Vita.

di Sammael
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sogno e Rinascita. ***
Capitolo 2: *** Terrore e Salvezza. ***
Capitolo 3: *** Vittoria e Famiglia. ***
Capitolo 4: *** Dovere e Bisogno ***
Capitolo 5: *** Dolore e Desiderio. ***
Capitolo 6: *** Purezza e Gelosia. ***
Capitolo 7: *** Amore e Morte. ***
Capitolo 8: *** Mancanza e Vendetta. ***
Capitolo 9: *** Ricordo e Sofferenza. ***
Capitolo 10: *** Tradimento e Intermezzo. ***
Capitolo 11: *** Incubo e Speranza. ***
Capitolo 12: *** Perdita e Sorpresa. ***
Capitolo 13: *** Eternità e Sconfitta. ***



Capitolo 1
*** Sogno e Rinascita. ***


Bene! Prima storia che riesco a concludere. E ho pensato di divulgarla un po' nella speranza che piaccia a qualcuno leggerla quanto a me è piaciuto scriverla. Ordunque. Innanzitutto c'è un neonato e un buon cuore. E, poi, molti nomi. E quelli sono importanti, si sa. A volte condizionano la... vita delle persone. Irrimediabilmente. Ci troviamo in Persia, circa quattromila anni fa. La vita è bella e gioiosa come una donna incinta. Ma per quanto resterà così?

Sogno e Rinascita

Sono nudo, ma il caldo sole che sorge sulle montagne lontane scaccia il freddo e la notte. Ma il gelo resta dentro, e nulla può portarselo via. Un ritmico dondolio mi culla, ma non riesco ad essere tranquillo. Piango. Chi è quest’uomo? Cosa vuole da me? Mi tiene in braccio e mi guarda con tenerezza, ma mi fa paura. I suoi capelli sono scuri e lucenti, come la sua pelle e i suoi occhi. La barba che gli copre la metà inferiore del viso sembra ispida, ricciuta. È diverso da qualunque uomo io abbia mai visto prima di adesso. Il dondolio continua, e finalmente mi addormento.

Lei non è la mia mamma. Questa donna non è la mia mamma. Dove sono? Cosa è successo? Dov’è mia madre? Piango. Mia madre non c’è, e ho come la sensazione che non la rivedrò più. La donna mi culla dolcemente, mi stringe al petto, mi dice che sono suo, suo, suo, il suo Kamal, la sua preghiera esaudita dagli dei, il frutto di un dono divino che mi ha portato tra le sue braccia. Non smette di cullarmi e di baciarmi la fronte. Mentre una lacrima cade lungo il suo viso scuro, rigandole una guancia, io cado di nuovo nel sonno.

Un giaciglio allestito all’ultimo momento è il mio letto. Di tanto in tanto – forse sogno, forse ricordo, forse scherzo del dormiveglia – apro gli occhi e vedo il viso di quella donna. Che non è mia madre. Però mi vuole bene, e lo so perché me lo sussurra in continuazione. Vuole bene a me, al suo, suo, suo piccolo Kamal. Troppo stanco anche per mugolare. Mi nutre, mi rimbocca la coperta di lino candido attorno al corpo, mi accarezza, mi guarda. Chiudo ancora gli occhi.

Stavolta li apro davvero, ed è giorno, ed è oggi, è adesso ed è vita, vita vera, che mi strappa da un’età confusa e mi riversa tra gli altri bambini. Sono scuri, piccoli e in carne. Io no, io sono diverso. Li vedo osservare interessati i miei occhi chiari, la mia pelle candida. Ma non mi scacciano. Giochiamo insieme a rincorrerci, e mi cercano, quando non ci sono. Vengono a chiamarmi davanti casa e urlano il mio nome finché non metto la testa fuori dalla porta e con una risata li seguo.
“Kamal, Kamal, Kamal”.
Li attraggo, li affascino, li attiro intorno a me come se fossero insetti, e io il fiore. Un fiore che non ha spine, è appena nato, ma crescerà. Obbediscono a tutto ciò che dico, fanno ciò che desidero. Mi seguono correndo nel mercato, ma le mie gambe sono più lunghe, più svelte, più bianche delle loro. Li semino e li riprendo, li scaccio e li accolgo, a mio piacimento.
Ho sette anni, e mi sento il padrone del mondo.
Un mondo che è il villaggio attorno alla reggia, le case piccole e ordinate, accoglienti. Un mondo che è le braccia di mia madre, e anche quelle sono piccole e accoglienti. Non le ho ancora chiesto perché sono così diverso. Da lei, da mio padre, da tutti. Ma non ce n’è bisogno. «Sei un dono, Kamal. Gli dei ci hanno dato in dono il figlio più bello. La perfezione. Come il tuo nome». Me lo ripete spesso, e nella mia mente di fanciullo mi credo un dio. Andrò presto a lavorare come paggio a palazzo, con gli altri, con mia madre. Sarà divertente. Vedrò il re, che mio padre nomina di rado con tanto rispetto.

Ho nove anni, e sto pulendo gli ori nella sala d’ingresso. Con me ci sono Adel e Aram. Adel è il mio migliore amico, è l’unico che riesca a tenermi testa ed ad atterrarmi quando giochiamo alla lotta. Mi ha fatto mangiare la polvere, e da allora siamo inseparabili. Ha un anno in più di me, ma a volte sembra quasi che ne abbia molti, molti di più. Il suo sguardo è così diverso da quello di tutti gli altri.
Mi lancia addosso la sua pelle di yak, unta di oli, con cui stava pulendo una coppa intarsiata. E ride. Ride. Si piega in due, tenendosi la pancia. Ed è così bello quando ride, gli compaiono due minuscole fossette ai lati della bocca. Resterei ad osservarlo, ma la vendetta e il gioco e il bisogno di prenderlo a pizzichi diventano insostenibili. Mi lancio contro di lui, cacciando un urlo che quando ci picchiamo è il nostro inno di battaglia. Aram ride piano, ma non prende parte al gioco: sa che non è bene intromettersi tra me e Adel, sa che finiremmo per coalizzarci contro di lui, così piccolo e gracile. È calmo, come il suo nome.
Tanto per cambiare, Adel riesce ad atterrarmi. Non ha smesso un attimo di ridere, e appena vede che sto ansimando per il gioco e che ho bisogno di riprendere fiato, si lancia sui miei fianchi, mettendo in atto ciò che avrei voluto fare io, ovvero prenderlo a pizzichi. Ma è una tortura piacevole, almeno fino a quando le mie risa non giungono alle orecchie di un cortigiano di passaggio.

Kamal, come avrete intuito, significa "perfezione", in persiano. Aram invece ha il significato di "quieto, calmo". ^.^

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Capitolo 2
*** Terrore e Salvezza. ***


Terrore e Salvezza

«Cosa state facendo?!».
Io e Adel ci ricomponiamo in fretta e chiniamo il capo seguendo l’esempio di Aram. Non è il sovrano, ma un suo consigliere – “intimo” direbbe mio padre – ed è giovane e bello, anche se il suo tono di altezzoso rimprovero me lo rende subito antipatico. Ci ordina freddamente di continuare il nostro lavoro, prima di sferrare un duro colpo ad Adel, ancora al mio fianco. Lo colpisce su una spalla.
A me sembra che per un secondo tutto si faccia bianco e oro, e forse è il riflesso dei gioielli preziosi nella sala, forse è la luce del mattino che colpisce i mosaici sulle pareti, forse sono talmente in collera con quel lurido leccapiedi da non vederci più.
È più alto, più forte, più robusto di me e sicuramente mi supera anche in età, di dieci anni più adulto. Praticamente un uomo. E io, praticamente un bambino.
Ma non m’importa, perché Adel è stato colpito anche per colpa mia, ed è il mio migliore amico e gli voglio bene, e non posso tollerare la vista della sua pelle serica che è più scura del solito per colpa di quell’uomo.
Lancio il mio urlo di guerra, schiantandomi contro le sue gambe, e mi faccio male. Mi fanno male anche le mani, quando comincio ad usarle per prendere a pugni ogni spazio di pelle che riesco a raggiungere. Ovviamente, quell’uomo non impiega molto tempo a prendermi per i capelli e a fermarmi. Urlo, perché mi sembra che lo scalpo mi si stia staccando dal resto del corpo, però non smetto di dimenarmi, artigliando l’aria e scalciando come un impiccato. Mi lancia via con facilità e atterro sui mosaici del pavimento, duri e dolorosi almeno quanto sono belli. Gemo, mi fa male un braccio, e mi sembra di avere la testa spaccata in due. L’ultima cosa che penso è che per la mia impulsività, Adel e Aram adesso debbano pulire tutto il sangue che ha macchiato il pavimento. 

Sento delle voci. Mia madre sta supplicando. C’è qualcuno che mi tiene la testa, la sento poggiare sul morbido. Apro gli occhi e a fatica distinguo il viso di Adel, al contrario, che sta guardando dritto davanti a sé con quello sguardo troppo serio per un bambino di dieci anni. Però ha le fossette sulle guance, perché le sue labbra sono strette e serrate. Con il forte desiderio che lui faccia altrettanto, sorrido, prima di rendermi conto di quello che è appena successo, di quello che ho appena fatto.
«È solo un bambino, per favore...» sento dire mia madre. Sta piangendo. Mia madre sta piangendo. E il motivo può essere uno e uno soltanto.
Mi faranno del male.
Mi faranno del male, e la botta che ho preso rovinando a terra potrà essere comparata al solletico di Adel. Lo so. Me lo sento nelle mani, che cominciano a tremare. Ho attaccato il prediletto del dio sovrano e, malgrado abbia solo nove anni, malgrado non gli abbia fatto assolutamente nulla, sarò punito.
Trovo la forza, nonostante la paura, di alzare il viso per guardare chi altro c’è nella stanza. Il cortigiano sta sbraitando, mia madre continua ad implorare, Adel osserva la scena con estrema serietà. Io non riesco a capire cosa stanno dicendo, cosa quell’uomo stia decidendo sulla mia vita, e la cosa mi getta ancor più nel panico.
E poi, cala il silenzio.
«Hesìam, cosa succede?».
Questa voce, me lo sento, è la mia salvezza. Volto la testa giusto in tempo per vedere il re, il dio, il sovrano di Persia, scendere i gradini con calma ed eleganza. E la cosa mi stupisce, come sorprendente è anche il suo aspetto semplice, pulito, gradevole. E la sua voce, così gentile.
«Nulla, Kiyan» risponde il cortigiano, chinando il capo.
Sento le mani di Adel tremare sulle mie spalle. Vorrei dirgli di stare tranquillo, che il re è giusto e che andrà tutto per il meglio, ma gli occhi scuri del cortigiano mi inceneriscono non appena apro la bocca, neanche mi avesse letto nel pensiero. Mi vuole morto, quella lama arrugginita*.
Poi anche il re si volta a guardarmi, con calma, come se il suo fosse un gesto casuale. La sua veste bianca e dorata ondeggia dolcemente, mossa dal suo movimento.
Mi guarda, e sorride.

