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di MizzGreen93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Presentimento. ***
Capitolo 2: *** Incubi. ***
Capitolo 3: *** A 30.000 piedi d'altezza. ***
Capitolo 4: *** Quando il maestrale prende il sopravvento. ***
Capitolo 5: *** Casualità. ***
Capitolo 6: *** You must die! ***
Capitolo 7: *** Boulevard of broken life. ***
Capitolo 8: *** Naufragare in un mare di lacrime. ***
Capitolo 9: *** Il figlio della rabbia e dell'amore. ***
Capitolo 10: *** A fork stuck in the road. ***
Capitolo 11: *** Corsa Verso la salvezza. ***
Capitolo 12: *** So give me novocaine ***
Capitolo 13: *** Cade la pioggia ***
Capitolo 14: *** The regrets are useless ***



Capitolo 1
*** Presentimento. ***


Si dice che quando sei in procinto di morire tutta la tua vita ti scorri davanti , un cortometraggio contenente il “top” di tutti i momenti passati, i tuoi successi, i tuoi desideri ma anche i tuoi insuccessi, le tue paure, i progetti mai realizzati. Si dice che quando stai per morire vedi tante ombre spuntare dal nulla; immagini spettrali, ti rapiscono,, ti stringono, ti opprimono, ti portano con sé..e tu non puoi fare altro, non puoi batterti perché loro sono più forti, perché già sai che contro di loro perdi. Si dice che quando stai per morire ti si apre davanti un sentiero luminoso; turbini, giochi di luce ti portano lontano e tu ti senti leggero; e tu ti senti felice. Si dice, si dice, si dice. Ma in realtà ciò che si dice è diverso da ciò che si pensa, è diverso dalla realtà. Non ti basta più solo pensare, metterci la speranza, credere in cose migliori; devi prendertela così come viene, devi farti coraggio. Una volta tirata la moneta se è uscito testa non puoi sperare che si trasformi in croce.

 

 

Una valigia nera. Lei osservava la sua valigia nera, restando sotto la porta guardandolo con le braccia incrociate. Lui era felice, lo si vedeva nelle espressioni buffe che faceva il suo viso, forse involontariamente, dai gesti scattanti, ricchi di agitazione, eccitazione sarebbe la parola migliore forse, dal modo in cui fischiettava una canzone, quella che migliaia di persone ormai avevano appreso a riconoscere dalle prime quattro/cinque note. Ma all’animo spensierato e felice di quest’ultimo si contrapponeva quello teso ed inquieto di un altro, su cui aleggiava una spessa coltre nera di preoccupazione. “Insomma me la dai sì o no una risposta? Oppure ti darai una mossa domani che l’aereo sarà già partito?” Adrienne si risveglio dai suoi pensieri “Cosa? Scusa, ero sovrappensiero. Cosa hai detto?” Billie la guardò e sbuffò leggermente scocciato “ Insomma Adie, è da un po’ che c’hai la testa da tutt’altra parte! E’ da tre settimane che ti chiedo se verrai con me in tour con i ragazzi…”  “Ah, il tour…non saprei Billie….ma sì, una visita per le varie città più importanti credo che ci farà bene” sul viso di Billie si stampò un sorriso enorme. Le si avvicinò e la baciò rapidamente “Questo significa molto per me...e poi tu sei la mia fan numero uno, lo sai…ovviamente eliminando le altre tizie simpatiche che ho avuto modo di conoscere in Europa!” “Aaah e chi sarebbero queste tizie simpatiche, eh?  Devo forse portare qualche mazza chiodata con me?” lui rise e l’abbracciò. Inutile dire qualcosa, infondo lei sapeva di essere l’unica. Sapeva di essere quel battito più forte di tutti. Sapeva di essere il suo vero eterno amore. Se la parola “amore” può essere davvero associato all’aggettivo “eterno”.

 

“Amore, queste non le vuoi portare?” Mike Dirnt si voltò verso la donna; Brittany aveva in mano tre o quattro camice nere “Non voglio credere che metterai per tutto il tour la stessa camicia, almeno spero!” “Ahah, ma che spiritosona! Ovvio che non metto sempre la stessa camicia! Hai presente quella roba liquida, di colore trasparente, insapore, inodore e incolore? Ecco si chiama acqua e serve anche per lavare i vestiti, se non lo sai, tesoro.” “Grazie per la lezione, professore. Ma a certe cose credo di poterci arrivare anche da sola… e poi se hai un cattivo odore… beh credo che ci vai a perdere tu…” lo guardò in modo malizioso e Mike subito capì a cosa si riferiva la moglie. Il suo flusso di pensieri si arrestò solo quando si ricordò della presenza dell’amico. Trè Cool lo osservava con un sopracciglio inarcato “Ti conosco da troppo tempo per non capire a cosa stai pensando, maiale” e cominciò a ridere. Mike lo seguì.

“Vabbè, amico, s’è fatto tardi sarà il caso che vada. E mi raccomando; domani preciso. Chiama pure quel cazzone di Billie e digli di darsi una mossa; di certo non mi metto a segare le ali dell’aereo per impedire di partire senza lui” Mike si alzò dalla sedia, andò incontro all’amico e gli diede una pacca

sulla spalla destra “Non preoccuparti, amico. Pensa a te piuttosto, che sei tu quello che combina casini” Trè fece una faccia finta -offesa “A domani amico.”.

Anche quel giorno era giunto al termine. Era scesa la notte silenziosa e nera. Di notte  i pensieri si affollano molto più rapidamente, hai il tempo di riflettere, di fare scelte importanti perché, si sa, la notte si dice che porti consiglio. Ma di notte gli animi si fanno più pesanti e quella notte in particolar modo l’animo di una donna, una madre, una moglie, un’amica era più pesante del solito. Si girò dall’altro lato del letto, intenta ad osservare la figura che dormiva accanto a lei. Sognava, avrebbe detto. Sognava il periodo che sarebbe iniziato dal giorno seguente in poi, ricco di fama, gloria, potere perché si sa, quando ci si sente importanti ci si sente potenti. Ognuno di noi inizia cos’; un sogno,un’idea. Siamo spinti ad andare avanti….la speranza ci obbliga. Ma la speranza inganna. E la donna lo sapeva bene. Sapeva che quando ci speri troppo rimani deluso, mai è come te l’aspettavi. Lei era forte, era abituata agli scherzi del destino. Ma quello che sarebbe accaduto in seguito non se lo sarebbe mai aspettato.

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Capitolo 2
*** Incubi. ***


 

Era notte fonda. Camminava in un campo di fiori, sicura, decisa. La chiara luce della luna illuminava debolmente i fiori , rendendo quel luogo ricco di un’atmosfera bellissima, quasi da fiaba. Camminava sicura tra quelle piccole magie che spesso l’uomo non riesce a cogliere. Le lucciole le sfioravano la candida pelle,  volando in un valzer silenzioso che solo loro riuscivano a cogliere. D’un tratto la terra cedette sotto i suoi piedi. Fu assorbita dalla terra, cadendo nel vuoto, ma fortunatamente lei riuscì ad appigliarsi ad una radice che spuntava. “Aiutoooooooo! Qualcuno mi aiutiiiiiiii” Adrienne gridò ma lì nessuno l’avrebbe mai sentita, a parte le lucciole impegnate ancora a danzare ed i fiori. Calde lacrime le rigarono il viso; non voleva morire così, sola e disperata, con le mani graffiate a causa della radice a cui si era aggrappata. D’un tratto una mano sbucò dal nulla e afferrò quella che iniziava ad essere intrisa di sangue  a causa di un profondo graffio. Adrienne pensava si trattasse di un angelo, che fosse giunta la sua ora. Ma la vista di quei due occhi verdi, così chiari, così belli anche nella piena oscurità le fece cambiare rapidamente idea. Non era un angelo. Era un demone. Il suo amato demone, il suo demone terribilmente angelico. “Tieniti forte, Adie” le disse Billie “Non ce la faccio… sento che sto per cadere…” “Non cadrai, amore, non finché ci sarò io qui a sorreggerti…” “Billie, io non voglio morir…” Non riuscì a terminare la frase; la mano sanguinante scivolò da quella possente di lui. Adrienne udiva il vento fischiarle nelle orecchie; il “NOOOOO” disperato di Billie ormai non le giungeva più. Quanti metri era profondo, quel buco? Le lacrime sfidanti la forza di gravità ormai correvano verso l’alto. In preda alla disperazione, urlò.

Un urlo esplose nella camera da letto. Billie sussultò; si voltò dalla parte della moglie e le vide il viso rigato da lacrime e sudore. Continuava ad urlare e teneva gli occhi chiusi. Stava sognando o meglio stava facendo un incubo. Billie l’afferrò per le braccia “Adie! Adie! Svegliati! Adie!” Adrienne aprì gli occhi e si vide dinanzi quegli occhi verdi ancora una volta ma, a differenza di prima, era viva e , no, non stava precipitando. Lo guardò, gli sfiorò il viso delicatamente con la punta delle dita; sì, non era una proiezione, era realtà, lui era vivo e di conseguenza anche lei. “Oh Billie...” Disse e si tuffò tra le braccia del marito. Si sentiva come una bambina piccola che si rifugia tra le braccia del padre. “Hai fatto un brutto sogno, adesso è tutto ok…” e le accarezzò dolcemente la testa, attorcigliandole i riccioli corvini “Non volevo svegliarti, scusa… mi sento così idiota ed infantile…” “Non  è niente e non sentirti idiota; capita a tutti. Ma ora dormi che domani ci aspetta un viaggio.” Adrienne si stese sul petto del marito. Il suo orecchio sul cuore di lui che batteva tranquillo, quasi sereno, a differenza del suo che ormai sembrava avere un unico, eterno battito, da come andava veloce. Si addormentò sentendo quel battito, come se avesse la capacità di rasserenarla, di dimezzarle la paura. E la mano che delicatamente saliva e scendeva per la schiena dolcemente non fece altro che conciliarle il sonno.

 

“Allora ragazzi?? Siete pronti per partire” chiese Billie carico di entusiasmo “Sìììììì” Jacob, il più piccino di casa Armstrong saltò addosso al padre, pieno di felicità. Al contrario di Joey che invece era abbastanza scocciato “Papà tu sai che questo mi causerà problemi, soprattutto con le ragazze…” “Joey… di ragazze ne troverai a bizzeffe… non c’è la moria delle vacche dove andremo, sta tranquillo…” “Già forse hai ragione; anzi ho letto che le europee risultano le più sexy, secondo uno studio {nb; piccola vanità da parte della scrittrice u.u }” “Tutto suo padre” disse Billie Joe soddisfatto “Andiamo, dai, Playboy” disse Adrienne dando una spinta al marito e al figlio.

 

Mike e Trè  erano già all’aeroporto. Indossavano spessi occhiali da sole scuri e berretti sperando che nessuna fan li adocchiasse ed iniziasse ad urlare, scatenando l’arrivo delle “locuste” come adorava chiamarle Trè. Era invitabile ormai  non scatenare il putiferio; da quando erano diventati famosi, assieme alla fama era giunta anche l’impossibilità di possedere una vita tranquilla; anche se uscivano di casa per comprare solo un giornale si ritrovavano ricoperti di fan. Bastava il gridolino di una per far giungere tutte le altre, anche se fossero state a km di distanza. “Oggi la giornata sembra tranquilla”  affermò Mike “ Ho incontrato solo una pazza che mi ha chiesto se poteva farsi una foto mentre mi palpava il culo…” “Roba da niente, insomma… non voglio immaginare quale sia il peggio, allora!” disse Brittany, un po’ stizzita “Andiamo, Britt! Tu sai che sei la mia palpatrice preferita” e l’abbracciò ridendo “Vaffanculo, adesso… vatti ad abbracciare le tue fan!” tutti risero a quella scenetta “E poi…” continuò Mike “Non si lamenta Adrienne di Billie perché dovresti lamentarti tu?” rise “Di cosa dovrei preoccuparmi, sentiamo?” disse Adie sorridendo “Ma come Adie? Ti credevo più scaltra! Si sa che Billie aspetta solo che tu  te ne vada all’al di là per risposarsi con quella francesina dal nasino all’insù” tutti risero. Adrienne no. Guardo Mike  poi mille pensieri le offuscarono la mente; il sogno della notte precedente l’aveva scossa. In un’altra occasione avrebbe riso sentendo le parole di Mike. Ma non in quel giorno, non in quell’ora, non in quell’aeroporto. Una lacrima le scese lungo la candida guancia “Adie… andiamo stavo scherzando! Non te la sarai mica presa? Per così poco! Ma dai” Billie lo guardò “Sei un coglione, Mike!” “Ma come? Io non ho detto niente!!” “Fammi un piacere; vai incontro Jacob e Joey che sono andati a comprarsi un panino; io porto Adie in bagno.”.

“Mi dispiace un casino Billie” disse Adrienne mentre si soffiava il naso. Alzò gli occhi , pronta ad incontrare quelli verdi del marito, pieni di tenerezza. Ma non fu così. Dall’alto, due occhi verdi freddi la osservavano rigidi “Che cazzo ti succede, Adie? Urli nel sonno, fai incubi piangi per una stronzata che dice Mike…” Adrienne abbassò lo sguardo “Che cazzo ti succede, ADIE??” ridisse Billie Joe, afferrandola per le braccia “Niente...” “Ti pare niente il tuo comportamento??” “Adesso non mi va di parlarne, Billie!” Billie Joe la osservò con gli occhi di ghiaccio “Va bene” le lasciò le braccia e andò via dal bagno, sbattendo la porta. Adrienne si sciacquò il viso e uscì anche lei. Non volle raggiungere il gruppo, preferì dare un’occhiata in giro. Si sedette su una panchina e chiuse gli occhi; erano giorni che non dormiva “Questi maledetti incubi mi fanno aver paura di chiudere gli occhi… povero Billie, mi spiace molto, ma mi sentirei stupida a dirgli che l’unico motivo per cui sto così sono gli incubi…” La voce dell’altoparlante interruppe il flusso dei suoi pensieri “I PASSEGGERI DEL VOLO PER SEATTLE SONO PREGATI DI RECARSI  A FARE IL CHECK IN” si alzò dalla panchina un po’ controvoglia e lentamente raggiunse il marito e gli altri.

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Capitolo 3
*** A 30.000 piedi d'altezza. ***


Ok, ho appena capito come fare per ringriaziarvi leggendo le altre fanfiction xD

Dunque;
@ Ginnyx; grazie delle tue recensioni!  Sìsì ho controllato minuziosamente ogni puntino sospensivo xD Il fatto delle virgole deve essere qualche errore di battitura (sì, combino macelli con la tastiera, SOB! -.-"). Personalmente avevo immaginato il tour 2009; non so però se si sono portati dietro le famiglie :s ma vabbè, inventerò, casomai XD. Poi non è che sono così veloce u.u semplicemente sono arrivata già al 6° capitolo (devo solo rivisionarli) e fino ad allora cercherò di postarne uno al giorno! ^^ Per quanto riguarda il comportamento di Billie; diciamo che in precedenza Adie ha avuto altri incubi e comportamenti strani ma non ne ha parlato con lui. =)
@Guitarist_Inside; grazie anche a te! Sempre bello avere nuovi commentatori! :DE comunque sì, sono sul foro dei GD proprio con questo nick! E sì, mi ricordo di te, ti ho anche su Face (ma non chiedermi come... o.o xD).
 
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Quando ti trovi a 30.000 piedi d’altezza hai una prospettiva diversa del mondo. Ti senti potente, in fondo sei 9.144,00 metri  sopra a tutte le persone, sopra al mondo intero. Intorno non vedi altro che nuvole, cielo e luce. Una sensazione che ti fa sentire bene, leggero come l’aria quasi assente che c’è al di fuori. Ma a 30.000 piedi la testa non diventa più leggera, anzi; i pensieri s’infittiscono, la tranquillità ti concede di riflettere sulla tua vita, sui problemi esistenziali. E capisci che non sei nessuno, che non sei potente; nemmeno a 9.144,00 metri  d’altezza.

Adrienne osservava dall’oblò di vetro l’alba. Uno spettacolo mozzafiato: una distesa di nuvole bianco-grigie, modellate come batuffoli d’ovatta si tingeva del rosso fuoco di un sole che per 10.12 ore avrebbe visto la vita frenetica, triste,allegra, povera di 6 miliardi di anime disperse da una parte o da un’altra del globo. Non era altro che un semicerchio, ma che semicerchio! Un qualcosa che sembrava terribilmente piccolo ma che in realtà era terribilmente grande. L’inganno delle prospettive, l’inganno di tutto ciò che vediamo.

 Un raggio luminoso colpì il viso di Adrienne e la risvegliò dai suoi pensieri. Forse doveva smetterla di pensare, stava andando in paranoia. Forse doveva smetterla di pensare a quei sogni. Forse, forse, forse. Sentiva solo che la sua testa stava per esplodere e che due occhi insistenti le guardavano la nuca, tanto insistentemente  che quasi se la sentiva bruciare. Si voltò: i suoi occhi incontrarono quelli del marito. Lui non disse una parola, si voltò dall’altra parte ad osservare Jakob che si era addormentato; e ci credeva, l’aveva tirato giù dal letto alle quattro di mattina! Una hostess si avvicinò a loro “Sig. Armstrong, gradirebbe qualcosa da bere?” Adrienne la guardò ammiccare al marito, noncurante di lei che sedeva al suo fianco “Sì, vorrei una red bull allungata con vodka, grazie” la hostess scosse la sua chioma biondo rame  con uno scatto del capo “Va bene signor Armstrong, due minuti e sono da lei” gli fece l’occhiolino e si girò per andarsene “Chiedo scusa, signorina, se non le dispiace vorrei anche io la stessa cosa che ha ordinato mio MARITO” disse Adrienne sottolineando l’ultima parola. La hostess si girò seccata “Scusi, chi sarebbe suo marito? Non posso mica ricordare tutte le ordinazioni a memoria, sa!” “La persona che è seduta alla mia destra, il sig, Armstrong. Se non le dispiace vorrei anche io una red bull allungata con vodka, grazie” la hostess sembrò imbarazzata “Sì, certo, signora Armstrong, torno subito” Billie Joe non si rese conto della situazione; era troppo impegnato a leggere una rivista di musica. Adrienne si girò dall’altra parte e guardò al di fuori dal finestrino.

