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- Autore: Akrois
- Titolo: Girotondo ~
- TitolodelCapitolo: Un nibbio.
- Personaggi: Prussia (Gilbert
Beilschmidt), Nord Italia (Feliciano Vargas)
- Genere: Storico (?), romantico, ma
che ne so io.
- Rating: Arancione.
- Avvertimenti: One-short,
AU, shoen-ai ho come il timore di essere andata OOC.
Qualcuno mi dica se ci sono andata o no. Ç_ç
- Conteggioparole: 2.245
- Note: Questa storia è ambientata
durante la campagna di Russia ù_ù Il reggimento ha i
numeri scelti a casaccio in un attimo di disperazione, ma i libri di Hassel mi siano testimoni non ho scritto una totale boiata ù_ù Non betata, neanche riletta
decentemente, una cagata,lunga,
rompiballe, odio questa cosa.
- Note dell’ultimo minuto: ora che sono a
mente fresca e felice lascio qui le note specifiche, ergo:
“ivan” era il nome con cui i soldati tedeschi identificavano
i russi. Per i russi, invece, i tedeschi erano tutti “fritz”.
SvenHassel
(che poi è uno pseudonimo xD) è stato un soldato
durante il periodo della Germania nazista e faceva parte del battaglione di
Disciplina (ergo dove sbattevano i criminali che però potevano essere utili ù_ù) e ha scritto diversi libri sulle proprie esperienze.
Sono tradotti malissimo ma meritano una letta, a mio dire ù_ù
Il T34
era il carro armato russo per eccellenza.
Il grado
di Gilbert è tenente.
Arsch significa “culo” ed la parola
con le quale venivano identificati gli omosessuali in quell’epoca.
Fine ù_ù
Prompt: Trincea.
Un Nibbio.
Strinse
gli occhi nel buio dello scantinato, avvertendo il rumore di qualcosa di
viscido schiacciato sotto il suo piede. C’era un odore fortissimo di chiuso e
cadavere e tra buio, puzzo e silenzio pareva di trovarsi in una cripta. Si
portò le mani alla bocca –C’è nessuno?- gridò, muovendo qualche passo.
Non
ricevette alcuna risposta. Fece un cenno a un uomo poco dietro di lui – Passami
una torcia-, il fante caracollò nella sua direzione, porgendogli la torcia.
Diresse
il fascio sul pavimento notando una grossa macchia di sangue secco. Increspando
le labbra alzò leggermente la torcia, andando ad illuminare un giovanotto
seduto per terra.
Il
ragazzo alzò lo sguardo, fissandolo con due occhi atterriti da cerbiatto
davanti al cacciatore e cominciò ad arretrare in mezzo al sangue.
Gilbert
lo guardò – Tu chi sei?- domandò chinandosi verso di lui. Aveva un visino
liscio e rotondo, con gli occhi grandi e le ciglia lunghe come quelle di una
donna.Solo il cappello con la piuma
d’aquila degli alpini ben calato sul capo lasciava a intendere la sua età (a
meno che gli alpini non avessero cominciato ad arruolare i ragazzini delle
parrocchie). Il ragazzo non rispose, scansandosi ancora un po’.
- Ehy, italiano, sto parlando con te!- sbottò, allungando una
mano verso di lui. Il ragazzo scattò in piedi, trascinandosi dietro qualcosa
che fece un gran rumore. Gilbert abbassò la torcia, illuminando un corpo
violaceo e coperto di sangue secco. Il viso era ridotto a poco più che una
massa di carne, gli mancava un occhio (Gilbert rabbrividì, pensando a quella
cosa viscida che aveva pestato prima) e buona parte dei denti.
Si alzò
con calma, afferrando il ragazzo per il colletto – L’hai ammazzato tu?- disse,
fissandolo negli occhi.
Il
ragazzo scosse la testa freneticamente, mentre grosse lacrime cominciavano a
comparirgli agli angoli degli occhi. Gilbert sospirò – Non piangere, ragazzo.
Chi l’ha ucciso?
Il
ragazzo alzò il pugno. – Russi?-, il ragazzo annuì.
-
Capisci il tedesco, ragazzo?-, il ragazzo annuì di nuovo. – Puoi parlare?-, il
ragazzo scosse la testa.
- Sei
muto?-, altro cenno positivo.
- Prima
lo eri?-, altro cenno negativo.
- Cosa
ti hanno fatto?-. Il ragazzo lo guardò con il labbro che tremava. Grosse
lacrime scivolavano sul viso, scavando nello sporco che si era accumulato sulla
pelle chiara. Mosse la mano che teneva serata quella del cadavere, alzandolo
verso di lui.
- Ho
capito, ho capito. Non ti chiederò altro, smetti di piangere ragazzo. Hai la
tua tessera?-, ancora un cenno negativo. Gilbert sospirò – Quanti anni hai? Diciotto,
diciannove?-.
L’italiano
aprì e chiuse la mano libera – Cinque, cinque, cinque, cinque…
Che vuol dire?- l’italiano indicò se stesso e ripeté il gesto –Hai vent’anni,
ragazzo?
L’italiano
annuì. Gilbert si voltò verso i soldati dietro di lui – Allora, ci sono gli ivan nei paraggi?
- No
signore- rispose uno, battendo i tacchi – nessun’Ivan signore, ma ci sono i
segni di un T34 qua attorno.
Gilbert
borbottò qualcosa sui porci comunisti e poi si voltò verso il ragazzo – Allora,
piccolo… Aquila? È una piuma d’aquila quella?
L’italiano
annuì. – Ragazzo non mi pari tanto un’aquila, però. Hai lo sguardo un po’
spento. – l’italiano sorrise debolmente – Che ne dici di “nibbio”? Piccolo
nibbio sembra il nome di un apache rincretinito, ma ti dovrai accontentare
finché non riprenderai a parlare. – il ragazzo inclinò la testa di lato.
- Forza,
molla quel cadavere e usciamo, prima che tornino gli ivan.
Non vorrei che si portassero dietro i grandi rinforzi per farci fuori.-
Il
ragazzo prese a tremare, stringendo a se la puzzolente carcassa con le lacrime
che tornavano a scorrere. Gilbert sbuffò – No, non puoi portare con te quel
coso. È morto, non vedi?-, il ragazzo scosse la testa furiosamente, agitando il
corpo esanime.
- Non
agitarlo così, che puzza ancora di più!- latrò Gilbert bloccandogli il polso –
Ascoltami bene, piccolo nibbio, o molli qua quel cadavere o ti dovrò moncare
una mano. Non ho tempo da perdere, io.
Il
ragazzo si bloccò, fissandolo con le spalle scosse dai singulti – Hai capito o
ti devo spaccare le dita?- domandò irritato Gilbert, notando che le dita
dell’italiano si staccavano lentamente dal polso del cadavere.
