, da quando contavamo soltanto undici anni di età. Solitamente non la chiamo con alcun nome, contando che è sempre alla mia destra non ho mai bisogno di alzare la voce e attirare la sua attenzione, per questo ogni tanto dimentico persino come si chiami in realtà. È grazie agli altri che finisco con il ricordarlo sempre, quando qualcuno alza la voce e la chiama per nome, solitamente per rivolgere in seguito un simpatico commento su uno dei tanti difetti che la compongono. In ogni caso, lei è qui al mio fianco e si chiama Millicent Bullstrode.
Capirete che non faccio un gran danno a non nominare mai il suo nome.
Ebbene si ,le grandi ingiustizie di questa misera e cinica vita: io sono una viola del pensiero, pensata soprattutto nelle ore notturne, e lei semplicemente Millicent Bullstrode, Colei Alla Quale La Natura Ha Definitivamente Voltato Le Spalle.
Ma se c’è una cosa da dire su Millicent, va detta: è una ragazza d’oro in realtà, non fa mai pesare agli altri il fatto che Madre Natura si è scordata di lei, facendo sentire in colpa chi ha davanti per essere tanto migliore di lei. Cara Millicent. Fa così con tutti, ma non con me. Non le riesce proprio, d’altra parte, e io non sono tipo da rimanere male per certe cose.
Probabilmente perché la parola senso di colpa non so neanche cosa sia. Da lungo tempo non mi fa visita, l’ultima volta è stata da bambina, quando per sbaglio ho fatto cadere una allora curiosa maschera d’argento, su un ripiano in alto della libreria di mio padre.
Non sono una vigliacca, avrei finito con l’avvisare di quanto fatto, ma mi sembra ovvio che la prima cosa da fare è cercare di rimediare da soli al danno fatto. Ebbene, a otto anni non ero poi così esperta in fatto di manualità, esperienza che avrei poi acquisito più in là e di certo non per il bricolage, e se possibile peggiorai la situazione.
Il mio senso di colpa fu causato da una cicatrice sulla schiena di mio padre. Mia madre mi aveva accarezzato la testa e sorriso il più falsamente possibile, per farmi credere che dopotutto non fosse colpa mia. In effetti mia madre è una persona particolare, con le sue strane convinzioni, ognuna alquanto discutibile. Ma pare che mio padre la ami sinceramente.
Sentii qualcosa urtare contro la mia spalla: un ragazzino poco più alto di me era passato di corsa accanto a noi, scostandomi anche poco gentilmente. Ecco perché non sopporto questa via e la gente che la frequenta. Mi viene da sorridere, perché penso che se Blaise mi sentisse dire una cosa del genere, aggiungerebbe con la sua solita classe che io odio tutta la gente che non sia io.
In realtà non è propriamente così, ma la mia corrente di pensiero tende a prendere quella strada.
Il secondo colpo sulla spalla però, arrivo da un dito tozzo di Millicent. Mi voltai verso di lei, appena spazientita. Erano passati più di trenta minuti da quando eravamo lì, io lo considero un fatto normale.
“Pansy guarda quel vestito!”.
Allungò un dito verso la vetrina davanti a noi, e lo puntò su un vestito blu, adagiato su un modello in legno dalla corporatura perfetta. Prima di posare lo sguardo sul vestito, guardai il modello in legno e lo confrontai con il mio corpo. Potei ritenermi soddisfatta. Allora passai al vestito, posando gli occhi sul tessuto blu notte, sulle pieghe in fondo alla gonna, sulle spalline sottili, sulla scollatura appena accennata. Non era male, ma addosso a Millicent sarebbe andato malissimo.
Come sempre, non mi sentii in colpa per quel pensiero: amavo la mia schiettezza, non l’avrei cambiata per nessun altro pregio al mondo.
La guardai scettica. Poi scossi la testa. Millicent salutò il vestito con un’ultima occhiata di rimpianto e riprese a camminare.
Esatto, se io, Pansy Parkinson, mi trovavo a Diagon Alley, era solo perché Millicent si era gettata ai miei piedi, implorandomi di uscire con lei quel sabato mattina, in cerca di un fantomatico (ed inesistente) vestito che le andasse bene. Alla fine avevo accettato, anche se piuttosto controvoglia.
Tra tutte le cose che odio, rientrano anche le cose all’ultimo minuto e al tempo stesso, le cose fatte inutilmente di corsa.
I cancelli di Hogwarts si sarebbero aperti due giorni dopo quel sabato, e Millicent mi aveva trascinata a Diagon Alley per cercare un vestito da sera da indossare al prossimo ballo che forse neanche ci sarebbe stato.
Quella sciocca di Hannah Abbott, aveva sparso la voce di un futuro ballo che si sarebbe dovuto tenere in quel di Hogwarts nel corso del nostro ultimo anno. Esattamente quell’anno. Peccato che quella vecchia gatta spelacchiata della McGranitt avesse espresso il suo categorico no, con l’appoggio ovviamente della Granger, che non faceva i salti di gioia all’idea di dover piangere per i prossimi tre anni perché il Re Weasley non l’avrebbe invitata, e quello di Ernie McMillan, che sapeva fin dall’inizio che avrebbe ricevuto una lunga serie di rifiuti da parte di tutto il corpo femminile del castello.
Avrebbe potuto andarci con la Granger. Insomma, il punto è che di definitivo non c’era assolutamente niente, era solo un’idea venuta fuori all’ultima riunione dei Prefetti con il corpo docente alla fine dell’anno scorso, il sesto per noi. E ovviamente l’aveva tirata fuori quella scervellata della Patil, che aveva una gran voglia di rifarsi dell’ultimo ballo con Weasley. E nel caso in cui avessimo ottenuto l’accordo, non sarebbe stato prima di dicembre. Per non parlare poi della possibilità che si facesse direttamente a giugno.
E, dopo tutte queste considerazioni, Millicent mi aveva portata a Diagon Alley a Settembre.
“E di quello che ne dici?”.
Ecco che aveva adocchiato un altro vestito. Repressi uno sbuffo e seguii la direzione del suo dito. Alzai un sopracciglio. Meno peggio dell’altro, addosso a lei. Il che implica che fosse anche meno bello. O più brutto per non usare altri patetici eufemismi.
“Se lo hanno di un altro colore, provalo”.
Decisamente, il turchese non faceva per Millicent. Fu come se le avessi detto che Blaise aveva intenzione di sposarla. Entrò zampettando dentro al negozio, e si diresse con un sorriso che non finiva più verso la prima commessa libera. La prescelta impallidì nel vederla venire, ma non volli farci caso, o mi sarei dovuta arrabbiare.
Non tutti avevano il diritto di offendere Millicent o avanzare critiche. Capitava spesso che fulminassi qualche studente ad Hogwarts, senza che lei ci facesse caso. Un mio sguardo era sufficiente a far chiudere la bocca al malcapitato di turno. Ma ammetto che i commenti di Blaise sono sempre ben accetti, dopotutto lui potrebbe anche vantarne il diritto. Già, Millicent è innamorata di lui dal nostro secondo anno. Perdutamente innamorata, è anche un po’ patetica, e non mi risparmio mai dal dirglielo, ma lei risponde che non posso capire non avendo mai amato nessuno.
Non so se è vero. Tendenzialmente si, non credo di aver mai detto a qualcuno di amarlo, anzi non lo ho mai fatto, lo so per certo, ma ho delle vaghe reminiscenze, e fatico a ricordare se in effetti abbia mai pensato di poter amare una persona. Non ricordo molto bene, e per questo non ci penso mai tanto a lungo sopra. Non è che mi interessi poi molto, se non lo ricordo non è importante, e in ogni caso il mio nuovo approccio con la vita assorbe tutto quello che è stato il mio passato sentimentale.
Dopo aver osservato un vestito nascosto da quello scelto da Millicent e valutato che il mio corpo merita molto di più, feci per entrare, quando qualcosa mi fermò il passo.
La cosa era la mano di Blaise, che riconoscerei tra mille: vellutata come quella di un bambino, forte, le dita lunghe come le mie, e sempre gelida. Ma è un gelo che a me non ha mai fatto male. A molti altri si.
“Guarda chi si vede…”.
Commentò aprendosi in un sorriso storto dei suoi. Si, sorriso storto è quel che si addice al sorriso di Blaise. Non è un vero e proprio ghigno, particolarità solo ed unicamente di Draco quella, essendo più accattivante che maligno, benché la sua dose di veleno in bocca ce l’abbia anche lui come me e come Draco e come tutti quelli costretti a stare sempre sulla difensiva quando non sono tra di loro. Beh, a parte Millicent come già detto.
“Blaise”.
Lo salutai reclinando di poco la testa e assottigliando gli occhi. Allora mi lasciò il polso e si fermò a guardarsi intorno. Non si accorse di Millicent dentro al negozio, e io preferii non dirglielo. Il pensiero che quel vestito le sarebbe andato male ancora una volta mi aveva già rattristato abbastanza. “E’ un vera soddisfazione coglierti nella pagina più ingloriosa della tua esistenza”.
Aggiunse indicando con un cenno del capo il negozio alle mie spalle. Sorrisi divertita, senza perdere quell’ombra di malizia che ormai sembra essere cucita addosso a me come una seconda pelle.
“Oh figurati, ci sono state pagine ancora più ignominiose nella mia vita”.
Una luce di interesse attraversò i suoi occhi screziati d’argento. Si, gli occhi di Blaise sono sempre stati il centro dell’interesse di molti, ma pochi hanno avuto la possibilità di studiarli realmente da vicino. Personalmente, sono convinta che nella sua vita precedente, Blaise fosse un gatto. I suoi occhi sono quelli di un gatto, non tanto per il colore, ma per la loro luce e particolarità. Quel blu avvolgente screziato di argento. Chi volesse fare della mielosa poesia, potrebbe benissimo dire che equivalgono ad un mare di notte con i riflessi della luna. E io dico semplicemente che sono la cosa più bella che abbia Blaise. “E ci saranno ancora. Però questa me la appunto”.
Promise scherzoso. Ma sapevo che non stava scherzando. L’ironia di Blaise per certi aspetti era molto sottile…così sottile che quando meno te lo aspetti, scompare. E allora capisci, a volte troppo tardi, che non sta scherzando per niente. Io sono piuttosto brava, lo capisco sempre. Ma credo di partire anche più avvantaggiata rispetto ad altri.
“Ti restituirò il favore, Blaise, stai attento”.
Lo minacciai ridendo appena. Rise appena anche lui. Tra di noi, e per noi intendo noi Slytherin più o meno, non si ride quasi mai. Tutto al più si ride appena. Non ci sono molti motivi per ridere e basta, se non c’è un velo di malignità, e allora è un ghignare, c’è un motivo di dolore che per non ammettere nascondiamo dietro ad amarezza, raramente malinconia. Ma tutto sommato va bene così. Ridere appena con Blaise mi è sempre piaciuto.
“Draco?”.
Non avrei dovuto chiederlo, e lo sapevo anche mentre lo chiedevo e prima di farlo. Ma era scritto nel destino di quella conversazione. Dovevamo farlo, o io o lui. Odio aspettare che qualcosa di brutto che deve accadere per forza, avvenga. Preferisco bruciare subito, io. È come se volessi togliermi il pensiero, ma in questo caso il pensiero non ce lo saremmo tolto. Se il pensiero è Draco è del tutto impossibile.
È una maledizione: per quanto possa farti stare male, farti impazzire e farti arrabbiare, non puoi toglierlo dalla testa, in qualche modo ritorna sempre. Almeno a me succede così, e so che Blaise ha il mio stesso problema. Che in fin dei conti, è tutto meno che un problema.
Non voglio smettere di pensare a Draco. Perché lui ha bisogno che qualcuno pensi a lui, e a me fa piacere farlo, a volte mi fa piacere persino stare male per lui. È un po’ una convinzione idiota che se sto male per lui, un po’ del male che prova sparisca, perché l’ ho preso io. È ovvio che non è vero, ed è anche ovvio che non mi piace parlare di queste cose, perché sono troppo sentimentali.
L’importante, certe volte, è sapere che è così anche per Blaise.
“Non lo sento da un po’”.
Odio quando fa il vago. E lui sa che odio la vaghezza. Il fatto è che per lui ogni tanto esserlo diventa una sorta di difesa, come in questo caso. Non ho il diritto di avere certe pretese in effetti: io non ho avuto il coraggio di inviargli neanche una lettera via gufo.
“Gli hai scritto, almeno?”.
Annuì pensieroso e io sentii una fitta nervosa allo stomaco. Mi dava immensamente fastidio venire a sapere che ero l’unica a non avergli scritto. L’unica codarda. Ma sentirmi rispondere male non era la mia massima aspirazione, in nessuna famiglia le cose andavano bene dopotutto, con l’unica differenza che mio padre tornava a casa la sera arrabbiato e a volte ferito, discuteva un po’ con mia madre e dopo aver sbattuto qualche porta se ne andava a bere da qualche parte, a volte con il padre di Blaise. Ma prima o poi, che fosse l’alba o che fossero le due di notte, a casa tornava.
Lucius Malfoy, dall’arresto alla fine del quinto anno, non aveva fatto altro che entrare e uscire da Azkaban, con accuse e processi. Soprattutto processi. Processi su processi, senza fine e senza ottenere niente da nessuna delle due parti: nessuna accusa sicura, nessuna libertà certa. Fino a quando non era evaso, per non tornare più. E così adesso nessuno sa dove sia finito. Tantomeno Draco o sua madre.
“E tu?”.
Scossi la testa. Se solo suo padre non fosse stato Lucius Malfoy, niente sarebbe stato tanto complicato. Draco assomigliava moltissimo a suo padre. Incuteva la stessa soggezione a volte. Reagiva come lui. Si arrabbiava come lui. E ora che suo padre era sparito chissà dove, le cose erano precipitate. Non ho mai capito cosa vedesse Draco in suo padre. Se un modello, se un bastardo della peggior specie, se il sosia di un Dio o che altro. Però intuivo come si potesse sentire(anche se non gli dicevo mai frasi del genere): tradito. Abbandonato. Era anche molto arrabbiato, ma noi siamo così: i sentimenti li abbiamo, ma preferiamo non darlo a vedere oppure metterli direttamente da parte. Così succede che ogni tanto finiamo con il dimenticarci cosa si prova, come ci si sente, e non sappiamo più come si fa a tirarli fuori. Succedeva un po’ a tutti a turno, soprattutto negli ultimi tempi, da quando era successo quel putiferio all’Ufficio Misteri, ed era successo anche a Draco.
“Quella ti sta fissando”.
Mormorai guardando oltre Blaise. Una ragazza guardava in nostra direzione, con una busta piena di libri in mano e riccioli castani sparsi sulle spalle.
Sembrava una Granger in miniatura. Ovviamente non mi piacque, e il mio tono era piuttosto derisorio, come la maggior parte delle volte, del resto.
Blaise si voltò lentamente, stringendo gli occhi contro la luce del sole, per vedere meglio, e le sorrise. Lei abbassò immediatamente lo sguardo e se ne andò quasi correndo. Scoppiammo a ridere quasi divertiti. Ovviamente non mi fece pena e non mi sentii in colpa. Però mi sforzai di ricordare chi fosse, certa di averla già vista da qualche parte. Alla fine mi illuminai.
“Meredith Brummel. Una Hufflepuff mi pare”.
Blaise inarcò le sopracciglia perplesso. Non era da me considerare certe persone. Non consideravo quasi nessuno, e se lo facevo era con un certo sprezzo, ma una Hufflepuff poi, era veramente inverosimile in effetti.
“Come fai a sapere chi è?”.
Mi domandò tra il divertito e il disgustato. Riportai al loro posto dei capelli indisciplinati che mi erano scivolati ai lati del viso e alzai le spalle, indifferente. Non era poi così strano che sapessi chi era.
“Il suo ragazzo, o meglio ex-ragazzo, aveva una cotta per me l’anno scorso. Mi ha lanciato una fattura”.
Una luce di comprensione gli illuminò il viso e sorrise, come se avesse davanti la vera Pansy Parkinson, adesso.
“Ci vediamo alla stazione, tra due giorni”.
Annuì dandomi le spalle e riprendendo a camminare. Io guadagnai l’entrata del negozio, certa che Millicent fosse disperata non avendomi più vista, e che senza quella che ritiene la mia indispensabile guida non sapesse più dove sbattere la testa. Ero con un piede nel negozio quando la voce di Blaise mi richiamò dal fondo della strada. Mi voltai curiosa.
“Parkinson! Ti tengo d’occhio!”.
Urlò portando due dita sotto i suoi occhi e indicandomi poco dopo. Gli sorrisi e rientrai nel negozio, nello stesso momento in cui Millicent usciva dal camerino avvolta in una specie di carta da caramella che lei chiamava vestito.
“Allora? Che ne pensi?”.
Storsi il naso, e non potei fare a meno di lasciarmi sfuggire un commento sulla carta da caramella. La commessa mi odiò a morte, ma Millicent tornò nel camerino pronta a levarlo e rimetterlo sulla sua stampella, rivolgendomi invece uno sguardo di eterna gratitudine per essere stata così schifosamente sincera. Dio, ma come faceva ad essere mia amica?
nfatti non lo è. Tu la sopporti e basta.
Giusto.
Mi sentii meglio.