Il sole non c’era. Bah, cosa strana, l’aveva visto attimi fa  sorgere. “Evidentemente l’aereo ha deviato rotta” pensò. Si voltò dalla parte del marito; non c’era. E nemmeno Jakob e Joey. Dapprima era stizzita poi il bisogno impellente di trovare un bagno e alla svelta fu più forte. Si alzò. L’aereo cominciò a traballare “Ma cazzo, proprio ora dovevamo entrare in una turbolenza? E poi che schifo di servizio, non avvisano nemmeno di allacciarsi le cinture!” percorse lo stretto corridoio dell’aereo; arrivò davanti a delle tende verdi, le spostò ed entrò in quella piccola stanzetta. Sentiva dei respiri molto affannosi provenire dal bagno “Ci mancavano solo le coppie in calore che vogliono provare il brivido di farlo in alta quota” si avvicinò scazzata alla porta; dai suoni che provenivano sembrava chiaro che stessero vicino al momento clou dell’ “incontro”. Non se ne importò più di tanto e l’aprì. La scena che gli si presento davanti probabilmente non l’avrebbe mai dimenticata; suo marito seduto sul water, vestito ancora, con i pantaloni leggermente abbassati e la hostess dai capelli biondo rame su di lui, anche lei vestita, con la camicetta leggermente sbottonata, da cui si vedeva un reggiseno di pizzo rosso, e la gonna alzata. Rimase a bocca aperta; voleva urlare, piangere, picchiare quella troia che gli aveva portato via una delle cose a lei più importanti. E voleva schiaffeggiare lui, che col viso sudato, pieno di segni di rossetto la guardava con le pupille dilatate. “Eh bene? Non parlate? Non solo vi becco in un lurido bagno a scoparvi ma anche con le facce quasi soddisfatte! Non avete un minimo di vergogna? Sapete che vi dico? Mi fate schifo! Tu che sei solo una troia e tu che sei un lurido stronzo! Su, non avete nulla da dirmi? Sono tutta orecchie! Forza” Billie continuò a fissarla immobile; la hostess si alzò, si abbassò la gonna e si sistemò la camicetta. Le si avvicinò e le disse “Signora Armstrong, le ho portato la sua bevanda”.

“Signora Armstrong? Le ho portato la sua bevanda. Non era mia intenzione disturbarla.” Adrienne si guardò intorno: era seduta al suo posto, Billie era accanto a lei intento a bere il suo drink e a leggere la rivista, Jakob continuava a dormire, Joey ascoltava musica dal suo mp3 e la hostess dai capelli biondo rame la osservava con in mano il suo red bull con aria carezzevole. “Ah sì…beh grazie.” Le strappò quasi la bibita di mano, pensando ancora alla scena del sogno appena fatto, lei addosso a lui con quella maledetta gonna alzata. Un sogno. O forse un incubo. Non ne poteva più. “Adie, vado in bagno, torno subito.” Billie si alzò lentamente e cominciò ad avviarsi verso le tende. Quelle tende verdi. Adie vide la hostess dirigersi nella stessa direzione del marito “Hostess. Billie. Bagno. Tende. Verdi. Sotto. Lei. Sopra. Ansimare.” Queste parole viaggiarono nella mente di Adrienne. Assalita dalla paura e ricordando il sogno fatto poco prima, si diresse verso quelle maledette tende verdi, verso quel maledetto bagno, verso il suo dannatissimo marito. La porta era chiusa male. Sentì un respiro affannoso provenire da dentro. Senza crearsi problemi e senza riflettere, aprì quella porta.  

 

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Capitolo 4
*** Quando il maestrale prende il sopravvento. ***


Come al solito ringrazio Ginnyx per la recensione *-* mi fa sempre piacere ricevere commenti *-*

Anyway, ecco il 4° Capitolo, spero vi piaccia! ^__^

 

________

 

 

L’essere umano è fragile, peggio di un bocciolo di rosa solitario cresciuto in un giardino in cui spirano tutti i venti. Basta che Eolo spinga il maestrale una volta di più, un po’ più forte, per sradicarlo, portandolo via con sé, lasciando lì solo del terreno smosso ed un petalo. La stessa cosa accade all’uomo quando è preso dalle EMOZIONI, un qualcosa forse di più potente del vento, più forte del maestrale; sono delle forze sconosciute che smuovono l’animo, portando a compiere gesti che andrebbero totalmente evitati.

Adrienne stava in piedi, immobile davanti a quel piccolo bagno dell’aereo e guardava dinanzi a sé con lo sguardo fisso. Non riusciva a crederci. Perché non se n’era stata seduta al suo posto? Perché aveva aperto quella porta? Perché aveva fatto quel maledetto sogno? Adesso quella scena le si sarebbe stampata nella mente, non l’avrebbe dimenticata molto presto; e nemmeno l’enorme, colossale figura di merda. Un signore, infatti, era seduto in ginocchio davanti al water, con gli occhi lucidi ed il respiro affannoso. Era chiaro che aveva vomitato “Signora, guardi che il bagno è occupato” disse tossendo. Adrienne lo guardo è inarcò il sopracciglio destro; col viso rosso di vergogna  “Ehm… scusi, ho visto la porta aperta… ma si sente bene?” “Sìsì è solo che soffro il mal d’aria…non è la prima volt…” e si chinò sul water tossendo. Adrienne chiuse la porticina alquanto disgustata dalla scena; si voltò e vide suo marito, finalmente. Stava parlando con una hostess. Anzi con QUELLA hostess “Andiamo Adie, stanno solo parlando… non è il caso di agitarsi…” Billie Joe all’improvviso allungò il braccio verso la hostess e l’abbracciò; prese il cellulare della donna e scattò una foto. Adrienne diventò rossa “Andiamo… Lui bacia donne ai concerti e non hai mai detto niente… perché ora per un abbraccio tutto ciò?” alla fine lo vide scriverle qualcosa su di un pezzo di carta. “E quello che cazzo è?” Billie diede il pezzo di carta alla donna e le disse qualcosa; la hostess rise “Bel nome comunque Louise” disse lui alla fine e le fece l’occhiolino. Adrienne si fece di mille colori. “Anche Billie non è male, comunque” rispose Louise. “Adie, come mai ti sei alzata? Per caso non ti senti bene” disse Billie appena vide la moglie “No, sto benissimo. Se hai finito qui, potremmo anche tornare a posto, non credi?” disse urlando in modo che anche sta’ Louise sentisse; girò i tacchi e si avvio verso il suo posto. Si sedettero. “Si può sapere che cazzo ti prende? Ti pare normale che fai queste scenate del cazzo, eh?” Adrienne manco gli rispose. Billie sembrò stizzito dal comportamento della moglie. Lo sentì dire una parolaccia tra i denti. Era incazzato? Beh, cazzi suoi, così imparava a fare il coglione con le hostess.

Dal finestrino sbucò la torre dell’osservatorio di Seattle. Stavano per atterrare. Una voce suggerì loro di allacciarsi le cinture; pian piano l’aereo iniziò la sua discesa verso quella città che da lì a qualche giorno sarebbe stata svegliata dal rumore delle chitarre elettriche, del basso e della batteria di quei tre ragazzi scatenati un po’ troppo cresciuti.

 

Caroline era una ragazzina di 11 anni. Era piena di vita, i capelli ricci e neri e due occhioni enormi e curiosi. Il suo sogno era da sempre suonare la chitarra ma i suoi genitori gliel’avevano impedito, credendo che molti ragazzi lì potessero prendersi gioco di lei. Caroline infatti aveva un problema enorme che pesava come un macigno sulle spalle; era affetta dalla sindrome di down. Le sue giornate trascorrevano lente e noiose tra terapie, lezioni private, libri e musica. Soprattutto quest’ultima. Si era avvicinata pian piano al punk rock grazie a suo fratello John “Questa è vera musica, non è solo rumore!” le diceva sempre. E così crebbe tra Clash, Sex Pistols, Ramones e Offspring finchè un giorno, facendo una ricerca al pc, s’imbatté  in una canzone “Another turning point, a fork stuck in the road time grabs you by the wrist, directs you where to go so make the best of this test, and don't ask why it's not a question, but a lesson learned in time…  quante  volte Caroline si era trovata  davanti  ad un bivio? Quante volte la vita le era stata davvero da maestra? Si ritrovò nel testo di quella canzone; decise così di fare un’accurata ricerca su quel gruppo musicale. Erano i Green Day. Da quel giorno divennero il suo gruppo preferito. Non passavano pomeriggi in cui non ascoltava le loro canzoni. E il desiderio di vederli dal vivo cresceva sempre di più, fino a che un giorno, mentre cercava notizie su internet, si imbatté in un annuncio “Green Day tour 2009” ebbene sì,  i Green day avrebbero fatto un tour... e sarebbero andati anche a Seattle! In preda all’entusiasmo, andò da suo padre. Ma la risposta non fu quella che si aspettava. “Caroline, te l’ho detto mille volte, non mi va che tu vada in luoghi così affollati… e poi non seguire le orme di tuo fratello… non voglio che tu faccia la sua stessa, patetica fine.” John infatti era da circa un mese in cura per disintossicarsi dall’eroina. E la colpa della sua “fragilità” era stata data proprio al tipo di musica che ascoltava. Le classiche stronzate sparate da chi non capisce mai un cazzo. “Ma ci sono anche i posti numerati! Possiamo andarci insieme!” “Ho detto di no, Caroline! Non ti lascerò andare, ne’ tantomeno andrò io tra quella massa di drogati che muove la testa avanti e dietro nel sentire il lurido rumore di una chitarra elettrica!!” Caroline andò in camera sua “non pensi di essere stato troppo duro con lei, Michael?”chiese la madre “Ma no… tempo due mesi e si dimenticherà della storia del concerto e di questi… Green Day”. Ma non fu così. Da quel giorno, Caroline cominciò a stare male; mangiava poco, dormiva poco, non parlava ed era arrivata addirittura a non ascoltare più la musica che tanto amava. Le parole del padre avevano lasciato un profondo taglio nel suo cuore.

 

All’aeroporto di Seattle: Billie Joe e compagnia bella aspettavano i loro bagagli che uscissero sulla piccola passerella. Nessuno osò rivolgere la parola al frontman; era chiaro che avesse i suoi nervi e gli altri volevano evitare discussioni inutili, soprattutto in quei giorni che dovevano prepararsi ad un concerto. Billie se ne stava appoggiato ad una colonna con la sguardo truce che osservava una parete e la mano che stringeva a pugno un bicchiere di carta col caffè. All’improvviso un tipo gli si avvicinò; aveva in mano un foglio di carta piegato due volte “Salve, lei è Billie Joe Armstrong, vero? Senta, vorrei…” Billie Joe perse le staffe “Senta, ho appena affrontato un viaggio, mi sono svegliato presto, sono stanco, stasera mi tocca lavorare, domani lo stesso, dopodomani ho un concerto e per piacere non voglio essere rotto le palle, voi e i vostri stramaledetti autografi!” l’uomo serrò forte la mascella. “Bene… va bene… ” e se ne andò ma non prima di aver sibilato un quasi udibile “se  le cerca lei, allora”  lanciandogli un’ultima occhiata di rabbia. Tutti osservarono Billie; non si era mai comportato in questo modo orribile con un fan. Di solito era sempre felice di fare foto oppure autografi. Ma se avesse saputo che da quell’incontro sarebbe dipeso il suo futuro, di certo si sarebbe comportato in modo diverso.

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Capitolo 5
*** Casualità. ***


Dunque, eccovi il quinto capitolo! ^^ Il sesto è già scritto, probabilmente ve lo posterò domani! Poi penserò al settimo (cercasi ispirazione o.o). Vabbè vi lascio alla lettura (anche se siete quattro mici o.o ma va beh xDxD

Ovviamente non posto senza ringraziamenti u.ù :
@ Ginnyx (ma no?? xD); grazie per la recensione (come al solito). Adie sì sclera di brutto (e nella mia FF mi sta ancora di più sui maroons xD u.ù). Comunque no, non sono potuta andare ad un loro concerto ç_ç e mi perderò anche HJF. SIGH!
@ DevilDoll; grazie per i complimenti e la recensione :) lo so, non sono molto abile con la suspance xD è la mia prima FF, all'inizio non sapevo come impostarla. =)
Detto ciò, vi lascio! I hope you like it! ;)
 
__________________________

 

Ogni qualvolta si vuole identificare l’uomo, si dice così; l’essere umano è un animale sociale. Siamo una specie evoluta di scimmia, appunto siamo animali. Ciò che ci distingue da essi è proprio l’utilizzo della parola, di un dialogo tra più persone. Ma quando un essere umano si rinchiude nella sua corazza è ancora un umano? E’ ancora un animale sociale? E quando rifiuta ogni contatto col mondo esterno, quando allontana chiunque gli si avvicini? No. Forse in molti casi bisognerebbe seguire gli esempi degli animali; bisognerebbe fare più spesso un paragone tra noi ed essi per comprendere che essere un animale sociale non è tanto differente dall’essere un animale e basta.

Mike Dirnt chiuse alle sue spalle la porta della sua suite al Fairmont Olympic hotel di Seattle. Sua moglie Brittney era andata in giro con Adrienne in città e si ritrovava da solo. In un’altra occasione sarebbe andato diritto da Billie Joe per bere una birra con lui o per strimpellare qualcosa con la chitarra ma non quel giorno; il frontman infatti si era rinchiuso nella sua stanza e non dava segni di desiderare di uscire, parlare o di voler compagnia. Mike sbuffò annoiato, prese una birra dal frigo, si sedette al tavolo di cristallo della sua suite e cominciò a leggere il quotidiano. “Prima tappa del tour 2009 dei Green Day a Seattle” lesse su una pagina. Sbuffò. Per lui suonare era sempre un’ emozione, era sempre piacevole ma non con il cantante/ chitarrista incazzato.

 “Il concerto andrà a puttane se quello non  si calma” pensò. L’atmosfera dell’hotel cominciava ad opprimerlo e decise di andare anche lui in città a far quattro passi. Mise gli occhiali scuri e il cappellino nero e rosso con visiera per evitare di essere riconosciuto. La moquette color porpora dell’hotel lo condusse gentilmente verso l’uscita, un’enorme porta di cristallo circondata da un filamento dorato e con due colonne greche stile ionico ai due lati. Era in quelle occasioni che Mike capiva di essere uno importante; la sua mente tornò ad anni addietro, quando ancora si spostava con la bookmobile e Al Sobrante faceva ancora parte della band. Cazzo, com’erano cambiati i tempi da allora! L’obbiettivo delle loro vite 20 anni addietro era solo  divertirsi e fare cazzate. Ora erano degli uomini, i brufoli cominciavano ad essere sostituiti dalle rughe, avevano famiglie e un mucchio di responsabilità.

 Lo squillare del suo telefonino lo risvegliò da quei pensieri vecchi vent’anni, ripescati dal baule impolverato dei ricordi. “Sarà Billie, si è deciso ad abbattere il muro del silenzio” pensò.

“Oh?” disse Mike seccato rispondendo.

“Oh lo dici a tua sorella” rispose la voce “Lo sai che quando ti rivolgi a me devi dire; pronto signor principe del sole dal potere cazzeggiante, creatore degli astri lucenti della santa batteria da battere e principe delle drumstick rotanti.” Era Trè. Almeno lui era di buon umore.

“Pronto principe del monomio, cosa desidera?” rispose Mike

“Non l’ho mica capita… Mike il tuo senso dell’umorismo va scarseggiando… si vede che non mi frequenti da un po’, caro”

“Per capire basta che ti guardi nelle tue mutande. O il fatto che la maggior parte degli uomini abbia il binomio dovrebbe aiutarti”

“Ahh… ma che simpatico, monomio uguale uno, già… ma ne vale per sette, sappilo! Comunque stronzo ti va di venire in camera mia? Ci inventiamo qualcosa e magari abbattiamo anche la porta di Billie… ho il dubbio che sia morto, non si sente nulla. E si sa che quando viene anche Adrienne in tour se ne sentono di muggiti da quella stanza!

“No, ora sto uscendo. E sinceramente non voglio averci a che fare per ora con Billie. Che sia lui ad avvicinarsi, io mi sono rotto il cazzo dei suoi comportamenti! A dopo Trè” e detto ciò chiuse la chiamata. Si era imposto di non pensare più a Billie Joe; voleva solo godersi quella soleggiata mattinata di Seattle. Uscì dall’hotel e a passo moderato si avviò verso uno delle caffetterie più famose della zona. Mentre camminava il mazzo di chiavi che portava in tasca gli cadde a terra; si girò leggermente per poi chinarsi a raccoglierle egli parve d’intravedere una figura nascondersi dietro una colonna non appena egli aveva buttato lo sguardo da quella parte. Si rialzò e restò a guardare quella colonna per dieci secondi circa. Dopo si riprese e continuò per la sua strada.

 La caffetteria era un posto amato da tutti, non solo per quell’aspetto particolare che ricordava tanto il rock and roll ma anche perché, se avevi le stelle favorevoli, potevi incontrare qualche artista famoso. Mike entrò ed ammirò quel locale; le pareti erano di un color paglierino delicato. Sulla parete destra vi erano appese quattro chitarre elettriche, firmate da chissà chi artista. Ai due lati della parete svettavano due colonne dipinte con motivi egiziani rosso porpora e verde brillante. Dinanzi a lui c’era un bancone a cui faceva da sfondo uno schieramento di superalcolici, birre e liquori vari.