- Bene.
Sei bravo- disse poggiandogli una mano inguantata tra i capelli lerci.
Lo prese
per un gomito, trascinandolo fuori della cantina, ignorando le lacrime che gli
scorrevano sul viso mentre vedeva il cadavere allontanarsi.
- Io
sono Gilbert Beilschmidt, l’Oberleutnant del
ventisettesimo carristi e del cinquantacinquesimo fanteria- spiegò puntandosi
addosso una bottiglia di vodka – quello grosso e cesso che s’ingozza
indegnamente laggiù è il mio LeutnantWolfe. Cioè, ha anche un cognome, ma per quel che serve
puoi anche ricordarti solo Wolfe, tanto di sicuro non
lo chiamerai mai.- tracannò un grosso sorso di vodka e sbatté la bottiglia per
terra – Sappi che fra tutte le truppe che ti potevano trovare sei capitato in
quella peggiore, piccolo nibbio, ma finché sarai sotto l’ala dell’illustre
sottoscritto sarai al sicuro come l’oro nelle casse di Hitler.-, l’italiano
sorrise, picchiandosi un dito sul cappello.
- Sì,
sei un alpino, ho visto.- annuì Gilbert – Sei entrato per amor di patria, o
perché sei stato obbligato?- l’italiano alzò due dita – Ti hanno obbligato?
Povero nibbio.- Gilbert gli porse la bottiglia, ridendo davanti alla faccia
contratta con cui l’italiano aveva ingoiato l’alcolico.
- Te
l’hanno mai detto che sei adorabile, piccolo nibbio?- esclamò dandogli un
buffetto sulla guancia.
- Ehy, Gilbo, attendo a come
parli-, esclamò un grosso caporale poggiato a un carro parcheggiato poco più in
là – non vorrei che il mio tenente fosse marchiato come arsch e mandato in un campo!-,
Gilbert gli lanciò addosso un sasso, colpendolo alla spalla – Non dire un’altra
parola, vecchio, o ti regalo con un fiocco in testa al primo Ivan che incontro.-,
gli urlò contro irritato.
L’italiano
si portò una mano alla bocca, fissando Gilbert stupito. – Sconvolto?- disse
l’uomo ghignando – Sappi che qui è così. Fidati, vedrai volare botte peggio,
piccolo nibbio. Ci si pesta tra tedeschi e tedeschi, russi e tedeschi, russi e russi… un macello generale.
- Ora
che il fronte è elastico, poi...- sbottò un uomo poco più in là – o posso dire
che siamo in ritirata, Oberleutnant?- domandò
ridendo, Gilbert rise a sua volta – Come, non credi nella vittoria della grande
Germania, Joseph?
L’uomo
si fermò un attimo, prendendo fiato e stampandosi sul viso un’espressione più
che seria mentre diceva – Certo, come credo a Santa Klaus, agli unicorni e alla
BabaYaga.- per poi
riprendere a ridere – Ma non ditelo a vostro fratello, Oberleutnant,
non vorrei essere fucilato dalla gendarmeria!- Gilbert scoppiò a ridere – Non
sono sicuramente così infame, Joseph, mi limiterò a far la spia alla prima
truppa SS che passa, senza scomodare mio fratello.
L’uomo
scoppiò a ridere e Gilbert fece lo stesso. L’italiano ridacchiò leggermente.
- Mio
fratello è nelle SS.- disse Gilbert fissando il cielo
notturno. L’italiano si sollevò su un gomito, fissandolo mentre si sistemava la
custodia della maschera a gas sotto la nuca.
- Voleva
aiutare la nazione, sai. Era un bravissimo ragazzo pieno di buona volontà-
disse strappando un filo d’erba e pulendolo dal fango con le dita – molto
intelligente e dotato. Lo adoravo, sai?
L’italiano
gli sfiorò i capelli con la mano – Era davvero un bravo ragazzo. Ma voleva
andare in alto, sai, essere un’aquila. Voleva volare nel cielo e portare con sé
la Grande Germania.
Sospirò,
cominciando a sminuzzare meticolosamente il filo d’erba – Credo che essere aquile
sia tremendo, perché se sei più in alto di tutti rischi di farti più male di
tutti se cadi. E se sei un’aquila tutti gli animali terricoli ti odiano e
sputano sul tuo cadavere. – buttò a terra i pezzetti d’erba e sorrise al
ragazzo – I nibbi hanno capito tutto: volano troppo in basso per farsi davvero
male ma abbastanza in alto da farsi rispettare.
Passò
una mano fra i capelli dell’italiano, sorridendo – Tu mi vuoi bene piccolo
nibbio?
Il
ragazzo annuì convinto.
Gilbert
sorrise stancamente – Sai, il mio fratellino non me ne vuole più. – disse
passandosi la mano sul viso – Lui mi ha mandato qua, sai? Mi ha mandato qua
perché ero un bastardo senza fiducia nel regime e denunciandomi si è fatto un
bel salto di carriera. Io anche me lo sono fatto il salto: dal piscio alla
merda.
Ridacchiò
amaramente – A quanto pare solo così un figlio di puttana che persino mio
fratello mi ha abbandonato.-
L’italiano
lo guardò per un po’, fissando una goccia d’acqua lucente che scivolava sullo
zigomo dell’uomo. Poggiò la testa sul suo petto, sospirando.
Gilbert
portò una mano sulla sua spalla, sorridendo – Anch’io ti voglio bene, piccolo
nibbio.
Gilbert
scivolò lungo le pareti fangose della trincea, il mitra che ribalzava sul
petto.
L’italiano
lo abbracciò sorridendo e lasciando un bel po’ di lerciume sulla divisa grigia,
ma tanto era già sporca di suo, quindi non se ne diede troppa pena.
- Allora
piccolo nibbio, com’è andata? Quanti sporchi ivan hai
fatto fuori?
L’italiano
aprì e chiuse più volte la mano, sorridendo ancora di più. Gilbert non credeva
che l’italiano sorridesse così perché aveva ammazzato dei russi. Gli era molto
più facile credere che l’italiano sorridesse così per un qualche ancestrale
istinto che lo portava a sorridere stupidamente quando credeva di aver fatto
una cosa giusta. A lui bastava che non si facesse ammazzare, in fondo.
Tirò
fuori dallo zaino una bottiglia di acquavite, porgendogliela. L’italiano ne
scolò un lungo sorso, buttandola giù senza smorfie – Ti sei abituato, eh
piccolo nibbio?
Disse
sorridendo e prendendo la bottiglia – Certo che in questi ultimi mesi ti ho
fatto bere, eh? Ricordi quando ti sei ubriacato fuori da quel bordello?
L’italiano
arrossì di botto, nascondendo il viso tra le mani, mentre Gilbert scoppiava a
ridere.