Kiyan è l'appellativo del sovrano. L'insulto "lama arrugginita" è dovuto al significato del nome Hesìam: "spada affilata". ^.^ Me la merito una recensione? *w*

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Capitolo 3
*** Vittoria e Famiglia. ***


Vittoria e Famiglia

«Kiyan, non vole...». La voce del cortigiano si spegne gradualmente, fino a che non rimane solo il silenzio quasi perfetto interrotto dai passi lievi del re di Persia, che mi si avvicina, e dal respiro ritmico di Adel.
Cerco di mettermi per lo meno seduto, anche se so che dovrei inchinarmi fino a terra davanti al mio signore, ma è lui stesso ad impedirmelo, alzando lievemente un braccio. Non smette di sorridermi. Volta per un attimo lo sguardo verso mia madre, che rapidamente abbassa il suo e china la testa in segno di rispetto.
«Mi dispiace, Kiyan» mormoro, ma prima che possa aggiungere altro, il sorriso sul volto del sovrano si fa più ampio. E poi, fa una cosa che non mi sarei mai aspettato. Si accuccia, posando il peso sulle piante dei piedi, per potermi osservare da un’altezza e da una vicinanza più favorevoli. La sua veste sfiora il pavimento e io spero solamente di averlo pulito per bene, perché non potrei mai perdonarmi di insozzare qualcosa che appartiene a quest’uomo.
«Come ti chiami?» domanda. Ora che è più vicino, vedo che i suoi occhi sono gentili e calmi, quasi brillanti, completamente neri. Rimango incantato ad osservarli, tanto che lui ride. I miei occhi si spalancano per la sorpresa nell’udire quel suono: è come acqua che sgorga dalla fontana, è limpida, è chiara, è fresca.
«Kamal, mio signore». Adel mi viene in aiuto, come sempre. Non guarda il sovrano, tiene lo sguardo basso e non sta fissando nemmeno me.
Il re si alza e muove qualche passo in direzione di mia madre. «Certo, come avrebbe potuto essere altrimenti?» mormora, senza tuttavia rivolgersi a nessuno in particolare, o almeno così mi sembra. Mi guarda ancora, per molti istanti. «Hesìam, vai. Donna, tu porta tuo figlio a casa e curalo, e fai avere i miei omaggi al generale».
L’espressione di venerazione sul volto di mia madre non riesce a distrarmi da quella che vedo stampata sul viso del cortigiano: è completamente interdetto. Apre la bocca un paio di volte e la chiude ripetutamente, come un pesce tirato fuori dall’acqua vitale del fiume.
Il suo capo chino e le spalle basse quando si allontana sembrano avere inciso a fuoco la sua sconfitta, e la mia salvezza. 

«Mamma, parlami ancora del Kiyan» sussurro chiudendo gli occhi quando l’acqua tiepida mi scorre sul viso. Quando li riapro, delle piccole gocce mi sono rimaste sulle ciglia, e le scaccio con un gesto della mano.
Mia madre sorride e riprende a passare la stoffa sul mio petto, togliendomi di dosso lo sporco. Il contrasto incredibile fra il colore della sua pelle e quello della mia la rende silenziosa e le fa corrugare la fronte. «Mamma» ripeto, riscuotendola dai suoi pensieri e incoraggiandola ad esaudire la mia richiesta.
Lei sospira, mentre l’unico altro rumore che percepisco è quello dell’acqua nel catino in cui mi trovo, e i passi e le voci «delle persone nella piazza, oltre la finestra. «Kamal, cosa vuoi sapere?» domanda mia madre con un sorriso stanco.
La risposta sincera sarebbe “tutto”, ma dubito che mi prenderebbe sul serio. Sono passati quattro giorni dall’incidente con il cortigiano, e sono quattro giorni in cui mi sento gli occhi del sovrano di Persia fissi addosso, in qualunque momento, quando sono a palazzo. E, quando mi volto, lui è sempre lì, a regalarmi un sorriso e un ondeggiare di candido lino, prima di sparire dietro un arco o una colonna.
«Perché mi guarda?» domando infine, rivolto a mia madre, guardando le sue palpebre abbassate. La stoffa che mi corre sulla pelle è morbida.
Lei non risponde subito. Mi fa cenno di uscire dal catino e io le obbedisco meccanicamente. Mi avvolge un panno intorno al corpo e prende ad asciugarmi i capelli. Sto per richiamare insistentemente la sua attenzione, ma il rumore della porta di casa che si apre mi fa smettere di pensare. Il panno mi scivola di dosso e i miei piedi nudi percorrono veloci lo spazio che mi separa da mio padre. Mi aggrappo alle sue ginocchia, invocando il suo nome con sentimento, mentre lo sento ridere perché adesso mia madre sarà costretta a lavarmi di nuovo.

Chiedo umilmente perdono ai lettori! >__> Dato che questa storia è già scritta e terminata - perciò mi limito solamente a postarla, capitolo per capitolo - come un idiota ho fatto confusione e saltato questo! *ha voglia di uccidersi* Chiedo ancora scusa e vi prego di perdonarmi! >///<

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Capitolo 4
*** Dovere e Bisogno ***


Dovere e Bisogno.

«Kamal, non lo farai!».
Inarco un sopracciglio e sorrido all’espressione di Adel, osservando per un lungo istante i suoi occhi scuri, le sue sopracciglia aggrottate. Il mio sguardo scivola sulle sue mani, appoggiate sui fianchi in una posa che mi ricorda mia madre.
Rido. «Vuoi scommettere?» ribatto, avvicinandomi di un passo al trono. La sala enorme sembra accogliere il rumore dei miei piedi e rimandarlo alle orecchie di Adel. I suoi occhi si socchiudono ancora un po’. «Non puoi farlo e basta!» esclama, innervosito dal mio atteggiamento.
Ma è divertente farlo arrabbiare. Muovo ancora un passo e mi godo il suo viso.
Ho dodici anni, e in questo momento dovrei pulire gli intricati mosaici del pavimento della sala del trono – lo dimostra lo straccio stretto ancora fra le mie dita – ma l’oro intarsiato sullo schienale che è stato toccato solo e soltanto dal re di Persia e da suo padre prima di lui, mi è parso troppo bello e luminoso per potergli resistere. È proibito sedersi sul trono del sovrano, lo so io e lo sa Adel. Ma in questo momento la sala è deserta, non mi vedrà nessuno.
Adel mi si avvicina fissandomi negli occhi, come se guardandomi in quel modo potesse farmi desistere. Mi arriva molto vicino. Malgrado sia più grande di me, lo supero in altezza, e la cosa sembra non piacergli per niente. Ma nei suoi occhi di onice c’è qualcos’altro oltre alla rabbia, adesso, lo capisco subito. E so anche che davanti a quello sguardo diverso l’unica cosa che devo fare è sorridere.
E lo faccio, prima di mormorare: «Non finirò nei guai. Te lo prometto».
Adel non risponde. Continua a guardarmi e a non dire nulla.
«Starò attento. A quest’ora non arriverà nessuno».
Lui resta ancora in silenzio, e il mio sorriso svanisce.
«Perché devi fare sempre il contrario di ciò che è lecito?!» esclama all’improvviso, i pugni stretti. «L’altro giorno hai attraversato a nuoto il fiume quando tua madre ti aveva espressamente vietato di farlo, hai rubato gli aranci dall’albero del nonno di Ali, hai fatto scappare le capre e Amjad ha impiegato un’ora, un’ora, a calmarle e ricondurle nel recinto!» quasi urla. Adel sta urlando. Non trovo la voglia né la forza di ribattere, nemmeno quando aggiunge: «Se scoprissi che è vietato morire, saresti capace di ammazzarti solo per il gusto di infrangere una regola!».
Non so se essere mortificato, sorpreso o arrabbiato. È la prima volta che Adel si rivolge a me con simili parole, è la prima volta che lo vedo davvero irato. Non sorride, non sta sorridendo, e la mancanza di quelle sue fossette sulle guance sembra spezzarmi il cuore e farmi mancare il respiro. E non so come porre rimedio al suo dispiacere, perché non mi sono mai trovato in una situazione in cui il mio sorriso innocente di ragazzino non sortisce l’effetto sperato.
Non ho idea di cosa sto facendo – o non ne sono completamente sicuro – mentre mi avvicino a lui. Adel continua a guardarmi, ma adesso, come poco fa, c’è qualcos’altro nei suoi occhi. Sospetto, forse. Non mi importa. Gli prendo il viso fra le mani e accosto le mie labbra alle sue, perché mi sembra l’unica cosa giusta da fare e ho voglia di farla. Lo bacio, e le mie mani scivolano lungo le sue spalle strette quasi quanto le mie. E non è un gioco, come quelli che fanno gli altri ragazzini per la curiosità di scoprire il sesso: è bisogno, bisogno disperato di vederlo sorridere.
Adel non si scosta. Sento le sue labbra ferme e socchiuse contro le mie e, anche se ho gli occhi chiusi e non posso vederlo, so che è sorpreso. Lo so perché è il mio migliore amico, il mio complice, l’unica persona che voglio al mio fianco.
Adesso la bellezza e il luccichio dorato del trono non mi sembrano più così irresistibili.

Il cielo è stellato e ampissimo, davanti ai miei occhi. Colma i miei sensi e il mio campo visivo, sembra quasi soffocarmi. Mi lascio sfuggire un sospiro e Adel, sdraiato accanto a me, si porta su un fianco per potermi guardare in faccia.
Non volto la testa per ricambiare il suo sguardo. Continuo a osservare il cielo e mi sento immensamente piccolo e inutile, davanti a tutto questo.
«Non ti vedrò più, vero?» domanda Adel in un mormorio che a malapena riesco a sentire. Intuisco le parole perché è circa la centesima volta che le sento uscire dalla sua bocca.
«Perché, dove hai intenzione di andare?» chiedo a mia volta con un sorriso a metà. Piego le braccia dietro la testa e con quel lieve movimento l’erba morbida acquista un po’ di frescura e fa da refrigerante alla mia pelle.
Lancio un’occhiata ad Adel giusto in tempo per vedere il suo viso imbronciato. «Hai capito cosa intendo. Quando entrerai al servizio del re, non potrò più vederti. Non mi sarà permesso» dice, senza guardarmi.
È triste, lo sento dal suo tono. Anch’io lo sono, ma sono certo che le sue sono esagerazioni. So ciò che mi attende, nelle stanze del sovrano di Persia, che entro un paio di giorni diverranno praticamente anche le mie.
Il Kiyan ha espresso il desiderio di avermi come servitore privato. Mia madre me lo ha riferito qualche mese fa, e dai suoi occhi ho capito che era grata al sovrano per aver concesso a me e quindi a tutta la mia famiglia un tale onore, ma anche preoccupata per ciò che comporta un tale compito.
A me non importa. So cosa mi aspetta e so anche che sarà molto diverso dagli esperimenti compiuti finora sul corpo giovane e glabro di Adel, che non mi ha mai permesso di andare oltre qualche carezza e qualche bacio.
Sembra aver capito che fra breve non saremo più una cosa sola, e che non sarò più una sua esclusiva proprietà. Sento che sta male per questo, perché sono anni che ci apparteniamo. Siamo l’uno dell’altro, ma il suo senso del dovere gli impedisce di infrangere un ordine sottointeso del sovrano.
Ma, lo so e lo sa anche lui, il re di Persia potrà anche prendere il mio corpo e farne ciò che vuole, ma la mia anima è la stessa di Adel. E da lui non può essere separata.
«Ti amo, stupido» mormoro, accarezzandogli la testa.
E lui sorride.