 Mike optò per un tavolino vicino alla parete sinistra che era completamente a vetri. L’artista stava leggendo il catalogo offertogli dalla cameriera quando il rumore di un vetro in frantumi echeggiò per tutto il locale; prima di rendersi conto dell’accaduto Mike vide solamente una delle quattro cameriere urlare, una persona stesa a terra, una signora grassoccia che parlava freneticamente al telefono e una bambina piangere. Ma ciò che maggiormente colpì la sua attenzione furono degli schizzi rossastri sulla sua maglietta dei Ramones e sul suo tavolino. Quegli schizzi erano sangue. Sangue suo. Sangue suo proveniente da un profondo taglio sulla sua guancia. La polizia piombò in un battibaleno nel locale e, riconosciuto il bassista, lo fecero portare da una volante all’hotel. Mentre entrava nell’auto, Mike vide con la coda dell’occhio una persona vestita di nero osservarlo con lo sguardo truce e col volto coperto da un passamontagna. Il giorno dopo tutta l’America avrebbe letto sui giornali di un  incidente avvenuto a Seattle in una caffetteria in cui c’era anche il bassista dei Green Day. La causa? Sconosciuta. Probabilmente un fanatico aveva buttato un mattone contro la parete a vetri della caffetteria col tentativo di ferire la rockstar che se l’era cavata solo con un graffio dal momento che il vetro impediva la visuale del locale dall’esterno. Una signora era stata colpita alla testa ed era in prognosi riservata. Mike era ancora sconvolto. L’immagine di quella donna a terra continuava a tornargli in mente mentre l’auto della polizia correva e lanciava intorno spirali di luci rosse e blu. E se ci fosse stato lui, come sarebbe dovuto accadere, lì a terra? Che scherzò del destino. Che fortunata e sfacciata casualità.

 

Un uomo vestito di uno smoking color avorio attraversò la porta; si sistemò la cravatta porpora e con un sorriso si diresse verso un uomo vestito di blu. Alla vista di questo, l’uomo vestito di blu tolse il cappello in segno di rispetto. L’altro e gli si avvicinò e gli mise una somma di denaro in tasca.

“Hai già tutte le informazioni?”

“Sì signore, aspetto solo gli ordini superiori.”

“bene, per ora limitati a fare quello che ti dirà la persona che ti chiamerà oggi alle 13.00 . Sarà roba da poco per ora, il bello verrà alla fine.”

“Non si preoccupi, io il mio lavoro lo faccio in modo pulito anche se non capisco il motivo di questa lentezza nel procede, signore.”

“Saprai a tempo debito ogni cosa, caro, per ora obbedisci e basta. La vendetta è un piatto che va servito freddo, lo sai.”

“Ci saranno ribellioni, proteste… ci ha già pensato?”

“Certo ma sopravvaluti la situazione; credimi questo che per il capo potrà sembrare solo un capriccio renderà felici molti altri…. e ricchi. Noi in primis.”

 
 
 

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Capitolo 6
*** You must die! ***


Ecco l'ultimo capitolo "veloce" per così dire! Mi spiego; questi prima erano già scritti, ho dovuto solo rivisionarli. Adesso mi toccherà ritrovare l'ispirazione (e voi non sperate di trovare di nuovo un capitolo al giorno u.u (anche se credo che oggi mi dedicherò al 7°. ^^

Premetto che questo capitolo dovrebbe farvi capire qualcosina (no, non chi è quello dell'aggressione) però è un po' breve e soprattutto ha molti dialoghi.
Detto ciò:
@DevilDoll; è sempre un piacere risponderee alle recensioni, cara *-* così riempio anche un po' la pagina e le do colore. Tra un po' vedrai Adie che farà u.u
@Ginnyx; grazie per le lodi xD e per la recensione. Solo una domanda; cos'è OOC? o.o
@Helena89; wow, una nuova fan *-* Anche io adoro i battibecchi tra Mike e Trè (penso si veda xD)
Spero vi piaccia il capitolo ^^
 
________________

 

Vendetta…sweet vendetta. Può davvero la vendetta essere qualificata con l’aggettivo “dolce”? Ormai è talmente usata che è diventata parte dello scorrere della vita degli uomini, è solo uno dei tanti mezzi per arrecare soddisfazione ad una persona. Ma a che prezzo? La vendetta è con noi da sempre; matura nove mesi in un utero, cresce lentamente , verso i quattro- cinque anni comincia a mostrarsi nelle sue forme ancora deboli. Quanti bambini all’asilo si vendicano per un torto subito? Quanti si vendicano per il giocattolino rubato o le botte ricevute? La verità è che senza la vendetta non si può vivere. E’ qualcosa di necessario. E’ qualcosa che fa parte del nostro spirito di sopravvivenza.

 

La volante frenò a pochi metri dall’hotel. L’unica cosa che Mike desiderava era salire in camera, farsi una doccia e buttarsi sul letto. Si diresse lentamente verso la reception dell’hotel; voleva prenotare un film per passare  una giornata tranquilla prima di andare a fare le prove col gruppo ma la scena che gli si presentò davanti gli fece subito cambiare i piani. Auspicava di tutto ma non tranquillità.

“Io vi ho pagati, cazzo, pretendo un servizio con i fiocchi!!! Adesso tutto quel casino non lo pago io! Ma cazzo, controllate sì o no?? Come cazzo lo fate il vostro lavoro???” Billie Joe stava sbraitando contro la povera signorina che si trovava dall’altra parte della reception.

“Siamo spiacenti, signor Armstrong,non so come sia potuta accadere una cosa simile..”

“Lo so io, lo so io! Il punto è che mangiate solo il nostro denaro!!! Adesso rivoglio indietro i miei soldi!”

“Non credo sia possibile ma…”

“Non possibile un cazzo!!!!! Questo hotel è una vera merda e…”

“E io credo che devi calmarti, non ti pare??”

Billie si voltò e il suo sguardo infuriato incontrò quello azzurro e severo dell’amico.

“Cazzo Billie, datti una calmata, stai diventando seriamente insopportabile; o stai incazzato o c’hai i coglioni girati! CALMATI!”

“Col cazzo che mi calmo. E nemmeno tu sarai così calmo una volta che avrai dato un’occhiata alle nostre suite.” e  lanciando un’ultima occhiata di fuoco intorno a sé s’incammino fuori dall’hotel.

“Ora come ora ha ragione a stare incazzato. Credimi amico, lo sono anche io. E molto.”

Mike si voltò; era Trè

“Ma cosa è successo? Non ci ho capito niente.”

“Beh, vai in camera e vedi con i tuoi occhi.”

Mike prese l’ascensore e pigiò il tasto col numero 7.

“Sicuramente quei due staranno incazzati perché non c’è birra… come successe l’ultima volta, d’altronde. Ma che cazzo di bisogno c’è di incazzarsi in quel modo?”

Si sentì il rumore di un campanello e le porte dell’ascensore si aprirono. Un odore di pittura filtrò tra le narici di Mike che disgustato si mise una mano sulla bocca. La porta della sua stanza era chiusa. L’aprì. L’odore di pittura si fece più forte. Strano. Non c’era pittura lì. Gli parve strano anche di trovare la luce accesa. “Evidentemente l’avranno lasciata Trè e Billie. Bah, la mia stanza è ok.”  Tirando un sospiro di sollievo decise di dirigersi vero la stanza di Billie e Trè. Spense la luce.

“Ma che cazzo…” non riuscì a terminare la frase; la scena che gli si parò davanti lo lasciò ammutolito. Centinai di scritte fluorescenti, tra cui “voi dovete morire” e offese varie, brillavano sul muro della sua suite. Andò a vedere le camere degli altri. Imbrattate allo stesso modo. Ecco cos’era quella puzza di pittura.

“Non pensi anche tu che Billie abbia ragione adesso?” Trè ricomparve da dietro di lui.

“Chi è stato?”

“Non si sa… È accaduto tutto mentre tutti noi eravamo fuori.”

“Ma voi non siete usciti…”

“Billie ad un certo punto è uscito, non so precisamente dove è andato. Io sono andato al bar dell’hotel per bere qualcosa. Sono stato il primo a vedere questa roba.”

Un cellulare squillò.

“E’ il tuo Trè, io non ho suonerie così oscene”

“Simpatico… Halloooooo??? … Chi è che parla?” lo sguardo di Trè si fece cupo “Cosa cazzo vuoi?... Sei stato tu a farlo???... Ma com… ma… no! Non attaccare, bastardo!” Trè posò il cellulare.

“Chi era, Trè? Che ha detto?”

“Non lo so. Ha detto <  bastardo, a te ed ai tuoi amichetti è piaciuto il regalino?>> e poi qualcosa riguardo te che non ho capito bene, tipo un’aggressione ma… o cazzo Mike! Che hai fatto alla guancia??”

“Ti spiegherò dopo! Adesso sarà il caso di avvertire qualcuno della polizia di questa chiamata. Andiamo.”

 

“Tranquilli, di sicuro si è trattato di qualche fanatico…”

“Fanatico? E’ il terzo fanatico, signore, che incontro in una giornata! Un’aggressione, le nostre stanze devastate e ora una telefonata simile… non le sembra strano?

Il poliziotto si tolse il cappello e si grattò il cranio.

“Non è il caso di allarmarsi. Di solito ricevere il numero telefonico delle star non è così facile, che crede? Quindi state tranquilli. Se accade qualcos’altro riferite solo a me. Chiaro? Penso che potete andare sicuri.”

I due annuirono “Allora noi andiamo… le faremo sapere commissario.” Gli strinsero la mano e si avviarono.

Il commissario attese che uscissero dallo studio; si sedette sulla sua poltrona bordeaux e si accese un sigaro. Dopo due o tre boccate estrasse dalla sua tasta destra un cellulare; formulò un numero sul tastierino, attese il classico “tu – tu” degli squilli. Al terzo la persona dall’altra parte rispose.

“Pronto?”

“Le cose non vanno bene.”

“Dimmi tutto.”

“Ti dico solo che abbiamo accelerato i tempi. Tutto rischia di andare a rotoli. Ma non è sicuro parlare per telefono, vediamoci all’osservatorio alle17:00”

L’uomo guardò l’orologio; erano le 12:00

“Va bene. E la seconda parte del piano? Non voglio scherzi, lo sai.”

“Tranquillo, quando si parla d’affari sai che sono il migliore. Tu lascia fare a me. Raggiungerai il tuo obiettivo molto presto”

L’uomo chiuse la chiamata. Fece altri tiri col sigaro e poi lo posò nel portacenere di cristallo. Si girò con la poltrona verso la finestra. Il sole splendeva alto e in cielo non c’era una nuvola.

“La gente è strana” pensò “Tanti soldi per una simile cosa. Ma in fondo che importa? L’importante è che a breve sarò ricco. E tutto starà ai miei piedi.”

 
 
 

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Capitolo 7
*** Boulevard of broken life. ***


Avevo detto che il settimo sarebbe arrivato più tardi… invece ieri l’ispirazione mi ha colta e quindi… sono qui! Ci si vede a fine pagina ;)

 ___________________

 

Cosa significa morire giovane? Cosa si prova ad andartene via per sempre quando ancora non hai scoperto le piccole gioie della vita, anzi, quando della vita non hai scoperto ancora niente? Ma la domanda più appropriata non sarebbe cosa si prova, bensì PERCHE’ accadono simili cose. Per quale motivo il demiurgo ci plasma se poi un giorno siamo destinati a scioglierci come cera al sole? Quando una persona a te cara muore non ti chiedi perché, non ti chied cos’abbia provato. Ti ritrovi solo in una valle di lacrime, solitaria come un deserto, micidiale come la foresta vergine. Perché non ti restano altro che le lacrime. Perché non ti resta altro che un flebile ricordo dei momenti felici e l’immagine di una bara bianca troppo piccola per essere sotterrata, per i tuoi gusti.

 

“Ok, mi sono comportato come un perfetto coglione.” Billie Joe era assorto nei suoi pensieri. Dopo la sfuriata fatta alla signorina delle reception e dopo aver costruito un muro tra lui e gli altri si sentiva proprio così. Cazzo, ma perché era così dannatamente impulsivo? Perché veva sempre la capacità di rovinare tutto? Si alzò dalla panchina su cui era piombato un’ora fa. Ricominciò ad avviarsi verso l’hotel; aveva intenzione di farsi perdonare anche se non riusciva ancora a comprendere lo strano comportamento di Adrienne. Arrivato all’entrata, vide la signorina della reception.

“Ehm… buongiorno!” disse imbarazzato e rosso ripensando alla sfuriata di prima.

“Buongiorno! Sig. Armstrong, davvero, sono spiacente per prima…”

“Ma no, non dovevo alterarmi io… ehm… che… che numero è la mia stanza?”

“L’abbiamo spostata alla  345”

“Bene… a-arrivederci allora!”

Arrivò di fronte alla sua stanza ed aprì la porta. Adrienne se ne stava seduta sul divanetto rosso a guardare la tv con un bicchiere di champagne in mano. Lo salutò con un cenno del capo. Ok. Era chiaro che stava incazzata di brutto con lui. “Bravo Billie, bravo! Solo tu riesci a farti odiare da tante persone contemporaneamente! Ma cazzo, perché sei così idiota??” pensò tra sé e sé.

“Ehm… Adie, dove sono i ragazzi?”

“Fuori.”

“Ah… e con chi?”

“Con Jason.”

“Ah… e perché proprio con Jason?”

Adrienne sbuffò spazientita.

“Cazzo, se proprio vuoi farti perdonare, Billie Joe, evita di fare troppe domande assillanti e passa direttamente ai fatti!” si alzò dal divanetto e lo guardò in modo malizioso.

Billie Joe subito capì a cosa alludeva la moglie. Effettivamente era molto tempo che… la trascurava. Le si avvicinò e la cinse con le sue braccia e la baciò dolcemente a stampo sulle labbra. Ma lei qual giorno non ne voleva sapere di dolcezza; i suoi occhi brillavano di rossa passione. Si attaccò avidamente a lui e lo baciò con estremo desiderio. Lui fece altrettanto e la sua mano pian piano cominciò a scendere verso il gluteo sinistro della donna. La spinse velocemente verso il tavolo; no, non aveva alcuna intenzione di perdere percorrendo quei quattro metri che lo separavano dalla camera da letto. Questa volta Adie avrebbe fatto a meno del romanticismo. Una botta sonora si udì per tutta la stanza.

“AHIAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA” piagnucolò Billie Joe.

Adrienne lo guardò sbigottita. Poi iniziò a ridere.

“Aahahahah”

“Cazzo ridi? Ahio, che dolore”

“Ahahaha sei l’unica persona che ha la capacità di sbattere violentemente contro ogni cosa.”

“Non sono io che ci sbatto, sono le gambe del tavolo che sbattono contro di me!” e tornò a baciarla. Ma lei si stacco ridendo ancora più forte.

“Insomma, hai intenzione di parlare di gambe di tavoli e ridere o fare altro?”

“Sì… ahaha scusami.” Tornò a baciarlo con passione e pian piano cominciò a sbottonargli la camicia. Lui la prese in braccio e la mise a sedere sul tavolo. Cominciò ad alzarle la gonna lunga fino al ginocchio e nera, stringendo la donna sempre di più a sé. Adrienne, dopo aver finito con la camicia di lui, si tolse rapidamente anche la sua restando dinanzi a lui solo col suo reggiseno nero.

“Uhuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu” Urlò una voce da dietro. Billie si voltò rapidamente; Trè e Mike li osservavano divertiti dalla porta d’ingresso. Ok, da quanto cazzo di tempo erano lì???? Adrienne si mise la camicia davanti al seno e si abbassò la gonna.

“Ehm… noi… veramente”

“Billie era chiaro cosa stavi facendo, non preoccuparti!” scherzò Mike. Per fortuna aveva ritrovato il suo buon umore!

“Sìììì Adieeee fallo scopare, povero Cristo!Ecco perché è in costante scazzo! Perché non scopa! Col pipino che si ritrova ci credo che nessuno lo vuole!” aggiunse Trè ridendo come un matto.

“Ma noi non stavamo… “

“A-a-a! Billie! Non si dicono le bugie! Altrimenti ti cresce il naso! E considerando la tua scarsa altezza, dovrai camminare con la testa alzata in modo che non tocchi terra. Oppure potrai darti al salto con l’asta”

“Trè… sei un coglione!” disse Billie lanciandogli la sua camicia contro. Tutti risero. Finalmente l’atmosfera non era più cupa. I loro cuori finalmente erano più sereni, pronti ad affrontare qualsiasi situazione, anche quelle più avverse. Ovviamente perché mai avrebbero immaginato ciò che sarebbe successo in seguito.

 

Osservatorio di Seattle, ore 17.00.

“Sei in anticipo.” Disse l’uomo vestito da poliziotto.

“Lo so. Volevo dirti che ci ho ripensato. Forse li abbiamo spaventati abbastanza.”

Il poliziotto tremò nell’udire quelle parole.

“Più che altro io direi infuriati.”

“Quel che sia , non si va avanti; mi sono accorto che il mio comportamento è stato esagerato. E’ solo che ho reagito troppo impulsivamente.

L’altro uomo strinse i denti.

“E… i nostri affari?”

“Mi spiace, ma non posso darle la parte richiesta in precedenza. Ma le pagherò il lavoro svolto fin’ora.”

Il poliziotto sentì il sangue ribollirgli in testa .

“Bene. Io andrei, allora.”

“Oh, sì, s’è fatto tardi. Vado anche io. A presto!” disse allontanandosi verso l’uscita.

“A presto un cazzo! Ora ci penso io a farti ritornare la voglia di far affari con me.” un pensò l’altro uomo.

 

Fairmont Olympic hotel, ore 17:30.

“Billie, muoviti! So che la tua mancata scopata ti ha lasciato demoralizzato ma il resto del gruppo sta già negli studi e ci rompe il culo se non lo muoviamo”

“Aspetta Trè, non trovo il mio… berrettooooo” e si sentì un rumore. Trè roteò gli occhi.