°°°

Due mattine più tardi mi svegliai con la sgradevole sensazione di dover fare qualcosa di poco piacevole.
Come cercare di non perdere il treno per Hogwarts. O come dove andare ad Hogwarts, esempio più valido. Non c’era qualcosa di particolarmente spiacevole nel doverci andare, solo la presenza della casata Gryffindor,di Silente…e di tutte quelle altre cose che non riguardassero Slytherin e il professor Piton.
E Draco Malfoy, che avrei dovuto necessariamente rivedere. Ecco, questo non mi allettava particolarmente. Ho detto che pensare a lui non fosse così male, ma rivederlo è un altro conto. Perché sapevo perfettamente di non avergli scritto neanche una lettera, e che se anche lui non me lo aveva chiesto, si era aspettato che io facessi qualcosa. Odio chi ha delle aspettative nei miei confronti.
Non mi piace deludere la gente, non tanto perché mi dispiace farla rimanere male, ma perché poi dovrò necessariamente convivere con il pensiero che secondo loro ho fallito. E fallire non piace a nessuno, a parte i Weasley, che ormai ci hanno fatto l’abitudine e ne hanno fatto lo stemma della loro sgangherata famiglia.
Appena oltrepassai la barriera che portava alla stazione in ogni caso non c’era il minimo segno di preoccupazione sul mio viso, e io in effetti non ne avevo neanche una, ero riuscita come sempre a metterle da parte con estrema maestria. Se mio padre lo avesse saputo, ne sarebbe andato fiero, ma quella mattina non avevo avuto l’occasione di vederlo.
Mia madre mi aveva detto sorridendo tutto il tempo che la notte prima era tornato tardi, e un po’ malconcio, e che era il caso di lasciarlo riposare. Non avevo aggiunto altro, dopotutto mi andava bene anche così, non ho un gran rapporto con mio padre. E al contrario di Draco, neanche desidero averlo. Draco. Ecco l’esempio lampante del problema esposto prima: tu non vuoi pensarci, ma ci pensi. È come se lui potesse accorgersi che in quel momento ti è volato via dalla mente, e allora ritorna, perché altrimenti nessuno starebbe pensando a lui, e per Draco sarebbe troppo dura e difficile da sopportare evidentemente. In ogni caso, quando varcai quella barriera, ero perfetta. Avvolta nella mia solita impeccabile perfezione. I capelli perfettamente al loro posto, sfioravano appena le spalle, solleticandomi la pelle. Il viso rilassato, l’unica contrazione era il mio sorriso storto, a volte in comune con Blaise, e il mio corpo…beh quello era quello di sempre. Che mi offriva vantaggi non da poco, e permessi che altri non avrebbero avuto.
Non ho mai pensato che fosse giusto, ma il mondo girava da quella parte e non avevo intenzione di sprecare opportunità che Madre Natura, molto magnanima con me, mi aveva messo a disposizione.
Armonico, minuto e perfettamente modellato.
Tra tutta quella perfezione, c’era anche la mia verità: vale a dire che io i miei difetti li so nascondere molto bene. Questa abilità, che in pochi hanno, mi da il diritto di essere perfetta. Almeno al tatto e alla vista, perché ammetto da sempre e senza problemi che la mia personalità non è affatto perfetta.
Ma è perfetta nella sua imperfezione.
Ero perfetta persino nella mia sicurezza di me stessa. L’unica cosa a non essere perfetta era la mia vita, che con me c’entrava ben poco: ecco perché non era perfetta del resto.
“Parkinson”.
“Goldstein”.
Salutai con un cenno del capo il mio collega, quell’anno Caposcuola come me. Non avevo grandi rapporti con Goldstein, era un filo-grifone dichiarato dopotutto, ma sapeva ammettere che meritavo un certo interesse. L’unica cosa per il quale potessi apprezzarlo: ammettere la verità, nonostante poi sbandierasse ai quattro venti i suoi difetti, scelta imperdonabile a mio parere. Andare in giro con Hermione Granger, convinto forse che tra loro possa nascere una sorta di relazione, inconsapevole che nel letto con loro finirebbe anche l’intero reparto della biblioteca scolastica, e poi posare i suoi occhi scuri sulle mie gambe e salutarmi la mattina, con l’aria di chi ha lanciato il suo avviso e la sua proposta.
Non ti stimo, ma non ho bisogno di stimarti per finire a letto con te.
Un discorso piuttosto logico, che per me non rappresentava alcun problema, né ora, né durante il sesto anno, da quando mi aveva resta partecipe di quel tacito pensiero.
Ma non mi piace macchiarmi di piacere sporco. Non fosse stata la Granger, quella con cui è sempre stato a stretto contatto, gli avrei fatto spazio nel mio letto per una notte piacevole da trascorrere insieme.
Ma, capita l’antifona, non sembrava essersi pentito di correre dietro alla Granger. E lo sguardo che mi aveva lanciato in quel momento lasciava intendere che credeva potessi aver messo da parte quei pensieri, e sperava che avessi deciso di dargli una possibilità.
Sbagliato Goldstein, io non concedo possibilità a nessuno. È sempre la solita storia, che mi sono anche un po’ stancata di dover ripetere: do per ottenere qualcosa. Nessuno di noi ha mai ricevuto seconde possibilità, quindi io non le do. Sperai che lo capisse, perché intrattenermi con lui non mi sarebbe andato a genio. Averlo nel letto implicava non parlare. D’altra parte io amo la chiarezza.
“Saluti anche Goldstein, adesso? Pansy stai perdendo colpi. Così disperata?”.
Alzai gli occhi al cielo, incurvando le labbra in un sorriso. Tra tutta quella gente, era riuscito a trovare me. Non era una cosa tanto difficile, da verificarsi. Noi Slytherin abbiamo sempre dovuto contare su noi stessi, o sulle uniche due o tre persone che fossero come ognuno di noi. Io avevo Draco e Blaise, e Millicent aveva me. E quando eravamo circondati da ostacoli e da nemici, cercavamo sempre di ritrovarci, ed era facile riuscirci.
Eravamo allenati da tutti quegli anni, e soprattutto eravamo allenati dalle nostre famiglie. Sapevo che mio padre poteva contare unicamente sul padre di Blaise, in mezzo a tutti quegli assassini quali erano, e forse era stato proprio questo il problema di Lucius Malfoy. I Lestrange erano finiti ad Azkaban, e per un suo imperdonabile errore di valutazione, era rimasto solo: Piton aveva tradito.
Anche a causa di questo, quegli sciocchi Gryffindor si lamentavano continuamente, denunciando a chiunque gli rivolgesse la parola la parzialità di Piton e il suo privilegiare Draco.
Da quando aveva messo piede ad Hogwarts, Draco non aveva mai rivolto a Piton un sorriso gentile. Non. Un. Solo. Sguardo. Di. Stima. O di rispetto. E con il passare degli anni, quando eravamo cresciuti, non un briciolo di comprensione nei suoi occhi grigi quando guardavano quelli di Piton.
E i favoritismi di cui tanto parlavano le altre Case, non erano altro che i tentativi di Piton di farsi perdonare, per aver abbandonato quello che un tempo era stato il suo appoggio. Sapevamo tutti che il più grande rimorso di Piton era quello di aver compromesso la vita di Draco, non quello di aver lasciato nei guai suo padre, e forse lo sapeva anche Draco e proprio per questo non voleva ancora perdonarlo.
Mi incamminai al fianco di Blaise, diretta al treno. Mi guardai rapidamente intorno, e Blaise mi imitò.
“E’ già arrivato?”.
Questa volta era stato lui. A non volersi bruciare lentamente. Alzai le spalle e guardai indietro: ma non lo vidi da nessuna parte. In genere lo distinguevo sempre. Quel passo arrogante e sicuro, e quella fermezza nei suoi occhi che tanti scambiavano per strafottenza, e pochi riconoscevano come puro terrore di guardarsi intorno. Guardava solo avanti, perché quella era l’unica cosa che gli era rimasta. Perché, ovunque fosse, suo padre era sempre un passo avanti a lui, e non lo avrebbe trovato guardandosi alle spalle.
Un soffio di vento più fresco degli altri mi fece rabbrividire. La mia gonna della divisa era quella dell’anno passato, più corta rispetto agli standard, e le calze autoreggenti non proteggevano dal freddo. Il maglione della divisa era qualcosa di ingombrante da portare con me, mi piaceva mostrare i miei averi, ed era rimasto nel baule. Strinsi le spalle e le strinsi tra le mani, mordendomi un labbro. Non ebbi il tempo di dire niente, che il maglione di Blaise era finito sulle mie spalle, e lui si stava abbottonando i bottoni superiori della camicia per non sentire freddo a sua volta.
Alzai la testa per guardarlo negli occhi, e accennai un sorriso.
“Prego”.
Nessuno era abituato a sentirmi dire tanto spesso grazie. Io invece me lo sentivo dire molto più spesso, quando qualcuno si stendeva accanto a me nel letto, il suo respiro leggermente irregolare, le coperte finite chissà dove. Ma allora non rispondevo ‘prego’. Non c’era niente di carino nel suo ringraziamento, era solo l’ultimo momento di eccitazione che stava andando spegnendosi.
“Saliamo”.
Mi invitò Blaise. E nella sua voce tremava l’impazienza.
Impazienza di vederlo. Di mettere fine a quest’ansia inusuale, in genere avevamo un controllo come pochi. Di mettersi l’anima in pace e vedere che almeno era lì, da qualche parte.
“Elargisci addirittura tuoi indumenti?”.
Una voce strascicata quanto ironica ci accolse nel salire sul treno. Appoggiato al vetro del corridoio del treno, Draco ghignava sinceramente divertito in nostra direzione. Il mio sorriso suonò molto come un sospiro di sollievo, e accanto a me Blaise rilassò i muscoli, prima di scambiarsi un saluto piuttosto, ed esageratamente, maschile con Draco.
“D’altra parte le ragazze infreddolite sono così carine…”.
Rispose scherzando Blaise e mi strizzò l’occhio. Gli lanciai addosso il maglione, e li raggiunsi. La mia sicurezza si era un po’ sfaldata, e i ricordi di un sogno assurdo fatto la sera prima mi impedirono di avere la coscienza sgombra da strani pensieri che generalmente non mi capitava di avere.
Draco mi guardò per qualche secondo, senza perdere il sorriso di poco prima.
“Goldstein ti preferisce senza maglione, Pansy?”.
Ecco, ora era tutto a posto. Le solite provocazioni, lo stesso timido piacere del rivedersi, la stessa durezza stupida nel non dirlo a parole, o nel non farlo a voce alta. E un vago senso di calore alla bocca dello stomaco, qualcosa che mi opprimeva la gola e tante parole non dette che avrei dovuto dire. Fu quella la prima volta dopo nove anni, in cui fui assalita dai sensi di colpa. Non fu niente di violento, piuttosto una dolce fitta al petto, e una gran voglia di chiedere scusa. Scusa per non aver scritto, per essere stata una codarda, per aver pensato a lui in tutto questo tempo e non avergli dato la certezza di averlo fatto, quando io stessa sapevo benissimo che le uniche cose di cui avesse bisogno Draco fossero un po’ di certezze.
“Va tutto bene?”.
Domandai invece, anche piuttosto seccamente, in un tono duro che non era quello che avrei voluto usare. Draco scrollò le spalle, forse pensò per qualche secondo se dire la verità per la prima volta dopo una vita intera, o se continuare a mentire, sapendo che con me e Blaise non avrebbe funzionato lo stesso. “Si”.
Quel momento di mia fragilità naturalmente durò pochissimo. Theodor Nott aveva pensato bene di passarci davanti, di scambiare qualche pacca sulla spalla con Draco e Blaise e di porgermi il suo personale bentornata Pansy con un lungo quanto indiscreto apprezzamento alle mie gambe, senza risparmiarsi di salire più su con lo sguardo, e confermare che il suo unico desiderio era quello di strapparmi la camicia e passare oltre. Altre persone si sarebbero sentite in imbarazzo o dispiaciute. Beh, io no, mi sentii come sempre. Gli vietai di andare oltre con un semplice sguardo, nel quale colse forse l’illusione che l’impedimento fossero stati i due scomodi testimoni, e la promessa che in altra sede gli avrei concesso quello che gli avevo vietato. Non mi sorprese, quel deliberato fraintendimento della mia risposta al suo personalissimo saluto. Lo facevano in molti, chi per addolcire il rifiuto che si erano sentiti rivolgere, chi per crogiolarsi in una fittizia illusione, chi sperando che cambiassi realmente idea come Goldstein.
Io non smentivo mai: il mondo era materiale, chi ci viveva amava il piacere che poteva scorrergli sotto le dita, nessuna idea dell’amore era più romantica e apprezzata che quella di un corpo vero sotto il proprio. Io avevo la possibilità di attirare l’attenzione altrui, sapevo come fare, se e quando porre dei limiti e non era mai capitato che qualcuno non li rispettasse. E non mi ero mai sentita sfruttata, per quanto detto prima: davo solo se ricevevo. Guardai la schiena di Nott scomparire in uno scompartimento a metà del treno, e fui certa che non ne sarebbe più uscito durante il viaggio, aspettandosi che io tornassi lì e mi concedessi a lui nel modo più squallido che potesse accadere.
Avevo delle piccole pretese anche io: non tolleravo lo squallore, quello non mi dava piacere, e io mi concedevo a patto che piacesse anche a me. E io pretendevo il rispetto, e non era mai mancato. Quello che poteva, e forse doveva, mancare era un coinvolgimento sentimentale: niente mazzi di rose fuori dalla porta del Dormitorio dopo una notte passata con qualcuno. Niente pretesa che io smettessi di fare tutto quello dopo che avevo fatto l’amore con uno di loro. Niente pretese di dimostrazioni di affetto. Ma il rispetto si, e anche una certa sensibilità. Il mio non era un prendermi gioco di altri, era ingannare il tempo e preservarmi qualche favore, che non avrei potuto ottenere in altra maniera, visto il mio nome e la posizione della mia famiglia in quella battaglia senza fine. E nessuno si prendeva gioco di me. Ma questo era ovvio.
“Abbiamo la riunione”.
Mi ricordò Draco, in tono annoiato. Ah, la noia. Io sapevo realmente cosa fosse, ma lui no. La sfruttava come difesa personale: quello che lo colpiva e lo rendeva vulnerabile, diventava noioso. Uno sbadiglio nascondeva uno stupore. Ma io invece, spesso finivo con il trovare noiosa quella quotidianità, interrotta solo di notte o in qualche pomeriggio particolare, in cui ci chiudevamo in qualche stanza a svagarci un po’. La mia noia si risolveva altrimenti in un turbinio di lenzuola e niente più. E tre minuti dopo tornavo ad annoiarmi e inevitabilmente quell’apatia profonda mi portava a farmi domande idiote, come ad esempio se fosse un buon sistema di vita quello che stavo utilizzando. Se comportarmi in quel modo mi stesse insegnando a non innamorarmi. Se la mia intelligenza venisse fuori veramente tra le bocche di tutti, o se prima parlassero della nostra ultima serata passata insieme. Domande che in genere non mi pongo mai, non interessandomi le risposte. La noia mi faceva sembrare le rispose materiale interessante, invece. E questo mi innervosiva tremendamente, perché era un mettere in discussione la mia vita. E quella che era la mia vita in quel momento, era di gran lunga migliore di quella che portavo avanti da bambina. Vivevo nel terrore, accidenti. Finalmente avevo la situazione sotto controllo, e le mie paure sapevo come metterle da parte e come ingannarle, anche se ancora non sapevo come sconfiggerle.
“Si, andiamo”.
Un cenno del capo e la promessa di vederci più tardi, con Blaise. E una noiosa riunione tra Capiscuola ci aspettava. Repressi uno sbadiglio assonnato, e ovviamente, annoiato. Draco mi guardò di sfuggita per un momento, come se per quell’attimo non fosse certo che fossi io quella accanto a lui. Non feci niente per dimostrarglielo, e lui sembrò convincersene da solo.