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Capitolo 5
*** Dolore e Desiderio. ***


Dolore e Desiderio

Adesso ho paura.
Lui è sopra di me, mi sfiora il collo con le labbra, poi la fronte, le spalle, le clavicole. Il suo respiro è caldo sulla mia pelle. Rovente. Mi fa rabbrividire. Le sue mani sono ovunque, mi sento inerme, indifeso, così piccolo sotto il suo corpo di uomo.
Tremo, e lui se ne accorge. Mi sorride, e anch’io mostro i denti di rimando; definirlo sorriso sarebbe una spudorata menzogna.
«Kamal».
Mormora il mio nome, un attimo prima di esplorare la mia bocca con la lingua. Quella stessa lingua che poi passa ad accarezzare le labbra, mentre le sue mani scendono e si fermano sui miei fianchi. Sono così calde.
«Kamal».
Mi sento una bambola di pezza, in balìa dei giochi di una bambina perversa e bellissima. Mi sembra che sia tutto così assurdamente sbagliato e irreale. Quasi non mi accorgo che lui mi ha sollevato i fianchi dalla stuoia, portando il bacino ad appoggiarsi sulle sue ginocchia.
«Kamal».
Il dolore è lancinante. Mi sembra che presto mi strapperà in due. Non posso credere che faccia così male. I battiti del mio cuore sembrano impazziti, troppo veloci. Stringo fra le dita la prima cosa che mi capita, consistente nella coperta ricamata. Ansimo rumorosamente.
«Kamal».
No, no, no! Vattene, togliti, scostati! Non voglio, non voglio! Fa male, per dio, fa maledettamente male. Non voglio, basta. Smettila!”.
Ma le sue mani che mi stringono i fianchi mi ricordano di chi sono, adesso. Questo corpo bianco e tremante non mi appartiene più, e solo ora mi rendo conto di quanto sia orribile tutto questo.
«Kamal».
Un forte gemito di dolore mi sorge spontaneo alle labbra, quando lo sento farsi strada ancora più in profondità. Ho come la sensazione che lo sentirò fino in gola. Ho il respiro affannoso, irregolare, veloce. Brucia da morire, è come se qualcuno mi stesse raschiando dall’interno con uno strigile. Contraggo i muscoli, ma sembra non servire a niente, anzi. Fa solo più male.
«Kamal».
Non mi piace, non voglio, non voglio più. Ti prego, ti prego, ti prego, basta. Non ce la...”.
Un gemito che è dolore ma che insieme è già qualcosa di diverso mi fa riaprire gli occhi. Non ricordavo di averli chiusi. Il suo volto è vicino, sento il suo respiro sulle labbra. Non si muove, è fermo dentro di me. Questo mi permette di ritrovare il respiro. Una sua mano lascia il mio fianco e sale ad accarezzarmi il viso, e sento che la mia bocca si socchiude a quel gesto. Capisco che lui non vuole farmi del male, e quella sensazione strana e nuova che ho sentito prima me ne convince.
«Kamal».
Spinge ancora un po’, e quasi non sento più il dolore. Una scossa mi tocca la spina dorsale e arriva fino alla nuca. Gemo. Non capisco se è piacevole o no, comprendo solo che non fa male e quindi la accetto volentieri. Esce un po’, ritorna, esce, ritorna. Ancora. E ancora. Brucia lo stesso, ma stavolta capisco che presto svanirà, e che posso sopportare se quella sensazione torna di nuovo. E lo fa, ad ogni affondo. Torna e mi fa gemere. Forte.
«Kamal».
Mentre i movimenti si fanno sempre più ampi e più veloci, non riesco a fare a meno di lasciarmi sfuggire un esclamazione di piacere. Sento la sua mano che arriva al mio sesso e comincia a muoversi allo stesso ritmo con cui si fa strada dentro di me, scacciando ogni altra cosa.
Se prima era il dolore ad essere inconcepibile, ora il piacere ha preso il suo posto. Ed è qualcosa di assolutamente indefinito. Mi sento sballottato da una parte all’altra del mio essere, completamente perso, completamente soggiogato.
Le sue labbra sulle mie sono calde, morbide e umide. La sua saliva mi brucia la lingua. Non esiste nulla, oltre questo. I suoi ansiti e i suoi gemiti sembrano arrivare alle mie orecchie quasi attutiti. Seppellisce il viso nel tenero incavo del mio collo, ansimando rumorosamente. È così caldo, così giusto.
Voglio appartenergli. Sono suo. Completamente, nel corpo e nei sensi. Sento quel piacere indescrivibile salire d’intensità, sembra quasi che voglia rompere la barriera delle labbra e riversarsi nella sua bocca, perché è da lui che viene, e a lui deve tornare.
L’orgasmo mi sorprende e fa contrarre ogni muscolo del mio corpo. È assoluto e perfetto, non ha nulla a che fare con tutto ciò che conosco. Mi riempie, sembra farmi scoppiare. E gemo rumorosamente, respirando forte, singhiozzando di piacere, aggrappandomi non più alla coperta di lino, ma alle sue spalle ampie.
Lo sento liberarsi dentro di me, e mi sembra quasi di morire.
Possa io morire altre mille volte.
«...Morad» ansima sulla mia pelle.
E in quel momento capisco che se Kamal appartiene e sempre apparterrà ad Adel, Morad è di proprietà del sovrano di Persia. Ed è felice di esserlo.

Morad significa "desiderio".
Dunque. ^^ Grazie a NemuChan per la sua recensione! ^.^ E, soprattutto, per i suoi complimenti! Ti spiego la questione della brevità dei capitoli, che in effetti è molto semplice e riconducibile al carattere del personaggio. Va ad emozioni. Questo capitolo, appena postato, credo riesca a far intuire bene la questione. Credimi, non potrebbe essere altrimenti! Aspetto con ansia la tua opinione su questo nuovo capitolo! ^.^

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Capitolo 6
*** Purezza e Gelosia. ***