“Sì e cerca di non romperti niente! Cazzo nano, riesci a cadere più volte tu che un bambino alle prime armi con una bici senza rotelline. Anche se tra te e un bambino….non vedo la differenza” sghignazzò.

“Ma che simpatico il principe del monomio, ha-ha.”

“Ha parlato il 5 centimetri

“Almeno io ne ho cinque, tu a stento arrivi ai quattro.”

“Vuoi misurarlo, per caso?”

“Andiamo in macchina, stronzo, Mike ci sta aspettando lì.”

“Oooooh, Billie, guido io. Tu puoi guidare solo i go kart, ma a stento!”

“Taci” Billie entrò in macchina e si mise al posto guida. Accese il motore e, ingranando la prima, si avviarono verso gli studi di registrazione.

“Oh Signore, mandacela buona anche stavolta, ti prego!” pregò Trè Cool provocando un sorriso collettivo.

 

“Ho deciso, ci andrò di nascosto!”

“Caroline, se tuo padre lo scopre ti ammazza!”

“Non me ne frega, Jane! Da undici anni mio padre mi impedisce di fare questo o quello! La vita è mia, cavolo! Ti prego, ci andiamo insieme al concerto dei Green? Ti prego Jaaaaaaaaaaaaaaaane!”

“Va bene, Caro! Va bene! Basta che la smetti di lamentarti e di assillarmi” disse la ragazza dai capelli rossi e ricci, Jane.

“A mio padre dirò che vengo da te. Invece noi andiamo lì! Yuhuhuhuhu!”

“Ok, basta!” urlò Jane esasperata.

“Andiamo a comprare adesso i biglietti, Jà?”

“Ah, ecco perché ieri mi hai chiesto di portare con me 50 dollari… ok, andiamo! Ma prometti che dopo non mi romperai le palle sventolandomi sotto il naso i biglietti!” disse tirandole un buffetto dietro la testa.

“Hahah non garantisco nulla! Ora mi hai scelta come migliore amica e mi sopporti!” le disse sfoggiando un sorriso a trentadue denti.

Aspettarono che il semaforo rosso lasciasse spazio a quello verde. Attesero 40 secondi. Scattò.

Cominciarono ad attraversare la grande strada a due corsie.

“E dimmi un po’ Jane cosa metterai al concer…” non riuscì a terminare la frase. Un tonfo sordo si udì per quell’enorme strada. Una macchina dell’altra corsia sbatté per aria la ragazzina.

Jane era immobile al suo posto. La macchina era corsa via. Non riusciva a capire cosa fosse successo. Vedeva solo la sua migliore amica, Caroline, per terra in una pozza di sangue. Sangue che sgorgava dalla sua testa sbattuta contro ad un paletto dopo essere stata scaraventata per aria.

 L’asfalto di quella strada nero e cupo come la pece era diventato di un rosso vermiglio che odorava di morte. L’asfalto di quella strada dove il destino e la vita avevano duellato. L’asfalto della strada di una vita infranta.

Quel corpo immobile a terra… no, non poteva essere davvero Caro.

“Ca-Caro?” disse più a se stessa che alla figura distesa in una posizione anormale sulla strada. Si avvicinò a quel corpo con le lacrime agli occhi. Su quel volto non c’era più il sorriso di pochi secondi fa. Non c’era più lo sguardo curioso. Semplicemente sul quel volto non era più disegnata la vita.

 

“ Billie, CAZZOOOO! FRENAAAAAAAAAAAAAAA!!!!” urlò Mike terrorizzato.

“Oh Cristo!” urlò Trè da dietro.

Un tonfo pensante. Il rumore di qualcosa che urta contro un auto che sfreccia a velocità troppo elevata. I tre furono sobbalzati leggermente in avanti.

“Che cazzo ho fatto, che cazzo ho fatto, che cazzo ho fatto!” urlava Billie con gli occhi verdi sgranati.

“Niente amico.” Disse Trè, con la faccia sbiancata, girandosi verso la strada da loro compiuta precedentemente per vedere ciò che avevano combinato. “Semplicemente l’hai messo sotto”.

 

____________________

 

Eccoci qui! Bene, innanzitutto vorrei precisare che mi è spiaciuto moltissimo far morire Caroline ç_ç non era previsto, solo che leggendo i vostri commenti riguardo l’incazzatura esagerata di Mike ecc ecc ho capito che il motivo delle minacce era troppo idiota. Quindi mi son servita della povera Caro!

“Stronza” sìsì lo so scusa piccola! ^^”

@DevolDoll; ovviamente, grazie per aver recensito u.u non si tratta di un complotto vero e proprio… le cose saranno più chiare in seguito! ;)

@Helena89; eccoti Adrienne XD Solo che in questo capitolo ha ben altro a cui pensare e non si fa seghe mentali (sfido chiunque a cercare di farsele se stesse in una situazione come la sua xD).

Inoltre grazie a tutti quelli che leggono anche senza recensire! =)

 

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Capitolo 8
*** Naufragare in un mare di lacrime. ***


Eccovi l'ottavo! Sì, avevo detto che non ne avrei più postato uno al giorno... ma si sa, quando l'ispirazione prende xD
Dunque, questo è un capitolo di passaggio, non rivela niente di che, ha per la maggior parte dei dialoghi. Perchè sono perfida e non voglio svelarvi troppa roba muahhahaah u.u xD
 
@DevilDoll; lo so che si sarebbero incazzati XD ma dal momento che non sapevo come farli rifare "la pace" e che in quel momento ero impegnata in un filmino mentale a rating rosso (xD) la mia mente ha deciso di partorire questa cosa xD. Comunque, grazie (come sempre *-*) della recensione! :D
@Helena89; Effettivamente sono proprio cattiva con Armstrong in questa FanFic! u.u Povero nano, non merita ciò xD tenghiù per aver recensito :D
@Ginnyx; dove sei finitaaaaaa??? Mi mancano le tue recensioni! ç___ç
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Esistono vari tipi di lacrime; lacrime di gioia, lacrime d’amore, lacrime di rabbia, lacrime di amicizia, lacrime di odio, lacrime di tristezza, lacrime di dolore. Quest’ultime sono le più amare, le più bollenti, quelle che dopo essere cadute ti portano delle cicatrici indelebili e invisibili nei solchi da loro creati sulla tua pelle. Inutile ribellarti a loro, sono più forti; inutile cercare di trattenere la loro comparsa dai tuoi occhi gonfi e sofferenti, provocheresti solo il loro percorso a ritroso, trascinandole verso la tua anima stanca e sofferente e provocandole ferite simili a quelle della carta, piccole ma estremamente dolorose. Quando le lacrime di dolore premono contro i tuoi dotti lacrimali non puoi far altro che assecondarle, puoi solo lasciarle compiere il loro destino, permettendo che marchino a fuoco le tue guance, puoi solo sopportare il dolore. Ma quando le lacrime di dolore si mescolano con quelle d’odio è la fine; piangere non serve a nulla, non ti basta più come sfogo. Il corpo comincia ad essere comandato dall’anima, che sconfigge la ragione in questo momento del loro eterno duello e prende il comando del tuo cuore, armandosi delle passioni.

“Maledetto nano, monopalla e quello dai capelli alla cazzo di cane!” sbuffò Jason White sedendosi su di una sedia. Era da un’ora e mezza che attendevano Mike, Trè e Billie alla KeyArena per suonare.
“Pensano di far così anche al concerto, ma cos’hanno capito??? Sono stufo di aspettarli… e in più i signori sono anche non raggiungibili al cellulare! Spero che le maledizioni che gli ho inviato fin’ora però gli arrivino!”
“White, con loro o senza il concerto lo facciamo… basta che suoniamo il basso e la batteria, registriamo i suoni e poi li facciamo cantare il playback a tre bambole gonfiabili messe al posto di quei tre cazzoni. Sono certo che nessuno noterà la differenza!” disse Freese ridacchiando.
“Aaaaah hai ragione, genio… e la batteria la suoni tu?”
“Ovvio. In fondo la batteria si batte come si batte una donna… sarà un giochetto da ragazzi!”
“Ma dimentichi che la batteria non è tua madre. Non puoi batterla così facilmente” gli rispose White ridendo.
“Se non la smetti comincio a battere te, ma con le mazze chiodate!”
“Ma torna a suonare i pifferi!”
“Oh, coglione, non è un piffero, è un sax!” Freese mostrò un tono solenne nel dire la parola “sax”
“Senti, io mi sono rotto di attenderli! Mettiamo il cd con le basi e magari ci suoniamo sopra per provare. Che ne pensi?”
“Massì, tanto non si ha un cazzo da fare…”
“Ok, al tre! Uno… due… tre!” e partirono le note di “21st Century Breakdown”
In quel frastuono nessuno udì il cellulare di White squillare.

“Allora?”
“Niente, Brit. Jason non risponde. Ma a differenza degli altri tre è raggiungibile, almeno.” Adrienne emise un suono di disperazione.
“Bah, certo che è strano. Forse staranno provando e non sentono il telefono.” Brittany si chinò a raccogliere il bavaglino di Brxton che era caduto sul pavimento del bar in cui erano seduti.
“Può essere… ti dirò, è dall’inizio del viaggio che sono inquieta. Non riesco a calmarmi, sento sempre che sta per accadere qualcosa.”
“Ma no Adie, sta tranquilla… capita anche a me." ridacchiò “Quando parte per i tour ho sempre la brutta sensazione che possa tradirmi.”
“No, non è questo… di Billie mi fido ciecamente.” si ricordò della scenata fattagli la mattina nell’aereo “Va beh, forse un po’ di ansia riguardo le baldracche che potrebbero incontrare c’è sempre… ma più che altro mi riferisco al viaggio in generale… non so, ho una brutta sensazione.”
“Non pensiamoci, su! Approfittiamo del fatto che i maschi rompipalle non ci sono e dedichiamoci al sano shopping” propose Brit con voce estasiata.
“Nooooo ma davverooo! Non è il caso che mi consideriate così tanto, suuuu! E poi, non preoccupatevi, non mi offendo mica se dite che non ci sono maschi quando io mi sto facendo le palle con voi da un’ora, davvero!”
Le due donne si girarono.
“Ah scusa Joey… è che sei così silenzioso che mi son dimenticata di te” ridacchiò Adie “come mai non sei con papà a provare?”
“Perché durante tutto il tempo Jason non ha fatto altro che parlarmi della sua prima ragazza e di ciò che ha fatto con lei.” roteò gli occhi “ne ho avuto abbastanza di lui. Non voglio incontrarlo altrimenti mi racconta anche della seconda, quel vecchio malefico pifferaio!”
“Mammmmmmyyyyyy! Che vuol dire <>?”
Adrienne sgranò gli occhi.
“Io non ho detto niente, prenditela con Jason che tratta di certi argomenti con Jake intorno” disse Joey discolpandosi. “Penso che capirebbe meglio con una dimostrazione… io grazie alle vostre dimostrazioni ho capito come nascevano i bambini”
Adrienne si fece paonazza.
“C- che dimostrazioni? Ehm… che hai visto??”
“Sai…” Joey si grattò la testa “Hai presente quando papà è tornato da non ricordo che viaggio due anni fa (nb; il viaggio è inventato da me.) ? Di notte mi ero svegliato per andare a bere e ho sentito…”
“O-ok, ho capito, la prossima volta chiedo a Billie di regalarti un porno così quando ti svegli di notte saprai cosa fare invece che spiare noi!”
“Mah… vedremo. Oh mà io vado nella sala videogiochi di fronte.” porse il palmo della mano di fronte alla madre.
“Tu ci manderai in rovina, Joey!” disse la donna porgendogli una banconota da dieci dollari.
“Comunque” riprese Brit una volta che Joey fu uscito dal bar “Per quale motivo Billie è stato così incazzato oggi? Sai, dal momento che lui e Mike vivono in simbiosi, quando sta incazzato uno automaticamente lo è anche l’altro!”
“Beh” prese a parlare la donna dai capelli neri e ricci “Sempre a causa dei miei presentimenti. E’ circa un mese che ho incubi e che lui mi sveglia di notte e mi calma. Mi ha chiesto il motivo… ma io mi sono sentita troppo idiota per dirglielo. Alla fine però è esploso. Forse pensa che gli nasconda qualcosa di grave, non saprei….”
“Ti conviene parlargli chiaro, Adrienne. Non ti darà della stupida, non preoccuparti!”
“Zia Brit ha ragione mamy! Papy quando ho gli incubi viene sempre nella mia cameretta a raccontarmi le favole… se glielo dici le racconterà anche a te e così tu non avrai più paura” il piccolo Jakob la guardava dal basso con i suoi occhioni neri e un sorriso smagliante stampato sul viso paffutello. Adie abbozzò un sorriso. Quanta ingenuità c’era a quell’età! Contemporaneamente un amaro pensiero le attraversò la mente; niente durava per sempre. L’ingenuità dipinta sul volto del figlio un giorno sarebbe svanita come era svanita dal volto di suo figlio maggiore che ora, all’età di quindici anni, interpretava ogni minima cosa con una punta di malizia. Già, nulla durava per sempre, soprattutto la vita. Il pensiero che un giorno di lei non sarebbe rimasto altro che polvere la fece rabbrividire. Si ritrovò a pensare al sogno della sera precedente; lei che cadeva in un fosso, lei che moriva, il marito che urlava disperato. E se davvero fosse morta? Il marito si sarebbe realmente disperato? O avrebbe trovato in fretta e furia un rimpiazzo?
“Allora mamma? Maaaaaaaaammaaaaaaaaaa!” le portò la manina davanti alle faccia. Adrienne si risvegliò dai suoi tetri pensieri. Quella manina le portò un spiraglio di luce.
“Cosa amore?”
“Ma la compri la cioccolata calda? Tipregotipregotipregotipregotiprego!!!”
“Va bene, Jake, poi basta però! E’ la terza che bevi oggi!”
“Tu sei gelosa perché non puoi berla poiché essendo vecchia ingrassi facilmente!”
“Cosa? Io non sono vecchia, giovanotto!”
Risero tutti. Ma Adrienne in quel “vecchia” non potè che cogliere una nota d’amaro. Un amaro che si associava alla parola “morte”.
Suonò il campanello.
“Michael, apri tu?”
“Sì, tesoro, non preoccuparti.” Si avviò verso la loro porta d’ingresso e nell’aprirla si ritrovò davanti un agente della polizia. Lo guardò sbigottito.
“Eh… sera agente, posso esserle utile?”
L’agente aveva un viso segnato profondamente dalle rughe sulla fronte e due sopracciglia che contornavano la parte superiore degli occhi in modo quasi minaccioso ma non era ciò a dargli un aspetto particolarmente tetro; erano le notizie che aveva in serbo per lui. Alla porta arrivo anche Ashley, la moglie.
“Che succede, Michael? 'Sera agente!”
“Voi siete i signori Whatson?”
“Sì…”
“Mi spiace signori, sono venuto a portarvi cattive notizie.”
“Entri; di che si tratta?” Michael pronunciò queste parole facendo strada al poliziotto verso il suo immenso salotto.
“Di sua figlia. Di Caroline Whatson. Io non so come dirvelo ma…”
“Agente, non ci lasci sulle spine!”. Si dice che l’istinto materno riveli cose nascoste agli altri. Sarà per quello che, già prima di sentire quella notizia che nessuno mai si augurerebbe di ricevere, Ashley cominciò a sentire gli occhi pulsare a causa delle lacrime.
“Mi spiace signora. Ma... oggi una macchina ha... investito sua figlia. Non si sa ancora chi sia stato.”
“Oh mio Dio! Oh mio Dio!" si portò le mani sul volto "Ma...  lei… in quale ospedale è stata portata? Oh mio Dio, non posso crederci...”
“Signora Whatson…”
“Perché lei E’ in qualche ospedale, vero?” una lacrima filtrò tra le dita della mano destra della donna.
“…” l’agente si schiarì la voce “mi dispiace, signori.”
La donna scoppiò io un pianto convulso aggrappandosi al marito. Lui era immobile, con l’espressione cadaverica. Lacrime di dolore cominciarono a scendergli lungo il viso. Non urlava, non poteva. Il dolore peggiore è quello che ti tieni dentro, si sa. In quella casa in cui uno spirito sereno era sempre aleggiato, o quasi, improvvisamente fece capolino la Morte che col suo mantello nero aveva succhiato via l’energia di vivere anche di quei corpi ancora in vita ed in cui il cuore batteva ancora.


(questo teoricamente è accaduto prima del pezzo dei genitori di Caroline e contemporaneamente a quello di Jason e Adrienne ed Britt)
“Sei idiota???????? Cazzo, non posso pensarci! Cazzo non può essere accaduto davvero! CAZZO Billie, frena! Torna indietro! Dobbiamo prestarle soccorso! Billie! Mi senti?” Mike urlò quelle parole passandosi le mani tra i suoi capelli sparati all’aria.
Billie Joe era muto ed immobile. Sembrava che non fosse lì. I suoi occhi erano sgranati e osservavano fissi la strada davanti. Non diceva nemmeno più “che cazzo ho fatto?” Tabula rasa! Vuoto totale!
“Billie, Mike ha ragione! Non possiamo scappare! Non possiamo…”
“CAZZO TRE’ NON STO SCAPPANDO! NON STO CERCANDO DI SCAPPARE DA CIO’ CHE HO FATTO, PORCA PUTTANA!”
“Allora cazzo frena, Billie, non correre a 90 km all’ora!”
“Io… io…” impallidì sgranando maggiormente gli occhi che adesso erano coperti da un velo di puro terrore “io vorrei… ma… ma… per questo l’ho messo sotto… non è stata colpa mia!”
“Billie che farnetichi??”
“Mike… non prendono i freni!”.