°°°

Essere Caposcuola aveva i suoi vantaggi, escludendo quelle patetiche riunioni e i giri di ronda la notte, per i piani del castello. Ad esempio una camera interamente per me, comunicante con quella del mio collega, con un bagno degno del nome, fornito dei migliori agi.
E una bella vista sul parco posteriore di Hogwarts dalla finestra sulla parete opposta alla porta.
Quella finestra che trovai spalancata quando entrai nella mia nuova camera, un pomeriggio. Trovai anche due ospiti seduti sul mio letto, intenti a fumare e a bisbigliare qualcosa di tanto in tanto, più per uccidere a coltellate violente di parole affilate il silenzio, che per reale voglia e necessità di parlare.
“Vi ho già detto che non voglio che fumate quella roba qui dentro”.
Protestai chiudendo la porta e gettando il maglione sulla sedia all’angolo della stanza. Tolsi le scarpe e raggiunsi Draco e Blaise sul letto. Il mio avviso non accolse risposte.
“C’è anche la stanza di Draco”.
Aggiunsi portando le gambe al petto e poggiando la schiena sullo schienale in ferro del letto. Blaise scrollò le spalle, a sottolineare che quel particolare non aveva importanza. Non avevo mai capito perché lo facessero infatti, ma ogni tanto mi capitava di tornare nella mia stanza e trovarli lì, intenti a fumare e a parlottare di chissà quale diavoleria. Ogni volta mi dimostravo infastidita, ma a conti fatti non li cacciavo mai, se non con un invito piuttosto rude accompagnato da un sorriso storto dei nostri, e una scrollata di spalle nel non vederli alzarsi da lì. Anche quella volta, era tutto secondo le regole. Ma quella era una quotidianità che non mi dava poi così tanto fastidio.
“Ne vuoi una?”.
Mi offrì Blaise indicando il pacchetto. Valutai la proposta ma scossi la testa. Preferivo assaporare il sapore agre e di mille profumazioni delle loro sigarette sparso nell’aria, non direttamente dalla sigaretta. Era più piacevole, e mi dava l’idea che evitassi di farmi ancora più male.
“Dove sei stata?”.
Mi domandò Draco guardando fuori dalla finestra. Era una classica domanda di quelle che poneva Draco ogni tanto. Non era realmente interessato alla risposta, ma gli faceva piacere chiedere qualcosa, e dimostrare che anche lui a volte aveva piacere ad informarsi sul conto di altri. Ma non era vero, e così l’effetto si perdeva subito per lui e per il suo interlocutore. Eppure tutti ogni volta perdevano tempo a rispondergli, forse perché dopotutto non era male illudersi per quei brevi secondi che Draco Malfoy avesse posto una domanda, senza che la risposta lo riguardasse in qualche modo.
“In giro per il castello. Ho rimediato queste dall’infermeria”.
Aggiunsi gettando sul letto una manciata di Caramelle Marinare, prodotto marcato Weasley, ma quelli buoni, gli unici in quella famiglia che non meritassero il mio disprezzo, semmai compatimento per essere nati tra quella gentaglia. Sarebbero state delle ottime menti, secondo un’altra scuola di pensiero.
“Ma…sono dei Weasley”.
Credette di ricordami Draco, guardandole con circospezione e netto rifiuto. Scrollai le spalle e le nascosi nel cassetto del mio comodino. Stava commettendo gli stessi errori di suo padre: mai isolarsi e rischiare di non avere altri appoggi. L’aiuto di quei due era del tutto clandestino e soprattutto inconsapevole da parte degli stessi, ecco perché lo avevo colto al volo. Madama Chips sequestrava milioni di quelle caramelle ogni mese, una volta scoperto dove le riponeva, era un gioco da ragazzi entrarne in possesso.
“Spirito di sopravvivenza, Draco”.
Tagliai corto stendendo le gambe e chiudendo gli occhi. Accanto a me Blaise espirò una voluta di fumo, che mi solleticò il naso e accarezzò i sensi: aveva un buon odore quella sigaretta, quasi fosse un bosco selvatico. Annusarla mi dava l’impressione di essere fuori da lì, e di poter decidere dove andare con la consapevolezza di poter sbagliare strada e di saperla sempre ritrovare prima o poi. Ma non c’erano più quelle maledette quattro mura se non altro.
“Ho incrociato Potter, prima”.
Mormorai sentendo i muscoli stendersi e ammorbidirsi lentamente. Al contrario il respiro di Draco si spezzò e percepii, pur avendo gli occhi chiusi, la violenza che impiegò nel inspirare il fumo e lasciarlo veementemente uscire dalle sue labbra. Blaise, come suo solito, non si mosse. Ma domandò.
“Cosa potrebbe mai accadergli quest’anno?”.
Risi appena. Come sempre, Blaise non stava scherzando, o almeno non del tutto. Draco ancora non parlava, ma la sua sigaretta ne stava risentendo. Ancora poco e l’avrebbe spezzata in due con la sola forza di due dita.
“Potrebbe anche scamparla. Mio padre di certo non attenterà più alla sua vita”.
Commentò inaspettatamente, lanciando la sigaretta fuori dalla finestra, come se quella fosse la sua vita, senza averla neanche finita. Sentii Blaise tirarsi su, e replicare alzando il tono della voce.
“Ehi, le ho pagate quelle!”.
Draco aveva tutta l’intenzione di ribattere, non gli era mai piaciuto non avere l’ultima parola, quando qualcuno bussò alla porta. In un attimo avevo le scarpe ai piedi, Blaise si impegnava a spegnere la sigaretta e a chiudere la finestra, mentre Draco cercava di smuovere l’aria e allontanare l’odore del fumo, agitando le mani, cosa del tutto inutile da fare.
“Hai del profumo?”.
Mi domandò a bassa voce. Gli indicai il bagno, ma dopotutto non perse neanche tempo ad alzarsi, non avremmo potuto fare aspettare all’infinito chi c’era dietro alla porta. Perché se si fosse affacciato Piton, saremmo stati tutti spacciati. Era di fronte agli altri che si dimostrava favorevole alle sue serpi preferite, ma in separata sede, nei sotterranei, le punizioni fioccavano come neve a Natale, anche se non toglieva mai punti a nessuno della sua Casa.
“Si?”.
“Sono io, apri”.
Sul momento rimasi piuttosto perplessa. Non era stato poi molto chiarificatore, quel qualcuno, che se non altro aveva una voce maschile.
“Aspettavi qualcuno?”.
Domandò Draco dietro di me, con un tono tutt’altro che informativo, ma di chi pensa di sapere la risposta e non ne è molto entusiasta. Non che lui si comportasse in modo tanto diverso da me, alla fine, non capivo dove nascesse il suo diritto di esprimere giudizi sui miei affari e comportamenti, quando erano quasi l’esatta fotocopia dei suoi.
“Mi pare di no”.
Risposi incerta. Era anche possibile che me ne fossi dimenticata, ma ero altrettanto sicura di aver detto di essere impegnata a quel Ravenclew all’ora di pranzo.
“Rivelaci il tuo nome, O uomo Misterioso”.
Tuonò Blaise aprendo nuovamente la finestra e tirando fuori la sua scatola di sigarette. Era già perfettamente rilassato come prima, a differenza di Draco, che era ancora in piedi quasi accanto a me, e osservava torvo la porta. Non gli piaceva avere dei dubbi. A Draco non piaceva niente, proprio come a me. Blaise era diverso per certi aspetti: ammetteva che aveva anche lui le sue passioni, e che a differenza di quello che dimostravamo io e Draco, le sue non erano quasi tutte poco ortodosse.
“Nott”.
Rispose meno sicuro di prima. Probabilmente perché a porgli quella domanda era stato Blaise, e non io. Sorrisi maliziosamente divertita, e mi avvicinai alla porta, posando una mano sulla maniglia. Draco aveva incrociato le braccia al petto, e continuava a guardare la porta, con la mascella serrata.
“Non gli avevi detto di non venire?”.
Ringhiò a bassa voce per non farsi sentire. Si, era vero, ma come avevo previsto aveva deciso di non accettare la dura realtà dei fatti. Mi appoggiai appena al legno della porta, sospirando il più soavemente possibile. Sentii il suo respiro da dietro la porta spezzarsi e accelerare appena, per quello che potevo sentire. Mi divertì: ecco che ancora qualcuno si dimostrava disponibile a giocare i propri sentimenti e pensieri per me. Una cosa inconcepibile: io non lo avrei mai fatto per qualcun altro.
“Ormai che è qui…facciamolo entrare, no?”.
Risposi assottigliando la voce e girando la maniglia. Draco non si mosse. Blaise era già alla terza boccata di fumo, e il sapore dolciastro di quella sigaretta iniziava già a produrgli i suoi effetti. Steso sul letto guardava oltre la finestra con lo sguardo vacuo e gli occhi un po’ torbidi. Sembrava ancora più un gatto, in quello stato.
Nott impiegò poco meno di un secondo ad entrare, e si guardò intorno, dalla sua posizione centrale si scontrò per primo con la figura di Draco, il doppio di lui in altezza e stazza. Nott aveva le spalle magre e le gambe lunghe e altrettanto filiformi. Draco aveva il corpo di chi gioca a Quidditch e ogni tanto sfida la vita per vedere chi dei due è più forte.
“Cosa ti serviva?”.
Gli domandai il più gentilmente possibile.
“Fumo”.
Rispose guardando il mio seno, e scorrendo con gli occhi lungo il resto del mio corpo. Blaise mugugnò sardonicamente dal letto, accompagnato dall’espressione assolutamente dubbiosa di Draco. Non era un bravo mentitore Nott, però era bravo ad ingannare se stesso. Altrimenti non sarebbe finito con il bussare alla porta della mia stanza. Incrociai le braccia al petto, anche solo per il gusto di nascondergli una parte del suo reale interesse, e appoggiai la schiena contro il muro.
“E lo cerchi da me?”.
“Da Malfoy non c’era nessuno”.
Replicò indicando con un cenno nervoso della testa la porta al lato della stanza che metteva in comunicazione la mia camera con quella di Draco. A Nott mancava l’esperienza, a furbizia tutto sommato non era messo male. Anche se parve evidente a tutti che non aveva cercato Malfoy prima di venire da me: aveva passato troppo tempo a divorarmi con lo sguardo, per farmi credere che gli interessava realmente una sigaretta e non il mio corpo.
“Blaise? Hai una sigaretta per Theodor?”.
Domandai atteggiandomi a padrona di casa. Parve divertire Nott, perché mi guardò malizioso e accennò un sorriso divertito. Blaise allungò verso di me il porta sigarette e mi permise di offrirne una a Theodor. La sfilò e la accese con la propria bacchetta, fingendo di assaporare il gusto dolciastro e trovarlo piacevole. Sapevo bene che l’unico piacere che ne aveva tratto, era stato grazie alla sua immaginazione che gli aveva permesso di sostituire le mie labbra a quella sigaretta.
“Grazie”.
Rispose guardandomi e gettando un po’ di cenere sul pavimento. Scorsi Draco alzare gli occhi al soffitto e stringere il polsino della sua camicia tra due dita. Inclinai la testa da un lato, sorridendo fintamente timida a Nott. Blaise si schiarì la gola dal fondo della stanza.
“Con tutto il rispetto, amico, ma non le ha pagate lei”.
Theodor parve risvegliarsi dai suoi sogni ad occhi aperti, forse mi rivestì con il pensiero, e annuì in direzione di Blaise, ripetendo il ringraziamento. Blaise chinò il capo e fece un semplice gesto con la mano, molto simile ad un Bene, adesso puoi anche andare. Ma Nott non se ne sarebbe andato di certo, quindi decisi che per il momento potevo anche mettere fine a quel divertimento e presa in giro nei confronti dello sventurato Nott.
“Ciao, Theodor”.
Si inchinò e finse di togliersi il cappello, uscendo poi dalla porta e strizzandomi un occhio, per andare poi ad impiccarsi nel primo bagno di passaggio per la pessima figura appena fatta. Tornai a stendermi sul letto, trovando un comodo appoggio sullo stomaco di Blaise, e lasciando dondolare i piedi nel vuoto, non essendo poi molto alta. Draco ci raggiunse poco dopo, con uno sbuffo e un idiota sussurrato tra i denti. Blaise spense la sigaretta.
“Mi spieghi perché ti accanisci tanto contro di lui?”.
Gli chiesi effettivamente curiosa. Draco era un tipo rancoroso. E anche piuttosto vendicativo, ma se portava rancore verso qualcuno di solito aveva seri motivi per farlo, a mia differenza, che invece provavo spesso antipatia a pelle per qualcuno.
“E’ un venduto anche lui”.
Ah, ecco. Ovviamente dietro c’era la politica delle famiglie. I conti tornavano: nella casata Slytherin prima di tutto veniva il tuo cognome e poi la tua testa e il tuo nome. Valeva per tutti così. Kimberly McNair da sempre era tormentata dalle attività lavorative di suo padre. Nessun ragazzo era rimasto con lei per più di qualche mese. Al momento di presentarlo alla famiglia, secondo una distruttiva usanza di secoli e secoli prima, nessuno se la sentiva. L’idea di non piacere al padre o a qualsiasi altro membro, era troppo alta per permettergli di rischiare: suo padre era un boia, Il boia, e tutti avevano cara la testa.
“E a chi si sarebbe venduto?”.
Azzardò Blaise, perfettamente consapevole che far innervosire Draco non sarebbe stata la cosa migliore da fare. Ma lui non si scompose e si affacciò alla finestra, perdendo lo sguardo verso il basso. Lo sbirciai con la coda dell’occhio, e notai l’intensità nei suoi occhi, mentre si perdevano in quel vuoto. Le camere dei Capiscuola si trovavano rialzate rispetto al resto. Doveva sembrargli allettante quel vuoto sotto di lui: lo era stato anche per me, molte volte, in quei mesi di permanenza ad Hogwarts. Forse mi aveva scosso l’idea che fosse l’ultimo anno. Ma la sera cercavo di ricordarmi di chiudere quella finestra: perché se l’ennesimo incubo mi avesse svegliata, rendendomi consapevole di quello che era la vita reale, forse non avrei fatto in tempo a chiuderla.
“Cosa importa a chi? Una volta che decidi di venderti, cerchi il miglior acquirente. E se non lo trovi, se non ti vuole, non ha più importanza a chi ti venderai, tanto non puoi più tornare indietro”.
A quel punto avrei voluto dirgli che suo padre non si era venduto a nessuno. Ovviamente non lo sapevo con precisione, ma sentivo che era così. Lucius Malfoy, da sempre, non aveva mai venduto niente. A volte aveva lasciato che altri pagassero per lui, ma venduto mai. Neanche quella volta lo aveva fatto. Ma come non gli avevo spedito alcuna lettera, non gli dissi quelle parole.
E, sempre a quel punto, avrei voluto dirgli anche che suo padre non era alla fine di quel vuoto. Non era lì che lo avrebbe trovato. Qualche volta ,pensandoci, credevo anche che non lo avrebbe trovato più. Ma non dissi niente neanche quella volta.

Quella notte non riuscii a dormire. Nonostante l’estate fosse solo un ricordo, e come sempre l’Inghilterra un paese ostile e umido, sentivo caldo tra le coperte ,e l’acqua con la quale mi ero bagnata il viso non era servita a niente.
La sala comune era deserta, tutte le serpi se ne erano andate strisciando a dormire, così presi per me una poltrona e mi sedetti, abbracciandomi le gambe e scongiurando il sonno di venirmi a prendere. Ma non venne, purtroppo.
Dieci minuti più tardi, le lancette stabilirono che era passata la mezzanotte, e che come sempre, le principesse avrebbero dovuto fare ritorno alla catapecchia in cui vivevano, perché l’incantesimo era finito.
Ma nella scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts gli incantesimi non finivano mai, e io ero bella anche passata la mezzanotte ,e il castello non si sarebbe tramutato in stalla, e i passi che riecheggiarono per quella sala scura, rischiarata solo dal camino, non erano quelli della fata che veniva a prendermi per portarmi gentilmente alla mia vecchia e umile vita, ma quelli di quel qualcuno che veniva a prendere il mio corpo e portarlo nel suo letto.
“Cosa fai qui tutta sola?”.
Eddy Moon. Se mi sforzavo di non pensare al suo sciocco nome, potevo anche ammettere che non era male come ragazzo. Non che avessimo mai parlato più di tanto, non di cose serie almeno, ma la sua voce non aveva il tono petulante di molte altre, e non lo avevo mai sentito perdersi in smielate frasi su quanto ero bella o quanto fossi graziosa. A nessuno interessava che io sentissi quei loro pensieri, tanto si finiva sempre allo stesso punto. Ma mi piaceva sentirmelo dire, ogni volta era una piacevole conferma da parte di tutti.
“Cercavo il sonno”.
Risposi a bassa voce. Lo feci per non far sentire a tutti che eravamo svegli, ma alla fine dovette sembrare alquanto sensuale. Moon almeno la interpretò così, perché si avvicinò alla poltrona e si sedette su un bracciolo.
“Ma hai trovato me”.
Scontata e banale. Rimangiai mentalmente quello che avevo pensato qualche attimo prima. Ma non avevo sonno. Non ancora.
“Veramente è il contrario, Moon”.
Gli feci notare. Non seppe cosa dire e allora mi baciò. Afferrò la mia testa con una presa piuttosto gentile, e avvicinò il mio viso al suo. Poggiò le sue labbra sulle mie e cercò la mia complicità. Non la trovò, ma ottenne il permesso di approfondire quel bacio, e di tuffare le mani tra i miei capelli. Si sporse leggermente più avanti e guadagnò un po’ più di spazio sulla poltrona. Guadagnò anche la strada per le mie spalle, sulle quali fece scivolare una mano, e arrivò alla spallina del completo nero che mi copriva il corpo. Seppe anche trovare la via giusta per far scendere la spallina e riuscire ad accarezzare la mia pelle lattea, la spalla, la scapola, il seno. Da parte mia non fu poi così ardua e sconvolgente l’impresa di passare le mani sotto alla sua maglia e di accarezzare il suo petto. Scoprii che durante l’estate aveva proseguito con i suoi allenamenti e indovinai che prossimamente avrebbe chiesto a Draco di poter entrare in squadra. Scostai un attimo le labbra dal suo collo, per prendere fiato e rendermi conto di aver pensato ancora una volta a Draco, mentre ero impegnata a baciare e ad accarezzare Eddy Moon. La sua mano si allontanò un attimo, mentre l’altra era ancora sulla mia nuca, a tenermi vicina a lui, e scese accarezzando la linea della mia gamba, in una carezza che aveva tanto della voglia di me, ma che poco faceva immaginare il desiderio di gustare lentamente ogni secondo che fosse prezioso. Ovviamente, nessuno dei due aveva intenzione di condividere con l’altro altre sensazioni che non fossero quelle base, prive di qualsiasi coinvolgimento, altrimenti avrei saputo se i suoi capelli erano chiari o scuri, o se i suoi occhi fossero neri o blu. E dire che non era neanche la prima volta che finivo con il baciarlo e quant’altro. Tuttavia la sua mano non era prepotente, e aveva tutto il lodabile del rispetto. “Fa caldo”.
Sussurrai inarcando la schiena: la poltrona era di pelle e il camino era acceso. Eddy annuì un attimo, allontanandosi dalla poltrona e finimmo tutti e due in terra, lui con la schiena contro la poltrona, io davanti a lui. Mi baciò di nuovo, con nuovo ardore che di romantico e passionale aveva poco, ma era giusto così, era quello che volevamo entrambi. Sentivo le sue labbra sul mio collo, sul mio petto, ovunque, e mentre accarezzavo i suoi capelli, trovai il tempo di pensare se fosse giusto passare un'altra notte in questo modo. Cioè se mi sarei mai annoiata di quella situazione e di passare le notti così. Decisi di non rischiare per una volta. Baciai ancora Eddy e mi scostai dal suo corpo.
“Buonanotte”.
Mormorai e sorridendogli appena tornai verso la mia stanza, facendogli credere che quel gesto fosse una provocazione e niente di più. Lo vidi portarsi una mano ai capelli e alzarsi da terra, sistemando appena la maglietta, un po’ sudata e un po’ slabbrata in alcuni punti. Mi salutò con la mano e mi voltò le spalle per tornare a dormire.
Ecco cosa apprezzavo di Eddy Moon: sapeva accontentarsi, e probabilmente aveva capito quello che cercavo, quello che ero disposta a dare e a ricevere. Ah, se solo non si fosse chiamato Eddy.
Che nome sciocco con cui farsi chiamare.
Di seducente aveva ben poco.
Di simpatico solo una grande tristezza e poca originalità.
Di importante ancora meno. Nessuno avrebbe preso sul serio qualcuno che si fa chiamare Eddy.
Decisamente, non ci sarebbe potuto essere alcun futuro tra me e lui.
Ma quando tornai a letto, mi addormentai subito dopo.

°°°

[]



La stanza era deserta,intrisa di oscurità e strani rumori.
Tendevo l’orecchio e iniziavo a distinguerli lentamente, con maggior sentore e d’un tratto iniziavo a tremare, e sentivo qualcosa pungermi ai lati degli occhi. Mi voltavo freneticamente cercando qualcuno che non c’era e che sapevo non ci sarebbe più stato.
E quel rumore andava avanti. Era un continuo raspare, e fermarsi all’improvviso.
Quando una luce aveva squarciato l’oscurità e l’unica cosa visibile era uno scrittoio antico, roso dai tarli. Mi avvicinavo a piedi scalzi e sentivo qualcosa fremere sotto la pelle sensibile della pianta del piede, ma se guardavo in basso, potevo vedere solo il buio e nient’altro.
Avevo raggiunto lo scrittoio ed era pieno di fogli di pergamena, tutti riempiti con minuziose grafie, fitte righe di parole, pergamene infinite, inchiostro vivido. Ne prendevo alcune tra le mani e tutte, tutte, avevano le stesse parole sul margine sinistro.
La grafia di una bambina di pochi anni forse, incerta ma teneramente attenta a non fare errori, un po’ tremolante in alcune lettere, su ogni margine sinistro, recitava con insistenza:
Caro Draco,
e quella virgola finiva dispersa, da tutte le altre parole. Ne prendevo in mano uno dopo l’altro, ma ogni foglio aveva quelle parole e quella grafia non sembrava più la mia. Tranne una che mi era volata tra le mani, e diceva
Caro Draco,
auguri per i tuoi dieci anni.

E poi tutte le altre avevano solo quelle due parole. Mi gettavo disperatamente su quella marea di fogli cercandone una con la grafia dei miei diciassette anni ma non ce ne era nessuna, eppure io mi lamentavo a bassa voce e pregavo perché ne trovassi una.
E all’improvviso tutti quei fogli mi volavano in faccia, sbattevano le loro pagine di filigrana contro il mio viso, alcune mi tagliavano e mi ferivano, e un vento forte mi bruciava su quei tagli. Mi ero voltata verso il vento, ed eccola laggiù, lontanissima: la finestra era aperta.
E io iniziavo a correre verso la finestra della mia camera da Caposcuola, e non sembrava mai arrivare e ogni tanto, inaspettato, una pergamena con quelle parole mi colpiva in viso, fino a quando non ero arrivata a quella finestra, ma il vento non soffiava più.
Non c’era nessuno, ma i fogli che mi avevano colpito, volavano tutti oltre la finestra. Ero corsa per affacciarmi e c’era quel vuoto e in fondo a quel vuoto c’era Draco, ma non mi guardava, non guardava niente.
Era sdraiato e aveva gli occhi chiusi, e tutte le lettere si posavano su di lui, e stavano lentamente ricoprendo il suo corpo. E io mi sporgevo e lo chiamavo per nome. Ma non rispondeva, teneva ancora gli occhi chiusi.
Allungavo le mani ma lui non le afferrava e non tendeva le sue, e quel vuoto stava diventando denso.
E allora una lettera era arrivata tra le mie mani, ed era scritta con una grafia minuta e incerta in alcune lettere anche lei, e al margine sinistro del foglio c’era scritto:
Cara Pansy,
e nient’altro. E poi una pioggia violenta di quelle lettere mi aveva ricoperta, e lentamente ne venivano giù altre, e sentivo un lamento provenire dal vuoto, allora mi affacciavo ma Draco era sempre steso lì e iniziava a vedersi di meno, sempre di meno, sempre più coperto da quelle lettere, e altre ancora, quelle di prima stavano attaccando me.
E alla fine, tra tutte, una mi era caduta tra le mani e la stessa grafia delle altre, mi diceva:
Cara Pansy,
perché non mi hai scritto?
Allora io iniziavo a tremare, e comparivano altre parole, più incerte e tremolanti.
Io sono quaggiù,
tu perché non mi hai scritto?
E io mi affacciavo di nuovo alla finestra, e lo guardavo di nuovo, e le lettere avevano coperto tutto il corpo, ma all’improvviso aveva aperto gli occhi e iniziato a farsi più lontano e io avevo pregato e sussurrato…
No…
No…no…
Draco…
No…
NO!
NO!
E mi svegliai.