Purezza e Gelosia

La corteccia sotto la mia schiena causa una sorta di piacevole prurito. Vedo il cielo cercare di penetrare le fronde dell’albero su cui mi sono arrampicato, e quel verde scuro e l’azzurro sembrano essere due cose completamente diverse, ma complementari. Come se non potessero esistere senza mescolarsi e confondersi, mantenendo intatta la loro essenza.
Mi sfugge un sorriso al logico paragone. Ma non sono sicuro di essere io il cielo. Cerco di capire per quale assurda ragione la mia mente abbia deciso di compararmi all’azzurro invece che al verde, ma una voce, due o tre metri più in basso, mi distrae. Volto la testa e il busto per vedere chi è che sta parlando.
Ah, ecco perché mi sono distratto.
Adel mi sta chiamando. Muove qualche passo incerto sull’erba, e mi sembra quasi di sentire la consistenza del suolo sotto i piedi nudi, come la avverte lui. Finalmente, entra nel mio campo visivo, e mi stupisco di come il suo corpo stia cambiando ad una velocità incredibile, mentre il suo viso rimane quasi identico a quello del ragazzino a cui ho regalato un bacio tre anni fa, nella sala del trono. Mi chiama ancora, e mi sfugge un sorriso.
Le sue preoccupazioni non si erano rivelate infondate come avevo sperato. Il Kiyan è molto protettivo, nei miei confronti. Qualche giorno fa ha fatto frustare un suo consigliere perché aveva osato mettermi una mano sulla spalla e sorridermi conciliante. In effetti non mi stupisce che adesso le persone a malapena mi rivolgano la parola. Ma non ha importanza. Finché posso tornare a casa e dare un bacio a mia madre e sorridere a mio padre, e vedere Adel pressoché tutti i giorni, niente mi fa sentire segregato.
Adel mi chiama ancora. Cerca di non farsi sentire troppo, ovviamente. Quando sono salito su quest’albero, più o meno un’ora fa, i giardini del palazzo erano deserti. Probabilmente lo sono anche adesso, ma Adel è molto prudente, lo è sempre stato.
Decido di mettere fine a questa sorta di gioco sadico. Con un salto, scendo dal ramo e atterro sull’erba, ad un metro da lui. Si volta di scatto e per un attimo leggo nei suoi occhi una domanda – “Da dove accidenti sei uscito?” – poi si spostano verso i rami dell’albero sopra di noi e le sue labbra compiono il miracolo del sorriso.
«Hai intenzione di rimanere lì a fissarmi per quanto tempo, esattamente?» domando, quando non lo vedo muoversi verso di me.
Lui ride, e finalmente si avvicina. Si guarda intorno, prima di sfiorarmi la guancia con una carezza. «Non ti ha mai dato fastidio essere osservato» mormora. Anche se lo vedo tutti i giorni, la sua voce ultimamente mi lascia un po’ confuso. È diventata più roca, più profonda, più matura, anche se il timbro è lo stesso.
Piego la testa per assecondare il movimento lieve della sua mano, prima di stringerla con la mia e portarmela alle labbra, sfiorando il palmo con la bocca semiaperta. Chiudo gli occhi, e mi sfugge un sospiro.
«Non dovresti» mormora Adel, e sento la sua mano tremare contro le mie labbra. Cerca di ritrarla, ma non lo vuole davvero e io lo trattengo. Apro gli occhi per osservare la sua espressione: è combattuta, come al solito.
«Non devi per forza dare retta al tuo nome» sussurro, leccando lascivamente il palmo. Stavolta la ritrae sul serio, e io mi sento bizzarramente inutile, quando non c’è più contatto fra la nostra pelle. Gli lancio un’occhiata e mi accorgo che è eccitato. Muovo un passo, sorridendo, fino a far sfiorare il mio petto sulle sue braccia incrociate. «Potresti ascoltare il tuo corpo, ogni tanto» aggiungo, ampliando il sorriso.
Lui si scosta ancora, di un passo. Non mi guarda. «Non usare certi subdoli stratagemmi con me. Pensavo che il tuo signore ti accontentasse abbastanza, sotto questo punto di vista» dice, sempre senza guardarmi.
Oh, è geloso, è geloso da morire. Non mi è sfuggita la piccola smorfia di rabbia quando ha nominato il Kiyan. Mi avvicino di nuovo. «Non essere ridicolo, Adel. Lui non ha niente a che fare con noi» mormoro, sfiorandogli un avambraccio con le dita.
Mi lancia un’occhiata sconvolgente. È un miscuglio omogeneo di rabbia, gelosia e desiderio. «Mi sembra invece che abbia molto da fare, con te. La regina passa quasi ogni notte da sola, nelle sue stanze» dice, socchiudendo gli occhi e di conseguenza intensificando quello sguardo.
«Allora perché non vai a farle compagnia?» domando, velenoso, muovendo qualche passo per allontanarmi da lui. Ovviamente, mi ferma, afferrandomi un braccio e tirando affinché possa guardarmi in faccia. Non importa quanto rancore ci sputiamo addosso, lui non scappa. Affronta ogni situazione, ed è sempre pronto a riprendermi, quando per me tutto diventa insostenibile.
Non mi piace che parli della regina. In realtà odio il fatto che sulla sua bocca ci sia il nome di qualsiasi donna. È una cosa che non ho mai sopportato, ma da qualche settimana so che la sua famiglia ha combinato un matrimonio con una tale Shireen, e la questione mi manda ai pazzi. Non so come accidenti sia fatta, e Adel non me l’ha mai presentata. Sa perfettamente che potrei strapparle il cuore dal petto e darlo in pasto a sua madre. Ne sarei capace.
«Io devo, Kamal» mormora, gli occhi adesso velati di tristezza, come se avesse capito quello che sto pensando e volesse rassicurarmi. Ma a me non importa nulla dei suoi maledetti doveri. Non me ne è mai importato niente, perché quello che c’è o ci dovrebbe essere tra di noi è oltre delle stupide convenzioni sociali e ogni senso di giustizia. Pensare che quella stupida ragazzina potrà avere quello che io ho tanto desiderato e non ho mai potuto ottenere mi fa impazzire.
Involontariamente, stringo i pugni. «Alla malora i tuoi doveri!» esclamo, senza guardarlo. Con un secco movimento del braccio, gli faccio lasciare la presa. Lui, rapido, mi afferra di nuovo, e stavolta non riesco a liberarmi. Mi divincolo, ma non serve a niente. Io vivo negli agi, lui non ha mai smesso di lavorare, di rafforzare i suoi muscoli. È troppo forte la sua stretta, ma il potere che ha su di me lo è molto di più. Rinuncio e chino il capo, il respiro lievemente affannoso.
«Mi dispiace» mormora. Quando lo guardo negli occhi, capisco che è vero. Ma ciò non scaccia la rabbia e il dolore. Lo sento allontanarsi da me, giorno dopo giorno. Il rapporto che c’è fra di noi va affievolendosi di minuto in minuto. E mi sembra di non poter fare nulla per mettere fine a questa tortura.
Sto per dirgli qualcosa, ma delle voci giungono alle nostre orecchie e sono costretto a zittire le mie parole sul nascere. Il Kiyan ha concluso la sua riunione con il capo di un villaggio vicino, e sembrano essere giunti ad un accordo favorevole per entrambe le parti. Sorridono, ridono, parlano a voce alta disegnando grandi gesti nell’aria con le mani. Poi il re mi nota. Ovviamente. Lo vedo compiere un grande sforzo per non lanciare ad Adel – che fortunatamente mi ha lasciato il braccio giusto in tempo – un’occhiata omicida. Sa quanto tengo a lui e difficilmente lo punirebbe. Mi fa cenno di avvicinarmi.
Il capo del villaggio alleato mi osserva, sbalordito. Quando mai i suoi occhi di popolano, per quanto ricco, hanno mai visto una pelle così bianca?
Non appena sono abbastanza vicino, il Kiyan mi porta un braccio intorno alle spalle e mi attira a sé. «Lui è Parsa» dice, e io sorrido educatamente, chinando il capo in segno di rispetto. Ultimamente ha preso a chiamarmi in questo modo. Ma, lo capisce anche quest’uomo, deve esserci un fondo di ironia nelle parole del sovrano. Infatti sorride divertito.
Ad un certo punto mi chiedo persino se abbiano davvero parlato di alleanze, prima.
Dopo che sono rimasti per un po’ a fissarmi, tutti e due, il Kiyan mormora: «Vai, e aspettami», dandomi una leggera pacca sulla schiena per invitarmi ad entrare a palazzo. Rivolgo un sorriso gentile al capo villaggio, uno decisamente meno pudico e remissivo al sovrano, e varco l’uscio, diretto alle sue stanze.
Non mi accorgo che Adel ha lasciato i giardini senza farsi vedere.

La frase "Non devi per forza dare retta al tuo nome" deriva dal significato del nome Adel, "giusto".
Grazie ancora a NemuChan per le sua sua spassosissima recensione al precedente capitolo! XD (E sì, è il pensiero che conta... ^^)
Mi scuso nuovamente con tutti i lettori per aver saltato un capitolo! *si prostra a terra* Il terzo, per la precisione! >__< *si vergogna come un ladro*
Detto questo, spero che questo capitolo sia stato di vostro gradimento! Alla prossima! ^^

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Capitolo 7
*** Amore e Morte. ***


Amore e Morte

Sto già sospirando e la mia schiena è inarcata per il piacere crescente che mi invade le viscere, quando il Kiyan si ferma. Riapro gli occhi e lo guardo sorridendo, prima di accorgermi che nella sua espressione c’è qualcosa che non va.
«Tutto bene?» domando, osservandolo.
Senza un minimo di preavviso, mi afferra un braccio e me lo porta davanti agli occhi. Dei, c’è un livido. Voglio morire. «Non è niente. Sono cadu...».
«Kamal». Non è un rimprovero, non è una frase segnata dal disprezzo e dalla delusione, non è rabbia. È solo il mio nome, ma mi basta per tremare.
«Chi è stato?» domanda lui. Adesso l’ira la avverto eccome, è un sibilo sulle sue labbra. «Non sei caduto. Parla».
Scuoto la testa e serro gli occhi. Non voglio guardarlo, mi fa sentire in colpa. Con la mano libera mi prende il mento fra pollice e indice e mi costringe a fermare quel gesto di disperato rifiuto. Sono obbligato a guardarlo. Deglutisco. «Non... non l’ha fatto apposta. Non voleva» dico, abbassando gli occhi.
«Adel» mormora. E il suono di quel nome tanto amato viene deformato dalla voce del sovrano, da qualcosa nel suo tono che mi rende disperato. Lascia il mio braccio.
«Non voleva, mio signore, non voleva... vi prego, vi pre...». Scosta con facilità la mia mano posata sulla sua spalla, e si allontana. Mi da le spalle, seduto sulla stuoia. Mi alzo in ginocchio, ma non oso toccarlo. Ho la gola improvvisamente secca, e inumidirmi le labbra non serve a nulla.
«Ti ha toccato» dice, e vedo le sue spalle ampie e scure tremare lievemente. Si volta a guardarmi. Non ho mai visto i suoi occhi in quello stato. Non c’è nulla di calmo e gentile e amorevole, in loro. «Ti ha toccato!» ripete, quasi urlando.
Ho paura.
«Io amo solo voi, mio signore» mormoro. Mi avvicino e accolgo con stupore e felicità il fatto che non si ritragga. «Siete il mio re e...».
«Ti sei concesso a lui».
«No!». Stavolta sono io a urlare. È un’esclamazione disperata, la mia, perché lo vedo alzarsi e raccogliere la sua veste. E so cosa ha intenzione di fare. «No, mio signore. Mai. Mai. Io sono solo vostro...».
«NON MENTIRMI!».
Taccio e abbasso lo sguardo e la testa. Deglutisco, mentre i miei occhi si muovono sulla coperta scomposta, come se tra le sue pieghe potessi trovare una soluzione a questa situazione straziante.
«Tu e quel tuo sguardo da ragazzino! Sei un demone, ecco cosa sei! Attrai gli uomini a tuo piacere e rubi la loro anima!» urla, fuori di sé dalla rabbia. «Avrei dovuto farti ammazzare anni fa! Quando ne ho avuto l’occasione! E invece sei riuscito a ingannarmi con il tuo aspetto fin dal primo...».
«Non vi sto ingannando! Lo giuro, ve lo giuro... Adel non mi ha mai avuto! Io amo solo voi, mio signore... solo voi...». I singhiozzi mi impediscono di parlare. Voglio morire. Voglio morire. Se Adel verrà ucciso per colpa mia, morirò. Lo so. Me lo sento. Non posso vivere con la consapevolezza che la mia stupidità l’abbia mandato a morte. Mi copro il viso con le mani, piangendo disperatamente.
Il Kiyan si placa. Come se le lacrime che mi sento scorrere tra le dita abbiano portato via la sua ira. Lo sento lasciarsi cadere in ginocchio davanti a me, ma non ho la forza di guardarlo. Mi sento più piccolo di com’ero tre anni fa, più impotente di allora, più debole di quanto sarei mai stato in tutta la mia esistenza.
Inaspettatamente, mi abbraccia e mi stringe al suo petto nudo e caldo. «Vi prego, mio signore... vi prego...» continuo a mormorare. E non m’importa di implorare, non m’importa di pregare, di prostrarmi, umiliarmi, annullarmi, se servirà a convincerlo.
«Lui deve morire».
«NO!» urlo, scostandomi. «Non potete! Non potete farlo! Mio signore, vi prego...».
«Tu lo ami».
Un singhiozzo mi si strozza in gola.
«Lo ami».
«No, io...».
Lo schiaffo che mi colpisce una guancia è forte e secco, mi fa voltare la testa. Non riesco a muovermi. I miei occhi sono spalancati e confusi, atterriti, ma immobili.
«Lui deve morire» ripete il Kiyan, il re, il sovrano di Persia. Colui che fino ad ora è stato il mio signore e maestro, il mio unico dio.
Non riesco a smettere di tremare. C’è qualcosa dentro di me che mi scuote le membra, e non ho la forza necessaria nemmeno per tentare di placarlo. Quel qualcosa mi fa avvizzire il cuore nel petto, mi annebbia il cervello, mi causa un dolore che è anche fisico. Mi porto inconsciamente una mano al petto, su quel cuore morente, e senza accorgermene graffio la pelle, stringendo le dita in un pugno tremante, come tutto il resto del mio candido, perfetto e inutile corpo.
La porta della stanza si chiude con un duro colpo di legno contro legno. Non sussulto, continuo a tremare. Continuo a versare lacrime silenziose e terribili. Continuo a piangere. Continuo a maledire quella perfezione che porto addosso e che ha sempre irrimediabilmente condizionato la mia vita. L’ha distrutta. L’ha devastata. L’ha uccisa.
E ora Adel sarà la sua ennesima vittima.
E io con lui.
Io con lui.
Con lui.
Adel.