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Capitolo 9
*** Il figlio della rabbia e dell'amore. ***


Rieccomi col nono capitolo! ^_^ Scusate se ho postato tardi ma ho avuto problemi col computer (virus di merda -.-) e non ho potuto postarlo. Questo capitolo è un po' breve (volevo continuarlo... ma poi mi è piaciuto il modo in cui l'ho concluso e mi son detta "perchè non far soffrire i lettori un po' di più riguardo le sorti dei tre tizi? *-*". Il decimo cercherò di postarlo domani anche perchè fino a Venerdì sarò occupata con uno scambio culturale e non avrete mie notizie.
@ DevilDoll; mi fanno morire le tue recensioni! xDXD La scimmia e il bignè ahahahaha! xD Vedremi se i nostri cari amici finiranno al fresco u.u (forse ne avrebbero proprio bisogno di un oluogo fresco per rinfrescarsi le idee u.u).
@Helena89 ; Mi spiace per te, ma Adie in questo capitolo non c'è e dovrai fare a meno delle sue pippe mentali! xD Sul futuro del Pilliggiò non posso garantire nulla U_U il segreto professionale. u.u E ultima cosa, il mio vero nome è Nan (è un diminutivo ma è... ok xD). Grazie per la recensione *-*
@Haushinka89 ; Una nuova lettrice *-* sono contenta che la trama tenga sulle spine (quello era il mio intento, solo che non mi sembrava coinvolgesse abbastanza ^^). E grazie mille per i complimenti, troppo gentile *-*
Ok, ora eccovi il capitolosssssssssssssss
 
_______________________________
 

E’ facile dire che è qualcosa di imprevedibile. E’ facile dire che alla fine è giusto. E’ facile dire che l’importante è essersi divertiti  ed aver preso il massimo dalla propria vita. E’ facile dire… dire, punto. Ognuno di noi è portato a dire frasi fatte, frasi dallo sfondo filosofico, frasi che fanno riflettere, che cercano di bruciare l’acqua contenuta nelle tue lacrime. E’ facile pensare che il fuoco, un giorno, possa battere l’acqua; ci si crede spesso quando vedi gli altri star male. Ma ti rendi conto di come stanno realmente le cose solo quando a soffrire sei tu; l’acqua distrugge tutto, non solo il fuoco, anche la terra e l’aria. Ti rendi conto che certe cose non possono essere giuste, che non conta solo divertirsi e prendere il massimo dalla tua vita. Ti rendi conto che si tratta solo di una maledettissima cosa maledettamente imprevedibile.

Una donna dal caschetto rosso aprì la porta bianca.

“Signor Watson? Salve! Non è orario di visita ma…” osservò un foglietto plastificato con una fotografia.

“Oh cielo…” si portò una mano sulla bocca “Io non… non sapevo. Condoglianze. Vorrei dirle mille parole di conforto ma…”

“Dov’è lui?”

“Nella sua stanza. Le cose vanno molto meglio con lui, le crisi sono diminuite e…”

“Che numero è la stanza?”

“La trentotto”

“Bene, a dopo.”

Con passo deciso si avviò su per le scale di quel luogo infernale,pulito e disinfettato a dovere, in cui, quasi paradossalmente, risedevano uomini e donne dalle vene più nere di petrolio. Ma non era petrolio: era qualcosa di peggio, meno oleoso e nero ma più insidioso e mortale.

Aprì di scatto una porta bianca col numero “trentotto” nero, attaccato di lato su di una targhetta azzurra. Una figura distesa su di un piccolo letto dalla squallida  spalliera a sbarre grigie gli si proiettò davanti; aveva i capelli di un biondo molto scuro, tendente al castano con striature biondo chiaro, gli occhi erano chiusi ma Michael sapeva che erano di un azzurro chiaro che la forte dipendenza li aveva sbiaditi, contornandoli con venature rossastre all’interno e occhiaie violacee all’esterno. Aveva la sofferenza stampata nei suoi tratti somatici nonostante i suoi 26 anni. Una sofferenza che all’inizio si era mostrata come una simpatica amica giocherellona. Una sofferenza che se l’era creata con le sue mani. Si presentava molto sciupato dall’ultima vola che aveva visto; era dimagrito di almeno dodici chili o forse era il suo metro e novanta di altezza a farlo sembrare ancora più magro. All’udire il cigolio della porta, buttò un occhio iniettato di sangue pigramente verso di lui; accorgendosi della figura che gli si presentava davanti, sobbalzò dal letto. Era l’affetto ad averlo smosso? No, forse no. Era la sorpresa. L’affetto era stato lentamente  consumato dalla rabbia di un padre nei confronti di suo, dalla sua cacciata di casa, dalla sua noncuranza nello sbatterlo in una squallida clinica di disintossicazione. Sì, lui era figlio della rabbia e dell’amore, lui era uno dei tanti Gesù di periferia dispersi in questo mondo. Sembrano pochi, ma ne sono molti. La maggior parte sono abbandonati da tutti, sono cacciati, disprezzati, presi in giro, maltrattati. La maggior parte di essi si ritrova a morire sotto dei ponti con persone che sono stati compagni di sventura. Persone che l’hanno amato per i suoi errori, per le sue cazzate fatte. Persone stupende che però non sono i suoi genitori.

John si tirò a sedere sul letto lentamente; continuò ad osservare la figura rinchiusa in quella camicia verde pastello che molte volte, forse troppe, era stata macchiata del suo sangue fuoriuscito dalla ferite provocategli dalle percosse ricevute. Ogni percossa gli ricordava un suo sbaglio. Ogni percossa simboleggiava un suo fallimento.

Serrò gli occhi

“Papà? Non sei cambiato in questo mese.”

“Tu invece sei cambiato. E in peggio.”

“Cos’è, ti sei appena ricordato di avere un figlio? Solitamente quando non ci si vede per un mese ci si rivolgono parole del tipo; hey come va? Cos’hai fatto?”

“Io un figlio non l’ho mai avuto. E poi cosa sarebbero queste formalità? Cosa mi aspetto che abbia fatto un drogato eroinomane come te in un mese in una clinica di disintossicazione?”

Lo guardò bieco. Aveva sbagliato, sì, ma non meritava di essere trattato in quella maniera dal momento che faceva sacrifici assurdi per star meglio.

“Cosa cazzo sei venuto a fare qui, eh? Potevi anche restartene nel tuo fottutissimo palazzo d’oro dove scorrono fiumi di latte e miele. Cosa cazzo sei venuto a fare nella periferia? Potrebbe sporcarsi i suoi bellissimi vestiti firmati, signor Watson!”

“Taci, John!”

“Taci? Sei l’ultima persona che può dirmi di tacere, papà! Non sai quante volte il tuo non tacere mi ha fatto star male! Sei un fottutissimo stronzo! Vattene via!” il suo ruggito finale fu smorzato da un cazzotto arrivatogli sullo zigomo destro, cogliendogli anche la narice. Fu catapultato sul suo letto, le cui lenzuola bianche cominciarono a macchiarsi  di macchioline vermiglie. Asciugò con la mano quelle sul suo volto e lanciò un’occhiata di odio a quella figura possente che lo squadrava dall’alto.

“Non sarei venuto se non fosse stato per un qualcosa di grave.”

“E cosa è successo di grave? Qualcuno ti ha rubato la tua costosissima Ferrari e credi sia stato uno dei miei amici drogati, come adori definirli tu?”

Altro cazzotto. John emise un verso di dolore , mettendo le mani sul labbro superiore, la parte colpita questa volta.

“Smettila, bastardo! Dimmi cosa cazzo sei venuto a fare e poi sparisci dalla mia vista e dalla mia vita di cui non hai mai voluto far parte!”

Lo prese per il colletto della maglia, lo alzò con forza e lo sbatté al muro.

“Tua sorella, te la ricordi?? Ricordi quella personcina che faceva parte della tua famiglia? L’unica che non ti trattava una merda come meritavi, l’unica che con te ci parlava, eh??? Te la ricordi????” urlò.

“Che cazzo c’entra adesso Caroline? Lasciala stare, lei deve starne fuori dai nostri affari. Non… non merita di soffrire.”

“Ha sofferto più di te, bastardo! Ha fatto quella fine che avresti dovuto fare tu! Lei non la meritava! Ed è solo colpa tua e di quei miseri bastardi che tu tanto adori!”

Le lacrime cominciarono la rigargli il volto.

“Ma cosa cazzo dici? E’ successo qualcosa a Caroline? E… perché sarebbe colpa mia?”

John sentiva le sue gambe farsi molli, forse no, non voleva sentire cosa era accaduto a Caroline. Talvolta il non sapere fa meno male.

“Tu… tu… e quei Green Day! Era andata a comprare i biglietti del loro concerto di nascosto. E’ stata messa sotto da una macchina” lo sbatté più violentemente al muro e disse stringendo i denti “Tu dovresti essere in procinto di andare qualche metro sottoterra, non lei!”

John sbiancò. Sua sorella era morta. Era morta  e tutta la colpa era stata affibbiata a lui che non aveva fatto niente. Era morta. Era sottoterra. No, non ancora. Era morta. Morta. Senza battito, senza respiro. Non più in vita.

“Chi cazzo è stato?”

“…”

“CHI CAZZO E’ STATO?! RISPONDIMI!!!”

“Non si sa ancora. Se sono venuto qui è solo per dirti di partecipare al funerale. Di comportanti come una persona e non un animale. Copriti quei tatuaggi e quei piercing e fatti trovare alla chiesa fuori casa nostra domani alle dieci.” lasciò John e si avviò  verso la porta bianca asciugandosi le lacrime. Si fermò davanti ad essa, osservandola. Bianco. Il colore della purezza. Il colore della beatitudine, il colore delle nuvole, dello zucchero filato. Il colore della bara della sua bellissima bambina

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Capitolo 10
*** A fork stuck in the road. ***


Un ringraziamento generale a tutti (e soprattutto grazie per la pazienza che avete avuto! ). Purtroppo vado di fretta, non posso soffermarmi su ognuno di voi oggi... vabbè, spero vi piaccia il capitolo! =)

 

***********

 

 

Si parla spesso e volentieri di bivi; nella vita molto spesso ti trovi davanti ad uno, solitamente le due strade  si sviluppano poi in parallelo, sono completamente diverse, quasi agli antipodi,  in modo che se è presa una non puoi tornare all’altra con un salto o semplicemente percorrendo il percorso a ritroso. La tua coerenza andrebbe in frantumi, prenderesti la strada opposta, entrando in collisione con le tesi da te sostenute nell’altra via. Ma i bivi non esistono solo nel mondo figurato, non esistono solo per essere introdotti nelle metafore. I bivi sono anche nelle strade che noi percorriamo quotidianamente e forse quel bivio che conosci così bene, un giorno potrebbe rivelarsi il tuo peggior nemico.

“Come sarebbe a dire NON CI SONO?” Pat Magnarella era furibondo. “Dovevano essere qui ALMENO due ore fa!!! Non posso portare avanti una band senza cantante, bassista e batterista!”

“Ma ci sono io!” Jason White disse con voce suadente sfoderando un sorriso.

“E grazie al cazzo, Jason! Solo una seconda chitarra in una band sai cos’è? Eh? Come la forchetta nel brodo! Cioè? Cerca di arrivarci.”

Jason finse di pensarci un po’.

“Oooh certo! Un nuovo tipo di band in cui due persone fanno cinque strumenti!”

Freeze gli batté il cinque e cominciarono a ridere. Pat alzò gli occhi al cielo.

“Ma che simpaticoni. IO VOGLIO QUEL CAZZO DI NANO DA SHOW DEI RECORD, QUEL CAZZO DI SPILUNGONE  CHE PUO’ BENISSIMO FARE LO SPAVENTAPASSERI E QUEL CAZZO DI GIGOLO’ MALRIUSCITO DI UN BATTERISTA SENZA PALLA! LI VOGLIO ORA! ADESSO! QUI!”

“Andiamo Pat… evidentemente stanno raccogliendo i residui di Trè che si sarà ubriacato, avrà tentato di sedurre una nonnetta come la scorsa volta e le avrà prese dal suo bastone. Non è il caso d’incazzarsi tanto, si sa come sono.”

“Si sa come sono… finché fanno i coglioni a delle prove non importanti tutto ok… ma non quando bisogna prepararsi ad un concerto, porco cazzo!”

“Andiamo Pattuzzo, il concerto è domani, stai calmo…”

“Freese tu pensa ai tuoi pifferi!”

“Non è un piffero, è un sassofono!” disse con voce indignata.

“Facciamo così” Pat si sedette su di una sedia di legno “Ora cerco di rintracciarli al cellulare”

“Abbiamo provato prima, non rispondono, è staccato”

Pat cominciò a sentire il sangue rimbombare nella vena che si trovava sulla sua fronte; era meglio passare sei mesi in un asilo nido che andare in tour con quei tre, almeno avrebbe avuto meno mal di testa.

“Vorrà dire che chiamerò quelle loro santissime mogli!” roteò gli occhi e cominciò a premere freneticamente dei vari numeri sul tastierino luminoso del suo cellulare.

Il telefono cominciò ad emettere i classici “tu tu”, suono che quando stai nervoso ed hai particolarmente fretta diventa più snervante del solito; una voce maschile rispose.

“Helloooooo? Sono il signor Armstrong!”

“Pezzo di un coglione ammuffito, allora stai con la tua mogliettina, eh? Mi spiace per te, ma il giochino del -parcheggiamo-la-macchinina-del-papà-nel-garage-di-mammina- dovrai rimandarlo a più tardi” mettiti le mutande e fila in studio!”

Dall’altra parte nessuno rispose. Silenzio totale.

“Cos’è, nano, gli spermatozoi ti sono andati a mangiare quei quattro neuroni che ti sono rimasti e ti hanno privato della parola? Pazienza, vorrà dire che diventeranno più forti e riusciranno a distruggere le barriere di plastica che metti ogni qual volta vuoi scopare con tua moglie!”

“Veramente mettere incinta mia madre è l’ultimo dei miei desideri. Vabbè che è una tostona, ma…”

“Non preoccuparti, Billie, a tua madre ci penso io, ci conosciamo già molto bene!” rise.

“Ehm… veramente io sarei Joey.”

Cosa si prova non appena ti rendi conto di aver fatto una figura di merda colossale? Cosa puoi dire? Niente; si sa, tutto quello che dici potrebbe essere usato contro di te.

“Ah.”

“Infatti non so se ci hai fatto caso, ma questo è il telefono di mia madre.”

“Sì, Joey… ehm… scusami. Tuo padre non è raggiungibile, pensavo fosse con tua madre… sai com’è…”

“No Pat, mi dispiace. Effettivamente mi sto cominciando a preoccupare, è da un bel po’ che quei due non si dedicano alla… semina! Che papà sia ammalato? O che la mamma non lo assecondi? Non vorrei che andasse a strusciarsi contro i lampioni per placare i suoi istin…”

Non riuscì a terminare la frase poiché un’Adrenne furiosa gli si parò davanti strappandogli il cellulare nero e vecchio dalle mani. Lo guardò con aria minacciosa, Joey poté giurare di vedere del fumo nero uscirle dalle narici. Anzi, forse anche dalle orecchie, non sa come, ma suonava bene... fumo dalle orecchie. Bah.

“Joey, che cavolo stai facendo?? Dammi il telefono! Sì, pronto, sono Adrienne!”

“Ahhaha, ciao Adrienne, sono Pat! Sto cercando Billie, è con te?”

“Ah, ciao Pat! No, non è con me… perché, è successo qualcosa?”

“Nono, niente. Semplicemente i ragazzi non sono qui per provare e non sono raggiungibili al telefono.”

“Mi spiace Pat, non so come rendermi utile… anche io prima cercavo Billie al telefono, ma niente.”

“Va bene, scusa se ti ho disturbata. Ciao!”

“Ciao!” Adrienne riagganciò, sentendo uno strano presentimento invaderle l’animo. Stava per accadere qualcosa, se lo sentiva; come quando era piccola ed aveva appena tolto le rotelle alla bici: da quando era montata sulla sella aveva una strana sensazione e infatti cadde rompendosi un braccio.

“Che succede?” Britt l’allontano dai suoi pensieri uscendo dall’ultimo negozio da loro visitato con tre pacchetti in mano.

“Era Pat. Loro sono non raggiungibili e pensava fossero con noi.” Emise un profondo sospiro.

“Adie, sta tranquilla se fosse accaduto qualcosa di brutto ci avrebbero avvisate” le posò una mano sulla spalla “Ho visto un vestito stupendo in quella vetrina. Ti starà d’incanto; perché non vai a provarlo?” cominciò a spingerla dolcemente verso il negozio.

“Ed iooooo??? Non solo sono un centralinista non pagato ma anche ignorato!”

“Tu vai in cerca di pollastre che non vogliamo uno scapolo sulle spalle!” gli urlò Britt facendogli l’occhiolino.

 

Una macchina nera con i vetri fumé sfrecciava alla velocità di 90km/h lungo un’autostrada liscia e nera.

Una goccia di sudore trasparente cominciò a scivolare sulla fronte di un uomo che nel  giro di cinque minuti si era visto la vita colorarsi da bianca a nera. Anzi, forse da grigia a nera poiché bianca non lo era mai stata. La gocciolina di sudore scese lungo l’occhio privo di eye-liner  e contintuò il suo percorso fino a fermarsi, quasi dileguandosi, sulla mascella possente del cantante. Emise un profondo sospiro, l’unico rumore percettibile in quell’auto, situazione mai verificatasi prima d’ora, dal momento che era sempre piena delle risate schiamazzanti di tre uomini brilli che ridevano spensieratamente.

Mike Dirnt aveva lo sguardo fisso davanti a sé; aveva un’espressione tranquilla, almeno apparentemente. All’interno della sua mente infatti si susseguivano vari immagini che rappresentavano i vari modi in cui si sarebbe potuta fermare quell’auto. E nessuno gli piacque almeno un po’.