Gli
passò un braccio attorno alle spalle, stringendolo a sé – Forza, piccolo
nibbio, non pensiamo alle cose brutte! La vuoi sentire una bella notizia?- non
aspettò alcun cenno dall’italiano e continuò a parlare brandendo la bottiglia
verso il cielo – Mi hanno dato una licenza! La prima licenza in quasi tre anni!
Ben tre settimane, piccolo nibbio, tre settimane a Berlino, capisci?!-
l’italiano sorrideva felice, trascinato dall’allegria di Gilbert.
- Ti
porterò con me, piccolo nibbio, ti farò vedere la mia città. Ti piacerà,
vedrai, è tutta lucente e piena di gente e… oddio, ci
sono così tante cose che ti voglio far vedere, piccolo nibbio- strinse più
forte il corpo sottile dell’italiano – voglio portarti a casa mia, farti
conoscere mia madre e mio padre, sono due stronzi ma sono geniali e poi ti farò
conoscere anche il mio fra- si azzittì di colpo, abbassando lo sguardo –il mio
fratellino. – l’italiano alzò una mano verso il suo viso, carezzandone una
guancia con dolcezza. Gilbert lo fissò a lungo negli occhi. Ridacchiò.
- Sai
piccolo nibbio, alle volte penso che tu sia stato mandato da Dio per chiedermi
scusa di tutti i torti infami che mi ha fatto. Tipo quello di sbattermi al
fronte o appiopparmi un fratello SS. Se mai Dio ha ascoltato le preghiere che
gli ho rivolto allora tu sei la sua risposta.-
Passò un
pollice sullo zigomo dell’italiano, delineandone la linea del volto e scendendo
poi sulle labbra. L’italiano sospirò. Gilbert si spine contro le sue labbra con
poca grazia (che grazia si può pretendere da un soldato del fronte?) buttandolo
con la schiena sulla parete della trincea. L’italiano emise un flebile lamentio
di dolore.
- Oddio,
ti ho fatto male? Scusami, piccolo nibbio- sussurrò Gilbert, carezzandogli i
capelli – mi sono lasciato trasportare, davvero, mi dispiace, non volevo
assolutamente- il bacio dell’italiano contribuì a dar fine alla marea di
stupidaggini che stavano per uscire dalla sua bocca.
Lo
strinse a se a lungo, parlandogli, baciandolo e parlandogli ancora. In effetti,
il fatto che l’italiano non parlasse non era un problema poiché la sua logorrea
bastava ampliamente per entrambi.
Gli
parlava specialmente di Berlino, di quello che c’era di bello a Berlino, di
quello che gli avrebbe fatto vedere a Berlino, di quello che amava di Berlino,
di quello che amava di lui e lo stringeva forte e sorrideva con quella faccia
immensamente stupida, dimenticando che erano in una buca fangosa (leggi
trincea) in mezzo al territorio russo e che sarebbero morti di sicuro a parlare
così allegramente.
Gilbert si
svegliò alle prime luci dell’alba, troppo eccitato per dormire ancora.
L’italiano era raggomitolato contro un suo fianco e gli dava le spalle.
Sorrise
andando a baciarlo su una guancia – Buongiorno, piccolo nibbio.
Anche il
piccolo nibbio sorrideva, notò. Peccato che quel sorriso fosse un po’ troppo in
basso per essere un sorriso e sanguinava troppo.
Gilbert
sussurrò qualcosa, restando per qualche minuto immobile accanto al corpo già
freddo.
Tolse il
cappello da bersagliere da sotto la divisa dell’italiano, sfilando lentamente
la penna nera e infilandola con reverenza nella tasca interna della divisa.
Si
arrampicò fuori dalla trincea, voltandosi poi verso i mucchietti di neve, fango
e cadaveri poco più in là.
-
Chiunque l’abbia fatto- latrò con voce roca – deve sapere che lo ammazzerò.
Arrivò
incespicando fino al resto della truppa e poi se ne andò verso la stazione,
pensando a tutte le cose belle di Berlino, a quello che avrebbe visto a
Berlino, a quello che amava di Berlino e a quello che amava del piccolo
bersagliere italiano rimasto senza nome che stava abbandonando in una trincea
in Russia.
Per la
cronaca, Gilbert Beilschmidt, l’Oberleutnant del
ventisettesimo carristi e del cinquantacinquesimo fanteria è morto per strada,
ammazzato da un ragazzetto cencioso che gridava “abbasso l’esercito!”.
La cosa
divertente era che anche lui pensava “abbasso l’esercito”.
- Genere: Storico (?), romantico, ma che
ne so io.
- Rating: Arancione.
- Avvertimenti: One-short, shojo-ai,
presenza di Oc (sì, è un’avvertimento ù.ù)
- Conteggioparole:
- Note: Ordunque, ho detto che avrei fatto comparire
degli Oc, no? La verità è che io e gli Oc andiamo troppo d’accordo e che,
soprattutto, adoro queste due. Che fra l’altro non sono neanche state create
per stare insieme. Hanno fatto tutto da sole ù.ù
Comunque,
questa short non è del calibro della prima. Dannazione. Mi devo riacchiappare. La
prossima sarà meglio ù.ù
Le note
tecniche sono: il nome di Alaska è composto da due nomi tipici degli Athna (Sesi =Neve)
e degli Inupiak (Kinguyakkii =Aurora
boreale), due popolazioni autoctone del luogo.
La nagajka è una frusta di cuoio usata dai
cosacchi per incitare i cavalli.
L’NKVD è
il “papino” del KGB ed era la polizia di stato ai tempi di Stalin. (vedere qui)
Ah, note
sul contest: dovevo scrivere cinque short su cinque prompt, una yaoi, una yuri,
una etero, una gender-bender, e una moresome. La Yaoi e la Yuri sono andate. La
prossima è la gender-bender.
Prompt: Calore
Una
gabbia.
La nagajka non era sicuramente il metodo
d’esecuzione più umano che avevano (anche se non credeva che potesse esistere
un metodo d’esecuzione “umano”), ma di sicuro era quello più efficace. Era
rapido, pulito e dall’ampio valore simbolico.
Seguiva
Russia in silenzio, dondolando mollementela nagajka sugli stivali
marroni, mentre aspettava che Russia finisse la sua pantomima. Non riusciva
proprio ad apprezzarlo quando si metteva lì a discutere con i prigionieri con
quel sorrisino stampato sulla faccia e l’aria da “sì, certo che lo faccio per farti spaventare!”.
Lei
aspettava con calma, battendo la nagajka
con un ritmo lento ma perfetto, in totale silenzio, finché Russia non le dava
il proprio segnale.