[]



°°°

“Non hai una bella cera, stamattina”.
Mugugnai un ringraziamento a Blaise per il suo buongiorno e cercai di affogare i brutti pensieri dell’incubo della notte passata, in una tazza di caffè. Accanto a me, Millicent aveva addentato una fetta di pane, o meglio una distesa di marmellata con un po’ di pane sotto, perché probabilmente Blaise neanche l’aveva salutata quella mattina, e poi si era sprecato a rivolgermi quei complimenti.
Lo fulminai con lo sguardo quando la vidi aggiungere del burro con un coltello. E lui represse un ghigno, e gli costò molta fatica, quanta ne costò a me il trattenermi dal dargli uno schiaffo e lanciargli il caffè sulla sua preziosa camicia bianca.
Non sopportavo che si prendesse il diritto di farla stare tanto male. Amavo la sua ironia, mi faceva divertire, ma ignorandola era tutto molto peggio, molto peggio del sentirsi rivolgere una battuta od essere consapevole che se quel gruppo di ragazzi lì in fondo rideva era perché lei era presente, e a volte, anche perché Blaise Zabini era tra loro.
Pardon”.
Si scusò poggiando la sua tazza sul tavolo. Finii con l’accettare quelle scuse, ma non smisi di tenere il broncio, si proprio come una bambina piccola. Alcune volte, la mattina soprattutto, avevo così poca voglia di alzarmi e aprire gli occhi, che mi crogiolavo nel pensare di poter tornare bambina per un po’ di tempo, anche per il primo quarto d’ora, e fare finta di sapere unicamente quello che una Pansy di nove anni possa sapere, di volere solo quello che a nove anni si può desiderare, di ottenere quello che ad una bambina solamente si concede.
Poi incontravo lo sguardo di Piton a lezione, e allora la smettevo, perché sapevo quanto avrebbe pagato quell’uomo per poter rinascere di nuovo e cambiare tutto. In genere non ero così clemente con chi viveva intorno a me, ma per Piton provavo una sorta di compatimento e di rispetto, che sommati insieme risultavano essere un binomio particolare. In questo modo finivo con il portargli rispetto, forse perché mi sentivo molto vicina a lui quando cercava di ottenere il perdono di Draco, o almeno un segno di possibile dialogo. Solo che io ogni tanto ci riuscivo, e lui no.
“Millicent mi passeresti il bricco del latte?”.
Millicent lasciò immediatamente andare la sua colazione e afferrò il bricco, allungandolo verso Blaise con il polso instabile: rovesciò solamente una goccia, che fu sufficiente a far comparire un sorriso compiaciuto sul viso di Blaise. Gli piaceva da matti far perdere il controllo agli altri. Mi indirizzò uno sguardo indisponente e si meritò uno sguardo di fuoco, che raffreddai subito poco dopo. Blaise era l’unico con il quale potevo temperare un po’ l’amarezza e la tristezza di certe giornate. Non sapevo se capitasse anche a lui di sentirsi tanto e così umanamente triste, o se non andasse mai oltre a quell’essere pensieroso e grave, ma in qualche modo finiva sempre con il farmi mettere da parte un pensiero particolarmente fastidioso.
Quella mattina, per rimproverare la sua arroganza, avevo dimenticato quell’incubo, del quale non gli avrei parlato. Ci avevo pensato, e alla fine avevo deciso così. Lo avrei tenuto per me, altrimenti avrei ammesso il ritorno dei sensi di colpa, che mi aveva fatto tornare quella bambina di otto anni che ero stata, per un po’.
Ma questa volta non c’era più nessuna cicatrice sulla schiena di mio padre, bensì una invisibile su Draco, e forse questo era anche peggio.
“Hai la ronda anche stanotte?”.
Annuii scocciata. Il dover girare come una sciocca insieme agli altri Capiscuola, per i corridoi la notte, con le bacchette puntate e l’aria fintamente interessata al rispetto delle regole scritte di Hogwarts, mi rubava tempo prezioso, per dormire o divertirmi un po’, io che vivevo di notte e ripudiavo il giorno come un vampiro.
“Parlerete a proposito del Ballo?”.
Alzai lo sguardo dalla tazza davanti a me e guardai Millicent. Mi guardava in completa adorazione,e sapevo che se anche le avessi detto che suo padre era morto come un disertore vigliacco, mi avrebbe sorriso e detto grazie, Pansy. Mi sentii molto triste al suo posto ,ma lasciai che mi adorasse ancora per qualche secondo.
“Se ci sarà tempo”.
Conclusi laconicamente. In realtà non era previsto che io sapessi, ma in ogni caso la Abbott avrebbe fatto di tutto per tirare in ballo l’argomento, e si sarebbe scatenato il finimondo, tra la Granger e il resto delle persone che sapeva cosa fosse il divertimento. Sinceramente l’idea di starmene seduta nella sala dei Capiscuola ad assistere allo sbranamento tra lupi non mi entusiasmava molto, ma ero altrettanto consapevole del fatto che di certo saremmo finiti con il parlarne. Il tempo lo avrebbero trovato di sicuro.
“Grazie, Pansy”.
Fui disgustata per lunghi secondi, pur avendo sempre saputo che prima o poi lo avrebbe detto. E nell’esatto momento in cui Draco si sedette accanto a Blaise, allontanai la tazza e quelle poche molliche che avevo sbriciolato davanti a me. Le avrebbero mangiate i gufi più tardi, quando avrebbero portato la posta.
Ecco un altro momento paradossale della quotidianità lì al castello: La Posta. Tutti aspettavano La Posta con intrepida ansia, con eccitazione e alcuni anche con apprensione, come ad esempio i Weasley, terrorizzati all’idea di aver sbagliato qualche cosa che avesse potuto turbare l’animo della loro povera mamma. Tutti tranne alla tavolata Slytherin: qui, se arrivava posta, non erano altro che brutte notizie.
Hanno catturato tuo padre, non ci resta che sperare.
Il Ministero ha intensificato i suoi controlli, non possiamo venire questo fine settimana al villaggio.
È meglio che tu non venga per le vacanze quest’anno: tira una brutta aria da queste parti.
Tieni duro, forse la sentenza non sarà mortale.
Per questo io finivo con lo smettere di mangiare e il tormentare l’orlo della tovaglia con le unghie. L’unico che si era costretto ad aspettare qualcosa era Draco, anche se non lo dava a vedere e ormai non credeva neanche più lui che fosse possibile ricevere anche solo uno straccio di lettera. Ogni volta che si sentivamo lo stridio dei gufi, lui non alzava mai lo sguardo, continuava la sua colazione e non guardava nessun’altro, totalmente immerso nei suoi pensieri, in quel pensiero, nella sua personale opera di convincimento.
Non doveva sperare niente, alzandosi la mattina, in questo modo non sarebbe rimasto deluso nel non vedere alcun gufo.
Quella mattina ero piuttosto su di giri, e decisi di risparmiare a tutti quell’angoscia gratuita. Fui la prima a lasciare il tovagliolo sul tavolo e ad alzarmi.
“Andiamo?”.
Non era una domanda. Era una supplica, mascherata da ordine. Ma tutti la esaudirono e tutti lo eseguirono. Blaise fu il secondo ad alzarsi dopo di me e come era ovvio si portò dietro Millicent, ancora raggiante e quasi onorata per avergli passato il bricco del latte.
Draco fu l’ultimo, si alzò con uno scatto secco e rabbioso. Se avesse potuto, avrebbe preso a sassate tutti i gufi presenti in quella stanza, che avevano già iniziato a planare. Ma quando si voltò verso di noi era molto annoiato dall’inizio di quella mattina, e un’apatia era scesa sul suo viso.
Certo, finsi di crederci. E lo fece anche Blaise.
Millicent notò quanto fosse particolare il taglio del mento di Blaise, invece. E ne rimase commossa.

L’unico modo per migliorare una mattinata iniziata male, anzi per renderla meno peggio di quanto non apparisse già, era iniziarla con una lezione di Pozioni. Se divisa con la classe di Potter, forse ancora meglio, per il semplice gusto di ottenere quelle piccole rivincite, che in confronto a tutto il resto valgono ben poco, ma che sul momento garantiscono una breve ma intensa sensazione di superiorità.
Anche se a me ne davano ben poca di soddisfazione, sentendomi sempre superiore a loro. Ma sentire dare dell’imbecille a Potter era una vera delizia, quando poi il tutto veniva contornato da riferimenti e illazioni al suo essere un prode e valoroso Gryffindor, uscivo da quell’aula con il cuore più leggero e un ghigno soddisfatto sul volto.
“Dieci punti in meno a Gryffindor, Potter”.
Rilassai la testa e inclinai il collo leggermente indietro.
“Ma professore…è stato Nott!”.
Sentii Theodor sghignazzare con il vicino, e lanciare qualche provocazione in direzione di quel fomentato di Thomas e quel povero idiota di Paciock. Molte volte mi ero domandata se la sua psiche non fosse in correlazione con quella dei genitori, e il blocco delle funzioni cerebrali non avesse colpito anche lui. “Non sollevare polemiche, Potter. Una sola parola e leverò altri cinque punti alla sua Casa”.
Fu in quel momento che non riuscii a resistere. Fu una forza più forte di me, e un innato e inspiegabile bisogno di vendetta che mi trascinò con sé. Lui poteva vivere nel suo mondo di sogni rosso-oro alla torre nord del castello, io strisciavo tra le realtà della vita, destreggiandomi come meglio potevo e faticando per non piangere una sola lacrima la notte o non aprire quella finestra. Non mi sembrava poi così gusto, e in quel mondo l’unico modo di fare giustizia era farsela da soli.
Così mi sporsi leggermente in avanti, attirando l’attenzione di Potter e del suo sciocco compare Weasley. Mentre lanciavo una delle tante provocazioni velenose di cui disponeva il mio repertorio, intercettai gli occhi di Weasley guardarmi in modo strano, e ammirare la mia bellezza quasi marmorea, come avevo sentire dire, origliando nel bagno delle ragazze. Avere gli occhi di un pezzente addosso è molto meno lusinghiero, ma era amico di Potter e il futuro ragazzo della Granger a quanto in molti dicevano. Trovai anche lì il mio briciolo di compiacimento e soddisfazione. Draco, dietro di me, un po’ di meno.
“Sta zitta Parkinson o…”.
Troppo tardi, Potter. La voce di Piton risuonò sopra di lui come una punizione della provvidenza divina.
“Ti avevo avvertito Potter: cinque in meno a Gryffindor. E fanno quindici: che dici, è il caso di stare zitto e pensare alla tua vergognosa incapacità di leggere i più basilari incantesimi su una lavagna?”.
Abbassò il capo rosso in volto e arrabbiato come pochi. Io mi permisi il lusso di sorridere. Quei trucchetti subdoli e infantili, risalivano ai nostri primi anni, eppure con lui funzionavano ancora.
Le volte in cui mi chiedevo cosa vivesse ancora a fare uno come Paciock (che rubava solo ossigeno a chi ne avrebbe fatto un utilizzo migliore), pensavo anche a come stesse cadendo in basso il prestigio della casata Gryffindor: se Potter ne era il massimo esponente, allora potevo figurarmi gli altri. Potter era stupido, poco furbo, e forse neanche tanto intelligente come dicevano tutti.
Sapeva tenere bene in mano una bacchetta, ma la ragione lo abbandonava quasi sempre quando ce ne era bisogno. Senza quella mezzosangue della Granger sarebbe morto da lunghi anni.
“Ancora ti diverti a fare queste cose?”.
Sentii il sussurro di Draco nel mio orecchio e mi voltai verso di lui, lentamente per non farmi vedere da Piton. Lo guardai per un po’ negli occhi, cercando di capire cosa potesse aver pensato di tutto quello: della pochezza di Potter, della rabbia di Piton. Non lessi quasi niente, se non un cupo divertimento e un apprezzamento ai quindici punti Gryffindor andati persi.
“Ho una media troppo alta in Pozioni per permettermi di stare attenta”.
“Devo dedurre che la abbia anche Weasley, allora”.
Lo guardai ancora un attimo, mentre una luce di interesse sferzava i miei occhi scuri. Nei suoi però vibrava un moto di fastidio e nervosismo. Ma non li spostò su Weasley, li tenne sempre fissi su di me, anche mentre voltavo la testa e scoprivo Weasley intento a guardarmi, accanto a Potter. Quando incontrò il mio sguardo, un momento provocante, un attimo dopo schernitore, tramutò la sua espressione di meraviglia e, quasi desiderio, in una finta rabbia, piuttosto buffa.
“Ti fai ammirare da Weasley, Pansy? Attenta o finirà con il consumarti”.
Rispose tagliente Draco. Eppure io non riuscii a squarciare le tende che aveva tirato davanti al volto e alla sua umanità. Non capivo cosa lo infastidisse tanto: se il pensiero che Weasley guardasse me, o se io non gli impedissi di farlo. Sapeva benissimo quanto mi piace stare al centro dell’attenzione altrui, fino a quando si limita ad uno sguardo o ad un apprezzamento, in pubblico. Erano proprio quel genere di attenzioni che lui non mi aveva mai rivolto, dopo la fine del quinto anno, quando avevamo definitivamente smesso di comportarci tutti come bambini troppo viziati, sapendo che dentro non lo eravamo mai stati.
Io non mi sono mai lasciata viziare: accettavo gli agi, i vantaggi, i regali, le concessioni, ma tenevo gli occhi aperti, sapevo che alcuni non li meritavo e che come erano lì sarebbero potuti sparire. Lo stavano facendo poco a poco infatti, e io ero stata preparata.
“Eh già, finirai con lo sparire”.
Aggiunse Blaise che era rimasto in silenzio per tutto quel tempo. Finii con il roteare gli occhi in aria e pregare Millicent di trovare un modo per farli stare zitti. Era una preghiera così assurda che nessuno mi prese ovviamente sul serio: Millicent aveva poco potere persino sulla scelta dei lacci per le sue scarpe, era del tutto impossibile che riuscisse a farsi dare retta da qualcuno.
“Possibilmente senza saltare addosso a Blaise e tappargli la bocca con un bacio”.
Specificò Draco ammiccando in direzione dell’amico. Scossi la testa decisa a tornare al mio lavoro, piuttosto noioso, quando un brusio dalle ultime file Slytherin mi disturbò, e distolse la mia attenzione dalla pozione che avevo sotto gli occhi. In special modo perché avevo sentito Nott fare il mio nome e accostargli fin troppo vicino quello di Weasley. E infatti, come mio solito, non mi sbagliavo.
Si era sporto in avanti e aveva iniziato a tirare radici di Bubotubero contro il braccio destro di Potter, fino a quando quello non si era girato con un piede sulla linea di guerra e gli aveva ringhiato contro qualcosa. Nott aveva scoperto un ghigno piuttosto felino e spostato la testa verso di me. Naturalmente non mi girai, fingendo di non essermi accorta di niente, proprio come facevo da piccola quando i miei genitori discutevano o quando mio padre sbirciava nella mia stanza con la camicia insanguinata per controllare che non avessi sentito niente. Anche per quello, ero bene allenata. Ed entrambi caddero nel mio inganno.
“Ehi, Weasel!Ce la porteresti Pansy al ballo?”.
Non potei fare a meno di inorridire alla sola proposta, e al pensiero di quello che ne sarebbe potuto venire fuori. La Patil non era stata molto soddisfatta dell’esito del ballo al quarto anno dopotutto. Inoltre non mi sarei mai accostata a qualcuno con un simile colore di capelli, così pacchiano. La Granger aveva smesso di svuotare boccette nel suo calderone per assistere alla scena con la stessa espressione di un cane da guardia. Ecco perché poi non trovava un ragazzo: a nessuno fa piacere essere morso al di fuori di contesti piuttosto intimi.
“Non raccogliere provocazioni, Ron”.
Lo ammonì riprendendo a fissare il calderone, ma potevo notare perfettamente quanto fosse attenta a captare anche il minimo segnale. Draco alle mie spalle non aveva mosso dito, ma aveva quasi smesso di respirare, e io continuavo a pormi una serie di domande tutte sbagliate di tanto in tanto, alle quali non avrei voluto dare risposta. Iniziavo ad infastidirmi.
“Con il guinzaglio?”.
Domandò di rimando, assottigliando la voce e guardando di sbieco Piton per garantirsi che non sentisse o non guardasse in quella direzione. Ma era molto preso ad umiliare Paciock e mortificare Potter al momento. Non potei impedirmi di serrare le labbra però, al sentire quella domanda. Ricordavo distintamente i tempi in cui la mia bellezza e il mio volto erano associati a quelli di un carlino. Eppure chissà come tutti avevano piacere a finire nella mia cuccia. Persino Weasley, che in quel momento rinvangava quella parte del mio passato ormai messa da parte, poco prima aveva desiderato che quella stanza fosse vuota e potermi fare sua, in qualche modo che di certo avrebbe scoperto per la prima volta in quel preciso momento. Vigliacco e ipocrita. Immagino che dovesse ringraziare il cielo perché la sua astuta e intelligente mezzosangue non sapesse ancora leggere nel pensiero. Nott scrollò le spalle.
“Se ti piace il sadomaso”.
Alzai un sopracciglio, divertita all’idea. Weasley? A stento sapeva da dove iniziava il corpo di una ragazza, e dove finiva, avrebbe usato delle manette unicamente per legare le proprie mani e invocare il perdono divino per aver ammesso che il corpo di un’altra lo entusiasmava molto di più del cervello della Granger. E in ogni caso, il sadomaso non piaceva a me, i discorsi stavano a zero.
In quel momento Piton dovette avvertire una nota di ilarità che vagava per l’aula, e una zona a bassa tensione nel punto in cui ci trovavamo noi, perché ci raggiunse a grandi passi, fulminando con lo sguardo tutti i presenti, escluse me e Millicent che non avevamo sollevato la testa dal nostro calderone. Ma doveva aver sentito tutto e fin dall’inizio: quando tornò alla cattedra a sistemare alcuni fogli, incontrò i miei occhi e mi rivolse un odioso mezzo sorriso divertito e anche un po’ sorpreso.
Due minuti più tardi, il calderone di Nott iniziava a fumare, e un denso vapore gli appannava la vista e rendeva difficoltosa la sua respirazione, costringendolo a tossire violentemente. Accanto a lui, Daphne Greengrass cercava di diradare il vapore, chiaramente infastidita dall’odore agre che di certo avrebbe contaminato il suo profumo al gelsomino.
“Che succede laggiù? Nott, Greengrass?”.
Due secondi più tardi, Draco aveva posato la bacchetta sul ripiano del tavolo di appoggio, e fissava il miscuglio denso nel suo calderone. Blaise nascondeva un sorriso divertito e Millicent sorrideva estasiata a quella vista. Io preferii non voltarmi, altrimenti sarebbe sorta un’ennesima sciocca domanda nella mia mente. “Ora non ruberà più le mie sigarette”.
Aggiunse Blaise rilassato, alzando davanti al volto due boccette e alternando la salita e la discesa tra una e l’altra. Mi ero girata a guardarlo, cercando di capire se fosse vero quello che aveva detto. Era per le sigarette, che il calderone di Nott era quasi scoppiato? Draco fissava le boccette e Blaise alternativamente, apparentemente tranquillo, scotendo la testa contrariato.
“Che stai facendo?”.
Gli chiese con tono rassegnato di chi sa già che la risposta non sarà indice di salute mentale. Blaise assottigliò gli occhi e scrutò ancora una volta le due ampolline che aveva per le mani.
“Non so: verde o blu?”.
Domandò in tono serio e calcolatore, mentre valutava bene il colore di entrambi i contenuti. Draco non rispose, scosse ancora la testa e perse lo sguardo nella sua pozione, raccogliendone un po’ in una boccetta, mentre alle sue spalle Daphne cercava di tirarsi fuori dai guai ululando la sua innocenza.
“Verde”.
Suggerii in tono altrettanto serio, voltandomi. Guardai d’improvviso Millicent, assorta nella contemplazione del volto dietro le ampolle. Le indicai i due vetri, chiedendole un parere. Arrossì violentemente e non esitò un istante nel rispondere, verde, come me. Era scontato, banale e patetico, ma non lo dissi ad alta voce, benché traducendo l’espressione scostante sul mio viso, si comprendesse quanto fosse asfissiante la presenza di Millicent in alcuni momenti particolari della mia vita. Sapevo che l’istinto di Blaise era quello di usare quella blu per il semplice gusto di mortificare Millicent, ma si fidava più della mia bravura in pozioni, e di prendere un brutto voto non ne voleva sapere. Un padre ubriaco e deluso della rendita di suo figlio vicino alle vacanze di Natale, era molto pericoloso. Ebbe tutta la mia comprensione nel non voler rischiare.
Poggiò sul ripiano la boccetta con il liquido blu e alzando in aria quella verde, proclamò:
“E verde sia!”.
“Signor Zabini non siamo alla Tavola Rotonda, la pregherei di non fare il buffone”.
Lo riprese Piton con una voce che sembrava provenire dall’oltretomba, quando invece era soltanto alle nostre spalle, ancora alle prese con Nott e Daphne, che a quanto pareva dall’espressione di Nott gli aveva appena tirato un forte calcio negli stinchi, colpevole di averla messa nei guai e di non saperla tirare fuori. Blaise abbozzò un sorriso.
“E di non farsi suggerire dalla signorina Parkinson. È evidente che avrebbe scelto il blu”.
Aggiunse duro, ma con lo stesso sguardo di chi vede un serpente strisciare ed esprime a voce alta quanto sia ovvio che non voli, con un certo disprezzo nella voce, aggiungerei io. Blaise chinò il capo di lato in una dolce resa, ma aveva sempre modo di giustificarsi.
“Solo perché si intona al colore dei miei occhi”.
Alzai gli occhi al soffitto con uno sbuffo.