Trè sedeva sul sedile posteriore, era serio, non parlava, cosa stranissima per un tipo come lui. Per la prima volta in vita sua compì quel gesto; la sua mano sinistra si spostò verso la parte destra dell’auto, le sue dita afferrarono qualcosa di nero che tiro con forza moderata. Ritirò la mano verso sinistra e infilò la cintura di sicurezza nell’apposita fessura; mai avrebbe pensato di far suonare quel “click!” nell’aria. Mai avrebbe pensato di trovarsi a 37 anni in una macchina che sfrecciava a 90Km/h, guidata per giunta da Billie Joe.

Mike voltò di scatto il viso verso Trè; quando vide la cintura di sicurezza, il suo sguardo si fece cupo, si trovava di fronte ad una verità troppo dura da digerire. Poi spostò il suo sguardo azzurro cielo, cielo che si presentava terribilmente nuvoloso quel giorno, verso il suo migliore amico di sempre; le mani continuavano a stringere il volante con violenza, quasi come se volesse frenare l’auto con quello. Gli occhi erano sgranati, persi nel nero di quell’autostrada, la bocca serrata, la sua fronte imperlata di un sudore che gli scendeva lungo il viso contratto.

“Billie…”

Nessuna risposta.

“Billie.”

Il frontman manco si voltò a guardarlo.

“Cosa?” fu la sua risposta priva d’espressione.

“Billie… come… come hai intenzione di… di… fermare l’auto?”

“Non lo so.”

“Vuoi dire che andremo avanti all’infinito?”

“Sì. Ok?!”

“Billie cazzo, ragioniamo…. deve esserci una soluzione…”

“Che cazzo di soluzione Mike?! Ma ti rendi conto della situazione o ti sei rincoglionito?” urlò.

“Senti, io ho la stessa voglia di morire tua ma se non cerchiamo una soluzione qui…”

“Oh cristo!”

La voce di Billie interruppe Mike.

“E ora che cazzo c’è?”

“Cristo santo immacolato con la madonna e tutti i santi” esclamò Trè. Senza rendersene conto aveva spalancato la bocca.

Mike non capendo volse lo sguardo nella direzione loro. Immediatamente s’irrigidì.

“Oh cazzo!” esclamò anche lui; a circa 2 Km da loro, una lunga coda di automobili era bloccata nel traffico.

“Ora iniziano i fuochi d’artificio.” disse Trè mentre per la prima volta si fece il segno della croce.

Billie Joe cominciò a sentire delle lacrime spingere contro le palpebre; a causa sua era già morta una persona e adesso ne sarebbero morte altre. A causa sua.

Il suo sguardo fu rapito da un’insegna luminosa presente sulla parte sinistra dell’autostrada. Era un’altra strada, c’era un bivio: destra o sinistra? Dalla sua scelta sarebbe dipeso molto del suo futuro.

 Senza pensarci due volte, Billie l’imboccò. Mike vedendo le insegne luminose ai lati della strada e vedendo le transenne sbattute all’aria dalla loro macchina, cominciò ad urlare.

“MA CHE CAZZO FAI??? DOVE CAZZO SEI ANDATO???? MA TI RENDI CONTO DI QUELLO CHE FAI????”

“MIKE IO NON VOGLIO UCCIDERE ALTRE PERSONE!”

“TU SAI CHE IMBOCCANDO QUESTA STRADA CI SIAMO COMPRATI IL BIGLIETTO PER L’ALDILA’?”

“Mike… cosa cazzo farnetichi? Disse Trè sbiancando. Evidentemente quelle transenne e quei cartelli luminosi con segnali di pericolo non erano stati messi lì a caso.

“Questa strada è un vicolo cieco!!” Mike aveva le lacrime agli occhi.

“Vuoi dire che… c’è un delizioso muro che ci aspetta alla fine di questa strada?”

“No peggio… un volo di trenta metri in un fossato.”.

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Capitolo 11
*** Corsa Verso la salvezza. ***


Ed eccomi tornata dalle tenebre! XD *ricompare in un polverone nero*

Scusate per questa lunga assenza ma ho avuto un casino di cose da fare tra scuola eccetera eccetera. Ringrazio come al solito chi recensisce, chi segue la storia e chi l'ha messa tra i preferiti. Spero che il capitolo vi piaccia, non è granchè ma mi serve come "connettivo" per il seguente. :) Un bacio.

 

_____________

 

 

L’auto nera sbandò leggermente verso sinistra prima di esibirsi in un lancio alto trenta metri. L’ultima cosa che Billie Joe riuscì a scorgere fu la parte finale dell’autostrada che entrava in collisione con del terriccio rossastro. Fortunatamente (se si può parlare di fortuna in queste occasioni), il fossato era alto trenta metri ma presentava solo un’inclinazione di circa 120° gradi, una sorta di piccola discesa tremendamente ripida ma non fatale. Ovviamente se la velocità è moderata. L’auto spiccò il volo atterrando con le ruote anteriori dieci metri più in basso. L’impatto fu tremendo, il parabrezza andò in frantumi, la parte anteriore dell’auto si schiacciò a fisarmonica. Schegge di vetro e materiali indefiniti cominciarono a disperdersi lungo il terreno. Il terreno troppo inclinato e la velocità ancora troppo forte spinsero l’auto a ribaltarsi in avanti, cadendo con la parte superiore all’ingiù come una tartaruga. Rumore di vetri e di metallo che si piega seguirono la giravolta. Ma le peripezie dell ‘auto non finirono qui. Cominciò a strisciare per cinque metri, girando di 90° sulla sinistra. Il terreno cominciò a diventare ancora più pendente e l’auto ricominciò a girare, provocando ad ogni giro esplosioni di lapilli vitrei. Trenta metri più in basso, finalmente la pazza corsa dell’auto si arrestò; era in posizione normale, i vetri erano quasi inesistenti, le portiere terribilmente ammaccate, di ruote ne erano rimaste solo due. Tutt’intorno regnava un pesante silenzio.

Due occhi, serrati fino a quel momento, si aprirono. Dei raggi di luce gli colpirono violentemente i due occhi chiari, costringendolo a serrarli nuovamente.

“Sono morto” pensò “Sono morto e ho un male del diavolo alla caviglia”.

Quest’ultimo pensiero gli impose di resettare il precedente: è possibile soffrire dopo essere morti? Quasi automaticamente a sua mano destra fu portata davanti alla luce che gli impediva la visuale. Abbassò il capo e quasi inorridì.

Cazzo, è possibile essere morti, soffrire e avere una caviglia bloccata tra un sediolino e la portiera? Almeno così sembravano quelle due… cose che gli serravano il piede che ormai si trovava in una posizione quasi innaturale.

Ma la visione del suo piede intrappolato non fu nulla in confronto all’immagine che gli si parò davanti un istante dopo.

Tre Cool emise un grido di puro terrore. Quell’immagine non avrebbe mai voluto vederla, mai voluto immaginarla, mai voluto sognarla.

“Porco cazzo, porca Eva!” urlò portentosi le  mani tagliuzzate e sanguinanti tra i capelli ribelli.

Una testa bionda con sfumature castane penzolava sul lato sinistro. Delle gocce di sangue cadevano pesantemente su ciò che prima dell’incidente era definito “sediolino”. Trè si sporse in avanti, lottò contro la resistenza della cintura di sicurezza che ormai era bloccata. Sbiancò.

“M-Mike…?”Nessuna risposta. Trè osservò con orrore che il bassista non portava la cintura di sicurezza. Il colpo era stato durissimo per lui. Aveva sul mento un taglio profondo, delle schegge i vetro conficcate nella guancia sinistra. Ma non furono queste a portare la disperazione in Trè; il batterista seguì  a ritroso le scie delle grandi gocce di sangue. Non erano graffi, non erano ferite provocate da schegge innocue. Quelle gocce di sangue che pian piano cominciarono a fluire sempre più abbondantemente e più velocemente provenivano dal cranio di Mike Dirnt. Solo in quel momento, mentre la disperazione e il dolore cominciarono a velargli occhi, Trè ricordò che a bordo c’era un terzo membro. Billie. Si voltò verso di lui. Il vocalist era riuscito a mettere la cintura solo in corrispondenza della parte bassa del corpo, difatti aveva sbattuto violentemente la testa contro lo sterzo nero da cui si intravedevano striature rossastre. E non erano naturali. Billie Joe aveva la testa penzolante in avanti sullo sterzo, Trè non riuscì a notare se aveva altre ferite. Il batterista tornò al suo posto; la sua testa era immersa in un silenzio maledettamente rumoroso. I suoi occhi istintivamente cominciarono a cacciare l’anima, si sentiva impotente. In quel momento non era più Trè il re della batteria, no. Era un comune mortale. Un comune nessuno. Chiuse gli occhi e senza rendersene conto scivolò anche lui nel sonno degli altri due amici.

Pat era intento a sonnecchiare su una poltroncina di velluto rosso. I tre non si erano presentati e lui piuttosto che far da spettatore alla cazzate degli altri due preferì tornarsene nella sua suite lussuosa. La birra forte bevuta poco prima gli aveva conciliato il sonno, sonno interrotto alle ore 18.30 da un irritante suoneria di cellulare, il suo. Pat si alzò e maledisse se stesso per il vizio di lasciare quel dannato aggeggio nella tasta dei jeans. Mentre proseguiva al semi-buio verso la sedia su cui aveva lasciato i suoi jeans blu scuro altre colorite maledizioni e bestemmie volarono dalla sua bocca, etichettando con nomignoli improbabili il mobile che aveva appena funto da avversario contro il suo mignolo destro. Massaggiandosi il dito, Pat afferrò il cellulare con aria scazzata; se avesse visto il numero prima  di premere il tasto verde, sicuramente il suo tono sarebbe stato più preoccupato che irritante e scazzato.

“Chi cazzo è?”

“Vigili del fuoco. Parlo con Pat Magnarella?”

“Sì sono io. E’ successo qualcosa, per caso?” disse mentre sentiva il cuore agitarsi all’improvviso e il sangue scorrergli molto più rapidamente.

“Sì, signore. E’ purtroppo sono cattive notizie.”

 

Pat Magnarella s’infilò rapidamente nella sua auto rosso fiammante. Con violenza cambiava marcia velocemente fino ad arrivare alla quinta. La macchina sfrecciava velocemente tra le vie di Seattle. Imboccò l’autostrada e dopo 50Km finalmente scorse il suo obiettivo. Fermò l’auto sgommando e correndo si diresse verso l’uomo con la tuta nera.

“Sono Pat Magnarella.” si guardò intorno e rimare sconvolto dal non vedere ne’ un’auto sfracellata ne’ una in fiamme. Confuso tornò ad indirizzarsi al vigile.

“Ma qui non c’è nessuno”

“Sfortunatamente, non a sua portata di vista”

“Non capisco… lei mi ha parlato di un incidente in cui sono coinvolti…” deglutì.

“Signore non sono qui”

“MA MI PRENDE PER IL CULO?? MI AVETE FATTO CORRERE PER a 150Km/h PER DIRMI CHE LORO NON SONO QUI?!?!”

Il vigile fece un passo indietro, allarmato dalla reazione dell’uomo.

“Infatti on sono qui ma…”

“Ma cosa?!”

“Sono lì”

Pat seguì con lo sguardo la direzione verso cui puntava l’indice dell’uomo vestito di nero.

Il suo viso nell’arco di tempo di un nanosecondo passò da frustrato a sconvolto.

“Ma che cazz…”

Una gru tirava verso l’alto un auto nera rotta, ammaccata, schiacciata… se quella… “cosa” poteva ormai essere definita “auto”.  Ma ciò che maggiormente fece aumentare i battiti del suo cuore fu la vista di quella barella  bianca tirata dai vigili del fuoco. A questa ne seguirono altre due. Pat era incapace di muoversi da lì. Cosa avrebbe trovato in quelle barelle? Tre uomini o solo tre corpi? Le ambulanze arrivarono  in quel preciso istante e le barelle scomparirono dietro quelle porte con la scritta “ambulance”.  Correndo Pat si infilò nella sua auto e cominciò l’ennesima corsa, stavolta verso il Virginia Mason Hospital. La lancetta rossa segnava una velocità assurda ma Pat in quel momento aveva la mente annebbiata da pensieri ben più gravi: non gliene importava più ormai delle prove, del concerto, che andasse tutto a farsi fottere! No. Si preoccupava per la vita di quei tre uomini con cui aveva avuto sempre quel rapporto di amore-odio che tutte le rock star suscitano con le loro pazzie. Si preoccupava per tre possibili lutti che avrebbero causato non solo la perdita di tre suoi amici ma quella di tre mariti e soprattutto di tre padri. In quel momento anche se un auto gli fosse venuta addosso, non se ne sarebbe accorto, no.

Finalmente la corse delle ambulanze si arrestò. Pat  raggiunse rapidamente le barelle ma fu prontamente allontanati da un paramedico.

“Signore, mi dispiace, lei non può seguirli”

“Mi lasci passare! Come stanno? Ditemi qualcosa, cazzo!”

“Saprà a tempo debito. Per ora non si sa nulla ancora. I medici devono ancora fare la diagnosi. Per favore, si accomodi in sala d’attesa, le faremo sapere.”

“M-ma i…”

“Signore” la voce del paramedico di fece più autoritaria “Non mi costringa a chiamare la sicurezza. Piuttosto, ha numeri dei loro parenti? Bisogna avvisarli.”

“C-certo… devo… devo avvisarli… io?”

“Se se la sente… “

“Va bene… va bene”

Il paramedico si avviò verso le tre barelle. Pat estrasse dalla sua tasca il cellulare e cominciò a comporre quel dannato numero mentre si avviava verso la sala d’attesa.

“E adesso come cazzo glielo dico?!” pensò tra sé e sé.

 

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Capitolo 12
*** So give me novocaine ***


Signore e signori, a velocità supersonica posto il capitolo 12. L'ho terminato ieri alle due di notte, ma va beh. Quindi se non vi piace, fatevelo piacere che c'è il sudore qui! ù.ù XD

Ci tengo ad avvisarvi che qui non si parla dei cari omini verdi (per sapere la loro fine dovrete aspettare il prossimo capitolo, muahahaha u.u) ma bensì degli altri personaggi. Ma prometto che posterò al più presto il tredici. ^^

@Helena89: Ciao! Ebbene sì rieccomi! Sono conenta che questa storia ti sia mancata! Pensavo infatti di aver perso tutti i lettori assentandomi... ma d'ora in poi posterò come una volta o almeno cercherò. E grazie per i complimenti, davvero! :D

Ok, vi lascio al capitolo!

Ah, forse è il caso che cominci anche io a mettere codesta frase (??): non scrivo per lucro, i personaggi non mi appartengono ne' fanno, hanno fatto o faranno le cose da me descritte. (anche se in questo capitolo non c'entra molto ma va beh. .-.)

_______________________

 

 

John camminava a passo rapido lungo Columbia St; dietro i suoi spessi occhiali da sole neri nascondeva i suoi occhi azzurri arrossati non solo dalla forte dipendenza ma stavolta da un nuovo dolore che mai avrebbe voluto provare. La morte di sua sorella. Ripensandoci, una lacrima gli rigò il viso. L’asciugò rapidamente mentre scene d’infanzia gli si catapultavano nella sua stanca mente…

…Un bussare alla porta.

“Andate via!” ruggì John.

Ma la persona dall’altra parte non si arrese. Con fare delicato spinse in basso la maniglia d’ottone della porta. Sporse la sua testa dai capelli castani e mossi al di là della porta.

“Posso?” sorrise. John si arrese a quel sorriso.

“Ti ho portato qualcosa da mangiare… ma non dire nulla a papà altrimenti s’incazza.” si voltò verso il fratello porgendogli una scatola di cerotti “Questo è per la ferita che ti ha fatto papà. Non mi piace quando ti picchia.. Cosa hai fatto stavolta?”

“Io…”

“E’ di nuovo a causa di quell’erbetta strana che nascondi nei libri?”

“Sì”

“John secondo me devi smetterla. Stai sempre male. E io non voglio… io ti voglio bene. Mi prometti che farai uno sforzo?”

“Io.. io… voglio provarci ma…” due braccia lo cinsero.

“Grazie. Ti voglio bene!”

 Il rumore di un clacson risvegliò John dai suoi pensieri. Sua sorella era morta. Svoltò verso 9th Avenue e si diresse verso la St. James Cathedral dove un folto gruppo di persone vestite di nero si apprestavano a dare l’ultimo saluto alla sua sorellina.

Ashley stava stringendo la mano a diverse persone; aveva un vestito nero che le arrivava fino al ginocchio e la faccia coperta da una retina nera che sbucava dal cappello. Girando il capo verso destra quasi sussultò; stentava a credere che quell’alta figura che proseguiva in smoking nero fosse davvero chi lei credeva.

“John!?”

Si aggrappò al figlio, unendo le sue lacrime materne a quelle di lui. Non dissero altro. Il dolore comune rendeva inefficace qualsiasi parola.

“Mamma…i-io…”

“Shhh. Ormai le parole servono a ben poco, John. Lei non c’è più…  la… la mia bellissima bambina!” disse l’ultima parola con un urlo quasi straziante che fece rompere qualcosa nel petto del ragazzo. Quanti dispiaceri aveva provato quella povera donna? Aveva due figli un tempo. Due figli che si rincorrevano nel parco, giocavano a nascondino. Adesso? Uno non c’era più, era morto: l’altro, era soltanto un ammasso di ossa dall’animo assassinato. Il ragazzo ricordava ancora con dolore quel maledetto giorno di Settembre: a quei tempi lui aveva quindici anni, era visto come la pecora nera a scuola sua. Era vestito in maniera estremamente alternativa, la stragrande maggioranza degli studenti lo evitavano. Ma una volta conosciuto, diventava una delle persone più apprezzate, almeno nella sua ristretta cerchia di amici. Finché una strana “amica” non era entrata nella sua vita. Quel giorno John si trovava nel corridoio della sua scuola: non aveva voglia di andare a lezione. Mentre se ne stava col fianco destro appoggiato alla parete a fumare una sigaretta, qualcuno lo chiamò:

“Ehi, amico! Dì un po’, mi faresti un favore?”