Il
motivo per cui non apprezzava che Russia spaventasse i condannati era uno solo
e molto semplice: un condannato spaventato tende a divincolarsi e diventa quasi
impossibile colpirlo direttamente alla nuca. Non avevano proiettili da sprecare
per una cosa come finire un condannato agonizzante e Siberia non amava lasciare
gente in agonia lungo il suo cammino. Ma a tutto c’è sempre un rimedio e
Siberia aveva imparato che bloccare la testa ai condannati era facilissimo,
specie quando si dispone di più quadre di russi nerboruti.
Si tolse
il cappello, togliendo un po’ di neve dalla stoffa blu scuro. Un ragazzetto le
caracollò accanto – Signora Siberia, ci sono ventitré morti- sussurrò. Siberia
alzò un sopracciglio, calandosi il cappello sulla fronte – Erano ventiquattro.
Che ne è stato del ventiquattresimo?
- Ecco,
signora, lui non è ancora- il ragazzetto cominciò a balbettare indegnamente,
torcendosi le mani. Siberia sospirò, rimpiangendo i tre baltici (erano stupidi
e fifoni, ma almeno erano efficienti) ed estrasse la pistola
dalla fondina sul fianco – Qual è?- chiese indicando la fila di corpi.
- Vuole-
il ragazzetto deglutì a vuoto – finirlo?
Siberia
gli lanciò un’occhiataccia, voltandosi con un fluttuare in aria del nastro
bianco che le legava i capelli – No, pensavo di fargli vedere quanto sono belle
le pistole russe.-.
Il
ragazzetto tentò un risolino, subito bloccato dalla seconda occhiataccia di
Siberia – Quello- disse allora, indicando col dito tremante il corpo a terra.
Piccole nuvole di fiato uscivano dalle labbra bluastre dell’uomo mezzo
affondato nella neve. Siberia sospirò.
C’erano
giorni in cui tornare nel suo ufficio (un cubicolo di cemento armato grigio con
un tavolaccio pieno di carte da mattina a sera, le foto di Lenin e di Stalin al
muro, un grosso poster propagandistico appeso alla porta e una cassa di
bottiglie di vodka che occasionalmente serviva da sedia ai visitatori) le
sembrava la cosa più bella del mondo. Stare un po’ seduta, nel freddo del suo
ufficio, con una bottiglia di vodka in mano e il silenzio.
Il
silenzio era l’unica cosa che le mancava della sua vitaPrimaDiRussia.
Siberia usava
dividere la sua vita in due fasi: il “PrimaDiRussia” e il “DopoRussia”. Prima Di Russia c’era il
silenzio, la pace, il freddo e il caldo che si susseguivano, con la terra che
si gelava e si scioglieva e le poche persone che vivevano nelle sue terre
raccolte attorno al fuoco.
Tra il PrimaDiRussia e il DopoRussia
c’era “L’Incontro Con Russia”.
Siberia lo ricordava molto bene quell’incontro. Come dimenticarlo, in fondo?
Russia
era venuto con la neve, confondendosi con i fiocchi turbinanti come fosse uno
di essi. Russia era venuto col sorriso e una gabbia nascosta dietro la schiena,
se mai avesse avuto bisogno di portarla via con la forza.
Ma
Siberia non era scappata. Non aveva neanche avuto paura o altro. Semplicemente,
Siberia sapeva che lui era lì per essere la sua famiglia. Non poteva non essere
così: avevano lo stesso naso.
Sorrise.
Il DopoRussia era fatto di novità, di battute di caccia, di cavalli (erano
belli i cavalli, non l’aveva mai notato), di malviventi, di prigioni, di fucili
e nagajka. Non sorrideva più.
Però, il
Dopo Russia aveva portato anche una cosa bella (la cosa bella, per la precisione). Siberia sorrise di nuovo,
tirando fuori da sotto la scrivania la vecchia, monolitica, radio. Continuando
a sorridere fra se e se come una cretina cominciò a cercare la frequenza che
gli serviva, pronunciando di tanto in tanto qualche parola in russo in mezzo al
gracchiare dell’apparecchio.
-
Mar’ja?- ecco. Ora era tutto a posto. Il freddo della stanza era sparito,
rimpiazzato da quel calore che sembrava irradiarsi come una luce dal piccolo
microfono della radio. – Mar’ja, sei tu?- , era in pace solo col sentire quella
voce. Il calore scivolava lungo il suo braccio e arrivava dritto al cuore (non
si sentiva d’esagerare quando diceva che riusciva anche a sciogliere la neve
sulle sue spalline) mentre il sorriso largo e idiota si andava allargando e
diventando sempre più idiota.
-
Mar’ja? Siberia? Insomma, qualcuno risponda-, era così carina mentre si
preoccupava e stringeva il microfono fra le mani (sì, non poteva vederla ma
poteva immaginarla e nella sua immaginazione lei era carinissima) che si sentì una bastarda per non averle risposto
prima. Tossì un paio di volte per schiarirsi la voce e le rispose – Sono
proprio io, Sesi.- con un tono che voleva vagamente essere figo, ma ricordava
quello di un bambino felice.
Alaska
sospirò (aveva girato gli occhi al cielo, ne era sicura) – Sai che odio quando
non mi rispondi subito.
Siberia
rise. Si fermò subito. La sua stessa risata la infastidiva, così come anche la
sua voce. Era troppo alta, allegra, infantile, era troppo la voce e la risata
di Russia.
- Cosa
mi racconti, Sesi?- domandò dondolandosi sulle gambe posteriori della sedia.
- Le
solite cose- Alaska si fermò per alcuni secondi, raccogliendo mentalmente i
fatti – Greenland è venuto da me con una torta e della vodka a festeggiare i
guai di Danimarca.
Siberia
si lasciò sfuggire un sorrisino – Lo odia ancora?
- Lo
odierà finché morte non li separi.- disse Alaska – O almeno è quello che ho
capito fra un insulto e l’altro.- Siberia ridacchiò – C’era anche Canada?
- No,
lui no.- Siberia si bloccò, fissando il microfono come se questo potesse far
smettere le pause di Alaska – Lui è partito per la guerra.
- Ah.
Capisco. Ti devi sentire molto sola.
Alaska
rise – La solitudine è il problema minore. – altro silenzio. Siberia odiava le
pause di Alaska. Era l’unica cosa che proprio non riusciva a sopportare e lei
riusciva ad amare persino l’accento spagnolo di Alaska – Tu come stai?
Siberia
sentì il calore espandersi al suo viso. Sorrise, pensando che era da quando era
iniziata la guerra che nessuno le chiedeva come stava. Ora però si chiedeva:
cosa poteva rispondere?