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Disclaimer: Tutti i personaggi, o quasi, citati in questa storia appartengono a J.K.Rowling. Non scrivo a scopo di lucro.

Specificazioni :
Questa storia è nata dal pensiero che la vita non è facile per nessuno, e se si sente spesso lamentarsi Potter, è altamente probabile che si lamentino a ragione, anche gli altri . E visto che ormai io sembro avere un totale rifiuto per i personaggi principali di qualsiasi storia, mi sono avventurata nei sotterranei Slytherin .
Ho scelto come narratrice Pansy perchè ho anche deciso di renderla nell'altra visione, quella che ho io. Nessuna cagnetta al braccio di Malfoy, o almeno non ora che si può definire quasi adulta. E' un personaggio molto duro, scontroso e severo con sè stessa e con la vita.
L'aver paragonato Blaise a un gatto deriva dal semplice fatto che io amo i gatti... e amo anche Blaise. ^^. E da sempre ho immaginato Millicent Bullstrode come la perfetta innamorata, ovviamente MAI ricambiata.
Ci saranno altri due capitoli, non di più credo, più corti di questo.
Nel prossimo capitolo vedremo cosa succederà alla riunione serale tra Capiscuola, e cosa si deciderà in merito al ballo, non senza conseguenze.
Spero che possa essere di vostro gradimento, e in ogni caso... una recensione non dispiace mai. ^^'.

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Capitolo 2
*** II ***


It's better to burn

II

Quando alle dieci e mezza di quella sera ero uscita dalla mia stanza insieme a Draco, non mi aspettavo di certo di passare una piacevole serata, ma ho la sincerità di ammettere che fino all’ultimo momento avevo sperato di non dover assistere ad una scena simile, e ascoltare quella dannata discussione.
Era andato tutto piuttosto bene fino al giro delle ronde notturne. Alle undici eravamo tornati tutti nella sala dei Capiscuola per mettere come al solito una firma e affermare di essere realmente stati in giro per la scuola a fare i cani da guardia. Se poi si controllava più approfonditamente uno sgabuzzino delle scope con un Eddy Moon di turno, era da considerarsi un particolare irrilevante. Se non altro ero certa che in quel ripostiglio non ci fosse veramente nessuno.
Ma al momento di tornare tutti nelle proprie Sale Comuni, quell’imbranato di un Weasley aveva accidentalmente urtato contro Patil. Dopo uno squittio di puro terrore da parte di quella sciocca, era partita la tiritera su quanta poca attenzione prestasse il Re a tutto quello che gli stesse intorno. Non fu chiaro a molti perché proprio lei desse a voce a quei pensieri, e non chi vivesse, disgraziatamente, a stretto contatto con lui, ma dopo tutto fu più evidente: era solo un subdolo e patetico mezzuccio per tirare fuori la storia del Ballo scolastico. Ma durante tutta la ramanzina di Patil, la Granger non aveva fatto altro che ascoltare attentamente alle spalle del suo Re, e annuire più volte con ferma convinzione. Povero Weasley, così impacciato ed incompreso.
“Ma figurati, non presti attenzione a dove metti i piedi quando balli con una ragazza, posso immaginarmi in tutto il resto!”.
Aveva concluso rossa in volto per lo sforzo di urlare per cinque minuti di seguito, più che per la reale arrabbiatura, che in verità non c’era. Alla fine Weasley era più rosso dei suoi capelli, la Granger appena mortificata per non aver spezzato una lancia in sua difesa, e Hannah Abbott era saltata su come un grillo al sentire parlare di balli. Accanto a lei Ernie aveva scosso la testa, senza prendersi la briga di alzarsi e a quel punto fu evidente a tutti che non saremmo più usciti di lì senza discutere di quel ballo.
Come sempre, preferii bruciare subito, e scostai una sedia attirando l’attenzione di tutti, sedendomi e accavallando le gambe con aria annoiata. Weasley ricevette un fulmine sul capo dalla Granger, quando si accorse dell’interesse del suo futuro sposo per le mie gambe. Draco aveva gettato il mantello sul tavolo lì vicino e rassegnato quanto me si era appoggiato allo schienale della mia sedia. Dovevamo fare un bel quadretto tutti e due, così annoiati e così distanti da tutta l’altra gente. Mi sentii bene a quel pensiero, nonostante tutto.
Goldstein mise la sua firma su un registro lì accanto e con un sospiro poderoso, che voleva passare tutt’altro che inosservato, prese posto alla finestra, serrando le braccia e schioccando la lingua. La Granger gli fu subito accanto, entrambi pronti a discutere e a difendere le proprie idee. Ma nessuno che desse il via alla carneficina che di lì a poco sarebbe scoppiata. Dovetti pensarci io.
“Avanti Patil. Dì quello che devi dire, e facciamola finita. La pantomima di prima è stata una vera chicca. Peccato che i prefetti l’abbiano persa”.
Arrossì di colpo e si morse un labbro con tale violenza da rischiare di tagliarlo in due. Notai la mano andare a stringere l’altra: avrebbe voluto stamparmela in faccia, e trovai ancora più divertente sorriderle con la consapevolezza che non aveva il permesso di farlo, e non lo avrebbe fatto. Sarebbe morta piuttosto.
“Grazie, Pansy”.
Bisbigliò quasi senza separare le labbra l’una dall’altra. Chinai la testa da un lato e sorrisi ancora più gentilmente di prima. Tremò per un breve istante, poi tutto finì quando Ernie prese un’altra sedia e ruppe quel silenzio assoluto che era sceso.
“Bene. Ho pensato che sarebbe bello poterlo fare a dicembre, prima che tutti partano per le vacanze di Natale”.
Propose cercando assensi con un ampio sorriso e l’aria impaziente. Annuirono tutti, Hannah batté persino le mani una sola volta, e squittì eccitata, lieta di aver trovato una compagna con cui lottare per i diritti delle papere di quella scuola. Io scrollai le spalle, in tutta la mia indifferenza. Ballo o non ballo, io avrei potuto trovare ugualmente il modo di divertirmi un po’. Alle mie spalle Draco non proferì parola, ma annuì silenzioso. Mi era sembrato piuttosto teso negli ultimi giorni, ma avevo preferito non farglielo notare, o lo sarebbe diventato ancora di più. Qualcuno si schiarì la voce dal fondo della saletta.
“Io non sarei d’accordo”.
La Granger ovviamente. Goldstein assentì accanto a lei, pensieroso. Il viso di Hannah e della Patil si scurì all’istante, prendendo tinte minacciose. La mezzosangue dovette notarlo, perché deglutì una volta e rivolse ad entrambe uno sguardo piuttosto sulla difensiva, ma carico di determinazione: si sarebbe opposta con tutte le sue forze.
“Mi associo”.
Aggiunse quel filo-grifone di Anthony. Avrebbe anche voluto posare una mano sulla spalla della Granger a testimoniare il suo totale appoggio in quella causa, ma Weasley quando non guardava le mie gambe, teneva d’occhio la sua mancata Regina. E Goldstein non giocava a Quidditich e non si allenava e non aveva mai fatto a pugni con nessuno: Weasley con la bacchetta era un vero inetto, un rifiuto di mago, il che lo era indipendentemente da quello, a differenza di Goldstein, ma avrei giurato che con le mani non se la cavava niente male se non si trattava del corpo di una ragazza.
Hannah era vicina alle lacrime. Dio, non sarebbe arrivata lontano nella vita se la sua reazione a tutto era quella.
Mi sentii in dovere di disturbare un po’ la Granger.
“Andiamo Granger, sta tranquilla: non ho intenzione di andarci con Weasley al ballo. Lo puoi prendere tu”.
Le sue guance si colorirono di sdegno di colore rosso, a differenza di quelle di King Weasley, che si scolorirono di panico color latte. Aprì bocca per parlare ma si rese conto di quanto successo solo quando aveva ormai aperto la bocca e non seppe più cosa dire.
“Io…non…”.
Come c’era da aspettarsi, scelse i monosillabi sbagliati. I lineamenti severi di lei si indurirono ancora di più, e lessi negli occhi di Goldstein un elisir di nuova vita.
Decisi di aiutarlo un altro po’, giusto per vendicarmi del commento sul guinzaglio di Weasley, di quella mattina.
“E in ogni caso troverai pur qualcun altro disposto a portarti, no? basta solo aprire gli occhi, Granger”.
Conclusi con un tono di voce leggermente cantilenante, di quelli che ti entrano in testa e non ti lasciano in pace fino a quando non riesci a dimenticare, perché qualcosa di importante, di molto più importante, ti distrae. Una sorta di maledizione, insomma. Lei guardò Anthony rapidamente e poi tornò a fissare me con uno sguardo duro e gli occhi fiammeggianti rancore e rabbia.
“Io non prendo i tuoi scarti, Parkinson”.
Soffiò velenosa come una serpe d’eccezione. Allargai gli occhi meravigliata del fatto che avesse potuto dire a voce alta una malignità su un presente e con una tale sincerità e faccia tosta da meritare un piccolo premio, magari in denaro da devolvere in beneficenza alla famiglia del suo Re Povero Weasley.
“Basta così. Procederemo per votazione. Chi vota a favore?”.
Fu la prima ad alzare la mano, Patil, imitata da Hannah Abbott e da un riluttante Ernie McMillan. Weasley fu combattuto fino alla fine, cercò lo sguardo della sua bella, ma trovandolo fisso sul pavimento, ancora imbronciato, finì con l’alzare la mano, risentito e chiaramente per ripicca, secondo i metodi risolutivi di un bambino di otto anni e poco più. Gli altri due erano ufficialmente contrari, e tutti gli sguardi si puntarono su me e Draco. Quattro favorevoli e due contrari. A quanto pare eravamo decisivi.
“Io mi astengo”.
La Abbott smise di respirare e per poco non scoppiò a piangere sulla spalla di McMillan. Lui parve mortificato, ma le riservò un’occhiata alquanto diretta: non si sarebbe messo contro Malfoy per farle un piacere, contando che neanche ne andava delle loro vite. Padma Patil gli diede fuoco con lo sguardo, ma era anche troppo sconcertata per poter dire qualcosa. Solo Weasley si sentì abbastanza sicuro e arrogante da poter dire la sua e parlare a nome di tutti senza aver ricevuto alcun consenso. Tra l’altro nessuno gli aveva dato il diritto di parlare, cosa di cui non avrebbe mai dovuto disporre uno come lui.
“Non ce ne stupiamo Malfoy. Dopotutto è così che tuo padre è finito disperso chissà dove, no?Chi non si mette mai in gioco è il primo a morire”.
Morire. Che sciocchezza. Draco si alzò di scatto dalla sedia, facendomi sbilanciare, e si avvicinò a Weasley, i muscoli tesi, il volto contratto in un espressione di odio violento.
“Taci, Weasley”.
Ma il Re dovette sentirsi finalmente padrone di qualche regno, magari quello dell’idiozia, perché non indietreggiò di un solo passo, ma raccolse le braccia al petto e si lasciò andare ad una risatina che tradì alla fine un po’ di nervosismo.
Ero ancora lì, con le gambe accavallate e un espressione indecifrabile sul viso:non sorridevo più sarcastica o provocatoria (e provocante)come poco prima, ma dalla mia espressione non trapelava minimamente l’idea che il mio cuore fosse arrivato a battere in gola. Avrei voluto alzarmi e prendere Draco per un braccio, portarlo via e lasciargli fare quello stupido Ballo se ci tenevano così tanto. Ma quello no. Non parlare di Lucius Malfoy e sentirne parlare dalla bocca sporca di un Weasley come lui.
Ed ero sempre lì, quando Weasley aggiunse dell’altro.
“Oh si certo…Non nominare il nome di Dio invano!”.
Chiusi gli occhi per la frazione di un secondo. Fu un riflesso incondizionato, non avrei voluto vedere né quello che ne sarebbe stato di Weasley dopo, e soprattutto l’espressione sul viso di Draco a quelle parole. Io non gli avevo più scritto. E allora chiusi gli occhi, ma li riaprii subito, perché per molte cose ero codarda, ma se c’era qualcuno che poteva mettere una toppa da qualche parte forse ero io, anche mettendomi in mezzo e lasciare che Draco se la prendesse con me, sarebbe andato bene.
Bene, si, persino quello.
Feci bene a riaprire gli occhi: fui svelta, impiegai mezzo secondo a prevedere cosa avrebbe fatto Draco, e tre secondi e forse un quarto, ad alzarmi e ad afferrare il suo braccio prima che colpisse Weasley.
Mai. Abbassarsi. Al. Loro. Stesso. Livello.
Così trattenni Draco per il braccio, e lo costrinsi ad abbassarlo e a farlo indietreggiare. Lo tenni così forte che forse gli feci male, ma non volevo lasciarlo andare e in un certo senso sapevo che non potevo farlo. Avevo paura, e anche l’impressione, che altrimenti sul momento sarebbe caduto. E un Malfoy non cade mai, Lucius ci teneva e Draco non avrebbe mai voluto farlo. Per una volta, lo impedii.
Poi lo lasciai andare quando ebbi la sensazione che fosse più stabile e tornai seduta a fingere di riflettere. Ma anche se fossi stata contraria a quel punto non lo avrei detto, perché Draco si era astenuto e se non avessero avuto quel Ballo sarebbe scoppiato il finimondo. Ed io ero stanca quella sera.
Dopo un lungo sospiro di valutazione, stabilito che non volevo avere sulla coscienza la Abbott per un attacco cardiaco ,mi accarezzai le labbra con la lingua, inumidendole, e risposi.
“Se proprio ci tenete così tanto…fatelo. Ma non contate su di me per l’organizzazione”.
Era meglio mettere subito le cose in chiaro. Abbott per poco non si commosse e Patil annuì ubbidiente, con un sorriso di riconoscenza a trentadue denti che non si sarebbe tolto fino alla mattina dopo il Ballo. Se non fossi stata così algida e scostante, forse mi avrebbe persino abbracciata.
“Siete d’accordo per il ventidue di dicembre?”.
Domandò ormai sull’orlo dell’euforia. A quel punto la data non era che un piccolo particolare, di certo non un problema, dopo quello appena successo. Patil promise di parlarne con il Preside quanto prima, onore che io non avrei mai voluto avere il piacere di provare, e con un sorriso e l’ennesimo ringraziamento, dichiarò sciolta quella riunione momentanea. Ci mancava che ci dicesse di andare in pace e di amare il nostro prossimo come noi stessi. A me, lo diceva? Mi venne quasi da ridere. Io non amavo nessuno, mi stimavo ma credevo che fosse un po’ diverso. E comunque il problema in quel momento non sarebbe stato quello.
Appena scorsi l’entrata ai sotterranei Slytherin mi fermai, afferrando Draco per un braccio, visibilmente scossa e anche un po’ arrabbiata.
“Ma che ti salta in mente, di sfigurare Weasley?!”.
Mi ero aspettata una serie di insulti e urla e invece niente. Spostò subito lo sguardo dai miei occhi fiammeggianti, e si liberò con uno strattone, un gesto stanco che sembrò costargli un’immensa fatica, e riprese a camminare per i fatti suoi, replicando con un annoiato e strascicato:
“Ah, lasciami stare Pansy”.
A me però tutta la stanchezza era passata di colpo. E non sopportavo quell’apatia che si era fatto scivolare addosso. Ma non riuscii a corrergli dietro, non volli farlo. Lasciai che andasse avanti da solo, e mi fermai a controllare che in Sala Comune non ci fosse Blaise da qualche parte. Non c’era e per un attimo fui tentata di andarlo a cercare, di fumare una sigaretta con lui e di bruciarci lentamente come non facevamo mai, parlando di Draco magari, visto che era quello che ci costringeva a scegliere come bruciare, in quegli ultimi tempi.
Poi pensai che quello era un venerdì, che il giorno dopo era sabato, e certamente era da qualche parte nel letto con una qualche sua amica. Passai a dare un saluto veloce a Millicent, e la lasciai addirittura con un sorriso: in quegli ultimi minuti, da quando avevo cercato Blaise con lo sguardo, avevo avuto una sorta di disgelo e una voglia leggera di un po’ di umanità. Ma mi passò tutto subito, mentre salivo le scale per la mia stanza, perché di lì a poco l’umanità me la sarei sognata e avrei avuto a che fare con un animale, più che altro.



Quando raggiunsi la mia camera lo trovai lì e non nella sua. Si guardava intorno nervoso, intento a cercare qualcosa. Lasciai andare il mantello e il maglione della divisa, gettandoli sulla solita sedia e mi fermai un attimo a guardarlo.
“Che stai cercando?”.
Gli chiesi seccamente, senza essere dura ma senza essere comprensiva. Un po’ la solita Pansy, dopotutto.
“Le sigarette di Blaise”.
Rispose velocemente, scansando la mia sciarpa per controllare che non fossero lì sotto. Gli lanciai la scatola, abbandonata sul mio comodino.
“E’ sul serio la tua massima aspirazione essere lasciato stare?”.
Tolsi il fermaglio che aveva tenuto le ciocche laterali di capelli per tutta la giornata. Draco trafficava con le sigarette e cercava la sua bacchetta tra le pieghe dei vestiti per accenderne una.
“Le nostre attenzioni fatte di nascosto ti infastidiscono, vero?”.
Proseguii con un tono evidentemente nervoso e offeso. Non ero più tanto infrangibile, iniziavo a scaldarmi e ad arrabbiarmi. Finalmente accese la sigaretta e tirò una boccata di fumo. Iniziai a sbottonare la camicia bianca della divisa. Non era un problema farlo davanti a lui, contando che qualche volta ci era capitato di divedere il letto, per scopi puramente personali, che forse poi tanto personali non erano stati.
“Si”.
Lasciai andare i bottoni e smisi di tormentare la camicia. Abbandonai le braccia lungo i fianchi, voltandomi a guardarlo. Era molto serio, mentre buttava fuori il fumo e poi gettava fuori dalla finestra l’ennesima sigaretta.
Sentii qualcosa frammentarsi dentro di me. E credo che si trattasse della mia pazienza e del mio autocontrollo. La mia voce tremò appena quando parlai poco dopo, ma non gli diedi molta importanza, e subito dopo la rabbia la rese stentorea e sicura di se, per quanto fosse dura.
“Allora ho perso del tempo a preoccuparmi per non averti scritto, e a pensarci”.
Conclusi alla fine. Mi morsi un labbro e lo lasciai andare subito, perché lui avrebbe potuto pensare che stessi per piangere, e io non lo avrei mai fatto per lui. Però se non altro gli avevo detto che ci avevo pensato. E mi ero tolta un gran peso, perché così forse aveva capito quanto fosse maledetta quella sua abitudine di farsi pensare sempre.
Sbuffai amareggiata.
“Buonanotte, Draco”.
Non so perché lo feci, ma me ne andai da lì. Lasciai la mia stanza ed entrai nella sua e dormii lì. Forse lo ho fatto perché mi avrebbe fatto troppa tristezza cacciarlo. E vederlo andare via. E rimanere lì da sola. E allora me nero andata via io: perché preferivo bruciare. Bruciare. Bruciare. E bruciare.
Due ore più tardi lo sentii chiudere la finestra. Allora mi alzai e andai a chiudere quella nella sua stanza:
perché anche quella era alta quanto la mia.