John si voltò di scatto. Era Rob,  il bullo d’eccellenza.

“Senti Rob: non voglio rogne oggi, quindi levati dalle palle.”

“Vengo in pace, stai calmo” alzò le mani come in segno di arresa “Dì, un po’ ti andrebbe di fare soldi a palate?”

John si grattò il mento.

“Ok, spara”

“Sai cos’è questa?” estrasse una bustina contenente della strana roba verde e cominciò a sventolargliela sotto al naso.

“Ma questa è… Rob. E’ illegale.”

“Oh beh, se ti fai tanti scrupoli non c’è problema, cercherò qualcun’ altro. E’ un vero peccato comunque” continuò prendendo una cartina con l’erba e arrotolandola “sai, tu non sei popolare.T i manca quella marcia in più che potrebbe darti questa cosa… illegale, come la chiami tu. Cazzo, non oso immaginare le ragazze che ti verrebbero dietro e… ma fa nulla, non sei interessato, non voglio, assillarti” accese la sua canna, fece un tiro e girò per andarsene.

“Aspetta. Cosa devo fare?”

Rob sorrise: conosceva troppo bene quel tizio. Faceva tanto il duro ma in realtà era un tipo debole e facilmente condizionabile. Insomma, il tipo perfetto per i suoi loschi scopi. Si girò e si incamminò verso la figura magra, ma non eccessivamente, anzi, che si trovava dall’altra parte del corridoio.

“Il tuo compito non è altro che portare questa bustina al porto. Poi parla col tizio, si chiama Edward: dì che ti mando io. Ti darà la roba e tu potrai venderla e diventare ricco e figo” gli gettò la bustina.

John la prese al volo: da una parte non voleva ma dall’altra la prospettiva di avere le ragazze e non solo ai suoi piedi, di essere potente gli faceva gola quanto il polline alle api.

“Sarà fatto.” face per andarsene ma la mano di Rob lo bloccò.

“Non prima di aver stretto il patto con me” e gli porse la canna panciuta con fare ammaliante.

John dapprima esitò, poi l’afferrò e fece un profondo tiro. Un tiro innocuo, un tiro che ormai si trova sulla lista delle “cazzate da fare” di molti giovani. Ma proprio quel tiro innocuo, quel tiro che lo sballò, lo tranquillizzò, lo rasserenò diede inizio ad un giro vizioso fatto di bugie, sniffate, botte e aghi sottili infilati nelle sue vene. Dalla semplice marijuana passò a roba più pesante: più vendeva, più faceva soldi, più il suo corpo si trasformava in una macchina di tortura prepotente che gli ricordava nei modi più spiacevoli che volente o nolente il guadagno andava speso. La sua vita cambiò quando una sera fu scoperto dai genitori a tirare due strisce di cocaina. Il volto della madre si contrasse in un’espressione mista tra dolore e delusione, espressione che portò il giovane ragazzo al desiderio di sconfiggere quei dannati demoni che da dieci anni ormai lo avevano reso schiavo. Il volto del padre invece non riuscì a coglierlo poiché all’improvviso l’unica cosa che gli si parò davanti fu il parquet del salotto di casa sua: gli era stato assestato un calcio in pieno stomaco e adesso si trovava chinato a terra a vomitare sangue misto al pentimento.

“Mi dispiace!” urlò tra le lacrime.

“FAI SCHIFO!” altro calcio “Pensavo che avere un fottutissimo figlio punk fosse ormai il limite per me… INVECE NO! Adesso mi ritrovo un fottutissimo figlio punk DROGATO!” cominciò a sfilarsi la cintura e la piegò in due.

“Michael, fermati, ti prego!” urlò non la madre, ma bensì il suo istinto materno.

Dopo quella movimentata nottata, John fu beccato in autostrada dalla polizia con dell’eroina. Fu portato via e dopo essere stato liberato grazie ad una costosa cauzione, si seppe che ormai l’eroina non solo la vendeva ma ne faceva anche uso. Senza pensarci due volte il padre l’aveva sbattuto nella prima clinica di intossicazione che aveva trovato. Ma oltre alla delusione di aver perso il padre nel momento del bisogno, seguì il tradimento di colui che riteneva suo socio, suo amico.

Era in clinica da una settimana quando lo chiamarono poiché qualcuno lo cercava al telefono.

“Pronto?”

“Ehi, sono Rob.”

“Rob?” abbassò il tono di voce “amico, come stai?”

“Lascia perdere ‘ste cazzo di formalità. Ho saputo che la polizia ti ha fottuto.”

“Sì… però…”

“Però non me ne fotte: dì, hai fatto il mio nome, figlio di puttana?”

“No, ovviamente, siamo soci!”

“Ahahaha, soci, bella questa!” disse facendo una risata ipocrita “allora avevo proprio ragione nel pensare che sembri duro ma in realtà non sei buono a nulla”

“Che intendi dire?”

“Strano che tu non te ne sia accorto” proseguì “sono quasi undici anni che ti prendo per il culo e tu continui a chiamarmi amico”

“Ma che cazzo stai dicendo? Dì, hai fumato?!”

“John, ricordi dieci anni fa, quando ti mandai da Edward e ti feci fare quel tiro? Beh, sappi che era tutto calcolato per farti entrare nel giro. Insomma, si sa come vanno queste cose… e tu eri un cucciolotto così debole ed in cerca di gloria…” rise.

“FIGLIO DI PUTTANA! SEI UN BASTARDO! BASTARDO! BASTARDO!”

Quella fu l’ultima volta che sentì Rob. Le infermiere lo staccarono dal telefono e lo riportarono nella solitudine della sua stanza. Era stato pugnalato. Di nuovo.

Nella St. James Cathedral adesso risuonava solo l’eco delle ultime parole della messa. Quattro persone sollevarono la bara bianca, la loro meta ormai era il cimitero.

John, non poteva reggere nient’altro. Non avrebbe resistito alla vista di sua sorella scomparire nelle viscere della terra. No, era troppo per lui.

Senza farsi vedere, scappò via da quella chiesa. Cominciò a correre per la strada, piangendo, sperando che una macchina mettesse sotto anche lui. Nella sua mente risuonava una canzone da lui tanto amata:

Take away the sensation inside
Bitter sweet migraine in my head
Its like a throbbing tooth ache of the mind
I can't take this feeling anymore
Drain the pressure from the swelling,
The sensations overwhelming,
Give me a long kiss goodnight
and everything will be alright
Tell me that I won't feel a thing
So give me Novacaine.

Il dolore lo stava uccidendo. Il dolore stava ormai per prendere il sopravvento. Doveva anestetizzarlo, doveva trovare assolutamente la sua dannata novocaina. Si fermò all’improvviso. Quasi meccanicamente, la sua testa si girò verso il mare. Le sue gambe scattarono e cominciarono a correre verso quel luogo dove tutto era iniziato: il porto.

 

Al cimitero di Seattle, tutti si apprestavano a dare l’ultimo saluto a quell’anima innocente a cui il destino aveva giocato un brutto scherzo. All’improvviso un cellulare, provocando l’irritazione dei presenti, iniziò a squillare. Michael si allontanò e rispose al cellulare con rabbia.

“Ti sembra il momento adatto?”

“Capo, lo so, mi scusi. So che non serve a nulla ma rinnovo le mie condoglianze. Ma dovevo parlarle di una cosa che di sicuro le interesserà.”

“Fai rapidamente.”

“In centrale hanno scoperto chi ha ucciso vostra figlia.”

Non appena sentì ciò che l’uomo aveva da dire, sul volto di Michael si disegnò un’espressione di frustrazione.

“Maledetti bastardi! Spero che siano crepati in ospedale! E se non lo fossero… beh, allora sai che fare.”

“Certo capo”

“Quel dannato bastardo del front-man pagherà sulla sua pelle il danno che mi ha arrecato. E ad un prezzo molto caro.”

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Capitolo 13
*** Cade la pioggia ***


Finalmente, cari, posto il tredicesimo capitolo! Spero non siate morti di ansia, ma non credo dai. u.u Ci tengo a precisare una cosa: in questo capitolo uso (o almeno ci provo XD) un linguaggio di tipo medico-scientifico. Per scrivere il capitolo, ho fatto delle ricerche in quanto non me ne intendo. Quindi, se ho scritto qualche boiata impossibile, vi prego di avere clemenza. XD

E detto ciò passiamo a:

@Helena89: prima di tutto: grazie per i complimenti! Ho voluto rendere questa storia il più reale possibile quindi mi è sembrato opportuno metterci questo personaggio in mezzo (che io adoro) molto travagliato. E sono contenta che sia piaciuto! Quello precedente è stato l'ultimo capitolo che parlava di lui: infatti volevo utilizzare la Novocaina come metafora. Intendevo che lui alla fine torna a drogarsi, sfortunatamente. Ma se avrò l'occasione magari farò un altro accenno a questo personaggio.

@ShopaHolic: Ciao!  Grazie mille anche a te per i complimenti, davvero! Spero che questo capitolo ti piaccia quanto i precedenti!

Detto ciò, vi lascio al capitolo.

Ah: non scrivo per lucro, tutto ciò (per fortuna aggiungerei! XD) è solo frutto della mia immaginazione, i personaggi sono vivi e vegeti e si divertono come matti in Europa, in questo moento. ç__ç

_________________

 

Come diceva il caro indovinello della Sfinge, la vita umana può essere divisa in tre differenti fasi: un periodo iniziale in cui camminiamo a quattro a zampe, un periodo in cui siamo avvolti in un mondo ovattato che ci tiene lontano da tutti i mali, un mondo tutto rosa in cui la parola “male” perde ogni valenza. Poi subentra il periodo delle due zampe: è il picco della nostra vita, poiché è questo il periodo in cui facciamo le scoperte più formidabili, i cambiamenti più radicali e le scelte più decisive. Infine diventiamo esseri a tre zampe, esseri che hanno ormai bisogno di supporto non solo morale ma fisico. Il fiore degli anni è scomparso, la rosa sta lentamente appassendo, l’ultimo petalo sta ormai per staccarsi. Questo ci porterebbe a pensare che il periodo più debole dell’uomo è l’ultimo. Ma non è così: in questo periodo l’uomo si affida alla rassegnazione, alla fortuna. No: il periodo più difficile si cela, paradossalmente, dietro alla forza delle sole due gambe che ci sostengono. Le emozioni si accavallano, l’emotività si presenta più forte che mai. In questo periodo forti tempeste si scatenano, saette e lampi travagliano i nostri pensieri,  i boati ci spaventano, ci rendono deboli. La pioggia cade ininterrottamente, la tua anima non è altro che un foglio di carta che a contatto con l’acqua si stropiccia, si indebolisce, si strappa. E solo tu poi stabilire se aprire o meno l’ombrello e contrastare la pioggia che cade.

La stanza grande e bianca con le sedie verde acqua cominciava a dargli un vero e proprio senso di claustrofobia. Non ne poteva più. Il pallido sole mattutino con i suoi tiepidi raggi avrebbe dovuto dargli il buon umore, una forza interiore più grande. E invece no. La stanza squallida nel suo candore, la gente malaticcia che giungeva e si sedeva, i volti disperati di chi aveva appena avuto una brutta notizia e quelli ansiosi di chi ne aspettava una cominciarono a renderlo nervoso ed inquieto. Sentimenti diversi però gli suscitavano quei cinque volti seduti alla sua destra. Adrienne, con i due figli uno a destra e l’altro a sinistra che dormivano appoggiati sulle sue gambe, aveva il viso teso e lo sguardo arrossato e assente. Una strisca nera di rimmel sciolto le colava dall’occhio destro. Stringeva a pugno la mano destra: se “qualcuno” le avesse dato una cattiva notizia non avrebbe di certo esitato a fargli fare la fine del suo palmo in quel momento che presentava i marchi delle sue cinque unghie lunghe. L’espressione di Britt non era visibile ma dal modo patetico in cui manteneva la testa china sulle ginocchia era immaginabile. Purtroppo. Sembrava quasi che anche il piccolo Brixton avesse percepito che spirava aria negativa: se ne stava seduto tranquillo nel suo passeggino, succhiandosi il pollice sinistro con fare tranquillo, cosa insolita per lui.

“Ragazze per caso volete che vi prenda qualcosa alla macchinetta?” disse Pat alzandosi di scatto e rivolgendosi alle due donne.

“Io un caffè, grazie” disse Adrienne in modo quasi meccanico. Sembrava che qualcuno le avesse succhiato l’anima.

“A me servirebbe un po’ di latte, devo dare da mangiare al piccolo” Britt, alzo un po’ la testa e sorrise debolmente.

“Ok, torno subito.”

Pat si avviò verso le macchinette poste dall’altra parte della sala d’attesa: premette i vari pulsanti e si voltò ad osservare le due donne da lontano appoggiandosi al muro. Erano le 5.30 di mattina. Quasi otto ore prima, tre barelle erano scomparse dietro le porte dell’ospedale: era stata l’ultima volta che le aveva viste. Ma lì per lì il pensiero che maggiormente colpì la sua mente era che gli spettava avvisare due donne dell’incidente dei rispettivi mariti. Pat compose il numero di Adrienne convulsivamente per poi staccare la chiamata prima che la donna potesse rispondere. Il manager si sedette su di una sedia e stette per dieci minuti in silenzio a pensare il modo più adatto per avvisare le donne. Alla fine, animatosi di coraggio, ricompose il numero. Dopo due segnali acustici rispose la donna.

“Ehi Pat! Avuto notizie di quei tre scalmanati? Non sono ancora raggiungibili”

“Sì”

“Ah, meno male! Ehi ma tutto ok? Pat? … Ci sei ancora?”

“Sì”

“E’ successo qualcosa?” chiese infine con un timbro vocale vacillante tra il timoroso e ansioso.

“Adie… devi venire al Virginia Mason Hospital. Con Britt”

Dall’altra parte il cuore di Adrienne mancò due battiti.

“Ok…”

“Se vuoi vi vengo a prendere, dite dove siet…”

“Non è il caso, prendiamo un taxi” e staccò la chiamata.

Adrienne aveva lo sguardo perso nel vuoto. Sapeva che qualcosa sarebbe successo, sapeva che doveva fidarsi delle sue sensazioni.

“Adie, tutto ok? Pat ha detto qualcosa?”

“Dobbiamo andare all’ospedale”

“Eh?” Britt spalancò gli occhi “Che dici? Che cazzo è successo?”

“Non, lo so, non lo so! Dobbiamo correre”

La donna raccattò i due figli, che ancora protestavano dal momento che non erano informati sull’accaduto, e si fiondò con l’amica nel primo taxi che trovarono.

 Mezz’ora dopo Pat Manganella era intento a bere il suo caffè quando una moglie preoccupata  gli si parò di fronte e, afferrandolo per la maglietta cominciò a scuoterlo.

“Dove cazzo sono, Pat? Eh? DOVE CAZZO SONO?”

“Mamma, calmati, CALMATI!” Joey l’afferrò per le braccia e la bloccò. Britt osservava la scena in silenzio.

“Sono… sono… io non lo so. Li hanno portati dentro e… e hanno detto di aspettare nella sala d’attesa… e di avvisarvi”

Adrienne lo fissò per una decina di secondi in silenzio. Poi si sedette mentre continuava a sibilare tra le sue labbra “bene… bene…”. Voleva urlare, voleva mandare ogni cosa  a farsi fottere.  Se non ci fossero stati i suoi figli probabilmente avrebbe aggredito anche Pat solo per sfogarsi. Britt al contrario, sembrava che la cosa non la riguardasse: la sua espressione, anzi la sua maschera, non tradiva alcuna emozione. Come se la vera Britt, la moglie di quel bassista la cui sorte era ignota, fosse stata sostituita da una perfetta copia inanimata. Con lo sguardo spento portò avanti il carrozzino: si sedette accanto Joey, prese Brixton in braccio, tirò fuori il biberon dalla borsa e cominciò ad allattarlo, canticchiando una specie di ninna nanna.

Da allora erano passate otto ore. Era come se il tempo per quel quadretto si fosse fermato, come se si trovassero in un unico, eterno ed immisurabile tempo. O forse era solo la magia della signora Morte a provocare quell’illusione?

Il flusso di pensieri di Pat si arrestò non appena  comparvero due figure in camice bianco con una cartella in mano. Quasi automaticamente, le due donne balzarono n piedi. Pat subito corse verso questi dimenticandosi dei caffè e del latte.

Il più anziano dei medici, un medico canuto con una barbetta leggermente incolta, entrò per primo nella grande sala e si guardò intorno. Individuate le due donne, si diresse verso di loro seguito dal medico più giovane, probabilmente uno specializzando.

“Salve” strinse loro la mano “Siete qui per Billie Joe Armstrong, Michael Pritchard e Frank Edwin Wright?”

Le donne annuirono.

“Dottore, come stanno?” s’intromise subito Pat. Voleva saperlo davvero?

Il medico lo squadrò poi cominciò ad esaminare la cartella che aveva in mano.

“Beh…”

Continuò ad esaminarla. I presenti deglutirono un nodo alla gola provocato dall’ansia e dalla angoscia.

“Per quanto riguarda il signor Wright tutto ok. Si è rotto la caviglia destra, ha riportato una serie di ferite superficiali a causa dei vetri e qualche ematoma a causa degli urti. Ma nel complesso va più che bene. Con buon esercizio e un soggiorno in riabilitazione riprenderà totalmente l’uso del piede. Fortunatamente aveva allacciato la cintura altrimenti…” alzò le sopracciglia “Insomma, non se la sarebbe cavata con poco. E’ appena uscito dalla sala operatoria, è ancora sotto l’effetto dell’anestesia. L’orario di visita è dalle otto alle undici. Potete andarlo a trovare.”

Nella stanza si udì non sospiro di sollievo. Un sospiro azzardato.

“E gli altri?” chiese subito Pat.