“Bene,
grazie. Ammazzo circa una quarantina di uomini al giorno per i capricci di
Russia, ma a parte questo me la cavo” oppure “ Benissimo, sai, oggi dovevamo
ammazzare ventiquattro persone, ma una era agonizzante e io gli ho sparato per
dargli il colpo di grazia. Russia dopo mi ha rimproverato perché avevo sprecato
il proiettile” o anche “Russia ha scoperto che picchiare le persone con delle
catene sulle reni è divertente. L’ha provato su una decina di prigionieri e su
di me, ma ha promesso di farlo testare anche a Lituania” magari era meglio “
Ieri uno dei miei è morto per mano di uno dei fritz. Per vendetta abbiamo crocifisso tre dei loro. Gli abbiamo
anche messo del filo spinato su per il sedere. Hanno strillato come porci al
macello. Russia mi ha detto che dovevo farli urlare meno e gli ha tagliato la
lingua. ”
- Sto
bene, Sesi. Davvero.- la frase era falsa quanto un fucile a tappo.
-
Davvero?
Quanto
un fucile a tappo rosa dei puffi. Con
sopra disegnati dei puffi rosa.
- Sì,
davvero- il calore tornava dentro al microfono, lasciando che il gelo tornasse
a serpeggiare sulla sua pelle – sto bene, Sesi, sto bene davvero.-
Siberia
tremò, supplicando in silenzio Alaska di donarle ancora un po’ di quel calore. Sentì
Alaska schioccare la lingua un paio di volte – Siberia - altra pausa.
- Sì?-,
“Perdio, dì qualcosa, smetti di lasciarmi
in questo silenzio odioso! Com’è che America parla sempre tantissimo senza
neanche riprendere fiato e tu sembri dover pensare a ogni lettera che pronunci?”.
- Ti
amo, lo sai?
Siberia
si lasciò scivolare sulla sedia sospirando. Il calore era tornato.
- Anch’io
ti amo, Sesi.
Immaginò
Alaska sorridere con quelle belle labbra rosse e dondolare i piedi, tutta
contenta per essere riuscita a dire e farsi dire quelle due paroline.
- Quando
finirà la guerra- disse Alaska – verrò da te.
Siberia
saltò sulla sedia, stringendo il microfono fra le dita – No!- latrò – No, Sesi,
tu non puoi venire qua!
- Perché?
Si era
imbronciata. Lo sentiva dal tono.
- Verrò
io- sussurrò Siberia, tentando di riacchiappare il filo della discussione e non
far arrabbiare Alaska – verrò io da te. Va bene?
- Sì.-
poteva vederla sorridere di nuovo calma. Sorrise anche lei.
- Marushka!- esclamò una vocetta
cantilenante fuori della porta – Marushka!
Ho bisogno di te, vuoi venire un attimo?
Siberia
gelò. Tutto il calore si dileguò in un solo istante, mentre salutava
frettolosamente Alaska e nascondeva la radio. Afferrò il cappello e se lo mise,
osservandosi nel vetro di una finestra appannata.
Sospirò.
Lei era
condannata. Condannata a stare nella gabbia di Russia, con Russia. Erano condannati entrambi, in fondo. Condannati a
restare uniti nel gelo e nella neve. Nella gabbia che avevano costruito assieme
sbarra dopo sbarra.
Ma
Alaska era libera, ormai. Alaska doveva restare fuori dalla gabbia, doveva limitarsi
a sorridere attraverso le sbarre. Siberia si sistemò il nastro bianco e si
caricò il mitra sulle spalle.
La nagajka pendeva lungo il fianco.
Poggiò
la mano sulla maniglia della porta, pensando che in fondo si era meritata tutto
quello. Se l’era meritato nel preciso istante in cui si era mossa per seguire
Russia.
Se solo
avesse potuto sentire il rumore della gabbia che si chiudeva, in quel momento.
- Conteggioparole:
- Note:Perugia. Ah, amore mio! *Perugia schiva
l’abbraccio e la fissa un po’ schifata*. Si, okay.
Bene,
altra storia ambientata nella seconda guerra mondiale. Terni fu bombardata
dagli alleati in maniera consistente (108 bombardamenti) che la rasero quasi al
suolo. Perugia, dal canto suo, subì la maggior parte dei suoi
bombardamenti nel contado e nelle zone del comune, mentre il Centro Storico fu
lasciato quasi intatto. Nota bene qui si parla di Bombe al fosforo bianco.
Erano bombe incendiarie che in genere erano sganciate dagli aerei (ma va
là?).
Teranma era uno degli antichi nomi di
Terni, Aperusia lo era per Perugia.
Augusta è derivato dal nome “Augusta Perusia”, affidato alla
città dall’imperatore Augusto, mentre Tiro è derivato da
Thyrus, il drago sullo stemma di Terni. Secondo alcuni dati la nascita di Terni
come città risale circa al 627 a.C, mentre Perugia era formata come
città nel 400 a.C. Di conseguenza Perugia tratta Terni come un
“fratellino” per la prima parte della loro vita.
Tuva è una parola etrusca e
significa “Fratello”.
Il Chiton è una veste greca (la
classica, i due rettangoli di stoffa appuntati sulle spalle e legati in vita)
molto usata dalle etrusche. La càstula
era un corpetto.
“Che il re e la regina ti scelgano come
genero, che le fanciulle ti rapiscano, che tutto quel che calpesta diventi una
rosa” le fonti la citano come ninna-nanna etrusca.
E la
etero è andata!*-*
Prompt: Riflesso.
Per un
milione d’anni amata maledetta.
Il
sibilo delle bombe che cadevano andava mescolandosi col rombo dei motori degli
aerei, il fragore delle macerie che cadevano e le urla della gente. Tiro
gridò coprendosi le orecchie mentre correva forsennatamente per le
strade, cercando di non inciampare in un calcinaccio o (peggio) in qualche cavo
scoperto.
Una
donna gridava, da qualche parte. Per risposta, Tiro urlò più
forte, continuando a correre con i palmi premuti sulle orecchie e le lacrime
che scorrevano sul viso.
L’unica
cosa che lo costrinse a fermarsi fu l’improvvisa comparsa di un uomo in
mezzo alla polvere. Tiro si fermò boccheggiando, fissando con occhi
sgranati la torcia umana che gli si agitava davanti, osservando l’uomo
correre agitando le braccia in tondo per qualche secondo e poi accasciarsi a
terra tra i rantoli. Tiro rimase immobile a guardare le fiamme vermiglie che
consumavano la carne, prima di aprire la bocca e lasciarsi andare a un forte
urlo. Riprese a correre, cercando di scappare da quell’inferno di fiamme
e polvere bianca.
Si
nascose dietro ad una lastra di cemento, sedendosi tremante fra i calcinacci.
Togliendosi le mani dal volto notò che i dorsi erano coperti da grosse
bruciature corredate da vesciche giallastre. Storse il naso, allontanando di
scatto la testa dalle mani quando sentì l’odore delle ferite.
Controllò
le braccia, strappando il tessuto leggero della camicia nera.