°°°

La cosa più piacevole della mattinata seguente si limitò nell’annunciare a Millicent che il tanto sospirato Ballo lo avevamo ottenuto e che si sarebbe tenuto il ventidue dicembre. Ora non le restava che attendere la notizia ufficiale.
Sorrise come una bambina e strinse forte le dita intorno alla sua tazza di the. Blaise come al solito era seduto davanti a me e non aveva fatto altro che guardarmi e sorseggiare quello che aveva nel bicchiere. Ma io sapevo che per la frazione di un secondo Millicent aveva steso un pesante telo nero su quella che era la dura realtà, e si era ritagliata un momento per lei e Blaise. Mi fece quasi tenerezza, pensando che io avevo la certezza che non sarebbe mai successo niente di simile a quello che lei sognava la notte, prima di dormire veramente.
Blaise non sapeva neanche chi fosse Millicent, dopotutto.
Non le aveva mai neanche parlato seriamente. Parlare. Non che servisse a qualcosa parlare, con certa gente poi poteva essere considerato una inutile perdita di tempo.
Per il resto la giornata era iniziata male e da tale era destinata a finire allo stesso modo. Ne ebbi la certezza quando nell’attraversare la Sala Grande per uscire in giardino diretta alle serre, sentii una presa stringermi con forza il polso e impedirmi di andare avanti. Non era stata di certo una presa gentile, ma non c’era niente di violento se non una remota intenzione. Ma quando alzai gli occhi e incontrai i suoi, tutto tornò come sempre: io guardo, tu ti comporti di conseguenza.
“Che c’è?”.
Domandai piuttosto scostante. In genere lo ero raramente al primo approccio della giornata con qualcuno, che non fosse il Santo Trio ovviamente, perché pensavo sempre di poter cogliere dei vantaggi o trarne un po’ di sincero e maligno divertimento. Ma il mio umore era a dir poco pessimo, e Theodor Nott era l’ultima persona che avrei voluto vedere sulla faccia della terra in quel momento. Probabilmente lo aveva capito dai miei occhi, che lo fissavano con impazienza, pronti a scattare verso il cielo e ad umiliarlo. Apprezzai la tenacia, che da altri punti di vista potrebbe benissimo essere considerata come l’uccisione della propria dignità.
Trovò persino il coraggio di sostenere il mio sguardo che di gentile ed educato non aveva niente, neanche la volontà o la falsità: era crudamente sincero. Parla e sparisci, se non puoi proprio fare direttamente la seconda richiesta.
“Perché Moon si e io no?”.
Oh. Moon, certo. Se qualche notte prima avevo preferito ritirarmi nelle mie stanze, durante la ronda notturna non ero stata dello stesso parere. Ma non c’era comunque stato tempo, mi aspettava quella che si era rivelata la carneficina dell’ultima sera. Mi riservai il diritto di indurire lo sguardo e lasciarmi deliberatamente sfuggire una risata derisoria, ma a suo modo sincera: e si che ne avevo bisogno. Perché era davvero ridicolo che si presentasse da me con una domanda del genere e con la pretesa e la speranza di ottenere una risposta.
Lui, che con me non aveva mai avuto niente a che fare, che sapeva come tutti gli altri quali erano le regole e le condizioni che io ponevo a quello scambio, scambio che con lui non si era mai verificato e a cui mai avrei acconsentito.
Lui, che correva pateticamente dietro alla mia gonna, facendomi passare la voglia di accontentarlo e aumentare la voglia di deriderlo e farlo desistere.
Nessuno doveva avere delle pretese su di me, e neanche dei diritti: meno che tutti uno come lui.
“Perché io si e Millicent no?”.
Tacque. Ed era l’unica cosa che avrebbe potuto, e dovuto, fare. Perché io avevo ragione, ancora una volta, e lui torto.
Perché io dettavo le regole e lui le seguiva.
Perché lui non aveva diritti e io non avevo doveri nei suoi confronti. Avevo sempre messo le carte in tavola: non dovevano verificarsi discorsi del genere con me. Tanto più che non sopportavo le persone che non sapevano rispondere, che rimanevano lì con la bocca mezza aperta e uno sguardo mortificato stampato sul volto.
Non sopportavo di dover parlare con persone che non fossero alla mia altezza, a meno che non avessi voglia di divertirmi un po’. E quella mattina non volevo divertirmi, e Nott non era alla mia altezza.
“Non mi pare che Moon sia tanto meglio di me”.
Moon non mi parla.
Moon mi sorride e mi bacia.
Moon mi saluta e mi lascia in pace.

Non avevo voglia di continuare quel discorso, stranamente mi sentivo troppo stanca per poter dire in faccia a Nott la nuda verità: che in lui non trovavo niente di umano, di dignitoso e di rispettabile, e io non facevo l’amore con degli animali.
Scrollai le spalle e feci segno a Blaise che lo avrei raggiunto alle serre appena possibile. Poi sprecai dieci secondi del mio tempo per tornare a guardare Nott. Dritto negli occhi e non ci saranno repliche da sollevare. Veloce e indolore per me, rapido e doloroso per te. Mi dispiace, Nott. Ma non lo pensavo veramente.
“Sono punti di vista. Buona giornata, Theodor”.
E con quelle parole gli voltai le spalle, e non mi girai più. Soprattutto perché avevo sentito sulla mia schiena un nuovo sguardo, che non era quello di Nott, voglioso e feroce. Quell’altro sguardo mi stava perforando e scaldando nel punto in cui i suoi occhi si erano posati.
Proseguii il mio percorso senza cambiare ritmo di andatura: la regina dell’autocontrollo. La leonessa indiscussa di Hogwarts: e ora, dolcezza, togliti il cappello e regalami un po’ di piacere, i vantaggi arriveranno per tutti e due.
Di certo Nott era tornato sui suoi passi, e inevitabilmente si era scontrato con il profilo di Draco appena dietro di lui, e a Draco sarebbe bastato veramente poco per capire cosa doveva essere successo. Mi morsi la lingua: non avrebbe dovuto pensare che avessi risposto in modo diverso da come avevo fatto.
Perché non sei Draco, Theodor. E perché me lo stai chiedendo implorandomi in ginocchio.
Se solo lo avesse pensato, allora nel pomeriggio avrei fatto in modo di incontrare Nott e fingere di avergli concesso una seconda possibilità: perché per quanto volessi che Draco stesse almeno un po’ meglio, per me non doveva vincere nessuna battaglia.
Sentii soltanto il vento sferzare alla mia sinistra, tendersi bruscamente e spezzarsi senza pietà. E poi vidi Draco superarmi e raggiungere la serra.
Non puntai i miei occhi su di lui.
Non lo guardai oltre a quella manciata di secondi.
Non cercai il suo sguardo durante la lezione.
Non parlai con lui e neanche gli sorrisi sarcasticamente.
Accanto a Blaise, c’era Draco solo che io non avrei dovuto vederlo.
I dieci punti che fece guadagnare a Slytherin furono soltanto dieci punti guadagnati da un qualcuno che aveva indovinato la giusta risposta alla domanda.
Draco Malfoy non esisteva.
E non mi sentivo male o in colpa per tutto quello, dopotutto non ne avrei avuto motivo.
Lo stavo lasciando in pace.
Lo stavo accontentando.



Reclinai la testa di lato e lasciai che i capelli si sparpagliassero sul cuscino. Il contrasto tra il bianco della federa e il nero dei miei capelli era quasi annichilente.
Avevo la sua mano poggiata sul ventre, e il suo profumo impresso nella pelle, ma sarebbe bastata una doccia a lavarlo via.
Quella notte sarei rimasta a dormire con lui, non avevo voglia di tornare nella mia stanza.
Chiusi gli occhi e cercai di respirare il suo profumo, per stabilire se almeno mi piacesse. Forte e maschile, mi fece sentire al sicuro per brevi istanti. Poi scomparve dalla mia mente e il bianco delle lenzuola mi abbagliò, portandomi a perdermi nel mare di pallida angoscia che da sempre mi attanagliava, e mi mozzava il respiro.
Non succedeva troppo spesso, ma era da quando ero piccola che mi capitava. All’improvviso qualcosa mi aggrediva alle spalle e mi disarmava: allora sentivo rumori diversi, e uno scalpitare sempre vicino ma che non arrivava mai.
Chiudevo gli occhi e aspettavo che un senso di angoscia mi rapisse e mi portasse via con se, e in quei momenti ero così debole che respirare mi avrebbe fatto male, e persino sbattere le ciglia diveniva stancante.
Aspettai con insolita pazienza per una come me, che passasse, e mi lasciasse in pace.
Passò lentamente, il respiro si fece meno intenso e meno doloroso, riuscivo a sentire il petto alzarsi e abbassarsi secondo le ondate del cuore, e quello che era intorno a me tornare a colorarsi, prima piccoli particolari insignificanti, i primi quasi non si notavano, poi minuscole macchie di colore e alla fine anche il colore delle pareti mi sembrava visibile e si stampava con violenta veridicità davanti ai miei occhi, aperti lentamente e con una sorta di velato timore, anche quella volta, che non si sarebbe colorato più niente, e che avessi continuato la mia vita in bianco e nero.
“Perché scegli sempre me?”.
La sua voce mi risuonò più volte all’interno della testa, urtò i miei pensieri e aggredì i miei ricordi, mi parve quasi che si fosse introdotta a forza, eludendo la barriera di apatico distacco che avevo frapposto tra me e il resto.
Dischiusi le labbra secche, ora che non erano più coinvolte dai baci da lungo tempo.
“Io non ti scelgo. Capiti”.
Era da tanto che non pregavo. Non che quando lo facessi, fosse nel senso più stretto e giusto del termine. Io non credevo in niente, solo in me stessa come sempre, e non tolleravo che ci fosse qualcuno sopra di me a stabilire cosa doveva accadermi, per quanto ritenevo che un padre e un cognome fossero già abbastanza. Ma alcune volte mi capitava di farlo per sfizio, per prendere un po’ in giro me stessa e chi credeva che pregare servisse a qualcosa. Le mie preghiere non erano mai state esaudite, ma non me ne lamentavo di certo. Quella si, che era giustizia divina. Non meritavo di certo di essere ascoltata, ed ero molto grata a quel dio nascosto da qualche parte per non darmi retta, altrimenti avrei dovuto innervosirmi per il suo buonismo intollerabile e snervante. C’è anche da dire che non ho mai pregato per il bene di qualcun altro, che non ho mai pregato perché potessi essere felice o banalità analoghe.
Quella notte ad esempio, pregai perché Moon non aggiungesse altro, non mi facesse altre domande e non avesse iniziato ad aspettarsi qualcosa, all’improvviso.
“Capito?”.
Rispose leggermente divertito e soprattutto curioso. Tirai il primo silenzioso sospiro di sollievo nel non vederlo offeso o amareggiato, o innamorato.
Quando mi voltai per guardarlo, mi sembrò solo curioso e un po’ confuso. Sollevai la mano da sotto il cuscino e cercai la sua, per giocare un po’ con le sue dita. Stette al gioco, e mi baciò la punta di ogni dito, con una nota di malizia e di ironica presa in giro. Allora gli concessi una spiegazione, rassicurata.
“L’altra notte hai finto che capitasse. Ieri sera è capitato che ti ho sorpreso fuori dopo il coprifuoco.
Stanotte è capitato che tu tornassi tardi dalla biblioteca e mi stessi annoiando. Non è una scelta”.
“Cho Chang lo scorso anno vantava una serie di ramificazioni grazie a te. Anche con Davies ti capitava?”.
Socchiusi gli occhi cercando di ricordare e sforzandomi di non lasciarmi distrarre dal piacere che il pensiero della Chang sedotta e abbandonata mi procurava. Alla fine conclusi che no, quello non era un capitare per caso.
L’anno precedente non era stato poi molto noioso, per la noia non c’era molto spazio: la malinconia regnava sovrana, Draco parlava poco e Blaise aveva cercato di legarsi sentimentalmente a qualcuno,così era stato molto preso,ma alla fine per pietà di Millicent e amore per se stesso, aveva chiuso quel capitolo dopo sette mesi. Gli regalammo comunque una medaglia al merito a lui, e ovviamente anche a Daphne, perché non aveva fatto parte di un’impresa tanto facile.
Ma in tutto quello io ero persa nella mia malinconia, e Davies mi aveva fatto divertire, con i suoi modi spicci e la sua ironia diretta e forte. Non mi faceva faticare più di tanto. Mi parlava a differenza di altri, ma non aspettava risposte, se non un mio sorriso, e quello potevo anche concederglielo una volta ogni tanto.
“No, quello era un cercare di divertirsi”.
Annuì prendendo a giocare con il mio ombelico.
Io richiusi gli occhi e li riaprii per controllare la luce fuori dalla finestra: probabilmente era notte fonda.
Millicent stava sognando Blaise, Draco cercava suo padre nel buio della notte, Blaise era in camera sua a fumare di sicuro, pensando ai suoi sette mesi con Daphne e compiacendosi della sua medaglia al merito, ed io ero nel letto di Moon, con le sue lenzuola bianche e angosciose a coprire il mio corpo, chiedendomi che ora fosse e quando sarei dovuta tornare inevitabilmente nella mia camera.
Ed Eddy Moon giocava con il mio ombelico, e mi faceva piacere.
“Pansy?”.
Non mi dava fastidio che mi chiamasse per nome. Suonava ugualmente abbastanza distaccato, senza dolcezza, ma con necessità: si limitava ad usare il mio nome per la prima e basilare funzione che aveva, farmi voltare se lo sentivo pronunciare. Molto bene, Moon, un altro punto a tuo favore.
“Mh?”.
“Spero che questo continui a capitare con me, fino a quando non ti innamorerai”.
Mi baciò la pelle intorno all’ombelico e risalì fino al collo. Stetti in silenzio. Poteva considerarsi un’infrazione alla regola, ma chiusi un occhio al riguardo. Non mi ero sentita in dovere di rispondere infatti, e avevo semplicemente potuto pensare che fosse stato carino a dirmelo.
Accarezzai il suo mento con un dito e gli feci alzare la testa: un sorriso appena accennato e poi un bacio. Mentre passava le sue mani sulle mie spalle guardai ancora una volta alla finestra: ancora notte. Ancora un po’ di tempo.
Al mattino alzarsi fu particolarmente duro, ma alla fine fui io a mettere fine a quello scambio di carezze e a quel gioco di rantolii: stava diventando tutto troppo familiare e giocoso, e…tenero.
Io avevo ben altre strade da percorrere, avevo un Draco con il quale prima o poi avrei dovuto discutere di nuovo prima di riuscire a fare pace, una Millicent che avrebbe ancora cercato la mia spalla per piangere le sue disgrazie sentimentali, spalla che le avrei tolto dopo poche lacrime perché non era un bene abituarsi ad avere un appoggio del genere nel nostro mondo, e poi avevo Blaise, che sapevo prima o poi sarebbe tornato con Daphne, raccontando a tutti che lo aveva fatto per stabilire un nuovo record e battere quello precedente, sapendo benissimo che non se l’era mai dimenticata quella biondina un po’ forastica e un po’ bisognosa di attenzioni.
“Buona giornata, Moon”.
Sussurrai sul suo collo, appoggiando la camicia sulle spalle e finendo di abbottonarla. Lui mugugnò una risposta che non riuscii a capire, ma non me ne rammaricai, non avevo poi così tanta voglia di sentirla.