Il medico diede un’altra occhiata alle cartelle, stavolta con l’aria più grave.

“Il signor Armstrong ha sbattuto violentemente la testa contro lo sterzo che gli ha causato la rottura del setto nasale. Alla tac non risultano danni al cervello, fortunatamente. In compenso però abbiamo trovato un emorragia  interna nell’addome. Siamo riusciti ad intervenire in tempo quindi non ci dovrebbero essere complicazioni” Adrienne si passò una mano sul volto con fare sollevato. Suo marito stava bene. Il padre dei suoi figli stava bene. Il suo uomo stava bene. “Mentre per il signor Pritchard…” il medico rialzò le sopracciglia. Quel mentre non piacque a nessuno dei tre presenti. Britt ebbe un violento sussulto, Adrienne spalancò leggermente la bocca mentre Pat sgranò gli occhi. “Sfortunatamente, non ha messo la cintura di sicurezza e questo gli è costato caro” passò la mano sotto gli occhiali massaggiandosi gli occhi e riprese a parlare “Qualcosa, non si sa ancora cosa, è sbattuto violentemente sulla sua testa causandogli una lesione esterna e un trauma cranico. Le braccia sono rimaste illese, a parte dei graffi profondi poiché mentre la macchina si ribaltava le ha usate come… insomma, come freno, per intenderci. E poi ha una slogatura alla gamba destra. Però…”

“Però cosa, dottore?” Brittany lo guardava con una lacrima in equilibrio instabile sulle sue ciglia inferiori.

“Signora, noi abbiamo fatto il possibile. Ma non abbiamo potuto evitare che il paziente andasse in coma. Mi dispiace.”

Quando camminiamo a quattro zampe la vita è più facile. Non abbiamo preoccupazioni, non abbiamo obblighi e doveri. Le delusioni non ci tangono. La tristezza non ci afferra. La nostra massima preoccupazione è costruire un castello di sabbia alto, maestoso e bello. Un castello di sabbia che susciti l’ammirazione degli amici. Poi arriva quell’onda più grande e potente delle altre che colpisce il tuo bellissimo castello. E lì resta solo un mucchio di sabbiolina di forma indefinita. Tutto è andato distrutto. La colpa è del mare. No, non puoi controllarlo, è troppo forte. E’ semplicemente indomabile.

In quella sala d’ospedale, il castello di una donna era appena stato fatto in frantumi. Brittany, che finora aveva mantenuto un’aria distaccata, scoppiò in un pianto convulso. I singhiozzi a momenti la soffocavano, l’aria era diventata bollente ed irrespirabile. Adrienne, che fino a quel momento era stata consolata da quella donna forte, cominciò ad abbracciarla. Gli spasmi del pianto si facevano sempre più pesanti. Lo sguardo della donna dai capelli corvini si spostò dapprima sul piccolo Brixton che giocherellava con un mazzo di chiavi nel carrozzino , poi sui suoi figli che dormivano sulle sedie ed infine verso la finestra: il sole era sempre più pallido, era ormai coperto da nuvole nere. Una fine pioggerella cominciò a scendere. E quella pioggia cadeva non solo all’esterno di quella finestra ma anche nell’animo dei presenti.

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Capitolo 14
*** The regrets are useless ***


 

 

Quando bisogna fare un ragionamento, ognuno è pronto a tirare in ballo proverbi, tante piccole frasi fatte che possono sembrare perle di saggezza  per il mittente mentre parole scontate per il destinatario. I proverbi parlano di noi, si burlano di noi, della nostra mente e delle nostre azioni ma… cosa sanno di noi i proverbi? Nulla. I proverbi si limitano prettamente ad una valutazione oggettiva dell’elemento. Ma la soggettività quando si parla dell’uomo è indispensabile: è la soggettività che ci rende diversi. E’ la soggettività che ci rende speciali. E dunque possiamo realmente riassumere la nostra vita o dare consigli attraverso un proverbio?

L’uomo disteso nel piccolo letto d’ospedale aprì pian piano gli occhi. Li richiuse quasi subito a causa della forte luce artificiale accesa nella sua stanza. Man mano che gli occhi si abituavano a quella luce,  sollevò lentamente il capo e si guardò intorno: la stanzetta dal pavimento verde mare e le pareti candide emanava un forte odore di disinfettante che gli penetrava con violenza nelle narici  causandogli un senso di nausea. Una finestra alla sua destra faceva entrare dei deboli raggi solari contrastati da dei nuvoloni che a tratti facevano cadere una sottile pioggerella. Il suo sguardo si arrestò  sulla figura dai capelli corvini piegata sul suo letto a dormire. Portò la sua mano destra dalla quale spuntavano tubi di ogni genere su quella testa e la accarezzò dolcemente. Mentre le dita di lui affondavano delicatamente in quel mare nero, la donna con un sussulto si svegliò: leggermente stordita, sbatté più volte le palpebre finché non scoprì a chi apparteneva quella mano decisa ma delicata.

“Billie!” il viso di Adrienne  di distese in un ampio sorriso bagnato da lacrime di gioia.

“Hey Adie…” tentò di sollevarsi ma fu bloccato da un forte dolore all’addome. “Ahia…” si lamentò.

“Billie, amore, non fare sforzi… avevi un principio di emorragia all’addome, hanno dovuto aspirarla… e avevi anche il naso rotto! I medici però hanno chiamato anche un chirurgo plastico, quindi il tuo naso sarà come nuovo! E…”

“C-cosa? Naso rotto?!” Billie Joe si tastò il naso “Ma… non sento niente!”

“Sei sotto l’effetto dell’anestesia ancora… il dottore ha detto che tra un’ora verranno a somministrarti della morfina per placare anche il dolore all’addome”

“Ah meno male...” Billie Joe sorrise debolmente per poi riassumere un’espressione cupa.

“Adie.”

“Sì amore?”

“I ragazzi… dove sono?”

“Li ho mandati a prendere qualcosa alla macchinetta sai com’è…”

“Adie....”

“…hanno sempre fame e poi una volta saputo che tu eri fuori pericolo…”

“Adie.”

“… erano meno preoccupati e quindi…”

“Adie! Mi fai parlare?”

“Scusami, sì, dimmi.”

“Non mi riferivo a Jakob e Joey.”

“Ah.”

Calò un profondo silenzio tra la coppia.

“Adie, come stanno Mike e Trè.”

“Trè sta bene, ha la gamba fuori uso ma si rimetterà.”

“Ah, meno male.”

“Già.”

“E Mike?”

“…”

“Adie, Mike?”

“…”

“Adrienne, cazzo, ti ho chiesto una cosa! Come cazzo sta Mike?!”

I numerini sul monitor cominciavano a salire.

“Billie, ti prego, calmati!”

“E’ successo qualcosa a Mike, vero? Vero?!”

Il volto di Billie Joe cominciò a contrarsi  in espressioni di dolore, le sopracciglia folte e nere si alzarono nella parte interna verso l’alto rendendo visibile tutti i sentimenti che sopraffacevano quell’uomo.

“Sì Billie… ha subito un forte urto alla testa…” una lacrima spuntò dall’occhio destro di Adrienne, bramosa di carezzare la bianca guancia della donna. “Billie, è andato in coma.”

Silenzio. Nella stanza si udiva soltanto il flebile “bip” del monitor.

Adrienne, asciugandosi la lacrima che l’aveva tradita, osservò la minuta figura distesa in quel letto.

“Billie?”

Billie Joe dal canto suo, non rispose. I suoi occhi verde smeraldo erano ben puntati verso il soffitto. Non un movimento, non un muscolo contratto, sembrava che quell’uomo fosse entrato in catalessi.

Adrienne pensò che sarebbe stato meglio lasciarlo da solo per un po’: aveva subìto un incidente, aveva visto la morte porgergli la mano per portarlo con sé, aveva subìto un intervento e adesso? Aveva ricevuto la notizia che il suo migliore amico, il fratello che si era scelto da bambino era in coma. La donna gli lanciò un ultimo sguardo preoccupato poi si voltò per uscire dalla stanza.

“Vai, Adie… stammi lontano”

La donna si rigirò di scatto

“Billie ma cosa dic…”

“Io… io…”

Due lacrime gli rigarono entrambe le guance pallide.

“Sono un… un… un assassino!”

Come un bambino troppo cresciuto, il frontman cominciò a piangere rumorosamente, portandosi entrambe le mani  al volto.

Adrienne si stese accanto a lui sul lettino cingendolo con il suo braccio destro. Gli stampò dei teneri baci tra i capelli corvini.

“No, Billie, no che non lo sei. E’ stato un incidente. Un triste incidente.”

“Adie, ho ucciso qualcun altro! Adie, ho ucciso una ragazzina!”

Il suo petto cominciò ad alzarsi e abbassarsi come se fosse in preda a degli spasmi. Cominciò a singhiozzare.

Adrienne lo guardò con un’espressione meravigliata.

“Come? Cosa intendi dire, Billie?”

“Stavamo andando troppo veloce… non è stata colpa mia, io non volevo, non volevo ucciderla!”

Il dolore stava rendendo quell’uomo più debole di un bambino.

“Che è successo Billie?”

“Stavamo andando a circa 90Km/h… da lontano ho visto scattare il semaforo rosso… ho premuto il freno ma… ma… niente, la macchina ha continuato a correre… la macchina correva e l’ha messa sotto… lei…lei… è morta Adie. E’ morta perché IO l’ho messa sotto. Lei non doveva morire così… lei non doveva morire e basta.”

Con uno scatto afferrò Adrienne per le braccia: la guardò con gli occhi sgranati.

“Adie, io sono un assassino, io l’ho uccisa.”

“Ok, Billie… domani andrò dalla polizia, d’accordo?”

Disse per calmarlo dal momento che la sua pressione sanguigna era salita notevolmente.

“Adie, devi dire che sono stato io! Devi dir…”

“Sì Billie! Lo farò!”

Si ristese accanto a lui e cominciò ad accarezzargli la testa.

“Ora calmati però. Calmati. Riposa Stai tranquillo, amore. Tutto si sistemerà.”

 

Erano ormai passati sei giorni.  Trè Cool ormai poteva tranquillamente girare per l’ospedale in carrozzella: e con varie scuse cercava di conquistare le infermiere.

“Heyyyy… HEYYY!”

Un’infermiera dai capelli rossicci si voltò.

“Sì? Qualcosa non va?”

Trè Cool assunse un’aria afflitta.

“Oh… oh… sì purtroppo. Dica, signorina, che ne pensa dei Green day?”

“I Green day?” ci pensò su “ Ah, quelli. Non li seguo, perché?”

“Fantastico, allora non mi conosce!” pensò soddisfatto il batterista. “Nono, era così per dire.” riprese l’espressione afflitta. “Senta, signorina, tornando all’argomento di prima… non è che potrebbe farmi un favore?”

“Certo, signore. Dica pure.”

“Mi è caduto un orecchino per terra… un brillantino per la precisione. Non è che potrebbe dare un’occhiata qui a terra? Non posso abbassarmi, sa.” Piagnucolò.

“Certo!”

L’infermiera si abbassò  col volto in direzione di Trè e cominciò a scrutare il pavimento.

“Ehm… veda, è più verso la mia parte. Se si abbassa di più forse…”

L’infermiera obbedì: si abbassò maggiormente. Trè allungò il collo e sorrise soddisfatto.

“Bene, amico caro, i calcoli erano giusti! Cazzo, che meloni!” pensò.

La scollatura della rossa, una volta che questa s’era abbassata, si era aperta mostrando il prosperoso decolté.

“Per caso ha trovato l’orecchino tra i miei seni, signore? chiese la rossa con un finto sorriso accortasi degli sguardi e della bava dell’uomo.

Con un’incredibile faccia tosta, Trè non arrossì nemmeno anzi, divenne ancora più triste e si scusò dicendole che lui soffriva molto e vedere i seni delle donne lo aiutava a combattere il suo dolore. Aggiunse che lo aiutava ad abbandonare le sue pene infernali e a raggiungere la serenità del paradiso. Dal canto suo l’infermiera lo invitò a raggiungere la sua stanza e soprattutto quel paese.

Ogni persona reagisce in modo diverso al cordoglio. Questo era il modo di Trè: lui non s’era dimenticato di Mike, no, il dolore lo afferrava in ogni momento della giornata. Questo era solo uno dei tanti modi per ingannarlo, per cercare di farla franca. Ma il cordoglio non risparmia nessuno. Si insinua nell’anima come petrolio, la inquina, la sporca, non vuole andare via. Sei in suo possesso ormai, suo come un gabbiano appena afferrato da quella marea nera. Non ti lascerà andare via. Non ti basterà lavare le tue ali con il sapone per eliminarlo. Ormai siete una cosa sola.

Trè decise di andare a far visita a Billie: era seriamente preoccupato per lui. Il frontman reagiva in maniera diversa al cordoglio:  lui si lasciava rapire, non urlava, non chiedeva aiuto per farsi salvare. Lui semplicemente si lasciava sottomettere.

“Hey Billie. Come va?” chiese una volta raggiunta la stanza del moro.

Nessuna risposta.

Trè sospirò. Lasciò scivolare le mani sulle ruote della carrozzina e si portò accanto al letto dove Billie Joe era disteso. Il suo viso era rivolto verso la grande finestra a vetri scorrevoli.

“Ho sentito che a breve potrai alzarti anche tu dal letto. Faremo le corse per i corridoi con le carrozzine, huh! Sai che figata?!” urlò per sdrammatizzare.

Naturalmente non ottenne risposta.

“E appena anche Mike si risveglierà andremo a fare i cazzoni con le infermiere. Io già lo faccio ma…”

“Tu hai dei rimpianti, Trè?”

Trè sgranò gli occhi: ma che cavolo stava dicendo? Che razza di roba gli avevano messo in quella flebo? Marijuana liquida? Cazzo, lui sì che stava delirando.

“Billie, che cazzo blateri?”

“Ti invidio, Trè. Anche io vorrei essere come te.”

“Ehi, non ci provare nemmeno ad insinuare che io non me ne fotto di Mike, Billie! Entrambi sappiamo io come sono fatto e credimi, se potessi ora donerei anche la mia unica palla per farlo stare bene! Ma lui, Billie,  si rimetterà! Non è in coma vegetativo, cazzo! Anche i medici l’hanno detto! Di sicuro si risveglia! Dunque, CALMATI!”

“Il fatto è che la gente predica bene e razzola male” rispose il moro come se il suo batterista prima non avesse detto nulla. “Sai” si voltò verso l’amico “si fa presto a parlare. Anche io lo faccio. Anche io parlo troppo e do consigli scontati. Ma una volta che sei tu a trovarti in certe situazioni, beh, ti rendi conto che tutto ciò che hai detto, ciò che hai pensato sono solo tante grandi, inutili cazzate. Ad esempio, sai quel proverbio che dice meglio un rimorso oggi che un rimpianto domani?”

“Sì Billie.”

“Io prima lo dicevo sempre. Lo pensavo davvero. Ma adesso Trè, io ho seri rimorsi. Rimorsi che non mi fanno dormire la notte. Rimorsi che pian piano mi stanno logorando l’anima. Mi capisci Trè?”

“Sì Billie”

“Trè” si voltò verso la finestra di nuovo “allora, secondo te, chi ha scritto questo proverbio sapeva cosa diceva? Ma soprattutto sapeva cos’era davvero un rimorso?”

“No, Billie.”

“Esatto”.

“Billie”

“Sì”

“Ricordi cosa diceva la nostra canzone Whatsername?”

“Spara, Trè.”

“Tu hai ragione, sei sconvolto, hai i sensi di colpa ma, Billie, non puoi continuare così! Non puoi avvelenare il tuo corpo con i rimpianti. I rimpianti , amico mio, sono inutili. Ciò che è fatto è fatto. Non puoi tornare indietro, è inutile continuare a piangerci sopra anche perché se tu avessi scelto l’altra strada Billie, le cose non sarebbero cambiate, anzi, i rimpianti si sarebbero duplicati, triplicati addirittura! Sarebbero morte molte altre persone! Già… i rimpianti sono inutili… e in quella canzone tu non predicavi bene e razzolavi male… è la pura verità amico mio!”

Tra i due uomini cadde il silenzio. Un silenzio ricco di parole. Un silenzio rumoroso attraverso il quale ciascuno dei due uomini trasmetteva all’altro il suo appoggio.

 

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Salve gente! Rieccomi qui, dopo una piccola pausetta! XD Allora, ci tenevo a dire che il 27 parto e starò via un mese, ergo cercherò di postare una ltro capitolo e poi ci si rivede alla fine di Agosto. ç_ç

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Sicuramente vi starete domandando perchè ho spostato  il mio angolino alla fine, beh, la questione è semplice: vorrei parlare della faccenda Trè-Infermiera: insomma, voglio sperare che questo umoristico nel tragico non abbia stonato troppo. Cioè, spero non sia risultato troppo irreale. Anche se, se volessimo parlare int ermini Pirandelliani, questo non è altro che COMICO e non UMORISTICO. u.u A voi l'ardua sentenza.

Ci tenevo a ringraziare:

Shopaholic: innanzi tutto, troppo buona. Non credo di meritarmeli tutti questi complimenti, sul serio (anche perchè qui ho fatto solo un lieve accenno a Mike... anche se... Trè potrebbe anche dire un mucchio di boiate, CHISSA'! u.u XD). Il mio scopo era proprio quello di renderli più umani, sono contenta che ci sia riuscita. Grazie ancora! :D

Helena89: grazie infinite!  I miei discorsi non sono altro che le pippe mentali che mi faccio ogni giorno! XD Molti non li amano poichè dicono che sono troppo pessimisti o roba varia, ma io non sono d'accordo, è la realtà che è così. Grazie ancora! :D

Beh e grazie anche a chi legge e non commenta. ^^

PS: Se vi va, leggete la mia prima one-shot "Don't play with the fire".  Sono ben accetti commenti e consigli! =)

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