Alors.
MatyXV: innanzi tutto, grazie per aver commentato. *si inchina* La questione della carnagione chiara di Kamal è molto semplice: è stato trovato. ^.^ (pensavo si intuisse dal primo capitolo...) Non è persiano. ^.^ Comunque son contento che la storia ti sia piaciuta.
NemuChan: carissima commentatrice assidua! ^.^ Parsa nell'antica lingua significa "casto, puro". (e, ovviamente, nel caso di Kamal va inteso in senso ironico. XD) Comunque non l'ho scritto nelle note di fine capitolo perchè lo dirà Kamal stesso prossimamente. ^.^ Mmm. ...sei davvero sicura di amare il Kiyan, adesso? *ride*
Per tutti gli altri lettori anonimi, spero che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento. (So che ci siete! Tremate! XD)
Alla prossima! ^.^ *si inchina*

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Capitolo 8
*** Mancanza e Vendetta. ***


Mancanza e Vendetta

Adel è bellissimo, e completamente nudo. Ogni muscolo del suo corpo è deciso e disegnato, la sua pelle è lucida e bronzea, troppo calda. Ma così familiare.
Percorro le sue spalle e le sue braccia con le dita, rimarcando le linee perfette che gli dei gli hanno concesso. Le ridisegno ancora, e ancora, e ancora, mai sazio di quel calore e di quella levigatezza infantile sul suo corpo adulto.
È fuoco, il mio Adel. È fuoco ed è carne, muscoli guizzanti e tendini tesi. È l’unica cosa che esiste, dentro e fuori di me. Il piacere è assoluto, è acqua bollente, è il cielo stellato sopra di noi, è tutto il mio mondo. È un piacere che cresce, e cresce, e cresce e...
Apro gli occhi. Un tiepido e gentile raggio di sole mi sfiora il viso e le coperte candide sono una cornice così adatta alla bella giornata fuori dalla finestra.
Lo cerco accanto a me, ma non c’è.
Non c’è.
Era un sogno. Un altro. L’ennesimo. Così reale e orribile, così finto e meraviglioso. Così dolce da fare male.
Mi raggomitolo e piango. Ancora.
 
Sono trascorsi due mesi. Sono sempre solo, sempre stanco, sempre triste. Non esco dalle mie stanze per nessuna ragione, e il Kiyan ha smesso di venire a trovarmi ogni notte. Non lo vedo da giorni.
Giorni interi che passo sdraiato sulla stuoia, a piangere e dormire, quando proprio non riesco più a sopportare il dolore. Mia madre mi porta del cibo tre volte al giorno, e tre volte al giorno riporta tutto indietro, intatto.
Non mi stupisce che il Kiyan non voglia più avermi. Sono troppo debole per rispondere ai suoi gesti e tanto magro da disgustarlo. Quando ci penso, sento un sorriso tirarmi la pelle. È ciò che voglio.
Voglio distruggermi. Voglio fa scomparire quella bellezza che è stata la causa di tutti i miei mali. È stata anche alla base di qualche misera felicità, ma ora che Adel non c’è più non ha importanza. Niente ha importanza.
Adel. 

Voglio morire. 

«Vattene». La voce è un sussurro arrochito, ansante, irriconoscibile. Mi costa un immenso sforzo pronunciare quell’unica parola. Dei, sto per svenire.
«Kamal, devi mangiare».
Chiudo gli occhi, insensibile ai singhiozzi di mia madre. Non riesco a dispiacermi nemmeno del fatto che non mi causino nulla. Sono così stanco...
Il suono di un paio di piedi che si posano sul pavimento è così forte da farmi dolere la testa. Due braccia mi tirano a sedere, e non riesco a oppormi. Non riesco a muovere le labbra nemmeno per mormorare un flebile diniego. Me le schiudono a forza e qualcosa di liquido, fresco e dolce mi scorre sulla lingua. La tosse che mi scuote il petto è tanto forte da rischiare di spezzarmi le ossa. Ma subito si placa e mi scopro di nuovo ad odiare il mio corpo perché vuole quel nutrimento. Cerco di sopprimerlo, come ho fatto per giorni e notti, notti e giorni, ma non ci riesco.
Bevo, e mentre mia madre e mio padre ridono di gioia, mi sembra che quel mondo fino ad oggi così categoricamente rifiutato mi stia crollando addosso.
Di nuovo. 

«Morad».
Alzo gli occhi e il suo viso è davanti al mio. Lo guardo per un istante, poi abbandono di nuovo la testa sulla stuoia, voltata di lato. Non mi interessa guardarlo.
La mia disarmante passività non sembra sortire effetti, su di lui. È dentro di me da qualche minuto, lo so perché ho contato ogni secondo passare. La prossima volta conterò i suoi gemiti, quella dopo i suoi sospiri. La volta scorsa ho contato le sue spinte. È arrivato a duecentoottantasette, poi è uscito dal mio corpo e se n’è andato.
«Morad».
Si è fermato. Ancora, nel pronunciare il mio nome. Vuole che lo ascolti. Che faccia almeno caso, che dia una seppur minima importanza al fatto che stia facendo del sesso con me. Lui lo sta facendo. A me non interessa. Non sono eccitato e non ho voglia di esserlo.
Aspetto che pronunci il mio nome ancora una volta e poi riprenda a muoversi. “Cinquantotto, cinquantanove, sessanta. Quattro minuti. Uno, due, tre...”. 

Ho deciso che sedurrò ogni singolo uomo che mi passerà davanti, da oggi. Il Kiyan non potrà mettere a morte tre quarti dei suoi cortigiani, no? Magari deciderà di uccidere me, però. Questo non fa altro che spingermi a perseguire il mio scopo.
Il mio sorriso è molto simile – non identico – a quello che rivolgevo al sovrano fino a qualche mese fa, quando mi avvicino ad una coppia di soldati intenti a fare la guardia ai lati del maestoso ingresso del palazzo. Auguro loro una buona giornata, e con una scusa qualsiasi rimango a parlare con loro.
Entro pochi minuti, i loro sguardi sono decisamente meno attenti e meno rapidi a volgersi in direzione dei servi che di tanto in tanto varcano la soglia. Continuo a sorridere e a blaterare cose del tutto prive di un vero interesse, fino a che non accuso un giramento di testa e invito il più alto dei due ad accompagnarmi alle mie stanze.
Un vero peccato che il Kiyan sia occupato con i suoi generali, al momento. Ma non è ancora l’ora di godere per l’espressione che vedrò nascere sul suo viso nel vedermi posseduto da qualcun altro, e nel sentirmi gemere rumorosamente ad ogni spinta.
Magari gli verrà in mente cosa so ancora fare con questa bocca.

Eccoci qua. ^.^
Ringrazio come sempre MatyXV e NemuChan per le loro recensioni. *si inchina*
Grazie anche a tutti i lettori che hanno aggiunto questa storia tra i preferiti e le seguite. Grazie davvero. *quasi commosso* (XD)
Al prossimo capitolo! ^.^

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Capitolo 9
*** Ricordo e Sofferenza. ***


Ricordo e Sofferenza

Il paio di mani che mi corrono sulla pelle sono scurissime, sembrano quasi fredde al confronto con la mia pelle bollente. Mi abbandono al loro sfiorare ed esplorare, chiudendo gli occhi mentre l’aria mi esce dalle labbra in lievi sospiri.
È tutto calcolato. Fra poco il Kiyan tornerà qui, nelle mie stanze. E non mi troverà da solo; l’uomo che ho scelto non è bello, né alto. Non ha nulla di interessante in quei capelli grigi che cominciano a sparire sulle tempie. Ma non importa. È un uomo e tanto basta.
Appoggio ginocchia e palmi sulla stuoia, non voglio guardarlo in faccia. La lieve eccitazione che sento scorrere calma sotto la pelle potrebbe sparire, e a me serve. Mi serve per fare del male a me stesso e al sovrano di Persia. E io desidero disperatamente entrambe le cose.
È dentro di me e lo sento gemere e invocare il mio nome, che appena l’ho adescato l’ha fatto sorridere. Parsa: casto, puro. Mi viene quasi da ridere. Al momento non esiste nessuno al mondo più corrotto e sporco di me. Nessuno tanto disposto a mandare alle ortiche una vita che potrebbe essere meravigliosa per lo sciocco dolore di un amico perduto. Adel. Che non era soltanto quello. Era molto più di un amico, un amante e un fratello. Era l’altra parte di me. E adesso è morto. E con lui quel lato del mio essere è scomparso, come se non fosse mai esistito. E mi ha lasciato vuoto, e finto, e svuotato, e inutile.
Inarco un poco la schiena, gemendo. Mi sembra quasi di sentire i passi del Kiyan, un attimo prima che la porta della stanza si apra e mi volti giusto in tempo per osservare quell’espressione che per molte notti e molti giorni è stata l’unica cosa che mi ha fatto andare avanti e mi ha impedito di aprirmi le vene con uno di quei coltelli gemmati nella sala d’ingresso.
È addolorato. Sconvolto. Sorpreso, anche. Ma, soprattutto, è furioso. L’uomo ha cominciato ad implorare perdono già da diversi istanti, mi porto a sedere per osservarlo allungare le braccia in direzione del re, piangendo disperato. Guardo il suo corpo nudo e prostrato, e non posso fare a meno di compararlo ad un grosso e viscido verme. Non c’è ansia né paura dentro di me. Solo quiete.
Il Kiyan ha mosso qualche passo e si è portato alle sue spalle. Tremano le sue braccia e trema la mano che ha appena sfoderato un pugnale. Le gemme sul manico sembrano quasi brillare alla luce del sole che penetra nella stanza. La mano libera si dirige fra i radi capelli dell’uomo inginocchiato e tira.
Lo sguardo terrorizzato di quel cortigiano non mi causa nulla.
Non c’è rumore. La lama recide la tenera carne della gola senza emettere un suono. Mi scanso perché il sangue non mi sporchi. Il corpo cade sul pavimento con un tonfo. Sorrido, alzando lo sguardo verso il sovrano. Trema un’ultima volta, poi scappa, sbattendosi la porta alle spalle.
La macchia si allarga sul pavimento, e mi scopro osservarla affascinato. Raggiunge la stuoia, ma non me. E questo è quello che conta. So che sono stato io la causa della morte di quest’uomo inutile e disgustoso, ma non voglio essere toccato dal suo maledetto sangue. Non era mia la mano che reggeva il coltello.
Io sono innocente. 