Quando raggiunsi la Sala Grande pensai per un breve istante che avessi sbagliato strada e fossi finita nella Guferia: sembrava che d’improvviso tutti avessero qualcosa da dire, qualcosa su cui cinguettare e frinire così rumorosamente che non sentii neanche i gufi arrivare.
Mi sedetti di fronte a Blaise secondo nostra abitudine, e percepii del suo sguardo che quella mattina si era alzato molto presto e quel trambusto andava avanti quasi dalle prime luci dell’alba.
Millicent vicino a me aveva rimesso a posto la sua quotidiana terza fetta di pane e aveva sorseggiato il suo the con parsimonia, e molto ridicolmente: era un sorso degno di un piccione quello. Avrei potuto dire uccellino o canarino ma dato che il secondo termine di paragone sarebbe stato Millicent, mi parve doveroso attenermi alla realtà.
“Cos’è tutta questa eccitazione? Non potrebbero sfogarla in altri modi?”.
Borbottai bagnandomi le labbra di caffè. Millicent si strozzò con il suo the, e mi portò sin dalle otto meno qualcosa della mattina ad alzare gli occhi al cielo-quel giorno piuttosto nuvoloso-e ad innervosirmi, con quegli atteggiamenti pudichi e schifosamente virtuosi.
“La Patil ha parlato”.
Mi rispose con un tono piatto da cronista di necrologi, Blaise. Eppure aveva usato un certo tono di rispetto, che poteva essere smentito solo soffermandosi sulla piega che avevano preso le sue labbra. Non faticai affatto allora, a capire che la Patil aveva annunciato a tutti la data del Ballo, che quel barbagianni di Silente avesse approvato l’idea e che gente come Millicent aveva appena ottenuto l’entrata gratis per il paradiso alla fine dei suoi giorni da dannata. E la Patil era diventata il Messia, naturalmente.
“Evviva”.
Commentai caustica, prendendo poco gentilmente il giornale delle mani di un ragazzino del quarto anno, e fingendo di volermi far perdonare per il gesto inconsulto con un sorriso e un battito di ciglia, per altro molto esagerato, che però sortirono l’effetto desiderato e una risata allegra da parte di Blaise. Come da copione, Millicent era molto dispiaciuta per il ragazzino spietatamente deriso e inconsapevolmente umiliato. Mi stupivo sempre di come fosse possibile che Millicent fosse finita nella casata del buon vecchio Salazar. Stavo giusto per leggere ad alta voce un passo del penoso articolo che avevo sotto gli occhi- anche i giornalisti stavano diventando sempre più ciechi e ottusi,per mano di chi governava le loro mani,alias Ministro Caramell-, quando una gattina un po’ spelacchiata a quell’ora della mattina si avvicinò a noi, e poggiò la sua zampina soffice sulla spalla di Blaise.
Lo vidi voltarsi e alzare il capo verso l’alto, incontrando gli occhi quasi perlacei di Daphne Greengrass.
E in quel momento pensai che quei due si erano incontrati per volere di qualcuno.
“Blaise, ho bisogno di parlarti”.
Niente moine o fusa disgustose, solo un esprimere a voce alta un dato di fatto, mascherando così la sua vera natura di richiesta, che in ogni caso non avrebbe esitato a dimostrarsi ordine qualora lui avesse rimandato la faccenda. Assolutamente si, quella ragazza mi piaceva proprio. Blaise non si mosse, ma spostò rapidamente gli occhi verso di me, impegnata a fotografare quella Daphne nella memoria del mio cervello. Dovette piacergli l’espressione nei miei occhi, perché subito dopo si scostò dalla panca e fu in piedi. Mi fece piacere notare di quel parere silenzioso che mi aveva chiesto: non che la mia impressione avrebbe mai condizionato la sua scelta, ma era stata una piccola conferma se non altro.
“Chi è quella?”.
Solo in quel momento mi ricordai della presenza indiscreta di Millicent al tavolo. Scrollai le spalle e ripresi il giornale tra le mani.
“Daphne Greengrass. Non fingere di non conoscerla, è quella dei sette mesi dell’anno scorso, quella che odi costantemente da lunghi anni, e quella che non può fare un passo senza che tu le bruci il terreno sotto i piedi”.
Accusò il colpo e meccanicamente riprese la fetta di pane che prima aveva messo da parte. Controllai altrettanto meccanicamente l’orologio appeso in alto, in quella Sala Grande. Ancora un quarto d’ora e le lezioni sarebbero iniziate.
Lui dov’era?
“Non ho visto uscire Draco, stamattina”.
Osservò Millicent con tono casuale,poggiando il tovagliolo davanti a lei e guardando me. Schioccai le labbra innervosita da quella affermazione, da quella situazione e da Draco Malfoy. Cosa aveva da guardare, lei? Come se pensasse che io seguissi ogni passo di Draco, che garantissi sempre per lui, che sapessi ogni cosa lo riguardasse.
Io non condividevo niente con Draco se non un’amicizia profonda ma da sempre traballante. Non mi diceva mai niente se non che voleva essere lasciato in pace, e Blaise con lui non se la passava meglio di me. Quindi, nessuno doveva avere la pretesa o modo di pensare che io potessi sapere dove fosse, come stesse o cosa pensasse Draco Malfoy, a qualsiasi ora del giorno e in qualsiasi momento della sua vita.
Io. Non . Lo. Sapevo.
E non potevo neanche saperlo, perché lui non voleva che si sapesse. Mi rimangiai tutto quello e piegai il giornale. Dovevo avere una maschera di ghiaccio sul viso quando le risposi.
“Starà male”.
Possibile. Ma io non sapevo se fosse vero. Millicent sembrava non aver capito che non era né giornata né modo di farmi ammettere quanto fossi arrabbiata con Draco.
Quello lo sapevo solo io, e anche lui a dirla tutta, e nessun’altro avrebbe dovuto esserne a conoscenza.
“Allora dovrebbe andare in Infermeria”.
Osservò nuovamente, con un finto tono innocente e con uno spudorato tono di insinuazione. Come se fosse stato un mio compito e meritassi di essere punita e rimproverata per non averlo portato a termine.
“Portacelo tu”.
Risposi seccamente, senza staccare gli occhi dal piano del tavolo, imbronciata come una bambina. Millicent sospirò silenziosamente accanto a me, in una odiosa rivisitazione della nonna delle belle famiglie, quella che vuole bene ai nipoti per intenderci e che non ha come hobby quello di impagliare elfi domestici come quella di Draco, o giocare al piattello con loro, come faceva la mia. Sembrava che stesse parlando con una povera stupida, che non era in grado di capire niente. Io capivo anche troppo invece.
“A me non aprirebbe la porta della stanza”.
“Millicent…”.
Ero partita con nessuna buona intenzione. La mia voce era sottile e incattivita, ma non ebbi modo di farle capire l’antifona. Odiavo essere interrotta.
“Parkinson!”.
Una voce tesa e allarmata alle mie spalle mi costrinse a voltarmi. Leggermente affannato per la corsa, con le guance colorite di un rosso infantile e l’aria volgarmente sconvolta, Ernie McMillan mi faceva cenno di avvicinarmi.
Salutai Millicent con uno sguardo molto poco amichevole e raggiunsi quel prefetto da quattro soldi. Con le braccia incrociate al petto, e la mia gonna sempre troppo corta per soddisfare la McGranitt, aspettai spiegazioni.
“Non avere sempre quella faccia indisponente, scoraggi chi ti vuole parlare!”.
Replicò McMillan con il tono lamentoso e capriccioso di un bambino. Infatti era quello che era: un bambino troppo cresciuto che si diverte a vestire gli abiti del fratello più grande. Odiavo anche le ramanzine, se poi venivano da un Hufflepuff con tre mesi più di me, e una disponibilità di materia grigia ben minore della mia, erano dolori. Per lui, ovviamente.
“Infatti non sono io il terremotato che ha urlato il mio nome. Cosa è successo, qualche Gryffindor si è alzato tardi e il mondo ha temuto la sua fine?”.
Rinunciò a farmi ragionare e ad addolcire i toni. Meglio per lui, perché se proprio mi avesse obbligata, sarei stata costretta ad usare il tipico tono di compatimento che gente come lui riscuotevano da altri. Da me poi, ricevevano solo un feroce e poco misericordioso compatimento.
Scosse la testa e poi prese fiato per un attimo.
L’autocontrollo non sapeva proprio dove fosse di casa: sarebbe finito preso, il giovane.
“Pare che qualcuno sia in contatto con qualche studente qui dentro. I professori credono che sia degli anni più piccoli, sta passando una marea di informazioni riservate, così non va bene. Devi radunare tutti i piccoletti della tua casa, Pansy. Dal primo al quarto anno, e portarli da Silente entro le nove di stamattina. Fatti dare una mano da Malfoy”.
Si, come no. Povero illuso.
Tirai fuori la bacchetta e mi preparai all’idea di una lunga mattinata. Per tutto il tempo, avevo scrutato negli occhi ogni ragazzino insopportabile che passava sotto la mia bacchetta e si andava ad ammassare agli altri del suo stesso anno, cercando di scoprire chi fosse il traditore, e se fosse un traditore: insomma, a chi passava quelle informazioni?
Se fosse finito nelle mani di Silente, certamente sarebbe stato scoperto. E poteva non essere un bene. Sentii la gola diventare secca, così come le labbra e una morsa prendermi allo stomaco, e una veloce sensazione di nausea assalirmi.
Durò un attimo, il tempo che quell’idea mi venisse in mente, sfrecciasse si conficcasse nella mia memoria. Poi tornai perfettamente padrona di me stessa e passai ad occuparmi del secondo anno. Da sola, perché Draco non c’era.
Si, Draco. Quel pensiero costò una spinta poco delicata della mia mano sulla spalla di un ragazzino di passaggio.
Pensavo che potesse essere un pensiero veramente sciocco, da ragazzina immatura, quella che crede nelle avventure, che crede che qualcosa possa andare meno peggio qualche volta. Ma io ero convinta sul suo non ritorno.
Io. Ero. Convinta. Dannazione, certa.
Vidi Blaise correre, in ritardo per la lezione e non persi tempo.
“Blaise va a chiamare, Draco”.
Mi guardò sconcertato, indicando l’orologio e alzando un libro. Lo guardai fissamente negli occhi, e indicai i ragazzini intorno a me. Aveva capito che c’era anche dell’altro oltre alla routine da Caposcuola, così come aveva intuito che stessi prendendo tempo, contando più volte e con una inedita scrupolosità che nessuno fosse sfuggito al mio occhio raramente attento. Sfrecciò verso i nostri Dormitori.
Ma tornò dieci minuti più tardi, solo e con l’aria alquanto stupita e perplessa. Alzò le mani in aria e scosse la testa.
“Non scende”.
“Peggio per lui, allora”.
E con un sorriso rivolto a Blaise, ripresi a contare i ragazzi del terzo anno.
Ma io quel dubbio, ce l’avevo ancora.

°°°

Tutta quella sceneggiata mi costrinse a saltare un’ ora di Pozioni quella mattina, dovendo sorvegliare quei marmocchi fino a quando anche l’ultimo non fosse entrato nell’Ufficio del preside e sottoposto ad un gentile ed educato terzo grado. Persino quello era patetico: insomma, un terzo grado non deve avere niente né di gentile né di educato, altrimenti la verità non verrà mai fuori, al pensiero che una bugia varrà un sorriso simpatico e un nuovo invito a non mentire.
Non a caso, notavo con piacere, ben nascosto ovviamente, che i miei marmocchi entravano in quella stanza con aria molto più serena rispetto agli altri delle altre Case: avevano un’espressione quasi svogliata e stanca. Mi compiacqui: da sempre era noto a tutti che i più piccoli di ogni Casa prendessero spunto per i loro atteggiamenti dai più grandi, e in Slytherin io vantavo il mio buon numero di emuli, anche se Blaise aveva il primato, accidenti a lui.
“A che anno sei arrivata?”
Mi voltai lentamente in direzione della voce che mi era giunta all’orecchio. Goldstein teneva i suoi occhi puntati sui ragazzi davanti a noi, e ogni tanto gli sfuggiva accidentalmente lo sguardo su di me. Che noia.
“Alla fine del secondo”.
“Tra poco hai finito allora”.
Sollevai un sopracciglio alquanto perplessa. Che non sapesse neanche più contare, inebetito dalla mia seducente persona? Stavo giusto per farglielo poco carinamente, e soprattutto sportivamente, notare, quando notai che per ogni Casa c’erano due Capiscuola adesso. Mi morsi la lingua e scrollai le spalle, cercando di non sembrare troppo spazientita, quale invece ero. Certo, tutti avrebbero avuto un “cambio di guardia”, perché nessuno aveva come collega Draco Malfoy.
Goldstein si rese conto dell’assenza di Draco all’improvviso e ne sembrò stranamente molto stupito, aveva l’aria di chi non se lo sarebbe mai aspettato. Mi domandai ancora una volta da che mondo venisse e su quale pianeta avesse vissuto fino a quel momento. Draco Malfoy: insomma, era leggenda, ormai.
“Draco sta male?”.
“Vuoi scusarmi un momento?”.
Ovviamente non mi interessava sentire la sua risposta in quanto la mia non era propriamente una domanda. Era solo un espediente per fargli capire che avevo intenzione di andarmene di lì e di non parlare con lui.
Ma soprattutto, ero diretta a passo spedito e anche piuttosto arrabbiato per i miei standard verso i Dormitori della mia Casa, decisa a tirare fuori da quel buco Draco, ignorando bellamente gli sguardi di perdizione che mi stavano rivolgendo gli altri marmocchi del terzo anno, vedendo la loro guida spirituale e non, allontanarsi. Non poteva importarmene di meno, e in ogni caso non ne avrebbero avuto motivo, loro: il buon pastore Goldstein li avrebbe certamente raccolti attorno a sé, elargendo sorrisi rassicuranti e magari qualche carezza se gli fosse venuto in mente che quello poteva anche considerarsi un favore e che avrebbe poi potuto chiederne un altro in cambio.
Non persi tempo ad elargire spiegazioni a Piton sul come mai mi trovassi in giro per i sotterranei invece che a tenere al guinzagli quegli idioti, ma dopo aver commesso l’imperdonabile errore di fargli un cenno con la testa e un saluto troppo veloce, mi imposi di non pensare alle conseguenze, che in ogni caso a quel punto ci sarebbero state.
E quando prometto qualcosa, mantengo sempre la promessa: cinque minuti più tardi infatti mi trovavo a battere i pugni contro la porta della stanza di Draco. Come da copione da lì dentro non mi giunse nessuna voce, neanche un’imprecazione o un insulto, neanche uno che mettesse in discussione la moralità di mia madre. Allora mi presi la briga di preoccuparmene, o meglio, di arrabbiarmi ancora di più. Insomma, era evidente che non stava dormendo.
“Draco! Apri questa cazzo di porta”.
La mia voce era suonata stranamente controllata, stavo serrando i denti per non perdere il controllo e non iniziare ad urlare. Io non urlavo mai, lo trovavo maleducato e fastidioso. Eppure Draco in qualche modo riusciva sempre a sconvolgermi l’esistenza.
Tanto è vero, che mi costrinse a tirare fuori la bacchetta e forzare la serratura, non essendo venuto ad aprire la porta.
Per forza: non era neanche sulla via per aprirla, comodamente affacciato alla finestra. Rabbrividii al ricordo di quei pensieri, e soprattutto di quel sogno.
Quando si voltò verso di me era pallido quasi quanto nel mio sogno, e quella finestra era dannatamente aperta, così palesemente, mi sembrò una macabra dichiarazione, e per un istante volli correre a chiuderla e legare Draco da qualche parte, per non farlo più alzare e impedirgli di avvicinarsi di nuovo lì. Perché in quel breve momento avevo pensato con la mia testa, avevo visto tutto con i miei occhi: io lo avrei fatto.
Ma un attimo dopo ero di nuovo arrabbiata, e ce l’avevo a morte con lui e avrei voluto dargli uno schiaffo, tutto quello pur di negare di essere preoccupata e di volere che le cose andassero per il meglio. Ma niente faceva presagire che andasse così, quindi pensarlo sarebbe stato sinonimo di sperare.
Altra regola d’oro tra noi Slytherin: vietato sperare.
Soprattutto mai ad alta voce.
“Cosa diavolo stai facendo lì affacciato a guardare il paesaggio?”.
Gli urlai quasi contro, ma in realtà scoprii che dalle mie labbra era uscito solo un sibili piuttosto velenoso. Era il mio siero, il mio antidoto contro i rischi della vita, quello. Allontanava i più comuni sentimenti alla vista degli altri. Così ne ero a conoscenza solo io. Ma temo che Draco ormai conoscesse bene la formula.
Scrollò le spalle e si appoggiò con il corpo a quel minuscolo davanzale. Rabbrividii di nuovo, e fuori tirava poco vento: il cielo era scuro, grigio e pesante, ma l’aria quasi mancava.
Mi sembrò annoiato. Quindi era ovvio che qualcosa non andava. Ma quella non era una grande novità. Gli concessi il beneficio del dubbio, e gli ripetei la domanda. Questa la voce era quasi del tutto scomparsa, ma la ritrovai a metà frase, sforzandola notevolmente e raggiunsi quasi picchi di isterismo. Non era da me, dannazione.
“Che cosa ci fai qui, quando Silente sta cercando la spia di tuo padre, per la miseria?”.
Stentai a crederci. Alla fine lo avevo detto. Non a Blaise, non a me stessa, non al muro o ad uno specchio: a Draco. Esattamente a lui, e me ne pentii un attimo dopo, perché di certo sarebbe scoppiato a ridere e poi mi avrebbe dato uno schiaffo per aver tirato fuori l’argomento, per una motivazione così sciocca ed infantile.
Beh, succede raramente, ma mi ero sbagliata.
Qualcosa sfrecciò nei suoi occhi e poi venne soffocato dal telo di apatia che come sempre aveva tirato. Ero in piedi davanti a lui e non sapevo cosa aspettarmi. Incrociò le braccia, forse per cercare di nascondere quanto fosse affannoso, d’improvviso, il suo respiro. La sua mascella era serrata e le punte delle sue dita quasi bianche. La finestra ancora aperta, il vuoto ancora lì.
“No, non è mio padre. Perché avrebbe dovuto usare uno stupido ragazzino, invece che me?”.
C’era una nota di dolore nella sua voce, che fece male persino a me. Si conficcò nel mio petto e mi tolse il respiro, bruciò per un po’ ma poi tornai a respirare e in qualche modo la ferita momentanea si ricucì da sola. La sua invece, sanguinava e pulsava da anni.
Mi sembrava una tale sciocchezza quella che aveva detto.
Era ovvio che non avrebbe cercato lui, era nelle aspettative di molte che Lucius Malfoy avrebbe potuto tentare di contattare suo figlio. Ma Lucius era furbo, non lo avrebbe mai fatto. La mia ipotesi era molto più valida della sua, e non avrei esitato a dirglielo, anzi avevo già dischiuso le labbra nervosa, ma poi lui mi guardò e allora rimasi in silenzio e bruciai quelle parole.
I suoi occhi per la prima volta mi avevano parlato. Non che mi avessero detto niente di romantico o di gentile, o di confidente.
Mi aveva semplicemente intimato di stare zitta. Di non dire quello che stavo per dire. E lo feci, perché in quel momento mi sembrò davvero stupido quello che volevo fare, il non aver compreso quello di cui lui aveva bisogno.
Certo, aveva perso suo padre, anzi, non lo aveva mai potuto avere come tale, e gli faceva troppo male per negarlo fino in fondo. E Lucius era scomparso, senza più cercarlo, senza preoccuparsi di garantire che almeno fosse vivo, e allora era molto più semplice e meno doloroso convincersi lentamente che fosse morto, piuttosto che fosse vivo e non volesse parargli.
Se avessi potuto, lo avrei abbracciato.
Solo una volta, tanto per ricordargli come si fa e cosa si prova nel riceverne uno, niente di più intimo o sentimentale, si intende. Ma non lo feci. Per paura. Non mi sembrava tanto pronto a cedere ai suoi principi per una volta, a mia differenza.
“No. No, non è lui”.
Acconsentii in un sussurro stanco, e dispiaciuto. A quel punto, sarei dovuta andare via. Ma non ne avevo molta voglia. Non mi fidavo neanche un po’ di lui. Sapevo quanto fosse attraente quel vuoto.
“Vieni con me?”.
Domandai, questa volta senza violenza, senza il minimo residuo di quella rabbia che avevo messo prima nelle mie parole. Lui sembrò pensarci, ma alla fine scosse la testa.
“Non ti sto chiedendo se te la senti, Draco. Ti sto chiedendo di darmi una mano, perché è tuo dovere farlo. Altrimenti li lascio nelle mani di Goldstein e poi non prendertela con me se ti ritroverai una generazione di pecorelle alle calcagna”.
Mi voltai e afferrai la maniglia della porta. Draco era dietro di me, e fu lui a richiudere la porta. Sorrisi compiaciuta: lo avevo convinto.
“Ci vediamo più tardi”.
Gli dissi al bivio del corridoio.
“Ti cercava Eddie Moon, prima”.
Mi voltai di scatto. Eddie non mi aveva mai cercato in camera mia, prima di allora. Aveva sempre fatto finta di incontrarmi in giro per il castello o per il giardino.
Sentii la gola farsi secca.
No, Eddie, non tradirmi.
“Che voleva?”.
Non anche tu.
“Tra poco ci sarà il ballo”.
Dannazione. Era andato tutto perfettamente. Serrai le labbra, duramente, fino a farle diventare quasi una linea invisibile. Dio, dovevo assomigliare orribilmente alla McGranitt in quel momento.
“ E a te, ha cercato qualcuno?”.
Domandai cercando di mettere da parte il fastidioso pensiero della discussione che mi attendeva con Moon. Ma che gli era preso? Sorrisi per un attimo. Lo avevo fatto innamorare? Draco sorrise, un sorriso storto, guardando il pavimento.
“Piton, per sapere come stavo”.
Mi si addolcirono gli occhi. E badate bene che non succede mai. Sono sempre vigili in genere. Ma a quel pensiero, scattò qualcosa nella mia mente. Draco si ostinava a cercare e ad aspettare il ritorno di un padre fantasma, forse morto sul serio, quando aveva accanto qualcuno che valeva molto di più di uno stupido rapporto di sangue.
“Non credo che sia un ballerino poi così bravo”.
Commentai chinando la testa da un lato e lasciando che un ciuffo di capelli mi cadesse sull’occhio.
Draco perse lo sguardo oltre di me per la frazione di un secondo, poi mi guardò piuttosto a lungo e mi sforzai di reggere quello sguardo, anche se non capivo a cosa fosse dovuto e cosa stesse cercando.
“A dopo, Pansy”.
Si voltò e non aspettò il mio saluto. Mi voltai anche io e presi la strada per la torre ovest. Iniziavo ad odiare sul serio quel ballo. E quella notte, sarebbe stata lunga.
Molto lunga.
Ma io non ci avrei fatto caso.