Sull’avambraccio destro si allargava un’altra bruciatura
maleodorante, che scavava nella pelle ormai morta e nerastra fino a mostrare il
luccichio dell’osso bianco. Osservò a lungo la ferita, senza
trattenersi dal piangere disperato.
“Morirò” pensò
passandosi le mani tra le ciocche bruciacchiate dei capelli “moriròqua solo come un cane!”, inarcò la schiena
all’indietro, battendo più volte la nuca contro il muro, mentre
urlava in preda alla rabbia e al dolore. Un’altra bomba cadde fischiando
dietro di lui, rilasciando nell’aria la polvere bianca che andava
rimbalzando sulla strada. Tiro seguì con lo sguardo un’altra
carica di calcinacci che volavano qua e là, cominciando a tremare
violentemente.
Era
sicuro di morire. Quel giorno per lui rappresentava l’anticamera
dell’inferno e quello era solo un’affettuosa anteprima delle pene
che avrebbe sofferto in mezzo alla lava bollente che gli Alleati gli
regalavano. Avrebbe dovuto ringraziarli. “Domani chiederò alla mia segretaria di segnarmelo”
pensò stringendosi le ginocchia al petto “se ci arrivo, a domani” un sorrisino sghembo comparve sul suo
volto “e se ci arriva anche lei.”
Terni
non poteva far altro che guardare i frutti del suo lavoro andare in frantumi.
In un istante i sacrifici di una vita erano andati perduti e lui si ritrovava
solo con dei calcinacci. E anche delle ustioni.
Avvertì
il bruciore di un’altra ferita che ci apriva lungo una gamba “Cos’altro hanno fatto saltare? Unaltoforno?Unafabbrica?
Uncondominio? Il duomo?”
si lasciò sfuggire un risolino acuto mentre strappava la stoffa dei
calzoni, cercando di limitare i danni.
Le mani
sembravano non voler seguire le direttive del cervello e impedirgli così
di pulire la ferita. Terni strinse i denti e si obbligò a tenere le mani
ferme, pulendo alla meno peggio lo squarcio rossastro.
Si
ritrovò a ridacchiare da solo intervallando le risatine stridule con le
frasi – Augusta, dove sei, dannata baldracca?- balbettò,
lamentandosi per il dolore alla gamba procurato dall’eccessiva energia
con cui stava strofinando la ferita – Dove sei stronza? Ho bisogno di te,
maledetta. - ridacchiò di nuovo, disgustato dalla propria vocina acuta e
dalle mani tremolanti – Non lo vedi? Ho davvero bisogno di te, stronza!
- Teranma?- sentiva la sua voce vicina, un
sussurro lieve e caldo che sfiorava le sue guancie –Teranma, svegliati, è l’alba.
Aprì
lentamente gli occhi, ritrovandosi a doverli subito chiudere per la luce
abbagliante. La donna rise.
- Teranma, forza, è mattina- disse
la donna, scuotendolo con un tintinnio di metallo – forza, tuva, è mattina e dobbiamo andare
da Roma. Lo sai che quel bel fusto odia che lo facciamo aspettare, no?
La donna
rise di nuovo. Aveva una bella risata, alta e cristallina, che scivolava
nell’aria come un rivolo dorato. Socchiuse nuovamente gli occhi,
trovandosi davanti al viso abbronzato della donna -Aperusia...?- sussurrò
debolmente, sfiorando con una mano uno dei riccioli biondi che cadevano sul suo
viso – Sorella, ho fatto un brutto sogno- disse strofinandosi gli occhi
– ho sognato che stavo soffrendo da morire e che ero solo. Non
c’era nessuno, neanche te.
Lei corrugò
le sopracciglia scure – Che sogno orribile, tuva. – si chinò, baciandolo sulla fronte e lasciando
un segno rosso a forma di labbra sulla sua pelle – Ops, ti ho sporcato-
disse poi ridacchiando – scusami, tuva.
Lui
sorrise, sedendosi e pulendosi con una mano – Non è nulla,
sorella.- disse – Dov’è la mia tunica?
- Appesa
fuori, tuva. Tra poco gli schiavi la
porteranno di qua- disse lei – come sto?- fece un giro su se stessa,
lasciando volteggiare il chitom
azzurro stretto con vita dalla càstula
blu.
- Sei
bellissima- assicurò lui, deliziato sia dalla vestitura sia
dall’abbondante parte di pelle che restava scoperta. Uno schiavo
entrò silenziosamente nella stanza, porgendo alla donna la tunica verde.
Lei prese l’abito fra le mani e lo fece allontanare con un tintinnio di
bracciali.
- Forza,
sbrigati tuva, faremo tardi, tardi,
tardi!- esclamò tirandogli la tunica e ridendo di nuovo. Lui
annuì, scivolando via dal letto, trovandosi lo sguardo della donna fisso
sul suo corpo – Complimenti, sei proprio cresciuto bene ultimamente, eh tuva?
Imbarazzato,
il ragazzo si coprì con le mani – Ma dove guardi, sorella?
Lei rise
di nuovo (lo stava prendendo in giro, ma era impossibile irritarsi per una
risata così bella) e gli si avvicinò, sfiorandolo con le mani
sulle spalle, sovrastandolo in altezza.
- Tuva, mi viene il dubbio che qualche
fanciulla possa volerti rapire– disse sorridendo sardonica, mentre il
ragazzo inalava il forte profumo di fiori della donna –In tal caso sarei
costretta a rapirti io e farti mio per l’eternità, non credi?-
aggiunse allargando il sorriso.
Lui
tremò da capo a piedi, stringendo le braccia attorno alla vita della
donna – Fallo.- sussurrò poggiandosi a lei – Fallo. Portami
via, sorella, portami via.
Stringeva
le dita sulla stoffa e alzando lo guardo cercò gli occhi verdi di sua
sorella. Cercò il suo riflesso, in quegli occhi, ma non lo trovò.
Non
c’era il suo viso riflesso in quegli amati occhi e non ci sarebbe mai
stato. Lei si staccò lentamente da lui, allontanandosi di un paio di
passi. Lui cercò di dire qualcosa, ma lei sorrise – Manderò
gli schiavi ad aiutarti per vestirti e pettinarti, va bene tuva?- disse arretrando – Ti aspetto. Fai in fretta, che il
fustacchione ci aspetta!
La sua
allegria suonava forzata e al ragazzo non restò altro che guardarla
mentre spariva fuori della stanza. Scivolò a terra, stringendosi al
petto la tunica. – Stronza- mormorò debolmente nella stoffa
– lo sai che ti amo, maledetta- una lacrima rigò il viso – e
tanto continui a trattarmi come un bambino.
-
Terni!- gridò una voce nell’oscurità – Terni, dannato
cretino, apri gli occhi!