Pensavo che stanotte non sarebbe venuto da me.
E invece è qui, e le sue spinte sono rapide, forti, feroci e incredibilmente dolorose. Non riesco ad escluderlo, come ho fatto da parecchie lune. Fa male.
Non è mai stato così.
Ma sento che ogni fremito nelle sue mani lo uccide, esattamente come sta uccidendo me. Ogni spinta è un insulto sputato sulla pelle scoperta e sudata. Ogni ringhio e ogni ansito sono minacce di infiniti tormenti.
Finché il dolore e la rabbia gli pervadono i sensi, sopporterò. 

È una bella giornata.
Il sole splende nei giardini del palazzo e gli alberi sono carichi di frutti. L’erba sotto i piedi nudi è tiepida e umida. Un paio di ragazzini mi sfrecciano accanto, ridendo. Sorrido, almeno fino a che non li sento urlare e non vedo i loro piccoli corpi cadere a terra e le loro risate ansanti non mi giungono alle orecchie.
Chino la testa e riprendo a camminare. 

«PERCHE’ LO FAI?!».
«Ne ho voglia».
Lo vedo tremare da capo a piedi per sopprimere l’ennesimo urlo che minaccia di spaccargli il petto in due. Sorrido, quasi dolcemente.
«Tu vuoi punirmi! Tu vuoi uccidermi!» esclama, stringendo con forza quel pugnale ormai macchiato del sangue di innumerevoli uomini.
«Sì».
Ammutolisce. «Vuoi uccidermi...» mormora, lo sguardo perso e immobile.
«Sì» ripeto in tono soave.
Spero che quella mano tremante mi diriga contro la lama e metta fine ad ogni cosa. Sono praticamente certo che mi ucciderà, quando si avvicina.
Ma il pugnale cade a terra con un suono attutito dalle mani e dalle labbra del Kiyan che mi invadono il viso e la bocca. Non faccio nulla.
Mi prende per le spalle e mi scuote con forza. Mi limito a sorridergli. «Non puoi farmi questo! Non puoi...». La sua voce si affievolisce fino a non permettergli di emettere anche il minimo suono.
Rimango in silenzio.
«Tu sei mio... sei mio! Mi hai capito?! SEI MIO!» urla. «Non permetterò che qualcun altro ti tocchi!» aggiunge. Lo vedo cercare qualcosa nei miei occhi, ma non trova nulla. Tutta l’ammirazione, l’amore, l’affetto, la venerazione che provavo per lui. Sono sparite. Si sono accartocciate su loro stesse fino a crepitare, come immerse nel fuoco, e sono scomparse. La loro cenere è il suo dolore. E la mia forza.
Perché l’ho amato. In un modo completamente diverso da Adel, ma l’ho amato. Fin da quando mi ha salvato, ancora bambino, anni fa, dall’invidia del suo protetto di allora. Era il mio dio. Era il mio signore. I miei occhi di fanciullo e poi di ragazzo in lui non vedevano altro che bontà, giustizia, gentilezza. Ed ero suo, solo suo.
Fra le sue braccia bollenti e scure, non c’era nulla che potesse farmi del male.
Una lama di sottile e crudele sofferenza sembra lacerarmi il petto.
Conosceva la mia pelle meglio di quanto la conoscessi io. Sapeva farmi tremare da capo a piedi con un sospiro che andava ad infrangersi nel punto giusto. Le sue mani sul mio corpo erano l’unica cosa vera e fisicamente presente che riuscissi a concepire. Le sue labbra e la sua lingua lasciavano scie gentili e bramose fino a farmi gemere. E lo amavo. Perdutamente. Terribilmente.
Ma se serve fingere di averlo sempre odiato, ebbene, lo farò. Riporterò alla mente ogni istante in cui mi ha fatto sentire un oggetto, ogni secondo di ogni notte che passava con la regina, lontano dalla mia stuoia e dalle mie labbra. Ricorderò i sorrisi complici a accondiscendenti che mi lanciavano gli altri a corte. Rammenterò le ore passate a piangere e a dormire, devastato nell’anima e nel corpo.
Le volte in cui mi faceva sentire al centro del mondo non sono mai esistite. Mai.

E eccoci di nuovo qui. ^^
Grazie come sempre a Nemuchan per la sua recensione. ^^ Sai, il Kyian è un personaggio, a mio parere, piuttosto affascinante. *ride* Quindi capisco la tua indecisione sul cosa pensare di lui. ^^
Grazie anche a coloro che leggono restando in virtuale silenzio. *si inchina*
Alla prossima!
P.S. Vi avviso da ora, comunque. Il prossimo capitolo sarà molto breve, e non posso fare a meno di postarlo così com'è. ^^ Comunque come potete vedere aggiorno molto spesso e, perciò, non vi farò penare molto. ^^

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Capitolo 10
*** Tradimento e Intermezzo. ***


Tradimento e Intermezzo

«Kamal, forse non dovresti...».
«Non dovrei cosa?» ribatto, fulmineo. Odio questo maledetto discorso. Mia madre lo tira fuori ogni volta che vengo a trovare lei e mio padre a casa. Perché deve rovinare in questo modo quei pochi momenti che trascorriamo tutti insieme, come se fossimo ancora la famiglia che non siamo mai veramente stati?
«Kamal...». Mio padre mormora il mio nome. Avverto una nota di lieve rimprovero. Non tanto per come mi sto comportando da qualche tempo con tutti gli uomini che incrociano la mia strada e con il Kiyan, quanto per aver risposto in malo modo a mia madre. Sa che non è mia intenzione trattarla in questa maniera. Ma non riesco a farne a meno.
Fingo di non aver capito perché mi ha rimproverato in modo tanto blando. «Se lo merita. Adel è morto per colpa sua. L’ha ucciso lui» mormoro, abbassando lo sguardo. Avrei voluto mantenere un tono fermo e gelido, ma la mia voce pare incrinarsi ogni volta che pronuncio quel nome. Come se il suo ricordo mi accoltellasse alla gola.
Mia madre rimane in silenzio. Ma lo sguardo di mio padre che si abbassa ed evita di guardarmi, mi spinge a rialzare la testa. «Cosa?» domando, fissandolo.
Mio padre mi ha sempre adorato. Anche ora, anche quando sento di non meritarmi affatto il suo amore, lui me lo regala. E a ondate. Ma c’è qualcosa che mi spinge a credere che lo faccia solo perché non può farne a meno. E non riesce a mentirmi.
«Papà» mormoro, cercando di intercettare i suoi occhi. Mi scopro a rabbrividire lievemente. È molto, molto improbabile che sia stato lo stesso Kiyan ad uccidere Adel. Il re di Persia ha tagliato la gola a molti uomini che ha trovato nel mio letto negli ultimi tempi, ma Adel deve averlo ucciso qualcun altro.
La bocca mi diventa improvvisamente secca.
Stavolta, non c’è la presa salda di Adel a trattenermi dal fuggire. 

Il mio respiro è ancora affannato e irregolare, quando appoggio la schiena al tronco di un albero. Ho attraversato il fiume a nuoto, incurante delle grida delle donne impegnate a lavare le vesti, e sono arrivato involontariamente in questo posto.
Guardo in alto e mi aspetto quasi di rivedere il cielo stellato e immenso che i miei occhi hanno osservato anni fa. Ma c’è solamente quell’azzurro accecante e l’impronta del corpo mio e di Adel non piega più gli steli d’erba.
Muovo qualche passo all’interno della piccola radura. Sento il cuore battermi ferocemente in petto per la corsa. Vorrei continuare a correre e sperare che questo organo ostinato si fermi, ma la milza mi duole e rinuncio, lasciandomi cadere a terra. Ho i capelli bagnati, ma al momento non mi importa. Scosto una ciocca che sembra voglia strangolarmi e socchiudo gli occhi per osservare il cielo.
«Chissà che mi avresti detto, Adel, se avessi potuto» mormoro con un sorriso che non è gioia né melanconia. È più una sorta di lacerante rassegnazione e terribile consapevolezza. Scuoto la testa e mi lascio scappare un lieve sbuffo. Mi avrebbe detto – no, ordinato – di andare avanti senza di lui. Consapevole quanto me che non ne sarei stato capace o che gli avrei disobbedito solo per il piacere di farlo.
Un pizzicore all’interno del naso mi fa ringhiare. Mi sono stancato di piangere. Non voglio più farlo. Sono passati sei mesi da quando Adel se n’è andato e continuare a versare lacrime non me lo ridarà indietro. Chiudo gli occhi, sperando che arrivi qualche fiera a sbranarmi.
Un rumore lieve di foglie smosse e di erba piagata sotto il peso sembra giungere alle mie orecchie come una preghiera esaudita.

Come vi avevo detto, questo capitolo è molto breve. ^^ E so già che qualcuno mi odierà, per questo... XD
NemuChan Ci saranno ancora tre capitoli, poi "Vita" sarà conclusa. ^^ Per ora, non sto scrivendo nulla, ma ho in mente di continuare questa storia. Sfortunatamente, quest'anno ho gli esami di maturità - maturità di cosa, poi... XD - quindi non ho il tempo nè - mi costa ammetterlo - l'ispirazione per narrare ancora di Kamal.
Come sempre, grazie ai lettori! ^^
Alla prossima! ^^

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Capitolo 11
*** Incubo e Speranza. ***