---

Specificazioni :
Vorrei brevemente spiegare, il motivo, più banale di quanto si possa pensare, del perchè ho pensato alla Greengrass come degna compagna di Blaise (che io non cederei a nessuno per niente al mondo ^^): perchè la vedo come una persona forte, decisa, ma a suo modo bisognosa delle attenzioni di qualcuno.
Se l'ho paragonata ad una gattina, è unicamente perchè per me Blaise è un gatto, e i gatti riescono a stare solo con i loro simili. Quindi, Daphne è una bella gattina con il suo caratterino. ^^
Nel prossimo capitolo :
Sarà l'ultimo, e anche il più breve. E' quindi la conclusione di tutto, non dirò cosa succederà, ovviamente, ma ci sarà una chiave di volta... e un bel turbinare di lenzuola. ^^


Ringraziamenti a:
Annika Riddle: Mi fa piacere che la storia ti sia piaciuta, questo è il secondo capitolo, la parte centrale. Che ne pensi? Grazie, per la recensione. Un bacio.
Sabry : Uh... grazie ^^ ! Piacciono anche a te, queste serpi? Sono la mia passione, se si parla di Blaise poi... *_* Un bacio!
fede_ea : ottima, addirittura? ^//^, grazie! Si, hai ragione, quella su Neville è stata una frase *infelice*, ma... le serpi non tengono mai le lingue a posto, e una perenna incavolata col mondo come Pansy, non si risparmia mai! ^^ Un bacio anche a te.


Parto oggi, l'ultimo capitolo lo inserirò tra un pò di giorni, non troppi credo. ^^
Intanto... lasciate un commento!
Baci,
Bris.

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Capitolo 3
*** III ***


It's better to burn

III

Così alla fine era arrivato il momento fatale. La notte prima mi ero rifugiata in camera di Moon e giocato con il suo corpo, lasciando che lui si trastullasse con il mio, in cambio di ospitalità, pur di non dover mettere piede nella mia proprietà. Ma era evidente, che con Moon tutto sarebbe dovuto finire, e quella notte non potevo passarla nella stessa stanza con lui.
Non incontrai Draco, doveva essere già nella sua stanza, ma incontrai un piccolo problema che mi costò la nottata di sonni tranquilli: ovviamente, ero entrata in camera di Moon con la mia divisa, avevo dormito qualche ora avvolta nelle coperte e ne ero uscita con la mia divisa.
Il che significava, che se la camicia da notte non era al suo posto sotto il cuscino, era perché si trovava sotto al cuscino sbagliato.
Mi innervosii molto nel notare che la mia mano aveva tremato, nel bussare alla porta di Draco. Venne ad aprire piuttosto in fretta. Mi parve stanco, ma ero troppo presa a maledirmi per essere così tesa e ridicolmente… emozionata, che lo notai solo poco dopo.
“Mh?”.
Sbirciai nella sua camera: ovvio che non potessi vederla, con una visuale così ristretta. Alzai lo sguardo per incontrare gli occhi di Draco, e piuttosto falsamente innervosita, gli risposi.
“Ho lasciato la mia camicia da notte qui”.
Non era neanche una domanda. La domanda che avrei dovuto porgli invece, era come mai lui non me l’avesse riportata. Doveva essersene accorto per forza. Ma avrebbe alzato le spalle e detto che non ne aveva voglia, o che era così poco importante e banale che gli era completamente passato di mente. Il che poteva essere vero, ma quando mi lasciò entrare, i suoi occhi si posarono subito sulla mia camicia da notte, appoggiata alla spalliera della sedia. Aha.
“Ah, eccola”.
Non gli feci notare quel percorso dei miei pensieri, avevo già notato di quanto fosse stanco. Strinsi il tessuto tra le mani, e feci per allontanarmi, quando ancora quella maledetta finestra richiamò la mia attenzione. Aperta, e la sedia era lì accanto. Mi fermai un istante.
“Sembri stanco, faresti bene a dormire”.
Mormorai perdendo lo sguardo nel buio della notte. Dovevano essere quasi le undici ed ero così tesa che la stanchezza di quella mattinata era passata, non era che un ricordo, purtroppo. Sentii i suoi passi raggiungermi e fermarsi appena dietro di me. La luna era alta nel cielo, qualcuno avrebbe fatto strage di qualche umano quella notte, e altri ancora avrebbero ricevuto dal destino in regalo la stessa sorte dei loro aggressori. Forse qualcun altro stava correndo sotto quella luce, pensando di tanto in tanto ad un figlio spesso dimenticato, o forse costantemente nei suoi pensieri ma in segreto, e sotto la stessa luce, l’alter ego di quel fantasma stava assaporando una goccia amara di pianto, per non essere padre di quel figlio tanto amato quanto fosse suo.
Io invece rimasi solo un po’ appannata da quella luce tremula e torbida, e sentivo solo il respiro di Draco sulla mia spalla, quasi.
“Cosa guardi?”.
La verità nascosta in quella domanda afferrò i miei occhi e li portò su quel vuoto. Inspirai a fondo, nel modo più silenzioso possibile. Ma non avrei dovuto farlo, e cercavo in tutti i modi di smettere di guardare e di sentire quel tremore nel mio corpo, raggiungere quasi le labbra. Mi sforzai e alla fine posai gli occhi su Draco.
“Hai gli occhi stanchi”.
Insistei, perché credevo che fosse la verità, o come era facile mentire a se stessi qualche volta, così piacevolmente illusorio e al tempo stesso così letale. Draco chiuse lentamente le palpebre, il tempo che gli servì per cancellare un po’ di quella lucidità. Ma non fu abbastanza, e allora la verità venne a galla prepotente e mi impedì offesa di mentire ancora.
“Ma no. Sono solo tristi”.
Mormorai, mentre la mia voce si spegneva e i miei occhi accarezzavano quel volto. Percepii un moto di orgoglio sferzargli un colpo violento, ma resistette e non mentì più neanche lui. Non aveva negato, non aveva detto che avevo ragione, ma aveva ammesso.
“Non hai sonno?”.
Mi chiese cercando di cambiare argomento. Ma non avrebbe potuto sceglierne uno meno adatto. Perché non avevo sonno ed era colpa sua. Sua e dei suoi occhi. Sospirai sommessamente e scossi lentamente la testa. Sentii io stessa il lieve profumo di mandorle dei miei capelli. Mi ricordava tanto l’estate quel profumo. Sapeva di buono e di innocenza, il mio sogno proibito da un po’ di tempo. Faceva un bel contrasto con me, per questo lo usavo per lavarmi i capelli.
“No”.
Mi sembrò di perdere l’equilibrio. Chiusi gli occhi e mi lasciai andai, e il primo appiglio che trovai fu il suo corpo. Forse era stato lui a farmi traballare, o forse ero stanca sul serio, o forse avevo sentito il bisogno di poter cadere una volta tanto. Ma non ero caduta, mi ero solo appoggiata al suo petto, e il successivo spostamento era stato solo quello del mio viso, andato ad accarezzare il suo collo, e a sentire il suo profumo intenso, e avvolgente, quasi mi aveva frastornato. Sapeva di se stesso. Mi piacque.
Dischiusi appena le labbra, forse volevo dire qualcosa, ma alla fine mormorai soltanto, e non dissi niente, mentre sentivo le sue mani premere contro la mia schiena e avvicinarmi ancora più a lui. A quel punto sapevo che non ci saremmo più staccati, perché era subentrato dell’altro.
Era scattato qualcosa.
Una sensazione.
Era una necessità, di toccarsi e sentirci vivi sotto le mani dell’altro, di poter sfiorare la pelle dell’altra con il proprio respiro, e di stringere tra le mani qualcosa di vivo, di caldo e di freddo, di deciso e di tremante, appena. Fremevo. E lui non mi aveva lasciata andare, mi stava rapendo, rapiva i miei sensi, la mia percezione, le mie difese e le mie labbra, e ogni volta io non chiedevo nessun riscatto alla mia coerenza e alla mia mente, alla mia convinzione che sarebbe stato uno sbaglio: perché non ci sarebbe mai potuto essere niente di meno freddo di quello che stava accadendo. Stavo infrangendo le mie regole. Da quando avevo posato gli occhi su quel bambino biondo e capriccioso avevo avuto un coinvolgimento e mischiato la mia vita con la sua. Non avrei mai potuto dimenticare quella notte, e sapevo anche che non avrei mai sentito il volere di farlo.
Così non fermai le sue mani quando mi spogliarono, non gli chiesi di lasciarmi andare quando smise di baciare le mie labbra per esplorare altri piccoli frammenti di me, non gli parlai se non con il mio corpo per tutto il resto di quell’incontro.
Lasciavo morire i miei principi sotto il tocco assassino delle sue mani fredde e sensuali, il mio corpo era il suo e il suo corpo era il mio, e mai in tante notti passate intrecciata al corpo di un altro, avevo sentito qualcuno tanto vicino.
Così vicino che ad ogni carezza, ad ogni sfiorare, mi sembrava che prendesse un pezzo di me, che si unisse alla mia pelle, e ogni bacio lasciava la sua impronta: lui era stato lì, le sue labbra avevano sfiorato quel punto, e mani nessuno avrebbe dovuto farlo un’altra volta. Già lo sapevo, e mi sentii libera e sollevata. Non era stata una mia scelta, a mente lucida, mettere fine a quegli scambi che erano diventati un peso immane. Era stato lui, Draco aveva deciso e imposto, e io per la prima volta ero così lieta di obbedire e di cedere ad una richiesta che non fosse esattamente tale.
Non ricordo quando la luce della luna ci abbandonò del tutto.
Ma ad un certo punto non vidi più niente, quel bagliore incerto si era spento, e vedevo solo buio, e i suoi occhi di ghiaccio sciogliersi alle carezze del mio sguardo. Sentivo solo il suo respiro rispondere al mio,in un assolo sempre stato tale, e il mio cuore ormai non batteva se non riceveva in risposta un battito del suo, o almeno così mi sembrava.
Eravamo soli e così necessari l’uno all’altra.
Quella notte non l’avremmo mai superata, se non fossimo stati insieme.
La sensazione era quella, ed era qualcosa di assurdo al pensiero, eppure così elementare e primitivo al tatto.
Ormai era diventato parte di me, per quella notte: non sarei andata da nessuna parte altrimenti, e lo sentivo dentro di me, scorrermi in ogni piccola parte del mio corpo, e fuori, sulla pelle, e sul viso, e tra i capelli. C’era solo lui che mi rendeva qualcosa, qualcosa che non ero mai stata. Era il nostro intimo, gli permisi di conoscere spazi di me che nessuno aveva mai conosciuto, ignorandone l’esistenza. Le sue spalle erano perfette, le mie mani erano state create per stringerle. E mi sembrò tutto così vero in quel momento. E la curva tra la mia spalla e il mio collo erano lì apposta perché lui vi poggiasse la testa, e poi eravamo vicini, vicini, vicini, vicini.
Così vicini che il suo sonno imponeva ai miei occhi di chiudersi,
così vicini che la sua mano sul mio petto era anche la mia.*
Così vicini e indispensabili.

°°°

Ovviamente, era implicito che a nessuno dei due sarebbe mai venuto in mente di parlare di quanto successo la notte prima.
Quando la mattina dopo avevo aperto gli occhi, Draco era già in piedi e mi stava porgendo un asciugamano pulito qualora avessi voluto farmi una doccia. Io lo avevo preso dalle sue mani e mi ero diretta nel suo bagno, senza proferire una sola parola. Era dalla sera del giorno prima che non ci parlavamo, e di sicuro entro un paio di ore avremmo riacquistato la capacità di intendere e di volere al massimo livello, e non ci sarebbe voluto molto perché potessimo mettere tutto da parte e scrollare le spalle al pensiero.
Ma quando entrai nella doccia, prima di aprire il getto dell’ acqua, sentii l’odore del suo bagnoschiuma e mi venne in mente quanto fosse diverso da quello che in realtà aveva la sua pelle. Lo avevo ancora addosso. E senza starci a pensare troppo, avevo lasciato perdere la doccia, poggiato l’ asciugamano sul bordo del lavandino e mi ero sciacquata la faccia.
Pensai che non fosse necessario fargli sapere della mia decisione così repentina, ma solo quando chiusi la porta del bagno e cercai con lo sguardo la mia camicia del giorno prima, mi resi conto che non c’era stato alcun rumore di doccia. Mi sedetti un attimo su quella sedia.
Mi stava guardando, con un bottone tra le dita e l’asola tra altre. Lo lasciai fare.
Si, era lo stesso corpo della notte prima, niente era cambiato. Almeno credevo. E il suo? Ma si, era ancora lui, in piedi davanti a me, che si abbottonava la camicia e… un momento.
Vagai con lo sguardo per tutta la stanza, anche più di una volta: ma il suo asciugamano da doccia non c’era. Non dissi niente, mi alzai e infilai la gonna, guardandolo.
Si, ero sempre io, in piedi davanti a lui, che lo guardavo sistemando le pieghe della gonna della divisa, al solito più corta del previsto, e sentivo il cuore urtare con violenza il mio petto per quello che avevo capito.
“Fai colazione?”.
Annuii. Allacciò un ultimo bottone e legò la cravatta. Era curioso starlo a guardare mentre eseguiva i più banali gesti nel repertorio quotidiano di chiunque. Ma lui non era uno chiunque: era Draco Malfoy e avevo fatto l’amore con lui la notte prima.
E allora, guarda caso, Eddie Moon forse non si annodava la cravatta in quel modo, e la sua camicia cadeva in modo diverso sui pantaloni, e quel modo di lasciare aperti i polsini, Moon non lo faceva.
Sbagliato. O meglio non potevo saperlo. Credevo di saperlo, ma in realtà non avevo mai guardato Eddie Moon vestirsi la mattina. Ero sempre uscita per prima e anche piuttosto frettolosamente. Però sapevo che Draco faceva tutte quelle cose, e che per il momento starlo a guardare mi piaceva. Allargò le mani guardandomi: non aveva più niente da fare. Allora mi riscossi e mi alzai da quella sedia.
“Vado a mettermi il cambio della divisa”.
Improvvisamente memore che quella che avevo indosso era del giorno prima e anche abbastanza stropicciata. Mentre raggiungevo la porta lo vidi alzare gli occhi al cielo e sedersi sul letto. Sentii lo stomaco annodarsi un momento e il cuore saltare un battito: per un attimo fu quasi doloroso. Io non ci ero abituata. Non conoscevo quelle sensazioni e quelle emozioni, era la prima volta. E quella volta era successo perché mi era sembrato carino che lo avesse fatto. Che avesse alzato gli occhi al cielo come se fosse una cosa quasi abituale, o che mi caratterizzasse. Che si fosse seduto sul letto e mi avesse lasciato intendere che poteva aspettare. Che non avessimo parlato quasi mai da quando era successo tutto quello, ma a piccoli gesti e sguardi veloci ci eravamo capiti lo stesso. Era un nuovo mondo quasi, per me. Ed ero ancora piuttosto disorientata.
Impiegai qualche minuto a trovare il cambio pulito di tutto, facevo qualche difficoltà ad aprire bene i cassetti o il baule, e per un attimo lo spazzolino mi cadde dalle mani.
Mentre allacciavo una scarpa e mi tiravo su per sistemare meglio i bottoni della mia camicia, la porta alle mie spalle, socchiusa, si era aperta e avevo sentito i suoi passi entrare nella mia stanza e fermarsi ai piedi del letto. Non mi eri voltata subito, mi era venuto da sorridere. Si, infondo era giusto che adesso toccasse anche a lui.
Così lasciai aperti i soliti due bottoni della camicia, stirai la gonna, e afferrai la spazzola lì accanto, passandola tra i capelli. Sentivo i suoi occhi su di me, ma non ero poi così a disagio. Solo imbarazzata e questo mi rendeva un po’ sconvolta: io non mi imbarazzo mai, accidenti.
“Allora?”.
Mi domandò in tono divertito, quando posai la spazzola e sistemai con la mano un ciuffo impenitente.
“Pronta”.
Affermai mordendomi appena un labbro. Draco si alzò dal letto, sul quale si era seduto prima, e raggiunse la porta, mugugnando qualcosa che suonò molto come un:
“Ah, credevo che sarei morto prima”.
Mi sentii strana dopo averlo fatto, ma sul momento mi venne molto naturale allungare il braccio e colpirlo sulla nuca e imbronciare le labbra.
Dio, come era strana la mia vita.
Però non avevo così tanta paura come avevo pensato.
E non mi sentivo così indifesa e debole come ero convinta sarebbe accaduto.
Ero solo un po’ stordita e incredula, a tratti un moto di orgoglio mi induriva lo sguardo, che in ogni caso non era diverso dal solito, ma qualcosa mi diceva che tutto quello non era altro che un compromesso.
E che Draco non avrebbe voluto che andassi al ballo con Eddie Moon.
Tanto più che non avrei mai ballato con uno che si chiamasse Eddie.



Fine.



Specificazioni:
*: è la versione in prosa di alcuni versi di una bellissima poesia di Neruda. Uno dei sonetti dedicati a Matilde. Se avessi inserito l'esatta metrica della poesia, avrebbe stonato con la storia e sarebbe risultata artificiale, ma mi erano sembrati veramente perfetti, per quel momento. ^^

Apro una piccola parentesi sugli altri: Daphne e Blaise torneranno insieme, si, ma qui non ne ho parlato, perchè mi era sembrato sufficiente far parlare Pansy: quelle parole lasciavano ad intendere proprio questo: sarebbero stati i gatti più belli del mondo. ^^
Millicent... Millicent continuerà ad amare Blaise in silenzio e tra fette e fette di pane burro e marmellata. Ma dopotutto è contenta così.

Ringraziamenti:

Sabry: Grazie!! Si, questa Pansy piace anche a me. Soprattutto perchè alla fine la sua strada l'ha trovata, no? Si, come ho detto prima, Blaise e Daphne a quest'ora si staranno facendo le fusa in qualche cantuccio del castello. Come sono carini... non trovi? ^^ Se mi dici che Draco ti fa tenerezza mi fai arrossire... era quello che volevo trasmettere, tra le altre cose! In questa storia, alla fine ho lasciato anche un pò a lui la scelta: andare avanti, senza suo padre, almeno per ora, con la consapevolezza che avrà la cicatrice, e quella ci sarà sempre, ma che potrà lo stesso andare avanti. Pansy e Draco insieme piacciono anche a me, purchè lei non faccia la parte della cagnetta, altrimenti si rovina tutto. ^^ Grazie per aver seguito e recensito la storia, ti è piaciuta la conclusione? Un bacio bella.
deva : ^//^ Grazie. Grazie. Grazie. Eccoti il capitolo.
Annika Riddle : Intriga anche me, ogni volta che lo faccio per qualche storia non ne uscirei più per niente al mondo! E devo dire che "con i grandi", è anche meglio. Si si, come già detto, questa è la mia visione preferita di Pansy, altro che carlino, come si ricorda quella testa vuota di Ron! ^^ Spero che questo capitolo ti possa piacere! Kiss.



Beh... che dire. L'ho finita. Non so... forse il finale è un pò veloce, non ho chiarito la situazione di Lucius, ma ne ho parlato nella risposta alla recensione di Sabry, chi volesse, può leggere quella.
Dato che la storia riguardava sua figlio e non lui, ho deciso di parlare di quello che poteva tornare utile per capire Draco.

Grazie a tutti per aver letto e recensito, chi avesse tempo... ho scritto anche una nuova one shot, un pò scema, su Sirius.
Buone vacanze!
Bris.

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