Tiro
aprì piano le palpebre, trovandosi davanti ad un viso abbronzato di
donna. L’unico occhio verde lo fissava preoccupato, mentre la solita
brutta benda di pelle copriva l’altro. I capelli castani cadevano sulla
fronte, finalmente dello stesso colore delle sopracciglia. Terni sorrise
leggermente.
-
Sorella- sussurrò alzando le mani verso il suo viso – ho fatto un
bel sogno. Ho sognato che ero felice da morire e c’eri tu. Poi
però mi hai spezzato il cuore.
Perugia
lo guardò un po’ storto – Che cosa stai vaneggiando,
cretino? Guarda come sei ridotto… Dio santo, puzzi d’aglio marcio!-
Perugia prese una delle sue mani, esaminando le bruciature – Oh, Signore,
cosa ti hanno fatto.
Terni
sorrideva ancora. Un lieve rossore gli dipinse le guancie – Non ho idea
di quanti anni ho passato a maledirti, sorella.- Perugia borbottava, estraendo
da una valigetta delle strisce bianche e bagnandole con dell’acqua
–Tu non mi amavi. Non mi hai mai amato- la guardò mentre lo
fasciava, borbottando ancora ingiurie contro vari santi che di sicuro si
stavano agitando sui loro scranni – i tuoi occhi non mi hanno mai
riflesso, sorella.
Perugia
alzò lo sguardo. I suoi occhi, anzi, l’occhio non rifletteva
niente e nessuno, rifletteva solo il ferro e l’acciaio.Tiro sospirò.
- Ti ho
detto mille volte che ti amo, ma tu forse non lo ricordi neanche. – si
lasciò scivolare con la schiena contro la lastra di cemento (che aveva
retto eroicamente durante la notte) – Però le mie maledizioni te
le ricordi, te le ricordi di sicuro tutte.
Augusta
lo guardò mentre scivolava nel sonno. Finì di fasciarlo,
canticchiando fra se e sé - Che il
re e la regina ti scelgano come genero,- sussurrava carezzandone i capelli
- che le fanciulle tirapiscano, che tutto quel che calpesti
diventi una rosa- lo baciò sulla fronte, non badando alla sporcizia
che si era accumulata sul suo viso.
- Certo
che ricordo, tuva.- , Augusta non
amava Tiro, ma poteva capirlo. Aveva passato così tanti anni al fianco
di Roma da riuscire a capire come ci si sente quando gli occhi della persona
che ami non riflettono te.
- Conteggioparole: 740
- Note:Sono Spagna e Francia. Sono donne.
Durante la guerra. A Parigi. In un bordello. Cosa volete che vi dica? Ah,
è scritta con questo stile apposta, eh.
Meno una!
Prompt: Cravatta
04
Mrs.
Bitch
Marianne
fissa il riflesso di un’unghia rosso brillante nel vetro del bicchiere
per qualche minuto, prima di decidersi a prenderlo fra le mani e berlo. Il
liquido dolciastro (troppo dolciastro) scivola nella sua gola rapidamente,
lasciandole qualche secondo prima che l’alcool entrasse in circolo in
tutto il suo corpo.
Si gira
sullo sgabello, voltandosi vero il palchetto coperto di stoffa rossa tarlata, grande
abbastanza da farci stare due uomini ed Esperanza.
Marianne
si chiede spesso cosa ci trovano gli uomini in Esperanza. Ha i fianchi larghi,
il viso rotondo e un seno inutilmente enorme. Eppure nessuno sembra badare al
culo grande come la Groenlandia mentre balla con quell’abito verde acceso
che era tipo un pugno in un occhio ma che stava da Dio con i suoi di occhi.
Poi,
culona o no, dopo cinque minuti di ballo riesce a eccitare abbastanza tutti gli
uomini della platea da farli durare almeno un’ora solo grazie al ricordo
del sudore che scivolava sul suo seno.
Marianne
ride, è di buon umore. Il bicchiere vuoto è sul bancone scuro del
bar accanto a cinque o sei suoi simili altrettanto vuoti. Suvvia, pensa Marianne, posso
anche concedermi di bere e ridere, no? La serata è appena cominciata!
Marianne ferma il proprio cervello prima che questi la avverta che metà
di quegli stranieri sbavanti se li dovrà portare a letto lei.
Sposta
gli occhi azzurri verso quel lampo verde che balla indiavolato al ritmo della
chitarra e delle nacchere il cui suono è quasi sovrastato dal battere
delle mani del pubblico. Eppure Marianne riesce a sentire i tacchi di Esperanza
che battono sul legno (forze scheggiandolo) mentre segue con gli occhi i
movimenti delle mani da gitana di Esperanza, quelle dita affusolate del colore
del bronzo piene di anelli dorati che Marianne adora.
È
bella, Esperanza, è bella davvero e Marianne si torce le mani quando la
vede chinarsi verso uno di quegli allupati in platea e sfiorarlo con una delle
nacchere che tiene in mano. L’uomo quasi sviene come la protagonista di
un romanzo rosa e si accascia sulla sedia ridendo sguaiatamente e allungando le
mani verso Esperanza che sorride ballando.
Quando
spunta l’alba Marianne esce della stanza sbadigliando con la mascella
quasi divelta e sembra un cobra biondo con la guepiere bianca un po’ sfilacciata.
Esperanza
le passa davanti, una cravatta nera che pende sul seno che straborda da un corsetto
nero.
- Ciao, mignotta!-
esclama ridendo e salutandola con la mano. Marianne sorrise e la saluta a sua
volta, ben conscia che quello striminzito cervello ispanico che Esperanza si ritrova non può arrivare
neanche lontanamente a concepire la portata della parola “mignotta”. È quasi sicura
che Esperanza non sappia neanche cosa voglia dire “mignotta”. Sicuramente pensa che loro là dentro facciano
volontariato per i soldati. Dirle che c’era chi in tutto quello ci intascava
dei soldi le sembrava crudele come dire a un bambino moribondo che il paradiso
non esiste. E che chiaramente lui non incontrerà la sua mamma dall’altra
parte.
Marianne
apre gli occhi, calcolando circa le otto del mattino solo grazie all’ombra
della bottiglia proiettata sul muro dai raggi di sole. Esperanza è
seduta tutta allegra accanto a lei. Ha ancora addosso il corsetto troppo
stretto e la cravatta nera – Buongiorno, Marianne!-
Marianne
sorride – Esperanza, la sorellona vuole dormire- e tira le coperte sopra
la testa. Esperanza ride di nuovo, tirandole via il lenzuolo dal viso e infilandosi
sotto con un movimento sinuoso.