Incubo e Speranza

«Kamal».
Sono morto. Devo essere morto. È stato tutto così veloce... non ho nemmeno sentito dolore. Ma l’erba sotto la schiena e le gambe nude sembra così reale. Tengo gli occhi chiusi, ho paura che, se li aprissi, quella voce sparirebbe. Di nuovo.
Ho trascorso mesi a ricordarla, ma ora i pensieri che la mia mente ha elaborato nell’agonia mi sembrano scialbi e insipidi. Quasi tremo.
E se fosse solo l’ennesimo sogno?
«Kamal...».
«Non voglio svegliarmi» mormoro quasi senza accorgermene. Il vuoto dietro le palpebre chiuse si fa più scuro. Qualcosa ha impedito al sole di colpirmi il viso. Stavolta tremo davvero; è qualcosa di incontrollato che parte dalle mani e arriva a rizzarmi i capelli sulla nuca.
Un respiro mi accarezza le labbra. Che io sia dannato se questo non è l’odore di Adel. È talmente vicino che posso sentire il suo sapore in bocca. Mi sfugge un sospiro tremante, mentre delle dita mi sfiorano una guancia.
«Mi dispiace...» mormora la voce.
E finalmente apro gli occhi.
Dei, sto per morire davvero, adesso.
Non ho il tempo di realizzare nulla, il mio corpo non concede nemmeno un istante al cervello per elaborare e metabolizzare l’evento. Mi lancio su di lui.
Vorrei chiedergli come fa ad essere ancora qui, vorrei domandargli che fine ha fatto in questi mesi. Ma al momento ho le labbra occupate a baciare ogni singolo lembo della sua pelle abbastanza vicino.
Capisco che è un sogno non appena realizzo che non si ritrae. Così mi scosto io.
«Sto sognando» dico, impossibilitato a non guardarlo. Dei, è così bello. Non potrei staccargli gli occhi di dosso nemmeno se lo volessi davvero. Ma non può, non può essere qui. Non può essere fisicamente qui. È morto. È morto. Sei mesi fa. 
«Adel...».
Stavolta è lui ad avvicinarsi. Mi abbraccia, forte. Sembra quasi che voglia soffocarmi. Mi bacia la testa, la fronte, le guance, ritorna ai capelli. «Mi dispiace... ho dovuto farlo... Kamal...» lo sento mormorare, lievemente ansante.
Scuoto la testa in un gesto totalmente istintivo. «Tu... non...».
Mi ferma mettendomi le mani sulle guance. «Sono qui. Sono qui».
No, non sei qui. Non puoi. Sei morto. Morto. Ed è stata colpa mia...” penso, ma non riesco a dare vita a questo dolore. Non riesco a crederci. Perché non è vero.
Ma, che cada il cielo e mi strappino i settecento veli del cuore, se la sua pelle non è serica come la ricordavo. Se il suo sapore non è accecante e se il suo odore non riesce a stordirmi tanto da farmi rabbrividire.
Mi accorgo di piangere solo quando lo sento asciugarmi il viso con i pollici. Le lacrime mi tirano la pelle delle guance. Sembra tutto così reale...
«Il Kiyan non ha ordinato la mia morte, Kamal. Avrebbe voluto, ma non l’ha fatto... ho solo avuto l’obbligo di abbandonare la città e non farmi mai più vedere... No, non... non fare così...» dice, vedendomi scuotere la testa.
Dei, voglio morire.
Non è qui. Non... «Adel...». Ho la voce roca. Ma non tento di schiarirla con un colpo di tosse. È un groppo al centro esatto del petto che me lo impedisce. E somiglia tragicamente all’angoscia. Mi sembra che ogni volta che pronuncio il suo nome qualcosa dentro di me si laceri senza possibilità di rinsavire.
Avvicina il suo viso al mio. Lo vedo chiudere gli occhi. «Mi dispiace...».
«Mio padre... lui...».
«Sa tutto. Mi ha aiutato ad uscire dalla città senza farmi vedere da nessuno. Tu non... dovevi sapere». Le sue parole sembrano giungermi alle orecchie con qualche secondo di ritardo.
Ma quando arrivano, esplodo. «TU NON SAI QUELLO CHE HO PASSATO!» urlo. Sono assolutamente sconvolto. Sento la gola bruciarmi, ma è come se non fossi davvero io, a gridare. «Cosa ho fatto! Cosa mi avete fatto...». Non riesco più a parlare, ma non smetto di guardarlo. Dei, non ci riuscirei nemmeno se ne valesse della mia vita.
Di nuovo, mi ritrovo con il viso seppellito sulla tenera carne del suo petto. Esalo un sospiro tremante. Un singhiozzo mi scuote il petto.
«Ti amo». 

Non pensavo che sarei mai tornato a sorridere.
Invece lo faccio. Tutti i giorni.
Adel si è accampato nel bosco oltre il fiume. Vado da lui ogni volta che mi è possibile. E il sesso con il Kiyan è tornato ad essere abbandono.
Con Adel no. Con lui è fuoco. Un fuoco amico, che scalda, ma non brucia. Facciamo l’amore ogni volta che ci vediamo.
A volte penso che non sia mai cambiato nulla. Vedo il suo corpo adulto e posso sentirlo sotto le dita senza rimorso. Ma ha le fossette sulle guance. È il mio Adel. È il bambino che mi ha bloccato a terra, ansante e stremato, e che mi ha battuto nella corsa e nella lotta. È il ragazzo che ho imparato ad amare e conoscere ogni istante della mia vita fino ad adesso; sempre nuovo e uguale. È l’uomo che sto vivendo e che voglio vivere fino a quando non smetterò di respirare.
E anche dopo, forse.

«Non l’hai più sposata, quella?».
La risata che gli scuote il petto arriva fino alla mia testa, posata sulla sua pelle. La sua mano corre come sempre tra i miei capelli. Sospira; sento quasi l’aria che gli invade i polmoni e viene rilasciata.
Lo prendo per un no. «Non l’ho mai vista» aggiungo. Il lieve moto d’irritazione che provavo quasi un anno fa a pensare alla promessa sposa del mio migliore amico è un sottofondo che sa di ricordo e di tenerezza.
«È bella» mormora.
La mia testa si alza di scatto dal suo petto e i miei occhi si socchiudono nel giro di qualche istante. Però sorrido, perché lo sta facendo anche lui. «Le donne sono stupide e fragili» dico, senza smettere di sorridere. «E non sanno nulla dell’amore».
«E tu sì?» mi rimbecca lui, alzando un sopracciglio.
Rido. «Io ho te».
«...e il Kiyan» aggiunge Adel, corrugando la fronte e guardando altrove.
«Non è lui che mi fa sorridere» ribatto, fissandolo.
Adel sospira, ma vedo una fossetta sulla guancia visibile e capisco che non è arrabbiato. «È riuscito ad avere un figlio?» domanda.
Le mie sopracciglia si inarcano. «No».
Silenzio, per qualche istante.
«La Regina mi odia» mormoro, accoccolandomi di nuovo sul suo corpo. Accarezzo distrattamente il suo petto. Il suo respiro sembra quasi cullarmi.
«Comprensibile».
Gli schiaffeggio l’addome, non troppo forte. Lo sento ridere. «Gliel’hai rubato» spiega. Le sue dita mi corrono sulla schiena e si fermano in basso, attirandomi a lui. Posa le labbra sui miei capelli e il lieve movimento mi fa capire che sta sorridendo. «Ma è comprensibile anche questo» aggiunge.
Sorrido. «Stupido». Mi sfugge un sospiro e una tenue risata. «Comincio a temere che ordini a qualche sua serva di avvelenarmi il cibo, prima o poi». Faccio una pausa, ma Adel non coglie l’occasione. «Se ce ne andassimo...».
Non riesco nemmeno a concludere il pensiero. «No» dice.
Alzo lo sguardo. Non sorride. Incrocia i miei occhi. «Sono vivo grazie a lui. Si è preso cura di te da sempre, Kamal. Non puoi abbandonarlo».
Vorrei ribattere, ma è la verità.

Ebbene, sì. Siete tutti liberissimi di odiare me e Kamal. *ride*
Lilandh (che come nickname mi piace proprio! E' così musicale! *w*) Comunque. ^^ Grazie per aver recensito, sono contento che ti piaccia. *si inchina*
Orbene, anche questo capitolo è concluso. ^^ Ricordo a tutti che ce ne saranno altri due, poi questa storia si concluderà. ^^
Alla prossima! ^^

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Capitolo 12
*** Perdita e Sorpresa. ***


Perdita e Sorpresa

Mio padre è partito per la guerra una settimana fa. Di recente è stato promosso a comandante del battaglione d’attacco. Ho visto giovani uomini partire con lui, il terrore negli occhi e l’orgoglio nascosto. Ormai ho sedici anni. Se non fossi il concubino del Kiyan, quella sarebbe anche la mia sorte.
Non so se essere contento o sentirmi, per l’ennesima volta nella mia vita, diverso da tutti gli altri. Ma qui c’è Adel, che mi aspetta ogni giorni al di là del fiume. Lontano da tutto il resto, con le sue labbra sulle mie, riesco a scordare qualsiasi cosa.
È lui a consolarmi, quando vedo passare i giorni e i mesi, e a palazzo giunge la notizia che la battaglia è stata persa. E mio padre è morto.
Non riesco ad essere arrabbiato con il sovrano, per aver ordinato agli uomini di andare a combattere. È il suo dovere. E so che, se non fosse stato per lui, Adel non sarebbe qui, adesso. Non sarebbe qui ad accarezzarmi i capelli e a dirmi che mio padre è morto con onore. Non sarebbe qui ad asciugarmi le lacrime con le labbra.
Ma mia madre ora è sola, e triste, e vuota.
Vedo in lei ciò che io sono stato, e questo mi distrugge. Rinuncio sempre più spesso di attraversare il fiume e recarmi da Adel. Mia madre ha bisogno di me. So che non toccherebbe cibo, in mia assenza.
Sono diviso, lacerato.
Dirigo tre vite, in contemporanea, e tutte mi sono indispensabili. Ma ora sto cominciando a pensare che prima o poi una delle tre mi inghiottirà. 

«Kamal...».
Alzo la testa per guardarlo negli occhi. Ma in un istante comprendo che ciò che trova lui nei miei non gli piace affatto. Vedo le sue sopracciglia aggrottarsi un poco e avrei voglia di baciarle per far distendere la sua fronte, ma non lo faccio.
Non dice nulla, il mio Adel. Mi guarda, come se fosse in attesa. Ma cosa sta aspettando? L’ennesima rassicurazione sul mio maledetto umore?
«Per favore, Adel...» mormoro in tono vagamente supplichevole, posando ancora la guancia sulla sua pelle scura e calda. Sento il suo cuore che batte. E mi sembra quasi che sia quello a parlarmi al posto suo.
Chiudo gli occhi, ho solamente voglia di dormire. Sto per scivolare in un sonno annoiato, poco dopo, ma lui si sposta e mi toglie il sostegno. Alzo ancora il capo, e lo osservo per qualche istante.
«Devi dirmi cosa c’è che non va» dice, incatenando i miei occhi ai suoi. È serissimo, e la cosa, invece di spaventarmi, aumenta la noia e l’apatia che da qualche tempo hanno messo radici all’interno del mio essere.
Piego un braccio sotto la testa. «Non c’è niente che non va» rispondo, chiudendo ancora gli occhi. Sono perfettamente consapevole che non mi crederà mai. Ma non m’importa. Voglio smettere di pensare, perché ultimamente quel tipo di attività cerebrale mi fa bruciare gli occhi e partorisce il groppo in gola che tanto odio.
Lo sento avvicinarsi. Posa le labbra in quell’incavo appena accennato, sotto l’orecchio. «Stai mentendo» mormora, e avverto il suo respiro sulla pelle. Ma il suo tono mi fa capire che la questione sta per passare in secondo piano.
Mi viene naturale e automatico alzare una mano per accarezzargli i capelli. Scendo lungo la nuca e solletico la leggera peluria che gli ricopre il retro del collo, in punta di dita. Lo graffio delicatamente. So che gli piace ma, come ogni volta, me ne da la conferma afferrandomi un fianco con decisione, attirando il mio corpo al suo. Mi lascio sfuggire un mugolio d’approvazione, circondandogli un fianco con la gamba.
«Sei un demonio» mormora, in un sorriso, prima di infilarmi la lingua in bocca senza troppe cerimonie. Lo conduco ad un ritmo più lento e, mentre gli mordo delicatamente le labbra e la sua mano arriva lentamente alla mia schiena per pressarmi contro di sé, finalmente il mio cervello smette di funzionare. 