- Esperanza
- dice Marianne – se volevi dormire con la sorellona bastava dirlo-
sorride, trovandosi il viso bronzeo di Esperanza davanti agli occhi. Esperanza
ha quell’aria ebete di chi non capisce niente, ma ha un sorriso
adorabile. Le circonda il fianco con un braccio, notando quanto la sua pelle
sembra bianca in confronto a quella di Esperanza. Marianne è a pezzi
e prega che Esperanza non abbia voglia di parlare. Di non parlare molto, almeno. Poi con quel corsetto non
può neanche palparla decentemente (palparla in genere è l’unica
cosa che la fa stare zitta o che almeno le fa dire qualcosa d’interessante).
Esperanza si limita a sfiorarle le guancie sorridendo.
- Vuoi
dirmi qualcosa, Esperanza?- domanda Marianne sospirando. Esperanza la guarda –
Mignotta.- dice allargando il sorriso.
Marianne
la afferra per un fianco e la butta sul letto, stringendola per la cravatta
nera. Esperanza ride davanti alla sua faccia. Marianne si china sulle sue
labbra – Per te è signora Mignotta, va bene?- poi la bacia,
complimentandosi con se stessa per averla fatta smettere di ridere
stupidamente.
- Conteggioparole:
- Note:Volevo farle tutte con personaggi diversi,
invece mi sono ritrovata a dover ritirare fuori dal mio maGGGico
cappello Siberia. Che quando lavora per
Russia non è adorabile e pucchosa, no nono.
Pace. La
amo *-*
Nota2: sapete cosa sono i Gulag, vero? Bene, perché non ho
voglia di spiegarlo. Diamo per scontato che questo gulag è in Siberia. Ah, Siberia dice “cinquanta lingue”, ma
contiamo che solo nella zona della Siberia se ne parlano almeno quaranta.
Nota3: La raccolta è finita! E questa Fic fa schifo! Ma chi se ne frega! *_*
Andate
in pace, fedeli lettori ùWù
Prompt: Mura.
05
Secchi di sassi.
- Lo
odio- sibilò Polonia lanciando uno sguardo assassino al nulla – no, cioè, lo
odio davvero.- continuò, calciando malamente un sasso. Lituania sospirò alzando
gli occhi al cielo – Polonia, non migliorerai le cose facendo così. –
- Così come,
Liet?- ribatté Polonia inarcando le bionde
sopracciglia. Lituania sospirò di nuovo – Così come stai facendo, Polonia.
- Cosa
dovrei fare allora, Liet? Saltellare, cantare,
abbracciare le guardie e fare “cuccicuccicucci” ai cani?
Polonia
incrociò le braccia, sorridendo. Lituania non l’aveva mai visto così in tutta
la sua vita. In effetti, però, Polonia aveva tutti i diritti del mondo di
comportarsi in quel modo. Lituania allungò una mano verso di lui, attendo a non
toccare la rete (di sicuro era elettrificata o qualche infamia del genere),
poggiandola sulla guancia morbida.
- Mi
dispiace, Polonia. Sto facendo del mio meglio per farti uscire da qua, lo
giuro.
Polonia
annuì, stringendo la mano di Lituania fra le proprie. – Lo so’, Liet. Lo so’.
-
Raccogli.- disse la voce, mentre un piede colpiva uno dei sassi rotolati via
dal secchio che aveva lasciato cadere. Polonia la fissò, compiendo con lo
sguardo l’infinita scalata fino al volto della donna (dannazione, di donne così
mastodontiche non ne dovevano esistere al mondo!) fino ad incontrare quei
gelidi occhi blu.
- Cosa?-
domandò Polonia con un sorrisetto. Siberia sbuffò – Quello che hai fatto
cadere.
- Sassi.-
disse tranquillo Polonia.
-
Esatto, sassi.-
- Sassi
che mi fate portare avanti e indietro per tutto il giorno.- continuò Polonia,
cominciando a raccogliere le pietre – Cioè, tutto ciò è totalmente inutile, ve
ne rendete conto tu e quel pazzo di Russia?
Polonia
a mala pena riuscì a vedere il guizzo del braccio di Siberia, prima che la
solita, onnipresente ed odiatissimanagajka si abbatta sul suo volto. E
grazie a Iddio che Siberia ci era andata leggera, altrimenti avrebbe avuto metà
faccia a sei metri dal corpo senza neanche accorgersene.
Un
rivoletto di sangue colò dalla sua fronte lungo il volto. Siberia lo fissava
senza emozione, con la stessa identica faccia di qualcuno che osserva una
formica appena pestata.
-
Raccogli quei sassi. – disse soltanto, prima di andarsene via. Seguita dalle
maledizioni di Polonia.
Che però
i sassi li aveva raccolti, alla fine.
Russia
lo guardò sorridendo. Un dito scivolò sulla ferita in via di rimarginazione sul
suo volto. – Hai conosciuto Marushka?- domandò
allegro, col tono di un bimbo che ti chiede se hai conosciuto il suo compagno di
giochi. Polonia borbottò qualcosa.
- Il
gelo ti ha congelato la lingua, Polonia?- domandò Russia senza smettere di
sorridere. Polonia non rispose. Non avrebbe sacrificato quel poco d’orgoglio
che gli restava dopo la guerra mettendosi ad urlare contro Russia. Era inutile.
Sarebbe stato meglio mettersi ad urlare contro la secchiata di sassi che aveva
fra le mani. Russia sospirò, coprendosi gli occhi con la mano – Polonia,
Polonia, Polonia- disse poi sorridendo – Non vorrai
farmi diventare cattivo, vero?
“Tu sei
cattivo”, avrebbe voluto rispondere Polonia, ma l’unica cosa che riuscì a fare
fu’ stringere più forte il manico del secchio. Russia gli passò una mano sulle
spalle – Vieni con me, Polonia.- sussurrò tranquillo. Polonia chinò il capo,
poggiando a terra il secchio dei sassi. Senza farne cadere neanche uno.
Siberia
osservò accigliata la processione di secchi pieni di sassi che si fermava
davanti alla porta del piccolo ufficio. Russia non poteva portarsi i
prigionieri dove voleva e quando voleva, di solito. Ma Polonia era lì solo ed
unicamente per consentirgli di divertirsi e di conseguenza poteva farne quel
che voleva.
Siberia
lo sapeva benissimo, ma la cosa era scocciante. Primo perché lei non sopportava
di vedere quei secchi abbandonati.
Secondo
perché le urla di Polonia disturbavano gli altri prigionieri, distraendoli dal
lavoro. Si sistemò il capello, scostando una ciocca di capelli dagli occhi. –
Sai quante lingue parlano queste mura?- domandò. Lituania scosse la testa e
Siberia lo guardò – Ne parlano più di cinquanta.
-
Davvero?
- Già.-
Siberia si voltò, dandogli la schiena – Riescono ad urlare anche in lituano, a
quanto pare.
Lituania
abbassò il capo, osservandosi le scarpe. – Non smetteranno di gridare in
lituano finché non smetteranno di farlo anche in polacco.