«Avete sete, mio signore?».
Lo vedo, grazie alla tenue e pallida luce che filtra dalla finestra, annuire. Mi sfugge un sorriso sereno, quando i miei occhi scorrono meccanicamente sul suo corpo semiscoperto, sdraiato sulla stuoia. Il contrasto fra le coperte candide e il suo torace e le sue gambe nude è qualcosa di così familiare da intenerirmi.
Mi cingo i fianchi con un pezzo di stoffa, solamente perché so che il Kiyan non vuole che nessuno mi veda nudo. I miei piedi scalzi non fanno quasi rumore, posandosi piano sul pavimento del palazzo addormentato.
L’aria all’esterno è tiepida e fresca allo stesso tempo. Qualche soffio di vento che muove le foglie degli alberi nel giardino illuminato dalla luna è l’unico rumore che riesco a percepire, mentre giungo rapidamente alla fontana e attingo l’acqua.
Solo qui a palazzo è così pulita. Nei pozzi scavati nella terra, giù al villaggio, assume sempre quel colore sporco ma familiare della sabbia persiana.
È limpida, fredda.
Ma non quanto quel qualcosa che d’improvviso sento stringermi un braccio. Il catino che ho in mano scivola lungo il bordo di pietra della fontana e cade a terra, rompendosi. Riesco a malapena a percepire l’acqua che mi sfiora i piedi nudi.
Poi mi volto.

Eccoci qui con il penultimo capitolo. ^^
Grazie a Lilandh per la sua recensione! *si inchina* Come hai visto, nemmeno questo capitolo è molto lungo, ma ho pensato fin da subito che Kamal sia più sensazioni e istinti, che parole. ^^ Spero comunque che ti abbia offerto una piacevole, seppur breve, distrazione! ^^
Grazie ai lettori e a chi continua a seguire questa storia che sta giungendo al termine. *si inchina*
Alla prossima! ^^

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Capitolo 13
*** Eternità e Sconfitta. ***


Eternità e Sconfitta

Non riesco a muovermi.
Ho una fugace visione di un volto molto vicino al mio, prima che il freddo giunga alla gola. Non sono sicuro di urlare. Non capisco cosa sta succedendo.
Le pietre che circondano la fontana sono ruvide, e graffiano la pelle scoperta. Sento l’unica cosa che indosso scivolare via e per un attimo mi sembra quasi che tutto avvenga al rallentatore. Gli istanti si dilatano, e si rincorrono, ma quando comincio a capire è troppo tardi.
Mi rialzo, ma cado. Sento il ginocchio bagnato e non capisco se è acqua o sangue. Forse entrambe le cose. Riesco a mettermi a carponi, ma le gambe tremano e non è facile alzarsi. Non ho tempo per voltarmi. Ho paura di farlo.
Mosso dall’istinto, riesco a mettermi in piedi, ma faccio a malapena un paio di passi prima di sbattere contro qualcosa di duro e freddo. Rovino ancora a terra. Stavolta sento distintamente i palmi delle mani bruciare.
Non faccio in tempo a voltarmi per riuscire ad alzarmi. Mi sento pressare a terra. Urlo. Di dolore e paura. Non riesco a muovermi. Non riesco a muovermi.
Rabbrividisco, quando sento distintamente il gelo scostarmi quasi gentilmente i capelli dalla nuca. Delle dita corrono sulla spina dorsale. Tremo. Sto tremando.
D’improvviso, il peso sparisce.
Mi riesce difficile realizzare la cosa. Riesco ad alzare il busto dalla pietra grazie alle braccia, ma sento che il mio petto è praticamente scorticato e brucia da morire. Mettermi anche solo in ginocchio mi appare un’impresa.
Il dolore allo scalpo è lancinante. Urlo di nuovo, prima che qualcosa mi tappi la bocca. Cerco di artigliare quella che ho capito essere una mano, ma a quanto pare non serve a niente. Mi sta tenendo per i capelli. È orribile. Sto per morire.
Stavolta, mi sento atterrare sul morbido e sul fresco. Ma i gracili fili d’erba sulla pelle rovinata mi causano un inferno bruciante nella testa.
Di nuovo, quel peso sembra quasi bloccarmi il respiro.
Non posso crederci. Cerco di urlare, per attirare l’attenzione e chiedere aiuto. Ma sembra avermi letto nel pensiero. Mi sento così debole... Ancora mi chiude la bocca con una mano. Chiudo gli occhi. Devo placare il respiro. Devo calmarmi. Devo ricordarmi che ho anche un naso e posso usare quello per respirare. Inspiro, espiro. Ancora. E ancora.
Ma il cuore mi batte furioso nel petto. Lo sento rimbombare contro la cassa toracica come se volesse romperla. Me lo sento in gola, nella testa. Non riesco a muovermi.
Tento un’altra, debole, inutile resistenza. La tenue risata che mi si infrange contro la nuca mi fa spalancare gli occhi e rabbrividire da capo a piedi. Strattono le spalle, ma ottengo solo un nuovo fiatone e l’impossibilità di riprendere fiato.
Aiuto. Non riesco a...
Sento la pelle della spalla lacerarsi. Sento freddo. Ho freddo. Sto per morire. La ferita brucia, sembra essere l’unica parte del mio corpo a conservare un minimo di calore. Non capisco. Non capisco. Sento qualcosa di bagnato, freddo e appiccicoso scivolarmi lungo il braccio. È troppo buio, non riesco a vedere nulla.
Il battito frenetico e irregolare nelle tempie ritarda il suono che però in breve tempo riconosco come un ansimare ritmico, soffocato. Ma non sono io. Io non sto respirando. Non ci riesco. Mi divincolo ancora. Comprendo che è completamente inutile. Scalcio, strattono, urlo. Non serve a niente.
Mi sento voltare sulla schiena. E, finalmente, riesco a vedere in faccia questo essere che fino ad un secondo fa stava bevendo il mio sangue. Ma conoscere la fisionomia del suo viso non mi concede alcun giovamento. Ora so soltanto che viso ha il mio assassino. Morirò. Non ha tolto la sua mano dalla mia bocca. Ma vedo che non fa nulla, per il momento. Riesco a calmarmi.
Resto immobile per parecchi minuti. Lui anche. Sembra quasi che non stia nemmeno respirando. Riprendo fiato, anche se il cuore continua a martellarmi nel petto. Finalmente, mi permette di respirare anche con la bocca.
«Io... io ti darò qualunque cosa. Qualunque cosa. Ti prego... ti prego, non...». Mi posa l’indice sulle labbra. Poi compie lo stesso gesto su di sé. Mi sorride e ammicca.
Quello che vedo nella sua bocca mi lascia terrorizzato e stupito allo stesso tempo. È un demone. Un demone, giunto dai meandri della notte. Quando ero piccolo, pensavo che le storie che mi raccontava mia madre per scoraggiarmi ad uscire di casa dopo il tramonto fossero solamente leggende.
Ma quell’incubo infantile ha preso vita. Ed è venuto ad uccidermi.
«La tua pelle è chiara». La sua voce è una sorta di sibilo roco. Mi fa rizzare i peli sulla nuca, neanche fossi stato immerso nell’acqua gelida. E ha un modo strano di pronunciare le parole. Fa delle strane pause fra le sillabe. L’indice posato sulle mie labbra va ad accarezzarmi il viso, dalla tempia al mento. Rabbrividisco.«Molto chiara» ripete, guardandomi. Vedo quei denti assurdi scoprirsi e il battito del mio cuore aumenta a dismisura.
«Ti prego...» mormoro, ansimando. Non voglio morire. Non voglio morire. Chi si prenderà cura di mia madre? Come farà Adel, il mio Adel, a sopportare per tutta la vita ciò che io ho passato nei sei mesi più lunghi della mia esistenza?
L’essere non pare avermi sentito. «E sei bello. Sì. Molto bello. Bellissimo» dice. Vedo la sua lingua rossa passare sui canini e istintivamente distolgo lo sguardo.
«Io... vuoi il mio corpo? È tuo. Ma ti prego, non...».
Mi interrompe di nuovo. Sento gli occhi colmarsi di lacrime mentre percepisco il suo alito freddo a contatto con la pelle. Tremo.
E poi torna il dolore. È una lama che trapassa la pelle e la carne. Brucia. Mi fa piangere. Mi fa singhiozzare. Non riesco nemmeno ad alzare le braccia per spingerlo via. È come se fossi paralizzato. Non voglio, non voglio, non voglio morire.
Lo sento respirare piano contro il mio collo. Sento le sue labbra gelide che si portano via la mia gioventù e la mia vita. Tutto insieme.
È bizzarro come adesso mi tornino alla mente ricordi che non pensavo nemmeno di avere. Prima sepolti nella mia mente, e ora alla luce, come se volessero vivere il loro momento di gloria. O deridermi, passandomi davanti agli occhi.
Mia madre che mi accarezza la fronte prima di coricarsi accanto a mio padre, convinta che stia dormendo. Le corse nel bosco oltre il fiume con Adel e gli altri, le arance rubate al mercato e i rimproveri mai ricevuti. E l’oro del palazzo, i mosaici, gli occhi del Kiyan. Le labbra di Adel. Il dolore di mia madre.
Non posso lasciare tutto questo.
«Fammi diventare come te» riesco a dire. E spero che mi abbia sentito, perché sto morendo e parlare è difficile. Non riuscirei ad alzare la voce nemmeno se non ci fosse questo gelo ad attanagliarmi le viscere.
Lo sento fermarsi.
Sorride, e non riesco nemmeno a trovare orribili e spaventosi i suoi canini. Sento le palpebre abbassarsi. Ho sonno. Tanto sonno. Ma non riaprirò mai più gli occhi. No.
Di nuovo, il suo fiato e le sue labbra.
Ma nessun dolore.
«Yashar».

Yashar significa "eterno".
Dunque.
Eccoci qui.
"Vita" è conclusa ma, come ho accennato in una risposta in uno dei passati capitoli, probabilmente avrà il suo seguito. Anche se probabilmente finirete per l'essere indecisi sull'odiare Kamal alla follia o di amarlo perdutamente (e una non esclude l'altra, parlo per esperienza personale... XD)
Beh. Grazie a tutti coloro che hanno seguito questa storia fino alla fine! *afferra i fazzoletti* Sarei immensamente felice di vedere un commento finale all'intera storia, ora che è conclusa, anche da coloro che non hanno mai recensito. ^^
Detto questo, vi saluto! *si inchina* Con affetto,
Sammael

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